Tu pensi di conoscere bene te stesso e sapere chi sei poi qualcosa imprevedibile succede e tutto cambia…….. giugno 2013
© Rita Petrini 28467083
ISBN: 9781483544977
Dedico questo libro a Isadora Duncan e me stessa: Due proiezioni diverse della stessa anima. La vita di Isadora è sempre stata un libro aperto…. La mia vita? Beh, ho solo questo da dire: mi piacerebbe essere ricordata non per quello che ho fatto ma per tutto quello che avrei voluto fare…
Margherita
Capitolo 1
Erano le tre del mattino quando Angela infilò le chiavi nella porta di casa. Gli occhi faticavano a tenersi aperti. Era stanca, tutto quello che poteva desiderare in quel momento era un letto caldo e comodo per sognare qualcosa più attraente della sua vita quotidiana. Aveva appena aperto la porta che sentì il telefono squillare. Non se ne curò. La segreteria telefonica avrebbe preso cura di quella che probabilmente era solo una noia. Alle tre del mattino? Si tolse le scarpe all’entrata dell’appartamento, si sfilò l’impermeabile ed attraversò il salotto per raggiungere la cucina in cerca di un bicchiere di acqua Perrier. Il take away che aveva trangugiato in gran fretta in ufficio le era rimasto sullo stomaco e rimpiangeva la sua scarsa forza di volontà infatto di cibo. Tutte le sue buone intenzioni – mangiare poco e sano – finivano sempre nella fogna. Era pigra e troppo indaffarata per peredere tempo curando la sua alimentazione. ‘Morirò di indigestione’ si disse tra se incurante del pensiero della morte. Da quando il suo matrimonio con Carlo era finito e così malamente, la sua vita sembrava avere perso importanza. Non era tanto la fine di un rapportoche l’aveva distrutta ma il fatto di essere stata abbandonata per una donna più giovane di quaranta anni che la tormentava ancora. Che cosa spinge un uomo di sessanta a finire nella rete di una Lolita appena ventenne? La noia, l’insicurezza? L’egotismo o semplicemente la stupidità? Dalla cucina sentì la voce della madre che attraverso la registrazione telefonica le chiedeva ansiosa se avrebbe ato il Natale con loro. Loro erano la madre ormai ottantenne, il suo secondo marito o forse terzo e un numero incerto di mezzi fratelli e sorelle e cugini vari. La voce di sua madre la irritava, come sempre. Pacata, gentile ma fredda e distaccata, senza ombra di ione o interesse speciale. Una voce appropriata alla personalità di una donna che aveva avuto sempre una vita facile e comoda, senza problemi. Una vita ben diversa dalla sua. Mentre attraversava di nuovo il salotto per recarsi in camera da letto non resistette alla tentazione ed afferrò ilricevitore del telefono. “Dormi, Mamma. Perchè non dormi?” “Volevo sapere se erai il Natale con noi.” “Non puoi aspettare che sia giorno, per rivolgermi una domanda del genere?
Cosa ti spinge a chiamarmi nel cuore della notte per una stupidaggine come questa?” “Natale non è una stupidaggine. Tu te ne infischi delle festività lo so, ma il giorno di Natale è un giorno importante per una famiglia. Non tutti la pensano come te e la maggior parte della gente per bene ci tiene ad organizzare la riunione natalizia. Che fai, vieni o no?” “No, non vengo. Vi lascio godere la gioia della riunione familiare senza di me. Non è questo un bel regalo di Natale?” chiese polemica Angela. “Sempre la solita!” commentò sarcastica la madre. “A proposito, perchè non stai a letto? Che c’è, Roberto russa troppo?” “Roberto non russa. Almeno non in modo eccessivo. Certamente non come russava Carlo. Ho preso come al solito le pasticche per dormire, ma si vede che ho troppo nella testa perchè nemmeno il Mogadon stasera riesce nel suo scopo.” “Uh,” commentò indifferente Angela, “È sempre efficace con me. Si vede che la tua mente oppone resistenza alla perdita di coscenza. La mia non ha nessun problema.” “Tu lavori. Ti stanchi. Io non ho molto da fare. Lamia mente vaga. Mille pensieri, mille ricordi si affacciano e mi disturbano.” “Pensavo che la tua vita fosse perfetta. I tuoi ricordi, i tuoi pensieri devono essere piacevoli..” “Cosa sai tu di me? Della mia vita? Solo l’apparenza. E l’apparenza inganna quasi sempre..” Poco incline a discussioni filosofiche nel mezzo della notte Angela tagliò corto: “Ho risposto alla tua domanda. Non vengo. Buona notte.” “Perchè non vieni? Sono ati due anni da quando Carlo ti ha lasciato. È ora che ricominci a vivere. Lo so che il tuo cuore ha sofferto. Essere abbandonata così dopo tutto quello che hai fatto per lui.. Ti avevamo avvertito che non era l’uomo per te. Ma tu non hai ascoltato nessuno.. Comunque ci sono tanti uomini
decenti lì fuori nel mondo. Se non esci mai, non avrai mai occasione di incontrarne uno che può farti felice..” “Mamma, ti prego. Non ho nessuna intenzione di tornare a vivere con un uomo. Ne ho avuto abbastanza. Sono tutti uguali..” “Non sono tutti uguali. Roberto è una persona per bene. Carlo veniva da un ambiente che non era un gran chè. La famiglia era di dubbia moralità. Avresti dovuto sposare un professionista, una persona del tuo stesso ceto sociale, non uno qualunque di cui non si sapeva molto e quel poco che si sapeva…” “Mamma, ti prego. Il ato è ato. Non voglio parlare del disastro che ho fatto della mia vita personale. Carlo era, come avevate predetto, un uomo di due soldi. Non importa. Appartiene al ato ormai. Ti prego, ho bisogno di dormire. Prendi un altro Mogadon e torna a letto. Ci sentiamo domai, quando è giorno. Buonanotte.” Angela attaccò il telefono prima che la madre potesse obiettare e riprendere il discorso. ‘Che strazio,’ pensò tra sè.‘Non posso neanche essere lasciata in pace con la mia disfatta. Natale, chi vuole festeggiare Natale? Voglio solo essere lasciata in pace. E questo significa essere lasciata libera di stare da sola.’ Raggiunta in fretta la camera da letto, si spogliò, mise la sveglia per le otto e si infilò nel letto. Alcuni istanti e fu subito sogno. Sognò, come spesso le accadeva di sognare, di trovarsi nella casa della nonna paterna. Rivide se stessa seduta in cucina. La nonna, svelta e allegra, trafficava intorno a lei mentre dalla finestra aperta Angela bambina osservava i rami enormi dell’albero al centro del giardino. Non c’erano tendine in cucina. La finestra era sempre aperta su quell’albero maestoso che dava l’impressione di vivere sperduti nella foresta. Non si udivano suoni, rumori dalla piazza su cui la casa si affacciava, voci. Solo un silenzio così naturale, interrotto di tanto in tanto dal frusciare delle foglie dell’albero mosse da una leggera brezza estiva. Quanto aveva amato quella casa. Un’oasi di pace e serenità. Lontano dalla vita stressante con sua madre. Poi d’improvviso, come sempre, il solito sogno incubo interruppe la visione idillica. Vide se stessa nel letto. Il lenzuolo le copriva totalmente la bocca e il naso. Le braccia distesa lungo i fianchi, incapace di obbedire alcun comando, sembravano paralizzati. Il suo respiro diventava
sempre più faticoso. La sua mente era lucida e si ritrovava a pensare, come sempre: ‘Faccio fatica a respirare. Ma basta scostare il lenzuolo dal mio naso e sarò a posto.’ Sapeva che sarebbe bastato alzare una mano, afferrare il lenzuolo e tirarlo via dal suo viso per riprendere a respirare normalmente, ma le braccia non si muovevano, sembravano inchiodate nella loro posizione inerte. La sua mente lottava contro l’inanimatezza del suo corpo. Il cervello impartiva l’ordine alle braccia di muoversi, ma loro non rispondevano al comando. La battaglia tra mente e corpo la rendeva debole. Per quanta forza di volontà impiegasse, per quanta forza fisica cercasse di estrinsecare, niente succedeva. Il suo corpo restava immobile, quasi intrappolato in quella posizione che le bloccava il respiro. Si rendeva conto nel sogno, che se non fosse riuscita a fare qualcosa in fretta, sarebbe morta soffocata, ma niente succedeva. I suoi sforzi erano inutili, totalmente inutili. Lottava per la sua vita e stava perdendo la battaglia. Al culmine del disagio fisico e mentale, proprio mentre la sua mente si stava abbandonando alla morte si svegliò di soprassalto, come succedeva sempre. Bagnata di sudore, con la gola secca, ansimante, Angela scoppiò a piangere. Un pianto sommesso, quasi tranquillo, un pianto di desolazione e resa. Erano mesi ormai, anni che quel sogno incubo la tormentava. ‘Non può continuare così,’ si disse avvilita, ‘devo fare qualcosa.’ Si fece una doccia calda, si vestì in fretta e si fece un caffelatte cremoso. Lo trangugiò di corsa ed uscì. Il trambusto delle prime ore della mattina la colpì. Tutti sembravano indaffarati, indifferenti. Sembravano avere una direzione, un luogo dove andare. ‘Io non appartengo a questa vita, a questa società. Io non ho nessuno. Io non so dove andare e cosa fare. Sono totalmente persa nel mondo.’ Lacrime silenziose cominciarono a scorrerle lungo le guance. Non si curò neanche di nasconderle. Continuava a camminare lenta, quasi tranquilla nei movimenti, ma con il cuore in rovina. Camminò per ore ed ore lungo i vicoli della città. Si fermò solo quando le gambe stanche ed il corpo accaldato ed assetato le suggerirono di fermarsi e riposare un poco. Scelse un caffè da cui usciva musica e prese posto ad un tavolino all’aperto. Ordinò due cappuccini. “Due cappuccini?” chiese curioso il cameriere. “Si, due. Mi piacciono i cappuccini” Cosa avrebbe dovuto dire? “I vostri bicchieri sono talmente piccoli, che me ne servono due.”
“Non so mentire” aveva detto una volta al suo Professore di Latino e Greco. “Allora cara mia, devi imparare,” era stata la risposta gelida del Professore.“Non puoi attraversare la vita dicendo solo la verità. Se non sai mentire, devi imparare.” Lei aveva guardato con sospetto quell’uomo severo che era il terrore del Liceo Massimo ed aveva replicato convinta “Io dirò sempre e solo la verità.” Al chè, il terribile Professore l’aveva guardata a lungo in silenzio poi aveva dettofissandola col suo famoso sguardo di ghiaccio e la bocca serrata: “Allora stai perdendo tempo in questa scuola. Sarai una fallita nella vita. Mentire non rappresenta un’alternativa a dire la verità. È l’unico modo per sopravvivere. Non si ha scelta. Perchè dire la verità? Nessuno vuole sentire la verità. Cosa fai, dici alle persone brutte che sono brutte? Alle persone stupide che sono stupide? Agli imbroglioni che sono imbroglioni? No, no, la tua intelligenzanon serve a niente se non sai mentire. Devi usarla per raggiungere i tuoi scopi. Per raggiungere i tuoi scopi devi mentire. Specialmente te, che sei una donna. Cosa farai? Andrai in giro dichiarando i tuoi veri intenti? Ti sconfiggeranno immediatamente, conoscendo le tue armi. Racconterai a tutti quello che pensi? Ti fregheranno sapendo su quale fronte combatterti. Sapranno dove attaccarti e come. Per te non ci sarà alcuna speranza. La tua vita finirà prima di cominciare.No, Angela, devi assolutamente imparare a mentire. Non hai scelta.” Angela non riusciva ad accettare quella estemporanea lezione di vita e senza pensarci due volte aveva replicato polemica: “Ma Professore, lei ci dice sempre che dobbiamo trarre insegnamento dalla storia. Nella letteratura latina e greca gli eroi sono sempre i personaggi con i sentimenti più nobili. I nostri antichi antenati avevano un grande rispetto per la verità e consideravano la menzogna la scelta dei vigliacchi.” “Ah, mi vuoi sconfiggere nel mio territorio? Bene, ricorda questo: Troia venne conquistata attraverso una menzogna, non la maestria e e la superiorità in campo di battaglia. Come conquista un uomo, una donna? Dicendole che è per niente affascinante, per niente intelligente eche non c’è nessuna meglio di lei da prendere in considerazione? No, cara Angela, una persona riesce a farsi amare da un’altra solo quando è in grado di accarezzare il suo Ego con paroline dolci. Più dolci di qualunque altro. Spesso mentendo, una persona riesce a convincere un’altra che è innamorata, che ama l’altra alla follia anche quando non è vero.
Così, qualunque sia la ragione dietro la menzogna, lo scopo viene raggiunto. È questa un comportamento ammirevole? Certamente no. Io e te non abbiamo fatto queste regole. Possono anche non piacerci ma non possiamo ignorarle. Non sai mentire Angela, devi imparare. Esercitati. Comincia con me, dimmi che sono il Professore più bravo ed interessante che hai mai avuto. Che le lezioni di latino e greco sono un’esperienza indimenticabile quando io sono in cattedra,” sorrise col suo sorriso enigmatico, quello che fu davvero il Professore più bravo ed interessante che lei aveva mai avuto. “Ma io penso davvero che lei è qualcosa in più degli altri” gli disse Angela rossa inviso. “Davvero? Brava, anche a me piace essere lusingato. Se quello che dici è la verità o no, non importa. Mi sei simpatica. Hai visto? Adesso ti regalerò mezzo punto in più quando correggerò i tuoi compiti. Brava, stai imparando, continua così.” Si era girato in fretta ed era andato via perdendosi nel dedalo dei corridoi della scuola. Angela ogni tanto lo rivedeva nei suoi ricordi lontani, col suo cappotto di cammello, la sua valigetta senza troppe carte, i suoi occhi azzurri gelidi, il suo sorriso enigmatico e il suo bagaglio inesauribile di conoscenza. Decenni erano ati dai tempi del Liceo e del Professore di latino e greco. Ancora non le veniva facile mentire. Ancora era ossessionata dall’irresistibile bisogno di dire la verità, la sua verità certo, ma pur sempre non una menzogna fabbricata al momento per il guadagno immediato. ‘Se fossi stata capace di mentire, forse Carlo non mi avrebbe abbandonato per chi sapeva mentire meglio di me. Una sgualdrinella di due soldi in cerca di facile guadagno. Una ragazzina in cerca dell’uomo maturo che aveva già conquistato il benessere finanziario. Una ragazzina senza scrupoli e moralità, che si lascia diventare incinta per legare a se un un uomo. Chi era una persona migliore, lei una donna di alti principi o una sgualdrinella che non pensa due volte ad andare a letto con un uomo anziano e sposato? Non importa. La menzogna vince sempre sulla verità. Il vizio vince sempre sulla virtù. Troppo latino e greco, troppa mortalità nella sua vita. La realtà era ben diversa. Specialmente nella società consumistica di oggigiorno, dove sesso è solo piacere temporaneo offerto su un piatto d’argento da tutte le donnette in cerca di una vita facile. Gli uomini non hanno molto rispetto per le donne? Beh, la maggior parte della colpa appartiene
alle donne stesse. Se non usassero il loro corpo e le mille lusinghe dei sorrisetti falsi e provocatori, gli uomini avrebbero più considerazione e devozione per le donne. Ecco perchè un giorno finiremo tutte dentro un burka. È colpa delle donne stesse. Gli uomini devono pur difendersi dalle lusinghe del sesso e della lussuria. Se le donne non usassero il loro corpo per ammaliare ed afferrare senza sforzo quello che volgiono, non ci sarebbe bisogno di una società basata su una religione anti-femminista. La prossima vita nasco uomo e mi vendico. Prenderò a calci tutte le donne che mi hanno reso questa vita un fardello pesante. ‘Non si ruba la donna altrui,’ dice uno dei dieci commandamenti della religione cattolicaiscritti sulle tavolette di Mosè. Si vede che ai suoi tempi c’erano meno puttane, altrimenti avrebbero aggiunto ‘non si ruba l’uomo altrui,’ specialmente quando la donna è ormai anziana e ha speso tutta la sua vita prendendosi cura di un maiale che russa, dorme e mangia senza mai un gesto gentile verso di lei.’ “Questi sono tempi difficili,” aveva detto una sua collega quando aveva saputo del tradimento e dell’abbandono di Carlo. “Bisogna stare molto attenti. Non lasciare solo un uomo nemmeno per un secondo. Ci sono migliaia di donne li fuori che vanno alla ricerca di un piatto di minestra già pronto e di un tetto sicuro sulla testa. Donne senza scrupoli. Totalmente disinibite nei vestire e nei modi così da fare vedere che con loro un mondo di piacere e dolcezza si aprirà per l’uomo che le seguirà. Una volta conquistata la preda, la storia diventa un’altra. Nel frattempo rendono la vita impossibile a tutte le mogli, le fidanzate e le compagne che non usano il sesso come fine ultimo della loro relazione con l’uomo. Ormai le puttane non sono più quelle che una volta uscivano la sera e battevano i marciapiedi. Le puttane oggigiorno vanno in cerca di clienti nei posti di lavoro, negli uffici, nei supermercati. Sono facili da incontrare, ad ogni occasione. Appena un paio di pantalioni si avvicina, si fanno in quattro per accaparrarlo. Usano mille sorrisi e smorfiette per conquistare l’uomo. Altro che mentire! Fingono di essere dolci e gentili, fingono di capirlo come la moglie non può o portà mai. Gli danno ragione in ogni cosa che dice, lo assecondano in ogni capriccio. Sono disposte a fargli provare qualsiasi tipo di piacere sessuale come cagne in calore. Costruiscono tutt’intorno all’uomo che hanno selezionato una trappola che luccica come oro anche se è solo di cartapesta. Invariabilmente l’uomo ci cade dentro ammaliato. Il povero cretino crede di aver trovato l’amore con la A maiuscola. Le puttane sono grandi attrici. Dovrebbero istituire un Oscar per la migliore. ‘Non avresti dovuto sposare Carlo. Non si sapeva bene da dove veniva, chi era veramente. Non ci si sposa in quattro e quattrotto, come hai fatto
tu, chi non si conosce bene.Praticamente uno sconosciuto e straniero pure. Chi ha forgiato quel famoso detto, ‘mogli e buoi dei paesi tuoi’? Lo stesso proverbio, può essere rovesciato. Avresti fatto meglio a sposareuno del tuo paese possibilmente proveniente dal tuo stesso ceto sociale. Uno con una educazione simile alla tua. Chissà, forse Carlo stesso ha usato te per stabilirsi qui ed ottenere la cittadinanza di questo paese. Ricordati quel disgraziato di Derek come ha trattato Marcella. L’ha sposata in un altro paese, dove lei si trovava per lavoro. L’ha convinta a ritornare contro il suo volere. Lei sarebbe rimasta volentieri dove si trovava. L’ha sposata per ottenere la cittadinanza che voleva. L’ha messa incinta e quando lei era di otto mesi l’ha abbandonata per una donna più giovane che aveva conosciuto al lavoro.Carlo ti ha abbandonata per un’adolescente stupidina? Sorpresa? Carlo aveva già dimostrato più volte di essere un imbecille! Facile preda per una sgualdrina senza scrupoli. Morale della storia? ‘Sfrutta tu gli uomini anzichè essere sfruttata da loro.’ ” Così aveva detto Julia, la sua collega di lavoro. Angela non aveva risposto ma dentro di se le aveva dato ragione. Solo la realtà della vita quotidiana era molto più complicata e difficile da manovrare. I cappuccini non erano un gran chè. Erano tepidi e senza forza. ‘Puah,’ si disse delusa Angela, ‘qui non ci vengo più!’ Prese dalla tasca dell’impermeabile il telefonino e chiamò l’ufficio. “Maria? Sono Angela Brandi. Oggi non verrò in ufficio. Non mi sento bene. Dillo tu a Patrizio. Grazie, ciao.” Si allontanò dal caffè e lentamente si avviò di nuovo verso casa. Camminava lentamente persa nei suoi pensieri, sbirciando di tanto in tanto la vetrina di qualche negozio quando li vide. Stavano attraversando la strada proprio nella sua direzione. Lui sorrideva beato, lei con una mano sulla pancia ormai grande lo guardava con uno sguardo d’adorazione. Avvertì un tuffo al cuore. Un dolore serrato come una morsa di acciaio le strinse lo stomaco. Si girò di scatto verso una vetrina per non essere vista. Aspettò alcuni minuti poi, quando fu sicura che non l’avrebbero più riconosciutaaffrettò il o verso casa. Camminò svelta, raggiunse il portone, s’infilò veloce nell’androne. Fece di corsa i due piani di scale e con cuore in gola e la mano tremante infilò la chiave nella serratura. Ansimando entrò in fretta richiudendo subito la porta alle sue spalle. In preda ad un dolore cocente che le trafiggeva l’anima appoggiò le spalle alla
porta, si allentò la cintura dell’impermeabile e cercò di respirare profondamente per riprendere fiato. Si tolse le scarpe come faceva sempre, si sfilò senza cura l’impermeabile facendolo cadere per terra e si diresse subito in cucina per un bicchiere di acqua. Lo squillo del telefono la raggiunse mentre beveva a sorsi lenti. ‘È mai possibile’ pensò desolata, ‘che non posso mettere piede inquesto dannato appartamento senza sentire lo squillo del telefono. Prima o poi troverò il coraggio e lo staccherò completamente.’ Però raggiunse lo stesso la cornetta e rispose con voce tremante alla chiamata: “Angela, sei tu?” una voce tranquilla le chiese. ‘Bene’ pensò Angela, ‘non è mia madre.’ “Si, sono io Michela. Come stai?” “Bene, cara mia. Sono due giorni che cerco di contattarti. Ti ho chiamata anche in ufficio. Mi hanno detto che stavi poco bene. Cosa ti è successo?” “Niente, problemi di stomaco, niente di importante.” “Stai a letto? Vengo a trovarti?” “No, no. Non sono così grave,” cercò di scherzare Angela ma il tono era serio e profondo. “Cosa e successo?” chiese l’altra allarmata. “Li ho visti insieme.” “Chi? Chi hai visto insieme?” “Carlo e la puttana.” “Carlo e la nuova moglie? Non è più una puttana. Il tuo caro marito, pardon ex marito, l’ha elevata da puttana a signora rispettabile, sposandola e mettendola incinta” rispose in tono sarcastico l’altra. “Come vuoi. Non cambia molto. L’ho visto con la donna che me l’ha portato
via.” “Angela nessuno ti ha portato via niente. Il caro Carlo ti ha abbandonato, tutto qui. Succede a tante donne, tutti i giorni. Se lui ti avesse amato, nessuna donna al mondo sarebbe stata in grado di prendertelo, credimi. Stai meglio senza di lui.” “Uh, già.” “Angela, è ora che ti dai pace. Di casi come il tuo ce ne sono tanti oggigiorno. La mamma di Georgio è stata abbandonata dopo trenta anni di matrimonio e dopo avergli dato sei figli. Almeno tu e Carlo non avevate figli..” “Forse se avessimo avuto figli non mi avrebbe abbandonato.” “Scusa, ti ho appena detto che qualcuno ha abbandonato una donna di media età con cui aveva avuto sei figli.. Che fai, non ascolti?” “Scusa, sono ancora turbata. Mi domando cosa spinge un uomo ad abbandonare una donna che è stata la sua compagna per decenni per una ragazzina stupidella neanche tanto carina.” “Forse ci sa fare a letto,” disse sorniona l’altra che subito pentita del commento inappropriato aggiunse in fretta: “Non volevo dire quello che ho detto. Volevo dire, forse gli massaggia l’Ego più di una moglie intelligente che non ha bisogno di far sentire il suo uomo importante perchè stupidamente pensa che entrambi sono su un piano di parità. Niente leccamenti a vicenda. Ma sai come sono gli uomini. A volte, spesso anzi sempre piace loro sentirsi la parte più importante in una relazione amorosa. La parità raramente li soddisfa. Queste donnette che vanno in giro a rubarei mariti sono grandi furbacchione, sanno con mille moine farli sentire importanti. Li inondano di smorfiette e sorrisetti, li trattano come il Papa, con riverenza, con sottomissione, facendo il loro meglio per ridere alle loro battute, guardandoli con ammirazione quando parlano come se fossero Einstein, sfiorandogli casualmente di tanto in tanto il braccio, e…” “Basta, per favore, ho capito” proruppe sconsolata Angela. “Senti,” continuò l’altra, “domani vado a casa di mia madre per Natale. Mio fratello sta lavorando sodo e non può venire. Vieni tu. Puoi prendere la sua camera. Mia madre ti è simpatica e tu piaci molto a lei. Vieni con me. Non posso pensare di lasciarti ancora un altro Natale da sola in quel ridicolo appartamento
che hai. Dai, vieni con me. Ci ubriacheremo, mia madre ci leggerà i Tarocchi, giocheremo a truccarci e scambiarci i vestiti come se fossimo ancora due ragazzine al Liceo. Dai Angela, vieni.” “Non sono buona compagnia e tu lo sai..” cercò di svincolarsi dalla proposta Angela. “Sei ottima compagnia, non ti preoccupare. Mia madre ti adora. Non accettiamo no come risposta. o a prenderti domani alle tre. Fatti trovare sotto il Portone. Ciao” e riattaccò in fretta. Angela rimase un minuto soprapensiero dopo aver deposto la cornetta del telefono.‘Non voglio andare da nessuna parte. Non voglio vedere nessuno’ si disse convinta. Si avviò versola cucina e, come sempre in momenti di sconforto acuti, si preparò un cappuccino. “Chissà perchè un cappuccino si chiama cappuccino” aveva detto casualmente una sua collega un pomeriggio di sole tanti mesi fa quando insieme dopo ore di compere si erano fermate per una sosta di ristoro ad un caffè. “Il nome fa riferimento alla setta religiosa dei frati Cappuccini. La plebe cominciò a chiamare così la bevanda perchè il colore proveniente dalla unione del caffè e del latte faceva pensare al colore del loro saio.” “Brava” aveva esclamato sorpresa l’amica “Come lo sai?” “Ho vissuto in Italia alcuni anni quando ero piccola. Mia madre, dopo essere stata tradita da mio padre, l’aveva lasciato e si era rifugiata in Italia dove si era iscritta ad un corso di Architettura per stranieri.” “Tua madre è sempre stata una donna eccezionale. Deve essere stato estremamente eccitante esserne la figlia” aveva detto convinta Julia. Angela si era morsa la lingua ed aveva maneggiato un sorriso tremulo di convenienza che non significava niente. In verità avrebbe voluto dire: “Eccitante? Si, se vuoi puoi chiamarla così la mia vita con mia madre. Di sicuro non era stata una vita convenzionale o noiosa.”
Sua madre era sempre stata una donna molto bella e conscia della propria avvenenza. Estremamente consapevole dell’influenza che aveva sugli uomini. Erano stati troppie troppo diversi, ma nella società consumistica che si era creata negli ultimi decenni la parola troppo era diventata futile ed inutile. Angela era cresciuta circondata da innumerevoli figure maschili che gravitavano intorno a sua madre. Alcuni dovevano essere chiamati zii, altri papa – anche se per breve tempo – molti semplicemente per nome. “Saluta Paolo. Di buongiorno a Cristiano. Rispondi alla domanda di Sergio e così via.” Di sicuro uno psicologo moderno non direbbe mai che era cresciuta senza un ruolo maschile davanti agli occhi. Oh, di certo non le erano mancati i prototipi del genere maschile. Con la sua esperienza infantile sarebbe dovuta essere più saggia, invece aveva sposato Carlo, il prototipo di tutti i prototipi. L’incarnazionedi tutto quello che non va in un uomo. Dal punto di vista femminile, naturalmente. Dal suo punto di vista personale, tragicamente. Sua madre era stata sempre un individuo estremamente socievole, al contrario di lei. Inviti, feste, riunioni. Non ricordava di aver mai visto sua madreseduta per un paio di minuti, spendere un’ora leggendo o ascoltando la radio o semplicemente a guardare fuori dalla finestra le nuvole che avano sopra la loro testa. No, era lei la sognatrice di famiglia, lo era sempre stata. Sua madre era la comunitaria, quella che respirava solo in mezzo alla gente. Da sola sembrava persa in un bicchiere d’acqua.Da sola sembra apire come un fiore dimenticato. C’erano stati addirittura giorni in cui non aveva mangiato perchè sua madre, troppo indaffarata per prendersi cura di lei, aveva dimenticato di preparare i pasti. ‘Si, puoi chiamarla eccitante la vita con mia madre,’ aveva ripetuto a se stessa per ore dopo l’osservazione di Julia, la sua compagna di ufficio. ‘Ma per ragioni totalmente diverse da quelle che tu, cara Julia, immagini.’ Il cappuccino era caldo, shiumoso, confortante. Appoggiò la tazza contro la guancia fredda e bagnata di lacrime silenziose. Il contatto le recò sollievo. Confortò la sua pelle delicata e fredda come il liquido caldo aveva recato conforto al suo stomaco contratto dal dolore. Andò in camera da letto, si spogliò per la notte, accese la radio e s’infilò nel letto. Da quando viveva da sola aveva cominciato a dormire con la radio accesa
tutta la notte. Le cullava il sonno, la faceva sentire meno sola. ‘E con tutti i bollettini di notizie internazionali che vengono trasmesse e aggiornati ogni ora mi risparmia il costo dei giornali’ disse convinta a se stessa come giustificazione contro quella che ad occhio freddo a volte le appariva un’abitudine puerile. Si addormentò di schianto, come sempre. Ma il riposo, come sempre, durò solo pochi minuti. D’improvviso ed invariabilente l’incubo la raggiunse.Comincò a sudare, le braccia inchiodate ai fianchi non erano in grado di muoversi. Il lenzuolo le coprivala bocca ed il naso. Cominciò ad ansimare a causa della mancanza di ossigeno. Era cosciente del fatto che se non avesse scostato in fretta quel lenzuolo dal suo viso sarebbe morta asfissiata, ma non riusciva a muovere un dito. Il cervello impartiva continuamente l’ordine alla sua mano di alzarsi, di rimuovere il lenzuolo dal viso. Ma niente succedeva. La battaglia tra la mente ed il corpo era terribile. Il cervello ordinava, il corpo rifiutava. Lei era sempre più conscia del fatto che presto sarebbe morta. Quando la mente cominciava ad arrendersi ed aveva accettato la resa come inevitabile, si svegliò di scatto. Bagnata di sudore, ansante, stravolta. Guardò l’oroglogio. Erano le tre del mattino. Un ragazzo una volta, un tizio che studiava medicina alternativa le aveva spiegato che ogni ora del giorno e della notte aveva una relazione speciale con determinati organi del corpo. Non ricordava le altre ore ma le era rimasto scolpito nella memoria il collegamento tra le tre del mattino ed il fegato. ‘Forse soffro di fegato, senza saperlo. Il fegato è uno dei pochi organi del corpo che non provoca sintomi quando è malato. Forse il mio incubo è dovuto alfatto che soffro di fegato e non lo so. Forse ho un cancro al fegato’ si era detta senza tanta convinzione. Si sedette in poltrona nella stanza che fungeva da salotto, studio, palestra eogni possibile occasionale funzione. Il suo minuscolo appartamento era composto da camera da letto, salotto, bagno e cucina. Dopo l’abbandono di Carlo l’aveva scelto lei quel piccolo appartamento. Aveva selezionato il più piccolo che poteva trovare perchè le sembrava il più accogliente per il suo dolore. La racchiudeva come il grembo di una madre, come una piccola automobile. La sua marca preferita era la Volkswagen proprio perchè il suo stile rotondo e smussato racchiudevale persone dentro come il guscio di un uovo. Sembrava offrire protezione dai mali del mondo, dalla cattiveria della gente. Tra un pensiero e l’altro si era fatto giorno. Angela scostò la tendina trasparente del salotto e si fermò a contemplare il cielo. L’affascinava il cielo, da sempre.
All’alba era di mille colori e sfumature. Poteva vedere il grigio scuro in basso, strisce di arancione e rosso a metà, alcuni tocchi di giallo qui e là, un celeste più chiaro che diventava quasi bianco su su in alto. ‘Magnifico. Il mondo è così bello. Siamo noi esseri umani l’unica schifezza su questo pianeta. Noi con la nostra iongordigia, le nostre brame inutili, la nostra mancanza di generosità, di altruismo, di lealtà, di empatia l’uno per l’altro. Noi con i nostri tradimenti a vicenda, i nostri desideri ridicoli, le nostre brame di due soldi, la nostra lussuria egoistica. Noi con tutte le pugnalate che ci diamo a vicenda per non altra ragione che quella di essere infidi e bugiardi, di non sapere bene quello che veramente vogliamo e di abbattere tutti gli ostacoli e tutte le persone che si frappongono tra noi e i nostri desideri senza ragione. Bene. A volte sembro un prete come penso e parlo’ le venne da ridere considerando che era contro ogni religione e con un gesto istintivo di civetteria che da tempo non le veniva più naturale, si scostò con lentezza i capelli che le erano ricaduti sugli occhi. Una fitta di dolore alla testa interruppe i suoi pensieri. La fitta si ripetè un paio di volte. ‘Devo fare qualcosa per questo dolore che ormai si sta ripetendo troppo frequentemente. Appena possibile andrò dal dottore. Forse un raggio risolverà il mistero. Probabilmente si tratta solo di stress. Dovrei andare in vacanza. Lo dico sempre e non lo faccio mai.’ Prese un cocktail di ibuprofen e paracetamol e si stese sul letto. Si addormentò e quando si svegliò vide che l’appartamento era inondato di luce. Guardò la sveglietta sul comodino accanto a lei e balzò in piedi discatto. Erano le due del pomeriggio. Aveva dormito per ore, altro che pochi minuti come aveva sperato quando si era distesa aspettando che il dolore alla testa si calmasse grazie all’effetto soporifico ed antidolore degli analgesici. ‘Wow! Ho dormito. Ho dormito per ore. Congratulazioni!’ commentò ironica con se stessa. Il suono gracchiante del citofono la distolse dai suoi pensieri. Raggiunse a fatica l’ingresso e sollevò il ricevitore. “Che fai lumaca, non sei ancora pronta?” La voce gentile di Michela la distolse dal dolce torpore di un dolore che si è appena allontanato dal corpo lasciandoti leggermente rimbambita ma in un piacevole stato di torpore. “Michela, ciao” disse automaticamente.
“Che ciao, che ciao. Non sei ancora pronta? Sto sotto il tuo portone. Sbrigati a scendere che non riesco a trovare un posteggio e mi sono messa davanti al o carrabile. Sbrigati” incitò con ione“non voglio prendere una multa. Questo mese ho già problemi finanziari..” concluse ridendo la dolce Michela. Angela si ricordò della telefonata del giorno precedente, dell’invito a are il Natale a casa dell’amica erispose in fretta:“Mi sono addormentata, non ho preparato niente per il soggiorno. Non posso venire, mi dispiace. Grazie lo stesso , ci vediamo dopo le feste.” L’altra cambiò tono di voce e disse infretta: “Adesso vengo su e se non ti sbrighi ti ammazzo. Sei vestita?” “Si” mormorò come in stato di coma Angela. Aveva appena riattaccato il citofonoe stava avviandosi verso il bagno quando il camlo della porta d’ingresso cominciò a suonare con insistenza. Tornò indietro ed aprì con lentezza. Era Michela che in gran fretta la spostò di lato con un braccio, entrò nell’appartamento e senza guardarla nemmeno si diresse verso la camera da letto. “Dove è la tua ventiquattro ore? Dove tieni mutanFde e calze? Mettiti subito la tuta da ginnastica, starai più comoda in macchina. Dov’è la tua borsettina del trucco, la spazzola per capelli? Prendi il tuo spazzolino da denti. Infilati le scarpe da tennis. Forza, sbrigati.” Il tono deciso ed autoritario dell’amica non le dava tregua. Non aveva una grande voglia di rispondere. Dopo una dose forte di analgesici si sentiva sempre un poco stordita. Invece ubbidì tranquilla alle istruzioni, proprio come una bambina esegue quanto le viene ordinato dalla voce autoritativa della madre. In pochi minuti Michela aveva organizzato tutto, aveva afferrato le chiavi della casa sulla mensolina all’ingresso, spento la luce al contatore e via fuori della porta. Di corsa, con lei che la seguiva in silenzio, si era precipitata per le scale. Sempre di corsa si era avviata verso la sua Jeep posteggiata di fronte, davanti al o
carrabile del negozio che allestiva i buffet a domicilio, aveva lanciato tutto quello che aveva raccolto nell’appartamento sul sedile posteriore ed aveva avviato il motore. Proprio mentre il proprietario del negozio cominciava ad avviarsi verso di loro con aria furiosa. “Ha bisogno di occhiali? Non vede che c’è il cartello che vieta il posteggio? Io devo far uscire il camioncino delle consegne!” “Proprio in tempo. Può uscire tranquillamente. E.. Buon Natale!” aveva esclamato guardandolo col migliore dei suoi sorrisi Michela. L’uomo aveva scosso la testa, posato le mani sui fianchi e mormorato qualcosa sotto voce. Ma si era fermato e non le guardava più con aria truce. “Come farai a fare tutto quello che vuoi e a cavartela senza problemi quando sarai diventata vecchia e brutta?” chiese ridendo Angela. “Quando sarò vecchia e brutta, come dici tu, continuerò a fare quello che voglio buttando banconote dal finestrino per distogliere l’attenzione. Funziona sempre” commentò ridendo anche lei Michela. In pochi minuti furono fuori della strada, fuori della zona, fuori della città. Michela non smetteva di parlare. Raccontava delle vacanze in Mauritius da cui era appena tornata, degli uomini che aveva incontrato, delle lunghe giornate spese sotto il sole su una spiaggia bellissima. “Incontri tanti uomini, non c’è nessuno che riesce a catturare il tuo cuore e domarti?” chiese sorniona Angela. “No,cara mia. Le relazioni sentimentali non mi attirano. Oggi qui, domani là dice una vecchia canzone di Patti Pravo. O nonera Patti Pravo che la cantava, boh, non importa! Sono troppo giovane e bella per diventare schiava di un uomo!” concluse ridendo la svagata, solo in apparenza, Michela. Dopo un paio d’ore di macchina, un paio di tramezzini, due bicchieri di coca cola e dieci CD erano finalmente arrivate alla meta.
La casa materna di Michela era piccola, fuori mano in mezzo ad un campo incolto. “E più naturale così. Mi piace l’aspetto selvaggio del posto. Sarebbe un delitto rovinare il carattere del luogo e la personalità della casa mettendo in ordine l’ambiente circostante e facendo l’erba” aveva detto a giustificazione del mancato interesse per l’ordine, la madre di Michela. La signora Dina era molto simile alla figlia come carattere e presenza fisica. Solo aveva l’aria ancora più svagata e si vestiva come una una vagabonda. Non aveva nessun interesse per l’eleganza e l’accompagnamento dei colori. Vestiva quasi sempre con una gonna nera a campana lunga fino ai piedi, una casacca largamolto semplice di cui aveva molte variazioni di colore, stivaletti alle caviglie di pelle nera. Dina aveva sentito il rumore del motore della macchina e si era fatta loro incontro sul viale che dalla casa conduceva attraverso un sentiero di terra battuta alla strada non asfaltata. “Benvenuta al mio palazzo!” esclamò facendosi avanti verso Angela ed abbracciandola stretta. Quel giorno la casacca era color arancione, i capelli sciolti sulle spalle ed il volto era truccato. Gli occhi marrone scuro erano pieni di raggi di sole. ‘Se avessi potuto scegliermi una madre, avrei scelto Dina’ si disse contenta Angela. Dina la faceva diventare il cuore leggero ogni volta che la incontrava. La donna era rimasta vedova venti anni prima. Alla tenera età di trentotto anni si era trovata sola con due figli piccoli e senza un lavoro. Il marito era stato nell’esercito e la pensione da vedova non era sufficiente per tirare su a dovere due ragazzini viziati come erano Michela e Corrado. Dina aveva subito venduto l’appartamento in città che aveva ancora un mutuo cospicuo, aveva comprato una casetta che cadeva a pezzi incampagna e si era messa a coltivare i campi. Da quel posto remoto dove abitavano, ogni mattina presto tutti e tre, lei e i suoi bambini, prendevano il pulmino, si recavano nella vicina città a circa un’ora di tragitto, i bambini raggiungevano la scuola, Dina andava a servizio. Verso le quattro del pomeriggio riprendeva i figli da scuola, faceva due compere per la cena, salivano sul pulmino e tornavano a casa. Mentre, dopo cena, i bambini svolgevano i compiti, Dina andava nel retro della casa a coltivare l’orto. Patate, pomodri, cavoli, aglio, piselli, melanzane.. Quel piccolo appezzamento di terreno le forniva una dispensa aperta tutto l’anno con variazioni secondo le
stagioni. Nel campo di fronte alla casa aveva quattro meli, due peri, un paio di ciliegi. Dina e i bambini erano riusciti a sopravvivere secondo i loro bisogni. Diventati adulti, Corrado si era dedicato alla fotografia ed era diventato fotografo giornalista. Michela si era impiegata come segretaria nella stessa reparto della Polizia di Angela. Presto, grazie alla sua personalità esuberante e gioviale, aveva fatto strada verso il Management. Dina, assolto il suo dovere di madre, si era dedicata alle sue vere ioni: i tarocchi, la medicina alternativa, la pittura. Tutte le volte che i figli si erano offerti di pagarle l’affitto per un appartamento in città Dina si era sempre rifiutata di lasciare quella casetta cadente in mezzo ad un campo selvaggio. “Questa è casa mia. Qui è dove appartengo. Grazie tante, ma no grazie. Io resto qui” aveva detto con risolutezza declinando l’offerta. ‘Come la capisco’ si era detta spesso Angela ‘magari io avessi un posto come questo tutto per me. È come un’oasi di pace nel deserto della vita.’ Angela aveva ricambiato con calore l’abbraccio di Dina e tutti insieme si erano avviati ridendo verso la casa. Un calore piacevole proveniente dalla stufa a legno, un odore accogliente di cibo casareccio, l’aroma del pane appena sfornatola fecero sentire immediatamente a suo agio. “Cosa vi do da mangiare?” chiese allegra Dina. Senza aspettare risposta si era avviata verso l’angolo cottura del soggiorno, liberate del guscio sei uova, le aveva sbattute con energia e, presa una padella da sotto la tendina che copriva lo scaffale degli utensili della cucina aveva cominciato a friggere. “Sei pallida, Angela” aveva detto tra un commento e l’altro Dina. Senza aspettare risposta aveva aggiunto, dopo un interludio di altre due o tre frasi totalmente disconnese tra loro.“Dovresti prendere un poco di olio di fegato di merluzzo. Secondo me hai un problema di circolazione. Quanto zucchero metti nel tè Angela? Non mi ricordo mai” le disse porgendole una tazza piena di liquido caldo.
“Non metto zucchero” aveva risposto sorridendo Angela. “Brava. Mi piacerebbe che Michela fe altrettanto, ma mia figlia è troppo golosa” buttò indietro la testa ridendo come una ragazzina. “Purtroppo ha preso da me!” concluse con aria desolata ma sempre con un tono allegro. In un battibaleno aveva cucinato una frittata, l’aveva divisa in tre parti e servita su un tavolodi legno masssiccio dove erano visibili i nomi scolpiti con un temperino sul legno morbido dai fili bambini. Corrado era scritto in stampatello vicino al bordo del tavolo davanti ad Angela. Michela era stampato a caratteri più piccoli e si trovava al centro. Altre donne avrebbero camuffato con un centrino o una tovaglia quei segni lasciati dal tempo e due figli indiscipilati, ma no Dina. Lei li esibiva contenta come un’altra donna avrebbe esibito fotografie da un vecchio album di famiglia. Erano parte del ato che condivideva coi figli, erano parte di lei. Erano lì davanti agli occhi di tutti ogni giorno a ricordare che si, da sola ed in mezzo alle difficoltà era riuscita a tirare su due figli. Dina non aveva alcun senso dei valori materiali. I mobili erano lì ad assolvere una funzione, l’arredamento serviva solo a rendere la casa confortevole ed accogliente. Le apparenze, il decoro, erano parole senza significato per Dina. Quelle caratteristiche della personalità della madre di Michela, che altri giudicavano a volte fuori posto e difficili da accettare, erano quello che attraeva Angela a quella donna così fuori dal comune. ‘Magari Dina fosse stata mia madre, sarei cresciuta felice e soddisfatta della vita, sarei stata una donna piena di gioia ed allegria, proprio come Michela.’ Ma che importava quello che era stato e quello che non era stato. Adesso, anche se non di propria scelta ed iniziativa, si trovava lì con Dina, in quella casa così calda ed accogliente e cominciava a rilassarsi, a sentirsi soddisfatta. Anche Carlo sembrava lontano, sembrava appartenere ad una vita che non era la sua. Tra un commento e l’altro, una risata e l’altra, mangiarono avidamente la frittata. Ad un certo punto Michela chiese alla madre: “Cos’è questa la merenda, la cena, cosa?” “Quello che vuoi. Quello che ne fai” aveva risposto Dina. Michela aveva guardato Angela ed esclamato ridendo: “Questa è mia madre. Irresistibile, non è vero? Dove trovi un’altra donna come lei?”
“Sei fortunata ad averla come madre” aveva commentato leggermente triste Angela che gliela avrebbe rubata volentieri. Le ombre della sera cominciavano ad invadere la casa. Dina si allontanò dal tavolo ed accese un paio di lampade poste nei due angoli remoti della grande stanza che era la cucina, lacamera da pranzo ed il soggiorno di quella casetta fuori del tempo ed arredata in maniera spartana. “È ora di andare a letto ragazzine” disse ridendo Dina alle giovani che erano intente a scambiarsile ultime dicerie dei rispettivi uffici e ridachiavano tra una storiella e l’altra senza dar segno di stanchezza. “Domani sarà una lunga giornata. Dobbiamo andare in città a fare le compere per Natale. Cosa vorresti come regalo, Angela?” “Un marito nuovo” esclamò con falsa allegria la donna. “Uh, non so se ne vendono ancora” commentò ridendo Dina. “I migliori sono già stati tutti comprati e quelli rimasti sullo scaffale francamente non li comprerei nemmeno a prezzo ridotto. Comunque Angela, credimi, tu non hai bisogno di un nuovo marito. Hai bisogno di una nuova vita. Una che ti appartenga interamente. Una vita tutta tua dove ogni giorno è un’avventura. Una meraviglia da scoprire.” “Dina” si trovò stupita a chiedere Angela, “perchè non ti sei risposata? Sei rimasta vedova così giovane. Non ti è costato rimanere da sola, diventare vecchia da sola? Si, lo so, avevi i tuoi figli ma non posso credere che essere madre e prendersi cura dei figli soddisfi interamente i bisogni emotivi di una donna.” “Hai ragione. Non lo fa. Neanche decine di figli possono riempire tutto il cuore di una persona. Non posso nemmeno usare come giustificazione il fatto che mio marito era una persona per bene, mi rendeva felice. Dopo tanti anni di vedovanza il bisogno di compagnia può spingerti verso un altro essere umano, anche se non sei più capace di amare con la stessa intensità ed entusiasmo. Il fatto è che io ho scoperto me stessa dopo la morte di Riccardo. Mi sono trovata mille interessi. Sono sempre stata indaffarata con tanti progetti diversi. Non mi è mai ato perla testa di rinunciare alla mia nuova independenza per un altro amore o chiamalo come vuoi. Non so se è una cosa triste o no, non penso chesia un atteggiamento molto generoso vivere contenti da soli, ma così è stato il mio caso. Non cambierei la mia vita con nessuna altra. Questa casa comprata in caso
di bisogno è diventata il mio rifugio, un’appendice della mia anima. Mi dovranno portare via con la forza da qui. Me ne andrò solo dentro una cassa di legno, non prima. Non c’è altro posto al mondo dove mi sentirei così felice ed appagata come in questa casetta che cade a pezzi, lontana da tutto e da tutti. Si, a volte quando non mi sento tanto bene, mi costa fare un lungo viaggio in pullman solo per andare a comprare una bottiglia di latte, ma stranamente superata la fatica fisica, mi opporrei con tutta le mie forze contro chiunque venisse a dirmi che vuole aprire un supermercato dietro l’angolo di casa. Ho bisogno di spazio, di aria, di sentirmi a contatto con la natura. Morirei dopo due giorni di angoscia e melanconia se dovessero impormi di vivere in uno dei vostri ridicoli appartamenti in città dove non puoi fare uno starnuto senza che tutta la strada lo sappia, dove non puoi affacciarti alla finestra senza che tutti seguano le tue mosse. Sono un’anima selvaggia io.” disse ridendo. “Lo so, voi giovani non potete capirmi. Siete stati abituati a vivere come formiche tutti insieme in luoghi senz’anima. Non si provi rimpianto per qualcosa che non si è conosciuto. Poi devo tenere questo posto in ordine per Michela che non vuole sposarsi ed è una testa frulla come me. Quando sarà vecchia avrà bisogno di un posto come questo ed incapace com’è di risparmiare un solo soldo, se non gliela lascio io questa casa di sicuro sarebbe incapace di comprarsela con i suoi risparmi. Corrado è un’altra cosa. Corrado ha preso dal padre. Lui riesce a vivere tranquillamente senza radici, senza una casa propria, vagabondando felice qui e lì. Corrado finirà in una casa per i vecchi dove spenderà le giornate fotografando più volte al giorno i residenti quando sarà arrivato il suo momento. Ma Michela no, Michela ha bisogno del mio aiuto e di questo posto. E poi penso anche a te. Tu potrai venire qui a farle compagnia e questa casa provvederà rifugio e conforto anche a te. Vedi, come ti voglio bene?” disse ridendo ed aggiunse: “Ti considero quasi una figlia!” Angela le sorrise leggermente triste. “Ti preoccupi di me più di mia madre” commentò. “Angela, nessuna vita è perfetta. Tua madre è quella che è e non puoi cambiarla, nessuno può. Non so la ragione ma sono sicura che esiste una logica nel fatto che sei capitata con lei come madre. Forse dovevi diventare più forte nello spirito, trovandoti a vivere la tua vita senza la guida e il conforto di una madre premurosa. Sono sicura cheesiste un motivo .. Anche se noi non lo vediamo.” Mentre parlavano Dina aveva lavato i piatti, scopato per terra e riposto ogni cosa
negli scaffali di legno rustico celati da una tenda a quadretti rossi. “Buonanotte” disse con un sorriso Dina alle ragazze, come invito ad andare a dormire. Le giovani si alzarono da tavola e Michela esortò Angela a seguirla su per le scale. L’aiutò a fare il letto con le lenzuola fresche di bucato e a riporre nella cassettiera il contenuto del suo bagaglio. Si abbracciarono contente, augurandosi a vicenda: “Sogni d’oro.” La notte le stava avvolgendo in un abbraccio profondo.
Capitolo 2
Erano le tre del mattino, come al solito, quando Angela si svegliò fuggendo ancora una volta dal sogno incubo. Ancora una volta, come sempre, aveva scampato la morte che le si presentava nell’incubo che ormai la perseguitava da tempo. Era bagnata di sudore, il cuore le batteva forte, la gola arida. L’aria nella stanza era fredda. Sentì il bisogno di scendere in cucina e bere una tazza di qualcosa caldo. S’infilò la vestaglia e a piedi scalzi per non fare rumore scese lentamente le scale. Fu sorpresa di vedere che in cucina c’era una luce diffusa da una piccola lampada. Nella penombra scorse la figura di Dina. Si dondolava lentamente su e giù in una vecchia sedia a dondolo. Dina come la vide le sorrise ele disse tranquilla: “Qualcosa ti turba. Che cosa?” Angela la guardò profondamente negli occhimentre sentiva lacrime calde e salate scorrerle lungo le guance. “Dina” disse triste “sono mesi ormai che mi sveglio nel cuore della notte. Spesso, moto spesso, sempre più spesso ultimamente mi trovo a vivere lo stesso sogno incubo.” Le descrisse l’angoscia dell’incubo. Dina la guardava in silenzio con l’espressione assorta. Le fece raccontare il sogno in tutti i minimi dettagli poi si alzò dalla sedia a dondolo e le disse: “Prendiamo una tazza di tè. Farà bene ad entrambe.” Mise un pugno di foglie di tè in una teiera ingiallita dal tempo e la invitò a sedere al vechio tavolo della cucina. Dopo pochi minuti trascorsi in silenzio le versò il tè. “Cadono nella tazza anche le foglie!” esclamò sorpresa Angela. “Si, è quello che voglio. Bevi il liquido lasciando le foglie sul fondo che poi interpreterò il loro disegno.” “Wow, Dina. Sai leggere il futuro attraverso le foglie di tè?”
“Il futuro o il ato. Dipende.” “Dipende da cosa?”domandò curiosa Angela. “Da quello che ti tormenta di più.” Angela la guardò interdetta.“Dove hai imparato tutto questo?” “Alla scuola serale di divinazione” dise ridendo come una ragazzina Dina. Angela la guardò incerta: “Mi stai prendendo in giro?” “No, Angela. Rido perchè molta gente pensa e crede che nella vita si può imparare a fare tutto. È la vecchia mentalità del dopo guerra influenzata dagli americani. Tu puoi diventare qualsiasi cosa. Basta studiare, lavorare e tutte le strade del sapere ti saranno aperte. Col sapere qualsiasi posizione sociale potrà essere tua.. Questa mentalità basata sullo sforzo personale che conduce alla ricompensa fa aqua da tutte le parti. Specialmente oggigiorno.” “Allora come fai a sapere tutte queste cose, se non hai fatto un corso per studiarle?” “Angela, potresti essere mia figlia. Questo mi autorizza a dirti: ‘Non essere stupida!’ A scuola non impari molto solo scaldando la sedia ed ascoltando un insegnate che, specialmente oggi, ha trangugiato a fatica un paio di pagine da un manuale e le riscodella come un robottino ad un gruppo di individui senza iniziativa personale. Il sapere non è un liquido che si può trasferire da un contenitore ad un altro, da un cervello ad un altro. Credimi, serve una vita di esperienza e ricerca interiore in aggiunta alla osservazione critica del lavoro di persone eccezionali per raggiungere un granellino di conoscenza. Per leggere le foglie del tè puoi imparare a riconoscere alcune configurazioni nel fondo della tazza, ma poi è grazie alla tua intuizione che riesci a mettere tutti i data insieme e ricavarne un messaggio, una profezia. Dai, bevi che voglio vedere cosa giace nel fondo della tua tazza” intimò sempre ridendo ma con tono leggermente autoritario Dina. Angela bevve tutto d’un fiato quel liquido caldo che Dina chiamava tè. Era verde scuro, terribilmente amaro, leggermente disgustoso.
“Puah, che razza di tè è questo, Dina?” chiese con la bocca atteggiata al disgusto Angela. “Tè verde. Fa bene. Disintossica l’organismo. Hai finto di bere? Non lasciare alcun liquido nella tazza altrimenti la formazione del disegno delle foglie nel fondo viene alterato ed è difficile da leggere.” disse seria Dina. Angela bevve un altro poco ed esaminò con cura il fondo della tazza. “Finito. La purga è finita. Fa una bella lettura Dina almeno non avrò sofferto inutilmente” disse ridendo Angela. Dina le prese la tazza dalle mani, infilò gli occhiali e cominciò ad esaminarla attentamente. arono alcuni minuti. Nessuna parola da Dina. Angela ormai impaziente la sollecitò “Forza, dimmi. Morirò domani?” Dina la guardò seria e le disse: “Non si scherza con la divinazione, Angela. Stiamo trattando con cose molto serie.” Dopo una breve pausa aggiunse: “C’è stata una grande tragedia nella tua vita. Il tuo cuore deve ancora distaccarsi dal dolore.” Angela ormai seria la guardava perplessa. “Il tradimento di Carlo? È questa la tragedia? Lo so, ionon riesco a lasciarmelo alle spalle come dovrei..” “No Angela. Si tratta di qualcosa molto più serio. Di una vera tragedia.” Angela continuava a fissarla incredula. “La mia vita è molto banale, quasi insignificante. Non riesco a pensare a nessuna vera tragedia, a dire il vero.” Dina continuava a fissare il fondo della tazza. “C’è acqua. Molta acqua. Mare, no fiume. Ma si, c’è anche il mare. Oh, mio Dio. Doppia tragedia.” Il viso rannuvolato Dina aveva smesso di parlare ed ora sembrava preoccupata, molto più che preoccupata. Sembrava quasi angosciata.
“Che c’è Dina, parla.Non tenermi in sospeso. Di che tragedia, tragedie stai parlando. Io nonriesco a seguirti.” “Angela, vedo una vettura nel fondo del mare, no è un fiume. Il fiume di una città grande. Vedo te in abito funebre.Ma ecco che tu stai dentro una bara ed il corteo funebre è per te. Ti vedo nella bara.. no, non sei tu.. Si tratta di una donna, ti somiglia molto, ma non sei tu..” “È la mia morte che stai vedendo? Morirò presto?” chiese Angela mentre un brivido le percorreva la spina dorsale. “Non lo so Angela, ma non penso che si tratti di te. Eppure … Non sono sicura. È tutto molto confuso.È come se si trattasse di un film dove tu stai doppiando qualcun’altro o viceversa, non capisco bene.Aspetta, rivedo il funerale di questa donna che ti somiglia. È un lungo corteo funebre ed alla testa ci sono un uomo ed una donna non tanto giovani. Devono essere parenti. Entrambi sono di giovane media età. La donna ha un aspetto austero, il volto severo, le labbra serrate. Elisabetta. Si chiama Elisabetta. L’uomo sembra molto stravagente. È alto, magro molto magro, coperto da una tunica a metà tra l’orientale e la tunica di un frate. Uh, un tipo strampalato. Raimondo. Si chimama Raimondo. Ha i capelli lunghi, lo sguardo assente.. Aspetta.. non vede. Non vede quasi niente. L’uomo è cieco. Non totalmente, ma vede molto poco. Si tengono per mano questi due, devono per forza essere parenti. Sembrano accomunati dal lutto. Una lunga coda di gente silenziosa segue il feretro fino al cimitero. Oh, le direzioni sono in se. Siamo in Francia. Aspetta, riconosco le strade, vedo la Senna in lontananza. È Parigi. Siamo a Parigi!” Angela seguiva le sue parole col fiato mozzo. “È il mio funerale?” ripetè Angela attonita. “No, no, non ti preoccupare. Non è il tuo funerale, almeno posso dirti che non sei tu che vieni seppellita. Eppure è il funerale di qualcuno che ti riguarda molto da vicino. I nomi che ho appena detto ti ricordano qualcuno? Conosci qualcuno che si chiama Elisabetta, Raimondo?” chiese seria Dina guardandola profondamente negli occhi. Angela scosse la testa. “Non conosco nessuna Elisabetta e nessun Raimondo. Sono stata solo una volta a Parigi e non mi è piaciuta per niente. Non riesco a pensare nessun collegamento tra me e la scena che mi hai appena descritto. Non
so proprio cosa pensare. Però posso dirti che qualcosa mi turba in tutta questa storia. Sono sicura che non ho mai incontrato la difunta di cui parli. È difficile dire. La gente muore ogni giorno. Nessuno è più conscio di me di questo fatto. In fondo come patologo esamino cadaveri ogni giorno. Questo funerale di cui tu mi parli in qualche modo mi rattrista molto eppure mi domando come fai a vedere tutto questo nel fondo di una tazza. Come fai ad interpretare quattro pezzetti di foglie di tè in modo tale da ricostruire tutta una scena come quella di cui parli. Come fai addirittura a tirar fuori nomi e descrivere con tanta precisione delle persone che appaiono come fantasmi dal nulla, non so. Come fai Dina?” Dina sorrise mestamente. “Io non faccio niente. La divinazione è un dono naturale. Siamo tutti parte di qualcosa più grande di noi. Sfortunatamente la maggior parte degli esseri umani pensa e ragiona solo dentro parametri molto ristretti. Parametri cheil genere umano si è creato da solo e considera come fissi ed indisputabili. La mente umana è molto limitata se non la liberi dai suoi confini terrestri e la lasci libera di vagare per l’Universo. Pensa alla vita di un essere umano in termini diversi e vedrai che ti si aprirà laconoscenza. Immagina un computer perennemente attivo grazie ad una carica costante di energia.Un computer estremamente sofisticato e sensibile. Ogni essere vivente con tutti i suoi dati particolari ècatalogato nel computer. Ogni persona che ha vissuto scompare nella forma materiale ma lascia i suoi dati ma ancora più dei suoi dati vi lascia le sue emozioni. Basta accedere questo computer di portata così grande che noi non riusciamo neanche ad immaginare ed ecco che il ato ed il futuro si aprono allo scrutinio. Bisogna ricordare anche che ogni vita umana non è un libro a sè, come dicono gli inglesi: nesssun uomo è un’isola. Questo vuol dire che siamo tutti collegati gli uni agli altri, la storia di una persona si intreccia, resta influenzata e si modifica secondo le emozioni, gli eventi e le interferenze di un’altra. Io, per usare le tue parole, non faccio niente Angela. Però milascio aperta alla comunicazione. Le foglie di tè è vero, sono solo un mucchietto di poltiglia verde. Loro non dicono niente, non mi mandano messaggi ultraterrestri. Sono solo un medium attraverso cui io accedo ad una fonte di informazione che mi provvede tutti i dettagli di qualcosa che mi interessa, in questo caso le circostanze del tuo turbamento, il tuo incubo. Io non sono una maga, una strega o una persona eccezionale. Tutti nasciamo con gli stessi poteri. La differenza tra me e gli altri è che io li uso questi poteri ed usandoli li conservo e li mantengo attivi. Le foglie di tè sono i tasti del computer. Io li premo e puff, è come Google, tutto un mondo di informazione mi si apre davanti. Il mio intuito, la miamente analitica poi fa il resto. Quello che mi si presenta davanti è un collage di tutti i dati rilevanti al tuo caso fornitimi dal pseudo Google del computer
dell’Universo. In questo preciso momento ne io ne te sappiamo chi sono questi individui che io vedo nel fondo della tua tazza, perchè seguono un corteo funebre, chi è il morto. Perchè Parigi, perchè hanno un significato strettamente collegato alla tua vita e sono specificamente inerenti al tuo incubo. Sono sicura che se riusciamo a scoprire chi sono questi due, Elisabetta e Raimondo, scopriremo tante altre cose rilevanti al tuo caso.” Angela la guardava a bocca aperta. Non sapeva se prenderla sul serio o considerarla matta. Dina sembrò leggerle nel pensiero perchè si mise a ridere ele disse: “Forza rompi la tua tazza e per il resto della giornata dimentichiamo tutta la faccenda.” “Rompere la mia tazza? Perchè dovrei rompere la mia anzi la tua tazza?” “Non vorrai mica che qualcuno per caso si trovi a bere nella tazza dove tu hai lasciato un pezzo della tua vita e acquisti il tuo problema, ti pare Angela? Ormai in questa tazzasi è infiltrato il tuo incubo ed il mistero della tua vita che devi cercare di risolvere. Altra gente ha altri problemi, non possiamo regalargli anche i problemi di qualcun altro. Tu hai bevuto in questa tazza, vi hai lasciato il tuo DNA e un pezzo della tua anima. Dobbiamo distruggere le informazioni che ci ha rivelato. Da questa tazza dobbiamo progredire verso una ricercapiù sofisticata ed elaborata. Non ti preoccupare,” aggiunse sempre ridendo, “ti ho fatto bere in una tazza di due soldi. Ne tengo una dozzina nella credenza proprio per questo genere di occasioni. Costa proprio poco. Non è porcellana. Dai rompila.” Angela con riluttanza accettò il ragionamento e chiese con aria smarrita: “Dove la rompo, la sbatto per terra?” “Si, buttala giù sul pavimento con forza, andrà in mille pezzi. Stai tranquilla le piastrelle sono forti. Poi prendi la scopa e spazza via i cocci. Li mettiamo in una busta di plastica e li l lasciamo al centro di raccolta più tardi quando andiamo in città.” Angela fece come intimato e poi tornò a sedersi. “Posso avere una tazza di caffè adesso. Dopo questa esperienza sento che ne ho proprio bisogno!”
Dina si alzò velocemente dalla sedia e muovendosi con grazia mise sul fuoco una caffettiera Bialetti. Presto il profumo del caffè riempì la casa. L’alba cominciava ad inondare di luce soffusa lastanza. Dina trafficava intorno al lavandino della cucina mentre Angela assorta nei suoi pensieri guardava lontano attraverso i vetri della grande finestra. La voce allegra di Michela le fece volgere entrambe quasi istantaneamente verso la porta della stanza. “Uuh, che profumo! Il profumo del caffè appena fatto mi fa impazzire di piacere. Mamma, provvedi ai bisogni della tua piccolina. Chi ha bisogno di soldi e potere quando esiste il caffè!” esclamò ridendo Michela mentre con il dorso della mano si stropicciava gli occhi ancora pieni di sonno. “Mia figlia è una drogata!” ribattè ridendo Dina. “Aveva pochi mesi di vita, non voleva mangiare non voleva il mio latte, sputava sulle formule dei neonati. Dimagriva a vista d’occhi quando mia madre ebbe un’idea. ‘Mettiamole un cucchiaino di caffè nel biberon insieme al latte. Chissà forse le piacerà il sapore.’ Wow! Come aveva ragione. Non riuscivamo più a staccarla dal biberon! Da allora cominciò a bere tanto di quel latte, che il sottopeso diventò un problema del ato.” “Ah, ma il latte doveva essere leggermente tinto di caffè” aggiunse alla storia Michela. Dina continuò: “Io sono riuscito a sopravivere le più importanti crisi della mia vita bevendo cappiccini. Se ci fosse la guerra e venissi catturata dal nemico, non ci sarebbe nessun bisogno di torturarmi per estrarre da me informazione. Una tazza fumante di cappuccino mi farebbe cantare come un canarino.” “Abbiamo questo in comune io e Michela, anch’io sono pazza per latte e caffè mescolati insieme. Forse è questo che ci lega in una splendida amicizia, Michela” disse Angela anche lei ridedondo come una bambina, ormai dimenticata dell’incubo notturno. Sedettero tutte insieme al tavolo bevendo caffè mangiucchiandoi dolcetti cucinati da Dina, allegre, quasi felici. Fu Dina che si rese conto ad un certo punto che chiacchierando avevano fatto le
dieci. “Forza ragazzine andate a cambiarvi. Sono le dieci. Dobbiamo andare in città a comprare i regali. Non volete di certo avere un Natale senza regali, forza, forza!” Angela e Michela si alzarono di scatto con aria spensierata e volarono su per le scale. In un battibaleno tutte furono pronte per uscire. Si infilarono nella Jeep di Michela. “Che lusso” dichiarò felice Dina. “Ho un servizio di autista oggi per andare in città. Che donna fortunata che sono!” Il viaggio in città con le strade senza traffico per via del maltempo previsto nel pomeriggio e con Michela che faceva la spavalda al volante e le faceva scivolare lungo i sedili ad ogni curva presa ad alta velocità fu molto breve. “Tu sei matta. Tu sei un pericolo per la strada. Come scendiamo ti consegnamo alla polizia. Se riusciamo a sopravivere la tua guida incoscente, il che è tutto dire!” Dina urlava alla figlia ma sempre ridendo. Parcheggiarono al centro e quando scesero dalla vettura, Dina scapigliata, ansante e con il giacchetto di traverso, Angela con le gambe tramanti ed il cappellino di sghimbecio decisero di separarsi così che ognuna di loro poteva scegliere con calma i regali per le altre. Si sarebbero riunite dopo due ore davanti a Subway per uno spuntino ed una tazza calda. Ognuna di loro si avviò verso una direzione diversa. L’eccitazione di Natale, l’entusiasmo dei regali da comprare eil sentimento di attesa per la sorpresa dei regalida riceverele fece avanzare verso i negozi a o lesto. Michela sapeva già cosa comprare, Dina sapeva che avrebbe scelto cose pratiche e calde dal rinomato negozioche tutti sapevano offriva buona qualità a prezzi ragionevoli, Angela non aveva idea cosa avrebbe comprato e si lasciava affascinare da ogni vetrina colorata ed addobata con fantasia. ‘Se potessi comprare un folletto che esaudisce i nostri più segreti desideri!’ si disse, ‘Lo farei volentieri. Chissà cosa sceglierebbe di avere Michela, io so di sicuro cosa vorrei. Dina, non sono sicura. Sembra una donna appagata e contenta
di quello che ha. Forse una palla di cristallo per divinare il futuro, ma chissà se l’accetterebbe volentieri. Non sembra molto interessata al futuro ma piuttosto decisa a fare del presente il meglio che può. Ah, come sarei stata più felice se Dina fosse stata mia madre!’ Dopo due ore di vagabondaggio e ricerca si ritrovarono, piene di pacchi e pacchetti, di fronte al caffè. Entrarono e si diressero verso un piccolo tavolo di fronte alla vetrina. “Da qui possiamo osservare la gente che a e fare commenti su di loro come quando eravamo bambine” disse Michela. “Io ero sempre interessata nei loro vestiti, cappelli. Osservavo tutto poi andavo a casa e chiedevo a mia madre di riprodurre con la sua vecchia macchina da cucire l’ultima moda indossata dalle altre. Che peste devo essere stata da piccola!” Poi, rivolta ad Angela: “Mia madre, una santa. Io e Corrado non abbiamo mai avuto idea di quanto eravamo poveri. Ci aspettavamo ogni nostro desiderio di essere esaudito in quattro e quattro otto. La cosa incredibile è che generalmente lo erano. Tutt’oggi ancora non riesco a capire comeha fatto mia madre, da sola, a farci crescere pensando che eravamo come gli altri. Che potevamo sognare, chiedere ed ottenere tutto quello che volevamo.” “Tua madre è una donna eccezionale. Te l’ho sempre invidiata. Come hai fatto, Dina, a tirare su da sola senza un lavoro sicuro queste due pesti dei tuoi figli?” chiese Angela sorridendo alla donna che ammirava tanto e che ora era intenta a godersi una tazza di cioccolato fumante strapieno di panna. Dina si mise a ridere.“Con l’aiuto della Provvidenza, Angela. E tanto, tanto amore per i miei figli. Avrei fatto qualunque cosa per loro. Erano la mia vita. Lo sono ancora.” Ed aggiunse con una finta smorfia di raccapriccio: “Anche se li avrei scambiati volentieri con altri.” Michela scoppiò a ridere.“Non credere una parola di quello che mia madre dice, Angela. Posso andare al limite della mia memoria, tutto quello che ricordo è il sentimento di amore che veniva fuori da mia madre, verso noi figli. Persino quel discolo di Corrado ricorda mia madre ancora oggi come una fonte inesauribile di amore e comprensione. Noi figli potevamo fare e dire qualsiasi cosa, nostra madre avrebbe continuato ad amarci con lo stesso entusiasmo e la stessa intensità. Io e Corrado lo sapevamo bene, l’abbiamo sempre saputo e qualche
volta, direi spesso, ce ne siamo anche approfittati.” Questa volta fu Dina che scoppiò a ridere. “Ah, i figli. È il bene più prezioso che noi donne abbiamo, e molte di noi non se ne rendono conto. Le giovani donne, oggi, vogliono una carriera, possessi materiali, la pelliccia anche ecologica, la vettura, una bella casa fornita di tutti i comfort, se possibile anche una seconda casa. Alla fine della vita terrena ambizione e possessi materiali non contano. Tutto quello che resta di un essere umano sono gli affetti, i sentimenti dati e ricevuti. Mia madre era una donna semplice,dominata dal marito, incapace di agire dietro un suo sentimento o volere. Una donna moderna direbbe oggi che era una donna che non aveva niente. Quando alla fine della sua vita intorno al suo letto di ospedale ha visto noi figli radunati intorno a lei, ha sorriso e detto: ‘Non piangete per me. Sono stata una donna fortunata. Ho avuto figli che mi hanno amato. Ho dato e ricevuto amore. È tutto quello che conta nella vita. Non piangete per me. Sono stata una donna fortunata!’ ” Angela si fece tristepensando come sempre al rapporto così diverso che lei aveva con sua madre. Istintivamente si portò una mano alla fronte. Dina se ne accorse. “Continui ad avere mal di testa? Angela, ascoltami, vai da un dottore. Questi incubi che hai quasi ogni notte non sono normali. Devi avere un problema di salute. Non lasciarlo sviluppare indisturbato. Fai qualcosa.” Michela aggiunse: “Conosco uno psichiatra. È giovane ma già molto bravo.” Tirò fuori dalla borsa una penna e scrisse un nome ed un numero di telefono sulla salviettina del caffè. “Chiamalo, digli che sei mia amica. Ti vedrà subito. Fidati di lui e di quello che dirà. Sono sicura che potrà aiutarti.” Angela annuì seria. Dina continuava ad osservarla da dietro la tazza ormai mezza vuota del cioccolato.
“Tu non sei felice, Angela. Alla tua età è un delitto. Dimentica quel Carlo uomo indegno che hai sposato. Non piangere sul latte versato. La vita continua e probabilmente sarà molto meglio di quella che hai lasciato alle spalle. Carlo non era un grande uomo, non ti amava abbastanza. Tu sei una donna attraente, intelligente, incontrerai qualcuno più degno di te.” Angela sorrise mestamente. “Ho quanrant anni e più, chi vuoi che si innamori di me?” “In fondo non è vero che tua madre non trovato Roberto alle soglie dei cinquant’anni?”chiese tranquilla Dina. “Si, ma io non sono mia madre. Gli uomini sono sempre stati affascinati da lei. A me, hanno sempre dato uno sguardo di sfuggita.” “Perchè non erano gli uomini giusti. Prima o poi troverai un uomo sincero che ti amerà profondamente e sarai di nuovo felice.” “Come fai ad essere così ottimista, Dina.” “Oh, io conosco il futuro” esclamò ridendo la madre di Michela. “Mia madre è convinta di tante cose. Ha persino predetto che mio fratello sposerà una Vietnamita. Ogni Natale che a aspettiamo di vederlo tornare a casa con una piccola donna minuta, con i capelli neri lucenti raccolti in una coda di cavallo ed i denti perfetti. Forse domani sarà il Natale giusto. Il mio se non è ancora perfetto, ma ci sto lavorando sopra.” Tutte loro scoppiarano a ridere. “A propostio” disse Angela “come hai trovato le isole Mauritius? Come erano gli uomini?” “Oh, quelli” disse Michela. “Mia figlia è una conquistatrice e divoratrice di uomini. Ma un giorno troverà quello giusto, lascerà il lavoro e si trasformerà in mamma chioccia.” “Si, aspetta e spera. A proposito Angela, hai notato quel giovane biondo alle tue
spalle? Non è bellissimo? Chissà se è libero!” “Ah, uomini, uomini. Viva la gioventù” disse Dina depositando la tazza ormai vuota sul tavolino di marmo. “Forza ragazze, andiamo a casa. Abbiamo così tanto da preparare per stasera. Basta con le chiacchiere.” Dina e Michela cominciarono a radunare le loro compere. Dina si aggiustò la sciarpa intorno al collo, Michela la mano destra tra i capelli cercava con gli occhi il riflesso della sua immagine nello specchio di fronte mentre con dita agili tentava di rivatilizzare lo stile dei suoi capelli. Fu attraverso lo specchio che si rese conto del fatto che Angela al contrario di loro due era rimasta seduta immobile. Si voltò di scatto verso l’amica con l’intento di incitarla a muoversi ma quello che osservò non fu quello che si aspettava di vedere. Angela aveva il volto girato nella direzione opposta al loro tavolino e sembrava paralizzata. Stava continuando a fissare nella direzione del giovane che Michela aveva indicato e sembrava quasi petrificata. “Wow!” Michela non potè fare a meno di commentare. “Sei stata colpita dal fulmine? Quel ragazzo deve avere formidabili poteri di attrazione. È questo l’amore a prima vista di cui i romanzetti rosa parlano tanto?” Il viso allegro di Michela subito cambiò espressione. Qualcosa non andava. Tanto per cominciare l’uomo non stava guardando nella loro direzione. Angela poi non rispondeva ai suoi commenti. Sembrava congelata in una posizione inconsueta, senza quasi dare segni di vita. D’istinto Michela si chinò verso Angela e la scrollò leggermente per le spalle. “Angela, parla. Cosa c’è? Che è successo? Ti senti male?” Angela lentamente si girò verso Michela e senza parlare cominciò a fissarla con uno sguardo da idiota. Michela si spaventò. “Mamma, Mamma. Angela sta male.”
Dina, intenta a tenere insieme i manici delle varie buste contenenti i preziosi regali di Babbo Natale si girò alerte. Notò immediatamente l’espressione vacua di Angela e capì che qualcosa di serio molto serio era successo. Il viso di Angela era bianco come un lenzuolo, la bocca semiaperta, lo sguardo assente. “Non la scuotere,” intimò immediatamente alla figlia. “Non la toccare. Può trattarsi di un attacco di cuore. Corri al banco e fatti dare un caffè nero. Vai subito, non perdere tempo.” Mentre Michela correva via verso il centro del negozio, Dina avvicinò la sua sedia a quella di Angela, le prese una mano tra le sue e cominciò a parlarle con voce suadente. “Angela sono Dina, la mamma della tua amica Michela. So che ti senti poco bene ma cerca di parlare. Cerca di dirmi se senti dolore e dove. Riesci a vedermi? Mi senti? Angela muovi un dito della mano, stringi la mia, fammi sapere in qualche modo che avverti la mia presenza.” Michela era tornata con una tazza di caffè e quasi in stato di allucinazione lo stava porgendo ad Angela. La mamma l’interruppe con autorità. “Michela mettila sul tavolino davanti ad Angela. Allunga il caffè con un poco di acqua fredda. Non può berlo subito bollente com’è.” Mentre le due donne trafficavano con questa tazza di caffè, Angela aveva ripreso colore e cominciava a muovere gli occhi. Quando Dina ed Michela si girarono di nuovo verso di lei Angela le stava fissando. Le pupille si muovevano ed avevano ricominciato a mostrare interesse per l’ambiente circostante. Il volto era ancora immobile. La bocca si era richiusa perdendo quell’aspetto di allucinazione che aveva assunto solo pochi minuti prima. “Angela!” Esclamarono quasi contemporaneamente le due donne. “Angela, ti senti meglio? Cosa ti è successo?” Angela continuava a guardarle senza rispondere. Sembrava incapace di profferire parola. Michela cominciò a non darle tregua.
“Conosci quel ragazzo? Ti sei innanmorata come l’hai guardato? Parla. Ti sei sentita un tuffo al cuore? Hai avuto una fitta allo stomaco? Cosa è successo?” Dina rimproverò la figlia. “Michela smettila. Se non ha ancora avuto un infarto lo avrà adesso sotto il peso di tutte le tue domande. In un’altra vita facevi parte dell’Inquisizione Spagnola!” Michela tacque istantaneamente. Nella pausa di silenzio che seguì si udì appena la voce flebile di Angela. “Sto bene, non vi preoccupate, Non mi fa male niente.” Dina la scrutava attentamente. Michela rossa in viso e con l’aria preoccupata come se una malattia fosse stata un’alternativa migliore, domandò con voce esitante “Ti sei innamorata?” Angela guardando di fronte a se in lontananza con un filo di voce rispose imibile: “Ho appena visto un fantasma.” Michela guardò la madre con aria pensierosa. Il suo sguardo diceva quello che la bocca taceva. ‘Angela è diventata scema. Cosa facciamo adesso?’ Dina calma come al solito non sembrava per niente turbata dalla rivelazione inaspettata. Gentilmente e come se vedere fantasmi fosse la cosa più naturale del mondo chiese serena: “E com’era questo fantasma?” “Esattamente come me,” replicò con voce tremula Angela. “Esattamente come me.” Michela si lasciò sfuggire una risatina nervosa: “Troppo stress. Troppi pensieri negativi. Devi rilassarti e dimenticare Carlo ed il suo abbandono. Vedi, il tuo cervello comincia a dare i numeri.” L’occhiata severa della madre interruppe la sua tiritera. Dina tranquilla si rivolse ad Angela con un sorriso disse: “Nella parete di fronte al nostro tavolo c’è quello specchio enorme dove tutto viene riflesso. Probabilmente hai visto la sagoma della cameriera che ava tra i tavoli col
grembiulino bianco e ti ha dato l’impressione che si movesse tra i clienti come un fantasma. Sagoma leggera ed informe. Ti sei confusa per un attimo, Angela. Può capitare a tutti, specialmente quando siamo stanchi e giù di morale. Guardati bene intorno. Nessun fantasma, Angela.” Angela con gli occhi sbarrati e le mani sudate e tremanti ripetè convinta: “Ho visto un fantasma. Era qui pochi minuti fa ed ora se ne è andato. Dina cominciava a perdere il suo sorriso, Michela le mani tra i capelli bisbigliò alla madre: “Dovremmmo chiamare un dottore. Ovviamente Angela non sta bene.” La madre l’interruppe con un gesto della mano. “Dimmi Angela, dimmi esattamente dove era questo fantasma e cosa faceva.” “È entrato, si è diretto verso il banco ma poi si è girato verso di me e mi ha sorriso!” “Bene,” esclamò sollevata Michela, “un fantasma amichevole. Non c’è niente da temere allora. La prossima volta che lo vedi, se lo vedi di nuovo, avvertici subito che lo salutiamo anche noi.” La risata argentina di Michela risuonò solitaria nel salone del negozio. Dina continuava a fissare il volto bianco di Angela. “Perchè dici che era esattamente come te? Cosa te lo fa pensare?” “Il suo volto. Aveva i miei connotati, o quasi. Mi somigliava molto. Era una donna di trenta, trentacinque anni, vestita molto elegante anche se in maniera eccentrica. Indossava una tunica ampia arricciata in vita, quasi un peplo dell’antica Grecia e sopra una cappa di ermellino. I capelli erano spartiti al centro e raccolti sulla nuca. Era come osservare me stessa in un’altra epoca. Quando si è girata verso di me e mi ha sorriso l’ha fatto come se mi conoscesse da sempre. D’improvviso si è toccata la fronte con la mano destra, un gesto che mi è così abituale e con aria triste mi ha girato le spalle ed è svanita tra la gente.” Dina e Michela la osservavano in silenzio. D’improvviso Dina si voltò verso Michela e la guardò assorta come per dire ‘Non ho la minima idea di cosa sta succedendo ma sarebbe meglio non contraddirla. Almeno finchè non si riprende dall’esperienza.’ Michela per la prima volta in vita sua non sapeva cosa dire. Annuì col capo e rivolse la sua attenzione verso i pacchetti natalizi che nel
trambusto si erano sparsi intorno al tavolo. Dina si avvicinò ad Angela e con aria frivola disse: “Sarebbe meglio sbrigarsi. Sta scendendo la notte ed abbiamo tante cose da fare. Forza Angela usciamo da qui. L’aria fresca ti farà tornare un poco di colore sulle guance diafane. Forza infilati il cappotto, raccogli le tue compere.” Angela le ubbidì prontamente come se la voce di Dina avesse rotto l’incantesimo che l’aveva stregata e le banalità della vita quotidiana fossero più importanti di ogni altra cosa. Si rivolse con trepidazione alle due donne: “Dio mio è Natale e dobbiamo ancora preparare la cena della vigilia.” Dina rise. “Lascia le preoccupazioni a me. Io ho avuto figli, tu no. Sono più preparata di te a gestire le situazioni impreviste. Non ti preoccupare, andiamo a casa e tutto sarà perfetto.” Il suono del suo telefonino interruppe i gesti delle donne. Dina pescò con la mano decisa in una delle tasche del suo cappotto e tirò fuori un telefonino ricoperto di fiori e farfalle. “Pronto? Si. Corrado, figlio mio. Dove ti trovi? Vieni a casa per Natale? No, mi trovo con Michela ed Angela, ti ricordi Angela, l’amica prediletta di tua sorella? In un caffè del centro. Siamo venute in città per le compere natalizie. Che fai, vieni stasera? No, no. Va bene. Sei solo? Si, certo eremo la giornata in casa. Non c’è bisogno che mi chiami. Quando arrivi vieni direttamente. Ciao amore mio. A presto.” “Corrado viene per Natale?” chiese incredula Michela con un sorriso che poteva illuminare la notte più buia. “Non è sicuro. Si trova all’aereoporto ma ci sono ritardi e cancellazioni. Spera di venire domani in giornata. Non sa a che ora. Mi richiamerà appena ha notizie. Angela, ti ricordi Corrado, vero?” Angela distolta dai suoi pensieri angosciosi sorrise di rimando a Dina: “Come no, il ragazzo più fascinoso che ho mai conosciuto ed il più ritroso. Mi ricordo le ragazze pendevano dalle sue labbra qualsiasi cosa dicesse e lui con aria tranquilla ed indifferente non le guardava nemmeno. È rimasto lo stesso anche dopo tutti questi anni?” “Sempre lo stesso, tenebroso e solitario. Tutto il contrario di Michela!” rise di cuore Dina.
Le tre donne divenute d’improvviso allegre con aria indaffarata raccolsero tutte le loro cose. Michela si diresse al banco e pagò il conto. Mentre uscivano dal negozio Michela pescò dalla borsa le chiavi della macchina e con aria baldazzosa uscì per prima nella strada, seguita a ruota dalle altre due che con aria frivola e felice facevano commenti sulle decorazioni natalizie dei loro pacchetti regalo. Michela che le precedeva a o lesto si girò d’improvviso e ridendo le incitò ad alta voce: “Forza lumachine. È la vigilia di Natale. Non abbiamo tempo da perdere.” Il suo cuore era lieto e leggero. “Forse quest’anno avremo Corrado tra noi, come regalo di Babbo Natale. Dio mio, che bel Natale.” La sera scendeva umida sulle strade illuminate a festa.
Capitolo 3
Il viaggio di ritorno a casa trascorse lieto e veloce. Nessuna di loro fece più riferimento a quello che era accaduto nel bar. Michela e Dina erano tutte prese dalla notizia che presto avrebbero rivisto Corrado. Angela era contenta di trascorrere il Natale con le donne che ammirava più di ogni altra persona. Quando arrivarano aI sentiero che conduceva alla casa di Dina lo ritrovarano già ricoperto di ghiaccio. Sarebbe stata una notte fredda e nevosa. Perfetta per l’atmosfera di Natale. La casa stessa cominciava ad assumere l’aspetto della grotta di Betlem. Rustica e pendente da un lato com’era, con i primi ghiaccioli che pendevano già dalla gronda, col suo aspetto freddo ed isolato, sembrava voler nascondere al resto del mondo il miracolo di amore e fede che presto sarebbe avvenuto dentro. La fioca luce dell’ingresso era accesa come sempre la lasciava Dina quando andava via per tornare tardi la sera. Sembrava un invito ad andare dentro e trovarvi conforto e una calda accoglienza. La Jeep di Michela si fermò appena all’inizio del sentiero che conduceva alla casa. “Non avanzare troppo. La jeep potrebbe rimanere sommersa dalla neve e sarebbe impossibile farla tornare sulla strada. Camminiamo, non ti preoccupare che non ci bagnamo i piedi. Portiamo tutte gli stivali, non sarà un problema. Ad una ad una, Dina prima di tutte loro, stracariche di pacchetti le donne lentamente e tra gridolini di finta paura di scivolare sul ghiaccio ormai spesso, entrarono in casa. Si avviarono subito verso la cucina soggiorno salotto e scaricarono le loro compere in un angolo, sotto la finestra che s’affacciava sul giardino. Dina non aveva un albero di Natale. “Chi ha bisogno di un albero natalizio dentro casa? Ce ne sono così tanti in giardino e di sicuro non taglio un albero per farlo morire dentro casa . Usiamo la nostra immaginazione. Mettiamo i regali sotto la finestra e quando li prendiamo guardiamo fuori. Se cadrà la neve, sarà magnifico” aveva detto Dina. ‘Come mai,’ si era detta Angela, ‘anche la più stupida delle osservazioni quando esce dalla bocca di Dina diventa interessante ed attraente? Deve essere la gioia e
l’entusiasmo che prorompono dalla sua bocca mentre parla che affascinano.’ Dina in un battibaleno si era tolta il cappotto, lavate le mani ed indossato il germbiule della cucina. “Forza ragazze, datevi da fare. Apparecchiate la tavola, accendete le candele, quelle grosse Michela devono rimanere accese finchè arriva Corrado e Dio solo sa quando mio figlio ci raggiungerà.” Michela si era girata di scatto verso la madre “Tu hai pensato di comprare un regalo per Corrado? Io no! Non ci ho pensato minimamente, non mi aspettavo che sarebbe venuto e così all’ultimo minuto.” “Non ti preoccupare. Gli puoi dare uno di quelli dell’anno scorso o qualsiasi cosa nella sua camera che ha lasciato indietro le altre volte che è venuto. Non si accorgerà nemmeno che si tratta di qualcosa riciclato. Sai com’è Corrado!” Angela scoppiò a ridere seguita a ruota dalla risata fragorosa di Michela. “Mia madre aggiusta sempre tutto. Ha ragione, Corrado non se ne accorgerà nemmeno. Vive su un altro pianeta lui, un poco come te Angela.” “C’è della carta da regalo nel terzo cassetto in camera mia. Prendi quel pullover di cachemere che gli donasti due o tre anni fa e che non ha mai messo perchè no poteva portarlo con se. Rimarrà contento e soddisfatto. Nessun problema.” “Io non ho niente per lui” commentò seria Angela. “Ma certo che hai qualcosa per lui anche tu, Angela. Nella camera di Corrado, in una scatola sopra l’armadio ci sono tre o quattro pipe. C’è stato un periodo nella sua adolescenza che mio figlio voleva giocare a fare l’Indiano e chiedeva sempre come regalo una pipa. Scegliene una che l’impacchettiamo. Vedrai come sarà felice.” Angela non riusciva a credere alle sue orecchie. “Dina non posso credere che, per quanto Corrado sia distratto, non si ricordi di niente. Sicuramente riconoscerà che gli oggetti non sono nuovi.” “Angela, Corrado è mio figlio ed io lo conosco come nessuno. A lui non
interessa il regalo in se. È la gioia di aprire i pacchetti pensando che qualcuno si è ricordato di lui che conta. I nostri regali natalizi saranno apprezati non per il loro contenuto ma perchè è un modo come un altro per fargli sapere che gli vogliamo bene, che siamo felici che è venuto per Natale. Il trucco non funzionerebbe con Michela. Mia figlia si ricorda di ogni particolare e rimarebbe male all’idea che la stiamo prendendo in giro. Corrado è un’altra cosa. È l’essere meno materialista che esiste sulla terra. Gli potresti incartare in confezione natalizia un pugno di fango dal giardino e lui rimarrebbe incantato del pensiero. Credimi, non si ricorderà di niente ed anche se dovesse avere un sospetto che gli stiamo regalando qualcosa che gli avevamo già regalato tempo fa, non se ne curerebbe minimamente. Quello che gli interessa è il nostro affetto, niente altro.” “Mia madre ha ragione,” esclamò ridendo Michela. “Angela, non ti azzardare mai a fare una cosa del genere a me. Ti detesterei per la vita. Corrado è qualcosa di diverso. Per questo lo adoriamo.” La tavola imbandita non poteva essere più invitante. La tovaglia natalizia di Dina, rossa bordata di giallo, i bicchieri decorati a mano da Michela e Corrado quando erano bambini, alcune bottiglie di spumante, noci, datteri, fichi e mandarini sparsi qui e là. Il profumo dell’arrosto a rosolare nel forno inondava la casa con un aroma delizioso. Era Natale. Natale a casa di Dina. ‘Come sono contenta di trovarmi qui’ pensò ancora una volta Angela mentre alcune lacrime le scendevano silenziose lungo le guance arrossate dal freddo. Dina aveva messo sul vecchio giardischi una serie di canzoni natalizie. “Jingle bells, jingle bells,” canticchiava Michela mentre sistemava i piatti per la cena sul tavolo. Presto fu ora di cena. Si sedettero allegre, Dina di fronte ad Angela, Michela a capotavola. Mentre Dina riempiva i piatti con carne e verdura, Michela riempiva i capaci bicchieri con vino rosso e speziato. “Lasciamo lo spumante per più tardi. Forse Corrado sarà qui per mezzanotte,” Michela disse a scusare il fatto che non aveva aperto le bottiglie di spumante. “Uh, non ci conterei troppo se fossi in te. È pur sempre la vigilia di Natale, tra poco tutto si fermerà. Sarebbe un miracolo se Corrado fosse qui per mezzanotte. Ma c’è una buona possibilità che lo vedremo a colazione. Io non mi lamento. Non me lo sarei mai aspettato comunque. Vedo sempre mio figlio col
contagocce. Ogni volta che viene è solo per pochi giorni, devo assorbire ogni cosa di lui come un elisir. I ricordi di poche ore mi devonno bastare per mesi, a volte anni. Ma così è la vita, non mi lamento. I figli non sono creati per le madri. Sono pur sempre una donna fortunata. Ci sono mamme che perdono i figli ogni giorno. C’è sempre una dannata guerra qui o là per il mondo. Corrado poi, col lavoro che fa, non è mai in grado di programmare le sue vacanze. Beh, pazienza. Evviva Natale. Questa volta lo festeggeremo tutti insieme. Allegria, allegria,” quasi gridò Dina presa dall’emozione. Michela mise una mano su quella della madre in un gesto affettuoso ma non disse una parola. La gioia di rivedere presto il fratello era troppo anche per il cuore infantile di Michela. Tra una risata e l’altra, un commento spiritoso e l’altro il tempo ava. Angela e Michela facevano a turno ad informare Dina delle ultime dicerie dell’ufficio. “Lo sai Mamma che l’anno scorso la polizia ha arrestato un milione di bambini ed adolescenti per quelli che una volta erano considerati solo scaramucce tra bambini? Alcuni sono stati arrestati solo per avere chiamato un compagno qualcosa stupido come “topo velenoso” o “testa di zucca.” Ridicolo, assolutamente ridicolo. Con questo atteggiamento la polizia sta invitando i ragazzini a diventare delinquenti sul serio. Arrestare un bambino per una parolaccia, un insulto o uno spintone? Non riesco a crederlo, ma è esattamente quello che sta succedendo.” “Quando voi eravate piccoli,” commentò Dina, “bastava separare i due litiganti e invitarli a sciaquarsi la bocca col sapone! Dopo due minuti i litiganti avevano già dimenticato tutto. La società sta diventando un manicomio ambulante. Povere le future generazioni! È tutta colpa dei governanti che eleggiamo. Li scegliamo solo in base ad interessi economici personali, senza tener conto di principi o ideali sociali. Finiremo in una società autoritaria, senza fantasia, senza individualismo. Che tristezza! Fortunatamente per me tra pochi anni io sarò morta. È il futuro dei miei figli e di tutti i giovani del mondo che mi fa venire la pelle d’oca. Povere generazioni future. Tu sei fortunata Angela a non avere avuto figli. Niente preoccupazioni o dolori. Credimi, il futuro sarà assai triste per tutti quelli che si troveranno a viverlo!” “Non per i ricconi e quelli appartenenti al club di elite. Per loro la legge non esisterà. Faranno i loro porci comodi come e quando vorranno e piegheranno le
regole a loro piacere. È sempre stato così e sempre sarà. Con la differenza questa volta che non ci sarà più la classe medio borghese. Solo ricchi e poveri. E Cristo, i poveri se la vedranno veramente brutta!” commentò con aria triste Michela. “Non bestemmiare, proprio la vigilia di Natale,” la rimproverò dolcemente Dina. “Forza, abbiamo tre bottiglie di spumante, apriamone almeno una. Forse questo è l’ultimo Natale che possiamo permettercelo,” commentò ridendo Dina. Michela afferrò la bottiglia più vicina, prese un tovagliolo e stringendolo intorno al collo del vetro cominciò ad armegggiare per farlo esplodere. “Attente, attente. Tra poco esploderà.” Buum! Lo spumante rotolò fuori dalla bottiglia mentre i bicchieri di Dina ed Angela tintinnavano attaccati al vetro. Michela riempiva i bicchieri ridendo. “Evviva, è Natale. Gioia e felicità a tutti e specialmente a noi.” Era quasi mezzanotte, era Natale, mancava solo Corrado.
Capitolo 4
Stanche e leggermente inebriate Michela ed Angela cominciavano ad avere l’aria stupidina di chi ha dimenticato almeno temporaneamente tutti i suoi problemi e tra breve cadrà in un sonno profondo e liberatore. Dina era alerte come sempre. Mentre le ragazze continuavano a scambiarsi battute spiritose e leggere lei si era rimessa il grembiule di cucina ed aveva cominciato a lavare i piatti. “Mamma,” aveva cominciato a rimproverarla Michela, “È Natale! Lascia perdere. Siediti di nuovo con noi. Bevi un altro bicchiere. Potrai riordinare tutto domani mattina. Stai con noi adesso. Dai!” ed aveva steso il braccio verso la madre come per attirarla a loro. Ma la mente di Dina vagava lontano, troppo lontano per farla rimanere seduta al tavolo e scherzare con loro. “Corrado, figlio mio! Dove sei adesso? Sbrigati, che voglio vederti!” Due anni erano ati dall’ultima volta che era venuto. Due lunghissimi anni. Una telefonata ogni tanto, un filo sottile di comunicazione spesso interroto dal sibilo dei bombardamenti, da voci straniere indecifrabili, da suoni lontani ed avversi. Tra poco Corrado sarebbe stato tra loro. L’emozione di rivedere suo figlio le faceva tremare le gambe, la prendeva alla gola. Fu Michela la prima ad annunciare con voce squillante: “Io vado a dormire. Comincio ad avere sonno. Tu che fai, Angela? Vieni anche tu sopra?” Angela con uno sbadiglio aveva risposto: “Si, sono stanca e vado a dormire anch’io.” “Andate ragazze. Io resto ancora un poco a riordinare poi vi raggiungo. I vecchi hanno meno bisogno di dormire forse perchè sanno inconsciamente che il tempo rimasto loro è ormai poco e non vogliono sprecarlo a dormire,” aveva detto ridendo Dina. La verità era un’altra. Sperava tanto che Corrado sarebbe stato presto lì, prima di colazione. Anche se solo per alcuni minuti voleva e sperava di averlo tutto per se. Lei sarebbe rimasta lì ad aspettarlo, seduta su quella sedia a dondolo che tante volte l’aveva vista cantargli ninna nanne inventate al momento mentre lui con gli occhi sbarrati continuava a guardarla in silenzio privo di sonno.
Erano le due ate quando, dopo averla aiutata a sparecchiare la tavola, Michela ed Angela si erano avviate al piano di sopra per andare a dormire. Dina aveva cambiato la tovaglia, sistemato i piatti per la colazione, nuove candele e si era seduta a lavorare a maglia. Stanca ma senza una briciola di sonno. Le tre, le quattro, le cinque, di Corrado nessun segno. Aveva sostituito le canzoncine di Natale sul giradischi con la radio sommessa. I bollettini meterologici le tenevano compagnia. Neve e ghiaccio, strade affollate da gente che cercava di raggiungere la famiglia in tempo per il pranzo di Natale. La testa poggiata sullo schienale del dondolo e gli occhi che cominciavano a chiudersi di tanto in tanto, Dina aspettava paziente e trepida. D’improvviso le sembrò di avere udito un fruscio alla porta d’ingresso. Accese la lampada nell’angolo, si aggiustò lo scialle sulle spalle, mise un altro logo di legna nel camino. Raggiunse la soglia della cucina, lo sguardo puntato sulla porta d’ingresso. Un altro fruscio indistinto le colse l’orecchio. ‘È Corrado!’ si disse lieta. A i veloci avanzò verso la porta, le si strusciò contro e bisbiglio tremante. “Corrado, sei tu?” “Mamma, non riesco a trovare le chiavi. Aprimi, per favore!” Dina spalancò la porta con slancio e in un battibaleno si trovò tra le braccia del figlio. Nascose il volto sul bavero freddo dell’impermeabile di Corrado, attenta a celare le lacrime di gioia. Si riprese subito, allontanò il viso dalla sua spalla e facendosi leggermente indietro per guardarlo meglio con un sorriso tremulo esclamò delusa: “Figlio mio, come sei dimagrito! Cosa ti è successo, stai bene?” Corrado scoppiò a ridere e la rassicurò baciandola su una guancia. “Sto bene, Mamma chioccia. Sto bene.” Dina lo strinse di nuovo tra le braccia con ardore quando un suono indistinto catturò la sua attenzione. Al lato destro di Corrado un paniere era posato a terra.
“Cos’è? Hai un animaletto, lì dentro? Cos’è questo rumore?” Avvertì un leggero imbarazzo nella voce del figlio quando sottovoce le bisbigliò in un orecchio: “Non sono venuto da solo. Spero non ti dispiacerà.” Dina si chinò attenta. Con una mano leggera scoprì il telo rosso che ricopriva il cestino e quasi svenne per la sorpresa. Sotto vari strati di copertine c’era un bambino lì dentro. Un bambino piccolissimo, di pochi mesi di vita. Alzò il volto verso il figlio mentre gli occhi investigatori facevano mille domande senza parole. Corrado aveva dipinto sul volto un sorriso tremulo ma continuava a rimanere silenzioso. Fu Dina a rompere il ghiaccio. Con una risata poco convincente chiese in un sospiro: “Dov’è la madre? Perchè non è con te?” Senza aspettare risposta cominciò a guardarsi intorno pensando che forse la ragazza si era nascosta per uscire all’improvviso a farle una sorpresa. “Non c’è nessuna madre” rispose calmo Corrado. “Sedotto ed abbandonato?” replicò incredula Dina. Il figlio scosse la testa in diniego. Dina aprì di nuovo la bocca per parlare ma nessun suono uscì. Rimase lì sulla soglia di casa a guardare il figlio incredula e trasognata per attimi lunghissimi. Fu Corrado che stanco ed infreddolito le chiese dolcemente: “Mamma, mi fai entrare? Fa freddo.” Le parole del figlio sembrarono scuotere Dina dall’incantesimo della sorpresa. “Oh, mio Dio! Ma certo figlio mio, entra, entra subito.” Fu lei ad afferrare di scatto il panierino col bimbo, a tirare il figlio dentro prendendolo per una manica e a richiudere veloce e silenziosamente la porta di casa.
“Togliti subito quest’impermeabile bagnato,” intimò al figlio. Dina si era ripresa e tornava ad essere la donna pratica di sempre. “Sbrigati, vai in cucina a scaldarti di fronte al fuoco.” Lei seguiva Corrado a ruota, sempre col panierino tra le mani. Lo posò con cura di lato alla stufa. Fu allora che si rese conto della capace borsa da viaggio del figlio. “Madonna santa. Come hai fatto a viaggiare combinato così, col bagaglio ed il bambino? Sarai stanco morto. Vuoi qualcosa da mangiare? Siediti, ti preparo la colazione. Uova e fagioli, come sempre?” D’improvviso sembrò ricordarsi del bambino e chiese sconcertata: “Il bambino mangia?” Corrado di nuovo scoppiò a ridere. “Certo che mangia, Mamma. Ho la formula nel bagaglio. Sono diventato un esperto in nutrizione infantile. Per adesso dorme, lasciamolo dormire.” “È un maschietto o una bambina?” chiese curiosa Dina rendendosi conto di quanto futile era la sua domanda. C’erano domande molto più interessanti nel suo cervello ma voleva lasciare riposare un poco Corrado prima di chiedere i particolari di una situazione imprevista che faceva fatica ad afferrare in tutte le sue ripercussioni. Senza aspettare risposta Dina si affrettò a preparargli la colazione mentre lui si toglieva gli stivali e si scaldava i piedi freddi di fronte alla stufa. “Ti fermi un poco con noi? Michela ed Angela – ti ricorderai certamente di Angela Brandi – sono sopra a dormire. Angela ha preso la tua stanza, non ti aspettavamo per Natale. Tu puoi prendere la mia. Io non dormo un granchè ad ogni modo. Corrado, la testa tra le mani, le appariva stanco, magro, leggermente invecchiato. “Come va il lavoro?” si sorprese a chiedergli, come se si aspettasse l’inverosimile risposta: “Ho lasciato il lavoro per prendermi cura del bambino. Non parto più.”
Ma Corrado rimaneva silenzioso. Fu a quel punto che Dina non ce la fece più a contenere la sua curiosità e le emozioni del suo cuore e si trovò a chiedergli a bruciapelo: “Corrado, hai rapito il bambino dalla madre? Non puoi tenerlo con te. Non so perchè lo hai fatto, ma i bambini devono rimanere con le madri. È la ragazza tanto terribile da non potersi prendere cura del figlio? Non hai fatto la cosa giusta a portarglielo via. Lo sa che stai qui? Che il bambino sta bene?” Ancora una volta Corrado scoppiò a ridere. “Mamma, non è come pensi. Il bambino non è mio. La madre non può tenerlo, è morta uccisa da una bomba. Quasi ai miei piedi. Io ho afferrato il bambino nato da poche ore e nascosto tra le macerie. Quando il bombardamento è finito sono tornato a vedere se era ancora vivo, se si trovava ancora lì. Dormiva tranquillo, a malapena avvolto in uno straccio sudicio. Non potevo abbandonarlo così! L’ho portato alla base, tenuto nella mia stanza. È riuscito a sopravvivere con poche gocce di latte di pecora al giorno. Nessuo sapeva cosa farne. Se non l’avessi tenuto poi sarebbe finito male. Non hai idea com’è la vita in Afghanistan. Mamma, il bambino non era mio ma lo è diventato il momento che ho deciso di assumermene la responsabilità. Non ho lasciato il lavoro e non ho intenzione di lasciarlo. Rimarrò qui una settimana ed in questa settimana cercherò di trovare un orfanotrofio in grado di accoglierlo. Sono sicuro che tu ti saresti comportata come me, che no lo avresti abbandonato ad un destino incerto. Per favore Mamma, aiutami. Ho bisogno del tuo aiuto e della tua saggezza per sistemarlo da qualche parte, per favore.” Dina guardava il figlio mentre lui raccontava la storia e pensava: ‘Figlio mio, che anima nobile che hai! Quanto mi costa vivere lontana da te. È un privilegio essere tua madre. Quanto ti voglio bene!’ “Ah Mamma, quant’è buono il tuo cibo!” disse Corrado mentre mangiava avidamente dal piatto che Dina gli aveva preparato. Ho girato il mondo, non ho mai trovato nessuno che sa cucinare come te. Chi vuole i piatti dei più famosi chefs? Porzioni mingherline, sapori misteriosi. Solo a casa tua le uova hanno il sapore squisito di uova fresche, i fagioli ti lasciano in bocca il gusto denso della campagna. È un bene che vivo lontano altrimenti sarei grasso e rotondo come una palla a causa della tua buona tavola!” “Tu non sarai mai grasso e rotondo come una palla, figlio mio. Non con la tua costituzione. Io e Michela dobbiamo lottare con la bilancia, tu invece sei e
sempre sarai agile e flessibile come un giunco. Lo devi a tuo padre, che bell’uomo che era!” “Ti sei mai guardata allo specchio, Mamma? Tu ti sottovaluti in tutto. Lo hai fatto da sempre.” Dina d’improvviso cambiò discorso. “Il bambino ha un nome?” “Non ancora” rispose vago Corrado. “Oggi è Natale. Perchè non andiamo tutti alla Messa dopo il pranzo e parliamo con Don Giovanni il Parroco? Non possiamo lasciare il bambino senza nome e senza benedizione. Metti caso qualcosa gli capita, non può morire senza battesimo.” “Mamma, che vuoi che gli capiti? Il bambino gode ottima salute altrimenti sarebbe già morto affidato com’è alle mie cure inefficienti. Credimi, non ti preoccupare per lui. Possiamo andare in chiesa se vuoi ma solo per farti piacere.” Tra una chiacchiera e l’altra si erano fatte le otto di mattina. Sopra le ragazze ancora dormivano. Corrado aveva gli occhi arrossati dalla stanchezza ed dal freddo preso la notte prima. “Vai a dormire adesso, Corrado. Vai nella mia stanza. Troverai un tuo pijama dentro il letto. Ho la termocoperta, il letto sarà caldo. Vai, figlio mio. Lascia il bambino qui con me. Se si sveglia gli do un poco di latte. La cucina è calda. Il bambino starà bene qui.” “E tu? Che fai, non vai a dormire?” “Ho dormito mentre ti aspettavo. Lì sulla sedia a dondolo. Ti ricordi Corrado quante notti abbiamo ato lì sopra, io e te, quand’eri bambino e non dormivi? Io sono vecchia e non ho tanto bisogno di dormire come voi giovani. Vai, vai a riposarti un poco. Non fare rumore, cerca di non disturbare le ragazze.” Si abbracciarono stretti e Corrado con lunghi i raggiunse la scala e salì al piano di sopra. Dina ne avvertì i i leggeri scricchiolare sul pavimento di legno.
‘Signore ti ringrazio per avermelo rimandato a casa sano e salvo’ pregò silenziosa Dina col pensiero. Rimasta sola si girò verso l’angolo cucina e cominciò a preparare il caffè. La cucina era calda ed invitante con il suo profumo di cibo genuino e casareccio. Si riempì una tazza grande col caffè e tenedolo stretto tra le mani Dina sedette sulla sedia a dondolo. La testa poggiata sullo schienale si cullava dolcemente persa nei suoi ricordi di madre. In breve tempo si addormentò tranquilla. Era Natale ed i suoi figli erano entrambi a casa. C’era cibo nei piatti, legno nella stufa, chi era più ricco e felice di lei?
Capitolo 5
Fu il sorriso innocente di Michela la prima cosa che Dina vide quando riaprì gli occhi svegliata da un tramestio leggero. “Michela, sei già in piedi? Che fine ha fatto la ragazzina che nemmeno i colpi del cannone potevano svegliare e tirare giù dal letto?” “Mamma è Natale, ricordi? Ti pare che posso rimanere a letto sapendo che qui giù ci sono i regali che Babbo Natale mi ha lasciato?” replicò allegra la figlia. “Oh, mio Dio! Ho totalmente dimenticato i regali!” esclamò contrita Dina mentre Michela era indaffarata a piedi scalzi, capelli arruffati e vestaglia semiaperta sul seno, a recuperare alcuni pacchetti colorati da sotto il tavolo della cucina. “Michela, lo stesso vizio di sempre. Non mi ero nemmeno accorta che tu avevei messo i tuoi regali lì sotto. “Non tutti, solo alcuni extra che avevo portato con me,” rispose Michela. “Quante volte ti ho detto, sin da quando eri piccola, che quello non è il posto ideale per nascondere i regali. Qualcuno seduto a tavola potrebbe allungare le gambe, colpire un pachetto e rovinare la sorpresa. E poi che nascondiglio è quando tutti sappiamo che tu li nascondi lì i tuoi segreti!” Michela scoppiò a ridere di cuore. “Mamma, è il gioco che mi piace, mi fa sentire di nuovo bambina. Mi aspetto dagli altri rispetto per il mio segreto che segreto non è. Angela comunque non conosce il mio nascondiglio, non se ne è accorta minimamente!” Così dicendo Michela cominciò a disporre con cura i suoi pacchetti insieme agli altri sotto la finestra. “Nessuna notizia di Corrado ancora? Non ti ha più telefonato??” chiese con aria indifferente alla madre che sorniona la guardava con gli occhi dolci. “No, conosci Corrado. Non mi ha telefonato per farmi sapere a che ora sarebbe arrivato. Ha fatto meglio di questo. È venuto!”
“Corrado è già venuto?” quasi gridò Michela. “Ssssssst. È in camera mia che dorme. Fai piano, non lo svegliare.” “Urrah!” gridò Michela indifferente all’avvertimento della madre. “Dai facciamo un caffè speciale. Voglio portarglielo io in camera. Urrah! Mio fratello è con noi proprio il giorno di Natale.” Così facendo si mise a piroettare intorno alla stanza quasi calpestando il cestino dove dormiva il bambino. “E questo cos’è?” domandò incerta alla madre. Prima che Dina potesse rispondere Michela aveva già scostato la copertina ed intravisto il bambino che dormiva tranquillamente. Colta di sorpresa si girò con un’espressione di meraviglia verso la madre e dolcemente disse: “È questa una sorpresa? Stavi per allestare il Presepe con tanto di bambinello Gesù nella mangiatoia?” Fu Dina a ridere di cuore questa volta. Fattasi d’improvviso seria e guardando intensamente Michela negli occhi Dina disse: “Corrado lo ha portato con se. La madre è morta sotto un bombardamento ed il bambino era stato abbandonato tra le macerie. Più tardi andiamo da Don Giovanni alla chiesa di Sant’Antonio e lui ci consiglierà cosa fare per il meglio. Sono sicura che troveremo modo dargli una casa e magari farlo adottare da qualcuno. È così piccolo che non dovrebbe essere difficile per lui ispirare tenerezza ed amore in qualcuno che magari non ha figli e vorrebbe tanto un bambino. Michela aveva preso il fagottino tra le braccia ed aveva cominciato a cullarlo. “Dammi un asciugamano vecchio. È bagnato. Togliamogli questi panni sudici e freddi.” Così dicendo aveva cominciato a spogliarlo. “È una bambina!” aveva esclamato con gioia. “Bene. Possiamo vestirla con i miei vecchi abitini da bimba. Come si chiama?” “Non lo so. Non sono sicura abbia un nome” rispose Dina. “Anzi bisognerebbe
battezzarlo, battezzarla al più presto.” “Chiamiamola Alina, versione accorciata di Natalina,” suggerì gioiosa Michela. “Brava. Bel nome” rispose Dina che poi in fretta aggiunse: “Non pensi che Corrado dovrebbe essere consultato sul nome? In fondo è lui che l’ha portata.” “Corrado sarà d’accordo sulla mia scelta. Corrado è sempre d’accordo con tutto quello che faccio e che dico, non ti ricordi? È stato sempre così, sin da quando eravamo piccoli.” “Come no, se mi ricordo. Col tuo sorriso e le tue parole seducenti gli hai sempre fatto fare tutto quello che volevi. Povero Corrado!” esclamò ridendo Dina. Fu a questo punto che girandosi verso la soglia della cucina Dina notò la sagoma di Angela immobile che le osservava con uno sguardo vacuo ancora pieno di sonno. “Angela, sei già in piede anche tu?” esclamò Dina. Michela si girò verso l’amica e disse: “Dormigliona. Guarda, mentre tu dormivi è pasato Babbo Natale e ci ha lasciato il bambinello Gesù.” Angela guardava il fagottino che Michela aveva tra le braccia a bocca aperta. Pallida ed a piedi scalzi, in un pijama troppo grande per lei, i capelli malamente tenuti da un elastichino sembrava lei stessa un fantasma. Un fantasma infelice. “Angela, vieni dentro la cucina che è più caldo qui. Vieni che ti verso un bel caffè. Buon Natale” le disse Dina sorridendo. “Corrado ci ha portato un bambino come regalo di Natale” Michela le disse con un sorriso. “Lo so, ho sentito. Terrifico!” rispose Angela spostando rumorosamente una sedia per sedersi intorno al tavolo. Dina era intenta a riempire tazze con caffè fumante. Michela depositò maldestramente Alina nel cestino e prendendone una si avviò veloce per le scale.
“Lascialo dormire in pace, quel povero ragazzo. Non cominciare a tormentarlo. È appena arrivato!” borbottò Dina sapendo bene che la figlia avrebbe trascurato totalmente le sue parole. “Ah, sapessi come sono contenta, Angela. Questo Natale rimarrà tra i miei ricordi più belli. Non capita spesso di avere entrambi i miei figli qui con me. Mi fa piacere che quest’anno ci sei anche tu co noi. So quanto Michela ti è affezionata. Mi fa piacere pensare che quando io non ci sarò più mia figlia avrà accanto a sè un’amica fedele su cui contare. Michela sembra una ragazzina superficiale ma ha un buon cuore. Ha bisogno di un’amica come te, razionale coi piedi ben piantati sulla terra, qualcuno che le può dare un buon consiglio, farle vedere la ragione….” Un tonfo pesante interruppe il monologo di Dina. Si girò di scatto e vide Angela accasciata per terra priva di sensi. Le corse vicino e le prese delicatamente il polso tra le dita. Nessun battito. “Michela, Corrado,” si trovò a gridare angosciata, con voce stridula. Dina corse al lavandino della cucina, bagnò una pezza, la strizzò in fretta e si mise a massaggiare il volto pallido di Angela come se le asciugasse un sudore che non era lì. Le aprì la vestaglia intorno al petto nel tentativo puerile di farla respirare meglio. Cominciò a schiaffeggiarla leggermente sulle guance, cercò di infilarle in bocca alcune gocce di caffè. Sembrava tutto inutile. Angela sembrava morta. “Aiuto, aiuto, venite presto.” Il primo ad entrare in cucina fu Corrado seguito a ruota da una Michela allibita pallida anche lei come una morta. Non ci fu bisogno di spiegazioni. Angela rimaneva lì in mezzo alla stanza totalmente priva di vita. Corrado si precipitò accanto a lei. Cominciò a darle pugni sulla cassa toracica, provò la respirazione artificiale. Angela non rispondeva a niente. Con gli occhi di fuori Dina mormorò piangendo: “È morta, è morta! Mio Dio, proprio il giorno di Natale, povera
figlia! Michela tu hai il numero di telefono della madre, bisogna avvertire la famiglia!” Michela continuava a fissare il volto senza vita di Angela come un ebete. “Michela!” gridò Dina senza tanta grazia. “Chiama subito la famiglia. Io non so cosa fare!” Michela non si muoveva. Lacrime grandi e silenziose le scendevano lungo le guance. Rimaneva lì a guardare la sua amica preferita senza vita e non sentiva una parola di quello che la madre quasi le gridava. Corrado era l’unico a rimanere calmo. Si era tolto la vestaglia, ne aveva fatto un rotolo e l’aveva delicatamente posato dietro la testa di Angela. Aveva preso una delle tazze ancora piene di caffèche erano rimaste sul tavolo, l’aveva svuotata nel lavandino della cucina e, calda com’era, la faceva rotolare su e giù intorno al cuore di Angela. “Michela, massaggiale i piedi, svelta…” Il tono imperioso del fratello scosse Michela dal suo stupore. Si chinò ai piedi dell’amica e cominciò a massaggiarle i piedi con movimenti lenti e maldestri. “Qui, premi leggermente il pollice su e giù. Qui, proprio qui dove ti sto indicando. È il riflesso che conduce al cuore. Forza, fallo con vigore.” Michela obbedì come in trance. I minuti avano ma Angela rimaneva inerte. Corrado cominciava ad assumere l’aria preoccupata di chi non sa più cosa fare. “La tua amica soffre di cuore?” chiese a Michela. “No” la sorella bisbigliò appena. “Ha qualche altro problema di salute, diabete, epilesia, qualsiasi altra cosa di cui tu sei a conoscenza?” continuò a chiedere con voce insistente e tremula. “No” ripetè con voce angosicata Michela.
Fu Dina ad intervenire. “Ultimamente Angela appariva molto stanca, stressata, non è vero Michela? Il marito l’ha abbandonata per una ragazzina. Soffriva molto, non si dava pace.” Michela l’interruppe addolorata. “Mamma ne parli già al ato, come se fosse morta…” Dina e Corrado si scambiarono un’occchiata ansiosa. Corrado si volse verso la sorella e le disse. “La tua amica non dà alcun segno di vita, Michela. Non so cosa le sia successo ma il polso è assente ed il cuore non batte. Mamma ha ragione, bisogna avvertire la famiglia.” “Angela non è morta” singhiozzava Michela come una bambina. “Non può essere morta.” Dina ormai stravolta da tale emozione imprevista, si agitava intorno alla cucina come una marionetta coi fili spezzati. “Forza, Corrado, portiamola su, adagiamola sul letto, povera Angela. Chiama il dottore, non possiamo tenerla così. Portiamola in camera mia. Michela chiama Duilio, digli di venire subito. Chiama immediatamente anche la mamma. Dille di venire qui che la figlia sta molto male. Non essere brutale, non dille subito che Angela è morta.Bisogna prepararla alla notizia, povera donna!” Così dicendo, lei e Corrado avevano cominciato a muovere Angela. Corrado la sosteneva per la testa e le spalle, Dina per le gambe. Stavano per uscire dalla cucina con quel fardello tra di loro quando Michela emise un urlo e si accasciò come un sacco di patate sul pavimento. “Michela!” gridò a sua volta Dina vedendo la figlia svenuta. Lasciò cadere le gambe di Angela e si precipitò accanto a lei. Corrado preso in quel trambusto imprevisto, ancora stanco dalla notte precente cominciava a sentirsi leggermente smarrito. “Michela” gridò anche lui, posando delicatamente la testa di Angela per terra. Dina accovacciata per terra accanto alla figlia le picchiettava una guancia e piangeva accorata.
Corrado prese un tavagliolo dalla tavola e cominciò a sventolarlo in fronte al viso della sorella. In capo a due, tre minuti Michela riaprì gli occhi in un volto devastato dalle lacrime e dal tormento. Dina scoppiò in un pianto fragoroso. “Signore mio ti ringrazio. Signore mio ti ringrazio” quasi gridava mentre accarezzava i capelli della figlia e la tempestava di baci su una guancia. Corrado sorrise ed aggiustò la vestaglia sul petto nudo della sorella. “Vai sempre in giro mezza nuda, figlia mia. Senza cervello, proprio senza cervello!” Dina esclamava fuori di sè dalla gioia di vedere Michela tornare in se. Mentre si girava verso Corrado il cuore di Dina ebbe un tuffo. Era il figlio adesso che con aria trasognata guardava in distanza. Pallido e serio come se vedesse la Morte camminare tra loro. “Corrado, tu adesso? Cosa c’è?” Seguì lo sguardo del figlio e rimase di stucco. Leggermente fuori della soglia della cucina, ancora stesa per terra ma poggiata su un gomito, Angela li guardava con aria trasognata. Nessuno parlò per alcuni minuti. Tutti gli occhi erano fissi su Angela che come se niente fosse si stava alzando ed ora chiedeva con voce normale e leggermente incuriosata: “Che fate? Cosa vi è successo?” Vedendo Michela per terra cominciò a camminare verso l’amica chiedendo con aria preoccupata: “Michela, stai male? Che fai lì per terra?” Michela con un singhiozzo proruppe: “Pensavamo che eri morta.” Si poteva sentire volare una mosca. “Cosa?!?” Angela trovò la forza di dire. “Cosa ti ha fatto venire questa idea?” “Angela tu sei svenuta. Peggio sei caduta con un tonfo all’improvviso. Non avevi polso, battito del cuore. Sei rimasta così per parecchio tempo. Troppo tempo per essere semplicemente svenuta. Abbiamo cercato di ravvivarti in ogni modo possibile ed immaginabile. Rimanevi inerte, senza colore, senza respiro. Era la cosa più naturale del mondo pensare che ti era venuto un colpo apoplettico ed eri morta. Ultimamente hai sofferto molto per l’abbandono di Carlo. Abbiamo tratto la conclusione che forse il tuo cuore aveva improvvisamente ceduto a
causa dello stress……… “Michela,” l’interruppe Angela. “Non mi ricordo di essere svenuta o accasciata al suolo senza vita apparente ma mi ricordo benissimo cosa è stata l’ultima cosa che ho visto prima di vedere tutto nero.” Così dicendo Angela si guardò furtivamente dietro le spalle come se prima di proseguire volesse essere sicura che non ci fosse nessuno ad ascoltare. Dina, Michela e Corrado pendevano dalle sue labbra. Siccome Angela esitava, Michela prontamente la sollecitò. “Cosa hai visto, Angela? Parla, non ci fare rimanere in sospeso più a lungo. Tutti noi abbiamo avuto un tempo che non dimenticheremo facilmente credendoti morta. Stavamo per chiamare tua madre, Duilio il nostro medico di famiglia per avere il tuo certificato di morte. Era tutto un panico ed un dolore terribile qui intorno a te e tu rimanevi imibile pur non essendo morta.. Mio Dio, Angela! Non hai idea quello che abbiamo sofferto a causa tua.” “Michela!!” l’interruppe pronta Dina. “Che modo è questo di parlare alla tua amica? Se noi abbiamo sofferto, cosa dovrebbe dire lei che è rimasta come morta per così tanto tempo!” Michela come al solito sorò il rimprovero della madre e continuò: “Forza Angela. Non ci fare stare in sospeso. Cosa diavolo hai visto che ti ha fatto perdere conoscenza in un modo così drammatico?” Angela esitava ancora. Finalmente tutto in un respiro dichiarò seria:“La donna che ho visto nella caffetteria. La donna di un’altra epoca, quella che mi somiglia così tanto. Era lì seduta sul dondolo. Mi guardava con gli occhi pieni di lacrime poi d’improvviso ha guardato il bambino nel panierino, si è girata di nuovo verso di me e in un sospiro accorato mi ha chiesto: ‘Hai visto i miei bambini?’ ” Un silenzio di ghiaccio era penetrato nella cucina alle parole di Angela. Michela la guardava a bocca aperta. Dina scoteva la testa e mormorava tra sè: ‘Tu devi andare dal dottore Angela. Tu non stai bene. Non solo vedi fantasmi ma ti parlano pure.’ Corrado che aveva ritrovato il suo abituale controllo delle emozioni la guardava con un mezzo sorriso. “Come mai tu sei l’unica che ha visto il fantasma? L’unica
che lo ha sentito parlare?” Michela lo urtò deliberatamente col gomito e bisbigliò: “Non la contraddire. È appena uscita dal coma. Non cominciare a cerca la razionalità ovunque, come è tuo solito. Ha visto un fantasma, almeno così crede, lasciamoglielo credere, che ci costa?” Ma Corrado invece di zittire si trovò a replicare alle parole della sorellae dividendo il suo sguardo tra la sorella ed Angela si trovò a spiegare: “Ho letto e sentito di gente che vede o parla coi morti. È possibile, specialmente quando le difese del SuperEgo sono rilassate, quando attraversiamo periodi di grande stress e sensitività emotiva. Se Angela dice di avere visto un fantasma io le credo, solo vorrei cercare di individuare la ragione per cui l’ha visto. Ovviamente il fantasma vuole manifestarsi solo a lei altrimenti l’avremmo visto tutti. Sicuramente ha un messaggio da trasmettere, ha bisogno di comunicare qualcosa alla tua amica.” Michela lo guardava trasognata. “Corrado, Angela vede e parla con qualcuno che ovviamente è morto perchè sembra appartenere ad un’altra epoca e tu lo trovi normale? Che fine ha fatto Mr. Spock chiuso dentro di te? Non ti riconosco più.” Corrado guardava la sorella con affetto divertito. “Michela tu ti ricordi di me come un ragazzino razionale e scettico di fronte ai misteri dell’Universo. Sono diventato grande, sto diventando vecchio e come capita a tutti sono cambiato. Non completamente ma parecchio. Ho conosciuto tanta gente diversa ed interessante. Nelle lunghe serate di solitudine lontano da casa ho letto molto…” Dina interruppe quella conversazione che stava diventando quasi un battibecco tra fratello e sorella. “Siediti Angela, prendi una tazza di caffè. Ti ridarà un poco di colore. È la seconda volta che vedi lo stesso fantasma. Bisogna fare qualcosa. Cercare di capire te e il fantasma a capire cosa avete in comune. Se il fantasma comincia a farsi vivo così frequentemente ha bisogno di aiuto. Dobbiamo fare tutti forza insieme e districare questo mistero. Tieni bevi questo.” Così dicendo aveva messo tra le mani di Angela una tazza di caffè caldo e messo davanti a lei un piatto di biscotti. “Mangia qualcosa, Angela. Adesso andiamo tutti a vestirci e poi mentre ci prepariamo per andare in chiesa ne riparleremo. Forza ragazze
andate a vestirvi che andate in giro come se invece di Natale fosse ferragosto. Dai Michela vai su con la tua amica ed assistela a preparasi. Forza, forza. Sembrate tutti presi dall’incantesimo della Fata Morgana.”
Capitolo 6
Quando Dina tornò in cucina Corrado stava già lì. Seduto sulla sedia a dondolo cullava doilcemente il bambino. Dina si fermò un attimo a guardarlo. “Sembri perfettamente a tuo agio nelle vesti di genitore, anche se provvisorio. Non riesco a capire come mai sei arrivato all’età che hai senza pensare minimamente al matrimonio. Una brava ragazza come moglie e un paio di marmocchi ti avrebbero fatto felice. Avrebbero aggiunto una nuova dimensione alla tua vita da nomade. Perchè non ti sposi, Corrado?” Il figlio rise. “Sei la solita, Mamma. Sistemi allegramente tutto e tutti a modo tuo. Sposarsi è una decisione importante. Mi guardo intorno e vedo tanti matrimoni falliti. Forse sono un vigliacco, ho paura di fallire. Distruggerebbe il mio cuore e non potrei più lavorare tranquillo sapendo che da qualche parte nel mondo ci sono un paio di figli miei che non mi vedono mai o peggio ancora vengono tirati su da un patrigno. No, ci vuole un grande amore per saltare nel buio e sposarsi. A volte neanche il grande amore è sufficiente a tenere legate due persone che trovano la convivenza difficile. Poi, oggigiorno, le ragazze pensano che essere emancipate significa saltare da un letto all’altro. Con uomini di tutti i colori e tutte le inclinazioni. Oggigiorno tutti sanno parlare di sesso, pochi di amore. Io non sono un tipo facile. Ho alte aspirazioni, non mi sposerei mai tanto per avere una moglie o dei figli. Ho creduto più di una volta di essermi innammorato sul serio ma era solo un falso allarme. Fortunatamente me ne sono accorto in tempo. C’è una sottile linea di divisione tra amare ed essere innanmorati. Una condizione non esclude l’altra ma la seconda è molto più fragile e temporanea. Io appartengo a quella categoria di esseri umani che trovano difficile il compromesso. Se non posso avere quello che voglio nella forma che desidero preferisco rinunciare alle mie aspirazioni.” “Non vorrai finire la tua vita in un ospizio per vecchi, solo e dimenticato da tutti, figlio mio,” disse Dina con voce accorata. “Non farmi impazzire di preoccupazioni, Corrado. Devo già destreggiarmi il meglio possibile con Michela che non ne vuole sapere, anche lei, di sposarsi. Anche se per ragioni diverse dalle tue. Almeno con Michela non ho mai avuto illusioni. Una testa
calda da quando è nata. Pensa che essere giovani ed attraenti sia una condizione permanenete di alcune donne. Prima o poi se ne accorgerà. Il giorno che le prime rughe solcheranno il suo visetto attraente, cominceranno a caderle i capelli e perderà le forme di donna perfetta che è stata fortunata ad avere, gli uomini non la guarderanno più. Non si faranno più in quattro per soddiasfare i suoi capricci da bimba. In ufficio le ragazze giovani la soreranno sfacciatamente nel gioco delle promozioni. Quando parlerà nessuno l’ascolterà più. Ma tu, Corrado, tu no. Tu sei sempre stato un essere ragionevole. Non puoi certo diventare vecchio aspettanto la donna perfetta, la donna che ti fa tremare il cuore solo a guardarla… Figlio mio, sei sempre stato un essere razionale e logico. Il grande amore che travolge la vita appartiene ai poeti. Il colpo di fulmine è una presa in giro. Ascoltami Corrado. Non ti rovinare la vita sognando. Accontentati di quello che puoi avere. Sono sicura che da qualche parte del mondo sei in grado di trovare una brava ragazza che sogna di formarsi una famiglia, di crescere dei figli. Una ragazza rispettabile, dedita a sani principi di una società che crede nella famiglia, nel rispetto reciproco tra uomo e donna, nel lavorare insieme per il futuro dei figli, per raggiungere una vecchiaia serena e tranquilla con qualcuno che anche se non è l’amore travolgente dei fumetti è pur sempre un essere con cui è piacevole dividere l’esistenza…” Corrado l’intrruppe con un gesto veloce della mano. “La previsione meteorologica, Mamma. Ascoltiamo.” Dina si girò verso l’apparacchio radio. Grande, imponente, di un’altra epoca, che in un angolo della cucina era rimasto . “Neve su tutto l’Ovest è prevista entro poche ore. Si consiglia di non viaggiare. Coloro già in viaggio farebbero bene a raggiungere in fretta la meta di destinazione. Il Nord del paese è già sotto la minaccia di valanghe. L’autostrada 478 è stata bloccata al traffico dalla caduta di alcuni alberi massicci. Si prevede che il maltempo peggiorerà nelle prossime ore. Si rinnova l’invito a tutti di non avventurarsi fuori casa per nessun motivo. Vi daremo le ultime notizie nel bollettino delle dieci.” La voce di Luis Armstrong che cantava ‘What a wonderful world’ riprese i programmi radiofonici. Dina corse verso la finestra della cucina e vide che l’orto era già stato coperto
interamente dalla neve. ‘Quest’anno il raccolto sarà limitato’ brontolò tra sè ad alta voce. Alzò gli occhi al cielo e la visione divenne bianca di neve. Un paio di conifere sventolavano la cima sotto il vento gelido. “Mio Dio!” esclamò preoccupata. Andò alla porta di ingresso, la socchiuse leggermente e quello che vide confermò il suo pensiero. Il sentiero che dalla casa portava alla strada era tutto coperto di bianco. In lontananza la jeep di Michela si poteva appena intravedere. Tornò di corsa in cucina e disse seria: “Spero che hai abbastanza formula per sfamare il bebè. Nessuno si muove da casa oggi. È troppo pericoloso. Oltre tutto sarebbe veramente da incoscenti portare fuori in un freddo siberiano un bambino così piccolo. Una bambina. Quello che è.” Corrado la guardava con un sorriso dolce. “Io non ho problema. La bambina sta a posto, mangia pochissimo ad ogni modo…” “Ecco perchè le donne asiatiche sono così mingherline…” Corrado scoppiò a ridere. Dina scosse la testa e cominciò a trafficare intorno al lavandino. Le voci allegre di Michela ed Angela risuonarono per le scale. La prima ad entrare in cucina fu Michela che si diresse immediatamente verso la bambina. “Alina! Alina bella. Vieni dalla tua zietta Michela” così dicendo aveva steso le braccia verso il fagottino che Corrado stava cullando e glielo aveva quasi strappato dalle mani. Corrado scoppiò a ridere.
“Michela, non mi aspettavo in te tanto amore materno. Sei grande abbastanza per sposarti ed avere bambini tuoi. Cosa aspetti?” “L’uomo giusto, caro fratello. L’uomo giusto. L’unico maschio degno di considerazione che conosco sei tu e non posso sposare te, considerato che sei mio fratello. Gli uomini fanno schifo, caro mio” aveva continuato con il viso diventato serio ed una voce pacata ma leggermente triste. “Guarda cosa è successo ad Angela. Ha aiutato un uomo che era arrivato in questo paese senza documenti, senza direzione, senza quasi parlare una parola di italiano, senza un soldo. Lo ha amato, lo ha accolto in casa, gli ha dato da mangiare e gli ha assicurato un lavoro. Cosa fa lui per ricompensarla e ringraziarla? Dopo qualche anno le da un calcio nel sedere per andare a fornicare con una ragazzina un terzo della sua età. Senza pensare, senza considerare che presto la ragazzina, una volta ottenuto quello che voleva, lo tradirà alla prima occasione con un giovane prestante della su età. Un bellimbusto che non avrà bisogno di viagra per avere un’erezione. Chi è che ha detto; le donne pensano con un occhio al portafoglio, gli uomini pensano col loro pene. Io cambierei un pochino la sentenza; le donne agiscono guidate da quello che possono guadagnare in termini finanziari, gli uomini sono trasportati nella follia dal loro desiderio di fornicare. No, non voglio fare la fine di Angela. L’unico uomo decente che conosco, sei tu caro fratello e purtroppo le convenzioni sociali impediscono la nostra unione. No, caro mio, mica sono scema. Non voglio di certo fare la fine di Angela!” Un silenzio imbarazzante aveva pervaso la cucina. Angela era rimasta imibile sulla soglia della stanza. Non muoveva un muscolo. Senza espressione sembrava guardare nel vuoto. Corrado con un viso stanco e leggermente preoccupato guardava intensamente Angela. Dina era rimasta con le mani sospese a mezz’aria ed un’espressione di stupore sulla bocca semiaperta. Avrebbe voluto dire qualcosa, rimproverare quella figlia sconsiderata che aveva ma temeva con le parole di recare ancora più danno ad una situazione che diventava sempre più imbarazzante ad ogni secondo che ava. Fu Corrado a rompere il silenzio. Con tono gentile disse guardando Angela negli occhi: “Mi dispiace, Angela. Ti conosco da sempre. Vorrei tanto cancellare quello che ti è successo, ma non ne ho il potere. La vita è ingiusta a volte. Posso solo dirti che tutto sommato un uomo cosìè meglio perderlo che tenerlo accanto a te. Tu meriti qualcosa di meglio. Sei ancora giovane, attraente. Sei una donna intelligente. Sono sicura che troverai prima o poi qualcuno degno di te.”
Angela volse lo sguardo verso di lui e sorrise debolmente. “Sei moto gentile Corrado.” Corrado si sentì rassicurato dal suo sorriso ed aggiunse:“La vita è strana, Angela. A volte quello che sembra una cosa crudele ed ingiusta si rivela una benedizione. Chissà? Ora che sei libera, forse troverai qualcuno che ti amerà come non avresti mai immaginato.” Il sorriso di Angela divenne ancora più luminoso ma non disse più una parola. Dina colse l’occasione per cambiare argomento. “Angela, Michela, i nostri piani sono cambiati. Non possiamo assolutamente uscire di casa a causa del maltempo. Se voi mi aiutate a rigovernare la casa, io vi cucinerò un pranzetto coi fiocchi. Ho appena preparato una caraffa di caffè fumante. Forza, ragazzi. Caffè e ciambelline per tutti. Poi riordiniamo e possiamo giocare un poco. Tombola, monopoli, indovina chi, la giornata erà velocemente. Più tardi ascolteremo il bollettino meteoroligico e con un po’ di fortuna potremo uscire domani.” Michela spostò il fratello dalla sedia a dondolo con un gesto perentorio della mano. “Alzati fannullone. La sedia a dondolo è per le donne che cullano i bambini. Siediti da qualche altra parte” e così dicendo si era piazzata pesantemente al posto del fratello ed aveva cominciato a cullare la bambina facendole mille smorfiette mentre le cantava una canzoncina. Corrado le cedette il posto allegramente. “Michela, Alleluja di Leonard Cohen non è una filastrocca da cantare ad un neonato. Prova i tre porcellini o Marcellino pane e vino.” “Alina è felice di sentire Alleluja, vero Alina?” disse Michela ignorando completamente il commento del fratello. Angela scoppiò a ridere. Tutti si girarono verso di lei. Fu Dina a dire: “Vedi Angela, stai già meglio. Hai ricominciato a ridere. Devi solo liberarti di quel fantasma ficcanaso e tutto finirà per il meglio.”
“Parlami di questo fantasma, Angela” disse Corrado mentre si serviva di caffè e ciambelline seduto intorno al tavolo. “Non c’è molto da dire.” “Come no” l’interruppe Michela con forza. “Corrado,” disse poi rivolta al fratello. “Angela ha strani incubi da tanto tempo. Durante la notte sogna di morire soffocata. D’improvviso comincia a vedere un fantasma d’altra epoca. Una donna triste che la saluta, le chiede se ha visto i suoi figli…. Io le ho detto che ha bisogno di andare da uno psichiatra. Ha bisogno di aiuto medico. Ha sofferto troppo a causa di quel maiale del marito. Diglielo anche tu. Forse ascolterà te.” Corrado si volse verso Angela e le porse una tazza di caffè. “Descrivimi questa donna, Angela.” Angela si sedette anche lei al tavolo e cominciò a parlare. Raccontò a Corrado i suoi incubi notturni, il sogno che si ripeteva sempre uguale, la sua angosicia nel pensare che presto sarebbe morta soffocata e poi l’apparizione improvvisa della donna fantasma. “Come fai ad essere sicura che si tratta di un fantasma?” le chiese Corrado. “Solo un fantasma compare e scompare nel nulla. Poi è vestita stranamente, come se appartenesse ad un’altra epoca. Anche l’acconciatura dei capelli è fuori moda. Il viso è triste, molto triste ma stranamente dignitoso. Sembra che soffra ancora per qualcosa che è avvenuto e da cui non riesce a separasi spiritualmente.” Corrado seguiva con attenzione ogni sua parola. “Solo tu vedi questo fantasma, nessun altro?” “No.” “Allora ci deve essere una connessione logica tra voi due. Un filo di congiunzione. Hai mai pensato di essere ipnotizzata? Si potrebbe chiedere alla tua psiche di rivelarci quello che è tenuto celato dal tuo Ego. Sono sicuro che una volta dissipato il mistero della tua relazione con questa donna, tutto verrebbe
risolto. Ovviamente questa donna si rivela a te, solo a te, perchè sa che tu sei l’unica che può aiutarla. Dobbiamo scoprire qual’è il nesso tra voi due.” Angela l’ascoltava affascinata. “Non ho pensato all’ipnosi, di certo non mi farebbe male tentare.” Michela interruppe il suo concerto in onore di Alina. “Il problema, caro Corrado, è che quasi tutti gli psicologi e psichiatri sono imbroglioncelli. Studiano tre teorie sui testi di scuola e poi le riscodellano a noi comuni mortali senza avere la minima idea di cosa dicono. È difficile trovare un’ipnotista onesto. Magari Angela va da qualcuno, viene messa sotto ipnosi e poi si ritrova sedotta mentre era in stato di incoscienza…” Dina interruppe la figlia con tono aggressivo: “Michela! Io non so cosa ti è successo e non lo voglio sapere. Non riesco a credere chemia figlia è diventata questo essere cinico e freddo che vede lupi cattivi dappertutto. In che mondo vivi Michela, che gente frequenti, quando esci da questa casa?” “Mamma, io vivo nel mondo reale. Incontro la gente vera. Qui è tutto magico, semplice, pulito. Fuori il mondo vero è una giungla. Mamma, tu non hai idea! È un mondo di imbroglioni e puttane.” “Michela!” quasi gridò Dina. “Che linguaggio è questo! E tu vuoi prenderti cura della bambina. Te la togliamo subito prima che è ingrado di ascoltare e capire quello che dici.” “Ma è posssiblile che nessuno usi la ragione? Che pensi Mamma che quello che è successo ad Angela sia un fatto straordinario? Capita a tante donne non appena una ragazzina più giovane e disinibita mette le sue manine delicate sul …. corpo di un uomo. Gli esseri umani non hanno più il controllo, la capacità di discernimento che avevano alla tua epoca. Oggigiorno dovunque vai, televisione, pubblicità tutto invita al consumo. Il sesso non sfugge alla presa. C’era un programma in televisione che denunciava il comportamento scorretto delle ragazze che prendevano cura dei bambini negli asili nidi, nelle scuole elementari. Hanno addirittura registrato conversazioni. Ridacchiavano e si scambiavano informazioni sul sesso anale, orale e chi più ne ha più ne metta. Tu pensi che la gente si innamora oggigiorno? Oh no. Le ragazzine come quella che ha soffiato il marito ad Angela conoscono l’arte della seduzione. Arte che una volta e nemmeno interamente come oggigiorno era una prerogativa delle
prostitute. Angela offre sesso normale al marito? Quella sicuramente gli offre di più. Sperimentazione sessuale e facile appagamento sensoriale. Secondo te chi vince? La sgualdrinella, di sicuro non Angela.” Dina era allibita e senza parole. Angela era tornata ad assumere un’espressione avvilita. Corrado tranquillo, senza voltarsi a guardare la sorella, era tornato a rivolgersi ad Angela. “Ci sono uomini ed uomini, Angela, non dimenticarlo. Forse tu sei stata troppo generosa con la persona sbagliata. Specialmente gli stranieri a volte provenendo da un altro ambiente, un’altra cultura reagiscono in modo diverso da quello che ci aspetteremmo. Tuo marito non se ne è andato con una ragazzina perchè la ragazzina era meglio di te. La fanciulla per raccattare ed infilarsi nel letto di un uomo che sapeva bene era sposato, credimi, si è messa al livello di una prostituta di due soldi. L’uomo non valeva niente dal principio. Se non ti ha lasciato prima era solo perchè non aveva trovato la sgualdrinella giusta, capace di eccitarlo fisicamente fino al punto che il piacere sessuale ha preso primo posto nel suo cervello e nel suo cuore. Angela, non hai perso niente. Tuo marito non era degno di te. Ne troverai un altro, migliore. Però penso sul serio che dovresti investigare questa donna fantasma. Non penso che i due fatti, l’abbandono del marito e l’apparizione del fantasma siano collegati. Tu stai avendo questa esperienza straordinaria solo perchè a causa del tuo dolore le tue difese interiori si sono allentate e come conseguenza la psiche è diventata vulnerabile alle manifestazioni che generalmente sono precluse a noi comuni mortali.Il fatto che tu vedi questo fantasma..” “Le parla pure..” s’intromise Michela. Corrado continuò:“Il fatto che tu vedi esenti la voce di questo fantasma dimostra che sei un essere dalla grande spiritualità. Cerca di dimenticare quell’uomo indegno che era tuo marito. Guarda al futuro. Se vuoi ti aiuto a districare questa matassa.” “Tu puoi aiutarla?!” chiese attonita Michela. “E come?” “Ho scoperto che riesco ad ipnotizzare le persone che accettano di essere ipnotizzate. Se Angela acconsente, proverò con lei.”
“Wow! Mio fratello è magico. Sa anche ipnotizzare,” gridò Michela fuori di sè dall’entusiasmo. “Forza, cominciamo subito..” “Michela!” l’interruppe la madre. “Cosa devo fare con te… Ipnotizzare la gente non è un gioco, un nuovo gioco televisivo. Corrado sta parlando di una cosa seria. È mai possibile che tutto diventa una barzelletta con te intorno?” Dina alzò le braccia al cielo in segno di disperazione. “Signore aiutami tu. Aiutami tu a mettere un granellino di saggezza dentro il cervello di mia figlia. Ho bisogno di aiuto perchè è come un puledro selvaggio. Corrado sorrise debolmente e si rivolse ad Angela. “Se ti senti forte abbastanza, possiamo andare sopra in camera. Ti rilassi sul letto mentre io cerco di far parlare la tua psiche.Vediamo che informazioni ci dà su questo caso misterioso che ti è piombato addosso.” Angela ricambiò il sorriso ed annuì. Michela e Dina li guardavano increduli. Angela si alzò da tavola seguita da Corrado. Si avviarono lentamente su per la scala che portava al piano superiore. “In quale camera andiamo” chiese Angela una volta sul pianerottolo. “Nella camera dove dormi adesso, la mia” rispose Corrado. Entrarono ed un profumo difuso di rosa li aggredì dolcemente. Corrado annusò l’aria.“È questo il tuo profumo?” chiese. “Si, mi piace molto. Esagero a metterlo quando ho bisogno di conforto” rispose ridendo Angela. “Gradevole, molto gradevole. Capisco perchè lo usi. Ha un effetto rilassante sui sensi.” Angela lo guardò intensamente e pensò: ‘Siamo tutti cambiati attraverso gli anni. Corrado è rimasto lo stesso. Le sue parole ti sorprendono sempre. Riesce a dare
una dimensione diversa ad ogni pensiero, anche il più elementare.’ Arrossì leggermente. Il suo cuore le stava avviando segnali che la spaventava. ‘Dio mio! Ho la stessa attrazione per lui che avevo quando eravamo ragazzini. Corrado è diverso dagli altri. Sarei pazza se mi innamorassi di lui. È lo stesso individuo solitario e vagabondo di sempre. Non è uomo da innamorarsi.’ Si sedette sul letto. Corrado le toccò leggermente le gambe e la esortò a sdraiarsi. Con mano leggera le aggiustò i capelli che le erano caduti sul viso. “Chiudi gli occhi e sogna. Lascia scorrere nella tua mente tutti i pensieri, anche quelli più oscuri, più osceni come un fiume che non può essere frenato.” Le poggiò le mani sulla fronte e cominciò ad accarezzargliela con tocchi leggeri e costanti. “Tra poco entrerai in un’altra dimensione. Un posto senza spazio nè tempo. Un posto dove tutto è possibile. Tu sei tranquilla, serena. Non ricordi niente di questa vita che stai trascorrendo col nome di Angela. Ti trovi in un bosco, un posto selvaggio. Cammini, cammini. D’improvviso ti trovi davanti un palazzo grande. Una struttura semplice ma imponente. Il portone sembra chiuso ma se tu lo tocchi leggermente si apre davanti a te. Non ci sono scale, solo un lungo corridoio pieno di porte.Scegli la porta che più ti piace ed entra. Dimmi cosa vedi.” Angela esitò. “Non vedo niente. È una stanza quasi totalmente avvolta nel buio.” “Ci deve essere una finestra, vai alla finestra ed apri le tende.” “Hai ragione c’è una finestra. Le tende sono pesanti, molto pesanti. Non è facile smuoverle.” “Prendi tempo. Aiutati con tutte e due le mani. Devi aprire le tende.” “Si stanno aprendo. La luce che entra è grigia, quasi una foschia.” “Voltati verso il centro della stanza. Cosa vedi?” “La stanza è vuota. C’è un camino grande al centro di una delle pareti ma non c’è fuoco. La stanza è fredda, poco accogliente. Ho voglia di andarmene.”
“Rimani, Angela. Cammina intorno.” “Una donna sta entrando. Ho paura. Ho paura che mi veda. Ho paura che chiami qualcuno per buttarmi fuori.” “Non avere paura. Non lo farà.” “Mi ha visto, sta venendo verso di me.” “È arrabbiata? Sorpresa dall’intrusione?” “Strano. Non sembra per niente sorpresa di vedermi lì.” “Descrivi la donna.” “È abbastanza giovane, trenta anni, andando verso i trenta cinque. Ha un bel volto espressivo ma gli occhi sono tristi, lontani, persi dietro un altro mondo, un’altra visione. È accanto a me adesso ma sembra distante. D’improvviso mi prende una mano tra le sue e senza sorridere dice ‘Grazie per essere venuta.’ Io non so cosa rispondere. Non la conosco. Mi fa un gesto per invitarmi a sedermi con lei.” Pausa. Corrado la spronò a continuare. “Cosa fate adesso?” “Incredibile. Avrei giurato la stanza fosse vuota ma adesso vedo i mobili. Ci sono due poltrone ai lati del camino. Ci sediamo l’una di fronte all’altra.” Pausa. Corrado aspettò questa volta che riprendesse il discorso da sola. “La donna non parla. Mi fissa come per scrutarmi in ogni dettaglio. Mi sento in dovere di presentarmi. ‘Mi chiamo Angela.’ Sorride debolmente, un sorriso triste. ‘Lo so’ dice tranquillamente.
‘Mi conosce?’ chiedo sorpresa. Lei annuisce ed il sorriso diventa più luminoso. Per un attimo, un attimo soltanto la tristezza svanisce dai suoi occhi. Occhi belli, profondi. ‘Mi chiamo Angela’ ripeto.‘Lei chi è?’ ‘Sono Dora.’ ‘Ci conosciamo?’ chiedo mentre un brivido mi percorre la spina dorsale. Ho la sensazione incredibile che ci siamo incontrate prima da qualche altra parte, ma non ricordo nè dove nè quando. D’improvviso la riconosco. È la donna che mi è apparasa nel la caffetteria. La donna dei mie incubi. Divento irrequieta, agitata e le chiedo in un modo non tanto cortese: ‘Cosa vuole da me? Perchè mi tormenta?’ Alza il volto che teneva chino sulle mani e mi guarda sorpresa. ‘Mi dispiace se mi consideri intrusiva ma ho bisogno del tuo aiuto.’ ‘Perchè. Per fare cosa?’ ‘Ho bisogno di sapere dei miei figli. Devo chiederti se li hai visti, se sai niente di loro.’ ‘I suoi figli?! Che centro io con i suoi figli. Io non la conosco, non so niente di lei, come faccio a sapere qualcosa dei suoi figli?’ ‘Angela tu mi conosci bene.’ Io sono sopresa come non mai. Sono onesta quando dico che non conosco questa donna eppure lei insiste a dire che la conosco. Mi alzo di scatto dalla sedia. Sono agitata, molto agitata. Mi appoggio al camino. Ho voglia di piangere. Quando mi giro la donna non c’è più. Mi guardo intorno. Vado persino a cercarla dietro le tende. È sparita nel nulla. D’improvviso mi ritrovo nel bosco. L’edificio non esiste più. Mi sembra tutto un sogno.”
Angela spalancò gli occhi e volse lo sguardo verso Corrado. Lui appariva tranquillo, sereno. Dopo alcuni secondi di silenzio lui le sorrise. Un sorriso caldo, rassicurante. Angela pensò in un attimo di sospensione tra sogno e realtà. ‘Corrado mi affascina adesso come mi affascinava quando era solo un ragazzo. C’è qualcosa in lui che rassicura, fa sentire protette. C’è un magnetismo nei suoi occhi che non ti fa lasciare il suo sguardo, il suo viso. Dina ha ragione. È così diverso dalla sorella.’ Mentre si alzava dal letto e si aggiustava i capelli gli chiese turbata: “Hai tratto qualche conclusione da questo esercizio?” Lui scoppiò a ridere, come sembrava fare spesso oggigiorno. “Angela, tu hai la freddezza di temperamento che uno si aspetterebbe giustamente da chi lavora alla morgue! Questo esercizio, come lo chiami tu, mi sta rivelando eventi ed emozioni della tua vita presente e ata che angoscerebbe chiunque e tu sembri Lazzaro che risuscita dalla tomba. Ti alzi e ti allontani dal tuo stato di meditazione come se fossi di ritorno dal mercato di frutta e verdura.” Angela arrossì leggermente. “Non sono la donna fredda che sembro.” Corrado le sorrideva tranquillo ma senza tentare di rassicurarla. “Altrimenti non soffrirei ancora per l’abbandono di mio marito, dopo così tanto tempo,” si trovò a spiegare Angela che stranamente non voleva essere giudicata da Corrado in modo negativo. Corrado le aggiustò un ciuffo di capelli che le ricadeva sulla fronte e le spiegò: “Non bisogna essere geni per capire che il nesso tra te e questa donna sono i bambini che lei sta cercando. Tu dici che la donna ti somiglia molto ed è vestita e si muove in un ambiente leggermente fuori epoca. Mi sembra chiaro come il sole che tu sei la reincarnazione di questa donna. “Cosa? Di che cosa stai parlando?” “Mi sembra anche necessario cercare di capire chi è e cosa è successo ai suoi
bambini. Perchè non sa dove sono, perchè lo chiede a te? Tu non hai avuto figli, Angela, posso chiederti se è stata una scelta tua o no?” Angela, col cuore che batteva forte si trovò a confessare: “Avevo paura che non sarei stata una buona madre di conseguenza ho evitato il compito. Ho sempre pensato che la mia sensazione era dovuta al fatto che mia madre era stata sempre una persona lontana, indifferente, che il suo comportamento verso di me era la causa del mio rifiuto della maternità. Non avevo avuto un buon esempio da seguire, non volevo essere una cattiva madre verso i miei figli. Avevo paura di non essere in grado di comportarmi bene. Non volevo far soffrire i miei figli, come ho sofferto io.” Corrado l’interruppe. “Ci si sceglie i genitori che abbiamo per riparare un debito o un torto. Tu hai scelto la madre che hai avuto per capire cosa significa non avere una buona madre. Questo non risolve il problema. Lo illumina ma non lo risolve. Io penso che tu hai avuto dei figli nella tua vita come quest’altra donna e che per una ragione che ancora non sappiamo li hai fatti soffrire, li hai trascurati. Adesso questa donna che sei stata e che ha cessato di esistere è ancora tormentata dal ricordo di questi figli. Vuole sapere che ne è stato di loro, vuole essere rassicurata sulla loro sorte. Angela, questa entità che tu chiami fantasma, ha bisogno di aiuto. Tu sei l’unica persona che può aiutarla e sai perchè? Perchè tu eri questa persona e nessuno meglio di te conosce le circostanze, gli eventi e le emozioni che sono ate nel suo cuore. Devi aiutarla, Angela, altrimenti non avrà pace e con lei tu non troverai pace in questa vita e ti trasporterai l’angoscia, il dolore, l’ansia che entrambe anche se in modo diverso provate ancora in un’altra esistenza. Angela, devi assolutamente rompere questo ciclo di colpevolezza, ansietà, dolore che ti trascini dietro insieme all’anima dell’altra te stessa. Se vuoi io ti aiuterò a trovare la soluzione che ti ridarà pace.” Angela lo guardava stupefatta. Quando ritrovò la parola bisbigliò incredula: “Corrado, io non so assolutamente niente di questa donna. È vero che mi sembra stranamente familiare, ma è tutto li. Quante volte incontriamo qualcuno che ci sembra familiare, qualcuno che ci sembra di avere già conosciuto? Con questa donna è diverso. È vero che io sono affascinata da lei ma vederla mi causa ansia, mi fa sentire a disagio. Mi piacerebbe dimenticarla.” Corrado questa volta era serio: “Questo mi conferma che tu ti trascini dietro un
sentimento che appartiene al ato e di cui cerchi invano di dimenticarti. Finchè non risolvi questo problema, finchè non sveli questa cortina di oblio che esiste tra te e la donna, Angela non troverai mai pace.” Angela si prese il viso tra le mani e cominciò a piangere silenziosamente. “Una cosa è certa. Questa donna quando compare mi porta un sentimento di angoscia. Quando se ne va mi sento triste, depressa, male fisicamente. Forse hai ragione. Risolviamo questo mistero una volta per tutte. Cosa devo fare? Ti ascolto.” “Permettimi di ipnotizzarti. Ti farò alcune domande quando sei in stato di trance. Le tue risposte ci illumineranno su cosa dobbiamo fare per aiutare questa donna e te stessa.” Angela annuì col capo. “Va bene Corrado. Fai quello che vuoi. Sono a tua disposizione.” “Nel frattempo, tra una seduta e l’altra…” “Tra una seduta e l’altra?” replicò allarmata Angela. “Quante volte dovrò essere ipnotizzata?” “Non te lo so dire di preciso. Certo almeno due o tre volte. Dipende dalla resistenza del tuo super Ego, dalla difficoltà del caso. Nel frattempo appena possiamo uscire possiamo fare un salto alla Biblioteca e cercare di trovare notizie su questa donna.” “Trovare notizie su questa donna?!? Come possiamo, se non sappiamo niente di lei?” Corrado sorrise. “Non ti preoccupare, sarà mio compito quando ti ipnotizzerò, domani forse, di estrarti tutte le informazioni necessarie per scoprire chi è, era questa donna. Lascialo a me. Mi piacciono, mi sono sempre piaciuti i puzzles,” rise Corrado. Angela a sua volta non potè fare a meno di sorridere. ‘Ha un bel sorriso,’ pensò Corrado. ‘Peccato che non sorrida quasi mai.’
Lentamente Angela si alzò dal letto, si aggiustò i capelli scarmigliati e senza più guardare Corrado si avviò verso la scala. Corrado invece non le aveva tolto gli occhi da dosso. Con un misto di apprensione e curiosità seguiva ogni suo movimento. Insieme, uno dopo l’altro tornarono in cucina. Dina stava trafficando sul lavandino. Michela dondolava Alina sulle ginocchia e le cantarellava parole senza senso. Quando si accorse del ritorno dei due la sua faccia si fece seria e disse con apprensione: “Allora? Come è andata la seduta?” Nè Corrado nè Angela risposero subito. Michela ripetè leggermente irritata: “Allora? Cosa avete fatto il patto di cospirazione che nessuno parla?” Dina si voltò verso i giovani e guardava tutti con uno sguardo inquisitivo che voleva dire: ‘Hei! Cosa sta succedendo?’ Fu Corrado a rompere la tensione. “Angela ha parlato con la donna che la segue. Apparentemente la preoccupazione dello spirito è rivolta verso i figli. Non sappiamo ancora perchè. Le due donne sono riuscite a parlare anche se di poco. Lo spirito non è maligno e non vuole fare male ad Angela. Sembra molto angosciata da una situazione che ancora non riusciamo a comprendere. Domani ipnotizzo Angela. Oggi l’ho solo fatta rilassare. Alla prossima seduta comincerò a fare domande allo spirito attraverso Angela. Sono sicuro che il mistero verrà presto svelato. C’è una forte empatia tra le due. Presto questa storia finirà.” Michela si volse verso l’amica. “Hai visto? Non hai niente da preoccuparti, il mio caro fratellino aggiusterà i cocci rotti. Vedrai che alla fine questa esperienza ti avrà fatto bene e smetterai anche di pensare continuamente al tradimento di Carlo. Ti ha tradito e allora? Chi ci rimette è lui che deve are il suo tempo con una cretina, non tu. Tu incontrerai un altro, meraviglioso amante e chissà forse ti risposerai. All’inferno Carlo. Sei ancora giovane, puoi ancora diventare madre… Non mi dire che tutto finirà per il meglio e saremo di nuovo felici, proprio come in una favola.” Angela rise, Corrado la guardò con tenerezza, Dina scosse la testa in disperazione. “Michela,” disse in tono serio, “pensa a dare il latte ad Alina. Tra una
chiacchiera e l’altra, una stupidaggine e l’altra non vorrai mica far morire di fame la bimba?” Michela alzò gli occhi al cielo e disse ridendo: “La mia saggia madre deve ancora imparare che nella vita è una perdita di tempo preoccuparsi. Preoccupandoti non puoi mica cambiare il presente o il futuro se è per questo. Preoccuparsi del ato non ha senso.. ed allora conviene essere felici o almeno cercare di vivere allegramente.” “L’oracolo di Delfi ha parlato” sentenziò Dina guardando la figlia con una smorfia che era metà disapprovazione e metà affetto incondizionato. Corrado seduto a tavola si scaldava le mani con la solita tazza di caffè e sembrava assorto nei suoi pensieri. Angela smozzicava una fetta di dolce e fissava il suo piatto anche lei perduta nel tempo. Dina guardava fuori della finestra e pensava tra se, ‘Signore mio, che Natale! Ci hai regalato pure un bambinello vero. Assistici tu perchè io comincio ad avere le mani piene.’ I fiocchi di neve cadevano lenti e ricoprivano tutto. Si sentiva solo la voce dolce di Michela che cullava la bimba e cantava “Solo tu, rendi la mia vita completa, solo tu…” Era Natale. Un Natale così diverso dai soliti.
Capitolo 7
La mattina dopo alle otto Dina era ancora sola in cucina. La radio gracchiava e cantava, il caffè stava diventando freddo e nessuno compariva. Tutto era ancora sommerso di neve ma il cielo era incredibilmente chiaro e pulito dai fiocchi di ovatta che avevano disturbato i loro piani. Dina si tolse il grembiule e messo la caffettiera sulla piastra. La teneva calda per quando i dormiglioni si sarebbero precipitati da lei in cerca di terrestre conforto. Fu Michela a scendere per prima, con gli occhi arrossati, i capelli arruffati e scalza come al solito. “Con te le parole sono inutili. Parlo parlo e tu non mi ascolti mai. Qunte volte ti ho detto che non devi andare in giro a piedi scalzi? Di certo non qui. A casa tua è diverso. Hai il riscaldamento centralizzato, i pavimenti sono caldi sotto i piedi. Ma tu niente, non ascolti mai,” disse Dina con aria sconsolata a quella figlia scavezzacollo che amava più della sua vita. “Mamma, Mammina!” L’apostrofò Michela mentre le circondava il collo con le braccia anch’esse nude. “Buon dopo Natale!” e mentre le diceva questo, con gli occhi ancora chiusi e l’aria di chi sta ancora dormendo, le scoccò un bacio sulla guancia. Dina le accarezzò i capelli con le lagrime agli occhi. “Michela, Michela! Cosa sarà di te quando io non ci sarò più?” “La fata buona si materializzerà e mi verrà a proteggere al posto tuo.” “Già! E perchè la fata buona dovrebbe venire sulla terra a proteggerti quando tu sei sempre stata sconsiderata?” “Perchè sono buona anch’io e lei mi vuole bene” rise Michela aprendo finalmente gli occhi. “Dov’è il caffè?” Dina si precipitò a riempirle la tazza e le fece cenno di sedersi a tavola.
“Dove sono gli altri?” chiese Michela curiosa guardandosi intorno. “Dormono ancora. Tu non sei l’unica ad essere pigra!” “Che ne pensi di Corrado che ipnotizza Angela?” chiese alla madre diventando improvvisamente seria Michela. “Spero che sappia cosa sta facendo. Povera Angela ne ha già viste di tutti i colori, spero che non esca da questa storia malandata, ancora più di come è adesso” disse Dina con aria preoccupata. “Malandata, che parola brutta” la rimproverò dolcemente. “Corrado sa quello che fa. L’ha sempre saputo, non è vero?” Dina scrollò le spalle come a dire che vuoi che ne sappia. Michela continuò senza notare la perplessità della madre. “Mio fratello sa quello che sta facendo. Angela uscirà fuori dai suoi incubi, te lo dico io e ti dico anche un’altra cosa….” Fu interrotta da un rumore al piano di sopra. Sembrava il suono prodotto da una sedia rovesciata. “Cos’è questo trambusto?” disse ad alta voce Dina “Spero nessuno sia caduto…” “Ma no! Corrado l’altra sera ha messo i suoi vestiti sulla sedia quando si è spogliato e stamattina non se ne è ricordato e alzandosi ha sbattuto contro rovesciando la sedia e i vestiti.” “E tu che ne sai? Stavi con lui mentre si spogliava per andare a letto?” rise la madre prendendola bonariamente in giro. “Non ha sempre fatto così sin da quando era bambino? Tutti voi mi prendete per scema ma io non lo sono. Io osservo e annoto tutto nel mio cervellino da gallina coccodè,” disse sorniona Michela. La madre le aveva porto una fetta gigante di panettone e per un po’ fu occupata a farne strage nella sua bocca. Di sopra intanto anche Angela aveva sentito il fracasso e si era affacciata sulla
soglia della sua stanza guardando nella direzione da dove veniva il rumore, la stanza dove dormiva Corrado. Lui preoccupato di avere svegliato tutti con la sua mossa maldestra, non sapendo che erano ormai quasi le nove di mattina si era affacciato a sentire se qualcuno si muoveva svegliato d’improvviso dal rumore. Fecero capolino contemporaneamente dalle rispettive stanze, lui ed Angela. Si guardarono e si sorrisero reciprocamente. “Scusa se ti ho svegliato,” disse Corrado arrossendo. “Figurati! È mattina inoltrata. Hai sbattuto contro qualcosa? Ti sei fatto male?” chiese Angela. Lui scosse il capo sorridendo e disse invece: “Hai dormito bene? Hai avuto il solito incubo?” “No, ho dormito come un sasso. Sono impaziente di proseguire la terapia. Ho piena fiducia in te.” “Se vuoi, facciamo colazione e continuiamo. Anzi se te la senti vengo nella tua stanza e ti ipnotizzo subito finchè ti senti riposata e tranquilla. È comunque preferibile fare queste cose a digiuno. La psiche è più aperta ai suggerimenti e molto più svelta a catturare i significati e le emozioni che non quando si è stanchi o depressi.” “Vieni,” disse subito Angela senza farselo ripetere due volte. Così dicendo spalancò la porta della stanza e Corrado ancora in pijama, spettinato e affamato tirata una sedia vicino al letto si insediò accanto ad Angela che si era infilata di nuovo sotto le coperte. Corrado le posò la mano calda sulla fronte e la esortò a chiudere gli occhi. “Rilassati. Rilassa le spalle, le gambe, i lineamenti,” le disse con voce suadente. “Torna nel bosco che conosci. Ripercorri il viale che porta al castello. Lo vedi il castello?”
“Si.” “Dimmi cos’altro vedi.” “Vedo il portone massiccio dell’altra volta. È socchiuso. Lo spingo leggermente e si spalanca. Dentro le luci sono accese. Le porte delle stanze sono spalancate. I camini sono tutti in funzione. Fa caldino. Mi sento a mio agio.” “Ritrova la stanza dov’eri l’altra volta. Sbircia dentro tutte le stanze ma non ti fermare finchè non ritrovi la stanzadove sei già stata.” “Eccola. Strano.. È l’unica stanza dove il fuoco non è stato . Le tende sono tirate come erano l’altra volta. Non c’è luce. Si fa fatica a vedere.” “Guarda dietro le tende. Sono sicuro che c’è una poltrona. Prendila e posizionala vicino al camino.” Angela cercò un poco dietro le tende poi finalmente trovò la poltrona. Era di raso leggera e non fece fatica a portarla vicino al camino. “Chiudi la porta della stanza” le intimò Corrado. “Non voglio chiuderla. La donna che aspetto non verrà non mi troverà se la chiudo.” “Chiudila. La donna che aspetti l’aprirà quando è pronta a venire da te. Fai come ti dico.” Angela ubbidì e si sedette accanto al camino spento ad aspettare con pazienza. arono alcuni minuti poi la porta si aprì e la donna comparve. La stessa donna di sempre. Guardò dentro, vide Angela, sorrise soddisfatta e si richiuse la porta alle spalle senza fare rumore. D’improvviso si accesero le luci e comparve il fuoco nel camino. La donna si avviò verso Angela, le fece un breve cenno del capo a mo’ di saluto e si sedette anche lei su una poltrona simila a quella occupata da Angela ma che prima non era lì. “Grazie per essere venuta. Una tazza di tè?” chiese la donna ad Angela con fare
mondano ma intimo allo stesso tempo. Angela si trovò a parlare con le parole che Corrado le suggeriva di volta in volta. “Sono venuta a visitarla perchè voglio aiutarla. Per aiutarla ho bisogno di sapere cosa la disturba.” La donna che teneva il capo leggermente abbassato sulla tazza di tè che teneva in mano alzò il volto a sorriderle e disse in un bisbiglio: “Hai incontrato i miei figli? Stanno bene? Si ricordano di me? Mi amano sempre?” Angela non sapeva cosa rispondere. Alla fine sussurrò “Non so chi siano i suoi figli. Non sono sicura di sapere chi è lei. Mi dica qualcosa di lei, qualcosa che mi permetta di riconoscerla, di verificare la sua vita, di andare a cercare i suoi bambini…” La donna si alzò a fatica. Si diresse verso il camino e con le mani tremanti posò la tazza di tè sulla mensola. Poggiò entrambe le maniai lati del piattino e col capo chino sopra la tazza cominciò a parlare con voce sommessa. “Lo incontrai a Berlino per la prima volta. Era l’anno 1904. Era il mese di dicembre, non ricordo il giorno ma era quasi Natale. Venne nel nostro appartamento in Hardenbrugstrasse. Fu Elise de Brouckere, la nostra amica del Purcell Compagnia Teatrale che ce lo portò in casa. Lui fu presentato prima di me a mia sorella Elisabetta. Si era tolto gli occhiali e vedeva tutti noi come avvolti in una nebbia così che dapprima scambiò Elisabetta per me. Rimase confuso quando si accorse che Elisabetta zoppicava un poco meravigliandosi del fatto e chiedendosi come potesse con quel difetto essere la danzatrice di squisita raffinatezza di cui tutti parlavano. Mio fratello Agostino gli schiarì ogni dubbio quando ridendo mi introdusse a lui, capito da come parlava ad Elisabetta che credeva fossi io. Parlammo di tante cose. Fummo subito attratti l’uno all’altra. Non ricordo esattamente di cosa, mille frivolezze, tra un sorriso e l’altro. Saputo che era uno scenografo gli mostrai dei disegni avevo fatto, delle idee per rappresentazioni. Lui sembrava estremamente interessato.Sembrò leggermente imbarazzato quando dovette ammettere che no, non mi aveva mai visto danzare. Ci lasciammo con la sua promessa che sarebbe venuto quanto prima a vedermi danzare.
Mantenne la promessa subito dopo il nostro primo incontro. Venne a vedermi danzare non a teatro ma in un Auditorio dove eseguivo movimenti di danza al suono di Chopin. La musica veniva eseguita solo da un pianoforte. Niente orchestra.Il palcoscenico era addobbato solo con vecchie tende non molto più alte di me. Io mi presentai al pubblico entrando attraverso quelle tende. Mi ricordo. Avanzai verso il pianista che aveva appena terminato di suonare un Preludio di Chopin e rimasi lì alle sue spalle immobile come se fossi rimasta incantata dalle ultime note suonate. Dopo dieci secondi di silenzio ed immobilità le note del secondo Preludio di Chopin cominciarono ad invadere la Sala durante il quale io non avevo mosso un muscolo. Alla fine del pezzo un lieve movimento dei piedi mi trasferìdi fianco al piano. Mi muovevo semplicemente, senza piroette o saltelli, mi muovevo come in un sogno tra un Preludio e l’altro rimanendo immobile durante le sonate. Era differente dal resto. Era il mio nuovo modo di danzare. Era il mio stile. Innovitivo.” La donna rise un riso lieve, sommesso. “Io danzavo come nessuna prima di me. Il mio linguaggio era esclusivamente personale. Quando la danza finì rimasi immobile per un poco. Veramente immobile. Niente inchini al pubblico, ringraziamenti per gli applausi, il volto immobile nell’espressione. Lui venne nel mio camerino subito dopo la rappresentazione. Entrò come un fulmine ma rimase in silenzio guardandomi come se una Dea fosse scesa dall’Olimpo inaspettata. L’adorazione era nei suoi occhi, chiunque l’avrebbe notato… Era così ovvio dal modo in cui mi guardava che nessuna prima di me l’aveva colpito così tanto. Io ero stanca dopo lo spettacolo, avevo bisogno di riposare. Rimanemmo così per lunghi momenti a guardarci. Senza scambiare una parola come se potessimo leggere l’uno i pensieri dell’altro appena mi sentii non rinfrescata mi cambiai ed insieme uscimmo per le strade di Berlino dove la neve stava cadendo a fiocchi compatti brillando tra le luci dei negozi ancora illuminati. Camminammo e parlavamo di mille cose che ora non ricordo. Camminavamo, parlavamo ininterrottamente, camminavamo… Alcuni giorni più tardi lui venne di nuovo a trovarci a casa. Mia madre lo invitò a cena e lui rimase. Sedemmo vicini a tavola. ammo la serata a parlare. Tante stupidaggini, qualche verità fondamentale. Ricordo ridemmo spesso.
Qualsiasi cosa dicessi, il suo sguardo di ammirazione ed adorazione sembrava penetrare la mia anima in un modo sconosciuto prima. Ci sembrava di conoscerci da sempre.Mi chiamò danzatrice greca, danzatrice degli Dei. Mi lusingava ma sentivo che era sincero. Non mi adulava a proposito. I suoi sentimenti erano sinceri. Così erano i miei per lui. Prima che ci lasciasse gli diedi una foto di me e sopra scrissi ‘con amore Isadora.’ Io firmavo allo stesso modo tutte le mie fotografie ed autografi. Non mi sentii impudente. Oh no! Come un uomo interpreta le mie parole dice tutto sull’uomo. Il mio amore era un amore trascendentale, un amore universale. Sapevo che lui avrebbe capito, che non avrebbe frainteso. E cosi, fu… Alcuni giorni dopo andai alla sua Esibizione. Ammirai i suoi disegnidi scenografia e per i costumi. Sulle pareti di Friedman & Weber in Koniggratzerstrasse 9 erano esibiti 60 disegni vari di cui 13 erano disegni di paesaggio inglese. Tutti gli altri erano disegni di costumi e scenografie. Mi ricordo ancora il vestito che portavo. Era bianco, completamente bianco. Bianchi erano anche gli accessori. Sembravo una nuvola!” la donna commentò ridendo mentre chinava leggermente il capo da un lato. “Di nuovo non avemmo occhi che l’uno per l’altro mentre chiacchieravamo incessantemente. Ero affascinata da lui e posso dire con onestà che lui sembrava altrettanto di me. Ci salutammo all’uscita dell’Esibizione, con gli occhi incapaci di staccarsi dagli occhi dell’altro. Quella stessa sera lui mi scrisse una lettera seduto al caffè vicino all’Esibizione. Era una lettera breve. Mi diceva che sentiva il bisogno di scrivrermi anche se solo una riga, anche se non aveva niente di nuovo da dirmi. Mi chiedeva di andare da lui ancora una volta, presto. Era una lettera d’amore anche se mai la parola amore fu scritta su quel foglio. Mi lasciò la lettera a casa, voleva che l’avessi subito, imbucarla significava lasciare are troppo tempo senza parole tra noi. La mattina seguente ci incontrammo di nuovo ed insieme a mio fratello Agostino e la sua compagna Sara andammo tutti a fare una gita su un calesse guidato da due cavalli. Ricordo ancora le risate e la gioia che provavamo tutti, godendo la compagnia. La Duse, la grande Duse mi aveva mandato un biglietto quella stessa mattina chiedendomi di raggiungerla a teatro. Io scelsi di andare al Grunewald invece. Un parco di Berlino a visitare una nuova scuola di danza. La scuola era brutta,
ricordo. Mangiammo sull’erba, ridemmo e corremmo come bambini intorno agli alberi. Ero felice. Tutti sembravano felici. Anche lui. Quando tornammo a casa mia madre preparò qualcosa da mangiare per noi tutti. Spendemmo un pomeriggio incantevole tutti insieme. Lui sembrava ancora trepidante, ansioso per un gesto, un sorriso, un qualcosa in risposta alla sua lettera. Ma io tacevo. Aspettavo. Dopo un paio di giorni gli resi chiaro il mio amore.Da allora tra baci e sorrisi i nostri corpi non si lasciarono più. Eravamo felici. Felici non è la parola giusta. Eravamo in Paradiso. Un pomeriggio di gloria ci lasciammo dietro tutti gli altri. Noleggiammo trasporto e via andammo nel vento. Nella gloria del nostro amore. Per due giorni rimanemmo nascosti, volevamo stare soli, chiusi nel nostro abbraccio d’amore. Avemmo sesso sul balcone della sua casa. Che folli eravamo. Parlammo di matrimonio. Lui mi disse che aveva promesso a qualcuno di sposarla entro quattro mesi. Gli dissi che io non credevo nel matrimonio. Quando tornai a casa da mia madre, tre giorni dopo, Elisabetta mi aprì la porta. Agitata mi guardò come si guarda un fantasma. ‘Stavamo per chiamare la Polizia. Non sapevamo cosa pensare. Sei andata via senza una parola, una riga. Non avevamo idea dove fossi. Mamma è molto arrabbiata. Non dovevi fare così. Eravamo tutti preoccupati.’ Quando mia madre comparse sulla soglia mi guardò lungamente senza dire una parola, voltò le spalle e si diresse verso il salotto. Si sedette al pianoforte e suonò per circa un’ora. Sapevo che era turbata dal mio comportamento ma sapeva che avevo trovato l’amore e niente mi avrebbe tenuto lontana da lui. Nessuna parola, nessun gesto avrebbe cambiato la gioia che avevo nel cuore. Ero innamorata e non volevo sapere altro. Non avevo considerazione per nessun altro che per me stessa e lui, l’uomo dei miei sogni. L’uomo che sentiva quello che sentivo io, che sognava i miei stessi sogni, che capiva l’arte come la capivo io. Lui, solo lui contava per me.” La donna racchiuse il volto tra le mani e cominciò a piangere. Un pianto silenzioso. Un pianto che viene dall’anima e per questo è molto più straziante di lacrime copiose che sgorgano da una ferita estemporanea. Un pianto che sembrava eterno. Corrado posò le sue dita leggere sugli occhi di Angela e chiese sottovoce: “Che
succede?” Angela rispose in un sospiro: “Sta piangendo. Un pianto irrefrenabile. Un pianto che non si può interrompere.” “Chiedile chi è l’uomo di cui parla.” Angela si alzò dalla poltrona e si fece vicina alla donna. Le carezzò i capelli tenuti in uno chignon scomposto e le bisbigliò in un orecchio: “Di quale uomo parli con così tanto amore?” La donna sollevò il volto rigato di lacrime e con aria sorpresa rispose: “Gordon. Gordon, naturalmente. È l’unico uomo che ho amato veramente. L’uomo del mio Destino. Non ricordi come erano belli i suoi occhi. Occhi meravigliosi, dolci e sognanti. Occhi da artista. Oh, quanto ho amato quegli occhi. Non puoi averli dimenticati!” Angela sussultò turbata. “Corrado,” chiamò sotovoce, “Corrado.” Corrado le mise di nuovo una mano sulla fronte per renderla conscia della sua presenza, del fatto che era lì accanto a lei e lì sarebbe rimasto. Angela disse perplessa: “Corrado, questa donna parla come se io dovessi sapere tutto della sua vita. L’uomo di cui parla tanto si chiama, si chiamava Gordon e mi parla di cose che io non so, non capisco, come se dovessi saperle. Non so cosa dirle. Sembra molto depressa, piange molto. Se veramente questo Gordon di cui parla è stato un suo grande amore, di certo non deve averla fatta felice, altrimenti ne parlerebbe con più gioia… Corrado la rassicurò “Angela non farti domande. Le domande le devi fare a lei. Non usare la tua logica, altrimenti non arriveremo a sapere niente. Quando lei parla interrompila di tanto in tanto per investigare, per chiederle spiegazioni. Vedrai che te le darà. Vedrai che alla fine scopriremo tutto, sapremo quello che vogliamo sapere. Torna nella stanza ad ascoltare quello che ha da dire.” Angela tornò nella stanza e si sedette di nuovo nella poltrona accanto al camino. La donna si era seduta anche lei. Sembrava più serena.
Angela le chiese con tono tranquillo. “Mi parli ancora della città dove viveva.” La donna la guardò trasognata. “Si tratta di Berlino, naturalmente. È lì dove lavoravo di più. A Berlino volevo istituire la mia scuola. Naturalmente Russia fu importante per me. Altrochè! Ti devi ricordare, come non puoi ricordare il trionfo che il mio viaggio a Pietroburgo. Fui accolta con corone di alloro, mi ricoprirono di lodi ed adulazione. Danzai per loro come una Dea greca, ricoperta solo di una tunica leggera. Il successo fu strepitoso. Il popolo russo è molto generoso con gli artisti. Riconosce quando sono innovativi aiutandoli anche finanziariamente. Ti ricordi gli articoli sui giornali? Mi accolsero come una figlia che torna a casa! Per la prima volta il fatto che danzavo a piedi scalzi, scarsamente vestita non rappresentò uno scandalo, solo un modo nuovo di presentarsi al pubblico. Quello che contava per loro era il contenuto della mia danza, la mia interpretazione della musica di grandi artisti. Non esiste altro popolo più anticonformista di quello russo. Quello che gli interessa è il prodotto non la scatola. La Russia sembrava così avant-garde dopo l’Europa. Le loro lodi così genuine e confortanti dopo le accuse indegne e i commenti di due soldi che avevo ricevuto in altre città pure importanti. Ad ogni modo, Berlino è dove volevo creare la mia scuola e a Berlino cominciai a studiare Beethoven, in modo da interpretare la sua musica attraverso la danza. Prima di me danza era associata solo con le gambe, il movimento delle gambe e dei piedi. Io introdussi una danza dove le gambe non avevano più il posto d’onore nel tempio dell’espressione. Le mani, le braccia, l’espressione del volto ogni muscolo del corpo e l’inclinazione della testa era ugualmente importante nell’espressione delle emozioni della vita che io con i miei movimenti rappresentavo in perfetta sintonia con l’autore della musica. Ecco perchè danza e musica interagiscono. L’una non può vivere senza l’altra.” Una pausa. Angela ne approfittò. “Cosa successe poi con Gordon?” “Tu mi chiedi cosa successe con Gordon?” rispose sorpresa la donna. Angela arrossì e disse: “Mi scusi tanto. Non riesco a ricordarmi…” “Divenimmo ufficialmente amanti!” dichiarò alzando leggermente il capo con
orgoglio ed impudenza. “Il nostro incontro era stato stabilito dal Destino. Non potevamo sfuggire al Fato.” L’espressione triste tornò subito sull suo volto apito dal tempo. “Chi era esattamente Gordon?” Angela chiese spavalda. La donna rimase a lungo a fissarla incredula. “Davvero tu non ricordi niente. Gordon era naturalmente Gordon Craig, il figlio di Ellen Therry la famosa attrice inglese.” “Cosa accadde tra voi due dopo questo incontro fatale che vi fece divenire amanti quasi a bruciapelo?” La donna rise, un riso tranquillo. “Come tutti i grandi amori della storia e della letteratura finì in tragedia.” E con mano leggera si coprì il volto. Non tanto a cancellare le lacrime o i segni di lacrime versate ma quasi a celare in un modo infantile la sua pena al mondo circostante. “Rimasi incinta. Era inevitabile, non pensi?” Una risatina nervosa fermò il flusso delle sue parole ma solo per un attimo breve. “Furono mesi difficili. Io non potevo danzare, lui non si sentiva a suo agio nelle vesti di futuro padre…” “Fu allora che il vostro rapporto cominciò a declinare?” chiese Angela. “No, non penso. Il nostro legame era così forte che ci voleva un evento altrettanto forte per svincolarci dall’abbraccio del Destino. No, onestamente penso che sebbene non avessimo scelto deliberatamente l’evento, le circostanze furono accettate da entrambi con fatalismo. A Noordwijk on sea, Holland la figlia di Gordon nacque. Era Giugno 1906. La bambina era incantevole. La chiamammo Deidre. Aveva occhi di un blu sognante. Capelli biondi ed un’aria graziosa. Mi sentivo fortunata. Non avrei mai sognato una bambina così perfetta come figlia. Crescendo la sua naturale grazia e il dolce temperamento divennero sempre più pronunciati. Era una delizia averla intorno.” Singhiozzi forti, così forti da scoterle il corpo travolsero la donna. Angela sentì una morsa al cuore e cominciò a versare anche lei larime silenziose.
Sentiva nel suo cuore il dolore della donna, lo stesso sconforto. Aveva voglia di consolarla ma sapeva bene che consolare la donna non sarebbe stato abbastanza per il suo cuore. Il dolore apparteneva anche a lei. Il suo cuore soffriva anche lui per qualcosa che ancora non sapeva bene cosa fosse. Il ricordo della bambina per la madre sarebbe dovuto essere un gran conforto. Lei stessa aveva detto quanto dolce e bella era la bimba. Eppure dolore, sconforto, disperazione erano associati con lo stesso ricordo. Angela lo sapeva bene. Anche lei provava le stesse emozioni. Sentì che il dolore entrato in quella stanza era troppo grande per sopportarlo in cerca di una spiegazione storica della sua relazione con quella donna. Sentì il bisogno di uscire, di lasciarsi indietro quel dolore che cominciava a farla sentire male. Corrado la vide muoversi ansimante, scotere il capo mentre le lacrime le scendevano impervie lungo le guance e capì che doveva farla tornare nella stanza, alla sua vita presente. Le posò le mani sugli occhi e le disse dolcemente: “È ora di tornare a questa vita. Vieni Angela. Torna da me.” Angela aprì immediatamente gli occhi e si rasserenò subito vedendo il volto calmo di Corrado che la guardava sereno. arono un paio di minuti durante i quali nessuno dei due parlò. D’improvviso Angela sorrise debolmente e disse: “Ho sete.” Corrado si alzò immediatamente dalla sedia e con un gesto della mano la fermò mentre cominciava a tirarsi su dalla posizione supina nel letto. “Stai lì. Non ti muovere. Vado io a prenderti una tazza di tè.” “Caffè?” chiese Angela titubante. “No. Tè. Bevete tutti troppo caffè in questa casa. Sembrate drogati. Ogni volta che vado in cucina sento l’odore del caffè. State sempre seduti intorno a quel tavolo con tazze di caffè tra le mani.” Corrado scosse la testa in disapprovazione. “Bevete troppo caffè. Si lo so, è mia madre la colpevole. Fa trangugiare litri a
chiunque capiti in casa, come se il caffè fosse la panacea di tutti i mali. Ah, mia madre..” “Tua madre è una donna straordinaria” gli disse Angela in tono difensivo. “Chi lo sa meglio di me! Però ha questa idea che il caffè sostiene il cuore e quindi berne grandi quantità ti fa solo bene. Mia madre, hai ragione, è una gran donna ma anche lei a volte sbaglia.” “Io le voglio molto bene” si trovò a dire Angela senza motivo particolare. “Tua sorella è rimasta nel tempo la mia migliore amica. Per essere onesta non condivido la preoccupazione di Dina per il futuro di Michela. Dietro l’apparenza infantile Michela ha un cervello di prima classe. Prima o poi si sposerà con un riccone e si sistemerà meglio di tutti noi.” Corrado rise di cuore. “Michela non si sposerà mai, Angela. È troppo indipendente. Nessun uomo accetterà mai di diventare il suo cavaliere servente. Tuttavia io non mi preoccuperei per Michela come fa mia madre. Mia sorella ha sempre avuto questo fascino su tutti. Riesce sempre a convincere la gente a fare quello che vuole lei, me compreso. Ha il fascino e la grazia di una bambina di quattro anni. Quale persona riesce a dire di no ad una bambina graziosa che ti guarda con occhi innocenti chiedendoti di giocare ad essere il suo pagliaccio. No, io non mi preoccuperei per Michela. Prima o poi troverà un uomo ricco ed allora, credimi, si farà regalare un appartamento, una pelliccia, una Ferrari e si farà imbottire il conto in banca. Michela è una furbacchiona sotto l’apparenza ingenua e stupidina. Michela avrà sempre quello che vuole senza faticare troppo. È dotata di grande fascino e lo sa bene.” Angela rise. Corrado si aggiustò la cintura della vestaglia e si diresse verso le scale.Dalla cucina venivano rumori discordi di piattie la voce da cantilena di Michela che giocava con Alina. Quando si fece vivo sulla soglia della cucina ogni rumore s’interruppe. Michela smise di cantare fissandolo con curiosità. Dina incuriosita dal silenzio improvviso della figlia si girò immediatamente verso la soglia della cucina e come vide il figlio senza dire una parola lo interrogò con gli occhi. Corrado arrossì leggermente e disse tutto di un fiato : “Angela è ancora viva. Ha sete. Vorrei una tazza di tè da portarle in camera.”
Fu Michela la prima a riprendere fiato. “Una tazza di tè in camera da letto? Wow. La cosa è seria. Corrado si è innamorato!” Dina per una volta rimase lì a guardare il figlio senza sapere cosa dire. Poi riprese fiato e chiese:“Com’è andata? Pensi che puoi aiutarla?” “Certo. Abbiamo fatto progressi. Cominciamo a conoscere la donna. Angela è molto sensibile alle mie suggestioni. È un soggetto facile da ipnotizzare. Le porto da bere poi ho intenzione di continuare la seduta.” Michela smise di dondolare Alina e chiese: “Chi è questa donna misteriosa? Qualcuno che conosciamo?” “Non so ancora ma siamo molto vicini a scoprirne l’identità ecco perchè voglio riprendere la seduta al più presto quando le emozioni sono ancora vive.” Dina nel frattempo aveva preparato una teiera e la stava sistemando su un vassoio con due tazze. “Prendi anche tu una tazza di tè, figlio mio.” Michela avea ripreso a cullare Alina e rivolta verso il fagottino diceva: “Corrado, dì Corrado. Corrado è il tuo papà. Paapa..!” Dina scosse la testa come faceva spesso in quei giorni e rimproverò la figlia. “Michela smettila. Non mettere in testa alla bambina storielle stupide. Corrado non è il suo papà e tra poco non ci vedrà più perchè appena possiamo uscire di casa la portiamo all’orfanotrofio.” Michela fece una smorfia e senza tenere in nessun conto le parole della madre continuò a parlare alla bimba. “Che nonnina crudele che hai! Non ti preoccupare ci sono io a proteggerti. La zietta Michelina ti proteggerà dalla nonna cattiva che ti vuole abbandonare col lupo ah, ah.” Dina perse la pazienza.
“Michela se non la smetti di giocare a fare la cretina ti sbatto fuori di casa. Questa volta parlo sul serio. È mai possibile che tutto diventa un gioco per te? Sei grande abbastanza per smettere di prendere tutto come uno scherzetto. Questa bambina rappresenta un problema serio e bisogna trovare un posticino per lei da qualche parte.” Michela divenne improvvisamente seria. “Non potresti prendertene cura te? Vivi qui da sola come un cane. Alina ti farebbe compagnia, darebbe un valore alla tua vita, ti renderebbe la vecchiaia meno pesante.” “Renderebbe la mia vecchiaia meno pesante? Michela tu sei matta. Totalmente matta, figlia mia. È meglio che smetti di parlare, altrimenti questa volta perdo la pazienza davvero con te ed allora credimi saranno guai!” Michela senza più una parola posò la bimba nel cestino e si versò una tazza di caffè. Conosceva bene sua madre. Sapeva che questa bambina capitata come il fulmine nella casa a Natale la preoccupava molto. Sapeva che per la prima volta da che avesse memoria Dina metteva in questione la capacità di raziocinio del figlio. Provò un sentimento accorato di amore per la madre e mentre le a vavicino per consegnare il vassoio a Corrado le afferrò un lembo del grembiule da cucina e vi appoggiò la guancia. Dina non disse una parola, non mosse un muscolo ma due lacrime affiorarono agli angoli dei suoi occhi. Corrado senza guardarla prese il vassoio e lasciò la cucina. “Quei due finiranno insieme” proclamò Michela con indifferenza. Dina la guardo, corrucciata. “Cos’è un’altra delle tue storielle?” “Non hai visto come si guardano? Ancora non lo sanno ma finiranno per amarsi.” Dina spalancò la bocca per dire qualcosa ma non uscì nessun suono.Prese dal tavolo la tazza vuota di Michela e si diresse verso il lavandino per lavarla. Volgendo le spalle alla figlia disse con aria solenne: “Michela tu devi ascoltarmi. Lascia stare gli altri. Dimentica le tue fantasie. Pensa a te. Promettimi che penserai a sistemarti. Sei un caso disperato, figlia mia. Hai bisogno di qualcuno che prenda cura di te quando io non ci sarò più.”
Michela poggiò il gomito sul tavolo e con indifferenza rispose alla madre: “Non ti preoccupare per me. Promettimi solo una cosa. Lascia a me questa casa. Corrado non ne ha bisogno. Io si. Io voglio vivere come te in questa casa che amo. Promettimi che metterai la casa in mio nome e la lascerai solo a me. È tutto quello che voglio, tutto quello che desidero.” Dina nonrispose. Lacrime calde e silenziose le scorrevano lungo le guance apite. Nessuna altra parola tra loro.
Capitolo 8
Quando Corrado tornò nella camera trovò Angela addormentata. Posò il vassoio sulla cassettiera, si versò una tazza di tè e si sedette sulla sedia accanto al letto ad aspettare tranquillamente che Angela si svegliasse. Si udiva solo il ticchettio preciso e continuo della sveglia. Le tende erano semiaperte ed s’intravedevano fiocchi di neve danzare nell’aria. ‘Rimarremo prigionieri in questa casa fino alla fine dei nostri giorni’ pensò languidamente come se fossero intrappolati in una favola dei fratelli Grimm. ‘Cosa ne sarà della bambina?’ si chiese. ‘Finirà in un orfanotrofio aspettando che qualcuno si assuma il compito di prendere cura di lei,’ il suo cuore rispose con tristezza. In segreto aveva sperato che sua madre avrebbe posto obiezioni ad affidare la bambina alla cura dello Stato. Dina era sempre stata una donna generosa, incurante delle difficoltà che sormontava sempre con grande coraggio ed audacia. A malincuore aveva dovuto ammettere che questa volta si era sbagliato. Sua madre non era caduta nella trappola di provare pietà per la bambina, non si era posta un dilemma di coscienza. Orfanotrofio? Orfanotrofio sia. Era davvero cambiata Dina o era la percezione che aveva sempre avuto di sua madre inesatta? ‘La società è cambiata molto in questi ultimi decenni,’ si era detto Corrado a mo di scusa per il comportamento egoistico della madre. ‘Certo era presuntuoso ed arrogante da parte mio aspettarmi che lei si offrisse di tenere la bambina.’ Dina si stava facendo vecchia ed aveva sofferto abbastanza per tirare avanti senza un marito ed un lavoro decente. Aveva vissuto per i figli, aveva dato la sua gioventù e tutte le sue risorse di donna intraprendente e combattiva per farli crescere bene, dar loro un futuro decente ed una carriera solida. Era troppo chiederle di ricominciare a sacrificarsi per una bambina con cui non aveva nessun legame… No, era stato un sognatore, un visionario ad aspettarsi una reazione ultra generosa come quella di prendersi in casa una sconosciuta ed allevarla con amore come se fe parte della famiglia. “Corrado,” la voce gentile di Angela lo riscosse dalle sue elugubrazioni mentali. “Angela! Ti sei svegliata. Ti avevo portato una tazza di te ma sarà fredda ormai. Se vuoi scendo in cucina e te ne preparo un altra.” “No, lascia perdere. Mi sento molto meglio adesso. Forse ero solo stanca, il
riposo mi ha fatto bene.” “Bene allora. Se sei d’accordo riprendiamo il discorso interrotto. Te la senti di tornare di nuovo nella stanza e riprendere il dialogo con la donna?” Angela annui col capo. Corrado si diresse verso la cassettiera e depositò sul vassoio la sua tazza di tè vuota poi tornò accanto ad Angela, le sorrise, si accommodò sulla sedia e le posò la mano calda sulla fronte. “Andiamo. Chiudi gli occhi e torna nella stanza. Dirigiti li senza are per il bosco ed il portone. Vola dentro la stanza col tuo spirito e siediti di nuovo nella poltrona accanto al camino.” L’espressione sul volto di Angela perse ogni connotato. La sua bocca si schiuse leggermente. “Ecco. Sono seduta. Lei è lì coi gomiti poggiati sulla mensola del caminetto, il capo tra le mani. Non mi ha sentito arrivare. Non si e girata a guardarmi. Sta lì e piange un pianto sommesso. Nonso cosa devo fare, se andarle vicino e cercare di consolarla o aspettare in silenzio che si giri verso di me.” “Comportati come ti viene più, naturale” la icitò Corrado. Angela aspettò alcuni minuti poi si alzò dalla poltrona e si diresse verso la finestra. La donna avvertì i suoi i leggeri, alzò il capo e la guardò. Angela sentì lo sguardo sulla schiena ed avvertì un brivido profondo. Si girò di scatto e la fissò. Occhi negli occhi, le due donne rimasero in silenzio a guardarsi per lunghi interminabili attimi. Gli occhi tristi ma asciutti della donna fissavano gli occhi smarriti di Angela come se non la vedesse. Fu Angela a parlare per prima. “Mi parli ancora della sua bambina, la prego. Deve essere stata un esperienza bellissima avere una bimba così graziosa come figlia. La prego mi parli ancora di lei. Come ha detto che si chiamava?” La donna la guardò come se vedesse un fantasma.
“Deirdre, Deirdre. Si chiamava Deirdre. Come e possibile che hai dimenticato il suo nome?” Sembrava turbata, addolorata da tanta dimenticanza. Ma l’espressione turbata svanì presto. La donna si accommodò sulla poltrona di fronte ad Angela e ricominciò il suo racconto. “Era l’anno 1908. Lo ricordo bene. Come potrei dimenticarlo? Come potrei dimenticare ogni minimo particolare della mia Deirdre e della mia vita di allora?” Dicendo questo lanciò uno sguardo di leggero rimprovero ad Angela. Angela che non ricordava nemmeno il nome della sua Deirdre. “Di ritorno da Pietroburgo arrivai a Berlino e rividi la bimba dopo tre mesi di lontananza. Deirdre era una delizia solo a guardarla. Bellissima come il padre, con un temperamento dolce e servizievole. Andava in giro in punta di piedi muovendo le piccole braccia nell’aria con infinita grazia. Sempre sorridente. Bellissima. Ho incontrato Ellen per la prima volta e immediatamente provammo grande simpatia l’una per l’altra. Gordon deve aver provato il sentimento di una grande similarità tra noi due. Entrambe molto indipendenti, entrambe devote all’arte. Ellen manteneva Gordon praticamente. Io supplementavo le sue entrate con grande generosita. Cosa faceva con tutto questo denaro, con i nostri sudati soldi ancora non so. C’erano molte insinuazioni intorno alla reputazione di Gordon. Donne? Gioco? Chissa! No che me ne curassi allora. Lo amavo, lo amavo sempre. Ancora pensavo che fosse l’essere più ammirevole della terra. Ancora sentivo che le nostre anime erano attratte l’una verso l’altra come una fune indissolubile. Folle? Si, ero folle. Niente in vita dura eternamente. Neanche la più sublime …. Un giorno così lontano e perso nella nebbia dei ricordi Gordon piano piano ma inesorabilmente, io sapevo bene che ormai l’avevo perduto, Paris apparve nella mia vita. Era ricco, generoso, mi trattava come una regina, cosa altro posso dire? Entrò nella mia vita come un angelo custode che rassicura un’anima persa. Tra me e Gordon le cose cominciavano già ad andare male. I soldi che gli ava non erano mai sufficienti per coprire le spese delle sue stravaganze ed i regali alle donne che andavano e venivano nella sua vita. Gordon era diventato geloso dei miei successi e si attaccava a stupidi battibecchi senza fondamento.
Pretendeva che io ammettessi di avere copiato le sue scenografie per le mie composizioni artistiche. Insisteva su stupidi dettagli come un paio di tende blu. Diceva che io usando le vecchie tende bludi mia madre sul palcoscenico gli avevo rubato l’idea… Stupidaggini. Cominciavamo ad essere stanchi l’uno dell’altro. Strano come l’amore apisce…. Apisce inesorabilmente e nei modi più impensati. Non ricordo chi lasciò chi. Probabilmente ci lasciammo contemporaneamente. Stanchi di quelle stravaganze di ciascuno di noi che all’inizio ci avevano attratto l’uno verso l’altro. La mia carriera d’altro canto andava a gonfie vele. La mia tournee in America segna il periodo più felice e gratificante della mia vita. Non solo stavo avendo un successo strepitoso ma per la prima volta nella mia vita avevo un conto in bancache cresceva con la mia fama. Ero felice come non mai. Se non fosse stato per la mia scuola a Berlino e mia figlia che mi mancava enormemente sarei rimasta per sempre in America. Le vicende del cuore hanno sempre dettato la mia vita e la nostalgia per la mia vita in Europa era straziante. Un giorno decisi di prendere la nave e tornare a quella che consideravo la base della mia vita. A Parigi fui riunita con mia figlia e il sogno di una scuola tutta mia. Ero al settimo cielo. Ricominciai a danzare. Sotto la direzione artistica di Lugne Poe le mie rappresentazioni toccarono un nuovo apice. Lugne ingaggiò la Colonne Orhcestra a prendere direzione della musica ed insieme conquistammo Parigi! I più grandi poeti gratificarono la mia Arte scrivendo entusiasticamente di me e delle mie rappresentazioni. Avevo Parigi ai miei piedi e la mia scuola sembrava ormai cosi vicina! Affittai due grandi appartamenti in Rue Danton No. 5. uno sopra l’altro. Uno per me e l’altro per i miei studenti. Nonostante alcuni commenti negativi che consideravano il mio modo di danzare e comportarmi in privato scandaloso l’avvenire sembrava sereno. L’unico problema erano le spese di sostentamento per i miei studenti. Parigi è sempre stata una città molto costosa ed io ho sempre fatto fatica a contenere le spese. C’erano giorni in cui cominciavo a pensare che la mia Scuola sarebbe rimasta un sogno e niente altro. Troppe spese, troppe persone da mantenere… Adesso poi avevo anche una figlia, una figlia che adoravo e che adorava me. C’erano momenti in cui pensavo che non ce l’avrei mai fatta, non da sola, non solo con le mie rappresentazioni.I miei allievi erano ormai 40 e più e provvedere per tutti solo con la mia Arte stava diventando di giorno in giorno più problematico. Miricordo una mattina controllando il bilancio delle spese che mia sorella Elisabetta mi aveva porto, commentai con una risatina sarcastica: ‘Questa
situazione non può andare avanti. Presto sarò bancarotta. Quello di cui ho bisogno e un milionario.’ La vita e strana, molto strana. Non so se a volte la vita ascolta le nostre preghiere o se siamo noi con la telepatia ad influenzare gli eventi, fatto è che presto il mio desiderio divenne realtà. Una mattina come tante altre ero seduta alla mia toletta dopo una rappresentazione teatrale al Gaiete Lyrique e mi stavo arricciando i capelli per la rappresentazione del pomeriggio quandola mia attendente venne da me con un biglietto da visita. Il nome stampato sopra era ben conosciuto. Il mio cuore diede un tuffo. ‘Ecco il mio milionario!’ dissi a me stessa. Ordinò alla donna di farlo entrare e subito lui venne. Alto, biondo con una ricca barba. La mia prima impressione fu di un uomo timido forse insicuro. Aveva una bella voce. Dal tono gentile. Ricordo le prime parole che mi disse come se fosse ieri. “Lei non mi conosce ma io si. L’ho applaudita tante volte tra la folla alle sue rappresentazioni. Sono un suo grande ammiratore.” Io lo guardai intensamente e d’improvviso ebbi la sensazione di averlo incontrato già. Era al funerale del Principe di Polignac, un mio vecchio amico. Ricordai la sensazione di lutto che avvolgeva il mio cuore di giovane donna, le parole di condoglianza che trasferivo da una persona all altra della famiglia quando d’improvviso i miei occhi avevano incontrato gli occhi di un uomo alto e serio. L’uomo che mi stava adesso di fronte. Ci eravamo incontrati già. Ad un funerale. Che terrribile presagio! Tuttavia appena gli strinsi la mano nel mio camerino quella mattina lontana il mio cuore immediatamente seppe che avevo trovato il mio milionario. Paris, Paris Singer, il figlio del famoso inventore della macchina da cucire. Paris aveva una grande qualità. Era diretto. Subito mi disse: ‘Io possiedo una villa in Riviera. Mi farebbe piacere ospitare lei e tutti i suoi allievi. Naturalmente a mie spese.. Lì in un soggiorno spensierato e tranquillo lei potrà attendere alla sua Arte, ideare nuove rappresentazioni e concederemi il piacere della sua presenza.’ Caspita. Che proposta irresistibile.Non ebbi bisogno di pensarci sopra per accettare quella proposta tanto generosa. Organizzai in fretta tutto il necessario
ed entro una settimana io, la mia famiglia, i miei allievi intraprendemmo un viaggio in prima classe per andare a trascorrere una vacanza indimenticabile in Riviera. Tutto a spese di Paris Singer. Lui ci aspettava alla stazione. La sua villa era bellissima. Dal terrazzo si poteva vedere il mare e lo yacht che gli apparteneva. La mia vitasi era trasformata in sogno. Un sogno bellissimo al di là di ogni aspettazione. Il giardino della villa profumava di fiori di arancio. Alberi di frutta erano dovunque e le mie allieve erano eccitate e felici. Danzavano leggere nelle loro tuniche celeste con le mani piene di frutta. Paris era molto gentile con tutte loro. Le viziava quasi. Si faceva in quattro per esaudire ogni loro piccolo desiderio e loro ricambiavano la sua gentilezza con adorazione. D’improvviso la vita mi stava dando tutto quello di cui avevo bisogno e più. Non mi ero mai sentito tanto felice. La gratitudine che provavo per lui si trasformò presto in qualcosa di più profondo e significativo. La villa dove io e il mio entourage vivevamo si trovava a Beaulieu. Paris da gran gentiluomo si era sistemato in albergo a Nizza. Di tanto in tanto Paris mi chiedeva di cenare con lui. Una sera andammo a cena in uno dei più bei locali di Nizza e lì per la prima volta incontrai la mia rivale. Mentre io indossavo una semplice tunica alla Greca, la mia tenuta preferita, l’altra donna era elegantemente e lussuosamente vestita con tanto di perle e diamanti. Bastò uno sguardo perchè entrambe capissimo la situazione. Eravamo due donne in successione nella vita di Paris. Una di noi due stava per uscirne mentre un’altra stava per entrare. Era anche molto chiaro chi stava predominando al momento. Ricordo ancora il suo sguardo di odio. Non deve essere stato facile per lei accettare la sconfitta ed andarsene tranquillamente con dignità. Un pomeriggio Paris, con la consueta generosità che lo distingueva, organizzò al Casino un ballo in maschera a cui invitò tutti i suoi amici. La donna in perle e diamanti era anche presente. Dovevamo tutti indossare costumi da Pierrot e ricordo ancora l’aria gioiosa e puerile che inondava il Salone. Io mi trovai persino a danzare con la mia rivale! Che giorni folli erano quelli con Paris. Quanto erano spensierati e felici. Mi sentivo cosi fortunata! Nel mezzo della festa qualcuno venne a chiamarmi. Una telefonata per me. Raggiunsi in fretta il telefono e la realtà mi raggiunse in pieno. Una delle mie allieve si sentiva male ed occorreva fare qualcosa al più presto. Mi avviai di corsa verso Paris e lo misi al corrente della situazione. Avevo bisogno di un dottore e presto. Erica, la
piccola Erica stava molto male. Bisognava fare qualcosa al più presto. Lui venne con me al telefono e li nella penombra mentre ansiosi cercavamo un dottore le nostre labbra si toccarono per la prima volta. I sentimenti che provavamo l’uno per l’altro si erano accesi ma la preoccupazione per la piccola Erica ci impedì di indulgiare nel vortice della ione. Paris prese comando e in un battibaleno la sua autombile fu all’entrata del Casino pronta a portarci così come eravamo vestiti da Pierrot, a prendere il dottore e portarlo di corsa alla villa di Beaulieu. La bambina stava soffocando ed il suo visetto stava diventando nero per la mancanza di ossigeno. Il dottore fece tutto quello che era necessario per salvarla e due ore dopo, trepidanti accanto al suo lettino, fummo finalmente rassicurati che la bimba era salva. Lacrime di gioia cominciarono a scorrere lungo le nostre guance portando con se il trucco bianco del viso di Pierrot. Fu allora che Paris mi prese per la prima volta tra le sue braccia e mi sussurrò ‘Coraggio, amore mio. Tutto e in ordine. Torniamo dai nostri ospiti.’ In quel ‘nostri’ c’era la sua promessa di unione.Il nostro ritorno in automobile al Salone del Casino di Nizza fu speso l’uno tra le braccia dell’altro. Le sue parole divennero calde ed intime. La sua timidezza svanì per incanto mentre mi sussurrava parole di amore e promesse di un avvenire senza fine. Tra di noi rimaneva però la donna di perle e diamanti. Non appena entrammo di nuovo nel Salone le bastò un occhiata per capire che la sua battaglia era perduta. La sua storia con Paris apparteneva ormai al ato. Afferrò un coltello da una delle tavole addobbate per la cena e con questo in mano si avvicinò furiosa a Paris. Lui immediatamente si accorse delle sue intenzioni e prontamente le brandì il polso della mano che reggeva il coltello e con uno strano e veloce movimento del suo braccio la fece girare su se stessa muovendo il coltello nell aria. Spingendola avanti col suo corpo la costrinse a seguirlo in direzione delle toilettes dove la consegnò ad uno degli attendenti dichiarando che la donna si sentiva poco bene ed aveva bisogno di un bicchiere di acqua. Chiese anche di averla accompagnata in albergo. Quando tornò tra noi Paris sembrava tranquillo e sereno. Ballammo a lungo quella sera felici di stringere i nostri corpi l’uno contro l’altro. Le ore arono liete e la festa terminò alle cinque di mattina dopo che avevo danzato furiosamente ad una ad una le emozioni di quell’indescrivibile pomeriggio d’estate in un Tango Apache. Così cominciò la mia storia d’amore con Paris Singer. Quella mattina Paris non tornò in albergo. Venne nella villa di Beaulieu con me iniziando la nostra vita in comune.
La mattina seguente ci alzammo di buon’ora e salpammo verso l’Italia. Paris, me e Deirdre felici sullo yacht che procedendo veloce sembrava ansioso di lasciare tutto alle spalle volgendo la prua verso un domani felice. Ma non tutte le favole finiscono bene e spesso il denaro porta con se una maledizione invincibile e quelli che lo possiedono in abbondanza non rimangono mai felici a lungo. I sentimenti che avevano unito me e Paris erano sinceri ma nel rapporto uomo e donna entrano tante altre variabili. Noi due eravamo distantie diversi come il Sole e la Luna. Devo ammettere che come interprete dell’anima umana non sono mai stata un successo. La mia esperienza con Gordon e le sue tiritere egocentriche avrebbero dovuto mettermi in guardia contro gli uomini. La psicologia non è mai stata il mio forte. Come tutti gli artisti ho sempre trovato difficile guardare alla realtà con distacco. Avrei dovuto capire dall’inizio che dietro la faccia mondana di Paris si celava una mentalità ugualmente egocentrica e direi paranoica. Un uomo abituato a spendere senza pensiero il patrimonio del padre dedicando la sua vita a speculazioni capitalistiche raramente è un uomo veramente generoso. La sua generosità era in fondo poco più di un atto di compra. Anche quando i suoi sentimenti erano genuini c’era sempre un atteggiamento di egoismo dietro. Paris giocava a rimpiattino con la noia di un’esistenza priva di ambizione e fine. Il fine della sua esistenza era di occupare la mente ed il cuore con occupazioni e persone che gli fero dimenticare la futilità di una vita spesa senza ideali. Tuttavia devo essere onesta. Se lui aveva i suoi difetti io non ero certo da meno. Persa nei miei sogni, totalmente estranea alla realtà di ogni giorno, devo averlo annoiato a morte con i miei discorsi su Marx, le mie citazioni della Repubblica di Platone ed i miei esilaranti monologhi su come il mondo dovrebbe essere riformato. Presto Paris si rese conto che razza di testa calda ero. I miei ideali apionati non si conciliavano affatto con la sua praticalità ed il suo stile di vita. Presto io mi trovai a sognare una libertà senza restrizioni sociali, lui si rammaricò di avermi dato tanta importanza cominciando a considerarmi un fardello imbarazzante dal punto di vista sociale. Incompatibili, direbbero oggi di noi due.” La donna abbassò il capo in una risatina nervosa e si girò con lo sguardo attento
verso Angela che immobile non si perdeva una parola, ammaliata com era dal racconto di Isadora. Rimasero a guardarsi alcuni istanti. Momenti di grande intensità che sembrarono unirle in un sentimento di comprensione totale. La donna rimaneva in silenzio. Angela la esortò: “La prego, continui. Devo sapere.” La donna annuì e riprese a raccontare. “Presto Paris si rese conto che era impossibile per lui conciliare il mio modo di essere con la sua pace di mente. Le mie idee ed il mio comportamento erano troppo diversi dal resto della massa per farlo sentire a suo agio. Mentre io giudicavo gli esseri umani in relazione al loro idealismo, lui li considerava dal punto di vista monetario. Ricordo un giorno stavo recitando ‘Canzone dalla via libera’ di Walt Whitman quando lui mi interruppe oltraggiato proclamando con disprezzo: ‘Ecco un uomo che non sarebbe mai in grado di guadagnarsi da vivere.’ La mia risposta fu altrettanto oltraggiata: ‘Possibile che non riesci a vedere la sua visione di un’America libera?’ ‘Che visione. Quell uomo e un fallito!’ Improvvisamente fui fulminata dal pensiero che io e Paris non avevamo niente in comune. La sua visione dell’America era quella di un paese dominato da un numero illimitato di fabbriche. Fabbriche che producevano macchine da cucire, naturalmente. Un paese che lo rendeva infinitamente ricco grazie allo sfruttamento di migliaia di lavoratori. Considerato il problema tra di noi sarei dovuta fuggire via da lui. Singer avrebbe dovuto lasciarmi cadere come una patata bollente. Il fatto è che ormai aveamo sentimenti l’uno per l’altro ed il Rubicone era già stato attraversato. Difficile tornare indietro. Poi cercammo di conciliarele nostre differenze in un tentativo vano di renderle meno importanti. Follia del cuore umano. Cerchiamo di aggiustarci la realtà a nostro piacimento. Impossibile! Mi lasciai andare tra le sue braccia con la speranza che un giorno sarei riuscita a redimerlo, a renderlo più sensibile verso l’Umanità in generale ed i suoi sogni di
gloria spirituale. In fondo anch’io ero solamente un piccolo essere intrappolato nelle sue imperfezioni. L’idea che lui sarebbe stato il nesso tra la Scuola dei miei sogni e la sua realizzazione pratica era troppo grandiosa ed altruistica da restringermi dall’accettare una visione imperfetta del nostro rapporto sentimentale. Il Destino aveva tessuto una rete intorno a me e Singer. Non sarei stata io a distruggerla. Insieme a me troppa gente dipendeva sulla generosità di Paris per gettare via l’occasione della realizzazione di un sogno. Certamente un certo grado di egoismoda parte mia deve essere stato presente. Finalmente stavo con un uomo che non chiedeva denaro ma spendeva denaro per me. Il fatto che Paris non era coinvolto in arte aveva i suoi lati positivi. Non c’era rivalità tra noi, come alla fine era successo con Gordon. Così rinfrescante. Per la prima volta avevo una vita privata ed una vita pubblica e le due non si mescolavano. La relazione con Gordon mi aveva stancato molto, Paris insieme con la sicurezza economica mi regalò un rinnovato entusiasmo per la mia Arte. Col mio lusso personale vennero un teatro ed una Scuola, la mia Scuola di Danza. Cosa altro potevo desiderare di più? Tuttavia non ero completamente felice. Tutto quel lusso, quei soldi spesi per rendere l’ozio piacevole mi disturbavano interiormente. Quando navigavamo le acque blu del Mediterraneo su quello yacht da favola a volte il pensiero che mentre noi pranzavamo intorno ad una tavola imbandita con cristalli ed argento gustando pietanze deliziose ed bevendo innumerevoli bicchieri di vino pregiato una folla di domestici e servitori lavorava sodo per il nostro piacere. Eravamo solamente io, Paris e Deidre su quello yacht ma al nostro servizio avevamo cinquanta persone, un Capitano, un sottocomandante e mentre noi ammiravamo incantati lo splendore del tramonto sull acqua cristallina c’erano persone chiuse nella sala del motore che non vedevano mai il cielo o il mare. Questi pensieri si mescolavano con un vago senso di egoismo che mi pervadeva l’anima e per ore spesso si divertivano a tormentarmi come folletti impazziti. Avevo tutto eppure non ero completamente felice. Il mio spirito si ribellava inconsciamente a tutto questo lusso e spesso mi trovavo a fare il confronto tra quei giorni dorati e la fame sofferta quando ero giovane ed io, con la mia famiglia, mi scervellavo a trovare un sistema per sbarcare il lunario facendo la fame nel frattempo. Certamente ero grata al Destino per tutto quel bene di Dio che mi stava
attraversando la vita eppure c’era qualcosa in questa realtà favolosa che mi rendeva irrequieta, mi tormentava come un ferro rovente che mi stuzzicava l’anima. Stavamo salpando intorno al Golfo di Napoli quando improvvisamente mi ricordai che avevo un contratto per danzare in Russia. Paris mi offrì il mondo pur di convincermi a rinunciare alla mia tournee e rimanere con lui. La tentazione era forte ma alla fine gli dissi arrivederci e con una cabina del treno piena di fiori e di dolci in attesa ci separammo a fatica. Devo confessare che lo strazio di separarmi dal suo amore era ampiamente compensato dal fatto che finalmente tornavo alla mia Arte ed in quella Russia che era stata tanto generosa di adulazione e familiarità con me. Certo il mio cuore soffriva per la separazione ma la mia mente esultava come se avesse ritrovato intatta la sua libertà di essere e di esprimersi. La tournee in Russia fu un successo come le precedenti. Questa volta però qualcosa di differente accadde. Un pomeriggio Gordon venne a trovarmi in camerino. La sorpresa e la gioia di vederlo fu talmente grande che per un attimo, un attimo solo, il mio cuore volò verso di lui dimenticando tutto e tutti. Per un attimo, un attimo solo sospeso nel nulla, Paris, la Scuola, le mie allieve, ogni cosa perse importanza. Fortunatamente un tratto del mio carattere è la fedeltà. Niente di sentimentale accadde tra me e Craig. Parlammo come avevamo sempre parlato tra noi. Arte, Arte e solo Arte. Gordon stava lavorando alla scenografia di Amleto per il Teatro Arte di Stanislavsky ed era euforico a causa del suo lavoro. Ricordo mi fece ridere tanto. Mi raccontò che tutte le attrici del Teatro si erano innamorate di lui e che faceva fatica a tenerle a distanza. Un modo di farmi ingelosire? Un tentativo di rivincita nei confronti del mio abbandono a favore di Singer? Chissa! Il cuore umano è ballerino. Il fatto è che Gordon era in gran forma. Allegro, pieno di vitalità, geniale nella composizione della scena, estremamente affascinante. Rivedendolo rimasi di nuovo soggiogata dal suo fascino, la sua esuberanza… La tentazione era forte ma io non mi feci preda ancora una volta della sua avidità di essere umano deciso ad avere tutto quello che voleva come se gli fosse dovuto. L’ultimo pomeriggio insieme a teatro mi chiese a bruciapelo se intendevo tornare da lui e quando lo negai si arrabbiò moltissimo. Chiese alla mia secretaria di seguirlo in un’altra stanza, chiuse la porta a chiave e lasciò a
me a Stanislavsky la pena di congetturare cosa stessero a fare da soli in quella stanza chiusa a chiave. Stanislavsky era molto turbato dal comportamento da Don Giovanni di Gordon. Io un po’ meno. Io e Stanislavsky cercammo di dimenticare Gordon ed il suo folle comportamento parlando per ore di Arte Moderna. Il giorno dopo presi il treno per Kiev e da lì raggiunsi Parigi. Così mi lasciai alle spalle Gordon Craig ancora una volta. A Parigi Paris Singer mi stava aspettando e con lui mi recai nel suo appartamento in Place des Vosges. Un appartamento buio e triste. Facemmo l’amore in un letto Louis XIV. Paris era un amante formidabile, generoso con le caresse ed i baci come era col suo denaro. Sensuale ed attento a viziarmi col piacere come mi viziava con la vita lussuosa che mi procurava mi convinse che il mio futuro era con lui e solo con lui.” La donna sorrise persa nel dedalo dei ricordi. “Paris mi introdusse ai migliori ristoranti di Parigi. I camerieri si facevano in quattro per noi dovunque andassimo. Non c’è da meravigliarsi, Paris distribuiva denaro intorno a lui come se fosse acqua.” La donna piegò il capo all indietro scotendo la testa. “Il denaro cambia le persone. Persino io divenni un’esperta culinaria.” La donna rise di nuovo una risata nervosa e triste. “Divenni esperta nella qualità dei vini, riconoscitrice delle varie annate. I sensi dell’olfatto e del sapore mi si raffinarono notevolmente.Ah, gli esseri umani sono così vulnerabili, così facili da corrompere. Io che avevo quasi sempre indossato tuniche semplici alla greca mi stavo trasformando in una donna della ricca borghesia. Lana d’inverno e lino d’estate con tanto di cappello adequato. Oh si, una vita da favola ma non sempre le favole finiscono bene. Ero viziata, nutrita e vestita a punto ma ogni cosa in vita ha un prezzo ed il prezzo da pagare per essere amata ed amare Singer si rivelò presto molto alto. Paris soffriva di nevrastenia. Il suo temperamento nervoso e depresso a volte era difficile da analizzare e trattare nella giusta misura. Ricordo una mattina gloriosa stavamo eggiando lungoil Bois de Boulogne quando avvertii il suo umore lugubre tra di noi. Mi volsi attenta verso di lui e chiesi con trepidazione cosa lo turbasse. ‘Mia madre. Non riesco a distogliere dalla mia mente il volto cadaverico di mia madre distesa nella bara. Che senso ha vivere se poi tutto finisce nel nulla e la
morte, solo la morte ci attende?’ Fu allora che mi convinsi che il denaro non rende felice nessuno, che neanche una vita di lussi e spensieratezza nei confronti delle spese non bastano a regalarci serenità, che uno yacht pronto a salpare dovunque si desideri andare spesso non e capace di portarci là dove vorremmo veramente andare. No, la vita con Paris Singer non era quello che mi ero aspettata. La solitudine di spirito veniva spesso accompagnata da una tristezza dell’anima che cominciava a tormentarmi. Non avrei potuto chiedere di più alla vita dal punto di vista materialistico ed amoroso. Paris mi aveva fatto scoprire nuovi abissi di piacere, mi aveva fatto scoprire reconditi angoli del mio corpo capaci di darmi un piacere sessuale che non avevo mai conosciuto prima eppure… Eppure non ero felice. Mi mancava il mio lavoro, la mia Arte. Deirdre mi riempiva di gioia ma confesso non riusciva a riempire tutti i vuoti della mia anima. Avevo bisogno di lavorare, di tornare a danzare. Avevo bisogno del pubblico, del piacere di gratificare una platea, di sentire lo scroscio degli applausi dietro di me quando lasciavo il palcoscenico… Inquieta, diventavo sempre piu inquieta. Avevo spesso paragonato Amore e Arte e posizionate sullo stesso livello spirtuale. L’equilibrio tra di loro è difficile da mantenere. Il cuore ha le sue ragioni che spesso non comprendiamo. L’amore di Paris per me ed il mio amore per lui mi avevano riempito il cuore di gioia e di estasi ma niente dura in eterno. Avevo raggiunto senza sapere come e perchè un plateau ed adesso era l’Arte che mi reclamava, la cui mancanza mi faceva soffrire. La nostalgia per la mia Arte, le mie rappresentazioni, la mia Scuola. La realtà sembra sempre meschina quando i sogni si insinuano nel suo spazio e la divorano con il desiderio di qualcosa che è perduto nello spazio di un’altra dimensione. Succede quasi sempre ad un artista di sacrificare l’amore per l’arte. Quando si stabilisce un rapporto di rivalità tra i due vince sempre l’arte ma la vittoria non è mai un trionfo. Nel cuore di un artista dopo la battaglia rimane solo un grande senso di disfatta. Questo è il tormento di un vero artista. La sua vita è sempre soggiogata da una chimera che alla fine lo distrugge perchè nessuna Arte, per quanto grande, può mai riempire il cuore di un mortale.”
Ci fu una pausa, una lunga pausa. Angela teneva il suo sguardo fisso sulla donna che, ormai seduta, si asciugava le lacrime con un fazzoletto di pizzo. La donna alzò finalmente il capo e fissò lo sguardo dritto in fondo agli occhi di Angela. “Che decisione inutile, quella di tornare alla mia Arte. Una decisione che avrebbe dovuto rendermi felice… È moto difficile in vita raggiungere la felicità se nonchè per brevi attimi fuggenti.Per la mia Arte ero disposta a rinunciare all amore profano. Tutto quello che ottenni fu una vita senza amore. La morte è in agguato. Sempre in agguato. Tutto le appartiene e lei afferra tutto senza neanche una scusa. Morte, solo la morte danza perennemente intorno a noi e ci distrugge a piacere.” Gli occhi della donna apparvero quasi illuminati da una luce sinistra mentre lo sguardo fissava nel vuoto, cupo, assorto. Angela non sapeva cosa dire. Sentiva nel suo cuore che le parole erano inutili di fronte ad un dolore così intenso, così profondo, così lontano eppure presente tra loro come un evento irrevocabile che il Destino non crea ma subisce. La donna era persa in una nebbia di ricordi che sembravano non avere nessuna pieta. Un ato che non riusciva a diventare ato. “Un giorno, com era inevitabile, scoprii di essere incinta di nuovo. Deirdre fu fuori di se dalla gioia quando glielo dissi. Povera figlia mia! Paris fu altrettanto commosso e felice. Per un lungo periodo le sue neurosi vennero relegate in una angolo. Sono ancora convinta che la notizia lo rese sinceramente felice. Spenemmo l’inverno salpando su e giù il Nilo, fermandoci spesso ad Alessandria. Fu un viaggio meraviglioso. Rivedo ancora l’aurora tinta di rosso, il tramonto incandescente, il giallo dorato delle dune del deserto, la gloria dei Templi, il fascino delle Tombe dei Faraoni. L’alba in Egitto sorge alle 4 del mattino con tale intensità che rende impossibile il sonno. Pressapoco alla stessa ora cominciava il rumore continuo dei servitori che attingevano acqua dal Nilo poi i cammelli, i lavoratori dei campi. Persino i marinai del nostro yacht non potevano resistere la tentazione di cantare allegramente. La vita invadeva le nostre giornate col suo folle ritmo e le mille attività di una civiltà che sembrava restia a fermarsi anche se per un solo attimo. Eravamo perennemente stanchi per la mancanza di riposo e di quiete ma tanto felici. Come posso dimenticare la grazia di Deirdre che danzava tra i vicoli di Tebe, volteggiava leggera su e giù per lo yacht. Oh Deirdre, incantevole Deirdre.
Sullo yacht avevamo un magnifico piano ed un pianista che suonava ogni pomeriggio e sera per noi. Bach e Beethoven accompagnavano le nostre ore di vagabondaggio sul Nilo.” Un sospiro leggero accompagnò le ultime parole. “Quando tornammo in Francia Paris acquistò immediatamente della terra a Cap Ferrat. Voleva far costruire per la nostra famiglia un grande castello di stile italiano. Il castello è ancora lì a Cap Ferrat. Incompleto come quasi tutti i progetti di Singer.La sua condizione nervosa peggiorava in fretta. Era sempre irrequieto, colto da un irresistibile impulso di acquistare terreni intorno a Cap Ferrat. A volte prendeva il primo treno della mattina per Parigi per tornare un paio di giorni dopo stanco ed avvilito. Io cercavo di rimanere calma e serena. L’abisso tra Vita e Arte nella mia vita si faceva sempre più profondo. Portavo dentro di me una seconda vita, avevo una figlia che adoravo ed un uomo generoso che m’amava eppure… eppure mi mancava la mia Arte. Mi mancava terribilmente. Un primo maggio bellissimo mio figlio nacque. Deirdre si precipitò subito nella mia stanza, guardò con gioia il fratellino e mi sussurrò dolce ‘Mamma, non dovrai preoccuparti per lui perchè io lo farò per te. Io lo proteggerò sempre e lo cullerò tra le mie braccia quando avrà paura.’ La piccola Deirdre mantenne la sua promessa fino all’ultimo. Li trovarono abbracciati insieme…” La donna singhiozzava adesso senza ritegno. “Di ritorno a Parigi Singer mi chiese di organizzare una festa per celebrare la nascita di Patrick. Inutile dire che suntuosa e costosa erano due aggettivi adatti a descriverla. Feci erigere marquees nel giardino della nostra villa a Versailles. Tavole imbandite di ogni ben di Dio, caviale e champagne naturalmente, tè e dolci. L’orchestra di Colonne suonava Wagner. Era un bellissimo pomeriggio di sole e tutti sembravano felici. Ovviamente l’elite se era presente. Mancava solo Paris. Non riuscivo a capire come mai non fosse presente. Dopo il concerto nel Parco della villa, un banchetto magnifico incantò gli ospiti che continuarono a trastullarsi felici tra gli alberi, la musica ed il cibo fino a mezzanotte, quando il Parco fu illuminato e le note di una Orchestra Viennese volavano leggere nell aria. Era una festa meravigliosa ma di Paris nessuna traccia. Infine un messaggio. Singer aveva avuto un infarto e stava molto male. L’euforia cedette alla depressione ed ancora una volta mi trovai a pensare che il denaro non promette la felicità, che le disgrazie stanno sempre in agguato e sono
capaci di distruggere ogni attimo di gioia provato o vissuto. Come si riprese Paris mi chiese di sposarlo. Rifiutai. Gli dissi quello che avevo detto anche a Gordon tanto tempo prima. Gli disse che il matrimonio non rientra nei piani di un artista. Cosa avrebbe fatto lui il giorno che avrei ripreso la mia carriera, le mie rappresentazioni, le mie tournees intorno al mondo, aspettato pazientemente nei camerini freddi, solo e depresso? La risposta di Paris fu come al solito la negazione della mia Arte. ‘Non avresti bisogno di lavorare e girare per il mondo in stressanti tournees se tu fossi mia moglie. Viaggeremmo tutti insieme in stile, senza fatica e senza preoccupazioni. Vivremmo nella mia casa di Londra o nella mia Residenza in campagna.’ L’idea mi sconvolse. ‘E cosa farei per are il tempo?’ gli chiesi inorridita. La risposta fu tipica di Singer. ‘Quando ti sentirai annoiata andremo tutti in giro per il mondo sul mio yacht.’ Oh, Paris! Quanto poco conoscevi dell’animo umano, anche tu come me. Come io insistevo che il matrimonio non mi si addiceva lui era adamante che avrei cambiato idea. Alla fine mi chiese di provare la vita matrimoniale con lui prima di declinare la sua offerta. Insieme decidemmo di vivere come una famiglia per tre mesi. Alla fine dei tre mesi avrei fatto la decisione finale se sposarlo o no.Andammo a vivere in Devon England in una casa piena di stanze da letto e bagni e con 14 automobili nel garage ed uno yacht a nostra disposizione nella baia. Una situazione da idillio. Solamente non avevo anticipato la grande guasta feste di tanto amorevole piano: la pioggia. Pioveva ogni giorno per quasi tutto il giorno. Incredibile! Gli inglesi non sembravano per niente turbati dal brutto tempo, noi si, lo eravamo. Una nuvola grigia si addensava nel nostro cielo. I vicini erano occupati a far niente, un bel niente addobbato con la famosa flemma inglese. Mangiare, dormire, sbrigare un poco di corrispondenza chiusi in casa al riparo da una pioggia insistente che danneggiava le ossa con la sua umidità. Nel pomeriggio uomini e donne si bardavano a festa e si recavano a cena. Una cena suntuosa in accordo con una impeccabile etichetta inglese. Non ho bisogno di dire altro. In capo ad un paio di settimane ero annoiata a morte, disperata. Cominciavo anch’io a soffrire di depressione acuta e vedevo la mia vita come un
infinito fallimento. Paris non può essere accusato di indifferenza o menefreghismo. Si rese presto conto che sofrivo di solitudine in quel castello bagnato di pioggia. Mi propose un giorno di tornare a danzare. In casa, naturalmente. C’era una Sala da ballo suntuosa, rivestita di arazzi Gobelin e un dipinto di David che raffigurava Napoleone nel giorno dell’invesitutra ad Imperatore. Sembra che David abbia fatto due dipinti sullo stesso tema e l’altro si trova al Louvre. La sala era ovviamente maestosa. L’idea mi piacque. Mi lasciava perplessa la grandiosità della sala. Paris suggerì di mandare a prendere le mie vecchie tende blu per appenderle sopra il David, di ricoprire il pavimento laccato con un grande tappeto. Chiesi a Colonne di venire a suonare per noi. Sfortunatamente aveva un impegno precedente e si offrì di mandare in sua vece un violinista della sua Orchestra che sapeva anche suonare bene il piano. Quest’era un omino strampalato, dall’apparenza buffa. Stranamente sentii subito un avversione prorompente contro di lui.Non potevo neanche guardarlo senza provare un senso di repulsione fisica. Lui se ne accorse, tanto che, spesso mi chiedeva cosa mi avesse detto o fatto di tanto orribile da meritarsi un trattamento simile da parte mia. Lui dal canto suo mi adorava .Io non potevo farci niente. Come lui entrava nella stanza provavo un senso di freddezza inconsueta e lo trattavo con un atteggiamento di distacco che non avevo usato mai prima con nessuno. Mi ricordo esattamente le parole di Paris quando lo misi al corrente dello strano effetto che quest uomo aveva su di me. ‘Bene. Una volta tanto non avrò ragione di essere geloso.’ ” La donna rise con gusto prima di riprendere la solita espressione triste. “Singer era ancora in convalescenza dal suo infarto. Nella villa con noi residevano anche un dottore ed un infermiera pronte a soccorrerlo in caso di bisogno. Mi guardavano con sospetto convinti che col mio atteggiamento fuori dalla norma mettevo in pericolo il riposo mentale di Paris. Ridicolo. Comunque essendo gli esperti in medicina riuscirono a convincere Paris che aveva bisogno di un riposo assoluto e questo implicava anche me. Mi spedirono all’altra estremità della villa a vivere lontana da lui. Singer spendeva le giornate chiuso nella sua stanza nutrito dall infermiera con una dieta a base di riso, maccheroni ed acqua, mentre il dottore gli prendeva la pressione sanguina ogni ora.
Pazzesco! Il fatto era che io essendo un’artista ero tagliata fuori da ogni decisione venendo considerata alla stregua di una deficiente. Avevano fatto venire da Parigi una specie di gabbia metallica dentro la quale Paris sedeva trafitto da correnti elettriche. Se tutta la situazione non fosse stata patetica mi avrebbe fatto morire dal ridere. Un giorno chiusi in macchina insieme ad uno scossone improvviso dovuto ad un dislivello nella strada, io ed il musicista che non sopportavo finimmo l’uno nelle bracia dell’altro. Fu una rivelazione dei sensi. D’improvviso non lo trovai più brutto ma al contrarario estremamente attraente. Ci chiudemmo in un abbraccio stretto e le nostre labbra si toccarono in un bacio apionato. Appena giunti alla villa ci dirigemmo verso la sala da ballo e dietro un sipario facemmo l’amore. Da allora iniziammo una forsennata relazione sessuale. La tresca non durò a lungo in quanto il musicista dovette presto andar via per seguire i suoi impegni di lavoro. Da tutta questa storia io imparai però che non ero assolutamente fatta per la vita domestica e così in autunno accettai una tournee in America e tornai alla mia Arte. Di ritorno in Francia, riuniti con i miei figli, mi recai a Neuilly dove comprai un piccolo studio e dove andai a vivere con loro. Era l’anno 1908. A Neuilly lavoravo giorno e notte totalmente assorbita dal mio lavoro. Lo studio aveva un bel giardino e tra gli alberi feci costruire una piccola casa per i miei figli e la governante così da non disturbarli col mio lavoro. Di tanto in tanto Paris veniva a trovarci. Si era ripreso ma la nevrastenia era sempre con lui. Era convinto avessi amanti dappertutto e spesso usciva di senno con oltraggiosi insulti verso la mia presunta promiscuità. D’improvviso un giorno partì per l’Egitto da solo. Quel giorno mi convinsi che aveva finalmente capito che non sarei mai stata l’animale domestico che si aspettava da me. Nel gennaio del 1913 andai in Russia per l’ennesima tournee. Tutti in Russia mi adoravano ricambiati con altrettanto entusiasmo da me. Arrivata a Kiev presi una slitta per il mio albergo. Il musicista Heine Skene che mi accompagnava in scena era con me. D’improvviso vidi ai lati della strada file di bare. Bare piccole e bianche, chiaramente di bambini. Ricordo ancora come se fosse ieri. Mi aggrappai ansimante al braccio di Skene e cominciai ad urlare come presa da un attacco di isterismo. ‘Guarda. Guarda. I bambini, i miei bambini sono morti!’
Skene mi guardò come se fossi d’improvviso impazzita e con un sorriso mi rassicurò. ‘Isadora, non c’è niente per la strada. Non vedo assolutamente niente.’ Io spalancai gli occhi e gli additai le piccole bare ai lati della slitta. Lui rise più forte e disse ancora: ‘Non vedo niente. Nessuna bara. Rassicurati. Vedo solo una pila di neve ad entrambi i lati della strada. La tua fantasia ti sta giocando un brutto tiro. Sono mucchi di neve che vedo, non bare bianche di bambini. La stanchezza del lungo viaggio ti sta facendo vedere cose che non esistono, non hanno ragione di esistere. Stai avendo un’allucinazione dovuta allo stress, credimi Isadora non c’è niente da preoccuparsi. Succede a tutti quando siamo troppo stanchi.’ Non era stanchezza ma premonizione. Gli artisti hanno anime molto sensibili, aperte ad influenze paranormali. No, non era stanchezza ma un presagio di cose a venire. Quella sera danzai seguendo la musica di Chopin. Al termine della mia rappresentazione mi girai verso Skene e gli chiesi di concludere suonando la Marcia Funebre di Chopin. Lui obiettò dicendo che non l’avevano mai eseguita prima e che io non avevo mai danzato senza prima discutere con lui la rappresentazione. Insistetti ed alla fine lui acconsentì. Danzai rappresentando una madre che trasporta suo figlio morto verso la sua tomba. Interpretai la musica rappresentando il corpo defunto che veniva seppellito e poi saliva al cielo con lo spirito nella direzione della Luce Eterna. Quando il sipario calò invece del solito tumulto di applausi mi seguì un silenzio glaciale. Mi volsi verso Skene, lui mi prese le mani tra le sue. Erano gelide. Pallido e tremante mi supplicò di non chiedergli mai più di suonare quel pezzo. La mia rappresentazione lo aveva turbato in maniera indescrivibile. Mi confessò più tardi che mentre suonava seguendo i miei i poteva sentire l’odore dei fiori bianchi del funerale e vedere bianche tombe di bambini tutte intorno a noi. Invece di mettere a riposo il mio tormento di madre le sue parole mi convinsero che per uno strano gioco del Destino eravamo diventati depositari della Verità. Ero ormai convinta che la mia visione ed il mio turbamento facevano parte di un Divino disegno di premonizione. Il mio cuore era pieno di angoscia.” Isadora si volse verso Angela. Rimase in silenzio per alcuni minuti poi col volto serio le disse: “Gli esseri umani pensano che il ato, il presente ed il futuro siano strade separate. Mentre camminiamo lungo la strada del presente non vediamo che il ato ed il futuro camminano sempre con noi. Esistono contemporaneamente al presente. Il tempo non ha spazio nè distinzione. A volte
gli avvenimenti si intralciano nel mondo spaziale e temporale e come le memorie del ato si affacciano di nuovo nella mente presente così gli avvenimenti che ci attendono si rivelano a noi prima ancora che accaddano sotto forma di premonizioni. Tornaia a Berlino ed Elisabetta, mia sorella, portò da Parigi i miei figli a visitarmi. Erano in ottima salute e rivederli mi consolò molto. Tutti insieme tornammo in Francia, nella nostra casa a Neuilly. Eravamo così felici. Deirdre danzava piccole rappresentazioni ideate da lei, così come spesso recitava brevi poemi sempre di sua composizione. Spesso la guardavo di soppiatto dal balcone della mia stanza e pensavo contenta che nelle sue mani delicate la mia Scuola avrebbe trovato un futuro. Patrick era molto più ribelle. Non mi permetteva assolutamente di insegnargli i di danza, voleva sperimentare secondo il suo capriccio. Ero così felice. I miei bambini crescevano bene, forti, belli e, quello che contava molto per me, erano entrambi dedicati all’Arte. Il mio cuore sapeva che non c’era niente al mondo che avrebbe potuto rendermi più felice di come ero al momento. Entrambi i miei figli erano ionati di musica e danza e spesso pensavo che un giorno avrebbero calcato il palcoscenico con me. Tuttavia di notte non dormivo bene. Avevo spesso incubi, mi svegliavo allarmata, sudata e tremante. Avevo cominciato a dormire con una candela accesa accanto a me. Avevo paura del buio. Una notte avvertii una presenza ai piedi del letto. Saplancai gli occhi e vidi una donna vestita di nero che mi guardava con pietà e sospirava. Per poco non lanciai un urlo di angoscia. Ero troppo nervosa ed agitata per danzare bene e così vidi un dottore che mi disse si trattava di grande tensione nervosa e mi consigliò di andare a are le giornate a Versailles tornando poi la sera a Parigi per le mie rappresentazioni. Io ed i bambini eravamo pronti per salire in vettura ed andare via verso Versailles quando una donna in lutto ci si avvicinò. La riconobbi come la Regina di Napoli. Lei ammirava la mia arte ed avevo danzato per lei. Mi si avvicinò tremante e mi disse che doveva assolutamente vedermi. Quando le spiegai che savamo partendo per Versailles mi chiese di venire con noi. Salì in vettura e sistemò i bambini sulle sue ginocchia. Il cuore mi si strinse a morte. Vedere quelle teste giovani e bionde dal sorriso felice riposare ai lati del corpo della Regina in una nuvola di stoffa e veli neri mi acceccò di depressione e sconforto. Arrivati a Versailles prendemmo tutti il tè poi consegnati i bambini alla governante acccompagnai la Regina nella sua stanza. Alla mia rappresentazione a Parigi quella stessa sera Paris, che non avevo visto
da mesi, venne nel mio camerino. Propose di vederci tutti insieme un giorno. Ne fui grata. Lo amavo sempre e volevo mostrargli come cresceva bene suo figlio. Tuttavia sparì dal teatro senza lasciare traccia. Sapevo che non era solo. Mi telefonò alcuni giorni più tardi per chiedermi di raggiungerlo con i bambini. Io, nel profondo del mio cuore, speravo in una riconciliazione. Ero più disposta di un tempo a vivere in famigla riconciliando nel miglior modo possibile la mia Arte con un vita domestica. Amavo così tanto stare con i miei figli che mi sembrava ora meno doloroso rinunciare alle tournee. Dissi a Deirdre che saremmo andati quel giorno tutti ad incontrare Paris ed udii la sua voce dire a Patrick: ‘Indovina dove andiamo oggi? Indovina Patrick.’ Risento spesso quella voce di bimba chiedere al fratellino di indovinare dove sarebbero andati. Mio Dio, poveri bambini se avessero saputo la tragedia che li attendeva a poche ore dalla casa. Arrivati a Parigi incontrammo Paris che fu lieto di vedere i bambini. Pranzammo in un ristorante italiano. Spaghetti e Chianti. Io e Singer cominciammo a fare progetti riguardo un pezzo di terreno che lui aveva comprato a Parigi poco prima di partire per l’Egitto. Era intenzionato a costruirvi la mia Scuola. Eravamo pieni di entusiasmo e felici. Io avevo una rappresentazione quella sera così più tardi consegnai i bambini alla governante e gli diedi con un bacio la buonanotte. Ricordo che una volta in vettura Deirdre aveva poggiato il visetto contro il vetro laterale e vi aveva deposto un bacio. Da fuori io a mia volta avevo poggiato le mie labbra sul vetro freddo e ricambiato il bacio. Un gelo immenso mi aveva pervaso il cuore quando la vettura aveva cominciato ad allontanarsi lenta. Sensazioni inspiegabili del cuore! Ci avviammo in direzioni differenti. Io verso il Teatro, loro verso casa. Ero nel mio camerino mangaindo cioccolatini che qualcuno mi aveva mandato ed assaporando già il mio ritorno a casa quando Paris comparve sulla soglia. Sembrava ubriaco. Giuntomi vicino crollò ai miei piedi. Mentre mi facevo su di lui per soccorrelo dalle sue labbra uscì la terrible sentenza: ‘I bambini, i bambini sono morti!’ ” Isadora scoppiò in singhiozzi. Singhiozzi violenti, disperati. Angela provò una stretta al cuore, una sofferenza indescrivibile come se la morte dei bambini la toccasse da vicino. Come se i bambini fossero i suoi. Lei pure
cominciò a singhiozzare, col capo chino, lo sguardo rivolto verso terra. Nessuna delle due donne parlava. Insieme singhiozzavano disperatamente. Corrado scosse leggermente il corpo di Angela ma senza risultato. Le lacrime scendevano, scorrevano fluenti sulle guance, il collo e si fermavano in piccole pozzanghere senza vita sul lenzuolo ed il colletto pijama di Angela. Preso alla sprovvista, Corrado entrò leggermente in panico. “Angela, Angela,” quasi gridò “Torna qui. Lascia la donna.” Le scoteva le spalle, le stringeva la mano gelida, le sussurrava con voce suadente nell’orecchio: “Angela, per favore ascoltami. Torna nella tua stanza, lascia la donna.” “Non posso abbandonare Isadora, non adesso. Lei ha bisogno di me ed io ho bisogno di lei. No, devo farle sapere che non è sola, che io condivido il suo dolore,” disse Angela con convinzione. Corrado che non si aspettava una reazione simile rimase senza parole. Non capitava spesso, non aveva mai sentito nessuno che sotto ipnosi decide di non seguire le istruzioni dell ipnotizzatore e si comporta di testa sua. “Angela ubbidisci. Lascia la donna e torna qui con me,” Corrado disse con voce autoritaria. Angela d’improvviso smise di singhiozzare e disse con una voce strana, completamente priva di emozione: “No, voglio, devo rimanere con lei. Il suo dolore e anche mio. Lo sento bruciarmi nell’anima come se avessi inghiottito carboni ardenti.”
Capitolo 9
Isadora era in piedi di fronte al camino, il capo tra le mani ed il corpo ancora scossa dai singhiozzi. Angela le si fece accanto. Le mise un braccio sulle spalle, avvicinò il volto alle mani che le racchiudevano il viso e disse calma ad Isadora. “Non sei sola. Ci sono io qui accanto a te e non ti lascerò finchè questa tragedia che coinvolge entrambe avrà trovato una fine. Non ho incontrato i tuoi figli, non penso. Raccontami ancora. Voglio sapere cosa successe dopo. Forse insieme, io e te, troveremo pace riuscendo a vedere al di là del tempo. Raccontami, per favore, cosa successe dopo la morte dei bambini…” Isadora alzò il capo a guardare Angela, col dorso della mano si asciugò in fretta le lacrime e riprese il racconto. “Ricordo un gran trambusto nel mio camerino. Un via vai di gente conosciuta e sconosciuta. In principio io non riuscivo a credere le parole di Paris. Lo confortavo, gli chiedevo dolcemente di calmarsi, gli dicevo che i bambini erano a casa, salvi. Lui pallido come se fosse morto era accasciato su se stesso e sembrava non udirmi. Poi vedendo la gente che arrivava e le loro facce funebri comincia a credergli. Stranamente non divenni isterica come mi sarei aspettata di diventare se avessi pensato alla situazione come ipotesi. D’improvviso divenni immobile, sembrava che le membra del mio corpo non fossero in grado di muoversi. Non sentivo più niente, non percepivo più niente. Le voci diventarono lontane, i suoni indistinti. Devo essere svenuta, non ricordo esattamente. Ricordo che stavano tutti piangendo tranne me. Io non avevo lacrime. Ero lì, di ghiaccio, come se il mondo si fosse fermato ed io fossi diventata una statua di sale. Mi rendevo conto che tutti gemevano e piangevano e, cosa ridicola, provavo il desiderio di confortarli, come se piangessero per niente. Come se niente fosse accaduto. Guardando indietro mi rendo conto quanto assurda deve essere stata la mia reazione a tale notizia. Era come se sapessi che la morte non esiste, che quei due piccoli corpi inerti non fossero più i miei figli ma solo riproduzioni di bambini che erano stati trasportati in un altra dimensione, un altra vita. Sapevo per istinto che i mie bambini sarebbero vissuti eternamente assorbiti da una Luce immensa e radiante. Fu solo quando andai a vedere i loro corpi immobili e freddi che un urlo potente uscì dal
mio petto come se leoni affamati mi avessero sbranato in furia. Il dolore proruppe allora in tutta la sua forza ed io mi accasciai al suolo implorando la morte di prendermi con se e portarmi dai miei figli. Fu allora che mi resi definitivamente conto che il mio essere madre era stato interrotto per sempre, che non avrei più accarezzato le teste bionde e tenere dei miei bambini, che la mia vita era finita e niente, proprio niente, neanche la mia Arte avrebbe potuto consolarmi di quella perdita che mi aveva lacerato l’anima come un fulmine. Non sono mai stata una persona religiosa. Da quando ero bambina ho sempre sentito un’avversione profonda per tutto quanto era anche lontanamente religioso. Ho sempre odiato le chiese, mi hanno sempre messo tanta tristezza adosso. Buie, così intensamente profumate di incenso, un incenso che mi faceva star male. Non ho mai creduto ai Dogma della religione, qualsiasi religione. Leggendo Ingersoll e Darwin mi aveva convinto che la religione è solo una sovrastruttura della società, un altro potere politico sull’essere umano. Un potere tinto di spiritualità vaga ed autoritaria. Ho sempre considerato la Chiesa una contraddizione in termini. Un Dio misericordioso ed omnipotente che ci lascia andare allo sbaraglio e soffrire da soli. Un Dio punitivo e severo che ci giudica alla fine della vita come se avessimo potuto scegliere il cammino della nostra vita. Puoi chiamarmi Pagana, forse lo ero. L’idea del matrimonio con tutte le sue convenzioni, rituali e regole di comoportamento mi ha sempre atterrito. Allo stesso modo mi hanno sempre sgomentato i funerali. Quella processione mesta di gente in lutto, quegli elogi superficiali ed a volte recitati con indifferenza come sul palcoscenico di un teatro. Così come avevo rifiutato di legalizzare le mie situazioni sentimentali col matrimonio, avevo anche rifiutato di avere i miei bambini battezzati. Avevo sempre pensato che la Morte e una ed una sola. Uguale per tutti.” Angela la interruppe con voce gentile. “Isadora, come sono morti i bambini?” Isadora la guardò con gli occhi pieni di lacrime e scosse il capo con impazienza. “Io non ti capisco. Come è possibile che tu mi chieda come sono morti i bambini? Come e possibile che tu mi dica che mi capisci, che mi sei vicina nel dolore quando non ti ricordi nemmeno come sono morti i nostri figli?” Angela sussultò e ripetè come in trance “I nostri figli? Ma io non ho figli!” Isadora scosse la testa in commiserazione.
“Com è possibile che tu non capisca, che non ancora non abbia realizzato che io e te siamo la stessa entità in forme diverse. Che io e te siamo proiezioni della stessa spirale di Luce che splende eterna nell’Infinito? Angela, tu hai preso vita dalla mia morte. Io ero te prima che tu ti materializzassi. Io e te siamo Uno.” Angela la guardava con gli occhi sbarrati dallo stupore. Isadora si volse di nuovo verso il camino e continuò come se non sapesse cosa stava succedendo nel cuore di Angela. “La vettura su cui i bambini viaggiavano stava tornando verso casa quando lungo un tratto della Senna senza barriera l’autista perse controllo e la vettura precipitò nel fiume. I bambini sono morti annegati,” finì in un singhiozzo la donna. Angela la guardava allibita. “Contro il volere dei benpensanti decisi di avere i bambini cremati. Non indossai il lutto e feci a meno di tutte quelle cerimonie morbose che accompagnano i rituali religiosi. Volevo dire addio ai miei bambini nella gloria della bellezza dell’arte. Fiori e musica furono gli unici addobbi che accettai per i miei figli. Sapendo che anime pure e dedite all’apprezzamento dell’arte com’erano sarebbe stato tutto quello che avrebbero chiesto per il loro funerale se fosse stato loro chiesto da vivi. Non so come ma sopravvissi l’atroce dolore di consegnare quei corpi bellissimi dei bambini alle fiamme della fornace. Tornai a casa con un mucchietto di ceneri nel dedalo dei ricordi dove prima c’erano state solo immagini allegre di bambini felici. Volevo solo una cosa; farla finita con la mia vita. Volevo raggiungere i miei bambini dovunque si fossero trovati adesso. Non volevo rimanere staccata da loro, rischiare di perderli nell’Infinito.” Isadora barcollando si staccò dal camino e si accasciò pesantemente sulla poltrona di fronte ad Angela. Angela che sentiva il cuore battere forte per l emozione delle rivelazioni si trovò a chiedere con voce sommessa: “Cos’accadde dopo? Che fu della tua vita, Isadora?” Spinta da un desiderio bruciante di conoscere il resto di una storia di cui si sentiva diventare sempre più protagonista Angela non si era neanche resa conto che d’improvviso aveva dato del tu alla donna e l’aveva apostrofata per nome.
Isadora alzò il volto triste a guardarla e scosse la testa in disapprovazione. “Tu non ricordi davvero niente, Angela, di quella che fu la mia vita, la tua vita, la nostra vita…. Come puoi avere dimenticato lo strazio di quei giorni, l’angoscia, il mio desiderio cocente di farla finita per sempre con un mondo crudele e privo di ogni significato? Tornai a Neuilly, naturalmente. I giorni non avano mai. Non mi interessava neanche più la mia Scuola, la mia Arte. Mi sentivo vecchia, inutile, terribilmente infelice. Cercavo un modo per finire la mia vita, pensavo solo alla morte. Furono le mie allieve alla Scuola che mi fecero riflettere, che mi confortarono un poco. ‘Isadora, noi siamo le tue figlie adesso, non puoi abbandonarci. Vivi per noi.’ Vedendo quelle bambine piangere per Deirdre e Patrick, coi loro visetti tristi e compunti, mi sentii colpevole di egoismo. Decisi di vivere per loro. Ma c’erano giorni in cui la mia forza d’animo vacillava e mi ritrovavo a congetturare la mia morte. Lo strazio del mio cuore era troppo grande. Raimondo, mio fratello, stava lavorando in Albania con i profughi. Mi chiese di raggiungerlo, di aiutarlo a confortare le donne ed i bambini, di assisterlo a provvedere cibo e riparo per loro. Fu la chiamata di cui avevo bisogno per uscire dal mio tragico letargo. Presi la mia tunica greca ed i miei sandali e raggiunsi l’Albania. Raimondo era un essere straordinario. Con il suo acuto senso del commercio escogitò tutto un sistema di aiuto per i profughi estremamente redditizio. Comprò una grande quantità di lana grezza. Il suo piano era ingegnoso. Se col suo denaro avesse comprato cibo per loro sarebbe riuscito a nutrirli solo pochi giorni. Acquistando lana ed insegnando loro a tessere praticamente diede inizio ad un’impresa capace di nutrirli e sostenerli in futuro. Pagava ogni tessitore una drachma al giorno insieme a razioni di granturco. Presto file di profughi si formarono chiedendo di lavorare per lui. Presto lui stesso ideò modelli basati su antichi disegni greci e gli insegnò a tessere seguendo diversi modelli. In breve dai pullovers si ò a coperture per divani e poltrone. Mio fratello diede avvio ad un’impresa che impiegava tante donne e giovani regalando loro un senso di auto rispetto che la semplice carità non avrebbe mai dato loro. L’impresa si sviluppò così bene che dall’America arrivavano ordini tali da mettere pressione sul lavoro. Non riuscivano a tessere abbastanza in fretta per la domanda del mercato. Col profitto dell’impresa Raimondo iniziò un’attività di forno che vendeva pane a metà prezzo di quello del Governo. E così via, piano piano Raimondo mise su
un intero villaggio autosufficiente. Un villaggio dove tutti lavoravano, erano soddisfatti col loro tenore di vita ed avevano acquistato orgoglio e auto-rispetto personale.” Isadora sorrise contenta persa nel ricordo. “Raimondo deve aver ereditato il senso di business da nostro padre.” “Che mestiere faceva vostro padre?” chiese Angela curiosa. “Era un banchiere. Non ricordi neanche questo? Non ricordi che ci aveva abbandonato in tenera età per un’altra donna? Ricorderai almeno che nostra madre era una brava pianista e che fu attraverso le lezioni di piano che dava incessantemente in casa a sfamarci quando eravamo bambini?” Angela non rispose. Si sentiva smarrita. Isadora aveva ragione, com’era possibile che non ricordava niente o quasi niente. Isadora riprese il racconto con un lieve sorriso di accommodamento per la povera memoria di Angela. “Avevamo eretto una tenda in riva al mare ed ogni mattina andavamo a bagnarci nelle acque prima di fare colazione. Di tanto in tanto Raimondo si ritrovava con una quantità in eccesso di pane e patate allora andavamo per i villaggi vicini a distribuirli ai poveri. Mio Dio in che stato i turchi avevano ridotto l’Albania. Case e fabbriche distrutte dovunque andavamo. Famiglie spezzate dalla morte. Mi ricordo ancora una donna che trovammo piangente ai piedi di un albero e che tentava disperatamente e con ostinazione di nutrire un neonato con quel poco di latte che le usciva da un seno emaciato. Intorno a lei quattro o cinque bambini in tenera eta. Il marito ed il fratello erano stati uccisi dai turchi senza pietà. Con gli occhi asciutti di chi non ha più lacrime ci disse in un sospiro che non aveva più alcun familiare e che non sapeva come e se sarebbe riuscita a sopravvivere un altro giorno. Non aveva niente da dare da mangiare ai bambini, il neonato urlava per la fame e lei pregava, pregava ma intorno era solo devastazione. Naturalmente la prendemmo con noi. Una volta tanto potemmo testimoniare che le preghiere rivolte a Dio vengono esaudite. Vivendo in modo consono con la natura e preoccupandomi degli altri più che di me stessa, nel fiore degli anni com’ero allora, ritrovai presto la mia forza e la mia salute. Un bel giorno decisi di lasciare quel mondo e tornare nel mio. C’è una bella differenza tra l’essere un’artista ed essere una santa. Non sono mai
stata nè mi sono mai sentita una santa. In questo mio fratello è sempre stato migliore di me. Decisi di recarmi a Costantinopoli e visitare la città che non conoscevo. Chiesi a Penelope, la compagna di Raimondo, di accopagnarmi. Insieme partimmo una mattina presto, abbandonando le nostre tuniche greche ed i sandali. Penelope era lieta di lasciare la vita austera a cui mio fratello l’assoggettava giorno dopo giorno in nome della vera essenza della Vita. Sulla nave che ci portava a Costantinopoli, in quelle lunghe ore senza sonno, notai la figura di un giovane uomo in vestito bianco. Mi ricordava Gordon Craig da giovane, quando in estate usava sempre vestirsi in lino bianco. Il giovane teneva un libro aperto tra le mani e sembrava recitare a bassa voce quello che leggeva. Incuriosita mi feci vicina e gli mostrai il mio interesse per la sua lettura. Mi spiegò si tratttava di Amleto di Shakespeare e così cominciammo a conversare di poesia, di musica, di arte. Alla fine mi disse che si recava a Costantinopoli ad incontrare la madre. Due suoi fratelli, uno più grande di lui, l’altro più giovane, avevano entrambi commesso suicidio e la povera donna era disperata. La sua storia mi scosse molto. Ancora di più quando il giovane mi confessò che anche lui stava meditando il suicidio. Trovava la sua vita pesante e disperata per continuare a vivere come niente fosse. Lì per lì pensai che forse il suo dolore derivava dalla morte improvvisa dei fratelli. Fui presentata nel porto di arrivo alla madre, una donna alta e magra, e devo confessare presto mi dimenticai di lui. Un giorno in albergo mi telefonò la madre del giovane e piangendo a dirotto mi chiese di aiutare il figlio che lei sospettava aveva lasciato la sua casa per andare in una villa che aveva a commettere suicidio. Rimasi in silenzio per un poco poi trovai il coraggio di confessarle che veramente non vedevo proprio come avrei potuto aiutare suo figlio. Mi spiegò che il ragazzo le aveva parlato a lungo di me spiegandole l’impatto che la mia anima aveva avuto sulla sua. ‘Se c’è una persona che può dissuaderlo dal suicidio e farlo tornare con gioia alla vita, quella persona è lei.’ Perplessa le promisi il mio aiuto. Seguendo le sue indicazioni raggiunsi la villa del figlio e lo trovai lì, sdraiato su un letto, quasi inconscio. Accanto a lui una pistola. Lo scossi a lungo, felice di essere arrivata in tempo, lo trascinai via dal letto e non so come riuscii a farmi raccontare la ragione della sua disperazione. Non era il dolore per la sorte dei fratelli che lo stava spingendo alla tomba ma il fatto che il giovane di cui era innamorato follemente non voleva ricambiare il suo amore. Ho sempre dedicato la mia vita all’Arte, all’espressione più alta e spirituale di Gioia ed Amore. Non ho mai categorizzato l’amore fisico entro regole e convenzioni sociali. Decisi di aiutarlo. Telefonai al giovane Silvio e gli chiesi di raggiunerci nella villa di Raoul, l’uomo innamorato di lui.
Silvio venne e mi fece piacere vedere come Raoul sembrava riprendere vita in sua presenza. Sfortunatamente Silvio per ragioni sue di cui non sono sicura declinò la dichiarazione di amore dell’amico e presto ripartì da solo. Mi dispiace ma cosa potevo fare. Io e Penelope ammo la notte nel nostro albergo a discutere cosa si potesse fare per alleviare il dolore di Raoul. Alla fine decidemmo di comune accordo che Raoul stesso doveva superare la delusione d’amore di cui era afflitto e riprendere la sua vita con rinnovata speranza per il futuro. Quando il sole della mattina ci raggiunse, decidemmo di girovagare per il vecchio quartiere della città. In un vicolo stretto e buio vedemmo la pubblicità per una donna capace di divinare il futuro. Ci andammo insieme. La donna era di origine Armena. Aveva perso tutta la sua famiglia trucidata dai turchi. Lei era presente nella stessa stanza dove, ad uno ad uno, tutti i suoi figli, le sue figlie ed i nipoti. Da quel giorno era diventata medium e poteva vedere nella nebbia del futuro. Penelope poteva parlare un po’ di greco come la donna e così le chiedemmo di vedere nel mio futuro. Lei mi definì figlia del Sole e mi disse che ci sarebbero state tante Scuole nel mondo dedicate alla venerazione della mia Arte. Un’innumerevole successione di Tempi dedicati alla Bellezza ed alla Gioia. Le sue parole mi confortarono e per un attimo mi fecero quasi felice. La predizione fatta a Penelope non fu altrettanto benigna. La donna profetizzò che non avrebbe avuto la figlia che desiderava. Suo figlio Menalkas stava male e altrettanto malato era anche l’uomo che amava. La chiaroveggente le disse che presto avrebbe ricevuto un telegramma con brutte notizie. La donna non era una truffatrice. Facemmo appena in tempo a mettere i piedi dentro l’albergo che l’usciere ci si fece incontro con un telegramma. Penelope era in stato di shock. Fu io ad aprire il biglietto che diceva ‘Menalkas malato. Raimondo molto malato. Torna subito.’ Radunammo in fretta le nostre cose nei bauli e decidemmo d’imbarcarci sulla nave che partiva al tramonto. All’ultimo minuto mi ricordai di Raoul e della povera madre. Le scrissi un
biglietto in cui la esortavo a convincere il figlio a lasciare Costantinopoli. Era l’unica soluzione che potevo intravedere per le sue angustie amorose. Il viaggiare e la lontananza dal giovane che lo rifiutava avrebbero forse distratto il suo cuore dal pensiero angoscioso della morte. L’avvertivo che io sarei partita alle cinque della sera e che non potevo assolutamente fare altro per le angustie del figlio. Non ricevetti risposta. Fu con grande sorpresa che al momento di imbarco scorsi tra la folla Raoul, anche lui pronto a salpare sulla stessa nave. Quando arrivammo in Albania trovammo Raimondo e suo figlio seriamente malati. Entrambi avevano una febbre altissima. Io scongiurai Raimondo di lasciare l’Albania, di tornare in Europa con me ma, naturalmente, senza successo. Mio fratello non voleva assolutamente lasciare il suo villaggio di successo e quella terra desolata e bisognosa di carità. Penelope, naturalmente, non aveva nessuna intenzione di andarsene senza di lui e così alla fine dovetti abbandonarli al loro destino di benefattori dell’Umanità e ripartire da sola. A Trieste chiesi al mio autista di raggiungermi con la vettura ed insieme a Raoul, proseguii il mio viaggio di ritorno verso la mia Arte. A Ginevra lasciai il mio compagno di viaggio che, lentamente ma inesorabilmente come tutte le cose della vita umana, era riuscito a riprendersi dalla sua delusione sentimentale. Raoul promise di tornare a dedicare la sua vita al Teatro e con grandi abbracci ci salutammo per sempre. Seppi, alcuni anni più tardi, che era diventato un attore famoso ma non lo incontrai mai più. Mi soffermai in Svizzera per un poco. Tornata in Europa, un grande senso di vuoto si era impadronito di me. Girovagavo in vettura senza potermi fermare a lungo in nessun posto. L’irrequietudine, un grande bisogno di muovermi continuamente, si era impadronita del mio animo. Ero tornata in Europa ed ero infelice come non mai. Un giorno finalmente decisi di tornare a Parigi. Tornai a Neuilly. Il posto era deserto eccetto per il giardiniere che abitava nella casetta all’entrata e governava il cancello alla villa. La vista delle mie tende blu mi infuse nuova determinazione a riprendere la mia Arte. Mi sentii rinvigorita. Poi un giorno mi feci coraggio ed andai nella piccola casa dove i miei figli avevano alloggiato felici sotto la mia ala protettrice. Certo deve essere stato un effetto di allucinazione ma giuro che sentii nell’aria le loro risate felici e quando vidi per terra, lasciati ancora come se dovessero tornare da un
momento all’altro, i loro giocattoli, i loro vestiti appesi nel guardaroba, mi sentii distruggere dal dolore ancora una volta. Scoppiai a piangere, non riuscivo a frenare il mio dolore e le mie lacrime. Decisi allora di abbandonare Neuilly. Raggiunsi l’Italia e mi diressi verso Venezia. Da li mi avviai verso Firenze e sapendo che Gordon viveva lì fui tentata in maniera indescrivibile di chiamarlo. Tuttavia il pensiero che era ormai sposato e dedito ad una vita famigliare serena mi convinse che la nostra storia era finita per sempre. Mi infilai nella vettura e ripresi il mio vagabondaggio solitario. Un giorno in un piccolo villaggio lungo la costa mi raggiunse una nota da Eleonora Duse in cui mi diceva che era a conoscenza del mio peregrinare per l’Italia e mi esortava a raggiungerla a Viareggio. Così feci. Eleonora entrò nella mia vita come un raggio di sole. Nel suo abbraccio trovai finalmente la pace dello spirito che stavo inseguendo da tanto tempo. La sua dolcezza, la sua empatia mi avvolsero come un mantello di protezione. Mentre tutti gli altri mi avevano sempre chiesto di dimenticare la disgrazia ed andare avanti con la mia vita come se niente fosse accaduto, Eleonora mi avviluppò nella sua comprensione per il mio dolore. Non fui più sola, abbandonata a me stessa nella mia sofferenza indescrivibile. Lei piangeva con me, mi esortava a raccontarle i miei ricordi di madre, si prendeva cura di me come una madre, una sorella, una vera amica. Un giorno danzai per lei; Adagio dalla Sonata Patetica di Beethoven. Eleonora mi guardò compunta e con grande serietà disse: ‘Isadora cosa stai a fare qui? Stai consumando il tuo tempo in niente mentre la tua Arte ha bisogno di te. Consegna la tua vita all’Arte. Non cercare più felicità mondane, vivi per la tua Arte e danza. La tua danza è un tributo alla vita. Tu sei fatta per la vita, la Gioia, la Bellezza. Volta le spalle alla morte e consacra te stessa all’Arte.’ Poche settimane dopo ricevetti un’offerta di lavoro. Si trattava di un contratto per una tournee in Sud America. Io non ero ancora pronta. Decisi di rimanere a Viareggio, eggiare lungo la sponda del mare, inalare l’aria salata dei temporali frequenti. Di tanto in tanto pensavo di farla finita, di entrare nel mare e di andare lontano, così lontano da rendermi impossibile il ritorno. La Morte mi avrebbe raggiunto e finito per sempre la mia tragedia. Tuttavia nessuno di noi mortale tieni nelle sue mani le redini del Destino. Il Fato ha piani segreti per noi, piani che non possiamo controllare.
Un giorno ebbi la visione dei miei bambini che giocavano, si rincorrevano, ridevano sulla spiaggia di fronte a me. Li chiamai, gli corse dietro ma loro correvano via veloci in fronte a me e d’improvviso scomparvero dalla mia vista. Mi accascia sulla sabia piangendo. Il dolore per la loro perdita si era fatto di nuovo vivo nel mio petto. Cocente, duro, impossibile da sopportare. Stavo lì col viso affondato nella sabbia. Una sabbia fredda che si era attaccata al mio viso addolorato cementata dalle lacrime calde. D’improvviso una mano pietosa si poggiò su di me. Un giovane mi stava chiedendo la ragione di tanto sconforto.‘Posso aiutarla, mi dica cosa posso fare per lei. La vedo sempre avvilita, sempre piangente.’ Lo guardai attonita. Era un bellissimo giovane, sembra il ritratto di uno di quei giovani della Cappella Sistina. Non so ancora oggi cosa mi prese. Avvinghiai la sua mano e gli dissi quasi gridando: ‘Dammi un figlio. Salva la mia vita e la mia sanità. Dammi un figlio.’ ammo la notte insieme. Le sue braccia piene di gioventù mi avvolsero in una nuvola di ione. Il mio amante italiano era scultore, niente di speciale ma l’esaltazione provata nelle sue braccia dopo quell incontro che, ne ero certa, non era per niente fortuito ma voluto dal Destino mi faceva veramente credere di aver trovato il nuovo Michelangelo! La speranza era tornata nel mio cuore e rendeva il dolore molto più sopportabile. L’amore mi stava salvando dalla perdizione, ero convinta di questo. Ahime, la realtà non è mai come l’immaginiamo. Il mio amante apparteneva ad una rigid famiglia che aveva fatto piani per il suo futuro. Avrebbe sposato una ragazza, anch’essa di rigida famiglia benpensante e di sicuro io rappresentavo nella vita del mio grande scultore solo un atempo. Un giorno se ne andò senza mai più tornare. Sola spiegazione per il suo comportamento imprevisto un biglietto di poche righe. Stranamente non caddi di nuovo nella disperazione. Entrai invece dentro una fase di acuto misticismo. Ero ormai convinta che i miei bambini sarebbero tornati nella mia vita a consolarmi e farmi di nuovo felice anche se sotto diverse spoglie. Quando venne l’autunno Eleonora andò nel suo appartamento a Firenze ed io mi diressi verso Roma. Spesi Natale a Roma, circondata di Arte e Poesia. Un giorno mi arrivò un messaggio da Singer. Mi chiedeva di tornare a Parigi dove aveva preparato per me un grande appartamento che si affacciava su Place de la Concorde. Lo aveva riempito di fiori. A cena gli raccontai della visione dei bambini sulla spiaggia di Viareggio, della mia convinzione che si sarebbero re-
incarnati e sarebbero tornati sulla Terra. Paris pianse con me, il volto nascosto nelle mani. Quando si riprese mi chiese di dimenticare la grande Tragedia che si era abbattuta su di noi. Aveva comprato l’Hotel Bellevue ed il suo immenso terreno che si affacciava magnifico su tutta Parigi. Era il posto ideale per costruire la mia Scuola. Avrei potuto alloggiare mille studenti in quella che sarebbe diventata la mia tanto bramata Scuola di Danza Artistica. Mi sentii quasi felice, per la prima volta dopo tanto tempo. Presto l’albergo si trasformo, in un Tempio della Danza del Futuro. La mia tanto attesa Scuola. Tornai ad insegnare con immensa gioia. La prodigalità consueta di Paris rendeva la mia vita e quella delle mie allieve degne di una favola romantica. La felicità si stava infiltrando di nuovo nella mia vita. Stavo tornando a sorridere. Rodin, il grande scultore, che abitava di fronte a noi, sull’altro lato della collina era spesso nostro ospite. Era solito disegnare su uno dei suoi block dei disegni le figurette esili ed aggraziate delle mie allieve. Rodin era solito lodare la grazia di movimento delle mie fanciulle dicendo come gli sarebbe piaciuto averle come modelle quando aveva cominciato la sua arte. Tutte le modelle che aveva avuto, seppure bellissime, mancavano nell’arte del Movimento. Erano troppo statiche, troppo fredde. Presto le mie allieve cominciarono a dare rappresentazioni. Al Trocadero furono applaudite a lungo tra esclamazioni di giubilo. La gioia cominciava a tornare nel mio cuore. Con la Scuola ero tornata a credere nell Vita. Ero veramente convinta che il mio futuro aveva trovato la sua forma. Pensavo che avrei ato il resto della mia esistenza in quella Scuola, in quel Tempio di Gioia e Bellezza. Ogni mattina mi svegliavo col suono delle risate squillanti delle mie allieve. I i continui sulla scala che conduceva alla sala da ballo ripercuotevano lungo i corridoi della Scuola. Quando mi affacciavo nel Salone di Danza per cominciare le lezioni mille vocette dolci mi gridavano incontro ‘Buongiorno Isadora.’ Il mio cuore batteva forte in ritorno. La dolcezza e l’amore delle mie bambine mi toccava ogni mattina dandomi il coraggio di andare avanti. Spesso in mezzo a quella folla di volti mi sorprendevo a cercare i visetti compunti dei miei figli. A
volte quando finita la lezione i miei allievi correvano via dalla casa verso il giardino io rincorrevo con lo sguardo le loro nuche aspettandomi da un momento all’altro di vedere uno di loro girarsi verso di me e mandarmi un bacio insieme ad un sorriso proprio come Deirdre e Patrick usavano fare con me. Quando mi rendevo conto che la mia era e rimaneva una inutile speranza il cuore precipitava in un abisso profondo di delusione. Così tra attimi di contentezza e lunghe ore di angoscia trascorreva la mia vita a Parigi in quella che era finalmente la mia Scuola, proprio come nell’antica Roma. Nell’anno 100 A.D. i Romani fondarono una scuola denominata ‘Seminario dei Preti Danzatori di Roma.’ Gli allievi di questa Scuola erano selezionati tra le famiglie più aristocratiche. La loro linea di discendenza doveva essere immacolata. Gli antenati venivano scrupolosamente scrutati nelle loro attività personali e nel carattere. Nel Seminario gli allievi venivano indottrinati nelle varie forme dell’Arte e in Filosofia. Al cambio di stagione i preti scendevano in città dal loro rifugio sulla collina, dove prendevano parte a varie cerimonie di carattere religioso e danzavano in pubblico per la purificazione di tutti i cittadini. Questi preti danzavano con movimenti così puri ed armonici che solamente a guardarli gli spettatori si sentivano elevati verso sfere più pure e trascendentali. La loro danza era come una medicina per le loro anima. Con il mio Tempio della Danza a Bellevue che sovrastava Parigi come un Acropoli, speravo di avvicinarmi se non raggiungere lo Spirito e la Purezza dell’antica Scuola Romana. Singer sembrava seguirmi nei miei sogni di gloria. Parlava spesso di costruire un Teatro sull’esempio di quello greco nei giardini di Bellevue dove si sarebbero tenuti Festival con musica diretta da un’Orchestra Sinfonica. La favola della mia vita sembrava aver ripreso il suo corso favorevole ma nel mese di luglio 1914 cominciai di nuovo a sentirmi oppressa da uno strano presagio a cui non sapevo dare un nome. Ero di nuovo incinta ma i movimenti del bambino sembravano molto leggeri. Sapevo attraverso l’esperienza delle mie gravidanze precedenti che qualcosa non
andava per il verso giusto. La depressione s’impadronì di nuovo del mio cuore. Singer avvertì un cambiamento nel mio umore e decise in cuor suo che era tutto dovuto alla stanchezza. Mi convinse a congedare per un mese le mie allieve, sarebbero andate ospiti della sua villa in Devon. Acconsetii di buon grado principalmente per il bene del bambino che doveva nascere. Non volevo assolutamente mettere in pericolo la sua salute. Rimasta sola in quella villa enorme il mio umore peggiorava di giorno in giorno. Premonizioni di catastrofe si aggiravano nella mia mente ed il mio cuore straziato ne soffriva immensamente. Un pomeriggio a cena uno dei nostri ospiti annunciò l’assassinio dell’Arciduca. La guerra era imminente. Realizzai allora, ancora una volta, che non si può lottare contro un Destino crudele. Tutto quello che avevo sognato per Bellevue, Gioia, Purezza, Bellezza, Esaltazione dell’Arte sarebbe stato schiacciato da una forza più forte. Guerra, devastazione, disastro e morte avrebbero preso il loro posto. Il primo giorno di Agosto cominciai ad avvertire i dolori delle doglie. Per le strade di Parigi si annunciava la mobilizzazione tra il ritmo suono dei tamburi. La mia buona amica Mary portò nella mia stanza una piccola culla bianca. Io tenevo gli occhi fissi su quel mare di bianca mussola. Ero convinta, fermamente convinta che Deirdre o Patrick si sarebbero reincarnati nel nuovo bambino per tornare a graziarmi con la loro presenza, a regalarmi ancora la gioia che mi avevano dato in ato. Mobilizzazione, guerra. Nel mio egoismo di madre che poteva stringere ancora una volta un bambino suo tra le braccia, in quei momenti di felicità che non speravo piu di ripetere, io non me ne curavo. Provavo di nuovo la gioia di essere madre. Nient’altro contava. I miei amici vennero e riempirono la stanza di fiori. Rimasta sola col mio bambino alle prime ombre della sera lo avvolsi dolcemente nelle mie braccia e sussurrì nel suo orecchio: ‘Dimmi, bimbo mio, chi sei? Deirdre o Patrick?’ ” La donna si accasciò di lato e scossa da singhiozzi quasi gridò: “Il bambino mi guardò per pochi secondi e poi cominciò a sussultare e diventare paonazzo e poi grigio. In pochi minuti divenne freddo ed immobile. Era morto soffocato per mancanza di ossigeno.
Un trambusto indescrivibile prese corpo e poi la voce afflitta dell’infermiera che mi annunciava seria che il mio bambino era morto. Allora toccai il fondo della sofferenza umana. Quando pensavo che niente mi avrebbe fatto soffrire più di quello che avevo già sofferto, toccai un nuovo abisso. Nel mio letto ormai invaso dalle lacrime, il latte materno e sangue sentivo il rumore costante del martello che chiudeva la bara del mio bambino. Un bambino che non aveva dormito neanche una notte nella sua culla di amore. Da allora la mia vita divenne un brutto sogno di cui volevo solo vedere la fina. La guerra divampava tutt’intorno. Morti, feriti, bombe, devastazione. Nessuno parlava più di Arte. Aprii le porte di Bellevue ai soldati feriti. La mia Scuola divenne un Ospedale. Ironia del Destino. Appena fui in grado di muovermi e camminare lasciai Bellevue. Mi rifugiai a Deauville vicino al mare che amavo tanto. Con la fidata Mary prendemmo alloggio all’albergo Normandie. Ero molto stanca e provata dall’esperienza del mio bambino che era vissuto solo poche ore. Deauville fu per me un’oasi di pace e di riposo. Presto decisi di affittare una villa tutta mia. Era stata chiamata Villa Bianco e Nero in accordanza col fatto che tutto dentro la villa era di colore bianco o nero. Mai nome ad una casa era stato più appropriato. Ero troppo debole per lunghe eggiate lungo il mare. Ero così depressa che ormai viveo la vita come un automa. Un giorno mi sentii male e mandai a chiamare il dottore locale. Non si fece vivo. Alcuni giorni dopo, sentendomi più disperata che mai, andai personalmente all’Ospedale dal dottore. Lo incontrai finalmente e, guardandomi in modo strano, promise di venire a visitarmi il pomeriggio seguente nella mia casa. Così fece. Dopo la solita routine di controlli fisici mi trovai ad aprire il mio cuore e gli raccontai della mia pena, il mio dolore, il mio ultimo bambino vissuto solo poche ore. Lui mi strinse tra le sue braccia e cercò di confortarmi. Mi rassicurò non c’era niente che non andava col mio fisico, avevo solo bisogno di amore. Gli confessai la mia pena quando, chiestogli di venire, aveva trovato scuse per non vedermi. Lui, in preda a grande emozione e quasi tra le lacrime, mi confessò che vigliaccamente non si era sentito di affrontare il mio dolore. Mi chiese se ricordavo di averlo incontrato prima di allora. Negai. Infine fu costretto ad ammettere che lui era lo stesso dottore che aveva cercato invano di resuscitare la piccola Deirdre. Non aveva avuto il coraggio di guardarmi e scoprire il
vecchio dolore nei miei occhi ancora una volta. Le sue parole mi toccarono il cuore e provai pietà per lui. Finimmo l’uno nelle braccia dell’altro in reciproco conforto. Ogni sera, dopo il lavoro, veniva nella mia villa e avamo la notte insieme. Presto mi accorsi che la morte dei miei bambini aveva lasciato un segno anche sulla sua anima. A volte la mattina mi svegliavo sentendo il suo sguardo sopra di me. Lo trovavo ansimante al mio fianco con grande pena negli occhi. Mi diceva come la piccola Deirdre somigliava a me quando dormivo. Io lottavo già per tenere la mia salute mentale sotto controllo, non avevo bisogno di aggiungere ai miei problemi la sua ossessione. Ma la crudeltà della Vita può essere senza limiti. Un giorno arrivò il baule che avevo richiesto mi mandassero da Bellevue perchè avevo bisogno di vestiti più pesanti. Quando aprii il baule invece dei miei vestiti vi trovai quelli dei miei bambini. A vedere i loro vestitini, mantelli, scarpe il dolore emerse ancora una volta in tutta la sua forza. Mi accasciai al suolo e vi rimasi sino alla venuta del mio dottore. Ormai ero diventata solo una marionetta niente di più. Quando la guerra raggiunse l’Inghilterra Paris seguì la mia idea e aprì le porte della sua villa in Devon allo Stato per essere usata come Ospedale. Per salvaguardare i miei allievi da ogni possibile pericolo li imbarcò tutti per l’America. Singer mi mandò telegramma su telegramma chiedendomi di raggiungerli tutti e riprendere il mio lavoro. Alla fine, angosciata anche dal comportamento bizzarro di Andrè, il dottore, decisi di partire. Mi imbarcai su una nave Cunard e lasciai Deauville dietro di me. A New York mi ricongiunsi con la mia Scuola, felicemente installata in una grande villa. Io presi per me uno Studio tra Fourth Street and Twenty-third Street. Devo dire che mi colpì l’indifferenza dell’America verso la guerra che aveva invaso l’Europa. Una sera dopo la mia rappresentazione al Metropolitan House tirai fuori una sciarpa rossa, mi ci avolsi dentro e cominciai ad improvvisare la Marsigliese. Rappresentava il mio grido di aiuto ai soldati americani per i loro fratelli europei.
La mattina dopo, nonostante le mie apprensioni, la stampa ratificò il mio gesto come un atto di coraggio e l’elite artistica Americana cominciò a sfilare nel mio camerino ed il mio Studio. America si prostrò ai miei piedi. Resa raggiante dal successo cercai di portare le mie rappresentazioni anche in mezzo al popolo ordinario. Impiegai centinaia e centinaia di musicisti, coreografi, decoratori e cambiai la fisionomia del Metropolitan. Il mio successo era esilarante ma le spese che affrontavo per divulgare la mia Arte divennero presto esorbitanti. Un giorno una lettera della banca mi avveti che ero ormai bancarotta. Il mio appello ai miglionari americani per aiuto finanziario cadde nel nulla. In quegli anni cominciava a farsi largo il Jazz e la nuova moda era danzare il fox-trot al suono di una banda di musicisti negri. In mezzo a questa follia spesso mi sentivo rivolgere la domanda ‘Perchè insisti nel rappresetare i valori del Teatro Greco? I tempi sono cambiati.’ Oltretutto mi costava fatica accettare che mentre l’Europa era in fiamme, gli Americani si divertissero così tanto ballando come selvaggi al ritmo del jazz. In 1915, disgustata da questo atteggiamento di voler godere la vita nei suoi aspetti più barbarici, lasciai l’America ed con la mia Scuola feci ritorno in Europa. In Europa demmo rappresentazioni in Italia, Svizzera dovunque potevamo. Tuttavia i fondi scarseggiavano sempre ed infine nel 1915 decisi di iniziare la famosa tournee in Sud America. Non avevo altra scelta se volevo mantenere in vita la mia Scuola che in quel momento aveva trovato sede in Svizzera. Bahia fu la prima città che visitai. Mi colpì, a parte la pioggia incessante che sembrava non disturbare nessuno, il miscuglio delle due razze, bianca e nera. Coppie miste erano frequenti e spesso nel ristorante dove mangiavo c’erano tavole composte da un uomo nero ed una donna biance o viceversa. Lungo la strada si vedevano in continuazione bimbi mulatti. Era la prima volta che vedevo un miscuglio così sereno di due razza tanto diverse. Ma erano poi tanto diverse? Quello che mi colpì a Bahia fu la gente. Sembravano incuranti di ogni cosa e certamente privi, totalmente privi di pregiudizi. Persino le prostitute si affacciavano dai balconi delle loro case sorridendo. Nessuno sembrava turbato o preoccupato dalla loro attività. La mia impressione di Bahia si può condensare in
una corta sentenza; tutti i suoi cittadini sembravano in pace con se stessi e con l’Universo. Cosa ben rara tra la gente del mondo! Buenos Aires fu un’esperienza totalmente diversa. Tutti sembravano danzare il Tango. Mi persuasero a fare altrettanto. Fu un’esperienza indimenticabile. Dopo alcuni i incerti il languore voluttuoso del ritmo penetrò il mio corpo e mi lasciai andare al alla musica come ad una lunga, sensuale, intossicante carezza di amore. La mia danza d’altro canto non lasciò indifferenti gli argentini. Ricambiarono con ione la mia ione. Tuttavia il mio anticonformismo, la mia impulsività, le mie tuniche succinte non si addicevano per qualche ragione misteriosa alle regole di decente società che le famiglie argentine avevano in mente per i loro figli. Non ho recriminazione. Ho sempre pensato che ognuno ha il diritto di essere quello che è, indiscriminatamente. Mi resi conto che dietro quegli occhi voluttuosi e l’apionato rendez-vous del Tango si nascondeva una società di bigotti. Il consueto e l’abitudinario andava accettato, non il differente ed ostentatamente vibrante di ione. Argentina e Buenos Aires furono una delusione. Consideratami indecente e troppo aperta nelle mie manifestazioni artistiche, si rifiutarono di arruolare i loro figli alla mia scuola e presto anche le mie rappresentazioni furono date per una platea semivuota. Avvilita, offesa, preoccupata di come avrei trovato i fondi necessari per sostenere la mia Scuola in Svizzera, decisi di proseguire per Montevideo. Non avendo i soldi per pagare il conto dell’albergo fui costretta a lasciare indietro tutti i miei possessi eccetto le mie tuniche di scena che, grazie a Dio, non avevano nessun valore per il proprietario dell’albergo. Fortunatamente il pubblico a Montevideo si dimostrò l’esatto contrario degli argentini. La platea di fronte alle mie rappresentazioni era entusiasta e generosa con gli applausi. La stampa pure fu estremamente lusinghiera. Quando tornai a New York con mia grande sorpresa incontrai Paris. Venuto a conoscenza delle mie tribolazioni monetarie si fece in quattro per sistemare le mie faccende. Affittò il Metropolitan Opera per una serata di Gala ed invitò l’elite aristocratica di New York alla celebrazione della mia Arte. Fu una serata indimenticabile. Fu un ovazione totale. Un trionfo. Ancora una volta Paris Singer si era rivelato il mio benefattore.”
Isadora ebbe un leggero colpo di tosse. Con lo stesso fazzoletto di pizzo che aveva usato per celare la bocca si stava adesso asciugando gli occhi bagnati di lacrime leggere. “Tutti dicevano e sono convinta pensavano che ormai il peggio del mio dolore era stato vissuto e che piano piano ma inevitabilmente mi stavo riallacciando alla vita. Come fa la gente ad essere così cieca, a non vedere più in là del loro naso. Mi bastava vedere d’improvviso la nuca bionda in un bambino o sentirlo gridare Mamma per sprofondare nella tragedia della mia vita ancora una volta. Mi sarebbe piaciuto uccidere il mio cuore di artista e diventare una persona qualunque. Pensavo a come dovevano sentirsi beate nel nulla della loro esistenza quelle suore ottuse capaci di cantilenare preghiere senza senso, con voce monotona, col volto iibile, statiche come se non ci fossero emozioni, sentimenti, impeti dell’animo. Che inferno che è possedere un cuore d’artista, sentirlo fremere, balzare con emozione, irrompere irrefranabile sotto la direzione di un impulso. L’artista tocca l’infinito Universo grazie all’Arte ma allo stesso tempo è condannato all’Inferno di una vita turbulenta, resa difficle da un temperamento che mal si aggiusta alle convenzioni e all’ordinario. L’artista paga il suo dono divino con una sofferenza umana indescrivibile. Mai soddisfatto, mai appagato, consumato da una ione che non trova mai pace. Ancora una volta, come sempre, Singer venne alla mia riscossa. Sulla veranda di una villa affacciata al mare, in Palm Beach, si offrì di ricreare ancora una volta la mia Scuola. Comprò il terreno del Madison Square ed insieme ricominciammo a fare progetti. Tuttavia, dominata come sempre aigli impulsi del mio temperamento, mi sembrava estremamente fuori posto ricominciare a fare progetti per il futuro queando eravamo nel mezzo di una guerra funesta. La mia titubanza ad affrontare il futuro irritò talmente Paris che un bel giorno vendette il Madison Square e nessuno parlò più di una Scuola per molto tempo. Una sera, durante una festa in mio onore, Singer mi presentò un bellissimo girocollo di diamanti. Non mi sono mai piaciuti i gioielli e non li ho quasi mai indossati ma quella sera Paris sembrava così desideroso di offrirmelo che me lo misi subito al collo. Poco dopo cena, sotto l’ebbrezza dello champagne, mi misi
ad insegnare i i del Tango Apache ad un giovane nostro ospite. Nel mezzo dell’euforia della danza sentii una morsa al braccio. Paris, sdegnato oltrmisura da quella danza selvaggia mi stava stringendo con una presa di acciaio. Era in preda all’ira dettata da una gelosia oltremisura. Mi faceva male e glielo dissi. Rosso di rabbia lasciò il locale e per parecchio tempo non lo vidi più. Non indossai mai più quel gioiello. Mi sembrava solo di cattivo auspicio. Più tardi lo vendetti per pagare i debiti visto che Singer era sparito nel nulla e non si degnava di rispondere ai miei appelli di soccorso. Così, abbandonata senza fondi, fui costretta a vendere anche la mia pelliccia di ermellino, lo smeraldo che Paris mi aveva donato e che si diceva venisse dal turbante di un maraja e mi installai in una villa a Long Beach con le mie allieve in attesa che venisse l’autunno e fosse possibile dare alcune rappresentazioni e fare un poco di soldi per pagare i debiti. Non avevamo uno Studio per danzare nella villa così andavamo sulla spiaggia a coreografare le nostre danze, con grande entusiasmo dei anti. Dopo un’estate sulla spiaggia, completamente senza un soldo e senza contratti, decisi di andare in California. Tornai nella mia nativa San Francisco con grande emozione. L’avevo lasciata ventidue anni prima e quasi non la riconobbi. Molto poco era rimasto della città dove ero nata. Il grande terremoto del 1906 aveva distrutto quasi tutto. In San Francisco diedi rappresentazioni al Teatro Columbia. Le critiche ed il pubblico dimostrarono di apprezzare la mia Arte. Io però mi sentivo insodisfatta. Ero abituata a platee molto più larghe ed apprezzative. Comunque ero felice di rivedere mia madre. Era invecchiata ed un giorno osservando il nostro riflesso in uno specchi misi strinse il cuore a confrontare le nostre immagini odierne dai volti stanchi con quei due spiriti inomiti che lasciarono un mattino lontano la loro città per un futuro pieno di fede e speranza.Che delusione era stata la nostra vita. L’America stava impazzendo per il Charleston – una danza così volgare – e le Scuole di Danza che in effetti erano palestre di ginnastica si stavano diffondendo rapidamente. Naturalmente c’erano anche scuole di balletto tradizionale, balletto classico. Io sono stata sempre convinta che gli americani non sarebbero mai
potuti essere veri danzatori. Hanno le gambe troppo lunghe, il corpo troppo rilasciato e lo spirito troppo ribelle per eccellere in una forma di danza così costrittiva. Pretendere una grazia affettata e l’andare in giro in punta di piedi non si addice al carattere forte ed orgoglioso del popolo americano. Non per niente tutte le più grandi danzatrici classiche sono state donne minute dalle gambe corte. Puoi immaginare la donna che raffigura la Statua della Libertà, una donna forte, orgogliosa, combattiva, uno spirito libero, danzare in punta di piedi nel corpo di Ballet classico? Ridicolo, semplicemente ridicolo. La danza che gli americani sanno danzare è la danza che con salti, larghi movementi esprime lo spirito forte dei nostri Pionieri, la forza di carattere dei nostri Eroi, la forza d’animo e la fermezza delle nostre madri, la capacità del nostro popolo di andare avanti nel futuro nonostante le avversità, di combattere per ideali di giustizia e di fratellanza. La danza che si addice agli americani non è la Mazurka, il Minuetto, il Waltzer. È una danza libera, che esalta lo Spirito. Una danza che parla di libertà.” Isadora tacque persa nei ricordi, lo sguardo assente. Angela sentì l’impulso irresistibile di fare un commento. “Conosco poche persone che hanno avuto una vita affascinante come la tua. Di sicuro devi essere orgogliosa di quello che sei riuscita a fare nel nome dell’Arte..” Isadora l’interruppe con un gesto della mano. “Non hai idea di tutto quello che è ato nel mio cuore. Ci sono stati giorni in cui il successo delle mie rappresentazioni, il sogno di una Scuola dove insegnare ai bambini l’arte della libertà fisica e spirituale ha esilarato ogni respiro della mia esistenza. Ci sono stati anche giorni, purtroppo, quando non riuscivo a vedere alcun futuro per me e la mia Scuola. Quando i debiti, la freddezza di alcune platee, le delusioni della vita mi percuotevano l’anima e mi accasciavano a terra senza speranza. Ho avuto una vita piena di trionfi e disfatte. Ma non è quasi sempre questa la vita di un Artista? L’artista vero è condannato dalle sue visioni straordinarie, anticipa i tempi, anticipa gli umori. Non è facile essere un Artista. Si soffre sempre, si soffre molto. Non si è mai soddisfatti, non ci si sente mai completi.
L’Artista è un essere diverso dalla gente ordinaria che cammina nelle strade della vita contenta di quello che ottiene, soddisfatta di avere un tetto sopra la testa, buon cibo nel piatto ed alcuni amici costanti e fedeli. L’artista ha le ali ai piedi, non sta mai fermo a lungo in un posto. Le sue relazioni amorose o di amicizia sono soggette alla sua Arte. Tutto rivolta intorno alla sua Arte. L’amore terrestre perde sempre di fronte all’amore Universale di un Artista vero. Eppure allo stesso tempo l’Arte non può riempire tutti i vuoti di un’anima che è pur sempre legata alla Terra, legata e soggetta alle emozioni di un corpo materiale. No, credimi Angela, la vita di un Artista porta quasi sempre con sè una maledizione. La maledizione di essere diversi dal resto del gregge, di avere un colore diverso nell’anima, negli occhi, nel cuore… Grandezza e meschinità a volte si mescolano nella vita di un Artista perchè nessun essere umano, neanche il più perfetto, può vivere in perfetto equilibrio il richiamo dell’Arte e le pressioni di una vita mortale. La vita dedicata all’Arte diventa sublime nel vano tentativo di toccare la perfezione dell’Infinito ma le delusioni, i misfatti, i tradimenti della vita umana la attanagliano spesso in una morsa crudele, selvaggia, finale. Esaltazione spirituale e tormento fisico vanno mano a man nella vita di un Artista. Così è stato anche con la mia. Ah, se gli esseri umani potessero scavare nei loro cuori e portare alla superfice solo sentimenti gratificanti, ricordi piacevoli, pensieri di gioia, proprio come le pescatrici di perle si tuffano nelle acque profonde e tornano in superfice solo quando tengono strette tra i denti le perle lucenti. Le lacrime che ho sparso intorno a me non erano perle, credimi. Nell’abisso della mia coscienza c’erano solo lutto, devastazione, sconfitte speranze. Alla fine, sola, malata nello spirito, senza un soldo decisi di tornare a Parigi dove speravo di vendere la mia casa e trovare denaro sufficiente per sopravvivere,” concluse riprendendo il filo della sua storia una Isadora triste e sconsolata. “Sbarcata a Londra, mi trovai senza i fondi necessari per proseguire per Parigi. Mandai telegrammi a molti dei miei vecchi amici, persino a Singer ma ebbi nessuna risposta. Avevo preso alloggio in un posto squallido in Duke Street e non avevo mai provato tanta voglia di farla finita con un suicidio come in quei giorni.
Venni a sapere che qualcuno era riuiscito ad organizzare una serie di rappresentazioni per le mie allieve rimaste a New York e che sotto il nome di Danzatrici di Isadora Duncan stavano avendo un discreto successo e guadagnando bene. Dei loro profitti io non ricevetti mai un soldo. Ma così è la vita, non è vero Angela? Molto spesso le nostre azioni più nobili e generose vengono ricambiate con indifferenza ed ingratitudine. Tuttavia bisogna dire che come la mia vita è stata un susseguirsi di tragedie e situazioni difficili spesso c’è stato un aiuto improvviso da persone quasi sconosciute. Un giorno per caso incontrai un Diplomatico dell’Ambasciata se che finalmente organizzò per me di raggiungere Parigi. Parigi era costantemente perseguitata da attacchi aerei. Io mi sentivo completamente inutile e terribilmente annoiata senza i miei spettacoli. Un pomeriggio a casa di amici incontrai un musicista speciale, Walter Rummel. Non ho mai sentito nessuno suonare al pianoforte Liszt come lui. Quando non suonava era un uomo gentile, dolce, quasi timido. Quando si metteva al piano e suonava Liszt diventava un altro. La ione si impadroniva di lui e suonava in una maniera frenetica ed impulsiva come pochi altri. Amare qualcuno è molto difficile. Spesso dietro una facciata piacevole si nasconde un cuore impulsivo, complicato e terribilmente possessivo. Spesso dietro una ione fisica si nasconde la tirannia di una personalità difficle da capire e da raggiungere nella sua totalità. È vero e per questo sono sempre stata severamente criticata che la ione fisica, improvvisa e devastatrice, ha dominato la mia vita personale. Ho avuto molti amanti, non lo nascondo. Non me ne vanto ma non me ne vergogno. Ogni volta ho creduto veramente di aver finalmente incontrato la persona giusta, l’amante ideale. Ogni volta ho scoperto che si trattava di un’illusione dei sensi e del pensiero. In onestà posso dire che non avrei scelto di avere tanti amanti. Sono per inclinazione naturale molto fedele e di sicuro non ebbi mai due relazioni allo stesso tempo. Per quanto riguarda Singer posso dire che è vero che ho ripreso una relazione fisica con lui numerose volte ma ogni volta che ripetevamo il nostro incontro d’amore avevo già lasciato alle spalle il mio vecchio amore.
Non sono una puritana, non lo sono mai stata ma non sono neanche la donna libertina e facile che a volte alcuni dei miei critici benpensanti hanno fatto di me. Certamente ho amato sempre con onestà e non sono mai stata con uomini che non mi attraevano. Quando ero giovane, graziosa ed attraente avrei potuto ammassare miliardi semplicemente cedendo ai richiami amorosi di persone molto ricche. Molto, molto ricche e potenti, credimi. Non sono mai stata una donna materialista ed opportunista. Ho sempre pagato un prezzo molto alto per le mie decisioni. Decisioni dettate dal cuore e dalla ione, mai dall’occasione di una vita facile e piacevole.” Isadora terminò con un leggero sospiro la giustificazione del suo comportamento erratico e riprese il racconto. “Un giorno lasciai Parigi per Cap Ferrat e nel villaggio di St. Jean affittai un garage che divenne il mio Studio. Stare vicina al mare mi è sempre stato di conforto. Adoro il mare e sentire la sabbia morbida sotto i miei piedi quando danzo. Feci amicizia con i miei vicini di casa. Lui era stato un prete in Sud Africa e viveva lì con la sorella. Tra il sole, il mare, la calda amicizia dei miei vicini, Liszt e la mia Arte l’estate volò via. In autunno decisi di dirigermi verso Nizza. Da lì non appena l’Armistizio fu dichiarato, proseguimmo a tutto spiano per Parigi. La guerra era finalmente finita. Tornai a Bellevue. La villa cadeva a pezzi ma avevo già cominciato a fare progetti per la sua ricostruzione. L’unico problema era trovare i fondi necessari. Alla fine dovetti inchinarmi di fronte all’impossibilità del compito e decisi di venderla al Governo se che voleva farne una fabbrica per i gas asfissianti, in caso ci fosse stata un’altra guerra. Con la modesta somma ricavata dalla vendita acquistai un piccolo Studio in Rue de la Pompe. Lì lentamente ritrovai un po’ di pace. L’unione della mia Danza con la musica di Liszt infuse in me nuova energia. Il pubblico sembrava compiacente. Nel mio cuore indomito era tornata la gioia della rappresentazione teatrale e nuovi progetti artistici si affacciavano alla mia mente. Un giorno decisi di chiamare le mie Danzatrici in America ed invitarle a raggiungermi in Grecia dove avrei fondato la mia ennesima Scuola. Una Scuola che si sarebbe affacciata direttamente sull’Acropoli. Tuttavia alcuni critici americani commentarono sulla mia idea come se fosse la mia ultima stravaganza e mi giudiocarono una donna
irresponsabile dal comportamento erratico e bizzarro. Come potrei contraddirli?” Isadora rise una risatina nervosa. “Chi ha detto che il Genio tocca la Pazzia?!? Il destino non mi è mai stato amico. Cosa successe? Ah, te lo dico, cara Angela, cosa successe. Le mie allieve arrivarono, giovani, belle ed il mio caro compagno di Arte, l’uomo che mi adorava come una Dea, s’innamorò di una di loro e mi lasciò. La storia ti è familiare, Angela? Così va la vita. Il Destino ripete spesso se stesso e si fa beffa del cuore umano. La gioventù è un dono bellissimo che la vita ci regala ma a volte, troppo spesso, non lo consideriamo per quello che è: un attimo fuggevole di gloria. Non lo apprezziamo abbastanza, altrimenti ne trarremmo profitto. Quando ero giovane e bella avrei potuto ammassare una fortuna degna di Singer se solo fossi stata più saggia, più mondana, un tocco più opportunista. Oh no, io sognavo i sogni più puri e disinteressati come se la mia gioventù e la mia grazia personale potessero durare un eterno. Il tempo a per tutti e ò anche per me. Il lutto, il dolore, la tristezza, l’ansia per un conto da pagare quando non ci sono fondi non lasciano cicatrici solo nel cuore. Anche il corpo avvizzisce in fretta, diventa pieno di rughe e di solchi profondi. Quel giorno lontano mi resi conto, finalmente, che il tempo ava veloce, che io non ero più la grande Danzatrice capace di sedurre senza la minima attenzione la maggior parte degli uomini che incontravo. Oh, mia cara Angela, che triste giorno è quello quando una donna si accorge che non importa quanto grande, quanto maestosi sono i sogni che può ancora regalare agli uomini, è sorata malamente da un corpo giovane e fresco. Credimi cara mia agli uomini interessa solo fino ad un certo punto la qualità del cuore di una donna, la bellezza della sua anima. Tutto quello a cui aspirano è stringere tra le braccia un corpo giovane ed attraente e nell’euforia di una abbraccio apionato dimenticare l’ordinarietà della loro vita. È triste rendersi conto che la tua ora è ata e che tu non l’hai saputa cogliere in tutta la sua potenzialità. Mi ritrovavo sola, stanca, delusa ancora una volta. D’improvviso m’accorsi che ero sul viale del tramonto e niente e nessuno avrebbe potuto cambiare la mia vita. Devo ringraziare i miei antenati irlandesi per la mia testardaggine fatto è che mi raccattai ancora una volta da terra e con le mie allieve sbarcai ad Atene. Danzavamo ogni giorno nell’Acropoli e presto le ragazze persero quelle maniere affettate e piene di manierismi stereotipici che avevano acquistato lontano da me. Di nuovo l’Arte mi trasportò in un mondo di Perfezione Sublime. Ricordo con grande emozione il giorno che il giovane Re di Grecia dopo la nostra Rappresentazione nello Stadio di Atene mi si fece avanti e mi incoronò con una corona di alloro secondo la tradizione dell’Antica Grecia, ringraziandomi per
avergli fatto rivivere la gloria e la grandezza della Grecia attraverso la mia Danza. Chi avrebbe pensato che il Fato ancora una volta mi stava facendo assaporare la dolce soddisfazione di sentirmi compresa ed apprezzata per buttarmi in faccia ancora una volta affanni e tribolazioni. Il Re, giovane ed avventuroso, possedeva alcune scimmie che circolavano libere nei suoi giardini. Un giorno una giovane scimmietta lo morse. Quel morso gli risultò fatale. Il Re dopo aver trascorso alcuni giorni difficili lottando tra la vita e la morte, soccombette al suo Fato. Siccome lui era il mio principale benefattore, senza di lui mi trovai presto in difficoltà economiche.La situazione politica in Grecia divenne difficile ed io persi anche tutti i soldi che avevo usato per cercare di costruire una Scuola degna del suo nome in quella terra che le era tanto congeniale. Ancora una volta fui costretta ad abbandonare Atene e far ritorno a Parigi. Questa volta avevo con me tutte le mie allieve. Era l’anno 1920 e sembrava che tutto il mondo stesse entrando in un’era di grande tumulto, non solo io. La situazione era catastrofica. Incredibile ma vero, io ero ancora resoluta ad andare avanti, indomita e spavalda. Mio Dio, che folle! Tornai a vivere da sola nel mio Studio di Rue de la Pompe. Pensavo spesso a mia madre, a come il tempo rovina la bellezza e l’intelligenza di un essere umano senza alcuna pietà. L’immagine di mia madre come l’avevo vista l’ultima volta, stanca, vecchia, confusa, mi rattristava il cuore ed a volte mi sembrava di essere sulla stessa strada. Una strada nebulosa di oblio ed ordinario. Nella primavera del 1921 ricevetti un telegramma dal Governo Sovietico. Non dimenticherò mai le parole di quel telegramma: ‘Solo la Russia può capire perfettamente la tua Arte. Vieni, torna da noi e ti costruiremo la Scuola dei tuoi sogni.’ Non ci volle molto per convincermi. Naturalmente sarei andata, come avrei potuto resistere il richiamo dell’allodola? Prima di partire visitai una cartomante che mi predisse molti dispiaceri, naturalmente, ed infine disse che mi sarei presto sposata. Ah, le risate che feci. Povera me! Avevo resistito il matrimonio tutta la mia vita. Se non lo avessi fatto non mi sarei trovata in tanti guai e tante problematiche situazioni economiche. No, io volevo essere fedele ai miei principi. Adesso posso dire in tutta onestà che la mia avversione per il matrimonio nasceva dalla
paura. Paura di svegliarmi un giorno con accanto un marito che non mi amava più, che forse mi tradiva, che mi avrebbe abbandonata per una donna più giovane ed attraente come mio padre aveva fatto con mia madre. Che stupida ero stata! Avevo vissuto le stesse paure, le stesse emozioni con tanti uomini che non erano stati capaci di rimanerre al mio fianco. L’unica differenza era stata che mi ero ritrovata sempre sola al momento meno opportuno, quando i conti da pagare si ammucchiavano sul tavolo, quando ero stanca, tormentata, infelice. Il matrimonio mi avrebbe dato dei vantaggi non solo psicologici ma anche materiali. In nome dei miei grandi principi morali mi ritrovavo ora ad un o dalla media età non più sexy, non più così attraente come ero stata una volta, delusa ed affranta. No, non ero stata capace di capire che la vita con tutte le sue regole va seguita non combattuta, che un poco di egoismo personale e di capacità di discernimento ci vuole per sopravvivere in questa jungla selvaggia che è la società. Ad ogni modo partii per la Russia, non avevo altra scelta. Lungo il mio viaggio mi sentii spesso come incapsulata in una nuvola, priva di emozioni e sensazioni. Non che me ne lamentassi, avevo sofferto così tanto! Mi stavo quasi trascinando verso una meta che ancora una volta il Fato aveva scelto per me. Mi sentivo priva di forza morale per combattere il mondo. Stavo andando verso il mio Destino accettandolo come inevitabile. Dopo tanti tentativi falliti di realizzare la mia Estetica visione della Danza in Europa il Comunismo e la sua filosofia sociale non mi sembravano poi un gran male. L’animo umano è un grande impostore, seduce il cuore e lo fa schiavo di ogni suo schema adattatore delle circostanze. Stavo raggiungendo il punto in cui non avevo più principi filosofici o morali miei ma ero pronta ad abbassare la testa sconfitta. Chi era che ha detto, un poeta se mi ricordo bene, il principio numero uno per sopravvivere è di piegarsi alle circostanze della vita perchè se non lo fai la Vita ti spezzerà in due come un ramoscello senza forza. Quanta verità inqueste parole! Che peccato che quando si è giovani ci si senta così invincibili, così indomiti, così capaci di vittoria.” Isadora scosse la testa e con un gesto di civetteria si ò il dorso della mano sul volto a cacciare indietro un filo di capelli che le era caduto su una guancia. “In Russia avrei danzato avvolta in una camicia rossa circondata da camerati giulivi. Avevo lasciato il Vecchio Mondo per uno totalmente Nuovo. Una serata di autunno dello stesso anno stavo visitando lo studio del mio amico pittore Georgi Yakulov quando incontrai Sergei Yesenin. Sergei era un vero figlio della Rivoluzione. Nato entro una famiglia di contadini era cresciuto
follemente innamorato dell’Arte. A nove anni già componeva poesie. Scrivere era tutto quello che desiderava e tutto quello che sapeva fare.Poco più che ventenne aveva visto pubblicato il suo primo libro di poesie che traeva ispirazione dal folklore Russo. Tre anni dopo si era trasferito a St. Petersburgh dove era entrato a far parte di un circolo di poeti e scrittori. Ben presto, sotto l’influenza di poeti con più esperienza come Blok e Kyliuev, Sergei perfezionò la forma ed il liricismo dei suoi versi e divenne ben notocome poeta. Chiamato alle armi Sergei spese due anni nella vita militare. Con la Rivoluzione di Ottobre del 1917 credette che la società in Russia sarebbe finalmente cambiata per il meglio. Deluso ed oltraggiato dalla piegache l’elite Comunista stava prendendo nei confronti del potere, comiciò a denunciare il Bolshey nei suoi poemi e divenne un dissidente. Nel 1918 Sergei aveva fondato la sua Casa Editrice chiamata ‘Lavoro Compagnia degli Artisti del Mondo’ insieme a Anatoly Marienhof. Sempre insieme fondarono il Movimento chiamato Imaginismo. Quando lo incontrai Sergei era già stato sposato due volte. La prima volta con una compagna di lavoro, Anna, da cui aveva avuto un figlio chiamato Yuri, la seconda volta circa 4 anni dopo con la moglie di Marienhof, un’attrice da cui ebbe altri due figli. Dopo una furiosa vita insieme, spesa in dispendiose stravaganze e disturbata da costante violenza domestica i due divorziarono nel 1921. Quando l’incontrai Sergei era libero, affascinante ed ammaliante. Era anche 18 anni più giovane di me ma naturalmente quello era un particolare che sorvolai tranquillamente.” Isadora si volse ad incontrare lo sguardo di Angela, le sorrise e scrollò leggermente le spalle. Angela ricambiò il sorriso con simpatia. Si sentiva sempre più trascinata verso il modo di essere di Isadora. Stranamente la sentiva così vicina a lei, al suo modo di essere anche se non riusciva a capire perchè considerato che a prima vista sembravano così diverse. La verità era che Angela era affascinata da Isadora e la sua vita. Assetata di saperne tutti i particolari come se vedendo are di fronte agli occhi della sua immaginazione quella che era stata l’esistenza di Isadora avvrebbe finalmente capito le ragioni della propria vita, i perchè ed i come delle proprie scelte. “Vai avanti, ti prego. Raccontami ancora,” Angela esortò Isadora che non se lo
fece ripetere due volte. “Eravamo due anime libere da convenzioni, io e Sergei, due anime ribelle ed apionate. Era naturale l’attrazione che provammo imediatamente l’uno per l’altro. Era inevitabile che consumassimo la nostra reciproca attrazione in un letto di follia e sesso. Vuoi conoscere l’amore in tutta la sua vibrante ione? Ama un uomo Russo. Non c’è amante più attento, vibrante e coinvolgente. Oh, Sergei!” Isadora esclamò rapita da un ricordo lontano. “Tu pensa, la cartomante aveva ragione. Non so dire esattamente cosa mi fece fare quello che feci. Sergei mi ricordava Patrick, mio figlio. Così giovane, biondo, innocente nello sguardo. Fu un peccato di madre. Non volevo perderlo, lo volevo accanto a me per la vita. Quando un uomo Russo ama vuole il matrimonio. Sergei mi chiese di sposarlo in un abbraccio di ione ed io accettai. Ci sposammo nel maggio del 1922. Ah, ah, che follia fu quella! Sergei non parlava altra lingua che il Russo. Io sapevo dire solo 4 o 5 frasi nella sua lingua. Con lui al fianco decisi di accettare una tournee in Europa per poi proseguire con altri contratti in America. Il viaggio fu terribile. Sergei, lontano dalla sua Russia ed incapace di capire e farsi capire in un’altra lingua, divenne incredibilmente rissoso e crudele. La ione che ci aveva unito in un delirante monologo a due si affievolì e spense nel giro di pochi mesi. I litigi divennero il nostro pane quotidiano e tra una lite e l’altra Sergei cominciò a bere sempre di più. I momenti di sobrietà divennero rari. L’amore fisico anche. L’umore di Sergei divenne un’altalena costante e tra una parola ed un insulto cominciò a picchiarmi selvaggiamente. In principio cercai di aiutarlo, di capirlo, di amarlo in tutta la sua imperfezione di essere umano. Quando scoprii che rubava da me per andare a giocare, che spediva i miei vestiti come regalo a sua sorella, diventai cinica nei suoi confronti. Alla fine tra un occhio nero ed un labbro spaccato decisi di farla finita con lui e di comune accordo decidemmo di divorziare. Esattamente un anno dopo il nostro matrimonio Serge partì per la Russia da solo. Ancora una volta l’amore mi voltava le spalle. Seppi che tre anni dopo la nostra separazione, nel 1923 Sergei aveva sposato Sophia, la nipote di Tolstoi. Neanche questo quarto matrimonio si dimostrò fortunato per il mio povero Sergei. Alcolizzato e neurotico fu ricoverato in una clinica psichiatrica. Lo
credettero migliorato quando lo rilasciarono ma pochi giorni dopo, in un freddo giorno di dicembre 1925 commise suicidio.” Isadora singhiozzò e tra le lacrime disse: “Devo essere io a portare disgrazia ai miei amori. Singer divenne neurotico dopo poco che stava con me, Sergei diventò addirittura matto. Ci deve essere qualcosa in me che conduce i miei uomini verso la pazzia.” Isadora scosse la testa con tristezza. “Fece bene Gordon a lasciarmi dicendo che lo facevo diventare matto con i miei cambiamenti di umore, i miei continui ripensamenti. Forse aveva ragione. Sono io la pazza, non loro. È la mia bizzarria, il mio comportamento erratico che sconvolge chi mi ama. Sono io che porto disgrazia. Solo così si spiega la tragica fine dei miei figli. Oh quante volte nei miei ultimi giorni ho pensato che sarebbe stato bello non essere divorata da questo insaziabile desiderio di dar forma all’Arte ed essere semplicemente una donna qualunque, una figlia qualunque, una madre persa solamente nell’amore per i figli. Purtroppo non sono mai riuscita a cambiare me stessa, a diventare qualcun’altro. Io credo nel Destino, così come credo nella Rincarnazione. Mi domando ancora se è vero che prima di nascere ci scegliamo il destino per poter imparare cos’è che avrei dovuto imparare perchè alla fine dei miei giorni il mio cuore era solo ricolmo di pena e dolore struggente, lutto che non riusciva a sfocare nel tempo. C’è sempre stato un anelito verso l’amore nella mia vita. L’amore mi è sempre ato vicino e non si è mai fermato. Dovevo forse andare avanti in nome dell’Arte. Dovevo forse soffrire così tanto per poter raggiungere le vette della creazione artistica. Qualunque sia la risposta, a volte mi guardo indeitro e vedo solo un Destino crudele. Dimmi Angela, se tu rappresenti con la tua vita il proseguimento della mia, cos’è che hai imparato da me?” Angela la guardava interdetta. La donna la sollecitò: “Parla Angela, dimmi. Ti ho raccontato quasi tutta la mia vita, mi hai ascoltato in silenzio senza fare commenti, parlami di te, dei tuoi sogni, delle tue delusioni. Voglio sapere, voglio vedere se è vero che nessuna vita è spesa interamente nella disperazione. Voglio essere confortata dalle tue gioie, dai tuoi successi.” Angela aprì la bocca insicura. Cosa raccontare ad Isadora? Che anche lei era stata tradita dall’amore, che anche lei era una donna delusa ed avvilita? “Isadora, non so cosa dire. Ho avuto un marito, un uomo che ho amato, aiutato e che a sua volta invece mi ha tradito con una donna molto più giovane ed infine mi ha lasciato.”
Isadora sospirò abbassando leggermente il capo. “Gli uomini sono tutti uguali. Amano un corpo, niente altro. Di tanto in tanto hanno bisogno di un corpo nuovo da abbracciare altrimenti non ce la fanno a fare l’amore. Gli uomini, mia cara, devono ancora scoprire che il modo migliore di avere sesso è di innamorarsi di una donna ma anche se lo capissero non possiedono la profondità di anima necessaria per compiere il o tra innamoramento ed amore. Noi donne siamo capaci di amare anche col pensiero, loro hanno bisogno di un corpo per raggiungere l’estasi in una relazione. Comunque la tua storia la conosco, Angela. So anche che non hai avuto figli perchè avevi paura di non essere una buona madre. So molto di te Angela ma non tutto. Non so se sarai forte abbastanza da spezzare questo circolo di cattiva energia che avviluppò me con una sciarpa e che dopo la mia morte è rimasta ancora nell’aria intorno a te impedendoti di essere felice come dovresti. Nella tua vita ti porti dietro ancora il mio destino. Io sono morta, non posso fare più niente per me stessa o per te. Tu hai tra le tue mani la chiave che ci può liberare entrambe. Dimentica quello che è stata la tua vita finora. Inizia un nuovo capitolo. Ci sarà un uomo che ti amerà con sincerità, che ti chiederà di dividere la tua vita con lui. Accetta. È un uomo che viene da te con un bagaglio di esperienza umana non indifferente, un uomo che ha molto soffertto ma è stato capace di rimanere fedele ai suoi ideali. Quest’uomo ti chiederà di affrontare la realtà di una vita non facile insieme a lui. Accetta. Ci sarà un piccolo scandalo al principio. Non tirarti indietro. Tu avrai una figlia, Angela, una figlia che non hai partorito ma che ha bisogno di te come madre. Sarà la piccola Deirdre che torna da noi. La sua morte è avvenuta a causa mia, per la maledizione che io mi sono attirata col mio comportamento da artista. Deirdre viene da te perchè sa che io e te siamo una sola entità. Con te sarà sicura perchè tu non sei nell’occhio del ciclone e nessuno ti ha maledetto come hanno fatto con me. Accoglila con amore e trattala come se fosse tua. Se riuscirai ad amarla con generosità spezzerai il cerchio di dolore che ha avvolto me insieme ai bambini. Devi mostrarti che sei capace di amare disinteressatamente e sei anche capace di essere fedele a chi ti vuole bene.Tu realizzerai così quello che io non ho potuto. Non si può cambiare il proprio destino ma tu puoi deviare il corso del nostro sentiero spirituale riappendendo il filo della mia vita al tuo e svolgendolo in un’altra direzione. Adesso sai perchè sono venuta da te. Per aiutarti ed aiutando te porterò a svolgimento il mio dolore di donna e di madre. Io ero troppo incongruente ed eccentrica per conquistare la felicità. Tu lo farai per entrambe le nostre vite. Non avere paura. Non tirarti indietro di fronte a quello che la vita ti sta per offrire. Un giorno, lontano ti ricorderai del nostro incontro e mi sorriderai sapendo
attraverso la tua decisione hai dato una ragione anche alla mia vita e sopratutto al mio dolore di madre. Me ne vado ma sono contenta, sono in pace con me stessa…” Angela quasi gridò “No, aspetta. Ci sono ancora tante cose che voglio chiedereti, tante cose che voglio sapere. Cosa è stato poi di te?” Isadora sorrise “Hanno scritto tanto su di me. Adesso che sai chi sono puoi leggere tutti i spoprusi verbali, le menzogne insieme alle parole di elogio, di adorazione che ho ispirato nella mia vita. Non avere pietà per me, per come ho trovato la morte. La stavo cercando da tanto tempo…” Un velo lieve di tristezza si affacciò sul volto di Isadora. “Era un bellissimo pomeriggio di settembre, il 14 settembre, 1927. Mi trovavo a Nizza in compagnia di amici. Di fronte al ristorante era parcheggiata una Bugatti. Volevo assolutamente provarla. L’autista accondiscese a farmi salire per un piccolo giro. Indossavo una sciarpa lunghissima. Devo averne chiuso un lembo nella portiera della vettura perchè eravamo appena partiti che la sciarpa cominciò a stringersi intorno al mio collo come in una morsa d’acciaio. No appena la vettura cominciò a muoversi il lembo della mia sciarpa lasciato sporgere attraverso la portiera si impigliò nella ruota posteriore e muovendosi la ruota si avvinghiò in maniera inesorabile intorno a me. Cercai di muovere le braccia per allentare con le mani la morsa che mi stringeva la gola ma non potevo muovermi. Stavo incontrando il mio Fato e non potevo fare niente per cambiarlo. Morii strangolata, quasi decapitata. I miei amici assistettero alla mia morte dai tavolini del Ristorante. La vettura aveva fatto appena pochi centimetri di strada e voilà io ero morta. Isadora rise. Angela la guardava inorridita. Isadora si volse ad incontrarne lo sguardo ma come se rivivesse la scena Isadora aveva inclinato la testa all’indietro e strabuzzato gli occhi. Improvvisamente la testa le ricadde pesantemente sul collo con un lieve movimento in avanti. Angela si alzò dalla sua poltrona e corse verso di lei ma si trovò di fronte al nulla. Sulla poltrona di fronte non c’era più nessuno. Isadora era sparita di nuovo nel tempo e nello spazio. Di lei non rimaneva che un ricordo ormai. Un grido sfuggì dalle labbra di Angela il cui corpo cominciò ad agitarsi in movimenti convulsi.
“Corrado, Corrado,” gemette in angoscia.“Portami via da qui. Fammi tornare da te.” Corrado, pallido e tremante, schioccò le dita tre volte di fronte agli occhi di Angela e le intimò con tutta la autorità che poteva racimolare da un cuore in tumulto. “Angela, torna in questo mondo. Ti sto aspettando, tonrna qui con me.” Corrado, agitato e turbato, accarezzava il volto diafano di Angela. Dopo un minuto o due, intermnabili attimi di eternità, Angela aprì gli occhi pieni di lacrime ed incontrò lo sguardo tremante di Corrado. “Angela, dimmi cosa è successo. Stai bene, ti prego rassicurami.” Angela, ormai tornata in sè, lo rassicurò con un sorriso caldo ed affettuoso. “Isadora se ne è andata. Non tornerà più.” “Come fai a sapere? Cosa ti ha detto che io non so. Ti ha spiegato perchè cercava di comunicare con te?” “Aveva bisogno di incontrarmi, di raccontarmi la sua storia. Aveva bisogno di sapere che la sua vita non era vissuta invano, che io avrei intrapreso un sentiero diverso dal suo, che non avrei commesso gli stessi errori. Voleva mandarmi un messaggio, un messaggio di amore e speranza. Allo stesso tempo voleva convincersi che nessuna vita è sprecata, che anche gli errori, le sofferenze hanno un fine. Voleva farmi sapere che nessuno è veramente solo in questo mondo o in un altro, che tutti noi siamo parte di una catena indissolubile. Le azioni di uno s’intralciano con quelle di un altro, tessendo una trama fitta di casualità ed effetti. C’è un solo modo per definire una vita felice e soddisfacente; gli insegnamenti che lasciamo dietro di noi quando moriamo, i ricordi e le immagini che conservano di noi le persone che abbiamo incontrato ed amato e che a loro volta ci hanno amato. Isadora stava cercando i suoi figli perchè i figli erano la cosa più importante della sua vita, la ragione della sua esistenza. Voleva comunicare con me per incitarmi ad amare, ad essere meno egoista. Nel momento finale del nostro incontro, quando insieme abbiamo rivissuto la sua tragica fine e lei è sparita per sempre nell’Assoluto, mi sono resa finalmente
conto di quanta poca importanza aveva nella mia vita la relazione con Carlo. Mio marito mi ha abbandonato per un’altra e allora? Lo sbaglio era stato mio. Non avrei dovuto aprire il mio cuore ed affidare i miei sentimenti ad un uomo che, era così chiaro, aveva bisogno di me solo in senso materiale. Sono stata una donna cieca ed egoista a non volere figli per paura della responsabilità. In effetti mi sono arresa di fronte alla difficoltà di superare un trauma personale. Avevi ragione tu, io sono la reinacarnazione di Isadora. Mi sono trascinata in questa vita le difficoltà esistenziali di quella precedente, senza neanche tentare di superarle. Sono stata abbandonata da Carlo, è vero, ma la colpa non era sua. Io non sono stata capace di evitare una relazione senza futuro con un uomo che chiaramente aveva intenzione solo di sfruttarmi per fini personali. Isadora è venuta da me per aiutarmi ed aiutando me ha riscattato la sua vita erratica, dominata da uno stato mentale di confusione dettato da un temperamento artistico incapace di considerare la vita anche dal punto di vista pratico e ragionevole. Io stavo precipitando sempre più nello stesso vortice di autocommiserazione e debolezza sentimentale di cui lei era stata vittima. Isadora è venuta a salvarmi, ad indicarmi la giusta strada, a farmi progredire sul sentiero dell’illuminazione universale. Attraverso le sue parole ho vissuto di nuovo la mia vita precedente ed ho finalmente capito dove avevo sbagliato.” Corrado l’ascoltava trasognato, ancora incredulo per la riuscita efficace del suo esprimento ipnotico. Una grande pace nel cuore si stava impadronendo di lui, cominciava a sentire una felicità serena che non aveva mai provato prima. Mentre continuava a carezzarle il volto, le disse gentilmente: “Andiamo giù a fare colazione. Abbiamo tutti e due bisogno di rilassarci e nutrirci. Questa volta faremo uso del caffe forte di mia madre. È quello che ci vuole!” Angela sorrise contenta. “Si, andiamo. Non riuscirò mai a ringraziarti a dovere per quello che hai fatto per me. Non lo dimenticherò mai, Corrado” Corrado dismise con un gesto della mano le sue parole e sempre sorridendole l’aiutò a sollevarsi dal letto, le aggiustò la vestaglia intorno al collo e poi, d’improvviso seguendo un impulso irresistibile, l’attirò a sè e la baciò sulle labbra. Fu un bacio apionato e travolgente. Ormai rotta la barriera
dell’istinto, quel bacio fu seguito da un abbraccio apionato. La diga delle convenzioni aveva ormai ceduto alla ione di due adulti in cerca disperata di amore. Avvinghiati nell’abbraccio, caddero insieme sul letto e consumarono in fretta l’unione di due spiriti stanchi di consumare la vita in solitudine. Fu Corrado che si allontanò per primo dall’abbraccio. Il volto confuso, gli occhi smarriti si rimise in piedi ed aiutò Angela a fare altrettanto. Lo sguardo lontano, gli occhi arrossati, Corrado si trovò a profferire le parole che aveva pensato non sarebbe mai stato capace di dire a nessuno, mai. “Angela, c’è qualcosa che devi sapere. Qualcosa molto importante, qualcosa che avrei dovuto dirti prima, solo non ne avevo il coraggio. In Afghanistan avevo trovato una ragazza del luogo, una ragazza molto giovane e gentile. Mi ero innamorato di lei, avevo intenzione di sposarla. Stavo aspettando l’occasione giusta per portarla qui e farla conoscere a mia madre.Tre mesi fa hanno bombardato il quartiere dove vivevamo già come marito e moglie. Fatima, la ragazza, è morta istantaneamente.” Angela lo guardò con dolcezza. “Corrado, mi dispiace per la povera ragazza. Devi averla amata molto. Non preoccuparti, capisco perfettamente la situazione. Non preoccuparti per quello che è successo. Abbiamo vissuto insieme forti emozioni ed abbiamo scambiato i sentimenti di affetto che nutriamo l’uno per l’altro per qulcosa di più grande. Stai tranquillo, non parlerò con nessuno di quello che è successo tra di noi, neanche con Michela” Angela sorrise. Corrado divenne triste. “Angela, non voglio dimenticare quello che è successo tra di noi. I miei sentimenti per te sono forti e non voglio dimenticare quello che è avventuo poco fa tra di noi. Quello che sto cercando di dirti è tutt’altra cosa. Non voglio farti pensare che ho amato ed amo ancora un’altra, Angela, la bimba che sta giù in cucina è mia figlia.Ho inventato una storia ridicola, solo per introdurla a mia madre e mia sorella. Non ho avuto il coraggio di dire loro tutta la verità sin dal principio avevo paura del giudizio di mia madre.
Angela, sei la donna che voglio, che ho voluto tutta la mia vita da quando ero ragazzo. Un ragazzo timido ed insicuro che non aveva il coraggio di farti sapere che ti amava. Io non sono un uomo perfetto, tutt’altro, ma se tu sei disposta a vivere il resto della tua vita con me ed amarmi, ti prometto che cercherò di farti felice con tutto il mio cuore. Angela, lo so che ti sto chiedendo tanto ma te la sentiresti di fare da madre ad una povera bimba innocente che ha tanto bisogno di amore e di una famiglia capace di aiutarla nella vita?” Angela scossa da tante emozioni, una dopo l’altra, ansimava cercando di trovare le parole giuste per l’occasione. Corrado alzò gli occhi per un attimo dal suo volto bagnato di lacrime ed incontrò lo sguardo sgomento di Michela che sulla soglia della stanza era venuta a cercarli per convincerli araggiungerle in cucina ed aveva ascoltato tutto il discorso del fratello. Bianchi in volto, tremante ed angosciato Corrado, allibita e sconvolta Michela, si fissarono a lungo con le emozioni che danzavano libere nei rispettivi occhi. Fu Michela che, silenziosa come era apparsa all’entrata della stanza, si girò di scatto e si allontanò dalla scena. Angela non si era accorta di nulla, Corrado tornò a guardarla interrogandola con uno sguardo ansioso. D’improvviso la donna gli gettò le braccia al collo e gli bisbiglio nell’orecchio: “Sarà un privilegio amarti. Amerò la bambina come se fosse mia, nostra. Non preoccuparti Corrado, tutto andrà per il meglio. Non c’è neanche bisogno di far sapere la verità a tua madre e Michela. Io manterrò il tuo segreto, amore mio. Un bacio apionato sigillò la loro promessa di amore. Intanto Michela era tornata in cucina e senza dire una parola si era seduta sulla sedia a dondolo, aveva preso tra le braccia la bambina ela cullava dolcemente stringedola al seno. Dina, intenta a preparare la tavola per la colazione le disse senza voltarsi a guardarla. “Allora? Che fanno, scendono a mangiare qulcosa o no?” Visto che la figlia non rispondeva, Dina si voltò finalmente a guardarla. Quello che vide la turbò profondamente. Michela, col volto rigato di lacrime, accarezzava dolcement la testa di Alina.
“Michela, cosa c’è? Figlia mia, troppe emozioni, anche per una testa frulla come la tua.” Si avvicinò alla figlia e, toltasi dalla tasca della gonna un grande fazzoletto a quadri, cominciò ad asciugarle il viso proprio col gesto tenero di una madre che pulisce dalle lacrime il volto triste di una bambina. Teneramente le tolse la bimba dalle braccia e la depose nel cestino. Con le sue mani forti e capaci sollevò la figlia dalla sedia e la tirò a sè. “Michela, figlia mia, smettila. Sei troppo sensibile, ti fai solo male. Devi imparare a proteggerre il tuo cuore dai tuoi stessi sentimenti. Ti preoccupi troppo per gli altri, per Angela, per Corrado. Pensa a te, alla tua vita. Perchè non rimani un poco con me, quando Natale è finito e gli altri se ne sono andati?” Michela rimaneva silenziosa, annuendo di tanto in tanto, tra una lacrima e l’altra. D’improvviso lo sguardo di Dina attraversò la finestra e si posò sul giardino. “Guarda Michela, ha smesso di nevicare. Tra poche ore potremo uscire. Troppo tardi per la Messa ma possiamo sempre andare a trovare Padre Giovanni che ci aiuterà a sistemare Alina. Non voglio che ti affezioni troppo alla bambina, non voglio che poi soffri quando se ne andrà dalla nostra vita.” Michela non ce la fece più a trattenersi. “Alina non se ne andrà dalla nostra vita, Mamma. Corrado sposerà Angela e terranno la bambina con loro.” “Michela, cos’è questa un’altra della tue storielle frottole? Corrado ed Angela si conoscono da anni, se avessero avuto sentimenti l’uno per l’altro li avrebbero già scoperti da un pezzo. Fammi il favore, Michela, smettila di sognare favole. La vita è tutt’altra cosa.” Fu lo sguardo che la figlia rivolse all’entrata della cucina che fece girare Dina. Li vide insieme che si tenevano per mano, ormai senza reticenza a mostrare i loro sentimenti. Corrado ed Angela le stavano guardando con l’aria leggermente stupida di chi è felice ed ha il cuore pieno di gioia e speranza. Per un poco nessuno disse una parola.
Angela si rivolse per prima a Dina: “Dina, come sono contenta. Adesso sarai veramente come una madre per me. Io e Corrado abbiamo intenzione di sposarci. La bambina rimarrà con noi. Spero che la nostra decisione ti, vi renderà felici. Adesso io e Michela saremo veramente due sorelle, amiche per la vita. Come sono felice Dina. Che differenza ha fatto alla mia vita venire a are il Natale con voi.” Così dicendo si precipitò ad abbracciare Dina che, sorpresa da questa ultima notizia, era rimasta inerte, le braccia lungo i fianchi, a guardare il figlio come se fosse appena sceso dal cielo. “Che Dio vi benedica” esclamò Dina commossa mentre leggermente angosciata si rivolgeva al Signore. “Dio mio, basta con tutte queste sorprese. Si, lo so che è Natale, ma io soffro di cuore e questa mitragliata di notizie mi sconvolge troppo.” Michela corse ad abbracciare l’amica ed il fratello, a cui bisbigliò nell’orecchio “Canaglia!” Quando tornò verso la madre, Michela aveva riaquistato l’aria sbarazzina di sempre. Corse verso il cestino della bimba, la prese tra le braccia e cominciò a cantare sottovoce ‘My sweet Lord’ di George Harrison. “Hai visto Alina? Te l’avevo detto subito io che ero la tua zietta Michelina? Hai visto che avevo ragione? Vedrai che anche la nonnaccia cattiva prima o poi ti vorrà bene, specialmente quando si accorgerà che sei il ritratto del figlioletto Corrado. D’improvviso si recò verso Angela, le porse il fagottino tra le braccia dicendo: “Forza Alina, fai un bel sorriso alla tua mammina Angela.” Poi si avvicinò al tavolo, prese la solita tazza di caffè ed alzandola verso il cielo disse con voce squillante: “Buon Natale a tutti. Gioia e felicità.” Fuori la neve cominciava a sciogliersi. Il sole si stava alzando alto. Che Natale indimenticabile!
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