LA VILLA
romanzo
Giovanni D’Avanzo
Smashwords Edition
Copyright 2013 di Giovanni D’Avanzo
Tutti i diritti riservati
Revisione e pubblicazione a cura di Renato Bruno www.matitarossa.com
Impaginazione e copertina di Roberta Tavarilli
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I
Quanti anni in quel quartiere? La vita era sempre uguale, la gente sempre la stessa, identici gli spazi. La mattina si andava sempre tutti di fretta, la sera ancora di più. Giorno dopo giorno tutti con i medesimi orari. Il mio appartamento era in un edificio che dava su un viale sempre trafficato, giorno e notte, lavorativi e festivi. Presi quindi l’abitudine di allungare di una decina di minuti il percorso verso l’ufficio, così da poter evitare gran parte del traffico e camminare nelle tranquille vie interne. Fu qui, in una di queste insignificanti e grigie strade a due i da casa mia che lo vidi la prima volta. Usciva da un pesante portone di una casa di ringhiera, portava un cappotto nero che pareva un mantello e un cappello grigio gli copriva appena la stempiatura. Me lo trovai davanti all’improvviso, i capelli grigi e lunghi e la sua alta statura lo resero ai miei occhi immediatamente imponente e misterioso. Magro, forse sui settant’anni, impugnava un bastone di legno scuro venoso e fui colpito subito da quel suo o lento e leggermente claudicante, che si sarebbe distinto in mezzo a qualsiasi folla. Quando gli fui accanto incrociai il suo sguardo: si fermò e mi scrutò da vicino, troppo vicino, e io, con le spalle al muro, sentii i brividi corrermi lungo la schiena. Le folte sopracciglia scure sporgevano come cespugli dal suo profilo sciupato e rugoso, cornici di due occhi scuri e tristi di chi non ha più nessuno con cui parlare, o di chi non ha mai avuto nessuno, pensai. Li sentii su di me pesanti come macigni, tanto da non poterne sostenere lo sguardo. «Anche lei per le vie della quiete stamane?» mi venne da dirgli stupidamente e senza ragione, con la voce incerta e metallica di chi ancora non aveva pronunciato parola dalla sera prima. Poi mi colpì all’istante – come dimenticarlo – il preciso momento in cui sentii per la prima volta la sua voce, con quel tono potente e cupo, così perfettamente adatto allo sguardo e di cui in futuro mi sarei ritrovato assetato: «Per le vie della quiete da sempre», disse tranquillo, fissandomi ancora da vicino, ora con un’espressione ironica, quasi di rimprovero. «Certo, la quiete... da sempre» borbottai, ripetendo le sue parole meccanicamente. Sospirò, girando il volto lentamente, come se stesse ritornando a chissà quali pensieri. Andò via così com’era arrivato, camminando un poco zoppo sul suo bastone. Quel primo incontro casuale mi lasciò dentro una certa inquietudine, «per le vie
della quiete da sempre», le sue uniche parole rimbombarono calde nelle mie orecchie per tutto il giorno. Un vecchio così distante dalla vita frenetica della città, vestito così all’antica da far pensare a un trasporto nel tempo indietro di cinquant’anni. Ma non capii il motivo della mia inquietudine, non ancora. La mattina seguente, ando in quella stessa via, attesi anche qualche minuto in più nella strada deserta, sperando e allo stesso tempo temendo di rivederlo; poi, sorridendo di me stesso e della mia curiosità, rinunciai. Ma qualche settimana dopo, in una sera gelida di gennaio, mentre attendevo di essere servito al tavolo di un piccolo bar della zona, lo vidi entrare dalla porta del locale, col suo o lento e paziente, vestito completamente di nero e con il bavero del cappotto alzato. Si reggeva a un ombrello, nero anch’esso, mostrando un’aria di serena e rassegnata sofferenza, anche se il volto, magro e lungo, pareva aver trattenuto in qualche modo l’ultima delle espressioni che gli vidi stampate la mattina del nostro incontro. Non era gobbo ma teneva la testa leggermente inclinata sul petto e avvicinandosi al bancone sospirò vistosamente, spostando la mascella un poco in avanti, come se un tic l’obbligasse a quel gesto. Appoggiò piano il cappello sullo sgabello accanto a sé e ordinò da bere. I lunghi capelli sembravano più bianchi, gli cadevano a ciocche sulle spalle e sul petto, tra il cappotto e la camicia. Sobbalzai alla domanda improvvisa del cameriere che da dietro mi chiese qualcosa a voce alta. Ordinai la prima cosa che mi venne in mente e tornai subito a lui: lo guardai fissare le pareti di legno del locale fumoso, con il bicchiere ancora pieno stretto nella mano, ferma e grande. Improvvisamente, con un sorriso amaro e beffardo e con un’agilità che mai mi sarei aspettato, si girò verso di me: mi guardò, non disse nulla e non mostrò nessuno stupore per la mia presenza. Tentai a mia volta un’espressione disinvolta, ma egli, con un’aria consapevole e complice, si fece sfuggire un sorriso. Poi alzò leggermente il bicchiere verso di me e quasi sussurrando disse: «Le vie della quiete, eh?» Il tono della sua voce sopperì alla mancanza di sforzo nel pronunciare la frase, le basse vibrazioni mi arrivarono come vento in faccia. Risposi timidamente al brindisi ma sollevando un bicchiere immaginario, perché non ero stato ancora servito, e quel gesto mi fece sentire un perfetto idiota. C’era qualcosa nel suo atteggiamento, di più, nella sua stessa presenza, che mi metteva in uno stato di cupa eccitazione, facendomi provare curiosità e al tempo stesso preoccupazione per ogni eventuale conversazione. Nei minuti successivi bevvi con impazienza ma quando oramai ero pronto per uscire il vecchio era già scomparso.
Ma perché tanto interesse? All’epoca mi sforzai di non dare troppo peso alla strana attrazione che egli suscitava su di me. Ora, però, col senno di poi, posso affermare, con coscienza, che d’istinto intuii in lui un mondo nascosto e segreto, troppo affascinante perché mi rimanesse taciuto. Uscii dal bar giusto in tempo per vederlo sparire in fondo alla via, ancorato al suo ombrello. Decisi di fare un giro largo per vederlo rincasare, ma non ci fu più verso di scorgerlo ancora. Pensai così che fosse entrato in un altro bar e percorsi la strada a ritroso, scrutando le vetrine dei locali cinesi, ma niente, di lui nessuna traccia. Da quella sera in poi, per diversi giorni, non lo rividi più. Qualche settimana dopo appresi la notizia di dover sbrigare una certa faccenda di lavoro nel Veneto, cosa che fin dal primo momento non accolsi con troppo entusiasmo. Comunque, mi feci prenotare un posto sul primo treno e rincasai dopo l’ufficio di malumore e solo per preparare velocemente una valigia con qualche indumento appena, prevedendo di dovermi trattenere lontano da casa due o tre notti al massimo. Arrivai di corsa alla stazione e salii sul diretto, ancora fermo sul binario. Occupai il posto prenotato, vicino al finestrino e in direzione di marcia, come di consueto, e mi abbandonai, stanco e annoiato, sul sedile sudicio dello scompartimento. Guardai distrattamente fuori dal finestrino per un po’, immaginando di riuscire a cogliere la conversazione di due signore di mezza età che, in fondo al marciapiede, si stavano salutando calorosamente. Osservai, poi, le movenze rapide di un ambulante che trafficava sul suo trabiccolo tra monete, banconote, bibite e panini caldi, mentre una piccola folla davanti a lui attendeva impaziente, fissando di continuo il grande orologio della stazione. Fu a questo punto che scorsi in fondo alla banchina una figura che da principio mi parve familiare, ma che subito scomparve, nascosta da quella che poteva sembrare una scolaresca di grossi frati barbuti in gita. Riapparve subito dopo. Benché distante non poteva che essere lui, con la sua alta figura svettante tra la gente e con la sua camminata, mano a mano più distinguibile. Si fermò a parlare con il capotreno, fermo a fumare sulla banchina, attorniato da eggeri affannati alla ricerca di informazioni. Dopo alcune parole scambiate col ferroviere si allontanò dal binario e fu solo allora che notai la sua piccola valigia, mentre nell’altra mano stringeva il bastone. Non si trattava del suo treno quindi, ovvio che si stava dirigendo altrove. Avvertii di nuovo quel vago senso di disagio e mi ò ancora una volta per la testa la sua espressione al momento del primo incontro. Coincidenze, pensai: sono giorni che fantastico su questo singolare individuo e ora me lo trovo pure al di fuori del quartiere, come un malocchio o una maledizione strisciante.
Dopo qualche minuto il treno si mosse, lasciandosi indietro la banchina e le persone ferme a terra. ammo davanti all’ambulante, ancora tutto indaffarato, ignaro della frenesia intorno a lui. Una delle due signore di prima, con un lento ma accentuato movimento labiale, accompagnò con un cenno della mano una frase rivolta a qualcuno seduto a un finestrino più in là del mio, per poi sparire subito alla vista. Mentre il treno prendeva il largo nella città illuminata, allungai le gambe sul sedile di fronte e iniziai a sfogliare svogliatamente una rivista, rassegnato al viaggio noioso che mi attendeva. Cullato dal monotono movimento del treno, mi stavo per abbandonare al ritmo dell’astratta melodia proveniente dal fondo delle giunture ferroviarie, quando ad un tratto la porta dello scompartimento si spalancò: lo vidi, immobile, curvo sul bastone, con il suo sguardo triste. Il vento dei finestrini aperti in corridoio gli aveva scompigliato i lunghi capelli radi e canuti e lo sforzo nel portare la valigia aveva messo in evidenza la venatura rigonfia del suo polso e della mano. Rimasi di pietra, ma egli non badò a me. Semplicemente scelse un posto, mise con cura la sua valigia sul ripiano alto, si allentò il nodo della cravatta scura e sprofondò lentamente nel sedile. Che non mi avesse riconosciuto? Ma subito con la sua voce profonda accennò, cordialmente, al nostro ato incontro, sfoggiando modi che mi parvero più frutto di un’innata sensibilità che di buone maniere apprese per le vie tradizionali.
Mi sentii rassicurato dal fatto che, nonostante le apparenze, il vecchio fosse una persona ragionevole e innocua, tanto per cominciare. Poi presi coraggio e decisi di interrogarlo con discrezione, per poter appagare quanto più possibile le mie curiosità. Gli chiesi distrattamente dove fosse diretto, sforzandomi di non chiedere troppo da principio. «Sono diretto a Verona» disse fissando il vuoto fuori dal finestrino. «Verona, eh? Gran bella cittadina, persino romantica» aggiunsi, pentendomene subito. Mi scrutò inchiodandomi con gli occhi: «Città romantica per eccellenza.» tuonò serio ma con naturalezza, per poi lasciarsi andare a una mezza risata distratta.
«Mi dica, se posso chiedere...» titubai. «Lei può chiedere e io posso rispondere. Questo è l’aspetto positivo dell’essere liberi» aggiunse, come per tranquillizzarmi. arono diversi secondi, poi gli chiesi: «E quale sarebbe, secondo lei, l’aspetto negativo dell’essere liberi?» Senza distogliere lo sguardo e senza nemmeno aspettare un secondo mi rispose: «Il fatto di essere costretti ad esserlo». «Sembra contraddittorio» azzardai. «Sì, esatto, sembra. Ma non si preoccupi, se ne renderà conto anche lei, se solo avrà voglia di ricordarlo. Col tempo potrebbe darmi ragione.» Aver voglia di ricordarlo? Ero elettrizzato. Da vicino i suoi lineamenti erano, se possibile, ancora più marcati e la luce gialla dello scompartimento illuminava i suoi denti fino a farli sembrare laccati. Le labbra, troppo sottili, si muovevano appena. Parlava quasi come un ventriloquo e la sua voce bassa riempiva lo scompartimento più di ogni colore o luce. Allora gli dissi: «Va a Verona, quindi, ma come mai proprio Verona, se mi è concesso...» «Vede, io non vorrei turbare il suo viaggio.» «Ma io invece avrei piacere di conoscere il motivo, sì, insomma di sapere... ma non vorrei essere invadente...» «Davvero, non è questo, non vorrei turbare il suo viaggio.» ripeté. «Ma guardi – supplicai – io ne sarei onorato.» Mi scrutò per un pezzo coi suoi occhi lucidi e pieni di dolore: mi chiesi allora, e anche in seguito, a cosa stesse pensando in quel momento. Distolse lo sguardo e si accese da fumare, come a voler cancellare, con l’indifferenza di un finto gesto automatico, tutte le regole della moderna convivenza. Aspirò profondamente e iniziò a raccontare con calma la sua storia. Dal principio.
***
II
«Il mio nome, Victor D., fu iscritto al registro di leva obbligatoria quando ancora non avevo raggiunto la maggiore età. All’epoca lavoravo con il circo della famiglia che mi aveva accudito e adottato dall’età di cinque anni. Non si trattava certo di un lavoro comune, sempre in viaggio, poche amicizie vere. Dovetti respirare la polvere della miseria, nell’ambiguità delle periferie sempre uguali, anche se lontane migliaia di chilometri. Spazi dismessi delle città del mondo, tristi melodie circensi come uniche compagne della mia adolescenza. Italia, Oriente, America. Ma mai ho creduto di aver avuto un’infanzia infelice. Dopo anni di stenti, nel giro di pochi mesi il successo e la notorietà del circo crebbero moltissimo, tant’è che preferii continuare a viaggiare, anziché rimpatriare ed assolvere i miei doveri di cittadino e soldato. Dapprima con la mia famiglia, poi con un’altra compagnia e poi con un’altra ancora. Dopo molti mesi mi licenziai e partii per un lungo viaggio, da solo. Fui arrestato dalle autorità il giorno del mio rientro in Italia, quando sfidai la fortuna alla frontiera sperando di riuscire a farla franca e raggiungere la città, per abbracciare l’ultima volta mia madre morente. Mia madre. Mia madre adottiva. La donna che mi salvò e che forse dovette rapirmi per farlo, che a suo modo si prese cura di me, nonostante tutto. Affrontai i mesi di carcere con la spavalderia tipica di chi ha più o meno vent’anni, poi venni trasferito più volte in diverse prigioni, di varie città. Durante la prigionia mi dedicai esclusivamente a studiare e a compilare pratiche burocratiche. Alla fine ottenni promessa che, una volta scontata la pena, avrei potuto assolvere ai miei doveri di cittadino con un servizio civile di sedici mesi, dato che le autorità mediche militari mi avevano ritenuto non idoneo alla leva. Queste stesse autorità mediche però, il giorno fissato per le dimissioni dall’ospedale militare, non mi inclo nella lista dei congedi. La mia pratica risultò inizialmente solo un po’ più complicata: dopo qualche giorno sembrò fosse stata trattenuta dagli uffici di competenza, poi sembrò fosse stata posta a riesame, fino a che, dopo un mese dal giorno preposto per le dimissioni, appresi che la pratica era stata smarrita. Me lo disse un medico ufficiale, dopo avermi convocato nel suo ufficio, con un sorriso di disprezzo e di indifferenza. Brutti tempi per i disertori, quelli. Soprattutto per i disertori cui capitava di
rimanere intrappolati per oltre un anno in un ospedale psichiatrico militare. Il contatto con la malattia, e tutto il disagio che provai in quell’ospedale, mi resero i corridoi delle galere, precedentemente visitate, dei luoghi assai più umani. Quando finalmente mi dimisero, andai in congedo due settimane da mio padre e trovai, al suo posto, un uomo perso, invecchiato e sconfitto dalla vita. Colto, sensibile e severo, mio padre non aveva mai superato il distacco prematuro da mia madre, ne aveva sofferto così tanto da abbandonare ogni sua attività, il circo, i viaggi, il lavoro, il successo. Il giorno della mia partenza non si presentò neppure per il pranzo e non uscì dalla sua stanza per tutto il giorno. Mi ricevette solo per il saluto. Lo trovai seduto nel letto che si radeva con cura la barba di qualche giorno, come l’avevo visto fare chissà quante volte in camerino da bambino, con il temperino in una mano e il suo vecchio specchio tondo d’argento nell’altra, sempre con la stessa grande dignità che il tempo però, all’epoca, gli stava sottraendo, lentamente.» Ricordo che a questo punto lo sguardo dell’uomo seduto di fronte a me si incupì e si fece più attento, forse a voler richiamare dei ricordi precisi: la sua voce si fermò per poi riprendere con una tonalità ancora più bassa, incalzando e soffermandosi su alcune parole al momento giusto, dosando le dinamiche dei suoni e dei significati alla perfezione, come solo chi possiede l’innato dono della migliore oratoria è in grado di fare. «Quella sera, lo ricordo bene, fui scortato da due soldati dell’esercito, da casa fino al luogo stabilito per l’inizio del servizio sostitutivo alle armi. Questa destinazione però ancora mi era ignota e i due soldati, rimasti muti e imibili per tutta la durata del viaggio in automobile, rispettarono, senza il minimo cenno di cedimento, il rigido protocollo imposto. Eravamo in viaggio da diverse ore, ma la concezione del tempo mi si era confusa alquanto in quella sera buia e fredda d’inverno. La macchina aveva imboccato delle strade secondarie e sterrate, verso una zona sempre più desolata, in aperta campagna. Il verdone scuro delle distese d’erba era ancora visibile, nonostante il sole fosse già tramontato da un pezzo e per effetto delle colline in fondo alla campagna, il paesaggio iniziò a muoversi, facendosi via via più morbido e reale. Riuscii quasi ad addormentarmi, con la testa appoggiata al finestrino, quando ad un tratto la macchina rallentò e curvò a sinistra, fino ad arrestarsi davanti a un grande edificio, largo e basso, con le pareti chiare. Da una piccola porta laterale uscirono degli uomini armati che si avvicinarono veloci all’auto. Due di loro
fecero firmare una carta al più giovane dei miei silenziosi custodi: scorsi un timbro ad inchiostro blu con la data di quel giorno: 14 gennaio 1969. Mi presero in consegna e fui portato, rapidamente, in una grande sala all’entrata della caserma, mentre fuori, con aria gelida e pungente, il vento forte aveva spazzato via l’erba dai campi e riempito le strade di fili di fieno e rami secchi. Di guardia vidi, nel salone d’ingresso, un gigantesco milite nel gabbiotto, straripante nella minuscola struttura che mi pareva costituita di sola latta e vetro e che gli stava attorno aderente come una corazza. L’uomo non si scompose, con le enormi guance cadenti e le labbra rosse, rimase imibile e immobile, come un vecchio cane da combattimento a riposo. Ore interminabili arono. Poi finalmente si aprì la porta più lontana, quella che dava su un corridoio stretto, appena intravisto. Si avvicinò un anziano ufficiale scortato, mi chiese gentilmente di vedere i documenti, che trattenne. Nel frattempo, fuori dal cortile, vidi un mezzo militare in attesa: fui condotto nuovamente all’aperto, sempre col mio piccolo bagaglio. Infreddoliti, salimmo di corsa sul grosso camion, con l’autista già al suo posto e il motore . Si trattava di uno di quei mezzi in grado di trasportare fino a una settantina di uomini. Possedeva una gigantesca stiva che, come un grembo vuoto e metallico, favoriva e amplificava il violento frastuono del motore e degli scossoni. Io e i due uomini di scorta ci sistemammo nella parte centrale del carro, da dove scrutare lo spazio vuoto all’interno del mezzo e, all’esterno, le prime luci della città di Verona. Attraversammo il centro con le belle piazze deserte circondate dai portici, poi il fiume, immenso e imponente ai miei occhi, come fosse l’unico vero padrone della città. Da una panchina, una giovane coppia s’incuriosì al aggio del carro militare che portava solo due soldati e un detenuto. Ne incrociai appena lo sguardo, perché la mia mente s’era già persa nelle vicende che la vita aveva scelto per me, arbitrariamente. Non rifiutavo nulla, né del mio ato né del futuro, di ciò che mi attendeva. Non rinnegavo niente ed ero pronto ad andare fino in fondo all’avventura che mi aspettava. Non avevo più nulla da temere, solo attendere il trascorrere dei mesi di lavoro, alla fine dei quali avrei finito di pagare il mio debito con la giustizia. Non avevo progetti ma nemmeno ero disfattista nei confronti del destino. Non facevo paragoni, non mi davo illusioni, non avevo ambizioni né persi la speranza di vivere felicemente. Vivere di ansie e preoccupazioni sarebbe stato solo uno spreco per me. Malgrado la mia situazione non fosse delle più invidiabili, non trovavo nemmeno un motivo che m’impedisse di vivere a testa alta, e senza
remore, la mia gioventù. Superato il quartiere di San Giovanni salimmo sulle prime colline della periferia nord, allontanandoci di nuovo dal centro. Mentre il vecchio motore faticava sulle pendenze, dopo un paio di stretti tornanti ci si aprì innanzi la scena, nuova e sorprendente, di una campagna buia e selvaggia, proprio a ridosso della città. In fondo, sulla sinistra, la strada minuscola in direzione di un’enorme villa che mi parve dapprima un castello medievale e poi un grande palazzo settecentesco, cinto da gigantesche mura. La grande facciata dell’edificio principale era così illuminata da scorgerne i dettagli anche a grande distanza, mentre si stagliava di traverso rispetto alla strada che la raggiungeva in salita. Gli edifici mi sembrarono inizialmente due, poi, dopo un’altra curva, mano a mano che procedevamo, ne scoprii un terzo e poi un quarto più lontano, con una piccola torre sul lato interno. Tutto il complesso era delimitato dalle mura e per qualche ragione aveva perso parte dell’armonia posseduta un tempo, pensai. Scomparve per un attimo dalla mia vista mentre la strada precipitava in discesa, poi, dopo un’ultima salita e con gran fatica, il camion si trascinò nei pressi del cancello d’entrata. Tutt’attorno alle mura di cinta s’era sviluppata una sorta di nube, una specie di nebbia fitta e bassa che dava alla costruzione un aspetto ancora più sinistro.
«Dove siamo?» mi sfuggì, rivolgendomi involontariamente alla scorta, come se stessi pensando a voce alta. Uno dei soldati, giovane forse anche più di me, ma dall’aria sicura ed esperta, mi rispose: «Veramente non l’hai ancora capito? Questa è la Villa.» Non mi aspettavo certo risposta dalla guardia e ne fui sorpreso: «La Villa? Cosa significa?». A quel punto il soldato fece cenno all’autista di aprire il portello di mezzo, ma questi nemmeno rispose. Mi scortarono giù dal camion, poggiai i piedi sullo sterrato e mi avvicinai di qualche o, fissando il gigantesco portone. Sentimmo un lento frastuono di catenacci e serrature. Contai otto mandate, accompagnate ogni volta dagli scricchiolii di scorrimento delle parti metalliche. Con una lentezza esasperante, l’enorme anta di sinistra del portone iniziò a muoversi verso l’interno, stridendo con un suono tanto acuto da far rabbrividire. Lo spazio che intravidi era avvolto nel buio e le guardie mi fecero segno di avvicinarmi. Fui scortato all’interno di un grosso atrio scuro. In fondo, finalmente, il lume di una lampada a olio, sopra un bancone. Lentamente udii
dietro di me uno strisciare di i, come se si trattasse di una bestia. Mi girai e vidi avvicinarsi un'altra luce, con dietro un volto rugoso dagli occhi lucidi. «Sono stati presi accordi direttamente con il Professore.» disse il soldato al mio fianco. «Capìo... col Professor...» rispose l’omino dietro al lume, come lagnandosi in falsetto e con un marcatissimo accento veneto. «Bé se così è, lasciatemi pure in consegna l’ospite, domattina lo presenterò in studio da lui» aggiunse. Le guardie fecero il saluto militare e a i pesanti tornarono fuori. Il silenzio del luogo fu scosso dal rumore del vecchio mezzo militare che si rimise faticosamente in moto. Rimasi in quello stanzone, illuminato solo da due luci fioche, in compagnia di quell’essere strisciante. Notai che aveva le orbite molto marcate, violacee, con due occhi tondi e sporgenti. Alto non più di un bambino, teneva in mano la candela ed era avvolto da una veste troppo grande per la sua statura. Il volto, butterato, con ogni probabilità mentiva sulla sua vera età. «Da questa parte, signore», mi disse con tono servizievole ma dal timbro di un castrato. In un secondo mi balenò nella mente la possibilità di allontanarmi da quell’incubo, semplicemente svignandomela. Ma subito pensai che sarei stato braccato e in poche ore ricondotto in carcere, questa volta però per chissà quanti anni. Quindi seguii il mio nuovo carceriere in quel corridoio mentre, tenendo il lume in mano, strisciava, più che camminare, davanti a me. Aveva le spalle strette e la testa sproporzionata rispetto al corpo. «Mi segua signore, da questa parte» strideva a ogni cambio di direzione e ad ogni nuova porta imboccata. Era talmente sinistro da non riuscire a risultarmi gentile, soprattutto per via del suo aspetto orribile. Arrivammo in un altro corridoio, anch’esso lungo e stretto, illuminato da diverse lampade a olio poste in alto, ai lati. Sulla parete in fondo, una vecchia fotografia incorniciata mi catturò lo sguardo: il ritratto di una donna dagli occhi senza pupille, completamente bianchi, con i capelli raccolti in un velo, seduta su una larga sedia di legno, come in trono. Avvicinandomi notai la posa della figura dipinta, piuttosto innaturale, come se una sadica perfidia l’avesse costretta a star seduta in quel modo: con la bocca aperta in un lamento soffocato, lo sguardo neutro, inesistente, cieco, perso in un angolo vuoto della stanza. Il piccolo guardiano faticò nell’aprire la porta serrata da un grosso chiavistello di ferro e quando finalmente gli riuscì mi guardò soddisfatto, come se si aspettasse
un mio gesto di complicità, sollevando il labbro superiore tremante e carnoso, e mostrandomi, davanti a tanti dentini mal messi, un sorriso così servizievole e bavoso da suscitarmi un brivido di vero orrore.
Non appena la porta si spalancò e l’aria si rovesciò nel corridoio, un vento forte e gelido iniziò a fischiare tra le pareti provocando un rumore assordante. Il guardiano lasciò che il lume si spegnesse e mi fece are. Camminando svelto tra l’erba e i cespugli riuscivo appena a vedere l’uomo che mi guidava. Dopo poco ci trovammo su un sentiero delimitato da siepi e rovi e a pochi i da uno splendido e antico edificio: l’ala ovest della Villa. Solo tre gradini all’ingresso; il portone aperto urtava contro gli stipiti, in balìa del vento. Fu il guardiano a fermarlo, prima di farmi are all’interno. Alle nostre spalle la porta sbatté violentemente per l’ultima volta, poi sopraggiunse il silenzio. Il guardiano accese le lampade ad olio all’ingresso: un dormitorio enorme e deserto, con decine e decine di brande in fila, a perdita d’occhio, mi si spalancò davanti. Nel fondo scuro si poteva ben immaginare come quell’apparizione di letti allineati proseguisse all’infinito. Con la sua voce cadenzata e stridula il guardiano mi disse qualcosa in un dialetto per me incomprensibile, poi subito me lo tradusse, mantenendo la medesima cantilena: «Sei fortunato che ci sia io e non quell’altro, sai?». Poi, forse stanco per quell’improvvisata notturna, si sedette su una branda rimanendo coi piedini a penzoloni. Con prudenza e strizzando un po’ gli occhi, mi chiese: «Mi posso fidare a lasciarti qui stanotte, da solo?». Ne fui sorpreso, ma subito mi sforzai di rispondere: «Si può fidare, sono distrutto e, poi, dove potrei mai andare?». «Ah ben! – rispose quell’altro – non gh’è ragione d’avventurarsi qui fuori, credimi. Il meglio che possa capitare è perdersi e morire congelato in una notte così. Mettiti comodo, doman mattina sbrigheremo tutto.» Mi risultò quasi simpatico in quel momento, perché intravidi in lui un qualcosa di umano. Finalmente. «Grazie.» L’omino non mi rispose e sospirò come scocciato.
«Vedevi ti, se capitavi con Danieli, magari un’altra sera... Vedevi ti. Te sparava, te lasciava secco in guardiola o al massimo te seppelliva nel parco.» «Danieli?» «Danieli sì, il guardiano di notte. Mi son qui in sostituzione, ogni tanto vengo giù in guardiola per far un favore, sempre a disposizione, sai tu? Ma non preoccuparti che Danieli lo conoscerai doman.» «E il Professore?» «E il Professor... – si incupì un poco, guardò in basso, poi aggiunse con vivacità, dandomi però la netta impressione di mentire – il Professor anca lo conoscerai doman!». «Come ti chiami?» chiesi sedendomi e dandogli ora del tu. «Me ciaman tutti Boi» disse piano, sorridendo con una nuova smorfia di gratitudine. «Bene Boi, domani sarà una giornata dura e lunga per me, verrò ammazzato e seppellito dal guardiano, incarcerato e torturato dal Professore, inseguito dal fantasma della donna cieca ritratta in corridoio eccetera eccetera... Credo che tu possa tornare di guardia e lasciarmi riposare, non credi?» Boi non colse minimamente l’ironia e mi guardò stranito. Mi lasciò salutandomi servilmente con una specie di inchino e prima di lasciarsi alle spalle il portone, ributtò dentro il testone gridando: «Mi te curo, saaato!?» e senza aspettare una risposta mi chiuse dentro a chiave, in quella stanza gigantesca. Il rumore del vento che sibilava nel bosco fuori e che ululava nei corridoi dei piani superiori, mi ferì di nuovo le orecchie. Lasciai una sola lampada accesa, poi mi buttai su una branda e mi addormentai profondamente, con in testa ancora la cantilena dell’ultimo strillo di quello strano individuo.»
***
III
«Il temporale non tardò a tuonare e una delle persiane iniziò a sbattere con innaturale insistenza. Mi sembrò il lamento di un gatto, ma presto mi accorsi che si trattava di una voce umana, femminile: “Aiutoooo!!” Col sangue gelido e il terrore negli occhi mi alzai dal letto e mi avvicinai alla persiana, ancora serrata. Ed ecco che mentre ero lì lì per aprirla, dei colpi sferrati sul legno ruppero il silenzio, e di nuovo quelle urla acute e disumane mi fecero arretrare per lo spavento. Un tuono come una bomba squarciò il cielo e rotolò nella stanza, risuonando per alcuni lunghissimi secondi. Un brivido su tutta la schiena mi costrinse a girarmi terrorizzato, come se, in quell’immenso luogo semi buio, ci fosse stato qualcuno dietro di me. Ma ero solo. Le brande allineate nella penombra mi suscitarono un’orrenda sensazione di vita, come un esercito immobile di fantasmi. Appoggiai le mani sul pomello per aprire l’imposta. Questa all’improvviso, con tutta la forza del vento che spingeva contro, si spalancò e mi lasciò in balìa di quella terribile visione. Urlai, urlai più di lei che stava con la faccia di fronte a me, con una benda o forse un nastro adesivo nero che le copriva gli occhi, stretto intorno al cranio, e col volto contorto dalle grida strazianti che a tratti le spezzavano il respiro. Ebbi l’istinto di scappare via benché l’orrore mi pietrificasse e i muscoli mi si contrassero costringendomi all’immobilità più totale. Poi l’irreparabile: con un balzo animalesco mi salì sopra. Mi sentii il collo stretto da due mani gelide e bagnate che mi soffocarono il grido, prima che l’impeto del salto mi fe crollare all’indietro, con addosso il suo corpo fradicio che ancora chiedeva aiuto con tutte le forze. Mi stette sopra, senza mollare la presa e con l’impeto di un animale ferito mi fece rotolare sul pavimento di legno. Quando riuscii a liberarmi dalla morsa di una delle due mani che mi stavano strozzando, respirai con voracità ma mi ritrovai con la sua faccia a pochi centimetri alla mia. Con orrore vidi il volto della donna cieca della fotografia, solo più vecchia. Le guance bianche tremavano mentre gridava ininterrottamente mostrando il viola delle labbra sottili nascosto dalla smorfia che, con quella chiusura orribile, le mutilava tutto il volto. Quale barbarie l’aveva costretta a tale dolore? Quale indicibile tortura la costringeva ad una morsa tanto feroce? Quel nastro così stretto le cerchiava la testa lasciandola livida ai lati, e non solo gliela fasciava, gliela stringeva a tal punto che le membra davano l’impressione d’essere sul punto, da un momento all’altro, di schizzare via. Cercai di divincolarmi da quella sua morsa disperata, ma non riuscii nemmeno a spostare il volto per sottrarmi alle sue grida: ero in trappola e
senza forze. Mi sentii addosso tutto il suo alito caldo e ansimante, gli schizzi della sua saliva, sputati dalla sua bocca per lo sforzo di tali grida, prima sul collo, poi sul mento, poi sulla bocca. “Aiuto – urlava – aiutatemi vi prego, non vedo più niente, non vedo più niente!”
“Non vedo più niente! Non vedo più niente!” Fui svegliato dalle mie stesse grida, in un bagno d’angoscia. Il cuore voleva esplodermi in petto e avevo tutti i muscoli del corpo doloranti, come se fossero stati coinvolti in chissà quale violenta e interminabile lotta. Intorno a me solo lenzuola fradice del mio sudore, stravolte dalle convulsioni di quell’incubo terribile. Mi sentivo ancora quella stretta al collo, così furiosa, così vera. Possibile che fossi stato io, con le mie stesse mani, a stringermi il collo in quel modo? Mi alzai dalla branda per cercare sollievo camminando un poco. Raggiunsi la porta dei bagni e l’aprii. Misi la testa sotto il getto d’acqua gelida, poi tornai nella stanza e diedi un’occhiata sospettosa tutt’intorno. La serie minacciosa di brande schierate, ancora in attesa di qualcosa, trasferì il mio incubo nella realtà. Presi un panno dal mio bagaglio e mi strofinai il capo, controllai che la porta dell’enorme stanza fosse ancora chiusa a chiave, poi mi coricai di nuovo. Avevo ancora l’affanno, provai a togliermi dagli occhi quell’orrenda immagine urlante, ma non ci riuscii. Cosa mi avrebbe atteso? Mesi di duro lavoro e terribili umiliazioni probabilmente, uno scotto da pagare allo Stato prima che mi rendesse finalmente libero. Ma nemmeno su questo potei concentrarmi, perché qualcosa di più grande mi stava schiacciando: La Villa. Non potevo dentro di me accettare l’esistenza di quel luogo senza pensare a un qualcosa di soprannaturale. Forse per quelle mura illuminate che avevo visto da lontano, oppure per la nebbia fitta tutto attorno. Forse per la donna cieca ritratta in quella vecchia fotografia ingiallita, che mi tormentava da sveglio e nel sonno. Poi misi a fuoco un particolare di per sé apparentemente innocuo: la torretta del quarto edificio. Ricordai allora di aver notato una finestra in cima, aperta, al contrario di tutte le altre finestre buie scorte al mio arrivo. La vidi ma senza badarci: era solo una finestra aperta, in una notte gelida, in pieno inverno, in
cima ad una torre che sovrastava l’intero complesso. Ma questo fu prima di Boi, prima che quello strano essere deforme mi comparisse davanti. Avevo già visto molti posti nella mia vita, perché nonostante la mia giovane età avevo viaggiato parecchio. Tuttavia nessun luogo mi aveva mai turbato in quel modo. Né le carceri che mi avevano ospitato per lunghi, interminabili mesi, né l’ospedale. Prima di allora avevo lavorato ovunque nel mondo, dormito all’aperto, nelle strade più cupe della periferia di Costantinopoli, nei sobborghi delle grandi metropoli nel Nuovo Continente, nei giacigli più inospitali dell’Estremo Oriente; avevo trascorso notti insonni in boschi e foreste d’Europa e d’Asia. Ma solo nella Villa cominciai a sentirmi addosso un’inquietudine completamente diversa. Riuscii ad abbandonarmi ad un sonno vigile solo per qualche ora. Poi l’alba del nuovo giorno e il rumore d’una chiave nella serratura mi svegliarono.
Boi non era solo: si avvicinò alla mia branda con un signore anziano, dall’aspetto di un montanaro: il faccione rubicondo ne metteva in evidenza la salute, le guance colorite e gli occhi grandi e vispi. Mi sorrise avvicinandosi, i suoi pesanti scarponi da lavoro lasciavano pezzi di fango secco sul pavimento della stanza, mentre io mi stavo appena svegliando, seppur a fatica, da quella notte da incubo. “Hey …disertore!” mi disse con voce sicura e un forte accento straniero, privo di minacce, dal tono scherzoso. “Dormi dormi eh?” aggiunse mimando un cuscino con le sue grandi mani sporche e guardando il suo amico con un sorriso. Boi nel frattempo s’era affrettato a spalancare le persiane della stanza: “Ragazzo, è ora de levarse. Non gh’è tempo da perdere!” La sua vocina mi fece sorridere. Saltai giù dalla branda e d’istinto feci un mezzo inchino al vecchio. Uscii dai bagni in pochi minuti e osservai tra me e me che lo stanzone, ora illuminato a giorno, emanava una sensazione più rassicurante. I due mi attesero sull’uscio aperto, da cui già penetrava la luce rossiccia dell’alba. “Disertore pronto!” disse il vecchio. Parlava a voce alta scandendo bene le parole e i suoi occhi azzurri sorridevano con lui. I capelli grigi e radi gli coprivano, di traverso, una parte del capo nudo, indossava una tuta da lavoro piena tasche, traboccanti di attrezzi vari. “Heeeeeeeyyy! Disertore qui per colazione no? Hey!! Che cosa??? Mangiare!” disse di nuovo allargando le
braccia, contento della mia presenza. “Il mio nome è Victor – dissi – molto piacere”. “Heeeeeeeyyyy!!!! Victor! Disertore Victor! Rivoluzione!” disse ridendo. “Io Ciro - aggiunse - Io mago per parco. Come Dio per Terra Ciro per parco.” A quel punto Boi lo guardò di sbieco . “Scheeeeeeeerzoooooooo. Hey, Boi. Io scheeeeerzaaaa no????” Ma quell’altro con le sue gambine aveva già sceso gli scalini che portavano fuori. La mattinata, fredda e luminosa, prometteva una bella giornata, almeno per il tempo. “Non sta a dare importansa a quel che dise Ciro. Ma su una cosa il vecio g’ha rasòn. Ndèmo a magnà butei, che g’ho una fame! Movetevi voi altri!!!!!!” Così anch’io scesi i gradini e arrivai in fretta sul sentiero, perché il fatto di mangiare non mi parve per nulla una cattiva idea. Attorno si poteva già intravedere il verde dell’enorme parco, al di là della siepe che divideva il sentiero dal resto. Respirai a pieni polmoni una boccata d’aria fresca e vidi il sole che si levava velocemente al di là delle mura di cinta, in lontananza. Lasciammo il sentiero per avvicinarci al bosco, lo stesso che appena la sera prima m’era parso un terribile luogo di magia nera, mentre ora, sotto i raggi del sole, si mostrava innocuo, con alberi e piante dappertutto. La boscaglia da attraversare si fece via via meno fitta, fino ad aprirsi ai piedi di un parco collinoso di rara bellezza. La stagione era ancora fredda e il rigido inverno di quell’anno non aveva di certo fatto sconti, nemmeno alla Villa. La distesa verde, però, col suo filare di pioppi imponenti, non tardò a rivelarmi tutto il suo potenziale di bellezza e di incanto. Prendemmo il viale sterrato centrale che conduceva all’edificio più a est, tra distese inondate di brina.
Un’anziana cuoca ci accolse con indifferenza e ci servì la colazione, nella grande mensa vuota e desolata. Appresi dai due che era la sorella del Professore e che lavorava alla Villa da sempre. Aveva un qualcosa di rozzo e contadinesco nelle movenze, ma i suoi occhi chiari dallo sguardo intelligente tradivano forse un ato nobile. Boi e Ciro pretesero un’altra porzione di pane caldo e la chiesero anche per me che, imbarazzato, accettai tra le lamentele della cuoca. Mangiammo con calma e poi tutti assieme lavammo i piatti e i bicchieri. Ciro mi diede indicazioni su come preparare i tavoli per il pranzo e quando la cuoca si
presentò di nuovo nella sala della mensa ci trovò indaffarati ad apparecchiare. Disse con tono di rimprovero che non ci sarebbe stato nessuno a pranzo e che non c’era bisogno di impiegare tovaglie pulite o altro. Ciro la fissò offeso: “Noi! Che cosa!? Noi nessuno? Che cosa!? Lavoro e poi? Pranzo è per lavoro!” “Sì ma che bisogno c’è di sporcare i corredi puliti? Se il pane non manca, non ti lascio mai all’asciutto, calmati!” Ciro non capì e si limitò a ridere amaramente, allargando le braccia e ripetendo piano il suo ‘che cosa’, cercando lo sguardo complice mio e di Boi. Appena la cuoca ci diede le spalle, da una delle caraffe stipate sotto il davanzale versò tre bicchieri di vino rosso e ci invitò a far presto a buttarli giù, poi li riempì di nuovo e rimise la caraffa al suo posto. Sciacquammo i bicchieri con una bevuta d’acqua, anch’essa immotivatamente rapida, e uscimmo.
“Credo di dover incontrare il Professore questa mattina,” dissi quasi a me stesso, ma nessuno mi rispose. Ciro controllò qualcosa nelle sue tasche, prima di allontanarsi pian piano su un altro piccolo sentiero del parco. Boi scese una scala sotterranea, salutandomi distrattamente e chiudendo a chiave, dietro di sé, un cancello. Mi sentii inebriato dall’aria di quel mattino, dal vino e dal cibo. Pensai di potermi sdraiare sull’erba ma poi corsi indietro e rientrai nelle cucine, dove la cuoca mi disse che non sapeva nulla e che era necessario parlare con un certo Zeno, il segretario. Ma non sapeva quando sarebbe tornato da una qualche commissione affidatagli dal Professore in persona. Avrei dovuto attenderlo forse un giorno o forse due. “Ti è stata data una stanza?” “Ho dormito nello stanzone, il dormitorio a piano terra dell’edificio ovest.” “Capisco,” aggiunse lei con l’aria di chi ha finito il suo compito e non ha intenzione di aiutare in altro modo.
“C’è modo di poter parlare con il Professore?” Entrarono allora in cucina un uomo e una donna in grembiule, gli aiutanti della cuoca che prendevano servizio. “Non c’è nessuno oggi a pranzo.” “Ma oggi noi … siamo di turno.” rispose l’uomo timidamente. “Oggi a pranzo? Ma non vi avevano chiamato per la scorsa settimana?” “Se vuole noi …” “Non importa, non importa” sospirò lei. Poi, rivolta di nuovo a me: “Per parlare con il Professore bisogna chiedere a Zeno” disse severamente e con una certa impazienza. Così ringraziai ed uscii.»
***
IV
«Riuscii a vedere il segretario solo il giorno successivo. Eravamo seduti al tavolo della mensa e lui entrò direttamente dalle cucine, vestito con un elegante completo bianco ma comunque trasandato nell’aspetto. Era un uomo giovane, biondo rossiccio, con i baffi appena accennati e i capelli corti e ricci, mentre le lentiggini sul suo viso quadrato gli donavano un aspetto timido. Si avvicinò levandosi la giacca, poi tornò nel retro per riempirsi direttamente il piatto dalla pentola. Salutò, si sedette da solo in fondo al tavolo e si mise a mangiare di fretta, senza dire una parola. “Cum’è là Zeno? – gracchiò Boi sfoggiando il suo sorriso ambiguo e voltandosi verso di me – G’avemo il disertor qui con noialtri, sato?” Zeno non rispose, ma mi guardò e mi fece un cenno col capo. Poi guardò lo storpio con fare interrogativo e, quando vide che l’altro rimaneva imibile nella sua smorfia, aprì le braccia con la forchetta in mano e la bocca piena, come a voler giustificare una sua mancanza a causa di chissà quali impegni. L’abbigliamento e il suo fare stonavano in quel quadro grottesco di poveracci. Stava lì ma senza essere interessato a ciò che gli succedeva attorno, senza prendersi la briga di smentire l’impressione che fosse arrivato solo per sbrigare la questione del pranzo, per poi tornarsene di corsa ai suoi registri e ai suoi appuntamenti. Provai a interrogarlo di nuovo nel pomeriggio quando lo incontrai nel cortile fuori dalle cucine, mentre usciva. Allargò ancora le braccia dicendomi che avrebbe dovuto controllare tra le comunicazioni del Professore e che comunque sarebbe stato meglio fissare un appuntamento nei suoi uffici. Aveva una parlantina rapida e cordiale, non dovuta necessariamente alla sua professione. Era un tutt’uno con la sua immagine: il portamento leggermente goffo lo rendeva più vero e sincero, ne rafforzava, in un certo senso, l’immagine impeccabile della persona impegnata. Le sue risposte non davano adito a dialogo o compromessi, perché erano semplicemente da prendersi come dato di fatto: sentii che non avrei potuto trattenerlo. Quindi rimasi lì, solo e senza risposte, in mezzo al cortile deserto. Lo vidi allontanarsi svelto in bicicletta, tenendosi con una mano il largo cappello bianco in testa, prima di imboccare l’entrata dell’ala sud, sul retro.
Quella sera mi presentai in anticipo alla mensa. Accesi le luci e mi sedetti al tavolo, cercando di sentire cosa si dicesse in cucina. Entrò poi Ciro sfoggiando un ampio sorriso, indossava una tuta pulita e le scarpe buone; puzzava di acqua di colonia da due soldi. “Che cosa?” scandì guardandosi attorno e indicando il polso come a chiedermi se fossero tutti in ritardo, “ma che cosa …”. Di sera il vino era già sul tavolo, a conferma del benestare della cuoca. “Acqua … co-lo-ra-ta!” disse portando due bicchieri dal retro, prima di sedersi. “Hey! Maestro! Acqua co-lo-ra-ta o acqua senza colore?” “Colorata?” risposi. Il vecchio confermò: “Co-lo-ra-ta”, riempendone i bicchieri fino al colmo. Dalla cucina si sentì la voce della cuoca: “Vacci piano Ciro, vacci piano che poi rimani senza!”. Lui allora drizzò la schiena e si portò la mano alla fronte come per mettersi sull’attenti e bevve tutto d’un fiato. Poco dopo arrivò Boi, avvertendo che anche Danieli era in arrivo per la cena. Subito dopo, infatti, entrò nella sala un uomo grosso, sulla sessantina, con i capelli bianchi e un’andatura spavalda. Camminava col petto infuori e teneva il collo così dritto da guardare in alto anziché di fronte. Consegnò a tutti uno sguardo sprezzante e recitò un lungo ‘buona-sera-a-tutti’ prima di sedersi. Per via della sua mole a tavola occupava due posti. Il suo marcato accento romanesco, poi, gli dava un’aria di potere e di strafottenza, appesantita da due occhi inespressivi da cui traspariva qualcosa di animalesco, di solennemente implacabile. Boi iniziò a sorridere, come per trattenersi da qualche tentazione infantile, poi pian piano si fece sfuggire: “G’avemo …” ma s’interruppe sentendo su di sé il mio sguardo severo. Subito dopo, guardando in basso, come arreso alle sue stesse debolezze, sussurrò: “ … G’avemo … g’avemo il disertor qui con noialtri, sato Danieli?” Girò la testona verso me sorridendo come un bambino colpevole, e nel silenzio generale, poi, ritenne più importante argomentare quanto appena detto piuttosto che salvarmi, ando per bugiardo: “Accompagnato dalle guardie e tutto eh.” “Un disertore accompagnato dalle guardie?” lo interruppe Danieli, “Ce mancava
solo questa! La faccia da galera già ce l’ha” aggiunse scrutandomi. “Nun v’azzardate a mollarme grane”, ammonì Danieli rivolgendosi anche alla cuoca entrata in quel momento con un pentolone bollente tra le mani. Un poliziotto in pensione, un uomo solo e intransigente, questo Danieli. Si vociferava che avesse preparato imboscate mortali contro i partigiani anche anni dopo la fine della guerra. Lavorava già da molti anni alla Villa, avendo iniziato sin dal primo giorno del suo ritiro. Uno capace di montare di guardia anche per tre giorni consecutivi, se gli veniva richiesto. Portava sempre con sé la sua vecchia pistola d’ordinanza, che curava e puliva come uno strumento chirurgico. Gli venivano preparati quotidianamente degli speciali panini imbottiti – molto invidiati dagli altri - per le sue lunghe notti in guardiola. Oltre che guardiano della Villa era anche responsabile della Sala dei fucili e degli armamenti, di cui custodiva gelosamente le chiavi. Si trattava, in realtà, di un vecchio arsenale, chiuso in una stanza adiacente all’ingresso, costituito per lo più da vecchie canne mozze dell’era coloniale. Di quell’armamentario arrugginito, il pezzo da novanta era un piccolo cannone settantacinque millimetri, utilizzato dalla cannoniera Lepanto per reprimere i siciliani in rivolta, alla fine dell’ottocento. Per Danieli vero motivo di orgoglio. In fondo alla stanza, un lungo armadio, dalle massicce ante di legno, conteneva armi ancora più vecchie, ormai inutilizzabili, non databili e di oscura provenienza. L’occhio esperto del guardiano aveva riconosciuto delle coppie di pistole settecentesche, col calcio in acero e a canna lunga, e delle lunghe baionette, forse risalenti all’epoca garibaldina, ancora appese agli antichi ganci di legno. La sua vera ione, però, erano le munizioni: l’armadio a cassetti che le conteneva era gigantesco e occupava tutta la parete dietro la porta. Benché asse ore e ore delle sue notti insonni a contare, suddividere, riorganizzare, distinguere, spolverare, oliare, ben sapeva che quella collezione non avrebbe mai avuto nessuna speranza di sopravvivere alla ruggine e all’umidità del luogo. Non più di un anno prima aveva formalmente inoltrato richiesta di una sovvenzione al Professore in persona, per far ristrutturare le mura della stanza e preservare così tutto quel ben di dio. “È l’umidità! L’umidità sta ammazzando i figli miei!” affermava sospirando di tanto in tanto, ogni volta che qualcuno toccasse l’argomento per fargli piacere. Lasciava quei luoghi di guardia e contemplazione solo quando Boi lo sostituiva o quando, più spesso, gli dava il cambio un giovane ufficiale mutilato in
pensione, noto alla Villa come “il Colonnello”. Quest’ultimo, quand’era di turno, camminava tutto il tempo su e giù per la grande sala d’ingresso e nei cortili adiacenti, costringendosi a una marcia militare, solitaria e folle, per ore e ore. Portava ancora la divisa bianca della Marina, decorata come quella di un veterano e con la manica vuota pendente sul fianco sinistro. Danieli, che per indole non sapeva fidarsi nemmeno di lui, di tanto in tanto faceva dei sopralluoghi anche nelle notti di riposo, per controllare che tutto fosse in ordine. Allora si tratteneva con lui in lunghe conversazioni o, piuttosto, monologhi sulla sua vita di soldato e poliziotto, indifferente agli sbadigli di chi lo doveva ascoltare. Da tempo i due avevano programmato di selezionare le migliori armi della raccolta e prepararle per una mostra che si sarebbe tenuta alla Villa in concomitanza con la riunione annuale dei vescovi. A quelle riunioni era sempre presente anche il Professore, che teneva a quell’appuntamento più di ogni altra cosa, dato che non vi partecipavano solo i vescovi locali ma pure le più alte eminenze porporate, incluso personaggi della curia con le loro sante famiglie. Però, in quel momento, a pochi giorni dal mio arrivo, il consenso ufficiale per l’esposizione non era stato ancora concesso e questo rendeva Danieli sempre più agitato ed impaziente, mano a mano che la data dell’evento si avvicinava.
Sere dopo, camminando lungo il viale del parco, notai che nel cortile era stato un piccolo falò. Seduti attorno a un tavolo da campeggio due coppie di giovani si, vestiti in maniera bizzarra, giocavano a carte chiassosamente. Quando mi videro tacquero di colpo e continuarono la partita, guardandomi sottecchi di tanto in tanto. Li ritrovai la mattina seguente alla mensa per la colazione. Si erano sistemati nello stanzone dove avevo dormito anch’io le prime notti, mentre nel frattempo a me era stato assegnato un sotto tetto, all’ultimo piano dello stesso edificio. Da qui potevo ammirare un bel panorama notturno: nel silenzio echeggiava il borbottio del fiume in lontananza, una gigantesca lastra di acciaio, immobile e maestosa. Tutto attorno la campagna e giù in fondo le luci gialle dei viali e delle piazze della città. La mia stanza non aveva brande, probabilmente perché sarebbe stato impossibile trasportarle attraverso l’angusta scala a pioli che conduceva all’ingresso. Mi sistemai con un materasso per terra, sotto la finestra
bassa: attraverso la ringhiera potevo guardare fuori rimanendo sdraiato. Sull’altra parete c’era una vecchia tavola utilizzata un tempo forse per piccoli lavori di falegnameria o da fabbro. C’erano ancora le cassette per gli attrezzi appese al muro, impolverate e quasi tutte vuote. Dall’altro lato il sotto tetto si abbassava fin quasi a toccare dei grossi bauli rivestiti di pelle verde e marrone, chiusi da lucchetti d’ottone ormai opaco, ornati di zigrinature in cuoio.
Finalmente, alcuni giorni dopo, mi riuscì di fissare un appuntamento con il segretario. La giornata dell’incontro si presentò da subito stranamente calda, il primo vero giorno di primavera di quell’anno, il primo vero sole di tutta la stagione. Mi stavo dirigendo verso gli uffici, percorrendo il vialetto in mezzo al bosco, quando incontrai Ciro, tutto intento a scavare una grande buca al bordo del parco. “Maestro! – mi chiamò – io lavoro e tu rivoluzione sul cuscino! Ma che cosa?!!!” Il primo caldo l’aveva evidentemente colto di sorpresa, la tuta pesante e l’orario infelice lo stavano facendo sudare oltremodo. “Sto andando dal segretario, ho appuntamento fra poco”. Il vecchio allora si fermò e si appoggiò sul manico della pala, conficcata nel terreno morbido. “Zeno?” chiese. “Sì. Inizia il lavoro anche per me”, dissi senza fermarmi e alzando un braccio in segno di commiato. Ciro mi richiamò urlando: “Maestro! Ma che cosa, maestro! Niente più cuscino?!” “Niente più cuscino!” risposi, girandomi ancora verso di lui che sorrideva con tutto il viso. Arrivai all’ala est e salii i primi piani di corsa. Le scale d’ingresso, con gli archi e i gradini di marmo, salivano circondate da splendidi affreschi colorati, ancora visibili, se pur parzialmente, sulle pareti e sulle volte. Provai a bussare a una delle tre porte del corridoio, ma non avendo risposta girai la maniglia ed aprii. Mi trovai in una stanza antica adibita a ufficio, con scaffali e mobili in legno di ciliegio. Non c’era nessuno alle due scrivanie e sopra di esse troppo ordine perché potessero essere state utilizzate di recente. Uscii e bussai alla porta di fronte: la risposta del segretario non tardò ad arrivare.
“Avanti, avanti!” insistette quando mi vide. “Senza paura!” Seduto a una scrivania disordinata, in fondo alla stanza, il segretario portava ancora il sudicio vestito bianco del primo incontro. Stava compilando un voluminoso registro e nonostante la mia presenza nemmeno alzò lo sguardo. “Prego, prendi posto, sarò da te fra un momento.” L’ufficio era identico all’altro. “Ma dimmi, dimmi pure intanto.” Allora mi schiarii un poco la voce e abbozzai: “Volevo solo sapere se era possibile incontrare il Professore, avrà sicuramente ricevuto l’incarico dal distretto militare …”. Quando sentì nominare il Professore Zeno alzò la testa dal registro e mi chiese sbalordito: “Incontrare il Professore?” “Sì, avrà senz’altro ricevuto l’incarico…” “Ragazzo, dimmi. Tu sai quanti anni ha il Professore?” “No.” Mi sorrise e, dopo essersi portato le mani giunte alla bocca, lasciò are alcuni secondi di silenzio totale. “Il Professore quest’anno compierà centodue anni, ragazzo. E’ molto malato, anche se è fortissimo di fisico e di carattere. Lo scorso autunno è stato ricoverato per diversi giorni e Dio solo sa quant’è pernicioso per il suo spirito allontanarsi da queste mura. Dal giorno del suo ricovero ha delegato a me tutte le questioni.” “Allora avrà senz’altro tra le sue carte la richiesta del distretto militare di Verona per la presa in consegna di Victor D., qui di fronte a lei, per lo svolgimento in piena regola del servizio lavorativo sostitutivo alla leva. Io, signor segretario, sono un disertore, un galeotto, un vagabondo, un malato di mente non in grado d’intendere e volere, pericoloso per me stesso e per il prossimo, sono le carte ufficiali a dirlo! Dovrei essere assegnato a qualche lavoro forzato, sorvegliato giorno e notte, questo probabilmente è scritto nella comunicazione del distretto che lei ha forse perduto.” Zeno mi guardò senza più sorridere, finalmente resosi conto di qualcosa. “Non perdiamo le staffe, ragazzo. Lei non è un individuo pericoloso, avrà pur
commesso dei crimini ma non mi sembra il caso di esagerare.” Agitandosi chiuse il pesante volume e iniziò a tastare la scrivania, come a cercare qualcosa, ma senza distogliere lo sguardo dalla mia persona e cambiando totalmente espressione. “Non perdiamo la calma, - aggiunse quasi col fiatone - troveremo quella comunicazione, a costo di telefonare a tutti gli ufficiali graduati del distretto di Verona e pure di Venezia, se ce ne sarà bisogno!” Feci finta di non accorgermi del suo imbarazzo e scandii sotto voce: “Signor segretario, io non ho fretta di iniziare a lavorare. Ho fretta però di terminare, ho bisogno che qualcuno mi dia indicazioni sui miei doveri, ma soprattutto che qualcuno mi faccia conoscere in anticipo, ne ho il diritto, la data del mio congedo definitivo.” “Congedo definitivo, servizi sostitutivi alla leva, io non m’intendo di queste cose …” mi rispose col viso sempre più pallido. “Sarà meglio informarsi signor segretario, che dice?” Mi guardò fisso, a lungo, prima di buttare le spalle sullo schienale della poltrona, sconfitto. Emise un lungo e profondo sospiro e capii che quello era il momento giusto per affondare l’ultimo colpo. “Signor segretario – gli dissi con voce forzatamente impostata – lei ha idea di cosa potrebbe succedere se io così, diciamo, sparissi, da un momento all’altro da questo posto?” La preoccupazione e le lentiggini sul naso me lo fecero sembrare sfacciatamente giovane e inesperto. “Per carità, ragazzo, per carità! Ti chiedo solo di attendere qualche giorno, forse solo qualche ora. Disturberò domani stesso il Professore e sapremo tutto, per carità. Nel frattempo puoi aiutare Ciro, c’è una tale mole di lavoro in vista della stagione buona, oppure … - esitò un momento - … in cucina! C’è sempre tanto di quel lavoro lì… per non parlare delle pulizie, abbiamo solo tre inservienti in tutto, un po’ pochini …” “Signor segretario…”
“Chiamami Zeno, ragazzo, ti prego. Dammi pure del tu, non formalizziamoci …” mi interruppe, docile come un agnellino. “Zeno, – ripresi serio – dove siamo?” Il segretario a questo punto mi guardò allibito. “Intendo dire, cos’è questo posto? Chi lo abita effettivamente?” Nella stanza, all’improvviso, si formò un silenzio pesantissimo. “Che cos’è la Villa?” azzardai alla fine. Zeno era lì di fronte a me, con l’espressione di chi deve rispondere alla domanda più stupida del mondo, come se qualcuno avesse messo in dubbio la sua intera esistenza o tentato di scardinare i principi basilari che da sempre regolavano l’universo della sua vita. “Sarei troppo scortese se ti chiedessi di raccontarmi tutto quello che sai di questo luogo?” Zeno mi guardò di nuovo e capì che, tutto sommato, mi doveva delle spiegazioni.»
***
V
«“Le origini di questo luogo, giovanotto, le origini di ogni piastrella calpestata, di ogni muro, di ogni affresco, così come le origini delle pareti di questa stanza, si perdono nella storia dei secoli che furono. Del borgo medievale che fu, non sono rimaste altro che le mura di cinta esterne e parte dei sotterranei. I quattro palazzi seicenteschi, oggi ancora in piedi, furono costruiti all’interno di queste stesse mura dalla famiglia scucci, la quale commissionò la ristrutturazione dei sotterranei e la creazione degli affreschi ai migliori artisti della città. La parete esterna dell’edificio a nord, quella che dà sul parco, ha resistito ai secoli e conserva tutt’oggi uno dei più affascinanti segreti della città. Mostra, come avrai già visto, un balconcino risalente al cinquecento, unico affaccio diretto di una stanza da letto di epoca medievale, l’unica rimasta intatta di una grande casa antica, prima del rifacimento degli edifici. È questo il vero balcone che William Shakespeare immortalò nella famosa tragedia di Romeo e Giulietta. Lo testimonia lo stemma raffigurante il cappello e le sciabole dei Capuleti, la cui dinastia visse nell’edificio per secoli. Shakespeare in persona alloggiò in quella stanza per diverse settimane e iniziò proprio qui, in questa Villa, la stesura della sua opera più famosa. L’altro balcone, quello ammirato in città, meta di turisti e innamorati da tutto il mondo, non è altro che una fedele riproduzione dell’originale che noi abbiamo qui, in casa! Nei secoli, poi, arrivarono carestie, pestilenze, guerre, ma la grande tradizione di ospitalità e accoglienza dei scucci rese questo luogo una meta di aggio obbligato e di ristoro per viandanti e mercanti d’ogni parte del mondo. L’anziano padre del Professore restituì al parco e ai palazzi l’originaria bellezza, grazie al gran lavoro, faticosissimo, suo e dei suoi quattro fratelli maggiori. Il mistero del loro suicidio aleggia ancora nell’aria di questi luoghi e a ricordarli c’è la grande fontana del parco, ormai in disuso, a loro dedicata. Il Professore, devi sapere, è nato qui. Accolse negli anni chi veniva gettato per strada: vagabondi, ubriaconi, pazzi, e a ognuno di loro dava ospitalità e assistenza. Di più, erano ospiti che venivano riabilitati tramite duri lavori da svolgere nel parco, nelle cucine o nei lugubri sotterranei della Villa. Chi ava di qui, sano o malato che fosse, aiutava alla costruzione e al mantenimento di quella che, nel tempo, divenne una grande e libera comune. E tale restò fino a quando un bel giorno una comitiva slava in pellegrinaggio, composta da tre famiglie, bussò alla porta della Villa. Dopo aver viaggiato per
mesi trovarono qui, finalmente, un luogo dove poter ripararsi dal freddo dell’inverno. Tra loro vi era una bellissima giovane, dai lunghi capelli intrecciati, di cui il Professore si innamorò perdutamente, sin dal primo sguardo. Desiderarono subito di sposarsi, ma purtroppo, proprio il giorno delle nozze, ella ebbe un incidente così grave da lasciarla, a sedici anni appena, irrimediabilmente cieca. Per miracolo riuscirono a salvarle la vita, ma si dice che il Professore quel giorno impazzì di dolore, abbandonandosi alla follia. Si dice anche che da quel momento rinchiuse la moglie nelle stanze della torre, affinché non incontrasse più nessuno e rimanesse nascosta agli occhi della gente. Pretese di prendersi cura di lei in tutto e per tutto: persino i medici, dopo aver confermato definitivamente la terribile diagnosi, furono allontanati in malo modo dal Professore stesso, ormai incapace di intendere e volere. Anni dopo, sebbene dentro di lui il dolore fosse rimasto come un fuoco perpetuo, egli provò a riprendere il lavoro e le relazioni esterne, benché la sua forte personalità fosse temuta e la gente non osasse avvicinarlo. La sorella, che all’epoca era ancora una giovane donna di belle speranze, divenuta vittima predestinata dell’eccentricità del Professore, non seppe opporgli alcuna resistenza e continuò a obbedirgli, come facevano tutti gli altri abitanti, più o meno regolari, della Villa. La guerra trasformò questo posto in una roccaforte prima italiana, poi tedesca, alla fine in mano ai partigiani e agli inglesi. Senza l’aiuto economico della diocesi di Verona, però, il Professore non avrebbe potuto continuare a ospitare viaggiatori e poveri. Il suo impegno mirava soprattutto a mantenere quei rapporti di favore e amicizia con chi, in alto, negli uffici della curia, decideva gli impegni di spesa e le sovvenzioni da elargire. Furono tempi difficili e per di più si doveva con urgenza far fronte al decadimento dei palazzi. Ma la volontà e il tempo del Professore vennero assorbiti, in gran parte, dalla moglie rimasta sempre nascosta, persa nella sua buia terra straniera, perennemente soggiogata da un marito premuroso e malato, padrone assoluto della sua vita dannata. Nessuno la vide più. Poi, ancor prima che io prendessi servizio qui come segretario, venne trasferita all’estero per delle cure e di lei, in seguito, non si seppe più nulla. Oggi la Villa non gode certo di ricchezze o di fama. La gente di città vede questo luogo come lugubre rifugio di ladroni e vagabondi, se non addirittura come una vecchia magione abbandonata da decenni. Ma il Professore ha superato ogni inverno, ha resistito a due guerre, alle insidie di chi ha provato a fregarlo, ha combattuto persino contro la fame. Per questo il nuovo mese che stiamo per
affrontare sarà di particolare importanza e delicatezza per questo sant’uomo e per tutti noi.” “Perché? Cosa succede il prossimo mese?” gli chiesi con prudenza. Il segretario mi rispose solennemente, guardando il cielo fuori dal finestrone: “Il pranzo dei vescovi.” Poi, in tono quasi cospiratorio, aggiunse: “E’ vitale per la Villa che tutto proceda secondo i programmi. Lo scorso anno il Professore, che ogni volta con l’avvicinarsi del pranzo risente maggiormente della fragilità dei suoi nervi e del suo umore ballerino, ebbe una crisi così forte che per poco non fece desistere il Monsignor Guastalla non solo dalla erogazione della sovvenzione per la ristrutturazione dei cortili, ma persino dal benestare per elargire il compenso annuo che da decenni, oramai, è il pane quotidiano di questo luogo. Sono assai pochi gli spiccioli che si riescono a rimediare dai viandanti e dai commercianti di aggio. Gli inverni qui sono lunghi e necessitano di molta legna, e poi bisogna rimediare il minimo per sfamare tutti noi. Dio solo sa cosa potrà succedere quest’anno: le voci della sua malattia mentale e delle sue stravaganze strisciano da tempo nei corridoi dei palazzi della diocesi, trovano terreno fertile nei sospetti dei potenti prelati, sino ad insinuarsi, temo, nelle stanze dei Santi Uffici. Che Dio ce ne scampi, ragazzo. Che Dio ce ne scampi!”
Nei giorni successivi l’andirivieni dei viandanti si intensificò e divenne cosa comune imbattersi in comitive di giovani viaggiatori o misteriosi uomini solitari destinati a occupare, lentamente, le stanze e i cortili. Iniziai ad aiutare Ciro nel parco e Boi nei sotterranei. Questi erano luoghi sorprendenti quanto insidiosi, tanto era facile perdere in essi l’orientamento. Si trattava di numerosi cunicoli, per la maggior parte lunghi e stretti, con pareti di mattoni rossicci e soffitti bassi ad arco. In alcuni recessi, poi, regnava la più totale oscurità. Non di rado ci si poteva imbattere in resti di statue o parti di colonne e capitelli, risalenti a chissà quale epoca. Su alcune pareti si intravedevano ancora degli affreschi antichi, raffiguranti, per lo più, scene di caccia o inquietanti riti di sacrificio. Altri rievocavano sanguinose battaglie di crociati, nei deserti e nei villaggi dei mori. Incredibilmente, scoprii che ogni ala della Villa era dotata di almeno un ingresso ai sotterranei e che da ognuno era
possibile raggiungere i quattro angoli del parco, attraversando una rete infinita e sorprendente di arterie labirintiche. Questi luoghi umidi, che si supponeva fossero gli antichi corridoi della magione medievale, erano dotati per lunghi tratti anche di diverse celle laterali, chiuse da vecchi catenacci arrugginiti e ammuffiti dal tempo. Seguendoli verso nord, poi, questi cunicoli si aprivano anche in varchi e corridoi più ampi, ristrutturati in epoca recente dal padre e dagli zii del Professore. Proprio sotto l’ala nord, quella della torretta, Boi mi aveva atteso per il mio primo giorno di lavoro. Mi venne incontro sulle scale del sottoaggio, salendo i gradini a fatica, trascinando con sé la solita veste lurida e troppo grande per lui. Camminammo lungo un cunicolo, talmente stretto da dover procedere in fila indiana per diversi minuti, fino a giungere a uno slargo. Ci trovammo, così, di fronte a un cancello sopra cui incombeva una vecchia scritta, incisa sulla parete e dipinta di un rosso ormai sbiadito: ‘Insecta’. Aperto il cancello si presentò davanti ai miei occhi, per la prima volta, il raccapricciante spettacolo che mi avrebbe ossessionato per i mesi a venire. Entrammo in un corridoio piastrellato lungo il quale, su entrambi i lati, si aprivano delle piccole celle in muratura, piccole stanze profonde non più di due metri, dove già dall’entrata riuscii ad intravedere, ammassati a migliaia, insetti di ogni genere e forma, suddivisi in innumerevoli categorie. Mi avvicinai piano e rabbrividii nel sentire il sottile intreccio di tanti brusii provenire da quelle piccole segrete. Le gabbiette erano tutte marcate da cartelli ed etichette gialle indicanti le specie: una sorta di immensa, brulicante collezione di insetti, distribuita su decine e decine di metri. Ogni cancelletto aveva una finestrella, a reticolato fitto, da cui poter controllare l’interno. Ma era rivoltante, in ogni caso, osservare tutto quell’ammasso di cimici, cavallette e coleotteri. Per non parlare, poi, dei diversi tipi di ragni, di vermi millepiedi, lombrichi e larve in quantità impressionante. Molte di queste, mangime per gli insetti più grandi, erano letteralmente stipate a milioni in varie celle contigue e offrivano lo spettacolo raccapricciante di un unico organismo gelatinoso, fluttuante e ronzante, come materia colloide cadente. In fondo a quella specie di laboratorio sotto chiave, i muri si innalzavano fino al livello del terreno soprastante, originando un ampio atrio, nel cui centro troneggiava un tavolo di legno, con diversi grossi registri disposti accanto all’unico lume disponibile.
Questo era il mondo di Boi. Qui egli era, da sempre, intento a curare quel luogo inimmaginabile, ad annotare ogni mossa e anomalia, a sfamare gli insetti con gli insetti stessi, metodicamente, con regole ereditate negli anni da chi prima di lui aveva abitato quel lugubre museo sotterraneo. Sopra il tavolo e tutt’attorno nell’atrio, vecchi armadi a scaffale contenevano casse di legno e cassetti di paglia, anch’essi tutti etichettati. Le diciture, annotate a mano, recitavano strani nomi e provenienze: ‘Dipluri Persia’, ‘Tisanuri Africa nera’, ‘Rincoti Isole caraibiche’, ‘Imenotteri europei’, ‘Imenotteri europei – larve’, e così via. “La ion mia e del nostro amato Professor!” disse orgoglioso Boi. Io, ammutolito, mi guardai attorno, sorpreso e atterrito dalla vista di incredibili ragni giganti, reclusi in una cella, posta al fondo. Ne scorsi uno che dall’interno s’era arrampicato alla piccola grata: solo una parte della sua fitta peluria nera e un paio delle sue lunghe zampe, troppo massicce perché assomigliassero a quelle di un comune ragno, sporgevano in fuori. Per dimensioni, quella bestia era un piccolo mammifero, un orrendo gattino. “Roba africana, caro mio, tanto bei quanto difficili da far riprodurre, quei maledetti.” In quell’ambiente tutto suo, Boi acquistava maggior senso e ragion d’essere. Mi appariva egli stesso come un grosso e vecchio insetto a capo di tutti gli altri. Ancor più quando inforcò un paio d’occhialini rotondi, che gli donavano l’aspetto di una cavalletta, o meglio ancora, di un grosso grillo. I suoi registri riportavano note meticolose sul lavoro di manutenzione delle celle; indicazioni nutrizionali; suggerimenti per le manovre atte alla riproduzione di tutte le specie, basate sulle verifiche degli anni precedenti. In quei vecchi volumi c’ erano tutte le istruzioni da seguire per il corretto mantenimento del laboratorio. Imparai col tempo a decifrarne i codici e ad apprezzare la ciclicità delle operazioni da effettuare. Interventi che da decenni - se non da secoli - venivano eseguiti ogni anno lo stesso giorno, per garantire continuità a quella fabbrica di vita. “E il Professore viene spesso qui?” gli chiesi mentre mi guardavo cautamente attorno. “Questa è casa sua. Ma da qualche mese i dolori alle ossa lo costringono lontano dai posti umidi. E’ un pezzo che non viene. Ma mi lo so che appena si sarà
rimesso verrà qui a far visita. Dio solo sa quale sollievo gli ha dato questo luogo così amato nei momenti difficili! Qui tutto è scientifico, la vita procede sotto i nostri occhi con precisione e puntualità, da secoli. E’ una cosa che te da sicurezza! Mentre fuori di qui … regna il caos!” disse, come recitando le frasi di qualcun altro. “… E questo luogo viene visitato anche da altre persone?” “Oh, sì. Un tempo gh’era un via vai di scienziati e cervelloni. Biologi e dottoroni che venivan da ogni parte d’Europa. Ora sempre meno. Qualche anno fa l’ultima scolaresca.” disse rattristendosi. Poi si riprese e aprì uno dei grossi registri spostando altre carte in una nuvola di polvere, per iniziare il lavoro della giornata.»
***
VI
«Nelle settimane successive alternai il lavoro con Boi a quello con Ciro nel parco. Raramente veniva richiesta la mia presenza in lavanderia o nelle cucine, per sostituire gli inservienti assenti. Solo più tardi, seppur con tutta la cautela del caso, mi fu concesso ciò che si rivelò essere il mio primo o verso la strada che mi avrebbe condotto dritto verso l’abisso. Ma al momento avevo solo a che fare con i sotterranei, con il parco, il boschetto, i cortili, i pioppi, i cedri che stavano rinverdendo, l’erba da falciare, il trasporto dei sacchi: lavorai sodo per parecchi giorni consecutivi, al limite delle mie forze. Il resto lo fece la natura, cambiando quasi all’improvviso l’aria e i colori della stagione. Ciro, dal canto suo, insisteva perché gli fosse concessa la possibilità di acquistare delle pecore: pretendeva di sistemare il gregge nella parte alta del parco, verso nord, dove l’inizio della collina piegava morbidamente la linea dei giardini, tra un piccolo aggio sterrato e una scala in pietra che segnava la salita. Lassù le bestie non avrebbero disturbato nessuno, diceva. C’era anche la possibilità di estendere di vari ettari la zona del pascolo, sfruttando l’unica parte crollata e mancante delle mura di cinta come collo di imbuto per il aggio, fino a quel momento chiuso da una vecchia ringhiera malmessa, ricoperta dal verde della vegetazione selvaggia. Al di là, in quelle pendici spettacolari che avrebbero fatto da contorno al tutto, sarebbe bastato piazzare un cane da pastore, per riportare indietro il gregge. Questo era il progetto che cercava di comunicare quell’uomo, nei momenti in cui si dedicava - peraltro con una certa militanza - a sostenerne con forza i perché e i per come. Avrebbero potuto produrre e vendere formaggi e sosteneva che l’investimento iniziale sarebbe stato ben presto azzerato, perché avrebbero poi potuto rivendere gli agnellini, ricavandone il doppio. Aveva già presentato il progetto più volte al segretario, soprattutto e con una certa insistenza la domenica, giorno in cui il giardiniere si dedicava al riposo, al vino e alle sue incomprensibili filosofie. “Che cosa?? Che cosa? Pe-co-re. Fe-lici-tà!” recitava Ciro quasi minaccioso, cercando di convincermi, nei pomeriggi di lavoro, come se da me dipendesse la decisione per accordargli o meno la richiesta. Anche a tavola continuava: “Pe-co-ri-no!! Che cosa? Formaggio pecorino! Dove pecorino?”. Poi allargando le braccia e inarcando platealmente la schiena rideva sprezzante: “Maaaaaahh … Che cosa …” rivolgendosi chissà a chi. Certo non al Professore.
Nonostante fosse ben consapevole che al Professore spettasse l’ultima decisione su ogni spesa, Ciro da sempre aveva imparato ad accettarne l’atteggiamento e le stravaganze, con grande timore e sorprendente fatalismo. Lo vedeva come un oracolo o un santo, che oggi può concederti la grazia della gioia della vita, e domani indicarti la strada della morte. Non che Ciro fosse con lui servile, il suo rispetto era tutto interiore. In cuor suo, senza nemmeno rendersene pienamente conto, la responsabilità per il mancato permesso finale del gregge e del pascolo oltre le mura, era d’altri, di tutti gli altri forse. Che fossero tutti congiurati tramanti contro di lui o semplicemente indifferenti all’importanza del progetto, era per Ciro la medesima cosa. Quando parlava delle pecore pretendeva totale entusiasmo nell’interlocutore, persino quando si rivolgeva a Danieli, che da parte sua si limitava a ignorarlo, interrompendolo solo per ordinare di argli il sale.
Capitava, in effetti, di poter incontrare Danieli e il colonnello: succedeva per lo più durante i pasti, sempre più miseri nel frattempo, in attesa del rinnovo annuale dei sussidi. Il colonnello, vittima consapevole della predilezione dello sbirro, subiva imibile ogni giorno anche in mensa i suoi discorsi saccenti, fatti spesso masticando a bocca aperta una bella cucchiaiata di polenta o di fagioli. Lo sciagurato si limitava ad annuire, con sguardo fisso e sorriso di circostanza. Boi, un giorno in cui chissà perché si sentiva in gran vena di prendersi confidenze con tutti, chiese apertamente a Danieli a che punto fosse il permesso per l’esposizione degli armamenti. La domanda, posta forse inaspettatamente, creò subito un’atmosfera gelida attorno alla tavolata. Danieli attese qualche secondo e poi rispose, svogliatamente, che stava ancora aspettando. Al che Boi lo incalzò, punzecchiandolo di proposito, insinuando che, a così pochi giorni dall’evento, dei cambi di programma dell’ultima ora sarebbero stati difficili da far digerire al Professore. Fu così che Danieli scattò dalla sedia e lo afferrò per il collo, sollevandolo. Boi, con le gambine che penzolavano a un metro da terra, cercò di divincolarsi, cadde a terra con un tonfo sordo e scappò via di corsa, come una bestia ferita, senza neppure aver toccato cibo. Dopo pranzo lo trovai nel suo ‘ufficio’ sotterraneo, seduto alla scrivania, mugolando rabbiose bestemmie in dialetto e ingiurie contro il guardiano. Vedendomi, subito si sforzò di riacquistare dignità, trattenendo a stento le
lacrime e mettendosi, con ostentata disinvoltura, a controllare tutte le pratiche del pomeriggio da sbrigare per i suoi insetti. Nel corso della giornata, poi, vidi che gli era tornato il suo consueto buon umore, come se niente fosse successo: era fatto così, lui. Chissà quali e quanti soprusi aveva dovuto ingoiare nella vita, solo a causa del suo corpo sbilenco e rachitico. Chissà quanti sfottò da bambino, quante botte da ragazzo e quante umiliazioni da adulto. Il suo orgoglio si era così tanto abituato a subire da riuscire a perdonare anche le cattiverie più crudeli. E che alternativa avrebbe mai potuto avere uno come lui, deforme scherzo della natura, essere spaventoso tenuto sempre a gran distanza da ogni donna, desiderata nella sua vita solo segretamente, e da ogni uomo avvicinato con la fragile speranza d’una qualche forma d’amicizia? La sua vita era lì, solo tra i vermi. E solo tra i vermi era destinato a rimanere.
Accadde in seguito che l’anziana cuoca mi chiamasse in disparte nelle cucine. I suoi occhi azzurri e lucidi mi lasciarono intuire una preoccupazione appena trattenuta, mentre le labbra le si incresparono in un mezzo sorriso triste. “Gli inservienti del Professore chiedono un aiuto per la serata. Tu mi sembri un ragazzo serio e affidabile. C’è bisogno di tanta delicatezza e forse anche questa è una qualità che non ti manca. Ti presenterai all’ala nord questa sera, dopo esser ato a ritirare le pietanze qui da me,” mi disse con aria sollevata, come se si fosse liberata da chissà quale peso. Quando tornai nelle cucine, mi venne affidato un pesante vassoio coperto da portare all’ala nord. Utilizzai i sotterranei di collegamento tra i due palazzi, in maniera abbastanza agevole perché gli umidi corridoi erano illuminati in quella tratta da vecchie lampade a petrolio. All’entrata dell’edificio dell’ala nord, trovai due donne e un ragazzo con indosso camici e guanti bianchi. Consegnai il vassoio a una delle due e poi le vidi allontanarsi insieme, a o veloce, mentre l’eco congiunto dei loro i rimbombava all’unisono sul marmo dell’androne. Il ragazzo mi guardò e mi ringraziò. Ci eravamo già visti di sfuggita, in effetti, più di una volta alla mensa e nel parco, senza che l’uno avesse mai prestato particolare attenzione all’altro. Si presentò amabilmente con il suo accento ispanico: si chiamava Mikel, lavorava alla Villa da quasi un anno, veniva dall’Uruguay. Mi invitò a salire, ci sarebbe stato sicuramente bisogno di un aiuto per qualche giorno, viste le novità sulle condizioni del Professore.
“Quali novità?” gli chiesi. “I nervi. Non reggono più. Centodue anni, capisci, non possiamo pretendere molto. Ma il momento è cruciale, ieri ha dato un morso alla sorella e ha mandato in frantumi i piatti e i bicchieri del servizio antico. Appena arrivato, il medico ha subito predisposto un ricovero coatto, poi la sorella è riuscita a convincerlo a rimandare tutto alla prossima settimana.” Il Professore alloggiava al primo piano dell’edificio nord. Un tempo il suo appartamento era in cima alla torre e lo condivideva con quella sventurata della moglie, poi, per praticità e con l’avanzare degli anni e dei malanni, glielo spostarono giù da basso, non senza che egli opponesse, soprattutto all’inizio, una feroce resistenza. Mikel mi condusse in una grande sala unica, al secondo piano, tra vecchie poltrone di velluto, tavolini rotondi di legno e grandi specchi divenuti opachi col tempo, tutti incorniciati in ottone e piombo. In questo ambiente sostavano, nei momenti di pausa, gli inservienti privati del Professore, una decina in tutto. Mikel avrà avuto al massimo qualche anno più di me: alto e magro d’aspetto, era un giovane dagli occhi svelti e vivaci. Dal colore dei capelli e degli occhi lo si sarebbe detto più di origine nord europea che sudamericana. Elargiva un bel sorriso, di quelli stampati in viso, perché ci teneva a che io mi sentissi a mio agio. “Ho sentito parlare di un pericoloso disertore che si aggira tra i corridoi della Villa,” mi disse ironico, indicando la finestra con la testa. “Pericolosissimo!” gli risposi, scoppiando in una breve risata. Finalmente qualcuno di cui potersi fidare, pensai. Poi udimmo un lamento provenire dal piano di sotto, come un grido soffocato e costante. Dal basso emerse un vociare preoccupato, ma Mikel non cambiò espressione e non si mosse. Quando il grido si fece più forte, d’istinto scattai in piedi per fare o capire qualcosa. Lui mi guardò e senza ombra di preoccupazione disse: “Ci risiamo, un altro attacco. Meglio che vada giù a dare un’occhiata, tu rimani pure qui finché non ti verranno a chiamare. Se avessi bisogno di qualcosa suona il camlo di servizio, è qui dietro. Mi raccomando però, non entrare negli appartamenti al piano di sotto senza esplicito invito del personale, potrebbe risultare parecchio dannoso.”
I deboli nervi dell’anziano Professore, infatti, non sopportavano più le novità. Benché fino a qualche mese prima fosse stato in grado di scegliere personalmente i suoi inservienti, di selezionarli e di istruirli, ora, da qualche tempo, l’incarico era ato alla sorella, anche perché se fosse ancora dipeso da lui, sarebbe rimasto solo a morire di stenti nelle vecchie e care stanze in cima alla torre. Dopo mezz’ora di noia decisi di scendere le scale per sentire più da vicino che cosa stesse realmente accadendo al primo piano. Mi misi dietro la porta socchiusa dell’ingresso: riconobbi appena un debole lamento, come un piagnucolio sconsolato, e voci femminili concitate che cercavano di tranquillizzare. Il tono, però, mi parve di rassegnata quotidianità, come se tutte le persone al di là dell’ingresso avessero, col tempo, familiarizzato con quella particolare situazione e ciò le avesse anestetizzate al dolore delle sofferenze altrui, come succede in ospedale tra medici e infermieri. Poi udii degli spostamenti in qualche stanza vicina e il lamento cessò. Una delle donne di servizio aprì la porta, senza badare a me appostato proprio lì dietro, e scese le scale svelta, con in mano il vassoio ancora coperto. In serata il Professore fu colto da una nuova crisi. Il medico, ormai costretto a stazionare alla Villa per giorni interi, mandò a chiamare subito gli inservienti. Mikel salì le scale di corsa, entrò in salotto e con uno sguardo complice ma anche preoccupato mi disse: “Ragazzo, ci siamo. Mettiti questo.” e mi diede da indossare velocemente un camice bianco, che mi stava stretto e mi lasciava metà braccia scoperte. Arrivammo come fulmini giù all’entrata degli appartamenti del Professore. La porta era aperta, l’ingresso occupato da due infermiere che preparavano un siero, sotto il fioco riverbero di una lampada posta su un comò antico. Entrando sentii all’istante il pungente e rassicurante odore di farmacia, mentre le infermiere e gli inservienti si affannavano in un via vai di catini, asciugamani, vassoi con siringhe e provette. Un trambusto improvviso, poi, giunse dalla camera da letto adiacente, quella dell’anziano Professore. Capii che voleva a tutti i costi alzarsi, nonostante fosse giunto il momento di somministrargli un potente calmante. Tra il brusio dovuto ai rapidi movimenti e quello dei piccoli urti, emerse distinta una voce che ben copriva le altre: quella del Professore, mai ascoltata prima da così vicino, quella dal tono potente di chi è da sempre abituato al comando. “No, no, no! No! Sempre di meno mi servirete! Sempre di meno ho detto!” e poi
ancora: “No! No!” Quando la porta della stanza si aprì vidi che la giovane infermiera non era riuscita a trattenere l’anziano nel letto e ora gli correva dietro mentre questi tentava di uscire dalla camera. Fu così che mi apparve il Professore, finalmente. Il vecchio era lì, davanti ai miei occhi, con tutto il peso del corpo caricato sulla maniglia. E fu proprio il braccio nudo e in tensione la prima cosa che vidi di lui: un braccio paurosamente magro, dalla pelle bianca, quasi trasparente, attraverso la quale filtrava il colore bluastro delle grosse vene in rilievo, che quasi a grappoli popolavano quell’arto in gran tensione e inerme allo stesso tempo. La mano ossuta invece era rosso fuoco – come se fosse stata di qualcun altro - tale era la pressione che egli stava esercitando sulla maniglia. Fece l’ultimo o prima della soglia, sollevando il lungo collo e muovendo la testa, a sinistra e a destra, prima di affacciarsi all’ingresso per guardare fuori. Della sua forte corporatura di un tempo non era rimasto che un mucchietto di ossa e nervi. Il pigiama, un camice di tipo ospedaliero, con la chiusura dei nastri sulla schiena, lasciava intravedere dei fianchi scheletrici, di un pallore innaturale, sporgenti come spuntoni di gesso. Il volto era stato consumato dal tempo: delle macchie marroni si erano impossessate della pelle, il naso era grosso e aquilino, i suoi capelli in disordine mi apparvero troppo bianchi e sottili per rivelarsi a pieno in controluce. Gli occhi però, benché socchiusi dal peso dell’età, avevano lo sguardo di una persona lucida e ancora desiderosa di ottenere i piccoli obiettivi per cui il resto del suo corpo gli permetteva ancora di lottare. Superò la porta lentamente, scacciando le infermiere accorse in aiuto. Gli bastò un grido e un gesto fermo della mano per immobilizzarle. Diede prova di sapersi muovere in autonomia, seppur con la schiena letteralmente piegata in due. Mostrò gambe così esili da sembrare cartonate, mentre un forte tremore lo scuoteva da capo a piedi. Ostinatamente attraversò la stanza, accettando solo all’ultimo il braccio di un’inserviente. Si diresse verso l’uscita e pian piano imboccò le scale. Dietro di lui uno sciame di premurosi assistenti, tra cui Mikel e io, lo seguiva o o, a breve distanza. Ogni sera andava a guardare il suo vecchio e amato panorama. Una pratica, questa, cui non aveva mai rinunciato, neppure nei momenti di peggiore spossatezza. Solo negli ultimi mesi era stato costretto a farsi accompagnare, ma per tutti gli anni precedenti aveva vissuto quei momenti di raccoglimento in totale intimità e solitudine. Dietro di lui, sulla rampa di scale popolata in silenzio da tutti noi, si udiva solo il
suo ansimare ad ogni gradino, accompagnato, di tanto in tanto, da qualche borbottio incomprensibile, forse involontario. Quando la processione arrivò in cima alla torre, girò solennemente la maniglia della porta che l’avrebbe condotto agli appartamenti tanto agognati. Lassù l’atrio era stretto e tondo, e il Professore, facendo a tutti noi cenno di restar fuori, l’aprì piano. L’attesa risultò subito snervante: le tre infermiere, gli inservienti, il dottore, tutti immobili a origliare per captare ogni minimo rumore sospetto, ogni leggero sussulto. Ma nulla arrivò a noi, se non lo scricchiolio metallico dovuto all’apertura della finestra centrale, quella che si affacciava sul balconcino che girava tutto intorno alla torre, comunicando con le feritoie delle altre stanze. Il panorama dal piccolo terrazzo doveva essere strabiliante: le luci della città a sud, a est e a ovest la campagna sterminata, le magnifiche pendici del colle San Pietro, con le sue mura scaligere e l’antica fortezza a nord. Io non resistetti e scesi gli scalini di soppiatto per guadagnare il viale del parco e poter vedere dal basso lo spettacolo di quell’uomo in contemplazione. Arrivai giù e guardai in alto. Vidi qualcosa sul ballatoio della torre: era lui. Mi spostai un po’ per poter vedere meglio. Una falce di luna gialla illuminava il cielo. Il vecchio era lì, aggrappato alla ringhiera, immobile. Chissà quante volte aveva assistito a quello spettacolo magnifico, con nel profondo del cuore la solitudine di chi non può condividere una tale gioia con la persona amata. Quante notti, fermo lassù, sospeso nell’aria di quella torre antica a trattenere le lacrime. E ora eccolo lì, ancora aggrappato a quella ringhiera, piegato in avanti dalla vita e dagli anni. Poi udii qualcosa, un suono lontano ma distinguibile. Come una voce che proveniva dal basso, forse dai sotterranei? Invece era lui. Emetteva quel grido sordo con tutte le sue forze, un pianto prolungato e senza lacrime, come ad invocare una forza oscura per maledire quel cielo fiabesco, maledirlo per la sua bellezza, per quelle stelle così vicine, quasi da sfiorare con le mani, per quelle mura sterminate, possenti e magnifiche, per tutte le luci della città, laggiù in basso, per lo sfavillio notturno del suo fascino indescrivibile a parole: per tutto quello che si può ammirare solo grazie al dono divino della vista. E allora sentii una stretta al cuore, compresi all’istante tutto il dolore di una vita spezzata dall’amore e dall’odio spietato della sorte, da una lunga e insopportabile pazzia, insostenibile al suo primo apparire, altrettanto irresistibile innanzi ai miei occhi quella sera.
Sentii dei i alle mie spalle ma non riuscii a voltarmi. Mikel mi toccò il braccio per richiamarmi e si sorprese nel vedermi commosso. Allora tutti e due ci sedemmo a terra, ad ascoltare quella musica dolorosa, senza dire una parola, solo guardando in alto la finestra aperta della torre e la sagoma triste di quell’uomo che racchiudeva nelle sue misere braccia la disperazione di un intero secolo, determinato a dominare quel panorama sterminato fino allo stremo delle sue forze. Poi, così com’era cominciato, quel pianto cessò. La sagoma nera sul balcone si mosse e dopo poco, lentamente, scomparve.»
***
VII
«Due sere prima del grande giorno, come ogni anno, il Professore riunì i suoi più stretti collaboratori: il segretario, la sorella, Danieli, la più anziana delle inservienti e pochi altri intimi. Quello che fino a pochi anni prima era stato considerato un giorno di festa e di raccoglimento, via via si era trasformato in un appuntamento da temere: guai ad offendere qualcuno di quei santi, dagli animi così sensibili, chiamati in visita alla Villa. Per questo nelle sale degli appartamenti del Professore, prima del fatidico evento, si respirava un’aria di tetra tensione, come se la maggior parte del personale della Villa stesse solo aspettando la catastrofe, imminente e ineluttabile, soprattutto in considerazione della salute del Professore, i cui ultimissimi alti e bassi non permettevano a nessuno sonni tranquilli. Negli ambienti altolocati della città, girava voce che l’età stessa del Professore e la mancanza di eredi diretti fossero motivo di seria preoccupazione per il futuro della Villa, la cui proprietà apparteneva, in parte ma di fatto, alla diocesi locale. La scomparsa del Professore avrebbe favorito un preciso piano di recupero della Villa, piano che, per alcuni segretari e prelati della diocesi di Verona, era già all’ordine del giorno oramai da mesi: un progetto a lungo termine, certo, ma la cui approvazione, ancora tutta da discutere, avrebbe però modificato la natura stessa del luogo, cambiandone l’uso e la finalità. La signora scucci - sorella del Professore - e Zeno, si sarebbero sicuramente opposti a questo progetto di conversione, nonostante molti terreni interni e proprietà immobili, da tempo e per ovvie ragioni, erano già in mano alla Chiesa. Tant’è che in molte circostanze la Villa aveva ospitato, per ragioni di riposo spirituale, i patriarchi della stessa diocesi, nuovi sacerdoti, persino dei cardinali. E ogni volta il Professore s’era raccomandato di far recapitare biglietti di elogio e ringraziamento, in duplice copia, al monsignor Guastalla e al cardinal Revighi, per aver scelto ancora una volta di concedergli l’onore di quelle sante visite. Sulle questioni inerenti la curia, d’altra parte, era vietato controbattere al Professore. Negli ultimi anni – in occasione del pranzo dei vescovi – aveva addirittura preteso che si stendessero dei tappeti per tutto il tragitto che conduceva alla cappella consacrata, raccomandandosi che tutto fosse in perfetto ordine.
Durante quella riunione serale, dunque, a Danieli, grato e commosso per l’onore, fu concesso il permesso di organizzare la mostra degli armamenti, col vincolo, però, che per tutta la giornata non trascurasse il servizio di vigilanza. Il Professore, poi, rivolto alla sorella, dettò con lucidità il menù del pranzo, senza dimenticare di far ordinare varie casse del miglior Bardolino. Ordinò anche di far preparare le stanze dei primi due piani, quelli dell’ala sud, e di chiudere a chiave le porte degli altri. Vescovi e prelati, infatti, spesso decidevano di fermarsi a dormire una o più notti, soprattutto chi tra loro aveva un lungo viaggio di ritorno da affrontare. Girava voce, tra gli inservienti, che l’anno precedente il vescovo della diocesi di Chieti, trovato in Ciro un micidiale compagno di vino e di liquori, si fosse fermato addirittura fino al martedì successivo, in totale stato di catalessi, con la scusa della contemplazione e delle preghiere, prima di sgattaiolare via dalla Villa come un ladro. E come ogni anno, con tutto il suo carico di paure e di speranze, il gran giorno arrivò.
La giornata si preannunciò calda e ventosa, dal parco entrava ancora nella mia stanza il profumo dell’erba tagliata la sera prima. Mi presentai, dunque, puntuale alle otto e mi misi a disposizione della cuoca, come Mikel e tutta la rosa degli inservienti al gran completo. Ci fu offerta una veloce colazione e poi ognuno andò al suo posto per l’inizio dei lavori. La preparazione del pranzo era già cominciata la sera prima, così come l’allestimento della sala mensa, con tulipani, san carlini e gran coccarde. Quando arrivarono le prime automobili, noi inservienti ci trovammo già schierati all’interno del cortile d’ingresso, in militare attesa. A capo di tutti c’era Danieli, che godeva nell’impartire ordini anche totalmente futili. Il segretario, in sella alla sua bicicletta e col suo immancabile largo cappello bianco, fece più volte la staffetta per il parco, aggiornando da un capo la cuoca e Danieli dall’altro, con inutili segnalazioni e novità dell’ultima ora. Un modo come un altro per scaricare la tensione che, unita al sole caldo di mezzogiorno, lo faceva sudare in maniera alquanto sconveniente, vista l’occasione, e che, suo malgrado, finì col solleticare il protagonismo di Danieli, che lo dirigeva, con
tutto quel suo su e giù, come nella scena madre di un film di guerra. Il primo ad arrivare e a scendere dall’auto nera (con tanto di autista in divisa) fu monsignor Petacchi, del decanato di Monza, accompagnato dall’arcivescovo Pettini e dall’alto segretario della curia, padre Vinicio. Danieli andò loro incontro e si inginocchiò al aggio. Quando fu la volta dell’anziano monsignor Guastalla, sceso da un’altra berlina con autista, Zeno gli si avvicinò, si inginocchiò innanzi e baciò la mano onoratissimo. A piccoli gruppi, poi, arrivarono tutte le altre macchine: vescovi e monsignori vennero accolti alla Villa, radunati nel primo cortile e poi condotti verso la sala mensa, attraverso il viale del parco, pulito e lucidato per l’occasione, proprio come ordinato dal Professore. Nella grande mensa, all’estremità della tavolata, furono sistemate le tre famiglie dei segretari; l’anziana madre di un arcivescovo maggiore di una chiesa orientale -in gradita visita di preghiera- troneggiava mastodontica come una statua, a capotavola. Le altre donne, tutte ingioiellate, scambiavano tra loro parole sottovoce, mentre attendevano che fosse servito il primo bicchiere per il brindisi di benvenuto. Del Professore ancora nessuna traccia, se non l’affaccendarsi improvviso, dopo il richiamo della cuoca, di due delle cameriere a disposizione. La lunga tavolata era ormai gremita, le stole pendevano sui fianchi dei vescovi seduti l’uno accanto all’altro, mentre chiacchieravano tra di loro amabilmente, in un fitto vociare vellutato. Seduto, c’era anche un diacono siciliano, vestito di nero, con in testa un cappello che somigliava più a un basco che a un tradizionale copricapo da prete: padre Angelo. Subito lo notai per il tono alto della voce. Sui cinquanta, discorreva di alcune congregazioni benefiche di cui faceva parte, dedite a raccogliere fondi per la costruzione di un ospedale pediatrico nel vicentino. Si capì ben presto, perché fu subito comunicato alla signora scucci - e la notizia volò di bocca in bocca tra gli inservienti e i camerieri - che a padre Angelo era stato gentilmente concesso di potersi fermare alla Villa per qualche tempo, al fine di coordinare le sue attività nella zona, a favore delle congregazioni benefiche. La signora, pensando così di fare un piccolo o verso l’ottenimento dei sussidi annuali, mandò subito a dire che il Professore e tutti loro ne sarebbero stati onoratissimi. Ad ogni modo, diacono o non diacono, la Villa non era certo nella condizione di
poter pensare, nemmeno lontanamente, di rifiutare tale richiesta, tanto più che di spazio per ospitare di notte ce n’era a volontà e il numero delle bocche da sfamare sarebbe aumentato comunque nelle settimane a venire, con l’arrivo dell’estate e con l’apertura della stagione lirica in città. Nel frattempo, l’attesa per l’arrivo del Professore in sala si stava facendo troppo lunga ed anche per questo la signora diede, a malincuore, l’ordine di servire lo spumante per il primo brindisi, sperando di far are quell’imbarazzo come qualcosa di previsto. La signora scucci, però, si muoveva freneticamente, era distratta e continuava a fare avanti e indietro dalla cucina all’uscita laterale, per controllare i movimenti, lì fuori. E fuori niente si muoveva. Allora chiamò a gran voce Mikel e lo spedì a vedere cosa stesse succedendo, visto che era già ata più di mezz’ora da quando aveva ordinato alle cameriere di farsi consegnare il vecchio dalle infermiere di stanza. Ma anche Mikel non fece ritorno. Le cose in cucina cominciarono ad andare male, non solo per delle pietanze che si erano già bruciate, ma anche per la cuoca che, nella sua doppia figura di ‘responsabile del pranzo’ e di ‘signora scucci’, sorella del temutissimo, preoccupata per quell’insolito ritardo e per tutti quegli sguardi oramai sempre più inquisitori, venne colta da grave apprensione. Aveva aperto e sistemato, su un ripiano ad angolo nel retro, una sua personalissima bottiglia di Bardolino, che teneva d’occhio costantemente e di cui si serviva di tanto in tanto, di nascosto.
Verso le due, l’assenza di notizie sul Professore era ormai divenuta per la sorella non già una preoccupazione, ma una vera tragedia. Mandò a chiamare Zeno e quasi piangendo lo implorò di andare a controllare, raccomandandosi, per prima cosa, di tornare subito indietro a riferire, buone o cattive che fossero le novità. Ma Zeno le comparve davanti come se fosse stato su un altro pianeta, con il nodo della cravatta prematuramente allentato e la fronte grondante di sudore. Con il volto rassegnato di chi vede avvicinarsi l’inesorabile, egli non rispose nulla, semplicemente uscì dal retro, montò sulla bicicletta e scomparve. Pochi minuti dopo tornò e apparve sulla soglia con impressa sul viso un’espressione impenetrabile.
Tutti noi inservienti, la signora, le cameriere, ma perfino gli ospiti tacquero e lo fissarono mentre entrava nella sala. Il personale era schierato da un lato, tra l’entrata delle cucine e il muro della mensa; la sorella attendeva a bocca aperta un segno, una parola; gli ospiti compresero che le notizie attese riguardavano lui, il Professore, e capirono subito quanto cruciale fosse il momento. Tutto rimase immobile per diversi secondi: il vociare della tavolata s’interruppe, il rumore di pentolame cessò, persino il vento fuori sembrò acquietarsi per un attimo, come per attendere qualcosa. Il segretario avanzò lentamente, sforzandosi di mantenere un comportamento e uno sguardo neutro e distaccato. Lo ricordo come fosse stato ieri, si schiarì la voce per prepararsi a parlare da lì, dalla soglia. “Gentilissimi ospiti, vostre eminenze, eccellenze …” attaccò con voce incerta ma squillante, lasciando poi are ancora qualche istante. “Con gran commozione vi comunico… che il nostro amato Professore è qui con noi!” La signora, che in quei secondi aveva fissato il segretario con tutto il rimprovero e l’apprensione di questo mondo, appena udì le ultime parole pronunciate scattò in piedi, in un impeto dettato assieme dal sollievo e dall’isteria, lasciandosi sfuggire un gridolino e scoppiando in un vigoroso applauso mascolino. A questo punto tutta la sala ne fu all’istante contagiata, come avviene in questi casi, e uno scrosciante applauso generale salì da quella platea di vescovi e monsignori, liberati per una volta dal perpetuo peso del contegno clericale. Solennemente, seduto sulla carrozzella spinta da Mikel, il Professore fece ingresso nella grande sala da pranzo. Quel lungo e prolungato applauso parve averlo frastornato, gli occhi socchiusi erano come spiritati e muoveva la testa spaesato ma senza riuscire a posare lo sguardo su nessuno. Ben curato, con la barba fatta e i capelli accorciati, indossava un elegantissimo completo nero, gilè e camicia bianca. Venne condotto fino al centro della stanza, poi fece un gesto e Mikel si fermò. Con l’aiuto di una stampella si avvicinò lentamente al tavolo da pranzo per sistemarsi sulla sua poltrona, a capotavola. La figura esile e nervosa, con quelle mani tremanti fatte di sola pelle e vene, divenne la contrapposizione fatta e finita della grassa statua di sale seduta in fondo all’altro capo del tavolo. Furono subito portate le bottiglie di vino e serviti i primi piatti.
Si aspettarono tutti che nel corso del pranzo il Professore prendesse la parola, come di consueto, per omaggiare gli ospiti e aggiornarli sulle novità e i progetti riguardanti la Villa. Egli, invece, preferì sorridere beatamente a tutti rimanendo in silenzio, sebbene Zeno e la signora si fossero molto raccomandati. Al contrario, seduto lì, in silenzio, ogni tanto rivolgeva sguardi dispettosi alla sorella che, indaffarata com’era, incrociava i suoi occhi con un’espressione implorante, sperando che prendesse parola almeno per un momento. Ciò che accadde nella mezz’ora successiva fu come il propagarsi di un incendio, inizialmente da una fiammetta, con qualche sguardo ambiguo e sospettoso e qualche parola detta sottovoce in alcune zone del banchetto, per poi estendersi in qualcosa di ancor più pericoloso, con un paio di parole di sdegno dette a voce alta, travolgendo - alla fine - l’intera sala con la forza centrifuga della catastrofe, delle ingiurie, dello sdegno, dell’odio. La scintilla era stata fornita da alcuni prevosti che, dopo aver appreso una certa informazione dal proprio vicino, avevano iniziato a parlottare tra loro stupiti e cupi, guardandosi attorno con insistenza e con crescente imbarazzo. Il segretario dapprima drizzò le orecchie preoccupato, poi impallidì e infine divenne più bianco di un lenzuolo. Fu proprio padre Angelo, il diacono, ad alzarsi in piedi e a prendere la parola, cosicché la sua voce, dal forte accento siciliano, lentamente s’impose sul brusio di sottofondo, ormai divenuto assordante. “Professor scucci, nell’atto di ringraziarvi con tutto il cuore per questo pranzo squisito e per la vostra magnifica accoglienza, credo di interpretare bene il vivo sentimento di tutti i presenti qui in sala”. Fece una pausa, giusto il tempo per guardare il Professore, e per constatare che nulla era cambiato nel suo atteggiamento di totale indifferenza. “Vorrei, tuttavia, avere il piacere di conversare, con voi e anche con altre persone qui presenti, se nessuno ha nulla in contrario”. Il Professore allora lo guardò e iniziò ad incupirsi e il tremore del capo e di tutto il resto del corpo aumentò sensibilmente. Pronunciò una sillaba, forse una parolina incomprensibile, rimase con la bocca aperta per un po’, come se si stesse sforzando di dire qualcosa, senza che la voce uscisse. Nella sala calò nuovamente un silenzio di tomba. La sorella si avvicinò al tavolo
come al cospetto del boia, prevedendo un principio di crisi per il fratello, ma anche attirata dal discorso iniziato da quel diacono, nero come l’uccello del malaugurio, così minaccioso da farle tremare le gambe dalla paura. “Ma non è lei, gentilissima signora scucci, la persona a cui vorrei rivolgere delle domande. Vedete, si tratta di una questione di una certa importanza, dovuta senz’altro alla fatalità e non certo al merito di qualcuno, che però potrebbe permettere a tutti noi di contribuire alla giustizia di questo Paese.” Il suo modo di fare e di parlare iniziò a diventare come quello di un inquisitore sadico, viscido e pungente. Si alzò in piedi ed iniziò a eggiare su e giù per la sala, ormai padrone della situazione. Monsignor Guastalla, a questo punto, si levò gli occhiali e chiese preoccupato: “Con chi? Con chi padre vorrebbe discorrere? Qual è l’origine di tanta eccitazione e preoccupazione? Non ci vorrà tenere sulle spine oltre?” Vidi Padre Angelo voltarsi lentamente e raggiungere il segretario, al quale confidò due brevi parole che nessuno poté udire. Questi disse qualcosa a Danieli e lo sbirro, fiero dell’ordine da eseguire, si alzò dalla sedia e si piazzò subito sulla porta d’uscita a braccia incrociate. Tutti pendevano dalle labbra del diacono, il quale ormai aveva alzato un tale polverone da non poter far altro che continuare il discorso. Dopo aver respirato profondamente, con voce forte e impostata, riattaccò: “Sono giovani questi camerieri, e sono tutti volenterosi ragazzi al servizio del Professore – disse indicando genericamente l’area tra la mensa e la cucina – ma non vorrei che qui si confondesse lo zelo, l’impegno e l’entusiasmo giovanile, con la violenza, la disobbedienza, o addirittura la miscredenza! Mi spiego meglio: chi se non gli apostoli di Cristo hanno il dovere di denunciare il crimine e la corruzione dell’anima?” Tutti annuirono, guardandosi con ovvia partecipazione. “Ebbene, è giusto che si sappia che tra queste mura - tanto care alla diocesi tutta e tanto amate dal nostro Professore che con sforzi degni d’un grand’uomo ha protetto e valorizzato nel corso della sua vita – tra queste mura, in questa stanza, proprio qui tra noi, si trova oggi, senza ombra di dubbio, un senza Dio, un delinquente, un terrorista che ha a cuore non già la salvezza dell’anima, non l’amore del Cristo nostro Signore, non la pace. Bensì l’odio e la corruzione, l’illegalità e la guerra.”
E incoraggiato da un breve boato di sdegno, proseguì: “Vi devo delle spiegazioni, signori miei, lo so. Ma sappiate, comunque, che ho intenzione di condurre a capo questa faccenda con determinazione e responsabilità.” A questo punto pensai che, tutto sommato, in un luogo come quello mi sarebbe potuto succedere di tutto, anche di essere accusato di crimini mai commessi, per il solo fatto di essere entrato lì come renitente alla leva. “Lo scorso anno – continuò il diacono – proprio in una visita presso la questura di Verona, assistetti a un evento imprevedibile: un giovane pregiudicato, già in arresto, riuscì a fuggire non a uno, nemmeno a due, ma addirittura a tre militari armati, dopo averli lasciati tutti stesi e agonizzanti sul pavimento. Costui, quindi, non solo ha macchiato col sangue di innocenti l’onore e le regole del nostro Paese, ma è poi sfuggito alla giustizia italiana, dandosi alla macchia come un vero e proprio codardo! Rimasi davvero scioccato per la ferocia e per la violenza di quella scena e decisi allora di prendermi a cuore la questione. Così, il giorno successivo mi recai presso gli stessi uffici della questura, cercando di informarmi nel dettaglio sull’accaduto. Ricevetti informazioni da un ufficiale, il quale mi comunicò che l’evaso era un giovane sudamericano, affiliato a una organizzazione terroristica rivoluzionaria, arrestato in Italia per essere un pericoloso criminale, ricercato da tutte le forze dell’ordine del suo paese d’origine. Prossimo oramai all’estradizione, sul punto d’essere trasferito da Verona a Milano, avvenne il fattaccio che tanta morte ha procurato. L’evaso in questione, confratelli e signori miei, appartiene a un’organizzazione uruguaiana rivoluzionaria tra le più sanguinarie del mondo: i Tupamaros!” Al sentir pronunciare queste ultime parole tutti i prelati si unirono in un boato di sdegno, ancor più forte del precedente. “Tu, cameriere! – gridò padre Angelo all’improvviso, facendo sobbalzare tutti – Ci faresti la cortesia di dirci qual è il tuo paese d’origine?” Mikel, tutto rosso in faccia e rimasto immobile per un momento, scattò verso l’uscita come una saetta, senza guardare in faccia a nessuno. Immediatamente, si sentì un tonfo e vidi Danieli a terra, nei pressi dell’uscita. Mikel l’aveva neutralizzato con un colpo secco allo stomaco e poi alla schiena, prima di precipitarsi nel parco e dileguarsi alla velocità della luce. Il guardiano si rialzò
goffamente e si guardò in giro disperato e spettinato. Zeno, con la faccia tra le mani, non si era mosso dalla sua sedia, inchiodato lì dal peso di ciò che stava succedendo. Nello smarrimento e nell’agitazione generale si udì invocare da un vescovo: “Ma insomma! Le forze dell’ordine! Che vengano chiamate immediatamente! Presto!” Danieli, tenendosi la pancia con le mani, mi urlò allora di rincorrere il fuggitivo e di non perderlo di vista. Senza esitare, uscii di corsa da quel luogo ormai contaminato dalla pazzia e dallo scandalo, e con il cuore in gola mi diedi svelto all’inseguimento.»
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VIII
Victor D. continuava a raccontare, seduto sul sedile di fronte a me, in quel viaggio per me così insolito. Il treno era lanciato a tutta velocità verso est e il vecchio ava anche interi minuti con gli occhi socchiusi, rievocando quei personaggi e quegli eventi come se li stesse sognando. Io, travolto dal racconto, mano a mano sentivo crescere in me un vago senso di ansia e disagio, come se quella storia mi conducesse verso fantasie troppo scomode. Mi abbandonai, tuttavia, di nuovo alle sue parole, senza interromperlo.
«Quel lontano pomeriggio, nel parco della Villa, mi precipitai all’inseguimento di Mikel, accusato, in quel modo a dir poco grottesco, di essere un sanguinario terrorista rivoluzionario. Zeno, nel frattempo, s’era affrettato sul retro e lì si accorse che la sua bicicletta non c’era più. Così, percorrendo i primi metri nel viale del parco, vidi Mikel già lontanissimo che pedalava a più non posso senza mai guardarsi indietro. La bicicletta del segretario fu poi trovata nei pressi della fitta boscaglia a nord, dove le mura di cinta offrivano il varco e lasciavano spazio alla vegetazione che la primavera aveva appena risvegliato. Danieli ottenne subito degli uomini dal comando di polizia che, in pochi minuti, uscirono con la jeep e i cani. Nella fretta diede ordine di cercare un giovane scappato verso nord su una bicicletta, solo in seguito venne a sapere del ritrovamento del mezzo, quindi dopo oltre un’ora dovette richiamare la centrale per rettificare.
Nel frattempo il Professore, seduto sulla sua poltrona e spettatore di quello scempio, aveva iniziato ad emettere degli ululati insopportabili che, ben presto, superarono i limiti della decenza. La sorella e l’infermiera cercarono allora di prenderlo di peso per rimetterlo sulla carrozzella e portarlo via di lì. Ma non fu una buona idea. La scena a cui tutti gli ospiti dovettero assistere fu straziante e ridicola allo stesso tempo, con il Professore che urlando bestemmie si dimenava
con tutte le sue forze, respingendo gli assalti delle due donne, oramai in preda al panico per l’imbarazzo e per la catastrofe che si stava consumando innanzi a loro.
Nel giro di poche ore la Villa fu pesantemente invasa dalle forze dell’ordine. I militari furono accolti da Boi, risvegliato di soprassalto dalla pennichella pomeridiana in guardiola, totalmente allo scuro di ciò che stava accadendo. Gli agenti di lì a poco avrebbero trovato, nella sala designata per la mostra di Danieli, decine e decine di armi incustodite (e la cosa, in quel contesto a rischio di terroristi uruguaiani e chissà cos’altro, non fu affatto apprezzata). Quando Zeno balbettò qualche cosa al riguardo, gli chiesero subito di poter parlare con il Professore, il quale però, nel pieno dell’ennesima crisi di nervi, tra grida, ingiurie e sputi, emetteva solo ululati animaleschi.
Dalla centrale, i militari ricevettero l’ordine di intensificare i pattugliamenti verso la collina, soprattutto sui sentieri secondari, là dove gli uomini delle unità cinofile, costretti a proseguire a piedi, stavano già avanzando. Qualcuno annunciò pure che dei militari armati sarebbero rimasti a presidiare la Villa, fino a contrordine, col compito di perquisirne ogni angolo. Quanto sarebbe potuto durare lì fuori, con la polizia alle calcagna? Avrebbe dovuto abbandonare la bicicletta, scavalcare la ringhiera, fuggire tra le piante alte e percorrere poi i sentieri, fu il pensiero comune a tutti. “Si ciberà di bacche e frutti e arriverà fino a chissà dove!” sentenziò un vescovo emiliano con fare sicuro. “Ha agito sicuramente con l’aiuto di qualcuno, controllate che non ci siano altri sudamericani tra gli inservienti e gli ospiti della Villa!” disse un altro con tono più . Ma Mikel, in realtà, non abbandonò mai la Villa. Si nascose, questo sì, attese la notte e bussò alla porta della mia camera, con la maggior delicatezza possibile affinché nessun altro potesse sentirlo.
“Cosa ci fai qui?! Vuoi farmi ammazzare?" Aveva un aspetto orribile, il volto tutto graffiato, perdeva sangue. "Non avevo altra scelta, non posso farcela da solo, ti prometto che a te non succederà nulla", mi disse entrando nella penombra della camera. "Non hai idea di quanti sbirri ci sono qui! Nel pomeriggio sono arrivati poliziotti e militari armati fino ai denti. Perché non sei scappato per i colli? Avresti potuto raggiungere la città e scomparire!" "No, non ce l'avrei mai fatta, non ho niente con me, niente soldi, niente documenti, niente di niente. Mi avrebbero sbranato i segugi prima ancora di raggiungere Castel San Pietro. Ho dovuto nascondermi alla meglio, tra sterpi e rovi, e depistarli lasciando la bicicletta nei pressi del varco. Non ho avuto altra scelta, Victor. Ma ti prometto che non appena si saranno calmate le acque scomparirò da questo posto e da questo paese, per sempre." "Come? Cosa significa questo? Non vorrai mica nasconderti proprio qui? Non se ne parla, ti scoveranno e ci spareranno come cani rognosi, non ce la caveremo mai!" Parlavo disperatamente ma sotto voce, sforzandomi con la gola. "Victor, Victor ascoltami! Ti prego, ascoltami solo un momento. Fammi dare un'occhiata a questa stanza, è l'unico luogo sicuro di tutta la Villa." "Ma perché?" "Perché ci sei tu! Non ti rendi conto che non ho altra scelta maledizione?" Mi lasciai cadere sul materasso, con la faccia tra le mani. "Guarda, è perfetto - disse indicando i vecchi bauli in fondo al sottotetto - ho solo bisogno di aspettare qualche giorno, concentreranno i controlli altrove, abbasseranno la guardia e io andrò via senza disturbarti più." "Certo, ma comunque non avrai i tuoi documenti né i tuoi soldi..."
"Invece li avrò. Nessuno li troverà mai, perché sono nascosti nei sotterranei: nella mia stanza non troveranno niente." Poi scavalcò i bauli e provò a stendersi, schiacciato contro il muro, con la parte bassa del soffitto spiovente sopra di sé. "Nemmeno troppo male, qui non mi troveranno mai." In effetti, lì in fondo risultava totalmente invisibile da qualsiasi angolazione della stanza si guardasse. Dall'entrata, poi, quell'angolo proprio non si poteva vedere: avrebbero dovuto cercarlo espressamente nella mia stanza per stanarlo. "Sei stato già interrogato dalla polizia?" "Domattina è il mio turno, mi aspettano nello studio di Zeno." "Bene, lo sapevo, perfetto!" disse soddisfatto, uscendo dal nascondiglio. "Victor, ti rendi conto che se tu affermi con certezza di avermi visto uscire scavalcando l’inferriata tra le piante è fatta? In fondo sei stato tu a seguirmi. Fin dove ti hanno visto arrivare?" "Non lo so, Mikel, non lo so." "Abbasseranno la guardia e concentreranno le ricerche fuori da questo posto maledetto" ripeté, come a volersene convincere per primo. "Hai fame?" gli chiesi. "Da morire." Presi dallo scaffale delle gallette e gliele porsi, poi riempii la brocca e gli diedi dell’acqua.
I Tupamaros dell'Uruguay, dunque. Io nemmeno sapevo che esistessero, anche se anni addietro, in sud America, avevo conosciuto una famiglia che faceva parte di un certo movimento a sostegno dei contadini argentini e uruguaiani, sfruttati sin da bambini e costretti a lavorare quindici ore al giorno per sopravvivere. Tutti i membri della famiglia incontrati all’epoca dovettero scappare, perché accusati di
aver partecipato ad una rapina e distribuito banconote di grosso taglio alla gente delle campagne, attorno a Montevideo. "E' esattamente l'accusa che hanno mosso anche contro di me, con l'aggravante di resistenza a pubblico ufficiale. Accuse che confermo per intero, amico mio." Mikel parlava senza paura, disilluso. Sapeva bene come andavano le cose dalle sue parti e che cosa lo avrebbe atteso una volta rimpatriato. Ma era deciso a resistere, aveva valutato tutti i rischi ed era intenzionato a portare avanti il suo piano fino alla fine. E il suo piano di fuga prevedeva la collaborazione dell’unica persona in grado di aiutarlo.
Mi raccontò che era l’ultimo figlio di una famiglia povera e numerosa. Il fratello maggiore era morto all’età di cinque anni, per via degli stenti e della malnutrizione, e solo allora il padre trovò la forza per mettere da parte il suo orgoglio contadino e acconsentire che il piccolo Mikel fosse dato in affidamento ad una coppia di cugini senza figli, residenti a Montevideo. Sua madre, un’ebrea tedesca, era fuggita dall’Europa da bambina, assieme al nonno, alla fine degli anni trenta, proprio quando la situazione per gente come loro stava per precipitare tragicamente. In Europa la sua famiglia agiata di commercianti era stata quasi interamente deportata e lei, accolta dalla sua nuova terra, tra povertà e fame, non subito si rese conto della fortuna avuta. Si sposò e ò la vita ad allevare figli e lavorare nei campi per lunghe, interminabili ore.
Dai cugini del padre il piccolo Mikel ebbe la fortuna di poter studiare e fu presto colto da quella specie di febbre rivoluzionaria che investe i giovani quando in prima persona subiscono le conseguenze del distacco, del lutto, delle ingiustizie e delle barbarie che questo mondo offre agli oppressi. Fu arrestato a Las Piedras pochi giorni dopo aver compiuto i ventiquattro anni, durante una riunione clandestina. Sette dei suoi compagni vennero fucilati sul posto, con grande rammarico degli alti ufficiali, sempre ben disposti a torturare i cospiratori per ottenere quante più informazioni possibili, prima di eliminarli. Gli altri, benché feriti, si salvarono e vennero condotti in carcere. Mikel era riuscito ad evadere e, dopo essersi nascosto nelle campagne attorno alla capitale, aveva ricevuto da altri compagni i aporti adatti per l’espatrio.
Dopo una breve permanenza in Brasile era approdato in Europa e aveva attraversato con i suoi documenti falsi il Portogallo, la Spagna e la frontiera se, prima di raggiungere l’Italia. Con sé aveva solo l’indirizzo di un editore milanese, conosciuto come Osvaldo, un rivoluzionario che, nel suo ultimo viaggio in Uruguay e a Cuba, aveva incontrato alcuni dirigenti dei Tupamaros. Fu questi ad ospitarlo in un grande appartamento in centro città, a Milano. Osvaldo, ricco di famiglia, s’era dedicato alla causa rivoluzionaria, investendo i suoi soldi nella ricostruzione di organizzazioni partigiane. Quando Mikel lo conobbe stava lavorando per mettere in piedi un’organizzazione rivoluzionaria - conosciuta solo poco tempo dopo come ‘gruppo d’azione partigiana’ - basata sulla propaganda dei fondamenti strategici e organizzativi della guerriglia urbana. Dopo qualche settimana dal suo arrivo, Osvaldo ricevette la telefonata che lo avvertiva di come, di lì a poco, avrebbe avuto da alcuni compagni reggiani le istruzioni per l’inserimento di nuove reclute, provenienti da Trento. Qualche giorno più tardi, infatti, in un bianco e bollente pomeriggio d’estate, Mikel lo aveva accompagnato fino al posto prestabilito, in pieno centro storico, e più precisamente in un’area esterna al castello Sforzesco, su una certa panchina dei giardini circostanti. Ma non si presentò nessuno. Attesero ancora sotto il sole cocente, poi si separarono per incontrarsi lì nuovamente, due ore dopo, come da regola. Mikel camminò per le strade di Milano per il tempo stabilito, arrivò puntuale al nuovo appuntamento e trovò seduti sulla panchina due giovani di bell’aspetto che lo guardarono sbalorditi. Stavano già per tirare fuori le pistole, credendosi in trappola, quando, fortunatamente per lui, tutti videro Osvaldo che, ansimante e urlando da lontano, fece capire loro che tutto era apposto, che il giovane era suo amico, un compagno. Questo era Osvaldo, cuore rivoluzionario dall’aspetto imponente, nei panni borghesi della sbadataggine più pericolosa, privilegio che solo i benestanti, e in situazioni di vita normale, potevano permettersi. I due giovani suggerirono di parlare altrove, dato che la scena dell’incontro aveva già attirato troppo l’attenzione. Saliti sul primo tram, ne erano scesi dopo poche fermate, davanti a un grande magazzino, così da poter confondersi senza problemi tra la folla e chiacchierare indisturbati, pur con la dovuta discrezione.
Osvaldo propose Mikel come corriere per il viaggio a Trento che si sarebbe svolto l’indomani mattina, in treno. I due acconsentirono e Mikel all’alba partì. Ancora stentava con l’italiano ma già si faceva capire, mostrando una straordinaria predisposizione all’apprendimento della nuova lingua. Per sua sfortuna quel giorno, dopo un lungo pedinamento, venne arrestato nella stazione di cambio, quella di Verona Porta Nuova. Il suo documento da subito non convinse le autorità, finché queste non appresero dall’ambasciata che la descrizione del ragazzo corrispondeva per filo e per segno a quella del giovane ricercato dalla polizia di mezzo sud America. Portato in questura, appena fuori dall’edificio, era riuscito a liberarsi miracolosamente dai poliziotti, ed era stato lì che padre Angelo lo aveva visto mentre menava colpi di arti marziali, prima che si dileguasse come un fulmine per le vie del centro. Osvaldo per fortuna era stato generoso nell’affidargli del denaro, per ogni evenienza. Mikel attese un giorno prima di mandargli un telegramma, sotto falso nome, come gli imponeva il codice di compartimentazione appreso a Milano, studiato e imparato meticolosamente per far fronte ad ogni eventuale fallimento. “Zia caduta ma niente di rotto. STOP. La ditta è vuota e incustodita. STOP. Seguirà nuovo telegramma. STOP.”»
***
IX
«Mi alzai dalla branda di buon ora e, senza farlo apposta, lo svegliai. Controllai la stanza alla luce del giorno, cercando di capire quanto fosse sicuro il suo nascondiglio, là, dietro i grossi bauli, nel sottotetto. Niente che generasse sospetti, sia scrutando dall’entrata che ponendosi al centro della stanza; persino avvicinandosi ai bauli sarebbe stato difficile accorgersi di qualcosa di insolito. Allora, mi parlò con voce roca: “E’ giusto quello che fai. Prendere precauzioni è la cosa più importante. Ma più importante ancora è quello che dirai tra poco agli sbirri.” Da dietro i bauli vuoti, la sua voce mi suonò ovattata, come se provenisse dall’oltretomba. “Aspettami qua e non muoverti – risposi - voglio assicurarmi di chi alloggia nella stanza qui sotto.” Vi dormiva un vecchio che avevo già incontrato nei giorni precedenti, uno straniero, forse se, forse tedesco. Dormiva a pancia in su, era grasso e russava forte. Quando gli sbirciai in camera non si accorse di nulla e notai che gli altri materassi intorno a lui erano vuoti. Sapevo che la stanza più grande al terzo piano era stata assegnata ad una compagnia di musicisti stranieri, sei tra uomini e donne, forse polacchi. La stanza più piccola, invece, da due notti era occupata da una donna con una bambina, arrivate in città per delle cure mediche. Le restanti camere dell’ala erano vuote. Quando, mostrando indifferenza, cercai di perlustrare il parco, notai che su ogni lato delle mura c’era almeno un uomo armato a presidio; allora percorsi il consueto viale e arrivai alla mensa, ancora abbellita a festa. La visione di quel luogo mi richiamò al pomeriggio tremendo che si era consumato tra quelle mura il giorno prima, lasciandomi stupefatto per come quel posto, apparentemente così innocente, fosse stato teatro di tale scandalo. Non mi curai, tuttavia, di pensare alle conseguenze dell’accaduto, perché avevo ben altro di cui preoccuparmi. Mi ero ripromesso di escogitare un piano sicuro per Mikel, ma solo l’idea di farlo uscire allo scoperto, alla luce del giorno, mi metteva i brividi: ogni spostamento sarebbe dovuto avvenire di notte e con grande cautela. La signora scucci non era alla mensa, al suo posto c’era una giovane cameriera che mi servì del pane tostato e del caffè. Bevvi una tazza e misi le
fette di pane in tasca, per portarle in stanza, perché ogni briciola di cibo recuperata in quei frangenti sarebbe stata oro, pensai. I vescovi che avevano deciso di rimanere per qualche giorno ancora uscirono dalle loro stanze e li vidi avvicinarsi all’edificio della mensa, con fare grave e solenne, capeggiati da padre Angelo, l’unico vestito completamente di nero e anche l’unico che si sarebbe trattenuto in quel luogo per diverso tempo ancora: circostanza di cattivo presagio, ritenni, per la fuga di Mikel.
Fui interrogato tardi, nel pomeriggio. Recitai la parte alla perfezione, dichiarando di aver visto il fuggitivo disfarsi in fretta della bicicletta, in lontananza, e scavalcare rapidamente l’inferriata tra le piante alte che riempivano la parte crollata delle mura. Dissi anche di essermi precipitato in quella zona, ma che, purtroppo, non mi era più stato possibile seguirlo. Non mi furono chiesti altri particolari e l’ufficiale, evidentemente annoiato, mi congedò con un sorriso stanco. A sera, senza nessun problema rinunciai alla cena: mi premeva portare del cibo in stanza, ma come riuscirci senza destare sospetti? Quella stessa sera chiesi a Ciro di poter portar via una bottiglia di Bardolino, per un goccio prima di coricarmi, ma lui mi guardò e scosse piano la testa sorridendo. “Che cosa! No Bardolino! Prendi questo!” e mi diede la sua benedizione per una bottiglia del solito vinaccio rosso che comunque mi lasciò soddisfatto. Alla mensa, anche il giorno dopo, dovetti far finta di cercare qualcosa sotto il tavolo per infilarmi nella manica un pezzo di pagnotta e uno di formaggio. Ogni volta che tornavo nella stanza mi stupivo di come il mio nuovo compagno, perfettamente mimetizzato nell’angolo del sottotetto, mi attendesse con impazienza e avido di notizie. Avevamo concordato gli orari in cui poteva accedere al bagno, rigorosamente nei momenti in cui anch’io mi trovavo lì, altrimenti il rumore dell’acqua corrente avrebbe potuto insospettire qualcuno. Dopo due giorni di rigorose precauzioni, mi accorsi di come, in effetti, nessuno sospettasse niente, nonostante il via vai delle forze dell’ordine: alcuni militari, infatti, erano stati congedati, ma erano rimaste le guardie di sorveglianza alle mura, più tutti gli ufficiali, trasferiti ormai in pianta stabile negli uffici di segreteria, sopra la mensa.
Quella, a pensarci bene, era stata una settimana piena di nuovi arrivi: ai molti ospiti furono assegnate diverse stanze dell’edificio sud. Pian piano la Villa si trasformò in un brulicante luogo di viandanti e giovani viaggiatori, in gran parte stranieri dai lunghi capelli, vestiti in maniera stravagante, con larghe camicie colorate e pantaloni di cotone bianco. Di sera, radunati in diversi gruppi, animavano il parco, cantando e ridendo, seduti in cerchio, senza distinzioni di lingua o di provenienza. Qualcuno si fermava lì solo una o due notti; altri prenotavano, per pochi soldi, posti letto per settimane intere, offrendosi poi di lavorare in lavanderia, senza contare tutti quelli che preferivano montare le proprie tende nel parco, felici di vivere e dormire all’aperto. Tra questi nuovi arrivati, io mi ci trovai casualmente e fin dalla prima stretta di mano, al presentarmi, con me si erano mostrati simpatici ed ospitali. Con alcuni di questi giovani mi intrattenevo fino a tarda notte, pregustando il piacere di raccontare poi tutto a Mikel, prima di addormentarmi. Purtroppo gli uomini armati alle mura erano ancora lì, al loro posto di guardia, giorno e notte, a vanificare ogni desiderio e possibilità di fuga.
I canti e i balli, la gioventù e le tende colorate, il fermento dentro le mura antiche della Villa e chissà che altro ancora e chissà per quali vie, portarono – mi ricordo bene - una ventata di ossigeno primaverile persino nelle stantie stanze del Professore, il quale, superati i terribili giorni della crisi, aveva cominciato a sentirsi meglio, tornando a ragionare, seppure a sprazzi. L’arrivo del primo sole caldo gli alleviò i dolori alle ossa e gli concesse il permesso del dottore di eggiare nel parco, anche da solo. Fu in quei mattini assolati che io e Boi lo sentimmo scendere, faticosamente, le scale dei sotterranei, diretto al laboratorio, per assistere alle operazioni di accoppiamento degli insetti. Era ritornato in lui lo sguardo severo, consapevole e lucido di un tempo.
In quelle settimane di bel tempo, quando tornavo in camera e parlavo con Mikel, iniziai a vedere in lui lo specchio di me stesso. Forse perché non si era ancora
rasato, anche se s’era tagliato con una lametta da barba i suoi capelli biondi, cambiando parecchio d’aspetto. Per qualche ragione mi venne da pensare che ora mi somigliasse e, seppur i lineamenti fossero diversi, vedevo nella sagoma dell’amico nascosto, Mikel, un qualcosa di estremamente familiare. Uno specchio dell’anima con cui dovevo fare i conti ogni momento in cui rimanevo solo. Avevo escogitato dei metodi infallibili per rifornirlo di cibo: entravo nelle cucine, dalla porta nel retro, a tarda sera, quando nessuno poteva vedermi; oppure scambiavo favori con i viandanti, barattando magari dei vestiti o la fornitura di secchi d’acqua pulita con delle pagnotte, dei salumi, talvolta dei preparati tedeschi di erbe saporite da mescolare in acqua calda per fare delle zuppe. Mikel ben sapeva che le guardie erano lì, a sorvegliare la Villa, non tanto perché sospettassero della sua presenza, quanto per sopperire alla palese inadeguatezza di Danieli e del giovane colonnello mutilato. Il suo nuovo aspetto, quindi, gli avrebbe consentito di mescolarsi più facilmente con gli stranieri girovaghi del parco, tuttavia preferì non forzare i tempi. Sebbene fosse ancora giovane aveva già sulle spalle l’esperienza sufficiente per valutare con calma le situazioni. Una notte, però, si fece coraggio e scese nel parco unendosi a una festa hippy, dove c’ero anche io. Lo vidi arrivare, totalmente pelato, la barba lunga e folta, con addosso una camicia e i pantaloni del mio pigiama da notte, irriconoscibile persino per me. Certo, Danieli l’avrebbe individuato subito, sicuramente, così come i suoi ex colleghi inservienti dell’ala nord, e anche padre Angelo non avrebbe esitato, visto che, disgraziatamente, lo aveva riconosciuto dopo più di un anno. Tuttavia, quel suo travestimento così naturale mi impressionò molto. Si presentò come Felipe e capii subito che i tempi per l’evasione s’erano fatti maturi.
Quella sera si ritrovarono con noi nel parco anche i musicisti polacchi, con i loro strumenti: un quartetto d’archi formato da due donne e due uomini, con l’aggiunta di un percussionista e di un chitarrista. Parlando un se molto stentato mi fecero capire di far parte della filarmonica ingaggiata per il Don Giovanni, all’Arena di Verona. Mancavano poche settimane alla prima e avevano deciso di are dei giorni a provare le loro parti, in attesa di essere
raggiunti dal resto dell’orchestra. Vicino a me, intanto, qualcuno aveva dei falò, mentre altri, appena arrivati, s’erano messi a distribuire bottiglie di vino, prelevandole da capienti borse. Dei ragazzi tedeschi avevano offerto a tutti spinelli a volontà e così, sopra di noi, s’era creata una densa coltre di fumo bianco, come dispettosa nebbia invernale. Ad un tratto i polacchi iniziarono ad accordare i loro strumenti, poi, dopo qualche secondo di silenzio assoluto, come se avessero udito un impercettibile segnale in codice, levarono nel cielo la sublime armonia di un’aria mozartiana. La musica riempì di dolci note ogni angolo del parco, attirando tutti gli altri ospiti della Villa. Fluttuando nell’aria, le note del violoncello e dei violini resero i presenti vittime di un incantesimo, immobilizzandoli, mentre le melodie trasognate della chitarra e i ritmi solenni del tamburo li accarezzavano. Fu allora, proprio in quel momento che la vidi: in piedi, sorridente, mentre ascoltava una conversazione, forse distratta da quella musica sublime, mentre sorseggiava del vino da una bottiglia. La vidi: giovane e bellissima. I lunghi capelli lisci, del colore del bronzo, le incorniciavano il viso magro ma delicato, dalla pelle chiarissima, vagamente macchiato da leggere lentiggini. Di statura media, portava un lungo vestito di cotone bianco, scollato e tutto costellato di fiorellini azzurri, forse dipinti a mano o più probabilmente cuciti sopra il tessuto. La fissai mentre ascoltava quegli uomini, come rapita dalle parole, dalla musica soave. Ascoltava e sorrideva. I suoi occhi chiari e leggermente a mandorla sorridevano anch’essi con le sottili labbra rosa, dietro le quali splendeva una dentatura troppo bella per essere ridotta alla sola masticazione del cibo: la loro funzione apparteneva di sicuro a un disegno superiore. Sotto il suo largo sorriso e il collo sensuale, le linee dolci del suo seno si opponevano alla magrezza del corpo. Eppure la sua bellezza rimaneva semplice, neutra, spontanea. Mi avvicinai a lei come attratto da una forza irresistibile. Lei se ne accorse ancor prima di rivolgermi lo sguardo, tendendomi la bottiglia con un gesto ampio del braccio e il movimento lieve della mano. Per la prima volta in vita mia compresi la differenza tra lo star bene e l’essere felice. Dal primo sorso, e per l’intera notte, dimenticai tutto e tutti, desiderando solo di morire tra le sue braccia, di baciare quelle labbra e quel viso stupendo e di sognare con lei per il resto della vita. Con grande sorpresa capii subito, però, che non si trattava di una ragazza scandinava - come avevo pensato in un primo
momento - nemmeno olandese, né inglese o tedesca: il suo nome era Anna ed era italiana. Da mesi in viaggio per l’Europa, con amici stranieri che di tappa in tappa aumentavano di numero, aveva percorso centinaia di chilometri senza meta, a piedi, in autostop, in treno, in furgoni carichi di tende e cianfrusaglie di ogni genere. Si era data appuntamento con gli altri, nuovi o vecchi amici che fossero, a Parigi, a Berlino, nelle grandi piazze delle città spagnole, per poi dirigersi di nuovo verso il Nord: Belgio, Olanda. Una parte dei suoi compagni di viaggio, a quel punto, prese il traghetto verso l’Inghilterra, mentre lei e altri, invece, avevano preferito la rotta verso Verona e poi Venezia, con lo scopo di intraprendere, da qui, un lungo viaggio in Oriente, fino alle coste dell’India. Anna raccontava piano e parlava con un leggero accento toscano; la sua voce era dolce e piena, sempre accompagnata dai suoi modi gentili. Mi fissava dritto negli occhi e solo ogni tanto il suo sguardo spaziava misteriosamente un po’ più verso l’alto, come se avesse individuato sulla mia fronte un obiettivo da scrutare. E allora le sorridevo e l’abbracciavo. ammo delle giornate meravigliose e delle romantiche notti d’amore nel parco e nelle remote stanze disabitate degli edifici della Villa. Quando tornavo nella mia mansarda potevo finalmente parlare con me stesso e confessare, alla mia stessa anima, paure e remoti pensieri. E il mio specchio, pazientemente, ascoltava, talvolta mi rispondeva con saggezza, affermando verità scomode, per me difficili da comprendere allora, perché quello specchio di anima era pur sempre lo stesso che portava tatuata su di sé la stella a cinque punte, simbolo dei Tupamaros e della rivolta sociale. In verità, anch’egli conobbe in quei giorni delle ragazze di aggio, per lo più si, benché solo di rado si azzardasse ad uscire, sfruttando la sua folta barba e un paio di grossi occhiali scuri, gradito regalo di una splendida ragazza marsigliese dagli occhi verdi.
Danieli era ormai relegato in guardiola, visto che il compito di sorveglianza al parco era stato affidato alle quattro guardie armate. Mikel non le temeva, non l’avrebbero mai individuato in mezzo a quella folla di giovani in festa. Più complicato sarebbe stato imboccare l’uscita e are davanti alla guardiola. Ma,
a ragionar con cautela, anche scavalcare le mura era da considerarsi ancora proibitivo. Accadde poco dopo, allora, che in una nottata piovosa ci trovassimo tutti assieme nella mia mansarda. In attesa della fine del maltempo, avevamo improvvisato una festa a base di vino, con Anna, Mikel, la marsigliese, dei giovani olandesi con dell’erba, la compagnia dei musicisti polacchi, altri giovani si e un’intera famiglia sud americana, con quattro bambini scalmanati e assai divertiti per tutta quella buffa miscela di allegra umanità. Parlammo tutti della nostra vita, dei nostri viaggi, dei nostri amori. I fumi dell’alcol e dell’erba fecero cadere ogni inibizione e ogni barriera linguistica. Ciò che non riuscivamo a comprendere veniva immaginato e ciò che non si poteva immaginare veniva sognato: la piccola stanza si riempì di accenti stranieri, di storie e racconti apionati. Verso le tre del mattino, però, sentimmo bussare alla porta. Mikel guadagnò d’istinto il suo nascondiglio, tra lo stupore generale. Esitai ad aprire e la porta si spalancò ancor prima che impugnassi la maniglia. Padre Angelo, sorridente e viscido, comparve sull’uscio e chiese, con cortesia, di poter entrare. “Qual è il problema?” mi chiese Anna, con un candido sussurro all’orecchio. “E’ una storia lunga. Ma adesso calma, sbarazziamoci del prete e poi ti spiegherò.” Ma il prete, divertito da quella bizzarra compagnia, iniziò a conversare in se. Disse che, non riuscendo a prender sonno, aveva deciso di fare una breve eggiata per il parco ed era stato attratto dal vociare dei giovani. Mi irrigidii, nonostante sapessi di dovermi comportare in maniera naturale. Con un’ombra di dolce preoccupazione dipinta sul viso, vidi che Anna mi stava osservando: istintivamente cercai di stringermi a lei, ma poi, temendo il peggio, me ne allontanai un poco, come per proteggerla da qualcosa di troppo grossolano per un angelo come lei. Il diacono, volendo stupire a tutti i costi le diverse ragazze lì presenti, si sforzò, esageratamente, di apparire come un uomo di mondo, annoiando tutti con un aspro e monotono se scolastico dalla forte inclinazione siciliana. Iniziai a temere che qualcuno, da un momento all’altro e involontariamente, potesse dir qualcosa di compromettente. Ma per chissà quale fortunata ragione ciò non
accadde. Le tre ore successive trascorsero, per me, come in attesa d’un verdetto sempre rimandato: Padre Angelo raccontò e raccontò delle sue dubbie avventure giovanili, tenendo banco e risultando pesante persino agli olandesi che, anche se non fossero stati così storditi dall’erba, non avrebbero comunque capito nulla delle sue farneticazioni. Poi, finalmente, se ne andò. Solo allora Mikel, che durante quelle ore aveva trattenuto il respiro in attesa del mio via libera, uscì dal suo angolino, col volto più bianco di quello di un morto. Tutti a quel punto gli fecero mille domande, sempre ridendo e scherzando, ignorando completamente la gravità del pericolo appena scampato. Ci guardammo, e dopo il sollievo per la fragile pace ritrovata, si riaffacciò nei nostri sguardi e nella nostra mente la necessità di escogitare, in tempi brevissimi, un valido piano di fuga.»
***
X
«Il pomeriggio seguente Anna, fissandomi con i suoi occhi grandi e intelligenti, capì tutto, ancor prima che io arrivassi al cuore della questione. Mi toccò tranquillizzarla, spiegandole e rispiegandole i dettagli del piano di fuga di Mikel: “Andrà tutto bene, vedrai.” le ripetei più volte. “E’ vera la storia del balcone di Giulietta?” mi chiese ad un tratto. “Sembrerebbe di sì.” Salimmo le scale ed entrammo in quelle stanze abbandonate alla polvere dei secoli e dove ogni o aveva il peso dell’invadenza. Ci stavamo per affacciare al balcone quando lei, ridendo, mi fermò: “Ma non dovresti scendere e poi salire dall’esterno?” Non mi feci pregare e la lasciai lì, sola ad aspettare. Scesi le scale di corsa e dal cortile guardai, dal basso, la mia Giulietta. Ridendo, noi due, soli e innamorati, abbozzammo le frasi fatidiche del dramma, ma questo prima che io, arrampicandomi sulle mura dell’edificio, salissi fino al balcone e che, scavalcando con un balzo il parapetto di pietra, la stringessi forte a me. “Ascoltami, Anna, devo dirtelo, voglio che tu lo sappia: quando avrò finito questa mia servitù qui dentro, io ti raggiungerò, verrò da te, verrò a stare con te in India o in America, non importa dove, perché sento che la mia vita è accanto a te, se tu mi vorrai ancora. Un anno, devo aspettare ancora un anno in questo strano posto, ma poi sarò libero e, te lo giuro, ti raggiungerò, con ogni mezzo, ovunque tu sia.” “Ma no, Victor, amore mio, non ce ne sarà bisogno, vedrai. Perché non ci sarà nessun’ India o America a separarmi da te: io ti aspetterò, un anno o tutta la vita, se sarà necessario, e poi viaggeremo, raggiungeremo tutti gli amici di questo mondo, io e te, insieme. Come potrei lasciarti qui, da solo?” Muoveva le sue labbra lentamente, cercando la mia bocca, anche mentre parlava. Allora la scostai per un momento, come per vederla meglio e rendermi conto appieno di ciò che mi aveva appena detto. Capii allora che non sarei stato più in grado di separarmi da lei, ma me lo tenni per me e non le dissi più nulla.
Decisi di recuperare, quella notte stessa, la borsa nascosta da Mikel nei sotterranei, con i soldi e l’ultimo aporto falso rimasto. Attesi che nel parco la situazione si acquietasse e mi incamminai. Mi aveva spiegato per filo e per segno come raggiungere il corridoio giusto. Mi consegnò anche una piccola mappa, disegnata e studiata l’anno prima. La borsa era stata nascosta in un corridoio della zona ovest, dentro una cella laterale, in un sotterraneo completamente buio che, a memoria d’uomo, non era mai stato ristrutturato. Capii di trovarmi nella zona giusta quando scorsi, tra cellette laterali in disuso, quella con la porticina socchiusa, senza catenaccio, come indicata dal disegno di Mikel: l’aprii allungando una gamba, perlustrai la cella con la torcia e quando illuminai l’angolo in cui giacevano calcinacci e grosse pietre, lo vidi: un piccolo zaino nero con i lacci di spago. Mi ero ripromesso di non perdere nemmeno un secondo, ma avendo ormai quell’oggetto tra le mani, mi venne spontaneo allentarne con cautela i lacci polverosi e aprirlo. Conteneva dei lunghi sigari sfusi, un aporto con la foto di Mikel e un nome tedesco, mezzo chilo di sale marino, un acciarino, del denaro e una custodia in pelle marrone con una P38, carica. Rimisi tutto a posto, richiusi lo zaino e uscendo accostai la piccola porta a grata della cella. Mi accorsi ben presto, però, che mi trovavo in un corridoio mai percorso prima, e mi venne da pensare di aver letto male la mappa. Allora cercai di tornare indietro, di ritrovare il luogo del nascondiglio e da lì ripartire. Ma più mi inoltravo in quei cunicoli, più mi rendevo conto di girare a vuoto, in un labirinto privo di punti di riferimento. Dopo un’ora di inutili tentativi decisi, in preda a un senso di disperazione, di aprire la confezione di sale per marcare al centro il cammino già fatto: avrei evitato, almeno, di girare in circolo. Camminai per un’altra mezz’ora ancora, e forse più, perdendo via via le speranze. Ad un tratto, proveniente da chissà dove, sentii un debole rumore soffocato, come di un vociare sommesso. Mi fermai per ascoltare meglio e dopo un minuto lo sentii di nuovo. Come un lamento. Pensai subito a Boi e al laboratorio di insetti, benché mi trovassi, secondo i miei calcoli, quasi nella direzione opposta.
Provai a seguire il filo di quel lamento che, amplificato dall’eco dei lunghi corridoi vuoti, mi parve a un certo punto, più un pianto che un vocio trattenuto. Quando svoltai a destra, in un corridoio più grande, il lamento si fece ancora più netto. Sentii anche un rumore sordo e ritmico, come se qualcuno picchiasse un manico di scopa contro una parete, proprio lì, vicinissimo a me. “Chi è là?” urlai, squarciando l’oscura e secolare immobilità di quel posto. Non ebbi risposta, ma il pianto cessò subito. Mi avvicinai ad una cella, ne aprii il cancelletto arrugginito con il cuore in gola, ma la trovai vuota. Mi girai e percorsi il corridoio a ritroso per imboccarne un altro. Niente. Mi sentii perso di nuovo e senza più nemmeno la debole traccia del pianto, in un silenzio di tomba dove il buio dei corridoi mi avvolgeva pesantemente, interrotto appena dal fascio della torcia, le cui pile, temevo, si potessero scaricare all’improvviso. Decisi allora di allontanarmi quanto più possibile da lì, illudendomi che quei rumori inquietanti potessero provenire dall’esterno. Per farmi coraggio mi dissi che avrei ostinatamente seguito una direzione anche camminando per tutta la notte: prima o dopo sarei incappato in una zona amica o addirittura avrei scorto le prime luci dell’alba filtrare da un qualsiasi cancello vicino all’uscita. Così, dopo aver girato un tempo interminabile, mi ritrovai, finalmente, davanti all’ufficio di Boi e al largo corridoio del laboratorio. Attraversai il triste museo con un senso di nausea e pena. Poi salii le scale, raggiunsi l’esterno e, nel cuore di quella notte ancora calda, mi precipitai in camera da Mikel.
Pochi giorni dopo, il sabato di quella stessa settimana, all’Arena di Verona si sarebbe aperta la stagione lirica, con la prima del Don Giovanni, un’attrazione unica per frotte di turisti provenienti da tutto il mondo. Io ed Anna convincemmo quanti più ospiti possibili ad organizzare un’uscita collettiva, proprio in occasione di quel primo spettacolo. Così, per Mikel sarebbe stato semplice unirsi alla folla festante e confondersi in essa per uscire dalla Villa inosservato. Tanto più che gli orchestrali polacchi, nel frattempo raggiunti dagli altri componenti, s’erano tutti muniti di lasciaare, in soprannumero, per i biglietti in omaggio. Non sarebbe stato difficile, quindi, in caso di controlli all’uscita dalla Villa arne uno all’ultimo arrivato. Il piano era semplice: io e Mikel avremmo atteso, affacciati alla finestra della
mansarda, il sabato sera, che i giovani si ritrovassero nel parco, per un raduno così consistente da giustificare la festa all’aperto, sperando che all’uscita non fossero stati ordinati controlli. Un altro giorno ancora, quindi, e Mikel sarebbe stato libero, avrebbe mandato subito un telegramma a Milano e, tramite Osvaldo, avrebbe contattato dei giovani rivoluzionari berlinesi, disposti a ospitarlo. Approvato il piano, Mikel tracciò, con una matita, delle linee sulla mappa, calcando poi la mano per renderle definitive: solo quattro linee rette, ma semplici e perfette, quelle che gli avrebbero aperto la via della libertà. La prima dall’ala ovest verso il centro-nord del parco, dove c’era la fontana. La seconda, dalla fontana all’entrata interna dell’ala sud, quella che andava dritta verso il portone principale della Villa: meno di cento metri da percorrere quanto più possibile in mezzo alla folla, mantenendo un contegno naturale, per non destar sospetti. Cento metri fino alla grande porta dalle ante quasi sempre aperte, specie la sera. La stessa porta che permetteva di attraversare il salone al piano terra dell’ala sud - quello che mi accolse la sera del mio arrivo – con il suo lungo bancone presidiato e i suoi alti soffitti. La terza linea quindi, tracciata con forza, attraversava la sagoma dell’edificio sud, da una parte all’altra, verso l’uscita. Poi, ma forse più per soprannaturale istinto di superstizione, come un impulso che in momenti cruciali dell’esistenza sa travolgere anche le menti più fresche e materialiste, Mikel pennellò con attenzione l’ultima linea. La linea della libertà, quella che dal portone dell’edificio conduceva in un luogo non specificato ai margini del foglio, dove la mappa era ancora vuota. Gli eventi dei giorni successivi, però, sarebbero stati vissuti con un ritmo così incalzante da annullare ogni previsione, e con tale forza da sospingere evasioni, amori e sogni in un vortice sopra l’abisso.
***
XI
«“Perché il sale?” La notte prima della fuga non riuscivamo a prendere sonno. “Perché il sale va portato sempre nello zaino, quando sei un clandestino.” Per parlare meglio avevo sistemato il mio materasso vicino al baule divisorio. “Ma qui non siamo in Sud America, Mikel. Qui il sale lo vendono ovunque, al primo tabaccaio che incontri.” “Sì, ma il sale va portato lo stesso, è una tradizione, così è stato scritto nel manuale dai compagni che per primi hanno sperimentato la clandestinità: il sale, i sigari e tutto il resto. Che ci vuoi fare? Anche se ti fa sorridere, è così!” “E i sigari? Cosa c’entrano i sigari con la sopravvivenza?” “Niente. Possono tornare utili nei momenti di solitudine, quando sei un clandestino che si deve nascondere da tutto e da tutti, non credi?” “Ma tu non fumi, Mikel. Non ti ho mai visto fumare nemmeno una sigaretta: credi che inizieresti a fumare, in un momento di solitudine?” “Ti sbagli! Io sì che fumo, ma ogni tanto e solo sigari.” “Ma dai! Non è vero! Solo perché l’hanno scritto sul manuale del perfetto rivoluzionario clandestino?” “Giuro, adoro i sigari ti dico! Perché ti dovrei mentire?” “Perché non ne fumi uno allora?” Esitò. “No, meglio di no, meglio non attirare l’attenzione proprio l’ultima notte, non si sa mai: metti che le guardie vedano il fumo dalla finestra e pensino a un principio d’incendio?” Scoppiammo in una risata simultanea e contagiosa, senza riuscire a smettere per diversi minuti. ‘Che qualcosa andasse a fuoco! Figuriamoci!’, ‘Lo zainetto del
clandestino poi!’ ‘I sigari!’ Tante risate soffocate dall’impossibilità di far rumore, ci sembrò la situazione più comica del mondo.
Poi, all’improvviso, qualcosa ci fece smettere: i fuori dalla porta, rumore di i pesanti, cui seguirono due precisi toc toc. Per la seconda volta sentii, dalla mia stanza, il suono del legno della porta percossa. Nelle notti precedenti avevo spesso immaginato come sarebbe stato sentire di nuovo quel rumore. Scattai in piedi d’istinto e accesi la lampada. “Chi è?” Chiesi, tradendo l’agitazione. “Avanzo de galera, apri!” tuonò la voce di Danieli, così forte da stordirmi. Mi guardai attorno e l’occhio mi cadde sulla mappa disegnata che, prontamente, buttai al di là dei bauli. Cercai disperatamente lo zaino ma non ci fu verso di trovarlo. Sporsi il capo verso il nascondiglio di Mikel, ma la vista appannata non mi consentì di vedere il gesto che mi fece. “Apri! Apri immediatamente! Mi hai sentito?” Mi diressi verso la porta barcollando e l’aprii. “Dimmi un po’ – disse entrando, con l’espressione spenta di chi sta facendo nient’altro che il proprio dovere – l’hanno già perquisita per bene questa stanza?” Un silenzio agghiacciante s’impossessò del mondo. “… Le guardie hanno fatto tutti i sopralluoghi di rito, in tutta la Villa.” Danieli sorrise, vestito comodo, con una camicia azzurra aperta sul petto e la pistola bene in vista sul fianco destro. “Carino qui, te lo sei sistemato bene il tuo spazio. Certo che un letto almeno potevi mettercelo. Già, ma che ne sapete voi. A voi basta dormire per terra, come le bestie. Qua sotto, ho dovuto scavalcare due animali, amici tuoi che un giorno o l’altro si beccheranno due pallottole, qui in fronte, lo giuro!” Non sapevo dove guardare e finii per fissarlo dritto in quei suoi occhi pigri.
Che voleva da me? Che ci faceva lì? Aveva forse deciso di perquisirmi la stanza quella notte stessa? Sarebbe stata la fine. Ma perché? La sua voglia repressa di far giustizia forse l’aveva spinto a scovarmi per cogliermi in fallo? Di beccarmi lì, nella stanza, magari con una donna – la mia Anna, con cui sarò stato pur visto in quelle settimane - per rendermi la vita difficile, vista la mia condizione di obiettore di coscienza al servizio dello Stato? Si aggirò pericolosamente attorno, guardandosi in giro. “Te l’hanno data o no una bella riata a ‘sto letamaio?” “Sì, ci sono già ati … L’hanno data a ogni stanza di quest’ala.” “Ma l’hanno data come si deve o hanno fatto finta?” “Non c’ero quando sono entrati a perquisirla, immagino proprio di sì, era tutto sottosopra.” mentii. “Quindi a me tu mo’ me voi dì … - insinuò, in romanesco, – che se vado ar cesso nun ce trovo l’amichetto tuo?” Un brivido violentissimo mi attraversò tutta la schiena, come se mi avessero iniettato gocce di mercurio gelido nella spina dorsale. Per un attimo sentii l’urgenza dell’arrendermi per confessare tutto, ma non fui in grado di ragionare e dovetti affidarmi al mio istinto più remoto: “No, non troverà nessuno in bagno, guardi …” Feci per aprire la porta ma subito Danieli mi interruppe, sogghignando. “No, no, no … Per carità. Non c’è bisogno che io controlli nulla! Mi hai già dato prova di sincerità. Anche perché, e te lo vojo dì francamente, se io aprissi quella porta e trovassi per caso qualcuno… che so io? La puttanella dell’amica tua, o quer delinquente frocio che è scappato come un topo de fogna… o qualche altro stronzo comunista come te, io sta rivoltella la faccio fischià! E poi ve butto ar fiume. Uno a uno. Là, lo vedi?” E mi indicò l’Adige, fuori, in quel tratto lontano e immobile, buio e innocente, chiamato in causa da chi non era nemmeno degno d’affogarci. Quel suo ultimo e volgare sfogo d’insulti l’aveva appagato, in qualche modo, perché piano piano prese la direzione della porta. “Ma tu sei pulito – disse sospirando, forse celando altre meschinità – pulito e innocente come un agnellino, no? Immagino sia io a dovermi scusare per il
disturbo, quindi...” A quel punto vidi il pericolo allontanarsi e non persi l’occasione di congedarlo: “Nessun disturbo. Buona notte.” gli dissi aprendo la porta. “Buona notte.” e se ne andò. Quando richiusi la porta il cuore riprese a battere, ma così forte da farmi male. Al sentire i i di Danieli allontanarsi giù per le scale, mi avvicinai ai bauli, ma non feci in tempo a dir parola che il rumore dei suoi i s’interruppe. ‘Ritorna’, pensai. Dapprima avvertii Mikel che si muoveva nel suo nascondiglio e poi distintamente sentii quei i avvicinarsi di nuovo. Lo sbirro si fermò proprio di fronte alla porta e attese qualche secondo. Poi scaricò i suoi pugni sul legno, questa volta con una tale violenza da far tremare anche le travi del soffitto. “Dimenticavo la cosa più importante.” Parlava e già si trovava di nuovo al centro della stanza, spazzando via la mia timida resistenza. “Appena entrato qui dentro, poco fa, mi sono chiesto: se io dovessi nascondere qualcuno qui, dove lo metterei? La prima risposta che mi sono dato è stata la più semplice: in bagno, no? Ma poi mi sono guardato in giro e ho notato qualcosa … Tu lo sai per quanti anni ho fatto questo lavoro? Tu lo sai per quanti anni ho scovato delinquenti come voi altri, mentre tu eri a divertirti in qualche discarica ballando con i tuoi simili? Siamo proprio sicuri che non ci sia nessuno laggiù, al di là di quel baule?” L’ultima sillaba gli morì in gola, come se un lampo lo avesse colpito, un fulmine dritto al cuore. La prima pallottola gli entrò nel petto, tant’è che la sua testa si sporse in avanti, a bocca spalancata, cercando aria. I suoi occhi, per la prima volta, si riempirono di vita, girando nelle orbite spaesati e increduli. Ma quando tentò di portare, lentamente, la mano destra alla fondina, ecco che un altro colpo lo centrò, questa volta più in basso, al ventre, facendolo prima inginocchiare e poi crollare pesantemente a terra, su un fianco. Mikel, con in mano la pistola ancora fumante, scavalcò il baule, si gettò addosso a Danieli, agonizzante ma ancora vivo, e gli strappò l’arma dalla mano. Poi, in un brevissimo lasso di tempo, che a me parve interminabile, indossò le scarpe,
mise una pistola nello zaino e balzò verso la porta. Io mi sentii così frastornato da non sapere cosa prendere e d’istinto raccolsi la mia borsa, vuota e inutile. Feci l’errore, mentre uscivo di corsa dalla stanza, di guardare il volto di Danieli a terra. I suoi occhi ancora vivi erano gli occhi di chi non sa rassegnarsi all’inevitabile. Non ce l’avrebbe mai fatta, giaceva in una pozza di sangue così scura e così larga che già si insinuava sotto le suole delle mie scarpe, indossate con furia e concitazione. Ad attenderci di sotto, pensai, ci sarebbero state certamente le guardie, perché il rumore degli spari aveva senz’altro svegliato tutti, lì attorno. Ma ci fiondammo lo stesso, come saette, giù per le scale, con in testa e nelle orecchie solo il battito impazzito del nostro cuore.
Usciti dalla porta dell’edificio vedemmo in lontananza dei gendarmi venirci incontro, dapprima camminando, poi, sollecitati da altri militari accorsi, correndo di gran carriera. Non ci restava che scendere le scale dei sotterranei per nasconderci. Scendemmo nel primo accesso, ci infilammo in un corridoio buio e dopo aver preso a calci la vecchia serratura dell’inferriata laterale, ci rannicchiammo in una cella, alla meglio. Una volta dentro, però, capii subito che non avrei avuto speranze di rivedere Anna, perché, in quelle circostanze, sarebbe stato già un miracolo salvare la pelle. Mi raggomitolai su me stesso prendendomi la testa fra le mani. Mikel, dal canto suo, non ebbe, in quel momento, il coraggio di parlarmi, forse perché consapevole di avermi rovinato definitivamente l’esistenza, o forse, più semplicemente, perché concentrato nel trovare una soluzione al dramma che stavamo vivendo. Dopo qualche minuto valutammo la possibilità di avanzare verso sud, uscire allo scoperto, sparare alle guardie all’ingresso e fuggire a gambe levate. Ma presto, ripensandoci, rinunciammo all’idea di un ulteriore scontro a fuoco, che ci avrebbe visti perdenti con ogni probabilità. Così decidemmo di muoverci verso nord, ma non avendo una torcia, purtroppo, urtammo ripetutamente contro pareti e cancelli, per via di quegli spazi così miseri e bui. Ad un tratto, mentre camminavamo ansimanti, ma ben attenti al benché minimo rumore, udii nuovamente i sospiri della notte precedente. Accompagnati, questa volta, anche da un distinto rumore metallico cadenzato, come un segnale in codice. “Via di qua, allontaniamoci!” disse Mikel.
“No, aspetta, queste non sono le guardie. Sono già ato di qui. Vieni, avviciniamoci.” Tentai di seguire la scia di quei lamenti, con la viva speranza di non perderla, come se in quei gemiti di disperazione ci fosse l’unica soluzione al nostro dramma. Col procedere ne distinguemmo sempre di più la natura: erano piagnucolii regolari, rassegnati, e di donna, non v’era alcun dubbio. Incappammo nel mucchietto di sale e capii che avremmo dovuto puntare nella direzione del corridoio più largo, per avvicinarci al laboratorio e da lì trovare l’uscita nord. Poi fu Mikel a distrarsi: si fermò ad ascoltare, come se avesse udito qualcosa di straordinario. Gli sfuggì un sorriso amaro, subito trasformato in un’espressione di terrore. “Mio Dio, non può essere!” disse piano ma con tono sconvolto, come se fosse stato appena raggiunto da una notizia terribile, mentre io, nella penombra, vidi delle sagome, incurvate e lontane. “Che cosa Mikel? Cosa non può essere?” “Guarda lì, è pazzesco!” Ci avvicinammo ancora e rimanemmo bloccati alla vista di quello scempio. Il primo a bloccarmi fui io, quando capii. Mikel proseguì ancora per alcuni i per poi arrestarsi anch’egli, immobile e sconvolto. Il Professore si muoveva piano, a carponi, strisciava su quei pavimenti polverosi e tentava con il corpo di coprire la sua amata, forse per proteggerla. Lei emetteva dei lamenti, e picchiava i polsi contro il muro al suo fianco; le sue mani e i suoi piedi erano legati a pesanti catenacci. Quella povera donna emanava un tanfo nauseabondo, mostrando un aspetto così lercio da farla confondere col color terra delle pareti: il lezzo che la circondava era lo stesso che si respirava in alcuni tratti di quei lugubri corridoi: di animale in gabbia, costretto a vivere tra i propri escrementi. Con le sue mani luride e tremanti, il Professore la imboccava con forza, con gesti automatici, senza che la vecchia smettesse di piangere: due immondi attori, prigionieri d’una follia quotidiana inimmaginabile. Così ci apparvero: mostri, nonostante le sembianze ancora umane, resi ancor più grotteschi dalla pazzia stessa della loro vita.
Il Professore, intento com’era a nutrire quella disgraziata, mugugnava e si trascinava sul pavimento come un grosso insetto ostinato. Non ci vide subito, ma quando si accorse di noi tentò di mettersi dritto, puntando a terra il suo bastone. Per procedere oltre, fummo costretti ad avvicinarci ai due, ma il sangue ci si raggelò alla vista di quello scheletro femminile urlante e bavoso. Seduta su una specie di vecchia cassapanca, incatenata al muro e prigioniera da sempre e per sempre, mostrava ossa appena coperte da scuri brandelli di vestito. Al posto degli occhi aveva due grosse orbite, coperte da un sottile strato di pelle rossastra, e il suo volto, rivoltante, pendeva tutto da un lato, teso com’era a intercettare i piccoli e preziosi nuovi rumori dovuti al nostro aggio, come se avesse udito i battiti impazziti dei nostri cuori. Perché proprio andole accanto, in quel puzzolente e angusto anfratto, lei ci terrorizzò con un sussulto improvviso, uno spasmo terribile di energia che ci fece correre via, con addosso il soffocante macigno di quella sua vita fatta di nulla, e nella gola il puzzo di quell'atroce abominio. Non ci fu tempo per pensare, per capire: corremmo via e basta. Senza tener conto di quanto il vecchio Professore conoscesse a memoria i suoi sotterranei: quando ci fermammo con la schiena al muro per riprendere fiato, infatti, ce lo ritrovammo nuovamente di fronte, appena uscito da una cella davanti a noi. Piano, come uno spettro, lo vedemmo alzare il capo per guardarci dritto negli occhi. Udimmo uno strano sussurro provenire dalla sua bocca, una filastrocca stonata: “Il tempo a in fretta – quando sono qui con te – il tempo scorre dolce – quando parli qui con me…” Ondeggiando il capo, ci si avvicinò inesorabilmente. “Se tocchi la mia mano – quando vengo qui da te – io ti accarezzo piano – e tu starai qui con me…” Si fermò a meno di un o da noi e smise di cantare, le sopracciglia gli si inarcarono in un’espressione di sorpresa: “Avete visto quanto è bella?” Tentammo di superarlo ma lui, in mezzo alla nostra unica via di fuga, con un filo di voce morbosa, continuò, come un maniaco: “L’avete vista veramente anche voi? Avete visto come sorrideva?” Poi guardò la pistola che Mikel stringeva in mano, sbarrò gli occhi, ci sorrise nervosamente e si adagiò piano a terra, aggrappandosi al suo bastone che presto cadde al suo fianco, con un rumore metallico, lasciandolo in ginocchio con la schiena curva ai nostri piedi: “Non fatele del male, vi prego! Non fatele del male, lasciatela a me! Io la curerò! Non
toccatela, vi prego, non toccatela!” I profondi solchi delle rughe sotto i suoi occhi si riempirono di lacrime, come piccoli fiumi in piena. Poi piegò di nuovo il capo in avanti, scoppiando in un pianto, dapprima sommesso e poi subito dopo disperato. Lo scavalcammo inorriditi, ma lui, sempre tra i suoi lamenti e le sue preghiere, con le sue esili braccia nervose e tremanti, si aggrappò con forza alle mie caviglie. Non riuscii a liberarmi subito, dovetti trascinarlo per alcuni metri su quel terreno ruvido e polveroso, sentii le sue grida morire contro le mie gambe; poi, esausto, si arrese, mi lasciò andare e rimase solo col suo pianto di polvere. Sentii da lontano il suo ultimo grido di disperazione e quando mi voltai lo intravidi appena, nella penombra, ancora a terra e con le braccia tese in un movimento convulso, come un ragno intrappolato nella sua stessa ragnatela.
Ci dirigemmo subito verso l’uscita nord, ancora incapaci di parlare. Immersi nel più oscuro silenzio, attendemmo parecchio prima di avere la via libera, perché le guardie avevano già iniziato a presidiare anche i sotterranei: la fine, per noi, sarebbe potuta sopraggiungere da un momento all’altro. Poi, sentendo i militari marciare sopra le nostre teste nella direzione opposta, ci facemmo coraggio e imboccammo le scale. Sapendo bene da che parte dirigerci, come saette corremmo per il parco, rischiando la vita, ma per fortuna non ci fu sparato nemmeno un colpo. Scavalcammo la recinzione posta davanti alla parte crollata delle mura e, miracolosamente, ci trovammo subito fuori, nella campagna. Ma ancora troppo vicini alla Villa per sentirci davvero salvi. Decidemmo di nasconderci nella boscaglia a nord, senza mettere piede in città dove, di lì a poco, sarebbe scattata la caccia all’uomo. Corremmo per chilometri in salita, fino allo sfinimento. Poi, guardandomi intorno, chiamai il suo nome urlando. Esausti ci accasciammo al suolo, trascinandoci a fatica dietro i cespugli, sul bordo di un sentiero, al buio e lontani da tutto.»
***
XII
«Quella notte si alzò il vento e patimmo il freddo. Ci arrangiammo riparandoci tra i cespugli, in aperta campagna. Il fumo amaro e bluastro del sigaro mi aiutò a mettere assieme i pensieri, a rendermi conto di ciò che era accaduto. Ma dopo poche boccate mi addormentai esausto, con in testa il pensiero di Anna e di come avrei potuto mettermi in contatto con lei. Non trovai risposta, purtroppo. Quando ai primi chiarori del giorno provai a distendermi, rattrappito e dolorante com’ero, credetti di aver appena scacciato via l’ombra di un brutto sogno, d’essermi liberato dall’incubo della morte. Quella vista, sentita e toccata con mano: la morte fulminante di Danieli. E poi quella della mente e del pensiero: la morte vivente del Professore. Quella della carne condannata in vita alla putrefazione, a un martirio senza fine: la morte angosciante della vecchia ridotta ad anima cieca e urlante. Ma ancor prima della morte mi aveva assalito l’assurdo segreto di chi, al di là del bene e del male, schiavo di una pazzia logorante, s’era dedicato per tutta la vita a un sogno mancato, s’era tuffato completamente nelle morbosità della sua malattia, attaccandosi alla vita e alla carne in modo spaventoso e mostrando un’ansia e una volontà di possesso ai limiti dell’umano. Questo pensiero mi fece vomitare, lì, in quei i cespugli, per il bisogno fisico di liberarmi di quegli orrori. Quando i conati finirono di scuotermi mi rimisi in terra e respirai profondamente. Solo allora capii di essere libero, e finalmente pensai a me, a cosa significasse la libertà per un uomo di questo mondo.
“Essere dei vagabondi ricercati dalla polizia di due continenti non significa essere liberi. Suppongo che non si possa essere liberi fino in fondo quando si è in guerra.” Mikel mi parlava con tono sicuro, con lo sguardo sognante e fiducioso di sempre, uno sguardo che riusciva ad incutere fiducia anche quando intorno la disperazione era totale. “Chi è in guerra, Mikel?” gli chiesi infastidito. Lui si girò verso di me, ferito nell’orgoglio: “Come chi? Io, di sicuro, visto che sono stato costretto a uccidere per salvarmi la vita. E pure tu, per causa mia, ora sei in guerra. Ma la mia causa, amico mio, la mia causa è la stessa causa di tutti gli oppressi e gli sfruttati di questo mondo: di chi sta nelle carceri, nelle stanze di tortura, nei lager, nelle fabbriche che ti uccidono, nei campi di lavoro che rendono gli uomini e le donne schiavi, persino di chi sta là, oltre cortina, negli sterminati campi di lavoro della tanto acclamata Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, un inganno
planetario per milioni di combattenti comunisti, là, con loro, c’è la mia e la tua causa. Dimmi tu, come si può restare indifferenti allo sfruttamento sistematico delle persone, in tutti i luoghi dove i bambini sono costretti, da generazioni, a piegarsi in due e sputare sangue per riscattare i genitori dalla miseria e dai debiti; là dove persino una donna incinta viene trattata come una bestia, perché vale meno di una bestia; là dove le donne vengono malmenate, rapite, violentate, sottomesse ogni santo giorno: è questa la nostra causa, la lotta di chi, nonostante tutto, spera ancora in un futuro migliore per tutti. Là, Victor, vive la mia causa, ma potrebbe essere anche la tua: la grande causa dell'internazionalismo per la libertà degli oppressi.” E dopo una lunga pausa di silenzio, tornò a guardarmi e aggiunse sotto voce: “Scusami Victor, scusami.”
Il sole di quella mattina accarezzava coi suoi raggi l’immensa distesa davanti a noi: un deserto sterminato di grano, luccicante come una collina d’oro. Ci incamminammo percorrendo dei sentieri, con l’intenzione di rubare una macchina ed espatriare in Austria. All’incrocio con la strada principale ne vedemmo avvicinarsi una che da lontano ci sembrò essere la vecchia berlina di servizio alla Villa, per decenni l’auto personale del Professore, sempre parcheggiata all'interno del cortile principale. Dove credevamo di poter scappare? Se non fosse stata la berlina di servizio in quel momento, sarebbe stata una macchina della polizia più avanti. Contro un destino ormai scritto, non ci restò che marciare, impauriti, sul sentiero della collina. La macchina rallentò, imboccò la stradina e si fermò al nostro lato. Io, accanto a Mikel, con la pistola alla mano, mi sentii prigioniero di un sogno. Quel ferro vecchio, a basso regime, emise un denso fumo nero, fuoriuscito da una grossa e cadente marmitta arrugginita. Ricordavamo bene come solo raramente venisse usata per sbrigare commissioni in città, perché Zeno preferiva servirsi della sua bicicletta. La strada sterrata non favorì la manovra: stretta com’era, l’auto la ingombrò per intera. Dalla nube polverosa emerse la testa della persona alla guida. Quando vidi chi era, credei di nuovo di sognare. “Ma che cosa!!! Hey! Rivoluzione! Andiamo alla casa!” Allargò le braccia e io, nell’incrociare lo sguardo di quell’uomo semplice, non
riuscii a non pensare che forse aveva sempre avuto ragione lui: sarebbero bastate delle pecore per essere felici. Non sarebbe successo nulla di male, il suo gregge avrebbe potuto davvero condizionare l’andamento della storia. Avrebbe potuto, senza dubbio, riempire lo spazio vuoto tra le mura crollate, nella parte nord del giardino: quel vuoto che aveva permesso a Mikel di eludere i controlli della polizia, lo stesso varco di cui Ciro si sarebbe servito per condurre il gregge oltre i confini delle mura. Quante sarebbero state? Venti, trenta, chi lo sa. Magari addirittura cinquanta. Pecore bianche dappertutto, dentro i recinti, al pascolo nel parco, sconfinando fin nei cortili. E allora il cane pastore sarebbe ato lì accanto, per guidarle sulla giusta via, riportando l’ordine, con l’approvazione di Ciro e degli altri. Tutti avrebbero ammesso che, finalmente, grazie a quel gregge, la Villa avrebbe prosperato, sempre di più: con lana, formaggi, agnellini. Il macellaio in città avrebbe aspettato anche settimane e, pur pagando il doppio, avrebbe acquistato solo da loro, felici di quegli agnelli, i più saporiti e più teneri sul mercato! E poi avrebbero finalmente tutti insieme ammirato, verso sera, lo spettacolo del gregge che, pigramente, rientra nel recinto, come un'unica gigantesca bestia dall’andatura ondeggiante, guidata da uno spirito accorto e premuroso che l’avrebbe sospinta nelle braccia della notte, verso il riposo e il sonno dei giusti. E Ciro era lì, dinnanzi a noi, al volante di una vecchia auto, nera e scoppiettante, che ci invitava a salire, alla svelta, come se fosse stata la cosa più naturale del mondo. Mi sembrò così strano vedere quell’uomo, apionato e onesto, vestire i panni del fuggitivo, lontano dal suo ambiente naturale. Come un animale evaso dalla cattività, i suoi occhi emanavano una luce chiara e vitale e c’era nei suoi modi, anche quella mattina, qualcosa di estremamente comico e frenetico, a cominciare dal cappellino americano blu che, tolto d’istinto dalla testa, gli aveva lasciato il segno rosso sulla fronte.
‘Andiamo alla casa’. Veniva dalla Jugoslavia, questo lo sapevamo, anche se aveva sempre sostenuto di essere italiano, perché nativo di Rjeka, Fiume, ma non sapevamo che cosa intendesse con “casa”. Ci guardammo negli occhi chiedendoci se fosse lì per aiutarci nella fuga o se avesse intenzione di riportarci, da bambini pentiti, alla Villa. “Quale casa Ciro? Perché ci sei venuto a cercare? Non sai che siamo nei guai fino al collo?”
“Alla casa. La mia casa. Rjeka! Che cosa?!” Fu allora che mi colse la consapevolezza dell’abbandono definitivo: l’addio, non espresso, all’angelo che il destino mi aveva affidato. Sentii stringermi il cuore, ma che altro avrei potuto fare? Ciro in quel momento rappresentava, indubbiamente, la mia unica possibilità di salvezza. Vidi che Mikel s’accingeva a protestare mentre stringeva ancora la mano sinistra sulla pistola, sotto la camicia. Il suo sguardo sospettoso mise in guardia il vecchio: “Hey ma che cosa? - tirò fuori il aporto - Jugoslavia! Voi rivoluzione? Io con voi!” Salimmo in macchina e lo ammonimmo sul tragitto: avrebbe dovuto seguire la strada secondaria verso est, senza deviare a Verona per imboccare la Serenissima. Fece manovra e tornò su quella strada di campagna sorridendo come un bambino, guidando l’auto come alle prese con un vecchio cavallo imbizzarrito. Spiegò, a modo suo, che essendo la situazione alla Villa definitivamente compromessa, s’era deciso a partire, con l’intento di cercarci lungo la strada verso nord, per aiutarci a fuggire, sicuro com’era che non avremmo mai commesso l’errore di attraversare la città. Voleva presentarci a sua moglie, ci disse. Era munito di documenti sia dell’auto che personali. Pensava che, in caso di necessità, mi avrebbe nascosto nel bagagliaio, prima della frontiera - essendo io privo di aporto – con la speranza di non incappare in qualche malaugurata perquisizione. Saremmo arrivati a Fiume entro la sera stessa.
Il viaggio su quella strada secondaria, però, fu interminabile: il sole, oramai alto nel cielo, rese bollente l’aria e l’afa si fece soffocante. Nemmeno la leggerissima brezza del pomeriggio, a ridosso delle colline, assai prima che imboccassimo l’autostrada, servì a rinfrescare l’involucro nero che ci ospitava. Alla frontiera, in effetti, non incontrammo che doganieri dagli sguardi annoiati e stanchi: ammo senza nessun problema. Verso sera attraversammo l’antica città istriana di Pinguente, poi Ciro deviò per imboccare una strada di campagna. Dopo pochi chilometri ci imbattemmo in una vecchia locanda, minuscola, costruita interamente in legno. Eravamo affamati e si stava facendo tardi. Lì ordinammo da mangiare e prenotammo una stanza per la notte.
A tavola, Ciro ci raccontò di sua moglie, dalla quale si era separato più di vent’anni prima. Ci disse che erano ancora giovanissimi quando, in circostanze misteriose, persero i loro gemelli, di pochi anni: svaniti nel nulla, spariti per sempre. Dopo anni di disperazione, il loro amore, così tanto avvelenato dal dolore e dal lutto mai realmente consumato e accettato, smise di aver ragione d’essere. Ed egli partì. Dopo tutti quegli anni, quindi, aveva deciso che era arrivato il momento di mettersi sulla strada per tornare da lei, ma non da solo: portava con sé i suoi ragazzi, da presentare alla moglie, con commozione e orgoglio, come due giovani amici, due figli ritrovati, dopo tanti anni di solitudine. Ci parlò con la sua solita ione, mantenendo lo sguardo , fissandoci con occhi che mi parvero, nella sua terra natia, ancor più azzurri del solito, benché lucidi e velati di lacrime. Nella locanda rimanemmo a parlare, bevendo fino a notte fonda. Quando salimmo in camera, davanti alla porta trovammo tre secchi d'acqua, ancora tiepida: una premura della moglie del locandiere. Nella vecchia sala da bagno, adiacente alla stanza, ci lavammo e ci rinfrescammo, prima di abbandonarci ad un sonno profondo e senza sogni. Al mattino presto, aprendo appena gli occhi, notai come i raggi di sole colpivano il pavimento di legno grezzo della stanza, decorandolo con un gioco di luci e ombre sorprendentemente accurato. Il vecchio specchio del comò della stanza rifletteva una specie di arcobaleno artificiale che colorava le pareti di giallo e verde chiaro. Rimasi pigramente ad osservare per diversi minuti, ma con gli occhi fissi e la mente rivolta al pensiero di quanto la mia vita, nelle ore precedenti, fosse per davvero sprofondata nell'abisso della clandestinità. Anche se, stranamente, la consapevolezza del pericolo da affrontare a ogni momento e lo sforzo di vivere giorno per giorno, mi tennero lontano da ogni altra paura o preoccupazione. Quando poi mi distolsi da questi pensieri, gettai l’occhio sulla sagoma immobile di Ciro: un vecchio dall'anima irrequieta e romantica, mi dissi, troppo ionale per il secolo in cui era stato costretto a vivere. Osservandone piano il pallore del viso e della mano, però, mi avvicinai a lui, ma ancor prima di toccarlo capii con sgomento che non si sarebbe più risvegliato. Aveva gli occhi chiusi, già incavati, e il corpo era rigido come un pezzo di legno. Se n’era andato senza disturbare,
nel sonno, a pochi i da casa sua: solo pochi chilometri ancora, poche ore di viaggio e sarebbe arrivato a destinazione. Lo caricammo con gran fatica e commozione in macchina, lasciammo del denaro all’ingresso della locanda e rovistammo nello sgabuzzino esterno prima di andar via. Con a bordo quell’angoscia nuova, l’orrore della morte che ti viaggia accanto, su quell'auto, proseguimmo il viaggio. Di tanto in tanto mi giravo per controllare che il corpo del pover'uomo non cedesse troppo sotto i sedili, per via di quel percorso tortuoso e sassoso. Fatti pochi chilometri, vedemmo da lontano, su un bel prato incolto alla nostra sinistra, uno splendido ciliegio in fiore, bianco e solitario come un vecchio eremita, secolare, altissimo. Decidemmo di seppellirlo lì, sotto il suo luminoso biancore, in quel campo abbandonato dall’uomo da chissà quanto tempo. Appena iniziammo a scavare vedemmo are nei pressi un piccolo gregge di pecore, senza pastore, seguito da un cane da guardia bianco, dallo sguardo triste e spaventosamente consapevole. Lo guardammo muti, paralizzati dall’accuratezza del destino. Di nuovo la morte, quindi, a perseguitarci con la perseveranza di un rapace che in picchiata cala, inesorabile e spietato, sulla preda. Ciro, questa volta. Prendemmo la decisione di recarci a Fiume, per cercare sua moglie, glielo dovevamo. Percorremmo quei chilometri immersi in uno strano silenzio, ascoltando il rombo della vecchia auto che arrancava sulle strade straniere e dissestate, assetata di chilometri e di nuovi mondi, nonostante l'età del motore. Quando finalmente arrivammo alle porte della città il profumo intenso del mare, penetrando furioso dal finestrino, ci inebriò. Arrivammo presto all’indirizzo indicato sul vecchio aporto di Ciro, una piccola via polverosa fuori dal centro, costeggiata da case basse e bianche, con le aie e i cortili sul retro. Il cuore di Rjeka si intravedeva, ma solo in lontananza, con i suoi vicoli soleggiati e il suo porto brulicante di navi bianche. La donna che ci accolse con sospetto nel cortile di sassi, vedendo il documento del marito abbassò lo sguardo, tentò di nasconderci le lacrime e svelta ci fece entrare in casa. Era sulla sessantina, donna contadina ben piazzata, dall’aspetto severo e dignitoso. Viveva da sola, in una casa molto pulita e in perfetto ordine. Ci fece accomodare nel vecchio tinello e ci offrì delle focacce salate e del
liquore incolore che mi infuocò la gola fin dal primo sorso. Parlava in italiano, come la maggior parte dei fiumani: ci raccontò che Ciro era nato a Fiume ma aveva praticamente sempre vissuto in campagna, vicino a Zagabria, fino al giorno del loro matrimonio. Aveva lavorato sin da bambino con il padre, un vecchio contadino senza terra, al servizio dei padroni che occasionalmente acquistavano quelle tenute con tutta la mano d’opera disponibile. Quando presi parola e le raccontai cosa era accaduto al marito, non diede segni di reazione, come se ne fosse stata da sempre già consapevole. Preferì raccontarci della vita sua e di Ciro, di quando ancora vivevano assieme lì, sotto lo stesso tetto, ma nulla si lasciò sfuggire dei loro figli perduti. Chiese con un'improvvisa e inaspettata espressione di paura di poter visitare l’albero di ciliegio che gli faceva compagnia e noi subito l’accontentammo. Ripercorremmo tutto il tragitto senza dire una parola. Arrivati sotto l’albero, la donna si chinò a terra e scoppiò in lacrime. Fino a sera se ne restò così, come in attesa di qualcosa. Poi il sole calò e lasciò lentamente spazio ad una cupa luce blu e violacea, mentre tutto attorno il profumo della terra, sul punto di bagnarsi di grosse gocce di pioggia, iniziò a regalarci la sua rassicurante fragranza, come un dono povero ma preziosissimo allo stesso tempo.»
***
XIII
Immerso com’ero in quella storia, non mi rendevo più conto del tempo trascorso. Il treno su cui viaggiavamo sembrava non poter fermarsi più, attraversava campi e paesi, correndo a tratti lungo file di tetti color granata, che nel cielo buio parevano solo appoggiati sulle piccole case. Vecchi aggi a livello chiusi, talvolta gremiti da gruppi di persone in attesa, venivano superati senza mai rallentare: da lontano li vedevo arrivare e poi subito scomparire. La velocità trascinava via tutto, lasciando i volti di quelle persone senza forma e senza espressione, come manichini sistemati lì a completare il paesaggio.
Victor s’era interrotto chiedendomi dell’acqua, con un sorriso strano, distratto. Temendo che mancasse oramai poco all’arrivo, sentivo acuto il bisogno di sapere, conoscere la fine di quella storia e soprattutto il perché del suo ritorno a Verona. Gli parlai, tradendo però tutta la mia inquietudine: «La sua storia mi ha commosso. E’ raro di questi tempi sentirne di simili». Mi guardò mentre si dissetava, abbozzando un mezzo sorriso dietro la plastica del bicchiere. «Cosa successe dopo, in Jugoslavia?» «Accadde che, dopo aver ato dei giorni accampati in riva al mare, io e Mikel dovemmo separarci. Il gioco era diventato troppo pericoloso, troppo rischioso farsi vedere, in quelle circostanze, ancora insieme: dopo tutto eravamo dei ricercati ben noti. I giornali locali già parlavano di noi; su un quotidiano, poi, erano state addirittura pubblicate le nostre foto, al margine di un articolo che ci voleva per forza nascosti a Trento, in un covo clandestino gestito da alcuni studenti della facoltà di sociologia. Ricordo quanto Mikel fosse veramente disturbato, ossessionato, dagli articoli che uscivano in quei giorni sulla Voce del Popolo, il giornale fiumano in lingua italiana. Non tanto per i contenuti, ma per il fatto che puntualmente le notizie erano relegate in cronaca, mentre lui pretendeva che le azioni commesse fossero considerate azioni politiche da prima pagina. Si rammaricò del fatto di non aver avuto il tempo di poter scrivere una
rivendicazione formale del suo ‘atto di difesa’. Negli ultimi due giorni al mare iniziò a lavorarci su, con una bozza in lingua spagnola. Tramite Osvaldo contava di far recapitare quella sua rivendicazione a qualche testata italiana e sudamericana, con modalità segretissime, da valutarsi ancora, utilizzando combinazioni cifrate di lettere e telegrammi. Una faccenda che, con tutta probabilità, lo avrebbe impegnato per interi mesi. E così toccò a me partire. Mikel rimase lì, a preparare tra Fiume e Bakar tre ‘luoghi di sopravvivenza’, come li chiamava lui. Si trattava di due accampamenti sul mare e di un piccolo appartamento senza vetri alle finestre, anch’esso affacciato su una spiaggia, affittato in nero da un pescatore di Kostrena, dove Mikel avrebbe voluto tenere tutti i documenti e gli scritti che andava preparando. Io invece mi diressi verso sud e, con pochi spiccioli in tasca, arrivai in Albania. A Tirana, tramite un funzionario del regime di Hoxha, conosciuto in treno, ottenni di lì a poco asilo come rifugiato politico, anche se dovetti attendere parecchio prima che mi procurassero dei regolari documenti. Tirana fu la mia salvezza, per così dire. Potei azzerare tutto e ripartire da capo, benché mi restasse sul cuore tutto il peso di aver lasciato Anna senza mai averle dichiarato il mio amore, tutta l’amara consapevolezza, per di più, che ogni tentativo di rivederla mi avrebbe spinto, di un altro o ancora, verso il fondo del baratro in cui ormai ero caduto. Pochi giorni dopo il mio arrivo nella capitale incontrai Madam Adél, donna di mondo, se, che da anni aveva messo in piedi uno spettacolo itinerante, con leoni, elefanti e nani abilissimi nel cavalcarli. Ricordo che subito notai il suo modo di vestire stravagante e il suo atteggiamento da diva del cinema, anche se – come me, d’altra parte – frequentava principalmente i più luridi luoghi di perdizione di Tirana. Vestiva quasi sempre di rosso, era truccatissima, parlava solo se, che la capissero o meno. Nessuno, lì, la considerava una prostituta ma da giovane era stata a letto con i clienti più assidui dei bar del centro e con tutti gli altri che le erano capitati a tiro. Ad ogni modo, Madam Adèl apparteneva a quel genere di persona cui nessuno avrebbe mai rinunciato: per via del suo carattere, estroverso e totalmente fuori dalla norma, risultava piacevole e divertente a tutti, oltre che maledettamente attraente. Anche le donne l’adoravano, perché era come se possedesse la
capacità di attirare a sé le ioni più inconfessabili di chi le stava accanto. Poi, invecchiando, la bellezza l’abbandonò, lasciandole però il luminoso e misterioso fascino di chi ha vissuto davvero la vita. Dal talento formidabile, era una donna d’affari implacabile. Mi prese in simpatia, le piacevo e mi concesse di vivere con lei, senza mai chiedermi un centesimo. In pochi anni si trovò nelle mani la direzione del Circo di Tirana, dove anch’io, grazie a lei, lavorai a lungo. Poi, inaspettatamente, riuscì a farsi sposare da un anziano signore inglese, ricco da far venire i brividi. Così scomparve per sempre, lasciandomi l’appartamento pagato per i tre mesi successivi e la maggior parte della responsabilità del lavoro al circo.
Con Mikel rimanemmo d’accordo che ci saremmo incontrati l’anno dopo a Fiume. Nel caso in cui uno dei due, per un motivo qualsiasi, avesse fallito l’appuntamento, lo stesso si sarebbe rinnovato, automaticamente, per l’anno successivo e per ogni altro anno a venire, sempre nel medesimo giorno e luogo: il nove di luglio, a mezzogiorno, al molo ovest del porto. Lo stesso posto dove c’eravamo detti addio. Il primo anno non mi presentai, immerso com’ero nella mia nuova vita e nel lavoro. L’anno successivo fui convalescente per tutta l’estate, a causa di un terribile incidente al trapezio, durante le prove dello spettacolo di primavera: mi ero spezzato entrambe le gambe. Mi avevano dato per spacciato, credevano che non sarei mai più stato in grado di camminare, ma con perseveranza e duro lavoro e l’aiuto di Madam Adèl, me la cavai meglio del previsto e nel giro di pochi mesi abbandonai l’odiata carrozzella. Ovviamente, la mia carriera venne compromessa per sempre e a malincuore dovetti dedicarmi esclusivamente ai lavori organizzativi e d’ufficio. Riprovai dopo qualche mese a perfezionare dei numeri più adatti alla mia nuova condizione fisica, ma alla seconda settimana di prove, alla fine dell’ennesimo allenamento deludente, mi chiusi in camerino e mi guardai allo specchio, per ore. Poi tornai dai ragazzi e con voce piena di una rabbia nuova ringraziai tutti per il sostegno e dissi loro che non avevo più intenzione di continuare a vivere nella mera e unica speranza di tornare a lavorare come prima. Madam Adèl, che
durante gli esercizi, da sola, mi osservava dall’alto di un’impalcatura, attese che finissi di parlare, incrociò il mio sguardo, e infine mi sorrise con una complicità e un affetto che mai dimenticherò in vita mia. Quella sera, nuovamente, sentii l’ebbrezza della libertà. Ma per portarmi dove? mi chiesi. Lavorai tutto l’anno con il disperato bisogno di riassaporare le mie radici. Volevo a tutti i costi rituffarmi almeno per un po’ nel mio ato, pur consapevole di non essere più in grado di scavare troppo a fondo, purtroppo. Il terzo anno riuscii finalmente a recarmi a Fiume, con un permesso speciale di espatrio rilasciatomi dalla polizia albanese e timbrato dal Quartier Generale dello Stato Maggiore. Sul lasciaare avevano scritto, visti gli aspri rapporti diplomatici tra i due paesi in quel periodo, che le autorità albanesi declinavano ogni responsabilità nel caso in cui gli jugoslavi avessero deciso di trattenermi. Così, in uno stato d’animo non certo tranquillo, arrivai al molo dell’appuntamento, ma sotto un violento temporale, e mi ritrovai lì da solo, ovviamente. Attesi per qualche ora sotto una pioggia calda e sferzante. Quando smise era come se fossi appena uscito dal mare. Mi aggirai nei dintorni senza però scorgere nessuno che potesse somigliare a Mikel. Due anni dopo ci riprovai ancora. Questa volta, non trovandolo all’appuntamento, mi recai all’appartamento del pescatore di Kostrena: niente, non lo trovai nemmeno lì. Col are degli anni, le possibilità di rivederlo s’azzerarono, ridotte a nulla, oramai, nonostante l’antica e reciproca promessa.»
Il tono del suo racconto si era fatto ora più incerto, la sua voce calda si stava spegnendo, lasciando spazio a una specie di ragionata rassegnazione, propria di chi sta arrivando al dunque. Fece una lunga pausa, senza respirare, come per trattenere il magone, guardando fuori, al cielo scuro, e avvistando i primi vaghi segnali urbani che, con piccoli agglomerati di cemento sempre più fitto, già stavano dando vita alla periferia ovest di Verona.
***
XIV
Quasi alla fine dunque, più che evidente, ma tutta quella storia raccontata ancora non mi spiegava il perché del suo ritorno a Verona. La mia strana sensazione di inquietudine, ancora lì a perseguitarmi, mi rendeva ancora più amaro quel dettaglio mancante. Di nuovo la sua voce mi riportò all’oasi fuori del tempo in cui mi ero, durante quelle ore di viaggio, avidamente rifugiato.
«arono tanti, troppi anni. Cambiò tutto, il mondo, i suoi regimi, le sue frontiere. Tornai in Italia perché il mio reato nel frattempo era caduto in prescrizione, permettendomi, finalmente, di riprendere possesso del mio nome e della mia vera identità. Ottenuto il aporto, mi recai subito al molo di Fiume, benché oramai fossero ati quarant’anni. Sapevo che non mi sarebbe stato possibile ritrovare Mikel. Ebbi la sensazione di recarmi ad un appuntamento con me stesso, ma con la lacerante consapevolezza che non sarei stato in grado di ritrovarmi. Era me stesso che andavo cercando? O semplicemente una porzione di gioventù? Il sapore del mio ato mi tentava, mi ossessionava, dovevo andare a Fiume, e questo prima ancora di andare a Verona. Così, il nove luglio scorso a mezzogiorno in punto mi trovai lì, in un porto che sembrava un altro, profondamente cambiato dal tempo, come diversa m’apparve tutta la città. Una cosa sola non cambierà mai a Fiume: l’odore del suo mare salato, misto a una brezza intensa, spessa. Lì, l’aria ha un profumo diverso da quello di qualsiasi altro luogo di mare. E’ il profumo del vento che sposa il sale del mare con la polvere dell’entroterra, bianca e fruttata, e lo trasforma in sapore. Solo chi è stato a Fiume può comprenderlo e solo chi ci torna spesso può, se è fortunato, catturarlo e conservarlo in un angolo remoto della mente o del cuore.
Arrivai al molo e mi spinsi fino all’ultima ringhiera, piegandomi sul mare aperto per assaporare boccate piene di brezza marina. Poi tornai indietro, mi sedetti e fu solo allora che vidi qualcuno avvicinarsi. Ma non volli illudermi e tenni a bada il balzo del cuore: lo ignorai, da principio, benché si stesse chiaramente avvicinando a me con un sorriso interrogativo. Mi sforzai di pensare, mentendo a
me stesso, che sarebbe stato difficile riconoscerlo dopo tanti anni. L’altro rimase in piedi ad osservarmi, poi si sedette accanto a me, senza dire una parola. Aveva un aspetto molto dignitoso, quasi da turista. Era invecchiato bene, i suoi capelli erano bianchissimi, come solo chi è stato biondo in gioventù può avere. Rimanemmo seduti lì, per un po’, godendo entrambi - chissà perché - di quel silenzio assurdo. Poi mi girai verso di lui: fissava il mare affollato di navi in lenta manovra e di barche più vicine, attraccate proprio a pochi i da noi. Quando mosse leggermente il suo profilo verso di me, vidi che aveva lacrime agli angoli degli occhi. Scoppiammo entrambi in una risata amara, forzata, triste. E lo abbracciai. Appresi che per anni aveva provato a ripresentarsi all’appuntamento, nonostante vivesse da tempo in Uruguay. Aveva la stessa espressione di un tempo, lo stesso sguardo fiero e severo. Solo nei suoi occhi scorsi qualcosa di nuovo, come se avessero, nel frattempo, scoperto il significato della paura e assunto un aspetto più umano, meno infallibile. Quella sera, mentre eravamo a cena, improvvisamente sembrò ansioso di darmi una notizia. Una di quelle che mi avrebbe cambiato nuovamente la vita, e per sempre. Proprio quando credevo che la mia vita non sarebbe mai più potuta cambiare. A fine pasto, ci sedemmo per un caffè su una terrazza a strapiombo sul mare, trattenendo il respiro per la vista incantevole. Mi raccontò che Osvaldo, qualche tempo dopo il nostro addio a Fiume e proprio pochi giorni prima della sua tragica e prematura morte, aveva tentato di metterlo in contatto con persone utili per riallacciare rapporti con l’estero. Tra queste diversi militanti Tupamaros che in quei mesi – Mikel lo sapeva con certezza stavano transitando in Europa. Aveva cercato di rintracciare anche me ma, maledizione, senza fortuna. E poi Anna.»
Al sentirgli dire questo nome il mio cuore ebbe un sussulto, come se la cosa mi riguardasse personalmente, come se il nome “Anna”, uscendo dall’astratto, mi si tramutasse davanti agli occhi in qualcosa di concreto e vivo.
«Anna fu ritrovata, - proseguì – viveva a Milano, con un figlioletto nato nove mesi dopo quelle settimane trascorse insieme alla Villa. Mio figlio, dunque...» Annuì a se stesso, ora, come per mostrare di essere stato sempre consapevole di tutto. Mentre io fui costretto a pensare che aveva appreso la notizia solo pochi mesi prima, soltanto il nove di luglio. E ora egli sedeva di fronte a me, stupendomi con il suo pacato modo di raccontare, fin troppo distaccato per una così sconvolgente verità, mi venne da pensare. «Ma era troppo tardi per tutto – continuò - ero sfinito dalla stanchezza e non ebbi la prontezza di reagire a una tale notizia. Il destino ci aveva separati per sempre dalla nostra vita, e costretto poi a riunirci, con la prepotenza e con il rischio che si corre urtando continuamente contro il proprio ato, anziché avere il coraggio di guardare avanti. Solo avanti» aggiunse. «Da tempo il vecchio Mikel s’era di nuovo messo in moto per riallacciare i contatti con alcune sue vecchie conoscenze in Europa. Di me ovviamente non seppe nulla e per rivedermi dovette aspettare di ritrovarmi a Fiume, in quell’incontro appunto, con un ritardo di oltre quarant’anni! E neanche Anna venne più rintracciata. Ma il figlio sì, a quanto pare. Mentre Mikel, però, mi raccontava tutto questo, io non riuscivo ad accettare di avere avuto, per una gran parte della vita, qualcuno di così importante al mondo, senza poterlo mai incontrare, aiutare o parlarci. Qualsiasi cosa, qualsiasi cosa.» Sembrava che da un momento all’altro potesse esplodere, mentre parlava così piano. E questo mi toglieva l’aria da respirare. «Ma ora sì – aggiunse improvvisamente commosso – ora sì, posso e devo accettare questa circostanza. Vedi, è per questo. E’ per questo che ora sto andando a Verona. Mikel ci ha riuniti tutti. Alla Villa. Ci sarà lui, ci sarò io, ci sarà colui che con ogni probabilità è mio figlio. So che lo ha contattato con molta discrezione.» Victor mi guardava fisso, mentre ormai la mia inquietudine si stava trasformando in panico e vertigini. «Mikel non ha potuto resistere. Ha dedicato tutte le sue forze per riconsegnarmi ciò che in nome della giustizia e della rivoluzione mi aveva tolto: ciò che doveva essere la mia famiglia.»
Il treno iniziò a rallentare gradualmente, e io mi sentii paralizzato da qualcosa che ancora non mi era ben chiara, ma che lentamente si stava facendo coerente e spaventoso dinnanzi ai miei occhi. «Lo ha contattato solo qualche giorno fa, tramite l’ufficio dove lavora.»
Rivedo la mia mano che, febbrilmente, si muove rapida verso la cartella dei documenti. Non posso più ricordare quanto ci misi a trovare quel foglio, e poi a leggerlo. Avevo in mano un atto di richiesta formale, la solita perizia da effettuare… Poteva ben trattarsi di un appartamento, un podere, un terreno agricolo. O una villa, magari. Lessi l’indirizzo preciso, cosa che generalmente mi riservo di fare direttamente in taxi, per comunicare la destinazione all’autista. Di solito un indirizzo in sé, nel mio lavoro, è privo di valore. Come privo di valore è anche il cognome del proprietario. Si tratta solo di un cognome, non importa quale sia, come si pronunci, come suoni. Non importa mai. Ma con la vista appannata riuscii a trovare la parola chiave, in mezzo a mille altre parole inutili, come se fossero state scritte in un'altra lingua, con un altro alfabeto. ‘scucci’, lessi. Trovai questa parola sul foglio, in alto a destra. Il primo pensiero, per quanto ridicolo, fu chiedermi quanta importanza potesse avere in quel momento, il nome del proprietario della tenuta. Ciò che in ogni altra occasione sarebbe rimasto per me un anonimo cognome, un astratto codice convenzionale privo di qualsiasi importanza, ora pesava su di me come un macigno. Immediatamente dopo, come diretta associazione di pensiero, ricordai un altro nome, uscito definitivamente dal mondo delle astrazioni che mi ero costruito, per entrare con prepotenza nella realtà, nel mondo vero, nella vita che ci riguarda, quella che siamo costretti a raccontarci ogni volta che ci mettiamo a letto, prima di addormentarci. Quest’altro nome era quello di Anna, mia madre. La donna che si era presa cura di me senza l’aiuto di nessun altro, attraverso il lavoro e la dignità di una ragazza stupenda, proprio come Victor era stato in grado di descrivere. E lì, di fronte a me, sedeva un padre che mai avrei sospettato di avere, trovato chissà come. Ma capii da subito come ora, attraverso quelle fortuite circostanze, fossi io, in realtà, colui che era stato trovato. Poi, ad un tratto, compresi i perché di tutto il mio disagio che in quelle ore non ero stato in grado di capire, ovviamente. Davanti a me c’era tutto il peso della verità ad opprimermi. Ecco la spiegazione. La verità
che avevo sempre intravisto negli occhi del vecchio: i miei stessi identici occhi. Sentii di non riuscire più a dare un ordine naturale ai miei pensieri: per la fretta di prender parola si annullavano, schiacciandosi l’uno sull’altro, mi morivano dentro silenziosamente, prima ancora di affiorare, impedendomi ogni possibile espressione. Mi sentivo come in apnea. Fu lui a parlare di nuovo, con una voce che mi sembrò quella di un altro, quella di un ventriloquo: «Non ho avuto nessun dubbio – mi disse - sin dal nostro primo incontro». Poi si lasciò andare sullo schienale e mentre il treno già si stava per fermare, socchiuse gli occhi e congiungendo i polpastrelli delle dita, lunghe e magre, aggiunse: «Ma ora devo fartela io una domanda…» «Ci ha lasciati – balbettai subito, comprendendo già tutto quello che voleva chiedermi – Anna ci ha lasciati, due mesi fa.» «Certo, certo …» rispose lui svelto e con contenuta dignità, credo per evitare di farmi provare troppa comione, «scusa se mi sono permesso di chiedere…» aggiunse, poi, a bassa voce e con gli occhi gonfi di lacrime. «Nessun problema» risposi, come si risponde ad un estraneo, provando un’immensa pena per me stesso.
***
XV
Uscimmo sul piazzale della stazione, camminando piano, come due condannati. Salimmo su un taxi e controllandolo di nuovo su quel pezzo di carta - che nelle mie mani in pochi minuti s’era già consumato - comunicai l’indirizzo all’autista. Quando rimisi il foglio nella cartella, provai uno strano senso di liberazione. L’apnea continuava a soffocarmi, ma almeno ero riuscito a elaborare quel mio disagio e piano il mio respiro tornò regolare. Allora sbirciai lo sguardo fisso di Victor D. che indugiava fuori dal finestrino. Lo volli vedere ammirare dopo tanti anni le mura della Villa da lontano, a valle di quella salita che ci attendeva per raggiungerne l’ingresso, nel mezzo di una periferia ereditata dalle distese di campi che lì attorno quasi mezzo secolo prima dovevano averlo accolto con così tanta freddezza. Non trovai in lui nessun segno di sorpresa, nessuna reazione a quello spettacolo così cambiato, ma dentro di sé doveva ribollire il sangue infuocato di un’intera vita. Che ne sarebbe stato di me, se Danieli non fosse morto? Se Victor avesse inseguito Anna - stanca di aspettarlo per mesi e mesi - sulle rotte che avrebbero dovuto portarla in India? Come sarebbe stata la mia vita, se uno, uno solo dei particolari della sua esistenza, dentro quelle mura, non avesse seguito le imponderabili leggi del fato? E Mikel? Al solo pensiero mi venne un brivido lungo la schiena: per la paura, forse, di incontrare l’uomo che aveva deciso per tutti, in nome di tutti? Troppo tardi, ormai non avevo più scelta. ‘Contattato ma con molta discrezione’, quelle parole mi risuonavano ancora in testa. Ebbene sì, fu esattamente così. Con discrezione: tramite lettera formale, ando dalla segreteria di direzione, come da prassi. Nulla lasciò al caso. Il suo modo perfetto per attirarmi lì, senza rischiare che all’ultimo potessi tirarmi indietro. E chissà la sorpresa nello scoprire che io e mio padre vivevamo nella stessa città, nello stesso quartiere. Ci sono cose nella vita che non possono avere una chiara e unica spiegazione, per quanto ci si sforzi di riuscire a trovare risposte coerenti a tutto. In quella serata non ci fu nulla di coerente. Mentre si ricomponevano piano davanti ai miei occhi, come tasselli di un puzzle complesso che il destino mi aveva riservato, i pezzi della mia vita assumevano connotati via via meno coerenti, mano a mano che si univano in un unico quadro d’insieme. Perché?
Poi, improvvisamente, mi ritrovai di fronte a quel portone. Quando ci decidemmo ad entrare e ci affacciammo in quell’atrio vuoto, un ometto anziano ci si avvicinò, trascinandosi a fatica. Il suo volto deformato e la sua statura non lasciava spazio a dubbi. Con fare sinistro aprì la bocca mostrando un sorriso spaventoso. Victor lo riconobbe ma non osò dir nulla. Boi ci scrutò dal basso, sembrava quasi di sentirlo grugnire. Si muoveva a fatica, nella sua lunga veste di maglia spessa e le rughe, come in un vecchio mollusco di cartapesta, gli stropicciavano il viso fino a nasconderne i connotati. «Sono ati tanti anni, ma mi de ti me ricordo ben!» disse con tono di rimprovero, rivolgendosi però a me, scambiandomi per mio padre! La somiglianza doveva essere davvero impressionante, pensai, con una vaga sensazione di orgoglio, mai provata prima in vita mia. Poi si dileguò strisciante verso la porticina accanto, lasciandoci lì, in attesa di Mikel e dell’ultimo scotto da pagare al destino. Mentre eravamo in attesa vedemmo entrare tre ragazze biondissime, ansimanti sotto il peso del loro zaino - per la ripida salita. Scandinave dall’aspetto o forse tedesche. Ci chiesero informazioni su dei letti liberi per la notte. Noi non ne sapevamo nulla ovviamente, ma non ci sforzammo nemmeno troppo di farci capire. Si tolsero, con fare esperto, i pesanti zaini dalle loro spalle ossute e si sedettero a terra esauste: anche loro, come noi, in attesa di qualcosa. Fuori la sera si era fatta buia e ventosa, guardai di nuovo all’esterno e vidi il viale che avevamo percorso in macchina. Ai lati delle palazzine basse, i balconi erano tutti ornati da piante di gelsomini, precocemente in fiore e pronti a diffondere il loro profumo anche da quella distanza. Per non so quale ragione li guardai come fossero gli unici testimoni di ciò che dentro di me stava succedendo. Poi, ad un tratto, la sua voce mi riportò lì: «Vieni, andiamo a dare un’occhiata, ho delle cose da mostrarti.» Mi prese per un braccio, lasciando il suo bastone appoggiato all’angolo della porta, e mi condusse fuori, nel grande cortile della Villa. Camminammo su pietre, prati e piccoli viali mal illuminati. Sotto il medesimo minaccioso cielo viola che avevo lasciato a casa prima di partire. Sembrava impossibile che così tanto fosse cambiato.
Fine
Giovanni D’Avanzo Il romanzo “La Villa” è la sua prima e più compiuta esperienza letteraria.
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INDICE
Frontespizio Colophon Licenza d’uso Copertina La Villa
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