Viviana Insacco
La zona perpetua
La zona perpetua
di Viviana Insacco
Editor: Anna De Gregorio
Direttore editoriale: Cosimo De Leo
Copertina: Michelangelo Allegri
© 2015 SEM - Servizi Editoriali & Multimediali
Redazione, Via Volta 18 - 20094 Corsico
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Nota dell’editore
"La zona perpetua" di Viviana Insacco è un racconto finalista dell’edizione 2015 del concorso #Semantica22 dedicata al premio Nobel Gabriel García Márquez e a Giorgio Faletti.
Nell'edizione di quest'anno, SEM Edizioni ha voluto rendere omaggio ai due grandi scrittori venuti a mancare nel corso del 2014 chiedendo agli autori in gara di inserire negli elaborati e rendere funzionali alle storie che hanno scritto, due citazioni tratte da loro libri.
Le citazioni sono:
1.«Si può essere innamorati di diverse persone per volta, e di tutte con lo stesso dolore, senza tradirne nessuna, il cuore ha più stanze di un casino.» Gabriel García Márquez, da L'amore ai tempi del colera.
2.«Tutti siamo chiusi in una prigione. La mia me la sono costruita da solo, ma non per questo è più facile uscirne.» Giorgio Faletti, da Io uccido.
Il risultato è stato sorprendente. Alcuni autori hanno addirittura reso queste citazioni elemento base dell’architettura dei propri racconti. Sta adesso ai lettori individuarle e apprezzare il lavoro svolto. Potrebbe essere interessante anche
confrontare come le hanno utilizzate i diversi autori.
"La zona perpetua" è stato selezionato, da una giuria qualificata, tra oltre 180 opere che hanno aderito all'iniziativa.
Gli altri titoli sono:
La prigione delle porte mai chiuse di Alessandra Lecchi
Fragile di Silvia Lacu
Il lato nobile di Riccardo Cordioli
Anche se non sono io di Michela Zancanella
La mia luna di Stefania Serio
La voce della mente di Jacopo Sozzi
Il mondo di Cristina di Giovanni Odino
Cambio di prospettiva di Cristina Zappardo
Prima di ogni noi di Elisabetta Di Francia (4° classificato)
La collana di corallo di Isichiara (3° classificato)
Il fantasma del mulino di Patrizia Candiotte Chincaro (2° classificato)
A ciascuno la sua prigionia di Chiara Rossi (1° classificato)
Grazie per aver acquistato il libro e buona lettura.
Cosimo de Leo
ISBN: 9788897093602
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Indice dei contenuti
Il Podere San Carlo L'ultimo saluto Finalmente libero L'anima della matematica L'esame La scomparsa di Moma Zio Guglielmo Il messaggio Ritorno a Bologna Acqua e Terra La pantera La laurea De Andrè
Il Podere San Carlo
Dopo il cimitero lo sterrato svanisce nel bosco. È un sentiero praticabile fino al Podere San Carlo e da lì scende ripido e sempre più angusto fino al Masso delle Fanciulle per essere poi inghiottito dalla macchia. Solo Aurelio sa avventurarsi nell’intrico di aggi aperti dai cinghiali e dai cervi che vanno ad abbeverarsi al fiume. Io no, io mi fermo in vetta al grande sasso dedicato a non so quali giovani donne, spalanco gli occhi e, di solito, mi viene da ridere. Le mie risa riempiono l’abisso compatto di abeti, un fremito d’ali si leva dalle fronde sotto il cielo immobile, e quando l’eco si spegne me ne torno in fretta al podere, sazio di natura. Ma oggi sulla via del ritorno i miei i scricchiolano. C’è un silenzio spettrale e mi guardo ai lati: la selva mi preme addosso, felci rovi e arbusti avvinghiati tra loro, radici sinuose che sbucano sul sentiero come serpenti millenari e mi fanno inciampare, di tanto in tanto. Con la spalla non posso che urtare gli arti aghiformi del gigantesco essere, questo magma pulsante color malachite, striato di clorofilla giovane. Non vorrei disturbare la Grande Belva ma è inevitabile. Tocco quell’epidermide a me così prossima, fatta di spine rametti e ciuffi di foglie piangenti, e mi immagino di sfiorare la peluria sottile della Montagna che si risveglia con un brivido e freme. E per la sorpresa, intrisa di entusiasmo vitale, o spavento, o altro, diffonde quel suo sudore di resina, fresco ma anche contaminato di terra marcia e funghi. Mi sale lungo le narici impregnando il cervello fino alle pareti della scatola cranica e poi mi scende in gola e allora deglutisco, nauseato: c’è un retrogusto dolciastro di cadavere. Lo avverto benissimo. È forte, è qui vicino. Il cuore mi palpita con un ritmo asimmetrico, sotto il sole allo zenit che mi surriscalda la testa e sparpaglia il fetore intorno. Non oso guardare oltre e accelero il o, arrampicandomi con le mani e affannando finchénon sento il latrare dei miei cani e me li vedo appesi alla vecchia rete che delimita la proprietàdi mio padre, scodinzolando festosi il mio
eroico ritorno. Riprendo fiato ma l’odore mi è entrato nel sangue. Non sarà qualche cinghiale abbattuto e mai rimosso? Un’intera famiglia? Una strage di immani proporzioni, sicuramente. Che scellerati! Li ho visti spesso dentro le loro tute color bosco in penombra, con le facce scurite dal carbone e gli occhi spiritati come guerrieri cambogiani. E li ho sentiti, barrire in maniera raccapricciante e in fondo grottesca, con suoni acuti e striduli che partono dai confini del bosco e avanzano con rigore marziale verso la posta, per alimentare la follia della preda che fugge all’impazzata, devastata dal terrore, prima a zig zag poi dritta verso l’unica via di salvezza: nella direzione priva di suoni, dove il Silenzio palpita appena ma ammalia come un canto di sirene foresti e risucchia lentamente e infine fagocita, con il suo roboante epilogo. PUM. Da queste parti è ancora usanza che i testicoli del cinghiale siano offerti al cacciatore più giovane, trofeo reciso a caldo tra le dita dell’iniziato, brandello di carne ruvida e ancora vischiosa, tiepida, affinché il coraggio della belva penetri per osmosi nelle incerte mani che, di lìa poco, abbracceranno il fucile. PUM PUM. Cerimonia conclusa. Ma, santo dio, per fortuna la caccia non è aperta. E allora? Di fronte alla porta di casa c’è Aurelio che richiama i cani scuotendo ritmicamente una confezione di croccantini come una grande maracas. Faccio scorrere il cancello verde chiazzato di ruggine sul suo binario ed entro nel piazzale antistante il podere, col fiatone e un rametto impigliato nei capelli. Devo avere un’aria strana perché Aurelio mi chiede: “Che c’è, hai incontrato il lupo cattivo?” con quel suo sorrisetto e lo sguardo laterale mentre versa i croccantini nella ciotola di Mivar e Kassia. Arriva anche Lenny nel suo galoppo composto da mastino spagnolo, come un imperatore allegro, gli salta con le zampe anteriori sulle spalle e comincia a leccargli la guancia mentre fiuta la sua porzione ancora nella scatola. Sono alti uguali. Hanno la stessa stazza e il pelo dello stesso color biondo slavato. Cristo se si assomigliano! “Allora? Com’è andata la eggiata?” occhiata da divertimento subdolo “Mi sembri ancora vivo.” Vorrei dirgli che la Montagna tace in lutto, che le ho fatto il solletico e dal suo
grembo è fuoriuscita la Morte, ma invece scoppio a ridere. Rido così tanto che un goccino di urina mi bagna i calzoni. Per le risa, sì, per il troppo ridere. Ah, ah. Gli vado incontro e gli batto una mano sulla spalla e lui mi guarda con il solito guizzo interrogativo nelle pupille liquide. Se non lo conoscessi direi che gli faccio paura. Ma non è così ovviamente, semmai il contrario. Varchiamo insieme la porta con o identico, lui col collo proteso in avanti e le cosce grosse nei jeans aderenti, io leggermente più magro e scoordinato. Ma la cadenza del o è ugualmente lenta, esitante, si vede che siamo fratelli. Dentro è un’altra luce, bianca di lampadine a basso consumo, e un altro odore, di canfora, polvere, cane bagnato, odore di melassa e di muffa, con una scia di lavanda che attraversa le stanze. Un altro strascico di risolini mi vorrebbero uscire dalla bocca, ma mi mordo il labbro e dico “scusate il ritardo” con tono di voce troppo alto e un residuo di spavento negli occhi, mentre un fruscio di tovaglioli e un tintinnare di posate segnala l’inizio del pranzo, nel consueto silenzio. Aurelio alza le spalle e bofonchia “arrivo”, mentre si dirige in bagno a lavarsi le mani, io invece mi siedo subito, a fianco a Linda e di fronte a mia madre, dritta e imperturbabile nel suo abito di seta lilla, il collo fine alla Modigliani e i riccioli gonfi e laccati color vinaccia. Linda mi bacia una guancia. Che labbra fredde ha, circondate da un solco profondo. “Quando sei arrivata?” le chiedo sottovoce “Pensavo non venissi più”. “Non ho potuto prima. Ma come vedi eccomi qua.” Parla con me ma lancia rapide occhiate a nostro padre, perché è chiaro che la risposta è per lui. Immagino che l’abbia ricevuta nel suo ostinato e permaloso silenzio, per punirla del giorno di ritardo. Oppure hanno litigato. Mentre io fuggivo dagli ammonimenti macabri del Bosco, loro stavano sicuramente maledicendosi per futili motivi. Cosa mi sono perso! Adoro quando Linda gli tiene caparbiamente testa. Quando Aurelio si siede, alla destra di papà, la Moma comincia a servire la minestra. Saltella con etti minuti e il tegame in mano, per fare il giro di tutti ci mette un po’ perché la tavola è lunga. Mio padre è il primo a essere servito, poi Aurelio, la mamma, Linda e per ultimo io.
“Buon appetito.” Linda e Aurelio affondano il cucchiaio nel piatto, all’unisono. Io guardo la brodaglia con pezzi di cipolle, zucchine e cavolo che galleggiano in mezzo a una profusione di spezie, con troppo pepe. Papà non mangia altro e allora tocca anche a noi. La domenica ci troviamo riuniti intorno a questa sbobba servita sulla tovaglia di pizzo per festeggiare il ritorno dei figli, ma non c’è aria di festa. Non c’è mai stata al Podere San Carlo. Da qualche anno, le due poltrone Luigi XVI sono al sicuro sotto lenzuola ingiallite e l’atmosfera del grande salone, nel quale mangiamo, è ancora più plumbea. Non solo l’eterna penombra brulicante di occhi severi appesi e incorniciati alle pareti dentro facce contrite, ora anche i due enormi fagotti a forma di poltrona! Quel provvedimento è stato però una salvezza, non tanto per i preziosi arredi quanto per la Moma che ha un bel da fare in casa, e si prende i rimproveri della mamma perché i cani lasciano troppi peli in giro. Lasciare questo ambiente, intristito dai lunghi silenzi invernali e i pomeriggi estivi assordanti di cicale e pensieri convulsi, è stato l’unico nostro obiettivo, la molla che ci ha spinto a crescere e, dopo tutto, ci ha reso complici. Linda è stata la prima ad andarsene e fa l’avvocato a Firenze, poi è fuggito Aurelio, il falconiere, il ribelle, il figliolo maledetto. Eppure entrambi tornano all’ovile, tutte le settimane, piegati al volere paterno. Anch’io sto per andarmene, anch’io farò ritorno, forse, beh, sicuramente. La Moma mi sembra l’unico tocco di umanità nel quadretto, così grassa e profumata di lavanda. Mi guarda e sospira “bambino mio” prima di rientrare in cucina a posare la pentola. Gratitudine per questa serva affettuosa. E fastidio. Come può essere ancora qui, fedele e anacronistica nutrice dei miei fratelli? Trent’anni di servizio in questa dimora d’altri tempi mangiata dal bosco, lontano dalla sua gente e i colori della sua terra. Perché diavolo non se ne va questa vecchia strega nera e lucida come il catrame? Ci ama troppo, dice. Siamo i suoi bambini e morirebbe di tristezza, senza di noi. Scambiamo poche parole e sono già troppe, carcasse di suoni per sentirsi vivi e basta. Eppure siamo qui a succhiare minestra dai cucchiai d’argento e sorridiamo di tanto in tanto. Ma papà no, lui non altera mai la sua smorfia di disgusto. “Figli di cane!” non lo emette con la bocca, no, ma io so leggere nei suoi gesti
troppo rapidi. Afferra la brocca del vino come se volesse sradicarla, con un colpo secco e improvviso. Il liquido rosso ondeggia vorticoso al suo interno ma non trabocca. Ed è una perfetta rappresentazione di quello che gli succede dentro, di quella repulsione atavica che emerge a tradimento. Ci guarda con movimenti nervosi della pupilla e gli emerge quell’impulso di estirpamento. Non so se diretto a noi o al punto nella sua testa in cui è nato il pensiero di noi. Di noi che non abbiamo colpa perché non ci ha tirati sù abbastanza bene. Di noi lasciati tra falchi e cinghiali mentre lui partiva per il Medio Oriente, senza tornare a Natale, né a Pasqua, senza forgiare il nostro destino. Il danno è fatto, ormai, complice la Moma che ci ha sempre difesi e consolati. La mamma, d’altronde, ha preferito delegare la negra. Non sono pensieri ben scanditi ma onde di risentimento e sensazioni vaghe che si agitano come il vino nella brocca. E papà bada bene che non trabocchino a macchiare questo istante di sacralità: la sua famiglia riunita intorno al pasto della domenica. Finiamo la zuppa e nessuno vuole il bis, nonostante le insistenze della Moma: “per secondo solo insalata di pomidori e involtini di melanzana” dice, e guarda ognuno con occhi supplici, ma nessuno risponde. Aurelio fa un cenno distratto in mia direzione e dice: “Allora Massi, non hai più paura del bosco adesso?” È strano: sono cresciuto qui ma la Grande Belva Frusciante mi inquieta, da sempre. Non posso spiegarvi, perché non so tramutarlo in parole, cosa vuol dire vivere nella tana del lupo. È qualcosa che lavora nell’ombra, si ripercuote nei sogni e, non c’è dubbio, ha forgiato nel tempo la mia natura visionaria, quella che riempie il buio di spiriti ed elabora catastrofi sanguinarie, con trame articolate e sempre piuttosto creative. Balbetto “no, no, no” andomi il tovagliolo sui lati della bocca e subito aggiungo “però ci sono i cacciatori di frodo, credo”. Mi scappa. Mi pento prima ancora di finire la frase. Non ho nessuna intenzione di mettermi in questa conversazione con mio fratello, che, infatti, si drizza e si ricompone sulla sedia e ringhia in un unico sibilo: “Dove? Perché? Sei sicuro?” “No, non sono per niente sicuro” rispondo con la bocca piena, senza guardarlo. “E allora perché lo dici? Hai sentito qualcosa?” mi incalza, ma io tento una via
di fuga e guardo mia madre mentre apre le labbra sottili e infila lentamente un pezzetto di pomodoro e le dico “hai sgocciolato, mà” e lascio andare una risata non troppo rumorosa. Frantumi di cristallo nello spazio rarefatto, intenzioni sospese, gesti congelati. Quattro paia d’occhi su di me, inespressivi e viscidi come pesci al mercato. Un vuoto voluttuoso che assaporo come il succo di una ciliegia, finché non mi rimane sulla lingua che un nocciolino spolpato e piuttosto fastidioso e allora sputo la mia frase di getto: “ho sentito odore di morte. Odore di cadavere putrefatto. Forse qualche bestia abbandonata, ma non ho visto niente.” So di aver superato il punto di non ritorno quando Aurelio sbatte violentemente forchetta e coltello sui bordi del piatto, producendo un tale fragore da farci sobbalzare tutti sulle nostre sedie: “Neanche la pantera li ferma quei bastardi!” ringhia piano, come se fosse un pensiero scappato a sua insaputa. Linda lo guarda con un sorriso esasperato e dice: “Stai calmo. Da quando in qua vai dietro alle fantasticherie di Massimo? E poi cos’è sta storia della pantera, eh?” Papà si sovrappone al discorso, già innervosito: “minchiate” dice “è una trovata per scoraggiare i cercatori di funghi, te lo dico io. Guarda caso l’avrebbe avvistata proprio Gianni, al Ponte Torto dice, come se non fosse chiaro che vuole tenere alla larga le orde di ignoranti che vengono a far strage di sottobosco. Bella trovata questa della pantera! Così quest’anno i porcini se li raccoglie tutti lui…” Anche la mamma riesce a incrinare la sua compostezza silenziosa e sempre un po’ formale e cautamente si intromette: “Ma non ne sapevo niente. No ma dico: c’è stata qualche denuncia, da parte di circhi o zoo?” Anch’io sono alquanto incuriosito e senza esprimere alcuna opinione, che d’altronde non ho, drizzo le orecchie e scruto i commensali, uno a uno, mentre un brivido mi elettrizza i peli sulla base della nuca. “Certo che no Amelia!” fa mio padre, stirando quel “no” a oltranza, con un tono che rivela quanto ridicola e meschina giudichi l’intera faccenda. Ma Aurelio si agita, si contorce, fa per parlare, tace. Linda invece ride, con un gorgoglìo sommesso di gola, dice “divertente”, poi a il piatto alla Moma che sta ripulendo la tavola prima di servire il caffè, e continua: “quel cretino di Gianni l’ha sparata grossa!”
Aurelio non si contiene più, gli sudano le tempie, scuote i suoi pochi riccioli e mentre si alza da tavola dice “sarà, ma ha fatto un esposto ai carabinieri. La Guardia Forestale è allertata.” Mi giro di scatto, devo vedere la sua faccia prima che sparisca, capire se ci crede davvero. Mi ha mandato nel Bosco pur credendo in una pantera in libertà? E ha fatto sgradevoli battute di spirito quando mi ha scorto ansimante sul cancello di ingresso? Lo seguo con lo sguardo fino in cucina. Ora maledico la sua falcata sbilenca, quel fascio di muscoli, grasso, peli ispidi e pensieri insondabili, quella testa quasi calva e bruciata dal sole con la corona di riccioli sottili che gli si appiccicano dietro le orecchie in maniera orrenda. Mi ripropongo di ammazzare il suo falco, un giorno, l’unico amico che ha quello stronzo di mio fratello. Lo farò, santo dio, lo farò. Mi si sovrappongono nella testa immagini molto nitide: di me che rido sul Masso delle fanciulle; di me che scendo cauto evitando le chiazze di muschio e gli interstizi sdrucciolevoli; di me che alzo lo sguardo sul sentiero… E poi mi scende un rivolo di sudore lungo la spina dorsale e le immagini si accavalcano frenetiche: una bestia nera lunga un metro e mezzo che mi fissa con occhi fosforescenti. Io paralizzato dal terrore, lei che balza di scatto, ma al rallentatore, con i muscoli tesi in volo e il manto lucido e le fauci spalancate che scoprono denti aguzzi. Poi c’è il mio corpo lacerato in una pozza di sangue scuro e mia madre che urla e singhiozza davanti al mio cadavere irriconoscibile. Scuoto il capo. I riccioli mi frustano la fronte. Ne ho molti di più che mio fratello, un casco di ciocche attorcigliate e castane che mi scendono fin quasi alle spalle: sono decisamente più bello di lui. Ah, ah. Un’onda si origina improvvisa: ha il suo epicentro nel mezzo del torace e mi fa sussultare, prima piano poi con frequenza sempre più ravvicinata finché la rigurgito trasformata in suoni cavernicoli che mi distendono il viso e mi fanno lacrimare gli occhi. Rido porca miseria! Perché c’è un lato comico in tutte le cose, nulla sfugge a questa prospettiva che arriva, immancabilmente, a resettare le altre, che sia benedetta! Rido di gusto e non me ne frega niente se mio padre mi guarda frastornato e mia madre mi fa segno di smetterla. Mi fanno una pena tremenda! Loro che non
conoscono questa semplice tecnica, e si fanno mangiare vivi dallo schifo che gli si accumula dentro, ermeticamente chiuso tra carni malate e rugose. Guardo uno a uno i membri della mia famiglia, compreso Aurelio che è tornato con la caffettiera fumante in mano e il solito tremolìo di perplessità nello sguardo, e non la smetterei più di ridere! Poggio la fronte sul tavolo, per contenermi con le mani lo stomaco percosso da uno spasimo: l’onda non accenna a estinguersi e cavalca libera e gioiosa, facendomi vibrare da capo a piedi. Intanto mi svuoto e non conosco la direzione del tempo e infine un senso di quiete ondulata e amorfa si staglia dentro di me, sublime come la prima alba sul pianeta deserto. Lasciatemi in pace adesso. Sì, grazie, devo preparare la mia valigia e ho bisogno di concentrarmi.
L'ultimo saluto
È lunedì mattina, ore sette e quindici. Sono in cucina e aiuto la Moma a spalmare marmellata di pesche sul pane di segale, a disporre le fette su un piatto dal bordino verde con immagini di grappoli d’uva e foglie autunnali. Sono ancora intorpidito perché non mi sono sciacquato il viso, lo faccio sempre dopo la colazione per non infrangere in maniera troppo drastica la scia di sensazioni oniriche. Mi piace essere qui, in questo stato, con la Moma che non parla mai. Mi piace la cucina, anche se i pensili di legno chiaro con gli altorilievi a forma di mela le danno un’aria da finta baita. Però è grande e ben illuminata, non capisco perché si debba mangiare nel salone, no, non lo capirò mai. Qui c’è un bel tavolo con una lastra di marmo grigio sopra, forse un po’ basso, ma immerso nella luce porporina filtrata dalle tende sottili, appena un velo bordeaux con farfalle ricamate di filo bianco e rosa, le cui ombre svolazzano sul cielo di marmo con grande dolcezza. Ci sono decine di vasetti in bella vista, con origano, timo, the, cannella, anice stellato, chiodi di garofano e tisane di tutti i tipi. Stanno su una mensola con le loro etichette ben allineate e la calligrafia incerta della Moma un po’sbiadita dal tempo. A parte i barattolini in fila c’è un allegro disordine, fatto di frullatori, mestoli, bilance da cucina e un fornetto a microonde su cui stanno bicchieri sbeccati con dentro rametti di rosmarino e finocchietto e basilico, sacchetti di cereali misti accatastati negli angoli, tovaglie ripiegate sopra il frigo con le loro fantasie multicolori. E poi c’è la Moma la cui presenza riempie la stanza, saturandola di fragranze esotiche. Ha un viso ovale senza età, con le gote paffute e gli occhi vicini e leggermente strabici che brillano sulla pelle nera, adornato da un fazzoletto blu a fiori beige. Non so mai esattamente a cosa pensa, la Moma. Non so nemmeno se questo sia il suo vero nome. La guardo mentre versa il latte nel bricco e accende il fornello con un fiammifero, che poi sventola con un movimento deciso dell’avambraccio:
riccioli di fumo azzurrino disegnano geometrie evanescenti e poi sfumano verso il soffitto. Mi a le tazze e io le dispongo sul vassoio. Apre il frigo ed estrae yogurt e un cestello di more fresche, mette tutto sul vassoio. La caffettiera comincia a tremolare sul fuoco, con il suo sfriccichìo di caffèche trabocca un poco dalla guarnizione e poi borbotta fumante spargendo quel suo aroma tostato. La Moma mi sorride e io le sorrido, vorrei dirle addio in un altro modo, più articolato, ma non mi viene in mente una sola parola adatta. È lei a trovare il modo. Mi dice: “fa il bravo”, mi dà uno schiaffetto sulla guancia con la sua manona bicolore, socchiude gli occhi umidi con una vibrazione delle narici, poi aggiunge “e soprattutto studia, come vuole tuo padre”, infine prende il vassoio e si dirige in sala, sculettando un po’. Mia madre è l’unica seduta a tavola, impettita e con lo sguardo fisso in un punto imprecisato davanti a sé. La scia di caffè appena fatto è un richiamo immediato per tutti gli altri: mio padre rientra dal suo giro mattutino intorno alla casa, seguito da Aurelio che ha dato da mangiare a Lenny, Mivar e Kassia. Si dirigono insieme verso il bagno dal quale esce Linda, avvolta in una nuvola di profumo troppo dolce e con indosso un tailleur antracite che le sta malissimo. C’è una leggera frenesia nell’aria: l’agenda del lunedì che prende corpo nel suo conto alla rovescia, gli impegni della settimana che stanno per accaparrarsi ogni attenzione, spingendo sullo sfondo questo rituale di famiglia unita già obsoleto, già archiviato nonostante la sua realtà di corpi che fluiscono, si scontrano, masticano pane e sorseggiano caffè. Linda lascia il caffelatte a metà e corre sù a prendere il suo piccolo trolly color madreperla, ridiscende con la stessa velocità e deposita il suo scrigno a rotelle davanti all’entrata, dove già si accumulano altri bagagli: diversi contenitori con ragù di verdure, crostata di prugne, peperonata, barattoli di conserva, marmellata e melanzane sott’olio, tutto diviso equamente per tre in sacchetti termici di grandi dimensioni. Poi c’è il sacco malconcio di Aurelio, mezzo vuoto, alcune scatole chiuse con lo scotch, una tanica d’olio e, soprattutto, c’è la mia valigia, enorme e bitorzoluta. Un’allegra montagna di effetti personali che sono pezzetti dell’Altra Vita, quella che si svolge lontano dal Podere San Carlo e ora fibrillano impercettibilmente, impazienti di essere collocati nei nuovi spazi esistenziali. Quelli di Linda nel suo grazioso monolocale di via San Lorenzo, a due i dallo Studio Associato
dove esercita la professione (ma tutti intimamente sospettiamo che sia lì a far fotocopie e poco altro). Quelli di Aurelio nel capanno semi-ristrutturato di un maneggio a venti chilometri dal Podere San Carlo, dove fa il tuttofare mentre alleva e addomestica falchi. I miei a Bologna, non so ancora dove. Fra un po’ Linda mi accompagna con la sua Mini rossa fino a Santa Maria Novella e lì salto sul primo treno, ce n’è uno ogni mezz’ora. L’anno accademico inizia fra tre settimane e avrò tutto il tempo per trovare il mio alloggio. Siamo tutti in piedi ora, straniti da un’onda di imbarazzo che ci fa muovere come automi. Tutti i lunedì mattina c’è lo stesso disagio mal dissimulato, gli stessi sorrisini stirati, le stesse brevi parole di circostanza: “mi raccomando”, “non correre”, “ahà”, “stammi bene” e poche altre frasi senza un contenuto preciso, seguite da abbracci rigidi. La novità stavolta è che me ne vado anch’io, e questo aumenta la vischiosità dei movimenti, la dilatazione dei tempi, la ricerca affannosa e muta delle modalità piùconsone al caso. Mio padre mi prende con una stretta sotto l’ascella, mi forza a girarmi del tutto verso di lui e a guardarlo negli occhi. Non dice niente per un tempo che mi sembra lunghissimo. Alzo le sopracciglia per colmare l’attesa, aziono i muscoli agli angoli delle labbra, ben serrate, ma non sono sicuro che l’espressione assomigli a un sorriso. Da dentro è un lavoro accurato di assestamenti dell’epidermide secondo un modello preciso di mimica facciale che dovrebbe comunicare qualcosa del tipo: “Arrivederci Papà, come vedi sono forte e sereno e non dovrai preoccuparti di nulla.” Lui è talmente immobile nel suo contegno un po’ truce che sembra il busto di Mussolini. Esaspero la maschera, respirando piano, e mi viene in mente il muso di Mivar quando sto per rimproverarla e lei si appiattisce ai miei piedi con gli occhi tondi e lucidi e le fauci accasciate a nascondere i denti. Mi sento Mivar. Infine mio padre dice: “entro dicembre il primo esame o ti rompo il collo”, mi punta i suoi occhi azzurro ghiaccio un ultimo istante e si gira di scatto, lasciandomi con la bocca aperta. “Tranquillo papà” lo avrei assicurato, ma non è più il momento. Linda ha già concluso il suo giro di incontri ravvicinati e superato la soglia d’ingresso: è lì che si sbraccia e picchietta l’indice sull’orologio e mi grida “Massimo sbrigati porca miseria!”. Io tiro sù la valigia con uno slancio
improvviso ma la rimetto giù quasi subito: “Solo un attimo per favore” le urlo a mia volta “Non ho salutato la Moma!” e mi precipito in cucina con un nodo alla gola e una sensazione crescente di panico. Sì, solo ora mi rendo conto. Mi sono scordato di lavarmi la faccia e mi risveglio di colpo: me ne vado, santo dio! Abbandono questo nido troppo stretto per contenere la mia grande aurea, così pura e bisognosa di espandersi! È un grande, entusiasmante, giorno! Eppure il mio anelito di libertà suona ora così frivolo, improvvisamente così sciocco e infantile. E non mio. Di sicuro, c’è un altro Massimo che desidera questo: ha le mie stesse sembianze ma è mille volte più sicuro e sfrontato. Io invece… Ma che dico? Cosa diavolo mi metto a pensare? Sollievo misto a paura. “Moma dove sei?”. Espansione e dissoluzione, come una roulette che gira troppo veloce e fonde il rosso e il nero in un’unica realtà che li contiene entrambi, in mutua dipendenza tra loro per dar luogo a un colore infinitamente complesso. Questa è la mia attuale Dimensione, qui comincia la mia Nascita o la mia Morte, a seconda di dove si fermerà la roulette. “Moma cristo dove sei?” Per ora sono entrambe le cose, sono inizio e fine, terrore e gioia, attaccamento e liberazione, in tutte le sfaccettature possibili, che mi esplodono e implodono dentro a velocità della luce. È quasi un’intuizione divina, il Tutto che si manifesta nel suo intreccio di Opposti, e mi travolge. Me ne vado per la mia strada. "Moma, dove cazzo ti sei nascosta? Mi fischiano le orecchie. Non è in cucina, né in bagno. Apro la dispensa, lo sgabuzzino, guardo fuori dalla finestra, mi sporgo, la chiamo. Busso alla porta della sua stanzetta e la spalanco senza aspettare. Salgo le scale quattro gradini alla volta tentando di dominare la mia parte visionaria che già sogghigna compiaciuta. Apro la stanza dei miei. “Moma?” Poi spalanco a raffica i due bagni e le altre tre camere, gettando rapide occhiate in ogni direzione. Eccola che dio sia lodato!
Ma…cosa? Il suo grasso corpo avvolto in tessuti floreali, a tinte forti, è riverso immobile sul mio letto, di fianco, tra le lenzuola ancora sfatte. L’Universo e tutto il mio vorticoso Futuro si fermano sull’orlo di un baratro. Silenzio. Il mio sistema limbico dichiara lo stato di emergenza, in pratica sospende le facoltà mentali e consegna il timone ai sensi, che si affinano come antenne nella tempesta emozionale mentre avanzo a mo’ di felino, e allora noto che il corpo della Moma dondola impercettibilmente: respira o forse piange. Nessuna prospettiva comica giunge in mio soccorso e vomito l’ansia con un getto disperato. “Brutta strega sei diventata sorda?” le urlo con violenza inaudita e il cuore in gola, l’istinto di sopravvivenza pronto a sferrare attacchi peggiori. Lei si volta piano e le esce un filo di voce “no tesoro mio”, ha il viso stravolto, di colpo mi sembra vecchissima. Mi sento esausto, vorrei urlare o ridere o piangere, invece striscio fino a lei e mi sdraio anch’io, sul bordo del letto, la abbraccio di schiena e mi cala un sonno tremendo. Cosa darei per restare così tutto il giorno! In quel torpore dolce come una nenia. Forse mi addormento, per un’ora o un minuto, non saprei dire. E sogno che tira un vento forte intorno al podere San Carlo e io guardo dalla finestra il tornado di foglie rosse e nere che si avvicina, minaccioso e affascinante. Io sono al sicuro immerso nella pace primordiale della stanza e osservo il turbinare delle foglie, con un effetto prima violaceo e poi cangiante: nero, blu, indaco, ogni colore dello spettro, in alternanza veloce e pulsante. Posso osservare indisturbato, mi sento protetto e poi non sono solo: c’è una presenza rassicurante alle mie spalle, che dice “Linda ti chiama”. L’uragano è sul tetto oramai, quasi non lo vedo, cioè mi dovrei sporgere dalla finestra ma non posso aprire il vetro, anche se sono così curioso! Però non è prudente. “Massimo?” dice la persona, “Massimo?” ripete ancora dolcemente, lontana. Poi c’è un movimento inter-dimensionale, il mulinello di foglie o sassi o altro che dal tetto precipita al suolo causando una piccola scossa tellurica, e mi trovo sul letto, bagnato fradicio di sudore, con gli occhi della Moma davanti, vicinissimi, ancora rossi ma quasi sorridenti. Balzo a sedere sul letto: “vecchia strega” le ripeto" ora ti devo proprio salutare. Mi sa che si è fatto tardi, eh?” Mi alzo in piedi stirandomi gli indumenti con la
mano e guardandola di soppiatto. Lei in piedi, composta, con le mani intrecciate sul grembiule fiorito. Ci guardiamo e ci abbracciamo rapidamente, come vecchi amici dal fare solenne. Esco dalla stanza mentre mi giungono dal piano di sotto le parole di Linda. Dice “dio santo che fratello imbecille”. Rallento, mi fermo, torno indietro di un o e faccio capolino: la Moma è ancora ferma nella stessa posizione. Alzo il mento e le chiedo “e la pantera Moma? Tu ci credi?” Il sorriso le si incrina. “Vai” dice.
Finalmente libero
Per ora l’esperienza assomiglia più a una Rinascita, a meno che la Morte non sia proprio questo: una Nascita senza fine, un varco sulle possibilità illimitate che si rinnova con lo stesso stupore, istante dopo istante. Cammino sotto i portici che si dipanano fedelmente ai due lati della strada e provo uno strano senso di libertà, forse causato dal fatto che non c’è bisogno di portare con sé l’ombrello, in questa città. E muovermi senza l’impaccio di quegli odiosi bastoni mi fa sentire inspiegabilmente vivo, selvaggio, dinamico. La circostanza che, almeno il clima, non condizioni il mio bisogno primario di esplorazione urbana è una conquista che non finisce di sorprendermi. Anche l’esplorazione in sé ha un sapore nuovo perché, qui, non sono solo. Ed è incredibile la differenza! Il mondo intero è un’immensa prigione per chi vive in solitudine. Il Podere San Carlo era questo: una prospettiva non condivisa che trasformava lo spazio in una cella dorata, fragile, assediata dalla Montagna con i mille occhi e infiniti tentacoli. Tutti siamo chiusi in una prigione. La mia me la sono costruita da solo, ma non per questo è più facile uscirne. Ora però questa partecipazione alle esistenze altrui, a vari livelli d’intensità, mi regala un angolo visuale del tutto nuovo, che diventa il punto di partenza per una ricognizione che va da me a fuori di me e viceversa, in una spirale di vitalità che si auto alimenta, e mi fa sentire libero. Libero da cosa poi? Libero dal Mostro-Selva. E dai vincoli familiari, così paurosamente indecifrabili. E dalla Moma, anche. Ma no, no! Non è questo il punto: sono libero di fare, libero di essere. C’è differenza. Sono libero di camminare leggero con la testa tra le nuvole, mentre il ticchettìo costante della pioggia mi rilassa come un mantra celeste, purificatore: mi verrebbe voglia di correre fino a spiccare il volo! E scrutare dall’alto i Frequentatori di Portici sul lastricato di graniglia marrone, cogliere la mia sagoma in volo riflessa nelle vetrine, sorridere a questa immagine di me, poi virare di scatto, oltreare l’arco e dileguarmi come un Angelo di vapore acqueo nel cielo saturo di pioggia.
Penso che i sogni ricorrenti in cui le mie eggiate si trasformano in corsette leggiadre e poi in facili decolli contengano precise indicazioni su come trascendere la forza di gravità. So che un giorno sarò in grado di ricordarmene, in fondo sono già grato al mio inconscio che persiste nel mostrarmi la tecnica: sì, è qualcosa che ha a che fare con la visione di me e del mondo, con il mio sentirmi contemplativo e folle, dev’essere questo il pensiero felice di Peter Pan… Quando saprò rendere perpetua l’intuizione che nei miei piedi c’è un nuovo orizzonte prospettico, sarà facile staccarli da terra! È solo una questione di allenamento. Per ora cammino, invece, soro i viandanti con agilità e vado verso la via Broccaindosso. È lì che abito, in un appartamento buio e malconcio anche detto La Casa Treno, per via del lungo corridoio su cui si aprono le nostre stanze piccole come scompartimenti di seconda classe. Ognuna ha un letto singolo, una scrivania per accatastare gli oggetti personali, un armadio di compensato coi cassettini in fondo e una finestra che dà sul cavedio interno del palazzo, sempre aperta per dissimulare il tanfo di posacenere. Eppure siamo molto orgogliosi del nostro alloggio, così decadente e poetico, con il lungo serpente-arcobaleno che si snoda paffuto sulla parete del corridoio, disegnato da Marysol l’artista messicana amica di Gionata. Ma mio padre non lo capisce e non fa che pregarmi di trovare un’altra casa, che i soldi di certo non mi mancano. Io esito a rispondere ma poi sbotto nella mia proverbiale risata: “Non è così male, papà. Ho la mia stanza e dei coinquilini con cui vado d’accordo. Questa è la cosa piùimportante, no?” “Se ti riferisci a quei tre perditempo… ma dove ce l’hai il cervello?” dice lui, di solito, in un repertorio ridotto di varianti linguistiche. Allora io lo guardo di sguincio, con le ciglia folte sugli occhi spalancati ma poi rido ancora, liberando il mio miscuglio di sensazioni ambigue in una cascata sonora che mi percuote come una crisi epilettica. Poi, come sempre, torna la quiete, lo spazio vergine e muto di quand’ero bambino, e non ricordo più nulla, tantomeno di staccare annunci in bacheca per abbandonare la Casa Treno. Mia sorella dice che son fatto così. Dice: “La vita gli scorre addosso e non lascia tracce sulla pelle, diafana come un campo di neve rimestata dal vento, senza impronte né fango”. E io la ringrazio, solo per questo, davvero. Non mi sopporta ma poi le escono queste parole ispirate, e io mi vedo come dal di fuori, per incanto, gongolante per l’effigie da romanzo che mi appiccica addosso.
Quando scorge il mio sorrisetto pago di gratitudine, lei repentina precisa: “ehi, è un modo per dire che sei pallido come un cadavere fratello mio”. Figurarsi se mi dà soddisfazione. Ha la sua immagine di Avvocato Sorella Maggiore Compensatrice di Aspetti Irrazionali da mantenere, e lo capisco. Io sono l’unico a studiare Ingegneria. Poi ci sono Gionata, Ruben e Carlino detto il Freccia, tutti di Scienze Politiche. Apro la porta di casa, un po’affannato per questo volo non privo di gravità, e mi dirigo subito in cucina. Mi riempio un bicchiere d’acqua dal rubinetto, sa pesantemente di cloro ma la butto giùin due sorsi e me ne riempio un altro. Non c’è verso di ricordarsi di comprare l’acqua, in questa casa. Solo birre di qualità scadente, in bottiglie da 66 cl, ma io non bevo alcolici da quando avevo otto anni e alla sagra delle castagne un punch bevuto per scherzo mi ha mandato all’ospedale. Le note della chitarra elettrica di Ruben mi arrivano, incerte e lievemente distorte, dalla penultima stanza in fondo, insieme a una voce di donna che sussurra qualcosa di incomprensibile. Attratto dalla musicalità dell’insieme mi spingo furtivamente lungo il corridoio tagliato da una fetta di luce che sbuca dalla porta socchiusa. Dentro il ritaglio di luce una nuvola di striature biancastre danza con una voluttàche mi piace, anche se l’odore è pungente, selvatico, di stalla in fiamme. La voce di donna non cessa di riempire lo spazio e contrastare le note elettriche, con il suo bisbiglio continuo e il timbro vellutato, quasi ipnotico, mentre io avanzo con lentezza spasmodica per non rompere quello strano incantesimo. Quando arrivo sulla soglia, scorgo la figuretta esile di Ruben seduto sul bordo del letto. Ha il volto nascosto tra i capelli ebano che rimbalzano ritmicamente sulle corde della chitarra e lasciano solo uno spiraglio sull’occhio socchiuso. Dalle sue labbra carnose pende un mozzicone grosso e marroncino, ancora fumante. Ma non vedo Lei. La sento oltre la porta, probabilmente accucciata nell’angolo, immersa nella sua litania e incurante delle sonorità maldestre che Ruben produce con autentico rapimento. È un effetto che mi fa venire la pelle d’oca. Santo dio Ruben, abbassa il volume! Ora scatto all’improvviso, esco dalla penombra fumosa del corridoio stagliandomi nel fascio luminoso con tutta la mia possanza, almeno mi pare, le mani sui fianchi e i muscoli gonfi che mi sembra d’essere Hermes, il dio greco disceso dall’Olimpo per un messaggio urgente ai mortali.
“Ehi” sentenzio, colpito io stesso dal coraggio della mia incursione. Non ho nient’altro da aggiungere. Mi sembra già, più che una parola dal significato incerto, un Atto vero e proprio che, infatti, li destabilizza. Ah, ah! Ruben trasale, a metà dell’ottava che stava risalendo con dovizia scolastica, e Lei, Lei, mi vede. Alza la testa dal libricino sgualcito che ha tra le mani aperte. È una testa piena di capelli, dio mio che criniera! Senza esitazione nè filtri, Mi Vede. Addirittura sorride, dopo un istante o due. Ruben mi a il mozzicone forse ormai spento, credo lo faccia per difesa, con l’intenzione di arrestare il flusso visibile che c’ètra noi. “Uh, che spavento mi hai fatto” dice ancora un po’ trasognato “non ti ho sentito arrivare”. Guarda lei, guarda me: “vi conoscete?” La nostra risposta arriva con lo stesso ritardo: “No” “Si” vocalizziamo all’unisono, con gli occhi interrogativi di Ruben che vanno da me, a Lei, a me: “allora vi conoscete si o no?” Guardo la sua corporatura minuta, il seno generoso che deforma la faccia psichedelica di Marylin Monroe stampata sulla maglietta verde, la valanga di capelli corvini e quegli occhi cerulei, capaci di corrente magnetica. “No, non mi pare” dico io senza sottrarmi al magnetismo. Lei richiude il libricino e lo posa affianco a sé, distende le gambe sul pavimento e fa uno sbuffo piuttosto sonoro, mentre incrocia le braccia per dare sfogo alla sua delusione, in fondo divertita. “Ma certo che ci conosciamo”. Ride, senza dirmi dove, quando, niente. Io non mi sono ancora mosso, sono lì in piedi accanto allo stipite, un po’scomodo e ormai privo dell’aura celeste di cui mi sentivo pervaso un attimo prima, e dico “oh, allora? Possibile che non mi ricordi di te?” “Tu sei Massi, il fratellino di Aurelio.” Mi avvicino, per guardarla meglio, sorpreso. “Beh, ‘fratellino’…” in fondo sono un uomo fatto. Ma continuo a non ricordare. “Allora sei guarito?” fa lei senza darsi minimamente pena del mio sguardo ancora avido di spiegazioni. Ruben è in bilico tra noi con le dita sull’accordo interrotto, spazientito o forse più incuriosito di me. “…’guarito’??” eh, ho questo modo di ricalcare le sue parole, sempre
piùincredulo e spaesato. “Sì, guarito. Quando ti ho conosciuto non parlavi proprio. Aurelio mi ha detto che forse eri autistico, malato, non so.” Cavolo! No, non mi sento invaso né ferito, sono solo stupefatto per questa forma non affettata di comunicazione, diretta, pulita. Mi siedo anch’io sul letto di Ruben, senza sentirmi inopportuno. Sono stato tirato dentro, faccio parte della situazione e paradossalmente ne sono il protagonista. È tutto ribaltato, niente più note né poesie sussurrate, ma frammenti di vita (mia) scagliati a caso da una sconosciuta incredibilmente seduttiva. “Scusa tanto, ma tu chi diavolo sei?” “Uè! Ma oltre che muto eri proprio sulle nuvole, te!” Ride ancora, bella, spontanea, con i seni che le sobbalzano tra le labbra fuxia di Marylin. “Sono Carmen!” grida, quasi, e poi con tono più didascalico comincia “vediamo, sì, saranno ati sei o sette anni…” Faccio rapidamente il calcolo: avevo circa quattordici anni, Lei forse venti. “In effetti ci siamo visti due volte, eh! È normale che non ti ricordi, ma io sì. Non sei cambiato per niente Massimo.” È contenta, nel dirlo, le brillano gli occhi come due galassie. “Sono stata con tuo fratello. Dai non ti ricordi quando è venuto via di casa? Era per vivere con me, giù al capanno.” Aspetta una reazione che non si configura nella maniera più assoluta. Allora prosegue, con una pazienza dolcissima che mi fa languire mentre cerco il suo volto tra i miei ricordi. “Io lavoravo a Montiaperti, la comunità di recupero per tossicodipendenti. Portavamo i ragazzi al maneggio, ogni tanto. È lì che ho conosciuto Aurelio” il tono cala, si è già stufata di evocare il ato e così accelera. “Poi ci siamo innamorati, poi abbiamo messo a posto il capanno, ci siamo andati a vivere, è durata un mese, ho lasciato lui, ho lasciato Montiaperti e sono venuta a Bologna. Fine della storia. E in tutto ciò, sono venuta due volte al Podere San Carlo, una volta a un pranzo della domenica, che angoscia! E l’altra volta a portare le stoffe
a quella signora di colore, come si chiamava? Mi ci ha fatto delle gonne stupende, vedessi.” “La Moma” riesco a dire, infine, costernato dalle immagini che lentamente prendono forma nella mia mente, mentre Ruben mi lancia occhiate di inspiegabile complicità. “E tu, ridevi in un modo che mi piaceva da morire” prosegue ammiccante, solare, con gli occhi grigio perla che, per un istante brevissimo, diventano argento “ma non parlavi mai. Perché?” “Perché ero più intelligente, allora” È un attimo, un vuoto di sospensione straordinariamente riuscito, prima che le nostre voci si intreccino in un’esplosione di risa piene, catartiche, di pancia, con la stessa galoppante frequenza. Anche Ruben, prima esita, poi partecipa alla rivelazione con la sua ilarità fatta di risucchi di fiato intermittenti, lievemente grotteschi: non è geloso, grazie al cielo, è con noi. L’atmosfera si trasforma rapidamente: c’è un rumore di chiavi sulla toppa, la porta che sbatte, Gionata e il Freccia che parlano accavallando considerazioni e postille, in tono concitato. Mi alzo di scatto, con lieve imbarazzo ora che le risa si sono smorzate lasciando lo spazio troppo nudo. Guardo oltre la finestra il muro grigio-verdognolo del cavedio, cercando una scusa qualsiasi per ritirarmi con eleganza: “devo studiare ragazzi. Domani ho l’esame.” Non è affatto una scusa, penso sollevato, è proprio la verità! E il sollievo, istantaneamente, diventa terrore.
L'anima della matematica
Barricato nella mia stanzetta guardo i libri di Analisi Matematica 1. Gionata ha messo su il caffè e me ne ha portata una tazzina fumante, da vero amico. Empatizza, lui. No, il Freccia no. Il Freccia ridacchia e fa battute su mio padre (non mi capacito di tanta sfrontatezza), mentre di là Ruben e Carmen hanno ripreso i loro esperimenti poetico sonori. Carmen. Battito irregolare. Ansia. Ho bisogno di concentrarmi. Sfoglio il libro sottolineato per intero. Quasi tutte le formule sono cerchiate con matite multicolore e lo sguardo mi cade sui pochi frammenti di pagine lasciati intonsi. Mi chiedo: davvero non è importante questo? Cerco una matita nel cassetto e completo istintivamente l’opera: altroché se è mportante. Continuo a sfogliare, prima in avanti, poi a un tratto inverto la direzione di lettura, poi di nuovo in avanti. Mi soffermo qua e là sulle formule più complesse e ne esamino l’andamento rigoroso, marziale: sotto c’è qualcosa per me. Oltre la fila di simboli che si snodano perentori e allusivi come in un linguaggio esoterico sento emergere un richiamo profondo, ma non riesco a decifrarlo, non riesco. Ha a che fare con mio padre, di questo sono sicuro. Li guardo sfilare cauti verso la loro stessa disfatta, quando cioè saranno ridotti a Uno. Tanti Uguale Uno, e viceversa, disfatta o trionfo che sia prima o poi l’equazione si cristallizza, mi pare pure con un certo entusiasmo, che è poi l’odore della carta non patinata, quella ruvida e porosa che trasuda sensazioni presto accolte dalle dita. Controllo altre formulazioni matematiche: sì, è unanime, si tratta di frasi rituali da pronunciare in silenzio, e solo dopo, a tempo debito, un bocciolo di senso vedrà la luce del sole. La vista si sfoca mescolando tutti quei segnetti neri che convergono in una sagoma tridimensionale, ah! Che cos’è? Un uccello, o una foca! O un feto i cui atomi scivolano gli uni dentro gli altri con un’amorevolezza plasmante. In ogni caso, sto assistendo a qualcosa di straordinario: qui sotto qualcosa si muove, manifesta la sua presenza senza scopo, senza regole. Solo ora mi sovviene che
sto studiando Analisi 1 e questa è, a tutti gli effetti, la chiave di volta: la matematica ha un’anima, così come mio padre. Oltre l’esercito delle certezze, sobbolle l’informe e gioiosa Coscienza degli Inferi. Creativa, minacciosa e, necessariamente, piena di amore. Pago, posso chiudere il libro. È ormai buio, sono stanco e, per oggi, ho studiato abbastanza.
L'esame
La sveglia trilla solo una volta e con prontezza ne arresto il suono: sono già sveglio da più di un’ora, col fiato corto e lo stomaco contratto per l’agitazione. A dicembre l’esame non l’ho dato, non mi sono nemmeno presentato a dire il vero, ma mi è parso normale vista la mole di questo imprescindibile o. “Vorrei essere sicuro” ho detto a mia madre. Poi è stata Linda a intercedere con papà: “nessuno si è mai liberato di Analisi 1 prima di marzo” gli ha assicurato con scaltra dolcezza durante le vacanze natalizie “tranne te, naturalmente”. È stato allora che ho capito in quale trappola mi ero cacciato: ricalcando le scelte di mio padre, mi condannavo a confermarmi inferiore. O a ben guardare era lui che, sospingendomi sulla sua strada, cercava un’ultima, tragica testimonianza del suo antico splendore. Ricordo che quand’ero piccolo a volte mi chiamava al suo cospetto, mi sedeva sulle sue ginocchia e per un momento sorrideva, rapito. Oh che gesto nutriente era per me! Poi mi parlava con quel suo accento da nobiltà siciliana, cerimonioso e schietto in ugual misura, e in ultimo mi esortava, fiducioso: “sii come me: forte, audace e intelligente!”. Io bevevo l’auspicio con tutti i pori della pelle, incantato e vibrante. Ma il suo sorriso evaporava in fretta. Mi metteva giù con violenza, forse saturo di inutili smancerie ricomponeva il profilo severo e succedeva. Succedeva che i suoi occhi, stringendosi con impercettibile movimento dello zigomo, mi dicevano distintamente: “non sarai mai come me, mai”. Non riesco a spiegare con precisione come hanno agito in me queste ambigue direttive. Per non sbagliare, mi sono concesso un lungo silenzio. Forse avrei dovuto fare come Aurelio, che ha sposato con rabbia ogni rinnego paterno, e in quest’opposizione ha trovato la sua più o meno stabile identità. O invece èstata Linda la più furba: indifferente, evitante, autonoma. Non so. Quanto a me, uscito dal mio silenzio, ho capito di non avere scelte: le vie tortuose mi procuravano fitte di panico, proprio come i sentieri occultati nell’ombra spinosa del Bosco.
E ora sono qui che mi lavo i denti e nello specchio vedo un uomo. Mi sforzo di crederci. Quell’uomo con un filo di barba e la fronte ingarbugliata di ricci sono proprio io. Diverso da tutti, oserei dire drammaticamente unico. Preoccupante? No, se non si scava troppo. A uno sguardo sufficientemente distratto, la superficie è senza increspature. Il libretto universitario l’ho preso. Gli appunti anche, per riare durante l’attesa. Mi dirigo a piedi, naturalmente, così che possa ritrovare nella rassicurante struttura urbanail mio centro di gravità. Oh non è difficile! Mi sento già meglio. Soro i anti mattutini che già animano Bologna con i loro ticchettii di i e conto i piloni dei portici, facendo attenzione a non pestarne la traiettoria che prosegue sul lastricato ove cammino. No, non sono un ossessivo compulsivo: è un gioco che ho sempre fatto con i lampioni, non è che deve esserci per forza una spiegazione clinica. In un batter d’occhio sono in Facoltà, c’è già un bel viavai di studenti che salgono, scendono, si accalcano davanti alle bacheche. Mi intrufolo anch’io nella mischia e cerco di capire in quale aula si terrà l’esame: cerco un cartello col nome del professore o della materia, un’indicazione qualsiasi. Eccolo: “esame di Analisi Matematica 1 aula 4 secondo piano”. Sotto, scritto a penna con calligrafia inclinata e furtiva, si legge “suca”con la A finale cerchiata e un piccolo pene di accompagnamento. Salgo le scale ed entro in aula 4, una piccola aula magna con alti gradini e banchi di legno. Prendo posto in una delle ultime file, saluto il mio vicino che sta riando un bignami abbastanza sottile da non essere notato sotto i fogli. Lui fa un cenno della mano senza guardarmi. Sono pronto ad affrontare il mio destino. Ah! Che solenne! Sorrido divertito, come al solito con spostamenti d’aria piuttosto vistosi, ma faccio attenzione a non emettere suoni, per non disturbare l’ansioso vicino del bignami. Il professore è in ritardo di almeno un quarto d’ora e l’aria è densa di fiati in animato brusio. Si aggiunge un odore di vecchi banchi di legno e una punta lontana di ammoniaca. L’attesa ha sedato definitivamente le mie paure quando entra una piccola elegante assistente con lo chignon e posa un plico di fogli sul bordo della cattedra. Guardo un’ultima volta i miei appunti: mi sembrano una successione di geroglifici, questa volta privi di anime giocherellone o metafore sull’inconscio collettivo. Metto via, subito. Ed estraggo quattro penne nere. Nel frattempo avverto il corpo serpentino dell’assistente avvicinarsi inesorabilmente a me. Sta
distribuendo i testi d’esame ed è già qui, sulla mia fila. Mi a un foglio, io lo soppeso tra pollice e indice ma lei non lo ha ancora lasciato, lo trattiene per una frazione di secondo di troppo così alzo lo sguardo e, per la seconda volta in ventiquattro ore, La vedo. “In bocca al lupo, Massimo” dice sottovoce. Mi strizza l’occhio, pure, ed è già oltre, oltre il vicino del bignami, e poi giù gradino dopo gradino. Come ha fatto a racchiudere la sua criniera in quell’ovetto intrecciato sulla testa? Questa è la domanda più sbalorditiva. Segue un rapido assestarsi di corpi e un fruscio di fogli e un crepitio di penne e altri accessori sui banchi, mentre Carmen impartisce istruzioni che non ascolto perché mi perdo, subito, nell’onda calda del suo timbro di voce. Poi di botto il silenzio, interrotto qua e là da radi colpi di tosse. Su, diamoci da fare!
La scomparsa di Moma
Aurelio guida tagliando ogni curva con marce basse che fanno stridere il motore. Io lo guardo mentre fuma avidamente la sua sigaretta. Ho troppe cose da dire, personaggi da raccontare, battute da fare. Ce le ho tutte sulla punta della lingua, eppure un istinto atavico di protezione me le fa inghiottire prima di pronunciarle. Un silenzio elettrico sfavilla nell’abitacolo, denso di scenette che si accavallano festosamente: le ore piccole nella Casa Treno, l’incontro inaspettato con Carmen, la vita piena di Bologna con le sue feste studentesche e tutto il resto, e gli esami universitari ati con dignità, ne ho dati ben cinque! Ma non c’è verso: Aurelio è blindato in un suo mondo, con muri di ghiaccio invalicabili. Ricordo ancora quel suo modo di aggrottare le sopracciglia e storcere il naso. Ora fatico a comprenderlo, a tollerarlo: mi sembra che la mia nuova vita dovrebbe avere, in questo frangente, un’attenzione fraterna più partecipe. Lui getta la sigaretta dal finestrino e accende lo stereo. Sorrido per queste sue inconsapevoli contraddizioni: Aurelio, l’eroe ambientalista, guida come un pirata e getta mozziconi accesi. Ah, ah! Le mie risa volutamente non trattenute si mescolano con la chitarra e la voce dei Led Zeppelin, Radio Capital, e lui dice “ascolta questa, cretino” ma senza cattiveria, poi mi lancia un’occhiata così rapida che non riesco a intercettarla, ed è tutto come prima: racconti che fluttuano inespressi nello spazio siderale. Però ora si muovono in maniera struggente al ritmo di Stairway to Heaven, ed è bellissimo. Una colonna sonora perfetta per i miei ricordi ancora vividi! Aurelio muove ritmicamente il capo e sfreccia su per la provinciale, curva dopo curva. Va bene così, d’altronde. Ho forse mai chiesto a mio fratello che mi raccontasse la sua vita al maneggio? E allora lasciamo che la musica parli, lasciamo che l’anima scappi fuori dal corpo, turbinando sulla scala per il Paradiso. Il resto non conta. Quando arriviamo al cimitero Aurelio frena bruscamente e spegne il motore. Lo
sterrato per il Podere San Carlo rimane sulla sinistra, racchiuso fra i cipressi sotto il cielo violaceo del tramonto. Il ghiaino a quest’ora del giorno assume una fluorescenza lattea che contrasta con tutto, indicando la rotta come una pista d’atterraggio. La musica si smorza lentamente fino a diventare un fruscìo e Aurelio, ora, mi guarda. L’eco dell’ultima canzone mi trattiene nello stato sognante del viaggio per qualche frazione di secondo, poi all’improvviso mi raggelo e attendo, senza distogliere la vista dal muro imponente e giallastro del cimitero. La notte cala con una rapidità sconcertante. Sento che preferirei dissolvermi in essa, per non sentire il battito sordo nel petto di Aurelio, per non sapere cosa sta per dirmi. Il sentiero di casa è solo un po’più opaco ma ancora candido, e mi chiama, lampeggia, ma io non posso imboccarlo. Come in un sogno vorrei scappare ma i miei arti sono pesantissimi nell’aria compatta e vischiosa, scossi da uno sforzo muscolare immane, eppure assolutamente immobili. “Cosa c’è?” chiedo, senza osare guardarlo. “Ti devo dire una cosa.” “Dilla, allora”. Mi volto verso di lui: la suspance ha raggiunto il suo apice. Ma lui non parla, anche se il labbro inferiore sussulta in un modo che non gli avevo mai visto. Il suo sguardo lunare ha una vibrazione patetica che mi attraversa e si proietta lontano, oltre le luci del paese. “Cosa è successo? Parla.” “Avrei dovuto parlartene prima.” Lo incito con un’espressione benevola che vorrebbe comunicare una frase del tipo: “va bene fratello, puoi farlo adesso”. Cerco di mantenermi calmo. La mia natura visionaria avrebbe già intessuto trame apocalittiche se non fosse che, per la prima volta nella mia vita, mi sento più forte di lui. “Ecco… La mamma mi ha raccomandato di avvisarti. Così ti prepari, capito?” “Perché dovrei prepararmi Aurelio? Mi spieghi?” “Perché non si fanno scenate davanti a papà. Perché papà è furioso, cazzo. E la
mamma si sente persa.” “Cosa…?” “Io me ne frego. Buon per lei in fondo, ha fatto bene. Ma cos’è tutta questa tragedia? Nessuno ha mai impedito che accadesse. Nessuno.” “Ehi, non c’è niente di sensato in quello che stai dicendo, te ne rendi conto?” L’aria è diventata irrespirabile: tiro giù il finestrino e bevo un respiro profondo di notte, di luna e di resina, mentre un grillo canta poco distante, nella brezza leggera del crepuscolo. “Va bene…” la sua voce è risoluta. Inspira d’un fiato e dice “la Moma è sparita” La Moma è sparita, ripeto piano dentro di me, cercando il senso di quelle parole. Cosa mi aspettavo? Cosa significa? Non capisco, mi sfugge il contenuto semantico del verbo sparire, i miei pensieri si frazionano e mi lasciano ebete, stanco, confuso. “Mercoledì. La mamma si è alzata e non l’ha trovata. L’ha cercata in casa, in giardino, niente. Ha aspettato che tornasse, ma evidentemente non è tornata.” Sorride con una smorfia amara e prosegue: “In camera sua c’era un ordine assoluto. La trapunta ben rimboccata nel letto, gli scaffali ordinati e il pavimento perfettamente lucido. Ti rendi conto? In trent’anni quel bugigattolo non ha mai assaggiato la candeggina, te lo dico io.C’era anche un mazzetto di lavanda fresca sul tavolino, tenuto da un filo di rafia. Assurdo, no?” “E i vestiti, Aurelio? I vestiti non c’erano? Si è presa una vacanza, vedrai. Se lo merita porca miseria”. “No Massi, i vestiti erano nell’armadio, maniacalmente ripiegati e cosparsi di lavanda. È ancora tutto così. Puoi vedere tu stesso…”. “Ma come? È andata via così, senza dire niente? Non è possibile. Ci sarà pure un biglietto, due righe in cui si scusa, e dice che tornerà, e…”. “Niente.” “…un indirizzo, forse. Qualcuno del suo Paese che…”
“Smettila! Ti ho detto che è sparita e basta.”Tira giù la cerniera del giubbotto, infila la mano nel taschino ed estrae il pacchetto di sigarette, ne sfila una con rabbia. “Cazzo, siamo andati via tutti! Rimaneva per te Massi, ma ora dimmelo te che senso aveva, dimmelo!” Accende la sigaretta sbuffando un fiotto di fumo disgustoso: mi dà la nausea. Quello che dice mi dà la nausea. Perché la colpa è mia, è questo che intende. La colpa è mia se sono l’ultimo dei figli. “Ma allora perché non si è portata via niente?” “Che ne so” dice, con un filo di voce improvvisamente afflitto, assorto in una possibile trama che, lo sento, si sta dipanando nella sua mente. È una mia impressione probabilmente, ma i suoi occhi si sono velati. Non è da lui piangere. Senza aggiungere altro aspira l’ultima boccata di fumo. Le prime stelle brillano all’orizzonte, ma il grillo ha smesso di cantare. Aurelio ha messo già in moto e lentamente imbocca il sentiero di casa. È di nuovo chiuso nel suo mondo di pensieri foschi e non si dà pena se io scalpito, fremo, rido, ululo come un cane ferito. Forse sono pazzo! Non è immortale mia madre? Non ha forse il dovere di esserci, una madre? La gonna immensa su cui mi arrampicavo piangente mi appare, ora come allora, un cielo infinito che mi sovrasta, un profluvio di tinte geometriche e odori che mi accoglie con l’indulgenza di un ventre natio. Ho l’immediata certezza che Moma sia il nome che le ho assegnato, ancora in fasce: sento distintamente il suono incerto che vibra nell’aria, la mia voce che formula il primo atto d’amore. Non spetta a me stabilire se è stato giusto o sbagliato! La mia furbizia di bimbo, o incondizionata saggezza, mi ha spinto a scegliere un Nome che, per quanto simile a Mamma, fosse per tutti un Altro Nome. “Mo-ma”ripeto ora, vent’anni dopo, due sillabe spezzate dai singhiozzi, borbottate con la mia voce da uomo. Goffe e tardive, non c’èche dire. Respiro piano e sorrido, troppo stanco per assecondare l’onda che cavalca piano tra lo stomaco e il pube. Aurelio ha lasciato lo sportello aperto mentre traffica con il lucchetto arrugginito del cancello scorrevole e impreca a denti stretti. Quando si risiede ha un’espressione basita. Tarda a varcare la soglia del Podere San Carlo e mi guarda, turbato. Io sobbalzo con flebili alzate di spalla: “la verità” gli dico “devi dirmi la verità.”
“Ora no” mi dice.
Zio Guglielmo
Le finestre del Podere San Carlo sono tutte illuminate. Una luce lunare, tenue e lattiginosa, si riversa stancamente sul piazzale, fino al muro di cipressi che delimitano la proprietà e sussurrano. Un brezza improvvisa si infila tra le chiome bianche di luce e mi sospinge con piccole raffiche verso l’ingresso del podere, con boati sordi di vento e foglie che sembrano esortarmi. Dicono: “Vai e torna in fretta” Tornare a Bologna, il mio nuovo centro di gravità. Questo pensiero mi dà improvvisamente forza, eppure dura un attimo, troppo poco. Aurelio ha aperto la porta e io mi sento inesorabilmente risucchiato. Un buco nero fatto di dolore magmatico e finzione mi attrae a sé con violenza e io so che lo devo attraversare, non posso esimermi. È la mia storia, il mio copione che forse ho scelto con raziocinio in un lontano ato, in una dimensione pre-natale in cui tutto ciò aveva un suo imperscrutabile senso. È già scritto. Ma il peso resta, anzi la vulnerabilità aumenta. E le gambe mi tremano, pure, ma non voglio che si veda. Guardo Aurelio avanzare con slancio e mi stupisco di vederlo sorridere ai commensali già tutti lì, a tavola, in attesa della consueta cena come in un incubo ricorrente, nelle stesse posizioni di sempre, impietriti e con occhi febbricitanti che mi guardano. Il dejàvu è imperfetto perché manca qualcosa. Giuro, in un primissimo istante mi sfugge cosa. Aurelio si gira di scatto verso di me e mi indica con tutte due le mani: “Tataam!” cantilena con una teatralità del tutto assurda “ecco a voi il figliol prodigo!” Non ci posso credere, sono sconvolto, eppure poso lo zaino a terra e sguaino un sorriso e dico “buona sera a tutti!” I loro repentini sorrisi di risposta, che mostrano denti scintillanti, mi arrivano come un’esplosione. Una granata che sparpaglia schegge silenziose tutto intorno e colmano lo spazio vivido, mentre Il lampadario di gocce di cristallo barcolla
sulle loro teste. “Il treno è arrivato un po’in ritardo” fa Aurelio lanciandomi un’occhiata complice “cosa c’è da mangiare?” Mia madre si alza con disinvoltura e mentre è già in cucina risponde “zuppa di porri, caro”. Io mi siedo con movimenti rarefatti, costernato per la visione inaudita di mia madre in piedi in questo frangente, che ritorna sorreggendo cautamente il tegame fumante con due enormi presine a forma di teiera. Il suo corpo ostenta un’agilità un po’ fuori luogo, sotto l’abito di raso beige. Attorno a me è iniziata una conversazione pacata fatta di reciproci aggiornamenti: mi colpisce la misura del tono di voce e la prodigalità di dettagli, per opera soprattutto di Linda, ma anche mio padre e Aurelio annuiscono e chiedono altri dettagli e commentano con un’espressione partecipe. Poi tocca a loro aggiungere parole. Mi affascina la naturalezza con cui sanno perseverare, e riempire l’Assenza con le loro voci. L’atmosfera è satura di vocaboli, come una diga invisibile che lascia fuori ogni altro Pensiero. Eppure il silenzio oltre la diga preme, con un lezzo forte di lavanda putrida. Quanto durerà? Tutti sembrano perfettamente a loro agio, ma in fondo temono che la membrana si rompa, e allora accelerano, si rubano le parole di bocca, ed evitano accuratamente di rivolgermi domande dirette. Io mi sento in uno stato di sospensione, gli occhi puntati sul pizzo di Cantù che si propaga dal centro della tovaglia: prima o poi la recita finirà, ed io potrò andare a vedere il mazzetto di lavanda tenuto da un filo di rafia, nella cameretta tutta pulita del sottoscala. Mi concentro su quello che sto mangiando. La zuppa è un po’insipida ma non è male. Guardo mia madre e cerco di immaginarmela ai fornelli con indosso il grembiule della Moma: un’immagine ancora surreale eppure intrisa di tenerezza. So che per lei è stata una dura prova. Lo sforzo più grande consiste nel fare finta che tutto sia come prima, per rispettare il volere di mio padre. Infrangere lo stereotipo della famiglia felice non è consentito. Fare spazio al dolore, alla rottura degli schemi, è una trasgressione che potrebbe essere fatale e tutti stanno facendo del loro meglio per evitarlo. Sì, a tratti è comione quella che provo. Ma più forte è la rabbia. Un urlo muto mi lacera la gola, vorrei saper fingere come tutti loro e partecipare a questo rito di purificazione fatto di
dialoghi insignificanti, ma mi costa troppa fatica. E ho mal di testa, pure. “Grazie mamma” riesco a dire alla fine del primo “e scusate, non ho più fame.” “Ma certo, certo” fa mia madre con solerzia “sarai stanco, vero? Vai pure in camera tua tesoro.” In altre occasioni mio padre avrebbe ripreso la mamma per quella sciocca indulgenza, e freddato il disertore con uno sguardo di sfida. Ma stavolta posa su di me uno sguardo privo di ostilità e attende che io mi congedi dalla famiglia, come un sipario che cala sul palcoscenico alla fine di un atto mal riuscito. Mi alzo e abbandono velocemente la tavola, senza guardare nessuno. Loro mi sospingono con sguardo comionevole verso le scale prima di tirare un sospiro di sollievo, e io li sento alle mie spalle mentre riprendono cautamente il filo del discorso, con un mezzo tono più basso e una disperazione stanca finalmente libera di serpeggiare tra le parole. Ho girato l’angolo e la faccia del mio nobile prozio mi accoglie sul primo gradino con una smorfia di disappunto. Per questa tela non c’è posto in sala e per anni il cipiglio del vecchio ha silenziosamente controllato le mie fughe in camera, da quella sua postazione solitaria in fondo alle scale. Non mi sono mai chiesto se l’esilio del prozio fosse intenzionale, per scontare antiche colpe nei confronti di antenati più cari a mio padre, o dovuta invece a una sorte casuale, ma certo è che il suo sguardo altero ha finito col diventarmi più familiare degli altri. A volte persino amichevole. E cangiante nell’espressione. Ora ad esempio i suoi occhi neri mi impongono di fermarmi, contrariati. “Che c’è, Zio Guglielmo?” gli chiedo sottovoce. Mi ci vuole una frazione di secondo per capire. Mi volto appena verso la sala: dietro l’angolo vedo le spalle di mamma e il profilo di Linda. Non mi stanno guardando, così slitto veloce di un paio di metri e abbasso piano la maniglia della porta del sottoscala, entro nella stanzetta della Moma e richiudo subito la porta, silenzioso come uno spettro. L’oscurità è totale e l’odore di lavanda mi stordisce i sensi, obbligandomi a tastare l’aria in cerca del letto per sedermi in fretta, ubriaco di ricordi. Finalmente mi calmo: questa dimensione di effluvi agresti densa come una placenta è la Realtà, non tutto il resto, non quello che succede là fuori, assurdo e folle come un Truman show. Attendo che la vista si abitui ma il buio è troppo
fitto, non ci sono finestre e l’unica luce è quella che filtra appena sotto la porta. Poco male, anche l’oscurità è più vera della luce, dei profili troppo netti, delle forme e delle sfumature cromatiche, delle rappresentazioni che i miei cinque sensi hanno costruito sopra le cose, povere e incomplete, necessariamente, fittizie come le esistenze che ci crescono attorno. Invece la canzone che mi germoglia dentro è vera, il latte che zampilla sui prati di seta è vero, tutte le parole non dette che danzano come baccanti attorno a lingue di fuoco, queste sìche sono cose reali, ora. Ah ah! I miei piedi ridono contagiando i polpacci e poi su fino al ventre, e l’onda muta che si libra nelle mie viscere mi conduce in volo, come nei sogni, ma non sto sognando! Fluttuando su cieli lilla guardo la Montagna vestita di boschi e non ho paura, guardo la pantera che viaggia sfinita e guaisce e non ho paura, ma pena. Guardo la Moma che diventa Carmen che divento io e mi abbandono a questa discesa balsamica negli abissi della Realtà, con le sue immagini sempre piùevanescenti e il suo familiare senso di quiete. In fondo è tutto nero e ci naufrago soddisfatto, adagiando la guancia sui morbidi campi di lavanda.
Il messaggio
Apro gli occhi. Li richiudo. Li apro ancora in cerca di una qualsiasi variazione, ma quel che vedo in entrambi i casi è una tenebra compatta con filamenti di oro che oscillano. Dev’essere notte. Ma dove sono? In un primo momento non mi sovviene nessun luogo possibile, come se dovessi ancora scegliere in quale corpo abitare. Che gradevole smarrimento, che scoperta interessante il NonEssere-Ancora, ma dura poco. Sono Massimo e vivo in questo corpo da più di vent’anni, e qui a destra ci dev’essere un interruttore, la vecchia abat-jour della Casa Treno. Invece c’è un muro piuttosto ruvido. Quali altri luoghi allora? Ah, naturalmente. Il Podere San Carlo, camera mia. Ma a sinistra la mia mano lambisce l’aria senza incontrare il comò. A questo punto sono più sveglio che mai, vigile e lievemente allarmato mentre analizzo le pareti col palmo della mano. Mi alzo a sedere e all’improvviso mi ricordo del viso compunto di Zio Guglielmo, al termine di una serata delirante che potrei anche aver sognato. Un incubo dei peggiori! Va bene, va bene: questa è la stanza della Moma, ora ricordo tutto, mi devo alzare per accendere la luce con l’interruttore vicino alla porta. Evidentemente nessuno si è accorto che io sono qua, o forse sì, non saprei. Intanto tutti dormono perché il podere è immerso in un silenzio assoluto. La prima cosa che vedo è il mazzetto di fiori di lavanda tenuto da un filo di rafia. Eccolo, il commiato della vecchia strega. Poi guardo il letto. Non è più così in ordine, ci ho dormito sopra, con tanto di vestiti e scarpe ai piedi. Sembra un campo di battaglia, tutto sgualcito e bitorzoluto. Faccio un sospiro e decido di rassettarlo prima di trasferirmi in camera mia. Provo a reinserire la trapunta sotto il materasso ma le geometrie stampate nel mezzo sono tutte sghembe e pendono fastidiosamente a sinistra. Mi rassegno: devo rifare il letto daccapo. Tiro via la coperta, tiro via il lenzuolo. E mi blocco, sorpreso. C’è una lettera, ai piedi del letto, la pagina di un block notes piegata in due. La prendo e la apro. La calligrafia è della Moma, non c’èdubbio. La ripiego ulteriormente e me la infilo nella tasca posteriore dei jeans, prima di dedicarmi a
una meticolosa ristrutturazione del letto. Lo sapevo, avevo ragione io! C’era un senso dopo tutto, ora devo solo scegliere il luogo giusto, il tempo giusto, per lasciare che si manifesti. E sono indeciso, perché il Podere San Carlo è l’ultimo dei luoghi in cui voglio che la trama si dispieghi. Spengo la luce e chiudo adagio la porta. Saluto con rispetto il prozio e mi ritiro nella mia stanza.
Ritorno a Bologna
Bologna, benevola come solo un utero adottivo sa essere. Di questo ho ormai un’esperienza diretta: la maternità non è una questione di sangue, così come il ritorno a casa prescinde dal tempo che ci hai trascorso. La Casa Treno mi accoglie con il suo inconfondibile odore di canna, ho imparato che si chiama così, e il Freccia mi saluta come se non fossi mai andato via, con un’alzata di spalle mentre si trascina in cucina, ancora in pigiama alle quattro del pomeriggio. Sei bello Freccia! Mi piace la sua trasandatezza da animale perfettamente comodo nel suo habitat. Gionata mi viene incontro e mi getta un braccio attorno al collo, un gesto con dentro infinite parole e addirittura una domanda “com’è andata?”, recitano i muscoli del suo avambraccio che sobbalzano sulla mia spalla. Fiondo lo sguardo nei suoi occhi fraterni che si distolgono subito, per non sottopormi alla vacuitàdi una risposta qualunque. Ed è esattamente qui, in questo fugace contatto in questo punto del corridoio in questo frangente della mia vita che vedo l’immagine di un bocciolo carnoso che si apre e drizza i petali euforici in tutte le direzioni del Cosmo. Si puo ̀essere innamorati di diverse persone per volta, e di tutte con lo stesso dolore, senza tradirne nessuna, il cuore ha piùstanze di un casino. Vado a togliermi gli abiti di dosso, quelli dell’altra vita. Metto su la t-shirt con i colori della Giamaica che mi ha regalato Carmen e raggiungo i ragazzi in cucina, l’unico spazio comune della casa dove ci troviamo a raccontarci le nostre storie. C’è una bella agitazione nell’aria! Tranne il Freccia che si taglia le unghie dei piedi e le posa in perfetto allineamento sul bracciolo del divano, Ruben e Gionata sono in preda a un’euforia fuori dal normale, e intessono fantasiose strategie per farsi prestare la macchina dal Palla, il nostro vicino di pianerottolo. Il piano è: “ci presti la macchina questa sera e in cambio manteniamo il segreto sulla spedizione aliena che ti ha recentemente tagliato il prepuzio nel sonno”. Oppure, se non funzionasse: “ci presti la macchina e noi convinciamo la stitica zia che ti nutre a comprare più bistecche”. La carta jolly invece è la signora
Manola del secondo piano, che da sempre si occupa della pulizia delle scale: “con il prestito della macchina, ci impegniamo a organizzare due spaghetti aglio e olio a cui inviteremo entrambi.” Dopo una breve consultazione sulle nostre abilità culinarie, conveniamo che l’aglio e olio è davvero il massimo che possiamo offrire. Ma il Palla avrebbe ceduto già alla prima offerta, su questo eravamo tutti d’accordo, senza alcun senso di colpa per la bieca strumentalizzazione che stavamo effettuando delle sue confidenze più intime. “Si ma per andare dove?” chiedo una volta confermata la linea d’azione. “A una festa nei boschi, Massi. Preparati per il primo Goa Party della tua vita.” Non ho nessuna idea di cosa sia un Goa Party, ma trattengo a stento un’esplosione di gioia nell’apprendere che sull’Audi 80 del Palla ci sarà la Casa Treno al completo, più il tocco femminile da noi tutti immensamente amato, desiderato e rispettato: Carmen. Sono già proiettato nell’intrinseco piacere della serata, e di tutta la mia vita a venire. Piccole cose, taciti pensieri condivisi, lieta inconsistenza che toglie le catene al bambino dei sotterranei, che ora emerge tutto vispo e assapora il vigore del gioco, e dell’amicizia. “Gionata, guidi tu vero? Perché del Freccia non mi fido!” “Dai, vai a bussare al Palla.” “Lo invito per il caffè così si ben dispone!” faccio io, pregustando l’incontro. Siamo già tutti operativi, sintonizzati, tranne il Freccia ma questo è normale e tranquillamente accettato. Ruben mette sù la caffettiera picchiettandola con un cucchiaino a ritmo di samba. Poi aggiunge un tintinnare di bicchieri e un risolino soddisfatto, mentre scuote i lunghi capelli che ondeggiano impazziti di qua e di là. Suono il camlo della porta dirimpetto alla nostra e dopo due minuti buoni apre il Palla, con un pezzo di carne cruda tra le mani e una luce di sorpresa negli occhi. “Stavi mangiando?” chiedo guardando d’istinto l’orologio. Il Palla non si cucina mai nulla: quel che trova in frigo lo addenta senza preamboli, carne compresa. Il
suo soprannome stride col viso lungo e gli occhietti spiritati, incastonati in orbite brune. Sarà la forma del cranio, penso, tondeggiante e lucido che sembra tirato a cera. Anche lui, comunque, ride. Ride invece di articolare parole e pensieri, e questo ci rende in qualche modo fratelli. “Vieni a bere il caffè, Palla” lo incito prima che risponda alla prima domanda, e subito noto un disorientato guizzo di gratitudine, lui che scolerebbe litri di caffè ma non osa toccare le caffettiere per paura che esplodano. “Arrivo Massi, che amico che sei!” mi dice strappando un ultimo pezzo di carne con quei denti da lupo che ha. Poi appoggia l’avanzo di bistecca sul comò dell’entrata, si sfrega le mani sui jeans ed estrae la chiave dalla toppa, prima di chiudersi la porta alle spalle. Mi sento un po’impacciato per via del tranello, teso a quest’essere tormentato e innocente, ma mi conforto pensando che cinque minuti in Casa Treno valgono ben più che una macchina in prestito. Gli faccio cerimoniosamente cenno di entrare e lo guardo inseguire l’odore del caffè col naso drizzato a segugio. Felice. L’accoglienza non può essere più calorosa. Perfino il Freccia interrompe la pedicure (che ha assunto connotati raccapriccianti) per guardarlo negli occhi e dirgli “uè”. Gesti di incommensurabile fratellanza, o anche opportunismi terapeutici. Entrambe le cose, insieme, che giustificano l’attacco immediato.
Acqua e Terra
Dopo un iniziale rifiuto, non troppo convinto, il Palla ci ha consegnato le chiavi dell’Audi facendoci solennemente giurare che non ne avremmo fatto parola con la zia. Non c’è stato nemmeno bisogno di sfoderare le armi chimiche, facile facile. Ce lo siamo tenuti a tavola fino alle undici di sera, gustandoci i suoi ultimi racconti sulle spedizioni aliene e le sue poesie piene di rime malinconiche sull’amico Yussef, che ha combattuto vent’anni a dorso di cammello nel Fronte Polisario per poi morire di raffreddore in una gelida notte del deserto mauritano, fra le sue braccia. Alla fine siamo partiti. Abbiamo recuperato Carmen a casa sua e ci siamo diretti al “meeting point”, come l’ha chiamato il Freccia: l’appuntamento con la carovana dei festaioli in un parcheggio fuori Bologna. Appuntamento mancato. Non ci è rimasto che seguire le freccine arancioni incollate a lampioni, cartelli stradali, alberi, per chilometri e chilometri come in una caccia al tesoro. Ore di vagabondaggi sulle strade appenniniche, tirando giùil finestrino di tanto in tanto per captare i bassi che si propagano bene e segnalano la vicinanza della festa. Ore 3.20 del mattino, eccoci! Abbiamo parcheggiato l’Audi nel fango tra centinaia di altre macchine e ci dirigiamo a piedi verso la “Zona Temporaneamente Autonoma”, mi ha spiegato Gionata: un luogo che esiste solo perchénoi ci troviamo qui. Prima non esisteva. E il tempo che eremo nella Zona, esiste solo perché è scandito dai battiti rapidissimi che escono dalle casse, grandi come palazzi. Prima non esisteva. Né esisterà dopo. “Ma questo si può dire per tutti gli spazi e tutti i tempi, Gionata” gli ho detto. Lui mi ha guardato e poi ha guardato gli alberi, con la bocca semiaperta. Mi sono immaginato che cercasse la Parola, quella che avrebbe riassunto magicamente l’intero concetto, trasformando la Zona Temporaneamente Autonoma in una specie di Olimpo. E io finalmente avrei Capito. E sarei rimasto di certo folgorato.
Invece quando i suoi occhi sono tornati su di me la sua voce ha scandito lentamente e sottovoce la frase “Te. Lo. Spiego. Dopo. Massi”. Ora lui anelava raggiungere quello spazio e non poteva essere distratto dalle considerazioni filosofiche che ne sciupavano la consistenza, la realtà, la freschezza. Acceleriamo il o. Gionata quasi corre, dietro ci sono Ruben e il Freccia un po’ più molleggiati, come si conviene agli Abitanti della Zona, fanno le prove per essere all’altezza nel momento in cui varcheranno la soglia. Ormai ci hanno staccato di un pezzo, a me e Carmen, che procediamo con o più incerto, prendiamo tempo, ci guardiamo, scrutiamo le luci azzurrine che pulsano tra gli alberi, ci guardiamo ancora. Rallentiamo. Anche questo Spazio e questo Tempo, ai bordi della Zona, mi sembrano degni di essere vissuti. Ogni centimetro e ogni secondo, con Lei, sono l’Olimpo Che Galleggia Tra Le Nuvole. Altro che Zona. È quasi l’alba. Cioè, non ancora. Ma il cielo si sta sciogliendo, progressivamente. Da nero e duro come una lastra di ferro evolve fino alla fluidità biancastra di un lago e poi vaporizza in un gas rarefatto e turchino. Ora siamo nella fase mercurio, dopo il ferro e molto prima dell’acqua: alzo gli occhi e vedo un amalgama denso color argento cupo, che preme contro la terra infilandosi tra le persone. La verità è che non ho ancora ballato. La verità è che non ho ancora affrontato una distanza maggiore di un metro dal corpo di Lei. Camminiamo, però. Carmen mi rivolge uno sguardo scintillante, una frazione di secondo più lungo del normale. Me lo rivolge spesso e io mi domando se sta soppesando i miei esigui contenuti semantici. Articolo gesti e risate ma parole proprio non ne escono. eggiamo da ore nel bosco, ai margini della festa: il suono è il nostro centro di gravità, l’astro pulsante attorno a cui tracciamo un’orbita di sicurezza. Il silenzio si trascina lontano oltre i nostri corpi, sprofonda alla velocità del suono nella selva-universo e mi fa una certa repulsione: rimango ancorato al cuore delle danze, allegre e tranquillizzanti con quel battito cardiaco che riecheggia nei timpani, accompagnato da una melodia indiana, e un fluire di corpi che saltellano disegnando sorrisi. Anch’io sento le mie membra saltellare disegnando sorrisi, ma sono sicuro che agli occhi di Carmen sto semplicemente camminando. La guardo di tanto in tanto e bevo le scintille dei suoi occhi, lasciando che la materia densa dei suoi arti che oscillano, dei suoi seni che sussultano in preda a una respirazione fitta, eserciti un’attrazione sui liquidi del mio corpo, che si mescolano impetuosi e ora, lo avverto chiaramente, anelano a
Lei. Ci fermiamo ai piedi di un albero da cui pendono farfalle e fiori dai variopinti colori fluo. Tutta la radura su cui si svolge la festa è circondata da spiritelli fosforescenti che danzano tra i rami. Giurerei di vedere la clorofilla che scorre su un intrico di venuzze dentro a ogni albero, e zampilla generosa dando forma a questi esseri giocosi che luccicano di verde, rosa, giallo, indaco. Maestri di Cerimonia del rituale pagano. Un Fiore-Maestro si stacca dal ramo e svolazza davanti al viso di Carmen e io intuisco che questo è il segnale. Lei non sta dubitando delle mie profondità! Aspetta solo che io risponda ai suoi silenzi, e i suoi occhi mi implorano di osare. Entro nel tepore umido del suo respiro, tentennando. Retrocedo, avanzo, in una microscopica danza. I nostri aliti si mescolano, si fiutano a distanza ravvicinata. Assaporo le sue labbra che sanno di rosmarino e sento il guizzo della sua lingua risvegliare tutti i pori della mia pelle. Bellissima, così da vicino, languida e vischiosa come la resina ambrata che cola sui tronchi. Mi spinge contro l’albero e si preme contro di me. La clorofilla travasa per osmosi nel mio sesso. Lo sento pulsare e inondarmi di folate incandescenti e incendiarmi il corpo fino alle orecchie, mentre lei si contorce dolcemente, in modo fantastico. Sento rullare tamburi che mi percuotono il petto e dilaniano il ventre. Io vorrei solo cavalcare l’onda di desiderio che mi porta dentro di Lei. E sta succedendo! La porta fra i due mondi è aperta. È liquida. Un oceano che tuoneggia e si infrange sulla Terra intera, inghiottendola. Energia pura, primordiale, bestiale. Non so chi sono, non esisto più, è solo Acqua e Terra che si colmano a vicenda, grazia e potenza che si fondono. È il primo impulso del raggio di Creazione, folle e deciso nella sua traiettoria benedetta. Piango ed è come se ridessi.
La pantera
Non lo so se è ufficiale, non lo so se io e Carmen “stiamo insieme”, in quel senso lì come lo intendono Gionata, Ruben e tutti gli altri. Non eggiamo mano nella mano in piazza Verdi e non ci telefoniamo mai. Nè andremo in vacanza insieme. Tuttavia, quando lei arriva nella Casa Treno, a un certo punto chiudiamo la porta di camera mia. Forse “stare insieme”vuol dire questo: chiudere la porta senza provare imbarazzo. E allora si spalanca un mondo in cui io, per la prima volta, sono davvero io. Buffo, no? È Carmen che mi dà il permesso. Mi dice “rilassati”, mi dice “lo so che non hai superato nemmeno un esame”, mi dice “anche se non finirai mai l’Università, a me non me ne frega niente.” E questo è un distillato d’amore. Sigilliamo il nostro patto: continuerò a dare gli esami come ho fatto finora, sperimentando calligrafie sempre diverse con le firme dei professori accanto a voti medio bassi, che sono più credibili. Mi dice “E poi? come farai a casa?” e il suo sguardo tradisce una punta di preoccupazione, ma le scappa. Prova a sorridere, per farmi capire che non è poi così importante, il futuro. La Zona Temporaneamente Autonoma è diventata Perpetua: la mia stanzetta nella CasaTreno, con dentro noi due. “Allora non ti importa se non so trovare le parole? Se non mi escono mai di bocca le cose giuste? Vorrei imparare l’enciclopedia a memoria ma poi, saprei farne un discorso?” le chiedo, ma senza voce. Lo penso insomma. All’inizio, mi concentrerei su una singola lettera, per esempio la A (se procedo in ordine alfabetico è più sicuro): mi ci vorrebbero intere giornate per dissertare di Antiquariato e Arti visive, forse mesi, Dante Alighieri è nella lettera A! Sarei un perfetto Caronte, un oratore abile a navigare tra i flussi di parole, le rapide improvvise, e le idee come correnti calde sotto il fiume. Traghetterei con maestria i miei ascoltatori. Avrei una barca piena di gente concentrata, Carmen che mi guarda rapita, e Gionata che prende segretamente appunti. Persino il Freccia c’è sulla mia barca, finge di guardare la spuma delle onde ma è tutto
orecchi. Oh sì! L’immagine è così bella che mi viene da ridere. Guardo Carmen e rido, contagiandola subito perché, anche lei, dev’essere un po’matta e mi capisce al volo. Che risate oceaniche ci facciamo! Cavalloni di suoni che si infrangono sulle cose non dette, da pisciarsi sotto. *** Non sono sicurissimo, ma mi pare che le risa di Carmen abbiano assunto più la frequenza del singhiozzo. Mi abbraccia, mi stringe forte, mentre sussultiamo lì in piedi, io appoggiato al vetro aperto della finestra, lei aggrappata a me a peso morto con le dita impigliate nei miei capelli. Mi accarezza la testa, ridendo fino alle lacrime che mi stanno bagnando il collo. “Ti ho detto: come farai a casa?” si allontana di qualche centimetro per guardarmi negli occhi e sì, sta piangendo. All’improvviso capisco che lei si riferisce a mio padre, a mia madre. Forse sta pensando ad Aurelio, al suo falco che lo ha condotto in cieli lontani, recidendo col suo becco appuntito il cordone ombelicale con il podere San Carlo. Prendo il libretto universitario quasi completo con 17 esami superati alla bell’e meglio, glielo metto fra le mani con un gesto brusco e le dico “Guarda, questo è il mio Falco, Carmen”. Ma lei non è più qui. Attraverso la retina dei suoi occhi in un viaggio astrale lunghissimo, e per quanto mi sforzi non riesco a raggiungere le sue pupille cerulee che sfuggono come quasar ai confini dell’Universo. Allora apro il cassetto, rovisto con violenza fra i pezzetti di carta accatastati negli anni, scaravento a terra le penne, gli incensi e tutti gli oggetti inutili, estirpo l’intero cassetto e lo rovescio sul letto. Eccola lì, la pagina di block notes piegata in due, era finita nel quaderno degli appunti di ingegneria civile. La apro con solennità e, sperando non ci sia bisogno di altre odiose parole per tornare Qui, nella nostra Zona Temporaneamente Autonoma, gliela leggo d’un fiato, senza guardarla mai: “Bambino mio” pausa “se puoi, non tornare! La pantera è qui. È la madre oscura che si è risvegliata nella notte di luna nuova. È la bestia di Aurelio, è la sua anima bambino mio. Lei uccide attaccando alla nuca, mai di fronte. Può ucciderti, può uccidermi. La sua pelle lucida copre i sacerdoti del mio villaggio nei riti funebri, lo sai? Non va bene così bambino mio, non va bene questo distacco, è infausto questo richiamo, e io non ho visto il pericolo quando ho
aiutato tuo fratello. Ho chiuso gli occhi e non ho ascoltato gli avi e ora è troppo tardi! È troppo tardi per chiamarla indietro e dirgli che la Montagna non ha più bisogno di lei, che non ha mai avuto bisogno di lei. Vai a farti la tua vita, anche io vado a farmi la mia, con il pianto nel cuore. Ti amerò sempre. Moma”.
La laurea
E infine È arrivato Il giorno Della mia Laurea.
A testimoniarlo, nessuna foto, solo un disegno: c’è un’aula magna colma di testoline, al centro una cattedra con dietro una fila di uomini barbuti tutti assorti, chi si tiene il mento, chi si strofina le tempie. La loro espressione è di pura meraviglia, e imbarazzo. Forse quello che stanno ascoltando è troppo complesso, troppo geniale per le loro menti accademiche. L’ultima della fila è una donna con lo chignon. Sorride guardando il ragazzo seduto, tratteggiato a matita fitta. Non si vede la faccia, ma una cascata di riccioli.
De Andrè
Una mattina di novembre, anno 2010, su Facebook trilla la notifica di un messaggio privato, con destinatari multipli e un link di youtube. Questi destinatari sono: Carmen Serra, Ruben Piccolo, Carlo Abbate. Nessuno di loro vive più a Bologna, solo il mittente, Gionata Brizzi, che scrive: “Ciao ragazzi. Oggi sono 10 anni che Massimo Vinciguerra non c’è più. Cosa si fa in questi casi? Io mi faccio un giro sotto ai portici senza pestare le righe e finisco con una colossale risata. Qui un pezzo di De Andrè, che a sentirlo mi viene ancora la pelle d’oca. Statemi bene. Gionata”
Tu prova ad avere un mondo nel cuore e non riesci ad esprimerlo con le parole, e la luce del giorno si divide la piazza tra un villaggio che ride e te, lo scemo, che a,e neppure la notte ti lascia da solo: gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro
E sì, anche tu andresti a cercare le parole sicure per farti ascoltare: per stupire mezz'ora basta un libro di storia, io cercai di imparare la Treccani a memoria,
e dopo maiale, Majakowsky, malfatto, continuarono gli altri fino a leggermi matto.
E senza sapere a chi dovessi la vita in un manicomio io l'ho restituita: qui sulla collina dormo malvolentieri eppure c'è luce ormai nei miei pensieri, qui nella penombra ora invento parole ma rimpiango una luce, la luce del sole. Le mie ossa regalano ancora alla vita: le regalano ancora erba fiorita. Ma la vita è rimasta nelle voci in sordina di chi ha perso lo scemo e lo piange in collina; di chi ancora bisbiglia con la stessa ironia "Una morte pietosa lo strappò alla pazzia".