Vito Introna
L’alba dei reietti
EDITRICE GDS
Vito Introna “L’alba dei reietti” ©EDITRICE GDS
EDITRICE GDS
di Iolanda Massa
Via G. Matteotti, 23
20069 Vaprio d’Adda (MI)
tel. 02 9094203
e-mail:
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Collana ©AKTORIS
Illustrazione copertina di ©Tatiana Martino
Progetto copertina di ©Iolanda Massa
Editing a cura di Barbara Risoli
TUTTI I DIRITTI RISERVATI
Questo libro è frutto della fantasia dell’Autore. Ogni riferimento a fatti, luoghi, persone realmente esistenti e/o esistite è puramente casuale.
Introduzione a L’alba dei reietti
L’alba dei reietti non è solo una spy story nel senso più classico, ma un romanzo che presenta diverse sfumature interpretative. Diversi filoni che s’intrecciano, si sommano e poi dividono fino a raggiungere un finale che chiude il cerchio riportando il lettore all’inizio della storia.
Lo scenario è quello tipico di una pandemia annunciata, l’atmosfera è quella che abbiamo potuto respirare in diversi film sul genere, come ad esempio in Virus Letale di Wolfgang Petersen, magistralmente interpretato da Dustin Hoffman, Rene Russo e Morgan Freeman. Dunque è questo il tema principale affrontato nel libro, un tema che penetra nella mente umana con la stessa subdola determinazione di un contagio e provoca sudori freddi davanti alla prospettiva che non tutto è solo “fantascienza” e non tutto è “solo” scritto nei libri. La realtà è molto più simile alla fantasia di quel che vorremmo.
Fin dai tempi più remoti l’umanità ha temuto ciò che non può essere identificato a prima vista, ciò che può distruggere senza che si abbia un nemico in carne e ossa da combattere e se il Diluvio Universale può essere ritenuto la più grande catastrofe che il genere umano abbia subito, le 10 piaghe d’Egitto sono il primo terrificante esempio documentato di come l’uomo possa essere sterminato senza che vi sia nulla di evidente da combattere. Ed è questa la leva che porta al terrore. Il vero orrore non risiede nell’atrocità della morte, ma nell’impotenza che deriva dalla stessa. Le guerre si combattano nella mente, all’interno della massa cerebrale, mettendo in moto idealismi, pregiudizi e preconcetti. All’interno della scatola cranica si formano i tumori che poi si riversano sulla società sotto forma di pazzia e fanatismo, trovando in quella stessa massa infetta l’energia necessaria per auto alimentarsi e portare al disastro più completo.
Ed è in questo modo che Vito Introna affronta l’argomento, offrendo al lettore la chiave per immergersi in quella follia che nasce da un esperimento, inizialmente
fallito, che porterà presto a delle conseguenze imprevedibili.
Si potevano invece prevedere, si potevano fermare e risolvere?
In sostanza sì, se…
Il “se” diventa fondamentale all’interno della trama ed è un “se” terrificante se rapportato alla posta in gioco. Quei troppi se creano il tessuto per il libro, diventano la base su cui è possibile soffermarsi per delle riflessioni che lasciano, però, del tutto attoniti di fronte alle risposte. Quanto di ciò che accade nel mondo è realmente noto? E se anche fosse reso pubblico, cosa potremmo fare per evitare che determinati eventi proseguano nel loro corso distruttivo?
In realtà siamo già sull’orlo del disastro. Viviamo costantemente sull’orlo di una crisi mondiale, respiriamo ogni giorno quel senso d’insicurezza che proviene da un’economia malata, da epidemie a malapena scongiurate, da attentati sventati per miracolo. La catastrofe è dietro l’angolo e nessuno possiede un quadro generale in grado di offrire una reale valutazione di quanto manca al countdown finale. Eppure un conto alla rovescia potrebbe essere già partito, magari in qualche paesino sperduto, situato in qualche remoto angolo della Terra. Oppure, senza andare troppo lontani, potrebbe essere in atto proprio in casa nostra, magari in qualche laboratorio di cui non conosciamo l’esistenza. La catastrofe è lì che ci occhieggia, respirando il suo fetido alito proprio sul nostro collo, spettatori impotenti di avvenimenti che vanno al di là della nostra comprensione.
L’autore sottolinea più volte l’ineluttabilità del destino. Riporta il lettore più volte a considerare quanto inutili possano essere gli sforzi nel cercare di condurre una vita apparentemente normale, quando il fato ha deciso diversamente.
E non è solo l’errore umano a creare la scintilla che porterà all’incendio, sono più fattori quelli che, sommandosi, apriranno il varco al fallimento totale. Fattori come l’avidità, il fanatismo, l’incompetenza, la stupidità umana e, non ultimo, la sete di potere.
Vito Introna, scrittore avvezzo a cimentarsi nel genere fantascientifico, offre in questo libro una variante dello stesso, diventando più attuale e più quotidiano, immergendo il lettore in fatti che, pur essendo realmente accaduti, garantiscono una visione nuova di tanti avvenimenti che abbiamo avuto modo di leggere e verificare attraverso i mass media. La sua opera ha il sapore della denuncia, lo stesso sapore amaro dell’impossibilità di poter essere veri protagonisti del mondo in cui viviamo. Al pari delle visioni surreali di Michael Crichton (Terminale Uomo, Andromeda) e a quelle terrificanti di Stephen King (L’ombra dello Scorpione) Vito Introna richiama alla mente del lettore diversi scenari in cui transitare per arrivare alla nemesi finale. Una giustizia compensativa che risulta essere l’unica soluzione possibile.
di Irma Panova Maino
I
– Procedere!
– Generale, gli impianti di raffreddamento sono ancora al sessanta per cento. Potrebbe non bastare.
– Ho detto procedere!
– Signore, le faccio notare che…
– Dottore, so quello che sto dicendo, da trentasei ore non faccio altro che ascoltare lei e il suo team di smidollati. Adesso mi stia a sentire: il Segretario di Stato è allarmato dai rallentamenti al progetto e forse scioglierà il team. Significherebbe vaporizzare trentacinque milioni di dollari, tutti pagati dai nostri contribuenti. Significherebbe un generale in pensione anticipata e un’intera equipe di scienziati che andrà in Europa a presentare nuove aspirine nelle erboristerie. Vuole regalare l’iniziativa ai cinesi? Proceda, e subito!
Il dottor Shuster, capo dell’equipe scientifica, scosse la testa facendosi scivolare gli occhiali sul lungo naso.
– Generale, è consapevole dei rischi che stiamo correndo?
– Dottore, siamo in una foresta dimenticata perfino da Dio, se anche un po’ di orsi e cervi dovessero morire, credo che sarà un sacrificio accettabile. Conosceva la pericolosità del compito e comunque ha accettato uno stipendio faraonico. Ora, vuole procedere?
Livido in viso, il dottor Shuster parlò nell’interfono: – Monitor sul serbatoio principale, impianti di raffreddamento a tutta forza. Prepararsi al conto alla rovescia.
Il generale Seagan, soddisfatto per l’avvio delle operazioni, ricevette una chiamata riservatissima direttamente nella console di comando.
– Come dite? Sono civili?
– Meno nove, otto, sette…
– Arrestate il countdown. C’è un’auto di escursionisti davanti al laboratorio!
– Generale, il conto alla rovescia è irreversibile – replicò furente Shuster.
– Due, uno, zero. Azione!
Un rumore sordo, simile a una caldaia sotto pressione, fu percepito chiaramente anche attraverso sessanta centimetri di parete metallica.
– Shuster, rapporto! – urlò il generale.
– Il silos regge e il raffreddamento è sufficiente. La sintesi dovrebbe essere completata entro diciannove minuti e sedici secondi.
– Bene. Continuate pure.
‘Grazie’ pensò ironicamente lo scienziato. Odiava quella palla di lardo del generale Seagan, eroe pluridecorato di tutte le guerre sostenute dagli Yankee nell’ultimo trentennio eppure mai apparso su alcun fronte di battaglia.
– Situazione esterni! – ordinò Seagan.
– Rilevati due umani a novecento metri dal centro. Si allontanano lentamente. Null’altro da segnalare.
– Ottimo! – tuonò l’alto ufficiale – Se ne vadano pure.
Shuster continuò a osservare il monitor, mordendosi la lingua. Grazie ai tagli imposti dal Segretario di Stato, amplificati dal ivo servilismo di Seagan, le aree esterne non erano state recintate per non pagare nuovi espropri e apparecchiature di videosorveglianza. Se qualcosa fosse andato storto, quei novecentomila dollari risparmiati avrebbero condannato i due incauti escursionisti.
– Temperatura interna in aumento, dottore! – urlò Kiamakij, il primo dei suoi assistenti.
– Aumentare la refrigerazione.
– Negativo, gli impianti sono già sotto sforzo. Rischiamo l’esplosione.
– Attivare sfiatatoi allora. Disperdere il plasma filtrato fino alla stabilizzazione dei valori.
– Dottor Shuster! – urlò il generale scendendo dalla poltrona – Qui gli ordini li do io!
– Generale... – ribatté lo scienziato, ormai a un o dall’uscire dai gangheri – se non liberiamo il plasma in eccesso avremo un collasso!
– Siamo protetti da tonnellate di acciaio, non dica sciocchezze. Dia ordine di proseguire!
– Generale, ci sono due uomini all’esterno e basterebbe un refolo di vento a condannare… ancora non sappiamo a cosa, milioni di persone. Mi rifiuto di obbedire.
– Bene. Lei è sollevato dall’incarico. Esca immediatamente dal laboratorio – Poi volgendosi allo scienziato nipponico – Dottor Kiamakij, la promuovo ufficialmente a capo dell’equipe.
L’intero gruppo, a sentire quelle parole, sobbalzò e per un istante nessuno fissò i monitor.
Un segnale acustico sibilante richiamò tutti alla realtà.
Allarme rosso, pressione interna a seicento atmosfere. Attivare espulsione controllata!
– Dottor Shuster – esclamò Seagan – che significa?
– Generale, dia l’ordine di espulsione. L’esperimento è fallito.
– Dottor Kiamakij?
– Sono d’accordo con il dottor Shuster.
– Bene, allora condivideremo tutti le responsabilità di questo insuccesso. Informerò subito il Dipartimento.
– Generale! Per favore taccia e dia l’ordine di espulsione!
Allarme rosso, pressione interna a settecentotrenta atmosfere. Attivare espulsione immediata!
La voce metallica del terminale sovrastò il litigio e Shuster si decise ad agire spontaneamente.
Il generale Seagan fissò sgomento il monitor principale, che riversava le immagini di un cilindro bianco, costellato di macchie rosse in rapida espansione.
– L’espulsione controllata non è praticabile! – urlò un tecnico dalla metà inferiore del laboratorio.
– Allagate il plasma, subito! – ordinò Shuster.
**********
– Jonathan, perché hai scelto una strada di campagna?
– Ho comprato questo navigatore GPS e volevo provarlo.
– Ma sono ore che giriamo nei boschi, questa strada fa schifo!
– Selima, amore – disse l’uomo sorridendo – ogni tanto la macchina ha bisogno di divertirsi, un SUV costretto in città si annoia.
– E non potete divertirvi da soli? – brontolò lei, toccandosi il ventre prominente – Ancora un paio di buche e abortisco.
L’uomo accarezzò il grembo della donna, schivando un paio di radici affioranti dal manto stradale.
– Forse non dovevo selezionare l’opzione ‘Panoramica’.
– John, taci per favore – si finse arrabbiata.
La foresta lacustre di New Sherwood era bellissima, alle querce secolari erano stati affiancati pini silvestri, ontani e conifere. Un complesso intricato di verde e marrone che lasciava filtrare poca luce, generando splendidi riflessi crepuscolari. In altre occasioni lei e suo marito avrebbero potuto trascorrere momenti meravigliosi immersi nella natura, magari in compagnia di loro figlio, atteso entro quattro mesi scarsi.
A un certo punto Jonathan imprecò, l’auto prese a tremare e a fatica riuscì a mantenerla in carreggiata. Poi il aggio di due cervi in corsa lo costrinse a inchiodare.
– Quelle bestie sono impazzite? – urlò John.
Selima si ricompose sul sedile e strinse i denti: il suo ventre fu percorso da un dolore lancinante, una fitta breve e intensa.
– Amore, andiamo via.
– Aspetta Selima, temo di aver forato.
L’uomo scese dall’auto ma constatò che le gomme erano tutte integre.
– Non capisco, la macchina prima stava sbandando.
– Magari era una pozzanghera.
Jonathan riaccese il motore e continuò a seguire la linea gialla tracciata sul piccolo schermo del navigatore. Dopo un paio di chilometri l’auto riprese a tremare e lui si sforzò di tenere fermo il volante.
– è un terremoto!
– Sta tranquilla Selima, vedrai che erà presto – provò a rincuorarla accostando al bordo del sentiero. D’un tratto un vento terribile sferzò tutto il bosco, coprendo perfino il rombo del motore, poi un albero cadde a pochi metri da loro. Infine uno spostamento d’aria quasi rovesciò il pesante SUV,
spaventandoli a morte.
– Oddio è la fine, il cataclisma! – urlò la donna a un o dall’abortire.
Le prese la mano e provò ancora a tranquillizzarla, stringendosela al petto.
Un boato scosse nuovamente la foresta, facendo tremare i cristalli e il parabrezza dell’auto, poi all’improvviso calò una densa nebbia scura.
II
– Sanders, sempre tu! Come fai a pisciare ancora nel letto? Hai otto anni, dovresti essere un uomo! Di corsa in lavanderia e poi niente merenda. Andrai in cappella a pregare, fino a ora di cena!
– Va bene, fratello Humphrey.
Il bambino uscì dal dormitorio fra le risate soffocate di altri dodici coetanei.
– E voi cosa avete da ridere? Pensate di essere migliori di lui? Siete tutti uguali, il Signore ha fatto morire i vostri poveri genitori perché sapeva che genere di farabutti avevano generato. Vergogna!
I bambini tacquero allarmati, gli sguardi ebeti si abbassarono di colpo e qualcuno singhiozzò sommessamente.
Fiero del risultato, il giovane seminarista uscì tronfio dalla camerata dei più grandi e s’infilò in quella dei bambini piccoli.
Lo sentirono urlare e a un certo punto degli schiocchi segnalarono che il poco paziente chierico aveva assestato un paio di ceffoni a qualcuno. Come al solito.
Dopo qualche minuto lo sbattere di un portone segnalò il via libera ed entrambe
le camerate si congiunsero nell’androne, mantenendo un ben poco religioso silenzio.
Mancava solo Jim Sanders.
Miagolii di rabbia e di dolore costrinsero perfino il vecchio padre Robert, direttore dell’orfanotrofio, a scendere per le scale a perdifiato. Sull’aia davanti alla lavanderia un gatto nero si contorceva in agonia, con il cranio mezzo fracassato e un tizzone infilato lungo il retto.
– Chi… Cosa diavolo succede? Qual è il manigoldo che pratica queste crudeltà? Voglio il nome e guai se non salta fuori. Se il delinquente non si presenta, questa sera andrete tutti a letto senza cena!
Il brusio fra i bambini, rapidamente assembrati nel cortile, confermò i sospetti del vecchio preside.
– Allora? Nessuno ha fatto niente? Devo proprio punirvi tutti? Quando padre Maurice e padre Samuel leggono il Vangelo a cosa pensate? E i buoni propositi di ogni domenica dove sono finiti? Addirittura preferite coprire un delinquente? Ora conterò fino a tre e se non confessate…
Un giovane seminarista attirò l’attenzione del canuto priore.
– Dov’è Sanders?
– Padre, aveva bagnato di nuovo il letto e allora ho pensato di punirlo.
– Bene. Quindi dov’è?
– In cappella a pregare.
– Vai a chiamarlo allora. E voi – rivolgendosi ai bambini ancora ammassati davanti a lui – cercate di non ridere. Io credo poco alla storia che il colpevole sia sempre e solo Sanders. Ricordate che il tradimento è un peccato mortale e Dio non vi perdonerà. Non siate dei Giuda. Allora fratello Humphrey?
Il seminarista uscì dalla cappella sbracciandosi.
– Cosa succede? – poi si volse ai piccoli che continuavano ad alternare sorrisi e sguardi vuoti – Andate a finire i compiti. E prima di entrare nel refettorio, ricordate di lavarvi le mani per bene. Chi entra con le mani sporche non mangia!
Gli orfani ruppero le righe, precipitandosi verso la stanza degli studi, o ‘dei compiti’ , come ormai la chiamavano tutti.
Padre Robert entrò nella chiesetta e vi trovò fratello Humphrey chino su Jim, che dormiva beatamente sul primo banco, avvolto nella stola messale. Due vasi di fiori erano per terra in frantumi e l’ostensorio giaceva ammaccato sullo scalino davanti all’altare.
– Padre, io direi di frustarlo!
– Un bambino ritardato di otto anni? Fratello Humphrey, taci e pentiti di questi pensieri animaleschi. Portalo a letto e poi aiuta fratello Berthold a sistemare questo disastro.
Pensieroso padre Robert tornò nel suo ufficio.
Risatine scomposte e qualche tonfo al piano di sotto gli ricordarono che, come al solito, i suoi confratelli si erano ben guardati dal sorvegliare lo studio collettivo. Del resto era impossibile istruire quelle rape. Se lo Stato avesse inviato degli insegnanti di sostegno forse qualcosa avrebbero imparato, ma in quelle condizioni e con soli sette preti e due seminaristi in organico non si poteva fare di più.
L’orologio sulla scrivania segnava le sei e mezza, tra poco avrebbero cenato. Gli odori provenienti dalla cucina segnalavano il solito stufato di maiale, che peraltro detestava. Mangiare carne grassa di venerdì era ormai diventata un’abitudine, il prezzo proibitivo del pesce lo costringeva a disertare anche quel precetto religioso. Anche le scarse e rachitiche verdure in vendita ai mercati di Council Bluffs costavano un occhio e il loro sapore ripugnante non invogliava a fare sacrifici economici.
Irritato dal crescente frastuono entrò nella sala dei compiti e subito fu centrato in pieno da un foglio appallottolato.
– E allora? – tuonò, ottenendo immediato silenzio.
Studiò ancora una volta quei visi inespressivi, gli sguardi spenti, i lineamenti grezzi, a volte deformi. Poveri bambini.
– é così che studiate, brutti somari?
Il suono della camla fece levare ai bambini un grido di giubilo e, superato il priore, si precipitarono in refettorio, dove padre Samuel era già seduto, pronto per iniziare le letture sacre.
Padre Michael venne fuori dalla cucina spingendo un grande carrello sul quale troneggiavano quattro teglie di stufato.
I bambini, dopo uno sguardo severo del prete-cuoco, si precipitarono in bagno a lavarsi le mani. Già dopo un minuto l’intero corridoio era costellato da impronte fangose e schizzi d’acqua sporca.
– Carne di maiale in un venerdì di Quaresima. Che Dio ci perdoni! – sussurrò padre Michael servendo per primo il preside.
Il vecchio annuì rassegnato.
Dopo qualche minuto, mentre padre Samuel declamava i salmi e i bambini mangiavano avidamente, un urlo proveniente dal dormitorio scosse il preside.
– Samuel, per cortesia, sospendi la catechesi e va a prendere fratello Humphrey. Di sicuro sta cercando di ‘confessare’ Sanders.
Malgrado il dolore misto a rabbia del suo tono di voce, l’intera tavolata esplose in una risata isterica.
Qualche minuto dopo Fratello Humphrey si affacciò sul refettorio con aria circospetta.
– Vieni avanti. Allora? – urlò padre Robert.
All’altezza del coccige il seminarista presentava una macchia di sangue ancora fresco, molto evidente sul bianco della veste talare.
– Sei arrivato in ritardo e quindi non cenerai. Aspettami in ufficio.
– Ma padre, io…
– Via di qui!
Di nuovo una risata stridente riempì l’uditorio e molti bambini batterono le mani esaltati. Nell’orfanotrofio di Sancta Spes fratello Humphrey non era amato da nessuno.
III
Pareti squadrate, di gelido metallo. Disteso sul pavimento, anch’esso metallico, fu consolato da un lieve calore al ventre; per il resto tremava di freddo, tutto solo in quella scatola.
Aprì gli occhi, le tende mezze strappate lasciavano filtrare le prime luci dell’alba.
Spesso Jim era tormentato da quell’incubo claustrofobico, che lo rendeva intrattabile al risveglio e contribuiva a incupirlo. Il cigolio della porta seguito da i attutiti lo svegliò completamente. Ancora fratello Humphrey in cerca di una preda da ‘confessare’. Quattro anni prima, a quanto gli aveva confidato Padre Robert, lui con un morso l’aveva quasi evirato. Tuttavia a detta del preside il povero seminarista, malato nell’animo e in perenne conflitto con il demonio, meritava una seconda possibilità. Così Jim, pur non credendo affatto al ravvedimento di quel folle pervertito, era stato costretto a perdonarlo. A Natale di quell’anno ne aveva ricevuto in regalo un bel videogioco palmare e alla fine, mosso da sincera gratitudine, l’aveva abbracciato in chiesa durante il gesto di pace.
Il seminarista, mai divenuto prete, era a due letti di distanza da lui e stava cercando di svegliare Herbert il ciccione, quello scemo obeso che in cambio di un pezzo di pane e marmellata gli si sarebbe concesso anche per l’estrema unzione.
Si voltò disgustato verso la finestra, vedere e sentire quelle sconcezze indorate da tante belle citazioni bibliche lo rendeva cattivo e Jim a dodici anni cominciava a conoscersi. I gatti e i cani randagi che pattugliavano l’aia
fuggivano al suo arrivo, i polli e le oche spesso finivano in pentola in anticipo, dopo essere stati trovati dilaniati o decapitati. Dopo l’incendio che aveva appiccato tre anni prima, due ettari di terreno incolto erano ancora neri e spogli.
– Padre mi fai male, basta! Dammi la ricompensa del Signore, ti prego! – urlò Herbert, svegliando i suoi vicini di branda.
Fratello Humphrey si alzò di scatto tirando su la cerniera e fuggì a rotta di collo nel corridoio.
‘Ora tocca ai piccoli’ pensò Jim continuando a ricordare, con una punta di compiacimento, le sue bravate.
Un nuovo urlo lancinante buttò giù dal letto in anticipo i bambini di entrambe le camerate e, insieme a loro, l’intero corpo docente. Fratello Humphey provò a correre mezzo nudo per le scale, ma si trovò a faccia a faccia con padre Samuel e padre Jerome, entrambi molto più robusti di lui. Dopo qualche istante arrivò ansimando anche il preside.
– Portatelo nel mio ufficio. Allora, chi ha urlato?
– Joseph! – dissero in coro i suoi compagni di camerata.
– Come stai? – chiese il vecchio andandogli incontro.
Il bambino, piccolo e curvo, tremava di paura e perdeva sangue. Un rivolo rosso gli colava lungo la gamba destra del pigiama, gocciolando sul pavimento.
– Ho capito. Fratello Berthold, per cortesia, medica Josef e se non dovesse bastare portalo all’ambulatorio di Council Bluffs.
– Padre, i medici vorranno sapere chi è stato.
– E tu glielo dirai. Ora vado a chiamare lo sceriffo e voi – rivolgendosi ai bambini – tornate a letto. Oggi le lezioni inizieranno un’ora più tardi, riposatevi.
– Padre – disse un bambino dei più grandi – non ho più sonno!
– Approfittane per pregare. Tornate a letto e non scendete fino a quando sarà pronta la colazione o saranno botte per tutti!
Il tono di voce autoritario del vecchio prete sorprese e spaventò gli orfani, che si ritirarono in silenzio nelle camerate. Poco dopo padre Samuel si affacciò a controllare che dormissero e per accontentarlo, tutti finsero di chiudere gli occhi. Tutti tranne Herbert, che continuava a singhiozzare.
– Allora, perché piangi?
Herbert tacque, ma padre Samuel non abbozzò – So che sei sveglio. Rispondimi.
Il bimbo obeso continuò a tacere.
– Ehi, non farmi perdere la pazienza. Cos’hai da lamentarti?
– Padre, fratello Humphrey prima di andare da Josef era venuto qua – s’intromise Jim.
– é vero? Rispondimi. è vero? – il giovane prete scosse energicamente Herbert, che scoppiò in un pianto dirotto.
– Sanders, stai attento a quello che dici. Se hai mentito te la farò pagare.
– Padre Samuel, ho detto la verità. Padre Humphrey viene da noi quasi ogni mattina.
Tutti gli altri bambini si erano seduti sui letti e osservavano incuriositi il confronto.
Quel mattino le lezioni iniziarono ben oltre le dieci e in entrambe le classi i preti furono nervosi e maneschi. Anche il primo ordinario fu consumato in netto ritardo e senza le consuete letture di accompagnamento.
Nel pomeriggio gli orfani più grandi, fra i quali Jim, furono mandati a spazzare il
cortile. Jim vide un’anatra zampettare tra le pozzanghere e subito fu tentato di darle fuoco, ma la sagoma minacciosa di Padre Jerome gli fu subito accanto.
– Riprendi la scopa e continua a pulire. Non hai fatto quasi niente e stasera si mangia pollo, non anatra! – e per essere più convincente gli tirò forte un orecchio, facendolo gridare.
Gli altri bambini ridacchiarono, ma bastò lo sguardo gelido del prete per far loro chinare la testa.
– Padre Jerome, dove è andato fratello Humphrey? – lo provocò Jim.
– Lavora e taci.
– E ditelo, siate buono!
– Ho detto lavora! Lo saprai quando il cortile sarà pulito per bene.
– Allora non lo voglio sapere, così smetto di pulire.
– Jim ascolta, io non sono Padre Robert. Se non la smetti di fare l’idiota che sei, ti rompo la testa! Sotto con quella scopa, lì c’è merda di gallina. Forza! Datevi da fare tutti, non siete operai dell’ultima ora!
Padre Robert richiamò dalla finestra il confratello e lasciò che i bambini andassero a studiare.
Dopo meno di mezz’ora, durante una rissa furibonda scoppiata fra tre piccoli orfani per il possesso di una biglia di vetro, un lampeggiante rosso e blu filtrò oltre i pesanti tendaggi tarmati, richiamando tutti alle finestre. Fratello Humphrey uscì in mezzo a due agenti di polizia, mentre padre Robert conferiva in cortile con un uomo alto e brizzolato.
Fratello Bethold irruppe nella sala dei compiti, ordinando a tutti di prepararsi per la doccia e subito andò ad afferrare Jim per un polso.
– Non c’è niente da vedere, vieni a lavarti che puzzi!
– Dove stanno portando fratello Humphrey?
– All’ospedale. È malato e deve curarsi – e lo spintonò malamente in coda agli altri.
– Morirà?
– Solo Dio può saperlo. Ora lavati e sta zitto!
IV
L’indomani i bambini furono controllati a uno a uno prima di entrare in classe. A chi aveva la giacca sporca ne veniva data una pulita, chi mostrava le scarpe infangate era rispedito in camerata a lustrarle e per chi non si era lavato collo e orecchie piovevano scappellotti e scapaccioni.
– Ahia! Padre Samuel, mi fai male! – urlò Jim all’ennesimo schiaffo.
– Sanders, sei il più grande dell’istituto e dovresti essere il migliore. Come mai hai il collo nero di sudiciume? Ieri non hai fatto la doccia?
– Sì, ma dopo ho sudato.
– Magari correndo dietro ai gatti, vero? Lo sai che stamattina ne ho trovato un altro sventrato?
– Non sono stato io!
Il prete guardò le scarpe di Jim, incrostate di melma e peli di gatto. – Bugiardo! – e gli assestò una sberla così forte da costringere il preside a intervenire.
– Jim, sei un bambino cattivo, se continui così nessuna coppia di genitori vorrà adottarti – Lo rimproverò padre Robert.
– Padre – ruggì il bimbo fra le lacrime – non voglio nessun papà, né una mamma.
Le quattro piccole aule si riempirono rapidamente, i sette bambini fino ai sei anni di età sarebbero stati intrattenuti da fratel Berthold. I bambini di sette e otto anni avrebbero studiato con padre Samuel. Il preside avrebbe tenuto lezione per cinque bambini di nove e dieci anni. Ma i tredici orfani più grandi ebbero una grande sorpresa.
Una ragazza alta ed elegante li attendeva in piedi accanto alla cattedra malferma.
I bambini rimasero senza fiato, era la prima volta che vedevano una donna così da vicino. Jim in particolare sentì un rimescolamento del sangue e tossì forte, come se stesse soffocando.
– Seduti bambini! – parlò la donna, rivelando un tono di voce leggermente stridulo.
– Sono la vostra nuova maestra, mi chiamo Suzanne e vengo dalla California. Concluderete l’anno scolastico con me, mi ha detto il vostro preside delle difficoltà che incontrate in alcune materie e allora vedremo di superarle insieme. Se sarete bravi io sarò vostra amica e vi saprò premiare.
– E se facciamo i cattivi? – chiese Jeff, il mulatto dalla prima fila di banchi.
– In quel caso… – in un attimo fu su di lui e lo colpì forte dietro la nuca – In quel caso, dicevo, saprò difendermi.
La maestra li chiamò a uno a uno facendoli mettere sull’attenti, poi iniziò a spiegare l’uso dei pronomi personali. Un bello strazio per Jim, che odiava le lezioni d’inglese e non sopportava l’idea di prendere appunti.
– Bambini, vi vedo disattenti, non state annotando niente. Vorrà dire che detterò qualcosa e poi domani mi ripeterete tutto. Allora cominciamo: i pronomi…
‘Era meglio fratello Humphrey’ pensarono in molti.
Jim rimase per qualche minuto a bocca aperta. Dopo essersi scomposta per picchiare Jeff, la maestrina aveva rivelato forme generose e polpacci torniti. I capelli castani lunghi e sciolti sulla pelle abbronzata e gli occhi neri erano un contorno molto gradevole al bel corpo e lui si accorse di non poterle staccare gli occhi di dosso. Un fastidioso pizzicorino prese a tormentargli l’inguine, al punto che si alzò per andare in bagno, mentre la maestra stava ancora dettando.
– Ehi, dove vai?
– Al cesso, signora!
– Si dice in bagno! E comunque, chiunque voglia uscire dall’aula, dovrà prima alzare la mano e chiedere il permesso. Chiaro?
– Sì.
– Sì - signora - maestra. Ripetilo!
– Ehm… sì signorina Suzanne.
– Ho detto signora maestra!
– … signora maestra.
Di fronte ai suoi impacci si levò la solita risata e l’energica Suzanne gli assestò uno sculaccione, poi prese a battere il palmo sulla cattedra per ristabilire l’ordine.
Jim non sentì dolore da quella percossa e anzi, precipitatosi in bagno fu sorpreso dal trovare l’asta tesa come non mai, al punto che ebbe difficoltà a urinare e bagnò tutto il pavimento. Se qualche prete se ne fosse accorto le avrebbe prese, come sempre. Provò a calmarsi, contrariamente alle sue abitudini si lavò mani e faccia e rientrò in classe saltellando come un idiota.
– Sanders, non fare il burattino e siediti – urlò la maestra.
Stavolta lui obbedì e la dettatura procedette per qualche minuto prima che fratello Berthold bussasse, annunciando la ricreazione.
– Come li ha trovati?
– I bambini? Certo, il vostro preside mi aveva avvertita. Ci sarà da lavorare tanto, guardi – e indicò un quaderno spiegazzato e sporco di moccio – non sanno neanche tenere la penna in mano. Sono qualificata per alunni speciali, ma di così speciali non ne avevo mai visti!
– Poveri bambini…
La ragazza fissò il seminarista, il cui sguardo lupesco contraddiceva l’aura di santità con la quale cercava di ammantarsi.
– Poveri bambini, sì. Però prima si poteva fare di più. Alcuni sanno già scrivere e riescono a tenere il o. Altri invece sono stati seguiti di meno.
– Non ero io il maestro. Comunque – e scrollò le spalle con un gesto plateale – non stia a prenderli troppo a cuore. Si farà solo del male.
Fratel Berthold uscì dall’aula e andò a controllare i ragazzi in giardino. Dalle finestre arrivavano già gli echi di una rissa e Suzanne, irritata da quella conversazione, s’affacciò. Sanders se le stava dando di santa ragione con un altro bambino, uno spilungone alto già cinque piedi dal viso completamente butterato dall’acne. Vide il seminarista separarli a suon di sberle e pedate, l’ilarità di tutti gli altri orfani disposti in cerchio a godersi lo spettacolo, l’indifferenza di un prete anziano che ava con un breviario fra le dita e ancora la luce malevola negli sguardi di quei bambini.
‘Forse mi sono sopravvalutata’ pensò in preda allo sconforto.
V
La mano, ormai ampia e rude, continuava a scivolargli lungo l’asta. Il lettino, troppo piccolo per lui, cigolava selvaggiamente, ma per sua fortuna il sonno degli altri bambini era a prova di bomba.
Voleva quelle gambe, quei seni, quelle labbra. Doveva avere tutto.
La maestra lo odiava, era stato bocciato due volte e a quattordici anni non aveva ancora superato gli esami di quinto livello. Metà dei suoi coetanei erano già in settima classe, ma a lui questo non importava. Il suo pene, ormai già in avanzato sviluppo, lo accompagnava verso mondi lontani, luoghi aperti senza pareti di acciaio né figuri in tonaca scura. Il calore sprigionato dall’inguine lo incoraggiava, spronandolo a masturbarsi ferocemente per ore, sacrificando il sonno. Ogni tanto sentiva colare un filo di liquido bianco e caldo, a volte ustionante.
Tuttavia non riusciva ad appagarsi da solo, pensava e ripensava alla maestra: china su di lui succhiava il prepuzio e palpeggiava i testicoli o si sedeva direttamente sul suo ventre, strofinandoglisi addosso.
Per quanto continuasse a toccarsi, nemmeno quella volta riuscì a godere.
Si alzò, era quasi l’alba e già si vedeva qualcosa. Sul lenzuolo aveva lasciato una macchia biancastra: fratel Berthold l’avrebbe picchiato ancora.
Vide Herbert il ciccione che russava a bocca aperta e, colto da un istinto primordiale, provò ad avvicinarlo in silenzio. Il ragazzone aveva da sempre il sonno pesantissimo e Jim decise di provare un’emozione nuova. Aprì la patta del pigiama e agitò l’asta, ormai rilassata, vicino alle labbra bavose di Herbert. Il pene s’inturgidì di colpo. Continuò a frizionarsi chino sul guanciale del bambino obeso, ma un improvviso colpo di tosse dell’amico lo fece sussultare. Il suo glande era sceso fino in gola e così Herbert, sorpreso da un improvviso schizzo di viscido tiepidume sulle tonsille, aprì gli occhi e senza nemmeno capire cosa stesse succedendo, d’istinto morse a sangue Jim.
Le urla di paura e dolore dei due ragazzi ovviamente svegliarono gli altri orfani e in pochi minuti si ripeté la scena che anni prima era costata il posto a fratello Humphrey.
Con la differenza che Jim non fu affidato allo sceriffo, ma riempito di cinghiate da padre Samuel e poi costretto a dormire da solo nella stalla.
Ogni sera padre Jerome lo scaraventava lì dentro, non prima di avergli assestato un paio di bastonate dietro la schiena. Jim dalla finestra rotonda del sottotetto spesso origliava le luci fievoli dell’orribile palazzotto di Sancta Spes, il capanno degli attrezzi che ogni sera padre Berthold richiudeva dopo aver trascorso almeno un’ora a confabulare al cellulare con chissà chi e le lontane luci di Santa Monica, la frazione di Council Bluffs dove abitava la maestra. Ogni mattina, quando Padre Jerome veniva a liberarlo, osservava le manovre di parcheggio del vecchio fuoristrada della signorina Suzanne e più di una volta il prete l’aveva afferrato dalla nuca per impedirgli di correrle incontro.
Da quando l’avevano punito la maestra aveva cambiato atteggiamento nei suoi riguardi: cercava di interrogarlo più spesso, controllava per primi i suoi compiti e se si distraeva durante la dettatura era ancor più pronta ad assestargli una pacca o un ceffone. Tuttavia lui continuava a bramarla sbavando senza ritegno ogni notte, incurante del freddo, degli insetti e della puzza di letame.
Quella mattina padre Jerome arrivò più nervoso del solito. Il suo pesante alito di caffè e uova fritte investì Jim, addormentatosi da poco dopo un’ennesima sessione di auto erotismo.
– Sveglia poltrone! Hai recitato il Rosario ieri sera?
– Certo Padre.
– Ci devo credere?
– Sì. Io non dico le bugie.
Il massiccio prete l’afferrò per la collottola, mettendolo in piedi.
– Bugiardo. Vai a lavarti per bene prima di colazione e non dare fastidio ai tuoi compagni o…
– Mi darete un sacco di botte, vero? – lo canzonò Jim.
Stavolta il manesco chierico non ritenne di infierire e seguì con lo sguardo il ragazzo, che correva verso la palazzina. Come sempre quel teppista aveva rovesciato le balle di fieno e scompigliato i fasci di paglia. Sebbene fosse un pervertito irrecuperabile, forse era il caso di riammetterlo fra i compagni;
fintanto che dormiva lì era costretto a fare la doccia tutte le mattine, consumando acqua e sporcando i bagni a più non posso. Prima o poi, ne era sicuro, si sarebbe buttato giù dalla finestra. Il mondo perdendo lui forse avrebbe gioito, ma la sua coscienza da pastore di anime, per quanto intorpidita, non voleva questo.
Jim come sempre sporcò il piatto doccia dei suoi escrementi. Non poteva farci nulla, l’acqua troppo fredda gli risvegliava l’intestino. Pulì sommariamente, poi indossò la stessa biancheria sudata del giorno prima, infilò la divisa grigiastra con il collarino bianco dell’orfanotrofio e si precipitò nel refettorio, dove gli altri erano già seduti da un pezzo.
Padre Robert lo vide arrivare e alzò gli occhi al cielo. La maestra, seduta alla destra del preside, vide Jim prendere posto fragorosamente e servirsi con modacci da mandriano.
– Padre, se permette… – e accennò ad alzarsi.
– Stia seduta signorina. Lei ha già fatto tanto, ora Jim riesce a leggere e a scrivere, sa perfino cosa siano gli Stati Uniti d’America e la chiesa Cattolica. Non ci avrei mai sperato. Però non s’illuda di farne un uomo normale, solo nostro Signore potrebbe, se volesse.
– Reverendo, io credo che invece, tenendolo sotto controllo, potremmo farne un ometto. È intelligente, soffre tantissimo a stare qui e si vede, in più quel brutto gesto dello scorso inverno forse è dovuto a un semplice sviluppo precoce, gli ormoni dei bambini a volte sono imprevedibili!
– Tutti questi bambini soffrono qui e soffrirebbero dovunque, sono condannati.
Non hanno nessuna colpa, ma purtroppo non possiamo essere pietosi con loro, mai. Ci ammazzerebbero, ucciderebbero anche lei. Il Governo li tiene sotto controllo, i pochi che vennero riconosciuti ‘normali’ sono già stati trasferiti in orfanotrofi più confortevoli e tutti hanno già trovato una famiglia. Ma quei bambini erano stati intossicati in maniera lieve e non portavano il contagio Quanto agli altri, ne sappiamo quanto voi. Sono stati infettati da un agente patogeno sconosciuto, che ha danneggiato irreparabilmente i loro cervelli. Nel mondo non esiste nessuna terapia in grado di guarirli
– Lo so Padre, ma fra pochi anni saranno maggiorenni. Cosa faranno soli nel mondo?
– Deciderà il Governo, forse li manderanno in ospedali psichiatrici federali oppure non lo so. Di certo non ce n’è uno che sia adatto al sacerdozio. Già tenerli buoni durante la messa domenicale è un miracolo, la cappella un tempo era aperta anche ai fattori di Santa Monica, ma adesso è diventata un cumulo di panche rotte e muri scrostati. Uno di loro ha perfino disegnato una… vagina sull’altare.
– Sanders?
– Avrei creduto di sì, ma non sa disegnare. Lui è quello che protesta di più, fa lo spavaldo, crea scompiglio. Non è detto che sia il peggiore.
La signorina Galtieri fissò ancora Jim che litigava con Jeff il mulatto. I due ragazzi si scrutavano con sguardi infuocati, pareva che dovessero venire alle mani da un momento all’altro. Jeff fece per afferrare una posata di plastica, ma subito la mano ferma di Padre Ralph, il bibliotecario, lo ammansì. Jim sorrise trionfante, ma subito fu redarguito pesantemente dal prete.
Suzanne scosse la testa, per quei ragazzi sfortunati non c’era più nulla da fare.
VI
– E così, cari ragazzi, tra una settimana inizieranno le verifiche. Jeff, Maurice, Josef e Alfred, come sapete, sosterranno l’esame di stato al Dipartimento Cultura. Tutti gli altri invece saranno scrutinati in sede da Padre Robert.
– Non da voi, signora maestra? – chiese a bruciapelo il piccolo Benjamin, compagno di banco di Jeff e famoso per la sua abilità del lanciare palline di caccole.
– No Benjamin, io stasera parto per la California. Sabato prossimo mi sposo.
– No! – urlò Jim, facendo quasi cadere per terra i compagni dei banchi vicini.
– Cosa no? Vuoi che resti zitella per tutta la vita?
– No, insomma, chi sposate?
– Jim caro, io sono fidanzata da otto anni. Si chiama Chris, lavora a Los Angeles. Non sei contento per me?
– No! Perché, maestra? Io…
– Tu cosa?
Jim tacque, lo sguardo durissimo di Suzanne lo avvilì. Lei andava via e si sarebbe concessa a un altro. Raccontava padre Robert che il sesso prima del matrimonio fosse un peccato ancora più grave del toccarsi, glielo diceva in confessionale, l’unico posto dove poteva parlare liberamente senza essere picchiato o punito. La maestra non avrebbe più dormito lì vicino, forse non sarebbe tornata. Diceva padre Robert che un uomo e una donna che si sposano devono formare una famiglia e restare uniti fino alla morte.
– Maestra, l’anno prossimo tornerete?
– No Jim, ormai sei grande. A settembre verrà un’altra maestra, più brava di me; vedrai, imparerai tante cose nuove – rispose seccamente Suzanne, raggelando l’intera classe.
Jim non disse più nulla, smise di seguire la lezione di inglese e durante la dettatura riempì il quaderno di pupazzetti con tre gambe. Anche Suzanne se ne accorse, ma spaventata dallo sguardo perso del ragazzo, preferì non punirlo.
Dopo la ricreazione i bambini scesero in cortile per la lezione di educazione fisica. Sancta Spes non disponeva di palestre e pertanto il poco sport concesso agli orfani era circoscritto alle belle giornate primaverili.
Padre Jerome separò due squadre, bilanciando i più piccoli e i più grandi e lanciò la palla ovale in mezzo. Fratel Berthold inchiodando vecchie travi aveva tirato su delle rudimentali porte a forma di Y, in fondo il football era più semplice del baseball e non richiedeva attrezzature di sorta.
La zuffa si scatenò subito, i rossi, capitanati da Herbert il ciccione, stavano avendo nettamente la meglio. Jim, relegato sulla linea di difesa dei blu, non partecipava al gioco sottraendosi agli scontri. Tuttavia quando Benjamin schizzò libero verso le cinquanta iarde, Jim si scosse e con una naturalezza che lasciò sconvolti perfino i suoi animaleschi compagni di squadra, atterrò lo ‘scaccolatore’ con una gomitata dritta al pomo di adamo.
Benjamin morì sul colpo mentre Jim, con estrema naturalezza, scalciava la palla verso gli attaccanti.
Nella concitazione del momento, mentre fratello Berthold e padre Jerome cercavano disperatamente di rianimare il ragazzo, solo il preside mantenne la calma e, dopo essersi affacciato sul cortile, si chiuse a chiave nel suo ufficio restandovi per oltre mezz’ora.
I soccorsi arrivarono dopo che padre Robert era già uscito e il medico accorso in ambulanza non poté che constatare il decesso del povero Benjamin. Il colpo di Jim aveva già a prima vista spezzato la spina dorsale del bambino e con essa la trachea, come dimostrava un principio di cianosi sulle guance. Al momento di stendere il referto, il medico non credette alla storia dell’incidente di gioco e, fra le proteste dei preti, decise di allertare la polizia distrettuale.
– Dottore, se intende refertare alla polizia faccia pure, l’avverto che poco fa ho già provveduto a notiziare lo Sceriffo in persona. Dovrebbe essere qui a momenti.
Il medico, un giovane di bell’aspetto in evidente ricerca di gloria, non rispose nemmeno e dalla radio contattò il più vicino posto di polizia. Evidentemente la
risposta non fu quella che si aspettava, difatti scuro in volto salutò a stento il preside e diede ordine di ripartire, lasciando il cadavere sul lettino dell’infermeria.
Dopo poco arrivò la grande auto dello Sceriffo e padre Robert diede l’ordine perentorio di portare i ragazzi a fare la doccia, dopo di che tutti sarebbero andati in sala studio con la maestra e padre Samuel. Solo Jim doveva essere accompagnato nel suo ufficio.
– Perché hai ucciso Benjamin? – lo interrogò fratello Berthold in bagno.
Jim si asciugò i capelli, irsuti e già radi, senza rispondere.
– Ho fatto una domanda. Perché l’hai ucciso? Ti ho visto, quello era un colpo mortale e so che l’hai fatto apposta a rompergli il collo. Lo sai che andrai all’inferno per questo?
– Padre – rispose indossando la giacca con estrema lentezza – io all’inferno ci sono nato e per me dopo morto non cambierà nulla.
– Tu non sai cosa ti aspetta là fuori: il riformatorio, la galera, la fame! Le città sono piene di assassini, criminali, prostitute. Qui hai chi si prende cura di te, un posto a tavola, un tetto. Ora lo sceriffo vuole parlarti, cerca di rispondergli come si deve, lui non è buono come noi.
Jim sgranò gli occhi. – Vuole dire che lo sceriffo mi porterà via?
– Non lo so Jim, hai quasi quindici anni, potrebbe mandarti al riformatorio, in mezzo ai giovani delinquenti. Mostrati pentito di quello che hai fatto, dì che è stato un incidente.
Jim annuì, infilò le scarpe che il novizio gli aveva lucidato e s’incamminò verso l’ufficio di presidenza. Padre Berthold appariva molto più spaventato di lui e non capiva perché.
Lo Sceriffo era un omone più alto di Padre Jerome, grasso e corpulento. Indossava una curiosa divisa azzurra completata da un ampio cappello a falda larga, ma senza stella sul petto.
– Dunque, tu saresti Jim Sanders, vero?
Il ragazzo rimase interdetto, accanto allo sceriffo c’era il preside che lo guardava con evidente ostilità e seduta poco lontano la maestra, scocciata e con l’occhio fisso sull’orologio a muro.
– Ho fatto salire anche la sua maestra – intervenne padre Robert – per metterlo a suo agio. È un bambino difficile ma non è un assassino.
– Bene, nessuno pensa il contrario – concluse lo sceriffo. – Allora giovanotto, mi vuoi raccontare cos’è successo quest’oggi?
– Sceriffo, scusi…
– Cosa c’è? Vuoi raccontarmi allora dell’incidente di gioco?
– No, è che…
– Cosa? Hai paura di me?
– No, è che mi ha detto fratel Berthold…
– Chi?
– è un novizio laureato in pedagogia – s’intromise di nuovo padre Robert – anche lui ha accettato di espiare in questo orfanotrofio.
– Già, immagino – chiosò lo sceriffo – Bene, allora mi vuoi raccontare finalmente? Quello che hai fatto tu e come lo ricordi tu e soltanto tu. Non mi interessa cosa dice questo Berthold.
Jim fissò ancora l’enorme mole dell’uomo, tossì quando lui, spazientito aspirò una copiosa boccata dalla pipa, poi cercò gli occhi della maestra, che finalmente gli sorrise.
– Signore, forse sarebbe meglio se lo assistesse uno psicologo – intervenne Suzanne.
– Non si immischi, signorina! – la gelò padre Robert. – Jim, non hai niente da temere e qualunque storia ti abbia raccontato fratel Berthold dimenticala. Qui sei tenuto a dire cosa è successo e nulla di più. La verità, ricordi il terzo comandamento? Non peccare e parla. Ora!
– Signore, oggi ho dato una gomitata a Benjamin perchè…
– Perché?
– Perché lo odiavo. Lui diceva sempre che aveva una mamma e un papà e che dopo gli esami sarebbe tornato a vivere con loro. E poi a mensa mi tirava sempre le sue caccole nel piatto. L’ho picchiato tante volte, ma non la smetteva lo stesso e poi padre Jerome e padre Samuel davano sempre la colpa a me, perché sono più grande e poi non porto pazienza. La notte non voleva mai farmi i succhiotti, diceva che il mio birillo era troppo amaro e invece li faceva sempre a Jeff e a Miki. Era uno schifoso bugiardo e doveva morire. L’ho ucciso per questo. Giuro sulla Croce di Gesù che l’ho fatto apposta a ucciderlo. E ora portatemi con voi al riformatorio!
Jim vomitò l’autoaccusa tutta d’un fiato, ma il sorriso che si allargò sul faccione dello sceriffo lo colse alla sprovvista.
– Ah! Ah! Ah! Vuoi venire in riformatorio? E sentiamo, perché ci tieni tanto? Cosa ti hanno detto?
– Cosa ti ha raccontato fratel Berthold? – ruggì il preside.
Suzanne a quel punto non resse e maledicendo se stessa per avere accettato quell’incarico difficilissimo, se pure molto ben remunerato, infilò la porta e andò via. Mentre sceriffo e preside continuavano a incalzarlo di domande vide dalla finestra il vecchio SUV puntare verso la strada asfaltata, lì dove non era mai andato. E capì che quella era anche la sua direzione, in tutti i sensi.
– Ho detto quelle cose perché voglio uscire di qua. Non mi piace vivere tra voi, siete cattivi. Lo so che non avrò mai una mamma e un papà, non li voglio più. Però mi piacerebbe trovare una fidanzata e andar fuori la sera, come fa la maestra. Gli altri ragazzi guardano la televisione, qui invece la vede solo padre Robert mentre dormiamo. Poi i preti la notte bevono i liquori e il vino, li ho spiati, voglio assaggiarli anch’io. Dice padre Berthold che al riformatorio insegnate il lavoro ai bambini perduti e che ci sono anche le bambine. Sceriffo, portatemi con voi, mandatemi al riformatorio! Voglio lavorare e avere una vita normale! – e scoppiò a piangere disperato. A un urlo del preside intervenne padre Samuel, che sollevò il bambino di peso e lo portò via.
– Padre, che dirvi? Non posso incriminare un bambino incapace di intendere e volere. Del resto sul caso presto interverranno gli stessi soggetti che hanno costruito questo manicomio. Siete stato eccezionale a dare una parvenza di normalità a questi piccoli folli, ma non potete fare miracoli. Lo Stato dovrà assumersi le sue responsabilità e poi in fondo oggi non è successo nulla. Nessuno tra i vostri orfanelli avrà mai una vita, il morto per voi è solo un problema in meno.
Padre Robert tacque, malgrado la nota rudezza era stato scosso dalla morte di Benjamin e lo sfogo accorato di Jim l’aveva provato fin troppo per i suoi sessantanove difficili anni. Porse una bomboletta allo sceriffo, che si irrorò bocca e naso, poi lo salutò. Per quanto ancora avrebbe retto?
VII
– Jim, questa è opera tua! – urlò padre Benedict, prete e insegnante di sostegno giunto a Sancta Spes tre anni prima al posto della maestra Suzanne.
Jim osservò con indifferenza il cadavere semi carbonizzato del gatto vicino ai secchi dell’immondizia.
– No, non sono stato io.
– Ascolta ragazzo mio, fra pochi mesi sarai maggiorenne e se a fine giugno supererai gli esami di ottavo livello potrai perfino cercarti un lavoro stabile. Cosa ti costa smettere di fare ragazzate? Che ti hanno fatto i cani, i gatti e le galline? Uccidere un animale è un grave peccato.
– Padre, noi mangiamo ogni tanto la carne e proviene da animali morti, no? Allora siamo tutti peccatori.
Il prete si morse la lingua. Aveva già affrontato quel discorso una mezza dozzina di volte e Jim continuava a irriderlo con quelle risposte idiote.
Negli ultimi anni il ragazzo era cresciuto, superando il metro e ottanta. Tuttavia, aveva sviluppato una postura curva, i capelli resistevano solo ai lati della testa e pur avendo braccia grandi e forti, per tutto il resto appariva molto gracile.
– Fra qualche giorno verranno delle famiglie a vedervi. Non ti piacerebbe essere adottato?
– Padre, ancora questa storia? Avevo sette anni quando vidi uscire l’ultimo di noi. Secondo me quelle famiglie vengono qua soltanto per divertirsi, vedono le nostre facce e poi escono di qua ringraziando il vostro Dio di non essere come noi.
– Cosa dici?
Jim riprese a rastrellare l’aia senza rispondere. Quel giorno padre Robert lo aveva interrogato in storia e lui aveva fatto quasi scena muta. Glielo dicevano tutti che dopo aver compiuto i diciotto anni sarebbe stato libero di uscire e andare dove voleva, ma il pensiero di ritrovarsi completamente solo in un mondo sconosciuto lo faceva star male. Sapeva di essere brutto, non riusciva a concentrarsi sui libri più di qualche minuto e non era capace di fare nulla. Che fine lo aspettava?
Per quella sera erano previste le vaccinazioni, un appuntamento che odiava. Ai ragazzi sarebbe toccato aspettare in fila per ore davanti alla porta dell’infermeria, dove sarebbero stati visitati da un medico con le stellette sul camice. Al solito avrebbero risposto alle sue domande e ricevuto una puntura dolorosa nell’incavo del braccio, per poi risvegliarsi la mattina dopo oppressi da un mal di testa atroce.
Con la coda dell’occhio Jim colse un movimento fra le erbacce non ancora estirpate. Forse si trattava di un riccio.
Non appena padre Benedict si allontanò, riprese a scrutare la vegetazione incolta e al primo movimento degli steli si precipitò a frugare. Si trattava di un temibile istrice nero, bestia che secondo fratel Berthold scagliava le spine negli occhi. L’esserino s’immobilizzò espandendo i suoi aculei e spaventando il ragazzo. Lo stuzzicò con i denti del rastrello, ma l’animale rimase immobile. Ricordò che nella stalla c’erano dei pesanti stracci di lana, un tempo utilizzati per proteggere le mucche dal freddo e accarezzò un’idea piacevole.
Dopo qualche minuto si precipitò sull’aia e, distogliendo gli altri ragazzi dalla sarchiatura, propose loro di fare quattro tiri col pallone.
Ovviamente dopo un paio di calci qualcuno avvertì dolore ai piedi, le loro scarpe di tela non erano abbastanza robuste per resistere agli aculei dell’istrice. Jim continuò a incoraggiare gli altri divertendosi un mondo, fino a quando non rimasero tutti per terra con i piedi sanguinanti.
– Fifoni che non siete altro, guardate me! – e nel dir questo atterrò a piedi uniti sulla palla di stracci sporchi che fungeva da pallone.
L’istrice morì schiacciato, esplodendo in un denso grumo di sangue e interiora. La coperta si tinse di rosso ma nessuno se ne accorse, presi com’erano a estrarsi gli aculei dai piedi. Jim aveva calpestato il povero istrice con massicce suole di legno e si ferì solo di striscio a un malleolo, così poté continuare a prendere in giro gli altri fino al ritorno di padre Benedict. Il prete svolse la vecchia coperta, vide il povero istrice ridotto in stato pietoso e l’intera classe dei grandi china a sfregarsi i piedi sanguinanti, tranne il maledetto Sanders che invece rideva a crepapelle. Afferrò Jim per la gola, ma il ragazzo con un guizzo gli sferrò un cazzotto tremendo sul naso, mandandolo al tappeto.
Padre Robert, accorso alla finestra, ordinò subito a padre Jerome e padre Samuel
di pensarci loro.
Sanders cresceva in fretta, presto avrebbe avuto ragione anche dei due preti più robusti, non poteva più restare.
– Allora giovanotto, come te la i con padre Robert? È buono, vero?
Padre Jerome lo scosse – Rispondi al maggiore!
– Maggiore, se glielo dico potrei evitare la puntura? Ogni anno fa più male.
– Giovanotto, le vaccinazioni servono a immunizzarvi dalle malattie più pericolose. L’iniezione brucia un po’, ma poi dormi e…
– E al risveglio mi sento la testa piena di cacca. No, preferirei non farla.
– Su, non avere paura. Un ragazzone come te, quanti anni hai?
– Diciassette.
– Lo sai che l’anno prossimo potresti già arruolarti nell’esercito? Non ti piacerebbe la vita militare? Vedresti tanti posti nuovi, avresti una divisa, impareresti molto più che stando in una fabbrica a spingere leve. E poi non sai
quanti amici…
– Ci sono anche le donne?
– Certo, quasi un terzo dell’esercito è composto da soldatesse. Cominci a pensarci presto, eh!
Jim sorrise.
– Bene. Se vuoi arruolarti però dovrai fare per forza la vaccinazione antivaiolosa. È l’ultimo richiamo. Scopri il braccio.
– Ho cambiato idea, maggiore. Non voglio andare nell’esercito, sarebbe come stare qui, sempre a obbedire, costretto a fare quello che mi dicono gli altri.
L’ufficiale medico si scambiò un’occhiata con padre Jerome. Il prete, infuriato, afferrò Jim per le spalle e di peso lo scaraventò sulla lettiga. – Ora il maggiore ti vaccinerà. Prova a muoverti e l’ago ti si spezzerà nel braccio, allora sì che saranno dolori. Non fare lo stupido o quelle che hai preso oggi saranno niente!
Mentre il prete gli serrava il braccio destro il Maggiore infilò la siringa, strappando al ragazzo un grido di dolore. Dopo un attimo Jim perse conoscenza e padre Jerome spinse la lettiga fino alla camerata dei grandi, dove altri sette ragazzi già dormivano profondamente. Fece rotolare Jim sulla sua branda e tornò ad assistere l’ufficiale medico, maledicendosi per quella fatica che doveva sopportare una volta l’anno.
Alla fine anche i bambini della classe inferiore furono vaccinati e il maggiore si congedò dal sempre più spento padre Robert.
– Adesso dovreste stare tranquilli per un anno, non vi infetteranno e almeno per i primi tempi saranno meno nervosi.
– Lo spero dottore – rispose il preside – il governo sembra essersi dimenticato di noi e con un organico ridotto così – e indicò i confratelli – presto dovremo dimetterci. Siamo stanchi, invecchiati, perfino fratello Berthold che ha trent’anni ne dimostra dieci di più. Questi ragazzi sono incontenibili, crescono storti, soffrono la solitudine e presto qualcuno dovrà dirci cosa farne.
– Stia tranquillo, padre. Presto avrete le risposte, so che a Washington qualcosa bolle in pentola.
Il maggiore scese nel piazzale e raggiunse l’auto di rappresentanza, dove lo attendeva un autista in divisa verde oliva.
– State tranquilli, a presto! – li salutò prima di sparire a tutto gas verso la strada asfaltata. Dopo poche decine di metri l’autista inchiodò e fu costretto a scartare bruscamente.
– Una carogna, scusi maggiore.
L’ufficiale ordinò all’autista di fermarsi e scese sul sentiero sterrato. Un grosso
cane meticcio giaceva esanime con mezzo corpo carbonizzato.
‘Quel prete ha ragione, bisogna provvedere subito’ pensò, ripartendo verso la città.
VIII
I bambini erano stati riuniti in biblioteca e fatti sedere nell’emiciclo di legno che un tempo adibito alle recite di Natale. Quella domenica la messa si sarebbe tenuta di pomeriggio, padre Robert aveva dedicato l’intera mattinata al ricevimento degli ‘ospiti’, famiglie senza figli selezionate dai servizi sociali. Erano anni che nessun estraneo veniva ammesso in Sancta Spes e molti bambini, trovatisi di fronte a coppie di aspiranti genitori più o meno giovani, rimasero a bocca aperta. Tutti avevano ricevuto divise e biancheria pulita, le scarpe erano state spazzolate e lustrate alla perfezione, ma il rigido silenzio di quel faccia a faccia si tagliava col coltello.
Fu padre Robert a rompere gli indugi, ordinando a fratel Berthold di offrire bevande e dolcetti secchi ai visitatori. Padre Samuel all’organo suonava una litania talmente triste da spingere il preside a interromperlo.
– Signori, come sapete – si schiarì la gola padre Robert – il nostro orfanotrofio, gestito da noi su concessione governativa dal 1997, ospita venticinque bambini e ragazzi di sesso maschile. Si tratta di bambini deboli, come potete vedere. Tuttavia, grazie all’aiuto del Signore e alle sovvenzioni del Congresso, siamo riusciti a farne dei piccoli uomini. Tutti i ragazzi sono scolarizzati, pacifici e rispettosi, osservano il Vangelo e partecipano con profitto alle funzioni.
– Ma è il preside o un venditore di tappeti? – borbottò un omone grasso e baffuto che sedeva da solo in prima fila.
Padre Robert captò quella battuta, come anche il risolino che serpeggiò fra gli altri visitatori.
– Signori, nel rinnovare il nostro benvenuto, vi invito a parlare ai bambini. Sono timidi e molti di loro non hanno nemmeno un ricordo dei genitori naturali, quindi siate cauti. Vedrete che vi ameranno.
Voltatosi a controllare gli orfani sugli scranni, padre Robert si accorse subito che mancava Sanders. Un miagolio selvaggio dall’esterno dimostrò che Jim aveva colpito ancora.
Dopo pochi istanti la porta della biblioteca fu aperta di colpo e padre Jerome e padre Benedict entrarono gravemente, tenendo a braccetto un ragazzone dalla divisa impolverata.
Il Preside, mordendosi la lingua, sciolse l’imbarazzo: – Lui è Jim, il più grande.
A sorpresa l’omone che aveva scherzato poco prima andò a pararsi di fronte al ragazzo, che aveva preso posto sullo scranno più basso.
– Tu sei Jim, vero?
– Sì. E tu chi sei?
– Non ti ricordi di me? Sono zio Thomas, il fratello di tuo padre.
– Mio padre? Io non ho mai avuto nessun padre.
Padre Robert si precipitò al loro fianco, temendo in un altro colpo di testa del ragazzo.
– Forse non ricordi, ti ho tenuto in braccio, avrai avuto due anni. Eravamo a casa dei tuoi a Buffalo, non sai quante ora di macchina percorremmo io e tua zia per trascorrere il Natale con voi. Sono lo zio Tom!
– Quello della capanna?
– Jim, non fare l’insolente! Di sicuro il signore si sbaglia, ma tu non puoi scordare le buone maniere. Ora scusati.
– Per che cosa?
‘Zio Tom’ sorrise divertito da tanta ostilità.
– Padre, anche se il giovanotto non si ricorda di me posso dimostrarle di essere suo zio paterno e il suo unico parente in vita. Vorrei portarlo via con me.
– Cosa? Cioè, venga nel mio ufficio. Jim, saluta questo signore così gentile.
– Ciao zio Tom! – chiosò il ragazzo, con lo sguardo fisso sul seno di una giunonica aspirante mamma.
– Lei chi è?
L’omone rivoltò il bavero del pesante cappotto, mostrando un distintivo.
– Bene. Allora sapete che…
– So tutto. Ho parlato qualche giorno fa con l’ufficiale sanitario e sono venuto a prendere Sanders, il più grande e, da quanto ho capito, la fonte dei vostri problemi.
– Non è solo lui, l’intero gruppo è irrecuperabile. Li ha visti?
– Certo che sì. Non c’è un briciolo d’intelligenza in quegli occhi, hanno tutti la pelle floscia, sembrano già vecchi, poveretti. Tuttavia, come lei ha ricordato al maggiore Minnok, entro un anno alcuni di loro saranno maggiorenni e questo è un problema. Non è possibile introdurre dei ragazzi infettivi e squilibrati nella società. Dovremmo attrezzare degli ospedali psichiatrici apposta per loro e ciò non è ugualmente possibile: i costi sarebbero proibitivi e il pericolo di una fuga di notizie anche. Perfino a Santa Monica qualcuno mormora che la vostra baracca sia una specie di postribolo di assassini e appestati. Tutte storielle senza senso, ma al Governo non piacciono le chiacchiere.
– Cosa farete, allora?
– Adotteremo uno per volta i più grandi e li porteremo via. emo tutte le precauzioni del caso e chi lo sa, magari qualcuno di loro avrà una vita più piacevole.
– Mi sembra una pessima soluzione. Come farete a tenere questi ragazzi in casa? Sono quasi tutti piromani, soffrono di disfunzioni sessuali, scatti d’ira incontrollata…
– Non siamo stupidi, prete. Del resto se hanno deciso così – e alzò gli occhi al cielo – evidentemente non c’è altro da fare.
– Ma poi cosa ne sarebbe di loro? Voglio dire, se gli adottanti non volessero più tenerli.
– In tal caso chiederemo istruzioni. Stia tranquillo, nessuno dei vostri ospiti è minimamente interessato ad adottare quei mostri. Non per ora. Pian piano però il vostro orfanotrofio si svuoterà e potrete godervi in pace la pensione.
Padre Robert tacque. Forse il Signore aveva accettato il suo pentimento, l’espiazione dei suoi gravissimi peccati di gioventù stava volgendo al termine.
– Quando verrete a prendere il ragazzo?
– Domani verrò a trovarlo, poi rierò nel giorno degli esami e lo porterò via. Aiutatemi nella recita però, sarà anche stupido ma ho visto in quegli occhi un
paio di lampi di odio. Sembrava volesse uccidermi.
– Se è per questo, temo che ne sarebbe capace. Mi raccomando a lei, sia prudente.
– Al limite – ed estrasse una massiccia rivoltella di precisione – lo restituisco al vostro Dio con un po’ di anticipo.
– Non lo faccia mai!
– Lo speri, prete.
– Allora Jim, che ne diresti di andare a vivere da tuo zio?
– Quel ciccione? Che ne so? Io non lo conosco.
– Non saresti felice di andare a vivere in una casa con i tuoi familiari? Avrai una stanza tutta tua, vestiti puliti ogni giorno, potrai fare la doccia quando ti va, mangerai cibo genuino.
– Padre, io fra sei mesi sarò maggiorenne e voglio andare via. Lasciare questo posto per chiudermi da un’altra parte non mi piace. Voglio essere libero.
– Jim, la società non permette ai bighelloni di sopravvivere. Dovrai studiare o lavorare, non si può oziare tutto il giorno.
Il ragazzo tacque con gli occhi bassi, poi lasciò la presidenza e si diresse in silenzio sull’aia. Non c’erano gatti a portata di mano, il pollame si era ritirato, a distanza vide un coyote che fiutava qualcosa nell’orto, ma quei piccoli cani erano troppo veloci e non era mai riuscito ad acchiapparli.
Una mano si posò sulla sua spalla.
– Allora? Cosa vuoi fare?
– Nulla padre Jerome, anzi andrei a studiare.
– Perché non sei venuto a messa?
– Mi annoio.
– La parola di Dio non serve a divertire, ma a formare le coscienze.
– Allora io ho una coscienza sformata!
Scuotendo la testa padre Jerome raggiunse i confratelli nel refettorio e ordinò a
Jeff e Matthew, i più svegli, di aiutarlo ad apparecchiare.
Poco dopo padre Maurice, aiutante del cuoco padre Michael, calò l’orzo e il sorgo nel paiolo e prese a rimestare con calma. Sarebbe occorsa almeno un’ora per rendere commestibile quella sbobba.
Padre Samuel e fratello Berthold stavano caricando piatti e posate di plastica sul carrello da portata, quando furono sorpresi da strani bagliori rossastri. Il riflesso sulla cella frigorifera era molto nitido e tutti si precipitarono in cortile urlando.
Il tronco di una vecchia quercia secolare era in fiamme e per fortuna il fogliame sparso in terra, umido per via delle piogge stagionali, impedì all’incendio di propagarsi.
Immediatamente fratello Berthold andò a cercare Sanders e lo trovò nella sala dei compiti, immerso nello studio di Abraham Lincoln.
– Jim, se mi dici come hai fatto non ti spacco la faccia.
– Cosa? – rispose il giovane senza alzare lo sguardo dal libro.
– Come hai fatto ad appiccare un incendio del genere sul legno umido?
– Indovina?
Padre Berthold assestò una scoppola sulla nuca a Jim, che sbatté la testa sul tavolo. Provò poi a sollevarlo, ma il ragazzo si alzò di scatto e gli sferrò un pugno in faccia, scheggiandogli gli incisivi.
– Nello scantinato. A pane e acqua fino agli esami. – Ordinò l’affranto padre Robert.
IX
– Caro prete, mi dispiace che abbia reagito così. Io di scienza non capisco nulla, ma so che quel composto non è affidabile, ognuno reagisce a modo suo.
– Ce ne eravamo accorti tanto tempo fa. Alcuni ragazzi, in particolare quelli di colore sembrano stare meglio, studiano, frequentano la messa e la catechesi. Altri dormono di più e fanno fatica a tenere gli occhi aperti, almeno per i primi mesi. Ma alle volte quella roba li esaspera, diventano diavoli. Poco fa abbiamo dovuto puntellare una quercia bruciata per evitare che ci crollasse addosso e meno male che ieri sera ha piovuto, altrimenti non so come sarebbe andata a finire.
– è solo lui il piromane?
– In questi giorni sì, ma qualcun altro stamattina ha inchiodato un pollo vivo al capanno degli attrezzi e gli ha dato fuoco.
– Bene, veniamo a noi – cambiò discorso lo Zio Tom – Io devo presentarvi una regolare domanda di adozione a nome mio e di mia moglie. Questi – e gli ò una cartellina di plastica – sono i certificati che attestano la mia parentela con Sanders. Georgina invece l’ho sposata in seconde nozze e non ha alcuna affinità col ragazzo. La prego di avviare la pratica.
– Pensavo che aveste già provveduto voi del Governo.
– è meglio seguire le procedure ordinarie, daremo meno nell’occhio.
– Bene, come sa i tempi di risposta della Procura distrettuale possono variare da due a sei mesi.
– Per quello non si preoccupi, saranno molto più svelti. Nel frattempo abbiate cura di Jim, mi serve vivo.
– Stia tranquillo, nello scantinato non può nuocere a nessuno, nemmeno a se stesso.
Lo zio Tom si alzò, facendo cigolare la sedia e uscì maestosamente, sorprendendo i bambini più piccoli che giocavano a rincorrersi nei corridoi. Raggiunse la sua vecchia Pontiac e, maledicendosi, rientrò rapidamente nella palazzina.
– Cosa c’è signor Sanders? – gli chiese il vicepreside padre Jeremy.
– Mi chiamo Curlig, padre.
– Ma siete lo zio paterno.
– Certo, ma il cognome Sanders glielo avete assegnato voi. In ogni caso i vostri diavoletti mi hanno forato tutte e quattro le ruote, vorrei sapere se avete dei copertoni di ricambio.
– Non credo, cioè non so, io mi occupo di liturgia e di catechesi. Berthold!
Fratel Berthold uscì dalla sala dei compiti e andò subito a verificare i danni all’auto. Purtroppo i copertoni erano stati squarciati irrimediabilmente e non c’era nulla da fare.
– Signor Sanders, io ho in magazzino dei vecchi copertoni per furgone. Se vogliamo provare a…
– Lasci perdere, telefono al soccorso stradale. E per cortesia, mi chiamo Tom Curlig. Capito?
– Certo, – annuì padre Robert tutt’altro che convinto – se nel frattempo vuole trattenersi a cena da noi.
– Perchè, ho scelta? Prima di due ore non potrò muovermi da qui!
Dopo le rituali preghiere, padre Samuel cominciò a suonare motivi religiosi opprimenti, che il signor Tom aveva rimosso da decenni, mentre nell’angolo opposto del refettorio padre Jeremy con voce tremula prese a leggere il solito libro dei Salmi.
Tom Curlig, spazientito da quei pomposi convenevoli, si sedette al tavolo di padre Robert insieme a padre Jerome e al silenziosissimo bibliotecario padre Raphael.
Fratel Bethold e padre Maurice sospinsero il carrello delle vivande, distribuendo un pastrocchio verdastro dall’aspetto ripugnante. Anche l’odore non invogliava.
– Cos’è? – chiese Tom a padre Jerome.
– Credo che sia uno sformato di panna e cereali.
– E mio nipote? Come mai non è a tavola?
– Gliel’ho detto, – intervenne il preside – è in punizione. Qui in refettorio crea troppo scompiglio.
Una risata sguaiata echeggiò di colpo, Joseph aveva svuotato un bicchier d’acqua nel piatto di Herbert il ciccione. Immediatamente i due ragazzi si accapigliarono, incuranti delle mestolate di padre Maurice.
Zio Tom vide ancor più da vicino l’assenza di umanità in quegli esseri, tanto in quelli che continuavano meccanicamente a mangiare quanto nei pochi altri che, al contrario, facevano il tifo per l’uno o l’altro contendente.
– Sembrano radiocomandabili, assistono ma non partecipano.
Padre Jerome spazientito si alzò a separare Joseph ed Herbert e afferrò il primo
per un orecchio, spintonandolo oltre la porta del refettorio. Il ragazzo provò a resistergli ma il massiccio pastore con una forte pedata lo scaraventò lungo sul pavimento.
– Vai a studiare fino a quando non sarà finita la cena.
– Ma io scherzavo! – protestò il ragazzo.
– Io no. Fila!
– Jim è molto più forte e attaccabrighe di Joseph. Capisce a cosa andrete incontro, lei e sua moglie?
– Già, dovrò attrezzarmi contro gli incendi, fare sparire le posate – e nel dir questo sollevò il cucchiaio di plastica consunta – e magari ogni tanto siringargli una pedata, come fate voi.
– Le auguro tanta fortuna! – ironizzò padre Jerome.
Per il resto della cena il signor Curlig non parlò più, assaggiò il vino offertogli dai preti dopo che i bambini ebbero lasciato il refettorio e uscì sull’aia ad aspettare il carro attrezzi. D’un tratto nel buio echeggiò una voce flebile.
– Zio Tom, sei tu?
Si voltò, non c’era nessuno.
– Guarda in basso per favore!
Da una finestrella a livello del suolo intravide una sagoma umana. Alla luce dell’accendino andò a controllare.
– Jim, che hai combinato? Oggi sono venuto a trovarti e ho saputo che sei in punizione. Perché non la smetti di fare ragazzate?
– Ragazzate? Ma io sono un ragazzo, zio.
– Ed è per questo che hai bruciato un albero?
– Sai, mi annoiavo. Qui non si fa mai niente di bello: si studia, si prega, si lavora.
– Allora se vuoi che le cose cambino, comportati bene e diplomati. Così verrai a vivere con me e tua zia e comincerai una nuova vita.
– Ma tu sei veramente mio zio?
– Certo, perché me lo chiedi?
– è che non mi somigli per niente.
– Ma Jim, tu somigli a tua madre. Il tuo papà era diverso da me, meno alto, più magro, era anche più giovane di otto anni. Peccato, morì così presto!
– Io non ricordo nulla, solo di una gabbia di ferro e forse… no, non lo so, cioè. Zio, portami via con te.
– Lo farò. Ma tu fai il bravo e obbedisci a padre Robert. Ti vuole molto bene.
– Ma padre Jerome mi riempie sempre di botte.
– Non farlo arrabbiare. Ti vuole bene anche lui.
– E tu me ne vuoi?
Sorpreso da quella domanda, sorrise.
– Certo che te ne voglio. Ho impiegato quindici anni per capire dove fossi finito. Se non ti volessi bene, avrei creduto subito alla polizia che ti dava per disperso.
Un lampeggiante arancione richiamò l’attenzione dell’uomo.
– Ascolta Jim, sono venuti a prendermi. Tu fai il bravo e vedrai che domattina ti libereranno. Ci vediamo la settimana prossima. Ciao!
Si allontanò di fretta, inseguito dai singhiozzi del ragazzo.
X
– Jim, in questi giorni verranno gli ispettori scolastici a interrogarti per l’esame di livello. Non fare lo stupido e rispondi con educazione, se non ricordi qualcosa non inveire, non serve a nulla. Tuo zio Tom ha richiesto di adottarti e a breve arriveranno anche i servizi sociali per sapere cosa ne pensi. Sei quasi maggiorenne, il tuo parere è molto importante. Pertanto se non vuoi essere affidato a tuo zio dimmelo, evitiamo di fare spendere soldi alla nazione. Dopo i diciotto anni potrai andartene dove vuoi, lo sai.
Jim ascoltò per l’ennesima volta la paternale che padre Robert gli propinava anche tre o quattro volte al giorno.
Era stato riammesso nella camerata e da qualche tempo non combinava guai. Quel giorno avevano trovato un cagnolino ucciso a calci, ma stavolta i sospetti si erano appuntati su Geoffrey l’indiano, un quindicenne taciturno dalle chiare ascendenze navajo, che effettivamente aveva le scarpe sporche di sangue e terriccio.
– Padre, i ragazzi che hanno già superato l’esame sono rimasti qui. Perché non li avete mandati alle scuole dei grandi?
– Perché non hanno voluto, non a tutti piace studiare. Jeff e gli altri ci danno una mano, lavorano la terra, curano le galline. Se vuoi, potrai restare anche tu.
– No, io preferisco andare da zio Tom.
– Dovrai chiamarlo papà.
– No, io non ho e non avrò mai un padre e una madre.
– Vedi Jim, alla tua età non è più possibile affidarti a una famiglia. Se non accetti l’adozione legale, tuo zio non potrà tenerti con sé.
– Ma io la accetto eccome, voglio essere adottato. Solo che lo chiamerò zio e non papà.
Tom Curlig fu convocato dalla commissione distrettuale adozioni e lungamente interrogato da alcuni funzionari ispettivi. L’uomo era in età avanzata e la moglie, assente all’udienza, risultava priva di qualsiasi legame col presunto nipote. Tuttavia i documenti anagrafici inoltrati da padre Robert diedero impulso alla pratica e già alla seconda udienza, tenutasi la settimana successiva, la commissione emise parere favorevole.
Tutto stava procedendo per il meglio.
– Generale Curlig, sto ancora attendendo il rapporto.
– Buona sera Signore. Ho ottime notizie.
– Allora?
– Come d’accordo, il ragazzo verrà sotto la mia personale custodia e gli altri infetti, a quanto ho potuto vedere, sono meno pericolosi. Direi che uno è sufficiente.
– Quando lo prenderete?
– Domani, subito dopo gli esami di middle school.
– Cos’è? Volete iscriverlo a un college?
Zio Tom finse di ridere e si congedò frettolosamente: – No Comandante, però preferirei mantenere una parvenza di normalità. Che razza di zio e padre adottivo sarei, se non badassi all’istruzione del mio nipote - figlio?
– Cazzate! Mi raccomando a lei e al suo team, continuate ad aggiornarci.
– Stia tranquillo.
Il contatto s’interruppe e il Generale della CIA Thomas Curlig, ufficialmente l’agricoltore e militare in pensione Tom Curlig, spense il piccolo palmare di servizio e se lo infilò nella tasca interna del giaccone da camera. Scese le scale di legno che scricchiolavano sotto i suoi centotrenta chili e andò in salotto a versarsi una generosa dose di whisky.
– Tom, bevi continuamente? – lo rimproverò una stridula vocetta femminile.
– Oh, Georgina! Non eri andata a giocare a bridge?
– Ci andrò tra poco, aspetto che i Nemes, facciamo sempre coppia. Smetti di bere, sei grasso e hai quasi settant’anni. Vuoi crepare d’infarto?
L’uomo contenne l’istinto di romperle la bottiglia in testa.
– Fra poco avremo un marmocchio in casa, quindi dovrò restare lucido. Ne approfitto finché posso.
– Ma va, non ti credo, sei sempre stato una fogna! – replicò lei, uscendo dal salone.
– E se lo sapevi, cosa cazzo mi hai sposato a fare? – borbottò lui, versandosi altro whisky. Rimasto vedovo e senza figli all’età di quarantasei anni, l’allora tenente colonnello Curlig si era riscoperto solo, grasso e privo di rapporti sociali al di fuori degli ambienti lavorativi. Le regole del suo dipartimento erano ferree: i coniugi dovevano essere tenuti rigorosamente al di fuori dalla sfera professionale, pena il licenziamento immediato. Al pari del collega Charles Seagan, proveniva dai servizi di commissariato dell’esercito e non era mai stato un uomo da prima linea. Burocrate e manipolatore, aveva sempre goduto di molto credito nei servizi segreti e, dopo la morte di ‘quell’idiota di Seagan’ e del suo team di lavoro, ne aveva preso il posto al dipartimento di ricerca biologica.
Si era risposato con Georgina, vedova di un fattore di Santa Monica, più per non dare nell’occhio che per effettiva necessità. La seconda moglie non era una ficcanaso e nei suoi affari, specie dopo il suo pensionamento dall’esercito, non si era mai immischiata più di tanto; tuttavia ben presto si era rivelata un’indolente arpia priva di desiderio, sciatta in cucina e incapace di sostenere qualsiasi conversazione che non includesse il bridge, la parrocchia e i prezzi della frutta.
Anche se dividevano il letto, in ventidue anni di matrimonio non ricordava di aver consumato più di una manciata di amplessi con quella donna minuta e sgradevole, che puntualmente ricambiava il disprezzo prendendo di mira la sua pancia gonfia da bevitore.
‘Sarà un problema con Jim, due pazzi sotto lo stesso tetto’ pensò, concedendosi un terzo bicchiere. Si addormentò davanti alla televisione e rinvenne ore dopo, quando la moglie rientrò sbattendo la porta.
– Non hai fatto nulla per tutto il pomeriggio, come sempre. Sai soltanto bere. E chi sorveglia gli operai? Poi non prendertela se anche quest’anno andremo in perdita, la frutta bisogna curarla.
– Amore, perché non vai di sopra? Ti raggiungo subito. Ora devo fare un paio di telefonate di lavoro. Scusami, eh! – alzò la voce lui, liberandosi dell’importuna.
Finse di digitare un numero sul telefono fisso, poi uscì in veranda a fumare. I suoi pestilenziali sigari scatenavano in Georgina temibili reazioni salutiste e almeno su quel punto doveva accontentarla.
Sfilò il palmare dal taschino e contattò, sul network dedicato, il suo luogotenente, colonnello Edward Kolosimo.
Provvedere disinfestazione. Irrorare anche Limoni. Ricordare le fragole.
Dopo poco un piccolo trillo segnalò la risposta di Kolosimo.
Ricevuto, diserbanti attivi e macedonia in pronta consegna.
Soddisfatto, spense il sigaro e con o malfermo si trascinò fino in camera da letto, dove Georgina dormiva profondamente.
Poco dopo il rombo di un elicottero in avvicinamento lo rassicurò e voltatosi dall’altra parte finalmente chiuse gli occhi.
XI
– Chi era Abraham Lincoln?
– Era un presidente degli USA.
– Che sai di lui?
– Era alto, tanto alto.
Il commissario governativo aggrottò le sopracciglia. Era la terza non risposta che riceveva da quello strano ragazzo e cominciava a spazientirsi.
– Quanti sono gli Stati uniti?
– Cinquanta.
– Qual è lo stato più grande?
– Il Texas.
– No. Pensaci bene, uno stato freddo, disabitato…
– Il Canada!
– Ma no! Il Canada non fa parte degli Stati Uniti.
– Però padre Robert dice che è grande, freddo e spopolato.
– Insomma basta! – urlò l’anziano docente e fece per alzarsi. Subito però un uomo elegantissimo che sedeva alla sua destra lo prese per un braccio e si chinò a sussurrargli qualcosa.
– Ho capito, però non si può regalare la licenza a un asino del genere – rispose il commissario, continuando a urlare.
L’uomo elegante si scurì in viso e con una sola occhiata riuscì a placare lo sfogo dell’ispettore.
– E va bene. Dimmi almeno da quante particelle è composto l’atomo.
Jim rimase interdetto, ricordava vagamente di aver letto qualcosa del genere, ma non gli tornava in mente.
– E allora, visto che sei totalmente impreparato, parlami di un argomento di studio che ti è congeniale.
– Dio non esiste.
– Cosa?
– Dio è quel vecchio con la barba che secondo padre Robert ci ha creato con un soffio seimila anni fa
– Jim cosa stai dicendo? – urlò il preside, seduto alla sinistra del docente.
– Padre, avete insegnato il creazionismo?
– Niente affatto. Spiegai la teoria creazionista, ma l’ho trattata come semplice spiegazione simbolica. Noi siamo un ente di diritto pubblico, non un convento.
– Allora Jim, Dio non esiste e non ci ha creati. Vuoi aggiungere altro?
– Sì. Se Dio esistesse, i primi che eliminerebbe sarebbero i preti.
L’ufficio di presidenza fu avvolto dal gelo.
Jim fu lasciato uscire e al suo posto fu interrogato Gerard, un ragazzo balbuziente che camminava a fatica. Tuttavia il suo esame si rivelò molto più spedito e dopo poco arrancò trionfante con un plico fra le mani.
Jim rimase ad aspettare nel corridoio, dalle finestre vide l’enorme fuoristrada di zio Tom che parcheggiava fra il furgone e il pulmino dell’orfanotrofio. Forse si sarebbe arrabbiato per la bocciatura, però a lui di studiare non andava, le parole scritte sui libri scivolavano via, la sua mente preferiva perdersi nell’orrore di una stanza di metallo senza uscite o nel buio di una notte senza sogni.
Altri due ragazzi sostennero l’esame ed entrambi, dopo pochi minuti, uscirono raggianti. Padre Samuel si affacciò sul corridoio e invitò Jim a rientrare in presidenza.
– Jim Sanders, il tuo esame è stato vergognoso. Al posto del tema hai scritto una poesia sgrammaticata piena di allusioni violente e lascive. Il compito di matematica merita E.
L’esame orale merita anch’esso E.
– Va bene, vorrà dire che ripeterò di nuovo l’anno. Sono già stato bocciato tre volte.
– Zitto! Non interrompere il commissario – lo fulminò Padre Robert.
– Dicevo, tu hai un QI di ottantasei, sei quindi nella media e l’esame da te sostenuto è assolutamente insufficiente. Tuttavia sei promosso per voto di consiglio con il giudizio di C – e nel dir questo gli porse un plico.
– Ragazzo, tu hai sofferto tanto e questo lo Stato lo sa. Tuttavia devo avvertirti: se deciderai di proseguire negli studi, dovrai ricominciare tutto daccapo. Il tuo livello di cultura non supera la terza classe elementare; senza impegno e sacrificio, credimi, non andrai da nessuna parte. Pertanto ti suggerisco di cercare un lavoro operativo, lontano dalla vita d’ufficio.
– Vita d’ufficio? Sarebbe come la vita di padre Robert?
Nuovamente il commissario si rabbuiò, padre Robert ruppe il silenzio: – Nessuno dei ragazzi è mai uscito da Sancta Spes. Tutto il loro mondo è qui.
– Capisco, avevate le vostre ragioni per murarli vivi, ma nessuno tra loro, e lui meno degli altri, potrà integrarsi nella società. Perché non li avete convertiti alla vostra fede?
– Consacrati? Intendete questo?
– Insomma, potevate farne dei buoni preti.
Padre Robert guardò il segaligno ispettore come se volesse fulminarlo e mantenendo a stento la calma, rispose: – Il sacerdozio prevede la chiamata del Signore. Se non si ha piena fiducia in Dio non è possibile consacrargli la propria
vita. Purtroppo nessuno fra questi ragazzi ha vocazione. Il sacerdozio cattolico è soggetto a regole ferree.
– Già, immagino – replicò il commissario – qui dentro poi è storia nota. Avvicinate i bambini… al vostro Dio. Anche troppo.
– Mi ascolti! – urlò il preside con il sangue agli occhi – Noi tutti abbiamo scelto di venire a espiare in questo posto isolato, proprio perché pentiti. I bambini sono stati trattati al meglio delle nostre possibilità e nessun abuso è stato…
– Padre, la prego. So che avete svolto un gran lavoro, proteggendo e tirando su questi poveri ragazzi. Ma so anche dei metodi che utilizzavate, molto poco cristiani. Uno dei vostri confratelli è tuttora recluso nel carcere federale di Detroit, dove è oggetto di continue attenzioni da parte di altri detenuti. In ogni caso potevate provare a farne dei monaci, non avrebbero potuto fare peggio di certi vostri colleghi.
Jim ascoltava perplesso quella conversazione, riuscendo a comprenderne alcuni aggi.
L’uomo elegante seduto alla destra dell’ispettore si alzò e ottenne subito il silenzio.
– Il ragazzo è maturo, certi discorsi potete evitarli. Dottor Shepard, se vogliamo andare…
L’ispettore cercò il lungo cappotto e senza salutare uscì dallo studio, seguito da quel personaggio indecifrabile. Mentre chiudevano la porta, entrambi si spruzzarono qualcosa in bocca.
Padre Robert rimase da solo con Jim che, in piedi al centro della stanza, lo guardava senza espressione.
– Scusami ragazzo, a volte i civili credono che la Chiesa Cattolica sia una pattumiera in cui scaricare tutto ciò che non piace.
– Padre, veramente fratello Humphrey è in carcere? Gli altri carcerati lo scopano?
– No, cioè… fratello Humphrey è ridotto da anni allo stato laicale. Lui chiese di lavorare a Sancta Spes per farsi perdonare certe sciocchezze combinate in Africa. Quando si è comportato male anche da noi ho deciso di allontanarlo e stavolta la Diocesi non lo ha perdonato, affidandolo alla giustizia americana.
– Quanti altri anni deve stare dentro?
– Nove, a quanto mi ricordo. Ma che importa? Tra poco verranno i delegati del ministero, vorranno chiederti cosa ne pensi di tuo zio.
– Lo so, era in cortile poco fa.
In quel momento padre Samuel bussò e senza attendere risposta fece entrare lo zio Tom, seguito da tre personaggi dall’aria inquietante.
Erano due uomini e una donna di mezza età, bianchicci e trasandati, dagli spessi occhiali e dall’odore evidente di stantio.
– Padre Robert, il nostro incontro era fissato per le undici.
Il prete diede un’occhiata all’orologio a muro, la lancetta dei minuti era prossima al numero tre.
– Vogliate scusarmi, l’esame di licenza del ragazzo si è protratto più a lungo del previsto. Accomodatevi. – E nel dir questo si sedette alla sua scrivania.
L’uomo che aveva parlato, qualificatosi Brian O’Neil, manager del Dipartimento Family&Welfare, invitò padre Robert a liberare la postazione e si accomodò. Sollecitò gli altri due delegati ad affiancarlo e infine puntò Jim.
– Sei tu James Sanders?
– Sì.
– Bene. Come sai il qui presente Thomas Curlig, fratello del tuo defunto padre Jonathan Curlig e unico tuo parente in vita, ha chiesto di poterti adottare. Sei d’accordo?
– D’accordissimo. Però mio padre si chiamava Sanders.
– Come? È vero quello che dice? – chiese O’Neil.
– No, nel senso che gli uffici anagrafici, essendo figlio di genitori ignoti gli hanno attribuito un cognome a caso – rispose il preside imbarazzatissimo.
Il funzionario parve gradire poco quella spiegazione e si rivolse nuovamente al ragazzo.
– Quanto tempo hai trascorso con tuo zio?
– Poco, qui dentro durante le ore di visita.
L’uomo si volse a padre Robert: – Quante ore la settimana dedicate alle visite?
– Nessuna. Quando il ministero decide di inviarci delle famiglie, dedichiamo loro quattro ore.
– Mi sembra poco in effetti. Vedi James, tu ormai sei un uomo, tra pochi mesi sarai libero di andartene dove vorrai. Oggi hai conseguito il diploma di scuola superiore.
– Signore, io ho conseguito la licenza media.
– Quanti anni sei stato bocciato?
– Tre.
– Bene, dicevo, anche se sei maggiorenne a casa di tuo zio dovrai rispettare delle regole, ti potrebbe essere chiesto di fare ciò che non vuoi o di rinunciare a quello che preferisci. Come mai non hai pensato di abbracciare la religione cristiana cattolica? Non pensi che la Chiesa Romana…
– Signore, odio i preti e a me piacciono le donne.
I tre austeri personaggi non nascosero un sorriso simultaneo.
– Va bene, il ragazzo è consenziente e credo che non ne farete mai un ministro di culto, padre.
– Se me l’avesse chiesto glielo avrei confermato. Jim è un caro ragazzo, ma non ha vocazione per il sacerdozio.
– Vedo – e si volse ai colleghi che lo affiancavano – Voi cosa ne dite?
– Direi – rispose la donna – che è meglio interrogare l’adottante.
Jim fu congedato, mentre zio Tom occupava la sua sedia davanti alla scrivania.
Di lì a poco lo zio uscì sorridendo.
– Saluta Padre Robert e i tuoi amici, ragazzo. Da oggi avrai una famiglia.
XII
Il ‘Ranch’ di zio Tom era in realtà una costruzione in muratura scrostata dal tetto spiovente in tegole grigie. Intorno al caseggiato principale sorgevano una stalla in legno e un recinto per i cavalli. Sul retro si sviluppavano lunghi filari di alberi da frutta.
– Qui coltiviamo mele e pesche, le migliori dello Iowa. Ti piace la frutta, Jim? – chiese lo zio mentre parcheggiava l’auto.
– No, zio. Preferisco la carne.
– Carne? Qui ne mangiamo due libbre al giorno, i nostri bovini sono saporitissimi.
– Mi piace di più la carne di maiale.
– Che gusti! Dirò alla zia di comprarla più spesso allora.
– Cos’altro coltivi?
– Uva da vino. Poca in realtà, qui gli inverni sono freddi. Ma il vino che produco è dolce e gustoso, sapessi quante persone vengono a chiederne.
– Tua moglie non è mia parente, vero?
– No, Jim – e arrestò l’auto – Io sposai Janet, la mia prima moglie, quando tuo padre aveva diciott’anni o poco più. Purtroppo si conobbero poco, in quei tempi io lavoravo a Buffalo.
– Eri nella polizia?
– No, cosa dici?
– Ho sentito che l’ispettore ti chiamava ‘Generale’.
– Non si origlia dietro le porte, Jim. È pessima educazione spiare. Non te l’hanno mai detto i preti?
– No. I preti quando volevano levarmi dai piedi mi mandavano a scopare il cortile.
– Bene, cioè, lo facevano per il tuo bene. Io a Buffalo sono stato per quindici anni generale dell’esercito. Ora sono in pensione e faccio l’agricoltore.
– Capisco. La tua prima moglie è morta?
– Sì, morì di cancro molti anni fa.
– E questa nuova zia chi è?
– Ora la conoscerai, lei ama i bambini e non vede l’ora di conoscerti.
Avanzando fra le pozzanghere Jim fiutò l’aria – Cos’è questo odore strano, zio?
– Ieri notte ho fatto spargere l’antiparassitario, altrimenti bruchi e cavallette rovineranno la frutta.
– Ricordo che questo odore lo sentivamo sempre quando il giorno dopo arrivavano visite. Usavate lo stesso antiparassitario?
– Probabile.
Jim tacque, seguendo lo zio fino al portico principale. Lì c’era ad attenderli una donnetta minuta dai capelli grigi che li guardava con ostilità
– Georgina scendi, ti presento nostro nipote Jim.
La donna si voltò stizzita e rientrò in casa a i svelti.
– Zio, sicuro che a tua moglie piacciano i bambini?
– Sì, ma cerca di capirla: ha sessant’anni e non ha mai avuto figli, un ragazzone come te per lei è una sorpresa.
– Forse mi credeva più bello.
– Non dire sciocchezze. Andiamo, è quasi ora di cena – tuonò varcando l’ingresso.
Jim seguì lo zio su una scala scricchiolante. Entrarono in una mansarda nella quale erano disposti un letto, un armadio, una scrivania e una sedia.
– Questa è la tua stanza. Ti piace?
Il giovane tacque. La scarsa luce del tramonto conferiva all’ambiente un aspetto triste e deprimente. I lucernari dai vetri sporchi, le pareti scrostate e il tetto verde di muffa integravano lo squallore, mobili vecchi e traballanti completavano il tutto.
– Sembra tutto vecchio.
– Lo è. Comprai questa fattoria per poco, era un rudere. Ci ho speso un sacco di soldi, sai? Ora è il momento di dare una bella imbiancata alle pareti. Te ne puoi occupare tu?
– Pitturare i muri?
– Sì. Sei capace di farlo?
– No. A Sancta Spes i muri erano di legno laccato.
– Va bene, imparerai. Ora andiamo, posa la valigia.
Lasciò cadere il bauletto di cartone pressato lasciatogli da padre Jerome e seguì suo zio in salone, dove fra mobili scuri e luci soffuse spiccava un tavolo ovoidale apparecchiato per tre. Zia Georgina apparve da una porta laterale e finalmente andò loro incontro. Jim vide finalmente quella donna da vicino, la sua pelle rugosa e gli occhi di ghiaccio. Indossava un vestito grigio consunto e calzava buffe pantofole rosa.
– Georgina, ecco Jim, nostro nipote. Da oggi vivrà con noi.
– Benvenuto a casa nostra. Non immaginavo che fossi così grande, quanti anni hai? – ruppe il ghiaccio con falsa cortesia.
– Diciassette.
– Bene. Sei contento di essere qui?
– Certo.
– Chiamala zia, Jim – l’incoraggiò Tom.
– Sì zia, grazie.
– Oggi ho preparato agnello al forno e zuppa di asparagi. Ti piacciono?
– Non so che cosa siano.
– Bene, allora sarà una bella sorpresa. Accomodati!
Jim sedette al centro di un lato lungo, di fronte allo zio. A un tratto un grande televisore a parete si illuminò alle sue spalle, facendolo sobbalzare.
– è il notiziario, t’interessa? – chiese zio Tom.
Voltandosi vide per la prima volta delle immagini attuali, ben diverse dai documentari in bianco e nero o ingialliti proiettati dai preti. Rimase a bocca
aperta, fino a quando sua zia non gli mise sotto il naso una scodella ricolma di uno strano intruglio verde.
Il ragazzo fu assente durante la cena, distratto dall’audio del televisore si voltò spesso, specie quando suo zio ebbe l’infausta idea di sintonizzarsi su una partita di football, così sbrodolò malamente la tovaglia. La zia s’irrigidì, poi andò in cucina a prendere le braciole d’agnello.
– Erano buoni gli asparagi? – chiese zio Tom.
– Fanno meno schifo dei fagioli in scatola.
L’agnello invece incontrò i gusti di Jim, il quale però, non abituato a usare il coltello da tavola, afferrò un pezzo di carne direttamente dalla teglia, anticipando sua zia che lo stava servendo nel piatto. Masticò e spolpò famelico, sporcandosi la camicia bianca regalatagli dall’orfanotrofio e irritando ulteriormente la donna.
– Jim, è modo di mangiare questo? Ci sono le posate!
Il ragazzo afferrò forchetta e coltello, poi mise nel piatto una braciola e provò a dividerla. Un pezzo di carne scivolò addosso a suo zio, un altro finì direttamente sul pavimento.
– Jim, non sai usare le posate? Cosa ti hanno insegnato i… – e si arrestò, mordendosi la lingua. Fornire lame a quei ragazzi era fuori discussione.
– Zio, da noi la carne era quasi sempre di maiale o bufalo e la tagliava per tutti fratel Berthold o padre Jerome. Mangiavamo con la forchetta o con le mani.
– Va bene, ho capito. Tua zia ti insegnerà
– Ah no. Glielo insegnerai tu. La tovaglia pulita è da lavare, le vostre camice sono inguardabili. Maiale!
– Non era agnello, zia?
Tom sospirando si versò del vino, seguito a ruota dal nipote.
– Piano Jim, è vino invecchiato, ti farà male.
Il ragazzo ne scolò in breve un’intera caraffa, chiedendone ancora.
– Sei tutto rosso, domattina ti sveglierai con il mal di testa. Smettila!
– Zio, io sento il mal di testa fin da quando apro gli occhi al mattino. Questo coso mi fa stare meglio, per favore dammene ancora.
Sbuffando andò in cucina a riempire la brocca. Al suo ritorno Jim giaceva addormentato con la faccia sul piatto sporco da portata.
– Questo tuo nipote è un selvaggio. Non possiamo occuparcene, siamo anziani e lui così grande e grosso che combinerà quando si arrabbia? Chi lo fermerebbe?
– Io!
– Tu? Grasso come sei ti ammazzerebbe prima ancora che alzi quel culo di merda.
– Zitta! Aiutami a tirarlo su.
Malgrado la stazza, l’anziano zio capì di non potercela fare, Jim russava beatamente a peso morto, trascinarlo su per le scale con l’aiuto nullo di sua moglie era impossibile.
– Poggiamolo sul divano allora.
– Ma l’ho smacchiato sabato scorso!
– E smacchialo di nuovo, cazzo! Vuoi portarlo tu di sopra?
– Mettiamolo fuori.
– Così muore congelato. Chissà come sarebbe contento lo sceriffo!
Georgina sfilò le scarpe di tela al nipote e, obbedendo a un ancestrale dovere d’ospitalità, gli sistemò un cuscino sotto la nuca. Alla fine lo coprì con un plaid e sparecchiò nervosamente.
– Puzza da fare schifo, domani mattina chiama immediatamente il dottor Laurie! Altrimenti…
– Torni da tua madre, lo so.
XIII
Jim dormì fino alle dieci ate, irritando ulteriormente sua zia. Quando finalmente aprì gli occhi si trovò in piena luce, tutte le finestre erano spalancate e le sedie coricate sul tavolo. Georgina ava lo straccio sui pavimenti e imprecava.
– Buon giorno zia.
La vecchia fece finta di non sentire.
Si alzò, incurante delle impronte che lasciava sul pavimento bagnato andò in cucina e bevve del caffè amaro direttamente dal bricco. Afferrò una fetta di pane e la intinse in un vasetto aperto di marmellata, poi masticando uscì sull’aia lasciandosi dietro una scia di briciole frammiste a orme scure.
– Buon giorno Jim. Cosa ti avevo detto ieri sera? Troppo vino fa male, sono quasi le dieci e mezzo, noi siamo in piedi da quattro ore. Non deve ripetersi, qui non sei in albergo.
– Albergo? – sbadigliò lui – Scusa zio, avevo sonno.
Tom stava spingendo la motozappa e voleva che il nipote imparasse a usarla. Il sopraggiungere della sua irritatissima consorte lo spinse ad aumentare il gas e a riprendere l’aratura, ma nemmeno il boato del vecchio motore a benzina riuscì a coprire le urla della vecchia, né le risate cavernose del ragazzo. Decise di
intervenire.
– Giovanotto, ti proibisco di ridere in faccia a tua zia.
– Lei non è mia zia. Lo hai detto tu.
– Per la legge lo è e non rispondere, hai capito? Questa casa non è un ostello, ci si sveglia tutti insieme, si mangia insieme e si va a letto presto. Tra l’altro qui c’è del lavoro per te. Che ne diresti di cambiarti e cominciare?
– Cosa devo fare?
– Hai visto quello che stavo facendo con la motozappa?
– Sì, fa ancora più chiasso di quella di padre Jerome.
– E tu mettiti l’ovatta nelle orecchie. Allora preparati, fra un quarto d’ora devi stare qui. Chiaro?
– Prima fammi cacare. La tua marmellata mi pesa e…
– Non mi importa cosa devi fare. Vai e non sporcare niente!
– Sei troppo tenero, Thomas. È un teppista, vedrai cosa combinerà – s’intromise di nuovo Georgina, mentre il ragazzo si allontanava di corsa.
– Un po’ di pazienza, non sono nemmeno dodici ore che è arrivato. Diamogli tempo.
La donna avvilita rientrò in casa; Jim aveva sporcato di nuovo il pavimento e disseminato impronte perfino sulla scala di legno.
Pochi minuti dopo andò a controllare il bagno padronale e vi trovò una palude di schizzi d’acqua e diarrea. Anche stavolta il suo grido risuonò per tutto il ranch, allarmando perfino gli operai che lasciarono il lavoro nei campi e si precipitarono sull’aia. Erano in sei, tutti di origini asiatiche. Zio Tom li aveva assunti perché laboriosi e taciturni, qualità che prediligeva.
– State tranquilli, come sapete da ieri è venuto a vivere da noi mio nipote e avrà rotto qualcosa in salotto. Mia moglie non è abituata.
– Io visto tuo nipote. Cammina strano, occhio strano.
– Sì è bruttino, migliorerà. Lasciamolo ambientare, fino a ieri è stato chiuso in un orfanotrofio. Andate pure.
I braccianti vietnamiti si congedarono e ripresero a raccogliere le mele. Tuttavia fra loro serpeggiò un vago malumore che li rese estremamente irritabili.
Thomas avvertì quell’insolito nervosismo e quando Jim gli si parò davanti con indosso la ridicola e rattoppatissima divisa da lavoro dell’orfanotrofio, si accorse che malgrado fossero ad almeno cento iarde di distanza, tutti e sei gli operai lo stavano fissando a braccia conserte.
– Eccomi zio.
– Bravo, avevo detto un quarto d’ora e invece ne sono ati tre. Se l’avessi fatto a Sancta Spes che ti avrebbero detto?
– Di sicuro mi sarei beccato una bastonata sulla schiena.
– Quasi quasi te la do io. Allora, tu sai cos’è una motozappa. Sai anche usarla?
– No, fratel Berthold non voleva.
– Bene, io invece voglio che impari. Allora, questa è la manopola del gas…
Con un ghigno feroce Jim accelerò di colpo e l’aratore partì a razzo, trascinandoselo dietro. Tom provò a rincorrerlo urlando come un forsennato, ma non riuscì a impedire che la motozappa si schiantasse contro un pino. Jim rimase incolume e, rialzandosi a fatica, rise di gusto per quella bravata.
– Criminale, costava tremila dollari! Hai rovinato l’orto e l’hai fatto apposta!
– Zio, a me i motori divertono tanto. Fratel Berthold non mi ci faceva giocare mai, ora sono qui e posso finalmente divertirmi.
Esasperato dall’espressione idiota di quel viso, gli sferrò un ceffone fortissimo.
– Io invece mi diverto così. Vieni – e afferratolo per un braccio, lo trascinò fino alla stalla.
– Qui ci sono tre cavalli, due mucche e un torello. Non dare loro niente da mangiare, preoccupati solo di pulire. Raccogli la loro merda e mettila là – e gli indicò un largo bidone di plastica – So che all’orfanotrofio hai fatto spesso questo lavoro.
– Zio, ma devo lavorare per forza?
– Vuoi poltrire tutto il giorno?
– No, ma io pensavo di andare a vivere in città. Qui ci sei solo tu, quella vecchia che grida e i tipi gialli.
Thomas trattenne l’istinto di picchiarlo di nuovo.
– Oggi è martedì. Lavora come si deve ogni giorno e sabato ti porterò in città – Tiratogli dietro un badile, decise di andare in casa a rinfrescarsi.
Dopo poco, mentre sulla veranda aspirava copiose boccate da un avana, un nitrito selvaggio lo costrinse a correre nella stalla. Suo nipote stava frustando Banjo, il suo roano preferito. Corse a togliergli la frusta e lo colpì in faccia.
– Che fai? Sei pazzo?
– Zio, mi ha cagato sulle scarpe.
Livido dalla rabbia, gli sferrò un altro pugno. A quel punto Jim si chinò con le mani sul viso in una maschera di sangue e lui poté ispezionare le ferite: Banjo aveva ricevuto almeno tre scudisciate, una ferita al collo era aperta e rischiava l’infezione. Urgeva un veterinario, ma quando si mise in moto fu affrontato dal nipote che, con occhi di fuoco si avventò come una furia, facendolo cadere malamente di schiena su un cumulo di letame. ‘Non ce la farò mai, bisogna anticipare’ pensò, prima di perdere conoscenza.
XIV
Gli asiatici attorniarono Jim e il loro capo corse a chiamare Georgina.
La zia accorse ciabattando e chiamò subito il medico condotto. Poi telefonò allo sceriffo. La piccola donna era stravolta, il viso imperlato di sudore e gli occhi rivolti al cielo. Quando poco dopo Thomas riprese conoscenza, lei fu la prima a offrirgli il braccio, allontanando gli operai. Ovviamente non riuscì a spostare il marito di un millimetro.
– Cosa è successo? – gli chiese.
– Quel figlio di puttana mi ha scaraventato per terra. Mi fa male tutto.
– Ho chiamato il dottor Laurie. Fra poco arriva lo sceriffo.
– Lo sceriffo? No, cosa… – e si alzò di scatto, sorprendendo tutti i presenti.
– Scusa zio, ma io non sono tuo figlio. Non devi picchiarmi. Io sono venuto da te per essere libero, non per fare lo schiavo.
La stalla sprofondò nel silenzio, rotto solo dai lamenti di Banjo, del quale nessuno si curava.
– Aiutatemi a rientrare – mormorò Thomas – risolverò un problema per volta. Georgina, chiama il veterinario per cortesia.
– Sta arrivando!
– Jim, adesso arriverà la polizia, lascia parlare me se vuoi ancora restare qui. Altrimenti…
– Altrimenti?
– Altrimenti torni dai preti, forse è meglio! Sein e Thuov, tenetelo d’occhio e se fa cazzate rompetegli la faccia!
Due fra gli asiatici annuirono entusiasti.
Il dottor Laurie, anziano medico della contrada noto più per la sua affezione alle bische di Omaha che per le effettive capacità professionali, arrivò dopo una mezz’ora. Senza cravatta, sudato e infastidito per quella chiamata, visitò sommariamente Thomas Curlig e gli prescrisse dei comuni antidolorifici.
– Dottore, è grave? – chiese Georgina simulando un’ansia stucchevole.
– Vostro marito è una quercia, ha solo un bernoccolo. Tuttavia alla sua età
dovrebbe evitare di fare a botte con i ragazzini. L’ho visto quel bullo là fuori, non credo che si sia rotto la faccia da solo.
Laurie pretese per quel consulto ottanta dollari, che la donna gli versò contando le banconote da dieci con studiata lentezza.
– Una volta regolavamo i conti a fine mese, dottore.
– Certo. Una volta, magari prima che qualcuno si impegnasse a sostenermi come sindaco di Council Bluffs.
– Dottore, mio marito fece il possibile e lo sa.
– Georgina, Tom non mosse un dito. Presi centoventi voti e me ne aveva promessi ottomila!
Sbattendo la porta Laurie andò via sotto l’occhio perplesso di Sein e Thuov, i quali in assenza di ordini erano rimasti sull’aia a tenere d’occhio Jim. Al medico non ò nemmeno per la testa di medicare il ragazzo, ancora lurido di fango, sterco e sangue rappreso. Mentre la sua lunga Austin nera sfrecciava verso la statale, un’auto della polizia di Contea lampeggiò in senso opposto.
Lo sceriffo di contea Al Pinkerton, ultimo dei sei figli del noto e ricco mandriano Godfrey Pinkerton, era un po’ più giovane e magro di Tom, simile a lui nel carattere e nei modi rozzi.
– Allora, chi è questo brutto muso? – domandò a Thuov. Il vietnamita non rispose.
– Siete sordi?
Georgina uscì e andò incontro all’uomo, sollevata dalla sua presenza.
– Entra Al, mio marito è coricato.
Lo sceriffo lasciò il suo assistente McCallister accanto all’auto e con un cenno gli ordinò di interrogare quello strano trio.
– Allora Tom, che combini? Ho saputo or ora che hai adottato un ragazzo. Vedo che la convivenza già non funziona
Tossendo Thomas si tirò su a sedere, poi chiese dell’acqua che la moglie andò a prendergli sbuffando.
– Ti dirò, è l’unico figlio di mio fratello minore, morto di cancro sedici anni fa.
– Avevi un fratello?
– Sì purtroppo. Ho scovato questo ragazzo in orfanotrofio qui vicino, da quanto
ne so ha perso anche la madre e allora ho pensato di adottarlo. In fondo io sono tutta la sua famiglia.
– Che strana storia. Non ti facevo così sentimentale, sai? Dunque, hai fatto a botte con questo ragazzo?
– Sì, cioè… lui è malato, un po’ ritardato. Spiegargli qualunque cosa è difficile, forse non sono abbastanza paziente.
– Capisco. Quanti anni ha?
– Fra tre mesi sarà maggiorenne.
– Bene. Allora ascoltami: io non voglio sapere come sono andati i fatti, tu hai scelto di fare il papà a settant’anni e sono affari tuoi. Se riesci a raddrizzare questo ragazzo entro i prossimi tre mesi vivrete tutti felici e contenti. Ma alla prossima chiamata di tua moglie lo raddrizzo io. Due o tre anni fa io fui chiamato in un orfanotrofio religioso a poche miglia da qui e interrogai un bambino stranissimo, sospettato di avere ucciso un altro convittore. Aveva i capelli ed era più basso, ma somigliava molto a questo tuo nipote. È una coincidenza?
– Temo di no, ma cerca di non esagerare, Al – e nuovamente tossì forte – è un ragazzo speciale.
– Tom, forse l’età ti ha rammollito. Quel giovanotto ha una tale faccia da
delinquente che sembra uscito dal riformatorio di Chicago. Perfino i musi gialli che gli hai messo intorno fanno meno paura – si sporse a guardargli dietro la testa – Ti è andata bene, alla tua età è meglio stare sul divano a bere birra. Ho visto Laurie che usciva di qui, non mi ha nemmeno salutato.
– è ancora arrabbiato con noi per le scorse elezioni – s’intromise Georgina.
– Vorrei sapere con chi è che non ce l’ha, quel beccamorto. Un candidato sindaco con seicentomila dollari di debiti di gioco
Lo sceriffo raccolse il cappello e si abbottonò la giubba d’ordinanza.
– Pensa a quello che ho detto, Tom. Non sei uno psichiatra e quel ragazzo non mi piace. Se non si calma…
– Te lo porterò io, a calci in culo! – lo rassicurò.
Tornato sull’aia Al vide che l’agente McCallister stava interrogando serratamente il ragazzo bianco, mentre aveva distanziato i due asiatici.
– Sceriffo, ha confessato tutto! Ha spinto suo zio per terra, dopo che lui l’aveva preso a schiaffi. Guardi, ha anche i segni delle manate.
– Certo, certo. Agente, lui è minorenne.
– Beh, se ha più di sedici anni abbiamo facoltà di arrestarlo!
– Non lo faremo. Ma solo per questa volta. Ci siamo capiti, giovanotto?
Jim lo fissò col solito sguardo insondabile.
– Mi hai sentito? Smetti di fare arrabbiare tuo zio e cerca di lavorare, altrimenti…
– Altrimenti?
– Altrimenti – e a stento riuscì a frenare le mani – ti portiamo in una bella cella di due metri per due, a meditare.
– Per quanto tempo?
– Fino a quando una giuria non ti spedirà al penitenziario! Andiamo! – e con una pacca scosse McCallister, allibito da quella reazione.
Tornando in città il suo aiutante provò a parlargli: – Sceriffo, non era meglio tenerlo per una notte in cella, senza rimproverarlo?
– McCallister, io mi gioco la pensione che quel ragazzo ci creerà un mare di problemi.
– Spero di non doverle dare ragione, in fondo è solo un ragazzotto mezzo scemo.
– Sarà anche stupido come dicono, ma quanti scemi riuscirebbero a stendere con una manata quell’elefante di Thomas Curlig?
XV
Jim nei giorni successivi apparve più tranquillo. Si alzava verso le otto e raggiungeva gli zii a tavola, beveva molto caffè e mangiava pochissimo, poi trascorreva almeno mezz’ora in bagno, salutava e andava ad aiutare gli operai, già attivi da ore. Non parlava mai, manteneva gli occhi a terra e lavorava con evidente svogliatezza. Riusciva comunque a combinare qualcosa, i due asiatici che parlavano inglese lo trattavano solo per dare ordini che lui eseguiva, ando cesoie e irroratori, caricando pallet e ceste sui rimorchi.
Zio Tom aveva ordinato a Sein e Thuov di trattarlo bene e di evitare scontri. Quei due figuri non erano raccomandabili, sicuramente in patria avevano combinato qualcosa. Però lavoravano tantissimo e gli altri operai li rispettavano, in particolare Sein malgrado la statura ridotta incuteva rispetto e timore a tutti. Affidare Jim a quella gente era un azzardo, però se il nipote avesse consumato le sue energie nel frutteto, la sera sarebbe stato stanco e meno aggressivo.
– Allora, vecchio bisonte. Cosa ti ha combinato il nipotino?
– Lasciamo perdere, vorrei capire dove trova tutta quell’energia!
– Miracoli della scienza!
– Già. Per ora si è calmato, non so quanto durerà.
– Stai tranquillo, lo teniamo d’occhio.
– Ok. A giovedì.
Il contatto s’interruppe e Tom, ancora dolorante per la caduta, decise di concedersi il solito avana. Sua moglie era uscita con l’auto piccola per la spesa del martedì e sperò ardentemente che si fermasse a parlare con quelle megere delle sue amiche. Pazienza, avrebbe pranzato tardi, ma un’ora di libertà dalla consorte valeva ben più di un digiuno.
Dopo poche boccate vide avvicinarsi una colonna di polvere e un noto sferragliare ruppe il silenzio del ranch. Era la vecchia Chrysler Neon di sua moglie, un grigio ammasso di ruggine e ammaccature.
La donna scese dall’auto e gli fece cenno di raggiungerla. Ancora claudicante, Tom arrancò per le scale e dopo aver visto le proporzioni del carico nel portabagagli, chiamò il nipote.
– Ma cosa hai comprato? Qui c’è una tonnellata di roba, quanto hai speso?
– Cosa fai, mi controlli? Devo sfamare te, i musi gialli e adesso perfino quel delinquente. Trecentosettanta dollari di spesa non sono tanti.
– Trecentosettanta dollari? Sei impazzita?
– Tom, tu mangi da schifo. Quei gremlins dei tuoi operai se non trovano il pranzo pronto cucineranno noi. Ho preso un po’ di carne di manzo, patate,
pomodori e olio di sansa.
– D’accordo. Jim, per favore, aiuta la zia a trasportare la spesa in cantina. Io non riesco ancora a piegarmi.
Il ragazzo senza rispondere si chinò a raccogliere una cassa di patate e barcollando scese nello scantinato per la scala esterna. Georgina lo seguì sorreggendo a fatica un quarto di manzo, poi dopo pochi i lo lasciò cadere – Lascia fare a me, zia! – intervenne Jim, con ostentata gentilezza. In pochi minuti il giovane terminò di scaricare l’auto e se ne tornò di lena nei campi.
– Tuo nipote sta diventando educato?
Tom tacque. Quella metamorfosi imprevista non gli piaceva per nulla.
Alle diciannove Jim si presentò a cena sporco e visibilmente esausto, salutò a malapena e senza fiatare mangiò carne, formaggio e verdure lesse. Bevve molto vino, ma stavolta non diede segnali di ubriachezza. Tom provò a parlargli, ma il ragazzo rispondeva a monosillabi e nemmeno si girava per guardare la televisione.
– Jim, sabato vuoi andare in città?
– Non lo so zio. Ho sonno.
– Vai a dormire, allora.
Jim si alzò e senza salutare salì nella mansarda, dove si coricò ancora vestito.
– Forse lo fanno lavorare troppo – obiettò Georgina.
– Dirò a Sein di andarci piano.
– Che dici? Se il lavoro lo rende tranquillo lascia che lo stremino, così dorme e non fa danni.
‘E quanto potrà durare?’ pensò lui.
Anche al mattino successivo Jim era apatico e silenzioso.
– Ascolta Jim, come mai non mi parli? Il lavoro è noioso?
– No.
– Ti fanno faticare troppo?
– No.
– Insomma, dimmi cosa c’è che non va. Sono tre giorni che non dici una parola, nemmeno saluti, vai a lavorare, ceni e ti addormenti.
– Quello che vuoi. Anche i gialli fanno così e si alzano due ore prima di me.
– Ma i ragazzi a fine mese sono pagati.
– Anch’io voglio essere pagato.
– Cosa? Tu sei mio nipote, non un operaio.
– Zio, se non mi paghi smetto di lavorare. Sein dice che in città senza soldi è inutile andarci. Ha ragione. Voglio anch’io lo stipendio.
– Cosa? – urlò Georgina – E a noi, che ci siamo presi in casa un debosciato come te, chi ci paga?
– Se non mi volevate potevate lasciarmi dai preti. Ora devo andare, sono le otto e mezzo. Il primo lunedì di aprile voglio milleottocento dollari.
– Perché questa cifra?
– è lo stipendio degli altri.
E, senza dar tempo allo zio di replicare, se ne andò.
– Thomas, i tuoi operai gli hanno riempito la testa di strane idee. Fa il bravo per soldi, ma mangia e dorme a nostre spese, io lavo e stiro la sua roba.
– Georgina, anche se non gli assi il salario dovremo pur dargli qualche soldo, no? Ha diciott’anni, vorrà trovarsi una ragazza.
– Una donna a un simile mostro? Ha le braccia di un Grizzly e il torace rachitico, è curvo, pelato. Quale donna se lo prenderebbe?
– Council Bluffs è piena di puttane. Non lo sai?
– Come fai a saperlo? Magari i tuoi sabati sera, quando vai a svagarti, ti fermi da loro?
– Ogni volta che ti vedo nuda ne ho una fortissima voglia. E ora basta, devo andare in città.
Trattenendo l’ira andò a prepararsi e dopo una mezz’ora buona avviò il SUV verso il confine con il Nebraska.
XVI
– Generale, si è ripreso?
– Sì. Veniamo a noi. Avete gli esami?
– Certo. Nessun negativo.
– I fondi sono liberi?
– Secondo Gerrin saranno liberati a breve.
– A breve. I politici parlano sempre a vanvera. Che significa a breve?
– è quanto ci hanno detto i suoi portavoce.
– E dove sono?
– Sono rientrati a Washington poco fa.
– Ovviamente non sono raggiungibili né intercettabili, vero?
– Come da procedura.
– Me ne sbatto delle procedure! Senza bumba io non muovo un dito.
– Nemmeno noi.
Irritato, Thomas Curlig fissò a uno a uno i suoi uomini. Erano tre militari di carriera, provenivano da esperienze di second’ordine e pur non vantando grandi esperienze al fronte, come lui del resto, erano scaltri e cinici come pochi. Tuttavia in quel momento non potevano aiutarlo, quel vecchio trombone del Segretario di Stato Ubald Gerrin traccheggiava, legando loro le mani.
– Hanno detto altro?
– Sì, di attendere nuove istruzioni e a te, in particolare, di aspettare visite.
– Ma che bello! D’accordo, procediamo.
Lasciarono la minuscola stanza buia e in silenzio, uno per volta, superarono la porta scorrevole, sbucando così nelle latrine di un autogrill di Omaha nel Nebraska.
Dopo aver simulato una pisciata collettiva, uscirono uno per volta nella sala snack e ripresero posto intorno al tavolo occupato poco prima.
Uno dei suoi uomini estrasse un mazzo di carte si e dopo aver ordinato due whisky e due birre, si finsero agricoltori maniaci del poker.
Per accrescere la credibilità, fumarono copiosamente ignorando il divieto e continuarono a bere e schiamazzare o esultare, a seconda del responso delle carte, fino a quando il barista non accorse infuriato.
– Spegnete i sigari, subito. E basta bere, qui non voglio ubriaconi.
– Calmati amico. Stiamo giocando per i fatti nostri – lo affrontò Thomas, continuando ad aspirare dal sigaro.
Il barista fece per afferrargli una spalla, ma uno degli agenti con una mossa rapida quasi gli disarticolò il braccio.
– Smamma pivello, non abbiamo finito!
Urlando di dolore il barista tornò dietro al bancone e subito cercò il cellulare.
– Sta chiamando la polizia, non rischiamo, siamo fuori zona – mormorò Tom agli altri.
– A domani capo.
– A domani!
Precipitosamente il quartetto abbandonò il locale, non prima di aver depositato cinquanta dollari nel rendi-resto.
‘Sempre uguali quelli dello Iowa, tutti pezzenti arricchiti!’ pensò il barista, mentre stracciava il loro conto da ventotto dollari e quaranta.
Thomas Curlig tornò al ranch dopo un giro vorticoso fra le alture sul confine. Era ormai pomeriggio e fra poco Georgina avrebbe apparecchiato.
Tuttavia non appena a casa fu accolto da un gelo ostentato, strano anche per la sua insopportabile consorte.
– Cosa c’è? Perché questo muso lungo?
– Tuo nipote… oggi è sabato.
– E allora?
– Vuole Minnie per andare in città. Dice che gliel’hai promesso.
– Cosa? Jim, vieni subito qui! – urlò.
– Non ti sente, è chiuso in bagno da un’ora.
Arrancando sulla scala zio Tom raggiunse il bagno di sopra e subito notò una nube di vapore che filtrava sotto la porta.
– Esci. Devo parlarti! – urlò a squarciagola.
Nessuno rispose.
Tempestò la porta di pugni e calci, ma il ragazzo non diede segnali di vita per almeno un quarto d’ora. Alla fine la chiave girò nella toppa e Jim, coperto da un asciugamano in vita, venne fuori.
– Sei sordo? È un pezzo che busso!
– Ah, scusa zio, ho trovato questo – e gli mostrò il suo Ipod poggiato sul lavandino – e la musica è bella, molto più di quelle lagne di padre Robert.
– Cretino, sotto l’acqua si rovina! Non usarlo mai più sotto la doccia, hai capito?
Il vapore si rovesciò in tutta la casa, annebbiando perfino la cucina.
– E apri la finestra! Vuoi soffocarci tutti?
Jim obbedì e s’infilò nella coltre di nebbia.
– Ora veniamo a noi. Come mai vuoi andare da solo in città? E con la mia cavalla migliore?
– Io non so guidare.
– Va bene, ma ti avevo detto che ci saremmo andati insieme.
– La zia dice che tu la sera vuoi vederti le partite di football e a me annoia. Allora…
– Allora niente. Vestiti e vieni giù a cenare.
– E la città?
– Ci andrai un’altra volta. Sono stato chiaro?
Il ragazzo lo fissò in modo inquietante, con uno sguardo che Thomas riconobbe.
– Io sono venuto qui per vivere. Chi era mio padre?
– Ancora? Era mio fratello minore.
– Tu non gli somigli per niente.
– Non è vero.
– Sì invece. Dicevano i preti che io ero lo specchio di mio padre e poi…
– E poi?
– Zio, voglio vedere le foto di mio padre e mia madre.
– Non ne ho. E adesso vestiti subito, tua zia ci aspetta.
– Tua moglie non è mia zia.
Irritato dalla solita insolenza di Jim, Tom lo colpì con uno schiaffo. Il ragazzo scosse lievemente la testa, infastidito, poi andò in camera a vestirsi.
– Allora, quel deficiente che fa? Non cena? – ringhiò Georgina.
– Ora scende, sta tranquilla. Cominciamo a mangiare.
Brontolando la donna servì in tavola tre costate fumanti e sedette a destra del marito. Jim era ancora in stanza.
– Jim, vuoi scendere? La carne si fredda! – urlò ancora una volta Thomas.
Il ragazzo arrivò quando Thomas era già intento a spolpare le ossa.
– Mio Dio, Tom! – strillò la donna.
Thomas Curlig rimase per un istante senza parole: Jim indossava un suo vecchio vestito, un abito elegante per la moda di quaranta anni prima. Sotto la giacca blu scuro spiccava una camicia verde acqua, anch’essa molto vecchia, e aveva provato perfino ad annodarsi la sua cravatta più lussuosa, senza riuscirci.
– Chi ti ha detto di rovistare nel mio armadio, Jim?
– Hai detto tu che sei mio zio e papà adottivo, non ricordi?
– Cosa c’entra?
– Un giorno tutto ciò che è tuo sarà mio.
Un sospiro di Georgina contribuì a demoralizzare Tom.
– Va bene. Ascolta Jim, questo vestito è vecchio, lo indossavo a fine anni sessanta. Se vai in città combinato così, la gente ti riderà dietro. Domani…
– Domani è domenica!
– Al diavolo! Lunedì andremo insieme al mercato e ti rivestirò da capo a piedi, te lo prometto.
– Va bene, però ora voglio andare in città.
– Jim, tu non sai cavalcare!
– Imparerò.
– Non puoi aspettare fino a domani?
– No. Mi diceva Sein che le ragazze la domenica restano in casa a pulire con le mamme, è il sabato che gira la roba buona.
– Tom, i tuoi operai devono smetterla di riempirlo di sciocchezze! Hai sentito che ha detto?
– Non sono sordo. Jim, vai in camera e vestiti come un uomo del 2010. Ti accompagnerò io in città, ma poi dovrai tornare da solo. Ti dirò dove prendere la corriera.
– E la carne? Non mangi più? – s’intromise la moglie.
– Non ho fame, zia.
– Mangerà un boccone in città. Vado a vestirmi anch’io.
– Mi lasci sola anche di sabato sera?
– Fra mezz’ora sarò qui – rispose furente. Mormorando atroci bestemmie andò in camera da letto e digitò sul palmare una sequenza cifrata. Liberare Jim in una città tranquilla e bigotta come Council Bluffs poteva rivelarsi pericoloso, ma trattenerlo a forza in casa lo era ancora di più.
Allo Juniper alle nove.
Ricevuta conferma dai suoi uomini, s’affrettò a vestirsi.
XVII
Jim lungo il tragitto non disse una parola. Aveva lasciato Sancta Spes da quasi tre mesi e in quel freddo ottobre 2010 avrebbe conosciuto per la prima volta la civiltà, ma non sembrava emozionato.
Entrarono in città e zio Tom puntò direttamente in centro verso il quartiere dei divertimenti. Jim continuava a tacere, sbalordito dai grattacieli, dalle insegne luminose e animate, dalla musica assordante che si riversava da ogni lato, dai tanti gruppi di giovani vestiti in maniera sgargiante, a volte assurda.
– Zio, chi sono quei ragazzi con la cresta?
– Lasciali perdere, sono punk. Una moda morta da vent’anni.
– Ma ci sono ancora.
– Sì, qualcuno. Sono drogati, giragli al largo.
Alla fine da lontano lampeggiò l’insegna dello Juniper, il locale d’intrattenimento più lussuoso di Council Bluffs.
– Sei arrivato. Prima di scendere però ascoltami bene: le ragazze per bene non vanno con gli sconosciuti, quindi se conoscerai una brava ragazza non toccarla
mai, a meno che non sia lei a baciarti per prima. Molestare una donna può portarti in galera in un niente. Comportati bene, chiaro?
– Sì. E le donne che fanno sesso a pagamento?
– Ci sono anche quelle. Lì dentro – e indicò l’ingresso dello Juniper – Se paghi avrai tutto quello che vuoi. Ne troverai tante, però accetta un consiglio: non bere alcolici o avrai problemi di erezione.
– Erezione? Zio, a me il cazzo è sempre duro, stai tranquillo.
– Va bene, bevi comunque poco. Gli ubriaconi sono malvisti e la polizia…
– Ma la polizia è dappertutto. Che palle!
– Insomma, basta. Eccoti trecento dollari. Usali bene e non dare fastidio a nessuno. Parla poco e se vedi che la gente non vuole risponderti, lasciala perdere. Quando avrai finito – e volse lo sguardo al marciapiede dall’altra parte della carreggiata – ogni ora di lì parte l’autobus 95E. Scendi alla settima fermata, vicino casa.
– Va bene zio. Ciao – e afferrati i soldi, s’infilò a testa bassa fra le porte basculanti dello Juniper.
‘Che Dio me la mandi buona!’ pensò. Ed, Mark e Rice, i suoi tre uomini di
fiducia, sbucarono da dietro l’angolo.
– Vai a casa, capo. Lo sorvegliamo noi il nipotino.
– Badate che non faccia casini, qualsiasi pubblicità ci costerebbe il posto. E non solo.
– Piuttosto lo buttiamo nel fiume.
Annuendo, Thomas avviò il motore e invertì la marcia.
Lo Juniper era ancora vuoto. Pochi guardoni sedevano al banco, qualche signorina discinta eggiava lentamente fuori e dentro il fumoir, ma le luci erano ancora accese e il volume della musica molto basso. Jim improvvisamente fu stritolato da emozioni sconosciute, frammenti rimossi di un ato recente esplosero nella sua testa, trattenne il respiro e a fatica si sedette dietro a un tavolino defilato.
Un signore altissimo in marsina lustrinata e scarpe a punta lo fissò, poi rivolse un’occhiata d’intesa a una ragazza. La giovane spense la sigaretta e, rassettatisi i folti capelli biondi, puntò Jim. Quando però vide il suo volto teso e i lineamenti ancora infantili si tirò indietro, senza che lui la notasse.
– Roger, è quasi un bambino. Bruttissimo, ma cucciolo. Non mi sento.
– Stupida. Sedici anni li avrà compiuti e poi ha già i soldi in mano. Sarà un pivellino, divertiti un po’.
– Non mi piace, guardalo: sembra un orso messo a dieta.
– Ehi, devi battere o cerchi marito? – spazientito sospinse la ragazza verso il tavolo di Jim.
Il ragazzo respirava a fatica, i suoi ormoni alla vista di tante forme femminili così giovani e sode erano impazziti. L’asta premeva duramente sulla cerniera e al lato destro dei pantaloni luccicava una macchia sospetta. Sudato e ansante pensò alla maestra Suzanne, fino ad allora il suo unico quadro di riferimento per la bellezza femminile. Ricordò quando aveva cercato di godere in bocca a Herbert, alle migliaia di volte in cui le pulsioni lo schiavizzavano, imponendogli una masturbazione senza posa.
Non conosceva ancora l’orgasmo pieno, però sospettava la presenza di anomalie nella sua sessualità onanistica. Alzò lo sguardo verso il lampadario di falso cristallo, ma uno spettacolo ben più allettante lo scosse.
– Ciao, sono Jenny. Posso sedermi qui?
Rimase a bocca aperta davanti a una giovane alta, flessuosa e dotata di un grande seno che il body nero celava in minima parte. Le gambe erano lunghe e tornite, le caviglie sottili, la chioma bionda e gli occhi blu completavano una visione sconvolgente.
– Non parli, ragazzino? Non mi vuoi accanto a te?
– Sì! No, cioè…
Fingendosi divertita, Jenny si sedette al suo fianco, andogli subito un braccio intorno al collo. Quel contatto la sorprese, malgrado le spalle strette il ragazzo sembrava scolpito nel marmo, aveva muscoli turgidi e sodi, collo taurino e mani callose grandi il doppio delle sue.
– Tu devi essere molto forte, vero?
Jim tremante distolse lo sguardo da quei seni, pericolosamente vicini al suo viso. L’asta continuava a sussultare, un fremito lo colse sui fianchi.
– Non dici nulla? Ti piaccio? – e convinta di metterlo a suo agio, cominciò ad accarezzargli i radi capelli sulla nuca. A quel punto Jim scattò come una molla e afferrò la ragazza, come una furia le leccò il seno, scoprendole i capezzoli e strappando il body.
Roger, appostato nell’ombra, accorse per dare una lezione all’impiastro e con un cenno richiamò a sé due colossi in canottiera. In tre fecero fatica a liberare Jenny dalla morsa di quel ragazzino pelato, poi finalmente la ragazza sgusciò via e in lacrime si precipitò lungo la scala che conduceva alle alcove.
– Sei impazzito? Ragazzino, con noi hai chiuso. – gli soffiò Roger nelle orecchie – Sbattetelo fuori, non voglio rogne! – ringhiò, rivolto ai due energumeni.
– Si risparmi la fatica, mister. Lo prendiamo noi.
Roger si trovò davanti tre uomini distinti in impermeabile e occhiali scuri.
– Chi siete?
Il più alto dei tre estrasse una tessera e gliela mostrò per una frazione di secondo.
– Oh, ma io non ho fatto nulla. Stavo solo cercando di salvaguardare il buon nome del locale!
– Certo, certo. Roger Macari, sinonimo di gentiluomo. Dacci il bambino, provvediamo noi.
– Grazie, io non pensavo…
– Tu pensa a rigare dritto, Roger. E ringrazia Dio che il locale è ancora vuoto.
Ed, Mark e Rice sollevarono di peso Jim e rapidi lo trascinarono all’esterno. Roger li rincorse sventolando i trecento dollari caduti sul pavimento.
– Tienteli e ora sloggia. Acqua in bocca, ok?
– Ok – e si eclissò nello Juniper.
Caricarono il ragazzo nel portabagagli del SUV e si diressero verso casa di Thomas Curlig.
Negativo, non è in grado di dominarsi.
Prevedevo. Gli hanno fatto male?
no, ma è sotto choc.
Mark concluse la conversazione e spense il palmare. Il ragazzo mormorava qualcosa nel sonno, stava invocando un nome, ma il rombo del motore non permetteva di comprendere.
– Abbiamo fatto un bell’affare. Gerrin ci silurerà.
– Se avessimo insistito con Tom… Non ammetterà mai di aver fatto una cazzata a prendersi questo mostro.
– Ha troppi debiti, la sua ansia da bonus è il vero problema.
I tre uomini discussero sommessamente per qualche minuto, fino a quando non posteggiarono sotto le scale di accesso al ranch. Thomas li attendeva sulla porta in pigiama, con una bottiglia di gin fra le mani.
– Portatelo su, parliamo dopo.
Ed si caricò in spalla il corpo inerte di Jim e, aiutato da Rice e Mark, riuscì a deporlo sul divano del salotto.
– Facciamo silenzio, non voglio che quella rompicoglioni si svegli – e li guidò nel suo studio, l’unica stanza in cui Georgina bussava prima di entrare.
Discussero a bassa voce per tutta la notte.
XVIII
L’indomani Jim fu svegliato dalle urla di sua zia, inorridita a vederlo disteso con le scarpe sul sofà.
Thomas si affrettò lungo le scale, sperando di evitare l’ennesima discussione inutile, ma era troppo tardi. Jim, imbestialito dagli improperi della vecchia, scese di scatto dal divano, spintonò malamente la donna sul tavolo apparecchiato e uscì sbattendo la porta con tanta forza da sgangherare un cardine.
– Tom, tuo nipote deve andarsene. O lui o io, scegli! – sibilò Georgina fra le lacrime.
– Se potessi manderei tutti e due dove dico io.
– Non scherzare. Io me ne vado.
– No. Mi rendo conto che siamo troppo vecchi per tenerlo qui, i suoi problemi deve risolverglieli chi ha le competenze.
– Che ti dicevo? Sbattilo in manicomio, il suo posto è là. Ci ammazzerà tutti.
– Non esagerare, è solo istintivo, reagisce come un animale braccato.
– Ah sì? Credi che non abbia visto te e i tuoi compari di bevuta ieri sera? L’hanno portato qui completamente ubriaco, faceva schifo!
– Per il bere c’è rimedio. Per la sua testa no. Non qui.
– Allora spicciati, chiama chi devi chiamare e mandalo via. Altrimenti telefono allo sceriffo.
– Sei ripetitiva, cara.
La donna andò in cucina senza voltarsi, per quel giorno la colazione se la sarebbe preparata da solo.
Mentre si vestiva udì delle urla e affacciandosi, vide una zuffa davanti al pereto. Jim era avvinghiato a qualcuno, gli altri saltavano e urlavano tutt’intorno. Si precipitò verso i campi, maledicendo il suo peso che rendeva ogni scatto a rischio infarto. Jim serrava il collo di un asiatico e gli sbatteva ferocemente la testa contro il tronco di un pero. Tutti gli altri cercavano di arrestarlo dandogli pugni, calci, tirando sassi, ma il ragazzo continuava imperterrito.
– Fermati Jim, sei impazzito? – urlò, afferrando il nipote dalle spalle.
Jim come sempre si volse all’improvviso, per fortuna riconobbe lo zio e sciolse la presa sul povero vietnamita, che crollò a terra in preda a una crisi d’asma.
– Scusa zio, mi provocava. Diceva che chi ha i calzoni sporchi di sborra o è gay o è impotente.
– E tu per una cazzata del genere l’hai quasi ammazzato? Vieni subito via, devo parlarti. E voi, Sein, siete pagati per lavorare, non per provocare, chiaro?
– Signore – rispose il caposquadra tutt’altro che umile – se questo ragazzo torna un’altra volta qui, io lo ucciderò.
– Sein, vi licenzio tutti.
– Come credi. Ha perfino scopato una capra, non lo vogliamo, è infetto.
– Cosa?
– è vero, zio. Ieri sera a un certo punto mi sono addormentato e non ho fatto niente. Stamattina avevo voglia e allora…
Senza parole tirò via il ragazzo per un polso, trascinandolo in cantina.
– Jim, da stasera dormirai nella stalla. Georgina non ti vuole in giro per casa.
– Anche padre Robert mi faceva dormire nel fienile.
– Meglio così. Fino a quando non ti avrò perdonato mangerai da solo.
– Vado da Sein?
– Nemmeno. Ti darò io il pranzo e la cena. E adesso – indicò una catasta di secchi e spazzoloni – pulisci per bene la cantina. Stasera dovrà essere uno specchio.
– Va bene, però la paga resta uguale.
– La paga? Ieri hai buttato via trecento dollari!
– Me li avranno rubati i baristi.
– Stupido, il denaro non si perde!
– Io voglio tornare in città.
– Non credo sia il caso, se metti piede in quel locale ti ammazzeranno di botte.
– Ci sono altri locali, lo hai detto tu. E poi che devo fare? Non mi piace montare le capre!
– Basta! Pentiti delle cazzate che dici e mettiti a lavorare!
Sbuffando il ragazzo cominciò a scopare il pavimento lurido dello scantinato e Thomas si ritirò nello studio.
Nervoso, quasi incontenibile. Massima allerta.
Roger.
Irrorare bene.
Roger.
Domattina operazione diserbante.
Roger.
S’infilò la giacca di pelle e guidò fino a Tobacco C., una frazione di Council Bluffs situata all’estremo opposto di Santa Monica. Lì erano assiepate le gaming room e le agenzie di scommesse della zona e, dopo aver prelevato al bancomat
cinquecento dollari, decise di divertirsi.
Puntò subito cinquanta dollari su una corsa di cavalli in Francia, poi ne puntò altrettanti sulla partitissima NBA fra Atlanta e Baltimora.
Mentre sorseggiava un whisky di pessima qualità, sui tabelloni a muro comparvero i responsi: Goliath, il suo cavallo, era arrivato quarto. I Baltimora Rangers a due minuti dal termine dell’incontro restavano sotto di quasi trenta punti.
– Merda! – urlò senza che nessuno lo notasse. Accanto a lui, dietro i minuscoli tavolini dell’agenzia e in piedi lungo i muri si accalcavano decine di altri ludopatici. Da sempre il gioco era stato la molla che lo aveva spinto a cercare di fare carriera a ogni costo, accettando incarichi difficili e rischiosi, purché ben pagati. I sospetti del Senato americano si erano appuntati su di lui quando l’inchiesta del Congresso, poi interrata dall’onnipotente Segretario di Stato, aveva rivelato numerosi ammanchi nella gestione del progetto Tetan. Grazie all’influenza di Ubald Gerrin le colpe del fallimento erano state addossate al defunto Seagan, ma il denaro destinato alle infrastrutture di sicurezza mai realizzate non era più stato trovato. Quel denaro l’aveva speso lui, a poco a poco, proprio in quella maledetta gaming room di Tobacco C. Adesso, anche per stornare i sospetti, era costretto a seguitare nell’incarico studiando in prima persona le reazioni degli irradiati dal Tetan.
La suoneria del cellulare lo distolse dalla consultazione dei monitor. Era sua moglie.
– Tom, dove sei?
– Sono fuori per lavoro, te l’ho detto.
– Lavoro? Tu?
– Cosa vuoi?
– Tuo nipote è con te?
– No, gli ho ordinato di pulire la cantina.
– Allora torna, per cortesia.
– Cosa c’è? – urlò Thomas esasperato.
– C’è che una damigiana di Barolo italiano è mezza vuota e che Sein ha appena visto quel teppista andarsene in sella a Banjo.
– Banjo? Oddio!
Chiuse la comunicazione e si precipitò direttamente verso il centro di Council Bluffs. Chiamò disperato i suoi uomini e, continuando a maledirsi, accostò con una grande frenata a un posto di blocco della stradale. Mostrata la tessera, fu lasciato are e finalmente intravide Sunset Park, l’unico luogo dove era
possibile circolare a cavallo. Si augurò che quello sciagurato di Jim lo capisse o che per lo meno lasciasse Banjo libero di percorrere le strade che conosceva.
Tuttavia già a prima vista non c’era alcun roano, né i pochi giovani che oziavano nell’erba somigliavano anche solo vagamente a suo nipote.
Dove trovarlo? Riprese a costeggiare Cochran Park, un’area che ogni notte brulicava di divertimenti al pari di Broadway way, la via dello Juniper. Tuttavia a mezzogiorno sia il parco che le strade circostanti apparivano semideserti, meta di poche mamme o tate e di qualche studente perdigiorno.
Il cellulare riprese a squillare e sul display apparve un numero riservato.
– Buona sera, qui è la polizia federale dello Iowa. Sono l’assistente dello Sceriffo Kevin Daloisi.
Immediatamente Thomas si qualificò, interrompendo il profluvio burocratico del suo interlocutore.
– Bene, generale. Abbiamo arrestato poco fa un giovane che si dichiara ‘Vostro nipote’; al momento si trova presso il nostro comando. Essendo incensurato, vorremmo che lei ci raggiungesse immediatamente.
– Corro! – urlò Thomas, precipitandosi al distretto di polizia, non lontano da Cochran Park.
Riuscì comunque ad avvertire del fatto Ed, Rice e Mark. Il tono piatto dell’uomo al telefono non aveva dato spazio a congetture, ma ugualmente non presagiva niente di buono.
XIX
Per raggiungere il comando fu costretto a un giro tortuoso per anguste stradine laterali. Un’imponente manifestazione di ecologisti aveva spinto la polizia municipale a deviare il traffico, sicché impiegò quasi un’ora per trovare un parcheggio nei pressi di Broadway way. Raggiunse la palazzina malmessa del comando, entrò infuriato nell’androne e affrontò un’anziana receptionist in divisa, intenta a parlottare al telefono.
– Desidera? – chiese lei molto infastidita.
– Generale Thomas Curlig. Sono stato convocato qui poco fa.
– Da chi è stato convocato?
– Non mi ha detto il nome, so soltanto che avete arrestato mio nipote.
– Vostro nipote? Come si chiama?
– Jim Sanders!
– Ah, il maniaco! Cioè, prego, secondo piano, stanza trentaquattro, sergente Smith.
L’ascensore perennemente impegnato costrinse Thomas a salire per le scomode scale antincendio. Entrò in un trafficatissimo corridoio: tra urla di interrogati, agenti in borghese e graduati in alta uniforme faticò un po’ a trovare la stanza trentaquattro. Alla fine bussò e subito la porta fu aperta. Un omone di colore sedeva tronfio dietro a una scrivania di vetro, fra pile di faldoni e cartelline. Sul lato opposto della stanza un giovane agente smanettava istericamente dietro un obsoleto pc tower.
– Sì? – chiese il nero.
– Thomas Curlig, sono qui per mio nipote Jim Sanders!
L’uomo si alzò e immediatamente corse a stringergli la mano – Si accomodi, sono il sergente Smith. Suo nipote sta bene, l’abbiamo sistemato in cella di sicurezza poiché non sembra molto in sé.
– Sta bene?
– Non gli abbiamo torto un cappello, oltretutto ne ha pochi. Però sembra ubriaco.
– Lo è. Ha bevuto tre litri di vino italiano.
L’uomo rimase esterrefatto – Bene allora venga con me, lo sceriffo vorrebbe parlarle.
– Posso vedere prima il ragazzo?
– No. Ho ordini tassativi di introdurla dallo sceriffo.
Rassegnato, Thomas seguì il sergente in fondo al corridoio, davanti a una porta blindata. Dopo aver premuto su un videocitofono, il fermo scattò e poterono entrare. Si ritrovarono in una stanza ampia e assolata, la scrivania in mogano e un largo tappeto persiano erano contornati da numerosi quadri d’autore, targhe, attestati e diplomi che tappezzavano le pareti. Due scansie traboccavano di trofei e edizioni rare, più che un ufficio sembrava la vetrina di un antiquario.
– Venga generale, si accomodi! – l’invitò l’uomo brizzolato dietro alla scrivania.
Kevin Daloisi, da un paio di lustri sceriffo-capo di Council Bluffs, lo conosceva bene e non aveva mai nascosto una certa antipatia nei suoi confronti. Pur non avendo mai prestato servizio nella polizia locale, Thomas era famoso per la sua rapida carriera nell’esercito e ancor più per i suoi rapporti con l’intelligence della CIA. Daloisi, venuto su dalla gavetta e di specchiata fede anglicana, disprezzava i colleghi manipolatori e opportunisti. Aveva un senso del dovere quasi ossessivo e non ammetteva favoritismi. Tutto ciò Thomas lo sapeva da tempo, più di una volta era stato multato per guida in stato di ebbrezza e quando una volta, sbraitando, aveva preteso di parlare con lo sceriffo, si era trovato di fronte un ometto dagli occhi infuocati che l’aveva redarguito per ore, giungendo perfino a minacciarlo di scrivere ai vertici della CIA.
Alla fine Thomas gli aveva dato della testa di cazzo ed era andato via in taxi.
Erano trascorsi due anni da allora e a giudicare dallo sguardo gelido, Daloisi non aveva superato la cosa.
– Allora, caro Generale. Come mai vostro nipote scorrazza per strade urbane su un cavallo imbizzarrito?
– Non sa cavalcare, mi ha rubato il cavallo e poi sarà andato a briglia sciolta.
– E lei lascia incustoditi dei cavalli con un nipote… non normale per casa?
– Purtroppo Jim è imprevedibile e ci ha colti di sorpresa, me e mia moglie.
– Capisco. Da che genere di problemi è affetto suo nipote?
– Non lo sappiamo con esattezza. È un po’ stupido, credo lo abbiate capito. Dicono che abbia difficoltà di apprendimento, dovute al fatto di essere cresciuto in un orfanotrofio.
– Quale orfanotrofio?
– Sancta Spes, a Santa Monica.
– Mai sentito nominare! Strano.
– Era una missione cattolica.
– Missione cattolica? Quella specie di baraccone sperduto fra le colline intende? Quello è il convento dei preti pedofili, un luogo di punizione scelto dal Papa per i criminali ecclesiastici irrecuperabili. Suo nipote è vissuto lì dentro?
– Sì, fino allo scorso giugno.
– Allora la pazzia è giustificabile. Non posso però sorvolare su certe manifestazioni ionali.
– Come?
– Vostro nipote, dopo essere sceso da cavallo in Sunset Park, è stato visto aggirarsi a lungo da solo fra gli alberi, lasciando la bestia libera.
– Gliel’ho detto, non sa nulla di cavalli.
– Il problema non é il roano, che si è limitato a bloccare il traffico per un’ora.
– Lo avete preso voi?
– No, è stato mandato all’ippodromo, prima di ritirarlo dovrà saldare il verbale.
– Lo farò.
– Bene, ma dicevo, vostro nipote a un certo punto ha adocchiato due bambine che giocavano a tirare le pietre nello stagno. La loro tata era poco distante al cellulare e non se ne è accorta subito.
– Ha dato fastidio alle bambine?
– Ne ha presa una e l’ha costretta ad avere un rapporto orale con lui, poi mentre la tata urlava e lo picchiava con un bastone ha rincorso l’altra. Meno male che c’era un guardaparco nei pressi, che lo ha fermato.
Thomas tacque.
– Cosa dovrei fare? Esisterà un solo giudice che consenta di circolare a un simile mostro? Ha anche rotto due denti al guardaparco. Per tenerlo buono sono dovuti intervenire quattro agenti scelti.
– Non l’avrete mica ammazzato di botte?
– No, anche perché subito dopo essere stato sbattuto nel blindato è svenuto e versa ancora in stato catatonico.
Thomas sbiancò e Daloisi se ne accorse.
– Cosa c’è?
– Avete chiamato un medico?
– Certo!
– No, maledizione, lui…
– Lui cosa?
– Mio nipote è epilettico, soffre a volte di questi disturbi, ho a casa dei farmaci che…
– Ne parli col medico, quando arriverà. Intanto mi dica: chi è questo ragazzo e come mai si trova a casa sua?
– è il figlio di mio fratello Jonathan, morto anni fa in circostanze mai chiarite. Non sapevo della sua esistenza, poi un giorno casualmente, frugando fra gli archivi della contea, ho scoperto l’esistenza di quell’orfanotrofio.
– Continua a chiamarlo ‘orfanotrofio’. Generale, mi dice a che gioco sta giocando? Chi è quel ragazzo e come mai lo ha ‘adottato’ a quest’età? Le leggi federali non lo consentono, lo sa?
– Sceriffo, cosa vuole insinuare?
– Io non insinuo, io ragiono. Questo giovane è un problema, ha la forza di un leone e l’aspetto di un reduce di Cernobyl. Lei crede che la polizia locale sia composta da poveri idioti? Evidentemente i suoi amici Federali le hanno detto questo, ma le assicuro che non è così. Santa Monica è un’area denuclearizzata dove pare che sia accaduto qualcosa di molto spiacevole negli anni ‘90. Suo nipote proviene proprio da lì. Strana coincidenza, vero?
– Sceriffo, non la facevo così fantasioso.
– Fantasioso? A me non va di are da coglione. Il ragazzo resta qui, provvederemo a internarlo in un ospedale civile, voglio capire che accidenti abbia. E lei si consideri indagato. Nomini un avvocato, ne ha il diritto.
Thomas per un istante meditò di scavalcare la scrivania e strangolare quell’idiota in cerca di gloria. Tuttavia dopo un istante squillò il telefono dello sceriffo. Via via che Daloisi ascoltava, il suo volto assumeva toni cinerei. Alla fine della conversazione, durante la quale aveva interloquito a monosillabi, scosse la testa.
– Vi siete coperti bene. Ordini dall’alto mi impongono di rilasciare il ragazzo. Se lo riporti a casa e, per il suo bene, eviti di perderlo ancora di vista. Un’altra porcata come quella di stamattina e lo farò uccidere sul posto, su questo il mio ufficio non transige. Vada!
Sorridendo Thomas si alzò e uscì senza salutare. Attese per qualche minuto davanti alla palazzina, poi due agenti accompagnarono alla porta un barcollante Jim e glielo scaraventarono addosso.
– Se lo porti via e guai a lui se tornerà in città! – ribadirono.
– Tranquilli, non metterà più piede in questo buco di merda, ve lo giuro.
Svoltato l’angolo, furono subito accostati da una Chrysler nera.
– Non qui, idioti! – mugugnò Thomas.
– Zio – rinvenne di colpo Jim – il professore dell’esame!
Prima che la situazione precipitasse, presero posto sul sedile posteriore.
– Dobbiamo cambiare o. Ora che quel mitomane ha mangiato la foglia bisogna che lui se ne vada.
– E dove? – chiese Ed dal sedile davanti.
– Non lo so, deciderà il boss.
– Fossi in te, capo, aspetterei a chiederglielo. Quando ha saputo dell’arresto era furioso. Se la notizia trapela al Presidente…
– In quel caso gli americani capiranno che la guerra non esiste solo in tv.
– E noi?
– Chi lo sa? Ci sono tanti agenti dispersi in missione, dei quali non é mai stato trovato il corpo, ce ne saranno quattro di più.
L’auto sfrecciò fuori dall’abitato.
– Aspettate, devo recuperare la Rover e poi andare a pagare la multa per Banjo.
– Il cavallo?
– Proprio lui. Speriamo che la galoppata con questo scemo non l’abbia stremato, è vecchio e acciaccato.
– Perché non lo fai macellare, capo? – scherzò Rice.
– Idiota, piuttosto ci infilo te nelle salsicce!
I tre risero di gusto, ma Thomas non fece una piega.
– Zio, chi è il boss? – intervenne Jim, con voce ancora intontita.
– è il mio capufficio.
– Tu sei in pensione.
– Ogni tanto lavoro ancora.
– E perché la zia dice che non sei capace di fare niente?
– Lei scherza.
– Eppure a me sembra così seria.
Nuovamente i tre risero chiassosi.
– Jim, riposati e sta zitto. Sono arrabbiatissimo con te, a casa faremo i conti. Finitela di ridere. Stasera ci sarà da piangere.
– Contaci. Era nero.
– Quando mai… Ok, la macchina è là. A stasera.
– A stasera! – risposero in coro i tre.
Thomas e Jim scesero dalla Chrysler e si diressero verso la vecchia Range Rover.
XX
Il ragazzo schienò il sedile di destra addormentandosi quasi subito, cullato dal rollio dell’auto. Tom impiegò una buona mezz’ora per raggiungere il maneggio dove era ricoverato Banjo e dopo aver sborsato quasi quattrocento dollari, promise di mandare un camion a prelevarlo l’indomani. Il custode del maneggio, un vecchio indiano rugoso, lo fissò sornione – Le conviene lasciarlo qui, è vecchio e decrepito.
Thomas non rispose e tornò in auto. Jim per fortuna dormiva ancora.
Quando arrivarono nei pressi del ranch, il ragazzo si riprese.
– Mi fa male la testa.
– Sarà la fame.
– Ho detto la testa, non la pancia.
Mordendosi la lingua evitò di rispondergli. Suo nipote doveva assumere l’antidoto subito. Georgina era indaffarata in cucina e nel rivedere il nipote sgranò gli occhi.
– Non avevamo detto che a casa non ci sarebbe più entrato?
– Sì. Mangerà con noi, poi andrà nella stalla a riposare. È stanchissimo.
Il ragazzo fu assente per tutto il pasto, sbocconcellò pigramente pane e uova, non toccò la verdura e sembrò gradire solo la conserva di prugne. Dopo qualche minuto si alzò e uscì sull’aia.
– Cos’ha? Sembra drogato.
– Deve andare via, lo chiudo in collegio.
– Collegio? Pagare una retta a quel…
– Collegio psichiatrico.
– Un manicomio!
– Una specie. In ogni caso non sborserò un cent, sta tranquilla.
Il mal di testa sembrava aver allentato il morso. Jim sistemò un paio di lenzuola su tre balle di fieno e vi si stese sopra, addormentandosi in un attimo. Chiuso in posizione fetale, dopo tante notti buie, sognò.
Il gelo gli penetrava nelle ossa, la cella di piombo sembrava volerlo corrodere. Il suo corpicino da infante malformato era livido, anche le lacrime congelavano fra le ciglia. Una mano calda gli carezzò il ventre, poi lo sollevò e fu subito felice. Una donna glabra ed esangue se lo stringeva al petto, nuda come lui, il viso sofferente, gli occhi glauchi. Poco lontano un corpo nudo più grande, quello di un uomo alto e magrissimo, anch’egli calvo e incurvato, giaceva pancia a terra sul pavimento. Jim vide a un certo punto l’uomo che, gemendo, si sollevava. Adesso stava in piedi, aveva meno di quarant’anni. Il volto completamente liscio gli ricordava qualcuno, qualcuno che ben conosceva: era il suo riflesso da adulto, gli somigliava come una goccia d’acqua.
– papà! – provò a urlare, ma la sua bocca non gli consentiva ancora di parlare.
Tutto divenne nero, il rassicurante calore materno svanì e un urlo lo fece balzare in piedi.
– Sveglia, ti ho portato da mangiare!
Suo zio gli stava porgendo un vassoio ricolmo di fette di pane, con due barattoli di conserva e carne pressata.
– Grazie – farfugliò afferrandolo.
Thomas se ne andò, era buio, aveva un sonno terribile. Però sapeva che quella notte difficilmente avrebbe chiuso occhio.
In lontananza vide i fari allo xeno della Chrysler 300, aspettò i suoi agenti sul limitare dell’aia ed entrò con loro in sala da pranzo. Georgina sparecchiava con il volume del televisore a palla, un altro di quei maledetti sceneggiati amorosi da cui era dipendente. Nemmeno si accorse del aggio dei quattro uomini, fu il marito a costringerla a voltarsi.
– Ci sono i miei uomini. Dobbiamo lavorare, vado nello studio. Non chiamarmi in nessun caso.
– Vai e ricordati che il whisky è quasi finito – replicò lei sgarbatamente.
Salirono di fretta e Thomas chiuse la porta a chiave. I tre agenti, abituati a quelle riunioni ‘domestiche’ si sedettero senza cerimonie e Thomas, come sempre, tirò fuori una mezza bottiglia di whisky e quattro bicchieri dozzinali di vetraccio opaco.
– Ha ragione la megera – disse versando il liquore – devo comprarne ancora. Altrimenti vi toccherà bere quello dello store asiatico.
– Lascia perdere capo, siamo già nella merda fino qui – rispose Mark toccandosi il pomo d’adamo.
– Allora? – chiese Thomas, rassegnato a un’ennesima lavata di testa.
– Tieni – rispose Mark, porgendogli un sottilissimo foglio di carta.
Thomas bevve un sorso di whisky e poi, lentamente, lesse la minuta del comando CIA.
Operazione papà irrealizzabile.
Domani mattina collegio.
Fraterni saluti.
– Oh cazzo! i ‘fraterni saluti’ in genere sono una condanna a morte.
– Ha detto Gerrin che se falliremo ancora ci farà pentire di non essere crepati insieme ai preti.
– Ha distrutto Sancta Spes?
– Sì, ieri. Non lo sapevi?
– Non pensavo che fe tanto presto. Che accidenti… – il messaggio del Segretario di Stato si dissolse fra le sue dita – Non ditemi nulla, ho capito. Cos’altro vi ha detto?
– Domani verremo noi a prendere il ragazzo e lo porteremo in una destinazione
segreta. Sapremo dov’è situata soltanto in viaggio.
– Nient’altro?
– Ha detto che le pressioni sullo Sceriffo Daloisi hanno sputtanato troppe storie.
– Vuole uccidere anche lui?
– No. Te.
– Me? C’era da immaginarlo.
– Insomma, ce l’ha con te e con noi di riflesso. Se il progetto Tetan va a puttane saprà con chi prendersela. Ci ha consigliato un biglietto aereo per la Corea del Nord.
– Sempre spiritoso quel vecchio figlio di puttana. Ma cosa ne sarà di noi? Dopo che ci toglierà il ragazzo a cosa serviremo?
– Noi continueremo a lavorare su Tetan. Tu invece sarai dispensato.
– Cosa? E i miei soldi? Io mi sono tenuto in casa un pazzo infetto, ho costretto me, mia moglie e i miei operai a ingoiare antidoti e schifezze, rischiando la
cirrosi e lui mi dispensa?
Rice gli porse un tablet di ultima generazione, spesso poco più di un centimetro e pesante meno di un chilo. Era un macchinario d’avanguardia, di quelli in uso solo nei servizi segreti. Sul piccolo schermo apparve subito il volto furibondo di Ubald Gerrin.
– Metti gli auricolari, vecchio caprone! – urlò il potente uomo di stato.
Gli porsero uno strumento che somigliava a una radio-cuffia in miniatura, con un peduncolo che cadeva all’altezza della bocca.
– Buona sera signore!
– Non è una buona serata. Generale, la tua idea di adottare il ragazzo infetto è costata al Dipartimento sedici milioni di dollari. Lo sai cosa vuol dire?
– Signore, io ho solo proposto di non abbandonare il progetto. In fondo sono solo poche settimane che è qui e al di là di un paio di cazzate da adolescente…
– Cazzate da adolescente? Fra trenta deficienti hai scelto un pedofilo violento, forte quanto cinque uomini e capace di penetrare qualunque buco animale. Dovevamo sopprimerlo prima degli altri!
– Segretario, la Chiesa Cattolica aveva ricevuto precise garanzie di…
– Questo non è affar tuo, vecchio caprone! Piuttosto esaminando le dinamiche dell’incidente del 1993, lo sai cosa ne è venuto fuori? Su, indovina…
– Non saprei cosa rispondere.
– Sappiamo con certezza che nel laboratorio di Seagal lavorava un responsabile alla Healt&Safety che mancò ai suoi doveri. Distrasse quasi un milione di dollari dal capitolo infrastrutture di sicurezza. Indovina un po’, chi era costui?
– Le assicuro che nessun dispositivo collettivo di sicurezza avrebbe potuto fermare quella nuvola venefica.
– Certo, lo spiegherai tu al Congresso? è un miracolo che quelle carte non siano finite in mano al Senatore Robertson.
– Robertson? Cosa c’entra quell’esaltato?
– Le notizie volano in fretta, caro Healt&Safety Manager. Specialmente se uno sceriffo in cerca di gloria si ritrova fra le mani un ragazzo malato, adottato da un noto ludopatico e la CIA glielo toglie dopo appena mezz’ora.
– Non avevo previsto che scape.
– Tu non sai prevedere un risultato ippico e vorresti anticipare le mosse di un matto? So che a Tobacco Square gli allibratori ti chiamano ‘Saint Curlig’.
Thomas tacque, soverchiato dalle troppe offese.
– Il ragazzo adesso a sotto la mia personale responsabilità. Se il Dipartimento mi confermerà la fiducia, allora potremo cavarne qualcosa di buono. Altrimenti raggiungerà i suoi amici d’infanzia.
– E io?
– Lei – e il viso sul piccolo monitor avvampò di odio – da adesso è il ‘generale’ Thomas Curlig in pensione. Vada a Omaha, c’è un magnifico circolo ufficiali dove potrà rilassarsi in mezzo a tanti vecchi imbecilli come ‘lei’.
– Signore, io…
Lo schermo si spense e i suoi uomini, con un muto segno d’intesa, si congedarono.
Rimasto solo, scese nell’ingresso a rimirare il cielo notturno. Era coperto, solo da nord arrivavano i vaghi riflessi di un battello sul Missouri.
‘Stavolta è la fine’ pensò.
XXI
Rice Nessark, Mark Robson e Edward Kolosimo tornarono alle sei del mattino. Erano stanchissimi, ma felici di essersi liberati dell’ex capo, l’uomo che per faciloneria e avidità aveva insistito nel mandare avanti il fallimentare progetto Tetan.
Eleganti e inappuntabili, si schierarono di fronte al portone d’ingresso. Ed inviò un messaggio criptato sul palmare di Thomas e guardò in alto, sperando invano di vedersi aprire una finestra.
Dopo qualche minuto un rumore di i pesanti precedette lo schiavardare nella serratura – Potevate aspettare almeno le sette! – ringhiò con gli occhi cerchiati dal sonno. Indossava un orribile pigiama a righe e delle buffe pantofole pelose.
– Capo, gli ordini erano di muoverci all’alba.
– Perfetto. È tutto vostro allora.
– è di sopra?
– No, l’ho chiuso nella stalla.
– Andiamo! – ordinò agli altri due.
Thomas li seguì ciabattando, finalmente raggiunse il battente incatenato e fece scattare il lucchetto. I tre agenti speciali fecero scorrere l’anta ed entrarono con o marziale.
Il ragazzo dormiva nudo, sdraiato sul pavimento di terriccio umido, il pene flaccido ancora fra le dita. Provarono a scuoterlo ma non fece una piega.
– Prima delle nove sarà impossibile metterlo in piedi. Il Bareg genera una forte sonnolenza – si giustificò Thomas.
– Magnifico – ponderò il suo ex luogotenente.
Avrebbero voluto sollevarlo di peso e caricarlo in auto, ma il corpo era lurido di sterco, terriccio e sudore impastati.
– Sveglialo e fallo lavare.
– Svegliarlo prima del tempo è pericoloso, lo sapete – replicò Thomas ai suoi ex sottoposti.
– Correremo il rischio – tagliò corto Mark, estraendo la rivoltella.
Thomas si chinò a fatica e provò a scuotere Jim, che continuava a dormire
beatamente. Il ragazzo si rigirò un paio di volte, poi all’ennesima pacca guizzò rabbiosamente, proiettando suo zio addosso a Rice.
– Che vuoi? Ho sonno! – urlò ancora nel dormiveglia e si girò di faccia per terra.
– è un animale, come accidenti facciamo? – Chiese Mark mentre tentava di rimettere in piedi Edward.
– Metodo numero due. State a vedere e mi raccomando le armi – disse Thomas. Afferrò un tubo per innaffiare appeso a una parete, uscì sull’aia e dopo un paio di minuti rientrò di buon o.
– Largo, largo! – urlò un istante prima che un fiotto d’acqua gelata si abbattesse sul ragazzo.
Jim per qualche istante continuò a dormire, poi di scatto fu in piedi, vide suo zio con la pompa in mano e quei tre strani personaggi in nero con le pistole spianate. Afferrò una balla di fieno e la scagliò con forza su Rice, colpendolo in pieno.
– Fermo o spariamo! – urlò Ed, ma Jim gli corse incontro e cercò con furia cieca di disarmarlo. Mark allora risolse la questione colpendo il ragazzo sulla nuca con il calcio della pistola. Stupendo tutti e quattro, il ragazzo accusò appena il colpo e voltatosi, s’appropriò dell’arma. La situazione era degenerata, al che Thomas decise di giocarsi il tutto per tutto.
– Fermo Jim, ti abbiamo svegliato per il tuo bene. Questi signori sono funzionari
statali e sono qui per te.
Jim rifiatò per un attimo, poi vide Ed con la pistola puntata e subito ricordò – Tu sei il professore dell’esame. È vero?
– Sì, proprio così. Sono venuto a prenderti con i miei colleghi perché è arrivato il momento di riprendere gli studi, ragazzo mio – improvvisò Edward Kolosimo.
– Studiare? Avevi detto che non potevo, ero troppo scarso.
– Mi sbagliavo. Jim, sei maggiorenne, è tempo di iscriversi all’università. Tuo zio è d’accordo con noi, quindi vestiti e seguici.
Jim spaesato fissò tutti e quattro negli occhi. La faccenda gli appariva strana.
– Ma quando tornerò qui?
– A Natale, a Pasqua e nelle vacanze estive!
– E dove andiamo?
– All’università dell’Illinois, una delle migliori d’America.
– Infatti – s’intromise zio Tom – ne ho parlato con zia Georgina che è felicissima di questo. Da noi sei sprecato, vivi lontano dalla città, svolgi lavori umili. Non è posto per te. Andrai a conoscere l’America, quella vera. Diventerai un uomo, visiterai Chicago, New York…
– Anche Los Angeles?
– Certo, e non solo. Ti farai una posizione, avrai tanti amici, diventerai un uomo rispettabile e apprezzato. Io voglio solo il meglio per te, nipote mio. E anche tua zia.
– La zia? Se lo dici tu… vado a vestirmi.
Andò nella sua stanza in soffitta a prepararsi la valigia, la stessa scatola di cartone pressato con la quale era arrivato pochi mesi prima.
– Tom, sei un drago. Ci stavo credendo anch’io! – si complimentò Ed.
– Prendilo sempre con le buone e non cercare mai di aggredirlo. Se lo assecondi può sembrare quasi normale.
– Sì, ho notato. Però non mi fido – e rivolgendosi agli altri due ordinò – Mark, piazzati sul retro della casa. Rice, sistemati davanti al frutteto. Io sorveglio la porta principale.
I tre uomini si appostarono e Thomas rientrò zoppicando in casa.
– Allora, se ne va? – chiese sua moglie, sorvolando sul suo aspetto disastrato.
– Sì, non hai sentito? I miei colleghi sono venuti a prenderlo.
Un urlo e uno sparo li fecero sussultare ed entrambi si precipitarono sul retro, dove Mark teneva sotto tiro Jim. Il ragazzo era ancora nudo e una corda di lenzuola annodate pendeva dalla finestra.
– Provaci ancora e ti ammazzo. Ora andrai a vestirti con tuo zio, poi scenderai fra cinque minuti e verrai via con noi. Non aprire bocca e non provare a fare altre cazzate o ti uccido chiaro? – sbraitò l’uomo, esasperato da quell’ennesimo colpo di testa.
Jim sorrise e risalì lungo la fune improvvisata, poi lo scroscio di uno sciacquone avvertì che si stava ripulendo sul serio. Thomas salì a controllare, ma stavolta il giovane non ebbe sussulti; finì di riempire la valigia, si vestì e scese con calma in cucina.
– Voglio fare colazione! – esclamò perentorio.
Thomas con un cenno rassicurò gli agenti.
– è giusto, lasciatelo fare. Favorite anche voi?
– No. Che faccia in fretta.
Dopo qualche minuto Jim, rifiutato l’abbraccio dello zio, entrava a capo chino nel vano posteriore della grande Chrysler nera. L’auto partì rombando e puntò dritta verso Council Bluffs. Dopo qualche chilometro imboccò una strada secondaria e ben presto i suoi occupanti furono circondati da una fitta boscaglia su entrambi i lati.
– Ma dove andiamo? – chiese Jim.
Nessuno gli rispose.
Percorsero miglia e miglia nella foresta, poi a un certo punto Rice svoltò a sinistra lungo una strada in terra battuta. Continuarono ad avanzare a scossoni fino a raggiungere quello che a prima vista sembrava un villaggio diroccato. Fra case di legno traballanti e insegne malferme, gli unici ad aggirarsi in quello squallore erano un paio di coyote.
– Sarebbe questa l’università? – li irrise Jim.
– Zitto! – rispose fra i denti Mark, che gli sedeva accanto.
Superarono il villaggio fantasma e s’inerpicarono lungo una collina boscosa. A
un tratto Rice girò a destra fra le querce e percorse un nuovo sentiero serpeggiante, fino a raggiungere un’imponente cancellata d’acciaio. Un cartello sulla grigliatura imponeva l’ALT e ai fianchi dell’ingresso si estendevano possenti mura grigie sovrastate da filo spinato e cavalli di frisia.
Ed parlò brevemente al cellulare con qualcuno, dopo di che le ante scorsero via e poterono entrare. Dei militari in tuta di lattice e mascherina antismog vennero loro incontro, aprendo gli sportelli.
I tre agenti mostrarono le tessere confabulando per qualche minuto con un giovane che esibiva il grado di tenente. Alla fine Ed si rivolse a Jim.
– Questa è l’università. Segui questi signori e fai tutto quello che ti chiederanno di fare senza discutere.
Detto fatto rientrarono in auto e uscirono dal perimetro cintato.
– Ragazzo, stammi dietro senza fare domande – ringhiò il giovane tenente. Jim, confuso per quanto stava accadendo, obbedì ed entrò in un palazzo cuboidale senza finestre. A un certo punto si voltò verso l’ingresso.
– La valigia! L’ho dimenticata in macchina! – urlò, ma fu subito placcato da tre massicci soldati.
– Non ho niente con me, i vestiti, la biancheria…
– Tranquillo ragazzo – gli dissero, costringendolo a voltarsi – ti daremo tutto noi.
Lo costrinsero a scendere delle strette scale che si addentravano nel buio, fino a raggiungere uno scantinato gelido e umido. Un cigolio precedette l’apertura di una porta metallica.
– Entra! – ordinò il tenente, spingendolo. Jim tentò di resistere, qualcosa nella sua mente gli aveva suggerito di diffidare di quei soldati. Il ragazzo si tese all’estremo e solo con lo sforzo congiunto di tutti e quattro i soldati fu possibile fargli varcare la porta. Uno schianto l’avvertì che era prigioniero e, rialzatosi di scatto, valutò la situazione. Era una cella di tre metri per tre, interamente imbottita di lattice fino a oltre due iarde d’altezza con un bugliolo in un angolo, una branda pieghevole reclinata contro il muro, uno sgabello e un tavolino tondeggianti confitti nel pavimento. La luce verdastra proveniva da un buco al centro del soffitto.
Antichissimi ricordi si abbatterono sulle sue esili spalle, strinse la testa fra le mani, poi cominciò a urlare con quanto fiato aveva in gola e a picchiare contro la porta e le pareti, fino a farsi sanguinare le nocche.
Nessuno aprì e rimase per ore a piangere in un angolo, anche quando la luce si spense.
XXII
Rimase in un triste dormiveglia per ore, poi cercò di arrampicarsi fino al soffitto bucando l’imbottitura alle pareti, ma il lattice non era atto a sostenerlo e si stracciò a ogni tentativo di fare leva. Cadde più volte sul pavimento, anch’esso imbottito. Una leggera vibrazione lo fece voltare: da una feritoia sotto la porta avevano infilato un vassoio. Conteneva frutta, carne secca, pane e una bottiglia di vino. Infuriato scagliò tutto per aria e si concesse solo una sorsata d’acqua all’erogatore, posto sopra al bugliolo.
Dopo un tempo che parve indefinito si afflosciò esausto sul pavimento, dormendo un sonno agitato da visioni oscure e terribili.
Si svegliò dopo molte ore. Era ancora in gabbia, qualcuno aveva pulito il pavimento e rimosso il vassoio. Andò sul bugliolo a liberarsi, bevve un sorso d’acqua e mentre si voltava vide che era stato deposto un altro vassoio. Rovesciò il contenuto nel bugliolo, poi si sedette in un angolo coprendosi il viso con le mani.
Pianse di nuovo, convinto di essere stato rinchiuso in manicomio per quell’affare della bambina.
‘Pensavo che Zio Tom esagerasse, invece è vero. Le donne vanno rispettate, se non ti toccano loro per prime è come se non esistessero. Ma a che serve vivere? Quale donna toccherà me, brutto come sono?’ e tormentato da questi pensieri continuò a soffrire e a macerarsi, fino a riprendere sonno.
– Signori, non ci siamo. Rifiuta il cibo e con esso il Bareg. Se muore adesso, non voglio immaginare cosa farà Gerrin.
– Professor Kiamakij – rispose furente Edward Kolosimo – è lei la mente, oltre che l’unico sopravvissuto della squadra originaria. Devo essere io a darle suggerimenti?
– No – L’anziano scienziato nipponico spinse la carrozzina fino a trovarsi col viso all’altezza della cintura di Kolosimo – Possiamo anche nutrirlo per endovena e curarlo con la forza. Potremmo perfino irrorare l’antidoto negli aeratori, anche se è rischioso.
– Rischioso?
– Certo! I fondi a nostra disposizione sono esattamente l’otto per cento di quelli stanziati negli anni ‘80. Un guasto all’aeratore e quel ragazzo morirebbe soffocato. Si tratta di impianti datati, scarti di altri programmi scientifici. Tutta la sede è una vecchia bicocca.
– Non so che dirle, forse prendendolo con le buone, magari facendogli conoscere qualcuno…
– Qualcuno? O magari qualcuna? I suoi istinti, specie adesso che non è trattato da settantadue ore, sono quelli di un orso braccato. Ha idea della forza che quel mostriciattolo può sprigionare?
– Le ho già detto di sì. Professore, il Dipartimento valuta questa sistemazione in cella di sicurezza come provvisoria. Solleciterò i miei superiori affinché…
Entrambi volsero lo sguardo di scatto al video a parete. Jim si era inginocchiato e, rivolto alla lampada sul soffitto, stava pregando ad alta voce.
– Signore, tu mi hai fatto nascere sbagliato perché i miei genitori erano crudeli e peccatori. Mi hai fatto vivere fra i tuoi servitori più cattivi e sono stato anch’io un bambino cattivo. Mi hai dato una famiglia che non mi vuole bene e adesso mi hanno chiuso in manicomio. Diceva Padre Robert che tu non ci lasci mai da soli. Ti prego, vieni a prendere anche me. Se proprio non puoi fare niente per liberarmi, ti prego, non mandarmi all’inferno quando mi ucciderò.
I due rimasero senza parole, mentre il ragazzo incominciava a cantilenare il Padre Nostro, seguito da dieci Ave Marie, da un Gloria al Padre e altre strane preghiere.
– Suicidarsi? Non possiamo permetterglielo. Non prima di averlo esaminato!
– E che aspetta, professore? Lo studi e poi leviamocelo di torno!
Kiamakij non rispose e si spostò di fronte a un monitor.
– Guardi, Capitano Fedlock. – Disse stridulo, indicandogli una mostruosa immagine tridimensionale – Le vede quelle strisce bianche?
La schermata rappresentava un cervello umano ricostruito fin nei minimi dettagli. Quasi tutta la corteccia era picchiettata da strani filamenti biancastri intrecciati.
– Sono il Tetan?
– Sì. Secondo le ricerche del professor Shuster, meno della metà di questi corpuscoli avrebbe dovuto rendere l’uomo fisiologicamente debole, preda di cefalee perenni e totalmente in balia di chiunque. Una proliferazione su questa scala invece avrebbe condotto a morte rapida per degenerazione gliomica. Come vede, il ragazzo non solo è vivo e cosciente, ma addirittura il suo quadro, rispetto agli ultimi dati, è migliorato!
– Migliorato? Professore, cosa dice? Non si controlla, non ragiona, può uccidere chiunque.
– Lo so. Del resto l’idea di fondo del progetto era semplice: con Tetan, il nostro meraviglioso bio-agente artificiale, il cancro diviene controllabile e si diffonde solo dove, quando e quanto vogliamo. Bene, il corpo di Jim è riuscito a entrare in simbiosi con il cancro. Non so come spiegarlo, il tumore colpisce la memoria, l’apprendimento, l’elaborazione razionale. Ma non le distrugge. E, cosa ancora più assurda, non limita affatto le facoltà percettive: lui ci vede e ci sente benissimo, ha tatto, gusto, vista e olfatto eccellenti, oltre a una tenuta atletica e una compattezza muscolare invidiabili. Strano che la sua cartella del 1995 parli di un bambino gracile, con valori bio-fisici appena nella media.
– Cioè mi faccia capire…
– Capitano, il Tetan sceglie da sé cosa fare. Si è mangiato un bel po’ delle sue facoltà cognitive, poi si è adagiato. In compenso gli ha rinforzato ossa e muscoli, rendendolo un super-uomo
– Terribile. Se la sua intuizione è esatta il Pentagono…
– Fedlock, il Pentagono non ne sa niente e il nostro amicone dovrà valutare l’idea di interi eserciti nemici composti da soldati idioti, forti come Hulk.
Il tono gaudente e canzonatorio di Kiamakij urtò tremendamente Kolosimo.
– Professore, scherzi poco, cazzo! Potremmo essere tutti uccisi, lo sa?
Lo studioso giapponese sorrise – Certo che lo so. Da parte mia non sarà un male; per seguire le vostre pazzie ho già perso l’uso delle gambe e con esse gli amici e colleghi cui ero più affezionato. Mia moglie mi lasciò poco dopo la tragedia, da allora mi sono sottoposto a tre interventi di plastica facciale. Fuori da quest’incubo non ho una vita sociale già dal 1994. Non ho paura di morire, caro capitano.
– Tu no, muso giallo. Ma io sì!
– Allora ti conviene cercare santi in paradiso, fallo in fretta. La mia relazione sarà pronta domani e Gerrin manderà un corriere a ritirarla. Sai com’è fatto, ha il terrore che gli intercettino la posta elettronica.
Edward non l’ascoltava più. Continuò a fissare Jim che, disperato, scaraventava contro il soffitto un terzo vassoio di cibo. Quel povero ragazzo era rugoso come un vecchio e il suo pianto accentuava la canizie precoce. Un esercito di uomini come lui avrebbe costretto qualunque avversario a utilizzare armi di distruzione di massa, era una scoperta importante, ma non quella che Curlig si aspettava. E nemmeno Gerrin.
Uscì dal laboratorio e, salito sulla Chrysler di servizio, si diresse a Council Bluffs.
– Tom? Sì, stai tranquillo. Vediamoci per una birra a Tobacco Square per favore. Credimi, vale la pena di litigare con la vecchia.
Spense il cellulare e accelerò, fendendo il buio della sera con gli abbaglianti allo xeno.
‘Tom, maledetto sacco di merda!’ continuò a imprecare lungo tutto il tragitto.
XXIII
Si svegliò con un tremendo mal di testa, ancora più forte di quelli provocati dal vino di zio Tom. Sobbalzò, ritrovandosi in un ambiente del tutto estraneo: una linda cameretta arredata di bianco, un tappeto color crema, uno scaffale ingombro di libri e DVD. Oltre la porta c’era un comodo bagno con vasca, simile a quello che usava la zia Georgina. Nella stanza confluivano una cucina abitabile e un tinello con un grande televisore LCD, un morbido divano chiaro e arredi in legno di pino.
– Dove sono? – chiese a se stesso. La porta di casa si aprì e una ragazza alta, bionda e dagli occhi verdi lo fissò sorridendo.
– Sei a Celta Nova. Io sono Marie, assistente dei servizi sociali. Ti seguirò nel tuo percorso di recupero.
Jim fu affascinato da quella presenza, mai una donna gli si era rivolta con tanta affabilità, nemmeno la maestra Galtieri.
– Io sono Jim – rispose sommesso – Tu vivrai con me?
– No Jim, ma ci vedremo spesso. Ti piace la nuova casa? Il Dipartimento degli Affari Sociali te l’ha assegnata perché crede nel tuo reinserimento.
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia, non capendo cosa significasse.
– Cosa devo fare?
– Domattina andrai a cercare lavoro. Adesso verrai con me, voglio che visiti la città. Sono convinta che qui ti troverai bene.
– E mio zio?
– Zio Tom è a casa sua. Qui siamo nel Wisconsin, non nello Iowa.
– E il manicomio? La prigione?
– Sei rimasto in osservazione per sette mesi. Poi i medici hanno deciso di rilasciarti.
– Sette mesi? Io ricordo di esserci stato per due o tre giorni.
– No Jim – rispose lei, invitandolo a lasciare l’appartamento – hai dormito molto, forse ti hanno imbottito di sonniferi. Oggi è il nove marzo 2011.
– Allora ho già compiuto diciotto anni.
– Certo! Sei un libero cittadino adulto degli Stati Uniti. Come tale, hai il dovere di lavorare e contribuire alla società.
Jim tacque, mentre osservava la sinistra e in qualche modo meravigliosa desolazione di quei luoghi. Le case a schiera erano tutte uguali, in legno e col tetto spiovente.
L’unica piazza del paese ospitava due massicci edifici in muratura, entrambi grigi e vetusti. In uno avevano sede gli uffici comunali e il dipartimento di polizia, nell’altro il museo e la scuola di avviamento professionale. Per strada incontrarono pochissime persone, tutti uomini; la calma e il silenzio erano interrotti solo di tanto in tanto dal rombo di un motore o dal vociare di qualche ante. Bar e pub non ce n’erano, Marie lo rassicurò: i locali notturni aprivano di sera dopo le otto ed erano situati in periferia.
Scesero lungo una strada più ampia, che digradava verso il lago Michigan. Lì finalmente videro segni di attività, almeno trenta uomini erano intenti a costruire o riparare barche. Lungo un molo del porto stavano scaricando una chiatta, all’orizzonte si notava una flottiglia di pescherecci.
– Perché non provi a lavorare qui? – suggerì lei, incalzante.
Poco convinto, Jim avvicinò uno degli operai, intento a piallare una tavola di legno.
– Cosa vuoi?
– Cerco lavoro.
– Cosa sai fare?
– Niente.
– Magnifico. Che studi hai fatto?
– Ho la licenza media.
L’uomo, un energumeno barbuto dal ventre prominente si voltò e cacciatesi due dita in bocca, emise un fischio formidabile.
– Albert, serve un mozzo?
Un tipo in tuta azzurrina, spettinato e sudato, venne loro incontro. Aveva la barba sfatta e fra le dita un mozzicone di sigaro .
– E tu chi sei? – chiese in tono risentito.
– Jim, Jim Sanders.
– Sai nuotare?
– No.
– Che lavori hai fatto fino ad ora?
– Pulivo le stalle, coltivavo la terra, raccoglievo la frutta.
– E cosa pensi di fare da noi? Qui costruiamo barche da pesca, scarichiamo colli, peschiamo con la lampara.
– Posso imparare.
– Non è meglio se invece vai a scuola e ti prendi un diploma? Da noi si fa fatica e tu sei così magro.
– Signore, la forza non mi manca.
– Ah sì? – lo provocò quel tipo – Vediamo allora se è così. Alex, Bob, venite!
Un gigante di colore e un uomo altrettanto piazzato dalla carnagione olivastra stavano trasportando una trave massiccia, tenendola ciascuno sulla spalla destra.
– Quanto pesa quest’arnese? – chiese Albert.
– Trecento libbre e a! – rispose l’uomo di colore.
– Perfetto. Bob, adesso questo giovanotto, il signor Sanders – e indicò loro Jim – ti darà il cambio. Va bene?
Ridendo sguaiatamente l’uomo di colore annuì e Alex, il portoricano alle sue spalle, prese a sogghignare. Jim, guidato dal capocantiere, si pose alle spalle di Bob. Il colosso abbassò le ginocchia, facendo scivolare il peso della trave sulla sua esile spalla destra. Di colpo si sfilò e Jim, sorprendendo tutti, invece di crollare di schianto al suolo continuò a fissare distrattamente l’orizzonte.
– Dove devo poggiarla? – chiese rivolto ad Albert.
– Là – rispose Alex, indicando una catasta ordinata di travi. Jim percorse tranquillamente una ventina di metri e, malgrado qualche problema del lasciare cadere il carico nell’incastro con gli altri colli, non diede il minimo segno di cedimento.
– Va bene, l’energia ce l’hai, anche se vorrei capire dove la nascondi. Domattina presentati qui alle sei, puntuale. Non mettere camice e pantaloni firmati, basta un paio di jeans e una maglietta. Al resto penseremo noi.
– Sono assunto?
– Diciamo che sei in prova.
– Allora non mi paghi?
– Certo che ti pago.
– E quant’è la paga?
– Duemila dollari al mese, come gli altri.
Jim non riuscì credere alle proprie orecchie e ancora stupito per l’estrema facilità di quell’assunzione, rientrò a casa sotto l’occhio vigile di Marie.
– Sai cucinare?
– No.
– Dovrai imparare, ora vivi da solo.
– Non potresti cucinare tu per me?
– Per oggi sì, te lo prometto. Ma vorrei che imparassi a camminare sulle tue gambe.
– Che vuol dire?
– Per essere un adulto devi diventare autosufficiente, non avere bisogno di nessuno.
– Davvero? Padre Robert diceva che l’uomo che basta a se stesso è nemico di Dio e del suo prossimo.
– Chi era Padre Robert?
– è un prete, il preside dell’orfanotrofio dove sono cresciuto.
– Era buono con te?
– Non tanto, però era l’unico ad alzare poco le mani, quasi mai, tranne quando mi scopriva a rubargli i sigari.
– Devi essere stato un bel monellaccio!
– No Marie. Mi sentivo solo da impazzire.
La ragazza tacque, commossa da quelle ingenue parole. Entrarono nell’appartamentino di Jim, il pian terreno di una casa per il resto disabitata.
– Cosa vuoi mangiare? – gli chiese. Ma Jim si era perso dietro un programma televisivo presentato da una procace brunetta ispanica e non rispose. Decise di regolarsi da sola.
Dopo una mezz’ora servì in tavola porridge, vitello tonnato e composta di frutta. Il ragazzo mangiò voracemente senza fiatare, ancora concentrato sullo schermo.
– Non sei di compagnia, ti senti stanco?
Finalmente si voltò verso di lei, ammirandole il seno che sporgeva da sotto il golfino.
– Scusami. Non vedevo mai la tv, zio Tom guardava sempre il football, che mi annoia.
– Capisco – concluse lei, alzandosi in cerca del giubbotto. Lo salutò e senza sperare che rispondesse, andò via.
Jim si addormentò poco dopo con la testa sul tavolo e dormì profondamente per nove ore.
XXIV
Un boato terrificante fece sobbalzare il povero Jim. Si guardò intorno, era a casa davanti al televisore ancora , ma quel suono potente e fastidioso proveniva dalla cucina. Un timer a muro indicava le cinque e trenta e non stette a chiedersi chi potesse averlo programmato, anche perché lui non ne era capace. Si lavò e vestì di fretta e, alzato il o, giunse al porto qualche minuto dopo le sei di mattina. Si aspettava di trovare l’intera squadra di operai marittimi al lavoro, invece c’era solo Alex il portoricano e altri due figuri in maglione accollato, che lo aspettavano in piedi davanti a una pila di casse.
– Alla buon’ora! Hai preso il caffè?
– No.
– Bene. Allora cominciamo: vedi queste casse? Prendi il muletto e portale laggiù – e gli indicò il molo più lungo, presso il quale era ormeggiata una piccola chiatta da carico.
Jim esitò.
– Cosa c’è?
– Cos’è il muletto?
I tre ridacchiarono un attimo, poi il più piccolo gli fece cenno di seguirlo e, condottolo davanti a una casupola di legno, ne estrasse un traspallet e spiegò come usarlo.
– Sembra facile.
– Lo è. Ora muoviti, qui sei pagato per farti il mazzo, non per imparare! – lo congedò acidamente l’uomo.
Jim sollevò un primo blocco di otto casse e stringendo i denti le trascinò fino in fondo al molo, distante alcune centinaia di metri. Ripetette l’operazione per varie volte sempre più stanco, sudando e sbuffando. Quando ebbe finito vide il sole già molto alto. Era quasi mezzogiorno, aveva fame e sete.
– Sei ore per ottanta casse? Non ci siamo Jim. Domani dovranno essere almeno centoventi.
– Mi impegnerò di più.
– Bene – lo esortò Alex.
Intorno apparvero altri operai in tuta, una decina in tutto. Al largo non si vedevano barche da pesca né chiatte da trasbordo.
– Oggi c’è poca gente.
– Certo. Gli altri sono andati al porto di Chicago, torneranno a notte fonda.
– Cosa vanno a fare a Chicago?
– Vendono il nostro pesce. Qui non lo comprerebbe nessuno.
‘Giusto’ pensò Jim.
– Ora vai a mangiare.
– Dove?
– Ce l’hai una casa?
– Sì, ma pensavo che mangiassimo tutti insieme.
Alex lo guardò con una vena di compatimento – Ti sei portato il pranzo?
– No.
– E allora? Vai a mangiare e torna qui per le tredici. Puntuale.
– Sissignore – si congedò Jim.
Era stanchissimo, le braccia gli facevano male e il sole aveva picchiato troppo a lungo sul suo cranio nudo. Notò che lungo la via di casa non c’era mai nessuno, il che poteva essere spiegabile di primo mattino, non certo all’ora di pranzo.
‘Che strano posto, non sembra vero’ si trovò a pensare.
A sorpresa, la tavola era apparecchiata, i pavimenti e la cucina puliti e una pentola di maccheroni era stata appena scolata.
– Marie, sei in casa?
Nessuno gli rispose. Condì i maccheroni con olio e formaggio e bevve avidamente l’acqua fresca che trovò nel frigorifero.
Finì di mangiare in pochi minuti, ripose le stoviglie sporche nell’acquaio e tornò rapidamente al porto. Alex non c’era più, al suo posto trovò Bob il nero e il capo cantiere della sera prima.
– Ehi tu, Superman! – lo irrisero i due.
– Che cosa devo fare?
– Vedi quel camion? – e gli indicarono un trabiccolo bozzato e arrugginito in cima alla rada – Tra poco arriveranno due pescherecci. Tu prendi le ceste di pesce e le carichi a una a una sul cassone. Sta attento a non farne cadere nessuna. Chiaro?
Annuì, era un lavoro semplice.
Dopo una decina di minuti di attesa la prima barca arrivò a tutta velocità e attraccò con notevole incertezza lungo il molo corto. Jim si diresse al deposito attrezzi per prendere il muletto, ma Albert lo fermò.
– Ehi, questo lavoro si fa a spalla!
– Devo andare fino laggiù? Ci impiegherò delle ore.
– Pensavi di essere pagato per abbronzarti?
L’uomo era più alto di lui, massiccio e muscoloso, con un folto pizzetto nerissimo e molti tatuaggi sulle braccia nude. Jim non aveva paura di affrontarlo, però non volle problemi e si diresse sul piccolo molo di legno, ponendosi a ridosso del peschereccio. Due ragazzi asiatici sulla barca gli fecero segno di avvicinarsi e con un argano calarono un grosso cesto di pesce, che Jim ricevette direttamente sulle spalle. Rapidamente corse a depositare il cesto nel cassone e tornò, ripetendo l’operazione una decina di volte. Prima ancora che la barca
levasse l’ormeggio, uno strepito avvertì che era arrivato il secondo peschereccio. Anche stavolta due pescatori asiatici gli calarono le ceste a una a una e lui provvide a scaricarle di lena.
Il sole cominciava lentamente a tramontare e si sentì stanco, puzzava di pesce e aveva la maglietta fradicia di sudore e acqua salata.
Il pensiero del sale lo sorprese ed espose i suoi dubbi a Bob, il marinaio di colore.
– Il lago Michigan è d’acqua dolce, certo. Se ti senti pizzicare il sale sulla schiena è perché ti lavi poco e il sudore ti incrosta la pelle. Fatti una doccia e a tutto, chiaro?
A Jim quella spiegazione parve più che altro una canzonatura, però anche quella volta decise di non attaccare briga.
Poco dopo Francisco, un altro operaio portoricano comparso dal nulla, gli ordinò di andare a casa – Non c’è più niente da fare, torna domattina. E mi raccomando, lavati! – lo schernì a sua volta.
Il porto era deserto, fatta eccezione per quei tipi, i quali non avevano mosso un dito durante l’intero pomeriggio. Non aveva visto altri navigli, al di fuori delle piccole barche da pesca dei cinesi. Anche quella sera le strade apparivano deserte, buie le case, perfino in piazza non c’era anima viva.
Sulla soglia di casa incontrò Marie, che subito gli sorrise.
– Com’è andata oggi? Cosa mi racconti? – gli andò incontro affabile.
– Bene direi, ma puzzo. Ho scaricato due tonnellate di pesce.
– Il lavoro fortifica. Vai a lavarti, ti preparo qualcosa. Cosa vorresti?
– Sai fare la carne alla brace?
– Sì certo, ma non su un fornello a gas. Te la preparo in padella, va bene?
– Sì – rispose lui, prima di infilarsi in bagno. Purtroppo disponeva di un doccino corto e molto potente e per lavarsi schizzò acqua e schiuma dappertutto. Andò nella stanza da letto, dove sapeva di trovare vestiti e biancheria pulita, indossò un paio di bermuda jeans e una maglietta bianca e raggiunse la ragazza a tavola. Lei aveva già il televisore su un canale di varietà.
– Sai – disse lui masticando pesantemente – è tutto molto strano, nel paese sembra che esistiamo solo tu e io. I tipi al porto non c’erano, tranne due o tre che sono rimasti seduti a guardare il mare. La piazza è sempre deserta, come hai detto che si chiama questo posto?
– Celta Nova. Dovrebbero abitarci tre o quattromila persone, ma in genere sono sparsi nei dintorni, lavorano fuori, quasi tutti nella pesca, altri nelle campagne.
– Non so, sembra una città finta.
– Non dire sciocchezze – lo rimbrottò lei – A parte la poca gente, ti piace stare qui?
– Non so, cioè penso che quando non ci sarai te avrò difficoltà. Da Padre Robert ero il più scarso di tutti nei mestieri, facevo male il bucato e stiravo malissimo. Pulire i pavimenti è una noia tremenda, poi devo imparare a cucinare.
– Lo sai, un uomo adulto deve imparare a stare da solo.
– è che io sono solo da quando sono nato, sarà per questo che non mi piace.
– Ti farai degli amici, vedrai.
– Qui? Non credo.
Jim tacque sorpreso da un’altra annunciatrice tv, una teutonica bionda anch’essa molto formosa.
– Ma la tua è una fissazione.
– No, solo che non ho mai avuto una donna.
– Troverai una ragazza, vedrai.
– Non potresti essere tu, Marie?
– Io? Ho dieci anni più di te, sono qui per aiutarti, non per amarti.
– E non mi aiuteresti facendo ‘le cose’ con me?
– Jim, non si dice così. Una ragazza perché faccia ‘le cose’, come le chiami tu, bisogna corteggiarla, intrigarla. Tu me lo chiedi in questo modo, non sono mica una pompa di benzina.
– Una pompa di benzina? Che vuoi dire?
– Che fare l’amore con una donna non è facile, bisogna attirarla, conquistarla.
– E per conquistarti che faccio? Ti regalo i fiori?
– Ecco, i fiori di solito piacciono alle donne. Però non basta, occorre sentimento, ione. Cose che imparerai col tempo.
Jim, annoiato da quelle spiegazioni, si rivolse di nuovo allo schermo.
Marie sparecchiò e quando vide che il ragazzo si stava assopendo, lo scosse per mandarlo a letto. Lui però nel dormiveglia interpretò quel contatto come una resa e l’abbracciò. La ragazza capì di non potersi sottrarre a quella morsa d’acciaio e cedette – Fai piano Jim, mi fai male – sussurrò.
Il ragazzo la sollevò tra le braccia e, scimmiottando le pose viste in un film, la depositò sul proprio letto e si inginocchiò, tenendole una mano.
– Dal primo momento in che ti ho vista… – cominciò a recitare.
– Oh Jim – sorrise la ragazza – non siamo in televisione. Vieni qui – e gli carezzò il capo glabro. Lui si alzò rigido e fremente, lasciandosi avvolgere dalle sue braccia.
– Sciogliti, abbracciami anche tu, fai piano però. Le donne sono fragili.
Mentre le cingeva la schiena, lo baciò sulle labbra.
Per Jim si aprì un mondo sconosciuto.
XXV
– Adesso se lo scopa?
– Il problema è suo. Lei ha tanta di quella merda nel sangue che anche Dracula si schiferebbe.
– Meno spirito – tuonò Ubald Gerrin. – Mi avete costretto a questo incontro, voglio sentire notizie importanti, non cazzate.
– Signore – s’intromise Thomas Curlig – Come spiegavo…
– Cosa vuoi spiegarci? Come si mandano a puttane quattro milioni di dollari in una notte di gioco? E lei, dottore – si rivolse allo scienziato nipponico in carrozzina – cosa vorrebbe dimostrare con questi filmati?
– Vede signore – replicò con un filo di voce Kiamakij – dai monitoraggi dell’ultimo mese abbiamo scoperto dettagli totalmente nuovi. Se osserva lo schermo – e il video riprese Jim intento a penetrare con foga quasi animalesca la povera Marie – noterà il continuo moltiplicarsi dei globuli rossi e bianchi e il restringimento parallelo di tutte le aree colpite dal Tetan.
– Cioè, mentre quel coso si scopa una sieropositiva ritorna normale?
– No, signore. Il ragazzo non raggiunge mai l’orgasmo perché il Tetan gli inibisce l’uso delle ghiandole spermatiche. Quasi tutti gli infetti dal Tetan soffrono di sterilità.
– Bene, ma che utilità potrebbe avere un esercito di deficienti forzuti e sterili? A breve dovrò giustificare al congresso un altro finanziamento di centotrenta milioni di dollari per tenere in piedi questo teatrino. Non avete altro da dirmi?
– Veramente sì – rispose il giapponese – oltre a inibire la produzione di ormoni della fertilità, il Tetan in presenza di forti pulsioni sessuali muta le sue strategie, libera una parte del cervello infettato e si concentra sul fegato, efficientandolo del 900%.
– Quindi gli alcolisti e i malati di cirrosi potranno festeggiare. Ascolti dottore, io devo e ripeto DEVO avere valide ragioni scientifiche per non chiudere questo maledetto progetto. Trovi un aspetto di questa merda che sia utilizzabile militarmente o per lo meno nella medicina. Qualcosa di utile alla Nazione e soprattutto a noi. Altrimenti…
Lo schermo olografico si spense e l’immagine gigantesca del Segretario di Stato disparve. Contemporaneamente i monitor che riprendevano Jim intento a sfregarsi il pene da solo, dopo il forfait della stanchissima Marie, si fissarono su un desktop nero con il logo CIA al centro.
– Un magnifico bentornato. Quel vecchio porco non manca mai di smerdarmi! – ironizzò Thomas Curlig, puntellandosi a una stampella.
– Cosa hai fatto?
– Niente di che, una cazzo di caduta, sono scivolato su una mela marcia. Quegli imbecilli vietnamiti! Caro Ed – cambiò di colpo il tono di voce, rendendosi arrogante – non mi sembra che stia combinando granché. Vedo la tua greca sempre più lontana.
L’ex sottoposto lo fissò con odio, scegliendo di non replicare.
– Avete fatto scopare Jim con quella troia infetta. Cosa pensate di scoprire?
– Secondo i miei studi – intervenne Kiamakij – il Tetan non si trasmette né attraverso la saliva né lo sperma. In ogni caso da esperimenti svolti sulle cavie, sappiamo che il nostro agente non ha alcun effetto sui roditori. Il suo terreno di caccia è l’uomo e il contagio per diffusione nell’aria limitato.
– Siamo ancora a questo punto? Se non riuscite a pilotare quel bio-cazzo possiamo andare a casa. Mi avete ripreso in squadra solo per simpatia? Queste storie le conosciamo dal 1985!
– Calma, Tom – lo blandì Edward – Siamo convinti che Tetan possa essere molto utile. Se solo riuscissimo a far godere tuo nipote.
– Sì, mio nipote…
– Ok, insomma. Lui quando gode raggiunge un orgasmo meccanico e spruzza liquido bianco privo di spermatozoi perché il Tetan gli blocca le funzioni
riproduttive. Contemporaneamente i globuli rossi e bianchi si moltiplicano a dismisura. Se riuscissimo a sbloccarlo e lo fimo godere in quella tossica?
– A proposito, dove l’avete rimediata? Non è male.
– Era una giornalista abbastanza famosa fino a un paio di anni fa. Poi fece un matrimonio sbagliato.
– Era già nostra?
– Certo. Lavorava nel distretto di New York, ha accettato tranquillamente di partecipare a questa missione.
– Sa anche del Tetan?
– Sa tutto. L’Aids le concede al massimo tre anni di vita e ha scelto di spenderli lavorando.
– Contenta lei. Va bene, come pensate di fare eiaculare quel deficiente?
Il dottor Kiamakij si avvicinò a una console bianca e cominciò a digitare furiosamente, nel contempo il monitor riversava una serie di simboli algebrici.
– Cosa significa?
– Se Marie continua a stargli vicino, le inibizioni imposte dal Tetan salteranno e lui diverrà pienamente fertile. Allora potremo capire.
– Capire cosa?
– Insomma Tom, fai lavorare quella testa! – urlò Edward – La nascita di un esercito di forzuti idioti, immuni all’aids e alle malattie, pensi che non piacerebbe al Pentagono?
– Sei pazzo, Ed. Ammesso che tu abbia ragione, come fai a controllare e irreggimentare migliaia di pazzi invincibili? E nel Congresso chi potrebbe mai approvare un progetto del genere?
– Magari potremmo utilizzare detenuti nel braccio della morte come cavie.
Thomas per qualche istante valutò l’idea, poi scosse la testa.
– Troppi pacifisti. Specialmente il Senatore Robertson e i suoi fedelissimi ci smonterebbero in un niente.
– Troveremo il sistema per neutralizzarli, tranquillo.
Thomas se ne andò a testa bassa. Lasciando il laboratorio, incrociò Mark e Rice seduti dietro una scrivania, molto impegnati in una combattuta partita di sudoku.
– Povera Nazione – mormorò zoppicando verso l’andito.
Quel gelo mortale continuava a serrargli le membra. Era su una lettiga, avvolto da pareti metalliche opache. Sentiva ai polsi e alle caviglie una pressione indefinibile, non riusciva a spostare gli arti senza tremare. Un dolore nell’incavo del braccio, un tubicino rosso che pendeva da una boccia di vetro sospesa, infine una finestra che si illuminava di continuo, animata da tanti bastoncini dai colori e dalle dimensioni più varie.
‘Mamma!’ provò a urlare, ma le labbra rimasero incollate. Il freddo ebbe la meglio e lui reclinò la testa, arrendendosi ai suoi invisibili carnefici.
Aprì gli occhi, era sul divano, la televisione accesa, la tavola e la cucina ancora da pulire.
Marie per fortuna era ancora lì, dal bagno udì rumori di acqua corrente.
– Ti sei svegliato? – gli chiese uscendo.
– Sì. Ho avuto di nuovo l’incubo.
– Che incubo? Ti va di raccontarmelo?
– No, scusa. Mi fa paura.
– Le paure si vincono affrontandole, Jim.
Lui meditò su cosa rispondere, poi si alzò tentando di abbracciarla, ma lei si ritrasse infastidita.
– Oggi no. Cosa ti avevo detto? Le donne non sono oggetti e vanno rispettate. Se ti dico di no è no.
– Ma io mi sento troppo solo.
– Tutti siamo soli. Bisogna imparare a convivere con noi stessi.
– Cosa vuol dire?
Marie sbuffando cominciò a sparecchiare.
– Senti – provò ad attirare la sua attenzione – ma perché nei film la gente è sempre contenta e stanno tutti insieme e io invece ho soltanto te?
– Perché? Non sei felice con me?
– Io ti amo Marie, lo sai.
A sentire questo lo fulminò con lo sguardo – Ehi, guardami negli occhi e ascoltami bene. L’amore è un sentimento forte, complesso. Non è uguale al sesso. Sono due cose separate. Il sesso è ione, fisicità. L’amore è come il fuoco, una fiamma che ci brucia dentro.
– L’amore ci uccide? – chiese lui sconcertato.
– Non sempre, a volte ci dà vita, luce, calore. Non è come la fiamma del fornello, è un fuoco invisibile nei nostri cuori. Hai capito?
– No.
– Capirai a suo tempo. Dammi una mano, su.
Dopo aver sparecchiato la ragazza ordinò a Jim di lavare i piatti.
– Oggi sono stanca e devo andare a casa mia. Impara un’altra cosa: le donne a volte sono stanche e irritabili, si tratta di un fatto normale.
– Lo so, lo diceva anche la mia maestra: una volta al mese tutte le donne che possono fare i figli diventano come leonesse e bisogna lasciarle perdere.
– La tua maestra esagerava. Comunque sono molto stanca, scusami.
– Ti accompagno a casa?
– No, assolutamente.
Il ragazzo la vide uscire e dalla finestra la seguì con lo sguardo. Si conoscevano da quasi un mese, eppure di lei non sapeva nulla, nemmeno il cognome.
Incominciò a lavare i piatti e i suoi pensieri tornarono ai lunghi anni trascorsi a Sancta Spes, alle tante punizioni e umiliazioni subite, alla maestra, ai compagni, a Padre Samuel.
‘Chissà come stanno’ pensò. Poi il suo sguardo fu attratto da un oggetto luccicante: il palmare di Marie era rimasto sulla credenza del salotto. Alle volte l’aveva vista usarlo e pensò che tutto sommato poteva riuscirci anche lui. Asciugatosi le mani, provò a connettersi al web.
– Cosa fai? – urlò Marie, spalancando la porta.
– Voglio imparare a navigare, come fai tu.
– Jim, se vuoi usare le cose degli altri, prima devi chiedere il permesso. Chiaro?
– Sì. Adesso mi insegni?
XXVI
– Navigare sul web?
– Già. Si è impuntato e ho dovuto giocoforza insegnargli i primi rudimenti.
Thomas Curlig annuì – In fondo non c’è pericolo, tutte le operazioni del progetto Tetan sono sotto segreto militare. Magari trova un nuovo atempo e ti lascia in pace, anzi non appena gli danno lo stipendio incoraggialo a comprarsi un palmare.
– Non ce n’è bisogno. Ha detto che vuole essere accompagnato a comprarne uno. Oggi stesso.
– Stupida! Come possiamo farvi uscire da soli?
– Lo porterò a Sheboygan, dopo averlo irrorato.
– Marie, non sei autorizzata a prendere iniziative. L’uscita di Jim dall’area protetta è fuori discussione.
– Bene. Allora mandate qualcun’altra a consolarlo, non voglio morire strangolata per il tuo puntiglio.
Thomas si morse le labbra, troncò la comunicazione e chiamò subito a raccolta Kiamakij e Kolosimo.
Espose loro i fatti ed entrambi gli diedero ragione: il Tetan era in una fase delicata della sperimentazione, ove mai si fosse gemmato in qualche altro essere umano avrebbe potuto generare un’epidemia di proporzioni incalcolabili.
– E se tu andassi a trovarlo? Zio Tom, riabbraccia il sangue del tuo sangue! – lo irrise Edward.
– No. Possiamo risparmiarci un viaggio non autorizzato in elicottero. Ascoltate…
– Albert, oggi è giorno di paga.
L’uomo lasciò cadere il giornale e lo guardò in cagnesco – Paga? Cosa hai fatto per meritartela?
– Ho costruito due barche e scaricato trenta casse.
– Tutto qui? Per duemila dollari al mese me ne aspettavo almeno il triplo.
– Il triplo? Io lavoro anche di domenica.
– Noi tutti lavoriamo sette giorni su sette.
– Sì, ma io resto sempre qui, voi invece pescate, viaggiate…
– è colpa mia se non sai nuotare?
Jim non si aspettava un comportamento del genere. Da un mese doveva fare i conti con l’emarginazione cui lo sottoponevano quotidianamente, non parlava con nessuno e solo la sera poteva sfogarsi un po’ con Marie. La testa cominciò a dolergli.
– Mi hai promesso quei soldi, dammeli allora.
Albert si alzò e da una bisaccia lurida appesa alla sedia sdraio estrasse una fila di banconote da cento dollari.
– Tieni. E cerca di meritarteli!
Felicissimo Jim intascò il denaro e fece per andarsene.
– Ti consiglio di aspettare. Fra poco arriva un carico di merci cinesi.
– Non posso scaricare domani? Stasera ho da fare.
– Ah sì? E cosa avresti da fare di tanto importante?
– Vado con l’assistente sociale a comprare un palmare, uno di quei pc piccoli che navigano in rete.
– Un tablet? Allora sì che devi aspettare. Tra le merci cinesi ce ne sono una marea, i migliori del mondo.
Jim sobbalzò – Sul serio?
– Certo! E se vuoi, potrai comprarlo qui, franco bordo; risparmieresti almeno cento dollari.
– Quanto costa un palmare?
– Non lo so, credo sui mille, millecento dollari.
Jim rifletté un attimo: il cibo e i vestiti glieli procurava Marie, quel denaro non avrebbe saputo come spenderlo. Il locale con l’insegna bar era diroccato, come anche il ristorante. Poteva spendere, decise di comprarsi il pezzo migliore del carico.
– Va bene Albert. Aspetto i cinesi.
– Bene, eccoli che arrivano. Corri a prendere il traspallet, presto! – lo esortò, indicando un puntino bianco all’orizzonte.
Jim eseguì e rapidamente si posizionò davanti agli approdi del molo corto. La barca era un semplice brigantino e l’equipaggio si componeva di due soli marinai dalle fattezze asiatiche, visi che Jim vedeva quotidianamente.
Erano i soliti pescatori, quella stessa mattina aveva scaricato a più riprese pesce e legname dalla loro barca. Attese che l’argano calasse il cassone e, sollevatolo col muletto, a fatica lo trascinò verso la rada.
– Dove lo scarico? – chiese ad Albert. A un cenno del caposquadra Bob apparve quasi dal nulla e, messosi alla guida di un pick up, gli andò incontro in retromarcia. Jim sollevò la sbarra di carico e, aiutato dal possente marinaio di colore, riuscì a depositare il collo nel cassone.
– Albert, i cinesi sono già andati via. A chi pago?
L’uomo s’inerpicò sul cassone, con un piede di porco forzò la cassa e prese a estrarne alcune scatole di cartone. Quando ne trovò una rossa esultò e l’aprì immediatamente.
– Eccolo qui, il miglior computer piatto del mondo, nemmeno l’Apple riesce a produrre queste diavolerie. Sei davvero fortunato, Jim.
– Pago a te allora? Li dai tu i soldi ai cinesi?
Bob alle sue spalle cominciò a ridacchiare.
– No. Glieli darai tu stesso domani, d’accordo?
Gli occhi di Jim si erano fossilizzati su quella scatola leggera che effigiava una sorta di quaderno elettronico, un gadget tecnologico d’avanguardia, almeno per lui.
– Vai a casa. Ci vediamo domattina.
Trionfante Jim bruciò la strada di casa in pochi minuti e, tutto preso dalla novità, mangiò avidamente la cena sul tavolo, ormai fredda. Solo a fine pasto si accorse che Marie non c’era. Tuttavia, non riuscendo a staccarsi tablet, con qualche difficoltà lo accese e cominciò a esplorarne le funzioni. Non capiva molto e non riuscì a connettersi alla rete, dopo una mezz’ora stava già pensando di restituirlo l’indomani ai cinesi, quando Marie, visibilmente esausta, apparve sulla soglia.
– Ciao. Sei andata in città?
– Sì, avevo bisogno di fare un po’ di spesa.
– Sai, ho preso lo stipendio. Quanto devo darti?
– Auguri! Niente, lo sai che sei ospite dello Stato, vitto alloggio e vestiti fanno parte del tuo compenso.
– Ah bene. Senti, sai come si fa a vedere le donne ignude? – chiese porgendole il tablet.
– Oh, che meraviglia! Dunque, prima di tutto devi immettere la chiave di rete.
– Dove la trovo?
– Lì, sulla presa principale del telefono. Dettamela per favore.
Jim con qualche esitazione riuscì a localizzare la scritta nera plastificata sulla presa e la lesse ad alta voce.
– Ecco fatto. Ora divertiti! – disse lei, facendogli posto sul divano.
Quella sera il ragazzo fu totalmente preso dal nuovo arnese, saltando da un sito pornografico a uno di magia, fino a are per domini dediti alla cucina, ai racconti illustrati dell’orrore e ai giochi di ruolo.
– Che meraviglia, qui c’è tutto il mondo. Come credi che potrò fare a conoscerle queste signorine? – chiese dopo quattro ore di navigazione compulsiva, mostrando sul display un sito di appuntamenti. Fu allora che finalmente alzò lo sguardo e si accorse che Marie, stremata, dormiva profondamente nel suo letto.
XXVII
– No dollali. Io legala!
– Legalo?
– No dollali!
Freddato dalla voce ostile del cinese, lo stesso che il giorno prima aveva portato i gadget tecnologici, Jim riprese a lavorare. Dopo aver scaricato sei ceste di pesce maleodorante andò da Albert e lo trovò intento a giocare con un altro piccolo computer da tavolo, stravaccato fra gomene e casse sfondate.
– Capo, questi dicono che non vogliono soldi.
– Ah sì? – rispose lui senza alzare lo sguardo – Vorrà dire che apprezzano il tuo lavoro, gli sarai simpatico.
– Simpatico a quelli? E com’è che sono sempre loro o quegli altri due a venire qui?
– Questo è un porto piccolo, a poca merce.
– E gli altri dove stanno?
Sbuffando Albert finalmente si degnò di guardarlo negli occhi.
– Sono a pescare, torneranno stanotte. Loro non fanno orario d’ufficio!
– E tu quanto guadagni per stare qui?
– Cosa te ne frega? Io controllo che tutto vada bene, altrimenti il comando lacustre chiuderebbe il porto.
– Ma stai sempre seduto!
– Senti ragazzo, cosa c’è? Vuoi un aumento di stipendio?
– No ma…
– Ma cosa? Io ti ho assunto come operaio e resta al tuo posto. Se vuoi fare carriera studia e troverai un lavoro più interessante.
– Tu hai studiato?
– Sì. E tu?
– Che scuole hai fatto?
– Ma cos’è? Un terzo grado? Vai a lavorare o ti multo!
– Ma non ho niente da fare, ora.
– C’è sempre qualcosa da fare. Vedi queste casse vecchie e marce? Accatastale sulla rada e poi ti farò vedere come bruciarle.
– Bruciarle? So fare da solo.
– Sicuro?
– Certo! A Sancta Spes una volta ho incendiato anche la stalla.
– Ehi, non fare scherzi. Se bruci anche solo un remo ti licenzio. Le casse e basta. Lì – indicò il capanno degli attrezzi – troverai un bottiglione verde. È alcol, serve ad alimentare le fiamme. Usane poco.
Jim, travolto dalla sua antica pulsione piromane, in pochi minuti creò una catasta di legno marcio alta più di due metri e, dopo averne intinto gli strati esterni di
spirito, prese dal capanno degli attrezzi un accendino dimenticato da qualcuno. In meno di cinque minuti generò una colonna di fumo nero e denso visibile a chilometri di distanza.
Albert a quel punto abbandonò la partita a Sudoku e disperato telefonò a Marie.
– Ho commesso un’imprudenza.
– Lo so. Se ne è accorto anche ‘Zio Tom’.
– Forza ragazzo, hai fatto un lavoro impeccabile. Bevi una birra con me!
Jim, sorpreso da quel repentino cambiamento di umore, prese la bottiglia che Albert gli porgeva e dopo aver brindato ne ingoiò il contenuto.
– Bleah! Non mi piace, sa di… – farfugliò, prima di crollare svenuto sul cemento.
– Ok – gridò Albert nel cellulare – possiamo procedere. Coprite tutto, presto!
Tre elicotteri decollarono all’istante convergendo sul finto porticciolo. Residuo di un vecchio set cinematografico, Celta Nova sorgeva sui resti di un antico villaggio di pionieri, del quale però rimaneva soltanto qualche rara vestigia dispersa nel verde. Il porto lacustre era stato allestito in fretta e furia con blocchi frangiflutti coibentati alla meno peggio e un pontile turistico. L’abitato,
eccettuate le case di Jim e Marie, consisteva in vecchie sagome di plastica, fondi di magazzino di una casa di produzione. Gli operai del porto e i mercanti cinesi erano comparse reclutate con la scusa di girare un reality show. Solo Albert, Bob, Alex e Marie erano controllati e pagati dalla CIA.
Gli elicotteri sparsero dei teli verdi e marroni riflettenti, coprendo le casupole. L’incendio fu prontamente domato e quando di lì a poco una motovedetta del comando lacustre si avvicinò a riva non rinvenne nulla di insolito, fatta eccezione per un moletto appena più alto del pelo dell’acqua sconosciuto alle carte nautiche.
– Capo, sembra che ce l’abbiamo fatta. Nessun aereo in giro e la motonave si sta allontanando.
– Ci è andata bene, forse. Ma questa buffonata deve finire. Gerrin prima o poi lo verrà a sapere e domani il Senato deve discutere dei tagli in Bilancio. La vedo nera.
– Uccidiamolo allora.
– Preferirei uccidere te. Albert, come ti è saltato in testa di…
– Amico, vuoi restarci tu otto ore al giorno con un deficiente che scopre tutte le cose per la prima volta? È curioso come un bambino, ficca il naso dappertutto, ma se si arrabbia picchia durissimo. Questa sceneggiata non può continuare.
Edward annuì – Ne parlo con Tom, magari se lo riprende in casa.
– Fossi in lui non lo farei. Ha sollevato otto tonnellate di legname in meno di un’ora e aveva ancora energia. Leviamolo di mezzo, dammi retta!
– Non sono decisioni che ci competono. Ne parlo con Tom.
– Kappa.
Aiutato da Alex e Bob caricò il ragazzo sul cassone del pick up e lo trasportò fino a casa, dove li attendeva una prostrata Marie.
– Come sta? – chiese loro mentre lo deponevano sul divano.
– Bene, tra poco si riprende. Fallo lavare, puzza di pesce.
Lei li guardò mentre uscivano, erano tesi e si capiva dal loro gesticolare elettrico.
Dopo una mezz’ora Jim aprì gli occhi.
– Hai avuto un colpo di sole, eh! Ti hanno riaccompagnato qui, sembravi morto.
– Cosa? Io… non ricordo.
– Il sole picchia duro, caro Jim.
– Stavo bevendo una birra e poi… non so.
– Insolazione. Fa male, non lo sapevi?
– No. È la prima volta che mi succede.
– Da domani porta sempre un berretto, almeno per le ore più calde.
– Ora mi multeranno, ho lavorato meno del previsto.
– Venti dollari in meno non sono una tragedia. Cosa vuoi per cena? Vanno bene uova al brie?
– Sì. Mettici tanta maionese.
‘Bleah’ pensò Marie, mentre strapazzava i tuorli.
Nel frattempo Jim si alzò in cerca del tablet.
Visitò qualche altro sito di donnine allegre, poi ebbe un’idea e digitò: ‘Orfanotrifio di Santa Spes’ sbagliando.
Non apparve nulla, o meglio, trovò testi latini, citazioni bibliche, perfino un monastero se che recava quel nome, ma nulla che lo riavvicinasse a quella che per diciassette anni era stata casa sua.
Digitò allora ‘Padre Robert Ferraro’.
Nulla che riconducesse al vecchio preside.
Innervosito provò a scandagliare le varie pagine suggerite dal motore di ricerca, rinvenne un paio di preti italiani con lo stesso nome e cognome, ma l’uno operava in una parrocchia siciliana e l’altro presso una missione in Ciad.
‘Forse quei preti non amavano la rete’ pensò e decise di cercare un obiettivo più semplice, digitando ‘Suzanne Galtieri’. Stavolta la ricerca si rivelò fruttuosa e nel constatarne la morte avvenuta pochi mesi prima a seguito di un male incurabile, fu sul punto di svenire nuovamente. Un urlo gli partì tremendo, facendo sobbalzare la povera Marie. Mentre lei accorreva a consolarlo, cominciò a piangere a dirotto e per un pelo non distrusse il prezioso device.
La ragazza strinse e carezzò quel cranio deforme, baciandolo sulla nuca, sulle
guance, sulle labbra secche e appiccicose, ma non riuscì a calmarlo. Alla fine gli prese la testa tra le braccia, fino a quando lui non si addormentò col viso sulle sue gambe.
– Ed, abbiamo fatto un’altra cazzata – sussurrò nel cellulare di servizio – ha imparato prestissimo a navigare e ha scoperto una delle vostre eliminazioni.
– Cosa dici?
– La sua maestra, quella ragazza infetta.
– Ma è crepata di aids. Stava messa peggio di te.
– Lui non lo sapeva.
– Ok, ci penso io. Tu tienilo buono.
– Vaffanculo!
Delicatamente Marie si alzò per andare a riposare. I farmaci le rendevano sempre più penoso il minimo sforzo, presto avrebbe dovuto ritirarsi da quell’impresa. Mentre si iniettava il solito siero ripensò a Jim, scherzo della natura cui la vita aveva imposto prove impossibili anche per gli uomini più dotati. Un altro infelice, come lei e come quella povera Suzanne Galtieri, assoldata dalla Cia solo dopo aver appreso di avere ancora pochi mesi di vita.
XXVIII
Al risveglio Jim si riscoprì triste e infelice. Marie dormiva nel suo letto, il respiro appena percettibile. Il pallore era quasi cadaverico e se ne accorse perfino lui. Provò a svegliarla, senza successo, preparò la colazione o almeno ci provò, posò sul comodino un piatto di uova, panna e brie ricoperte di maionese e ketchup. Marie rispose debolmente che preferiva dormire un altro po’.
Mangiò quello schifo trovandolo squisito, poi sorseggiò il caffè che pure non amava, si vestì dimenticando di cambiarsi la biancheria e con un po’ di ritardo discese verso il porto.
Al solito c’erano Albert, Alex e Bob che chiacchieravano davanti a tre bicchieri di birra.
– Ciao Jim, vuoi bere con noi? – l’apostrofò Alex sorridendo a trentadue denti.
Il ragazzo, nuovamente a disagio per quell’approccio inusuale, rifiutò e chiese cosa avrebbe dovuto fare.
– Per ora niente – rispose Albert – ma a breve arriveranno i cinesi col pesce. Scaricalo come al solito e poi metti tutto sul camion.
– Ma questo pesce chi lo mangia?
– Che ti importa? Noi lo mandiamo al mercato generale di Sheboygan e chi lo compra è fortunato.
– Ma come mai io scarico sempre triglie e merluzzi? Non dovrebbero vivere nel lago.
– Eh – balbettò Albert – ragazzo mio, noi per vivere compriamo pesce geneticamente modificato, non peschiamo in alto mare.
– E perché lo scaricate qui? Mandatelo direttamente al mercato.
– Stupido, dobbiamo dare una parvenza di normalità o vuoi che ci scoprano?
– Allora noi siamo degli imbroglioni!
– Certo. Ti piace comprare tablet a un quinto del loro prezzo? Ti piace avere casa e lavanderia gratuite? Allora le regole sono queste: vivi e lascia vivere.
– Siete solo dei falsi, come tutta questa città.
– Siamo tutti falsi, anche tu coglione – s’intromise Alex con fare minaccioso. Bob alle sue spalle gonfiò platealmente i bicipiti.
– Questa città è finta, le case sono fatte di plastica e non le abita nessuno.
– Questo è un reality, boy! – rispose Bob – Sei pagato per recitare, di che ti lamenti? Recita e non annoiare il pubblico. Smettila di fare l’idiota, altrimenti la gente cambia canale.
– Cosa? Che cazzo stai dicendo?
Albert si ò una mano sulla fronte e dopo uno sguardo agli altri due, fece cenno al ragazzo di avvicinarsi.
– Jim, per favore, beviamoci una birra. Siamo tutti nervosi e dobbiamo calmarci. Il lavoro è duro, il sole picchia forte, è un peccato litigare per delle cazzate.
Il ragazzo però era fuori di sé e respinse l’offerta.
– Non mi piace la birra.
– Cosa bevi?
– Whisky, mio zio lo beveva sempre.
– E whisky sia – urlò Bob, scombinando i propositi degli altri due. Versò quattro
cicchetti da una fiaschetta che teneva al collo e porse i bicchieri di plastica agli altri, senza accorgersi dell’odio negli sguardi di Albert e Alex.
Jim accettò il bicchiere, lo versò giù tutto d’un fiato e avvampò di calore.
– Hai altra merda? – chiese a Bob sottovoce.
– Ne ho una bottiglia in macchina. Però me la ripagate, ok?
– Sicuro. Valla a prendere.
Albert annuì.
– Jim, ecco che arriva il pesce, per favore scaricalo. Poi ti aspetta un doppio whisky scozzese.
Il ragazzo s’incamminò verso la rada e di soppiatto Albert riuscì versare un po’ di sedativo nella bottiglia.
– Ci siamo. Bob, puoi andare, la tua paga sarà incrementata di quaranta dollari.
– Mi aspettavo di più.
– Rivolgiti al sindacato. Ora vai e grazie
– Ma che cazzo…
Alex sospinse il nero verso la sua auto e quello, dopo un paio di bestemmie, restituì la spinta e se ne andò sferragliando.
– Ok, è fatta. Diamogli da bere.
Alex fissò la bottiglia dubbioso.
– Dovrà bere da solo.
– Noi berremo birra, idiota!
Jim scaricò quindici pallet sul camion, poi senza dare segnali di stanchezza trascinò il muletto in cima alla battigia e finalmente ricordò cosa chiedere.
– Alex – urlò da lontano – cos’è un reality?
– Ma Bob non poteva farsi gli affari suoi? – sibilò Albert – Vieni a bere con noi
che te lo spiego io.
Jim ricordò lo svenimento del giorno prima e rifiutò.
– Rifiuti di bere tra amici?
– Hai detto che mi spiegavi perché questa città è falsa, le case sono finte e ci viviamo soltanto io, voi e Marie.
– Va bene, te lo dico – chiosò Albert indicandogli una sedia pieghevole. Alex nuovamente gli porse il bicchierino pieno di whisky drogato. Il ragazzo lo rigirò fra le dita, ma non bevve.
– Devi sapere che sia il pesce che i prodotti elettronici che ano per questo porto sono tutti illegali.
– Ma come è possibile? Io sono qui in un programma di recupero statale.
– Lo stato, caro Jim, è sempre il ladro più bravo e capace. Anche il più avido. Tu qui sei ufficialmente un ragazzo in convalescenza, però di fatto sei un contrabbandiere. Come noi.
– Contrabbandiere? Come quelli che vendono le sigarette cubane?
– Sì, proprio così. Ne hai mai visto qualcuno?
– No. Però padre Robert quando ero in orfanotrofio mi diceva sempre ‘Quelli come te da grandi diventano o ladri o contrabbandieri!’.
– Mica stupido il prete! In ogni caso mi spiace per te, forse volevi vivere in una città vera, farti degli amici, avere una ragazza e tante altre belle cose. Oggi però devi accontentarti di stare qui. A duemila dollari al mese non è poi così male, no?
– Albert, perché lo stato mi paga per fare il contrabbandiere? Non capisco a che serva.
– Sei di piombo! – intervenne Alex – Per lo stato tu sei un malato che lavora in una specie di manicomio e così stai lontano dalla gente comune.
– Perché, la gente ha paura di me?
Albert e Alex si guardarono avviliti.
– Credo che tuo zio Tom debba spiegarti un po’ di cose. In ogni caso qualcuno ha interesse a che tu resti qui a fare da solo il lavoro di sei persone. Lui dal pesce e dai palmari guadagna trecentomila dollari al mese e tu, oltre a fargli risparmiare sulla manodopera, sei intoccabile. Per il mondo non esisti, quindi non puoi essere né ricercato né arrestato.
Jim rimase un attimo interdetto. Non aveva compreso molto di quei cinici discorsi, però a pelle percepiva come tutto fosse profondamente sbagliato.
– Alla tua! – urlarono i falsi portuali, prima di scolarsi due birre.
Jim innervosito sorseggiò timidamente il whisky. Pochi istanti dopo crollò nuovamente sul cemento con gli occhi sbarrati.
– Finalmente. Portiamolo via, presto. Entro stanotte va smantellata la baracca.
Alex lo afferrò di peso deponendolo malamente sul cassone.
– Mettiamo via il pesce, presto.
– Portiamocene un po’ a casa. – propose ad Albert
– Sei pazzo? Là dentro c’è più arsenico che polpa, proviene da una zona contaminata.
– I cinesi lo sanno?
– No. Loro lo prendono sedici miglia a sud da qui e ce lo portano senza fare domande. Li pagano ottocento dollari a viaggio.
– Non male, ma se ne hanno rubato qualcuno…
– Avranno una digestione difficile.
– La zona pericolosa dov’è?
– Guarda – e distese il braccio lungo la rada – vedi quel piccolo promontorio?
Alex fissò lo sguardo e intravide una lieve protrusione costiera.
– Lì – riprese Albert – dietro le querce c’era una fabbrica di armi chimiche attiva fino al 1972. Durante la seconda guerra mondiale arrivò a impiegare più di diecimila operai.
– Saltò per aria?
– No, la fabbrica fu chiusa su ordine di Nixon, essendo sotto segreto militare costava uno sproposito al fisco, tra misure di occultamento e procedure di safety. Tuttavia qualcosa non andò per il verso giusto e alcune tonnellate di fluido venefico finirono direttamente nel lago Michigan.
– Assurdo!
– Probabilmente un sabotaggio dei russi. Per fortuna le misure di sicurezza scattarono in tempo e il lago fu salvato. L’area venne circoscritta e trasformata in un’enorme pozza avvelenata.
– Che razza di storia.
– La base fu smantellata e al suo posto hanno impiantato un laboratorio di ricerca sull’ittio-fauna. Questi pesci d’acqua salata vengono da lì.
– Al diavolo, meglio una bistecca! Andiamo.
Albert digitò un codice sul palmare e si sedette accanto al posto di guida.
– Vai tranquillo, non si sveglierà per le prossime venti ore.
Preoccupato da quei discorsi, Alex accese il motore e partì spedito verso casa di Marie. Non vedeva l’ora di lasciare quell’infernale palcoscenico.
XXIX
– Finalmente sei arrivato! – Kolosimo accolse in cagnesco Curlig, che si attardava a chiudere la portiera dell’auto.
– Potevi cominciare senza di me! – provocò il suo ex superiore.
Edward entrò in casa, dove Marie, Albert e Alex sedevano attorno al tavolo sgombro.
– Potete accendere i fornelli! – continuò a irriderli Tom, ma nessuno sorrise.
– Il pazzo dorme ancora. Purtroppo per noi ha imparato prestissimo a navigare su internet e sa già troppe cose del mondo esterno. Non possiamo più giustificare questa pantomima. Tu sei suo zio, quindi gli parlerai. Devi convincerlo a seguirci con le buone.
Tom sbatté le ciglia, si guardò attorno in cerca di cibo o bevande, poi sconfortato dal bianco uniforme e dagli scaffali vuoti puntò dritto al frigorifero, ma Kolosimo gli sbarrò la strada.
– Mi ascolti, deficiente?
Tom scostò via il meno massiccio collega, prelevò dal frigo un cartone di vino da
cucina e finalmente si sedette tra Marie e Albert.
– Hai voluto fare di testa tua, complicando le carte come se già non fossimo nei casini neri. Hai regalato un computer a quest’idiota e già che c’eri hai sommerso il mercato di Sheboygan di merda cinese. Da me cosa vuoi?
– Voglio che zio Tom parli al nipote e lo consegni senza problemi al Dipartimento.
– Zio Tom? Sarà tanto se non mi ammazza. Lui non ascolta nessuno e se non vede utilità non fa nulla.
– L’ho capito, ma tu sei l’unico che esercita un ascendente su di lui. Mi serve vivo, se dovessi ammazzarlo…
– Beh, avrebbe presto compagnia. La cosa non mi sconvolgerebbe.
Edward strinse i pugni e digrignò i denti – Bada a te, Tom Curlig – sfoderò una Beretta automatica – Il primo a lasciarci sarai tu.
– Bum! – riprese a canzonarlo il vecchio obeso.
– Ascolta, vecchio – si intromise Albert – siamo tutti nella stessa merda. Non serve farci la guerra, ragiona. Il ragazzo se non si sente costretto è obbediente, basta trattarlo come un essere umano. In fondo è solo un ragazzino scemo, che ti
costa accompagnarlo?
– Ma Dio Santo! – urlò Curlig – Perché non lo caricate su un furgone e lo portate in laboratorio ancora addormentato? Perché dovrei accollarmi un rischio del genere?
Un rumore sordo e attutito fece vibrare i vetri della casupola.
– Lo portiamo in braccio? Sono iniziati i lavori di smantellamento, ho dato il segnale mezz’ora fa. Tutto il parco mezzi è requisito, incluse le auto di servizio. Domattina saremo evacuati, ma Gerrin si aspetta un rapporto finale entro stasera.
– Scriveteglielo, allora. Operazione fallita, ragazzo troppo consapevole, progressi Tetan limitati.
Esasperato Kolosimo accese il suo telefono palmare e dopo un paio di gesti che Thomas conosceva perfettamente, azionò il viva voce.
– Manica di inutili imbecilli, spazzatura del Dipartimento, non vi immaginavo inetti fino a questo punto. Tutti e quattro, così come state, prendete il ragazzo e portatelo di corsa a casa. Kiamakij vi aspetta entro sei ore. Lì riceverete le consegne.
La comunicazione si interruppe con un lieve fruscio.
– è una furia, non pensavo che volesse anche la mia testa.
Kolosimo scosse il capo – Non sarà piacevole, ma dubito che ci ucciderà subito. Però non farei progetti a lungo termine.
– Problema vostro – sbadigliò Marie, del tutto indifferente alle loro paure.
– In che casa mi portate? – chiese Jim affacciandosi dalla porta della stanza da letto – Chi era quel vecchio odioso al telefono?
– Ma non doveva dormire fino a domani? – chiese Albert, sgomento.
Marie si alzò e a fatica gli andò incontro per blandirlo, ma lui la scostò – Zio, come mai qui?
– Sono venuto a prenderti, figliolo! Mi hanno detto che questo lavoro non ti piaceva e allora niente, si torna al ministero per chiederne un altro.
Jim puntò dritto verso Tom, afferrandolo per il bavero – Tu mi hai mentito. Voi mi avete mentito. Voglio sapere la verità e subito! Chiaro? – e nel dir questo scosse il povero Thomas con tale forza da far temere per la sua sopravvivenza. Albert ed Edward afferrarono il giovane per le braccia, ma entrambi furono sbalzati contro le pareti da un suo moto riflesso. Tom cercò di liberarsi, ma Jim ormai era in piena crisi nervosa e cominciò a stringergli la gola, tramortendolo. Kolosimo ebbe la prontezza di colpirlo alla testa col calcio della pistola, salvando la vita all’odiato ex capo. Jim, infastidito dall’interferenza, si voltò e
incurante dell’arma spianata, stava per saltare addosso a Edward, quando Marie riuscì a farsi ascoltare.
– Jim, sono venuti a dirti la verità, lasciali parlare – E per essere più convincente gli accarezzò le spalle e la testa ferita.
Jim sedette e aspettò che Tom, semicosciente, smettesse di tossire. Kolosimo rimase in piedi con il cane armato e Albert mantenne la mano destra pronta sulla fondina ascellare.
– Allora parla, ma non dirmi altre bugie!
Curlig tossì ancora, poi afferrò il cartone di vinaccio sul tavolo e ingoiò una sorsata copiosa.
– Bevi qualcosa anche tu ragazzo, ne avrai bisogno.
– No. Parla!
– Come vuoi. Nel febbraio 1993 tuo padre Jonathan Sanders e tua madre Selima Herdeb si erano apparati in auto davanti a un laboratorio finanziato dalla CIA. Tua madre ti portava già in grembo. Purtroppo un incidente generò una fuga di gas velenoso e i due furono investiti in pieno. Li trovammo in fin di vita abbracciati davanti all’auto, avevano cercato di fuggire a piedi fra gli alberi. Li portammo in laboratorio e provammo a soccorrerli, il veleno che avevano inspirato era mortale e già alle prime rilevazioni risultarono pieni di metastasi al
cervello. Provammo allora a segregarli in una camera di piombo, somministrando loro tutti gli antidoti possibili, anche nel cibo e nelle bevande. Tentammo perfino di immettere i medicinali in circolo nell’aria, ma nessun farmaco scalfì minimamente il cancro. I tuoi genitori sopravvissero fino al marzo 1995, quando tu avevi poco più di un anno.
Jim ripensò allora a quegli incubi che un tempo lo avevano tormentato, la donna dolce e calda e l’uomo uguale a lui: erano ricordi reali.
– Sono morti?
– Sì e no, sono ibernati. Ma non potremo mai svegliarli, sono ancora malati e altamente infettivi, come te del resto.
– Perché allora io sono vivo? E perché mi avete mandato a Sancta Spes se sapevate tutto? Zio, non capisco, cosa vuol dire ibernati?
– Zio? Figliolo, io non sono tuo zio, sono un alto ufficiale della CIA che si è giocato la carriera proprio a causa tua! Fui io a chiedere che tu non fossi ucciso. Organizzammo presso Sancta Spes un finto orfanotrofio che ospitò te e gli altri bambini che sopravvissero a quella maledetta nuvola. Purtroppo il laboratorio sorgeva a tredici miglia da Santa Monica e tutto il paese fu contaminato in pochi minuti. Nel corso degli anni vi furono quasi seicento morti e una cinquantina di piccoli orfani infetti, tutti maschi. A quel punto decidemmo di isolarvi in quel monastero punitivo, affidandovi alle cure dei preti.
– Ma perché?
– Perché quei preti erano stati scartati dalla chiesa per via di precedenti errori e potevamo ricattarli.
– Anche Padre Robert?
– Tutti! Il tuo preside però era l’unico a sapere che eravate contagiati. Gli altri invece…
– Anche la maestra Galtieri?
– Lei sospettava, forse capì qualcosa. In ogni caso era già condannata, aveva l’Hiv in stadio avanzatissimo. Avevamo pensato di eliminarla, nel caso parlasse all’ultimo momento, ma la malattia fu più veloce.
– Cos’è l’ibernazione?
– Fai finta che i tuoi genitori siano sotto ghiaccio. Ma se li scongeli moriranno in poco tempo. Loro si sono salvati per via del nostro accanimento terapeutico, ma sbagliammo. Dovevamo lasciarli morire.
Tra gli occhi di Jim lampeggiò una lama di furia e Marie immediatamente gli cinse il collo – Parla come un essere umano, stronzo! – apostrofò malamente il vecchio.
– Come ti permetti? – urlò Thomas, ma Kolosimo gli spinse con forza una mano sulla bocca.
– Ha ragione la ragazza, stronzo! Continua.
Thomas finì di scolare il cartone di vino e chiese del whisky, che nessuno cercò.
– Va bene. Ti avevo detto, alla fine gli studi e gli esperimenti segreti su di voi non diedero i risultati sperati. L’organismo artificiale o virus, non so cosa sia di preciso, affliggeva i vostri cervelli e causava anomalie nello sviluppo e nel carattere, ma per ogni bambino generava risultati diversi. Se smettevamo di somministrarvi il Bareg, così chiamavano l’antidoto più efficace, la morte sopravveniva solo in un caso su tre. Tuttavia i sopravvissuti non erano stabili, ognuno conservava delle caratteristiche individuali, chi era più intelligente restava più intelligente di chi invece era nato stupido. E così il più forte sul più debole, il più agile sul più goffo, perfino le vostre mostruosità cambiavano da elemento a elemento.
– Cioè?
– Vedi Jim – intervenne Marie – questi porci lavoravano a un progetto segreto denominato Tetan. Si trattava di un’organizzazione militare specializzata nella guerra batteriologica. Purtroppo dopo il 1991 la caduta dell’URSS diminuì drasticamente i fondi pubblici a disposizione e così piuttosto che obbedire alla volontà popolare e chiudere il progetto, preferirono continuare a operare in clandestinità, salvandosi carriere e stipendi. Nemmeno il Presidente degli Stati Uniti sa che Tetan esista ancora. I tuoi poveri genitori furono travolti da un’ondata di veleno non ancora testato. Loro – e puntò il dito verso i tre uomini davanti a sé – speravano di trasformare gli eserciti nemici in masse di ebeti obbedienti, di rivendersi il brevetto della scoperta, di diventare ricchi e potenti.
– I miei compagni di Sancta Spes dove sono?
– Tutti morti. Li hanno avvelenati insieme ai preti.
– Erano solo folli violenti e pedofili! – proruppe Tom – Il mondo non ha perso nulla.
Jim non ne potette più e si scagliò nuovamente contro il falso zio. Tom stavolta sfoderò una pistola e premette leggermente il grilletto.
– Un o, un solo movimento e ti freddo, scarto umano! – Ringhiò, alzandosi dalla sedia.
Marie tentò ancora di calmare il ragazzo, ma comprese subito di non potercela fare. Si sentiva troppo debole e la furia di Jim aveva varcato i limiti del suo debole intelletto.
Jim scattò ancora e Tom sparò senza pensarci.
D’istinto Marie si interpose fra i due e ricevette la pallottola in pieno petto.
XXX
Un urlo disperato di Jim interruppe la crisi isterica. Il ragazzo sorresse la giovane ferita, ma lei con un ultimo guizzo di energia raccolse nelle mani a coppa il sangue che zampillava dal torace e lo scagliò contro i tre figuri di fronte a lei.
– Scappate, eh! L’aids fa ancora paura – sussurrò con gli ultimi barlumi di coscienza.
Rifiatò, era già cianotica – Ascolta Jim, prendi il mio smartphone, funziona più o meno come il tablet. Nella rubrica troverai l’indirizzo e-mail ‘Senatore V.robertson’. Scrivigli, racconta tutto quello che ti hanno fatto quei porci di merda. Lui ti aiuterà a ritrovare i tuoi genitori.
Jim stava piangendo, le sue lacrime si mischiavano al sangue che Marie perdeva a catinelle. Dopo meno di un minuto la ragazza emise una specie di brontolio, poi si spense reclinando il capo sulla sua spalla. Jim disperato la baciò sulle labbra, per un istante rivide le scene di sesso vissute insieme, era la donna che lo aveva accompagnato nell’età adulta. Peccato che tutto fosse stato una squallida messinscena, senza la sua disponibilità non avrebbe mai resistito per mesi in un simile incubo.
D’istinto avventò un pugno sul tavolo, sfondandolo, poi estrasse il cellulare dallo zainetto di Marie e cominciò a scorrere le icone sul touchscreen. Le dimensioni ridotte dello schermo lo ostacolavano, ma alla fine trovò in basso il simbolo della rubrica e trionfante vi cliccò sopra.
– A chi telefoni, ragazzo? – disse qualcuno dalla porta.
Si voltò, erano almeno cinque in maschera antigas, mimetica e scarponi; tutti ostentavano massicci fucili di precisione.
– Che volete?
– Vogliamo che alzi le mani ed esca subito di qua. Se fai scherzi ti uccidiamo.
Jim si infilò lo smartphone in tasca e fece come gli era stato ordinato. Lo costrinsero a camminare lungo il viottolo di casa verso un grosso furgone blindato. Tutt’intorno vide solo ruspe e autocarri, mentre decine di personaggi in tenuta mimetica e maschere protettive smontavano a pezzo a pezzo il simulacro di Celta Nova.
– Dove mi portate?
– Da mamma e papà. Sei contento? – intervenne sornione Thomas Curlig.
Jim gli sputò, mancandolo di un soffio.
Il militare più alto in grado si rivolse a Kolosimo – Ha preso il telefono della ragazza.
– E allora?
Il soldato si scurì e levatasi la mascherina ringhiò – Con queste – e agitò la maschera sotto il naso di Edward – non siamo protetti. È pieno di sangue infetto, non voglio che i miei uomini lo perquisiscano.
– Stia composto, sergente. Lasciategli pure il giocattolo, tanto… – e accennò al furgone. Il sergente annuì, si rimise la protezione e ordinò a Jim – Sali!
Il ragazzo eseguì e non appena il portellone fu richiuso percepì le vibrazioni del motore sotto i piedi. Nel buio assoluto di quella prigione riaccese il cellulare e digitò il messaggio per l’illustre personaggio suggeritogli da Marie:
“Caro signor Robertsonn,
mi chiamo Jiim e sono uun ragazo malato. Sono nato vicino a una base spazziale americana da genitori malati e sono cresiuto nel orfanotrofio di Santa Spè. Poi mi ha adotato lo zio Tom che dice però che non e mio zio davvero ma un generale in pensione. Poi mi ano mandato a lavorare per finta a un posto che non esiste sul lago micigan, lo chiamano Clta Nova ma so che non esiste. Mi dicno che devo esere ucciso perché sono malato da un virus creato alla b ase spazziale quando ero picolo. Non so cosa fare, sono prigioniero, mi aiuti se puoi.
Jim Sanders”.
A fatica finì di digitare il messaggio e trionfante premette invio. Non accadde
nulla. Cliccò invio per una decina di volte, poi capì: le pareti del furgone erano impenetrabili, non c’era campo. Disperato, scaraventò lo smartphone sul pavimento, distruggendo il display, poi iniziò a tempestare il cassone di calci e pugni, fino a rompersi due metacarpi. I piedi doloranti cominciarono a gonfiarsi, le mani sanguinavano copiosamente, ma dalla cabina di guida non giunse alcun segnale. Si accovacciò in un angolo e pianse disperato. Marie, la maestra Galtieri, perfino Padre Robert gli scivolarono nella mente. Dopo qualche minuto la crisi isterica ebbe fine, l’adrenalina tornò a livelli normali e i potenti narcotici somministratigli qualche ora prima ripresero il sopravvento, costringendolo in un sonno pesantissimo.
– Dorme finalmente! – commentò Kolosimo, seduto accanto all’autista.
– Era ora! Un altro po’ e ci avrebbe fatti uscire di strada – gli rispose Rice, appoggiato al finestrino.
Erano seguiti dalla grossa Rover di Curlig, con a bordo Mark, Alex e Albert. A breve distanza li tallonava un camion dell’Esercito, che li avrebbe scortati fino al confine con lo Iowa.
Edward Kolosimo pensò che quello sarebbe stato il suo ultimo viaggio. Gerrin aveva ordinato di distruggere le prove, ma i militari impegnati nelle operazioni di smantellamento dovevano aver capito qualcosa, le inconsuete misure di profilassi cui erano stati sottoposti non potevano non incuriosirli. Presto o tardi qualche giornalista avrebbe montato il caso e il pensiero di se stesso che crollava al suolo colpito a bruciapelo si fece più che insistente. Aveva voglia di fumare, ma la maledetta maschera antigas glielo impediva e non poteva toglierla, per non insospettire il caporale alla guida. Lui e i suoi uomini assumevano quotidianamente una massiccia dose di costoso Bareg e di certo non poteva spifferarlo a quel giovane sconosciuto.
Dopo alcune ore lungo strade secondarie e malmesse il soldato ricevette via radio l’ordine di arresto. Il camion dell’esercito affiancò il furgone e Curlig accostò fra le erbacce. Era ormai notte fonda e i militari, dopo un formale saluto, invertirono la marcia e rientrarono in caserma.
Ed si sfilò finalmente la maschera e cercò nervosamente una sigaretta, tastandosi la giacca.
– Andiamo! – ordinò prima di accenderla – è inutile farlo arrabbiare ancora. Affrontiamolo, facciamola finita.
– Già, è proprio finita! – ironizzò al solito Tom. Rice si pose alla guida del furgone e i due grossi automezzi percorsero altre centosettanta miglia, fino a raggiungere un folto bosco di querce.
– In bocca al lupo, Rice! – mormorò mentre il cancello sfilava via.
– Mi sa che non sarà il lupo a crepare – rispose gelidamente il suo sottoposto.
Una dozzina di uomini in elmo e tute di plastica vennero loro incontro e procedettero rapidamente all’identificazione. Il furgone fu spostato in un’autorimessa e i sei agenti vennero introdotti bruscamente all’interno della base. Il professor Kiamakij li attendeva al centro della sala riunioni, lì un grande schermo a parete riprendeva il viso rugoso e inquietante di Ubald Gerrin.
– Finalmente siete arrivati. Avete portato il ragazzo? – tuonò il Segretario di
Stato.
– Certamente – rispose per tutti Edward.
– Bene. Sedete allora – ordinò Gerrin – e mettetevi comodi. Ascoltatemi, non ripeterò. Il ragazzo è molto interessante da ogni punto di vista. Il dottor Kiamakij ha continuato a monitorarlo mentre lavorava e conviveva con quella ragazza. Anche se sembra sterile, è riuscito a eiaculare correttamente e dopo il suo primo orgasmo il Tetan si è assestato, smettendo di crescere. Questa scoperta rende tutto il progetto credibile.
I sei, convinti di andare incontro a una rapida esecuzione sommaria, non credettero alle proprie orecchie. Il feroce Segretario di Stato era stato a suo modo gentile, lo sguardo, meno cinico del solito, si accalorava vistosamente nel descrivere le ultime scoperte del pool scientifico, fatto inconcepibile dato il suo noto, rigidissimo autocontrollo.
– Adesso non mi resta che parlare direttamente con Sorensen e Baldwin, li metterò al corrente di questo successo. Immaginate, milioni e milioni di cinesi, di indiani, di islamici che impazziranno per poi calmarsi di colpo; basterà spedire loro incontro battaglioni di prostitute e il gioco sarà fatto!
I sei ammutolirono, solo Kiamakij scosse vigorosamente la testa e tentò di frenare Gerrin.
– Signore, siamo ancora a uno stadio sperimentale. Abbiamo testato completamente solo quel giovane, ma sappiamo che a un differente grado di intossicazione corrisponde una diversa risposta dell’organismo. In più sulle
donne il Tetan non produce lo stesso effetto, a parità di dosi per alcune è mortale, per altre inefficace. Non le sembra prematuro parlarne direttamente con i capi della CIA e del DNI? Il Presidente…
– Stia zitto! Dicevo, avremo finalmente il vantaggio tecnologico che consentirà alla nazione di dettare le sue condizioni. I mercati si riapriranno, spariranno le dogane e gli Stati Uniti torneranno a essere l’unico leader del pianeta. Avete lavorato bene, il progetto Tetan adesso sarà rinominato MKULTRA II. Kolosimo, lei avrà l’onore di dirigerlo personalmente. A breve la sua nomina a Generale sarà vagliata dalla Commissione Difesa e sarà lo stesso Ammiraglio Sorensen a ufficializzarla. Quanto a Baldwin, sono sicuro che vorrà premiarvi tutti individualmente. Alle prossime elezioni i Repubblicani avranno finalmente un uomo forte da candidare: io. Il mondo ripartirà sotto un nuovo ordine improntato all’efficienza, all’onestà e al rigore. Basta con le chiacchiere, le trattative, i negoziati. Da ora in avanti esisterà una sola legge. Vedrete come il Tetan, diffuso adeguatamente in Eurasia, ci lascerà soli a decidere del destino dell’umanità. Non esisterà più la dialettica, avremo ciò che rese mitici i più grandi condottieri del ato: Gengiz Khan, Napoleone, Hitler, Stalin e Mao Zedong, fino a quel bastardo di Putin. Una sola linea di pensiero, una sola ideologia, una sola…
Tom, Ed, Albert, Alex, Mark e Rice si scambiarono una lunga occhiata di disappunto: Ubald Gerrin era completamente pazzo, ma lo sapevano soltanto loro.
XXXI
Jim fu rinchiuso in una cella metallica imbottita fin quasi al soffitto, forse la stessa nella quale era stato detenuto mesi prima, quando l’avevano ‘curato’. Salvo che per le imbottiture, somigliava molto a quella dei sogni, le uniche immagini dei suoi genitori in vita. Si fece forza e non diede in escandescenze, del resto sapeva che non l’avrebbe udito nessuno. Era stanco e intontito dai farmaci, la mano destra si era gonfiata e le nocche fratturate annerivano rapidamente. Provò a sciacquarla sotto l’acqua fredda del lavabo, ma la sofferenza continuò ad aumentare. Diede un calcio allo sgabello, dimenticandosi che era confitto nel pavimento, urlò dal dolore, poi si coricò sulla branda pieghevole e riprese a singhiozzare. Marie era andata, zio Tom non era che un bugiardo: sperò che venissero presto a ucciderlo.
Quando riaprì gli occhi vide sul pavimento, davanti alla porta, il solito vassoio con il pranzo. Mangiò avidamente i legumi e i cereali, spolpò la carne e bevve quasi tutta d’un fiato la bottiglia di vino rosso che corredava il pasto. Alla fine fu sazio e alzando gli occhi al soffitto urlò – Voglio uscire di qui, vivo o morto Se non mi uccidete voi, mi ammazzo da solo! – e detto questo, si azzannò forte un polso cercando di recidere le vene più grandi. Ignorando il dolore lancinante affondò un canino dove intravedeva una linea bluastra e subito un fiotto di sangue scuro schizzò sul pavimento.
– Ha ricominciato! Presto, narcotizzatelo! – urlò Kiamakij alla squadra di tecnici.
Una nube avvolse la cella, Jim svenne e si accasciò al suolo. Due uomini in tuta antiradiazioni entrarono, lo distesero sulla branda e gli disinfettarono la ferita, tamponandola e suturandola. Poi ridussero le microfratture alla mano e prima di allontanarsi gli iniettarono del Bareg.
– Non durerà – disse lo scienziato nipponico al resto dell’equipe – è un errore tenerlo rinchiuso, non può accettare la costrizione, appena sveglio riprenderà a farsi male.
– Non si preoccupi dottore – rispose Gerrin da un monitor a parete – Lo tenga d’occhio, presto lo farò uscire.
Il video si annerì e Kiamakij riuscì a guardare negli occhi i suoi perplessi collaboratori. Non ebbe il coraggio di dire nulla.
L’autoparco del centro di ricerca, un tempo brulicante di attività, assomigliava a un garage sotterraneo dismesso. Gli automezzi militari occupavano forse un decimo dei box pressurizzati, le altre celle erano aperte e ingombre di copertoni, componenti meccanici arrugginiti e carcasse di rottamabili. Quella mattina Ritchie Sellek, recluta neoassunta, era stato comandato di corvè ai lavaggi chimici. Pigramente infilò la tuta e l’elmo antiradiazioni e dopo una scorsa al foglio delle consegne raggiunse i box 42 a e 41 b, al cui interno sostavano il blindato usato per trasportare Jim e la Range Rover di Thomas Curlig. Digitò le sequenze di lavaggio sui quadri comandi dei box e attese per una buona mezz’ora che cessassero i brontolii all’interno delle celle. Non appena gli smitter smisero di vibrare impugnò il ‘bazooka’, un enorme e scomodissimo attrezzo utile a deionizzare le superfici infette e ò a lucido la Rover. Dopo di che ripetette l’operazione sul furgone, entrando prima nell’abitacolo e poi nel cassone. Scansando la schiuma verde con i piedi scatenò i flussi neutralizzatori sulle pareti interne, facendole brillare. Mentre era in procinto di terminare la corvè, vide un oggetto che luccicava sull’angolo tra pianale e parete. Era un iPhone, aveva il display a pezzi ma per il resto sembrava intonso. Lo ò tre volte con il bazooka, se lo mise in tasca e uscì rapidamente dall’autoreparto. Ritchie Sellek era un ragazzo apionato di informatica e i pezzi di quel costoso device gli servivano più dell’aria, sarebbe stato sciocco a lasciarseli sfuggire. Tornato in camera sterile, nascose l’iPhone nel taschino interno del giubbotto a contatto con il suo cellulare da poco prezzo e sperò che i colleghi
addetti agli scanner non fossero molto attenti.
Gli andò bene, nessuno si accorse di nulla e un’ora dopo, nel mini-laboratorio ricavato in uno sgabuzzino della sua casa di Council Bluffs, si scatenò a disassemblare quella manna, convinto di potersi finalmente costruire un palmare di ultima generazione a costo zero.
– Allora, vuoi uscire?
– Certo che sì.
– E che altro vorresti?
– Te l’ho detto, voglio rivedere i miei genitori.
– Bene. Ma se ti accontento, dopo obbedirai?
– No. È un mio diritto vederli.
– E se io ti dicessi che se non prometti non li rivedrai più?
– Mi ammazzerò e finirà così.
– Non essere cocciuto. Ti sto proponendo un patto.
– E io ti ho detto come la penso. Fammeli vedere oppure vaffanculo!
Tom interruppe la comunicazione e si volse agli altri – Ve la sentite?
Nessuno rispose.
– A breve il Dipartimento di Stato sperimenterà una nuova arma in grado di rivoluzionare l’intera cultura bellica. Abbiamo lavorato a questo progetto in gran segreto per vent’anni e finalmente siamo in grado di mostrare una novità assoluta.
Il cronista del NY Time per un istante tacque, poi riprese – E ci dica, Segretario, di cosa si tratta? Come mai gli USA hanno investito in armamenti in una fase così delicata dell’economia mondiale? Non teme che una simile rivelazione possa allertare i servizi esteri di spionaggio?
Ubald Gerrin fissò i monitor che inquadravano il cronista parlamentare e gli scranni del Senato, lesse stupore e sorpresa sui visi dei suoi principali riporti.
Si concesse una pausa studiata.
– Dunque, di cosa si tratti è ancora presto per rivelarlo, lo stesso Presidente Narok ignora la questione. Vi dirò un solo nome: progetto MKULTRA II. Non chiedetemi altro.
La diretta televisiva fu prontamente interrotta e il Congresso convocato d’urgenza. Il Dipartimento di Stato venne istantaneamente sospeso nelle funzioni, mentre Narok chiese l’impeachment di Ubald Gerrin, per avere rivelato alla stampa mondiale notizie non autorizzate né verificate, esponendo la nazione al pericolo di una guerra nucleare, oltre che al ridicolo.
Nell’arco di ventiquattr’ore le ambasciate degli Stati Uniti vennero subissate da decine di istanze diplomatiche e mentre il gabinetto di Narok smentiva a trecentosessanta gradi le inopinate dichiarazioni del Segretario di Stato, le frontiere terrestri, marine e aeroportuali furono letteralmente blindate. L’intera rete spionistica mondiale si era rimessa in moto, come ai tempi della vecchia guerra fredda, tuttavia i militari mandati a prelevare Gerrin per tradurlo davanti al Congresso non riuscirono a rintracciarlo presso gli uffici ministeriali e nemmeno nel suo alloggio privato. Il vecchio sembrava essersi volatilizzato e quella latitanza, per quanto taciuta dai media, non mancò di allarmare i suoi sottoposti, come anche l’intero staff presidenziale. Baldwin e Sorensen ricevettero l’ordine di rintracciarlo a ogni costo in tempi brevissimi, ma tanto la CIA che il DNI non brillarono per efficienza.
Era il sedici ottobre 2011, terzo giorno di latitanza di Gerrin, la stampa aveva continuato a sottacere della fuga, come anche delle figuracce dei servizi di intelligenze, stemperando l’opinione pubblica. Tuttavia lo scontro politicodiplomatico restava vibrante: la Russia, la Cina, l’UE, l’India, l’Arabia Saudita e perfino l’Australia continuavano a pretendere spiegazioni, respingendo gli evasivi comunicati ufficiali del Pentagono.
Al quarto giorno lo Staff Presidenziale raccolse alcune segnalazioni di confidenti: CIA e DNI stavano svolgendo indagini volutamente sballate e
approssimative.
Fu convocata un’unità di crisi, al fine di deliberare il coinvolgimento dell’esercito mentre proseguivano febbrili le ricerche di Ubald Gerrin e del suo fantomatico arsenale. Alcuni giornali indipendenti si erano scagliati contro la mala gestione del ‘Caso Gerrin’, accusando Narok di avere confermato sul secondo scranno un vecchio guerrafondaio figlio dell’era Nixon, e ciò solo per procurarsi voti tra i massoni e gli interventisti. Le fiacche e scontate smentite del portavoce alla Casa Bianca avevano per lo più corroborato le critiche, spingendo altre testate nazionali ad avanzare dubbi sull’Amministrazione, definita pacifista solo per questioni di facciata, in realtà dispotica e guerrafondaia.
– Bella roba veramente, siamo fottuti! – brontolò Kolosimo al termine dell’ennesimo video-notiziario.
– No, siamo in una botte di ferro! – li sorprese l’odiato viso del Segretario di Stato. Il vecchio era lì in carne ed ossa, dal monitor capivano che si trovava nell’ex ufficio di Seagan, vederlo seduto dietro quella scrivania nera ricolma di decorazioni commemorative contribuì ad avvilire Tom e Edward.
– Lei è qui…
– Certo! Pensavate che fossi rimbecillito? Ve l’ho detto, adesso il mondo cambierà Un nuovo ordine, un nuovo sistema e un nuovo presidente. Quel negro di merda ha capito che sono io a comandare, finalmente. Liberate il ragazzo, subito.
– Signore, se poi s’infuria saremo costretti a sparargli.
– Niente affatto. Mi serve vivo, almeno per un altro po’. Sedatelo.
– Non sempre i narcotici sono efficaci.
– Raddoppiategli la dose. Basta! Eseguite e disibernate quei due.
– D’accordo – s’intromise Ed – ma che fine hanno fatto Albert e Alex? Da stamattina non si vedono in giro.
– Sono al sicuro, non preoccuparti – rispose infastidito Gerrin.
Kiamakij spinse la carrozzina dietro alla consolle principale e compose una lunga e astrusa sequenza.
Una badenia cominciò a squillare ritmicamente, era stato avviato lo scongelamento e tutte le porte stagne dell’ex laboratorio di Shuster furono serrate. Una nube di gas etereo investì in pieno Jim, intento a sgranocchiare una pannocchia di mais. Il ragazzo s’addormentò di colpo e una squadra di quattro militari in assetto antiradiazioni andò a prenderlo, trasportandolo di peso davanti a una parete metallica sulla quale era inciso in grande il logo CIA.
La squadra si defilò attraverso una porta pressurizzata e dopo poco la parete si ritrasse. Jim era ancora incosciente, non sapeva di giacere davanti a due grandi e mostruosi cilindri di vetro e metallo bianco.
In quel medesimo istante Ritchie Selleck estrasse la U dall’iPhone e provò a collegarla al quadcore di un tablet cinese da quattro soldi. Montò uno schermo da 9.7’’ a bassa risoluzione, inserì la scheda Wireless dell’iPhone, poi pensò che forse sarebbe riuscito anche a installare il modulo 3G. Tuttavia non conosceva il codice di attivazione di quella SIM card; anche se il tablet disponeva un alloggiamento per mini SIM, quand’anche l’avesse tagliata, senza il PIN non sarebbe riuscito ad agganciare l’UMTS. Doveva comprare una micro-SIM nuova e a quell’ora gli store erano tutti chiusi. Ricordò però che su www.hastalavista.org, il suo forum preferito, c’era un pazzoide che in cambio di due o tre dollari prometteva lo sblocco perfino delle carte di debito e credito. Decise di contattarlo.
XXXII
Jim si rialzò, la testa gli doleva come un tempo, non era più abituato a sopportare quelle pulsazioni insistenti. Il cranio parve sul punto di esplodere e se lo strinse fra le mani, affondando i polpastrelli lì dove sentiva più male. Fu breve ma tremendo, i grappoli di dolore si acuirono al punto da farlo quasi crollare. Accartocciato sul pavimento di metallo gelido e polveroso si contorse stringendo i denti, sperando che l’ondata si ritirasse.
Dopo qualche minuto la colica decrebbe, fin quasi a sparire. Inebetito si alzò e rimase sbalordito: era al centro di una vasta sala rettangolare illuminata da vecchi neon verdastri, fiochi e consumati. Malgrado la scarsa luce due grandi macchinari risplendevano di fronte a lui, si trattava di cilindri trasparenti, nella parte inferiore contenevano centinaia di apparecchiature meccaniche, mentre nella metà superiore ciascuno di essi ospitava un corpo umano.
– Guardatelo, non è commovente? – ghignò Gerrin, senza accendere alcuna ilarità tra sottoposti e tecnici di laboratorio.
Tom, Ed, Mark e Rice si fissarono impotenti, ormai ostaggi di un pazzo criminale e consapevoli di averlo aiutato a scavare il baratro. Non capivano cosa mai potesse comportare il risveglio dei genitori di Jim, ibernati da sedici anni, mentre tutte le forze armate della nazione li stavano cercando da quattro giorni.
– Che sono quelle facce? Rilassatevi, qui siamo al sicuro!
– Al sicuro? – si alzò Curlig, gemendo per lo sforzo – Si rende conto che siamo
tutti condannati a morte? Lei ha adombrato un colpo di stato in diretta mondiale, la CIA e il DNI ci stanno cercando e prima o poi uno dei militari di stanza nel centro rivelerà la nostra posizione. Sempre che non l’abbiano già fatto. Ubald Gerrin – si azzardò a dargli del tu – sei un folle criminale e noi – girò la testa, incontrando lo sguardo rassegnato del dottor Kiamakij – ti accompagneremo all’inferno.
Gerrin si alzò da dietro alla cattedra dirigendosi verso di loro. Era la prima volta in assoluto che l’avevano di fronte in carne e ossa, dal vivo era ancor più ripugnante che in video: altissimo, grasso, calvo e dai lineamenti angolosi e grossolani, incuteva un certo timore anche in un uomo della stazza di Thomas.
– Allora aveva ragione Baldwin.
– Su che cosa? – chiese Kolosimo, rimasto seduto a scuotere il capo.
– Mi feci suggerire per questo progetto uno staff di uomini dal punto caratteristico bassissimo. Fu per questo che vi ripescai dall’esercito e dalle marine lacustri.
– Come? – saltò in piedi Ed.
– Ha capito benissimo, ‘Colonnello’. Avevo bisogno di quattro o cinque nullità, uomini avidi di denaro e onorificenze capaci di dire sempre e solo signorsì nei momenti critici. Gente come te, insomma, che non mi creasse problemi. Farò di voi degli eroi, malgrado tutto. erete alla storia come edificatori del nuovo mondo e non come utili idioti, ricordatevelo. Me ne sarete grati in eterno.
– Signore – intervenne Kiamakij, l’unico che pareva conservare un briciolo d’amor proprio – la storia è finita. Molti elicotteri volteggiano sulla base e le telecamere esterne stanno inquadrando una divisione in avvicinamento. Arrendiamoci o moriremo tutti.
Dopo quel rapporto i quattro ufficiali della CIA mossero verso la porta ma Gerrin urlò loro di tornare a sedere.
– Ho già parlato con il comandante, i militari di stanza non faranno entrare nessuno. Ci tengono alla vita. Se sarà esploso un solo colpo contro il laboratorio, bene, nessuno storico registrerà più nulla, forse un’incisione rupestre ricorderà come il mondo finì. Magari dei visitatori alieni studieranno il nostro pianeta disabitato.
– Cioè… – riprese Kiamakij, ma Gerrin lo coprì.
– Il mondo è in mano nostra. Tetan è qui, se ci attaccheranno lo libereremo e stavolta non sarà una fuga occasionale. Settantamila tonnellate di gas ultracompresso irroreranno i cieli e ricadranno su di noi. Una spruzzatina ha già reso comprensivi Baldwin e Sorensen. Sarà una contaminazione globale senza accorgimenti e l’avranno voluta loro!
Gerrin visibilmente soddisfatto uscì gravemente, lasciando i suoi uomini avviliti davanti ai monitor. Jim era riuscito ad aprire il primo sarcofago, quello che conteneva una donna graziosa, minuta e scura di pelle; tentò di scuoterla, sforzandosi di essere delicato.
– è pazzo, lo sospettavo – mugugnò Ed.
– Anch’io – fece eco Tom.
Quattro soldati entrarono in sala conferenze e spianarono i mitra – Abbiamo ordine di segregarvi. Procedete davanti a noi senza fiatare e con le mani in alto, altrimenti…
Rice tentò di sfoderare la pistola da sotto la giacca e fu freddato con un solo colpo in mezzo alla fronte.
Gli altri tre si alzarono immediatamente, inorriditi.
– Anche lei professore, in marcia verso la sala F, forza! – ringhiò uno dei soldati. I militari avevano lo sguardo bieco, la pelle avvizzita e lucida quasi da rettile, come Gerrin, del resto.
– Vi ha somministrato il Tetan, vero? – chiese il nipponico.
– Non parli, spinga la carrozzina e guardi avanti. March!
La Camera dei Rappresentanti votò l’Impeachment del Segretario di Stato e il Senato fu convocato per l’indomani. Il Presidente nel frattempo aveva disposto la sospensione dagli incarichi di Baldwin e Sorensen, che vennero prontamente avvicendati da due commissari del Pentagono di sua fiducia. Secondo la CIA il
fuggitivo si nascondeva a Kuckawa, un vecchio laboratorio segreto situato nello Iowa meridionale, ufficialmente dismesso dal 1993.
Quella base era posta al centro di un territorio difficile e poco conosciuto, chiamato in codice ‘New Sherwood’.
Nessuno tra i politici aveva preso sul serio le dichiarazioni bellicose di Gerrin e perfino la stampa sensazionalistica cominciava a valutare i suoi proclami alla stregua di semplici vaneggiamenti. Il caso si andava sgonfiando, tuttavia l’artefice del caos non era stato ancora catturato, sebbene tutti i report confidenziali confermassero la sua presenza nei pressi di Council Bluffs.
Narok chiamò il Segretario alla Difesa, ordinandogli di espugnare il centro di ricerca abbandonato e di catturare il fuggitivo.
Inaspettatamente il suo diretto riporto oppose un netto rifiuto e sollecitò con estrema urgenza un incontro riservatissimo. Era un’anomalia procedurale alla quale il Presidente non era preparato, tuttavia il tono concitato del suo interlocutore lo convinse a dargli retta. Albert McCoy, segretario della difesa, fu ricevuto alla Casa Bianca poco oltre le dieci di sera e lasciato entrare nella sala ovale, alla presenza defilata di otto militari in borghese.
Wilfred Narok entrò nella sala senza formalità e subito fu colpito dal monitor del pc portatile di McCoy, sul quale campeggiava la scansione di una vecchia cartellina gialla, contrassegnata da una triplice ‘S’ e da un nome in codice ben strano: Tetan Project.
Ritchie Sellek ottenne finalmente la keygen e sospirando per i cinque dollari
scuciti all’hacker, cominciò a settare il programma. Al nono tentativo ormai meditava di andare a letto, quando finalmente sbloccò la SIM. Rapido allora saldò gli ultimi collegamenti, calibrò l’antenna del GPS e chiuse il case. Il suo tablet ultrapotente era pronto, una lustratina e magari un po’ di spray bianco gli avrebbero conferito un aspetto più moderno. Mise il device in carica e andò a dormire, lasciando la funzione 3g attiva. Non si accorse così che una mail, ferma nella posta in uscita, era partita all’indirizzo istituzionale del Senatore Vincent Robertson, l’arcigno capo-corrente dei Green Dem, membro di spicco della Commissione che l’indomani avrebbe discusso l’Impeachment.
Dopo un paio di minuti una ricevuta di ritorno apparve sul display del tablet: Robertson, perennemente insonne, aveva letto il messaggio di Jim.
In quello stesso istante Jim abbracciava un uomo alto e stempiato dal viso molto simile al suo, se pur privo di deformità. Una donna minuta dai lunghi capelli neri gli accarezzava le spalle incassate e ringraziava Dio per quel miracolo. Peccato che a godersi il commovente incontro dietro ai monitor ci fosse solo Ubald Gerrin.
– Cosa vorrà da noi?
– Non lo so, quel maledetto è pieno di tumori al cervello, vuole fare l’imperatore del mondo, che cazzo gli ha preso?
Mark, ancora scosso per la morte dell’amico, si manteneva al solito in silenzio. Ripercorse la sua vita professionale e capì di essere stato realmente un utile idiota. Aveva cominciato da semplice comandante di capitaneria sul lago Erie e quando ricevette la chiamata dalla CIA lui, da sempre poco avvezzo alla vita militare e ancor meno amante del lavoro, aveva accettato, convinto di salire su uno di quei treni che ano solo una volta nella vita. Dopo un anno di duro
addestramento aveva cominciato a svolgere incarichi non certo di pregio, ma comunque ben più interessanti rispetto alla vita del guardia-pesca: intercettava transiti di clandestini, spiava imam, alle volte indagava sulle importazioni alimentari, a conti fatti una vita emozionante e piena di gratificazioni, corredata da uno stipendio da favola. La cooptazione nella CIA era un privilegio che spettava a un militare su diecimila a essere ottimisti e lui non aveva fatto nulla per meritarla. Ricordò la vita com’era stata fino ai trentadue anni, quando la capitaneria di Benston traboccava di turiste scollate e maliziose, alle tante notti brave trascorse sulla riviera in alberghi di legno di pino o abete, agli orsi bruni, agli alci, alla sua fidanzata Marion che, dopo essere stato richiamato a Washington, non aveva più sposato.
Tom e Edward al contrario non temevano di morire, entrambi da tempo erano consapevoli di essere parte di un gioco più grande di loro. Sapevano che un giorno la ruota si sarebbe fermata e adesso, col sedere per terra, speravano solo di essere eliminati nel modo più indolore possibile. Del resto Tom aveva vissuto pienamente, assecondando le sue ioni: l’alcolismo e la ludopatia. Il fisico ormai logoro non avrebbe retto ancora per molto, né quella megera di Georgina avrebbe pianto per la sua mancanza. Edward invece era divorziato da vent’anni, proveniva anch’egli dall’esercito e aveva sperperato tutti i suoi guadagni da agente segreto in donnacce e coca, la più raffinata del Perù. Aveva cinquantanove anni, pochi per morire, ma aveva vissuto intensamente, senza moglie e figli tra i piedi e senza alcuna voce che gli risvegliasse la coscienza. Per un comune capitano dell’esercito, privo di esperienza sul campo e abile solo a compilare e archiviare moduli non era poco, poteva ritenersi soddisfatto.
– Allora cialtroni, ho ancora bisogno di voi. Ma se oserete di nuovo ribellarvi vi spedirò al’inferno – Gerrin apparve a sorpresa su tutti e cinque i monitor della sala F, un’area originariamente destinata alla ricreazione e attualmente sporca e abbandonata.
– Cosa dobbiamo fare? – chiese Tom senza alzare lo sguardo verso gli schermi.
– I genitori del ragazzo si sono svegliati e a breve torneranno pienamente coscienti. Voglio che andiate da loro e gli spieghiate per filo e per segno cosa è successo. Soprattutto, fate loro capire che una volta usciti dall’ambiente asettico, prima di morire, contageranno l’intera umanità.
– Come? – intervenne Kiamakij – signore, questo è falso. Quei due sono infetti ma molto meno pericolosi del figlio, senza antidoto non è detto che muoiano, il loro tasso di contagio è minimo…
– Dottore, zitto! Non sai nemmeno tu cosa può fare il Tetan. In vent’anni non hai scoperto nulla, aveva ragione Shuster, sei un cane di muso giallo. Da quei tre uniti può liberarsi una pandemia così potente da infettare tutto il Nord America in capo a poche settimane.
– No signore, lei sta mentendo – controbatté il nipponico.
– Ma se noi andiamo a parlare con loro – intervenne Ed – moriremo?
– Certo!
– Ci vada lei, allora.
Gerrin ridacchiò – Cedo a voi l’onore, siete vaccinati e gonfi di Bareg fino ai capelli. Continuando ad assumerne morirete fra cinque, dieci, venti anni. Chi può dirlo?
– Gerrin, non mi convinci. Perché vuoi che entriamo lì? Puoi sempre aprire le cisterne e infettare il mondo da solo, senza coinvolgerci.
Il vecchio rise di nuovo, poi disattivò l’audio dell’interfono e rispose a una chiamata sul cellulare. Trascorse qualche minuto e nuovamente fissò la videocamera.
– Allora, tutti i figuranti di Celta Nova sono andati. Tre erano ancora vivi, tra cui quel ficcanaso di colore.
– Bob?
– Sì, proprio lui. Il vostro agente Albert è morto poco fa e quell’altro ormai è in dirittura. I cinesi e le comparse stavano messi maluccio, non ho potuto negare loro il colpo di grazia. Adesso devo pensare ai loro esecutori, hanno assaggiato tutti il Tetan e dovrebbero crepare presto, ma io non posso aspettare. Nessuno dovrà sapere.
– Ma l’hai già detto al mondo intero – lo canzonò Tom, cui nemmeno la morte faceva cambiare registro.
– Cosa ho detto? Idiota, il Tetan sarà sempre un segreto. Tutti gli addetti al progetto ora sono qui nella base. Nessuno dovrà uscirne.
– Ma abbiamo le forze armate alle costole. Gerrin, sei pazzo. Non puoi farla franca.
– Posso, eccome. Purtroppo resterò da solo, ma siamo tutti sacrificabili e poi, come si diceva al corso ufficiali, tutti siamo utili, nessuno indispensabile? Certo, nessuno tranne me.
Gerrin continuò a ridacchiare con fare irritante, il Tetan gli aveva sfasato la mente.
XXXIII
– Lalas, non la seguo. Cosa c’è in quel maledetto laboratorio? Sto per dare ordine di assaltarlo, si tratta di una struttura fatiscente: di cosa ha paura?
Narok si alzò e prese a girare a i larghi intorno all’enorme tavolo di mogano. Sul suo viso era evidente la stanchezza, si muoveva a fatica, quasi a scatti.
– Presidente, mi hanno consegnato quel dossier solo poche ore fa. Il progetto Tetan, nome in codice MKULTRA, era un esperimento militare degli anni ‘60, all’epoca si cercò di studiare una tecnica di condizionamento mentale da utilizzare sulle spie nemiche. Dopo il rapido fallimento del piano il nostro controspionaggio, a quei tempi in mano agli ultraconservatori, in gran segreto continuò a finanziare le ricerche del professor Shuster, uno scienziato figlio di nazisti scampati al processo di Norimberga. In particolare fu il Generale nixoniano George Seagan, d’intesa con Ubald Gerrin, a curare questo maledetto progetto. Nessuno ha mai saputo con certezza a cosa lavorassero, il dossier parla alternativamente di un virus o di un ‘Organismo artificiale’. Fatto sta che nel 1993 la periferia di Council Bluffs nello Iowa fu colpita da una fuga di ‘gas liquido’ che comportò la morte di centinaia di persone e l’intossicazione di oltre un migliaio. Il caso fu immediatamente spacciato come ‘Disastro nucleare’ ed ebbe anche una certa risonanza sui media, ma poiché l’opinione pubblica dell’epoca era concentrata sulla guerra ai narcos, il caso ò presto in secondo piano. In seguito fu il Dipartimento di Stato a occupasi delle cure agli infetti e delle bonifiche. L’anno dopo Bush senior ordinò la chiusura del progetto e di lì a poco perse le elezioni. Da allora il progetto Tetan sparì definitivamente dagli archivi e…
– E adesso nessuno sa di che cazzo si trattasse. Virus o non virus, bisogna istituire un’unità di intelligence, sapere cosa accidenti è nascosto in quel buco. Se bombardiamo un agente patogeno che succederà? E poi a Council Bluff non
ci sono superstiti da interrogare? I medici legali non hanno repertato nulla di utile? Segretario Lalas, ci sono troppi buchi in questa faccenda.
Lalas stava per replicare, ma uno squillo al palmare del Presidente lo interruppe. Narok aggrottò la fronte ed esclamò – Me lo i! – poi rivolgendosi al Segretario aggiunse – è il senatore Robertson, pare che abbia notizie sconvolgenti.
– Ma chi? Quell’invasato, che Dio lo perdoni? Presidente, non lo ascolti, è un…
Narok lo zittì con un gesto brusco e ascoltò a lungo Robertson annuendo, fino a quando concluse – Prenda il primo aereo per Washington. L’attendiamo io e Lalas. Per la mail usi l’indirizzo privato.
– Presidente, riceve Robertson? Quell’uomo è a capo di una tribù di esaltati, vegani, naturisti e omosessuali. Di sicuro verrà a raccontarle un mare di chiacchiere.
– Non credo, Segretario. Capisco che non lo ami, ma Robertson è uno dei politici più capaci dell’intero Congresso e poi ha appena ricevuto una e-mail da un superstite.
– Un superstite?
– Sì, un ragazzino che fu infettato a ridosso di Kuckawa nel 1993. Pare che gli abbia scritto dodici ore fa in un inglese incerto. La chiamata è partita dall’area di
Council Bluffs e il testo del messaggio conterrebbe riferimenti a fatti che nessuno può conoscere al di fuori del team di Gerrin.
– Potrebbero essere tutte bugie, per inventare occorre poco.
– Vedremo. Però il messaggio è partito da una SIM trovata da un addetto alle pulizie di quel laboratorio in un furgone blindato sporco di sangue. Ovviamente il furgone si trovava proprio nell’autoparco di Kuckawa. Lo sceriffo locale sta torchiando questo ragazzo, sentiremo anche lui. Tra l’altro la SIM card è intestata a un membro della CIA con uno strano curriculum, un tale Edward Kolosimo. Le dice niente questo nome?
– Kolosimo? Certo che sì, è uno dei fedelissimi di Gerrin.
– E come mai una sua SIM card era in un furgone blindato da sottoporre a lavaggio chimico?
Lalas sbalordito non seppe che rispondere.
– Segretario, si prenda un caffè. Robertson sarà qui entro un paio d’ore e nel frattempo avremo modo di riordinare le idee. Mi diceva di quel dossier, adesso farò svegliare il consigliere Rambert. In tre si ragiona meglio.
Lalas, esausto e insonne, scolò due tazze di caffè lungo e quando Rambert, un ultrasettantenne raggrinzito ma con movenze ancora feline, prese posto dall’altra parte del tavolo, gli ò riluttante l’incartamento.
– Presidente – esordì il vecchio consigliere – come mai non ha convocato il gabinetto di crisi?
– Perché voglio prima capire cosa succede, per l’emicrania c’è sempre tempo.
– Questo è l’ultimo avvertimento. Aprite i cancelli e le porte stagne, riattivate immediatamente il contatto radio. Se entro dieci minuti non avrete eseguito, entreremo con la forza. o e chiudo.
Intorno a Kuckawa si erano ammassati quasi quattromila uomini e decine di blindati ed elicotteri dell’esercito. Il Generale Keane, comandante della divisione, osservava nervosamente il cronometro che correva, senza che né la radio né i cannocchiali captassero segnali confortanti – Accettano lo scontro, vogliono resistere con meno di quaranta armati. Sono pazzi!
Il suo assistente da campo non si intromise, continuando a puntare il binocolo sui cancelli serrati, cento metri più avanti.
Mancavano tre minuti allo scadere dell’ultimatum e Keane contattò Washington, chiedendo il permesso di attaccare. L’autorizzazione fu inspiegabilmente negata.
– Mamma, io ricordavo di te e di papà. Faceva freddo, eravamo in una stanza di metallo con la luce verde, nudi e digiuni. Papà aveva male alla testa, anche tu stringevi i denti dal dolore, però mi abbracciavi, non mi sentivo solo. Poi mi risvegliai in un posto orribile, un orfanotrofio gestito dai preti e sono rimasto chiuso lì dentro fino a quando zio Tom non è venuto a prendermi. Mi avevano
detto che Sanders è un cognome falso e lo zio di cognome si chiama Curlig, ma non è veramente mio zio. Era un poliziotto in borghese. Da lui sono stato per qualche mese, poi mi ha mandato a lavorare al porto di Celta Nova, sul lago Michigan. Scaricavo il pesce e riparavo le barche. Poi però zio Tom ha detto che era tutto per finta, il porto e la città non esistevano e mi hanno riportato qui per rivedervi. E sono felice.
Il tono di Jim era metallico e privo di slanci emotivi; Selima, ancora poco reattiva dopo il sonno ultradecennale, rimase sconvolta a vedere il suo bellissimo bambino cresciuto così male. Il ragazzo era alto ma sproporzionato, le spalle digradavano verso un torso gracile. Le gambe e i fianchi erano massicci, le braccia addirittura enormi, la schiena ricurva, il cranio glabro e i lineamenti del viso deformi, simili a un uomo delle caverne. Suo figlio faceva paura, ma in quegli occhi spiritati nascondeva ancora un po’ dell’antica innocenza. Erano sicuramente state le radiazioni virali a ridurlo così, il suo modo di parlare e gesticolare confermavano un netto gap mentale. Vinta la ritrosia, Selima strinse di nuovo a sé quel ragazzone e cominciò a baciarlo e ad accarezzarlo, mentre Jonathan lentamente metteva la vista a fuoco.
Sua moglie stava ricoprendo di dolcezze un uomo mostruoso, più alto di lui e dalle fattezze assurde.
– Chi sei? – provò a gridare, ottenendo a malapena un sussurro. Non beveva da oltre quindici anni, aveva la gola completamente riarsa.
– Papà – rispose quello strano essere, fissandolo con uno sguardo terribile eppure in qualche misura familiare.
– Commovente, da piangere come fontane. Chi l’avrebbe detto? – sghignazzò Gerrin.
– Cosa hai fatto ad Albert e Alex, vecchio pazzo?
– Siete monotoni! Non servivano più e avevano visto troppo.
– Che aspetti a fare fuori anche noi?
– Ancora? Al tempo, non abbiate fretta. Ve l’ho detto, potreste perfino farla franca, purché collaboriate. Rilassatevi, i militari non ci attaccheranno mai. Abbiamo intercettato le loro trasmissioni con il Pentagono, sono così idioti da usare i crittogrammi forniti dal mio Dipartimento. È sempre più evidente che quel negro e la sua banda non sanno fare il loro mestiere, arriverà qualcuno a sostituirli.
– Lo hai già detto, falla finita.
– Bene – si scurì Gerrin – allora alzatevi e presentatevi subito in camera stagna. Dottore, torni al lavoro e mi faccia avere un rapporto decente, qualcosa che abbia senso compiuto.
– Segretario, nessuno sulla faccia della Terra sa come e quando si sviluppa il Tetan, non so più come dirglielo.
– Appunto, non me lo dica e si dia da fare o…
– Mi uccida, cosa vuole che me ne fotta? Sono vecchio e paralitico, come scienziato ho fallito e posso crepare subito.
– No. Non adesso. Torni subito al lavoro! – urlò il vecchio, avvampando.
Il monitor si spense. Tom, Ed e Rice rimasero a guardarsi – Che facciamo? – chiese l’ultimo.
– Obbediamogli, tanto…
– E se ci imprigiona lì dentro?
– Preferisci uscire e farti mitragliare? I militari hanno circondato l’area, siamo dietro a un cordone sanitario. Un o oltre i cancelli e… bang!
I tre si diressero alla camera stagna e dopo l’irrorazione al Bareg arono nella cella di ibernazione. Jim sosteneva entrambi i genitori, erano tutti e tre nudi e sorridenti, sembravano felici. Non appena gli occhi di Jim incrociarono i suoi, Tom rabbrividì. Forse Gerrin voleva divertirsi facendolo ammazzare da quel pazzo sanguinario.
– è lui. – disse il ragazzo.
– Chi?
– Il ciccione. Diceva di essere tuo fratello, papà.
– Non ho fratelli. Chi siete e cosa volete? – chiese Jonathan con voce ancora tremula.
– Siamo ufficiali della CIA, gli stessi che vi salvarono la vita nel 1993. Sono il generale Thomas Curlig e loro il Maggiore Rice Nessark e il Colonnello Edward Kolosimo.
– Tanto piacere di saperlo. Quali ordini ha ricevuto? E dove ci troviamo?
– Dove siete stati negli ultimi diciassette anni. Siamo nel 2011 e vi trovate nel laboratorio segreto di Kuckawa. Non ricordate nulla?
Jonathan chinò la testa per un attimo, sforzandosi di ricordare. Era in auto con sua moglie in gravidanza avanzata, rivisse una corsa nei boschi, scene di un terremoto, alberi caduti e… immagini frammentate, uomini coperti di plastica che lo pungevano con lunghi aghi e gli affondavano nel corpo dei bisturi taglienti. Febbre che lo divorava, dormiva nudo su un gelido pavimento metallico in preda a dolori atroci, un lungo incubo senza fine seguito dal buio assoluto. Si sentiva debole, faticava a reggersi in piedi, aveva fame e sete.
– Cosa ci avete fatto? E perché?
Thomas si avvicinò timidamente, seguito dagli altri due.
– Siamo tutti prigionieri dell’ambizione di Ubald Gerrin.
– Il ministro di Nixon? C’è ancora?
– Sì, purtroppo per noi.
XXXIV
Dopo l’arrivo del senatore Robertson la discussione si intensificò. In particolare Lalas, spalleggiato da Rambert, insisteva affinché fosse convocato il gabinetto di crisi. Narok però fu inflessibile nel procrastinare di qualche ora.
– Diceva Senatore, i suoi rapporti confidenziali cosa nascondono?
– Presidente, si tratta di fatti ormai risalenti, da sempre sbugiardati alla stregua di bufale. Del Tetan si parlò poco all’epoca, poi la notizia sparì dai giornali.
– Questo lo so, guardavo anch’io la televisione. Sia più preciso – sbottò impaziente il mulatto.
– I dettagli non li conosco, ma secondo un nostro elettore locale la periferia di Council Bluffs, nell’arco di cinque sei anni fu periodicamente svuotata da lunghe file di furgoni blindati, che deportarono migliaia di persone. In tutta la zona fu spiegato un cordone sanitario impenetrabile e varie famiglie persero definitivamente di vista parenti e amici.
– E lei non ha idea di dove siano?
– Certo, Presidente. Sono nell’aria che respiriamo ogni giorno, tutti uccisi e cremati. Salvarono solo quattro gruppetti di bambini maschi, per studiare su di loro l’evoluzione della malattia. Pochissimi adulti furono lasciati in vita e internati nel laboratorio segreto, ormai credo siano morti. Anche di quei bambini
dopo un paio di anni non se ne parlò più, mentre i deportati furono fatti are per malati infettivi irrecuperabili e a ogni famiglia fu inviata una lettera di condoglianze a firma di Bush.
– Un falso!
– No, la firma era autentica. Fu Bush padre a ordinare lo sterminio degli infetti.
Narok annuì. Il Senatore Robertson non stava mentendo, il linguaggio del corpo asseverava le sue rivelazioni e in più i pochi elementi raccolti nel dossier ufficiale di Lalas concordavano pienamente. Gerrin aveva strutturato una organizzazione segreta interna alla CIA già vent’anni prima ed era inspiegabilmente riuscito a mantenerla in piedi.
– Quel vecchio criminale prima parlava di ordine nuovo. Il vostro parere?
– Vuole la Presidenza, mi pare evidente – anticipò tutti Robertson – Del resto non ha mai nascosto le sue simpatie per la dittatura. Fu lui a chiedere a Nixon l’uso delle armi chimiche in Vietnam, come fu lui a ottenere dai Bush il primo e il secondo attacco all’Iraq. Ha sempre avuto un grande seguito nel Congresso.
– Lui è in grado di influenzare la mente? È per questo che parlava di MKULTRA II?
– Io credo – si intromise Rambert – che con Nixon e con quello zerbino di Ford non avesse bisogno di aiuti esterni, andavano d’accordissimo, sul piano politico
fu amore a prima vista. Con i Bush avrebbe trovato maggiori resistenze ma…
– Ma?
– Presidente – intervenne Lalas – è chiaro che usa il Tetan o qualche altra diavoleria sui senatori, almeno quando ha bisogno di voti favorevoli. Del resto ho chiesto al Tesoro di effettuare un’indagine riservata e il budget per il mantenimento in vita della struttura di Kuckawa non esiste, è stato tagliato nel 1993. Tuttavia il laboratorio è ancora attivo e ne siamo certi. Di sicuro Gerrin è protetto anche dal Suo gabinetto.
– Lo credo anch’io – annuì Narok – Bene, a questo punto siamo quasi sicuri che Gerrin à quel veleno. Mi piacerebbe sapere di cosa stiamo parlando. Cos’è esattamente il Tetan?
– Non lo sappiamo signore – rispose sconsolato Lalas – il dossier non è chiaro. Bisognerebbe indagare sul posto e…
– Il Tetan è un microorganismo artificiale radioattivo in grado riscrivere il DNA umano. Una sorta di micro-bio-ingegnere. Purtroppo però risulta incontrollabile – s’intromise Robertson.
Narok sgranò i nerissimi occhi – Cioè?
– Vede Presidente, secondo una nostra spia asiatica dell’epoca i Bush volevano sfidare i cinesi in una guerra economica all’ultimo sangue. Confidavano nel
crollo della Repubblica Popolare cinese, un po’ come Reagan aveva fatto con l’URSS. Tuttavia la Cina aveva un tessuto economico già in forte espansione e le riforme di Deng Xiaoping avrebbero imposto alla Nazione un confronto molto difficile.
– Queste sono storie note, venga al sodo!
– Bene, Gerrin in quei tempi era stato rinominato Segretario di Stato al posto del defunto Johnson e propose a Bush Sr di rifinanziare il progetto Tetan, alias MKULTRA, che avrebbe reso possibile una vittoria militare americana senza eccessive spese. Un successo rapido e schiacciante. Bush accettò, elargendo enormi fondi occulti e coprendo tutto nel più assoluto riserbo, anche dopo i primi gravi fallimenti. In seguito alla sua sconfitta elettorale il progetto svanì completamente dagli archivi, anche se Clinton confermò inspiegabilmente Gerrin quale vicesegretario di Stato. In quel caso la morte improvvisa di Quayle gli consentì di reinsediarsi al ministero dopo meno di un anno.
– Senatore, per cortesia, mi dica che cazzo sono questi bio-ingegneri incontrollabili! – urlò Narok, scuotendo il suo stanco uditorio e allarmando gli uomini della security.
– è lo sviluppo di un progetto nazista del quale non si conserva più nemmeno il nome. Si infetta l’uomo con un virus, o qualcosa del genere, che prolifera nel DNA mitocondriale e lo soppianta. Come un cancro, il Tetan si diffonde nel corpo e lo adatta alle sue esigenze.
– Le sue esigenze?
– Legga un po’. Questo ragazzo semianalfabeta è stato colpito dal Tetan.
Porse il palmare, ma Narok lo respinse – Ho già letto.
– Bene, allora guardi questa foto.
Narok sgranò gli occhi, poi fece girare rapidamente il palmare nelle mani degli altri.
– Sono deformi, mostruosi. Sarebbero questi gli infetti?
– Sì. E sono tutti contagiosi.
– Non è una semplice arma, se lo lasciamo fare sarà l’armageddon.
Di fronte al gelo piovuto nel salone Narok non si perse d’animo e azionò l’interfono. Svegliò il suo segretario personale ordinandogli di convocare il gabinetto di crisi per le otto del mattino.
– Signori, avete a disposizione due ore di sonno. Nessuno ritardi al consiglio. Buon riposo a tutti – disse, lasciando la sala ovale in preda allo sconforto.
– Il Bareg è un fluido a base di zinco, silicio, corteccia di una rarissima palma
sub sahariana e midollo di orca marina. Se somministrato a tempo debito espelle il Tetan dalle cellule, blocca l’irradiazione e rende l’individuo infetto un portatore sano.
– Sicché voi avete…
– Certo. Il Tetan è già dilagato nel mondo, solo che quando si dirama per semplice contagio la sua azione è lentissima, quasi impercettibile. Solo dopo quindici o vent’anni comincia a operare e in genere viene scambiato per qualche altra malattia: artrosi, sclerosi multipla, demenza senile, come nel caso di mia moglie, e tante altre.
– Zio, cioè maledetto bastardo, perché avete fatto questo?
– Ragazzo mio, se non avessi obbedito, il Bareg non l’avrei visto nemmeno col cannocchiale. Produrlo costa una fortuna e ne servono tre o quattro milligrammi al giorno per persona. Non assumerne per una settimana può significare la morte, nel migliore dei casi. Il corpo si contorce, i muscoli impazziscono sviluppandosi in larghezza o spessore, senza tenere conto della struttura ossea che li sostiene. Quello che mi porto addosso non è solo grasso, se ci tieni a saperlo.
– Loro due però – disse Jim indicando Rice e Ed – sono magri.
– Anche troppo. Ragazzi, per cortesia…
I due si sfilarono rapidamente le camice, mostrando toraci scheletrici cinti da
pelle attillatissima da rettile, stretta su ossa massicce da pachiderma.
– Siete come me…
– Proprio così. E ci è andata bene. A volte le ossa si sbriciolano e sono gli organi a crescere o a rimpicciolirsi.
– E il vostro capo, questo folle novantenne, cosa pensa di ottenere condannando l’umanità? – intervenne l’ancora annebbiato Jonathan Sanders.
– Vuole il mondo. Un ordine nuovo, presieduto da lui.
– Lui che al massimo fra cinque anni non ci sarà più?
– Non ci sperare amico. Quello non morirà mai.
– Non ha senso ciò che dici.
– Credimi, ce l’ha.
A quel punto Ed, stufo di ascoltare, intervenne frapponendosi fra l’ex capo e Jonathan – Ascoltate, noi siamo qui proprio per informarvi: se uscirete di qui oltre a vivere molto poco per mancanza del Bareg, sarete immediatamente
freddati dai militari. Siamo circondati e ormai avranno scoperto di che arma disponiamo.
– Quindi? Dovremo restare a morire qui?
– Non morirete, non saranno così pazzi da bombardarci.
Jonathan incrociò lo sguardo ebete del figlio, Jim aveva perso il filo del discorso, non era capace di mantenere a lungo l’attenzione su qualcosa. Quei tre miserabili avevano ragione, sua moglie li aveva ascoltati dando loro le spalle, per nascondere le proprie nudità, ma quando si voltò il suo sguardo era fin troppo eloquente.
– Jim, figlio mio, dopo tanti anni trascorsi nel congelatore, come due stoccafissi, non credo di poter sopportare una vita da recluso. Non lo voglio per noi e nemmeno per te. Tu avrai di sicuro sofferto, combinato in questo modo da quella merda chimica, ma anche una vita triste è migliore della prigionia. Usciamo di qua e consegnamoci ai militari, di sicuro saranno più umani di loro. E lei generale – disse rivolgendosi a Tom – e voi due – e fissò gli altri due – farete i conti con le vostre coscienze. Ora cortesemente procurateci dei vestiti e uscite di qua. Non voglio estranei con mia moglie in questo stato.
Increduli i tre non si mossero.
– Non sono stato abbastanza chiaro?
Fu Mark, abbozzando un sorriso, a rispondere – Calmati amico. Siamo prigionieri come te, non si va da nessuna parte.
XXXV
– Chi è Ubald Gerrin? L’avevo confermato in carica su forti pressioni della Difesa, ma il dossier che lo riguarda è falso! Lalas, mi avete nascosto l’identità di quel folle e adesso…
– Presidente – provò a placarlo Rambert – Gerrin è solo un vecchio rimbambito, probabilmente abbiamo sbagliato solo a non pensionarlo ma…
– Silenzio! Quest’uomo non è nato a Milwaukee nel 1919, non si è laureato ad Harvard nel ‘42, non ha prestato servizio nei Marines durante la guerra e comincia a esistere politicamente sotto Nixon. Ho fatto verificare la sua cartella e nessun registro di Stato conferma i dati nel dossier – E mentre urlava agitò con forza una cartellina ingiallita – Non sappiamo chi sia, di chi sia figlio e che diavolo abbia fatto fino a quando Nixon lo nominò capo del suo staff.
– Forse una spia sovietica…
– Non dica assurdità, Rambert. Ubald Gerrin non è una spia – Narok lasciò l’uditorio in sospeso, poi finalmente concluse – Generale Keane, ci sente?
I monitor sul tavolo ovale si accesero in simultanea e l’alto ufficiale, in mimetica e con una vistosa bandana dorata al collo, salutò indistintamente.
– Signori, sono a cinquecento metri dall’ingresso del laboratorio. Volevo parlarvi del progetto MkUltra e di Richard Helms. Io ebbi la fortuna di essere inquadrato
nella CIA nel 1971, quando Helms fu spinto da Nixon a lasciare l’agenzia. Di lì a poco, come sapete, Helms si recò a fare l’ambasciatore in Iran e vi rientrò dopo due anni. Da quel momento in poi non si seppe più nulla di lui, ufficialmente è morto dieci anni fa di vecchiaia. Al contrario, è proprio dal 1973 che Ubald Gerrin ha cominciato a esistere al di fuori dei faldoni.
– Cioè – intervenne Rambert – lei sta dicendo che Gerrin ed Helms sono lo stesso uomo?
– Non so se uomo sia la parola esatta. Helms dopo il fallimento del MkUltra I non si rassegnò all’insuccesso e d’accordo con Nixon continuò a sperimentare nuove tecniche di controllo mentale. Si recò saltuariamente a Teheran fino alla scadenza dell’incarico, poi alla fine, ormai anziano, decise di donare il suo corpo alla ricerca. Si lasciò inoculare il primo campione di Tetan e Nixon provvide a procurargli un ato inesistente. Da allora in poi gli fu facile restare in politica. I vertici della CIA dell’epoca, anch’essi fedeli a Nixon e poi a Ford, fecero quadrato intorno a lui e riuscirono a ottenere dal Congresso i finanziamenti necessari per continuare le ricerche. Il professor Shuster del resto era molto ben visto e nessuno osava contraddire il nuovo capo della CIA, il generale George Seagal, braccio destro di Helms. Gerrin così è nato vecchio, prendendo il posto di Richard Helms.
– Generale – intervenne sconcertato Lalas – come fa a essere certo di queste storie? Le sue mi sembrano illazioni, Helms morì nel 2002 e fu officiato un funerale di Stato al quale presenziai anch’io.
– Vide il corpo nella bara?
– No, fu cremato.
– Appunto. Mi sa che nell’urna c’erano solo spezie, magari porridge bruciato. Gli affetti dal Tetan all’ultimo stadio sono quasi immuni al fuoco. In ogni caso la mia non è un’ipotesi ma una certezza: in Iran l’ambasciatore americano fu quasi sempre rimpiazzato dai funzionari d’ambasciata, tutti morti nel corso dell’anno 1974 per malattie gravissime e fulminanti. I loro corpi, casualmente, giunsero in patria cremati, sebbene nessun dipendente dell’ambasciata avesse mai mostrato alcun interesse per la cremazione. Curioso, non vi pare? In ogni caso, il Presidente lo sa, in quel periodo vi furono una serie di avvicendamenti nella CIA e nel DNI, tutti i vertici militari furono congedati e sostituiti da facce nuove, anche troppo nuove. Ford giustificò le sue scelte parlando di Ufficiali coinvolti nel Watergate e il Congresso gli diede fiducia. In realtà un’intera classe dirigente fu decapitata e messa a riposo e i nuovi, scelti fra i personaggi più incolori e meno referenziati, furono subito posti sotto il ferreo controllo di Gerrin e dei suoi più fidi collaboratori: Baldwin, Sorensen e Seagal.
– Fu un normale avvicendamento di uomini anziani e sospettabili – intervenne Lalas – io non credo che i nuovi venuti fossero peggiori di loro.
– Non ho detto questo. Però dopo il ‘75, quando Gerrin divenne per la prima volta Segretario di Stato con Ford, l’intero apparato di sicurezza e spionaggio cominciò a funzionare ‘alla sovietica’. Niente più delibere collegiali, discussioni, conflitti. Da allora in poi i vertici si irrigidirono, le procedure divennero soffocanti, incomprensibili. Non si contarono più le incarcerazioni e le epurazioni, oltre a tremila caduti in servizio dei quali non sono mai stati ritrovati i corpi.
– Cremati anche loro? – ironizzò Rambert.
– Credo proprio di sì. In ogni caso Gerrin adesso ha deciso di togliere la maschera. Bombardandolo libereremo il Tetan nell’atmosfera e in quel caso
nemmeno un milione di tonnellate di Bareg salveranno la nazione – Il generale Keane si voltò, un brusio di sottofondo lasciò intendere che non era più solo – Ora vi saluto signori e attendo la vostra decisione. Pare che a Kuckawa vi siano segnali di attività.
Salutò militarmente e interruppe il contatto.
La sala consiglio piombò nel silenzio. Solo il senatore Robertson, da sempre interessato al progetto Tetan, decise di prendere la parola – Presidente, il progetto MkUltra II era noto da tempo ai russi e ai cinesi. Tuttavia secondo i loro servizi segreti nessuno avrebbe mai usato il Tetan proprio perché incontrollabile.
– Senatore, ci aiuti invece di rinvangare. I russi e i cinesi non le hanno mai parlato dell’esistenza di un antidoto, qualcosa che lo neutralizzi?
– No, conoscono anche loro l’efficacia del Bareg, ma…
– Il Bareg non serve, ferma l’avanzata nel Tetan ma non lo annienta. Mi stupisce vedere tutti voi, signori, così inerti. Segretario Lalas, Consigliere Rambert, Segretario Linston, Segretario Brabham, Segretario Bloumberg… non avete nulla da dire? Senatore Hidalgo, dorme anche lei?
Erano in dodici intorno al tavolo ovale, l’intero consiglio di Gabinetto e i senatori capogruppo: Robertson per i Democratici e Hidalgo per i Repubblicani. A parte Robertson, da sempre attivo nel contrastare tutti gli insabbiamenti politici esistenti, il resto dell’uditorio si dimostrava apatico e quasi infastidito dalla convocazione d’urgenza.
A un tratto Narok fu avvolto da una tremenda sonnolenza. La testa prese a pulsargli violentemente, cercò con lo sguardo una bottiglia d’acqua, la vide ma non fu in grado di prenderla. Una fitta di dolore lo costrinse ad accasciarsi sul tavolo di noce. Robertson si alzò e, rivolgendosi ai militari sparsi ai quattro angoli della sala ovale, urlò confusamente di fare qualcosa. Aveva la lingua gonfia e impastata, il collo divenne taurino e gli fece saltare il primo bottone della camicia. Si sentì soffocare, cercò di allentare il nodo della cravatta, ma non fece in tempo e anche lui crollò svenuto.
Lalas ieraticamente si alzò e invitò gli altri a imitarlo.
– Signori, ora possiamo tornare a dormire tranquilli. Si sa già il nome del nuovo Segretario di Stato?
– Robertson, ne sono certo – gli fece eco Newrill, Segretario della Sanità.
– Allora – guardando il corpo riverso del senatore – non avremo problemi. Sergente – si rivolse alla scorta armata – per cortesia, attivi il soccorso interno. Come vede il Presidente e il Senatore hanno un capogiro.
Tornò con lo sguardo agli altri funzionari – Signori, dichiaro sciolto questo consiglio di Gabinetto. Buona giornata tutti.
Uscirono silenziosi dalla sala e si dispersero per i sotterranei della Casa Bianca. Nessuno li disturbò.
– Voi avete ucciso una nazione!
– Ma piantala. Stai per morire anche tu, cosa cerchi?
– Rivoglio la vita che mi avete tolto. Voglio la mia famiglia, un futuro per mio figlio!
Thomas lo guardò comionevole, scuotendo la testa.
– Non ci sarà futuro per nessuno. Siamo ancora qui soltanto per qualche diavoleria del vecchio porco. Dopo di che… amen! Rassegnati amico, nessuno sopravvivrà. O di bombe o di Tetan, creperemo presto.
Jim si scosse dall’apatia, gli occhi erano nuovamente glauchi, i denti serrati.
– Voi non ucciderete i miei genitori – e senza aggiungere altro tramortì Curlig con un pugno in mezzo agli occhi. Ed e Rice si lanciarono verso di lui, ma Jonathan fu più svelto e sgambettò il primo, lasciando il secondo in balia di Jim. Il ragazzo con una presa confusa sollevò l’uomo per il collo e una caviglia e lo tenne sospeso, incurante dei mugolii disperati del malcapitato. Un rumore secco lo avvertì, il collo di Rice si era spezzato. Lanciò il cadavere verso la parete stagna e cominciò a prendere a calci Ed e Tom.
– Basta Jim. Hanno ragione, non servirà a nulla – lo redarguì sua madre. La donna, ancora bella malgrado l’aspetto patito, era quasi indifferente allo
spettacolo che le si presentava davanti, ma conservava un irrazionale barlume di speranza – Forse ci tireranno fuori. In fondo se non gli servissimo vivi ci avrebbero già ammazzati da tanto tempo. Lascia stare quei due, io a loro credo: ormai non contano più nulla.
– Brava Selima! – tuonò improvvisa una voce dall’alto, facendoli sobbalzare. Ubald Gerrin apparve come al solito da uno schermo invisibile, se spento. Sorrideva, mostrando gli affilati denti intartariti.
– Cari Selima, Jim e Jonathan, ho mantenuto in piedi il progetto solo per voi. Non sono crudele, malgrado le cazzate che vi hanno raccontato quei tre… due disperati. Speravo che il ragazzo me ne liberasse, ma non fa nulla.
– Chi sei? – urlò Jim.
– Sono Ubald Gerrin, Segretario di Stato.
– Non eri già Segretario nel ’93? – rispose Selima.
– Certo. Ascoltatemi, fra poco la porta sfilerà via e sarete liberi. Un sentiero luminoso vi guiderà all’esterno; seguitelo senza esitazione e consegnatevi ai militari americani.
– Così moriremo. Qui in ambiente asettico possiamo sopravvivere ma fuori… – esitò Jonathan.
– Quante sciocchezze! Voi ormai non morirete più. Loro due invece – e accennò con la testa a Tom e Ed riversi sul pavimento – non hanno scampo. Consegnatevi alle autorità, siete immuni al Tetan, riavrete la vostra vita.
– Ma non contageremo qualcun altro?
– Certo che sì. Altrimenti che vi libero a fare? Avete così tanto Tetan in corpo da poter contagiare lo Iowa, il Nebraska e il Wisconsin in meno di tre giorni. Anche il vostro adorato frugoletto – provocò reggendo lo sguardo ebete di Jim – senza Bareg diventa, come dire… radioattivo. Andate allora e fate presto, tra poco ci bombarderanno.
Jonathan e Selima si guardarono a lungo, senza sapere come comportarsi. Fu Jim a scuoterli.
– Mamma, papà, la porta si sta aprendo. Usciamo!
XXXVI
– Purtroppo la malattia che ha colpito Wilfred Narok è molto più grave del previsto. Il Presidente necessita di un lungo periodo di riposo e di cure assidue. Pertanto, oggi stesso chiederò al Congresso di ratificare il mio insediamento. Come è noto gli USA stanno attraversando un momento difficile, il Segretario di Stato Gerrin è sotto impeachment e la crisi economica sta abbattendo il potere d’acquisto del dollaro. Io David Honecker, quale Vicepresidente in carica, giuro sulla Costituzione a tutti i cittadini di proseguire le ottime politiche introdotte dal nostro amato Presidente, fino alla sua completa guarigione.
Lalas e Rambert, seduti davanti al monitor, annuirono soddisfatti.
– Perfetto! Sembra credibile, i medici hanno parlato di ischemia cerebrale e Honecker è rassicurante, con quella faccia da vecchio vichingo.
– Caro William – rispose Lalas – il Tetan è il futuro dell’umanità. Peccato che lì fuori – e indicò l’ampia finestra che affacciava sull’oceano – siano troppo idioti da capirlo. Avremo un mondo giusto ed efficiente. Quelli che saranno infettati già da adulti, se sopravvivranno, forse manterranno raziocinio e personalità. Molti invece li tratteremo fin dall’infanzia e dai loro superstiti otterremo una classe lavoratrice ottusa ma infaticabile, quasi priva di pretese. Due mondi diversi si fonderanno in un’unica struttura monolitica. Quanto ne sarebbe stato contento il Führer.
– A chi lo dici. Se soltanto l’avessimo convinto a fuggire con noi, adesso sarebbe lui a guidarci, altro che Helms…
– Lui non voleva. Non gli era possibile tirarsi indietro. E poi il Tetan era ancora troppo grezzo, ti ricordi quando distrussero gli impianti a Dora? Fossero arrivati solo una settimana dopo questi Yankee del cazzo.
– Josif, vedrai che rivivrà presto. L’eugenetica fa i da gigante, presto arriveremo a clonare l’uomo nuovo e il nostro Führer sarà l’uomo nuovo migliore che la storia possa ricordare.
– Se lo dici tu… Fritz, io non mi sento di trionfare. Quell’americano è troppo istintivo, non ragiona, si lascia trasportare dalle emozioni e dai desideri.
– Anche lui venne trattato col primo Tetan, quando si chiamava ancora Aktion T5. Lui stesso chiese di sottoporsi all’esperimento a Dora. Sperava di trasformare gli USA in una repubblica nazionalsocialista da solo. Che idiota! Però se siamo ancora qui lo dobbiamo a lui.
– Già. Ma non mi piace lo stesso.
– Nemmeno lui è eterno, Josif.
– Mi sono stufato di fingermi un faccendiere ispano-americano per parargli il culo.
– Pensi che a me faccia piacere recitare la parte del ministro-burocrate dello Utha, vecchio acarte ostaggio dei fabbricanti d’armi? Adeguiamoci ancora per un po’, nell’ordine nuovo torneremo a essere noi: Josif Mengele e Fritz
Lenz.
Rambert per un istante tradì un’emozione: sentire di nuovo pronunciare il suo vero nome superò l’appiattimento mentale impostogli dall’agente patogeno.
– E sia! Ma Helms dovrà morire.
– Te l’ho detto: nessuno è eterno.
– Venite avanti con le mani dietro la nuca. Ripeto, venite avanti con le mani dietro la nuca. Avete sentito?
I tre non si mossero.
– Generale, che facciamo?
Keane impugnò il binocolo e subito lo lasciò cadere.
– Sono gli infetti. Quello alto è il ragazzo che ha scritto a Robertson, gli altri due non so, ma non possiamo sparare. Bisogna neutralizzarli. Faccia venire subito l’ufficiale medico.
Il Colonnello, stupito dalla richiesta, ordinò di far convocare l’alto ufficiale.
– Colonnello – riprese Keane – dobbiamo confinare quei fuggiaschi in un ambiente sterile. Forse studiandoli capiremo qualcosa.
– Generale, non la seguo. Sono malati?
– Malati? Peggio, almeno il ragazzo. è un superstite del progetto Tetan, non ricorda?
– Il MkUltra II? Sono cavolate, ce ne parlarono in accademia e si trattava di una bufala.
– Già, una bufala a orologeria. Si faccia una eggiata per il centro di Council Bluffs e guardi le facce della gente, come camminano, come mangiano, come parlano. Poi mi saprà dire.
– Generale, con tutto il rispetto continuo a non capire.
– Non importa. Ordini di non fare fuoco e di tenere a distanza gli infetti. Nessuno si avvicini, nessuno li sfiori.
Il colonnello batté i tacchi e uscì dalla tenda, incrociando il Generale Medico Samuel Gerrold, un fedelissimo di Keane.
– Samuel, per favore, prepara una camera stagna.
– Qui? Sei impazzito?
– No, purtroppo.
– Come faccio? Al massimo possiamo montare una tenda antiradiazioni.
– Andrà benissimo. Montala fuori dal campo. Non appena è pronta farò entrare i tre infetti. Il personale medico deve essere schermato.
– Cosa succede? C’è un pericolo di epidemia?
– Puoi dirlo forte! Anche per te il progetto Tetan era una bufala?
– Cosa? – Gerrold sbiancò – Allora non era un delirio, cioè, Gerrin diceva sul serio?
– sì. Siamo a cinquecento metri dalla fabbrica della morte – Il cattolico Gerrold si segnò.
– Predisporrò misure estreme. Se però la camera antiradiazioni non dovesse reggere, saremo tutti contagiati.
– Considerato quanto sta accadendo a Washington, credo che questo sarà il male minore.
L’esercito era disposto a semicerchio intorno alla recinzione del laboratorio. La missione, rubricata a basso livello di pericolosità, non era molto attrezzata. Fanteria, carri armati, alcuni elicotteri di ricognizione e armi convenzionali: questo era ciò di cui il generale disponeva. Dopo l’insediamento provvisorio del Vicepresidente, Keane temeva di ricevere da un momento all’altro l’ordine di smobilitazione e voleva catturare Gerrin prima che ciò accadesse. Tuttavia quando ebbe di fronte a sé proprio il ragazzo concepito sotto l’influsso del Tetan, lo stesso che Narok gli aveva additato come possibile vettore di una tremenda pandemia completamente taciuta dai media, si rese conto di non potercela fare. Entrare con la forza nel laboratorio comportava la morte dei soldati della missione, senza contare che il folle Gerrin, messo alle strette, avrebbe potuto avvelenare l’intero Nord America.
La decisione non spettava a lui. Scelse di prenderla ugualmente.
– Vecchio folle, morirai insieme a noi. Arrendiamoci!
– Ah, ah, ah! Siete teneri nelle vostre paure. Mai ufficiali incapaci furono scelti con tanta cura.
– Insomma, che cazzo ci tieni a fare qui?
– Tra poco i nostri amici ci bombarderanno. Volete uscire?
– Hai detto che non ti serviamo più.
– Anche voi, prima di crepare, collaborerete alla creazione dell’Ordine Nuovo.
Tom e Ed saltarono in piedi all’unisono.
– Vuoi aprire le cisterne?
– Non subito. Prima voglio divertirmi. Guardate anche voi.
L’immagine di Gerrin cedette il posto a quella di una rampa di lancio.
– Una V3! – urlarono insieme i prigionieri.
– Ne ho dieci pronte al decollo e un centinaio da innescare. Che ne dite? Adesso facciamo uno scherzetto a Narok: spediamo la prima bomba a Gerusalemme, quartiere ebraico. La seconda la facciamo cadere a Teheran, la terza a San Pietroburgo, la quarta a Parigi…
– Vuoi che l’America sia completamente distrutta?
– Ma no, ignoranti che non siete altro, non contengono esplosivo. Meritereste di ripetere l’arruolamento dal primo livello.
– Sono cariche di Tetan?
Gerrin tacque. Il missile di colpo partì con un sibilo acutissimo, udibile perfino nella camera stagna. Il panico travolse l’esercito di Keane il quale, dopo aver atteso inutilmente istruzioni dal Pentagono, ordinò di espugnare la base. Fece distribuire l’equipaggiamento, non specifico per quel tipo di missioni, e comandò l’avanzata a ventaglio di settecento uomini scelti. Durante l’accerchiamento un nuovo sibilo accompagnò il decollo di un secondo missile argenteo che svanì all’orizzonte a velocità inaudita, assordando l’intera foresta di New Sherwood.
– Incredibile, il Pentagono tace, il consiglio di Sicurezza risulta inattivo e Honecker continua a celebrare il suo insediamento a Washington. I tre infetti sono in sicurezza?
– No, Fred – gli rispose via radio il Generale Gerrold – sono a terra svenuti. Il decollo di quelle bombe li ha investiti in pieno. Ho deciso di rimontare la tenda schermata direttamente su di loro.
– Bene, procedi pure. Chiudo.
– Generale Keane! – esultò il marconista.
– Cosa c’è?
– Abbiamo un messaggio cifrato dalla Casa Bianca. Credo che ci sia un’interferenza, perché…
– Perché cosa? Lo legga, subito!
– Signorsì! ‘Alfred Keane, sei un valoroso e ti permetteremo di vivere. Abbandona il tuo esercito intorno alla base e mettiti in salvo. Non fare l’eroe, abbraccia il Nuovo Ordine e sarai degnamente ricompensato’.
– Chi ha mandato questa roba? Qualcuno scherza sulle TLC riservate?
– Signore, il messaggio riporta il codice personale di David Honecker.
XXXVII
– State fermi o vi ammazzo. Sono contagioso, anche i miei genitori lo sono. Abbassate le armi.
Jim guardò torvo il gruppo di uomini in tuta pressurizzata che li accerchiavano.
– Calma ragazzo, siamo amici.
– Noi non abbiamo amici.
– Sta calmo, siamo un’equipe medica dell’esercito, vogliamo aiutarvi.
– Noi vogliamo solo andare via di qua, essere liberi come tutti gli altri uomini.
– Entra nella tenda, lì c’è un laboratorio. Cercheremo di guarirti.
– Nessuno può guarirmi. Nemmeno i miei genitori possono essere curati. Lasciateci in pace o sarà peggio per voi.
– Generale Gerrold – chiese un tenente nel canale audio interno – il ragazzo è fuori di sé. Dobbiamo prenderlo con la forza?
– Gli ordini sono di non toccarli per nessuna ragione.
Jonathan e Selima, all’aria aperta dopo quasi vent’anni, rividero la volta celeste e il verde della foresta, ma non riuscirono a gioirne. Il cielo era grigio, l’aria puzzava di cherosene e gli alberi parevano rachitici e deformi, le foglie delle querce affilate e ingrigite, il terreno friabile e arido. Sentivano il loro figlio che, caparbio e ottuso, teneva testa a decine di uomini armati, ma erano consapevoli di non avere scelta: o prigionieri a vita o morti subito. Jonathan abbracciò e baciò la moglie, poi si pose di fianco a Jim, fronteggiando l’energumeno con le mostrine sul braccio destro.
– Tenente, mi ascolti. Sono Jonathan Sanders, padre biologico di questo ragazzo e lei è mia moglie, Selima Herdeb. Siamo stati coinvolti in un incidente nucleare, credo, nel 1993 e…
– Signor Sanders, sappiamo tutto. Dell’ibernazione forzata cui siete stati sottoposti, della falsa adozione di vostro figlio, dei tentativi di depistaggio della CIA e del male che vi è stato fatto. Siamo qui su ordine del Presidente degli Stati Uniti per cercare di guarirvi. La nube che vi avvolse non era radioattiva ma infettiva, voi siete portatori sani di una malattia inventata in laboratorio. Senza il nostro aiuto morireste comunque. Per questo vi invito a entrare nel laboratorio da campo.
– Tenente – urlò Jonathan abbracciando a destra Jim e a sinistra Selima – noi non vogliamo più vivere segregati. Se non possiamo reinserirci in società, sia gentile, ci uccida. Lo faccia subito. Noi non meritiamo di soffrire ancora.
– Generale Gerrold, non so che fare. Ci chiedono di sparare loro addosso.
– Tenente, parla il generale Keane. Dia loro delle tute e ripieghi rapidamente verso il campo. Non discuta ed esegua subito!
Sorpreso dall’ordine perentorio, il giovane ufficiale fece lanciare ai tre infetti delle tute, ordinò loro di indossarle e in gran fretta ridispiegò i suoi uomini verso l’accampamento, poche centinaia di metri indietro.
Jim prese una tuta, provò ad aprirne la cerniera longitudinale, poi trovato un intoppo la strappò in due.
– Mamma, papà, scappiamo. Se ne sono andati.
Selima vide che alla loro destra altre decine di uomini in tuta da astronauta uscivano dal laboratorio correndo a rotta di collo e capì.
– Non serve Jim. Siamo morti.
– Ah, ah, ah! Mamma, che ridere! Corrono come lepri, vorrei vederli se fero così al cinema.
– Ubald, ragiona. Non farlo.
– E sta zitto, pezzo di merda! Stanno smobilitando, mai vista tanta paura! Sono
entrati, hanno incrociato cinque uomini della ronda interna e dopo venti secondi erano già in fuga.
I due prigionieri attesero con calma forzata che il loro odiosissimo capo, come di consueto, finisse di lodarsi.
– Evidentemente ora sanno riconoscere gli affetti dal Tetan. I cinque della guardia avevano occhi glauchi e postura sbilenca, ma niente di troppo spaventoso. Evidentemente i loro biorilevatori avranno segnalato qualcosina.
– Non credo, vecchio porco! Sono equipaggiati contro l’uranio, non contro i batteri.
– Batteri? Non c’è nessun batterio nel Tetan, ignorante! Al limite un virus, ma per te è troppo difficile. E poi il geiger rileva il Bareg, non il Tetan.
– Il Bareg contiene Uranio?
– No. Il Bareg è trecento volte più radioattivo dell’uranio. Se assunto in presenza di Tetan si stabilizzano a vicenda. In mancanza di Tetan invece… beh! Ci arrivate da soli.
– Non ci hai mai parlato degli effetti cancerogeni di quella merda. Lo abbiamo custodito nelle nostre case, abbiamo messo a rischio la vita di altre persone.
– Non dite idiozie. Tutti tra poco saranno coinvolti e anzi, se hanno anche solo sfiorato il Bareg i vostri parenti saranno i più forti, quelli che soffriranno di meno.
– Ma hai appena sfidato altre nazioni, moriremo tutti!
Un sibilo stridente accompagnò il decollo di un altro razzo.
– Mi avete stancato. Una vita senza Ordine Nuovo è una vita inutile. Sette miliardi di vite senza Ordine Nuovo sono sette miliardi di vite inutili. Chiaro? Kiamakij, proceda.
Lo schermo si spense, Tom e Ed furono scossi da una serie continua di boati che crebbero d’intensità, fino a far tremare l’imponente struttura del laboratorio.
Si sedettero per terra in silenzio, aspettando la fine.
– Quelle sembrano bombe depotenziate, lo scudo non le intercetta e il Pentagono tace. Siamo isolati. Dobbiamo attendere nuovi ordini dal Capo di Stato Maggiore.
– Generale, forse dovremmo smobilitare, rimetterci a disposizione.
– Colonnello – si scurì Keane – a disposizione di chi? Di un vicepresidente non sano di mente? Di un Presidente moribondo?
– Noi dipendiamo dall’esercito e dal generale Cordwyk.
– Il quale non mi risponde da ventiquattr’ore. Le linee sono libere, controlli! – urlò puntando il dito su uno smitter luminoso – Eppure nessuno ci ha contattati, tranne Honecker. Legga pure! – e gli porse l’assurdo cablogramma di poche ore prima.
Il colonnello annuì e non rispose, la sua mente ordinata non poteva accettare che il capo di Stato e delle forze armate si esprimesse in simili termini.
– Sono tutti uniti. Robertson l’aveva detto che sarebbe stato ucciso. Ci sono riusciti e adesso…
– Generale, cosa dice? Robertson il Senatore? Quel pazzo esaltato?
– Proprio lui. Ammesso che sia ancora vivo. – Keane si turò le orecchie dopo la partenza dell’ennesimo missile, poi chiese – Di quanti presidi medici disponiamo? Ogni soldato può disporre di una tuta isolante?
– No, Generale. Chiedo subito all’unità medica, ma escludo che i magazzini da campo contengano tanto materiale. La missione era ritenuta non pericolosa e di breve durata.
– Perfetto. Allora dia ordine di puntare tutte le bocche da fuoco sul laboratorio.
– Cosa? Generale, questo è un ordine criminale!
– Me ne assumo ogni responsabilità. Proceda!
– Mamma, papà. Io ho impiegato tanto tempo per trovarvi e adesso dobbiamo morire?
– Non so se capisci, Jim – disse Selima abbracciandolo – ma non moriremo soltanto noi. Ti ricordi quando eravamo prigionieri?
– Sì, l’ho sognato spesso quando stavo da padre Robert.
– Bene. Quella malattia terribile adesso è libera. Hai sentito prima quei soldati? Ci avrebbero uccisi se fosse servito a qualcosa. Invece no, sono andati via.
– Venite – urlò Jonathan, coprendo il rumore dei motori – stanno arrivando i carri armati, nascondiamoci in mezzo agli alberi!
Arrancarono destreggiandosi in mezzo alle radici e a cumuli di fogliame. Tra lanci di nuove V3 e il rombo dei cingolati parve loro di impazzire. Dopo qualche istante tutto tornò tranquillo e un silenzio innaturale fu interrotto da una voce metallica.
– Ubald Gerrin, se entro un minuto non uscirai solo e disarmato apriremo il fuoco. Non è necessaria alcuna risposta e non intendo trattare.
Seguì una nuova ondata di silenzio assoluto.
– Cinquanta secondi…
– Quaranta secondi…
– Trenta secondi…
– Papà, ma se sparano uccideranno zio Tom e il professore.
– Evidentemente non hanno scelta. Preghiamo, Jim
Si inginocchiarono di fronte al sole che tramontava, affacciandosi qua e là fra i rami deformi e le foglie bislunghe.
– Dieci secondi. Nove, otto, sette, sei…
– Papà, esiste il paradiso? Io non ci credo.
– Nemmeno io, ma preghiamo comunque.
– Tre, due uno. Fuoco!
XXXVIII
Lo Sceriffo capo Daloisi udì una lunga successione di tuoni raschianti, rumori innaturali e inspiegabili. Si affacciò alla finestra, ma riuscì a distinguere solo vaghe e sottilissime scie di fumo che si diradavano a vista d’occhio.
‘Che diavolo succede?’ si chiese e telefonò subito al comando distrettuale del FBI. Nessuno gli rispose.
Accese il suo pc portatile; nessuna notizia d’interesse, tutti i titoli erano dedicati all’insediamento di Honecker. Guardò allora il palmare di servizio, ma non vi erano istruzioni, né in chiaro né in codice. Chiamò il suo assistente e gli ordinò di rintracciare un ufficiale del FBI suo amico. Il nero lo guardò con aria ebete e scomparve ciondolando per il corridoio.
Daloisi sospirò. Non aveva mai stimato molto quel collaboratore, ma non lo ricordava così inetto. Telefonò allo Sceriffo di Contea, sperando che almeno lui sapesse qualcosa. L’ufficio di Al Pinkerton però risultava irraggiungibile.
Spazientito, provò a chiamarlo sul cellulare di servizio, anch’esso risultava spento. Il cielo stava rapidamente scurendosi, nuvole verdastre a bassa quota dilagavano a vista d’occhio.
‘Sarà un nuovo uragano tropicale’ pensò. La connessione web singhiozzò per qualche istante, poi il segnale cadde del tutto. Rassegnato, richiamò il suo segretario, il quale ovviamente non era riuscito a contattare nessuno.
– Lascia perdere, siamo senza segnale. Per cortesia, prendi un’autopattuglia e recati alla centrale telefonica. Se il blackout non è momentaneo, dobbiamo organizzare i presidi antipanico.
Il sergente lo squadrò, sbatté le ciglia e uscì a o marziale, calcando forte i talloni sul pavimento.
– Godfrey, la smetta di fare l’idiota o la farò arrestare!
Imperterrito il suo fido assistente continuò a ciangottare imitando una marionetta. Un tuono formidabile accompagnò lo spegnimento delle luci. Dopo un paio di squilli entrò in azione l’impianto di emergenza.
Daloisi, scosso dalle troppe coincidente negative, decise di aspettare la fine del blackout.
‘è strano che dalla centrale non si siano premurati di avvertirmi, molto strano’ pensò, osservando la nebbia anomala calare compatta sull’abitato.
– Generale Keane, parla Honecker. Le ordino di sospendere immediatamente l’attacco al laboratorio di Kuckawa. Per questa iniziativa non autorizzata sarà deferito alla corte marziale. Se non ordinerà il cessate il fuoco, sarò costretto a…
– Fottiti, bastardo nazista! – urlò il generale, troncando la comunicazione. Infuriato, scagliò per terra il palmare e lo calpestò.
– Generale, cosa dobbiamo fare?
– Continuate, fuoco a volontà! Che almeno Gerrin non esca vivo! Legga un po’ l’ultima Ansa, forza!
Il colonnello, trattenendosi a fatica dall’inveire contro il superiore, lesse il testo del messaggio cablato.
Il Senato respinge la richiesta di impeachment avanzata dal Senatore Vincent Robertson contro il Segretario di Stato Ubald Gerrin. Secondo il portavoce della Casa Bianca William Rambert, si è trattato di un semplice scherzo di pessimo gusto perpetrato da ignoti cineamatori. Dal Presidente Honecker le più profonde scuse a Mr. Gerrin, vero decano della politica statunitense.
– Dobbiamo fermarci. Generale, lei sta commettendo un crimine!
– Criminale è lei se ancora non ha capito: gli USA sono in mano a una congrega di pazzi e Gerrin è il loro capo.
– Generale, lei sta travalicando le sue attribuzioni. Le chiedo di attenersi agli ordini, altrimenti dovrò esautorarla. Faccia cessare immediatamente l’attacco.
Keane furioso mosse contro il suo sottoposto, dimenticando di trovarsi di fronte a un massiccio agricoltore texano, alto una spanna più di lui e decisamente meno anziano.
– Parla il colonnello Gerald Molok in sostituzione del Generale Keane. Sosp…
Keane gli fu subito addosso, strappandogli il microfono dalle mani. I due si avvinghiarono ferocemente, sotto gli occhi attoniti del marconista. Gli uomini di guardia alla tenda da campo entrarono a dividerli, sconvolti nel vedere due alti ufficiali picchiarsi come fabbri.
Il fuoco dell’artiglieria intanto continuava costante e il contrordine di Molok non aveva raggiunto l’avanguardia, comandata dal Generale Gerrold. Due missili si abbatterono sulla volta del laboratorio, deflagrando in un’unica colonna di fuoco. Dall’interno non risposero al tiro e tra fumo e frastuono si riuscì a capire pochissimo.
Alla fine Keane, atterrato da un pugno del colonnello, si ritrovò ammanettato fra due soldati.
– La sollevo dall’incarico. Lei risponderà di alto tradimento – e detto fatto strappò il microfono al marconista – Generale Gerrold, parla il colonnello Molok in sostituzione del Generale Keane. Cessate il fuoco, ripeto, cessate il fuoco!
Stupito il capitano eseguì l’ordine, ma l’ultimo missile andò a conficcarsi nella porta stagna dell’ingresso, già semi-sventrata da altri proiettili.
– Ce l’hanno fatta quegli idioti. Finalmente! – tuonò Gerrin, sorridendo stucchevole – Ci siamo. L’Ordine Nuovo cala sul mondo ed è stata solo colpa di Keane, un ambizioso ufficiale folle e insubordinato. Ve ne rendete conto? Anche
per la storia sarò pulito, saremo tutti puliti!
Tom Curlig ed Edward Kolosimo, avvolti da densi vapori grigio-verdastri, tossivano e boccheggiavano riversi al suolo.
Gerrin li scrutò, deridendoli – Non ci sono più gli imbecilli di una volta!
– Ubald – provò a rispondere Tom – ma di che storia parli?
– La nostra storia.
In quel momento il Dipartimento di Stato era letteralmente sotto assedio. Decine di ambasciatori e consoli di ogni parte del mondo insistevano per essere ricevuti e il personale di servizio non aveva ricevuto istruzioni. L’ambasciatore russo e cinese in particolare sbraitavano, pretendendo di avere udienza immediata. Un plenipotenziario saudita minacciava la cancellazione degli accordi petroliferi, un diplomatico indiano parlò addirittura di guerra. Solo gli ambasciatori europei rimanevano in silenzio, seduti sugli scranni di noce imbottiti. L’enorme androne del Dipartimento era stracolmo, alcuni diplomatici erano al corrente della tempestiva riabilitazione di Gerrin, altri invece, specie i rappresentanti delle nazioni africane, non sembravano aggiornati. Tuttavia l’amplificatore interno annunciò che il Segretario Gerrin non era in sede e al momento risultava irreperibile. L’inusuale e sbrigativa comunicazione urtò ancor più gli ambasciatori russo e cinese e anch’essi arrivarono a prospettare la guerra.
– Voi avete bombardato il nostro territorio. Se non riceviamo immediate scuse e rassicurazioni le responsabilità ricadranno sul vostro paese! – tuonò in pessimo inglese il russo, un colosso barbuto dai profondi occhi neri. Il segaligno e curvo
ambasciatore cinese si limitò a pretendere immediate scuse dal Dipartimento, in ciò accompagnato dal diplomatico indiano. Tuttavia il vicecapo di gabinetto, un giovane neolaureato in servizio da pochi mesi, non aveva né i poteri né gli argomenti per placare le proteste.
Richiamato da un impiegato della segreteria, dichiarò che a minuti il Presidente in persona si sarebbe scusato per l’increscioso errore e invitò i presenti a rientrare nelle rispettive ambasciate.
Dopo pochi istanti, mentre il vociare e le minacce non accennavano a diminuire, l’intero salone sprofondò nel buio e sul maxischermo a parete apparve il volto raggiante di Honecker.
L’uditorio raggelò di colpo. Ottantasei giacche blu si alzarono in piedi all’unisono, quasi ipnotizzate.
Honecker disse qualcosa quasi mormorando, ma tutti parvero capirlo.
Ottantasei auto di rappresentanza defluirono lentamente dai garage di 2201 C Street NW, superarono i flebili controlli e si dispersero verso il centro di Washington. Ottantasei autisti osservarono esterrefatti negli specchietti retrovisori le facce stravolte dagli sguardi senz’anima, ma nessuno ebbe il coraggio di interloquire.
Jonathan aveva guidato la sua famiglia nel folto degli alberi. I muscoli intorpiditi e i piedi scalzi non lo aiutavano e sua moglie, altrettanto debole, riusciva percorrere a stento cento metri prima di rifiatare. Le continue esplosioni, seguite da spostamenti d’aria e continue vampate di calore però, oltre ad assordarli,
infondevano loro la disperata volontà di continuare, aiutati da Jim e dalla sua forza innaturale. Il ragazzo si caricò la mamma in spalla e trascinò il padre per un braccio, fino a quando non tagliarono per una strada di terra battuta che intersecava il bosco.
– Fermati Jim – implorò il padre ansimando – se ricordo bene fu proprio su questa strada che fummo colpiti.
– Qui?
– Sì – indicò un tronco semisradicato che poggiava in diagonale su un altro albero – probabilmente fu in quel punto che fermai l’auto. Così scendemmo e calò un gas soffocante, quello che ci ha contagiati.
– Quindi per colpa loro io sono nato strano, come diceva Padre Robert?
– Tu e chissà quanti altri poveri bambini
Di nuovo calò un silenzio innaturale.
– Hanno smesso di sparare – constatò Selima.
– Sembra di sì, ma non mi fido. Allontaniamoci di più – decise Jonathan.
– Servirà a qualcosa? Hanno detto che siamo spacciati.
– Lo so e secondo me è vero. Ma preferisco morire all’aperto, non sottovetro.
La moglie annuì, rialzandosi. Jim si schiacciò forte la testa fra le mani, quei continui boati avevano risvegliato la sua emicrania perenne. Tra le gambe si sentiva pizzicare un po’ troppo, sebbene sapesse che i rapporti tra madre e figlio costituissero il più mortale dei peccati.
– Mamma, ti prego, copriti.
– Cosa? E come faccio?
– Tieni – e le ò uno straccio sporco trovato per terra – non voglio. Non con te.
Jonathan e Selima si scambiarono un’occhiata sconvolta, poi la donna si legò al petto quel pezzo di tovaglia, coprendosi in parte seno e pube.
– Ora va bene, pizzica meno – disse Jim, toccandosi il pene.
Jonathan si rimise in testa al gruppo e, varcato il sentiero, continuarono a inoltrarsi nel sottobosco. Dopo pochi metri Jim sollevò la madre e affiancatolo, riprese a trascinarlo.
‘Lo hanno trasformato in un essere primordiale’ ponderò Jonathan, con le lacrime agli occhi. Sua moglie era rigida, terrorizzata dalla bassezza degli istinti del figlio. ‘Sarà meglio morire’.
Avanzarono ancora per qualche decina di metri, poi un tuono molto più potente dei precedenti li abbatté al suolo.
– é la fine! – urlò Selima, stringendosi al collo del figlio. Suo marito allungò un braccio e riuscì a stringerle una mano. Jim alzò imprudentemente la testa e restò interdetto a fissare il cielo.
– Non ci sono fuochi, cala la nebbia marrone.
Rassegnati Jonathan e Selima rividero il gas mortale che rapido tornava a prenderli. Era infinitamente più denso e aggressivo della prima volta, in pochi secondi tutto divenne invisibile e svennero, insieme ai militari, agli abitanti di Council Bluffs, del Wisconsin, dello Iowa, del Nebraska, dell’Illinois e dopo poche ore dell’intero subcontinente nordamericano.
XXXIX
– Forza, indossate le tute e uscite. Tra meno di un’ora la nube si sarà dissolta, i primi infetti si stanno risvegliando. Correte a istruirli!
Chiuso nel laboratorio di Kuckawa, Ubald Gerrin mulinava ordini ai soldati, a Kiamakij e ai due ufficiali superstiti della CIA. Privo di segnale video e innervosito dall’assenza di risposte, decise di lasciare il suo alloggio sicuro e arrancando per le scale, aprì la porta stagna che proteggeva Tom e Ed. Non trovò nessuno. Percorse il corridoio e penetrò nell’area scientifica, cercando Kiamakij. Anche lì tutto sembrava abbandonato da ore, le apparecchiature erano off e tutti gli impianti fermi.
‘Che siano saltati anche i generatori ausiliari?’ pensò. Tuttavia le porte stagne rispondevano ai comandi ed escluse subito quell’eventualità: gli impianti erano stati disattivati volontariamente da qualcuno ‘Forse una piccola parte del Tetan è ristagnata all’interno, li avrà intontiti’ cercò di rassicurarsi. Con il palmare contattò Honecker e Rambert, ma il dispositivo era offline.
Infuriato si diresse nelle aree più esterne, dove le bombe avevano arrecato i danni maggiori. Digitò pertanto la sequenza di apertura ignorando l’invito a indossare la tuta antiradiazioni e ripeté l’operazione con altre tre porte ovali. Un allarme acustico lo fece sobbalzare, si puntellò al battente, poi cadde quando sfilò nella scansia interna allo stipite. Decine di esseri massicci, curvi, glabri, deformi, dalle braccia lunghe e dallo sguardo sinistro si aggiravano per i corridoi, ogni tanto un clangore di vetri infranti o un urlo rauco interrompeva un inspiegabile silenzio.
‘Magnifici! Ecco i figli dell’ordine nuovo!’ pensò, allargando un sorriso crudele.
Provò ad avvicinare un trio di strani personaggi, dai brandelli di uniforme riconobbe in loro dei soldati di stanza al laboratorio.
– Ragazzi, oggi è il nuovo giorno. Venite con me, il mondo sarà nostro.
I tre non lo stettero a sentire andogli davanti, poi cominciarono a spingere le porte stagne che aveva appena varcato.
– No, lasciate perdere la base. Il mondo è là fuori.
Non gli risposero. Malgrado fosse colmo di Bareg fino al midollo, la sua persona non pareva influenzarli. Qualcosa non stava andando per il verso giusto. Camminò ancora, scansando un proiettile inesploso e quella che sembrava una bomba ad ananas non deflagrata. Le pareti, via via che procedeva, presentavano danni più evidenti, lastre deformate, bulloni saltati, in alcuni tratti il soffitto era caduto rivelando la struttura di base in cemento armato.
Il laboratorio di Shuster era ridotto a un cumulo di rottami, pozze di metallo liquefatto, vetri frantumati e lamiere contorte. Le luci d’emergenza rischiaravano uno spettacolo allarmante, sicuramente lì dentro era esploso qualche ordigno, ma non vide resti umani. Uscendo dall’area scientifica rischiò di scivolare su una piastra pavimentale semifusa, infine notò una tenue luce in lontananza, lì dove c’era l’ingresso principale.
‘Hanno aperto il portone e sono usciti. Evidentemente l’irrorazione è stata troppo forte, devono essere temporaneamente impazziti, avranno ingaggiato una rissa tra loro’ valutò Gerrin. Però era strano che i danni alle strutture non mostrassero tracce di spari o dei fulminatori in dotazione al personale di guardia.
Quando fu sulla soglia dell’ingresso il palmare si rianimò. Captava la rete pubblica, segno che i ripetitori criptati del laboratorio non funzionavano. Immediatamente fu raggiunto da una comunicazione di Rambert.
– Fritz, sono Richard. Tutto perfetto, il Tetan è stato liberato, solo che i primi soggetti trattati ancora non rispondono. Credo di avere esagerato.
Lentamente il volto di Rambert si compose sul display. L’uomo appariva invecchiato di vent’anni, una mummia incartapecorita dagli occhi tumefatti.
– Che accidenti ti ha preso? Sembri un cadavere.
– Richard, idiota yankee senza cervello! Lo sai cosa hai liberato nell’aria?
– Il Tetan, il vettore della volontà.
– Solo?
– Certo. Settantamila tonnellate di plasma. Quanto basta per…
– Per distruggere la terra! Guarda che cosa hai combinato! Josif è morto, Honecker si è trasformato in polvere! Io stesso ho poche ore di vita. Che cazzo hai fatto, Richard?
– Il Nuovo Ordine ha bisogno di menti giovani, aperte, da riempire. Cervelli troppo vecchi e conservatori non servono. Non pensavo che funzionasse così bene, però caro camerata Lenz, converrai che tre centenari mantenuti in vita con tonnellate di Bareg non sono i più indicati a guidare la transizione, quindi…
– Quindi – sussurrò il viso mostruoso e scheletrico di Rambert – non hai capito niente. Hai fatto degli errori, forse quel muso giallo ti ha mentito, o avrà sbagliato. Non ci sarà nessun ordine nuovo.
– Dai tempo ai vapori di disperdersi e vedrai.
Chiuse la comunicazione e cominciò a eggiare per la foresta. L’intero accampamento dell’esercito appariva devastato, il trambusto era evidente, molti mezzi corazzati si erano scontrati e un carro armato giaceva coricato su un fianco col pianale a pezzi. Le tende erano state abbattute e i teli svolazzavano a brandelli. Perfino il padiglione dell’ospedale da campo era stato travolto, i pali di sostegno sporgevano a raggiera dall’involucro stracciato. Eppure non c’erano cadaveri.
Provò a sincronizzare il palmare sulle news internazionali, l’ultima newsletter riportava la data del 12 novembre 2011.
‘Gli Stati Uniti d’America lanciano testate chimiche a basso potenziale su vari obiettivi strategici. L’incredibile gesto, ripetuto per quarantadue volte, ha dimostrato come sia possibile scavalcare le difese avversarie utilizzando tecnologie obsolete. In particolare i missili impiegati, copie esatte di antichi brevetti nazisti, hanno volato a bassissima quota superando migliaia di controlli radar. Le esplosioni non hanno causato vittime, tuttavia gli strani vapori scuri
che hanno accompagnato le deflagrazioni sembrano generare effetti psicotropi su chiunque li inali. Al momento i governi russo, cinese e indiano, paiono decisi a rispondere con le armi a quella che ritengono ‘Una vile provocazione’. Il Presidente Honecker, insediatosi pochi giorni fa in seguito alla malattia che ha colpito Wilfred Narok, ha porto scuse ufficiali, parlando di ‘errore umano’ nel corso di un’esercitazione militare’.
Dopo quella notizia era calato il silenzio web. Oltretutto il display segnalava la data del 14 novembre: era rimasto nel bunker per quasi tre giorni, mentre credeva di avere riposato poco più di un’ora.
– Cosa accidenti succede? – urlò agli alberi e al sole che tramontava tranquillamente.
Un gruppo di scimmie quadrumani, glabre e dall’espressione feroce, scese dalla cima delle querce accerchiandolo. Alcune indossavano un elmo verde oliva, altre portavano a tracolla dei fucili mitragliatori.
– Cosa volete? Fratelli, l’ordine nuovo è tornato. Andiamo, combattiamo, annientiamo le ultime sacche di resistenza. La libertà del potere farà di noi la razza eletta fra gli eletti, che aspettate?
Interdetti i primati lo ascoltarono, poi quello che indossava ancora pantaloni mimetici, cintura e pistola al fianco, gli fece cenno di tacere.
– Sei tu Gerrin, quello che ha spruzzato il vapore di cancro? – la voce del primate era stridula e cavernosa, ma ancora distinguibile.
– Sì, fratello. Era Tetan, il fluido della vita.
A un cenno del comandante, i quadrumani si avventarono su di lui, mordendolo, tirandolo, torcendolo, fino a farlo letteralmente a pezzi. Alcuni affondarono i denti nella carne viva, salvo poi sputare subito i bocconi, disgustati.
Le ossa avevano la consistenza del ferro e non furono spolpate, mentre la scatola cranica trasudava un fetido e densissimo liquido giallo.
– Beviamo quello – strillò il capo-banda. Tutti gli scimmioni si allinearono in fila indiana e ognuno riuscì a suggere un po’ di umore cerebrale.
Non accadde nulla.
Una scimmia soldato allora afferrò il cranio scarnificato di Gerrin e lo sbatté con forza contro un macigno. Un altro invece, imbracciata la carabina, fece fuoco a bruciapelo, aprendo uno squarcio nella calotta. Privo di liquidi, il cranio di Gerrin rivelò soltanto un grumo di polpa oscura e pulsante. Ciò che restava del suo cervello era ancora vivo.
– Jim, non so spiegarmelo. Siamo sopravvissuti.
– Lo so mamma. Gli altri sono diventati cattivi, come all’orfanotrofio. I bambini che facevano così però li mandavano via dopo pochi mesi, forse li uccidevano.
– Troveremo altri come noi, vedrai.
– Ma perché? Tutto questo, perché?
Selima non rispose. Si erano risvegliati da poco, tutto intorno il paesaggio era diventato spettrale, reso ancor più angosciante dal silenzio assoluto. Jim li aveva condotti in cima a una collina ai margini della boscaglia, fra erbe avvizzite e rade fronde grigie. Jonathan si era allontanato in perlustrazione, ma ancora non tornava, cominciò a temere per suo marito, debole e affamato. L’arsura le divorava la gola, anche Jim aveva sete, ma tutt’intorno non esistevano insediamenti umani a perdita d’occhio.
Dei i pesanti la fecero trasalire, svegliò il figlio che si era assopito al suo fianco.
– Jim, sta arrivando qualcuno.
Il ragazzo si drizzò in piedi a fatica, poi afferrò una grossa pietra, sollevandola sopra la testa. Dal pendio che digradava nella foresta emerse suo padre, seguito da una decina di uomini curvi e dalla pelle ramata.
– Papà, chi sono quelli?
– Chi eravamo, ragazzo! – rispose una voce inquietante dal gruppo.
Lentamente quegli esseri s’inerpicarono sul colle, sorreggendo lo stremato Jonathan.
Una delle creature, alta malgrado la postura scimmiesca, magra e dalle braccia spropositate, si fece avanti.
– Avete fame? Io ero il generale di divisione Alfred Keane, fedelissimo del Presidente, caro Jim Sanders.
– Conoscete il mio nome?
Tradendo la scarsa familiarità con quel corpo deforme, l’essere girò su se stesso e blaterò qualcosa. Borracce, gallette e carne in scatola furono lanciate per terra.
– Adesso mangiate e bevete. Abbiamo tanto, tantissimo tempo per parlare
– Cosa è successo, generale? – chiese Selima, addentando il cibo.
– Non lo sapremo mai. Si sospettava che una congrega di nostalgici nazisti si fosse infiltrata nella CIA, ma nessuno ha mai voluto approfondire le indagini. Nei prossimi giorni potrei perdere l’uso delle corde vocali, quindi ascoltatemi: in questa scatola; – e porse loro una piccola teca di vetro contenente un ripugnante ammasso di gelatina nera – c’è il cervello infetto di Ubald Gerrin, ovvero Richard Helms.
– Helms?
– Sì, il diplomatico amico di Hitler.
– Generale, non è possibile – interloquì Jonathan Sanders, con la bocca piena di carne pressata.
– Niente affatto, Helms era pluricentenario. Grazie alla merda che ci ha spruzzato addosso è riuscito a sopravvivere fino a qualche ora fa.
Ignorando il loro stupore, il primate che un tempo si chiamava Alfred Keane spiegò rapidamente il folle e maldestro tentativo di conquista del mondo.
– Ma allora, diventeranno tutti come me! – saltò a dire Jim, non nascondendo la gioia.
– Qualcuno sì. Altri no, magari diventeranno simili a gorilla, come me – allungando un braccio mostrò dei grossi peli bruni in rapida crescita su tutta la pelle – o come lei – e additò un quadrumane simile a uno scimpanzé glabro. Dal pube scoperto si capì che era stata una soldatessa – o magari tanti moriranno in capo a una settimana. Non possiamo saperlo, nessuno usa più le linee di comunicazione, televisioni e radio sono spente, non esistono collegamenti e fossi in voi non tornerei in città.
– Generale, il resto del mondo come se la a?
– Non meglio di noi, temo. Gli ultimi dati in nostro possesso segnalano migliaia di catastrofi sparse a macchia di leopardo. Centrali nucleari esplose, enormi incendi, suicidi collettivi, cannibalismo. Se non volete unirvi a noi abbiate l’intelligenza di restare ancora nascosti per molto tempo – ansimò, prima di riprendere il filo – Dicevo, questa scatola – e sporse nuovamente il ripugnante globulo nero – Gerrin si illudeva di poter comandare la volontà di ogni uomo. Il suo cervello, dopo decenni di Tetan e Bareg si era ridotto così, un ammasso di tumori che consumavano se stessi. Se un giorno troverete superstiti in grado di studiarlo, consegnateglielo. A quell’epoca, capirete, io non ci sarò.
Jim, Jonathan e Selima rimasero a bocca aperta, vedendo che il viscido ammasso di carne putrida si agitava e contorceva.
– è vivo!
– Sì, lo è. Forse in lui c’è il vero antidoto a questo cancro infame.
Di colpo il primate tacque e cominciò a tenersi la testa, poi urlò di dolore con tutto il fiato che aveva, spaventando i presenti.
– Via! – urlò Jonathan. Arrancarono verso la pianura, dopo pochi istanti un ringhio selvaggio e una raffica di spari lasciarono intendere che fra quei primati erano saltati gli equilibri interni.
EPILOGO
Delia stese le lenzuola ad asciugare, rimirando il paesaggio circostante. Gli Appalachi digradavano dolcemente verso la pianura brulla e riarsa, lontane risuonavano le urla dei coyote. Meno male che quelle enormi bestie non sapevano scalare le rocce: un loro morso poteva facilmente strappare un braccio a un adulto. Jim russava sonoramente, John e Suzanne giocavano sull’aia con dei cocci di vetro.
– Mettete giù, lo sapete che questa roba è sporca.
– Perché?
– Perché non sappiamo da dove proviene. Contiene malattie.
I due gemelli la fissarono spaesati. Erano glabri, curvi e malformati, con lo sguardo assente: cosa avrebbe potuto spiegare loro?
Dalle altre capanne cominciavano a provenire segnali di vita, ormai il sole era alto, l’intera comunità si sarebbe messa in attività entro pochi minuti.
– Jim, svegliati!
Un tonfo l’avvertì che suo marito era già al lavoro e dopo pochi minuti lo
sfrigolio di una padella annunciò la colazione.
– Jim, perché hai fritto nell’olio verde? Lo sai che poi ai bambini fa male la pancia.
Suo marito le scoccò un sguardo infastidito.
– Con che cosa dovrei friggere? Con l’acqua?
Poche centinaia di metri più in basso il Rio Cerro gorgogliava, trasportando al solito tonnellate di liquami e immondizie. Il fetore arrivava fin lassù, ma a loro non dava fastidio.
Elbert, loro vicino di capanna, apparve al suo fianco.
– Ciao Delia, bene alzata. È in piedi Jim?
– Sono qui! – ringhiò l’altro, poco contento di quella visita.
– Ieri scavando in riva al fiume ho trovato questo arnese. Sai che cos’è? – e così dicendo, gli porse uno strano riquadro di vetro e plastica.
Jim lo prese soppesandolo tra le mani, poi d’un tratto ricordò.
– è un tablet. Serve per vedere donne nude, scrivere ad altra gente, telefonarsi e giocare gratis. Se solo avessimo un carica batterie…
Stupefatto Elbert si fece riconsegnare l’oggetto – Telefonare? Vedere le donne? Jim, tu devi avere bevuto troppa acqua.
– Non bevo più, non mi va di alzarmi con il sangue alla pancia, i bambini quando mi vedono ridotto così piangono. In ogni caso non esiste più la internet e quel coso non serve a nulla.
Annuendo Elbert andò via, dopo pochi i però il suo ventre rigonfio fu attraversato da uno spasmo acuto e, chinatosi per il dolore, defecò in aria, colpendo le gambe di Jim, il quale reagì assestandogli un calcio in mezzo alle natiche.
– Schifoso! La prossima volta sai bene cosa ti faccio! – e tastò il grosso pene che gli pendeva davanti.
Infuriato Elbert lo aggredì e per qualche minuto se le diedero di santa ragione, mentre Delia e i bambini mangiavano tranquillamente.
– Mamma, perché papà gioca sempre con Elbert? – chiese la piccola Suzanne.
– Perché sono amici. I grandi non hanno paura di ammalarsi o farsi male e possono divertirsi quanto vogliono. Un giorno anche voi sarete così,
indistruttibili, immortali.
Un ruggito improvviso costrinse i contendenti a separarsi ed entrambi si recarono rapidamente ai piedi del totem al centro del villaggio.
– Gente – urlò Mijriam la grossa, la più potente inseminatrice del gruppo – chi è che ieri ha masticato il Pane della Vita? – e sporse l’enorme braccio scheletrico verso la piccola teca adagiata in cima al palo di metallo – Lo sapete che se finisce dovremo andare di nuovo a caccia? Le regole le conoscete, il pane si mangia solo di domenica e ognuno in parti uguali. Se lo consumiamo tutto non ricrescerà più! Sapete che oltre il mare – e curvò il corpo molle e incrostato verso gli Appalachi – ci sono esseri che non ne mangiano mai? Vogliamo tornare a morire, a essere piccoli e deboli?
La folla di umanoidi si era assiepata rapidamente e presto uno strillo ritmato segnalò il colpevole.
– Thomas, vecchio porco, sempre tu. Un giorno apriremo anche la tua testa e vedremo che merda contiene.
Il vecchio ominide, uno tra i pochi a conservare qualche chiazza di capelli grigi, toccò il suolo con la fronte e strisciò l’enorme ventre sulle rocce. Mijriam non si lasciò impietosire e con gli unghioni di un piede prensile gli serrò la nuca – Ti abbiamo accolto tra noi come un fratello, quindi smettila di pensare soltanto a te. La comunità ha le sue regole, vai a caccia con gli altri e mangerai la tua parte. Altrimenti – e con la mano gonfia impiantata sul lungo braccio ossuto indicò il cielo – vai dove ti pare!
I gorgoglii di dolore la spinsero ad allentare la presa. Il vecchio obeso stava perdendo fiotti di sangue bruno, forse stavolta avrebbe capito.
Jim disgustato rientrò alla sua capanna e assaggiò distrattamente un pezzo di carne nera rimasto nella padella.
– Puah! Fa schifo.
– Vai a caccia più lontano, i topi del fiume non sanno di nulla – lo ammonì Delia.
– è vero – strillò Suzanne – papà, quando potrò venire a caccia con te? È tanto che non prendi un orso.
– Gli orsi si sono ritirati a nord, e poi quei corni che hanno in fronte possono bucare tre di noi alla volta. Comunque vedremo, per ora è presto.
– E io? – chiese Jonathan speranzoso.
– Anche tu. Gli uomini e le donne sono uguali, quando crescerai, verrai anche tu a caccia.
– Papà – chiese ancora Suzanne, attaccandosi con le manine al suo lungo pene floscio – quando potrò fare anch’io l’amore durante le feste?
Obbedendo a un istinto ancestrale, Jim staccò bruscamente il membro da quelle piccole braccia, guardando intensamente la figlia. Era alta quasi un metro e mezzo, la pelle cominciava a indurirsi, mani e piedi già esibivano robusti artigli e poi, complice la rapida crescita puberale femminile, per ora superava il fratello in quasi tutte le prove di forza.
– Quando farai la pipì nera.
– Ma quando succederà?
Guardò un attimo sua moglie che lo fissava spavalda, le mani sui fianchi e i canini scoperti che gocciolavano bava gialla.
– Presto, molto presto.
FINE
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EPILOGO