Nicola Castaldo
L’Antipolitica della Crisi
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Indice dei contenuti
Introduzione
I - La Crisi 1.1. Grillo, la Crisi dei partiti e il mito della democrazia diretta - Golem 20 aprile 2012 1.2. Democrazia diretta: un mito da sfatare? 1.3. Post democrazia e deliberazione 1.4. La decrescita come risposta alla crisi economica II - L’Ascesa del Movimento a 5 Stelle 2.1. Grillo, il Qualunquismo e il futuro dell’Italia - Golem 11 maggio 2012 2.2. Corsi e ricorsi del “qualunquismo” 2.3. L'antipolitica dei partiti 2.4. Il problema della leadership - Golem 1 giugno 2012 2.5. Casaleggio, chi era costui? 2.6. Lettera al Corriere 2.7. Il fallimento delle autonomie locali (Golem 28 settembre 2012) 2.8. La nascita delle Regioni e il sogno infranto del federalismo III - La campagna elettorale 2013
3.1. Democrazia digitale 3.2. Il derby finisce in farsa - Golem 11-01-2013 3.3. Santoro vs Berlusconi 3.4. La campagna elettorale fra Tv e social network (Golem 22 febbraio 2013) IV - Il Boom 4.1. Il mercato delle vacche e il vincolo di mandato - Golem 7 marzo 2013 4.2. Il mandato imperativo e l’Ancien Régime 4.3. XVII legislatura 4.4. Il bipolarismo è morto e la democrazia non si sente troppo bene (Golem 15 marzo 2013) 4.5. Il mito dell'alternanza 4.6. La Democrazia ha ancora un futuro? V - Larghe intese 5.1. Dal Principe all'antipolitica 5.2. Chi è il Principe? 5.3. Attualità de “Il Principe” 5.4. Un nuovo/vecchio Presidente 5.5. Piazza democrazia finisce nella Rete (Golem, 26 aprile 2013) 5.6. Il falso storico della democrazia diretta ad Atene 5.7. Il Governo Letta 5.8. E le stelle stanno a epurare - Golem, 21 giugno 2013
5.9. L'espulsione di Adele Gambaro 5.10. “Terrore” a 5 stelle 5.11. La dittatura dell’astensione - Golem, 22 novembre 2013 5.12. L'età della sfiducia VI - Rottamazione 6.1. L’addio al Porcellum e la crisi del Parlamento (Golem, 06 dicembre 2013) 6.2. I Forconi: moderno fascismo o rivolta del pane? (Golem, 13 dicembre 2013) 6.3. “F” come Fascismo 6.4. Fine della Seconda Repubblica 6.5. Il patto del Nazareno 6.6. L’orizzonte dell’Italicum - Golem 24, gennaio 2014 6.7. Dubbia costituzionalità 6.8. Grillo, Napolitano e la ghigliottina (Golem, 31 gennaio 2104) 6.9. Decreto e abuso 6.10. Il blitz di Renzi VII - Grillo contro Renzi 7.1. Psicodramma a 5 stelle (Golem, 28 febbraio 2014) 7.2. Primi i del Governo Renzi 7.3. Renzi e il canto del Grillo - Golem, 7 marzo 2014 7.4. Mussolini, le liste civetta e il mito del popolo della rete 7.5. Le polemiche sulle prime scelte del governo Renzi
7.6. Parità in nome della legge (Golem, 14 marzo 2014) 7.7. Educare per decreto 7.8. Dalla lotta di classe alla lotta alle caste 7.9. Il caso Moretti e le caste invisibili - Golem, 28 marzo 2014 7.10. Capitalismo all'italiana VIII - Destinazione Europa 8.1. Lo Strangolatore di Pace - Golem, 12 ottobre 2012 8.2. La nascita dell'U.E. 8.3. La Gran Bretagna alla ricerca di una via d’uscita 8.4. Cameron, l’Europa e il Contratto sociale - Golem, 25-01-2013 8.5. Limiti dei referendum secessionisti 8.6. Un nuovo contratto sociale europeo 8.7. Rifondazione Comunitaria - Golem, 14 febbraio 2014 8.8. La svolta tedesca 8.9. Una nuova idea d'Europa IX - Le Elezioni europee e l’Italia di Renzi 9.1. L’Europa al voto fra dubbi e speranze (Golem 16 maggio, 2014) 9.2. L'esito del voto 9.3. Grillo alle soglie della terza Repubblica - Golem, 29 maggio 2014 9.4. Ritorno al futuro 9.5. L'esito post-ideologico del voto
Conclusioni
Postfazione
Note
Introduzione
Come è cambiata la geografia del potere in Italia negli anni della crisi? Se i vecchi partiti sono ormai avviati all’estinzione, altri protagonisti si affermano, dal 2012 ad oggi, sulla scena politica italiana. Le nuove forze in campo hanno poco in comune con le vecchie formazioni politiche e non è facile orientarsi in una situazione radicalmente mutata rispetto a soli due anni fa. Cos’è il Movimento 5 Stelle? Un partito, un’ideologia, un movimento di cittadini o un’invenzione calata dall’alto per approfittare del malcontento diffuso nell’Italia “flagellata” dalla crisi? Tutte le pagine scritte, in questi anni, per tentare di spiegare il fenomeno creato dal comico Beppe Grillo e dal suo socio Gianroberto Casaleggio, non sono riuscite a chiarire, fino in fondo, la natura di questo Movimento capace di attrarre consensi e sottrarre voti sia alle forze di destra sia a quelle di sinistra e soprattutto alle praterie, sempre più vaste, dell’astensione. Proprio come accade con le macchie di Rorschach, ognuno in questi anni ha visto nel Movimento quello che ha voluto vederci: gli ex comunisti orfani del Partito di Gramsci e Togliatti hanno creduto che quello di Grillo fosse un nuovo Pc; gli ecologisti lo hanno scambiato per un movimento per la difesa del territorio e dell’ambiente; mentre gli elettori di destra hanno trovato in Grillo l’uomo forte, in grado di difenderli dall’immigrazione incontrollata e dai burocrati di Bruxelles. Un proposta politica capace di sedurre non solo i comuni cittadini ma anche molti intellettuali che spesso hanno frainteso il Movimento, scambiandolo per un ritorno di quella sinistra radicale recentemente scomparsa dal Parlamento dopo la stagione politica degli anni Novanta.
L’altro nuovo protagonista indiscusso della nuova era “postideologica” italica è, strano ma vero, il Partito Democratico. Non quello di Prodi e Bersani, ma il nuovo Pd di Matteo Renzi, che poco o nulla ha a che fare con le versioni precedenti del partitone di centrosinistra che unificò i popolari e gli ex comunisti. Renzi riesce, in pochi mesi, a trasformarsi da sindaco di Firenze, città importante ma certo non come Roma e Strasburgo, in asso pigliatutto della
politica italiana ed europea, riuscendo a presiedere il Consiglio dei Ministri in Italia e il semestre europeo a Bruxelles. Partendo dall’analisi della “creatura” di Grillo e Casaleggio, capace di are dalla battaglia per l’abolizione del reato di immigrazione clandestina all’intesa con il partito razzista di destra Ukip di Nigel Farage, e ripercorrendo le tappe dell’ascesa di Renzi, inedito catalizzatore di voti di sinistra, centro e centrodestra, è possibile individuare tutti gli snodi problematici ed epocali di un Paese, l’Italia, e di un periodo storico, quello attuale, che hanno ormai definitivamente accantonato le categorie classiche (o vecchie) della politica per intraprendere la strada di un cambiamento doloroso e controverso di cui ancora non si intravedono, con chiarezza, i contorni. L’intento di questo libro è quello di raccontare i fatti e, attraverso di essi, l’evoluzione (o involuzione, a seconda dei punti di vista) della politica italiana negli utlimi due anni. Proprio durante la crisi istituzionale italiana del 2012 nascono i protagonisti della scena politica attuale: il Movimento 5 Stelle, che da piccola e ristretta cerchia di attivisti presenti prevalentemente nelle città del centro-nord, si trasforma in una delle forze politiche più importanti del Paese e il fenomeno Renzi, capace di interpretare la vigorosa voglia di futuro del Paese conquistando prima il suo partito il Pd e poi il Governo. Attraverso il racconto dei principali eventi che hanno segnato l’evolversi della situazione politica italiana negli ultimi anni, emergono, una dopo l’altra, contraddizioni e limiti del progetto messo in piedi da Grillo e Casaleggio, ma anche la fredda determinazione di Renzi nella sua corsa verso il potere, per eliminare gli avversari e afferrare il cambiamento.
Dal 2012 ad oggi gli articoli pubblicati sul settimanale Golem descrivono l’intreccio tra le vicende del Pd, del Movimento 5 Stelle e quelle della politica italiana affetta, come noto, da una delle più gravi crisi istituzionali dal dopoguerra ad oggi. Una crisi che ha portato il sistema molto vicino alla paralisi, consegnandoci, dopo le elezioni politiche del 2013, un Paese precipitato in una situazione di ingovernabilità a causa del sostanziale pareggio delle forze in campo e dalla totale delegittimazione dei Partiti della Seconda Repubblica. Il Movimento di Beppe Grillo non vuole essere un partito, ma lo diventa, giocoforza, nel momento in cui entra nell’agone elettorale democratico e riesce a nutrirsi del fallimento dei partiti tradizionali, raccogliendo il malcontento di una maggioranza di italiani che decide di chiudere con l’era del bipolarismo anomalo della Seconda Repubblica, con l’Italia di Berlusconi e con quella, parallela e speculare, dell’antiberlusconismo.
Dall’altro lato della barricata il Partito Democratico arriva ad un o dal restare l’unico vincitore sul campo di una guerra durata trent’anni, salvo poi ritrovarsi ad un o dalla catastrofe. Solo affidandosi ad un “alieno” venuto dalla periferia dell’impero, il “Leviatano” democratico potrà sopravvivere a se stesso e arrivare a cambiare pelle. Tutto questo fino alle elezioni europee del 2014 che rappresentano, tutte le forze in campo, uno spartiacque simbolico e politico di primaria importanza. I “grillini”, a un anno dal loro apogeo elettorale del 2013 e dopo mesi di opposizione parlamentare, al Governo Letta prima e al governo Renzi poi, perdono quasi quattro milioni di voti nel confronto elettorale con il Partito di Renzi. Il Pd si ritrova di colpo con il 40% dei voti.
Perché a poco più di un anno dall’inizio della XVII legislatura l’ascesa del Movimento di Grillo si è arrestata? Cosa ha permesso a Renzi di arrivare da Firenze direttamente nelle stanze del potere romano e di raggiungere percentuali di consensi mai viste durante la Seconda Repubblica? Quale è il contributo dato da queste nuove forze politiche emerse prepotentemente, negli ultimi due anni, alla recente storia dell’Italia repubblicana e quale futuro prossimo stanno ora disegnando per il nostro Paese? Queste domande troveranno forse risposta rileggendo, con occhio critico, gli avvenimenti del nostro recente ato e provando a immaginare un futuro diverso.
I - La Crisi
La crisi economica, tutt’ oggi in corso, ha origine nel 2008 negli Stati Uniti d’America, ma ha i suoi esiti più drammatici in Europa quando, a partire dal 2010, essa investe gli Stati del Vecchio Continente e i loro debiti sovrani gravati dalle spese per i sistema bancario. Senza la possibilità di stampare moneta e di condurre una politica economica autonoma, gli Stati europei rischiano il tracollo. L’Italia nel 2011 è sull’orlo del baratro e i titoli del suo debito pubblico sono sotto attacco da parte della speculazione internazionale. Il 5 agosto 2011 una lettera segreta viene inviata dalla Banca Centrale Europea al Governo Italiano, presieduto all’epoca da Berlusconi. La lettera impone pesanti misure di riduzione del debito e di consolidamento dei bilanci dello Stato, in poche parole un vero e proprio salasso per gli italiani già in difficoltà a causa della recessione economica mondiale. La politica si dimostra impotente di fronte alla furia globale dell’economia e i partiti, che durante la Seconda Repubblica si sono trincerati dietro la difesa dello status quo, consegnando l’Italia ad un declino inesorabile, vengono travolti dalla crisi. Appeso ormai ad un pugno di voti, il IV governo Berlusconi cade sotto i colpi di uno spread arrivato a toccare i 400 punti. Nessuno sembra in grado di assumersi la responsabilità di guidare il Paese durante la tempesta: i partiti sanno che sarà necessario imporre una politica recessiva fatta di austerità e tasse e non vogliono perdere quel poco consenso che ancora hanno nella società italiana.
Il 16 novembre 2011 si insedia il governo dei tecnici, guidato da Mario Monti, economista, ex rettore della Bocconi e Commissario europeo durante il governo Prodi. Nascosti dietro il paravento del Governo tecnico, le forze politiche cercano di non “mettere la faccia” sui dolorosi tagli al welfare pubblico. Ma il malcontento degli italiani non li risparmia e il tentativo di far dimenticare vent’anni di malgoverno fallisce. Mentre il Paese paga il conto terribile dell’austerità, i partiti sono sull’orlo di una nuova Tangentopoli dagli esiti tutt’altro che prevedibili. In questo contesto il Movimento 5 Stelle, nato come insieme di gruppi di cittadini attivi sul territorio, diventa un punto di riferimento
per un numero crescente di persone. Esso è presente in quasi tutte le regioni italiane e nelle elezioni amministrative del 2009 riesce a raggiungere una discreta affermazione con le Liste Civiche a 5 Stelle. Il 9 settembre 2009 nasce il “Movimento Nazionale a Cinque Stelle” che da allora inizia a farsi strada nella politica e nella società italiana.
1.1. Grillo, la Crisi dei partiti e il mito della democrazia diretta - Golem 20 aprile 2012
Tra le agende per i deputati di Montecitorio costate 3,015 milioni di euro in 3 anni e gli scandali sui rimborsi elettorali, non si può certo dire che i partiti godano oggi di buona fama. Stando ai sondaggi, la fiducia nelle formazioni politiche italiane è attorno al 2%, cioè meno dei militanti dei partiti stessi. Proprio mentre si apprestavano a eclissarsi, temporaneamente, dietro le quinte del governo dei tecnici, i riflettori si sono riaccesi proprio su di loro, i partiti, o meglio sui loro conti. E così, a 20 anni da Tangentopoli, ecco cadere anche la seconda Repubblica con un copione tutto sommato simile a quello del 1992. Questa volta a innescare lo scandalo politico-economico è stata proprio la Lega Nord. Il movimento cresciuto sull'onda di Mani Pulite, contro sprechi e inefficienze di “Roma ladrona”, travolto dalle inchieste della magistratura, si è rivelato simile, o forse anche peggiore, di quelle formazioni politiche contro le quali agitava i cappi in Parlamento negli anni Novanta. E mentre la Lega affonda fra le “spese pazze” del Trota e di Belsito, diamanti scomparsi, lingotti d'oro e chissà cos'altro, gli altri non se la ano meglio. Invischiati in scandali economici trasversali, resi ancor più indigesti dai sacrifici chiesti ai cittadini per uscire dalla crisi, i partiti italiani non sono mai stati così impopolari.
L'unico che sembra trarre beneficio dalla situazione di dissesto in cui versa la politica italiana, è Beppe Grillo e il suo Movimento 5 Stelle. “Dobbiamo fare una piccola Norimberga”, ripete dai palchi di mezz’ Italia il comico genovese, paragonando i partiti italiani ai criminali nazisti messi a processo dopo il secondo conflitto mondiale. Il Movimento di Grillo fin da quando si è costituito, nel 2009, propone l'abolizione dei partiti politici e una democrazia non rappresentativa, dove i cittadini si autogovernano. Non stupisce dunque che Grillo torni alla ribalta in un momento di profonda crisi del sistema dei partiti. La risposta al Movimento 5 Stelle, che è sicuramente uno dei più importanti fermenti dal basso nell'Italia di oggi, continua ad essere banale: temendo un prevedibile successo per le liste di Grillo alle amministrative di maggio 2012, da Casini a Vendola, tutto il gota della politica italiana ha cominciato a gridare
all'antipolitica e a stracciarsi le vesti. Eppure i 5 Stelle sono fra i pochi che ancora parlano di politica nel senso più originale del termine: occuparsi di ciò che interessa ai cittadini nella vita quotidiana, temi come ambiente, legalità, urbanistica.
Eppure, il fenomeno del “grillismo”, come è stato ribattezzato un po' superficialmente dai media, è decisamente ambiguo e zeppo di contraddizioni. Grillo spara a zero sulla “partitocrazia” e propone una visione manichea della realtà: i buoni (lui e il suo movimento) e i malvagi (tutti gli altri), offrendo soluzioni spesso semplicistiche ai problemi di una società sempre più complessa. Se è vero che la democrazia, come è stata adottata nel corso del Novecento in Occidente, incontra oggi crescenti difficoltà nel rappresentare adeguatamente la volontà degli elettori, Grillo, con il suo rifiuto di qualsiasi confronto pubblico, non fa intravedere una soluzione a questo problema. L'epurazione da parte del comico genovese nei confronti di Tavolazzi, consigliere comunale a Ferrara e di altri “grillini” della prima ora ha creato allarme all’interno movimento.
L'accusa rivolta dal leader agli “scomunicati” è nientedimeno quella di aver organizzato incontri per discutere di persona, e non sul web, del futuro del movimento. “Partitocrazia!” ha sentenziato il comico genovese espellendo con un diktat i malcapitati. Alla faccia della democrazia dal basso! Altro che “ognuno vale uno”: a livello nazionale la linea la detta Grillo, senza discussioni (il Grillo parlante peraltro sembra non conoscere l’aforisma di Pietro Nenni: “c’è sempre qualcuno più puro che ti epura”).
È probabilmente il limite di ogni movimento dal basso: il rifiuto di ogni forma organizzativa o di gerarchia va bene a livello locale, ma rende quasi impossibile il coordinamento di un movimento su scala nazionale, a meno di non ricadere nell'odiata “partitocrazia” o nei diktat di un leader. È possibile allora una democrazia diretta e non rappresentativa su scala nazionale? Una sorta di gigantesca Atene classica, fatta di milioni di abitanti, dove la piazza (virtuale) in cui discutere di problemi è Internet invece dell'agorà delle antiche poleis: sembra essere questo il modello a cui aspirano Grillo e i suoi. Ma è davvero ciò che
dobbiamo augurarci?
1.2. Democrazia diretta: un mito da sfatare?
Il regime democratico in vigore nell’Atene classica del V secolo a.C., viene spesso mitizzato come l'unica forma istituzionale capace di realizzare pienamente gli ideali di uguaglianza, giustizia e libertà; tuttavia la democrazia ateniese aveva in realtà delle caratteristiche che oggi difficilmente saremmo disposti ad accettare, nonostante Beppe Grillo. Innanzitutto quella ateniese era una democrazia elitaria: ne erano escluse le donne, gli schiavi e coloro che non avevano la cittadinanza ateniese, che per i tempi era un privilegio più che un diritto. I cittadini effettivi erano all'incirca 20.000, mentre gli schiavi o gli stranieri oltre 300.000. Una sorta di circolo chiuso in cui i pochi “iscritti al club” (come il blog di Grillo)potevano sì presentare delle proposte alla bulè,ma poi il consiglio stesso decideva quali erano ammissibili al voto da parte dell'ecclesìa e quali no. Nella maggior parte dei casi l'assemblea era chiamata a votare prevalentemente proposte avanzate alla bulè dagli arconti e dai magistrati, garanti della legislazione tradizionale, che rispondevano direttamente al capo del governo. Chi osava proporre delle iniziative non conformi alla legislazione tradizionale rischiava una condanna fino a 10 anni di esilio: il cosiddetto ostracismo. E proprio l'ostracismo veniva spesso usato come un'arma politica per eliminare tutti gli oppositori del governo cacciandoli dalla città. Fu proprio la democrazia ateniese, in fin dei conti, a condannare a morte Socrate con l'accusa di traviare i giovani con la pratica del libero pensiero.
Chi oggi invoca la democrazia diretta, difficilmente si troverebbe a suo agio nell'Atene di Pericle, dove il popolo era facile preda del demagogo di turno, pronto a piegarlo con la retorica ai suoi voleri e a far cambiare le leggi sull'onda dell'emotività suscitata. Anche nella vicina Sparta la democrazia diretta fu, prima “commissariata” da 5 eforicon poteri di controllo su tutto l'operato dell'assemblea popolare, e infine si trasformò in una strana forma di tirannia collettiva che si limitava a rieleggere i 5 tiranni di anno in anno. Nell'Italia Comunale del tardo Medio Evo invece, si istituirono podestà, consoli, tribuni, a seconda delle varie città, che avevano il compito di controllare, affiancare e “dirigere” le assemblee dei liberi cittadini riuniti nelle piazze, per evitare gli
inconvenienti della democrazia diretta. La storia ci insegna che la democrazia diretta non può essere associata all'esercizio dei diritti politici da parte delle masse. Il nostro concetto di sovranità popolare riguarda tutte le persone presenti in uno Stato e nasce con Rousseau e gli illuministi nel XVIII secolo, ben dopo l'esperienza politica dell'Atene classica. Non a caso, il nostro concetto di democrazia, a differenza di quello degli antichi, è strettamente legato a quello dei diritti dell'uomo e del cittadino, che si affermarono grazie all'Indipendenza Americana prima e alla Rivoluzione se poi. I partiti di massa, nati nel XIX secolo, rappresentano il tentativo di dar voce a tutto il corpo elettorale. In Italia, il primo partito con queste caratteristiche fu il Partito Socialista nato dopo la legge Zanardelli che allargava il suffragio a tutti i maggiorenni maschi alfabetizzati che pagavano almeno 20 lire all'anno di tasse. Ci volle un'altra legge di Giolitti del 1912, modificata nel 1919, per arrivare al suffragio universale nel nostro paese, che sarà “realmente” tale solo nel 1946 con l'ammissione delle donne al voto. Le istanze della democrazia diretta, nate durante l’Illuminismo e incarnatesi nella costituzione rivoluzionaria del 1793, poco o nulla hanno a che fare con le idee di Grillo e del suo movimento proprio perché basate sul suffragio universale. Nel modello di democrazia diretta proposto dai Cinque Stelle può votare solo chi è iscritto al blog di Grillo o, al massimo, chi è collegato alla rete internet. Una forma di democrazia che ha molto più a che fare con il mondo premoderno che con le idee illuministiche. “Il medium è il messaggio”direbbe Marshall Mc Luhan, per questo è impossibile comprendere il Grillo-pensiero senza analizzare il rapporto del Movimento con la Rete. Grillo nei suoi discorsi fa spesso riferimento all’ “intelligenza collettiva” del web, intelligenza capace di trovare la soluzione ad ogni problema, anche il più complesso. Tuttavia, sempre più spesso la rete si sta dimostrando, negli ultimi tempi, un vero e proprio catalizzatore di “stupidità collettiva” a disposizione dei demagoghi digitali del Terzo Millennio.
[1] Consiglio composto da cinquecento cittadini estratti a sorte dalle liste elette dalle singole tribù. Ognuna delle dieci tribù in cui era divisa Atene partecipava al Consiglio con cinquanta membri. Il Consiglio dei Cinquecento fu introdotto dalla riforma democratica di Clistene nel 607
a.C.
[2] Assemblea di tutti gli abitanti di Atene che godevano dello status di cittadino della polis
[3] L’Eforato era la magistratura suprema nell’antica Sparta.
[4] Jean-Jacques Rousseau - Filosofo e scrittore (Ginevra 1712 Ermenonville, Oise, 1778). Nell’opera Du Contrat Social ou Principes du droit politique (1762), tr.It. Il Contratto sociale, 2005, teorizzò il concetto di volontà generale a cui ogni cittadino deve obbedire. La volontà generale si esprime attraverso una partecipazione diretta dei cittadini che votano senza intermediazioni e rappresentanze: è la prima teorizzazione del modello della democrazia diretta
[5] La frase sintetizza il pensiero del noto sociologo canadese espresso nel libro Understanding Media: The Extensions of Man (1964), tr.It. Gli strumenti del comunicare, 2008
1.3. Post democrazia e deliberazione
Oggi i cambiamenti epocali che stiamo vivendo stanno mettendo a dura prova la democrazia rappresentativa. Si ha la sensazione che le istituzioni siano oramai svuotate dall'interno: il cittadino può solo legittimare con un voto a posteriori i presenti in parlamento, sapendo che applicheranno un programma che poco o nulla ha a che fare con le sue esigenze. Nel frattempo, grazie ad Internet e alle nuove tecnologie, è disponibile una grande quantità di informazioni come mai prima nella storia umana. Si avverte quindi un notevole divario fra il livello di informazione e quello di decisione a cui si ha accesso. Se lo strumento della rete è utile per informarsi e per discutere, due caratteristiche fondamentali per il processo democratico moderno, non lo è altrettanto per decidere. In ogni sistema democratico (anche nelle antiche democrazie dirette) c'è bisogno che le proposte, una volta discusse, vengano attuate e per far questo c'è bisogno di un organo più o meno rappresentativo, quindi necessariamente più ristretto rispetto all'intero corpo elettorale. Questo organo non può essere la Rete, perché tutti sappiamo, per esperienza, che essa può ospitare qualsiasi opinione e discussione, per un tempo pressoché infinito. La democrazia non si esaurisce con lo scambio di opinioni, ma implica l'assumere delle decisioni per il futuro. Attuare un'opera riformatrice in questa fase è necessario oltre che opportuno, ma prima di mandare in soffitta i partiti di massa bisognerà cercare un'altra soluzione che ci permetta di far funzionare il nostro Stato secondo i nostri principi e non secondo quelli di un greco di qualche millennio addietro, perché in fondo, come sosteneva Winston Churchill, la nostra democrazia “è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle sperimentate fino ad ora”.
1.4. La decrescita come risposta alla crisi economica
Uno dei cavalli di battaglia di Beppe Grillo e del Movimento Cinque Stelle, in ambito economico, è la teoria della decrescita felice, una concezione economicofilosofica che ha acquisito sempre più popolarità in Italia proprio grazie al successo crescente del Movimento di Grillo. Più volte sul blog e in televisione i parlamentari pentastellati hanno fatto riferimento alla decrescita come unico antidoto alla crisi. Durante le varie campagne elettorali Grillo ha portato questa teoria fin dentro le fabbriche che rischiavano la chiusura, prospettando un modello di sviluppo completamente nuovo e la conseguente riconversione della forza lavoro. In poche parole chi oggi lotta per mantenere il proprio posto di lavoro sta sostenendo un modello di produttività destinato alla scomparsa. Se da un punto di vista storico-teorico quest’analisi può essere valida, dal punto di vista pratico non offre quelle risposte immediate che le persone si aspettano dalla politica quando vedono minacciato il proprio posto di lavoro e, dunque, il proprio futuro. Ma cosa si intende esattamente con il termine decrescita felice? La teoria della decrescita felice riguarda sia la sfera economica sia quella sociale e prevede una rinuncia volontaria alla crescita economica così come l’abbiamo conosciuta dal XIX secolo in poi. Il principale esponente del pensiero della decrescita è il se Serge Latouche, classe 1940, economista, pensatore e professore emerito di Scienze economiche all'Università di Parigi XI. Latouche sostiene da tempo che lo sviluppo scelto dall’Occidente ha esaurito tutte le sue possibilità e dilapidato in modo irreversibile le risorse naturali del pianeta. L’economista se prospetta una società libera dall'ossessione per il consumo e dalle imposizioni della finanza globale. Detta così sembrerebbe una ricetta ideale per risolvere tutti i problemi che affliggono l’Europa di oggi, anche perché la decrescita di cui parla il pensatore d’oltralpe non si identifica con la crescita negativa che affligge oggi gran parte dei Paesi europei, ma è piuttosto un invito a rifiutare la mitologia della “crescita a tutti i costi”, tipica dell'Occidente industrializzato. Senza immaginare una regressione o un impoverimento, Latouche descrive la possibilità di una felicità sociale slegata dal consumo dei beni materiali e dalla distruzione della natura e fondata, invece, sul
perseguimento del bene comune, sull’adozione di forme di convivenza ispirate alla ragionevolezza piuttosto che alla mera razionalità. A dispetto delle idee filosofiche del tutto condivisibili manca però il aggio dalla teoria alla prassi. L’impressione di una teoria di stampo filosofico più che economico-politico mi è stata confermata da un’esperienza di contatto diretto con il Prof. Latouche. Nel Gennaio 2012 (dal 16 al 21), infatti, il pensatore ha trascorso una settimana in Campania come ospite della F.I.C.S. (Federazione Italiana Città Sociale), un’associazione con cui collaboravo durante quel periodo. In quell’occasione Latouche ha tenuto numerosi incontri con le istituzioni e le realtà sociali attive sui territori in un viaggio tra Napoli, l’Irpinia e il Cilento. Il teorico della decrescita ha incontrato una regione con le sue problematiche e contraddizioni, ma ricca di energie e di realtà innovative con alcuni punti di contatto con le sue teorie. Durante quella settimana al seguito di Latouche lungo le strade della Campania, ho documentato il suo viaggio e ho avuto la possibilità di ascoltare alcune risposte dell’economista se sui punti più controversi della sua teoria: “Credo che quest’Europa sia destinata a finire e che i giorni dell’euro, come moneta, siano contati. L’unica ricetta per uscire veramente dalla crisi è la decrescita, non c’è altra via: la decrescita o la barbarie[1]” (…) “Bisogna uscire dalla tossicodipendenza da lavoro e vorrei spiegare agli operai che la decrescita non è un progetto antisociale, ma è l’unica alternativa alla barbarie”. L’economista-guru non spiega però con quali strumenti sia possibile sostenere le milioni persone che si verrebbero a trovare senza lavoro in una società votata ala decrescita. Se da una parte la visita campana di Latouche ha contribuito a rafforzare l’idea che il cambiamento di stili di vita può sicuramente partire dalle sponde del Mediterraneo, dalla sua cultura e dai suoi modelli relazionali, dall’altra l’incontro con il teorico della decrescita ha lasciato aperte numerose questioni. La principale falla nel sistema “Latoucheiano” è proprio il rapporto con il mondo del lavoro, come è emerso anche nelle giornate campane del professore (durante un incontro con gli operai della Fiom). Se si uscisse di colpo dalla società della crescita economica e della produzione, quale sarebbe il destino dei lavoratori? Il lavoro operaio sarebbe spazzato via lasciando senza sostentamento un numero rilevante di persone appartenenti alle classi sociali più deboli le quali, tra l’altro, sono anche le più esposte agli effetti negativi della crisi ecologica. La decrescita rischia da questo punto di vista di trasformarsi in una teoria
affascinante, ma appannaggio esclusivo di una élite di privilegiati. Tuttavia le tesi di Latouche hanno il merito indiscutibile di rompere drasticamente con quel pensiero unico caratteristico della nostra era post-ideologica. Il pensiero della decrescita è dunque un cantiere aperto sul mondo che verrà e il fatto che non abbia ancora tutte le risposte non è necessariamente un male, tuttavia il fatto che una forza politica, che mira a governare il Paese nell’immediato futuro, basi la sua politica economica su un insieme di assunti perlopiù teorico-filosofici, non può che destare seri dubbi riguardo l’effettiva capacità, da parte del Movimento 5 Stelle, di reggere sulle sue spalle il governo del Paese. [1] Variazione della nota affermazione della politica e filosofa Rosa Luxemburg: “Socialismo o barbarie” (Juniusbroschüre, 1915).
II - L’Ascesa del Movimento a 5 Stelle
La sera di venerdì 13 gennaio 2012 una nave da crociera, con a bordo 4.229 persone, urta uno scoglio a 96 metri di distanza dalla riva dell'Isola del Giglio: è la Costa Concordia. A causa di una manovra errata del suo comandante, la nave si ritrova letteralmente sventrata ed inizia ad imbarcare acqua: muoiono 32 persone e la gigantesca imbarcazione rimane piegata su un fianco, inclinata sullo scoglio fatale. Le immagini della nave che si inclina lentamente verso l’abisso fanno il giro del mondo, e la Concordia diventa il simbolo dell’Italia che affonda. E in effetti i dati dell’economia peggiorano rapidamente e le soluzioni “lacrime e sangue” messe in campo dal “governo dei tecnici”, insediatosi da poco più di due mesi, sembrano destinate soltanto ad aggravare la già drammatica situazione finanziaria degli italiani. Come se non bastasse a marzo scoppia lo scandalo Lega Nord: il tesoriere sco Belsito viene arrestato per appropriazione indebita dei soldi affluiti nelle casse del partito come rimborsi elettorali. I partiti tornano sul banco degli imputati mentre ci si appresta a votare il rinnovo di 942 comuni, di cui 26 capoluoghi. Fra il 6 e 7 maggio 2012 milioni di italiani vengono chiamati al voto e il Movimento 5 Stelle registra un vero e proprio “boom” di consensi elettorali. I “grillini” entrano nei consigli comunali di mezz’Italia e la premiata ditta Grillo & Casaleggio può festeggiare il primo sindaco a 5 Stelle della storia: si tratta di Roberto Castiglion, eletto a Sarego, comune di circa settantamila anime nella provincia vicentina. Ai ballottaggi va ancora meglio e il 21 maggio, il candidato del Movimento 5 Stelle Federico Pizzarotti, battendo un candidato del Pd, diventa il nuovo primo cittadino di Parma con oltre il 60% dei voti. Per i 5 Stelle è un trionfo e Grillo dalle colonne del suo blog lancia la sfida al sistema: “ci vediamo in Parlamento”. Nei mesi successivi all’affermazione elettorale del Movimento di Grillo, il Paese si interroga sulla vera natura del nuovo movimento: c’è chi accusa i grillini di incarnare l’antipolitica e chi scorge nel movimento una nuova forma di populismo 3.0.
2.1. Grillo, il Qualunquismo e il futuro dell’Italia - Golem 11 maggio 2012
Se non proprio un boom, l'exploit di Grillo e del suo Movimento 5 Stelle alle amministrative del 2012 un bel po' di rumore l'ha fatto di sicuro. Oltre al primo sindaco a 5 Stelle della storia, il movimento del comico genovese ha portato a casa l'ottimo risultato di Parma, il terzo posto a Genova, Verona, Piacenza, La Spezia (tutte tra il 9% e il 12%,) e la buona affermazione in altri centri minori del Nord. Bel risultato, per un movimento di cittadini comuni che hanno fatto la campagna elettorale quasi a costo zero. E mentre Grillo può festeggiare assicurandosi per adesso un sindaco, cinque candidati al ballottaggio e un boom (questo sì) mediatico senza precedenti, il Pdl e la Lega Nord fanno i conti con il disastro annunciato. Se il partito di Umberto Bossi ha tenuto a Verona e in altri centri del Nord, è solo grazie alla componente “maroniana” del movimento, mentre l'ala che fa riferimento al Senatur ne è uscita con le ossa rotte. Al Pdl è andata ancora peggio: dopo anni di vita all'ombra del Cavaliere, è evaporato assieme a lui e al suo governo. I risultati nella ormai ex roccaforte siciliana parlano chiaro: a Palermo il Pdl si è fermato al 12,5% ben lontano dal 48,6 del 2008. L'unico grande partito sopravvissuto alle macerie è il Pd, ma per il momento sembra incapace di decidere come e con chi candidarsi alla guida del Paese. Se è vero che è nata la Terza Repubblica, di sicuro non sa ancora cosa farà da grande. Nonostante il numero di elettori chiamati alle urne fosse abbastanza ridotto (nessuna delle città maggiori era coinvolta nel voto), non si può negare il successo di Grillo e delle sue liste. Soprattutto non si può parlare di antipolitica perché il movimento, questa volta, si è affermato nel corso di una competizione elettorale democratica, proponendo programmi e persone che hanno sottratto voti ai partiti in crisi, in questo caso, soprattutto a destra. Tuttavia è ancora presto per parlare di una svolta. Dopo l'affermazione elettorale, i candidati del Movimento 5 Stelle hanno sottolineato la loro indipendenza da Grillo, definito solo un “megafono” delle idee dei candidati. Infatti il successo delle liste a 5 Stelle si è registrato in quei comuni che hanno ospitato uno show elettorale del comico genovese a ridosso del voto, ma i candidati e i loro programmi non rispondono a una logica centrale e non potrebbe essere altrimenti visto la loro provenienza da liste civiche votate al territorio. Beppe Grillo, per sua stessa
ammissione, non ha alcuna intenzione di candidarsi in futuro e il problema del Movimento 5 Stelle rimane il coordinamento su scala nazionale, indispensabile per poter are dai comuni al Parlamento. Il Movimento, per quanto forte a livello locale, rimane privo di qualsiasi elemento che possa compattarlo a livello nazionale in vista del voto alle politiche del 2013 (sempre che il Governo Monti non cada prima). Resta dunque improbabile che il Movimento di Grillo possa arrivare a governare il Paese, anche se riuscisse, alle prossime politiche, a far entrare qualche “grillino” in Parlamento.
2.2. Corsi e ricorsi del “qualunquismo”
Non mancano in Italia i precedenti in questo senso: nel 1946, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, in una nazione impoverita ed esasperata, per alcuni tratti simile a quella di oggi, si affermò, nelle elezioni per l’Assemblea Costituente e nelle successive amministrative, il Fronte dell'Uomo Qualunque. Nato attorno all'omonimo settimanale fondato nel '44 dal giornalista e commediografo Guglielmo Giannini, il movimento era caratterizzato da un linguaggio colorito e popolaresco, e alimentava, facendo leva sul malessere sociale, la sfiducia nei confronti dei partiti. Come Grillo attacca i politici di oggi storpiandone i nomi nei suoi show, anche Giannini nei suoi incontri pubblici sbeffeggiava i politici e i partiti, percepiti anche allora, come una casta corrotta, estranea all'uomo comune e ai suoi bisogni. Così al posto degli odierni “RigorMontis” o “Tremorti”, Giannini se la prendeva con “Fessuccio Parri” (l'allora capo del Governo) e “Caccamandrei” (Calamandrei), convinto che per governare “basta un buon ragioniere che prenda servizio il primo gennaio e se ne vada il 31 dicembre senza nessuna possibilità di essere rieletto”. Sembrano parole tratte da un comizio di Grillo e invece risalgono a più di mezzo secolo fa. Conoscere il ato può essere utile per provare a immaginare cosa potrebbe accadere in futuro. Nonostante la buona affermazione elettorale e i seggi in Parlamento, il nuovo partito non riuscì a reggersi sulle proprie gambe e tentò, senza successo, di confluire prima nel Partito Liberale e poi nella Democrazia Cristiana (dopo aver tentato di interagire anche con il Movimento Sociale, il Partito Comunista e quello Monarchico). Un partito che finì per disperdersi in mille rivoli dopo l'affievolirsi della sua leadership. Da allora il termine “qualunquismo” è rimasto nel nostro linguaggio quotidiano, con un'accezione negativa, per indicare l'atteggiamento di sfiducia nelle istituzioni democratiche e nella politica. Ma il “qualunquismo” puntualmente ritorna, a dimostrazione di un profondo disagio che costantemente attraversa sottopelle la società italiana, pronto a riemergere nei momenti critici della nostra Storia. Un fattore troppo spesso rimosso dalla coscienza politica del Paese, ma con il quale è ormai necessario fare i conti.
2.3. L'antipolitica dei partiti
Oggi, forse ancor più che nel 1944, i partiti politici vengono percepiti come dei comitati d'affari autoreferenziali. Tuttavia, quando possono, gli italiani si affidano ancora a politici di professione. Se infatti la politica ”fai da te” dei grillini la spunta in mancanza di alternative credibili, non sfonda quando si presentano personalità politiche percepite vicine ai territori e alle istanze dei cittadini piuttosto che alle logiche dei partiti. È ciò che è accaduto l'anno scorso a Napoli con il successo di de Magistris e quest'anno con la riconferma di Tosi a Verona e l'affermazione di Orlando a Palermo. Probabilmente anche queste “personalità carismatiche” della politica non sono esenti da un certo grado di qualunquismo. Tuttavia è un dato di fatto che le persone scelgono uomini politici per amministrare la cosa pubblica, quando questi ultimi non sembrano “calati dall'alto”. Per questo motivo si ha l'impressione che in questi anni spesso l'antipolitica l'abbiano fatta i partiti stessi, non riuscendo più ad interpretare le richieste dell'elettorato. Forse, negli ultimi tempi, i maggiori partiti italiani, si sono occupati troppo poco di politica e troppo di altre questioni. Trasformatisi in club più o meno esclusivi, estranei ai territori salvo poi invadere ogni spazio della società civile alla prima occasione utile. Da questo punto di vista, più che assenti, i partiti italiani sono stati fin troppo presenti, nel senso che hanno gradualmente “colonizzato” la società.
Tutto o quasi è stato gestito dalla partitocrazia: a cominciare dalle candidature troppo spesso imposte dagli apparati a livello centrale, ai grandi appalti, dalle nomine ai vertici fino all'ultimo posto di lavoro nell'ultima azienda pubblica d'Italia. Tutto lottizzato con scrupoloso impegno. Altro che libero mercato! Perciò i partiti dovrebbero tornare a occuparsi di politica, tornare sui territori a contatto con la gente ed esprimere programmi e candidati che non siano percepiti come dei corpi estranei. Non è un caso che l'unico partito sopravvissuto al terremoto elettorale sia il Pd che, erede di due tradizioni politiche storiche (Pc e Dc), continua ad essere, nonostante faccia di tutto per perdere questo piccolo vantaggio, il partito più strutturato.
Il 2012 è stato un anno decisivo per le sorti dell'Europa: la Francia ha svoltato a sinistra con l'elezione del socialista Hollande, mentre la Grecia sembra essersi avviata verso il caos nel tentativo impossibile di formare un governo con l'estrema destra e l'estrema sinistra, entrambe in parlamento. Sullo sfondo il rischio concreto dell'uscita dall'Euro o peggio ancora della guerra civile. E l'Italia? Alla luce dei risultati di un test elettorale importante, ma troppo limitato per poter fornire indicazioni certe, sembra che il Bel Paese sia ancora a metà strada fra la svolta a sinistra alla se e il caos greco. È probabile che il destino della stessa Europa sia ormai in bilico fra cambiamento e rovina e ciò che avverrà in Italia nei prossimi mesi sarà determinante per realizzare una di queste due opzioni. Certo sarebbe auspicabile seguire la strada della Francia piuttosto che quella della Grecia, ma per far ciò servirebbe una grande forza di sinistra capace di aggregare tutte le forze riformiste attorno a sé, e di trascinare il Paese fuori da una crisi senza precedenti. Un partito in grado di stare, finalmente, anche dalla parte della gente e non solo da quella dei poteri forti. L'unica forza che potrebbe svolgere questo ruolo in Italia sembra, per ora, essere il Pd , uscito da queste amministrative come “l'ultimo dei mohicani” della seconda Repubblica, ma il tempo per fare delle scelte nette e coraggiose è, ormai, quasi scaduto.
2.4. Il problema della leadership - Golem 1 giugno 2012
Nonostante la vittoria alle amministrative di Parma, il boom nei sondaggi elettorali e le continue esternazioni del suo (presunto) leader Beppe Grillo, sono ancora tante le domande senza risposta riguardo al Movimento 5 Stelle, al suo progetto culturale/politico e alla sua leadership. Con i partiti tradizionali ormai agonizzanti e il governo dei tecnici in balia della crisi europea, il Movimento di Grillo ha avuto la possibilità di affermarsi come movimento di massa diventando uno dei principali attori della scena politica italiana dell'era post-Berlusconi. Quello che prima era un fenomeno minore, di cui i media nazionali si occupavano solo in vista del V-day o di qualche nuovo spettacolo di Grillo, è finito sotto la lente di ingrandimento di giornali e televisioni. Ecco allora spuntare le contraddizioni e i dubbi che da tempo covavano sotto la cenere di un movimento per certi versi anomalo: tanto aperto e partecipativo alla base, con le liste civiche e i meet-up di cittadini sui territori, quanto misterioso e insondabile al suo vertice, costituito, come è oramai noto, da Gianroberto Casaleggio, guru dell'informatica e ideologo del movimento di Grillo, nonché autore e curatore del popolarissimo blog del comico genovese. È lui l'ispiratore di tutte le scelte politiche di Grillo e del suo movimento?
2.5. Casaleggio, chi era costui?
Nato a Milano nel 1945, amante dei gatti e apionato di storia, Gianroberto Casaleggio è il titolare di una società di consulenza aziendale che ne porta il cognome: Casaleggio Associati - Strategie di Rete. Con Grillo ha scritto il libro Siamo in guerra, dal sottotitolo esplicito: “Per una nuova politica: la rete contro i partiti”. Imprenditore e manager dell'informatica, Casaleggio, ha iniziato la sua carriera negli anni '90, all’Olivetti di Roberto Colaninno, per poi diventare amministratore delegato della Webegg, una società di proprietà Telecom Italia che si occupava di consulenza strategica per internet. Nel 2004 ha fondato la Casaleggio Associati insieme ad Enrico Sassoon, ex direttore del settimanale di Confindustria Mondo economico, Luca Eleuteri, Davide Casaleggio e Mario Bucchich, tutti provenienti da Webegg. “Per indirizzare le aziende in Rete è necessario disporre di una conoscenza puntuale dell’evoluzione in atto, sia a livello nazionale che internazionale”, si legge sul sito della società di Casaleggio. E di contatti internazionali Casaleggio ne ha parecchi. Fra i suoi partners di oltre oceano figurano la società di informatica americana Enamics e la Bivings Group, la compagnia leader del web marketing negli USA. La Bivings Group si occupa dell'immagine delle grandi corporations americane usando il web e, in particolare, i social network come Facebook o Twitter per orientare l'opinione pubblica. Fra i suoi clienti ci sono: la Monsanto, la Philip Morris e la Lorilland Tobacco e infine la BP AMOCO, nota industria petrolifera. Presupposti non proprio ideali per una “rivoluzione dal basso”. Fra i clienti italiani della società di consulenza milanese figurava anche l'Idv di Antonio Di Pietro di cui Casaleggio ha curato il blog fino al 2010 con ottimi risultati (era uno dei più letti in Italia), salvo poi scaricarlo per concentrarsi sul Movimento 5 Stelle, sul blog di Grillo e sull'organizzazione dei V-day, veri e propri “prodotti di punta” dell'azienda di Casaleggio, pronti ormai, per un salto di qualità “istituzionale”.
2.6. Lettera al Corriere
La pressione mediatica conseguente al successo elettorale e i crescenti malumori della base per le scelte unilaterali che Casaleggio, talvolta, impone ai suoi, tramite Grillo, hanno costretto l'eminenza grigia del Movimento 5 Stelle a venire allo scoperto con una lettera pubblicata sul Corriere della Sera qualche giorno fa. La scelta del mezzo di comunicazione non può essere di certo casuale per un genio della comunicazione come Gianroberto Casaleggio. Pronto ormai per lanciare il suo movimento in Parlamento alle prossime politiche, il guru dell'informatica ha probabilmente ritenuto che fosse giunto il momento di rassicurare i ceti moderati con un intervento dalle colonne del loro quotidiano di riferimento. “Sono in sostanza cofondatore del movimento insieme a Beppe Grillo” - afferma Casaleggio nella sua lettera al Corriere - “ho scritto il Non Statuto, pietra angolare del Movimento 5 Stelle prima che questo nascesse, insieme abbiamo definito le regole per la certificazione delle liste e organizzato la raccolta delle firme per l'iniziativa di legge popolare Parlamento Pulito e le proposte referendarie sull'editoria con l'abolizione della legge Gasparri e dei finanziamenti pubblici. Inoltre abbiamo scritto un libro sul Movimento 5 Stelle dal titolo Siamo in guerra firmato da entrambi. In questi anni ho incontrato più volte rappresentanti di liste che si candidavano alle elezioni amministrative, per il tempo che mi consentiva la mia attività, per offrire consigli sulla comunicazione elettorale” (…) “Non sto “dietro” Grillo, ma al suo fianco”. Peccato però che se davvero fosse stato al fianco di Grillo in questi anni lo avremmo visto e conosciuto, tanto quanto abbiamo imparato a conoscere il comico genovese e il suo pensiero politico. Casaleggio, però, da quando il Movimento ha mosso i primi i nel 2009 ad oggi, non si è mai visto, il che autorizza a pensare che non fosse “al fianco” di Grillo bensì “dietro” di lui. Il rapporto fra Grillo e Casaleggio è rimasto fino ad ora nell'ombra, ma molti, troppi elementi inducono a pensare che in realtà, il vero ispiratore delle scelte di Grillo sia proprio il guru dell'informatica milanese. Così, solo oggi, si scopre che il diktat di evitare i talk show televisivi è venuto da Casaleggio, così come alcune scelte politiche che hanno creato non poche spaccature nel Movimento 5 Stelle. Questa endemica mancanza di democrazia al vertice del movimento ha portato alla luce del sole tutte le contraddizioni del progetto politico di Grillo,
proprio all'indomani del trionfo elettorale. La prima cosa che ha fatto Federico Pizzarotti, subito dopo essere stato eletto Sindaco di Parma, è stata telefonare non a Grillo, bensì a Casaleggio per annunciargli di aver scelto Valentino Tavolozzi come direttore generale per il Comune di Parma. Casaleggio però non vuole saperne, perchè era stato proprio lui, qualche mese prima, a far espellere Tavolozzi dal Movimento. Valentino Tavolazzi altri non è che il consigliere comunale di Ferrara reo di aver indetto una riunione (dal vivo e non sulla rete) durante la quale si parlava di democrazia interna. “Scomunicato” da Casaleggio e Grillo, Tavolozzi fu accusato di “partitocrazia” e cacciato dal Movimento senza possibilità di appello, nonostante le proteste di quasi tutti i “grillini” dell'Emilia Romagna e le perplessità dello stesso Grillo. Ma Tavolozzi, ad oggi, è ancora una persona di cui tutti si fidano, Grillo compreso, perché ha lavorato nella pubblica amministrazione come tecnico da direttore generale del comune di Ferrara. Un ruolo da cui fu “rimosso” nel 2002, probabilmente perché stava lavorando fin troppo bene. Proprio per questo, il neo-sindaco di Parma, Pizzarotti, forte del mandato elettorale, si è opposto con fermezza a Casaleggio indicando Tavolozzi come nuovo direttore generale. Paradossalmente, però, Casaleggio si è risentito per essere stato preso sul serio da Pizzarotti e da altri esponenti a 5 Stelle, riguardo alla “diversità” del Movimento dai partiti tradizionali e riguardo alla democrazia dal basso. Cambiare tutto per non cambiare niente.
Lo scontro è aperto ed evidenzia ancora una volta che non basta riempirsi la bocca con parole come “democrazia diretta” e “cambiamento dal basso” se il fine è poi quello di muovere i fili dietro le quinte: al primo impatto con la realtà i nodi vengono al pettine e i burattinai sono costretti a uscire da dietro le quinte. Se il Movimento 5 Stelle vuole arrivare a Roma dovrà trovare un modo per coordinarsi a livello nazionale, ma questo li farà assomigliare sempre di più ai partiti che vogliono rottamare. La carica di innovazione che il Movimento 5 Stelle sta portando nella politica tradizionale è, per molti versi, positiva e stimolante ed è un merito da attribuire ai militanti dei territori. Sarebbe un peccato se tutto questo si riducesse ad un'operazione di marketing finalizzata alla conquista del potere da parte di una nuova élite, che basa il suo potere non più sull'usurata televisione, media del '900, ma sulla rete. Il fatto che dei sindaci eletti dal popolo debbano rendere conto a un privato, proprietario di un'azienda, sa tanto di conflitto d'interessi in
chiave multimediale. Ancora una volta il rischio è di cambiare tutto affinché non cambi nulla.
2.7. Il fallimento delle autonomie locali (Golem 28 settembre 2012)
Il 2012 oltre a registrare l’exploit di Grillo e del suo movimento, segna anche la definitiva archiviazione dei sogni federalisti di chi, negli ultimi anni, ha spinto per concedere sempre più poteri e risorse agli enti locali. Il sogno federalista viene sepolto dagli scandali della Lega Nord, ma soprattutto dal degrado politico-amministrativo delle Regioni. A settembre 2012, infatti, uno scandalo senza precedenti si abbatte sulla regione Lazio. Ben presto Renata Polverini è costretta a dimettersi dalla carica di Governatore, dopo giorni di alta tensione dentro e fuori dalla giunta regionale. Agli occhi del Paese, sempre più sofferente per gli effetti della crisi, si rivela una realtà fatta di fiumi di soldi pubblici sprecati e di una classe politica sempre più indegna. “Er Batman”, ”Ulisse”,i toga party fra ancelle e maschere suine, le cene faraoniche: sono solo i dettagli grotteschi di una vicenda che farebbe anche ridere se non fosse che, mentre si chiedono sacrifici agli italiani per risanare i bilanci della cosa pubblica, i soldi per finanziare la ”vita spericolata”di alcuni eletti dal popolo, non mancano mai. La vicenda ha inizio dall'indagine dei Pm di Roma sui movimenti bancari di Franco Fiorito, capogruppo del Pdl alla Regione Lazio; movimenti segnalati come sospetti dalla stessa Banca di Italia. Dalle indagini emerge che Fiorito avrebbe sottratto circa un milione di euro ai fondi attribuiti al gruppo regionale del Pdl come rimborso elettorale. Saltano fuori le cene, le ville, le auto e le spese spropositate di Franco Fiorito, che finisce indagato per peculato. Ma Fiorito non è la classica “mela marcia”: il quadro che si delinea è quello di una Regione in cui, a partire dal presidente del Consiglio Regionale, Abruzzese (Pdl), e spesso con il tacito consenso delle opposizioni, si è dato il via a un flusso spropositato di denaro pubblico piovuto sui partiti come rimborso elettorale e usato poi in maniera tutt'altro che pubblica. Per non parlare dell'esercito di collaboratori (sembra quasi tutti inutili) superpagati. Ma il caso Lazio rischia di essere solo la punta dell'iceberg. Fra gruppi consiliari, giunte di ogni ordine e grado, commissioni, consulenze, vitalizi e indennità, le Regioni e tutti gli organi amministrativi locali, rappresentano un vero e proprio buco nero per le finanze del Paese. Nel 2011, in Sicilia, solo per le compagini del consiglio regionale si sono spesi 13,7 milioni; in Lombardia 12,3 milioni. Sicilia,
Lazio, Sardegna, Valle D'Aosta, Molise, Lombardia, Campania: la mappa delle folli spese delle Regioni è equamente distribuita su tutto il territorio nazionale. Un quadro inquietante che solo grazie ai recenti scandali, come il già citato “Laziogate”, sta gradualmente venendo a conoscenza dell'opinione pubblica. Negli ultimi anni l'attenzione dei media è stata rivolta a descrivere e denunciare i privilegi e le spese del Parlamento e degli organi di governo centrali lasciando nell'ombra il fiume di finanziamenti assorbito senza sosta dagli enti locali. È il livello regionale infatti il vero centro di spesa che pesa in maniera drammatica sui nostri conti pubblici. Un dato ben noto al Governo Monti e al commissario Bondi, incaricato di esaminare il bilancio dello Stato per tagliare sperperi e spese superflue. Il dato emerso dall'indagine svolta per la spending review era proprio l'insostenibilità dei livelli di spesa degli enti locali. Questa realtà, fino a qualche tempo fa poco nota, è sotto gli occhi di tutti e risulta ancora più evidente se si esamina l'andamento del debito pubblico italiano: esso esplode a partire dagli anni '70 e continua a crescere a livelli insostenibili fino agli anni '90, quando inizia a rallentare fino ai primi anni 2000. Dal 2001 ad oggi il debito ha una nuova, incredibile esplosione ando da 1.329,607 miliardi a 1.911,807 nel 2011. La crescita storica del debito attraversa il tempo in maniera assolutamente bipartisan, quello che è evidente invece è che la spesa pubblica è aumentata a ridosso delle fasi di decentramento amministrativo più importanti: la nascita delle Regioni negli anni '70 e le riforme in senso federalista dei 2000. È lampante dunque che qualcosa non ha funzionato nel trasferire il potere dallo Stato centrale agli enti locali. Le recenti spinte verso un assetto federale della Repubblica, lungi dal risolvere tutti i problemi italiani, come si è sostenuto da più parti, hanno rappresentato l'ennesima occasione per incrementare, a suon di denaro pubblico, le tendenze localistiche e campanilistiche che caratterizzano, da sempre, il nostro Paese e ci hanno portato alla drammatica e ben nota situazione attuale delle nostre finanze pubbliche.
2.8. La nascita delle Regioni e il sogno infranto del federalismo
La storia delle Regioni, come organi di governo locale, inizia con l'entrata in vigore della Costituzione dell'Italia repubblicana nel 1948: l'VIII disposizione transitoria della Costituzione stabiliva che le elezioni dei Consigli regionali e degli organi elettivi delle amministrazioni provinciali dovessero essere indette entro un anno dall'entrata in vigore della Carta Costituzionale. Ma, prima della nascita effettiva dei nuovi enti, bisognava approvare tutta una serie di leggi che consentissero il aggio di molti poteri dallo Stato centrale alle nuove autonomie locali. Il tempo necessario per varare i nuovi organi amministrativi fu però ben più lungo di quello inizialmente previsto: le Regioni entrarono nelle storia istituzionale italiana solo a partire da 1970. Nel 1972 l'approvazione dei decreti delegati trasferiva alle Regioni alcune funzioni fondamentali che prima erano appannaggio dello Stato: assistenza scolastica, musei e biblioteche, assistenza sanitaria ed ospedaliera, trasporti, turismo, urbanistica, viabilità, istruzione artigiana e professionale. Nel 2001 ha inizio la seconda fase della regionalizzazione italiana: con la riforma del Titolo V della Costituzione (approvata dall'allora maggioranza di centrosinistra con soli quattro voti di scarto) il lungo cammino del decentramento arriva a conclusione. La riforma ha potenziato notevolmente il ruolo delle Regioni, delle Province e dei Comuni, con l'intenzione di proporre un modello amministrativo meno verticistico e centralizzato, in favore di una maggiore partecipazione degli enti locali nell'elaborazione delle politiche, così da favorire una partecipazione più ampia delle istituzioni e dei cittadini. Purtroppo l'applicazione dell'autonomia amministrativa si è rivelata, in questi anni, completamente fallimentare. Invece di un maggiore coinvolgimento dei cittadini nella gestione della cosa pubblica si è avuto l'aumento indiscriminato delle risorse pubbliche destinate agli enti locali e la moltiplicazione dei centri di spesa. Una classe politica inetta e rapace è cresciuta, in questi anni, all'ombra del sistema delle autonomie locali, lontano dai controlli centrali e dai riflettori. In nome del federalismo e dell'autonomia delle comunità locali si è alimentato un nuovo feudalesimo, fatto di tanti piccoli e grandi signorotti locali che ben presto hanno finito per essere determinanti anche per gli equilibri dei partiti su scala nazionale, minando il sistema dalle fondamenta. La legge elettorale, il
porcellum, ha poi dato il colpo di grazia ad ogni speranza di poter coinvolgere la società civile nella politica attiva. Ora cambiare la legge elettorale non è sufficiente. Una riforma delle Regioni e degli enti locali è più che urgente. Lo strapotere delle piccole corti non è più tollerabile in un momento in cui il potere centrale sta migrando sempre di più a Bruxelles e gli Stati si stanno trasformando nelle nuove macro-regioni di un sistema ben più grande. Riprendere il controllo della spesa e delle politiche locali è sempre più urgente. Ma come ci si può disfare della classe dei piccoli e grandi feudatari locali pronti a stracciarsi le vesti al primo sentore di accorpamento di piccoli comuni e province? Innanzitutto con la trasparenza. Parola poco nota in Italia sopratutto negli enti locali. Un primo o è stato fatto in questo senso e i primi open data, ovvero i dati relativi alle spese dello Stato, hanno fatto la loro comparsa (http://www.dati.gov.it/content/i-dati-aperti-sulla-spesa-pubblica). L'iniziativa applica una normativa europea (direttiva 2003/98/CE) che obbliga le pubbliche amministrazioni ad essere il più trasparenti possibili. Tuttavia se si consulta la pagina relativa alle spese delle Regioni si vede che solo cinque di esse hanno messo online una parte dei loro dati: Emilia Romagna, Lombardia, Veneto, Toscana e Piemonte. La strada per realizzare una piena trasparenza della Pubblica Amministrazione è ancora molto lunga e nel frattempo converrebbe selezionare una classe politica più adatta ai tempi che corrono. Una selezione che non può venire “dall'alto”, dai vertici dei partiti troppo condizionati dalle alchimie interne, ma dal basso: a partire dai comuni e dagli enti intermedi e ando per il nodo cruciale delle Regioni. Solo con una accurata selezione e con una rieducazione complessiva del Paese alla democrazia, potremmo sperare in futuro di non rivedere in giro altri Fiorito. La richiesta, da parte dell’opinione pubblica, di un ricambio generazionale all’interno della classe dirigente italiana si fa sempre più insistente, soprattutto alla luce di scandali come il “Laziogate”. Un governo tecnico nato in Parlamento che buona parte dei cittadini percepisce come “imposto dall’alto”, una crisi economica senza precedenti e una classe politica locale coinvolta in scandali sempre più degradanti: sono questi gli elementi che contribuiscono a rendere insostenibile il clima sociale e politico in Italia durante gli ultimi mesi del 2012. Intanto la legislatura volge al termine e tutte le forze politiche si preparano a tornare protagoniste dopo la parziale sparizione durante la “stagione dei tecnici”. Le riforme più drammatiche dal punto di vista sociale sono ormai state varate dal governo Monti, proprio come richiedevano i mercati internazionali. L’esempio
più evidente è quello della legge Fornero sulle pensioni, che sancisce l'introduzione, per tutti i cittadini, del metodo di calcolo contributivo, ma ha l’effetto di innalzare bruscamente l’età pensionabile e allontanare, per molti, il traguardo di una vita. Oltre all’innalzamento dell’età pensionabile, si introducono nuove forme di pensione anticipata e quei lavoratori che avevano sottoscritto accordi che prevedevano l'accompagnamento alla pensione, si trovano di colpo senza reddito: sono i così detti “esodati”. La crisi sociale raggiunge il suo apice e il bisogno di una svolta diventa una necessità nazionale.
III - La campagna elettorale 2013
Primarie e Parlamentarie (Golem 7 dicembre 2012)
I partiti fiutano la fine del governo tecnico di Mario Monti e preparano il ritorno nell’agone politico cercando un modo di restituire la scelta ai cittadini, scelta preclusa dalla legge elettorale in vigore, il così detto Porcellum, che non prevede le preferenze per i parlamentari da parte degli elettori. A sinistra il Partito Democratico lancia le primarie di coalizione per scegliere il candidato premier per le elezioni politiche del 2013. La sfida si svolge tra il segretario del partito, Pierluigi Bersani, Laura Puppato, il centrista Tabacci e il giovane sindaco di Firenze Matteo Renzi che, da qualche mese, ha lanciato il nuovo mantra della “rottamazione” e si propone di scalare il Pd per mandare a casa la vecchia classe dirigente. Renzi riesce ad arrivare al secondo turno e a sfidare direttamente Bersani e con lui tutto il gota nazionale del Partito Democratico. Il tentativo del sindaco fiorentino fallisce e, dopo una campagna elettorale piena zeppa di polemiche sulle “regole del gioco”, il 25 novembre 2012, Bersani viene incoronato candidato premier con oltre il 60% delle preferenze. Renzi si ferma sotto il 40% e, per il momento, la rottamazione è rimandata. Anche il Movimento 5 Stelle si prepara a scegliere e lancia le “parlamentarie” una sorta di consultazione, rigorosamente online, per decidere i candidati da mandare in Parlamento. Alle 20.00 di giovedì 6 dicembre si chiudono le urne “virtuali” del movimento di Grillo. Elemento caratterizzante delle “primarie” del M5S è quello di essersi svolte completamente “online”: gli iscritti al Movimento hanno potuto scegliere, direttamente dal computer di casa, i rappresentanti da inserire nelle liste per le elezioni parlamentari. I possibili candidati al Senato ed alla Camera sono stati selezionati tra tutti coloro che si sono presentati alle ate elezioni comunali o regionali con il Movimento 5 Stelle e non sono stati eletti. Fin qui tutto bene: nonostante la decisione di candidare solo i “trombati” delle precedenti amministrative, la scelta di coinvolgere gli iscritti nella definizione delle liste è
servita ad aggirare la rigida autarchia dei partiti favorita dal Porcellum, nella scelta dei candidati. Grillo canta vittoria ma i dubbi circa le sue Parlamentarie rimangono tutti. Dubbi, domande e polemiche, nati soprattutto all'interno dello stesso elettorato del Movimento.
A dare inizio al “fuoco di fila” sulle consultazioni di Grillo e compagni è stata, nei giorni precedenti al voto, Federica Salsi, eletta in Sicilia ma “scomunicata” da Grillo per la partecipazione alla trasmissione televisiva Ballarò, la quale ha chiesto conto, pubblicamente, dell'esclusione di alcuni candidati bolognesi in possesso di tutti i requisiti richiesti. Altri interrogativi sono stati avanzati da Valentino Tavolozzi, consigliere regionale della prima ora, espulso dopo un diktat di Casaleggio, ma ancora vicino al Movimento in Emilia Romagna. “Il Casaleggium”, secondo Tavolozzi, “ha stabilito chi sia candidabile, senza alcun confronto preventivo e ha impedito una partecipazione più ampia” tanto da far somigliare le Parlamentarie ad una consultazione parrocchiale. Candidature imposte comunque dal vertice, secondo Tavolozzi, e senza tenere in nessun conto l'esigenza di trasparenza e di partecipazione “dal basso”, da sempre nel Dna del Movimento 5 Stelle. In effetti gli interrogativi relativi alle modalità di voto e alla sua trasparenza si sono moltiplicati nei giorni delle votazioni sia all'interno sia all'esterno del Movimento, fino a concretizzarsi in 20 domande, circolate sul web, a cui nessuno ha ancora dato risposta. “Chi sono e come sono stati scelti gli amministratori del Portale? Dove si trova il Server? Quali misure di sicurezza sono state adottate per garantire la correttezza del voto? E ancora: quanti sono gli iscritti? I verbali dei risultati verranno resi pubblici?”. Sono solo alcuni dei 20 interrogativi rivolti a Grillo dalla stessa “rete” che ne ha decretato la fortuna politica. La sensazione generale è che, al di là di alcuni problemi tecnici legati alla novità dell'iniziativa, le elezioni primarie del Movimento 5 Stelle siano state volutamente tenute sotto un controllo pressoché diretto da parte di Grillo, Casaleggio e del loro staff più ristretto, tant’è che sul sito del Movimento i riferimenti alle pratiche di controllo e validazione del voto sono molto vaghi. In queste ore lo spoglio dei voti (condotto da non si sa chi), o meglio, la comunicazione unilaterale degli eletti da parte di Grillo ci sta mostrando chi saranno i rappresentanti del Movimento 5 Stelle nel prossimo Parlamento.
Nel frattempo rimangono i dubbi su un esperimento senz'altro interessante per le modalità innovative di voto, ma che tuttavia non è riuscito a raggiungere gli standard di trasparenza e di correttezza che ogni elezione democratica deve rispettare per ritenersi veramente tale. Se infatti il voto online di Grillo e dei suoi è stato forse il primo tentativo di primarie di massa in Italia e in Europa, c'è da dire che le modalità secondo le quali si è svolto ricordano più da vicino il televoto di noti programmi televisivi nostrani piuttosto che una vera elezione democratica. Alcuni video di presentazione dei candidati, circolati in questi giorni su youtube, sono risultati a dir poco esilaranti, contribuendo a stuzzicare l'ironia della rete e a dare l'impressione di trovarsi di fronte a una gigantesca Corrida (il programma Tv, non quella con i tori) per decidere chi debba avere l'accesso al Parlamento. Se da una parte quindi queste parlamentarie hanno rappresentato un gigantesco “televoto” online di massa, dall'altra hanno contribuito a sollevare non pochi dubbi sulla cosiddetta democrazia digitale o democrazia elettronica: un tema serio, che avrà sempre più rilevanza in futuro.
3.1. Democrazia digitale
A partire dagli anni '90, con la diffusione di Internet come mezzo per la circolazione della conoscenza e come veicolo di contenuti sociali, si è diffusa la consapevolezza del ruolo della rete e delle nuove tecnologie nello sviluppo dei sistemi democratici. Con la sua struttura priva di gerarchie e di confini spaziali, infatti, la Internet favorisce una partecipazione più informata e diretta dei cittadini nella gestione della cosa pubblica. La rete è dunque uno strumento che può sicuramente ampliare il coivolgimento dell'opinione pubblica nelle decisioni dei governi e delle istituzioni, ma non è la panacea di tutti i mali per i nostri sistemi democratici sempre più “sotto stress”. Uno degli interrogativi riguardo alla democrazia diretta della rete è, appunto, come riuscire ad evitare manipolazioni del voto da parte di chi controlla il mezzo tecnologico. Il sistema di voto digitale può sicuramente riuscire a coinvolgere una platea di persone molto vasta, byandone la pigrizia. Se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto: la possibilità di votare arriva direttamente sugli schermi del proprio pc, ma è necessario prestabilire delle procedure di voto il più possibile trasparenti e verificabili pubblicamente, proprio come avviene per il voto tradizionale. In America, alle ultime elezioni politiche, in molti Stati si è votato con il voto elettronico nei seggi. Per molti organi di categoria in Italia come ad esempio per i giornalisti, le elezioni si svolgono già con il voto elettronico ma secondo un regolamento del tutto simile a qualsiasi votazione istituzionale... a parte l'uso della carta, ovviamente. Senza alcun dubbio il risparmio economico per l'allestimento dei seggi è garantito. Ma risparmio non è di per sé sinonimo di democrazia. Nonostante Grillo, oggi, sostenga l'assoluta validità delle votazioni che ha svolto online con l'argomento del “a costo zero”, i dubbi circa la trasparenza delle modalità di voto e scrutinio rimangono tutti. Quel che è certo è che per ora resta difficile ipotizzare un superamento definitivo delle tradizionali modalità di voto, soprattutto per la presenza di una vasta fascia di popolazione che ha ancora poca dimestichezza con i computer e con la rete. È altrettanto vero però che l'utilizzo delle nuove tecnologie digitali avrà un ruolo sempre maggiore nell'esercizio del diritto di voto. È necessario perciò chiedersi quale può essere l'utilizzo migliore di Internet in tal senso.
Il maggiore coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni politiche è certamente un elemento positivo, tuttavia può avere degli inconvenienti: anche in futuro sarà necessario adottare provvedimenti che non risulteranno immediatamente “popolari” pur essendo necessari. Una democrazia fondata su dei sondaggi online, una sorta di televoto digitale, rischierebbe di essere particolarmente manipolabile da ogni sorta di populismo, sempre pronto a “sedurre” l'elettorato, sia in modalità analogica sia digitale. Una democrazia diretta basata esclusivamente sulla rete ed utilizzata come hanno fatto, fino ad ora, Grillo e i suoi, finirebbe per alimentare scelte dettate dall'emotività del momento piuttosto che da una riflessione ponderata: proprio come in un televoto. Senza contare la facilità con cui è possibile influenzare una votazione del genere. La democrazia si trasformerebbe in una serie di continui sondaggi online in cui il deus ex machina, chi comanda veramente, risulterebbe chi formula le alternativa tra cui poter scegliere. Il vertice dunque, non certo la base. Il rischio è quello di ritrovarci un giorno, senza nemmeno accorgercene, in una democrazia sempre più simile ad una puntata di X Factor o ad un'edizione del Festival di Sanremo,il cui esito, almeno nelle recenti edizioni, è stato facilmente influenzato (pilotato?) proprio attraverso il televoto. Finiremo per ritrovarci Maria De Filippi candidata premier? Speriamo di no, in fondo ne abbiamo già viste di tutti i colori in questi anni e forse può bastare… almeno per ora. Il 22 dicembre 2012 è il giorno in cui il Presidente della Repubblica, a seguito delle dimissioni del Governo Monti, scioglie le Camere, mettendo fine alla XVI legislatura. La campagna elettorale è entrata subito nel vivo in attesa delle elezioni politiche di marzo 2013. Una campagna anomala e sottotono che sfocerà in un risultato inatteso. La battaglia elettorale si gioca su due campi: quello, quasi del tutto inedito, della rete e dei social network e quello più classico della cara vecchia televisione. Nonostante il protagonismo della rete, anche la tv farà la sua parte nella campagna elettorale, segnando il momento mediaticamente più importante della competizione.
3.2. Il derby finisce in farsa - Golem 11-01-2013
Il “duello del secolo” della campagna per le politiche 2013 va in onda proprio in Tv, sugli schermi di La7 e vede protagonisti Michele Santoro e Silvio Berlusconi. All’indomani del confronto, il previsto boom di ascolti è stato addirittura superiore alle aspettative: sono stati 8.670.000 (33,58% di share) gli spettatori della trasmissione Servizio Pubblico che segna, in questo modo, il record assoluto per la rete televisiva di Telecom. I due contendenti possono dirsi sicuramente soddisfatti dagli esiti dello show: il conduttore campano ha realizzato ascolti da Guinness dei Primati e il Cavaliere ha dimostrato ai suoi elettori di poter tener testa ai suoi più acerrimi detrattori, solo contro tutti, nell’arena mediatica del “perfido” Santoro. Un po’ meno soddisfatti, invece, coloro (pochi) che si aspettavano dal confronto qualcosa di più di un “combattimento fra galli” del tubo catodico.
La tanto attesa “resa dei conti” si è trasformata ben presto in una mezza farsa: dopo l’inizio all’insegna dei botta e risposta e delle battute pungenti si a alle domande vere e proprie affidate alle giornaliste Giulia Innocenzi e Luisella Costamagna che però non riescono a scalfire, come era prevedibile, la proverbiale sfacciataggine del Cavaliere. L’ex premier sfoderato il sorriso a 36 denti dei tempi migliori, riesce, attraverso un mix di calcolata ironia e ben studiata dialettica, ad evitare le insidie maggiori e a ripropinare, urbi et orbi, il suo solito monologo già sentito e risentito in tutti i talkshow dell’universo televisivo italiano, dal salotto di Barbara D’Urso a quello di Porta a Porta. Nessuna responsabilità del suo governo per la crisi in cui versa l’Italia e necessità di ottenere un consenso elettorale ancora maggiore del ato per rimediare al “malefico” governo dei Professori che ha appoggiato fino a ieri: sono questi i capisaldi del Berlusconi-pensiero ripetuti fino alla nausea durante la serata. Poche le interruzioni di Michele Santoro in questa fase. Lo showman lascia spazio (a parte qualche appunto ironico) alle teorie cospiratorie dell’ex premier secondo il principio per cui “i nemici dei miei nemici sono miei amici”. Vero bersaglio, non dichiarato, della puntata è stato infatti Mario Monti. Avversato sia da Santoro, per coerenza ideologica, sia da Berlusconi, per
opportunità, il Professore e il suo Governo sono al centro dell’arena per tutta la puntata, mentre il toro di Arcore e il torero campano gli assestano colpi a intervalli regolari. Per il resto la puntata va avanti senza grosse sorprese con i duellanti che si trasformano, a tratti, in un duo comico in stile Totò e Peppino con tanto di sketch sulle scuole serali. Tutto fila liscio fino all’editoriale di Marco Travaglio che ripete, anche lui in maniera abbastanza monotona, tutte le malefatte, ormai arcinote, del Cavaliere e dei suoi. A questo punto succede l’imprevedibile: Berlusconi prende il posto di Travaglio e legge una lettera in cui elenca tutte le condanne per diffamazione collezionate dal direttore del Fatto Quotidiano, ribaltando di fatto i ruoli e accusando l’accusatore. Santoro perde le staffe e inizia un duro scontro con il Cavaliere: i due si confrontano faccia a faccia e manca poco che non vengano alle mani in diretta tv. Di giornalistico la trasmissione non ha ormai più niente ma, si sa, the show must go on e i due attempati combattenti placano i loro animi furiosi per poter traghettare la puntata verso un finale più placido e più favorevole ad entrambi, mentre Berlusconi pulisce la sedia dov’era seduto Travaglio: un siparietto tragicomico.
3.3. Santoro vs Berlusconi
Se l’ ”epica” puntata del talkshow di Santoro non è risultata brillante, né sotto il profilo dei contenuti né sotto quello dell’approfondimento giornalistico, è apparsa tuttavia come la perfetta rappresentazione di un’era che finisce lì dove era cominciata: in tv. I vent’anni di Berlusconismo che abbiamo attraversato sono stati anni di potere innanzitutto mediatico, alimentato dalla spettacolarizzazione televisiva della realtà e non potevano che concludersi con la celebrazione di un grande rito televisivo collettivo. Un potere mediatico, quello del Cavaliere, di cui Michele Santoro, con le sue trasmissioni, ha rappresentato il perfetto contraltare televisivo. Divisi da tutto, i due condividono la grande capacità di gestione del mezzo televisivo con il quale sono stati capaci, in questi anni, di polarizzare lo scontro politico dividendo i telespettatori/elettori in opposte e apionate tifoserie. Dotati di un ego notevole che hanno nutrito in questi anni con opportune dosi di vittimismo, Berlusconi e Santoro sono forse i due massimi professionisti della televisione che ci siano oggi in Italia. È il 13 aprile del 1995 quando Silvio Berlusconi interviene per l'ultima volta come ospite in un programma condotto da Michele Santoro: si trattava di Tempo Reale, su Rai Tre. Poi nel 2001, durante una puntata de Il raggio verde, su Rai Due, arriva la telefonata di Berlusconi al conduttore Santoro: ”Santoro, lei è un dipendente del servizio pubblico! Si contenga!”. Santoro al Cavaliere: ”Sono un dipendente del servizio pubblico, non un suo dipendente”. Nel 2002, l’ ”Editto bulgaro”: l’allora premier Berlusconi accusa Enzo Biagi, Daniele Luttazzi e Michele Santoro di “uso criminoso della televisione pubblica”. Santoro replica nella trasmissione Sciuscià cantando “Bella ciao”. Il resto è storia recente. Se come diceva Marx “la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”, quella di Santoro e Berluconi è stata la perfetta farsa finale della seconda Repubblica, con i due campioni delle opposte fazioni, ormai invecchiati, lì a fronteggiarsi per l’ultima volta “l’un contro l’altro armati”, riproponendo inesorabilmente per l’ennesima volta tutto ciò che vogliamo lasciarci alle spalle. Santoro e Berlusconi rappresentano, dunque, due facce della stessa medaglia: l’uno è necessario all’altro per la reciproca sopravvivenza.
Da qui lo show mediatico per tentare di restare aggrappati a un mondo che ormai non c’è più, o almeno si spera. Certo non è facile abbandonare la rassicurante contrapposizione del circo televisivo berlusconiano: pro o contro Berlusconi, pro o contro Travaglio. Come ha candidamente spiegato ieri sera lo stesso Cavaliere, il segreto sta nell’identificare l’oppositore con il male assoluto in una semplificazione manichea abbastanza facile da digerire per i più. Tuttavia è evidente che la complessità dei problemi a cui l’Italia si trova di fronte esige delle risposte un po’ più complicate che poco hanno a che fare con i derby politico-mediatici a cui ci siamo affezionati in questi anni. La puntata di Servizio pubblico resterà, probabilmente, nella storia professionale di Michele Santo e di La7 e verrà ricordata da Berlusconi come il momento del rilancio quando tutto sembrava perso. Nonostante ciò, chi era dall’altra parte del teleschermo non ha ricevuto nessuna informazione utile e dovrà attendere nuove e più proficue occasioni per chiarirsi le idee circa i reali problemi dell’Italia e le possibili soluzioni ai guai della gente comune.
3.4. La campagna elettorale fra Tv e social network (Golem 22 febbraio 2013)
Al di là dei duelli televisivi fra Berlusconi e Santoro, la campagna elettorale per le elezioni politiche 2013 non verrà certo ricordata per la ricchezza dei contenuti: se si escludono tasse e Imu, si è assistito solo ad un generico e ricorrente richiamo al tema del lavoro, invocato da tutti gli schieramenti con poche proposte concrete, che viste le condizioni economiche generali, difficilmente risulteranno risolutive. Se il confronto elettorale non ha brillato per le idee messe in campo, anche dal punto di vista della comunicazione sembra, a prima vista, non aver riservato grandi sorprese: se si escludono i comizi/show di Beppe Grillo e i (pochi) raduni di piazza del centrosinistra di Pierluigi Bersani, la campagna per le politiche 2013 si è svolta soprattutto in tv, con i candidati premier impegnati a occupare ogni spazio televisivo disponibile, in un estenuante duello “all’ultimo talkshow”. Molti hanno visto, in questa accorta spartizione di ogni spazio televisivo, una rivincita del tubo catodico, dato per spacciato e destinato all’estinzione politico-mediatica dal diffondersi delle nuove tecnologie digitali. A ben vedere però le cose non stanno esattamente così. Se è vero che l’ennesimo ritorno di Silvio Berlusconi nell’agone politico ha costretto tutti i candidati premier all’arrembaggio televisivo, c’è da dire che questa volta anche la rete è stata letteralmente presa d’assalto dai partiti tradizionali: dagli ormai celebri tweet di Monti ai più prosaici messaggi elettorali su Facebook inviati dai candidati locali (che fortunatamente sembrano aver sostituito la classica telefonata), internet e i social network hanno costituito la spina dorsale della comunicazione politica della campagna elettorale. Basti pensare al continuo monitoraggio dei followers su Twitter o degli apprezzamenti su Facebook, divenuti una sorta di sondaggi paralleli, soprattutto dopo lo stop di quelli ufficiali. Se si considera il fatto che il movimento più in crescita è quello di Beppe Grillo, risulta evidente che l’utilizzo congiunto della piazza digitale e di quella “classica” può tranquillamente sostituire l’invasione televisiva. Certo il comico genovese non ha brillato per spirito democratico rifiutando ogni confronto televisivo con le domande dei giornalisti, tuttavia lo stesso confronto tv tra tutti i candidati sempre sognato e mai realizzato, non è un bell’esempio per
un Paese civile. Al di là del mezzo scelto per la propaganda politica, l’utilizzo veramente innovativo della rete, è stato attuato, ancora una volta, dagli utenti e dal mondo dell’informazione piuttosto che dai partiti. La vera novità di questa campagna elettorale infatti è sicuramente costituita dalla comparsa, anche in Italia, del così detto “fact checking”. Il fact checking è una pratica da tempo diffusa nel giornalismo anglosassone che consiste, letteralmente nel “controllo dei fatti”, attraverso il metodo empirico, al fine di verificare se le dichiarazioni di politici o di altri protagonisti della scena pubblica sono effettivamente veritiere e dunque attendibili. Come si verificano i fatti? Attraverso la raccolta dei dati e il confronto delle fonti attuato quasi in contemporanea con l’uscita della dichiarazione o della notizia che si intende verificare. Attraverso il social networking è possibile collaborare con utenti per verificare la veridicità di dati e notizie, utilizzando la rete in una specie di impresa collettiva. A conti fatti, funziona un po’ come Wikipedia dove gli utenti costruiscono assieme, collaborando nella ricerca e nella verifica delle informazioni, le voci della nota enciclopedia internettiana. Se nei Paesi anglofoni questa pratica è molto diffusa, come dimostra l’esperienza del sito americano PolitiFact.com, che ha vinto il Premio Pulitzer per due anni consecutivi, in Italia, i siti di “verifica dei fatti” si stanno diffondendo solo di recente: c’è, ad esempio, la piattaforma di Fondazione
seconda economia più solida dopo la Germania”. Al secondo posto, sempre secondo il sito, troviamo Beppe Grillo con l’affermazione: “È inutile spendere 2 miliardi di euro per risanare e far ripartire l'acciaio dell'Ilva, perché le più grandi acciaierie stanno chiudendo”. Al di là delle note di colore, l’introduzione dello strumento del fact cheking è forse la vera novità di una campagna elettorale, che per il resto non ha riservato grandi sorprese. Testare l'attendibilità dei candidati per spingerli a un comportamento più autentico, c’è da giurarci, si rivelerà una pratica sempre più in uso anche per il futuro. Se è vero che il fact cheking è entrato di diritto fra gli strumenti di lavoro dei media mainstream (Skytg24 verificò in diretta le affermazioni dei partecipanti al dibattito svoltosi in studio), c’è da dire che i i da compiere verso la sua definitiva affermazione nel nostro Paese sono ancora molti. Nel caso recente dei falsi titoli di studio del candidato premier Giannino, ad esempio, tutte le informazioni che lo smentivano erano in rete da tempo, addirittura su Wikipedia. Ci sono sicuramente bugie ben peggiori, tuttavia si sarebbe potuto evitare il sospetto di imboscate dell’ultimo minuto nei confronti di compagni di partito e avversari politici. In ogni caso quello che è certo è che la rete ha oramai aperto, nel bene o nel male, i confini dello spazio pubblico di discussione e, se usata adeguatamente, può contribuire a rendere più efficace il ruolo di controllo del potere che spetta, in una democrazia, all’informazione. I politici, c’è da scommetterci, saranno costretti ad un grado di coerenza e di affidabilità sempre maggiore nella certezza che le loro affermazioni non saranno più accettate acriticamente o contestate solo dalle opposte tifoserie politiche. Nel frattempo c’è da augurarsi che, se in questa campagna elettorale ormai conclusa si sono limitati a occupare la rete, per il futuro non si limitino solo a “stare” in rete, ma comincino anche “a fare rete”, magari uscendo da salotti tv e social network, e tornando a frequentare attivamente quei territori che aspirano ad amministrare.
IV - Il Boom
A poco più di un anno dall’insediamento del “Governo dei professori” guidato da Mario Monti, l’Italia torna finalmente al voto. I tecnici, arrivati a Palazzo Chigi per porre rimedio alla crisi finanziaria dello Stato e per placare i mercati, sono riusciti solo a dissanguare un Paese già prossimo al collasso: questa è la percezione della maggior parte degli italiani che si recano a votare, ansiosi di poter tornare ad esercitare il loro diritto al voto per mandare un chiaro segnale alla politica italiana. Il Premier uscente, l’economista e neosenatore a vita Monti, sfida i due poli opposti: la sinistra a guida Bersani (superfavorito secondo i sondaggi) e il centrodestra capitanato dal redivivo Berlusconi, dato ripetutamente per morto e pure in forte recupero alla vigilia del voto. Il nuovo partito di Monti, Scelta Civica, cerca di rompere il duopolio Pd-Pdl coalizzando attorno a sé tutti i partiti del centro. Il bipolarismo, così come lo abbiamo conosciuto, sarà archiviato dall’esito delle elezioni, ma in modo del tutto imprevedibile rispetto ai pronostici della vigilia. Il 24 e 25 febbraio 2013 l’Italia vota per il rinnovo del Parlamento: il risultato è un vero e proprio choc. Il verdetto delle urne non lascia scampo a chi credeva che tutto potesse tornare come prima, prima della crisi e del Governo tecnico, prima dei tagli e delle manovre lacrime e sangue. Alcuni protagonisti della scena politica nazionale vengono spazzati via dall’esito delle consultazioni: Fini e Di Pietro spariscono, Casini sopravvive a stento. Il tentativo dell’ex magistrato Ingroia, sceso in campo per riportare in Parlamento la sinistra più estrema, fallisce in modo clamoroso e il Premier uscente, Mario Monti, appoggiato dai partiti di centro, non supera il 10%. Ma il risultato più clamoroso riguarda a ben vedere i partiti maggiori. Il Partito Democratico, considerato da tutti in pole position per governare, delude le aspettative della viglia: l'alleanza Pd-Sel vince di un soffio al Senato e ottiene 119 senatori. Ma per governare ne servono 158. Alla Camera la coalizione di Bersani, entrato nella cabina elettorale come premier in pectore e uscito come il grande sconfitto, riesce ad imporsi solo per mezzo punto percentuale: 29,53% contro il 29,13% dell'alleanza formata da Pdl e Lega. Silvio Berlusconi, leader del centrodestra dato ormai per spacciato, riesce quasi a completare una clamorosa rimonta. Ma il vero trionfatore della
tornata elettorale è Beppe Grillo: il suo Movimento 5 Stelle, nato da meno di 4 anni, si afferma come primo partito nazionale, con il 25,55% dei voti. Un risultato storico e del tutto imprevisto che cambia per sempre la storia recente del nostro Paese. Il bipolarismo della Seconda Repubblica è definitivamente tramontato e in campo c’è un terzo protagonista agguerrito e determinato a trasformare radicalmente il sistema dal suo interno. Oltre alla vittoria del Movimento di Grillo c’è un altro dato che emerge con chiarezza il giorno dopo il voto: il Senato è decisamente ingovernabile. Inizia una fase drammatica in cui ogni giorno che a la speranza di poter formare il Governo di cui l’Italia ha urgentemente bisogno sembra sempre più lontana. Mentre lo spread risale fino a 400 punti e la borsa brucia milioni di euro al giorno, iniziano le affannose consultazione del premier incaricato Pierluigi Bersani e in Parlamento ha inizio il “mercato delle vacche”.
4.1. Il mercato delle vacche e il vincolo di mandato - Golem 7 marzo 2013
L’esito delle elezioni politiche 2013 deve aver sorpreso lo stesso Beppe Grillo e il suo Movimento 5 Stelle, protagonisti di un vero e proprio exploit che ha portato la formazione di Casaleggio e compagni a risvegliarsi, il giorno dopo le elezioni, con la consapevolezza di essere il primo partito italiano per numero di preferenze. Una responsabilità non da poco per un movimento che si appresta al debutto in Parlamento. Preoccupato dalla “prima volta” parlamentare del suo movimento, il leader italiano uscito vincitore, politicamente, dalle urne, ha pensato bene di strigliare a dovere i neoeletti 5 Stelle affinché non si lascino sedurre, una volta insediatisi alle Camere, dalle sirene dei partiti, già pronti a mettere le mani sugli ingenui grillini per rinfoltire le proprie schiere e, nel caso del Pd, per racimolare una maggioranza in grado di governare. Per evitare quello che egli stesso ha definito il “mercato delle vacche”, l’ex comico, ormai leader dei 5 Stelle, pubblica un post durissimo sul suo blog, dal titolo inequivocabile: “Circonvenzione di elettore”. Nel post in questione, Grillo se la prende con i “voltagabbana, opportunisti, corruttibili, cambiacasacca” a cui l’elettore “paga lo stipendio attraverso le sue tasse perché mantengano le loro promesse”. Il voto è dunque, secondo Grillo, “un contratto tra elettore ed eletto”, mentre la Costituzione lascia all’eletto la possibilità di fare “usando un eufemismo, il cazzo che gli pare”. Sul banco degli imputati del blog a 5 Stelle sale dunque l’articolo 67 della Costituzione italiana che recita: "Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolodi mandato". Secondo Grillo l’articolo 67 andrebbe dunque cambiato drasticamente se non, addirittura, abolito, per consentire non solo di cacciare dal Parlamento coloro che, per una ragione o per l’altra, cambiano schieramento politico, ma anche per poterli perseguire penalmente. Alla luce degli avvenimenti a cui abbiamo assistito in questi anni, il ragionamento sembrerebbe corretto: per evitare gli Scillipoti e i De Gregorio di turno, pronti a vendersi al miglior offerente, incuranti di qualsiasi principio o interesse che vada minimamente al di là della propria mangiatoia, basterebbe introdurre un principio che vincoli l’eletto a conformarsi al programma della lista con cui entra in Parlamento. Tuttavia, nonostante gli abusi eclatanti della libertà di mandato, che abbiamo imparato a conoscere così bene, il principio espresso dall’articolo 67 della costituzione
rimane un principio giusto. Un principio talmente giusto da indurre lo stesso Grillo, 3 anni fa, a scrivere, per criticare la partitocrazia messa in piedi dalla “casta”: “L’articolo 67 della costituzione è molto chiaro. Chi è eletto risponde ai cittadini, non al suo partito”. La faccenda è dunque più complessa di come potrebbe apparire a prima vista e se oggi ci affrettassimo a cancellare un principio più che giusto sulla base del pessimo comportamento di alcuni parlamentari, sarebbe come vietare a tutti di uscire di casa perché alcuni hanno la pessima abitudine di commettere azione malvage quando vanno in strada.
4.2. Il mandato imperativo e l’Ancien Régime
Affermare il principio che "Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato" vuol dire svincolare l’eletto, in una delle due Camere, dall’obbligo di rappresentare solo gli interessi di una parte, che sia il suo partito, la sua categoria, la sua regione, ecc., e consentirgli, invece, di rispondere esclusivamente alla sua coscienza per servire la Nazione nella sua interezza. Il vincolo di mandato imperativo, come si chiama tecnicamente la proposta avanzata da Grillo, è un retaggio del ato, scomparso dagli ordinamenti dei Paesi democratici da un bel po’ di tempo a questa parte perché considerato lesivo delle libertà fondamentali. Proprio come sostenuto da Grillo, il mandato imperativo era una sorta di contratto privato fra elettore ed eletto il quale, poteva essere revocato se l’eletto, ossia il mandatario (per dirla giuridicamente) non si impegnava nel tutelare gli interessi della sua fazione. Caratteristico della monarchie assolute, era una peculiarità tipica dell’Ancien Régime, in cui gli eletti nei parlamenti si del tempo erano tenuti a perorare la causa dell'ordine in cui erano stati votati, senza nessun interesse per il bene della Nazione nel suo insieme. Così i rappresentanti della nobiltà si occupavano esclusivamente degli interessi dei nobili, il clero di quelli degli alti prelati e il Terzo Stato tutelava soltanto le ragioni della borghesia emergente. Risultato: la maggior parte della popolazione era costantemente esclusa da ogni forma di rappresentanza. Non è un caso che il vincolo di mandato sia stato abrogato proprio durante la Rivoluzione se con la costituzione del 1791, che introduceva il principio del libero mandato formulato da Edmund Burke nel suofamoso Discorso agli elettori di Bristol, e ispirato alla dottrina della sovranità nazionale concepita da Sieyès. Secondo questa teoria, i rappresentanti del popolo sono tenuti a rappresentare tutto il popolo e non solo una parte di esso a cui sarebbero vincolati dal mandato elettorale. Gli interessi della Nazione nel suo insieme furono dunque sostituiti a quelli di parte. Dopo una breve ricomparsa nel 1871, durante l’esperienza della Comune di Parigi, il mandato obbligatorio è stato definitivamente messo da parte dagli Stati liberali dell’Occidente, mentre fu introdotto nelle costituzioni delle repubbliche socialiste del XX sec. La Costituzione russa del 1918, prevedeva infatti che “Gli elettori che eleggono un deputato hanno il diritto di destituirlo e
di ottenere nuove elezioni”. Vincolare la volontà dei parlamentari non contribuì a favorire gli interessi del popolo, ma soltanto a sottomettere gli eletti ai dettami del partito unico al potere. Altro che democrazia diretta! Come evitare dunque il “mercato delle vacche” parlamentari, senza fare notevoli i indietro sul terreno della democrazia? Innanzitutto instaurando un’adeguata regolamentazione interna dei partiti, regolamentazione che non fu esplicitata nella nostra Carta Costituzionale dai padri costituenti e che fu, di fatto, delegata completamente ai partiti stessi con tutti gli abusi che ne sono conseguiti. Ma non basterebbe. Con l’attuale legge elettorale, senza preferenze, i parlamentari, nominati dai partiti, sono rappresentanti dei partiti stessi e non più degli elettori e, paradossalmente, si potrebbe proporre un regolamento che vieta ai rappresentanti di partito di uscire, dalla formazione a cui appartengono pena l’esclusione dal Parlamento. Un vero e proprio cortocircuito che renderebbe, di fatto, il Parlamento un organo superfluo. Tanto varrebbe eliminare il Parlamento creato per discutere le leggi, e delegare solo Bersani, Grillo e Berlusconi a votarsi le leggi che propongono, abolendo, di conseguenza, ogni distinzione fra potere legislativo ed esecutivo. Piuttosto di tornare all’Ancien Régime con la reintroduzione del vincolo di mandato, sarebbe necessario, dunque, una volta per tutte, sbarazzarci dell’odiato/amato Porcellum, la legge elettorale attualmente in vigore che tutti dicono di voler cambiare, ma che dopo anni di promesse è ancora viva e vegeta. Una legge sbagliata, definita una “porcata” dal suo stesso autore, che, a distanza di anni, continua a fare danni notevoli: grazie ad essa ci ritroviamo, all’indomani delle elezioni, in un Paese del tutto ingovernabile. Se il Porcellum è la causa della maggior parte dei recenti mali politici italiani, la priorità dunque è scrivere al più presto una nuova legge elettorale. Speriamo che anche Grillo se ne renda conto.
4.3. XVII legislatura
Il 15 marzo 2013 ha inizio la XVII legislatura il cui primo atto è l’elezione del Presidente delle Repubblica: scaduto il settennato di Giorgio Napolitano, le Camere si preparano ad eleggere il suo successore, mentre le consultazioni intavolate da Pierluigi Bersani per tentare di formare un Governo arrivano a un punto morto. Determinato a formare un governo con i 5 Stelle per evitare intese con Berlusconi, il segretario del Pd cerca fino all’ultimo di trovare un accordo con il Movimento di Grillo. Il sogno di Bersani si infrange durante un drammatico incontro in diretta streaming, incontro durante il quale i capigruppo a 5 Stelle Lombardi e Crimi, alla prima esperienza parlamentare, rifiutano con fare sprezzante ogni forma di dialogo con il premier incaricato. A un mese dalle elezioni politiche l’Italia è ancora senza un Governo e, soprattutto, non si vede all’orizzonte nessuna via di uscita dalla palude dell’ingovernabilità in cui si è risvegliato il Paese all’indomani del voto. In questo clima di totale incertezza si avvicina il 18 aprile, data di apertura delle votazioni per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Il momento è delicatissimo il sistema rischia la paralisi e le Istituzioni sembrano sull’orlo del fallimento. La politica italiana tocca il fondo con il sistema dei partiti che si dimostra, ancora una volta, incapace di decidere e di indirizzare il Paese. La crisi riguarda Berlusconi e il suo centrodestra in declino, ma il partito che più di tutto in questo momento rischia di implodere è il Partito democratico: dopo aver mancato l’obiettivo di una vittoria elettorale scontata a causa di una campagna sbagliata, si trova nella paradossale situazione di essere il partito di maggioranza relativa che non riesce neanche a trovare un accordo sul nome dell’uomo da mandare al Quirinale. Tutti i fondamenti, anche teorici, su cui si è fondata per anni l’idea di un bipolarismo muscolare e di una democrazia dell’alternanza in salsa italiana, sembrano di colpo venire meno. Se il modello italiano è in crisi, le cose non vanno meglio negli altri Paesi europei e anche la democrazia americana mostra i segni del difficile rapporto con il mondo dell’economia globale. L’affanno in cui si vengono a trovare le democrazie occidentali porta con sé l’interrogativo circa la loro efficacia nel rispondere ai problemi del mondo contemporaneo. Una domanda, per quanto inquietante, si insinua sempre più spesso nei dibattiti politici: il modello delle democrazie occidentali è in grado di affrontare le sfide
del Terzo Millennio o è destinato a essere archiviato dalla Storia?
4.4. Il bipolarismo è morto e la democrazia non si sente troppo bene (Golem 15 marzo 2013)
Dopo settimane di tatticismi, ipotesi azzardate e tentativi di mediazione mal riusciti, ha preso ufficialmente il via la XVII Legislatura della Repubblica. I neoeletti si sono finalmente insediati in Parlamento e si apprestano ad affrontare il difficile compito di trovare una soluzione al rebus istituzionale, venutosi a creare all’indomani del risultato elettorale. Se il Pd, uscito numericamente (soltanto) vincitore dalla competizione elettorale, può disporre della maggioranza alla Camera dei Deputati, al Senato, a causa dei bizantinismi della legge elettorale vigente, il pallino è finito in mano al Pdl con il Movimento 5 Stelle, partito più votato nel Paese, intento a rifiutare qualsiasi accordo con le altre forze politiche. Il movimento di Grillo, dopo aver respinto al mittente fino all’ultimo momento tutte le avances di Bersani, voterà i propri rappresentanti alla Camera e al Senato. Il 16 marzo, le Camere dovranno, infatti, affrontare il primo adempimento della legislatura: l’elezione dei presidenti delle due assemblee. Almeno fino a questo momento però, la scelta delle due alte cariche istituzionali appare una vera e propria “missione impossibile”: nelle prime tre votazioni, due previste oggi e una domani, sono richieste maggioranze molto larghe (due terzi dei voti alla Camera e maggioranza assoluta al Senato). I “grillini” hanno già comunicato i propri candidati: Roberto Fico, di Napoli, alla Camera e Luis Alberto Orellana, di Pavia, al Senato. Se il Pd ha annunciato di voler tentare la trattativa a oltranza con il M5S per superare lo stallo, non è escluso che dopo i primi scrutini possa esprimere dei candidati propri. Il Pdl, infine, sembra puntare su Renato Schifani e Renato Brunetta per guidare le proprie truppe rispettivamente al Senato e alla Camera dei deputati.
Nell’attesa che i partiti trovino una via di uscita dal pantano in cui sono caduti, non può non saltare all’occhio che il risiko parlamentare di questi giorni è il frutto di un mutamento decisivo sancito dalle ultime elezioni politiche: la fine del bipolarismo in Italia. La Seconda Repubblica si è retta sulla netta divisione del campo politico, in due schieramenti opposti: da una parte il centrosinistra guidato dal Pd e dall’altro il centrodestra trainato da Berlusconi. Oggi non è più
così. L’arrivo in Parlamento dello tsunami a 5 Stelle ha ridisegnato il quadro politico italiano, ormai diviso in tre grandi aree di consenso. Di fronte a un Paese sprofondato in una crisi economica, sociale e culturale senza precedenti, il modello dell’alternanza fra due poli o addirittura fra due soli partiti, non funziona più. Il sogno bipolare degli ultimi vent’anni è definitivamente tramontato trascinando con sé quel che resta della seconda Repubblica.
4.5. Il mito dell'alternanza
Se, fin dalle origini risorgimentali, la democrazia parlamentare italiana è sempre stata refrattaria ad un modello bipartitico, a causa dell'eterogeneità economica e culturale del Paese, con la fine della prima Repubblica, fra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, la crisi di legittimità dei partiti dell’epoca spinse la politica a superare il sistema proporzionale adottato fino ad allora e fu introdotto il maggioritario, che ha condotto al sistema bipolare durato fino ad oggi. Lungi dal risolvere gli endemici mali italici, i vent’anni di bipolarismo ci consegnano un Paese ancora più ingovernabile di prima, con un debito pubblico fuori controllo e una corruzione dilagante rispetto alla quale le magagne della prima Repubblica sembrano roba da chierichetti. L’ideale di una democrazia dell’alternanza, in cui due grandi partiti, Pd e Pdl avrebbero dovuto gradualmente egemonizzare i due campi politici avversi fino ad arrivare al bipartitismo di stampo anglosassone, ha soltanto esasperato il confronto politico trasformandolo in un duello all'ultimo sangue fra le opposte fazioni.
Lodato dai suoi sostenitori per la semplificazione del quadro politico e per la possibilità di garantire la governabilità, il bipolarismo ha il difetto, da un lato, di ridurre la pluralità delle posizioni politiche e, dall’altro, di rendere le maggioranze schiave delle formazioni numericamente più piccole. Anche nei Paesi, come il Regno Unito, dove la democrazia dell’alternanza è considerata la norma, i problemi non mancano (il sistema politico britannico può essere considerato bipartitico solo per approssimazione, è una specie di bipolarismo spurio). In realtà, infatti, il meccanismo elettorale basato su piccoli collegi uninominali in uso “oltre la Manica”, ha prodotto spesso risultati deludenti. Non di rado piccole formazioni locali hanno goduto della rappresentanza parlamentare a scapito di partiti più grandi forti di un diffuso consenso a livello nazionale, ma incapaci di vincere nei singoli collegi locali. Questi partiti sono spesso rimasti esclusi dalle istituzioni. Si è prodotto, così, un bipartitismo tendenziale, condizionato proprio dalle piccole formazioni locali.
Un sistema che riduce la pluralità democratica non riuscendo però a svincolarsi da una sorta di “dittatura delle minoranze”. Dove nasce dunque l’esigenza di una democrazia dell’alternanza e perché in questi anni ci è stata proposta come unica via per le nostre democrazie? Secondo il filosofo Jean Baudrillard, critico se della postmodernità scomparso nel 2007 (noto per aver ispirato la saga cinematografica di Matrix), il modello dell’alternanza bipolare fa parte di una rappresentazione distorta della realtà, tipica del nostro tempo. Una rappresentazione che cambia seguendo le trasformazioni del sistema. Il turbo capitalismo degli ultimi anni ha prodotto, secondo Baudrillard, una nuova, falsa, rappresentazione della realtà: il simulacro digitale. Il codice binario su cui è basato il funzionamento dei computer, è diventato un modello su cui plasmare l’intera società: così siamo stati sommersi, in questi anni, da sondaggi, test e situazioni in cui poter scegliere fra due semplici opzioni (si/no,). Lo stesso sistema politico si è adeguato al modello semplificato del codice binario: alternanza bipartitica in cui il monopolio rimane quello di un’unica classe politica articolata nella sempre più superficiale distinzione destra/sinistra. Secondo il sociologo se il bipartitismo è un perfetto esempio di duopolio in cui il sistema, che crea al suo interno l’alternativa a se stesso, risulta difficilmente rovesciabile proprio perché più stabile di qualsiasi monopolio.
4.6. La Democrazia ha ancora un futuro?
Ma anche questo modello è ormai entrato in crisi se, come sembra, tutte le democrazie occidentali risentono della difficoltà di prendere decisioni efficaci e veloci per rispondere alle esigenze dei mercati. Probabilmente la Democrazia stessa, anche nella sua forma bipolarizzata, non è più in grado di stare al o con la nuova fase economica che stiamo vivendo. Non è un caso che gli unici Paesi capaci di crescere economicamente, si veda la Cina, sono quelli in cui non esiste alcuna forma di democrazia. Potremmo dunque trovarci ben presto a dover scegliere fra Capitalismo e Democrazia, due concetti che l’Occidente, ha fino ad oggi, considerato complementari. Mentre aspettiamo di sapere se la Democrazia occidentale può avere un futuro davanti a sé, in Italia, possiamo, nonostante tutto, trovare dei segnali confortanti: la fine del bipolarismo ha aumentato la pluralità democratica, checché se ne dica. La divisione del consenso in tre grandi forze elettorali ha, inoltre, contribuito a semplificare notevolmente il quadro politico. Quando le nebbie, da più parti evocate, si saranno finalmente diradate, non è escluso che dal caos di questi giorni possa emergere un assetto politico più pluralistico e nel contempo più ordinato. Un’occasione per sperimentare nuove forme di Democrazia che ci salvino dalla dittatura dei mercati: nonostante i difetti e i problemi che caratterizzano la sua vita pubblica, l’Italia rimane, nel bene o nel male, il laboratorio politico della vecchia Europa.
V - Larghe intese
Il 2013 è l’annus horribilis della politica italiana ma, per una strana coincidenza è anche l’anno in cui si celebra l’anniversario di un capolavoro del pensiero politico, misconosciuto e deprecato per secoli ma che, a ben vedere, sancisce, per la prima volta nella storia occidentale, l’autonomia della politica da tutte le altre forme di potere. Nell’attesa che anche l’Italia del XXI secolo trovi il suo “Principe virtuoso”, capace di tirarla fuori dal pantano economico-sociale e politico in cui si è cacciata, ripercorrere la lezione di Niccolò Macchiavelli e rileggere le pagine de Il Principe può rappresentare un utile antidoto all’antipolitica dilagante. Un pezzo di storia della cultura europea e non solo, un monito che viene dal ato ma che risulta ancora attuale: l'Italia sempre divisa e preda degli appetiti delle potenze straniere, è sempre in cerca di un "Principe" capace di indicarle la via e di tirarla fuori dai guai. A cinquecento anni di distanza da Machiavelli e dalla sua opera possiamo dire che questo "Principe" non è stato ancora trovato, al netto delle varie e ricorrenti illusioni di cui la storia ci illustra le conseguenze spesso tragiche. Oggi è forse venuto il momento di cercare la strada per rimettere in carreggiata il Bel Paese formando dei cittadini degni di tale nome e consapevoli del ruolo e dell'importanza di tutte le istituzioni italiane ed europee, piuttosto che cercare, per l'ennesima volta, un deus ex machina.
5.1. Dal Principe all'antipolitica
Mentre sono in corso le consultazioni al Quirinale, nel complicato tentativo di dare un governo all’Italia, mai come in questo difficile 2013, l’incertezza e la confusione sembrano regnare incontrastate sotto il cielo della politica. Ma il 2013, che da questo punto di vista sembra segnare la crisi più nera, è anche l’anno del Principe. Esattamente 500 anni fa, infatti, veniva scritta, nella Firenze del Rinascimento, un’opera importante e controversa, destinata ad essere letta e discussa nei secoli successivi, fino ai nostri giorni: Il Principe di Niccolò Machiavelli. Trattato politico scritto sulla scorta dell’esperienza personale dell’autore, immerso nella politica italiana del tempo, Il Principe parla dei principati e dei modi in cui essi si conquistano e si conservano. Lontano dalla fredda teoria, il libro di Machiavelli è condito con continui esempi e richiami ai personaggi del suo tempo, che dipingono con immagini “vive” ed efficaci il pensiero dell’autore e ne lasciano trasparire tutta la ione politica. Ma cosa ha da dire un’opera scritta nel 1513 agli italiani del XXI secolo? Molto più di quanto potrebbe sembrare a prima vista. Pur essendo un libro profondamente immerso nel suo tempo e nella mentalità dell’epoca, fattori profondamente cambiati nel corso dei 500 anni che ci separano da Machiavelli, Il Principe mantiene, come tutti i classici, un nucleo di profonda attualità capace di parlare agli uomini di tutte le generazioni. Come La Divina Commedia, Il Canzoniere di Petrarca e I Promessi Sposi, il capolavoro di Niccolò Macchiavelli fa parte del DNA culturale del nostro Paese e non solo. Non è un caso che ogni epoca si è, a suo modo, riconosciuta nel Principe per motivi sempre diversi: nell’Italia postnapoleonica veniva esaltato il realismo politico di Machiavelli, capace di indicare in una monarchia forte l'unica prospettiva di superamento delle lotte intestine. Durante il risorgimento alcuni videro in Machiavelli il profeta della riscossa nazionale. Nel XX secolo, Gramsci identificò il moderno principe non in una persona, ma nel partito politico come “concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione”, mentre Mussolini strumentalizzò l’opera dell’autore fiorentino, durante il ventennio, per giustificare la propria concezione di “Stato etico”. Anche oggi abbondano interpretazioni diverse e spesso controverse de Il Principe che continuano, in alcuni casi, ad alimentare la cattiva fama dell’opera e del suo autore.
5.2. Chi è il Principe?
Sarà per le figure storiche prese ad esempio ne Il Principe: gente tanto ambiziosa quanto spietata come il Duca Valentino, o sarà forse per il realismo politico, fatto sta che una pessima fama caratterizza l’autore fiorentino, soprattutto fuori dai confini nazionali. Se gli inglesi lo identificano addirittura con il diavolo (chiamato the Old Nick, in riferimento proprio allo scrittore toscano), i luterani hanno visto in Machiavelli il teorico della tirannia e dell’immoralità, attribuendogli la famosa affermazione secondo cui “il fine giustifica i mezzi”. Un fraintendimento nato probabilmente da un o del capitolo 18 in cui si legge: “Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se'; e quelli pochi non ardiscano opporsi alla opinione di molti che abbino la maestà dello stato che li difenda: e nelle azioni di tutti li uomini, e massime de' principi, dove non è iudizio da reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: è mezzi saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati; perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa; e nel mondo non è se non vulgo”. Come è chiaro però, il o si riferisce alla massa e al suo modo, consueto, di pensare e non a ciò che il principe dovrebbe essere. Oggi come ieri dunque, la massa può essere sedotta da individui che guardano al proprio obiettivo finale e non ai princìpi. Anche se il principe deve tenere conto del modo di pensare della massa per mantenere il consenso non è autorizzato a fare ciò che vuole. Innanzitutto perché il fine ultimo del principe non è il suo personale tornaconto ma il bene dello Stato. Anzi Machiavelli sottolinea a più riprese l’importanza della prudenza e della virtù per saper sempre leggere i tempi presenti e per calcolare adeguatamente ciò che accadrà in futuro al fine di arginare l'impatto degli imprevisti della fortuna, ovvero della contingenza, del caso, dell’incertezza che caratterizza la vita umana e la politica in particolare. Una virtù civile quella auspicata da Machiavelli, da mettere in pratica nella realtà fattuale del mondo come è, e non come dovrebbe essere. Da questo punto di vista Machiavelli è il primo a mettere la politica a contatto con la dura realtà quotidiana e a rivendicarne l’autonomia sia dalla religione sia dalla morale. Non che prima si agisse diversamente, ma Machiavelli fu il primo a teorizzare la
politica come una scienza con dei principi propri. Ciò non equivale, però, a porre la politica al di sopra dell’etica. Anzi ci dovrebbe essere un’etica della politica (come sosteneva Bobbio). Un crinale sottile. Come distinguere il vero principe dall’uomo privo di morale? Il nostro panorama politico ci ha abituato, in questi anni, a vedere uomini politici, privi di morale politica, porsi al di sopra delle leggi, per perseguire i propri fini personali piuttosto che il bene comune. Chi invece fosse andato al cinema, in questi mesi, a vedere il film Lincoln, avrebbe visto il presidente americano adoperarsi, con ogni mezzo, per recuperare i voti necessari all’approvazione del famoso emendamento che abolì la schiavitù, riuscendo infine ad ottenere un successo storico per l’umanità. L’idea che Macchiavelli aveva della questione doveva essere più o meno questa, al netto di tutte le differenze di tempi e di luoghi. Per Machiavelli, il principe, la cui persona è lo Stato (cosa oggi improponibile), deve essere insieme volpe e leone per difendersi dall’indomabile fortuna,ma sempre per raggiungere quella riscossa civile e morale dell’Italia tanto agognata dallo scrittore fiorentino. E proprio nel desiderio di un riscatto dell’Italia sta forse il significato più attuale de Il Principe.
5.3. Attualità de “Il Principe”
Scritto agli albori dell’età moderna, Il Principe descrive un Paese, il nostro, alle prese con uno snodo decisivo della sua storia: mentre in Europa nascono e si affermano le monarchie nazionali, l’Italia si trova frazionata e divisa in tanti Stati regionali, preda del caos e delle ingerenze straniere. Smarrito l’equilibrio tenuto in piedi da Lorenzo il Magnifico, “l’ago della bilancia politica italiana”, i principali potentati italiani vedono seriamente minacciata la propria indipendenza. In questo contesto difficile e caotico, Machiavelli scrive Il Principe con la speranza di vedere emergere dalle “nebbie” un principe “virtuoso”, capace cioè di dar vita ad uno Stato forte, in grado di proteggere l’Italia dalle scorribande straniere. Un quadro di incertezza, dunque, quello in cui Machiavelli concepisce il suo capolavoro: un tempo in cui si è persa ogni bussola politica e morale. Da questo punto di vista anche Machiavelli viveva in un’epoca di profonda crisi della politica. Ma la politica è per Machiavelli sì la fonte dei mali dello Stato, ma anche l’unico rimedio possibile. La lezione che ci arriva dall’autore de Il Principe è la centralità della politica come sintesi dei disparati interessi della società, e come punto di convergenza di qualsiasi comunità che in essa trova l’unico strumento per decidere del suo futuro. In tempi di antipolitica e di qualunquismo questa lezione risulta più che mai attuale.
Mentre molti sono tentati dal “gettare il bambino assieme all’acqua sporca”, Machiavelli ci ricorda la complessità della politica, sempre esposta, da un lato, ai capricci della sorte e del caso e, dall'altro, soggetta alla virtù per arginare l'impatto degli imprevisti. Una via stretta lungo la quale la ruina è la compagna di viaggio costante di chi la percorre. Un perenne conflitto, dunque, fra il tentativo di indirizzare razionalmente la realtà e la percezione di un momento storico buio che concatena una serie di eventi che sfuggono ad ogni accorta previsione. Oggi, come ieri, non si vede all’orizzonte nessun “Principe”, capace di risollevare l’Italia dal pantano, tuttavia, e questa è la lezione attuale di Machiavelli, non è possibile rinunciare alla politica come strumento di risoluzione dei problemi della società.
5.4. Un nuovo/vecchio Presidente
In attesa di un “Principe”, l’Italia si accontenterebbe di trovare “almeno” un Presidente della Repubblica, impresa che nel fatidico aprile 2013, si rivela tutt’altro che semplice. Per essere eletti alla carica più alta della Repubblica, nelle prime tre votazioni, sono necessari i voti di due terzi dell’assemblea, composta dalle due Camere riunite in seduta comune più 58 “grandi elettori”, delegati eletti dai consigli regionali. A partire dalla quarta votazione in poi basta la maggioranza assoluta, cioè il 50 per cento più uno (504 voti), per essere eletti al Quirinale. Il Partito Democratico, che nonostante la “non vittoria” è il partito di maggioranza relativa, propone i nomi dei suoi pezzi da novanta per il Colle più alto, ma uno dopo l’altro vengono tutti impallinati dal voto a scrutinio segreto. Dopo Franco Marini cade anche Romano Prodi, ex presidente del consiglio e fondatore storico del Partito Democratico. Nonostante l’assemblea Pd si sia espressa all’unanimità per la sua candidatura, essa viene affossata in aula sotto i colpi di centouno franchi tiratori.
Pur essendo presente nella rosa dei candidati votati online dai militanti del Movimento 5 Stelle, Prodi non viene votato dalla pattuglia parlamentare pentastellata che gli preferisce, invece Stefano Rodotà, noto giurista ed ex parlamentare del Pc, anche egli presente fra i “prescelti” dal blog di Grillo.
La situazione sembra giunta ad un ime che paralizza l’intero Paese: senza un Presidente della Repubblica nel pieno del suo mandato la situazione di stallo parlamentare rischia di perdurare e di impedire la formazione di un governo a due mesi dalla conclusione delle elezioni politiche. A questo punto quell’accordo bipartisan osteggiato fino all’ultimo minuto dal segretario Pd Bersani, diventa una necessità improrogabile e alcuni fra principali partiti, Pd, Pdl, Lega e Scelta Civica, si recano da Giorgio Napolitano per chiedergli di essere il candidato di entrambi gli schieramenti e di intraprendere, per la prima volta nella storia della Repubblica, un secondo mandato da Capo dello Stato. Il 20 aprile 2013 Giorgio
Napolitano viene eletto Presidente della Repubblica per la seconda volta, al sesto scrutinio e con 738 voti contro i 217 totalizzati da Stefano Rodotà. Napolitano, che al momento delle rielezione ha 87 anni, diventa il presidente più anziano della storia repubblicana. La rielezione bipartisan di Napolitano apre la strada alle larghe intese, nel frattempo, come annunciato precedentemente, Bersani si dimette dopo la nomina del nuovo Capo dello Stato.
Assieme a Bersani lascia tutta la vecchia segreteria del Pd: si apre una fase nuova e incerta per un Partito che, fino a pochi mesi prima, si avviava a governare il Paese dopo il ventennio berlusconiano e che si ritrova, al termine di un’elezione presidenziale gestita nel peggior modo possibile, senza premier, senza un segretario e senza una segreteria. Nel frattempo il Paese aspetta ancora un Governo. Mentre infuria la polemica grillina sulla rielezione di Napolitano e sull’accordo che si profila tra i partiti della seconda Repubblica, il 24 aprile l'incarico di formare un “governo di larghe intese” viene affidato ad Enrico Letta direttamente dal neoeletto Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. “La sola prospettiva possibile è quella di una larga convergenza tra le forze politiche che possono assicurare al governo la maggioranza in entrambe le camere”, con queste parole il Capo dello Stato annuncia l’inizio dell’era delle larghe intese.
[1] Espressione usata dal segretario del Pd e candidato premier della coalizione di centrosinistra alle elezione politiche del febbraio 2013, Pierluigi Bersani, per commentare il risultato del suo partito all’indomani delle votazioni.
[2] A partire dagli anni Cinquanta del Novecento, nel linguaggio politico e giornalistico italiano, in senso figurato franco tiratore è il «rappresentante di un partito o di uno schieramento che, in votazioni segrete di organi collegiali, vota in modo diverso da quello concordato o ufficialmente deciso dal proprio partito o schieramento» - in “Vocabolario della lingua italiana”,
Treccani. Il termine «franco tiratore», è la traduzione italiana del sostantivo se franc-tireur, che si riferisce ai guerriglieri isolati o raggruppati in piccole pattuglie che, durante le guerre ingaggiate dalla Francia durante i secoli XVIII e XIX, si battevano da soli contro un esercito regolare che cercava di occupare una postazione.
5.5. Piazza democrazia finisce nella Rete (Golem, 26 aprile 2013)
L’esito del nuovo incarico affidato ad Enrico Letta non è affatto scontato: la settimana dell’elezione del Presidente della Repubblica, per certi versi drammatica, per altri surreale, ha messo a dura prova la tenuta del Paese, consegnando l’immagine di un’Italia profondamente divisa in blocchi ormai inconciliabili, con i partiti ridotti all’impotenza dall’esito del risultato elettorale e, soprattutto, dai veti incrociati all’interno dei partiti stessi. Ma la divisione più profonda è probabilmente quella fra la “piazza” e il “Palazzo”: le proteste contro la rielezione di Giorgio Napolitano e soprattutto contro un accordo in Parlamento fra Pd e Pdl, si sono trasferite ben presto dalla rete alle piazze. Per quanto legittima, la richiesta di cambiamento non può non tener conto dei vincoli costituzionali: l’elezione del Presidente della Repubblica è affidata agli eletti delle Camere, possibilmente con l’accordo più ampio possibile tra le forze in Parlamento. Per questo gridare al golpe non ha senso, così come boicottare ogni forma di dialogo tra gli schieramenti, reso obbligatorio dalla realtà dei fatti (il risultato del voto), in nome di un vago concetto di “inciucio”. Certo, chiedere a Napolitano di farsi eleggere nuovamente ha rappresentato un fallimento della politica e soprattutto dei partiti, Pd in testa, ma per il semplice fatto che essi non sono riusciti a trovare un accordo su un nome condiviso. Proprio il fallimento del dialogo in Parlamento e all’interno dei partiti ha portato al secondo mandato di Giorgio Napolitano. Più che di inciucio si può al massimo parlare di una resa dei partiti. Le decisioni prese dai gruppi dirigenti si sono dimostrate di volta in volta inconcludenti o sbagliate, sotto la spinta di una pressione sempre più forte venuta anche dall’esterno e soprattutto dalla rete. Si è molto parlato dell'influenza che hanno avuto Twitter e i social media nel condizionare l’orientamento dei parlamentari, soprattutto di quelli del Pd: per la prima volta i cittadini sono riusciti a “entrare” nelle stanze dei bottoni dialogando in diretta con i rappresentanti eletti in Parlamento, spingendoli verso l’una o l’altra direzione. Tuttavia a decidere, alla fine, è stato il Parlamento e non la piazza virtuale o reale che fosse, ed è giusto così. È giusto perché, in primo luogo, la Costituzione
non prevede l'elezione diretta del Capo dello Stato da parte dei cittadini e, anche in quei Paesi, come gli Stati Uniti, dove c'è l'elezione diretta del Presidente, la votazione spetta ai grandi elettori (termine ora importato anche da noi) e non direttamente al popolo. Quindi, finché non si modifica l’assetto istituzionale, è inutile gridare al colpo di Stato. La seconda ragione per la quale sarebbe stato sbagliato eleggere un Presidente a furor di popolo, è che il candidato della rete, o meglio di Grillo, Stefano Rodotà, aveva sì tutte le carte in regola per poter fare il Presidente, tuttavia il presunto plebiscito nell’agorà virtuale di Grillo non sembra ci sia stato. Prendendo per buone le modalità con cui si sono svolte le cosiddette “quirinarie” del Movimento 5 Stelle (sulla cui trasparenza molti hanno sollevato dei dubbi), i voti ottenuti da Rodotà sono stati 4.677: un po’ pochi per farne il candidato della rete e, soprattutto, per sovvertire le regole costituzionali e farlo eleggere – di fatto - dalle piazze.
Uscendo dal ristretto suffragio sulla piattaforma online a 5 Stelle, salta all’occhio che tutti i sondaggi, online e non, davano altri nomi come super preferiti dal "popolo della rete", come ad esempio quello di Emma Bonino su cui però non si sono consumate proteste di piazza o scene di isterismo collettivo: la Bonino è stata ignorata tanto dal palazzo, tanto da quella piazza che evidentemente non era poi così rappresentativa della volontà popolare come voleva sembrare.
5.6. Il falso storico della democrazia diretta ad Atene
Mentre in rete monta la nuova protesta contro il governo di larghe intese o di “servizio al Paese”, bisognerebbe domandarsi se sostenere che la politica debba sottostare alla volontà della piazza, e oggi di quella moderna agorà che è la rete, non significhi, in fin dei conti, fare pura demagogia. Sull’impossibilità di ricreare una democrazia diretta tramite l’agorà della rete abbiamo già detto in ato, ma quello che è importante sottolineare è che gli antichi abitanti dell’Atene del V secolo, la culla della democrazia, pur attribuendo un notevole peso alla piazza per ottenere il consenso, in fin dei conti non è che la ascoltassero più di tanto quando si trattava di prendere delle decisioni. Esaltare la cosiddetta democrazia partecipata attraverso la rete, richiamandosi alle forme di partecipazione diretta dell’Atene del V secolo, e presentarla come la massima forma possibile di espressione democratica è, tutto sommato, un falso storico. Uno Stato moderno non può essere paragonato per dimensioni e per complessità ad una antica polis greca, tuttavia, perfino nell’Atene di Pericle, una città-Stato di poco più di 100mila anime, avevano capito che è impossibile nonché pericoloso governare la cosa pubblica ascoltando tutta la popolazione. A prendere le decisioni nell’Atene classica era la Boulé (paragonabile, con le debite differenze, al nostro Parlamento): 500 membri eletti dalle cinque tribù di Atene suddivise per demi, secondo la riforma censitaria introdotta da Solone e portata a compimento da Clistene. 100 membri per ogni tribù venivano eletti per far parte della Boulé (ogni componente riceveva 5 oboli al giorno per tutta la durata dell'incarico, per ricordare anche i costi della politica) e l'assemblea generale, l'Ecclesìa, era la piazza, oggi sostituita dalla rete nel mondo a 5 Stelle. Ma più che a prendere decisioni l’assemblea generale, la piazza, era convocata per ascoltare e per decidere su ciò che la Boulé proponeva attraverso proposte di legge dette probùleuma (da cui nasce il nostro termine “problema”, ossia una cosa di cui discutere per risolverla). Dall'assemblea generale erano esclusi quei cittadini che non avessero entrambi i genitori ateniesi. Una democrazia da un certo punto di vista “oligarchica” dunque, a cui solo un numero limitato di abitanti aveva accesso tant’è che anche illustri cittadini, come lo stagirita Aristotele, erano esclusi dalle decisioni.
Nonostante ciò la voglia di partecipazione non era poi così forte nei fortunati aventi diritto. Spesso erano in pochi a presentarsi alle assemblee pubbliche, tanto che Pericle fu costretto a fissare intorno ai seimila voti la soglia da raggiungere per ritenere valida una votazione. Inoltre, per invogliare la gente a prendere parte al voto, stabilì un compenso per il giorno di votazione: due oboli per ogni cittadino che avesse deciso di partecipare. Non era dunque l’ecclesìa, la piazza o come diremmo oggi “la rete”, a proporre le cose da fare. La Boulé avanzava le proposte di legge che, una volta approvate dall’agorà, venivano esaminate dagli Arconti, la suprema magistratura ateniese, che potevano decidere i tempi e i modi con cui applicare una determinata legge e potevano, alla fine dei giochi, bloccarla, con buona pace dell’iniziativa popolare. Se la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica e democratica è un diritto sacrosanto, affermare che la politica debba sempre ascoltare la piazza o la rete, che oggi ha di fatto preso il posto dell'antica agorà, è un'ipocrisia demagogica. Dare ascolto alla piazza, alla rete o all’opinione comune, non è una garanzia assoluta per chi voglia prendere delle buone decisioni. Ne è una prova il pessimo risultato che ottenne il “referendum popolare” messo in piedi da Pilato per decidere se crocifiggere il ladrone Barabba o Gesù. Tornando a tempi a noi più vicini, forzare le scelte del Parlamento attraverso il ricorso alla piazza non sempre porta a buone conseguenze. Ad esempio, in occasione dell'entrata in guerra dell'Italia nel Primo conflitto mondiale nel 1915, la maggioranza delle forze politiche in Parlamento era contraria all'intervento armato. Ma i cosiddetti interventisti riuscirono a scavalcare la volontà della maggioranza parlamentare grazie alla spinta di una piazza molto agitata che premeva per l’entrata in guerra. Nei mesi precedenti si erano susseguiti in tutta la penisola dibattiti e manifestazioni pubbliche a favore della guerra, che si intensificarono all'inizio del cosiddetto “radioso maggio”. Alla fine la piazza ottenne l’ingresso dell’Italia nel conflitto, con le conseguenze che ben si conoscono.
5.7. Il Governo Letta
Il 28 aprile 2013 si insedia ufficialmente il Governo Letta, primo governo della XVII Legislatura. Nonostante le difficili consultazioni, caratterizzate dal solito e infruttuoso confronto in streaming con i rappresentanti dei 5 Stelle e dai paletti fissati dalla destra di Berlusconi, azionista di maggioranza della nuova fase politica, le consultazioni danno esito positivo e la strana maggioranza può fare il suo ingresso a Palazzo Chigi. Proprio a largo Chigi succede però quello che nessuno si aspettava: mentre il neonato Governo è intento a giurare al Quirinale, Luigi Preiti, un disoccupato calabrese di mezz’età, apre il fuoco su due carabinieri di guardia davanti al Palazzo del Governo. Uno dei due militari, il Brigadiere Giangrande, rimane a terra gravemente ferito. L’episodio getta un’ombra sul futuro del Governo, soprattutto perché rimane avvolto in quella coltre di mistero e incertezza che caratterizza molti dei fatti di sangue che hanno contribuito a determinare, purtroppo, la recente storia italiana. Ancora oggi, a più di un anno dall’attentato, rimangono ignoti i motivi del gesto di Preiti che, secondo le perizie effettuate dagli inquirenti, non sembra essere uno squilibrato. Il Governo di Enrico Letta si insedia nonostante la sparatoria e si impegna nel difficile compito di guidare il Paese, ancora sofferente per le manovre “lacrime e sangue” dei tecnici, fuori dalla palude della recessione economica. Il tentativo dura all’incirca nove mesi e, nonostante alcuni segnali positivi, non riesce a dare all’Italia la scossa necessaria per rialzarsi dopo la tempesta politico-finanziaria che si era abbattuta sulle sue istituzioni e sulla sua struttura economica.
5.8. E le stelle stanno a epurare - Golem, 21 giugno 2013
Mentre il Governa di Letta si impegna nel “servizio al Paese”, i problemi sembrano moltiplicarsi per la pattuglia parlamentare dei 5 Stelle: a contatto con la dura realtà delle aule parlamentari, i “grillini” sembrano sempre più chiusi in se stessi, impegnati a rifiutare qualsiasi avvicinamento da parte delle altre forze politiche più che a trovare soluzione per i guai del Paese. Alcuni giovani deputati a 5 Stelle si esibiscono in gaffe clamorose in Parlamento come negli studi televisivi e l’occupazione del tetto di Montecitorio sembra l’unica azione politica che il gruppo è capace di compiere durante i primi mesi dell’attività parlamentare. Alle amministrative di maggio 2013 per il rinnovo dei vertici politici di molti importanti comuni italiani, tra cui Roma, il Movimento 5 Stelle si presenta impreparato all’appuntamento elettorale. Perde voti e consensi in tutt’Italia attestandosi attorno all’11%. La Capitale e molti altri centri importanti vanno al Pd, mentre il Movimento di Grillo non riesce nemmeno ad arrivare ai ballottaggi. I malumori crescono e sono sempre di più i parlamentari a 5 Stelle che criticano le strategie politico-mediatiche di Grillo e Casaleggio. Iniziano le epurazioni.
5.9. L'espulsione di Adele Gambaro
Si è concluso come da programma il “processo a 5 Stelle” nei confronti della Senatrice Gambaro, rea di aver criticato il Movimento e il suo leader, Beppe Grillo, all’indomani della sconfitta elettorale riportata nelle recenti amministrative. Fino alle 17.00 del 19 giugno 2013, gli iscritti al Movimento hanno potuto decidere online il destino della parlamentare. Ovviamente a deliberare non è stata “la rete”, bensì, come ha precisato Grillo sul suo blog, tutti gli “iscritti al portale al 31 dicembre 2012 con documento digitalizzato”. Circa 48.000 persone dunque, chiamate a ratificare una decisione già presa dall’assemblea degli eletti a 5 Stelle riunitasi, a porte chiuse, pochi giorni fa. 79 i sì all'espulsione di Adele Gambaro, 42 i no e 9 gli astenuti: questi i numeri risultati al termine dell'assemblea parlamentare che ha dato il via libera alla fuoriuscita della senatrice. Già prima della chiusura delle consultazioni online, l’esito del voto appariva dunque scontato: meno della metà degli aventi diritto a partecipare alle votazioni ha ratificato l’espulsione della senatrice. “Le operazioni di voto si sono concluse. Gli aventi diritto erano 48.292, ma solo 19.790 hanno partecipato alle votazioni. Il 65,8% (pari a 13.029 Voti) ha votato per l'espulsione, il restante 34,2% (pari a 6.761 Voti) ha votato per il no. Grazie a tutti coloro che hanno partecipato”, si legge sul sito di Grillo. Ma di cosa era accusata la senatrice espulsa?
Adele Gambaro, eletta al Senato nelle fila del Movimento, dopo le elezioni amministrative dello scorso maggio, visto l’evidente ridimensionamento del bacino di voti a 5 Stelle, decise di rilasciare un'intervista a Sky TG24 nella quale attribuiva la colpa del tonfo elettorale del Movimento al leader Beppe Grillo. Secondo la Gambaro la comunicazione aggressiva di Grillo e del suo blog, contribuisce, quotidianamente, a offuscare il lavoro serio e produttivo che i parlamentari pentastellati fanno in Parlamento ogni giorno. L’invito rivolto a Grillo dalla senatrice dissidente era dunque quello di scrivere meno e dedicarsi invece all’osservazione dei lavori parlamentari. Da qui l’accusa, messa nero su
bianco sul blog dallo stesso Grillo: la Gambaro ha “rilasciato dichiarazioni lesive per il M5S senza nessun coordinamento con i gruppi parlamentari e danneggiando l'immagine del M5S con valutazioni del tutto personali e non corrispondenti al vero". Tuttavia, al di là della presa di posizione nei confronti del leader all’indomani della sconfitta elettorale, non risulta che la senatrice “eretica” abbia mai votato in contrasto con il suo gruppo parlamentare. Non ci sarebbe dunque nessuna manifesta contestazione della linea tenuta in Parlamento dal Movimento, i cui risultati sono stati, tra l’altro, rivendicati dalla stessa Gambaro nell’intervista “incriminata”. Ciò che emerge è piuttosto una critica al tipo di comunicazione messa in campo da Grillo negli ultimi mesi. Decisamente poco per “processare” ed espellere una senatrice da un gruppo parlamentare. Il diritto di critica in democrazia non si nega a nessuno, tranne, a quanto pare, ai deputati e senatori eletti nel Movimento 5 Stelle. Lo stesso non- statuto del Movimento non prevede espulsioni per lesa maestà.
Ma quella di Adele Gambaro non è stata l’ultima espulsione in casa Grillo: all'orizzonte si profila già la cacciata della “cittadina” Pinna, critica verso il clima di sospetto e di “epurazioni facili” venutosi a creare in queste ore nel Movimento. Paola Pinna è una deputata sarda eletta a Montecitorio tra i 5 Stelle, che ha denunciato di recente la “brutta aria” che tira nel Movimento, sempre più in balia, a suo dire, di “talebani” e di una sorta di “psico-polizia”. Non si è fatta attendere la reazione della capogruppo alla Camera Roberta Lombardi che, in un post su Facebook dal titolo “Paola Pinna... Chi?”, accusa la parlamentare ribelle di non aver mai partecipato alle riunioni a Montecitorio. Difficile pensare però che quella della senatrice Gambaro o di Paola Pinna siano casi isolati all’interno del Movimento 5 Stelle: il fronte dei dissidenti e dei “malpancisti”, cresce ogni giorno di più, tanto che alcuni deputati grillini riferiscono al Movimento la famosa battuta di Grillo (tratta dal film Highlander) “Ne resterà soltanto uno”. Questa volta a rischiare l’estinzione è lo stesso Movimento 5 Stelle, nato per dar voce ai cittadini e finito per reprimerne le opinioni dopo averli fatti eleggere in Parlamento. Certo la maggior parte degli eletti pentastellati deve letteralmente tutto a Beppe Grillo: Pinna, Gambaro e tutti gli altri non erano praticamente nessuno prima di essere eletti. Tuttavia si sa che in politica la riconoscenza è una merce rara e chi ha fatto eleggere queste persone in Parlamento con una manciata di voti online, senza nessun altro merito politico se non quello di essere stati precedentemente “trombati” alle amministrative, oggi non può lamentarsi né, tantomeno, gridare al tradimento.
Stiamo forse per assistere all’autodistruzione del Movimento di Beppe Grillo? Difficile dirlo con certezza, quel che è evidente è che la divisione venutasi a creare all’interno del Movimento era ampiamente prevedibile. Dopo il travolgente e, probabilmente, inatteso successo elettorale delle elezioni politiche, la pattuglia parlamentare dei 5 Stelle si è ritrovata ad essere la terza forza del paese, senza avere nessun tipo di esperienza o di organizzazione alle spalle. Caratterizzato da un'eterogeneità di storie e visoni politiche che probabilmente non ha precedenti, il Movimento non ha fatto in tempo, o forse non ha voluto, trasformarsi in un’organizzazione parlamentare tout court, per paura di scoprirsi, in fin dei conti, troppo simile a quei vecchi partiti contro i quali spara a zero ogni giorno.
5.10. “Terrore” a 5 stelle
Chi pensava che per salvare il Paese da una crisi senza precedenti, bastasse una pattuglia di ragionieri che presenta gli scontrini di ogni caffè che beve si sbagliava: oggi questa evidenza è sotto gli occhi di tutti. Messa da parte la tanto acclamata trasparenza, la “rivoluzione grillina” vive ora la sua fase del Terrore giacobino. I cittadini Crimi e Lombardi sono i novelli Robespierre, intenti a mettere su un intransigente “comitato di salute pubblica” per ostracizzare tutti i sospettati che mettono in pericolo la “purezza” del Movimento, contestando il capo o “flirtando” con le forze dell’Ancien Regime. Il movimento di Grillo è incappato, a quanto pare, in quel rischio insito in ogni sogno di democrazia diretta: l'idea limite dell'unanimità democratica, l’assenso e il consenso della totalità del popolo. Rousseau fu il primo a teorizzare forme di democrazia diretta a suffragio universale per le moderne società occidentali. La Volontà Generale che secondo Rousseau avrebbe garantito il bene di tutti però non era la somma delle singole volontà individuali, bensì la volontà della decisione del popolo che non può sbagliare nel perseguire il bene comune. Ma questa è appunto un'idea limite, un sogno impossibile che se perseguito fino in fondo porta all'eliminazione di ogni forma di dissenso, automaticamente interpretata come una manifestazione di interessi particolari o contrari al bene comune. Proprio Rousseau nel Contratto sociale accusava gli inglesi, “paladini” del sistema parlamentare e della democrazia rappresentativa, di essere “liberi un solo giorno ogni quattro anni, quando vanno a votare, poi tornano schiavi”. Ovviamente non è così: una democrazia rappresentativa funzionante ha degli spazi dove i cittadini possono confrontarsi e decidere costantemente e non solo in occasione delle elezioni politiche. Gli stessi partiti, almeno sulla carta, hanno il compito di organizzare la partecipazione dei cittadini alla vita politica. Se negli anni della Seconda Repubblica i partiti e le istituzioni democratiche sono serviti ad altro, è dunque arrivato il momento di riformarli ampliando gli spazi di partecipazione, anche attraverso le nuove tecnologie, visto che l’esperimento della democrazia diretta in Parlamento, proposto da Grillo, sembra ormai giunto al capolinea. A riprova della necessità di una profonda riforma del sistema politico ed istituzionale arriva il risultato delle elezioni regionali in Basilicata, nel novembre 2013. L’astensione tocca punte altissime e non risparmia neanche i
movimenti “antisistema” come quello di Grillo e Casaleggio.
5.11. La dittatura dell’astensione - Golem, 22 novembre 2013
Se molti non considerano necessariamente un male il continuo calo della partecipazione nelle consultazioni elettorali, sicuramente esiste un sentimento di sfiducia nei confronti della democrazia rappresentativa che ha più di una spiegazione. Il primo fattore di insoddisfazione deriva probabilmente dalla trasformazione del ruolo dello Stato che, da potere capace di distribuire le ricchezze nell’ “età dell’oro” (dal 1945 agli anni ‘70), si è trasformato, di pari o con il graduale ridimensionamento del welfare state, in un mero organismo amministrativo di gestione (spesso faticosa) dell’esistente. Lo stesso potere politico, un tempo ben visibile nello Stato, oggi si disperde sia verso l’alto, con il moltiplicarsi di organismi sovranazionali (politici ed economici) non elettivi e quindi privi di una responsabilità diretta nei confronti dei cittadini, sia verso il basso, con la devoluzione di potere verso gli enti locali. Anche se la dispersione di potere verso il basso è avvenuta con l’intento di aumentare la partecipazione dei cittadini e delle comunità locali, ha dato invece vita a nuove forme di esclusione e a numerosi vuoti istituzionali, spazi per cui non esistono istituzioni democratiche. Se poi, di recente, il diffondersi del web e delle piattaforme di discussione online ha alimentato le speranze di colmare il vuoto istituzionale con le maglie della rete e della tecnologia, ben presto ci si è resi conto che i nuovi social media riproducevano su internet le solite dinamiche, finendo per diventare nient’altro che un megafono del populismo dilagante.
Non più una democrazia del progetto dunque, bensì una democrazia del rigetto in cui, chi ancora va a votare lo fa per mandare a casa i governanti di cui è ormai stufo. Se la democrazia può uscire da questa crisi non è attraverso la partecipazione finta dei sondaggi tv o delle piattaforme web, che riproducono gli stessi meccanismi chiusi e oligarchici delle realtà partitiche, ma solo attraverso l'istituzione di nuovi spazi di controllo diretto e democratico dei cittadini sulle leggi e sui governi che le applicano. È evidente che la legittimazione del potere non può più are per una votazione ogni cinque anni, pena il realizzarsi di una democrazia “a singhiozzo”. D’altro canto un continuo ricorso alle urne provocherebbe instabilità e confusione. Come uscire da questo ime? È
necessario ridare potere al cittadino: un potere di controllo che si configuri come un’estensione dello spazio democratico anche al di là del semplice diritto di voto. Potere di veto contro leggi giudicate ingiuste e potere di revisione degli atti politico-amministrativi messi in atto da chi governa. C’è chi, come l’intellettuale se Pierre Rosanvallon, da tempo auspica l’avvento di una “contro democrazia”, una democrazia che si eserciti come un contro-altare nei confronti del potere costituito. Una supervisione costante esercitata per conto dei cittadini al fine di garantirli anche in periodi non elettorali. Una dimensione quella del controllo popolare che, paradossalmente, si è smarrita proprio con l’introduzione della democrazia rappresentativa a suffragio universale. La storia della sovranità popolare infatti non è iniziata di colpo con la nascita dei sistemi rappresentativi moderni, ma è il frutto di un continuo controllo di cui il potere è sempre stato fatto oggetto prima di essere sottoposto ad elezioni.
Con la conquista del voto e del suffragio universale fra IXX e XX secolo, si è persa la dimensione del controllo, ben presente, invece, nell’antichità. Si pensi agli Efori nell’antica Sparta, all’istituto dell’ostracismo nell’Atene classica o ai Tribuni e al difensor civitatis nell’antica Roma. Oggi lo spazio della democrazia sembra limitato a quello, troppo angusto, della cabina elettorale dove, occasionalmente, ci si reca per esprimere una preferenza. Dar vita ad istituzioni capaci di tutelare, costantemente, i cittadini nei confronti di chi amministra il potere è la sfida del futuro. [1] P. Ronsavallon, Controdemocrazia. La politica nell'era della sfiducia, Tr. It, Castelvecchi, Roma, 2012.
5.12. L'età della sfiducia
Se molti non considerano necessariamente un male il continuo calo della partecipazione nelle consultazioni democratiche, sicuramente esiste un sentimento di sfiducia nei confronti della democrazia rappresentativa che ha più di una spiegazione. Il primo fattore di insoddisfazione nei confronti delle istituzioni democratiche, deriva probabilmente dalla trasformazione del ruolo dello Stato che, da potere capace di distribuire le ricchezze nell’”età dell’oro” (dal 1945 agli anni’70), si è trasformato, di pari o con il graduale ridimensionamento del welfare state, in un mero organismo amministrativo di gestione (spesso faticosa) dell’esistente. Lo stesso potere politico, un tempo ben visibile nello Stato, oggi si disperde sia verso l’alto, con il moltiplicarsi di organismi sovranazionali (politici ed economici) non elettivi e quindi privi di una responsabilità diretta nei confronti dei cittadini, sia verso il basso con la devoluzione di potere verso gli enti locali. Anche se la dispersione di potere verso il basso è avvenuta con l’intento di aumentare la partecipazione dei cittadini e delle comunità locali, ha dato invece vita a nuove forme di esclusione e a numerosi vuoti istituzionali, spazi per cui non esistono istituzioni democratiche. Se poi, di recente, il diffondersi del web e delle piattaforme di discussione online ha alimentato le speranze di colmare il vuoto istituzionale con le maglie della rete e della tecnologia, ben presto ci si è resi conto che i nuovi social media riproducevano su internet le solite dinamiche, finendo per diventare nient’altro che un megafono del populismo dilagante. Non più una democrazia del progetto dunque, bensì una democrazia del rigetto in cui, chi ancora va a votare lo fa per mandare a casa i governanti di cui è ormai stufo. Se la democrazia può uscire da questa crisi non è attraverso la partecipazione finta dei sondaggi tv o delle piattaforme web che riproducono gli stessi meccanismi chiusi e oligarchici delle realtà partitiche, ma solo attraverso l'istituzione di nuovi spazi di controllo diretto e democratico dei cittadini sulle leggi e sui governi che le applicano. È evidente che la legittimazione del potere non può più are per una votazione ogni cinque anni, pena il realizzarsi di una democrazia “a singhiozzo”. D’altro canto un continuo ricorso alle urne provocherebbe instabilità e confusione. Come uscire da questo ime?
È necessario ridare potere al cittadino: un potere di controllo che si configuri come un’estensione dello spazio democratico anche al di là del semplice diritto di voto. Potere di veto contro leggi giudicate ingiuste e potere di revisione degli atti politico-amministrativi messi in atto da chi governa. C’è chi, come l’intellettuale se Pierre Rosanvallon, da tempo auspica l’avvento di una “contro democrazia”, una democrazia che si eserciti come un contro-altare nei confronti del potere costituito. Una supervisione costante esercitata per conto dei cittadini al fine di garantirli anche in periodi non elettorali. Una dimensione quella del controllo popolare che, paradossalmente, si è smarrita proprio con l’introduzione della democrazia rappresentativa a suffragio universale. La storia della sovranità popolare infatti non è iniziata di colpo con la nascita dei sistemi rappresentativi moderni, ma è il frutto di un continuo controllo di cui il potere è sempre stato fatto oggetto prima di essere sottoposto ad elezioni. Con la conquista del voto e del suffragio universale fra IXX e XX secolo, si è persa la dimensione del controllo ben presente, invece, nell’antichità. Si pensi agli Efori nell’antica Sparta, all’istituto dell’ostracismo nell’Atene classica o ai Tribuni e al difensor civitatis nell’antica Roma.
Oggi lo spazio della democrazia sembra limitato a quello, troppo angusto, della cabina elettorale dove, occasionalmente, ci si reca per esprimere una preferenza. Dar vita ad Istituzioni capaci di tutelare, costantemente, i cittadini nei confronti di chi amministra il potere è la sfida del futuro.
VI - Rottamazione
Un sistema istituzionale sull’orlo del baratro e una classe politica che sembra non rappresentare più nessuno all’infuori di sé stessa e dei suoi interessi particolari: è questa la situazione sotto il cielo della politica italiana alla fine del 2013. Tuttavia il colpo di grazia al sistema, ormai al collasso, su cui si è basata la Seconda Repubblica, non arriva da un nuovo partito o da un movimento di protesta come quello di Beppe Grillo bensì, ancora una volta dalla magistratura. Questa volta si tratta dei magistrati della Corte Costituzionale.
6.1. L’addio al Porcellum e la crisi del Parlamento (Golem, 06 dicembre 2013)
L’esito della decisione ha sorpreso tutti. Molti si aspettavano un rinvio, altri credevano che la Consulta non si sarebbe assunta la responsabilità di deliberare su una materia così delicata. Invece mercoledì 4 dicembre, la Corte Costituzionale si è espressa sulla «questione di costituzionalità 144/2013», che altro non è se non il ricorso contro la legge elettorale conosciuta con il nome di Porcellum. Una legge biasimata da tutti, partiti e leader politici, che nonostante le critiche dei costituzionalisti, gli improperi degli elettori e gli appelli del Quirinale, nessuno era ancora riuscito a cambiare dal lontano 2005. Anche i neoeletti deputati a 5 stelle, non appena si era trattato di scegliere fra le nuove modalità di voto e il vecchio Porcellum, avevano preferito tenersi stretta la vecchia legge elettorale e, soprattutto, la possibilità di nominare i parlamentari senza are per il voto di preferenza degli elettori. Ma tutto questo appartiene ormai ai libri di storia: il Porcellum è, ufficialmente, incostituzionale. La nota diramata al termine della camera di consiglio dall’alta Corte non dà adito a dubbi: «La Corte - si legge nella nota - ha dichiarato l'illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l'assegnazione di un premio di maggioranza alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione.
La Corte ha altresì dichiarato l'illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all'elettore di esprimere una preferenza». Un pronunciamento storico che segna un’inversione di rotta nel Paese: il primo vero cambiamento negli ultimi vent’anni della storia della Repubblica. Più di qualsiasi ribaltone o voto di fiducia, più di ogni rimpasto o decadenza di berlusconiana memoria, il verdetto della Consulta stravolge gli equilibri politici italiani. Un epilogo per molti versi sconcertante, che in pochi avevano previsto quando Aldo Bozzi, l’ottantenne
avvocato e nipote dell'omonimo esponente del Partito Liberale, protagonista della Resistenza, presentò il suo ricorso. Invece il 17 maggio2013 il tenace avvocato anti-Porcellum, si è visto dare ragione dalla prima sezione civile della Cassazione che ha rimandato alla Consulta l’ultima parola sulla costituzionalità della legge. Oggi è arrivato l’atteso verdetto della Corte Costituzionale.
Cosa accadrà adesso? Una domanda che molti si pongono dopo la sentenza ma alla quale è impossibile dare una risposta. Quel che è certo è che subito dopo la decisone della Consulta, molti, da Grillo a Berlusconi, invocano il ritorno alle urne e considerano delegittimato il Parlamento. Ma la sentenza getta un’ombra anche sulle due precedenti legislature e addirittura sull’elezione del Capo dello Stato: se la legge elettorale è “abusiva” lo sono anche tutti i Parlamenti eletti attraverso di essa e le decisioni che questi hanno preso. A tale proposito nella nota diffusa subito dopo la sentenza la Consulta precisa che «il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali». Tuttavia questa precisazione, più che rassicurare rende ancora più evidente ciò che, ormai, è sotto gli occhi di tutti: il totale fallimento della politica e la sostanziale inutilità del Parlamento. Il potere politico è al punto zero: incapace di decidere e di riformarsi ha dimostrato di avere un continuo bisogno dell’azione supplente della magistratura. In principio fu la questione morale con la magistratura chiamata a selezionare a posteriori una classe dirigente indegna di occupare gli scranni parlamentari. Successivamente le toghe hanno dovuto anche agire direttamente al posto dei governi: l’ultimo caso è stato quello dell’Ilva di Taranto dove la magistratura ha bloccato le attività produttive per tutelare la salute dei cittadini.
Oggi la stessa legge elettorale, materia politica per eccellenza, non è più di pertinenza del Parlamento, che sembra aver definitivamente abdicato al potere legislativo che gli è proprio. Dei magistrati, chiamati a controllare la costituzionalità di una legge parlamentare, ne hanno decretato l’annullamento attuando, de facto,una riforma elettorale al posto delle Camere, incapaci di decidere. Sia che si torni al voto con il mattarellum, sia che il governo delle intese, ormai sempre più strette, riesca a varare in extremis una nuova legge elettorale, la classe politica italiana esce da questa vicenda completamente screditata. Lo stesso presidente del Senato, Piero Grasso, aveva dichiarato poco
prima del giudizio della Corte: «I gruppi parlamentari non riescono a trovare un accordo politico, dimostrando di non sentire la marea montante di una rabbia che si riverserà, più forte di prima, contro tutti i partiti».
Parole che a rileggerle oggi sembrano quasi profetiche. Del resto che il Parlamento avesse perso ogni forma di credibilità era evidente da tempo :l’ormai decaduto Porcellum, nell'ultima tornata elettorale, aveva attribuito il 54% dei seggi ad una coalizione che rappresentava solo il 29.5% e per altro solo in un ramo del Parlamento. Ad oggi la nostra assemblea legislativa è, dunque, la meno rappresentativa al mondo se si pensa che con l'eliminazione delle preferenze, tutti i parlamentari sono stati nominati dagli apparati di partito e che, invece, i leader che hanno ancora un consenso elettorale (Renzi, Grillo e Berlusconi) attualmente sono tutti fuori dal Parlamento. Un vero paradosso. Ma come siamo arrivati a questo punto? Dove si è smarrita l’autorevolezza dell’organo che dovrebbe rappresentare la volontà popolare? In realtà i problemi non sono cominciati oggi. Fin dagli anni ’70 si parla della “crisi del Parlamento” perché, fondamentalmente, il nostro sistema istituzionale è sempre stato affetto da un'ambiguità di fondo. Quello italiano è infatti un sistema parlamentare in cui però le Camere hanno pochissimi poteri e si limitano, ormai, a ratificare decisioni prese altrove Camera e Senato sono stati lentamente, ma inesorabilmente, svuotati del loro potere legislativo a favore del Governo. Voti di fiducia e decreti d'urgenza hanno gradualmente sostituito l’iter legislativo parlamentare fino a che il Governo ha, di fatto, sostituito il Parlamento nell’azione legislativa. Si pensi alla legge finanziaria, oggi nota con il nome di legge di stabilità: l’azione dei parlamentari si limita alla possibilità di qualche emendamento per modificare qualche dettaglio, mentre la politica economica è, interamente, nelle mani del Governo.Per questo l’Italia non è mai stata fino in fondo una repubblica parlamentare e con l’introduzione del sistema di voto maggioritario, le liste bloccate e l’indicazione del premier direttamente sulla scheda elettorale si sono fatti dei i verso una forma di governo di tipo presidenzialista senza però cambiare l’assetto costituzionale.
Per questo oggi il nostro sistema non è “né carne né pesce” tant’è vero che le forze politiche possono evocare, a seconda della convenienza del momento, la sovranità del Parlamento salvo poi gridare al “golpe di palazzo” quando si
formano maggioranze di governo alternative (come nel caso del governo Monti). Ma il cambio delle maggioranze è una caratteristica del sistema parlamentare, così come l’elezione del Presidente della Repubblica da parte delle Camere (e anche del Presidente del Consiglio). Ormai la confusione è tanta che la maggior parte dell’opinione pubblica crede che il nostro funzioni come un sistema presidenziale e vive ogni episodio che contraddice questa sensazione, come un tradimento.
Per questo prima di rinnovare, finalmente, la legge elettorale è indispensabile una rapida riforma istituzionale: o si abolisce una camera e si rende quella che resta veramente rappresentativa del volere popolare per riequilibrare il potere di fare le leggi in direzione del Parlamento, oppure si a definitivamente ad una forma di presidenzialismo effettivo potenziando il ruolo del Governo e del Presidente del Consiglio. Insomma bisogna decidere, una volta per tutte, in che direzione andare per superare definitivamente un'ambiguità che frena l'azione delle Istituzioni da ormai troppi anni. La sentenza della Corte Costituzionale segnala che il tempo è ormai scaduto. Tuttavia è sempre meglio tardi che mai, anche perché il Paese è sempre più sofferente e ben presto alla crisi istituzionale si aggiungono le agitazioni sociali.
6.2. I Forconi: moderno fascismo o rivolta del pane? (Golem, 13 dicembre 2013)
Dal 9 dicembre, giorno in cui è nato l’omonimo comitato di protesta, il Movimento dei Forconi attraversa l’Italia con presìdi, manifestazioni di piazza e blocchi stradali. Da nord a sud la protesta si diffonde in tutto il Paese e, mentre i tir bloccano la frontiera con la Francia in Liguria (sull’Aurelia) e a Ventimiglia (Imperia), scendono in piazza al fianco degli autotrasportatori anche agricoltori, artigiani, studenti, imprenditori, precari, disoccupati: insomma più o meno tutte le categorie sociali. Una situazione esplosiva a cui la politica guarda con particolare preoccupazione, soprattutto dopo i recenti avvenimenti che hanno sancito e sottolineato la debolezza delle istituzioni della Repubblica, messe ulteriormente in difficoltà dalla recente sentenza della Consulta sulla legge elettorale dichiarata incostituzionale. E così dopo l’allarme dei servizi segreti, rilanciato dal Ministro degli interni Alfano, circa le possibili infiltrazioni all’interno del movimento di protesta, si susseguono i vertici al Viminale in cui si esprime tutta la «preoccupazione» per gli avvenimenti in corso e si teme che «l’insieme delle cause di un disagio sociale possa provocare una deriva ribellistica contro le istituzioni nazionali ed europee». Un quadro certamente poco rassicurante. Un movimento di cui si sa poco o niente che improvvisamente sembra capace di innescare una rivoluzione in Italia. Ma chi sono in realtà, i cosiddetti “Forconi” che da giorni infiammano il Paese? Nato in Sicilia fra il 2011 e il 2012, da un nucleo composto da agricoltori, commercianti e autotrasportatori, il Movimento dei Forconi, un anno fa, si rese protagonista di numerosi blocchi stradali per protestare contro l’aumento delle accise sulla benzina. Questa volta l’obiettivo è il governo Letta e, in generale, le politiche di austerità dell’Europa e dei vari governi. Nel manifesto postato sulla pagina Facebook del movimento si legge che “la protesta è contro il Far-West della globalizzazione che ha sterminato il lavoro e gli italiani, contro questo modello di “Europa”….”. I Forconi non sono fanatici dei social network e, quando li usano per esternare il loro pensiero, prediligono Facebook al più elitario Twitter. Così sempre su Fb, si legge che il Movimento è «un'associazione di agricoltori, pastori, allevatori stanchi del disinteresse, quando non del maltrattamento, da parte delle istituzioni».
Ideatore del termine “Forconi” riferito alle proteste del 2011 , fu l’allevatore sardo Felice Floris mentre gli attuali leader della protesta sono fondamentalmente tre: Mariano Ferro, "inventore" del movimento e leader dell’area siciliana, Lucio Chiavegato, un artigiano, presidente dei "Liberi imprenditori federalisti europei" del Veneto e coordinatore dei forconi al Nord. Infine c’è Augusto Zaccardelli, segretario nazionale del "Movimento autonomo degli autotrasportatori" che si occupa del Sud. Se il movimento si dichiara lontano da ogni formazione politica, partitica o sindacale, le cose non stanno esattamente così. Alla mobilitazione hanno aderito associazioni sindacali e non, come i Cobas del latte, l’Associazione autotrasportatori, i Comitati riuniti agricoli. Oltre a queste associazioni si trovano, fra le file dei forconi, anche movimenti vicini alla destra extraparlamentare e gruppi nazionalisti come Forza Nuova, Casa Pound e il Movimento Sociale Europeo. Sin dall’inizio i «forconi» sono stati accusati anche di essere appoggiati, in parte, dalle organizzazioni mafiose.
6.3. “F” come Fascismo
Sono tutte illazioni strumentali o indizi di qualcosa di più inquietante che si cela dietro le legittime proteste dei cittadini vessati dalla crisi? Per ora è impossibile dare risposte definitive, tuttavia c’è chi, galvanizzato dal successo della manifestazioni, si è lanciato in paragoni storici quantomeno azzardati accostando il Movimento dei forconi al Fascismo delle origini. La capacità di aggregare ceti sociali distanti fra loro, dagli agricoltori ai borghesi, e il movimentismo contagioso sono i tratti che a prima vista sembrano accomunare le due vicende storiche. Il paragone con il fascismo delle origini si riferisce all’episodio storico del 1919 quando Mussolini, chiamato a raccolta il primo nucleo del futuro regime, fondò i “Fasci italiani di combattimento” in Piazza San Sepolcro, a Milano. Se è vero che anche i sansepolcristi erano abbastanza eterogenei nella loro composizione, è altrettanto vero che non si trattava di un movimento popolare ma di un esiguo numero di persone tra cui molti ex combattenti e alcuni intellettuali, come ad esempio Tommaso Marinetti, fondatore del “Futurismo”, il giornalista Michele Bianchi e Luigi Razza. Questo movimento fu inizialmente molto circoscritto e, pur avendo dei punti programmatici espressi nel manifesto, non ebbe molto seguito, come dimostra il fallimento alle elezione del 1919. Dunque il paragone fra il movimento dei sansepolcristi e quello odierno, dei Forconi, non sta in piedi. Una delle grandi differenze che distingue il Movimento del 9 dicembre da tutti gli altri movimenti organizzati (M5S compreso), è che i forconi non hanno nessuna rivendicazione particolare da rivolgere al governo o alle altre istituzioni. Più che un movimento organizzato si tratta di un moto generale di protesta che coinvolge tutte le fasce sociali colpite dalla crisi economica.
Il successo della mobilitazione dipende dal fatto che il Movimento funziona come un franchising: chiunque metta su un presidio per esprimere rivendicazioni di carattere locale o nazionale, può far parte della protesta. Moti spontanei di protesta: persone stremate dalla crisi che, senza distinzioni di classe sociale o di categoria lavorativa, scendono nelle piazze spinti dalla disperazione e dall’insofferenza per le ormai continue vessazioni fiscali. Più che la nascita del
fascismo la vicenda ricorda le “rivolte del pane” del XVII secolo, come quella descritta dal Manzoni nel XII capitolo de “I Promessi Sposi”. Se la vicenda letteraria è nota, vale la pena ricordare il contesto storico per molti versi molto simile a quello attuale: il Seicento fu un secolo di crisi, in cui, dopo una prolungata fase di crescita demografica, si verificò una forte inflazione e un repentino innalzamento dei prezzi. Nel secolo che vide nascere la scienza moderna e le prime, rudimentali, forme di capitalismo in Inghilterra e in Olanda, alcune nazioni precipitarono in una crisi senza precedenti aggravata dai mutamenti climatici (piccola glaciazione) e dalle ripetute epidemie di peste. È il caso dell’Italia, che al tempo era, quasi completamente, sotto il dominio spagnolo. In questo contesto, nel 1628 nel ducato di Milano, già sofferente per una terribile carestia, un ennesimo aumento dei prezzi del pane, provocò una aspra ribellione. Allora come oggi, la protesta era alimentata dalla sfiducia totale negli uomini politici al potere: come il governatore di Milano, Gonzalo Fernández de Córdoba, troppo impegnato in questioni internazionali per pensare al popolo, o come il Gran Cancelliere, Ferrer, che ne prese il posto dopo la partenza di quest’ultimo.
Nell’episodio raccontato dal Manzoni Ferrer usa la lingua italiana per promettere “pane e giustizia” al popolo, salvo poi dire tutt’altro in spagnolo, la lingua del potere sconosciuta ai più. Da questo punto di vista Ferrer è forse il personaggio più attuale dell’episodio: negli ultimi 20 anni abbiamo conosciuto molti politici auto dichiaratisi difensori del popolo ma pronti a parlare, dietro le quinte, lo stesso linguaggio delle élite economiche dominanti. Quando la rabbia popolare esplode non risparmia nessuno se, in nome di questioni internazionali o del pareggio di bilancio, si affamano le persone. Un monito che viene dal ato e interroga direttamente chi governa e chi cerca, invano, di fare l’identikit politico dei manifestanti stremati dalla crisi.
6.4. Fine della Seconda Repubblica
Stretto fra crisi economica, disagio sociale e turbolenze economiche, il governo delle larghe intese si avvia al capolinea. A determinare la crisi della compagine di governo guidata da Enrico Letta contribuisce senza dubbio la sentenza della Corte Costituzionale che, abrogando la legge elettorale con cui è stato eletto, getta un’ombra sulla legittimità di tutto il Parlamento e mette in moto le manovre per l’immediato futuro politico del Paese. Ma sono soprattutto le vicende interne ad una delle principali forze che lo sostiene (il Pdl) mettere in crisi l’esecutivo di Letta. Le disavventure giudiziarie dell’ex premier e leader del centro-destra, Silvio Berlusconi, pesano sempre di più sugli equilibri della “strana maggioranza”. Il 1 Agosto 2013 la Corte di Cassazione ha riconosciuto Berlusconi colpevole di frode fiscale in riferimento al caso Mondadori e lo ha condannato a 4 anni. Se a causa dell’età e di altre attenuanti il Cavaliere ha evitato la galera, non riesce a sfuggire alla “legge Severino” che impone l’ incandidabilità e la decadenza da i ruoli istituzionali più importanti per i politici condannati in via definitiva. Varata a suo tempo dal “Governo dei tecnici”, la legge Severino viene applicata per la prima volta a Berlusconi nonostante le proteste dei parlamentari del centro-destra e le polemiche, durate mesi, in merito alla presunta agibilità politica da garantire all’ex-premier. Alle ore 17.43 di mercoledì 27 novembre 2013, Silvio Berlusconi è decaduto dal ruolo di parlamentare della Repubblica: dopo vent’anni di potere il tycoon di Arcore è costretto ad abbandonare “la stanza dei bottoni”.
A decidere la sorte di Berlusconi è stato il Senato che a scrutinio palese vota la decadenza del Cavaliere, come prescritto dalla legge Severino. La conclusione della parabola politica di Silvio Berlusconi ha però l’effetto di destabilizzare la già fragile maggioranza di Governo che vede una parte consistente del centrodestra coalizzarsi attorno all’ex delfino berlusconiano, ed ora ministro degli interni e vicepremier, Angelino Alfano. Alfano rivendica una posizione sempre più autonoma e filogovernativa rispetto al Cavaliere che invece individua nel Capo dello Stato e nel Partito Democratico i principali mandanti di un complotto politico giudiziario iniziato nel 2011 e conclusosi con la sua
espulsione dal Senato. Ben presto la pattuglia parlamentare guidata dal vicepremier Alfano fonda il Nuovo Centro Destra, smarcandosi definitivamente da Berlusconi. Il Governo di Letta vacilla ma regge ai contraccolpi della decadenza berlusconiana. Il colpo di grazia al Governo di Enrico Letta arriva invece dall’interno, da quella parte di Partito Democratico deciso a rischiare il tutto per tutto pur di chiudere per sempre con la vecchia classe dirigente del centro sinistra italiano. Queste forze “rottamatrici” trovano in Matteo Renzi, primo teorico della rottamazione, il loro naturale centro di gravità. Nonostante Renzi non sia riuscito a conquistare la segreteria del Partito Democratico, le schiere dei suoi “seguaci” sono sempre più folte, in Parlamento come all’interno delle giunte regionali e comunali di mezz’Italia.
Lo stesso sindaco di Firenze, pur promettendo il sostegno a Letta, nei fatti inizia fin da subito a logorarne l’azione di governo anche perché le primarie per eleggere il nuovo segretario del Pd. dopo le dimissioni di Bersani e della sua segreteria, sono sempre più vicine. Il giovane sindaco fiorentino questa volta è determinato a prendersi il partito. E in effetti alle primarie di dicembre non c’è storia: Matteo Renzi, il rottamatore, trionfa trascinandosi dietro anche buona parte della vecchia guardia del Pd, disposta ormai a qualsiasi cosa pur di riprendere quota e arginare l’emorragia di voti verso il movimento di Beppe Grillo. L'8 dicembre 2013, Renzi è eletto con il 67,5% dei voti: il 15 dicembre la nuova Assemblea eletta del Partito Democratico lo proclama segretario del Partito. - Abbiamo preso i voti per scardinare il sistema, non per sostituirlo - dice durante l’”incoronazione” al Nazareno: un discorso decisamente da premier piuttosto che da segretario di partito.
6.5. Il patto del Nazareno
Appena insediato alla guida del primo partito italiano Matteo Renzi fa capire subito che fa sul serio e imprime una accelerazione senza precedenti al capitolo riforme istituzionali, croce e delizia dell’Italia negli ultimi vent’anni: secondo il sindaco, il congegno decisionale della Repubblica italiana si è ormai inceppato e solo rimettendolo in sesto si potrà favorire la crescita economica che da decenni si limita, quando si manifesta, allo “zero-virgola” di aumento del pil. Il primo atto dell’”era Renzi” si concentra proprio sulle riforme, prima fra tutte quella, ormai improrogabile, della legge elettorale. Per cambiare l’assetto delle istituzioni e il modo in cui si vota c’è bisogno di numeri certi in Parlamento e, dati i numeri nelle due Camere, l’unico che può garantire una maggioranza per le riforme è Silvio Berlusconi. Renzi rievoca l’ormai ex Cavaliere e lo tira fuori dall’esilio extraparlamentare in cui è finito a causa della condanna per frode fiscale. Berlusconi e rilegittimato e il 18 gennaio 2014, contro il parere di buona parte del Pd, entra nella sede del partito in via del Nazareno per incontrare il neoeletto segretario democratico.
Renzi tratta con Berlusconi per trovare un’intesa sulle riforme e dall’incontro viene fuori quello che è ormai ato alla storia come “patto del Nazareno”. È la prima volta che un leader del centrodestra entra nella sede che fu di Togliatti e Berlinguer ma la svolta post ideologica cercata da Renzi a anche per questi piccoli grandi atti simbolici. Dopo più di due ore di discussione i leader dei due principali schieramenti italiani escono dal Nazareno con un accordo di massima sulle riforme e in particolare sulla nuova legge elettorale che dovrà essere, nelle intenzione dei due, assolutamente maggioritaria e basata sul doppio turno: è nato l’Italicum.
6.6. L’orizzonte dell’Italicum - Golem 24, gennaio 2014
A quasi due mesi dalla storica sentenza della Corte Costituzionale che ha definitivamente mandato in soffitta il Porcellum, un’altra legge elettorale sta muovendo i primi i nelle aule parlamentari e proprio in questi giorni è stata depositata presso la commissione Affari Costituzionali della Camera: è l’Italicum, nuovo sistema elettorale partorito dal recente incontro fra il Segretario Pd, Matteo Renzi, e il dominus di Forza Italia, Berlusconi. Benché si tratti solo di una bozza, la proposta di legge ha già incuriosito molti italiani che da tempo (8 anni) aspettano una nuova legge elettorale. Per orientarsi nella giungla delle questioni di natura costituzionale servirebbe una guida esperta come, ad esempio, Stefano Rodotà, giurista e costituzionalista fra i più noti in Italia.
L’occasione interpellare l’ex candidato al Quirinale più amato dai grillini è arrivata martedì 21 gennaio, durante una conferenza che Stefano Rodotà ha tenuto presso la sede romana dell’Istituto italiano di studi filosofici: una lezione dal titolo “L’orizzonte dei diritti”. In quell’occasione Golem ha potuto, prima fra tutte le testate italiane, chiedere il parere del celebre costituzionalista. Noto al grande pubblico per aver “sfidato” Giorgio Napolitano nella corsa al Quirinale nel 2013, Rodotà è nato a Cosenza nel 1933, è stato docente di Diritto nelle università di Macerata Genova e Roma, ha insegnato presso prestigiosi atenei in America e nel 1979 è entrato per la prima volta in Parlamento come indipendente, eletto nelle liste del P.C.I. Garante della privacy dal 1997 al 2005, è stato presidente dell'Agenzia europea dei diritti e ha contribuito a scrivere la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. In una fase storica in cui la richiesta di diritti è globale e non più esclusiva della “Ragione occidentale”, l’orizzonte dei diritti si amplia a dismisura diventando un concetto problematico che merita di essere analizzato in modo tutt’altro che superficiale. Inizia così la lectio magistralis di Rodotà che prosegue sottolineando come «l’ampliarsi incontrollato di istanze disparate che chiedono di entrare nel “catalogo dei diritti”, provoca l’inflazione di quest’ultimi a discapito soprattutto dei diritti sociali: in un periodo di crisi economica i primi a essere rimessi in discussione
sono i diritti oggi detti “a prestazione”». Se da un lato c’è dunque il problema della «retorica dei diritti», dall’altro c’è quello dei diritti sociali che vengono vissuti come un peso perché hanno bisogno di risorse in un periodo di recessione. Da qui lo scambio, che oggi sembra avvenire sotto i nostri occhi, fra diritti sociali e diritti civili: la politica, non riuscendo a concedere i diritti sociali, concede (o prova a concedere) i diritti civili con più facilità di un tempo (ius soli, unioni civili ecc.). - I diritti sociali sono oggi vissuti con fastidio e la politica non sta facendo la sua parte di fronte alla richiesta di diritti. Questo avviene anche perché è difficile rintracciare, nei nostri tempi, un soggetto storico titolare dei diritti. Nell’età moderna questo soggetto era la borghesia, poi affiancata dalla classe operaia. Oggi esistono solo delle “parzialità” prive della forza politica per imporsi come destinatarie dei nuovi diritti: il soggetto storico viene identificato un giorno con la classe precaria e quello appresso con la classe hacker. Nonostante la ricerca di un nuovo soggetto storico sia ancora in corso, non si possono sospendere i diritti in attesa di identificarlo con certezza - ha detto Rodotà.. C’è dunque una divaricazione fra diritti e politica che sta strutturando anche antropologicamente la nostra società, in senso negativo. Tutto ciò avviene perché la politica è subalterna all’economia: - Oggi non è il diritto a invadere il campo della politica e a limitarne l’azione bensì l’economia perché impedisce alla politica di redistribuire le risorse necessarie a mettere in atto i diritti sociali.
Uno dei temi più controversi e ricorrenti nella società dei diritti è, infatti, quello dell’ invasione di campo del “giuridico” nell’ambito del “politico”: in Italia, e non solo, si ha l’impressione che la Politica venga espropriata delle sue competenze dal Diritto. Secondo Rodotà il tema della perdita di efficacia della politica è problema vero ma che in questa fase avviene per opera della sfera economica e non di quella del diritto. Certo l’ampliarsi della sfera d’azione dei giuristi è - un esercizio di grande responsabilità e come tale andrebbe gestito. La commissione dei Saggi che doveva proporre le riforme al Parlamento, ad esempio, è stata una deformazione inaccettabile - continua Rodotà - non capisco come ci si sia potuti prestare a questa operazione. - La dialettica fra principi giuridici e discrezionalità della politica è sempre attuale, soprattutto in un Paese come l’Italia. Uno dei casi più evidenti di questo “scontro” è proprio la recente sentenza della Corte Costituzionale che ha abolito la legge elettorale in vigore fino ad un mese fa, supplendo, di fatto, ad una “assenza” della politica. La
consulta ha chiarito che« non ci sono zone franche, il legislatore non può pensare, nello scrivere una legge costituzionale, di essere libero da vincoli costituzionali e di avere una discrezionalità totale - ha affermato il noto costituzionalista - la Corte Costituzionale non poteva rinunciare ad esprimersi in merito e, bocciando il referendum abrogativo, aveva già dato un segnale alla politica. In quel caso il referendum non è stato ammesso perché, come ha motivato la Corte, non si può lasciare il Paese privo di una legge elettorale: in caso di scioglimento delle Camere ci sarebbe stata la paralisi istituzionale. Inoltre i cittadini, con il loro voto referendario, avrebbero anche potuto scegliere di tenersi il Procellum, ma questo non poteva avvenire perché la legge presentava un chiaro vulnus di costituzionalità.
La politica non è stata in grado di cogliere il segnale e riformare la legge e la Consulta non ha potuto fare a meno di intervenire. - La discussione, approdata alla più stretta attualità si scalda e qualcuno chiede al giurista se non si sia trattato di una sentenza politica: - No perché la Consulta non ha imposto una nuova legge elettorale - ha chiarito Rodotà - se avesse, ad esempio imposto, con la sentenza, il ritorno al Mattarellum, allora ci sarebbe stata un ingerenza, ma non è stato così. -A questo punto chiediamo a Stefano Rodotà un’opinione sulla bozza di legge elettorale elaborata da Matteo Renzi e Silvio Berlusconi: risponde ai principi di costituzionalità e ai rilievi della Consulta o presenta, come il precedente sistema, degli elementi di incostituzionalità?
6.7. Dubbia costituzionalità
- ”Voglio leggere il testo”. Questa potrebbe essere la risposta difensiva perché il diavolo si annida nei dettagli. - ci risponde Rodotà - Tuttavia si possono fare già alcune considerazioni : io non enfatizzo la questione dei listini bloccati perché su questa questione la Consulta ha riconosciuto la discrezionalità della politica, perché se c’è una riconoscibilità del candidato il listino non sarebbe contrario al dettame costituzionale. Non ci si può trincerare dietro le parole della Corte che ha semplicemente detto che su questo punto vale la discrezionalità della politica perché allora la politica dovrebbe mettersi d’accordo con se stessa, non può dire “l’ha detto la corte, chissenefrega se fino ad oggi abbiamo criticato il Parlamento dei nominati”. Il Porcellum era abnorme perché la trasformazione dei voti in seggi e la rottura di ogni rapporto fra eletto ed elettore deprimeva la facoltà di scelta libera e volontaria da parte dell’elettore. Ora l’Italicum mette insieme tre elementi: un premio di maggioranza implicito, derivante dall’eredità del sistema spagnolo, uno esplicito per chi supera il 35% e una soglia di accesso del 5% per le liste singole che diventa dell’8% per quelle coalizzate. La somma di questi tre fattori combinati assieme potrebbe fare emergere dei dubbi di costituzionalità. Detto questo aspetto di leggere il testo. - Il divario fra diritto e politica sembra dunque ben lontano dall’essere colmato, almeno per ora, e in futuro potrebbero esserci altri momenti “ad alta tensione” come quelli vissuti negli ultimi giorni del 2013.
6.8. Grillo, Napolitano e la ghigliottina (Golem, 31 gennaio 2104)
Mentre si discute di legge elettorale e di nuovi scenari politici, il Parlamento italiano si trasforma in terreno di scontro, tutt’altro che metaforico, fra i parlamentari a 5 stelle e le altre formazioni politiche. Gli ultimi giorni del gennaio 2014 vedono i parlamentari di Grillo intenti a occupare l’aula di Montecitorio mentre deputati, commessi e addetti alla sicurezza provano a rimuoverli anche fisicamente, con tanto di schiaffi , spinte e parole grosse che volano da una parte e dall’altra dell’aula. La bagarre scattata dopo l’approvazione del decreto Imu-Bankitalia, il provvedimento che mette assieme la cancellazione della tassa sulla casa con le norme sul riassetto della Banca d’Italia considerata, dai parlamentari pentastellati, un vero e proprio regalo milionario alle banche. Da qui il lungo ostruzionismo a 5 stelle che ha rischiato di buttare via il bambino assieme all’acqua sporca, ovvero di far pagare agli italiani la seconda rata dell’odiata Imu pur di evitare l’ennesima iniezione di denaro pubblico nelle casse del sistema bancario. Ogni decreto ha 60 giorni di tempo per essere convertito in legge, dopo i quali, se il Parlamento non vota la sua riconversione, decade. Così, dopo una lunga fase di ostruzionismo da parte del Movimento di Grillo, mercoledì 29 gennaio è arriva l’escalation finale: il decreto rischiadi decadere se non votato entro la mezzanotte e gli italiani rischiano, invece, di dover pagare un’altra rata Imu.
Per evitare l’ime, la presidente della Camera, Laura Boldrini, decide di adoperare, per la prima volta nella storia della Repubblica, la così detta “ghigliottina” cioè un procedimento attraverso il quale si “tagliano” letteralmente gli interventi dell’opposizione atti a rimandare il momento della votazione da parte dell’aula, e si a direttamente al voto finale. Appena aperte le votazioni nell’aula scoppia il putiferio con i deputati pentastellati che assaltano i banchi del Governo mentre gli altri onorevoli cercano di arginarli: se non si tratta di una vera e propria rissa ci si va di sicuro molto vicino. Ma le contestazioni non si limitanp alla sola giornata di mercoledì 29: dopo gli scontri
per l'approvazione del dl Imu-Bankitalia, la bagarre si estende anche alla Commissione Affari Costituzionali dopo l'approvazione del testo della legge elettorale. E mentre i grillini occupano le commissioni, viene depositato, in entrambi i lati del Parlamento, l'impeachment contro il presidente Napolitano ritenuto, da Grillo e compagni, l’artefice di un sistema che imbavaglia le opposizioni e esautora il Parlamento dalla funzione legislativa affidatagli dalla Costituzione. Praticamente un monarca. Per capire come stanno le cose bisogna fare un o in dietro e comprendere, innanzitutto, di cosa si tratta quando si parla di “ghigliottina”. Lo strumento che consente di tagliare i tempi del dibattito parlamentare è presente nei regolamenti del Senato, dove è possibile contingentare i tempi della discussione per are subito al voto in caso di necessità.
Alla Camera invece, il tema di “tagliare” il dibattito, indipendentemente da un preventivo contingentamento, si è posto a partire dalla XIII legislatura. L’allora presidente della Camera Violante ritenne che la cosa fosse possibile e anche il suo successore sullo scranno più alto di Montecitorio, Casini, confermò questa interpretazione. La ghigliottina però non era mai stata usata nonostante i pareri favorevoli degli allora presidenti della Camera: Laura Boldrini, mercoledì 29 gennaio 2014, è la prima ad adoperarla nella storia della Repubblica. Una responsabilità di certo notevole che però si spiega con la tenace volontà dei grillini di portare l’ostruzionismo sul decreto fino al punto di rottura, allo scontro frontale: senza tagliola oggi dovremmo pagare l’Imu e l’aver accantonato il riassetto Bankitalia sarebbe, probabilmente, una magra consolazione. Quindi nonostante l’uso di uno strumento che in realtà non è scritto esplicitamente nei regolamenti della Camera, la “ghigliottina” è servita per assicurare alla maggioranza il diritto di governare e di far are un provvedimento, l’abolizione dell’imu, che, a torto o a ragione, è stato una delle sue bandiere fin dall’inizio della legislatura.
6.9. Decreto e abuso
Nel gennaio 2014, non esiste uno scontro fra Governo e Parlamento perché la maggioranza sostiene l’azione del Governo anche nel caso del tanto discusso decreto Imu-Bankitalia, né, d’altro canto, esiste uno scontro fra Parlamento e Presidenza della Repubblica come l'opposizione pentastellata cerca, erroneamente, di comunicare all'opinione pubblica. Non c’è un monarca che impone al Parlamento le proprie volontà, ma una maggioranza parlamentare che, almeno in quel momento storico, sostiene l’azione dell’esecutivo. Se così non fosse, se Napolitano o chi per lui limitasse davvero le prerogative del Parlamento saremmo fuori dal parlamentarismo così come lo abbiamo conosciuto dalla Rivoluzione Inglese ad oggi.
Ma Grillo, fortunatamente, non è Oliver Cromwell (che per altro una volta al potere si dimenticò ben presto di convocare il Parlamento) e il tentativo di "decapitare Napolitano" probabilmente non gli riuscirà perché la causa dell’ime parlamentare non è il Presidente ma, semmai, il continuo ricorso alla decretazione d'urgenza il cui uso è diventato sempre più frequente nel corso degli ultimi anni. Governi di destra e di sinistra, tecnici o politici, tutti hanno abusato continuamente dei decreti legge per cercare di accorciare i tempi delle discussioni parlamentari. Se a questa pratica si aggiunge la pessima abitudine di mettere insieme nei decreti gli argomenti più disparati come, ad esempio, il pagamento dell’Imu e il riassetto della Banca centrale, si capisce come si è potuti arrivare al livello di caos parlamentare degli ultimi giorni.
Tuttavia va riconosciuto che più volte in ato i presidenti della Repubblica hanno stigmatizzato l'eccessivo ricorso all'uso dei decreti legge: in una lettera inviata ai presidenti di Camera e Senato il 27 dicembre 2013, Napolitano scriveva: «numerosi sono stati i richiami formulati nelle scorse legislature da me – in presenza di diversi Governi e nel rapporto con diversi Presidenti delle Camere – e già dal Presidente Ciampi alla necessità di rispettare i principi
relativi alle caratteristiche e ai contenuti dei provvedimenti di urgenza stabiliti dall’articolo 77 della Costituzione e dalla legge di attuazione costituzionale n. 400 del 1988.», perciò l’inquilino del Quirinale invitava Grasso e Boldrini a «verificare con il massimo rigore l’ammissibilità degli emendamenti ai disegni di legge di conversione». Proprio per evitare che nei decreti da convertire in legge finisca tutto e il contrario di tutto, Napolitano ricordava che : «questi principi sono stati ribaditi in diverse pronunce della Corte Costituzionale, nella sentenza n. 22 del 2012 dove la Corte ha osservato che “l’inserimento di norme eterogenee rispetto all’oggetto o alle finalità del decreto spezza il legame logicogiuridico tra la valutazione fatta dal Governo dell’urgenza del provvedere e i provvedimenti provvisori con forza di legge”.
Rinnovo pertanto l’invito contenuto in quella lettera ad attenersi, nel valutare l’ammissibilità degli emendamenti riferiti ai decreti legge, a criteri di stretta attinenza allo specifico oggetto degli stessi e alle relative finalità, anche adottando – se ritenuto necessario – le opportune modifiche dei regolamenti parlamentari». Se dunque la protesta dei 5 Stelle è giusta nel criticare un emendamento che cerca di salvare capra e cavoli mettendo assieme l’Imu e le banche, il vero problema sta nel rapporto, ormai definitivamente incrinato, fra tempi parlamentari ed esigenze legislative. Se l’ abuso dei decreti legge serve ai governi per accorciare i tempi delle discussioni parlamentari, con l’andar del tempo si rischia di snaturare la stessa essenza parlamentare della Repubblica: un circolo vizioso da cui non si esce con l’occupazione delle aule o con la messa in stato d’accusa di Napolitano.
L’unica strada percorribile è premere il piede sull’acceleratore delle riforme istituzionali cercando di rinnovare il processo legislativo e gli organi che se ne occupano in modo da adeguarlo ai tempi che corrono e alla necessità di maggiore rapidità decisionale. Certo non è facile riformare completamente il sistema istituzionale del Paese e il rischio di un o falso è sempre dietro l’angolo, tuttavia è l’unica strada percorribile. Forse è tempo che anche Grillo lo capisca e si sieda al tavolo delle riforme.
6.10. Il blitz di Renzi
All’inizio del 2014, la situazione istituzionale nel Paese è ben lungi dall’essere stabilizzata. Tutti si chiedono se sarà il governo di Enrico Letta ad avviare il Paese sulla strada delle tanto sospirate, e sempre più urgenti, riforme. La risposta a questa domanda è no. Probabilmente la conclusione dell’esperienza di governo di Enrico Letta coinciderà, per i libri di storia, con la fine della Seconda Repubblica: la decadenza di Berlusconi dal Senato avvenuta sotto l’ala dell’esecutivo di Letta jr., nipote di Gianni, braccio destro del Cavaliere, segna la fine di un’epoca ma non riesce ad aprire una fase nuova. Enrico Letta è giovane, praticamente da sempre: è stato il più giovane ministro della storia repubblicana quando, poco più che ventenne gli è stato assegnato il dicastero delle politiche Comunitarie nel '98 col governo d'Alema; nel 2013 diventa premier a 46 anni ed è il terzo presidente più giovane di sempre dopo Goria e Fanfani. Tutto questo però non basta: nonostante la giovane età Letta è, però, un uomo dell’establishment del centro sinistra, cresciuto e pasciuto all’interno dei circoli politici, culturali e finanziari che hanno animato e diretto la sinistra italiana ed europea per vent’anni: non può essere l’uomo del cambiamento. Non è un caso che durante il suo governo il Movimento 5 Stelle continui a salire nei sondaggi a livello nazionale.
Tutte le armi polemiche e politiche di Grillo e compagni trovano ancora in lui un bersaglio ideale nonostante l’anagrafe: nell’immaginario dell’opinione pubblica, eccitato dalla propaganda grillina, Letta è solo l’ultimo dei “morti viventi”, gli zombie della vecchia politica che da decenni permangono sulla scena politica impedendo, di fatto il cambiamento del Paese. Con la sua defenestrazione, per quanto poco etica o poco opportuna la si possa considerare, di fatto si chiude con la vecchia guardia della politica. Con Berlusconi fuori dal Parlamento e con la vecchia classe dirigente del centrosinistra priva di ogni ragione di esistere, dopo la caduta del suo arcinemico di Arcore ( che pure è stato per anni il suo principale collante), la Terza Repubblica può cominciare nonostante il paradosso di un uomo che ha costruito
la sua fortuna politica sul consenso elettorale e si ritrova Presidente del Consiglio senza are per il battesimo delle urne.
Tutto avviene in tempi rapidissimi a dispetto delle ere geologiche della politica italiana: dopo il patto del Nazareno Renzi punta direttamente a Palazzo Chigi. È evidente a tutti, fin da subito, che tra il premier ufficiale e il neosegretario sta per scatenarsi un duello all’ultimo sangue anche perché, una volta eletto segretario, Renzi non perde tempo e incomincia a dettare la linea a Governo. Due leader dello stesso schieramento non possono coesistere contemporaneamente restando uno a Palazzo Chigi e l’altro alla testa del principale partito che sostiene il Governo e, nonostante l’ormai celebre «Enrico stai sereno» “twittato” da Renzi per rassicurare Letta, la resa dei conti è inevitabile e assume tutte le caratteristiche di una blitzkrieg, una guerra lampo condotta completamente al di fuori del Parlamento. Il 13 febbraio 2014, il Segretario PD Matteo Renzi propone una mozione di sfiducia al Governo Letta durante la direzione nazionale del Partito Democratico. La direzione approva il documento del Segretario con 136 voti favorevoli, 16 contrari e 2 astenuti. Enrico Letta annuncia che il giorno successivo si recherà al Quirinale per rassegnare le dimissioni nelle mani del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Il 17 febbraio Napolitano conferisce a Matteo Renzi l’incarico di formare un nuovo esecutivo, il secondo della legislatura, e il 22 Renzi e i suoi ministri giurano al Quirinale. L’ormai ex sindaco fiorentino diventa premier a 39 anni, battendo di qualche mese il record detenuto da Mussolini e ottenendo la palma di premier più giovane della storia dell’Italia unitaria. Un successo clamoroso maturato all’indomani della sconfitta alle primarie del 2012 e favorito dal disastro elettorale del Pd alle elezioni del 2013.
Quello che colpisce della scalata renziana, oltre alla rapidità, è il fatto che avviene praticamente dall’esterno, un vero e proprio “assedio” al Parlamento finito, per Renzi, nel migliore dei modi. Il prezzo da pagare è però l’abbandono di ogni legame fra potere e consenso: l’uomo da tre milioni e mezzo di voti alle primarie del Pd diventa premier senza are dalle urne e deve accontentarsi di
essere “nominato” da Napolitano. Non si incorona da solo come Napoleone dopo la rapida scalata alle istituzioni della Francia post rivoluzionaria ma riceve l’investitura dalle mani di “Re Giorgio”, garante del sistema che il sindaco toscano vuole rottamare. Un peccato originale che sarà sanato solo successivamente ma che al momento riflette un’immagine di un uomo dall’ambizione smisurata che non esita a servirsi di tutti i trucchi del mestiere tipici dei politici della prima repubblica per espugnare Palazzo Chigi. Eppure non c’era altra scelta per il giovane fiorentino all’indomani della sentenza della Consulta sul Procellum: tentare l’azzardo o morire nella palude delle larghe intese prolungate all’infinito dal ritorno del proporzionale. Proprio come il Principe di Macchiavelli, nei giorni che intercorrono fra la sentenza della Consulta e il trionfo alle primarie del Pd, Renzi decide di sfidare la fortuna che è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano. Vince e prende tutto ma la battaglia lascia sul campo “lo scalpo” di Enrico Letta, costretto a lasciare Palazzo Chigi a pochi mesi dall’insediamento.
VII - Grillo contro Renzi
Che l’approdo di Matteo Renzi a Palazzo Chigi possa sparigliare le carte in tavola è evidente fin da subito. Ad essere più influenzato dal vento di rottamazione che ormai soffia sull’esecutivo e sull’intero arco costituzionale italiano è proprio Beppe Grillo che, fino questo momento, deteneva in esclusiva il titolo di riformatore radicale dello status quo. Che la nomina di Matteo Renzi alla Presidenza del Consiglio cambi le carte in tavola per Grillo e compagni è altrettanto evidente e lo è fin da subito, a partire dal faccia a faccia, diretta streaming, fra l’ex comico e l’ex sindaco di Firenze durante le consultazioni. Se con Bersani e Letta l’atteggiamento dei 5 stelle è apparso arrogante ma sacrosanto, con Renzi si ha quasi l’impressione che Grillo tema il confronto con un comunicatore abile come o più di lui. Grillo durante il faccia a faccia attacca il giovane premier in pectore impedendogli di parlare scaricandogli addosso tutte le accuse e gli insulti tipici del suo linguaggio politico. Questa volta però l’accusa di essere vecchio e marcio non trova appiglio verso un ragazzo che ha scalato il suo partito prima e il Parlamento poi, come un vero outsider. La nuova classe dirigente che si porta dietro Renzi non sarà composta da neofiti della politica ma i volti giovani e nuovi sono estranei al vetusto e immobile potere dei palazzi romani. L’impatto con questa nuova realtà colpisce il Movimento 5 stelle e lo divide, lo costringe a fare i conti con le sue contraddizioni interne, le contraddizioni di un partito arrivato in Parlamento per cambiare ma che ha finito per chiudersi in se stesso, confinato su un Aventino politico senza precedenti di cui i suoi stessi elettori non capiscono più il senso. E allora iniziano le contestazioni interne e un lento disfacimento interno che porterà il movimento di Grillo e Casaleggio a perdere voti e consensi durante la sfida senza quartiere con il Premier Matteo Renzi che dura fino alle elezioni europee di maggio 2014. Si tratta di uno scontro senza esclusioni di colpi che lascerà sul campo molti militanti grillini e parlamentari a 5 stelle, epurati e accusati di “connivenza con il nemico” o di complotti anti Grillo.
7.1. Psicodramma a 5 stelle (Golem, 28 febbraio 2014)
Mentre l’attenzione dei media e della stragrande maggioranza degli italiani è rivolta al voto di fiducia della Camera, dove Renzi è approdato per la prima volta assieme al suo Governo martedì 25 febbraio, all’interno del Movimento 5 Stelle comincia una resa dei conti senza precedenti. Nella notte fra martedì 24 e mercoledì 25, i gruppi parlamentari pentastellati, riuniti in seduta comune, votano l’espulsione di 4 “dissidenti”, accusati di aver rilasciato troppe dichiarazioni in controtendenza rispetto alla linea dettata da Grillo e Casaleggio. Lorenzo Battista, Luis Alberto Orellana, sco Camla e Fabrizio Bocchino: questi i nomi dei quattro Senatori a 5 stelle espulsi dal Movimento. Dopo il voto favorevole dei gruppi parlamentari la parola è tornata agli elettori che hanno confermato, tramite consultazioni online, il destino dei quattro. Lo stesso Grillo si era espresso chiaramente auspicando che il voto online potesse confermare la “scomunica”. E così, poco meno di 30 mila iscritti, hanno votato per la cacciata dei 4 dissidenti dalle fila del movimento, confermando quanto già deciso dai gruppi parlamentari. Secondo le accuse dei loro colleghi i Senatori “eretici” avrebbero orchestrato una «martellante campagna sugli organi di informazione nazionali», procurando così «una grave lesione a tutto il Movimento 5 Stelle». La cacciata dei dissidenti ha però aperto una voragine fra le fila dei 5 Stelle perché molti parlamentari non hanno condiviso il trattamento riservato ad Orellana e agli altri 3 Senatori e, sia al Senato come alla Camera, molti si dicono pronti a chiamarsi fuori dal movimento di Grillo divenuto ormai una vera e propria prigione per i suoi stessi eletti. In realtà la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la reazione dei 4 parlamentari all’indomani delle consultazioni in streaming con il premier in pectore Matteo Renzi: «Abbastanza inutile» -così il senatore Luis Alberto Orellana aveva definito i 10 minuti di incontro/scontro fra il comico e il neo presidente del Consiglio, aggiungendo che «pur condividendo la tesi sulla poca credibilità di Renzi, avrebbe dovuto farlo parlare e affrontare con lui qualche contenuto. Così Grillo è apparso, probabilmente, un po’ eccessivo: immagino, nella testa di qualcuno, può essere risultato un po’ sgradevole, un po’ prepotente nel rispondere “non ti do neanche un minuto” quando Renzi glielo chiedeva». Dopo queste dichiarazioni, giovedì 20 febbraio, sul blog di Beppe Grillo
compare un post dal titolo inequivocabile: “Fuoco amico (?)”, in cui Grillo, o chi per lui, accusa i 4 senatori di rilasciare dichiarazioni non concordate per mettere in difficoltà il Movimento. Venerdì 21 arriva il tweet del comico genovese che “scomunica” definitivamente Orellana il più carismatico ed esplicito nelle critiche nei confronti della diarchia Grillo/Casaleggio: «Orellana è stato sfiduciato dal territorio». Il tweet di Grillo ha apposto il sigillo del leader ad un comunicato arrivato dal meet-up di Pavia, gruppo da cui proviene Orellana. Orellana ha 53 anni e origini venezuelane. Grillino della prima ora, è uno dei fondatori del Movimento, noto per la sua popolarità fra gli iscritti che ne hanno fatto uno dei volti più apprezzati del Movimento tanto da divenire il candidato dei 5 stelle alla presidenza del Senato. Da tempo però Grillo e Casaleggio sognavano di sbarazzarsi di lui per l’atteggiamento dialogante nei confronti delle altre forze politiche. Non è facile però liberarsi di uno dei senatori più apprezzati dal popolo a 5 stelle senza incorrere nuovamente in accuse di scarsa democrazia interna. L’unica soluzione è che la scomunica questa volta venga dal basso, dagli attivisti e non più, come nei casi precedenti, da Grillo in persona. Ecco allora la nota del meet up di Pavia che spiega: «Durante l'assemblea provinciale tenutasi a Pavia in data 7 febbraio 2014, nel confronto col portavoce Orellana è emerso un generale e consolidato stato d'insoddisfazione da parte dei gruppi territoriali». Fin qui ciò che si legge nel blog di Grillo, ma perché Orellana è stato sfiduciato dal suo territorio? Nella famosa assemblea di Pavia il meet-up ha chiesto al suo senatore di riferimento di frequentare di più il territorio condividendo progetti e critiche con gli attivisti pavesi. Orellana ha accettato le critiche impegnandosi a venire incontro alle richieste della base ma, pochi giorni dopo, il 20 febbraio, è arrivata la nota in questione con cui il senatore è stato “epurato” dalla sua stessa base. Ma cosa è successo nei giorni intercorsi fra l’assemblea di Pavia e la nota sul blog di Grillo? Nulla, tuttavia i gruppi M5S e i Meetup della Provincia di Pavia (Pavia, Voghera, Vigevano, Casorate Primo, Mede Lomellina, Casteggio, Cigognola, Casei Gerola) dichiarano la mancata realizzazione delle promesse di Orellana e sfiduciano ufficialmente il senatore. Il comunicato di epurazione pubblicato sul blog viene dichiarato illegittimo da molti esponenti del Movimento in Lombardia e ben presto parte un controcomunicato, di cui non c’è traccia sul blog di Grillo, in cui si afferma che
la sfiducia al Senatore Orellana è arbitraria non essendo stata né votata né discussa in nessuna assemblea. Ma allora chi ha scritto la nota che ha permesso a Grillo e Casaleggio di ostracizzare Orellana? La risposta è semplice: Maurizio Benzi attivista e dipendente di Casaleggio. Benzi ha lavorato per il guru pentastellato in molte società, fino ad approdare, nel 2004, alla Casaleggio Associati dove si occupa, attualmente, di strategie di rete. Benzi è stato uno degli attivisti che ha chiesto l’incontro di Pavia con Orellana, durante il quale ha attaccato il parlamentare critico verso i vertici del movimento e, pochi giorni dopo, lo ha sfiduciato attraverso una nota condivisa solo con un gruppo ristretto di attivisti di Voghera. Il sospetto che tutta l’operazione sia stata concepita ai piani alti per poi essere messa in atto, attraverso il fido Benzi, fra la base pavese, è più che un semplice retroscena. In effetti Orellana è stato scaricato dal suo meet-up pochi giorni dopo aver espresso la critica a Grillo per l’atteggiamento tenuto nel confronto con Renzi: le richieste arrivate dall’assemblea di Pavia c’entrano poco o nulla con la scomunica e, lette con il senno del poi, possono apparire come un semplice pretesto. La stessa dinamica che ha portato all’espulsione di Orellana si è ripetuta, più o meno pedissequamente, anche per gli altri tre senatori, con il mistero delle “lettere dal territorio” arrivate per sfiduciare i senatori dal basso ma che non trovano riscontri effettivi nella base dei sostenitori sui territori. A pensarla così, a quanto pare, sono anche un buon numero di parlamentari a 5 stelle, decisamente critici verso l’espulsione dei dissidenti. Il nuovo manipolo di “ribelli” sembra essere composto da una decina di eletti del Movimento capeggiati dal deputato Tancredi Turco che il 21 febbraio ha twittato: «Il metodo Boffo usato per mettere alla gogna e alla berlina 4 nostri senatori non mi piace e me ne dissocio» e da molti esponenti che hanno subito espresso solidarietà ai senatori espulsi dopo i risultati del voto online arrivato il mercoledì 26. È evidente che Orellana non è né come Scillipoti né come De Gregorio: non è un corrotto che ha tradito il mandato dei suoi elettori per soldi o per acquisire poltrone ma ha solo esercitato la libertà del suo mandato parlamentare per indirizzare al meglio l’azione del movimento in cui milita. I quattro dissidenti dunque non sono dei traditori ma semplicemente dei parlamentari con uno spessore umano e politico forse superiore a quello di molti loro colleghi pentastellati, le cui inconcludenti invettive parlamentari contro Boldrini, Napolitano o Renzi assomigliano, oramai, a delle barzellette di cattivo gusto e mal raccontate piuttosto che a delle battaglie politiche. Ecco allora il paradosso di un movimento nato per sostituire i corrotti con i migliori fra i cittadini, che
finisce per allontanare i più capaci e per tenersi stretti gli inetti. Tutto perché Beppe Grillo e il suo Movimento sono parte integrante del sistema che dicono di voler abbattere: proprio come i leader che vorrebbe liquidare Grillo preferisce estromettere le voci critiche, e con esse le personalità migliori di cui dispone il Movimento, per circondarsi solo di uomini pronti a dire sempre sì. Pur avendo avuto il merito di incanalare la rabbia popolare in un momento di forte crisi economica, quello di Grillo non è un movimento popolare di protesta nato dal basso, ma è figlio del “Porcellum” perché ne incarna perfettamente tutte le storture: i voti vanno ai leader e la maggior parte degli elettori non conosce i personaggi da cui è rappresentata in Parlamento. Proprio come negli altripartiti, nati dal ventre dell’ormai incostituzionale “Porcellum”, nel Movimento i Parlamentari rispondono al leader e non agli elettori. Nonostante Grillo critichi ferocemente la legge elettorale da poco abolita dalla Consulta, lui e il suo gruppo, politicamente, non esisterebbero senza di essa. È forse questa la ragione ultima del rifiuto di ogni confronto sulle riforme e, finanche, sulla legge elettorale? Chi vivrà vedrà.
7.2. Primi i del Governo Renzi
Con Berlusconi decaduto e ormai fuori gioco, la partita si gioca tutta fra Beppe Grillo e il neoeletto premier Matteo Renzi. Quest’ultimo è entrato a palazzo Chigi senza il sostegno di un voto popolare ed è perciò particolarmente vulnerabile agli attacchi populisti e, sempre più, complottisti dell’ex comico genovese. Per evitare di rappresentare l’ultimo curatore fallimentare del sistema dei partiti, Renzi cerca da subito di imprimere una decisa accelerata all’azione di governo a cominciare dalle riforme. Tuttavia il percorso del nuovo Governo appare subito difficile e costellato di difficoltà. L’accordo con Forza Italia per varare le riforme elettorali e costituzionali non facilità il rapporto con il Partito Democratico che, nonostante il trionfo alle primarie, percepisce l’ex sindaco di Firenze come un corpo estraneo, un alieno o un conquistatore venuto dal di fuori della sua consolidata nomenclatura. La minoranza democratica scalpita ed è determinata a far sentire la sua voce non solo su tutte le scelte di governo ma anche sulle dinamiche interne al Pd.
Nel frattempo la situazione economica e sociale del Paese non sembra destinata a migliorare in tempi brevi e tutte le idee e le proposte messe, fin da subito, in campo dal nuovo esecutivo, sono destinate a impattare contro il muro dell’austerità imposto dalla recessione e dalle rigide regole di bilancio volute dall’Europa di Angela Merkel. In questo complesso scenario si innesta il lungo duello che vede protagonisti Matteo Renzi e Beppe Grilli: il primo determinato a dimostrare di essere in grado di cambiare radicalmente l’Italia e l’altro convinto che solo l’azzeramento totale, conseguente alla definitiva catastrofe politicoistituzionale, possa aprire la strada ad una rinascita italiana. Lo scontro fra le due visioni politiche si protrae per mesi fino alle fatidiche elezioni europee della primavera 2014 ed avrà un esito del tutto inaspettato. Nel frattempo ci sono momenti in cui i due duellanti “incrociano le armi” con più veemenza cercando di disarcionarsi a vicenda. Non sempre si tratta di argomenti rilevanti per il futuro politico e sociale dell’Italia anzi, quasi sempre si parte da episodi banali e pretestuosi per poi risalire, spesso arrampicandosi sugli specchi, ai massimi sistemi politici e filosofici.
7.3. Renzi e il canto del Grillo - Golem, 7 marzo 2014
Il Governo di Matteo Renzi, pur avendo meno di un mese di vita, si trova già a dover fare i conti con molti problemi: a cominciare dalle due maggioranze diverse e contrapposte (una per il Governo e una per le riforme) che lo sostengono, ando per le coperture economiche, ancora tutte da dimostrare, per buoni propositi annunciati, e finendo con il pasticcio dei sottosegretari su cui ancora non è riuscito a dire una parola di chiarezza. Nato dall’ennesima crisi economico – istituzionale, il nuovo esecutivo ha dentro di sé tutte le contraddizioni di un governo politico non sostenuto dal voto popolare. Nonostante le rilevanti questioni politiche su cui si potrebbe esercitare la critica al Governo Renzi, il principale affair, lo “scandalo” politico istituzionale che ha scaldato la rete è stato, nientepopodimenoche, il coro dei bambini di una scuola elementare che ha accolto il nuovo Presidente del Consiglio in una delle sue visite istituzionali. Ovviamente una questione di così alto profilo non poteva che essere sollevata sul blog di Grillo, vera e propria “Terza Camera” dove si esprime il peggio della pancia del Paese. Ma andiamo con ordine. Mercoledì 5 marzo Renzi si è recato in visita ad un istituto comprensivo di Siracusa, in Sicilia, per proseguire l’iniziativa intrapresa all’indomani della sua elezione a Palazzo Chigi: visitare una scuola a settimana per constatare di persona bisogni e prospettive di una delle istituzioni più importanti del Paese, decisamente trascurata negli ultimi anni. La visita alla scuola elementare si è svolta secondo la consuetudine, tuttavia un piccolo fuoriprogramma ha attirato l’attenzione dei media: gli alunni, preparati dai loro insegnanti, hanno accolto Renzi con un coro, riadattando una famosa canzone per bambini e cambiandone le parole in onore del Presidente del Consiglio. La canzone originale si chiama Clap And Jump, letteralmente “applaudi e salta” ed è ufficialmente entrata nella top ten dei media italiani quando la giornalista di Agorà, Cecilia Carpio ne ha pubblicato su Twitter la versione dedicata a Renzi, con tanto di foto del testo riadattato:
Facciamo un salto - Battiam le mani - ti salutiamo tutti insieme Presidente Renzi ,Muoviam la testa - Facciamo festa -A braccia aperte ti diciamo Benvenuto al Raiti! –I bambini, gli -insegnanti, i bidelli - e poi l’orchestra lasceremo improvvisar così - Siamo felici e ti gridiamo- Da oggi in poi,- ovunque vai, non scordarti di noi - dei nostri sogni, delle speranze - che ti affidiamo, con fiducia, oggi a ritmo di blues - Le ragazze, i ragazzi, tutti insieme -alle tue idee e al tuo lavoro affidiamo il futuro […………]. Ben presto lo “scabroso” testo ha fatto il giro del web scatenando l’indignazione del popolo del web istigato da alcuni giornali di centro destra e galvanizzato dall’ennesima invettiva comparsa sul blog di Grillo in cui l’ex comico paragona la scena vista nella scuola di Siracusa alle cerimonie giovanili al tempo del Fascismo: «Dice cose, vede gente e rompe i coglioni alle scolaresche in mondovisione. La scena del Venditore di Pentole che incontra i bambini delle elementari Raiti di Siracusa che lo ricevono allineati e addestrati con un coretto di benvenuto per concludere con “Matteo! Matteo! Matteo!" ricorda, in peggio e in grottesco, gli incontri di Mussolini con i figli della Lupa». Questa la fatwa lanciata dal blog del leader del M5S. Non si è fatta attendere la risposta del diretto interessato, Matteo Renzi, che a stretto giro ha scritto sul suo profilo Facebook: «Beppe Grillo è nervoso. Non vuole che io vada nelle scuole, mi vorrebbe rinchiuso nel palazzo. Ma io sto con gli studenti, le insegnanti, le famiglie e i sindaci. Mentre i suoi stanno fuori a urlare con Forza Nuova. Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei!». Fin qui la polemica fra i due leader con lo scambio delle classiche battute al vetriolo a cui ci siamo ormai abituati. La questione però non è finita con il duello verbale fra il Premier e l’ex comico, ma ha “invaso” giornali, tv e social network scatenando un dibattito surreale a cui ha preso parte persino una deputata democratica, Anna Ascani, che si è scagliata contro la scuola in questione con parole di fuoco: «La canzone dei bambini per Renzi è una pagina indegna, trovo che l’episodio sia sconcertante ed offensivo verso i bambini e le loro famiglie, verso la Costituzione e, suo malgrado, verso il presidente del Consiglio. La scuola è un luogo sacro, lo spazio di tutti, dedicato all’educazione e alla lotta alle diseguaglianze. Non può diventare, anche se per spirito di folklore e in buona fede, la versione ridicola di una propaganda completamente priva di senso, a prescindere dalla maggioranza politica incaricata del governo, tanto più sulla pelle dei bambini». Una vera e propria tempesta in un bicchier d’acqua che, per la canzone cantata da alcuni bambini ad un Presidente del Consiglio, tira in ballo i massimi sistemi e la storia con la S maiuscola. In realtà chiunque faccia una semplice ricerca su internet può facilmente rintracciare video e filmati di bambini intenti a cantare, “costretti dai
perfidi docenti” , in onore di personaggi e cariche istituzionali ben minori del Presidente del Consiglio: sindaci, presidenti di provincia, alti prelati e chi più ne ha, più ne metta. Chiunque abbia frequentato, a qualsiasi titolo, una scuola elementare in città o nell’ultimo paesino d’Italia si è imbattuto in una situazione del genere ma con protagonisti molto meno illustri di un Premier e chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale dovrebbe riconoscere che tutto questo non ha nulla di insolito, soprattutto in una scuola come l’Istituto Salvatore Raciti, questo il nome della scuola intitolata ad una vittima di mafia, che per sua stessa “vocazione” mette la musica al centro della sua attività didattica come si capisce dal P.O.F. (Piano Offerta Formativa). I progetti dedicati alla musica sono infatti parecchi nel piccolo istituto di Siracusa come sottolinea la dirigente della scuola : «Cosa rispondo a Grillo? Sostanzialmente nulla. Ciascuno è liberissimo di pensarla come vuole.» - dice la preside Angela Cucinotta - «Sono assolutamente serena perché abbiamo dato tutti noi, i nostri ragazzi ed i nostri docenti, il meglio per questa occasione speciale che rappresenta una pagina importante per il nostro Istituto. Quanto alla canzone, questa è stata il frutto di un laboratorio aperto e chiuso in un giorno e mezzo per la visita del premier. La nostra è anche una scuola di musica, qui si studia canto, vengono anche insegnanti esterni. Per i nostri ragazzi piccole composizioni per sottolineare occasioni speciali, come quella di oggi, ma anche per momenti diversi, come, ad esempio, il pensionamento di un docente, è la normalità». È dunque quasi fisiologico che sia stata scelta la musica per comunicare l'eccezionalità dell'evento vissuto dalla scuola. Se l'iniziativa messa in campo per salutare il Presidente del Consiglio fosse stata pittorica o di altra natura nessuno ci avrebbe trovato nulla da ridire probabilmente.
7.4. Mussolini, le liste civetta e il mito del popolo della rete
In un contesto in cui da più parti si fa riferimento alla necessità di ritrovare un minimo di rispetto per le Istituzioni, a partire dalla scuola, una vicenda del genere non può che apparire ridicola; soprattutto se il paragone con il regime fascista viene da chi, come Grillo e Casaleggio, sta sistematicamente eliminando dal proprio partito qualsiasi voce critica. Dopo la cacciata, avvenuta la scorsa settimana, dei quattro senatori dissidenti, questa volta è toccato ai cinque senatori dimessisi dal Senato per solidarietà ai colleghi cacciati: «Si sono isolati e non possono continuare ad essere rappresentanti ufficiali nelle istituzioni. Alessandra Bencini, Laura Bignami, Monica Casaletto, Maria Mussini e Maurizio Romani, sono fuori dal M5s» scrive il leader sul suo blog. Il prossimo ad essere cacciato potrebbe essere addirittura il sindaco di Parma Pizzarotti, l’unico grillino che abbia mai conquistato qualcosa con i suoi voti. Alle elezioni del 1925 Mussolini usò delle “liste civetta”, cioè liste dietro cui si nascondeva il partito fascista sotto altro nome, per impadronirsi anche dei pochi seggi rimasti a disposizione delle opposizioni dopo l’approvazione della legge Acerbo. Oggi usando gli “infiltrati” nei meet up dei territori, il duo Mussolini-Grillo e Farinacci-Casaleggio sta facendo lo stesso per liberarsi di chiunque osi mettere in dubbio la loro linea. Altro che canzonette dei bambini!
7.5. Le polemiche sulle prime scelte del governo Renzi
Mentre infuriano le polemiche lanciate dal blog di Beppe Grillo, sul Governo di Matteo Rensi arriva, ben presto, anche il “fuoco amico” delle varie anime del Pd. La causa principali dei “mal di pancia” democratico è, fondamentalmente, la riforma elettorale che nel mese di marzo 2014 viene approvata dalla Camera dei Deputati. Un’approvazione in tempi brevi dell’Italicum aprirebbe la strada alle elezioni anticipate e, probabilmente, molti parlamentari della vecchia guardia non troverebbero più posto nelle nuove liste Pd e finirebbero, definitivamente, “ai giardinetti”. Accanto a questi motivi, decisamente prosaci, vengono sollevate, più o meno onestamente, anche ragioni i carattere ideale: la nuova legge rischia di essere incostituzionale come il vecchio Porcellum proprio perché, come affermato dai più noti costituzionalisti italiani, non prevede ancora le tanto agognate preferenze. Un altro aspetto ce solleva i dubbi della minoranza dei “dem” è la necessità, per consentire all’Italicum di funzionare correttamente, di una riforma costituzionale che abroghi il Senato. Tuttavia la bozza di riforma della Camera alta uscita dall’incontro Renzi - Berlusconi non piace quasi a nessuno, sia all’interno del Pd che negli altri partiti. Lo scontro parlamentare attorno a questi temi principali a anche attraverso battaglie minori che sembrano contenere in sé un alto valore morale ma che si rivelano, ad una attenta analisi, piuttosto pretestuose come nel caso della questione sulle cosiddette “preferenze di genere”.
7.6. Parità in nome della legge (Golem, 14 marzo 2014)
Il aggio alla Camera dell’Italicum, la nuova legge elettorale partorita dall’accordo fra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, non è stato esattamente una eggiata; tuttavia il patto fra i due leader ha retto alla prova dell’aula. Con 365 sì, 156 no e 40 astenuti la Camera dei Deputati ha approvato, mercoledì 12 marzo 2014, la riforma della legge elettorale. Il prezzo però è l’ennesima lacerazione interna al Pd con la minoranza che non si rassegna a rinunciare alle preferenze e i renziani che fanno i conti con lo scarso controllo sui gruppi parlamentari. Il momento più drammatico si è avuto nella giornata di lunedì 10 marzo quando, complice il voto a scrutinio segreto, la Camera ha bocciato i tre emendamenti bipartisan alla legge elettorale che introducevano le cosiddette “quote rosa”, ovvero la parità di genere nei listini elettorali. Nonostante la singolare protesta delle deputate donne, vestite integralmente di bianco al fine di rivendicare la parità di genere, per un pugno di voti gli emendamenti sono stati affossati dall’aula salvando il patto fra Renzi e Berlusconi e, probabilmente, lo stesso Governo. Al di là delle geografie interne al Pd , delle lotte intestine nei partiti e di tutti i motivi non proprio ideali che entrano in gioco ogni volta che si vota una legge, viene spontaneo chiedersi se l’introduzione di “quote rosa” nelle liste elettorali sia una battaglia giusta oppure no. Nonostante la parità formale fra uomini e donne sia garantita per legge, dalla Costituzione, nel nostro Paese sono ancora molti gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere un’uguaglianza de facto con l’altro sesso: nel lavoro come in famiglia ci sono ancora molti ostacoli da rimuovere per raggiungere una vera equanimità. Un gap che, secondo il fronte trasversale delle deputate bianco vestite, l’introduzione delle quote rosa in Parlamento potrebbe contribuire a colmare garantendo maggiore rappresentanza femminile. Riservare un certo numero di posti nell’Assemblea legislativa per le donne, considerate, evidentemente, una categoria svantaggiata è, in termini tecnici, una discriminazione positiva ovvero si discriminano alcune categorie (in questo caso una sola: gli uomini), considerate più forti in partenza, per avvantaggiarne un’altra ritenuta, evidentemente, più debole. Ma è veramente così? Sono molte le donne a dichiararsi contrarie all’introduzione delle quote di genere in Parlamento: significherebbe infatti riconoscere un’intrinseca debolezza
del gentil sesso nei confronti degli uomini, una debolezza tale da richiedere una speciale tutela da parte della Legge. In realtà le donne in Italia non sono affatto una minoranza: come ha ammesso la stessa presidente della Camera Boldrini (anche se lei è d’accordo con le quote), le donne rappresentano il 50% della popolazione italiana, quindi tecnicamente non sono una minoranza. Né sono affette da una qualche forma di impedimento psicofisico che impedisce loro di competere ad armi pari, nell’agone politico, con i colleghi uomini. Il problema sta, semmai, nel fatto che i vertici dei partiti (che dovranno occuparsi di stilare le liste dei candidati) sono tutti, per ora, in mani maschili. Ma questo non è certo un problema a cui si può ovviare per legge. Secondo la nostra Costituzione il diritto di partecipare alla vita delle istituzioni italiane appartiene a tutti i cittadini senza distinzione di sesso, religione, razza o provenienza geografica: tutti possono accedere alle cariche elettive. Dal punto di vista legislativo e formale non c’è nulla da cambiare e gli strumenti messi in campo dalla politica per raggiungere l'effettiva parità di genere dovrebbero essere di natura educativa più che legislativa. Ma si sa che l’educazione è un processo lungo e richiede una certa gradualità anche se, da questo punto di vista, alcuni risultati sono già stati raggiunti. Il nuovo Parlamento ha una presenza rilevante di donne, perfettamente in linea con la media Ue e superiore, in alcuni casi, ai Paesi più avanzati: in Gran Bretagna alla Camera dei Comuni ci sono 147 donne su 650 deputati (il 22% del totale), mentre alla Camera dei Lords si registrano 172 presenze femminili su 826 (il 20%). La situazione negli Stati Uniti d’America è ancora più sfavorevole al gentil sesso: 18% (82 donne su 435) di donne alla Camera e 20% (20 su 100) al Senato. In Italia la XVII legislatura registra il 31,4% di presenze femminili alla Camera (198 su 630) e il 27,3% al Senato (86 su 315). È vero che alcuni Paesi europei hanno introdotto le quote (Francia, Portogallo, Belgio, Spagna, Polonia, Lussemburgo, Grecia, Irlanda e Slovenia) tuttavia nei Paesi più avanzati, a cui spesso si dice che bisogna guardare per prendere esempio in campo economico e amministrativo (Danimarca, Svezia, Islanda, Norvegia, Paesi Bassi, Regno Unito e Germania, Finlandia), non esiste nessuna quota di genere imposta per legge e sono gli stessi partiti ad imporsi, tramite un regolamento interno, di distribuire equamente i posti in lista: più o meno quello che Renzi ha promesso di fare nel Pd. Vedremo; nel frattempo bisogna chiedersi perché negli altri Paesi questi dibatti surreali non avvengono. Un esempio su tutti è costituito dagli U.S.A. dove si fa ampio uso della discriminazione positiva per tutelare le minoranze (soprattutto razziali) ad esempio nell'ammissione all’
università o anche per regolare la composizione etnico/culturale di alcuni quartieri delle città, ma dove nessuno si è mai sognato di introdurre quote rosa per il Senato. Il motivo di questa scelta è molto semplice : l'assemblea legislativa è aperta a tutti e una volta seduti lì non si può rappresentare solo una minoranza ma si deve rappresentare tutto il popolo.
7.7. Educare per decreto
Bisognerebbe chiedersi dunque a che punto di evoluzione culturale è giunta oggi la nostra società e perché, al netto dell’uguaglianza formale garantita dalla Costituzione, non si sente ancora abbastanza rappresentata dalle donne. Se si trattasse solo di imporre un certo numero di donne “per legge” sarebbe allora solo un’operazione di facciata e nessuno potrebbe più lamentarsi che le varie Minetti, Ruby ecc. finiscano nelle liste elettorali o, addirittura, in Parlamento per meriti e competenze che con il governo del Paese hanno poco a che vedere. Certo creare le condizioni culturali, sociali ed economiche per far sì che una classe dirigente femminile capace e preparata emerga finalmente anche nel nostro Paese è molto più difficile che tentare di imporre la parità di genere per decreto. Come dimostra una lunga storia di leggi inapplicate, la tentazione di risolvere con lo strumento legislativo problemi complessi di altra natura è sempre in agguato in Italia: per evitare che gli italiani andassero con le prostitute, negli anni ’50, fu approvata la legge Merlin ma, come dimostra la cronaca di questi giorni (baby squillo ecc.) la situazione è nettamente peggiorata; per risolvere il problema dei manicomi si decise di abolirli negli anni ’70 ( legge Basaglia): ad oggi il problema delle malattie mentali e del loro trattamento è più acuto che mai; nel 1999 la legge 493 ha obbligato le casalinghe ad assicurarsi: alzi la mano chi conosce una casalinga assicurata.
Di esempi di questo tipo se ne potrebbero fare a bizzeffe: a partire dalla pena di morte per la borsa nera durante l’ultima guerra, fino alla legge sull’omofobia che sembra più che altro una riscoperta del reato d'opinione : invece di prevedere un’aggravante per il reato di violenza commesso per motivi discriminatori, si istituisce il reato di omofobia come se si potesse punire per legge una paura (omo-fobia). Il dibattito sull’introduzione delle quote rosa è solo l’ultimo di questa lunga serie di tentativi di imporre, per legge, un costume, un’ abitudine, una forma mentis; l’ennesimo tentativo di educare il popolo attraverso la legge: si disinveste in cultura ed educazione e poi si cerca di rimediare ai danni attraverso le vie legislative. Ma i cambiamenti culturali non si possono imporre per legge, e le persone non si educano per decreto bensì a scuola, nelle università
e nelle altre istituzioni preposte. Prima di lanciarsi in astrusi dibattiti su quote rosa e altre amenità, bisognerebbe prima mettesi d’accordo su qual è il fine ultimo, lo scopo (il télos direbbe qualcuno) della politica. Probabilmente le aule parlamentari dovrebbero servire per varare leggi che favoriscano condizioni sociali ed economiche tali da permettere l’emancipazione personale e collettiva di tutte le categorie sociali, soprattutto le più svantaggiate, e non per tentare una, in molti casi tardiva, rieducazione a suon di emendamenti.
7.8. Dalla lotta di classe alla lotta alle caste
Una volta siglato e avviato sugli impervi binari parlamentari l’accordo per le riforme, Renzi entra nel vivo dell’azione di governo mettendo in campo i primi provvedimenti: oltre al rilancio dell’edilizia scolastica c’è il bonus degli ottanta euro in più in busta paga per tutti i redditi dipendenti medio bassi. La misura viene attaccata da più parti perché non adeguata a risolvere i problemi economici degli italiani. Non manca chi vede, nella proposta di un bonus ai lavoratori appartenenti alla classe media, semplicemente una promessa elettorale in vista del voto per le elezioni europee della primavera 2014 o chi parla, addirittura, di voto di scambio. Se la prossimità delle consultazioni per il Parlamento europeo può far sorgere il sospetto che si tratti di una trovata elettorale, la volontà, espressa più volte dal premier, di rendere il bonus permanente può rappresentare l’inizio di un’inversione di tendenza nella politica economica del Paese. Negli ultimi vent’anni il divario fra redditi alti e bassi è notevolmente aumentato e a pagare il prezzo più alto è stata sicuramente quella che un tempo era chiamata la “piccola e media borghesia”. Negli anni della disgregazione dello Stato sociale, i pochi interventi di welfare ancora consentiti si sono concentrati, prevalentemente, verso coloro che, strangolati dalla crisi, si sono trovati senza un reddito. Un esempio di queste politiche è la social card di tremontiana memoria. Schiacciata fra gli estremi, la “middle class” italiana ha notevolmente ridotto i suoi consumi trascinando con sé il mercato interno del Paese.
In questo senso gli ottanta euro in più in busta paga, se dovessero diventare permanenti, rappresenterebbero non solo il più cospicuo aumento salariare per i dipendenti degli ultimi decenni ma, soprattutto, una buona iniezione di liquidità nell’economia reale del Paese. Rilanciare i consumi per uscire dalla recessione: una ricetta che, se non altro, ha un senso. Certo ottanta euro al mese non salveranno l’Italia dal declino e per ridurre il divario chi ha troppo e chi ha troppo poco ci vuole ben altro. Per questo dopo aver spostato un po’ di soldi verso i redditi medio bassi diventa necessario porre un argine agli stipendi impazziti della casta o meglio “delle” caste. Se le malefatte dei politici infatti invadono quotidianamente riviste e televisioni di ogni ordine e grado, le altre
“caste” che compongo il Paese sono rimaste, in questi anni, nell’ombra accrescendo a dismisura il loro potere e la loro ricchezza. Per questo dopo i famosi ottanta euro si a al tetto degli stipendi milionari dei manager pubblici. Il Governo tocca i primi interessi sensibili e inizino i primi guai. In fondo è come chiedere a i tacchini di anticipare il Natale.
7.9. Il caso Moretti e le caste invisibili - Golem, 28 marzo 2014
La strada intrapresa appare come quelle più impervie ma Renzi e il suo Governo non sembrano intenzionati a fare marcia indietro: - Piaccia o non piaccia il governo intende andare fino in fondo. E’ il modo di fare la pace con gli italiani - ha dichiarato il Presidente del Consiglio mercoledì durante una visita in Calabria annunciando la sua “rivoluzione” della pubblica amministrazione.
Facile a dirsi ma difficile a farsi come dimostra la storia degli ultimi anni: da Mario Monti a Enrico Letta, tutti coloro che hanno cercato di arginare lo strapotere della burocrazia di Stato sono stati trascinati in una palude fatta di ricorsi, cavilli amministrativi e difficoltà tecniche di ogni genere. Il caso è scoppiato dopo l’annuncio di Renzi riguardo la volontà, da parte del Governo, di tagliare gli stipendi dei manager pubblici per ritrovare un minimo di giustizia sociale perché «non è possibile che l'amministratore delegato di una società guadagni 1.000 volte in più dell'ultimo operaio». Le grida di protesta del mondo dei super manager di Stato si sono subito sentite forti e chiare attraverso le parole di Mauro Moretti, amministratore delegato delle Ferrovie che, rispondendo ad una domanda dei cronisti, ha dichiarato: - Lo Stato può fare quello che desidera: una buona parte di manager andrà via, lo deve mettere in conto - .
Una profezia che vale innanzitutto per se stesso, come ha subito specificato il sessantunenne manager di Trenitalia spiegando la situazione dal suo punto di vista: - Io prendo 850mila euro l’anno, il mio omologo tedesco ne prende tre volte e mezzo: siamo delle imprese che stanno sul mercato ed è evidente che sul mercato bisogna anche avere la possibilità di retribuire per poter fare sì che i manager bravi vengano dove ci sono imprese complicate e dove c’è del rischio ogni giorno da dover prendere -. Un Presidente della Repubblica oggi guadagna circa 250mila ero l’anno e Renzi vorrebbe equiparare al suo stipendio tutti i guadagni annui dei manager e dei massimi funzionari di Stato ma, secondo
Moretti - il fatto che uno che gestisce un’impresa che fattura oltre 10 miliardi di dollari l’anno, come la nostra, debba stare al di sotto del presidente della Repubblica è una cosa sbagliata -. Peccato però che Ferrovie dello Stato non sia esattamente un’azienda privata e lo stesso Moretti non sia esattamente uno che si è fatto strada sgomitando fra la concorrenza, anzi.
7.10. Capitalismo all'italiana
Moretti nasce sessantuno anni fa a Rimini e nel 1978 entra in FS iniziando la scalata che lo porterà a diventare amministratore del gruppo nel 2006 grazie anche al suo ruolo di sindacalista Cgil che lo vede arrivare all’incarico di segretario generale della sezione trasporti. Una carriera all’ombra del sindacato e della politica più che nell’”arena” del mercato, tanto è vero che la sua minaccia di abbandonare l’unica azienda che abbia mai conosciuto non ha destato particolari timori. Dal ministro Lupi fino all’imprenditore Diego Della Valle molti sono intervenuti per rassicurare Moretti che nel caso in cui decidesse di rassegnare le dimissioni dal gruppo FS: nessuno si strapperebbe i capelli. Se è vero che i manager delle ferrovie tedesche guadagnano il doppio del loro omologo italiano , Moretti dimentica di ricordare che questa circostanza riguarda tutti gli impiegati delle ferrovie teutoniche, dai quadri fino all’ultimo degli operai. Se poi i conti durante la sua gestione sono migliorati, il servizio agli utenti è decisamente peggiorato: prezzi dei biglietti alle stelle e tagli indiscriminati alle corse regionali con somma disperazione dei pendolari.
Pochi insomma sono disposti a prendere le difese di Moretti e degli altri supermanager che, mentre il Paese sprofondava nella crisi economica più nera della sua storia unitaria, hanno addirittura aumentato i propri profitti personali. Eppure il tentativo di arginare lo strapotere economico e amministrativo dei boiardi di Stato è incorso da almeno tre anni, da quando Monti, nel 2011, provò ad inserire un tetto agli stipendi d’oro con una norma del decreto Salva Italia: «il trattamento retributivo percepito annualmente (…) non può superare il trattamento economico annuale complessivo spettante per la carica al Primo Presidente della Corte di Cassazione», si legge nel decreto attuativo della norma. Il presidente della Corte di Cassazione guadagna più o meno 300mila euro l’anno, tuttavia la norma voluta da Monti si è impantanata in una selva di difficoltà tecniche, burocratiche e amministrative, tant’è che, a tre anni dall’approvazione della norma, essa è stata applicata sono in un paio di casi a fronte delle 7.411 società pubbliche. Eppure secondo l’Ocse, i manager della pubblica amministrazione centrale italiana sono i più pagati in assoluto, con uno
stipendio medio di 650 mila dollari annui mentre la media Ocse è di 232 mila dollari. Se è vero che con le privatizzazioni e le quotazioni in borsa gli stipendi dei manager pubblici si sono dovuti adeguare a quelli del settore privato, è pur vero che le partecipate statali non hanno mai seguito realmente le leggi di mercato, tant’è vero che negli ultimi anni tanti manager (non è il caso di Moretti) hanno potuto ottenere bonus milionari ,nonostante avessero letteralmente dissanguato le società pubbliche di cui erano alla guida. Da questo punto di vista quindi in Italia non c’è mai stato un vero capitalismo perciò ben venga la circolare attuativa del ministro Madia che in queste ore specifica «Nella circolare rendo esplicito che in questo tetto, ora tarato sul primo presidente di Corte di Cassazione, facendo riferimento ad una norma del governo Letta, debbano essere cumulati anche tutti i trattamenti pensionistici, compresi i vitalizi».
Di certo è un o importante per riuscire finalmente a mettere in pratica la legislazione varata dai precedenti governi, tuttavia non è ancora sufficiente. Un vero e proprio potere parallelo è cresciuto infatti negli ultimi vent’anni all’ombra della prima fila dei politici. Manager di società pubbliche, capi di gabinetto, alti funzionari dei ministeri che, mentre i governi cambiavano repentinamente, hanno attraversato indisturbati gli ultimi vent’anni della storia italiana mantenendo ben salde le leve del potere con stipendi altissimi e un potere amministrativo enorme di cui l’opinione pubblica è quasi del tutto ignara. Così pochi si rendono conto che i capi di gabinetto dei ministeri non cambiavano da anni con la conseguenza che il loro potere, consolidato nel tempo, è pari a quello di un ministro. Eppure quasi nessuno conosce i nomi e i volti di questi boiardi di Stato né è informato sui loro compensi. Ma come è potuto accadere? Come si è arrivati alla nascita di un “governo ombra” permanente nei palazzi del potere? La causa è da ricercare nei cambiamenti avvenuti nel mondo dopo il disgregarsi dell’Unione sovietica nel 1991 e la conseguente fine della “Guerra Fredda”: rimasta l’unica vincitrice sul campo di battaglia della storia, l’economia di mercato ha imposto le sue regole e ha preso la strada del liberismo più sfrenato spingendo, con forza, lo Stato fuori dalla gestione dell’economia del Paese. A questo punto l'amministrazione dello Stato avrebbe dovuto ridursi di pari o con la riduzione delle sue competenze, invece essa è rimasta intatta, ferma ad occuparsi della sfera amministrativa, invadendola e cavillando su ogni legge e su ogni riforma varata dal parlamento: se è vero che il aggio legislativo nelle due camere rallenta il processo decisionale, i successivi aggi attuativi e burocratici paralizzano ogni azione legislativa. Un mondo quasi sconosciuto fino
ad ieri e che oggi sta emergendo perché la crisi costringe l’Italia a grattare sotto la superfice e a riformarsi profondamente.
Una riforma seria della P.A. potrebbe garantire risparmi consistenti, senza contare il valore aggiunto generato da una maggiore efficienza dei servizi erogati. Forse l’errore degli ultimi anni è stato quello di puntare l’attenzione solo ed esclusivamente sugli sprechi della politica e sulle malefatte dei suoi protagonisti. Certo la moralità dei singoli in politica è importante e va pretesa ma non sposta di una virgola la situazione di difficoltà economica in cui vivono gli italiani. Molti scandali scoppiano, ormai, per peculati da poche centinaia di euro, con inchieste che costano più della somma da recuperare: l'antipolitica così come l'abbiamo conosciuta fino ad oggi ha fatto il suo corso ed è il momento di cercare più in profondità le leve di un cambiamento in grado di invertire la rotta del naufragio collettivo.
VIII - Destinazione Europa
Per comprendere adeguatamente quello che è avvenuto, avviene, ed avverrà in Italia bisogna considerare un tema che, fino a questo momento, è rimasto sullo sfondo ma che funge da contesto a tutto quello che è stato raccontato e descritto: l’Europa. Croce e delizia dei suoi stati membri, l’Unione Europea è finita nell’occhio del ciclone durante la crisi economica nata nel 2008 negli Stati Uniti d’America. Da quel momento la pressione della speculazione internazionale sul debito sovrano degli Stati membri ha spinto l’Europa a mettere sotto sorveglianza i conti pubblici di quei Paesi, come la Grecia, la Spagna e l’Italia, considerati poco affidabili sotto il profilo della contabilità. La Grecia è stata la prima vittima del nuovo regime economico europeo che, probabilmente, erà alla storia come “l’era dell’austerità”. In realtà l’austerità non è una regola che l’intera Unione europea si da per diventare più virtuosa ma è anzi un’interpretazione rigida e intransigente dei trattati comunitari che alcuni Paesi attuano per costringere altri Paesi a tagliare le spese. Si delinea così una vera e propria spaccatura all’interno dell’Unione che porta a rimettere in discussione lo stesso processo di unificazione. Anche se non è più combattuta con le armi e con gli eserciti, in Europa, ritorna la guerra. Questo nuovo tipo di conflitto vede schierati da una parte i Paesi “rigoristi”, Germania in testa, e dall’altra i Paesi mediterranei come l’Italia e la Spagna e la stessa Francia che, negli anni della crisi, vedono le loro economie sprofondare nell’abisso della recessione.
La Germania, l’Olanda e in generale tutti Paesi dell’Europa del nord che presentano un debito pubblico minore di quelli del sud, resistono alla terribile crisi economica e anzi beneficiano della difficoltà delle altre economie del Vecchio Continente espandendo i loro traffici nei nuovi mercati che l’economia globale mette a disposizione. Nonostante ciò nessuno dei paesi dell’Europa settentrionale è disposto a farsi carico di una parte del debito degli Stati più deboli né accetta di concedere altri spazi di spesa pubblica alle disastrate economie del Mediterraneo. Una parte dell’Europa naviga serena mentre l’altra affonda: è questa l’immagine che sintetizza gli ultimi anni della storia
comunitaria. In questo scontro fra nord e sud Europa, uno dei Paesi più importanti del Vecchio Continente, la Gran Bretagna, sembra essere sempre più deciso ad abbandonare la comune barca europea avviata ormai al naufragio. Nel 2012 l’Unione Europea è al minimo storico di popolarità tra i suoi stessi cittadini: l’euro sembra sempre più ua prigione che spinge alla deriva le economie nazionali. Un mostro burocratico che però, proprio nel 2012, contro ogni pronostico, ottiene un premio speciale : il Nobel per la Pace.
8.1. Lo Strangolatore di Pace - Golem, 12 ottobre 2012
Mentre la Grecia vive uno dei momenti più bui della sua storia recente e gli altri Paesi del Vecchio continente, Spagna in testa, sono attraversati da proteste e tensioni sociali sempre più acute, la notizia arrivata il 12 ottobre 2012, ha sorpreso un po' tutti: Il Premio Nobel per la pace 2012 è stato assegnato, all'unanimità, all'Unione Europea. Il Comitato norvegese ha deciso di assegnare il Premio all'U.E. per il suo ruolo nei “progressi nella pace e nella riconciliazione”. “L'Unione e i suoi membri”, si legge nelle motivazioni della premiazione, “per oltre sei decenni hanno contribuito al progresso della pace e della riconciliazione, della democrazia e dei diritti umani in Europa”. Alle reazioni di soddisfazione e di orgoglio per il prestigioso riconoscimento, arrivate dai rappresentanti delle istituzioni Europee, si sono presto affiancate le perplessità di quanti riscontrano, proprio nelle istituzioni burocratiche ed economiche dell' unione, le cause dell'attuale crisi sociale che attanaglia gli Stati europei. Ha senso attribuire il Nobel per la Pace ad un organismo sovranazionale che, secondo molti, sta “strangolando”, economicamente, i suoi cittadini? Alle prese con gli effetti della crisi dell'Euro e con il rigore imposto dalle istituzioni di Bruxelles, sono in molti oggi, in Italia e in Europa, a desiderare un o indietro rispetto al processo di unificazione del Vecchio Continente, soprattutto per quanto riguarda la moneta unica: l'euro, percepito come una vera e propria gabbia per gli Stati e per i cittadini sempre più impoveriti. La percezione generale è quella di un'Europa incapace di agire, paralizzata da rigidi apparati burocratici e ostaggio di interessi economici egoistici che prevalgono sul benessere dei cittadini. Di fronte ai numerosi problemi e contraddizioni di un progetto politico ed economico che oggi mostra molti dei suoi limiti, i dubbi sull'assegnazione del Nobel appaiono più che giustificati, tuttavia, il Premio per la pace non poteva trovare miglior vincitore.
Come è stato ricordato, il periodo di pace seguito alla nascita dell'Unione Europea non ha precedenti nella storia del continente. Sessant'anni in cui la guerra, e tutte le sue nefaste conseguenze, hanno, finalmente, smesso di
flagellare l'Europa. Un risultato mai raggiunto prima da nessuna costruzione politica, religiosa o economica : a nessuna generazione nata prima dell'avvento dell'Ue è mai stata risparmiata l'esperienza della guerra. Questo è un dato di fatto. Il nostro è un continente nel quale popoli di etnia e cultura diversa si sono incontrati, mescolati e scontrati per secoli: lo stato di guerra è stato sempre la normalità, una condizione quasi permanente, intervallata da brevi periodi di pace instabile e poco durevole. Se si guarda alla storia dunque il livello di integrazione dei popoli europei raggiunto con la nascita dell'U.E. è il più alto dai tempi di Carlo Magno, vero precursore dell'Europa unita, che oltre alla moneta unica (dominica moneta), introdusse un sistema di pesi e misure comune a tutto il Sacro Romano Impero e un codice civile e penale comune. Dopo la fine dell'Impero di Carlo, l'Europa conosce i secoli del feudalesimo e della frammentazione del potere in cui le forze universalistiche, come la Chiesa e l'Impero ingaggiano una lotta senza quartiere fra di loro e contro i poteri locali: nessuno riuscirà a prevalere e la frammentazione del potere continuerà a causare guerre e morti sul continente fino all'avvento di nuovi protagonisti della storia: gli Stati territoriali. Ma l'equilibrio delle potenze in Europa non regge mai per più di quarant'anni e alle guerre dinastiche ben presto si mescolano le guerre di religione, frutto di una nuova frattura tutta interna, questa volta, alla chiesa: protestanti da una parte e cattolici dall'altra insanguinano l'Europa per secoli combattendo in nome di una diversa visione della fede. Una tragedia umanitaria che tocca le vette più drammatiche con la Guerra dei Trent'anni, dal 1618 al 1648, che porta con se la peste e la distruzione su tutto il continente per tre decenni.
Alcuni paesi teatro del conflitto, come la Germania, ne escono con la popolazione dimezzata. Finite le guerre di religione ben presto subentrano quelle fra gli Stati nazionali, nuovi protagonisti della storia: le guerre di successione del XVIII secolo coinvolgono nuovamente quasi tutti i Paesi del Vecchio Continente. Neanche le rivoluzioni tecnologiche e politiche della seconda metà del XVIII sec. Riescono a portare la pace: l'800 si apre con il nefasto tentativo di egemonia imperiale di Napoleone. La lotta fra le forze conservatrici della restaurazione e le nuove istanze di unità nazionale e di uguaglianza durano per tutto il XIX sec. La Francia e la Germania in particolare, si scontrano senza tregua, animate da un lungo odio reciproco che arriverà fino ai due tragici
conflitti mondiali. Non è un caso se la Seconda Guerra mondiale è da molti considerata come il “suicidio” politico, sociale ed economico dell'Europa.
8.2. La nascita dell'U.E.
Dopo aver toccato uno dei punti più bassi della sua storia, l'Europa esce dal secondo conflitto mondiale nel 1945 completamente annientata. La necessità di impedire il ripetersi di catastrofi come quelle della prima metà del secolo è ben chiara: nonostante una storia fatta di diversità inconciliabili e di scontri sanguinosi l'Europa decide di tentare la via dell'integrazione. Nel 1951 per evitare di rivivere gli errori del ato e creare le condizioni per una pace duratura, Jean Monnet, Robert Schuman (ministro degli Affari esteri se) e Konrad Adenauer (cancelliere tedesco) mettono a punto il Piano Schuman secondo il quale i paesi europei si impegnano a stabilire una politica comune per il mercato del carbone e dell'acciaio. Aderiscono Francia, Germania, dall'Italia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo: nasce la C.E.C.A. (Comunità europea del carbone e dell'acciaio) e con essa il primo nucleo dell'U.E. Nel 1957 i 6 Paesi fondatori danno vita, con i Trattati di Roma, alla Comunità Economica Europea (CEE). Da questo momento in poi il numero di paesi europei che aderiscono al progetto comunitario inizia a lievitare ando dai 6 iniziali fino agli attuali 27. Nel 1998 nasce l'Euro che inizierà circolare, fra i paesi aderenti alla moneta unica (Austria, Belgio, Finlandia, Germania, Grecia, Francia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna), nel 2002. Nei dieci anni seguiti all'introduzione della moneta unica, l'Unione ha compiuto pochi i avanti sulla strada di una vera unificazione politica. Gli interessi, spesso contrastanti, dei singoli Stati, e la paura di abdicare a buona parte del sovranità nazionale in favore della nuova entità sovrastatale, ha paralizzato l'iniziativa politica trasformando l'U.E. in un apparato burocratico pesante e spesso tutt'altro che funzionale. Lo stallo politico oggi è più evidente che mai: di fronte alla più grave crisi della sua storia l'Europa unita sembra incapace di reagire adeguatamente, divisa fra concezioni economiche, politiche e sociali spesso diametralmente opposte. La risposta a questa nuova sfida non può essere però lo sfascio del progetto europeo e il ritorno ai vecchi Stati nazionali: gli esiti sarebbero altrettanto nefasti di quelli che ci mostra la Storia. L'unione economica ha fino ad ora garantito pace, benessere e sviluppo economico a tutti i paesi che hanno deciso di aderirvi,
ma è chiaro che da sola non può più bastare. È necessario rintracciare le radici comuni dell'idea di Europa, consapevoli che esse affondano nella diversità e nel confronto/scontro fra culture e sensibilità opposte, piuttosto che in un monolitico sistema di valori comuni. Nata dalla fusione delle radici latine con l'elemento germanico, l'Europa ha avuto come collante, per molti secoli il Cristianesimo al quale si è affiancata, più di recente la ragione illuminista. Tutti fattori in contrasto fra loro come per lungo tempo lo sono stati i popoli europei. Tuttavia proprio dalla ricerca dell'equilibrio fra le sue diversità l'Europa ha sempre tratto la propria forza, riuscendo a dare risposte unitarie alle sfide della Storia.
Se oggi l'Unione Europea rimane, nonostante tutto, un faro di civiltà e di pace per il mondo intero, il merito è soprattutto della scelta unitaria. Un mondo diviso fra estremismo islamico da una parte e l'imperialismo americano (e non solo) dall'altra, ha più che mai bisogno dell'Europa unita e dei valori di pace e di civiltà di cui è portatrice.
8.3. La Gran Bretagna alla ricerca di una via d’uscita
L’Europa intesa come ente sovranazionale e come apparato burocratico inizia a stare stretta a molti Stati del Vecchio Continente a causa dei vincoli, non solo economici, imposti a governi e cittadini. I più insofferenti fra tutti gli abitanti dell’U.E. sono, naturalmente, gli inglesi: da sempre abituati alla libertà politica ed economica, mal sopportano le imposizioni di Bruxelles. E così, nel bel mezzo della crisi dell’Euro salta fuori quella parola che rischia di far crollare la fragile costruzione europea: referendum. Il premier inglese, David Cameron, promette ai suoi cittadini un referendum per decidere se rimanere nell’Unione o uscirne per sempre.
8.4. Cameron, l’Europa e il Contratto sociale - Golem, 25-01-2013
- Sono a favore di un referendum: dentro o fuori l’Europa - Con queste parole il primo ministro britannico David Cameron anuncia (23 gennaio 2013) al mondo intero, che la Gran Bretagna potrebbe, presto, uscire dall’Unione Europea. Parlando dalla sede di Londra dell’agenzia di stampa Bloomberg, Cameron ha annunciato ufficialmente che se vincerà le prossime elezioni politiche (maggio 2015) proporrà, entro il 2017, un referendum per la permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea. Le voci sul possibile referendum inglese circolavano ormai da giorni tuttavia, l’annuncio di Cameron ha lasciato il segno e verrà forse ricordato come un momento decisivo nella storia europea del ventunesimo secolo. - L’Europa, ha esordito il primo ministro, è stata in grado, tramite la collaborazione internazionale, di assicurare la pace nel continente. Oggi, però, i tempi sono cambiati - oggi, il principale e prevalente obiettivo dell’Unione Europea è differente: non ottenere la pace, ma assicurare la prosperità. - Da sempre insofferente ai vincoli crescenti dell’Unione, il partito conservatore inglese ha assunto, negli ultimi tempi, un atteggiamento sempre più critico nei confronti dell’Europa, interpretando da una parte il secolare desiderio di indipendenza degli inglesi, e dall’altro il senso di disagio della classe media, agli occhi della quale, l’Ue appare la causa, piuttosto che, la cura della terribile crisi economica in atto nel Vecchio Continente.
David Cameron si è mostrato consapevole dell’importanza della posta in gioco asserendo che il referendum rappresenterebbe un “biglietto di sola andata”: dentro o fuori dall’Europa e non si torna indietro. - Non sono un isolazionista - ha detto, sottolineando di volere - un accordo migliore - per Londra, - ma anche per l'Europa - perché - la delusione della gente verso l'Ue è ai livelli più alti sempre. - È evidente che la volontà di Londra è principalmente quella di contrattare le condizioni per la sua permanenza nell’Unione Europea. Negli ultimi anni la Gran Bretagna si è schierata su posizioni sempre più contrarie alla linea dei trattati europei, fino ad arrivare al famoso “no” al Fiscal Compact di un anno fa. In quell’occasione il Regno Unito ha rifiutato di aderire al trattato sulla fiscalità in Europa, segnando una profonda rottura con il gruppo
dei Paesi fondatori dell’Unione, Germania in testa. Cameron vorrebbe un’Europa diversa: - Più flessibile, con il potere che possa tornare agli Stati membri - perché - i Paesi, che sono diversi tra loro. Fanno scelte diverse. - Quello che però è unico e deve rimanere tale, secondo il premier inglese, è il mercato: - Al centro dell'Unione europea deve esserci , come c’è, il mercato unico. Ma voglio che completarlo sia la nostra comune missione. - Un esigenza pienamente in linea con la linea politica iperliberista del partito conservatore britannico: lo Stato ridotto al minimo indispensabile e Mercato unico sempre più preponderante. - Una politica che voglia prendere solo il meglio dall'Europa lasciando agli altri il “lavoro sporco” non è un’opzione : questa la linea comune di Berlino e Parigi sulla questione. -
Limitare la costruzione europea ad un megastore, senza tentare in qualche modo di creare una “comunità” fra i differenti popoli europei è senz’altro limitativo, tuttavia l’Unione Europea, così come la conosciamo oggi, non può funzionare a lungo. Se gli iperliberisti e i sostenitori del laissez-fairesono scontenti dell’Unione per la scarsa libertà dei mercati e l’opprimente burocrazia, i sostenitori dello stato sociale sono altrettanto contrariati da un Europa che sembra accrescere sempre di più le disuguaglianze sociali negli Stati membri. Alcune delle domande poste da Cameron nel suo discorso sull’Europa dovranno, presto o tardi, trovare risposta : - Per noi, l’Unione Europea è un mezzo per raggiungere un fine - ha chiosato il premier inglese - prosperità, stabilità, l’ancora di libertà e democrazia, sia dentro l’Europa che oltre i suoi confini. Chiediamo con insistenza: come? perché? con quale obiettivo?.
8.5. Limiti dei referendum secessionisti
La domanda a questo punto sorge spontanea: è giusto che i cittadini europei si pronuncino sulla loro volontà di far parte dell’Unione europea? E, in generale, le persone hanno il diritto di scegliere se continuare o meno a far parte di una comunità politica? Il caso della Gran Bretagna è solo l’ultimo dei numerosi referendum, proposti di recente, per ratificare l’appartenenza di un popolo ad uno Stato o sancirne la scissione: si pensi al referendum lanciato dalla Lega per staccare il Veneto dall’Italia o alle proposte secessioniste recentemente avanzate dalla regione della Catalogna nei confronti della Spagna. La risposta a questa domanda non è semplice come potrebbe apparire: se da un certo punto di vista potrebbe sembrare naturale che le persone scelgano se continuare a far parte di un’entità politica nazionale o sovranazionale (come nel caso dell’Ue), bisogna tener presente che gli Stati liberali in cui viviamo si fondano sulla teoria del Contratto Sociale. Nella sua accezione liberale, questa teoria politica fu introdotta dal John Locke. Secondo il filosofo inglese il governo legittimo nasce da un accordo, un contratto sociale con il quale i membri di una comunità decidono quali principi devono governare la vita della loro società. Questo contratto originario è ovviamente immaginario: non è possibile individuare il momento in cui nella storia delle persone decidono di vivere in maniera associata piuttosto che individualmente. Secondo Rousseau, il principio su cui si basa questo immaginario contratto è la volontà generale. Ma difficilmente si troverà mai un consenso unanime sui principi fondamentali su cui fondare una qualunque entità politica e in ogni caso i consenso della maggioranza non assicura, di per sé, uno Stato più giusto. Nessuno di noi, cittadini comuni, ha mai in effetti ratificato la Costituzione italiana in base alla quale è regolata la vita della nostra società. Tuttavia siamo tenuti a sottostare alle leggi dello Stato in cui, volenti o nolenti, ci troviamo a nascere. Questo perché l’obbligo a rispettare il contratto sociale non nasce dal consenso ma dal vantaggio: l'assenso viene dato, implicitamente, nel momento in cu si gode di alcuni benefici che lo Stato assicura. Cioè mandando i propri figli a scuola, usufruendo delle cure della sanità pubblica, o anche solo percorrendo un'autostrada è come se si acconsentisse a far parte di una determinata comunità
politica.
La questione se l’obbligo a rispettare un contratto venga dal consenso o dall’usufruire di un vantaggio è molto dibattuta e spesso ci si imbatte in queste controversie anche nella vita di tutti i giorni: gli esempi si sprecherebbero. In ogni caso l’esistenza di un contratto non assicura che questo sia equo e vantaggioso per entrambe le parti contraenti: un diverso livello di informazione può facilmente portare una parte ad approfittarsi dell’altra (si pensi ai tanti contratti beffa stipulati dai consumatori per cambiare compagnia telefonica o l’azienda fornitrice di energia elettrica). Per ovviare a questi inconvenienti la versione del contrattualismo sociale “aggiornata” al ventesimo secolo, prevede, per bocca di John Rawls, che il contratto sociale immaginario sia stipulato sotto un “velo di ignoranza” a causa del quale tutte le parti in gioco sono su una posizione di parità non conoscendo il posto che andranno a occupare nella società dopo aver deciso i principi che devono governarla. Ognuno potrebbe trovarsi ad essere un banchiere o un senzatetto così che nessuno abbia interesse a far prevalere gli interessi di una parte sociale sull’altra.
8.6. Un nuovo contratto sociale europeo
Nella realtà però le cose sono ben diverse e quando si crea una nuova entità politica e sociale, come l’Unione Europea, spesso prevalgono gli interessi di coloro che detengono il potere economico. Gli interessi dei gruppi finanziari e bancari hanno avuto, in questi anni, la precedenza su quelli della classe media e della maggioranza della popolazione europea e alcuni Paesi hanno goduto di maggiori benefici di altri rispetto al mercato unico dell’Ue. l'Inghilterra ha goduto fino ad ora di cospicui benefici, almeno da un punto di vista delle esportazioni, così come tutti i paesi "virtuosi", mentre non si può dire lo stesso per i Paesi mediterranei. Da un punto di vista di un “contrattualista” l’Inghilterra avrebbe pochi motivi per chiedere un referendum sull’Europa visto che se ne è, in qualche modo, avvantaggiata.
Sicuramente la Grecia avrebbe, rispetto alla GB, più diritto di interrogarsi sui benefici del far parte dell'Ue, visto che fino ad ora i cittadini greci hanno ricevuto da essa solo svantaggi. Il 2017 è ancora lontano e gli inglesi avranno tutto il tempo di decidere se rimanere, in qualche modo, legati al Continente. Nel frattempo la proposta del referendum avanzata dal premier britannico, può contribuire a sollevare un dibattito fondamentale circa i principi e le finalità che dovranno guidare l’Europa negli anni a venire. forse giunto il momento fare un bilancio dei vantaggi e degli svantaggi sociali, prodotti, fino a questo momento, dalla nuova “casa comune europea”. Diritti e vantaggi sociali da definire e assicurare a tutti i cittadini europei e non solo agli apparati finanziari e alle società di casa presso la City di Londra.
8.7. Rifondazione Comunitaria - Golem, 14 febbraio 2014
Con i Paesi mediterranei sempre più sotto pressione e con la Gran Bretagna che minaccia di uscire dall’euro, all’inizio del 2014 l’Unione Europea vive uno dei suoi momenti più difficili di sempre: stretta nella morsa della crisi economica e imbrigliata nelle maglie di una rete fatta di burocrazia e politiche di austerità, sembra destinata a soccombere in balia dei venti del populismo che soffiano sempre più forte sugli Stati membri.A confermare questa sensazione, generalizzata, contribuiscono due notizie arrivate nel caldo febbraio del 2014, due episodi rilanciati, da buona parte della stampa e delle televisioni, come una vera e propria minaccia alla costruzione europea. La prima notizia riguarda il cosiddetto scudo anti spread varato nel 2012 che consente alla Banca Centrale Europea di acquistare i titoli di Stato dei Paesi in difficoltà.
La Corte costituzionale tedesca decide infatti di rivolgersi alla Corte europea per valutare la legittimità del programma Mot (questo il nome ufficiale dello scudo) ,messo a punto da Mario Draghi per arginare la speculazione internazionale nei confronti dei Paesi mediterranei dell’Unione che, fino a un anno fa, rischiavano di precipitare nel baratro dell’insolvenza, trascinando con sé tutta l’eurozona. Poco importa se è bastato solo l’annuncio dello scudo per scongiurare il pericolo e in realtà non è mai stato speso neanche un euro per salvare Spagna, Italia o Portogallo, secondo i togati tedeschi il programma di acquisti di obbligazioni sovrane da parte della Bce viola i Trattati Europei: "Vi sono importanti ragioni per presumere che il programma di acquisti obbligazionari ecceda il mandato di politica monetaria della BCE, violando i poteri degli Stati sovrani e il divieto di monetizzazione del debito pubblico", si legge nella sentenza. Ma il ricorso alla Corte europea per lo scudo antispread non è l’unica nuvola ad offuscare il cielo dell’U.E. nei primi mesi del 2014.
In Svizzera il referendum contro la libera circolazione a con il 50,3% degli elvetici che si dicono favorevoli a limitare l’ingresso dei cittadini dell’ U.E. nel
Paese. Nonostante Governo e Parlamento fossero contrari all'iniziativa, il voto ha premiato i timori di una presenza eccessiva di stranieri. Tanti sono infatti i cittadini italiani, tedeschi o si, che ogni giorno varcano il confine con la Svizzera per raggiungere il posto di lavoro, salvo poi tornare nelle proprie case oltre confine dopo la giornata lavorativa : si tratta dei cosiddetti “frontalini”, il cui futuro è messo ora in seria difficoltà dall’esito del referendum. Il caso crea un precedente perché è la prima volta che un Paese, pur non facendo parte del circuito euro, mette in discussione i trattati europei. La vicenda ha un notevole valore simbolico e sembra minare dalla base uno dei capisaldi dell’Unione europea : i trattati di Schengen con cui gli Stati aderenti hanno, da tempo, eliminato i controlli alle frontiere per i cittadini europei sancendo la libertà di movimento delle persone all’interno dell’Unione. Non è un caso che il commento della Commissione europea abbia sottolineato proprio questo aspetto - La Commissione si rammarica del fatto che un'iniziativa per l'introduzione di limiti quantitativi all'immigrazione sia stata approvata.
Questo va contro il principio della libera circolazione delle persone tra l'Ue e la Svizzera. - Ora tutti gli accordi fra Confederazione elvetica e Unione europea dovranno essere rinegoziati, mentre il rischio è che altri Paesi possano avvalersi di questo precedente per rimettere in discussione i trattati di Schengen e, addirittura, la stessa moneta unica che, da un po’ di tempo a questa parte non gode certo di ottima reputazione. Un’Europa orma giunta al capolinea, la cui “casa comune” sembra una costruzione politica da radere al suolo perché minata a partire dalle sue stesse fondamenta. Ma è davvero questo che accade oggi sotto i nostri occhi? Stiamo assistendo al lento ma inesorabile collasso dell’Europa Unita, oppure, proprio dal travaglio di questi mesi, sta nascendo il nucleo di una nuova Europa, una futura federazione di Stati?
8.8. La svolta tedesca
Contrariamente a quanto sostengono gli euroscettici, diffusi ormai su tutto il Continente, proprio le notizie a prima vista più allarmanti, come il ricorso della Corte tedesca o l’esito del referendum in Svizzera, testimoniano la vitalità della costruzione europea e possono alimentare la speranza di una vera e propria “svolta” i cui frutti matureranno, si spera, nei prossimi anni. La sentenza con la quale la Corte costituzionale germanica ha delegato la decisione sulla legittimità dello scudo antispread alla Corte europea può essere considerata “storica”: per la prima volta un tribunale tedesco riconosce la preminenza e l’esclusiva competenza di un’istituzione comunitaria su una tedesca. Non era mai avvenuto prima che la Germania, a differenza degli altri Paesi dell’area euro, “cedesse” sovranità nei confronti dell’U.E. e questo è stato uno dei fattori che hanno contribuito a far percepire, negli ultimi anni, l’U.E. come una sorta di “prigione tedesca” per tutti gli altri Stati dell’Unione. Con la sentenza del 7 febbraio, la Corte costituzionale di Karlsruhe ha rimandato la decisione alla Corte europea di Giustizia, poiché la BCE è una istituzione comunitaria.
Se fino ad oggi l’ultima parola sui temi europei più impegnativi spettava al supremo tribunale tedesco, da oggi spetterà, con buona probabilità a Bruxelles perché il caso crea un precedente difficile da ignorare per il futuro. È il segnale che, seppur con estrema lentezza, qualcosa si muove anche a Bruxelles: l’atteggiamento delle istituzioni giuridiche tedesche si è sempre basato sulla legittimazione democratica detenuta dai singoli Stati contro la macchina burocratica dell’Unione non eletta da nessuno. Ora con questa, a suo modo rivoluzionaria, sentenza la Germania riconosce le ragioni dei Paesi del Sud e, implicitamente, pone le basi per i futuri “Stati Uniti d’Europa” : una federazione di Stati che si riconoscono in una serie di Istituzioni Europee al di sopra degli stessi Stati nazionali.
8.9. Una nuova idea d'Europa
Anche il caso del referendum svizzero, che apparentemente sembra minare il processo di integrazione europeo, può contribuire, in realtà, a rafforzarlo. È vero che l’esito della consultazione elvetica ha consentito di porre un limite all’ingresso degli stranieri, anche europei, sul territorio della Confederazione ma la vicenda può rappresentare un’ottima occasione per ridiscutere, nel loro insieme, le politiche europee sui temi dell’immigrazione. Politiche che fino ad ora hanno fatto acqua da tutte le parti, come dimostrano i drammatici casi di Lampedusa o le preoccupanti vicende di Asburgo. Rimettere in discussione i trattati di Schengen, per quanto traumatico possa apparire, può rappresentare il primo o per dar vita, finalmente ad una politica sull’immigrazione realmente unitaria su tutto il territorio dell’Ue e anche a rimettere al centro del dibattito i diritti degli europei. In attesa di sapere se i toni duri usati da Bruxelles avranno effetto sul governo svizzero, c’è da registrare, infatti, che la discussione in Europa si è spostata, finalmente, dalla mera economia ai principi. Le istituzioni dell’Ue hanno ricordato alla Svizzera che non è possibile vietare la libera circolazione delle persone e consentire, invece, quella dei capitali. Una riaffermazione del principio che l'Europa è, prima di tutto dei suoi cittadini. A circolare devono, dunque, essere non solo i capitali ma anche gli europei. Fino ad oggi non è stato così: mentre i flussi di denaro hanno potuto spostarsi liberamente da uno Stato all’altro, i cittadini europei, sempre più impoveriti dalla crisi, sono rimasti confinati nelle proprie città.
Questa battaglia per la riaffermazione dei diritti dei cittadini nei confronti dei capitali può sicuramente contribuire a migliorare l'immagine dell'Ue agli occhi dei suoi abitanti ma, soprattutto, può aiutare a ritornare ad uno spirito originario della costruzione comunitaria ormai appannato dal fiscalismo economico. Ma qual è dunque lo spirito originario dell’Europa? Nel periodo compreso fra le due guerre mondiali, in una famosa conferenza dal titolo La crisi dell'umanità europea e la filosofia ,il pensatore tedesco Edmund Husserl rispondeva così a questa domanda:
Europa non va intesa geograficamente […]come se fosse possibile circoscrivere gli uomini che vivono sul territorio europeo e considerarli “l'umanità europea”. [...] Il termine Europa allude evidentemente all'unità di una vita, di un'azione, di un lavoro spirituale, con tutti i suoi fini, gli interessi, le preoccupazioni e gli sforzi, con le sue conformazioni finali, i suoi istituti, le sue organizzazioni [...] nell'unità di una forma spirituale. [1] Negli ultimi 4 anni i migranti morti nel tentativo di raggiungere l’Europa attraverso il Mediterraneo sono stati 3.832, 1.800 dei quali sono deceduti nel triangolo di mare compreso fra Libia, Tunisia e Sicilia. Uno dei naufraggi più drammatici destinato a scuotere le coscienze degli europei, avverrà il 3 ottobre 2014. In quell’occasione perdono la vita quasi quattrocento persone fra donne, bambini e anziani.
[2] Il riferimento è alla Gefahrengebiet, che tradotto dal tedesco, significa letteralmente zona a rischio e, nel caso specifico, si riferisce allo stato di emergenza proclamato dalla polizia di Amburgo, in Germania per sgomberare un intero quartiere della città occupato dai migranti molti dei quali provenienti da Lampedusa.
IX - Le Elezioni europee e l’Italia di Renzi
Il 24 e 25 si vota per il rinnovo del Parlamento europeo. I pronostici della vigilia non promettono nulla di buono perché il fronte delle formazioni populiste sembra avanzare in maniera inesorabile in Europa. E molto probabile che i lunghi anni di austerità imposti dall’ U.e., proprio durante la crsi economica più terribile della storia recente, spingano i cittadini del Vecchio Continente ad un moto di ribellione collettivo nelle urne. Anche in Italia, nonostante la campagna elettorale tutta incentrata sui temi nazionali, i partiti antieuro vanno forte: la nuova Lega Nord di Salvini macina consensi e il Movimento 5 Stelle sembra sul punto di sorare il Partito Democratico e fare, finalmente, piazza pulita. Grillo non vuole solo vincere, vuole vincere con il 100% dei voti per spazzare via tutti gli altri partiti. Un concetto che il comico genovese ripete molte volte durante la sua campagna per le europee condotta al grido, diventato presto virale, di “Vinciamo noi!”.
9.1. L’Europa al voto fra dubbi e speranze (Golem 16 maggio, 2014)
Per chi è stanco degli interminabili dibattiti sugli 80 euro di Renzi, delle lunghe dirette dalla clinica di Cesano Boscone alla ricerca di qualche foto dell’ex Cavaliere alle prese con gli anziani o delle sfuriate, a pagamento, di Beppe Grillo nelle piazze di mezz’Italia, c’è una buona notizia: la campagna elettorale per le europee 2014 è quasi finita. Soltanto pochi giorni ci separano ormai dalle urne comunitarie. Al di là del solito teatrino politico-mediatico nostrano resta però da capire se vale o no la pena andare a votare per una tornata elettorale solitamente considerata ininfluente per le dinamiche politiche dei Paesi membri. Fatta eccezione per l’Italia, dove i Governi hanno bisogno di conferme anche dal voto dell’assemblea di condominio, in gran parte dell’unione le Elezioni europee sono percepite solo come un modo per sfogare la rabbia dell’elettorato che poi, alle elezioni nazionali, vota in modo del tutto diverso considerando il voto utile per il governo del Paese. Ironia a parte questa dinamica si verifica anche nel nostro Paese dove di solito le elezioni europee sono disertate dalla gran parte degli aventi diritto proprio perché considerate pressoché inutili. In effetti il Parlamento europeo, l’organo che saremo chiamati a rinnovare con il voto del 25 maggio, non ha mai avuto grandi poteri, almeno fino all’entrata in vigore del trattato di Lisbona nel 2009. Il Parlamento europeo è l’organo legislativo dell’Unione che agisce, di concerto con il Consiglio europeo, per scrivere le leggi.
Dal 2009, dopo l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, il suo contributo alle leggi europee è aumentato in maniera decisiva arrivando a determinare il 70% della legislazione comunitaria e, considerando che ha anche il potere di determinare lo stanziamento dei fondi europei, questa volta potrebbe non essere del tutto inutile decidere chi mandare in Europa. Un’altra novità importante che caratterizzerà il nuovo Parlamento sarà la possibilità di incidere sulla formazione della Commissione europea, ovvero dell’organo di governo esecutivo dell’UE. Dopo le elezioni del 25 maggio si inizierà a costituire la Commissione che di solito è formata da persone nominate dai vari governi nazionali, questa volta
però la Commissione dovrà are al vaglio del neoeletto Parlamento europeo che potrà approvare o meno la nomina dei singoli membri all’interno della stessa . A differenza di quanto avveniva nelle scorse legislature europee, da quest’anno il risultato delle elezioni dovrà essere determinante per formare la Commissione. Secondo molti questo vuol dire che il presidente del futuro governo dell’U.E. dovrà essere un rappresentante del partito che ha preso più voti alle elezioni del 22-25 maggio. A quanto pare i cittadini dell’Unione avranno, questa volta, un po’ di potere decisionale in più rispetto al ato tuttavia i partiti europei e i rispettivi candidati alla presidenza sembra siano ancora avvolti da una fitta coltre di nebbia, almeno in Italia. I futuri parlamentari saranno liberi di aderire o meno a un partito europeo dopo essere stati eletti e, se lo vorranno, potranno scegliere fra 7 gruppi: Partito popolare europeo (Ppe), Socialisti (S&d), Alleanza dei democratici e dei liberali per l’Europa (Alde), Verdi europei – Alleanza libera europea (G/Efa), Conservatori e riformisti europei (Ecr), Sinistra unitaria europea – Sinistra verde nordica (Gue/Ngl) e l’Europa della libertà e della democrazia (Efd). Fino ad oggi il Parlamento è sempre stato diretto dai due raggruppamenti più consistenti ovvero il Partito popolare europeo (di cui fanno parte sia la Merkel che Forza Italia) e il Partito socialista (gruppo ha cui ha di recente aderito il Pd). Questi due grandi raggruppamenti, eredi delle due principali famiglie politiche europee, sono sempre riusciti, fino ad oggi, a trovare un accordo in Parlamento e ad alternarsi alla presidenza della Commissione europea. Con l’entrata in vigore delle nuove norme e con l’avvento di nuove forze politiche gli equilibri, che fin qui hanno retto l’europarlamento, potrebbero cambiare. Purtroppo però, la campagna elettorale dei candidati alla presidenza Ue non sta avendo molta fortuna perché, fondamentalmente, non li conosce quasi nessuno.
A parte il solito Schulz che in Italia abbiamo imparato a conoscere per i siparietti europei con Berlusconi e il giovane Tsipras, assurto a controverso salvatore della patria per la malconcia sinistra extraparlamentare nostrana, nessuno degli altri candidati è noto al pubblico italiano. Per chi fosse curioso di saperlo gli altri candidati sono Jean-Claude Juncker dei popolari, dell’ex premier belga Guy Verhofstadt (Alde) e della e la giovane tedesca Ska Keller dei verdi che per l’occasione si presenta in coppia con il se José Bové.
9.2. L'esito del voto
Non resta dunque che attendere la chiusura dei seggi nella serata di domenica 25 maggio per scoprire quali saranno i nuovi equilibri europei. Comunque vada a finire si tratterà soltanto di un altro tassello di una costruzione che potrebbe richiedere ancora decenni: l’edificazione di un’Europa realmente democratica. Come dimostrano le voci, sempre più insistenti, di complotti e pressioni per condizionare i governi di Italia e Grecia durante la crisi dell’euro del 2011, l’Europa di oggi è ben lontana da questi traguardo. La risposta alla mancanza di democrazia non può essere però l’uscita dei singoli stati dall’Unione ma, piuttosto, l’accelerazione verso un obiettivo di non facile attuazione: la trasformazione dell’Ue in una federazione di Stati, con un potere centrale unico e forte, eletto dai cittadini. Pura fantascienza se si pensa, ad esempio, che il Parlamento europeo ha oggi ben due sedi e deve spostarsi, per legge, più volte all’anno da Bruxelles a Strasburgo perché la Francia ha posto il veto sull’abolizione della sede di Strasburgo. È evidente che in una situazione del genere, in cui ogni nazione può, da sola, bloccare i progetti di buon senso per i propri interessi particolaristici, le lobby economiche la fanno da padrone riuscendo a piegare l’Europa alla loro volontà, a discapito degli interessi dei cittadini. La recente storia, politico-economica, del Vecchio continente sarebbe ben diversa se esistesse un vero governo centrale, le cui disposizioni nelle materie più importanti come fiscalità, bilancio e politica estera, valessero su tutto il territorio e si imponessero sui singoli Stati e sui loro interessi localistici. Si tratterebbe di dar vita, in pratica, ai famosi Stati uniti d’Europa di cui ogni tanto si sente parlare. Il modello è ovviamente quello degli Stati Uniti d’America. Non tutti sanno che, subito dopo la dichiarazione d’indipendenza del 4 luglio 1776, gli Stati americani non diedero vita subito alla federazione che conosciamo oggi bensì ad si unirono in una confederazione di Stati autonomi. Al Congresso, ovvero all’organo di governo centrale, vennero delegati solo la difesa e la politica estera, tutte le altre materie rimasero appannaggio dei singoli Stati che avevano così legislazioni diverse a seconda dei territori. Se alcuni protagonisti politici del tempo erano gelosi dell’indipendenza del proprio Stato, molti altri compresero che il solo modo per far decollare gli U.S.A sul piano internazionale era dotarsi di un forte governo centrale in grado di conciliare gli interessi dei
singoli Stati con quello generale della Nazione. Il dibattito che ne seguì fu molto ma durò solo pochi anni, nel 1971 infatti fu varata la Costituzione che rimase “aperta” ai nuovi emendamenti che venero aggiunti nel tempo. L’Europa di oggi è, proprio come l’unione dei primi Stati americani, una confederazione formata da Paesi indipendenti ma, è questa è l’anomalia, che condividono la stessa moneta. Il aggio successivo, senza il quale difficilmente l’UE potrà rilanciarsi, è are al modello federativo caratterizzato da un organo centrale capace di prendere decisioni indipendenti dal parere dei singoli Stati, almeno in campi fondamentali come la politica estera e la fiscalità.
Ma se gli Usa impiegarono pochi anni, dopo la rivoluzione, a trasformarsi da confederazione di Stati in federazione, per l'Europa il cammino si prospetta ben più lungo: la storia millenaria del Vecchio continente e delle sue identità nazionali porta con sé luci ed ombre, vecchi rancori mai sopiti e pregiudizi duri a morire. Ancora oggi i rapporti, spesso tutt’altro che facili, fra gli Stati dell’UE sono influenzati da questo retroterra storico culturale decisamente stratificato. Gli USA partirono quasi da zero dando vita a una nazione giovane che riuscì a asciarsi alle spalle l’eco delle lotte politiche, religiose e feudali che ancora oggi, a volte, condizionano noi europei nelle nostre dispute continentali.
9.3. Grillo alle soglie della terza Repubblica - Golem, 29 maggio 2014
Beppe Grillo, alla fine, è “uscito dal blog”: trascinato fuori dai risultati delle elezioni europee del 25 maggio, il comico, assieme a Casaleggio e a buona parte della pattuglia a cinque stelle, si è trovato faccia a faccia con un Paese che ha preferito affidarsi al Pd targato Renzi, piuttosto che alle sue invettive. Un vero e proprio schiaffo arrivato da una realtà ben diversa da quella dei blog e dei social network frequentati e, spesso, monopolizzati dai grillini, dove si contano i “like” invece dei voti reali e dove, durante la campagna elettorale, i militanti pentastellati hanno maturato la sicurezza di una vittoria possibile che, alla fine, si è tramutata in una Caporetto. Se un Pd al 40% nessuno osava neanche sognarlo fino a domenica notte, la vittoria del partito di Renzi a questa tornata elettorale non è mai stata, realmente, in discussione: tutti i sondaggi, fino ad alcuni giorni prima del voto, davano il Pd stabilmente in vantaggio sui 5 Stelle ma, ad un certo punto, il mantra del “vinciamo noi” ripetuto ovunque da Grillo e dai suoi con la complicità di alcuni sondaggisti “disinvolti”, hanno fatto maturare la convinzione che il soro non solo potesse avvenire, ma che fosse, ormai, imminente. Il giudizio delle urne ha però richiamato tutti alla realtà consegnando una situazione ben diversa da quella immaginata da molti: se il Pd ha raggiunto il 40% dei consensi dei votanti, il Movimento 5S si è fermato attorno al 20%. Si tratta comunque di una mole considerevole di voti (5.792.865) che ne fanno il secondo partito del panorama nazionale, ben al di sopra degli alleati di governo del Pd e, soprattutto, del partito dell’ex premier Berlusconi. Il risultato raggiunto non rappresenta, in termini assoluti, una sconfitta ma lo diventa nel momento in cui si richiama alla mente la campagna elettorale di Grillo, tutta tesa a “seppellire” Renzi e il suo Pd fino a “cancellarli” dalla scena politica italiana. Pretesa surreale per un movimento nato dal basso e approdato alla sua prima legislatura in Parlamento con molti punti interrogativi sui programmi, sulla strategia e anche sulle regole da darsi per far “funzionare” al meglio i gruppi parlamentari. I punti percentuali, persi per strada dal Movimento sono all’incirca 5, corrispondenti, più o meno, a 3 milioni di voti evaporati rispetto alle precedenti elezioni politiche del 2013. In quell’occasione, Grillo e compagni, riuscirono ad affermarsi come primo partito, in termini di voti assoluti, alla Camera dei Deputati, totalizzando 8.691.406 (25,56%) contro i
8.646.034 (25,43%) del Pd. Dove sono finiti questi tre milioni di voti persi in poco più di un anno di legislatura e, soprattutto, perché hanno lasciato i lidi a 5 stelle? Una parte delle persone che hanno deciso di non votare più per Grillo e compagni è rimasta a casa e un’altra, consistente, ha deciso di scegliere Renzi, mentre, coloro che avevano votato 5 Stelle alle politiche, in mancanza di una forza “a sinistra del Pd”, hanno preferito la lista Tsipras.
L’ultima tornata elettorale rappresenta quindi un punto di arrivo per il movimento di Grillo: dopo aver raggiunto il picco alle elezioni politiche del 2013 oggi perde quasi 3 milioni di voti, 2 dei quali in favore di quel Pd che doveva seppellire. È chiaro che qualcosa da cambiare c’è, al di là del Maalox e dei pensionati, al di là delle liste di proscrizione e dei processi da Stalinismo 3.0. Al netto del buon lavoro svolto in Parlamento da molti Deputati e Senatori a 5 stelle, la sensazione di “inutilità” della pattuglia pentastellata si è progressivamente accentuata nel corso della legislatura. Se, all’indomani del voto alle elezioni del 2013, il rifiuto del Movimento nei confronti delle aperture di Bersani prima e di Letta poi, era sostenuto da buona parte della base grillina, con Renzi le cose sono cambiate. Nonostante Grillo volesse evitare il confronto con il giovane premier in pectore, il 19 febbraio è costretto, dal voto online dei suoi militanti, a presentarsi alla Camera per il confronto streaming con Renzi. In quell’occasione si vede, plasticamente, che qualcosa è cambiato perché gli argomenti contro il potere vecchio e marcio non trovano appiglio nei confronti di un neopresidente che, fino a quel momento, non ha mai messo piede in un’aula parlamentare. Grillo cerca di evitare di far parlare Renzi e poi chiude, bruscamente, il confronto. È quello, probabilmente, il momento in cui inizia il parziale declino del Movimento di Grillo che, una volta entrato in Parlamento è apparso, a tratti e al di là del merito delle singole questioni, addirittura come una forza conservatrice a dispetto di un governo finalmente dinamico nello sforzo riformatore.
La volontà di non voler scendere a compromessi, di non “sporcarsi le mani” con gli altri partiti presenti in Parlamento, ha dato l’impressione di una forza politica disinteressata al cambiamento e orientata, più che altro, alla distruzione totale del sistema. Il sistema della democrazia rappresentativa parlamentare può e deve
essere riformato e aperto alle istanze della società civile ma non può essere abbattuto. Almeno non dall’interno. Non è possibile entrare in Parlamento e poi pretendere di azzerare il sistema perché sarebbe un controsenso: sarebbe come accettare l’invito a giocare una partita di calcetto e poi pretendere che si trasformi in una partita di basket.
9.4. Ritorno al futuro
Infatti al di là delle strategie di comunicazione di Grillo e Casaleggio, su cui molto si è scritto, il problema è stato piuttosto alla radice del Movimento stesso: in un periodo di crisi non solo economica, la rabbia può rappresentare un ottimo carburante politico ma, una volta aggiunto il consenso, non è più sufficiente ad andare avanti. È emerso con chiarezza durante gli interventi di Grillo sui palchi di mezz’Italia e in tv: al di là della solita foga antisistema il comico non è riuscito con chiarezza a delineare un’alternativa su nessuna questione concreta, a partire dalla legge elettorale fino alla questione della moneta unica. La comunicazione di Grillo è rimasta la stessa, dalla nascita del Movimento nel 2009 ad oggi, ma nel frattempo è cambiato il mondo attorno e alla fine sono emerse tutte le contraddizioni insite nel Movimento fin dalle sue origini. Il Movimento 5 Stelle ha avuto sicuramente il merito di accelerare il processo di cambiamento nel Pd, prima ancora che nella società italiana.
Senza l’avanzata di Grillo, Renzi e i suoi non avrebbero mai potuto scalare il Partito Democratico e forse Berlusconi siederebbe ancora in Parlamento. Il voto delle europee 2014 ha contribuito ad imporre una svolta non solo in Europa, con l’avanzare del fronte antieuro , ma anche in Italia: con l’affermazione netta del Pd di Renzi si può dire conclusa quella crisi istituzionale iniziata nel 2011 e anche Napolitano può tirare un sospiro di sollievo. Certo ora bisognerà fare le riforme e non sarà cosa facile ma è chiaro che ormai siamo nella Terza Repubblica caratterizzata da un inedito, e fino ad ora, migliore bipolarismo. Il nuovo Pd è riuscito a raggiungere il fine che era inscritto nel Partito fin dalla sua nascita ovvero quello di essere una forza a vocazione maggioritaria capace di superare gli steccati delle vecchie aree socialista e democristiana. All’indomani del voto proprio la vecchia democrazia cristiana viene evocata da molti come termine di paragone per il Pd renziano del 40% tuttavia difficilmente la Storia ripete se stessa e come direbbe Eraclito
noi scendiamo e non scendiamo nello stesso fiume, noi stessi siamo e non siamo. Insomma: Panta Rei.
9.5. L'esito post-ideologico del voto
Il 25 maggio 2014 è stato il giorno delle europee, ma anche l’appuntamento, per molti italiani, con il voto amministrativo per scegliere i sindaci di importanti città italiane. A una settimana dal voto i risultati confermano quanto gli osservatori più accorti avevano già capito da tempo: gli elettori italiani non votano più seguendo una rigida ideologia, chiusi nella loro propria “parrocchia” elettorale. I cittadini cambiano spesso idea politica e soprattutto il partito a cui affidano il loro voto. Politica post-ideologica, contro-democrazia, elettorato liquido: tutti termini che fino a ieri sembravano abitare soltanto nelle pagine di qualche libro di Bauman o di Rosanvallon e che da oggi sono diventati realtà. Il risultato dei ballottaggi non lascia spazio a dubbi: a pochi giorni di distanza dal voto plebiscitario delle europee il partito democratico perde quattro storiche roccaforti come Livorno, Padova, Perugia e Potenza. Ne strappa altrettante al centro desta, come ad esempio Pavia, Bergamo, Pescara e si afferma comunque come primo partito nei territori. Questo vuol dire che anche in Italia, finalmente, stiamo imparando a fare a meno delle ideologie del Novecento.
Livorno è l'esempio per eccellenza di questo cambiamento epocale: nel 1921 proprio nella città toscana si celebrò il primo congresso del partito comunista italiano e, dal dopoguerra ad oggi, la città è sempre stata governata dal forze di sinistra. Da oggi Livorno avrà un sindaco e una maggioranza a 5 Stelle. Il dato di fatto da cui partire è l'evidente superamento di una concezione della politica come "religione", per cui chi si definisce di sinistra vota a sinistra e chi invece ritiene di appartenere al campo della destra sceglierà sempre candidati di centrodestra indipendentemente che si voti per la municipalità sotto casa o per il Parlamento europeo. Il voto si decide ormai volta per volta, giudicando la personalità dei candidati e, sopratutto, valutando le proposte concrete messe in campo, al di là della retorica di circostanza.
La contrapposizione fra blocchi ideologici, in realtà, è tramontata da circa vent'anni, da quando, nel 1991, finì l'Unione sovietica. In Italia per vent'anni si è cercare di superare la fine delle ideologie con la creazione di due nuove "fedi": da una parte un'anticomunismo fuori tempo massimo e la falsa ideologia del benessere perpetuo e, dall'altra, l'ideologia negativa dell' antiberlusconismo basata sulla demonizzazione dell'avversario. La crisi è sicuramente una realtà drammatica ma ha il merito di aver generato nuove forze politiche non ideologiche (almeno non in senso tradizionale) come il M5 Stelle, e soprattutto di averci svegliato dall'allucinazione collettiva ventennale di un Paese diviso fra comunisti e amanti della libertà o fra buoni e cattivi.
Conclusioni
Negli anni della crisi economica più grave che l’Europa abbia conosciuto dal 1929 ad oggi, la politica ha mostrato tutti i suoi limiti e l’antipolitica è cresciuta assumendo forme nuove e sempre più radicali. Troppo spesso essa è venuta a coincidere con l’arida gestione del potere, sorda ad ogni richiamo degli elettori, esercitata dai vecchi partiti della Seconda Repubblica. Difficile districarsi nel groviglio di interessi e di lotte di potere italiane tant’è che, sempre di più, la politica e l’antipolitica sono indistinguibili, intrecciate l’una all’altra in un’abbraccio mortifero. Lo stesso desiderio di semplificazione, sacrosanto per la parte amministrativa e burocratica del sistema italia, ha rischiato di diventare un modo per “buttare via il bambino con l’acqua sporca” e travolgere le istituzioni democratiche. Parole come democrazia diretta, digitalizzazione del consenso, hanno un senso se inserite in un contesto storico e politico capace di approfondirne i contenuti per fare emergere le potenzialità e i limiti dei nuovi mezzi messi a disposizione dalla tecnica per migliorare (anche) la partecipazione politica. In caso contrario rischiamo di risvegliarci, presto, in un nuovo Medio Evo digitale, dove a farla da padrone saranno dei nuovi barbari incoscienti non solo dei processi politici ma anche delle idee e del pensiero che le Istituzioni Repubblicane, pur con tutti i loro limiti e difetti, incarnano. Per cambiare il futuro bisogna dunque conoscere bene il presente e il ato pena consegnare l’Italia, e con essa l’Europa, a quella ruina che sempre minaccia le forme del vivere libero. A otto anni di distanza dall’inizio della crisi economica, molto è cambiato sotto il cielo della politica italiana: oggi c’è una nuova forza, Il Pd di Renzi, capace di catalizzare il consenso degli elettori per riformare l’Italia e riaffermare il principio della governabilità. Il cammino però è solo all’inizio e la scommessa è ben lungi dall’essere vinta. Molto dipenderà dalla direzione che prenderà l’azione riformatrice e dalla sua effettiva penetrazione nel Paese, soprattutto, a livello sociale e civile. Una rivoluzione culturale di cui il Paese ha urgente bisogno, più ancora di ogni altra riforma economica e istituzionale, che però ancora non si vede. La strada per il cambiamento è ancora lunga: dopo la batosta elettorale il Movimento 5 Stelle ha tentato di sedersi al tavolo di quelle riforme sempre osteggiate prima del voto europeo. Il tentativo è stato breve e infruttuoso perché alla prova dell'aula le opposizioni
hanno alzato le barricate e, mentre scriviamo queste ultime considerazioni, la riforma costituzionale, che mette fine al bicameralismo perfetto, è in via di approvazione al Senato. Se l’Italia di oggi si avvia a realizzare parte di quelle importanti riforme che l'Europa ci chiede da anni, la precaria condizione economica del Paese continua a pesare come un macigno su ogni tentativo di invertire la rotta verso il declino. Anche se sembra uscita dalla spirale distruttiva della crisi finanziaria, l'Italia rimane in recessione, per il secondo anno consecutivo, nonostante gli ottanta euro di Renzi e le riforme costituzionali. Mentre nel resto dell'Europa si affaccia una timida ripresa, la situazione dell’economia reale alle nostre latitudini rimane drammatica e il cammino per tornare a crescere sembra ancora molto lungo. Nel frattempo il divario fra chi ha molto e chi non ha, letteralmente, nulla cresce ogni giorno di più. Solo superando gli enormi squilibri, economici, sociali e soprattutto, culturali, cresciuti nel corso degli anni nella società Italiana si potrà uscire, definitivamente, dalla crisi e dare un contributo decisivo alla rinascita dell’Europa come faro di civiltà per l’Occidente e per il mondo intero.
Postfazione
La garanzia (inesistente) dell’informazione “diretta”
Ma come si fa – in molti si chiederanno – a avanzare critiche nei confronti di un fenomeno liberatorio e perfino rivoluzionario come il Movimento di Grillo? Un fenomeno – diranno tanti – frutto di quella libertà di informazione e di confronto che – finalmente – il “sacro Web” garantisce a tutti? Una libertà di informazione che – era ora – garantisce da manipolazioni e menzogne. Questo dicono in moltissimi. Un’informazione creata “dal basso”, un’informazione che nasce “dalla base” e quindi non controllata. Dunque vera. Il web dà voce a chi non ha voce. Viva il web. Ma siamo sicuri che chi non ha voce abbia le carte in regola per parlare? Siamo sicuri che l’ “informazione diretta” (per parafrasare ciò che fu la democrazia diretta) dove i destinatari dell’informazione sono anche informatori, sia una garanzia? Vediamo. I primi giornali, tra la seconda metà del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, consentirono alle idee di piccoli gruppi e movimenti politici e culturali di circolare molto più rapidamente di quanto fosse al tempo possibile e soprattutto le consegnarono, quelle idee, alla conoscenza di larghi strati della popolazione – che non avrebbero altrimenti avuto accesso ai salotti e ai cenacoli – determinando un’esplosione a catena di moti rivoluzionari che, seguendo le dinamiche di villaggio globale ante litteram, tendevano tutti al medesimo obiettivo: maggiore partecipazione alle scelte di governo, codificazione di quelli
che oggi chiameremmo diritti civili, sistematizzazione dei rapporti tra amministrazione e cittadino così da sottrarli all’eccessiva discrezionalità del principe, per finire via via nel tempo con l’oggettività nell’istruzione e nell’economia del lavoro. Tutto ciò ha, di fatto, condotto poco alla volta al riconoscimento della collettività come soggetto complesso titolare di interessi legittimi derivanti dall’unificazione di diritti soggettivi. In sostanza, l’informazione ha condotto per mano, tra i popoli e nei luoghi, la democrazia.
E il radicamento della democrazia è direttamente proporzionale ai connotati democratici dell’informazione in nome dei quali gli informati possono diventare informatori che, a loro volta, hanno esigenza di essere informati (i primi giornali erano scritti e pubblicati non da editori-principi ma dai “movimenti”, come li chiameremmo oggi). In questo modello circolare biunivoco tutti possono sapere tutto (potenzialmente). Si potrebbe pertanto ritenere che non ci sia più alcuno spazio per la menzogna. O la demagogia. Invece i destinatari finali dell’informazione, siano essi informatori informati che informati informatori, non possono esercitare alcuna verifica reale sulla natura delle informazioni. L’unica possibilità è affidarsi ai propri giudizi (pregiudizi) sull’attendibilità apparente (apparentemente intrinseca) del mezzo. Di talché l’informazione, il fine, coincide col mezzo.
Più ancora nel caso dell’informazione democratica: quando il mezzo è controllato dagli informatori per definizione (si possono anche chiamare dittatori: i principi decisero poi di controllare la stampa proprio in conseguenza dei risultati politici che aveva ottenuto nei decenni precedenti e lo fecero direttamente o attraverso “notabili” a loro fedeli che divennero editori), senza alcuno spazio per quel modello circolare di cui si diceva, induce diffidenza, invita alla criticità (e al criticismo) e sebbene ci sia il rischio che la verità venga rifiutata perché creduta menzogna e viceversa, in ogni caso il sistema dei filtri critici costituisce un deterrente non tanto alla predisposizione della menzogna da parte dell’informatore (che è sempre libero di farlo), quanto piuttosto alla possibilità che essa, la menzogna, trovi facile e piena accettazione.
Diversamente, nell’informazione democratica la menzogna non esiste per definizione: l’esistente, per esser tale, deve essere riconoscibile, o quantomeno conoscibile. O ancora, cartesianamente, pensabile. L’esistenza, anche solo astratta, postula almeno la pensabilità. La menzogna, finché il suo stesso creatore, il mezzo d’informazione(democratico quindi controllato perché controllabile e pertanto percepito come impossibilitato a mentire sistematicamente e dunque veritiero per definizione secondo un procedimento di semplificazione della percezione),non la indica, non è tale. Ci si trova allora in una realtà in cui chi mente finché non ammette di mentire dice il vero. E dunque la menzogna diventa anch’essa fine accettabile e accettato, e l’informazione nata per formare la conoscenza liberandola dalle menzogne, può mescolare queste tra i propri obiettivi, realizzando una rara e potente eterogenesi dei fini. E non conta che almeno per un soggetto, direttamente interessato alla menzogna, essa possa essere smascherata e denunciata: nella quasi totalità dei casi la denuncia riguarda una menzogna che se non fosse tale sarebbe verità vergognosa. Quante volte chi dovrebbe vergognarsi ammette pubblicamente di doverlo fare? Dunque chi smentisce, nell’intento di ristabilire una verità, rappresentando una realtà che lo rende migliore, rispetto a quella disegnata dalla menzogna, viene guardato con diffidenza. La verità non è credibile per il solo fatto che favorisce qualcuno: colui che la sostiene. Così la “smentita” si trasforma da antidoto in veleno e talvolta rafforza ciò che vorrebbe cambiare.
Se, allora, la menzogna può legittimamente atteggiarsi a verità, non può che esser vero (falso?) anche il contrario. Non crediate che si tratti di un semplice (banale) divertissement intellettuale. Javier Marìas, il maggiore scrittore spagnolo contemporaneo (Madrid, 20 settembre 1951) tradotto in tutto il mondo, non esita a definire, questa nostra, “l’età della menzogna”. Raccontando della realtà che ispira il romanzo, così dice: “oggi, disgraziatamente, non c’è neppure bisogno di situazioni estreme. Anche all’infuori di esse, gente come Bush, Aznar, Blair, e Berlusconi mentono senza sosta, vivono, sono installati nella menzogna e la cosa peggiore è che
tanta gente lo trovi normale e lo tolleri”.
In questo tempo, più che in ogni altro (si sarebbe portati a credere) la menzogna trova il suo miglior sostegno. Ma è poi vero che ciò accade in questo tempo più che in ogni altro? Soltanto in parte. “Chi sia stato colui che per primo, senza essere andato a caccia, raccontò agli esterrefatti cavernicoli come aveva ucciso il mammut non posso dirlo – osserva Oscar Wilde – tuttavia, qualunque fosse il suo nome e la sua razza, egli certamente fu il fondatore delle relazioni sociali”. Le riflessioni di Wilde ci dimostrano – ove ve ne fosse bisogno – che sbaglia chi crede di trovare nell’oggi un’età della menzogna più fiorente di ieri. Oscar Wilde ci insegna che la menzogna è il fondamento della società civile. E non solo. Probabilmente quella menzogna circa la cattura del mammut fruttò al cavernicolo l’elezione a presidente dei cacciatori cavernicoli (non avrebbe potuto, infatti, essere eletto promettendo l’abolizione dell’Ici o dell’Imu in quanto nonostante esistessero gli immobili – più immobile di una caverna… - non esistevano però i comuni). Dunque, un valore sul quale è stata costruita l’evoluzione dell’uomo e in genere le pubbliche relazioni (Oscar Wilde, Decadenza della menzogna in Opere, ed. Mondadori 1997). Tuttavia una differenza tra oggi e ieri esiste: è la sistematizzazione della menzogna attraverso l’industria dell’informazione che garantisce concretezza al tema dominante eduardiano – pirandelliano – delle bugie con le gambe lunghe (in La Cantata dei Giorni dispari, tre atti, rappresentata per la prima volta a Roma nel 1948). E proprio con Pirandello il nodo verità-menzogna diventa centrale per la drammaturgia del Novecento. Nella trilogia del teatro nel teatro lo scrittore siciliano risolve il problema abbattendo la quarta parete: la barriera tra pubblico e palcoscenico. Gli attori entrano dalla platea e l’argomento della pièce è appunto quello della rappresentazione: gli attori che devono raccontare una storia, un regista che deve fare il suo mestiere… al punto che tutto si fonde, realtà con rappresentazione. Verità con menzogna. Da allora in tutto l’occidente si è dovuto fare i conti con questa frattura. O con questa fusione. Roberto Ormanni
[1] Introduzione: le macchie di Rorschach sono una serie di immagini, all’apparenza formate da macchie di inchiostro casuali, disegnate dallo psichiatra svizzero Hermann Rorschach negli anni ‘20 del Novecento. Le immagini vengono impiegate nel Test di Rorschach per valutare la personalità dei pazienti. Di fronte alle macchie prive di senso che lo psichiatra sottopone loro, le persone tendono ad attribuire un significato alle immagini, un’attribuzione capace di indicare, secondo quando sosteneva Rorschach, la personalità del soggetto.
[2] 1.0 : Lo Spread è il differenziale di rendimento fra i titoli di Stato italiani e i titoli di Stato tedeschi
cap
[3] 1.2 : bulé Consiglio composto da cinquecento cittadini estratti a sorte dalle liste elette dalle singole tribù. Ognuna delle dieci tribù in cui era divisa Atene partecipava al Consiglio con cinquanta membri. Il Consiglio dei Cinquecento fu introdotto dalla riforma democratica di Clistene nel 607 a.C.
[4] 1.2. ecclesia, assemblea di tutti gli abitanti di Atene che godevano dello status di cittadino della polis L’Eforato era la magistratura suprema nell’antica Sparta.
[5] 1.2 L’Eforato era la magistratura suprema nell’antica Sparta.
[6] 1.2 Jean-Jacques Rousseau - Filosofo e scrittore (Ginevra 1712 -
Ermenonville, Oise, 1778). Nell’opera Du Contrat Social ou Principes du droit politique (1762), tr.It. Il Contratto sociale, 2005, teorizzò il concetto di volontà generale a cui ogni cittadino deve obbedire. La volontà generale si esprime attraverso una partecipazione diretta dei cittadini che votano senza intermediazioni e rappresentanze: è la prima teorizzazione del modello della democrazia diretta
[7] 1.2 il medium è il messaggio, la frase sintetizza il pensiero del noto sociologo canadese espresso nel libro Understanding Media: The Extensions of Man (1964), tr.It. Gli strumenti del comunicare, 2008
[8] 1.4 O la decrescita o la barbarie è una variazione della nota affermazione della politica e filosofa Rosa Luxemburg: “Socialismo o barbarie” (Juniusbroschüre, 1915).
[9] 5.4 abbiamo non-vinto, fu la frase usata dal segretario del Pd e candidato premier della coalizione di centrosinistra alle elezione politiche del febbraio 2013, Pierluigi Bersani, per commentare il risultato del suo partito all’indomani delle votazioni.
[10] 5.4 A partire dagli anni Cinquanta del Novecento, nel linguaggio politico e giornalistico italiano, in senso figurato franco tiratore è il «rappresentante di un partito o di uno schieramento che, in votazioni segrete di organi collegiali, vota in modo diverso da quello concordato o ufficialmente deciso dal proprio partito o schieramento» - in “Vocabolario della lingua italiana”, Treccani. Il termine «franco tiratore», è la traduzione italiana del sostantivo se franc-tireur, che si riferisce ai guerriglieri isolati o raggruppati in piccole pattuglie che, durante le guerre ingaggiate dalla Francia durante i secoli XVIII e XIX, si battevano da soli contro un esercito regolare che cercava di occupare una postazione.
[11] 8.9 Negli ultimi 4 anni i migranti morti nel tentativo di raggiungere l’Europa attraverso il Mediterraneo sono stati 3.832, 1.800 dei quali sono deceduti nel triangolo di mare compreso fra Libia, Tunisia e Sicilia. Uno dei naufraggi più drammatici destinato a scuotere le coscienze degli europei, avverrà il 3 ottobre 2014. In quell’occasione perdono la vita quasi quattrocento persone fra donne, bambini e anziani.