Lo Sguardo Del Diavolo: Jeffrey Dahmer 2jk34

a cura di Franco Forte

Lo sguardo del diavolo: Jeffrey Dahmer

di Andrea Franco

Indice

Colophon

Andrea Franco

Lo sguardo del diavolo: Jeffrey Dahmer

Prologo, poco prima della fine

Scommettiamo?

Il limite

Nuovi orizzonti

West Allis

L’arte del profondo

Dove c’è il limite

Sarai solo mio

Mi vuole uccidere!

Epilogo

In questa collana

Delos Digital e il DRM

1 ISBN versione ePub: 9788867750474 © 2013 Andrea Franco Edizione ebook © 2013 Delos Digital srl Piazza Bonomelli 6/6 20139 Milano Versione: 1.1 ottobre 2013

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Andrea Franco

Andrea Franco nasce a Ostia Lido, nel 1977. Divide da subito il proprio tempo tra due grandi ioni: il pianoforte e i libri. Compone e scrive testi sin da giovanissimo, in attesa di una maturità che gli permetta di farlo in modo più professionale. Pubblica oltre venti racconti, tra i quali si ricordano Più nessuno è incolpevole (Delitto Capitale, Hobby & Work, 2010), La Signora delle Storie e Come una palla di fuoco in appendice a volumi dei Classici del Giallo Mondadori e il racconto L’odore del dolore nell’antologia Mondadori Giallo 24. Da un paio d’anni cura una rubrica sulla scrittura fantasy per la rivista “Writers Magazine Italia”. Ha pubblicato anche alcuni racconti in formato digitale per la Graphe.it Edizioni (La maschera e Shalim). Sempre in appendice al Giallo Mondadori, ha pubblicato una serie di articoli sulla storia del genere, da Ed McBain a Anne Perry. Nel 2009 pubblica il romanzo fantasy per ragazzi Il Signore del Canto (Delos Books). È il curatore della collana Fantasy Tales, per Delos Digital. Vince il Premio Tedeschi 2013 con il romanzo L’odore del Peccato (Gialli Mondadori n. 3092).

Prologo, poco prima della fine

Agosto 1994

— Mi dispiace. Jeff sente la sua voce come se giungesse da un luogo lontano, un luogo dove a volte crede di ritrovare persino se stesso. Anche se quella sensazione dura sempre troppo poco. Un quasi niente. Una volta l’aveva pensata a quel modo. Un luogo del quasi niente. Ma tutto svaniva in fretta e tornava quel buio strano e denso, con quelle sensazioni che arrivavano da chissà dove e che si portavano appresso sempre tante immagini inspiegabili. Un dolore sordo e quella paura che non andava via, che rimaneva lì, appiccicata addosso come una bava viscida. Sente la sua voce, Jeff, come una cantilena lenta e cadenzata. Non li conta più da tempo i “mi dispiace” che ha mormorato a mezza voce. Forse non li ha mai contanti veramente. Perché troppo spesso non ha nemmeno capito se gli dispie davvero. Ma era quasi un modo per riportare l’ordine. Una formula che almeno sembrava funzionare per tranquillizzare suo padre. Mi dispiace. E tutto torna in pausa. Quasi tutto, almeno. Poi il terrore ricomincia a muoversi lentamente, un o alla volta. Fino all’oscurità successiva. Sempre più vicina, sempre più pungente. — Mi dispiace — mormora di nuovo, poi china la testa ed entra nella piccola cappella della prigione. Non c’è nessuno. Solo lui, il Cristo, appeso lì in alto a soffrire senza dire nulla. E le ombre di quello che Jeff ha fatto. I sospiri di troppa gente che adesso non c’è più. Li sente tutti attorno, Jeff, anche in quel momento, mentre incrocia lo sguardo assente di un uomo afflitto e crocefisso, che magari ha altre cose a cui pensare, altre anime da mondare. Peccatori meno peccatori di lui, probabilmente solo più umani. Con meno luoghi buî nell’animo. Con meno “mi dispiace” alle spalle. Avanza lentamente. Cinque i. Li conta ogni volta, Jeff. Cinque i ed è

sotto al crocefisso, al centro di quel piccolo regno di pace e penitenza. Si mette in ginocchio, lasciandosi quasi cadere. Poggia le mani sulle cosce, le braccia si adagiano sulla pancia che comincia a farsi prominente, da quando si trascura, da quando il suo corpo segue la putrefazione del cuore. Scuote la testa lentamente e sussurra poche parole confuse, incomprensibili quasi a se stesso, un flusso di mormorii sconnessi. — Io non volevo fare soffrire altre persone — dice a mezza bocca. — Veramente. Veramente. Socchiude gli occhi e sospira. Anche questo lo dice ogni volta. Non volevo fare soffrire altre persone. Sempre al Cristo, fermo lassù, muto. Quasi lo stesso sguardo perplesso di suo padre. Lo sguardo di chi non riesce a credere e non sa cosa fare. Lo sguardo di chi teme di comprendere tutto fino in fondo, allora prova a immaginarsi un’altra realtà. — Padre — mormora, mentre nella testa, nelle ombre del delirio, il volto triste e afflitto di suo padre si confonde con quello del Figlio di Dio. La stessa sofferenza, in quello sguardo. Ma nessuna luce che possa farsi strada attraverso quelle tenebre incoerenti e folli. — Cristo legge nei nostri cuori — dice qualcuno alle sue spalle. Jeff si volta e fissa l’uomo che adesso lo osserva dall’ingresso della cappella. Non lo ha sentito arrivare. Annuisce, poi torna a concentrarsi sui propri pensieri. L’altro insiste. — Lui ti sente anche se non parli. — Mi dispiace — recita Jeff, ancora quelle due parole — ma questo è il mio modo e… — Così non funziona — ribatte l’altro. Jeff torna a voltarsi. Lo fissa con decisione, stavolta. L’ha visto altre volte. Un assassino, pure lui. Un altro animo del demonio. Frena l’istinto che gli suggerisce di alzarsi, e dice: — Questo è il mio modo. — Poi studia con agitazione la reazione dell’altro. Attende che questi annuisca. Poi finalmente l’uomo scivola via, oltre la soglia, e Jeff è di nuovo da solo. Con Gesù Cristo e i sospiri delle persone che ha ucciso.

Mormora ancora qualche frase, ma adesso è teso. Quell’uomo l’ha scosso, ha interrotto un momento intimo che lui non vuole condividere con nessuno. Ha già troppe livide fantasie da curare per potersi preoccupare di predicatori dell’ultima ora. Troppe volte ha dovuto ascoltare in silenzio le strigliate del padre e di Shari. Lì dentro, almeno lì dentro, a quattr’occhi col suo silente interlocutore, vuole essere lasciato in pace. — Non farò più del male a nessuno — dice, quando crede di aver ritrovato un po’ di calma. Sta per aggiungere altro, ma i i di qualcuno lo distraggono. Respira a fondo, chiudendo gli occhi e stringendo con forza i pugni. Ma questa volta nessuno parla. I i si fermano e rimane solo il respiro di un intruso, pochi i dietro di lui. Una presenza invadente e scocciante. — Lasciami solo — mormora Jeff, senza voltarsi. Nessuna risposta. Solo quel respiro. Poi un o, leggero. — Ho detto che… ah! Il colpo arriva improvviso e Jeff grida. — Devi morire, infame — grida l’uomo che adesso lo tiene fermo con un braccio attorno al collo. — Tu sei un mostro! — Ah, lasciami… — Jeff grida con tutto il fiato che ha in gola e si dibatte con frenesia. Sente un calore anomalo diffondersi al fianco, accompagnato da un pulsare sordo. Nessun dolore, tranne il colpo iniziale. — Sei solo uno schifoso mostro — mormora l’uomo, nell’orecchio. Jeff prova a tirarsi su, poi si lascia andare e cade nuovamente in ginocchio, trascinando l’altro con sé. — Parlare con Dio non potrà salvarti la pelle! — Aiuto! — grida Jeff. Stringe i denti con rabbia, serrando la mascella. Prova a liberarsi ancora una volta dalla presa dell’aggressore, ma senza successo. È più forte di lui e la lama del coltello è ancora infilzata nel fianco. Ogni movimento adesso è un dolore acuto, anche il solo respirare.

— Ehi, voi… Fermi! Cazzo combinate? Qualcun altro grida dall’ingresso della cappella. — Ho detto che dovete fermarvi! Una guardia, intuisce Jeff. Voce ferma, tono deciso di chi è solito impartire ordini. Poi si sente scuotere. Il rumore di un paio di colpi e i gemiti dell’uomo che lo tiene fermo esplodono a poche dita dalle sue orecchie. E finalmente questi molla la presa. E anche il coltello scivola via. Un risucchio ed è a terra, metallo contro il pavimento freddo. Lordo di sangue. Jeff cade in avanti e ruzzola sulla schiena. Una mano corre alla ferita, mentre a pochi i da lui la colluttazione dura ancora pochi istanti, dominata da un manganello che cala pesantemente. Bestemmie e imprecazioni nella casa del Silente Confessore. Sorride, Jeff, abbandonando la testa sul pavimento. A occhi chiusi. Poi sente altri i, e voci che si accavallano in modo disordinato. Qualcuno accanto a lui. Altri respiri, altri i, altre voci. — L’hanno ammazzato? — dice un uomo. Solo un breve silenzio. — No, questo lurido ha la pelle dura. — Dovremmo lasciarlo morire nel suo sangue — un’altra voce, più distante. — E magari lasciarlo mangiare dai topi — commenta qualcuno. Solo guardie, attorno a lui, adesso. È una di loro che gli sputa in faccia, sprezzante. Per un po’ non parla nessuno. Jeff rimane immobile, senza aprire gli occhi. Sente di dover dire qualcosa, ma nella sua testa prendono forma solo due parole: “mi dispiace”. Allora preferisce tacere. Dopotutto, ha mentito già troppe volte.

Scommettiamo?

1978, oggi…

— Ma cerchi un aggio o stai facendo una sfilata? Jeff si sporge dal finestrino dell’auto e guarda il ragazzo con un sorriso. È una giornata calda e la camicia dell’autostoppista adesso è legata alla vita, gualcita. Ha un bel fisico, asciutto e atletico e i muscoli guizzano sotto la pelle. Una folta capigliatura corvina, che ondeggia quando piega la testa di lato, ridendo. — Magari tutte e due le cose, no? Jeff ride. — Allora non starai qui molto — dice. — Vedrai che qualcuno un aggio prima o poi te lo offre! — Qualcuno? — Adesso ridono entrambi. — Pensavo che quel qualcuno fossi tu. — Sembri anche un tipo simpatico, eh? Come ti chiami? — Steven. Jeff dice il suo nome, poi fa un cenno lungo la strada. — Dove stai andando? Steven alza le spalle, ancora una volta piegando la testa di lato, smuovendo i capelli. — Ovunque, basta che sia vicino a una stazione, però. Jeff annuisce, ma non risponde nulla. Sta pensando e lascia che il suo sguardo si perda lungo la via. — Allora? — imbecca l’altro. — Me lo dai tu questo aggio? — Non subito, però.

— E quando me lo vuoi dare, scusa? — Ancora quel sorriso. È un bel ragazzo e Jeff ci sta facendo qualche pensiero piuttosto serio. Socchiude gli occhi per un attimo, immaginandolo anche senza quella t-shirt attillata che lo fascia. — Dopo un paio di birre e qualche risata, no? — Birra e risate? — Birra fresca, amico, freschissima. Steven sembra pensarci un attimo. — Ma non tiriamo a notte, eh? — Non so te, ma io a buttare giù un paio di birre ci metto davvero poco. Ride, Steven, aprendo lo sportello della macchina. — Scommettiamo che ci metto ancora meno di te? — E cosa vorresti giocarti? — butta lì Jeff, riavviando la macchina e scrutandolo con la coda dell’occhio. — Non lo so, ci devo pensare. — Be’ — riprende Jeff, allungando la mano e dandogli un buffetto su una spalla — hai qualche minuto per pensarci… sono proprio curioso di sapere cosa puoi mettere in gioco! Per un momento non parla nessuno. Jeff guida lentamente, senza fretta. Alza il volume della radio e tamburella con le dita sul volante seguendo il ritmo di Let’s go dei Montrose. — Quanti anni hai? — domanda Jeff, mentre i Montrose lasciano il posto a una canzone dei Cheap Trick. — Scommetto che non indovini — Ancora una scommessa? — È divertente, no? Non hai detto che volevi farti due risate? A me le scommesse fanno ridere. — Allora ci faremo un bel po’ di risate — conviene Jeff, poi appena la macchina

è su un rettilineo abbastanza lungo si volta e lo guarda con attenzione. — Vent’anni — dice. Steven ride così rumorosamente che per un momento sovrasta la musica. Poi asciugandosi gli occhi, scuote la testa. — Hai sbagliato amico. — Sì? — Sì, hai sbagliato. Diciannove, Jeff. Ho diciannove anni. Jeff sorrise e fa spallucce. — Ho sbagliato di un anno… ho quasi vinto, se ci pensi. — Non ci provare, amico. O si vince, o si perde. Non esiste il quasi nelle scommesse. — Okay. Mi rifarò con le birre e vedrai. La posta però la scelgo io. — Ah, giochi duro, eh? Quindi una scommessa non solo per ridere! Jeff scuote la testa, allargando un sorriso. — Niente da fare. Una scommessa seria, stavolta! — E la posta? — Lo saprai quando avrai perso, amico mio diciannovenne! — Non ti va giù di aver sbagliato di un solo anno, vero? — lo stuzzica Steven. — No, no — lo rassicura Jeff. — Va bene così. O si vince o si perde, sono d’accordo con te. — Si volta e gli sorride ancora una volta. E scherza con lui mollandogli un colpetto al fianco. — Ti piace la musica? — Perché esiste qualcuno a cui non piace? — Forse, chi lo sa? Non c’ho mai pensato. — Non c’hai pensato no, sennò non mi facevi una domanda del genere. — Siamo arrivati. — Jeff indica lungo la via, poco più avanti.

— Meno male, amico, ho proprio voglia di scolarmi quel paio di birrette! — E perderai la scommessa. — Vedremo, Jeff. — La perderai, Steve. — E pagherò pegno? — Finalmente cominci a capire. — Sbrighiamoci — ride Steven. — Ho una sete del cazzo.

1971, ieri…

— Io ci scommetto che non ce la fai! Dave prese la rincorsa e si lanciò verso il pioppo che si stagliava imponente al centro della piccola radura. Jeff lo guardò sorridendo. Suo fratello sembrava avere un’energia infinita, soprattutto quando erano là fuori a giocare. — Ti farai male — lo ammonì, ma senza troppa convinzione. Dave finì la sua corsa a un o dal tronco dell’albero e spiccò un salto alzando le braccia sopra la testa. Le dita sfiorarono il ramo orizzontale che aveva deciso dovesse essere il suo obiettivo. L’urlo di esultanza iniziò ancora prima che i piedi toccassero terra. — Ho vinto — gridò — l’ho toccato, te l’avevo detto, te l’avevo detto, Jeff. Hai visto? — Dave si voltò verso di lui, accaldato e col viso rosso, ma decisamente trionfante. Jeff lo raggiunse senza fretta. Quando fu a un metro annuì e ammise: — Hai vinto, è vero.

— Te l’avevo detto — ripeté il fratello. — Ma solo perché è un ramo troppo basso, scemo! Il volto di Dave si incupì, ma solo per un momento. La grinta prese nuovamente il sopravvento e una nuova ruga di determinazione tagliò in due la fronte del ragazzino. — Allora scegli un ramo più alto, dai! — Questo è l’unico che puoi raggiungere — tagliò corto Jeff, che si era stancato di far quel gioco infantile. — Non è vero — rimbrottò Dave — hai solo paura di perdere ancora, fifone! — Allora tocca quello lassù — lo sfidò. Il fratello si voltò e cercò di capire dove stesse indicando. — Quello? — disse, puntando in un’altra direzione, sperando che l’obiettivo non fosse proprio quello che credeva. — Naaa — fece Jeff. — Non fare lo scemo, hai capito benissimo. Quello là. Se tocchi quello hai vinto veramente. Sennò hai perso la scommessa. — Ma tanto non abbiamo scommesso niente, ah — rispose Dave. Puntellò le mani sui fianchi e si mise a un o da Jeff, cercando di alzare il collo per portare gli occhi all’altezza di quelli del fratello maggiore, senza successo. Jeff rise e lo colpì con una manata in fronte, spingendolo indietro. — Hai perso pure senza provare, Dave. — Ora ti faccio vedere io, invece — insistette. — Però se riesco a toccarlo glielo dici pure tu a papà quant’è alto quel ramo, eh? — Promesso. — Okay — disse il fratello, voltandosi verso l’albero che Jeff aveva indicato, a una decina di metri di distanza. — Un solo tentativo. — Uno solo — confermò Dave.

— Via! Jeff osservò il fratello prendere la rincorsa e spiccare il balzo a un metro dall’albero. Le mani volarono ancora una volta in alto, ma questa volta l’obiettivo era davvero irraggiungibile e mancarono il ramo di almeno due teste. Teste. Jeff si adombrò. Non registrò i lamenti del fratello che era atterrato ruzzolando e si voltò per scrutare il folto degli alberi alla sua sinistra. Mosse due i in quella direzione, ignorando Dave che chiedeva la possibilità di un secondo tentativo. — Ehi, Jeff — gridò il fratello, arrivandogli a un metro. — Ma che stai pensando? — Lo tirò per la maglia. — Fammi provare un’altra volta, ti prego. — Va bene — rispose senza guardarlo. — Solo un’altra, poi torniamo a casa, che ho fame. Dave tornò in posizione e iniziò un conto alla rovescia per prendere la rincorsa. Jeff continuò ad allontanarsi e arrivò fino ai primi alberi che delimitavano il boschetto su quel versante. Il terreno scendeva subito in un lungo declivio e l’odore acre di umidità arrivò alle sue narici, pungente. Sentì il capitombolo del fratello nello stesso momento in cui trovò quello che cercava. Il palo era dove lo aveva lasciato la settimana prima, infilzato nel terreno reso morbido dalle piogge. Sorrise, puntando lo sguardo sul cranio di cane che torreggiava in cima al palo, i denti contratti in una smorfia demoniaca, a metà tra il sofferente e il feroce. Annusò l’aria, Jeff, ma non riuscì a percepire l’odore di carne putrefatta della carogna. Percorse un altro metro in avanti, quasi scivolando sulle foglie che ricoprivano il terreno, quando i i del fratello richiamarono la sua attenzione. — Dove vai, Jeff? Scosse la testa e si voltò, risalendo verso la radura. — Niente, mi era sembrato di vedere uno scoiattolo. — Forte — esclamò Dave, cercando di sporgersi per vedere.

Jeff lo bloccò. — Mi sbagliavo, non era niente, solo una cornacchia. Una schifosissima e rumorosa cornacchia. — Bleah, che schifo. — Appunto — disse, andogli una mano sulle spalle e tornando con lui verso il centro della radura. — Un animale brutto e stupido. Sei riuscito a toccare il ramo? — Certo — rispose Dave. — Mmh, ne sei sicuro? — Sicurissimo… Lo dirai a papà, vero? Jeff sorrise e alzò le spalle. — Certo, te l’ho promesso. Poi si volta ancora una volta verso il folto degli alberi e sospira. A pochi metri di distanza c’è uno dei suoi segreti. Uno di quelli più eccitanti.

1978, oggi…

Steven è stravaccato sul divano, gambe divaricate e una lattina di Budweiser in mano. Ha gli occhi socchiusi e Jeff può fissarlo senza che questi se ne renda conto. Hanno già scolato un bel po’ di birra, dimenticando molto presto ogni scommessa fatta e da fare, affogando in schiuma e risa ogni pensiero. La radio continua a cantare a volume basso, ma da qualche minuto i suoni che escono dagli altoparlanti sembrano confusi. Scuote la testa, Jeff, cercando di recuperare un po’ di lucidità. È l’erba, pensa, non la birra. Sì, è l’effetto di quello che hanno fumato, decide. — Che ore sono? — farfuglia Steven, sollevando leggermente la testa. Apre gli occhi con fatica. Jeff immagina che stia cercando di mettere a fuoco la sua figura, ma lo vede desistere molto presto.

Non gli risponde, e attacca con un’altra domanda. — Qual è la tua canzone preferita? L’altro risponde dopo qualche momento. — Non me l’hai già chiesto? Jeff alza le spalle. A dire il vero non ricorda. — Forse — ammette — ma non ricordo se mi hai risposto. L’amico ride rumorosamente, poi rutta. — Ah, e io non ricordo cosa ti ho risposto, ubriacone del cazzo. — Senti chi parla — replica Jeff. — Stai sicuramente peggio di me, femminuccia. — Si alza dalla sedia ed esce dalla stanza, lasciando Steven da solo nel soggiorno. — Dove vai? — La voce di Steven arriva debole poi, più chiaro, ancora un rutto, seguito da una risata fragorosa. — Ho bisogno di altra birra. — Bene, portane un’altra pure a me, amico. Jeff torna dopo qualche istante e lancia una Pabst Blue Ribbon a Steven. Il ragazzo manca la presa e la lattina lo colpisce sul petto per poi rotolare a terra. — Cazzo — mormora Steven. — Fammi un po’ di spazio, dai — incalza Jeff, spostando le gambe dell’altro e lasciandosi cadere sul divano accanto a lui. — Se ci riprendiamo un po’ possiamo vedere un film, che ne dici? Steven sorride e scuote la testa. — Naaa, adesso lo escludo, amico. Non riesco nemmeno ad aprire gli occhi. Jeff si gira su un fianco e lo osserva. L’impressione iniziale è decisamente confermata. Steven è un bel ragazzo. — Potresti scambiarmi pure per una donna, allora, eh? — Eh? — Replica Steven, senza aprire gli occhi. Poi porta la lattina recuperata alla bocca e sorseggia.

— Stai così fuori che se io ti fi un lavoretto magari penseresti che sono una bella figa! — Non ci contare, no — ride. — Sarò pure ubriaco, ma il mio uccello è sveglissimo! — Io dico che non ti accorgeresti della differenza. — Questa scommessa non la voglio fare, però! — Ancora un sorso di birra e quel sorriso sul volto che è una via di mezzo tra il divertito e lo strafatto. — Ehi — alza le mani Jeff, anche se l’altro non lo vede — era solo per dire, cazzo. — Certo che era solo per dire, amico. — Anche se non si può sapere. — Oh, non fa niente, davvero. — Un rutto e una risata. — Preferisco rimanere nel dubbio. — Come preferisci, ma sei banale — insiste Jeff, deluso. — Ah, ah. — Contento di esserlo? — Essere cosa, etero? — No, banale. Steven sorride e annuisci. — Contentissimo.

1971, ieri…

Jeff lasciò scorrere l’acqua calda e per un bel po’ rimase immobile sotto il getto della doccia. Fermo, socchiudendo gli occhi davanti alla tendina che lo

proteggeva dagli spifferi del bagno, cercò di liberare la mente da ogni pensiero. Ma non era facile, soprattutto con quella tranquillità e con i rivoli d’acqua che scivolavano deliziosamente lungo il collo e la schiena. A quel modo i pensieri correvano liberi, senza un freno. Respirò a fondo. Solo mezz’ora. Lo aveva gridato la madre con la solita nota stridula nella voce, non appena erano rientrati dai giochi nel boschetto. Mezz’ora e si cena. Sì, mamma. Va bene. Mi dispiace, non volevamo fare tardi ma… Sorrise, ripensando al silenzio del padre, mentre per l’ennesima volta si consumava quella scenetta isterica. — La mamma non è… — Matta? — Non lo dire, Jeff, lo sai che non è così. — Va bene, papà, non lo dirò più, te lo prometto. Jeff scosse la testa, cercando di cancellare quella banale discussione che aveva intrattenuto con suo padre chissà quante volte. — Non sta tanto bene — ancora suo padre, nella testa, insistente. — È per questo che prende tutte quelle medicine? Anche in quel momento può vedere il padre annuire. — La fanno stare meglio. — Non dirò più che è matta, okay. — Sei un bravo ragazzo, Jeff. Lo scroscio della doccia sembrava più forte, quasi a voler cancellare quel pensiero. Un bravo ragazzo. Si concesse un ghigno, Jeff, mentre ripensava alle parole del padre. E all’improvviso rivide la testa del cane che solo qualche giorno prima aveva conficcato su quel palo, a meno di cinque minuti da casa. Queste cose le fanno i bravi ragazzi, papà? Uscì dalla doccia quando sentì che l’acqua calda stava per finire. La sua pelle

reagì subito e un brivido si arrampicò lungo la schiena. Indossò un pantalone della tuta e la prima maglia che gli capitò tra le mani, senza interesse. Perse appena un paio di minuti ad asciugare i capelli, poi spalancò la porta della sua camera per andare a cena. Sentì i bisbigli dei suoi genitori prima ancora di entrare in sala da pranzo. Si fermò, irrigidendosi sulle gambe. Quello era un segnale che non gli piaceva mai. Quei bisbigli di solito non rimanevano tali molto a lungo. — Ora litigano, vero? Jeff si voltò e vide Dave fermo accanto al divano. Si era accucciato e stringeva le ginocchia al petto, abbracciandole con forza. Non gli rispose e tornò a fissare verso la cucina. Le grida della madre esplosero prima del previsto e Jeff fece un o indietro, quasi a prendere le distanze dall’ennesima scenata. — Joyce, adesso calmati — gridò suo padre. — Non ricominciamo, ti prego. — Ah! — L’urlo della donna fu così alto da sembrare irreale. — Non sono una matta, va bene? Non mi dire quello che devo fare, Lionel, non me lo dire! — Joyce! — Se quello che faccio non ti sta mai bene allora lo sai che cosa ti dico? Eh, lo sai, Lionel, lo sai? — Calmati, cara, io… — Non devo calmarmi, io… … non è pazza… — … non sono pazza! … tua madre non è pazza… — Adesso ci calmiamo e mangiamo con calma, capito? — Suo padre iniziava a fare proposte a vanvera, come al solito.

… è solo che non sta bene e… — … poi prendi le tue medicine e ci mettiamo a letto, che ne dici? — Non mi servono le medicine… allontanati! Non mi toccare, ah! Jeff fece un altro o indietro, mentre alcuni piatti si fracassavano sul pavimento. Le urla del padre e della madre adesso si accavallano senza coerenza, piagnucolii, grida rabbiose, suppliche e gemiti e… si voltò e corse verso la porta. — Jeff, dove vai? — La voce del fratello lo sfiorò a mala pena. Lo ignorò e avrebbe gridato lui stesso se quel dolore che sentiva esplodere nella sua mente non fosse stato così assurdamente fastidioso. Uscì di casa e corse verso la prima fila di alberi, distante appena un centinaio di i. Quando smise di correre si lasciò cadere con le ginocchia a terra, artigliando il terreno e affondando le dita nel terriccio. La mano destra si chiuse su un ramo secco. Lo sollevò con rabbia e si rimise in piedi, avvicinandosi a i pesanti verso l’albero più vicino. — No! — gridò, colpendo il tronco con tutta la forza che aveva. La corteggia fece un rumore secco che echeggiò scivolando via tra le penombre della sera che si inerpicava nel cielo, scurendo tutto. Diede ancora un altro colpo, gridando con più energia per poi stringere con forza le mascelle. Sentì i denti scricchiolare gli uni sugli altri e inspirò violentemente dal naso, alzando il ramo sopra la testa e tornando a colpire l’albero davanti a lui, scaricando tutta la tensione accumulata. — No! — ancora con più rabbia. Ancora con un altro colpo secco al tronco. — No! Si fermò quando le braccia non avevano più la forza di picchiare duro. Aveva gli occhi ludici e le mani sanguinanti. Si buttò in ginocchio e rimase immobile fino a che non sentì qualcuno che lo chiamava, dalla casa. Sembrava la voce del padre. O forse era Dave. Non riusciva a capire. Non voleva capire. Nella testa le grida del madre e le risposte timide di suo padre. E una confusione senza confini. Si alzò e tornò indietro a i lenti.

Mezz’ora, aveva detto la madre. Poi a cena. Forse, rifletté Jeff, aveva fatto tardi. Ora lei si sarebbe arrabbiata e…

1978, oggi…

— E guarda questo, invece — dice Jeff, afferrando il manubrio con la mano destra e poggiando un ginocchio sulla panchetta. — Dio mio, Jeff… prima che io riesca a sollevare tutto quel peso quanti mesi devono are? Jeff ride compiaciuto. Anche Steven ha un bel fisico, vero, ma non molto allenato. — Non credere, amico. Con tutta la robaccia che scolo è già un miracolo che tenga in piedi me stesso, figuriamoci questi pesi. È solo questione di allenamento, dai retta a me. — Se lo dici tu. — Steven è perplesso, ma divertito. — Questo esercizio a che serve? — Per i dorsali. — Jeff si mette in posizione, un ginocchio sulla panca, l’altro piede a terra, e si piega in avanti facendo penzolare la mano col manubrio e i pesi. — Ecco: ti metti così e dal basso verso l’alto fai questo movimento, vedi? — Non sembra difficile. — Non lo è, davvero. Poi i dorsali sono muscoli abbastanza forti, non fai molta fatica se non carichi molti pesi. — Fammi provare, dai, poi me ne vado. — Sempre tutta questa fretta di andare, mi stai un po’ sulle palle, lo sai? — Se solo sapessi quello che mi aspetta stasera… — Ah, e vorresti dire che c’è qualcosa di meglio di qualche birra in compagnia e una fiume di risate?

Steven non risponde subito. Si è messo in posizione per l’esercizio e adesso sta soppesando il manubrio. Dall’espressione del suo viso è chiaro che non lo trova molto pesante. Jeff lo ha caricato al minino, tanto per fare. — Eh! — Eh… cosa? — Prova a immaginare, amico, scommetto che stavolta indovini! — Ancora con queste scommesse? — ride Jeff, per nascondere il nervosismo. — Ancora? Ma quale ancora? Ne abbiamo solo parlato, poi ci siamo ubriacati. Ora facciamola veramente una scommessa, forza. Steven solleva il manubrio sopra la spalla e si siede sulla panchetta. Jeff adesso si sta mordendo un labbro. — Che c’è — scherza l’altro — sei nervoso? — Nient’affatto. È che adesso non ho voglia di fare giochi scemi. Jeff si alza e allarga le braccia, poggiando il manubrio sulla panca. — Ma che devono sentire le mie orecchie! — È chiaramente divertito. E l’effetto delle numerose birre lo fa dondolare ancora un po’. — Il mio amico tutto birra e risate non ha voglia di fare questi giochini? — Hai capito, non ho voglia. Steven si china verso di lui, con un sorriso stupido stampato in volto. — Allora gioco da solo. — Si porta le mani al petto, a coppa, e fa il gesto di due enormi tette. — Lo sai cosa sono queste? Jeff lo guarda senza dire nulla. — Tette, amico, due succosissime tette! — E allora? — chiede Jeff, allungandosi meccanicamente verso la panchetta per recuperare il manubrio. — Ah, allora te lo dico io, caro Jeff. A meno di due ore da qui… oh, niente di male, eh, bella casa, ottima birra e tutto il resto, ma cazzo, Jeff… a meno di due

ore da qui ho due immense tette pronte a farmi vedere le stelle e… Jeff si muove troppo rapidamente e Steven forse nemmeno si rende conto di quanto accade. Jeff lo capisce perché l’altro non fa nulla per difendersi, nemmeno il gesto istintivo di parare il colpo. Il manubrio con i pochi dischi che aveva caricato impatta contro la tempia del ragazzo con un rumore sordo. Poi il corpo di Steven, senza un lamento, senza un rumore, si accascia a terra, quasi al rallentatore, come se il tempo avesse cambiato ritmo. È già svenuto, Steven, quando Jeff si accanisce con il secondo colpo, sempre alla testa. E poi il terzo e un quarto. Il parquet adesso è affogato nel sangue mentre il corpo disteso sul pavimento si contorce ancora una volta, le gambe fanno uno scatto, la testa di piega di lato e la bocca si storce in una smorfia innaturale. — Non ho voglia di scommettere — sussurra Jeff, accarezzando il viso del suo amico. — Rimani ancora un po’ con me, dai… — la voce adesso rotta dal pianto. — Dopo ti accompagno io. Ancora una birra e andiamo, lo prometto. Ha ancora gli occhi lucidi, Jeff, quando si alza, allontanandosi dal cadavere di Steven. È stordito e sembra che tutto sia distante. Si lascia guidare dai suoi stessi i, fino alla cantina, fino al bancone con gli attrezzi. Prede una sega, quella con la lama più grossa. Prende anche alcuni sacchi per la spazzatura. Poi, sempre con estrema calma, torna al piano di sopra. Quando si lascia cadere con le ginocchia accanto al corpo dell’altro, sta tremando. Respira a fondo, chiudendo gli occhi. La calma lo domina piuttosto rapidamente. Quando si sente pronto riapre gli occhi e punta la lama della sega alla gola di Steven, pochi centimetri sotto al mento. Un’ora dopo, è già tutto in ordine.

Il limite

1979, oggi…

— No, Jeff, stavolta no! Arrivano confuse, le parole del padre. Come se Jeff le ascoltasse dal fondo di una piscina mentre tutt’attorno altra gente fa chiasso, batte le mani sull’acqua e grida a più non posso. Ecco, in quella cacofonia ondeggiante, le parole di suo padre sembrano unte, e scivolano via. Vorrebbe dire qualcosa, ma si rende conto che a mala pena ha la forza per rimanere fermo davanti al viso incazzato che sbraita verso di lui. Incazzato, sì. Lionel Dahmer, la calma in persona, l’uomo che non affronta nemmeno se stesso per la paura di dover prendere una decisione, sembra davvero fuori controllo. — Papà… — biascica Jeff, ma tace subito. Tanto non ha cose intelligenti da dire. E ogni parola è come una fitta al cervello, un pugnale che affonda dalla nuca e che sembra voler strappare via quella melma densa che sente nel cranio. — Tu adesso rimani qui, Jeff. Non ti porto ancora a casa in queste condizioni. Io e Shari siamo stufi di vederti ubriaco e ridotto a un cencio. — Ma… — Basta! — Dice il padre, alzando una mano per fermarlo mentre lui prova a salire in macchina. — Chiamami quanto ti sarà ata la sbronza. Allora parleremo. Non prima, Jeff, non prima. In queste condizioni non entrerai in casa, te lo giuro! Jeff rimane immobile, sente che tutto continua a girare troppo in fretta e… no, non troppo in fretta, troppo, semplicemente. Il mondo non deve mica girare a quel modo, cazzo. Fa un o all’indietro. Se ricorda bene c’è una panchina di marmo proprio lì dietro e… si lascia andare, confidando in quel ricordo

offuscato dalla nebbia. — Merda! — Capisce troppo tardi di aver sbagliato i calcoli. Niente panchina. Ma non ha i riflessi per reagire e ruzzola a terra sbattendo pesantemente la schiena e un gomito. Chiude gli occhi per un momento, ignorando il dolore. Suo padre è ancora lì? Sta osservando quella scena ridicola? Ora si avvicina, lo aiuta a rimettersi in piedi e lo porta a casa, certo. Ecco, questi sono i suoi i. Eccolo, ora… sente dei commenti poco lusinghieri e capisce che sono rivolti a lui. E non sono certo di suo padre. Rimane ancora a terra qualche momento, poi prova a rimettersi in piedi. Quando fissa lo sguardo sulla panchina capisce che è più distante di quanto aveva creduto. Non si era reso conto di aver fatto tutta quella strada mentre discuteva col padre. Si muove a carponi, cercando di controllare nuovi conati di vomito. Quando raggiunge il freddo marmo riesce perfino a sorridere. Poi, con uno sforzo immane, si sdraia, poggiando la schiena sul marmo. E chiude ancora gli occhi. Non sa quanto tempo è ato quando capisce di avere di nuovo la forza per alzarsi. Ha un terribile mal di testa, ma si sente più leggero. Perlomeno il mondo ha smesso di girare e i rumori che arrivano al suo cervello non sono confusi, anche se non lo aiutano a concentrarsi. Sente la bocca impastata. Non ricorda quanta roba si è scolato, ma è quasi sicuro che non è stata solo la birra a ridurlo a quel modo. Volge lo sguardo verso il Summit Mall. Poche persone si aggirato attorno all’edificio e a quell’ora ci sono solo le luci d’emergenza a illuminare le pareti scure. Cerca di mettere a fuoco le lancette del grande orologio sulla parete fronte strada, ma ha la vista annebbiata. L’ora di cena sembra ata, ma non può esserne certo. Si allontana lungo la via, incerto sul da farsi. Camminare lo ha sempre aiutato a ritrovare il controllo dopo aver bevuto troppo. Anche se in quel momento non ha voglia di controllarsi, anzi… sente una voce nella testa. Confusa anche questa, ma è il senso a essere chiaro. Jeff sa che sta emergendo un certo istinto, così inebriante da non poter essere relegato in un angolo. Sente di doverlo assecondare, per stare meglio. Sì, per stare meglio. Vede la coppietta sparire in un vicolo stretto e decide subito che quella voglia che cresce in lui non vuole dominarla. Come per incanto ritrova parte della

lucidità smarrita nell’alcol. Raggiunge la via stretta in cui li ha visti sparire. Lo sa bene cosa cercano: un angolo buio, senza sguardi indiscreti. È quello che cerca anche Jeff. Si infila una mano in tasca e si rallegra. Ha ancora un po’ di soldi con sé. Sorride, e segue i due fidanzatini. E i loro respiri nascosti nel buio.

1974, ieri…

Jeff si avvicinò alla porta della propria camera per cercare di captare i rumori della casa. Rispose solo il silenzio, rotto di tanto in tanto da qualche mezza frase del padre, dalla stanza accanto. Lui e la madre si stavano certamente preparando per andare a dormire, mentre di sicuro Dave era sotto le coperte già da un pezzo. Forse stava leggendo una di quelle storie che al tempo lo spaventavano e divertivano, ma di certo non si sarebbe più alzato per gironzolare per la casa. E di sicuro non sarebbe andato a disturbarlo. L’unica mina vagante era suo padre, certo, soprattutto se era in vena per una delle solite “chiacchierate” tra padre e figlio, piene di banalità e mezze frasi, paure sottese e mai esplicitate. Proprio quel pomeriggio aveva dato sfogo a uno dei suoi discorsi più lunghi e sofferenti. — Ci sono delle cose che non è giusto fare, Jeff, te ne rendi conto? — gli aveva chiesto quasi all’improvviso. Jeff aveva ricambiato lo sguardo languido dell’altro con un cenno d’assenso, ma senza dire nulla. — Ci sono dei limiti, no? Ognuno di noi ha dei limiti, figlio. — Certo, papà. — Forse i genitori si preoccupano sempre troppo per i propri ragazzi, ma credimi, un giorno comprenderai meglio quello che ti sto dicendo. Jeff aveva lasciato scivolare ancora un po’ di silenzio, prima di replicare. — Ho

fatto qualcosa di sbagliato, papà? Il sorriso timido che aveva avuto come risposta sembrava voler dire che non aveva fatto nulla. O perlomeno, che nulla di cui suo padre fosse a conoscenza. — Certi discorsi non devono essere fatti quando qualcosa è già successo… vedi, a volte un genitore deve spiegare qualcosa al proprio figlio prima che questi possa sbagliare, mi capisci? Jeff aveva annuito, dicendo: — E tu adesso hai paura che io possa fare qualcosa di sbagliato, vero? — No, no, Jeff, niente di particolare… sentivo solo di dover parlare un po’ con te, tutto qua. — A proposito di quello che è giusto fare e quello che non è giusto? — Proprio così — aveva detto suo padre. — Solo che come al solito non so da dove cominciare e allora… be’, forse mi sono un po’ perso, tutto qua. Volevo solo parlare un po’ con te dei limiti che uno deve darsi nella vita. Non ritieni che sia un argomento importante? — Certo. — Tutto qua? Solo “certo”? Jeff aveva alzato le spalle. — Hai detto tutto tu. Hai perfettamente ragione, papà. Al che l’altro aveva annuito, e il sorriso si era leggermente spento, trasformandosi in un ghigno perplesso. Adesso quelle parole tornavano a stuzzicarlo, come se il padre avesse inserito un dispositivo di allarme. Il limite. Ognuno ha il suo limite, pensò Jeff. Ma chi lo dice che oltre a questo c’è il male? A dire il vero suo padre non aveva parlato di bene o male, ma di giusto e non giusto. Ma forse il discorso era lo stesso. Sentì di nuovo dei borbottii dalla stanza accanto. La madre, questa volta, poi

alcuni i e nulla più. Sembrava che fossero tutti a letto, finalmente. Attese ancora mezzo minuto, poi decise che non aveva nulla da temere. Aprì l’armadio a muro e spostò una pila di vestiti ammonticchiati un po’ alla rinfusa. La cartellina era dove l’aveva lasciata. Per fortuna sua madre non aveva la testa per fare pulizie per tutta la casa, quindi in camera non ci entrava quasi mai nessuno. Figurarsi nell’armadio per andare a vangare sotto colonne di panni disordinate. Portò la cartellina fino al letto quindi, rassicurandosi ancora una volta che nessuno fosse ancora a gironzolare per le stanze, la aprì. Ebbe subito un’erezione non appena vide la copertina della prima rivista. Resistette all’impulso di masturbarsi subito, ma si slacciò i pantaloni, iniziando a sfogliare le pagine dove svettavano cazzi duri e imponenti, leggendo con fretta crescente i trafiletti in cui le fantasie più estreme erano raccontate senza limiti. Senza limiti, pensò. Giusto o sbagliato? Bene o male? Lo tirò fuori dalle mutande, dimenticando presto ogni riflessione di altra natura. Se quello era un limite, Jeff voleva superarlo, per vedere cosa c’era oltre.

1979, Oggi…

Attende qualche minuto, Jeff. Ha visto che i due si sono nascosti in una nicchia, una piccola rientranza appena dietro un cassonetto dell’immondizia. È una via di servizio, con poche porte di metallo chiuse, sicuramente le uscite dei ristoranti che si affacciano sulla via principale. Si intuisce anche dall’odore di cibo che c’è nell’aria. Da qualche parte, tra sacchi di spazzatura e lattine gettate a terra, zampetta un topo.

L’animale sta frugando tra gli avanzi di qualche pasto. Jeff si tiene rasente al muro, cercando di essere un’ombra tra le ombre. Una delle porte si spalanca e insieme ai i di un uomo che trascina un carrello arriva la zaffata di odori di una cucina. Roba cinese, pensa Jeff, annusando l’aria. Si schiaccia al muro per non farsi notare e anche senza sporgersi vede qualcuno avanzare fino a uno dei cassonetti. È un tipo basso con una pancia prominente. Sul carrello ha almeno tre sacchi di spazzatura. Li getta uno alla volta, poi si accende una sigaretta, l’occasione propizia per prendersi una pausa. Jeff getta un’occhiata più avanti. I ragazzi sono ancora lì. Riesce a vedere le spalle di lei. Sono immobili, anche loro attendono che l’uomo rientri, prima di riprendere i loro giochini erotici. Finita la sigaretta il tizio sbuffa. Si liscia le mani sul grembiule, poi si tira dietro la porta, sparendo. Le mani del ragazzo cominciano a muoversi prima ancora che l’echeggiare metallico sfumi in un nuovo silenzio. E anche Jeff non perde tempo. Si scorge, sorride, porta una mano a tastare l’uccello dritto. Poi avanza a i lenti, facendo attenzione a fare silenzio. Non vuole che loro lo vedano, non subito almeno. Per fortuna c’è il lucore di una lampada d’emergenza poco più avanti, altrimenti i due sarebbero proprio al buio. Invece riesce a scorgere con chiarezza i loro corpi, il bagno di luce sulle spalle di lei, che adesso geme, poi mormora qualcosa. Si avvicina ancora, Jeff, e apre la patta dei pantaloni. Si lascia quasi sfuggire un sospiro eccitato quando si accorge che lui ce l’ha di fuori, stretto nella mano frenetica della ragazza. Fissa lo sguardo su quel movimento rapido, anche se i loro corpi fanno un po’ ombra e non riesce a vederglielo bene, ma lo immagina, eccome se lo immagina. Fa un altro o in avanti e se lo tira fuori pure lui… sente ancora i riflessi molli per l’effetto dell’alcol, ma adesso la sua testa è concentrata su altro. — Se vuoi te lo sbatto pure io — dice all’improvviso, forse un po’ troppo a bassa voce. I due sobbalzano lo stesso, spaventati. — Cinquanta dollari — aggiunge Jeff, repentino.

— Ehi — sbotta il ragazzo, accavallando la propria voce col grido della sua compagna. — Che cazzo vuoi? Jeff sorride, anche se teme di essere avvolto dall’ombra. Loro di certo non possono vederlo bene. — Voglio solo prendertelo in bocca, amico… se vuoi ti pago e la tua fidanzatina ci guarda. Non pensava di poter dire tante parole senza essere interrotto. Di solito s’incazzavano prima. Il silenzio nasconde solo due possibilità: paura o possibilità. La possibilità di mettersi in tasca cinquanta dollari facili, rimediando pure un po’ di trasgressione. Paura, be’… questo Jeff non lo capiva proprio, se avevi avuto le palle per imbucarti in un vicolo buio tra cassoni di immondizia. — Tu stai fuori, amico — risponde lui. Jeff nota che nel frattempo si è messo davanti alla ragazza e si è rinfilato il cazzo nelle mutande. Jeff si avvicina ancora, muovendo lentamente la mano che stringe sul pene. — Va bene — dice, cercando di pensare in fretta — magari guardo solo mentre te lo succhia, va bene? — Andiamocene, Mick, ti prego — piagnucola lei, spingendo il suo ragazzo all’indietro. — Trenta dollari solo per guardare, dai — insiste Jeff, facendo ancora un o avanti. Vede lei che tira la maglia del suo Mick, ma il ragazzo non si muove. Forse ci sta pensando, forse… — Quaranta dollari. — Amico — mormora il ragazzo. — Se fai un altro o ti spacco la faccia, te lo prometto. Stai lontano da noi, sennò… Jeff si ferma, e respira a fondo, ma la sua mano non smette di muoversi avanti e indietro, stretta sull’eccitazione. — Allora guarda mentre godo — ride, facendo uno scatto in avanti all’improvviso. Sente il cazzo pulsare poi l’orgasmo lo travolge e per un momento le gambe gli tremano. — Pezzo di merda — grida il ragazzo, facendo un salto di lato. Ormai Jeff è a un o da loro e sente quasi il respiro impaurito di lei. Anche se è lui a calamitare tutta la sua attenzione.

— Ah — grida, assecondando il piacere. Il pugno arriva all’improvviso e il sapore del sangue in bocca è caldo e piacevole come il nettare del godimento. — Mick — grida la ragazza. — Andiamo via ti prego, dai! — Gli rompo le ossa a questo maniaco di merda. Jeff sente la testa vacillare. Arriva un altro colpo e non lo vede nemmeno. Lo sente solo. Allo stomaco, stavolta. Con forza. Crolla a terra. Il terreno è duro e freddo. — Adesso gli faccio are la voglia di giocare col suo arnese! — dice Mick a voce alta, sferrando un calcio con violenza. Jeff è a terra, piegato in due, il respiro che graffiava nei polmoni. — Basta — mormora — mi dispiace, io… — Non è tempo per dispiacersi, frocio di merda! — Ehilà! Il grido proviene dall’inizio della via. Jeff è rannicchiato per difendersi da un nuovo colpo, ma non arriva nulla, solo la soddisfazione del ragazzo: — Ah, la polizia, bene! — Qualche problema? — chiede una voce che Jeff associa a un poliziotto. Poi è il ragazzo, Mick, a rispondere: — Qui c’è un fottuto maniaco, agente. — Andiamo via, ti prego — ancora lei. Jeff ripensa alla mano che stringeva l’uccello del ragazzo. Sorride, anche se forse in quel momento dovrebbe solo preoccuparsi. — Ora andiamo, tesoro. Prima sistemiamo questo lurido — è la risposta che riceve. Jeff sente i i dell’agente avvicinarsi. Stringe i denti, serrando la mascella, e si chiude in se stesso, ignorando quello che si dice attorno a lui. Poi sente un

altro calcio. E un ordine. — Alzati. Non reagisce. Poi un altro calcio, decisamente più forte, lo convince a ubbidire. Si alza, sorride. Finalmente si ricompone, richiudendo la patta dei pantaloni.

1974, ieri…

Jeff si lasciò cadere all’indietro sul letto, quando ebbe terminato di masturbarsi. La rivista era scivolata di lato, sul pavimento, però non gli era servita più. Le immagini alla fine ce le aveva chiare in testa, molto più reali di quelle fotografie pornografiche. Gli ultimi istanti aveva letto dentro di sé, per trovare il piacere. E questo era montato come una furia, esplodendo quasi con dolore mentre figurava di avere lì accanto uno degli uomini che nella rivista si scopavano quelle misere mignotte. Sì, quei ragazzi erano attorno al suo letto, tutti nudi, con gli addominali scolpiti, le cosce e i glutei sodi ed erezioni che spaventavano per la loro virile potenza. A quel punto era stato davvero un attimo. Pochi secondi da strapparti il fiato e farti balzare il cuore nel petto. E infatti respirava ancora a fatica e sentiva nelle orecchie il pulsare ritmato del battito che partiva dal suo petto. Se in quel momento fosse entrato il padre la serata avrebbe preso un'altra volta una piega negativa. Sorrise a quel pensiero. Era buttato sul letto con i calzoni a mezza coscia, le mutande abbassate con l’uccello ancora in tiro e a due metri, a terra, una rivista pornografica. Sì, sarebbe stato davvero difficile da spiegare. Scoppiò quasi a ridere al pensiero che magari poteva entrare la madre. Sarebbe stato uno shock, per lei. Avrebbe dovuto aggiungere almeno altre dieci pasticche alle decine che già prendeva ogni giorno, e forse non sarebbe stato sufficiente. Si sistemò in fretta, non chiedendo troppo alla fortuna, e rimise al suo posto la rivista. Adesso le immagini avevano meno interesse, anche se non tutti gli istinti erano domati. Pensò che il padre non avrebbe capito mai certe cose. Quando parlava di limiti, si riferiva a quelli che lui stesso aveva seguito, o che si era imposto. Molti dei

percorsi che faceva lui non avrebbe saputo spiegarli. Jeff non aveva ancora capito se fosse un uomo esageratamente saggio o irrimediabilmente debole. Ci sono dei limiti, no? Ognuno di noi ha dei limiti, figlio. — Certo, papà — mormorò Jeff, avvicinandosi alla finestra. Fuori la notte era imperlata da un velo di foschia che sembrava viva, bagnata da raggi di luna eburnei e sospinta leggermente da improvvisi aliti di vento, non sufficienti comunque a spazzare la valle. — Ma ogni persona ha limiti differenti — disse ancora, parlando a se stesso, indagando nuovi pensieri che si affacciavano con una certa insistente malia. Socchiuse gli occhi e richiamò alla mente una di quelle figure immaginarie che lo aveva aiutato ad eccitarsi. Stinse i denti con forza, lasciando scorrere lo sguardo della fantasia su quel corpo scolpito, e ancora sul suo sesso turgido, disponibile e… ancora una volta sentì un fuoco all’inguine, ma si rese conto che stavolta era leggermente diverso da prima. Con la mano destra strinse con forza il suo pene e inspirò rumorosamente. Nella visione che aveva costruito nella mente si voltò verso l’uomo che aveva preso forma in quel mondo al confine tra il sogno e il desiderio, quindi vide se stesso chinarsi e fermare il viso a pochi centimetri dal sesso dell’altro. E lo colpì con tutta la forza che aveva. Una forza ben maggiore di quanta ne avrebbe avuto nella realtà. Ma la rabbia che sentiva crescere dentro era tale da costringerlo a esagerare anche quella visione. Strinse gli occhi con maggiore forza mentre con la mente continuava a supervisionare il suo corpo, come se si osservasse dall’esterno. Gli diede un colpo feroce, proprio ai genitali. E l’uomo si chinò con un gemito, crollando a terra. Jeff si accorse di respirare rumorosamente mentre quelle immagini continuavano a scorrere come un film montato da un regista folle. Un altro Jeff, quello che vedeva dall’esterno, si alzò e prese una mazza da baseball. Con quella iniziò a colpire quell’uomo nudo e impotente, che poco e nulla faceva per difendersi. Perse il conto dopo il decimo colpo, quando anche nell’immaginare il sangue era davvero troppo, un lago che scivolava fin sotto al letto. L’altro aveva reagito solo con pochi gemiti, lasciandosi spaccare le ossa dalla sua furia. E così Jeff aveva realizzato, nella confusione di quel delirio, che mentre in quella

fantasia estrema lui continuava a uccidere un uomo inerte e nudo, l’altro se stesso, quello che stava alla finestra e si teneva il cazzo stretto in una mano, stava raggiungendo l’orgasmo per la seconda volta in pochi minuti. Godette a tal punto che le gambe gli tremarono e dovette poggiarsi all’indietro, di nuovo sul letto. Ancora il respiro che si arrampicava nel petto e il cuore che batteva come una grancassa. — Non esistono limiti — disse, rubando il tempo a un respiro. Ora nella sua testa non c’era più l’uomo che aveva immaginato di massacrare, ma il volto sconsolato del padre, incredulo. — Non esistono limiti, papà. Non per tutti, almeno. Si sentiva decisamente meglio. Si chiese se per la soddisfazione sessuale o per quanto aveva creduto di vivere, l’uccisione di un uomo. In quel momento si sentiva confuso, ma stranamente sereno. Uccidere. Lo aveva già fatto, dopotutto. Certo, erano solo animali, cani, gatti, conigli… ma un uomo? Poteva essere davvero così eccitante? Poteva essere la risposta a quel buio che sentiva dentro? Può l’uccisione di qualcuno, l’uccisione violenta, fare tanta luce da scavare nell’abisso? Si addormentò diverse ore dopo, ancora in cerca di una risposta, ma con al consapevolezza che, dopotutto, avrebbe potuto fare un tentativo.

1979, Oggi…

— Hai davvero superato il limite, Jeffrey. Jeff alza un sopracciglio, scrutando rapidamente il padre. Non lo chiama mai così, di solito usa sempre il diminutivo. Forse è davvero incazzato. Ma davvero tanto. In situazione del genere il silenzio è peggio dei soliti discorsi da quattro soldi,

per questo vorrebbe che suo padre non si fermasse a mettere ordine nei pensieri. È proprio in quei momenti che l’imbarazzo punta i piedi e si frappone in mezzo a loro, irremovibile. Però tace anche lui, perché sente che questa volta sarebbe banale uscirsene con il solito “mi dispiace” così tanto per rompere il silenzio. — Mi hai fatto litigare con Shari… — dice l’uomo, alzando la testa per guardarlo negli occhi. — Te ne rendi conto? — Mi… — … ti dispiace, eh? Lo immagino, Jeff, a te dispiace sempre, Dio Santo! — Hai ragione — dice Jeff, anche se si chiede subito che significato abbia quella sua frase. Ragione… di cosa? Il padre apre la bocca come per dire qualcosa, poi tace ancora. Batte un palmo sul piano del tavolo, due volte, con rabbia. — Ubriachezza molesta — mormora, poi scuote la testa. Quando è andato a pagare la cauzione ha dato solo un’occhiata di sfuggita ai lividi e al sangue che aveva addosso. Una volta a casa gli aveva ordinato di fare in fretta una doccia. Poi lo aveva aspettato proprio dove è adesso. — Non mi sono mai vergognato tanto in vita mia, Jeff. Quello che mi ha detto l’agente mi ha fatto sentire sporco e… — Ma tu… — Zitto, Jeff, zitto per cortesia. Jeff annuisce, e chiude la bocca. — Sporco. Lo sai cosa significa? Ancora una volta un cenno del capo. — Ho dovuto dirlo a Shari. Non sapevo che parole usare per descrivere quello che hai fatto in quel vicolo. Ha pianto, Jeff. Per colpa tua. — Mi dispiace. — Eccole, quelle due parole. Ha ceduto, non è riuscito a controllarsi. — Lo credo bene. È il minimo.

— Ero ubriaco, papà. Silenzio, di nuovo. Poi solo il tamburellare ritmico del palmo del padre sul tavolo. Lo vede annuire, puntando lo sguardo dritto nei suoi occhi. — Oggi troveremo una soluzione a… tutto. — Soluzione? — Proprio così. — A tutto cosa, poi? — domanda Jeff. È calmo, ma vuole che il padre lo senta allarmato, così magari mette da parte qualsiasi idea per “sistemare tutto”, la soluzione. — A te, Jeff, al tuo comportamento. Al fatto che bevi e… cazzo, come ho fatto a non rendermene conto per tanti anni. Al fatto che certe volte mi sembri un po’ strano, assente. Pagherei per sapere cosa ti frulla in quella testa dura, sai? — Niente di speciale. Non ti preoccupare. — E invece mi devo preoccupare — sbotta il padre, alzando la voce. — Ti arruolerai nell’esercito. — Cosa? — Non sa che tono dare alla propria voce, Jeff. Dentro di sé sente di essere calmo e quasi del tutto disinteressato, ma suo padre si aspetta di certo una qualche reazione. — Hai capito bene. Esercito, Jeff. Regole e disciplina. Vedrai che loro sapranno farti da guida meglio di quanto abbia fatto io finora. — Si alza in piedi e annuisce. — Domani stesso ti accompagno agli uffici per l’arruolamento. Se tutto va bene in poche settimane sei in divisa, ragazzo. Jeff rimane seduto, mentre suo padre si allontana a i lenti. — Ora vai a dormire — dice, quasi un borbottio. — Notte. Un respiro lungo. — Notte, papà. — Vedrai… — mormora ancora l’uomo. — Vedrai che tutto andrà a posto.

Nuovi orizzonti

1979, oggi…

— Questa musica è davvero uno schifo. Il caporale Richard Grant da un calcio alla scrivania e fa sobbalzare la radio. L’antenna cade di lato e dalle casse iniziano a uscire solo suoni distorti e gracidanti. Jeff lo guarda in silenzio, con un sorriso sghembo sul volto. È un esibizionista, uno che alza la voce solo per mettersi in mostra e non per altro. Il classico insicuro che non sa come nascondere se stesso agli altri. Allora si inventa quella maschera e se la porta appiccicata in faccia dalla mattina alla sera. In fondo, pensa Jeff, loro due per certi aspetti sono molto simili. Solo che lui preferisce il silenzio e l’alcol a quelle stravaganti manifestazioni di banale virilità. — Qui non sanno proprio cosa sia la musica — conviene Jeff, alzandosi dalla sua postazione per rimettere a posto l’antenna, mentre il caporale Grant si butta sulla lacera poltroncina che hanno sistemato nell’angolo della fureria. — Fino a che non riportiamo il culo a casa dovremo farci andare bene questa merda qui — si lagna ancora Grant. — Cerca almeno un’altra frequenza, ti prego, amico! Jeff annuisce e non appena ha rimesso a posto l’antenna inizia a far scorrere lentamente la ghiera per cercare qualcosa di meglio. È chino sul pianale della scrivania del sergente e dà le spalle a Grant, ma riesce lo stesso a immaginarselo. Lo starà guardando di sicuro, in quel momento, le braccia alte e intrecciate dietro la testa, il piede destro sollevato e poggiato sulla coscia della gamba sinistra. Sì, può vederlo, Jeff, anche dandogli le spalle. E può immaginare l’occhio dell’altro che scruta il suo corpo, fermandosi magari al sedere e immaginando chissà cosa.

L’ha osservato con attenzione in quei primi mesi. All’inizio Jeff ha avuto qualche dubbio, un po’ per l’atteggiamento di Grant, un po’ perché lo ha visto fottere certe puttane tedesche con una certa furia e con un piacere decisamente sincero. Ma l’inganno non è durato molto, non ai suoi occhi, almeno: al caporale Richard Grand piacevano i cazzi tanto quanto piacevano a lui. Se n’è accorto la notte. Nel sonno ognuno espone la parte più vera di sé. E il caporale Richard Grant perde tutta la sua boria quando cede al sonno. Si trasforma, smette la maschera e mostra quello che è veramente. Jeff ha avuto l’occasione di osservarlo diverse volte. E ha capito di avere davanti una persona diversa da quella che tutti credono essere. Non l’esuberante, virile, spaccone caporal maggiore Richard Grant, ma semplicemente un ragazzo con le proprie paure e incertezze che erano state sepolte sotto uno strato di sebo. Sorride, Jeff, all’idea di essere guardato mentre sintonizza la radio. Proprio per questo ci mette più di quanto dovrebbe, soffermandosi più del dovuto su ogni singola stazione. — Ecco — dice a un certo punto, voltandosi con le braccia larghe e un sorriso da orecchio a orecchio — che ne dici di questa? — Ma che cazzo ti sei messo in testa? — scherza Grant, mentre dagli altoparlanti della radio un cantante sta impegnando tutta la sua squillante voce in un pezzo di musica lirica. — Ma senti che roba, ti prego! — Ah — esclama Jeff, cimentandosi nell’imitazione di un cantante d’opera, cercando di richiamare alla mente alcune immagini che aveva visto una volta in un programma televisivo. — Di quella pira… nanana… sì, m’avvampò… lalala! — Dio santissimo, Jeff, cambia per favore… così mi fai sentire male — ride Grant. — Non sono bravo? — Canteresti meglio con un cazzo su per il culo — lo sfotte l’altro. — Oh — annuisce Jeff — ne sono convinto, amico — dice, poi scruta la reazione del caporale. — Be’ — replica Grant — se con cambi subito giuro su quella zoccola roscia mangia crauti che mi sono fottuto ieri che t’inculo io.

— Le mie chiappe sono preziose caporale! Non le cedo al primo cazzetto dritto che mi sventolano alle spalle, sa? Adesso ridono tutti e due, Jeff poggiato sul bordo della scrivania, Grant nella solita posizione che tutti conoscono a memoria, come se non sapesse sedere in nessun altro modo. — Cazzetto, eh? — Proprio così — annuisce Jeff, mentre alla voce del cantante si aggiunge un coro di voci battagliero. — Non sai di cosa parli — dice Richard Grant. — Ah, quindi ora saresti l’esperto di uccelli, vero? Silenzio, ma ancora quel sorriso divertito sul volto del caporale. Jeff lo guarda stringendo gli occhi a due fessure. L’altro sa di essere in trappola. Non sa che rispondere è chiaro, ma forse per un momento sembra volersi mettere in gioco. Poi scuote la testa e abbassa le braccia sulle gambe, battendo i palmi sulle cosce. — Cambia frequenza, Jeff. — Il divertimento sembra stemperato da un pizzico di imbarazzo. — Voglio sentire l’opera — insiste Jeff, deluso. Erano sulla buona strada, forse potevano arrivare a qualcosa, poi l’altro aveva fatto cadere l’argomento, rintanandosi ancora una volta dietro quell’assurda maschera. — Se entra il sergente ci manda tutti e due a lavare i cessi, se sente questa roba. — Magari gli piace, no? — Seeee… cambia Jeff, dai, ‘sta musica fa cagare!

1973, ieri…

— Io ieri ho toccato le tette di Mariah — disse Simon.

Per qualche secondo tutti fecero silenzio. Anche Jeff, che in quel momento stava ascoltando con poca attenzione i discorsi degli altri ragazzi, si fece attento. Erano seduti tutti a terra, sotto un vecchio canestro rotto, e da pochi minuti avevano finito di giocare. La giornata era caldissima e le magliette sudate erano incollate alla schiena, ma nessuno sembrava troppo infastidito. — Ma che dici? — sbottò Michael, il più grande del gruppetto, sovrastando i commenti divertiti degli altri. Allungò una mano verso il viso dell’amico e gli diede un buffetto sul mento. — Non dire cretinate, scemo! Simon per un momento sembrò prendersela. Le guance, ancora rosse per la partita a basket ripresero fuoco, ma ò in un attimo. Sorrise e si piegò all’indietro, schivando un altro colpo di Michael. — Credi quello che vuoi — disse facendo scorrere lo sguardo su tutti loro: Michael, Jeff e David. — Intanto io l’ho fatto e questa cosa non cambia. — Andiamo — lo beccò ancora Michael — E raccontaci come è andata questa prodezza… le tette di Mariah, ma senti tu! — E invece non ti racconto proprio niente — rispose Simon incrociando le braccia al petto, altezzoso. Jeff e David risero, mentre Michael adesso era serio. Jeff immaginò che stesse valutando la possibilità che l’altro dicesse la verità. Mariah aveva la loro stessa età, ma come tutte le ragazzine di tredici anni era già qualche mese che aveva iniziato a diventare donna. Se fino a qualche settimana prima si faceva ancora vedere in giro con loro, adesso sembrava evitarli con una certa attenzione. E adesso che aveva messo un po’ di tette ecco che Simon se ne usciva con quella storia. — Non le hai toccate — ribadì Michael, che ora sembrava più sicuro. — Forse era un sogno e le mani ce l’avevi nelle tue mutande, altroché. — Credi quello che ti pare, Mick! Ma le mani nelle mutande ce l’ho messe dopo — rise Simon, facendo scoppiare a ridere anche David che gli diede il “cinque” e si buttò all’indietro, con la schiena sul terreno. — Grande amico — esclamò David. — Ce le hai messe dopo, ah ah! — Stupidi — commentò Michael. — Allora facciamo che gliele tocchi un’altra volta quando ti possiamo vedere, così siamo sicuri che non ci racconti le solite stronzate come quella di tua zia che piscia con la porta del bagno aperta.

— O quella di tuo padre che si è inculato il tacchino quando tua madre aveva le cose sue — intervenne Jeff. Per un minuto risero tutti e Simon si innervosì, ma senza replicare. — Sei un cazzaro, Simon — incalzò Michael. — E io sarò il primo a toccare le tette di Mariah. E l’unico! — Ormai puoi essere al massimo il secondo — puntualizzò Simon. — Le palle che racconti non contano amico — disse alzando le mani e chiudendole a coppa. — Conta solo mettere queste al posto giusto. E non credo che una come Mariah le sue belle tette le spreca per uno come te. — Detto questo si alzò e, voltando la testa di lato, sputò a terra, a pochi centimetri dalle gambe di Simon. — Stronzo — biascicò questi. — Ah ah — rise Michael — le tette, sì, le hai toccato le tette. Imbecille! Andiamo David, torniamo a casa, forza. Jeff rimase seduto a terra mentre i due ragazzi se ne andavano a i lenti, continuando a ridere tra di loro. Immaginò che Michael stesse ancora prendendo in giro Simon, ma non poteva esserne sicuro. — E come sono le tette di Mariah, eh? — chiese all’improvviso, fissando il volto afflitto dell’amico. Simon alzò le spalle. — E cosa vuoi che ne sappia — rispose, ridendo. Anche Jeff rise. — Allora aveva ragione lui! — Proprio così — disse Simon alzandosi — ma lui non lo sa. E lo lascerò col dubbio per un bel po’, tanto non può di certo chiederlo a lei, no? — Non lo farà — convenne Jeff. — E poi… — Sì — disse Jeff, notando che l’altro si era bloccato.

Simon scosse la testa come per scacciare un qualche pensiero, ma non disse nulla. — Non ti fidi di me? — Ma no, lo sai che sei l’unico di cui mi fido è che… — … — … non è niente, dai, è che mi innervosisco sempre quando Michael mi prende per scemo, lo sai. Jeff si alzò e gli diede un colpetto scherzoso sulla spalla. — Lo fa con tutti, non te la devi prendere. — Se solo fossi più alto di tanto così gli farei vedere io se trova ancora il coraggio di sfottermi! — Magari un giorno lo picchiamo in due, che ne dici? — propose Jeff per farlo ridere. — Perché no? In due ce la facciamo, no? Jeff annuì. — Io dico di sì e… — Dimmi. — Ti va di venire un po’ a casa mia? Non c’è nessuno adesso e magari guardiamo qualcosa alla tv. Simon ci pensò qualche momento, quindi annuì. — Ma non posso fare tardi, sennò mia madre m’ammazza, stasera. — Puoi dirle che hai perso tempo per toccare le tette a Mariah… secondo me ne sarebbe contenta. — Oh, sì — rise Simon — molto contenta!

1979, oggi…

Jeff sente di poter crollare da un momento all’altro. Sono mesi che non marcia e quel giorno sembra davvero interminabile, avanti e indietro per il piazzale della caserma, un-duè, un-duè tutto il santissimo giorno, senza un momento di pausa. Solamente per un cazzone di generale tedesco che sarebbe venuto in visita il prossimo giovedì. Sbuffa, non appena il sergente maggiore che guida il plotone ordina l’alt. Sente qualcuno alla sua destra borbottare qualcosa. Sono tutti stanchi, non solo coloro che sono fuori allenamento. Anche le reclute sembra che arranchino, eppure loro sono settimane che non smettono di pestare i piedi lungo il cortile della caserma. Per fortuna non è una giornata molto calda, ma lo stesso sente i piedi infocati e un dolore acutissimo sotto la pianta destra. Una stramaledetta vescica, pensa, stringendo le labbra stizzito. — Per oggi basta così — comanda il sergente Houston, puntellando le mani sui fianchi. — Anche se ho visto paraplegici marciare meglio di voi. — Un momento di silenzio, mentre il sergente fa scorrere lo sguardo sulla prima fila, poi risale lungo il lato destro e, quasi volesse fissarli a uno a uno, avanza lentamente scrutando tra le fila serrate. — Domani mattina riprendiamo — dice mentre a dietro l’ultima fila. — Prima dell’alzabandiera ate in armeria per il ritiro delle armi, ci siamo capiti? — Signorsì, Signore! — L’urlo esplode come una sola voce. Jeff sorride. Ammaestrati, semplici marionette pronte a muoversi se i fili vengono tirati. Non è quello il modo per trovare i propri limiti. Pensa a suo padre, dall’altra parte del mondo. Quasi non sente il “rompete le righe” gridato dal sottufficiale, ma il primo spintone che riceve lo riporta in sé. — Andiamo, Jeff — sbotta qualcuno alle sue spalle. — Non dormire in piedi. — Arrivo — risponde, anche se non ha capito chi ha parlato. Arrivo, dove?, si chiede, scrollando le spalle. Abbassa l’arma e finalmente può riposare almeno le braccia. Quando durante l’addestramento gli avevano detto quanto pesava quel fucile si era fatto una risata. Solo sei chili? Avevano riso un po’ tutti, al pensiero che quei sei chili potessero diventare un problema. Ora Jeff sapeva che era più di un problema: era un vero incubo. Già dopo un quarto d’ora sembrava di avere in mano un macigno. E a fine giornata i muscoli erano così tesi e stanchi che solo

stendere le braccia per posare l’arma a terra era un movimento troppo doloroso e straziante. Sei chili… alla fine però la cosa era diventata quasi divertente, un gioco tra di loro. Quando c’era da fare qualcosa di pesante o palloso si prendevano in giro proprio a quel modo. Ma dai, diceva sempre qualcuno, sono solo sei chili. E giù tutti a ridere. Vaffanculo, pensa Jeff. In quel momento non ha per niente voglia di ridere. Segue gli altri verso l’armeria. È ora di rimettere quei sei chili al loro posto. Dopo venti minuti è in camerata. Per fortuna la sua compagnia è deserta. C’è solo lui, il caporale Grant e due magazzinieri. Per il resto solo militari di aggio, disgraziati a so per le caserme della Germania e finiti lì chissà per quale oscuro motivo. Così è solo quando sale al secondo piano della sua palazzina. E le docce sono vuote. Quando apre l’acqua calda il rumore dello scroscio sul pavimento echeggia lungo i corridoi. Sembra così intenso che immagina si possa sentire anche al piano di sotto, e a quello sotto ancora, fino al piazzale… un-duè… Appende l’accappatoio a un gancio e si immerge sotto quel diluvio di acqua calda. Chiude gli occhi e piega la testa all’indietro, socchiudendo la bocca. È troppo stanco per pensare di insaponarsi. Adesso vuole solo rimanersene qualche minuto immobile e lasciare che tutto scivoli via, fino alle maledette fogne di quella caserma di merda. Sospira e gorgheggia con l’acqua che gli riempie la bocca, poi china la testa in avanti e allunga una mano per prendere il sapone. — Faccio io? Jeff sobbalza e grida, spalancando gli occhi. Allarga le braccia e per poco non cade rovinosamente a terra. Riesce a reggersi a un corrimano. Grant è a un o da lui e lo guarda sorridendo. — Cazzo ci fai qui? — sbotta Jeff. Sente il cuore che martella nel petto. Ha preso uno spavento fottuto. — Ero in ufficio da solo e ho pensato di venire a fare due chiacchiere — mormora.

Solo in quel momento Jeff si rende conto che anche l’altro è in accappatoio. Fa un o indietro e torna sotto al getto caldo. — Mi hai quasi fatto morire. — Mi farò perdonare — dice Grant, allargando le braccia e facendo aprire l’accappatoio su un’erezione turgida e prepotente. — Che ne dici? Jeff sorride. — Non sarà facile — dice. — Ho la testa dura. Richard Grant fa mezzo o in avanti e con una mano si sfiora l’uccello. — Hai la testa dura? Mai come la mia — sussurra, indicando il pene eretto. Poi ancora mezzo o e pure lui è sotto la doccia. I loro sessi si sfiorano, poi anche le bocche sono una vicina all’altra. Jeff socchiude la bocca quando sente la punta della lingua di Grant sfiorargli le labbra. Nello stesso istante glielo prende in mano e lo stringe con forza. Una vera testa di cazzo, dannatamente invitante. Alla fine, pensa, non si è sbagliato. E in qualche modo anche Grant doveva essere più scaltro di quanto non sembrasse. Jeff non si aspettava che fosse lui a fare il primo o. Quando Grant gli afferra il pene Jeff geme e spinge a fondo la lingua della bocca dell’altro. Poi Richard appoggia le mani sul corrimano e gli dà le spalle e Jeff capisce che anche l’altro ha una dannata fretta di farsi una bella scopata. — Fammi male — mormora Richard. — Con piacere — garantisce Jeff. — Con vero piacere. Poi glielo sbatte dentro.

1973, ieri…

Per fortuna Jeff aveva trovato dell’aranciata in casa, altrimenti non avrebbe potuto offrire niente a Simon. Non che avrebbe fatto molto la differenza, ma di solito ogni volta che capitava a casa di qualcuno la prima cosa che facevano era offrirti qualcosa da bere. Per spezzare l’imbarazzo iniziale, aveva capito Jeff in quel momento, mentre osservava l’amico sorseggiare dalla lattina con gli occhi fissi al televisore.

— Secondo te cosa sta pensando adesso Michael? — chiese Simon a un certo punto. Voltò la testa distogliendo finalmente l’attenzione dallo schermo e gli sorrise. Jeff fece spallucce. — A volte dubito anche che pensi, figurati! — Ah, vero, lo sai che qualche volta me lo sono chiesto anche io? Simon piegava la testa all’indietro con un leggero scatto ogni volta che rideva. Le prime volte quel gesto aveva fatto sorridere Jeff, ma ora ci era talmente abituato che non ci faceva quasi più caso. Michael una volta lo aveva preso in giro piuttosto pesantemente e lo aveva fatto addirittura piangere, ma era ato un po’ di tempo da quella volta e poi quasi nessuno ne aveva più parlato. Certi screzi terminano ancora prima di iniziare e spesso finiscono dimenticati. — Solo perché ha un anno più di noi — riprese Simon — crede di essere chissà cosa. — È così — ammise Jeff. — Ma dobbiamo solo ignorarlo per qualche anno, no? Poi questa differenza vedi dove va a finire! Simon sorrise, sorseggiando ancora un po’ d’aranciata, poi per un momento sembrò che i suoi pensieri si perdessero altrove, occhi persi nel vuoto, in un punto imprecisato tra loro e la televisione, qualche metro più avanti. — Non ti piace Mariah, vero? — chiese Jeff all’improvviso, fissandolo con insistenza. Simon non rispose subito. Sembrava ancora altrove, in chissà quale riflessione. Per un momento però tentennò, come se avesse dovuto stoppare una risposta di getto, la risposta sincera. Alla fine, prima di parlare storse la bocca in una piccola smorfia. — Direi di no. — No, eh? Alzò le spalle, poi finalmente si decise ad alzare la testa e a incrociare lo sguardo di Jeff. — No, non mi piace. Jeff poggiò la lattina sul tavolino ai piedi del divano e si avvicino di mezzo metro. Adesso le sue cosce sfioravano un ginocchio di Simon. Questi si ritrasse un momento, ma Jeff con uno scattò gli afferrò un mano e lo costrinse a guardarlo ancora dritto negli occhi.

— Non è di Mariah che stiamo parlando, vero? — chiese, poi con la mano libera sfiorò la coscia dell’amico e per un breve istante lo sentì rabbrividire. Simon scosse la testa e non disse nulla. Sembrava sul punto di piangere, ma si trattenne con caparbietà. — Non ti piacciono nemmeno un po’, l’ho capito… — mormorò Jeff, spostando il petto in avanti e avvicinando il viso a quello dell’amico, mentre la mano adesso era completamente sulla coscia e saliva leggermente. Simon si tirò indietro, ma non di molto. Quando la mano di Jeff arrivò in alto si accorse dell’eccitazione dell’altro e gli sorrise. — No, credo che non ti piacciano proprio. — Non mi piacciono — rispose timidamente Simon. Jeff intuì nell’amico un misto di terrore e dubbio. La paura di quello che stava provando e il dubbio che lui non fosse sincero, che lo stesse solo mettendo alla prova. Per questo, decise di rompere gli argini dell’imbarazzo e fugare ogni incertezza. Senza che l’altro potesse reagire si spinse in avanti e lo baciò, quasi sbattendo troppo forte contro di lui, labbra sulle labbra, respiri fermi a metà del petto, cuore come un martello che non smette di battere e battere e battere… Fu un bacio timido, ma niente male. Questo era quello che pensava Jeff. E quello che leggeva nel volto teso di Simon. — Non baci niente male — scherzò Jeff e finalmente l’amico riuscì a sorridere. — Non l’ho mai fatto prima. — Nemmeno io. — Intendo… non solo con un ragazzo… mai mai, dico. — Nemmeno io — disse di nuovo Jeff. Simon scosse la testa arrossendo di colpo, come se solo in quel momento si rendesse conto di quanto era successo, della mano di Jeff ancora ferma sulla sua erezione, prepotente sotto i pantaloni. — Anche tu baci bene. — Allora dovremmo riprovare ancora, no?

— Si può fare — accettò Simon e si avvicinò al volto di Jeff, allungando anche lui una mano verso l’eccitazione che scalpitava. Poi avvenne tutto molto in fretta. Quando Jeff si lasciò andare all’indietro, uscendo dal corpo del suo amico, sentiva un brivido corrergli lungo tutta la schiena. Gli era piaciuto. Sì, non era stato niente male. Mancava qualcosa, certo, non era stato perfetto. Però nemmeno niente male. Chiuse gli occhi e per un momento provò a cacciare via le immagini che di solito gli facevano compagnia nella mente. Alcune svanirono. Non tutte, ma molte sì. Certe volte, capì, era possibile mandarle via, lontanissimo. Ma non sempre sentiva il desiderio di liberarsene. Troppo spesso quello che immaginava era davvero troppo interessante. Simon sospirò. — Niente male — mormorò anche lui, per l’ennesima volta. — Davvero niente male, Jeff.

1979, oggi…

Nella stanza c’è silenzio. Jeff è fermo sull’attenti. Accanto a lui, il caporale Richard Grant è una statua di marmo, immobile. Jeff crede che non stia nemmeno respirando. Poche ore prima l’ha visto piangere e non avrebbe mai pensato di vederlo crollare a quel modo, non il duro, lo spavaldo Grant. Mesi e mesi a dare una certa immagine di sé e alla prima occasione, al primo o verso un se stesso più vero, ecco quello che era successo. L’ufficio del colonnello è quasi in penombra. Jeff ci è stato solamente una volta e non per essere punito. Mentre attende che l’ufficiale si decida a parlare sbircia il maresciallo con la coda dell’occhio. Anche lui è sull’attenti, ma la sua posizione è più naturale della loro. Non c’è timore in quel saluto, solo ferrea determinazione. Sente quasi la necessità di sorridere, Jeff, mentre ripensa al momento in cui il maresciallo Somers è entrato nelle docce. Un normalissimo e fottutissimo controllo. Quella settimana svolgeva l’incarico di ufficiale d’ispezione e stava completando il giro per le varie compagnie. Merda, avevano beccato proprio uno dei pochi in tutta la caserma ligi al dovere. Poteva starsene

comodamente a fare una partita a biliardo con gli altri colleghi e invece… Tempismo perfetto. Lo aveva pensato nel preciso istante in cui lo aveva sentito gridare, Jeff. Perché in quel momento aveva capito di non poter controllare l’orgasmo, aveva stretto le mani attorno ai fianchi di Richard e aveva liberato tutto se stesso in un gemito animalesco. Poi Somers aveva gridato una volta ancora e in quel momento anche il caporale Richard Grant, colui che tutti avevano preso a modello di virilità maschile e che era piegato in avanti con un regalo tra le chiappe, aveva capito che al gemito di godimento di Jeff si sovrapponeva quello sbigottito di un superiore. Adesso sono tutti e tre davanti al colonnello William Charles Garrison. E quel silenzio prosegue, si distende poggiandosi su interminabili secondi e minuti e… — Maresciallo Somers — dice il colonnello senza alzare la testa. Sta firmando alcuni documenti e sembra intenzionato a finire quello che sta facendo, lasciando alla fine di tutto quell’incombenza spiacevole. — Comandi! Ancora qualche istante di attesa, poi finalmente gli occhi di Garrison trovano quelli di Somers. — Quello che ho dovuto sentire è decisamente grave. Jeff osserva il maresciallo. È indeciso, non sa se deve commentare quanto detto dal superiore. Alla fine decide di no, annuisce senza dire nulla. Il colonnello Garrison si alza in piedi e a davanti alla scrivania, fermandosi a un o da Jeff e Richard. Non più vicino di un o, però, come se non volesse avvicinarsi troppo a due che… — La esento da ripetere tutto ancora una volta, Somers — mormora l’ufficiale. È un uomo alto e robusto, con due spalle da pugile e la mascella quadrata, bocca larga ma labbra fine. Jeff lo squadra con un certo interesse. Nonostante non più giovane, è un uomo decisamente interessante. Ma pensa che non è il caso di fargli un complimento del genere. Quindi si limita a stemperare il sorriso che sente nascere sul viso, approfittando del fatto che in quel momento il colonnello ha lo sguardo inchiodato su Grant.

Garrison allunga una mano e afferra la mostrina con il grado di caporale dal petto di Richard. La strappa con un gesto secco e la butta a terra, con stizza. Poi fa un o di lato e si ferma davanti a Jeff. Nessun grado da strappare, sul suo petto. Il colonnello sembra riflettere, poi fa un cenno col capo e infine scuote la testa con decisione. — La vostra carriera militare termina oggi — dice con fermezza non appena tornato al suo posto, dietro la scrivania. Ai lati ci sono le bandiere del reggimento. Alle sue spalle una finestra che apre sul piazzale. In quel momento sembra una spianata deserta, tutto il mondo è chiuso in quell’ufficio. — Ma… — balbetta Grant. — Non le ho concesso possibilità di replica, Grant — sbotta il colonnello. Jeff, sempre sull’attenti, si volta verso il ragazzo. L’ex caporale Richard Grant ha gli occhi lucidi. In quel momento inizia a piangere, ancora una volta. — Jeffrey Lionel Dahmer. — Garrison adesso si rivolge a lui. Ma l’etichetta è saltata. A quanto pare non è più un militare, quindi si limita ad annuire, in attesa che l’altro parli. Il colonnello si alza di nuovo e gli torna davanti. — Non è la prima volta che lei crea dei problemi. Il fatto che lei non sia mai stato portato a renderne conto davanti alla mia persona non significa che io non conosca bene le sue bravate. Lo sa di cosa parlo, vero? Jeff fa segno di sì con la testa. Parlava dell’alcol, delle volte che aveva bevuto un po’ troppo e i superiori lo aveva punito con giorni di consegna. A dire il vero c’era anche dell’altro, ma forse quello il colonnello non lo era venuto a sapere. — Sarò clemente, nonostante la situazione non lo richieda — riprende Garrison. — Il vostro congedo con onore sarà per motivi di… alcol. Diciamo che avete alzato il gomito una volta di troppo. — Poi si volta verso Grant e attende un suo cenno. Richard ha il volto rigato di lacrime. Annuisce, tremando. — Ora non dovete fare altro che preparare le vostre cose. Sarà il maresciallo

Somers a scortarvi all’aeroporto per assicurarsi che voi due torniate dritti a casa. Da oggi per voi inizia una nuova vita. I documenti del congedo saranno spediti direttamente presso le vostre abitazioni. — Una pausa, poi aggiunge: — Buona fortuna, anche se non sarà facile per voi avere la meglio sul demone che vi portate dentro.

West Allis

1987, oggi…

Musica e fumo sembrano riempire ogni cosa, ogni anfratto del locale. Jeff butta giù l’ennesimo whisky. Tutto d’un fiato, come una fottuta sfida con se stesso. Bum. E giù, fino all’ultima goccia. Tanto non sente nemmeno più il sapore di quel liquido giallognolo. Lo beve senza più un perché. Anzi, di perché ce ne sono troppi. Perché lo sballa, perché è un’abitudine e non sa dire basta, perché dopo sembra tutto diverso, migliore forse. Sì, dopo sembra tutto dannatamente migliore, anche quelle voci che non lo mollano un solo istante sembrano un’altra cosa. Anche se non vanno via. No, quelle proprio non vanno via. Non di certo con l’alcol, perlomeno. Un cenno al barista e il bicchiere è pieno ancora una volta. Tira fuori l’ennesima banconota e la getta davanti a sé quasi con disprezzo. L’uomo quasi non lo guarda. Intasca i soldi e a a servire un altro cliente. — Il prossimo te lo offro io — dice qualcuno alla sua destra. Jeff si volta lentamente. L’effetto di tutta quella merda che ha scolato si fa sentire, eccome. Sorride, anche se non ha ancora messo a fuoco la persona che ha parlato. — Mi stai simpatico, amico — riesce a dire, poi sente una pacca sulla spalla. — Ma mi prometti che è l’ultimo perché… Jeff cerca di drizzare la testa e finalmente lo inquadra. Un bel ragazzo, pensa. O forse è merito del whisky anche questo. Lo fissa meglio e sorride ancora una volta. No, niente alcol. È davvero un bel ragazzo. — L’ultimo? — domanda. L’altro sorride e fa l’occhiolino. — Mica vorrai crollarmi sul più bello, vero? — dice, e piega la testa di lato, alzando leggermente le spalle.

— Vorresti che ti crollassi addosso? — scherza Jeff che finalmente è scosso da un brivido di eccitazione e riesce a cacciare indietro la nebbia di troppi bicchierini scolati. — È così? L’altro allunga la mano — Mi chiamo Steve. Jeff per un momento scuote la testa, nella mente immagini lontane di un altro Steve, il corpo che cade a terra, il manubrio lasciato cadere di lato dopo innumerevoli colpi e poi… — Jeffrey — mormora, scosso. — Puoi chiamarmi Jeff. — Jeff — ripete l’altro. — Proprio così. — Stai proprio cotto, eh? — Fa un cenno al barista per offrire il suo giro. — Ora mi a — assicura Jeff. — Mezz’ora è torno in forze come un toro. — Ah, un toro — mormora Steve annuendo, poi scioglie un altro sorriso. — Un bel toro, sì. Aspettano che davanti a loro ci siano i due bicchieri colmi, poi quasi contemporaneamente li alzano per brindare. — A cosa? — chiede Steve. — A noi, amico — risponde Jeff senza esitare. — A cos’altro, sennò? — Hai ragione, Jeff. — Alza ancora di più il bicchiere e strizza ancora l’occhio. — A noi, allora. I bicchieri si sfiorano, ma il rumore del brindisi si perde nella cacofonia del locale. Poi bevono tutto d’un fiato, buttando le teste all’indietro. Steve dà le spalle al bancone e si poggia all’indietro con i gomiti. Osserva la sala, divertito. Jeff ne approfitta per osservarlo. Ha i capelli lunghi, di un colore piuttosto particolare. Forse per le luci soffuse del locale. Non sono biondi, non sembrano rossi. Una via di mezzo, decide, respirando a fondo per riprendersi da

quell’ennesimo bicchiere. Steve ha ragione: basta bere, per il momento, adesso deve rimanere lucido. Si mette anche lui nella stessa posizione dell’altro. Getta un’occhiata alla pista. Non balla mai, Jeff, però di solito se ne sta ore e ore a guardare quegli scalmanati che si dimenano a ritmo della musica. È in quel modo, di solito, che sceglie qualcuno, quando va per locali. Non sa di preciso cosa lo attiri, forse il modo di muoversi, forse un richiamo ancestrale che nemmeno lui sa definire. A un certo punto capisce che uno di loro è quello giusto. E al momento opportuno lo segue e… — Hai un po’ di roba? — domanda Steve all’improvviso. Sta per rispondere che ha un bel po’ di roba, ma si trattiene. Con lui vuole fare qualcosa di diverso. Non si accontenta di portarlo al bagno, stenderlo con qualche droga e incularselo mentre sta piegato sul cesso. No, Steve l’ha scelto e merita un trattamento speciale, migliore. — Con me no — mente. — Mmh — mugugna l’altro, scuotendo la testa e tornando a scrutare in pista. Forse sta cercando un altro, pensa Jeff, irritato. — Ma a casa ho una bella scorta e… All’improvviso Steve torna a prestargli attenzione. — A casa? Jeff annuisce. — Qui vicino, ci arriviamo anche a piedi in pochi minuti, se vuoi. Steve sembra pensarci un po’, poi scoppia a ridere, sovrastando il ritmo della canzone dei Def Leppard. — Un bel po’ di roba, eh? — Non mi faccio mancare niente. — Perché no? — Allora muoviamoci — dice Jeff, scollandosi dal bancone. L’altro lo blocca con una mano. — Aspetta, dai, che fretta c’è. Stiamocene ancora un po’ qui, ci spizziamo qualche bel ragazzone e poi appena non ne

possiamo più corriamo da te e ci sfoghiamo per bene, che ne dici? Jeff sorride. Quell’idea è abbastanza strana da piacergli quasi. Un po’ lo fa incazzare il fatto di dover rimanere lì a vedere il suo nuovo amico buttare gli occhi addosso a chissà quanti altri, ma non trova nulla per controbattere. — Okay, rimaniamo ancora un po’ — dice. — Ma non troppo, eh? — Hai fretta davvero? Jeff fa scorrere lo sguardo sul suo corpo, annuendo con decisione. — Be’, un po’ sì. — Anche io, ma mi piace l’attesa, amico — spiega Steve. — Allora aspetteremo ancora un po’, va bene. — Vedrai che avrà tutto un altro gusto quando saremo al limite, quando non ce la faremo più a resistere anche un solo secondo. Jeff alza le mani. — Basta così, mi hai convinto. Se dici solo un’altra parola o fai un’altra allusione perdo il controllo e ti salto addosso immediatamente, okay? Ridono tutti e due, mentre nel locale adesso si diffondono le note di Save our souls dei Mötley Crüe. Jeff si appoggia ancora al bancone. Resiste alla tentazione di farsi versare un altro goccio. Dopotutto Steve ha ragione: non può di certo tornare a casa sfatto senza la forza di reggersi sulle gambe. Prima un po’ di sano sesso, poi magari avrebbero ripreso a bere. Tamburella con le dita sul ripiano del bancone, mentre la canzone finisce e lascia il posto ai primi accordi di Bennie and the Jets. Dalla sala si alza un coro entusiasta di gradimento, poi tutti iniziano a muoversi al ritmo della voce di Elton.

Hey kids, shake it loose together The spotlight's hitting something That's been known to change the weather We'll kill the fatted calf tonight

So stick around You're gonna hear electric music Solid walls of sound

— Senti che ritmo, eh? — fa Steve, ballando come un matto a un metro da lui. — Sentirai dopo, amico! — Ah, te la canti troppo — lo becca — comincio a pensare che sei solo chiacchiere… Bennie and the Jetssssss! Jeff fa spallucce e ride. Infila una mano nella tasca della giacca e giocherella con le pasticche. Quella sera non ne ha ancora usate. Forse è per questo che sente quella voglia matta di affrettare i tempi e portarselo a casa. — Dopo mi dirai — replica, senza scomporsi. Steve fa un gesto con il braccio, sfottendolo, e si scatena ancora di più appresso alla musica. Un’ora dopo, stanco e sudato, decide che è il momento per andare.

1964, ieri…

— Ti prego Lionel — piagnucolò Joyce. — Questa puzza è davvero insopportabile, Lionel… Lionel alzò le braccia chiedendole con un gesto di tacere. — Sta bene — disse appena la moglie ebbe finito di lagnarsi. — Hai ragione, cara, vado subito a vedere da dove viene quest’odore. — Non lo chiamare odore, Lionel, questo non è un odore — riprese con voce stridula. — È un puzzo terribile e devi fare qualcosa al più presto, prima che…

—Basta, Joyce — gridò Lionel, colpendo lo stipite della porta della cucina con il palmo della mano. — Ti ho detto che sto andando a controllare. Ti ho detto che hai ragione, che devo scoprire da dove viene questo odor… questa puzza, okay? Per favore però smettila per un secondo di lamentarti, che ho la testa che sta per esplodere. Joyce era ferma nel mezzo della cucina, con le mani all’indietro poggiate a una sedia. Per un momento sembrò che si fosse convinta a tacere, ma poi riprese col solito isterismo. — E la mia, di testa, eh? Pensi che faccia male solo a te la testa… magari senza questo schifo che arriva alle mie narici potrei sperare che l’emicrania mi i prima che io vada a dormire questa sera e… Lionel si voltò senza neanche la forza di mandarla anche solo a quel paese. ò davanti al divano del soggiorno e vide la testa di Jeff fare capolino da dietro la seduta. Provò a sorridergli, ma immaginò di essere riuscito in qualcosa di non più gradevole di una smorfia. — Papà va fuori a combattere contro i mostri della puzza — riesce a scherzare. — Vengo anche io! — esclamò Jeff, balzando in piedi sul divano. Lionel scosse la testa. Il suo non era né un sì, né un no. In fondo non gli interessava nulla. L’importante era allontanarsi dalla voce assordante della moglie e debellare quell’odore che la mandava in escandescenze. Si sbatté la porta alle spalle, uscendo, e puntò dritto a una piccola dependance dove teneva qualche attrezzo. Recuperò un paio di guanti e un rastrello, poi si riavvicinò all’abitazione e si inginocchiò per controllare l’intercapedine tra il terreno e la casa. Era uno spazio stretto e non avrebbe potuto infilarsi là sotto. A dire il vero una volta ci aveva provato, ma era quasi rimasto incastrato. Così l’unica speranza adesso era che la fonte di quella puzza fosse abbastanza a portata di mano - o di rastrello - così da risolvere tutto in pochi minuti. — Saranno ancora una volta quelle maledette verrene — borbottò non appena sentì i i della moglie che si avvicinavano. Lo sapeva che non avrebbe resistito in casa. Doveva sorvegliare le procedure di recupero e pulizia, altrimenti non sarebbe mai stata tranquilla che tutto fosse stato fatto nel migliore dei modi. Lionel sbuffò e cercò di infilare la testa nell’intercapedine. — Non vedo nulla, accidenti. Vammi a prendere una torcia, Joyce, per favore. La donna si allontanò borbottando qualcosa, ma cercò di ignorarla. Quando

tornò gli porse la torcia e finalmente capì di avere ragione. — Ah, come non detto! — Ti riduci sempre all’ultimo momento, Lionel e… — Zitta, Joyce, zitta, o lascio queste carogne qua sotto, eh? Sapeva che era una minaccia debole, ma bastò a zittire la moglie. Lionel afferrò il rastrello e lo allungò sotto la casa, cercando di raggiungere le carcasse di animali che aveva illuminato con la torcia. Quelle maledette verrene andavano a consumare i loro pasti là sotto, lasciando sempre i resti delle prede a marcire. — Ecco — disse dopo un po’. — Ci sono arrivato, adesso porto tutto fuori e… — E poi mi auguro tu faccia sparire tutto piuttosto in fretta, Lionel, perché… Lionel diede uno strattone al rastrello, con rabbia, e insieme all’attrezzo dall’intercapedine volarono fuori i resti di chissà quali animali, ormai perlopiù irriconoscibili. Ossa sbiancate dalle bocche fameliche di quei carnivori, pelle secca e resti ancora da consumare che puzzavano quanto la morte. Senza perdere tempo Lionel balzò in piedi e si fermò a un o dalla moglie. — Joyce — gridò, alzando le mani davanti alla faccia. — Basta, ti prego, non ce la faccio più a sopportare la tua pazzia. — Io non sono pazza, caro, cerca di ficcartelo in testa, capito? Tu ti confondi troppo spesso con la tua inadeguatezza a… — Inadeguato? Ma cosa devo sentire, Joyce? Non sono di certo io quello che deve prendere oltre venti pasticche al giorno, no? Sono io, Joyce? Dimmi! — Non ti permetto di parlarmi così, adesso… se ti fossi dedicato maggiormente a tuo figlio invece che are tutto il tuo tempo a lavoro forse adesso saresti tu a dover prendere tutte queste medicine, capito? — Ah — urlò Lionel esasperato. Si mise le mani sulla testa e ruotò su se stesso, chiudendo gli occhi. Quando li riaprì per un momento non seppe se ridere o preoccuparsi. — Jeff — disse — cosa stai facendo? Il bambino era seduto a terra e si voltò sorridendo verso di lui. Anche Joyce

aveva smesso di gridare. Lionel fece un o verso suo figlio e si chinò. — Cosa stai facendo? — chiese ancora. Jeff sorrise a alzò le spalle, poi tornò a piegarsi in avanti. Stava giocherellando con le ossa sbiancate delle carcasse che Lionel aveva tirato fuori dall’intercapedine. Nelle manine stringeva due piccoli ossicini bianchi e li usava come se fossero dei bastoni per suonare la batteria. — Bum, bum, bum — canticchiò, a ritmo col tamburellare. — Jeff — disse Lionel accarezzandogli la testa. Poteva sentire il respiro agitato di sua moglie, un paio di i più indietro. Temeva che potesse sbottare ancora all’improvviso, dopotutto vedere il proprio figlio giocare con le ossa di un animale morto non è uno spettacolo piacevole. — Jeff, non si gioca con questi. — Perché? — domandò il piccolo. Non si voltò verso il padre, continuando a giocare spensierato. — È solo un gioco, per lui — disse Lionel guardando il figlio. Ma era chiaro si stesse rivolgendo a Joyce. Sorrise davanti alla spensieratezza del bambino, quindi si allungò e afferrò gli ossi che stringeva nelle mani, costringendolo a lasciarli. — Torniamo dentro casa, Jeff — disse, prendendolo in braccio. Quando si voltò la moglie sembrava paralizzata. — Non vorrai mica lasciare quello schifo lì a terra vero? Lionel sbuffò scuotendo la testa. — No, porto Jeff in casa poi torno a sistemare tutto. — Guadò suo figlio e quasi si commosse quando questi gli restituì un sorriso gentile e spontaneo. — Non si gioca con gli animali morti, capito? — Ma era divertente! Lionel avrebbe voluto replicare, ma non sapeva cosa dire. Entrò in casa e lasciò suo figlio sul divano, poi tornò di fuori. Finalmente Joyce aveva smesso di gridare. Puntò lo sguardo sulle carcasse a terra, su quelle ossa bianche che nelle mani di un bambino potevano ancora diventare un gioco. Sorrise. Un gioco. Già, per i bambini era sempre tutto un gioco meraviglioso. Perfino le ossa di un cadavere. Quindi raccolse il rastrello e si rimise al lavoro.

1987, oggi…

Jeff apre gli occhi di scatto, nella mente alcune immagini delle ultime ore, il ritorno a casa, un po’ d’erba, qualche pasticca di quelle toste e… qualche altro drink prima di cominciare a strappare i vestiti di dosso, poi le bocche che si cercavano, le mani che non riuscivano a rimanere lontane dai corpi, quella maledetta voglia irrefrenabile e… Steven aveva dimostrato di saperci fare, senza dubbio. Sospira, Jeff, sentendo che quei pensieri lo stanno eccitando ancora una volta. E sorride, perché sa che può allungare una mano e il corpo di Steve è ancora accanto a lui. Silenzioso, un amante stanco, ormai. Dalla finestra giungono ancora i rumori ovattati e la cupa luminescenza della notte. L’alba è ancora lontana, anche se sembrano ate intere ore di ione. Non ricorda a che ora hanno lasciato il locale, ma non doveva essere troppo tardi. Si volta verso il compagno e scruta i lineamenti del viso alla luce tagliente che proviene dalla finestra, un lampione poco distante, in strada. Luce eburnea, morbida e fredda allo stesso tempo. — Ehi — sussurra e lo punzecchia a una spalla con due dita. Freddo e morbido, come la luce. Immobile come la notte. Si alza sui gomiti e lo osserva meglio. E trattiene il respiro, quando vede l’espressione contratta del viso, quell’immobilità estrema, lo sguardo vitreo degli occhi leggermente aperti. Lo sfiora ancora. Freddo. Troppo freddo, cazzo. — Steve — mormora, alzandosi in ginocchio e accendendo la luce sul comodino. — Cazzo! Il volto è tumefatto. Fa scivolare le coperte dal corpo e vede i segni sul petto. Lividi ovunque, segni rossi e viola che si abbracciano sulla pelle del ragazzo,

strie di un dolore affogato nell’amplesso. Jeff scuote la testa. Cerca di ricordare. Ma certe immagini sembrano fuggire, si rifugiano in recessi segreti della mente. Sa che ci sono, devono esserci, se Steve è ridotto a quel modo, ma trovarle, merda, è impossibile. Scende dal letto e pensa rapidamente. Calma, si dice, calma. Alla fine avevano optato per una piccola camera a ore, ma adesso quella poteva diventare una trappola. fortunatamente in certi posti non era necessario lasciare nomi. Bastava pagare e via… le ore di trasgressione erano assicurate. Ma ora ha pochissimo tempo per risolvere quella questione, visto non può certo lasciare un cadavere in quel letto. Raccoglie le sue cose ed esce dalla stanza. La casa della nonna è a pochi i. In cinque minuti prende la macchina e torna indietro. Le camere del motel danno tutte sull’esterno, con un parcheggio riservato per ogni stanza. La notte ha ancora qualche ora di vita e non è il caso di perdere tempo. A quell’ora in giro c’è solo qualche tossico e i soliti ubriachi, ma in quel momento la via è deserta. Rientra nella piccola stanza e fissa di nuovo il corpo nudo e martoriato di Steve. Sorride, suo malgrado, perché dopotutto le sensazioni che ha sono positive. Peccato solo non ricordare quello che è successo. Poteva essere uno di quei ricordi da portarsi dietro per lungo tempo, ma… Lo avvolge nelle lenzuola e dà un’altra occhiata alla strada. Quando è sicuro che non c’è nessuno si mette il corpo su una spalla e lo scarica sul sedile posteriore dell’auto di sua nonna. West Allis è una città tranquilla dove tutti conoscono tutti, quindi sente che quello che sta facendo può metterlo seriamente in difficoltà. Si affretta, risale in macchina, avvia il motore e parte senza far slittare le ruote sull’asfalto. Si rilassa nuovamente solo quando il corpo del ragazzo è sul pavimento della cantina. A pochi metri di distanza, ignara di tutto, la nonna dorme. Spera proprio di non ricevere sorprese, perché ora sente di avere un po’ da fare. Sorride, e si avvicina a una cassetta degli attrezzi. Estrae una sega e un grosso martello. Guarda quegli oggetti annuendo soddisfatto, poi si riavvicina al corpo di Steve. Deve fare in fretta. Forse non riuscirà a godere appieno di tutto quel lavoro. È sudato, quando termina di tranciare braccia e gambe. Osserva il volto sereno, con ancora quella piccola smorfia che deve aver assunto in punto di morte.

Soffocato? Prova a ricordare, ma le immagini non vogliono tornare. Poi a un dito sui segni lividi che ha sul petto, giocando su quei disegni arcani che sembrano la formula segreta di chissà quale rito e invece, solo sangue e dolore. Forse sono state le percosse al petto a ucciderlo. Sputa, Jeff, stizzito. Cazzo è il secondo cadavere di uomo che ha tra le mani e l’altro è quasi perso nei vicoli buî del tempo — così tanti anni addietro — che sembra un peccato non poter ricordare cosa è successo nelle ore precedenti. Poi lascia che lo sguardo indugi ancora sul moncherino nudo che è ai suoi piedi. Il pavimento è zuppo di sangue. Dovrà pulire prima che la nonna decida di scendere là sotto. Fissa gli occhi sul pene floscio dell’altro e come reazione sente montare l’eccitazione. Sì, Steve è ancora un bel ragazzo, ancora in grado di farlo scaldare. Sorride e afferra quello che rimane del corpo dell’altro per i fianchi e lo volta, adagiandolo sulla pancia. Afferra i glutei freddi e li scosta, gustando l’intimità di quel ragazzo che così ionalmente aveva goduto del suo corpo. Poi capisce di non poter resistere oltre. Slaccia i pantaloni e si abbassa le mutande. Si sente esplodere, si sente carico di ione, di una voglia impossibile da dominare, una foia animalesca che mai prima d’ora l’ha dominato. Sa che solo una cosa può saziarlo. Solo una cosa. E allarga di nuovo i glutei di colui che era Steve, di colui che da vivo era stato un amante davvero super. E pure da morto non è niente male. No, niente male.

L’arte del profondo

1988, oggi…

Jeff tiene lo stereo a tutto volume. Anche se nella testa le immagini sono ancora confuse dalla quantità di alcol che è riuscito a scolare e l’emicrania sembra ormai un amico che non vuole lasciarlo. Sempre lì, pungente, pronto a ricordargli che ogni nuovo sorso di quella merda che manda giù è solo un’altra stilettata al suo stomaco. Musica alta e mal di testa. Una combinazione assurda, ma per il momento non ha né la forza né la voglia di alzare il culo dal divano per abbassare lo stereo, con la radio che in quel momento sta ando un pezzo dei Deep Purple. Ma Jeff non lo riconosce. Non ha proprio sufficienti energie per concentrarsi sulla musica. Sono solo suoni - rumori - che lo martellano e lo tengono lì, inchiodato con le braccia incrociate sulla faccia, a cacciare via quel po’ di luce che le prime ore del mattino piscia dentro la stanza attraverso le finestre. Ma forse potrebbe trascinarsi vero la bottiglia di rum. L’ha lasciata lì da qualche parte, proprio… ci pensa, ma non la vede, nemmeno pescando a caso nei ricordi confusi che spintonano idee e concetti in quel marasma che ha nel cranio. Sorride. Cranio. Ha pensato proprio cranio. Sospira, riflettendo sul fatto che non vuole proprio are tutta la dannata giornata a sbattersi di nulla su quel divano. Ha un lavoro da finire. Un lavoro che sta venendo niente male e che non può lasciare in sospeso. L’arte del profondo. Ha sempre pensato che dentro aveva delle riserve di qualcosa che non aveva mai saputo definire. Nel profondo, dove nessuno riesce a vedere. Non suo padre. Figuriamoci Shari, così preoccupata a fare da balia a un marito che da troppo tempo aveva perso il controllo di quel figlio un po’ strano. — Lei è Shari… Lo riesce a vedere anche in quel momento, Jeff. Suo padre con la solita

espressione a metà strada tra lo smarrimento e l’indecisione. Alle sue spalle quella donna, che già al primo sguardo dava l’idea di essere la parte forte, la parte con le palle, in quella coppia nata dalle ceneri di un matrimonio tracollato. — Lei è Shari… Con quel modo tutto suo di stare lì a guardare, aspettando una reazione dal figlio. Jeff ce l’ha davanti anche in quel momento, suo padre, tra la musica che continua a pugnalare il cervello martoriato da rum, whisky, vodka e una miscela di altre cose che ora non ricorda. — Ciao, Shari — era stata la risposta di Jeff. E solo in quel momento il padre aveva iniziato a rilassarsi, a capire che non sarebbe successo niente di strano. Il resto è confuso e non lo ricorda con esattezza. Forse non c’era stato molto altro, quel giorno. Suo padre imbambolato e perso in chissà quali preoccupazioni. Shari un po’ distante a osservare il figlio maggiore del suo compagno. Jeff a fare are il tempo nell’attesa che quel momento di inutile imbarazzo si volatilizzasse. Adesso, mentre la luce da fuori precipita sempre con maggiore intensità nella stanza e la radio ha iniziato a suonare i Lynyrd Skynyrd, quei ricordi svaniscono anche nel presente, fagocitati dal dolore alla testa, dalla voglia di bere e dalla necessità di rimettersi in moto, di portare a compimento la sua opera d’arte, attingendo ancora una volta a quel profondo che era ricettacolo di tormenti e pensieri a dir poco eccitanti. Si alza a sedere e per un momento deve resistere a una vertigine. Non cede, però. Ributtarsi giù è davvero troppo facile e scontato, ma sa che se si lascia andare non troverà di nuovo la forza di scollarsi dal divano. Ricorda poco della notte, ma il disordine che c’è in giro sembra uno specchio dell’euforia delle ore buie. Lattine di birra sono un po’ ovunque, così come bottiglie ormai vuote dei liquori che hanno scolato e… I liquori che hanno scolato. Hanno, già. Magari riuscisse a ricordare pure chi c’era in casa con lui. Vede ombre, voci che echeggiano per le stanze in echi disordinati. Sesso, questo lo ricorda, non è mancato. Come non manca mai la musica e qualcosa di forte da bere.

Inspira gli odori che ancora aleggiano nella stanza, socchiudendo gli occhi. Quello che non riesce a ricordare lo immagina. Certe volte, tanto, la fantasia segue percorsi decisamente più interessanti. Con un ultimo sforzo di alza in piedi e muove i quattro i che lo separano dallo stereo. La musica svanisce mordendo la voce di un Billy Joel in uno dei suoi pezzi tutto ritmo e pianoforte. E il silenzio prende possesso di ogni angolo, scacciando per un momento anche il rumore di fondo che Jeff si porta sempre appresso, nella testa. Una specie di fruscio, a volte qualche mormorio. Ma adesso è solo silenzio, intenso, marmoreo, in solcabile, un vinile vergine che attende l’inizio dell’incisione. Poi Jeff sente il cuore battere nel petto e tutto ricomincia a vivere e a muoversi. Bum. Bum. Bum-bum. E l’emicrania, senza l’effetto anestetico della musica, adesso sembra insopportabile. Pensa che ci vuole una bella pasticca. O un altro goccio. Tutt’e due, riflette, cercando di regalare un sorriso al volto che vede riflesso nell’anta a vetro del mobile del soggiorno. Ombre scure tagliano in due il viso. Occhiaie e guance scavate, capelli arraffati e incollati alla fronte dal sudore. Neanche lui riesce a vedere dentro se stesso, perché dovrebbero riuscirci gli altri? Barcolla per casa qualche minuto e alla fine decide per una doccia. Prima apre l’acqua calda e cerca di rilassarsi, poi all’improvviso a a un getto gelido e grida come un matto per resistere senza scappare. Poi il grido si trasforma in una risata gracchiante. Dopo un’ora da che si è trascinato giù dal divano sente di essere abbastanza lucido, quanto basta per lo meno per recuperare quel po’ di sana pazzia dagli angoli buî del suo io e rimettersi al lavoro. Ha lasciato la sua opera d’arte nella camera da letto, sulla scrivania. Si sente felice non appena vede quello che ha realizzato. Sospira e tira indietro la sedia, rimettendosi in postazione. Ammira il cranio senza riuscire a trattenere un sorriso di soddisfazione. Con i polpastrelli sfiora l’osso dove ancora non ha ato la tempera e socchiude gli

occhi, saggiando quel delicato contatto. Sono settimane che ci pensa. Ma la prima volta che lo ha preparato, lasciandolo bollire per oltre un giorno per liberarlo di tutti i residui organici, si è bloccato col pennello in mano, senza iniziare. Non aveva trovato l’ispirazione, l’arte, nascosta nel profondo di sé, non lo aveva assecondato, quella volta. Così aveva deciso di attendere e aveva rimesso il cranio nella scatola, e poi la scatola nell’armadio, sotto una pila ordinata di maglie. Richard? O era Mark? Cazzo. Adesso non ricorda proprio il nome di quel ragazzo. Ha un vuoto, forse è l’alcol, sì, sicuramente è l’alcol. Va bene, si dice, per me è Richard. E ripensa al suo amico caporale, in Germania tanti anni prima, nei bagni, sotto la doccia e… Prende il pennello e lo bagna nell’acquaragia, per pulirlo bene. Poi guarda i tubetti con i colori, indeciso da dove riprendere. — Che colore preferisci, Richard? — domanda al teschio, chinandosi per fissarlo nelle orbite vuote. — Blu va bene? Silenzio. — Sì, è un colore che piace anche a me — dice Jeff dopo un breve istante. — Poi dopo diamo anche un po’ di verde, eh? Secondo me ci sta bene. Silenzio. — Bene, allora siamo d’accordo anche su questo, amico! Con il pennello nella mano destra e il cranio di uno dei tanti amici di bagordi nell’altra, inizia a dare qualche tocco di blu sulle ossa temporali. Canticchia, Jeff, mentre continua a lavorare con solerzia. All’ora di pranzo ha terminato e fissa il Teschio-Richard con un sorriso. — Perfetto — dice, alzandosi per dare un’occhiata da una certa distanza. — Sì, davvero un bel lavoro, Richard. L’ho sempre detto che hai una bella testa. Silenzio. Poi una risata stridula. E di nuovo silenzio.

1991, a un o dalla fine…

Lionel dovette fermarsi un momento. Era pomeriggio inoltrato, ma il cielo sembrava giù scuro come se la notte fosse scesa all’improvviso per schiacciare tutto e tutti. No, rifletté, non tutto e tutti. Solo la mia vita. Gerald Boyle, sempre un o dietro di lui, gli poggiò una mano sulla spalla e strinse leggermente, per fargli forza. — Coraggio — disse, ma le parole quasi si persero nei rumori della strada, tra i clacson e i motori che rombavano poche decine di metri più indietro. — Non l’ho mai immaginato un giorno così — disse Lionel, senza trovare il coraggio di voltarsi per cercare lo sguardo dell’avvocato. — Mai, te lo giuro. — Sei suo padre, Lionel, è normale che tu non abbia mai pensato a… — ci pensò un attimo — … a tutto questo. — Ma forse potevo… — No, Lionel. Non potevi, togliti dalla testa il pensiero che potevi fare qualcosa che non hai fatto. — Ora la voce dell’altro si fece più morbida, grazie all’abitudine di chi è costretto a parlare sempre in pubblico e convincere gli altri che quello che dice corrisponde alla verità. — Potrò vederlo subito? — chiese Lionel. — Certo, ho già preso accordi per questo. Jeffrey ci aspetta, è stato avvisato che saresti giunto. — Andiamo, allora — disse, riprendendo ad avanzare verso l’edificio austero che ospitava suo figlio, l’assassino. Camminarono a i lenti. Lionel non voleva darsi fretta. Ogni secondo era una riflessione in più, un momento per pensare a cosa dire. E Jeff? Cosa avrebbe detto suo figlio, stavolta? Era il momento di rimanere in silenzio o quello di dare delle spiegazioni? Lionel temeva tutte e due le cose, in quel momento, e avrebbe solo voluto fuggire, se dentro di sé non ci fosse stato quell’istinto che gli suggeriva che quella cosa non poteva non farla. Doveva sedersi davanti al suo

Jeff, suo malgrado, e provare a fare il padre nel migliore dei modi, fingendo di non sapere, fingendo che tutto fosse una finzione. Padre. Doveva fare solo quello. E forse era la cosa più complicata. — Aspettami qui un secondo — disse Gerald Boyle quando vennero introdotti in una piccola sala d’attesa. Le pareti erano grigie e il mobilio si limitava a un tavolo con il pianale in legno color noce e tre sedie sgangherate. — Va bene — rispose, osservando l’avvocato che si avvicinava a una guardia e poi spariva lungo il corridoio. Non appena rimase solo Lionel sentì tutto il peso di quella situazione schiacciarlo come se una montagna gli crollasse sulle spalle. Per un attimo sentì un brivido di freddo che scacciò stringendosi le braccia attorno al petto. arono alcuni minuti prima che la porta della stanza in cui era rimasto solo tornasse ad aprirsi. Era di nuovo Boyle, che sfoggiava il solito sorriso da avvocato, tutto sicurezza e spavalderia. Gerald annuì con decisione e gli fece cenno di seguirlo. — Una guardia sta andando a prendere tuo figlio, Lionel. Andiamo. — Quanto tempo avrò? — Quanto basta, non ti preoccupare. Non c’è alcun motivo di avere fretta — lo rassicurò Boyle, quindi lo afferrò con un tocco fermo nell’incavo del gomito e se lo tirò a sé, mentre lasciavano la stanza, avviandosi lungo un altro corridoio, anche questo grigio e freddo. La stanza era piccola e illuminata da faretti disposti sul soffitto. Solo un tavolo quadrato al centro e due sedie. — Io aspetterò fuori, insieme alla guardia — disse Boyle indicando una delle sedie. — Ora arriva anche Jeff. Lionel si mosse lentamente, confuso. Fece un cenno d’assenso e si sedette, dando le spalle all’avvocato e alla porta dalla quale era entrato. Un’altra porta era davanti a lui. Quella era la porta di Jeff. Ognuno la sua porta, pensava. Come se venissero da due mondi differenti e non in contatto. Io da una parte e mio figlio dall’altra. Una stanza a unire due mondi, un padre col figlio. Quella era la stanza del limite infranto, dell’abisso in cui nessuno voleva guardare. La porta davanti a lui scattò e venne aperta. Lionel alzò la testa e la prima cosa che notò fu lo sguardo spento del suo Jeff. Lo seguì mentre la guardia lo accompagnava fino al tavolo, lo faceva sedere e poi fissava le manette a una

sbarra di metallo appena al di sotto del pianale del tavolo. Sentì le lacrime salire agli occhi, ma le cacciò con decisione, deglutendo a fatica. Non dissero nulla fino a che la guardia, con un cenno di saluto a Lionel, non uscì anche lui dalla stanza. Ancora quel maledetto silenzio. Lionel cominciò a temere che i problemi di una vita intera si annidassero proprio in tutto quel non detto. — Stavolta l’ho combinata grossa, vero? — disse Jeffrey, rompendo quel velo di niente che si era creato tra loro. Lionel alzò le spalle e l’unica cosa che riuscì a fare per i primi secondi fu abbozzare un sorriso. Sperò che quell’ennesimo, dannato silenzio potesse portare un po’ del suo affetto al cuore del figlio. — Mi dispiace, papà. — Farò in modo che tu venga curato, Jeff — riuscì a dire. Questa volta a rimanere senza nulla da dire fu suo figlio. — Sei malato, figlio mio… non mi perdonerò mai per non essermene accorto prima, ma ora, anche se è tardi, proveremo a curare il tuo male. — Dici che è possibile? — chiese Jeff, abbassando lo sguardo. Stava fissando le mani, ammanettate al tavolo. Silenzio. Non sapeva che pensare né che dire, Lionel. — La nonna sta bene? — s’informò Jeff. — È triste, ma si riprenderà, come sempre. — Mi dispiace che stia soffrendo per colpa mia, papà. Le dirai che mi dispiace, vero? Lionel annuì. — A dai una carezza al gatto da parte mia, per favore.

— La nonna dice che quel micio sente la tua mancanza. Jeff sorrise. — Quando la accarezzo fa sempre le fusa. — Guarirai, Jeff. — Non è importante, papà — rispose. — Ora sono qui, forse non è più importante che io guarisca. — Ci proveremo lo stesso, così un giorno tornerai a casa e… — Papà? — Dimmi, Jeff. Lionel guardò suo figlio. Ascoltò il silenzio che tornava a spandersi come un nemico invincibile. Poi Jeff alzò le spalle e piegò la testa di lato. Ma ancora non disse nulla. Furono le immagini nella mente di Lionel a prendere il sopravvento. Tutta la vita gli ò davanti agli occhi, un film composto da milioni di istanti. Provò a cercare il momento in cui aveva perso il controllo di quella storia, il momento in cui avrebbe dovuto rendersi conto che qualcosa non andava. Quel momento però continuava a fuggire via, come se non esistesse. Sospirò e allungò le mani verso il volto di Jeff. Suo figlio non si mosse mentre lo accarezzava. Un gesto che forse non aveva mai fatto, si disse Lionel in quel momento. Non in quel modo, almeno. E forse ora serviva solo a lenire un po’ di dolore, a gettare uno sprazzo di luce nell’animo buio di un ragazzo che da tempo aveva perso se stesso. — Mi dispiace — disse Lionel. Per la prima volta fu lui a dire quelle due parole. Jeff non rispose. Non c’era molto altro da aggiungere. E un “ti voglio bene” sembrava così superfluo giunti a quel punto. Si accontentarono del silenzio. Ancora una volta.

1988, oggi…

La casa è di nuovo viva. Gente ovunque, musica alta e nell’aria odore stantio di sudore misto ad alcol. Qualcuno è già fuori combattimento, buttato a terra con la schiena poggiata alle pareti o addirittura in mezzo alle stanze, sul pavimento. Jeff si ferma a guardare uno che sembra solo attendere la polizia che con il gesso disegni la sagoma a terra. Poi vede che si muove impercettibilmente e cambia posizione. Sorride, pensando che deve aspettare ancora un po’ prima di trasformarsi in una figura di gesso. Ha una bottiglia in mano, Jeff, deciso a non mollarla. Che gli altri si sbattano pure a litigarsi un goccio. Quella è casa sua e in mano ha la sua stramaledetta bottiglia di Chivas Regal. Quella dose di sballo è sua e non la vuole dividere con nessuno. Sono altri i piaceri che si possono - che si devono - dividere. E in casa ha visto un bel po’ di carne che fa al caso suo. Ha già intrecciato qualche sguardo, buttato lì sorrisi indagatori e piccoli e fugaci contatti tra mani che cercano di capire, di parlare senza dire nulla. E parlare senza dire nulla è abilità di pochi. Lui ha imparato a farlo fin da piccolo. — È uno sballo questa festa, amico! — grida qualcuno accostandosi a lui, piegato in avanti per avvicinarsi all'orecchio, nel vano tentativo di averla vinta sul volume della musica. Amico? Jeff ci pensa un attimo, perplesso. Non crede nemmeno di averlo mai visto. Ma forse ha ragione lui. In certe occasioni tutti sono amici di tutti. Gli sorride e annuisce, mollandogli una pacca sulla spalla. Poi davanti ha altre facce, altri amici, altre pacche a gente un po’ sballata. Come lui. Amici. — Ne dai un goccio pure a me di quello? Il ragazzo che ha parlato gli mette una mano sul petto e sorride. Jeff lo squadra ciondolando un po’, visto che gli effetti dell’alcol sono come un’onda lunga nella sua testa. Alza le spalle e piega la testa di lato. — Allora? — insiste l’altro. È un nero dal fisico molto atletico e per un breve istante Jeff dimentica la bottiglia che stringe in mano perché sta improvvisamente pensando ad altro. — Questo è il mio whisky, lo sai? — butta lì, senza sapere dove andare a parare.

Il nero sorride, poi piega la testa all’indietro e ride rumorosamente, mollandosi una manata divertita sulla coscia. — Cazzo, amico, va bene: è il tuo fottutissimo whisky, e allora? Magari lo beviamo insieme e allora, Dio, diventa il nostro merdosissimo scalda budella, no? Non sa se è l’effetto di tutto quello che ha bevuto, ma Jeff lo trova simpatico, oltre che interessante. — Lo facciamo diventare nostro? — chiede, assecondandolo. — E ancora ci stai pensando, cazzo? — No — replica Jeff — ho già deciso, ma… — Ma? — Io dico che se questo schifosissimo mezzo litro di piscio deve diventare nostro, allora… — Allora, amico? — … allora dico che andiamo a scolarcelo di là, in camera mia, che ne dici? La musica sembra fermarsi, le persone sono immobili, i sorrisi spenti… tutto è spento, mentre Jeff guarda il nero negli occhi e studia la sua reazione. — Madre fottuta, amico… — esclama l’altro, ridendo — pensi davvero che punti ad attaccarmi alla bottiglia? Merda santissima, avrai un altro beccuccio da offrirmi, no? E la festa riprende al solito ritmo, le persone si muovono nuovamente, la musica esplode allo stesso volume assordante di prima, sparando dell’aria la chitarra distorta di Hendrix. E anche Jeff adesso riesce a pensare e muoversi di nuovo. Quindi sorride e annuisce. — Mi aspetto grandi cose anche da te — dice. — Ah, su questo puoi stare sicuro… andiamo, ora. Jeff gli fa un cenno e lo anticipa tra la calca. Spintoni, puzzo di sudore, alcol e quel sentore di eccitazione che aleggia ovunque. In camera la bottiglia serve ancora per fare un lungo sorso ciascuno, poi l’altro

ha già i pantaloni abbassati. — Secondo me succhi bene — dice. Jeff fa spallucce. Sente il cazzo duro nei pantaloni mentre osserva l’altro tra le gambe. Non ne ha mai visto uno così… importante, no. — Come ti chiami? — domanda, cercando non cedere del tutto alla frenesia che lo scuote da dentro. — Cazzo ti frega, amico — risponde il nero, stringendoselo in una mano e invitandolo con un cenno. — Tanto per sapere — insiste Jeff, ma sente che non può resistere ancora molto, non vede l’ora di chinarsi sul quel sesso enorme e nero. — Te lo dico dopo, mentre te lo sbatto in culo, ci stai? Annuisce, Jeff. — Si può fare — accetta, poi si butta in ginocchio e si avvicina al sesso dell’altro, inspirando a fondo e socchiudendo la bocca. Si muove lentamente, assecondando i gemiti di quel corpo che inizia a conoscere a piccoli colpi di lingua, poi un poco alla volta spinge la sua bocca sempre più a fondo, cercando di catturare il più possibile di quella carne generosa e… La musica viene spenta proprio nel momento in cui si accorge che l’altro si sta eccitando sul serio. Spinge le sue labbra ancora più in giù, Jeff, ansioso di sentirlo pulsare, ma poi le grida che provengono dal resto di casa lo bloccano. — Ehi, che fai? — si lamenta il nero. — Mica ti fermerai adesso, eh? — Zitto — dice Jeff, non appena, con riluttanza, ha liberato la bocca. — Merda, amico, ci siamo quasi dai… Poi qualcuno in casa grida qualcosa che cambia la situazione. Polizia. — Vaffanculo — sbotta Jeff, alzandosi e indugiando solo un ultimo momento con lo sguardo su quel cazzo da sballo. — Che vogliono ora questi stronzi? — domanda l’altro. — Forse vogliono succhiartelo pure loro — s’incazza Jeff, irritato.

L’altro borbotta qualcosa, ma Jeff non lo ascolta più. — Metti l’uccello in gabbia — dice, uscendo dalla stanza. Un paio di ragazzi gli ano accanto e fanno un cenno con la mano. — Noi togliamo il disturbo, amico. Mi sa che quelli vogliono parlare con te. Due agenti sono alla porta e osservano il via vai di gente che raccatta di fretta quello che può prima di imboccare l’uscita. — Chi è il proprietario? — domanda l’agente più avanzato, facendo scorrere lo sguardo sul caos della stanza. Jeff sospira e cerca di mandare via la nebbia dell’alcol e i pensieri di quello che ha lasciato incompiuto nella camera da letto. Cammina lentamente e va a fermarsi davanti al poliziotto. Fa un cenno con il capo, senza dire nulla. — Ora ci facciamo una bella chiacchierata, eh? — fa l’agente, una cinquantina d’anni, sguardo da duro, spalle larghe e mani puntate sui fianchi. — Non facevamo nulla di male, agente — prova a giustificarsi Jeff. — Non è la prima volta che riceviamo segnalazioni dai vicini, signor Dahmer. Non può continuare a questo modo, se ne rende conto? Jeff annuisce. — Mi dispiace. — Seee, come no? — L’agente ride con sarcasmo. — Le dispiace proprio, come no? Lei farà una brutta fine, stia a sentire a me. — Ma no… — Mi dia retta, ragazzo. Non sbaglio mai!

Dove c’è il limite

1990, oggi…

— Pronto? — Jeff? — Ciao, papà. Incredibile, pensa Jeff, come ogni volta il silenzio sia più forte di quello che hanno da dirsi. — Tutto a posto? Jeff alza le spalle, anche se per telefono è un gesto inutile, più un riflesso condizionato. Poi dice: — Sì, niente male, pa’. Stavo guardando un po’ di televisione — Jeff si poggia col sedere sulla spalliera del divano e butta un occhio alle immagini che si susseguono sullo schermo. Quando ha risposto al telefono non ha messo la cassetta in pausa quindi adesso il ragazzo più giovane si è piegato sul letto e l’altro uomo, il Maestro di Perversioni, questo è il titolo del film, sta per iniziarlo ai piaceri della carne. — È una giornata tranquilla. Penso di uscire un po’, più tardi. — Sai… — Sì? — Shari pensava che magari uno dei prossimi fine settimana potresti venire da noi e magari iamo una serata insieme. Che ne dici? — Va bene… magari la prossima settimana, perché no? — Se vuoi puoi anche rimanere la notte e…

— Papà… — Dimmi, Jeff. — Inutile starci a pensare adesso. Ci mettiamo d’accordo e poi vediamo, okay? Non so nemmeno se devo lavorare. Silenzio. Alcuni argomenti sono come mura alte che rifrangono i suoni. — Hai trovato un lavoro? — chiede il padre. — In un bar, forse. Domani mi dicono. — Bene, sono contento… Jeff approfitta della nuova pausa di suo padre per concentrarsi sul film porno. Il Maestro di Perversioni si è già fatto strada tra la carne inesperta del giovane apprendista. Con il padre al telefono però Jeff non riesce a eccitarsi. — Papà? — Ti ascolto. — Devo lasciarti, suonano alla porta. — Ah… be’, fammi sapere per quel lavoro, eh? Non ti dimenticare, Jeff, capito? Non ti dimenticare e… — Papà… devo lasciarti. Saluta Shari. — Sì, okay, ciao… Mette giù la cornetta e sbuffa, poi senza pensare ad altro torna a sedersi sul divano, a due metri dallo schermo in cui il Maestro fa gridare di dolore e piacere il suo nuovo iniziato. Sente il battito del cuore accelerare e rallenta il respiro, come ogni altra volta che sente montare l’eccitazione. Ma decide di trattenersi… è stufo di masturbarsi con scene da pochi minuti. adesso vuole lasciare che quella sensazione cresca dentro di lui, un poco alla volta, fino a farla diventare incontrollabile… ferma il vhs. Quello è un altro modo per dilatare i tempi: l’attesa. Non vuole sapere come e quando finirà la scena che sta guardando. Il

Maestro avrà ancora il suo bel da fare e le grida dell’allievo non sono di certo terminate. Ma per ora basta. Adesso Jeff sente la necessità di distendersi, di cercare altre emozioni dal fondo senza fine che sta scavando dentro di sé. Dopotutto ha imposto a se stesso di provare a comprendere dove è posto il limite di quello che gli a per il cervello. Deve esserci un punto che anche lui non riesce a superare, anche se teme sia molto in là, oltre la soglia della comune pazzia. Ma ora non vuole pensare nemmeno più a questo. Scende nella piccola cantina dell’appartamento e si ferma con le mani sopra il pozzetto freezer. Annusa l’aria e sente un fremito quando l’odore di umidità stantia pizzica le narici. Per rilassarsi si costringe a fischiettare ma non trova nessuna melodia che riesca a prenderlo seriamente e lascia perdere. Apre lo sportello del freezer. Un getto di aria fredda lo schiaffeggia, gelandogli le guance. China il corpo e a occhi chiusi respira quel freddo ipnotico. Poi a tentoni infila le mani e smuove qualche pacchetto fino a che non trova quello che cerca. La testa è lì da settimane e ancora non si è deciso a lavorarla. Non si sente in vena, deve ammetterlo. Una volta pulita dovrà dipingerla, ma se non si decide a farlo finirà per rimanere là in eterno. La tira fuori e la poggia a terra, poi chiude il freezer e raccoglie il pacchetto con… Di chi era quella testa? Lascia cadere le braccia le braccia lungo il corpo, cercando di dominare quella sensazione di nervosismo che si impossessa di lui ogni qualvolta le immagini e i pensieri fuggono dalla sua mente, come luridi infami che temessero di condividere quello che di marcio c’è in lui. Cerca di non pensarci. Raddrizza le spalle, spalanca gli occhi e torna in cucina. Per qualche minuto sente ancora l’odore della cantina, l’umido, la muffa, la morte. Poi anche quelle sensazioni sfumano lentamente, svanendo in un pozzo nero troppo colmo. Prende la pentola dal mobile sotto al lavello e la riempie d’acqua. Il sacchetto con la testa è poggiato sullo sgocciolatoio. Il gelo e la condensa mascherano quasi i lineamenti. A mala pena Jeff riesce a vedere gli occhi. Scuri. Occhi scuri.

Cazzo, li ricorda come se li avesse ancora davanti, vivi, liquidi, eccitati. Ma lo fissano anche in quel momento e sono ancora belli. Tra le pieghe del sacchetto, tra la condensa che si va formando, cerca anche la linea dolce della bocca. Non ricorda se se l’è lavorata. Chiude l’acqua con un gesto di stizza. Poi si calma. Forse gli verrà in mente nelle prossime ore, certo. Come per il nome. Jeff continuerà a guardarlo fisso negli occhi, mentre questi si sciolgono e di disfano e allora il nome comparirà come per miracolo nella mente. E pure della bocca. Ricorderà pure quella. Mette la pentola sul fuoco e incrocia le braccia, immobile. Vuole attende di vedere che inizi a bollire. Lì, a un o, la testa lo osserva in silenzio. — Posso chiamarti Lance — sussurra. — Almeno fino a che non ricorderò il tuo vero nome, va bene? Lance mi piace. — Annuisce alla testa. In risposta uno sguardo vacuo stretto tra lembi di pelle d’ebano. Quando l’acqua è calda Jeff apre il sacchetto e con gesti controllati tira fuori la testa. Lo afferra alle tempie e alza le braccia fino a posizionare gli occhi vitrei davanti ai suoi. Gli sorride. — Sei ancora Lance, mi spiace — dice, poi si china in avanti e sfiora le labbra congelate con un bacio. L’altro risponde con un contatto gelido e rigido, ma Jeff sa che quel freddo erà presto. Ancora un bacio, poi lascia scivolare la testa nella pentola, nell’acqua bollente. Non si muove per almeno dieci minuti, Jeff. Osserva la pelle ammorbidirsi quando il caldo strappa via il gelo accumulato in settimane. Gli occhi si spalancano e sembrano implorare chissà cosa, mentre la mascella si allenta e la bocca si apre in un urlo alla Munch, silenzioso, come dal fondo di un mare nero, dagli abissi di chissà quale inferno. O chissà quale animo. — Il tuo nome... — sussurra Jeff, cercando di aprire i cassetti della memoria. — Cazzo, Lance, dammi qualche suggerimento, no? — Sorride, quando una bolla di calore fa muovere la testa e la bocca sembra articolare un suono. — Non ho capito. Ah, non hai detto niente, eh? A i lenti Jeff torna nell’altra stanza. Il televisore è ancora . Si china verso il videoregistratore e riavvia il film. Il Maestro è ancora lì, con l’uccello tra le chiappe di un’insaziabile allievo. Adesso Jeff sente di poter arrivare alla fine del percorso di eccitazione. Apre i

pantaloni e stringe nella mano la sostanza del suo godimento. Poi, gli occhi fissi sullo schermo, cerca di prendere il ritmo del Maestro. Ancora una volta, dopotutto, sente di non aver trovato il limite. O di non averlo cercato.

1978, ieri…

Lionel fermò la macchina all’inizio della via. Scrutò l’ingresso dell’abitazione, ma da quella distanza non riusciva a vedere nulla. Di certo, la macchina della sua ex moglie non c’era. — Non possiamo stare qui tutto il giorno a fare il giro dell’isolato, Lionel! Shari, al suo fianco, lo punzecchiò per l’ennesima volta. Lionel sapeva che aveva ragione, però trovare la forza di affrontare Joyce non era cosa semplice. Soprattutto visto il modo in cui avevano rotto, disseminando cocci di vita in anni di litigi e incomprensioni. — Sono tre giorni che non vedi la sua macchina — insistette Shari, afferrandolo per un braccio e costringendolo a voltarsi verso di lei. — Lionel, non puoi continuare a girare intorno a questa casa senza deciderti a fare qualcosa! Le annuì. Shari sapeva come fare leva sulle sue debolezze. Era una donna forte e decisa, forse per questo andavano d’accordo, perché i loro caratteri in qualche modo si compensavano. Luce e ombra. — Andiamo, dai — disse ancora Shari, mollandogli il braccio per farlo guidare. Fermò nuovamente la vettura davanti al vialetto dell’abitazione. Aveva visto giusto. Joyce non c’era. Quando scese dalla macchina Shari fu subito al suo fianco e lo prese sottobraccio. Un gesto strano, in un’occasione come quella, ma Lionel lo gradì, gli dava la forza di andare a vedere cosa succedeva in quella casa. La porta si aprì di pochi centimetri e fece capolino il volto pallido di Jeff.

Lionel lo salutò, poi aggiunse. — Dov’è tua madre? Suo figlio spalancò la porta e alzò le spalle, quindi fece un cenno di saluto a Shari, adesso un o più indietro. — Che significa questo silenzio? — domandò. — Non c’è… è andata via, pa’. Lionel entrò in casa, seguito da una Shari particolarmente silenziosa e gettò un’occhiata in giro. — Questa casa è uno schifo Jeff… quando torna tua madre? Dave è con lei o è in casa? Jeff chiuse la porta e lo seguì nel soggiorno. — Allora? — insistette Lionel, cercando lo sguardo di Shari, che però non disse nulla. Era la prima volta che entrava nella casa che lui condivideva con la ex moglie e doveva essere in imbarazzo, quindi la lasciò perdere per qualche istante. — Jeff, ti ho fatto una domanda, per favore. — Mamma se n’è andata, papà. E si è portata via Dave. Non so altro, mi dispiace. — Eh, a te dispiace sempre per un’enormità di cose, ragazzo… che significa che se n’è andata, eh? Si voltò a fissare suo figlio. Jeff si era poggiato allo schienale del divano e lo guardava con un’espressione stolida stampata in volto. — Tre giorni fa. Ha preso Dave, qualche borsa piena di vestiti e non l’ho più vista. Lionel non riuscì a credere a quello che aveva sentito. — Ma che storia è questa? Ha preso ed è andata via? Santissimi dei! Jeffrey non aggiunse altro, rimanendo a fissare il padre, labbra strette e braccia incrociate sul petto. — E perché diavolo non mi hai chiamato prima, Jeff! — Cosa sarebbe cambiato, io…

— Lionel? Shari, che nel frattempo era andata a curiosare in giro, sbucò dalla porta che dava sulla cucina e si avvicinò. Lionel le fece un cenno. — Questa casa è un porcile e praticamente non c’è più nulla di commestibile da mangiare. Il frigorifero è vuoto, Lionel. — Come pensavi di andare avanti, eh? — chiese rivolto al figlio. Jeff rispose facendo spallucce. — Ah! — sbottò Lionel, tornando a guardare Shari. Lei scosse il capo e aggiunse: — Devi vedere un’altra cosa. — Come se non bastasse… ci pensi? Joyce e Dave adesso chissà dove sono, Shari! La donna annuì e indicò un punto alle sue spalle, come se quello che stesse dicendo in quel momento non fosse importante. — Guarda qui. Lionel seguì la direzione del suo braccio che indicava verso un tavolinetto di legno e cristallo al centro della sala. Poi capì cosa voleva fargli notare la sua compagna. — Cos’è quella cosa, Jeff? Si avvicinarono al tavolinetto e Lionel si chinò per osservare meglio. Il pentacolo era disegnato con un gessetto bianco sopra un cartoncino nero. Tutt’attorno altri simboli strani che Lionel non seppe riconoscere spiccavano attorno alle punte della stella racchiusa in un doppio cerchio. C’erano anche delle scritte, Samael e Lilith, ma non era sicuro di leggere correttamente. — Jeff — urlò Lionel. — Ti ho fatto una domanda. Cos’è questa cosa, che stavi combinando? Jeffrey si chinò accanto al cartoncino e con le dita sembrò seguire i contorni del disegno. — È un pentacolo satanico.

— Satanico, addirittura! Suo figlio annuì. Non lo guardava e teneva la testa china. — Mi serve per parlare con i morti. Con uno scatto d’ira Lionel afferrò il cartoncino e lo lanciò via. — Parlare con i morti! Jeff, che altra diavoleria è questa, adesso. Con quali morti devi parlare, eh? Si può sapere? Dovresti preoccuparti di parlare con me, altro che con i morti. Avresti dovuto alzare il telefono e dirmi che Joyce era andata via da casa con tuo fratello. Ecco quello che devi fare, Jeff, parlare con i vivi, non con i morti. Quali morti, poi, lo vorrei proprio sapere! — Nessuno in particolare… i morti. C’è sempre qualche morto con cui parlare, no? E loro sanno un sacco di cose, ma… — Basta — disse Lionel alzando le braccia davanti a sé per chiedere silenzio. — Basta, non voglio sentire altro. Adesso devo ritrovare tua madre e tuo fratello e… — si guardò attorno sconsolato — … dobbiamo rimettere a posto questa casa, se ancora è possibile chiamarla a questo modo. Verrò a stare qualche periodo con te, Jeff, così forse la smetterai di parlare con i morti e dirai qualcosa a me, una benedetta volta! Jeff rimase in ginocchio, fermo davanti al tavolinetto dove fino a pochi istanti prima c’era il suo pentacolo satanico. Non disse nulla, si limitò a un cenno d’assenso, scrollando le spalle.

1990, oggi…

Rimbocca l’acqua nella pentola e controlla con attenzione. Adesso che la temperatura è più bassa può infilare una mano e sentire la consistenza della pelle. Un occhio galleggia e trema in superficie. Quello che resta di un occhio. Jeff capisce cos’è grazie al bulbo appeso come un budello inconsistente. Lo colpisce con una schicchera e ride mentre ruota su se stesso, va a fondo di qualche centimetro e poi ritorna a galla, sospinto dall’acqua calda che dal fondo della pentola spinge verso l’alto.

La pelle adesso non è più nera, non ha più nulla di quel colore intenso ed erotico che apparteneva a quel volto ancora senza nome. Ora è flaccida e biancastra, sfaldata in più punti. Le ossa bianche del cranio spuntano qua e là, quasi un monito silenziosamente macabro a porre fine a quella tortura. Le orbite presto saranno completamente vuote e guarderanno attraverso un velo di nulla che si è insinuato tra le cavità decerebrate. — Ancora non vuoi dirmi come ti chiami, vero? Alza la fiamma per far scaldare nuovamente l’acqua. Ci vogliono ancora tante ore per un lavoro perfetto, così ogni tanto Jeff deve tornare a riempire di nuovo fino all’orlo. L’ultima volta ha impiegato ventiquattro ore a pulire completamente il cranio. Ventiquattro ore, dannazione. Ma alla fine il risultato è stato davvero splendente. Era un’opera d’arte prima ancora che ci mettesse del suo. Anche stavolta l’attesa sarà lunga. C’è chi dice che i neri hanno la pelle tosta. Chissà se vale anche in questo caso. Osserva la testa che effettua mezza rotazione nella pentola. No, si dice, è uguale agli altri. Non più di un giorno, poi non ci sarà più un brandello di pelle e carne attorno a quelle ossa meravigliose. Si gusta la scena per qualche minuto, poi sente che ha bisogno di mangiare qualcosa. Non deve allontanarsi troppo per prepararsi un panino. Per un momento pensa di aggiungere un po’ della prelibatezza che sta cucinando, giusto per provare. Ma poi cambia idea. Non ne ha voglia in quel momento. Appena morti c’è un gusto del tutto diverso, ma ora non è la stessa cosa. Magari il prossimo, sì, col prossimo un bel panino, deve cercare di ricordarselo. Sorride, mentre prende il pane e spalma del formaggio fresco. Aggiunge un po’ d’arrosto affumicato e mangia con calma, affacciato alla pentola, tenendo d’occhio il suo amico. — Ne vuoi un po’? — domanda a mezza voce. Non sorride, al silenzio che risponde insistente. Si allontana con l’ultimo boccone e torna in cantina. L’attesa è davvero stancante, quindi deve trovare qualcosa per are il tempo, almeno per qualche ora, poi magari avrebbe visto un altro film. Analizziamoci… un bel titolo. Lo aveva scelto solo per quello ed era certo che non lo avrebbe deluso. In cantina ne approfitta per respirare ancora quell’atmosfera particolare. Anche quando era a West Allis da sua nonna era la stessa cosa. Forse erano proprio le cantine a esercitare un certo fascino perverso. Come se il luogo più adatto per morire, da sempre, fossero quegli scantinati umidi e freddi.

Ma non indugia troppo. Ha già chiaro in mente quello che vuole fare. L’acido è proprio accanto al freezer. Sorride soddisfatto quando si rende conto che ne ha ancora una tanica da cinque litri intera. Torna di sopra e prende un’altra pentola. Ci versa tutto l’acido. Il liquido sfrigola e fa bruciare le sue narici col suo odore pungente. Poggia la pentola a terra, a pochi i dal piano cottura, per poter tenere sempre d’occhio la testa, il suo anonimo amico, Lance. Quando è tutto pronto esce di casa. È quasi sera, quel momento del giorno in cui tutte le ombre si confondono in un unico disegno sbiadito. Il momento più cieco del giorno, senza contorni, senza nulla che trovi un’identità precisa tra i chiaroscuro dell’imminente oscurità. Fuori c’è un piccolo giardino e trova subito quello che sta cercando. La gatta dei vicini ha dato alla luce alcuni cuccioli da poche settimane. Ed ecco che un micio color perla, con il petto tutto bianco, perlaceo, si avvicina zampettando allegramente. — Ehi — sussurra Jeff, allungando una mano — bello, vieni qui. Il gattino ha voglia di giocare. Si nasconde dietro un cespuglio e fa capolino sfruttando una foglia larga e bassa che lo nasconde parzialmente. Jeff è paziente, conosce bene i gatti. Ora il micio partirà all’attacco per ingaggiare una battaglia con la sua mano. Quando il piccolo sferra l’attacco Jeff sente le fusa e sorride. — Ti stai divertendo, vero? — Apre la mano e porge il palmo verso l’alto, a pochi centimetri da terra. — Dai, fammi vedere che salti che sai fare. Il gattino color perla avvicina il muso alle dita e annusa, poi fa un paio di balzi e infine attacca ancora la mano allargando le zampette e sollevando la schiena in un movimento buffo. Jeff lo afferra all’assalto successivo e si alza, portandoselo al petto. Il felino lo guarda con gli occhi spalancati e il rumore delle fusa aumenta. Per lui il gioco è ancora in corso. — Andiamo dentro, dai — gli sussurra Jeff avvicinando il viso al muso del gatto. — Giochiamo un po’ e poi… facciamo un bel bagnetto, okay? Rientra in casa e sente il fremito dell’eccitazione che lo sta dominando di nuovo. Torna in cucina e osserva le due pentole, quella sul fuoco con la testa avvolta da una tempesta di acqua bollente e quella sul pavimento, colma di acido cloridrico.

Si mette in ginocchio. Il micio fa ancora le fusa. Lo lascia per qualche momento, il tempo di mettere i guanti e prendere un coperchio a posizionare sulla pentola. Sa bene che il gatto proverà a fuggire. Ma non dovrà riuscirvi. Poi con l’illusione di un nuovo gioco lo richiama a sé e lo prende ancora in braccio. Lo accarezza qualche minuto, divertendosi con i suoi piccoli e innocui morsi, poi a un certo punto sente che è giunto il momento di procedere. Tiene il micio in una mano, con l’altra afferra il coperchio in caso provasse a fuggire. Spera proprio che non lo faccia, però, altrimenti non potrà vedere gli effetti dell’acido mentre consuma la pelle e la carne dell’animale. Già pregusta l’odore della morte. Si sente eccitato. Prima questo, poi un altro film porno. Tanto la testa deve cuocere ancora tante ore. E un modo per occupare il tempo deve pure trovarlo.

Sarai solo mio

1991, oggi…

È un maggio strano. Jeff ci ha pensato un po’ prima di uscire di casa. Caldo o freddo? Verrà a piovere? Alla fine ha deciso di mettersi comunque leggero e si è portato appresso un giacchetto in caso il tempo fosse peggiorato. Per strada però non c’è molta gente. Forse è per il cielo coperto. Sembra che l’intera città sia finita sotto un enorme tendone da circo. Non c’è molto vento, per fortuna, e il sole si affaccia di tanto in tanto, quando le nuvole si aprono come i lembi di una ferita. Si sente stranamente calmo e per qualche minuto non pensa nemmeno a Tony. Strano quel ragazzo, davvero strano. Forse è per il fatto di essere muto che ha quel modo particolare di muoversi e gesticolare. Gli viene in mente il primo biglietto che gli ha ato, nella penombra del 219 club: “Mi dispiace, sono sordomuto. Mi chiamo Tony”. Jeff si era bloccato per un momento e quando aveva alzato gli occhi Tony sembrava dispiaciuto. Ma aveva frainteso. Era quel timido “mi dispiace” ad averlo colpito, due parole che di solito pronunciava quando non sapeva come giustificarsi. Era piacevole e sconvolgente allo stesso tempo rendersi conto che anche altre persone sentissero il desiderio di spiacersi per qualcosa. — Jeff — aveva detto, sorridendo e allungando una mano verso quel nuovo conoscente. A quel punto Tony aveva sorriso. Avevano “parlato” tutta la sera scrivendo su dei foglietti, anche se Tony gli aveva detto che poteva leggere le labbra e che, volendo, Jeff non era costretto a scrivere. Ma quel modo diverso di comunicare aveva il suo interesse e così era iniziato un gioco di sguardi silenziosi e frasi ammiccanti, sempre più dirette e maliziose.

Adesso, mentre Jeff cammina per le strade quasi deserte, Tony è disteso nel suo letto. Non può parlare. Non può nemmeno scrivere messaggi piccanti. Il suo corpo è freddo come l’anima di quella cazzo di giornata. Si ferma a un bar e prende una birra. La scola quasi con un sorso, poi prima di uscire se ne compra un’altra e si porta la bottiglia in strada. Non ha idea di dove andare. È uscito svogliato, solo perché anche di stare a casa ne aveva le palle piene. E visto che Tony comincia a venirgli a noia, forse può trovare un altro amico per are qualche ora insieme. Finisce pure la seconda birra e lascia cadere la bottiglia a terra, colpendola con un calcio. Sente su di sé lo sguardo contrariato di un paio di anti, ma fa finta di niente. Alla fine della strada, a non più di duecento metri, vede il profilo del centro commerciale e decide di andare da quella parte. Il Grand Avenue Mall è sempre pieno di gente. Ci capita spesso, quando non sa dove andare a sbattere. Anche se per i suoi gusti ci sono sempre troppi occhi attenti, troppe persone desiderose di sbirciare quello che fanno gli altri. E questo non è un bene. Ma c’è sempre tanta gente, ripete più volte nella testa come una cantilena, sentendo quel brivido che lo scuote ogni volta che ha deciso di trovare un po’ di compagnia. Tanta bella gente, sì. Infila le mani nelle tasche dei pantaloni e cammina per un po’ davanti all’ingresso principale, guardandosi attorno. Entra nel centro commerciale dopo qualche minuto. Dentro l’aria è calda e densa di odori. Sembra che tutta la gente che non è in strada sia accalcata lì dentro. Non gli piace tutto quel caos, si sente a disagio. Cerca di defilarsi, di non rimanere schiacciato tra troppe persone indaffarate. Poi lo vede. Il ragazzino spunta da dietro una coppia di fidanzati e cattura la sua attenzione. Jeff si ferma e allunga il collo per seguirlo, quando lo vede sparire dietro un capannello di persone. Non sa bene cosa lo ha attirato, ma sa che è lui che cerca, proprio lui. Si muove rapidamente e cerca di accorciare la distanza. Ancora non lo vede, ma sa dove l’ha visto sparire, non può essere lontano, non più di una ventina di metri. Alla fine sembra che la calca decida di aprirsi davanti a lui, come le acque davanti a Mosè. E lo vede di nuovo, chiaramente. Sorride, Jeff, soddisfatto.

Ancora non riesce a definire cosa lo attiri, ma sa che deve provare ad agganciarlo, perché sente come una voce dentro che lo chiama, che chiede insistentemente che lui faccia qualcosa. E Jeff sa che deve rispondere a quella voce. Che viene dal profondo, oltre il limite. Segue il ragazzo per qualche minuto. Sembra molto giovane e ha la pelle olivastra, e capelli un po’ arruffati. È da solo, e gira anche lui senza una meta, curiosando in giro. Quando decide di uscire dal Grand Avenue Mall Jeff lo segue. In un paio d’occasioni gli è arrivato spalla a spalla, ha respirato il suo odore, si è lasciato prendere da quel senso di vertigine che nasce da un misto di malata trasgressione e attesa. In strada il tempo sembra peggiorato, ma ancora non piove. Il ragazzo sembra aver perso l’indecisione che aveva quando era nel centro commerciale, e adesso prende una direzione precisa, allungando il o. C’è ancora troppa gente che gironzola dei dintorni e Jeff decide di lasciarlo allontanare un po’. Quando si sente sicuro, e quando ha capito che non può trattenersi ancora, con due falcate si avvicina e… — Ehi — grida, richiamando l’attenzione del ragazzo. — Aspetta, per favore. Jeff allunga una mano e lo sfiora sulla spalla. Il ragazzino sembra preso di sorpresa, ma non è spaventato. Un ragazzo di strada, uno di quelli che hanno poco o niente per vivere, intuisce Jeff. Nessuna paura nello sguardo, quindi, solo l’istinto che per un momento gli suggerisce accortezza. Solo per un momento, poi sorride. — Che cerchi? — La sua voce è squillante, come quella degli adolescenti. Non ha ancora i toni bassi degli adulti. Jeff alza le spalle. — Ti ho notato al Grand Avenue Mall e… — Mi hai notato? — sembra incuriosito. — Sì, be’, vedi… io sono un fotografo e non so come spiegartelo senza sembrare banale, ma hai colpito la mia attenzione, ecco. Il ragazzo ci pensa un attimo. — Ehi, sembra roba grossa, eh? Jeff ride all’espressione dell’altro. — Be’, credo di sì, no? Sai, certe volte vado

un po’ a istinto. — E mi hai notato — dice ancora il ragazzino. — Mi chiamo Jeff — si presenta tendendo la mano. — Konerak. — Ehi, ma di dove sei? — La mia famiglia è del Laos, lo conosci? Jeff stringe le labbra e si esibisce in un mezzo sorriso, scuotendo il capo. — Ti devo deludere. Konerak ride. — Non ti preoccupare, ci sono abituato. Ma mi dici perché mi hai seguito, allora? Vuoi farmi delle foto? — Proprio così… sai, non è facile trovare dei modelli adatti alla propria sensibilità e pensavo che magari potevo pagarti per una mezza giornata di scatti, che ne dici? Il ragazzo ciondola la testa a destra e sinistra, senza smettere il sorriso. — Pagare, eh? — Non molto, a dire il vero — dice Jeff — pensavo una cinquantina di dollari. Konerak riesce a stento a trattenere la meraviglia. — Per la miseria, amico, avrei accettato anche per la metà, ma ormai hai detto cinquanta e non mi resta che mettermi in posa! — Affare fatto, allora? — Aveva capito subito che non avrebbe resistito a un facile guadagno. — Affare fatto, signor Jeff il Fotografo! Si scambiano un colpetto con i pugni chiusi, e ridono insieme. — Andiamo, dai — si affretta ad aggiungere Jeff — casa mia è qui vicino. Cinque minuti e iniziamo!

— Vuoi un altro bicchiere di coca cola? Jeff ha capito che il ragazzo inizia a essere un po’ stanco. All’inizio l’idea delle foto sembrava un gioco divertente che la prospettiva di un facile guadagno aveva trasformato in qualcosa di ancora più eccitante. Ma dopo un’ora di scatti inizia ad annoiarsi. Non mantiene più le pose, sembra scontroso e presto chiederà di poter andare via. — Non ho molta sete — risponde. Jeff è davanti al frigorifero e ha tirato fuori la bottiglia. — Solo un bicchiere — insiste — poi facciamo un altro po’ di foto e te ne vai a casa. Parola magica: casa. — Grazie — accetta Konerak — bella fredda, eh? — Freddissima. — Jeff riempie i bicchieri e controlla il ragazzo con la coda dell’occhio. Si è buttato sulla poltrona e gli dà le spalle. Apre la bustina con il sonnifero e svuota il contenuto in uno dei bicchieri. — Ci metto anche un bel po’ di ghiaccio, okay? Konerak risponde con un verso che Jeff traduce in “sì”. Aggiunge il ghiaccio e con il dorso di una forchetta agita la bevanda. Sorride, mentre la scia bianca della polvere che ha aggiunto svanisce tra le bollicine della coca cola, nascondendosi tra il sapore forte della bevanda. — Ecco. — Jeff si sporge dalla poltrona, dalle sue spalle, e gli mette il bicchiere a un palmo dal naso. Il ragazzo lo afferra subito e beve una lunga sorsata senza pensarci. — Meno male che non avevi sete! — Be’, ora m’è venuta — dice Konerak e beve ancora.

Jeff, ancora alle sue spalle, sorride e muovendosi lentamente torna a prendere la polaroid. — Riprendiamo, su, così te ne vai se sei stanco. — Non sono stanco — commenta Konerak — però non voglio tornare a casa troppo tardi. — Allora facciamo quelle che valgono i soldi che ti ho promesso — suggerisce Jeff. — E quali sarebbero, scusa? — Tutti quei soldi valgono bene qualche posa di nudo, no? — Ehi — protesta l’altro — che ti sei messo in testa? Ridono tutti e due. Non c’è tensione nel discorso, solo un gioco di botta e risposta. È iniziato fuori al centro commerciale e non è mai smesso. — Non fare la femminuccia, Konnie, nemmeno io voglio vederti completamente nudo, non credere. Basterà che rimani in mutande… così facciamo qualche scatto a quei muscolacci che ti ritrovi! — Ho un bel fisico, sa? — si vanta Konerak ridendo e alzando le braccia a mimare un culturista che mostra il bicipite. — Ecco, l’hai detto — conviene Jeff. — Allora non perdere tempo: spogliati e facciamo qualche bella foto. Il ragazzo inizia a spogliarsi. Nel frattempo ridono ancora e scambiano qualche altra battuta. — Le mutande le tengo, eh? — chiarisce mentre anche i pantaloni scivolano via. Jeff lo osserva e annuisce. Vede Konerak ciondolare leggermente. Poi il ragazzo si riprende e sorride verso la polaroid, ancora inoperosa. — Sei pronto? La risposta arriva con qualche attimo di ritardo. — Prontissimo. Jeff lascia are un pochi istanti senza fare nulla. Lo osserva in silenzio, mentre il giovane sembra fare fatica a restare lucido. Quando ha capito che l’effetto del sonnifero ha quasi compiuto il suo dovere Jeff inizia a scattare.

Dapprima lentamente, uno scatto, e un’occhiata a Konerak, uno scatto e un’altra occhiata eccitata, poi sempre con maggiore frenesia. Clic. Clic. Clic. Dopo pochi minuti sul pavimento ci sono fotografie un po’ ovunque. Jeff le afferra distratto mentre la macchinetta le sputa via e le lascia cadere a terra, lanciandole quasi con stizza. Ha la testa chiusa da un cerchio di confusione, anche se non ha preso alcuna droga. È l’eccitazione che nasce da quel pozzo nero e segreto nel fondo di sé. È quella voglia di trovare il limite e andare avanti, ancora una volta, e poi un po’ più in là, dove il confine tra lecito e illecito si sfiora, quasi una carezza, e mettere un o appena oltre… scendere nel buio, sempre più in fondo, tra volute di fumo dense che si amalgamano in ombre sorridenti e diaboliche, il sorriso del diavolo, un richiamo irresistibile, un desiderio di lasciarsi trascinare tra le fiamme, di trovare quel punto dove dolore e orgasmo sono una sola cosa, inscindibile. Il sorriso del diavolo. Lo vede, adesso, Jeff. Ce l’ha davanti proprio in quel momento. È bellissimo. È seducente. È oltre il limite. Proprio dove sente di voler andare. Gli sorride di rimando. Allo stesso modo. Come un diavolo.

Poche ore dopo…

Konerak aprì gli occhi di scatto, come se una molla fosse stata caricata e lasciata andare all’improvviso. Sentì subito un martellare alla testa e quando provò a muoversi una fitta saettò lungo tutto il corpo col dolore di una ferita aperta. Provò ad aprire la bocca ma scoprì che ogni movimento gli costava una fatica immane e si portava dietro sempre una filza di dolori sconvolgenti. Provò allora a riflettere. Dov’era? Sentiva una melma viscida nella testa e anche il flusso dei pensieri era confuso. Era in una casa che non conosceva. Dalla posizione in cui si trovava, probabilmente sdraiato su un divano o su un tappeto, poteva vedere ben poco: una porzione di soffitto, l’ombra invadente di qualche mobile; forse, alla sua destra, una sedia. Ma su tutto c’era un velo di oscurità che nascondeva ogni dettaglio, aggiungendo lingue di indeterminatezza alla confusione che già albergava nella sua mente. Deglutì a fatica e per poco temette di soffocare. Si sentiva spaventato, ma ancora non riusciva a ricordare nulla. Attorno a lui c’era solo silenzio e penombra. Cercò di rilassarsi e di pensare. Com’era finito in quella situazione? Non

riusciva quasi a muoversi. Aveva forse avuto un incidente? Scosse leggermente la testa, sfidando il dolore e scartando quell’ipotesi. Era chiaramente in un appartamento. Un incidente se lo immaginava più probabile in strada, magari investito da una macchina o… La memoria gli restituì un’immagine, per un attimo brevissimo. Sentì un’ombra di paura stringergli il petto. Un volto, aveva visto un volto, in quel rapido momento in cui un tassello era andato a posto. Ma subito era tornato il nulla a coprire ogni pensiero. Cercò di sollevare leggermente la testa e questa volta credette di riuscire a muoversi con maggiore facilità. Capì che doveva procedere lentamente, un o alla volta, quindi dopo lo sforzo iniziale tornò nella posizione di partenza e prese fiato. Per qualche minuto alternò i tentativi di movimento al recupero meno stancante dei ricordi. La cosa sembrò funzionare, perché dopo un po’ riuscì a tirarsi su a sedere e finalmente poté poggiare la schiena per non cadere nuovamente a terra. Non appena si guardò attorno i ricordi esplosero vividi e quasi più dolorosi dei movimenti che con tanta fatica aveva effettuato. La paura, che fino a quel momento lo aveva accompagnato senza pungere troppo, adesso era un artiglio affilato che lo afferrava allo stomaco. Provò a voltarsi per controllare tutta la stanza, e quasi cadde nuovamente sdraiato sul pavimento. Riuscì a puntellarsi con un gomito e a girare su se stesso. In quel momento era solo, per fortuna. Sentì gli occhi lucidi e cercò di frenare il pianto. Cazzo, pensò, che mi ha fatto? Konerak guardò verso la finestra. I battenti erano accostati e da fuori proveniva la debole luce di qualche lampione. Lame incandescenti che tagliavano in due la stanza. Era notte, dunque. Da quanto tempo era in quello stato? Aveva forse bevuto troppo? Scartò subito quell’ipotesi. Una coca cola. Ricordava la bevanda fredda, col ghiaccio e poi si era messo in mutande e Jeff aveva iniziato a scattare altre foto, quindi… Ecco, aveva forse trovato il punto in cui i ricordi si smarrivano. Le foto, la coca cola e poi nient’altro. Di cosa stavano parlando? Che cosa era successo nel frattempo? Smise di ragionare all’improvviso, quando si rese conto di essere veramente

spaventato. Quella situazione era troppo strana e poi perché si sentiva così confuso e dolorante? Cosa gli era successo? Non credeva di essersi ubriacato. Gli era capitato altre volte di alzare il gomito e ricordava fin troppo bene i postumi di una bevuta. No, era qualcosa di completamente diverso. Si alzò in piedi, barcollando. Una fitta alla testa lo costrinse a serrare i denti. Porto la mano alla tempia e sfiorò il punto in cui il dolore sembrava più intenso. Aveva i capelli incollati alla testa e non appena i polpastrelli toccarono la pelle una nuova ondata di dolore gli strappò quasi un grido, che rimase però intrappolato nella gola gonfia e secca. Quando si riprese vide le dita sporche di sangue e nello stesso istante in cui realizzava che la sua paura cominciava a essere più che giustificata, iniziò a muoversi verso la porta. Quasi cadde a terra, dopo il primo o, ma resistette appoggiandosi a una sedia e ciondolando con fatica raggiunse la parete di fondo. Sentiva il cuore battere nel petto come uno di quei tamburi che suonavano nelle bande quando facevano qualche manifestazione per le strade della città. Respirò a fondo e si allungò fino alla maniglia. La porta non era chiusa a chiave, per fortuna, e si aprì senza fare rumore. Non perse tempo a guardarsi attorno. Quel fotografo pazzo poteva essere ovunque, magari era solo addormentato in un’altra stanza della casa. Konerak lasciò la porta spalancata e con sempre maggiore fatica arrivò fino in strada. La notte era umida e fresca, ma questo non bastò a farlo riprendere. Ogni o era più complicato di quello precedente e non riusciva a tenere gli occhi aperti. Le braccia pesavano come se fossero state di pietra. Sentì qualcosa che lo ferì sotto la pianta scalza del piede, ma non ebbe la forza nemmeno di lamentarsi. Le luci dei lampioni erano incandescenze tetre e le ombre che proiettavano sembravano braccia che volessero ghermirlo. Un o dopo l’altro Konerak capì che non avrebbe fatto molta strada. Poi non riuscì più a tenere gli occhi aperti e le gambe cedettero di schianto.

— Ehi, Nicole — disse Sandra dando un colpetto col gomito all’amica — guarda laggiù. — Non darmi questi colpi, quante volte te l’avrò detto — si lagnò l’altra.

— Sì, va bene, ma guarda quel tipo! La via era illuminata da una teoria di lampioni che proiettavano una luce morbida sulla strada. Non c’era nessuno in quel momento, tranne un ragazzo che barcollava in mutande, reggendosi a malapena sulle gambe. — Sarà un tossico — disse Nicole, afferrando Sandra per un braccio — cambiamo strada, forza. — Ma che dici, dai… un tossico che se ne va in giro nudo per strada? Nicole ricambiò lo sguardo di Sandra, poi annuì. — E va bene, andiamo a vedere. — Ecco, vedi? È pure caduto a terra… corriamo! Sandra allungò il o e lasciò indietro l’amica di qualche metro. Si chinò sul corpo del ragazzo e gli ò un braccio dietro al collo, per sorreggerlo meglio. — È solo un ragazzino, Nicole, non vedi? — Io vedo solo che siamo sole in mezzo alla strada a raccattare uno sconosciuto che è già mezzo morto. Sandra scosse la testa, sbuffando rumorosamente. — Non cambi mai, Nicole. Smettila di pensare solo a te stessa e preoccupati anche degli altri, ogni tanto. — Sì — ribatté l’altra — ma degli altri ancora vivi, Sandra. Questo è un cadavere che cammina, Cristo! — Non bestemmiare, ti prego. Anzi, aiutami a metterlo in piedi, dai, che lo portiamo… — Lo portiamo? — Ma non vorrai che… — Sandra — sbottò Nicole. — Dove credi che possiamo portarlo, eh? Pensi di tenerlo a letto con te, stanotte? Sandra ci pensò un attimo, ma non disse nulla. — Non possiamo certo stare qui

senza fare niente, eh? — Scusate — disse una voce maschile all’improvviso. — Ci penso io. Sandra si sollevò, lasciando la testa del ragazzino e si avvicinò a Nicole, spaventata. — È un mio amico — disse il ragazzo che in quel momento usciva dall’ombra di un edificio, avvicinandosi a loro. — Mi sa che ha bevuto un po’ troppo. — Te lo dicevo, io, vedi? — mormorò Nicole restituendo il colpetto che Sandra gli aveva mollato pochi minuti prima. — Aspetta — disse Sandra, avvicinandosi di nuovo al ragazzo. — Non ho sentito puzza di alcol! — Sandra — protestò Nicole alle sue spalle — non fare la rompipalle. Ti ha detto che è un suo amico. Lasciamo che sia lui a portarlo da qualche parte, no? — Esatto — convenne il nuovo arrivato. — Lo porto a casa e gli faccio un tè caldo. Sandra scosse la testa. Provò a sollevare il ragazzino che iniziava e tremare di freddo e l’uomo la aiutò. Aveva forse una trentina d’anni, capelli biondo cenere e un sorriso sornione. Non parlarono fino a che non furono tutti in piedi, quindi tornò all’attacco: — Mi dispiace, ma la storia dell’amico che ha bevuto troppo non regge. — Abito qui dietro — insistette l’altro. — Lo porti a casa con me e lo lasciamo a riposare su una poltrona. — Io che vengo a quest’ora a casa tua? — rise Sandra, facendogli un gesto con la mano come a voler dire “tu sei matto”. Nicole sbuffò e mormorò qualcosa che Sandra non capì. — Mi sembra che tu non voglia fare nulla, eh? Il ragazzino, stretto tra le braccia di Sandra e dell’altro, mugugnò qualcosa, piegando la testa all’indietro.

— Voglio solo essere sicura che sopravviva, ecco! — Portiamolo a casa, allora, così almeno lo rivestiamo, che morirà di freddo, altrimenti. — Io… Sandra si zittì quando la via venne schiaffeggiata dai lampeggianti azzurri di una volante della polizia. Rimasero tutti in silenzio, osservando la macchina che avanzava lentamente. Si fermò a pochi metri da loro e gli agenti scesero dalla vettura, probabilmente incuriositi da quella scena insolita in mezzo alla via. Sandra strinse con più forza le mani attorno al corpo del ragazzino svenuto e disse: — Agenti, questo ragazzo ha bisogno di aiuto. — Che sta succedendo? — domandò uno dei poliziotti, fermandosi a due i dal gruppetto. Intervenne il ragazzo che voleva portarsi via il giovane. — Questo mio amico sta poco bene e cercavo di portarlo fino a casa, agente. — Tuo amico? — chiese l’agente, con un tono che sembrava sarcastico. Sandra si accorse che adesso il poliziotto stava osservando il ragazzino, come se solo in quel momento si rendesse conto che era nudo, tranne che per le mutande. — Mio amico, sì — confermò l’altro. — E perché se ne va in giro nudo? — Stavamo… be’, ci divertivamo tra di noi facendo qualche foto un po’ particolare e… ha capito, no? L’agente grugnì, il volto teso. Il collega rimaneva alle sue spalle, in silenzio, giochicchiando col manganello d’ordinanza. — Non le voglio capire, certe cose, ragazzo. — Allora cerchi di convincere queste due ragazze a non impicciarsi, così noi ce ne torniamo a casa, no? — Agente, noi… — iniziò Sandra, ma l’altro la zittì con un gesto perentorio.

— Silenzio, adesso — ordinò il poliziotto. — Ti seguiremo fino a casa, giovanotto. Controlliamo la situazione e poi vi lasciamo ai vostri giochetti. Il ragazzo annuì, poi si avvicinò a Sandra che aveva tirato a sé il ragazzino. — Si è anche ferito, cadendo — mormorò, carezzandolo all’altezza della tempia, dove i capelli erano sporchi di sangue. — Bene — aggiunse il poliziotto — vorrà dire che dopo ti prenderai cura di lui. — Scoppiò a ridere, seguito dal collega. — Andiamo, adesso, abbiamo giù perso troppo tempo. — Si rivolse verso Sandra e Nicole e disse: — Grazie ragazze, ci pensiamo noi. Andate pure a casa. Sandra notò il modo in cui il poliziotto le aveva squadrate, ma fece finta di nulla. Annuì senza aggiungere nulla e fece un cenno a Nicole. — Buonasera — disse infine, allontanandosi lungo la strada. — Sempre in cerca di guai, eh? — si lamentò Nicole. — Possibile che non ti accontenti mai? — Quel ragazzo non ha bevuto — ribatté ancora. — Basta, ho capito — si arrese Nicole. — Hai ragione tu, andiamo a casa ora. Sandra strinse le labbra e non disse nulla. Svoltarono l’angolo della via nel momento in cui la volante della polizia partiva, con i due ragazzi sui sedili posteriori.

Sarai solo mio

— Prego — dice Jeff, aprendo la porta dell’appartamento e facendo strada. Konerak è tra le sue braccia, appeso quasi a peso morto. Ogni tanto apre gli occhi, ma non riesce ancora a parlare. A un certo punto è riuscito a spalancare gli occhi e Jeff ha temuto che potesse fare un cenno ai poliziotti. Ma è tornato immediatamente a spegnersi, vinto dalle droghe che gli aveva somministrato. — Proprio un bel nido d’amore — scherza uno dei due poliziotti. Quello più

giovane, che in strada è rimasto in disparte, lasciando che fosse il collega a prendere qualche decisione. Jeff sorride e alza le spalle. Deve lasciarli fare. E calcare la mano giocando con il loro atteggiamento omofobo. — Sì, niente male davvero. Ce lo dicevamo proprio oggi pomeriggio mentre facevamo un po’ di foto. Lascia cadere Konerak su una poltrona e indica il pavimento ai poliziotti. Decine di foto sono ancora sparpagliate ovunque. Konerak sorridente. Konerak che fa il duro. Konerak che inizia a spogliarsi. E infine Konerak in mutande. In alcune foto è già stordito dal sonnifero, ma i poliziotti, che adesso sembrano annoiati, misurano la stanza a i lenti, senza guardare nulla di preciso. — Questa è la camera da letto? — dice a un certo punto l’agente che aveva parlato con lui in strada. Jeff sente un brivido di preoccupazione e muove un o verso di lui, annuendo. — Esatto, è la mia… nostra camera, sì. Il poliziotto poggia il palmo della mano sulla porta chiusa e sorride, poi scuote la testa sbuffando. — Che roba — mormora. — Che lavoro di merda che faccio. Jeff è fermo a due i da lui. Incrocia le braccia sul petto, e aspetta, fissando il poliziotto. — Che dici Rob? — domanda l’altro, che nel frattempo si è avvicinato all’uscita. Il poliziotto davanti a Jeff, Rob, annuisce. Dà un colpetto alla porta, facendo un cenno verso il collega. — Andiamo via, già. Non ne voglio sapere nulla di storie di questo tipo — sentenzia. — Scusate per il disturbo — li ringrazia Jeff, tornando a respirare non appena il poliziotto si allontana dalla camera da letto. — Cerca di non perderti ancora una volta il tuo… amico, eh? — dice Rob. — La prossima volta lo ammanetto — scherza Jeff. I poliziotti si esibiscono in un sorriso sghembo ed escono. — Non perdere le

chiave, però — commenta il più giovane dei due mentre Jeff sta chiudendo la porta. — Farò attenzione — promette, poi è di nuovo solo, con Konerak addormentato sulla poltrona. Sente un tremore crescere dentro di lui. Vorrebbe bere qualcosa di forte, ma si trattiene. Poggia tutte e due le mani sulla porta e piega la testa in avanti. — Merda — mormora, poi inspira a fondo e lascia andare l’aria lentamente. — Konerak — dice a bassa voce, avvicinandosi al ragazzino. Lo osserva e sente la rabbia montare lentamente, ma prova a contenerla. Non deve rovinare quanto fatto finora, no. Ha un progetto preciso per quel ragazzino e non deve cedere a un momento di collera. Alza lo sguardo dal giovane e lo fissa sulla porta della camera. Era così vicino, il poliziotto, vicinissimo. Tony, il gentile e sensuale ragazzo sordomuto è disteso nel suo letto, rigido nell’abbraccio della morte. Può vederlo anche solo col pensiero. Può sentire l’odore della sua pelle recuperando i ricordi delle due notti ate accanto al corpo immobile. — Ora riprendiamo, Konnie — dice tornado a rivolgersi all’amico del Laos. — Sarai solo mio, non temere. Jeff si avvicina a un mobile e tira fuori una piccola cassetta degli attrezzi. La punta del trapano è ancora sporca di sangue. Prende anche la boccetta con l’acido e si sistema sul divano. Sposta il corpo di Konerak e lo adagia in modo da poter lavorare per bene, poi prende dei teli cerati e li sistema sotto la sua testa e sul pavimento. — Sarai solo mio — dice ancora, prima di posizionare la punta del trapano alla tempia del ragazzo, nello stesso punto che aveva già perforato nel pomeriggio. Il sangue si è raggrumato nella ferita, ma non appena la punta inizia a girare velocemente viene via come uno strato di polvere. Konerak si agita ma l’effetto combinato di sonnifero, droghe e acido lo tiene incollato lì, incapace di reagire al dolore. La punta affonda nella testa e un rivolo di sangue scuro scivola denso come il caramello. Quando non esce più nulla Jeff riempie una siringa di acido e inizia a versarlo senza fretta nel foro sul cranio. Un sorriso stretto disegna il suo volto, mentre l’odore del cervello che brucia al contatto con quel liquido corrosivo inizia a eccitarlo. — Sarai solo mio — sussurra avvicinandosi all’orecchio del ragazzino. Poi versa dell’altro acido e con la mano libera inizia a slacciarsi i pantaloni. Quel momento deve essere festeggiato nel migliore dei

modi.

Mi vuole uccidere!

22 luglio 1991

— Ma dove cazzo va questo? Harry Hendricks inchiodò e fermò la volante proprio in mezzo alla strada. — Dimmi che non lo vedi anche tu, ti prego — commentò Vince, il suo collega, che quasi si gettò addosso l’intera tazza di caffè. L’uomo correva in strada. Era completamente nudo e qualcosa penzolava a un polso. Era un uomo di colore e per poco la sua pelle scura non si confondeva con l’oscurità che il crepuscolo si portava appresso. — Andiamo — ordinò Harry, scendendo dalla macchina. Quando li vide l’uomo alzò le braccia e corse verso di loro. Stava gridando come un matto, ma il respiro era così affannoso che Harry non riusciva a distinguere nemmeno una parola di quello che farfugliava. — Che dice? — domandò Vince. Harry si limitò ad alzare le spalle. Aveva però portato la mano al manganello, pronto a qualsiasi evenienza. Avanzò lentamente, andandogli incontro, seguito come un’ombra dal collega. — Ferma, su — disse Harry, portando le mani in avanti quando il nero fu a meno di tre metri. — Adesso calmati e… — Mi vuole uccidere, Cristo! — Non ti avvicinare, aspetta — disse Harry quando l’uomo fece un o in avanti. Lo scrutò e l’occhio finì al polso destro dell’uomo nello stesso istante in cui Vince parlò.

— Sono manette, quelle — disse il collega. — Cristo, Cristo — gridò l’uomo lasciandosi cadere a terra, in ginocchio, poggiando poi i palmi sull’asfalto e supplicando qualcosa di incomprensibile. — Dovete aiutarmi, sennò m’ammazza! — Dicci il tuo nome, amico, e… — … perché vorrebbero ucciderti? — Vince completò la frase di Harry. — Perché? — domandò il nero con voce stridula e lo sguardo di nuovo alto, gli occhi spalancati e lucido. — Perché è un pazzo uscito dal buco del culo dell’inferno, ecco perché! Harry esaminò senza avvicinarsi il corpo nudo dell’uomo. Impossibile dire se avesse lividi. Quei neri erano tutti uguali e potevi picchiarli per ore senza renderti conto di averli conciati per le feste. Per notò alcune ferite e del sangue secco, labbra spaccate e un lungo taglio non troppo profondo al fianco. — Alzati — ordinò Harry. — Portaci da questo tipo che voglio farci due chiacchiere. L’uomo si alzò con un balzo e annuì. Balbettò qualcosa e poi si voltò lungo la via, indicando la direzione da cui era giunto. — Appartamento 213 — mormorò, la voce adesso tremava. — Seguici con la macchina — disse Harry rivolto a Vince. — Andiamo a trovare questo presunto assassino uscito… da dove hai detto che è uscito? — Dal buco del culo dell’inferno — ripeté l’altro, ora più sicuro. — Ecco — disse Harry, poi si fermò e allargò le braccia, rendendosi conto della situazione. — Vince? — Sì? — Prendi un telo da dietro la macchina… non possiamo portarlo in giro così, anzi… come non detto. Prendi il telo e facciamolo salire in macchina, così evitiamo problemi!

— Vieni qui, tu — disse Vince, invitando l’uomo con un gesto delle braccia. — Come hai detto di chiamarti? — Tracy Edward, signore. — Andiamo Tracy. Copriti con questo e sali, forza. Harry osservò in silenzio, le braccia incrociate sul petto. Non sapeva se sorridere per quella situazione assurda o se concedersi qualche minuto di sano avvilimento. Senza aver ancora preso una decisione salì in macchina e riavviò il motore. — Dov’è questo pazzo? — In fondo alla via, agente — rispose Tracy ora più tranquillo. — Vuole ucciderti, eh? — domandò Harry, decidendo infine di concedersi un sorriso. — L’ha detto, agente… che fottuto pezzo di merda! È solo per un colpo di fortuna che sono riuscito a scappare! Già mi vedevo morto, Dio!

Il ragazzo che aprì la porta aveva un aspetto mite. Ma Harry non si lasciò ingannare dall’apparenza. — Jeff? — domandò. L’altro annuì, ma non disse nulla. Lasciò vagare lo sguardo sulle tre figure che adesso erano davanti alla porta del suo appartamento, come se quella fosse una visita attesa. — Assassino di merda — gridò Tracy. — Fallo stare zitto, Vince, ti prego — protestò Harry. Nello stesso momento in cui parlava, sentì quella puzza aggredirlo alle narici, un odore che non avrebbe saputo descrivere ma che non prometteva nulla di buono. Si rivolse al proprietario dell’appartamento 213. — Le dispiace se diamo un’occhiata in giro? Il suo amico qui…

— Io non sono amico suo, capito? — sbottò Tracy. — Ha avanzato delle accuse piuttosto serie e… — Prego — disse il giovane, scostandosi dalla porta per farli entrare. Harry lo squadrò con attenzione, poi entrò, seguito a un o da Vince che teneva sotto stretta sorveglianza il nero, ora visibilmente agitato. — Guardate di là in camera, forza — proruppe ancora Tracy, cercando di liberarsi senza successo dalla presa del poliziotto — andate a vedere che schifo, su! C’è pure il coltello con il quale voleva… — Basta, Dio Santo! — urlò Harry. — Sennò giuro che t’ammazzo io, ah! — Poi si rivolse all’uomo che sembrava rispondere al nome di Jeff. — C’è qualcosa in camera che non dovrei vedere, forse? Il giovane, lo sguardo ora assente e l’aria un po’ strana, alzò le spalle, fece qualche o indietro e si lasciò cadere su una poltrona, senza dire nulla. — Ehi, amico — insistette Harry — sto parlando con te, eh? — Cos’è — si intromise Vince — uno squilibrato del cazzo? — Perché non ve lo avevo detto io che è un matto assassino, eh? — intervenne ancora Tracy. Harry annusò l’aria e storse la bocca. — La senti anche tu questa puzza, Vince? — Ti prego — rispose il collega — se ti dico cosa mi sembra potrei vomitare. Harry annuì. — Allora non mi sono ingannato, vero? Nessuno rispose. In effetti Harry aveva parlato come a se stesso. Fissò il ragazzo sprofondato nella poltrona, immaginando che forse fosse fatto di chissà quali schifezze e si avvicinò a una mensola, accanto alla porta della camera da letto. Era distratto da troppi pensieri che si accalcavano tutti insieme, e forse per questo non si rese subito conto di quello che stava guardando. Trasalì. — Dio, ragazzo, che schifo è questo?

— Arte — rispose Jeff, a mezza bocca. — Arte? — Harry avrebbe voluto tapparsi il naso tanto era terribile il puzzo in quell’appartamento. — Questi teschi schifosi imbrattati di vernice tu la chiami arte… Si bloccò, quando un pensiero lo colpì come una frustata. Avvicinò il viso a quei quattro oggetti sulla mensola. Quattro crani dipinti con vernice colorata e… merda, sembravano tutto fuorché dei soprammobili. Sembrano veri, pensò. Poi ancora una volta respirò l’aria di quella stanza e il pensiero dapprima solo scioccante, non sembrò così assurdo. Con la coda dell’occhio osservò il giovane. Era immobile, le braccia distese sulle gambe, lo sguardo fisso, perso nel vuoto avanti a sé. Tracy aveva smesso di parlare e anche Vince aveva ben poco da aggiungere. Tutta la situazione sembrava a dir poco surreale. Harry mosse un o alla sua sinistra e si fermò davanti alla porta della camera da letto. Indugiò un momento, poi afferrò la maniglia e aprì. Non capì se il giramento che lo fece barcollare dipendeva dalla nuova ondata di puzza nauseabonda che uscì dalla stanza o da quello che vide. Un cadavere tumefatto e in avanzato stato di decomposizione giaceva nel letto. C’era sangue ovunque e a terra, un paio di i oltre la soglia, un coltello insanguinato con la lama rivolta verso i piedi di Harry, sembrava stare lì a promettere nuovi orrori. In un angolo notò quello che sembrava un altro cranio. Non si chiese se fosse arte o meno. Sapeva con certezza che sotto quelle spennellate di vernice si nascondeva l’identità di un altro cadavere. — Cristo santissimo benedetto — mormorò, poi si piegò in due e vomitò. Dietro di lui Vince stava dicendo qualcosa, ma per qualche momento Harry non capì nulla. Si scosse solo quando credette di veder muovere il ragazzo seduto sulla poltrona. Ma forse se l’era solo immaginato. Jeff, l’uomo uscito dal buco del culo dell’inferno, era sempre immobile, assente, con lo sguardo pietrificato, indifferente a tutto e tutti. — Tu sei il diavolo — mormorò Harry non appena si fu ripreso. Si alzò di nuovo nel momento stesso in cui Vince ammanettava i polsi del carnefice. — No, anzi — riprese — sei molto peggio, amico, molto peggio del diavolo.

— Ve lo avevo detto, eh? — disse Tracy, indietreggiato fino alla porta dell’ingresso. — Sta’ zitto — sbottò Harry. — Quante volte te lo devo dire, negro del cazzo. Sta’ zitto, per favore. Sennò… — Non finì la frase. Non disse ancora una volta “sennò t’ammazzo io”. Non dopo quello che aveva visto. Deglutì e scambiò un’occhiata d’intesa col suo collega. — Chiama la centrale, Vince. Qui ci sarà da lavorare un bel po’.

Epilogo

Novembre 1994

— Un attimo di silenzio… Jeff si blocca e lo stesso fa Jesse Anderson accanto a lui. Sorridono entrambi, perché a grandi linee sanno quello che a per la testa al loro compagno. O meglio, non tanto quello che gli a per la testa, ma più o meno sanno quello che sta per dire. Infatti ora Christopher ha lasciato la scopa e si è buttato in ginocchio, le mani alte, verso il soffitto grigio del refettorio. Anche la guardia, ferma a una decina di metri da loro, adesso ride. — Ci risiamo — esclama, e si colpisce la coscia con la mano, divertito. — Silenzio! — dice Christopher a voce più alta, infastidito dalle risate del sorvegliante. — Scarver, ti prego — lo supplica la guardia — ne abbiamo abbastanza di queste farneticazioni. — Il Signore mio padre mi sta parlando, Reginald — ammonisce l’uomo, ancora in ginocchio con le mani al cielo — e la tua blasfemia sarà punita, un giorno. E tu lo sai bene. Per questo ridi, perché il diavolo scorre nel tuo sangue impuro. — Ora si prende una randellata — mormora Anderson rivolto a Jeff. Tutti e due voltano lo sguardo verso Reginal Terry, aspettandosi di vederlo scattare. È per metà di origini cinesi, per metà nemmeno lui sa cosa. Per tutti loro è semplicemente il “Cinese”. Ma ora dalla bocca di Scarver è uscito fuori quel maldestro “impuro” che di sicuro farà incazzare Terry e… — Buffone — esclama la guardia, e con un gesto sprezzante si allontana, uscendo dalla stanza. — Non ti voglio sentire — dice dal corridoio, poi i suoi

i si allontanano. — Sei salvo, Chris — dice Jeff, facendo un cenno divertito verso Anderson. Scarver scuote la testa. — Dio mi stava parlando — dice, sicuro di sé. — Per questo ha allontano il Cinese. L’ha voluto lui… — Quindi Dio ti ha parlato, eh? — chiede Jesse. Scarver annuisce poi con uno scatto scivola sotto a un tavolo e arriva a ridosso della parete grigia. Quando torna indietro stringe tra le mani la gamba di metallo di un tavolino. — Mi ha detto lui che era lì sotto. Fa tutto parte del disegno generale, non capite? — Anche quella gamba fa parte del disegno di Dio? — domanda Jeff. Scarver per un momento si blocca, chiude gli occhi, sembra trattenere il respiro, poi risponde: — È così. Ogni cosa fa parte del tutto. E io sono Cristo, il figlio di colui che tutto sa, il figlio di Dio. — Possiamo sapere anche noi cosa ti ha detto? — butta lì Anderson. Jeff lo spalleggia: — Certo, non possiamo saperlo anche noi che siamo tuoi amici? Christopher Scarver apre un sorriso deliziato. — Approfitteremo del fatto che l’impuro è andato via. E vi nominerò discepoli, se volete. Jeff e Anderson si scambiano un cenno d’intesa e annuiscono insieme. — E cosa comporta questo? — s’informa Jeff. Scarver alza le spalle. — Non possiamo saperlo ora. Mio padre ci guiderà giorno dopo giorno. Accettano di diventare discepoli. Scarver sembra raggiante. — Allora non rimane che procedere con il rito. — Alza la gamba del tavolo davanti a sé. — Questa è la spada degli angeli che combattono il Male. Nel nome di mio padre, vi darò la mia benedizione.

Avvicinatevi, fratelli. Jeff avanza per primo, cercando di non incrociare lo sguardo con Jesse. Sa che se scoppia a ridere non sarà facile placare l’ira di Christopher. — Fratello Dahmer — mormora colui che si crede il figlio di Dio. — Fratello Anderson. Adesso Scarver socchiude gli occhi. Loro due sono fermi davanti a lui, a un metro. Quando Christopher spalanca gli occhi, c’è una luce strana nel suo sguardo. Solleva la gamba del tavolo alta sopra la testa, poi annuisce. — Siete pronti, fratelli? — Siamo pronti — rispondono quasi all’unisono. Scarver respira a fondo, poi sorride. — Allora adesso chiudiamo gli occhi e concentriamoci sul volere di mio padre, Dio. Jeff chiude gli occhi. Immagina che Anderson faccia lo stesso. — Dio mi sta parlando di nuovo — mormora Scarver. — E mi chiede di far una cosa… Silenzio. Un silenzio lungo e frizzante. Jeff per un momento ripensa a suo padre, a quei silenzi che troppo spesso galleggiavano tra di loro. Silenzio. — Mi chiede di… — sussurra ancora Scarver. — Ho capito, padre. Ho capito: il Male deve essere debellato… Jeff sente la testa esplodere in un dolore sordo e lancinante. Subito dopo sente un grido, ma non riesce a capire se è lui che ha urlato o qualcun altro. Poi capisce che il suo corpo non reagisce più. Cade a terra pesantemente. Prova a riaprire gli occhi, ma non ci riesce. Davanti a sé ha un velo nero di incoscienza e miriadi di immagini iniziano a vorticare nella sua mente, come un film proiettato a velocità quadrupla. Sua padre, il volto teso della madre, Shari che lo guarda preoccupata, e tanti volti senza più nome, sorrisi, carezze, schiamazzi, rivede anche sua nonna e a un certo punto è fuori dal corpo e vede addirittura se stesso. Per un momento crede di sentire anche delle voci, ma sono confuse e non ne capisce il significato. Vorrebbe fermare tutto, rallentare quella sequenza di

immagini, far andare via tutti quei volti da dietro le sue palpebre, ma sembra impossibile, sono tutti lì e lo fissano, puntano i loro occhi su di lui, ognuno come a voler dire qualcosa, ma senza parlare… Silenzio. Di nuovo quel silenzio. Vorrebbe dire qualcosa lui stesso, adesso, magari un ultimo “mi dispiace”, ma sa che non ha senso. Anche suo padre a un certo punto ha smesso di crederci. Sorride allora, Jeff, o almeno pensa di sorridere, mentre con le ultime percezioni sente il suo corpo sconquassato con violenza. Colpi a ripetizione, forse. O solamente la coscienza che si ribella. Non esiste una risposta in quel momento. Jeff sa che qualcuno lo attende, oltre al… Finalmente ha raggiunto un limite, cazzo: quello tra la vita e la morte. E dall’altra parte, il Diavolo. Prova di nuovo a guardare se stesso dal di fuori, ma questa volta non ci riesce. Allora fissa quell’ombra oltre la soglia, e dentro si sé immagina di sorridere, sì, sorridere ancora una volta. Di sorridere al Diavolo. Di sorridere a se stesso. Alla fine suo padre su una cosa aveva avuto ragione: esiste sempre un limite. Sempre. Anche per Jeffrey Lionel Dahmer. Mi dispiace, vorrebbe dire, guardando un’ultima volta gli occhi tristi di suo padre, mi dispiace, papà, avevi ragione tu, alla fine ho trovato il mio limite. Ma non potevamo vederlo nessuno dei due. Era troppo in là, nel profondo, dove nasce l’arte più oscura di tutte. Dove ho perso me stesso… mi dispiace, papà. Davvero. Poi è solo silenzio. Ancora silenzio.

FINE

Serial Killer in questa collana

Andrea Franco, Lo sguardo del diavolo: Jeffrey Dahmer Entra nella mente del serial killer ISBN: 9788867750474 Fabio Oceano, La quarta vittima Entra nella mente del serial killer (in preparazione) ISBN: 9788867750573 Umberto Maggesi, Io, il mostro Entra nella mente del serial killer Andrei Chikatilo, detto il mostro di Rostov (in preparazione) ISBN: 9788867750566

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