Irene Grazzini
MUTATION
www.scrittorindipendenti.com
Titolo | Mutation
Autore | Irene Grazzini
Editore | www.scrittorindipendenti.com
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ePub editato da sca De Luca
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Fantascienza:
Mutation di Irene Grazzini
Raccolte di racconti:
Mondi in divenire di Andrea Zanotti
Prologo
L’uomo fissava la parete scura, il respiro affannoso. Non udiva più nulla. I rumori erano cessati, ma quel silenzio gravido di attesa era più assordante delle grida e degli spari che erano svaniti di colpo. Irreale. La quiete prima della tempesta. L’uomo sentì una goccia di sudore freddo scivolargli sulla nuca, penetrare nel colletto e sotto il corpetto di chitina che gli cingeva il busto. Non aveva un’armatura. Non era un guerriero. Era soltanto uno studioso. Eppure stringeva in pugno una balestra ad aria compressa, come se ne andasse della sua vita. Forse era così. Non riusciranno a prendermi qua dentro! Si sforzò di non pensare a quello che era accaduto all’esterno. Erano arrivati durante l’Ora del Sonno, eludendo la sorveglianza dei Cacciatori di guardia. Li avevano colti di sorpresa, vanificando ogni resistenza. Erano emersi dalle tenebre del Sottosuolo e avevano recato con sé sangue e morte. L’uomo strinse le palpebre. Immagini tremende gli scorrevano davanti agli occhi. Conoscenti, colleghi, amici… quanti di loro erano sopravvissuti? E se fossi rimasto solo io? Scacciò il pensiero con decisione. Era troppo terribile. No, non poteva essere rimasto l’unico umano ancora in vita nell’Alveare Beta7! Erano una piccola comunità, formata da qualche centinaio di persone. Ma possedevano qualcosa che valeva più di tutte le loro vite.
Era stata la loro maledizione. L’uomo non si voltò. Non voleva vedere l’oggetto che campeggiava al centro del bunker corazzato. Le pareti erano spesse, piombate. Mura invalicabili. I suoi compatrioti avevano impiegato anni per costruirle, utilizzando il piombo estratto dalla miniera A3. Rendevano quel luogo inaccessibile. Era al sicuro. I nemici non potevano entrare. E lui non poteva uscire. Sono al sicuro come in una tomba. Deglutì e il rumore riverberò da un angolo all’altro. La stanza aveva una strana acustica, riusciva a trasformare ogni suono in uno stridio metallico. Un borborigmo freddo. Il pavimento era perfettamente liscio, senza un’imperfezione. Anch’esso piombato, ovviamente. Una precauzione in più, dato che il pericolo non veniva dal basso, ma dall’alto. L’uomo sospirò. C’erano vari tipi di pericolo e l’essere umano non era il peggiore. Ma di certo era il più spietato. Trattenne il fiato, aguzzando l’udito. Da quando si era chiuso là dentro, gli pareva di essere finito in un mondo parallelo. Non riuscire a vedere nulla di quanto stesse accadendo lo riempiva di sollievo misto a terrore. C’erano spettacoli a cui preferiva non assistere, ma allo stesso tempo rimanere ad attendere un nemico sconosciuto logorava i nervi. Era come se un martello pendesse sulla sua testa, pronto a fracassarla. Ancora silenzio. L’uomo avrebbe voluto mettersi a urlare. Si morse la lingua a sangue. Quanto tempo era ato? Si accorse di non riuscire a quantificarlo. Il tempo era una convenzione umana. Un attimo poteva durare in eterno o spegnersi in un battito di ciglia. Cosa restava, poi, se non un’ombra sbiadita? La Macchina che custodisco. Si rammentò, cercando di racimolare coraggio. Resta da secoli, insieme ai suoi segreti.
Ed era per quei segreti che la sua gente era morta. Ne valeva la pena? Nonostante quello che aveva imparato, nonostante i suoi giuramenti, non ne era sicuro. Troppo pochi umani erano rimasti nel mondo per sprecare così delle vite. La mano tremante si abbassò. La balestra era pesante, il braccio cominciava a dolergli. Non era abituato a quegli sforzi, ava la maggior parte del tempo seduto alla Macchina. La tensione gli rodeva ogni energia, lasciandolo svuotato. Il brillio ritmico della piccola spia luminosa alle sue spalle era l’unica nota di colore nella stanza. E la parete era sempre scura e silenziosa. Forse se ne sono andati. Stava cominciando a crederci, quando udì il tonfo metallico. Sussultò, suo malgrado, e per poco la balestra non gli cadde. La riprese, stringendola con entrambe le mani. Si diede dello sciocco. Non aveva idea di come usare quell’arma, con ogni probabilità sarebbe riuscito soltanto a farsi male da solo. Avrebbe risparmiato la fatica ai nemici. Il rumore si ripeté, appena più forte. L’uomo si sforzò di calmare il martellio del cuore che gli rombava nelle orecchie. Tranquillo! Si impose. Qui non possono raggiungerti! Quando aveva serrato la porta blindata, chiudendosi nel bunker, sapeva che l’Alveare era perduto. E sapeva anche che nessuno poteva entrare in quella stanza, senza il suo permesso. La a sedici cifre per disinnescare la serratura era impossibile da indovinare. I nemici avrebbero dovuto tentare milioni di combinazioni. Sarebbero morti prima di riuscire a raggiungere la Macchina e il suo custode. L’uomo sperava che si annoiassero prima. Il martellio continuò per qualche minuto, poi cessò. Si erano già arresi? Cosa stavano facendo? L’uomo spostò il peso da un piede all’altro. La parete piombata era spessa più di sette braccia. Neppure con un laser sarebbero riusciti ad aprire
un varco. Nessun’arma poteva farlo. Si concesse un sorriso. Il primo di quella notte. Fu anche l’ultimo. Il rumore fu spaventosamente lieve rispetto all’esplosione che l’aveva provocato. L’uomo si sentì scagliare indietro dall’onda d’urto, mentre un’intera ala del bunker si squarciava come un budino e una vampata di plasma seguiva il proiettile nella sua folle corsa. Non è possibile! L’uomo si trovò accasciato contro la parete opposta. Non aveva avuto il tempo neppure di sentire il dolore. Quello venne dopo, squassante, mentre le costole frantumate gli pungevano i polmoni e la milza. Sentì in bocca il gusto amaro del sangue. Non era possibile, eppure era accaduto. Incastrato nel muro opposto, in una sorta di cratere, c’era soltanto un piccolo proiettile apparentemente innocuo. Dallo squarcio nella parete entrò una figura. L’uomo cercò di metterla a fuoco, ma aveva la vista appannata. Contro la luminosità soffusa dell’esplosione, ne distingueva a malapena i lineamenti. Era un umano? O qualcos’altro? Il nuovo venuto si guardò intorno, con calma. I suoi occhi, due pozzi scuri, si posarono sull’uomo rantolante al suolo. Si avvicinò in un frusciare di vesti. Indossava una cotta aderente, di metallo lucido e perfettamente liscio, con sopra un mantello bordato d’oro. – Il dottor Shellin? – domandò, con voce profonda. L’uomo aprì la bocca, ma si accorse di avere la gola riarsa. Si limitò ad annuire e anche quello gli costò uno sforzo. – Co-come sa… il mio nome?
Il nuovo venuto fece un gesto vago, come a indicare che non era importante. Shellin era d’accordo. Non era importante il suo nome. Tanto sapeva che sarebbe morto. – Mi rincresce fare la sua conoscenza in una situazione del genere, ma d’altronde era inevitabile. I suoi superiori mi hanno negato ciò che cerco. Non mi piace ricevere rifiuti – Il nuovo venuto fece una pausa, scrollò le spalle. – Quindi sono venuto a prenderlo. La spia luminosa sulla Macchina continuava a lampeggiare, inesorabile. Un cuore rosso che batteva in un ritmo eterno. Era in stand–by. Anche lei attendeva. Il dottor Shellin tossì e le labbra si colorarono di sangue. Non ci volevano particolari abilità mediche per capire che un polmone era andato. E che era difficile sopravvivere, senza le cure necessarie. Non aveva siringhe di surfactant rigenerante in quella stanza. Sì, aveva ragione. Era una tomba. – Non l’avrai! – gracchiò, a fatica. – Scommetto di sì! – Il nuovo venuto non parve impressionato. Non batté ciglio neppure quando Shellin sollevò di scatto la balestra, premendo il grilletto. Il dardo a pressione saettò con un sibilo minaccioso. E deviò bruscamente dalla sua traiettoria, un attimo prima di traare il bersaglio. Salì verso il soffitto e ridiscese, in un volteggio leggero, fino ad aleggiare sopra il palmo sollevato del nuovo venuto. Shellin emise un rantolo. – Un Chimerico… Il nuovo venuto osservò divertito il dardo di metallo che obbediva ai suoi comandi, come sorretto da fili invisibili, poi andò a sfiorare i pulsanti della Macchina. Una carezza piena di aspettativa. Il monitor si accese, risvegliato da quel tocco. Ma rimase fisso su una schermata bianca.
– Lo immaginavo – annuì tra sé. Tornò a rivolgersi a Shellin, che con uno sforzo era riuscito a ricaricare la balestra. Lo stantuffo a pressione era di nuovo pronto. – La , per favore! Il dottore, ansimando, si limitò a sollevare l’arma. Il nuovo venuto scosse la testa, con un sospiro. Corrugò appena la fronte e il dardo roteò, obbediente, puntando contro Shellin. – Peggio per lei. Le ho offerto la possibilità di collaborare con le buone. Ci sono vari modi per ottenere informazioni da una persona. Non è necessario che sia viva e in buona salute – Fece un o verso di lui, gli stivali che ticchettavano sul pavimento striato di polvere – Mi dia la ! Ci sono dei segreti che devono rimanere tali! Per tutta risposta Shellin premette di nuovo il grilletto. Il nuovo venuto compatì il suo inutile zelo. Con quell’arma rudimentale non aveva speranza. Si preparò a deviare anche quel proiettile. Non ce ne fu bisogno. Il dottore era così debole da non riuscire neppure a prendere la mira. Eppure aveva un’espressione soddisfatta… Troppo tardi l’invasore comprese l’errore. Shellin non aveva mirato a lui. – Non ci sarà bisogno di nessuna – gorgogliò il custode della Macchina, mentre il dolore si tramutava in un senso di sorda oppressione. Lo stava soffocando. Il dardo andò a colpire il cuore del computer. Ci fu una scarica elettrica, il monitor divenne scuro, mentre il nuovo venuto lanciava un grido di frustrazione. La spia rossa lampeggiò un’ultima volta e si spense. Buio. Prima che il proiettile si immergesse nel suo petto, il dottor Shellin pensò che non rimaneva più nulla. Niente era eterno, neppure la Macchina, che era
sopravvissuta persino a un’Apocalisse e che adesso era distrutta. Inservibile. E morendo portò con sé i suoi segreti.
Parte prima SOTTOSUOLO
1
Miris Mann fu svegliata bruscamente dal ronzio insistente. Bzz-bzz-bzz. Era il rumore di qualcosa che si inceppa. Come un disco rotto. Miris non aveva mai visto un disco in vita sua, ma suo padre adorava quel modo di dire, che gli era stato tramandato a sua volta dal padre, in una catena che si perdeva in un ato lontano. Forse migliore del presente. Miris non lo ricordava, quindi non aveva termini di paragone per giudicare. Neppure le interessava. Il ato era ato, punto. Il futuro era immerso nel buio. Soltanto il presente contava. Per quello che ne sapeva, qualche tremenda mutazione poteva essere già in atto nel suo corpo, condannandola a pochi Cicli di vita nella sofferenza. Non sarebbe stata la prima né l’ultima vittima dei Raggi. Ma non poteva negare che quell’eventualità la terrorizzasse. L’aveva già visto accadere. Solo i più deboli muoiono. Si disse. Gli altri si sono adattati a sopravvivere. Non era certa che “sopravvivere” e “vivere” fossero sinonimi. Si sollevò a sedere sul letto, un bozzolo caldo e accogliente. La ragnatela che lo formava era accuratamente trattata, impedendo che si appiccicasse alla camicia da notte, di seta finissima. I migliori ragni dell’allevamento avevano creato le sue vesti e le tende candide che ondeggiavano alla finestra, accarezzate dalla luce azzurrina dell’argon. Un nuovo Ciclo era iniziato.
Iniziato male, non poté evitare di pensare la ragazza. Il ronzio era sempre più insistente. Si accompagnò al rumore di terracotta infranta e questo bastò a far ripiombare Miris nella realtà, cancellando gli ultimi sprazzi di sogno. – Il mio vaso! I cocci giacevano a terra, sul pavimento di pietra, disordinatamente scomposti. Due cingoli arrugginiti vi arono sopra, continuando la loro opera di distruzione. Bzz-bzz. – Eh, no! Adesso basta! – Miris balzò in piedi e si diresse a o furioso contro il piccolo droide Ripulitore che imperversava nella sua stanza. Quando si era ? Era certa di averlo lasciato in stand-by la sera prima. Fece una smorfia. In effetti, non ne era proprio sicura. Era stata una serata un po’ movimentata e forse, al momento di coricarsi, non era pienamente in possesso delle proprie facoltà mentali. Situazione molto pericolosa, per diversi motivi. Non ultimo il fatto che si era trovata a baciare Troy schiacciata contro il tavolo da lavoro del padre. E subito dopo gli aveva mollato un sonoro schiaffo. Giusto per dimostrare che le donne, in certi periodi del mese, erano la personificazione delle contraddizioni. Almeno era quello che aveva pensato Troy, ma il motivo era un altro. Miris preferì accantonare il problema e concentrarsi sul droide in cortocircuito che le stava distruggendo camera. – C3D4, stop! – intimò, pur sapendo che era inutile. In quei casi il comando vocale era la prima funzione ad andare a farsi friggere. Come volevasi dimostrare, il droide continuò a muoversi, agitando spazzole e aspiratori che emergevano dal suo piccolo corpo cilindrico. Era dotato di cingoli per muoversi e non aveva braccia, se non appendici meccaniche che gli davano l’aspetto di un buffo insetto. La testa era soltanto un pezzo di metallo arrotondato, cinto da una corona di spie luminose.
Stavano lampeggiando tutte freneticamente. Miris sospirò. Di nuovo un cortocircuito! Era la terza volta quella settimana. Davvero una gran seccatura. I Raggi si erano fatti ancora più penetranti nell’ultimo periodo, dopo qualche anno di relativa tranquillità. Tutte le vecchie apparecchiature elettroniche ne subivano le conseguenze. E anche la sua camera, che si stava trasformando in un campo di battaglia. Miris cominciò a lottare con la spazzola che voleva per forza spolverarle i piedi nudi. Le faceva il solletico, ma non era il momento giusto per ridere. Afferrò l’aspirapolvere incorporato e lo tenne fermo, mentre con l’altra mano premeva i tasti di reset del droide, che si dimenava come un insetto nella tela. Pareva quasi vivo. Invece era un inutile ammasso di ferraglia. Premette tre bottoni luminosi in rapida sequenza. Control, alt, canc. Non successe nulla. Il droide si limitò a ruotare più velocemente la spazzola, mentre il ronzio diventava assordante. Miris si morse le labbra, esasperata. Avrebbe dovuto chiamare la Sorveglianza perché resettassero quella macchina difettosa, ma di certo non si trattava di un caso isolato. Chissà quanto avrebbe aspettato la squadra di intervento! E intanto il droide aveva cominciato ad aspirare un lembo della sua camicia da notte e tirava con decisione. La ragazza sentì la stoffa tesa, sul punto di strapparsi. Prese un respiro. La Triumvira Florenzia non avrebbe apprezzato. Ma non era là, giusto? Miris sferrò un calcio deciso contro il droide. Comprese di aver fatto un errore nel momento in cui il suo alluce nudo urtò contro il metallo. Un tremendo errore. Colta da un dolore ottenebrante che si riverberò per tutta la gamba, cominciò a saltare per la stanza, mugolando tra i denti, mentre il droide finalmente libero tornava a scorrazzare per la stanza,
trascinandosi trionfante un lembo della sua camicia da notte. Così la trovò la sorella quando, attirata dai rumori che le ricordavano un esercito in carica, spalancò la porta della sua stanza. Chrisandra rimase sulla soglia, perplessa, osservando Miris che ballava in biancheria intima insieme al piccolo droide. Uno spettacolo decisamente insolito. – Che stai facendo? Miris esalò un gemito disperato. – Secondo te? – Sei impegnata in una danza tribale in versione spogliarellista? La sorella minore le rivolse un’occhiata supplichevole. – Ti prego, ferma questo distruttore! Chrisandra si era già mossa. Con tutta calma, si inginocchiò accanto al droide che era impegnato ad aspirare le bellissime (e costosissime!) tende e aprì uno sportellino sulla testa. Strappò via un fusibile. Il Ripulitore emise un singulto, poi si bloccò con un ultimo bzz folle. Miris si lasciò cadere sul bozzolo di ragnatela, massaggiandosi il piede offeso. Per lo meno le tende erano salve. Una ben magra consolazione. Fece scorrere lo sguardo lungo la stanza, valutando i danni. La sedia di metallo rovesciata, le tavolette sparse sulla scrivania, gli zoccoli di chitina e i pattini finiti in un angolo, il vaso in frantumi. Per quello non si sentiva triste come avrebbe dovuto. Conteneva i fiori d’argento che le aveva regalato Troy per festeggiare il loro fidanzamento. Miris li fissò, senza dar segno di volerli raccogliere. C’era stato un tempo in cui
gli uomini regalavano alle donne fiori veri. Li coglievano loro stessi, o li acquistavano a caro prezzo. La ragazza non aveva mai visto un fiore. Nell’Alveare Delta3 non crescevano più da tempo. Forse non vi erano mai cresciuti. I fiori erano morti sulla Terra, come tante altre cose. Miris si chiese quanto fosse vicina alla fine anche l’idea dei fiori, adesso che pochi umani ricordavano come erano fatti davvero. – Il condensatore di energia – Chrisandra agitò il fusibile davanti agli occhi della sorella – Te l’ho detto un milione di volte. Quando i droidi si inceppano, bisogna spengerli togliendo loro l’alimentazione. Oppure chiamare la Sorveglianza. Miris emise un mugugno. Come minimo si sarebbe trovata di nuovo Troy in casa, volenteroso di aiutarla. Non era certa di volerlo vedere. – Dargli un calcio non funziona? – Può essere un buon metodo, basta che tu indossi delle scarpe resistenti – Chrisandra rilassò il volto in un sorriso – Avanti, fammi dare un’occhiata! Le sfiorò delicatamente il piede e Miris non riuscì a trattenere una smorfia. – Ti fa male? – Stavo meglio prima. – Ma si può sapere come ti è venuto in mente di prendere a pedate C3D4? – Chrisandra si allontanò una ciocca di capelli biondi e lucenti dal volto. Miris ogni volta non riusciva a fare a meno di ammirarli. Erano così lucidi e lisci che parevano quasi finti. Nulla a che vedere con la matassa di ricci ribelli che incorniciava il suo volto. A quell’ora di mattina aveva quasi paura a guardarsi allo specchio. Temeva assomigliassero troppo a un cespuglio di ginestre radioattive. A parte quello, lei e la sorella erano molto simili. Stessi lineamenti delicati, stessi occhi color del muschio. Occhi bellissimi, non facevano che dire gli uomini.
Miris sapeva che c’era un’altra sottile differenza tra di loro. Tuttavia non lo avrebbe mai ammesso con nessuno, neppure con se stessa. Significava accettarla. Non voleva farlo. – Non mi piacciono i droidi – borbottò, lanciando un’occhiata carica di rimprovero a C3D4, che se ne stava immobile, tranquillo, incurante del disastro che aveva provocato. Non se ne era neppure accorto. In fondo, era solo una macchina, programmata per pulire. Lo stava facendo, a modo suo. Si limitava a obbedire al programma originario, ripetendo ogni giorno le stesse identiche mansioni. Non si annoiava mai. Come biasimarlo, se ogni tanto i Raggi lo mandavano in cortocircuito? – Non capisco mai quello che pensano. – Perché non pensano. Forse ci sono utili proprio per questo – Chrisandra continuava ad esaminare il suo piede – Ce la fai a muovere il dito? Potrebbe essere rotto. Miris non trattenne un’esclamazione di dispiacere, palesemente finta. Non era una brava attrice, anche se spesso si era trovata a recitare una parte. Ognuno aveva la sua parte nell’Alveare. – Che tragedia! Come farò ad andare alla festa?!? Chrisandra emise una risatina divertita. – Potresti almeno fingere di essere contenta del tuo fidanzamento. Troy è un bel ragazzo. – Mm-mm – annuì Miris, poco convinta. – Sua madre è la consigliera più fedele di nostro padre. – Mm–mm. – E ieri sera non mi sembravi particolarmente restia ad accettare le sue profusioni d’affetto – La frecciatina colse il segno. Miris si trovò ad arrossire, chiedendosi quanto la sorella avesse visto o comunque immaginato. Si sforzò di
non guardarla negli occhi. Non voleva scoprirlo. – Ti prego, niente domande! Chrisandra allargò le braccia, alzando lo sguardo al soffitto. – Va bene, sorellina, per ora ti lascerò in pace. Vediamo di sistemarti questo piede. Papà è già uscito e il Loculo è libero – le rivolse un’occhiata divertita – Ma prima mettiti qualcosa addosso. Non credo che ai droidi interessi, ma se asse qualche adepto di terzo livello… Pochi minuti dopo stavano scendendo verso i piani inferiori. Miris indossava una tunica di seta colorata d’azzurro, che metteva in risalto la sua carnagione chiara. Un corpetto di chitina, con un leggero rivestimento in piombo, le copriva il busto. Era pesante, la ragazza non amava portarlo, ma era necessario, soprattutto se intendeva uscire dal palazzo. Almeno seno e organi sessuali dovevano essere protetti dai Raggi. Le conseguenze non si vedevano subito. Ma c’erano. Miris lo sapeva bene. I gradini erano lucidi, perfettamente regolari. I Ripulitori sapevano il fatto loro, a parte C3D4. Ne avevano così tanti che, se anche qualcuno andava in cortocircuito, era rapidamente rimpiazzato. Eppure non erano infiniti. E, sebbene nessuno lo ammettesse apertamente, gli Ingegneri non erano in grado di ricostruirne uno dal principio. Si limitavano a ripararli, pregando che i Raggi non li danneggiassero troppo. E poi? Miris non voleva saperlo. Il piede le doleva quando lo poggiava sui gradini. Stava gonfiando, anche se non era certa che fosse rotto. Quando suo padre era piccolo non c’era bisogno di scale e la gente poteva salire e scendere con scatole di metallo, che andavano da un piano all’altro. C’erano ancora Elevatori nell’Alveare, ma ormai pochi erano funzionanti. Come tutte le apparecchiature elettroniche, si bloccavano troppo spesso per essere usati nella routine quotidiana.
L’energia non mancava. Ce n’era anche troppa. L’argon contenuto nelle lampade brillava con una sfumatura bluastra, formando un cordone di luce che si snodava nei corridoi. Miris lo trovava rilassante. Trasalì, quando la sorella le sfiorò il braccio. – Puoi appoggiarti a me, se ti fa male. Un gesto premuroso, gentile. Miris scosse energicamente la testa. – No, grazie, ce la faccio. E comunque sarebbe strisciata sulle ginocchia prima di chiedere il suo aiuto. Il contatto prolungato la innervosiva. Con chiunque. Per un po’ riusciva a controllarsi, ma la sua resistenza aveva un limite. Non incontrarono nessuno sul loro cammino. A quell’ora i Sacerdoti erano tutti chiusi nei loro Loculi e gli adepti li assistevano, prendendosi cura dei macchinari e dei medicinali conservati nelle celle frigorifere. Anche Miris era stata un’adepta fino al giorno prima. Adesso era una Sacerdotessa. Non riusciva a sentirsi diversa. Chrisandra la condusse nel suo Loculo. Lei era Sacerdotessa ormai da tre anni e aveva iniziato ad esercitare la professione in maniera autonoma, per quanto sotto il controllo della Corporazione. Così avrebbero fatto i suoi figli e i figli dei suoi figli, se non fossero morti prima. Non si poteva mai sapere in quel mondo. La Corporazione era una casta da cui non era possibile uscire. – Hai già pensato in quale branca specializzarti? – le domandò Chrisandra, facendola accomodare su una lastra di metallo. Era fredda e Miris non poté trattenere un brivido. Tutta la stanza era fredda e forse dipendeva dal fatto che era sottoterra, senza finestre. Ogni apertura era pericolosa, nonostante fossero lontani dalla Superficie. – A dire il vero, no – ammise, osservando la sorella che apriva un cassetto. Pinze e bisturi di metallo emisero un bagliore minaccioso. Gli aghi da siringa erano
tutti in fila. Sugli scaffali le provette con i farmaci erano ordinate in ordine alfabetico. In un angolo si intravedevano dei tubi sottili che percorrevano la parete. Un fluido rosato ribolliva al loro interno, per andare ad alimentare qualche Loculo ai piani superiori. – Nostro padre è ancora impegnato nella ricerca del vaccino MNK, per il momento non sta avendo i risultati sperati – Chrisandra si sistemò la tunica azzurra, simbolo di tutti gli appartenenti alla Corporazione dei Sacerdoti – Avrebbe bisogno di una mano. Miris scosse la testa. – Non mi interessa. Ne abbiamo già parlato. – Veramente da qualche tempo mi sembra che parliamo pochissimo. Miris non ribatté. Era vero. Chrisandra era sempre impegnata nel suo lavoro e la ragazza, abituata ad averla sempre accanto a sé, aveva sentito la sua mancanza come un vuoto improvviso. Stranamente, come risultato, aveva finito per allontanarsi da lei anche nei pochi momenti che potevano are insieme. Le voleva bene. Chris era stata sorella, amica e madre. Ma c’erano cose che non poteva dire neppure a lei. – Non voglio fare studi sulle mutazioni genetiche – si limitò a ribadire, con decisione. – Papà vuole trovare un modo per eliminarle. Miris strinse il pugno. – Però utilizziamo quelle che ci sembrano più utili. Chrisandra sollevò lo sguardo dalla provetta che stava aspirando nella siringa. Il liquido, di una tenue trasparenza giallognola, gorgogliava mentre la donna toglieva con attenzione le bolle d’aria. – Non capisco quale sia il problema.
Era proprio quello il problema. Neppure Miris capiva. Era stata cresciuta con l’idea che tutto fosse comprensibile, persino l’Apocalisse che si era abbattuta su di loro. Era scientificamente spiegata, era il corso naturale della storia della Terra. I deboli perivano e i forti sopravvivevano, secondo la scala evolutiva. L’essere umano doveva essere forte. Eppure c’erano cose che non poteva spiegare razionalmente. Le facevano paura. Non pensarci, allora! Ma sapeva quello che Chrisandra stava pensando. Era confusa, leggermente piccata dalla reticenza della sorellina, che si era ritirata in se stessa, snobbando tutti coloro che le volevano bene… Ecco, lo stava facendo di nuovo! Si bloccò, scosse la testa. La sorella le stava toccando il dorso del piede, cercando la vena. Quel contatto era bastato. Andava sempre peggio. Miris fu grata alla punta dell’ago che penetrò nella sua carne, iniettando l’estratto di Achillea mutata e fattori di crescita che avrebbero stimolato le sue cellule ossee a riparare il danno. Il dolore le impedì di pensare ancora.
2
Un cigolio nel buio. La vecchia insegna era spenta. I cavi pendevano inerti, come nervi messi a nudo in un cadavere in via di decomposizione. “ATTENZIONE LA ORI IN CO SO” La scritta, un tempo luminosa, campeggiava sul cancello del cantiere abbandonato. Il battente si muoveva appena tra il vapore acido che aleggiava nella notte. Cigolava, sofferente, straziando il silenzio che abitava la città. Lo era stata, un tempo. Adesso era un cumulo di macerie. Macerie pericolose. “ATTENZIONE” Se Kay avesse saputo leggere, si sarebbe trovato d’accordo con l’insegna. L’asfalto bagnato era squarciato in più punti, come se la forza della terra si fosse stancata di quella coperta nera e maleodorante che gli umani le avevano imposto per tanti anni, incuranti di ciò che si nascondeva al suo interno. Se l’era scrollata di dosso, come un gigante che si risveglia dal letargo. Il cielo era un coperchio d’inchiostro che colava in gocce nere al di fuori della pozza di luce della torcia alogena. Sia la terra che il cielo si erano rivoltati contro la sua stirpe. Kay scrollò le spalle. Non era certo di potersi considerare appartenente al genere umano. Una rete malconcia delimitava il vasto cantiere, imprigionando edifici che
ancora dovevano venire alla luce. Non sarebbero mai stati terminati. Se ne stavano immobili, brandelli di mattoni e cemento che affogavano nel grigiore. Scavatrici e pale meccaniche si tendevano verso il cielo in una muta richiesta d’aiuto. Spazzatura era sparsa ovunque, insieme a mucchi di materiale denso che si scioglieva sfrigolando sotto la pioggia. Il suo obiettivo era ato di là. Kay estrasse la pistola dalla fondina e vi inserì in fretta l’alimentatore a energia radiante, cercando di toccarlo il meno possibile con le dita. Indossava dei guanti protettivi, in fibra metallica, ma dubitava bastassero per frenare i Raggi. Per questo doveva agire in fretta. Con sé, in foderi allacciati alla schiena, portava anche due spade in metallo temprato. L’elsa era di una semplicità estrema, a croce, e la lama lunga quattro spanne, con una spaccatura troppo regolare per essere casuale. Forse non erano armi sofisticate, ma l’avevano salvato in più di un’occasione. E comunque non erano le semplice spade che sembravano. Il resto dell’attrezzatura era rimasto al Pozzo 43. Abbandonò il riparo e fece qualche o circospetto. La luce fissata alla cintura falciava la notte senza stelle, rischiarata soltanto dai lampi sopra la sua testa. C’erano sempre lampi e fulmini, come se l’universo fosse sempre infuriato. Kay spense la torcia. Decise che ne avrebbe fatto a meno, accontentandosi dell’elettricità tremolante nel cielo. Rendeva l’aria densa di tensione. L’oscurità gli era più congeniale. Alla sua destra giacevano due carcasse di metallo ammucchiate. Una era su un fianco, l’altra completamente rovesciata sul tettuccio e le ruote ormai liquefatte si rivolgevano alla pioggia. Una sorta di barricata rudimentale. Il cavo di una gru oscillava appena, come la falce di una ghigliottina, gocciolando acqua che subito rievaporava. Kay cominciò ad aggirarla lentamente. Le sue labbra si incurvarono in un sorriso soddisfatto. Aveva seguito le tracce fino a là e finalmente aveva trovato la tana. Il bello doveva venire.
Il dito tormentava il grilletto della pistola. Pazienza, si impose. La caccia non era ancora finita. La impugnava con la destra, il braccio sinistro era libero lungo il fianco. Era la sua arma migliore. Scivolò accanto alle carcasse, fino ad un mucchio di mattoni scheggiati. Urtò il piede su una ruota deformata e contorta, dai raggi ormai consumati. Ne rimaneva poco. Del proprietario, però, rimaneva ancora meno. Kay la scavalcò in fretta. Oltre il bubbolio lontano del tuono, percepì un leggero fruscio. Un ticchettio irregolare sul terreno molliccio e costellato di buche, che tuttavia era troppo duro per mutarsi in fango. Era vicino. Kay sollevò la pistola al volto e si sporse oltre il cumulo di mattoni. L’ombra della gru attraversava lo spiazzo del cantiere, fino a colpire le fondamenta ancora aperte di un grande edificio. Travi di ferro rugginoso si levavano sopra il cemento, che lasciava ampi squarci verso il sottosuolo. E là, vicino a una carriola rovesciata, lo vide. Era grosso quanto un cane, anche se aveva una forma completamente diversa. Il muso era allungato e terminava con una specie di corno squamoso. Il corpo era ricoperto di un lucido strato di chitina, una corazza temibile, e sei arti vi emergevano grottescamente, terminando in zampe che parevano troppo esili per sostenere quel peso. Le antenne ai lati della testa si muovevano senza sosta, allungandosi e retraendosi. La bocca munita di chele secerneva un liquido denso e colloso, dove finivano invischiati gli insetti più piccoli. Lo Scarafaggio-Ragno era nervoso. Ne aveva tutte le ragioni. Kay si sporse maggiormente. Non intendeva sparare alla cieca. Al mercato nero le batterie a energia radiante avevano raggiunto un prezzo da capogiro e reperirle era sempre più difficile. Erano rischiose da maneggiare. C’era sempre un rischio, quando si aveva a che fare con i Raggi.
Kay ne era la prova vivente. Prese la mira con attenzione, chiudendo un occhio. La batteria gli metteva a disposizione soltanto tre colpi e non voleva sprecarli. Colpire il bersaglio non bastava. Doveva trovare un varco nella corazza di chitina dello Scarafaggio, altrimenti il laser non lo avrebbe neppure scalfito. C’era un motivo, se quelle bestie riuscivano a sopravvivere in Superficie, a differenza degli umani. La scala evolutiva aveva bruscamente deviato dalla via dei mammiferi per imboccare quella degli insetti e dei rettili. La natura aveva uno strano modo di fare le sue scelte. E gli uomini non le accettavano. Kay non era interessato a disquisire sulle specie animali sopravvissute sul pianeta. Voleva soltanto procurarsi abbastanza cibo per resistere un altro po’. Al resto avrebbe pensato in seguito. E la sua riserva di cibo era in mezzo a quello spiazzo. Agganciò il bersaglio, l’attaccatura della testa alla corazza chitinosa. C’era un piccolo spazio privo di protezioni. Premette il grilletto. Il raggio laser saettò rapido e preciso, un semplice puntino rosso che si rifletté sulle gocce di pioggia e sulla lucida corazza dello Scarafaggio. Poi si immerse nel suo collo, traandolo da parte a parte. La preda crollò al suolo con un breve strido, strozzato dal vapore così denso da risultare soffocante. Quanta radioattività conteneva? Kay non ci teneva a scoprirlo. Più tempo rimaneva in Superficie, più rischiava. Non gli importava più di tanto. Fece qualche o, emergendo dal nascondiglio. Lo Scarafaggio si contorceva debolmente al suolo. Un fluido scuro sgorgava dal foro nel collo, piccolo ma letale. Le zampette si agitavano a scatti, come la coda tagliata di una lucertola.
Tic-tac. Tic-tac. Kay aveva la netta sensazione che qualcosa non tornasse. Quello Scarafaggio-Ragno era piccolo. Nei dintorni c’erano troppe trappole grigie perché le avesse secrete lui soltanto. Il giovane corrugò la fronte, perplesso. Dov’era la madre? Se c’era qualcosa che aveva imparato nei suoi anni come Cacciatore, era: mai fare domande di cui si vuole sapere la risposta. Uno schiocco, un sibilo, un frusciare di chitina contro il cemento. Il grosso Scarafaggio-Ragno emerse dalle fondamenta abissali dell’edificio, con una rapidità incredibile data la sua mole. Le zampe scalavano il cemento grazie all’ausilio di minuscole setole munite di ventosa, il corno era più grosso di un uomo e decisamente minaccioso. Le antenne si mossero in fretta, individuando il nemico. Kay non ebbe il tempo neppure di imprecare. Lo Scarafaggio caricò a testa bassa, sollevando detriti intorno a sé. La carriola fu sbalzata via nell’urto, la gru ondeggiò pericolosamente, il mucchio di mattoni franò con un rumore di tuono che fece eco ai brontolii del cielo. Kay si era gettato di lato all’ultimo momento. Non abbastanza in fretta per evitare che una zampa lo colpisse. La corazza di chitina e fibra metallica, perfettamente aderente al suo corpo, sostenne l’urto, impedendo danni maggiori, mentre il giovane rotolava tra detriti e immondizia nel tentativo di sfuggire a quel furioso attacco. Mamma Scarafaggio era arrabbiata. Risollevandosi, riuscì alla fine a sciorinare un’imprecazione. La pistola gli era sfuggita di mano ed era finita distante, alla base della gru e della sua ombra. E, per quanto amasse le sue spade, dubitava che riuscissero a scalfire la chitina dello Scarafaggio.
Ne sfoderò comunque una, brandendola con la mano destra. Per lo meno era una difesa. L’insetto frenò la sua corsa e si volse indietro, preparando un nuovo attacco. Così facendo, lasciò scoperta una giuntura tra chitina e zampa posteriore. Kay vide il bersaglio. Sorrise. Non era disarmato come poteva apparire. Non si affannò neppure a correre verso la pistola. Continuando a fissare lo Scarafaggio, fece un o fino a sfiorare la lunga ombra della gru. Tese il braccio sinistro. Non gli piaceva, ma non aveva scelta. L’arto sembrò smaterializzarsi, fondendosi nell’ombra. Si plasmò con essa, allungandosi fino a quando la mano non strinse il calcio della pistola, a oltre venti i di distanza. Presa! Sparò due colpi, a rapida sequenza. Lo Scarafaggio incassò la testa e le zampe, nel disperato tentativo di difendersi. Troppo tardi. Il laser traò il rivestimento lucido, raggiungendo gli organi vitali. Uno spruzzo nerastro esplose tra il vapore, un geyser di morte. Il grosso corpo barcollò ancora per un attimo, poi scivolò al suolo. L’odore dolciastro dei suoi liquidi vitali imperniò l’aria. Il cantiere abbandonato tornò immobile, silenzioso. I nemici più terribili erano quelli che agivano in silenzio, senza farsi vedere. Kay sollevò lo sguardo. Non mancava molto all’alba. Non era prudente farsi sorprendere allo scoperto. Di giorno i Raggi erano ancora più pericolosi. Emise un rantolo soffocato, mentre sentiva il braccio tornare al suo posto. Un telescopio che si invaginava su se stesso. Un blop molle nella sua testa. Non era una sensazione piacevole, gli lasciava sempre un senso di nausea. Gli ricordava quello che non era: né un umano, né un Chimerico completo.
All’Alveare riassumevano mirabilmente questa sua condizione in un’unica calzante parola: Reietto. Strinse la mano sinistra a pugno, fissando il guanto che la ricopriva. Senza di esso, avrebbe visto soltanto una massa scura che cercava di sfuggire allo sguardo. Non rifletteva alcuna luce. Aveva un braccio d’ombra. Fece sparire la batteria a energia radiante in tasca, doveva farla ricaricare al più presto. Cento dischi di rame in fumo. Ma erano serviti a salvargli la vita e procurare un buon bottino. Non aveva il diritto di lamentarsi. Caricò di nuovo la pistola e sparò il razzo colorato in cielo. Il segnale brillò per qualche istante sospeso a mezz’aria, con un tremolio rosso, azzurro e giallo. Poi si spense nella pioggia che cominciava a rallentare. Di giorno non pioveva mai. Purtroppo. Kay attese con impazienza, finché il resto della squadra non lo raggiunse. Cinque uomini, anche se era difficile indovinare i loro volti sotto il casco e la mascherina. Si muovevano rigidi, come automi, sotto il peso delle protezioni. Imbracciarono i fucili, mentre i puntatori rossi scandagliavano il corpo dello Scarafaggio. – Tranquilli, è morto – Kay risistemò le armi nei foderi. Aveva altro da fare prima che sorgesse il sole. – Stanotte buona caccia! Quel grosso insetto avrebbe fornito carne per qualche Ciclo e chitina in abbondanza per i vestiti e le corazze. L’Alveare poteva dirsi soddisfatto. Ovviamente Kay non si aspettava che qualcuno lo ringraziasse. Infatti non avvenne. – Dove vai? – lo apostrofò un Cacciatore, la voce resa roca e sospirante dalla mascherina. – A fare un giro – Kay era già a qualche o di distanza. – Tra poco arriverà il Mietitore di Luce – e i Raggi avrebbero martoriato il pianeta con maggiore ferocia. Kay non aveva bisogno che glielo ricordassero.
– Ci vediamo al Pozzo – si limitò a scrollare le spalle – Mi raccomando, fatelo a pezzettini quel bastardo. Mi aveva quasi accoppato. – Puoi contarci! Kay voltò le spalle ai cadaveri degli Scarafaggi, mentre il ronzio dei fucili laser e delle seghe che tagliavano e squartavano riempiva il silenzio vaporoso della città. Le prede dovevano essere ridotte a pezzi facilmente trasportabili nei Pozzi. Ci voleva del tempo. Diede uno sguardo all’orologio. Fermo, come sempre quando rimaneva troppo a lungo in Superficie. I Raggi disturbavano gli ingranaggi. Tirò un sospiro. Il suo countdown comunque era iniziato. Doveva sbrigarsi. Kay era abituato a muoversi in Superficie. Quella città era il suo terreno di caccia preferito, anche se non poteva dire di conoscerla tutta. Era impossibile. Gli uomini del ato erano scialacquatori di spazio, di catrame e di edifici, e di certo erano molto più numerosi. E delle loro grandi città non rimaneva che qualche rudere polveroso. Così, quando inseguendo lo Scarafaggio-Ragno aveva esplorato una zona nuova, Kay aveva fatto una scoperta interessante. Scardinò con un calcio la porta di metallo, già intaccata dal tempo e dagli elementi. Dietro di lui una strada acciottolata, percorsa da due strane strisce di metallo rugginoso che correvano parallele, si perdeva in una voragine aperta da qualche terremoto. Non erano infrequenti. La terra si spostava continuamente. Tutto mutava. Cambiamento. Mutazione. Era il corso di ogni evoluzione o involuzione. Kay ò accanto al cartello accartocciato, in cui ancora si riusciva a individuare delle lettere e un numero.
“BINARIO 3” Il mostro di metallo sulla strada sassosa stava immobile. Kay gli lanciò un’occhiata circospetta, poi scrollò le spalle. Non aveva idea di cosa fosse, né gli importava. Il fatto che non cercasse di ucciderlo era già un discreto o avanti là in Superficie, dove tutto era nemico. La stanza era buia. Il pavimento era ricoperto di vetri infranti. A quanto pareva, non era il primo a fare irruzione là dentro. Ma forse i precedenti incursori cercavano qualcosa di diverso. Un cassetto era ribaltato, vuoto. C’era rimasto soltanto qualche monetina di un metallo imprecisato, un miscuglio che difficilmente valeva qualcosa. Per sicurezza, Kay le fece scivolare nel contenitore che portava alla coscia, senza perder tempo a esaminarle. Non era quello che cercava. Ma, rovistando tra la sostanza grigia in cui si dimenavano un paio di mantidi invischiate, aveva trovato un armadietto di ferro spesso che non era ancora stato sfondato. C’erano due possibilità: o i ladri avevano ritenuto che non ci fosse niente da rubare, o non erano riusciti ad aprirlo e quindi con ogni probabilità c’era qualcosa di interessante. E remunerativo. Dopo un’occhiata agli armadietti aperti e vuoti, pieni di sostanza vischiosa e cadaveri di insetti in parziale decomposizione, si decise ad aprire quello intatto. Aveva poco tempo. Il Mietitore di Luce sarebbe sorto a momenti. Non degnò di uno sguardo il lucchetto che non aveva bisogno di forzare. L’armadietto aveva delle piccole prese d’aria. Ed era avvolto dall’ombra. Fece scivolare le dita sinistre tra le fessure della lamiera, sentendole appiattirsi fino a penetrare all’interno. Chiuse gli occhi, andando a tentoni nelle tenebre, finché non sfiorò la levetta e la sollevò, aprendo l’armadietto dall’interno. Semplice e veloce. Essere un Reietto aveva i suoi vantaggi. A volte.
Dentro c’era una specie di gruccia a cui appendere gli abiti. Poteva ricavarci qualche soldo, i membri delle Corporazioni pagavano bene per quella sorta di souvenir. Ma l’oggetto più importante era sullo scaffale di metallo in alto. Kay l’afferrò e lo infilò nella scarsella. Era tempo di tornare nel Sottosuolo. Corse in fretta, mentre la notte cominciava a morire. I vapori si diradavano mentre il cielo a nord scintillava nell’arcobaleno di un’aurora boreale. I Raggi creavano spettacoli meravigliosi. E distruggevano le forme di vita. Kay sapeva che potevano fare anche di peggio. Arrivò al Pozzo 43 di volata, la pistola che gli batteva sul fianco attraverso la fondina, le gambe tese nello sforzo. L’orizzonte a est era troppo chiaro, assomigliava a residuo di vomito in sospensione. La pesante botola era chiusa. La squadra di recupero era già rientrata con il suo bottino. Kay per un attimo temette che lo avessero lasciato là a morire. Poi uno spiraglio si sollevò e un casco verde con gli occhiali a mosca emerse con uno scintillio caliginoso. – Muoviti, pezzente! Kay non se lo fece ripetere. In scivolata raggiunse la botola e si infilò dentro il Pozzo, pochi attimi prima che il Mietitore di Luce e i suoi Raggi calassero sulla terra. Era giunta l’alba. Il portello fu richiuso in fretta e serrato con tre grossi lucchetti. – Sei un pazzo imprudente – sbottò il Cacciatore – La prossima volta ti lascerò friggere là fuori! Kay, paradossalmente, scoppiò a ridere. Diede una pacca alla scarsella che conteneva il suo bottino. Intanto aveva trovato una reliquia del ato.
3
Miris camminava in fretta. Non sentiva più il dolore al piede, e comunque non ci avrebbe fatto caso. C’era troppa gente là intorno. Troppi pensieri confusi che vorticavano nell’aria. Serrò gli occhi come un miope che si sforzi di leggere una scritta lontana. La aiutava a concentrarsi su quello che doveva fare. La sua prima missione come Sacerdotessa: recarsi al Pharmakeion del signor Twigg e prendere le piante geneticamente modificate per il laboratorio del padre. Semplice. Non piacevole. Andare dal signor Twigg la riempiva sempre di disagio, anche se il povero erborista con qualche rotella fuori posto non era il problema principale. Adepto di terzo livello della Corporazione, sarebbe potuto diventare un affermato Sacerdote, se non avesse rifiutato l’investitura. Una cosa inaudita. Soltanto la sua esperienza nel campo delle erbe mutanti aveva evitato che venisse retrocesso a Lavoratore o, peggio ancora, a Schiavo. Miris si chiese cosa avrebbe fatto di lei suo padre, se il giorno prima si fosse rifiutata di pronunciare la fatidica frase. Si era ripetuta fino all’ultimo che poteva farlo, che era una sua scelta, rimandando però il momento decisivo fin quando era stato troppo tardi. La cerimonia era giunta al suo culmine fin troppo in fretta. – …Ti impegni a guarire i malati, secondo scienza e coscienza, senza recar loro danno, e di venerare e rispettare gli altri membri della Corporazione? La ragazza era al centro della boccia di luce bianca del neon. Tutto era nero o bianco nella stanza. Aveva preso fiato, stava per scuotere la testa. Poi aveva incrociato gli occhi del padre. Era arrivata fino a lì per dovere nei suoi confronti, cosa le costava un altro o…? La sua bocca si era mossa da sola.
– Sì, mi colgano i Raggi se mento! Ed era stata una vigliacca. Una vigliacca saggia, si corresse. Come diritto di nascita, apparteneva adesso ufficialmente a una delle tre Corporazioni dell’Alveare, con tutti i privilegi che ne derivavano. Se gli Ingegneri detenevano la conoscenza per costruire e i Guerrieri la capacità di combattere, i Sacerdoti possedevano la somma arte di curare. E poiché la gente, fino a prova contraria, continuava ad ammalarsi e morire, la loro presenza era indispensabile. Quindi il loro potere assicurato. Forse non era stata una cattiva scelta. La gente lungo la strada le faceva largo. Quanti indossavano le tuniche verdi dei Cacciatori e quelle brune degli Ingegneri si limitavano a un cenno di saluto con la testa, prima di tornare a preoccuparsi delle proprie incombenze. I Lavoratori, con le loro vesti bianche, che nella maggior parte dei casi erano ridotte a un grigio sporco e informe, si spostavano al suo aggio, profondendosi in rispettosi inchini, prima di scivolare oltre a testa bassa. Rispetto. Devozione. Miris li aveva sempre ricevuti e quasi li dava per scontati, tanto più da quando suo padre era diventato Triumviro. Superò una squadra della Sorveglianza, l’unità operativa della Corporazione degli Ingegneri. Si stava affannando intorno a un droide malridotto. Era difficile trovarne fuori dalle abitazioni, i malfunzionamenti aumentavano. Dalle ammaccature del telaio e dalle rotelline saltate via, Miris reputò che fosse caduto mentre spolverava un davanzale. I lampeggianti sulla testa ronzavano impazziti. Sembravano fissarla in una muta richiesta d’aiuto. Aveva promesso di curare gli esseri umani. Perché non aiutava anche i droidi? La ragazza distolse lo sguardo. Non c’era modo. Quindi inutile preoccuparsene. La strada procedeva in leggera pendenza. Qualche ragazzino le ò accanto, sfrecciando su zoccoli muniti di rotelle, divertenti quanto pericolosi. Non ava giorno senza che Chrisandra dovesse rimontare qualche osso rotto, i
fattori di crescita ossea e cutanea erano gli articoli che andavano più a ruba. Miris stessa si era fratturata due volte il polso su quella specie di pattini. Erano un ottimo metodo per spostarsi velocemente nell’Alveare. Un metodo economico. I membri più anziani delle Corporazioni utilizzavano delle portantine, trainate a braccia dagli Schiavi, o taxi al freon e a metano. Gli Ingegneri avevano messo a punto anche delle eleganti carrozzine mono o biposto che andavano a gas, ma il costo del carburante era eccessivo. E là sotto era già abbastanza tossico. Miris sollevò la testa. In un altro tempo e in un altro luogo avrebbe visto sopra di sé la volta celeste, limpida e serena. Invece c’era soltanto l’alto soffitto di una caverna naturale, in cui era contenuto l’Alveare. Non aveva mai visto il cielo, non aveva idea di come fosse. Sapeva soltanto che in esso si muoveva il Mietitore di Luce e dispensava implacabile i suoi Raggi. Quella caverna era un rifugio ideale per gli esseri umani. Le rocce erano ricche di ferro, piombo e altri materiali schermanti, oltre che di minerali che servivano a costruire ogni oggetto nell’Alveare. Era organizzato in cerchi concentrici, che degradavano dalle pendici della parete A. Non era possibile stabilire il nord e il sud nel Sottosuolo. Non c’era più un campo magnetico terrestre che fe ruotare l’ago di ferro. I quattro punti cardinali per convenzione erano stati sostituiti dalle prime quattro lettere dell’alfabeto. Semplice e razionale. Tutto l’Alveare lo era. Ognuno aveva la sua mansione, a seconda della casta di appartenenza. Questa divisione sociale si rispecchiava anche nell’architettura. Ai livelli più alti, nella cerchia di mura più interna, si levava il monumentale palazzo dei Triumviri, sede di amministrazione del potere nell’Alveare. Al livello sottostante, diviso in tre aree numerate, si trovavano le Corporazioni. Al livello intermedio trovavano alloggi i Lavoratori, mentre più in basso si ammassavano le casupole degli Schiavi e dei Reietti. C’era un posto per tutto. Le formiche, almeno come le conoscevano gli uomini del ato, si erano estinte da tempo sulla Terra e l’essere umano aveva preso il loro posto.
– Forse lo siamo sempre stati – mormorò Miris – Formiche con uno spiccato complesso di superiorità. Del tutto immotivato. Però erano sopravvissuti. Per il momento. Il Pharmakeion era una costruzione strana, a struttura quadrangolare organizzata intorno a un cortile centrale. C’era sempre molta gente, a elemosinare medicinali senza prendere appuntamento dai Sacerdoti. Era difficile trovarli al mercato nero, almeno nella giusta dose. Una preparazione imprecisa poteva uccidere invece che guarire. Non si scherzava con ormoni e fattori di crescita. Miris non capiva perché la gente fosse disposta a rischiare così. Il fatto che non avessero abbastanza soldi per pagare le prestazioni della sua Corporazione non le era mai ato per la testa. Come figlia di un Triumviro, il denaro era l’ultima delle sue preoccupazioni. Non appena la sua tunica azzurra comparve, la folla si disperse con malcelata indifferenza. Miris tenne la testa bassa, evitando di incrociare lo sguardo di quella gente, per la maggior parte Lavoratori. Gli Schiavi difficilmente si vedevano in giro durante il Ciclo, dato che erano impegnati a scavare nelle miniere. Quando fece il suo ingresso, il cortile era quasi vuoto. Quasi. Miris si bloccò con un piede sollevato a mezz’aria. Il motivo principale per cui non voleva andare dal signor Twigg era là, davanti a lei. Aveva lunghi capelli neri, incredibilmente lisci come il guscio di un insetto, che le ricadevano lungo le spalle fino alla vita. La tuta di kevlar e chitina ammorbidita le aderiva sul corpo snello. Era di bassa statura, ma quegli occhi a mandorla di un azzurro intenso guardavano tutti con aria di superiorità. Eppure, quando Miris ne incontrò per un attimo lo sguardo, vi lesse qualcosa di diverso. Voltò la testa con un movimento così secco che sentì schioccare le vertebre. Non voleva sapere cosa pensasse quella donna.
Perché non era una donna. Miris ne avvertiva addosso lo sguardo indagatore e insistente. Si concentrò su una colonna di metallo lucido, una delle tante che sosteneva il porticato del Pharmakeion. Oltre il ronzio che le faceva pizzicare le orecchie, udiva il mormorio dell’acqua che zampillava nella piscina circolare al centro del cortile. Un pozzo, con i secchi posti ordinatamente in fila, si stagliava poco lontano. L’acqua era un bene prezioso, soprattutto quando non era contaminata. Per questo lei era là. Miris scoprì di avere paura. Fu un sollievo quando sentì quello sguardo scivolare via da sé. Si azzardò a sbirciare con la coda dell’occhio. L’essere si era voltato e le dava le spalle. A i lenti, si immerse nella vasca, fino a quando l’acqua le lambì la vita, coprendole le gambe alla vista. Perché non aveva più gambe. La parte inferiore del suo corpo si era fusa con il liquido e ondeggiava come una gonna, compiendo cerchi concentrici intorno a quell’essere dalle sembianze orientali e femminee. Una Chimerica dell’Acqua. – Sirea ha trovato una nuova sorgente. Miris trasalì e per poco non fece un balzo indietro. Spaventata dalla presenza della Chimerica, non si era accorta dell’arrivo del signor Twigg. Era un tipo basso e curvo, con una zazzera di capelli arruffati che parevano tanti gomitoli di ragnatela disordinatamente arroccati sulla testa rotonda. Portava delle spesse lenti, che gli scavavano il dorso del naso, e un tremito costante gli agitava la mano destra. La sua pelle aveva una sfumatura giallognola e Miris si era sempre chiesta se fosse naturale o se derivasse da una malattia che ancora non erano riusciti a identificare. Ogni giorno saltavano fuori nuove patologie, più o meno gravi.
L’importante era che non fosse contagiosa. Reputava che in quel caso i Sacerdoti non gli avrebbero permesso di rimanere nell’Alveare. – Lungo il cunicolo B! – continuò il signor Twigg, infervorato – Una falda incontaminata. E sulla riva una colonia di muffa-stella, ideale per le fasciature auto–rigeneranti… – gli occhi, incredibilmente piccoli oltre quelle lenti, gli brillavano d’entusiasmo. Miris non riusciva a condividerlo. Sapeva che quella Chimerica era utile all’Alveare. Forse indispensabile. Grazie alla sua affinità con l’acqua, indicava dove scavare i nuovi pozzi e come annaffiare i campi di licheni. Senza contare che era un’arma formidabile. Miris gettò un’occhiata alla figura ancora immersa nella vasca. Stava tracciando piccoli cerchi sulla superficie con le dita, che si fondevano con l’acqua e un attimo dopo riassumevano forma definita. Quella che sembrava una donna fragile e indifesa poteva ucciderla in pochi attimi, con un semplice movimento della mano. Il nostro corpo è formato per oltre il 60% da acqua… Questo potere le dava un posto influente nella società. Non apparteneva a nessuna Corporazione ufficialmente, ma i Cacciatori la utilizzavano nelle battaglie e più di una volta aveva salvato l’Alveare dalle mire espansionistiche dei vicini, insieme a Agarath, il loro Chimerico del Magma. I Chimerici utili erano integrati nel sistema sociale e impiegati al meglio delle loro possibilità. Gli altri finivano nella schiera dei Reietti, esseri umanoidi che le mutazioni genetiche avevano reso però diversi. Inumani. Miris provò un senso di nausea profonda. – Le sto insegnando a distinguere i vari tipi di muffe terapeutiche – il signor Twigg continuava il suo soliloquio, come se non l’avesse notata. Il suo sguardo indugiava sulla Chimerica e Miris si accorse che il suo volto rugoso si era addolcito. – Non è meravigliosa? Si adatta e si fonde alla natura…
La ragazza si schiarì la voce. – È una mutata! – affermò, più duramente di quanto intendesse – Una deviazione dalla purezza della razza umana. Erano le parole che usava suo padre. Le aveva sentite così tante volte che ormai poteva ripeterle senza pensare. – Se capissi come ci riesce… Miris continuò, in fretta. – La avverto, non dica altro, o potrei riportare al consiglio della Corporazione le sue idee sovversive! Solo allora il signor Twigg parve accorgersi davvero di chi aveva di fronte. Sbatté le palpebre, più volte, e la mise a fuoco. – Ah, Miris, piccola mia. Come sta tua sorella? È da un po’ che non la vedo. – Bene, grazie – il tono della ragazza si mantenne freddo. Un altro Sacerdote al suo posto sarebbe corso a sporgere denuncia al Consiglio. Suo padre sarebbe andato su tutte le furie e il Pharmakeion avrebbe avuto un altro erborista nel giro di pochi Cicli. Miris sospirò. Sapeva che avrebbe tenuto la bocca chiusa. Il signor Twigg, in fondo, le era simpatico. Ed era stato amico di sua madre. – A che devo il piacere della tua visita? – il signor Twigg si sistemò gli occhiali che continuavano a scivolargli verso il basso – Ah, vedo che indossi la veste azzurra. Complimenti, complimenti, sei una Sacerdotessa… – Grazie – tagliò corto Miris. D’improvviso, sentiva il bisogno impellente di andarsene di là. – Ho bisogno delle muffe gialle per i fattori di crescita epidermici e dell’estratto di Saccoromyces per la produzione vitaminica antiossidante. – Ah, bene, capiti a proposito. Sirea ne ha portato una colonia intera, la sto facendo crescere… Sirea, se vuoi venire anche tu…
– Ho fretta – gli ricordò Miris. Se la Chimerica si era in qualche modo risentita, non lo diede a vedere. Non si voltò neppure. Le dava le spalle, ma la ragazza continuava a sudare freddo, lanciando occhiate nervose nella sua direzione. Sirea doveva essere abituata al fatto che gli umani le stessero lontani. – Va bene, immagino che per il tuo primo giorno di lavoro tu abbia un sacco da fare. Devi dare una mano a tua sorella, vero? Chrisandra è una brava guaritrice, può insegnarti molto. Quando hai un attimo di tempo, torna pure, vorrei mostrarti la mia colonia di miceti mutati che producono induttori enzimatici dei processi riparativi del Dna… Con un bagaglio di nuove nozioni mediche e un contenitore metallico con il materiale che le serviva, Miris si allontanò in fretta dal Pharmakeion. Si accorse che stava quasi correndo. Sentiva gli occhi azzurri e liquidi di Sirea fissi sulla schiena.
4
Kay oltreò la miniera 5 a o svelto. Il numero era indicato con un grande segno arancione sulla roccia. Una bomboletta a base di sodio, pensò. Un tubo di argon subito al di sopra lo illuminava, puntandolo dritto come inchiodandolo alla parete. La miniera non poteva più scappare, perché era segnata, numerata, catalogata. Kay avrebbe preferito darle un nome piuttosto che un numero, ma sarebbe stato più difficile da ricordare. 5 era oggettivo, inequivocabile. Freddo. Dall’interno provenivano il clangore dei picconi e il ronzio dei droidi Scavatori che andavano avanti e indietro. I loro cunei dentati grattavano la roccia, estraendo i materiali necessari all’edilizia e all’artigianato. Un paio di Schiavi stava spingendo sulle rotaie malconce un carrello rugginoso pieno di minerali grezzi, sudando e imprecando tra i denti. Le tuniche nere indicavano il loro stato sociale. Anche le vesti di Kay, sotto l’armatura aderente, erano nere. L’unica differenza era che lui non aveva uno stato sociale ben definito. Di solito veniva reclutato dai Cacciatori, ma soltanto quando si trattava di salire in Superficie e sfruttare le sue capacità. Per il resto si trovava a vagare per l’Alveare come un randagio. La gente gli stava alla larga e, di solito, lo lasciava in pace. A lui andava bene così. Le rocce avevano delle sfumature verdastre, tanti piccoli grani scintillanti. Kay non ricordava di averne viste di simili. Si chiese se anche i minerali potessero mutare, sotto l’azione dei Raggi. Forse soltanto le forme viventi potevano farlo. E soprattutto trasmettere le mutazioni alle generazioni future.
Un’eredità pesante. Il Cacciatore che lo precedeva ormai era a molti i di distanza. Si era tolto gli occhiali protettivi, sollevati sulla testa calva come corna mozze. Kay si era accorto che gran parte degli umani tendevano a perdere i capelli molto presto. Le cellule cutanee e gli annessi piliferi erano i primi a risentire degli affetti diretti dei Raggi. Nessuno pareva intenzionato ad aspettarlo, né Kay voleva che lo fero. Rallentò ulteriormente, lasciando che il convoglio che trainava i pezzi di Scarafaggio-Ragno si avviasse barcollante verso lo spiazzo che accoglieva l’Alveare. Sarebbe rimasto volentieri a curiosare nella miniera, magari poteva trovare qualcosa di utile, ma l’occhiata ostile degli Schiavi lo convinse a desistere. Non era ben accetto neppure là. – Per lo meno non o il tempo a spaccarmi la schiena in una miniera – ragionò tra i denti. In realtà invidiava quegli uomini. Perché erano uomini, appunto. Avevano il loro posto nel mondo. Kay doveva lottare con le unghie e con i denti per crearselo. Sistemandosi meglio le armi a tracolla, costeggiò il bacino idrico C. Sulla riva una fila di lampioni smisuratamente alti sparava la luce bianca del neon, che rischiarava la caverna. Venivano tenuti accesi per tutto il Ciclo, persino nell’ora del Sonno. I generatori di energia, posti lungo i Pozzi che salivano verso la Superficie, erano alimentati a energia radiante ricavata dal Mietitore, immagazzinata e condotta verso il basso attraverso un intricato sistema di cavi isolanti. La Corporazione degli Ingegneri aveva il suo bel da fare per tenerli efficienti e sicuri. Con quel genere di energia c’era poco da scherzare. Tra di loro c’era la maggior incidenza di nascite di Reietti mutati. E tra i Cacciatori che si spingevano in Superficie. Era per questo che preferivano mandare lui. Kay ò tra i campi pensili. Per sfruttare ogni superficie, erano coltivati le pareti della caverna e, nei punti dove era più basso, anche il soffitto. Una serie di
terrazzamenti copriva la sezione D dell’antro, rendendolo una scalinata di funghi e licheni di diversi colori. Erano alla base dell’alimentazione della popolazione dell’Alveare, nonché foraggio per i Ragni-Tessitori, che venivano allevati nel settore 2 per fornire le ragnatele e la seta delle tuniche, per gli insetti necessari per la chitina e la carne, e infine per le iguane e i varani che covavano le uova. Per quello che ne sapeva, Ingegneri e Sacerdoti stavano studiando nuove specie di funghi e licheni sempre più nutrienti, incrociando quelle esistenti. Erano le uniche piante che riuscivano a crescere nel Sottosuolo. Quelle della Superficie erano poche, ma molto più pericolose. Kay si chinò a raccogliere una spiga di un verde spento e se la mise in bocca, masticandola lentamente. Sapeva di cenere, come la maggior parte dei cibi là sotto. Mangiare non era un lusso, almeno per i Reietti. Era soltanto un modo per sopravvivere. Gli aromi naturali erano aggiunti soltanto alle mense dei capi delle Corporazioni, che avevano abbastanza dischi di rame per permetterseli. Il droide che stava irrigando il campo girò la testa metallica nella sua direzione. Era una torretta squadrata con un buffo sistema di annaffiatoi e beccucci da cui spruzzava acqua con la precisione di un puntatore. Il raggio rossastro sulla cupolina, che lo rendeva un ciclope sgraziato, si puntò sul giovane. – Prego, allontanarsi dalle coltivazioni. Allontanarsi o sarete terminati. Allontanarsi. Kay dubitava che quell’ammasso di latta potesse in qualche modo mettere in atto le sue minacce, sbuffava e si muoveva a scatti come se fosse sul punto di fermarsi da un momento all’altro. Ma se lo avesse rotto la Corporazione degli Ingegneri se la sarebbe presa con lui. Non aveva voglia di sorbirsi una noiosissima predica e magari beccarsi una multa salata. – Allontanarsi, allontanarsi… Ripeteva le stesse frasi in una nenia piatta e monotona. Kay tese le mani avanti. – D’accordo, me ne vado. Il droide, soddisfatto di aver scacciato l’intruso, tornò al suo lavoro, che faceva da decenni e che avrebbe continuato a fare finché i suoi circuiti non fossero
saltati definitivamente. Il giovane si augurava che avvenisse presto. “La tecnologia è il futuro” Questo era lo slogan degli Ingegneri. Secondo Kay si sbagliavano. La tecnologia li aveva traditi. Quando varcò le mura esterne dell’Alveare, il carro con lo Scarafaggio-Ragno era già a metà della salita. Una folla festante aveva accolto la squadra di recupero e i Cacciatori sollevavano fucili e balestre, godendo delle acclamazioni. Si erano tolti i caschi e le loro teste, in gran parte calve, luccicavano nella luce fredda della caverna. Accoglievano con sorrisi stanchi le grida di ringraziamento della folla. – Prego – borbottò Kay, deviando dalla strada principale. Non aveva la minima intenzione di seguire gli altri Cacciatori fino alla caserma, dove il Triumviro Thoran si sarebbe complimentato con loro e avrebbe ignorato deliberatamente lui, se era di buon umore. Altrimenti lo avrebbe apostrofato come a suo solito con un “brutto bastardo mutante”. – Sai che in ato c’era una civiltà che uccideva i bambini nati deformi? – non si stancava mai di ripetergli – Li abbandonavano in fasce su una montagna e le bestie feroci li sbranavano. Kay non ribatteva. Era certo che Thoran avesse sentito questa storiella da qualche Ingegnere. Il capo della Corporazione dei Cacciatori non sapeva neppure leggere. Zigzagò tra i vicoli dell’Alveare. Se le strade principali avevano una parvenza d’ordine, compatibilmente con le asperità del terreno, il resto era un’accozzaglia di viuzze intorno a cui si levavano le abitazioni della popolazione. In realtà era visibile soltanto una piccola parte dell’Alveare, che si estendeva nel sottosuolo e nelle pareti della caverna. Solida roccia sopra la testa era la schermatura migliore dai Raggi. Non sempre bastava. Un ragazzino gli tagliò la strada. Era pallido, il viso smunto, i capelli radi. Aveva una gamba amputata e sostituita da un grottesco pezzo di metallo, che gli
spuntava dalla carne e arrivava fino al suolo. La sua andatura caracollante era in contrasto con la corsa dei bambinetti che lo precedevano e si fermavano di tanto in tanto per prenderlo in giro, perché dopo l’intervento non poteva più correre. Però era vivo. Kay si chiedeva se davvero fosse una fortuna a quel mondo. Incontrò poca gente sul suo percorso, ma si tennero tutti alla larga. Nonostante la tuta aderente che gli copriva il braccio, sapevano chi era. Cosa era. L’Alveare non era così piccolo da far sì che tutti si conoscessero per nome, ma neppure così grande. Di vista si ricordavano di lui. Kay li ignorava cordialmente. Raggiunse il settore degli Ingegneri. Un vantaggio di essere un Reietto era che non aveva un posto prestabilito dove dimorare. Quindi, teoricamente, poteva essere dappertutto. Per abitudine scivolava rasente le pareti e raggiunse in breve la sede degli Ingegneri. Intrufolarsi all’interno non era difficile. Scrutò la facciata dell’enorme edificio che sprofondava nella parete della caverna e si sviluppava dentro di essa. Si caratterizzava per strane guglie di metallo lucido, antenne tese fino al soffitto che misuravano la radioattività dell’aria, e per cavi che avano da una finestra all’altra. Ognuna aveva una forma e un colore diverso, come se l’Ingegnere che lavorava dietro di essa avesse sperimentato un diverso materiale. Proveniva un leggero odore di fumo. Non si adoprava legno come carburante, gli ultimi alberi erano morti molti anni prima, bensì carbone e altri combustibili fossili. Erano rari, quindi preziosi. Un tozzo di carbone valeva più di tutta l’attrezzatura da caccia di Kay al mercato nero. Forse più della sua vita. Il giovane individuò la finestra che gli interessava. Era piccola, al secondo piano, schiacciata contro il muro roccioso. Kay conosceva gli appigli giusti e, sistemandosi le armi a tracolla, in pochi attimi raggiunse il davanzale. Si aggrappò con entrambe le mani e si tirò su, dandosi la spinta per entrare nella stanza.
Estrasse l’oggetto che teneva nella scarsella e lo gettò sul tavolo ingombro di viti e bulloni. – Guarda un po’ cosa ho trovato, Sammy! L’uomo che sedeva al tavolo, chino a osservare una serie di ingranaggi con la sua lente di ingrandimento, trasalì e spiccò un balzo. Come risultato la sedia si cappottò all’indietro e l’Ingegnere andò a finire sul pavimento, trascinando con sé una cascata di bulloni. Quando si accorse che si trattava soltanto di Kay e non di un attacco nemico, prese a sciorinare una serie di imprecazioni che avrebbero fatto impallidire persino il più rozzo dei Cacciatori. Il giovane si appoggiò al tavolo e incrociò le braccia, aspettando pazientemente che l’Ingegnere si calmasse, o almeno finisse il suo repertorio di accidenti. Alla fine l’uomo dovette riprendere fiato. Kay ne approfittò per tendergli la mano. Rigorosamente la destra. – Ti sei fatto male? Samuel Barni, Ingegnere dell’unità di Sorveglianza 4, gli lanciò un’occhiata di fuoco. – Stavo meglio prima che un idiota fe irruzione nella mia stanza senza avvisare. Kay incassò senza battere ciglio quello che poteva essere un complimento. Di solito gli venivano rivolti epiteti ben più offensivi. – Scusa, non volevo spaventarti, Sammy. – Ah, e se volevi spaventarmi che facevi? No, non dirmelo, non voglio saperlo. E non chiamarmi Sammy, sai che lo detesto! – Samuel fece un gesto stizzito e agitò le braccia nel tentativo di rialzarsi. Da solo. Kay si limitò ad incrociare di nuovo le braccia. Quella posizione faceva sentire più sicuri sia lui che gli altri. – Guarda che disastro hai combinato! Mi ci vorrà un intero giro di clessidra per rimettere tutto in ordine – gettò un’occhiata alla clessidra fissata a un gancio sulla parete. Era piena per metà. Da qualche tempo Samuel cominciava a disdegnare gli orologi, erano troppo influenzabili dalle tempeste di Raggi, ed era
tornato a quello che definiva “un antiquato ma efficace mezzo per misurare il tempo”. Per Kay era inutilmente ingombrante. – Non mi sembra che il resto della stanza sia in condizioni migliori – osservò, inarcando un sopracciglio. Quel laboratorio sembrava il teatro di un ciclone. Tavolette e carboncini dappertutto, ingranaggi sparsi su ogni superficie visibile, bulloni e cacciaviti laser gettati alla rinfusa per i cassetti. Decisamente Samuel Barni non poteva definirsi ordinato. – Stavo per rimettere a posto – brontolò, stizzito. Si raddrizzò in tutta la sua ragguardevole altezza… e non arrivò neppure al mento del Reietto. In compenso era magro, per non dire ossuto, dato che la maggior parte dei giorni li ava chiuso nel suo laboratorio e si dimenticava di mangiare. Di solito era Kay a portargli un trancio di pipistrello marinato, sgraffignato alla mensa del piano intermedio, il suo piatto preferito. Samuel Barni era uno dei pochi umani che gradisse la sua compagnia. Forse perché per la maggior parte del tempo si dimenticava di avere davanti un Reietto, tutto preso da un nuovo progetto. Kay lo ascoltava mentre esponeva estasiato le proprie scoperte, anche se capiva meno della metà delle parolone che l’Ingegnere buttava a caso (secondo il giovane) in mezzo al discorso, come “antimateria”, “campo magnetico inverso”, “costante cosmologica”, “decupletto barionico”. Samuel però era contento. Non era facile trovare gente che ascoltava. Alle riunioni con gli altri Ingegneri tutti volevano esporre le proprie teorie, che di sicuro erano più affascinanti e più giuste di quelle degli altri. Finiva sempre in una grande baraonda, in cui tutti si parlavano addosso senza concludere nulla. Kay riteneva di non avere niente di interessante da dire. Samuel cominciò a raccogliere tavolette d’argilla, in cui aveva appuntato l’ultimo progetto per schermare i robot superstiti in modo più efficace. Come unico risultato, le ammucchiò da un’altra parte, spostando soltanto il centro del disordine. – Insomma, che ci fai qui? Spero tu abbia un buon motivo per avermi
disturbato… – si interruppe quando lo sguardo gli cadde sull’oggetto polveroso che Kay aveva gettato sul tavolo – No! Non mi dire! È… – avvicinò la mano tremante, lo sfiorò come se temesse di rovinarlo. Il giovane evitò di fargli notare che se l’era sbattuto nella scarsella per tutto il viaggio di ritorno nell’Alveare. Dubitava che l’uomo avrebbe apprezzato. – È quello che penso? – Direi di sì. Ma sei tu l’Ingegnere. Samuel finalmente si decise a prenderlo. Se lo rigirò tra le mani. – Dove l’hai trovato? – In Superficie, stanotte, durante la caccia. Avevo un po’ di tempo libero. L’uomo si ò una mano sugli occhi arrossati e poi tra i capelli cortissimi, quasi rasati. Era meglio in quel modo piuttosto che mostrare la calvizie incipiente, nonostante avesse pochi anni più di Kay. Non si preoccupò di chiedere come fosse andata la Caccia. Già il fatto che il Reietto fosse tornato vivo dalla Superficie era un risultato. – Dove, esattamente? – In un armadio di metallo, in una stanza sotterranea vicino alla strada di rotaie. Protetto, se è questo che vuoi sapere. Samuel tirò, sfilando quello che sembrava un cappuccio. Ne emerse una piccola struttura di metallo, rettangolare, con due buchini simmetrici. Era cava e dentro pareva ci fosse una scheda. Sotto, una volta tolta la polvere, c’era una scritta sbiadita. “4GB” – Grandioso! – l’Ingegnere si leccò le labbra – Potrebbe essere una periferica di archiviazione di massa. Forse funzionante! Kay non aveva capito molto. Né gli interessava. Per lui era una reliquia del ato, in buone condizioni, quindi piazzabile sul mercato. – Quanto vale? – andò dritto al punto.
– Non l’hai preso per amore della scienza? – La scienza non ha bisogno del mio amore, mentre io ho bisogno di mangiare – replicò Kay, scrollando le spalle. – Allora, sei in grado di mettermelo sul mercato e ricavarci un buon prezzo? – Quanto sei venale! – Samuel emise un borbottio stizzito, grattandosi la barba che non si faceva da giorni. Non aveva tempo. – Non so, devo trovare il compratore giusto. Non si tratta di minerali e condensatori di energia, questa è roba particolare. Considerando poi che non serve a nulla… Kay fece qualche o nella stanza. Rinunciò a mettersi a sedere. Era troppo piena di ingranaggi per trovare un posto libero. – Ma hai detto che forse funziona! – Certo, magari ha dei dati immagazzinati. – Che genere di dati? – Non ne ho idea – Samuel si strinse nelle spalle – Senti, non è così semplice. Da quando i Raggi si sono scatenati sul pianeta, tutta l’apparecchiatura elettronica è andata a farsi friggere, nel senso letterale del termine. In pratica, non abbiamo modo di leggere il contenuto di quest’affare, sempre che non sia stato danneggiato dalle periodiche tempeste cosmiche. Hai presente una cassaforte piena d’oro, senza la chiave per aprirla? Beh, una cosa del genere. Kay emise un sospiro stizzito. – Beh, avrei preferito dell’oro ai tuoi dati – almeno ci avrebbe ricavato qualcosa. – È un bell’oggettino, andrà a ruba tra i collezionisti del settore – vedendolo rabbuiato, Samuel cercò di tirarlo su di morale – Ma mi ci vorrà un po’ di tempo per piazzarlo bene. Tra i miei colleghi ci sono un sacco di fanatici del ato… e se non troverò nessuno, potrei sempre comprartelo io. Magari riesco a ricavarci qualcosa di interessante, e comunque un soprammobile in più fa sempre comodo. Adesso però siamo tutti un po’ impegnati, con l’ultimo giacimento… – Di che parli, Sammy?
– Non chiamarmi Sammy, te l’ho detto – Samuel lo fulminò con lo sguardo – Il giacimento di tungsteno. Dai, non fare quella faccia come se avessi pronunciato una bestemmia! Kay conosceva soltanto i metalli da cui poter ricavare armi o soldi. – Vale parecchio? – Altroché, è un ottimo conduttore. Ancora non sono chiare le possibili applicazioni… – Come arma? – Forse – l’Ingegnere scosse la testa. Quel ragazzo era incorreggibile. Aveva proprio bisogno di qualcuno che riempisse le sue immense lacune. – La mia squadra sta studiando tutte le possibili applicazioni, soprattutto nell’ambito dei circuiti che portano energia dai pannelli solari della Superficie fino a noi. Ma è ancora presto per parlare. I Triumviri hanno deciso di organizzare una festa per celebrare l’avvenimento, non capita spesso di trovare giacimenti così ricchi. Potremo venderlo agli altri Alveari a peso di piombo – che era uno degli elementi più preziosi, dato che veniva utilizzato come schermante. Kay aveva la fronte aggrottata. – Dai, non dirmi che non sapevi neppure della festa. È sulla bocca di tutti! – Scusami se o le mie giornate a cercare di procurarvi cibo e Reliquie dalla Superficie. Non ho tempo per i pettegolezzi. E comunque la gente non si diverte a fare conversazione con me. – Per forza, sei scontroso con tutti! – Grazie, Sammy – Kay si stiracchiò le membra, appoggiandosi al davanzale. Non gli interessava parlare di quel tung-qualcosa di cui non riusciva neppure a pronunciare il nome. Finché non sapeva a cosa serviva, per lui era inutile, punto e basta. – Tieni pure quella cassaforte in miniatura e cerca di ricavarci qualcosa. Ne riparliamo dopo questa festa, va bene? – Ci provo. E non chiamarmi Sammy!
Kay sorrise, poi si calò giù dalla finestra. Dal basso la sua voce divertita raggiunse le orecchie dell’Ingegnere. – Va bene, Sammy!
5
Miris evitò con cura la folla di gente che si accalcava intorno ai Cacciatori e al loro trofeo. Gettò soltanto un’occhiata veloce al cadavere martoriato di quello che era stato uno Scarafaggio-Ragno. Quelle creature erano tra le poche in grado di sopravvivere in Superficie, nonostante la radioattività di fondo che la spazzava. Erano più brave degli esseri umani. La ragazza però doveva ammettere che erano davvero brutte. Quando era più piccola Troy, per farle uno scherzo, le aveva messo una cavalletta sopra il banco. Le era saltata nei capelli e lei si era messa a urlare in classe, scatenando un putiferio. Da allora aveva sviluppato un’avversione profonda per gli insetti, soprattutto quelli piccoli che potevano sgusciarle nei capelli. Li preferiva morti e, se possibile, ben conditi o sotto forma di ragù. Si allontanò dalla ressa in tutta fretta, lo sguardo basso. I medicinali cominciavano a gravarle sulle braccia indolenzite. Non era abituata a sollevare pesi. ava gran parte del giorno in casa a studiare l’arte della sua Corporazione e l’unico suo svago era assistere alle corse delle lucertole. Qualche volta era persino montata in sella a quei grossi rettili. Non sapeva se definire quelle esperienze piacevoli. Non tutte, almeno. Quando era in sella, però, riusciva a non pensare. Ne aveva un disperato bisogno. Deviò dal percorso, quasi senza rendersene conto. Nonostante quello che aveva detto al signor Twigg, non aveva poi così fretta di tornare alla Corporazione e cominciare ufficialmente il suo primo giorno di lavoro. Vedere la gente malata non era divertente come poteva sembrare. Per niente. Malati o come Sirea.
Chiuse gli occhi, inutilmente. Continuava a vedere la forma fluida della Chimerica, i suoi occhi di ghiaccio. E non riusciva a togliersi dalla testa il pensiero terribile di trovarsi al suo posto… Se suo padre avesse avuto voce in capitolo, i Chimerici non sarebbero esistiti. A dire il vero, lui era restio anche a tenere in vita quelli dell’Alveare. Ma i capi delle Corporazioni degli Ingegneri e soprattutto dei Guerrieri sostenevano che fossero indispensabili. Gli altri Alveari ne avevano e non era pensabile porsi in una situazione di svantaggio. Suo malgrado, il Triumviro si era visto costretto a cedere al compromesso. Radamante Mann non era noto per la sua tolleranza. Miris continuò a camminare, a testa bassa. Sul marciapiede incontrò un gruppetto di ragazze, con la tunica degli Ingegneri. Erano tutte eccitate riguardo la scoperta del nuovo giacimento e la festa che ne sarebbe seguita. Già, la festa. Miris doveva pensare a una scusa per evitarla. Ad ogni costo. Ma non era così facile. Mentre si scervellava per trovare una soluzione, le gambe la condussero da sole fino all’allevamento delle lucertole. Nel maneggio c’erano due grossi rettili. Considerando anche la coda, raggiungevano la ragguardevole lunghezza di venti piedi. Le selle in chitina erano imbottite di ragnatela morbida per rendere più confortevole l’appoggio ai cavalieri. Una fasciatura ava sotto la pancia squamosa, di un giallo pallido, e sul petto intorno ai possenti anteriori, per impedire che la sella scivolasse indietro nel caso in cui l’animale impennasse. Una sorta di muola di metallo rivestiva il muso della lucertola e un morso le emergeva dalla bocca. Un semplice tiro di redini e quei rettili ammaestrati si bloccavano. Non funzionava sempre, Miris ne aveva esperienza diretta. La prima volta che era salita, all’insaputa del padre che non avrebbe mai permesso che sua figlia, futura Sacerdotessa, si dedicasse a uno sport così disdicevole, la lucertola era schizzata a tutta velocità fuori dal maneggio, saltando la recinzione e arrampicandosi sulla parete. Trovandosi a novanta gradi
rispetto al suolo, per di più senza la protezione di chitina rinforzata che aveva sdegnosamente rifiutato, Miris non aveva potuto far altro che aggrapparsi alla bardatura con tutta la forza che aveva. Aveva creduto di morire. Poi una mano aveva stretto le briglie della lucertola, che cercava rifugio negli angoli più bui della caverna, incurante delle urla della sua amazzone. Se si fosse infilata in qualche fessura… Non era accaduto. Miris aveva riaperto pian piano una palpebra, aspettandosi di essere spiaccicata contro la parete. Invece la lucertola si era fermata. Sbuffava, mordendo il morso, ma non riusciva a liberarsi dalla stretta. La ragazza aveva spalancato gli occhi di scatto. Una mano d’ombra tirava le redini. – Stai tranquilla – una voce divertita l’aveva fatta voltare – Magari, se smetti di urlare, si calma anche la lucertola. Miris avvampò di nuovo per la vergogna al ricordo. Non si era mai sentita così in imbarazzo. Aveva fatto una figura terribile. Quella volta si era ripromessa di non salire più su un rettile, neppure per tutto il piombo del mondo. E invece lo aveva fatto. – La Notte sola sa il perché – borbottò la ragazza. Si appoggiò alla recinzione di metallo, osservando i due cavalieri che si fronteggiavano con le spade. Stavano giocando, si accorse. Partivano ognuno da un lato della recinzione e incitavano le lucertole l’una contro l’altra, si scambiavano un fendente ridendo e poi proseguivano la corsa, invertendo le posizioni. Miris si chiese se in ato esistessero dei giochi simili. Al momento c’era poco spazio per i divertimenti. Quegli uomini erano davvero sani come sembravano o erano già stati contaminati dai Raggi? Chi poteva dire che dentro di loro la malattia non stesse crescendo, per disseminarsi implacabile? O, peggio ancora, trasformasse in mostri i loro discendenti!
Era immersa in questi cupi pensieri quando udì il suono. Rimase interdetta. Credette di esserselo immaginata, ingannata dal clangore delle spade che si scontravano. Eppure continuava, anche se flebile. Veniva dai magazzini alle sue spalle, riecheggiava per il maneggio e si levava verso il soffitto della caverna. Le lucertole avevano sollevato la testa, come in ascolto. Dunque lo sentivano anche loro. Un suono. Miris aveva imparato che erano note. Stringendo il contenitore con i medicinali al petto, si diresse in quella direzione. Tanto doveva are di là per tornare alla Corporazione, si disse. Era l’unica strada. Ma forse l’avrebbe percorsa comunque. Si guardò intorno. Non riusciva a capire da dove provenisse esattamente. Le antenne della Corporazione degli Ingegneri ronzavano, distorcendo ogni rumore. Non c’era mai vero silenzio là sotto. Il silenzio era morte. Miris fece ancora qualche o, incerta. Poi sollevò la testa. La fonte del suono era una strana canna di terracotta, forata a distanza regolare, che terminava in una specie di beccuccio. Su di esso si posavano le labbra di un giovane dai ricci castani, che soffiava nello strumento dando vita a quei suoni armoniosi, seduto con le gambe a penzoloni dal tetto di un magazzino. Miris rimase ad ascoltare in silenzio. Osservò le dita che si muovevano rapide, aprendo e chiudendo i fori dello strumento. La mano sinistra era coperta da un guanto nero, che si allungava a rivestire tutto il braccio senza soluzione di continuo. Un braccio d’ombra. Kay dovette percepire lo sguardo, perché sollevò le labbra dallo strumento. Immediatamente il suono si spense, lasciando il dubbio che fosse realmente esistito.
– Ciao – sollevò il braccio, ovviamente il destro, in un cenno di saluto. Immediatamente Miris si risentì per quel tono così informale. Si raddrizzò, alzando la testa e scoccandogli un’occhiata sprezzante. – Come sarebbe a dire “ciao”? – scandì bene le parole, in modo che gli eventuali anti potessero sentirle distintamente – Non ci si rivolge così ad una Sacerdotessa! Kay curvò le labbra in un sorrisetto che non aveva nulla di contrito. Impertinente, piuttosto. – Chiedo scusa, Sacerdotessa – si portò un ginocchio al petto e ci appoggiò il gomito – Così va meglio? – Non tanto. Dovresti lavorare di più sulla riverenza. – Vedrò quello che posso fare. Piuttosto, è da un po’ che non ti vedo su una lucertola. Non vorrai perdere l’esercizio, spero! Miris prese un profondo sospiro e trattenne la risposta brusca che le saliva alle labbra. Non riusciva mai a capire quando quel giovane la prendesse in giro e quando fosse serio. La cosa la disturbava. Tanto più che era un Reietto mezzo Chimerico. Doveva stargli lontano. Era uno dei motivi per cui aveva smesso di andare al maneggio. – Ho avuto di meglio da fare. – Per esempio? Era insopportabile. E riusciva ad avere sempre l’ultima parola. Miris ogni volta cercava di tagliare la conversazione e si trovava a parlare invece per ore. – Affari miei. E della mia Corporazione. Un Reietto illetterato come te non può capire – Soddisfatta della propria risposta, sperò che il giovane fosse abbastanza abbattuto per tacere.
Speranza vana. – Ti piace questa canzone? Ho cambiato il ritmo, come avevi suggerito. Ricordi? Miris lo ricordava, anche se era ato un po’ di tempo. Forse era stata una delle ultime volte in cui era uscita di casa, da quando si era resa conto di quanto le stava succedendo. E che nessuno doveva saperlo. Nessuno! – Sì – ammise, scocciata. – Sì ti ricordi o sì ti piace? Entrambe, ma non aveva intenzione di ammetterlo. Fu salvata dall’onere della risposta da un richiamo, seguito dal ronzio di un motore in rapido avvicinamento. Una carrozzina biposto frenò, in modo da trovarsi al suo fianco. Troy, con un sorriso radioso sul volto, tirò la leva, mettendo il motore in standby. – Ehi, Miris, ti stavo cercando. Tua sorella mi ha detto che eri andata a fare una commissione da quello svitato del vecchio Twigg. – Eh? Ah, giusto! – la ragazza si affrettò ad abbassare lo sguardo, concentrandosi sulle ruote di quel veicolo tremolante. Dopo quello che era successo la sera prima, non sapeva come rapportarsi con Troy. E soprattutto non aveva la minima intenzione di guardarlo negli occhi. Proposito bizzarro, visto che dal giorno prima erano ufficialmente fidanzati. Poteva costituire un problema. – Chrisandra era preoccupata e mi ha mandato a cercarti – Troy continuava a sorridere. Pur non vedendolo, Miris sentiva quel sorriso. Nella propria mente. Sempre peggio! – Ah – la sua conversazione si stava dimostrando davvero arguta. Le sembrava che di avere una locusta in gola.
Una locusta velenosa. – Beh, il Saccaromyces ha bisogno di un ambiente adeguato per proliferare, viaggiare a lungo non giova alla sua capacità secretiva – Troy snocciolò le sue conoscenze in materia con aria saputa. Ormai era un Sacerdote anche lui, come dimostrava la sua veste azzurra. – Così ho pensato di venirti incontro. Ci ho messo un po’ perché non immaginavo che tu fossi arrivata fin qui. Non lo immaginava neanche lei. – Confusione per la preda dalla Superficie. Ho deviato – di quasi un miglio. Dettagli. – Poco male, con questo affare raggiungeremo la Corporazione in un batter d’occhio. Ma con chi stavi parlando? Sentendosi in colpa, anche se non ne capiva il motivo, Miris si voltò di scatto verso Kay. Solo che il giovane era scomparso. Sul tetto del magazzino non c’era più nessuno. Solo ombra. – Miris? – il tono di Troy era perplesso. Probabilmente pensava che fosse ancora in quella fase del ciclo femminile in cui una donna era mentalmente instabile. La ragazza temeva di esserlo sempre. – Niente, nessuno. Hai ragione, il Saccaromyces potrebbe rovinarsi – Miris si sedette sulla carrozza meccanica, augurandosi che funzionasse meglio del suo Ripulitore. Per lo meno, aveva imparato la lezione, non l’avrebbe presa a calci neppure se li avesse lasciati a piedi nel bel mezzo della salita. – Andiamo alla Corporazione. Kay seguì con lo sguardo il veicolo a gas che scompariva dietro un cumulo di case di Lavoratori. Il rumore rimase più a lungo, acuto, quell’aggeggio era improponibile fuori dalle mura protettive dell’Alveare. Poteva essere individuato a miglia di distanza.
Kay emerse dalla pozza d’ombra a lato dell’edificio. Gli era facile nascondersi alla vista in quel modo. Molto utile quando doveva sfuggire ai predatori dei cunicoli e della Superficie. In quel caso non sapeva perché l’avesse fatto. Aveva idea che a Miris non fe piacere esser vista insieme a uno come lui. Giusto, come l’aveva chiamato? Reietto. Beh, era quello che era. E lei era una Sacerdotessa, che avrebbe frequentato solo Sacerdoti per tutto il resto della sua vita. Come quel tipo moro e pomposo che era venuto a prenderla. – Andate tutti e due all’inferno – scrollò le spalle. Senza ottenere la soddisfazione che aveva sperato, si avviò a o strascicato verso la sua casa, un buco di due metri quadrati scavato in una nicchia della caverna. Più che sufficiente per uno come lui, che non aveva niente. I soldi li teneva nascosti in luoghi diversi, in modo da tutelarsi in caso di furto. Un po’ nella stanza di Samuel Barni, senza che lui lo sapesse. Tanto in quella confusione un sacchetto in più, incollato sotto il tavolo, non avrebbe fatto differenza. Un po’ nella stalla delle lucertole in calore, dove nessuno sano di mente avrebbe messo piede. A lui bastava mandare avanti il suo braccio lungo l’ombra della recinzione. Infine un sacchetto era sul soffitto della tana del Ragno-Regina, altro posto dove gli umani non gradivano andare. Kay represse uno sbadiglio. Cominciava a sentirsi stanco. Aveva trascorso tutta la notte a Caccia e aveva bisogno di qualche ora di sonno. Non gli fu concessa. Due Cacciatori, con lancia folgorante in pugno, lo attendevano in piedi davanti alla sua nicchia. Lo squadrarono con un’aria che non prometteva nulla di buono. – Ehi, tu, Reietto. Thoran ti vuole vedere!
6
Kay non voleva vedere Thoran, ma questo era un dettaglio del tutto ininfluente. Il capo della Corporazione dei Cacciatori, nonché Triumviro della Guerra dell’Alveare, era un uomo sulla quarantina, imponente, completamente calvo anche se una barba lunga e brizzolata gli andava dalle orecchie fino al mento. Le sue sopracciglia cespugliose parevano il nido di qualche tarantola e l’espressione sempre cupa dei suoi occhi grigi confermava che era altrettanto pericoloso. Indossava una corazza di chitina mista a metallo, così lucida che ci si poteva specchiare. Kay non l’aveva mai visto senza e cominciava a pensare che ci andasse anche a letto. – Finalmente, inutile bastardo mutante! – ringhiò Thoran, battendo un pugno sul tavolo intorno a cui stava girando come un leone inferocito – Devi venire subito quando ti chiamo. Il problema delle comunicazioni non era da poco. Ascoltando le storie di Samuel, Kay sapeva che in ato esistevano delle scatole che, attraverso onde radio, facevano comunicare a distanza la gente, persino da un continente all’altro. Poi i Raggi avevano messo fuori uso anche quegli strani affari volanti che gli Ingegneri chiamavano “satelliti”, che erano crollati sulla Terra distruggendo il poco che era rimasto della civiltà ata, e comunque adesso c’erano fin troppe onde elettromagnetiche in giro per capirci qualcosa. Dubitava che Thoran fosse interessato a una disquisizione sul problema della mancanza di comunicazione. – Sono qui – Kay scrollò le spalle – Non lamentarti! Thoran non era un tipo paziente. Impugnò la sua ascia folgorante. Sul manico c’era un fusibile in cui mettere la batteria a energia radiante. Un pulsante attivava la scarica su tutta la lama.
– Mostra un po’ di rispetto o ti taglio la testa! Kay non batté ciglio. Non lo aveva chiamato per decapitarlo, ma perché aveva bisogno di qualcosa. – Come farei poi ad eseguire i tuoi ordini? Un’argomentazione che lasciò Thoran abbastanza confuso, ma si riprese subito. – Per farlo non ti serve la lingua. Quella posso tagliarla. Kay decise che preferiva tenersela, ancora per un po’. In fondo, la gerarchia andava rispettata, per quieto vivere. Chinò la testa. – Chiedo scusa. La stanchezza mi fa straparlare. Come ben saprai, sono tornato da poco all’Alveare dalla caccia. – Lo Scarafaggio-Ragno, sì – un borbottio fu l’unico apprezzamento al suo operato – C’è un problema. Altrimenti non l’avrebbe chiamato. Kay attese spiegazioni. Era stanco, irritato contro un entità imprecisata che poteva essere assimilata a tutto il mondo, e non aveva voglia di discutere. – Quale? – Intrusi. Vicino all’Alveare. Troppo vicini! Il giovane drizzò le orecchie, facendosi attento. Non provava un amore viscerale per l’Alveare e i suoi abitanti, ma era comunque la sua casa. L’unica che aveva. Non ci voleva particolare arguzia per capire che ogni danno all’Alveare si sarebbe ripercosso anche sulla sua persona. – Insetti? Rettili? – Animali a due zampe, temo – Thoran, quasi con rammarico, ripose la grande ascia bipenne – A meno che gli insetti non abbiano cominciato a nutrirsi di minerali. Ieri un carro è stato attaccato, vicino alla miniera 2. Nessuno ha visto e sentito niente. È semplicemente svanito nel nulla, insieme al suo carico.
– Cioè? – Alluminio, rame e tung… – una smorfia – Insomma, quella roba di cui parlano tutti! Kay represse un sorriso. Allora non era il solo ad aver problemi nel pronunciare quel nome uscito dalla mente perversa di qualche Ingegnere del ato. – Hai pensato all’eventualità che gli Schiavi che lo trasportavano siano fuggiti con il carico, guadagnandosi la libertà e un cospicuo bottino? Dall’espressione di Thoran capì che no, non ci aveva pensato. E comunque era una possibilità remota. Gli Schiavi erano Schiavi, fin dalla nascita. Non conoscevano altra condizione. Era il motivo per cui le rivolte erano estremamente infrequenti. Oltre al fatto che stare in gruppo era l’unico modo per sopravvivere sulla Terra. – E stamani due esploratori non hanno fatto ritorno. Spariti, anche loro, e nessuna traccia. Sangue, segni di lotta… nulla! Che mi dici, adesso? Kay si appoggiò con le nocche al tavolo di metallo, freddo, in cui si specchiava in modo distorto. I capelli parevano ancora più ricci, il volto allungato, deforme. Molti dei Reietti lo erano e venivano soppressi, oppure scacciati dall’Alveare. Era la stessa cosa. Lo aspettava una simile sorte, se non si fosse dimostrato utile. – Cosa devo fare? – domandò. Miris si teneva saldamente aggrappata alla maniglia della carrozza a motore, le dita così serrate intorno alla striscia di metallo che temeva non si sarebbero più staccate. Si sentiva sbatacchiata da ogni parte e non era affatto piacevole. – Preferisco i pattini a rotelle – borbottò, pregando che il viaggio finisse presto. Certo, gli Ingegneri avevano ancora molto da migliorare su quel veicolo, che pareva sul punto di esplodere da un momento all’altro. – Come hai detto, scusa? – Troy ne approfittò per sporgersi verso di lei, mentre
piegava la leva del manubrio per evitare una Lavoratrice, con bambino al seno, che stava attraversando la strada. Miris chiuse gli occhi. Non sentì alcun impatto, quindi dedusse che in qualche modo erano riusciti a non investirla. Bene, non aveva intenzione di cominciare subito a lavorare come Sacerdotessa. – Che questo trabiccolo non mi piace. – Davvero? Io lo trovo interessante. A dire il vero è ancora un prototipo, me lo ha dato un mio amico Ingegnere – Troy pareva divertirsi un mondo. Miris non capiva cosa ci fosse di divertente nel fare da cavia per testare l’invenzione bislacca degli Ingegneri. – Spostarsi senza fatica è davvero geniale. – Però inquina. Troy sbatté le palpebre. – In che senso? – Mi riferisco al carburante che usa. Questo veicolo inquina. Considerando poi che qua sotto c’è poco ricambio d’aria… attento al muro! – indicò l’edificio contro cui stavano andando a discreta velocità. Troy lo evitò per un soffio. – Tranquilla, so pilotare questo coso. Dicevamo? Ah, il carburante… – Non pensi ai nostri figli? – soltanto pronunciare questa parola fece impallidire Miris ma, dato che era già esangue per lo scampato incidente, non si notò la differenza. E Troy, che aveva finalmente capito che forse era il caso di guardare avanti invece che il bel viso della ragazza, non lo avrebbe visto comunque. – Siamo fidanzati da poco, è un po’ presto per pensare ai figli. – Mi riferivo ai discendenti della nostra generazione – si affrettò a spiegare Miris, in fretta. Perché gli uomini capivano sempre a modo loro? – Insomma, quelli che erediteranno questa terra dopo di noi. Troy si limitò a scrollare le spalle. – E chi se ne importa dei nostri figli e dei figli dei nostri figli? Probabilmente
non vedranno mai la luce. I Raggi ci hanno dimostrato che il futuro non dipende da noi, ci sono delle calamità che non possiamo controllare. Dunque godiamoci il presente senza preoccuparci troppo. Quell’argomentazione aveva senso, fin troppo. Eppure Miris non era del tutto soddisfatta. Qualcosa dipende anche da noi. Considerò. Altrimenti che ci stiamo a fare su questo mondo? …Ma guarda che strane preoccupazioni… Miris si diede un pizzicotto, interrompendo quel pensiero non suo. Inavvertitamente, in una curva, era scivolata di lato, sfiorando il braccio di Troy. Si affrettò a ritirarsi sul proprio sedile. Finalmente, tra uno sbuffo e l’altro, il veicolo si trascinò fino al palazzo della Corporazione. Miris scese prima che si fermasse del tutto, con lo stomaco in subbuglio. Non aveva mai sofferto il mal di carrozza prima di allora. – Verrai alla festa con me, non è vero? – il giovane Sacerdote aveva tirato la leva del freno e la guardava, con un sorriso familiare che la fece sentire d’un tratto stanca e triste. E se si fosse sbagliata? Se quei pensieri che percepiva fossero soltanto un frutto della sua immaginazione, autosuggestionata da tutta quella situazione stressante… Conosceva Troy da anni. Da una vita, poteva dire. Data la scarsità di risorse, i Triumviri cercavano di limitare le nascite e non c’erano molti bambini della sua età all’interno della Corporazione. Avevano giocato insieme, a Miris era sempre piaciuto. E fin da piccola sapeva che, al momento della sua investitura, si sarebbero fidanzati e poi sposati. Non poteva essere altrimenti, perché le loro famiglie avevano già firmato un contratto. Chrisandra era fidanzata con il fratello maggiore di Troy ormai da qualche anno. Adesso toccava a lei. Le altre donne invidiavano la sua fortuna. Troy era alto, moro, con un bel fisico nonostante fosse uno studioso. All’ultima festa aveva vinto la gara di corsa e si era classificato nel salto in alto. Era destinato a diventare un membro influente della Corporazione, senza contare che era sempre gentile e premuroso nei suoi confronti.
Il fidanzato perfetto. Fino a poco tempo prima ne era convinta anche Miris. Peccato che, mentre la baciava, pensasse che era imbranata con la lingua, magari a letto sarebbe andata meglio… e una volta sposati sarebbe stato in lizza per diventare Triumviro dopo suo padre… Al solo ricordo Miris provò l’impulso di dargli un altro schiaffo. Imbranata con la lingua?!? Ovvio, era il suo primo bacio. Bacio serio. I membri della Corporazione le avevano riempito la testa di nozioni mediche e scientifiche, ma nessuno le aveva mai spiegato come baciare un uomo. Qualcuno avrebbe dovuto pensare a introdurre nel corso di studi le lezioni di Pomiciata Avanzata. – Vacci con qualcuna che sa baciare meglio! – sbottò, stizzita. Troy sbatté gli occhi. – Ehi, che ti salta in mente? Già, che le saltava in mente? Troppe cose. Troppi pensieri non suoi. Miris si ò una mano sulla fronte, dandosi della stupida. Doveva stare attenta a quello che diceva. Forse anche a quello che non diceva. – Scusami, è che… dormo poco in questo periodo… – ed era vero – … mio padre si aspetta molto da me… – tutti si aspettavano qualcosa da lei. E non era certa di poterli accontentare. Non per sua scelta, purtroppo. Troy le si era accostato. Le prese la mano con la propria. Era grande e calda. – Hai molte pressioni addosso, lo capisco. E comunque alla festa voglio andare con te. Con la mia fidanzata. Miris deglutì, a testa bassa. Si limitò ad annuire. Rimase immobile anche quando Troy le sfiorò la fronte con un rapido bacio. Mi piace quando fa la difficile. La ragazza si tirò indietro, interrompendo il contatto. – Il Saccaromyces – si schiarì la voce –Devo portarlo in laboratorio!
– Ti accompagno, facciamo alla svelta. Poi ci aspetta l’Assemblea della Corporazione. L’ultimo posto dove Miris voleva andare in quel momento. Ma anche quello non aveva importanza. Doveva farlo. Come Sacerdotessa ufficiale, era suo diritto e dovere. Sentendosi tremendamente in trappola, finse di non notare il braccio che il giovane cavallerescamente le porgeva ed entrò nel palazzo a o rapido, insieme a un fidanzato che le avevano imposto e in un ruolo che le avevano imposto. Forse aveva ragione Troy e niente dipendeva dalle loro scelte.
7
Radamante Mann era stato eletto Triumviro tre anni prima e ne sarebbe rimasto in carica altri quattro. Quindi doveva sbrigarsi a portare avanti il suo progetto. Con i suoi cinquanta anni, un’età ragguardevole che ormai pochi umani riuscivano a raggiungere, certe volte quando sfoggiava gli abiti da cerimonia riusciva ad avere un aspetto solenne e maestoso. Per esempio lo aveva nel ritratto fluorescente che spiccava nella nicchia alle sue spalle. Si trattava di colore percorso da minuscole scintille di energia radiante, i cui cavi scorrevano all’interno delle pareti dell’edificio della Corporazione. Il ritratto forse non era del tutto fedele. I capelli, brizzolati, nell’immagine erano decisamente più folti. La leggera asimmetria che rendeva il suo setto nasale storto (un droide mal funzionante da piccolo gli aveva sbattuto in testa) e il lato destro del suo labbro superiore più alto del sinistro nel ritratto non si notava. Perizia dell’artista Ingegnere? In ogni modo quell’immagine a dimensione naturale, che brillava solenne nel salone, era costata molti dischi di rame e risaliva a qualche tempo prima, quando Radamante era meno curvo e meno corpulento. Modificarla per renderla più realistica costava troppo, si diceva il Triumviro. – Devo tornare alla mia Corporazione – annunciò, con una punta di urgenza. Col tono di rispetto che coltivava con cura, la Triumvira Florenzia annuì. – Capisco, mio caro, capisco. Assemblea, giusto? Le Assemblee erano un’istituzione irrinunciabile nella vita politica e sociale dell’Alveare. Avvenivano una volta al mese, a meno che non ci fosse un motivo valido per riunirsi prima del tempo. Qualunque membro della Corporazione poteva indirle, anche se di solito se ne guardava bene. Significava stare almeno
due ore ammassati nel salone delle udienze, a sorbirsi i riti e ad ascoltare i monologhi o le lamentale di qualche collega. C’era di meglio da fare. Ma d’altronde le consuetudini non potevano essere disattese. C’erano delle regole troppo radicate nell’Alveare e cambiarle era soltanto controproducente. Radamante su questo non aveva dubbi. – Sì, tra venti giri di clessidra. Considerando il tempo per scendere al piano inferiore, sono quasi in ritardo. Florenzia aggrottò le sopracciglia, ma solo leggermente. Non stava bene che una donna, tanto più una Triumvira, mettesse in atto una mimica facciale sconveniente. Doveva stare con il mento sollevato per guardare in faccia il Sacerdote e la sua faccia rotonda aveva un’espressione vagamente cordiale, quando non era presa nella morsa del cerimoniale. – Argomento? – Se permetti, sono questioni che riguardano la mia Corporazione. Florenzia si concesse un sorrisetto. – Eppure credevo che lavorassimo di comune accordo, noi tre! Disse “tre” per educazione. Come diceva il nome stesso, Triumviri, erano in tre a prendere le decisioni nell’Alveare. Teoricamente. In realtà Thoran era messo a parte soltanto delle questioni più pratiche e chiamato in causa quando bisognava discorrere di guerra e della sicurezza della loro comunità. Florenzia doveva ammettere che il Cacciatore svolgeva il suo compito egregiamente, anche se con ogni probabilità aveva capito che due più due faceva quattro soltanto perché glielo avevano ripetuto fino allo sfinimento. D’altronde, non ci voleva particolare acume per agitare sopra la testa un’ascia folgorante. Radamante era tutta un’altra questione. Era intelligente e ambizioso, la Triumvira doveva ammetterlo, ma mancava di senso pratico. A lungo andare, la sua campagna personale contro le mutazioni indotte dai Raggi diventava davvero seccante.
– Accordo, giusto – il Sacerdote inarcò un sopracciglio, modellato con delle pinze per eliminare i peli alla base del naso. – Allora dimmi, come procede la catena di montaggio per la sintesi di transferasi ricombinante? – L’apparecchiatura è quasi pronta. L’abbiamo modificata in modo da eliminare qualsiasi circuito elettrico, basandoci soltanto sull’energia fornita dai pannelli. Almeno quella non ci manca – la Triumvira si sistemò una ciocca di capelli. Ne stava perdendo molti negli ultimi tempi. Lo attribuì all’età. Comunque non era un buon segno. Lo spettro della paura aleggiava dappertutto. Nessuno sapeva a chi e quando sarebbe toccato. – Bene, tienimi aggiornato! – Radamante non provava particolare simpatia per gli Ingegneri, ma doveva ammettere che erano indispensabili per il proseguimento delle sue ricerche. Arte guaritrice e capacità costruttiva si fondevano in quella branca che poteva essere definita “ingegneria genetica”. Costruire geni. Modificarli. Meglio farlo da soli, prima che ci pensassero i Raggi, più di quanto avevano già fatto. Su questo lui e Florenzia erano d’accordo. Il punto era come modificarli. – E i tuoi esperimenti? Come vanno? – questa volta fu la Triumvira a informarsi. Aveva imparato che la conoscenza era potere. In fondo, cos’erano le Corporazioni se non un tentativo di tenere la cultura riservata per una casta ristretta di popolazione? – Procedono. Florenzia sorrise con vaga malizia. – Oggi sei particolarmente stitico nella conversazione. Forse la mia compagnia ti annoia? – Più che altro mi trattiene oltre il dovuto – Radamante gettò uno sguardo sull’orologio a batteria che gli pendeva da un taschino della tunica – So che voi
donne siete abituate a farvi attendere, ma non è mia abitudine arrivare in ritardo. La Triumvira decise di soprassedere a quella frecciata spontanea rivolta al genere femminile. – Volevo soltanto sapere se sei riuscito a mettere a punto quel mutageno di cui mi hai parlato. – Il Vaccino! – puntualizzò Radamante. Con la “V” maiuscola. Era la cura definitiva che avrebbe salvato il genere umano. Florenzia sapeva che i Sacerdoti amavano giocare con le parole. L’avevano sempre fatto. Come anche gli Ingegneri, avevano coniato un linguaggio a parte, comprensibile soltanto dai membri della loro casta. Il potere dei nomi. – Chiamalo come vuoi, ma è e rimane sempre un agente mutageno – fece spallucce, con un movimento aggraziato che sollevò il suo seno prosperoso. Prosperosa. Ecco, quell’aggettivo le piaceva. Suonava molto meglio che “grassoccia” o “corpulenta”. Ma più o meno era la stessa cosa. Così quel fantomatico Vaccino. Radamante non poté evitare un moto di stizza. – Modifica il nostro Dna per proteggerlo dal danno genetico indotto dai Raggi. – In poche parole una mutazione che protegga dalle mutazioni – Florenzia annuì. Suo padre le diceva sempre che aveva il dono della sintesi. A differenza dei Sacerdoti. Era felice di essere nata nella Corporazione degli Ingegneri. – Già. – E potremmo modificarlo in modo che protegga solo da alcune mutazioni? La proposta ricadde per un attimo nel silenzio teso tra di loro. La grande stanza dalle pareti lucide era vuota, illuminata dal bagliore azzurrino dell’argon. Il volto
di Radamante pareva scolpito nel quarzo. – Forse. – Non fare quella faccia e ascoltami! – il tono di Florenzia si manteneva basso, ma aveva assunto una sfumatura dura e decisa. La donna sapeva farsi obbedire, quando voleva. Altrimenti non sarebbe mai arrivata ad occupare quella posizione. – I Raggi provocano mutazioni che nella maggior parte dei casi sono dannose. L’86% della nostra popolazione morirà di neoplasia, presto o tardi. Il 19% dei nostri figli nasce deforme e in molti casi le malformazioni sono tali da risultare incompatibili con la vita. – Allora capisci perché è necessario il Vaccino… – cominciò Radamante, ma l’Ingegnera non si lasciò interrompere. – Ma ci sono casi in cui i Raggi hanno dato vita a qualcosa di utile. Sai a cosa mi riferisco. I Chimerici! – Radamante aprì la bocca, ma Florenzia non gli diede il tempo di protestare – Hanno un aspetto umano, ma capacità estremamente interessanti. E soprattutto utili – Florenzia era una decisa sostenitrice di un metodo deduttivo-induttivo. Nessuna teoria, per quanto affascinante, aveva senso se non trovava un’applicazione pratica. I Chimerici l’avevano. Accidenti, se l’avevano! – Sirea e Agarath da soli valgono quanto un esercito. Senza contare il loro contributo all’edilizia e all’approvvigionamento idrico dell’Alveare. Radamante stringeva i denti fino a farli schioccare. Sembrava una mantide furiosa a cui era stato rovinato il nido. – Ma, come hai ammesso tu stessa, non sono umani! Florenzia scoppiò a ridere. – Oh, caro mio, lasciamo da parte queste argomentazioni filosofiche moraliste. Cos’è l’umanità? Noi siamo il risultato di mutazioni avvenute nel corso di millenni. Ci hanno selezionato, in modo che fossimo adatti a sopravvivere sulla Terra. E i Raggi, anche se agiscono in modo più e violento, non sono altro che un’altra forma di selezione. Possiamo superarla, ne sono convinta. Radamante scosse la testa, pentito. Non avrebbe dovuto mettere a parte
l’Ingegnera del suo progetto. – E dunque sei contraria ai miei studi. – No, tutt’altro – Florenzia cercò di spiegare pazientemente il proprio punto di vista. Nonostante tutto il suo bagaglio di conoscenze guaritrici, quell’uomo non aveva una briciola di buon senso. – Il tuo Vaccino sarà un’ulteriore selezione, per di più mirata: impedirà le mutazioni dannose e permetterà invece quelle da cui si può prospettare un’utilità pratica. Così la razza umana sarà salva e allo stesso tempo potrà contare sulle capacità degli ibridi che si sono creati. – Non funziona proprio così! – Allora ci lavoreremo in modo che lo faccia, giusto? – Florenzia gli diede una pacca sul braccio, quasi affettuosa – Su, adesso sbrigati, o farai tardi davvero all’Assemblea. Non me lo perdonerei mai. Chissà quei poveri Sacerdoti quanto sono ansiosi di assaporare la tua saggezza! – era grata di non dover essere al loro posto. Per lo meno le Assemblee degli Ingegneri erano più brevi. Quelle dei Cacciatori nella maggior parte dei casi invece si trasformavano in autentiche risse. Con la netta sensazione che la donna lo stesse prendendo in giro, Radamante si raddrizzò, indirizzandole un’occhiata cupa. – Fai attenzione, Ingegnera. Il genoma non è un ingranaggio come quelli a cui sei abituata. Basta una rotella fuori posto e salta tutto. – Non sono io che ho cominciato questa partita – Florenzia gli regalò il suo sorriso più condiscendente – Tu pensa a fare il tuo lavoro. Io farò il mio. Lo guardò allontanarsi con il sorriso ancora sulle labbra. Intendeva superare la selezione. Ad ogni costo.
8
Miris arrivò in ritardo all’Assemblea. Non era la prima volta che le capitava e sapeva che non sarebbe stata l’ultima. Negli ultimi tempi detestava trovarsi in mezzo alla gente. Non appena mise piede nel salone icosaedrico, già gremito di Sacerdoti, l’occhiata di rimprovero del padre la ghiacciò sulla soglia. Rimprovero. Delusione. …perché non riesce a prendere sul serio nulla…? – Ehi – per poco Troy non le andò addosso, non si aspettava quell’inchiodata improvvisa – Che ti prende? Miris non rispose. Come spiegargli che voleva soltanto rintanarsi in un angolo e scoppiare a piangere? – Dai, entriamo, svelta, così non ci facciamo notare! Insieme a Troy sgusciò all’interno del salone, anche se era tristemente consapevole che il suo ingresso non era ato inosservato. Con un sospiro si appoggiò alla parete. Non c’erano più posti a sedere sulle panche levitanti a batteria radiante, cosa di cui Miris fu grata. Per lo meno non si trovava spiaccicata tra i Sacerdoti che lottavano per un briciolo di spazio. In terza fila scorse la testa bionda di Chrisandra. Non arrivava mai tardi, lei. Miris si sentì ancora più affranta. Il lato negativo di quella posizione era che, rimanendo in piedi e in disparte, era chiaramente individuabile da coloro che parlavano al centro della sala.
Le panche erano organizzate in cerchi ondeggianti intorno a una specie di pedana in ossidiana, dove salivano quanti avevano preso parola. Suo padre era là, nel bel mezzo del suo discorso. A quanto pareva, aveva già officiato il rito in onore della Notte, la signora che proteggeva dai Raggi e assisteva i Sacerdoti nella loro arte. La veneravano anche gli Ingegneri e i Cacciatori, ma erano soprattutto i Lavoratori e gli Schiavi a credere nel suo culto. In fondo, dovevano pur credere in qualcosa che non fosse la vita di stenti che conducevano. Miris, come la maggior parte dei membri delle Corporazioni, credeva che, se anche esisteva un Dio, si era dimenticato di loro da un pezzo. Il padre continuava a parlare, esponendo i progressi ottenuti nel campo dei fattori di crescita ricavati dai microrganismi dei vegetali, la scoperta di un nuovo rigenerante muscolo-cutaneo a effetto quasi immediato, l’intenzione di concentrare gli studi sulle proteine agenti sul genoma umano. Utilizzava un’incredibile proprietà di linguaggio e incantava i Sacerdoti, tesi ad ascoltare quella che si configurava prima di tutto come una conferenza che spaziava tutto l’universo del loro scibile. Radamante di tanto in tanto si interrompeva in frasi a effetto. E guardava la figlia, come aspettandosi che aggiungesse qualcosa. Miris fissò ostinatamente la punta dei propri calzari. Faticava a seguire quei discorsi. Ultimamente le risultava difficile concentrarsi. Sprazzi di idee si rincorrevano nella sua mente, affannata nel disperato tentativo di metterli in ordine. …ormai è una Sacerdotessa… Che noia qui dentro! Troy, al suo fianco, emise uno sbuffo e le si accostò. – Tuo padre è un vero genio, però quando comincia a parlare non la finisce più! – Già – Miris apprezzò il suo goffo tentativo di fare conversazione. E forse di tirarla su di morale. Ma ci voleva ben altro.
– Tranquilla, domani ci divertiremo di più, alla festa – una pausa per prendere coraggio – Non mi hai ancora risposto. Ci verrai con me? Miris osservò il padre allargare le mani, dopo aver terminato una parte della sua arringa. – Ci sono domande? Su, colleghi, non temete. Il confronto e il colloquio ci arricchiscono. Lo scopo di una conversazione non è concludersi, ma ampliarsi. Come se l’Assemblea non fosse già abbastanza lunga e noiosa! Un paio di mani si alzarono per chiedere la parola. Tra di essere c’era anche quella di Chrisandra. Radamante sembrava compiaciuto. Miris programmava di chiudersi in casa e lasciare che gli altri festeggiassero senza di lei. – Non mi interessa festeggiare un giacimento di sassi colorati – borbottò tra i denti. Troy non si lasciò scoraggiare. – Beh, noi possiamo festeggiare il fidanzamento. Continuare a festeggiarlo! – si corresse. Il giorno prima c’era già stata una sorta di cerimonia. Miris, con la sua veste migliore, scortata dalla sorella, era andata a porre la propria firma sulla tavoletta d’argilla ancora molle, sull’altare della Notte. Troy, con il fratello, aveva fatto lo stesso. Un segno che li univa, trattenuto dall’argilla che si andava indurendo. Il tutto sotto lo sguardo vigile e soddisfatto dei rispettivi genitori. Davvero uno sballo! C’era da stupirsi se, dopo quella cerimonia fredda e formale, si era gettata tra le braccia di Troy in cerca di conforto? Peccato che avesse ottenuto tutto il contrario. – Ho mal di testa – mugugnò Miris, ricorrendo alla prima scusa che le balzò in mente. Penosa e poco originale. E per di più facilmente confutabile. – Questa notte riposati e ti erà, vedrai! – Lo avrò anche domani.
– Come fai a saperlo? Miris provò a sbirciare verso il padre. Aveva ripreso a parlare, ma l’Assemblea, grazie alla Notte, volgeva alla fine. – Lo so e basta! – accidenti, suonava ridicolo anche per lei. Bene, che Troy pensasse che era una ragazzina noiosa e psicolabile. Magari le sarebbe stato alla larga per un po’, dandole tempo per mettere chiarezza dentro di sé. Radamante stava pronunciando il discorso conclusivo. Finalmente. Miris era già con un piede verso la porta. – Miris! La voce profonda e leggermente roca del padre la inchiodò sul posto. La voce di chi fuma polvere di fungo almeno dieci volte per Ciclo. La ragazza non aveva mai provato, ma sapeva che dava dipendenza. E che distruggeva i recettori olfattivi e le vie respiratorie. C’erano molti modi per morire sulla Terra, tanti quanto le stelle nel cielo. Almeno, non era il peggiore. Si voltò lentamente, il cuore che le batteva nel petto. Si aspettava una ramanzina con i fiocchi, per di più davanti a tutti. Il viso del padre era severo. – Figliola, devo parlarti. E domani vorrei che tu cominciassi a lavorare al mio progetto… – Non domani! – Miris alzò un po’ troppo la voce, con una punta di terrore. Tossicchiò e lottò per ricomporsi. – Voglio dire… un altro Ciclo, magari… domani c’è la festa… – tutto era meglio che chiudersi nel Loculo con il padre. Anche la festa. La ragazza accennò un sorriso imbarazzato. – Vorrei andarci con il mio fidanzato – si affrettò ad aggiungere – Se mi a questo mal di testa…
Troy, sentendosi chiamato in causa, si raddrizzò come se si sentisse un metro più alto. Le rivolse un cenno di saluto. Sprizzava soddisfazione da tutti i pori. – Allora a domani. Vi lascio ai vostri discorsi privati. Miris. Triumviro – e con un ultimo sorriso si confuse con la fiumana di gente che lasciava la sala. Beati loro! Miris non poteva. Radamante non le concesse via di fuga. – Vieni con me! A testa bassa, la ragazza non poté far altro che seguirlo.
9
Il laboratorio di Radamante era uno dei più attrezzati della Corporazione. Ci lavorava insieme alla madre di Troy, la signora Alisia, e ai suoi due assistenti, entrambi adepti di terzo livello. Anche Miris aveva fatto apprendistato là per un periodo, ma ogni volta che vi metteva piede veniva colta da un senso di smarrimento profondo. E ricordava sua madre. Per quanto fosse strano, non era un bel ricordo. I tubicini erano ovunque, sbucavano dalle pareti, dal pavimento, dal soffitto spazzato dal freddo neon. Sacche piene di liquido, flaconi disposti ordinatamente sugli scaffali, un set di aghi e siringhe sopra il tavolo. In una specie di acquario di vetro le colture cellulari proliferavano, sotto il calore di una lampada a bassa energia. Provette sistemate sopra i bunzer spenti. E loro. Lei e suo padre. Se in quel momento tra di loro si fosse spalancato un abisso, Miris non l’avrebbe sentito più distante. Radamante sfiorò distrattamente una provetta che conteneva della polvere chiara. – Cos’è questo? – il suo tono era piatto, come quando spiegava in classe. Non aveva mai fatto distinzione tra i suoi allievi, non aveva mai dato alla figlia un trattamento di favore. Fuori dalla classe il suo atteggiamento non si scaldava. – Digitalis lanata – rispose Miris, prontamente. Si accorse di stare sudando freddo, come durante un’interrogazione. Beh, si trattava esattamente di quello.
Non un complimento, neppure un cenno affermativo. – E questo? Miris dovette pensarci un po’ prima di rispondere in maniera corretta. Le labbra di Radamante si strinsero appena, mettendo in risalto la sua lieve asimmetria. – Sulle piante officinali e le loro varianti mutate sei preparata – concesse, ma non sembrava un elogio. Il Sacerdote aveva la capacità incredibile di trasformare ogni lode in una lamentela. – Come tua sorella Chrisandra, del resto. Miris non replicò. Si limitò a rimanere in piedi, il più lontano possibile dal tavolo con gli strumenti e dalle colture lungo la parete di sinistra. Era inutile puntualizzare che era stata Chrisandra a insegnarle gran parte di ciò che sapeva, non lui. Eppure lo pretendeva comunque. Una parte di Miris avrebbe tanto voluto dargli ciò che cercava. L’altra parte sapeva che non ci sarebbe mai riuscita. E anche quello non dipendeva da una sua scelta. – Cosa sai dei meccanismi di riparazione del Dna in seguito all’interazione con i Raggi? La domanda era ampia e complessa. Miris spostò il peso da un piede all’altro. Sperava soltanto che quello strazio finisse presto. Era strano come cercasse la compagnia del padre, ma dopo pochi attimi con lui desiderasse trovarsi da qualsiasi altra parte. – Ehm, i Raggi… a seconda del tempo di esposizione… e della dose… provocano un danno alla catena del Dna… – le sembrava di essere diventata di colpo balbuziente. La mente si era svuotata e cercare di dare un ordine logico alle nozioni che aveva in testa era davvero impossibile. –La rottura di entrambi i filamenti, o “double strand break”, non è riparabile… – Per ora! – la corresse Radamante, con tono cupo – Vai avanti! Era una parola. Miris deglutì un paio di volte.
– Le cellule colpite dai Raggi possono non subire alterazioni, o subire mutazioni… immediate o dopo una o più divisioni successive… – Basta così! – Radamante fece un cenno stizzito, mentre si metteva in testa un casco munito di lenti di ingrandimento. Lo faceva assomigliare a una mosca curiosa, che scavava in segreti troppo complessi. – La tua esposizione è a dir poco penosa. Per domani voglio che tu rii quanto hai appreso riguardo kRAS, p53, i geni oncogeni ed oncosoppressori e tutto ciò che riguarda le riparazioni geniche. Siamo intesi? Miris annuì. – Sì, papà! – E vedi di impegnarti un po’. Adesso sei ufficialmente una Sacerdotessa e comincerai a praticare l’arte di guarire. Ma non tralasciare la ricerca, come fa tua sorella. Ho bisogno di qualcuno a cui tramandare il mio sapere, come ha fatto mio padre con me. Altrimenti a che serve? Radamante per un attimo parve stanco. Miris notò gli occhi cerchiati, le rughe sulla pelle che cominciava a chiazzarsi. Da quando mamma non c’è più, non ha smesso di studiare un secondo. Per evitare che altri subiscano lo stesso destino. La ragazza si morse le labbra. Quali pensieri erano suoi e quali del padre? Lo vide accasciarsi sulla sedia di metallo, abbassarla in modo che avesse l’altezza giusta per non stare troppo curvo al tavolo. La sua schiena cominciava a risentirne. – Sai che un tempo il sapere era a disposizione di tutti? – Radamante fissava una provetta senza vederla – A volte ne parliamo con gli Ingegneri. Gli uomini del ato raccoglievano le loro conoscenze in blocchi detti libri. Miris non sapeva come comportarsi. Non era abituata a dialogare con il padre. Che fosse un’altra trappola per vagliare le sue conoscenze?
– E dove sono ora questi… libri? – era cauta. Stava ben attenta a non guardarlo negli occhi e a tenersi lontana. – Distrutti. In parte dagli uomini stessi. Avevano trovato un modo più rapido ed economico per immagazzinare informazioni. Le misero su dischi o piccole scatole, leggibili da appositi apparecchi, poi addirittura in una rete virtuale. Miris non riusciva ad immaginarsi niente del genere. Le sembravano discorsi da Ingegneri pazzi. Le informazioni erano qualcosa di reale, tangibile. Come potevano finire in una maglia invisibile aleggiante per il mondo? – E come facevano poi a vederle? – non poté trattenersi dal domandare. – Sempre con quegli apparecchi. Qualcosa di simile ai cervelli dei nostri droidi. Ma i droidi non funzionavano. Miris corrugò la fronte. – Sì, hai capito. Una tempesta di Raggi si abbatté con violenza sulla Terra e tutti questi apparecchi finirono in cortocircuito, resettati, distrutti. Con tutte le informazioni che contenevano Il nostro sapere è solo una briciola di quello del ato e siamo costretti a tramandarlo oralmente di generazione in generazione, a meno di inciderlo sulle pareti dell’Alveare – Radamante emise uno sbuffo a quell’idea così sciocca e primitiva – I libri sono perduti, il materiale in cui venivano scritti non è procurabile, ogni marchingegno elettronico è impensabile con le tempeste di Raggi che imperversano sulla Terra. Quindi, che ci piaccia o no, tu e Chrisandra siete le mie sole speranze di portare avanti i risultati delle mie ricerche. A Miris non piaceva, ma annuì per farlo contento. Il volto di Radamante si distese in quello che più si avvicinava ad un sorriso. – Figliola, quando non ci sarò più dovrai continuare al mio posto. Sarai tu a difendere la salute e la purezza della razza umana. Di nuovo Miris annuì. Non si fidava a parlare. Se solo il padre avesse saputo… E la paura più grande della ragazza era che lo scoprisse. Perché no? Magari in laboratorio avrebbe trovato un modo per mappare i geni di un individuo, lo
avrebbe provato su di lei… Sentì il bisogno impellente di uscire. Era una donna adulta, ormai, per i canoni dell’Alveare, ma la cosa che più desiderava in quel momento era un abbraccio materno in cui sprofondare e piangere. Per la Terra. Per il padre. Per se stessa. – Adesso vai a studiare – Radamante era tornato il maestro, il capo dei Sacerdoti, il Triumviro. Il suo tono non ammetteva repliche. – Vai pure alla festa di domani, basta che tu sia preparata per quando cominceremo a lavorare sul serio. Va’, figliola! E non deludermi ancora! Queste parole aleggiavano nell’aria, senza bisogno di essere pronunciate. Miris le percepiva chiaramente, come punte di coltelli nella carne. Annuì e si odiò per questo. Non riusciva a fare altro nella sua vita. Lasciò il padre intento a studiare una coltura cellulare. Non la salutò neppure, quando uscì, e Miris sulla porta esitò, con uno “ciao” speranzoso sulle labbra che non aveva la forza di uscire. Morì così, sfaldandosi amaro in bocca. Mentre tornava nelle sue stanze schermate, ripensava agli apparecchi per vedere la rete virtuale. Dovevano essere una tecnologia portentosa. Erano stati alla base della civiltà nel ato. Ma affidarsi completamente a essi? Era stata una pazzia. Gli uomini del ato erano stati sciocchi o troppo sicuri di se stessi. Forse era la stessa cosa. E loro, dopo tanti anni, avevano imparato la lezione?
10
Kay scivolava rapido e silenzioso nelle ombre. Il buio gli piaceva. Forse nascondeva i nemici al suo sguardo, ma allo stesso tempo nascondeva lui ai nemici. Stabiliva una situazione di parità in cui solo i più forti o i più astuti potevano prevalere. Dato che era ancora vivo, voleva dire che era forte o astuto. Oppure, considerò con un sorrisetto, molto fortunato! Alla luce, in cui il suo braccio scuro era evidente, si sentiva sempre sotto esame. Non era una sensazione piacevole. Detestava le espressioni di pietà, commiserazione e disgusto che i suoi compatrioti gli rivolgevano. A parte lei. Kay ancora non aveva interpretato lo sguardo di Miris. Sacerdotessa Miris, si corresse. Altrimenti gli avrebbe fatto un’altra ramanzina. Il pensiero lo fece sorridere. Era carina quando si arrabbiava, cioè per la maggior parte del tempo. Lo chiamava Reietto eppure più volte aveva cavalcato le lucertole insieme a lui. Il giovane scrollò le spalle. Le donne erano strane. E, se si fosse distratto ancora con quelle fantasie, la sua fortuna sarebbe finita troppo presto. Tornò a prestare attenzione all’ambiente circostante. Era fuori dal terreno dell’Alveare, quindi in territorio ostile. A parte le tarantole giganti, gli scarafaggi carnivori e i serpenti delle rocce, che già da soli costituivano un pericolo considerevole per un umano così sciocco da avventurarsi lontano dagli insediamenti, si aggiungeva il fatto che non era da solo in quei tunnel. Thoran aveva ragione. C’era qualcosa di strano.
Solo che non sapeva cosa. O chi. Continuò ad avanzare, circospetto. Aveva lasciato la sua cavalcatura, un geco bruno, presso la miniera 8, preferendo procedere a piedi. Era più lento, ma molto più silenzioso. Quando cacciava, neppure i suoi compagni riuscivano a individuarlo, se non era lui a volerlo. Poteva muoversi dietro ai i di qualsiasi umano senza farsi sentire. Come un’ombra. Il paragone non gli piaceva, ma doveva ammettere che era calzante. Teneva una mano sul calcio della pistola, già carica. Il cunicolo procedeva scuro e tranquillo, ma Kay non si fidava. Raggiunse l’elevatore che portava al pozzo 45. Era segnalato da un tubo dentro cui il neon frizzava, spalmando un’aura biancastra sulla scritta sbiadita. Un cavo saliva verso l’alto, attingendo all’energia di qualche pannello solare. Di solito mandavano lui in perlustrazione in Superficie, prima che la squadra di Ingegneri si arrischiasse nel giro di manutenzione. Perché lui era sacrificabile. E infatti Thoran l’aveva spedito a calci a esplorare i tunnel intorno all’Alveare, in bocca al pericolo. O aveva grande fiducia nelle sue capacità, o non gli importava nulla del fatto che riuscisse a sopravvivere. Kay propendeva per la seconda ipotesi. Si chiedeva perché non avessero mandato Agarath. O Sirea. Di certo erano più forti di lui. E più preziosi. I Chimerici si comportavano esattamente come gli umani nei suoi confronti: lo tenevano a distanza come una bestia rara e fastidiosa. Quando era poco più che un ragazzino aveva ricercato la loro compagnia, poi aveva lasciato perdere. Stava meglio da solo. E poi non aveva voce in capitolo. Tanto valeva far buon viso a cattivo gioco. Superò una coltivazione di funghi ormai abbandonata. Era troppo lontana dall’Alveare per essere difendibile e insetti e rettili ne avevano fatto scempio.
Gambi ormai in putrefazione languivano sul terreno, soltanto qualche Amanita Muscaria fosforescente si raggruppava intorno a cristalli di quarzo, che fornivano qualche stilla di luce nel Sottosuolo. Anche tra i funghi quelli più cattivi e velenosi sopravvivevano. Kay girò intorno a un cumulo di ragnatela appiccicosa. Percepì un leggero fruscio, come di un grosso corpo squamoso che si muove tra le fessure. Si affievoliva in fretta. A quanto pareva il serpente delle rocce aveva deciso che quell’avversario non faceva per lui. Il giovane sorrise. Scelta saggia. Continuò a camminare per un po’, poi deviò in un cunicolo laterale per pattugliare l’intero perimetro intorno all’Alveare. Per il momento non aveva trovato nulla. Né carri, né cadaveri, nessuna traccia di intrusi. Ma la pessima sensazione persisteva. In ogni caso, dopo altre due ore di marcia, Kay era sul punto di rinunciare. Non aveva senso brancolare così alla cieca, i tunnel del Sottosuolo erano troppo estesi per setacciarli tutti. Se Thoran aveva qualcosa da ridire, ci andasse lui! Fu in quel momento che percepì un odore strano. Si immobilizzò, inspirando più a fondo per analizzarlo. Non si trattava del solito sentore di umido e di stantio che imperniava il Sottosuolo. Neppure del fetore di sterco di qualche abitante delle gallerie. Kay detestava soprattutto l’urina cristallizzata dei serpenti delle rocce. Era così acre che suscitava conati di nausea a metri di distanza. Quello non era né sterco né urina. Carne bruciata. Kay si schiacciò contro la parete, drizzando le orecchie. I suoi occhi, abituati all’oscurità, scandagliarono l’ambiente circostante. Nessun rumore. Nessun movimento. Dopo aver atteso qualche minuto carico di tensione, si decise ad avanzare. Le
narici dilatate, seguì l’odore, o quello che ne rimaneva. Era un sottile alito, si stava pian piano sfaldando. Ancora un’ora e sarebbe scomparso del tutto. La pistola pareva tremare d’impazienza tra le dita del giovane. Chiedeva di essere utilizzata. Non ce ne fu bisogno. Il Ragno-Regina era già morto quando Kay scivolò a i felpati nello spiazzo. Era grande, più grande dei Tessitori che allevavano nell’Alveare, con otto zampe pelose che si raggomitolavano intorno al corpo mostruosamente sproporzionato. Poteva staccare la testa di un uomo con un morso e ingoiarla in un boccone. Era una minaccia per tutti i convogli che viaggiavano nel Sottosuolo e uno dei motivi per cui i Cacciatori si muovevano sempre in gruppo. Un avversario temibile. E sconfitto. Kay si avvicinò con cautela, la pistola puntata. Con l’altra mano snudò una spada, sentendosi più sicuro. L’odore era più intenso, là, nauseabondo. Odore di morte. Non c’erano ferite sul corpo della creatura. Né fori di energia, né tagli di lama folgorante. La peluria era bruciata e in più punti l’epitelio superficiale si era completamente squagliato, mettendo a nudo gli organi sottostanti. Anneriti. Quasi carbonizzati. E la cosa più strana era che il Ragno-Regina pareva sprofondare nel pavimento del cunicolo. Gran parte dell’addome prominente non era più visibile. Era come se la roccia si fosse aperta per ingoiarlo, bloccandolo in quella posa grottesca. Kay sfiorò il filo di ragnatela che era colato dalla bocca della creatura. Era ancora morbida. Era morto da poche ore. Ma chi l’aveva ucciso? Con un senso di urgenza, il giovane tornò rapidamente sui suoi i. La pessima sensazione, se possibile, stava peggiorando.
11
Miris osservò la sorella infilarsi una mascherina e dei guanti in tela appositamente trattati. Una tela le copriva anche la tunica azzurra, mentre i suoi capelli erano raccolti in una coda sopra la nuca. Era pronta. – Sicura che non vuoi che ti aiuti? – provò a domandare. Chrisandra accennò un sorriso. Anche se non riusciva a vederle la bocca, Miris lo percepì negli occhi. E con la mente. – Grazie, cara, ma ho già Theo ad assistermi. E poi non so quanto durerà l’intervento. Non vorrei che fi tardi alla festa. Miris si limitò a un borbottio che esprimeva tutta la sua gioia di andare a quella dannatissima festa. L’aveva sognata anche di notte, e più che altro si trattava di un incubo. C’era tanta gente intorno, ma erano tutti volti sconosciuti. Per quanto si sforzasse, Miris non trovava chi stava cercando. Forse perché non sapeva chi fosse. D’un tratto qualcuno la stava inseguendo. La ragazza provava a farsi largo tra la folla, ma era come un muro. Un muro che la respingeva. Gridava, chiedeva aiuto, ma nessuno la sentiva. Nessuno la guardava. Era come invisibile. In compenso lei sentiva le voci di tutti, che la assordavano, mentre la sua testa cominciava a scricchiolare e scoppiare… Diede la colpa alle tarantole al salto della cena. Le erano rimaste indigeste. Decise che non le avrebbe mangiate per un bel po’. Chrisandra, concentrata su quello che doveva fare, non parve far caso al suo umore pessimo.
– Sai, un po’ ti invidio. Vorrei anch’io uscire a divertirmi, ma la situazione ormai è critica. Se non interveniamo subito, sarà tutto inutile. – Non puoi lasciare il compito a qualcun altro? – era da tempo che Miris non usciva con la sorella. Poteva essere l’occasione per stare un po’ insieme. Chrisandra tirò un sospiro. Scosse la testa. – No, lo farò io. – Perché? – Perché devo. Ho pronunciato il giuramento, ricordi? E anche tu! Miris per poco non fece un balzo indietro, con un’espressione colpevole. Gettò un’occhiata alla porta della stanza da cui proveniva un ronzio ovattato. Il droide porta-aghi era pronto. Qualche Ingegnere aveva proposto di programmare i droidi per gli interventi, ma i Sacerdoti si erano opposti. Era bene che all’essere umano ci pensasse un essere umano. E poi, con il rischio continuo di cortocircuiti, era quasi inutile. – Chi è? – domandò la ragazza, con un filo di voce. – Un Cacciatore. È stato esposto ai Raggi qualche giorno fa, si erano fatti più intensi. Si è presentato in fase prodromica con cefalea, vertigini, nausea e vomito. Stamani non ha fatto altro che vomitare, la mucosa intestinale ormai è andata. Ha la febbre alta ed è terribilmente disidratato. – Ce la farà? Chrisandra si strinse nelle spalle. – Chi può dirlo? Forse. E se anche fosse sopravvissuto, probabilmente sarebbe morto a distanza di giorni per la distruzione del midollo emopoietico. Nella migliore delle ipotesi avrebbe resistito qualche anno, fino al manifestarsi di una leucemia o di un linfoma.
O dando vita a un figlio mutato. Chrisandra le appoggiò il dorso della mano sulla spalla. – Sorellina, goditi la festa per oggi. Avrai tempo più avanti per esercitare l’arte, d’accordo? – Mmm – Miris combatteva tra il sollievo e il senso di colpa. – E se hai proprio voglia di far qualcosa prima di uscire, vai a somministrare la terapia nel Loculo 13. Un caso più tranquillo. Chrisandra cercava sempre di proteggerla. Se suo padre l’avesse saputo, si sarebbe infuriato. Una delusione. Non ho chiesto io di appartenere alla Corporazione dei Sacerdoti! Miris si trascinò a malincuore fino al Loculo 13, decisa a una capatina veloce prima che Troy asse a prenderla. A piedi, gli aveva imposto. Non intendeva salire con lui su nessun veicolo, neppure gli zoccoli a rotelle. Il Loculo 13 era soltanto una stanzetta in cui c’erano tre letti. Due erano vuoti, uno era occupato da una donna. Quello che ne rimaneva. I Raggi avevano degli effetti acuti ed altri cronici. Forse questi erano di gran lunga i peggiori. La pelle era così sottile da sembrare trasparente e le vene sottostanti erano cordoni bluastri e contorti. I tubicini percorrevano quel corpo così magro che si potevano contare tutte le ossa. Non aveva che qualche ciuffo di capelli, di un nero spento, formavano un’aureola sul suo cuscino. Il petto si alzava e si abbassava irregolare sotto la tela di ragno. L’odore di malattia era qualcosa di soffocante. Miris socchiuse gli occhi, li riaprì. Non poteva neppure prendere un bel respiro
per calmarsi, temeva che i fumi chimici dei farmaci la stordissero più di quanto lo fosse già. Si avvicinò di un o. Quella malattia non era contagiosa. La nuova forma di vita mutata stava finendo di mangiare il corpo del suo ospite. Neoplasia allo stadio terminale. La mutazione è male. Guardando quella donna, come poteva non credere alle parole del padre? – Sono una Sacerdotessa. Sono una Sacerdotessa – si ripeté, facendosi forza – Farò quello che devo. La siringa con il farmaco da somministrare era già pronta, sul tavolinetto di metallo. Miris la impugnò in fretta. L’ago-cannula era già inserito in vena, sul dorso della mano Era un lavoro da pochi istanti. Bastava iniettarla e il gioco era fatto, per il momento. Ma prima bisognava avvicinarsi e toccare la malata. Anche mia mamma… Scacciò il pensiero. Conosceva i gesti da compiere. Suo padre e Chrisandra lo facevano tutti i giorni. Ma per lei era diverso. Più tempo ava, più la sua decisione vacillava. Strinse i denti e fece un o in avanti, inserendo la siringa nell’ago. Premette lo stantuffo. In quel momento la donna aprì gli occhi acquosi e incrociò il suo sguardo. Dolore. Dolore. Paura. Non voglio morire. Perché ci hanno fatto questo? Che colpa abbiamo? Non voglio morire. Non voglio morire… Miris emise un gemito. La siringa ormai vuota le cadde di mano, rotolando sul pavimento. Non si piegò a raccoglierla. Uscì dalla stanza trafelata, ignorando i gemiti della donna. Comprendeva il suo dolore. Lo sentiva. Si ò con rabbia il dorso di una mano sugli occhi, asciugandosi una lacrima.
Non poteva essere una Sacerdotessa. E suo padre sarebbe stato deluso di lei.
12
La festa (teoricamente era “festa del tungsteno”, ma pochi riuscivano a pronunciare il nome per intero) andava avanti ormai da ore. Miris desiderava soltanto che finisse al più presto. Troy le ò un ciotola di funghi secchi in una salsa dal sapore dolciastro. Era andato a comprarla in un chiosco improvvisato dagli Ingegneri, metallo lucido in cui un paio di droidi Camerieri smistavano cibo e bevande con un’efficienza incredibile. – Quegli affari di latta se la cavano bene – commentò Troy, con un sorriso – Al loro posto, con questa ressa, confonderei tutte le ordinazioni. – Finché non vanno in cortocircuito – fu la caustica risposta di Miris. Avevano aggiustato C3D4 e finalmente la sua stanza aveva riacquistato un aspetto quasi presentabile. Ma tra lei e il piccolo Ripulitore era sorta un’antipatia profonda. – A te non capita. – A volte sì. – Davvero? Quando? – Miris era scettica. Troy le strizzò l’occhio. – Quando ti vedo, per esempio. La ragazza ritenne più opportuno infilarsi in bocca una manciata di funghi. A volte il silenzio era la migliore risposta. Erano appoggiati a una transenna improvvisata e osservavano un combattimento tra iguane. Le scommesse fioccavano e dischi di rame avano da una tasca all’altra. Miris non era convinta che quel genere di divertimento fosse autorizzato dai Cacciatori della Sicurezza, sempre che divertimento ci fosse nel vedere due poveri rettili sbranarsi tra loro, ma preferiva rimanere là in disparte
che nel vivo della festa, dove un gruppo di Ingegneri stava mostrando i prodigi del pannello radiante di ultima generazione e soprattutto distribuendo shen a volontà. Gratis. Dato che era la bevanda più amata, tutto l’Alveare era accalcato là ad approfittarne. – Guarda: i fuochi d’artificio! – Troy indicò in alto. Un gruppo di Cacciatori stava sparando in aria energia radiante con fucili caricati a polvere minerale. Esplodevano in stelle blu, rosse e verdi sopra la caverna. Solo qualche colpo. Quel genere di munizioni costava. E c’era sempre il rischio di far franare un pezzo di soffitto. Era già capitato e Thoran aveva vietato quel genere di esibizioni. Ogni legge era fatta per essere infranta. I colpevoli si erano già dileguati quando il Triumviro della Guerra, furibondo, aveva raggiunto il luogo del crimine con una squadra armata di folgoratori. Miris non lo invidiava in quel Ciclo. Né voleva pensare a quante ossa rotte avrebbe dovuto rimettere a posto lei il giorno successivo. Non capiva perché la gente avesse bisogno di farsi male per divertirsi. Troy le prese una mano. – Dai, andiamo a vedere cosa c’è di là! arono accanto a un’arena improvvisata, in cui due squadre correvano dietro a una palla di metallo. Era consentito usare mani, piedi e persino la testa, l’importante era far arrivare la boccia in una delle due ceste alle estremità opposte del campo prima che scadesse il conto alla rovescia. A quel punto la palla esplodeva in schizzi colorati da tutte le parti e i giocatori colpiti erano eliminati per i successivi tre incontri. Sotto una tettoia di metallo, coppie tiravano i dadi o si sfidavano in partite di uno strano gioco, in cui bisognava muovere i pezzi su una scacchiera. Miris aveva sentito chiamarlo “scacchi”, appunto. Non c’erano solo coppie. Seduto in un angolo, Agarath giocava da solo.
Il Chimerico era quello che Miris avrebbe definito un armadio a due ante. Alto oltre due metri, massiccio, il volto squadrato. Sulla mascella pronunciata non cresceva un filo di barba e il cranio era lucido come uno specchio. Tutti se ne stavano a prudente distanza, almeno una ventina di i. Miris provò l’impulso di avvicinarsi. Lo represse sul nascere. Troy equivocò il suo turbamento. – Fa paura, vero? – mormorò, a bassa voce. La ragazza pensò che più che altro faceva tristezza. – Il suo potere è davvero terribile. Una volta l’ho visto in azione, ha abbattuto cinque umani come fuscelli… Miris lo interruppe. – Senti… tu andresti a giocare a scacchi con lui? Troy la fissò come se fosse impazzita. Forse lo era. – Certo che no! Ma che razza di domande! Già, che razza di domande. Miris non sapeva perché lo avesse chiesto. Era così penosamente ovvio! Kay ci sarebbe andato. La ragazza corrugò la fronte. Che le saltava in mente? Da quando si preoccupava di cosa un Reietto faceva o non faceva? Fatto sta che, come evocato dal proprio pensiero, lo vide. Il giovane era in groppa a un geco da battaglia, che stava scendendo verticalmente lungo la parete della caverna. Si stringeva con le gambe alla bardatura, mentre con una mano guidava il rettile tirando le redini. Il suo volto era teso, Miris sapeva per esperienza diretta che, per lo stomaco, era molto meglio salire lungo la parete che scendere. Kay teneva le spalle incurvate.
Sembrava davvero stanco. Troy seguì la direzione del suo sguardo. – Che c’è? – Nulla – Miris scrollò le spalle – Un Cacciatore di ritorno. – Già, Thoran non lascia nulla al caso. Un tipo un po’ rozzo, secondo mia madre, ma è un bravo guerriero. Miris vide che Kay deviava verso di loro. Afferrò il braccio di Troy e lo trascinò dalla parte opposta, verso il maneggio delle lucertole. Non aveva voglia di discutere con il Reietto. Quel tipo riusciva sempre a farla sentire… mah, non lo sapeva come. E la cosa più strana era che non aveva mai idea di cosa Kay pensasse. Per fortuna. Per l’occasione erano state organizzate delle corse tra lucertole. Miris si concentrò sugli animali, ignorando le lamentele di Troy che voleva tornare verso la zona centrale. Si trattenne dagli intimargli di andarci da solo e lasciarla in pace. Erano fidanzati. Chissà come, questo pensiero non riusciva a tirarle su il morale. Con la coda dell’occhio vide Kay che lasciava il suo geco a uno stalliere Lavoratore e parlava concitatamente con un gruppo di Cacciatori. Non riusciva a sentire cosa dicessero. Forse, se si fosse concentrata… Scrollò le spalle. Non le importava. Purtroppo sembrava che il Reietto fosse ansioso di metterla a parte di quella conversazione. Dopo un ultimo cenno ai Cacciatori, si appoggiò alla transenna a pochi i da lei. – Ciao, somma e potente Sacerdotessa – quel saluto pomposo era smentito da un
sorrisetto beffardo e ancora più irrispettoso del solito. Era più di quello che Miris intendeva sopportare. – Ma vuoi piantarla? Sei la persona più maleducata che conosca! – non riuscì proprio a trattenersi. – Perché, non vanno bene questi appellativi? – Mi prendi anche in giro? – Conosci quest’uomo? – Troy si interpose subito tra di loro, con fare protettivo. Il cavaliere che difende la bella dal brigante malvagio. Una delle vecchie storie sdolcinate che le madri raccontavano alle figlie per farle addormentare. Erano storie, appunto. La realtà era molto più complicata. – Kay – il giovane tese la mano destra, tranquillo – Adesso mi conosci anche tu, giusto? Troy non diede segno di voler stringere quella mano. Fissava la tunica nera che si intravedeva sotto la corazza. – Sei uno Schiavo! – Reietto – puntualizzò Kay, con una smorfia – Grazie di avermelo ricordato. Me lo dimentico sempre durante le presentazioni. Un mutato. Lo sguardo di Troy scandagliò il giovane, alla ricerca della mutazione. Aggrottò la fronte. – Sei il tipo con il braccio d’ombra. Miris ritenne che fosse il caso di interrompere quel colloquio prima che degenerasse. E si sentiva di troppo. Insomma, quei due maschi si erano messi a battibeccare per conto loro, dimenticandosi della sua presenza. Il suo orgoglio femminile era ferito. – Bene, adesso che ci conosciamo tutti, ognuno per la sua strada!
Kay le rivolse un’occhiata da sopra la spalla di Troy. – Dove vai? Per la Notte, da quando doveva rendere conto ad un Reietto dei suoi spostamenti? – Dove mi pare! – Alla cena in piazza delle Corporazioni – rispose prontamente Troy, che cominciava a sentire un certo languorino. Le luci si stavano affievolendo, indicando alla popolazione che il Ciclo volgeva al termine. Un disperato tentativo di riprodurre la ciclicità notte-giorno che l’organismo umano amava tanto. – Vero, Miris? La ragazza annuì. Un posto valeva l’altro, giusto per contrariare il Reietto. – Dovreste tornare a casa – il tono di Kay non era più scherzoso. Anzi, terribilmente serio. – Perché? – Troy aveva assunto un’aria di sfida – Perché ce lo ordina un Reietto con un complesso da primo uomo? Kay non rispose. In realtà non aveva un motivo preciso. Aveva svolto il suo compito, riferendo a Thoran ciò che aveva trovato. Non poteva fare altro, a parte tornare alla sua nicchia e farsi una bella dormita. Dubitava di riuscire a prender sonno. Troy mise una mano sulla spalla di Miris. – Io e la mia fidanzata – ci tenne a metterlo bene in chiaro e la ragazza trattenne un sospiro che non poteva essere definito entusiasta – andiamo alla cena! – Vengo anch’io – Kay li lasciò di sasso, avviandosi per primo lungo la via lucida – Su, andiamo. Che state aspettando? La festa è appena cominciata. Miris, sospinta da uno scocciato Troy, non poté che seguirlo.
Sirea sedeva sulla riva di una polla, osservando la superficie grigia dell’acqua. Teneva le gambe incrociate e cominciava a sentirle intorpidite. Le ignorò. Non aveva intenzione di spostarsi. Tanto non aveva altro posto dove andare. Il rumore della festa le giungeva distintamente. Risate allegre, grida festose, il profumo dello shen e della carne di serpente arrostita. Profumo di vita. Era incredibile come gli esseri umani trovassero la forza di festeggiare in un mondo che aveva loro voltato le spalle. Sirea li aveva osservati nel corso della giornata. Ormai viveva in quell’Alveare da oltre venti anni e aveva imparato a conoscere i suoi compatrioti. Il Lavoratore Dan, che si alzava alla fine dell’ora del Sonno e andava a zappare i campi di licheni, imprecando ogni volta contro il droide Irrigatore che si inceppava e lo bagnava da capo a piedi. Lo Schiavo Maiko, che tornava sempre sporco di fuliggine dalla miniera e andava a lavarsi di nascosto nella vasca di irrigazione. L’Ingegnere Ponz, che litigava con la moglie un Ciclo sì e uno no (a parte per quel particolare periodo del mese, allora litigavano continuamente), per poi andare a scolarsi una pinta di shen in santa pace dove pensava di essere solo. La Lavoratrice Cora, che lavava le stoviglie di metallo in acqua e le lucidava canticchiando sulla riva. Aveva una bella voce. Sirea li osservava sempre. A volte si mostrava, a volte rimaneva nascosta. Sapeva che alla gente non piaceva vederla. Però avrebbe tanto voluto cantare quella canzone insieme alla Lavoratrice Cora! Non tutti la evitavano. Il signor Twigg era gentile. Sirea temeva che fosse per il fatto che, con quegli spessi occhiali da talpa, non l’aveva vista bene. Altrimenti non riusciva a spiegarsi perché l’avesse accolta a casa sua, offrendole cibo, vestiti… E calore. Gli umani avevano tanto calore da dare, eppure a volte parevano dimenticarlo.
Nonostante tutto, Sirea li invidiava. Non ne capiva esattamente il motivo. Era più forte di loro, più longeva, più resistente ai Raggi. Sollevò una mano, pensosa, tendendola dinnanzi a sé. Obbediente, l’acqua si increspò in gocce scure, che danzarono al ritmo dato dalla sua mente. Sirea le sentiva. Poteva suonarle, modellandole in una musica che solo lei poteva udire. Era quello il problema. La musica non poteva esser che triste, se non aveva nessuno con cui condividerla. Giocò con l’acqua, chiamandola a sé e percependo la goccia d’eco nella sua testa. Farfalle liquide si levarono dalla superficie, riflettendo il chiarore soffuso della caverna. Perché? Non si accorse di aver pronunciato ad alta voce quella domanda finché non ottenne risposta. – Perché il nostro Dna è mutato in questo modo? Chi può dirlo? Agarath si sedette pesantemente accanto a lei. L’acqua tremolò, le vibrazioni si ripercossero in Sirea, suscitandole un brivido. – Non eri alla festa? – Mi sono annoiato di snobbare gli umani – Agarath aveva una voce cavernosa, sassosa. Sirea non sapeva come altro definirla. – Noi snobbiamo loro e loro snobbano noi. Non è un gran risultato, non trovi? Agarath scrollò le spalle. Era evidente che non era umano. Troppo alto e robusto. Sirea, per lo meno, poteva fingere di esserlo. Le finzioni non duravano mai a lungo. – Ci snobbano, ma siamo indispensabili. Buffo! – Agarath si grattò il petto completamente glabro. Non indossava la tuta protettiva, non ne aveva bisogno. –
Hai mai pensato che, con un po’ di fortuna, potremmo ucciderli tutti e impadronirci dell’Alveare?–. Sirea ci aveva pensato, molte volte. Soprattutto quando aveva cercato compagnia ed era stata respinta. Quando aveva cercato aiuto e aveva ottenuto rifiuto. Anche il giorno prima, con quella Sacerdotessa… Aveva smesso di provare rabbia da tempo. – A che scopo? – Mah, non lo so – Agarath si appoggiò indietro sui gomiti – Forse per dimostrare che possiamo farlo. Che siamo superiori. – E poi? C’è sempre qualcosa sopra di noi – Sirea gli lanciò un’occhiata – Non mi inganni, tu tieni a questo Alveare anche più di me. Lo proteggi ormai da cinquanta anni. Agarath emise una risata tonante, poi le fece una smorfia, grattandosi la nuca. – Già, sono proprio un idiota! I Chimerici rimasero per un po’ in silenzio, riflettendo. La festa era ancora in pieno svolgimento, nonostante fosse ormai l’ora del Sonno. Sirea, concentrata su quei rumori, si accorse in ritardo che la superficie dell’acqua era increspata. Non era opera sua. – Agarath… – mormorò, con una nota di urgenza. Il Chimerico era già in ginocchio, con un orecchio poggiato al suolo. Non si erano sbagliati. Il terreno stava tremando. Emise un grugnito, rialzandosi. – Preparati! – le intimò. Sirea era già pronta. Il perché era chiaro nella sua mente. Perché erano due idioti.
13
L’energia radiante creava sui tetti degli edifici arcobaleni di luce, che colavano inondando le piccole finestrelle. Sfarfallii di colore e ombre ovunque. Per terra, cocci di terracotta e grumi di immondizia lasciati per strada. La festa aveva raggiunto il suo culmine. Miris si lasciò trascinare da Troy in quel tripudio di colori e confusione. C’era fin troppa energia e pochi modi per utilizzarla, tanto valeva sprecarla per far divertire la popolazione, una volta ogni tanto. I motivi per festeggiare si contavano sulla punta delle dita. Erano vivi. Ancora. Questo era il principale. Troy la teneva per mano e Miris lo lasciò fare. Quel contatto era del tutto ininfluente. Era circondata da gente, che la urtava e la sballottava in qua e là. Stava toccando tutto e tutti. Anche le loro menti. Serrò la mascella, sforzandosi di escludere ogni altro pensiero che non fosse seguire Troy dovunque la stesse portando, sopportare quel supplizio e tornare a casa il più in fretta possibile. Dove magari la aspettava suo padre per interrogarla. Splendido! In quel momento si sentiva così confusa che faticava anche a pronunciare il proprio nome. Mangiò distrattamente la ciotola di muschio marinato con salsa di funghi. Era pesante, con un retrogusto amarognolo che le rimase in bocca. Paragonata ai cibi trattati con aromi naturali che assaggiava alla mensa della Corporazione, quella roba era a dir poco rivoltante. Ne lasciò avanzare più di metà e, non appena posò la ciotola a terra, un ragazzino con la tunica dei Lavoratori la afferrò e poi schizzò via, stringendo con entrambe le mani il suo trofeo.
– Ladruncolo! – sbottò Troy, agitandogli contro il pugno –Ma i Cacciatori cosa fanno? Dovrebbero far rispettare la legge? – In questa confusione? – Miris scosse la testa. Un furtarello del genere ava del tutto inosservato nella ressa. – Non possono avere occhi dappertutto. – Beh, dovrebbero! – Troy le si accostò, protettivo. Forse aveva paura che portassero via anche lei. – Dai, è solo una ciotola di robaccia… – Quella robaccia è il nostro pasto di un intero Ciclo – commentò Kay, alzando la testa dalla sua ciotola. Due dischi di rame. Un prezzo esorbitante per coloro che non appartenevano alle Corporazioni. – Quando siamo fortunati. Sedeva a qualche o da loro, con la schiena appoggiata a un droide inceppato che nessuno, in quel caos, si era preoccupato di riparare. Giaceva immobile in mezzo alla strada a strisce grigie e nere, le braccia meccaniche ancora estroflesse dal corpo di latta. Il lampeggiante sulla cupolina era desolatamente spento. Il giovane era altrettanto immobile. Di tanto in tanto portava la ciotola alla bocca. E anche in quel gesto non smetteva di fissarla. Era esattamente davanti a lei. Miris si massaggiò la fronte, scoprendola imperlata di sudore freddo. Il martellio si faceva più insistente. …giacimento di quella cosa…ho ancora fame…domani devo andare al Pozzo… ma dove è finito il mio bambino… – Quel Reietto è ancora qui – Troy la scosse leggermente. – Lo vedo – la risposta laconica della ragazza non parve soddisfarlo. – Ti senti bene? Hai una pessima cera. Miris avrebbe voluto gridargli in faccia che non stava bene per niente, ma strinse le labbra. Non era colpa di Troy. In realtà, non aveva idea di chi fosse la colpa. – Ancora il mal di testa di ieri?
La ragazza annuì. E stava peggiorando. Più di sforzava di contrastarlo, più si faceva prepotente. Le sembrava di avere due spilli roventi conficcati dietro alle orbite. – Forse dovrei tornare a casa. Kay continuava a fissarla. – Mi sembra un’ottima idea. – Fatti gli affari tuoi, tu! – Troy fece un cenno sprezzante per zittirlo, prima di tornare a rivolgersi a Miris. Le ò un bicchiere di metallo. – Beviamo qualcosa, poi ti riaccompagno a casa. La ragazza bagnò le labbra in un sorso. Dolciastro, intenso. Inarcò un sopracciglio. – Shen? – Preparata con i funghi migliori! – il giovane le rivolse un sorriso e levò il bicchiere, facendolo battere contro il suo. Un rintocco che si perse nel vociare allegro della folla. – Brindiamo! – A cosa? – A noi, ovvio – adesso Troy era molto vicino. I suoi occhi brillavano al chiarore psichedelico delle luce. – A questo momento. Al presente! Un presente che non tornava e si faceva ato, poi ricordo, poi cenere. E il futuro avanzava implacabile, con il suo abisso di incertezza. La testa le scoppiava, voleva solo andare a casa. Meglio accontentare Troy, nella speranza che la portasse via di lì. Miris portò il bicchiere alle labbra e lo vuotò con un sospiro. Non aveva mai bevuto shen prima di allora. Sapeva che era una bevanda ricavata da polvere di funghi fluorescenti che crescevano ai riflessi del quarzo. Agli adepti ne era proibito l’uso e Miris aveva sempre rispettato quel divieto, come tutte le altre leggi.
Beh, non era più un’adepta, ma una Sacerdotessa. Sentì il liquido scendere in gola e piombare nello stomaco con un singulto caldo. Le venne da tossire, ma si trattenne, sentendosi una sciocca. Il sapore era piacevole, dopo il primo attimo di smarrimento, ma si sfaceva subito in bocca, lasciando soltanto una patina dolciastra sulla lingua. Miris non sapeva se essere delusa. Si era aspettata qualcosa di più da quella famosa bevanda, eppure non sentiva niente di strano. All’inizio. Kay la stava fissando. Ancora e ancora. Cominciava davvero a innervosirsi per lo strano comportamento del Reietto. Troy le era vicino, stava sostenendo una delle sue solite conversazioni prive di interesse. Muoveva la bocca, ma lei non sentiva le sue parole. Non quelle pronunciate, almeno. Sentiva tutto. …certo che è veramente carina, anche se ha mal di testa, vorrei provare se con lo shen le sue labbra hanno cambiato sapore… Miris si portò la mano sulla tempia. Pulsava. C’era troppa gente intorno a lei. Volti su cui i fuochi di energia proiettavano luce e ombre. Volti che ridevano, con le bocche grottescamente spalancante di cui riusciva a contare tutti i denti. Bicchieri di shen che si sollevavano, lenti e un attimo dopo troppo rapidi. Vedeva tutto, con una chiarezza raggelante. Lo scintillio di una goccia di sudore che scivolava sulla fronte di un uomo seduto poco lontano. Miris l’osservò affascinata, seguendola lungo il collo, fin quando scomparve sotto la tunica di chitina. Le screziature perfette sul corpo del droide, anche se vaiolato dalla ruggine. Ogni macchia. Tutti i peli sulla mano di un ragazzino che sgraffignava un tozzo di licheni. Ogni particolare le tornava contro amplificato, mentre la sua mente si gonfiava, cominciando ad inglobare quello che le stava intorno. Vedeva e sentiva. …questa bevanda fa volare con la mente…mia moglie mi ucciderebbe, se mi vedesse adesso…festa meravigliosa…quando torno a casa mi getto sul letto senza neanche togliermi la chitina di dosso…sì, anch’io…se Amanda mi
rivolgesse solo uno sguardo…voglio ancora un altro bicchiere, così non penso ai Raggi e a mio padre rinchiuso da Cicli nella Corporazione dei Sacerdoti, attaccato alle flebo…sta morendo…divertiamoci, è la festa…brindisi…sto per vomitare…dove sei… Miris non si accorse che stava urlando fin quando non si sentì scuotere con forza. Si teneva la testa tra le mani. Era troppo piena. Il respiro le si condensava in ansiti dolorosi. – Ehi, che ti prende? Che ha questa ragazza da qualche giorno? …ho dimenticato il piccone nella miniera 4… – Basta! – Miris si alzò in piedi di scatto. Non ce la faceva più. La barriera protettiva che si era faticosamente costruita si stava sfaldando e la sua mente era invasa. Confusamente vedeva Troy che le andava dietro, Kay che si era alzato, la gente che continuava il suo divertimento, luci che erano diventate di un doloroso bianco e nero che le offuscava la vista. Non credevo che la shen le fe questo effetto! … tra poco… preparate le armi… Miris non sapeva più cosa stesse pensando, cosa stesse facendo. Corse alla cieca, l’importante era allontanarsi dai brandelli che le vorticavano nella testa come calabroni impazziti e schizzavano da ogni parte. La circondavano, la braccavano. Non aveva scampo. Si appoggiò a un edificio, in una stradina, e appoggiò la fronte alla fredda parete. Non sapeva più dove fosse arrivato il cuore, le pareva che fosse salito nella testa e là pulsava frenetico. O era qualcosa di estraneo che aveva dentro e lottava per liberarsi? Si rannicchiò su se stessa, le braccia intorno al petto, in un ultimo disperato tentativo di difendersi. – Lasciatemi in pace… Sarà ubriaca? Ma ha bevuto solo un bicchiere…
Troy incombeva su di lei. L’aveva raggiunta, forse era là da un po’. Miris non riusciva più a quantificare il tempo in modo oggettivo, perché non c’era tempo oggettivo nella mente. Si sentiva imprigionata da se stessa. Troy la abbracciò e lei si trovò a piangere sul suo petto. – Ssh, va tutto bene. Mi hanno detto che alle donne piace essere consolate. – No, non va tutto bene! – singhiozzò Miris. Avrebbe voluto spingerlo via, ma non aveva la forza per liberarsi. Il corpo le sembrava svuotato di ogni energia. – Sto male! – Ci sono io, adesso! Il petto di Troy era caldo, le sue braccia forti. La aiutò a sollevarsi in piedi, facendola appoggiare alla parete. Quanto la desidero! Poi la baciò. Miris sentì il sapore della shen sulle labbra. Era un bacio deciso, forse un po’ frettoloso. La ragazza rimase immobile, troppo confusa per reagire. Non riusciva a pensare in modo coerente. Avvertiva il corpo di Troy contro il suo, mentre la spingeva contro la parete, le sue mani che le sfioravano il collo e poi scendevano lungo la veste chitinosa. La sua mente si era focalizzata su di lui, in quel contatto che si faceva sempre più intimo. Come è bella… solo mia…la voglio adesso… E lei cosa voleva? Stava affogando, mentre lottava disperatamente per far riemergere se stessa da una fiumana di pensieri che non erano i suoi. Ci riuscì nell’istante in cui una mano si posò sulla spalla di Troy. – Ehi, lasciala andare!
Miris si trovò di colpo libera, ansimante. Troy era stato trascinato indietro e Kay lo teneva ancora per la spalla, con un’espressione indecifrabile. Il Sacerdote era infuriato. – Si può sapere cosa stai facendo, Reietto? – Cosa stai facendo tu! – Kay non batté ciglio. La pressione si accentuò sulla spalla di Troy, strappandogli un gemito sorpreso. – Sto baciando la mia fidanzata. – Non mi pare che lei sia d’accordo. Miris chiuse gli occhi, li riaprì. Il contatto era interrotto. Il freddo del muro dietro le spalle le restituì un po’ di lucidità. O forse l’effetto della shen stava svanendo. Di certo non era normale una reazione del genere alla bevanda. Questa consapevolezza la fece sentire ancora più male. – Ma certo che è d’accordo! – e comunque chi se ne importa se non è d’accordo? – È la mia fidanzata! Hai commesso un errore, Reietto, domani sporgerò denuncia formale contro di te. Miris, andiamocene! Ma prima che la ragazza potesse aggiungere qualcosa, un’esplosione tremenda squassò l’intero Alveare.
14
L’Ingegnere Samuel Barni non era andato alla festa del tungsteno (questa parola non era un problema per lui, dato che sapeva pronunciare idroclorofluorocarburi dieci volte consecutivamente senza impappinarsi. E pensare che bastava dire HCFC! Era un fanatico delle sigle abbreviative, lui!). A dire il vero, se ne era completamente dimenticato. Con in mano un estratto purificato di tungsteno e negli occhi le lenti d’ingrandimento, stava studiando quel materiale e ipotizzando tutte le possibili applicazioni. Le dita erano preda di crampi, perché ormai da ore non faceva altro che scrivere e scrivere sulle tavolette d’argilla, immortalando il suo estro creativo. Si alzò in piedi di scatto. – Finalmente – schioccò le dita. Sulla scrivania erano impilate almeno una ventina di tavolette, frutto di tutti i suoi sforzi. Era stanco, ma soddisfatto. Aveva trovato un modo per impiegare il tungsteno. La proposta di Kay non era così male, anche se davanti a lui non lo avrebbe ammesso neppure sotto tortura. Quel materiale aveva un numero atomico (“Z”, si ripeté mentalmente. Meglio essere schematici!) alto e quindi un elevato potere schermante. Insieme al piombo (“Pb”!!!), poteva essere una duttile aggiunta alle pareti e alle vesti protettive, soprattutto per i Cacciatori che dovevano salire in Superficie. Si ripropose di regalarne una a Kay, il suo cacciatore di cimeli preferito. Quasi l’unico, a dire il vero. C’era poca gente così disperata o così sciocca da sfidare i Raggi per portare a casa qualche gingillo elettronico del ato. Comunque non doveva dimenticare il fatto che il tungsteno fosse anche un buon conduttore. Con un apposito circuito e una batteria ad alta energia, poteva
trasformare le spade in vere e proprie lame fiammeggianti. Ah, i prodigi della scienza! Tutto gongolante, si sfregò le mani. Thoran e i suoi Cacciatori ne sarebbero stati entusiasti. Già si immaginava il Triumviro della Guerra che lo fissava con ammirazione, mentre la Triumvira Florenzia gli stringeva la mano riempiendolo di complimenti… Non vedeva l’ora di presentare il suo progetto all’Assemblea degli Ingegneri. Aveva gettato giù il materiale, doveva soltanto rimetterlo in ordine. Accarezzò le tavolette incise con la delicatezza di un’amante. Samuel amava il proprio lavoro con tutto se stesso. Decise di prendere una boccata d’aria e aprì lo scuro piombato della finestra. Aveva inventato un’arma rivoluzionaria e senza dubbio insuperabile con il tungsteno. Si era meritato un po’ di pausa e persino una tirata di polvere di fungo. Lo aiutava a concentrarsi. Ma prima che potesse guardare all’esterno, il terreno ebbe un sussulto. E le tavolette, in equilibrio già precario, piombarono in terra, frantumandosi. – No! – Samuel si mise le mani tra i capelli – Il mio progetto! Ore e ore di lavoro buttate. Eh, no, così non andava proprio! Di sicuro era colpa degli adepti matricole, quei ragazzini fastidiosi, che provavano qualche esplosivo nel cortile della Corporazione. Li aveva già rimproverati tre Cicli prima, quando avevano sfondato una porta con un nuovo prototipo di detonatore termico. Avevano proprio esagerato. – Adesso mi sentono! – sbottò, affacciandosi alla finestra con un truce cipiglio – Smettetela, brutte canaglie… Fu così che vide gran parte della seconda cinta muraria dilaniata dall’esplosione, mentre una nuvola di plasma seguiva la scia del proiettile. Fumo e morte. – Va bene, non importa – mormorò Samuel, quando ritrovò la voce. E richiuse in fretta la finestra, comprendendo che c’era un’applicazione ben più terribile per il tungsteno di quelle contemplate nel suo progetto perduto.
– Via, via, via! – Kay spinse i due Sacerdoti che fissavano attoniti la scena. Alla loro destra fumo e plasma si condensavano in un miasma di terrore. Dove pochi attimi prima c’erano solida roccia e spesso metallo, rimaneva soltanto un moncherino che ancora gemeva polvere. Per un attimo nulla si mosse, oltre le volute di plasma che svaporava. Poi si scatenò l’inferno. Kay udì i colpi dei folgoratori e delle pistole, insieme a sibili che non aveva mai sentito e che gli facevano accapponare la pelle. Imprecò sonoramente. – Maledizione, l’Alveare è sotto attacco! – era evidente, ma dirlo ad alta voce lo faceva diventare di colpo reale. Terribilmente reale. I due Sacerdoti lo guardavano come se non avessero capito le sue parole. Avevano un tempo di reazione davvero pessimo. Non se la sarebbero cavata un istante in Superficie. – Non state lì impalati, tornate nelle Corporazioni! – quelle erano le zone più protette e soprattutto erano scavate all’interno della parete rocciosa. Se esisteva un posto sicuro, era quello. Tuttavia, vedendo lo scempio che la tremenda esplosione aveva fatto, non poteva esserne certo. Quale arma aveva un simile potere distruttivo? Lo strillo di una sirena riecheggiava nell’Alveare, che era ato da una festosa confusione al caos più totale. Era acuto, penetrante. Richiamava tutti i Cacciatori alla battaglia. Kay impugnò la pistola e la caricò con un movimento automatico. – Andate, alla svelta! – e senza controllare che i due Sacerdoti obbedissero scattò nella direzione da cui proveniva il rumore della battaglia. Altri colpi, altre nuvole di plasma si aprivano nell’Alveare, palloni che si gonfiavano e scoppiavano seminando morte e distruzione.
L’aria era già satura di panico. Tuttavia, prima di immergersi tra i fumi e le polveri, Kay non poté trattenersi dal voltarsi indietro. Miris lo stava seguendo con lo sguardo. Il suo volto era pallido, i capelli scarmigliati, un’espressione preoccupata e tesa. Era preoccupata per lui? Un attimo, poi Troy ebbe la prontezza di spirito di trascinarla via. Kay si complimentò sarcasticamente con lui. Almeno aveva dimostrato un po’ di intelligenza. Si augurava che riuscissero a raggiungere la loro Corporazione, da lì non era lontana. Peccato che i nemici l’avessero presa di mira. Kay si schiacciò al suolo, quando un altro colpo disintegrò totalmente un edificio. L’onda d’urto lo raggiunse anche se era lontano, togliendogli il respiro. L’aria era così calda da sembrare rovente. Tossì, barcollò, si diresse in quella direzione. Stando in Superficie aveva scoperto che raramente un fulmine colpiva due volte lo stesso posto. Si augurava valesse anche per quelle esplosioni. Ma cosa diamine erano? Raggiunse l’edificio in rovina, saltando un cumulo di macerie fumanti. La temperatura era così alta che il metallo stava fondendo e colava in grumi scuri nell’Alveare ferito. Kay vide una sorta di cratere nell’unica parete residua. Si avvicinò, sorpreso. Al centro esatto c’era un semplice proiettile, da cui saliva ancora una spirale di fumo. Il giovane sguainò la spada e cominciò a grattare nella parete, fin quando il proiettile non gli cadde in pugno. Si stava raffreddando in fretta. Era deformato, piccolo, di sicuro consumato dall’attrito. Lo infilò in tasca, quasi d’istinto. Come poteva una cosa così piccola provocare un danno così grande? La sirena continuava a squillare, insistente. Kay si raddrizzò e riprese a correre.
Ormai il rumore della battaglia proveniva da più direzioni. Attacco su più fronti. Ben congegnato. Thoran aveva sottovalutato il suo rapporto e adesso era un macello. Sebbene il Triumviro non riscuotesse le sue simpatie, Kay non era così sciocco da gioire del suo insuccesso. Tutti quanti l’avrebbero pagato caro. Intorno a lui la gente si era data a una fuga disordinata. Svoltando un angolo, intravide delle figure tra la polvere. Si acquattò in una pozza d’ombra, confondendosi con essa. Il rumore di i sul metallo martoriato era assordante. Una pattuglia gli sfilò davanti. Non erano suoi compagni, avevano delle armi completamente diverse. Parevano dei cannoni in miniatura, ingombranti. Mai visto niente del genere. Kay attese che gli sfilassero accanto, poi agì. Il suo braccio si allungò a ghermire l’ultimo della fila, lo afferrò per la bocca e lo tirò indietro. Non ebbe neppure il tempo di gridare, mentre la lama del Reietto gli tranciava la trachea. Buone vecchie spade: silenziose e letali! Lo lasciò affogare nel proprio sangue, controllando di non essere stato scoperto. La pattuglia era scomparsa nella penombra psichedelica. Le luci frizzavano, si spegnevano, mentre le vampate di plasma illuminavano di un grottesco rosato il teatro di battaglia. Un gridare concitato squarciò d’improvviso la polvere. Rumore di spari, il crepitio dei folgoratori. Si erano scontrati con i Cacciatori. Kay attese per un attimo, aguzzando le orecchie. Di nuovo una nuvola rosata, che disintegrò la facciata di un’abitazione. Silenzio. O d’improvviso erano diventati tutti muti, o quello era stato lo scontro più breve della storia. Kay abbassò lo sguardo sulla specie di cannoncino tra le braccia inerti del cadavere. Glielo strappò prima di lasciarlo al rigor mortis e se lo mise a tracolla. Un’arma in più faceva sempre comodo. Dalla direzione dello scontro emerse una sagoma caracollante. Kay puntò la pistola, pronto a fare fuoco, ma la riabbassò subito dopo.
Un geco da battaglia, con la coda tremendamente ustionata, correva via come inseguito da uno stuolo di Vermi-Carnivori. Gli occhi, con la doppia palpebra, erano dilatati e la pupilla li aveva ingoiati. La sella sulla schiena era vuota. Il suo cavaliere doveva aver fatto una brutta fine. – Speriamo di essere più fortunato! Kay si aggrappò alla bardatura dell’animale in corsa e si issò con un movimento fluido. Impugnò le redini e la pistola. Doveva ancora far pesare a Thoran il fatto che lui avesse ragione.
15
Miris era di nuovo lucida, ma avrebbe preferito di gran lunga chiudere gli occhi e non vedere. Ma con ogni probabilità chiudendo gli occhi sarebbe morta. Si trovava in un inferno terreno. Gli edifici crollavano intorno a lei, il fumo le stringeva la gola e la polvere (Notte, fai che non sia radioattiva o cose del genere!) si era stanziata nelle sue narici come un tampone per l’emorragia. Non percepiva pensieri intorno a sé, perché non c’era più un pensiero coerente. Scappa! Era incredibile come il terrore frantumasse la mente umana. La gente si muoveva alla cieca, senza logica, come marionette di cui il prestigiatore aveva dimenticato i fili, lasciandoli appesi a una centrifuga. Una centrifuga che miscelava la paura e tirava fuori una provetta di violento caos. Si spingevano gli uni con gli altri, chi cadeva veniva calpestato. E il malcapitato non aveva fine peggiore di quanti erano sommersi dalle macerie. I fucili e i cannoni eruttavano a cadenze regolari, si accorse Miris. Non volevano sprecare munizioni. Non ne valeva la pena. In realtà, quelle morti erano soltanto spiacevoli effetti collaterali di un’efficiente opera di conquista. Miris non aveva idea di come fe a saperlo. Né le interessava. Il problema primario era sopravvivere. Semplice e pratico. Difficile.
– Vieni, avanti! – Troy la precedeva, facendole largo tra la folla impazzita. Le sue vesti erano diventate di un grigio sporco. Caricava a spallate quanti non erano abbastanza rapidi da spostarsi. Non era abituato a quel trattamento, i Lavoratori dovevano lasciargli il o, sempre e comunque. Le gerarchie dovevano essere rispettate. Un po’ di spari e il forte rischio di morire non erano una scusa accettabile. Andava veloce. Miris non riusciva a stargli dietro e più volte Troy si era fermato ad aspettarla. Il suo volto trapelava impazienza. Ma non sembrava disposto ad andarsene senza di lei. La ragazza gli era grata. Mi ama davvero?! Non sapeva se era una domanda o un’affermazione, oppure una semplice speranza. Non ottenne risposta. Un tetto pericolante franò su di loro, con un ruggito di avvertimento. – Giù! – gridò Troy. Miris si gettò di lato, riparandosi dietro un droide Ripulitore che stava spazzando la strada, incurante del disastro intorno a lui. Il suo programma era spazzare e lo faceva, punto. Il resto non lo riguardava. Diede una ramazzata stizzita anche alla ragazza che gli ostacolava in movimenti, poi riprese il suo lavoro da dove l’aveva lasciato. C’era davvero un sacco di polvere e sporcizia… Miris fu colta da un attacco di tosse squassante. Quando riuscì a riprendere fiato, con gli occhi che le bruciavano, vide che la strada era bloccata da un cumulo di macerie. Il droide continuava a sbatterci contro, frizzando, senza capire cosa fosse quell’improvviso ostacolo. Rimbalzava come una pallina che la pendenza riportava sempre allo stesso punto. Miris si sollevò, barcollò, constatò di non avere niente di rotto. La barricata le impediva il aggio ed era impensabile scalarla, tanto più cercare di liberare la via. Portò le mani alla bocca. – Troy! – gridò, con voce roca. Nel fragore continuo, faticò a sentirsi lei stessa – Troy, dove sei? Nessuna risposta. E con ogni probabilità non l’avrebbe udita comunque. Un’ondata di sconforto la assalì, facendola rabbrividire.
Gli spari erano vicini. Nella migliore delle ipotesi Troy era dall’altra parte e la stava cercando. Alla fine sarebbe andato alla Corporazione. Nella peggiore, era rimasto sepolto là sotto… scosse la testa. Il pensiero del fidanzato (era ufficiale, tanto valeva che cominciasse ad ammetterlo anche a se stessa) che stava pian piano morendo schiacciato da lamiere di metallo era terribile. Se lo avesse accettato, sarebbe impazzita. Non poteva permetterselo. Per il momento doveva pensare a salvarsi. Con la strada bloccata, per arrivare alla Corporazione doveva fare un giro più lungo. Pregando di non finire in mezzo alla battaglia, tornò sui suoi i e riprese a correre. Alle sue spalle il droide continuava a sbattere contro la muraglia, con una tenacia ammirevole quanto inutile. Thoran Seldon era un giudice implacabile che detestava gli errori. Tanto più li detestava quando era lui stesso a compierli. – È colpa mia! Non era esattamente vero, certo, non poteva immaginare che i nemici avessero una simile potenza di fuoco e un nutrito gruppo di Chimerici ben addestrati. Avrebbe dovuto pensarci subito, quando era venuto a conoscenza della scoperta di quel Reietto pezzente. Un corpo bruciato. Ingoiato dalla roccia. Fuoco e Terra. Ma non l’aveva fatto e adesso si trovava attorniato da nemici. I Cacciatori intorno a lui cadevano come mosche sotto un insetticida, lasciandolo con la merda fino al collo. Non era un’espressione da gentiluomo, ma Thoran non si era mai gloriato di esserlo. Era un guerriero, poteva usare il linguaggio che preferiva, e sarebbe morto con le armi in pugno per difendere il suo Alveare. In un mondo dove la morte era annidata dietro ogni angolo, non era una
prospettiva così terrorizzante. La sua ascia calò sulla testa di un nemico, frantumandola, per poi tranciare il braccio di un altro prima che riuscisse a ricaricare il suo strano fucile. Thoran non aveva idea di cosa fosse, ma aveva visto come aveva ridotto la cinta muraria e un’intera pattuglia. Gli bastava. Il suo geco da battaglia si impennò, spaventato dalle vampate, e Thoran si ritrovò a rotolare in terra, evitando per un soffio le scariche di energia che traarono la sua cavalcatura da parte a parte. Quando il geco piombò al suolo, era ridotto a una massa informe. – Meglio lui di me! – Thoran si rialzò, pronto a fronteggiare i due avversari che si avvicinavano minacciosi. Si bloccarono di colpo. Le loro teste esplosero, lasciandoli a barcollare per qualche attimo in grotteschi bambocci tra il fumo. Kay ricaricò la pistola. Gli rimavano poche batterie, doveva ricaricarle alla svelta. Dubitava di trovare un Ingegnere disponibile in quel macello. Il suo geco si staccò dalla parete e balzò alle spalle dei nemici, dilaniandoli con le sue zampe. La corazza di chitina reggeva, ma non era abbastanza robusta per bloccare i colpi che Kay sparò a bruciapelo. Scivolò lungo il lato del geco, che proseguì la sua corsa furiosa caricando una pattuglia nemica. Il giovane fece un cenno a Thoran. – Al riparo! Non c’era bisogno di ulteriori incitamenti. Di comune accordo si rifugiarono dietro un cumulo di macerie, un tempo era stata un’osteria. – Tanto lo stufato di cavallette qui non mi era mai piaciuto – Kay appoggiò la schiena alla pietra, riprendendo fiato. Anche Thoran aveva il respiro affannoso. – Come va? Il Triumviro emise un borbottio informe. La tunica purpurea, nei punti in cui emergeva da sotto l’armatura, era lacera e chiazzata di sangue. La barba piena di polvere e gli occhi pieni di rabbia cocente. – Come hai detto, scusa?
– Ma guarda, di tutte le morti del cazzo, mi tocca morire insieme ad un Reietto come te! Kay si sporse, tirò un paio di colpi e si augurò che fossero andati a segno. – Veramente non ho intenzione di morire – tornò ad accucciarsi – Ho altri programmi per l’immediato futuro. Tipo comprarmi una pistola nuova. E un animale da compagnia. Che ne dici di un camaleonte? Ho sempre desiderato averne uno. – Mi sa che dovrai cambiarli – questa volta fu Thoran a sparare, ma non potevano resistere a lungo. E se ne stava rintanato lì dietro ad ascoltare le sciocchezze di un Reietto! – Come è la situazione nel resto dell’Alveare? – Come qui. Un disastro. I nostri Cacciatori sono allo sbaraglio. – I miei Cacciatori – Thoran aveva dedicato la sua vita all’organizzazione di quella Corporazione. E ne avrebbe visto la fine. Beffardo. – Solo gli umani possono essere Cacciatori. Kay gli lanciò un’occhiata. Gli umani erano strani. Anche al momento della fine mantenevano la loro inutile arroganza. Quel Triumviro non aveva pensato che non fosse il caso di insultare la persona che l’aveva aiutato e, in fin dei conti, impugnava una pistola? Si meriterebbe un colpo in fronte. Kay strinse l’arma. Aveva ancora due cariche. In compenso, sembrava che i nemici non usassero più quei loro terribili fucili. Che senso aveva, ormai? – Al mio segnale, esci sulla sinistra e attaccali – ordinò Thoran. Era una missione suicida, ma con le abilità del Reietto forse avevano una possibilità. O almeno l’aveva lui. Mentre l’altro faceva da esca, poteva scivolare via e tornare alla Corporazione per riunire i guerrieri e cercare i Chimerici, maledetti a loro! Che stavano facendo, invece di combattere? – Pronto? Tre, due, uno… vai! Kay non si mosse. – Che stai aspettando? Ti ho detto di andare!
– Ti ho sentito – replicò il Reietto, con calma. – Allora ubbidisci agli ordini. Questa è insubordinazione! – Thoran era furioso. Adesso quel Reietto si metteva in testa idee proprie? – Sei un vigliacco! – Ascolta – Kay non lo degnò neppure – Non ci sparano più. Thoran dovette ammettere che aveva ragione. Un buon segno? – Avranno finito le munizioni. – O semplicemente non è più necessario. Un attimo dopo una tempesta di fiamme si abbatté su di loro. Kay si schiacciò contro la roccia, cercando riparo nelle crepe di ombra. Il calore era terribile. Thoran gridò e si riparò il volto con le mani. Il muro era diventato incandescente. – Dannazione! – il Triumviro fu costretto ad allontanarsi. Si alzò in piedi e balzò fuori dal riparo, scaricando una pistola contro la figura che vedeva avanzare tra le fiamme. – No, sta’ giù! – gli gridò Kay, strisciando dall’altro lato. Ma era troppo tardi. Il corpo di Thoran prese fuoco. Non c’era altro modo per descriverlo. Kay vide la tunica incenerirsi, la corazza accartocciarsi fino a ridursi a una gabbia rovente. Thoran urlò, lasciando cadere le armi, e cominciò ad annaspare per liberarsi. Inutilmente. L’aria era piena dello sfrigolio della carne allo spiedo. La pelle si liquefece, lasciando intravedere i muscoli e le ossa sottostanti. Il bulbi oculari scoppiarono, mentre il volto dell’uomo si trasformava in un teschio bloccato in un ghigno di dolore. Continuava a bruciare. Kay distolse lo sguardo dal tremendo spettacolo e si sollevò, concentrandosi sulla figura che agitava le mani così rapidamente da rendere impossibile seguirle con gli occhi. Così rapidamente che le particelle raggiungevano un’energia cinetica tale da prendere fuoco.
Chiuse il pugno. L’ammasso carbonizzato che un tempo era stato il Triunviro della Guerra rovinò al suolo, sfacendosi in cenere. Kay incontrò lo sguardo del nuovo venuto. Un Chimerico del fuoco. Il giovane non aspettò che l’altro fe la prima mossa, attaccò per primo. Sparò i suoi ultimi colpi e lasciò cadere la pistola ormai inservibile, rotolando poi verso l’ombra. Il Chimerico agitò le dita e una barriera di fuoco deviò i colpi di energia, per poi scagliarsi dove un attimo prima si trovava Kay. Esitò, corrugando la fronte liscia e scura. Non vedeva più nessuno. Il giovane emerse alla sua destra e lo caricò a spade sguainate. In quell’attimo notò la sua carnagione scura, i capelli corti e tinti di un ridicolo arancione, la tunica che indossava. Bordata in argento. La sua lama fendette soltanto lapilli e scintille. Il Chimerico adesso era alle sue spalle. Si muoveva veloce. Kay si piegò e sferrò un colpo indietro. Questa volta colpì qualcosa, ma poi una mano infuocata scese sulla sua spalla, bruciando metallo e chitina della corazza. Il giovane si trovò in ginocchio, ansimante. Il nemico incombeva su di lui, pestò le sue lame. Suonava l’aria con le dita, in farfalle di fiamma che lo schernivano. Lo aveva in pugno. La luce del fuoco creava un’ombra ai suoi piedi. Kay ci immerse il braccio e con esso afferrò la gamba del Chimerico, dando uno strattone. Il nemico, colto di sorpresa, lasciò la presa e il giovane ne approfittò per rotolare via, non prima di avergli sferrato un pugno in piena faccia. Chiunque altro si sarebbe ustionato, ma Kay non percepì nulla, anche se il guanto si incenerì mettendo a nudo la mano d’ombra. Kay indietreggiò. Disarmato non poteva nulla contro quell’essere. C’era solo la fuga. Un cerchio di fuoco si materializzò intorno a lui. Crebbe, fino a chiudersi. Il giovane imprecò. Si trovava all’interno di una barriera invalicabile, alta quanto
un uomo. Oltre di essa intravedeva il Chimerico che camminava e agitava le dita, plasmando la materia. Il cerchio cominciò a stringersi. Kay serrò i pugni e li rilasciò. Il suo arto oscuro era scoperto e vibrava, ma non c’erano abbastanza ombre da sfruttare. Non poteva che attendere la morte. – Basta, Pyrgo! Il fuoco crepitò e si ritrasse. Kay, stupito, lo vide estinguersi pian piano. Adesso il Chimerico non era da solo. Sul dorso di un grosso serpente delle rocce maculato, stava un uomo avvolto da una corazza e un mantello bordato d’oro. Pareva disarmato, ma Kay ebbe la netta impressione che fosse più pericoloso di quello che appariva. L’uomo scivolò dalla groppa del serpente con un movimento regale. Il Chimerico del fuoco accennò un inchino al suo aggio, senza però distogliere l’attenzione dal giovane. – Signore? – Può esserci utile, non c’è bisogno di ucciderlo. Forse – gli occhi neri dell’uomo, lucidi e profondi, accarezzarono il braccio sinistro del giovane. Kay dovette fare uno sforzo di volontà per non ritrarlo dietro la schiena. – Un Chimerico. In parte. Interessante! Quell’uomo lo guardava come chi ha appena individuato un’occasione d’oro per aggiungere a buon mercato un purosangue alla sua scuderia. A Kay non piaceva. Ma gli piaceva ancora meno l’idea di essere arso vivo come Thoran. – Appartieni a questo Alveare? – il tono dell’uomo era quieto, ma nascondeva la minaccia. E una punta di curiosità. Kay annuì. – Sì. – E dimmi, sei disposto a diventare un membro del mio Alveare? Kay sapeva che da quella risposta dipendeva la sua vita. Gettò un’occhiata al
Chimerico del fuoco, che attendeva soltanto un cenno per attaccarlo. Non ebbe dubbi. Ne imitò l’inchino, con un accenno di sorriso. – Un padrone vale l’altro – ed aggiunse – Mio signore. Florenzia stava smontando l’ingranaggio del suo orologio quando cominciarono gli spari. Corrugò la fronte, infastidita. La sua carica le dava poco tempo per dedicarsi a quelle piccolezze divertenti e aveva approfittato del fatto che molti colleghi erano andati alla festa per lavorare in santa pace. – Non c’è mai un attimo di tregua! Non si lasciò prendere dal panico. Razionalmente, sapeva che non c’era niente che lei potesse fare al momento. Non era una guerriera, non aveva mai preso in mano un’arma che non fosse la parola. Tanto valeva stare a guardare, sperando che Thoran risolvesse la situazione. A ognuno il suo posto. Tuttavia era curiosa, altrimenti non sarebbe stata una vera Ingegnera. Azionò la leva che apriva l’anta della finestra. La sua stanza dava su una piccola terrazza panoramica, con una tettoia di piombo. No, non era una bella vista. I nemici erano già dentro l’Alveare. Florenzia sbuffò, stizzita. I Cacciatori presidiavano l’ingresso dell’antro ed ogni varco era controllato. Come avevano fatto a infiltrarsi all’interno? Beh, era successo, non era più così importante. Ammirata, osservò le nuove armi che portavano devastazione e morte. Che meraviglia! Di cosa si trattava? Il bussare frenetico alla porta la distolse dalla sua contemplazione. Un Ingegnere fece irruzione, senza aspettare il permesso di entrare. Samuel Barni appariva euforico.
– Triumvira, ha visto? È il tungsteno, il tungsteno! Proiettili perforanti al tungsteno. Avevo un progetto simile, io… ne è rimasto qualche pezzo sparso per la stanza… ma posso lavorarci… Florenzia si limitò ad un cenno accomodante. – Ho visto – si ò una mano sul viso liscio, privo di rughe. Il fattore rigenerante dell’epidermide che le aveva dato Radamente funzionava alla perfezione. – Non potevamo scegliere un nome più adatto… festa del tungsteno… Non c’era molto da festeggiare. La battaglia si stava esaurendo e Florenzia, anche senza bisogno di una preparazione militare, non aveva difficoltà a intuirne le sorti. Si sistemò lo scialle di seta sulle spalle, ripromettendosi di pettinarsi. Doveva essere in forma per trattare con il nemico, che sembrava avere tutta l’intenzione di risparmiare la sua Corporazione e quella dei Sacerdoti. Non un colpo era stato sparato contro quegli edifici. La conoscenza faceva gola a tutti e diventava un’importante merce di scambio. Bastava saperla sfruttare. – Se sapessi che comburenti usano… – Samuel Barni si era sporto a sua volta, osando affiancarsi alla Triumvira. Tutto preso dalla meraviglia, non si era minimamente posto il problema che forse non fosse il massimo del rispetto nei confronti del suo superiore, nonché rischioso di prendersi qualche colpo vagante. Florenzia decise di soprassedere, avevano cose più urgenti a cui pensare. – Santa Notte Benedetta! – Samuel non era credente, ma quell’imprecazione gli piaceva. Vi ricorreva nei momento più solenni, suonava bene. Si ò un fazzoletto sulla fronte sudata. L’aria era calda e fumosa. – Ma dove sono i nostri Chimerici?
16
Sirea tese le braccia avanti a sé e richiamò l’Acqua, sentendola vibrare nella propria testa, nel proprio sangue, nelle proprie cellule. Oltre il 60% del peso corporeo era costituito da acqua. I soldati nemici gridarono e dalla loro bocca uscì vapore, mentre ogni fluido evaporava dalla pelle che rinsecchiva a vista d’occhio. I bulbi oculari si afflosciarono, le mucose inaridirono. Il sangue si solidificò nelle vene. Le cellule morivano una dopo l’altra senza liquido vitale. Era così facile uccidere gli umani! Sirea voltò le spalle alle mummie che rimanevano di quei nemici. Ormai aveva perso il conto di quante persone aveva prosciugato. Eppure continuavano a emergerne di nuove dall’enorme voragine che si era aperta nella parete dell’antro, in mezzo alla città. Il Chimerico della terra che l’aveva prodotta stava affrontando Agarath. Nessuno dei due sembrava prevalere. Sirea vide una pattuglia schierarsi, puntando le pistole a energia. Le canne vomitarono le loro cariche contro di lei. Una perdita di tempo. La Chimerica si sciolse in una pozza fluida che scivolò verso i nemici, rimodellandosi intorno a loro. I getti d’acqua, quanto più erano di diametro piccolo, tanto più assumevano pressione e forza. S1 V1 = S2 V2 Per rispettare l’equazione, se si riduceva la sezione di un condotto idrico la velocità aumentava. Sirea ne aveva esperienza diretta. E, purtroppo per loro, anche quegli umani. I caschi da battaglia coprivano i loro volti. Sirea lo preferiva. Non era bello
guardare in faccia i cadaveri che lasciava al suolo. Probabilmente non ce l’avrebbe fatta. Eppure quegli umani volevano uccidere i suoi umani. Non ne capiva il motivo, ma era così. Lei intendeva impedirlo. Osservò Agarath che immergeva le mani nel terreno, con un ruggito. Schizzi di magma e roccia fusa volarono intorno, abbattendo gli umani più vicini che crollarono contorcendosi in spasimi. Il Chimerico della terra si nascose dietro una parete di pietra, proteggendosi. Restava sulla difensiva, limitandosi a evitare gli attacchi dell’avversario. Forse aveva già fatto il suo dovere. Aveva portato i nemici in città. – Sparate! Il corpo di Agarath mutò, la sua pelle si fece come roccia solcata da minuscole crepe, sotto cui si vedeva fluire il magma. Le scariche laser non riuscirono a scalfirlo. Ruggendo, il Chimerico tornò a scagliarsi avanti, abbattendo i soldati come birilli. – Basta con questa farsa! Un uomo era emerso dalla voragine con nuove truppe armate. Sirea, intenta a combattere, lo degnò appena di un’occhiata. Aveva i capelli di un biondo platinato e sorretti in una strana pettinatura dal gel… No, non si trattava di gel. Era pura elettricità statica. – Chimerici, arrendetevi! – intimò, con aria annoiata – Non vedete che è inutile ucciderci tra noi? Per tutta risposta Agarath, da buon diplomatico, emise un ringhio e il magma in lui brillò. Il biondo scosse la testa. – Come preferisci. Energia ai condensatori. Sparate! Gli umani avevano spinto avanti quello che sembrava un cannoncino, ma aveva
una forma strana. Sirea corrugò la fronte. La bocca da fuoco stava cominciando a girare, a velocità sempre maggiore. Nessun dardo aveva mai fermato Agarath in carica. Il suo corpo era resistente e inarrestabile. Sirea sgranò gli occhi quando il compagno fu avvolto da una vampata di plasma e scaraventato indietro a una velocità incredibile. Sfondò con la schiena la parete dell’antro e vi scavò un cratere di molti metri. Polvere e roccia ricaddero su di lui. – Agarath! – Sirea emise un grido. – Ricaricate – il biondo si concesse un sorriso, rivolgendo a lei la sua attenzione – Proviamo con te, tesoruccio. Ti arrendi? O vuoi fare la fine del tuo compagno? – Una piccola saetta crepitò nel suo pugno. Sirea voltò le spalle al Chimerico del fulmine e si diede alla fuga. Gli spari la inseguirono. Si mutò in acqua e scivolò rapidissima verso i piani inferiori, sfruttando la pendenza naturale. Non aveva idea di quale arma possedessero i nemici, ma se aveva fermato Agarath lei poteva fare ben poco. Dunque? Sirea non aveva la più pallida idea di come comportarsi. Thoran non c’era a darle ordini, Agarath era sconfitto. In pratica, era rimasta l’unica difesa valida dell’Alveare. Aveva paura. Un’emozione tipicamente umana. Riprese forma solida e sferrò un violento calcio alla nuca dell’uomo che stava sparando a ripetizione in una casa. L’altro soldato finì mummificato in pochi attimi. Una testolina si sporse tremante dallo stipite. – Signora Cora, vada in casa e si chiuda dentro con sua figlia – ordinò Sirea. La lavandaia la fissò per un attimo, poi si infilò dentro senza un ringraziamento. La Chimerica non se l’aspettava. Invidiava quella bambina che aveva una casa e una mamma che la mettesse al sicuro.
Quasi senza accorgersene, riprese a fluire verso il Pharmakeion del signor Twigg. Non era stata la sola ad avere quell’idea. Anche molti umani, spaventati, avevano visto in quel luogo una possibilità di salvezza e lo assediavano da ogni parte. E per i soldati nemici era una facile preda. Uno di loro aveva afferrato una ragazza per i capelli e la trascinava via scalciante. Sirea emerse alle sue spalle e gli serrò una mano sulle labbra. L’uomo sgranò gli occhi, mentre la bocca gli si riempiva d’acqua. Gorgogliò, annaspando per liberarsi. Sirea lo lasciò affogare. La ragazza non era scappata. E neppure la guardava, gli occhi fissi a terra in una posa familiare. La Chimerica corrugò la fronte, riconoscendo in lei la Sacerdotessa sdegnosa del giorno prima. Pareva ato un secolo. E il gelo tra di loro rimaneva. – Eccola, è là! Una scarica elettrica si abbatté a pochi i da loro. La ragazza emise un grido. Sirea si voltò. Il Chimerico del fulmine, preceduto da uno squadrone, veniva verso di loro. Cominciava ad essere stanca. Molto stanca. – Nasconditi nel Pharmakeion – disse alla Sacerdotessa, poi si disinteressò di lei. Non era quella ragazza l’obiettivo. Non era pericolosa. In forma di pozza scivolò rapidissima fino al laghetto sul retro del Pharmakeion, attirando i nemici con sé. Avvertiva le asperità del terreno sotto la pelle che si scioglieva e si ricomponeva continuamente, come le onde di un mare. aggio di stato. Questa semplice spiegazione scientifica non era abbastanza per comprendere quello che provava ogni volta. Camminò sulle acque, leggera, fino a trovarsi esattamente al centro. Una ballerina nello stagno prima dell’ultimo spettacolo della stagione. Chiuse gli occhi, sentendo le particelle dell’elemento entrare in risonanza con le proprie. Si fondevano, si attiravano in un legame elettrostatico e dinamico. Si scambiavano le une con le altre, mutando stato a rapidità impressionante. Fluidità.
Là poteva sfruttare al massimo le sue capacità. Udì i i dei soldati che si avvicinavano. Erano tanti. Li aveva attirati lontano dalle case e dal Pharmakeion. Si chiese se il signor Twigg fosse riuscito a mettere in salvo i suoi miceti e i microrganismi del lichene. Delle spore non si preoccupava, erano più resistenti. Dubitava di poter tornare a raccogliere erbe con lui. Scatenò il suo potere. Danzò sulla superficie, mentre lingue di acqua emergevano dal laghetto e si scagliavano come fruste aguzze sui nemici, schiacciando, tagliando, affogando, tirando via ogni liquido con sé. Decine di cadaveri giacevano sulla riva quando Sirea si fermò, esausta. Il Chimerico del fulmine era là che la guardava. – Ti arrendi? – domandò ancora, piegando la testa di lato. Era decisamente spazientito. Sirea riprese fiato per un attimo. – Che ne sarà degli abitanti dell’Alveare? Questa domanda parve stupire il Chimerico. Non se l’aspettava. Scrollò le spalle. – Questo non è affar tuo. Ti offro una possibilità, come mi è stato ordinato, null’altro – e dava l’impressione di non esserne contento. Sirea ò lo sguardo sull’Alveare semi-distrutto, sul Pharmakeion con le erbe del signor Twigg. Gli parve di scorgerlo, oltre una colonna di fumo, con gli occhiali storti sul naso. Ma poteva essere benissimo il frutto della sua immaginazione. Nella testa si trovò a canticchiare la canzone della signora Cora. – Vai all’inferno – rispose, poi si immerse nel lago per un ultimo attacco o un’ultima fuga. Il Chimerico curvò le labbra in un sorriso.
– Speravo che tu lo dicessi! E una tempesta di fulmini si scatenò sulle acque. Miris era scossa dai tremiti. Il cuoio capelluto le tirava dove il soldato le aveva strattonato i capelli, in bocca aveva il sapore della polvere e della paura. Amaro. Le pareva di aver corso per tutto l’Alveare e adesso le gambe non la sostenevano più. Accasciata nei pressi del Pharmakeion, assisteva al feroce combattimento. Vide Sirea abbattere uno ad uno i nemici, con una fredda determinazione. Il suo aspetto mutava in ogni istante e solo gli occhi azzurri rimanevano una costante in quel vorticare d’acqua. Era terribile. E bellissima. Ed esausta. Miris vide il Chimerico biondo che si avvicinava al laghetto. Nel frastuono degli spari che riecheggiavano nell’antro, non riuscì a distinguere le parole. Il mutato tese il braccio, Sirea si immerse. La ragazza trattenne il fiato. Le scariche elettriche si abbatterono sulle acque, una tempesta di lampi che creavano una maglia di luce implacabile. Miris si sentì sollevare i capelli, mentre la pelle pizzicava. Si raggomitolò, ma non riuscì a distogliere lo sguardo. L’acqua era un ottimo conduttore. Quando la tempesta si esaurì, l’acqua tornò immobile, un sudario grigio. Miris azzardò a sollevarsi su un ginocchio, tendendo il collo. Percepiva una sensazione tremenda di freddo, nonostante il calore degli incendi. Il pelo dell’acqua si increspò e un corpo riemerse. Immobile. Inerte. – No!
Miris serrò le labbra. Non era stata lei a parlare. Tossendo e incespicando, la goffa figura del signor Twigg correva sulla riva. La ragazza trasalì. – Signore, stia attento! L’uomo non la sentì, o forse non la ascoltò. Non degnò il Chimerico neppure di uno sguardo e si tuffò nel laghetto. Miris si stupì che sapesse nuotare, non c’erano molte occasioni di imparare nell’Alveare, l’acqua era troppo preziosa per sprecarla. In qualche modo, scalciando e sbracciando, il signor Twigg riuscì a raggiungere il corpo della Chimerica e a tornare miracolosamente alla riva. Pareva semi-affogato. Aveva la tunica sformata, l’acqua aveva sfaldato la ragnatela, i pochi capelli appiccicati al volto, tossiva come se avesse bevuto mezzo lago. Forse era così. Inciampò, cadde in ginocchio. Le sue mani tremavano mentre poggiavano la Chimerica a terra. – Aiuto – la sua voce era gracchiante, anch’essa bagnata. Grondava disperazione. – Aiuto! Un Sacerdote! C’è bisogno di un Sacerdote! Miris represse una risata che sapeva d’isteria. Era tutto così ridicolo, irreale. Il fumo, il signor Twigg che urlava bagnato fradicio, e lei, la Sacerdotessa, che se ne stava là osservando il proprio corpo come dall’esterno. Grottesco. Il signor Twigg la vide. Cominciò a sbracciarsi, chiamandola. Il volto trasudava un’angoscia straziante. Senza volerlo, Miris si trovò a trascinarsi verso di lui. Non voleva farlo, eppure lo fece. Si muoveva come in un sogno, un incubo da cui non poteva svegliarsi. Il corpo di Sirea era percorso da deboli tremiti. Il viso era pallido, esangue, i capelli trasformati in una matassa informe, le sottili sopracciglia bruciate. Miris la guardava. Il signor Twigg guardava lei, fiducioso. – Sei una Sacerdotessa, una guaritrice. Salvala! Miris non poteva salvare neppure se stessa. Sollevò una mano, la riabbassò. Inutile. A cosa valevano le sue conoscenze? Senza i farmaci e l’apparecchiatura adatta non poteva fare nulla. Era soltanto una ragazza come tante. E il signor Twigg continuava ad aspettarsi qualcosa da lei. Tutti si aspettavano
qualcosa da lei. – Ti prego, fa’qualcosa! – Non so cosa fare! – Miris si trovò a urlare di rimando. Con una consapevolezza lucida, sapeva che Sirea stava morendo. Non poteva salvarla. Soltanto starle vicino. Le si inginocchiò accanto. Forse non era una decisione consapevole e semplicemente non aveva la forza di trascinarsi via. Le poggiò entrambe le mani sul petto e cominciò le compressioni, a ritmo regolare. Mani sul cuore. Lo sentiva fermo, morente. Miris continuò solo con la forza della disperazione. Un gelo tremendo le penetrava tra le dita e le risaliva lungo il braccio. Il corpo della Chimerica era solido, non si scioglieva più in acqua. Trasalì, quando Sirea sollevò le palpebre. I suoi occhi erano appannati, ma Miris vi lesse tutto quello che aveva evitato in quegli anni. Non c’era alcuna superbia, alcun senso di superiorità. Solo paura, dolore, solitudine, invidia, disperazione, freddo, ancora paura. Emozioni dolorosamente umane. In quegli specchi azzurri e morenti, Miris vide riflessa se stessa. Si chinò sulla Chimerica, percependo i suoi pensieri e tutto il suo dolore. Era troppo da sostenere. Si sentì anche lei risucchiata nel gelo, trasformata in una statua di ghiaccio. Sirea sollevò la mano. Un gesto che le costò tutte le sue energie. La fissò, con una punta di meraviglia. Era come quella della ragazza. Adesso non vedeva la differenza. Le venne da sorridere.
Almeno… posso… morire da umana… Miris, d’impulso, le strinse la mano. –Tu sei umana, Sirea – le mormorò in risposta – Solo che né tu né gli altri lo avete mai accettato! La Chimerica sgranò gli occhi, in un lampo di sorpresa. E di consapevolezza. Mosse le labbra per parlare. … anche tu sei una… Poi la sua mente si chiuse. Miris fu scossa da un tremito e continuò a stringere quella mano ormai inerte. Sirea era morta. Il signor Twigg singhiozzava senza ritegno. Si era tolto gli occhiali, forse li aveva persi nel lago, e i suoi occhi gonfi di pianto non riuscivano a staccarsi dal corpo della Chimerica che aveva ospitato per tanti anni. Miris non sapeva come consolarlo. – Era una così brava ragazza… – l’uomo aveva la voce spezzata – Le volevo bene… Miris era confusa e nel petto sentiva rimescolarsi un grumo di emozioni contrastanti. Le lacrime del signor Twigg erano per lei veleno e balsamo, la ferivano con una delicatezza straziante. La testa le ronzava. Si poteva voler bene anche a una Chimerica! Si accorse che anche lei stava piangendo sul corpo di Sirea. L’aveva evitata per tutto quel tempo, rifiutandosi di capire che tutto ciò che cercava quella mutata era una parola, un sorriso, un gesto d’affetto. Come lei. E adesso era troppo tardi. Scossa dai singhiozzi, non notò la figura imponente che incombeva su di lei.
Un’ombra che si allungava al chiarore malato dell’antro, avvolgendola completamente. Sollevò appena la testa e il suo primo impulso fu di coprire il corpo di Sirea con il proprio, in un ultimo atto di rispetto verso la Chimerica. Un uomo la fissava dall’alto, la fronte corrugata. Pareva scolpito nella roccia. Forse lo era. – Piangi la sua morte? – Anche la voce era ruvida, pietrosa. Stanca. Miris deglutì, non rispose. – Avrei preferito evitarla – lo sguardo scivolò sulle vesti della ragazza, rovinate ma ancora riconoscibili. – Una Sacerdotessa! Si abbassò e la prese in braccio. Miris non aveva la forza per reagire. Non aveva la forza di far nulla. Chiuse gli occhi, lasciando che il freddo vuoto la accogliesse.
17
Miris sentiva tanti corpi intorno a sé. Il rumore frusciante, l’odore di sudato. Si raggomitolò su se stessa, schiacciandosi contro la parete. Non aveva una chiara idea di dove si trovasse. Teneva le palpebre serrate, come se in tal modo potesse lasciare all’esterno il mondo, insieme a quella rima di luce che le feriva gli occhi. Per quanto si sforzasse, non riusciva a escluderla del tutto. Continuava a pulsare, del bianco insensibile di un neon. Non poteva ignorarla per sempre. Qualcuno le urtò un piede. La ragazza sussultò, lo tirò maggiormente a sé. Le pareva di non avere più uno spazio proprio, ogni intimità era stata spazzata via, come le certezze che si era faticosamente costruita negli anni. Spaventata e rassegnata, si costrinse a sollevare una palpebra. All’inizio non distinse molto. Il vapore lattiginoso del neon. Forme indistinte accasciate sul pavimento e lungo le pareti, tanti sacchi privi di forze abbandonati dove erano stati gettati. Penombra strisciante. La maggior parte dell’impianto di illuminazione era andato distrutto in quella sorta di bombardamento. Le forme presero volto mentre la vista le si snebbiava. Occhi spenti, capelli arruffati, vesti lacere, sangue rappreso. Mormorio soffuso, che veniva dappertutto e da nessuna parte. Nessuno pareva in grado di ergersi in quel mare di rassegnazione, preferendo scomparire in esso fino ad annullarsi. Era più facile. Lo sgocciolio lontano di qualche tubatura. Acqua. Sirea era morta. Miris era ancora viva. Non c’era un motivo. Era così e basta. La morte non doveva avere un senso.
Dispensava i suoi semi come un agricoltore cieco, non era possibile sapere quale zolla di terra colpisse. L’unica cosa certa era che prima o poi finiva su tutti. Ormai ripiombata nella dura realtà, la ragazza cercò di raccapezzarsi. In quello stanzone erano accolte qualche centinaio di persone, di ogni sesso ed età. Tuniche bianche e nere erano la maggior parte. O forse erano sporche? La polvere e la penombra rendevano tutti uguali. Ugualmente prigionieri. Miris sollevò la testa. Crepe correvano lungo le pareti. Non c’erano dipinti o altri segni di riconoscimento. Dalla parte opposta individuò un grande tavolo, sotto cui erano strisciati dei corpi tremanti. Due panche rovesciate formavano una sorta di freccia che indicava una scalinata. Cinque gradini metallici che conducevano a una porta. Chiusa. Era rinchiusa con degli sconosciuti e il pianto di un bambino. Miris sentì che la paura cominciava a lasciare il posto allo sdegno. Non era mai stata trattata in quel modo. Aveva fame, sete, i suoi vestiti erano ridotti a brandelli, si trovava stipata in mezzo a quella gente che occupava una posizione sociale inferiore alla sua. E non voleva assolutamente essere toccata. – Stammi lontano! – intimò al tipo che l’aveva urtata. Uno sguardo vacuo fu l’unica risposta. Miris emise un sospiro sprezzante e cercò di scivolare lungo la parete fino alla porta. Una matassa di corpi aggrovigliati la separava da quella lastra di metallo. – Largo. Largo. Lasciatemi are! Ma nessuno si spostava. Pochi alzavano la testa. Un uomo canuto, con la tunica che sembrava grigiastra nella penombra, le rivolse un’occhiata cupa. – Sta’ zitta, sgualdrina! Miris rimase senza fiato. Conosceva il significato di quella parola disdicevole, anche se nella Corporazione non veniva usato un linguaggio del genere. Ma nessuno aveva mai osato rivolgersi a lei in quel modo. Tanto più un umile
Lavoratore. – Come ti permetti? – accolse la rabbia con gioia. Era più facile dello sconforto che altrimenti le minava le forze. – Bifolco! Per tutta risposta l’uomo le sputò nei piedi, prima di tornare a rivolgere lo sguardo al nulla. Quella mancanza di rispetto e considerazione era incredibile. Miris combatté l’impulso di mettersi a piangere cominciando a strillare. – Ma che vi prende a tutti? Come vi permettete? Sapete chi sono io? – Miris – una voce familiare. La ragazza tacque, scrutando nella penombra alla ricerca della sua fonte. Una figura si fece largo tra le altre, accostandosi a lei. – Calmati! A uno sfrigolio del neon sofferente Miris distinse il volto di Kay. Una mano ferma le si posò sulla spalla. La ragazza si divincolò, ma era contenta di vedere finalmente una faccia amica. – Calma un accidente! Hai sentito come mi ha chiamato? – Vuoi per favore smettere di urlare? C’è gente che cerca di dormire – il giovane non pareva colpito dal suo sdegno – Tra cui anch’io, fra parentesi. – Mi ha dato della sgualdrina! E tutta questa gente! Chi è? Voglio andare a casa, mia sorella sarà preoccupata e mio padre furibondo! – e non voleva assolutamente pensare alla possibilità che Chrisandra e il padre fossero… no, non doveva pensarci! Kay non batté ciglio. – Non puoi. – Perché no? – Se la smetti di urlare e possiamo ragionare come persone civili, magari te lo spiego. Miris emise un mugugno sdegnato. Un Reietto che voleva insegnare la civiltà a una come lei? Il mondo andava davvero alla deriva.
– Sei più calma? La ragazza annuì, controvoglia. Il suo tono di voce aveva attirato l’attenzione della gente intorno. E nessuno pareva d’accordo con lei. Anzi, le sembrava che fossero infastiditi, se non decisamente ostili. Una parte di lei era felice che ci fosse anche Kay. Il giovane accennò un sorriso e seguì la direzione del suo sguardo. Si spostò in modo da mettersi tra lei e i loro compagni obbligati. – Comunque sono felice di vederti qui. Miris tirò su con il naso. – Perché? – Perché è qui che hanno portato i sopravvissuti in buone condizioni. I feriti sono nella tua Corporazione. Miris chiuse gli occhi, li riaprì. Kay era ancora davanti a lei, la fissava. Lo stanzone non era cambiato. O era un sogno molto tenace o semplice realtà. – E dove è questo “qui”? Il giovane era giunto alla conclusione che non si sarebbe rimessa ad urlare, almeno per il momento. Si accomodò seduto, a gambe incrociate, e le fece cenno di fare altrettanto. – Le prigioni della Corporazione dei Cacciatori. Miris si guardò intorno. – Ma non vedo Cacciatori qui! – Perché sono morti quasi tutti – lo disse come semplice dato di fatto, come se stesse raccontando dell’ultima partita di scacchi che aveva vinto. Era un bravo giocatore. – Tu no, però!
Kay scrollò le spalle. – Ti dispiace così tanto? Miris scosse la testa, confusa. Anche se le era vicino, non riusciva a percepire i reali pensieri del giovane. Non c’era mai riuscita. – Da quanto tempo sono qui? – aveva molte domande, e dubitava che le risposte le sarebbero piaciute. – Qualche ora – il giovane consultò l’orologio – L’ora del Sonno è terminata da un po’. – E… – una pausa – … mio padre? L’hai visto? Kay si stiracchiò, con uno sbadiglio. Non si curò di mettere la mano davanti alla bocca. Miris resistette all’impulso di rimproverarlo. Era troppo in ansia. – I membri più influenti dell’Alveare sono stati segregati a parte. Logico, no? Non potevano sbatterli quaggiù, con il rischio che incitassero la folla e creassero subito scompiglio. Non che ci sia possibilità di rivolta, a dire il vero. Hai visto le loro armi? Quei fucili al plasma sono davvero portentosi! Miris quasi gli diede uno schiaffo. – Portentosi? – alzò di nuovo la voce – Ma ti rendi conto di quello che stai dicendo? Hanno provocato la morte di decine di persone e tu li definisci “portentosi”. Ma cosa avete in testa voi uomini? Kay aveva la capacità di non lasciarsi smuovere neppure dal suo tono più sdegnoso e in questo modo riusciva a farla infuriare ancora di più. Parlare con lui era come andare a sbattere contro un muro di gomma. Rimbalzava tutto contro. – I fucili non hanno ammazzato nessuno. Sono solo armi, non conoscono bene o male. Tutto dipende da chi li usa. – Beh, li hanno usati male! – E hanno vinto – Kay scrollò le spalle – Immagino che, dal loro punto di vista,
questo sia un bene. Prima che Miris potesse controbattere, la porta di metallo cominciò a scorrere, con un cigolio sinistro. La ragazza trasalì, al pari di tutti gli occupanti dello stanzone. Un brivido di paura percorse le mura metalliche. L’attesa era quella dei condannati a morte. Il silenzio si fece di ghiaccio quando un uomo apparve sulla soglia. Era solo, eppure dai suoi movimenti trasudava una sicurezza tale che non avrebbe fatto differenza se ci fossero state decine di guardie del corpo ad attorniarlo. Nessuno pensò neppure per un istante di attaccarlo nell’impeto della disperazione. Rimase sul primo gradino, in alto, in modo da poter spaziare su tutta la sala. Il neon lampeggiò, dando una scarica di luce più forte. Miris dovette sbattere gli occhi per non rimanere abbagliata. – Buongiorno a voi – un pizzico di educazione che sapeva di sarcasmo. Uno zuccherino per l’animale appena bastonato. – Vi informo che adesso siete tutti membri dell’Alveare Alfa5. I miei complimenti. Da questo momento in avanti vi rivolgerete a me come la massima autorità. Le Corporazioni rimangono in vigore, i vostri capi stanno bene e saranno trattati con il dovuto rispetto. Lo stesso rispetto è per chiunque svolga le sue mansioni, come ha sempre fatto. Nessun giro di parole, nessun vago astrattismo. Il discorso era lineare nella sua semplicità. Conquista. Annessione. Quelle parole non pronunciate gravavano nella stanza. Miris se le sentiva pizzicare addosso. – Mi scuso per il disturbo, ma per il momento rimarrete in questa stanza, giusto il tempo per riorganizzarci. Poi sarete ridistribuiti in base alle vostre capacità e otterrete una mansione specifica – pareva quasi gentile, dispiaciuto per quello che, per i suoi canoni, era un effetto del tutto secondario. Non erano le persone a interessargli. Miris si accorse di non riuscire a distogliere lo sguardo da quell’uomo. Percepiva
qualcosa. Un sottile tramestio all’angolo della sua mente. Un Lavoratore si sollevò in piedi, lentamente. Pareva combattere contro una forza di gravità dieci volte più intensa. Ai suoi piedi la moglie stringeva il bimbo in braccio. – Quindi… non ci uccidete? L’uomo allargò le braccia. Il suo mantello era bordato d’oro. – No. – Già – aggiunse Kay tra i denti, divertito – Perché sprecare della manodopera? Il Lavoratore si raddrizzò, prendendo un po’ più di coraggio. – Continueremo ad avere cibo e acqua? A lavorare? – Come avete sempre fatto – assicurò l’uomo, con un sorriso benevolo. Il padre che consolava il figlio dopo la punizione per una marachella. – Per voi non cambia nulla. Solo padrone. I Lavoratori, gli Schiavi e i Reietti non notavano la differenza. Miris si trovava in mezzo a loro. – Tra poco vi sarà fornito il pasto. Adesso, vogliate scusarmi – un gesto di saluto. Qualcuno rispose, incerto, altri addirittura si inchinarono. L’uomo tornò sui suoi i. – Aspetta… – cominciò Miris, ma c’era troppa gente tra lei e la porta. Si era già chiusa prima che potesse fare due i. – Dove credi di andare? – Kay la afferrò per la vita e la trascinò indietro. – A casa. Ha detto che è tutto come prima… – Nel palazzo dei Sacerdoti ci andranno i membri della sua Corporazione. Credi che lascerà a lungo una posizione di potere in mano a potenziali nemici, a meno
che non riescano a dimostrargli la loro lealtà? – Kay non riusciva a capire come una persona istruita come una Sacerdotessa dimostrasse una tale mancanza di buon senso. Quando faceva la principessina spocchiosa era davvero insopportabile. – Gli altri saranno sbattuti qui con noi. Miris scosse la testa. – Non dire sciocchezze. Lasciami, non voglio restare qui, insieme agli Schiavi e ai Reietti – sferrò una gomitata indietro. Kay le bloccò il braccio dietro alla schiena e la immobilizzò. Quando parlò, il suo volto era a pochi centimetri da quello della ragazza. – È quello che sei, adesso – le sibilò – Benvenuta nel magico mondo dei senzadiritti!
18
Chrisandra finì di sistemare la benda imbevuta di fattori di crescita. La ferita sarebbe cicatrizzata completamente in pochi Cicli. Per fortuna non era grave. Aveva perso il conto di quante persone avesse curato nelle ultime ore. La lista dei feriti era immensa e continuava ad aumentare, mano a mano che venivano estratti dalle macerie altri corpi. Per molti non c’era stato nulla da fare. Alcuni erano già morti, altri erano spirati tra le sue braccia mentre cercava disperatamente di salvarli. Sentiva il peso delle loro vite perdute nel petto. La soffocava. E non aveva più notizie di sua sorella. Aveva visto il padre di sfuggita, era stato trascinato recalcitrante fuori dal laboratorio. Chrisandra aveva provato a seguirlo, ma sapeva che avrebbe soltanto peggiorato le cose. – Mi ebbero per minacciarlo. A dire il vero, non era sicura che Radamante mettesse l’interesse della figlia davanti ai suoi studi, una vocina le suggeriva che non era il caso di scoprirlo. Dunque era rimasta in silenzio, limitandosi ad accogliere un altro ferito. Suo padre era scomparso dietro una porta e da allora non l’aveva più visto. Poteva solo sperare che fosse vivo. Era Miris che la preoccupava. Al momento dell’assalto era ancora fuori, allo scoperto. Ogni volta che giungeva un nuovo ferito, il cuore di Chrisandra tremava. Il suo terrore più grande era quello di trovarsi sul tavolo operatorio il cadavere della sorella. Si lavò le mani nella bacinella. Molti Sacerdoti lo evitavano, affermando di non voler sprecare l’acqua. Per Chrisandra era un abitudine, per impedire la disseminazione di microrganismi da un ferito all’altro. In verità, i Raggi facevano sì che ben poche forme di vita sopravvivessero. Le malattie infettive
erano rare. – Speriamo che dall’altro Alveare non ci arrivi qualche nuova malattia – considerò. L’isolamento delle loro comunità era un modo efficace per impedire epidemie. Si accorse che le mani le tremavano mentre le asciugava. Era esausta, non aveva chiuso occhio per tutta la notte, non si era fermata un attimo. Finché si affaccendava non aveva modo di pensare. Accogliere la sofferenza degli altri era anche un modo per evitare la propria. Aveva terminato le bende. Dopo un’ultima occhiata al ferito, che sembrava in buone condizioni, decise di andare a prenderle. Cominciò uno slalom attento tra i corpi che giacevano nelle stanze e nei corridoi, in giacigli improvvisati. Non c’era spazio per tutti là dentro e finiva che ogni nuovo corpo era ammassato nel primo punto disponibile. Ogni muro del palazzo trasudava di lamenti e dolore. Quando ò accanto al salone delle Assemblea, sentì le voci. Non fu una decisione cosciente. L’intenzione era proseguire per la sua strada, prendere le bende e tornare al lavoro, senza rischiare oltre la sorte. Era già fortunata di essere viva e doveva ringraziare il fatto che l’arte curativa fosse fondamentale in qualsiasi comunità. Però nel sentir pronunciare il nome di suo padre non riuscì proprio a trattenersi. Con la bacinella d’acqua ancora in mano, si accostò al battente socchiuso e sbirciò oltre la soglia. – Il Triumviro Radamante potrebbe crearci problemi. È testardo e stupidamente convinto di essere importante. Stava parlando quello che pareva a tutti gli effetti il capo dell’Alveare Alfa5. Sedeva su una panca lievitante, con le gambe morbidamente accavallate in una posa che aveva un che di sensuale. – Niente di più sbagliato, Alaric! Alaric Siferri, Autocrate dell’Alveare Alfa5, fece un gesto verso i due Chimerici che lo accompagnavano.
– Lo so, lo so, Starr. Ma, se le informazioni raccolte sul suo conto sono esatte, non è uno stupido. Tutt’altro. I suoi studi sono interessanti. Starr, Chimerico del fulmine, si ò una mano tra i capelli, dando vita ad un crepitio di elettricità. – Studia le mutazioni. E allora? – il suo tono era impaziente. Tutto di lui trasudava tensione e dinamismo. – E, ti ricordo, sono le mutazioni che ci rendono quello che siamo. L’hai dimenticato? Starr emise uno sbuffo impaziente. – Superiori agli umani! – Su questo non ho alcun dubbio. Ma sono state mutazioni casuali, indipendenti dalla nostra volontà. Siamo nati così. Pensa, se ci fosse un modo per controllare il Dna e i vari meccanismi di regolazione cellulari e selezionare i poteri che desideriamo! – Alaric Siferri giocherellava con una pietra, lanciandola in alto a ritmo regolare. Ma non con le mani. Con la mente. – Non siamo venuti qui per questo, però – intervenne il Chimerico della terra. Se ne stava a braccia conserte, appoggiato alla parete, gli occhi socchiusi. La sua grande testa era reclinata sul petto. – Hai ragione, Roland – Alaric afferrò al volo la pietra e la strinse nel pugno – Siamo venuti per questo. Tungsteno. – Non potevamo lasciarci sfuggire un’occasione del genere. Le spie mi hanno riferito la scoperta di un giacimento cospicuo e sapete bene quanto sia necessario il tungsteno per le nostre risorse belliche. – Credo che la donna l’abbia capito – aggiunse Roland – Quell’Ingegnera. Alaric annuì. La Triumvira Florenzia aveva posto domande noncuranti ma acute,
durante la loro lunga conversazione. Una donna astuta, che non aveva esitato a inchinarsi ai suoi piedi, mettendosi completamente ai suoi ordini. La domanda era: per quanto? Fino a quando le conveniva. – Per il momento non ho nessuna intenzione di rivelare a questa gente come funziona il Railgun – erano comunque nemici e solo uno sciocco avrebbe presentato loro su un piatto d’argento il proprio asso nella manica, rischiando di perdere uno dei maggiori elementi di forza. – Una bocca di fuoco completamente elettrica che spara un proiettile conduttivo lungo una coppia di barre di metallo usando gli stessi principi di un motore omopolare – Starr ci teneva a mettere in mostra le proprie conoscenze. Riteneva di non aver nulla da invidiare ad un Ingegnere. – E quale proiettile conduttivo migliore, se non quello di tungsteno? Può penetrare un muro di metallo spesso qualche metro e arci attraverso come burro. – Queste armi sono fondamentali per le nostre conquiste. Questo è il decimo Alveare che cade ai nostri piedi. Credete che dovremmo festeggiare? – Alaric si sistemò il mantello bordato d’oro – Sapete, è da un po’ che non mi concedo qualche svago! Starr fece una smorfia. – Prenditi quella donna, quella Triumvira. Tanto le donne non servono ad altro! – A parte che è vecchia e grassa per il miei gusti, – Alaric scoppiò in una risata – potrebbe esserci utile. Gode di discreta influenza in questo posto e ci garantirà un accordo soddisfacente senza altri inutili spargimenti di sangue. Mi ha già promesso il suo completo appoggio. – E tu le credi? – Mi ritieni così stupido? Avrà una scorta che la seguirà per tutto il Ciclo, anche quando vorrà andare in bagno. E se farà un o falso incorrerà in una spiacevole malattia che si chiama avvelenamento. Del resto, nessuno si stupisce se una persona della sua età muore, a questo mondo. Tra i Raggi e tutte le neoplasie che provocano…
Starr fece qualche o, i capelli che sfrigolavano. – Non mi piacciono le donne, lo sai. Sono serpenti infidi. Secondo me, dovremmo ammazzarle e basta! – Come quella Chimerica dell’acqua? – la voce di Roland era cupa. Vibrava una nota di rabbia. – Non c’era bisogno di eliminarla. Alaric corrugò la fronte. In effetti, una situazione incresciosa. Aveva dato ordine ai suoi soldati, umani e non, di catturare i Chimerici nemici. Possibilmente vivi. Se l’avesse uccisa un uomo, l’avrebbe punito con la morte per insubordinazione. Starr invece gli era indispensabile. – Roland ha ragione – ci tenne però a far notare – Quella Chimerica poteva unirsi a noi, dimostrandosi un utile alleato. Starr scrollò le spalle. La disciplina non era la sua dote principale. – Colpa sua, non si è arresa quando ne aveva l’opportunità – indirizzò a Roland un’occhiata di sfida – Si è meritata quella fine! Il Chimerico della terra non batté ciglio. – Ammetti che ti sei lasciato prendere la mano. Avresti ucciso anche quella giovane Sacerdotessa, se io non fossi intervenuto – un leggero rumore attirò la sua attenzione, confermandogli quello che già sapeva. Starr allargò le braccia. – E qual è il problema? Un umano in meno sul mondo. – Basta così, ragazzi! – Alaric si trovò costretto ad intervenire. Le panche levitanti si alzarono, seguendo l’onda della sua ira. – Non ha senso litigare tra noi. La squadra dei nostri Ingegneri è già in arrivo, lavoreranno sul tungsteno al più presto. Non dimenticate che abbiamo un altro obiettivo a cui pensare, molto più importante. Roland si schiarì la voce.
– Ma di questo eviterei di parlare. Starr corrugò la fronte, con un sogghigno. – E perché no? Giusto, hai parlato anche troppo. Il tuo cervello di terriccio non può sostenere una conversazione più lunga. Roland lo ignorò. Fece un cenno con il pollice, indicando la porta socchiusa. – Perché non siamo soli. Un attimo. Starr stringeva già tra le mani una saetta crepitante. Alaric inarcò un sopracciglio e la porta si spalancò di colpo, rivelando la donna nascosta oltre i battenti. Chrisandra fece un balzo indietro. La bacinella le sfuggì di mano, rovesciandosi in una pozza che rifletteva tutto il suo terrore. Era stata scoperta! Provò l’impulso di correre, ma sapeva che non sarebbe arrivata da nessuna parte. I Chimerici la fissavano. La bacinella continuava a ondeggiare ai suoi piedi, con un rumore metallico. Roland fece un gesto stizzito, tappandosi un orecchio. La terra gli rimandava ogni suono amplificato. Anche i i di quella Sacerdotessa, che si erano fermati proprio vicino alla porta. Era consapevole della sua presenza già da un po’. Ma non era nel suo carattere parlare o agire prima del tempo. – Starr, calmo! – Alaric scivolò agilmente dalla panca, atterrando in punta di piedi. Si affiancò al Chimerico del fulmine, che sembrava sul punto di disobbedire di nuovo. La sua avversione per quell’umana era palpabile al pari delle scintille che gli crepitavano attorno. – Non c’è bisogno di agitarsi con questa donna – piegò la testa di lato, scrutandola – Begli occhi! Chrisandra non poté fare altro che accennare un inchino, deglutendo.
– Grazie, mio signore. Roland pensò che fossero familiari, aveva già visto quegli occhi verdi da qualche parte, ma evitò di commentare. – Chissà da quanto tempo è qui – Starr teneva la mascella serrata – Non mi piacciono i ficcanaso. Tanto più le ficcanaso! – Perdonate – Chrisandra non aveva mai pregato la Notte o qualunque entità divina fosse in ascolto con tale fervore come in quel momento. – Non era mia intenzione disturbare. Stavo andando a cercare delle bende… – Nessun disturbo – Alaric sembrava divertito, ma questo non tranquillizzava la Sacerdotessa. Si sentiva studiata da capo a piedi. – Sa troppo – insistette Starr – Non possiamo lasciarla in vita. – Oh, ma non dirà nulla, puoi stare tranquillo – Alaric lasciò il sasso nel pugno di Starr, dandogli una pacca sulla spalla – Rilassati, e goditi la vita. Questa donna sarà muta come una tomba, se non vuole trovarcisi dentro. Non è vero, Sacerdotessa? Chrisandra non poté far altro che annuire. Alaric le tese la mano. – E adesso, se permettete, vorrei ritirarmi per dedicarmi allo svago di cui stavamo parlando – Alaric sorrise – Sacerdotessa, vieni a farmi compagnia! Non era una domanda.
19
Miris fissò la ciotola piena di una pappa informe. – Cos’è, uno scherzo? Kay le diede un’occhiata oltre la tazza da cui stava bevendo. – No, è zuppa di lichene. – Di lichene muffito! – Forse! il giovane non pareva condividere il suo disgusto. Anzi, ingoiava un sorso dopo l’altro, bevendo direttamente dalla ciotola. Miris lo guardava sconvolta. E i cucchiai? Non esistevano le posate in quel posto? Non esistevano tante cose. Intanto, non c’era un briciolo di intimità. Dopo essersi trattenuta fino ad avere la vescica così piena da scoppiare, aveva dovuto arrendersi e, con il volto in fiamme, si era rifugiata in un angolo a espletare. Il problema era che non era la sola ad avere bisogni fisiologici e adesso la stanza era piena di mille odori, uno più rivoltante dell’altro. E Miris era sul punto di avere una crisi di nervi. Pensava che un pasto caldo le avrebbe restituito un briciolo di buon umore. Lo stomaco le brontolava imperiosamente, facendola dimenare a disagio. Aveva accolto con gioia i Cacciatori dell’Alveare Alfa5 che distribuivano ciotole con fredda meticolosità. Finalmente poteva calmare i visceri e togliersi dall’imbarazzante situazione. Invece si era trovata davanti quella brodaglia disgustosa. A parte il fatto che aveva dovuto sgomitare da ogni parte per impadronirsi di una ciotola, e solo l’intervento di Kay aveva impedito che le fosse sgraffignata sotto
il naso, quella roba le aveva fatto are ogni appetito. – È fredda! – Già. – Magari l’hanno preparata un’ora fa! – Anche due. – Insomma, dobbiamo protestare! – Miris sbatté la ciotola per terra – Non possono darci questa robaccia! Kay la indicò, pulendosi la bocca con il dorso della mano. – Se non ti va, dammela, la mangio io – si tese per prenderla – Sai, ho mangiato di peggio. Hai mai assaggiato un verme-puzzola? Ecco, non farlo mai, a meno che tu non stia morendo di fame. – Ci faranno morire di fame! – No, serviamo – Kay ripulì la propria ciotola e ò all’altra. Tanto altrimenti l’avrebbe rubata qualche vicino. – La nostra morte non è nei loro piani. Ma se capita, capita. Non siamo insostituibili. Il bello degli Schiavi è che sono sacrificabili. Miris lo guardava mangiare e sentiva lo stomaco brontolare sempre di più. Era una sensazione terribile. – Questi dell’Alfa5 sono degli aguzzini! Kay scrollò le spalle. – Credi che fino a ieri mangiassi una sbobba migliore? – Non dire sciocchezze! – Ci trattavate allo stesso modo. – Non è vero – Miris cominciava davvero a spazientirsi – La mia mensa è ottima!
Kay continuava a non darle ascolto. – Adesso questa è la tua mensa, quindi mettiti il cuore in pace e finiscila, non mi piace parlare mentre mangio. Non è educazione, giusto? A parte il fatto che mi va tutto di traverso. Miris mise le dita ad artiglio, sollevando la testa al soffitto. – Non è possibile – si lamentò – Cosa ci faccio qui? Poiché né il soffitto né Kay le diedero risposta, la ragazza non poté far altro che brontolare tra sé e il proprio stomaco. Tutti stavano mangiando. Forse quella roba non era poi così male… Incrociò le braccia. Sarebbe morta prima di chiedere a Kay di restituirle la ciotola. Rimase a testa bassa, imbronciata. Quello era il Ciclo peggiore della sua vita. Se almeno avesse avuto accanto Chrisandra! Si ò le mani sulla testa, con un sospiro. Pensare alla sorella le dava una sensazione strana, un’inquietudine sottile. Fa’ che stia bene! – E che mangi qualcosa, almeno lei! – aggiunse, borbottando. L’odore della pappa, che adesso non le pareva più così rivoltante, le solleticò le narici. Kay le stava tendendo la ciotola. – Tieni, ne ho lasciato un po’. Devi mangiare per mantenerti in forze – pareva serio. Non c’era sarcasmo nel suo sguardo. Titubante, Miris accettò la tazza. Le loro dita si sfiorarono per un attimo. Nulla. Prese qualche sorso, sentendo che finalmente lo stomaco si dava una calmata. Non era sazio, ma per lo meno aveva smesso di stringersi in morse dolorose. – Grazie – la ragazza si schiarì la voce – Sei quasi gentile, quando non fai l’odioso. Kay sorrise.
– E tu sei quasi carina, quando non fai la principessina spocchiosa. Miris lo fulminò. – Come mi hai chiamata, scusa? Quella che poteva configurarsi come una tremenda scenata da orgoglio femminile ferito fu interrotta bruscamente dal cigolio della porta. Ormai era diventato il suono più interessante di tutta la stanza e in un attimo calamitò l’attenzione generale. Di nuovo l’uomo che adesso era il loro sovrano? Miris fece per alzarsi in piedi, ma Kay la ricacciò giù. – Ferma! – le intimò – Una regola d’oro per gli Schiavi è: mai attirare troppo l’attenzione. Si vive meglio, credi a me! Entrò un uomo alto e robusto, dalla carnagione scura e capelli arancioni di pessimo gusto. Miris, in un’altra situazione, sarebbe scoppiata a ridere. – Ma quello ha litigato con lo specchio da bambino? – Shh! – Kay parlava a bassa voce – Quello è Pyrgo, un Chimerico del fuoco. Bastò a far ammutolire Miris, che osservò il mutato scendere i gradini e cominciare a scrutare in mezzo alla gente. Sembrava cercare qualcosa. O qualcuno. La curiosità nella ragazza fu più forte della prudenza. – Come fai a sapere come si chiama? Prima che Kay potesse rispondere, il Chimerico lo individuò. Doveva avere una vista acuta. – Tu! – lo indicò per non lasciar adito a dubbi. Kay comunque immaginava che fosse venuto per lui dal momento in cui lo aveva riconosciuto. – In piedi! Vieni con me! Il giovane sapeva di non potersi rifiutare.
Cominciò ad alzarsi, con calma. Miris gli si attaccò ad un braccio. – Dove vai? – Con quel tipo – era scontato, no? – Perché? – Credo che il suo capo mi cerchi. Miris lo seguì per un tratto, senza lasciarlo. D’un tratto, il pensiero di rimanere da sola nello stanzone con tutti quegli sconosciuti la spaventava. Senza contare che non vedeva l’ora di uscire di lì. – Cerca un Reietto e non una Sacerdotessa? – sbottò – Non dire sciocchezze, vengo anch’io! Kay le diede un colpetto. – Non fare storie. Torno presto. – Quando? – Che c’è, ti mancherei? – Quanto una verruca estirpata da un piede. Ma non voglio rimanere qui dentro mentre tu vai libero e felice per l’Alveare! Il Chimerico del fuoco cominciava a diventare impaziente. – Muoversi! E tu, ragazzina, torna al tuo posto! Miris detestava essere interrotta, anche da un ibrido che poteva bruciarla in un secondo, soprattutto quando aveva un umore del genere. Era sporca, affamata, demoralizzata… e davvero non aveva la minima intenzione di rimanere in quel fetore. Era tutto uno sbaglio! – Voglio vedere anch’io il tuo capo – e prima che Kay riuscisse a tapparle la bocca aggiunse – Sono la figlia del Triumviro Radamante. Gli occhi del Chimerico si fissarono su di lei. L’iride aveva delle sfumature
rossastre, notò la ragazza. Rosso come l’ira. O forse era solo il frutto della sua immaginazione. Pyrgo annuì, compiaciuto. – Venite tutti e due. – Bene – finalmente le cose cominciavano ad andare per il verso giusto! Quasi corse sui gradini per la fretta di uscire. Kay la seguì più lentamente. Guardando la sua faccia scura, Miris pensò che forse non era stata una buona idea rivelare la sua identità.
20
Alaric Siferri era compiaciuto sotto vari punti di vista. In primo luogo, l’alloggio. Il palazzo dei Triumviri era davvero maestoso, con sculture in bronzo in tutte le nicchie e dipinti fluorescenti attaccati alle pareti. Si trovava in una saletta sul retro, che dava accesso agli studi e alle camere degli ospiti. Non essere mai state usate, dato che difficilmente la gente di spostava da un Alveare all’altro. Beh, adesso servivano a qualcosa. Seduto sul divanetto in tela di ragno, versò la shen in un calice dorato e lo ò alla sua compagnia. Lui non poteva berla, aveva imparato a sue spese. Per la sicurezza sua e degli altri, perché i poteri di una mente confusa erano amplificati, ma privi di controllo. Quindi inutili. – Un sorso? – non c’era gentilezza nelle sue parole, solo studiata indifferenza. Il suo secondo motivo di compiacimento scosse la testa, senza parlare. Chrisandra avrebbe voluto soltanto prendere quel calice e rovesciarglielo addosso. Sarebbe morta con un briciolo di soddisfazione. Invece si sentiva umiliata e schiacciata. Sapeva cosa voleva da lei l’Autocrate. Le sue dita le sfioravano la spalla, scendendo sul seno sotto la tunica. Dubitava che si accontentasse così facilmente. – Peccato – Alaric fece schioccare la lingua – Ti invidio, sai? Tu puoi berla e non la vuoi. Io non posso… eh, in fondo l’uomo cerca sempre quello che non può avere. E un Oltre-Uomo secondo te può raggiungerlo? Chrisandra non era interessata a quei discorsi. Voleva soltanto tornare alla sua
Corporazione, a vedere come stava il fidanzato… E cosa gli avrebbe detto? – Non lo so. – Non è una risposta. E non mi hai chiesto cosa intendo per Oltre-Uomo. Starr direbbe Superuomo, ma a me non sembra calzante. Qualcuno che va oltre i limiti dell’essenza umana, ma sfrutta la sua conoscenza come trampolino di lancio. A differenza del mio alleato, so vedere l’importanza della base di una piramide, anche se aspiro a raggiungere l’apice. Chrisandra sperava che la smettesse di parlare. Più le rivelava, più era difficile che la lasciasse andare. Aveva l’impressione che intorno a lei si stessero avvinghiando catene invisibili. – L’apice è quello – indicò un piccolo scrigno piombato, che poggiava sul tavolinetto. Alaric non se ne separava mai. – Sei curiosa? La Sacerdotessa si morse le labbra. – La curiosità è pericolosa. – Saggia – gli occhi di Alaric ebbero un guizzo – Vuoi vedere cosa c’è dentro? Prima che Chrisandra potesse rispondere a quella che sentiva come una trappola, un lieve bussare alla porta li interruppe. La donna tirò un sospiro di sollievo. – Avanti! Pyrgo mise dentro la testa, cauto. Non voleva rischiare di interrompere lo svago del suo signore. Vedendo che i vestiti erano tutti al loro posto, si sentì autorizzato ad entrare. – Ti ho portato il nostro Reietto – annunciò, poi un sorriso gli tagliò la faccia e mise in mostra i denti, di un candore stridente rispetto alla pelle scura – E una sorpresa! – Fallo entrare.
Kay fece qualche o nella stanza, mentre Alaric ava ad esaminare la ragazza che lo seguiva. Una Sacerdotessa. Corrugò la fronte. – E questa chi è? – cominciò, poi sentì la donna al suo fianco irrigidirsi. La ragazza emise un gridolino di sollievo. – Chris – e si lanciò in avanti. Chrisandra si era già alzata e la accolse tra le proprie braccia. Miris nascose il volto sul suo petto, travolta dal sollievo. – Sorella, stai bene. Ho temuto… sono contenta, come sono contenta! – Oh, Miris – Chrisandra la strinse. Che disastro hai combinato! La ragazza sbatté le palpebre. La sorella era sollevata, ma allo stesso tempo amareggiata. A che disastro si riferiva? – È la figlia dei Triumviro – annunciò Pyrgo, soddisfatto. – Capisco – Alaric alzò il calice, beffardo – Salute a voi, e a vostro padre. Sarà davvero lieto di sapere che siete entrambe con me e in buona salute… per ora. Ci à come merce di scambio. Miris intuiva i pensieri della sorella. Lei non ci aveva riflettuto neppure per un attimo, troppo ansiosa di separarsi dagli Schiavi. Deglutì. Che sciocca! – A dopo i convenevoli, adesso ho questioni più urgenti di cui trattare – si rivolse a Kay, che se ne stava imibile a braccia incrociate – Tu conosci l’ubicazione delle armerie, dei magazzini, delle miniere, giusto? – Sì. – Preferirei un “sì, signore”, ma mi accontento – Alaric non amava le formalità – Ho bisogno che tu mi prepari una mappa di tutto l’Alveare. Precisa, mi raccomando!
– Non sono un artista, ma vedrò quello che posso fare. – La darai a Pyrgo e lo accompagnerai a setacciare la zona, per schiacciare le eventuali sacche di resistenza. – Sì – una pausa che sembrava più di sarcasmo che di rispetto – Signore. Alaric rise. Gli piaceva il sarcasmo. Fino ad un certo limite. – Ma che stai facendo?!? – Miris fissava Kay con gli occhi sgranati. Il giovane inarcò un sopracciglio. – Secondo te? – Stai vendendo informazioni al nemico! – Non vedo nessun nemico – Kay era calmo, ma il suo sguardo la invitava a tacere – Facciamo tutti parte dell’Alveare Alfa5, ricordi? Miris strinse il pugno, ignorando l’imbeccata e la stretta ammonitrice della sorella. Fa’ silenzio! Ma la ragazza era troppo delusa, anche se non sapeva bene di cosa. – Non tutti. Di quanti sono morti nell’attacco che mi dici? – Dico che sono morti e basta! – un pizzico di stizza da parte di Kay – Capita più spesso di quanto tu pensi, Sacerdotessa, al riparo tra le solide mura della tua Corporazione. E credi che a qualcuno sia mai importato dei Reietti e dei Chimerici che ano la loro esistenza a farsi deridere e a morire per i vostri comodi? Miris colse tutti di sorpresa sputandogli contro. – Almeno Sirea è morta per proteggerci. Tu sei soltanto uno sporco traditore e lui un vile assassino! Clap. Clap.
Alaric batté le mani. – Basta, basta, ragazzina. Hai già dato abbastanza spettacolo. Pyrgo, tu e il nostro informatore… – occhiata interrogativa. – Kay. – Kay, va bene, le cose vanno sempre chiamate con il nome giusto… preparate la mappa e aspettate fuori. Ah, Pyrgo, procuragli una tunica più adatta. Erano stati congedati. Il Chimerico era già sulla porta. Kay esitò per un istante, guardò Miris. Rimanendo avrebbe soltanto peggiorato le cose, se possibile. Perché quella ragazza non sapeva tenere la bocca chiusa al momento giusto? Quando la porta si chiuse alle loro spalle, Miris si sentì di colpo più sola. E vulnerabile. Si strinse alla sorella. Cosa sarà di noi? Eppure Chrisandra cercò di sorriderle, rassicurante. Bugiarda, avrebbe voluto dirle Miris. Una bugia per farla stare meglio, però. – Bene, Sacerdotesse – Alaric le scrutava divertito – Figlie del Triumviro. Ditemi un po’: cosa devo fare di voi? – Lasciarci andare a casa? – Miris sapeva che era sperare troppo, ma tentò comunque. Non le piaceva l’espressione con cui quel tipo le guardava. Quasi… famelica. Evitò di incontrarne lo sguardo. – Due belle ragazze come voi? Vi assomigliate, sapete? – Alaric si avvicinò di un o – Mi state facendo sorgere i dubbi. Ragazza, vieni qui! Il suo tono vibrava di minaccia repressa. Miris rabbrividì. – No! – Per favore – Chrisandra cercò di intervenire – È ancora giovane. Non sapeva quello che diceva prima! Alaric non batté ciglio. La invitò con la mano.
– Vieni – ripeté. E, anche senza muovere un muscolo, Miris si trovò a scivolare verso di lui. Il suo corpo era attratto da una forza magnetica, rigido come una statua. Emise un singulto. – Ma cosa…? – Telecinesi – Alaric la bloccò ad un o da sé – Un gene interessante, non trovi? Ma voi umani non apprezzate appieno le mutazioni. Miris barcollò, di colpo libera. Chrisandra fece per avvicinarsi. – Rimani dove sei – Alaric afferrò la ragazza da dietro e le ò una mano intorno al collo. Con l’altra le teneva ferme le mani. Miris ansimò, il fiato le mancava. Il polso le doleva dove il Chimerico la stava toccando. I suoi pensieri erano neri e spigolosi. …giochiamo un po’… i sentimenti umani sono sempre interessanti… Chrisandra si era bloccata, una mano tesa. – Non farle del male! – Questo dipende da te – Alaric accentuò la stretta – Posso spezzarle il collo con facilità, fidati sulla parola. Peccato, ha un bel collo – vi diede un morso. A Miris sfuggì un gridolino soffocato. Percepiva un filo di saliva rimasto sulla pelle. Pareva bruciasse, come i pensieri di quel Chimerico. Bel collo… un po’ troppo morbido… – Puoi scegliere, Sacerdotessa. Tu o lei? Chrisandra aveva un’espressione angosciata. ava lo sguardo dalla sorella al Chimerico. L’alternativa era penosa. – Ti prego, lasciala andare! – Lo farò, se accetterai di compiacermi. Mi sembra una proposta ragionevole.
– Sono fidanzata… – la voce della Sacerdotessa era flebile, senza convinzione. Fin dal momento in cui era entrata in quella stanza, sapeva come sarebbe finita. Alaric era inesorabile. Come se mi importasse… – Un po’ di svago in cambio della vita di tua sorella. Rifiuta e lei morirà! Ma Miris sapeva la verità. Gliela leggeva nella mente. – Chris, non lo farà – si stupì di quanto calma riuscisse la sua voce – Ti vuole, consenziente, ma non ha intenzione di uccidermi. Non ucciderà nessuna delle due. Da morte non siamo utili come merce per ricattare nostro padre. Era la pura e semplice verità. Alaric allentò la stretta, sorpreso. Come fa questa ragazza a sapere…? Cambiamento di programma. – Esci, Sacerdotessa – ordinò a Chrisandra. E il suo tono non ammetteva repliche. La donna scosse la testa. – Mia sorella… – Fuori! Chrisandra fu scagliata indietro con violenza, spalancando i battenti con le spalle. Si richio un attimo dopo, incuranti dei gemiti della donna stordita dal colpo. Nella stanza rimasero soltanto Miris e Alaric. La ragazza sentì che la presa si allentava intorno al suo collo. Solo un secondo. Poi si trovò schiacciata con la schiena contro il divano, la mano del Chimerico sulla gola. La fissava con rabbiosa curiosità. – Dimmi cosa sto pensando! Miris cercò di distogliere lo sguardo. Non voleva farlo. C’erano stille dolorose
che le pungevano la mente solo a sfiorare quell’uomo. Il suo tocco bruciava. Alaric le bloccò il volto. – Dimmelo! Decisione. Nessuna pietà. Se non mi risponde bene, la ammazzo! – Se non mi risponde bene, la ammazzo – ripeté Miris, in tutta fretta, ansimando per riprendere fiato. Alaric la lasciò andare di colpo. La ragazza si afflosciò nel divanetto, tossendo. Un segno rosso le circondava la gola, con la forma delle dita del Chimerico. – Bene, bene – Alaric era soddisfatto. Schioccò le dita e di nuovo la porta si aprì. Chrisandra si stava risollevando a fatica. Un braccio le pendeva in modo innaturale, lussato. – Pyrgo, Kay, cambio di programma – l’Autocrate richiamò i Chimerici che stavano in disparte, osservando l’umana con forzato disinteresse. Meglio lei che loro. – Trovatemi un’altra tunica appropriata! – No, non dirlo… – Miris l’aveva tenuto nascosto per così tanto tempo che quasi si era convinta che non fosse vero. Quasi. Alaric la ignorò, annunciando la belle notizia. – Abbiamo una Chimerica telepate.
21
Florenzia non si lamentava della sua situazione attuale. Non troppo, almeno. La sua filosofia di vita le suggeriva di guardare sempre il lato positivo delle cose. Era viva, in buona salute, aveva teoricamente mantenuto il suo ruolo. Ovviamente, l’esperienza le aveva insegnato che pensando bene si vive felici, pensando male si ha ragione. Si chiedeva quanto tempo avrebbe impiegato Alaric Siferri prima di farla sparire. Non troppo, a meno che non lo convincesse che non solo era innocua, ma anche utile. Per questo aveva ordinato ai suoi Ingegneri di sfruttare quella prigionia obbligata per far lavorare la mente. Contava di presentare in breve molti progetti al nuovo signore, per dimostrare tutta la buona volontà a collaborare. Però avrebbe preferito che lo fero in un’altra stanza. Dato la necessità di tenerli sotto controllo, i soldati di Alfa5 avevano accorpato gli Ingegneri in poche sale, più facili da sorvegliare. Così la Triumvira, nonostante la sua reticenza, si trovava a condividere lo spazio con Samuel Barni. Peccato che l’uomo avesse la spiacevole abitudine di occupare tutto lo spazio disponibile, come un gas. Un gas fastidioso, per la precisione. Florenzia cercò di sedersi, ma non era un’impresa da poco. Dovette spostare una pila di tavolette e un paio di cacciaviti. Barni aveva portato con sé soltanto una valigetta di metallo con le sue “poche cose”. La Triumvira aveva tirato un sospiro di sollievo troppo presto. O quella in realtà era un pozzo senza fondo travestito, oppure l’Ingegnere era stato davvero bravo ad infilare così tante cianfrusaglie là dentro. Erano esplose nella stanza, invadendola come spore. – Vediamo un po’ come funziona quel cannone… dal poco che ho visto usa due contatti scorrevoli o rotanti per generare la corrente elettrica attraverso il proiettile…
Florenzia lo fissava sempre più cupamente. Quel tipo era strano. Sembrava quasi contento che gli abitanti di Alfa5 li avessero invasi, così da poter ammirare quel gioiello di ingegneria! – Insomma, saresti in grado di ricostruirlo? – Forse. Teoricamente – Samuel mordicchiò il carboncino, una brutta abitudine che non riusciva a togliersi. Si sporcò di nero gran parte della bocca, in una parodia di barba. – Credo che la corrente elettrica interagisca con i campi magnetici generati dalle rotaie e questo acceleri il proiettile, fino a fargli raggiungere più di sette volte la velocità del suono. – Credi? – Florenzia non riuscì a nascondere il suo scetticismo – E la potenza elettrica come la forniamo? Senza contare i disturbi che i Raggi potrebbero provocare a questo marchingegno! Samuel appuntò qualcosa sul tavolo. La Triumvira sgranò gli occhi. Quell’oggetto, in bronzo dorato, costava centinaia di dischi di rame! Valeva la pena rovinarlo un po’, se serviva per dimostrare ad Alaric la loro utilità. – Una batteria di condensatori da 9 Megajoule? – Samuel continuava a pensare ad alta voce. Altra brutta abitudine che non era migliorata dopo anni e anni trascorsi nella sua stanzetta, da solo, a progettare senza sosta. Non si era neppure accorto di Aryanna, la timida adepta di secondo livello, che in ogni modo aveva cercato di attirare l’attenzione dell’Ingegnere, seduta al suo fianco per argli il cacciavite ogni volta che ne aveva bisogno. Aveva desistito già da un pezzo, non era piacevole essere considerati meno di un cacciavite. Samuel non aveva notato la sua assenza, a parte per il fatto che doveva allungarsi un po’ di più per prendere il cacciavite da solo. Florenzia di solito non scendeva in quei dettagli tecnici. Si distrasse, ripensando al suo colloquio con Alaric. Le erano rimaste impressioni contrastanti riguardo l’Autocrate. Autocrate! Quella parola non le piaceva. Abituata a sedere sullo scranno più alto del suo
Alveare, si era trovata di colpo declassata. Un duro colpo per il suo orgoglio, ma Florenzia era un tipo pratico. Con l’orgoglio non si otteneva nulla, con una punta di sottomissione poteva ricostruire un briciolo del suo antico potere. In fondo, Alaric non sarebbe rimasto là per sempre. Dopo un periodo indispensabile di riadattamento, sarebbe tornato ad Alfa5, lasciando i sottoposti ad amministrare la nuova colonia. Florenzia puntava a essere in quella cerchia. L’Autocrate aveva convocato sia lei che Radamante quella mattina. Si era insediato con i suoi Chimerici e la sua guardia scelta nel palazzo dei Triumviri (– il mio palazzo – non riuscì a fare a meno di pensare Florenzia con stizza) e li aveva accolti in una stanzetta riservata, offrendo loro shen e persino un piccolo rinfresco. Né l’Ingegnera né il Sacerdote avevano toccato nulla. Potevano essere avvelenati. Se Alaric lo aveva notato, non lo aveva dato a vedere. Con calma, aveva srotolato davanti a loro una lamina di metallo, così sottile da risultare pieghevole. Vi erano incisi in rosso i termini della pace. Resa totale. Florenzia non si era aspettata nulla di meno. Radamante invece era stato più restio, nonostante Alaric gli assicurasse piena autonomia di ricerca nei suoi laboratori. L’Ingegnera gli avrebbe tirato un calcio nello stinco più che volentieri. Vecchio idiota! Voleva farli uccidere tutti e due? E il motivo di tutta quella reticenza, Florenzia ne era sicura, era il fatto che Alaric si circondasse di Chimerici. Pareva apprezzarli, persino! Anche Florenzia apprezzava la torta di muschio mutato. La mangiava molto volentieri. La sfruttava. La predilezione di Alaric per i Chimerici non era un suo problema. Firmare la resa sì. L’Autocrate aveva fatto gentilmente notare a Radamante che le due figlie erano “ospiti” presso le sue stanze e che avrebbero atteso con trepidazione la sua decisione. Poi li aveva bruscamente congedati.
Non gli bastava una semplice firma, voleva organizzare uno spettacolo davanti a tutto l’Alveare. E loro erano gli attori principali. Lanciò un’occhiata all’orologio. In breve avrebbe dovuto prendere parte alla proclamazione ufficiale della resa dell’Alveare. Florenzia aveva già deciso come comportarsi. Sperava che Radamante utilizzasse lo stesso buon senso. Forse era un bene che le figlie fossero in mano ad Alaric. Rendeva tutto più facile. Ma, nell’attesa, tanto valeva sfruttare l’estro creativo di Samuel Barni, che continuava a blaterare senza sosta le sue teorie sui cannoni e sul tungsteno. – … potremmo realizzare la corrente elettrica utilizzando commutatori allo stato solido… – D’accordo, comincia a scrivere qualche appunto serio – lo incoraggiò Florenzia. Fu un errore. Si mise a urlare selvaggiamente quando Samuel Barni, finita l’argilla e il tavolo, cominciò a scrivere sulle pareti. – Cosa c’è da ridere? Kay riprese fiato tra una risata e l’altra. E il volto corrucciato di Miris gli suscitò un’altra ondata di ilarità. – È così buffo! – Cosa? Kay si asciugò gli occhi con la mano. – Che proprio tu sia una Chimerica! Miris si tolse uno zoccolo e glielo lanciò. Il giovane lo afferrò al volo, prima che lo colpisse in piena faccia. – Io lo trovo grottesco.
Miris oscillava tra attimi di sconforto più nero ed esplosioni di rabbia. Una parte di lei lo aveva sempre saputo, ma aveva trovato mille scuse: era una persona sensibile, si trattava di semplice intuito, un caso… Invece, da qualche parte nel suo Dna, c’era una piccola mutazione che le comportava un grosso problema. – Beh, abituati. Ci sei nata, come tutti noi! – Kay si massaggiò l’arto d’ombra – Non lamentarti, sembri in tutto e per tutto un’umana… – Ma io sono umana – Miris allargò le braccia – Guardami! Sono una ragazza come tante. Qual è la differenza tra me e mia sorella? – inarcò un sopracciglio – Beh, a parte i capelli, una decina di centimetri di statura, tre anni di età e magari un quoziente di buon senso superiore. Il suo, intendo! – Sono d’accordo sul buon senso – Kay stava sogghignando. Odioso. Miris si tolse l’altro zoccolo, pronta al lancio. – Però non ci credi neppure tu, vero? La ragazza sbatté gli occhi. – A cosa? – Al fatto di essere umana. Come puoi pretendere che gli altri ti considerino tale, se non ci riesci neppure tu? – Kay si ò una mano tra i capelli, appoggiandosi alla parete con la schiena – Era per questo che mi trattavi così male, vero? Che evitavi i nostri Chimerici? Perché li capivi troppo e avevi paura che, vedendovi insieme, qualcuno scoprisse anche te. Miris aprì la bocca per negare, la richiuse. Emise uno sbuffo. – Ti tratto ancora male. E te lo meriti! – Se lo dici tu… – era incredibile come Kay non se la prendesse di niente. O aveva un carattere meraviglioso o nella vita aveva preso così tanti insulti da esserne refrattario. Poggiò la nuca alla parete. – Sai, anche da piccolo avevo il braccio così. È cresciuto con me. Mi marchia come un Chimerico, ma non mi dà abbastanza potere per esserlo davvero.
Paradossalmente, forse era più umano Kay di lei. Miris non lo aveva mai sentito parlare di sé. Il giovane aveva sempre evitato quel genere di conversazione. La ragazza si sentì in dovere di aggiungere qualcosa. – Da bambina non avevo notato nulla. Certo, a volte sapevo cosa la gente stava per fare prima che lo fe, ma era soltanto intuito, mi dicevo, insomma, capitava un po’ a tutti… – un sospiro. Ricordare gli anni dell’infanzia le suscitava sempre una soffusa nostalgia, come se fossero appartenuti a qualcun altro. C’era sua madre a consolarla ogni volta che si faceva la bua cadendo dagli zoccoli a rotelle, a proteggerla quando aveva paura. Ad illuminarla con il suo sorriso. Bastava un suo sguardo per dare senso all’esistenza. Perché davanti agli occhi di sua madre Miris c’era. Esisteva ed era importante. Era durato troppo poco. – È stato dopo la pubertà che il potere si è davvero manifestato. All’inizio coglievo soltanto sprazzi di pensieri altrui, ma si sta facendo sempre più insistente. Non lo controllo, va e viene quando gli pare. Kay si grattò il mento. – Forse per il fatto che non lo hai mai usato davvero? La stessa cosa che le aveva detto Alaric. L’aveva tenuta sotto torchio per più di un’ora, facendosi spiegare ogni dettaglio di quel potere. – Non voglio usarlo! – Non hai scelta, mi pare. Miris avrebbe urlato. Si sentiva in trappola. Lo era. Soltanto che le sbarre si stringevano intorno a lei tanto da essersi fuse con la sua stessa pelle. La sua stessa mente era la prigione. Kay diede una spinta al droide Ripulitore che aspirava la stanza, ronzando e sbottando. La macchina continuò il suo lavoro con un colpetto di catarro meccanico. Lasciò una scia di ruggine sul pavimento, vanificando tutti i suoi
sforzi di pulizia, anche se non se ne rendeva conto. – A volte mi piacerebbe sapere cosa pensa la gente. Sarebbe divertente. – No, non è affatto divertente! – Miris incrociò le braccia – È… insomma, non so neppure descriverlo. Un disastro, ecco. Scopri segreti che non ti aspetteresti mai, per non parlare della gente che riflette sulla propria vita sessuale o sulle abitudini intestinali… e la cosa peggiore è quando pensano qualcosa su di te! Kay si staccò la parete e le si sedette accanto sul divanetto, ando un braccio dietro allo schienale. – Facciamo una prova. Dimmi cosa penso di te! Miris portò le mani in grembo. – Non funziona così, scemo. Devo stabilire un contatto con la persona di cui leggo la mente. – Tipo?–. – Di solito mi basta toccarla o guardarla negli occhi. Kay sembrava prenderlo come un gioco. Per Miris, che lo aveva sempre rifuggito come un pericolo, era una cosa nuova. Strana. – Va bene, guardami – il giovane si era chinato per avere il volto alla sua altezza. Miris non aveva mai visto i suoi occhi da vicino. Erano verdi, con una screziatura d’argento intorno alla pupilla. Dovette ammettere che erano belli. Il respiro di Kay era tiepido sul suo volto. Una parte di lei le suggeriva di allontanarsi da quel Reietto, l’altra parte la derideva. Chi voleva ingannare? Adesso erano nella stessa situazione. Stranamente, in quel momento la cosa non la preoccupava più di tanto. – Cosa penso di te? – sussurrò Kay. Miris si concentrò, scosse la testa. – Non lo so – e prima che il giovane potesse protestare aggiunse – Davvero, non
lo so proprio. Non sono mai riuscita a leggerti nel pensiero e non ci riesco neppure adesso. Sento soltanto il buio. Kay parve deluso. – Sul serio? Perché? – E cosa ne so? Magari sei troppo stupido anche per pensare qualcosa! – No, non credo – Kay continuava a fissarla, insistentemente – Ti assicuro che sto pensando. Miris cominciava a provare una punta di timore. Era troppo vicina a uno sconosciuto, tanto più che non riusciva a capire cosa gli asse per la testa. Suo malgrado, si era così abituata al suo potere che quel buio vuoto la lasciava stordita, accecata. Brancolante in una stanza in cui si era appena spenta la luce. Il respiro le accelerò in gola. – Perché non me lo dici e basta? Kay accennò un sorriso. – No – disse soltanto. Poi dalla parete emerse il Chimerico della terra. – Ahh! – Miris emise un grido e d’istinto si aggrappò a Kay, spaventata. Il giovane aveva già i muscoli tesi, pronti a scattare. Roland inarcò un sopracciglio. – Disturbo qualcosa? Miris si rese conto di trovarsi attaccata a Kay, a cavalcioni sulle sue gambe. Si alzò di scatto, rassettandosi la tunica. – Ma vuoi farci prendere un accidente? Perché non puoi usare la porta come tutte le persone normali? Il volto squadrato di Roland rimase imperscrutabile. Non rispondeva a domande
sciocche. – Alaric desidera la tua presenza. Miris lanciò un’occhiata a Kay, in cerca di sostegno. Non ne trovò. – Cosa vuole ancora da me? – Vai, affrettati – Roland la sovrastava di almeno tre spanne ed era più alto e più robusto di Kay. Una vera montagna. – Sono venuto io, altrimenti mandava Starr a prenderti. – E allora? Roland non perdeva la calma. – Ti consiglio di andare da lui con le tue gambe. E alla svelta! Qualcosa nel suo tono convinse Miris ad ascoltarlo. Annuì, uscì dalla stanza. Sulla soglia lanciò un’occhiata di sfuggita a Kay, che le fece un cenno di saluto. – Ciao. E cerca di non fare cose stupide. So che è difficile per te! Ogni simpatia che poteva aver provato per quel Reietto svanì di colpo. Miris gli fece una linguaccia. – Sei uno stupido idiota! E la risata divertita di Kay la seguì lungo il corridoio.
22
Quando Radamante fece il suo ingresso nel salone, i membri della sua Corporazione erano tutti al loro posto. Per una volta nella sua vita, aveva deliberatamente deciso di fare ritardo. – Visto che devo dare soddisfazione a quell’invasore – borbottava tra i denti – almeno mi farò aspettare! Non aveva scelta. Per continuare i suoi studi, aveva bisogno di essere vivo. E per essere vivo, doveva firmare quel maledetto trattato di pace. A Radamante non interessava la carica di Triumviro in sé. Era rimasto stupito quando era stato eletto, ma aveva sfruttato la nuova posizione per incrementare le ricerche sui fattori di regolazione genica e sul Vaccino. Non voleva che nessun altro fe la fine di sua moglie. Era diventata la missione della sua vita. E quella delle figlie. Ah, anche loro gli servivano vive, per continuare i suoi studi. La sua eredità. Sarebbero diventate delle Sacerdotesse brave come lui, non c’era dubbio. Proiezioni di se stesso. Radamante non aveva mai considerato altre ipotesi riguardo al loro futuro. Florenzia era già al suo posto. In piedi, al centro del salone, i piedi immersi in un tappeto rosso di licheni che pareva un frutto spiaccicato, la tunica purpurea stretta da una cintura d’oro in vita. Un diadema d’argento le cingeva la fronte. Si era truccata con pigmenti di muschio e il viso perfettamente liscio le dava un aspetto più giovanile. Si era davvero messa in ghingheri per quell’umiliazione! Radamante sapeva che, nonostante le apparenze, si trattava solo di quello: pubblica umiliazione.
I membri superstiti delle Corporazioni dei Sacerdoti e degli Ingegneri stavano di lato, su panche levitanti. La Corporazione dei Cacciatori non esisteva più, se non per uno sparuto drappello di tuniche verdi che quasi scomparivano in mezzo alle altre. Una ventina, non di più. Il loro esercito era stato spezzato e quegli uomini erano soltanto dei reduci confusi e affranti. Più indietro, ammassati per terra o lungo le pareti, c’erano i Lavoratori. Non mancava nessuno, perché l’alternativa era lavorare nei campi o nelle miniere. A tutti faceva comodo una giornata di semi-libertà. Alaric, affiancato dai disgustosi Chimerici del fuoco e del fulmine, sedeva su un trono improvvisato, costituito da uno sperone roccioso emerso dal terreno. Un gigante in procinto di liberarsi. Il Chimerico della terra aveva dato una ristrutturata alla sala. Radamante serrò i pugni, rabbioso. Quegli abomini erano soltanto l’orrido frutto di mutazioni del genoma umano. Degli ibridi. Il pensiero di condividere la stessa aria con loro lo disgustava. Perché la loro mutazione permetteva di vivere e quella di sua moglie l’aveva uccisa? Raggiunse Florenzia, che gli lanciò una breve occhiata. Quello che vide parve tranquillizzarla. La donna gli rivolse addirittura un sorriso. Radamante non capiva che motivo ci fosse di sorridere. Sperava soltanto che quella farsa finisse presto, così da tornare ai suoi esperimenti di laboratorio. Avrebbe preteso che almeno una delle figlie gli fosse restituita: il suo assistente era morto durante gli scontri. Ascoltò solo in parte i punti del trattato, che Alaric fece rileggere in presenza di tutti. Quando fu il momento, appose la sua firma con un gesto rigido. L’Autocrate annuì impercettibilmente, soddisfatto. Il Sacerdote gli augurò che i Raggi lo friggessero. Infine, l’ultimo atto di quella commedia di scherno. Insieme a Florenzia si inginocchiò davanti ad Alaric, dimostrando la sua supremazia. Bene, era finita. Ma sul punto di alzarsi vide una porta aprirsi al cenno dell’Autocrate.
Sua figlia minore! La guardò mentre faceva qualche o incerto nella stanza, provò una punta di sollievo. Aveva bisogno di qualcuno alla cappa delle colture cellulari al più presto. Poi corrugò la fronte. Miris non indossava la sua solita tunica da Sacerdotessa. Era bordata d’argento. Come quella dei Chimerici a fianco di Alaric… Radamante avrebbe urlato, se Florenzia non gli avesse prontamente rifilato un calcio sullo stinco. Miris teneva la testa bassa. Fino all’ultimo aveva pensato di tornare indietro, di fingere un malore improvviso. Il solito mal di testa che funzionava per tenere a freno Troy. Dubitava che per Alaric sarebbe bastato. Non aveva bisogno di leggergli nella mente per sapere che il telecinetico l’avrebbe trascinata a forza nel salone con il suo potere, se lei si fosse rifiutata di entrare. Perciò, con il cuore in subbuglio, si costrinse a varcare la soglia. Stupore. Si affrettò ad abbassare lo sguardo, mordendosi le labbra. Eppure non riuscì a trattenersi dal dare una sbirciata. Riconobbe alcuni compagni di studi tra i Sacerdoti e fu con enorme sollievo che tra di loro intravide anche il volto di Troy. Pallido, tirato, con un taglio che gli correva sopra il sopracciglio e una benda sul braccio, ma vivo. Non poté trattenersi dall’indirizzargli un timido sorriso, che il giovane ricambiò incerto. Poi abbassò lo sguardo sulle sue vesti. Un’idea di Alaric. Miris avrebbe preferito essere nuda. Anche suo padre la guardava. Emozioni si succedevano sul suo volto, mutevoli, mentre i suoi occhi si stringevano e la sua mascella si serrava. Aveva capito.
Miris avrebbe voluto spiegare, negare ancora tutto in un’ultima disperata finzione. Invece Alaric esibiva la sua vergogna davanti a tutti. La metteva in mostra. Miris aveva l’impressione di aver sempre svolto la parte del giocattolo carino da ostentare. Adesso aveva soltanto cambiato proprietario. Alaric si alzò, prendendo la parola. – Triumviri, vi ringrazio per la vostra manifestazione di lealtà. Adesso potete andare! Non era una richiesta, ma un ordine inappellabile. Due soldati si accostarono ai Triumviri, come scorta d’onore. Come carcerieri. Florenzia sorrise con grazia e accennò ancora una riverenza ad Alaric. Radamante continuava a guardare la figlia, traandola da parte a parte. Miris aprì la bocca per parlare. – Adesso – ripeté Alaric. Un soldato sfiorò il braccio di Radamante. Ultimo avvertimento. Senza una parola, il Sacerdote voltò le spalle alla figlia e uscì a o rigido dalla sala. Sorpresa. Delusione. Rabbia. Disprezzo. Miris inspirò a fondo per non soffocare. Alaric aveva ripreso a parlare e, su ordine dei soldati, i membri delle Corporazioni furono fatti alzare. Uno per volta, si avvicinavano a lei. La ragazza deglutì. Sai quello che devi fare! Alaric le pose una mano sulla spalla. Avanti, leggi nelle loro menti. Dimmi cosa stanno pensando. Dimmi chi di loro progetta di tradirmi. Miris resistette all’impulso di divincolarsi. Quel contatto la lasciava sporca, contaminata. – E tu cosa ne farai? – si costrinse a chiedere. Voleva sapere la vera risposta. Il
pensiero del Chimerico le giunse chiaro. Li convincerò a cambiare idea. Null’altro. Miris tese il braccio. Il primo candidato, un Cacciatore, fu fatto inginocchiare ai suoi piedi. La ragazza lo guardò negli occhi. Era sufficiente. – Allora? – Alaric si era accomodato di nuovo sul trono, a braccia conserte. Miris socchiuse le palpebre. – Lo pensa. L’Autocrate annuì, fece un cenno ai suoi soldati. – Di là. Fu il turno di un Ingegnere. Samuel Barni si inginocchiò in fretta, scocciato da quella perdita di tempo. Doveva tornare al suo lavoro. – Dunque? Miris accennò un sorriso. – Sta progettando una rete di rotaie per mettere in comunicazione i nostri due Alveari e rendere più facile il trasporto delle materie prime. Samuel sgranò gli occhi e fu condotto dalla parte opposta della sala, mentre Alaric gli rivolgeva un cenno di apprezzamento. La lista ancora era lunga. Il candidato successivo era un giovane Cacciatore che si inginocchiò con un sorriso e raggiunse quasi il suolo con il mento. Miris dovette allungare il braccio per toccarlo e sfiorare così i suoi pensieri. Se questa tunica fosse un po’ più corta vedrei meglio da qui sotto… La ragazza si imporporò e borbottò qualcosa di incomprensibile, assicurando poi che l’ultimo pensiero di quel tipo era creare problemi al nuovo Autocrate. Quando tra le file dei suoi oppositori ci furono una decina di persone, Alaric si alzò. Miris tirò un sospiro. Si sentiva stanca, non era abituata ad usare consciamente il proprio potere e le lasciava una patina nebbiosa nella testa.
Adesso avrebbe parlato un po’ Alaric per convincere gli oppositori a a are dalla sua parte. – Basta così, per il momento. Per chi ancora non lo avesse capito, questa Chimerica è in grado di leggere nella vostra mente. Nessuno può sfuggirle – sapeva benissimo che non era vero, si era informato a riguardo perché riteneva di dover conoscere ogni nuova arma prima di usarla, ma non era necessario che tutti ne fossero partecipi. Un potere misterioso era un potere più temuto. – Alla mia destra ci sono quelli che hanno osato anche solo pensare di opporsi a me. La loro punizione sia di monito per tutti. Miris diede la colpa alla stanchezza. Di certo aveva capito male. Alaric toccandola non aveva pensato a nessuna punizione… A un cenno dell’autocrate, i soldati impugnarono le pistole ad energia radiante. I laser saettarono, traando i crani degli oppositori con precisione letale. Un Cacciatore alzò la testa, il suo sguardo era pungente di accusa. Il raggio lo colpì in piena faccia e la fece esplodere in uno zampillo di sangue. Per un attimo il guerriero rimase immobile, con le braccia lungo i fianchi, il corpo decapitato rivolto verso la ragazza. Poi, lentamente, quasi con dolcezza, scivolò sul pavimento di roccia e metallo. Silenzio attonito nel salone. Miris urlò. – Perché l’hai fatto? – ansimò, quando riuscì a riprendere fiato – Avevi detto che li avresti soltanto convinti! L’ho letto nella tua mente! Alaric le rivolse un’occhiata indifferente. – Questo è il mio metodo di convincimento. Efficace, te lo assicuro! Miris non sapeva che altro dire. Era troppo sconvolta. Sentì le lacrime pungerle le ciglia, aguzze di amarezza. Era stata una sciocca, una superficiale, un’ingenua. E quella gente era morta per causa sua.
– Non leggerò più il pensiero per te – affermò, stringendo i pugni – Fammi quello che vuoi, ma non mi renderò più complice di un assassino. – Attenta, ragazza. Potrei prenderti in parola – Alaric scrollò le spalle. I membri delle Corporazioni e i Lavoratori erano ammutoliti ai suoi piedi. La scenata isterica di quella sciocca non lo toccava minimamente. – E allora da chi andresti a piangere? Da questi umani che hai appena tradito e che ti odierebbero comunque? Miris avrebbe voluto sprofondare nel pavimento. Alaric sorrise. – Se non vuoi servirmi in questo modo, ne troverò altri. Non c’era scampo.
23
Kay camminava lungo la città, con studiata calma. Sapeva di essere seguito. Represse l’impulso di togliere la pistola dalla fondina ascellare. Dubitava servisse. E in ogni caso, non poteva sforacchiare con il laser il suo nuovo compagno. Anche se era un compagno obbligato. A lui piaceva lavorare da solo. Si fermò e l’inseguitore si fermò a sua volta. Ripartì e l’inseguitore fu alle sue spalle. Kay lo sentiva anche se non poteva vederlo. – Esci fuori – lo pregò, con un sospiro – Mi innervosisci. Il Chimerico della terra emerse a pochi i da lui, senza far rumore. Bene, un punto a suo favore. Kay odiava i compagni rumorosi. Quindi lanciò un’occhiata stizzita alla signora che aveva lasciato cadere il cesto con le uova di iguana, spiaccicandole per terra, e si era schiacciata contro una parete fissando il Chimerico con puro terrore. – Frittata! – arricciò le labbra – Uova buone sprecate! – Da noi i Chimerici sono più numerosi. La nostra gente è abituata – Roland non si scompose. In realtà niente sembrava in grado di scomporlo. – O più rassegnata. – Forse. Kay sospirò. – Perché continui a seguirmi? Roland lo scrutava, pensoso.
– Secondo te? – Ma puoi rispondere ad una domanda o no? – Kay sospirò – Va bene, Aleric ti ha ordinato di controllarmi. – Visto che lo sapevi? – Roland parlava lentamente, con calma. I due si studiavano a vicenda. – Non si fida di me? – Non si fida di nessuno. Kay non poteva che dargli ragione. Era una scelta saggia. Visto che non poteva liberarsi del Chimerico, decise di ricavarne qualche informazione utile, sempre che si degnasse di rispondergli. – Governa Alpha5 da molto? Roland si limitò a fissarlo. Kay attese, il silenzio si prolungava tra di loro, profondo come gli abissi del mondo. Il giovane c’era abituato. Conviveva con il silenzio quando si muoveva nei cunicoli del Sottosuolo, quando si spingeva nei territori ostili della Superficie, persino quando nell’Alveare nessuno lo degnava di uno sguardo. Il silenzio gli piaceva. Troppo rumore assordava e impediva di ascoltare se stessi. Infine il Chimerico annuì, una volta. – Qualche anno. Kay sogghignò, esultante. – Allora rispondi. Ai tuoi tempi. – Diciamo che pochi hanno abbastanza pazienza per aspettare una risposta. La vogliono subito, senza faticare. Kay aveva la sensazione di essere stato messo alla prova. L’aveva superata? Il Chimerico gli fece cenno di seguirlo e insieme si arrampicarono sulle macerie di un magazzino. Il giovane fece vagare lo sguardo sulle mura crollate, sui tetti
stramazzati, sulle pareti squartate. – Ci vorrà tempo per ricostruire – Roland si sistemò a gambe incrociate – L’uomo in pochi attimi può danneggiare la terra quanto secoli di fenomeni naturali. Kay si accomodò a distanza di sicurezza. – Ci sono i terremoti, i cataclismi. Sono indipendenti dall’uomo, quelli! – Eppure non esitiamo a peggiorare le cose. Parlava al “noi”. Si considerava parte del genere umano o semplicemente affermava il potere distruttivo dei Chimerici? – Senti, secondo me l’uomo si sopravvaluta. Non può essere da solo la causa di questo macello! – Kay non sapeva bene a cosa si riferisse. Abbracciò con un ampio gesto se stesso, il Chimerico, l’Alveare, la Terra tormentata dai Raggi. Roland appoggiò il mento sulla mano. – In parte hai ragione. Ma c’è stato un tempo in cui il genere umano dominava la terra. Popolava la Superficie, costruiva grandi città, aveva armi che potevano disintegrare continenti e segnare la Terra per secoli. Era diventato un Dio che creava e distruggeva, ma non aveva coscienza di se stesso. Ha aggiunto molti tasselli al mosaico che rappresentava la fine del mondo. L’Apocalisse, la chiamavano. Noi siamo ciò che ne resta. I figli di un Armageddon che forse doveva verificarsi comunque. Forse no. Esistono molte forze nel cosmo e l’uomo può comprenderne ben poco. E se in ato poteva, persino il ricordo è andato perduto. Kay lo ascoltava, con stupore misto a interesse. Non aveva mai sentito nessuno parlare in quel modo, tanto meno con lui. Poiché non faceva parte delle Corporazioni, non aveva mai ricevuto un’istruzione. – Non parli come un guerriero. – E chi ti ha detto che lo sono? Buona domanda. Kay era perplesso. Da quello che aveva visto, i Chimerici
erano delle superbe macchine da guerra. Il loro potenziale mutante li trasformava in armi perfette. – Perché dovrei essere quello che la gente si aspetta da me? – Roland scosse la testa – Sono uno studioso, mi interesso del ato. È strano, lo so, in un mondo in cui bisogna lottare per sopravvivere giorno per giorno. Ma non si può costruire un futuro senza il ato. Ci hanno già provato. Hanno bruciato gli Dei antichi e i loro valori con la tecnologia del futuro e l’hanno chiamata Dio. Questo è il risultato. Bruciando le radici l’albero non può che apire. Kay corrugò la fronte. – Albero? – Una pianta, tipo i licheni. Ma si sviluppa verso l’alto – Roland pareva divertito – Mai visto uno? Prima la Terra ne era piena. – Mah, qualche pianta troppo cresciuta quando salgo in Superficie – Kay non credeva davvero che potesse vivere qualcosa di buono sotto i Raggi. – E tu? Roland ò lo sguardo sulle misere coltivazioni di funghi e licheni, pochi frutti di un suolo ostile. – No, ma mi piacerebbe pensare che un giorno i nostri discendenti potranno vederli di nuovo. Se c’è un modo per tornare al ato, è nascosto nel ato stesso. – Parli per enigmi – Kay cominciava a perdere il filo – Perché mi stai dicendo tutto questo? – Ti sto preparando. – A cosa? Roland si alzò, lentamente. Kay rimase ad osservarlo, imponente come una montagna. – Credo che dovremmo rientrare al palazzo di Alaric. Il giovane evitò di far notare che era stato costruito per i Triumviri. Era una
constatazione inutile. – Immagino che la zona fuori dall’Alveare sia off-limits per me. – Mi piace ragionare con le persone perspicaci – Roland annuì – Ho il compito di sorvegliare te e quella telepate. Lei è nella Corporazione dei Sacerdoti, lo sento. Fin quando resta in contatto con la roccia, so dove si trova. Non può sfuggirmi. Ragazzo, non credere che mi piaccia farvi da balia, ho altre cose a cui pensare, molti preparativi in corso… – Esegui sempre gli ordini di Alaric? – Quando abbiamo lo stesso scopo… – Roland abbassò la voce – Forse non condividiamo i mezzi, ma abbiamo lo stesso fine. Io e Alaric siamo sognatori. Ma un sogno non ha forza se non appartiene a più persone, se non viene condiviso. Kay pensava che i sogni fossero soltanto sogni. Cercare di renderli reali era come stringere un pugno di sabbia. Se si aveva fortuna, tra le dita rimaneva soltanto qualche granello di polvere. – Insomma, non ho possibilità che tu mi lasci libero. Posso dimenticarmi di avere un’intimità, giusto? – Sarò la tua ombra. Kay sorrise. Strano. Di solito era lui l’ombra. Roland si avviò verso il palazzo. – Ma non temere, sarà per un breve tempo. Alaric ha deciso. Tra poco partiamo. Chrisandra infilò l’ago nelle pelle e fece are il filo, aiutandosi con una pinza. Con un movimento preciso e fluido l’annodò. Era il decimo nodo, la ferita era profonda e slabbrata. Quella cucitura avrebbe accelerato il processo di guarigione, insieme ai fattori di crescita di cui era imbevuto il filo. Sperava fosse abbastanza. Le faceva uno strano effetto curare il fidanzato.
Theodor era avvolto da bende medicate, che lo coprivano come un sudario. Era stato investito da un’esplosione durante l’attacco, parte dell’edificio gli era franato addosso. La gamba e le coste fratturate erano tornate al loro posto, ma ancora l’uomo non aveva ripreso conoscenza. Chrisandra sperava che non ci fossero lesioni interne. Le sue condizioni per lo meno erano stabili e accennavano a migliorare. Il dermoximab, l’anticorpo monoclonale che stimolava le cellule a rigenerarsi, stava funzionando a meraviglia in combinazione con gli altri fattori di crescita. Chrisandra si sporse indietro per prendere le forbici e tagliare il filo. Le furono ate. – Grazie – mormorò, distrattamente, sistemando la cucitura. E fu colta da un attimo di dejavù. Aveva già vissuto quel momento, molte volte. Si girò. Conosceva la mano che era ancora tesa verso di lei. Miris, in piedi, se ne stava a testa bassa, sbirciando da sotto le ciglia. I capelli le ricadevano in parte sugli occhi. Pareva sul punto di dire qualcosa senza sapere come fare. Chrisandra non le venne in aiuto. Non lo sapeva neppure lei. – Ciao – Miris deglutì. La voce le tremava appena. – Come sta Theo? Chrisandra si lavò le mani nella bacinella, senza guardarla. Le strofinò e le asciugò su un telo, lentamente. – Meglio. Se la caverà. – E Troy? – Bene – una risposta secca, monosillabica. Miris parve rattrappirsi su se stessa. Non grazie a te! Già, lei era più brava a far morire la gente che a salvarla. Una pessima Sacerdotessa. Una pessima sorella. Una pessima figlia. – Hai… hai bisogno di una mano? – si sforzò di mostrare buona volontà – Magari posso aiutarti nella terapia del Loculo 31…
Chrisandra gettò il telo per terra, tra di loro. – Per quanto ancora hai intenzione di continuare come se niente fosse? – la apostrofò duramente – Per quanto ancora vuoi prendere tutti in giro? Nascondere quello che sei? Miris indietreggiò di un o, come se l’asciugamano l’avesse schiaffeggiata in piena faccia. In ogni caso si sentiva colpita. – Sono tua sorella, Chris. Sono sempre io! Chrisandra scosse la testa. – Mia sorella non avrebbe mai fatto morire quelle persone. I suoi compatrioti. Ma ti rendi conto di quello che hai fatto? – Che scelta avevo? – Miris allargò le braccia, impotente. Aveva già il peso di quelle vite sulla coscienza e le parole della sorella erano martelli che conficcavano quei chiodi più in profondità. – Mi aveva promesso di non far loro del male. – E tu gli hai creduto? – Una risata amara, più un singulto di disprezzo. – Ho sperato! – e non c’era speranza in quel mondo. Ma erano stati loro stessi a perderla. – E comunque mi avrebbe ucciso al loro posto. È questo che volevi, Chris? Volevi che fossi io a morire? Il fugace pensiero della sorella la raggelò. Sì! Miris chiuse gli occhi. Non avrebbe mai voluto vederlo, ma ormai era accaduto. Kay poteva pensare che fosse divertente sentire i pensieri della gente. Si sbagliava. Soprattutto quando si trattava dei pensieri delle persone a cui voleva bene. Afferrò un bisturi e fece un o verso la sorella. Chrisandra tentò di indietreggiare, sorpresa, ma Miris le infilò il bisturi tra le dita e si inginocchiò ai suoi piedi. Si allontanò una ciocca di capelli, lasciando scoperto il collo.
– Allora uccidimi – mormorò, lo sguardo fisso a terra – Io non ho il coraggio di farlo. Sono una vigliacca anche in questo. Chrisandra strinse il bisturi. – Cosa hai letto nella mia mente? – Lo sappiamo entrambe, perché devo ripeterlo? – Miris ingoiò le lacrime – Avanti, che aspetti? Anche Sirea in fondo era contenta di morire. Così è stata libera. Adesso capisco. E fa così male! Chrisandra la guardava dall’alto, immobile. – Perché non me l’hai mai detto? – Cosa? Che sono una Chimerica? – Miris emise una risata amara – Non vedi da sola la risposta? Mi chiedesti perché negli ultimi tempi fossi distratta, silenziosa, introversa… come facevo ad ammettere di fronte a te e a papà che sono proprio quello che voi disprezzate? – la risata divenne un singhiozzo – Volevo soltanto essere una buona figlia e una buona sorella. Ci ho provato, te lo giuro. Ma non dipende da me. È qualcosa stabilito quando sono stata concepita. Non hai idea di quanto ho avuto paura quando l’ho capito, e non avevo nessuno con cui parlarne. Quando ho capito che avevo perso il mio unico scopo e desiderio, che mi voleste bene per come sono! Stava alzando la voce, ma non le importava. Era stanca di nascondersi. – E comunque Alaric vi accontenterà – continuò, costringendosi a deglutire più volte per proseguire – Ero venuta a salutarti, Chris. L’ho sfidato, mi sono rifiutata di leggere per lui i pensieri dei membri del nostro Alveare. Non è stato contento. Mi ha fatto male. Solo allora Chrisandra il labbro gonfio, gli ematomi sul collo, il taglio sulla tempia. Si era curata, era chiaro, ma ancora rimanevano i segni della punizione. – Non mi ucciderà, dice che sono troppo preziosa. Mi lascerà morire. Ha detto che mi renderò utile in un altro modo, lontana da qui. Farò parte di una spedizione in Superficie. E… scusami, ma ci tenevo a vederti un’ultima volta. So che per te sarà una liberazione vedermi partire, ma mi mancherai, Chris. Mi mancheranno le nostre chiacchierate in camera quando papà pensava che
studiassimo. Mi mancheranno le storie che mi raccontavi per farmi addormentare, anche se dicevi che ero troppo grande per simili vizi, ma io guardandoti sapevo che non lo pensavi sul serio e comunque non ti importava… – la voce la tradì. Chinò la testa, augurandosi che la sorella desse un colpo preciso, chirurgico. Ne aveva la capacità. Morire là sarebbe stato più facile. Chrisandra sospirò. – Mancheranno anche a me – lasciò cadere il bisturi. Le sembrava di non avere la forza di sollevarlo. Si sentiva svuotata e soltanto un acuto senso di perdita le pulsava nell’abisso che si era scavato nel suo petto. – Sai quello che penso adesso? Miris scosse la testa. – Devo toccarti o guardarti per capirlo – E non voleva farlo. Chrisandra si abbassò, prendendo tra le mani il volto della sorella. Ti voglio bene! Miris spalancò gli occhi. – Perdonami, sorellina – Chrisandra la baciò sulla fronte – A volte il pensiero è impulsivo. Non basarti solo su quello che ti dice la mente. Aspetta di vedere cosa ne pensa il cuore. – Ci proverò! – Chrisandra, con chi stai parlando…? – Radamante si affacciò sulla soglia, nel suo solito giro mattutino per i Loculi, seguito da un codazzo di adepti dei tre livelli, che pendevano dalle sue labbra e appuntavano sulle tavolette ogni sua parola come se si trattasse di verbo divino. Si bloccò, il suo volto si tese. Miris si rialzò, asciugandosi gli occhi. Suo padre detestava vederla piangere, le lacrime erano da deboli. Adesso detestava vederla e basta.
– Sarei venuta a cercarti. Sono qui per salutarti, devo partire… Radamante la interruppe con un cenno brusco. – Non sei ben accetta in questa Corporazione, Chimerica! Miris si limitò ad annuire. L’aveva capito. – Padre, volevo solo… – Tu non sei mia figlia! – queste parole le rimbombarono nelle orecchie e nella mente. Non le fecero il male che avrebbe creduto. Erano vere. Almeno nel significato che Radamante dava al rapporto padre-figlia. – Non sono il tuo clone – precisò – Perché non lo accetti? – Io non posso aver dato vita ad un’aberrazione mutata. E adesso vattene! Miris rimase immobile, radicata al suolo. Una parte di lei sperava che Radamante ci ripensasse, persino che accoresse in suo soccorso e convincesse Alaric a non mandarla via. Ma quell’uomo era sempre stato un Sacerdote, un Triumviro, uno sperimentatore, prima che suo padre. Annuì. Non aveva altro da dire. Tutte le parole che potevano scambiarsi languivano nelle occasioni perdute e nei silenzi forzati di un rapporto già logorato da tempo. Si stava sfilacciando e ciononostante Miris si era rifiutata di lasciarlo andare. Quel momento era arrivato. Uscì dalla stanza. Radamante si spostò per farla are, come se fosse una malata contagiosa. Gli adepti si aprirono a ventaglio. Era già lungo il corridoio quando si sentì chiamare. – Miris – Chrisandra le stava sorridendo sulla soglia – Buona fortuna. Vedi di tornare, perché ti aspetto! Mi mancano le nostre chiacchierate. Miris sentiva l’affetto della sorella soprattutto nel cuore.
Parte seconda SUPERFICIE
24
C’era stato un tempo in cui i Raggi avevano creato la vita. Poi era venuto il momento di distruggerla. Miris aveva imparato queste nozioni a scuola. Mentre i suoi compagni avano il tempo a tirarsi palline di ragnatela o a scarabocchiare nella tavoletta del vicino, lei si sforzava di ascoltare la voce profonda del padre che spiegava la loro storia. Il poco di cui era rimasta memoria. I ricordi erano ombre troppo lunghe per il breve corpo mortale. Il Mietitore di Luce era un nemico astuto. In ato li aveva cullati con il suo calore. Era stato persino divinizzato. Il Sole. Poi era accaduto qualcosa. Tutto era cambiato. I Raggi erano più forti, le barriere protettive più deboli. La luce era diventata loro nemica. Per sopravvivere, gli umani erano dovuti scendere nelle tenebre del Sottosuolo. E adesso loro stavano risalendo in Superficie alla luce. Miris alzò la testa, osservando il Pozzo 24 che scompariva verso l’alto, un cilindro angusto di roccia e metallo. Dalle pareti sporgevano appigli di ferro rugginoso, che sembravano promettere malattia istantanea a chiunque li sfiorasse. L’umidità era palpabile. Roland annusò l’aria. – Siamo vicini ad una falda acquifera. – Acqua contaminata, temo – Kay storse il naso – Consiglio di non appoggiarvi alle pareti.
– Non c’è pericolo – Pyrgo teneva le braccia strette intorno al petto e agitava la testa come una preda che fiuta il cacciatore – Detesto l’acqua. Starr emise una risata sprezzante. – Smidollato. Cosa vuoi che faccia qualche goccia d’acqua? D’istinto Miris si appiattì dietro l’imponente figura di Roland, in cerca di protezione. Il Chimerico della terra le ispirava più fiducia dell’imprevedibile Starr. Quando il biondo la guardava, Miris non poteva far altro che rabbrividire. Ti detesto! Starr la odiava. La ragazza non sapeva il perché né, ci teneva a scoprirlo. Preferiva stare il più alla larga possibile da lui e dalle sue occhiate malevole. Non era facile, dato che erano costretti a viaggiare insieme. In realtà erano un gruppo ben nutrito. Oltre a Miris, Kay e ai tre Chimerici di Alpha5, li accompagnavano gli umani. Venti Cacciatori di Alpha5, armati fino ai denti con pistole a energia radiante, laser, fucili al plasma e spade folgoranti. Cinque Ingegneri, tra cui Samuel Barni, che per tutto il viaggio non aveva fatto altro che chiedere informazioni sulle armi elettriche, fino a quando un Cacciatore, esasperato, non gli aveva regalato la sua. Soddisfatto del suo trofeo, Samuel camminava gongolante in prima fila. Dovunque stessero andando, e Miris ancora non l’aveva capito, avrebbero incontrato degli ostacoli. Non potevano mancare quindi cinque Sacerdoti della sua Corporazione. Solo non si spiegava come mai fosse stato scelto anche Troy. Cioè, la motivazione era chiara: era un bravo guaritore e soprattutto il figlio di una Sacerdotessa influente che, a sentire le voci, non era favorevole ai piani di Alaric. Voci che Miris coglieva di sfuggita, dato che i Sacerdoti la evitavano, gli umani le stavano alla larga e i Chimerici la ignoravano. A parte Starr, che sembrava sempre sul punto di balzarle addosso e sbranarla. La ragazza si stava abituando ad ascoltare con la mente piuttosto che con le orecchie.
E poi c’era Kay. Kay la trattava semplicemente come una pari. Lo aveva sempre fatto. Era l’unico che non aveva cambiato atteggiamento nei suoi confronti, dopo la scoperta della sua vera natura. Insomma, era il solito odioso. Miris si ò la criocustodia di metallo sull’altra spalla. Era pesante. Al pari degli altri Sacerdoti, aveva portato con sé la borsa per conservare i medicinali e impedirne il deterioramento. Sperava che non ci fosse bisogno di usarli. A giudicare da come erano armati, non ci avrebbe scommesso un disco di rame. Indossavano tutti schermo-corazze in chitina rivestita di piombo e altri metalli schermanti. Avevano un casco da infilare all’aperto, per difendersi dalla radioattività di fondo, e gli occhiali scuri proteggevano la retina da qualunque bagliore dannoso. O almeno lo speravano. Kay si sistemò la fondina, con un gesto noncurante. – Un po’ di acqua radioattiva può lasciarci un ricordino che tra qualche anno ci mangerà da dentro – sbottò – O farci cadere i capelli – lanciò un’occhiata a Pyrgo e alla sua strana criniera arancione – Magari non è una cattiva idea… Il Chimerico del fuoco fece una smorfia. – Attento, ragazzo. Ti ha mai detto nessuno che non si scherza con il fuoco? Kay si limitò a sogghignare e cominciò a esplorare la parete, alla ricerca di un modo più rapido per salire. Il ferro dei pioli era corroso dall’umidità e rischiava di non sopportare il loro peso. Nonostante i guanti e la tuta protettiva, che aderiva al suo corpo come una seconda pelle, percepiva il freddo della roccia grumosa. Gli pareva di tastare una spugna lasciata troppo tempo al calore. Si sfarinava sotto le dita con riflessi scuri. Miris si avvicinò, mentre Samuel faceva luce. Il fascio emergeva dal casco, un terzo occhio al centro della fronte, che lo rendeva un ciclope.
– Cosa stai cercando? – Il pannello di controllo. – Controllo di cosa? – Eccolo – Kay incontrò una protuberanza liscia, perfettamente quadrata. Un pulsante. Quando si accese, Miris fece un salto indietro. – Un elevatore – Roland sembrava sapere tutto – Furono costruiti molti anni fa e ancora vengono sfruttati per salire in Superficie. – Non quanto vorrei – sbuffò Kay – Il loro funzionamento è difettoso. Nonostante siano protetti dai Raggi grazie ai metalli del terreno, si bloccano spesso. Questo sembra in buone condizioni, ma non mi sbilancio. Non mi sono mai spinto fino a qui. Marciavano ormai da sette Cicli, senza sosta. Man a mano che si allontanavano dall’Alveare, i cunicoli si erano fatti più stretti, umidi, malmessi. In parte erano franati e le macerie, reduci di terremoti e smottamenti, ostruivano il aggio, costringendo a scegliere strade alternative. Roland apriva il o, modellando la roccia e aprendo nuove vie, ma non potevano continuare per sempre. Di fronte a un enorme cumulo di macerie aveva scosso la testa. – Più avanti di qui non andiamo. Avete idea di cosa succede a una montagna, quando si scava troppo? Miris ricordava un incidente in miniera. Quando era bambina, gli Ingegneri avevano deciso di sfruttare al massimo un giacimento di piombo, scavando troppo e troppo a fondo. Era crollato tutto, seppellendo decine di Schiavi. A quel tempo la ragazza non se ne era preoccupata, c’erano altri Schiavi a sostituirli. Adesso aveva la spiacevole consapevolezza di potersi trovare al loro posto. E che pochi avrebbero pianto la sua morte. Avevano deviato dal percorso originario, fino a raggiungere il Pozzo. Starr aveva una specie di mappa, ma Roland si muoveva sicuro nel Sottosuolo come se non ne avesse bisogno. Era nel suo elemento.
– Questo elevatore funziona – affermò, avvicinandosi al pannello di controllo. Kay inarcò un sopracciglio. – Come lo sai? – L’ho studiato. Il giovane non poté trattenere uno sbuffo. – La teoria è diversa dalla pratica. Roland non si curò di ribattere. – Statemi vicini e non toccate le pareti, per quanto è possibile. Kay ha ragione, la falda è contaminata. Siamo in una zona vulcanica, la radioattività di fondo è elevata. Miris andò a sfiorare il Dosimetro che le pendeva dalla tuta. Era ingabbiato in una specie di tasca, all’altezza del seno. Lo percepiva chiaramente, un secondo cuore che misurava la dose di radiazioni ricevuta. Una semplice scatoletta nera che poteva segnare una condanna a morte. Alaric aveva insistito per fornirlo a tutti i membri della squadra. Non era preoccupazione per la loro incolumità. Se fossero tornati, e i pensieri di Alaric alternavano speranza e sconforto in proposito in modo per nulla incoraggiante, sarebbe sorto il problema della contaminazione. Una quarantena poteva bastare, per evitare esposizione radioattiva agli altri abitanti dell’Alveare, in attesa che le radiazioni li fero morire. O una terminazione, più veloce e sicura. Miris non aveva dubbi su quale delle due alternative Alaric avrebbe scelto. Una telepate era utile, le aveva ripetuto, ma soltanto fin quando obbediva ai suoi ordini. La ragazza si schiarì la voce. – Ma i Raggi non vengono dal cielo? Roland studiava il pannello di controllo. Nessuno la guardava negli occhi,
nessuno voleva svelare i propri pensieri. – Anche la Terra produce Raggi. Si parla di isotopi radioattivi. Solitamente si trovano nelle regioni più profonde del pianeta, nel nucleo e nel mantello. Quel “solitamente” non prometteva nulla di buono. – Risalgono in Superficie per i fenomeni vulcanici – aggiunse Roland. Samuel Barni era eccitato e per poco non urtò la ragazza per avvicinarsi al pannello di controllo. Non aveva segreti, lui. Miris percepì euforia mista a curiosità. Con questo Chimerico individuare i giacimenti è una eggiata… – Sì, sì, i composti con Z elevato… tu sai dove si trovano, quindi? – So dove la terra apre le sue ferite – fu la laconica risposta – Sono zone pericolose. – Dai, fammi dare un’occhiata! Miris non riusciva a capire se l’Ingegnere non avesse paura dei Chimerici, o semplicemente fosse troppo distratto per pensarci. – Magari sei bravo a scavare tunnel, ma lascia a me i dettagli tecnici – Samuel quasi saltò sui piedi di Roland – Devo azionare il dispositivo di conduzione dell’energia radiante. L’elevatore è collegato a un pannello in Superficie, ma potrebbero esserci disturbi al condensatore, nonché una perdita radioattiva… Miris lanciò un’occhiata carica di rimpianto ai pioli punteggiati di ruggine. Starr cominciava a dare chiari segni di impazienza. Prese a muoversi avanti e indietro, mentre l’elettricità sfrigolava nei suoi capelli. – Insomma, umano, datti una mossa! – ringhiò – Sono stufo di aspettare! A differenza di Roland e di Pyrgo, Starr ostentava il suo potere e più volte Miris era stata svegliata dai fulmini evocati dal Chimerico. Li scagliava contro le pietre, con rabbia, in un atempo feroce. La ragazza rimaneva sveglia ad ascoltare i suoi pensieri che erano tinti di rosso e di nero.
– Un momento, un momento – Samuel fece un gesto stizzito – Sapete che, se sbaglio tasto questo affare potrebbe esplodere? Un attimo di silenzio. Ora lo sapevano. – Fai pure con calma – gli assicurò Kay, mentre per sicurezza compiva un o indietro, come tutti a parte Starr, che continuò a borbottare furioso. Miris osservò le dita storte e sgraziate dell’Ingegnere che scivolavano sul pannello luminoso, pezzi su una scacchiera che poteva dar loro scacco matto alla prima mossa. E la loro missione sarebbe finita ancor prima di cominciare. Un bip. Una spia luminosa si accese. Fiato sospeso. Verde. La porta metallica dell’elevatore scivolò di lato, rivelando una fauce irta di lamiera e polvere. Un abisso pronto a ingoiarli. – Fatto – Samuel Barni schioccò la lingua, soddisfatto. Non fece caso ai sospiri di sollievo alle sue spalle. Anzi, si stupì che dietro di lui si fosse creato il vuoto. – Ehi, dove siete andati tutti? Volete giocare a nascondervi? Pensavo aveste fretta. Starr emise una risata sprezzante. – Branco di codardi! – ed entrò per primo nella scatola metallica che doveva farli salire all’inferno. I poli si erano invertiti, l’inferno era in alto invece che in basso. E il paradiso, se mai era esistito, era perduto. L’elevatore era grande, ma non abbastanza per contenerli tutti. – Inutile gravarlo con un peso eccessivo – considerò Kay, anche se Samuel si era immerso in una serie di calcoli per stabilire con precisione quanti di loro l’elevatore potesse portare in base a peso, dimensioni, energia cinetica antigravitazionale… e una serie di altre parole complesse che il giovane ignorò. Si divisero in due gruppi. Il primo con i Chimerici, Kay, i Cacciatori e Samuel, nel caso in cui ci fosse qualche pericolo in Superficie. Erano di certo i più adatti ad affrontarlo. Miris rimase con gli Ingegneri e i Sacerdoti, fissando le fauci di
metallo che si richiudevano sul proprio bottino. Un debole fischio, un singulto come se li avesse deglutiti. Stavano salendo. Gli Ingegneri erano ammassati intorno al pannello e si scambiavano opinioni e commenti sul suo funzionamento. Parevano tanti giovani studenti appena usciti da scuola, che cercavano di applicare quanto sentito a lezione. Miris si augurava che avessero imparato bene. I Sacerdoti erano qualche o più indietro e la ragazza percepiva il loro sconcerto, la paura di trovarsi fuori dall’Alveare, in un ambiente sconosciuto, in compagnia di soldati nemici e di Chimerici. In sua compagnia. Li conosceva tutti, per nome. Furio aveva seguito con lei i corsi di genetica molecolare, Ivaldo quelli di primo soccorso ortopedico. Morgante aveva una figlia di qualche anno più piccola di lei. Juliena era una donna anziana per i canoni dell’Alveare e camminava curva sotto il peso della criocustodia, dando l’impressione di crollare a terra da un momento all’altro. E poi c’era Troy. Miris non sapeva come comportarsi con lui e il giovane, da parte sua, le stava a debita distanza. Tuttavia più volte, nel corso del viaggio, la ragazza aveva percepito addosso il suo sguardo. Come in quel momento. E la cosa più ridicola era che, per legge, erano ancora fidanzati. Il tempo ava. Miris abbassò gli occhi sull’orologio schermato. La lancetta girava, con una lentezza esasperante, solcando il cerchio diviso in venticinque aree, le ore di ogni Ciclo. Era tarato sul ritmo biologico dell’organismo umano. Era incredibile come riuscisse a mantenersi intatto, dopo millenni di evoluzione e anni trascorsi sottoterra, evitando ogni relazione con il Mietitore di Luce. Un’altra cosa che non cambiava mai, si disse Miris, era il timore dell’attesa.
Se avesse avuto la certezza che l’elevatore era rotto, che stava per esplodere, che un Ragno li avrebbe attaccati, paradossalmente si sarebbe sentita più tranquilla. Invece era là, in piedi, con le mani in mano, senza altro da fare che guardare quella parete scura e silenziosa, parca di segreti. Gli altri erano già arrivati? Erano in salvo? Stavano combattendo? Li avevano lasciati là, proseguendo da soli? Senza mappa, Miris dubitava di riuscire a tornare a casa. Senza guerrieri a difenderli, qualsiasi serpente delle rocce li avrebbe divorati in un attimo. I Chimerici di Alaric lo sapevano. Non avevano bisogno di controllarli. Erano comunque prigionieri. I Chimerici erano la loro sola speranza di sopravvivere. Le porte dell’elevatore si spalancarono con uno sfiato pneumatico, interrompendo la perfetta casualità della roccia circostante. Miris suo malgrado fece un balzo indietro. Con la coda dell’occhio vide che anche Troy aveva avuto una reazione simile. Le venne da sorridere. Allora non era la più paurosa del gruppo! Un giovane Ingegnere, Miris l’aveva sentito chiamare Tony, fece cenno di entrare. – Avanti, sbrighiamoci. Gli altri ci stanno aspettando. Non piaceva a nessuno l’idea di rimanere lì. Ma piaceva ancor meno infilarsi in un affare di metallo vecchio di decenni e salire ad affrontare le insidie della Superficie. I Chimerici non avrebbero accettato defezioni. Con un sospiro, Miris varcò la bocca di metallo. All’interno una strisciolina flebile venava il perimetro dell’elevatore. Un quadrato di un bianco smorto che lasciava ammiccare le pareti. Il metallo luccicava, osservando malevolo i nuovi visitatori. Quante persone erano entrate là dentro negli anni? E, soprattutto, quante ne erano uscite sane e salve? Il pavimento era cosparso di polvere e delle impronte dei loro compagni. Miris si
sistemò in un angolo. Il fischio del metallo che scorreva sulla roccia era lo strido di un mostro che si risvegliava. Con una vibrazione, le porte si chio e l’elevatore cominciò a salire. Miris sentì un sussulto alla bocca dello stomaco. Deglutì, lottando per ricacciare in basso quel peso che le pizzicava nel petto. Era una sensazione strana, ma non ebbe il tempo di abituarsi. Si interruppe bruscamente. Un ronzio di protesta, un sobbalzo. L’elevatore si bloccò. E le luci si spensero di colpo, facendo piombare la cabina nel buio. Miris avrebbe urlato, se non le fosse mancata la voce. Si aspettava urla di isteria, invece un silenzio attonito avvolse quello spazio ristretto. Il respiro si condensava in gocce di un timore muto. Che sta succedendo? Siamo bloccati? Adesso che facciamo? Miris provò a chiudere gli occhi, ma non cambiò nulla. Il buio amplificava le sue percezioni. Lo sfrigolio di qualche torcia falciò la cabina, con il solo risultato di abbagliare. Le pareti lo respingevano con derisione. Erano lucide, lisce, senza un’apertura e nemmeno un’asperità a cui aggrapparsi. La porta era chiusa. Serrata. – Ingegneri, fate qualcosa! – imprecò un Sacerdote, Morgante. Si guadagnò uno smanettare concitato. – Siamo bloccati! – Questo lo vedo anch’io, bella scoperta! – E allora fa’ qualcosa tu, visto che sei così intelligente!
I toni si stavano alzando. – Di certo più di voi, che ci avete fatto salire in questo affare e poi non sapete come funziona! Paura. Tensione. Sfogo. Miris si massaggiò la tempia. Quei pensieri le facevano male. – Basta – sbottò, le mani puntate sui fianchi – Credete che darci la colpa l’un l’altro risolva qualcosa? Siamo tutti bloccati qui, questa è la realtà. Vediamo di affrontarla. Ingegneri? – si rivolse a Tony, sperando che ci capisse qualcosa, con il tono di un’adepta di terzo livello che convince il malato a prendere la medicina amara – Diagnosi del problema? L’Ingegnere si grattò la barba biondiccia. – Un calo di energia. Secondo i nostri orologi, è l’ora del Sonno. Fuori è notte e l’energia radiante che raggiunge i pannelli è ridotta. Il Mietitore dispensava energia e morte di pari o. Miris sospirò. – D’accordo, niente di grave quindi. Basterà aspettare. Più facile a dirsi che a farsi. Un Sacerdote, Furio, tossicchiò. – Fino a quando? Domanda interessante. Miris guardò l’Ingegnere. Lo guardavano tutti. Sconforto. – Non lo so – ammise – Minuti? Ore? Quell’uomo stava pensando che potevano rimanere bloccati là dentro fino all’alba. Sempre che l’aria non finisse prima. Un sacco di persone agitate in uno spazio così angusto consumavano ossigeno a velocità vertiginosa. Miris maledisse di nuovo il proprio potere. Era meglio non sapere. – Bene, allora non ci resta altro che aspettare – si costrinse a dire, con calma forzata – Non dimentichiamoci che i nostri compagni sono già lassù, con
Samuel. Hanno fretta e troveranno un modo per far ripartire questo trabiccolo. – O ci lasceranno qui – mormorò Troy, con un sospiro. – Non lo faranno – lo corresse Miris – Hanno bisogno delle nostre conoscenze, altrimenti non ci avrebbero portato con sè. – E se fosse soltanto una trappola per attirarci fino a qui e lasciarci morire? – obiettò Juliena – Siamo soltanto una seccatura per Alaric. Hanno diviso loro i gruppi. Forse era già tutto deciso. In fondo, cosa possiamo aspettarci dai Chimerici? Ci odiano! – Io non vi odio – Miris prese un sospiro. I timori e i dubbi di quella gente le ronzavano in testa. Invece di scacciarli come faceva sempre, li accolse, li accarezzò, cercò di colorarli. Erano gocce nere che affogavano se stesse. Le immaginò più chiare, azzurre, tranquille. Il mormorio nell’elevatore si affievolì. – Restiamo calmi – riprese la ragazza, scandendo bene ogni parola. Nella penombra vedeva il vortice di pensieri rallentare. – Agitarci e litigare tra noi non serve a niente. Aspettiamo e abbiamo fiducia. Che ci piaccia o no, siamo compagni in un ambiente ostile e l’unico modo per sopravvivere è aiutarci a vicenda. Collaborazione. Gli altri ci tireranno fuori, vedrete! Un ultimo tocco di colore. Il vortice si era trasformato in un mare solcato da leggere onde. – Spegnete le luci, ne terremo solo una – ordinò Tony – Inutile consumare le altre. Fa già abbastanza caldo qui! Era vero, l’aria era pesante. Miris cambiò posizione. Dopo la marcia forzata le gambe le dolevano, ma non aveva alcuna intenzione di appoggiarsi al metallo che, per quello che ne sapeva, poteva essere radioattivo. Troy fece un o. Un altro. Poi prese coraggio e le si accostò. Miris si affrettò a fissare la parete opposta, per rispetto. – È opera tua? – sussurrò, a voce bassa. La ragazza sentiva il suo respiro nell’orecchio.
– Cosa? Troy corrugò la fronte. – Questa… questa calma… una quiete che culla… – scosse la testa, confuso. La ragazza lo era quanto lui. – Non lo so – ammise. Era la prima volta che si parlavano dopo l’attacco. Miris voleva evitare altre sfuriate come quella di suo padre. Si aspettava che da un momento all’altro Troy si allontanasse, sprezzante. Impresa difficile, in realtà, visto che erano tutti chiusi là dentro. – Quando l’ho saputo non volevo crederci… – il giovane sembrava in difficoltà – Davvero, è un’idiozia. Insomma, ti conosco da sempre… Miris dubitava che la conoscesse realmente. Faticava lei a conoscere se stessa. – Non volevo ingannarti. Solo che… – si interruppe, incapace di proseguire. Troy prese fiato. – Avrei dovuto parlarti prima, mi dispiace, in fondo sono il tuo fidanzato… e di questo dobbiamo discutere… Miris annuì. – Capisco. Tranquillo, credo che ci sia un modo per risolvere il problema. Anche se abbiamo firmato, puoi recidere il contratto… Troy sbatté le palpebre. Pareva sorpreso. – Ma non voglio reciderlo! – … c’era una clausola nella parte finale… – Miris si interruppe, convinta di aver capito male – Come, scusa? – Ho detto che voglio essere il tuo fidanzato. E adesso perdonami, ma c’è qualcosa che abbiamo lasciato in sospeso quella notte. Quando Troy si chinò a baciarla, Miris non poté fare a meno di dare una sbirciata nei suoi pensieri.
…il potere di questa ragazza è meraviglioso… Le bastò. Non si ritrasse neppure quando l’elevatore, con un sussulto, riprese la sua salita.
25
Starr era furibondo. Quegli inutili umani gli stavano facendo perdere tempo. Si ò le mani sulla tuta, generando elettricità, una corrente fluida che gli scorreva lungo il corpo e si scaricava a terra. – Muoviti, Ingegnere da strapazzo! Samuel Barni aveva un certo orgoglio. Lo infastidiva chi criticava il suo lavoro, soprattutto quando non faceva nulla per aiutare e si comportava come un parafulmini ambulante. Ma fu abbastanza arguto da tenere per sé questa considerazione. – Un po’ di pazienza, biondino, faccio quello che posso. – Allora sei più inutile di un escremento! – Gli escrementi servono per concimare – protestò Samuel, pratico – Mai stato in una coltivazione di funghi? Beh, neanch’io a dire il vero, ma ne ho curato i progetti quindi, teoricamente, ci sono stato. La scarica che colpì il terreno ai suoi piedi lo fece ammutolire. – Starr, per favore – Pyrgo si mise in mezzo – Così non sei d’aiuto. È già abbastanza penoso stare qui ad aspettare, senza che tu ti comporti come una donnicciola in pieno periodo-no del mese. Il Chimerico del fulmine fece una smorfia. – Sto solo convincendo l’Ingegnere a sbrigarsi! – Non mi sembra che fulminarlo sia il metodo più adeguato. – È colpa di questi pannelli – Samuel stava armeggiando con un dispositivo di immagazzinamento dell’energia – Si è danneggiato il fusibile di commutazione. Il condensatore è isolato.
– Parlando in lingua comprensibile? – Kay, accovacciato a poca distanza, teneva d’occhio la zona. I Cacciatori si erano disposti a quadrato intorno a loro e illuminavano l’ambiente circostante con le torce. Un vapore malsano vorticava nel cielo, la pioggia aveva già bagnato le loro tute. Un nevischio rossiccio che pareva sapone grattugiato. Umido, si scioglieva come schiuma. – Di notte il pannello non fornisce abbastanza energia per l’elevatore. Dato che l’impianto di immagazzinamento non comunica con il resto del circuito, non ce ne è abbastanza per il secondo trasporto. – Insomma, l’energia per sollevare il trabiccolo c’è, ma non possiamo utilizzarla. Giusto? – Più o meno – Samuel storse il naso. Non erano i termini precisi, ma da un profano poteva tollerarli. Pyrgo incrociò le braccia. – Lo sapevo, dovevamo andare a piedi! – Era una bella salita. – Prendetevela con Roland! – Starr stava davvero impazzendo per quell’immobilità forzata – Allora, signor “So-tutto-io”? Funzionava, vero? Una meraviglia! Roland si inginocchiò accanto a Samuel. – Credi di poterlo riparare? – Ho l’attrezzatura per riparare qualsiasi cosa – l’Ingegnere diede un colpetto alla fida schermo-custodia che gravava sulle sue spalle, così piena che aveva dovuto saltarci sopra per chiuderla prima di partire. C’era da spaventarsi al pensiero di aprirla. – Ma ci vuole del tempo. – E non possiamo farci trovare dal Mietitore allo scoperto – concluse Kay, mentre Starr si esibiva in una serie di improperi frizzanti. – Ehi, Starr! – Per te “signor Starr”, pezzente! Altrimenti ti fulmino!
Kay sorrise. Era proprio quello che voleva. – Ti va di scaricare un po’ di energia su questi maledetti pannelli? Le porte dell’elevatore si aprirono sulla notte rosata di un mondo che non aveva mai visto. Miris si teneva stretta a Troy. Un attimo prima non vedeva l’ora di uscire e adesso era terrorizzata al pensiero di lasciare quell’odioso ventre di metallo, che comunque la proteggeva da ciò che l’attendeva all’esterno. L’ignoto. Uno ad uno, Sacerdoti e Ingegneri sgusciarono all’esterno. Troy le diede una spintarella d’incoraggiamento. O di fretta. Le porte potevano richiudersi da un momento all’altro. Miris si affrettò fuori, sobbalzando al brusio d’addio dell’elevatore, che si immerse nuovamente nella roccia, fin quando non rimase che un solco sottile, troppo regolare per essere opera della natura. Senza sapere dove cercare, sarebbe ato inosservato. Erano fuori. Starr, i capelli elettrizzati e il respiro affannoso, non mancò di apostrofarli con sdegno. – Finalmente! Miris si rifiutò di rispondere. ò lo sguardo dai Chimerici a Kay, accoccolato poco lontano con la pistola in pugno. La sua espressione era indecifrabile. La ragazza provò uno strano imbarazzo e si staccò da Troy. Non era né il momento né il luogo per dare spettacolo. Kay tornò a scrutare nella notte ingravidata dalle nubi e dai vapori. – Via libera – annunciò – Muoviamoci! Era quasi l’alba quando raggiunsero un Pozzo e si fermarono in cerca di riparo. Miris indugiò all’esterno, incuriosita e spaventata da un mondo così diverso da quello a cui era abituata.
Non c’era soffitto a proteggerle la testa. Nessuna solida parete a limitare il suo orizzonte e renderlo a misura d’uomo. Solo un cielo immenso e informe che la osservava dall’alto, piangendo lacrime acide. La faceva sentire piccola e spaesata. Insignificante. I vapori andavano scemando, mentre la luminosità si faceva più nitida e intensa. Striature malsane allacciavano una lunga striscia di nubi dalle forme bizzarre, animali che sfilavano in una erella troppo alta. In basso i profili scuri delle colline erano muti giganti d’ombra, in agguato. In lontananza si innalzava la bocca frastagliata di una catena montuosa, le gole emanavano vapore e le pendici erano scivoli di ceneri che si perdevano nella foschia. C’era un odore strano. Era diverso dal freddo stantio del Sottosuolo, in cui l’aria era sempre ferma, immobile, conosciuta. Anche l’aria era ignota in Superficie, si agitava spazzata dal vento che imperversava, gettando di traverso le ultime gocce di pioggia. Attraverso il casco Miris si sentiva pungere le narici, ogni respiro si condensava in bolle vischiose davanti al volto. A oriente si distingueva una massa di strane formazioni rocciose e sabbia nera, residuo di un’antica attività vulcanica. A sud tutto era arido, una steppa desolata spruzzata di carcasse di edifici dai vetri infranti. Coglievano i bagliori del cielo e li rimandavano indietro in un disperato messaggio di aiuto. A nord una gola si insinuava in una grossa crepa del terreno, asciutta. In ato era stato un fiume e adesso era solo una delle tante ferite della Terra. Grumi scuri di un colore amorfo vaiolavano la roccia. Forme di vita che si aggrappavano al terreno, adattandosi al nuovo ambiente. Adattarsi o morire. Miris sentì qualcuno alle sue spalle. – Vieni dentro – Kay le diede un colpetto sul piede. Era qualche gradino sotto di lei. – Non credo che le nostre tute siano in grado di proteggerci da un’esposizione diretta ai Raggi. Miris annuì. Il dosimetro nella tasca era pesante come un macigno.
Roland li aspettava poco più in basso. – La mutazione ha reso i nostri corpi più adatti alla sopravvivenza su questo mondo, ma c’è un limite – si sfilò il casco, andosi una mano tra i capelli brizzolati. La ragazza si chiese quanti anni avesse. I Chimerici invecchiavano come gli umani? Quanto potevano vivere? – E non chiedetemi quale. Non ci tengo a scoprirlo. – Nessuno di noi ci tiene – Kay teneva il casco alla cintura. Miris si tolse gli occhiali protettivi, sbattendo le palpebre. Non era ancora abituata a vedere il mondo attraverso quelle lenti verdastre. – Ma piove sempre quassù? – Solo quando i Raggi non bruciano anche le nuvole – Roland spiegò con calma – Di giorno si abbattono sul suolo, incenerendo ogni forma di vita. Di notte l’umidità si condensa nelle nubi e ridiscende in forma di precipitazione. Non ci sono più barriere a fermarli. Miris fece attenzione ai gradini. Erano rovinati, scivolosi. Quel Pozzo non veniva usato da tempo. – Esistevano delle barriere? – Sì, molto tempo fa. L’atmosfera e un campo elettromagnetico circondavano il nostro pianeta. Miris si immaginò un grosso uovo di rettile, con una scorza protettiva e con dentro un tuorlo colorato. Lo vide frantumarsi. No, non era una visione piacevole. – E che fine hanno fatto? – Scomparsi. Ho condotto qualche studio in proposito – Roland incurvò le labbra in un sorriso – Non venirmi a dire anche tu che un Chimerico non studia, ma combatte e basta! – Non ho detto proprio così – protestò Kay, ma si guadagnò un colpetto in testa dallo stivale di Miris.
– Zitto, non interromperlo! Roland proseguì, rallentando la discesa nel Pozzo per raccogliere le idee. – Il nucleo era composto di materiali ferromagnetici in movimento, la loro rotazione continua creava un campo magnetico, una gabbia di protezione della Terra. In questo modo tutte le particelle cariche provenienti dallo spazio venivano deviate. Al resto pensava l’atmosfera, in particolare uno strato di… – una ruga gli increspò la fronte – ozono, mi pare. Un composto dell’ossigeno. Non so dirti perché sia scomparso, se c’entri una modificazione del nucleo terrestre, un aumento di energia dei Raggi cosmici o se l’uomo abbia responsabilità. Di sicuro non ha aiutato. Ma è troppo tardi per distribuire colpe a destra o a manca, non trovate? Però dare la colpa a qualcuno era più facile. Miris sospirò. – Le cose brutte accadono e non possiamo fare nulla per evitarle. Roland la fissò per un attimo. Diede voce al suo pensiero. – Non possiamo cambiare il ato, però possiamo imparare dai nostri vecchi errori. – O continuare a commetterli – Kay scrollò le spalle – Va bene, quale reliquia del ato stiamo cercando? La domanda a bruciapelo colse tutti impreparati. Per poco Miris non mise un piede in fallo. Roland si bloccò. – Ti ho già detto che sei perspicace, vero? – Su, andiamo! – il giovane avrebbe allargato le braccia, se così facendo non avesse rischiato di precipitare nel Pozzo – Hai idea di cosa ci aspetta là fuori? Abbiamo visto solo un assaggio della Superficie. Di notte cade pioggia acida, di giorno i Raggi friggono le nostre cellule. A ovest e a sud è tutto deserto e sassi. Nient’altro che terreno aperto, arido e secco. Pensi di poterlo percorrere tranquillamente? Il guaio è che non faremmo neppure un miglio senza imbatterci nelle cose che vivono sotto la roccia. Non le vedi, ma loro ci sentono. Ce ne sono a decine, di ogni forma e dimensione, la maggior parte con veleno che uccide all’istante o ti lascia paralizzato ad aspettare che i Raggi del giorno
finiscano il lavoro. Il suo volto si era adombrato, strinse gli occhi. – Il nord e l’ovest non sono diversi. Roccia, gas, radiazioni. E piante mutate che formano prati impenetrabili. Una volta lasciati i Pozzi, non avremo un attimo di tregua. i per me e Miris, siamo solo pedine, come gli altri umani, ma Alaric non avrebbe mai mandato i suoi Chimerici migliori allo sbaraglio senza un motivo ben preciso. Siamo una spedizione di ricerca. E adesso ti domando: cosa stiamo cercando? Roland non si affannò a negare. – Qualcosa di importante. – Vale le nostre vite? Il Chimerico della Terra accentuò i solchi sulla sua faccia rugosa. – Hai presente tutti i pericoli che hai appena nominato? Bene, dove dobbiamo andare noi ce ne sono di peggiori. Kay alzò la testa, con un sospiro. – Credi che dovrei sentirmi meglio? – Mi sembri un tipo pratico e realista. Almeno sarai preparato. Miris li ascoltava con timore crescente. Sapeva fin dall’inizio che non sarebbe stata una eggiata, ma sentirselo dire in modo così crudo… Kay le lanciò uno sguardo. – Va bene, siamo preparati – disse, a beneficio della ragazza, nel maldestro tentativo di rassicurarla – Ce la caveremo. Non è vero? Miris tirò profondo respiro. – Ho paura – ammise, suo malgrado. Kay rise, ma non la stava prendendo in giro.
– Tranquilla, baderò io a te. E se c’è un modo per tirarci fuori d’impaccio, lo troverò – le strizzò l’occhio, prima di abbassare la testa verso il Chimerico. – Viaggeremo di notte, ci ripareremo durante le ore di luce. Dov’è che dobbiamo andare? Roland non esitò. – Là – indicò, perché per la Terra non avevano senso il nord o il sud. Il Chimerico sapeva la direzione da prendere senza bisogno della mappa. – E comunque c’è un solo modo per sopravvivere: essere più cattivi e più forti di quello che ci si parerà davanti. Sfruttate i vostri poteri, perché sono la carta in più che la natura, volenti o nolenti, ci ha dato. Kay accennò un sogghigno. – Forti e cattivi. Mi piace. Ma ancora non hai detto dove diamine dobbiamo cercare questa reliquia. Un deserto pieno di serpenti della sabbia? Una gola di cactus velenosi? Miris, guardando gli occhi grigi del Chimerico, lo seppe prima che lo pronunciasse. – In una città.
26
Quel giorno rimasero nel Pozzo, seguendo i consigli di Kay e sopportando da una parte Samuel, che progettava un nuovo elevatore multifunzionale e un disco scorrevole che unisse i vari Alveari, dall’altra Starr, che era preda di un’irrequietezza feroce. Miris aveva sonno, ma non riusciva a dormire. Ogni volta che chiudeva gli occhi, le pareva che fulmini crepitassero nella sua testa e si risollevava con un sobbalzo. Non era abituata a dormire sul nudo terreno e per di più con quel caldo. Fuori il Mietitore si alzava all’orizzonte, implacabile. Soltanto qualche strato di roccia la separava dalla sua luce. Miris si rannicchiò su se stessa. Si sentiva scoperta, esposta. Abituata ad avere tonnellate di pietra sopra la testa, si trovava di colpo più leggera e non sapeva come regolarsi. Come un astronauta sulla luna che fa un o e si trova a volteggiare in aria. – Dovresti riposare – Kay affilava una lama, seduto a gambe incrociate. Miris sbuffò, sollevandosi sui gomiti. Gli altri dormivano. Roland era sparito in qualche cunicolo insieme a Pyrgo, a discorrere in privato della loro destinazione. Era chiaro che i Chimerici avevano il comando e che intendevano mantenerlo. Eppure Roland non le incuteva paura. Soltanto un vago senso di nostalgia. – Non ho sonno. Kay non si lasciò ingannare. – Non è vero. Miris poggiò il mento sul palmo. – Uff, non posso dormire con tutta questa gente. Mi viene da ascoltare i loro sogni – Ecco un altro lato negativo di essere una telepate! Tanto più
considerando che Troy la stava sognando. Era imbarazzante. – E tu? Perché non dormi? – Sto facendo il turno di guardia. Non è sicuro qua sotto – indicò verso l’alto. Una ragnatela pendeva in un angolo. Zanzare e insetti dalle forme più strane vi erano invischiati e si agitavano in trappola. Una punta di impotente disperazione. Dolore dell’attesa. Miris si affrettò a spostare nuovamente lo sguardo sul Reietto. – Non sei stanco? – Ho una buona resistenza – Kay allungò le gambe – Come ti sembra la tua prima incursione in Superficie? La ragazza aveva in mente molti appellativi per descriverla, ma nessuno abbastanza espressivo. “Sconcertante” era quello che si avvicinava di più alla verità. – Avrei preferito rimanere a casa. Anzi, no – Miris si spostò una ciocca dalla bocca, bloccandola dietro l’orecchio. I capelli erano tenuti indietro da una pinza di metallo, in modo che non le ostruissero la visuale. Un consiglio di Kay. Un nemico non visto era un nemico letale. – Anche restare all’Alveare dopo quello che è successo… non credo di avere una casa. – Io non l’ho mai avuta. Miris attese che il giovane aggiungesse qualcosa. Invece cambiò discorso. – Hai fatto davvero infuriare Alaric, se ha deciso di spedirti qui. Era così contento di avere una perfetta spia mentale! Spia mentale. Miris non aveva la minima intenzione di diventarlo. – L’ho contraddetto. Quindi sì, si è infuriato – lo guardò – Perché sorridi? – Sei brava a far arrabbiare la gente. Miris bofonchiò qualcosa di poco carino nei suoi confronti. Il leggero gocciolio
dell’acqua sui gradini rovinati era ritmico, ossessivo. Starr, in un angolo, era una presenza inquietante. No, dormire era impossibile. Kay contemplò il proprio lavoro sulla lama. Parve soddisfatto. – Alaric non ti ha detto nulla riguardo il nostro obiettivo? – Nulla – Miris scosse la testa – Gli piace fare il misterioso. Come agli altri Chimerici. È già abbastanza penoso trovarsi qui, per di più con la tensione che aleggia… la sento. Gli umani del nostro Alveare hanno paura e temono una trappola. I Cacciatori di Alpha5 si getterebbero in un dirupo, se solo di Chimerici glielo ordinassero, e ci tengono d’occhio. Starr detesta tutti e me più degli altri… E poi c’era il cielo, quella presenza minacciosa che la metteva a disagio. Sentiva ancora il sibilo del vento nelle orecchie. La scherniva. Quel posto la spaventava più di quanto volesse ammettere e la paura era come un’ombra traditrice insinuata nei corridoi della sua mente. Stavano andando verso un luogo che sentiva ostile. Da quando Roland ne aveva parlato, non riusciva a toglierselo dalla testa. Ancora non era successo niente, eppure eccola lì, con la fiducia fatta a pezzi e disciolta come metallo fuso. Sentiva che gli umani in parte la invidiavano. Loro avrebbero tratto conforto dal fatto di possedere un potere da mutata. Leggere nel pensiero. Che cosa ridicola! Era il frutto di una mutazione casuale e riusciva solo a crearle problemi. Non aveva nulla a che fare con lei. Le si raggelò la bocca dello stomaco. Ovviamente non era vero. Quella mutazione era parte di lei, marcata a fuoco in tutte le sue cellule. Si prese il volto tra le mani, in un tentativo di nascondersi. Dai Raggi. Dal mondo. Dai dubbi. Da se stessa. – Ehi – Kay ringuainò la spada – Cosa c’è?
– Niente, è che la mia vita è cambiata completamente in così poco tempo… prima ero una ragazza e basta. Mi alzavo, studiavo come adepta, cercavo di far contento mio padre… avevo un posto nel mondo, una parte prestabilita. Adesso mi pare che qualcuno mi abbia strappato di mano il copione, lasciandomi in mezzo al palcoscenico senza più sapere cosa sto recitando. Kay inarcò un sopracciglio – Non è un bene? Miris pensò che volesse prenderla in giro. Ma il giovane sembrava serio. – Ma sei impazzito? – Ragiona, scusa. Adesso hai la possibilità di scegliere la tua parte. E di renderla solo tua. La ragazza era pronta a bloccare sul nascere qualsiasi banalità che fosse uscita dalla bocca del giovane. Ma a quello non aveva pensato. Kay riusciva sempre a stupirla. Lo aveva considerato un ottuso cacciatore, sicuro di sé fino a rasentare l’indisponente. Stava cambiando idea. Si spostò sull’altro gomito. La posizione cominciava a diventare scomoda. – E tu cosa hai fatto ad Alaric? Quel repentino cambio di discorso non prese Kay alla sprovvista. Allargò le braccia, con aria sorpresa ed innocente. – Niente. – Dai, non prendermi in giro. Allora perché ti ha mandato qui? Kay rispose con semplicità. – Non mi ha mandato. Ho chiesto io di venire. Miris lo guardò con gli occhi sgranati. – Ma sei matto? – esplose, guadagnandosi un’occhiata fulminante da Starr. Si affrettò ad abbassare la voce in un sussurro. – Che ti è saltato in testa? Kay scrollò le spalle. – Altrimenti, chi ti toglierà dai guai?
Se si fosse trasformato in un ragno davanti ai suoi occhi, Miris sarebbe stata meno sorpresa. – So cavarmela benissimo da sola – rispose in fretta. Troppo in fretta. Prima che si accorgesse anche lei di quanto fosse grossa quella menzogna. – Secondo me hai commesso uno sbaglio a venire. E non pensare di farlo pesare su di me, non ti ho chiesto niente. È un tuo sbaglio! E, irritata senza un motivo preciso, si raggomitolò sull’altro lato, chiudendo forzatamente gli occhi. Udì comunque la risposta del giovane. – Non è mai uno sbaglio fare qualcosa che si ritiene necessaria. Queste parole la accompagnarono fin quando scivolò nel sonno. Il crepuscolo colava sulle rocce brulle della Superficie quando i compagni riemersero dal Pozzo. Pyrgo attese che gli ultimi Raggi svanissero all’orizzonte prima di spalancare la botola e dare il buon esempio. – Fuori. In marcia! Il terreno era ancora bollente. Miris non aveva mai sentito un calore simile. Ma in breve il vento e la pioggia le ghiacciarono la tuta addosso, facendola rabbrividire e cancellando ogni stilla di tepore. Nel Sottosuolo la temperatura era costante, mentre lassù l’escursione termica era spaventosa. L’orizzonte era una linea nera e deserta che si stendeva a perdita d’occhio in lontananza, come un rotolo sparso di nastro da lutto. Le montagne sporgevano dal terreno, creature intrappolate che cercavano di fuggire. Per andare dove? Nel cielo? Anch’esso era pericoloso, colmo di mistero e di minaccia. Miris alzò la testa, ma il vapore cominciava a sollevarsi, rendendo il soffitto del mondo un sudario fumoso. Davanti a lei si spegnevano gli ultimi barlumi boreali di un altro giorno che finiva. E il Ciclo ripartiva all’infinito. Ci sarebbe stata una fine? Tutto intorno a loro, il mondo era immobile. Eppure non era morto, non del tutto. Miris trasaliva per ogni piccolo fruscio. Un movimento tra le rocce, uno stropiccio sottile intorno a lei.
Kay sparò. Miris fece un balzo, mentre il pietrisco si sollevava davanti ai suoi piedi. Quanto c’era andato vicino? Non capiva perché Kay si comportasse così. Alzò sul giovane uno sguardo interrogativo. Troy si mise subito in mezzo. – Ma sei impazzito, Reietto? – sbottò, agitando il pugno – Potevi ucciderla! Kay ricaricò l’arma con calma e proseguì, senza degnarlo di un’occhiata. Ci pensò Roland a rispondere per lui. Si inginocchiò dove il laser aveva scalfito la roccia. C’era un corpicino che ancora si dibatteva. Sei zampe e un pungiglione, che si afflosciava pian piano. – Uno scorpione delle sabbie. Un “dieci secondi” – commentò – Si nasconde fin quando la preda non è a portata e poi la colpisce con l’aculeo. Troy fece un o indietro, disgustato. – Perché lo chiamano “dieci secondi”? – Perché, se il veleno ti entra in circolo, dieci secondi e sei morto. Tra il Sacerdote e Miris, non era chiaro chi fosse più livido. La ragazza si sentiva sul punto di vomitare. Pochi i in Superficie e già aveva corso un pericolo mortale. Troy si schiarì la voce. – Andiamo, Miris! Miris esitò. Avrebbe dovuto ringraziare Kay, ma lui si era già allontanato, insieme a Pyrgo. Aprivano la strada ai lati, mentre Starr li precedeva. Una buona scelta. Nessuno voleva dare le spalle al Chimerico del fulmine. Miris aveva l’impressione che il “dieci secondi” fosse meno pericoloso. Il terreno era privo di vegetazione. Le tempeste avevano spazzato via ciò che i Raggi avevano misericordiosamente risparmiato. Tutto era immobile, congelato in un attimo che si fingeva eterno. Nulla era eterno, rifletteva Miris. Neppure gli scheletri di droidi che di tanto in tanto incontravano sul percorso. Ammassi di latta su cui la ruggine aveva lasciato profonde ferite, quasi fagocitati
dalla polvere. Lampeggianti frantumati. Circuiti ormai senza senso esposti alle intemperie. Scorie spente di un mondo che era finito. – Sapete come si chiama questo posto sulla mappa? – Pyrgo consultò la sottile lamina di metallo in cui erano incisi i luoghi che stavano attraversando. Starr giocherellava con un’estroflessione rugginosa, che si era staccata da un relitto a forma vagamente umanoide. – Cimitero dei droidi? Il Chimerico del fuoco lo guardò per un attimo, consultò la mappa e tornò a fissarlo, la fronte corrugata. – Come hai indovinato? Starr si allontanò con una risata sghemba. Miris procedeva lentamente. La sabbia rendeva difficile l’avanzata, aggrappandosi alle sue caviglie e cercando di trattenerla. – Cammina sulla roccia – le consigliò Roland, con calma – Questa sabbia è di natura vulcanica e contiene ancora una radioattività di fondo. Nulla a che vedere con i Raggi, ma è meglio limitare ogni esposizione non necessaria. Miris trattenne l’impulso di tirar fuori il dosimetro e controllarne le spie. In fondo, a cosa serviva? Quando avesse segnalato il pericolo, lei sarebbe stata già condannata. Nonostante i caschi, sentiva che i suoi compagni di viaggio avevano un umore simile. Nessuno aveva voglia di parlare. Gli scheletri dei droidi erano una compagnia silenziosa e inquietante. Miris si teneva alla larga. Le davano apprensione. I baleni, che di tanto in tanto lampeggiavano tra i vapori, creavano movimenti illusori. Sapeva che era frutto della sua immaginazione, ma aveva l’impressione che quei cadaveri metallici fossero sul punto di alzarsi, risvegliati dalla loro non-morte artificiale. Li vedeva caracollare verso di lei, luci senza occhi, brusii senza bocche. Volevano abbracciarla per renderla come loro. Serrò le palpebre, le riaprì. I droidi erano ancora al loro posto, immobili. Ombre di ciò che erano stati. Nella penombra, Miris si trovò davanti di colpo una testa metallica. Emergeva dalla sabbia, insieme a un braccio. Aveva l’aspetto di un uomo, scheletrito, in cui erano ancora visibili i fili di metallo rosi dal vento. Gli occhi erano due vetri spenti che drenavano riflessi giallastri.
– Cimitero dei droidi – ripeté tra sé – Sono rimasti qui per anni. Eppure non si vede lo scheletro di un essere umano. Roland avanzava qualche o avanti a lei. Non si voltò. – Sono già polvere. Il creato resta dopo la scomparsa del creatore. L’ombra è più lunga della figura a cui appartiene. – Ma non infinita – soggiunse Miris. Roland annuì. – Non infinita. – E noi cosa cerchiamo? Il creato o il creatore? – la ragazza si avvicinò con l’intenzione di sfiorarlo. Toccò solo l’aria. Il Chimerico si spostò con un movimento brusco. – Un creato che è stato assunto a creatore – replicò, cauto. Gettò un’occhiata a Starr. Lo reputò troppo vicino per parlare liberamente. – Copriti, ragazza. Stai tremando. Miris si strinse addosso il mantello di tela. Era stato trattato per renderlo idrorepellente, ma non era caldo. La ragazza aumentò il o, cercando di scacciare con la fatica muscolare il senso di gelo che l’attanagliava. – Strano – sentì mormorare Samuel, che trotterellava di qua e di là con l’intenzione di esplorare ogni droide. Si era fermato per strappare cavi e pezzi che, a suo modo di vedere, potevano tornare utili. A Miris sembrava uno spregio derubare quei cadaveri. – Strano cosa? Samuel si ficcò in tasca un fusibile così rugginoso da risultare irriconoscibile. La ragazza non voleva sapere cosa l’Ingegnere progettasse di farci. Purtroppo lo sentì. … pezzo per la collezione da necrofilo di droidi di mio cugino… – I droidi. Sono tanti. E avete notato come sono voltati? – lo indicò – Sembra quasi che andassero nella nostra stessa direzione.
Voleva essere un’osservazione oziosa, ma rese il gruppo ancora più nervoso. La marcia fu snervante e Miris da tempo aveva smesso di badare a cosa le stava intorno, concentrandosi soltanto sullo sforzo di mettere un piede davanti all’altro. La consolava il fatto che gli altri Sacerdoti e gli Ingegneri fossero nella stessa condizione. Troy le camminava accanto, con il volto pallido ma resoluto. Si era ato intorno alle spalle un braccio di Juliena e aiutava l’anziana Sacerdotessa. Samuel Barni strascicava i piedi e per una volta non sembrava contento di avere a tracolla la sua schermo-custodia, cioè un macigno travestito. Aveva il fiato corto e sbuffava come un mantice mentre trotterellava per stare al o con gli altri. are il tempo tra quattro mura aveva il suo prezzo. Ma, se fosse dipeso da lei, la ragazza non avrebbe scelto quella piana, esposta a radiazioni di ogni genere, per fare attività fisica. I Chimerici procedevano in silenzio, senza lamentarsi. Kay era più avanti, anche se Miris non riusciva a vederlo. Quando si muoveva tra le ombre, riusciva a essere invisibile. Invece Troy le era accanto, solido, disponibile. Reale. Kay emerse dalla penombra, facendoli sobbalzare. – Scusate – ma non sembrava affatto dispiaciuto. Divertito, forse, nel vedere le facce spaventate di coloro che per anni lo avevano mandato allo sbaraglio, rimanendo al sicuro nei loro palazzi. – C’è un Pozzo, poco lontano. Pyrgo agitò la mappa, mentre Starr gli faceva luce schioccando le dita. Creava dei crepitii scintillanti. – Numero? – Non ho letto. La vernice sulla botola era troppo rovinata. – 17 o 15, credo – il Chimerico del fuoco provò a girare la mappa. Non cambiava molto. – O forse il 12? – Uno vale l’altro – Starr era spazientito – È solo un maledettissimo Pozzo.
– Propongo di fermarci – Kay gettò un’occhiata ai compagni di viaggio. Non era una vista confortante. Sacerdoti e Ingegneri parevano sul punto di crollare da un momento all’altro. – Non sappiamo a quanta distanza si trovi il riparo successivo. Non voglio rischiare che il Mietitore ci colga allo scoperto. Roland annuì. – Mi sembra una buona idea. – Giusto, facciamo riposare gli umani – il tono di Starr grondava sarcasmo – Di certo loro ci ebbero la stessa cortesia! – Anche la nostra nuova aiutante Chimerica è stanca – replicò Roland, quieto. Questo parve far infuriare Starr ancora di più. – Che se ne vada all’inferno! Per me può morire lì dove si trova adesso – e proseguì dopo averle lanciato un’occhiata velenosa. Miris si strinse nelle spalle. Cosa aveva fatto di male per meritarsi quel trattamento? Samuel le picchiettò sul braccio. Immagini di Starr nudo, che pedalava su una strana bicicletta per produrre elettricità, con l’Ingegnere che lo incitava agitando una frusta, le affollarono per un attimo la mente. Erano così ridicole che dovette fare uno sforzo per non scoppiare a ridere. – Senti, non per voler fare il vostro lavoro di Sacerdoti – le sussurrò Samuel, una mano davanti alla bocca per non farsi sentire dai Chimerici e soprattutto dal diretto interessato – ma non avreste qualche rimedio contro schizofrenia, disturbo bipolare e aggressività etero-indotta? Mi sembra che quel Chimerico sia una miniera di disturbi mentali. Miris ridacchiò. – Sono perfettamente d’accordo. Ma se anche esistesse un rimedio, dubito che Starr accetterebbe di prenderlo. – Già, i malati si credono sani e i pazzi si credono normali – Samuel sbuffò – Mondo strano! – Tu sei pazzo, Samuel?
– Io?!? Certo che no, sono normalissimo! – un’occhiata sorpresa – Perché? – No, nulla, l’applicazione di una teoria… – Miris si allontanò ridacchiando, mentre l’Ingegnere la guardava perplesso. Raggiunsero il Pozzo un paio d’ore prima dell’alba. Kay aveva ragione, il numero era illeggibile, rimaneva soltanto una gora informe. Il metallo della botola era scheggiato e quasi inglobato nel terreno. Dava l’idea di non essere utilizzato da tempo. – Non ci sono città nei dintorni – spiegò Pyrgo – E la gente non è così sciocca da allontanarsi troppo. – Mi fa piacere saperlo – il Sacerdote Morgante incrociò le braccia, sarcastico – E quanto manca ancora alla meta? – A questo ritmo, qualche notte di viaggio. Roland e tre Cacciatori si stavano occupando della botola. Era pesante e aveva intrapreso una feroce resistenza. Solo con l’aiuto del Chimerico riuscirono a scardinarla. Miris la osservò scivolare gemendo sul terreno, un sarcofago antico e profanato. Loro erano i profanatori. Si trovò di nuovo a tremare e si strinse addosso il mantello. La situazione non migliorò. Troy, gentilmente, le ò la sua cappa sulle spalle. Il Pozzo era un abisso nero che ricambiava il suo sguardo. Kay fece per sporgersi. – No, aspetta! – Miris tese una mano, implorandolo di fermarsi. Il giovane le lanciò un’occhiata dubbiosa, gli altri la squadravano con sospetto. – Cosa c’è? Miris si morse le labbra. Non ne aveva idea. Soltanto, quel Pozzo la spaventava. Il timore era tanto più terribile quanto più irrazionale.
– Non lo so. È che… ho una strana sensazione… – suonava ridicolo anche a lei. Infatti Pyrgo emise uno sbuffo e Starr scoppiò a ridere senza ritegno. – Una strana sensazione – la scimmiottò – Si chiama paura, telepate dei miei stivali. Sei davvero patetica e ancora non capisco perché Alaric tenga tanto a te. Muoviti, ci fermiamo anche per causa tua. Abbi il buon gusto di non disturbare ulteriormente! Miris avvampò per l’imbarazzo. Starr aveva ragione, ovviamente. Si stava solo suggestionando. Eppure la cattiva sensazione rimaneva. Era una sanguisuga che si era attaccata addosso e consumava energia. Con il cuore in gola, Miris vide un Cacciatore esplorare il Pozzo con il fascio della torcia. Non c’erano gradini, si scendeva tramite una scaletta a pioli in ferro, piantati nella parete. L’uomo annuì. Nessun pericolo. – Vai – ordinò Starr. – Se magari controllassimo meglio… – provò a insistere la ragazza. – Non è una cattiva idea – Troy la spalleggiò – Perché non seguite il suo consiglio? Kay annuì. La prudenza non era mai troppa. – Ci penso io. – Un corno! – Starr, spazientito, si sporse nel Pozzo dietro al Cacciatore, che aveva già iniziato la discesa – Sono stufo delle vostre lamentele – e si calò verso il basso. Miris si affacciò alla botola. – Sta’ attento. Sul serio! La risata del Chimerico rimbombò nel cilindro di tenebra. – Maledetta donna… Starr non poté terminare la sua imprecazione. I pioli di ferro, rosi dal tempo, cedettero sotto il suo peso. D’istinto Miris si tese per afferrargli il polso. Non aveva la forza di reggerlo e si sentì scivolare verso il basso. Troy, al suo fianco,
si aggrappò a lei. I suoi piedi scivolarono sulla roccia polverosa. In un unico grido, precipitarono tutti nel buio.
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Miris credette di sfracellarsi al suolo. L’immagine era già chiara nella mente: il suo corpo scompostamente disteso tra i massi, le ossa frantumate e sporgenti, la faccia distrutta fino a renderne irriconoscibili i lineamenti. Forse era questo che la preoccupava di più. Perdere la propria identità e tornare polvere tra la polvere. Non aveva mai apprezzato il proprio corpo fino a quel momento, in cui rischiava di perderlo. Rifletté di tutto questo negli interminabili attimi di caduta, con lo stomaco che le era arrivato chissà dove, lasciando solo un vuoto che le serrava il diaframma. Attese l’impatto, mentre la sua mente si accendeva di accecanti flash luminosi. Poi piombò su qualcosa di morbido e appiccicaticcio. Percepì i fili unti che si avvinghiavano alla tuta, al volto, alla mano ancora stretta intorno al polso di Starr. Una ragnatela gigante. Poi la sua mente fu invasa da una scarica di flash frenetici.
Il bambino biondo sedeva su un gradino. I coetanei giocavano con la palla e fingevano di spararsi con sbarre di ferro. Erano vicini, eppure lontani. Le loro risate si frantumavano in schegge pungenti. Le sentiva conficcate nelle pieghe di un’anima che si avvolgeva in se stessa per difendersi. Voleva alzarsi, ma rimaneva immobile a guardare. In realtà aveva paura. Quindi avrebbe fatto in modo che loro avessero paura di lui.
Miris si dimenò, ma la ragnatela si avvolse maggiormente intorno a lei. Una viscida bava resistente, una schiuma di un grigio informe che si confondeva con
l’oscurità del Pozzo. Una poltiglia che sapeva di vomito. Era immobilizzata. Una sensazione ottenebrante. Essere coscienti del pericolo e non potersi liberare. Era come se il corpo non le appartenesse più. Impotenza. Non poteva fuggire neppure la sua mente.
La ragazza gli aveva sorriso. Il ragazzo biondo si era voltato indietro, ma non c’era nessun altro. Guardava lui, ma non come gli altri, che guardavano senza vedere davvero. Lei lo aveva visto. Per molti Cicli il ragazzo biondo aveva sognato di lei e colorato la sua solitudine di speranza. Vi si era aggrappato disperatamente. Un’ancora di salvezza. Era affogato, quando una sera l’aveva vista baciarsi con un altro. I sogni si erano tinti di nero tradimento e di rabbia. Era più facile.
Miris provò a muovere il collo. Gli occhi si abituavano in fretta all’oscurità che scivolava tra le pareti del Pozzo. Erano quasi sul fondo, nel punto in cui si allargava in una sorta di stomaco del terreno. Quel viscere era invaso da decine di ragnatele. Da queste pendevano figure morte e ossa biancheggiavano in un arazzo che tappezzava la tana. La tana di cosa?
L’uomo biondo provava rabbia per quanti non aveva mai conosciuto e per quanti lo avevano tradito. L’odio era un serpente che si nutriva di se stesso. E odiava il contatto con quella ragazza. Una donna come la madre che non aveva mai avuto e la ragazza che lo aveva ingannato…
Una stella luminosa cadde dall’alto, rischiarando il Pozzo. Allora Miris lo vide. Era sospeso in una delle sue ragnatele, ombra tra le ombre. Era raggomitolato a formare un’enorme palla, con le zampe raccolte sotto di sé. Una nuvola sporca in un luogo senza cielo. Non aveva pelo, ma la pelle era ricoperta da un involucro lucido. Dondolava, pigramente. Sembrava addormentato. In realtà fingeva. Attendeva le prede. La sua pazienza era stata premiata. La vibrazione della ragnatela si ripercosse fino a lui. La testa da insetto si sollevò, roteando su uno spesso collo senza un vero e proprio scheletro. Le otto zampe, incredibilmente snelle, si distesero. I tre occhi, sporgenti su protuberanze tozze, cercarono la preda. Aveva fame. Il Ragno-Regina, frutto della mutazione di un aracnide del ato, si precipitò giù ad una velocità abbagliante. Miris gridò. – Fuori le corde! – tuonò Kay, poggiando a terra lo zaino. Gettarsi nel vuoto era improponibile, ma dovevano scendere alla svelta. Quanto era profondo quel pozzo? Metri? Chilometri? Una caduta del genere poteva essere mortale. Il giovane si maledisse. Avrebbero dovuto dare ascolto alla ragazza e al suo istinto. Un Pozzo inutilizzato era pericoloso a priori, fin quando non veniva dimostrato il contrario. Pyrgo fu al suo fianco. I Cacciatori impugnarono le corde, fissandone un’estremità alle rocce circostanti. – Che facciamo? – il Chimerico del fuoco non era mai stato in Superficie. Kay saggiò la fune. Reggeva.
– Ci caliamo. Samuel Barni si sporse, desideroso di dare il suo contributo. – Sapete, non ho sentito nessun rumore. O ancora non hanno raggiunto il fondo, o c’è qualcosa… – lasciò cadere la torcia verso il basso. Una corona di luce inanellò le pareti del Pozzo, scendendo nel vuoto con una lentezza esasperante. Si riverberò nella sostanza appiccicosa che rivestiva tutto. Kay imprecò. In quel momento udirono il grido di Miris. Il giovane puntò il fascio verso il basso e impugnò la pistola. – Cacciatori, fate fuoco! Miris fissò terrorizzata il Ragno-Regina che si muoveva tra la ragnatela come una ballerina. Non aveva bisogno di sfiorare la roccia, si era costruito un dedalo di vie personali lungo tutto il Pozzo. Liane a cui si aggrappava con l’agilità di una scimmia. – Ecco perché Roland non lo aveva percepito… Il pensiero si formò e si frantumò in pinze di paura. La ragnatela vibrò, mentre il Ragno-Regina spariva per un attimo dal suo campo visivo. Lo sentiva muoversi, rovistare, succhiare. Il movimento della tela si fece frenetico, disperato. Ansiti soffocati. Terrore. Un dolore straziante. Il rumore della carne strappata. Freddo. – Ahh! – udì Troy scalciare a poca distanza – Lo sta mangiando, lo sta mangiando! E il ruggito di Starr, così vicino che Miris percepì il frizzare dell’elettricità statica che si caricava. Lesse nella mente quello che stava progettando di fare.
– Fermo, ti prego! – gridò – Siamo tutti invischiati nella sua ragnatela. Se usi il tuo potere, folgorerai anche noi! E lesse anche che quello era l’ultimo dei problemi di Starr. Era intrappolato e minacciato, il suo impulso lo spingeva a liberarsi. E lui seguiva sempre i propri impulsi. Il Ragno-Regina aveva terminato l’antipasto. Riprese a muoversi, il ticchettio delle pinze nella sua bocca grottesca era inesorabile come un conto alla rovescia. La ragnatela ondeggiava in una danza di morte. Così Miris seguì il suo. Un istinto ancestrale che era radicato da millenni in tutte le specie viventi. Istinto di sopravvivenza. Allargò la mente, espandendola a ciò che la circondava. FERMI! Il tempo parve rallentare, cristallizzarsi. Miris era al centro di una bolla, pulsante al ritmo del suo cuore. Il braccio di Starr era rigido, teso. Il corpo grottesco del Ragno-Regina era al margine del suo campo visivo, le fauci spalancate. Immobili. Intorno a lei, tutto pareva rimasto con il fiato sospeso. Poi un ordine secco frantumò il silenzio. – Fuoco! Dall’alto una tempesta di laser ed energia si abbatté nel Pozzo. Alcuni colpi raggiunsero il Ragno-Regina, di striscio. Mirando a lui i Cacciatori rischiavano di ferire anche i compagni. Si concentrarono sui bordi della ragnatela. Fendenti di energia la traarono. Si unì una vampata di fiamme, un cerchio lungo il bordo del Pozzo. La tela ondeggiò. Un rumore di qualcosa che si strappa. Il Ragno si inalberò, ferito ma non ucciso.
La ragnatela cedette di colpo, facendolo cadere tutti al suolo in un brulichio di poltiglia e arti annaspanti. Kay non aveva il tempo di ricaricare la pistola. Allentò la presa sulla corda, lasciandosi scivolare rapidamente in basso. Un sottile filo di fumo si levò dal guanto consumato dall’attrito. Il giovane non sentiva nulla. L’attrito non poteva intaccare l’ombra che si agitava nel braccio. Al suo fianco un altro Cacciatore stava scendendo, dimostrando un coraggio e un’abilità da ammirare. Kay non aveva idea di come si chiamasse, non era un tipo da presentazioni sdolcinate, ma l’aveva notato in quei giorni di viaggio. Snello, scattante. Di più non poteva dire, dato che non si era mai tolto il casco protettivo. Più volte era andato in esplorazione insieme a Pyrgo. Si muoveva rapido, silenzioso, a suo agio anche in quell’ambiente ostile. Doveva essere un guerriero ben addestrato. Una grossa sagoma sfrecciò verso il basso, senza bisogno di corde o rampini. Kay sbatté le palpebre. Una mano sulla roccia, Roland calava lungo il Pozzo. Scivolava nella parete come una pietra che frana lungo il crinale. Pesante, inesorabile. Atterrò sul fondo e si inginocchiò, le palme rivolte a terra. Le sue cellule entrarono in sintonia con lo stato fisico della roccia. Il Pozzo tremò. Poi si accorse che il suo zaino nella discesa si era aperto e che qualcosa era caduto al suolo. Miris si trovò avvolta nella tela, ma per lo meno era sul terreno solido. Rotolò, riuscendo finalmente a staccarsi da Starr. Il Chimerico ansimava. – Cosa mi hai fatto, sgualdrina? La ragazza non si curò di rispondere. Lottava per liberarsi dalla poltiglia appiccicosa. Sollevò lo sguardo.
Il cadavere del Cacciatore dondolava, appeso agli ultimi tralci di ragnatela per le gambe. A testa in giù, le braccia inerti, pareva un grottesco manichino in un’amaca rovesciata. Gli occhi fissi, privi di vita, la bocca spalancata in un urlo muto. Era stato sventrato, il tronco aperto dall’inguine al collo. Nella cavità biancheggiavano le coste e un vuoto sanguigno. La pelle si era raggrinzita in un guscio, prosciugata. Lo rendeva la spaventosa parodia di un uomo. Miris negli ultimi tempi aveva visto molti cadaveri, ma non era preparata a quello spettacolo. Non guardare! Si impose. Ma guardò. E seppe che c’erano orrori che non potevano essere dimenticati. Uno strappo nella ragnatela, uno scossone. Il Ragno-Regina si contorse, furioso. Una zampa grondava grumi vischiosi, inutilizzabile. Ne aveva ancora sette. Si sollevò, la sovrastava con la sua figura. Gli occhietti neri si muovevano senza sosta, individuando i nemici che avevano invaso la sua tana. Troy scalciò, le braccia finalmente libere. Snudò un piccolo pugnale dallo stivale e cominciò a tagliare la ragnatela che bloccava le gambe sue e della ragazza. – Presto, allontaniamoci! Il tremito del terreno serpeggiò sotto di loro, una crepa andò ad aprirsi sotto il Ragno-Regina. Le rocce si frantumarono in un cratere in cui la creatura cominciò a scivolare. Si richio di scatto, in una morsa implacabile. Il Ragno-Regina si trovò con le zampe bloccate nel pavimento. Inerme. Kay toccò il fondo del Pozzo, il Cacciatore gli lanciò una batteria a energia radiante. Il Reietto la prese al volo, sbattendola nel caricatore. Alzò il pollice in un gesto affermativo. – Facciamo fuori questo bastardo! Il Cacciatore annuì. Spararono all’unisono, puntando alla testa dell’enorme bestia. Dall’alto gli altri Cacciatori si unirono al fuoco. Il Pozzo si riempì del sibilo dell’energia e dei laser che stridevano. In pochi attimi, dell’orribile creatura non restava che un ammasso informe e fumante.
– Maledetto bastardo! Starr si sollevò, tremante di rabbia e di elettricità. Infierì sul cadavere con ferocia. Due saette lo carbonizzarono, ma non gli bastò. Continuò a richiamare energia elettrica, sfregandosi addosso come se volesse consumarsi, fin quando Pyrgo non gli evocò davanti una barriera di fiamme. – Basta. È morto. Risparmia le forze! – Sta’ zitto! – ruggì Starr. Miris strisciò indietro insieme a Troy. Quello che vedeva nel volto del Chimerico la spaventava più delle fauci del Ragno-Regina. Starr parve ricordarsi della sua presenza. Si voltò verso di lei, puntandole un dito contro. – Tu! Stupida ragazzina! Cosa mi hai fatto? Miris indietreggiò di schiena, sollevata sui gomiti. – Io… – Rispondimi! Cosa mi hai fatto prima? Mi hai impedito di usare i miei poteri. Come? – Non lo so – la ragazza era abbastanza confusa in proposito. Insomma, era precipitata in una ragnatela, un mostro aveva cercato di mangiarla… era troppo perché riuscisse a raccapezzarsi. – Avevo paura… – Senti, siamo salvi – Troy tentò di rabbonirlo – Ce la siamo cavata. Adesso cerchiamo di calmarci! Starr lo liquidò con un gesto rabbioso che lo fece ammutolire. – Non provare a darmi ordini, umano. È una cosa tra me e questa sgualdrina – fece un o verso di lei – Non ti azzardare mai più a toccarmi. Nessuna donna deve farlo. Se non fosse stato per te, avrei già ucciso il Ragno-Regina. Per quello che mi riguarda, sei soltanto un peso e forse una minaccia. Non mi fido di te e non capisco perché Alaric ti abbia mandato in questa missione delicata. Rovinerai tutto. Rovinate sempre tutto. Non ci si può fidare di voi! Le parole sfuggirono dalla bocca di Miris prima che riuscisse a trattenersi. Era troppo scossa per gli ultimi avvenimenti.
E per ciò che aveva sentito nella mente del Chimerico. – Non è giusto che tu mi tratti così – sbottò – Io non sono lei! Si accorse di aver commesso un errore quando Starr tese le mani sfrigolanti di elettricità. La sua espressione non lasciava dubbi. Una parete di fiamme si erse davanti a difesa della ragazza. Non ce ne fu bisogno. Una pistola galleggiava nella penombra, puntata alla tempia di Starr. – Provaci – sibilò Kay. Benché a distanza, aveva immerso il braccio nell’ombra, immaginandolo fino al Chimerico. Un rivolo di sudore gli percorse la fronte. Si sentiva teso, sul punto di spezzarsi. Come se una pressione rivolta verso l’interno gli percorresse tutto l’arto. Pyrgo si piantò davanti a Miris a gambe larghe, a braccia incrociate. Il suo volto era determinato, la voce cupa. – Piantala, Starr. Non costringermi a combattere contro di te! Il Chimerico del fulmine rilasciò l’energia accumulata nel terreno. Si formò un cratere scuro. Nulla si creava e nulla si distruggeva. Poteva soltanto trasformare l’energia da una forma all’altra. Fece una smorfia. – Pyrgo, da quando difendi gli umani? O quella Chimerica inutile? – Difendo i miei compagni di squadra – Pyrgo non si scompose – Alaric ci ha mandato quassù per uno scopo e ritengo che tutti dovremo fare la nostra parte, se vogliamo sopravvivere e ottenere quello che cerchiamo. In questo momento la ragazza è una di noi. E chi minaccia un mio compagno minaccia anche me. È abbastanza chiaro così? Starr lo fissò per un istante, poi sputò a terra. – Allora tienimela lontana. Non deve entrarmi più nella testa. Altrimenti le strappo la sua! Kay fece riacquistare al braccio la sua forma originale, con un sussulto. Alla sua sinistra il Cacciatore si accostò a Troy e a Miris.
– Tirati su, ragazza – la voce era distorta dal casco. Fu un istinto di entrambi, di due esseri sperduti e trovatisi compagni in un mondo ostile. Tendere la mano e prenderla. Troppo tardi il Cacciatore rammentò il potere della persona che le stava davanti. Miris d’impulso prese la mano, con un sorriso incerto. – Grazie… – cominciò, poi sbarrò gli occhi. Il Cacciatore tramutò il tocco in una stretta decisa. Abbassò la voce, mentre l’aiutava a rialzarsi. – Non dirlo! Un sussurro. Una richiesta. Un’implorazione. Miris fissò le lenti da insetto che coprivano il volto del Cacciatore. Annuì. Soddisfatto, il Cacciatore si affrettò ad allontanarsi. Gli altri stavano perlustrando la tana, anche se non c’era molto da vedere. Scheletri di chitina e ossa dappertutto. Il Ragno-Regina portava là le prede catturate nelle sue trappole, nutrendosi con calma. Roland era chinato. Miris lo vide rovistare in un grumo di ragnatela, con una frenesia che stonava con il suo comportamento sempre pacato. Afferrò u oggetto. Una custodia nera. Si affrettò a riporla nello zaino. Sembrò percepire lo sguardo della ragazza, perché si voltò. Un attimo soltanto, poi si aggiustò lo zaino a tracolla e si allontanò con noncuranza. Miris non era riuscita a vedere nella sua mente cosa fosse quell’oggetto, ma di una cosa era certa. Da esso dipendeva la riuscita della loro missione.
28
Kay si lasciò cadere a fianco di Pyrgo. Le ragnatele, una volta fatte a brandelli, avevano il pregio di essere morbide. Almeno per quella sosta avrebbero riposato su comodi giacigli. – Tocca a te il turno di guardia. Il Chimerico del fuoco si sollevò con un mugugno per nulla entusiasta. – Stavo sognando. – Era un bel sogno? – Sempre meglio della tua faccia! Kay rise. Il Chimerico cominciava ad essergli simpatico. Combatteva bene, parlava con cognizione di causa, si faceva gli affari propri. Un buon compagno. Di certo preferibile ai Sacerdoti che lo scrutavano guardinghi. Soprattutto il fidanzato di Miris. Kay non poté negare di essere dispiaciuto che il Ragno-Regina non gli avesse staccato almeno una gamba. Tanto ne aveva due. – La prima perdita – Roland indicò il cumulo di massi poco lontano. Nascondeva il cadavere dilaniato del Cacciatore che si era trovato sulla strada del RagnoRegina. Nonostante l’intervento sollecito dei Sacerdoti, non c’era stato nulla da fare. Per quanto lo desiderasse, l’essere umano non era mai riuscito a guarire dalla morte. La vecchia Juliena aveva officiato un breve rito, pregando perché la Notte accogliesse l’anima del defunto nel suo abbraccio, al riparo dai Raggi. Kay era rimasto in disparte. Nessuno avrebbe pregato per lui. Molti umani affermavano che i Chimerici non possedevano un’anima. Quanti non avevano una cultura alle
spalle, era ovvio, gli altri sapevano che era una sciocchezza messa in giro per giustificare la discriminazione a cui i Chimerici erano soggetti. Ma perché prendersi il disturbo di confutarla? – Poco male – Pyrgo si strinse nelle spalle – Un incidente di percorso. Il nostro gruppo è ben nutrito. – Un singolo uomo può fare la differenza tra la vittoria e la sconfitta. – Da quando sei così filosofico? – Pyrgo diede una pacca sulle spalle di Roland. I due si conoscevano da tempo. Pyrgo rispettava la sua vena riflessiva, Roland apprezzava il suo senso dell’onore. Kay considerò che fossero buoni amici. Il Chimerico della terra si sistemò nel giaciglio di tela, che aveva preso la sua forma sotto il peso. – Da quando la posta in gioco è così importante. – Continuate tutti a ripeterlo – sbottò Kay – Ma ne siete così sicuri? Va bene, il ato è ricco di informazioni utili, ma è pericoloso in mani sbagliate. Roland, ci hai parlato di umani che hanno contribuito alla distruzione del mondo antico. Le conoscenze che tu cerchi hanno costruito una grande civiltà. Ma l’hanno anche distrutta, non dimenticarlo! Pyrgo spalancò le braccia al soffitto del Pozzo. – Ragazzo, ti ci metti anche tu? Attenti, tutto questo riflettere vi manderà in fumo il cervello – ma il suo tono era bonario. Kay pensò che Pyrgo apprezzasse le sue argomentazioni. E che in parte le condividesse. – Non lo dimentico – Roland prese un respiro. Teneva lo zaino stretto sulle gambe. – Tranquillo, vi diremo quello che stiamo cercando esattamente, quando sarà il momento giusto. – Basta che non sia troppo tardi! – Prima di entrare in città – promise Roland. Kay scrollò le spalle. In effetti, fino a quel momento non serviva. Inutile preoccuparsi prima del tempo.
– E questo Alveare, o città, se preferisci, ha un nome? Roland non parlò per un po’. Richiamava le idee alla mente. – Forse in ato lo aveva. Adesso i pochi che la conoscono la chiamano “H”. – “H”? – Kay corrugò la fronte. Mai sentito nulla del genere. – E che razza di nome sarebbe?. – Non lo so – una scrollata di spalle. Roland bevve un sorso dal thermos prima di arlo a Pyrgo – Sono tutte notizie frammentarie. Negli ultimi anni, quasi nessuno è uscito vivo di lì. Kay ridacchiò e strappò il thermos dalla mano di Pyrgo, che lo osservava con un sopracciglio corrugato. Non era la reazione che si sarebbe aspettato. – Chissà come, lo immaginavo – il Reietto prese un sorso – Beh, c’è sempre una prima volta, no? E chi è il superstite? I Chimerici si scambiarono un’occhiata. Kay sospirò. – Avanti, dovete averlo conosciuto. Altrimenti, come fareste a sapere dov’è questa città e che possiede quello che cercate? Quando nascono storie su un posto, anche terribili, vuol dire che qualcuno c’è stato ed è tornato per raccontarle. Pyrgo incrociò le braccia. Alaric non sarebbe stato contento di sbandierare i loro piani, ma in fin dei conti non era là, bensì tranquillo nell’Alveare appena conquistato. Magari a divertirsi con qualche bella donna. – Io glielo direi, Roland. Il Chimerico della Terra annuì. L’importante era che non ci fosse Starr. Nessuno voleva farlo infuriare di nuovo, adesso che finalmente si era coricato in disparte. – Era un nostro compagno. Più o meno. Era un Chimerico – cambiò posizione. Si fece are di nuovo il thermos, pregando che le loro provviste durassero anche per il viaggio di ritorno. Sempre che ce ne fosse uno. – Lo abbiamo trovato una notte ai confini del cimitero dei droidi, ferito a morte. Era riuscito a trascinarsi fino a un Pozzo. Negli ultimi attimi di vita ci ha raccontato della città.
Dell’oggetto che stiamo cercando. E aveva dato loro qualcosa di molto importante per dimostrare la veridicità delle sue affermazioni. Qualcosa che Roland conservava con cura. Lo studiava da anni, insieme ad Alaric. – Per quello che possono contare le sue parole – Pyrgo non nascose lo scetticismo – Era febbricitante, continuava a blaterare cose senza senso. Kay non aveva più sete. Era troppo attento. Ogni informazione poteva dimostrarsi utile per la sopravvivenza. – Per esempio? – Ci ha messo in guardia contro il custode della città – Roland socchiuse le palpebre – Ne era terrorizzato. Continuava a ripetere che era terribile – una pausa – Che era Dio! Kay non disse nulla. Si limitò a sfilarsi il fodero dalla schiena. Non era il massimo della comodità per dormire. – Prospettiva interessante! Pyrgo emise uno sbuffo. – Te l’ho detto, era impazzito. Se Dio esiste, si è dimenticato di questo posto già da un pezzo. – O noi ci siamo dimenticati di lui. – In fondo, fa lo stesso. Kay non ribatté. Non si era mai preoccupato di quegli argomenti, non aveva tempo di filosofeggiare chi doveva lottare per sopravvivere. Tornò a concentrarsi su Roland, che teneva le mani giunte e il capo chino. Sembrava sul punto di dire qualcosa, ma che non riuscisse a trovare le parole. – Kay, il Chimerico di cui ti ho parlato è anche il motivo per cui Alaric ti ha risparmiato. Per cui è interessato a te – Roland cominciò di getto, prima di pentirsene. – Era un Chimerico d’ombra.
Kay incassò il colpo. Non disse nulla, ma il guizzo di un muscolo sulla guancia tradì la portata delle emozioni che lo agitavano. I suoi occhi si fecero più duri. – In realtà non è così semplice – Roland proseguì, con un tono di voce più dolce – Prendi Pyrgo, per esempio. Per comodità viene definito un Chimerico del fuoco, ma la sua dote semplicemente è muovere le particelle a velocità tale da dargli fuoco. Così un Chimerico d’ombra. Cos’è quest’ombra davvero? Kay guardò il suo braccio. – Qualcosa di scuro? Roland fece un cenno conciliante, chiedendogli di mettersi comodo. – Sai che, anche nel mondo antico, quando le possibilità di studio erano maggiori, non si è riusciti a identificare più del 10% della massa totale dell’universo? Kay cominciava a essere stanco degli enigmi del Chimerico. Cosa c’entrava adesso l’universo? Era lui il problema. Lui, un individuo al centro del cosmo. Un particolare che cozzava contro l’universale di cui era parte, volente o nolente. – E allora? – E allora giunsero alla conclusione che esiste una “massa mancante”. C’è, ma non emette radiazione elettromagnetica. Non emette luce, insomma – Roland lo fissò – È oscura. Kay non capiva. In quel momento, gli pareva che persino le elucubrazioni tecniche di Samuel Barni fossero più semplici. – Spiegati meglio! – L’universo si fonda sulla dicotomia e sull’equilibrio. Dove esiste materia, esiste anche il suo opposto, visibile contro oscuro. Dove esiste energia, esiste anche un’energia opposta, a pressione negativa. Una forza antigravitazionale, non rilevabile. Permea il vuoto, perché anche il vuoto ha una sua energia. Pyrgo si alzò di scatto.
– Mi state facendo venire mal di testa. Vi lascio ai vostri paroloni, anche se credo che fareste meglio a riposare. Vado a fare la guardia, adesso c’è solo un Cacciatore sveglio. Potrebbe non bastare. Meglio essere prudenti – dopo l’incontro con il Ragno nessuno voleva commettere avventatezze. La città era vicina, con i suoi pericoli. Kay lo guardò allontanarsi, a o deciso. Nonostante la sua statura, Pyrgo era scattante e agile. Vedendolo svegliare un Cacciatore, con una leggera scrollata di spalle e persino un’ombra di sorriso, il Reietto non poté fare a meno di pensare che fosse una persona buona. Non gli piaceva uccidere, era evidente. Eppure lo faceva, secondo gli ordini di Alaric. Quel mondo li rendeva degli assassini. Oppure forniva soltanto una scusa per le loro pulsioni più oscure. – Quel Chimerico – Roland richiamò la sua attenzione – era diverso da te. Era interamente composto di energia oscura. Era un’ombra che si muoveva a suo piacimento. Poteva assumere aspetto completamente umano e un attimo dopo diventare pura energia. Kay si alzò, fece qualche o, tornò a sedersi davanti a Roland. La mano d’ombra era serrata, come aggrappata a qualcosa che neppure lui riusciva a vedere. – Perché mi stai dicendo queste cose? Il Chimerico della terra lo scrutava. I suoi occhi erano grigi, antichi. – Stiamo andando in uno dei luoghi più pericolosi della Superficie. Mi sembra giusto che tu abbia tutte le carte da giocare in mano. Devi essere consapevole delle tue potenzialità. Ho idea che finora tu non le abbia sfruttate a fondo. Se ne avrai bisogno, sarai in grado di farlo? Kay avrebbe voluto rispondere di sì. Certamente, lo aveva sempre fatto. Era un Cacciatore e un esploratore. Il migliore. Eppure quelle parole gli urtarono contro la lingua, si attorcigliarono e si dispersero nella confusione del suo cuore. Pose una mano sull’elsa delle spade. Lo facevano sentire più a suo agio. – Lo hai detto anche tu, io non sono come quel Chimerico – sbottò, amaramente
– Non ho nessuna energia, soltanto questo arto abnorme. Non sono all’altezza di te, di Pyrgo, di Starr… di nessun Chimerico. Non sono un Chimerico, né un umano. Questa è la realtà – e faceva male. Gli pareva di trovarsi sulla linea di confine di due esistenze, senza riuscire ad afferrarne nessuna. Sul crinale a sbandare da una parte e dall’altra. Non c’erano appigli. Poteva soltanto cadere. Forse lo stava facendo già da tempo. Una caduta autodistruttiva. Si voltò, dando le spalle a Roland. Era seccato con lui e con se stesso. Si avvolse nel mantello, sdraiandosi di lato. Le parole del Chimerico gli balenavano in testa. Si stava sbagliando, non aveva nessuna energia oscura, o comunque era soltanto un’inutile seccatura. Roland si sdraiò a sua volta, le mani intrecciate dietro alla schiena. – Né Chimerico, né umano. Sai soltanto quello che non sei! – lasciò che questa verità aleggiasse nell’aria tra di loro – Non credi sia arrivato il momento di capire quello che sei? Kay non rispose. Non aveva risposta. Doveva trovarla. Miris si rigirò nel giaciglio di ragnatela. Le ricordava il suo vecchio letto e il senso di familiarità era quasi doloroso. Nel suo dormiveglia, poteva fingere di essere ancora a casa, nella Corporazione, all’inizio del nuovo Ciclo. Chrisandra sarebbe venuta a svegliarla, brontolandola perché stava facendo tardi a lezione. Fare una rapida colazione, indossare la protezione schermante, andare in classe, uscire per una merenda, vedere l’Alveare al lavoro, salire su una lucertola, incontrare Kay… Tante piccole cose che potevano rendere felici, nonostante le ingiustizie, le malattie, i Raggi. Nonostante tutto. Si accorse confusamente che, tra i suoi bei ricordi, c’erano tanti in cui appariva anche Kay. Questo contribuì a svegliarla del tutto. Non doveva mancare molto alla notte e al momento di riprendere il cammino. Troy si agitò nel sonno. Si era tolto il casco e gli occhiali, anche se molti
Cacciatori preferivano tenerli. Un ciuffo scuro gli faceva ombra sulla fronte e Miris provò l’impulso di scostarlo. Mise la mano dietro alla schiena. No, non voleva svegliarlo. Non avevano ancora chiarito del tutto il loro rapporto. Cioè, Troy l’aveva chiaro in mente, anche troppo. Era lei che provava emozioni contrastanti. Non voleva perderlo, il Sacerdote era un punto di riferimento familiare in quel gruppo di semi-sconosciuti. Allo stesso tempo, non riusciva a capire se il suo affetto si spingesse a qualcosa di più. Sospirò, affranta. Capiva i pensieri degli altri, ma a volte avrebbe preferito capire i propri. Si tirò a sedere. La tana del Ragno-Regina poteva sembrare accogliente, tappezzata di morbide ragnatele, ignorando le ossa sbriciolate a terra e la tomba del Cacciatore squartato. Con quella compagnia, c’era da meravigliarsi che fosse riuscita a dormire per qualche ora. Individuò Pyrgo, seduto su un masso all’ingresso di un cunicolo. Montava la guardia insieme al Cacciatore coraggioso che aveva contribuito a salvarla. Nonostante il casco, lo riconosceva per il fisico asciutto e la bassa statura. La ragazza, anche contro la sua volontà, sapeva che si faceva chiamare Kiar. E sapeva molte altre cose. Si sollevò e si avviò barcollando in quella direzione. Seguì la luce della torcia che giaceva per terra tra i due guardiani. Non fece nulla per nascondersi e il Cacciatore fu il primo a notare la sua presenza. Rimase a scrutarla con il casco piegato di lato, fin quando si fermò a qualche o di distanza. Pyrgo le lanciò un’occhiata sorpresa. Forse un po’ seccata. – Che vuoi? – Ecco… volevo ringraziarti per prima – Miris si abbassò, le mani sulle ginocchia – Sei intervenuto per fermare Starr. Voleva uccidermi. Pyrgo arricciò le labbra in un sogghigno. – Starr è un po’ irascibile, come avrai notato.
– Un po’? – il Cacciatore Kiar pareva divertito – Sei un inguaribile ottimista. – E comunque non avresti dovuto leggere nella sua mente. Miris ne era consapevole. Ma come poteva prevederlo? – Non ho fatto apposta. L’ho toccato ed è successo. Mi dispiace, ma non riesco a controllare il mio potere. A volte si nasconde e non lo sento per ore, a volte mi assale d’un tratto e percepisco i pensieri di tutti quelli che mi sono vicini, anche senza guardarli o toccarli – lanciò un’occhiata nervosa al Cacciatore – Mi dispiace! – E non era si riferiva solo all’incidente con Starr. – Un potere non controllato è un potere inutile – Pyrgo mosse in fretta la mano, creando una fiammella nel palmo – Non produrrei il fuoco, se rischiassi di bruciarmi – strinse le dita, estinguendo la fiamma in un solo istante. – Come fai a spegnerlo? – Miris non era convinta. La sua mente non era on o off. Era sempre attiva. – Questione di esercizio. Tu quanto ti sei esercitata per sfruttare il tuo potere? Miris non ebbe bisogno neppure di rifletterci. – Poco – ammise. Erano le menti degli altri che si immettevano nella sua, più che il contrario. Eppure, cominciava a credere che la telepatia funzionasse in entrambe le direzioni. Lei poteva entrare nella mente della gente a leggere. E forse anche a scrivere. Quella possibilità era ancora più terribile. Miris si stava accorgendo che, suo malgrado, più usava il suo potere, più questo cresceva. Si evolveva con lei. – Non sono un esperto di telepatia – ammise Pyrgo, le mani sulle ginocchia – Ma, al tuo posto, la prima cosa che farei è cercare di schermare la mente. Come un muro di piombo, anche se impalpabile. Impenetrabile. Così mi proteggerei da pensieri non desiderati e soprattutto da ingerenze altrui. Non siamo sicuri che tu sia l’unica telepate sulla Terra, giusto? Miris si massaggiò la tempia. Sembrava una proposta sensata. La sua mente era già in azione. Si immaginò un muro, lo allargò e lo alzò, fino a farlo divenire una
vera e propria cinta muraria. C’era solo una porta, grande o piccola a seconda del suo pensiero. Una serratura. Comparve. Adesso doveva solo capire quando e come aprirla. Fece una smorfia. – Come faccio a vedere se funziona? – probabilmente c’erano delle crepe. Doveva lavorarci su. – Lo provi. – Dovrei mettermi a toccare o a farmi toccare, insomma? – Miris non riuscì a trattenere uno sbuffo. Pyrgo rise. – Oh, non fare tutte queste storie. Scommetto che quel Sacerdote ti aiuterebbe volentieri – indicò Troy, sdraiato supino. Russava appena. La ragazza arrossì. – Sì, beh, forse… – E non è l’unico – aggiunse Kiar, a bassa voce. Miris si mosse a disagio. – Non capisco a chi ti riferisci! – Dici sul serio? – Non ti sto toccando, né ti guardo negli occhi –il Cacciatore indossava il casco. La ragazza dubitava che avesse intenzione di toglierlo. Kiar parve riflettere per qualche attimo. Miris immaginò che si stesse mordicchiando le labbra. Beh, lei lo avrebbe fatto. – Prova comunque. Credo che tu possa riuscirci, se ti concentri. Leggi i miei pensieri! Pyrgo si accucciò sui talloni, con un’espressione contrariata. – Non credo sia il caso… – Lo sa – ribatté Kiar, tranquillamente. Non era chiaro se fosse seccato o soltanto sollevato. – Non è vero? Miris si limitò ad annuire. Pyrgo borbottò qualcosa di poco carino riguardo le telepati impiccione. La ragazza lo ignorò e scrutò il Cacciatore, oltre il casco,
oltre il corpo, in quella casetta di pietra chiara che era la sua mente. Era incredibile come ogni architettura di pensiero si mostrasse diversa da individuo a individuo. Attorno alla casa mentale, c’era un campo di strane piante dorate, agitate da una leggera brezza. Cauta, Miris cercò tra di esse la risposta. Si tirò indietro di colpo quando la trovò. – Ti sbagli – scosse la testa – Non lui… cioè, mi prende sempre in giro… insomma, non Kay! – Ti prende in giro e ti salva la vita – fece notare Pyrgo, in modo ozioso – Oggi anche lui è intervenuto per fermare Starr. Dovresti essergli riconoscente. Miris fece una smorfia. Ringraziare il Reietto non la entusiasmava. Ogni volta che cominciavano una conversazione, finivano con il parlare di tutt’altro. E forse parlare con altri uomini non era rispettoso nei confronti di Troy. No, non le importava. Erano fidanzati, non sposati, poteva parlare con chi voleva. – Ci penserò domani – concesse, riluttante – Ma tu, Kiar, come fai a saperlo? Insomma, ci hai visto così poco… Il Cacciatore sorrise sotto il casco. – Intuito! – Mmm – Miris giocherellò con una ciocca – Senti, se non sono invadente… cioè, di solito lo sono ma non è colpa mia… posso fare pratica con te? Fu Pyrgo a rispondere, secco. – No! – Dai, per favore, tanto ormai… se non hai altri segreti, ovvio… – Miris lo ignorò, insistente. Si sporse per stringere la mano di Kiar, ma si bloccò in tempo questa volta. – Preferirei farmi toccare da te, visto che sei… insomma… Pyrgo emise un grugnito e uno sbuffo di fiamma gli nacque nelle mani, illuminando il cunicolo. – Vuoi farmi pentire di aver fermato Starr – borbottò, ma si alzò e fece qualche
o – Vado a controllare la zona, prima di svegliare gli altri. Miris tossicchiò. – Ho disturbato? – Un po’ – Kiar si strinse nelle spalle – Non preoccuparti, gli erà. È un tipo che non porta rancore. Non tradire la sua fiducia e sarà un amico fidato – tirò un sospiro. I suoi pensieri avevano il sapore di un frutto dolce e amaro insieme. – Mi conosce. Immagina già la mia risposta. Miris spalancò gli occhi, eccitata. – Magnifico! – non poté trattenersi e gli prese la mano. Un turbine di pensieri le vorticò in testa. – Quando cominciamo? Ah, adesso! Da quel semplice muro, la sua mente stava già costruendo un castello fortificato.
29
Chrisandra sollevò la testa, mentre ava al padre la provetta con il centrifugato. – Credi che Miris stia bene? – domandò. Radamante non rispose. Agitò la provetta, scrutandola con attenzione, per poi aggiungere altri reagenti. Si creò una nubecola bianca, che galleggiava come una medusa trascinata dalla corrente. – Credo che siano necessari altri dodici minuti di centrifuga – la porse alla figlia. Chrisandra fissò la provetta, ma non tese la meno per prenderla. – Sono in pensiero per lei! Radamante inarcò un sopracciglio. – Non temere, credo che questa volta la reazione sia giusta… – Non mi importa della tua reazione! – Chrisanda scattò in piedi – Il mio fidanzato è ancora convalescente, il nostro Alveare è stato conquistato e un estraneo comanda sulle nostre vite, mia sorella è stata mandata in una missione suicida… – le si spezzò la voce – Come fai a non pensarci? Radamante non si scompose. Solo un lieve incresparsi di una ruga sulla fronte manifestò il suo vero stato d’animo. – Non ho altre figlie a parte te – replicò, con calma forzata – E comunque non voglio parlarne. Ho di meglio da fare. Chrisandra provò l’impulso di prendere tutte le provette della centrifuga e rovesciarle sul pavimento. Forse allora suo padre si sarebbe preoccupato. Lei non intendeva dimenticarsi di avere una sorella. Miris le mancava. Anche se si erano allontanate negli ultimi tempi, e adesso ne capiva il motivo, era sempre stata una certezza per lei. Avere qualcuno a cui badare, per cui era importante, le
dava un senso di realizzazione che avvertiva soltanto adesso che si era dissipato. Miris, la piccola Miris, con i suoi timidi sorrisi e gli sguardi appena accennati, le suscitava una tenerezza quasi materna. Aveva sempre pensato di essere lei a badare dalla sorellina, ma adesso non ne era più sicura. Forse era stato il contrario. E ora che non c’era più, ogni cosa parlava di lei. La sua stanza vuota, il letto di ragnatela rimasto disfatto, il droide Ripulitore che non aveva più niente da mettere in ordine, le pareti silenziose dei loro alloggi, il laboratorio dove studiavano insieme, le bancarelle del mercato tra cui non potevano fare più i loro acquisti inutili… Le sfuggì un singulto. Possibile che suo padre non capisse? Radamante continuava a guardare le provette, prigioniero dei suoi esperimenti e del suo orgoglio. Della sua paura, pensò Chrisandra. Aveva paura delle mutazioni e dei Chimerici perché aveva paura del cambiamento. Di una trasformazione che capovolgesse il mondo che conosceva. – Miris è tua figlia e mia sorella – affermò, freddamente – E non credere che io accetti di rinnegarla pubblicamente come hai fatto tu. Per quello che mi riguarda, può leggere nella mente, avere le orecchie viola o volare a testa in giù. Non cambia nulla. – Oh, tu la rinnegherai! – ribatté Radamante, con una nota di malcelata minaccia – Bisogna tenere le distanze dai Chimerici! Chrisandra lo aveva sempre accettato. In fondo, i Chimerici erano una realtà lontana da lei. Erano utili all’Alveare, nulla di più. Si era fatta portavoce di un modo di pensare diffuso e comodo. Adesso lo vedeva in tutta la sua ingiusta emarginazione. – Non lo farò! – Invece lo farai! – Ho detto di no! Radamante si voltò a fissarla. I suoi occhi erano cupi, furiosi. Detestava essere
contraddetto, da chiunque. Tanto più da una figlia che doveva essere come lui. – Devi farlo, per la famiglia e per te stessa. È la legge. Un Chimerico non ha famiglia e la nostra non può essere macchiata da questa onta… Chrisandra emise una risata sarcastica. – Ma quale famiglia? Nostra madre è morta da anni, anche se non vuoi parlarne. Miris è lontana. Tu pensi soltanto ai tuoi esperimenti. Dimmi, secondo te questa è una famiglia? Rimasero a fissarsi, fin quando qualcuno si schiarì la voce. Si voltarono entrambi di scatto. Sulla soglia, morbidamente appoggiato allo stipite con il gomito, Alaric li stava osservando. Aveva un’espressione divertita. – Disturbo qualcosa? – domandò, con l’aria di chi sa già di disturbare e non gli interessa minimamente. – Sì! risposero all’unisono padre e figlia. Alaric scoppiò a ridere. – Ebbene, Autocrate? – Radamente sputò questa parola quasi con disgusto – Cosa ti suscita tale ilarità? – Oh, niente di particolare – Alaric continuò a sogghignare – Solo il fatto che vi assomigliate molto, e non intendo fisicamente. Entrambi state mancando di rispetto all’uomo che può decidere della vostra sorte. E sembrate non rendervene conto!. Radamante sbuffò. – Bene, adesso che ci hai ricordato questo particolare, rivelaci il motivo della tua presenza qui! – Ed era evidente che non fosse ben accetto. Purtroppo la cosa non aveva importanza. Che gli pie o no, era Alaric che comandava. E la sua scorta, due Cacciatori di Alpha5 con fucile alla mano, aiutava a non dimenticarlo. Chrisandra si chiedeva da quanto il telecinetico li stesse ascoltando. Troppo, decise. Era infastidita dalla sua ingerenza in questioni private, senza contare che era lui la causa principale di tutti i loro problemi. E ancora di più era infastidita dagli sguardi penetranti che le lanciava. Si trovò a rabbrividire. – Intendo chiedervi qualcosa di vostro – A giudicare dal tono, era chiaro che Alaric non chiedeva. Ordinava. Radamante incrociò le braccia. Sembrava aver deciso di accontentare l’Autocrate, in modo da liberarsene alla svelta e tornare ai
suoi studi. – E sarebbe? Il sorriso di Alaric assomigliava a quello di uno squalo. – La mano di vostra figlia. Per un attimo Radamante fu troppo stupito per replicare, Chrisandra troppo sconvolta. Fu lei però a rispondere, più per la paura di fronte a quella proposta che per il coraggio di contraddire l’Autocrate. – No – scosse la testa con forza, tanto che temette di essere sul punto di staccarsela – Non posso. Sono già fidanzata! Alaric non la degnò di un’occhiata, continuando a fissare Radamante. Era come se lei fosse invisibile. Chrisandra avrebbe voluto mettersi davanti a lui e gesticolare per manifestare la propria presenza. E il proprio parere. Non le veniva chiesto. – Sono già promessa – ripeté – Padre, diglielo tu! Radamante si appoggiò al tavolo, scrutando Alaric con attenzione. Cercava di carpire qualche informazioni sul suo volto tranquillo e sogghignante. L’Autocrate non era uno stupido. Un maledetto Chimerico invasore, ma non uno stupido. Cosa voleva davvero? – Perché questa richiesta? – domandò, freddamente – Per quale motivo vuoi mia figlia? Alaric scrollò le spalle. – È una donna molto bella. Non posso semplicemente essermi innamorato di lei? Radamante non ci avrebbe creduto neppure per un secondo. Emise uno sbuffo. – Autocrate, non prendiamoci in giro. La conosci da pochi Cicli. E comunque non mi sembri un uomo che agisce guidato dai sentimenti. Dammi una motivazione più plausibile.
Alaric non gli doveva alcuna motivazione. Bastava un cenno e quella donna sarebbe stata sua. Come intuendo i suoi pensieri, i due guerrieri, rimasti qualche o indietro, strinsero la presa sui fucili. Il telecinetico scosse appena la testa. Non c’era bisogno di altri spargimenti di sangue. Per ora. – Eri il regnante di questo posto – spiegò, semplicemente – La popolazione sarà più propensa ad accettare la nuova classe dirigente, se si porrà in continuità con la vecchia. E quale metodo migliore per saldare i rapporti tra di noi, che un matrimonio con tua figlia? Chrisandra percepiva la fredda logica di quel ragionamento e ne era disgustata. Alaric continuava a non guardarla. Era solo merce di scambio. Radamante corrugò la fronte. – Sei un bravo stratega, non c’è che dire – in quel modo Alaric legittimava la propria autorità e bloccava a lui ogni possibilità di rivolta. – Ma non posso accettare la tua proposta. – E tu sei un vecchio testardo – Alaric sembrava aspettarsi quella risposta – Ti sto offrendo la possibilità di mantenere la tua posizione e addirittura di esercitare una briciola di influenza nel nuovo sistema legislativo. Tua figlia sarà la moglie dell’uomo più potente degli Alveari. Dovresti esserne onorato. Continuavano a parlare di lei in terza persona, come se fosse una cosa. Chrisandra si sentiva una tarantola da tela (l’equivalente di una vacca in ato), condotta al mercato e messa in vendita al miglior offerente. Impotente. – Questo matrimonio non è possibile – Radamante scosse la testa. – Ti opponi a me? – Non conta soltanto il mio permesso – il Sacerdote non mostrò alcun tentennamento – Mia figlia ha firmato un contratto di fidanzamento. È già promessa.
Alaric non vedeva dove stesse il problema. Era quasi incuriosito. – E allora recidete il contratto! Radamente serrò le labbra, come se l’altro avesse proposto qualcosa di inconcepibile. – Non è nostra usanza. – Beh, allora cambiatela! – Le usanze non si cambiano – il Sacerdote stava diventando paonazzo per lo sdegno. – Mia figlia sposerà Theodor Arcadi, come previsto. È la legge – e quando si trattava di far rispettare le leggi, Radamante era irremovibile. Alaric prese un sospiro. – Sto cercando di essere paziente con te, ma devo ammettere che non mi semplifichi affatto il compito. Vedrò di essere più chiaro. Io prenderò tua figlia, che tu lo voglia o no. Una cerimonia pubblica che cementi le nostre famiglia sarebbe l’optimum per entrambi ed eviterebbe spiacevoli incomprensioni future. Ti faccio notare che posso avere questa donna come e quando voglio. Preferisci che sia una sposa rispettata, o che diventi la mia amante? Per me non fa differenza. Chrisandra sentì l’impulso di correre via dalla stanza. Eppure rimase bloccata là, ad ascoltare i due uomini che decidevano del suo destino. Serrò le mani in grembo per trattenere il tremito che la scuoteva. – Non voglio sposarti – disse, con un filo di voce. Se anche la sentì, Alaric la ignorò. – Pensaci, Triumviro. Hai poco tempo. La mia pazienza si sta esaurendo. Muori con le tue vecchie usanze, o vivi sotto le mie leggi. Non ci sono alternative. Confido che farai la scelta più saggia. Radamante si rassettò la tunica, ostentando indifferenza. – Rifletterò sulla tua proposta – disse, la mascella serrata –E adesso, se vuoi scusarmi, Autocrate, ho una lezione che mi aspetta.
– Prego – Alaric si spostò di lato per farlo are e accennò persino un inchino beffardo. Radamante si allontanò a testa alta, a o nervoso. Chrisandra aspettava di rimanere sola, ma il telecinetico non sembrava intenzionato ad andarsene. Fece cenno ai due soldati. – Attendetemi fuori! Chrisandra sentì accelerare i battiti del cuore. Con un senso di panico crescente, osservò i guerrieri uscire e chiudersi la porta alle spalle. Nella stanza erano rimasti lei ed Alaric. Soli. Per un attimo nessuno dei due parve voler turbare il silenzio pesante. Il gorgoglio di una provetta sul bunzer era una risata minacciosa nelle orecchie di Chrisandra. Perché quell’uomo era rimasto? Cosa voleva da lei? Non sapeva cosa fare. Non poteva neppure fuggire. C’era soltanto una porta, presidiata dai soldati. Era in trappola. Alaric fece due rapidi i, fino a trovarsi davanti a lei. Era più alto, più robusto. Un ragno famelico di fronte a un insetto imprigionato nella tela. Chrisandra si irrigidì, resistendo all’impulso di indietreggiare. Non voleva fargli vedere che aveva paura. Ricordava chiaramente quando il potere del Chimerico l’aveva investita, scaraventandola indietro. Si era lussata una spalla e solo grazie all’estratto di fattori di crescita ossei era riuscita a rimettersi in così breve tempo. Un potere spaventoso e terribile, come l’uomo che lo portava. In qualche modo riuscì a rimanere immobile, ma non sapeva se era per coraggio o semplicemente perché la paura la bloccava. Alaric la osservava, studiandola. Era tranquillo, disinvolto. – Ti ha mai detto nessuno che hai degli occhi molto belli? Molti, a dire il vero. Ma in quel momento Chrisandra avrebbe voluto strapparseli, pur di allontanare da sé quell’uomo. – Cosa vuoi da me? – domandò, sforzandosi di mantenere salda la voce. Molti
uomini l’avevano corteggiata, più o meno insistentemente, ma era sempre riuscita a tenerli a bada. Questa volta era diverso. Si sentiva inerme. E, dal suo sguardo, comprendeva che Alaric si divertiva a farla sentire in quel modo. A lui piaceva incutere paura. Il Chimerico la fissò. Ogni sorriso era scomparso, senza lasciare neppure un’ombra. – Voglio te – precisò, abbassando la voce – Ti voglio nel mio letto. Sei riuscita a sfuggirmi una volta, mi sono confuso con tua sorella. Adesso sono impaziente di riprendere da dove eravamo rimasti. Chrisandra avvertì un senso di nausea crescente. – Non voglio sposarti. Un attimo dopo si trovò incollata alla parete, con la mano di lui che le stringeva brutalmente la gola e il viso a pochi pollici dal suo. La furia che gli lesse negli occhi la lasciò senza fiato. Quello che vide fu un uomo che non tollerava i rifiuti. Rimase immobile, troppo spaventata per riuscire a spostarsi anche di un millimetro. – Non ti ho chiesto un parere in proposito – sibilò Alaric, freddamente. Avrebbe potuto usare i suoi poteri, ma quel contatto feroce era più umiliante e minaccioso. Chrisandra sentì la sua saliva spruzzarle la guancia, ma soffocò l’impulso di sollevare la mano e asciugarsela. – Non hai scelta. O vieni da me con le buone, o sarò costretto ad usare i miei metodi per averti. Il risultato non cambia. Io ottengo sempre ciò che voglio. Chrisandra voltò la testa, deglutì. – Ti prego, lasciami andare – gracchiò – Ci sono tante donne. Perché proprio io? Alaric parve pensarci. – Perché le altre donne posso averle senza combattere – rispose, noncurante – E io mi annoio. Chrisandra deglutì di nuovo. – Ascoltami, ti scongiuro. Io non voglio sposarti. Non posso. Sono fidanzata… – la voce le morì in gola, quando colse il lampo
negli occhi scuri del Chimerico. – A questo – disse – si può porre rimedio. La lasciò andare. Chrisandra rimase schiacciata alla parete per sostenersi. Alaric fece qualche o verso la porta, facendole sperare che il tormento fosse finito. Era un’illusione. Poi, senza nessun preavviso, si voltò e la costrinse di nuovo contro il muro. Prima che Chrisandra riuscisse a reagire, l’afferrò per i capelli e premette la bocca sulla sua, infilandole a forza la lingua tra le labbra e stringendole con una mano il seno fino a farle male. Fu un bacio feroce, autoritario, senza alcuna dolcezza. Se possibile, fu più minaccioso della stretta alla gola. Quando si staccò, Chrisandra sentiva un sapore caldo in bocca. Sangue, dove l’uomo l’aveva morsa famelico. Alaric si leccò le labbra. – A presto, mia sposa – il suo sorriso era qualcosa di spaventoso. Se ne andò senza aggiungere altro. Non appena varcò la soglia, Chrisandra si precipitò a chiudere la porta e serrò la sbarra del chiavistello. Non sarebbe bastato, se Alric avesse deciso di tornare. Con i suoi poteri poteva disintegrare quella misera barriera. Non c’era un luogo sicuro. Chrisandra si appoggiò con la schiena al battente e si ò il dorso delle mani sulla bocca. Il labbro spaccato faceva male, ma non le importava. Strofinò con foga, voleva soltanto togliersi il sapore di Alaric di dosso. Si sentiva umiliata, profanata nella sua intimità. Ed era solo l’inizio. Solo allora si permise di crollare. Si accasciò a terra, con la schiena contro la porta. Odiava quell’uomo. Alaric aveva conquistato l’Alveare in una battaglia che aveva ferito gravemente il suo Theo, aveva retrocesso e sfidato suo padre, aveva smascherato sua sorella e l’aveva mandata via da lei. Le aveva rovinato la vita. Non era abbastanza? Cos’altro voleva?
Voglio te! Le parole del Chimerico le riecheggiavano nella testa, terribili. Quell’uomo non si sarebbe fermato davanti a niente per averla. La voleva perché era bella. La voleva perché era una sfida. Con le braccia strette intorno alle ginocchia piegate, Chrisandra chinò la testa e lasciò che le lacrime sgorgassero amare.
30
Fu un sollievo e uno sgomento quando Roland affermò che erano vicini alla città “H”. Avevano seguito il corso di quello che un tempo era stato un torrente più che un fiume, addentrandosi nella gola riarsa. L’acciottolato era perfettamente levigato, scricchiolava sotto i tacchi degli stivali. Quel tenue rumore accompagnava il gruppo in marcia, mentre dallo stretto brandello di cielo che riuscivano a scorgere calava un chiarore luminescente. Miris provava a immaginare quel luogo in un tempo antico. Il lieve mormorio dell’acqua corrente, il guizzo dei girini appena nati, il verde delle fronde che si inchinavano fino a sfiorare il pelo trasparente. No, era impossibile. Chissà se gli abitanti del mondo antico si rendevano conto di quanto fossero fortunati. Eppure in quella gola, in parte protette dai Raggi, riuscivano a vivere delle piante. Miris le osservò incuriosita. Avevano delle larghe foglie nere, che catturavano e schermavano la luce, un ombrello che proteggeva i virgulti colorati. Serpeggiavano nella roccia, gemmando in bocci ancora chiusi. La ragazza si avvicinò, indicandoli a Troy. – Belli, vero? – Come te – il Sacerdote le rivolse un sorriso – Vuoi che te ne prenda uno? Nessuno le aveva mai regalato un fiore. C’era qualcosa di arcaico e intrinsecamente profondo in quel semplice gesto. Aveva la sensazione che tante persone rivivessero in lei quel momento che era appartenuto a tutti loro. Annuì. – Sì, grazie.
– È una sciocchezza – Kay, che li precedeva di qualche o, si voltò indietro. Miris si risentì immediatamente e Troy raddrizzò le spalle, in un gesto di sfida. Era più alto del giovane e intendeva farlo pesare. – Cos’è, Reietto? Sei geloso? Per tutta risposta, Kay si chinò a raccogliere un sasso. Lo soppesò in pugno, la fronte aggrottata. – Allontanatevi! Miris incrociò le braccia, in attesa. Cosa pensava di fare? Tirarlo a Troy? O a lei? Abituata a sapere i pensieri di tutti, la disturbava non avere idea di cosa asse nella testa del giovane. Era terribilmente imprevedibile. Come al solito Kay riuscì a sorprenderla. Lanciò il sasso verso le piante, tenendosi a distanza di sicurezza. Miris non fece in tempo a pensare che fosse un vandalo. Distruggere dei fiori così belli! Non appena la pietruzza sfiorò il terreno, il boccio si spalancò, una bocca irta di spini. Piccoli dardi furono scagliati intorno, per poi ricadere al suolo. Miris rimase a fissarli a bocca aperta. – Ma… – Lancia aculei velenosi – spiegò Kay, asciutto – Meccanismo di difesa e di caccia. Queste piante si nutrono degli scarafaggi e dei altri insetti che riescono a sopravvivere in Superficie. Solo allora Miris notò i piccoli gusci senza vita sparsi là intorno. Li aveva scambiati per sassi, ammaliata dalla bellezza di quella pianta. L’apparenza accecava lo sguardo e impediva di cogliere la realtà. Kay non la guardava – Basta il movimento ad attirarle. Avvicinarsi è pericoloso. Troy aveva fatto molti i indietro. Aveva con sé degli antidoti, ma non era certo che funzionassero per quel veleno. – Sono perfettamente d’accordo.
Kay curvò le labbra in un sorriso divertito. – Sarebbe la prima volta che ci troviamo d’accordo su qualcosa. – Insomma, state lontani da quelle piante – Kiar chiudeva la fila, proteggendo le spalle. Il fucile a tracolla gli conferiva un aspetto temibile, nonostante l’esile corporatura. – E sbrighiamoci, gli altri sono già avanti. Dobbiamo restare uniti – ando, diede una pacca leggera sulla spalla del Sacerdote – In ogni tempo, non basta regalare fiori. Ci sono altri modi per conquistare una donna. Troy pareva disturbato da quell’ingerenza. – Per esempio? Il Cacciatore si strinse nelle spalle. – Devi trovarli tu. Non pensare mai di poterla comprare con un regalo. E tu, Miris, non venderti per nulla che abbia un prezzo – si allontanò di qualche o, contando che l’avrebbero seguito. Troy e la ragazza si affrettarono. Non volevano rimanere indietro, non così vicini alla loro meta. In realtà non provavano alcun desiderio di raggiungerla. – Da quando quel Cacciatore si prende tutte queste confidenze nei tuoi confronti? – il Sacerdote lanciò un’occhiata cupa alle spalle di Kiar. Miris assunse un tono noncurante. – Sto solo cercando di fare amicizia con i nostri compagni di viaggio. Kiar è simpatico. – Beh, non farlo! – sbottò Troy, seccamente. – Cosa? – Non gli stare troppo vicino. Quando ci siamo accampati, vi ho visti seduti insieme in disparte. Vi tenevate per mano. E durante la marcia a volte lo segui, chiacchieri con lui… – scosse la testa, come se fosse evidente il suo punto di vista. Miris inarcò un sopracciglio. – Che c’è di male, scusa?
– Se ti senti sola, hai me – e poi aggiunse, con enfasi – Il tuo fidanzato! Non era affatto la stessa cosa. La ragazza non poteva spiegarglielo. E neppure voleva. Insomma, non aveva più il diritto di chiacchierare con un amico? – Vuoi dirmi che adesso non posso più parlare con nessuno? – Sono solo preoccupato per te, quello è un Cacciatore di Alpha5… – Troy, preso in contropiede dalla reazione risentita della ragazza, cercò di giustificarsi, ma Miris intravedeva un giallo malsano nei suoi pensieri. – No, sei solo geloso! Troy tacque, pareva sul punto di protestare. Sapeva che sarebbe stato inutile contro i poteri della ragazza. Sospirò, chinò la testa. – È vero, sono geloso – convenne – Ma perché sei la mia fidanzata e non voglio che nessun altro ti abbia. Sei solo mia. Sei solo mia! Miris rimase sorpresa dall’intensità di quel pensiero. Decise di chiudere la mente. Poteva bastare. Si rifugiò nel suo piccolo castello in costruzione. Troy teneva davvero a lei. Era quello l’amore? – Scusami – il Sacerdote fece per stringerle la mano. Miris era già qualche o avanti. – Va bene, non parliamone più – scosse la testa – Siamo entrambi nervosi. Quando sarà tutto finito risolveremo anche questo. – Sì – Troy pareva convinto – Insieme risolveremo tutto. Miris si sentì contagiata dal suo ottimismo. Lo mantenne per gran parte del tragitto, fin quando non si fermarono per fare il punto della situazione. – La città è dietro quella collina – affermò Roland, sollevandosi. Era rimasto per qualche attimo in ginocchio, i palmi sul terreno, ad ascoltare qualcosa che solo lui poteva sentire. – C’è rumore.
– Rumore? – il Sacerdote Morgante aveva le sopracciglia così aggrottate che si univano sopra la radice del naso – Che vuoi dire? – Che c’è qualcosa là – completò Kay. Stava sistemando pistole e spada a tracolla. Kiar faceva l’inventario delle armi a diposizione. Avevano soltanto tre fucili al plasma, i proiettili di tungsteno erano preziosi. L’apparecchiatura doveva ancora essere perfezionata per essere utilizzata su larga scala. Con la conquista del nuovo giacimento sarebbe stato possibile. Si auguravano tutti di riuscire a vedere quel momento. – Allora c’è vita – l’Ingegnere Tony e il sacerdote Furio parlarono all’unisono. Juliena scosse la testa. – Impossibile, non resisterebbe di giorno ai Raggi! Kiar tamburellò le dita sulla pistola, pensoso. – Non sempre rumore significa qualcosa di vivente – si limitò ad affermare, con la sua voce roca e cupa. Miris rabbrividì. – Se è tanto pericoloso, perché ci avete portato fin qui? – Morgante insistette, ancora più adirato di prima. Roland non perse la calma. – Non ne abbiamo la certezza. E comunque la città non è lontana dai nostri Alveari. In futuro potrebbe dimostrarsi una rivale. Senza contare che abbiamo assoluto bisogno di un oggetto che si trova al suo interno. Quindi, nonostante l’ovvio pericolo, abbiamo ottimi motivi per trovarci qui. Bisogna accettare il rischio, in cambio di un beneficio più grande. – Facile parlare per te! – sbottò il Sacerdote – Tu sei un Chimerico, puoi difenderti senza problemi. Noi abbiamo soltanto le pistole e qualche medicina – non incluse nel suo elenco le apparecchiature degli Ingegneri, che a suo modo di vedere erano totalmente inutili. E poiché gli Ingegneri credevano che le loro apparecchiature fossero di gran lunga più importanti delle medicine, il rapporto tra i due gruppi rimaneva in una posizione di stallo. – A parte quel Reietto traditore, chi altri di noi ha un modo efficace per proteggersi?
Per contribuire ad aumentare la tensione, Starr decise di dire la sua. – Proteggervi? Qual è il problema? Tanto per me potete morire tutti, a cominciare dalla telepate e dalla Sacerdotessa! Pyrgo sospirò. – Grazie, Starr. Sei davvero di aiuto! – Non c’è di che. Ah, ci sbrighiamo? Mi sto annoiando. Perdiamo sempre un sacco di tempo in chiacchiere. Samuel si sistemò la borsa a tracolla. – Credete che riuscirò a trovare qualche pezzo interessante in quella città antica? – Ma qui avete tutti fretta di andare a morire? – Troy alzò la testa al cielo scuro e vorticante – Siete tutti matti! – Se stiamo uniti, ci proteggeremo a vicenda – intervenne Roland, deciso – Non abbiamo motivo per rimanere in città più del dovuto. Entreremo, troveremo ciò che cerchiamo e ce ne andremo. Rapido e semplice. Non sembrava crederci nemmeno lui. Miris sospirò. – Se lo dici tu… ò lo sguardo da Kay a Roland, da Starr a Pyrgo, e infine su Kiar. Tutti parevano decisi. A parte Samuel, che sembrava pensare a tutt’altro e stava borbottando tra sé di commutatori di energia e fotoni dei Raggi. Per quanto cercasse di nasconderlo, Roland non era tranquillo. Sapeva qualcosa di cui loro non erano ancora a conoscenza. Miris lo sentiva come un soffio freddo sulla pelle. Qual era il segreto che si celava in quella città antica? Perché era così importante? E cosa c’entrava con la custodia nera che il Chimerico custodiva così gelosamente? In fondo, come poteva giudicare, lei che era stata la prima a nascondere se stessa? – Andiamo. La notte è ancora lunga – concluse Roland, ponendo un argine al suo fiume di domande – Buona fortuna a tutti noi!
E si avviò a grandi i lungo la collina.
31
Il terreno era accidentato. Miris pensò che si trattasse di semplici massi, ma poi notò che erano disposti in maniera troppo regolare. Costruivano dei quadrati e dei rettangoli, divisi da linee dritte, raggruppati in mucchi di cui rimaneva soltanto la base. Le fondamenta. Erano le rovine di un insediamento. Miris si accorse di camminare su un basamento rialzato. Correva vicino agli edifici franati, ai lati di una strada invasa dalla polvere. Nell’aria si udivano soltanto il rumore dei loro i e il borbottio sommesso di Samuel. Già due volte Kiar gli aveva intimato il silenzio, finendo inascoltato. – Marciapiede – sussurrò Roland tra sé. – Come dici? Il Chimerico si voltò appena. Non aveva fatto caso alla vicinanza della ragazza. Aveva ben altro a cui badare. – Dei camminamenti a lato delle strade antiche – spiegò. Gli veniva naturale parlare a bassa voce. Non sapeva chi altri fosse ad ascoltare. – Questo insediamento deve essere molto vecchio. Probabilmente è stato abbandonato prima che giungesse l’Apocalisse. Miris guardò in terra, pensosa. – Quanta gente credi che abbia calpestato queste stesse pietre? – Più di quella che puoi immaginare. – Davvero? – Miris era d’accordo – Come lo sai?
– La Terra mantiene il ricordo di tutto. Una piccola orma invisibile è un segno indelebile – Roland accennò un sorriso stanco – Si ricorderà anche di noi, anche se non nel modo che intendiamo. Nell’universo nulla va mai perduto. Miris temeva quello che la terra avrebbe ricordato. Una spedizione di umani e Chimerici, giunta là quasi per caso. Di certo non per sua volontà. Si sentiva un granello di polvere in balia del vento che soffiava di traverso su quell’ambiente lunare. I massi erano brufoli scuri che butteravano il fianco della collina. Il cielo tra i vapori era una fettuccia di nero vuoto. C’erano soltanto loro e uno scopo che non apparteneva a nessuno. I Chimerici erano lì perché li aveva mandati Alaric. Gli umani erano lì perché erano stati costretti. A parte Roland, forse, chiunque avrebbe voluto trovarsi da qualsiasi altra parte. Perché sono qui? Miris camminava, un o dopo l’altro, e non sapeva dove sarebbe arrivata. Non poteva che trascinarsi avanti, senza alcun merito per quello che stava facendo. In quel limbo non c’era alcun senso se non continuare fino alla fine. Trascinarsi. Non voleva essere ricordata così. Eppure non poté far altro che seguire gli altri lungo la collina, in cui gli edifici si facevano sempre più alti. Ciuffi di guglie si levavano verso il cielo, metallo lottava con roccia per contendersi lo spazio sulla terra. In ato aveva vinto e adesso era stato sconfitto, pustoloso per la ruggine che lo mangiava pian piano. Miris si guardò intorno, cercando di imprimersi bene a mente il gruppo con cui si era ritrovata. Pyrgo, Starr, Roland, Kay, Kiar e i suoi Cacciatori, Troy e i Sacerdoti guidati da Morgante e Juliena, gli Ingegneri e Samuel Barni, che dava tutta l’impressione di costituire un gruppo a parte, immerso nel suo mondo di progetti e ingranaggi. Non sembrava rendersi conto del pericolo e non si univa alla tensione generale. Miris lo invidiava. Roland e gli altri Chimerici erano qualche o più avanti. La ragazza li vedeva parlare concitatamente. Starr sembrava scocciato per qualcosa, ma questo non
era poi così sorprendente. Miris ne approfittò per sedersi sul marciapiede, vicino a una colonna di metallo crollata. Ce ne erano molte là, una fila ininterrotta che correva parallela alla via. Lampioni. Alle sue spalle mura di cemento si stagliavano sbirciando nella strada dai vetri rotti. Una luce si agitava all’interno di quelle orbite vuote. Miris si alzò. – Dove vai? – Troy la richiamò, allarmato, ma non si staccò dalla protezione del gruppo. I Sacerdoti se ne stavano stretti l’uno all’altro, fissando le carcasse metalliche che ingombravano lo spazio intorno. Miris gli rivolse un cenno distratto. – Non corro alcun pericolo. Stranamente, ne era convinta. Si sporse all’interno dell’ambiente polveroso. Era rimasto quasi intatto, come se lo scorrere del tempo non lo avesse intaccato. Oltre la porta ormai marcita la stanza era spoglia. I mobili in ato erano di legno e, una volta abbandonati, erano stati rosi dai tarli che poi erano morti. Con la pancia piena, almeno. Probabilmente era una fine migliore di tante altre. Miris fece qualche o. La polvere era un sudario che ricopriva ogni cosa e la congelava in un grigiore imparziale. Dal soffitto pendeva un guscio di metallo che ondeggiava pian piano. Lento, regolare. Il battito di un cuore rimasto dopo la morte degli esseri che lo avevano costruito. Ne conservava il ricordo. Miris provò un attimo di disagio, come se stesse turbando la sfera privata degli abitanti di quella casa, ormai scomparsi. Erano entrati come lei, per anni e anni, e si erano seduti sui fantasmi dei mobili, consumando insieme i loro pasti e la loro vita. Di certo avevano anche loro problemi, la ragazza non si illudeva. Soldi? Dissidi in famiglia? Guerre? Malattie? Ma li avevano affrontati con il sorriso. Miris pensò che nel suo tempo gli uomini non avevano perso soltanto la tecnologia e la scienza. Avevano perso la forza di sorridere. Kay era inginocchiato, la torcia appoggiata a terra. Stava armeggiando con uno strano apparecchio con un vetro rotto. Era attaccato al muro con cavi. Il giovane li stava tirando via.
– Cosa fai? – Miris si accostò, dando una sbirciata – Guarda che non ci fermeremo a lungo. – Ci metto un attimo – Kay diede uno strappo. In mano aveva due cavi scuri e rovinati. – La Superficie è piena di tesori. Guarda. Sotto questo rivestimento lucido ci sono fili di rame. Vale una fortuna. In ato la gente era strana, nascondeva il rame sotto questa roba e addirittura lo faceva are per i muri. Miris corrugò la fronte. – Secondo me si tratta di cavi che portano energia, anche se diversi da quelli del nostro Alveare. Forse l’Ingegnere Barni può dirtelo. Kay scrollò le spalle. Arrotolò i cavi, infilandoli nello zaino. – Chi se ne importa? Ho intenzione di venderli non appena torneremo all’Alveare. Miris tirò un sospiro. All’improvviso ebbe l’impulso di abbracciare il giovane e nascondere il volto sul suo petto. Voleva solo piangere. Deglutì, riuscendo a trattenersi. – Credi davvero che torneremo? – domandò, con un filo di voce. Kay si molleggiò sui talloni, rimettendosi lo zaino sulle spalle. Aveva sulla schiena le sue lame e la pistola nella fondina. Sembrava un vero guerriero. – Credi davvero che una mia risposta cambi qualcosa? – Sì – Miris annuì con forza – Voglio sentirtelo dire. Kay si sistemò la fondina. Appariva tranquillo, ma secondo Miris era una calma superficiale. Dentro di sé doveva essere agitato quanto gli altri. Era incredibile come lo conoscesse, nonostante non riuscisse a leggergli il pensiero. Kay era semplice nella sua complessità. Non si fermava a riflettere sui pericoli e ci ironizzava, nel tentativo di evitare che la paura strisciasse nella sua mente come un cancro, paralizzandola al momento decisivo. La sua forza era l’antidoto di cui anche Miris aveva bisogno. – Allora va bene. Torneremo. Te lo prometto.
Quelle parole ebbero lo strano potere di tranquillizzare la ragazza. Un poco, almeno. Si costrinse a sorridere nervosamente. – Grazie. Mi piacerebbe avere la tua sicurezza. Invece mi sembra che le gambe si siano fuse, tanto mi tremano. Non so cosa ci faccio qui. Il mio potere è del tutto inutile, se arriveremo ad uno scontro. Tu almeno sai usare le armi per difenderti. Kay scosse la testa. – Pyrgo non è d’accordo, e neppure Roland. Dicono che il tuo potere è più forte di quello che pensi. In ogni caso, hai bisogno di protezione. Farò quello che posso, ma non ti assicuro che sarò sempre al tuo fianco. Tieni – le porse una delle pistole e, rovistando in uno stivale, anche un coltello – Ti aiuteranno a difenderti, se io… Miris gli mise una mano davanti alla bocca. – Non dirlo, ti prego – il suo tono era implorante – Non pensarlo nemmeno! – Ci penso, invece – Kay pareva stupito – Miris, ho rischiato la vita ogni giorno, quando la tua gente mi inviava a esplorare i cunicoli o a cacciare in Superficie. Cosa cambia, se muoio agli ordini dei Triumviri o per i piani di Alaric? Non posso scegliere quando morire, ma posso scegliere come farlo. E ti giuro che la morte non mi sarà odiosa, se la incontrerò per salvarti. Era uno dei discorsi più lunghi che le avesse mai fatto. Non c’era alcuna travolgente ione in quelle parole, non c’era la veemenza di Troy. Kay stava semplicemente esponendo un dato di fatto. Miris si accorse che era rimasta con la mano sulla sua bocca. Si tirò indietro di scatto. – Non ci sarà alcun bisogno di morire – sbottò, in fretta. – Bene, allora prendi queste armi, così magari sarà vero! Miris era riluttante. Era una Sacerdotessa, era stata istruita per curare. Adesso le veniva chiesto di uccidere. Dubitava di riuscirci. Ma, al momento di difendere la propria vita con le unghie e con i denti, avrebbe mantenuto lo stesso lodevole intento?
– Va bene – capitolò – Se può farti sentire più tranquillo… – come se stesse facendo un piacere a lui. – Sì, sarei più tranquillo. Miris annuì, infilando coltello e pistola alla cintura. Erano più pesanti di quello che credeva. – Non so come usarle, ma spero di non scoprirlo. Forse non saranno necessarie. Kay le sorrise come se fosse d’accordo. Non ci credeva minimamente. – Può darsi. – Grazie, Kay. Sei un vero amico. Il Reietto si limitò ad annuire. Poi spostò lo sguardo sulla porta, dove Roland e Pyrgo li stavano osservando. – È il momento di andare – annunciò il Chimerico, con la sua voce profonda. Riecheggiava tra quelle pareti coperte di crepe. Kay e Miris si alzarono. La ragazza tornò in tutta fretta al gruppo dei Sacerdoti, dopo aver lanciato un cenno forzatamente allegro a Kiar. Mentre il Reietto varcava la porta, la mano di Pyrgo gli calò sulla spalla. Le dita si conficcarono nella spalla come artigli. – Non è stata una buona idea – gli disse, con una punta di stizza. Kay lo fissò. Dalla sua espressione, era evidente che non condivideva l’opinione del Chimerico, e che comunque non gli importava cosa lui ne pensasse. – Ho armi a volontà e, se non dovessero bastare, l’energia oscura del mio braccio. Mi offre un certo vantaggio. Miris non ha nulla, a parte un potere che fatica a controllare. Non vedo niente di male nel darle qualcosa che la aiuterà a sopravvivere. – A farsi male da sola – sbottò Pyrgo – Non ha mai preso in mano un’arma in vita sua, l’hai dimenticato? – Un’arma usata male è solo pericolosa – Roland rincarò la dose, severo – Sei un mezzo Chimerico, ma non sei immortale. Non rinunciare così in fretta alle tue
protezioni, nonostante quello che provi per lei. Kay irrigidì la mascella, incrociò le braccia al petto. – Non dire sciocchezze. È una guaritrice e una telepate. Le sue medicine possono fare la differenza, per tutti noi. Oggettivamente, può essere più utile lei di me. Roland si chinò verso di lui. – Tutti abbiamo un ruolo importante, anche se ancora dobbiamo scoprirlo. Nessuno è superfluo, anche se il mondo cerca di convincerci del contrario. Fai bene a pensare al resto del gruppo – gli pose una mano sulla spalla – Ma ricorda che possiamo fare poco per gli altri se ci scordiamo di badare a noi stessi. Kay annuì, rigido. Aveva l’impressione che Roland non si riferisse soltanto a quell’episodio. – Me lo ricorderò. Piuttosto, cosa ti preoccupa davvero? Il Chimerico sospirò. – Così tante cose che, se cominciassi ad elencarle, l’alba ci coglierebbe ancora qui. Ne parleremo strada facendo. – Sei bravo a rimandare. – Non c’è più tempo per rimandare – Roland si raddrizzò, con il volto scuro – Il momento decisivo è arrivato, nel bene o nel male. Andiamo.
32
Roland, nonostante quello che potevano pensare gli altri, sapeva poco della città “H”. Stringeva la mappa, una lamina di metallo così sottile che aveva paura gli si sbriciolasse tra le mani. Gli forniva poche informazioni. Portava oltre il cimitero dei droidi lungo il torrente secco fino alla collina. Poi più nulla, se non una “H”. Non era spiegato che aspetto avesse. Forse, ragionò, in ato quella lettera, o simbolo che fosse, significava qualcosa di inequivocabile. “H” No, non gli veniva in mente nulla. La lingua era cambiata negli anni, mutando al pari dei suoi creatori. La loro neolingua derivava da quella ata ma, per quello che ne sapeva, ormai poteva essere completamente diversa. Ma la città “H” pareva rimasta immutata. Giunti in cima alla collina, vide i Cacciatori mandati in avanscoperta fermi ad aspettarli. Senza voltarsi, Kiar si limitò a indicare davanti a sé. Poteva fare a meno. Oltre una piccola valle, coperta ancora di ruderi invasi da polvere e, nei punti più protetti, dalle piante velenose, sorgeva la città “H”. O, meglio, sprofondava. Occupava tutta una zona sopraelevata, una sorta di rilievo naturale, che pareva ricoperto da uno strato di cenere e polvere. Sembrava un unico grande edificio, anche se formato da tante parti in comunicazione tra loro. Arti diversi di un unico organo. Gruppi di strutture basse, con strane finestre i cui vetri si erano già infranti da tempo. Alcune pareti erano crollate o squarciate da larghe crepe dai bordi seghettati. Tagliavano quelli ammassi di cemento e metallo fusi insieme
con una tecnica che sfuggiva alla comprensione del Chimerico. Non c’era dubbio che quel luogo non appartenesse al loro tempo. Le rovine erano dappertutto e sprofondavano nel terreno. Da fori e voragini era evidente come si spingessero anche sotto. Forse, pensò il Chimerico, la maggior parte era nascosta ai loro occhi, sepolta dalle macerie di un tempo che scorreva sempre in avanti. Nei ruderi regnava un’atmosfera di uniforme abbandono, segno che gli esseri umani se ne erano andati da tempo. Tutto era immobile, riflettendo i bagliori boreali del cielo. Tutto era congelato. Un varco per un altro mondo, un ato perduto. Roland, per quanto si mostrasse deciso con Kay e i suoi compagni, non era sicuro che ritrovarlo fosse la cosa giusta. C’era qualcosa che lo disturbava: il fatto che tutto fosse di metallo, invece che di pietra. Solo freddo e lucido metallo, creato e lavorato da uomini del mondo antico. Titani di conoscenza. Roland aveva trovato dei riferimenti a questi titani, esseri mitologici che avevano sfidato gli Dei ed erano stati puniti per la loro arroganza. Scacciati nel mondo e gettati nelle profondità degli abissi, in un vuoto dimenticato. La storia diventava mito, a volte. Roland ò lo sguardo su pareti, tetti e pavimenti che conservavano ancora la loro lucentezza metallica. Riflettevano una luce che proveniva dappertutto e da nessun parte. Anzi, sembrava quasi che scaturisse dalla struttura stessa. Fin dove giungeva lo sguardo, il Chimerico vedeva lastre e colonne di metallo. Era stata una grande città o qualcos’altro? L’architettura era strana, con tetti piatti, entrate ampie, senza veri e propri spazi individuali. Adatto per ospitare molta gente, ma per quale motivo? – Per la Notte! – dichiarò Morgante, e nessuno ebbe nulla da aggiungere a questa esclamazione piena di stupore e di meraviglia. Dopo Cicli di viaggio, nessuno
credeva davvero che sarebbero arrivati a destinazione. Roland scosse la testa. Quelle rovine erano più grandi di quanto si fosse immaginato e completamente diverse da un Alveare. Alpha5 aveva discrete dimensioni, ma non era paragonabile a quella massa gigantesca. Quante persone c’erano nel mondo in ato? Un numero notevole, perché non era necessario lottare ogni giorno contro tutti e tutto per sopravvivere. Un ato maestoso. D’un tratto Roland si sentì intimorito al pensiero di incontrarlo. Guardò i compagni. Kiar e Kay stavano caricando le armi, con fredda efficienza. Negli ultimi Cicli si erano avvicinati molto, trovando l’uno nell’altro esperienza e modi di fare comuni. Pyrgo li raggiunse e si fece are una pistola. Affidarsi soltanto alle loro capacità poteva risultare pericoloso in un ambiente estraneo. Troy stava fissando la città, incredulo, il frutto di un sogno che aveva preso vita. O un incubo. Samuel confabulava con i suoi Ingegneri, ordinando di appuntare ogni dettaglio interessante. I Sacerdoti stavano pregando la Notte. Starr, da parte sua, si era già avviato verso la città con o noncurante. Quell’idiota si sarebbe fatto ammazzare! Roland non voleva che accadesse. Conosceva Starr fin da quando era poco più che un ragazzo. Era stato un suo allievo, un figlio adottivo, un tentativo di espiare il vuoto che lui stesso aveva sofferto in mancanza di un figura paterna di riferimento. Aveva fallito. Starr si era allontanato da lui e da tutti. Roland non aveva una chiara idea di quando fosse successo, ma era così. Il Chimerico aveva bisogno di dare a qualcuno la colpa della propria esistenza. Chi meglio della figura femminile poteva incarnare l’oggetto del suo odio e della sua paura? Si accorse che Miris era giunta alle sue spalle. Percepì il suo lieve ansito, gli occhi erano fissi sulla città, i pugni serrati. – Cosa c’è? – le domandò Roland, a bassa voce. La ragazza deglutì, poi scosse la testa.
– È gigantesca! – E quella che vedi è soltanto la punta di un iceberg – il Chimerico corrugò la fronte – Il vero cuore è nascosto in profondità. Ma non riesco a sentirlo. La terra non lo raggiunge. Là c’è solo metallo, una barriera impenetrabile per i miei sensi. Una volta dentro, sarò come cieco e sordo. Miris lo guardò. – Questo ti spaventa? – Semplicemente non ci sono abituato. La ragazza annuì. – Abbiamo sempre paura di quello che non vediamo. In ato, gli uomini vedevano più cose. – Forse – Roland non ne era convinto. In quel caso, sarebbero riusciti ad evitare la rovina che pendeva sulla loro testa? – Vedevano con la scienza e la tecnologia. Erano la loro forza. O almeno lo credevano. La forza di annientare intere città semplicemente premendo un pulsante. La forza di spegnere migliaia di vite con un semplice gesto, come la fiammella di una candela. Che effetto faceva? Che peso era sull’anima? Roland sperava di non doverlo mai provare. E allora perché era lì? Perché, per ridare speranza alla sua gente, dove restituirle il potere di distruggere? –Non lo so, Roland – Miris rispose alla sua domanda inespressa – Ma ti prego, non fare così. Noi siamo tutti qui perché abbiamo seguito te. Le tue parole. Se anche tu non sai lo scopo, allora cosa ci rimane? Il Chimerico scosse la testa. Ancora non si era abituato ad avere a che fare con una telepate. – Scusami, non volevo spaventarti. È solo che… – che era umano, anche se gli
uomini non la pensavano così. Aveva i suoi dubbi e le sue paure. Non era un peccato. Il peccato era cedere ad essi. – È solo una città. Diversa, grande, abbandonata – aggiunse, per far coraggio alla ragazza quanto a se stesso. Miris guardò le rovine e scosse la testa. – Non è abbandonata – mormorò, in un sussurro amaro – C’è qualcuno o qualcosa laggiù. Una presenza in agguato che li stava aspettando.
Parte terza LA CITTÀ DI LUCE
33
La città “H” era accovacciata nella pallida foschia dei vapori, che annunciava l’avvicinarsi dell’alba. Kay calcolò che avevano ancora abbastanza tempo per entrare e condurre una prima ispezione. Purtroppo non c’erano Pozzi nella zona che offrissero riparo, ai tempi di quella città non erano necessari. Avrebbero dovuto accamparsi in un edificio per evitare i Raggi. Non era una prospettiva entusiasmante. La città “H” era un luccicante rilievo dai bordi affilati e superfici di scuro metallo. Non c’erano vere e proprie strade né marciapiedi, non erano visibili gli strani rottami a quattro ruote che ingombravano i terreni di caccia urbani a cui Kay era abituato. Come se non fosse un vero e proprio centro abitato. Una colonia, senza dubbio. Ma per quale motivo la gente ci andava? Roland era stato eletto tacitamente capo della spedizione. A chi altri potevano rivolgersi? Pyrgo non sembrava interessato a quel ruolo, Kay era un Reietto e Starr… beh, chi avrebbe mai voluto un capo come Starr, se non un branco di aspiranti suicidi intolleranti verso tutto e tutti? L’unico a non apprezzare questa decisione sembrava Roland stesso, che tuttavia dovette adeguarsi. Ci voleva una mente in grado di organizzare gli altri e di impedire che agissero ognuno di testa propria. Decise di dividere la pattuglia in tre gruppi equilibrati, con una pari percentuale di Chimerici, Cacciatori e guaritori. Per il momento non sapeva in quale categoria considerare gli Ingegneri, così li mise con Starr, nel drappello di destra. A sinistra avrebbero capeggiato il gruppo Pyrgo e Kiar. Al centro incluse se stesso, con Kay e Miris. – Entreremo in città con una formazione a ventaglio – spiegò, per chiarire la sua strategia, dato che sia Ingegneri che Sacerdoti lo guardavano come se stesse
tirando a sorte – Non dobbiamo mai perderci di vista, qualunque cosa succeda. Pattuglieremo tutta la città, in modo regolare e ordinato, in righe parallele. Ciascuno badi ai propri compagni e tenga d’occhio il capogruppo. Tutto chiaro? Kiar alzò la mano in un gesto affermativo. Quando erano tutti insieme, il Cacciatore era un tipo riservato. Kay annuì, scrutando le rovine. – Ci vorrà un po’ per rovistarla tutta. Forse una settimana, se abbiamo fortuna. – Forse avremo più fortuna e troveremo subito quello che stiamo cercando – propose Miris, con una punta di ottimismo che nessuno condivideva. Roland scrollò le spalle. – Forse. – Sempre che capiamo cosa stiamo cercando – fece notare Kay, con una punta di stizza. A differenza degli umani, non si era curato di indossare il casco, rimasto nello zaino, e gli occhiali protettivi gli pendevano lungo il collo. – Vuoi dirci di che si tratta? Roland continuò a camminare, circospetto. – Potrebbe esserci qualcuno in ascolto… – Non mi importa un accidente! – Kay si mise davanti, sbarrandogli la strada – Abbiamo lasciato l’Alveare, siamo lontani da ogni centro abitato e da ogni aiuto. Credo che abbiamo il diritto di saperne finalmente un motivo. Roland gli scoccò un’occhiata minacciosa. – Spostati! – Altrimenti che fai? Mi spalanchi la terra sotto i piedi? – Kay non desistette – Avanti, allora. Combattiamo. Io non muoverò più un o senza una risposta esauriente. In primo luogo perché non posso trovare quello che cerchiamo, se non ho idea di cosa si tratta. Quella constatazione aveva una logica, Roland doveva ammetterlo. Rimase in silenzio a lungo prima di rispondere.
– Una macchina. La Macchina. Per un attimo nessuno fiatò. Roland si sentì autorizzato a continuare nella sua spiegazione. – Una macchina superstite del mondo antico. Non i droidi cui siamo abituati, quelli sono soltanto automi creati con una mansione precisa e limitata. Una macchina in grado di immagazzinare informazioni e concederne la lettura. Una chiave, insomma. Miris e Kay lo fissavano increduli. – Chiave per cosa? – domandò il giovane. Dove aveva già sentito qualcosa del genere? Aggrottò la fronte, cercando di ricordare. Chiave… Non abbiamo modo di leggere il contenuto di quest’affare, sempre che non sia stato danneggiato dalle periodiche tempeste cosmiche. Hai presente una cassaforte piena d’oro, senza la chiave per aprirla? Erano state le parole di Samuel Barni, quando gli aveva portato quello strano oggetto dalla Superficie. Aveva detto che, per leggerne i dati contenuti misteriosamente all’interno, era necessaria una chiave di lettura. Come quella macchina. – Allora avete qualcosa! – esclamò – Qualcosa come… insomma, un affare con informazioni che non siete in grado di decodificare. Roland gli lanciò un’occhiata sorpresa. – Ragazzo, non finisci mai di stupirmi. Hai più risorse di quello che sembra. Kay non era certo che si trattasse di un complimento, ma era troppo eccitato da quella scoperta per farci caso. – Allora? Ho visto giusto? Con un sospiro di rassegnazione, Roland tirò fuori dallo zaino uno scrigno di metallo piombato, mentre i compagni si chinavano per sbirciare. Sollevò appena il coperchio, mostrando il contenuto. Lo richiuse subito, ma era stato sufficiente.
– E noi saremmo arrivati fino a qui per quelli? – Miris non poté trattenere un gemito di sconforto – Per quei… – non riusciva a trovare le parole giuste. –Periferica di archiviazione di massa e Cd! – Samuel balzò in mezzo a loro, emozionato – E in ottime condizioni. Teneteli chiusi, mi raccomando, non vorrei che si sciuero. Miris aveva emesso un gridolino, vedendosi comparire l’Ingegnere alle spalle. I membri degli altri gruppi si erano voltati nella loro direzione. La ragazza assestò un pugno tra le scapole di Samuel, stizzita. – Insomma, ti sembra il modo di piombare in mezzo ad una conversazione, così all’improvviso? Mi hai fatto prendere un accidente! Ma l’Ingegnere non la stava ascoltando. Era tutto intento a rimirare il cofanetto che Roland stringeva tra le dita. – Meravigliose, non trovate? Avete idea di quanto valgano sul mercato nero? A Miris sembravano soltanto un rettangolino di metallo e un disco di una strano materiale cangiante. – No – tagliò corto Roland – Queste reliquie del ato appartengono ad Alaric. Contengono un tesoro più grande di quello che puoi immaginare. Non denaro, non mere ricchezze. Conoscenza. Il potere più grande. Il modo per ricostruire una civiltà dalle macerie in cui ci troviamo a vagare alla cieca, con il solo scopo di sopravvivere un giorno di più. – Sarà… – Kay non riusciva a condividere il suo entusiasmo. – Hai ragione a essere scettico. Dopo la grande tempesta di Raggi cosmici, per quanto sapevamo, nessuna macchina era sopravvissuta. Sono stati i primi circuiti ad venire distrutti, insieme a tutta l’elettronica di precisione. Ma in alcune zone, debitamente schermate, credo che possano ancora esistere. Alaric ne trovò una, qualche tempo fa, trasportata miracolosamente in un Alveare. Se ne impossessò, ma il suo custode prima di morire riuscì a renderla inservibile, pur di non consegnarla nelle sue mani. Un altro fallimento. Da allora, Alaric si è prodigato alla ricerca di un’altra macchina in grado di leggere i dati in suo possesso. E l’ha trovata. L’abbiamo trovata – abbracciò con un gesto le rovine che li circondavano – Si trova qui dentro da qualche parte.
Kay si limitò ad annuire. Aveva molte informazione su cui riflettere. Miris si guardò intorno, con un timore inspiegabile. – Che aspetto ha? – Alaric me l’ha descritta come di medie dimensioni, costituita da più parti. Un alto rettangolo con le entrate per i dati, i… cd? – Roland gettò un’occhiata a Samuel, che annuì convinto. – Cd e periferiche di massa – ripeté, per gentilezza nei confronti di quella gente ignorante. Cosa avrebbero fatto senza di lui? – Sì, questa roba qui… poi ci sono dei cavi che lo collegano a una sorta di scatolone che si accende e mostra le immagini e i dati che ci servono. Ce li legge. Il tutto è controllabile tramite una tastiera o un piccolo strumento la cui forma ricorda vagamente un topo. Miris si era aspettata uno scrigno pieno di gemme, una montagna di rame, un giacimento di metalli… ma una macchina mai. – Quindi è questo che dobbiamo trovare? – Sì, esattamente. – Non dovrebbe essere difficile, con questa descrizione – Kay si strinse nelle spalle – Non è vero, Sammy? L’Ingegnere lo fulminò con lo sguardo. – Ti ho detto un milione di volte di non chiamarmi così. – Va bene, ma… non dovevi essere nell’altro gruppo? – fece notare candidamente il giovane. Samuel fece una smorfia sprezzante. – Non potete inquadrarmi in nessun gruppo. Io faccio parte per me stesso. Roland tirò un sospiro. Umani! A volte non riusciva a capirli, né tantomeno a sopportarli. – Beh, allora vai a “far parte” vicino al gruppo che ti avevo assegnato.
Samuel non parve ascoltarlo. Si era già avviato tranquillamente tra le macerie, sbirciando da ogni parte. Pareva fermamente intenzionato a trovare quella macchina per primo e, possibilmente, studiarla in santa pace. Roland lo seguì con lo sguardo. – Quante possibilità ci sono che finisca in qualche buco? Kay scrollò le spalle. – Poche. È più attento di quello che sembra. – Purtroppo – Roland liquidò l’umano con un’ultima occhiata. Aveva altro a cui pensare. Miris stava osservando la custodia metallica. Il Chimerico la fece scivolare rapidamente dentro lo zaino, al sicuro. Perdere quella significava togliere significato a tutti i loro sforzi. – E cosa credete di leggere dentro quel disco? – la ragazza era sorpresa. Davvero il loro destino era legato a qualcosa di così piccolo? – Dentro c’è più di quello che puoi immaginare – Roland richiuse lo zaino – Il mondo antico sapeva vincere lo spazio. In oggetti come questo può essere contenuta un’intera biblioteca. Possiamo dire che questi sono tanti libri, solo in una forma diversa da quella che conosciamo. Miris non ci trovava nulla di impressionante, per lo meno nel senso positivo del termine. Quella tecnologia dello spazio aveva ingoiato la cultura di un’epoca. – Una forma illeggibile e quindi inutile. – Non se troviamo la macchina. Nessuno fece commenti. Kay si aggiustò la fondina ascellare. La tunica scura gli aderiva perfettamente alla pelle, rendendolo una statua scolpita nell’ossidiana. – Sbrighiamoci, prima che sopraggiunga il Mietitore – affermò, senza rivolgersi a nessuno in particolare. La ricerca cominciò, rapida e precisa. Camminavano in silenzio, tendendo l’orecchio. Nessun rumore turbava la quiete di quelle rovine antiche. Nessuno parlava. Roland si era raccomandato, se scorgevano qualcosa di interessante
dovevano richiamare l’attenzione dei compagni con cenni o lievi fischi. I Cacciatori avevano tutti le armi in pugno. Kiar e altri due esploratori setacciavano le lastre di metallo che facevano da strada, alla ricerca di trappole. Nessuno assicurava che la macchina non fosse custodita. Miris camminava subito dietro a Kay. La sua figura le dava un briciolo di sicurezza in quel luogo cristallizzato nel tempo. La ragazza si sentiva osservata, ma pur guardandosi intorno non riusciva a scorgere alcuna minaccia. Solo metallo e polvere. Eppure c’era. Era una sensazione strisciante, un senso di gelo sul collo, nonostante la tuta protettiva. Ogni finestra era un occhio spalancato che la osservava malevolo. La spiava, controllando ogni sua mossa. Miris percepiva una sorta di curiosità perversa nell’entità cui si stavano avvicinando. Considerò la possibilità di parlarne con gli altri. Per dire cosa? Che aveva l’impressione che ci fosse qualcosa di strano? – Mi sto lasciando suggestionare – si disse, scrollando la testa. La penombra, i muri che si stagliavano in muti guardiani di metallo, il nervosismo della ricerca. Nella sua vita forse aveva sempre cercato qualcosa, senza riuscire a trovarlo. A dire il vero, non sapeva neppure cosa stesse cercando. Forse perché non era qualcosa di esterno. La macchina, si intimò, concentrati sulla macchina! Trasalì, quando Kay si fermò di colpo, indicando qualcosa. – Guardate – mormorò il giovane, richiamando Roland – Cos’è? Una lamina di metallo, butterata di ruggine. Un tempo forse era stata bianca, ma la vernice si era in parte scrostata, portando via con sé le lettere che in ato erano una scritta, un’indicazione, forse un monito. Era ancora visibile però un simbolo. Miris lo fissò aggrottando la fronte.
– Un letto su sfondo blu, con accanto una croce rossa – sussurrò – Cosa significa? – Non ne ho idea – dovette ammettere Roland a malincuore – Quello che era scontato per gli abitanti del mondo antico, per noi è oscuro. Il tempo seppellisce i suoi segreti. Kay toccò quella specie di cartello con il piede. Si mosse con uno sfregare sordo. Metallo contro metallo. Il giovane fece una smorfia. – Può tenerseli. Qualunque cosa fosse questo posto, adesso non lo è più. Ma cos’era? Lunghi corridoi, stanzette, strani macchinari polverosi. A cosa servivano? Miris non poteva togliersi dalla testa il pensiero che quel letto le ricordava i giacigli dove, nel palazzo della sua Corporazione, venivano adagiati i malati. Ma l’idea era troppo incredibile anche per concepirla. “H” E se nella lingua antica fosse l’iniziale per intendere un posto ben preciso? Scrollò le spalle. Era inutile pensarci. Kay aveva ragione, lo scopo di quel luogo si era perso molto tempo prima insieme ai suoi costruttori. Kay vedeva l’espressione tesa e preoccupata di Miris, ma poteva fare ben poco per alleviarla. Condivideva il suo stato d’animo. L’istinto di Cacciatore gli diceva che qualcosa non andava. Non c’era un motivo preciso per crederlo, ma si sentiva esattamente come quando aveva esplorato la tana abbandonata di un Verme-Scavatore e aveva scoperto che non era per niente abbandonata. Si era salvato per un soffio, grazie alla sua capacità di immergersi nelle ombre. Sarebbe bastato anche in quel caso? – Che basti almeno a proteggere lei! Il pensiero affiorò tra le pieghe della sua mente e subito vi si immerse di nuovo, disgregandosi. Il giovane scrollò la testa. Ci volevano nervi saldi e
concentrazione. La presenza di Miris non era d’aiuto. Avrebbe preferito lasciarla fuori da quel luogo, ma qualunque zona della Superficie era potenzialmente pericolosa, tanto valeva portarla con sé. Con la coda dell’occhio scorse qualcosa. Puntò la pistola, il dito già sul grilletto. – Cosa c’è? – in un attimo Roland fu al suo fianco, le armi in pugno. Kay non rispose. Rimase a fissare il piccolo cerchio di colore diverso alla base di un edificio. Non riusciva a capire a cosa servisse. Ed era sicuro che avesse emesso un leggero bagliore al suo aggio. – Nulla – abbassò lentamente la pistola, la fronte corrugata. Il piccolo cerchio era spento, muto. – Devo essermelo immaginato. Eppure non si sentiva tranquillo. Un riflesso dai bagliori del cielo? La rifrazione della luce delle torce? Si accorse che quello strano segno non era solo. Ce ne erano a decine, identici, posti a intervalli regolari. Gli edifici erano tutti uguali, con una monotonia quasi ossessiva. Pareti di metallo, tetti miracolosamente conservati. Erano vuoti o pieni di macchinari arrugginiti di cui Kay non riusciva neppure a immaginare la funzione. Né gli interessava. Trovare la Macchina e uscire di là. Si concentrò sull’obiettivo e si sentì meglio. Gli altri proseguivano meticolosamente la ricerca. Il gruppo di destra, ignorando gli ordini di Roland, era più avanti e privo di una formazione. Gli Ingegneri andavano un po’ dove volevano e Starr li ignorava totalmente, avanzando a o deciso come se volesse buttare giù una montagna da solo. In compenso Pyrgo e Kiar si dimostravano efficienti e Kay fu lieto di trovarsi in loro compagnia. Per una volta, scoprì di sentirsi davvero parte di un gruppo. Il vero scopo della ricerca non gli importava. Una macchina era una macchina, prima o poi qualche altra tempesta magnetica l’avrebbe mandata in cortocircuito. Ma in quei giorni, nonostante i pericoli, era stato bene. Forse in pace con se stesso.
Era certo che niente di quello che era vergato in maniera occulta sul cd di Roland potesse dargli qualcosa del genere. Giunsero a una zona di basse piattaforme metalliche arrugginite. Erano fatte di leghe che Kay non aveva mai visto. Tutte chiuse, senza finestre. Luccicavano nella notte come enormi specchi rotti, altrettanto taglienti. Sopra erano posizionati i pannelli per raccogliere l’energia, una distesa risucchiante fin dove giungeva lo sguardo. Erano costruiti in modo completamente diverso, un’aggiunta successiva, incollata a forza in un ibrido grottesco. Kay e Roland si scambiarono un’occhiata. Tutta quell’energia doveva servire a qualcosa. O a qualcuno. C’erano delle scale, scendevano verso uno spiazzo tra cui gli edifici si facevano più alti e allo stesso tempo sprofondavano in torri rivolte al centro della Terra. Roland fece cenno di rallentare. – Temo che così non troveremo nulla – la preoccupazione trapelava dalle sue parole, insieme alla rassegnazione – Se davvero una Macchina è sopravvissuta, non può trovarsi in Superficie. Deve essere custodita in un ambiente schermato. – Sottoterra – annuì Kay. Era perfettamente d’accordo. – Dobbiamo entrare e scendere ai piani inferiori. Miris emise un gemito fioco. – Temevo che lo avreste detto. Kay tolse la sicura alla pistola e preparò le munizioni. Le batterie a energia radiante erano ingombranti. – Tanto tra poco saremmo scesi comunque. L’alba è vicina. – Tenete gli occhi aperti – Roland si decise ad avanzare per primo. Era il più anziano e forse quello con maggiore esperienza. Se fossero giunti ad uno scontro, lui, Pyrgo e Starr sarebbero stati le armi più efficaci. In realtà era stanco di essere un’arma.
Stava avanzando da solo, qualche o avanti agli altri, quando tra le rovine di metallo si scatenò l’inferno.
34
Di colpo si accese una luce rossa ammiccante. Un occhio che si spalanca dopo un paziente agguato. Roland sentì uno scatto secco, come di qualcosa che si apriva dopo un lungo periodo di forzata immobilità. Un sibilo minaccioso. D’istinto si gettò a terra, cercando di raccapezzarsi. Tutto quel metallo confondeva i suoi sensi, ma non ebbe alcun dubbio quando vide un filo di laser rosso saettare a pochi pollici dalla sua testa. Erano attaccati! Da chi o cosa non sapeva dirlo. Non ebbe il tempo per domandarselo. Una rete di laser calò contro di lui, implacabile. Roland raccolse le forze e spiccò un balzo, un attimo prima che le maglie si stringessero sul suo corpo, facendolo a pezzi. Soltanto un rivolo di sangue gli scorse sulla guancia, dove il laser lo aveva raggiunto. Poche gocce, perché quel tipo di arma cauterizzava quasi all’istante la ferita. E uccideva con altrettanta rapidità. Alcuni fili rossi forarono il metallo del pavimento nel tentativo di raggiungerlo. Roland rotolò via, riuscendo a nascondersi dietro una sorta di lamiera rialzata. Non si raccapezzava. Non c’erano nemici in vista. I colpi provenivano dalle pareti intorno a loro, da minuscoli fori, anch’essi aggiunti in un secondo momento alla costruzione iniziale. Quel posto, qualunque cosa fosse, era stato trasformato in una fortezza. Ma da chi? E perché? Davvero si erano accorti dell’importanza della Macchina, giungendo al punto di uccidere a vista per difenderla? Non aveva senso. Roland aveva la sensazione che dietro ci fosse qualcos’altro. Qualcosa che nessuno di loro aveva considerato.
“Là dentro c’è Dio” No, non era possibile. Pyrgo aveva ragione, quel Chimerico era impazzito. Roland si chiese se sarebbero impazziti tutti prima della fine. Strisciò lungo le lamiere, facendosi strada in quella pioggia di rosso e di sangue. Alle sue spalle sentiva le grida dei compagni, l’infuriare delle pistole e dei fucili che miravano a un nemico invisibile. Una nube di polvere e vapore si era alzata, trasformando lo spiazzo dietro di lui in un vuoto informe e pulsante. Laser ed energia radiante si intrecciavano in un ritmo psichedelico che faceva bruciare gli occhi. Non poteva tornare indietro. Rischiava di farsi ammazzare dai suoi stessi compagni. – Ritiratevi! – gridò, ricordandosi di colpo di essere il capo. A lui spettava dare ordini. A lui spettava la responsabilità di quel disastro. Forse poteva essere evitato. Quanti indizi, chiari per la gente del mondo antico, gli erano sfuggiti? Quanti errori aveva commesso? Era tardi per recriminare. Poteva soltanto cercare di salvarsi e portare a termine la propria missione. Quello era solo un assaggio della potenza del mondo antico. Ma era sicuro di volerla fornire ad Alaric? Il laser falciava con mortale precisione i vapori sanguigni. Le grida crebbero di intensità, in una cacofonia tremenda. Roland inspirò profondamente, poi riprese ad avanzare. Fu allora che un altro suono gli gelò il sangue nelle vene. Metallo che strusciava metallo. Un grattare che faceva accapponare la pelle. Qualcosa che si apriva e si chiudeva. Ma cosa ne era uscito? Poi, in mezzo al vapore, andò a sbattere contro qualcosa di duro. Freddo. Metallico. Roland fece appena in tempo a mettere le mani avanti, mentre una bestia gli rovinava addosso. Era pesante, pareva un grosso lupo, le fauci spalancate per addentarlo.
Solo che i suoi occhi non erano vivi. Non aveva pelo. Non aveva carne. Il Chimerico si trovò a fissare due gelidi pozzi rossi. Comprese che quello non era un animale, nulla di vivo popolava quei luoghi. Pareva un grosso lupo, con una corta coda e delle zampe tozze, ma era completamente di metallo. Inanimato. Letale. Non ebbe il tempo di sorprendersi. Il cane di metallo cercò di azzannarlo, schiacciandolo a terra con il suo peso. Roland evocò la terra, facendosi duro come la pietra, e le zanne aguzze squarciarono soltanto la tuta protettiva, senza affondare nella carne. Nello stesso tempo premette il grilletto della pistola, sparando a bruciapelo. L’energia radiante traò il cane di metallo da parte a parte, aprendo uno squarcio in cui frizzava l’elettricità. Non parve preoccuparlo minimamente. Quell’essere non sapeva cosa fosse il dolore. – Merda – imprecò Roland, bloccando un morso con il braccio. La pelle di pietra resistette al metallo e il Chimerico ne approfittò per sferrare un violento pugno sul muso dell’avversario. Un tonfo metallico. Con un ruggito di rabbia, Roland si tolse di dosso il canide e gli sbatté la testa contro la lamiera con tutta la forza che aveva. L’occhio del nemico si frantumò continuando a brillare dall’interno, il metallo si piegò. Spinto dalla furia della battaglia, Roland gli sparò un nuovo colpo dentro le fauci. Questa volta la testa esplose e, con uno sfrigolio, il cane piombò a terra. Un ultimo lampo, poi gli occhi dell’avversario si spensero. Era morto. No, disattivato. Si corresse Roland. Quell’affare non poteva morire. Era una macchina. Un droide. Un robot. Nello stesso istante un’esplosione squarciò l’aria. D’istinto si appiattì, proteggendosi dalla vampata di plasma che illuminava l’ambiente circostante,
distruggendo ciò che impattava al suo aggio. Quando riaprì gli occhi, Roland inorridì al terribile spettacolo che gli si mostrava davanti. Un esercito di robot era emerso dalle viscere delle rovine. Cani di metallo, granchi con chele, forme vagamente umanoidi che impugnavano fucili e si muovevano in grottesche rotelle. Molti erano al suolo, semifusi dal tremendo calore del plasma, che creava una scia fino alla parete dell’edificio. Si era aperto uno squarcio largo abbastanza per far are due uomini affiancati. I compagni erano ati all’artiglieria pesante, le nuove armi elettriche avevano una potenza devastante. Sarebbe bastata? Roland lo sperava. Non poteva far nulla per loro. Lo zaino gli pesava sulle spalle, gravido di segreti. Forse in quel disco era nascosto anche il modo per porre fine a quella carneficina prima che fosse troppo tardi. Doveva scoprirlo. Raccolse le forze per qualche istante, poi scattò. Tenendosi chinato per evitare i fasci di laser, sfrecciò verso l’apertura. Il metallo rosseggiava, semifuso, ferito dalla potenza del Railgun. Si liquefaceva in gocce rosse come il sangue. Roland balzò oltre la fenditura nell’edificio, correndo a perdifiato per mettere più distanza possibile tra lui e i nemici. Si voltò indietro. Alla luce vaporosa del laser, due robot lo fissavano stagliandosi in controluce dall’apertura. Spararono qualche colpo, ma non accennarono a muoversi. Perché non lo inseguivano? Roland seppe la risposta quando il pavimento si interruppe sotto i suoi piedi e lo fece precipitare nel vuoto. Kay era una persona pratica e realista. Cresciuto come Reietto in un mondo ostile, lasciava ad altri un ottimismo che secondo lui non aveva ragione di esistere. La vita era semplice nella sua crudeltà. Uccidere o essere uccisi. Era la legge della natura. Fin dal primo momento, Kay aveva compreso che non avevano possibilità di
vittoria. L’attacco era ben studiato, condotto con una rapidità impressionante. Non aveva avuto neppure il tempo di battere ciglio quando i fili di laser avevano creato una ragnatela di morte nello spiazzo. Aveva sentito Miris trattenere il respiro, mentre barcollava tenendosi la testa tra le mani come per difendersi da quel caos. Non c’era modo. Kay la spinse indietro, poi concentrò il tiro sulla parete da cui scaturiva il laser. – Sparate, dannazione! – gridò – Eliminate le bocche di fuoco! Non era facile in mezzo a quel vapore falciato da laser. Avrebbero dovuto radere al suolo tutto l’edificio. Con la coda dell’occhio vide i Cacciatori scattare in avanti, piegati in due, accorrendo in aiuto del Chimerico della terra. Non perse tempo a intimargli di tornare indietro. Era già troppo tardi. Il laser scaturì dal pavimento, tagliando e facendo a pezzi tutto ciò che incontrava sul suo aggio. In pochi istanti il metallo si era trasformato in un lago di sangue. Brandelli di carne schizzarono sulle pareti. L’aria pulsava di urla di dolore e dell’odore della carne bruciata. Kay arricciò le narici mentre ricaricava l’arma. Roland stava gridando qualcosa in mezzo al fumo, ma le sue parole si perdevano nel tumulto. Al giovane non interessavano. Era chiaro quello che dovevano fare. Fuggire da quella trappola. Le sagome degli Ingegneri erano spettri che si muovevano a casaccio nel vapore, i Sacerdoti stavano strisciando per raggiungere i feriti. Era incredibile come trovassero il coraggio per compiere una pazzia del genere. Kay imprecò, quando vide che Miris cercava di imitarli. Andare laggiù era un suicidio. – Torna indietro – le gridò, ma non era sicuro che la ragazza l’avesse udito. I gruppi erano allo sbando. Kay non riusciva a vedere nessuno, tranne i due Cacciatori al suo fianco che sparavano raffiche di energia. Fulmini balenarono alla sua destra e un’intera parete di laser si spense. Starr si dava da fare.
– Allora non sei solo uno spaccone inutile! – commentò tra sé il giovane. Il sorriso gli morì sulle labbra. Un rumore metallico attirò la sua attenzione. La porta dell’edificio si stava aprendo, scivolando lentamente. E vomitando all’esterno un esercito di demoni dell’inferno. Forme basse e tozze, simili ad insetti. Canidi dalle zanne aguzze. Esseri umanoidi senza carne e senza occhi, fatti di metallo e cavi al posto di muscoli e legamenti. Robot. Un tecnologia del ato, più sofisticata di quella degli Alveari. Con una programmazione ben precisa. Uccidere. – Oh, merda – mormorò Kay. Attonito, li vide caricare il gruppo di Pyrgo. Una parete di fuoco si erse davanti a loro, mentre il Chimerico si faceva avanti per affrontarli, dando così ai suoi Cacciatori una possibilità di fuga. Poi fu avvolto dal fumo e dalla foschia gravida di dolore e morte. Erano troppi, anche per il potere del Chimerico. Kay sapeva che doveva fuggire se voleva sopravvivere. Il suo codice di condotta glielo imponeva. Uccidere o essere uccisi. Non voltarsi mai indietro. Lo aveva sempre seguito. Ma in quel momento la scelta lo paralizzò, bloccandolo. Miris era ancora nella mischia. Si era sfilata la criocustodia e si affannava tra i corpi in cerca di sopravvissuti, nella malsana convinzione di poterli aiutare. Non poteva lasciarla lì. – Beh, in fondo non si può scappare per sempre – considerò Kay, scrollando le spalle. E scaricò la pistola contro il cane di metallo che stava per saltare addosso alla ragazza, chinata nel tentativo di bloccare l’emorragia di un Cacciatore ferito. Le fu accanto, prendendola per le spalle.
– Usciamo di qui – la spinse nella direzione da cui erano venuti. – Non possiamo abbandonarli – gridò di rimando Miris. Aveva le lacrime agli occhi e il volto striato di polvere e sudore. Kay pensò che non era mai stata così bella. Pensiero idiota, si disse. La vicinanza della morte faceva brutti scherzi. – Se restiamo, faremo la loro fine. È questo che vuoi? Non attese risposta. Una scarica di laser saettò contro di loro. Kay si gettò a terra, trascinando Miris con sé. Poi, facendole tenere bassa la testa, cominciò a tirarla indietro. La ragazza oppose una minima resistenza, poi si abbandonò tra le sue braccia, piangendo. – Li sento nella mia testa – singhiozzava –Lo sento. Tanto dolore. E freddo. Stanno morendo tutti. Stanno morendo tutti! Kay non poteva consolarla, era la pura e semplice verità. Miris si irrigidì di colpo. – No, non anche lei! – si aggrappò a Kay, dandogli un pugno sul petto per richiamare la sua attenzione – Laggiù! Il Reietto seguì la direzione del suo sguardo. Il gruppo di Pyrgo era allo sbando e apparentemente un solo superstite si muoveva tra il fumo, sparando contro tutto quello che lo minacciava con una determinazione che sapeva di disperazione. Un robot umanoide, alto almeno due metri, puntò il fucile. Mirava dritto al casco del Cacciatore. Miris gridò, con la voce e con la mente. – Kiar, giù! Nonostante il fragore, il Cacciatore la sentì. Kay lo vide gettarsi a terra, rotolando tra i laser. Il colpo che gli avrebbe fatto esplodere il cranio si perse contro il metallo. In un attimo il Cacciatore era accovacciato e rispondeva al fuoco. – Di qua – Kay emerse dal nascondiglio e scaricò la pistola contro il robot. Gli
frantumò la grottesca appendice che somigliava a una testa umana. Non bastò a fermarlo. Agitando il corpo decapitato, il robot continuava ad avanzare. Se mai Kay aveva avuto un incubo, quello era di gran lunga peggiore. – Vieni, Kiar! – gridava intanto Miris, disperata. Il fumo soffocava ogni forma. Con gli occhi che le bruciavano, vide il Cacciatore che correva senza esitazione, inseguito dai laser. Si lanciò rotolando sotto i fili rossi. Un boato tremendo. Miris si tappò le orecchie, Kay la sostenne perché non cadesse. Un Railgun era stato attivato e la vampata di plasma cancellò la prima linea dei nemici, andando a distruggere parte della parete dell’edificio. Kay intravide Samuel, scagliato indietro dal contraccolpo. Il fucile gli fumava tra le mani. – Meraviglioso – esclamava, gridando come un pazzo – Ne costruirò uno anch’io, prima o poi! Poi il fumo lo inghiottì e il Reietto si disinteressò di lui, dopo avergli augurato silenziosamente buona fortuna. Kiar emerse dal vapore ammiccante, il respiro affannoso. – Via – gridò e, afferrando Miris dall’altro lato, cominciò a trascinarla lontano insieme al Reietto. – Gli altri? – la ragazza cercò di protestare. Kiar scosse la testa. Non c’era altro da fare. Due Cacciatori coprirono loro la fuga, per poi unirsi alla corsa disperata. Avevano percorso una ventina di i quando una coppia di robot sbarrò la strada. Uno era umanoide, con delle ruote al posto delle gambe. L’altro era uno strano corpo tondeggiante da cui emergevano tre paia di chele. Non c’era modo di aggirarli. – Difendete la Sacerdotessa – ordinò Kiar. Scaricarono le armi contro i robot, con l’unico risultato di rallentarne l’avanzata. Pur barcollando con solo due zampe, il droide con le chele attaccò. Kiar riuscì a
evitarlo, ma l’altro cacciatore non fu altrettanto fortunato. Fu inchiodato a terra e una chela gli staccò la testa prima che potesse urlare. Kay ripose la pistola, inutile nel corpo a corpo. Snudò le due lame, fronteggiando il robot. La sua sagoma grottesca si allungava in un’ombra sul pavimento. Il giovane riuscì ad accennare un sorriso privo di allegria. E sgusciando da un’ombra all’altra cominciò a combattere. Miris osservava la scena come in un sogno. Si svolgeva a rallentatore davanti ai suoi occhi, in modo che potesse assimilare ogni singolo particolare, vergato a fuoco nella sua memoria. La testa del Cacciatore che rotolava, gli occhi ancora spalancati, il sangue che schizzava sul metallo, la chela che si alzava nuovamente, cercando di colpire Kiar. E lei non poteva fare niente. Perché, se proprio devo essere una Chimerica, ho un potere così inutile? Senza sapere come, si trovò in mano la pistola che Kay le aveva dato. Non ricordava come ci fosse arrivata, né cosa ci dovesse fare. Era dimentica di tutto, fatta eccezione per un irresistibile impulso a reagire. Premette il grilletto. L’energia radiante traforò il corpo tondeggiante del robot, squarciandolo. Tre rapidi colpi, a distanza di pochi secondi. Il colosso di metallo barcollò, trafitto nei suoi circuiti vitali. Le chele si abbassarono, mentre con un ronzio morente il robot si spegneva per sempre. Miris rimase a guardarlo. Si riscosse quando qualcuno le batté un colpetto sulla spalla. Kiar le rivolse un cenno. – Non male, per una principiante. Miris leggeva la gratitudine nella sua mente, ma era sommersa da un dolore e da un senso di perdita strazianti. Kay conficcò le spade tra i circuiti del robot umanoide. Lo fissò per un attimo negli occhi rossi e vuoti, poi premette il pulsante di folgorazione. La scarica elettrica percorse le lame, fino ad avvolgere l’intera struttura metallica. Il droide ebbe un rigido spasmo, mentre i suoi circuiti andavano in corto. Kay insistette, la
mano stretta sull’elsa rivestita di materiale completamente isolante. Un paio di fusibili esplosero. La testa del robot ciondolò di lato. – Terminato, bastardo – Kay estrasse le lame, allontanandosi di un o. Kiar gli spinse Miris tra le braccia. – Correte, adesso. E non voltatevi indietro! Eppure Miris lo fece. Non poteva farne a meno, ma avrebbe preferito aver obbedito al Cacciatore. Dietro c’era solo un incubo: robot, cani di metallo, fili di laser. E la morte. Chi era sopravvissuto? Miris sentiva tante luci che si spegnevano nella sua testa, lasciandola nel freddo. Roland, Pyrgo, Starr, Troy… dove erano tutti? Perché la lasciavano sola? Perché la costringevano a condividere il loro dolore? Non ce la faceva a sopportarlo. Il muro! Addestrandosi con Kiar aveva imparato a isolare la propria mente dagli input esterni. Doveva farlo, se voleva mantenere un briciolo di sanità mentale. Innalzò il muro, alto e irto, con la forza della disperazione. Si rintanò nel suo castello di pensieri e idee, a piangere nella stanzetta più profonda e sperduta. Alle sue spalle le grida e i rumori si persero nell’oscurità.
35
Corsero a lungo, zigzagando tra le rovine di “H” per far perdere le tracce agli inseguitori. Kay dubitava che fosse possibile. A ogni o che compivano, una spia luminosa si accendeva. Una specie di sensore atto a rilevare la loro presenza. A chi, però? Alla fine dovettero fermarsi, un po’ perché le gambe non li sostenevano più, un po’ perché il cielo si era sbiadito fino a venarsi del chiaro azzurro dell’alba. Il Mietitore stava arrivando, un nemico altrettanto temibile. Nella scelta tra essere fulminati dai robot oppure irradiati tremendamente dai Raggi, scelsero la prima possibilità. Almeno offriva loro il beneficio del dubbio. Kay sfondò con un calcio una porta, trascinando Miris. Il Cacciatore, la pistola tesa davanti a sé, esplorò in fretta l’ambiente. Un corridoio con vetrata, cui si aprivano delle stanzette laterali con strani macchinari. La luce all’esterno era sempre più forte. Non potevano indugiare. Kiar proseguì, fino a trovare una scalinata che conduceva in basso. Tese le orecchie. Nessun rumore. – Non sento voci né i. – Non ci assicura nulla – Kay teneva le labbra serrate – I droidi non parlano e, quando sono ben oliati, sono perfettamente silenziosi. Finché fossero rimasti in città erano in pericolo, ma uscire con la luce del Mietitore era improponibile. Dovevano nascondersi e sperare che anche i robot temessero i Raggi. Per lo meno, avrebbero danneggiato seriamente i loro circuiti. Kay dubitava che, chiunque li avesse sguinzagliati, si arrischiasse a perderli così. Per il momento potevano tirare un sospiro di sollievo. La caccia sarebbe ricominciata al calar del crepuscolo.
Scesero due rampe di scale, abbastanza per mettere tra loro e il Mietitore un buono strato di metallo. Kay non aveva mai visto un materiale simile e andò a sfiorare la parete. – Sai di cosa si tratta? Kiar scrollò le spalle. – Ti sembro un Ingegnere? – Neppure io lo sono, ma credo che questa roba abbia una buona capacità schermante. Forse è per questo che i droidi qui sono rimasti funzionanti. Kiar non si voltò indietro. – Che fortuna, eh? Trovarono una stanzetta con due porte. Una buona via di fuga, se le cose si fossero messe male. Kiar controllò la zona, mentre Kay aiutava Miris a sedersi. La ragazza non parlava da qualche tempo, si limitava a fissare il nulla. Il giovane cominciava a preoccuparsi. – Ehi, Miris, mi senti? Nessuna risposta. Eppure era viva, non c’era dubbio. Non c’erano ferite sul suo corpo e respirava, anche se lentamente. Nell’ultima parte del tragitto Kay era stato costretto a portarla in braccio. La adagiò delicatamente al suolo, togliendole gli occhiali protettivi. Le avevano lasciato un cerchio rosso intorno agli occhi. Erano umidi di lacrime. Kiar lo raggiunse. – Per il momento nessun nemico in vista – si lasciò cadere sul pavimento con un sospiro, sfilandosi il fucile da tracolla. Ma continuò a tenerlo in braccio. Un segno evidente di quanto si fidasse di quel posto. – Bene – Kay si ò una mano tra i capelli – La migliore notizia della giornata. Ce la siamo cavata per un soffio. – Già – un’occhiata inespressiva attraverso il casco – Combatti bene. – Anche tu. C’era una sorta di cameratismo tra di loro. Kay accennò un sorriso e tornò a
rivolgere l’attenzione a Miris. – Non mi risponde. Secondo te cos’ha? Kiar strisciò verso la ragazza, osservandola. Provò a arle una mano davanti agli occhi. Nessuna reazione. – Credo che si sia rifugiata nella sua mente. – Dobbiamo svegliarla? Il Cacciatore sfiorò la mano della ragazza, incerto, poi scosse la testa. – Perché farla ripiombare in questa realtà prima del tempo? Permettile di riposare corpo e mente. Per lei non è facile come sembra. Era una proposta sensata. Kay si sistemò accanto a Miris. – Sembra che tu la conosca bene. In questi ultimi Cicli di viaggio le sei stato molto vicino. Kiar liquidò il discorso con una scrollata di spalle. – Aveva bisogno di qualcuno con cui mettere alla prova i suoi poteri, tutto qui. Lo avrebbe fatto anche con te, se solo ci fosse riuscita. Mi ha detto che penetrare nella tua mente è impossibile. C’è troppo buio. Non ne capisce il motivo. – Figurati se lo capisco io! – ma, guardando il proprio braccio, Kay non era certo che fosse la verità. L’ombra era anche nella sua mente? Strinse il pugno. – Poteva fare esperimenti con quel suo fidanzato umano. Kiar appoggiò sulle ginocchia lo zaino, bruciato dai laser in più punti. Gran parte delle munizioni erano andate perdute. – Come sei messo a batterie radianti? Kay fece una smorfia. – Non bene, ma me le farò bastare. Posso sempre ricorrere alle spade e al mio potere. So badare a me stesso.
– Ho visto – il Cacciatore si limitò ad annuire – E comunque ti avrebbe fatto male, se Miris si fosse rivolta a Troy e non a te. Kay incrociò le gambe, cominciando a riordinare le batterie. Doveva averle tutte a portata di mano, in modo da estrarle rapidamente al momento del bisogno. – Siamo in pieno territorio nemico, con il gruppo decimato, i nostri capi dispersi e un esercito di robot armati fino ai denti sulle nostre tracce. Non mi sembra un buon momento per parlare di queste sciocchezze. – Per te non è mai un buon momento, se ancora non hai trovato il coraggio di dirle nulla – ribatté Kiar, candidamente – Non che mi riguardi, in realtà. Ognuno ha i suoi problemi. Kay rimase in silenzio per un po’. Il tempo ava. Il Cacciatore si muoveva inquieto, di tanto in tanto sollevava la testa come se udisse qualcosa, poi tornava a riabbassarla. Kay ne approfittò per studiarlo. I suoi movimenti, il suo modo di fare. Il dubbio si stava trasformando in una certezza. – Non ti dà fastidio la mia compagnia? – si azzardò a chiedere – Tra gli umani, sei uno dei pochi a non evitare i Chimerici. – Dovrebbe? – Kiar scrollò le spalle. – Sei amico di Miris. E di Pyrgo. Ho idea che vi conosciate da tempo. Il Cacciatore ci pensò, cauto, poi parve decidere che ammettere una cosa del genere non fosse compromettente. – Sì, è così. – Scusa la mia curiosità, ma lo trovo strano. Di solito Chimerici e umani non si mescolano – Kay giocherellò con una batteria, pensoso – Sai, prima ero un Reietto e lei un’umana. O almeno lo credevano tutti, ho sempre saputo che nascondeva qualcosa di più. Adesso lei è una Chimerica e io resto sempre un Reietto. In realtà non è cambiato nulla. Kiar sorrise sotto il casco. – Adesso sei tu che parli di lei. Voi uomini siete strani, anche Pyrgo… – Si
accorse di quello che aveva detto e si affrettò a cambiare discorso. – Mi chiedo se sia ancora vivo. – Mi chiedo se uno solo di loro lo sia – commentò Kay, asciutto. Kiar si alzò in piedi. Sembrava aver preso una decisione sofferta ma irrevocabile. – C’è solo un modo per scoprirlo. Finché sto sottoterra, i Raggi non mi raggiungono. Posso muovermi in relativa sicurezza e sono armato. Ma tu devi rimanere con lei. È bene che abbia qualcuno di familiare accanto, quando si sveglierà. Kay si alzò a sua volta. – Però preferirei venire con te. Kiar si strinse nelle spalle. – Anch’io, dopo aver visto come hai abbattuto quel robot. Ma non possiamo lasciarla sola. – No – convenne Kay – Non la lascerò sola. – Tornerò appena posso – il Cacciatore si sistemò le armi a tracolla. Era certo che gli sarebbero servite presto, in un modo o nell’altro. – Altrimenti… – Tacque. Non c’era bisogno di dire altro. Kay annuì. Kiar era pronto a partire, ma all’ultimo momento parve colto da un pensiero. Esitò, poi si inginocchiò accanto alla ragazza in trance. Le sfiorò delicatamente la guancia e rimase per qualche istante in silenzio, come se fosse sul punto di togliersi il casco. Non lo fece. Quell’istante ò, colmo di parole non dette. Non ce ne era bisogno. Quel tocco significava tutto. C’erano modi diversi di comunicare oltre il linguaggio verbale. – Buona fortuna, amica mia – mormorò Kiar, rialzandosi. Era già sulla soglia quando fu richiamato indietro. Miris sbatté le palpebre, tornando a metterlo a fuoco. Si era sollevata sui gomiti
e il volto pallido spiccava contro la tuta protettiva. Dalla sua espressione era evidente l’angoscia, il desiderio di tenere con sé il Cacciatore. Non voleva perderlo. Ma sapeva anche che non poteva trattenerlo. Accennò un sorriso, triste ma pieno di luce. – Buona fortuna, Kiara – mormorò. Il Cacciatore, la Cacciatrice, annuì. Si erano già dette tutto. Sparì oltre la soglia, mentre sotto il casco si disegnava sul suo volto un ultimo sorriso.
36
Il tempo scorreva lento nella piccola stanza. Gli attimi rotolavano gli uni sugli altri, al ritmo dei pensieri. Non parlarono di Kiar, o Kiara, o comunque volesse farsi chiamare. Miris non affrontò l’argomento e Kay non fece domande. Speravano entrambi che tornasse presto da loro, ma nessuno ci credeva veramente. La speranza non dimorava in quel luogo. Miris non sapeva più a cosa credere. Si era accucciata contro una parete, pur detestando il contatto con il metallo. Aveva freddo, un freddo che veniva da dentro. Non poteva smettere di pensare ai compagni dispersi, forse morti. Che ne era di Troy? L’aveva perso di vista all’inizio della battaglia. E Samuel? E Roland? Era strano, ma aveva pensato che avrebbero portato a termine quella ridicola missione tutti insieme. Una sorta di avventura come quelle che le raccontava sua sorella per farla addormentare, piene di magia, amore e buoni sentimenti. La sua avventura si era rivelata molto diversa. Il pensiero di non vedere mai più Chrisandra le faceva male. Anche suo padre le mancava. Una parte di lei sperava ancora che, al ritorno, Radamante le corresse incontro, la abbracciasse e le chiedesse scusa, accettandola di nuovo come figlia. Un suo sorriso, una parola di lode. Era incredibile come detestasse suo padre, eppure bramasse farlo felice, come un cane che aspetta soltanto una carezza dalla mano che lo ha bastonato. – Sono una sciocca – mormorò. Kay se ne stava a qualche o di distanza, gli occhi socchiusi. Cercava di riposarsi e allo stesso tempo mettere a punto un piano. La situazione era critica. Miris non era in grado di combattere e gli sarebbe stata solo d’intralcio, ma non
l’avrebbe lasciata indietro. Quando una parte di lui se ne chiese il motivo, il giovane liquidò il problema con il semplice fatto che le aveva fatto una promessa. L’avrebbe mantenuta, punto e basta. – Ti riferisci a qualcosa in particolare? – domandò, con calma. Miris trasalì. Non si era accorta di aver parlato ad alta voce. – No, nulla, solo… – tirò un sospiro – Mi dispiace di avere un potere così inutile. – Alaric non lo giudicava così. Ha fatto di tutto per sfruttarlo. Miris fece una smorfia. Lo ricordava fin troppo bene. – Già, “una qualità meravigliosa”, l’ha definita. Anche se secondo lui era finita in mani sbagliate. Beh, come dargli torto?– una risata venata di amarezza – Avrei preferito anch’io che toccasse a qualcun altro. – E invece no! – Invece no – convenne Miris – Effetto stocastico. Kay le lanciò un’occhiata interrogativa. Non aveva voglia di parlare, ma la ragazza sembrava averne bisogno. Si aggrappava alle nozioni apprese durante gli studi alla Corporazione. – Non lo conosci? Serve a spiegare l’effetto dei Raggi sui tessuti viventi. Per le basse dosi, cioè quelle a cui ormai siamo soggetti quotidianamente, non esiste una soglia oltre cui si verifica sempre il danno. È probabilistico. Il danno genetico può verificarsi o meno, e quando accade è un fenomeno tutto o nulla. Si crea una mutazione o non si crea. Kay scrollò le spalle. – Insomma, noi siamo il risultato di un tiro sfortunato della sorte? – Possiamo dirla così. Sai che succederebbe se adesso uscissimo allo scoperto? Il giovane corrugò la fronte. Non aveva intenzione di sperimentarlo. Viveva bene con il dubbio.
– Andremmo incontro ad una sindrome da pan-irradiazione, la cui gravità dipende dalla dose ricevuta. Dopo vertigini, nausea e vomito, si delinea una fase di edema cerebrale con rischio di morte. Se superiamo questo stadio, avremo vomito e diarrea gravissime e, nel caso in cui miracolosamente fossimo sopravvissuti, manifestazioni dovute alla morte delle cellule del sangue: anemia, emorragie, infezioni… senza contare che rimarremo a rischio elevatissimo di sviluppare neoplasie nel corso degli anni successivi, o danni trasmissibili alla progenie – Miris fece una pausa – Mia madre fu sottoposta a pan-irradiazione poco prima della mia nascita. Kay sollevò la testa, sorpreso. Miris non parlava mai della madre, come se vigesse una sorta di divieto intangibile eppure inappellabile. La ragazza taceva, le mani in grembo, giocherellando con gli occhiali. Kay attese, poi si avvicinò, schiarendosi la voce. – Ne vuoi parlare? – Non c’è molto da dire – Miris non lo guardava – Era una Sacerdotessa, come mio padre, studiava le mutazioni. Ma con un intento ben diverso. Radamante l’ha sempre negato, ma Chrisandra mi ha raccontato che a lei i Chimerici non facevano paura. Li studiava e li curava, persino. Lei mi avrebbe… – si morse le labbra. Era morta prima di scoprirlo. – Si stava occupando di un malato, un ragazzino Lavoratore. Era un Chimerico, anche se nessuno lo sapeva. È… esploso, non so come altro definirlo. Era carico di una radioattività come un nucleo di uranio. Mia madre è stata investita in pieno dall’esplosione, con me in grembo… non hai idea di come fosse contento mio padre quando sono nata e ha visto che ero umana… – chiuse gli occhi, prese un sospiro – Scusami, non so perché ti sto raccontando queste cose. Non le ho mai dette a nessuno. Ti sto annoiando. – No, no – Kay le rivolse un sorriso d’incoraggiamento – È solo che sono sorpreso. E tua madre… – È morta di neoplasia quando ero piccola. – Mi dispiace. – Sei gentile a dirlo.
– No, sul serio – Kay si sentiva più a suo agio parlando di robot assassini e trappole laser, piuttosto che affrontare una conversazione del genere con Miris – Io non ho mai conosciuto i miei genitori. È questa la sorte dei Reietti. – È un’ingiustizia. Kay scrollò le spalle. – Cos’è giusto, se non quello che è stabilito dalla legge, svincolato da ogni giudizio morale? – Ma è il giudizio morale quello che conta – Miris si spinse avanti, prendendogli la mano – Secondo me, tu sei migliore di tanti umani e di tanti Chimerici. Kay non ribatté. Si limitò a fissarla. – Stai tremando – disse invece, con una nota di preoccupazione. Miris si accorse che era vero. – Un po’. – Smetti di fare l’orgogliosa e copriti! – Temo di aver perso il mantello nella fuga – insieme alla criocustodia con i medicamenti. Davvero brava! Una Sacerdotessa senza i suoi strumenti era inutile. Kay non la rimproverò. Che lei ricordasse, non l’aveva mai rimproverata. Andò a sedersi accanto a lei e le ò una mano intorno alle spalle, abbracciandola. Il suo tocco era caldo, solido, e non portava con sé torme di pensieri confusi. Solo una fresca e piacevole oscurità. – Scaldati a me – le disse, con voce calma – E cerca di riposare ancora un po’. Ci muoveremo non appena scenderà la notte. Miris poggiò la testa sul suo petto. Le dava una sensazione strana. Piacevole. Il tepore le suscitò uno sbadiglio che cercò di nascondere con la mano. – Non voglio addormentarmi. Non voglio sognare robot e morte.
– Non lo farai – Kay non si era mai rivolto a nessuno con tale gentilezza. Non credeva neppure di possederla. Tra le sue braccia Miris pareva una bambina che aveva bisogno di protezione. – Veglierò io su di te mentre dormi. La ragazza accennò un sorriso. – Lo fai sempre. – Nel tempo libero – Kay attese qualche istante, cercando le parole. Kiar aveva ragione. – Miris, senti, io… Abbassando la testa, si accorse che la ragazza aveva chiuso gli occhi. Il suo respiro si era fatto regolare, il viso si distendeva nel sonno. Kay si rimangiò le parole che non sapeva bene come pronunciare. In parte era sollevato, in parte deluso. Decise di non svegliarla. Piegò la testa, poggiando la guancia sui suoi capelli. Per quanto la toccasse, non riusciva ad aprirle la mente. Forse in quel modo sarebbe stato più facile. Ma il suo potere non gli consentiva neppure quello. Non gli dava nulla e gli toglieva tutto. Forse si appisolò, perché la cosa successiva di cui si accorse fu l’avvicinarsi di qualcuno. Rumori di i. Vicini. Kay si tese, maledicendo la propria stupidità. Non doveva abbassare la guardia. Fece per impugnare la pistola, ma era troppo tardi. L’intruso fece irruzione nella stanza, con le armi in pugno.
37
Fu la sacca che portava a tracolla a salvarlo. La criocustodia dei Sacerdoti. Kay fermò appena in tempo il dito che stringeva il grilletto, senza abbassare la pistola. – Morgante? – domandò, cauto. Il Sacerdote, se davvero era lui, pareva l’ombra di se stesso. Si era tolto il casco, perdendolo chissà dove, e il volto un tempo severo e deciso appariva pallido, smunto, prosciugato di ogni energia. Gli occhi erano cerchiati di rosso, lucidi, quasi febbricitanti. Li teneva fissi, senza sbattere le palpebre. Sembravano quelli di un pesce fuor d’acqua. Era in evidente stato di shock. – Morgante? – chiamò ancora Kay, appoggiando Miris alla parete e mettendosi davanti a lei per sicurezza. Udì la ragazza mugolare mentre emergeva lentamente dal sonno. Il Sacerdote non parve udirlo. Fissava davanti a sé, perso in una visione che solo lui poteva vedere. Le sue labbra tremavano, a formulare parole mute. La tuta era vaiolata di strappi e la manica sinistra mancava completamente. Il giovane corrugò la fronte. Sull’avambraccio c’erano dei cerchietti rossi. Piccole croste, più che vere e proprie ferite. Come delle punture di ago. Per la Notte, ma dove aveva trovato un ago quel Sacerdote? Il mugolio di Miris si tramutò in un’esclamazione sorpresa. – Che sta succedendo? Ma quello è… Kay si alzò, annuendo. Non fece movimenti bruschi. Morgante era scosso da tremiti e pareva sul punto di crollare da un momento all’altro. L’uomo che era
stato era sparito in poche ore, dissolto in quel relitto umano che non pareva in grado di intendere e di volere. Kay lo raggiunse un o per volta, pronto a scattare. Poggiò la mano sulla canna del fucile, chiedendosi dove il Sacerdote lo avesse raccolto, e lo abbassò. Ma non si sentì del tutto sicuro fin quando, quasi con delicatezza, non glielo tolse di mano. Morgante non offrì alcuna resistenza. Sembrava non rendersi conto di quanto lo circondava. Quella calma folle non era naturale. Miris era in piedi, fissava la scena sorpresa. – Sacerdote… Kay le fece cenno di tacere. Afferrò Morgante per le spalle e lo trascinò nella stanza, costringendolo a sedersi. L’uomo obbedì, come un cagnolino. Le sue labbra continuavano a muoversi. – Ti prego, ti prego… – salmodiava, in una nenia angosciante – Lasciami andare! – Di chi parli? – Kay si accucciò sui talloni davanti a lui – Dove sono gli altri? – Lasciami andare… tutti morti… no, non è possibile… i miei occhi… – Morgante non dava segno di sentirlo, né tantomeno di comprendere le domande. Miris si accostò. – Ma cos’ha? – Non chiederlo a me, sei tu la guaritrice – il giovane corrugò la fronte – A prima vista, direi che è impazzito. – Non è carino da dire in sua presenza. – Non mi pare tanto presente, a dire il vero – Kay, spazientito, diede uno scossone al Sacerdote – Ehi, mi senti? Sei al sicuro adesso. Vuoi dirci che accidenti ti è successo? – Lasciami andare. Fa male. Ti prego! Il corpo tremava mentre l’uomo continuava a farneticare. Kay lo lasciò di colpo,
quasi con disgusto. C’era qualcosa di grottesco in quello spettacolo. Solo allora notò un altro squarcio nella tuta protettiva. – È ferito – anche Miris l’aveva visto – C’è del sangue. – Ci penso io – Kay era stranamente restio a lasciare che la ragazza lo toccasse. Esaminò i bordi della tuta. Tagliati di netto, segando chitina e metallo schermante come se si trattasse di burro. Non era una ferita da laser, né tanto meno da esplosione. Sembrava piuttosto un taglio chirurgico. Kay lo tastò e rimase ancora più sorpreso. I lembi della ferita erano suturati da punti. Percepiva il filo metallico sotto le dita. Non aveva senso. – Morgante ha il necessario con sé – Miris aveva trovato uno straccio di spiegazione – Deve essersi richiuso i lembi della ferita per fermare l’emorragia. – Forse – ammise Kay, senza convinzione. Era tutto troppo… casualmente perfetto, ecco. Non gli piaceva. – Altrimenti, chi è stato? Kay non aveva risposta. Esasperato, rimase a fissare il Sacerdote farneticante, così pallido che pareva una statua di marmo. – Ti prego… lasciami… la tua luce… brilla e brucia, dentro di me… – Non ci capisco nulla – il giovane si tirò indietro, scuotendo la testa – Tu cosa ne pensi? Miris si morse le labbra. – Non importa quello che penso io, ma quello che pensa lui. E questo posso scoprirlo. Kay fece una smorfia. Aveva una pessima sensazione a riguardo. – Non so se sia una buona idea.
– È l’unica che abbiamo, se vogliamo cercare di aiutarlo, giusto? – Miris sostenne il suo sguardo – Concedi anche a me di fare qualcosa di utile. Se capissi cosa lo affligge, forse potrei curarlo. Kay le fece cenno di procedere, ma non si allontanò. Non si fidava. Morgante era un compagno, ma si stava comportando in maniera strana. D’accordo lo shock e la paura, ma era autentica follia quella che leggeva nel suo sguardo. I folli erano pericolosi. Miris si inginocchiò davanti al Sacerdote. Gli prese il volto tra le mani, sfiorandogli la tempia, e uscì cauta dalla fortezza della propria mente. I pensieri di Morgante le si tuffarono addosso con violenza. Petali caduti sotto la furia della tempesta. Riemersero alla superficie come salme dei morti dall’oceano, spoglie e raccapriccianti. Miris vide, filtrato dagli occhi e dalle emozioni confuse del Sacerdote.
Le rovine del mondo antico, lo spiazzo, l’agguato. La cruente battaglia. Fili di laser che bruciavano e ustionavano. Mostri di metallo che emergevano da quell’inferno per fare a pezzi i compagni. Furio che si disintegrava sotto i suoi occhi, un Cacciatore tagliato a metà dal laser. Tutti combattevano e morivano. Paura, caos, disperazione. Non voglio morire, non voglio morire! Poi il buio, accolto con gioia. Voleva rimanerci. Ma la luce l’aveva trovato. Fasce di metallo intorno ai polsi, stringevano, stringevano, il dolore di mille punture. Il sangue che gli veniva prelevato, provette sollevate per essere ammirate con freddo compiacimento. Di nuovo paura. Gli occhi bruciavano. C’era troppa luce. Lui era la Luce. Il rumore di una sega che tagliava. Era la sua carne, la sentiva aprirsi senza potersi muovere. Era bloccato, inerme. Veniva aperto, esplorato, tastato. Infine richiuso. Con qualcosa dentro di sé.
Nella luce accecante, Morgante urlò.
Miris si staccò di scatto, il respiro affannoso. Tutto le faceva male e sentiva il bisogno di mettersi ad urlare. Kay la sorresse. – Torna in te – le sussurrò – Non so cosa hai visto, ma è accaduto a lui, non a te. Miris si aggrappò al giovane, un’ancora in quella follia che aveva appena sfiorato. Deglutì più volte, prima di riuscire a parlare. – Quando apro la mente, è così difficile mantenere la mia individualità… – scrollò la testa, nel tentativo di liberarsi degli ultimi tralci di ricordi non suoi. Erano frammentari, confusi. Trasudavano una disperazione tale che, se l’avesse accolta, Miris sarebbe impazzita. Impazzire. Era quello che era successo al Sacerdote. – Ho visto l’attacco, Morgante è riuscito a fuggire. Poi… non lo so… sembra che qualcuno lo abbia catturato, torturato… – socchiuse gli occhi. Provette di sangue. Strani macchinari. – O studiato. Kay ò lo sguardo dalla ragazza al Sacerdote, perso nei suoi deliri, poi di nuovo sulla ragazza. – Chi? – Non ne ho idea. C’era… troppa luce – Miris corrugò la fronte – Non saprei definirlo. Hai presente quando guardi d’improvviso verso un neon? Ne rimani abbagliato e per un po’ non distingui più nulla. Ecco, una cosa del genere. I pensieri di Morgante sono abbagliati. – Vuoi dire che, dovunque sia stato, c’erano molti neon? – Può essere, anche se in realtà la mia era una metafora… D’un tratto il Sacerdote balzò in piedi, il volto sbarrato.
– No, toglilo, toglilo! Lo sento. Conto alla rovescia. Fa male! Kay si alzò a sua volta. Miris gli prese il braccio prima che potesse colpire il Sacerdote con uno schiaffo, la cura migliore per una crisi isterica. – Morgante, calmati. Adesso sei tra amici. Nessuno ti farà del male. Le parole della ragazza finirono sprecate. Il Sacerdote non la ascoltava. Sembrava sul punto di scoppiare a piangere. – Mi segue. È sempre con me. Attenzione! Kay tormentò il grilletto della pistola. Cominciava a pentirsi di non aver sparato a vista. – Attenti a cosa? Miris prese la mano del Sacerdote tra le sue. Si concentrò sulla sensazione di quiete e di sicurezza, e cercò di trasmetterla. L’arcobaleno accecante cominciò a smorzarsi. La ragazza lo venò di azzurro e di indaco, accarezzandolo. La mano di Morgante era fredda. – Va tutto bene. Adesso calmati. Mettiti comodo, ti ascoltiamo. A cosa dobbiamo stare attenti? Il Sacerdote abbassò la testa di scatto. La fissò, e per un attimo i suoi occhi riacquistarono un barlume di lucidità. – Al seme di luce – disse soltanto. Poi, senza alcun preavviso, corse via. I due giovani rimasero immobili, troppo stupiti per reagire. Miris fu la prima a riprendersi. – Aspetta – con un senso di urgenza che non riusciva a spiegarsi, si gettò all’inseguimento. Kay imprecò sonoramente. – Maledizione a tutto! – sbottò. Raccolse in fretta armi e zaino con le munizioni, mettendoselo sulle spalle. Non se ne sarebbe separato per nulla al mondo, rappresentava la loro unica possibilità di sopravvivenza.
Corse sulle orme della ragazza e del Sacerdote impazzito. Kay non aveva più dubbi in proposito. Come altro spiegare quel comportamento? Morgante si muoveva veloce, la criocustodia gli sbatteva contro il fianco in tonfi cadenzati. Non ci faceva caso. Pareva dimentico di tutto, tranne del bisogno di scappare da qualcosa o da qualcuno. Svoltava un angolo dopo l’altro, continuando a gridare frasi senza senso. Eppure, c’era una metodica regolarità nel suo percorso. Kay si rese conto che cercava qualcosa. La ferita ricucita. Conto alla rovescia. Seme di luce. Un tremendo dubbio cominciò ad affiorare alla sua mente. Aumentò l’andatura. – Miris, fermati! – le gridò, incurante di quanti nemici potessero sentire. Al momento i robot non erano il problema principale. La ragazza lo ignorò. Ovvio, si disse Kay con stizza. Quando mai una donna dava retta a un consiglio sensato? Finalmente, dopo una corsa nel labirinto di corridoi e stanzette, Morgante parve trovare quello che cercava: una rampa di scale. La imboccò con frenesia crescente. Miris lo seguì e Kay fu costretto a saltare i gradini due a due per starle dietro. – È ancora giorno – gridò. Il Sacerdote continuava a salire con folle ardore. – Morgante, ti prego! – Miris sentiva i polmoni sul punto di scoppiare – Pensa ai Raggi. È pericoloso! Dall’alto proveniva una luminosità soffusa, calda, quasi rovente. Miris socchiuse gli occhi e armeggiò con gli occhiali protettivi che portava al collo, cercando di metterseli durante la corsa. Temeva danni permanenti alla retina. In ogni caso, dubitava che la tuta la proteggesse da un’esposizione diretta. Morgante era già in cima alla rampa. Kay raggiunse Miris sull’ultimo scalino e la gettò a terra. Avevano raggiunto la Superficie e il chiarore del Mietitore filtrava dalle vetrate infrante, anche se lasciava in quella zona una provvidenziale ombra. Un’oasi di salvezza.
Il Sacerdote la abbandonò. – No – Miris si dibatté, ma Kay non la lasciò andare. Le infilò in testa il casco a forza, poi con lei rimase a osservare Morgante che si immergeva nella luce dorata del Mietitore. Solo allora l’uomo rallentò. Allargò le braccia, come un assetato che accoglie la pioggia. Il chiarore scivolò sulla sua mano. Lo osservò con la meraviglia di un bambino. Si volse e Miris vide che stava piangendo. L’altra mano premeva sulla ferita nell’addome, come per trattenere qualcosa. – Vieni via! – gridò la ragazza – Morirai! Kay la spinse indietro. – Morirà comunque. Trascinata verso il basso, Miris incontrò per un’ultima volta lo sguardo del Sacerdote. Vi lesse un ultimo sprazzo di consapevolezza, ingoiato dalla follia che gli divorava la mente. Per fortuna. Poi, sotto i suoi occhi, Morgante esplose. Kay la tirò giù un attimo prima che l’onda d’urto asse sopra di loro. Miris si sentì schiacciata tra i gradini e il corpo del giovane che le faceva da scudo. L’edificio tremò e il soffitto sopra di loro cominciò a vacillare. Stava crollando su se stesso. Era la loro unica protezione contro il Mietitore. – Via da qui – Kay la sollevò in braccio, senza troppe cerimonie, e ripercorse a ritroso la scalinata, fin quando non si trovarono di nuovo nel buio. Coperti di polvere, ma salvi. Solo allora le permise di poggiare i piedi a terra. Miris si prese la testa tra le mani. Le orecchie ancora le ronzavano per il fragore e per l’urlo di Morgante, che si era spento di colpo nella sua mente. Era morto. – Non è possibile! La pan–irradiazione…
– I Raggi non c’entrano – Kay serrò il pugno – Morgante aveva una bomba cucita dentro. – Cosa? – Non è scappato, è stato lasciato andare. Era ovvio che sarebbe tornato dai compagni. E sarebbe morto insieme con noi – il giovane non nascose il suo sdegno per quel piano genialmente crudele. Miris scosse la testa. Era orribile anche solo pensarci. Morgante torturato fino alla follia e poi mandato a morire. Eppure, in un ultimo gesto di sacrificio, era riuscito a correre all’aperto per non coinvolgerli nell’esplosione. Era stato consapevole di ciò che lo aspettava? Miris si augurava di no con tutto il cuore. – Ma chi può aver fatto una cosa del genere? – aveva le lacrime agli occhi. Kay non rispose. Si limitò a stringerla, con la fredda consapevolezza che erano intrappolati in un luogo in cui dimorava qualcuno o qualcosa fermamente intenzionato a giocare con loro prima di ucciderli. Se davvero era un Dio, era un Dio perverso.
38
Il Sacerdote si stupì quando l’Ingegnera gli chiese di vedere il ferito. Di per sé non era cosa inusuale che familiari o amici venissero a trovare i parenti nell’ala B della Corporazione. Era un’usanza che veniva tollerata, quando le condizioni dei malati non erano critiche e la presenza di altre persone non costituiva un rischio o un intralcio. C’erano orari prestabiliti da rispettare, una volta al giorno. L’Ingegnera era nell’orario giusto, ma di certo non era né un familiare né un’amica del ferito. Forse, pensò il Sacerdote, il ferito non era amico di nessuno. Anzi, se non fosse stato per la strana e immotivata insistenza della figlia maggiore del Triumviro Radamante, sarebbe stato lasciato dov’era a morire. Anche il nuovo Autocrate aveva espresso la volontà che fosse “rimesso in sesto”. Sì, erano state queste le parole. Nonostante gli ordini, però, nessuno voleva prendersi la briga di toccarlo, come se fosse contaminato. Lo era, da un certo punto di vista. Il Sacerdote aveva pescato il fil di rame più corto e così era toccato a lui occuparsene. Ne avrebbe fatto volentieri a meno. Il ferito non parlava con nessuno. Non rispondeva alle domande dei Sacerdoti, non si lamentava per le terribili ferite. Si limitava a fissare il soffitto, chiuso nel suo ostinato mutismo. Non si muoveva e i muscoli si stavano atrofizzando. Al Sacerdote sembrava che avesse perso la voglia di vivere. Scrollò le spalle. Non era un problema suo. Aveva fatto quello che poteva, aveva la coscienza a posto. Decise di essersi meritato una pausa. Una bella shen con gli amici era un’idea allettante. Eppure un pizzico di curiosità lo trattenne. Aveva la sensazione che quell’incontro fosse troppo strano per essere casuale. Che fosse importante. Anche una shen lo era. Con una nuova scrollata di spalle, il Sacerdote si affrettò lungo il corridoio,
continuando però a chiedersi cosa ci fe la Triumvira degli Ingegneri nella stanza di un Chimerico ferito. Florenzia attese di sentire i i che si allontanavano. Accennò un sorriso, che le lasciò una fossetta sotto la gota paffuta. Bene, il Sacerdote ficcanaso era fuori dai piedi. Quella conversazione era riservata. Sempre che fosse riuscita a tenere una conversazione con quell’essere. Agarath giaceva supino, con il braccio superstite sotto la nuca e le ginocchia flesse. L’altro arto era ridotto a un moncherino che si interrompeva all’altezza del gomito. Un telo gli copriva la parte inferiore del corpo, nascondendo le nudità, mentre il torso era avvolto da bende medicate. I fattori di crescita concentrati facevano miracoli, le ferite erano in gran parte chiuse, anche se quel corpo possente era cosparso di cicatrici. Erano le ferite interne che non sembravano guarire. Il Chimerico del magma non si voltò. Florenzia era certa che l’avesse percepita ben prima che varcasse la soglia. Quelle creature avevano sensi più sviluppati degli umani. Ecco perché molta gente ne aveva paura. Gente che l’Ingegnera considerava sciocca. E lei non era una sciocca. Approfittò di quel silenzio per studiare Agarath. Anche da sdraiato, era una figura possente. Quando non usava il potere, sembrava un umano, ma c’era comunque quel qualcosa in più, indefinibile, che faceva sorgere i dubbi. Il Chimerico era davvero una forza della natura. Lo dimostrava il fatto che era riuscito a sopravvivere a un colpo di Railgun. Per molti Cicli era rimasto privo di conoscenza, in un limbo sospeso tra vita e morte. Poi si era risvegliato, grazie alle cure dei Sacerdoti. Da allora, però, non si era più alzato da quel letto. Florenzia voleva dargli un motivo per farlo. – Salve Agarath – Un saluto amichevole, mentre si avvicinava al letto – Come
vanno oggi le ferite? Nessuna risposta. Non se la aspettava, ovviamente. Non aveva mai pensato che sarebbe stata una cosa facile. E, doveva ammettere, non aveva esperienza nel parlare con i Chimerici. I loro rapporti si erano mantenuti per anni su un piano di fredda indifferenza. Ognuno andava per la sua strada. Erano ingranaggi della stessa macchina, ma non era scritto da nessuna parte che dovessero trovarsi reciprocamente simpatici. Non si offese per quella mancanza di educazione. Quando si voleva ottenere qualcosa, bisognava essere pazienti. – Ti vedo più in forma – continuò, sedendosi sul bordo del letto – I Sacerdoti dicono che stai guarendo. Hai un’incredibile capacità di rigenerazione. Un lieve incresparsi della fronte. Fu l’unica reazione che ottenne. Era già un risultato. Dopo i preamboli, era il momento di introdurre i primi elementi di interesse nella conversazione. – Il nuovo Autocrate, Alaric Siferri, è rimasto colpito dalla tua resistenza. Ha insistito perché tu fossi adeguatamente curato – e, per fortuna, poi aveva avuto altro a cui pensare. Florenzia lo aveva anticipato. Alaric forse non era così intelligente come credeva. Pareva più interessato a ronzare intorno alla figlia di Radamante. Quella normale, non la novella Chimerica. Chi avrebbe mai pensato che quella insulsa ragazzina fosse una telepate? Alla scoperta, Florenzia era rimasta sconvolta. Radamante aveva sotto mano una simile potenzialità e non era stato in grado di sfruttarla? Anzi, adesso la ripudiava? Era sempre più convinta che il Sacerdote fosse un idiota. Un geniale idiota, purtroppo. Ancora le serviva. Ma non vedeva l’ora di toglierselo dai piedi. Era un palla di metallo che in futuro le avrebbe impedito di correre verso il suo obiettivo. Un futuro vicino. Questa volta Agarath strinse il pugno. I muscoli del suo braccio erano tesi. Bene, bene. Procedeva tutto a suo vantaggio.
– Giusto, sei rimasto privo di conoscenza a lungo – si prodigò nelle spiegazioni – Alaric è l’Autocrate di Alpha5, l’Alveare invasore. Ah, adesso anche del nostro Alveare. – Ha ucciso Sirea – replicò Agarath. La sua voce era il grattare di pietra contro pietra. Continuava a fissare il soffitto, come se volesse farlo crollare. – La Chimerica dell’acqua – Florenzia annuì. Non doveva fingere di essere dispiaciuta. Lo era. Sirea era un ottimo elemento, utilizzabile sia nell’esercito, sebbene fosse una donna, sia come cercatrice di pozzi e irrigatrice dei campi. – Una perdita per il nostro Alveare. Agarath non replicò. Florenzia non sapeva che rapporto sussistesse tra i due Chimerici - amore, amicizia, odio? - e non le interessava. A meno che non fosse sfruttabile a suo vantaggio. – Per fortuna non abbiamo perso anche te. – Fortuna? – Agarath emise un suono gorgogliante che sembrava una risata – Sono quasi morto per difendervi, e voi continuate a evitarmi e disprezzarmi. Credi che non me ne accorga? Mi avreste lasciato là a morire! – Non l’abbiamo fatto – ribatté Florenzia, calma. Il fatto che non fosse stata lei a soccorrere il Chimerico non toglieva che comunque potesse prendersene il merito. – Sei qui. Sei salvo. Agarath scosse la testa. – Per quanto? Perché questo Alaric non mi ha ucciso? Adesso veniva la parte più difficile. Doveva rimanere quanto più possibile vicino alla verità, in modo che quell’essere si fidasse di lei, ma allo stesso tempo doveva scegliere i punti di vista con attenzione. C’erano molte verità, bastava lavorare sulle sfumature. – Perché è anche lui un Chimerico. Un telecineta – la notizia si era sparsa in fretta. Florenzia non sapeva esattamente da dove fosse partita. Forse dalla Corporazione dei Sacerdoti. Agarath ne sarebbe venuto a conoscenza in ogni caso. – Ha un esercito di Chimerici ai suoi ordini. Del fuoco, della terra, del fulmine… – fece una breve pausa – È stato lui ad uccidere Sirea.
Agarath annuì. – Vuole arruolarmi nel suo esercito? – Credo di sì. Il Chimerico socchiuse gli occhi. – Allora avrebbe fatto meglio a lasciarmi morire in pace. Florenzia lo lasciò riflettere per qualche istante, poi tornò a parlare. – Ci sono delle alternative. – Davvero? – Agarath si sollevò sul gomito per fissarla negli occhi. Il movimento gli strappò un gemito, ma serrò i denti. – E tu invece cosa vuoi da me? Altrimenti non saresti venuta qui, Triumvira. Florenzia accavallò le gambe e poggiò le mani intrecciate sulle ginocchia. – Ti offro un’alternativa, appunto. Ho bisogno che tu mi protegga dai pericoli del Sottosuolo, una volta che avremo lasciato l’Alveare – progettava quella fuga da quando Alaric le aveva fatto firmare la resa, destituendola in pratica da ogni sua mansione. Da sola non sarebbe sopravvissuta al viaggio. Qualunque creatura del Sottosuolo avrebbe visto in lei una facile preda. Ma non in un Chimerico del magma. Agarath sbatté le palpebre. – Fuggi, Triumvira? E per dove? – una smorfia – E perché mai dovrei seguirti? – Perché fuggo per creare un luogo dove i Chimerici non siano temuti ma rispettati – sentenziò Florenzia, seria – Anzi, ci saranno soltanto Chimerici. Con mutazioni controllate e ben stabilite. Un nuovo inizio per la nostra specie. Se voleva stupirlo, c’era riuscita. Soddisfatta, lo vide aggrottare la fronte. La fissava incerto. Interessato. – Spiegati meglio! Florenzia non aspettava altro. Abbassò la voce. Era riuscita a seminare le spie che Alaric le aveva attaccato addosso, ma presto si sarebbero accorte della sua
scomparsa. – Il Triumviro Radamante, su mio consiglio, sta lavorando da tempo a un “vaccino” contro le mutazioni. Impedisce quelle dannose e seleziona quelle che danno un vantaggio per la sopravvivenza, non tanto della cellula, quanto dell’organismo. Come la tua. Come quella di Sirea. Ma lui è troppo gretto per comprenderne la reale applicazione. Io no. Intendo portare questo vaccino in luoghi più aperti al cambiamento e utilizzarlo per dare nuova dignità ai Chimerici – e a se stessa, visto che intendeva mettersi a capo della nuova colonia. Aveva ponderato attentamente quella decisione. Non voleva essere seconda a nessuno. Non c’era spazio per lei e per Alaric in un solo Alveare. Agarath taceva. Sembrava considerare la possibilità che fosse solo uno stratagemma di Alaric per capire veramente se poteva fidarsi di lui. – Ti interessa? – la Triumvira lo fissava, in attesa di una risposa. Il Chimerico parve scegliere di rischiare. Il pensiero di rimanere ancora nell’Alveare, che non era riuscito a difendere, doveva essere era troppo pesante. – Ponendo che accetti, – mormorò – cosa dovrei fare? La fossetta sulla guancia si approfondì, mentre Florenzia sorrideva.
39
Quando il Cacciatore gli toccò una spalla per ottenere la sua attenzione, Starr per poco non lo fulminò sul posto. Lo avrebbe fatto, in un’altra situazione. Come, in un’altra situazione, quell’umano non avrebbe osato avvicinarsi a lui a più di tre i. Ma le cose erano cambiate. Avevano visto tutti la morte così da vicino che non avevano voglia di chiamarla ancora. Suo malgrado, Starr doveva ammettere di essere esausto. – Cosa c’è? – sibilò, freddamente. Erano accucciati in una stanza ingombra di macerie e strani macchinari di metallo che suscitavano in loro profondo sgomento. Dopo essere stati decimati da un esercito di robot, ogni macchina era un potenziale pericolo. Ma, dato che quegli affari non avevano accennato a muoversi, Starr poteva ragionevolmente pensare che non lo avrebbero fatto. Ciononostante il suo gruppo si teneva a cauta distanza e il Chimerico era pronto a fulminarli al minimo accenno di pericolo. Tutto era pericolo là dentro. – Da quella parte – bisbigliò il Cacciatore – Dietro l’angolo. Starr si tese, percependo l’elettricità scorrere sulla pelle. Elettroni che si rincorrevano senza sosta. Li lasciò andare. No, non doveva essere affrettato. Il suo potere avrebbe richiamato l’attenzione dei nemici su di loro. Se solo avesse capito chi o cosa fossero i nemici! Attorno tutto era immobile e silenzioso, tranne il suo cuore, che batteva rapido. Non un suono, non un movimento. L’edificio in cui erano penetrati li circondava con le sue pareti di metallo. In agguato. Da un momento all’altro avrebbe di nuovo sguinzagliato i suoi micidiali abitanti, per finire il lavoro cominciato.
Il loro sterminio. – Beh – considerò Starr – non dovrà faticare tanto. Era coperto di polvere e di sudore, ogni muscolo gli doleva per la fatica e un polso gli faceva così male da non dubitare di averlo rotto. Il morso di un cane di metallo. Poi i circuiti di quel bastardo erano stati fulminati. Un briciolo di soddisfazione. I compagni erano in condizioni addirittura peggiori. Oltre al Cacciatore che gli aveva parlato, con un taglio che gli correva lungo il torso, c’era un altro guerriero di cui si stava occupando il Sacerdote Ivaldo. Dai mugolii di dolore, il Chimerico dedusse che non stava facendo un ottimo lavoro. Poco prima Starr lo aveva visto chino sul ferito, a tirargli il braccio lussato. L’arto era tornato al suo posto, ma il Cacciatore aveva lanciato un grido. Il Chimerico aveva minacciato di fulminarlo, se avesse aperto di nuovo bocca, e intendeva mantenere la sua promessa. L’Ingegnere Tony sedeva con la testa nascosta tra le ginocchia ormai da tempo, senza dare segni di vita. Starr non poté fare a meno di pensare che sarebbe stato meglio se fossero morti tutti subito. A dire il vero, c’erano andati molto vicini. Il Chimerico aveva capito subito che quel posto prometteva guai. Non aveva mai visto un’architettura simile e quel metallo lo lasciava sconcertato. Comunque, Alaric li aveva mandati là e quindi Starr non aveva esitato a proseguire, tenendo per sé i propri dubbi. Non si trattava di ottuso desiderio di obbedire agli ordini, lui non era lo schiavo di nessuno. Il telecinetico era stata la sola persona a dargli una possibilità di rivalsa. Lo aveva nominato suo ufficiale e lo aveva finalmente elevato al di sopra dei miseri umani. Il fatto che ogni tanto Starr dovesse sopportare i suoi piani folli era un dettaglio ininfluente. E poi si fidava di Roland. Insomma, a volte era un po’ noioso, e troppo tollerante per i suoi gusti nei confronti degli umani, ma ormai si era abituato a quei difettucci. Li imputava alla sua età. Con gli anni la gente si rammolliva. Bastava vedere come trattava quell’intrigante telepate che non faceva altro che causare fastidi. Sperò che fosse morta, almeno lei. Insieme all’altra Sacerdotessa del gruppo di
cui non ricordava il nome. Non era importante. Gli umani erano tutti uguali. A dire il vero, non sapeva neppure come si chiamassero i suoi attuali compagni. Non lo aveva chiesto e non intendeva farlo. Inutile sprecare memoria per imparare il nome di futuri cadaveri. I fili laser avevano svolto un egregio lavoro, seminando sangue e morte tra le file dei Cacciatori. Starr era stato fortunato. All’udire i sibili, un po’ per istinto, un po’ perché aveva inciampato tra le macerie, era finito a terra. Quella caduta gli aveva salvato la vita. Nel caos di urla, aveva sentito Roland gridare di ritirarsi. Obbedendo ai suoi ordini, Starr era strisciato indietro, mentre i laser gli avano sopra così vicini da bruciargli la tuta protettiva. Peccato, gli piaceva. Un completo elegante, a suo modo di vedere. Solo il casco stonava. Lo aveva perso chissà dove nella mischia. – Mostri! – aveva gridato qualcuno. Starr si era rialzato, in tempo per vedere il primo di quegli strani congegni emergere dall’edificio. Non era solo. Ce ne erano a decine, di forma e dimensioni diverse, tutti ugualmente terribili. Erano fatti dello stesso metallo dell’edificio, come se fossero un’appendice di esso. Marciavano su di loro come un esercito di formiche che esce per la caccia. Loro erano le prede. Starr aveva fulminato il primo senza rendersene neppure conto. Aveva reagito con la forza dell’esperienza e della disperazione. La scarica elettrica si era abbattuta sull’ammasso di metallo, percorrendolo tutto prima di scaricarsi al suolo. Con un brillio di scintille e ronzii, il nemico era crollato. Sovraccarico. Starr aveva elettricità in abbondanza da scagliare. Senza perdere tempo, aveva superato l’ammasso fumante e aveva raggiunto i
compagni, che sparavano alla cieca senza riuscire a fermare l’avanzata dei robot. Non lo faceva per proteggerli, era del tutto dimentico della loro presenza, ma soltanto per liberare la rabbia che aveva dentro e che altrimenti lo avrebbe consumato. Aveva distrutto senza batter ciglio altri due robot, prima di finire a terra. Un cane di metallo cercava di azzannarlo al collo. Starr aveva sollevato il braccio per proteggersi. – Fottiti, bestiaccia – aveva sibilato. Il suo corpo aveva sprigionato elettricità, mandando in avaria il nemico. Si sentiva immortale, invincibile. Sovraumano. Il tempo si era fermato, cristallizzato in quello scontro in cui Starr gettava tutto se stesso. Il potere era l’unica cosa veramente sua, in un mondo che non gli aveva offerto nulla e non aveva nulla da offrirgli. I robot convergevano da ogni direzione. Forse lo avvertivano come un pericolo. Era un magnete per loro. Cercavano di ghermirlo, di afferrarlo, di sbatterlo al suolo. Ma Starr continuava implacabile la sua opera di distruzione. L’elettricità lo avvolgeva, gli elettroni si agitavano intorno a lui, si fondevano alla sua essenza. Lui era fatto di elettroni, di atomi, di molecole cariche. Correvano nella sua carne, nel suo sangue, riempiendolo di energia. Era un elisir irresistibile che lo colmava e gli faceva desiderare soltanto di averne ancora. Di averne di più. Era l’unica cosa che aveva. Le grida dei compagni non lo sfioravano. Non li vedeva, ognuno era isolato in quell’inferno di laser e metallo che si chiudeva in una trappola mortale. A lui non importava. Contavano soltanto l’elettricità e il doloroso potere che gli dava. Poi una vampata di plasma aveva avvolto tutto. Starr era stato costretto a ritirarsi per non essere investito a sua volta. Era tornato in sé. Decisamente scocciato. Perché gli umani dovevano rovinargli il divertimento? Poi, raccogliendo un po’ di buon senso, aveva considerato che i robot erano troppi per affrontarli tutti insieme. Non c’era fretta, tanto valeva diluire lo scontro un po’ per volta. Cominciava a sentirsi stanco. Riluttante, aveva cominciato a ritirarsi. Uno sparuto gruppo di umani superstiti lo aveva seguito,
vedendo in lui una possibilità di salvezza. I robot li avevano braccati, nel tentativo di separarli e farli a pezzi uno per uno. Si muovevano rapidi con le loro sottili zampe di metallo o con ruote che ronzavano come calabroni feroci. La caccia era proseguita senza tregua, al punto che Starr aveva perso l’orientamento. Per quello che ne sapeva, potevano essere tornati al punto di partenza. In fondo, cos’era la vita, se non un cerchio senza scopo? D’improvviso, i robot si erano fermati. Erano tornati rapidamente nella direzione da cui erano venuti, lasciando Starr e gli umani da soli in mezzo ai vapori e al silenzio. La città “H” adesso si era trasformata in un cimitero, una tomba vuota che li attendeva ai primi chiarori dell’alba. E così anche i robot temevano il Mietitore! Starr e i suoi compagni erano stati costretti a trovare rifugio all’interno dell’edificio. Attraverso uno squarcio nel terreno, si erano calati ai piani inferiori e da allora erano rimasti nella stanzetta, a chiedersi cosa fare senza trovare una risposta soddisfacente. In quel vuoto silenzio, Starr rimpiangeva l’ebbrezza della battaglia. Per lo meno prima aveva un nemico concreto contro cui sfogare la propria rabbia. Adesso non aveva che una scura parete di metallo e non poteva fare altro che fissarla, serrando i denti e rodendosi il fegato. Laser scomparsi e robot invisibili erano più spaventosi di quelli reali. Ogni energia pareva prosciugata e Starr si ritrovava stanco e amareggiato. Dov’era Roland adesso? Perché lo aveva abbandonato? Era abituato a combattere con lui al fianco. Era la sua guida. Invece era rimasto solo. Come sempre. Lanciò un’occhiata al Cacciatore, prima di tornare a sbirciare il corridoio buio. – Sei sicuro? Il Cacciatore si strinse nelle spalle. Non potevano essere sicuri di niente là sotto. – Ho sentito dei i.
Starr riteneva inutile mettersi in ascolto. Il nemico sarebbe arrivato comunque, che loro lo sentissero o meno. E sarebbe stato fulminato all’istante. Peccato che il nemico fosse più astuto di loro. Giunse dalla parte opposta a quella in cui aveva prodotto rumore, cogliendoli alle spalle. Emerse dalla porta dai cardini divelti e alzò le mani. Starr si girò di scatto, mentre il Cacciatore al suo fianco impugnava il fucile. – Non sparate, sono io! Kiar fece qualche o nella stanza. Nonostante il casco, la voce era familiare. – Siete rimasti solo voi? Starr fece una smorfia. Aveva bloccato il potere appena in tempo e percepiva l’elettricità sulle punte delle dita. Appoggiò la mano alla parete, scaricandola là. Per fortuna non c’era nessuno appoggiato, altrimenti ne avrebbe subito le conseguenze. – Non ti bastiamo? – sbottò, con un cenno stizzito. I compagni andarono a salutare Kiar, stringendogli l’avambraccio con sospiri di sollievo. Abbassarono le armi e si raccolsero intorno a lui. Starr non si mosse. Non avevano mostrato lo stesso entusiasmo nei suoi confronti. Bene, non gli interessava. E la prossima volta li avrebbe lasciati morire tutti. – Ero con Kay e Miris, sono accampati a poco distanza da qui – annunciò Kiar – Stanno bene. – Peccato – Starr non mascherò la sua delusione – Anche la ragazza? Non è che è ferita almeno un pochino? Il Cacciatore non si curò di rispondere. – Possiamo raggiungerli in meno di un’ora di cammino, senza bisogno di uscire allo scoperto. – Sempre che vogliamo raggiungerli!
Di nuovo il Cacciatore continuò come se lui non esistesse. – I vostri feriti sono in grado di camminare? – Più o meno – Ivaldo allargò le braccia – Ho fatto quello che potevo. Abbiamo perso Juliena e gli altri Sacerdoti. Non ho idea di dove siano gli Ingegneri a parte Tony. Kiar annuì. – E gli altri gruppi? Pyrgo? Il compagno scosse la testa. – Non saprei. Troppa confusione, non ci capivamo più niente. Sono tutti scomparsi, quando è iniziata la battaglia. La carneficina. Se non fosse stato per lui… – e indicò Starr, contribuendo ad infastidirlo ancora di più. Detestava la gente che parlava di lui in terza persona. Kiar fece un cenno al Chimerico, come a ringraziarlo. Per cosa? Starr scosse la testa. Quel Kiar era un tipo strano. Ormai combatteva con loro da qualche tempo e sembrava molto amico di Pyrgo. Mah, cosa ci trovasse il compagno in un umano, proprio non riusciva a capirlo! D’accordo, era un bravo esploratore. Per essere un umano, ovvio. Se Starr avesse potuto provare simpatia per qualcuno, Kiar gli sarebbe stato simpatico. – Anche Kay è stato determinante per la nostra salvezza – aggiunse Kiar – Nonostante sia un mezzo Chimerico, si è dimostrato molto forte. Starr inarcò un sopracciglio. – Sarà, ma rimane un mezzo-Chimerico! Chissà come era nato! Una mutazione casuale? Figlio di un Chimerico venuto male? O, peggio ancora, un bastardo frutto di un’unione tra umani e Chimerici? Quelle unioni non erano permesse, sporcavano sia la razza umana che quella Chimerica.
Kiar gli rivolse un’occhiata attraverso gli occhiali protettivi. – Credo che in questo momento il razzismo sia l’ultimo dei nostri problemi. Dobbiamo andare. Meglio riunirci il prima possibile. Avremo più probabilità di sopravvivenza. Si avviarono lungo il corridoio. In alcuni tratti c’era bisogno delle torce, in altri l’ambiente era rischiarato da strane lampade poste a distanza regolare, che emanavano una tenue luminescenza bianco sporco. Kiar stava in testa, guidando il resto del gruppo. Starr veniva subito dopo. Il Sacerdote sorreggeva l’Ingegnere e i due Cacciatori chiudevano la fila, armi in pugno. – Come ci hai trovato? – domandò Starr. Kiar continuò a camminare. – Un po’ di fortuna, devo ammettere. Questo edificio è un labirinto. Ed è pieno di robot. Però non ne ho incontrati sulla mia strada. Forse di giorno non sono attivi. Forse proteggono solo determinate zone. O forse, – abbassò la voce – colui che li manovra vuole divertirsi ancora un po’. Starr emise un borbottio tra i denti. – Si divertirà poco quando lo troverò, stai sicuro! – Le cose non possono andare peggio di così – Kiar era affranto – Roland e Pyrgo dispersi, noi decimati… siamo vivi per miracolo! – E cerchiamo di rimanerci! – Starr ripensava a quella teoria. I robot agivano in maniera autonoma, con una programmazione vecchia di secoli, o erano manovrati da qualcuno? E, in quel caso, chi? Cosa voleva da loro? Conosceva il loro obiettivo? Troppe domande senza risposta. Troppi interrogativi. Il Chimerico scosse la testa. Roland e Pyrgo erano più bravi di lui nel formulare strategie. Guardò l’orologio. Il tempo della Luce era quasi finito. Immaginò il Mietitore che scendeva verso l’orizzonte, un disco d’oro pallido che si scioglieva nel crepuscolo. Lavorava di fantasia, perché non aveva mai visto un tale spettacolo. Non sarebbe stato prudente.
Chissà se la gente del ato guardava con meraviglia il tramonto, anche se poteva vederlo tutti i giorni! Starr sapeva che probabilmente sarebbe morto senza mai ammirarlo. I corridoi erano alti abbastanza per far are comodamente un uomo, arrivavano ad almeno tre braccia. A intervalli regolari si aprivano in stanze, in cui ammassi arrugginiti a maglie in ato dovevano essere stati letti. Quel posto aveva ospitato davvero tanta gente e, sepolto dalla terra, si era mantenuto quasi intatto. L’aria era pesante e immobile, una sorta di calore malsano si levava dal metallo in ondate nauseanti. A parte i loro i, il silenzio era assoluto, nulla si muoveva. I robot erano ben nascosti, se c’erano. Veniva quasi da pensare che non fossero mai esistiti. Ma il dolore al polso era reale. Ivaldo, nel tentativo di fare qualcosa, si offrì di medicarlo. Starr, frustrato dal dover dipendere da un umano, rifiutò due volte, prima di cedere alle sue insistenze. Furono le parole di Kiar a convincerlo. – Se si arrivasse ad un nuovo scontro, dovrai essere al pieno delle tue potenzialità – argomentò – Sei senza dubbio il più forte tra di noi. Non era un complimento, soltanto un dato di fatto. Starr non trovò obiezione e, borbottando, si lasciò applicare il fattore di crescita osseo dal Sacerdote, che poi gli bendò il polso. Poche ore e sarebbe tornato a posto. Potevano essere morti molto prima. Kiar più volte si immobilizzò, in ascolto. Si muoveva con disinvoltura nella penombra ed esaminava attentamente ogni ambiente, cercando di imprimerselo nella memoria. Starr cominciava a diventare impaziente. – Quanto manca? – Ci siamo quasi. Il Chimerico incrociò le braccia, scocciato. – L’hai detto anche dieci minuti fa. Kiar pareva divertito.
– Vuoi arrivare o preferisci consumare il fiato con domande inutili? Starr decise di accettare quel sarcasmo neppure troppo velato. Solo perché erano in una situazione di emergenza, però. Non appena usciti di là, gli avrebbe ricordato chi comandava. Infine Kiar annunciò che erano arrivati. – In quella stanza – avanzò per primo, dapprima con cautela, per poi accelerare l’andatura. Starr gli corse dietro e per poco non gli andò a sbattere addosso quando si fermò bruscamente. La stanza era vuota. – Sono spariti – sussurrò Kiar, incredulo. Ordinò ai compagni di rimanere sulla soglia, poi esaminò con cura il perimetro della stanza. Si inginocchiò per leggere le tracce sul pavimento polveroso, il fucile a tracolla. Starr incrociò le braccia, frustrato. Gli sembrava di aver fatto un viaggio per nulla. Erano stati degli illusi. Quel labirinto non avrebbe mai permesso loro di riorganizzarsi. Si accorse di pensare a esso come un’entità malevola. Alla fine Kiar tornò da loro, sistemandosi il casco. Il suo tono era serio e nascondeva una punta di preoccupazione. – Non so cosa sia successo e in questa polvere le impronte sono confuse. Kay e Miris non erano soli in questa stanza, è arrivata una terza persona. C’è stato movimento, poi sono usciti tutti. Di gran fretta, direi – stringeva in pugno un oggetto raccolto da terra. Lo mostrò agli altri. – Una batteria a energia radiante. Kay non avrebbe lasciato indietro volontariamente le munizioni. – Insomma, non sappiamo che fine abbiano fatto il Reietto e la telepate impicciona – Starr allargò le braccia – Giusto? Kiar scosse la testa. – Non è tutto. Ho trovato delle tracce di sangue. Il Chimerico fu subito interessato.
– Magari la telepate è ferita – e non riusciva a nascondere una punta di perversa soddisfazione a quel pensiero. – La telepate è una nostra compagna – il tono di Kiar si indurì – E comunque la mia teoria è che appartenesse alla terza persona. Miris stava bene quando l’ho lasciata, almeno fisicamente. Non ci sono segni di lotta. L’ipotesi più probabile è che abbiamo trovato un superstite del gruppo e siano andati con lui. Dove però non so dire. Posso provare a seguire le loro tracce. Starr ci pensò un attimo, poi annuì. Ivaldo si schiarì la voce. – Scusate, ma vi ricordo che tra poco il Mietitore tramonterà – fece notare, con fare allusivo. Il Chimerico e Kiar si voltarono verso di lui. – E allora? – chiesero all’unisono. Il Sacerdote indietreggiò di fronte al loro sguardo incrociato. – Beh, possiamo uscire allo scoperto… – riprese coraggio – E andare via di qui. La prospettiva parve entusiasmare anche l’Ingegnere. Dopo ore ed ore di ostinato mutismo, Tony si riattivò come se qualcuno avesse premuto il pulsante “on”. – Sì, dobbiamo andarcene – annuì, febbrilmente – Scappiamo, presto, fin quando ne abbiamo la possibilità! – Questo posto sarà la nostra tomba – reiterò Ivaldo – Ragionate, vi prego! Starr corrugò la fronte. – Scappare? Non è nella mia natura – anche se forse non era del tutto vero. Da nemici esterni, si corresse dentro di sé. Il punto comunque era che non intendeva lasciare Roland da solo. La missione era più pericolosa di quanto credessero. No, Roland non poteva farcela senza di lui. Guardò Kiar, che si strinse nelle spalle. – Per quello che mi riguarda, fuori ci sono altrettanti pericoli. Chiunque ci ha attaccato non ci lascerà scappare così facilmente. Senza considerare che, se qualche nostro compagno è vivo, è ancora qua dentro da qualche parte. Non intendo lasciarlo ai robot.
Tony strinse i pugni, rabbioso. – Ci faremo ammazzare e basta! – Non ho detto che sarà una eggiata, ma è quello che è giusto. Pyrgo e gli altri farebbero lo stesso al nostro posto. Tony rise. Un suono venato di isteria. – Un Chimerico che si preoccupa degli umani? Non farmi ridere. E tu, Cacciatore, sei un folle se continui a seguirli. Sono forti, no? Non hanno bisogno di noi. Starr cominciava a stancarsi di quelle rimostranze. Quegli umani lagnosi erano una seccatura, la loro unica utilità era come carne da macello. Ma un colpo contro di loro era un colpo che mancava lui. Poteva fare la differenza tra vita e morte. Kiar stava cercando di convincere il Sacerdote e l’Ingegnere a seguirli. Gli altri Cacciatori avevano già deciso. Se c’era speranza di trovare qualche compagno vivo, intendevano cercarlo. E poi, considerò Starr, sembravano rispettare ogni decisione di Kiar, verso il quale dimostravano completa fiducia. – Non voglio morire – Tony continuava a scuotere la testa – È una pazzia. Quei laser, il sangue… – d’un tratto scattò, strappando di mano la pistola di un Cacciatore. Il suo volto era distorto dalla disperazione. – Portatemi via, o vi ammazzo tutti! Non fece in tempo a caricarla che si trovò il fucile di Kiar puntato alla fronte. Starr, con un movimento serpentino, lo afferrò per il collo, sollevandolo di peso. L’Ingegnere cominciò a scalciare, mentre il Sacerdote fissava la scena con gli occhi sgranati. Il Chimerico serrò le labbra, gli occhi azzurri che dardeggiavano. – Ho detto che proseguiamo – sibilò, scandendo ogni parola – Altrimenti vi ammazzo qui. Adesso. Subito. Sono stato abbastanza chiaro? – strinse la presa. I movimenti di Tony si fecero spasmodici, mentre rantolava. Kiar rivolse il fucile contro il Sacerdote, per ricordargli di non fare anche lui brutti scherzi. Tony mosse le labbra. Ansimò qualcosa. – Come? – Starr allentò appena la stretta – Non ho capito.
– Chiaro – gracchiò l’Ingegnere. – Chiaro. Trasparente! Starr lo lasciò andare di scatto. Tony crollò in ginocchio, tossendo e tenendosi la gola offesa. Gli faceva così male da lasciargli una fitta ad ogni respiro. – Bene, direi che siamo tutti d’accordo – il Chimerico si ò il dorso della mano sulla coscia, come per pulirla – A meno che il Sacerdote non voglia aggiungere qualcosa. Ivaldo scosse la testa con tale energia che pareva sul punto di staccarsi. – No, no. Nessun problema! – Bene, Sacerdote, perché le vostre cure ci serviranno – Starr liquidò il piccolo alterco con un gesto sprezzante, voltando le spalle all’Ingegnere. Un Cacciatore, a un cenno di Kiar, lo fece rialzare. – Possiamo riprendere la ricerca. Fece qualche o, poi attese che Kiar lo affiancasse. Abbassò la voce. – Quei due umani potrebbero risultare un peso più che un aiuto – sussurrò, cupo – Una minaccia dall’interno. Kiar annuì. – Ci ho già pensato. Ho dato istruzioni ai miei compagni, Will e Jacopo, affinché li tengano d’occhio. Ogni arma è stata loro sequestrata – tirò un sospiro stanco. I Cacciatori sapevano comunicare tra di loro con il linguaggio dei gesti e Kiar si fidava dei compagni. Avrebbero dovuto fidarsi l’uno dell’altro per sopravvivere. Eppure adesso quella fiducia era minata. Il loro gruppo si disgregava pian piano. Temeva che l’Ingegnere potesse commettere qualche pazzia. Ogni errore veniva pagato caro. Da tutti. – Starr, spero che tu sia pronto a salvarci con i tuoi poteri – sussurrò, senza vergognarsi di ammettere la forza del Chimerico – Perché ne avremo bisogno.
40
Troy si era nascosto in una sorta di magazzino. In realtà non gli importava cosa fosse in ato. In quel momento era soltanto un rifugio per un uomo terrorizzato. Rannicchiato nell’angolo più buio, da ore se ne stava immobile, tremante, chiedendosi cosa fare. Avrebbe voluto sprofondare dentro la parete di metallo, fondersi con essa e sparire così alla vista di tutti. Si sentiva addosso gli occhi di una presenza malevola e temeva che, da un momento all’altro, i robot fero irruzione, facendolo a pezzi con le loro appendici di metallo. L’aveva visto accadere. Era stato orribile. Prima erano comparsi i laser, che avevano provato a colpire prima il Chimerico della terra, poi quanti erano corsi in suo soccorso e infine anche quelli che erano rimasti fermi. Troy si era gettato dietro a un mucchio di macerie. In pochi istanti il fumo si era sollevato, oscurando l’intera scena. Ma le grida erano state esaurienti. In preda al panico, Troy aveva capito che la situazione era davvero grave. Poi erano arrivati i robot. Mostri di metallo che uscivano dalla nebbia portando morte e distruzione. I loro arti grotteschi erano tenaglie, lame, fucili. Armi create per uccidere senza alcuna pietà. Il Sacerdote era rimasto al suo posto, ma non per coraggio. Ah, il coraggio era fluito via ben prima, lasciandolo un guscio di buio terrore. Aveva puntato una pistola raccolta da terra, ormai al suo proprietario non serviva più, e aveva sparato a casaccio. Qualcuno stava gridando e ridendo insieme. Solo dopo si era accorto che quella voce isterica era la sua. Era tornato a nascondersi, mentre la carica dei robot li travolgeva. Un Cacciatore era caduto subito in un lago di sangue. Pyrgo, avvolto dalle fiamme, era giunto in soccorso dei compagni, scagliando lingue di fuoco da ogni parte. Per un attimo Troy aveva addirittura pensato che riuscisse ad annientare l’esercito dei
robot da solo. Poi i nemici si erano chiusi intorno a lui e il Sacerdote l’aveva perso di vista. – Fuggi! – gli gridava frenetica una voce nella testa. Troy si era guardato intorno. Dov’era Miris? La ragazza era troppo preziosa per perderla. Ma, se ancora era viva, era immersa nel fumo di quella carneficina. Il Sacerdote aveva fatto qualche o, nell’incerto tentativo di cercarla. Proprio allora un laser si era abbattuto su Juliena, che era inginocchiata accanto a un Cacciatore ferito e cercava di tirarlo in salvo. La Sacerdotessa aveva sollevato la testa in quel momento. Troy aveva incrociato il suo sguardo. Juliena era stata una delle sue maestre, una buona amica di sua madre, una guaritrice motivata e gentile con tutti. Il laser l’aveva colpita in piena faccia e le aveva fatto esplodere la testa in uno zampillo di sangue. Troy aveva perso il controllo. Ogni ragione era stata spazzata via dal suo cervello. Aveva lasciato cadere la pistola, urlando, e si era messo a correre. Era fuggito. Non aveva una meta precisa, voleva soltanto mettere più distanza possibile tra lui e quella carneficina. Nell’Alveare parlavano spesso di guerra, ma era qualcosa di lontano. Se ne occupavano i guerrieri, che poi tornavano alla loro Corporazione cantando inni di vittoria. Nessuno badava ai caduti sul campo o ai feriti che venivano fatti entrare nell’Alveare durante l’ora del Sonno, in carri coperti, come se fossero una vergogna. Anche quando erano stati conquistati da Alpha5, Troy in realtà aveva visto poco della battaglia. Finito sotto un cumulo di macerie, si era risvegliato alla Corporazione, affidato alle cure dei colleghi. Adesso era lontano dall’Alveare, dal suo mondo, da tutti i suoi amici. Era solo e nessuno sarebbe venuto a salvarlo. Poteva contare solo su se stesso. Sulle sue gambe. Per questo aveva continuato a correre, trattenendo negli occhi contro la sua volontà l’immagine di Juliena che veniva decapitata. Aveva dimenticato i compagni, persino la fidanzata, il suo giuramento di aiutare i feriti. In realtà era stato solo un vuoto rituale, il ripetere parole ormai vecchie per poter godere di privilegi nuovi. Era diventato un Sacerdote per la posizione sociale che rappresentava, perché era quello che la società si aspettava da lui. Una formalità.
In realtà, quello di guarire le malattie era soltanto uno sgradito corollario della sua vita agiata nella Corporazione. Non sapeva quanto avesse corso. Si era ritrovato in quel magazzino, le mani sulle orecchie, cercando di proteggersi dalle grida dei compagni e dallo sferragliare dei robot in caccia. Chissà come, non lo avevano trovato. Pian piano i suoni si erano affievoliti. Erano rimasti soltanto i suoi singhiozzi e un silenzio così forte da sembrare rumore. Era solo e non sapeva cosa fare. Tese le orecchie. Ancora nulla. L’orologio indicava che l’ora di Luce volgeva al termine e il Mietitore si stava avviando al suo tramonto. Forse, con il favore delle tenebre, sarebbe riuscito a fuggire dalla città. Quel pensiero gli restituì un po’ di energia e Troy riuscì a sistemarsi gli occhiali protettivi sulla fronte e a togliersi il casco. Si guardò intorno. Il magazzino era grande, privo di finestre, con il tetto intatto. Altrimenti sarebbe già morto. In fondo c’era una porta di metallo scorrevole, bloccata dalla ruggine, e il pavimento era cosparso di rottami che si sfaldavano. A una parete erano fissati degli scaffali di metallo e una sorta di gancio che sembrava fatto apposta per appendere gli abiti. C’erano anche delle strane teche, infrante e ormai vuote, su cui scorreva un pista di sbarre di metallo. Sedie e tavoli erano immobili, morenti, mangiati dalla ruggine. Troy si alzò, fece qualche o. Diede un colpetto con il piede a una lamina contorta. Era rettangolare, sporca. Gli ricordò un vassoio come quello che usavano al refettorio della Corporazione. Quel posto aveva vagamente l’aria di una mensa. Troy scosse la testa. Ormai non aveva importanza. Era soltanto una trappola mortale. Le gambe gli tremavano. Non era semplicemente spaventato. Era terrorizzato, nel senso più totale del termine. Un po’ se ne vergognava. Era un Sacerdote con una sua dignità. Ma prima di tutto era un uomo che cercava di sopravvivere.
Non c’era nulla di male in quello. Era la forza che mandava avanti la specie. Troy in quel momento se ne sentiva il più alto rappresentante. Forse l’unico. Per quanto ne sapeva, poteva essere l’unico superstite del gruppo. Misurò l’ambiente a lunghi i, provando la propria forza. Pian piano, le gambe smisero di tremare e i muscoli si rassegnarono a obbedire ai suoi ordini. Troy cercò di ideare uno straccio di piano. Non poteva rimanere là, in attesa di essere scoperto. Una volta giunta la notte, doveva fuggire. Per lo meno provarci. La battaglia era finita da un pezzo e non aveva sentito più nulla che fe pensare a un pericolo. Avrebbe impiegato un po’ a lasciare la città, ma poteva farcela. Doveva farcela. L’unico problema era il fatto di essere disarmato. Se fosse stato assalito, cosa avrebbe fatto, a parte correre e pregare? Si maledisse per la propria stupidità. Avrebbe dovuto raccogliere qualche arma dai compagni caduti. In fondo, a loro non servivano più. Ma adesso era tardi per rimpiangerlo. Non sarebbe tornato sul luogo dell’attacco per nulla al mondo. Tanto più che non aveva idea di dove fosse. Quel posto era un labirinto. Per fortuna era illuminato, alcuni tratti persino a giorno. L’energia non mancava, Troy ripensò ai pannelli visti in Superficie. Ma chi la stava utilizzando? Davvero qualcuno viveva là dentro? Qualcuno di umano? Ci avrebbe pensato una volta lontano da là, al sicuro in qualche Pozzo che l’avrebbe riportato verso l’Alveare. Continuò ad avanzare, speranzoso. Da una parte era sollevato di non sentire rumori di inseguimento, dall’altra quella silenziosa solitudine lo schiacciava. Il corridoio si allungava fino a una sorta di pianerottolo. Sulla destra intravedeva rampe di scale che salivano e scendevano, perdendosi nel chiarore ammiccante dei neon. Davanti a lui, oltre un mucchio di macerie, stavano tre porte di metallo lucido, immobili. Accanto avevano ciascuna un pannello di controllo simile a quello degli elevatori dei Pozzi. Prima che Troy potesse avvicinarsi per indagare, un ronzio improvviso gli fece accapponare la pelle. Pareva scaturire dalle profondità stesse dall’edificio. Il Sacerdote lo riconobbe.
Il rumore di ruote di metallo che battono sul pavimento. I robot stavano arrivando. – Mi hanno trovato – fu il suo primo, angosciante pensiero. Il panico lo colse e per un attimo rimase pietrificato. La paralisi gli bloccava dolorosamente i muscoli e il cervello. Riusciva soltanto a ripetersi che non voleva morire, fin quando quasi non si mise ad urlare. Frustrazione, rabbia e terrore si rincorrevano in un volo disordinato. – Non voglio morire – balbettò. E allora reagisci! Gli gridò l’ultimo brandello di una sanità mentale sull’orlo del collasso. Troy si guardò freneticamente intorno. Il pianerottolo era allo scoperto e non aveva idea della direzione da cui provenissero i robot. I rumori rimbombavano da una parete all’altra, senza permettere di discriminarli. Il Sacerdote non riuscì a fare altro che gettarsi dietro le macerie, con la schiena schiacciata alla porta di metallo, e aspettare con il cuore in gola. Una decina di piccoli robot comparve dal corridoio che Troy aveva appena percorso. Erano tutti uguali, costruiti in serie, con una semplicità mirata soltanto all’efficienza. Un corpo trapezoidale da cui emergevano estremità sottili eppure dotate di una forza sovrumana. Correvano su ruote piccole e veloci, scivolando sul pavimento in una sorta di grottesco pattinaggio. Non erano armati, ma non per questo costituivano un pericolo minore. Troy si sporse appena. Assomigliavano ai piccoli droidi Ripulitori della sua Corporazione. Con la differenza che questi funzionavano bene. Erano costituiti di un materiale diverso? I circuiti erano schermati ai Raggi? Domande da Ingegnere. Troy sperava soltanto che andassero in cortocircuito o sparissero dalla sua vista. Erano una sorta di processione. Alcuni di loro stavano trascinando qualcosa, trattenuto con le tenaglie. Qualcosa avvolto da una tuta scura fin troppo familiare.
Poteva essere uno dei suoi compagni. Troy si morse le labbra. Chi gli assicurava che fosse vivo? Probabilmente era soltanto un cadavere che i droidi portavano via per ripulire la città. E, in ogni caso, cosa poteva fare per salvarlo? Non aveva armi e, se si fosse mostrato, sarebbe stato ucciso o catturato. Non sapeva quale fosse l’alternativa peggiore. No, meglio pensare a se stessi. Almeno qualcuno si sarebbe salvato. Accucciato nello spazio ristretto, sbirciò la processione che si snodava verso la rampa di scale. I primi robot cominciarono a scendere. – Andatevene, andatevene – li implorava Troy mentalmente. Se loro scendevano, lui sarebbe salito, non c’erano dubbi. Bastava pazientare ancora qualche istante. Cambiò posizione, schiacciandosi contro la parete. Così facendo, sfiorò un pulsante sul pannello dell’elevatore. Si accese una luce rossa, con uno schiocco flebile, ma che parve un colpo di frusta tra quelle pareti cupe. Troy trattenne il fiato, troppo spaventato persino per imprecare. – Ti prego, fai che non abbiano sentito – non aveva idea di quali sensi avessero quella macchine. Non avevano orecchie, ma non dubitava che fossero in grado di percepire i rumori. – Andatevene! L’ultimo robot, ormai giunto nel pianerottolo delle scale, si bloccò. Il corpo goffo ruotò su se stesso. Nonostante non avesse occhi, Troy ebbe la sensazione che uno sguardo lo traasse da parte a parte. Era stato scoperto. Febbrilmente, premette ancora il tasto dell’elevatore. Il robot gli sbarrava la strada. Quella era la sua unica via di fuga. – Apriti, apriti! Il droide cominciò a muoversi verso di lui. Da uno sportello anteriore emerse una tenaglia minacciosa. Troy premette il tasto con forza tale che da slogarsi il dito. La luce era sempre rossa, indifferente. Il ronzio della macchina in movimento era monotono,
disinteressato. Non comprendeva l’ansiosa fretta umana. Non c’era spazio per emozioni, in quel luogo. – Avanti, apriti! Il robot si avvicinava, facendosi largo tra le macerie. Un ammasso di latta che non si fermava davanti a niente. Uno sfiato, un sibilo. Le porte dell’elevatore cominciarono ad aprirsi. Troy quasi ci cadde dentro nella fretta di entrare. Annaspò, strisciò indietro, premette a caso i tasti nel pannello di controllo all’interno della scatola di metallo. Le mani gli tremavano. Voleva andare via da lì. Il robot raggiunse la sommità delle macerie. Ronzava, muovendo la tenaglia. Apri e chiudi, apri e chiudi. Troy la fissò quasi ipnotizzato. Prometteva sofferenza prima della morte. Già la vedeva conficcata nel proprio petto, a straziare la carne. La bocca era così secca che non riusciva neppure ad articolare un grido. – Parti, parti! Lentamente, le porte cominciarono a richiudersi. Il robot emise un ronzio stizzito e discese le macerie per raggiungerlo. Come rallentarlo? La criocustodia! Era piena di farmaci, ma cosa gli importava? Lo avrebbero salvato in quel modo, anche se non convenzionale. Se la sfilò da tracolla e la gettò tra le ruote del robot. La tenaglia che si accaniva contro l’ostacolo, sferzando il metallo schermante della custodia, fu l’ultima cosa che Troy vide prima che le porte si chiudessero e l’elevatore cominciasse a muoversi.
41
Troy tirò le gambe a sé, lottando per riprendere fiato. Tremava così tanto che non riusciva neppure a mettersi gli occhiali protettivi. Si prese le mani l’una con l’altra e se le strinse, nel tentativo di fermare quel tremito incontrollabile che lo squassava. Era in salvo. Non riusciva a crederci. Gli sfuggì un gemito inarticolato mentre si appoggiava con la nuca alla parete fredda. Vibrava, mentre l’ascensore si muoveva. Per un attimo il Sacerdote chiuse gli occhi, lasciandosi cullare da quel movimento oscillante. Un rimescolio nello stomaco gli annunciò che stava salendo. Salendo? Spalancò gli occhi di scatto. Il sollievo per essere sfuggito ai robot lasciò il posto a una nuova angoscia. Fissò l’orologio. Ancora non era notte. Non poteva avventurarsi all’esterno. Inspirò a fondo, cercò di calmarsi. Non era così grave. Forse l’ascensore non arrivava direttamente fuori dall’edificio, ma in una stanza vicina alla Superficie. Avrebbe aspettato là fino al crepuscolo e poi se ne sarebbe andato. Nessun problema. Rassicurato, si dedicò al pannello di controllo dell’elevatore. Un ronzio confuso indicava che in ato c’era una sorta di registrazione, forse una voce femminile che elencava i piani e le varie destinazioni. Era ridotta a un rumore distorto e gracchiante. Troy si sforzò di ignorarlo. La luce rossa illuminava alternativamente i pulsanti, su cui era inciso un numero. 0, 1, 2… sì, stavano salendo. I cerchi numerati arrivavano fino al 7. Le lamiere dell’elevatore erano sporche, piene di tagli e scritte di significato oscuro. Forse non avevano significato. E, se anche in ato lo avevano, era perduto, poiché nessuno riusciva a leggerlo.
Il Sacerdote rimpianse di non avere Ingegneri con sé. Anche un pazzo come Samuel Barni gli avrebbe fatto comodo. Almeno avrebbe saputo come far funzionare quell’affare. Aveva paura di peggiorare le situazione armeggiando con quei pulsanti più di quanto avesse già fatto. Poteva soltanto sperare che la sua salita terminasse alla svelta. Il suo desiderio fu esaudito. L’elevatore si bloccò di colpo, mentre la luce si fermava a illuminare il pulsante 4. Troy per poco non rovinò di nuovo a terra e dovette sostenersi alle pareti. Lo stomaco gli era arrivato in gola. Reprimendo un’ondata di nausea, fissò le porte di metallo che cominciavano ad aprirsi, ansiose di liberarsi del proprio occupante. E si trovò a fissare la testa senza occhi di un robot. Rimasero a guardarsi. O, almeno, Troy lo guardava. Non era sicuro che il robot potesse vederlo, almeno nel senso umano del termine. Lo percepiva, senza dubbio. Eppure non faceva nulla. Aveva un corpo cilindrico, alto quanto un uomo, montato su sei ruote. La testa convessa era una parte di sfera tagliata e attaccata al resto di quel metallo. Corte sonde sormontavano quella struttura, parodia di un cappello. Dai lati otto arti, quattro per lato, terminavano in uncini scintillanti. Erano una minaccia più spaventosa di qualunque gesto offensivo. Troy rimase paralizzato, un piede ancora sollevato nell’atto di uscire. Era finito soltanto in un’altra trappola. Quel luogo era una prigione da cui non era possibile scappare. Attese che il robot lo squartasse, incapace di reagire. La macchina avanzò, cigolando. Entrò nell’ascensore. Troy si schiacciò contro la parete opposta. Non aveva vie di fuga. Cosa aspettava quell’essere a ucciderlo? Forse era una sorte migliore di quell’attesa disperata. Sperò che fosse rapido. Aveva visto morire per tumore Raggio-indotto molta gente, dopo giorni di agonia. Forse un colpo preciso al cuore sarebbe stato clemente. Il robot mosse l’uncino e andò a premere un pulsante sul pannello di controllo. L’elevatore si richiuse, trascinando i suoi occupanti nelle viscere dell’edificio.
Troy esalò il respiro che non si era accorto di trattenere. Non capiva cosa stesse succedendo. Il robot non pareva ostile nei suoi confronti. Indifferente, piuttosto. Se ne stava immobile, ronzante, con luci che si accendevano e si spegnevano nella sua testa ridicola. Troy considerò l’idea di saltargli addosso per neutralizzarlo. Gli venne da ridere. Come? A mani nude? Quell’ammasso di metallo poteva schiacciarlo quando voleva. E allora perché non lo faceva e basta? L’elevatore continuava a scendere, inesorabile. Dove lo stava portando? Più si inoltrava nell’edificio, più difficile diventava la fuga. Ormai il Sacerdote non pensava ad altro. Solo la sopravvivenza era importante. Era pronto a tutto pur di salvarsi. Si tese, aspettando l’occasione per scappare. La luce si bloccò sul cerchio –4. Un tintinno stonato. Le porte si spalancarono e il robot uscì. Poi ruotò su se stesso, puntando un uncino contro l’uomo. Ma non lo colpì. Indietreggiò ancora, facendo spazio. Il Sacerdote accennò un o, un altro. L’uncino si mosse. Se possibile, Troy pensò che gli stesse facendo segno di uscire. Obbedì, cauto, sempre tenendolo d’occhio. Non sapeva bene dove fissare lo sguardo in quell’amorfa massa di metallo. Il suo carceriere. Il robot si mise alle sue spalle, mentre l’elevatore si richiudeva, sparendo nel muro insieme alle speranze di fuga. Gli diede un colpetto in mezzo alle scapole. Non era abbastanza forte da ferirlo, serviva solo per spingerlo in avanti. Troy aggrottò la fronte. – Vuoi che cammini? – si sentì uno stupido a parlare con una macchina, ma sembrava davvero che quell’affare fosse senziente. Un altro colpetto, un po’ più deciso. Il robot non era paziente. Troy fece un sospiro e si incamminò nel corridoio, identico a tutti gli altri che aveva visto fino a quel momento. Sul soffitto intravedeva dei tubi dove le lastre erano crollate, uscivano come serpenti. Per il resto, l’edificio pareva intatto. Il suo carceriere lo seguiva, l’uncino puntato alla schiena. Ronzava appena, le ruote emettevano un rumore ovattato sul pavimento. Pozze di luce giallognola
erano il vomito delle lampade senza fiamma chiuse oltre vetri ormai sporchi. Le uniche interruzioni alla continua muraglia di metallo erano numerose porte chiuse, a intervalli regolari. Erano rettangolari, identiche tra loro. Quella monotonia rischiava davvero di far impazzire. Camminarono per un tempo che per Troy fu eterno, anche se forse erano ati solo pochi minuti. Le gambe gli dolevano per la tensione continua. Non aveva idea di dove fosse e sapeva che ormai era penetrato troppo a fondo nel labirintico edificio per poter anche solo sperare di ritrovare una via d’uscita. La consapevolezza di essere perduto era una scheggia tagliente che gli scavava la mente, recidendo ogni volontà. Si limitò a proseguire, a capo chino, attraverso un’infinita successione di corridoi e sale che parevano tutte uguali. Non avevano senso. Non c’era meta. Alla fine giunsero a una porta più grande delle altre. Era chiusa, ma il robot lo spinse fin quando quasi non vi sbatté contro. Cominciò a scivolare di lato. Qualcuno l’aveva aperta dall’interno. Troy trattenne il respiro, non sapendo cosa aspettarsi. La luce lo avvolse l’improvviso, accecante. Chiuse gli occhi, e comunque senza gli occhiali protettivi la sua retina sarebbe bruciata. Gemette per il dolore, coprendosi il volto con le mani. Si trovò in ginocchio. Non riusciva a vedere nulla, serrava le palpebre fino a farle fondere con la pelle del viso. Si sentì tastare, esaminare, qualcuno gli afferrò il mento, sollevandolo. Troy non vedeva nulla e questo rendeva tutto ancora più terribile. Una puntura all’avambraccio lo fece trasalire. Rimase a terra, raggomitolato su se stesso, in attesa di una fine che non veniva. Era ridotto a un brandello del Sacerdote che era stato, spinto soltanto dal dolore e dalla paura. Si sentiva come un condannato, in attesa del verdetto. Annaspò, provò a strisciare. Nessuno lo tratteneva. Se soltanto avesse visto qualcosa! Ma la luce filtrava anche da sotto le palpebre, minacciosa. Tenendo la testa bassa, Troy provò a socchiudere appena le palpebre. Pur nel chiarore, distinse due stivali davanti a lui.
– Un umano – commentò una voce sopra la sua testa – Speravo in un altro Chimerico – c’era una punta di malcelata delusione. Troy tese le mani, andando ad abbracciare quei piedi che erano la sua unica ancora di salvezza in quella follia. La sua voce era ridotta ad un ansito di terrore. – Ti prego, non uccidermi… io… – non sapeva cosa fare – …conosco i Chimerici… Qualcuno gli diede un buffetto sulla testa. Un gesto affettuoso, quasi paterno. La luce si affievolì fino a spengersi, offrendogli una penombra confortante. Intravide un tavolo, c’era una figura sdraiata sopra. Un braccio, una testa, sbarre di metallo lucente. Sonde chirurgiche si muovevano ronzando, con delicatezza e precisione. Tubi trasparenti vi danzavano intorno, percorsi da una sostanza rosata che pareva sangue, anche se dava un senso di finzione. Di artificialità. Nutriva carne e metallo che venivano fusi insieme. – Tranquillo, giovanotto – una figura si agitava sopra di lui, confusa. Non riusciva a vederne il volto. – Puoi ancora essermi utile. Troy, accecato, non poté far altro che annuire.
42
Roland si era svegliato in mezzo alle macerie, con tutte le ossa doloranti e neppure la più pallida idea di dove fosse finito. Rimase per qualche istante immobile, con gli occhi aperti. Il chiarore variava dal bianco sporco a un giallo che ricordava in maniera sgradevole le eiezioni di cui cominciava a sentire il bisogno. Questo lo fece riflettere su quanto tempo fosse rimasto là sotto. Troppo. Mosse un braccio, poi l’altro. Una fitta sgradevole, ma probabilmente di origine muscolare, per la posizione scomoda. Anche le gambe, dopo qualche stilettata di protesta, risposero al suo comando. Le ossa erano a posto. Si trovava sprofondato in una conca del pavimento. La lastra di metallo si era piegata sotto il suo peso nella caduta che l’aveva fatto scendere di almeno tre piani. Un umano si sarebbe sfracellato, o per lo meno si sarebbe spezzato un paio di ossa tra cui, molto probabilmente, quello del collo. La pelle del Chimerico, dura come pietra, lo aveva protetto dal tremendo urto. Roland non era sicuro di essere stato fortunato. Si sollevò a sedere, soffocando un gemito. La testa gli ronzava. Ricordava i laser, i robot, la caduta. Sollevò la testa. In alto vedeva soltanto un soffitto anonimo, lontano. Una minuscola fettuccia di libertà perduta. Pareva schernirlo. Nessun rumore. Nessun indizio della presenza di amici o nemici. Roland si chiese che fine avessero fatto i compagni. Erano riusciti a mettersi in salvo? Lo stavano cercando? Cercò di non pensare all’eventualità che fossero tutti morti. Non sarebbe cambiato nulla in pratica, poteva solo minare la sua determinazione. Il giovane Kay gli aveva chiesto se quelle conoscenze che
stavano cercando valessero le loro vite. Roland gli aveva risposto di sì. Quanto era stata superficiale quella risposta! Nonostante fosse a conoscenza dei pericoli a cui andavano incontro, il Chimerico si accorse che non ci aveva creduto davvero. Non si crede a nulla, finché non si prova sulla propria pelle. E adesso poteva soltanto leccarsi le ferite e cercare di andare avanti. Fissò le pareti che lo circondavano. Se fossero state di solida roccia, non avrebbe avuto problemi a scalarle. Ma il metallo gli era nemico. Confondeva i suoi sensi, gli impediva di sfruttare i suoi poteri. Si trovò inerme, sperduto. Non gli capitava di frequente e quindi fu ancora più terribile. Non sapeva orientarsi in quel ventre metallico. La sua mutazione era inutile, se non controproducente. Era incredibile che la mutazione offrisse un indubbio vantaggio all’esterno, in quel nuovo mondo creato dai Raggi, ma lo rendesse del tutto impotente in quel luogo che apparteneva al ato. Il mondo cambiava, e faceva modificare le specie con sé per adattarle a una nuova vita. C’era qualcosa di scientifico in quell’osservazione. Di bello e terribile. Roland scosse la testa. Quelle considerazioni non erano utili al momento. Doveva rinunciare al progetto di risalire. In fondo, non era mai stato quello il suo scopo. Entrare nell’edificio. Lo aveva fatto. Adesso doveva cercare la Macchina per leggere i dati. La mano si mosse da sola a sfiorare il bordo della custodia di metallo. La percepiva attraverso lo zaino. Era intatta. Data l’imbottitura all’interno, poteva ragionevolmente sperare che il cd non si fosse danneggiato. Non aveva modo di saperlo, fino al momento di inserirlo nella Macchina. Cominciò a muoversi. Scelse una direzione casuale, un corridoio valeva l’altro. Erano tutti caratterizzati dalle stessa ossessiva ripetitività. Una miriade di corsie e di stanze, vuote o occupate da strane apparecchiature. Una era più grande delle altre, piena di scaffali in metallo. Roland si affrettò a esplorarla, sorpreso. Libri? Erano sopravvissuti all’apocalisse?
No, nessun libro. Le sue speranze svanirono rapide come si erano formate. C’erano soltanto delle masse informi e muffite, da cui emanava un odore dolciastro e sgradevole. Roland diede una rapida occhiata. Non era ragnatela né chitina, sembrava stoffa, il materiale usato in ato per tessere i vestiti. Il Chimerico la sfiorò con attenzione. Le tarme avevano cominciato un ottimo lavoro di distruzione, che però si era interrotto. Anche quelle bestiole erano morte. Provò a distendere una stoffa. In ato era stato un camice bianco. Quella stanza aveva l’aria di essere un guardaroba. Era incredibile come fosse riuscito a conservarsi negli anni. Aumentavano le speranze che anche la Macchina che cercava fosse intatta. Roland riprese a muoversi. Quei corridoi parevano deserti e abbandonati. Di tanto in tanto qualche luce si accendeva sulle pareti al suo aggio, per poi spegnersi subito. Non aveva idea di cosa significasse, ma non gli piaceva. A un tratto notò uno stacco nella continua lamina metallica delle pareti. Era come se qualcosa ci fosse stato incollato sopra in un secondo momento. Una sorta di schermo ultrapiatto che emetteva una quiete luminescenza. Si estendeva su entrambi i lati per un discreto tratto, almeno fino alla porta successiva. Roland esitò, studiandolo con attenzione. Non era un Ingegnere, ma non dubitava che quell’apparecchio fosse un sofisticato rimasuglio del ato. Ma a cosa serviva? E, soprattutto, era pericoloso? Considerò la possibilità di tornare indietro e cercare un’altra via. Con il risultato di perdersi ancora di più là dentro e nessuna certezza di non ritrovare un affare simile sulla sua strada. Provò a gettare avanti una batteria come cavia. Si aspettava esplosioni laser, trappole che scattavano da ogni parte, il soffitto che crollava per seppellirlo. Non successe niente. La batteria, dopo aver compiuto la sua parabola, rotolò al suolo. Rimase ferma e illesa, luccicando appena. Roland non si sentì rassicurato. In ogni caso, non poteva stare ore là a guardar male quegli schermi. Non si sarebbero spostati. Tanto valeva affrontare il
problema. Dopo aver preso un sospiro, si spinse in avanti. La luce cambiò di colpo, insieme all’ambiente. Roland si trovò immerso fino alle ginocchia in quella che in ato veniva chiamata neve. Il Chimerico si bloccò, sorpreso. Abituato a vivere nel Sottosuolo, non aveva mai visto nulla del genere. Da quando la rotazione del nucleo terrestre si era fermata, il clima ne era stato sconvolto. Neppure durante le sue peregrinazioni in Superficie Roland aveva mai incontrato quel soffice tappeto di latte. Zucchero che ricopriva con il suo velo di freddo. Un vento gelido sferzava l’aria. Cime altissime erano fiorite ai suoi lati. Di colpo non era più schiacciato dalle pareti dell’edificio, ma in uno spazio aperto di montagna. Il cielo era incappucciato con nubi di tempesta. Pagliuzze ghiacciate gli vorticavano intorno al viso. Pungevano le labbra e costringevano a socchiudere le palpebre. Roland non riusciva a raccapezzarsi. Un brivido. Faceva freddo. Il Chimerico si strinse le braccia intorno al petto per proteggersi dalla brezza gravida di ghiaccio. Si massaggiò le mani, alitandoci sopra. – Dove sono finito? – mormorò, senza rivolgersi a nessuno in particolare. E nessuno infatti gli rispose, a parte il vento. Come aveva fatto a finire là? Non aveva senso. Aprì il palmo della mano e vi lasciò depositare i fiocchi. Li osservò sciogliersi. Dovunque fosse, non poteva indugiare. Senza contare il fatto che stava morendo di freddo. Piegato su se stesso per difendersi dal vento, riprese ad avanzare. Tenere gli occhi aperti era uno sforzo e ogni respiro gli raschiava la gola, entrando dolorosamente nei polmoni. Ebbe l’impulso di chiuderli e proseguire alla cieca, tanto gli bruciavano. Non lo fece. Per fortuna. Si accorse all’ultimo momento che sotto il suo piede c’era il vuoto.
Fece un balzo indietro, colto alla sprovvista. Si guardò intorno. La neve era scomparsa di colpo e il terreno si era fatto arido, roccioso. Tutt’intorno lo sfondo era cupo e in lontananza pareva di scorgere il chiarore dei lampi. Un bubbolio lugubre riempiva le orecchie. Di fronte a lui si apriva un crepaccio. Non riusciva a scorgerne il fondo, si perdeva in un abisso nero che pareva ricambiare il suo sguardo. Era largo, non sarebbe mai riuscito a saltarlo. Eppure doveva attraversarlo, se voleva proseguire. A pochi i di distanza un ponte di legno, considerando che quel materiale era sparito da decenni, ondeggiava con scricchiolii sinistri. Si protendeva nel vuoto per un centinaio di metri, collegando le due sponde di quell’abisso. Roland si ò una mano sulla barba, tirandosela nervosamente. Il suo cervello lottava per venir a capo di quel brusco cambiamento. D’accordo, adesso era sull’orlo di un crepaccio. Ma come c’era arrivato? Era più importante andarsene. Roland sentiva che c’era qualcosa di tremendamente stonato. Aveva un nodo allo stomaco e la testa gli pulsava. Se cercava di concentrarsi troppo sul come e sul perché, il dolore aumentava. Si massaggiò la tempia. Ci avrebbe pensato in seguito. Per il momento l’importante era attraversare il crepaccio. Il ponte era l’unica strada. La erella era costruita con travi di legno marcio e non era larga più di due braccia. In diversi punti le assi mancavano o erano spezzate, lasciando intravedere le fauci nere sottostanti. Come corrimano aveva soltanto due corde erose e sottili. Scendeva in un arco fino a metà del tragitto, per poi risalire con una pendenza concava e infida. Di certo non dava l’impressione di stabilità. Roland rinunciò a comprendere chi e come l’avesse costruito e strinse i pugni sul corrimano di corda. Scese con un piede sulla erella, sentendola gemere sotto il suo peso. Non poteva dire di essere snello e agile, aveva una corporatura robusta. Si pentì di non aver seguito una dieta ferrea prima di partire, anche se al momento non aveva una chiara idea circa il luogo e il perché della partenza. Una patina di confusione gli ottenebrava la mente. Scrollò le spalle e proseguì, un o per volta.
Avanzò di una decina di metri e fece la prima sosta in corrispondenza di una trave mancante. Scrutando nel buco, vide solo una voragine senza fondo, che terminava in un nulla buio. Non era incoraggiante. Scavalcò il vuoto, proseguendo più guardingo. Sceglieva accuratamente il punto dove posare i piedi. Il gemito del legno marcito gli scorreva lungo la schiena in rivoli di sudore freddo. Le corde erano scivolose e gelide. Gli segavano le mani. Arrivò a metà del percorso, nel punto più basso della parabola. Si fermò un attimo per riprendere fiato, stanco come se avesse corso per miglia e miglia. Eppure aveva camminato per poche decine di i. Anche quella stanchezza era strana, si disse. Se lo sentiva nelle ossa. Perché il suo corpo si muoveva così goffamente? Perché il suo pensiero era meno lucido? Forse l’avrebbe capito se avesse raggiunto l’altro lato. Il tratto successivo era disastrato. Molti tasselli mancavano e sotto di essi l’abisso ammiccava, in attesa. Roland aprì e richiuse i pugni. I muscoli erano indolenziti per quello sforzo mischiato alla tensione. Ricominciò a camminare, affrontando la salita. Le corde gli offrivano un misero appiglio, piegandosi sotto il suo peso. Rischiava di scivolare all’indietro. Oltreò alcune assi mancanti, con cautela. Il ponte ondeggiava pericolosamente. – Ancora qualche o – mormorò il Chimerico, umettandosi le labbra. Una volta superato quel tratto, il legno sembrava in condizioni migliori. Solo un po’ di pazienza… Una corda cedette di colpo. Sbilanciato, Roland crollò all’indietro, mentre tutto il ponte si inclinava di lato. Suono di legno che si spezza, lo strappo della corda rimasta che si assottigliava, mentre le sue fibre intrecciate si disfacevano come sbucciate. – No – ansimò Roland, fissando attonito il suo ultimo appiglio che si affievoliva. L’intera struttura sussultò. Sotto la sua schiena un’altra assicella si ruppe. Roland precipitò nel vuoto e fu inghiottito dall’abisso.
43
Miris si fermò di scatto, in ascolto. – Hai sentito? – domandò dopo qualche istante. Kay tese le orecchie, si guardò intorno. I corridoi erano uguali a prima, silenziosi e illuminati da quella poltiglia di luce giallognola. Scosse la testa, mentre si ava una mano tra i capelli. A forza di stringere in pugno la pistola gli stavano venendo i crampi. – Cosa? Miris aggrottò la fronte. – Un grido, mi pareva. Ma forse me lo sono immaginato. In realtà, era l’immaginazione più che la vista a lavorare in quel luogo ripetitivo. Non offriva particolari stimoli, solo un senso di oppressione crescente. I due giovani camminavano ormai da tempo e non avevano trovato nulla di quello che cercavano: né i compagni, né la Macchina, né una via d’uscita. In verità Kay non sapeva quale fosse l’ordine di priorità di quegli scopi. Da una parte voleva soltanto portare Miris via da là, poi sarebbe tornato a cercare Roland e gli altri. Se erano vivi. Allo stesso tempo, non poteva lasciarla da sola in Superficie. E trovando la Macchina avrebbe messo fine a quella missione che era diventata un macello. Incerto, continuava a camminare, chiedendosi se avrebbe incontrato prima un compagno, un’uscita o la Macchina. Lasciava che fosse il caso a decidere. Miris lo seguiva in silenzio. Cercava di mettere ordine nei propri pensieri. – Mi sembrava Roland – aggiunse, dopo un po’ – È in pericolo, lo sento! – Lo siamo tutti – tagliò corto Kay, più duramente di quanto intendesse. Si pentì
subito, quando vide la ragazza chinare la testa. – Scusami. Non volevo essere brusco. Questo posto però è snervante. – Sì, snervante – Miris annuì. Le tempie le pulsavano. – Ti fa male la testa? Preferisci che stia zitto? E rimanere con il silenzio dei propri pensieri? Miris scosse la testa con forza. – No, ti prego, continua a parlare. Mi piace ascoltarti. Mi permette di concentrarmi su quanto mi circonda. Altrimenti il desiderio di estraniarmi diventa troppo forte. Kay ispezionò la stanza successiva. Ancora niente. Uno strano macchinario con sonde, vicino a una specie di bicicletta senza ruote vere e proprie. Non era quello che cercavano. – Eppure troppa gente ti disturba. – Già, in presenza di gruppi numerosi sono spinta a concentrarmi su ogni conversazione. Senza contare che i loro pensieri mi assalgono. Ma, grazie a Kiar, sono migliorata molto nel controllo del mio potere – tacque, il suo sguardo si fece lontano per qualche istante – Per ora sta bene. Kay si soffermò ad aspettarla. Non le chiese come fe a saperlo. Si fidava della sua parola. Fiducia. Da quanto tempo non si fidava di qualcuno, a parte se stesso e le sue armi? Miris non era neppure in grado di combattere, ma la sua vicinanza gli infondeva una sicurezza che non sapeva di avere. Gli restituiva uno scopo che non fosse solo sopravvivere. – Ritroveremo anche lei!– le assicurò, sperando di risultare convincente – E Roland e Pyrgo e… – si interruppe. – E Troy – terminò per lui Miris – Spero sia salvo. Se gli fosse successo qualcosa, non me lo perdonerei mai. Già troppe persone sono morte. Magari adesso mi sta cercando. Forse è ferito, da qualche parte, e non può chiedere aiuto a nessuno. Mi sento tremendamente in colpa, perché durante lo scontro non ho pensato a lui. Ti ho seguito e basta… – si sentiva in colpa per così tante cose che
non riusciva neppure a elencarle. In primo luogo per quello che era. Forse, se fosse stata una semplice umana, le persone a lei care non avrebbero sofferto tanto. – Miris, piantala – la redarguì Kay. Le strinse la mano. – Non è colpa tua. Non è colpa di nessuno. Quante volte devo dirtelo? Le cose brutte accadono. Possiamo soltanto fare del nostro meglio per affrontarle. Miris gli rivolse uno sguardo quasi adirato, come se le fosse tolto anche il diritto di piangersi un po’ addosso, ma Kay insistette. – C’è un rischio, in tutte le cose. Persino nei rapporti umani. Dobbiamo decidere se vale la pena correrlo, e poi accettare le conseguenze. Tutto qui. Tutto qui? Miris non credeva che fosse così semplice. Era tutto incredibilmente complicato. Come la sensazione che provò quando Kay la abbracciò. Non riusciva a capire cosa il giovane pensasse. E se in realtà la stesse prendendo in giro? Se volesse approfittarsi di lei? In fondo, erano soli e nessuno lo avrebbe saputo. Miris era attratta e allo stesso tempo temeva quel vuoto buio che era la mente di Kay. Si staccò da lui con una certa riluttanza. – Sono una bambina petulante, vero? – Un po’ – il giovane sorrideva – L’ho sempre pensato, sai? Una ragazza petulante, spocchiosa, indisponente, viziata… – stava mettendo fondo al proprio vocabolario. Vide Miris prendere fiato per protestare, per poi chinare la testa. – Avevi ragione… Kay la interruppe. – Ma adesso ho cambiato idea. E non perché so che sei una Chimerica. Perché… – lasciò cadere il discorso. Tese le orecchie. – Anche tu non sei antipatico come pensavo… – stava dicendo Miris, ma il giovane le posò il dito sulle labbra. Il suo volto era diventato una statua di ghiaccio. – Shh – le ordinò – Arrivano! Solo allora Miris percepì il leggero ronzio, ruote che strisciavano sul metallo. Era flebile, eppure gridava orrore e morte. Si avvicinava in fretta.
Era calata la notte e i robot tornavano in azione. Kay la prese per un braccio. – Vieni – sibilò, la pistola in pugno – E cerca di non parlare. Precauzione inutile, per quello che ne sapeva quegli esseri di metallo potevano averli già sentiti. Ma forse no. Non voleva togliersi quella speranza prima del tempo, pur preparandosi al peggio. Le munizioni erano scarse, nel corpo a corpo contava più il numero che la sua perizia con la spada. Se fosse stato da solo non avrebbe esitato ad affrontare i robot, considerò. Il pensiero di morire, prima o poi, gli era accanto da tempo. In fondo, dalla nascita l’uomo cominciava a morire. Era un processo inevitabile. Kay lo accettava. Ma, se fosse morto, chi avrebbe protetto Miris? Trascinò la ragazza lungo il corridoio, scendendo di volata una rampa di scale. Spie luminose si accendevano al loro aggio. Il ronzio continuava, li seguiva inesorabile. I robot avevano preso la loro stessa direzione. – Dannazione – Kay imprecò. Li avevano scoperti. Accelerò l’andatura e, ando accanto alle porte metalliche di due elevatori, premette i pulsanti di chiamata. Si augurava che gli inseguitori si fermassero a ispezionare quei marchingegni, dando loro più tempo. Ma per fare cosa? In realtà la loro era un fuga senza speranza. Corsero a perdifiato tra corridoi uguali e stanze uguali. Il rumore alle loro spalle si intensificava. I polmoni di Miris bruciavano e le gambe erano percorse da fitte di dolore. Non ce la faceva più. Fu costretta a rallentare. – Basta! – Avanti, ci stanno raggiungendo! La ragazza dovette riprendere fiato. Ogni parola era uno sforzo.
– Lasciami qui – affermò, con tutta la decisione che riuscì a racimolare. Kay la afferrò per le spalle. – Non dire sciocchezze, non ti lascio da nessuna parte! Miris era troppo stanca per discutere. – Non ce la faremo tutti e due. Tu hai più possibilità. Scappa, mettiti in salvo. I robot perderanno tempo con me, riuscirai ad allontanarti, magari mimetizzandoti tra le ombre… Kay la spinse contro la parete, scuotendola. – Ma cosa vuoi che mi interessi rimanere in questo mondo senza di te? Miris sbatté le palpebre. Anche il giovane pareva sorpreso. Si riprese subito. Ronzio anche dalla direzione in cui stavano correndo. – Non ci è concessa scelta – disse, con calma – Stanno venendo anche da là. In poche parole, erano bloccati. Non c’era via di fuga. Kay considerò la possibilità di sfondare una porta e rifugiarsi in una stanza. Per lo meno avrebbe potuto affrontare i nemici uno per uno, mentre cercavano di varcare la soglia. Li avrebbe tenuti a bada, finché fossero durate le munizioni. E poi? A meno che… Magari mimetizzandoti tra le ombre… Puntò la pistola contro i vetri delle lampade e le spie luminose, poi sparò. Ne frantumò il maggior numero possibile con le sue tre cariche, poi ripose l’arma nella fondina. Adesso in quella zona del corridoio aleggiava una pozza di oscurità. Doveva bastare. – Miris – fissò la ragazza negli occhi, con serietà – Qualunque cosa succeda, non parlare, non muoverti. Respira più piano che puoi. Forse ho un modo per salvarci. Forse. Sei disposta a provare? Miris annuì subito, stringendo le labbra, lo sguardo fermo. Uno sguardo che riempiva il giovane di una strano senso di appagamento. Gli diceva ciò che
bastava. Gli dava la certezza di fare la cosa giusta. – Allora schiacciati il più possibile contro la parete – le disse. Poi la abbracciò stretta, facendole scudo con il proprio corpo. Miris era troppo sorpresa per protestare. Kay le aveva ordinato di tacere e la ragazza si morse la lingua per obbedire, anche se avrebbe voluto esplicitare le proprie rimostranze. Quel contatto non le faceva percepire pensieri, forse, ma era comunque… intimo. Aveva idea che non fosse proprio corretto nei confronti del suo fidanzato. Ma Troy non c’era. E Kay era così coraggioso, così… importante, ecco. Una presenza costante al suo fianco. Percepiva il battito del suo cuore, le premeva sulla guancia. Era calmo, rilassante. Miris provò l’impulso di chiudere gli occhi e lasciarsi cullare da quel ritmo rassicurante. Probabilmente sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe sentito. Il ronzio era assordante. I robot avevano svoltato l’angolo a destra e li stavano caricando. A sinistra erano vicini. Miris non voleva guardare. Non era il massimo del coraggio, chiudere gli occhi per non vedere la morte in arrivo, ma in fondo lei non si era mai gloriata di essere un’eroina. Si accontentava di rimanere nelle braccia di Kay, sapendo che almeno al momento della fine non sarebbe stata sola. Stranamente era un pensiero incoraggiante. Attese. L’avrebbero colpita con le tenaglie? Con gli uncini di metallo? Con armi laser? Immaginarsi il proprio corpo fatto a pezzi, sparso per il corridoio, ridotto a grumi di carne senz’anima, ebbe il potere di scuoterla. Non si era mai accorta del dono che le era stato concesso, prima di trovarsi sul punto di perderlo. Quel corpo era un’opera di perfezione naturale, fatto da un intrecciarsi armonico di ossa, muscoli, legamenti e nervi. Forse quei robot erano più perfetti tecnicamente, ma non avevano l’armonia intrinseca alle cose viventi. Il ronzio era assordante, ma il colpo mortale non arrivava. Miris si arrischiò a sbirciare.
Solo che non vedeva nulla. Stupita, la ragazza si trovò immersa nel buio più totale. Era come galleggiare nell’oscurità, che la abbracciava e la attirava a sé, anche se allo stesso tempo la respingeva. Oltre di essa vedeva muoversi forme indistinte. I robot, che setacciavano il corridoio alla ricerca delle loro prede. Mulinavano le appendici tutt’intorno, sparavano laser a casaccio. Non li vedevano. Erano parte dell’ombra. Miris osservava la scena fluttuando tra tralci di nebbia scura. Non scorgeva più Kay e d’un tratto ebbe paura. Eppure percepiva la sua presenza, più chiaramente di quando le era visibile. L’ammonimento le riecheggiava in testa. Non parlare, non muoverti. Non lo fece. Rimase immobile, trattenendo il respiro, risucchiata in quel vortice oscuro, dolce eppure spaventoso. Era qualcosa che spingeva a implodere in se stessi e allo stesso tempo espandersi fino a strapparsi. Una forza opposta a tutte quelle che aveva conosciuto. Una pressione negativa che la trascinava a sé. Miris si lasciò andare, concentrandosi soltanto sul battito regolare di quel cuore che scandiva il tempo, frantumandolo in attimi di quiete. Nascosta a tutto e a tutti, Miris sentiva la mente finalmente libera. Finalmente solo sua. Aveva ancora gli occhi chiusi, quando Kay le sfiorò l’orecchio con le labbra. – Se ne sono andati – le sussurrò. La ragazza emise un mugolio, mentre tornava ad avvertire con chiarezza le braccia del giovane intorno alla vita, i muscoli del suo petto sotto la tuta schermante. Di colpo si ricordò della posizione compromettente in cui si trovava. Si raddrizzò di scatto, arrossendo. Sperava che Kay nella penombra non lo notasse. – Non ci hanno visto davvero? – No – la voce di Kay era un sussurro stanco – Tu vedi nel vuoto, in assenza di ogni radiazione luminosa?
Miris non aveva mai provato. Corrugò la fronte. – Credo di no. – È la stessa cosa. Io posso fondermi con l’ombra e diventare parte di essa. Il mio braccio assorbe tutte le radiazione luminose e le ingoia. Per la retina umana, quando sono nel buio io non esisto – non c’era alcuna soddisfazione in quelle parole. Amarezza, forse. – Non sapevo se funzionasse anche con altre persone. Ho provato a coprirti, come un mantello. A quanto pare è bastato. Miris gli rivolse un sorriso. – Sei stato molto ingegnoso. – A dire il vero, sei stata tu a darmi l’idea – Kay parve imbarazzato dal complimento – L’ho solo messa in pratica. Almeno ci siamo liberati dei robot. Cauti, tornarono sui loro i. Miris si accorse che Kay continuava a tenerla per mano. Era qualcosa di naturale. Non la obbligava a difendersi da pensieri intrusivi. La sua mano era solida e fresca. La strinse spasmodicamente quando la porta di un elevatore cominciò a spalancarsi. Kay la spinse indietro e snudò la lama. Si maledisse per non aver ricaricato la pistola. Una dimenticanza potenzialmente fatale. Si preparò a falciare il robot che stava per uscire dall’ascensore. Invece si trovò davanti il volto sorridente di Samuel Barni, con un cacciavite in una mano e una testa spenta di robot nell’altra. – Ehi, ragazzo, come te la i? – lo salutò allegramente – Questo posto è una miniera di idee per nuovi progetti, non trovate? L’Ingegnere non capì come mai la ragazza lo fissasse attonita e il Reietto gli scagliasse contro una fila di imprecazioni, senza condividere il suo entusiasmo. Mah, il mondo era pieno di gente matta!
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Starr era nascosto nell’ombra, dietro un cumulo di macerie. Adesso che finalmente il Mietitore era andato a bruciare l’altro lato del pianeta, la Superficie era tornata un luogo vagamente ospitale. Certo più ospitale dei sotterranei della città “H”, che pullulavano di robot. Il Chimerico osservò il drappello di macchine che scorreva in formazione compatta tra le rovine. Kiar era accucciato accanto a lui, mentre Will e Iacopo erano inginocchiati di lato, insieme al Sacerdote e all’Ingegnere. Non si fidavano a lasciarli soli. Gli toccava anche fare da balia agli umani! – Ci cercano – gli sussurrò Kiar. – Se mi trovano, sarà peggio per loro! Il Cacciatore scosse la testa, abbassando ulteriormente la voce mentre un altro drappello ava fin troppo vicino. – Lasciali cercare. Starr stava facendo i calcoli, mentre sentiva l’elettricità mordere il freno dentro di lui. – Quanti ne hai contati? – Sette in questo drappello. Dieci in quello che è ato prima. Ma non è questo il punto – Kiar era prudente – Se li attacchiamo, attireremo tutti i robot della zona. Il fatto che l’altro avesse ragione non migliorò l’umore di Starr. – E allora cosa proponi di fare? Kiar non rispose. Rimasero nascosti tra le macerie, osservando l’ultimo robot
che scompariva nella notte, inghiottito dalla città che li nascondeva nelle proprie viscere, Spettri di un tempo ato che infestavano ancora quelle rovine. Dopo qualche minuto, Kiar parlò. Pur distorta dal casco, la sua voce era tranquilla. – Vado a dare un’occhiata. Cercherò di capire da dove escono. Stava per allontanarsi quando Starr lo richiamò. – Vengo con te! Il Cacciatore non si voltò neppure. – Senza offesa, Chimerico, ma preferisco muovermi da solo – Scivolò tra le rovine, senza dargli tempo di rispondere. Starr provò a seguirlo, ma in pochi istanti era sparito. Dovette limitarsi a lanciare uno sguardo bruciante a Will e a Iacopo, come se fosse colpa loro. I Cacciatori si affrettarono a indietreggiare. – Chimerico, non prendertela – provò a rabbonirlo Will, alzando le braccia davanti al volto come a difendersi – Fa così con tutti. Ma Starr se l’era presa. Da quando quell’esploratore era arrivato, si era impadronito della guida del suo gruppo. Posizione che spettava a lui. Detestava essere scavalcato. Ancora non capiva perché a Pyrgo fosse così simpatico. Iacopo si sedette, il fucile sulle ginocchia. – Sai, l’Autocrate aveva notato le doti di Kiar già qualche tempo fa. Gli aveva proposto di entrare nel suo corpo personale di guerrieri. Una posizione prestigiosa. Ma Pyrgo si è opposto, dicendo che il suo talento era sprecato. L’ha voluto come esploratore per i suoi drappelli. Come saprai, il tuo compagno Chimerico non ha mai avuto un gran senso dell’orientamento. Starr annuì. Pyrgo era un bravo combattente, ma sarebbe riuscito a perdersi dietro casa. – Al suo posto mi sarei infuriato – aggiunse Will, con uno sbadiglio – Insomma, una guardia di Alaric ha un salario molto più alto, senza contare che non deve spaccarsi la schiena con missioni in Superficie, considerando anche il rischio non trascurabile di irraggiamento. Starr cercò di immaginarsi Kiar infuriato. Lo aveva sempre visto calmo e controllato, ma non dubitava che avesse abbastanza carattere da tener testa a un
serpente delle rocce in calore. – Ha protestato con Pyrgo? – No, tutt’altro – Iacopo scosse la testa – Ha accettato. Certo, all’inizio si è un po’ offeso per l’interferenza, ma direi che l’ha perdonato in fretta. Anzi, sono diventati inseparabili – si stiracchiò – Devo ammettere però che non lo conosco bene. Kiar è un tipo strano. Sta sempre per conto suo, non ha amici… Will scrollò le spalle. – Forse preferisce la solitudine. Starr si chiese chi fosse così idiota da volere star solo, senza fermarsi a considerare che lui si comportava esattamente in quel modo. La solitudine non si sceglieva, veniva imposta. Iacopo fece un cenno d’assenso. – Non viene mai con noi nelle giornate libere, quando cerchiamo un po’ di sollazzo in taverna o ai bordelli. Non gli piacciono le donne. – In questo lo ammiro – Starr incrociò le braccia – Sono soltanto una perdita di tempo. – Sarà, ma mi piace perdere tempo in quel modo – sogghignò Iacopo, per poi distogliere lo sguardo quando il Chimerico lo fissò duramente. – Le donne sono inutili, a parte per perpetuare la specie. Basterebbe tenerne un po’ per l’accoppiamento, il resto andrebbe sterminato. Sono inferiori fisicamente e mentalmente, questa è la verità! Will e Iacopo evitarono saggiamente di commentare. Non era facile discutere con il Chimerico quando era di quell’umore, cioè per gran parte del tempo. Starr continuò la sua invettiva. – Infestano le Corporazioni di Sacerdoti e Ingegneri. Sono lieto che almeno tra i Cacciatori siano bandite. Kiar era un vero uomo, si disse, per quanto irritante. Dava l’impressione di non aver bisogno di nessuno. Quel casco nascondeva una volontà di ferro e l’energia per salvarsi da ogni impiccio.
Una decina di minuti più tardi Kiar riapparve. Lo videro soltanto quando fu loro accanto e non cercò più di nascondersi, con il risultato di far trasalire il Sacerdote Ivaldo. Tony non ebbe reazione. Era calato di nuovo nel suo ostinato mutismo. Il Cacciatore balzò dietro alle macerie in cui si nascondevano, con il fucile a tracolla e un pugnale in mano. – Ho seguito i robot – annunciò in fretta. Ansimava per la corsa e il suo respiro usciva raspante dalle bocchette del casco. – Ho visto il aggio che usano per risalire in Superficie. Uno dei tanti, suppongo, ma è un inizio. Starr annuì subito. – Forse porta alla loro base. Al centro di controllo. Kiar gli rivolse un cenno d’assenso. – L’ho pensato anch’io. Da lì potremmo disattivare tutti i robot e trovare qualche traccia dei nostri compagni – In realtà era una flebile speranza. Perché i robot avrebbero dovuto prendere dei prigionieri? Comunque non era giusto escludere a priori quell’eventualità. – Ma dobbiamo muoverci. Presto verranno a cercarci. – Perché? – mentre facevano domande, i Cacciatori si erano già sistemati zaini e munizioni sulle spalle, con efficienza. – Un robot mi ha visto. Sono riuscito ad abbatterlo, ma temo che trovino i resti. Non so quanto possano ragionare queste macchine, ma non ci vuole particolare intuito per capire che gli intrusi sono ancora nei paraggi. Tony emise un mugolio amareggiato. – Complimenti. Ci farai ammazzare tutti! Kiar gli rivolse appena un cenno. – Almeno cerco di fare qualcosa, invece che piangermi addosso. L’Ingegnere gli lanciò un’occhiata furiosa, ma Ivaldo fu rapido a porgli una mano sopra la spalla, nel tentativo di calmarlo.
– Non ha senso litigare tra noi – affermò – Per quello che mi riguarda, vi seguirò, ma chiedo almeno un po’ di riposo. È da quando siamo arrivati che ci nascondiamo, senza un attimo di tregua. Abbiamo bisogno di dormire e riprendere le forze. Starr stava per lanciarsi in un’invettiva feroce contro gli umani e le loro debolezze, ma Kiar lo prevenne. – Il Sacerdote ha ragione – annuì – Non ha senso continuare fino allo stremo, anche perché non sappiamo quanto impiegheremo per raggiungere questo centro di controllo. Potrebbe essere in profondità, e comunque ben difeso. Dobbiamo essere al pieno delle nostre forze per tentare una sortita. – Bah, sciocchezze – Starr sputò a terra – Siamo già al pieno delle forze. Il piano è semplice: voi mi coprite le spalle ed io ammazzo tutti i robot che mi trovo davanti. Will e Iacopo si scambiarono un’occhiata. – Magnifico – il tono di Kiar era sarcastico – Sai che un buon piano sfrutta l’elemento sorpresa, cerca di limitare le perdite e assicura una via di fuga nel caso in cui le cose si mettano male? Il Chimerico borbottò qualcosa contro i piani troppo complicati. Cosa c’era che non andava nel suo? Era l’unico possibile! Non sapevano quanti robot fossero nell’edificio, dove fosse quel centro di controllo e quali pericoli avrebbero affrontato. Insomma, non sapevano nulla. Come facevano a pianificare qualcosa? – Abbiamo visto che i robot non si muovono durante il giorno – insistette Kiar – Possiamo sfruttarlo a nostro vantaggio. Adesso che siamo protetti dai Raggi riposiamo sul limitare della città. Poco prima dell’alba vi condurrò all’interno dell’edificio e cercheremo un modo per porre fine a questa follia. Siete d’accordo? Will e Iacopo annuirono. Anche Ivaldo, dopo un attimo di riflessione, acconsentì. – Mi sembra una proposta ragionevole. Vero, Tony?
L’Ingegnere si limitò a scrollare le spalle. – Allora è deciso. Per ora ci allontaniamo, ma ci terremo lungo il perimetro delle rovine. Sono abbastanza grandi per offrirci nascondiglio. Magari troveremo anche Pyrgo e qualche altro superstite. Kiar si avviò e gli altri lo seguirono. Starr rimase in piedi, la fronte aggrottata, con la spiacevole sensazione che tutto gli stesse sfuggendo di mano. Percepiva il buon senso nelle parole del Cacciatore, ma questo non toglieva che avrebbe dovuto pensarci lui. Era il capogruppo, giusto? – Umani! Sempre desiderosi di essere al centro dell’attenzione! – sputò di nuovo a terra e seguì gli altri, borbottando. Si mossero guardinghi, badando a non lasciare tracce. Non era difficile su quelle lastre di metallo. In ogni caso Kiar tornava indietro di tanto in tanto per confondere ulteriormente i segni del loro aggio. Camminarono per quasi un’ora, fino a raggiungere il limitare delle rovine. Là il metallo lasciava spazio alla terra e gruppi di piante erano sparse tra i blocchi di pietra, in agguato. I compagni si tennero a debita distanza. Avevano già abbastanza problemi senza rischiare di finire avvelenati da quei bocci ingannevoli. L’afa si era dissipata e l’aria era quasi fredda. Da tempo non vedevano più robot, né percepivano il loro ronzio. Kiar diede l’alt ed esplorò la zona. Si diede tutto il tempo che era necessario. – Qui dovrebbe andar bene – affermò, quando fu soddisfatto – Né troppo vicino, né troppo lontano. Non ci sono pericoli in vista. Will e Iacopo si tolsero gli zaini dalle spalle, mentre Ivaldo e Tony si lasciavano cadere a terra con profondi sospiri. Il Sacerdote aveva ragione, erano tutti esausti e rosi dalla tensione. Starr rimase in piedi, a braccia conserte. – Ci accampiamo qui? Kiar annuì. – Come meglio possiamo. Niente luce, cibo freddo, una persona di guardia tutta la notte. Non sappiamo se i robot possono spingersi fino a qua. Non credo, ma meglio essere prudenti. E in ogni caso la Superficie offre altri pericoli.
Tony si strinse lo zaino in grembo. – Pensiero confortante – mormorò – E quanto dista da qui il Pozzo più vicino? Kiar esitò per un attimo prima di rispondere. – Qualche ora di cammino – disse, cauto – Perché? L’Ingegnere scrollò le spalle. – Curiosità. Per sapere quanto ci impiegheremo a raggiungerlo, quando infine vi sarete decisi a lasciare questo cimitero. Nessuno ebbe altro da aggiungere. Avevano un po’ di cibo e di acqua, ma il resto del loro equipaggiamento era stato perduto durante la fuga nella città “H”. Non era il massimo, ma dovevano accontentarsi. Per lo meno erano vivi. Forse erano gli unici esseri viventi là, a parte le piante velenose. Furono assegnati i turni di guardia. Ivaldo si propose, più per gentilezza che per reale volontà di rimanere sveglio, ma la sua offerta fu declinata con decisione. Tony non fu neppure considerato. Kiar voleva gente fidata intorno mentre dormiva. Starr si coricò, scocciato, supino a fissare i vapori che mulinavano nel cielo. Non aveva la minima intenzione di chiudere gli occhi, non ammetteva di essere stanco, ma le palpebre lo tradirono e presto piombò nel sonno. Sognò, ma erano pochi tralci confusi e slegati tra loro, in cui si rincorrevano le immagini della notte ata e ricordi della sua infanzia. Come sempre, c’era il volto della ragazza a tormentarlo. La ragazza con cui si era costruito per anni un sogno di vita felice e che aveva distrutto quel seme di felicità in pochi secondi. Si destò di soprassalto più volte, fin quando Kiar non gli toccò il braccio. – Tranquillo, tutto a posto. Un altro incubo? Il Chimerico si sollevò di scatto e si ò una mano sulla fronte. – Come sempre – ammise, in un attimo di debolezza. Si riprese subito. – E comunque non sono fatti tuoi!
– Vero – annuì Kiar – Lo diventano quando ti metti a gridare e rischi di tirarci addosso robot, vermi e insetti carnivori. Ti ho svegliato per questo. Starr incrociò le gambe. Aveva dormito fin troppo per i suoi gusti. Era infastidito con se stesso per quella manifestazione di debolezza. – Urlavo molto forte? – Abbastanza. E parli un sacco nel sonno. Il Chimerico si massaggiò le gambe indolenzite. – E cosa dicevo? – si costrinse a chiedere. Kiar stava controllando la canna del fucile, a testa bassa. Non alzò lo sguardo. – Ripetevi un nome – disse, con calma – Liliana. Starr si irrigidì. Si alzò, fece qualche o. Il Cacciatore non si mosse. Continuava il suo turno di guardia. Al Chimerico venne da chiedersi se si fosse mai coricato. – Non conosco nessuna Liliana. Probabilmente ti sei sbagliato. Kiar si limitò a continuare la sua opera. – Trovo interessante che tu pronunci un nome di donna nel sonno. Visto che le disprezzi tanto. – Perché sono viscide e traditrici – ringhiò Starr, volgendosi verso di lui con i pugni serrati – Ti illudono e poi ti abbandonano. – O forse sono gli uomini ad illudersi? Il Chimerico lo fissò con rabbia. – Ma cosa vuoi saperne tu? – Più di quanto immagini – Kiar sembrò sul punto di aggiungere qualcosa, poi ci ripensò. ò a lucidare il pugnale che portava alla cintura. – Non direi, visto come ronzi attorno a quella maledetta telepate. Credi che non l’abbia notato? – Starr faticava a tenere un tono di voce basso. Sapeva di non poter urlare, anche se ne sentiva il bisogno. Urlare contro il cielo, pur sapendo che non avrebbe ottenuto risposta.
– Miris è mia amica – obiettò Kiar – Ce l’hai con lei perché ha letto nella tua mente. E hai paura di quello che ha scoperto. Starr sbatté le nocche a terra, accucciandosi davanti a lui. – Ti ha detto qualcosa in proposito? – sibilò, minaccioso. Il Cacciatore continuò la sua opera di lucidatura. Non si curò di rispondere. – Piuttosto, ti penti di questo viaggio, Chimerico? Starr sferrò un pugno a terra, sfogando così la frustrazione. Non voleva fulminare il Cacciatore. Per lo meno, non ancora. – No – rifletté per qualche istante – Mi pento di aver portato con me umani che mi impacciano. Kiar sollevò la testa. I bagliori dei lampi nel cielo si riflettevano nelle lenti scure del casco. – Ci disprezzi e ci odi così tanto? – c’era sincero rammarico nelle sue parole. Starr si trovò spiazzato. Si ò una mano tra i capelli biondi, emettendo uno sfrigolio elettrico. – Sì, cioè… no… – sospirò – Non più di quanto disprezzi e odi me stesso. – Non hai motivo di disprezzarti – Kiar ripose il pugnale nella cintura – Almeno, non per il fatto di essere un Chimerico. Non l’hai scelto tu. E in ogni caso non ci vedo nulla di male. Dimmi, cosa si prova a creare elettricità? Era la prima volta che un umano gli poneva una domanda del genere. Senza giudizio. Solo genuina curiosità. Starr dovette raccogliere le idee. – Energia – corrugò la fronte – Euforia, ebbrezza, come quando butti giù cinque pinte di shen senza fermarti. L’ho fatto una volta, ho vomitato per due giorni di seguito, l’alcool fa un effetto strano a noi Chimerici… e un senso di prurito. Non hai idea di quanto fa pizzicare la pelle. Kiar rise. Era un suono strano in quel luogo tetro. Si spense subito. Il silenzio delle rovine lo soffocò con rabbia. Forse con invidia.
– Non riesco ad immaginarti ubriaco. – Non sono un bello spettacolo – dovette ammettere Starr – E tu? Il Cacciatore si aggiustò le armi alla cintura. – Io che cosa? Vuoi sapere come sono da ubriaco? – No, non quello. Ti penti di essere venuto? Kiar emise un sospiro. – Se così fosse, dovrei pentirmi di quello che ho fatto per tutta la mia vita. Sono un Cacciatore, sono ato da una missione all’altra senza mai fermarmi. Sempre sul filo del rasoio. Non ho paura di morire. Starr gli si sedette accanto. Stranamente, si sentiva vicino a quello strano umano. O forse era semplicemente l’istinto dell’animale che si aggrappava al suo simile in una situazione disperata. – Per me è lo stesso. Vinco una battaglia per trovarmene subito d’innanzi un’altra, più difficile. Ma va bene così. Chi si ferma è perduto. Se ci fermiamo a pensare a noi stessi o al mondo che ci circonda, non avremmo la forza di andare avanti. Kiar annuì. – Forse anche questa è una forma di adattamento a questo mondo, che non dà spazio a emozioni o sentimenti. O forse siamo noi che lo rendiamo così. Rimasero per qualche minuto in silenzio. I compagni dormivano, le sagome immobili. Si udiva solo il loro lento respiro. Nient’altro. Solo loro, in un mondo di laser, di robot, di Raggi, di dolore. Forse gli ultimi esseri umani e Chimerici superstiti. – Sono venuto per me stesso – mormorò Star – Non avevo altro da fare. Kiar annuì. – Io sono venuto per Pyrgo… – poi si immobilizzò. Imbracciò le armi.
Qualcosa si muoveva all’interno del loro accampamento.
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Un attimo dopo Kiar era in piedi, bloccando Starr. – Qualunque cosa accada, non usare il tuo potere – gli sussurrò – Ci farebbe rintracciare. La figura non cercava di penetrare nell’accampamento. Piuttosto, sembrava che si stesse allontanando, scivolando nel buio. Kiar si accorse che uno dei giacigli era vuoto. – Tony – chiamò – Fermati! Ma l’Ingegnere si era accorto di essere stato scoperto. Con un’occhiata colpevole alle spalle, si diede alla fuga. – Maledetto disertore! – ringhiò Starr. Il trambusto aveva svegliato gli altri Cacciatori, che si stavano sollevando con le armi in pugno, pronti a gettarsi all’inseguimento. Ma Kiar era già scattato. Con agilità balzò sopra un cumulo di ferro contorto e portò alla bocca un cilindro cavo di metallo. Vi soffiò con forza. Una palla grigiastra saettò tra le gambe del fuggitivo, esplodendo in una ragnatela appiccicosa. Tony, colto di sorpresa, rovinò a terra in un mulinare di arti. Kiar ripose la sua cerbottana e lo raggiunse. Si mise davanti a lui mentre lottava per rialzarsi e gli puntò la pistola alla fronte. – Fine della corsa! Gli altri li raggiunsero. Starr fissò con rabbia l’Ingegnere, per poi sollevare lo sguardo sull’esploratore. – Beh, che aspetti ad ucciderlo? Kiar lo fissò attraverso il casco, torvo.
– È disarmato e non mi minaccia – affermò – Mi occorre qualche motivo più valido per uccidere un uomo. – Il suo tradimento mi sembra sufficiente – Starr avanzò di un o, minaccioso – Adesso lo fulmino! – Per attirarci tutta la città addosso! – Allora sparategli e basta! – il Chimerico non capiva tutte quelle rimostranze. – E sprecheremo munizioni preziose – Kiar non indietreggiò di un o. Si mise tra l’Ingegnere e il Chimerico, la pistola in pugno. – Se ci ammazziamo tra noi, semplifichiamo il lavoro ai robot. Starr considerò la possibilità di fulminarli entrambi. Quel Cacciatore non doveva permettersi di discutere i suoi ordini. Eppure, dopo la loro conversazione, gli riusciva difficile pensare di ucciderlo. – E va bene – gli voltò le spalle – Ma se tenta la fuga un’altra volta è morto, parola mia. Lui e tutti quelli che lo proteggono – dalla sua espressione cupa era chiaro che faceva sul serio – E adesso in marcia. L’alba non è lontana. Entriamo in quel fottuto buco e distruggiamo chi controlla questo posto! – Il piano di avanzare disintegrando tutto quello che trovava al suo aggio gli sembrava sempre più invitante. Kiar si volse e tese la mano a Tony. – Andiamo. Ci sono anche i tuoi compagni là dentro. Ti prometto che io e i miei Cacciatori faremo di tutto per proteggervi. Ma dovete fidarvi di noi. Altrimenti abbiamo perso prima ancora di cominciare. L’Ingegnere lo fissò per un attimo, mordendosi le labbra. In realtà non aveva scelta. Non dubitava della minaccia del Chimerico e il Cacciatore non poteva proteggerlo. Accettò la mano dell’esploratore, riluttante. – D’accordo – sbirciò verso la cerbottana – Carina! – Opera di un mio amico Ingegnere di Alpha5 – Kiar gliela mostrò – In realtà è elettrica e può sparare proiettili metallici anche senza il mio soffio. Ma mi piace utilizzarla manualmente con le palle di ragnatela espansiva. Semplici ed efficaci
per bloccare l’avversario! – Posso studiarla? – Magari più tardi – Kiar sospirò – Credo che presto ogni arma ci sarà utile. In realtà tutti erano ansiosi di muoversi. Dopo aver mangiato e dormito, rinvigoriti nel corpo se non nello spirito, si sentivano più sicuri. Il terrore era impallidito in un vago senso di paura mischiata a cautela. Adesso sapevano cosa aspettarsi ed erano certi che fosse abbastanza terribile. Si sbagliavano. Come al solito era Kiar a guidarli. Starr si chiedeva come riuscisse ad orientarsi così bene in quella città che conosceva da una giornata. Cominciava a capire perché Pyrgo fe così affidamento su di lui. – Cosa credi che ci sia là dentro? – domandò il Cacciatore, a bassa voce – Cosa credi che controlli tutte queste macchine? Il Chimerico si strinse nelle spalle. – So cosa ci riferì il Chimerico dell’ombra. Immagino che Pyrgo te ne abbia parlato, anche se teoricamente non avrebbe dovuto. Kiar annuì. – Secondo quel Chimerico, la città “H” è abitata da un Dio. Dopo aver visto il potere dispiegato contro di loro, era difficile escludere a priori quella possibilità, per quanto Starr la reputasse una sciocchezza. – Forse c’è davvero un Dio del ato nascosto qua dentro – mormorò. Non c’era paura nelle sue parole, solo trepidante attesa. Più forte l’avversario, maggiore la gloria. Kiar sospirò. – Un Dio crudele, allora, che uccide senza remore e gioca con noi come il gatto con il topo. Continuo a chiedermi in che razza di pasticcio ci siamo cacciati. – Ed io continuo a chiedermi che stiamo aspettando – ribatté Starr – Sono
impaziente di folgorare quel presento Dio. – Potrebbe non bastare. Starr sogghignò. – Allora lo folgorerò due volte! Sotto il casco, Kiar ridacchiò. – Piuttosto, credo che tu abbia spaventato Tony abbastanza per impedire che tenti di nuovo la fuga. Le tue minacce hanno avuto effetto. Starr inarcò un sopracciglio. – Veramente non erano semplici minacce. – Risparmia le forze per i veri nemici. Presto ne avrai bisogno. Il Chimerico del fulmine proseguì in silenzio. Non dubitava di riuscire ad affrontare i robot, ma quel posto era un labirinto che sembrava nascondere nuovi pericoli dietro ogni angolo. Rimpianse di non avere Roland o Pyrgo con sé. Kiar li precedette, esplorando la zona. Per il momento la via era libera. Avanzarono adagio, con cautela, esaminando la città che pareva osservarli a sua volta dagli occhi ciechi delle vetrate sfondate. Una tomba che voleva ingoiarli. Starr si ripromise di farle venire un’indigestione. Kiar li condusse fino a una sorta di cancellata. Un tempo c’era stata una sbarra, adesso divelta. Colonne di cemento reggevano il soffitto in quello che era stato un parcheggio sotterraneo. Catorci di ferro arrugginito, con poltiglia di copertoni disfatti, erano appostati come guardiani morenti, abbandonati dopo aver perso il loro scopo. Giacevano in una pozza di ato che si disgregava pian piano, alla deriva. Alcune portiere erano spalancate. I proprietari se ne erano andati in fretta. O erano morti e già decomposti in polvere. Quei relitti erano destinati a seguire la sorte dei padroni, anche se con calma rassegnata. Il pavimento era dipinto di un rosso scrostato, con frecce di vari colori che giravano su se stesse, indicando il verso di percorrenza. Il soffitto era basso e pareva pesare su di loro, sul punto di soffocarli. Kiar imboccò delle scalette, che li condussero in un nuovo corridoio colonnato. Non erano lontani dal luogo
dell’attacco. Erano nella parte centrale dell’edificio che costituiva la città “H”. In fondo a quella specie di caverna innaturale, fatta di lamiera e metallo, c’era una porta. Chiusa. Starr lanciò a Kiar un’occhiata interrogativa. – Scivola di lato – mormorò il Cacciatore – Datemi una mano! Con l’aiuto di Starr e di Will, la spostarono. Produssero un cigolio cupo. Iacopo, in tensione, scrutava l’ambiente circostante con il fucile spianato. Ivaldo e Tony gli stavano dietro. Kiar indicò l’apertura buia. – I robot entrano ed escono da qui. Will deglutì. – Tu che ne pensi? Kiar si strinse nelle spalle. – Penso che sia l’ultimo posto dove mi piacerebbe cacciarmi, ma non abbiamo scelta – In fondo intravedeva un chiarore. Per lo meno non sarebbero stati del tutto al buio, anche se il pensiero di infilarsi in quella trappola di metallo, senza una mappa e una vaga idea di dove cercare, non gli era di conforto. – È una pazzia – affermò Ivaldo. Nessuno ebbe il coraggio di dargli torto. – Su, che stiamo aspettando? – Starr entrò per primo – Tanto tra poco sarà l’alba. I Raggi o i robot. Morte in entrambi i casi. Almeno quaggiù sarà più divertente! Tony si umettò le labbra. – Chissà perchè, ho idea che non ci divertiremo! E anche su quello nessuno ribatté. Entrarono tenendosi vicini. In testa c’era Kiar, che cominciava a mostrarsi impaziente. Tuttavia non era imprudente e sceglieva con cautela la direzione, le armi in pugno. Le pareti, il pavimento e il soffitto del corridoio erano lisci e privi di ostacoli. Non c’erano curve, ma era tutto organizzato su piani ortogonali, ad
angoli retti. Tutto perfettamente regolare e ordinato. Spaventoso nella sua disumanità. Procedettero per un centinaio di i, chiusi nel silenzio e nell’odore di disinfettante che stringeva la gola. L’apertura alle loro spalle si ridusse a una fettuccia di liberà perduta. Scesero una rampa di scale e proseguirono in un corridoio del tutto identico. Di tanto in tanto un ronzio si levava dalle viscere dell’edificio, il brontolio di uno stomaco affamato. Avveniva a intervalli regolari. Era il respiro di quel mostro meccanico che fingeva di dormire, pronto a risvegliarsi e inglobare gli intrusi. Starr si sentiva osservato. Il corridoio era illuminato da lampade giallastre e fisse. Piccoli punti luminosi si accendevano al loro aggio, ammiccando malevoli. Davano l’impressione di guardare proprio lui. L’idea era ridicola, ma Starr non riusciva a scrollarsela di dosso. Dall’agitazione degli umani, intuì che provavano qualcosa di simile. Kiar badava soltanto al corridoio davanti a lui. Non aveva mai visto lastre di metallo simili a quelle. Aveva sempre vissuto nell’Alveare, una sorta di conigliera sotterranea, ma la sua casa non aveva nulla a che fare con quel posto pensato dall’uomo del ato. Come era stato costruito? Non ne aveva idea. Il mondo antico era diverso da quello attuale. Diverso. Né migliore, né peggiore. Fissati da sbarre metalliche, tubi emergevano dalle pareti e dal soffitto. Serpenti minacciosi, i cui occhi erano le misteriose spie luminose. Tony li studiava con la fronte corrucciata. – Chi oserebbe vivere in un posto simile? – domandò Ivaldo, a nessuno in particolare. I Cacciatori gli fecero cenno di tacere. Ad un tratto Kiar alzò una mano, ordinando l’alt. Un avvertimento. Tutti si bloccarono e tesero l’orecchio. Il corridoio si era allargato in uno spazio spoglio, sede di un quadrivio. Da una delle vie laterali giungeva rumore di i. Lenti. Pesanti.
Starr pensò che fossero troppo pensanti per appartenere a un essere umano. Guardò i compagni. Kiar era tesa, i Cacciatori avevano puntato i fucili in quella direzione. Tony e il Sacerdote erano indietreggiati. Bene, meno stavano tra i piedi, meglio era. Poi Kiar osò qualche o.. Si voltò, come per controllare che i compagni non l’abbandonassero. Starr la seguì. I i continuavano, si stavano avvicinando. Chiunque fosse, non si preoccupava di nascondere la sua presenza. Non gli importava, o forse voleva spaventarli. Il Chimerico sbuffò. Beh, non ci sarebbe riuscito! Un’ombra si materializzò nel corridoio, avanzando con un’andatura caracollante. Era alta, umanoide, e si portò alla luce delle lampade. Starr dovette rimangiarsi quanto appena pensato. Era spaventato. Attonito. Sconvolto. Kiar, per la prima volta da quando l’aveva conosciuto, emise un grido di orrore e indietreggiò. La “cosa” avanzò verso di loro, uscita da un incubo. Era Pyrgo. Lo era stato.
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Starr conosceva Pyrgo da anni. Era rimasto subito colpito da lui. Beh, in effetti era difficile non rimanere colpiti da un tipo con i capelli variabili da un arancione fosforescente a un rosso . Adesso i capelli erano stati rasati. Non era questo il dettaglio più terrificante. La creatura che aveva di fronte era una grottesca parodia dell’uomo che era stato. Era un goffo ibrido di carne e metallo, tenuti insieme da cavi e tubi ripieni di schiuma rosata, simili alle arterie e alle vene del corpo umano. Gli arti inferiori erano di metallo, costituiti da bastoni lucidi con giunture sferiche in corrispondenza di ginocchio e caviglia. Il petto era avvolto da una gabbia, un’armatura metallica le cui sbarre mimavano la scatola toracica, e la pelle scura emergeva dietro di essa in bolle, come se cercasse di fuggire. Di Pyrgo rimanevano intatte le braccia, anche se solcate da numerosi tagli ricuciti in modo frettoloso, e la testa. Quella era la sua bocca, atteggiata come sempre in una lieve asimmetria che gli spostava più in basso l’angolo sinistro delle labbra. La sua mascella squadrata, il suo naso largo. Le somiglianze finivano lì. La testa era stata rasata completamente e dalla nuca si sollevava una specie di sbarra metallica. Affondava nella scatola cranica del Chimerico, piantata nell’osso e nella carne con viti e chiodi, si estendeva lungo il collo e per tutta la colonna vertebrale. Nel tessuto nervoso. Vi lampeggiavano minuscole luci verdi e rosse, simili a occhi di vetro. Finestrine rettangolari oscillavano, mostrando file di numeri in movimento, misurando le funzioni vitali di quell’essere bloccato tra la vita e la morte.
Tra l’uomo e la Macchina. Starr percepì l’ansito di Tony, gravido di terrore e meraviglia. – Un cyborg! La “cosa”, il cyborg, comunque volessero chiamarla (e di certo Starr non riusciva a pensare a essa come “Pyrgo”) camminava verso di loro. I piedi metallici erano provvisti di cuscinetti e producevano uno sfiato roboante ad ogni o. Più in alto era sistemato un sistema di ruote, pronte per essere abbassate nel caso in cui la creatura avesse voluto muoversi più rapidamente in una superficie piana. Il cyborg ruotò la testa, con un movimento troppo fluido per appartenere a una macchina, troppo studiato per essere umano. Li guardò, su questo non c’era dubbio. Starr rimase catturato dai suoi occhi. Erano fissi, immobili, congelati in un abisso di dolore e disperazione. Pyrgo li guardava, comprese Starr, ma non li vedeva. La sua mente era imprigionata dai marchingegni pulsanti che la tormentavano. E quello che gli facevano vedere era troppo orribile perché Starr riuscisse a immaginarlo. Il cyborg tese le mani. Lo stesso gesto che Pyrgo aveva compiuto mille volte. Starr lo conosceva bene, come anche Kiar. Per un istante rimasero impietriti, incapaci di reagire. Poi Kiar gridò. – Via, via! Sta per evocare il fuoco! Le sue parole infransero il maleficio che li aveva avvinti. Come un sol uomo, i compagni si voltarono e cominciarono a correre. Un muro di fiamme esplose alle loro spalle. Il calore fu così forte che Starr si sentì arricciare i capelli e bruciare le sopracciglia. Ansimò, mentre l’aria gli ustionava la gola con violenza. Tossì, socchiuse gli occhi. Li riaprì. Pyrgo era ancora là. Il suo spettro meccanico.
Starr, per la prima volta nella sua vita, non seppe davvero cosa fare. Il potere gli sfrigolò nel pugno e si spense. Fuggì. Non per semplice paura, ma perché non voleva affrontare qualcosa che era stato un suo compagno. Una persona che aveva ammirato. Una persona che aveva amato. Ma ciò che lui voleva non contava nulla. Il cyborg si gettò all’inseguimento. Era veloce, nonostante la mole e l’apparecchiatura ingombrante che lo ingabbiava. La cosa più terribile era che, pur con quelle appendici, si muoveva come Pyrgo. Tornarono indietro lungo il corridoio. I due Cacciatori, abituati all’esercizio fisico, avevano distanziato gli altri, ma Tony e Ivaldo, in preda al terrore, non furono da meno e dimostrarono ottime doti atletiche. Correvano per salvarsi la vita. Kiar si tenne indietro, continuava a voltarsi verso il cyborg. Starr gli gridò di muoversi, ma il Cacciatore non lo ascoltava. Imprecando, il Chimerico si fermò in cima alla rampa di scale per affrontare l’inseguitore che era quasi addosso alle retrovie del gruppo. La cosa che era stata Pyrgo cominciò a salirle con un ronzio sbuffante. Gli scalini erano un ostacolo superabile. Probabilmente nessun ostacolo era insuperabile per quell’essere. Starr esitò. Dannazione, non doveva guardarlo! Era troppo simile all’amico. E quegli occhi! Sbarrati, fissi su qualcosa oltre di lui. Su un nemico da combattere. Pyrgo mosse le mani, accelerando le particelle. – Dannazione – Starr emise un urlo di rabbia, che si frantumò in scariche elettriche. Si abbatterono sul cyborg, avvolgendolo. I cuscinetti ai piedi erano stati pensati apposta come isolanti.
Starr, attonito, rimase a fissare Pyrgo che, illeso, continuava a salire, con una smorfia di dolore sul volto. Quel cyborg poteva ancora provare dolore. Starr fuggì di nuovo, in preda alla confusione. Kiar gli fu accanto, continuando a gridare agli altri di scappare. Nonostante il casco, adesso la sua voce era diversa. Starr aveva altro di cui preoccuparsi. – Hai visto i suoi occhi? – ansimò il Cacciatore. Il Chimerico strinse le labbra. – Li ho visti, dannazione! E adesso sta’ zitto e corri! Erano gli occhi di un morto che non poteva morire e di un vivo che non poteva vivere. Starr avrebbe voluto dimenticarli, ma sapeva che era impossibile. E la cosa che più lo atterriva era che, fino all’ultimo, avrebbe portato con sé il ricordo dell’amico in quelle condizioni. Del mostro che era diventato, invece dell’uomo che era stato. Non era giusto! Kiar fece per dire qualcosa. Non ci riuscì. Scosse la testa e corse più in fretta. Il corridoio sembrava non finire mai. E fuori cosa li attendeva, se non l’alba imminente? Forse essere bruciati dai Raggi era preferibile a quell’orrore. Si precipitarono fuori, dove gli altri li stavano aspettando. Fissavano l’apertura a occhi sbarrati, come se fossero le porte dell’inferno. Starr si fermò, fece cenno ai Cacciatori. – Quando quel coso uscirà, voglio che sia crivellato di proiettili! Il cyborg fu su di loro, in carica. I Cacciatori poterono sparare soltanto un paio di colpi, poi dovettero are al corpo a corpo, snudando le armi folgoranti. Starr scagliò un fulmine, poi un altro. Non avevano l’effetto sperato. Rallentavano la creatura senza fermarla. Chiunque l’avesse costruita, l’aveva dotata di materiale isolante. Aveva imparato dai propri errori, dopo l’attacco della notte ata.
Era un essere astuto che studiava i loro poteri e le loro debolezze. Starr lo odiava con tutto se stesso. Il fuoco lo avvolse e solo gettandosi dietro a un muro riuscì ad evitare di essere arso vivo. Sentiva il volto sporco di polvere mista a sudore. Si rialzò, mentre il cyborg calava su Ivaldo. Lo afferrò per la gola e lo sollevò da terra con una facilità impressionante. Il Sacerdote scalciava, urlando, mentre mani di fiamma si stringevano intorno al suo collo e il calore gli liquefaceva la pelle. In pochi attimi la sua faccia fu trasformata in una poltiglia che colava, la bocca ancora spalancata in un verso disumano. Starr scagliò un fulmine. Il cyborg parve percepirlo e si spostò di lato. Sembrava prevedere le sue mosse, anticipandole. Forse era così, rifletté il Chimerico. In fondo, aveva combattuto con Pyrgo per anni. Anzi, molti trucchi glieli aveva insegnati proprio lui. Dunque li conosceva anche quel cyborg che sfruttava i ricordi e i poteri di Pyrgo. Li applicava con fredda efficienza. Furono costretti a indietreggiare, mentre le urla di Ivaldo si perdevano in un gorgoglio morente. Tony stava vomitando, piegato in due. I Cacciatori ricaricavano le armi. Un piano, pensò Starr, avevano bisogno di un dannatissimo piano! Gli costava ammetterlo, ma il suo potere non bastava. Indirizzò i fulmini davanti ai piedi del cyborg, scavando piccoli crateri fumanti. Il terreno dissestato gli rallentava i movimenti. I compagni ne approfittarono per gettarsi in una fuga disordinata. Fuggivano dal mostro e dal Mietitore che presto sarebbe sorto. Un nemico altrettanto implacabile. Si rifugiarono in mezzo alle rovine più antiche, scavalcando muretti e saltando rottami di veicoli. Starr avvertiva l’elettricità ruggire dentro di lui, lacerandolo come un rovo. Si sentiva bruciare e raggelare, voleva voltarsi a combattere e allo stesso tempo scappare fino all’altro lato del pianeta. Dopo un tempo interminabile dovettero fermarsi a riprendere fiato. Gli umani si lasciarono cadere in ginocchio nella penombra che si riempiva di chiarore, i muscoli ancora in tensione e le orecchie tese per percepire i i del loro inseguitore. Starr rimase in piedi, impotente. La loro incursione si era rivelata un fallimento. E adesso che sapevano quale sorte li aspettava, peggiore della morte,
non trovavano neppure la forza per andare avanti. Kiar si prese la testa tra le mani. Se possibile, Starr pensò che stesse singhiozzando. Il Cacciatore pareva fuori di sé. – Che razza di essere può fare una cosa simile ad una persona? – la sua voce era spezzata – Non è un uomo, non è un Dio. È solo un mostro! – Lo ha trasformato in una Macchina pensante – intervenne Tony. Ci teneva a usare una terminologia precisa, come ogni buon Ingegnere che si rispetti. – Un corpo di metallo e carne, ma con cervello umano. Un cyborg, appunto. Kiar lo afferrò per le spalle, scuotendolo. – Che vuol dire? Dannazione, l’hai visto? Quello è Pyrgo, ma ha quell’affare in testa… – Credo che sia una barra di controllo – replicò Tony, corrugando la fronte – Non sono un esperto nel settore, non mi occupo di sorveglianza dei droidi, ma so che c’è un apparecchio, un bullone di costrizione, che impedisce al droide di andarsene per i fatti suoi. Lo fa attenere al programma. Ecco, il punto è questo. Credo che un nuovo programma sia stato inserito nel cervello del Chimerico – allargò le braccia – Non guardarmi in quel modo! Kiar deglutì. Le mani gli tremavano. – Ne stai parlando come se fosse una macchina. – Tecnicamente lo è. Il nostro cervello è un grande computer, come sicuramente il Sacerdote mi confermerebbe. Amen – una rapida occhiata indietro, anche se il cadavere di Ivaldo era lontano, insieme ai suoi medicinali. Nessuno al momento pensava a tornare indietro per cercarli. – I cavi sono le connessioni sinaptiche, l’alimentazione è fornita dai nutrienti del sangue. Noi siamo programmati per la sopravvivenza della specie. I bisogni prioritari sono mangiare e accoppiarci. Le parti basse e il midollo spinale regolano i riflessi, il dolore, gli impulsi primari, come il battito cardiaco e la respirazione. Il tutto controllato dalla corteccia in un labirinto di neurotrasmettitori. Poi, chissà come, si creano delle interferenze che noi chiamiamo sentimenti, che a volte influenzano questo programma… Lo schiaffò del Cacciatore lo colse del tutto di sorpresa.
– Non sono interferenze! – gli gridò contro Kiar – E noi non siamo macchine. Non puoi dire che seguiamo soltanto un programma! Starr gli strinse il polso, prima che potesse colpire ancora l’Ingegnere. Sotto la tuta imbottita, aveva un’ossatura molto piccola. – Basta, il rumore lo attirerà di nuovo qui! – sbottò. Aveva sempre visto il Cacciatore calmo e sicuro di sé. Adesso quella facciata stava crollando pezzo per pezzo, seppellendo tra le macerie ciò che c’era dentro. – Se permettete – aggiunse Tony, ormai deciso a rendersi utile. Ogni informazione per capire quel mostro, e fermarlo, era fondamentale. – credo che quel che resta della mente del Chimerico del fuoco sia imprigionata in un programma ben costruito. Una sorta di realtà virtuale. La barra di controllo emette degli impulsi che eccitano i suoi neuroni, facendogli vedere ciò che il programma ha deciso, facendogli provare le emozioni prestabilite. Insomma, in noi non riconosce più i suoi compagni. Le sue percezioni sono alterate e non mi stupirei se apparissimo ai suoi occhi ragni, scarafaggi, addirittura robot. Nemici da abbattere. E lo farà, non temete. Senza neppure rendersene conto, ci ucciderà tutti. E poi continuerà a vivere nel suo incubo a occhi aperti, finché i suoi neuroni non cominceranno a morire – fece un rapido calcolo – Potrebbero volerci anni. Starr trattenne un sospiro di esasperazione. – Non possiamo aspettare tanto. – Ma perché? – Kiar scuoteva la testa – Perché lo hanno fatto? Tony si massaggiò la guancia colpita. – Forse semplicemente perché potevano farlo. Ma in questo non sono d’aiuto. Posso spiegarti il come, ma il perché… è il limite della mia arte. Il limite della scienza. Kiar lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi. Il suo tono era stanco. – Non ha senso! – C’è un senso, anche se noi non lo capiamo – Starr fece qualche o nervoso.
Gli pareva di essere sul punto di afferrare qualcosa. – Di tutti i compagni caduti, perché proprio Pyrgo? Perché non un umano? – Forse sono stati costruiti altri cyborg – obiettò Tony – E noi non l’abbiamo incontrati. Per fortuna. Uno basta e avanza! Will, che si era allontanato come vedetta, li raggiunse di corsa, agitando le braccia. – Via! Ci ha trovati! Ripresero a correre, guidati da Kiar, che sembrava essersi ripreso. La luminescenza a oriente era sempre più forte. Avevano poco tempo. Starr prese una decisione. – Dividiamoci – ordinò – Will, Iacopo, Tony. Di là. Cercate un rifugio tra le rovine prima che sorga il Mietitore. Io e Kiar cercheremo di attirarlo – Se doveva giungere a uno scontro, preferiva avere l’esploratore al suo fianco. Si separarono. All’inizio il Chimerico e Kiar rallentarono l’andatura. Il ronzio implacabile si annunciò ben presto. Si abbassò, riprese più forte. Il cyborg era giunto al bivio e aveva scelto la strada da seguire. Aveva scelto loro. Starr se lo immaginava e averne la conferma gli lasciò un gusto amaro in bocca. – Viene dietro di noi – disse, scambiando un’occhiata con Kiar – Quanto corri veloce? Il Cacciatore scrollò le spalle. – Molto, all’occasione! – Bene, questa è l’occasione giusta. Sfrecciarono tra le rovine, cercando di mettere più distanza possibile tra loro e l’inseguitore. Forse il cyborg era stato corazzato per difendersi dai colpi di Starr e delle pistole, ma nessuno schermo poteva arginare i Raggi del Mietitore. Se
fossero riusciti a sfuggirgli fino all’alba, forse avrebbero avuto una possibilità. O sarebbero morti tutti e tre per irraggiamento. – Da questa parte – Kiar lo guidò in un’apertura che sembrava emergere dal fianco della collina. Dentro il soffitto era alto e l’ambiente, scuro, si allungava fino alla sommità del rilievo. C’erano delle scale di metallo, ferme, arrugginite. Da un lato la parete che le delimitava era rotta e lasciava intravedere gli ingranaggi sottostanti. Tutto faceva pensare che in ato quelle scale si muovessero, per togliere la fatica agli abitanti che dovevano spostarsi da una zona all’altra dell’insediamento. Corsero lungo i gradini di metallo zigrinato, bloccati nella posizione in cui l’energia li aveva abbandonati. Non parlarono per diversi minuti, cercando di allontanarsi il più possibile dall’inseguitore. Ormai il Mietitore stava sorgendo. Starr si azzardò a voltarsi indietro. Il cyborg non si vedeva. Si fermarono in cima all’ultima rampa di scale metalliche. Rimasero in ascolto, ma i rumori alle loro spalle erano spariti. Per il momento, forse, la caccia era stata interrotta. Starr fece per tirare un sospiro, quando una nicchia laterale vomitò una vampata di fuoco. Il Chimerico era troppo sorpreso per reagire. Si sentì spingere via e un peso gli cadde addosso. Il Cacciatore aveva agito d’istinto, balzando sul compagno per allontanarlo dalle fiamme. Insieme rotolarono per le rampe di scale, in un brulichio di braccia e gambe. Starr sentì i bordi di metallo torturargli ossa e pelle e fu un sollievo quando raggiunse finalmente la base della scalinata, tutto ammaccato ma ancora vivo. Kiar era atterrato poco lontano e si stava risollevando a fatica. Nella caduta il casco gli era volato via. Starr all’inizio non realizzò. Dapprima il suo cervello registrò una cascata di capelli color del miele, finalmente sciolti e liberi, poi occhi di un grigio quieto, un volto pallido e delicato. Il volto di una donna.
47
Starr forse aveva provato minor sorpresa quando si era trovato dinnanzi il cyborg. Rimase a bocca aperta a fissare il Cacciatore. La Cacciatrice. Una donna! Kiar, Kiara, si rialzò. Le sue mani corsero d’istinto a toccarsi il volto. Corrugò la fronte, comprendendo che il suo travestimento era stato scoperto. Il cyborg non concesse tregua. Si stava già precipitando giù dalle scale a velocità vertiginosa. Starr continuava a pensare che l’unico umano del gruppo che avesse mai minimamente apprezzato era una donna. Un nuovo tradimento. Ringhiò e riversò la rabbia in un fulmine. Non mirò al nemico, bensì al soffitto. Una pioggia di detriti crollò sopra il cyborg. Roccia e cemento lo seppellirono, fino a nasconderlo alla vista dei due compagni. Ma sotto le macerie fumanti il ronzio continuava, feroce e frenetico. – Via! Starr non poté far altro che seguire la Cacciatrice, che lo condusse in un nuovo dedalo di cunicoli sotto le rovine. Quella fuga sembrava non finire più. Il Mietitore si affacciò all’orizzonte mentre si rifugiavano in una sorta di cantina. Il meglio che erano riusciti a trovare. Kiara si accucciò in una nicchia, il respiro affannoso. Era esausta e dubitava di riuscire a fare un altro o. Non si mosse neppure quando la scarica elettrica si abbatté nel terreno davanti ai suoi piedi, sollevando una pioggia di polvere e pietrisco. – Mi hai ingannato! – sibilò Starr.
Kiara sollevò su di lui gli occhi grigi e stanchi. – Parla piano. Il cyborg potrebbe sentirci. – All’inferno il cyborg! Mi hai ingannato! – ripeté Starr, con maggior foga. Avrebbe dovuto immaginarlo: mai dare fiducia a qualcuno. L’aveva data a Roland e lo aveva lasciato solo. L’aveva data a Pyrgo, e si era fatto trasformare in un abominio di metallo. L’aveva data al Cacciatore, e questi l’aveva tradito. Le donne tradivano sempre. Kiara non batté ciglio. – Ho ingannato tutti, non è niente di personale nei tuoi confronti. Ho scelto di vestirmi da uomo, di camminare come un uomo, di comportarmi come un uomo. Tutto per entrare a far parte dei Cacciatori. Altrimenti non mi sarebbe stato concesso. Lo sai, le donne non possono esercitare in quella Corporazione. – Perché non sanno combattere! – Ah, sì? – Kiara inarcò un sopracciglio – Credi davvero che non sappia combattere? Hai visto tu stesso quanto valgo. Osi negarlo? – lo sfidò. Starr strinse i pugni fino a farsi sbiancare le nocche. – Questo non significa nulla. Voi donne… – Significa tutto, invece! – Kiar si alzò di scatto, puntandogli un dito contro – E tu dovresti saperlo meglio di me. Sai cosa significa essere lasciati indietro perché si è diversi. Non essere liberi di vivere come si vuole. Sopportare il pregiudizio della gente, persino il loro scherno. Vedere che gli altri possono avere quello che a noi è precluso. Questo è essere Chimerici. Ma questo è anche essere donne. E il fatto che una di noi si sia comportata male nei tuoi confronti non ti autorizza a giudicarci. Starr gli voltò le spalle. – Sta’ zitta, donna! – No, Starr, non sto zitta. Ti parlo faccia a faccia, come ho sempre fatto. Il mio vero volto non cambia nulla.
Il Chimerico sferrò un pugno alla parete. – Cambia tutto! – Davvero? Spiegami come! – Kiara si mandò i capelli indietro. Non era abituata a tenerli sciolti. Se li appuntò con una spilla tirata fuori dallo zaino. – Mi sembra che siamo sempre gli stessi poveri idioti, braccati da un cyborg assassino implacabile, in una città sconosciuta brulicante di nemici. Gli stessi poveri idioti che hanno perso tutto e tutti. Correggimi se sbaglio. Starr emise un ringhio informe. – Per tutto questo tempo mi hai ingannato. Sei spregevole. Spero che il cyborg ti trovi e ti uccida, altrimenti lo farò con le mie mani. Stranamente la minaccia ebbe il potere di calmare Kiara. Rilasciò le braccia lungo i fianchi e prese un sospiro. – Starr, so perché odi le donne. E so anche che Liliana non ha nessuna colpa. Un nuovo fulmine colpì il terreno, a pochi pollici da lei. Kiara non si mosse. – Lo sai anche tu. Perché non vuoi accettarlo? – Tu non sai niente – Starr scosse la testa – Come potresti? La donna si sedette. – Me ne ha parlato Miris. L’ha letto nella tua mente quando ti ha toccato, nella ragnatela. Ci pensi sempre, Starr. È la tua tragedia. Ma una tragedia che tu stesso hai architettato. È tempo di scinderla nei singoli atti. Il Chimerico le scagliò un altro fulmine. La mancò di un soffio. Perché non riusciva a colpirla anche se rimaneva immobile? Forse non voleva colpirla. Voleva ucciderla e non voleva. Era esasperante. – Eri un ragazzo solo, a causa del tuo potere. Scagliare fulmini non è qualcosa che i inosservato. Ti marchiava. Volevi soltanto qualcuno che ti stesse accanto. Liliana, di ritorno dal mercato, ti vide seduto in disparte, sullo scalino di una porta. Non so cosa la spinse a farlo. Tenerezza? Gentilezza? Chi può dirlo?
Ti sorrise. Tutto qui. Starr chiuse gli occhi. Rivedeva quel momento. Non poteva essere etichettato con un banale “tutto qui”. Gli toglieva qualcosa di suo. Un dolore catartico che fungeva da giustificazione alla sua rabbia. – Mi sorrise perché voleva illudermi e ingannarmi. Come tutte le donne! – Ti sei illuso e ingannato da solo – Kiara continuava, implacabile – Su quel sorriso hai costruito un castello di carta, un frutto della tua fantasia. Hai sognato un futuro con lei, ma era tutto nella tua mente. Le hai più parlato? Le hai mai detto quello che provavi per lei? Starr scosse la testa. – E allora? – Hai creato una Liliana che non esisteva e poi ti sei infuriato quando la vera Liliana ha semplicemente continuato a vivere. – Basta! – Starr la spinse contro il muro, sovrastandola – Non voglio ascoltarti! Kiara pareva quasi triste. – Perché non vuoi ascoltare la verità? Hai amato l’immagine di una persona. Liliana non ti doveva nulla. E non te lo devo neppure io, Starr. Non sono qui per te. Ti rispetto come guerriero, ma non posso giustificare la tua autocommiserazione. Avevi paura di essere odiato e ti sei trovato una giustificazione per odiare. Per quale motivo? La nostra vita è così breve in questo mondo. È effimera. Non sprecarla così. Almeno tu… – chinò la testa – Pensa a Pyrgo. Pensa a quello che gli è capitato. C’è già tanto male nel mondo. Perché contribuiamo a crearlo? Starr si accorse che stava ansimando. Lasciò andare la donna, distolse lo sguardo. Si sentiva svuotato. – Chiudi gli occhi! Suo malgrado il Chimerico obbedì.
– Cosa vedi? – Un ragazzo – mormorò Starr, con voce roca – Seduto su uno scalino, da solo. Tutti gli altri ano. Il sorriso di Liliana. E poi lei che bacia un altro umano. Kiara sospirò. – Questa è la tua tragedia. Sei ancora seduto su quello scalino. E solo tu puoi trovare la forza di rialzarti. Starr le voltò le spalle e andò a sedersi dalla parte opposta della cantina. Il più lontano possibile da lei. Da una donna. Kiara non commentò. Si limitò a fissare il nulla. – Credo che il cyborg si sia liberato dalle macerie, ma finché il Mietitore è alto non ci cercherà. O almeno lo spero. Starr annuì, cupo. – So cosa cerca. Kiara lo guardò senza fare domande e il Chimerico continuò. – Cerca me. Lo sospettavo e adesso lo so con certezza. Ha seguito noi. Non ha esitato, disinteressandosi degli altri. Perché sono umani. La Cacciatrice sollevò lo sguardo al soffitto. – Non ricominciamo con i tuoi complessi di superiorità… – Non ho nessun complesso – sbottò Starr, anche troppo in fretta – Ragiona: chiunque sia dietro a tutto questo, ha preso Pyrgo. Forse anche Roland. Perché? Perché non gli umani? Vuole noi. Vuole i Chimerici! Kiara rifletté su quelle parole, poi annuì. – È possibile. – No, è molto probabile. Ci sta studiando. Ci rende burattini al suo servizio – Starr serrò i pugni. Quel pensiero lo faceva infuriare. – Vuole rendermi come Pyrgo. Tutto ha uno scopo. Uno scopo perverso, ma ce l’ha – fece una pausa – Ma io non ho nessuna intenzione di prestarmi al suo gioco.
Per qualche istante Kiara rimase in silenzio, riflettendo. – Quindi questo Dio studierebbe i vostri poteri. Ma sono parte di voi, giusto? – si tese verso di lui. Il suo sguardo era penetrante. Starr annuì. – Sì. – Gli servi tu. O parti di te. La tua mente integra, ma sotto il suo controllo. Starr avvertì un senso di nausea. Sputò a terra. – Piuttosto mi uccido! – Uccidersi – Kiara mormorò – Forse è l’unica soluzione. Una morte vera, definitiva. È preferibile ad una non-vita di illusioni e sofferenza. E Pyrgo è imprigionato in quel limbo. I suoi occhi… Starr avrebbe preferito non ricordarsene. Abbassò la testa. – Erano vivi. Prigionieri di un incubo. Kiara si sporse fino a trovarsi a pochi pollici da lui. – Non è Pyrgo a volerci attaccare. È costretto. Hai sentito l’Ingegnere? Quella barra di controllo gli fa vedere cose terribili, fino alla pazzia. È stato ricostruito per eseguire i desideri di qualcuno. La sua mente alterata e il suo corpo… – si interruppe – Quest’idea mi fa stare così male! Avrei voglia di gridare. Nessuno dovrebbe subire un destino simile, tanto meno lui… Non riuscì a finire. Starr la pensava come lei. – Dobbiamo ucciderlo – esclamò Kiara d’improvviso, fissando il Chimerico con tale ferocia da lasciarlo senza parole – Ucciderlo una seconda volta. Non possiamo lasciarlo in quello stato. Io lo conosco, lo conosco bene. Lui non lo vorrebbe. Vorrebbe essere libero. Gli afferrò le mani, incurante dell’elettricità. – Aiutami a ucciderlo, Starr. Per l’amicizia che vi ha legato! Ma non era solo amicizia quello che legava Kiara e Pyrgo. Starr comprese
d’improvviso il motivo di tutta quella veemenza. Fu come un fulmine a ciel sereno. Kiara era innamorata di Pyrgo. Come aveva potuto essere così cieco? Si era vestita da uomo per lui. Era diventata Cacciatrice, aveva intrapreso le missioni più pericolose… tutto per stare accanto all’uomo che amava. Anche se era un Chimerico. Starr non seppe mai perché lo fece. Ricambiò la stretta di Kiar. – Va bene – le promise – Ti aiuterò.
48
Roland piombò di schiena contro il pavimento di metallo. Ansimò, temendo di essersi sfracellato al suolo. Gli faceva male dappertutto, la testa gli girava e sentiva l’impulso di vomitare. Sbatté le palpebre. Il suo cervello era convinto di essere precipitato nell’abisso. Perché allora era sdraiato supino in mezzo al corridoio? Chiuse gli occhi, li riaprì di nuovo. Lo scintillio ammiccante di un occhio di vetro sul soffitto. Lo osservava, lo studiava. Roland sentì l’impulso di saltare e frantumarlo con un pugno. Ma era troppo in alto. E i muscoli gli facevano troppo male. Si sollevò sui gomiti con un gemito. Il senso di nausea gli squassava lo stomaco e lo faceva rabbrividire. Aveva ancora nelle ossa il gelo di quelle cime innevate, sulle mani il dolore delle corde che gli segavano la pelle. Si guardò i palmi, aspettandosi di vederli sanguinanti. Non c’era nulla. Neppure un taglietto. Roland non riusciva a raccapezzarsi. Avvertiva il macinio del cervello che lottava per accomodare sensazioni e realtà. Era reale il dolore che provava alle mani? E cos’era davvero reale in quel luogo di follia? Il Chimerico scosse la testa. Era tutto un’illusione? La neve, il ponte, la caduta. Eppure la sua mente vi era rimasta invischiata. Si chiese cosa sarebbe successo se il suo cervello si fosse veramente convinto che lui era morto. Non voleva scoprirlo. Rimase per qualche istante in quella posizione, riprendendo fiato. Gli sembrava di aver corso per miglia. Il corridoio era di nuovo tranquillo e silenzioso, con i suoi strani schermi ai lati. Aspettava la sua prossima mossa. Roland sapeva di
non avere alternative. Doveva proseguire. Attese che il dolore si attenuasse. Il senso di nausea si affievolì, lasciando solo malessere e un leggero stordimento. Una volta si era ubriacato, quando era più giovane, e aveva provocato un terremoto. Ecco, quella sensazione gli ricordava i postumi di una sbornia. Roland sospirò. Il tempo ava. La lucina rossa sul soffitto lo scandiva, pulsando al ritmo di un cuore. Il corridoio ne era pieno. Erano osservatori di uno spettacolo di cui lui si trovava protagonista, suo malgrado. Una prova. Doveva superarla. Roland si rialzò e fece un o. La luce cambiò di nuovo e si fece rossa. Le pareti del corridoio erano fatte di fiamma. I laser sparavano da ogni parte e i robot emersero in uno stuolo alle sue spalle. Il Chimerico non aveva modo di affrontarli su quel metallo. All’inizio rimase fermo. Forse anche quella era un’illusione, pur molto realistica. La sua mente era colpita da una miriade di particolari così potenti da squassare ogni sua sicurezza, ristrutturando lo spazio in cui credeva di essere. – Illusione – si intimò, mentre il sudore gli imperlava la fronte. I laser erano più vicini, le macchine gli erano quasi addosso. Represse il senso di urgenza che quella scena gli suscitava. Un robot puntò la pistola contro di lui. Roland non si mosse. Un’illusione? Ogni sua certezza fu frantumata quando il suo cervello registrò il dolore. Una fitta pungente gli esplose nel braccio, risalendo alla spalla ed espandendosi bruciante in tutto il corpo. Gli raggiunse la mente, lasciandola stordita e sconvolta. Il panico lo sommerse. Roland voltò le spalle ai robot e cominciò a correre.
Era una fuga senza speranza. I nemici comparivano da ogni parte, inseguendolo, e lui non poteva fare nulla, per colpa di quel metallo… Roland di colpo si accorse di stare camminando sulla terra. Solida terra! Si lasciò sfuggire un’esclamazione di gioia. Era di nuovo nel suo elemento. Richiamò il potere e la roccia insorse al suo comando. Si plasmò, sprofondando sotto i piedi dei robot e ingoiandoli. Dopo la prima fila ce ne era un’altra, e un’altra ancora. Roland gridò di esultanza. Che i nemici venissero pure, non aveva più paura. Era preda di un’esaltazione sfrenata. Voleva usare ancora il suo potere. Di più, ancora di più, fino a giungere al limite. In quel modo sarebbe stato salvo. Una parte di lui non si riconosceva. Aveva sempre sfruttato le proprie potenzialità con parsimonia, quasi con ritrosia. Non gli era mai piaciuto uccidere. Che mi sta succedendo? Eppure quella brama era così seducente! Roland non sapeva da dove venisse, ma c’era. La suscitavano i robot e i laser che continuavano ad arrivare. Era una sete che doveva essere placata. Ad un tratto i robot erano scomparsi. Il Chimerico sbatté le palpebre. Nelle orecchie aveva un mormorio lento e cadenzato, quasi rilassante. Il potere lo abbandonò, lasciandolo svuotato, mentre i piedi affondavano nella sabbia accarezzata delle onde. La spiaggia si estendeva in una mezzaluna dorata davanti a lui. Sulla destra il mare, immenso, increspato da baci di spuma. Le onde si sollevavano vicino alla riva in criniere candide e poi rumoreggiavano stiracchiandosi sul bagnasciuga. Roland ne percepì il tocco sulle gambe. L’acqua era tiepida. Sulla sinistra si ergeva un’alta scogliera. Le pareti erano a strapiombo, non offrivano alcun appiglio per arrampicarsi. Non c’era modo per salire, se non una scalinata naturale in fondo alla caletta. Il Chimerico la scorgeva in lontananza. Cominciò a camminare in quella direzione, cullato dal mormorio delle onde. Lo sentì farsi più deciso. Gettò un’occhiata distratta alla propria destra. Il mare cominciava ad agitarsi.
Affrettò il o. Di colpo percepiva l’urgenza di raggiungere la scalinata e uscire di là. Non ne capiva il motivo. Non c’era nessun nemico in vista. Quando si accorse del suo errore, l’acqua gli arrivava già alle ginocchia. La marea stava salendo. Roland, lo sguardo fisso sulla scalinata, spiccò la corsa. Tese le gambe nello sforzo, perché muoversi nell’acqua gli risultava faticoso. Senza contare il risucchio delle onde che si alzavano sempre di più. Ingoiavano la spiaggia. La sabbia vorticava, spostata da quei flutti violenti. Il Chimerico si ritrovò a ridosso della parete rocciosa, l’unico punto ancora asciutto. Per poco. E la scalinata di roccia pareva alla stessa distanza di prima. Raddoppiò gli sforzi. Ogni o era un’impresa titanica in quell’acqua vorticante. Gli aveva raggiunto la vita. Saliva e saliva. Senza fretta. Non aveva possibilità di fuga. Quella consapevolezza era più gelida delle onde che gli arrivavano al petto, cercando di sbatterlo contro la parete rocciosa. Roland fu costretto a nuotare. Non lo aveva mai fatto in vita sua. Annaspò, agitò gambe e braccia, la testa che cercava di rimanere fuori dall’acqua. Un’onda lo colpì in faccia e sentì il sapore del sale che scendeva in gola. Bruciava. La scalinata era là, a qualche decina di i. Irraggiungibile. Roland tentò ancora di nuotare. Le onde lo sballottavano da ogni parte, strappandogli lamenti. Gli scogli gli scorticavano la pelle. L’acqua lo sommergeva, riempiendogli la bocca e i polmoni. – Aiuto – boccheggiò. Ma nessuno sarebbe venuto. Era solo. In fondo, era questo il destino degli esseri umani: vivere da soli e morire da soli. Ma era possibile percorrere il cammino della vita con gli altri.
Roland! Il Chimerico sbatté le palpebre. Il sale gli faceva bruciare gli occhi, vedeva tutto confuso. Non sapeva se stesse parlando o soltanto pensando. Aiuto! Affogo! Prendi la mia mano! Roland conosceva quella voce, anche se non riusciva a focalizzare a chi appartenesse. Il suo cervello era invaso dal rombo dell’acqua. Non aveva più aria nei polmoni, che bruciavano fino a scoppiare. Stava morendo. Non ti lascerò morire. Prendi la mia mano! Roland intravide qualcosa. Una figura luminosa sopra di lui. Gli tendeva una mano esile. Con uno sforzo, il Chimerico si tese per afferrarla. Un attimo dopo uno schianto tremendo frantumò quel mondo.
49
– Robot? Certo che ne ho incontrati. Sono meravigliosi, non trovate? Samuel Barni stava trotterellando tra Miris e Kay, ansioso di raccontare le sue avventure e soprattutto i nuovi progetti che aveva in mente. Stranamente i due compagni non sembravano condividere il suo entusiasmo. L’Ingegnere sospirò. La gioventù moderna non aveva più interessi! – Meravigliosi? – Kay inarcò un sopracciglio – È il termine che ei, se fossi sarcastico. – Sapete, credo che qua sotto ce ne siano un sacco! – Fantastico. – Sì, fantastico davvero! – Samuel Barni non conosceva il concetto di sarcasmo, come non conosceva il momento di stare zitto. Lui e il silenzio si erano incontrati quando era piccolo, ma avevano litigato subito. Anche quando era nel suo laboratorio da solo, l’Ingegnere aveva l’abitudine di borbottare tra sé e sé, in un monologo interiore in cui riusciva addirittura a litigare con se stesso. – Li ho visti perlustrare questo edificio palmo a palmo. Mi sa che cercavano voi. Quelli più piccoli somigliano ai nostri droidi Ripulitori, ma funzionano meglio. Hanno una scheda centrale di materiale diverso. Se mi permettete di esporre la mia teoria… Tra una teoria e l’altra, era anche riuscito a raccontare di come si fosse nascosto all’interno di una cassa di metallo, in modo da essere isolato dai loro sensori, fino al momento di riemergere ed esplorare quell’interessante edificio. Nel frattempo, da aspirante guerriero, aveva colto alle spalle un droide Ripulitore rimasto isolato, e lo aveva smontato pezzo per pezzo. Poi era stata la volta di un cane di metallo. Gli era saltato in groppa, staccando il fusibile di alimentazione energetica. Non era facile individuarlo, ma quello era il punto debole. La testa del robot era il trofeo che portava con sé, palleggiandolo da una mano all’altra.
– Piano, piano, spiegami di questo fusibile – Kay filtrava il mare di informazioni che Samuel vomitava, cercando di ricavarne qualcuna utile. – Ma non ti interessa di più il nuovo accessorio che voglio aggiungere al Ripulitore della Corporazione degli Ingegneri? – No, me ne parlerai un’altra volta – Kay ricacciò le risposte poco carine che gli premevano in gola – Che ne dici di pensare a un modo per uscire di qui vivi? Altrimenti, come farai a riportare i tuoi progetti alla Corporazione? Quest’argomentazione parve convincere Samuel sull’importanza di collaborare per sopravvivere. Si grattò la nuca. – Beh, il fusibile si trova di solito vicino alla testa del robot. Nel caso dei cani metallici, dietro, all’attaccatura del collo. I Ripulitori l’hanno di lato, in alto a destra. Quelli umanoidi a livello occipitale. Le macchine con le chele invece lo nascondono nel ventre, l’ho visto di sfuggita. Le ho studiate meno, sono così minacciose… Kay annuì. Adesso almeno sapeva dove colpire. Un discreto o avanti. – E gli altri? Li hai incontrati? – Gli altri robot? – Samuel parve spiazzato da questa domanda. – No, gli altri compagni. – Ah, giusto – Samuel si diede una pacca in fronte – C’era altra gente con noi. No, non li ho visti. A parte quelli che sono rimasti nello spiazzo, almeno i pezzi che non sono piaciuti… Miris si voltò dall’altra parte per nascondere la smorfia di ribrezzo. Chiuse gli occhi, concentrandosi. – Kiara è viva – annunciò – Sento il suo calore. E dolore. Ma è viva. Samuel ò lo sguardo dalla ragazza al giovane. – Chi è Kiara? – Lascia perdere – Kay esplorò una stanzetta con i resti rugginosi di due letti e un carrello metallico. Ne aprì i cassetti. – Miris, vieni a dare un’occhiata!
La ragazza conosceva quegli strumenti alla perfezione. Erano gli stessi che usava insieme alla sorella. – Bisturi, pinza, cauterizzatore… – li sfiorò, per poi ritrarre la mano – Sapete cosa penso? Che questo posto originariamente fosse un luogo di degenza per malati. – Già, magari un posto del genere in ato si chiamava “H” – Kay scrollò le spalle – Possono sempre essere utili come armi – e mise qualche bisturi nello zaino. Li avrebbe presi anche Samuel, se solo gli fossero entrati in borsa. – E perché qualcuno dovrebbe stanziarsi in un luogo di cura e trasformarlo in un covo di robot assassini? – Miris non capiva. – Noia? – propose Kay. – Per portare avanti nuovi progetti – rispose Samuel, tranquillo, continuando a camminare – Perfezionare la tecnologia attuale integrandola con quella ata – si accorse che i due giovani lo fissavano – Che avete da guardare? È quello che farei io! Miris scambiò un’occhiata con Kay. – Che ne dici? – Non è una possibilità da scartare – il Reietto annuì – Quindi non avremmo a che fare con un guerriero, bensì con uno scienziato con qualche rotella fuori posto come il vecchio Sammy? – Eh, no, questo è troppo! – si inalberò l’Ingegnere – Non chiamarmi Sammy. Sai che lo detesto – e dopo qualche minuto di cammino si rammentò di aggiungere – Ah, e comunque non ho rotelle fuori posto! Miris si bloccò, mentre il suo sguardo si faceva distante. Si appoggiò alla parete. Kay fu rapido a sostenerla. – Che succede? – le domandò, riconoscendo ormai quell’espressione e sapendo che raramente annunciava qualcosa di buono. – Roland – la voce della ragazza era un sussurro flebile – Vicino. Lo sento. È nei
guai. Si liberò dalle braccia dal giovane e prese a muoversi in fretta, brancolando come un cieca. inseguiva qualcosa che solo lei vedeva. – Roland! Samuel diede di gomito a Kay, perplesso. – Senti, è una mia impressione o la sua pazzia è peggiorata da quando è qui dentro? Il giovane si limitò a borbottare tra i denti un “da che pulpito viene la predica” e lo spinse rudemente. – Muoviti. La seguiamo! Miris era stata di parola quando aveva parlato di vicinanza. Imboccarono il corridoio parallelo a quello che avevano percorso fino a quel momento e lo videro. Era accasciato al suolo, pareva agonizzante. Agitava braccia e gambe sul pavimento, in una grottesca parodia di un insetto che affoga in una polla d’acqua. Il volto era sbarrato, cianotico, le labbra si muovevano come se non riuscisse a respirare. Miris si strinse le braccia intorno al petto. – Ha freddo. Ha paura. Sta affogando. Samuel emise uno sbuffo che voleva dire: “te l’avevo detto che era pazza”. Kay non poteva che dargli ragione. Non c’era nulla intorno a Roland, se non un corridoio con degli strani schermi luminosi, in cui intravedeva una maglia di luci di colori diversi. Pulsavano a un ritmo cangiante. E sopra le spie luminose continuavano a lampeggiare. Miris si teneva le dita sulle tempia. Pareva concentrata. Stava mormorando qualcosa a fior di labbra. Kay fece un o avanti. – Adesso basta, vado a dargli un calcio nello stomaco. Così si sveglierà da quella
trance… – si interruppe. Samuel gli aveva afferrato il polso. I suoi occhietti brillavano. – Meraviglioso! – Cos’è, il tuo aggettivo favorito della giornata? – Guarda – indicò entusiasta verso gli strani schermi – I led sono perfettamente conservati. Anche il programma che li assembla, immagino. Kay diede uno scossone all’Ingegnere, per riscuoterlo dalla sua estasi. – Vuoi dire che quei cosi sono macchine del ato? – Schermi ad alta definizione, per l’esattezza. In grado di generare ologrammi. – Cioè? – Hai presente quello che ti sta intorno? Ecco, adesso immaginati di vedere il nostro Alveare. Perfettamente ricostruito. Si tratta di realtà virtuale – l’Ingegnere si grattò la barba incolta – Termine non del tutto esatto, direi, visto che di reale ha ben poco. – Aspetta un attimo – Kay colse il succo della questione – Mi stai dicendo che Roland si trova immerso in una sorta di sogno da cui non può svegliarsi? Samuel corrugò la fronte. Senza proprietà di linguaggio, certo, ma si poteva definire anche in quel modo. Annuì. Kay lanciò un’occhiata a Miris. Stava con una mano tesa e non sembrava cosciente di quanto la circondava. – E allora lo liberiamo? – Semplice, no? – Samuel indicò le pareti – Basta spegnere gli schermi. Kay conosceva il modo più rapido per spegnere qualsiasi cosa. Imbracciò la pistola. – State indietro! E sparò ai led, frantumandoli.
50
Quando Roland si ritrovò sano e salvo nel corridoio, neppure bagnato, vide tre figure chune sopra di lui. – Bentornato – Miris gli sorrise, con una punta di imbarazzo. – Era ora – commentò Kay – Noi a scappare da robot assassini e tu a giocare con gli ologrammi. Vergognati! – Meravigliosi – continuò a esclamare Samuel, esaminando da vicino gli schermi. O quello che ne rimaneva. Aggrottò la fronte, stizzito. – Certo, dovevi proprio essere così drastico? Li hai rovinati! – Meglio, così non irretiranno più la mente di nessuno. – Magari riesco a capire come ricostruirli… Roland si mise a sedere con un mugolio, tenendosi la mano sulla fronte. – Fate piano, ho la testa che mi scoppia – cercò di riflettere con lucidità, mentre la nausea allentava la sua morsa – Come avete fatto a trovarmi?. Kay si accovacciò accanto a lui, molleggiando sulle punte. – Un po’ per caso, un po’ per le percezioni della nostra telepate preferita – strizzò l’occhio alla ragazza, che inarcò un sopracciglio. – Per forza, sono l’unica telepate che conoscete! Roland si accorse che gli mancavano le frecciatine tra i due giovani e persino le frasi sconclusionate dell’Ingegnere. – Gli altri? L’espressione rabbuiata di Kay indicava chiaramente che le cose non erano
andate bene da quando si erano separati. – Non ne ho idea. Li stiamo cercando, ma questo posto è immenso. Potremmo girare per giorni e giorni senza incontrarci – fece una pausa – Sempre che ci sia rimasto qualcuno da incontrare. – Il cd sta bene? – si intromise Samuel, sollecito – E le periferiche di archiviazione di massa? Roland controllò la custodia. Era al suo posto. Ovvio, tutte quelle disavventure erano successe solo nella sua mente. Eppure ancora dava qualche colpo di tosse, con la sensazione di avere acqua nei polmoni. – Stanno bene, grazie – accennò un sorriso – E sono pronte per essere lette. Decisero di spostarsi, nel caso in cui i robot avessero sentito lo sparo e arrivassero a controllare. Quando furono abbastanza distanti, si fermarono a riposare. Roland era esausto, mentalmente e fisicamente, ma non rinunciava al suo progetto. Trovare la Macchina del ato. Si sistemarono in una stanza fredda. C’era un tavolo completamente di metallo, un lavandino a lato e quella che sembrava una bilancia a piatti. Una grossa bocchetta in alto, sull’angolo, si avvitava nel buio e dava l’idea di un condotto di areazione. Kay esaminò il tavolo, mentre gli altri si accomodavano sul pavimento. Era lungo e stretto, come per lasciare spazio ad una persona sdraiata. Non c’era polvere, come se fosse stato usato negli ultimi tempi. In una piega del metallo, c’era una crosta rossastra. Sangue essiccato. Il giovane pensò bene di lasciar cadere il discorso con Miris. Sembrava già abbastanza intimorita da quell’inusuale mobile. Si era sistemata dalla parte opposta della stanza, come se percepisse qualcosa. Probabilmente era così, anche se la ragazza non ne era consapevole. La sua telepatia sfiorava un’empatia estrema. Kay pensava soltanto che qualcuno avrebbe pagato per quel sangue e per quello
dei suoi compagni. Parlarono un po’. Si erano separati da poco più di ventiquattro ore, ma sembrava fossero ati anni. Samuel Barni si immerse in una fitta conversazione con Roland, l’unico che riuscisse a seguire i suoi termini tecnici, e poi con se stesso quando anche il Chimerico desistette. Infine, miracolosamente, anche lui si mise a sbadigliare. Roland si ò una mano sulla faccia. Avvertiva ancora quel leggero malessere e di tanto in tanto macchie luminose gli esplodevano davanti agli occhi, come se la sua retina si fosse assuefatta agli ologrammi e, in loro mancanza, cercasse di ricrearli autonomamente. Anche i colori e le immagini potevano dare dipendenza. Mentale, più che fisica, ma sempre di dipendenza si trattava. Era difficile riadattarsi alla luminosità giallastra che sfregiava i corridoi e gli angoli tutti uguali tra loro. Miris gli rivolse un’occhiata preoccupata. – Credo che dovresti riposare – disse. Roland rispose con un sorriso tirato. – Sognerei di nuovo quelle immagini, lo sento. Si sono impresse nella mia mente. Ci vorrà un po’ prima che riesca a liberarmene. – E così in ato riuscivano a ingannare la mente – Samuel non coglieva il malessere del Chimerico, e comunque era un dettaglio secondario rispetto alla grandiosità della scoperta – Chissà se qualcuno si è mai perso in quest’inganno, fino a considerarlo realtà per sempre. – Meglio non pensarci – Roland rabbrividì involontariamente. Probabilmente c’era andato vicino. Cosa gli sarebbe accaduto, se Kay e gli altri non lo avessero richiamato indietro? Per quanto tempo sarebbe rimasto prigioniero là dentro, alla mercé di chiunque avesse ordito quella trappola? Avrebbe continuato a scappare, combattere e morire fino allo sfinimento. Che razza di vita era? Solo una menzogna. Non capiva se le immagini olografiche erano casuali o se nascondevano un significato più subdolo e sottile. Lo avevano spinto a provare emozioni estreme, sfruttare i suoi poteri…
Roland aveva l’impressione di aver fatto da cavia. Si sistemò con la schiena contro la parete, con uno sbadiglio sospirante. La testa aveva smesso di pulsargli, ma ancora avvertiva un ronzio nelle orecchie. – Vorrei poter dormire – mormorò – Ma dubito di riuscirci. E poi, devo pensare al cd, alla Macchina… – aveva così tanti pensieri che si confondevano in uno sfarfallio stroboscopico. Miris si schiarì la voce. – Posso? – domandò soltanto. Roland corrugò la fronte quando la ragazza tese la mano, ma si limitò ad annuire. Le sue dita erano fresche, gli davano sollievo. Avvertì il ronzio attenuarsi, i colori dei pensieri schiarirsi pian piano, mentre rallentavano la loro corsa. Rilassò le membra e il respiro tornò lento, regolare, profondo. Le fatiche delle ultime ore scivolarono via, lasciando soltanto una stanchezza reale e quasi dolce nella sua profondità. Lasciò che lo abbracciasse, pur con sorpresa mista a meraviglia. Una parte di lui provò a ribellarsi. Dormi. Sussurrò la voce nella sua testa. Non sei solo. Puoi chiudere gli occhi. Roland lo fece. Kay vide che la testa del Chimerico si piegava di lato, abbandonandosi sulla spalla. Il volto si rilassava tra le braccia di un sonno profondo e senza sogni. Lo invidiò. Sentiva che quel gruppo era sotto la sua responsabilità. Una sensazione strana per un Reietto che per tutta la vita aveva pensato solo a se stesso. Miris si staccò da Roland, lasciandosi cadere indietro sul fondoschiena e sui gomiti. Emise un soffio rumoroso. – Starà tranquillo – annunciò. Samuel si era spostato, badando bene a non sfiorare quella ragazza che sapeva addormentare con il tocco. – Certo che ogni volta ci sorprendi con un trucco nuovo – commentò – Mi chiedo: è il tuo potere che si evolve nel tempo o la mutazione ti rende fin dalla nascita potenzialmente in grado di compiere queste cose, anche se lo scopri pian piano? Sarà a livello genetico o epigenetico? Dovresti farti esaminare le cellule
del sangue. Non è il mio campo, ma sono sicuro che Florenzia ne sarebbe ben lieta, considerando gli studi che sta portando avanti insieme a Radamante… Miris rabbrividì. Suo padre le avrebbe tolto tutto il sangue, se solo avesse pensato che fosse utile per i suoi studi. Per mantenere la razza perfetta che sognava tanto. – Nessun essere, umano o Chimerico che sia, dovrebbe fare da cavia – mormorò, abbassando gli occhi. Samuel scrollò le spalle. – E allora come fa la ricerca ad andare avanti? Ragazzi, voi cercate le risposte in un ato idealizzato. Come credete che gli uomini del mondo antico abbiamo compiuto le loro scoperte? Da dove derivano le loro conoscenze? – Non a scapito della dignità delle persone – ribatté Miris – Altrimenti saremmo soltanto macchine incapaci di provare emozioni – e non poté fare a meno di considerare che in quel modo sarebbe stato molto più facile. Kay si alzò, sistemandosi le armi a tracolla. – Piantatela con queste speculazioni pseudofilosofiche, abbiamo problemi ben più urgenti di cui preoccuparci. Vedete di riposarvi, decidete chi fa il primo turno di guardia. A parte Roland, ovviamente. Vado a dare un’occhiata nei dintorni, per capire dove siamo finiti – dopo un attimo di esitazione, si chinò per sfiorare la fronte di Miris con un bacio – Tornerò presto. La ragazza si imporporò. – Ti aspetto – gettò un’occhiata a Samuel, temendo che avesse qualcosa da commentare. Ma l’Ingegnere non avrebbe notato neppure se si fossero baciati nudi in mezzo alla stanza, a meno di urtarlo nell’atto. Stava esaminando un occhio luminoso vicino alla soglia, borbottando tra sé. Miris colse soltanto qualche parola spezzata. – Posizione… controllo… fotocellula…? – Come dici, scusa? Samuel Barni scosse la testa.
– Sto riflettendo, questa tecnologia è molto diversa dalla nostra… ma adesso sono troppo stanco per venirne a capo. Ti dispiace se fai tu il primo turno? – No, affatto – Miris si sistemò a gambe incrociate, in modo da guardare verso la porta da cui era uscito Kay. Era incredibile come si fosse abituata alla sua presenza rassicurante. Senza di lui avvertiva una sorta di vuoto. Ed era strano, visto che ancora non riusciva a formare alcun legame con la sua mente. Si prese le caviglie con le mani, in modo che le suole delle scarpe si baciassero. Fissò la punta dei piedi senza vederla. Samuel si era sdraiato vicino a Roland, di lato, coprendosi il volto con gli avambracci. Non era facile dormire con quella luce costante e non avevano idea di come spegnerla. Cioè, Kay di certo l’aveva, ma non era attuabile frantumare tutti i vetri con la pistola. Avrebbero sprecato munizioni, oltre a svelare a tutti la loro presenza. Miris era certa che il loro nemico, chiunque fosse, sapesse esattamente la loro posizione. La sensazione di essere osservata divenne più forte. La ragazza si dimenò a disagio, si guardò intorno. Nulla, a parte le luci ammiccanti. Fredde, metalliche, mute. Ombre ricacciate negli angoli in agguato. Il condotto di areazione era una gola oscura e insondabile. Il ronzio di quell’edificio che pareva vivo si alzava e si abbassava ritmicamente. Un rumore improvviso la fece trasalire e per poco non gridò. Si diede della sciocca quando si accorse che era il russare di Samuel, che si era girato supino, le mani ancora sugli occhi, e ronfava a bocca aperta, con un filo di bava che gli finiva sulla barba. Miris accennò un sorriso. Tornò a guardarsi intorno. Il tavolo era una presenza inquietante alla sua destra. Era come se da esso si sprigionasse un’aura di gelo. Senso di morte. Miris sentiva che su quella lastra di metallo c’erano stati molti cadaveri. Inspirò profondamente. Un cimitero. Un obitorio. Il raspare ovattato le mozzò il respiro. Si volse indietro, sperando che si trattasse di Samuel che si agitava nel sonno. Era immobile. Tralci di sogni di un grigio scuro, popolati da robot e olo-schermi frutto della sua fantasia sfrenata. Roland giaceva dove si era addormentato, ignaro di quanto li circondava, avvolto in un bozzolo di clemente azzurro.
Pur seduta ad ascoltare i loro sogni, Miris si sentiva sola. Fissò la porta e il corridoio illuminato oltre di essa. Quanto ci metteva Kay? Da quanto era partito? Minuti? Ore? Non importava, voleva soltanto che tornasse presto. Avvertiva un senso di minaccia crescente. Il raspare si ripeté. Non capiva da dove provenisse. I suoni rimbombavano da una parete all’altra, confondendola. Pareva dentro al muro. Miris deglutì, stringendo l’elsa del pugnale. Kay aveva insistito perché continuasse a tenerlo, ma la ragazza lo reputava inutile. Cosa poteva contro le giunture metalliche di un robot? Considerò se svegliare gli altri. Per cosa? Per un rumore forse frutto della sua immaginazione? Avevano bisogno di dormire. Anche lei. Doveva essere la stanchezza a giocarle brutti scherzi. Un frusciare ruvido. Qualcosa strisciato sulla parete di metallo. Il cuore di Miris aumentò i battiti, la tensione la tratteneva come una marionetta nelle mani di un burattinaio folle. Adesso la direzione era più chiara, il rumore proveniva da oltre la porta scorrevole. Un ansito. Miris si sollevò facendo leva con il braccio. Le gambe si rifiutavano di muoversi. – C’è… c’è nessuno? – domandò, ma con una voce così flebile che stentò a udirsi lei stessa. Snudò il pugnale. La sua unica arma di difesa. Fece un o. Il palmo era coperto di sudore freddo e l’elsa cercava di sfuggirle. Questa volta l’ansito si tramutò in parole distinguibili. Pronunciavano un nome. Lo invocavano. – Miris… La ragazza sbatté le palpebre, confusa. Le pareva di conoscere quella voce… d’impulso varcò la soglia. Si sentì afferrare per le spalle e, prima che potesse gridare, qualcuno le tappò la bocca con una mano. Una mano umana, niente di metallico. Non era un robot.
Miris avrebbe pianto per il sollievo. – Troy – mugolò tra le labbra. – Shh – il respiro del Sacerdote le sfiorò il collo, gentile e familiare – Sì, sono io. Non gridare, ti prego. Adesso ti libero! La lasciò andare. Miris si volse a guardarlo. Era senza casco, il volto pallido ed emaciato, la tuta sporca di polvere, ma non vedeva ferite sul suo corpo. – Stai bene? Non ti hanno fatto del male? – Sto bene – il sorriso che voleva essere rassicurante si piegò in una smorfia – Più o meno. Mi hanno braccato, ma sono riuscito a seminarli. – Gli altri? Il Sacerdote scosse la testa. – Non ho trovato nessuno, temo che siano tutti morti. – Io sono con Roland, Samuel e Kay… – Il Reietto? – Troy inarcò un sopracciglio – Beh, mi dispiace che tu abbia dovuto sopportare la sua compagnia, ma adesso finalmente siamo insieme – si fece più vicino – Non hai idea di quanto mi sei mancata! Era sincero, comprese Miris, scrutandolo. L’aveva cercata fino a quel momento. Mentre lei si addormentava stretta a Kay. Si sentì un verme. Che genere di ragazza si dimenticava del fidanzato, gettandosi tra le braccia del primo uomo che aveva accanto? – Dov’è ora il Reietto? – Troy si guardò intorno, con una punta di impazienza. Forse di nervosismo. Era naturale, dopo quello che aveva ato. – È andato a controllare la zona. Tornerà tra poco – Miris si accorse di stare ancora parlando sottovoce, imitando il Sacerdote. Questi annuì. – Bene, allora abbiamo un po’ di tempo – commentò, con un sorriso. La ragazza fece d’istinto un o indietro. – Per cosa?
Troy non rispose. La baciò di slancio e Miris lesse la risposta nella sua mente. Una proposta molto seducente. Si staccò, riprendendo fiato. – Non credo sia il caso. Non adesso. Sto facendo il turno di guardia. Dovrei svegliare Samuel o Roland, spiegare che… – Spiegare cosa? Si sentì avvampare. – Hai detto che Kay è qui vicino. Quindi non corrono alcun pericolo – obiettò Troy – Non visto nessun robot da queste parti. La zona è sicura. Tutta per noi. – Credo comunque che sia il caso di avvisarli. Saranno contenti di sapere che sei ancora vivo… – non poté terminare, Troy la interruppe baciandola di nuovo, con trasporto. Riversando su di lei i pensieri che gli ronzavano in testa. L’ho cercata tanto… desiderio, paura, calore che scende… le sue labbra… ho bisogno di lei e dei suoi poteri… bisogno, di nuovo desiderio… Miris ansimò, lottando per schiarire la mente, mentre le reazioni del suo corpo la confondevano. Non capiva da dove partissero. Erano sue o un riflesso della ionalità che scaturiva dal fidanzato? Una parte di lei avvertiva che c’era qualcosa di strano, che Troy era fin troppo ardente, data la situazione, ma la sua mente leggeva chiaramente i pensieri del Sacerdote. Non le lasciavano spazio a dubbi. La voleva. Miris cercava di capire cosa volesse lei. Aveva il respiro affannoso quando Troy le lasciò il tempo per non soffocare. Sorrideva. – Solo per poco – mormorò – Insieme. Fidati di me. Miris si trovò ad annuire. Si lasciò prendere per mano e condurre a o felpato lungo il corridoio. Perché facevano così attenzione se la zona era sicura? Il contatto con Troy continuava a trasmetterle sensazioni rassicuranti e calde, ma nel petto il cuore le batteva con violenza, in un protesta pulsante. Non capiva. – Perché ci stiamo allontanando così tanto? – provò a domandare. Il Sacerdote non rispose e Miris non poté fare altro che seguirlo.
Percorsero in fretta un corridoio, ne imboccarono un altro, fino a giungere a un pianerottolo. Miris faticava a orientarsi. Erano già ati di là? O era soltanto uno spazio identico a tanti altri? Un elevatore attendeva immobile, solo la flebile luce sul pulsante di chiamata indicava che era ancora funzionante. – Troy, fermati – la ragazza si impuntò – Ci stiamo allontanando troppo! – Hai ragione – il Sacerdote la circondò con le braccia – Qui va benissimo. Se possibile, il bacio fu ancora più travolgente di prima. Miris si sentì affogare in quella miriade di sensazioni e pensieri che si mischiavano e le venivano lanciati contro come dardi. Facevano quasi male. Troy pensava solo a lei, al suo corpo, ai suoi poteri, al bisogno che aveva di lei… Erano fidanzati. Era giusto in quel modo. E allora perché quel senso di inquietudine? Si sentì spingere, la parete era scomparsa alle sue spalle. Perché non era una parete, ma le porte dell’elevatore. Si erano aperte. Un luogo più intimo… quasi urlò nella sua mente Troy, trascinandola nell’elevatore. Confusamente, Miris sentì le porte di metallo chiudersi in un ronzio. Lo stomaco le rivelò che si stavano muovendo. Stavano scendendo. Tra un bacio e l’altro, Miris si trovò a pensare agli altri rimasti indifesi, a Kay che doveva essersi accorto della sua scomparsa ed era preoccupato per lei… – Troy, perché stiamo andando giù? – provò a districarsi dal corpo del Sacerdote. Nell’elevatore l’unica luce era la spia intorno al cerchio con un numero. “–4” – Devo aver urtato qualche pulsante – ansimò l’uomo, stringendole il seno – Ti amo. Sì, Miris lo sapeva. Era scritto nella mente del Sacerdote a caratteri cubitali. Tutto chiaro, semplice.
Eppure nel petto aveva paura. Non aveva senso. La mente le imponeva di fidarsi e non aveva motivo di dubitarne… Un motivo c’era. Un consiglio di qualcuno di importante. Non basarti solo su quello che ti dice la mente. Ascolta cosa ne pensa anche il cuore. Le parole di Chrisandra fecero breccia nella sua sicurezza, facendola vacillare. Miris si concentrò, scrutando più a fondo nell’animo del Sacerdote. Sulla superficie galleggiavano pensieri luminosi, pieni di amore, ma erano soltanto teli gettati a ricoprire quello che c’era sotto. Miris, sfruttando la padronanza sulla telepatia acquisita con Kiara, li squarciò e guardò oltre. In un lampo tutto le fu chiaro. E terribile. Troy aveva provato disprezzo per lei quando aveva capito che era una Chimerica. Voleva rompere il contratto di fidanzamento, ma poi ci aveva ripensato. In fondo, la telepatia era un potere utile per chiunque avesse saputo sfruttarlo. Alaric non era il solo a volerlo per sè. Permetteva di cogliere le intenzioni e i pensieri di chi era vicino. Forse poteva anche modificarli a proprio vantaggio, costringendo la gente ad agire secondo le sue direttive. Sull’elevatore per salire in Superficie ne aveva avuto la conferma. E aveva deciso di cogliere l’occasione. Delusa. Con quel potere al suo servizio poteva diventare capo della Corporazione, Triumviro e - perché no? - persino Autocrate. Fuggendo nei sotterranei dell’edificio, si era rimproverato di essersi lasciato sfuggire quella miniera di potere. Ne aveva bisogno. Altrimenti la Luce l’avrebbe ucciso. L’aveva ricercata e condotta con sé, confondendola con pensieri costruiti ad arte. Non era stato difficile ingannarla, lei si era limitata a sbirciare le pieghe superficiali della sua mente. Quanto era sciocca! Chiunque, conoscendo il suo potere, poteva nascondersi dietro cartelloni falsi, facendole credere quello che
voleva. Superficiale. E adesso l’aveva condotta esattamente dove le serviva. Miris aveva le lacrime agli occhi, quando spinse via Troy. Eppure sapeva che il Sacerdote aveva ragione. Era stata una sciocca. Una sciocca superficiale, accecata da un potere che aveva sempre trascurato, affidandosene senza capacità critica. Così facendo, aveva tradito i suoi compagni e forse perso ogni possibilità di rivederli. Il dolore che provava dentro era così grande che quasi non percepì la sottile puntura dell’ago sul collo. Le sue lacrime andarono a bagnare la siringa che sprofondava nella sua pelle, cercando la vena. Troy stava iniettando un liquido incolore. – Perché?– mormorò Miris, sobbalzando quando l’elevatore si fermò con un contraccolpo. La spia luminosa gridava un avvertimento, tagliata dalla sottile striscia di metallo che indicava il piano. “–4” Il numero cominciò a sfaldarsi in tanti punti sfocati. La ragazza sbatté le palpebre. Si sentì mancare e Troy fu rapido a sostenerla, per evitare che si fe male. – Attenta – le mormorò all’orecchio – Devi essere illesa, mi ha detto – un sospiro di rammarico – Uno spreco. Avrei preferito sfruttare in un altro modo le tue doti da mutata, ma mi sei servita comunque. Miris avrebbe voluto colpirlo con uno schiaffo, ma non aveva la forza di alzare il braccio. Non aveva la forza per far nulla. Soltanto muovere le labbra, impercettibilmente. – Perché? In qualche modo Troy riuscì a sentirla comunque. – Perché? Per salvarmi. Voleva un Chimerico. La tua vita in cambio della mia.
Peccato, ti amavo… Miris cercò di scuotere la testa. Si sbagliava. Non aveva mai amato lei, ma ciò che poteva ottenere da lei. Prima uno status sociale migliore, oltre al suo corpo. Poi i suoi poteri. Non era Troy ad amarla davvero. E lei era stata così sciocca da crederlo. Le porte dell’elevatore cominciarono ad aprirsi. Una figura si stagliava sulla soglia. Miris non riusciva a metterla a fuoco. Era un vortice che si disfaceva in gocce di luce accecanti. – Te l’ho portata – stava dicendo il Sacerdote – Secondo il patto. Si sentì sollevare e adagiare su qualcosa di freddo. Troy continuava a parlare, con maggior enfasi. – Ho fatto come mi hai detto. Adesso lasciami libero. – Al tempo – replicò una voce distratta, come se quelle implorazioni non la riguardassero – Una Chimerica in ottimo stato… – Avevi promesso! – la voce di Troy era venata di isteria. Stava gridando, eppure Miris la sentiva sempre più lontano. L’ultima cosa che vide fu una luce senza colore, mentre si aggrappava all’unico pensiero coerente in una mente che si frantumava. Kay, perdonami…
51
– Dov’è Miris? – tuonò Kay, afferrando l’Ingegnere per le spalle e scuotendolo rudemente. Samuel si aggiustò gli occhiali sul naso. – Non lo so, è almeno la quinta volta che te lo ripeto. NON-LO-SO! – scandì ogni parola – Sono stato chiaro adesso? E smettila di urlarmi contro, non sono sordo. Chiederlo con un tono più alto non ti aiuterà a trovare la risposta. Kay emise un ringhio inarticolato. Lo lasciò andare con una spinta, alzandosi in piedi e prendendo a misurare la stanza a lunghi i. – Dannazione, non posso lasciarla sola un secondo – sferrò un calcio a un sensore luminoso, frantumandolo – Dove sarà finita? – Calmati – Roland si sollevò a fatica – Urlare non ti servirà. Kay poggiò la fronte sul freddo metallo, inspirando profondamente. Aveva perso il controllo. Poteva dimostrarsi un errore mortale in quel luogo. Ma quando si trattava della ragazza, ogni altro pensiero ava in secondo piano. Il giovane non sapeva da quando fosse così. Lo era e basta. Doveva ritrovarla. – D’accordo – esclamò, lottando per rimettere tutti i freni al loro posto. Era di nuovo un Cacciatore, con uno scopo da perseguire. – Ragioniamo con calma. Chi l’ha vista per ultimo? – Io – Samuel alzò la mano, come per confermare la propria presenza a un appello durante la lezione – Ci siamo accordati per il turno di guardia. Quando mi sono sdraiato, lei era seduta là – indicò un punto nel pavimento. Kay andò ad esaminarlo. Un’impronta nella polvere. Confermava le parole dell’Ingegnere. – E poi?
– E poi basta – Samuel si strinse nelle spalle – Mi sono addormentato, finché non sei arrivato tu urlando come un matto. – Non hai sentito nulla? – Kay era frustrato. – No. – Neppure io – aggiunse Roland – Non credo che la ragazza sia stata attaccata. Nessun rumore, nessun segno di lotta. E poi perché lasciare in vita noi, che stavamo dormendo inermi? Kay annuì. Le parole del Chimerico erano sensate e lasciavano solo un’altra possibile spiegazione: Miris si era allontanata di spontanea volontà. Ma perché? – Forse ha lasciato qualche traccia, potremmo seguirla… – stava dicendo Roland, quando improvviso si bloccò – Avete sentito? Kay era già in azione. Si voltò e sparò. Il robot sulla soglia fu scagliato indietro dalla scarica di energia e andò a intralciare l’avanzata dei compagni che stavano sopraggiungendo. Un agguato. Sapevano della loro presenza là. Chi li controllava sapeva tutto. – Roland – il giovane lanciò il fucile al Chimerico, che lo afferrò al volo – Anche se non sei un guerriero, come te la cavi in quanto a mira? Roland caricò e fece fuoco. – È il momento per scoprirlo, giusto? Samuel fu pronto a balzare dietro al tavolo, riparandosi dalla mischia che aveva invaso la stanza. Era scocciato. Si era appena svegliato e tutta quella confusione gli stava facendo venire il mal di testa. Si accucciò, stringendosi la borsa al petto. Non avrebbe abbandonato i suoi tesori per nulla al mondo. Si accorse che i robot non lo avevano degnato di uno sguardo. Puntavano tutti su Roland, come mosche attratte dagli escrementi appena emessi. Gli ronzavano intorno, mentre il Chimerico e Kay si facevano strada a colpi di energia radiante.
Quando fossero finite le munizioni… Samuel sapeva di non essere un guerriero. La sua unica esperienza con il fucile al plasma lo aveva fatto volare indietro di una decina di i e gli aveva slogato la spalla. Non ci teneva a ripeterla. Non era un tipo fatto per l’azione, lui. Eppure era convinto di poter giocare la sua parte in quella vicenda. Non lì, però. – Morto non servo a nessuno – considerò, con senso pratico. Il mondo aveva ancora bisogno del suo genio, non poteva farsi uccidere. – E adesso sono soltanto d’intralcio. Convinto della propria importanza, prese a gattonare indietro, lungo la parete. Il condotto di areazione si spalancava a quasi due metri dal suolo. La grata che lo chiudeva era rugginosa, a piccole maglie. Leccandosi le labbra, Samuel si sollevò in punta di piedi, schiacciandosi contro il muro nella speranza di non essere colpito da qualche proiettile vagante. Le dita sporche si infilarono nei piccoli quadrati. Si spezzò un’unghia. Represse un’imprecazione. Polvere e ruggine gli sfarinavano le mani, mentre cercava un appiglio solido. Il trambusto dietro di lui non lo aiutava a concentrarsi. – E fate un po’ più piano! – borbottò tra sé. Ecco, c’era quasi. Piegò le dita nella grata, fino a mettere in evidenza i tendini, e tirò. Non successe niente. Samuel rimase attaccato alle maglie, le dita incastrate. In compenso, la grata non si era mossa di un millimetro. – In ato quelli della manutenzione sapevano il fatto loro – dovette ammettere, con una punta di stizza. Sollevò anche l’altra mano. Il ferro gli mordeva la pelle, senza i guanti si sarebbe tagliato. Scricchiolava e si lamentava, gemendo ruggine, ma non si allentava. Samuel cominciò a preoccuparsi. Là, mani in alto, incastrato, di spalle, era un bersaglio perfetto. Per fortuna aveva con sé la sua borsa, con tutto l’indispensabile. Rovistò con una mano sola, facendo un rapido inventario. Cacciaviti, chiodi, viti, rotelle, sbarre
di alluminio, un paio di proiettili di tungsteno rubati ad un Cacciatore, il droide giocattolo in miniatura che doveva regalare al nipote per il compleanno (ma non era già ato? Forse se ne era dimenticato), un vecchio pezzo di fungo che doveva essere là da una vita, vista che stava marcendo… – Ecco qua – esclamò, tirando fuori una tenaglia – Che bello essere ordinati! Usarla con una mano sola non era facile come sembrava. Samuel la incastrò tra le maglie e fece forza. La grata cominciò a piegarsi e riuscì a liberare anche l’altra mano. Ansimò per lo sforzo, sentendo le vene degli occhi gonfiarsi. – Andiamo, rompiti! Uno schiocco secco. La grata cadde e per poco non gli finì in testa, rischiando di svolgere egregiamente il compito che i robot non avevano ancora portato a termine. Samuel fu rapido a spostarsi, evitandola per un soffio. Gli diede un calcio, tronfio della propria vittoria contro quel pezzo di ferro. In tutta fretta, issò nel condotto la borsa e poi si aggrappò con entrambe le mani. Si diede lo slancio e si tirò su a fatica, scalciando e sbuffando. Per fortuna era magro. Il condotto di areazione era completamente buio e sapeva di umidità. Samuel storse il naso, starnutendo, mentre una ragnatela gli si appiccicava in faccia. Se la strappò via con il dorso della mano. Gli rimase qualche filo fastidioso sulla pelle, ma non ci fece caso. Aveva trovato qualcosa di molto interessante. Era affascinato dai tubi che gli scorrevano accanto. Spire di metallo che si snodavano scure, cavi rivestiti e perfettamente isolati, condotti in cui fluiva un’energia chiara e venata di giallo. Il rumore alle sue spalle perse significato. Li osservò, li sfiorò con le dita, mentre era costretto a strisciare bocconi in quello spazio ristretto tra polvere e ragnatele. Erano caldi, funzionanti. E andavano in una direzione ben precisa, come vene verso un cuore. Dopo un’ultima occhiata alla stanza dove i compagni combattevano per salvarsi, Samuel si tirò la borsa dietro e cominciò a seguire i cavi.
52
Era buio. Qualcosa le copriva gli occhi, serrandoli così forte da farle male. Neppure una stilla di luce riusciva a filtrare. Per quanto si forzasse non vedeva nulla. Solo buio, e una solitudine ancora più nera. Un ronzio continuo le martoriava le orecchie, come se una vespa fosse intrappolata là dentro e si accanisse in lei nel tentativo di uscire. No, si corresse, non era un suono naturale. Era penetrante. Come unghie che grattavano sul metallo, uno scartavetrare che le avrebbe fatto accapponare la pelle, se solo avesse avuto una percezione precisa del proprio corpo. Si sentiva aleggiare nel vuoto. All’inizio ricordava gli aghi nella carne, i cavi piedi di liquidi, il tubo che le era stato infilato a forza in bocca. Pian piano, però, si erano disgregati, di pari o con i suoi pensieri coerenti. Il dolore era soltanto un lieve fastidio, poi una tiepida indifferenza. Infine il nulla. Era stata annullata, ridotta a una mente che lottava per trovare un appiglio in quel naufragio senza senso. Non vedeva, non udiva, non percepiva nulla. Ogni senso le era stato sottratto, defraudandola della fisicità. Occhi, orecchie, naso, lingua, pelle. Non le appartenevano più. Deprivazione sensoriale. Le rimaneva soltanto la mente, che cominciava a mordere le sbarre. Una fiera in gabbia, rimasta senza cibo, che ruggiva e cercava di liberarsi. Aveva fame, un disperato bisogno di nutrirsi. Bramava colori e immagini, suoni e rumori, il contatto con il pavimento, qualcosa o qualcuno, un qualsiasi sapore sulla lingua, un odore, anche il più rivoltante.
Altrimenti era costretta a crearseli. A impazzire. Non voglio. Avrebbe pianto, se avesse avuto occhi per farlo. Avrebbe voluto urlare, se avesse avuto una bocca. E probabilmente non si sarebbe neppure udita. Quello scartavetrare ripetitivo di una radio che non trova le frequenze la tormentava con la sua ossessività. Non c’era luogo dove scappare. C’erano soltanto lei e la sua mente. La sua mente e lei. Aiuto! In preda alla disperazione, la sua mente ruppe gli argini e fuoriuscì a cercare un qualsiasi contatto, perché senza non poteva sopravvivere conservando la sanità. Corse lungo cavi di metallo e tubi di plastica, giù da un tavolo, lungo il pavimento, fino ad aggrapparsi a qualcosa. A qualcuno. – Interessante. Miris sfiorò un’altra identità e così ritrovò la sua. Era di nuovo un’individualità, pur sfumata, che si fronteggiava con una mente estranea. Non sapeva se fosse ostile o amichevole. Più che altro, sembrava curiosamente compiaciuta. Chi sei? Gettò la domanda e attese una risposta. Chi era che viveva sotto quelle rovine? Che controllava i robot? Che era responsabile di tutto quello? Un solo nome. – Vorax. Vorax controllò la Chimerica ancora per qualche istante, monitorando i suoi
parametri vitali. Stabili, per il momento. Battito regolare, forse un po’ rapido. Per il respiro non si preoccupava, la stava ventilando con la pompa meccanica. Poteva mantenerla in quello stato per anni. Si augurava che il suo studio durasse molto meno. Vorax si staccò dallo schermo della Macchina, che lui chiamava computer, e si massaggiò la tempia. L’ingerenza di quella ragazza era stata fastidiosa e l’aveva costretto ad aumentare la dose di anestetico-amnesico rispetto al miorilassante. Aveva ancora una mano sul pulsante della pompa di erogazione. Sul display era indicata la dose precisa, mescolata con abbondante soluzione fisiologica. Non voleva che il corpo della cavia ne risentisse. Lo studio era appena cominciato e si mostrava particolarmente promettente. Si alzò, si lisciò il camice bianco che gli scendeva fino a sotto il ginocchio. Un bottone era saltato, notò, avrebbe dovuto ricucirlo. O forse no. Gli dava un aspetto più vissuto, più professionale. Era fibra sintetica, la vecchia stoffa non esisteva da anni. Ma a Vorax quell’abbigliamento piaceva. Era usato dagli uomini del ato che occupavano una precisa posizione sociale. Esistevano vari termini per definirli: medici, ricercatori, biologi, chimici, ingegneri… Il preferito di Vorax era “scienziato”, perché riassumeva in sé molti significati. Si sistemò davanti al microscopio e posizionò il vetrino in cui aveva strisciato il sangue della sua cavia attuale. Aveva già prelevato una discreta quantità, badando bene a non esagerare e così compromettere la stabilità emodinamica della cavia. Lo stava centrifugando, per isolare i linfociti e metterli in coltura, così da studiare con calma i cromosomi e tutto il patrimonio genetico. Nel frattempo, aveva intenzione di capire fino a che punto si spingesse il potere della Chimerica. Ad ogni genotipo, cioè complesso di geni, corrispondeva un fenotipo, cioè la manifestazione visibile di questi. Vorax aumentò l’ingrandimento, mentre rifletteva. Una volta individuata la mutazione responsabile della telepatia, o per lo meno della telepatia in quella forma, il o successivo sarebbe stata indurla sperimentalmente in colture cellulari. E poi - perché no? - in una nuova forma di vita.
Creare la vita. Era stato il sogno degli uomini del ato. Avevano fallito, riuscendo soltanto a creare delle macchine surrogate, dotate di programmi perfetti più delle menti dei loro creatori. Ma pur sempre delle macchine. Vorax non voleva una macchina perfetta, ma una forma di vita perfetta. Aveva persino accarezzato l’idea di fondere uomo e macchina, carne e metallo. Dopo l’intrusione nel suo centro di ricerca, aveva deciso di tentare. Il suo prototipo aveva superato di gran lunga le aspettative. Il Chimerico del fuoco era stato un’ottima cavia, anche se i robot lo avevano portato in fin di vita e così rovinato da richiedere una ricostruzione decisa. Il suo sangue era già sotto esame e presto avrebbe individuato la mutazione implicata, o le mutazioni, con sonde a immunofluorescenza. Si sfregò le mani. Presto avrebbe avuto in suo possesso anche il Dna di un Chimerico del fulmine. Lo aveva individuato tramite i sensori sparsi dappertutto nell’edificio e al suo esterno. Un soggetto interessante. E facilmente manipolabile. Il cyborg aveva l’ordine di portarglielo, possibilmente vivo. Dai dati in suo possesso, Vorax desumeva che non ci sarebbero stati problemi. Quel Chimerico era impulsivo, irrazionale, ridicolmente prevedibile. Una volta neutralizzato l’elemento “elettricità” con appositi dispositivi isolanti, era del tutto inerme. Aveva raccolto numerosi dati anche sul Chimerico della terra. Grazie agli schermi olografici e al simulatore virtuale, era riuscito a imbrigliare la sua mente e costringerlo a compiere ciò che lui voleva. Appositi sensori gli avevano trasmesso fino a poco prima un flusso di dati eccitanti. Poi di colpo si erano interrotti. Prima che i sensori finissero distrutti, avevano rivelato la presenza di altri intrusi che si erano intromessi nel suo studio. Guastafeste! Vorax li avrebbe sterminati volentieri, ma potevano essere utili. La Chimerica immobilizzata sul tavolo lo era senz’altro. Incredibilmente interessante. Gli altri sarebbero morti in breve, a parte il Chimerico della terra. Lui serviva
vivo. Vorax tornò al computer, studiando i dati raccolti fino a quel momento. Notevoli, non c’era che dire. La mente di quella ragazza era ancora cosciente di sé e si stava muovendo, allargandosi. A quale distanza poteva arrivare? Era il caso di saggiare i suoi limiti di resistenza. E poi andare oltre. La sua ricerca non si fermava. Forse non aveva neppure uno scopo, a parte se stessa. Vorax voleva creare e sperimentare, e da quando aveva trovato quell’edificio del ato, e i segreti che custodiva, ne aveva finalmente la possibilità. Vorax lo scienziato. In realtà c’era un altro appellativo che gli piaceva ancora di più. Vorax il Dio.
53
Starr non era abituato al contatto fisico e trasalì quando Kiara gli sfiorò il braccio. – Pyrgo è vicino, lo sento – gli sussurrò. Pyrgo. Starr socchiuse gli occhi. Non riusciva ancora a credere che quell’essere orribile fosse il suo amico. Eppure ormai lui e la donna avevano ripreso a chiamarlo per nome. In fondo, non combattevano Pyrgo. Combattevano per Pyrgo. La parte di lui che era ancora viva, intrappolata in quel cyborg implacabile. Il resto poteva anche essere metallo freddo e insensibile, tenuto insieme da chissà quale tecnologia, ma la cosa più importante era la mente umana che si dibatteva dentro di esso. Starr tese l’orecchio, cercando di percepire lo sfiato muggente che ormai li perseguitava da un tempo indefinito. Si voltò verso Kiara, in cerca di conforto. Il suo volto ovale era sudato, i capelli lunghi una matassa di nodi e polvere, bruciati alle estremità. La tuta protettiva era strappata in più punti e permetteva di vedere le imbottiture con cui aveva nascosto le sue forme. Starr ancora non capiva come avesse potuto ingannare tutti così a lungo. Perché la gente non era più interessata agli altri. Anche il Chimerico l’aveva guardata più volte, ma senza vederla davvero. Starr non pensava di avere un aspetto migliore. Era esausto, i muscoli gli dolevano per la continua tensione. Erano due animali in fuga da qualcosa che erano costretti ad affrontare. Durante il giorno erano rimasti nella cantina, ma appena era calata la notte avevano ripreso l’eterna corsa contro gambe di metallo che non percepivano la fatica. Era una caccia continua, fatta di avanzate e ritirate, trucchi e sotterfugi. Il cyborg era forte e, attingendo dalla mente e dai ricordi di Pyrgo, un abile
combattente. Per fortuna aveva anche il pessimo senso di orientamento del Chimerico. Sfruttando questa sua debolezza, Kiara e Starr lo avevano condotto in un inseguimento tra le appendici di metallo sporgenti dell’edificio, per poi allontanarsi verso le rovine della città più antica e anche oltre. Era un gioco tra gatto e topo in cui continuamente si scambiavano le parti. A volte era Pyrgo a caricarli, a stanarli con il fuoco, a volte invece erano loro ad attirarlo verso qualche buca o crepaccio, nel tentativo di bloccarlo. Non ci erano riusciti. Starr cominciava a pensare che non ce l’avrebbero mai fatta. Durante il giorno avevano provato a ideare uno straccio di piano, oltre che a riposare a turno. Starr aveva dormito poco e male, nei suoi incubi era inseguito da un cyborg che lanciava fuoco e fulmini. Alla fine si trovava davanti un muro di metallo, troppo alto per saltare. Si voltava per combattere, ma non riusciva più a richiamare il suo potere. Il cyborg lo afferrava per la gola e cominciava a soffocarlo. Starr si dimenava e fissava in faccia il suo nemico. Fissava se stesso. Quando si era svegliato, era già il tramonto. Kiara non l’aveva chiamato per il suo turno. Era appoggiata alla parete, la testa piegata sul petto, ma gli occhi aperti. Stranamente, sembrava meno stanca e più decisa. Forse semplicemente rassegnata. Gli aveva esposto il suo piano. Venendo verso le rovine avevano attraversato un crepaccio pieno di piante velenose. Starr lo ricordava, anche se non vi aveva prestato particolare attenzione. – Lo faremo cadere lì – aveva affermato Kiara, a bassa voce – Forse non sarà sufficiente ad ucciderlo, ma lo danneggerà abbastanza per fermarlo. – E poi? – aveva domandato Starr, guardandola. Kiara aveva stretto il pugno. – Se sarà possibile, gli toglieremo quella barra di metallo dalla testa. Altrimenti
lo uccideremo. Starr aveva annuito. – Credi di farcela? Per tutta risposta la Cacciatrice aveva caricato il fucile e sistemato cerbottana e pugnale a tracolla. E la caccia era ricominciata. Il tempo si era ridotto a una corsa continua per la sopravvivenza. Starr aveva dimenticato il resto del gruppo, i motivi che l’avevano spinto fino a là, la missione affidatagli da Alaric. Appartenevano a un altro mondo, parallelo e inconciliabile. Erano insignificanti nella battaglia ancestrale in cui si era trovato coinvolto. Solo il più forte sopravviveva. E lui puntava a sopravvivere un istante di più, con ostinata determinazione. Kiara era una presenza costante al suo fianco. Non parlava più del minimo indispensabile, si limitava a guidarlo o sparare al cyborg quando si avvicinava. La sua lotta era ben più personale. Non le interessava rimanere in vita, bensì donare la morte all’uomo che aveva amato e che, suo malgrado, amava ancora. Non riusciva a cancellare le proprie emozioni, anche se ormai si stavano accartocciando come foglie in autunno. Odiava quello che era stato fatto a Pyrgo con un’intensità tale che a volte Starr trasaliva, osservando quel volto determinato e quegli occhi che a volte rasentavano la pazzia. Ma non c’era niente di folle nel suo comportamento. Come Cacciatrice, era stata addestrata in ogni tattica di guerriglia e metteva in pratica la sua esperienza con feroce lucidità. Conosceva le abitudini di Pyrgo, i suoi trucchi, le sue strategie, e riusciva ad anticipare le sue mosse. Finché lo avessero tenuto a distanza, in modo che il suo potere fosse inutilizzabile, non avevano nulla da temere. In una pausa, Starr le mise una mano sulla spalla e la costrinse a guardarlo. – Devi promettermi una cosa – le disse, serio – Non lasciare che mi prenda. Se dovessi cadere, uccidimi. Sparami alla testa, danneggia il mio corpo in modo che non sia riutilizzabile – era orribile parlare di “utilizzare” qualcosa di vivo e
umano – Non voglio condividere il suo destino. Kiara annuì. Starr non dubitò neppure per un momento che lo avrebbe fatto. – Grazie. – Non ringraziarmi – la Cacciatrice era affranta. Non piangeva, ma sulle ciglia brillavano lacrime trattenute. – Pyrgo non ti farebbe mai del male. Ti considerava un suo amico, e l’amicizia era sacra per lui. Anche se gli dicevo che eri un pazzo complessato del tutto incontrollabile – accennò un sorriso privo di allegria – Non avrei mai creduto di trovarmi ad affrontare tutto questo proprio con te. Starr rimase qualche istante in silenzio, riflettendo. Non aveva la forza né la volontà per fulminarla per quell’offesa. Aveva ucciso per molto meno. Sospirò. – Neanch’io – una pausa – Avevi ragione, sono un pazzo complessato. Per quello che può valere. Kiara non parve sentirlo. – Sai, Pyrgo era davvero un uomo buono. O un Chimerico buono, come preferisci. Non cambia nulla. Quando non combatteva per Alaric, era gentile e premuroso. E attento. Aveva capito subito che ero una donna, ma non mi aveva smascherata. Mi convocò in privato e mi chiese soltanto il motivo della mia scelta. Lo accettò. Forse fu questo ad attirarmi in lui. Forse… – scosse la testa – E adesso guarda come è stato ridotto. Non lo meritava! – Raramente abbiamo quello che ci meritiamo – mormorò Starr. – Non in questo mondo. Ma ci deve essere un luogo dove vige un briciolo di giustizia. Il Chimerico scrollò le spalle. Non ci credeva. Kiara distolse lo sguardo, deglutendo. – Riesci a capire come si sentirebbe, se comprendesse quello che gli è successo? Quello che è stato obbligato a fare? O forse una parte di lui lo sa. È orribile. Starr capiva benissimo. Soprattutto perché immaginava che la stessa cosa
sarebbe successa a lui, se lo avessero preso vivo. Alla fine giunsero in vista del crepaccio. Adesso non tenevano torce con loro e si muovevano nel buio. Starr si sforzava di mettere i piedi sulle orme di Kiara. – Fai attenzione, non vorrei che finissimo noi nel crepaccio – sbottò. La Cacciatrice non si voltò. – Ti preoccupi per la mia incolumità? – Se cadi e ti ammazzi, mi togli la soddisfazione, no? Hai idea di quanti fulmini in arretrato ti scaglierò, quando tutto questo sarà finito? Anche se non riusciva a guardarla in faccia nel buio, era convinto che la donna accennasse un sorriso. – Attento a non perdere il conto! Non percorsero il crepaccio come all’andata, ma si arrampicarono sulle pareti che lo delimitavano. Erano scoscese e abbastanza alte da rappresentare una caduta letale per la maggior parte degli esseri umani. Forse non per un cyborg. Starr lo fece notare. – Hai un piano migliore? – domandò Kiara, scrutando dall’orlo del dirupo. Il Chimerico non ribatté. – Allora, dove ci appostiamo? Dopo un’ora di marcia trovarono quello che stavano cercando. Una sporgenza rocciosa sull’orlo del dirupo, si allungava nel vuoto per un tratto fino alla parete opposta. C’erano abbastanza pietre per costituire un solido appiglio. Kiara posò lo zaino a terra e cominciò a lavorare alacremente, tirando fuori corde e cerbottana. Assicurò un’estremità a un proiettile di ragnatela espansiva. Starr la osservava. Era incredibile la sua capacità di adattamento ad ogni situazione. Non poteva dire lo stesso della maggior parte degli uomini che aveva conosciuto. Il pensiero non lo infastidiva come avrebbe dovuto. Kiara impiegò tre lanci per agganciare la corda sull’altro lato del crepaccio. Finalmente la ragnatela esplose su una roccia, abbracciandola e incollando a essa anche la fune. Adesso dovevano assicurarla per bene.
– Vado io – annunciò Kiara, mettendosi l’altro rotolo di corda a tracolla. – Perché? – Perché sono più leggera – non attese che Starr replicasse e affrontò quel ponte improvvisato, a forza di braccia. Il Chimerico la osservò mentre dondolava pericolosamente nel vuoto, un pipistrello appeso nel buio, e si scoprì trepidante a sperare che non cadesse. La corda avrebbe retto il suo peso? Era pronto ad afferrare la fune, nel tentativo di frenarne la caduta. Non ce ne fu bisogno. In pochi minuti Kiara fu dall’altra parte e assicurò entrambe le cime. Adesso avevano a disposizione due solidi binari di fune a cui aggrapparsi per attraversare. Avrebbero retto il loro peso. Non quello del cyborg. – Fatto – Kiara lo raggiunse sulla sporgenza e si terse il sudore dalla fronte – Adesso possiamo soltanto aspettare. Contavano sul fatto che nel buio Pyrgo non notasse quel ponte improvvisato. Di certo però avrebbe avuto qualche sospetto quando li avesse trovati pronti a lottare, dopo il lungo inseguimento notturno. Dovevano attirarlo, confonderlo, fare in modo che li seguisse e finisse nel dirupo. Semplice. Forse troppo. Starr si augurava che funzionasse. L’oscurità li favoriva. I vapori malsani si alzavano dal terreno, riempiendo il crepaccio di una nebbia inquietante. Odore di zolfo. Quella ferita nella roccia sembrava una porta per l’inferno. Starr era immobile, tra l’umidità che sgusciava sull’orlo del dirupo in dita bramose e le nuvole che si rincorrevano nel cielo. L’aria era soffocante, densa, tesa. Ne percepiva l’elettricità sulla pelle, la accoglieva con gioia. Tutto era preferibile ai dubbi che lo assalivano, danzando impalpabili in quella foschia. – Funzionerà – si ripeteva. Doveva funzionare. Nel silenzio di quello scenario desolato distinse chiaramente i i del cyborg. Si irrigidì, mentre Kiara al suo fianco mandava un ansito. Tenevano le pistole puntate in avanti e, nel vorticare della nebbia, emettevano scintillii metallici.
Un altro scintillio davanti a loro. – Sta arrivando – annunciò Kiara, anche se non ce n’era bisogno. Il cyborg non si curava di nascondere il proprio arrivo. Emerse dalla foschia con una sorta di grazia meccanica, una visione che scuoteva gli animi e faceva accapponare la pelle. Una figura spettrale e allo stesso tempo inconfondibile. Starr lo fissava con una repulsione tale che gli stringeva lo stomaco in una morsa. L’essere notò la loro presenza e si fermò. La testa ruotava, individuando i bersagli. Sembrava valutare la zona. Nel silenzio il ronzio metallico all’interno di quel corpo ibrido era l’urlo di una vita disprezzata e sfruttata. Il Chimerico sentiva Kiara fremere per la tensione, in attesa del segnale, mentre si spostava di qualche o. Erano d’accordo che Starr avrebbe fatto da esca, dato che il cyborg cercava lui. Dopo qualche finta, si sarebbero dati alla fuga. La creatura si mosse, a o lento. Nella penombra non riuscivano a vedere il suo volto. Potevano fingere che non fosse Pyrgo, ma soltanto una macchina da distruggere. Ma in cuor loro sapevano la verità. Starr si chiese come fosse arrivato a quel punto. Eppure era nato e vissuto per giungere sull’orlo di quel dirupo. Era una sensazione che scaturiva dalle ossa. Cosa sarebbe successo poi, non poteva dirlo. Non era importante. Il ato che Alaric e Roland bramavano era un sogno perduto. Avevano trovato soltanto un incubo. – Ricordati la promessa – sussurrò a Kiara – Non lasciare che mi prenda vivo. – E tu fai lo stesso con me – rispose la Cacciatrice, con espressione decisa, per poi aggiungere, sottovoce – Lo amavo. Starr respirò a fondo e fece fuoco.
54
Kay si appoggiò alla parete, riprendendo fiato. Quando si spostò, il metallo era scurito da una macchia di sangue. – Sei ferito – osservò Roland, avvicinandosi. – Non è nulla – protestò il giovane. – Certo, signor “me la cavo da solo” – il Chimerico ignorò le sue rimostranze – Fa’ vedere! Borbottando, Kay si lasciò esaminare la spalla ferita. – Solo un graffio – ripeté, caparbio – E tu non credere di essere in condizioni migliori! Roland era riuscito a sfruttare il suo potere, rendendo la pelle dura come roccia, ma la tuta protettiva era ammaccata in più punti e il suo volto era sporco di oli e liquidi dei robot. Gli creavano una maschera luccicante in faccia, mischiandosi con il sudore. Erano stati fortunati a cavarsela con così poco. Kay aveva perso il conto di quanti robot avesse abbattuto, entrando e uscendo dalle ombre. I loro sensori non riuscivano a seguirlo e questo gli dava un indiscusso vantaggio. Da parte sua, Roland era resistente a gran parte dei loro colpi. In una tempesta di laser, energia radiante e sfolgorio di lame, erano riusciti ad aprirsi la strada fuori dall’obitorio e correre via. Di nuovo. Kay era stanco di scappare. – Samuel? – domandò, mentre Roland cercava di tamponare la ferita con mezzi di fortuna. Non era profonda.
– Non lo so – il Chimerico scosse la testa – L’ho perso di vista subito all’inizio dello scontro. – Oh, Sammy se la caverà – Kay represse una smorfia – È in gamba, quando si dimentica di fare il pazzo. – A volte i pazzi riescono dove i sani falliscono – Roland desistette, accontentandosi di controllare che la ferita fosse pulita – Senti, qui ho fatto il possibile. Ci vorrebbe l’equipaggiamento di un Sacerdote. Rimasero in silenzio. Quelle parole avevano rievocato il senso di vuoto che li soffocava. Kay serrò il pugno. Miris! – Avevo promesso di proteggerla, Roland – sussurrò, un tremito nella voce. Il Chimerico della terra gli ò una mano intorno alle spalle. – Avanti, ragazzo, hai fatto quello che potevi. E non è detto che sia morta – cercò di incoraggiarlo. – E allora cosa credi che le sia successo? Perché se ne è andata? – Kay non capiva. Era tornato verso l’obitorio per cercare tracce, a costo di affrontare altri nemici, ma erano state cancellate dal aggio dei robot. Miris si era volatilizzata. Roland si accarezzò la barba brizzolata. – Senti, ragazzo, anch’io ero tra le mani dell’artefice di tutto questo. E non mi ha ucciso. Mi ha studiato. Ci sono buone probabilità che Miris subisca la stessa sorte – non era certo che fosse preferibile alla morte, ma quella logica non sarebbe stata d’aiuto – Abbiamo una speranza di ritrovarla ancora viva. Kay non rispose. Si sentiva inutile. Miris si era affidata a lui, e non era stato in grado di proteggerla. E, peggio, non sapeva da dove cominciare a cercarla. Era là dentro, da qualche parte.
Ma dove? Roland lo fissava. – Tieni molto a lei, vero? Kay si limitò ad annuire. – Sai, è da un po’ che volevo dirglielo. Da prima del vostro arrivo all’Alveare. Ho rimandato. Potevo farlo prima di entrare in questo posto, e ho rimandato di nuovo. Ieri, quando eravamo da soli, stavo per dirlo… – la voce gli morì in gola – Questo è il mio rimorso più grande: aver perso l’occasione. Aver perso lei prima di riuscire a parlarle di ciò che mi fa provare. Prese a ricaricare la pistola. Ancora due batterie. Sei colpi. Poi soltanto la fine. – Credevo di aver imparato a vivere come se ogni istante fosse l’ultimo. Ne ero fiero. Ma non è facile come sembra. Ci illudiamo sempre di avere tempo. Tempo per rimediare ai nostri errori. Invece li scontiamo tutti, e il tempo ci tradisce svanendo all’improvviso in una nuvola di polvere. Forse anche gli uomini del ato credevano che avrebbero avuto tempo di rimediare ai loro inquinamenti o alle armi di distruzione di massa che avevano creato. Di difendersi dall’Apocalisse in arrivo. È arrivata e basta, e lascia noi a leccarci le ferite. Forse stiamo mutando e i Chimerici prenderanno il posto degli umani, ma non credo che abbiamo imparato. Siamo sempre uguali. Roland non gli aveva mai sentito pronunciare un discorso così lungo. Sospirò, tenendo la mano sulla sua spalla. – Adesso abbiamo la possibilità di imparare dal ato. Con questi – portò la mano allo zaino con la custodia. – Lo dobbiamo ai nostri compatrioti e ai posteri. Kay emise una risata amara. – Andiamo, Roland, cosa credi che possano cambiare un cd e delle piccole lastre di metallo? – Contengono milioni di informazioni… –Tutte le nozioni che vuoi non basteranno a cambiare il mondo. Roland allargò le braccia, frustrato. La loro missione non era inutile. Non poteva crederlo. Non erano arrivati fino a lì per niente.
– E allora cosa può farlo? – domandò, fissando il compagno. Questi scosse la testa, spingendosi indietro un ciuffo ribelle. Socchiuse gli occhi, poggiando il pugno alla parete. – Pyrgo e Starr. Samuel e Kiar. Tutti i Cacciatori, i Sacerdoti e gli Ingegneri – sollevò lo sguardo – Quegli apparecchi elettronici valevano le loro vite? Valgono la vita di Miris? Questa volta fu Roland a non rispondere. Fino a poco prima avrebbe annuito con decisione. Adesso non ne era più tanto sicuro. Era facile mettere in gioco la propria vita e quella degli altri, quando si era lontani dal pericolo. Gloriarsi della propria forza, quando ancora non si era messa alla prova. Credere di trovare risposte nei segreti del ato, quando non si comprendevano neppure quelli del presente. – La troveremo – disse soltanto. Troy trasalì quando udì il primo sparo. Balzò in piedi, quasi urtando la testa contro il soffitto basso della stanza. Una sorta di ripostiglio rinforzato, anche se in ato doveva trattarsi di qualcosa di completamente diverso, dato il buco che si spalancava nel pavimento. In un altro momento Troy avrebbe riso della comicità della situazione. Era rinchiuso in un ex-cesso. Per lo meno, non avrebbe dovuto convivere con i propri escrementi. Una cosa non da poco, durante una prigionia, anche se la gente tendeva a non pensarci. La scritta WC era sbiadita sulla porta, tracciata con una vernice rossa cupa. Gocce di sangue che colavano rovinate dal tempo. Troy le sfiorò, mentre poggiava un orecchio sulla lastra di metallo. Solo silenzio, e quel ronzio che per le sue orecchie era diventato tale, tanto vi si era abituato. – Che diamine starà facendo quel mostro? – si chiese. Non aveva mantenuto la sua promessa. Era penosamente ovvio. Perché avrebbe
dovuto? Aveva il coltello dalla parte del manico e il Sacerdote si trovava alla sua completa mercé. Aveva sperato di accontentarlo con una Chimerica e guadagnarsi così la sua riconoscenza, ma Vorax lo aveva fatto rinchiudere là dentro da un robot, senza degnarlo più di un’occhiata. Da quel momento sembrava essersi dimenticato di lui, intento a studiare la sua nuova cavia. Troy rifletté che forse era meglio così. Si accucciò sui talloni, cercando di tirarsi su il morale. Per il momento era vivo e nulla lasciava intendere che Vorax volesse ucciderlo. Non tanto perché gli fosse simpatico, semplicemente perché non lo considerava interessante. Solo inferiore. Questo perché anche Vorax era un Chimerico. Troy li maledisse tutti dentro di sé. I suoi guai erano cominciati proprio perché un Chimerico era entrato nella sua vita. Non solo, aveva osato diventare la sua fidanzata, ingannandolo. Si meritava tutti i guai che le erano capitati. Però non riusciva a togliersi dalla mente lo sguardo pieno di dolore e di accusa di Miris, quando le aveva iniettato il farmaco fornito da Vorax. Lo faceva sentire… sporco. Non ce ne era motivo. La ragazza avrebbe fatto lo stesso al suo posto. Erano tutti bravi a parole, ma poi ognuno pugnalava alle spalle il compagno pur di sopravvivere. Sbuffò. Chissà se era ancora viva! Cosa le stava facendo Vorax? Un secondo sparo. Troy sollevò la testa, corrugando la fronte. Sembrava più vicino del precedente. Avrebbe dato un braccio per poter vedere oltre quella lamina di metallo. Là dentro, nella penombra sfregiata soltanto da una falce di luce rossastra proveniente dal soffitto, gli sembrava di essere cieco. Ricordava pochi elementi di quel luogo, in mezzo alla luce che lo aveva quasi accecato. Tavoli, scaffali, un grosso cerchio di metallo simile all’imbocco di una caverna, strani macchinari che lo sconcertavano. Si lasciò scivolare sul fondoschiena, con un grugnito. Il suo coccige protestò con una fitta. Di nuovo Troy imprecò. Non si sentiva bene. Gli faceva male la testa. Stare in piedi era uno sforzo, le vertigini lo coglievano subito. Un senso di nausea strisciante lo fiaccava,
sfociando in conati di vomito. Un’altra utilità per il buco di scarico. In quanto Sacerdote, conosceva quei sintomi. Chiuse gli occhi, deglutendo. Il desiderio di vomitare venne e poi ò. I primi sintomi di una sindrome da pan-irradiazione. Vorax forse non intendeva ucciderlo, Troy dubitava che lo avesse irradiato volontariamente, ma in ogni caso gli aveva provocato un danno potenzialmente letale. Quanta dose aveva assorbito? In quanto tempo si sarebbero manifestati i segni più gravi? Senza l’apparecchiatura necessaria, sarebbe morto. Morte! Qualcuno stava gridando questa parola nella sua testa. Colto di sorpresa, Troy si portò le mani alle orecchie. Era inutile, il grido continuava, disperato. Chiedeva aiuto. Era così forte da spaccargli i timpani dall’interno e si alzava sempre di più in un acuto tremendo. Il Sacerdote ansimò, raggomitolandosi su se stesso. – Basta – gracchiò – Ti prego, smettila! Il grido cessò di colpo, come se dall’altra parte qualcuno stesse prendendo un sospiro. La voce riprese. Era stridula, isterica. Troy! Troy, sei tu? Il Sacerdote sbatté le palpebre. – Miris? Singhiozzi nella sua testa. Grigio, un viola cupo, il nero. Miris stava piangendo. Li sta uccidendo. Li sta uccidendo tutti! Troy non aveva idea di cosa stesse dicendo la ragazza. E soprattutto perché lo dicesse nella sua testa. Era lontana, in un’altra stanza. Non lo vedeva e non lo
toccava. Eppure non aveva mai sentito la sua voce così forte. Parla! Un’implorazione disperata. Di’ qualcosa, fa’ qualcosa, pensa! Mandami qualche stimolo, altrimenti impazzisco. Sto già impazzendo! – Okay, okay, ma parla più piano – Troy avrebbe fatto di tutto per salvaguardare la propria mente da quell’assalto involontario, ma non per questo meno terribile. Miris rischiava di frantumarla. Il suo potere era fuori controllo. – Dove ti trovi? Un attimo di pausa. Non lo so. Non vedo nulla. Non sento nulla. Ma lui è qui. Mi sta studiando. Aspetta di vedere quando crollerò! – Vorax? Ho paura. Perché mi fa questo? Perché mi hai portato da lui? Troy pensò bene di cambiare discorso. Non voleva far arrabbiare Miris quando era in quello stato. – Vuoi che parli? Parliamo. Io sono rinchiuso in un… un ripostiglio… Li ha uccisi! Un senso di strappo e di gelo. Li ha messi a distanze prestabilite. Sapeva che li avrei raggiunti, ho bisogno di ancore a cui appigliarmi. Troy considerò la possibilità di chiedere a Vorax di cambiargli prigione. Il più lontano possibile dalla telepate. In fondo, erano stati legati per un po’, era logico che la mente della ragazza si rivolgesse alla sua. – Ma cosa dici? Chi ha ucciso chi? Vorax. Ha sparato. Un Cacciatore e un Ingegnere. Frasi frammentarie, disordinate, appena formulate nella frenesia di comunicare. Erano feriti, ma se la sarebbero cavata. I robot portano quaggiù i “pezzi utili”. Prima è toccato al Cacciatore, ha pensato a sua moglie e a suo figlio prima che il colpo gli spaccasse il cranio. Poi l’Ingegnere, era giovane, poco più grande di me… i pensieri stessi singhiozzavano. Li ho sentiti. Li ho sentiti morire. Per colpa mia. Troy si rimise a sedere, confuso. E inquieto.
– Ma hai detto che è stato Vorax a sparare. Sta studiando fin dove posso spingere la mente. L’ho percepito, per un attimo ha abbassato la guardia e sono riuscita a sfiorare i suoi pensieri. Usa delle esche, sempre più distanti dal mio corpo. Calcola dove posso arrivare. E poi si libera dell’esca, costringendomi a cercare ancora più lontano… Troy cominciò a sudare freddo, e non solo per la sindrome da pan-irradiazione. Quando muoiono è un dolore gelido, risucchiano via anche una parte della mia anima. È come se morissi ogni volta anch’io. È terribile. – Aspetta – Troy agitò le mani. Gli era parso di sentire qualcosa. Un raspare flebile sotto di sé. Che c’è? – Un rumore – il Sacerdote aveva la gola secca. – Forse non è nulla. Si ripeté. Sì, veniva da sotto il pavimento. Fissò la lastra di metallo su cui era seduto. Immobile, ferma. Corrugò la fronte. Si era fatto più forte. No, semplicemente non era uno solo, ma una cacofonia di tanti piccoli fruscii e scalpiccii. Ticchettio di unghie sul metallo. L’impulso di vomitare tornò, più forte. Troy, troy? Che succede? Il Sacerdote non rispose. Nel buco di scarico si agitava qualcosa. Un brulichio nel buio. Troy non riusciva a muoversi. Una parte di lui voleva gattonare verso quell’occhio spalancato nell’ignoto e scoprirlo, l’altra parte lo spingeva ad allontanarsi. Come risultato rimase dov’era, a fissare le sagome che si facevano più distinte. Dapprima emerse un muso allungato, dai baffi vibranti, che terminava in un naso di uno strano materiale, rilucente tanto da apparire umido. Due orecchie tondeggianti, quattro zampe munite di artigli, una coda in fil di rame. Il topo di metallo fissò i suoi occhietti rossi sul Sacerdote.
Troy ricambiò lo sguardo. Il topo, annusando l’aria, uscì dal buco e fece qualche o nella sua direzione. – Vattene via, bestiaccia! – gridò il Sacerdote, con una voce così acuta che non riconobbe come sua. Si tolse uno stivale. Lo lanciò con mano tremante. – Via, ho detto! La scarpa andò a colpire il topo, rispedendolo indietro nel buco. – Ben ti sta – rise Troy, con una punta di isteria. Un attimo dopo altri musi emersero dallo scarico. I sensori nei loro baffi ispezionavano la zona. Cercavano il bersaglio. Troy deglutì, andosi la lingua sulle labbra riarse. Strisciò indietro. Magari non erano interessati a lui, erano là per caso. I topi metallici avanzarono nella sua direzione. Troy! Rispondimi! – Andatevene – il Sacerdote si tolse anche l’altro stivale, scagliandolo nella massa brulicante di code e baffi. Non sortì alcun effetto. I topi erano stati programmati con uno scopo ben preciso. Vorax continuava il suo studio. Troy si trovò con le spalle contro la parete. Non aveva più spazio per scappare, un tappeto di piccoli robot roditori aveva invaso la stanzetta, formando un nuovo pavimento di metallo fluido che si muoveva contro di lui squittendo. Il Sacerdote scalciò con la forza della disperazione. Gridò, quando i primi denti aguzzi di metallo gli lacerarono la tuta protettiva e gli raggiunsero la carne. Cominciarono a strapparla, pezzo per pezzo. Continuò a gridare a lungo, prima che la sua mente avesse la pietà di chiudersi. No! Miris percepiva tutto. Avrebbe voluto evitarlo, ma non poteva. Ogni stimolo era
meglio del nulla per la sua mente, che si costringeva da sola ad assaporare ogni momento di agonia. E si condannava a soffrire. La ragazza sentì su di sé ogni morso, ogni stilettata di dolore, finché fu così forte da ottenebrare i sensi. Ogni pezzo di carne strappato era un frammento della sua sanità mentale che finiva negli ingranaggi dei roditori. Si sentiva lacerare. Aveva voluto bene a Troy, non riusciva a odiarlo che se l’aveva tradita e consegnata a quel pazzo. Forse non l’aveva amato, lo comprendeva con chiarezza adesso che tutto il resto era oscuro, ma c’era stato un legame tra loro. Si conoscevano da sempre. E adesso lui stava morendo. Lentamente. Il gelo si insinuava dentro di lei, si sentiva tendere come un elastico sul punto di spezzarsi. Piangeva, implorava Vorax di smetterla. Sapeva che lui stava raccogliendo i dati. La morte di Troy era soltanto un altro dato, un numero da abbinare alla telepatia della ragazza. Per quanto sarebbe continuata quella tortura? Miris non era certa di riuscire a resistere. Non voleva farlo. Faceva troppo male. I denti dei roditori continuavano la loro opera implacabile. Un pezzo, un altro, un altro ancora. Una bolla di vetro che si infrange. Le mura del suo castello tremavano mentre Miris si rifugiava nella saletta più profonda e segreta, nel disperato tentativo di difendersi. Infine lo strappo, secco. Mancanza di respiro. Solo gelido vuoto. Miris urlò, scuotendo il castello di pensieri fino alla fondamenta, spezzandoli in schegge di luce e scagliandosi dappertutto. AIUTO! E uno di essi, con la forza della disperazione, riuscì a conficcarsi in un vuoto oscuro che le era sempre stato precluso.
55
– Vai – gridò Starr a Kiara. La donna indietreggiò di qualche o, sparando a bruciapelo i suoi tre colpi. Rimbalzarono sulla corazza del cyborg. Un filo di fumo si levò dalla giuntura metallica del gomito, uno squarcio si aprì sul braccio umano di Pyrgo. Un fiotto di sangue, troppo liquido e rosato per essere del tutto naturale. L’essere continuò ad avanzare. Starr lo vide voltare la testa verso Kiara, per tornare a rivolgere la sua attenzione su di lui. Sparò un altro colpo, senza muoversi. – Avanti, bastardo, che aspetti? Vieni a prendermi! Perché il cyborg esitava? Sospettava qualcosa? Che intendeva fare? Lasciarli correre via? Il Chimerico ebbe la spiacevole sensazione che niente stesse andando secondo il piano. Con la coda dell’occhio sbirciò verso Kiara. Era sull’orlo del dirupo, ma non sembrava intenzionata a indietreggiare ancora. – Vai – Starr le fece un cenno impaziente con la mano dietro alla schiena. Maledette donne, sempre a fare di testa loro! All’improvviso, senza che nulla lo fe presagire, il cyborg scattò. Divorò la distanza che li divideva in pochi istanti, piombando su di loro. Li aveva ingannati. Aveva finto lentezza e goffaggine per sfruttare al momento decisivo le sue doti. No, si corresse, le doti di Pyrgo. Kiara gridò, ma non aveva il tempo di ricaricare. – Levati di là, stupida – ordinò Starr, un attimo prima che il mostro gli fosse addosso. Una sfera crepitante di elettricità lo avvolse, costringendo il cyborg a fermare la sua corsa. – Lo tengo a bada. Segui il tuo dannatissimo piano!
Finalmente Kiara parve decidersi. Con un’agilità a dir poco sbalorditiva, corse sul ponte di corda, destreggiandosi in un equilibrismo estremo. Bene, così Pyrgo non avrebbe sospettato nulla. A dire il vero, non degnava la donna di un’occhiata. Puntava su di lui gli occhi vacui e sbarrati. Le mani si mossero, le dita incendiarono l’aria. Pyrgo soffiò e una vampata feroce si diresse vorticando verso la sua preda. Starr non poté far altro che spostarsi di lato nel tentativo di evitarlo. Non fu difficile, la mira di Pyrgo era peggiorata. Le fiamme gli erano ate a più di un metro di distanza. Il grido di avvertimento di Kiara lo costrinse a girarsi di scatto. Comprese. Quel fuoco non era diretto a lui. Le corde stavano bruciando. Annerite, erose, consumate. Il fumo si levava dai mozziconi instabili, fondendosi con i vapori della notte. Starr non poté far altro che rimanere a fissare l’abisso nebbioso, mentre la trappola che aveva così attentamente preparato si ritorceva contro di lui. Era bloccato tra il crepaccio adesso invalicabile e il cyborg, che riprese ad avanzare con un ronzio soddisfatto. Starr si voltò. Alle sue spalle sibilavano i raggi di energia che Kiara aveva ripreso a sparare. La corazza era ammaccata in più punti, ma il cyborg procedeva, le mani tese e accese di fiamma. Il Chimerico del fulmine sapeva quello che doveva fare. – Vieni, amico – sibilò – All’inferno ci andiamo insieme! Evocò il potere, sfregandosi addosso così forte da sentir male. Gli elettroni vorticarono, le particelle cariche si scontrarono. Una saetta accecante scaturì dal suo corpo e superò il cyborg. Andò ad abbattersi subito dietro ai suoi piedi, frantumando la roccia con violenza. Una crepa si aprì nella sporgenza rocciosa, per poi allargarsi a macchia d’olio in una cacofonia di scricchiolii minacciosi. Il peso del cyborg fece il resto. – Starr, no! – gridò Kiara, dall’altra parte.
Starr avrebbe voluto voltarsi e rivolgerle uno sprezzante gesto di saluto. Ma non ne ebbe il tempo. La sporgenza rocciosa franò nel crepaccio, trascinando con sé i due Chimerici. L’urto lasciò Starr senza fiato. La caduta fu più veloce di quanto avesse immaginato. Chissà come, aveva idea che in quegli istanti sospesi nel vuoto una persona avesse il tempo di ripensare alla propria vita, osservandone gli errori, raggiungendo qualche somma consapevolezza prima di morire in santa pace. Non fu così. L’impatto lo colse di sorpresa, strappandogli il respiro dai polmoni con una violenza dolorosa. Avvertì lo scricchiolio delle ossa che si spezzavano, ma all’inizio non sentì nient’altro e gli venne da chiedersi se fossero veramente le sue coste a finire frantumate. Il dolore arrivò dopo, improvviso, pungente, dopo averlo illuso. Starr provò a gridare, ma quando prese fiato la sua parete toracica parve infiammarsi, punta da una miriade di aghi roventi. L’acme venne e cominciò ad attenuarsi, promettendo di tornare a breve. Tra stelle di dolore che gli danzavano davanti agli occhi, il Chimerico comprese di essere ancora vivo. Non era certo che fosse una fortuna. Il ronzio era ancora intorno a lui. Starr si girò su un fianco, imprecando quando un braccio non rispose ai comandi come avrebbe dovuto. Anche la clavicola sinistra era andata. Era ridotto male. In compenso il cyborg si stava districando dai massi franati. Era graffiato e ammaccato, ma funzionava ancora. La caduta non era bastata a ucciderlo. Si sollevò pesantemente, facendo leva con il braccio meccanico. Una gamba di metallo era spezzata alla giuntura e sfiatava un fumo dall’odore dolciastro e rivoltante. Sapeva di morte e decomposizione. Il volto era ridotto a una maschera di sangue e polvere, eppure la barra di controllo piantata nel suo cranio era ancora integra e pulsava con le sue spie luminose. Pur danneggiato, il cyborg ricominciò ad avanzare con una forza spietata e inesorabile. Starr si accorse di colpo dove si trovava e che quell’essere non era l’unico
pericolo. Ignorando il dolore al torace, si diede una spinta e rotolò via, evitando per un soffio gli spini aguzzi vomitati da un boccio che si stava dischiudendo. – Maledette piantacce! Erano finiti nelle vicinanze di un cespuglio di fiori velenosi. Pyrgo ne aveva distrutti molti nella caduta e avanzava calpestandoli senza neppure notarli. Le piante, che da milioni di anni abitavano la Terra, ben prima della comparsa dell’uomo, seguivano l’ancestrale istinto di sopravvivenza e di difesa. Una pioggia di dardi avvelenati si riversò sul cyborg. La maggior parte rimbalzarono sulla corazza metallica, finendo sul suolo roccioso, ma alcuni riuscirono a conficcarsi nel petto e nel braccio umano della creatura. Se il veleno faceva effetto anche sul cyborg, di certo aveva un effetto ritardato, perché Pyrgo continuò a muoversi. Il suo volto però era teso per il dolore, si copriva di tagli e vesciche che gemevano siero e sangue. Nei suoi occhi fissi si rincorrevano prigioniere emozioni che Starr avrebbe preferito non vedere. Dall’alto Kiara piangeva. – Starr – gridò – Vieni via! Un ottimo consiglio. Il Chimerico provò a sollevarsi, ma la fitta alla gamba lo fece di nuovo crollare al suolo. Rotta, sotto il ginocchio. Sfarfallii di dolore nella testa. La vista gli si offuscò per qualche attimo. Gli spari rimbombavano feroci nelle orecchie, insieme al pulsare del cuore. Kiara stava scaricando tutte le munizioni contro il cyborg, nel tentativo di tenerlo lontano dal Chimerico. Starr avrebbe voluto gridarle di smettere, di fare silenzio, quel rumore lo tormentava, ma anche gridare era uno sforzo. Un’ultima eco serpeggiante nel crepaccio. Fu inghiottita dal vapore che vorticava lento. Silenzio. Le munizioni erano terminate. – Non riusciamo ad ucciderlo – gridò Kiara, disperata. Starr non ribatté. Forse, insieme a Roland, Kay e gli altri ce l’avrebbero fatta. Per quanto gli seccasse ammetterlo, c’erano cose che non poteva fare da solo.
Ma gli altri non c’erano e non potevano aiutarli. Erano soli. Pyrgo continuò ad avanzare. Ormai lo aveva quasi raggiunto. Starr tentò ancora di alzarsi, raccogliendo le forze. Non lo avrebbe preso senza combattere. Una piccola saetta sfrigolò dalle sue dita, abbattendosi sulla corazza del cyborg. Lo vide indugiare leggermente. Corrugò la fronte, perplesso. Il cuscinetto isolante della gamba spezzata era danneggiato. A Starr venne da ridere. Peccato che a lui mancasse la forza di stare in piedi. Il cyborg ormai distava meno di dieci i. Di colpo una figura piombò dall’alto, frapponendosi tra di loro. Le lame che stringeva in pugno emisero uno scintillio feroce, riflettendosi sul volto contorto dalla disperazione. La Cacciatrice si era calata nel crepaccio, aiutandosi con quello che rimaneva delle corde bruciate. Sembrava decisa a portare a termine lo scopo che si era prefissata. – Kiara, va’ via – sbottò Starr, ma gli uscì soltanto un sibilo gracchiante. – No – gridò lei – Abbiamo promesso entrambi, ricordi? – Non possiamo ucciderlo. – Dobbiamo. Lo farò. Da sola, se necessario – la Cacciatrice si pose sulla strada del cyborg, con aria di sfida. – Maledetta donna, va’ via da lì – Starr riuscì a sollevarsi su un ginocchio, stringendo i denti. Al dolore avrebbe pensato dopo. Invece di allontanarsi, Kiara si scagliò contro il cyborg, con una furia tale da farlo indietreggiare. Gli piantò la lama del pugnale nel braccio umano, affondandola in profondità, tagliando muscoli e tendini. Spinse ancora, premendo il pulsante di folgorazione. L’arto cadde a terra, staccato, schizzando sangue tutt’intorno prima che la ferita si cauterizzasse per l’ustione elettrica. Sul volto di Pyrgo comparve un’espressione sconvolta, la sua bocca si aprì in un urlo silenzioso. Starr si risollevò. Kiara aveva colpito ancora la corazza del cyborg e il pugnale si era spezzato. Con la forza della disperazione, era giunta a sferrare calci e pugni
contro quell’essere, incurante del fuoco che le ardeva contro, ustionandola. In qualche modo riuscì ad attaccarsi al cyborg e conficcò la lama spezzata nelle giunture del braccio metallico. Fece leva e uno sfiato le confermò che era riuscita nel suo intento. La lamiera di metallo cadde. Gridando, Starr si lanciò contro il nemico. Attraverso un velo rosso di dolore, vide Kiara abbarbicata al torso del cyborg ormai privo di braccia, che cercava di strappare via la barra di controllo. – Pyrgo, torna in te – gridava tra le lacrime – Ti prego. Non ti ricordi di noi? Non ti ricordi della casa scavata nella roccia che volevi farti costruire da Roland per noi? Ribellati! Ma, per quanto tirasse, la mano coperta di sangue, la barra metallica non si muoveva. Era piantata troppo in profondità nel cervello di Pyrgo. Non c’era altro modo per liberarlo che ucciderlo. Privo di braccia, il cyborg barcollava e cercava di liberarsi di Kiara, ma finché lei gli stava aggrappata addosso non poteva muoversi in modo efficace. Starr ne approfittò per avvicinarsi e balzargli addosso a sua volta. Per qualche attimo rimasero in quel modo, grottescamente abbracciati a quella massa di metallo e carne. Poi il cyborg si scrollò e Kiara fu sbalzata via. Rotolò a qualche o di distanza, poi si sollevò sulle mani e sulle ginocchia. Starr mantenne la presa. Scivolò alle spalle dell’essere che era stato il suo amico, gli ò un braccio davanti al collo. Il ronzio della macchina dentro di lui era frenetico, assordante, la barra di controllo gli premeva sulla guancia mentre stringeva il cyborg in una morsa. Al suo posto, Pyrgo avrebbe fatto lo stesso. E Starr gliene sarebbe stato grato. – Addio, amico mio – gli sussurrò all’orecchio e gli parve di udire un gemito di risposta. Di sollievo. O forse se l’era immaginato. Non importava. Scatenò il suo potere, in un’esplosione elettrica che li avvolse entrambi. Percepì l’elettricità percorrergli tutto il corpo, in un prurito lancinante, tanto da ustionare anche la sua pelle. ò al metallo del cyborg, non più isolato dal suolo, percorrendolo e bruciando tubi, cavi, fili. Le luci sulla nuca e sul petto lampeggiavano follemente, i numeri sulla barra di controllo scorrevano a
velocità accecante, fondendosi in un vortice indistinto. Tutto il corpo dell’essere si agitava in maniera incontrollabile. – Uccidilo – gridò Kiara, abbracciandosi il corpo insanguinato. Starr rispose con un urlo disumano e, avvolto dall’elettricità, fece forza con le braccia. Nello sfrigolio assordante distinse uno strappo secco. La testa di Pyrgo si staccò dal collo. Rotolò a terra per qualche o, con un pezzo di barra di controllo che gli sporgeva ancora dal cranio. Gli occhi di Pyrgo sbatterono una volta, ma Starr non era sicuro di non esserselo immaginato nel vapore folgorante che lo avvolgeva. Poi rimasero fissi, immobili. Le luci brillarono ancora per qualche attimo, poi si spensero. Gridando in preda a una rabbia senza nome, Starr continuò a generare elettricità finché di quell’abominio non rimasero che rottami e pezzi di carne. Avrebbe continuato anche allora, fino allo sfinimento, se con la coda dell’occhio non avesse visto Kiara rialzarsi, fare qualche o e poi cadere a terra. Si fermò, barcollando. Stare in piedi era uno sforzo. Zoppicando, raggiunse la donna e s’inginocchiò accanto a lei. La voltò con gentilezza. Kiara aprì gli occhi e lo guardò. – È libero? Starr annuì, con un nodo alla gola. Kiara era coperta di sangue e ustioni e, sul petto e sul collo, dardi velenosi emergevano in un biancore sinistro. Erano affondati in profondità. Il veleno era ormai nel sangue. Kiara sollevò la mano, tremante. Accarezzò il volto di Starr. – Grazie. Ora posso… andare… – No – Starr gliela strinse – Dannazione, donna, perché vuoi fare sempre come ti pare? Non andrai da nessuna parte – eppure sapeva che non aveva modo di
curare le sue ferite. Non era un sacerdote. Era un guerriero. Non salvava le persone, le uccideva soltanto. Gli era sempre bastato. Fino a quel momento. – Sei dannatamente testarda! Kiara riuscì ad abbozzare un sorriso. – Sono una donna, Starr! Il Chimerico emise un ringhio di frustrazione. – Lo so, dannazione a te… ma non puoi morire… non tu… anche se sei una donna… – sospirò – Sei migliore di tanti uomini che ho conosciuto. Forse… sei migliore anche di me. Le dita tremanti ricaddero lungo il corpo di Kiara. – Alzati da quello scalino, Starr. Puoi farcela. Sii ciò che scegli di essere… avrei voluto… e anche Pyrgo… – un fiotto di sangue le coprì le labbra. Starr le prese il volto tra le mani, accarezzandolo. – No, Kiara! – Ho freddo – sussurrò lei. Poi i suoi occhi rimasero fermi e il suo respiro irregolare cessò. Starr la abbracciò, cullandola. Cominciò a parlare, in un fiume di parole che non poteva tenersi dentro, adesso che lei non poteva più udirlo. Le disse che aveva ragione su tutto, che avrebbe voluto conoscerla prima, che non avrebbe dimenticato lei e Pyrgo. Che sarebbe andata di certo in un luogo giusto e senza sofferenza insieme a Pyrgo, ne aveva tutto il diritto. Se lo meritava. Più di lui. Per la prima volta nella sua vita, Starr pianse senza freno, senza vergognarsi. Piangeva per Kiara e per se stesso.
56
Chrisandra sedeva, le mani in grembo, gli occhi ancora gonfi. Avevano versato tutte le loro lacrime, tanto che la donna pensava di non poter più piangere in tutta la vita. Era rimasta svuotata, arida, deserta. Riusciva soltanto a fissare quel petto che non si alzava più, quel polso di cui non sentiva più il battito. Theo era morto. Sentì che la disperazione minacciava di travolgerla. Le sfuggì un gemito roco, scaturito dalle profondità del suo essere lacerato. Theo, il suo Theo! Chrisandra si era sempre considerata fortunata, perché amava l’uomo che suo padre aveva scelto per lei. Forse Theo, non era bello e fascinoso come il fratello minore Troy. Forse non era particolarmente brillante come Sacerdote, più volte da adepto si era addormentato durante le lezioni e in seguito si era accontentato di rimettere a posto qualche arto spezzato, invece di immergersi nelle ricerche di laboratorio. Forse le sue battute non erano le più spiritose. Forse… Ma lei aveva imparato ad amarlo per quel naso un po’ prominente, per quella sua leggerezza nell’affrontare il suo lavoro che non scivolava mai nella cialtroneria, per le sue parole dolci, a volte imbarazzate, con cui le dichiarava i propri sentimenti. E adesso era morto. Lo vedeva, eppure non riusciva ad accettarlo. Era troppo. Vegliava il cadavere ormai da qualche ora, senza riuscire a distaccarsene. Era andata immediatamente, quando un adepto l’aveva raggiunta, trafelato, annunciando che le condizioni di Theo erano peggiorate. Ricordava la corsa frenetica lungo i corridoi della Corporazione, con gli altri Sacerdoti che la guardavano con aria interrogativa, o piccata per la maleducazione dei giovani, o indifferente. Chrisandra avrebbe voluto gridare loro di scuotersi, perché il suo fidanzato stava male. Ricordava il respiro mozzato in gola, il dolore alle gambe e soprattutto al petto, il pulsare alla testa mentre continuava a ripetersi non farlo morire, non farlo morire, non farlo morire!
Non era stata ascoltata. Il cuore di Theo aveva dato l’ultimo battito quando lei era entrata nella stanza. La macchina collegata al suo corpo aveva emesso un bip prolungato e stridulo. Il droide Infermiere era indietreggiato, disinteressandosi di quell’essere inanimato, e si era messo a riordinare le bende in un angolo, in un ronzio monotono. Chrisandra aveva preso la mano dell’uomo che amava e l’aveva tenuta stretta mentre pian piano si raffreddava. Suo padre era ato, aveva controllato il corpo per accertare la morte e poi era tornato nel suo laboratorio. Nell’uscire aveva posto una mano sulla spalla della figlia. – Mi dispiace – aveva detto – Quando sarai più calma, ti aspetto in laboratorio – non era riuscito a mascherare una punta di soddisfazione – Il Vaccino è terminato. Ma Chrisandra non l’aveva raggiunto. Non aveva intenzione di farlo. Come poteva? Theo era morto e Radamante pensava al Vaccino. Ma a lei cosa importava? In realtà, non le importava più di niente. Guardò il volto di Theo. Era pallido, le labbra si venavano pian piano del blu freddo della morte. Gli allontanò dalla fronte un ciuffo ribelle, come aveva fatto tante volte quando avevano trascorso insieme la notte all’insaputa dei genitori. Per un attimo ebbe l’impressione di sentire il suo soffio sulla mano, di udire un leggero battito. Forse Theo stava solo dormendo, forse… Scosse la testa. Illudersi non serviva a nessuno. Sapeva perché era morto. Fino al giorno prima stava bene. Si era risvegliato dopo qualche Ciclo di coma e aveva ripreso a mangiare con appetito. Lei sedeva sul letto per fargli compagnia, quando non doveva aiutare suo padre in laboratorio. Radamante aveva preso ritmi di lavoro assurdi e frenetici, mentre sentiva avvicinarsi il suo obiettivo. Stare con Theo le aveva dato la forza di superare la perdita di Miris, anche se la sorella le mancava tanto. Lei gli raccontava i mutamenti nella vita dell’Alveare
dopo la conquista, i progressi del padre, le nuove erbe che si era procurata da sola, adesso che il signor Twigg stava tutto il Ciclo seduto sulla riva del laghetto a piangere. Theo ascoltava senza interromperla, le poneva le domande giuste, la gratificava con i suoi sorrisi. Insomma, la faceva sentire importante. Non avrebbe più sorriso. E adesso il mondo sembrava più grigio e spento. Il malore era arrivato d’improvviso. Un arresto cardiaco, aveva diagnosticato suo padre. Il cuore non aveva retto al trauma cui era stato sottoposto. Aveva un senso, in una persona anziana, ma non in un giovane come Theo. Chrisandra non andò neppure a controllare la flebo. La bottiglietta, attaccata a testa in giù a un gancio, conteneva ancora qualche goccia di liquido incolore. Il tubicino scendeva fino a conficcarsi nel braccio del fidanzato con un ago. Con un movimento lento, rigido, Chrisandra lo estrasse. Non uscì che una goccia di sangue scuro. La circolazione già stagnava. Non aveva bisogno di esaminare la flebo per capire che ci era stato iniettato del veleno. Quale non aveva importanza. Cloruro di potassio? Digitalis mutans? E non aveva bisogno di sforzarsi neppure per indovinare chi ne era il responsabile. Non il responsabile diretto, ovviamente, aveva mandato qualcuno per portare a termine quell’incarico. Doveva aspettarselo. La minaccia era stata chiara. Voglio te! E se non poteva averla, l’avrebbe distrutta. – Hai fatto un ottimo lavoro, Alaric – mormorò, con una voce atona che non riconosceva. Le aveva tolto ciò che aveva di più caro al mondo, con meticolosa efficienza. Prima Miris, adesso Theo. I due pilastri nella sua esistenza, anche se forse non se ne era mai resa conto. E adesso era crollata e dubitava di riuscire a ricostruire qualcosa. Tanto valeva crollare del tutto. Non seppe come e quando aveva preso quella decisione. Sapeva solo che doveva farlo. Era una sorta di necessità, un filo invisibile che la tirava in una sola direzione. Forse c’era sempre stato e non ne era stata consapevole. Forse non
aveva mai avuto veramente una scelta. Si alzò, lentamente. Gettò l’ago nel catino del droide Ripulitore, che ronzava sbuffando per la stanza. Non aveva mai smesso. Non conosceva riposo, né fatica, né dolore. Adesso neppure Theo avrebbe sofferto più. Chrisandra si chinò a sfiorargli la fronte con le labbra. Era fredda. L’uomo che amava se ne era già andato da quella stanza. Rimaneva solo il vuoto. E quello che doveva fare. Prima di andarsene spense il droide. Il ronzio cessò. C’erano dei momenti in cui solo il silenzio sapeva riempirsi di pianto. Un pianto che lei si era lasciata alle spalle. – Dormi, amore mio – mormorò – E perdonami! Probabilmente Theo non avrebbe compreso. Radamante si aspettava di essere felice. Era suo diritto. Anzi, quasi un dovere. Lavorava da anni su quel progetto, da quando la moglie… no, non voleva pensarci. Dimenticare era più facile. Aveva trasformato quella perdita in un seme che era germogliato pian piano dentro di lui. La volontà ferrea e ossessiva di ottenere un Vaccino contro le mutazioni. Contro i Chimerici. Contro un mondo che non aveva più spazio per loro. Aveva lavorato in ogni ora del Ciclo, fino a privarsi del sonno, del cibo, di qualsiasi cosa fosse di ostacolo al raggiungimento del suo obiettivo. Aveva eseguito test su test, convinto gli Ingegneri a fornire il loro aiuto, scrutato nel misterioso mondo del genoma umano. Ed infine stringeva in mano la provetta con il sudato risultato. Il Vaccino era pronto. Eppure non si sentiva felice. Radamante aggrottò la fronte, stizzito. Perché la felicità non arrivava? Non
riusciva a capire e la sua stizza aumentava. Si sentiva defraudato di qualcosa che era suo di diritto. Fissò il liquido torbido della provetta, cercando la risposta. Tratteneva la luce, ma un’esposizione protratta poteva renderlo instabile. Radamente si affrettò a riporlo nella crio-provetta oscurata e rinforzata, ben più solida. Doveva tenerlo al sicuro. Aveva appuntato tutti i aggi principali in una lamina malleabile, che si stava solidificando in fretta, ma era meglio non correre rischi. Il Vaccino poteva cambiare il volto della vita sulla Terra. Anzi, non l’avrebbe fatto cambiare. Per quello che lo riguardava, ogni mutazione era inutile. Quindi intendeva tenere per sé quel progetto, fin quando non avesse trovato un modo per impedire tutte le mutazioni. E per annientare i mutati rispetto alla linea genomica di base. Ogni deviazione doveva essere potata, se l’albero doveva crescere dritto. Aveva bisogno di altri test. Perché sua figlia non era ancora arrivata? Ah, la morte del fidanzato… il pensiero venne e disparve, rapido. Ormai era morto, non poteva farci niente. Era un Sacerdote, vedeva gente morire tutti i giorni. Se avesse cominciato a provare tristezza per ogni morte, sarebbe impazzito. Miris era più brava in laboratorio. Aveva pazienza, anche se maneggiava le delicate provette con una punta di disagio. Avrebbe imparato, se solo… Serrò le labbra. Quella ragazza lo aveva tradito. Tradimento, ecco la parola giusta. Aveva tradito ogni sua aspettativa, ridicolizzandolo davanti a tutti. Ma era soprattutto la consapevolezza che la ragazza non la pensava come lui, e non era come lui, a disturbarlo. Significava che era sbagliata. Ma, essendo sua figlia, non poteva essere sbagliata. Questo dissidio lo faceva infuriare. Avrebbe trovato una cura anche per lei, decise. L’avrebbe fatto tornare umana. O l’avrebbe uccisa nel tentativo. Udì un bussare leggero alla porta. Sollevò lo sguardo al soffitto. Finalmente Chrisandra si era ripresa dal piagnisteo ed era venuta ad aiutarlo. Bene, c’era il reagente X-51 da aggiungere alle provette dal 9 al 20. Così intanto avrebbe appuntato gli ultimi risultati sulla lamina prima che si seccasse del tutto. – Avanti – tuonò, mentre finiva il travaso nella crio-provetta.
La porta scivolò di lato. Un o leggero nella stanza. Radamante non aveva mai prestato attenzione ai i della figlia, quindi non notò la differenza fin quando il nuovo venuto non palesò la propria presenza con un colpetto discreto di tosse. Stupito, Radamante si voltò. – Florenzia – esclamò, corrugando la fronte – Cosa ci fai qui? La Triumvira andò ad appoggiarsi a un’alta sedia di metallo. Non sarebbe riuscita a sedersi, a meno di issarsi con un balzo, che sarebbe stato ben poco atletico, quindi preferì rimanere in piedi. – Salute anche a te, Radamante – ribatté, con un sorriso. Il Sacerdote non mostrò di aver colto il sarcasmo. – Non dovresti essere alla tua Corporazione? – abbassò la voce – Sorvegliata dagli uomini di Alaric? Florenzia assunse un’espressione innocente. – Si sono convinti a lasciarmi in pace – spiegò. Radamante sbuffò. – Ma davvero? E come hai fatto a convincerli? Quanto li hai pagati? – Nulla – l’Ingegnera scrollò le spalle – E comunque ci ha pensato un mio amico… ma torniamo a noi. Mi hai chiesto perché sono qui e non è nella mia natura non rispondere alle domande. Quando le faceva comodo, pensò il Sacerdote, ma preferì tacere e lasciarla parlare. – Dunque? – A che punto sono le tue ricerche? – l’Ingegnera si sporse in avanti, gli occhi luccicanti – Hai creato il Vaccino? Era da qualche Ciclo che la donna gli poneva quella domanda. Una vocina nella testa consigliò a Radamante di negare. Il Sacerdote si diede dello sciocco. Perché nascondere la sua grande scoperta? Fu il suo orgoglio a parlare. – Sì, è compiuto – sollevò la provetta – Manca soltanto il test sull’uomo.
Florenzia batté le mani, entusiasta. – Bravo. Magnifico. E quando progetti questo ultimo test? Ci vorrà un Cacciatore, qualcuno che sarà esposto ai Raggi… magari uno Schiavo, ce ne sono tanti… – No. L’Ingegnera rimase interdetta a quella risposta secca. – No… cosa? Non va bene uno Schiavo? – No il test – affermò Radamante, facendo un o indietro – Ho intenzione di perfezionare la formula. Tornare al progetto originario. L’esperienza con mia… – si corresse – con quella Telepate mi ha definitivamente convinto. Dobbiamo fermare le mutazioni, non selezionarle. Florenzia lo fissò. Poi scoppiò a ridere. – Radamante, tu vuoi fermare un’alluvione. Goccia dopo goccia, casualmente, le mutazioni si verificano. Puoi rifiutarle e aspettare che la diga si rompa, oppure convogliare le acque nel corso che ti è più favorevole. Non lo capisci? Il Sacerdote trovava fuori luogo quell’atteggiamento lassista. Certo che doveva costruire una diga! Ci voleva un argine che mantenesse il fiume lungo il suo corso, immutabile. Tutto doveva essere incasellato negli schemi. L’ordine era l’unico modo per difendersi dal caos che dilagava nel mondo. – E tu non capisci che le mutazioni non sono controllabili così facilmente. Meglio eliminarle del tutto. Florenzia si avvicinò, con la sua andatura barcollante. Sembrava ingrassata in quell’ultimo periodo. Si alzò in punta di piedi. – Tu hai paura – sussurrò – Ammettilo! Radamante si imporporò. Come osava trattarlo in quel modo? Con quale diritto lo giudicava? – Proprio tu mi predichi, dopo esserti prostrata in mille modi ai piedi di Alaric?
Florenzia scosse la testa. – Tu confondi la paura con la prudenza. L’ottusità con il buon senso. Non c’era altra maniera per mantenere la testa sulle spalle, a me e a te. Ho provato a salvarti, anche se hai cercato in ogni modo di vanificare i miei sforzi. Ma comincio a pentirmene. Quel Vaccino è importante, Radamante. Mi dispiace che tu ne abbia troppa paura per comprenderlo. Radamante non si mosse, fissandola cupamente. Quella donna non capiva. Chrisandra non capiva. Miris non capiva. Per quale motivo nessuno condivideva i suoi timori e il sogno di un’umanità di nuovo pura e incontaminata? – Le tue parole non mi toccano, donna. Non ti darò il Vaccino, né i miei appunti. Sei stata utile con i tuoi macchinari, ma la nostra collaborazione finisce qui – posò la crio-provetta nel o di metallo e le indicò la porta, con rabbia – Adesso vattene. Non sei più la benvenuta nella mia Corporazione. Florenzia lo fissò per un lungo istante. Radamante si aspettava una qualche sfuriata isterica, tipicamente femminile. Invece l’Ingegnera fece qualcosa che lo lasciò totalmente di sorpresa: sorrise. – Finisce qui – confermò – Mi dispiace. Dispiacque anche a lui, quando il dolore gli scoppiò nel petto. Radamante emise un lamento strozzato, abbassò la testa. La mano dell’Ingegnera si stringeva intorno all’elsa di un pugnale folgorante. La lama gli affondava tra le coste, in profondità. Luci rosse gli esplosero davanti agli occhi. – Sei uno sciocco – Florenzia ritirò il pugnale, con un gorgoglio liquido. Radamante crollò in avanti, le gambe non lo sostenevano più. Con gli occhi appannati, seguì gli stivali dell’Ingegnera che raggiungevano la crio-provetta. Fu fatta scivolare in una tasca, insieme alla lamina metallica con le dosi e i aggi da effettuare per ottenere il Vaccino. – No – gorgogliò il Sacerdote, e il sangue gli bagnò le labbra. Lo stava affogando. Florenzia non si curò di rispondere. Odiava i discorsi di troppo. Aveva già ottenuto quello che voleva. Volse le spalle al Triumviro agonizzante, senza alcun rimpianto. Aveva avuto la fine che meritavano gli idioti.
Radamante invocò aiuto. Un rantolo soffocato. Cercò di strisciare verso la porta, ma il suo corpo lo tradiva. Il sangue sgorgava, filtrando sul pavimento freddo. Un senso di gelo si stava diffondendo anche nel suo petto. – A…iu…to…! Dov’era sua moglie Alexandra? Era morta da così tanto tempo che non riusciva a quantizzarlo. Alla fine, non era più riuscito a starle accanto. “Ti salverò” le aveva detto “Troverò un cura”. In realtà era soltanto una scusa per rifugiarsi nel laboratorio e sfuggire a quella stanza in cui aleggiavano il dolore e la morte. Dov’era Miris? Quella ragazza che non aveva mai conosciuto, sostituendola con l’idea che si era fatto di lei. Lontana, forse perduta per sempre. Era venuta a salutarlo e lui l’aveva scacciata con rabbia. O con paura? Dov’era Chrisandra? Al capezzale del fidanzato, ad asciugarsi le lacrime che lui avrebbe dovuto condividere. Offrile una spalla, una briciola di conforto. Invece se ne era andato, come quella volta tanti anni fa. Alla fine aveva lasciato sempre sole le persone che gli volevano bene. E adesso era lui a trovarsi solo, morente, senza che nessuno lo venisse a salvare. Tra i ghirigori che il suo sangue dipingeva sul pavimento si perse anche la sua ultima paura, trasformata in realtà. Morì da solo. Florenzia inciampò su due corpi esanimi oltre la porta. Li degnò appena di un’occhiata. Gli uomini di Alaric non avevano fatto in tempo a usare i fucili. E comunque non sarebbe bastato. Agarath la attendeva a braccia conserte. Aveva indossato un comodo abbigliamento da Cacciatore, con un’ascia folgorante, due pistole a energia radiante e un fucile al plasma strappato ai guerrieri di Alpha5. Le lanciò un’occhiata di sbieco. I suoi occhi avevano un bagliore rossastro, come il magma. Pareva impaziente. – L’hai presa? Florenzia sfiorò la custodia rinforzata che teneva alla cintura. Il Chimerico del magma si limitò ad annuire. Se anche lo intuiva, non chiese come se ne fosse
impossessata. Se alla gente dell’Alveare non importava di lui, perché a lui sarebbe dovuto importare? Sirea era morta per loro. Lui era vivo. Il mondo era governato da una casualità bizzarra. – Andiamo – precedette l’Ingegnera, aprendogli la via – Il viaggio sarà lungo.
57
Kay correva, sfrecciando tra i corridoi freddamente illuminati dell’edificio “H”. Una volta aveva incontrato un robot sulla sua strada e l’aveva aperto in due con le sue lame, senza neppure rallentare. Lei era in pericolo. Roland gli ansimava dietro, i suoi i si facevano pesanti e affaticati. – Vuoi rallentare? – sbottò – Si può sapere che diamine ti è preso? – Miris – si limitò a rispondere il giovane. Risparmiava il fiato per correre. – L’ho sentita! Roland non aveva una chiara idea di cosa fosse successo. Un attimo prima Kay era affranto, a capo basso. Poi aveva sollevato la testa di scatto, invocando il nome della ragazza. Era rimasto in silenzio, come in ascolto, e poi aveva cominciato quella corsa frenetica. – Come sarebbe a dire, l’hai sentita? Kay aggrottò la fronte. – Non lo so, è difficile da spiegare. Stavo pensando a lei, e d’un tratto ho avvertito la sua presenza. Chiedeva aiuto. La sento ancora. E adesso so dov’è. Roland decise di non indagare oltre. I poteri di quella telepate erano ancora per la maggior parte da scoprire, non c’era da stupirsi che la sua mente fosse stata in grado di superare metallo e spazio, per giungere fino al giovane. Kay condusse Roland lungo rampe di scale, scendendo sempre più in profondità nei meandri di quell’edificio mastodontico e dai mille volti tutti uguali. Evitarono gli elevatori, di certo erano controllati. In realtà, Kay non si illudeva di are inosservato. Voleva are e basta.
Intorno a loro l’edificio ronzava, un’enorme macchina di cui stavano profanando il cuore più segreto. L’acciaio delle gallerie vibrava, ripercuotendosi nelle ossa. Un tambureggiare cadenzato che rombava nello stomaco in un rimescolio cupo. Scalino dopo scalino, Kay sentiva il peso di quel metallo sopra le spalle. Miris era là sotto. L’ambiente non cambiava ai piani inferiori. Anzi, ogni piano sembrava fatto con uno stampo. Gli stessi corridoi, le stesse stanze, quasi nella stessa posizione. Un alveare, più degli insediamenti sotterranei che portavano quel nome. Infine Kay smise di scendere e si allontanò dalla rampa di scale. Piano “–4”. A lui pareva un inferno identico agli altri. Alla sua destra c’erano delle stanze. Una porta era socchiusa e i compagni osarono sbirciare dentro. Dischi argentei sparsi per terra, tubi alle pareti e nel soffitto. Armadi di metallo, rottami con scatole sottili squarciate. Macchine come quella che cercavano, ma con gli schermi sfondati. Kay lanciò un’occhiata a Roland, temendo che volesse fermarsi per esaminarle, ma il Chimerico scosse la testa. – Dopo – disse, con una nuova amarezza nei lineamenti del volto. – Le macchine del ato non fuggono. Pensiamo alla ragazza. Si fecero strada lungo il corridoio, deviarono a sinistra. Sulla parete era attaccato un cartello di un verde sbiadito e triste. Roland si fermò ad osservarlo. – Che c’è scritto? – Kay era già qualche o più avanti. – Due lettere. R e M – il Chimerico corrugò la fronte. Tutto quel posto era segnato da strane sigle che nascondevano il loro reale significato. – Cos’è un RM? Il giovane scrollò le spalle. Quei termini appartenevano al ato. L’unica cosa certa era che quel posto non era solo schermato. Di più. Era un vero bunker. Le pareti erano spesse e costituite da uno scudo di metalli schermanti. Era stato pensato per proteggere le conoscenze antiche, o si trattava soltanto di un caso?
Il senso di urgenza aumentava. Kay si precipitò nel corridoio che compiva due angoli retti, prima di terminare davanti a una porta di metallo. Provò a tirarla e spingerla, senza risultato. – Maledizione – imprecò. Miris era là dentro, lo sentiva. Un vorticare confuso nella testa, un legame tra di loro che si tendeva. – Stai calmo – Roland stava esaminando un piccolo pannello sulla destra. C’erano nove tasti. Sei numeri e tre lettere. Erano di un grigio perlaceo, rovinati. – È necessaria la combinazione giusta per entrare. – Allora comincia a provare! Roland esitò. – Se sbaglio, rischio di far scattare un allarme o una trappola. A Kay non importava. Puntò la pistola alla serratura, tormentando il grilletto, poi la riabbassò. Inspirò profondamente. Erano stati la calma e il sangue freddo a salvarlo in situazione che pure apparivano disperate. Doveva mantenersi lucido. Se si fosse fatto ammazzare, nessuno avrebbe liberato Miris. Ripose l’arma. – Prova. Non abbiamo scelta. Siamo arrivati fin qui e non ho nessuna intenzione di tornare indietro senza di lei. – Neanch’io – Roland scrutò il pannello di controllo, come se potesse svelargli i suoi segreti. Di quanti numeri era composta la d’accesso? Solo numeri o anche lettere? Le combinazioni possibili erano troppe per provarle tutte, almeno in un tempo utile. Storse l’angolo della bocca. – Adesso ci vorrebbe Samuel! Kay sospirò. – Non c’è. Non c’è mai quando abbiamo bisogno di lui. Appoggiò la fronte al freddo metallo che lo separava dalla ragazza. Tutta quella fatica per arrivare a una porta chiusa? No, non poteva accettarlo. – Aspetta – Roland lo richiamò. Stava scrutando i pulsanti da vicino. – Alcuni sono più consumati. Come se fossero stati usati più di frequente. Kay voltò la testa. – Quali? – Tutti a parte la B e la X.
– Non mi sembra un gran miglioramento, escludendo due lettere – obiettò il giovane, ma Roland stava riflettendo. – Usati tutti, tranne le ultime due lettere. Senti, credo che la caratteristica principale di una sia la facile riproducibilità e memorizzazione. In questo caso superano di gran lunga l’esigenza di sicurezza. Chi vuoi che sia così stupido da arrivare fino a quaggiù, con tutti i robot che pullulano nell’edificio? Kay inarcò un sopracciglio. A parte loro, ovviamente. Comunque il ragionamento di Roland aveva un senso. Il Chimerico stava cercando di mettersi nella testa dell’abitatore di quel luogo. Una mente lucidamente razionale e scientifica. Fino a quel momento, ogni mossa era stata precisamente calcolata. – Prova – lo incitò, per poi aggiungere – E speriamo bene! Roland prese un sospiro. Era un azzardo, lo sapeva. Se avesse sbagliato, forse non avrebbe avuto un’altra possibilità. Ma cos’era la vita, se non una serie continua di tentativi, senza conoscere prima le conseguenze delle proprie azioni? Roland digitò la combinazione che aveva in mente. 1,2,3,4,5,6,A. Logica, semplice, memorizzabile. Uno scatto secco. La porta si mosse appena. Kay fu rapido ad afferrare il pomolo e tirare. Entrarono di corsa, le armi in pugno. Stavano facendo irruzione in un pezzo di ato irreale, strappato dai meandri del tempo e trapiantato in quel luogo. Quasi intatto, stordente nella sua particolarità. Kay entrò per primo e si fermò di colpo. Roland quasi gli finì addosso. Avevano trovato Miris. Nell’ambiente privo di finestre, ma con un sistema di condizionamento che manteneva una temperatura bassa e costante, c’era una grande consolle in un ripiano contro il vetro. Sopra di essa, luccicante in mezzo alle strane apparecchiature, c’era la Macchina che cercavano. Aveva tre volti, tre monitor che ammiccavano cangianti. Una e trina.
Kay non la degnò d’un occhiata. Il suo sguardo era fisso sulla stanza alla sinistra, oltre il vetro leggermente scurito. Su un tavolo di metallo, sotto il fornice di un arco di plastica e metallo che pareva ingoiarla, era stesa Miris. Era legata con cinghie imbottite alla fronte, sugli occhi, sul naso, alla gola, alla vita e agli arti. Immobilizzata. Un grosso tubo era inserito nella sua bocca e spingeva aria, costringendo il petto ad alzarsi e abbassarsi a un ritmo forzato. Era collegato a una grande macchina, in cui display e monitor lampeggiavano, indicando una serie di numeri e delle linee che si ripetevano sempre uguali, curve verdi rotanti intorno a una isoelettrica. Mostravano l’attività cardiaca. Sulle braccia serpeggavano tubicini trasparenti, in cui scorrevano liquidi incolori o biancastri, provenienti da bottiglie appese a ganci metallici. Venivano iniettati in vena tramite una serie di piccoli aghi colorati, farfalline piantate nella sua carne. Altri fili, muniti di ventose o di microaculei metallici, correvano intorno alle sue tempie, come sanguisughe. Pulsavano appena, in un balenio di colori diversi, e strisciavano nella macchine là intorno e in cavi che erano collegati con l’apparecchio nella stanza accanto. Kay spalancò la porta scorrevole, pesante e rinforzata. Emise un grugnito per lo sforzo e ignorò la spia lampeggiante di allarme. La porta cominciò a richiudersi. Il giovane non intendeva rimanere intrappolato in quella stanza e spostò un mobiletto, in modo da bloccarla. Quella non era vita, solo era una grottesca parodia. Resistette all’impulso di strappare tutti i fili dal corpo della ragazza. La sfiorò, delicatamente. La pelle era fredda, sudata, pallida. – Miris – mormorò, con voce rotta – Mi senti? Sono qui. Sono accanto a te! Roland andò a sedersi davanti alla Macchina, al computer. Provava una sorta di timore riverenziale. L’aveva cercata per così tanto tempo, vagheggiata, persino, sognando i segreti che poteva svelare. Per adesso rivelava un incubo. Si costrinse a controllare i monitor. Quello a destra pareva in stand-by, gli altri due mostravano una serie di parametri relativi alla ragazza. Numeri e immagini
che per lui non avevano significato, a parte una. Era certo che fosse una rappresentazione dettagliatissima della testa di Miris. Intravedeva le ossa, la materia cerebrale, la forma stessa del cervello. Una valutazione in vivo della struttura all’interno di un essere umano. Una tecnologia sbalorditiva. Roland sfiorò il topo di metallo collegato in basso a una scatola rettangolare e alta. Qualcosa si mosse sullo schermo, una freccia bianca. Il Chimerico aumentò la pressione sul topo e udì un leggero click. L’immagine scorse rapidamente, ricostruendo per intero la struttura cerebrale della ragazza. – Kay, non toccare niente – ordinò – Non sappiamo cosa le abbiano fatto. Toglierle quella roba di dosso potrebbe ucciderla – scorse rapidamente le file di numeri e parole in una lingua incomprensibile. Le conoscenze che riguardavano quelle apparecchiature erano perdute da secoli. Roland, nonostante i suoi anni di studi e di ricerca, si sentì impotente. Non sapeva come utilizzare quel marchingegno avaro di segreti. E intanto Miris era prigioniera di un limbo vuoto e freddo. – Ragiona – si impose il Chimerico, picchiettandosi la fronte. D’accordo, non sapeva cosa fare. Lo accettava. Poteva imparare. Al momento, però, doveva trovare solo un modo per bloccare le pompe e il programma in corso. Aveva idea che il liquido iniettato nelle vene della ragazza fosse una specie di droga, che le bloccava i muscoli e le ottenebrava i sensi. Controllò la pompa di erogazione, un apparecchio a lato del computer. C’erano una serie di pulsanti e il display brillava, indicando la dose inviata nei tubi. Roland lo studiò con attenzione, cercando un qualunque appiglio. Doveva spengerla. C’era qualcosa che non era cambiato negli anni. Per esempio il significato di un tondo rosso in basso a sinistra sul monitor. Rosso. Alt. Stop. Pregando di fare la cosa giusta, Roland spostò il topo metallico fin quando la freccia non fu sopra quel simbolo. Poi cliccò.
Un gorgoglio sordo. Il liquido si bloccò nei tubi. La schermata si spense. Kay intanto stava rimuovendo delicatamente gli aghi dalle braccia della ragazza. Qualche goccia di sangue macchiò la pelle pallida e il tavolo di metallo. Sembrava così minuta e fragile in mezzo a quei macchinari! Kay avvertì una morsa nel petto. Dolore e smarrimento, ma anche odio per quello che le era stato fatto. “Qualcuno la pagherà!”si disse. Roland si sporse oltre il vetro. – Cerca di svegliarla. Falle sapere che sei lì – consigliò, per tornare a studiare la Macchina alla ricerca di ulteriori indizi. Kay accarezzò il volto coperto di Miris, le slacciò le cinghie. La ragazza sussultava, ma non sembrava cosciente del suo tocco. Si muoveva come se sognasse. Il suo corpo era là, ma la sua mente era altrove. Si era allontanata troppo nella sua fuga, oppure si era rintanata in se stessa. – Miris, mi senti? – le mormorò, sfiorandole il collo. L’arteria pulsava, ricordandogli che era viva. Ma non ebbe risposta. Nessun movimento a indicare che l’aveva udito. Kay cominciava davvero ad avere paura. Una paura che non aveva mai provato prima. Non poteva averla persa! Kay fissò il volto pallido di Miris, poi si chinò a sfiorarle la fronte con le labbra. –Ti prego, torna da me!–. Miris era dappertutto e da nessuna parte. Era nella sua stanza, da sola, aspettando con paura e timore che suo padre la convocasse per una nuova lezione. Era insieme alla sorella, a eggiare lungo il mercato dell’Alveare. Era a testa in giù sul soffitto di una caverna, stringendosi alla sella della lucertola e urlando istericamente mentre qualcuno alle sue spalle rideva.
Una risata conosciuta. Conosceva tutto ma non sapeva niente. Era in mezzo ai fumi nell’Alveare. Gridava, ma nessuno la ascoltava. Implorava aiuto, ma la gente non si voltava. Le avano attraverso, come fantasmi incorporei. O era lei ad essere un fantasma? Non la sentivano. Lei sentiva tutto di loro e non poteva farsi sentire. Non esisteva più. Sirea emergeva dalle acque, riprendendo forma umana. Camminava verso di lei, leggera e aggraziata, una ballerina sullo stagno. Miris le gridava di stare attentata, ma la Chimerica sorrideva. – Sono già morta – diceva – Vieni con me – Ed esplodeva in una cascata di acqua rovente. Miris urlava, mentre veniva ustionata. Un attimo dopo diventava gelida come ghiaccio e la ragazza si trovava tremante, raccolta su se stessa, in una stanzetta buia. Sua sorella Chrisandra bussava alla porta, ma lei non voleva aprire. Tuffò la testa tra le ginocchia, ma vedeva comunque. Chrisandra aveva il corpo ricoperto di veleno. Era sull’orlo di un dirupo e stava per cadere. Il vento la spingeva in quell’abisso di nebbia. Vorticava e le folate gelide si mescolavano allo strano calore che spirava dal basso. In fondo, Miris scorse delle fiamme. Bruciavano in lingue guizzanti, crepitavano, si mescolavano a elettricità in zaffate di dolore. Qualcuno stava piangendo. Miris non ne era certa, ma poteva essere lei. Era in piedi, immobile. Da lassù vedeva tutto, le sue vicende ate si srotolavano pian piano lungo le pareti di quel dirupo. Le osservava con una sorta di distacco. Tante se stesse che non aveva mai conosciuto e accettato davvero. Volumi di un archivio disordinato, le cui pagine volavano via trascinate dal vento. Perdute, come lei.
La roccia sotto i suoi piedi franò e si sentì scivolare nel buio. Qualcuno la afferrò per un braccio, frenando la sua caduta. Atterrò in un giardino. Non sapeva come fe a giudicarlo tale, dato che non ne aveva mai visto uno. Sotto i piedi nudi percepiva la carezza dell’erba fresca, i fiori sbocciavano timidi sul terreno e lungo un pergolato. Senza veleno, senza pericoli. Una calda luce autunnale si riversava in quel luogo che volgeva al tramonto. Miris provò l’impulso di ripararsi il volto con la mano, all’improvviso spaventata. Ma quel sole non bruciava la retina, non sparava i Raggi con violenza. Era piacevolmente tiepido. Kiara le lasciò la mano. Era al suo fianco. Non indossava più la tuta protettiva, ma una veste di seta. I capelli erano raccolti in una crocchia di miele e il volto era calmo, sereno. Miris non l’aveva mai vista in viso e pensò che fosse molto bella. – Smetti di cadere – le disse la donna – E ascolta! Miris obbedì. In lontananza, udiva una voce. Era dappertutto. Forse era dentro di lei. La stava chiamando. Torna da me! Aveva qualcosa di familiare, ma Miris scosse la testa. – Non posso! Kiara la fissava con calma. – Torna indietro! – Non posso – ripeté la ragazza, quasi con disperazione – Mi sono perduta. Kiara accennò un sorriso. Un guizzo di luce. – A volte è necessario perdersi per ritrovarsi. Tu porti un fardello sulle spalle, sentire tutto e non capire. Capirai, prima o poi. Ma non con la mente – tese la mano e la poggiò sul petto della ragazza. Non giunse a toccarla, ma a Miris parve di percepire le sue dita, una carezza di addio.
Senza aggiungere altro, Kiara le voltò le spalle e si allontanò. – Con cosa, allora? – le gridò dietro Miris – Cosa mi resta? Kiara non rispose. Camminò verso quel sole che si abbassava all’orizzonte. Socchiudendo gli occhi, Miris vide che c’era qualcuno seduto su una panchina, in fondo al giardino. Una sagoma scura, con i capelli di un arancione accecante. Kiara si diresse verso di lui e lo abbracciò. Di colpo Miris si sentì smarrita e molto sola. Torna da me! La voce era l’unica ancora che le rimaneva, che dipingeva di luce e di azzurro i suoi pensieri in bianco e nero. Si aggrappò a essa, chiudendo gli occhi. Percepì qualcosa sulla fronte, una mano sulla sua. Mosse le dita, stringendola, e spalancò gli occhi. Kay la stava fissando dall’alto, i suoi occhi verdi colmi di qualcosa che la lasciò per un attimo spiazzata. Miris cercò di parlare. E scoprì di avere qualcosa in bocca. Riuscì soltanto a mugolare qualcosa. – Oh, scusa – Kay assunse un’aria comicamente colpevole, che la scaldò dentro. Cominciò ad armeggiare per liberarla dal tubo di ventilazione. – Ehi, Roland, è sveglia. Miris è sveglia! Stacco tutto! – Bene – la voce profonda del Chimerico veniva dalla stanza accanto. Miris sbatté le palpebre. Non riusciva a vederlo, ma lo sentiva. Nei suoi pensieri si agitavano sollievo e gioia di saperla salva. – Fai in fretta! Con l’aiuto del giovane, Miris si mise a sedere sul tavolo di metallo. Le girava la testa. Le sue membra rispondevano lentamente ai comandi, sembravano addormentate. Le droghe che Vorax le aveva somministrato erano ancora in circolo, ma il loro effetto stava svanendo. Sentiva la mente snebbiarsi pian piano. Da quanto tempo era in quello stato? Troppo, decise. Aveva rischiato davvero di cadere per sempre nello scuro baratro della follia. Un
baratro privo di colori, in cui i pensieri potevano essere soltanto frecce nere e aguzze. Solo una voce l’aveva salvata. Kay la sorresse. – Come va? – chiese, poi scosse la testa – Lo so, è una domanda sciocca… riesco sempre a dire sciocchezze. Miris cominciò a strapparsi le ventose che le penetravano intorno alla testa. Faceva male, portavano con sé anche uno strato di pelle, ma non le importava. Voleva soltanto liberarsene. – Calmati – Kay la aiutò, per poi stringerla tra le braccia. Stava tremando. – Sei venuto – mormorò Miris, con un senso di genuino stupore – Mi hai sentito e sei venuto! Il giovane accennò un sorriso. – Avevo promesso di badare a te, ricordi? – tornò serio. Terribilmente serio. Aveva l’aria di qualcuno che era appena uscito dall’inferno. – Ti avrei trovato in ogni parte dell’universo, se fosse stato necessario. La ragazza lo fissava. Non riusciva a distogliere lo sguardo. Quelle parole erano pronunciate con decisione e veemenza. Le facevano quasi paura. – Perché? – Non l’hai ancora capito? – Kay le poggiò le mani sulle spalle. I loro occhi erano alla stessa altezza, Miris sentiva il suo respiro caldo e gentile sul volto. – Perché ti amo. Miris non fu stupita come avrebbe pensato. Era come se una parte di lei lo avesse sempre saputo,. Ma ricordava anche le parole di Troy, e il tradimento che aveva sofferto. – Non dici nulla? – Kay non sembrava arrabbiato, solo deluso. – Io…– la ragazza era confusa. Non sentiva nulla nella testa. Sentiva solo Kay. La sua mente era di nuovo impenetrabile. Un salto nel vuoto. – Non riesco a capire quelle che pensi…
Capirai, ma non con la mente. Aveva detto Kiara. Chrisandra lo aveva consigliato ben prima. Non basarti solo su quello che ti dice la mente. Aspetta di vedere cosa ne pensa il cuore. Era facile fidarsi degli altri quando si era sicuri dei loro pensieri. Eppure gli umani non potevano sapere cosa si nascondesse dietro le parole di chi stava loro innanzi. Erano più coraggiosi di lei. Fidarsi era un rischio. Poteva soltanto scegliere se valeva la pena di correrlo. Kay gli sorrise. – Penso a te – disse soltanto. Poi la baciò. E nel cuore Miris non aveva mai provato una gioia così grande. Un fiore che sbocciava dentro di lei, di un rosso sgargiante. Le labbra di Kay erano delicate, il suo respiro le accarezzò la bocca, fondendosi al suo, creando qualcosa che non aveva spiegazione logica. Fu un bacio rapido. Finì anche troppo presto. Il rumore di una sedia che striscia sul metallo. Il grido di avvertimento di Roland. Il ronzio inconfondibile. Un applauso ironico. Vorax era tornato nel laboratorio.
58
Chrisandra non ebbe paura quando le porte della camera di Alaric si aprirono. Se l’era lasciata alle spalle, come le altre emozioni. Forse erano rimaste, da qualche parte dentro di lei, ma erano congelate. Blocchi di ghiaccio che nuotavano in un mare gelido, mostrando solo una minima parte della loro massa sopra la superficie. Rischiavano di frantumarsi al minimo colpo. Come lei. – Non ancora – si impose – Non ancora. Si muoveva come in trance. Un automa che varcò la soglia della camera. Alaric era seduto al tavolo, studiava pezzi di metallo rettangolari che aspettavano qualcuno che li decodificasse. Il Chimerico li posò vedendola entrare. Si alzò in piedi, con un movimento fluido. La luce azzurrina dell’argon si riversava in sfumature di cielo nei suoi capelli d’ebano. Non pareva sorpreso di vederla. – Sei venuta di tua volontà – disse soltanto. Era a torso nudo, indossava solo una protezione schermante per i genitali. Il suo fisico era asciutto, scattante. Sarebbe stato un bell’uomo, se Chrisandra non avesse visto, oltre quella scorza piacevole, colui che aveva distrutto pezzo per pezzo la sua felicità. – Mi avresti avuta comunque – replicò, stupendosi di come la sua voce fosse calma, intinta di pacata amarezza. Alaric annuì. – Mi fa piacere che tu l’abbia capito – la invitò con un gesto che non aveva nulla di gentile – Accomodati! Chrisandra avanzò. Non si voltò quando i poteri telecinetici di Alaric chio la porta alle sue spalle. Indietro non poteva tornare. Lo sapeva fin dall’inizio. Lo accettava. E in fondo non le importava nemmeno. Non aveva niente dietro. Solo il nulla brulicante di ricordi dolorosi. – Nessuno ci disturberà adesso – Alaric le si fece incontro. Chrisandra camminava su zoccoli con tacco, che tintinnavano sul pavimento e
risalivano in un fiocco di tela fino al polpaccio. Aveva rinunciato a ogni schermatura, indossava soltanto una veste di tela scollata e quasi trasparente, una seconda pelle che lasciava ben poco all’immaginazione. Lo sguardo del Chimerico scivolò nella scollatura tra i seni. Chrisandra lo percepì come un mano gelida. Uno spallino scivolò verso il basso senza che nessuno l’avesse toccata. Anche la mente di Alaric la accarezzava, bramosa. La sentiva pizzicare sulla pelle come uno sciame di insetti. – Sei davvero molto bella – mormorò, la voce arrochita – Dovresti vestirti così più spesso. Lo farai, quando sarai mia moglie. Chrisandra sostenne il suo sguardo. Aveva già preso la sua decisione e niente di quello che Alaric poteva fare o dire l’avrebbe cambiata. Bastava diventare una statua di ghiaccio. – Sei stato tu – non era una domanda. Alaric non chiese a cosa si riferisse. Lo sapevano entrambi. Per un attimo lo spirito di Theo parve aleggiare in mezzo a loro, in un soffio di gelo. Il Chimerico sorrise, disperdendolo. – Non ho voglia di parlare, adesso – le si accostò, accarezzandole le braccia nude, per poi afferrarle il seno fino a spremerlo. – Ho voglia di te. La baciò con foga. Chrisandra lo lasciò fare. Sarebbe durata poco, si consolò. Aveva temuto di provare vergogna per quell’umiliazione. Rabbia, odio, dolore. Invece non provava nulla. La lingua di Alaric nella sua bocca era qualcosa di lontano. Le mani che le strappavano il vestito di dosso, che le stringevano il capezzolo e le si insinuavano tra le gambe, non erano sul suo corpo. O il suo corpo era di qualcun altro. Era un’arma. Dall’esterno, osservò Alaric che la sospingeva verso il letto. Le stava mordendo il collo, affondando il volto tra i capelli sciolti. – Hai un buon profumo – le mugolò sulla pelle, andovi sopra la lingua. Le labbra di Chrisandra si curvarono appena in un sorriso. – L’ho messo per te. Lasciò che il Chimerico e la esplorasse come preferiva. Dopo i primi attimi di feroce impazienza, i suoi gesti erano diventati più metodici e misurati. Non
aveva alcuna fretta e intendeva godersi il divertimento attimo per attimo. Chrisandra gli intrecciò le mani intorno alla nuca, attirandolo a sé, e si strofinò contro il suo corpo. Lo sentì rispondere con eccitazione. – Allora piace anche a te – sussurrò Alaric, sdraiandosi sopra di lei. Le succhiò un capezzolo. –Potevi pensarci prima, no? No, anzi, – le allargò le gambe con uno strattone brusco – meglio così! Chrisandra non rispose. Desiderava soltanto che la cosa finisse in fretta. Cercò di rammentare la delicatezza di Theo mentre il Chimerico le si posizionava sopra. Rimase supina, rigida, gli occhi gonfi di lacrime non versate. Trasalì, quando sentì il membro del Chimerico penetrarla. Una parte di lei non credeva che quel momento arrivasse così presto. Emise un gemito di ribrezzo. Alaric lo interpretò come un’espressione di piacere e cominciò a muoversi più velocemente. La donna fissò gli occhi sul soffitto, senza vederlo. Era doloroso, ogni spinta era una fitta che le si ripercuoteva dai lombi fino alla testa. Strinse i denti. Si chiese soltanto quanto tempo ci sarebbe voluto. – Avanti, goditelo – mormorò Alaric – Nessuna donna si è mai lamentata delle mie prestazioni. Chrisandra non lo ascoltava. Continuava a fissare oltre il soffitto, alla ricerca dei ricordi che le avevano dato la forza per arrivare fino a lì. Poi svuotò la mente, mentre gli ansiti del Chimerico si facevano più lontani e ovattati. Il respiro di Alaric si fece più rapido, mentre la sua barba le grattava tra i seni, i movimenti animaleschi. Con un gemito, spinse per un’ultima volta. Chrisandra lo sentì eiaculare dentro di sé, rabbrividendo non di piacere ma di odio. L’unico sentimento che riusciva a provare in quel momento, poi il vuoto nulla. Per fortuna era finita. Alaric emise un sospiro di soddisfazione e scivolò di lato. Aveva avuto ciò che voleva. Anche allora, Chrisandra non si mosse, fissando il soffitto scuro. Asserragliata in una fortezza di silenzio, si limitava ad aspettare. Un tempo aveva creduto di essere inespugnabile. Una Sacerdotessa, membro di una potente Corporazione, figlia del Triumviro. Sicura di sé e del proprio futuro. Come era stata rapida la sua caduta, come del resto quella della sorella! Le crepe
che si erano aperte nella roccia della sua sicurezza mettevano dolorosamente a nudo la sua fragilità e l’umiliazione subita. La accettava, perché aveva un scopo. Il tempo scorreva, inesorabile. Solo lui sapeva cosa dischiudesse il futuro. Chrisandra non batté ciglio quando Alaric ebbe il primo sussulto. Si limitò a strisciare dalla parte opposta del letto. Era inutile ormai sopportare la sua vicinanza. Il Chimerico si sollevò su un gomito, con una smorfia di dolore che si trasformò in un gemito. Si contorse, si grattò la pelle come se volesse scorticarsi. Le unghie lasciarono strisce di un rosso . – Ma cosa…? – si ò una mano sull’addome, in preda ai crampi. Fu costretto a sporgersi dal letto, mentre la nausea cresceva in un onda travolgente. Vomitò una boccata di fluido giallognolo, succo gastrico e saliva. Non capiva. Un attimo prima stava bene, per non dire che era al massimo del compiacimento, e adesso quel malessere improvviso. La testa gli girava, gli occhi gli lacrimavano senza che riuscisse a fermarli. La bocca era impastata di saliva e di ciò che rifluiva dal suo apparato digerente. Respirare era uno sforzo. Si aggrappò a una coperta, stringendola spasmodicamente. Le nocche divennero bianche per lo sforzo. La trascinò con sé nella caduta, atterrando sul pavimento di schiena e cominciando a rotolarsi nel tentativo disperato di placare il fuoco che lo rodeva. Mille aghi roventi gli scavavano la carne, martoriandola. Il suo potere insorse. Il tubo di argon esplose, dissipando la luminescenza nella stanza. Le sedie furono scagliate contro le pareti, il letto tremò, il tavolo si rovesciò, trascinando con sé le delicate periferiche di archiviazione di massa. – Veleno – comprese di colpo. Rantolò, nel tentativo di rialzarsi. La sua mente, attaccata dal dolore da ogni lato, fu costretta a piegarsi e concentrarsi soltanto sulla propria sopravvivenza. La telecinesi non era considerata tra le funzioni fondamentali da conservare fino alla fine. Una sedia che trottolava impazzita a mezz’aria piombò a terra, il letto si bloccò di colpo. Con gli occhi annebbiati dalle lacrime, Alaric vide Chrisandra mettersi a sedere sul bordo. Lo osservava dall’alto, imibile.
– Maledetta puttana! – ansimò – Cosa mi hai fatto? – Atropo Belladonna mutata – la donna avvicinò il polso al volto per annusarlo, ma badò bene di non toccarlo con le labbra – Il suo estratto concentrato è assorbito per via trans-dermica, cioè attraverso la pelle, e porta a morte nel giro di pochi minuti. Ah, oltre ad avere un buon profumo. Si alzò in piedi, nuda, la pelle leggermente lucida. Alaric non ci aveva fatto caso prima, affascinato dalle sue forme invitanti. Era cosparsa da uno strato di olio profumato quanto letale. Ma allora perché con lei non aveva effetto? – Non intendevo morire prima di aver fatto ciò che dovevo – Chrisandra parve leggere la domanda nei suoi occhi appannati. Parlava con calma, spiegando tutti i suoi ragionamenti come se appartenessero a qualcun altro. – Prima mi sono spalmata su tutte le superfici corporee una crema isolante, in modo da bloccare l’assorbimento dell’estratto di Belladonna. Sei stato tu stesso ad avvelenarti, toccandomi. Ho fatto da esca e ha funzionato. Alaric rantolò qualcosa, ma si perse nella schiuma rosata che gli emergeva dalla bocca. Tossì, inspirò rumorosamente nel tentativo di introdurre aria nei polmoni. Ma i suoi bronchi si stavano chiudendo, il battito cardiaco perdeva forza. Un tremito a piccole scosse lo scuoteva. I suoi occhi erano ancora fissi sulla donna. Poi diventarono vacui, fissi. Chrisandra rimase immobile a osservare il corpo del Chimerico in preda agli ultimi spasimi. Il veleno era stato rapido ad agire. La mascella serrata, con la schiuma rossastra che smetteva di gorgogliare, Alaric non sembrava più così mostruoso come Chrisandra avrebbe voluto. Era soltanto una creatura che stava morendo. Umano o Chimerico, non faceva differenza. Morivano tutti allo stesso modo. Almeno la morte era imparziale. Alaric giacque immobile. Chrisandra fissava il cadavere e non vi trovava la soddisfazione che avrebbe creduto. Non c’era alcuna soddisfazione in quello che aveva fatto, ma non lo rimpiangeva. La sua non era stata vendetta, ma necessità. Aveva appena liberato il suo Alveare dall’invasore, ma questo non significava nulla. Ce ne era erano stati altri come lui in ato e ci sarebbero stati in futuro. Lo aveva fatto per il suo Alveare, per Miris, per Theo. E soprattutto per se stessa.
Il veleno che aveva addosso era più dolce dei pensieri che si erano attaccati a lei come sanguisughe, succhiando la sua linfa vitale. Ormai erano parte di lei e avvelenavano l’innocenza e la purezza con cui aveva guardato il mondo. Avvelenavano il ghiaccio racchiuso nel suo cuore, senza la forza di sciogliersi. Chrisandra si lasciò cadere in ginocchio accanto al corpo senza vita di Alaric e attese che il futuro si dischiudesse, nel bene o nel male, aspettando una nota di speranza.
59
Il primo impulso di Kay fu quello di voltarsi, impugnare la pistola e scaricarla contro il responsabile di tutto quello. Lo avrebbe fatto, se fosse stato da solo. E con ogni probabilità sarebbe morto. Ma ora aveva un motivo per vivere. Si staccò da Miris, incrociando il suo sguardo. Gli occhi della ragazza erano spaventati, ma non terrorizzati. Si fidava di lui. Lentamente, Kay si volse per fronteggiare colui che si fingeva il Dio di quel posto. Clap, clap, clap. Vorax batteva le mani. Li osservava divertito, la testa piegata di lato, dietro ai robot che stavano sciamando nella stanza. Un muro di metallo luccicante che si frapponeva tra loro e l’uscita. Le luci fredde e bianche della sala si riverberavano sulle teste convesse, sulle armi da fuoco montate direttamente sulle braccia, sulle lame che uscivano dai corpi tozzi e sgraziati. Kay li degnò appena di uno sguardo. Nelle ultime ore ne aveva affrontati di ogni forma e dimensione, fino alla nausea. Non erano quelle macchine che gli interessavano. Era il loro signore. Vorax sembrava un uomo. Indossava un camice bianco e stivali rovinati. Era basso, le spalle icurvate, magro fino a rasentare lo scheletrico. Ma non era questa la caratteristica che balzava subito all’occhio. I suoi capelli erano bianchi. Non il grigiore argenteo tipico dell’età. Bianchi. Punto. Come se lo fossero sempre stati. Come se fossero fatti di luce. La pelle era chiarissima, diafana, e dava l’impressione di brillare.
Gli occhi erano un cerchio argenteo privo di pupilla. – Complimenti, paziente numero 108 – commentò, rivolto a Miris – Hai superato le mie più rosee aspettative. La ragazza serrò le labbra. Avrebbe voluto gridare che aveva un nome, che non era un numero, ma rimase in silenzio. I robot puntavano le armi, pronti a usarle al comando di Vorax. Lanciò un’occhiata a Roland, che se ne stava immobile. Era abbastanza saggio da aspettare l’evolversi degli eventi. Miris temeva che invece Kay fe qualche pazzia nel tentativo di proteggerla. Gli strinse il braccio. Il giovane fissava Vorax con aria di sfida. – Avanti, bastardo, vieni qui ad applaudire! Non nasconderti dietro i tuoi giocattoli! Vorax lo stava studiando. Kay avvertiva quello sguardo d’argento che lo traava da parte a parte. – I miei giocattoli ti crivelleranno prima che tu abbia il tempo di schioccare le dita. – E allora fallo e basta – sbottò Kay – Se è questo che vuoi, uccidici e facciamola finita! – Non vuole ucciderci – replicò Miris – Non ancora. Giusto? Vorax si ò una mano sulla tempia. Sorrise. Aveva le labbra piccole, sottili. Ricordavano quelle di un serpente. – Piccola Chimerica, il tuo potere è portentoso. Hai imparato a penetrare nelle menti anche contro la volontà del loro proprietario. – Per questo devo ringraziarti – la voce di Miris ebbe un leggero tremito – O odiarti. Non hai idea di quello che mi hai fatto are. Il nulla, il dolore di quanti morivano per portare avanti i tuoi studi su di me, il senso di colpa… – dovette fermarsi un attimo e deglutire – Ho rischiato davvero di impazzire. Vorax scosse la testa. Pareva quasi dispiaciuto. Quasi.
– Non era mia intenzione. La tua pazzia sarebbe stato uno sgradevole effetto collaterale nello studio. Un fallimento del trial. Invece guardati: non solo mi hai fornito dati preziosissimi sulla mente telepatica, ma mi hai anche portato due nuove cavie – sorrise ai Chimerici, come se stesse annunciando una buona notizia – Sarete il paziente 109 e il paziente 110. Roland non ne aveva la minima intenzione. Spostò il peso da un piede all’altro. Si sentiva relativamente al sicuro dietro al computer. Quel tipo non avrebbe osato sparargli, rischiando di colpire anche la preziosa Macchina, su cui si basavano gran parte delle sue tecnologie. Non riusciva a capire come quell’umano fosse riuscito ad arrivare fino a lì, trasformando quell’edificio nel suo quartier generale. – Non è un umano. Non è quello che sembra – Miris rispose alla sua domanda inespressa – È anche lui un Chimerico. – Sono Dio – la corresse Vorax, incrociando le braccia – Il Dio degli uomini è stato ucciso, dagli uomini stessi. Adesso è nato quello dei Chimerici – Sembrava che gli pie fare conversazione. Non ne aveva occasione spesso. Di solito preferiva vivisezionare gli esseri viventi che aveva la fortuna di catturare. Un cadavere aveva molte più cose da dirgli. – Il mio Vangelo è studiare i Chimerici come voi tre… voi due, scusate. Per quanto riguarda te, ragazzo… non sei un essere completo. Kay abbassò lo sguardo sul braccio d’ombra, coperto dalla tuta. Eppure Vorax lo aveva notato. Quanto sapeva davvero su di loro? – Oh, ti controllo, insieme ai tuoi compagni, fin da quando siete entrati nella mia città – si sfregò le mani, compiaciuto – Vuoi sapere come? Tirò fuori dalla tasca del camice un rettangolo scuro, munito di tasti. Lo puntò contro la parete di destra, in cui in alto erano montati degli schermi simili a quelli della Macchina. Presenze silenziose. La luce rossa lampeggiò. Quando divenne fissa, gli schermi si riempirono di immagini. Kay rimase stupito. Riconosceva il luogo dell’attacco, c’erano ancora i segni della lotta sul pavimento, anche se i corpi erano stati rimossi. Un gruppetto di droidi Ripulitori si affaccendava, portando via rottami con pinze che avevano alla fine delle corte braccia. Altri avevano un meccanismo che emetteva una fiamma brillante, riparando i danni del laser, del fuoco e dell’energia radiante
sulle pareti dell’edificio. Altri ancora lucidavano il metallo. In breve non sarebbe rimasta traccia di quanto era successo. Ma era successo! Miris serrò le labbra. Quante vite erano andate perdute? Per quanto si sforzassero, quelle macchine non sarebbero mai riuscite a lavare via il sangue che marchiava quel luogo. Una città di luce. Una città di morte. Negli altri schermi si rincorrevano immagini del labirinto sotterraneo e delle rovine soprastanti. Vorax premette rapidamente i pulsanti e le proiezioni, che permettevano di vedere luoghi distanti, cominciarono a scorrere sempre più velocemente. Miris cercò di seguirle, ma le girava la testa. Aveva davvero visto qualcosa in quei corridoi? Qualcuno? Quella sagoma apparteneva a qualche sopravvissuto o soltanto ai robot umanoidi? Vorax spense l’apparecchio. Gli schermi tornarono vuoti e silenziosi. – Come fai a controllare tutto l’edificio? – domandò Roland – Come hai fatto a rimettere in funzione le apparecchiature del ato? Vorax rimise il telecomando in tasca. Corrugò la fronte. Non intendeva condividere i propri segreti con le cavie. Con nessuno. Appartenevano solo al Dio e lui non aveva nessuna intenzione di essere scalzato dalla posizione. – Ti basti sapere che in questo luogo gli apparecchi elettronici hanno continuato a funzionare, resistendo anche alla più potente tempesta magnetica del pianeta – spiegò, abbracciando con un gesto l’ambiente – È completamente schermato. Pareti, pavimento, soffitto… tutto quanto. Credo che lo scopo fosse proteggere la Macchina. – Ascoltami – Roland cercò di farlo ragionare – Non abbiamo interesse a combatterci. In fondo vogliamo la stessa cosa: la conoscenza. Siamo venuti qui per consultare la Macchina. Non ci interessa altro. Concedicelo e ce ne andremo senza disturbare i tuoi studi. Anzi, potremmo anche trovare il modo di collaborare. – Roland – Miris emise un gemito strozzato. Non poteva credere che il
Chimerico della Terra pensasse veramente una cosa del genere. – Ma è un assassino. Un pazzo! – Siamo tutti assassini – replicò Roland, con amarezza – Quanti umani credi che abbia ucciso combattendo per Alaric? Quanti ne ucciderò ancora? Kay in questo può capirmi. Se una vita può salvarne altre, o comunque permettere una conoscenza che può cambiare il modo di vivere in questo mondo, forse è un sacrificio necessario. Miris scosse la testa. – Finché sono gli altri a sacrificarsi, giusto? – Chimerico, non si scende a patti. Il computer mi appartiene. A me e a me soltanto – Vorax scosse la testa – Esiste un solo Dio, ed egli non divide il potere. Mi definite Chimerico perché non sono umano, ma questo termine non è corretto. Sono molto di più. I vostri corpi permetteranno ai miei studi di compiere un balzo in avanti. Ho già creato il prototipo di una nuova razza, fatta di carne e metallo, con le potenzialità di un cervello umano, i poteri chimerici e la resistenza e la longevità di una macchina. Una forma di vita finalmente adatta a questo mondo. Miris scorse quel progetto nella mente e rabbrividì. – Sei pazzo – ripeté – Non puoi giocare così con la vita! – Sono un Dio – la corresse Vorax, quieto – E un Dio non è mai pazzo. Può fare quello che vuole. È colui che crea. Kay mise una mano sulla pistola. – Per quello che mi riguarda, abbiamo già perso abbastanza tempo in chiacchiere – sbottò – Lasciaci andare! I robot non abbassarono le armi. Vorax si tormentava le mani, in una sorta di tic nervoso. – Ragazzo, tu morirai per primo –disse – Sarà divertente studiare le reazioni della mente della telepate mentre i miei robot ti fanno a pezzi. Così potrò registrare se sono più o meno intense di quelle avute per la morte dell’umano che
l’ha portata qui. È direttamente proporzionale al sentimento che prova nei vostri confronti? C’è un modo per misurare quantitativamente le emozioni? Miris gli strinse la mano, ma Kay non batté ciglio. – Meglio la morte, piuttosto che farti da cavia. – Tranquillo, non mi servi come cavia – Vorax fece un gesto vago – Ho già abbastanza dati riguardo quelli che volgarmente definite Chimerici d’ombra. Kay scambiò un’occhiata con Roland. – Il Chimerico che vi ha parlato di questo posto! – Ah, lo avete conosciuto? – Vorax sembrava interessato – Il mio paziente 88. L’unico che sia riuscito a scappare. Dov’è adesso? – Morto – rispose Roland, cupo – Sepolto nel cimitero dei droidi. Adesso le parole di quel Chimerico, che avevano giudicato pazzo, assumevano un senso ben preciso. – Molto bene – Vorax si esibì in un sorriso che mise in mostra la dentatura candida – I robot che avevo mandato a cercarlo hanno portato a termine il loro compito. La morte è la punizione per chi profana il corpo del Dio – Si chinò, sfilandosi lo stivale e mostrando ciò che vi era nascosto. Miris trasalì. Sotto non c’era carne vivente, ma solo una barra di metallo, un’appendice meccanica liscia e munita di sensori luminosi.Vorax aveva sperimentato le tecniche di fusione tra vivente e macchina su se stesso. – Ma la Luce ha trionfato – Vorax rimise lo stivale. Nei suoi occhi d’argento liquido brillava una lucida follia – Adesso deponete le armi. Sono impaziente di iniziare gli esperimenti. Roland scosse la testa. – No – incrociò le braccia – Da’ pure ordine ai robot di sparare. E distruggi così anche il tuo prezioso computer!
Il volto di Vorax tornò serio. Freddo. Era difficile fissarlo a lungo, lo scintillio vorticante che costituiva la sua pelle faceva bruciare gli occhi. – Non sfidarmi – sibilò – Non farlo mai. Sono più antico di quello che puoi immaginare. Siete come bambini per me. Bambini disubbidienti. Per questo sarete puniti. Saranno i tuoi compagni a pagare per la tua insolenza. Un cenno. Un robot fece fuoco. Kay spinse indietro Miris ed emise un grido strozzato quando il laser gli morse la coscia, lasciando una stria ustionata. Barcollò, ma rimase in piedi davanti alla ragazza. Se Voxar avesse voluto ucciderlo, lo avrebbe già fatto. Era soltanto un colpo dimostrativo. Roland era impallidito. Di colpo il suo piano non gli sembrava più così astuto. Come sempre, stava sfruttando il sacrificio di un compagno. Aveva criticato Pyrgo e soprattutto Starr per la violenza con cui uccidevano agli ordini di Kay. Li aveva giudicati, sentendosi superiore perché non si immischiava nella battaglia. Magnanimo, persino. Conduceva l’esercito di Alpha5 nel centro dell’insediamento nemico scavando tunnel nella roccia, poi rimaneva in disparte a guardare. No, non gli piaceva uccidere. Qual era la differenza tra uccidere e lasciar morire? D’impulso afferrò il cuore del computer. Lo sollevò sopra la testa. – Ordina ai tuoi robot di andarsene – sostenne lo sguardo argenteo dello scienziato – Altrimenti rompo questo affare, insieme ai suoi segreti!
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Per un attimo nessuno si mosse. Kay pensava a una via di fuga. Schiacciarsi contro le pareti, dove i laser dei robot non potevano raggiungerli, e cercare di sfondare una lamina di metallo a colpi di energia radiante? Sei colpi in tutto. E poi? I robot erano immobili, aspettavano l’ordine. Vorax pareva una statua di ghiaccio. Poi, lentamente, si rilassò. Scoppiò a ridere. – Fallo, che aspetti? – scrollò le spalle – Perderò tutti i miei dati, ma tu perderai il motivo per cui sei arrivato fino a qui. Aveva ragione. Roland percepiva le gocce di sudore che gli solleticavano la fronte. Il pezzo della Macchina era freddo, sembrava scivolargli tra le dita sudate. Quella scatola era la chiave per leggere i segreti degli Antichi. Era l’unico modo per restituire agli uomini la dignità di signori della Terra. A Roland non interessavano le armi, a differenza di Alaric. Era la cultura che cercava, tutto il bagaglio di conoscenze che aveva accompagnato l’umanità nei secoli e che poi era andata perduta. La custodia con il cd premeva contro la sua schiena. Serrò la mascella. Quanti problemi avrebbe potuto risolvere con quelle nozioni? Senza contare che avrebbe finalmente sfiorato quel ato, che per lui era diventato un ideale. Un ideale in cui si era rifugiato, fuggendo da una realtà di sofferenza. Sentiva le occhiate di Miris e Kay attraverso il vetro. Aspettavano la sua mossa. Rompendo quell’oggetto avrebbe vanificato davvero gli studi di Vorax? Per quello che ne sapeva, lo scienziato poteva aver acquisito abbastanza nozioni da
riuscire a ricostruirlo. E l’umanità avrebbe perso per sempre il suo ato. – Non vi permetterò di andarvene – Vorax incrociò le braccia – Quindi puoi distruggere il computer. Sono disposto a correre il rischio. E tu? Stava bluffando? Roland non sapeva cosa fare. Guardò Miris. Il volto della ragazza era triste. – Sa che non lo farai – disse – E lo so anch’io. Con un sospiro, Roland abbassò il computer. Lo rimise a posto. Non riusciva a pensare di essere lui la causa della distruzione dell’unica goccia di ato che rimaneva sul mondo. Era stato il suo scopo nella vita. Adesso diventava la sua condanna. – Scusate – disse soltanto. Vorax era già in azione. Lanciò una piccola boccetta di vetro. Si infranse ai piedi del Chimerico della terra, che indietreggiò di un o. – Roland, non respirare! – gridò Miris in avvertimento. Troppo tardi. Senza odore o sapore, la fragranza della fialetta si insinuò nelle narici del Chimerico. Agiva in fretta. Roland barcollò. – Se non vuoi deporre le armi, ci sono altri modi per renderti inoffensivo – spiegò Vorax, tranquillo. Il gas agiva e subito si disperdeva nell’aria. A quella distanza non correva pericolo e i robot non ne subivano l’effetto. Roland non riusciva a stare in piedi. Le gambe non gli rispondevano. Parevano morte. I muscoli erano bloccati. Si afflosciò a terra, privo di forza. Riuscivano a muoversi soltanto occhi. – Tranquillo, il battito cardiaco e la respirazione continueranno – Vorax avanzò di un o – Rimarrai cosciente. Non sei contento? Potrai goderti gli studi che effettuerò sui tuoi compagni. In fondo, hai preferito un computer a loro. Farai da spettatore. Ho idea che questa posizione ti piaccia.
Roland provò a dire qualcosa, ma gli uscì soltanto un mugolio strozzato. – Non temere, poi penserò anche a te – Vorax tornò a rivolgersi al giovane – Le tue armi, prego. O uccido il tuo compagno. Miris annuì appena. Non stava scherzando. Con rabbia, Kay si sfilò la fondina con la pistola e la lasciò cadere a terra. – Contento? – Anche le spade. Kay obbedì, con movimenti secchi e tesi. Adesso si sentiva inerme. Nudo. Miris gli stava appoggiata alla schiena, il giovane avvertiva il suo leggero tremito. – Venite fuori! A o lento, si misero vicino a Roland. I robot li fissavano con occhi luminosi. Kay li studiò, cercando di individuarne il fusibile, come suggerito da Samuel. Gli venne da chiedersi che fine avesse fatto l’Ingegnere. Probabilmente lui avrebbe saputo come comportarsi con quelle macchine, era il suo campo. Oppure avrebbe fatto esplodere tutto, combinando un disastro. Anche in quello era bravo. Forse di più. Ma non c’era, dannazione a lui! Miris fece scivolare la mano in quella del giovane. Kay la strinse. – Ti amo anch’io – sussurrò la ragazza. Un attimo dopo la luce si spense e i robot parvero impazzire. Samuel Barni procedeva strisciando nel condotto di areazione. Da un po’ gli fischiavano le orecchie e aveva la spiacevole sensazione che qualcuno stesse parlando di lui. Senza toni lusinghieri, per di più. Scrollò le spalle e questo movimento gli fece sbattere la testa contro un tubo che gli scorreva sopra. Percepì una leggera scossa e si affrettò ad abbassarsi. Restare fulminato là dentro, a marcire lentamente ammorbando tutto l’edificio con la propria putrefazione, non rientrava nei suoi piani per l’immediato futuro.
A dire il vero, non aveva un piano. Si limitava a seguire tutti quei cavi e quei tubi, forieri di mistero. Lo affascinavano. Chissà a cosa servivano! E dove portavano? Samuel era sicuro che sarebbe stato un posto interessante e pieno di nuove idee. I suoi colleghi lo avrebbero invidiato, una volta tornato all’Alveare. Avrebbe indetto un’Assemblea speciale, annunciando le meraviglie scoperte nel suo viaggio e stupendoli tutti con i nuovi progetti. Migliorie ai droidi, alla rete stradale, ai pannelli di energia, alle tubature… lo avrebbero fatto addirittura Triumviro! Scosse la testa. No, quella carica era solo una seccatura. Finiva che tutti venivano a lamentarsi da te, anche per le sciocchezze, e non ti lasciavano lavorare in pace. Bastava guardare Florenzia, si era inacidita da quando era diventata Triumvira. Non che prima fosse dolce e altruista, almeno per chi la conosceva davvero, ma era drasticamente peggiorata. Samuel la capiva. Doveva sorridere alla gente tutto il giorno, ascoltando le loro ciance. Una tortura che faceva rabbrividire l’Ingegnere. Chi poteva sopportarla? Era normale che poi, appena potevi, spaccavi tutto quello che ti capitava tra le mani. O, nel caso di Florenzia, ti disinteressavi del resto del mondo per portare avanti il tuo piano personale. Il condotto si fece più largo e le ragnatele diminuirono. La tuta di Samuel ne era così piena che aveva cambiato colore e persino la borsa era rivestita da quel sudario appiccicoso. La polvere si diradò, smettendo di sollevarsi in nuvolette che facevano starnutire a rotazione il povero Ingegnere. Si sentiva la gola secca, il naso gli colava. Usò la manica per asciugarsi, riuscendo soltanto a peggiorare la situazione. – Mancava di essere allergico alla polvere – borbottò, tra uno starnuto e l’altro. Per lo meno non aveva visto un robot da quando era entrato là. Forse erano troppo grandi per pattugliare il condotto. Più volte aveva trovato bivi e aveva dovuto scendere nei dislivelli, aggrappandosi ai tubi. Anche se aveva perso l’orientamento già da tempo, se mai l’aveva avuto, reputò di essere ormai nelle profondità dell’edificio. Il ronzio di fondo che permeava quell’ambiente si era fatto più intenso. Bene, si disse Samuel. Dove c’era rumore, c’erano macchine in funzione. Dove c’erano macchine in funzione, c’erano nuove idee per i suoi progetti.
Affrettò l’andatura, anche se strisciare lo costringeva a muoversi a o di formica. I gomiti erano scorticati e i muscoli della schiena cominciavano a protestare per quella posizione obbligata. Samuel si leccò le labbra. Forse stare tutto il giorno chiuso nel suo laboratorio non aiutava il suo fisico. Si ripromise di dedicarsi agli esercizi atletici appena tornato all’Alveare. Scendere le scale per prendere nuove tavolette d’argilla nel magazzino, invece di mandare il primo adepto che trovava, poteva essere un inizio. Meglio cominciare per gradi. I suoi occhi, ormai abituati all’oscurità, scorsero una luminosità giallognola. A Samuel il buio non dispiaceva, così non aveva dovuto vedere tutti gli scheletri di insetti su cui aveva strisciato fino a quel momento, ma fu contento di avvistare nuovamente la luce. Significava che era arrivato da qualche parte. Non aveva mai sofferto di claustrofobia, ma quel condotto che lo stringeva da tutte le parti cominciava a metterlo a disagio. Gli mancava l’aria. Il ronzio si era fatto quasi assordante. Un tambureggiare lento, regolare, che faceva vibrare la galleria e si riverberava nello stomaco. Samuel sentì crescere l’eccitazione. Quel “da qualche parte” si preannunciava mooolto interessante. Raggiunse una grata arrugginita. La luce proveniva dall’ambiente sottostante e l’Ingegnere schiacciò il viso sulle maglie per sbirciare meglio. Quello che vide superava le sue più rosee aspettative. Sotto si lui si estendeva un grande salone dalla forma ottagonale, pieno di imponenti armadi di metallo e pannelli con luce lampeggianti. I cavi convergevano là, emergendo dalla pareti e dal soffitto, infilandosi in quelle macchine incredibili per poi tornare a serpeggiare nei condotti. Oltre i pannelli di vetro erano visibili dischi che giravano, grosse batterie, circuiti accumulatori di energia. Il paradiso di ogni Ingegnere. – Ditemi che non è un sogno – mormorò Samuel e, dato che nessuno rispondeva, si diede un pizzicotto. Fece male, quindi era davvero sveglio. Ed eccitato. Armeggiando nella borsa, riuscì a tirar fuori le tenaglie e, questa volta con più calma, divelse la grata, che piombò al suolo con un rumore sordo. Si perse nel muggito profondo delle macchine che lavoravano. Non comparve nessun robot e, rassicurato, Samuel osò sporgere cautamente la testa. Il salone sembrava deserto. – Tutto per me – si sfregò le mani.
Nonostante la curiosità lo rodesse, preferiva evitare di frantumarsi le caviglie con un salto imprudente. Gettò prima la borsa a terra poi, dondolandosi con le braccia, si lasciò scivolare sulla erella di metallo che raggiungeva quasi il condotto. Era stabile, anche se arrugginita. Si rimise la borsa a tracolla, barcollando sotto il suo peso, e scese in fretta i gradini. Sull’ultimo esitò. Un occhio rosso lampeggiava davanti al suo piede. Samuel aveva capito che si trattava di una fotocellula già da qualche tempo. Un sensore che permetteva di rilevare la presenza di intrusi e attivare una telecamera per controllarli. L’Ingegnere era soddisfatto per il proprio intuito. Ma l’aveva detto agli altri? Ops, forse se ne era dimenticato. Non gli era parso un dettaglio così importante. Forse lo era? Pazienza. Samuel scrollò le spalle. Glielo avrebbe detto in un altro momento. Sempre che fossero vivi. Gli sarebbe dispiaciuto perdere il suo Cacciatore preferito, nonché fornitore di reliquie della Superficie. Anche se continuava a chiamarlo con quello sgradevole nomignolo. – Vedrai cosa ti combina adesso il tuo Sammy! Saltò la fotocellula con un balzo che reputò aggraziato, anche se lo faceva assomigliare a un verme delle caverne che si contorceva in preda a crampi intestinali, e proseguì con un bel sorriso stampato in faccia. Non intendeva farsi scoprire. Era furbo, lui! Si immerse nel labirinto di armadi, alti anche tre metri, addossati alle pareti e raggruppati in una struttura centrale che aveva tutta l’aria di essere un reattore di energia. Il metallo scuro era lucido, perfettamente funzionante. Vibrava, contenendo l’energia che gli arrivava dai pannelli della Superficie e veniva poi smistata su tutto l’edificio. Il sorriso di Samuel si allargò. Aveva trovato la centrale energetica della città “H”. Trotterellò allegramente verso il pannello principale di controllo. Era formato da una serie di leve e di pulsanti, di colore diverso. Alcuni lampeggiavano
ammiccando, altri erano fissi. Rosso e verde si alternavano in un dipinto di elettronica avanzata che lasciò Samuel senza fiato. Il centro di controllo di tutto l’edificio. Delle luci, degli allarmi, dei robot… Peccato che l’Ingegnere non sapesse quale leva corrispondesse a ognuna di quelle funzioni. Beh, poco male. Cominciò a canticchiare tra sé. – Quel ragazzo dovrà portarmi almeno una decina di reliquie funzionanti per ringraziarmi – considerò – Cosa farebbe senza di me? Poi abbassò tutte le leve, convinto di aver fatto la sua parte nella missione. Probabilmente il blackout sarebbe durato pochi minuti, c’era sicuramente un impianto di emergenza. Dovevano bastare.
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Miris sbatté gli occhi, non vedeva più niente. All’inizio pensò che un velo scuro le fosse calato addosso. Poi si accorse che le luci si erano spente. All’angolo della sua mente, qualcuno stava canticchiando una canzone, giocando con leve e pulsanti. La ragazza accennò un sorriso. Grazie, Sammy… Samuel! Una scarica elettrica. Un’esplosione. Ronzii frenetici, clangore di metallo contro il metallo. Si sentì spingere indietro, mentre gli occhi cominciavano ad abituarsi all’oscurità. Era rischiarata da piccoli lampi di luce. I robot erano del tutto fuori controllo. Alcuni ruotavano su se stessi, altri sbattevano contro le pareti, altri crollavano a terra emettendo scintille dalla testa e dalle giunture. Qualche colpo partì, ammaccando il soffitto. Cortocircuito. L’urlo di rabbia di Vorax sovrastò quella cacofonia, che si spense in fretta. I circuiti dei robot erano saltati. – Pensa a Roland – Kay la spinse da parte, mentre a tastoni cercava di raggiungere le armi, rimaste nella stanza RM. Vorax gli sbarrò la strada. Kay avvertì d’improvviso una sensazione di minaccia. Emanava dallo scienziato. – Avrei preferito evitarlo – sibilò questi. I suoi occhi erano dischi di argento liquido nel buio. – Mi piace lavorare su cavie sane. Ma non mi lasciate altra scelta. Miris, inginocchiata accanto a Roland, capì quello che stava per fare. – No – protesse il Chimerico della terra con il proprio corpo, per quello che poteva servire. Ci voleva una barriera ben più solida e schermante. – Attenzione. È un Chimerico della luce, emette fotoni ad alta intensità!
E radiazioni. Potenti quanto i Raggi. Forse di più, se si concentrava. Un portatore di luce e di morte per irradiazione massiva. Gli occhi di Vorax brillarono, riducendosi a due fessure. I suoi capelli si sollevarono in un’aureola candida, la pelle cominciò a rischiararsi mentre l’energia che lo componeva si accumulava e si mutava in luce. Si erse alto e scintillante, come era stato per decenni, perché per la luce il tempo perdeva importanza. – La mia mutazione mi rende in grado di scompormi in radiazione luminosa. Mi rende immortale e insostenibile per l’occhio umano. Mi rende un Dio – mormorò, anche se la sua bocca stava sparendo in quel chiarore – Et lux fiat! Se Miris avesse intuito quello che Kay pensava di fare, l’avrebbe fermato a ogni costo. Ma la sua mente era imperscrutabile e la ragazza poté soltanto rimanere a guardare, mentre il giovane d’istinto spiccava il balzo. Lo vide travolgere Vorax con il proprio peso e spingerlo nella stanza RM. Nella caduta urtarono contro il mobiletto che teneva bloccata la porta scorrevole. Con un ronzio, il battente scivolò fino a chiudersi. Fu attraverso il vetro che vide il lampo di luce accecante. Miris fu costretta a distogliere lo sguardo. Si accucciò contro Roland, percependo i muscoli paralizzati e tesi. Gli protesse gli occhi con una mano, abbracciandolo, stringendosi a lui come due bambini sperduti. Il bagliore durò per qualche istante, poi si spense, lasciando piombare l’ambiente in un buio che sembrava ancora più nero. Silenzio. Assoluto. Pregnante. Persino il ronzio dell’edificio si era fermato. Era morto. Miris si tirò su, il respiro affannoso. – Kay – mormorò. Chi poteva resistere ad una tale esposizione? Nella penombra aleggiava soltanto il chiarore di una luce di emergenza, sopra la porta della stanza RM. Fissa, biancastra come neve sporca. Si scioglieva sulle pareti, sui monitor del computer e sui corpi dei robot riversi al suolo, rimasti congelati nelle loro posizioni. Anche il tempo pareva essersi fermato per Miris.
– No – mormorò, con un filo di voce. Non Kay, che l’aveva sempre fatta sorridere. Non Kay, che non se la prendeva quando lei lo trattava male anche se lui non c’entrava niente. Non Kay, che le era sempre accanto quando aveva bisogno. Non Kay, che l’amava al punto di sacrificare se stesso per salvarla… Perché in quel mondo ogni gesto d’amore doveva mutarsi in sacrificio? Si alzò in piedi, barcollando. Riusciva soltanto a pensare che non era giusto. Che senso aveva vivere, amare, soffrire se, al momento in cui era possibile finalmente la felicità, sopraggiungeva la morte? Mi dispiace. I pensieri di Roland erano intrisi di colpa. Aveva ragione lui, alla fine. Non ne valeva la pena. Vi ho portati qui a morire per un mio sogno. E adesso, che mi rimangono in mano solo le ceneri, ne vedo la follia e l’orgoglio, mascherati da finto altruismo. Era soltanto un egoistico tentativo di possedere i segreti del ato. E diventare qualcuno nel presente. Miris smise di ascoltarli. Come ubriaca, raggiunse la porta della stanza RM. Si aprì da sola prima che lei potesse toccarla. Dallo spiraglio emerse Vorax, avvolto nello scintillio residuo. – Uno in meno – sentenziò. Miris indietreggiò di un o. Non voleva credere alle sue parole. Erano troppo terribili. La sua mente le registrò con ritardo e comunque non volle accettarle. Oltre Vorax, intravide il tavolo e una sagoma abbandonata nel buio. – L’hai ucciso – ansimò, mentre Vorax avanzava. – La luce di Dio non perdona. – Smetti di parlare così. Non sei un Dio. Sei solo un pazzo e un assassino – Miris indietreggiò ancora, fino ad urtare Roland. Il Chimerico della terra cercava di muoversi. Inutilmente. Non poteva aiutarla. Ma Miris non provava paura. Non provava niente. Soltanto un senso di vuoto. Suo padre studiava le mutazioni per creare una razza umana perfetta, come un
Dio. Alaric voleva conquistare il mondo ed esserne Dio. Vorax era convinto di raggiungere la conoscenza suprema e di brillare come Dio. Non c’era bisogno di quel genere di Dei nel mondo. Perché gli uomini avevano paura di essere solo uomini? Miris gridò. Non con la voce, ma con la mente. Una stilettata di rosso dolore che falciò intorno a sé. Vorax barcollò, come se fosse stato schiaffeggiato. Si prese la testa tra le mani. – Hai ucciso l’uomo che amo – urlò la ragazza – Lo amo anche se mi definisce una ragazzina spocchiosa e viziata. Lo ero. Forse lo sono ancora. Ma non mi arrogo il diritto di essere un Dio. Ho sbagliato tanto. E forse sbaglio ancora, perché non posso e non voglio perdonarti!–. Dipinse lame nella propria mente, fece ardere fuoco di rabbia e cadere fulmini di tensione. In quella sorta di universo parallelo era libera di creare tutto ciò che voleva. Avvolta in una corazza di disperazione, Miris uscì dal castello fortificato e andò all’attacco. Vorax gridò, sostenendosi allo stipite della porta. Si sentiva lacerare e bruciare, anche se non aveva ferite sul corpo. Era come se qualcosa scavasse dentro la sua testa e la fe sanguinare. – Basta, smettila! Ma Miris non voleva smettere. Non si era mai resa conto del potere che possedeva fino a quel momento. La sua mente si abbatté come un martello contro quella di Vorax. Voleva vedere fino a che limite poteva spingersi? Lo avrebbe accontentato. In realtà non c’era limite, se non nella propria coscienza. Perché si era accorta di amare Kay solo al momento di perderlo? Non aveva più lacrime da versare dagli occhi e le pensò, tramutandole in olio bollente che colava addosso al nemico. Lo odiava per tutto ciò che aveva fatto. Ai compagni. A Kay. A lei. Per quello che era diventata. Una Chimerica assassina. Quello che aveva giurato di non essere mai.
La rabbia si estinse di colpo e Miris tornò cosciente di sé. No, c’erano dei limiti che non andavano superati. Uccidere un proprio simile era uno di quelli. E nulla le avrebbe fatto credere il contrario. Altrimenti avrebbe perso se stessa. Invece aveva la sensazione di essersi ritrovata. Si tirò indietro. Vorax giaceva boccheggiando davanti a lei, in ginocchio, aggrappato con entrambe le mani allo stipite della porta. Sollevò la testa, ansimante. Gli occhi d’argento si fissarono su di lei. Si restrinsero. – Un esperimento va portato fino in fondo – gracchiò – Hai perso la tua occasione. Miris lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi. Vorax aveva deciso di ucciderla. Anche lui aveva un limite, nonostante la sua brama di ricerca rasentasse la follia. La sua vita era più importante e lei al momento rappresentava un pericolo da eliminare. Confusamente, la ragazza si chiese come sarebbe stato morire. C’era davvero qualcosa dopo la morte? Il nulla? Un posto più accogliente di quel mondo? O addirittura il paradiso mutava in base a quello che si credeva? Se avesse potuto scegliere, Miris avrebbe voluto trovarsi in un posto in cui c’era anche Kay. Il resto non era importante. Perciò rimase sorpresa di esser morta così velocemente, quasi senza accorgersene, quando lo vide.
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L’energia oscura non aveva prove della propria esistenza. Non che a lei importasse veramente il fatto che gli uomini la ipotizzassero o meno. Si limitava a esistere per i fatti suoi. Era l’energia del vuoto, non valutabile e antigravitazionale. Era la forza negativa che teneva i corpi lontani tra loro e spingeva l’universo a continuare la sua espansione. La sua natura era indefinita. Chi in ato l’aveva studiata, la definiva omogenea e svincolata dalle forze fondamentali della fisica. Come i buchi neri, del resto. Al loro interno, ogni sistema razionalizzato dall’uomo perdeva significato. Erano oggetti così densi da generare un campo gravitazionale così intenso che neppure la luce riusciva a sfuggire e il continuum spazio-temporale veniva trascinato come un cucchiaio gira e trascina il miele in cui è immerso. Kay non sapeva perché mai stesse pensando a quelle cose, visto che era morto. Non se ne era mai preoccupato in vita, non intendeva cominciare nell’aldilà. Avvertiva un senso di vuoto freddo e incorporeo, come se il corpo non gli appartenesse più. Ricordava confusamente l’avvertimento di Miris, il corpo del Chimerico della luce che cominciava a brillare. Aveva agito d’istinto, spingendolo lontano da Roland e dalla ragazza. Un ottimo piano, se non avesse contemplato l’essere investito in pieno dalla radiazione luminosa e dai fotoni ad altissima intensità di Vorax. Quindi era morto. Punto. Perché allora si sentiva così… strano? D’accordo, non aveva mai sperimentato la morte né incontrato qualcuno che potesse raccontargliela, ma non se la immaginava in quel modo. Non avrebbe dovuto provare dolore? Reputava di aver perso i sensi, ma adesso era cosciente. Allora tanto valeva aprire gli occhi. Lo fece. Rimase deluso nel notare che l’aldilà era scuro come il suo mondo, c’era solo una luminescenza biancastra. E una sagoma più distinta. Un grosso
cerchio che assomigliava davvero tanto alla macchina RM vicino alla quale era morto. Davvero un brutto posto. Provò a muoversi. Era una sensazione strana, come se fosse senza gravità. Sollevò il braccio destro sopra la faccia. Era scuro e d’ombra come lo ricordava… Un attimo! Sbatté le palpebre. Il suo braccio d’ombra era il sinistro! Si diede dell’idiota. Magari nell’aldilà funzionava al contrario e la destra era la sinistra e viceversa. D’accordo, era un problema per le indicazioni stradali, ma dubitava di incontrare molta gente spersa in cerca di una taverna. Sollevò anche l’altro braccio. Scorse solo una massa scura d’ombra. E udì qualcuno che gridava. Una voce familiare. Sul mondo reale o nell’aldilà, quella voce lo fece balzare in piedi. Fu più facile di quello che sembrava. Perché al momento era rivestito di energia oscura. Dal braccio, sempre confinata e ignorata, si era estesa a ogni centimetro del suo corpo, in una corazza omogenea e impenetrabile anche alla luce. La ingoiava o la deviava lontano da sé. Kay non perse tempo a porsi domande a cui ovviamente non aveva risposta. Si muoveva fluido nell’ombra, perché lui era ombra. Era pura energia che fluttuava e andava a cercare il suo opposto. La luce stava per sgorgare dal corpo di Vorax, che gli voltava le spalle. Kay concentrò l’energia nel braccio e lo calò contro l’altro Chimerico. Avvertì soltanto una sorta di gorgoglio, quasi un risucchio, mentre la mano gli penetrava nella schiena dell’avversario come un sasso in uno stagno. Vi affondò fino a frantumare la gabbia toracica.
Due tipi di energie opposte che si scontravano. Kay sentì che la luce veniva attratta e al tempo stesso deviata, in una contraddizione di gravità e antigravità, di attrazione e repulsione elettrostatica. Si tese, stringendo i denti, mentre la luce si condensava su se stessa. Ed esplodeva. Il corpo di Vorax, ormai in forma umana, si afflosciò in avanti, sanguinando dal foro nel petto. Kay lo fissò senza capire. Aleggiava sulla soglia, rivestito di energia che lo faceva fondere con le ombre della stanza. – Kay? – Miris, in piedi, lo fissava. Era il riflesso del suo sconcerto. – Ma… Il giovane abbassò la testa, scrutando il proprio corpo. – Mi vedi? – A dire il vero, solo gli occhi – la ragazza deglutì – Ecco, sto morendo e questo è uno scherzo disperato della mia mente. – Mah, veramente dovrei essere io morto – Kay provò ad inarcare un sopracciglio. Non era sicuro di esserci riuscito. – Mettiamoci d’accordo, okay? – Okay – Miris si limitò ad annuire, troppo confusa. Quella conversazione era assurda. Tutta quella situazione lo era. Un mugolio si intromise. Roland! Si era dimenticata di lui! Il Chimerico della terra provava a parlare. Gli occhi si muovevano. Un indice si piegava. L’effetto del gas paralizzante stava svanendo. – Oh, scusa – Miris si inginocchiò accanto a lui. – Chi…Chi… – cercava di pronunciare Roland, lottando con i muscoli della laringe e della lingua – Chimerico… – e guardava Kay. – Sta pensando che sei un Chimerico completo – Miris accolse i suoi pensieri, era più facile per entrambi. – Sciocchezze – il giovane scosse la testa – Avevo solo un braccio in cui si era
manifestata la mutazione… – No – Miris lo interruppe – Dice che la mutazione è in ogni cellula del tuo corpo. È logico, in effetti, dato che deriviamo tutti da un’unica cellula nel grembo materno. L’energia oscura ti permea. Essa è invisibile e intangibile, ma la tua mutazione ti permette di addensarla in te. Ma non l’hai mai accettata, hai cercato di allontanarla. Per questo si è tutta condensata in un braccio. Ma, essendo un’energia, non ha uno spazio ben definito. Il tuo inconscio l’ha richiamata al momento di difendersi dalla luce e dalle radiazioni, espandendola a tutto il corpo. Kay ripensò a tutte le volte in cui, da piccolo, aveva desiderato soltanto essere un bambino normale come gli altri. Lo aveva desiderato ancora di più, da quando aveva conosciuto Miris. La guardò. Lei gli sorrise. – Ora capisco perché non riesco a penetrare nella tua mente – la ragazza sorrise – Devii anche la luce, no? E in fondo i pensieri umani sono fatti di luce! – Ragazzo… – Roland cercò di alzarsi, ma ricadde. Per lo meno sembrava di nuovo in gradi di parlare – Io… mi concentro e rendo… la mia pelle di pietra… poi torno umano… tu… puoi fare lo stesso… – Già, anch’io preferirei che tu tornassi come prima – aggiunse Miris, seria. Kay le lanciò un’occhiata. – Perché? – Fallo e poi te lo mostro. – Adesso sono io che vorrei leggerti nel pensiero. Miris rise. – A volte è fastidioso. Toglie ogni sorpresa. Un po’ balbettando, Roland riuscì a spiegargli come fare. Con il tempo diventava naturale. Dopo un paio di tentativi infruttuosi, Kay si accasciò sul pavimento, di nuovo se stesso. L’energia oscura era tornata confinata al braccio. – È faticoso – commentò, il respiro accelerato.
– Un po’ – Roland provava a muovere le mani – Poi ci fai l’abitudine. Kay si limitò ad annuire. Si sentiva spossato. Si voltò verso Miris. – Ecco, adesso puoi dirmi… Miris gli prese il volto tra le mani e lo baciò. Non riusciva a credere di poterlo fare ancora. Dopo il primo attimo di smarrimento, Kay dischiuse le labbra e il bacio fu più profondo. Non importava se fossero Chimerici o umani puri. Erano insieme. E insieme staremo bene. Roland si schiarì la voce. – Scusate, vorrei davvero potermi allontanare e lasciarvi soli, ma le gambe ancora fanno i capricci – commentò con una punta di malizia. Miris e Kay si staccarono, imbarazzati. Poi tutti e tre scoppiarono a ridere.
63
Con una sorta di schianto secco, le luci si riaccesero. A quanto pareva, Samuel aveva trovato la leva giusta. – Quell’umano è un pazzo scatenato – borbottò Roland, massaggiandosi le gambe. Gli era rimasto un crampo fastidioso. – Un pazzo che ci ha salvato la vita – Kay accennò un sorriso – E bravo il mio vecchio Sammy! Miris sedeva accanto a lui, la testa poggiata sulla sua spalla. Era come se volesse recuperare il tempo perduto. Le pareva di aver raggiunto una meta che non si era mai aspettata. – Dovremmo cercarlo. Insieme agli altri sopravvissuti. – Se ce ne sono – il tono di Roland si venò di rimpianto. – Ci sono – replicò Miris. – Li sento. Il suo potere si era amplificato, ma riusciva a controllarlo. Forse era anche merito della tortura di Vorax. Kay ne aveva spostato il cadavere nell’altra stanza. Miris non provava più odio nei suoi confronti. Solo pietà. Roland si sollevò con un grugnito. Rimase qualche attimo in quella posizione, perso nei suoi pensieri. Miris lo guardò. – Sì, c’è ancora qualcosa che devi fare – annuì – Sei venuto per questo. Roland osservò il computer che si era riavviato non appena era tornata l’energia. La Macchina del ato per cui tanta gente era morta. Attendeva, paziente. Funzionava ancora, a dispetto del tempo. Come se se aspettasse solo lui.
– Io e Alaric l’abbiamo cercato così a lungo! – mormorò – Avete idea di quanta gente è morta per ottenerlo? Kay scrollò le spalle, Miris aveva un’espressione pacata. – Sei venuto per questo, Roland. È tuo diritto farlo – ripeté, con calma. Il Chimerico della terra sospirò. – Ho trovato l’oggetto della mia ricerca, ma forse ne ho perso il senso. Questa è sempre stata la mia missione e non avevo il diritto di trascinarvi con me. Vi chiedo perdono per tutto quello che vi ho fatto are. Kay annuì, sbrigativo. – Guarda che anch’io ho trovato qualcosa! – Anch’io – gli fece eco Miris. Sorrise, di fronte all’espressione scettica di Roland. – Non è un oggetto. Quello che cerco, lo porto nel cuore. – E adesso sbrigati a infilare quel disco nella tua dannata Macchina – sbottò Kay – Sono stufo di restare in questo posto. Il Chimerico della terra aprì lo zaino, con movimenti lenti e solenni. Una ruga di concentrazione gli increspò la fronte. Tirò fuori la custodia, sbozzata in un angolo. Di colpo fu assalito dal terrore che il suo contenuto fosse rimasto danneggiato. Rotto, distrutto, perduto per sempre. Deglutì e aprì il contenitore con mani tremanti. Il cd era integro. Roland tirò un sospiro di sollievo. La tensione era stata così forte che aveva serrato la mascella fino a farla scricchiolare e adesso gli doleva. Prese il disco, tenendolo per il buco centrale senza sfiorarne la superficie cangiante. Si avvicinò al computer. Non aveva una chiara idea di dove infilarlo. Cominciò a esaminare gli schermi e là non c’era nessuna apertura. Neppure nella tastiera. Si chinò e con la mano libera cominciò ad armeggiare nella parte anteriore della cuore rettangolare. Premette un pulsante e, con un sibilo, si aprì uno scomparto. Aveva le dimensioni esatte del cd.
Roland si voltò indietro in cerca di conferma. Kay allargò le braccia. – Non guardare me. Non ho idea di come si usi quel coso, se non come sfogo quando voglio prendere a calci qualcosa. Roland gli lanciò un’occhiata truce. – Prenderesti a calci questa Macchina preziosa? – Non mettermi alla prova. E comunque dovresti chiedere consiglio a Samuel, non a me. Su questo Roland era d’accordo. Ma Samuel non c’era, sperso a divertirsi tra i macchinari misteriosi di quel posto. – Forse dovremmo prima sentire cosa ne pensa l’Ingegnere – d’improvviso il Chimerico della terra provava una strana reticenza a infilare il cd nel computer. A scoprire cosa contenesse. Aveva sognato troppo quel momento per riuscire a goderselo fino in fondo. Miris gli sorrise. – Vai, Roland. Non avere paura. – Non ho paura – protestò il Chimerico. – È solo… ah, lascia stare! – e posizionò il cd nell’apposito spazio. Chiuse lo scomparto. Un ronzio in crescendo gli rivelò che il computer stava lavorando. Analizzava il cd. Iniziava a leggerlo. Adesso cosa doveva fare? Nel dubbio, attese. Sul monitor principale comparve qualcosa, una sorta di finestra. Poi un cerchio, in cui era incritto un triangolo dal vertice rivolto verso destra. – Che cos’è? Miris e Kay si erano sporti a loro volta. Non lo sapevano. Roland provò a muovere il topo di metallo fino a spostare la piccola freccia bianca su quel simbolo. Il cuore gli batteva nel petto per l’emozione. Informazioni dal ato. Cosa c’era da imparare là dentro?
Roland cliccò, con un fremito. Per un attimo non successe niente. Poi la schermata si modificò e… Con un frizzare per la prolungata inutilizzazione, le casse del computer si accesero. Tutti e tre i compagni sobbalzarono a quel suono improvviso. Kay allungò una mano verso la spada. Roland si guardò intorno. Miris ascoltò. Aleggiava nell’aria, ritmico e armonioso. Una melodia che si spandeva nell’ambiente spoglio, colorandolo con pennellate invisibili. Dapprima colse soltanto degli strumenti, poi si aggiunse una voce. Era umana, ma parlava una lingua che non conoscevano. – Ma cos’è? – Roland spostava lo sguardo dal computer alle casse da cui proveniva quel suono. – Sento anche un flauto, come il mio… – mormorò Kay, mentre un dubbio cominciava a farsi strada nella sua mente. Miris trattenne il fiato. – È musica! – Musica? – Roland le lanciò un’occhiata perplessa – Ma le informazioni, i dati… – Il cd contiene musica – ripeté la ragazza, incredula – Canzoni degli umani del mondo antico. Chi vi aveva detto che c’era altro? Roland aprì la bocca, la richiuse. Nessuno. Lo aveva dato per scontato. Si era fidato di Alaric, il telecinetico aveva affermato che c’erano dati importanti, forse ne era convinto anche lui. E invece… Si lasciò scivolare sul pavimento, tenendosi la testa tra le mani. – Tutto inutile – sussurrò – Le informazioni riguardo la tecnologia ata, le arti mediche, la scienza. La cultura, secoli di storia… – gli sfuggì un singhiozzo – Non abbiamo trovato nulla. È stato tutto inutile! Miris chiuse gli occhi. Si lasciò cullare dalle note. Non aveva mai sentito nulla del genere. La voce continuava a cantare. Non c’era bisogno di comprendere le parole, sussurrava il significato ed evocava immagini di calore e di luce. Di speranza.
– Non è stato inutile – mormorò, poggiando una mano sulla spalla del Chimerico – Non capisci, Roland? È questo che possiamo imparare dal ato, l’eredità più grande che il mondo antico ci poteva lasciare: un canto di speranza. La voglia di cantare nonostante tutto. Le emozioni che queste note possono evocare pizzicando le corde della nostra anima. E queste emozioni non muteranno mai. Roland voleva crederci. Il volto di Miris esprimeva una fiducia che gli risultava quasi dolorosa, perché non riusciva a farla sua. – Muterà tutto. La mutazione è l’unico modo che abbiamo per sopravvivere. Il mondo antico è finito, e il genere umano come lo conosciamo con lui – e questo lo spaventava. – Lo so – Miris continuava a sorridere – La vita attuale è il risultato del flusso di raggi cosmici che hanno raggiunto il pianeta. Anche nel ato c’erano le radiazioni e con neoplasie, mutazioni e altri effetti collaterali la vita è andata comunque avanti. Per ogni livello di irradiazione si crea un diverso sistema vitale. La natura non lascia spazi vuoti. Qualunque nicchia di ecosistema, anche la più ardua e ostile, può essere riempita di vita. Ci adatteremo anche a questi Raggi – gettò un’occhiata a Kay – Lo stiamo già facendo. Miris rammentava le parole di suo padre. Adesso ne comprendeva appieno la follia. Erano soltanto dettate dalla paura di un cambiamento inevitabile. Non cambiare equivaleva a morire. – Mio padre si sbagliava – prese la mano di Kay e quella di Roland. Le strinse, infondendo una fiducia che non sapeva di avere. – Non siamo deviazione dalla purezza della razza umana, ma evoluzione. Non superiori, ma ulteriori. Non c’è niente di innaturale o mostruoso in questo. Noi siamo anche umani – fece una pausa, insieme alla musica – L’umanità non è una razza, ma qualcosa che batte nei nostri cuori. Kay ricambiò la stretta e, dopo un attimo di esitazione, lo fece anche Roland. Rimasero in silenzio, ad ascoltare quella musica che si librava nell’edificio antico e ormai quieto. Miris la accolse, la udì riecheggiare nella sua mente e sentì il bisogno di espanderla ed espandersi in essa. La portò alla mente di colui che seppelliva in un fossa scavata con il fulmine due compagni, due amici, due persone che gli avevano lasciato qualcosa che non
aveva mai conosciuto e di cui adesso non voleva fare più a meno. Si inginocchiava accanto al rozzo cumulo. Non sapeva cosa ci fosse dopo la morte, ma si augurava che fosse migliore della vita. Un luogo dove poter recuperare le occasioni mancate e i sogni perduti. Quando si alzava, gli pareva che la sua vita fosse stata comprata al prezzo di altre. Non riteneva di meritarlo. Si sentiva morto dentro, ma con la voglia di cominciare a vivere. La portò alla mente di colui che studiava le leve e i pulsanti della centrale di controllo, canticchiando tra sé. Senza quasi accorgersene aveva salvato i compagni e non chiedeva nulla in cambio. Pensava a quanto aveva appreso. A come applicarlo per migliorare la qualità di vita del suo Alveare. Perché ogni buon progetto era inutile, se rimaneva nella sua testa e non aveva un’applicazione pratica. La portò alla mente di colei che giaceva ai piedi di un letto, le mani strette alle ginocchia, senza trovar lacrime per piangere. Fissava un corpo senza vita, senza alcuna soddisfazione. Aveva avuto vendetta, ma nessuno le avrebbe restituito ciò che aveva perduto. Sorella, padre, futuro marito. E una se stessa senza colpa. Miris sfiorò tutte le loro menti e portò un pizzico di musica e di luce. Il mondo forse non era fatto per loro. Li costringeva a combattere per sopravvivere. Era nero. Stava a loro trovare i colori nella testa per dipingerlo. Toccando le mani e i pensieri di coloro a cui voleva bene, Miris cominciò a dipingerlo con i colori della speranza.
Ringraziamenti
So che sembra scontato, ma vorrei ringraziare tutti coloro che hanno letto questo romanzo, anche se appartiene a una scrittrice esordiente e non deve “vendere per forza”, come gran parte delle opere che con cui ci bombardano le grandi case editrici. Se anche per un solo istante vi ha portati in un altro mondo, vi ha fatto sorridere o comunque vi ha fatto sognare, questo è per me un regalo. Perché i libri appartengono prima di tutto ai lettori.
In secondo luogo, ormai che avete avuto la forza di arrivare fino in fondo, vorrei svelarvi qualche piccolo sfizio che mi sono permessa di nascondere tra le righe del romanzo.
La Città di Luce in cui è ambientata buona parte di Mutation è un luogo reale. Le rovine appartengono alla città di Siena (per chi la conosce, è possibile riconoscere anche le scale mobili di San sco, dove Starr scopre che Kiara è una donna). E la struttura semi-interrata nei cui meandri si muovono robot e personaggi altro non è che il policlinico Santa Maria alle Scotte di Siena, dove ho studiato e dove lavoro ormai da un paio di anni come radiologa (e capite anche perché ho improntato il romanzo sul tema di radiazioni/mutazioni…). I piani, i reparti, la sala mensa… tutti corrispondono, anche la sala dove si è insediato il Chimerico della Luce: è la stanza della Risonanza Magnetica, dove ho supposto che le schermature contro i campi magnetici abbiano fermato anche i raggi cosmici, proteggendo i computer all’interno.
Per quanto riguarda il cd di musica che Miris e gli altri ascoltano nel finale, ho immaginato che si tratti di una canzone di Enya (Wild Child o Only Time), ma siete liberi di sentirci la canzone che preferite o la colonna sonora che vorreste dare alla loro vita.
Infine, un grazie ad Andrea Zanotti per i suoi consigli e per gli altri ragazzi di scrittori indipendenti.com.
Per chi è interessato, ho già pubblicato altri romanzi di genere fantasy (Ombre sulla Terra e La città delle Nuvole), attualmente disponibili in formato cartaceo, che presto spero di poter offrire in versione ebook, alcuni racconti (Raccolta Aspettando Mondi Incantati 2012) e Pagine di due vite, sul tema dell’anoressia.
Ovviamente, ho molti altri progetti in cantiere, nella speranza che vogliate condividerli con me.
Irene Grazzini
Indice
Copertina
Mutation
Prologo
Certificato di Qualità
Parte prima SOTTOSUOLO
1
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3
4
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6
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Parte seconda SUPERFICIE
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Parte terza LA CITTÀ DI LUCE
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Ringraziamenti
Indice