Non sono io
Romanzo di Tedelù
Finché i sogni resteranno sogni e la realtà resterà realtà, io nei sogni vivrò e nella realtà sognerò… e se i sogni diventassero realtà? E se la realtà diventasse sogno? Roma, Primavera 1983
“…lo vedi lo sguardo di mia madre? Lei mi guardava sempre così…ed ogni volta che incontravo quello sguardo sapevo di esistere, e mi sentivo vivo” Dal film Super8
Parte prima
Era davanti allo specchio da più di un quarto d’ora. Si era osservata attentamente, da ogni angolatura possibile. Voleva essere perfetta per lui. Gli occhi le brillavano nella penombra della stanza, l’eccitazione le arrossiva le guance tradendo desiderio e paura. Era bella…e molto innamorata di suo marito. Ma allora cosa ci faceva lì, nella sua camera da letto, mentre lui era via per lavoro? Aspettava il suo amante. Un uomo con il doppio dei suoi anni che, con un solo sguardo, l’aveva catturata, rapita alla realtà e travolta nel vortice dei sensi. Non riusciva a resistergli, non riusciva a sottrarsi a quell’intrigo di emozioni che la avvolgevano al solo pensiero di lui. Eppure amava alla follia il suo giovane marito “bello come il sole e dolce come il miele”… e al pensiero di lui i sensi di colpa la aggredirono, con violenza, e mille dubbi le fecero ronzare come zanzare impazzite il suo giovane cervello pieno di sogni e fantasie. Basta. Non poteva più continuare. La mano pronta sul telefono per chiamarlo, per dirgli di non andare più, che stavolta faceva sul serio, che la loro storia finiva lì. Un lieve bussare alla porta e la sua mano dimenticò il telefono per soccorrere velocemente il cuore che stava per uscirle dal petto. Un ultimo sguardo allo specchio, un sorriso compiaciuto prima di volare tra le braccia di lui, per un’altra peccaminosa notte d‘amore. ### Un nastro d’asfalto illuminato dai fari della sua auto gli scorreva davanti, sempre uguale, ma lui non lo notava più. Negli occhi solo il volto della sua amata. I suoi colleghi lo avevano preso in giro per tutta la sera. “Non si fanno certe sorprese alle mogli!! Non si rientra in anticipo senza avvertire perché la sorpresa potrebbe fartela lei!” Aveva riso a queste battute. Sono battute che fanno gli uomini che lavorano spesso fuori, lontano da casa. E molti purtroppo scoprono in questo modo l’amara verità. Ma lui no. Lui sapeva che la sua mogliettina gli avrebbe buttato le braccia al collo quando lui fosse tornato a casa un giorno prima. Si perché lei lo amava alla follia e adorava le sorprese.
Era stanco di guidare ma troppo felice per accorgersene. Stava per imboccare il vialetto di casa quando pensò bene di spegnere i fari della macchina. Niente doveva rovinare la sorpresa, neanche una luce inaspettata nella via di casa. Salì silenziosamente le scale divertito all’idea di apparirle davanti all’improvviso. La casa era immersa nella penombra e regnava un silenzio assoluto. Solo quando gli occhi si abituarono all’oscurità si accorse di uno spiraglio di luce che giungeva dalla sua camera da letto. Si avvicinò lentamente verso quella luce e solo allora gli giunsero voci e risatine sommesse. Forse la sua mente si rifiutava di capire ma, certamente, quando poggiò la mano sulla maniglia, non si aspettava di vedere quella scena. Il tempo si fermò, e quella manciata di secondi che trascorsero tra l’aprirsi della porta e capire cosa stesse accadendo, gli parvero un’eternità. Sua moglie, la sua adorata, la sua amatissima mogliettina, nuda, tra le braccia di un uomo. Ma il suo sguardo si fissò su di lui, uno sguardo sgomento, pieno di dolore e umiliazione. Rimase pietrificato e aprì la bocca per dire qualcosa, ma sentì solo la sua voce, roca, che spegnendosi in gola diceva “Scusate”. Chiuse velocemente la porta alle sue spalle, ignorando la voce implorante di sua moglie che lo pregava di fermarsi. Scese le scale e in pochi minuti si ritrovò a percorrere a ritroso la stessa strada che poco prima aveva attraversato con tanta fretta e tanta ansia di tornare a casa. Guidò con lo sguardo fisso, senza pensare a niente. Le orecchie gli ronzavano, negli occhi aveva solo l’immagine di quell’uomo e sentiva continuamente la sua voce che ripeteva “Scusate”. Le lacrime gli riempirono improvvisamente gli occhi e on vide più quel volto familiare, non vide più niente, neanche quel grosso ostacolo che si frappose tra la sua macchina e la sua giovane vita. Lo schianto fu violento e, in un attimo, il dolore svanì insieme a tutto il resto. ### La donna era distesa nel letto di un ospedale, avvolta in una candida camicia da notte. La fronte imperlata da piccole goccioline di sudore che testimoniavano la fatica da poco affrontata. Aveva dato alla luce sua figlia, che ora stava accanto a lei, circondata dai parenti impazziti per il lieto evento. Facevano le facce strane, tutti protesi su quell’esserino appena nato. Si sollevò dal gruppo il volto della sua migliore amica che, con un sorriso, cinguettò: “E’ proprio un bambolotto! Sai, assomiglia tanto a tuo marito.” Il sorriso da ebete le morì sulle labbra sotto lo sguardo accorato di tutta la parentela, che, pietosamente, si era girata verso la puerpera. Lei si era rattristata al solo sentir nominare il povero marito deceduto
nove mesi prima in un tragico incidente. Già, il poverino non aveva neanche saputo che sarebbe diventato padre, e la povera piccola lo aveva perso ancor prima di venire al mondo. In realtà la giovane donna pensava a ben altro. Appena conosciuto, prima ancora che lei se ne innamorasse, lui le aveva confessato di essere sterile a causa di una malattia contratta da bambino, e che avrebbe capito se lei lo avesse rifiutato, se lei avesse voluto dei figli che lui non avrebbe mai potuto darle…ma lei si era intanto perdutamente innamorata e se lo sposò ugualmente. E quella tragica notte in cui lui la scoprì tra le braccia del suo amante, quella notte in cui morì schiantandosi contro un albero, in quella notte probabilmente fu concepita quella bambina. Fu concepita con quell’uomo che lei non avrebbe più voluto vedere perché colpevole di essere il padre del suo bellissimo e adorato marito. Quella bambina appena nata era la sorella di suo marito. Un senso di nausea le serrava la gola e ancora non riusciva a guardarla. La piccola intanto stava nella sua culla, con due occhi grandi, spalancati sul mondo. Quegli occhi cercavano qualcosa, qualcuno. Cercavano altri occhi che la guardassero, occhi nei quali riconoscersi, ma che mai lo avrebbero fatto. E fu l’assenza di quello sguardo che segnò la sua vita dai primi istanti in cui venne al mondo con la sola colpa di esistere. ### Era da un po’ che la bimba stava lì in un angolo, tutta raggomitolata, con le ginocchia strette al petto. Lo sguardo era imbronciato come ogni volta che era contrariata. A parere di sua madre assomigliava alla famosa “Mucca Carolina”. In effetti le sue guance paffute piene d’aria, che si gonfiavano e sgonfiavano ad ogni sbuffo di rabbia, ricordavano perfettamente il pupazzo di gomma. Sta di fatto che, per la piccola, sua madre la paragonava a una mucca. E più ci pensava, più una mucca si sentiva. Sua madre non la amava. Sua madre la addestrava. Questo si fa, questo non si fa. Punto. Mai un sorriso, mai una carezza. Il suo sguardo, permanentemente di disappunto, la seguiva severamente, generando in lei una profonda vergogna, probabilmente vergogna di esistere. Ed era per questo che non la cercava mai. Aveva imparato presto ad arrangiarsi da sola, sia nella pratica che nelle emozioni. Aveva una fantasia fervida ed era brava a inventare fatti e situazioni, che puntualmente le venivano in soccorso e intessevano una realtà parallela dove
lei se la cavava sempre alla grande. Peccato che la notte appena trascorsa la situazione le fosse sfuggita di mano. Era nel suo lettino che cercava di prender sonno senza riuscirci perché una strana sensazione la rendeva ansiosa. Le giungevano dalla sala da pranzo le voci allegre degli amici di sua madre. Voci e risate, risate e voci. Ma il turbamento aumentava. Sapeva di non doverla disturbare, specialmente quando stava con i suoi amici, specialmente quando alzava un po’ il gomito. Ma arrivò all’improvviso, inattesa, densa quasi da poterla toccare. La paura. Quella paura senza nome né ragione di esistere. Quella paura che prende ai bambini solo perché sono bambini e che solo gli adulti sanno far scomparire. Non sapeva che fare. Pensò di aspettare, magari se ne sarebbe andata così com’era venuta. Niente. Stava lì. L’avvolgeva. La soffocava. Contro ogni sua regola, decise di chiedere aiuto. Fu la prima ed unica volta nella sua vita che sentì l’esigenza e il desiderio di essere protetta da sua madre. Si alzò tremante e, a piedi nudi, si avviò timidamente verso la sala da pranzo, aprì lentamente la porta tanto quanto bastava a fare capolino. L’apparire di quella testolina catalizzò l’attenzione dei presenti che zittirono all’unisono: “Mamma?” Quello sguardo: “Cosa vuoi?” Con fiducia rispose quasi sorridendo: “Ho paura…” Pochi secondi e arrivò la risposta. Un ceffone sono ro in pieno viso e una frase: “Torna a dormire!” La piccola si ritrasse velocemente chiudendo la porta alle sue spalle. Era già sotto le coperte, confusa al punto da non sapere cosa domandarsi. Non sapeva bene cosa aspettarsi come risposta a una richiesta di aiuto. Non certo un ceffone. Ma la paura non c’era più. ### Ed ora era lì, con le guance piene d’aria, impotente e arrabbiata perché sua madre le aveva fatto la solita ramanzina. Già, perché i vicini di casa le avevano detto che sua figlia era troppo scontrosa, sua figlia abbassava sempre lo sguardo, sua figlia non salutava mai. “Tu devi salutare ogni volta che incontri le persone più grandi di te!” E lei così aveva fatto, contro la sua volontà, con grande sforzo. Era già la terza volta che faceva avanti e indietro davanti alle finestre del primo piano dove stavano affacciati i vicini e quindi, facendo il conto, li aveva già salutati sei volte. Ed ora sua madre le aveva chiesto di scendere a buttare la spazzatura. Eh no! E se quelli stavano ancora lì? E si mise in un angolo sbuffando e gonfiando le guance come la mucca Carolina. Ma, cominciò a piovere.
### L’odore della terra bagnata le arrivava prepotente, costringendola ad allargare le narici per poterlo accogliere appieno. Il malumore svanì in un attimo perché lei si sentiva già lì, sotto quella pioggia. Doveva uscire, subito. Ma con quale scusa? “Mamma, vado a prendere l’acqua giù alla fontanella!” Sua madre si vide are davanti una scheggia munita di una damigiana di vetro e di un enorme ombrello e non ebbe il tempo di replicare. Era già in strada. Un ampio respiro per riempire i polmoni di quell’aria profumata e uno sguardo attento, tutt’intorno, come un regista che ha appena trovato il posto giusto per girare la scena principale del suo ultimo film. Si avviò lentamente lungo il viale sotto casa. Camminava piano. Chiunque fosse ato avrebbe visto solo un ombrello con due gambe. E la sua fantasia volò. Lei era una povera bimba sperduta e abbandonata e tutto intorno regnava il silenzio. Non c’era nessuno. Non esisteva nessuno. Chi si sarebbe preso cura di lei? La pioggia cadeva suonando una musica cadenzata che, come un mantra, si ripeteva uguale a se stessa. L’atmosfera si era creata, e tutte le paure e i pericoli del mondo erano stati evocati. Erano lì, pronti a sopraffarla, e lei non poteva fare altro che abbassare sempre di più quella cupola di stoffa impermeabile. Ma non bastava a proteggerla a sufficienza. Ci voleva qualcosa che la avvolgesse completamente, che la contenesse, come un utero materno, capace di lasciar fuori qualsiasi pericolo. Ed eccola lì, in fondo al viale. Su un muro di recinzione una pianta di edera si era avvinghiata ovunque, in alto, in basso, a destra e a sinistra. Aveva tessuto una trama fitta fitta fino a formare una sorta di piccola grotta buia. Il posto perfetto per nascondersi, per sentirsi al sicuro. Il solo vederla la faceva sentire protetta e si immaginava lì, fuori pericolo, mentre tutti i suoi fantasmi poco prima evocati svanivano nel nulla. Intanto, tra quelle foglie, Nady la salutava strizzandole un occhio. Il tempo aveva rallentato la sua corsa ed era ora di riportare a casa il suo alibi, una damigiana piena d’acqua fresca fresca. ### Era rientrata senza dire una parola e aveva posato la damigiana vicino al mobile della cucina e, ancora in silenzio, si era diretta verso la sua camera. Forse erano ati solo cinque minuti o forse un’ora, tanto la sua assenza non era stata notata. Si buttò sul letto e si mise a guardare il soffitto con un bel sorriso stampato in faccia. Adorava la pioggia, così come adorava dipingere e colorare.
C’era una piccola stanza in casa sua, un metro per un metro, con un grosso oblò di vetro per finestra. Era stata tante cose quella stanza e, di ogni sua funzione, ne era rimasta almeno una traccia. Era incredibile come in un buco simile sua madre riuscisse a far entrare tanta roba per lei inutile. Appena le era possibile vi si rifugiava, chiudendosi accuratamente dentro a chiave, per trascorrere ore meravigliose. Così come in quella grotta fatta di foglie di edera, dietro quella porta si sentiva protetta e al sicuro. Lasciare il mondo fuori la liberava da quel senso di oppressione che la prendeva ogni volta che si trovava con gli altri. La solitudine la faceva sentire più forte, più a suo agio. Anche se proprio sola non era. La prima cosa che faceva era perlustrare e rovistare ovunque. C’erano cassetti da esaminare, scatole da svuotare, vecchi libri da sfogliare e annusare. Oggetti inutili diventavano ninnoli preziosi, mentre quelli non identificabili si trasformavano in pezzi segreti di chissà quale marchingegno misterioso. Poi metteva mano ai pennelli. L’odore nella stanzetta era pregnante. L’unico piano libero era invaso da piattini incrostati di tempera ormai secca, da straccetti resi variopinti dalla pulitura dei pennelli, e da almeno un paio di bicchieri d’acqua satura di colore. Era come una necessità, un bisogno di consumare una dose giornaliera di pieno desiderio. Imbrattava fogli su fogli con avidità, senza fermarsi, finché non era sazia. Stava guardando un disegno appena finito, un bel paesaggio naïf tutto innevato. Girò lo sguardo alla sua destra. “Che te ne pare Nady? Non lo trovi fantastico?”. ### Prima o poi il giorno del proprio compleanno arriva. Non ne era particolarmente felice visto che per sua madre sembrava essere un giorno da dimenticare. Va bene la festa a scuola, i regali, gli auguri. Ma la visita dei parenti era veramente pesante vista l’atmosfera funerea che regnava in casa. Era imbarazzante quanto incomprensibile per la sua tenera età. Ma c’era abituata. Sua madre non era un’alcolista, anzi. Solo che, quando doveva affrontare situazioni pesanti, si tirava su facendosi un goccetto. Qualche goccetto. Diciamo che non era particolarmente lucida. Squillò il telefono. La vide posare la torta che, precariamente, stava portando in sala da pranzo, e tornare quasi in se stessa quando, con tono freddo come il marmo, disse sibilando nella cornetta: “Cosa vuoi?” “Lo sai che non devi telefonare!” Capì che era quell’uomo che ogni tanto spuntava dal nulla. Le aveva detto che era suo padre. “I tuoi auguri non sono necessari.” “Non me ne frega niente che le vuoi bene, tu qui non ci metti piede!” Si stava davvero mettendo male. Suo padre aveva chiamato per farle gli auguri. Non capiva il perché, ma sapeva che sua madre non lo sopportava. Forse lo
odiava. “E’ inutile che ci provi. La bambina non te la faccio vedere.” Silenzio, occhi spalancati in preda ad una rabbia incontrollabile. “Lo so bene che è anche tua figlia!!” Il telefono fece un breve tragitto prima di sfracellarsi contro il muro. Parlava da sola, biascicando insulti e bevendo a canna da una bottiglia quasi vuota. “Eh già, è il compleanno della bimba!” Armeggiava con un accendino sulle candeline della torta ma, fatalmente, inciampò precipitando a terra come un sacco vuoto ma con la mano ancora protesa che teneva premuto il piccolo oggetto fiammeggiante. Fu un attimo e la tenda prese fuoco, e anche tutto il resto. Il fumo riempì velocemente la stanza mentre la donna rideva sguaiatamente sotto lo sguardo impaurito della figlia. Anche Nady aveva paura.
Parte seconda
Il suo armadio era spalancato. Doveva scegliere cosa mettersi. Il problema non era la vasta scelta, piuttosto il contrario. Sua madre aveva l’abitudine di raccattare ogni sorta di abito riciclato, anche di foggia maschile, nonostante avesse due figlie femmine. Stranamente, chiunque si fosse disfatto dei propri abiti, indossava sempre almeno due taglie di meno e, per lei, c’era sempre poca scelta. Anche tra gli abiti dismessi di sua sorella. Peccato per quella scamiciata di pelle. Gliela aveva vista indosso mille volte, e mille volte l’aveva invidiata. Ed ora era lì, a sua disposizione, perché non più degna di appartenere al guardaroba sempre alla moda della primogenita. E lei se ne era subito impossessata. L’aveva provata di nascosto. Le era entrata, ma la calzava come un guanto. Avevano dovuto aiutarla in due per sfilargliela, e non era stato facile. Ma lei l’aveva tenuta ugualmente perché le piaceva. Si sentiva grande con quel vestito, quasi donna. Meno seducente era quella strana tuta di jeans che avevo deciso di indossare. Sembrava una tuta da meccanico, però era l’unica cosa che le stesse comoda, anzi larga, perfetta per correre e giocare in giardino. La indossò proprio mentre sua sorella entrava in camera. “Ma che cavolo ti sei messa?” La ragazza fece spallucce. “Devo solo andare a giocare!” In effetti aveva gettato uno sguardo allo specchio che le aveva rimandato un’immagine tutt’altro che gradevole. Per fortuna la voce delle sue amiche che la sollecitavano da sotto la finestra la distolse e, senza pensarci più, si precipitò per le scale. Era ancora nell’androne del palazzo, quando la più piccola delle sue compagne le corse incontro. Nel suo sguardo esterrefatto si leggeva quanto anche a lei non pie quella tuta, mentre le diceva: “Ho saputo che stanno arrivando, c’è anche lui!” Il cuore le saltò in gola e si fermò di colpo. Come un razzo si voltò e tornò velocemente in casa mentre la sua giovane amica osservava la scena con un’espressione quanto meno sorpresa. Il tempo di spogliarsi, trattenere il fiato, ed eccola tutta fasciata nella sua preziosissima scamiciata di pelle. L’immagine allo specchio non era più la stessa. Volò giù per le scale. “Ma, che cavolo ti sei messa?” Quella frase l’aveva già sentita, ma non aveva voglia di replicare, lui stava arrivando. ###
Era come una danza, un rituale d’amore. Un gioco fatto ma mai prestabilito. I maschi da una parte e le femmine dall’altra. Si muovevano in due gruppi correndo, scappando gli uni dalle altre per non farsi prendere. Ma in realtà si cercavano perché volevano trovarsi. avano dei pomeriggi interi così, e alla fine erano stanchi ma eccitati. Aveva il fiatone e si sedette sull’erba per riprendersi. Si era staccata dal gruppo nella speranza di incontrarlo. Era riuscita a sbirciarlo un paio di volte ed era sicura che lui l’avesse guardata dritta negli occhi. Era arrivato da poco e, a scuola, stava nella classe di fronte alla sua. L’aveva notato dal primo momento specialmente per i suoi occhi a forma di grosse mandorle. Non capiva bene cosa le stesse succedendo. Era la prima volta, e quando lo vedeva o pensava a lui, il suo cuore e il suo stomaco si scambiavano di posto. “Ciao!” Non lo aveva visto arrivare. Anche lui era solo e si stava sedendo al suo fianco. Aveva aspettato e cercato quel momento, ed ora, non sapeva proprio che fare. “Come ti chiami?” Decise in fretta cosa rispondere. Era un gioco che la divertiva molto. “Non lo so.” Il ragazzino rimase sorpreso dalla risposta e tacque per un po’. “Come non lo sai?” Aveva ottenuto la giusta suspance. Si girò sorridendo verso di lui e si preparò a raccontargli la sua storia. “Sai, due anni fa sono stata vittima di un incendio. Mi sono salvata per miracolo e ho subito parecchie conseguenze. Quando mi sono ripresa completamente si sono accorti che avevo perso la memoria. Non ricordavo chi fossi, chi fosse mia madre o mia sorella. Mi hanno dovuto raccontare proprio tutto.” Il ragazzo aveva ascoltato con vivo interesse quell’avventura, spalancando all’inverosimile i suoi occhioni da orientale. Riprese il fiato che aveva trattenuto e le chiese: “E poi te lo hanno detto come ti chiami?” La ragazza rise di cuore. “Certo che me lo hanno detto! Mi chiamo Renata.” ### “Ma cosa ti costa camminare un po’ più dritta? Sembra che tu abbia la gobba! Guarda tua sorella. Lei sì che sta come un soldato in marcia!” Al sentire quelle parole Renata si raddrizzò ancora di più piena d’orgoglio e gratitudine. Era raro che sua madre la elogiasse. Se poi avveniva a danno della sorella maggiore, questo la gratificava ancora di più. “Peccato che a lei non serva. Conciata in quel modo a completamente inosservata. Tu invece, che ti vesti con gusto ed eleganza, sembreresti una fotomodella!” Smise di ascoltare le chiacchiere della madre, che in un sol colpo era riuscita a scaraventarla dalle stelle alle stalle, e sorrise al pensiero della tuta da meccanico venuta chissà da dove e che giaceva nel suo armadio. Erano in giro per le vie del centro perché sua sorella, tanto per cambiare, doveva comprarsi qualcosa di nuovo e molto alla moda per le vacanze
estive ormai alle porte. Erano tutte e tre ferme da alcuni minuti davanti ad un’enorme vetrina, ma Renata non guardava gli abiti. Osservava divertita le loro immagini riflesse nel vetro pulito a specchio. Sua madre e sua sorella si assomigliavano moltissimo. Alte, snelle, con lunghi capelli corvini ben curati e acconciati tanto da sembrare appena uscite dal parrucchiere. Occhi scuri, vestivano sempre alla moda. Non si capiva chi delle due imitasse l’altra. L’immagine di sé, che le riproponeva quello specchio improvvisato, strideva con quella delle altre due figure. Un fisico ancora acerbo e rotondo nascosto da abiti più che confortevoli. Capelli biondi raccolti in un’unica grossa treccia, occhi chiari, spesso tristi. Ma in quel momento sorridevano. “Ti piace?” la voce di sua madre la distolse dai suoi pensieri e, subito dopo, capì il perché della domanda. Nel negozio di fronte a lei c’era un abito fantastico. La madre, che l’aveva vista immobile per diversi minuti a fissare la vetrina, doveva aver pensato che ne fosse rimasta fortemente colpita. La prima tentazione fu quella di spiegarle l’equivoco ma, dopo aver osservato attentamente l’abito disse: “Si, lo voglio!” Già sapeva quando lo avrebbe indossato. ### Tum, tum, tum. Un rumore sordo proveniva dalla stanza di Renata. “la vuoi finire di prendere a pugni quel marchingegno?” Il grido di sua madre ruppe il momentaneo silenzio della casa. “E poi abbassa il volume, che non ne posso più!” Il tono della voce non ammetteva repliche e quindi, pazientemente ma controvoglia, spense la sua radio. Tanto non ne voleva sapere di funzionare bene. Di solito bastava qualche pugno ben assestato, ma non quel giorno. La maniglia della porta si piegò una prima volta, poi una seconda e una terza. Dopo una piccola pausa sentì bussare. “Che c’è mamma?” “Ma è possibile che noi due dobbiamo parlare sempre attraverso una porta chiusa?” Renata non rispose. “Sei pronta che dobbiamo uscire?” “No, io non vengo. Sto studiando.” Mentì spudoratamente. In realtà stava oziando sdraiata sul suo letto. I libri aperti sulla scrivania, le sue cose sparse per la stanza. Solo un vestito era adagiato con cura su di una poltrona. L’abito giusto per la notte di ferragosto. Ci sarebbe stata una festa al mare, di sera, con i grandi. Non resistette alla tentazione. Saltò giù dal letto e si spogliò con gesti rapidi. Rimase a guardarsi allo specchio. Il suo corpo si stava trasformando rapidamente e le sue curve rotonde diventavano sempre più morbide e femminili. Indossò l’abito. Quasi non si riconosceva. Abbassò lo sguardo e osservò perplessa i suoi piedi nudi. Quali scarpe avrebbe messo? Ci voleva qualcosa di speciale. Ma certo! Sapeva cosa fare. Sua madre non aveva neanche provato a farle cambiare idea e si era già allontanata. Sentì i suoi i e
la porta di casa chiudersi. Sgattaiolò fuori dalla sua stanza e corse su per le scale fino in soffitta. Nella sua casa non si riciclavano solo indumenti. Un’altra regola era che non si doveva buttare via nulla. E quello era il paese delle meraviglie. C’era qualsiasi cosa. Ogni volta che poteva la ragazza vi si rifugiava a rovistare ovunque e ava il tempo ad inventare storie fantastiche, creando scenografie e costumi con tutto quello che trovava. Era sicura di aver visto un paio di scarpe che facevano al caso suo, perfette per il suo vestito nuovo. Le stava cercando tra scatoloni e oggetti di ogni tipo, quando lo sguardo si fermò su un piccolo baule di cartone semi aperto. Non lo aveva mai notato prima. Non poteva ignorarlo. Lo aprì e il contenuto le piacque immensamente. I pennelli erano impregnati di colore ormai secco. Alcune tavolozze conservavano mucchietti di colore segnati da mille pennellate. I tubetti di tempera erano ancora in buone condizioni anche se semivuoti. Le si strinse il cuore e gli occhi le si riempirono di lacrime. Perché? Richiuse la scatola e se la mise sotto il braccio. Afferrò le scarpe che penzolavano da una scarpiera malandata e, con il suo bottino, tornò in camera. Chissà, forse un giorno avrebbe trovato l’ispirazione e avrebbe cominciato a dipingere. ### Finalmente la scuola era finita e si cominciava ad andare al mare. Peccato che la spiaggia non fosse proprio dietro l’angolo. Sua madre aveva prenotato tutti e tre i turni presso lo stabilimento balneare, ma bisognava raggiungerlo con il pullman. Toc,toc. “Scendi a fare colazione che tra mezz’ora si parte!” Renata sollevò lentamente la palpebra di un solo occhio, ma le bastò per vedere che ora fosse. Le sette. “Oh, no!” Imprecò a bassa voce nascondendo la testa sotto il cuscino. Finalmente si mise a sedere sul bordo del letto con gli occhi ancora chiusi. Ma come era possibile doversi alzare a quell’ora durante le vacanze! Le veniva quasi da piangere, quando un profumo arrivò a stuzzicarle lo stomaco vuoto. Si buttò sotto il getto della doccia soffocando un grido. L’acqua fredda la svegliò definitivamente. “Era ora!” L’accolse dolcemente sua madre. Ma lei stava guardando un bel vassoio pieno di cornetti caldi e ne afferrò due contemporaneamente. Sua sorella era in perfetta tenuta da spiaggia e sbatteva spazientita il suo piede sinistro. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma Renata ingurgitò velocemente l’ultimo boccone del suo secondo cornetto e scattò verso la porta prima di farla parlare. Raggiunsero a piedi la fermata dei pullman dove si assiepavano gli aspiranti bagnanti. Sua madre e sua sorella si buttarono subito nella mischia ciarlando allegramente. Lei rimase un po’ in disparte, e cominciò a contare i pullman che, con i motori accesi, aspettavano di partire. Gli autisti
effettuavano gli ultimi controlli apprestandosi a chiudere i bagagliai. Il suo sguardo si posò su uno di loro. Era girato di spalle ma, dal fisico, si capiva che era poco più di un ragazzo. La faccenda si fece improvvisamente interessante. Era alto, asciutto, con le spalle larghe e i muscoli ben disegnati, abbronzatissimo. Si vedeva chiaramente che era uno sportivo. I capelli castani gli scendevano lunghi sulle spalle. Si era avvicinata abbastanza da poterne distinguere i lineamenti, quando il ragazzo si voltò e la guardò. Renata spalancò gli occhi. Non si aspettava che fosse così bello. Rimase per qualche istante immobile, a fissarlo, con un’espressione sicuramente buffa visto che il giovane le regalò un sorriso divertito. Le strizzò l’occhio e tornò ad occuparsi del mezzo. Sussultò, più per lo spavento che per il dolore, quando la sorella le tirò la lunga treccia bionda per farla muovere. La ragazza si liberò con un gesto brusco, chiudendo la bocca e accorgendosi solo in quel momento di averla tenuta aperta per tutto il tempo. Una signorina stava dividendo le persone in gruppi indicando quale pullman scegliere. Il cuore sperava e le batteva velocemente. Salì i gradini sospinta dagli altri impazienti di raggiungere le spiagge infuocate. Era lì, seduto al posto di guida. ### Si aggirava per lo stabilimento indossando un costume a due pezzi. Il cibo della mensa era pessimo e, complice anche il caldo, mangiava poco. La dieta involontaria le aveva fatto perdere qualche chilo e il suo aspetto ne aveva guadagnato parecchio. Lo capiva dagli sguardi ammirati della popolazione maschile ospite dello stabilimento balneare. Ma a lei ne interessava uno solo. Era più di un mese che guidava il pullman che la portava al mare. Non le dispiaceva più alzarsi presto, anzi, a volte era lei a sollecitare la madre e la sorella. Era la prima ad arrivare alla fermata. Saliva e prendeva posto e non staccava mai gli occhi dal grande specchio retrovisore. Aveva scelto un posto che le permettesse di vedere il viso riflesso di lui. Voleva incontrare il suo sguardo in quel riflesso. E se le giornate al mare sono lunghe, per Renata volavano. Il giovane autista restava anche lui tutto il giorno, ma non gli era consentito di mescolarsi ai bagnanti. Per lui e i suoi colleghi c’era a disposizione uno spazio apposito dove pranzare, giocare a carte o prendere il sole. A volte scendevano in spiaggia a fare il bagno, ma sempre in disparte. La ragazza faceva di tutto per capitare da quelle parti per vederlo anche solo di sfuggita. Aveva perso la testa e questo era bellissimo.
### E arrivò ferragosto. Non stava più nella pelle. Era pronta da un pezzo e impaziente di andare. Erano rientrate nel pomeriggio presto dal mare, per potersi preparare e ritornare poi di sera alla festa, ognuno coi propri mezzi. Chissà se lui ci sarebbe stato. Non lo aveva visto quella mattina e questo l’aveva messa un po’ di cattivo umore. Ma l’idea del programma per la serata la elettrizzava. Ci sarebbe stata una bella cena, musica dal vivo, persino la caccia al tesoro e i fuochi d’artificio ma, il pezzo forte, era senza dubbio il falò sulla spiaggia. Le sembrava così romantico e trasgressivo allo stesso tempo. Scese dall’auto ed entrò nello stabilimento. La luna era lì, inzuppata come un biscotto nel buio della notte. Era indescrivibile l’emozione che provava. Si sentiva al centro del mondo. E’ quel momento magico della vita in cui ti senti ancora abbastanza bambino da poterti stupire davanti alla luna, ma già più grande per sentire il fuoco della vita che ti brucia le vene. Bisogna coglierlo quell’attimo perché dura poco e, sicuramente, non torna più. C’era divertimento nell’aria. Renata stava con tutti ma non era con nessuno. Si aggirava sorridendo senza meta inebriata da quella atmosfera magica, unica protagonista della sua stessa storia. Finalmente lo vide. L’estate stava finendo e non era ancora riuscita a conoscerlo. Il suo amore platonico sarebbe rimasto tale a meno che non avesse trovato il coraggio di rivolgergli la parola. Non che lui avesse fatto di meglio fino ad allora ma, probabilmente la considerava troppo piccola e non le concedeva niente di più di qualche sguardo e tanti, tanti sorrisi. Ad uno ad uno come tante stelle i falò cominciarono ad illuminare la spiaggia. La ragazza stava decidendo verso quale dirigersi quando, con la coda dell’occhio, vide la sorella aggirarsi furtiva con un gruppo di amici dietro le cabine. Decise di seguirli. Si erano appartati per nascondersi agli occhi degli adulti, per poter fumare e amoreggiare, ma si unì ugualmente alla comitiva. Qualcuno si sedette accanto a lei sfiorandole un braccio nudo. Lo riconobbe dal suo profumo, e un brivido le percorse la schiena. Non era mai stata così vicino ad un uomo da sentirne l’odore. Le entrò nel naso e le andò subito al cervello, come una scarica. Cominciarono a chiacchierare come se si conoscessero da sempre, accarezzandosi con lo sguardo. Intanto un esercito di genitori capeggiati da sua madre si dirigeva decisamente verso di loro. Le sigarette svanirono magicamente sotterrate nella sabbia mentre i ragazzi si ricomponevano frettolosamente. Ogni madre prese a rimproverar e la propria figlia e, sua sorella, ebbe la sua bella ramanzina. Renata era agitata e si stava preparando a parare il colpo anche lei cercando nella mente tutte le giustificazioni più plausibili, quando la sentì ruggire: “Non ti vergogni di portarti dietro anche tua sorella? Almeno i bambini lasciateli stare!” La donna prese la
più piccola per un braccio senza neanche guardarla e la trascinò con sé continuando ad inveire contro la più grande. Il corteo si diresse verso la spiaggia dove ormai impazzavano i fuochi d’artificio. Renata si lasciò trasportare ivamente. Ma come? Neanche una parola? Un rimprovero? Anche lei stava con un ragazzo! Anche lei stava trasgredendo! Ma sua madre non si accorgeva mai di lei. ### Le emozioni dell’estate si erano già trasformate in ricordi. Renata stava mollemente distesa su una poltrona con un libro in mano aperto, ormai da mezz’ora, sulla stessa pagina. Una folata di vento spalancò la finestra già aperta. Si alzò rabbrividendo per chiuderla. Quel presagio d’autunno le ricordò che l’inizio del nuovo anno scolastico era imminente così come il suo compleanno. Di questo stava stranamente parlando sua sorella. “ Vedi mamma, Renata ormai sta diventando grande…” Stava decisamente tramando qualcosa. Rizzò le orecchie per sentire dove stesse andando a parare. “…quindi è giusto che anche lei abbia la sua festa di compleanno al Circolo.” Non ci casco, pensò. E fu così che Renata ebbe, in effetti, la sua prima festa di compleanno fuori dalle mura di casa. Peccato che il novanta per cento degli invitati fossero amici di sua sorella. Già perché lei aveva frequentato il primo anno delle superiori ed aveva conosciuto un sacco di gente nuova che aveva perso di vista durante le vacanze estive. Quale occasione migliore di una festa per rivedersi prima di un nuovo ed estenuante anno scolastico? Se li vide arrivare in massa con in mano il regalo per lei. Un libro con tanto di dedica. “Auguri” e una marea di firme illeggibili. Le stavano tendendo la mano per salutarla. Volti e mani da memorizzare in pochi minuti. Impossibile. Un attimo dopo erano tutti presi dalle loro chiacchiere mentre ballavano e ridevano. Meno male che qualcuno si divertiva a quella festa. Renata li guardava senza distinguerne i volti e stava per andarsene, quando incrociò lo sguardo sorridente di uno di loro. Fu breve, ma intenso. ### “E’ permesso sorellina?” Renata guardava attraverso le palpebre socchiuse il volto della sorella che sbirciava dalla porta socchiusa della sua camera. Non le rispose, né fece alcun cenno di assenso. Non le piaceva quel tono falso e compiacente. E poi la parola “sorellina” sottintendeva sempre una richiesta. Tornò alla carica: “Che fai? Dormi?” “ In effetti dormivo prima che tu mi svegliassi” Rispose con tono volutamente acido senza peraltro smuoversi di un
palmo. “Sorellina! Devo chiederti un favore e non puoi dirmi di no.” Silenzio. Parlava a raffica, muovendo le mani con veemenza. Il succo del discorso era che uno dei suoi nuovi compagni di classe l’aveva invitata al suo compleanno ma la festa sarebbe stata di sera e in un paese vicino, quindi, bisognava prendere il treno. “Virgilio mi ha detto di invitare anche te.” “Chi?” “ Si, Virgilio. Quello carino che è venuto anche al tuo compleanno. Quello che aveva la maglietta a righe bianche e rosse.” Renata ebbe un flash e vide una maglietta a righe e sopra due occhi sorridenti che la fissavano. Si mise a sedere sul letto simulando disinteresse e concentrandosi sul tono di voce da scegliere disse:” Perché avrebbe invitato anche me?” “Forse perché gli piaci, no?” Renata si sentiva come fosse seduta sui carboni ardenti. “ Ma che cavolo vai dicendo? Gli piaccio? Io?” Attese trepidante una risposta. “ Ma si! Non te l’ho detto che alla tua festa mi ha fatto un sacco di domande su di te?” No, porca miseria. Non glielo aveva detto. Quasi quasi aveva voglia di picchiarla. “E dai che se non vieni anche tu mamma da sola non mi ci manda!” Quell’ultima frase le insinuò un dubbio sulla veridicità della storia, ma di quello sguardo era sicura, se lo ricordava proprio bene. “ Va bene, vengo anche io.” La sorella l’abbracciò felice. Anche Renata era felice. ### La domenica il treno ava ogni ora. Il gruppo di ragazze aveva raggiunto la stazione a piedi. Avevano fatto i biglietti per l’ultimo treno in partenza per la serata che le avrebbe portate alla festa di Virgilio. Era ancora troppo presto e presero a eggiare lungo il viale della stazione quando cominciarono a cader le prime gocce di pioggia. Corsero verso casa, al riparo, tanto c’era ancora tempo. Renata se ne stava col naso schiacciato sul vetro della finestra mentre la sorella e le sue amiche chiacchieravano ininterrottamente. Guardava la pioggia. Piccole gocce picchiettavano una grossa foglia che si piegava gentilmente quando non riusciva più a trattenere l’acqua accumulata. Le piaceva la pioggia. Aveva il potere di rasserenarla anche se una strana nostalgia le riempiva il cuore. Non sapeva quanto tempo fosse ato ma sussultò improvvisamente gridando: “Il treno!” Con fare concitato le ragazze si precipitarono in strada. Avevano solo cinque minuti. Renata rimase un po’ dietro al gruppo, che entrò come una furia nella piccola stazione. Un fischio inconfondibile faceva presagire che non ce l’avrebbero fatta. Renata si fermò per riprendere fiato mentre la sorella e le sue amiche stavano incoscientemente attraversando i binari, proprio nel momento in cui il convoglio cominciò a muoversi. Niente da fare, l’avevano perso. La ragazza aspettò che il treno si spostasse lentamente, sicura di incrociare gli
sguardi affranti delle altre, ma una voce proveniente da un finestrino la fece girare. “Renata! Renata! Mi raccomando, non dire niente alla mamma!” Sua sorella si stava sbracciando con l’unica preoccupazione di aver perso la sua copertura. Rimase immobile a guardarla, finché non divenne un puntino. Sentiva che, insieme a quel treno, aveva perso un’occasione che avrebbe potuto cambiare il corso del suo destino. ### Quell’inverno sua sorella aveva deciso di fare l’attrice. Di una recita scolastica, ma pur sempre l’attrice. Naturalmente c’erano le prove, tutte le sere. E chi doveva scortarla se non Renata? Il gruppo teatrale di studenti era già formato da tempo ed ogni anno per le feste natalizie organizzava una rappresentazione, sempre pronto ad accogliere nuove leve. Appunto. La ragazza stava pazientemente in un angolo facendo finta di fare i compiti. Si annoiava un po’ ma le piaceva osservare quel marasma che si creava puntualmente. C’era una ragazza che aveva deciso di essere sua amica. Aveva una parte minore e quindi poco da provare. Le stava perennemente accanto e parlava senza sosta. Per l’ennesima volta le stava parlando di un ragazzo, il primo attore della compagnia. Glielo aveva descritto mille volte e nei minimi particolari. Le aveva confessato di esserne perdutamente innamorata e che, quell’anno era sicura, sarebbe riuscita a rubargli un bacio. Renata la guardava con il mento appoggiato sulle braccia conserte. Una frase le attraversò la mente, inaspettata quanto involontaria. “Vuoi vedere che te lo rubo? Questo ragazzo sarà mio!” Rimase sorpresa lei stessa da quello strano pensiero, senza sapere di aver appena pronunciato una profezia. Naturalmente essendo il protagonista principale, il ragazzo si faceva desiderare e, di fatto, non si era ancora mai presentato. Tutti dicevano che giocava a pallone e per questo faceva tardi con gli allenamenti. Finalmente una sera lo vide arrivare. Si era fermato sul ciglio della porta aperta e si guardava intorno. Era alto e aveva un bel fisico. Quello che però colpiva di lui non era l’altezza o l’aspetto, né i grossi baffi che adornavano la sua bocca, quanto i suoi capelli. Rossi, ricci e lunghi, a contornargli il volto come un’aureola. Dopo una studiata pausa teatrale, il giovane entrò accolto da un applauso e si mescolò agli altri salutandoli con baci e abbracci. Renata aveva dimenticato il pensiero profetico e, la prima impressione che ebbe, fu di disagio. Intanto il ragazzo teneva banco. Le prove erano state dimenticate perché lui si era seduto al centro del gruppo e aveva cominciato a raccontare barzellette, una dietro l’altra. Era molto divertente e anche lei rideva di cuore insieme agli altri. Lui l’aveva notata subito quella ragazza, seduta in disparte. Aveva gli occhi
profondi, un po’ tristi, e lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle. Alla prima occasione si allontanò dagli altri e le si sedette accanto guardandola fissa negli occhi. “Se non ti taglierai mai i capelli, ti sposo.” ### Quanti anni erano ati? Cinque. Cinque lunghi anni insieme al suo bel calciatore dai capelli rossi. Renata cominciava ad essere stanca di quella relazione. Avevano due caratteri troppo contrastanti e, di fatto, litigavano in continuazione. Forse era troppo giovane per un legame così serio e duraturo. Lui aveva voluto un fidanzamento ufficiale e, ormai, frequentava assiduamente casa sua. Aveva una strana relazione con sua madre. Una sorta di amore-odio. Le era capitato di essere gelosa di quei due anche se le faceva comodo che il suo futuro marito andasse d’accordo con la madre. Ma non era più tanto sicura di volersi sposare. Sempre più spesso trovava delle scuse per non uscire e, quando veniva a trovarla, fingeva di avere mal di testa declinando l’invito a uscire dalla propria stanza. Quello era uno di quei giorni. Lui era rimasto lo stesso e chiacchierava giù in salotto con sua madre. Si doveva essere assopita. Si era risvegliata con la bocca asciutta e decise di andare in cucina per prendere un bicchiere d’acqua. Aveva fatto piano perché proprio non aveva voglia di vederlo. Forse l’indomani l’avrebbe lasciato. La porta socchiusa le permise di ascoltare lo stralcio di una frase pronunciata da sua madre. “…perché, vedi, in realtà Renata non è mia figlia…”. Il rumore del bicchiere che si infrangeva ai suoi piedi fece girare all’unisono la donna e il giovane.
Parte terza
Suor Maddalena era tutta affaccendata tra i fornelli della piccola cucina del convento. Ogni pomeriggio scendeva in paese per andare a fare catechismo nella parrocchia. Seguiva i più piccoli e ne era felicissima perché adorava i bambini. E difatti, quando le era possibile, li viziava. Stava preparando per loro dei biscotti deliziosi con i quali fare merenda. Uno sbuffo di farina le imbiancava il naso e si intonava perfettamente con il candore dei suoi capelli. La sua faccia paffuta e gli occhi azzurro cielo le davano un’aria pacifica, rassicurante. Le era sembrato di sentire un rumore fuori la porta, ma forse era stato il vento. Sfornò una teglia odorosa e fumante, si tolse i guanti da forno e, con tutta calma, decise di andare a controllare. Trattenne a stento un urlo quando scoprì che cosa avesse provocato quel rumore. Una bambina era accasciata davanti l’uscio, immobile. Istintivamente le controllò il battito. Era viva ma priva di sensi. Avrà avuto otto anni. Non aveva le scarpe e il suo bel vestitino era bruciacchiato e annerito come la pelle del suo viso. I suoi bei capelli biondi, raccolti in un’unica treccia, erano coperti di fuliggine. Suor Maddalena corse al telefono per cercare aiuto. ### Dietro il vetro della stanza d’ospedale la trovatella lottava tra la vita e la morte. Il coma preoccupava molto i medici, ma le buone condizioni generali della piccola lasciavano sperare in una prossima ripresa. Il paese intero si era mobilitato per scoprire la sua identità, ma non c’era una sola traccia che spiegasse chi fosse e da dove venisse. Avevano chiesto nei paesi vicini e si tenevano in continuo contatto con le forze dell’ordine per ogni eventuale segnalazione di persone scomparse. Finalmente un mattino Suor Maddalena ricevette la telefonata tanto attesa. Corse in ospedale per abbracciare la bimba che si era risvegliata, ma il sorriso le si spense sul suo bel viso paffuto quando vide l’espressione corrucciata del medico, Si era risvegliata, ma era sotto shock, confusa. Probabilmente aveva perso la memoria. Difatti i giorni avano ma la piccola non ricordava nulla, neanche il suo nome. E fu così che la suora, il parroco e il sindaco riunirono le famiglie del paese per chiedere loro chi fosse disponibile a prendere in affidamento quella povera bambina. Suor Maddalena, con gli occhi lucidi, raccontava come l’avesse trovata e che la piccola,
praticamente, era morta e poi rinata. Per questo, in attesa che ricordasse il suo vero nome, l’avrebbero chiamata Re-nata. Quel giorno era rinata, ma quel pomeriggio si sentì morire mentre il bicchiere colmo d’acqua le cadeva dalle mani rompendosi in mille pezzi. Se ne andò da quella casa. Per sempre.
### Si ritrovò seduta sul letto, con la fronte imperlata di sudore. Era confusa, mentre la mano della sua compagna di stanza stringeva la sua per cercare di calmarla. La guardava preoccupata con la solita domanda negli occhi. Renata fece cenno di si con la testa. Era successo di nuovo. Di nuovo lo stesso sogno. Da diversi mesi la ragazza si era buttato tutto alle spalle. Si era trasferita in città e iscritta all’Università. Aveva trovato una stanza che condivideva con un’amica, e un lavoretto part-time che le serviva per mantenersi. “Sono certa che non è un caso.” Le stava dicendo la compagna asciugandole teneramente la fronte. “Quando i sogni si ripetono hanno sicuramente un significato!” Anche Renata cominciava a pensarlo. Da quando aveva scoperto la verità sul suo ato, spesso faceva degli strani sogni. Forse era la sua memoria che affiorava finalmente libera di tornare. Un solo sogno era ricorrente ed era quello che la turbava di più, proprio come la notte appena trascorsa. Si ambientava in un luogo buio e confuso. Vedeva il volto di una donna, sorridente, poi quello di un uomo. Non ne vedeva bene i lineamenti, ma quell’uomo a volte le pareva giovane, a volte molto più grande. Poi d’improvviso la scena si illuminava. I fari di un’automobile sfrecciavano sull’asfalto. Uno schianto violento, e un dolore in pieno petto che la costringeva a svegliarsi in preda al panico. La sua amica continuava a chiacchierare sull’argomento e le stava consigliando di chiedere aiuto a un medico che, magari, avrebbe saputo farle tornare la memoria. Renata non era entusiasta all’idea di rivolgersi a uno psicanalista anche se, in cuor suo, aveva sempre pensato che prima o poi le sarebbe piaciuto indagare un po’ di più sulla propria indole malinconica. Forse quel giorno era arrivato e cominciò a cercare sull’elenco il nome di un bravo strizzacervelli. La sua prima impressione fu più che positiva. Era un bell’uomo, molto più grande di lei, ma molto giovanile e affascinante. La sua voce era suadente e sapeva sempre trovare le parole giuste e le risposte che lei voleva sentire. Renata non si era soffermata sul fatto che lo fe per mestiere. Lei si sentiva capita e apprezzata e,
inevitabilmente, si invaghì di lui. Il dottore se ne era accorto subito e l’aveva assecondata con dolcezza dopo averle spiegato che succedeva spesso che un paziente si innamorasse del proprio analista. Era normale, ma sarebbe ato, naturalmente. Sta di fatto che aspettava con ansia ogni appuntamento perché il solo vederlo la faceva sentire meglio. Avevano parlato dei suoi sogni e il dottore conveniva con lei che ci fossero buone possibilità che la memoria le stesse tornando. Ma per lei anche ricordare era ato in secondo piano. Era troppo presa dal suo affascinante terapista e, spesso, spostava la sua chiacchierata su altri argomenti cercando di indagare sulla sua vita privata. Ma il tentativo falliva miseramente. Aveva deciso allora di puntare sulla sua segretaria. Un pomeriggio arrivò intenzionalmente in anticipo e rimase nella sala d’attesa cercando una scusa per attaccare discorso con lei. Stava fissando una foto appesa al muro. Era la stessa che, più in piccolo, si trovava sulla scrivania del medico, e così le venne l’idea. “Certo che il dottore era veramente un bel ragazzo!” La buttò così e attese trepidante una risposta. La segretaria abbassò gli occhiali sul naso e girò solo lo sguardo verso Renata. “Quello non è il dottore.” “Ah, no? E chi è allora? Gli assomiglia moltissimo.” La compita assistente ebbe un lampo negli occhi e si trasformò in una perfetta comare quando, balzandole al fianco, con la mano a coprire la bocca le sussurrò: “Quello è il figlio del Professore…” fece una pausa studiata “anzi…era.” Renata apparve sorpresa e interessata ma non ci fu bisogno di chiedere nulla perché le fu raccontato tutto in un fiume di parole concitate. Pare che il giovane fosse tragicamente morto in un incidente. Era difatti uscito di casa in preda al panico e aveva perso il controllo della propria auto schiantandosi contro un albero. La sua disperazione era dovuta al fatto di aver trovato la moglie a letto con il suo amante. Il poveretto aveva scoperto, in una sola volta, di essere stato tradito dalla propria consorte e dal proprio padre, che se la intendevano alle sue spalle. “Si dice che la donna abbia avuto anche una figlia.” “Dal figlio?” “Macché! Dal padre!”
### Si era di nuovo svegliata di colpo, tutta sudata. Stesse scene, stesso batticuore, ma non lo stesso sogno. Era uno nuovo, molto, molto strano. Non aveva terapia quel giorno, ma decise che non poteva aspettare, doveva raccontarglielo subito. Al telefono il dottore le aveva detto che non poteva ma, data la sua insistenza, aveva deciso di riceverla lo stesso, ma avrebbe dovuto aspettare. Ed ora era lì nella sua sala d’attesa, agitata senza neppure sapere bene perché. L’assistente del
medico era andata via e poco dopo l’ultima paziente di quel giorno uscì dalla porta dello studio. Il dottore si affacciò e la invitò ad aspettare ancora, doveva fare una telefonata importante. Aveva lasciato inavvertitamente la porta socchiusa. La voce arrivava chiara sebbene fosse roca. “Ciao, sono io.” “Volevo fare gli auguri alla piccola.” “Non essere crudele, lo sai che le voglio bene…” “Ma almeno oggi fammela vedere, è il suo compleanno!” “Forse dimentichi che è anche mia figlia!” La telefonata doveva essersi interrotta bruscamente perché l’uomo smise di parlare guardando perplesso il telefono. Lo poggiò sulla scrivania, guardò la foto nella cornice sfiorandola appena. Aveva uno sguardo cupo, un misto di rabbia e dolore. Aspettò qualche minuto, si ricompose e raggiunse la porta. “Vieni Renata, accomodati.” La ragazza si sedette un po’ a disagio ma il dottore le sorrideva più professionale che mai. “Allora, perché tanta fretta di vedermi?” “ Ho fatto un sogno nuovo, particolare.” “Molto bene” disse il dottore “racconta.” “Vedo una bambina. E’ molto carina ma ha lo sguardo triste. Indossa un abito molto elegante, forse per una festa. Difatti davanti a lei c’è una torta con le candeline accese. Ma lei non sorride. Poi, d’un tratto le si illumina lo sguardo perché le hanno dato un regalo. E’ un grosso peluche, un cucciolo di cane con il ciuccio in bocca e un grosso bavaglino legato al collo con su scritto
All’improvviso la torta cade e scoppia un incendio…” Le parole le morirono in gola perché l’uomo si era alzato di scatto spingendo la sedia dietro di sé. “Adesso basta!” Renata lo guardò con gli occhi spalancati. Non sapeva se essere stupita o spaventata. “Quante volte ne abbiamo parlato? Non è così che puoi arrivare a me! Non è così che ottieni la mia attenzione! Non puoi giocare con i miei sentimenti e con la mia vita privata, Ti ho lasciato fare con il primo sogno, quello dell’incidente, ma adesso stai esagerando! Lo so che hai sentito la mia telefonata e che probabilmente hai visto il pupazzo lì sul mio divano, ma tutto questo è veramente puerile!” Renata si era girata a guardare con occhi attenti il grosso peluche che la fissava. Il dottore continuava a parlare ma aveva già cambiato tono. Non la rimproverava più, ma usava un tono quasi paterno, rassicurante. La giovane donna lo guardò e si accorse di quanto fosse vecchio. Ma piano piano, nella sua mente, si stava formando un puzzle. Non si accorse di parlare piano ripetendo la stessa frase. “Cosa dici? Non ti capisco.” Si girò verso il medico e lo guardò come se fosse appena uscita da uno stato di trance: “Non sono io ” ripeteva, quasi sorridendo. “Chi non sei? Fammi capire!” “Non sono io” ripeteva a cantilena la ragazza. L’uomo la guardava aspettando di capire. Tornò immediatamente lucida. “Quando mi sono svegliata di soprassalto stamattina, la mia compagna di stanza mi ha detto che nel sonno mi agitavo e
ripetevo in continuazione <non sono io>” Aveva afferrato il dottore per il braccio e lo stava scuotendo in modo scomposto “Presto, dobbiamo andare! Forse siamo ancora in tempo!” Il piede sull’acceleratore spingeva a tutta velocità la macchina. L’uomo non riusciva a parlare dopo aver sentito le parole di Renata. La ragazza gli sedeva al fianco stringendo a sé il grosso pupazzo con il bavaglino legato al collo. La donna al telefono gli aveva detto di non andare, che non gli avrebbe fatto vedere sua figlia neanche il giorno del suo compleanno. Ma lui stava correndo proprio verso casa sua. Erano quasi arrivati quando, dietro una curva, si vide distintamente una colonna di fumo. Appena arrivati la scena era inequivocabile. Un camion dei vigili del fuoco era lì così come un’ambulanza. Un infermiere soccorreva una donna in evidente stato confusionale, mentre altri due stavano uscendo di casa trasportando una barella. Sopra, priva di sensi, c’era una bambina completamente annerita dal fuoco, con il vestito strappato e i capelli coperti di fuliggine. L’uomo le corse incontro fermando gli infermieri e se la tirò a sé in un abbraccio disperato. Furono attimi interminabili ma finalmente piccoli colpi di tosse scossero il petto della bambina. Il padre la coprì di baci piangendo di felicità. Renata era stanca, esausta, ma al contempo si sentiva leggera, come se si fosse liberata di un grosso peso. Si avvicinò con decisione e, senza dire niente, consegnò il peluche alla piccola che le regalò uno splendido sorriso. Si girò e si allontanò lentamente. Ci sarebbe stato tempo per pensare a tutto questo. L’uomo non smetteva di baciare la figlia che continuava ad accarezzare il cagnolino di stoffa. “Papà, hai visto che bel regalo mi ha fatto Nady?”
Epilogo
Alla fine aveva accettato l’invito della sua amica. Aveva bisogno di staccare da tutto e da tutti. Così aveva messo poche cose in un borsone ed era andata per qualche settimana al mare. Non aveva voglia di pensare al ato ma nemmeno al futuro. Voleva godersi quello scorcio d’estate che pigramente volgeva al termine. I genitori della sua amica erano stati molto ospitali e le avevano offerto una camera tutta sua e una bicicletta per raggiungere la spiaggia. Quel pomeriggio aveva dormito. Un sonno pesante e, finalmente, senza sogni. Ora si aggirava per le vie del paese e si era spinta verso la periferia. In lontananza, posata su una collina, vide una piccola Chiesa e, senza un motivo particolare, si avviò per raggiungerla. Un forte odore d’incenso la accolse appena entrata e una calma ovattata la avvolse completamente. Era in corso la Santa Messa e i fedeli, in piedi nei banchi, pregavano a bassa voce. Si sedette di lato, su una panca, e cominciò a guardarsi intorno. Il suo sguardo vagava senza meta finché si fermò su un paio di piedi. Erano perfetti, e uscivano nudi da un paio di jeans, vestiti da un paio di sandali di cuoio di stile scano. Incuriosita Renata proseguì la sua ispezione. Il ragazzo indossava una morbida camicia con fantasie Hawaiane, e stava in piedi con le mani poggiate sulla panca davanti a sé. Anche quelle erano perfette. Le dita affusolate, le nocche ben disegnate. Il suo interesse aumentava mentre gli occhi squadravano dal basso verso l’alto il giovane accanto a lei. Aveva i capelli ondulati che si poggiavano sulle spalle, peccato che gli coprissero in parte il viso. Era di profilo e riusciva a vedere solo il naso, piccolo e dritto, e la bocca carnosa, socchiusa, intenta nella preghiera. Renata pensò che era bello vedere un giovane in chiesa. Secondo lei la fede denuncia un buon carattere, sicuramente dedito all’ascolto e alla capacità di affidarsi. Il ragazzo si mosse per seguire il piccolo corteo che si avvicinava all’altare per ricevere la comunione. Renata aspettava incuriosita il momento in cui si sarebbe voltato per tornare al suo posto. Si era appena girato e rimase piacevolmente colpita dalla sua bellezza. Gli occhi erano bassi ma si poteva intuirne la forma, occhi da egiziano. Il giovane era arrivato al suo banco e stava per sedersi e voltarle le spalle, quando alzò lo sguardo e, per un attimo, incontrò quello di Renata.
### Aveva trovato una spiaggetta libera che faceva al caso suo. Non c’era neanche bisogno dell’ombrellone perché il sole di fine estate era ormai tiepido e sopportabile. Stava comodamente appollaiata sul suo asciugamano e fissava il mare. Sentì un fruscio alle sue spalle ma non aveva voglia di voltarsi. Una figura le ò accanto trascinando una bicicletta. Si fermò poco distante da lei, quasi sulla riva. Il ragazzo posò la bici sulla sabbia asciutta e cominciò a spogliarsi. Rimase velocemente in costume, togliendosi per ultimo il cappello che gli copriva in parte il volto. Renata perse per un attimo il fiato. Era lui, il ragazzo visto in chiesa. Cercò affannosamente i suoi grossi occhiali da sole e li indossò quasi per nascondersi. Si agitava sul suo asciugamano cercando una posizione disinvolta, finché, fingendo indifferenza, cominciò a guardarlo con la coda dell’occhio. Si era tuffato in acqua e, con lunghe bracciate, nuotava in parallelo alla spiaggia. Uscì grondante d’acqua e cominciò a eggiare sulla battigia. D’improvviso, con uno scatto, cominciò a correre velocemente per poi fermarsi e poi scattare ancora. Caspita! Era anche uno sportivo. Cosa poteva volere di più? ### Renata era sulla spiaggia già da un po’ ma di lui neanche l’ombra. Cominciava a preoccuparsi. E se non era del posto? Se era un turista ed era ripartito? Aveva ato le ultime due settimane ad osservarlo a distanza. Cercava ogni stratagemma possibile per guardarlo senza farsi notare. Era convinta che, nascondendosi dietro i suoi grossi occhiali da sole, lui non si accorgesse dei suoi occhi attenti che lo seguivano o o. Cominciò a sbuffare spazientita, arrabbiandosi con se stessa per aver perso tempo senza tentare di avvicinarlo. Ma ecco il fruscio alle sue spalle. Le ò accanto come ogni giorno e, come ogni giorno, posò la bici, si spogliò velocemente e si tuffò in acqua. La ragazza si rilassò, inforcò i suoi occhiali e si godette lo spettacolo. Eccolo che usciva dall’acqua. Ora avrebbe cominciato a eggiare e…No. Si stava scrollando l’acqua dai lunghi capelli e si stava avviando verso il suo zaino, Renata lo seguiva con lo sguardo, incuriosita. Lo vide prendere un asciugamano, tamponandosi il corpo per poi avvolgerla sui fianchi. “Ora si stende per prendere il sole.”Pensò. Ma il giovane si stava decisamente dirigendo verso di lei. La ragazza per un attimo fu colta dal panico e avrebbe voluto scappare, ma pensò bene di nascondersi. Tirò le gambe a sé abbracciandole e piegò il viso tra le ginocchia. Il ragazzo le si sedette accanto e la imitò. Stavano così e si
sbirciavano. Decise di alzare la testa e di guardarlo negli occhi. Lui le sorrideva. La sua voce calda la fece rabbrividire. “Allora? Si può sapere perché non mi togli mai gli occhi di dosso?” La ragazza cercò velocemente una risposta intelligente ma dalla sua bocca uscì semplicemente la verità. “Perché sei la cosa più bella che abbia mai visto nella mia vita!” Una risata argentina riempì l’aria. Poi il ragazzo tornò serio e si piegò verso di lei e, senza chiudere gli occhi, le sfiorò le labbra con un bacio. Stava ad un palmo dal suo viso quando le chiese: “ me lo dici come ti chiami?” Lei era felice. “ Il mio nome è Renata” “Ciao Renata, io sono Virgilio.”
F I N E
NOTE DELL’AUTORE
Questa è la storia di una rinascita. Le due protagoniste sono sulle tracce di un unico destino. Incontrano l’una il destino dell’altra. Nady accompagna il percorso della prima protagonista, per poi diventare Renata che rivive, senza saperlo, le emozioni della piccola che sembra destinata a morire. Ma in realtà non muore, è semplicemente senza futuro così come Renata è senza ato. Le lega, pesante come un macigno, l’assenza della figura materna. Senza un riconoscimento alla nascita non si può avere un futuro e, con una madre come quella di Renata, non si può che non essere stati riconosciuti. Non c’è quindi origine, non c’è ato. Finché la più piccola non chiede aiuto alla seconda attraverso il sogno. “Finché i sogni resteranno sogni e la realtà resterà realtà, io nei sogni vivrò e nella realtà sognerò. E se la realtà diventasse sogno? E se il sogno diventasse realtà?” Dopo un percorso di sofferenza dell’anima, di mal di vivere, di morte e di rinascita, le due si incontrano e si riuniscono di fronte ad un padre. Così come dopo la morte di mio padre, io sono rinata, reincontrandolo.