© Edizioni SENSOINVERSO Collana AcquaFragile www.edizionisensoinverso.it Via Vulcano, 31 – 48124 – Ravenna (RA) ISBN 9788867930845 1° edizione cartacea – Febbraio 2010 © 2010 - Copyright | Tutti i diritti riservati Sensoinverso - P.I. 02360700393 Adattamento grafico e impaginazione |
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Piero Forlani
I PRIGIONIERI DEL CENTRO COMMERCIALE
A mia moglie Laura la stella della mia vita
QUI SI MANGIANO CIPOLLE
No, la zia malata no! Tutto, ma non la zia malata! Mi sentivo umiliato: anche nelle scuse esiste una gerarchia. Per le persone che interessano davvero si cerca di inventare qualcosa di inedito e credibile. A me era stata propinata la più banale. Avevo conosciuto Irene a una cena con amici comuni. Non mi era per niente dispiaciuta, così avevo parlato a lungo con lei, scoprendo che condividevamo numerosi interessi. Prima di salutarci le chiesi il numero di telefono. Non la chiamai subito l’indomani: avrei dimostrato troppa fretta. Attesi quindi due giorni, se avessi aspettato di più lei avrebbe fatto in tempo a dimenticarsi di me. Iniziai la telefonata con una serie standard di convenevoli convogliandola, con una tattica magistrale, verso il vero scopo della chiamata: un appuntamento. Ovviamente non proposi una data precisa: sarebbe stato facile per lei dichiarare di avere già un impegno, ma le chiesi di uscire una sera qualsiasi della settimana a sua scelta (l’apparente esagerata mia disponibilità veniva in questo modo però compensata dalla difficoltà di reperire lì per lì sette motivi differenti per rifiutare). Ci mettemmo d’accordo per giovedì sera: una pizza ed un giro per le birrerie dei Navigli. Niente di troppo complicato, ma ampio spazio alle chiacchiere e alla musica fino a tardi, allorché le donne diventano più vulnerabili. Così giovedì sera stavo tornando dal lavoro, tutto contento pronto per andare a farmi una doccia e vestirmi di tutto punto, quando il telefonino squillò (si fa così per dire, in quanto il suo suono è la “Marcia turca” di Mozart, roba da raffinati). Risposi e, quando sentii la voce di Irene, pensai: ci siamo, è andata buca! Infatti lei molto cortesemente si scusava di non poter uscire quella sera (e fin qui eravamo all’interno dei normali rapporti predatore-preda della nostra società) perché (e qui arrivò la doccia gelata metaforica che si sostituì a quella bollente reale che avevo in programma) le era giunta inaspettata la visita di una zia malata che non vedeva da tempo. Immediatamente mi sentii violentato nel più
intimo del mio orgoglio: potevo io credere ad una scusa così sciatta? Chiusi in fretta la telefonata. Non avevo alcun dubbio: ero stato scaricato prima ancora di essere imbarcato. Una zia malata precludeva definitivamente qualsiasi ulteriore tentativo di approccio. Fu con questo stato d’animo, fra il depresso e l’umiliato, che entrai nel piccolo supermercato sotto casa per prendere qualcosa per una cena solitaria e tristissima. Non so se fu per una specie di sordo desiderio di rivalsa o per un tentativo di superare tale stato d’animo con un tuffo nei ricordi infantili, che il mio occhio cadde sul sacchetto di cipolle. Da piccolo, mia madre le metteva sempre nelle insalate miste che erano la mia ione. Poi con l’adolescenza, e la conseguente necessità di mantenere i contatti sociali, avevo smesso di mangiarle. Ma in quel momento mi venne un fortissimo desiderio di mangiare un’insalata con le cipolle. ai oltre col carrello, ma il mio pensiero ritornava fisso a quel sacchetto pieno di succulenti bulbi rosacei, dal sapore inconfondibile. Per la prima volta in vita mia compresi i desideri sfrenati delle donne incinte. D’altronde la mia serata sarebbe stata irrimediabilmente solitaria, avevo ben diritto di soddisfare una mia piccola voglia. Acquistai il sacchetto, entrai in casa e mi preparai uno splendido insalatone come non ne avevo mangiato da anni. Insalatiera gigante, pane, bottiglia di birra, sul divano, televisore . Insalata divorata, birra tracannata, reazione gastrica incontenibile. Marcia turca. Risposi al telefono rintuzzando un rutto. Irene. Parlai tenendo la bocca lontana dalla cornetta: il mio alito era talmente pesante che temevo si trasmettesse via etere. Lei mi diceva che sua zia era già tornata a casa, e che era molto (e calcò la voce su quell’avverbio) disponibile per quel giro naviglioso già in programma. Lapidaria risposta: fra mezzora sono da te. Doccia frenetica, spazzolata di denti colossale al limite della lavanda gastrica e corsa in automobile per essere puntuale (la puntualità al primo appuntamento è fondamentale). Ma già in macchina il sapore del dentifricio era andato scomparendo, sostituito dal ritorno dell’alito cipollente (o cipolloso, boh?). Cosa potevo fare? ai in rassegna tutte le possibili ipotesi: mangiare un chewing-gum sarebbe stato maleducato: non potevo condurre una conversazione ai limiti del colto masticando continuamente la cicca. Tenermi lontano, respirare solo dal naso, parlare con la mano sulla bocca: erano tutti espedienti che potevano essere validi per la prima parte della serata. Ma poi? Quando saremmo giunti sotto casa sua, e
io avrei spento il motore e l’incontro sarebbe stato estremamente ravvicinato? Cosa potevo fare? Tirarmi indietro? Mai! Farla diventare cianotica con un’alitata velenosa, che avrebbe reso quel primo bacio assolutamente indimenticabile, ma per tutt’altri motivi che quelli voluti? Non riuscivo a venir fuori da questa terribile situazione in cui la mia ingordigia mi aveva lasciato. Farmacia aperta, frenata immediata, suoni di clacson vari. Entro a razzo. Manco a farlo apposta c’è una farmacista carinissima. Le chiedo se ha qualcosa contro il cattivo alito. Che vergogna! Mi fa veder un prodotto nuovo, quasi miracoloso: funziona con tutti i tipi di alito pesante, tranne che per aglio e cipolla. Lo compro imprecando la malasorte. Lo mastico, fa schifo e non serve a niente. Giuro che dedicherò il resto della mia vita alla ricerca di un farmaco che tolga il sapore di cipolla in bocca. Ma ora mi serve qualcosa di immediato. Sono arrivato. Suono il camlo. Irene arriva: è splendida. Io mi tengo lontano. In macchina continuo a guidare attaccato al finestrino dalla mia parte. Lei mi fissa con gli occhi fuori dalle orbite. Ogni tanto le sorrido. Limito la conversazione al minimo, mi fingo concentrato sulla guida. L’abitacolo della macchina è saturo, l’arbre magique puzza anch’esso di cipolla. Abbasso il finestrino. Fuori sono quaranta sotto zero. Irene non dice niente, si stringe nel giubbettino, tanto sexy quanto leggero. Arrivati, parcheggio come un maiale di traverso sul marciapiede, l’importante è uscire dalla macchina. All’aria aperta la situazione è più facile. Entriamo in un locale. Musica brasiliana, birra irlandese, cameriere marocchino, proprietario pugliese. Aria fumosa, irrespirabile, l’ideale per me. Ma dopo un po’ Irene dice che c’è troppo fumo, che lei non lo sopporta. Andiamo in un altro locale: enoteca, musica celtica, vociare sommesso, tavolini molto intimi. Troppo, siamo vicinissimi. Dico che non mi piace quel tipo di musica. Cerchiamo del Jazz. Camminiamo per un po’ all’aria aperta. Mi tengo sempre più lontano da lei. Irene mi lancia certe occhiate che paiono dire: che serata del menga. Faccio la figura del frocio, ma sarebbe peggio la mia superfiatata alla Superciuk. Visto che mantengo le distanze, è lei a prendere l’iniziativa. Mi prende sottobraccio. Mi accarezza la mano. Più esplicita di così non potrebbe essere. Fa freddo, si vede il fiato, in questo modo posso controllarlo e dirigerlo dove fa meno danno. Poi lei si stringe un po’ di più. Io, dentro di me, piango dalla rabbia e intanto
sostengo una conversazione con controllo di direzione di fiato che interessante più di tanto non può essere. Ma il fatto è che stiamo superando lo stadio delle parole. Irene dice che ha un po’ di fame, mi propone un locale New Age in cui fanno anche da mangiare. Accetto. Andiamo. Atmosfera rarefatta, musica tibetana, bonzi che servono piattini con contenuti indefinibili e ciotoline con brodaglie immonde. Ci sediamo. Non si può ordinare: devi mangiare quello che ti danno. Irene sorride, si vede che lì è più a suo agio che negli altri locali. Non parla, i suoi occhi dicono molto. È bellissima, scintillante come una donna che vuole essere amata. E io sono lì, davanti a lei, pronto ad amarla: e fra di noi c’è una cipolla! Il bonzo di Cinisello ci serve quelle pietanze inquietanti, con delle posate mai viste. Osservo Irene. Non voglio fare la figura di chi non conosce quel tipo di cucina. Ora lei prende una specie di spatola, spalma una salsina marrone su di una galletta di soia e, incredibile a dirsi, la mangia di gusto. Io la imito, prendo la galletta che sembra polistirolo, stendo quella specie di stucco con l’arnese misterioso e, dopo essermi raccomandato lo stomaco a Dio, ne mangio un pezzetto. Mai sapore fu più squisito di quello, mai assaporai una tale inebriante ambrosia: cipolla, quella roba disgustosa era a base di cipolla! Ora finalmente eravamo pari, non temevo più nulla. Mentre Irene mi spiegava come veniva preparato quel piatto, macinando finemente la soia e mischiandola con i cuori di cipolla e con lo zenzero, tutto rigorosamente proveniente da culture biologiche, io la guardavo incantato, perdendomi nel suo viso, nei suoi occhi. La riaccompagnai a casa. Guidai normalmente e con i finestrini alzati. Sotto al suo condominio, spensi la macchina. I nostri due aliti avevano completamente appannato i vetri. Situazione ideale. Mi avvicinai, si avvicinò, ci guardammo e poi… E poi, perdonatemi, ma sono cazzi miei!
I PRIGIONIERI DEL CENTRO COMMERCIALE
“Ci sono andato ieri. Mai visto niente di simile!” “Tocca a te Alfredo, dai muoviti.” “Sì, apro di due euro. Sono rimasto sbalordito. È, è...grandioso!” “Quante carte?” “Una. Ero basito come un bambino. E sì che ne ho visti di centri commerciali in vita mia!” Questa cosa mi sconvolgeva: non avevo mai visto Alfredo così deconcentrato nel giocare a poker. Era il giocatore più accanito: guai se qualcuno si distraeva durante la partita del giovedì sera. Ma quel giorno sembrava che fosse venuto solo per raccontarci la sua esperienza di consumatore. Noi ovviamente ne approfittammo: gli demmo corda, lo facemmo parlare, così, alla fine della serata, eravamo riusciti a spillargli un gruzzoletto che in parte ci ripagava di tutte le batoste inflitteci in precedenza. “Pensate” continuava senza quasi pensare alle carte, con un sorriso leggermente ebete che gli incorniciava il labbro “c’è un parcheggio per centomila macchine. Centomila, non cento o mille!” “Sì, Alfredo, la sappiamo anche noi la differenza.” “No, voi non potete rendervi conto: si parcheggia e poi, a fianco della macchina, si sale su di un tapis-roulant che ti porta dolcemente verso l’entrata. Col tuo carrello elettrico, ovviamente. Non fai nessuna fatica a muoverlo. Si maneggia come un giocattolo e può caricare fino ad una tonnellata!” Il problema maggiore era quel sorriso beota che gli compariva sulla bocca ogni volta che ci raccontava di quel centro. Io e gli altri ci guardammo preoccupati: Alfredo sembrava drogato. Eravamo un gruppo di amici, sei per l’esattezza, un po’ particolari. Avevamo attraversato i venti, i trenta e i quarant’anni senza farci incantare dal mondo. Vi avevamo vissuto accanto, abbastanza per conoscerlo e per diffidarne. Single per scelta o per pigrizia, scapoli di nascita o di ritorno, lavoravamo senza credere molto in quel che facevamo. Non ci incantavano né la carriera, né lo sviluppo tecnologico. Però come ci divertivamo insieme! Sempre pronti a prendere in giro
gli altri e noi stessi, a perdere le domeniche andando a zonzo come liceali e trascorrere le serate giocando a poker o a Risiko, o magari a commentare un film porno, affittato per l’occasione, come fosse una partita di calcio, con replay, moviole e dibattito sulle azioni principali. Per questo l’improvvisa conversione di Alfredo verso il Centro Commerciale STRABELLO, considerato il più all’avanguardia d’Europa, vero tempio universale del consumatore, ci sconvolgeva tanto. Vedevamo in essa la prima incrinatura del nostro sistema. Mentre giocavamo e lui, come una litania, continuava a sciorinare le meraviglie dell’acquisto, noi, con la fantasia, ci prefiguravamo già il nostro amico sposato, con un paio di marmocchi con il moccio al naso, mentre si spostava lungo i centri commerciali dei sabati di dicembre, lottando strenuamente contro orde di compratori cannibali per difendere il carrello colmo di merce assolutamente inutile. Quando Alfredo interruppe la partita per recarsi un momento in bagno, noi cinque rimanenti svolgemmo il più rapido conciliabolo che la storia ricordi: “Quel centro commerciale l’ha fatto diventare scemo!” Piero introdusse l’argomento del dibattito, la tesi e la conclusione. Tutti furono d’accordo con lui. “Dobbiamo fermarlo finché siamo in tempo.” Proposta approvata all’unanimità. “Qualcuno domani deve andare in ricognizione per osservare il centro, riferire a noi, poi penseremo a demolirglielo a furia di battutacce, come abbiamo fatto tante volte in ato.” Tutti d’accordo anche su questo. “Sì, ma chi va?” chiesi molto ingenuamente. Tutti gli sguardi si appuntarono su di me. Votazione oculare: 8 a 2. Rotta l’unanimità, ma maggioranza solida. “Perché proprio io?” osai domandare. “Perché sei un insegnante e non hai un cacchio da fare.” “Ma...”tentai di ribadire. “Attenzione, ha tirato lo sciacquone!” Riprendemmo velocissimi i nostri posti, mentre Alfredo, ritornato dal bagno, continuava a ripetere: “Che bei bagni che ci sono al centro STRABELLO. Non
mi sono mai pulito con una carta igienica così morbida...” Non avevo più dubbi: la salute mentale del nostro amico era agli sgoccioli. Bisognava agire subito! E io mi sarei sacrificato per lui.
Il Centro Commerciale STRABELLO teneva indubbiamente fede al proprio nome. Sorgeva in una vasta zona piatta lontano una decina di chilometri dal centro abitato, col quale era collegato da una bretella di superstrada comoda e veloce che partiva dalla tangenziale. Appena imboccato il raccordo, appariva alla vista l’immensa costruzione, colorata ed accattivante. Per essere visibile da così lontano doveva essere enorme, e difatti lo era. Di primo acchito vedevi un edificio che ricordava una grande torre azzurra, riflettente cielo e sole. Man mano che ti avvicinavi si delineavano maggiormente i contorni e si poteva apprezzare l’arditezza architettonica degli ideatori. Terrazze, fontane, rampe, giardini, gazebo, piscine, bandiere, striscioni, gonfaloni, colori, luci, fuochi: tutto era costruito per richiamare l’attenzione. Non si poteva certo ignorare: la bretella di raccordo era dritta come un fuso e correva proprio in direzione del megastore. Devo ammettere che io stesso mi sorpresi. Giunto verso l’uscita della tangenziale, vidi che alla base dell’altissima costruzione vi era come una foresta che sorgeva sulle sue falde. Erano gli immensi parcheggi, tutti sotto le piante per mantenere ombreggiate le automobili. Sistemai la macchina e presi il biglietto che sporgeva dal distributore collocato a fianco di essa: era uno scontrino con su stampato il numero del parcheggio per poter ritrovare la macchina senza problemi, la piantina dei negozi e la mappa dei percorsi per arrivarci. Di fianco alle auto scorreva un tapisroulant sul quale balzai e che mi portò velocissimo verso l’entrata. Apparve ai miei occhi una scena grandiosa: la ricostruzione di un tempio Maja nella giungla tropicale, fra vegetazione lussureggiante, uccelli variopinti e una cascata d’acqua cristallina. Era l’entrata del centro. Varcato l’ingresso del tempio, mi trovai nel gigantesco piano terra. Era il luogo chiuso incommensurabilmente più grande che avessi mai visto. Dovunque spostassi lo sguardo, non vidi che la ricostruzione di luoghi affascinanti: anfiteatri romani, castelli medioevali, piramidi egizie, palazzi rinascimentali,
navi pirata, boschi, atolli, grotte, dinosauri, draghi, catapulte, circhi, minareti, guglie, non sapevo dove posare gli occhi. E tutto collegato da rampe, ascensori, scale che continuavano a scendere e salire, portando con sé carrelli enormi pieni di merci come montagne, spinti da uomini piccolissimi che parevano formiche, fra laser, neon, lampi, flash, fontane di luci. Entrai e, seguendo la fiumana di gente, ritirai uno di quei carrelli elettrici che avevano esaltato Alfredo utilizzando lo scontrino del parcheggio. Ed in effetti mi trovai a guidare un apparecchio grande come una locomotiva che aveva la stessa maneggevolezza di una bicicletta. Mi avvicinai ad una piramide e ne varcai l’imponente soglia. Dentro vi erano prodotti di ogni genere, tutti in qualche modo collegabili con l’oriente: alimentari, tappeti, cappelli, gioielli, ma anche agenzie di viaggio, barbieri arabi con massaggi, bagni turchi, persino una scuola coranica. E così era ogni altro ambiente. Uno avrebbe potuto trovare lì dentro tutto quello che cercava al mondo, senza dover andare altrove. Feci un giro per rendermi conto di quella esposizione e cercarne i punti deboli. Gli oggetti erano sistemati in modo da farsi desiderare, ogni merce aveva una lubrica disposizione che eccitava all’acquisto. E i prezzi! Bassissimi! Incominciai a toccare un sombrero messicano. Non avevo mai pensato a un sombrero in vita mia ma ora, mentre lo stavo indossando rimirandomi in uno specchio in quella che era la precisa ricostruzione di un saloon di El Paso, mi parve di non potere mai più farne a meno. Il sombrero fu il primo oggetto che entrò nel mio carrello. Fu come se si fosse rotto un argine: incominciai a prendere, prendere, prendere. Carrube mediorientali, lampascioni pugliesi, lampade di terracotta, gilè dalle fogge inusuali, farfalle di ferro battuto dai colori smaltati, incensi al bergamotto, carillon con i puffi: una miriade di oggetti assolutamente inutili si trovò accumulata sul mio carrello. Ed io godevo a scegliergli, sentivo una frenesia che si impadroniva di me che mi esaltava al massimo grado. Guardare un oggetto, toccarlo, poi prenderlo, infilarlo nel carrello mi dava una sensazione di potere che mi inebriava. Non mi ero mai sentito così eccitato! Fu quando ai davanti all’immenso specchio di un reparto abbigliamento in stile Luigi XIV che distrattamente mi guardai. E vidi riflesso sul mio volto lo stesso sorriso ebete di Alfredo.
Rimasi terrorizzato, spinsi il più lontano possibile il carrello e mi rifugiai nel bagno. Mi sciacquai abbondantemente la faccia con l’acqua fredda e rimasi a guardarmi nello specchio. L’espressione del viso era tornata normale. Mi ero salvato, per un pelo, ma mi ero salvato. Avevo corso il rischio di fare la stessa fine di Alfredo, altroché aiutarlo! Era stato lui a salvare me. Se non avessi visto il suo sorriso la sera prima, anch’io sarei stato drogato da quel desiderio smodato all’acquisto. Ora il pericolo era ato. Feci una prova toccando la carta igienica: effettivamente era morbidissima. Ma non m’incantava. Uscii dal bagno e vidi il mio carrello colmo di oggetti che mi fecero letteralmente ribrezzo. Avrei speso il mio stipendio di un mese per quelle schifezze. Mi guardai attorno: vidi nelle altre persone che spingevano i carrelli l’espressione beota del compratore felice. Io no. Grazie Alfredo. Ora cercheremo noi di salvare te. Mi incamminai verso l’uscita, seguendo la carovana delle montagne sui carrelli. Vedere quella gente che li spingeva, così piccola rispetto al carico che guidava, mi rammentò lo sforzo degli avari nella Divina Commedia e pensai che, come al solito, padre Dante era in grado di prevedere molte cose in anticipo, anche lo sviluppo della società dei consumi. Nel centro vi era un’unica uscita, occupata da centinaia di casse che senza sosta registravano prezzi e incameravano soldi, come le bocche infernali di Cerbero. Le casse però erano disposte in modo che non ci fosse altro spazio, oltre al carrello, per are. Cercai di intrufolarmi, ma non era possibile. Avrei dovuto fare tutta la coda per poter uscire senza aver comprato niente! Era una cosa vergognosa. Riflettei sulle astuzie dei commercianti, che ti spingono in ogni modo all’acquisto, senza nessuno scrupolo. Avrei potuto aspettare il mio turno. Si trattava di attendere una ventina di minuti. Ma questa era una questione di principio. Doveva esistere la possibilità di uscire da quel centro senza comprare niente e senza fare code. Mi diressi verso l’ingresso, ma lì c’era un sistema di apertura dall’esterno impossibile da utilizzare, anche a causa della fiumana di persone che continuamente entrava. Vidi però, a fianco della prima cassa, un cancelletto che,
seppure aveva il cartello di divieto di aggio, si poteva aprire anche dall’interno, tirandolo. Mi avvicinai, osservai la cassiera che stava guardando la merce da segnare e, sempre tenendola d’occhio, aprii il cancellino e ai. Un suono stridulo di sirena fastidiosa fece spostare tutti gli sguardi su di me, mentre due guardie giurate, uscite da chissà dove, mi si posero innanzi minacciose. “Lei dove sta andando?” chiese la prima guardia, un tizio non molto alto ma muscoloso e troppo nervoso. “Stavo uscendo” risposi con un velo di irritazione per essere stato scoperto nel mio puerile tentativo di evasione. “E perché non è ato dalle casse?” domandò l’altro, un armadio di due metri con due baffi ritti come aculei. “Perché non ho comprato niente.” “E come mai?” riprese il piccoletto “non mi dica che non ha trovato quello che cercava!” “Il fatto è che non cercavo niente” risposi. “E allora cosa è venuto a fare qui?” “A fare un giro.” “E lei si fa dieci chilometri per venire nel posto più fornito d’Europa solo per fare un giro?” continuò l’armadio. “E il suo carrello dov’è?” chiese il piccoletto. Lo scontrino del parcheggio! Me l’ero dimenticato nel carrello. Dovevo recuperarlo. “Ehm, non l’ho preso” mentii alle guardie. “Bene” sorrise l’armadio in modo sadico “allora mi faccia vedere lo scontrino.”
“Lo scontrino?” “Sì, lo scontrino del parcheggio!” Le cose si mettevano male. Decisi di dire la verità. “Sì, ho preso il carrello, l’ho riempito, ma poi ci ho ripensato.” “Ripensato?” si stupì il piccoletto. “Sì” continuai “non voglio più comperare niente.” L’espressione più attonita dell’universo si stampò sul volto di quelle due anime semplici. “Ma perché non vuole comprare? Lei deve voler comprare qualcosa. Qui abbiamo tutto, e costa pochissimo.” disse l’armadio. “E poi,” intervenne il piccolo “comprare è un dovere sociale. Fa girare l’economia. Produce ricchezza. Lo sa cosa faremmo noi se tutti si comportassero come lei? Saremmo disoccupati!” “Non è che lei è un comunista?” A questo terribile sospetto, espresso dal gigante baffuto, entrambi portarono le mani al manganello. “Ma no, cosa dite?” dissi cercando di fare il simpatico “Era solo perché avevo fretta. Ma ora torno dentro, vado a prendere il carrello, o alla cassa e tutto è sistemato. Okay?” “Questo tizio non mi convince” sussurrò Nervosetto a Baffone “vai a chiamare il direttore. Uno che non compra deve avere qualcosa che non va.” Quando vidi arrivare il direttore, capii che la situazione stava precipitando. Uno si aspetterebbe un direttore di ipermercato in giacca e cravatta, sulla cinquantina, con gli occhiali e i modi accattivanti, al quale spiegare con molta calma la situazione. Invece si presentò un trentenne con giubbotto nero, occhiali da sole impenetrabili, capelli rasati e cicatrice che gli attraversava il labbro. Si capiva che sorridere e mettere a proprio agio le persone era l’ultima cosa che aveva in
mente. Poteva sembrare un capitano delle SS, solo più cattivo. Le due guardie gli sussurrarono qualcosa senza distogliermi gli occhi di dosso. Il direttore mi guardò, o meglio, volse verso di me le lenti nere. “Vorrebbe essere così gentile da seguirmi, per favore?” sibilò fra i denti bianchissimi. Le due guardie, ad un suo cenno quasi inavvertibile, cercando di non dare nell’occhio, si sistemarono alle mie spalle con la mano sui manganelli. Ora ne ero sicuro. Ero proprio nei casini. Certe cose avvengono senza che ci sia un pensiero razionale. Perché, se avessi voluto far qualcosa di logico, avrei seguito il direttore nel suo ufficio e avrei chiarito la faccenda. Invece scappai. Verso l’unico luogo in cui potevo fuggire: l’interno dell’ipermercato. Volteggiai sul cancelletto, lo superai al volo e vi lanciai contro il carrello di un malcapitato che mi imprecò contro. Ma questo rallentò gli inseguitori e io mi dileguai fra gli scaffali. Fu in quel momento che capii cosa significa essere braccato. Sentii urla, fischi, sirene alle mie spalle. Per fortuna la ricognizione precedente mi era servita per farmi conoscere il territorio. Per prima cosa andai nel tempio indiano, situato in mezzo alla giungla, e mi nascosi fra gli alberi. Lasciai are un’oretta, poi, con molta circospezione, mi recai verso il reparto abbigliamento. Scelsi un paio di pantaloni ed una maglietta molto diversi dai miei e andai in un camerino. Mi cambiai e feci dei miei abiti un pacco che seppellii sotto la sabbia del deserto, con una paletta del reparto giardinaggio. Poi raggiunsi il settore cosmetici e trucchi e scelsi una parrucca e dei baffi finti (ovviamente, come in tutti i supermercati, i commessi erano introvabili e potei fare tutte queste cose senza che nessuno mi disturbasse). Ormai ero irriconoscibile e potevo muovermi senza problemi all’interno perché l’allarme per il furto sarebbe scattato solo quando avessi tentato di uscire. Nel centro commerciale tutto era tranquillo. Evidentemente non volevano causare il panico nei clienti. Io però notai una certa agitazione. Le guardie sorvegliavano attentamente ingressi ed uscite e qualche pattuglia girava anche all’interno, osservando tutti con molta attenzione. Io mi sentivo abbastanza al
sicuro: in fondo mi avevano visto solo due guardie ottuse ed il direttore, con gli occhiali da sole, per pochi attimi. Tuttavia rimasi di sasso quando vidi venire verso di me una pattuglia di due guardie, di cui una era l’armadio coi baffi. Mi voltati immediatamente a studiare il calibro dei cetrioli che si trovavano sul bancone più vicino. Le guardie si avvicinarono. Baffone dardeggiò su di me uno sguardo indagatore, ma ò oltre senza riconoscermi. Dentro di me esultai: il travestimento aveva funzionato (anche se il quoziente intellettivo della guardia non poteva farlo diventare un test definitivo). Ora bisognava cercare di recuperare il carrello, così mi diressi dove mi ricordavo di averlo lasciato. Questa volta però mi avevano preceduto. Il direttore nazi, con un paio di brutti ceffi al fianco, era riuscito a localizzarlo. Osservai da lontano le loro manfrine. Prima parlottarono un po’ fra loro, poi il direttore estrasse una strana chiave con la quale recuperò lo scontrino del parcheggio. Ora ero veramente fregato: con i dati dello scontrino sarebbero risaliti alla macchina e dalla macchina a me. Dopo pochi minuti avrei avuto nome, cognome e indirizzo. Con denuncia a carico. Un bel casino! Il tempo ava ed io non avevo ancora elaborato un piano di fuga. Era già sera inoltrata e io mi aggiravo fra gli scaffali tenendo d’occhio l’uscita che era talmente sorvegliata da non lasciare scampo. Il direttore e le due guardie fissavano chiunque asse dalle casse. Io senza carrello avrei dato troppo nell’occhio. Non pareva esserci scampo, se non costituirsi. Ma temevo troppo le conseguenze. Di solito non erano molto teneri con i sospetti comunisti. Non mi sarei nemmeno stupito se in quel centro commerciale ci fossero stati un tribunale ed una prigione. Già mi immaginavo la scena: un giudice togato in un’aula come quella dei film hollywoodiani, io in mezzo a Nervosetto e Baffone, il direttore sul banco dell’accusa che mostrava alla giuria, formata da consumatori con il sorriso beota, le prove: lo scontrino, il carrello, la testimonianza delle guardie. E il mio avvocato d’ufficio che sonnecchiava distratto. Fino alla sentenza: “Colpevole! Colpevole! Colpevole! Cinque anni di lavori forzati da scontarsi nel reparto ferramenta. La seduta è tolta!” Grida forsennate del pubblico, insulti, io che vengo trascinato mentre grido la mia innocenza e vengo chiuso nella grande gabbia del settore casseforti, esposto al pubblico ludibrio dei consumatori drogati. DIN DON IL CENTRO COMMERCIALE STRABELLO STA PER CHIUDERE. SIETE
PREGATI DI ULTIMARE I VOSTRI ACQUISTI E DI RECARVI ALLE CASSE. GRAZIE. L’annuncio mi scosse dalla fantasia in cui ero precipitato. Guardai l’orologio. Mancava un quarto d’ora a mezzanotte. Non potevo indugiare ancora. Ma il o era strettamente sorvegliato. Probabilmente la macchina già sequestrata. E in quel frangente disperato, mi venne in mente un unico pensiero: “Alfredo, bastardo! Sei tu che m’hai cacciato in questo guaio.” Ma questo non modificò minimamente la situazione. All’una il centro commerciale venne chiuso. Io ero ancora dentro. Quella notte mi resi conto che all’interno non vi erano allarmi: il sistema di serrature delle porte era talmente perfezionato da non richiedere ulteriori controlli. Ero completamente libero di muovermi, ma non potevo uscire. Per prima cosa mi saziai cenando con insalata di aragosta, sformato di spinaci e frutta esotica. Avevo recuperato alcuni piatti nel settore casalinghi che poi lavai nei bagni. Mi stesi poi su di un’amaca in esposizione per riposare. Anche se avevo puntato una sveglia alle sei, non riuscii quasi a chiudere occhio quella notte. Pensai. Ed un pensiero in particolare mi colpì profondamente: se l’ipermercato aveva davvero tutto, che bisogno avevo io di uscirne?
Da quel giorno vissi in quella gigantesca struttura. In effetti non mi mancava niente. Potevo vedermi i DVD appena usciti, ascoltare CD, leggere gli ultimi best-seller, mangiare, dormire, svagarmi, abbronzarmi, giocare, comunicare con l’esterno mediante internet o telefonino. Dalle 8 del mattino, ora in cui arrivavano i primi impiegati, fino all’una di notte, quando il centro veniva chiuso, avo il mio tempo nei vari reparti, poi, di notte, ero finalmente libero. Mi ero costruito una specie di tana nella giungla tropicale, perché avevo visto che lì la manutenzione era abbastanza scarsa, dove avo gran parte del mio tempo. Avevo imparato alcuni trucchi: potevo usare tutto, basta che poi rimettessi a posto; non dovevo ricomparire in un reparto prima di tre giorni, ma c’erano 27 settori nel centro, quindi questo non era un grosso problema. Avevo completamente cambiato il mio look: mi ero fatto crescere la barba e i capelli, li avevo colorati di biondo, usavo le lenti a contatto invece degli occhiali. Rispetto al primo giorno ero irriconoscibile.
Avevo faxato alla mia scuola una richiesta per un anno di aspettativa non retribuita, come previsto dal contratto, per cui ero a posto anche per il lavoro. Agli amici e conoscenti avevo detto che ero partito per un viaggio di studio in Finlandia per partecipare a un piano di scambi culturali nell’ambito di un progetto europeo (una balla clamorosa ma credibilissima). Insomma, ero in una botte di ferro. La cosa che mi mancava veramente era il sesso. Non che in precedenza avessi una vita sessuale particolarmente assatanata, però questa astinenza un po’ mi pesava. Sì, c’erano bambole e attrezzi vari nel porno shop, però non era proprio la stessa cosa (anche se devo dire che l’ultimo modello importato dal Giappone: CINZIA LA DONNA A CUI NON HAI BISOGNO DI CHIEDERE MAI era veramente una meraviglia, ti faceva di tutto, ma proprio tutto e di più, ma molto di più). Erano già più di tre mesi che vivevo nel centro commerciale, quando, una notte, mi accorsi che qualcosa di strano stava succedendo. Stavo tranquillamente sgranocchiando nuvole di drago nella mia tana, quando sentii un rumore improvviso vicino alla pagoda indù. Mi avvicinai circospetto e appoggiai l’orecchio alla parete. Dentro c’era qualcuno. Sentii il rumore di un accendino poi, qualche momento più tardi, un profumo di incenso provenire dal tempio ed un suono sordo, come una strana litania. Cercai di saperne di più. La pagoda in alto era aperta. Mi arrampicai lungo le statue che ne impreziosivano l’esterno fino a raggiungere la cima. Mi trovavo proprio dietro alla testa di Ganesh, l’enorme statua che ornava la pagoda. Guardai in basso e rimasi senza fiato. Una ragazza indiana, vestita con un prezioso sari azzurro, era inginocchiata davanti al dio elefante, recitando una preghiera e muovendosi avanti ed indietro al ritmo di quel mantra. Io scivolai lungo la statua, in assoluto silenzio, avevo imparato bene a non farmi sentire in quei tre mesi, e la osservai da vicino. Era abbastanza giovane, non doveva avere più di 25 anni. Aveva i lineamenti molto fini, da occidentale, ma la sua pelle era scurissima, quasi nera. Era molto bella. Lei alzò gli occhi. Mi vide. Due nere fornaci di carboni ardenti si fissarono sul mio viso. Aprì la bocca, stupita, poi si alzò e si voltò, per scappare. Ma io avevo previsto quella mossa e la fermai. “Non aver paura” le dissi cercando il tono più rassicurante possibile “Io ti sono
amico” “Chi... essere... tu?” mi chiese balbettando in un italiano stentato. “Mi chiamo Sandro.” “Tu... polizia?” domandò terrorizzata. “Nooo!” risposi dolcemente “io vivo qui. Abito qua dentro.” Lei parve non capire. Poi di nuovo chiese: “Tu, ladro?” “No, io sono un povero cristo come te. Un barbone, un clochard, comprendi?” Le lasciai le mani, come segno della mia buona volontà. Lei annuì con la testa, ma non penso avesse capito. Fui io allora ad iniziare l’interrogatorio: “Tu, come ti chiami, cosa fai qua?” “Io no so. Ero con padre qui. Vendere argento. Niente documenti. Mio padre preso polizia. Io scappata. Io Rupinder.” “E cosa stavi facendo, Rupinder, nel tempio indiano.” “Io pregare Ganesh che qualcuno aiuti me. Ganesh aiutato me. Tu venuto qui. Tu Sandro amico Rupinder.” Da quel giorno incominciò il periodo più felice della mia vita. Rupinder era una gioia. Una donna come non pensavo che ne potessero esistere. Il nostro amore esplose con la forza di un sole. Bruciavamo di ione, esistevamo l’uno per l’altra. In viaggio di nozze andammo alle Maldive. L’atollo che era stato ricreato nel settore viaggi e vacanze era veramente stupendo. L’acqua era calda e la sabbia bianca e soffice. Ogni notte ci amavamo fra le palme e i pesci tropicali, assaporando cibi succulenti fra un amplesso e l’altro. Di giorno ci rintanavamo nel mio rifugio, dove avamo il tempo a raccontarci le nostre vite. Le insegnai l’italiano (dopotutto ero professore di lettere) e imparai un po’ di Indi. Ma era col corpo che comunicavamo maggiormente.
Rupinder mi diede due figli: una femmina, che chiamammo Shinta, e un maschio, Cesare. Li partorì entrambi in bagno, di notte, per fortuna senza complicazioni. Io avevo studiato attentamente il manuale del ginecologo. L’unica difficoltà fu quella di far sparire i resti che seppellimmo nel giardino botanico. Pannolini, pappine, biberon, vestiti, giochi e eggini non mancavano. Insonorizzai con cartoni la nostra tana per non far sentire i bimbi se piangevano, ma la confusione nel centro era tale che sarebbero comunque rimasti inascoltati. Della loro istruzione mi incaricai io, utilizzando libri, video e computer. Eravamo veramente una famiglia felice. Non ci mancava niente. Col tempo incontrammo altre persone che vivevano nell’ipermercato: extracomunitari clandestini, adolescenti in fuga, pensionati in miseria, ma anche professionisti che avevano abbandonato tutto per una scelta di vita. Nel centro commerciale c’era spazio per molti: il centinaio di persone che formava la nostra comunità ava completamente inavvertito nell’enorme vastità del super megastore che, in seguito all’enorme successo ottenuto, continuava ad ingrandirsi con ulteriori servizi e padiglioni. E come andavamo d’accordo fra di noi: eliminato il motivo principale dei conflitti, non vi erano più ragioni particolari per litigare. Tutti avevano tutto, bastava prenderselo. Anche oggi, alla vigilia del matrimonio di Cesare con Kadija, una simpatica ragazza marocchina, continuo a essere felice accanto a Rupinder e agli altri. E, se talvolta mi prende un po’ di nostalgia per la mia vita precedente, mi basta guardare gli acquirenti, vedere il sorriso ebete di Alfredo che trascorre ogni domenica al centro STRABELLO con la moglie acida e i figli incarogniti, per capire che non ho lasciato nulla di bello, alle mie spalle.
CONTAMINAZIONE
A Paperopoli la notizia si diffuse in un baleno: Paperon de' Paperoni era stato rinvenuto cadavere all'alba, fra i cespugli prospicienti il famoso deposito che, dall'alto della collina, dominava tutta la città. Il segretario del magnate, come ogni mattina, si stava recando al lavoro, quando la sua attenzione venne attratta da un paio di zampe palmate, fornite di ghette, che affioravano dai bassi rami di un cespuglio di agrifoglio. Avvicinatosi, riconobbe nel corpo scomposto e senza vita quello del proprio datore di lavoro. Diede immediatamente l'allarme e sul posto si recò un'ambulanza dal vicino ospedale, ma i medici non poterono fare altro che constatare la morte risalente a sei o sette ore prima. Dai primi accertamenti, la morte venne attribuita ad asfissia, ma alcune macchie livide sul bianco collo della vittima fecero immediatamente pensare alla possibilità di un papericidio. I poliziotti, presenti sul posto, si affrettarono ad interdire la zona ai curiosi, ma non riuscirono ad impedire che la notizia giungesse all'orecchio di alcuni giornalisti che intravidero immediatamente il sensazionalismo dell'avvenimento. Già dalla prima mattinata il “PAPERSERA” uscì in edizione straordinaria con titoli a caratteri cubitali che parlavano apertamente di delitto, suscitando una vastissima eco nella pubblica opinione. Vista l'estrema delicatezza della situazione e l'importanza che la vittima possedeva nell'equilibrio economico e sociale della vita paperopolese, le indagini vennero affidate all'espertissimo commissario Basettoni della vicina città di Topolinia, il quale procedette immediatamente ad un sopralluogo. Dopo aver esaminato attentamente il corpo, ne ordinò l'autopsia, malgrado la vivace opposizione dell'affezionatissimo nipote Paolino Paperino, per individuare le cause esatte della morte ed evitare inutili allarmismi; poi osservò il terreno in cerca di eventuali tracce. I dintorni del luogo della tragedia apparivano costellati di impronte che ne impedirono di fatto l'identificazione. I rami dei cespugli risultavano integri, come se non ci fosse stata alcuna forma di lotta, circostanza particolarmente strana considerando l'indole combattiva di de' Paperoni. Inoltre, particolare curioso, non venne rinvenuto il cilindro del papero, dal quale la vittima non si separava mai, da quando lo aveva acquistato nel
Kolondike di seconda mano durante la corsa all'oro del 1890. Interrogato dal commissario Basettoni, il segretario confermò la versione precedentemente fornita agli agenti. Il maggiordomo del deposito affermò che la sera precedente il principale era stato alzato fino a tardi, come era sua abitudine, per ultimare i conti dei profitti quotidiani e che, ritiratosi, non l'aveva più veduto, anche se gli era parso a un certo punto di udire lo squillo del telefono. Alcune ore più tardi giunse il referto autoptico che accertò la morte per strangolamento, dando quindi corpo alle ipotesi più drammatiche. Il commissario Basettoni, non potendo contare sull'aiuto dell'infallibile Topolino, impegnato in una spedizione antartica e irraggiungibile via radio, procedette, coadiuvato dalla sagacia dell'ispettore Manetta, a delineare il possibile movente per definire una prima lista di sospettabili. Vennero immediatamente esclusi i Bassotti, in carcere in seguito ad una condanna pregressa e non ancora evasi. Venne controllato il portafogli della vittima e lo scarso contenuto fece immediatamente pensare a un furto, ma alcuni testimoni attendibili affermarono che il de' Paperoni era solito uscire con pochi spiccioli per non incorrere in spese non previste. Anche l'ispezione al deposito, peraltro protetto da sofisticati impianti d'allarme, contribuì a escludere il furto dai moventi. Venne inoltre ritrovata intatta la bacheca che conteneva la celeberrima “Numero Uno” e quindi anche Amelia venne cancellata dall'elenco dei sospetti. Rimasero quindi i moventi legati alla conduzione dei suoi affari e all'eredità. Rockerduck presentò un alibi di ferro: era presente a un ricevimento dato in suo onore dal consiglio municipale che si era protratto fino all'alba. Philo Sganga invece all'inizio si mostrò reticente, ma successivamente, messo alle strette dallo stringente interrogatorio del commissario, confessò di avere ato la notte in compagnia di Brigitta la quale, fra lacrime di vergogna, convalidò l'affermazione del miliardario. Data la ione che la papera nutriva nei confronti della vittima, Basettoni ritenne che Brigitta non avrebbe mai avallato un alibi così umiliante per lei a favore di un potenziale assassino del suo amato, e quindi anche Philo Sganga uscì dalla lista dei sospetti. Non rimasero allora che gli eredi dell'ingente patrimonio: Gastone, il quale era
partito per una crociera nei mari del Sud in seguito alla vincita di un concorso, e già questo elemento lo rendeva insospettabile, ma che inoltre era stato diseredato pubblicamente dallo zio in seguito a un contenzioso; e Paperino. Interrogato, quest'ultimo affermò di aver ato la notte del delitto a casa propria dormendo. I suoi nipoti Qui Quo e Qua giurarono, con parola di Giovani Marmotte, di aver sentito il loro zio russare per tutta la notte e, spiando dalla serratura della camera, di averlo visto addormentato sotto le coperte. Pur convinto da questa testimonianza, la parola di una Giovane Marmotta non si discute, il commissario Basettoni ordinò per formalità una perquisizione a casa di Paperino che portò a risultati sorprendenti: in un doppio fondo dell'armadio del papero vennero ritrovati una testa del tutto somigliante a Paolino Paperino con gli occhi chiusi, ed un magnetofono con incisi i rumori di una persona che russa. Questo ritrovamento demolì l'alibi del nipote che venne incriminato per l'assassinio del vecchio papero. Paperino si difese sostenendo di essere nientedimeno che Paperinik, il famoso supereroe mascherato, ma nessuno, nemmeno la sua affezionata fidanzata Paperina, si sentì di credere a questa affermazione: troppo grande era la differenza fra l'indomito eroe e il pusillanime nipote di de' Paperoni, e la posizione di Paperino si aggravò ulteriormente. In sua difesa allora il papero citò Archimede che, a suo dire, l'avrebbe aiutato nella fabbricazione dei congegni segreti di Paperinik. Giunti nel laboratorio, Manetta e i poliziotti si trovarono di fronte ad una scena raccapricciante: Archimede giaceva morto, colpito al ventre da numerose coltellate, vibrate dal basso verso l'alto, ed Edy era al suo fianco con la lampadina fracassata da un colpo di bastone, sorpreso dall'assassino mentre stava per far suonare uno dei sofisticatissimi sistemi d'allarme dell'inventore. Sottoposto a giudizio, Paperino venne accusato della morte di Paperone, Archimede ed Edison. L'accusa sostenne che all'imputato, oberato dai debiti e perseguitato dai creditori, non era rimasta che una soluzione: l'eredita' miliardaria dello zio. Si era perciò recato da Archimede e, con la scusa di voler fare uno scherzo ai nipotini, si era fatto costruire una testa finta che imitasse la sua fisionomia collegata con un magnetofono a lunga durata. Alla consegna, aveva ucciso l'inventore e il suo aiutante affinché non potessero testimoniare.
Con estremo cinismo, la notte del delitto, messi a letto Qui, Quo e Qua, aveva collocato l'apparecchio nel letto, in modo che l'illusione fosse perfetta, e aveva telefonato allo zio per farlo uscire dal deposito. La società telefonica aveva infatti registrato una telefonata da casa di Paperino al deposito mezz'ora prima del delitto. L'imputato si era quindi calato dalla finestra e si era recato all'appuntamento con lo zio, uccidendolo in modo infame mediante strangolamento. Un sordido delitto, sostenne l'accusa, consumato per puro calcolo economico da un individuo abietto. Malgrado le prove pesanti, l'apionata arringa dell'avvocato difensore, Pico de' Paperis, insinuò il dubbio nei giurati. Ma a fugare ogni indecisione giunse la notizia del ritrovamento del cilindro di de' Paperoni nel giardino di Paperino. A questo punto le prove divennero schiaccianti; Pico de' Paperis chiese una perizia psichiatrica per il proprio cliente, ma questo significava che anche il difensore aveva perso la fede nell'innocenza di Paperino. La giuria, riunitasi per un tempo brevissimo, non poté che emettere un verdetto di colpevolezza: Paolino Paperino venne condannato all'ergastolo e, abbandonato da tutti, un paio di mesi più tardi si suicidò in carcere continuando a proclamare, in una lettera ai giornali, la propria innocenza. L' eredità di Paperon de' Paperoni giunse quindi nelle mani dei pronipoti Qui, Quo e Qua i quali amministrarono le enormi ricchezze con un'avvedutezza e un cinismo ancora maggiori che non il prozio; acquistarono le foreste vicino a Paperopoli e, dopo aver brutalmente cacciato le Giovani Marmotte che lì tenevano i campi, costruirono fabbriche che, mediante una concorrenza spietata, ridussero sul lastrico sia Rockerduck che Philo Sganga, costretti a vivere di elemosina ai margini della società. Fecero abbattere la casa di Paperino e costruirono un mega supermercato. Qualcuno sussurrò che nelle fondamenta della casa fosse stato ritrovato il rifugio segreto di Paperinik, cosa che avrebbe scagionato il defunto Paperino, ma una colata di cemento seppellì ogni cosa e Qui, Quo e Qua si diedero da fare per mettere a tacere ogni diceria, sostenendo, attraverso il loro monopolio multimediale, che con il suicidio dello zio Paperino si era definitivamente archiviato l'enigma della morte di Paperon de' Paperoni.
IL LAMENTO DEL FAZZOLETTO
Quando è notte profonda, e tutti gli uomini, animali e piante vivono nella dimensione del sogno, gli oggetti si destano e parlano fra di loro, commentando e discutendo del loro rapporto con gli esseri umani che prima li creano, donando loro la vita, e poi li sfruttano senza alcuna pietà né sensibilità.
“Lasciatelo, lasciatelo parlare!” La voce di basso profondo dell' antica pendola si fece strada attraverso il brusio degli oggetti riuniti nel grande salone. “Lasciate parlare il fazzoletto. Ascoltate la sua triste storia.” Immediatamente tutti tacquero, rivolgendo l'attenzione alla bianca pezzuola, piegata con cura sul tavolo, che, con voce tremula, iniziò a parlare. “Sì - disse - io sono la più sfortunata delle creature! Guardatemi: mi vedete bianco, immacolato, profumato, ammorbidito, stirato, ma quanto mi costa ciò? Oltre ai soliti patimenti: immersioni in acqua bollente, centrifughe vorticose, ustioni di vapore, che tuttavia oramai fanno parte della mia vita quotidiana, ho dovuto subire molte altre penose umiliazioni. Il fazzoletto! Che nacque come un vezzo, la cui unica funzione era quella di accogliere le dolci lacrime di qualche fanciulla innamorata; o al più svolazzare fra le mani incipriate di qualche cicisbeo che esibiva il proprio corredo di trine e merletti. Come invidio i miei antenati: loro non fecero in tempo a conoscere la mia condanna. Sono sceso velocemente nella scala dell'eleganza, fino a giungere al gradino più basso. Ora io non vengo più sventolato per essere ammirato, ma nascosto, come oggetto di vergogna, spinto nei pertugi delle tasche o nelle oscurità di borsette in fintapelle!
Addio, dolci lacrime di tenere fanciulle innamorate, addio. Ora il mio compito è quello, inorridite!, di raccogliere il muco che cola dal naso dei miei padroni ed ogni schifezza presente nelle cavità olfattive. E non solo questo, amici miei continuò il proprio lamento con voce soffocata, fra il triste compianto degli altri oggetti che lo ascoltavano muti - Il mio padrone oggi mi ha adoperato, udite udite!... per pulire il vetro della sua automobile!” Un mormorio intenso si levò dalla schiera degli auditori. “Sì, - continuò sempre più amareggiato il fazzoletto - Sì! Speravo di non vivere tanto a lungo da vedere una giornata come questa. Con che faccia posso rivolgermi ai miei fratelli fazzoletti, ai miei cugini tovaglioli, ai miei genitori lenzuoli?” Diventai tutto nero per lo sporco accumulato sul quel vetro lurido. Oh, certo, appena tornato a casa, il padrone mi dette a sua moglie: mi pulirono, mi buttarono nella solita cabina d'acciaio a ruotare su me stesso spaventosamente, fino a star male. Se solo aveste visto il colore dell'acqua di scarico.... Ora mi vedete pulito, ma questo mio stato durerà poco: chissà quali degradanti compiti mi attendono, ora che ho scoperto la vera natura del padrone, il suo essere sudicio nel profondo, la sua mancanza, non di dico di amore, ma perlomeno di rispetto nei confronti di chi l'ha servito fedelmente per tutto questo tempo. Ora a voi, compagni di sventura, che avete avuto la compiacenza di stare ad ascoltare questo povero pezzo di stoffa, che ho sentito commuoversi durante il mio racconto, io chiedo: chi può essere più infelice di me?” A questa domanda, uscita con un struggente sospiro dalla voce del povero fazzoletto, tutti gli oggetti nel salone annuirono compiangendolo, mentre come in una litania lui continuava nella sua mesta domanda: “Chi?, Chi può essere maggiormente infelice di me?” Lontana, in un angolo, avvolta nell'orgoglioso silenzio della propria rassegnazione, la carta igienica non rispose neppure.
IL PIANO
Per molto tempo l’ho pensato, ma ora finalmente il piano è pronto. Ho preparato il delitto perfetto. Ho riflettuto a lungo e ho capito che tre sono gli elementi che portano all’identificazione del colpevole: il movente, l’alibi e le tracce. Quindi il mio delitto perfetto sarà senza movente: ucciderò una persona qualsiasi, che non abbia alcun legame con me. Nessuna eredità in ballo, rancori sepolti, problemi di cuore o conflitti per interesse. Niente di niente. Io e la mia vittima ci incontreremo solamente nel momento della morte (la sua). Bisogna crearsi un alibi di ferro, che molte persone ti vedano in un altro posto nello stesso momento dell’omicidio. Non si devono lasciare tracce. Di nessun tipo. Gli investigatori di adesso possono risalire al colpevole dal più piccolo indizio. Quindi non solo non lasciare nemmeno un capello in giro. Ma possibilmente cercare di far ricadere i sospetti su qualcun altro. Difficile tutto questo? Certo. Ma non impossibile. Per questo ci ho lavorato tanto. Ma ora il piano è completo. L’alibi: la biblioteca. Mi recherò lì per consultare dei libri, chiederò aiuto alla bibliotecaria per farmi riconoscere e mi siederò nella sala più affollata facendo cadere un paio di volte un libro per richiamare su di me l’attenzione dei lettori. Sarà un giovedì pomeriggio di novembre, verso le cinque. La biblioteca, che chiude alle 18 e 30, è affollata di studenti.
Alle cinque e mezzo mi alzo come per cercare altri testi. Guardo le scansie. Cambio sala. Vado in quella in fondo, dove ci sono vecchi testi di geografia. È quasi sempre deserta. Lì c’è uno stanzino che dà sul retro. La porta, nascosta dalle librerie, è sempre aperta. Mi ci infilo dentro, senza farmi vedere. Nessuno ci va mai. C’è un finestrino piccolissimo. Pochi potrebbero arci. Io sì. La biblioteca è al piano terra e il finestrino dà sul parchetto che a quell’ora sarà sicuramente deserto. Comunque sono al buio, nessuno mi può vedere. Raccolgo il bastone che precedentemente ho preparato nel parco. Mi metto i guanti. Due paia: uno di cotone sotto ed uno di pelle sopra. Nessuna impronta. Mi metto due sacchetti di cellophane ai piedi, per non infangarmi le scarpe. C’è una zona, di fronte all’ingresso del parco, dove dei vecchietti tirchi si fermano a leggere il giornale affisso sul muro. È un posto deserto. Mi avvicino. Vedo un vecchio che guarda i titoli del quotidiano. Mi avvicino di soppiatto. Lui non mi sente. Sono molto silenzioso. Alzo il bastone e PUM! Un solo colpo. Fatale. Morto. Nessuno mi ha visto. Lascio cadere il mozzicone di sigaretta che ho preso di nascosto a Piero, il guardiano del cantiere vicino al parco. A quell’ora il cantiere è chiuso. Piero è dentro che fa la guardia. Da solo. Per lui nessun alibi. Torno nel parco. Vicino ad un albero, il giorno prima, ho scavato un buco verticale. Ci infilo i guanti, e il bastone. Sopra un po’ di terra, poi foglie secche. Non si vede niente. Ritorno al finestrino. Tolgo i sacchetti e li butto nel cassonetto lì a fianco, dopo averli fatti a brandelli. Scavalco e rientro nello stanzino. Socchiudo silenziosamente la porta. Spio da una fessura. Nessuno. Entro, richiudo l’uscio, prendo il primo libro che trovo e, leggendolo, ritorno al mio tavolo.
Sono ati 3-4 minuti. Per tutti io non mi sono mai allontanato. Rimango fino alla chiusura, o fino al ritrovamento del cadavere. Alibi di ferro. Nessun movente. Nessuna traccia mia. Delitto perfetto. Non mi prenderanno mai. C’è purtroppo un solo piccolo particolare: mia mamma non mi lascia andare da solo in biblioteca. Dice che sono troppo piccolo perché faccio ancora la quarta elementare. Dice che mi lascerà uscire da solo quando sarò alle scuole medie. Fra due anni. Uffa! Però questo non sminuisce il mio piano: anche se non subito, il mio delitto lo farò e, credeteci, sarà sicuramente perfetto.
NUOVI SAPORI
“Se questa volta mi ha chiamato per farmi perdere tempo, guai a lui!” Mars saliva velocemente i gradini per raggiungere l'undicesimo piano. C'era anche l'ascensore naturalmente, ma lui preferiva utilizzare la scala mobile, che gli permetteva di sgranchirsi le gambe senza essere costretto a rimanere inscatolato in quella gabbia di vetro e metallo. Inoltre gli ascensori erano sempre pieni e, dato che il viaggio era troppo corto, non c'era né il tempo per avviare una conversazione, né la voglia di farlo, per cui si era sempre costretti ad abbassare gli occhi e guardarsi in giro per non osservare coloro che rappresentavano i momentanei compagni di viaggio. “Undicesimo piano! Non poteva abitare un pochino più in basso? D'altronde non posso nemmeno pretendere che sia lui a venire da me. L'importante è che questa volta la notizia sia certa.” Man mano che saliva, il fiato tendeva ad affievolirsi, malgrado l'energia fisica dei suoi 13 anni, perché correva sulle scale mobili superando i gradini quattro a quattro, facendo spericolati slalom in mezzo alle persone e curve paraboliche fra un piano e l'altro. “Nono, decimo, undicesimo finalmente!” Velocemente seguì il corridoio sulla destra che si addentrava in un labirinto di porte e terrazze, tutte rigorosamente uguali, coperte da quel vetro specchiato che rifletteva continuamente le finestre, creando non pochi disagi a chi si addentrasse in quei meandri. Per fortuna Mars conosceva benissimo la strada, per cui non ebbe difficoltà ad individuare finalmente, dopo l'ultima svolta, la porta di Finish. Prima di suonare il camlo, si fermò ansimante a riprendere fiato. Solo in quel momento si rese conto di quanto aveva corso. “Spero che almeno questa volta sia vera la notizia. Se mi ha preso in giro, se mi ha fatto venire ancora per niente, giuro che lo strangolo con queste mie mani!” Per Mars era troppo importante quella notizia. Erano mesi oramai che stava
disperatamente cercando del cioccolato. Non che ci tenesse particolarmente ad assaggiarlo, anche se effettivamente gli sarebbe piaciuto provarlo, ma non si sarebbe mai imbarcato in una ricerca di questo tipo solo per soddisfare un suo capriccio. Il realtà il cioccolato era necessario per poter entrare nelle grazie di Smarty la ragazzina di cui si era disperatamente innamorato, al pari di ogni altro maschio della scuola. Ora si era finalmente riposato e suonò il camlo. Una voce meccanica gli intimò “Procedere per identificazione iride, prego.” “Al diavolo Finish e la sua maledetta mania dell'elettronica.” Brontolando, Mars appoggiò l'occhio all’obiettivo sistemato al centro della porta e attese la risposta. “Iride identificata, appartiene a quel fetentone di Mars. Accesso consentito, ma tenere giù le mani.” “Questa me la paghi” pensò Mars entrando nell'appartamento. Attraversò la sala e si diresse senza indugio alla camera di Finish, o meglio, al suo laboratorio. La stanza infatti poteva definirsi camera da letto solo per il fatto di avere un piccolo giaciglio in un angolo, tutto il resto dell'ambiente era costituito da una serie di apparecchi elettronici, monitor, casse, computer, strumenti di ogni tipo fra un groviglio inestricabile di fili che correvano per tutto il pavimento, lasciando appena lo spazio sufficiente a Finish per muoversi con la sua sedia a rotelle. “Senti cos'è questa storia del fetentone?” chiese Mars senza nemmeno salutare l'amico. “Un semplice meccanismo di identificazione.” rispose Finish, per niente turbato dalla plateale entrata di Mars. “No, mi riferisco proprio alla parola fetentone.” “Trattasi dell'alterazione accrescitiva dell'aggettivo fetente, proveniente dal latino e dal significato denotativo di maleodorante, ma con una espansione connotativa di blando insulto, con accenni di simpatico cameratismo.” Mars non stette nemmeno a replicare, anche perché aveva capito meno della metà delle parole dell'amico. D'altronde Finish aveva una cultura enorme. Da quando un incidente l'aveva privato dell'uso delle gambe, egli aveva quasi sempre vissuto in quell'appartamento, dotandosi però di una strumentazione
scientifica all'avanguardia che gli permetteva, non solo di seguire le lezioni anche da casa senza dover andare tutti i giorni a scuola, ma anche di poter essere collegato con il resto del mondo e di essere sempre aggiornato su tutte le novità scientifiche e tecnologiche che incessantemente venivano sfornate. “Senti, sono venuto subito, come volevi, correndo come un matto. Adesso dimmi subito la notizia e fa’ che sia vera, se no ti distruggo!” Mars finse aggressività per mascherare il disagio che spesso provava in presenza dell’amico. Era così diverso da lui. Come Mars era dinamico e impossibilitato a rimanere inattivo per più di trenta secondi, così Finish era capace di una pazienza che pareva infinita. La loro amicizia però non era mai venuta meno, fin dai tempi del primo ciclo scolastico, quando ancora Finish camminava. Le maestre avevano costretto l’irrequieto Mars a sedersi al banco del bravissimo Finish, con la speranza di farlo calmare un po’. Come spesso succede, all’inizio Mars aveva vissuto la scelta delle maestre come una punizione, rifiutando i timidi approcci dell’amico di costruire una relazione fra loro. Poi c’era stato l’incidente. Una gita in macchina con la famiglia, un automobilista spericolato sulla loro strada, un soro azzardato, lo schianto e Finish aveva avuto la peggio. Ed era stato proprio nel periodo del ricovero in ospedale che Mars, solo nel suo banco, si era reso conto di quanto gli mancasse l’amico. Era andato a trovarlo in clinica. Finish, non appena lo vide, lo salutò allegramente. Entrambi sapevano che lui non avrebbe mai più camminato e Mars rimase sconvolto dalla forza d’animo dell’amico. Era venuto per rallegrarlo ed era invece proprio Finish che lo teneva su di morale. Ma, al momento di salutarsi, Mars aveva notato gli occhi verdi di Finish luccicare e due lacrime scivolare lungo le sue guance. Da allora erano diventati inseparabili. Non mancava giorno che non si vedessero. Mars agiva e teneva i contatti diretti col mondo, Finish, sempre immerso nei suoi studi e nelle sue ricerche telematiche, rifletteva e trovava le soluzioni. Come in questo caso… “Quanta furia, Mars! Ti precipiti a casa mia mia, chiedi delle spiegazioni che puntualmente ti fornisco e ti arrabbi pure! Se davvero vuoi riuscire nell'impresa,
dovrai avere ben altra pazienza, caro mio.” “Va bene, starò calmissimo. Solo adesso dimmi immediatamente se hai trovato quel maledetto cioccolato!” “Abbassa la voce o vuoi che ci sentano tutti? Stavolta c'è, te lo posso assicurare. Se venissi qui vicino al monitor, lo vedresti anche tu.” Mars si avvicinò all'amico che incominciò immediatamente ad armeggiare con il suo computer. Schiacciò pulsanti e pigiò tasti a una velocità inimmaginabile. Al termine dell’azione, si aprì una schermata in cui apparve un vecchio articolo di giornale.
“E questo cosa c’entra?” domandò con impazienza Mars. “Ti ho già detto che devi essere calmo, Roma non fu costruita in un solo giorno. Ora, leggi quest’altro articolo.”
“Continuo a non capire cosa c’entrino queste notizie con il cioccolato.” esclamò Mars. “Niente, se non per questo volantino telematico che sono riuscito a rintracciare nei meandri di un database semi-cancellato. Guarda”
“E questo cosa vuol dire…?” “Sai cosa sono le uova di Pasqua?” chiese Finish. “No” rispose Mars. “Non ne dubitavo affatto. Prima che le piante di cacao si ammalassero e scomparissero nel giro di pochi anni, il cioccolato era molto diffuso.” “Questo lo so!” “Orbene, le uova di Pasqua erano fatte tutte di cioccolato. E qui si parla di uno gigante” continuò Finish. “Okay, e allora?” “Ma non capisci? Si vede che non sei ferrato nelle ricostruzioni storiche. Abbiamo tre documenti: il primo articolo che chiameremo documento 1, il secondo articolo documento 2 e il volantino documento 3. Allora, segui il mio ragionamento: la lotteria della scuola aveva in palio un uovo gigante di cioccolato (documento 3). L’estrazione doveva essere fatta in aula magna dopo la consegna dei premi agli alunni (documento 1). La scuola è crollata durante la consegna dei premi (documento 2), quindi prima dell’estrazione della lotteria. Dato che l’estrazione si fa sempre in presenza del premio che deve essere consegnato seduta stante, ne deriva che…” Finish interruppe ad arte il discorso. “Ne deriva che…” fece eco Mars. “Ne deriva che sotto i ruderi della scuola c’è un gigantesco uovo tutto di cioccolato!”
Correre, correre, non pensava ad altro. Mars non stava letteralmente più nella pelle. La notizia che gli aveva dato Finish era persino esagerata, non osava sperare tanto. Un uovo di cioccolata sepolto fra le macerie della scuola! Il crollo era avvenuto una dozzina d’anni prima, ma Finish l’aveva rassicurato
sullo stato di conservazione. “Il cioccolato rimane integro per più di vent’anni. L’ho dedotto dalla sua composizione molecolare” Mars non aveva osato contraddirlo, anche perché non aveva alcuna intenzione di mettere in discussione la scoperta. “Ciao Mars, dove corri così?” Il ragazzo si voltò, frenando bruscamente e andando a franare contro un paio di manichini del reparto biancheria. Una commessa lo fulminò con lo sguardo. “Dico a te, perché hai così fretta?” Un simpatico musino, due neri occhi vivacissimi, un sorriso aperto spuntarono dietro queste parole. “Ciao, Morosita, cercavo Smarty. L’hai vista per caso?” chiese Mars all’amica. “Smarty, Smarty, sempre Smarty, sembra che voi ragazzi non pensiate ad altro!” “Scusami, ma è veramente una cosa importante. Se mi dici dov’è, domani magari vengo a trovarti con più calma.” “Domani, domani” rispose un po’ seccata la ragazza “mai che sia oggi. Sei sempre di corsa, ma non ti fermi mai?” “Chi si ferma è perduto” rispose immediatamente Mars, continuando a saltellare sul posto come se non aspettasse che il momento di andarsene. “Sì, meglio perderle che trovarle, certe persone...” Morosita guardò l’amico di sottecchi “comunque se proprio non puoi fare a meno di Smarty, la troverai al reparto jeans. E guarda che non è sola.” “Grazie, grazie mille” disse Mars, già scattato come un razzo. “A domani, ti aspetto.” gli ricordò Morosita “Come, ah sì, a domani, a doma...” le ultime sillabe si persero in lontananza: Mars era partito alla velocità del suono. “Non è sola, non è sola, lo so che non è sola” brontolava Mars intanto che
piroettava fra la folla per non urtarla “non è mai sola Smarty: ha sempre un codazzo di maschi che le ronzano intorno. Ma sarò io alla fine quello che la spunterà. Eccola!” Smarty, circolando fra i banconi degli stilisti più in voga, elargiva le proprie grazie al variegato seguito di ammiratori tutti intenti a mostrarsi interessanti ai suoi occhi, ai suoi famosissimi occhi blu. Mars rimase incantato a guardarla. I capelli biondi le scivolavano sulle spalle in mille ricciolotti ribelli, tutti di un colore diverso. La minigonna scopriva le più celebri gambe del Centro Commerciale Unico. Meritava veramente il titolo Miss Beautiful, conferitole l’anno precedente all’unanimità. Bella, bellissima ma impossibile. Per quanti ragazzi le fero la corte, lei aveva sempre detto che si sarebbe messa insieme solo con il primo che le avesse fatto assaggiare il cioccolato. Cosa non solo difficile, ma pressoché impossibile. Undici anni prima, infatti, una misteriosa epidemia aveva distrutto, nel giro di pochi mesi, tutte le piante di cacao del pianeta e non c’era stato verso di impedirlo. Così il cioccolato, da alimento diffuso ed economico, era diventato la cosa più ricercata e preziosa del mondo. Chi aveva qualche tavoletta, si era affrettato a nasconderla e c’erano persone, incapaci di resistere alla sua mancanza, che avrebbero pagato milioni per assaggiarne un pezzettino. Esistevano sì dei surrogati chimici, ma, a detta degli esperti, non avevano nemmeno lontanamente il suo gusto e il suo aroma. Ora veniva il difficile per Mars: parlare da solo con Smarty senza il suo codazzo di mosconi. “Se ci fosse Finish, lui avrebbe la soluzione. Ma non c’è quindi devo cavarmela da solo.” Stette qualche istante a riflettere, poi ritenne di aver escogitato il sistema migliore per distrarre i maschi da Miss Beautiful. Mars si guardò in giro. Nessuno badava a lui. Si avvicinò all’impianto d’allarme. Il cartello era esplicito.
DA USARE SOLO IN CASO D’INCENDIO
Un pugno contro il plexiglass. UEEEEEEEEEEE!!! La sirena lanciò il suo urlo lancinante. Ci fu un fuggi fuggi generale verso le uscite di sicurezza. Avevano un bel gridare i commessi: “ È un falso allarme, non sta succedendo niente!” Nessuno li ascoltava. L’intero quartiere abbigliamento del Centro Commerciale Unico era in preda al caos, la folla impazzita travolgeva tutto nella speranza di mettersi in salvo. Nella confusione, Mars fu lestissimo ad afferrare per un braccio Smarty e a trascinarla in un camerino di prova dei vestiti. “Stai tranquilla, sono io che ho fatto suonare l’allarme. Volevo parlarti.” “E non c’era un sistema più semplice? Potevi chiedere un appuntamento.” “Avevo bisogno di parlarti subito. E da solo.” “Mars, potevi chiedermelo, no?” “Adesso possiamo parlare, e siamo soli” “E cosa avevi di tanto importante da dirmi?” “Ho trovato del cioccolato” Gli occhi di Smarty, i famosi occhi blu di Smarty, luccicarono di bramosia. “Tu hai trovato del cioccolato? Dov’è, quant’è?” “Non ce l’ho qui adesso. Mi ci vorranno alcuni giorni per recuperarlo. Volevo solo rammentarti la promessa.” Smarty sorrise con il suo famoso sorriso scintillante e Mars non capì quasi più niente. “Se tu mi porterai del cioccolato, ti assicuro che non te ne pentirai. Ma se” e qui il suo sorriso diventò di ghiaccio “tutta questa storia è uno scherzo, non azzardarti mai più a capitare nei paraggi. Sono stata chiara?” concluse con un tono che non ammetteva repliche.
Il ragazzo deglutì. “Chiarissima” balbettò, osservando la ragazza uscire dal camerino. Mars rimase alcuni istanti come incantato a fissare la porta che si chiudeva alle spalle di Smarty, ancora perso dietro il suo sorriso, poi si riscosse e uscì anch’egli dal camerino. “E’ stato lui!” Due indici di due commesse erano puntati contro il suo petto come fucili. E dietro di esse i baffetti stizziti del caporeparto, incaricato di scovare a ogni costo l’autore del falso allarme. “Oh, oh...” mormorò Mars, inchiodato sulla porta.
Due giorni, due giorni buttati via! Mars era disperato: i suoi genitori, convocati dal direttore del quartiere abbigliamento, avevano dovuto pagare una bella multa per il suo falso allarme, con conseguente lavata di capo e punizione assolutamente non trattabile: due giorni di proibizione totale. Niente uscite, niente telefono, niente computer se non per seguire le lezioni. Isolamento assoluto. Mars si sentiva come un lupo in gabbia, la sua energia vitale era costretta fra le quattro vetrate del suo appartamento, mentre avrebbe voluto già essere pronto per la caccia all’uovo di Pasqua, nei meandri sotterranei della vecchia scuola. L’impossibilità di comunicare con Finish lo rendeva ancora più inquieto ed intrattabile e di questo fecero le spese i suoi fratelli minori, che avevano avuto la sventura di capitargli nei paraggi. I loro pianti peggiorarono ancora di più le cose: un ulteriore giorno di consegna. Mars ululò. Finalmente la porta dell’appartamento venne aperta anche per lui, ed egli si precipitò di nuovo da Finish per accordarsi sull’impresa da compiere. “Certo che sei proprio furbo” lo canzonò Finish “Hai la possibilità di realizzare il tuo sogno più grande, e ti fai ingabbiare come un fessacchiotto qualsiasi. E, come se non bastasse, trovi anche il modo di complicare la tua situazione sfogandoti su tuo fratello e sulla piccola Milkana, poverina…”
“Senti, per favore, lasciami stare. Dimmi solo se sei riuscito a preparare tutto” “Certo” replicò Finish “non sono mica stato con le mani in mano come te. Ecco qui: questa è una piantina dei sotterranei della scuola. Ci sono anche le mappe del piano terra e di quello rialzato, ma non so quanto ti potranno servire, dato che è crollato tutto. Seguimi attentamente: se tu prendi l’ascensore del quartiere ferramenta e, invece di salire, scendi nelle cantine, da lì, percorrendo questo corridoio, dovresti arrivare a un punto in cui si incrociano tre tunnel. Prendendo quello di sinistra e svoltando a sinistra ancora dopo due uscite, dovresti trovarti all’inizio dei sotterranei della scuola.” “Ma è troppo complicato “ disse Mars sfiduciato “non ce la farò mai a trovare la strada. Io già mi sono perso all’uscita dell’ascensore!” “L’avevo previsto e ho pensato a due accorgimenti. Uno è questo.” Finish tirò fuori da una scatola una specie di fascia con aggeggi vari attaccati. “Cos’è?” chiese Mars. “È un apparecchio che ci consentirà di tenerci in contatto. Questa è una telecamera, qui ci sono un auricolare e un microfono. Tu lo metti sulla fronte, così” e Finish accompagnò alle parole la dimostrazione pratica “ poi infili l’auricolare e spingi questo interruttore. Io potrò vedere quello che vedi tu, sentirti quando parli e darti consigli tramite l’auricolare. Che ne dici?” “Finish, sei un genio” l’ammirazione di Mars era incondizionata. In effetti l’unico timore che aveva era quello di dover affrontare quell’avventura tutto da solo, con la paura di perdersi. Non poteva certo portare l’amico handicappato con sé, ma in questo modo poteva averlo sempre vicino. “Calma, calma” il razionale Finish frenò l’entusiasmo di Mars “il problema sono le batterie. Hanno un’autonomia limitata e inoltre là sotto la trasmissione potrebbe essere difettosa. Per questo ho detto di aver pensato a due accorgimenti. Uno è la telecamera.” “E l’altro?” In quel momento note di un Bach elettronico risuonarono nella stanza. Il videocitofono si illuminò e apparve sullo schermo una bocca che faceva linguacce, mentre la voce sintetizzata del maggiordomo meccanico annunciò:
“Il signor Orzoro è autorizzato ad entrare.” “Questo” rispose Finish a Mars “è il mio secondo accorgimento.”
Il preside Dixan, seduto alla propria scrivania davanti alla solita pila di documenti da firmare, nel sentire un sommesso picchiettio alla porta alzò gli occhi da sopra l’incartamento che stava esaminando. “Chi è? Avanti!” “Permesso. Buongiorno, signor preside. Posso entrare?” “Ah, è lei. Venga avanti, si accomodi, professore” Il professor Riomare, soprannominato “tonno” dagli alunni per la sua considerevole stazza, non era certo molto tenero con gli allievi, anzi, era il terrore della scuola. I momenti in cui indugiava sull’elenco dei nomi, prima di scegliere il malcapitato di turno da interrogare, erano considerati da tutti gli studenti come i peggiori della propria vita. Ma l’interrogazione era anche più tragica, pochissimi ne uscivano senza umiliazioni e improperi. A parte questo, Riomare, nei confronti del preside e delle autorità in generale, era tutto burro. “Mi ha fatto chiamare, signor preside?” domandò con sussiego. “Sì, vorrei un parere da lei.” “Sono qui per aiutarla, mi dica, mi dica pure.” “Lei conosce benissimo lo studente Mars,vero?” chiese Dixan guardandolo fisso. “Purtroppo sì” rispose il professore alzando gli occhi al cielo “Che cosa ha combinato stavolta?” “Lei è al corrente della bravata di alcuni giorni fa, quando ha fatto suonare l’allarme del reparto jeanseria?” “Certo, tutta la scuola ne ha parlato. E’ anche stato fortunato a non essere denunciato.”
“Comunque” riprese Dixan “Mars è un elemento che va tenuto costantemente sott’occhio. Adesso sono un paio di giorni che va in giro con quel tale Orzoro, quella specie di teppista, quel contestatore che si rifiuta di comprare qualsiasi cosa…” “Conosco anche lui” confermò Riomare. “Questa accoppiata di teste calde non mi piace, non mi piace per niente. Vede, professore, il crollo della vecchia scuola è stato un fatto estremamente spiacevole. Per fortuna la direzione del Centro Unico Commerciale è stata così cortese da ospitarci e offrirci le attrezzature necessarie a condizioni di favore. Però” e qui il preside abbassò il tono della voce “sono stati molto chiari: nessun problema da parte degli studenti, altrimenti la mia carriera verrebbe stroncata. E le assicuro che con me cadrebbero molti insegnanti. Io ho dei dossier che possono scatenare un vero putiferio.” Il professor Riomare, rabbrividì, cercando di non darlo ad intendere. Il suo dossier doveva essere sicuramente voluminoso, molto voluminoso. “Quello che Mars ha combinato al quartiere abbigliamento “continuò intanto il preside “non è piaciuto molto alle alte sfere. Ed io ho paura che Mars e Orzoro possano combinare qualche grosso guaio.” “E in sostanza” domandò Riomare “cosa pensa che io possa fare per aiutarla?” “Stargli dietro, seguirli, pedinarli, controllarli, impedire loro di nuocere, per il buon nome della scuola, per il bene nostro, di tutti gli insegnanti e del Centro Unico Commerciale. Professore, mi rivolgo a lei perché la conosco molto bene…” il tono delle ultime parole risultò piuttosto ambiguo. Riomare deglutì, prima di rispondere: “Non si preoccupi, non mi sottrarrò al mio dovere. D’ora in poi sarò la loro ombra. E se dovessi scoprire che quello che stanno architettando è pericoloso per noi?” “Li fermi, professore, li blocchi.” “Con qualsiasi mezzo?” “Con qualsiasi mezzo!”
“Stai attento!” sussurrò arrabbiato Orzoro “non fare tutto questo rumore!” Mars era incavolato nero. Non solo aveva dovuto anticipare lui i soldi per l’attrezzatura, non solo era lui che doveva portare quel pesantissimo zaino, ma gli toccava pure sopportare le critiche di quel saccente. Mentre armeggiava con la porta che immetteva nel labirinto dei sotterranei della scuola, nel tentativo di forzarla, in cuor suo aveva maledetto almeno cento volte sia Orzoro che, soprattutto, Finish. Non riusciva a capire perché avesse voluto coinvolgerlo nella faccenda. Lo sapeva che non lo sopportava, non sopportava i suoi modi, il fatto di essere per principio sempre senza soldi, di portare quegli orecchini su tutto il corpo, di voler sempre fare il filosofo e dettar legge agli altri. Ma soprattutto non sopportava il fatto che Smarty gli fe il filo in una maniera così spudorata. Mars avrebbe dato un braccio, per essere guardato nello stesso modo in cui l’incantevole ragazza scrutava Orzoro, il quale non la degnava minimamente. “Tutto bene, ragazzi?” la voce di Finish gli si materializzò nelle orecchie. “Sì” rispose velocemente Mars “stiamo…” “Non c’è male” l’interruppe Orzoro “ma potrebbe andar meglio se Mars si desse una mossa. È mezz’ora che sta armeggiando con la porta: non combina niente e fa un sacco di chiasso.” A sentire fare il proprio nome, il ragazzo si drizzò di scatto: “Se ti sembra tanto facile, provaci tu allora!” esclamò adirato, consegnando il grimaldello a Orzoro. Clik. “Fatto!” disse Orzoro aprendo la porta. Mars lo fulminò con uno sguardo. “Mi fa piacere sentire che tutto sta continuando secondo i piani e che voi due andate così d’accordo.” Nella voce di Finish si leggeva una nota di sarcasmo. “Finish” sussurrò Mars varcando la porta dopo l’altro ragazzo “quando torno ti strangolo!”
“o e chiudo “ rispose l’amico, senza chiudere un bel niente. I due giovani si trovarono in un lungo corridoio buio, del quale non si vedeva la fine. “Hai visto che abbiamo fatto bene a comprare gli stivali?” disse Orzoro “Vedi quanta acqua c’è?” In effetti entrambi camminavano con i piedi completamente sommersi da una specie di melma grigiastra. Il rumore di sciacquio dei i veniva amplificato dal tunnel. Ogni tanto sentivano qualcosa che si muoveva nell’acqua. Mars era terrorizzato. Forse, se fosse stato da solo, sarebbe tornato indietro, ma non poteva ritirarsi davanti al suo rivale, facendo la figura del vigliacco. Le torce illuminarono il soffitto di cemento, dal quale pendevano vecchi neon arrugginiti. “Fammi veder la mappa” disse imperiosamente Orzoro. Mars gliela porse senza fiatare. “Dovremmo essere già arrivati alla scala. Non vorrei che tu mi avessi fatto sbagliare strada.” “Io?” “Shhh!” lo fermò Orzoro. Entrambi stettero in silenzio per qualche secondo. “Hai sentito niente?” “PPPerché” domandò balbettando Mars “TTTTu cos’hai sentito?” “Niente, un rumore dietro di noi, come se qualcuno ci seguisse.” Istintivamente Mars si voltò, dirigendo la luce della torcia verso il corridoio. Nessuno. “Forse è stato l’eco nei nostri i. Eppure…” Orzoro lasciò il pensiero in sospeso. “Che c’è ragazzi?” intervenne preoccupato Finish.
“Niente, niente” risposero entrambi. Ripresero il cammino. Dopo pochi minuti, raggiunsero finalmente le scale. Con le torce illuminarono verso l’alto. Il marmo appariva rovinato in più punti, ma i gradini sembravano ancora solidi. Cominciarono a salire con molta circospezione. arono davanti ad una macchinetta distributrice del caffè, tutta sfondata e contorta su se stessa, posta sul pianerottolo. Salirono la successiva rampa e raggiunsero un altro corridoio. Qui c’era più luce. I due ragazzi spensero le torce. Si guardarono intorno: la desolazione era completa, vi erano macerie dappertutto, sedie e banchi rotti, quadri sfondati, porte divelte, vetri infranti, un cumulo che gravava sul loro cammino, ma che comunque consentiva il aggio. Avanzarono lungo il corridoio. Contarono le aperture nella parete che una volta rappresentavano i vari luoghi dell’istituto: la segreteria, la sala degli insegnanti, l’aula dei bidelli. Infine raggiunsero la loro meta. Davanti a una porta tutta scardinata, con i vetri sbriciolati per terra, una targa era rimasta integra: PRESIDENZA. Entrarono. Non vi era altro che carta. Carta dappertutto, mucchi di carta, fascicoli, cartellette, fogli, contenitori: una marea giallastra che occupava tutta la stanza, formando una collina al centro della camera. “Sopra la presidenza c’era l’archivio della scuola” commentò Orzoro “dicono che sia stato il peso dei fascicoli a fare crollare l’edificio”. “La carta ha completamente sommerso l’ufficio. E ora cosa facciamo?” chiese Mars. “ci iamo sopra?” “Per forza” rispose Orzoro incominciando ad avanzare. Mars lo seguì titubante. I piedi scivolavano sulle cartellette rese viscide dall’umidità, affondando fra le circolari che si sbriciolavano sotto i loro piedi . Fu un cammino faticoso. Un paio di volte Mars scivolò e rotolò sui fogli con pezzi di carta che si appiccicarono alla sua tuta. Orzoro continuava a marciare sicuro, anche se ogni tanto si voltava indietro come per controllare qualcosa. Infine raggiunsero l’altra estremità della presidenza. La finestra era chiusa da una tapparella di metallo. Mars guardò Orzoro che guardò Mars.
“Ragazzi, ce l’avete quasi fatta!” Gli interventi di Finish era talmente improvvisi da spaventarli. “Guarda anche tu” disse Mars, dirigendo il terzo occhio, quello della telecamera, verso la finestra “come facciamo a sfondarla?” “Avete già provato ad alzarla con la corda?” “Certo, ma niente da fare.” “E ovviamente l’accetta che vi siete portati non serve col metallo.” “Ovviamente.” “Mmmmh!” mugolò Finish. Era il suono che faceva quando si metteva a pensare. “Mars, per favore, guardati intorno. Non così in fretta! Lentamente.” Mars eseguì. Incominciò a girarsi verso destra, con movimenti molto piccoli. “Fermati! Fermati!” l’interruppe Finish “Torna indietro. Ecco, fermo così. Vedi niente?” “No” “Guarda bene.” “L’estintore!” Orzoro intervenne entusiasta. “Ma a cosa ci serve?” “Seguite le mie istruzioni” Finish li guidò o o per far loro costruire un ariete a reazione. Fissarono l’estintore, che era ancora in pressione, ad una sedia, da usare come rampa di lancio; poi aprirono lo scarico, mollarono il tutto, mentre si buttavano per terra.
Si rialzarono intronati dal colpo, con la bocca impastata di carta straccia. Guardarono subito la finestra. “Hurrà” gridarono insieme dandosi un cinque. L’estintore aveva scardinato la tapparella che li separava dal cortile. La strada era aperta. Se l’interno della scuola era desolato, il giardino era, se possibile, ancora peggio. “Ma questa è una vera giungla!” la voce di Finish giungeva contemporaneamente ai due ragazzi mediante l’auricolare “per caso vi siete portati un machete?”. Il silenzio di Mars e Orzoro spinse Finish a troncare sul nascere qualsiasi ulteriore tentativo di ironia. Evidentemente la situazione era più complicata di quanto non apparisse dalla visione, sempre parziale, della telecamera. L’intero giardino non era molto grande: aveva una forma quadrata di circa cinquanta metri per lato, ma erano metri impossibili da attraversare. Dappertutto vi erano macerie, brandelli di muro accartocciati, travi di cemento che formavano la base su cui si era arrampicato ogni sorta di vegetale. L’edera si era attaccata ad ogni ramo dei grandi alberi che costituivano il vanto del giardino. Un manto verde copriva tutto, alto almeno un paio di metri, ed arrivava al di sopra del davanzale della finestra. Attraversarlo sarebbe stata una vera incognita. Sull’altro lato del giardino si trovava la porta d’emergenza che conduceva direttamente in Aula Magna. Non c’erano alternative: o continuare per quella strada o tornare indietro. Mars si sentì scoraggiato. Si guardò intorno, ma non c’era niente che potessero utilizzare per aprirsi un varco. Anche Orzoro sembrava aver perso la sua sicurezza. Rimaneva in silenzio, con lo sguardo corrucciato. “Finish!” chiamò Mars al microfono. “Che vuoi?”
“Visto che non avevi previsto questa situazione, adesso devi trovare il sistema per risolverla.” “Sto cercando, non pensare che non lo stia facendo” brontolò all’auricolare. “Ho trovato! Ci sono!” il grido di Orzoro spinse Mars, e conseguentemente Finish, a guardare nella direzione in cui l’amico si era voltato. Ma subito l’entusiasmo si spense. Non v’era niente di nuovo, nulla che non avessero già visto prima. “Le cattedre! Quelle!” Orzoro continuava ad indicare due vecchie cattedre ormai rovinate che giacevano sotto ad altre macerie “prendiamole, su.” “Ma per fare cosa?” “Poi te lo spiego, adesso aiutami.” Mars non discusse. Non aveva alternative. Entrambi sollevarono con non pochi sforzi le macerie che coprivano le cattedre. “Adesso dammi il coltellino per svitare i piani di plastica.” Mars rinunciò a capire e si limitò a eseguire. Orzoro, lavorando con perizia, riuscì a liberare i due piani. “E adesso che ne facciamo?” domandò finalmente Mars. “Li emo come ponti mobili” rispose serafico Orzoro. “Comincio a capire, buona idea!” intervenne Finish da casa sua. “Qualcuno avrebbe allora la compiacenza di spiegarlo anche a me, per favore?” Mars incominciava ad arrabbiarsi. “Non c’è tempo” disse Orzoro saggiando le tavole “Questi piani sono ancora robusti. Prendi l’altro e seguimi.” Si riportarono sul davanzale. “Ora guarda” disse Orzoro lasciando cadere la propria tavola che andò a fermarsi
sul tappeto vegetale sotto di loro. “Ora ci salteremo su, come sopra un ponte, poi metteremo davanti a questo l’altro piano e ci saliamo. Poi riprendiamo il primo, lo mettiamo avanti e così via? E’ chiaro?” “Sei un genio, Orzoro.” L’antipatia che aveva all’inizio nei confronti del compagno era ormai completamente scomparsa. La semplicità, la simpatia e la genialità di Orzoro l’avevano conquistato del tutto. Effettivamente Finish non poteva scegliere un aiuto più valido. Mars si rese conto che quell’impresa era superiore alle sue sole forze. Mentre viaggiavano sul tappeto verde, lavorando e sudando, scivolando e imprecando, Mars giunse al punto di pensare che aveva ragione Smarty a essere attratta da un tipo come Orzoro e che lui non avrebbe mai potuto farsi voler bene, ma solo comprarla, comprarla con un uovo di cioccolato. Anche se, sicuramente, sarebbe stato un ottimo acquisto! Rosso porpora fra i riflessi azzurrini della carta metallizzata che l’avvolgeva: l’uovo di Pasqua era alto circa un metro e mezzo, panciuto, colorato e, soprattutto, miracolosamente intatto. Era come inserito in una nicchia formata da due travi di cemento che, crollate, si erano incastrate l’una con l’altra a un paio di metri di altezza, proprio sopra l’uovo e così l’avevano protetto. Mars non credeva ai propri occhi, illuminando con la torcia quella carta dai riflessi cangianti. “Hurrà, evviva, ce l’abbiamo fatta!” gridò saltellando tutt’intorno. “Grandi, siete stati grandi!” la voce di Finish era persino commossa. Solo Orzoro rimaneva indifferente, come se la cosa non l’interessasse più di tanto. Pareva che tutta la sua attenzione si fosse concentrata sulla ricerca, e ora che avevano fatto bingo fosse quasi scontento. Mars si avvicinò all’uovo e avvertì subito un odore particolare che sembrava risvegliare in lui brandelli di ricordi lontanissimi. Era qualcosa di più di un profumo: un aroma intenso che sembrava penetrare dritto in bocca, facendo viaggiare a mille tutte le papille gustative. Se non fosse stato per Smarty, l’avrebbe aperto e assaggiato lì, senza indugi. Ma preferiva far vedere la sua
conquista ancora intera alla sua ragazza. E già pregustava un altro sapore: quello dei baci di Smarty… “Svelto, che aspetti” Orzoro era nervoso, continuava a guardarsi alle spalle “prendilo e andiamo.” “Eh, quanta fretta” rispose Mars “lasciami godere questo momento. Ti brucia il sedere, per caso?” “Non mi piace questo posto, non mi è mai piaciuto e adesso mi piace ancor meno. Io me ne vado” e detto questo Orzoro si voltò. Mars prese l’uovo e si accorse che era molto più leggero di quanto non pensasse. – Sono ricco, ricco e potente.- pensò mentre seguiva Orzoro verso la porta da cui erano entrati - Dopo la divisione, mi rimarrà abbastanza cioccolato per mangiarne a volontà con Smarty e un po’ per rivenderlo. Il cioccolato vale più dell’oro. Con quello che guadagnerò voglio comprarmi…“Mi dispiace, ragazzi, voi non andate da nessuna parte.” La voce del professore Riomare inchiodò i due amici sul posto. Si voltarono e videro il loro insegnante che li minacciava con una pistola. “Ho avuto veramente una buona idea a seguirvi fin qui. Sapevo che c’era qualcosa di grosso in ballo.” Orzoro fu il primo che si riscosse dallo stupore. “Come ha fatto a giungere fin qui senza are per il giardino?” chiese con aria stizzita. “Io conosco questa scuola molto meglio di voi. Non ho avuto bisogno di attraversarlo. Bastava are da una vecchia aula. Ma l’importante è che sia riuscito a fermarvi. Ti dispiace darmi quell’uovo, Mars?” Il ragazzo ruggì di rabbia. Aveva in mano tutto quello che desiderava di più al mondo ed era destinato a lasciarlo alla persona che odiava di più. Non poteva sopportarlo. “No!” gridò “Non glielo darò mai!”
Un rumore fortissimo, ingigantito dall’eco della sala, gli frantumò le orecchie. Riomare aveva sparato un colpo in aria. “Non sono abituato a veder contraddetti i miei ordini. L’uovo, presto!” Si avvicinò minaccioso con la pistola spianata, il braccio teso in avanti, la bocca dell’arma rivolta allo stomaco di Mars. “Mettilo giù!” gli disse Orzoro, spaventato anch’egli. “Non far lo stupido, Mars, dagli l’uovo!” dall’auricolare arrivò la voce strozzata di Finish. Il ragazzo, come ipnotizzato, non riusciva a muoversi, fissando continuamente quella pistola che avanzava contro di lui. Improvvisamente vide un movimento fulmineo. La pistola balzò in aria, perdendosi lontano fra le macerie. Riomare si tenne stretto il braccio, colpito dalla fortissima bastonata. Un uomo, un vecchio con la barba grigia incolta, con la schiena curva ma lo sguardo rosso di fuoco era balzato improvvisamente fuori da una nicchia non illuminata. La bocca sdentata rise in un modo sguaiato. “Sono dodici anni che attendo questo momento! Mi riconosci, signor professore?” Riomare, ancora dolorante e sbalordito lo fissò in viso. Ci fu un attimo di silenzio. Nessuno fiatò. “Giuseppe! Non può essere” “Eh, eh, eh, invece sono proprio io.” Mars e Orzoro si guardarono in faccia. Giuseppe era il vecchio bidello, custode della scuola. Era stato accusato di essere responsabile del crollo e licenziato in tronco. “Sono dodici anni che vivo in questi sotterranei. Dodici anni in attesa di questo momento. Perché lo so che sei stato tu, professore, a sabotare la scuola. Sapete,
ragazzi, lui era in combutta col preside… il Centro Commerciale voleva annettersi anche questo istituto, per avere tutto sotto controllo. Perciò occorreva distruggerlo. Quanto ti hanno dato, Riomare? “ Il professore fissava allibito l’ex bidello. I ragazzi non sapevano più cosa fare. Fu Giuseppe a toglierli dall’imbarazzo. “Voi ragazzi andate pure” disse il vecchio “tornate per la strada da cui siete venuti. Io e il professore dobbiamo fare un discorsetto molto intimo. È meglio che non ci siano testimoni. Arrivederci, ragazzi. E grazie per avermelo portato qui. Non preoccupatevi di studiare, oggi. Credo proprio che il vostro professore domani non interrogherà. Ah ah ah!” Giuseppe concluse il discorso con una risata assordante. Mars e Orzoro non stettero a pensarci due volte e corsero via verso il giardino. Mentre lo attraversavano per tornare indietro sentirono le folli risate del vecchio e le grida imploranti di un Riomare disperato.
Il grande stanzone che Finish aveva affittato non era particolarmente bello con le luci al neon e le pareti grigie di cemento. Ma il tempo per trovarlo era stato pochissimo e poi l’importante era che ci fosse l’uovo. Finish controllava che tutto fosse in ordine: il raffinato piedistallo su cui avevano appoggiato l’uovo era di legno intagliato e Mars aveva fatto una fatica boia a portarlo giù. Orzoro se ne stava in disparte, con aria assente. Sembrava che a lui il cioccolato non interessasse per niente, forse pensava già ad una nuova avventura. Mars non distoglieva gli occhi dalla porta. Fra poco avrebbe assaggiato le due cose che più desiderava: il sapore del cioccolato e quello delle labbra di Smarty. Avevano dato appuntamento alle ragazze per le 21, ma puntuale era stata solo Morosita, che aveva salutato Mars con molta, forse troppa cordialità. Alle 21 e 30 la porta si aprì e Smarty apparve in tutto il suo splendore. Un vestito rosso cangiante, che lasciava le spalle nude, faceva uno scintillante contrasto col colore dei capelli, mentre il trucco marcato metteva in risalto la perfezione delle
labbra. “Ciao Smarty” balbettò Mars. La ragazza non lo degnò minimamente, dirigendosi come ipnotizzata all’uovo. Lo guardò, poi si avvicinò, lo accarezzò, ne aspirò l’aroma. Si ò la lingua sulle labbra, provocando un gemito di Mars. “Il cioccolato, finalmente. Svelto, aprilo!” Il ragazzo non si fece pregare ulteriormente. Tagliò il nastro dorato che manteneva unito l’involucro e incominciò a svolgerlo. Il silenzio generale era rotto solo dal rumore della carta che si apriva. Poi questa scivolò a terra e sul piedistallo rimase solo l’uovo avvolto in una stagnola dorata. Mars, con le mani che gli tremavano, tolse anche quell’ultimo diaframma. Lucido, profumato, inebriante: l’uovo era pronto per essere mangiato. La contemplazione durò solo un attimo. “È mio!!” gridò selvaggiamente Smarty lanciandosi su di esso. L’irruenza della ragazza fece precipitare l’uovo che s’infranse sul pavimento. “Guarda, che bello!” Morosita raccolse un orsetto di pezza che era uscito dall’uovo “posso tenerlo Mars?”. Il ragazzo rispose affermativamente con un cenno, mentre guardava sbalordito Smarty che si rotolava sul pavimento, fra frammenti di cioccolato, ingozzandosi a piene mani di quell’alimento. “Dio, che buono, che buono!” continuava a mugolare la ragazza senza più dignità. Mars raccolse un pezzo di cioccolata e se lo portò alla bocca. Subito avvertì una sensazione dolcissima, sentì quel sapore sciogliersi in bocca e poi trasformarsi in un’ondata di piacere che penetrava ogni angolo del suo corpo. Ora capiva perché c’era gente disposta a pagare qualsiasi cifra per quella sostanza. Ne assaggiò un altro pezzetto, che gli dette un piacere diverso, ma ugualmente intenso. Guardò di nuovo Smarty, ma con occhi completamente diversi. Vide la ragazza più bella della scuola con gli occhi lascivi, con la bocca completamente
imbrattata di cioccolato marrone che le colava lungo il mento, con il vestito macchiato, che continuava ad ingozzarsi senza ritegno. La guardò e il solo pensiero di baciare quelle labbra insozzate gli diede la nausea. Come aveva potuto pensare per un solo momento di potersi mettere insieme a Smarty? Apprezzò ancora di più Orzoro, che non aveva ceduto a facili lusinghe e pensò che in quell’avventura aveva trovato un amico, un grande amico. Mars uscì disgustato dallo stanzone, all’aria aperta. Fuori era una nottata limpida: la luna e le stelle riempivano il firmamento di brillanti fiammelle. Aspirò a pieni polmoni la fresca brezza della notte per rigenerarsi. Improvvisamente sentì un fruscio dietro di sé. Si voltò. Morosita gli sorrideva. “Vuoi un po’ di cioccolata?” gli chiese Mars porgendogliela. Morosita ne staccò un pezzettino con i denti bianchissimi, poi la assaporò con gli occhi chiusi. “È buonissima, grazie.” E gli diede un leggero bacio sulle labbra. Mars sentì sulla bocca un nuovo sapore: un gusto dolce e amaro insieme, molto più dolce del cioccolato e molto meno amaro della sua delusione per Smarty. Un gusto forte e sottile nello stesso tempo, caldo come il sorriso di Morosita. Un piacere che non si poteva gustare da soli. E lo volle riprovare. Il sapore dell’amore.
LA RIVISTA LETTERARIA
Va bene cara, cercherò di non arrabbiarmi più al telefono, però prima sta a sentire tutta la storia... Ti ricordi l’altro giorno quando dovevo andare dall’avvocato, col quale avevo appuntamento in centro? Bene, visto che ero in anticipo, mi sono avvicinato all’edicola che c’è lì nella piazzetta e ho dato un’occhiata ai giornali. Era esposta quella rivista di cui ci ha parlato Luigi: Fast-food Reading, che adesso sembra che tutti leggano. Lui ce ne ha parlato bene, ma un altro mio amico invece mi ha avvertito di starci alla larga, perché, per farti abbonare, ti riempiono di telefonate che non ti mollano più. Però quel numero che stavo osservando aveva in allegato un CD musicale con alcuni brani che mi hanno incuriosito e il prezzo globale era davvero modesto. Ero indeciso se prenderla o meno, quando è arrivato l’avvocato è allora sono andato con lui nel suo ufficio. Finito l’appuntamento stavo per tornare alla macchina quando sono riato di nuovo davanti all’edicola; insomma, a quel punto lì l’ho comprata senza pensarci su. Com’era prevedibile, il prezzo era indice di scarsa qualità e non parliamo poi dei brani del disco che erano veramente una schifezza. Tutta la rivista non è altro che una serie di banali recensioni poco approfondite, insipide, in mezzo a una marea di pubblicità. Anzi penso che la gente la compri proprio solo per la pubblicità, perché il contenuto letterario è assolutamente illeggibile. Dentro c’era il cedolino per l’abbonamento, ma io mi sono ben guardato dal rispondere, anzi l’ho fatto in mille pezzi per evitare che qualcuno in famiglia potesse avere la tentazione di compilarlo e inviarlo. Ho buttato via la rivista e non ci ho pensato più. Due giorni dopo ho trovato nella casella della posta una lettera pubblicitaria indirizzata a me. Era della redazione della rivista. L’ho aperta tanto per vedere che cosa volevano e ho trovato le solite frasi: “Lei è stato sorteggiato per un favoloso premio eccetera eccetera. Provi a cancellare qui per scoprire l’importo eccetera eccetera” insomma anche qui talmente poco di nuovo, talmente poco di interessante e originale che non ho fatto altro che prendere questa lettera e buttarla nel cestino della carta.
E il giorno dopo ecco puntuale un’altra lettera della rivista con su scritto: “Sappiamo che lei ha acquistato un numero della nostra rivista e vorremmo esporle i vantaggi di un abbonamento.” Figuriamoci: altro cestinamento. Non avevo ancora fatto in tempo stracciare la lettera, che già suonava il telefono: ancora loro. Questa volta volevano sottopormi alcune domande per sapere che cosa avevo trovato di mio gradimento nella rivista. Ho risposto subito: “Niente! Non c’è niente di mio gradimento, grazie e arrivederci.” Questo è successo ieri: da allora mi hanno chiamato due volte in ufficio e questa di adesso è la terza volta oggi che mi telefonano. Dimmi tu cara se non ho il diritto di essere arrabbiato. Se mi telefonano un’altra volta, ti giuro che vado dall’avvocato, perché esiste anche una legge sulla privacy che dev’essere rispettata! Non è successo niente, la prego di scusarmi se ho alzato la voce con lei che è solo il custode, ma deve capire che sono esasperato. Dopo tutto quello che ho detto a mia moglie su quella dannatissima rivista, lei ha avuto il coraggio di farsi mandare l’omaggio che la lettera di pubblicità prometteva. Per questo, capisce, quando è arrivato con questo pacchetto e ho letto il nome Fast-food Reading mi sono arrabbiato. Mi scuso con lei, ma questa rivista mi ha ridotto all’esasperazione. Non avevo intenzione di colpire nessuno, signor agente, io sono sempre stato un tipo calmo e tranquillo, non ho mai fatto male ad alcuna persona, aborro la violenza. Per cui se ho colpito il portiere è stato proprio perché ero completamente esasperato. Dopo tutto lo quello che gli avevo detto riguardo a quella rivista, ha avuto il coraggio di consigliarmi di acquistarla perché, se riusciva a presentare un nuovo abbonato, avrebbe avuto una riduzione del 50% sul prezzo dell’abbonamento dell’anno successivo. A quel punto effettivamente ho perso la testa e gli ho messo le mani addosso, poi lui ha incominciato a urlare e qualcuno del condominio ha chiamato lei, ma le assicuro che la situazione è completamente sotto controllo. Ora sono calmo, completamente calmo. Ho già fatto le mie scuse al portiere, il quale mi ha assicurato che non intende sporgere denuncia. Per cui la ringrazio per il suo intervento e mi auguro che la cosa finisca qui. Signor giudice io non so cosa mi sia successo, ma da quel giorno in cui ho acquistato la rivista Fast-food Reading, non ho più avuto un attimo di pace e, da persona razionale, serena ed equilibrata che ero, mi trovo ora in un’aula di
tribunale a dovere rispondere per maltrattamenti e ingiurie a un poliziotto. Sicuramente questo fatto, che io stesso giudico increscioso, non sarebbe successo se l’agente non avesse fatto apprezzamenti così lusinghieri su quella rivista. Io so che un uomo di cultura come lei, signor giudice, sicuramente non ne ha mai letto un numero, ma se l’avesse fatto, le assicuro che anche lei avrebbe avuto, con rispetto parlando, delle reazioni esagerate come me. Una rivista che vorrebbe essere culturale, e che in realtà si regge su un’operazione di marketing talmente pressante da essere esasperante, porterebbe chiunque a uscire da sé. Sono sicuro che, se l’agente non mi avesse suggerito di leggere quella rivista e di non dare dei giudizi troppo affrettati, io oggi non sarei qui cercando di discolparmi da una situazione per me comunque molto umiliante. Lo dico e lo ripeto: l’unica vera colpevole della situazione in cui mi trovo è questa rivista letteraria. E nonostante questa affermazione sono stato condannato e sa perché signor avvocato? Perché anche il giudice, incredibile a dirsi, legge quella rivista. E ora cosa posso fare? Non ho alternative per la mia condanna? Non c’è la possibilità di evitare la pena che mi è stata inflitta? Per questo ora sono da lei, dottore. Il giudice, su istanza del mio avvocato, ha avuto pietà di me e mi ha concesso di evitare la pena se fossi ricorso a una terapia psichiatrica (a dir la verità l’avvocato mi aveva anche proposto l’annullamento della condanna se mi fossi abbonato alla rivista, ma questo mai! È una questione di principio). Ora le chiedo, dottore, sono io ad essere veramente malato o è questa rivista tentacolare ad avere invaso ogni spazio della nostra società? Mi ha capito, dottore? Dottore, mi sta ascoltando? Ma, dottore, fa finta di stare a sentirmi e intanto legge? DOTTORE, COSA STA LEGGENDO?!!
NI-NA NI-NA NI-NA NI-NA NI-NA NI-NA NI-NA NI-NA NI-NA NI-NA NI-NA NI-NA
“Dov’è il ferito?” “Eccolo, fate presto”
“Lasciateci are! Fate largo fate largo!” “Piano, piano, adagialo sul lettino pianissimo. Ecco così.” “Per favore, fate largo, largo che dobbiamo caricarlo sull’ambulanza” “Ecco parti pure, va’ in ospedale, ma tranquillo.” “Ma cos’è successo?” “Sembra che si sia gettato dalla finestra” “Dev’essere matto” “Per forza, era dallo psichiatra” “Guarda sta aprendo gli occhi” “Stia tranquillo, la stiamo portando in ospedale solo per fare un controllo, non si agiti, non è successo niente.” “Bene così, respiri rilassato. Antonio cerca di distrarlo in qualche modo.” “E con cosa, come?” “Prova a leggergli qualche brano dell’ultimo numero di Fast-food Reading. Ma cos’ha, stia calmo. Stia fermo! Perché si agita così tanto?! Antonio, il sedativo!” “Ecco, tienilo fermo. Fatto.” “Oh, adesso se ne starà calmo per un po’. Ma che cosa gli sarà preso?” “Boh, ce ne sono di matti al giorno d’oggi. Però, bella sta’ rivista. Mi sa che mi abbono anch’io. Un po’ di cultura fa sempre bene, o no?!”
MAZZO DI FIORI
Il settore in cui lavoravo, quello di prese idrauliche, troppo specifiche per avere un mercato esteso, costrinse la mia ditta a ridurre il personale: cassa integrazione, chiusura di stabilimenti e ridistribuzione dei tecnici, dei quali io facevo parte, nella fabbrica della Bassa Bresciana. Per farla breve, se volevo mantenere il mio posto di lavoro, avrei dovuto accettare di trasferirmi in uno dei posti più nebbiosi e squallidi della penisola. Accettai. Ovviamente dovetti andare ad abitare nei dintorni della fabbrica e trovai alloggio solo in un paese ad una dozzina di chilometri dal mio nuovo luogo di lavoro. In settembre cominciai la nuova vita fra le brume della pianura Padana che già allora, nelle prime luci del giorno, cominciavano a comparire. Ogni mattina alle sette mi svegliavo, alle sette e mezzo prendevo la macchina e, dopo una sosta dal giornalaio per l’acquisto del quotidiano, imboccavo la stradina, stretta e generosa di curve, che mi portava alla fabbrica. Uno dei primi giorni di novembre, un venerdì carico di nebbia densa e acre, a metà circa della stradina solita, mi dovetti fermare per una coda di autoveicoli fermi che si dipanava nella mia carreggiata fino a perdersi nei gorghi brumosi. La fila era immobile, dopo essermi assicurato che quello dietro si era fermato in tempo prima di tamponarmi, uscii dall’abitacolo come altri autisti davanti a me. Sperare di vedere qualcosa era una pia illusione, ci si accontentava di parole che veleggiavano di bocca in bocca: “Un incidente... grave... un ferito...forse morto... non si a”. In lontananza udimmo il suono di una sirena, ma non riuscimmo a scorgere nemmeno il lampeggiante. Oramai era chiaro che avremmo perso molto tempo, vedevamo macchine effettuare l’inversione per tornare indietro. Imprecando presi in mano la cartina della zona e studiai una strada alternativa per giungere al luogo di lavoro. Non conoscendo la zona e con tutta quella nebbia l’impresa non si presentava certo facile, ma non avevo alternative: girai l’auto e, stradario alla mano, riuscii ad arrivare con circa tre quarti d’ora di ritardo. Trattandosi di un venerdì, alle cinque, invece di tornare al paese in cui ero domiciliato, presi l’autostrada per andare dai miei a La Spezia, dove abitavo in
precedenza. Il lunedì successivo mi recai direttamente al lavoro e al ritorno ai per la stradina in mezzo ai campi. Dell’incidente non vi era nessuna traccia, tranne che per un mazzo di fiori appoggiato ad un punto deformato del guardrail: pensai subito che l’impatto era stato mortale e ai con un senso di disagio e dispiacere per quel punto che aveva visto tre giorni prima spegnersi una vita. Da allora un fatto mi colpì: ogni giorno, in quello stesso punto, veniva collocato un mazzo nuovo di fiori. Un ligure come me è molto sensibile ai fiori e quel punto era diventato per me un appuntamento. Dedussi che la persona che li metteva doveva are o la sera tardi o la mattina presto, dato che al mattino trovavo un mazzo nuovo. arono i mesi, ma ogni giorno la misteriosa persona non mancava mai di ricordare il deceduto con quel piccolo segno di affetto. Mi colpì una tale costanza. Dell’incidente non avevo saputo nulla, se non il fatto che la vittima doveva essere una persona molto amata da un’altra. Sicuramente chi metteva i fiori non poteva che essere una donna: era un gesto troppo femminile, su questo non avevo dubbi, così come il fatto che fosse morto un uomo. Le donne non portano fiori ad altre donne. Ma chi era? Una moglie, una sorella, una fidanzata, una madre? Secondo me solo una mamma poteva avere una tenacia così forte. I fiori non mancavano mai, con tutte le stagioni, anche le più maligne, il mazzo nuovo era sempre lì. Mi immaginavo che il defunto fosse un giovane, magari figlio unico, unica ragione di vita per una madre che con questo rituale cercava di lenire il proprio profondo dolore. arono le ferie estive, che trascorsi felicemente al mare. A settembre ripresi il mio lavoro. Il primo giorno ai dalla stradina e vidi un mazzo fresco di gerbere gialle: il dolore non era andato in vacanza. Ogni giorno ritrovai i fiori freschi, composti con cura e attenzione ai colori della stagione. Con il rosso delle foglie giunsero le rose rosse. Col giungere di novembre, comparvero anemoni, gladioli, anche orchidee. Ma mai crisantemi: forse il loro aspetto ricordava troppo i morti, mentre quel mazzo sul ciglio della strada riportava la vita. Fu in una mattina di gennaio che, per la prima volta, vidi il mazzo del giorno precedente. O il dolore stava finalmente attenuandosi, o quella mamma era malata. La seconda ipotesi mi dispiacque e il mancato appuntamento mi riempì di malinconia.
arono i giorni, ma il mazzo era sempre quello: il freddo lo conservava ancora, ma, ai primi di febbraio, i petali incominciarono a cadere e presto rimase un ciuffo di steli raggrinziti e piegati. Incominciai a pensare al peggio: un amore così forte non poteva concludersi da un giorno all’altro, né una malattia essere così lunga. Forse il dolore aveva spezzato definitivamente il cuore di una madre. Mi prese una fortissima tristezza, ogni volta che, percorrendo la stradina, giungevo a quel punto, la mancanza dei fiori mi sembrava il segno che la sofferenza era più forte di qualsiasi affetto, e incominciò anche a cambiare il mio modo di vedere la vita. Anche i miei parenti e amici si accorsero che il mio umore era mutato, ma lo attribuirono alla lontananza da casa e non gli diedero peso. Una mattina, quando per l’ennesima volta, vidi che non vi era un nuovo mazzo di fiori lungo la stradina, decisi di indagare: solo la conoscenza di quello che era effettivamente successo avrebbe potuto in qualche modo consolarmi e farmi ritornare com’ero. Quello che avevo a disposizione non era molto: due date che ero in grado di ricostruire: quella dell’incidente e quella del primo giorno in cui non avevo più visto i fiori. Mi recai in redazione del quotidiano locale e chiesi il giornale del sette di novembre di un anno prima. Lo lessi e ritrovai la notizia dell’incidente: era deceduto per cause ancora da accertare il signor Faustino Bonizzoli di anni 74, celibe, residente a Verolanuova eccetera eccetera. Tutte le mie ipotesi caddero: sicuramente non poteva essere stata sua madre a portare quei fiori. La notizia infranse tutto il sogno durato quindici mesi: il dolore di una madre inconsolabile, la sua illusione di coccolare ancora il figlio morto prematuramente in un’alba nebbiosa di novembre, il suo cuore spezzato definitivamente per lo strazio, niente di tutto questo poteva esser vero. Decisi allora di andare a fondo, di svelare una volta per tutte il mistero di quel mazzo di fiori sul guardrail.
FINALE ROMANTICO PER UN PUBBLICO SENSIBILE
(Attenzione: se vi ritenete cinici e realisti, se odiate le smancerie, se amate la Gialappa’s e i film di Tarantino, se leggete Ammanniti e odiate la Tamaro, non continuate la lettura e ate al finale successivo)
Mi recai allora al Municipio di Verolanuova per avere notizie del defunto. Dopo varie resistenze da parte degli impiegati, ai quali dovetti dire di essere un ricercatore per uno studio sulle dinamiche demografiche, riuscii a sapere che Faustino non era originario di Verola, ma si era trasferito lì verso i trent’anni e che conduceva una vita ritirata. Non aveva parenti in paese e i suoi funerali si erano svolti a Manerbio, il suo paese di origine. Mi recai allora in quest’altra località per trovare informazioni, ma in Comune vi erano solo impiegati giovani che non sapevano nulla dei tempi ati. Faustino era nato a Manerbio, non aveva fratelli e i suoi genitori erano morti entrambi molti anni addietro. La strada sembrava sbarrata. Mi feci dare allora l’elenco dei deceduti dell’ultimo gennaio e notai che una certa Maria Scalvini di anni 72 era morta proprio il giorno dell’ultimo mazzo di fiori. Era l’unica traccia che avevo a disposizione. La donna era vedova e aveva tre figli, due maschi ed una femmina, tutti sposati. Mi feci dare il loro indirizzo e mi recai inizialmente dalla figlia Sara. La signora mi accolse cortesemente. Mi spacciai per il figlio di un vecchio compagno di scuola della madre e le chiesi notizie della morte di essa. Sara Scalvini mi raccontò che sua madre viveva da sola, in quanto era una donna forte e indipendente e, da quando era rimasta vedova, non aveva voluto trasferirsi dai figli che pure l’avevano invitata a farlo. Conduceva una vita regolare, tuttavia da un giorno all’altro, nel novembre dell’anno precedente, era improvvisamente apparsa depressa. Non aveva voluto dire niente a nessuno, ma si leggeva nei suoi occhi una grande tristezza, come se avesse perso la voglia di vivere. Tutte le mattine, poi, usciva prestissimo con la sua vecchia bicicletta e faceva un lungo giro prima di recarsi alla messa. Dove andasse non lo sapeva nessuno. Un pomeriggio di gennaio Sara si era recata da lei, ma la madre non aveva aperto la porta. La figlia era entrata con le sue chiavi e l’aveva trovata distesa per terra. Aveva subito chiamato un dottore, ma non c’era stato nulla da fare. Sara mi disse anche che sua zia, sorella di Maria, di un paio di anni più giovane, viveva ancora
e mi diede l’indirizzo. Andai a trovarla. Ormai ero certo di aver rintracciato la donna misteriosa, ma non conoscevo ancora il motivo di quel profondo legame. La sorella mi accolse anch’essa gentilmente. Non potei fare altro che raccontarle tutta la verità sulla mia indagine. Lei sorrise mestamente: “Mia sorella, quando era giovane, aveva conosciuto Faustino e se ne era profondamente innamorata. Se mai si può parlare di amore era quello che provavano loro. Vivevano l’una per l’altro. Ma Faustino aveva un difetto: era povero, come noi. Il farmacista del paese si era invaghito di Maria e l’aveva chiesta in sposa a mio padre. Questo avrebbe significato un miglioramento delle nostre condizioni di vita. Avevamo un fratello più piccolo che era molto malato, e i soldi per le medicine non bastavano mai. Mia sorella si trovò a dover scegliere fra la sua felicità e la serenità per la nostra famiglia. Con la morte nel cuore disse addio a Faustino, ma non lo dimenticò ma. Faustino accettò con rassegnazione la sua scelta. Disse che, se non avesse sposato lei, non si sarebbe mai più sposato, e mantenne la promessa. Ma vederla ogni giorno era una pena troppo grande per lui, per cui decise di andarsene, trovò lavoro a Verolanuova e lasciò per sempre Manerbio.” Le parole della donna mi commossero profondamente, pensai a quell’amore, che aveva continuato a nutrirsi anche nella lontananza, a quei due giovani costretti dalla durezza della vita a separarsi, rimanendo però vicini, Giulietta e Romeo anziani, uniti nella morte, che ora riposavano l’uno accanto all’altra nel cimitero del paese. Prima di andarmene, e di riprendere il mio peregrinare nelle nebbie bresciane, presi due mazzi di fiori e li portai sulle loro lapidi che, ironia della sorte, si trovavano una di fronte all’altra. Guardai le foto, separati da due metri di corridoio Faustino e Maria sembravano guardarsi, e sorridersi.
FINALE CINICO PER UN PUBBLICO BASTARDO
(Attenzione, se siete dolci e romantici, se amate la poesia, se regalate Baci Perugina, se amate Moccia, Lady Diana e avete visto almeno cinque volte “Via col Vento” e” Titanic”, se siete pazienti inglesi non leggete assolutamente questo finale)
Mi recai allora al Municipio di Verolanuova, ma gli impiegati comunali non seppero dirmi altro se non che il vecchio conduceva una vita molto ritirata e non aveva parenti, se non un fratello, Giovita, di un paio d’anni più giovane ma con il quale non era in buoni rapporti. Non vollero nemmeno darmi l’indirizzo di questo tipo. Il mistero non era certo risolto. Riuscii, mediante un giro di grappini al bar in piazza, a conoscere l’indirizzo di Giovita Bonizzoli. Andai a trovarlo spacciandomi per un vecchio compagno di lavoro di Faustino. Mai vidi un vecchio più cattivo e malvagio. Non aprì nemmeno la porta. Appena nominai suo fratello mi riempì d’improperi. Non sapevo che il dialetto bresciano potesse essere così abbondante di parolacce e ingiurie. Mi allontanai disgustato, senza aver risolto nulla. Mi venne in mente però un’altra possibilità. Mi recai sul luogo dell’incidente e presi il resto del mazzo di fiori che lì era rimasto. Era stato comperato in un negozio di fiori e recava sul cellofan la targhetta con l’indirizzo. Era un fioraio di Verola. Mi recai e domandai se erano loro che avevano procurato i fiori. Mi dissero di sì, ma mi informarono anche che era stato loro ingiunto di non parlare ad anima viva di questo. Le strade della mia indagine parevano chiuse, non mi rimase che un unico tentativo. Essendo senza eredi diretti e in cattivi rapporti col fratello, Faustino avrebbe potuto far testamento. Mi recai allora dal notaio del paese e scoprii che dopo la morte di Faustino era stato pubblicato il suo testamento. Ne chiesi una copia e la lessi: “Io sottoscritto Faustino Bonizzoli nato eccetera eccetera, lascio unico erede delle mie sostanze mio fratello Giovita a patto che egli, per quindici mesi dopo la mia morte, porti ogni giorno un mazzo di fiori freschi sul luogo della mia dipartita. Solo al compimento dell’incarico, Giovita potrà entrare in possesso delle mie sostanze che ammontano a eccetera eccetera”. Altro che amore di una madre, altro che affetto fraterno, il tutto non era stato che una sporca faccenda di soldi e di beffe fra fratelli che si odiavano. Nauseato da questa faccenda, ripresi il mio lavoro nella Bassa, maledicendo la mia curiosità che mi aveva fatto perdere tempo per rintracciare romanticismo in una realtà troppo squallidamente materialista per un sognatore.
PROFILO PSICOLOGICO DEL LETTORE
SE PREFERITE IL FINALE ROMANTICO: siete inguaribili sognatori, pensate che nel mondo tutti i problemi si risolvono con l’amore, l’affetto e la generosità. Avete un forte spirito di sacrificio, credete fermamente nell’amicizia e nei valori della famiglia. Siete ottimisti e donate gioia a chi vi sta intorno.
SE PREFERITE IL FINALE CINICO: siete persone pratiche, che badano al sodo. Tutta la vostra vita è orientata verso un solido pragmatismo. Avete i piedi ben piantati per terra e ritenete che degli altri non ci si possa fidare molto. Credete nel lavoro e possedete una forte volontà in grado di superare tutti gli ostacoli che le varie situazioni vi pongono innanzi.
SE NON VI PIACE NESSUNO DEI DUE FINALI: complimenti! Siete degli ottimi lettori, amanti dei buoni libri e dei validi scrittori. Odiate tutti gli imbrattacarte che vi tediano con storie insulse e prive di significato. Io sto con voi.
MILLENIUM BUG
“Presto aiutatemi a tenerlo!” “Tutti insieme, che non scappi!” “AAARGHH!! BASTARDI! LASCIATEMI” “Ecco, infilategli la camicia.” “Legategli le mani, subito!” “VI HO DETTO DI LASCIARMI. LO DEVO UCCIDERE QUEL….” “Chi vuole uccidere, signor Devini?” “Giovanni!” “E chi è questo Giovanni?” “Il mio migliore amico.” “E perché vuole uccidere il suo migliore amico, signor Devini?” “Perché mi ha rovinato la vita!” “Ora che è si è un po’ calmato, mi vuol raccontare tutto e spiegarmi perché l’hanno trovata con i vestiti a brandelli e un’accetta in mano che gridava come un ossesso per le vie della città?” “Sì dottore, le spiegherò.” “Bene” rispose il medico, poi disse agli infermieri che ancora tenevano Devini con la forza: “Lasciateci soli, ora.” “Come vuole, dottore” risposero ubbidienti i due uomini, “ma se dovesse avere bisogno…”
“Non vi preoccupate, grazie. Bene signor Devini, da dove vogliamo cominciare?” “Stamattina, come al solito, prima di uscire ho controllato la posta elettronica sul mio computer. Oggi è San Valentino e volevo vedere se la mia fidanzata Giulia mi aveva inviato una e-mail un po’ carina, sa….Bene, mi collego, apro la posta e trovo un messaggio di Giulia, bello, bellissimo: una Gif animata con un cupido che trafigge un cuore rosso che pulsa. Un messaggio molto poetico e commovente. Infatti mi sono messo a piangere. Per la felicità, beninteso. Poi c’era una lettera di Giovanni. Il testo era brevissimo: guarda un po’ questa figona… scusi, dottore, ma nel messaggio c’era scritto proprio così. Io l’ho aperto e si è scatenato l’inferno! C’era un virus, ma un virus terrificante, non ho mai visto qualcosa di così devastante. Non ho avuto nemmeno il tempo di reagire: si aprivano tutti i miei file uno dopo l’altro e venivano letteralmente sbriciolati. C’era un’immagine, come un bruco verdognolo che letteralmente mangiava tutti i dati. Ho premuto tutti i pulsanti possibili: il computer non si spegneva né si resettava. Quel bruco orrendo continuava a divorare file su file. Anni di lavoro, tutto l’archivio della mia vita distrutto in un attimo!” Devini fece una pausa per singhiozzare. Il dottore intervenne: “Ma lei, che è una persona così accorta, non aveva salvato i dati?” “Certo” rispose Devini. “Ho un altro computer. L’ho subito . Mi è venuto un colpo: il bruco maledetto era anche lì, non so che connessioni strane avesse, perché me li ha montati proprio Giovanni, che è a capo di una ditta di informatica e mi ha collegato tutti gli apparecchi elettrici al computer. Anche i file di riserva erano distrutti. Ma questo è ancora niente. Giovanni aveva insistito per farmi la casa intelligente, diceva lui. Gratis mi ha creato tutta una serie di collegamenti. Per fare pratica, diceva. Invece l’ha fatto solo per distruggermi. Così il bruco si è diffuso dappertutto! Il frigorifero si è trasformato in un forno: ha cominciato a cuocere tutte le vivande. Una cascata di gelato scendeva dal freezer, mentre i pomodori scoppiavano contro le pareti. La lavatrice ha iniziato a eruttare acqua da tutte le parti, mentre cercavo di tamponarla il telefono continuava a squillare: era la lavastoviglie che mi chiamava per farmi sentire il rumore di tutti i piatti del
servizio bello che si frantumavano e i cristalli dei bicchieri mentre li sbriciolava.” “Ma perché teneva i piatti belli e i bicchieri di cristallo in lavastoviglie?” “Perché stasera avevo invitato Giulia a cena a casa mia e ci tenevo che tutto fosse pulito. Intanto il tubo flessibile della doccia idromassaggio si era allungato a dismisura e girava per la casa inondando gli armadi. Non so come fe, ma riusciva ad aprire le ante. Poi si è adagiato nel forno elettrico che si è al massimo, creando una nebbia tale di vapore che era impossibile vederci ad un palmo. Nel frattempo io correvo per la casa, scivolando dappertutto, alla ricerca della porta: bloccata. È una di quelle porte blindate che si aprono solo con la scheda. Allora sono corso a cercare il telefonino. Lo accendo e vedo sul display quel bruco bastardo che, imitando la mia voce, sta facendo proposte assolutamente oscene a Giulia, la mia fidanzata!” “E la ragazza come reagiva?” “Era arrabbiata, però meno di quanto pensassi… Anzi, poco, devo dire. Cerco comunque di usare il cellulare ugualmente, ma quel bruco insolente mi faceva rutti nell’orecchio e a un certo punto ho sentito il telefonino che voleva mordermi. Il forno a microonde si era messo d’accordo col tostapane che gli lanciava dentro qualsiasi cosa gli capitasse a tiro e il forno la fondeva. Il televisore trasmetteva i CD dello stereo e ballava al ritmo della musica, mentre tutti i telecomandi si stavano baciando dando il via a un’orgia sfrenata. Non le dico quello che hanno fatto. Non pensavo che dei telecomandi potessero essere così sconci! L’acqua della lavatrice intanto entrava da tutte le parti, avevo la schiuma del detersivo che mi abbracciava i malleoli. Le prese della corrente incominciavano a scintillare, mentre dal fornello a gas un prolungato sibilo mi ha annunciato che il bruco aveva contaminato pure quello. Non avevo che una soluzione: correre in cantina e fuggire con la macchina dal garage. Appena tento di salire sull’auto, vedo abbassarsi tutte le sicure delle portiere e il motore accendersi, intasando di scarichi tutto il garage. Il ferro da stiro avanzava rovente verso di me, eruttando vapore come un vulcano pronto ad esplodere. Il tosaerba era impegnato a riare tutta la moquette della taverna, quindi non mi
badava. Ho raggiunto la porta del garage, ma la basculante elettrica si muoveva solo per cercare di schiacciarmi. La puzza dello scarico della macchina mi prendeva alla gola, dalle scale sentivo giungere l’odore del gas e lo sfrigolio delle prese bagnate. Mi guardo attorno. C’era solo il finestrino della taverna dal quale fuggire, ma fra di noi si trovava la sega elettrica. Accesa. Cattiva. Non avevo scampo. Prendo l’ascia e mi ci avvento contro. Schivo il colpo, mandando la sega sul cassettone del ‘700. Mentre la sega lo sbriciola, corro verso il finestrino, riuscendo ad aprirlo e a sgusciare fuori proprio mentre la sega si avventa di nuovo su di me. Quella bastarda è riuscita solo a tagliarmi il fondo dei pantaloni. Poi scavalco la ringhiera del giardino, prendendomi una scossa nelle parti intime: sicuramente il cancello elettrico aveva previsto questa mossa. Mi volto vedendo dalle finestre uscire acqua, dal camino fiamme. Corro come un matto, mi butto dentro a un cassonetto e odo l’esplosione. La mia casa saltata in aria. Allora con l’ascia in mano corro verso casa di Giovanni. Era lui la causa di tutto, lui mi ha creato i collegamenti della casa intelligente, lui mi ha mandato l’E-mail: voleva uccidermi, sbarazzarsi di me per rubarmi la fidanzata. Per questo lo volevo scannare, ma mi hanno fermato e mi hanno portato qui.” Man mano che raccontava, il signor Devini si era tranquillizzato sempre più. Il dottore pensò che era giunto il momento di togliergli la camicia di forza, gli slacciò le maniche e lo aiutò a liberarsi. Poi gli fece la proposta: “Senta, signor Devini, se la sente di venire con me a casa sua? Così potrò rendermi conto di persona di cosa è successo.” “Ma io non ho più casa. La mia è saltata in aria questa mattina, dottore!” “Non fa niente, andiamo a vedere i resti.” Devini, con molta riluttanza accettò. Non aveva idea di come avrebbe reagito di fronte allo scempio. Comunque il dottore lo accompagnò da solo con la propria automobile, rifiutando l’aiuto degli infermieri, segno che aveva fiducia in lui. Devini gli indicò la strada e, quando giunsero all’ultima curva dove egli era solito alzare gli occhi per vedere la sua villetta, il suo orgoglio, con la cancellata liberty, il giardino fiorito, il portico con il dondolo e il tetto rosso, alzò ancora gli occhi e quello che vide lo lasciò senza fiato.
Vide la cancellata liberty, il giardino fiorito, il tetto rosso e il portico con il dondolo su cui era pigramente adagiata Giulia, la sua fidanzata. Devini scese dalla macchina e toccò il cancello che si aprì senza alcuno sforzo. Giulia gli corse incontro e lo abbracciò, dandogli uno schioccante bacio sulla bocca. “Bene,” disse il dottore “penso proprio che sia meglio che vi lasci” e, salito sulla vettura, fece inversione e tornò indietro. Devini era rimasto senza parole. Giulia l’accompagnò sul dondolo e lo fece sedere accanto a sé. “Per fortuna che mi hai dato le chiavi, così sono entrata...” disse dolcemente la ragazza “Non sapevo dove eri finito. Sei sempre con la testa fra le nuvole. Non ti ricordavi più che mi avevi invitata per San Valentino? A proposito, stamattina dovevi avere proprio una fretta terribile. C’era tutto disordine in casa. Ci ho messo quasi un’ora a mettere tutto a posto.” “Scu…scu…scusa…”balbettò Devini mentre guardava incredulo le finestre, la porta, il portico, tutto assolutamente intatto, come sempre. “Figurati” rispose intanto Giulia “l’ho fatto con amore. E oggi è proprio il giorno giusto. Tieni” disse la ragazza facendo comparire dalla borsetta un piccolo pacchettino. “Tanti auguri, amore mio.” Devini aprì la scatolina e rimase senza parole. “È un ciondolo” spiegò Giulia. “Spero che ti piaccia” “È …è…bellissimo.” “Allora mettilo, su” Devini prese la catenina e, prima di infilarsela al collo guardò ancora quel ciondolo a forma di bruco. Sembrava gli sorridesse beffardo. “Aspetta che ti aiuto” fece Giulia e gli legò la catenina dietro al collo. Poi approfittando della vicinanza della sua bocca all’orecchio del fidanzato, gli sussurrò: “A proposito…. Tutte quelle cosacce che mi hai detto al telefono
stamattina….me le spieghi meglio?…”
PIDOCCHIETTO
Lo chiamavano Pidocchietto, già. Anche se tale soprannome era dovuto alle sue dimensioni, non alla pulizia. D’altronde mia madre lo teneva come casa nostra: spolverato, spazzato e lavato ogni giorno. E non vi dico quello che trovava in mezzo alle sedie, soprattutto nei posti in fondo alla platea. D’altronde non poteva essere altrimenti, visti i frequentatori. E comunque per tutti era il Pidocchietto. In realtà si chiamava CINEMA TEATRO CENTRALE, non che fosse in centro, per carità. Anche perché non è facile definire il centro di Roma: i Fori Imperiali, San Pietro, il Pantheon, piazza del Popolo, via Veneto, Montecitorio? Sono tutti centri. Ovviamente il Pidocchietto era distante da tutti questi posti, ma era comunque nei pressi di Porta Portese e si era potuto fregiare del titolo di CENTRALE perché era stato il primo a scegliere quel nome. Il funzionario del fascio, quando mio nonno rilevò quella sala parrocchiale per trasformarla in un cinema solidamente laico, non ebbe nulla da obiettare su quel nome. E così fu CINEMA TEATRO CENTRALE. All’inizio problemi non ce n’erano: film e avanspettacolo attiravano frotte di spettatori. Già a quell’epoca la sala era a conduzione familiare, con mio nonno alla cassa, mia nonna a far le pulizie, mio padre e mio zio Alberto come maschere e venditori di generi di conforto. Il cinema era piccolo (circa quattrocento posti a sedere e un numero imprecisato in piedi) e frequentato da un pubblico decisamente popolare. Sul palcoscenico si alternavano fini dicitori fischiatissimi, file di ballerine formato tonno, anche loro fischiatissime ma per motivi diversi, comici e macchiette di incerti natali e qualche cantante impomatato che veniva dato in pasto a un pubblico feroce, che si sfogava con lui, non potendo interagire con gli attori dei film. Il Pidocchietto resistette anche alla guerra e, dopo un breve periodo di film neorealisti, trovò un nuovo rilancio negli anni ’60, alternando western all’italiana e peplum di bassissimo livello (caratterizzati da audaci pettinature delle attrici). Ma poi, alla fine degli anni ’70, incominciò il declino. Mio padre, che aveva mantenuto la conduzione della sala dopo che mio zio Alberto era emigrato negli Stati Uniti in cerca di miglior sorte a Hollywood (che effettivamente raggiunse e città nella quale visse svolgendo il compito di carpentiere alla Paramount), fece
una riunione di famiglia per annunciare le nuove strategie di programmazione. “Ragazzi” disse tenendo gli occhi bassi verso il bicchiere di vino rosso sul tavolo della cucina, luogo deputato in casa nostra alle riunioni amministrative, “gli affari vanno male.” Io e mia mamma annuimmo, consapevoli della situazione. Io allora avevo solo 14 anni, ma ero in grado di capire che, se sul nostro desco si era ati dall’abbacchio al minestrone, qualcosa nel nostro potere d’acquisto era mutato. “La televisione a colori ci ha tolto spettatori” continuò mio padre sempre senza alzare gli occhi “ora la media è di 20 o 30 paganti al giorno. Qualcuno di più il sabato, ma poca cosa. Dobbiamo cambiare obiettivi di mercato.” Questa frase ci fece sobbalzare, non la sentivamo che in qualche trasmissione televisiva pallosissima che ci induceva immediatamente a cambiar canale, ora che potevamo approfittare dell’invenzione del telecomando. Evidentemente papà aveva avuto qualche abboccamento con esperti del settore, tenendocelo nascosto. “Il segreto del successo sta nell’essere in grado di modificare strategia in funzione degli obiettivi, utilizzando le risorse disponibili”. Probabilmente aveva mandato a memoria l’opuscolo Come Migliorare la Vostra Posizione Lavorativa, allegato al quotidiano con il sovrapprezzo di 250 lire. “Dobbiamo modificare l’offerta commerciale andando incontro alle mutate esigenze del pubblico.” “Cioè?” chiedemmo io e mia madre che, in quanto corresponsabili della gestione, facevamo parte integrante del Consiglio di Amministrazione. “Pensavo di aprire il cinema alle dieci di mattina.” “Ma sei matto?” intervenne mia madre ponendo una mozione di sfiducia. “No!” riprese mio padre “Stammi a sentire: ogni giorno su vari canali programmano film, però solo dal pomeriggio in avanti. Cioè quando apriamo noi. Chi viene al cinema se c’è un film comodo da vedere in televisione? Invece al mattino non trasmettono film, per cui, chi vuole vederli, deve venire al cinema.”
“Ma chi ti farà da maschera?” chiese mia madre lanciandomi uno sguardo preoccupato. “Mariotto adesso che è estate e che non deve andare a scuola. Poi, se le cose vanno bene, in autunno ci penseremo. Magari prendiamo qualche pensionato che ci aiuti alla mattina.” “Sei sicuro di quello che fai?” domandò mamma ancora dubbiosa, ma meglio disposta che in precedenza. “Non vi ho ancora detto la seconda parte della mia idea.” La cosa ci sorprese molto. Già avveniva assai raramente che mio padre generasse un’idea, ma un parto gemellare era un fatto assolutamente inaudito. Per questo ci apprestammo a seguirlo con la massima attenzione. “Per invogliare la gente, faremo come nei supermercati: il due per uno. Cioè proietteremo due film con un solo biglietto. Ho già calcolato tutto. Ci sono film a bassissimo costo, sui quali non paghi il noleggio della pellicola, ma solo la SIAE sui biglietti staccati...”. E incominciò a sciorinare tabelle di titoli, cifre e dati che ci mandarono in totale confusione. Il risultato fu che la proposta ò all’unanimità e il CINEMA TEATRO CENTRALE modificò la propria strategia di mercato. Quell’idea di mio padre per un po’di tempo effettivamente funzionò. Ogni giorno trasmettevamo due film: uno rigorosamente di Franco e Ciccio, da Il Buono il Brutto il Cretino, a Ultimo Tango a Zagarol, da le Spie Vengono dal Semifreddo a il Giustiziere di Mezzogiorno. L’altro titolo era invece era un film americano, ovviamente di serie B, possibilmente farcito di droga, sesso e violenza. Il pubblico difatti aumentò, non solo per la programmazione, ma soprattutto per l’orario, anche se mutato rispetto a prima. Ora venivano pensionati, coppiette occasionali in cerca di oscurità, disoccupati cronici, ragazzotti che non sapevano come sbarcare il lunario, turnisti che si addormentavano sulle poltrone, studenti che marinavano la scuola o militari di leva imboscati. Avevo imparato a riconoscerli ad occhio. C’era solo un signore che non riuscivo a definire. Non molto alto, non giovane, dal o silenzioso, pagava il biglietto senza dire una parola. Stava sempre seduto da solo, al centro della prima parte della platea. Ma il fatto più strano era
che né io, né mio padre o mia madre eravamo riusciti a vederlo in volto: portava infatti un Borsalino nero a larga tesa, con un’enorme sciarpa rossa che gli nascondeva il viso. Solo gli occhi ero riuscito a intravedere nel momento in cui mi ava il biglietto per strapparne la figlia. Occhi neri, mobili, vivacissimi, di una profondità abissale. Io e i miei eravamo preoccupati. Temevamo si trattasse di un latitante. Mia madre avevo proposto di segnalare il fatto alla polizia, ma papà si era decisamente opposto. “È un cliente abituale, viene tutti giorni, paga il biglietto, non disturba: che cosa vuoi di più? È lo spettatore perfetto. D’altronde non fa mica nulla contro la legge. Magari è sfigurato in volto, ha una cicatrice che lo deturpa. Cosa ne sai tu? Finché non disturba lasciamolo tranquillo.” Io però, con la fantasia degli adolescenti, ero curiosissimo della sua storia. Mi figuravo situazioni diversissime, tutte egualmente bizzarre e melodrammatiche. D’altronde mi ero nutrito fin dalla nascita di film e avevo molta più esperienza della virtualità cinematografica che della realtà. Per cui lo immaginai via via come gangster in fuga, lebbroso, ex galeotto, poliziotto in borghese, trafficante di droga, innamorato respinto prossimo al suicidio, supereroe in incognito. Ad ogni nuova ipotesi studiavo le mosse del misterioso individuo per vedere se la mia idea veniva confermata. Ma l’uomo con la sciarpa rossa (bel titolo per un film) aveva un comportamento ineccepibile. Entrava un attimo prima dell’inizio delle proiezioni. Giunto al suo posto, dopo aver controllato che non ci fosse nessuno dietro di lui per non disturbargli la visuale col suo cappello, si accomodava, rimanendo immobile e in silenzio. Osservava distrattamente le diapositive ed i filmati della pubblicità. Poi non si perdeva i provini dei prossimamente su questo schermo (per mantenere la clientela di habitué cambiavamo programmazione tutti i giorni) e, soprattutto, seguiva con attenzione la prima pellicola. Terminata, talvolta leggeva il giornale, oppure dormicchiava o dava un occhio al film successivo. Poi ricominciava. Era capace di rimanere nel cinema per diverse ore, mangiando tramezzini o bevendo qualcosa di caldo da un thermos che teneva in una borsa che portava sempre a tracolla. L’unica cosa che riuscii a scoprire, in quei mesi in cui il cinema effettuò la
doppia programmazione, fu che lui sembrava particolarmente interessato ai film di Franco e Ciccio che osservava con attenzione, fra la caciara del resto della sala, in tutt’altre faccende affaccendata che seguire le acrobazie mimiche di Franco Franchi. Ogni tanto, durante il film, si voltava indietro, non si capiva se per valutare le reazioni di quel pubblico così distratto, o per invitarlo al silenzio e al rispetto per i due guitti che si rincorrevano sullo schermo. Fu nell’inverno dell’81 che mio padre riunì di nuovo il consiglio d’amministrazione del CINEMA TEATRO CENTRALE al tavolo della cucina. La situazione era disperata: le televisioni private avevano riempito tutta la giornata di trasmissioni, serial, telenovele e film. Nell’ultimo anno il nostro pubblico era calato notevolmente. Le alternative erano due: la chiusura o la soluzione che mio padre ci propose, tenendo gli occhi sul vino che aveva nel bicchiere. “No! No e poi no!” esclamò mia madre alzandosi di scatto “Io non ne voglio sapere. Nel mio cinema niente film sporcaccioni!” “Ma, Emilia...” balbettò papà “...è l’unica alternativa. Le uniche sale che adesso funzionano sono quelle a luci rosse. Solo per un periodo, intanto che aspettiamo che la crisi i. Poi torneremo ad una programmazione dignitosa.” “Io le pulizie in un posto dove c’è un pubblico di maiali non le faccio!” s’impuntò mamma. “Chiameremo un immigrato, in nero. Con una programmazione porno potremmo alzare il prezzo dei biglietti.” “E Mariotto? Non vorrai tenerlo lì a vedere quelle porcate in mezzo ai froci?” “Mariotto non verrà più al cinema. Deve finire di studiare per diplomarsi. Farò io cassa e maschera. Nelle sale a luce rossa i controlli sono meno rigorosi.” Votammo: 2 a 1 per l’eros. Mia mamma capitolò piangendo lunghe lacrime sulla tovaglia a quadri. Quando l’indomani il pubblico lesse il cartello che mio padre aveva preparato e che annunciava la temporanea chiusura del cinema per una ristrutturazione in vista della nuova programmazione a luci rosse, le reazioni furono in generale
positive. Il cartello era posto proprio di fianco a me, cosicché potei vedere il lampo di lubrica soddisfazione are negli occhi dei ragazzotti che marinavano la scuola e il sorrisetto maligno sulla bocca dei pensionati. Un attimo prima che iniziasse la proiezione, come al solito giunse il misterioso individuo, con il suo cappello scuro e la sciarpa rossa. Mi tese il biglietto, mentre i suoi occhi leggevano l’avviso. Vidi nei suoi occhi un’espressione tanto disperata che mi lasciò esterrefatto. Per tutto il giorno pensai a lui. Chi poteva essere quell’uomo? Sicuramente non l’avrei più rivisto. Non era persona che frequentasse i pornazzi, quella. Era l’ultima occasione che avevo per svelare il mistero. Non resistetti. Preparai un piano e lo misi in atto. Sapevo che usciva sempre quando era terminata una proiezione di franco e Ciccio. Quel giorno trasmettevamo Indovina chi viene a Merenda. Ogni volta che sentivo arrivare la musica dei titoli di coda sbirciavo dentro (tra tagli, pellicole deteriorate e mancanza di idee nella sceneggiatura, i film non duravano più di un’ora e un quarto). Finalmente lo vidi alzarsi per uscire. Mi misi di schiena, apparentemente indaffarato a sbloccare il lucchetto del mobiletto che teneva i tagliandi dei biglietti, facendo finta che si fosse incastrato. Quando sentii l’uomo dietro di me, diedi uno strattone che mi fece barcollare e finsi di aggrapparmi all’unico appiglio che trovai: la sua sciarpa. La tirai e gli scoprii il viso. Borbottando una maledizione con una voce inconfondibile, l’uomo si ricoprì immediatamente, allontanandosi quasi di corsa dal mio volto sbigottito. Ora finalmente si spiegava quella mascherata, l’interesse per i film, il dispiacere per il cambio di programmazione. Non era un gangster, un lebbroso, un poliziotto in incognito o un innamorato respinto. Quell’uomo era Franco Franchi. Semplicemente. Veniva al Pidocchietto perché era l’ultimo cinema di Roma in cui si proiettavano i suoi film. Cercava la gente, l’ultimo contatto con il suo pubblico. Rividi la disperazione che gli aveva attraversato lo sguardo quando aveva capito che quello sarebbe stato l’ultimo dei suoi film ad essere trasmesso al cinema. E compresi la sua solitudine. Il dolore di chi verrà dimenticato.
VITA DA CANI
Si fa presto a dire vita da cani, in senso dispregiativo, come se tutti i cani fossero uguali e identiche le loro vite. Credete a me, che ho sperimentato tutto quello che può accadere in una vita. Esistono due possibilità: vivere bene, adeguatamente rispettato, magari non sempre coccolato e viziato, ma anzi, guadagnandosi il cibo e l’alloggio con un lavoro dignitoso come la guardia, il pastore, il poliziotto, oppure nel campo del volontariato per gli umani ciechi, o aiutando i cacciatori nel loro hobby. Tutte queste sono attività degne che danno lustro e decoro, inorgogliendo il soggetto che le compie. Non parliamo poi dei cani da salotto: non si può certo definire infelice un quattrozampe che viene accudito, nutrito, lavato, profumato, vezzeggiato, fatto giocare e accompagnato più volte al giorno nei prati per adempiere alle proprie necessità fisiologiche. Sono anche queste vite da cani, ma molto più piacevoli e felici di tante vite umane. Poi c’è l’altre faccia della medaglia. La solitudine, l’abbandono, il vagare per il mondo senza una guida, senza uno scopo. Nessun umano può immaginare la tristezza di questo stato: si dice che l’uomo sia un animale sociale, ma egli può sopportare la solitudine, anzi, taluni la scelgono. Un cane no. Non esiste sofferenza umana paragonabile alla solitudine del cane. E non vi è solitudine maggiore che quella dell’abbandono. I miei primi ricordi risalgono a Giorgio. Era lui il bambino al quale ero stato regalato. Abitavamo in una casa con un giardino non molto ampio, ma sufficiente ad assecondare la mia curiosità. Mi ricordo le corse con Giorgio, le lotte insieme lungo il prato, l’assurdità del gioco della palla, entrambi giovani, entrambi illusi che quello stato di bellissima innocenza durasse per sempre. Quando, al mattino, il mio padrone era a scuola, io lo aspettavo. Mi sdraiavo sotto la veranda e guardavo il mondo. Non facevo assolutamente niente, non mangiavo neanche. Vegetavo, nell’attesa del suo ritorno, unico scopo della mia vita. Quando lo vedevo di lontano arrivare, balzavo sulle zampe e correvo verso di lui, mi aggrappavo alla ringhiera uggiolando dalla gioia. Non ero capace di stare fermo mentre apriva il cancello. Desideravo il suo odore, la carezza della sua mano sul mio pelo, solo quello aveva importanza per me. Allora Giorgio mi abbracciava, mi stringeva. Insieme andavamo in cucina. Lui sedeva al tavolo e
mangiava insieme ai suoi genitori, io divoravo la mia scodella il più in fretta possibile, per mettermi subito vicino a lui, a contemplarlo. Allora il mio padrone mi concedeva parte del suo cibo, allungandomi di nascosto bocconi sotto la tavola. Nessun umano può immaginare il gusto del cibo del padrone, non esistono sensi umani in grado di mangiare emozioni. Ma entrambi eravamo destinati a crescere. Io divenni adulto e in certi momenti non mi sentivo più tanta voglia di correre. Giorgio, dal canto suo, era sempre in giro in motorino, non giocava quasi più con me. Quando veniva a casa con qualche ragazza, sembrava quasi infastidito dalla mia accoglienza, sempre comunque gioiosa. Rimaneva ancora un momento in cui quella complicità che ci aveva mantenuto legati fino a quel giorno non si era attenuata: il pasto e si può dire che io vivessi le mie giornate in attesa di quel momento. Un giorno però, un giorno caldo ma senza sole, con nuvole scure che si perdevano in lontananza, venni caricato sulla macchina del papà di Giorgio. Mi portò a fare un viaggio; non mi ricordo di aver mai fatto un viaggio così lungo in macchina. In alto sulle zampe, nel sedile posteriore, guardavo del finestrino file di alberi interminabili che correvano di fianco a me e una strada lunga lunga e grigia che sembrava si perdesse lontanissima. A un certo punto la macchina si fermò, il papà di Giorgio mi fece scendere, mi disse di stare a cuccia e, mentre lo guardavo cogli occhi inquieti di chi aveva avvertito che qualcosa di importante stava succedendo, mi tolse il collare, poi risalì sulla macchina, avviò il motore e si allontanò. Da quel giorno non rividi più né Giorgio né nessun’altra delle persone che avevano accompagnato fin lì la mia vita. Mi ritrovai a dovere cominciare daccapo, in un mondo che mi era completamente nuovo e ostile. Era come se fossi rinato, ma con un'infelicità addosso che non è possibile descrivere. Incominciai a guardarmi attorno, aspettando il ritorno della macchina. ò tutto quel giorno, ò la notte. Io non mi mossi, avevo ancora l’illusione del ritorno. A ogni faro che vedevo avvicinarsi io pensavo: eccolo è lui, sta tornando, sta venendo a riprendermi e invece la macchina ava. Ne vidi transitare un paio che somigliavano a quella del mio padrone, ma in nessuna c’era lui. Quando quella notte angosciosa fu trascorsa e l'alba tornò ad illuminare la strada, mi resi definitivamente conto di essere stato abbandonato. Forse nessun umano è in grado di comprendere questa parola: abbandonato, nell’intima disperazione che per un cane può significare.
Come ubriaco in quella strada due o tre volte sentii lo stridio di freni e una macchina che mi scansò suonando il clacson. Capii che non era la strada il posto dove dovevo rimanere, allora mi allontanai e saltai attraverso il fosso; entrai in un campo e incominciai a vagare per la campagna. Non so quanto tempo trascorse, i miei ricordi di quel periodo sono piuttosto vaghi; so che a un certo punto la campagna terminò e mi trovai in una città che non conoscevo e che non avevo mai visto, anche perché nella mia vita precedente non avevo avuto molte occasioni per uscire all'aperto. Nella città vi erano moltissimi umani che avano o correvano in fretta davanti a me. Io, seduto lungo una via, li guardavo. Nei miei occhi si leggeva una silenziosa preghiera: vi prego fermatevi e portatemi a casa con voi; lì troverò lo scopo della mia vita! Ma nessuno rallentava la propria attività per guardarmi. Incominciai anche a sentire i morsi della fame sempre più forti; in campagna avevo cercato di racimolare qualche cosa, ma per uno che non era mai stato abituato a cercarsi il cibo, procurarselo presenta sempre molte difficoltà. Incominciai allora ad orientarmi attraverso l'odore. Annusai il marciapiede e scoprii che in quella strada c’era una specie di reticolato formato dagli odori degli altri cani, che nel tempo si erano andati ramificati sempre di più. Decisi di seguire uno di questi odori, quello che mi ispirava maggiore simpatia. Incominciai a girare per questa strada e, seguendo questo odore, ogni tanto sentivo che si univa ad altri odori sempre di cani, che sono molto diversi da quelli umani. L'odore mi guidò verso la periferia della città, e vidi a un certo punto una discarica di rifiuti. L'odore di carne era fortissimo, mischiato all'altro di cane, ma il richiamo del cibo che veniva dalla discarica era irresistibile. Corsi velocemente per cercare di entrare ma mi trovai di fronte ad una rete che impediva l'accesso. Vedevo di là numerosi rifiuti tra i quali galleggiavano ossa, pezzi di carne, tutte cose che in quel momento mi facevano venire l'acquolina in bocca. Girai tutto attorno alla rete, senza trovare possibili entrate. Incominciai allora guarire. La sera stava calando, in alto vidi la luna; appoggiai le zampe terra, alzai il muso e ululai con tutta la disperazione che avevo in corpo. Sentii una presenza vicina. Mi voltai e vidi quattro cani, che dovevano essere randagi come me. Un sembrava il capobranco. Mi si avvicinò, mi annusò e io lo ricambiai, scoprendo in lui lo stesso odore che avevo sentito e seguito. I cani si mossero e io li seguii fino ad una specie di buco del terreno, che era stato scavato da degli altri cani. Attraverso quel aggio c'era la possibilità di entrare. Per primo entrò il capobranco, seguito gli altri tre cani. Il buco era troppo piccolo per me, scavai allora con le zampe fino ad avere un’apertura
sufficiente per are. La rete mi graffiò il pelo e vidi alcune gocce del mio sangue cadere per terra. Finalmente potei trovare qualcosa da mangiare. Certo, non erano i bocconcini a cui ero abituato, ma comunque vi era di che soddisfare la mia fame. Solo quella, però. Un cane vive di affetto: non ricevuto, ma dato. Un cane ha bisogno di una persona da amare. E io non avevo nessuno. Un cane non può amare un altro cane. Nelle nostre peregrinazioni di randagi, ciascuno di noi aveva questa idea fissa: trovare un padrone. Per questo fra di noi non comunicavamo, stavamo insieme e basta, ma privi di quello spirito di gruppo che avrebbe potuto, se non altro, alleviare la nostra solitudine. La mattina ci muovevamo in gruppo secondo un percorso stabilito. Da quanto avevo capito, vi erano altri gruppi di randagi in città e tutti avevano un proprio territorio e non erano tollerati sconfinamenti. L’odore degli escrementi fungeva da confine. Il luogo in cui avamo la maggior parte della nostra giornata era il parco. Lì eravamo liberi di muoverci senza paura di essere catturati e potevamo dedicarci alla ricerca di un padrone. Malgrado io fossi avvantaggiato dall’essere di razza e dal mio aspetto ancora domestico, la mia ragguardevole taglia mi impedì di trovarlo. Continuavo a pensare a Giorgio. Di notte, prima di addormentarmi, pensavo a lui. Mi immaginavo di trovarmi nel parco e di vederlo da lontano. Io allora gli correvo subito incontro uggiolando dalla gioia. Lui mi guardava, mi riconosceva e mi stringeva a lui giurandomi che non mi avrebbe abbandonato mai più. Poi mi addormentavo con gli occhi umidi e lo sognavo. Un giorno, nel parco, sentii un odore nuovo. Il pelo mi si rizzò, annusai. Senza volerlo incominciai a muovermi in modo forsennato, saltai di qua e di là. Non riuscivo a stare fermo, dovevo assolutamente trovare la fonte di quell’odore. Dimenticai tutto il resto, solo quello aveva importanza. Ero talmente eccitato che non riuscivo nemmeno a seguire la traccia. Alla fine la vidi: era una stupenda cagnolina che lasciava un profumo inebriante. Mi diressi di corsa verso di lei. Incominciai ad annusarla nelle parti intime, senza tregua. Lei cercò di sottrarsi, ma non le concessi spazio. Ero troppo carico di energia, provavo un desiderio nuovo, sconvolgente. Allora anche lei, sedotta dalla mia aggressività amorosa, si lasciò annusare e mi ricambiò.
Ma in quel momento mi sentii mordere sul fianco. Mi voltai ringhiando. Il mio capobranco voleva lui la cagnolina ed era spalleggiato dai suoi scagnozzi. Mi assalirono in quattro, io mi difesi come potei, avvantaggiato dalla mole. Ma la loro abilità era superiore, provai fitte dolorose sul fianco che mi costrinsero a lasciare scoperta la gola. Il cane mi si avventò e strinse le mascelle sul mio collo. Tentai di urlare, ma il grido mi si strozzò in gola. Riuscii solo a guaire e a cadere sul fianco, sconfitto, mentre la cagnolina si allontanava con il mio nemico. Li vidi annusarsi dietro un cespuglio. Scappai. Corsi via, senza una direzione, con il solo scopo di schiantare la rabbia che quell’umiliazione mi aveva scatenato. Da allora vissi solo. Trovai una zona della grande città priva di cani in cui condurre una vita assolutamente solitaria. Dai miei compagni randagi avevo imparato quanto basta: procurarmi il cibo per arrivare all’indomani, evitare la cattura e stare alla larga dalle cagnoline in calore. Non avevo imparato invece la cosa più importante: trovare un padrone. Ero oramai rassegnato a condurre la mia vita in questo modo, quando accadde ciò che mi fece ricredere sulla bontà e generosità degli umani. Avevo preso l’abitudine, per procurarmi il cibo, di recarmi nei pressi di un prato dove vi erano delle panchine su cui degli uomini consumavano il pranzo e spesso si trovavano pezzi di pane, talvolta qualcosa di meglio. Un giorno un uomo, seduto su di una panchina, mentre si sbocconcellava un panino, mi fissò. Mi guardò a lungo. Io lo fissai col mio sguardo più tenero, anche se con poche speranze. Mi lanciò un pezzo di pane. Mi avvicinai e lo annusai: era pieno di prosciutto! In un attimo lo divorai. Me ne lanciò un altro: non lo lasciai nemmeno atterrare e lo afferrai al volo. Allora l’uomo fece cenno di avvicinarmi. Lo raggiunsi con circospezione. Divise il suo panino: un boccone a lui e uno a me. Per la prima volta da quando ero stato abbandonato tornai ad assaporare il cibo del padrone, un’emozione indicibile. Anche se solo per un attimo, quell’uomo mi aveva fatto ritornare la voglia di vivere. L’uomo mi tese la mano. L’annusai: aveva un odore caldo e dolce. Gliela leccai. Anche il suo sapore era buono. L’uomo si alzò e fece per allontanarsi. Io lo seguii. Lui si voltò, mi sorrise e mi aspettò. Camminammo insieme, fianco a fianco, come facevo con Giorgio, fieramente, con l’orgoglio di avere un padrone.
“Vieni con me?” mi chiese. Scodinzolai dalla contentezza. Ero felice. Immediatamente scordai tutta la vita precedente. Ero di nuovo con un padrone tutto mio, non desideravo altro al mondo. “Ti porto in un posto bellissimo, vieni, vieni con me…” Il mio padrone continuava a parlarmi, con la sua voce suadente, e ad accarezzarmi mentre mi conduceva per le vie della città. È facile affezionarsi a un cucciolo, ma amare un cane adulto, randagio, è solo di uomini superiori. Se io ora sono tornato a vivere, lo devo a lui al mio nuovo padrone che ha deciso di prendermi con sé. Mi ha portato in questo posto, non credo sia la sua casa. Probabilmente, anzi, sicuramente, vorrà farmi un bel bagno e tagliarmi un po’ il pelo, sono effettivamente sporco e trasandato. Non è che mi piaccia molto lavarmi, ma per un buon padrone si fa questo ed altro. È strana questa stanza, che sia un negozio di animali? Comunque mi ha detto di stare qui e aspettarlo. Ormai la mia obbedienza a lui è illimitata, egli mi ha ridato fiducia in tutto il genere umano. Però effettivamente anche il nome del negozio non l’ho mai sentito prima. Si chiama CENTRO DI VIVISEZIONE. Che nome strano, eh?
GATTI E STIVALI
“Un gatto: uno stupido, insulso, inutilizzabile gatto!” sco si lamentava non tanto per la morte del padre, ma per l’umiliazione dell’eredità: ai suoi fratelli aveva lasciato di che vivere, la casa, il mulino e l’asino, ma a lui solamente gli stivali e il gatto, un pigrone che ava tutto il tempo a sonnecchiare sotto il sole. “Cosa potrò mai fare con un paio di stivali e quella specie di felino buono soltanto per uno stufato con polenta?” Il lamento del giovane continuava incessante. “Dà a me i tuoi stivali, miao. Vedrai che saprò renderti ricco, miao miao.” La voce del gatto, che pareva addormentato, ma che i realtà era assai vigile, lo riscosse dai brutti pensieri. “Ma tu sei pazzo!” gli rispose sco strabuzzando gli occhi “ho solo questo paio e figuriamoci se li do a te. E poi a cosa ti servono?” “Per cacciare, miao.” “Ma se non hai mai preso un topo in vita tua. E poi con la caccia ai topi non si diventa ricchi di certo.” “Ma se tu mi ascolti, miao, vedrai che non te ne pentirai. Miao, miao. Dopotutto, tuo padre ti ha fatto un gran favore, lasciandoti in eredità una cosa favolosa! Miao.” “Gli stivali?” chiese stupito sco. “Ma no, miao: io. Io sono la tua salvezza, basta che mi presti gli stivali, miaoino.” Il giovane rimase interdetto davanti a quelle parole, ma il gatto tanto disse e tanto fece che lo convinse non solo a prestargli gli stivali, ma anche a rifornirlo di un capiente sacco e di esche per la caccia.
Il gatto si mise subito all’opera e, recatosi nel bosco, sistemò trappole ed esche per le incaute prede. In meno di due ore aveva catturato, ucciso e stivato nel sacco un tasso, due pernici, due lepri e un fagiano. Subito corse dal re di quel paese e si fece annunciare. “Maestà, c’è qui un gatto con degli stivali che dice di venire da parte di un certo Marchese di Carabas” disse l’impettito dignitario al re assiso sull’imponente trono da cui dominava l’immensa sala delle udienze. “Mavchese di Cavabas?” domandò il re con la sua tipica pronuncia blesa “e chi savebbe costui?” “Non lo so sire, non l’ho mai sentito nominare.” “Ed io dovvei pevdeve tempo con il gatto di un tale che nemmeno tu conosci?! Ma mandalo via a pedate.” “Mi scusi maestà….”continuò il dignitario “Che c’è ancova?” chiese spazientito il sovrano. “C’è il fatto che questo gatto reca con sé un dono per voi.” rispose il dignitario. “Beh! Cosa state aspettando? Fatelo entvave subito.” Il gatto, introdotto alla presenza del re, gli si prostrò davanti con un atteggiamento complimentoso, e in questo il gatto era maestro. “Ecco lepri, pernici, tassi e fagiani per il Nostro Grandissimo e Insuperabile Sovrano da parte del mio padrone, il marchese di Carabas. Miao.” E dopo aver fatto un ulteriore inchino, uscì immediatamente per evitare che il re gli ponesse domande imbarazzanti sul conto del suo padrone. Il giorno seguente il gatto cacciò una beccaccia, due aironi, ancora una lepre e due rarissimi conigli selvatici dalla carne deliziosa. Depose il sacco di nascosto davanti al portone del castello con un messaggio: AL NOSTRO INCOMMENSURABILE SOVRANO DA PARTE DEL MARCHESE DI CARABAS.
Il terzo giorno il sacco conteneva un capriolo e una quindicina di uccellini. Il gatto, come il giorno precedente, mise tutto in un sacco con il messaggio davanti al castello e stette lontano a osservare che la selvaggina venisse recapitata. “Ormai il re è cotto, miao” disse il gatto a sco. “Adesso, miaolino, devi fare quello che ti dirò.” Il giovane era in completa balia del gatto e non sarebbe stato capace di opporsi a nessuna sua richiesta. Il felino lo condusse nei pressi di un torrente che costeggiava la strada lungo la quale il re soleva recarsi in carrozza, dopo pranzo, per una salutare eggiata. “Presto, presto, padrone, miao. Spogliatevi nudo e buttatevi in acqua! Miaoissimo!” “Ma sei impazzito? Ma cosa devo fare?” “Presto, presto. Sta per giungere la carrozza, non c’è tempo per le spiegazioni. Spogliatevi e gettavi nel torrente, subito! Miaoletto!” Il giovane, completamente soggiogato dalla forza magnetica dello sguardo felino, obbedì e, nudo di tutto punto, si immerse nell’acqua gelida. Il gatto nascose le vesti e corse sulla strada. Di lì a poco giunse la carrozza reale. Il sovrano e la sua adorata figlia assaporavano pigramente il lento rollio della vettura, quando furono scossi da grida forsennate. “Aiuto, miao. Aiuto!!” Il re e la principessa si sporsero dal finestrino. “Ma chi è che gvida, cosa succede guavdie?” domandò seccato il sovrano “Oh, sire, aiutatemi per carità, miao.” “Ma tu sei il gatto del Mavchese di Cavabas!” Esclamò il re riconoscendo l’animale. “Maestà, vi prego di aiutarmi, dei briganti hanno assalito il mio padrone, il
Marchese di Carabas, e lo hanno gettato nel fiume. Morirà se non interverrete.” “Guavdie,” ordinò il re “seguite questo gatto e vipovtate qui il suo padvone!” I soldati della scorta ubbidirono immediatamente e cinque minuti dopo erano di ritorno con il povero sco intirizzito, gocciolante e nudo. A quella vista la principessa cacciò un grido: “Oddio, un uomo nudo!” e svenne. Il re si sporse dal finestrino urlando “Guardie, cacciate in prigione questo delinquente!” (quando si arrabbiava, al re ritornava la erre dura). “Ma perché, Maestà?…”balbettò sco. “Per bracconaggio, uccisione di specie animali protette e in via di estinzione. Ma vi rendete conto di tutto il potere che hanno i Verdi nel mio Consiglio della Corona? Portatelo via, gli daremo una punizione esemplare!” I soldati non avevano mai visto il re così arrabbiato. Alcuni guardarono sco e si fecero il segno della croce. “Ma è stato il gatto….” balbettò il giovane osservandosi attorno alla ricerca del felino. Ma dell’animale non vi era più traccia. La principessa, riprendendo lentamente i sensi, tornò ad affacciarsi dalla carrozza. “Oddio, l’uomo nudo!” gridò di nuovo e svenne, ma più lentamente. “E aggiungete anche atti osceni in luogo pubblico!” continuò il re alle guardie “Esibizionismo davanti alla principessa. Maiale!” I soldati portarono via il malcapitato che continuava a guardarsi attorno mormorando: “…il gatto, è stato il gatto…il gatto con gli stivali….” Il gatto, nella bottega del sarto, trattò a lungo e alla fine ottenne 15 ducati per il vestito del suo ex padrone. Poi, tornato nel bosco, si mise a sonnecchiare sotto un albero, pensando: “Però! Ho guadagnato un paio di stivali, 15 bei ducati e, non per ultima, la mia libertà. Non male davvero, per tre soli giorni di lavoro. Miao miao.”
LA BELLA ADDORMENTATA
La previsione della malefica fata aveva messo in allarme il re. La sua unica figlia, al compimento del sedicesimo anno di età, sarebbe stata punta da un fuso e avrebbe dormito per un secolo intero. A questo punto era necessario trovare una soluzione immediata per la successione al trono. La piccola Aurora venne allevata per tredici anni accelerando i tempi. Fin dalla nascita era stata promessa al principe dello stato confinante di qualche anno più vecchio. Le vennero insegnate tutte le virtù della sposa e della madre in modo che, allo scoccare del tredicesimo anno, potesse essere effettuato il matrimonio. Subito Aurora rimase incinta, ma partorì una femmina. Il re e il principe richiedevano un maschio per assicurare la stabilità politica. Dopo pochi mesi, Aurora era nuovamente incinta. Questa volta partorì non un maschio, ma due: una coppia di gemelli. A quindici anni era già madre di tre figli, tre diavoli scatenati. I gemelli, in particolare, sembravano sincronizzati: quando uno dormiva, l’altro si svegliava, quando uno aveva appena mangiato, l’altro urlava per la fame. Siccome il re e il principe seguivano rigorosamente i precetti dei più importanti pediatri del paese, l’allattamento era rigorosamente effettuato dalla madre naturale, cioè Aurora, per evitare traumi nei gemelli. La povera principessa ava notti insonni ad allattare, giornate intere a giocare con quei tre disperati, il tutto mescolato ai numerosi impegni che il suo rango comportava. Si avvicinava il giorno del suo sedicesimo compleanno e tutti temevano la maledizione del fuso. “Altro che fuso, io sono completamente fusa” pensava Aurora trascinandosi fra prosciugamenti di seni e feste di corte. Il giorno del compleanno, mentre tutti al castello cercavano di impedire disperatamente il compiersi della maledizione, Aurora vagava di stanza in stanza implorando, con la voce rotta dalla stanchezza: “Un fuso, datemi un fuso”. Finalmente ne trovò uno, dimenticato in un angolo della soffitta, riuscì a malapena ad avvicinarsi e a pungersi, con la forza della disperazione, il dito mignolo, prima di addormentarsi beata.
Quando venne ritrovata, venne portata nella sua camera e distesa supina sul letto; le buone fatine fecero addormentare tutto il castello. Aurora per cento anni sognò. Sognò tutte le vite che avrebbe potuto vivere, e tutte le altre che da ciascuna si dipanavano, come porte scorrevoli l’una nell’altra. Sognò tutte le possibili combinazioni delle vite, ma con lentezza, senza la terribile fretta e la frenesia che avevano caratterizzato la sua vita diuturna, con quell’impasto di malinconia e dolcezza di cui sono impastati i sogni. Dopo cento anni esatti, il principe si svegliò e, secondo quello che gli avevano detto le buone fatine, si recò nella camera della moglie addormentata, si chinò sul suo viso e le baciò le labbra. Aurora sognava, ma nel suo sogno avvertì un disagio, come un elemento estraneo che infrangeva la serenità di quel riposo. Sentì come un peso sulle labbra, un odore dolciastro che le ricordava qualcosa di molto sgradevole. Aprì gli occhi, vide suo marito davanti a lei che le sorrideva. Si ricordò di tutto. Della sua vita di moglie e di madre. Aurora si girò sul fianco, meglio cambiare posizione. Diede un ultimo sguardo distratto al marito e, prima di riaddormentarsi ebbe solo la forza di mormorargli: “Fra cent’anni, quando verrai a svegliarmi ancora, ricordati di portarmi cappuccino e brioche”. E il sogno continuò.
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