PORCELLINI D'INDIA
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Luci e ombre della ricerca medica
Sommario
Titolo Pagina JOSÉ LUIS PALMA GÁMIZ PROLOGO INTRODUZIONE AIDS ed EVD Esistono dei nessi che colleghino il virus dell'AIDS con quello dell'EVD? Qual è il presente e quale futuro ci aspetta di fronte all'EVD? Esiste una cura per l'EVD? 1.- COS'È UNO STUDIO CLINICO? Tipificazione degli studi farmacologici 2.- LA SELEZIONE DEI PAZIENTI, I CONTROLLI E I LORO OBIETTIVI 3.- LE FASI SECONDARIE DI UNO STUDIO IN FASE III 4.- QUALI OBIETTIVI SI PREFIGGE UNO STUDIO CLINICO E CHE METODI SI UTILIZZANO PER REALIZZARLI 5.- LA TIRANNIA DELLE STATISTICHE E IL LORO SIGNIFICATO CLINICO IMPRECISO 6.- COSA SONO I SURROGATE ENDPOINT O BIOMARCATORI DELLO STUDIO. IL PARADOSSO DI TROVARE CIÒ CHE NON SI CERCA NÈ SI DESIDERA 7.- BENEFICI CHE OTTENGONO I PAZIENTI DAI RISULTATI DELLA
RICERCA MEDICA: MAGARI ALCUNI SÌ E ALTRI NO? 8.- GLI STUDI CLINICI DEVONO ESSERE SEMPLICI, IN DOPPIO O TRIPLO CIECO CONFRONTATI A PLACEBO? SI DOVREBBE CAMBIARE LA METODOLOGIA E LA SISTEMATICA? 9.- LE METANALISI: UN CALDERONE DOVE TUTTO È AMMESSO? 10.- LA PUBLICAZIONE DEI RISULTATI: L'IMPORTANZA DELLA SCELTA DEL MEZZO. CONCLUSIONI: QUALE DOVREBBE ESSERE IL FUTURO DELLA RICERCA MEDICA? EPILOGO
JOSÉ LUIS PALMA GÁMIZ
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PORCELLINI D'INDIA © José Luis Palma Gámiz (2015) Titolo originale in spagnolo: “Conejillos de Indias” Pubblicazioni precedenti: HomoLegens 2010 ISBN: 978-84-939349-4-1 Traduzione di Maria Antonietta Ricagno Confezione di facciata: Blanca Miosi
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Tutti i diritti riservati. È severamente vietata la riproduzione totale o parziale di quest'opera senza il permesso per iscritto dei detentori dei diritti di sfruttamento a tutti gli effetti.
Certo non posso chiamarmi saggio. Sono stato un cercatore e ancora lo sono, ma non cerco più nelle stelle e nei libri: incomincio a udire gli insegnamenti che il mio sangue mormora in me. "Demian", Hermann Hesse
PROLOGO
I- L'autore di questo libro Il dottor Palma Gámiz è un prestigioso cardiologo clinico che vanta una rigorosa formazione nella sua specialità, esperto ricercatore biomedico con una lunga e riconosciuta autorità nella progettazione, sviluppo e valutazione critica di numerosi studi clinici, in particolare nel settore cardiovascolare. Il dottor Palma Gámiz è un vero e proprio esempio di clinico umanista dalla straordinaria cultura letteraria e un brillante scrittore, sia di numerose pubblicazioni, originali nel suo settore medico cardiovascolare specifico, sia nel romanzo, racconto storico o saggio letterario. L'autore di questo Prologo conosce per esperienza la serietà personale del dottor Palma nelle sue amicizie, la sua analisi rigorosa e la fermezza delle sue decisioni nelle più svariate circostanze professionali. Tale convinzione personale mi ha portato ad accettare con piacere la presentazione, seppur breve, di questa monografia dedicata all'analisi attenta degli studi clinici e, nello specifico, di quelli realizzati con farmaci. In questo rigoroso esame critico dello studio clinico, dalle fasi iniziali della progettazione di un nuovo farmaco fino al suo arrivo nell'arsenale terapeutico del clinico, si realizza un percorso lungo e difficile disseminato di varie sfide: di tipo metodologico, o relazionate alla patologia stessa che si intende alleviare o curare e molte altre relazionate alla popolazione di pazienti ai quali tale studio viene applicato. Inoltre, non poche di queste sfide presentano dei legami con gli interessi presumibilmente legittimi delle case farmaceutiche promotrici di ciascuno studio specifico. In considerazione della complessità di tali sfide e degli scenari in cui si svolgono dai laboratori di ricerca di base fino alla traslazione finale dei risultati di uno studio clinico al singolo paziente, si rende indispensabile un esame critico, equo e scevro da ogni altro interesse che non sia quello che offre un beneficio reale e senza rischio per il paziente. Questa monografia soddisfa ampiamente questo requisito, poiché il Dr. Palma Gámiz espone qui uno studio critico molto documentato e ben redatto sui punti di forza e i punti deboli di tutti gli studi clinici, con l'importante o della sua solida e lunga esperienza diretta. In effetti, è un libro "vivo" scritto da un medico impegnato con i suoi pazienti e non un mero prodotto dell'erudizione. Pertanto, è caratteristica costante di questa monografia fare sempre riferimento ai dettagli intimi delle diverse fasi di uno studio clinico illustrate con esempi recenti (ACCORD, ADVANCE ecc.). Inoltre, l'autore si preoccupa
costantemente di discutere in modo serio la responsabilità delle case farmaceutiche promotrici degli studi clinici nel costante e fondamentale sforzo per innovare con il massimo rigore scientifico-tecnico lo sviluppo di nuovi farmaci sicuri ed efficaci. II- La monografia: Il capitolo di Introduzione rappresenta esso stesso "quasi" una monografia con una vasta integrazione di domande e risposte concettuali e metodologiche appositamente individuate negli studi clinici, strumento essenziale per la buona pratica clinico-terapeutica. Questa monografia, per nulla convenzionale, è strutturata in12 capitoli "tradizionali" che comprendono dalla definizione, selezione dei pazienti, degli obiettivi e delle metodologie specifici (Capitoli da 2 a 5), fino all'analisi molto dettagliata degli ingredienti più tipici di questo ramo della ricerca biomedica, come la biostatistica, i "biomarcatori" o le sistematiche abituali di "cieco rispetto a placebo" e di metanalisi (Capitoli 6,7, 9 e 10). In altri capitoli si presenta uno scrutinio ragionato dei potenziali benefici presunti di uno studio clinico e il compito, ineludibile, di pubblicare i risultati di tale ricerca sulle riviste scientifiche con valutazione ad opera di valutatori del settore e accreditato prestigio o impatto (Capitolo 8 e 11). Infine, nel Capitolo 12 l'autore conclude coerentemente a quanto esposto in precedenza con una chiara spiegazione del suo atteggiamento critico circa le basi scientifiche, etiche e pratiche degli studi clinici, oltre che dei loro punti deboli più eclatanti. In ogni caso, è chiaramente indicato in ogni studio clinico, progettato, eseguito e interpretato mediante solidi criteri scientifici ed etici, che predomina la condizione sine qua non di uno scrupoloso rispetto per i diritti umani, dei pazienti e dei volontari che liberamente accettano di partecipare a tale studio. Tale posizione personale dell'autore esprime chiaramente la visione speranzosa di uno scienziato che un'analisi onesta e coraggiosa saprà correggere eventuali errori e inesattezze oppure fugare eventuali "ombre" metodologiche identificabili in un numero variabile di studi clinici in corso. In definitiva, non devono esistere dubbi circa il fatto che uno studio clinico NON è, sicuramente: "Una sperimentazione incontrollata e priva di basi scientifiche ed etiche solide che trasformi in cavie le persone che vi partecipano". Pertanto, un'accurata lettura di questa monografia elimina qualsiasi sospetto di
tale degrado nella ricerca biomedica-clinica. Nel corso di questa monografia, si distinguono determinate preoccupazioni dell'autore: 1- Cosa significa ciò che è statisticamente significativo delle scoperte di uno studio clinico su un determinato farmaco o gruppo di farmaci?; 2- Non confondere tali risultati matematici con la biologia "reale" e individualizzata di patologia che si tenta di migliorare (o prevenire) nella sua storia naturale. 3- In che modo il medico nella realtà deve analizzare e meditare attentamente su queste informazioni prima di prendere la decisione di sviluppare una strategia farmacologica ("decisione presa in questi farmaci di provata efficacia statisticamente significativa") al suo singolo paziente? Allo stesso modo, rivestono una notevole importanza nella pratica clinica anche altre preoccupazioni dell'autore. Ad esempio: risultati di uno studio clinico specifico o di quale studio occorra esaminare e valutare nuovamente a lungo termine (vari decenni) prima di essere considerati "scopritori" di farmaci "rivoluzionari". La recente esperienza con il farmaco antiobesità Rimonabant è molto dimostrativa. O, più lontano nel tempo, la comparsa di complicanze molto gravi dopo oltre 30 anni di uso clinico di altri farmaci "antiobesità" come la D-Fenfluramina hanno costretto a procedere al suo rapido ritiro dalle farmacie. Da notare che, quando l'autore lo ritiene opportuno, inizia un capitolo con una anticipazione meno tradizionale del suo contenuto mediante una specifica che avvisa il lettore circa un "pericolo" inerente lo studio clinico, come ad esempio "la tirannia delle statistiche" (Capitolo 5). Oppure, "Il paradosso di trovare ciò che non si cerca" nel caso in cui si sopravvaluti l'affidabilità dei biomarcatori (Capitolo 6). O ancora quando l'autore mette in guardia dalle metanalisi come "un calderone in cui tutto è ammesso". E così in altri capitoli (8,11), il dottor Palma Gámiz con un linguaggio diretto, quasi colloquiale, non privo di umorismo fino alla provocazione, invita il lettore del testo di questo capitolo, sempre ben documentato ed esposto, a formare la propria analisi critica. Le considerazioni dell'autore alludono a una più o meno sottile squalifica globale degli studi clinici? Forse un certo scetticismo sul loro ruolo centrale nella medicina basata sulle prove, per le buone pratiche cliniche? Non crediamo sia così. Piuttosto, crediamo egli esprima una ragionata cautela rispetto alla "fede cieca" che si infiltra nella mente del medico a fronte di molti studi clinici. Inoltre, sottolinea che l'etica nella proposta, nello sviluppo e nella valutazione degli studi clinici è davvero fondamentale e che la stessa industria farmaceutica deve conciliare tale principio etico con il suo legittimo desiderio di profitto.
Perdipiù, evidenzia come il medico e il suo paziente, "i professionisti degli studi clinici", debbano sempre attenersi a tale principio. Riassumendo: Questo è uno studio per nulla convenzionale sulla sperimentazione clinica, con fondamenta ben salde nella vasta esperienza dell'autore, sostenuta dalla sua profonda conoscenza della letteratura scientifica più seria e pertinente nella materia della ricerca biomedica. Si tratta di un libro ben scritto, scorrevole e accessibile a medici specialisti o con conoscenze nella realizzazione di studi clinici, al pubblico generale, ai pazienti e perfino ai promotori dell'industria farmaceutica. Soprattutto, presenta un esame pressoché esaustivo dei punti di forza e dei punti deboli di QUALSIASI STUDIO CLINICO, realizzato con un senso critico razionale, coraggioso nella formulazione delle sue opinioni e che non lascerà indifferenti, credo, i suoi potenziali lettori. Inoltre, questo libro rappresenta un tentativo onesto, coerente con la vocazione e la pratica clinica dell'autore di preservare gli interessi del paziente prima di qualsiasi altra considerazione e di ricordare al medico che "la realtà clinica specifica di ciascun soggetto malato" determina la traslazione dei risultati di uno studio clinico "a prescindere da quanto statisticamente significativi" siano i risultati pubblicati nelle più prestigiose riviste scientifiche. Infine, credo che sia un libro necessario che stimola la critica e il dibattito che rappresentano l'essenza stessa della ricerca clinica. Così ci auguriamo. Prof. Dr. Manuel Serrano Ríos Professore di Medicina Università Complutense Madrid
INTRODUZIONE
Poco tempo dopo aver terminato il corso di laurea in Medicina e quando avevo già iniziato il corso di specializzazione in Cardiologia, mi sono visto coinvolto, per mandato dai miei capi di allora, nella ricerca biomedica, che non ho più abbandonato in tutta la mia lunga carriera. Questa riflessione iniziale intende informare il lettore di questo libro che la mia esperienza in queste avventure non risale a ieri. Sono trascorsi oltre trentacinque anni da quando terminai i miei studi universitari e ciò mi fornisce una qualche autorità, se non morale almeno temporale, a esporre, dopo tanti anni di lavoro, i chiaroscuri che qualsiasi ricercatore osserva quando intraprende queste apionanti attività il cui fine ultimo dovrebbe essere la ricerca del meglio per il paziente, sebbene l'esperienza dimostra che non sempre è così. Durante quei primi anni, mi assicuravano, e non senza ragione, che per qualsiasi medico che si vanti di essere tale, e soprattutto per coloro che desiderano intraprendere un'autentica carriera scientifica, la ricerca clinica era qualcosa di assolutamente necessario ed essenziale, che tuttavia resta una mezza verità o una falsità "statisticamente significativa" che si dovrebbe accettare con ogni tipo di riserva. Indubbiamente, non esiste altro modo di progredire nelle conoscenze se non attraverso la ricerca o l'osservazione, che non sono altro se non branche complementari dello stesso ramo di conoscenze. Con l'eccezione matematica assoluta circa l'innegabile accuratezza della matematica stessa, il resto delle scienze umane tende a essere di solito abbastanza impreciso. Tra queste, magari qualcuna come la meteorologia (con particolare riferimento al tanto sfruttato cambiamento climatico e alle previsioni meteorologiche), la biologia (con le sue leggi instabili e le sue imprevedibili devianze) e la stessa medicina (con le sue lacune e irregolarità), potrebbero costituire il paradigma dell'inesattezza che interessa queste scienze, dal che consegue che le loro tesi, ipotesi e conclusioni debbano essere prese molte volte con ogni genere di riserve. Di tutte queste scienze, forse è la medicina quella che si trova a patire la maggior sfiducia generale, e ciò forse in conseguenza della terribile complessità del corpo umano e dei suoi diversi e imprevedibili modi di ammalarsi.
La ricerca medica concepisce già dall'inizio una serie di quesiti, molti dei quali non hanno ancora trovato una risposta coerente. Ad esempio: Qual è il tipo di ricerca migliore e, soprattutto, quale quella davvero necessaria? Quella che si conduce abitualmente è autentica e, soprattutto, conclusiva? Fate attenzione, ché dico "autentica" e "conclusiva", il che non significa che debba essere "statisticamente significativa"; un concetto abusato, matematico e quasi astratto e quindi, non sempre applicabile alle leggi della biologia, il che può renderlo equivoco al momento di accettare conclusioni che siano applicabili in clinica e addivenire in tal modo a un interesse manifesto per la comunità. Altri interrogativi sono ad esempio: Chi trae vantaggio da queste attività? Sono applicabili a tutti i pazienti? Lo scenario degli studi clinici riproduce l'effettiva realtà degli ambulatori medici di tutti i giorni? Le conclusioni derivate dagli studi clinici sono effettivamente di beneficio per i miei pazienti, considerati individualmente, o tali presunti vantaggi risultano davvero interessanti quando includiamo il paziente come parte inscindibile di un collettivo indefinito? Il mio paziente avrà la fortuna di far parte di questo piccolo gruppo di beneficio statistico che mi concede il valore "p" significativo o rientrerà nel gruppo dei non rispondenti? E ancora... Come faccio a saperlo a priori e cosa devo rispondere al mio paziente quando mi pone questo genere di domande? E se non riesco nel mio intento terapeutico, cosa gli dirò? Forse che al lanciare in aria la monetina nella sperimentazione clinica, purtroppo è caduta sul lato della croce di coloro che non traggono alcun beneficio ? Per ottenere dei benefici in un singolo paziente, devo forse trattare un gran numero di soggetti per un lungo periodo di tempo e con un farmaco non privo di effetti secondari?
Tale pratica è positiva per la salute della popolazione in generale e in termini socioeconomici oppure è redditizia soltanto per coloro che la promuovono e finanziano? Esistono interessi poco confessabili, e a volte inconfessabili, che mascherano o rendono meno nobili le intenzioni di coloro che promuovono e finanziano la ricerca biomedica? Tutti e ognuno dei ricercatori medici si sentono davvero liberi al momento di lavorare per i promotori di studi clinici, nonostante non esista ciò che ha assunto il nome di "conflitto di interessi"? I ricercatori e i promotori sono dotati del rigore necessario a renderli affidabili o semplicemente servono per farsi scudo delle garanzie legali che concedono un insieme di consensi debitamente firmati? È meglio la ricerca multicentrica, multinazionale, in doppio cieco, confrontata al placebo, randomizzata, con inclusione di un gran numero di soggetti o è più autentica, per quanto più controllabile, quella che si realizza in un servizio specifico, di dimensioni più ridotte e con un minor numero di pazienti? I risultati con il "valore p statisticamente significativo" vengono diluiti, in definitiva falsati, quando negli studi clinici di grandi dimensioni si arruolano migliaia di pazienti? Oppure, sono più credibili i dati ottenuti da un'osservazione più diretta e limitata? Queste domande, dalle risposte dubbie e imprecise, sono le direttamente responsabili del fatto che le conclusioni trionfalistiche che si proiettano dai dati della ricerca di un dato studio siano smentite poche settimane o mesi dopo, rendendo non validi questi risultati tanto apoteosici e che tanta emozione avevano provocato nella classe medica. La bromatologia e la dietetica, ad esempio, hanno sofferto negli ultimi tempi talmente tanti andirivieni che l'uomo moderno non sa più ciò che deve o non deve mangiare. Ad esempio: l'olio d'oliva è stato vietato anni fa come dannoso per la salute, per poi essere in seguito innalzato agli altari della dieta più salutare e recentemente sta nuovamente perdendo posizioni per il rischio potenziale di favorire l'obesità e quindi il diabete e la morte cardiovascolare se ingerito in quantità "tanto eccessive" come due cucchiai al giorno. Le eccellenze sane del pesce sono attualmente messe in dubbio a causa dell'inquinamento evidente dei
mari con aumenti esagerati dei livelli di mercurio, che a sua volta potrebbe aumentare i tassi di infarto miocardico in coloro che consumano grandi quantità di pesce. Lo stesso potrebbe valere per alcune vitamine come la E o la C o di alcuni acidi grassi essenziali come gli omega 3. Nel settore farmacologico, ogni giorno scatta un allarme diverso. Personalmente, ho potuto sperimentare, come tanti altri colleghi, le aspettative ingenerate con determinati farmaci dotati di proprietà mediche assolutamente straordinarie alla luce delle osservazioni provenienti da studi in fase I e II e che in seguito non è stato possibile corroborare in fase III o IV, obbligando a volte a un ritiro precoce e rapido dalle farmacie, in base agli effetti negativi osservati o alle interazioni pericolose che provocavano con altri agenti farmacologici. Basti citare alcuni casi rappresentativi come le 52 morti per insufficienza renale, secondaria alla rabdomiolisi, che provocava la cerivastatina (probabilmente, la statina più potente per ridurre il colesterolo plasmatico fra tutte quelle note e usate in clinica) quando veniva somministrata in associazione con i fibrati. Oppure, i dati terribilmente scarsi dello studio FIELD che intendeva stabilire eccellenti proprietà di protezione cardiovascolare e alla fine è riuscito a dimostrare soltanto (aggrappandosi a un surrogate endpoint) che esercitava una certa protezione retinica dei pazienti diabetici con bassi livelli plasmatici di HDL-colesterolo. O ancora, le interazioni proibitive con altri farmaci cardiovascolari del farmaco "abortito", il Mibefradil, un antagonista dei canali T del calcio che si sperava sarebbe stato uno dei rimedi più efficaci per ridurre la pressione arteriosa elevata, ma che produceva gravi effetti negativi se associato ad altri 11 agenti farmacologici abitualmente utilizzati nella patologia cardiovascolare come calcio-antagonisti, digitale o betabloccanti. Ma la confusione per dogmi presumibilmente ancora intoccabili continua e si intensifica ai giorni nostri. Un esempio: da alcuni anni, l'aspirina (il farmaco forse più utilizzato nella storia della farmacologia) ha acquisito una delle sue più brillanti proprietà farmacologiche, l'antiagregazione piastrinica antitrombotica, cosa che ha generato ai suoi fabbricanti vendite multimilionarie e profitti incalcolabili. Alla luce dei numerosi studi clinici, che sarebbe troppo lungo citare, l'acido acetilsalicilico fu introdotto come un potente antiaggregante piastrinico molto efficace per ridurre la tromboembolia e pertanto la morbilità e mortalità ad alto rischio. L'antiaggregazione con aspirina fu raccomandata nella maggior parte delle Guide di buona pratica clinica americane ed europee. Questa indicazione includeva sia la prevenzione primaria sia quella secondaria, in
particolare nei pazienti con una anamnesi di malattia cardiovascolare, specialmente se presentavano anche altri fattori di rischio come il diabete mellito di tipo 2. Nessun medico mise in discussione queste raccomandazioni e tutti ci siamo attenuti fedelmente a queste proposte, consapevoli inoltre che l'aspirina non è un farmaco innocuo. In effetti, gli studi clinici da un lato e l'esperienza clinica dall'altro ci indicano molto chiaramente che l'aspirina, in molti casi, provoca emorragie digestive occasionalmente molto gravi, per non parlare della sindrome di Reye nell'infanzia, che è mortale. Recentemente, il British Medical Journal (BMJ 2008;337a:1840) presentava ai suoi lettori un lavoro realizzato su 1.276 malati diabetici con malattia cardiovascolare manifesta in cui l'aspirina, in termini di riduzione del numero di attacchi cardiovascolari e incidenti cerebrovascolari, si era dimostrata altrettanto efficace (o altrettanto poco utile) del placebo nella prevenzione degli accidenti tromboembolici e nella morbilità e mortalità cardiovascolare e cerebrovascolare. Il numero di emorragie digestive in questo studio era ovviamente più alto nel gruppo di trattamento attivo rispetto al gruppo placebo. Le domande che sorgono immediatamente sono: cosa c'è di vero in questo nuovo studio? Sono, di conseguenza, falsi i dati provenienti dagli studi precedenti? Bisogna dubitare delle Guide o magari le si dovrebbe riscrivere? Considerando il gran numero di pazienti (milioni in tutto il mondo) che assumono aspirina come prevenzione primaria e secondaria e tenendo conto della non trascurabile cifra di emorragie digestive, è giustificato l'uso di aspirina profilattica consapevoli dell'enorme numero di pazienti che saranno soggetti a un'emorragia gastrointestinale, all'unico fine di prevenire un'unica complicanza trombotica tra decine di pazienti in trattamento attivo? Lo stesso studio si propose inoltre di dare risposta a una domanda che negli ultimi tempi sta diventando insistente, e cioè: gli antiossidanti migliorano il profilo di rischio cardiovascolare di determinati pazienti? La risposta è stata chiara: No. Questo dato invalida tutte le informazioni accumulate negli ultimi tempi in relazione al presunto potere di protezione degli antiossidanti naturali e sintetici? A tutt'oggi, non si sa con certezza assoluta. L'unico dato positivo in questo caso è che non è stato nemmeno dimostrato che gli antiossidanti siano dannosi per la salute e se sono contenuti in alcuni alimenti sani (frutta, ortaggi ecc.) non esiste alcun motivo per non raccomandarli, ma allo stesso modo non esistono neanche argomenti incontrovertibili per consigliarli in modo così indiscriminato come ultimamente fa un settore alimentare eccessivamente interessato.
L'endocardite infettiva è una malattia molto grave, il che, di conseguenza, comporta alti tassi di mortalità. Pertanto, ai pazienti a rischio di endocardite batterica (pazienti valvolari o con prolasso della valvola mitrale, tossicodipendenza, AIDS, malattie degenerative ecc.) è stata raccomandata la terapia antibiotica profilattica in considerazione della possibilità di avere una porta di accesso infettiva per infezione orofaringea, urinaria, gastrointestinale, interventi di chirurgia dentale, generale, endoscopie, cateterismo ecc. che consente il aggio di determinati germi fino al sangue e che in seguito potrebbero stabilirsi nelle valvole cardiache distruggendole. Le Guide di buona pratica clinica sulle malattie valvolari delle Società americana, europea e spagnola di cardiologia hanno continuato a raccomandare insistentemente questa terapia antibiotica profilattica, che nessuno ha messo in discussione, nonostante la manifesta mancanza di evidenze cliniche, sostenuta e avvallata da studi clinici ben progettati. Recentemente, un gruppo di esperti americani, dopo una valutazione approfondita dell'argomento e l'esame di vari lavori clinici, è giunto alla conclusione che non esiste evidenza alcuna per sostenere la terapia antibiotica profilattica nei soggetti a rischio descritti in precedenza. E non si tratta di una cosa futile. Da un lato, l'abuso di antibiotici porta, come tutti sappiamo, alla resistenza batterica e all'inefficacia terapeutica allorché si rendano davvero necessari. Dall'altro, gli antibiotici non sono privi di effetti collaterali, spesso indesiderati e pericolosi. Infine, i costi sanitari per una terapia non necessaria e inutile impoveriscono le casse di un sistema sanitario che attualmente versa in condizioni precarie. E se ciò accade con i dati ottenuti negli studi clinici di grandi dimensioni, randomizzati, aleatorizzati, confrontati con placebo e in doppio cieco, cosa ci si può aspettare dalle affermazioni decise nei media a vasta diffusione in cui ci si garantisce, in base a osservazioni poco rigorose o ancor peggio a interessi spurii, che il tal o tal altro prodotto allunga la vita, che questo unguento miracoloso cura la psoriasi, che quella tecnica mesoterapica eliminerà la cellulite o che la dieta, carissima, "realizzata su misura" metterà fine al problema del sovrappeso in poche settimane "senza rischio alcuno per la salute e che inoltre, se non si è soddisfatti, sarà restituito il denaro"? Questi e altri dati giustificano abbondantemente la sfiducia che, da un lato, manifestano molti medici di fronte ai dogmi dettati dalle Guide di buona pratica clinica, quando tali raccomandazioni formulate dagli esperti alla fine basano la maggior parte delle loro proposte sui dati ottenuti attraverso questi grandi e
controversi studi clinici. Dall'altro lato, la sfiducia della popolazione generale, quando verifica il fiasco della maggior parte dei trattamenti e delle diete miracolose che vengono offerte senza esitazione grazie a un evidente vuoto legislativo. Un'impostazione eccessivamente bayesiana degli studi clinici potrebbe essere parzialmente responsabile della grande confusione che ne è conseguita. In quasi tutti gli studi di ricerca biologica e/o medica si suole tenere in eccessiva considerazione le variabili dell'ipotesi primaria, che a volte per comodità vengono a costituirsi nella variabile finale messa in evidenza, ma non ricercata in origine (torniamo ai surrogate endpoint come elementi alternativi "chiave" e ai quali faremo riferimento ampiamente più avanti). Conseguenza di ciò sono le inaccuratezze invalidanti dei risultati finali al non attenersi strettamente al primary endpoint. I ricercatori, coscienti di tali limiti, studiano vari modi per ridurre le inaccuratezze, in modo che i risultati rendano più credibili le conclusioni, ma la realtà indica, sfortunatamente, che non sempre è così. A volte, gli allarmi saltano in altri settori, confondendo straordinariamente il medico nella sua pratica clinica. All'inizio dell'epidemia, ci fu assicurato che in pochi anni l'AIDS avrebbe causato la morte di metà della popolazione mondiale, che era una malattia di proporzioni bibliche per la quale non vi era trattamento alcuno. Oggigiorno, fortunatamente, sappiamo, grazie agli antiretrovirali, in che modo un paziente con immunodeficienza acquisita può condurre una vita con una qualità accettabile e in che modo si sono modificate le sue aspettativa di vita. Allo stesso modo, fummo informati che il morbo della mucca pazza (l'encefalopatia spongiforme bovina di Creutzfeldt-Jakob) avrebbe portato alla morte di coloro che avessero consumato carne di vitello e questa, pertanto, avrebbe dovuto essere eliminata definitivamente dalla dieta, vista l'impossibilità di verificare controlli preventivi efficaci. Per fortuna, la realtà è molto diversa. In un altro filone, si ammise che l'omosessualità era la conseguenza inevitabile della traslocazione di un particolare gene o che il tabacco potrebbe ridurre l'elevata prevalenza attuale del morbo di Alzheimer. Attualmente, molte di queste tesi avventate vengono smontate, semplicemente, basandosi sull'evidenza clinica e l'osservazione ragionevole. Di contro, solo pochi anni fa si disse, trionfalmente, che grazie all'acido isonico, all'acido paraminosalicilico (PAS) e alla Rifampicina, la tubercolosi non solo
non sarebbe più stata un problema medico nel mondo sviluppato, ma che sarebbe rimasta una stranezza storica del ato. La realtà attuale ci dimostra che potenziata dall'AIDS, dalla terapia antibiotica fuori controllo, dai movimenti migrazioni di massa, dalla miseria e da altri problemi, la tubercolosi si è rinvigorita con una forza e una prevalenza tali da renderla nuovamente uno dei problemi di salute pubblica più gravi. Sono convinto che sotto molti aspetti la società attuale sta precedendo la classe medica in determinati concetti strettamente collegati alla salute e ancor di più alla qualità della vita. La classe politica responsabile delle questioni sanitarie, a volte, fugge terrorizzata di fronte agli avvenimenti nel tentativo di salvare le sue eventuali responsabilità al fine di garantire una conservazione della sua immagine e attività. Possiamo vedere il caso più evidente in questi giorni con la tanto sfruttata influenza suina, ridenominata come influenza A. Ogni giorno si dicono cose nuove e le strategie terapeutiche e preventive cambiano quasi da un'ora all'altra. I medici sono sconcertati e ancor di più lo sono i cittadini. All'inizio, di fronte alle prime morti in Messico e Argentina, si disse che la popolazione mondiale sarebbe stata decimata da questa virosi. Ora, e alla luce dell'evoluzione clinica, è stato riazzerato tutto per dire che la sua morbilità e mortalità globali non saranno più elevate di quella dell'influenza stagionale. La questione della vaccinazione antinfluenzale resta tuttavia molto confusa. Non si dispone di certezze sul numero delle dosi da somministrare, sulla loro specificità, efficacia, interazioni e soprattutto sui vari gruppi di rischio ai quali dovrebbe essere somministrata. Dal mio punto di vista, potrebbe essere rischiosa una preparazione così rapida come quella che conduce l'industria farmaceutica per "arrivare in tempo". Ma a tempo per cosa? Per non perdere quote di mercato quando l'influenza ha già effettuato le sue due ondate e la vaccinazione non è più necessaria? Negli anni '70, un giovane soldato americano morì in conseguenza di una strana virosi, ma non senza prima contagiare alcuni dei suoi camerati della caserma. In questi ultimi, il processo virale fu banale e privo di complicanze. Non si verificarono ulteriori morti. Quando si analizzarono le caratteristiche dell'agente causale, risultò essere un virus del gruppo H1N1 (parente di quello attualmente causa dell'influenza A). Strutturalmente, era simile al virus che provoca l'influenza suina e aviaria, ma non più offensivo rispetto ai loro omologhi.
Allarmati, i responsabili della Army americana e pressati dal loro presidente Gerald Ford, si affrettarono a preparare, nel minor tempo possibile, una vaccinazione contro quel processo virale che fu rapidamente somministrata a tutto l'acquartieramento. I risultati non furono positivi. La rapida preparazione di quella vaccinazione non consentì un adeguato ammortizzamento dei componenti virali necessariamente attenuati per generare anticorpi antinfluenzali in grado di preparare la lotta al sistema immunologico dei vaccinati e successivamente contagiati. Tuttavia, fu allarmante che nel periodo postvaccinazione si osservassero alcune encefaliti non gravi e sindrome di Guillain-Barré (crescente paralisi flaccida) a evoluzione favorevole. Il decorso clinico dei soggetti colpiti da quella influenza non rivestì alcuna gravità. Molti governi stanno accantonando a un prezzo molto elevato grandi quantità di antivirali (Tamiflu), il cui utilizzo ha già mostrato una bassa attività terapeutica curativa e nessun effetto preventivo. Ciononostante, è utile segnalare le altissime quotazioni in Borsa che si sono prodotte a vantaggio delle case farmaceutiche produttrici di questo tipo di farmaci dall'annuncio dei suoi "possibili benefici" nel trattamento dell'influenza A con complicanze. In un altro filone, oggigiorno, ad esempio, stiamo osservando uno sviluppo positivo verso stili di vita ancestrali che rendono quest'ultima più naturale e confortevole senza peraltro comportare alcun rischio per la salute. In Finlandia è comune per molte donne partorire nelle saune, allo stesso modo in cui alcune europee fanno venire al mondo i loro figli in accoglienti vasche da bagno con acqua calda, così come molte donne americane hanno deciso di dare alla luce i loro bambini a casa propria assistite da altre persone della famiglia e in un ambiente assolutamente affettuoso e intimo. Indubbiamente, il meraviglioso avvenimento che comporta l'arrivo di una nuova vita nella famiglia si celebra in modo più positivo e festivo in un ambiente intimo che nelle fredde e impersonali mura delle nostre moderne e asettiche sale parto. Chi scrive questo libro, figlio di un pediatra, nacque nello stesso letto in cui probabilmente fu concepito dai suoi genitori e, come lui, venirono al mondo i suoi cinque fratelli. Non ho mai saputo che mia madre, i miei fratelli o io stesso soffrissimo di alcuna complicanza perinatale grave. Al contrario, immagino che l'atmosfera carica di emozioni, di acqua e panni caldi, di andirivieni, di fretta e sguardi circospetti e complici tra la levatrice e l'ostetrico, fero di quell'evento tanto naturale e sublime una festa che nessuno avrebbe mai dimenticato.
Con quanto detto prima, non intendo smontare o delegittimare i progressi della medicina. Al contrario, a tal fine basti ricordare che le aspettative di vita all'inizio del secolo XX superavano appena i 40 anni. Le infezioni costituivano la principale causa di mortalità, allo stesso modo in cui l'appendicite acuta stroncava inesorabilmente molte giovani vite; la fame endemica favoriva lo sviluppo di numerose malattie da carenza che non esistono più e la sopravvivenza alle malattie infantili era considerata un vero e proprio miracolo. Le vaccinazioni hanno costituito probabilmente il maggior progresso della scienza medica in tutta le sua storia; per fare soltanto qualche esempio, ricordiamo il vaiolo, il tetano, la difterite, la pertosse, la poliomielite ecc. Le nuove vaccinazioni contro la malaria, la malattia di Chagas, o tripanosomiasi americana, oppure la stessa AIDS comporteranno nuovi successi medici di proporzioni inimmaginabili. La vita si è allungata straordinariamente nel secolo scorso e si prevede continui ad allungarsi nel corso di quello attuale, ma ciononostante si dovrebbero collocare alcuni punti fermi per non peccare di eccessivo trionfalismo.
AIDS ed EVD
Mi consenta il lettore ora, per motivi di urgente attualità, di dedicare alcuni paragrafi alla terribile epidemia del virus Ebola che, al pari di quello dell'AIDS all'epoca, minaccia di trasformare l'attuale epidemia in una pandemia universale con conseguenze imprevedibili. La febbre emorragica Ebola, solitamente nota come malattia del virus dell'Ebola (EVD), è un processo infettivo molto contagioso e molto grave, che colpisce sia gli esseri umani sia gli altri mammiferi. L'agente causale appartiene alla famiglia dei filovirus, la cui situazione tassonomica è condivisa dal virus di Marburgo. Il suo nome deriva dal fiume Ebola, un affluente del Mongala e pertanto del fiume Congo, il cui percorso è relativamente breve nella zona a nord di quella che oggi è la Repubblica Democratica del Congo, in altri tempi nota come Zaire. Fu rilevato per la prima volta nel 1976 in una delle grandi epidemie mortali del continente africano. La sua individuazione mediante test sierologici è altamente affidabile, sebbene occorra attendere un periodo di incubazione variabile tra due giorni e tre settimane, e abitualmente, dopo il contagio la sintomatologia florida nella maggior parte dei casi fa la sua comparsa nel giro di una settimana. La struttura dimensionale del virus Ebola è pleomorfica, cioè variabile e mutevole. I virioni (code) hanno un aspetto filamentoso e possono raggiungere lunghezze davvero notevoli (14.000 nanometri) per essere un virus minuscolo. Il suo genoma è costituito da un'unica molecola di RNA le cui informazioni sono codificate in sette proteine che configurano il virione. Si pensa che i pipistrelli frugivori, in particolare quelli noti come Hypsignathus monstrosus, Epomops franqueti e Myonycteris torquata, siano gli ospiti abituali del virus Ebola e di conseguenza i suoi trasmettitori per il contagio tra animali ed esseri umani. Ciò è ribadito dalla tesi secondo cui nei luoghi in cui tali pipistrelli sono comuni la prevalenza della malattia Ebola è significativamente più elevata. Il virus si trasmette attraverso il contatto diretto con i fluidi corporei infetti, in particolare attraverso il sangue, l'urina, il vomito, la saliva, il sudore, sia di esseri umani, viventi o morti, sia di animali, anch'essi vivi o morti. Le modalità di sepoltura di alcune tribù africane dove i parenti entrano in stretto contatto con il
cadavere potrebbero essere, come è stato suggerito, una delle principali fonti di infezione. In alcuni casi, l'infezione sembra essere stata associata alla manipolazione di alcune scimmie, come scimpanzé, gorilla, babbuini e alcuni ruminanti come antilopi e gazzelle o altri animali infetti come istrici, che sarebbero stati trovati morti o malati nella giungla, sebbene prevalga la tesi che sarebbero i pipistrelli frugivori i principali vettori della trasmissione e del contagio. Dopo che il virus ha infettato l'essere umano, si propaga mediante la trasmissione da una persona all'altra per contatto diretto con i fluidi citati in precedenza: sangue, urina, secrezioni ecc., oltre che con materiali che sono stati a contatto con il paziente o con i sui fluidi contaminati. Come l'AIDS, nella febbre emorragica da virus Ebola (EVD), i maschi possono trasmettere la malattia attraverso lo sperma, sia che condividano l'abitazione con una donna o un uomo, perfino dopo due mesi dopo aver raggiunto la guarigione clinica della malattia. Pertanto, in questa malattia infettiva come nella sindrome da immunodeficienza acquisita, la prevenzione attraverso l'uso di preservativi è fondamentale per evitare il contagio durante il coito o altre modalità di attività sessuale in cui le mucose e i fluidi corporei possano entrare in contatto. Non è raro il contagio tra pazienti e personale medico quando quest'ultimo non ha adottato le misure profilattiche che dal 1979 sono state emanate dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Nella prima grande epidemia africana del 1976 morì circa il 92% dei soggetti infettati, pertanto si arrivò a considerare la malattia del virus Ebola come una delle più mortali mai conosciute. Il primo caso di quella che era allora definita febbre emorragica di origine sconosciuta si verificò il 26 agosto 1976 a Yambuku, una città a nord del Congo (Zaire) attraversata dal fiume Ebola prima che questo sfoci nel Mangala. Si trattava di un maestro elementare di 44 anni, che al ritorno da un viaggio nel nord dello Zaire presentò febbre elevata e un malessere generale, per cui gli si diagnosticò un grave caso di malaria e, di conseguenza, lo si trattò in maniera inefficace con chinino. Lo stato di salute del maestro, che si chiamava Lokela, lungi dal migliorare si aggravava di giorno in giorno. Nel giro di una settimana, fecero la loro comparsa vomito incontrollabile, prima alimentare e in seguito emorragico, cefalea intensa, diarrea con abbondante rettoragia, ematomi generalizzati, epistassi, una notevole astenia generalizzata, crampi muscolari, dolori articolari, stato di confusione mentale e, infine, collasso cardiorespiratorio, renale, epatico e il decesso. Dopo orribili sofferenze, morì l'8 settembre 1976, appena due settimane dopo aver manifestato
i primi sintomi di quella che fu erroneamente considerata come una febbre quartana. I sintomi clinici variano a seconda delle persone, sebbene nella maggior parte dei soggetti l'insorgenza più comune è di tipo improvviso, con febbre alta (oltre i 38,5º C), stato di spossatezza generale, astenia, dolori muscolari e articolari intensi, vomito e diarrea. Già dopo pochi giorni compaiono ematomi in tutta la superficie della pelle e, contemporaneamente, emorragie digestive con grande espulsione di sangue dalla bocca e dal retto. I pazienti finiscono per morire in uno stato di shock ipovolemico conseguente a una grave anemia e per collasso multiorganico generalizzato di cuore, polmoni, reni, fegato e cervello. Dal punto di vista analitico, la malattia è caratterizzata da una drastica riduzione del numero di piastrine e leucociti e da un significativo aumento delle transaminasi epatiche come espressione di un grave danno al fegato.
Esistono dei nessi che colleghino il virus dell'AIDS con quello dell'EVD?
A tutt'oggi, esistono degli enigmi inspiegabili sulla trasmissione virale dell'Ebola, al pari di quanto successe all'epoca con l'AIDS. Allora, si seppe che alcune prostitute keniote che non utilizzavano preservativi nei loro rapporti sessuali con uomini contagiati dall'HIV non contrassero la malattia. Il dato fu tanto rilevante e incoraggiante che si iniziarono perfino degli studi di carattere immunologico con queste donne per cercare di trovare delle risorse biologiche che consentissero la creazione di vaccini contro una malattia che fece milioni di vittime in tutto il mondo, grazie alla sua rapida espansione e ai suoi meccanismi iniziali di trasmissione e contagio allora sconosciuti. Potrebbe star succedendo qualcosa di simile con il virus Ebola. Nemmeno i dipendenti di fattorie africane che lavorano con maiali infettati dal virus Ebola hanno sviluppato i sintomi tipici della malattia, nonostante i loro test sierologici abbiano dato risultati positivi per il contagio. La stessa cosa si è verificata con persone che sono state a contatto con scimmie e altri primati infetti in cui sono stati registrati vari casi di infezione virale senza lo sviluppo dei sintomi tipici della malattia mortale. Pertanto, si potrebbe ipotizzare che alcune specie animali abbiano minore capacità di altre di provocare la malattia nell'essere umano o che il aggio continuato del virus attraverso di esse potrebbe ammortizzare l'impatto contagioso trasformando l'agente virale in una sottospecie più tollerabile per l'uomo e, in definitiva, meno mortale. Di conseguenza, sarebbe un dato che i ricercatori dovrebbero tener presente al momento di progettare vaccini contro la malattia attraverso dei aggi biologici intermedi come faceva già Pasteur quando produsse il primo vaccino contro il virus del vaiolo. Tuttavia, i dati esistenti finora su questo argomento fanno semplicemente riferimento ad adulti sani, pertanto risulterebbe prematuro estrapolarli a tutti i gruppi di popolazione, in special modo ai pazienti immunologicamente depressi o con gravi malattie concomitanti, cardiache, polmonari, metaboliche ecc. e lo stesso vale per bambini e donne in gravidanza. Paradossalmente, e di contro, altri studi hanno dimostrato che la mortalità tra gorilla vicini si incrementa in modo esponenziale a mano che la malattia si trasmette da un animale all'altro. La morte di 5.000 gorilla in una determinata zona dell'Africa rende evidente che la
trasmissione tra famiglie di gorilla amplificherebbe la morbilità e la mortalità dell'EVD. Con le sue similitudini con il virus dell'AIDS e dell'EVD, a parte la sua resistenza alle terapie antivirali, agisce, da un punto di vista patogenico, in maniera simile a quello dell'AIDS, inducendo una disattivazione completa del sistema immunitario che lascia il paziente incapace di reagire non solo di fronte allo stesso virus, ma anche di fronte all'arrivo di germi opportunisti che provocano processi patologici collaterali in grado di ampliare la pleiotropia del quadro clinico, precipitando la fine del paziente. Ancora non si sa se nella cronicità dell'EVD compariranno tumori del tipo sarcoma di Kaposi così come succede con l'AIDS. Come avviene con l'AIDS, nell'EVD la trasmissione per via sessuale è un altro dei modi abituali di contagio e che rendono le due malattie simili; in ragione di tale similitudine, obbligano a una profilassi simile mediante l'uso di preservativo in qualsiasi tipo di rapporto sessuale.
Qual è il presente e quale futuro ci aspetta di fronte all'EVD?
In questo 2014 che stiamo vivendo, è scoppiata la più grande epidemia di malattia dell'Ebola della storia, con la Sierra Leone, la Liberia, la Nigeria e la Guinea-Conakry fra i Paesi più colpiti, cioè le zone da cui la malattia ha avuto origine e si è diffusa. L'8 agosto 2014, la OMS ha considerato l'epidemia come "un'emergenza pubblica sanitaria su scala internazionale", raccomandando misure eccezionali per arrestarne l'espansione globale, nel tentativo di prevenire una pandemia di proporzioni imprevedibili e gravissime. Questo organismo sanitario internazionale richiedeva ai Paesi maggiormente colpiti di dichiarare l'epidemia come una grave emergenza nazionale, facendo contemporaneamente un appello alla solidarietà internazionale per la prevenzione, il controllo, l'aiuto e la ricerca delle risorse mediche necessarie per fermare l'inarrestabile avanzamento del processo che potrebbe tranquillamente provocare la morte di milioni di persone in tutto il mondo. Finora, sono stati registrati oltre mille morti per un'epidemia che minaccia di espandersi ampiamente in assenza di risorse preventive o curative. Negli ultimi giorni, sono stati trasferiti ad Atlanta (Stati Uniti) e in Europa (Spagna) i primi colpiti dall'EVD per poterli trattare con migliori risorse mediche, tra cui un nuovo trattamento in fase sperimentale (ZMapp). Si tratta di un siero fabbricato a Ginevra (Svizzera) che è risultato essere efficace nelle scimmie, ma che non ha dimostrato la sua utilità sugli esseri umani. A fronte dell'aggressività del virus e dell'assenza di vaccino e di un trattamento specifico ed efficace, la malattia è stata classificata al livello 4 di rischio nella sua trasmissione naturale e la sua elevata mortalità. Ciò ha comportato inoltre la catalogazione del virus da parte del Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie come agente per il bioterrorismo, data la sua elevatissima pericolosità come arma nella guerra biologica. Per le sue caratteristiche di efficacia nel produrre una rapida letalità e per il suo facile contagio, le sue conseguenze sarebbero più mortali di qualsiasi arma convenzionale, comprese quelle atomiche.
L'EVD è già arrivata al continente europeo attraverso la Spagna. Miguel Pajares, un missionario spagnolo di 75 anni che si trovava nella Repubblica di Liberia, iniziò a mostrare i sintomi della malattia dopo un contatto continuato con pazienti colpiti nel suo centro di accoglienza. Quando i sintomi furono evidenti in modo allarmante, si recò a farsi vedere da un medico, che confermò la presenza del virus nel plasma sanguigno del religioso. Il paziente fu rimpatriato in Spagna in un aereo della Forza aerea spagnola corazzato per evitare il contagio. Disgraziatamente, e come si temeva, nonostante il trattamento con il siero svizzero, egli morì dopo pochi giorni dal ricovero, il 12 agosto 2014. Sia i mezzi di trasporto utilizzati, sia il personale sanitario che ebbe contatti con il paziente, oltre che l'unità clinica in cui fu ricoverato e morì seguirono scrupolosamente le misure preventive indicate dalla OMS tempo prima per evitare il contagio. Tutto il personale che ebbe contatti con il paziente è sottoposto a un rigoroso protocollo di osservazione e followup. Il cadavere fu cremato.
Esiste una cura per l'EVD?
In questo 2014, negli Stati Uniti d'America è stato sperimentato un siero su due persone contagiate da questo virus nella speranza che possa essere la cura per questa malattia. I dettagli del protocollo utilizzato non sono noti. Anche in Spagna è stato utilizzato questo siero sul missionario Pajares, che morì per collasso multiorgano due giorni dopo l'inizio del trattamento. Al contrario di quanto si credeva inizialmente, il siero disattivato dei pazienti colpiti dalla malattia e successivamente guariti non è risultato efficace come vaccino. Il virus Ebola, come molti altri virus, non solo non ha cura, ma neanche esiste un trattamento specifico che ne possa alleviare gli effetti e migliorare le aspettative di vita delle persone colpite. Attualmente, esiste soltanto un trattamento di mantenimento e sostegno a base di terapie generali che riducono al minimo qualcuno dei suoi sintomi, con reidratazione parenterale, antitermici, analgesici, antiemetici e antidiarroici, sostegno cardiopolmonare e di medicina intensiva, con particolare attenzione all'isolamento del paziente e alla protezione degli operatori sanitari, con una cura estrema del contatto diretto con il paziente, delle sue secrezioni e fluidi corporali, data l'elevata contagiosità. In alcuni centri di medicina infettiva ed epidemiologici sono riusciti a produrre un vaccino contro il virus Ebola disattivato montato su virus del raffreddore comune. E anche se sembra aver avuto successo sui ratti e le scimmie, non esistono dati sugli esseri umani. Ciò ha dato speranza a tutti coloro i quali vivono nelle zone in cui l'Ebola è endemico e può essere il primo o per l'elaborazione di nuovi vaccini. Nel Congresso internazionale di botanica del 1998 si annunciò che un estratto della Garcinia Kola, un albero dell'Africa occidentale utilizzato da guaritori locali in altre malattie, arrestava la crescita del virus in prove di laboratorio. Nonostante ciò, a tutt'oggi non sono state realizzate prove con animali o esseri umani. Nessuno si spiega perché non sia stato dato seguito a questa stimolante linea di ricerca i cui risultati iniziali in vitro hanno dato riscontri incoraggianti. Il siero sperimentale fabbricato negli Stati Uniti dall'azienda di biotecnologia Mapp Biopharmaceutical Inc. è un anticorpo monoclonale murino proveniente da ratti esposti a frammenti del virus. Per fabbricare il farmaco, sono stati raccolti gli anticorpi formati in risposta nell'organismo dei topi. In base alle
informazioni ricevute dal centro scientifico, il risultato è stato positivo e incoraggiante e al 9 agosto 2014 due pazienti colpiti da EVD sono ancora vivi e sotto osservazione e trattamento. D'altro canto, la società canadese Tekmira Pharmaceuticals ha sviluppato un farmaco chiamato TMK-Ebola i cui risultati sono stati soddisfacenti nel trattamento delle scimmie infettate da EVD. Sempre nell’gosto del 2014, il laboratorio farmacologico NewLink Genetics Corp., dello Iowa, ha assicurato di aver avviato esperimenti su esseri umani con un vaccino che si è dimostrato efficiente al 100% nella prevenzione dell'infezione nei primati, ma non negli essere umani. Data la diffusione della malattia e le sue terribili conseguenze, con una mortalità ad oggi del 90 % delle persone infette, qualsiasi iniziativa terapeutica sarà sempre ben accolta dalla comunità internazionale. La OMS realizza un followup continuo della malattia e della sua espansione, fornendo documenti di orientamento per la sua prevenzione. Poiché non esiste un vaccino per animali o esseri umani, si raccomanda di evitare il contagio mediante la massima igiene, fino alle estreme conseguenze, mettendo in atto contemporaneamente le massime misure cautelari nel flusso transfrontaliero dei soggetti provenienti da zone ad alto rischio, oltre che la movimentazione tra fattorie di animali sospetti e la loro vendita nei mercati. Parimenti, negli allevamenti di bestiame in cui si allevano animali potenzialmente portatori, si raccomanda l'uso di agenti disinfettanti come l'iposolfito di sodio e detergenti di efficacia provata, non esitando a sacrificare gli animali infetti o sospetti, con la successiva e immediata cremazione dei cadaveri. Tornando al discorso precedente, devo dire che, nei miei molti anni di ricercatore clinico, non sono riuscito a dare una risposta tranquillizzante o coerente a molte delle inquietanti domande qui formulate. Nelle pagine a seguire ci occuperemo in dettaglio di ciascuna di esse, non allo scopo di fornire una risposta decisiva e valida, bensì di stimolare la coscienza del lettore, con speciale interesse verso coloro che si occupano di ricerca biotecnologica o i giovani medici che si sentono molto giustificatamente attratti da questo entusiasmante disciplina del sapere. Desidero inoltre che il pubblico in generale, che è in definitiva il destinatario dei progressi medici, sia a conoscenza di quanto succede nel settore della ricerca medica, poiché, in fin dei conti, è quello che, attraverso il suo voto, potrà stimolare lo sviluppo della scienza e che con il suo atteggiamento determinerà il percorso futuro in cui occorra cercare la verità scientifica.
A tal fine, ho preparato questa monografia che è destinata sia a medici e pazienti sia alla popolazione generale, nella quale ho cercato di usare un linguaggio colloquiale, non eccessivamente tecnico, comprensibile ai più, sebbene a volte la terminologia possa sembrare poco familiare o perfino strana.
1.- COS'È UNO STUDIO CLINICO?
Nel corso di tutti questi anni, ho sentito definizioni varie e molto diverse fra loro su ciò che sta realmente dietro questa parola, quasi magica, che a sua volta traduce le conclusioni dell'osservazione medica: Lo studio clinico La definizione che maggiormente potrebbe adattarsi alla realtà è quella che definisce uno studio clinico come "un'esperienza di osservazione medica in cui, partendo da un'ipotesi non dimostrata, intende, attraverso uno studio prospettico, mettere a confronto due gruppi di pazienti omogenei per sapere se uno di essi, trattato attivamente con un determinato procedimento, mostra dei benefici non osservabili nell'altro gruppo di controllo, sottoposto all'azione di un placebo o di un trattamento medico routinario, convenzionale e presumibilmente migliorabile". Sebbene nella definizione stessa si parli implicitamente di farmaci, alcuni studi clinici tentano di conoscere il possibile effetto benefico di altri trattamenti e raccomandazioni mediche, come determinate diete, tipi diversi di esercizio fisico, utilità di determinati accessori medici come protesi, segnai, defibrillatori impiantabili, tecniche chirurgiche, molle per angioplastica (stent), ecc. In qualsiasi di questi casi, quando in queste pagine facciamo riferimento agli studi clinici, il lettore dovrebbe tener presente che l'autore di questo libro si riferisce sempre agli studi di ricerca medici basati sull'azione di agenti farmacologici per costituire ai giorni nostri il paradigma di ciò che rappresenta nello studio clinico per antonomasia. Uno studio clinico ortodosso è, secondo quanto si deduce dalla definizione stessa, uno studio che mette a confronto un gruppo di pazienti problematici con un altro gruppo di controllo con le sue stesse caratteristiche e che segue un trattamento convenzionale, intendendo come tale, quel piano terapeutico che ha dimostrato abbondantemente la sua reiterata utilità medica, sebbene resti inteso che potrebbe essere migliorato con altri approcci farmacologici distinti e innovativi. Il gruppo di studio solitamente si chiama gruppo di trattamento attivo, poiché gli si somministra un farmaco dai benefici clinici supposti, sebbene non del tutto dimostrati; l'altro gruppo, ovviamente, si chiama gruppo di controllo o gruppo placebo nel caso in cui si aggiunga al trattamento
convenzionale una sostanza farmacologicamente inattiva, ma dall'aspetto molto simile al farmaco attivo.
Tipificazione degli studi farmacologici
Esistono vari modelli di studio clinico, ciascuno dei quali ricerca aspetti e fasi diversi, sempre riferiti a un farmaco in concreto, dopo che quest'ultimo è stato sufficientemente provato in uno scenario di sperimentazione animale. La prova su animali idonei dell'azione e degli effetti dei farmaci è un aggio prerequisito da compiere obbligatoriamente, ma data la variabilità biologica e le differenze, sebbene scarse, esistenti tra i ceppi animali e l'uomo, uno studio clinico deve essere sempre investigato in modo esaustivo sull'uomo, sia su volontari sani sia su pazienti affetti dal processo sul quale si desidera controllare l'azione del farmaco. Studio in fase I Dopo che l'agente ha dimostrato la sua efficacia e buona tolleranza sugli animali, si seleziona un piccolo numero di volontari sani, solitamente maschi. In questa fasi si ricercano prevalentemente tre aspetti: tolleranza e tossicità, farmacocinetica e intervallo approssimativo di dosaggio terapeutico. Studio in fase II Se il farmaco ha superato correttamente i test della fase I, si ricercano gli stessi effetti della fase precedente, ma in soggetti affetti dalla malattia che si intende combattere con l'azione dell'agente terapeutico. Si fa in modo che questo gruppo di pazienti sia omogeneo in termini di caratteristiche demografiche, includendo sia donne sia uomini, in un numero ridotto (non oltre 100-150). In questa fase dello studio, solitamente si confronta l'agente in questione con altri farmaci di provata efficacia. Come nella fase I, in questa si studiano aspetti correlati alla tolleranza/tossicità, efficacia terapeutica e dosaggio minimo efficace. Studio in fase III La fase III rappresenta i tipici studi clinici ai quali facciamo riferimento in questa monografia. Una volta superate le fasi I e II, l'agente viene somministrato a numerosi pazienti (tra 250 e 10.000) in base a un protocollo prestabilito, consensuale e approvato da vari comitati, ai quali solitamente partecipano molti ricercatori di vari centri medici nazionali e internazionali. Si tratta di ciò che oggi è noto con il nome di megastudi, le cui conclusioni servono da base per le applicazioni farmaceutiche future. Le caratteristiche di questi studi sono molteplici e vi faremo riferimento nel prosieguo.
Studio in fase IV Noti come studi di farmacovigilanza, compiono ricerche su aspetti clinico-terapeutici, tossici e di interattività dopo l'avvenuta commercializzazione dei farmaci. Fondamentalmente, il loro scopo è quello di osservare gli effetti secondari non rilevati in precedenza, l'associazione con altri farmaci, le modificazioni nel dosaggio e le nuove applicazioni. Per quanto riguarda il loro tracciato e durata, gli studi possono essere retrospettivi (analizzano i dati contenuti nei database medici raccolti in ato), trasversali, cioè quelli che analizzano i dati raccolti in un momento preciso, ad esempio: cento medici realizzano una ricerca su 10 pazienti del proprio ambulatorio abituale dei dati specifici in un dato giorno. Si tratta di studi poco rivelatori per la loro eterogeneità e le inaccuratezze incontrollabili ai quali sono soggetti. Si utilizzano per ottenere una "istantanea" di ciò che accade nella pratica medica di routine. Gli studi prospettivi sono i più affidabili ed elaborati e raccolgono dati che perseguono un obiettivo concreto in un tempo predeterminado di ricerca. Ovviamente, occorre ricordare che i principi etici di uno studio clinico, tipificati in dettaglio nella Dichiarazione di Helsinki e successivamente rivisti dalla Convenzione del Consiglio d'Europa di Bioetica, tentano di ottenere le maggiori e migliori informazioni mediche, con i minori fastidi per il soggetto che volontariamente entra a far parte del gruppo di uno studio clinico e, naturalmente, riducendo al minimo i possibili rischi. Fermo restante quanto detto in precedenza, questi principi della Dichiarazione di Helsinki sono stati sottoposti nel corso degli ultimi anni a continue revisioni e modifiche in base alle irregolarità e a determinati vuoti di contenuto legislativo che era necessario implementare. Ciò è ribadito nella certezza che "non tutto è perfetto" e che l'antico detto scolastico "primum non nocere" (innanzitutto, non nuocere) obbliga a continue revisioni delle pratiche mediche per fare del vecchio principio etico un'autentica realtà che protegga integralmente il benessere della popolazione sana e soprattutto di quella malata. Attenendosi alle basi dell'ortodossia di un buono studio clinico, questo dovrebbe essere, per ridurre al minimo le inaccuratezze, aleatorizzato/randomizzato, semplice, in doppio o triplo cieco, confrontato a placebo, di gruppi paralleli e omogenei e a volte a design multifattoriale. Inoltre, è necessario che il protocollo sia consensuale per tutti i partecipanti della ricerca e che lo studio sia controllato rigorosamente da vari comitati di tipo scientifico ed etico. Teoricamente, dovrebbe essere sovvenzionato dai governi, dalle università o dagli ordini
professionali, ma la realtà è che la mancanza di risorse da un lato e lo scarso interesse dei politici dall'altro per questo tipo di attività obbliga l'industria farmaceutica o di elettromedicina a fornire i finanziamenti di alcuni progetti a profilo solitamente compromesso, dai risultati imprevedibili e incerti, a lunga durata e sicuramente costosi. É vero che questo modello di studio clinico, suddividendo i suoi profili in modo rigido, diminuisce le possibili inaccuratezze, ma non è meno vero, inoltre, che lo scenario in cui si svolge non riproduce fedelmente la realtà dell'ambulatorio medico di ogni giorno, per cui molti ricercatori stanno proponendo progetti di ricerca "più naturali", più fedeli a ciò che noi medici siamo abituati a vedere nei nostri ambulatori. È una questione spinosa e non facile da implementare, che inoltre darebbe luogo a un dibattito eccessivamente prolisso che travalica lo scopo perseguito in queste pagine. Ma, detto questo, dovremmo sfumare semplicemente uno degli aspetti più controversi di uno studio clinico. Vediamo: nella proposta di gruppi di uno studio clinico, si selezionano i pazienti in base a determinati criteri di inclusione molto selettivi e se ne eliminano altri in base a determinati criteri di esclusione molto restrittivi. I pazienti inclusi solitamente hanno un profilo clinico che a volte definiremmo come clinicamente light. Ad esempio: la maggior parte degli studi in ipertensione arteriosa includono solo pazienti con valori di pressione leggermente elevati ed escludono quelli la cui pressione arteriosa sia superiore ai valori sopra i 180 mmHg per la pressione massima o i 110 mmHg per quella minima. La stessa cosa succede con il diabete; i diabetici a difficile controllo raramente sono adatti all'inclusione in uno studio clinico. Al contrario, i criteri di esclusione sono applicati a pazienti con malattie gravi, complicate o terminali. È abituale che in molti studi clinici occorra fare periodi di lavaggio (wash out) in cui i pazienti devono abbandonare il farmaci che assumono solitamente e che solitamente durano 2-4 settimane. Queste pratiche, che a volte potrebbero essere dannose, si realizzano obbligatoriamente su approvazione dei comitati etici. In molti studi, soprattutto quelli realizzati in ato, solitamente le donne, i giovani e gli anziani sono esclusi. Ovviamente, una selezione così rigorosa invalida di per sé stessa il risultato pratico e rende poco utili per il medico le conclusioni finali. Tutti i medici sanno in che modo i nostri ambulatori sono pieni di pazienti
complicati, ipertesi gravi, diabetici difficili da controllare, malati di tutte le età, sesso e condizione sociale e culturale, i cui profili patologici solitamente sono abbastanza lontani da quelli abitualmente ammessi in studi clinici molto specifici i cui risultati, nel caso fossero positivi, saranno successivamente raccomandati alla classe medica come straordinariamente utili. E perdipiù, e come detto in precedenza, tali conclusioni spesso sono pubblicate su riviste mediche di indubbio prestigio o raccolte nelle Guide di buona pratica medica, il che quasi "obbliga" professionalmente il medico ad adottarle nella sua pratica medica, sebbene i profili del progetto dello studio siano stati molto lontani dalla realtà clinica quotidiana dell'ambulatorio. Il progetto dei nuovi studi clinici solitamente viene impostato prevedendo l'inclusione di un gran numero di pazienti. Ciò già di per sé fa sì che i risultati delle macrocifre possano risultare più facilmente con significato statistico positivo. È ovvio: più numeri si giocano alla roulette della fortuna, più possibilità esistono di risultare vincitore. Questo obbliga, per forza, a selezionare numerosi pazienti di numerosi centri medici di uno stesso Paese e inoltre ad ampliare queste cifre di reclutamento ad altri Paesi e continenti. Uno studio che intenda includere un totale di 10.000 pazienti per randomizzarli nei vari rami dello studio si vedrà obbligato a proporre l'inclusione di 15 pazienti per ognuno dei 25 ospedali partecipanti in ciascun Paese (in media, 400 per Paese), il che inoltre obbliga a estendere lo studio ad altri 25 Paesi, in media, di distinti continenti. Inoltre, negli ultimi anni stiamo assistendo a una forte preferenza dei patrocinatori nel reclutare un maggior numero di pazienti nei Paesi a economia emergente come Cina, India, Brasile ecc., dove i costi della ricerca sono segnatamente meno onerosi di quelli di altre economie più forti e pertanto meno cari. Potrebbe essere anche vero che i controlli da parte dei comitati, sia etici sia scientifici, di questi stessi Paesi non dispongano del rigore degli altri. Allo stesso modo, le caratteristiche demografiche, culturali e socioeconomiche sono estremamente diverse da un Paese all'altro. Il lettore concorderà con me che i risultati di uno studio clinico globalizzato non dovrebbero essere applicati uniformemente a cittadini di un Paese come la Svezia e ad altri che vivono in Africa centrale. Questo reclutamento massivo di pazienti che necessitano i megastudi obbliga ad accettare numerosi ricercatori e centri che in alcuni casi saranno privi dell'istruzione e della formazione sufficienti in una disciplina che non è insegnata nelle università o negli anni di formazione postlaurea. È vero che l'istruzione medica continuata offre oggi ai medici che lo desiderino le
conoscenze di questo tipo di ricerca medica e la familiarizzazione con una materia tanto arida, per alcuni, come può essere la biostatistica, ma l'esperienza dimostra che non si pone eccessiva enfasi sul controllo dei comitati etici e scientifici sulla qualità dei ricercatori e dei centri medici coinvolti in uno studio. Ciò, sicuramente, non invalida i risultati finali di uno studio clinico, dato che i comitati di controllo tentano di garantire scrupolosamente la purezza dei risultati, ma in che modo è possibile arrivare al punto di avere un controllo rigoroso di 10.000 pazienti trattati da oltre 2.000 medici in oltre 500 ospedali di 25 Paesi distinti in vari continenti? Pertanto, non sorprende che molti medici mettano in discussione i risultati ottenuti dagli studi clinici. Nel corso della mia lunga esperienza medica ho sempre tentato di separare il grano dalla paglia, leggere i piccoli segreti e le mezze verità che si nascondono nei caratteri in piccolo dei grandi studi. Ho cercato di trasmettere questa preoccupazione ai miei colleghi, nella speranza che ogni medico che si trovi davanti a un dato corollario fornito dai ricercatori di uno studio lo faccia con uno spiccato senso critico, tentando di non accettare a priori le conclusioni finali e le relative proposte solo "perché lo dicono gli esperti". A monte di queste accettazioni si trova il dono di cui deve essere dotato ogni medico praticante: il senso clinico del suo atteggiamento nei confronti del paziente, un parametro che, per quanto ne so, non è stato mai incluso come oggetto di analisi in uno studio clinico.
2.- LA SELEZIONE DEI PAZIENTI, I CONTROLLI E I LORO OBIETTIVI
Ho già parlato in precedenza dei meccanismi mediante i quali si realizza l'inclusione e l'esclusione dei partecipanti in uno studio clinico. Forse è la parte più controversa di quasi tutti gli studi. Parleremo più avanti degli obiettivi che ricercano gli studi clinici, ciò che in linguaggio tecnico è noto come primary endpoint e secondary endpoint. Poiché tali obiettivi sono spesso definiti in modo molto rigido, sia il principale sia il secondario, il profilo dei pazienti deve corrispondere in misura maggiore o minore al fine cercato. A tale riguardo, tutti gli studi clinici progettano a priori un profilo dei pazienti che risulteranno idonei all'inclusione e di alcuni determinanti che, di per sé, escludono dei pazienti con un determinato profilo, che pertanto non potranno essere accettati come candidati validi per essere reclutati per lo studio. Come vediamo, incappiamo qui nella prima grande inaccuratezza o, se preferite, la prima grande limitazione degli studi clinici. È abituale che i pazienti da includere siano di entrambi i sessi (fino a poco tempo fa le donne erano escluse dalla maggior parte degli studi, tranne quelli ginecologici). Allo stesso modo, l'età dei pazienti viene limitata nella maggior parte dei casi a oltre 18 anni e meno di 75. Molti parametri somatici o analitici sono cause di inclusione o esclusione, a seconda delle necessità dello studio. Ad esempio: il peso, l'altezza e l'indice di massa corporea devono essere regolati all'intervallo di ciò che si considera normale per la popolazione in generale. In altre parole, le persone grasse e quelle magre, in linea di principio sono escluse. Si verifica perfino il paradosso che studi clinici che compiono ricerche sull'obesità includano solo obesi delle classi I e II, mentre gli obesi morbidi restano esclusi dallo studio. Allo stesso modo, valori di pressione molto deviati (valori superiori a 180/110 mmHg) invalidano, paradossalmente, l'inclusione di pazienti in studi sull'ipertensione arteriosa. La maggior parte dei megastudi che sono stati realizzati e si continuano a realizzare per studiare la morbilità e mortalità cardiovascolare e globale e l'efficacia terapeutica nell'ipertensione arteriosa hanno incluso o includono ipertesi leggeri o moderati, lasciando fuori,
come abbiamo già detto, quei pazienti con valori molto elevati di pressione arteriosa che sono, di conseguenza, quelli sottoposti a un maggiore rischio cardiovascolare e che, pertanto, sarebbe molto interessante studiare. Parimenti, livelli plasmatici eccessivi di colesterolo, glicemia, creatinina ecc. invalidano un possibile candidato ai fini dell'inclusione in uno studio. I grandi studi clinici non accettano neanche pazienti affetti da malattie concomitanti gravi o molto gravi, come il cancro, l'AIDS, malattie del collagene, neuroliche, ematologiche, disturbi coagulatori, pazienti anticoagulati ecc. oppure pazienti gestanti o che prevedono di restare incinta durante lo studio. Allo stesso modo, è abituale che i pazienti da includere non presentino limitazioni né fisiche né mentali e a volte si arriva al punto di richiedere un profilo socioculturale ed economico specifico. Queste annotazioni all'inclusione, che all'inizio possono essere considerate legittime ("io studio esclusivamente ciò che voglio studiare"), limitano, da un punto di vista pratico, l'interesse dei possibili risultati. In effetti, gli ambulatori medici di tutti i giorni si alimentano di pazienti di qualsiasi tipo e condizione, affetti da patologie complesse e multiple o con profili socioeconomici e culturali molto diversi. Con tali variabili, se un determinato medico si attenesse rigidamente alle raccomandazioni che possono derivarsi dai risultati di uno studio, il suo campo di azione si vedrebbe straordinariamente limitato in funzione delle differenze tra i profili dei soggetti inclusi negli studi e di quelli che solitamente troviamo negli ambulatori medici. I diversi atteggiamenti adottati dai pazienti di fronte alle proprie malattie sono noti a tutti. A volte, ne troviamo qualcuno talmente preoccupato per il proprio problema che potremmo arrivare a etichettarlo come ipocondriaco. All'estremo opposto, vi sono quelli assolutamente tranquilli e scarsamente collaborativi con il medico per risolvere il loro problema. Fortunatamente, la maggior parte dei malati si colloca nel segmento intermedio, cioè quello più ragionevole. Quando un paziente accetta di essere incluso in uno studio clinico concorrono due circostanze insolite, ma altrimenti straordinarie. Da un lato, il paziente che accetta di partecipare a uno studio clinico ammette tutte le proposte mediche con la migliore disposizione e si attiene alle norme di trattamento in modo rigido. Ciò rende questo rapporto medico-paziente la situazione ideale per affrontare un trattamento nel modo più efficace possibile. Dall'altro lato, questo stesso paziente sarà sottoposto a migliori e più rigorosi controlli e consigli medici di
coloro che solitamente sono trattati negli ambulatori di routine. Questo è indubbiamente positivo, ma nonostante ciò introduce un'altra inaccuratezza nell'applicabilità globale dei risultati ottenuti negli studi clinici. I pazienti arruolati in uno studio clinico sono esaminati in maniera continua, a volte con una frequenza insolita, vengono sottoporsi a qualsiasi tipo di controllo, l'esame fisico è completo, la pressione arteriosa viene solitamente rilevata in base alle norme raccomandate a livello internazionale, il che può comportare un investimento di 15 minuti in questo apparentemente semplice atto medico, seguono una dieta rigorosa, il loro peso viene controllato scrupolosamente, in ogni visita si fa un calcolo delle pillole che ha consumato e di quelle che non ha consumato per determinare qualcosa di molto importante negli studi: la compliance o, se preferite, l'adesione allo studio o l'indistruttibile dedizione del paziente al proprio trattamento. Ma non finisce qui: ogni paziente arruolato in uno studio non solo può presentarsi in ambulatorio in qualsiasi momento, bensì ha a disposizione telefoni di o permanente per 24 ore al giorno e durante tutto il tempo di durata dello studio. Converrete con me che questo rapporto medico-malato, così esclusivo, può essere realizzato solo, per òvvi motivi, solo ed esclusivamente per il tempo limitato della durata di uno studio clinico e con un numero ridotto di pazienti per ricercatore, il che fornisce un quadro quasi idilliaco del rapporto medico-paziente che, a posteriori, nella routine quotidiana degli ambulatori è impossibile da attuare. Pensate che nel nostro Paese, un medico di famiglia si occupa di un numero variabile di pazienti compreso tra 40 e 60 per ambulatorio, gli specialisti qualcuno in meno, e che la media della visita per paziente solitamente non supera gli 8 minuti. Alcuni pazienti arruolati negli studi (compreso quelli assegnati al gruppo placebo) arrivano al punto di sentirsi così bene, così protetti, da prestarsi con facilità a essere reclutati per tutti quegli studi di ricerca clinica che vengono loro proposti. Sono quelli che potremmo definire "professionisti dello studio clinico". Tutti noi che partecipiamo a questo tipo di studi siamo coscienti dei limiti osservabili in alcuni casi quando si tenta di generalizzare gli effetti positivi di un dato trattamento e che è stato provato unicamente nelle circostanze particolari in cui si sviluppa uno studio clinico e con un gruppo di pazienti altamente selezionati e motivati. Il lettore, dopo quanto abbiamo detto, sarà ora consapevole delle differenze ambientali esistenti tra il quadro in cui si sviluppa solitamente uno studio e la routine affrettata degli ambulatori abituali dei nostri centri sanitari. I risultati, in
entrambi i casi, devono per forza marcare nette differenze rispetto all'accettazione dei trattamenti raccomandati e la risposta agli stessi. Questo dato, tanto ovvio, potrebbe giustificare abbondantemente come le risposte favorevoli che si ottengono in un determinato studio solitamente non si osservino successivamente al momento di applicarle alla popolazione generale. L'insieme di pazienti inclusi in uno studio solitamente è diviso in due gruppi: quello di trattamento attivo e quello di controllo o placebo. I primi assumono quel farmaco i cui effetti si desidera conoscere e i secondi normalmente seguono il loro trattamento usuale, al quale di norma si aggiunge il placebo, un composto apparentemente simile al farmaco attivo, ma privo di proprietà farmacologiche. Il followup di un gruppo o dell'altro solitamente ha le stesse caratteristiche. Come già detto, non è insolito osservare che molti pazienti assegnati al gruppo placebo sperimentano nel corso dello studio un notevole miglioramento, il che ci obbliga a pensare che altre modifiche, non farmacologiche, introdotte durante lo studio, come ad esempio una dieta sana, il controllo del peso, della pressione arteriosa ecc., influiscano in modo deciso sulla salute del paziente e suo benessere generale. Prima di iniziare la fase di trattamento attivo o placebo, i pazienti sono solitamente randomizzati, ando in alcuni casi attraverso un periodo di washout farmacologico per poi, successivamente, essere aleatorizzati se dispongono delle condizioni richieste; segue l'assegnazione a caso a uno dei rami e poi vengono seguiti periodicamente durante il tempo di durata stimato dello studio. La maggior parte dei protocolli consente nel corso dello studio ciò che si definisce 'titolazione del farmaco', cioè un aumento progressivo delle dosi prestabilite fino a ottenere un determinato effetto terapeutico. In alcuni studi, ad esempio l'ipertensione, il diabete, l'insufficienza cardiaca, l'angina pectoris ecc. si consente l'aumento dell'azione del farmaco mediante altri farmaci di effetto simile.
3.- LE FASI SECONDARIE DI UNO STUDIO IN FASE III
A prescindere dalle fasi o caratteristiche di uno studio (nelle fasi I, II, III e IV) già descritte in precedenza, dovremmo chiarire in questo capitolo alcuni concetti fondamentali per coloro che non dispongono di eccessive conoscenze sulla terminologia che stiamo utilizzando e continueremo a utilizzare. Mi riferisco a concetti chiave come fase di lavaggio o washout, randomizzazione, aleatorizzazione, flowchart, controllato contro placebo, in cieco o doppio cieco, analisi per gruppi paralleli, studio incrociato, multicentrico, multinazionale e multifattoriale. La fase di lavaggio solitamente dura tra 2 e 4 settimane. Durante questo periodo, se è possibile dal punto di vista etico e medico, il paziente sospende il suo farmaco abituale, tranne quello che non contamini i risultati dello studio proposto. Ad esempio, se realizziamo ricerche su ipertesi e alcuni di essi soffrono di disturbi digestivi, in questa fase occorrerà sospendere loro la somministrazione degli antipertensivi, ma potranno continuare ad assumere il farmaco gastrointestinale. In generale, non si verificano solitamente complicanze, ma è un periodo in cui occorre osservare attentamente il paziente per verificare l'insorgere di eventuali anomalie imputabili alla soppressione del farmaco. Randomizzare è l'italianizzazione di un anglicismo (to randomize) che a sua volta proviene dal se e il cui significato si confonde con un altro vocabolo molto usato negli studi, di radice latina: aleatorizzare e che, insieme, esprimono l'azione di assegnare a caso o distribuire in modo casuale. Pertanto, uno studio randomizzato/aleatorizzato significa che l'assegnazione dei pazienti ai diversi gruppi dello studio è stata effettuata sulla base di una designazione del tutto casuale che lo rende più omogeneo e quindi più affidabile in tutti gli aspetti. Esistono numerose procedure di aleatorizzazione nelle quali non ci addentreremo in dettaglio, poiché non sono attinenti allo scopo di queste pagine. Nello studio controllato i profili su cui effettuare la ricerca sono perfettamente definiti e il controllo solitamente viene realizzato contro placebo o altri agenti farmacologici di efficacia dimostrata. Questa procedura, come è ovvio, tende a ridurre al minimo l'inaccuratezza. L'aleatorizzazione alla quale abbiamo fatto riferimento in precedenza può essere
di tipo semplice, restrittiva, stratificata o per gruppi. Nel modello aleatorio semplice i due gruppi vengono assegnati a caso mediante una procedura simile al lancio di una moneta in aria: la croce per questo gruppo e la testa per l'altro. La probabilità sarà all'incirca del 50%. Questo metodo è semplice e facile da eseguire, sebbene le dimensioni del campione in ogni gruppo possano essere abbastanza diverse. L'aleatorizzazione restrittiva o equilibrata assomiglia a quella semplice (lancio della moneta), ma si tenta di fare in modo che il numero dei soggetti per gruppo sia uguale o quasi uguale. La stratificata classifica i pazienti per "strati" a seconda delle loro possibili categorie (età, gravità del processo, farmaci somministrati e malattie concorrenti...). Questa aleatorizzazione consente di assegnare i pazienti a ciascun gruppo mediante una procedura propria con una distribuzione più in linea con i diversi intervalli e limiti. L'aleatorizzazione per gruppi, raggruppa soggetti eterogenei, ma considerandoli singolarmente. Risulta utile per analizzare variabili molto diverse tra loro. Per quanto riguarda la conoscenza dei pazienti assegnati e il relativo trattamento nello studio, gli studi clinici possono essere: Non mascherati: il paziente e il ricercatore conoscono l'assegnazione di ciascun paziente e il relativo trattamento. In cieco: uno dei due, il paziente o il ricercatore, è all'oscuro del gruppo di assegnazione. In doppio cieco: nessuno dei due conosce l'assegnazione aleatoria. In triplo cieco: in cui neppure l'analista dei dati o il comitato scientifico conoscono la distribuzione casuale. Prima di includere un paziente o un soggetto sano in uno studio, questi deve concedere la propria autorizzazione esplicita (consenso informato), che dovrà essergli spiegata, fatta leggere e rilasciata in copia, oltre a essere firmata debitamente, in presenza o assenza di un testimone, a seconda dei casi. Tale intenzionalità ha come obiettivo l'accettazione libera e volontaria dei pazienti, senza alcun tipo di pressione o disagio. Prima o durante lo studio, il soggetto può: 1.- Ritirarsi dallo studio in qualsiasi momento lo desideri e senza fornire spiegazioni. 2.- I soggetti hanno il pieno diritto di essere informati durante lo studio circa le modifiche e le deviazioni che si siano eventualmente prodotte nel progetto originale.
3.- Il soggetto ha diritto di verificare che tutti i dati siano trattati con assoluta riservatezza. 4.- Il soggetto ha diritto a informazioni puntuali sui nuovi dati relativi ai rischi e ai benefici, oltre che la scoperta di nuovi eventi di carattere scientifico. Effettivamente, le premesse in precedenza descritte sono scrupolosamente rispettate dalla maggior parte degli studi, e i comitati etici controllano rigorosamente che ciò avvenga. Ma è altrettanto vero che, a volte, sono gli stessi comitati scientifici a promuovere l'abbandono dei soggetti inclusi in uno studio per varie ragioni.
4.- QUALI OBIETTIVI SI PREFIGGE UNO STUDIO CLINICO E CHE METODI SI UTILIZZANO PER REALIZZARLI
L'obiettivo principale di qualsiasi studio (primary endpoint) deve innanzitutto essere ragionevole, e tentare di cercare qualcosa che sia coerente con il gruppo incluso nello studio e l'obiettivo perseguito. Ad esempio, sarebbe assurdo sostenere uno studio tentando di verificare il potere anticoncezionale di una determinata pillola in una popolazione femminile sottoposta in precedenza a un'isterectomia totale, oppure cercare gli effetti antianginosi in sportivi asintomatici ad alta resa. Pertanto, è fondamentale definire a priori la o le ipotesi di lavoro, affinché le conclusioni siano coerenti e valide con quanto si intende ricercare e soprattutto affinché il risultato sia valido con conclusioni statisticamente solide. In altri termini, se l'ipotesi di lavoro non è ben stabilita prima dell'inizio dello studio, la validità sarà statisticamente nulla. Detto ciò, occorrerebbe aggiungere che non è tutto oro quello che luccica, come spiegavano Bengt e Curt Furberg in una magnifica monografia su questi argomenti pubblicata nel decennio scorso ("All that glitters is not gold"). Cioè, alcuni ricercatori, allo scopo di avvantaggiarsi, provano a realizzare progetti iniziali multipli in grado di definire uno o più obiettivi dello studio in modo che, una volta avviatolo e che sia possibile ricavarne dei dati e delle conclusioni, essi possano scommettere sull'ipotesi di lavoro più inerente ai loro fini. A volte, non solo le ipotesi sono mal definite e mancano di concretezza, ma anche i test ai quali vengono sottoposte per la loro verifica possono risultare parimenti insufficienti o francamente svantaggiosi per l'agente che svolge la funzione di sparring. Mi spiego meglio: nel caso in cui si intendesse, ad esempio, mettere a confronto gli effetti normoglicemizzanti di un antidiabetico orale o di una determinata insulina in pazienti diabetici di tipo II di lunga durata, sarebbe poco scientifico che l'elemento di confronto fosse un antibiotico, l'aspirina o un acido Omega 3, quando nessuno di questi agenti ha mostrato alcun effetto positivo per normalizzare l'emoglobina glicosilata di questi pazienti diabetici gravi. Alcuni fanno ricorso ai surrogate endpoint (biomarcatori secondari) tentando di trarre conclusioni derivate da ipotesi di lavoro impostate maliziosamente. Ad
esempio, e seguendo il modello del paragrafo precedente: "se il tale agente è efficace per normalizzare la glicemia plasmatica e migliorare le condizioni metaboliche del diabete, le complicanze cardiovascolari tipiche di questa malattia miglioreranno anch'esse con l'agente normoglicemizzante, ma non con quello che si è dimostrato inefficace nel normalizzare lo zucchero nel sangue". Su questi interessanti e interessati surrogate endpoint torneremo in un altro capitolo. A volte, i ricercatori si preoccupano di essere sufficientemente cauti su questi aspetti, in modo che neanche il più esperto lettore della più rispettata e severa rivista medica sarebbe in grado di scoprire il gap intenzionale. Quando un ricercatore o gruppo di ricercatori stabilisce un contratto di partnership con una industria farmaceutica per la progettazione e la conduzione di uno studio clinico, sia gli uni sia gli altri sanno esattamente di cosa stanno parlando. Concedendo il beneficio assoluto dell'onestà a entrambe le parti, tuttavia non si dovrebbe dimenticare che gli uni conoscono i prodotti con cui lavoreranno e gli altri, i fabbricanti di tali prodotti, sono consapevoli del volume di affari che possono comportare i risultati in un senso o nell'altro provenienti dallo studio in questione. In molti casi, parliamo di cifre in euro con molti zeri dopo la cifra iniziale. Per fugare questi potenziali sospetti, gli investigatori hanno l'obbligo di fare una dichiarazione formale di quello che è stato definito "conflitto di interessi" attraverso cui il ricercatore assicura se ha una qualsiasi attività retribuita con il promotore. Questo va benissimo, ma non si può negare che nel momento in cui il ricercatore e il patrocinatore stabiliscono un contratto di cooperazione per una determinata attività, il "conflitto di interessi" è implicitamente e sufficientemente definito. Con tale affermazione non intendo stabilire interessi spuri da parte dell'uno o dell'altro, ma l'esperienza dimostra, almeno, che così come i risultati positivi di uno studio sono comunicati alla comunità scientifica e alla società in generale in pompa magna, quelli negativi ano sotto silenzio. Gli studi dispongono di risorse sufficienti a tentare di mettere in evidenza il risultato positivo della o delle ipotesi di lavoro. Alcuni protocolli contengono fino a quattro o più proposte di lavoro dalle quali ci si aspetta uno o più risultati positivi, poiché tutte o alcune di loro sono in grado di risolvere il dilemma in questione con vari gradi di successo. Alcuni ricercatori tenteranno sempre di far leva sul punto più favorevole in modo da trarre profitto dai progetti e dai relativi
risultati. È un po' come scommettere alla roulette russa: se invece di giocare al rosso o nero o a pari e dispari, si posizionano i gettoni in caselle multiple, le possibilità di vincere saranno proporzionali alle scommesse giocate. Alcuni ricercatori giustificano questo atteggiamento tentando di presentare i possibili risultati positivi degli obiettivi secondari, come conseguenze derivate da un obiettivo primario che non ha dato risultati positivi in modo schiacciante. Cioè, se si cerca ad esempio di fare in modo che un determinato agente sia risolutivo nella prevenzione dell'infarto miocardico e alla fine si scopre che non è così, ma abbassa i valori della pressione sanguigna, diminuisce gli eventi di angina o aumenta la tolleranza allo sforzo, si approfitterà di tali risultati per sviare l'attenzione dal fallimento dell'obiettivo primario spostandola verso gli effetti positivi su altre scoperte non cercate in origine, ma ottenute in modo fortuito. Il ricercatore, in questo caso, come un abile direttore d'orchestra, ha enfatizzato maggiormente le "variazioni del tema principale" rispetto al tema principale stesso. È vero che tali pratiche appartengono più al ato recente che alle procedure abituali realizzate oggigiorno. Forse perché enti che svolgono un ruolo notevole in queste questioni come le Agenzie statali dei farmaci dei vari Paesi e la stessa Food and Drug istration americana hanno stabilito norme in cui l'obiettivo primario (primary endpoint) deve essere sempre perfettamente definito e i risultati principali devono sempre fare riferimento a esso. Sfortunatamente, queste normative non vengono applicate allo stesso modo in tutti i Paesi in cui si realizza la ricerca farmaco-clinica. Nonostante tutto, oggi è molto comune vedere negli obiettivi degli studi, quelli che si definiscono endpoint primari combinati, composti a volte da obiettivi diversi con poca o nulla relazione reciproca. Ad esempio, alcuni studi stabiliscono come obiettivo primario un combinato composto da 3 o 4 obiettivi secondari contemporanei. E in tal modo vediamo che in alcuni studi l'obiettivo primario combinato fa riferimento alla prevenzione dell'infarto mortale e non mortale, alla prevenzione della morte cardiovascolare, della morte per qualsiasi causa e al numero di ricoveri ospedalieri durante lo studio per qualsiasi motivo. È chiaro che se non per un motivo lo sarà per un altro, ma l'agente farmacologico sottoposto a studio ne trarrà sempre vantaggio. Ovviamente, una ricerca scrupolosa non può presentare i propri risultati basati su un'analisi post hoc che renda più "accettabili" i fallimenti di una determinata
ricerca. In definitiva, è così come dovremmo considerarla tutti noi medici che, in ultima analisi, siamo i destinatari di questi successi scientifici che dobbiamo successivamente applicare ai nostri pazienti. Noi medici dovremmo, pertanto: non accettare a priori né tantomeno alla cieca, dei determinati risultati senza disporre di una conoscenza esatta e minuziosa di tutte le impostazioni dello studio e valutare in tal modo la portata reale dei risultati e l'impatto che questi avranno in seguito nella pratica clinica di ogni giorno. Non è accettabile che un farmaco incluso in uno studio clinico per tentare di dimostrare i suoi benefici in una possibile riduzione della morbilità e della mortalità cardiovascolare, ad esempio, sia alla fine presentato come un agente che riduce i ricoveri ospedalieri dovuti a insufficienza cardiaca ignorando la risposta negativa all'endpoint primario che ha motivato la messinscena dello studio clinico. Le domande chiave che ogni medico dovrebbe porsi di fronte ai risultati di qualsiasi studio clinico dovrebbero essere: Quali benefici pratici potranno ottenere i miei singoli pazienti con l'applicazione di queste raccomandazioni? Vale la pena sottoporre il mio paziente all'azione di un farmaco, non privo di effetti secondari, per ottenere un beneficio teorico basato su calcoli statistici estratti da un gruppo di pazienti selezionati in modo eccessivo? Quali garanzie posso avere affinché il mio paziente sia davvero uno dei fortunati che potrebbero trarre beneficio dai buoni risultati che dice la statistica di questo o quell'altro studio clinico? Come si vede, e nonostante il calcolo statistico scientifico che si applica negli studi, il "fattore fortuna" gioca un ruolo eccessivamente rilevante nella salute del mio paziente. Tutti noi medici dovremmo avere dimestichezza con la lettura dei caratteri scritti in piccolo che solitamente nascondono i grandi studi clinici.
5.- LA TIRANNIA DELLE STATISTICHE E IL LORO SIGNIFICATO CLINICO IMPRECISO
Abbiamo già parlato un po' di questo argomento nei capitoli precedenti. Le statistiche sono quelle che sono, cioè tentano di mettere in evidenza una possibilità tra varie altre in base a un rigido calcolo matematico, con variabili prestabilite, in cui il sito di clivaggio solitamente viene stabilito in modo arbitrario. Se il dato statistico (il valore "p") è inferiore o superiore a un determinato valore, i risultati saranno validi o non validi. Si è deciso in modo arbitrario e comodo che le conclusioni "statisticamente significative" debbano dare un risultato "p" inferiore a 0,05. Da ciò può derivare come conseguenza logica che i risultati di un determinato studio scientifico non siano sostenuti quando un altro gruppo di ricercatori realizza un altro studio con caratteristiche simili e che addirittura un terzo gruppo di studio arrivi a smentire decisamente e quindi invalidare le conclusioni degli studi precedenti. Ed è logico: tentare di conciliare una scienza esatta come la matematica con un'altra perfettamente fallibile come la medicina non può dare altri risultati se non le conclusioni ambigue, quando non addirittura inesatte, di molti studi clinici che a volte vengono presentati come dogmi inamovibili e indiscutibili. Forse l'impostazione eccessivamente bayesiana di molti ricercatori, che tengono eccessivamente conto delle variabili prestudio è la causa del perpetrarsi del paradosso e della delusione. Ciò che ieri sembrava essere la panacea, oggi deve essere ritirato in tutta fretta dal mercato, a causa della sua inefficacia o magari perfino per gli effetti negativi che produce. A tale proposito, sono interessanti i lavori dell'epidemiologo greco John Ioannidis dell'Università di Boston. Questo autore segnala che, servendosi di strategie statistiche simili a quelle utilizzare nella maggior parte degli studi clinici, i risultati di questi ultimi potranno essere sia veri sia falsi al 50%. Una buona prova di ciò viene fornita dall'incoerenza di molti studi clinici quando sono corroborati da altri gruppi di ricerca. In ato, si affermava che gli inibitori dell'enzima di conversione dell'angiotensina erano gli agenti più potenti
ed efficaci per ridurre l'ipertrofia cardiaca dei pazienti ipertesi, un fatto che oscura la prognosi di coloro che la presentano. Quindi, in seguito a ciò, ebbi l'opportunità di partecipare a uno studio multicentrico, multinazionale, in doppio cieco ecc. (Studio LIVE), che mise a confronto l'efficacia di un inibitore dell'enzima di conversione dell'angiotensina, l'Enalapril, rispetto a un diuretico: l'Indapamide, i cui effetti clinici nell'ipertensione arteriosa erano stati sufficientemente provati, ma che era privo, per così dire, di azioni concrete nel rimodellamento del cuore. Le variazioni nella massa totale del ventricolo sinistro (quello più coinvolto nell'ipertrofia ipertensiva del cuore) furono realizzate usando il metodo più affidabile a tal fine: l'ecocardiogramma. Il risultato è stato sorprendente: sebbene entrambi i farmaci abbiano ridotto la pressione arteriosa in proporzioni simili, il diuretico mostrò maggior potere antipertrofico rispetto agli inibitori dell'enzima di conversione dell'angiotensina. Altri studi produssero risultati contrastanti e ulteriori studi abbastanza simili, ma questi fatti furono ati sotto silenzio. Il mercato antipertensivo degli agenti inibitori dell'enzima di conversione può essere fino a cento volte più redditizio rispetto a quello del diuretico Indapamide. Fino a oltre dieci anni fa, uno studio non finanziato dall'industria farmaceutica e che coinvolse oltre 40.000 ipertesi americani (ALLHAT Study) dimostrò che il Clortalidone, un diuretico ampiamente introdotto nel trattamento dell'ipertensione arteriosa, non solo aveva la stessa potenza nel controllo della pressione arteriosa elevata rispetto ad altre famiglie di agenti antipertensivi come i betabloccanti, i calcio-antagonisti e gli inibitori dell'enzima di conversione dell'angiotensina, ma che inoltre era l'ipertensivo più efficace per la riduzione delle complicanze più abituali dell'ipertensione, cioè l'ictus e l'infarto miocardico. Pochi anni prima, altri due studi, lo studio TOMHS e quello dell'Amministrazione americana dei veterani, riportarono risultati simili. Oggigiorno, questi studi sono stati fatti cadere, intenzionalmente, nell'oblio. Periodicamente, organismi internazionali del prestigio del t National Committee americano o le Società europee di Cardiologia e ipertensione arteriosa, o la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità, pubblicano rapporti (Guide di pratica clinica) sul rilevamento, diagnosi e trattamento dell'ipertensione arteriosa, con raccomandazioni enfatiche che sono seguite dalla classe medica in modo pesante. Se si procedesse a un esame critico delle varie Guide pubblicate, potremmo osservare le contraddizioni reciproche che contengono, nonostante siano state pubblicate a soli due o tre anni di distanza l'una dell'altra. Ad esempio, in questioni di trattamento antipertensivo, fino al V
rapporto di raccomandava l'uso di diuretici e betabloccanti come farmaci di primo impiego (secondo le Guide, primo scaglione). Si aggiungeva che, allorché questi farmaci si fossero rivelati inefficaci o non ben tollerati, si sarebbe dovuto far ricorso ad altri agenti come calcio-antagonisti, inibitori dell'enzima convertitore o antagonisti dei recettori dell'angiotensina. Ultimamente, le più recenti Guide hanno drasticamente cambiato la loro strategia terapeutica e consigliano di utilizzare innanzitutto gli inibitori e gli antagonisti dell'angiotensina, quando le motivazioni a tal fine non sono scientificamente convincenti. Si argomenta, senza molta coerenza, che questi ultimi prevengono meglio le complicanze organiche dell'ipertensione e che i primi potrebbero produrre qualche effetto deleterio sul cuore (aritmia dovuta a carenza di potassio). A questo punto dovremmo segnalare che mentre un trattamento antipertensivo con diuretici o betabloccanti ha un costo "C", uno con inibitori dell'enzima di conversione, con antagonisti dell'angiotensina o con calcioantagonisti ha un costo 10 x "C". È chiaro che la ricerca farmaco-clinica è straordinariamente costosa. In media, la ricerca di un agente farmacologico nelle fasi I, II, III e IV può arrivare a costare oltre 100 milioni di euro. Inoltre, di ciascuna delle 100 molecole sottoposte a ricerca, solo due o tre arriveranno infine nelle farmacie. Tuttavia, questi altissimi costi di ricerca successivamente sono ben ripagati dall'alto prezzo dei farmaci e dal loro gigantesco mercato. Ricercare, come abbiamo già visto, è una procedura non solo a rischio, ma anche molto costosa. Solitamente succede qualcosa di simile con le prospezioni petrolifere, dove i sondaggi sono molto costosi e molti di essi risultano infruttuosi. Ma riuscire a trovare un buon giacimento di grezzo è come trovare la lampada di Aladino. Nei risultati statistici, come dice Ioannidis, bisogna disporre di alcune variabili che possono influenzare in modo assoluto la credibilità o la fallibilità delle conclusioni. Uno studio ha tante probabilità di essere falso nelle sue conclusioni quanto minore è il numero di soggetti arruolati, ma allo stesso modo, nei megastudi che includono un gran numero di pazienti, la forza dei risultati potrebbe essere pericolosamente diluita, invalidandoli allo stesso modo. Quanto più piccola è la forza dell'effetto cercato, minori saranno le probabilità che il risultato statistico sia credibile. Ad esempio, cercare gli effetti del tabacco nella malattia polmonare ostruttiva cronica o nel cancro del polmone darà risultati di maggiore certezza che quando si tenta di ricercare l'impatto della trasmutazione
di un dato gene nella comparsa di una malattia di quelle definite "rare" quando si sa che il rischio relativo a questo problema è sempre in termini di valore "p" superiore a 1. Se il progetto di uno studio clinico è molto permissivo nelle sue impostazioni e obiettivi, i risultati finali saranno meno accettabili. Ad esempio: valutare il livello della qualità della vita in termini clinici è di minor rigore che considerare l'impatto preventivo su un evento vitale maggiore (ad esempio, la morte), sebbene i dati di analisi statistica possano dare lo stesso valore "p" per entrambi. Allo stesso modo, la ricerca simultanea di due o più variabili in un endpoint primario combinato non può apportare altro se non dubbi e confusione, dato che da un punto di vista rigorosamente statistico, è impossibile dimostrare che due variabili siano esattamente coincidenti nei risultati statistici. La stessa legge di probabilità rende inutile il concetto. Si potrebbe fare un'approssimazione più o meno imprecisa argomentando che due trattamenti simili differiscono o concordano nel loro effetto terapeutico rispetto a un problema specifico oppure che due popolazioni più o meno simili risponderanno in un modo più o meno simile all'azione di un determinato agente, ma affermare con certezza è un'altra cosa, basandosi sul "peso statistico" del valore "p" ci sembra assolutamente sproporzionato e privo di rigore scientifico. Detto questo, dovrò aggiungere che da quando sono impegnato nella ricerca medica, e sono oltre 30 anni, non sono riuscito a liberarmi, anche perché non me lo hanno consentito, della tirannia del valore "p" statisticamente significativo, senza il quale nulla è valido o, se ha una qualche validità, la possiede con la forza e il rigore di un dogma vaticano. Ioannidis commenta nella sua analisi degli aspetti certamente tortuosi per cui alcuni studi clinici potrebbero slittare. L'epidemiologo, citato da J. R. Zárate (DM, 12.09.2005), segnala testualmente che "maggiori sono gli interessi economici e i pregiudizi, minore validità avranno i risultati e le conclusioni" e indica che non sono solo i conflitti economici ad avere il potere di influenzare i risultati, bensì determinate convinzioni o l'attaccamento ossessivo a una teoria scientifica o la ricerca di una promozione accademica, fino all'occultamento da parte di un esperto invitato a un processo di revisione prima della pubblicazione, potrebbero condizionare l'autenticità e la validità di alcuni studi. Inoltre, si indica che "quanto più un'area è calda e più scienziati sono coinvolti (megastudi multicentrici, multinazionali, transcontinentali...) più saranno le possibilità che i risultati siano falsi, nonostante siano "statisticamente significativi", cioè con un valore "p" inferiore a 0,05. In questi casi, segnala, la
concorrenza generata tra molti team coinvolti nello studio, i cui risultati saranno, per forza, difformi tra loro, può portare i direttori dei comitati scientifici a dare priorità agli effetti positivi, ando sotto silenzio quelli negativi. Ad esempio, "il tale farmaco non previene la malattia o evita la morte, ma migliora la qualità della vita, secondo quanto si stabilisce in alcune tabelle preprogettate da un gruppo di psicologi". La saggezza popolare, cosciente di tali rischi, ricorre al proverbio per dare una spiegazione netta in poche parole: "Quello che fa male a una cosa, è buona per un'altra" o "Quello che mi cura l'artrite mi peggiora la gastrite". Secondo i tremendi dubbi suscitati da queste pratiche, sarebbe difficile stabilire il gold standard in grado di equilibrare la credibilità dei risultati generati negli studi clinici. Alcuni hanno proposto soluzioni se non irrealistiche e poco pratiche, almeno insostenibili da un punto di vista finanziario. Suggeriscono che i dati di uno studio dovrebbe essere corroborati in almeno tre studi ulteriori con le stesse impostazioni. Che gli studi abbiano un'adeguata popolazione di partecipanti. Che le analisi statistiche siano adattate alla proporzione e gli obiettivi dello studio. Che gli endpoint predefiniti siano inamovibili e, infine, che il peso economico di uno studio clinico sia sostenuto in parte o nella sua totalità da enti indipendenti agli interessi del produttore delle molecole analizzare nello studio. In questioni di statistica è chiaro che, gli studi piccoli, quelli che includono un numero di pazienti ridotto, sono terribilmente inconcludenti, proprio perché ciò che si definisce "potere statistico" non fornisce i dati sufficienti di rigore matematico necessari a ottenere un valore "p" inferiore a 0,05. Un altro grave problema degli studi piccoli è che la frontiera tra la biostatistica e la coincidenza è terribilmente diffusa e mal definita, il che invalida chiaramente i risultati ottenuti. Le limitazioni statistiche possono, a volte, essere compensate da quello che viene definito "intervallo di confidenza". A volte, la rigidità statistica non consente di dimensionare la portata del risultato. Tale intervallo di confidenza garantisce, in un certo qual modo, che la probabilità che i risultati ottenuti siano realmente veri. Ad esempio, un intervallo di confidenza del 95% indica i limiti inferiore e superiore nei quali vengono distribuiti i risultati ottenuti. Molti studi clinici rigorosi e alcune riviste specializzate non ammettono più altri tipi di analisi statistiche in assenza di garanzia da un intervallo di confidenza
ragionevole. Al contrario, molti studi farmaco-clinici, per non dire la maggioranza, includono nei loro risultati e conclusioni ciò che definiscono "la riduzione del rischio percentuale relativo", un termine che genera confusione, ma statisticamente valido e significativo. Questo concetto fa riferimento alla riduzione di questo o quell'evento maggiore o minore in favore di uno degli agenti analizzati. In altre parole, è più favorevole in termini "commerciali" parlare di riduzione del rischio relativo che del rischio assoluto. Mi spiego meglio: è comune dire che il dato agente produce, alla luce dei dati ottenuti dello studio, una riduzione della mortalità del 20%. Un medico privo della necessaria dimestichezza con tali concetti statistici, interpreterebbe questa affermazione come se intendesse dire che tale agente farmacologico riduce la mortalità di un 20% reale. Cioè, il medico potrebbe pensare che "se invece del placebo o di non somministrare nulla, somministro questo agente a 100 pazienti affetti dalla patologia per cui questo farmaco è stato raccomandato salvo 20 vite". Ma, sfortunatamente, non è così. Ciò che indica questo rischio relativo è che la differenza percentuale tra il risultato finale di un gruppo o un altro ha prodotto valori del 20% in termini, effettivamente, che hanno una portata di molto inferiore a quella reale. Vediamolo con un esempio: se in un gruppo di 100 pazienti in placebo si sono verificate in due anni 10 morti e nell'altro di trattamento attivo se ne sono verificate soltanto 8, la differenza tra 10 e 8 è effettivamente del 20%, il che non significa che il farmaco sia così potente da impedire una mortalità tanto significativamente elevata quando la esprimiamo in termini di "rischio relativo". Da ciò deriva un corollario logico: per risparmiare due vite dovrò trattare con tale farmaco 100 pazienti per due anni e neanche così avrò la certezza matematica di rientrare nella parte favorevole della statistica. Inoltre, si pensi ai tremendi costi farmaceutici che da ciò derivano e agli effetti secondari indesiderati che praticamente tutti i farmaci provocano. Per questo e altri motivi, sarebbe più ragionevole e perfino onorevole, esprimere questi stessi risultati in termini di valori assoluti, ma questi a volte sono talmente scarsi da renderli poco attraenti da un punto di vista commerciale. Per questi motivi, noi medici dovremmo non solo essere molto critici con i risultati metodologici degli studi, ma soprattutto con quelli "statisticamente significativi" e con le "riduzioni del rischio percentuale relativo". L'unico modo consiste nel dotarsi di un buon senso critico e analitico che indubbiamente
genererà una migliore pratica clinica. Ma torniamo alle sottoanalisi e ai sottogruppi. Per ovviare al problema delle sottoanalisi, alcuni ricercatori ricorrono alla metanalisi, che altro non è se non il raggruppamento di piccoli studi, più o meno simili, per configurare con il complesso un grande studio in grado di fornire maggiore potere statistico alle conclusioni finali. Parleremo più diffusamente di questo metodo analitico altrove in questa monografia. A volte, i ricercatori utilizzano l'analisi dei sottogruppi (gruppi di pazienti con caratteristiche speciali che vengono rimossi dall'insieme e raggruppati per questo fine), con l'obiettivo di trarre conclusioni che rendano i risultati di questo sottogruppo "statisticamente significativi". Questa pratica comune, a volte dà risultati, ma a volte potrebbe generare dati sorprendenti quando non grotteschi. Nello studio ISIS-2 che valutava l'effetto dello streptochinasi, un agente che scioglie i coaguli intrarteriali, e dell'aspirina rispetto al placebo, per sapere quale dei due trattamenti era più efficace nella prevenzione della della mortalità a breve termine dopo un infarto miocardico, una sottoanalisi del gruppo arrivò alla pittoresca conclusione, con risultato biostatistico significativo, che i pazienti nati sotto il segno zodiacale dei Gemelli e della Bilancia presentavano una mortalità che superava di circa il 5% tra quelli assegnati al gruppo che assumeva streptochinasi più aspirina rispetto a quelli del gruppo placebo, mentre altri pazienti randomizzati ad aspirina streptochinasi, nati sotto altri segni zodiacali, mostravano una riduzione del 30% quando venivano confrontati con quelli gruppo placebo. I ricercatori non furono in grado di risolvere adeguatamente questo enigma, che mostrò risultati "statisticamente significativi". Recentemente, abbiamo letto uno studio pubblicato su Social Science Quarterly in cui si conclude che gli adolescenti con nomi di battesimo "strani" sono più inclini alla delinquenza giovanile. In effetti, l'analisi condotta da ricercatori presso l'Università di Shippenburg negli Stati Uniti giungeva a questa pittoresca conclusione. Stabilirono che nomi "diffusi" come Michael avevano una magnifica accettabilità sociale e in base a ciò un Indice di popolarità (PNI) massimo di 100, mentre altri nomi come David raggiunsero solo il valore di 50 e altri ancora come Ernest, Ivan o Malcolm arrivarono appena al valore di 1. Quando analizzarono gli indici di delinquenzialità, a prescindere da altri fattori come la razza, lo stato status sociale o il livello culturale, verificarono che ciò che era davvero determinante per diventare un delinquente giovanile era il nome
dato loro da genitori svogliati. Ma la cosa peggiore di tutto ciò non fu questa, bensì che i ricercatori basarono le loro conclusioni su dati avallati da una notevole "significatività statistica". Nei loro commenti spiegavano, tentando di dare solidità a tali conclusioni, che gli adolescenti con nomi poco comuni sono trattati in modo diverso dall'ambiente familiare, sociale e lavorativo, il che incita a commettere più crimini rispetto ad altri con nomi più comuni come Michael o David. E conclo che il nome di battesimo potrebbe costituire un ottimo fattore determinante di rischio sociale, ragion per cui questi luminari della ricerca invitarono chi di dovere a compilare elenchi di polizia al fine di tenere maggiormente sotto controllo questi pericolosi criminali per motivi onomastici. Indipendentemente dal surreale di quanto esposto nel paragrafo precedente, personalmente non sono contro le analisi di sottogruppi, a condizione che ciò che si intende sottoporre a ricerca sia logico, proporzionato e con buoni riferimenti all'obiettivo primario dello studio. Inoltre, i ricercatori dovrebbero considerare i risultati delle analisi dei sottogruppi non come conclusioni rilevanti, bensì come punto di partenza per generare una ipotesi di lavoro che potrebbe costituire, in seguito, il punto di partenza di un nuovo studio. A tal fine, esistono degli esempi: quando i ricercatori analizzavano i possibili effetti antianginosi del Sildenafil in pazienti coronaropatici sintomatici, studiando dei sottogruppi osservarono che questo inibitore della fosfodiesterasi di tipo V (un potente donatore del più potente vasodilatatore noto, l'ossido di azoto) non mitigava l'angina in modo significativo, ma i pazienti di sesso maschile arruolati nello studio rivelarono che la loro funzione erettile era migliorata notevolmente. Ciò costituì il punto di partenza per iniziare una ricerca completa di tipo farmaco-clinico in tale direzione, i cui risultati sono noti a tutti: il Viagra e altri composti correlati costituiscono oggigiorno una famiglia di farmaci altamente efficaci, ben tollerati e con poche controindicazioni per il trattamento della disfunzione erettile dell'adulto. I suoi effetti sulla vasodilatazione coronarica sono di scarso impatto clinico.
6.- COSA SONO I SURROGATE ENDPOINT O BIOMARCATORI DELLO STUDIO. IL PARADOSSO DI TROVARE CIÒ CHE NON SI CERCA NÈ SI DESIDERA
La maggior parte degli studi clinici hanno la pretesa di dare risposte decisive ai grandi e gravi problemi irrisolti posti dalla Medicina. È logico. L'efficacia medica si basa sul rapporto intimo tra medico e malato, in cui il paziente va in cerca di aiuto per tentare di recuperare la salute persa e il medico mette a sua disposizione le conoscenze scientifiche accumulate nel corso della sua carriera professionale. Da notare che tale bagaglio di conoscenze in possesso del medico non è altro se non il compendio di due fonti di apprendimento fondamentali: i testi di base e gli studi scientifici da un lato, che il medico inizia nella facoltà di Medicina e non abbandona mai per tutta la sua vita professionale e quelli derivati dall'osservazione quotidiana nel suo rapporto con i pazienti. In definitiva, della sua esperienza. Alcuni anni fa, acquisì legittimità un concetto che intendeva essere innovativo, ma che era implicito nella mente di tutti. Mi riferisco a ciò che è stata chiamata la "Medicina basata sull'evidenza". Qualsiasi procedura medica di qualsiasi tipo dovrebbe essere "basata sull'evidenza", si diceva, come se l'evidenza non fosse stata dall'inizio dei tempi la base a cui si è sempre appoggiato il medico. Con ciò, si intendeva porre fine al concetto antico delle procedure empiriche, un intervento medico intuitivo e in quanto tale non privo di rischi, che pochissime volte è stato messo in atto dal medico curante e consapevole dell'importanza del suo lavoro nei confronti della società che serve. È ovvio che, in seguito all'osservazione, il medico abbia saputo distinguere, dai tempi remoti, ciò che all'uomo poteva fare male o bene. Questa osservazione medica ancestrale si è cristallizzata nei tempi attuali in procedure più severe e scientifiche basate sui risultati e le osservazioni degli studi clinici, il che significa che le procedure mediche sono sempre state e continueranno a essere basate sulle evidenze. L'altro metodo, l'empirismo, appartiene ad altre discipline che poco o nulla hanno a che vedere con la Medicina occidentale. Tuttavia, approfittando di questo pericolo, si è tentato di trarre vantaggio dall'evidenza per argomentare i risultati di alcuni studi clinici giustificandoli a
condizione che siano "statisticamente significativi", sebbene, come stiamo osservando, i risultati dogmatici, pertanto evidenti, degli studi clinici non sempre riflettono la realtà effettiva. Oggigiorno, e in linea con questi nuovi ragionamenti, un medico che non faccia "medicina basata sull'evidenza", cioè medicina basata sui risultati degli studi clinici, si trasforma in una specie di professionista eterodosso a cui non si dovrebbe concedere fiducia. L'essenza stessa dei risultati di molti studi clinici e gli straordinari risultati che ottiene la società in generale con la pratica di questi professionisti che costellano le loro solide conoscenze mediche con intelligenti lampi dell'arte medica, giustificano ampiamente un intervento medico che non desidera sottomettersi, senza spirito critico, ai dettami di alcuni studi clinici che molte volte nascondono interessi non sufficientemente trasparenti. Desidero sottolineare ancora una volta che senza gli studi clinici ben progettati ed elaborati la Medicina non avrebbe potuto raggiungere le vette di efficacia di cui gode, allo stesso modo in cui senza le Guide di pratica clinica noi medici non potremmo esercitare in modo risolutivo e sicuro la nostra missione, ma, detto questo, desidero evidenziare che non si possono e non si devono accettate proposte che pongano fine in maniera repentina ai nostri concetti solidi, basati sulla nostra evidenza personale, senza che smettiamo di fare una critica esauriente e scientifica di quanto ci viene proposto, per quanto siano avallati dai più prestigiosi team di ricerca clinica e per quanto siano stati pubblicati nelle riviste più prestigiose e di maggiore impatto. Gli studi clinici per lo più cercano di dare risposta alle principali questioni irrisolte, che sono quelle che vengono convalidate nell'atto medico per se. Ma al di là di questo interesse puramente clinico e pratico, molti ricercatori, oltre a rispondere agli enigmi clinici, desiderano conoscere i meccanismi fisiopatologici intrinseci e primari che motivano la malattia e desiderano inoltre individuare i circuiti farmacocinetici e farmacodinamici attraverso cui gli agenti analizzati nello studio possono agire in modo positivo o negativo. Tutto ciò è molto legittimo e ragionevole, tuttavia succede che in molte occasioni i biomarcatori che possono determinare la genesi e lo sviluppo di una malattia specifica servono da sostegno sostanziale e quasi unico al ricercatore per giustificare l'azione del farmaco sottoposto a esame nello studio clinico. Ad esempio, se un dato farmaco viene sottoposto a esame per sapere se riduce l'incidenza di ictus (trombosi, emorragia cerebrale) o
di infarto miocardico fatale e non fatale, o semplicemente se si desidera conoscere di quanto può diminuire i tassi di mortalità totale e i risultati riscontrati non sono definitivi o magari sono confusi, fa la sua comparsa la tentazione di ricorrere ai surrogate endpoint. In che modo? Ebbene, utilizzando cortocircuiti di convenienza elaborati in base a elucubrazioni non del tutto scientifiche. Vediamolo con un esempio. Pensiamo a un farmaco che riduce il colesterolo. Tutti sappiamo che i livelli di colesterolo elevati nel sangue favoriscono lo sviluppo dell'aterosclerosi e di conseguenza si verificano più ictus, infarti miocardici, rotture di aneurismi aortici, in definitiva una maggiore mortalità dovuta a questa causa. Molti studi clinici sono stati strutturati per sapere se un dato farmaco riduttore del colesterolo (statine o fibrati) diminuiranno la mortalità dovuta alle cause elencate in precedenza (infarto, ictus ecc.). A fronte di risultati a volte negativi e altre volte paradossali, i ricercatori si aggrappavano ai cortocircuiti che stabilivano i biomarcatori deducendo con ciò che le riduzioni di colesterolo plasmatico dovevano per forza ridurre i tassi di mortalità, sebbene lo studio stesso non lo avesse provato, il che non era un ostacolo a che si raccomandasse l'uso di tali agenti con l'"idea finale" che l'impatto sulla mortalità sarebbe stato ottenuto a lungo termine. A volte, sono necessari studi condotti per otto anni od oltre per raggiungere valori statistici poco convincenti. Nelle pagine introduttive a questa monografia abbiamo già parlato dei risultati deludenti dello studio FIELD in cui i fibrati, riduttori del colesterolo e dei trigliceridi, si sono dimostrati incapaci di diminuire la mortalità cardiovascolare che induce l'aterosclerosi per dislipidemia grave. Stabilire questi cortocircuiti "matematici" sostenendo che se A = B e B = C, allora A sarà uguale a C, non cessa di essere rischioso e a volte anche pericoloso. Noi medici dovremmo essere molto critici con simili ragionamenti. Infatti, conosciamo le modalità secondo cui le aritmie ventricolari gravi possono, nei pazienti con un substrato organico predisposto (cardiopatia ischemica, miocardiopatia ipertrofica, dilatata ecc.), produrre la morte improvvisa da fibrillazione ventricolare. Un numero sufficiente di studi ha tentato di rispondere a questa domanda chiave: La riduzione delle aritmie ventricolari con antiaritmici sarà seguita da da una riduzione dei tassi di mortalità improvvisa nei pazienti ad alto rischio? I risultati della maggior parte di loro non solo è stata deludente, ma a volte anche paradossale. Lo studio CAST (Cardiac Arrhythmia Supresión Trial) realizzò una ricerca su 1.727 malati che avevano superato la fase acuta di
un infarto miocardico per verificare se il trattamento con tre diversi tipi di antiaritmici confrontati a placebo avrebbe potuto ridurre gli elevati tassi di mortalità causati da aritmia. Uno studio con Holter delle 24 ore prima e durante il trattamento ha dimostrato che i pazienti trattati hanno ridotto significativamente il numero totale di battiti prematuri ventricolari e le relative forme complesse. Tuttavia, dopo 10 mesi di followup, fu necessario interrompere lo studio in fretta e furia, perché la mortalità nel gruppo di pazienti trattati con gli antiaritmici Flecainide o Encainide era quattro volte superiore rispetto a quella dei pazienti trattati con placebo. Questo smentì, ancora una volta, la teoria secondo cui se A = B e B= C, non necessariamente A deve essere uguale a C. La matematica è una cosa e la biologia un'altra. Nonostante questi risultati deludenti e preoccupanti dello studio CAST, molti medici, forse per inerzia, forse per un intervenzionismo a oltranza, forse in base alla convinzione che è "meglio fare qualcosa che nulla", continuano a prescrivere antiritmici del gruppo I a pazienti coronaropatici con marcata attività aritmica. Ancora una volta, si tratta del biomarcatore, il surrogate endpoint, seppur consapevoli che il fine ultimo cercato non darà il risultato desiderato. Esistono altri studi clinici che mostrano numerosi risultati simili. Da tempo si conosce l'impatto negativo del diabete dell'adulto sul rischio cardiovascolare, che incrementa potentemente. Inoltre, si sa che i livelli elevati di glucosio sono direttamente responsabili nel diabete mellito del danno vascolare, sebbene vi siano altri fattori di rischio concomitanti, come i lipidi, gli acidi grassi liberi, i pro-ossidanti ecc. che collaborano anch'essi nel processo aterosclerotico. Con queste premesse, sono stati realizzati un certo numero di studi, alcuni dei quali tuttora in corso, che si prefiggono di dare risposta a un semplice surrogate endpoint: "Se sono in grado di ridurre in modo deciso lo zucchero nel sangue del paziente diabetico tentando di far avvicinare i valori il più possibile a quelli normali, il rischio cardiovascolare si ridurrà anch'esso e quindi si ridurranno gli alti tassi di mortalità cardiovascolare causati dal diabete ogni anno in tutto il mondo." Niente di più logico che iniziare con questa ipotesi di lavoro, ma vediamo: Nel 2008, venivano pubblicati i risultati dello studio ACCORD (Action to control cardiovascular risk in diabetes). Le conclusioni furono tremende: i diabetici trattati intensamente con vari agenti riduttori del glucosio e/o dell'insulina, e che di conseguenza riducevano ulteriormente i loro livelli di zucchero nel plasma, presentarono una maggiore mortalità cardiovascolare
rispetto a quelli che furono trattati in modo meno aggressivo e i cui valori di glucosio nel sangue non erano così vicini a quelli che i ricercatori definivano "ideal target", cioè ottimali. Alcuni studi simili, con fini identici, avevano precedentemente constatato i risultati dello studio ACCORD, come lo studio dell'Amministrazione dei veterani (VADT) che includeva 1.791 militari americani della riserva, tutti diabetici e di età media di 60 anni. I pazienti furono randomizzati in due gruppi: uno di terapia intensiva e l'altro di terapia convenzionale. Lo studio durò quasi sei anni e i suoi risultati furono tanto sorprendenti quando deludenti: i pazienti assegnati alla terapia intensiva e pertanto coloro che ridussero maggiormente il glucosio, ebbero più eventi cardiovascolari fatali e non fatali rispetto agli altri in cui l'emoglobina glicata (il glucosio plasmatico medio in due mesi) era meno "idealmente" controllata. I risultati danno credito a un vecchio aforisma: "In medicina, il meglio è nemico del bene", a cui potrebbe aggiungersi: "Non è prudente lasciarsi guidare esclusivamente dai biomarcatori." Altri studi che si sono proposti di verificare ipotesi simili hanno dato risultati diversi, come ad esempio lo studio ADVANCE (Action in diabetes and vascular disease: Preterax and diamicron-MR controlled evaluation) pubblicato di recente, che non verifica l'eccesso di mortalità cardiovascolare nei pazienti eccessivamente trattati per ridurre drasticamente il glucosio. È difficile interpretare queste differenze dato che le impostazioni metodologiche sono diverse, così come anche i farmaci utilizzati in uno o l'altro studio. Alcuni studi in corso e le cui conclusioni logicamente non sono ancora state segnalate tentano di dare un ulteriore giro di vite a questa questione già eccessivamente stressata. E così, cercano effetti vascoprotettori in diabetici leggeri di diagnosi recente (che possono essere, e sono, perfettamente tenuti sotto controllo con antidiabetici orali, dieta ed esercizio fisico) trattandoli con insulina ad azione lenta che si traduce in valori di glucosio nel plasma di molto al di sotto di quelli solitamente considerati ragionevoli (meno di 100 mg/dl). Nonostante i risultati contrastanti degli studi già pubblicati, questi studi proseguono. Ne ignoriamo i risultati e le conclusioni, ma qualcosa potremmo già intuirla. La letteratura medica abbonda di lavori contraddittori e deludenti. Ad esempio, alcune sostanze che teoricamente aumentano la concentrazione di calcio nel tessuto osseo di pazienti con osteoporosi, come il fluoruro di sodio,
paradossalmente rendono le ossa più fragili, aumentando i tassi di frattura dell'anca e della colonna vertebrale. Alcuni agenti trombolitici o anticoagulanti noti riduttori delle probabilità di eventi tromboembolici, aumentano la mortalità derivante da gravi disturbi emorragici. Le incontrovertibili proprietà preventive concesse all'aspirina in ato per prevenire l'infarto sono state messe in discussione con i risultati degli studi clinici pubblicati di recente. E ciò allo stesso modo di moltissimi altri dogmi che hanno provocato un grande impatto nella classe medica e nella società in generale. Tuttavia, succede che, mentre i risultati positivi vengono diffusi urbi et orbi, quelli negativi trovano una eco minore nelle pubblicazioni mediche o finiscono per essere ati intenzionalmente sotto silenzio. Figli di questi silenzi sono gli studi clinici di risultati "economicamente non interessanti". Mi spiego meglio: tutti sono consapevoli di quanto siano salubri una vita e una dieta sane. Vi sono esperienze centenarie che indicano in che modo una vita sana basata su una dieta equilibrata, un'igiene adeguata e un esercizio fisico vigoroso e adattato alle possibilità di ciascuno, possa incidere in modo decisivo non solo su una maggiore quantità di vita, bensì soprattutto su una qualità della vita molto più soddisfacente. Esiste un numero considerevole di studi, la cui divulgazione è rimasta inspiegabilmente limitata, che segnalavano chiaramente la superiorità di alcune modifiche negli stili di vita rispetto ai trattamenti farmacologici per alcune malattie. Ad esempio, Touhmiletho, un epidemiologo finlandese, comunicò anni fa che una dieta equilibrata combinata con un esercizio periodico non eccessivo, ad esempio una camminata di 150 minuti a settimana, risultava molto più efficace, in termini di prevenzione del diabete o di riduzione naturale dei valori alterati di zucchero nel sangue, che la somministrazione di pillole antidiabetiche, come la Metformina o le Sulfoniluree, oltre a comportare una minore incidenza di effetti collaterali come pericolose ipoglicemie improvvise o sgradevoli disturbi digestivi. Recentemente, Barry Sears, della Harvard Medical School e Presidente della Fondazione internazionale sull'infiammazione, ha comunicato sorprendenti risoluzioni in relazione a ciò che una dieta adeguata può comportare nel controllo e monitoraggio del diabete mellito dell'adulto. Secondo questo autore, il diabete, come la maggior parte delle patologie croniche più comuni, è una malattia infiammatoria di base e pertanto con una dieta "antinfiammatoria" si potrebbe risolvere gran parte del problema. In uno studio pilota sono stati studiati 34 pazienti affetti da diabete di tipo 2,
molti dei quali dovevano iniettarsi insulina quotidianamente. Dopo aver seguito per tre mesi una dieta antinfiammatoria, solo uno dei pazienti aveva necessità di continuare a utilizzare l'insulina per il controllo della glicemia plasmatica. Gli altri pazienti erano riusciti a ridurre significativamente i loro livelli di glucosio plasmatico. Il riequilibrio dei componenti della dieta può comportare un controllo adeguato di molte malattie infiammatorie come il diabete e altri processi cardiovascolari, senza dover far ricorso agli abituali farmaci. Il riequilibrio dietetico consiste semplicemente nel modificare i contenuti tra carboidrati, proteine e grassi. La Harvard Medical School ha comunicato di recente che le diete "salutari" che sostengono gli enti scientifici americani sono semplicemente sbagliate. Secondo coloro che criticano tale tipo di nutrizione, una dieta salutare antinfiammatoria consisterebbe in una proporzione equilibrata contenente circa il 40% di carboidrati, circa il 30% di grassi mono e polinsaturi e circa il 30% di proteine. Cioè, la regola dell'1, 2, 3: per 1 grammo di grasso, 2 di proteine e 3 di carboidrati. Evidentemente, mettere in pratica tale modello, modificando le abitudini mediche tanto radicate in anni e anni di inerzia clinica inarrestabile non è compito facile. Noi medici, proprio per tale inerzia, preferiamo prescrivere farmaci, a volte di dubbia efficacia, invece di consigliare la dieta migliore per ciascuna delle patologie con le quali ci confrontiamo ogni giorno nella nostra pratica clinica. E tuttavia, recenti studi in biologia molecolare indicano in modo chiaro che determinati cambiamenti nella dieta modificano la condotta di determinati geni, che sono in ultima analisi i diretti responsabili di molte delle malattie considerate infiammatorie. E la cosa curiosa del caso è che ciò può farlo esclusivamente il cambiamento di dieta, in quanto a oggi non vi sono prove che sia possibile ottenere tali modifiche con i farmaci che solitamente utilizziamo per l'improbabile trattamento di tali malattie. Con ciò, non intendo dire che i farmaci siano inutili, al contrario, sono necessari, ma basare il trattamento di una malattia infiammatoria su risorse esclusivamente farmacologiche ignorando la dieta è un modo inadeguato, se non una pratica medica errata, di affrontare il trattamento di molte malattie. Tutti sanno che gli acidi Omega 6 hanno una nota potenza infiammatoria che facilita lo sviluppo e il mantenimento di molte malattie attraverso un incremento dell'acido arachidonico. Esattamente per tale motivo, gli agenti antinfiammatori tendono a diminuire l'attività di questo acido proinfiammatorio. Pertanto,
sarebbe più logico ridurre l'assunzione di alimenti che contengono questo acido in proporzioni elevate, invece di somministrare farmaci la cui funzione è diminuire gli eccessi dei nutrienti indebitamente ingeriti. Il Lyon Diet Heart Study ha dimostrato che se si somministra una dieta priva di acidi Omega 6 a pazienti con anamnesi di infarto miocardico invitandoli ad aumentare il consumo di frutta e verdura fresche si ridurranno i nuovi attacchi coronarici fino a circa il 70%, mentre le statine (i farmaci più utilizzati per ridurre il colesterolo) riuscivano a ottenere la riduzione di questi eventi cardiovascolari solo di circa il 20%. Lo stesso studio ha indicato che si preveniva la morte improvvisa in modo più efficace seguendo una dieta priva di Omega 6 piuttosto che somministrando statine. Paradossalmente, la American Heart Association insiste nel consigliare una dieta basata su carboidrati e acidi Omega 6. Lavori simili hanno comunicato qualche anno fa che l'ipertensione arteriosa di grado leggero (quella più diffusa di tutte le forme di ipertensione) rispondeva meglio ai cambiamenti dello stile di vita (dieta a basso contenuto di sale, priva di grassi saturi ed esercizio fisico regolare e aerobico) rispetto ai trattamenti farmacologici convenzionali con un diuretico o un betabloccante. È possibile che si verifichi la stessa cosa con altre nuove famiglie di antipertensivi come gli inibitori dell'enzima di conversione, i calcioantagonisti o gli antagonisti dei recettori dell'angiotensina. Si pensi ad esempio che questa forma di ipertensione leggera rappresenta oltre il 70% di tutte le forme di ipertensione che vediamo in clinica, che molte di esse (25%) sono false ipertensioni dovute al fenomeno definito del "camice bianco", ma che il costo farmaceutico per tali trattamenti antipertensivi, forse esagerati, ammonta annualmente a molti milioni di euro allo Stato, il che di conseguenza migliora i conti dei risultati dei laboratori produttori di tale tipo di farmaci. È vero che le Guide di pratica clinica raccomandano nella maggior parte delle loro proposte e per questo tipo di malattie di iniziare i trattamenti con "modifiche nello stile di vita", perché lo indicano evidenze incontestabili. Tuttavia, succede che, a parte essere poco redditizi, tali cambiamenti negli stili di vita sono noiosi e quasi mai vengono messi in pratica. Da un lato, perché le diete e l'esercizio risultano intollerabili a molti pazienti e dall'altro perché la maggior parte dei medici mette poco entusiasmo nel consigliare queste raccomandazioni salutari ai pazienti. Sappiamo già chi può trarre vantaggio da questa noncuranza di cui medici e pazienti condividono in parti uguali la responsabilità.
Non è abituale che questi cambiamenti degli stili di vita costituiscano l'obiettivo primario degli studi clinici, confrontandoli con farmaci, e meno abituale ancora che lo sponsor di tali studi sia un laboratorio farmaceutico. Sarebbe come se un macellaio consigliasse alla sua clientela di mangiare pesce. Di solito, questo sì, tali raccomandazioni vengono fatte come parte obbligatoria del protocollo dello studio, ma al massimo si fa riferimento al loro possibile impatto in alcuni, non sempre ben definiti, surrogate endpoint. Citando Furberg, "Esistono molte buone ragioni per mettere in discussione e in dubbio le terapie che influiscono solo sui biomarcatori. Se il trattamento è volto a migliorare un sintomo in particolare, verifichiamo semplicemente l'effetto sul sintomo, ma non traiamo conclusioni derivate che potrebbero essere deludenti o fuorvianti". Se uno studio clinico si propone di compiere ricerche sulla possibilità o meno di un farmaco di prolungare la vita, limitiamoci a questo, ma non traiamo altre conclusioni che, magari, non hanno nulla a che fare con l'obiettivo primario perseguito. Come disse McCoy, "Faremmo molto male a confondere un biomarcatore con un problema reale".
7.- BENEFICI CHE OTTENGONO I PAZIENTI DAI RISULTATI DELLA RICERCA MEDICA: MAGARI ALCUNI SÌ E ALTRI NO?
I risultati di uno studio clinico non esprimono nelle loro conclusioni altro se non l'esperienza individuale e collettiva dei pazienti arruolati nello stesso. D'altro canto, tutti i pazienti che accettano liberamente e volontariamente di essere inclusi in uno studio clinico sperano, di conseguenza, di ottenere dei benefici da tale partecipazione. Benefici che in nessun caso sono di tipo economico - se non per alcuni studi su volontari sani in studi di tipo I e II - bensì di ordine personale. Tra questi benefici che si aspettano i pazienti si dovrebbero citare un miglioramento dei sintomi, una soluzione a un problema di salute che una terapia convenzionale non ha risolto, una possibile riduzione dei rischi che comporta la malattia di cui soffrono e, infine, un'aspettativa di vita più lunga di quella che hanno al momento in cui partecipano allo studio clinico, sebbene questo aspetto lo percepiscano in modo meno concreto. Inoltre, vi sono casi in cui i pazienti, confidando pienamente nei consigli del loro medico, accettano di partecipare allo studio proposto loro in un nobilissimo sforzo di cooperare allo sviluppo della ricerca e al progresso della Medicina. Ciò che ognuno di noi che facciamo ricerca clinica dovremmo chiederci è in cosa potrebbe trarre beneficio "il mio paziente" considerato a titolo individuale dall'essere incluso in uno studio clinico. A volte, pazienti che con la loro terapia abituale riescono a vivere in modo accettabile la loro malattia vengono scelti per partecipare a uno studio anche se non si sa se il nuovo trattamento proposto farà loro bene o meno. In alcuni studi, i pazienti possono partecipare attivamente a questa esperienza raggiungendo un miglioramento evidente se l'obiettivo primario dello studio è volto alla risoluzione di un sintomo concreto, ad esempio l'attenuamento di un dolore specifico indotto dal nuovo farmaco usato nello studio rispetto al placebo o agli antidolorifici che assumeva in precedenza. Di contro, in altri processi, ad esempio nel caso di studi volti a ridurre i livelli di colesterolo o la pressione arteriosa sperando così di ridurre gli eventi cardiovascolari o allungare le aspettative di vita, i pazienti possono concludere lo studio senza aver sperimentato su sé stessi alcuna modifica tangibile. A volte, per alcuni la
conclusione dello studio può essere frustrante, perché "si aspettavano qualcosa" che forse non era stato loro spiegato in modo approfondito dai ricercatori prima dell'arruolamento. Nella maggior parte degli studi, tranne quelli che si riferiscono alla terapia antibiotica, il processo oggetto della ricerca è solitamente più o meno cronico e da essi il paziente non deve aspettarsi risultati spettacolari, se non quelli relativi alla propria qualità di vita. Se un paziente arruolato in uno studio condotto su processo cronico in cui si tenta di compiere ricerche sull'aspettativa di vita, della quale il paziente non sarà mai consapevole, risolve i sintomi che lo preoccupano seriamente, il paziente avrà la percezione dello scopo dello studio completamente diversa rispetto a quella del ricercatore, poiché quest'ultimo cerca aspettative di vita mentre il paziente persegue la qualità della vita. In tal senso, non risulta facilmente comprensibile per alcuni pazienti che venga proposto loro di partecipare a studi clinici con obiettivi che saranno da loro difficilmente compresi, per il semplice fatto che gli eventi che si intende sottoporre a ricerca "non rientrano nei loro piani vitali". Cioè, proporre a un diabetico o a un iperteso di partecipare a uno studio clinico che si propone di sapere se un agente farmacologico ridurrà le possibilità di eventi emorragici cerebrali è meno comprensibile che altre proposte direttamente relazionate con il suo problema di base. Cioè, un diabetico comprenderà meglio che lo scopo fondamentale di uno studio sia provare un farmaco per normalizzare il glucosio invece di cercare impatti favorevoli su un possibile ictus, allo stesso modo che un iperteso accetterà meglio di partecipare a uno studio clinico il cui obiettivo principale non sia l'incidente vascolare cerebrale bensì diminuire i suoi valori di pressione arteriosa elevata. Per tale motivo, gli studi meglio accettati sono quelli che cercano la risoluzione di un sintomo (dolore, palpitazioni, gastralgie, dispnea, angina, acido urico...) o la modifica di determinati parametri (pressione arteriosa, indice di massa corporea ...). È per tali motivi che molti studi clinici non godono dell'entusiasmo dei loro partecipanti, dato che i ricercatori cercano spesso risultati che nella pratica offrono poche aspettative reali e immediate per i loro malati. Inoltre, vi sono altri motivi significativi. A volte, gli effetti collaterali di un farmaco possono arrivare a superare i suoi possibili benefici terapeutici, ma anche così, questi ultimi tenderanno a essere ridotti al minimo, mentre le azioni sull'obiettivo primario principale, se sono state soddisfacenti, saranno
comunicate alla classe medica con grande entusiasmo. Basti citare un esempio: se un antiaritmico riesce a ridurre con risultato statisticamente significativo il numero di extrasistole ventricolari asintomatiche e prive di malignità rilevate con un Holter di 24 ore, ma i suoi effetti collaterali possono danneggiare gravemente la funzione della tiroide, questo non costituirà un argomento sufficiente per non raccomandare l'applicazione di tale agente antiaritmico per il trattamento di un'anomalia che in nessun caso metterà a rischio la vita del paziente. Abbiamo già spiegato in precedenza in questa monografia i risultati dello studio CAST, che mostrano un'abbondante presenza della testi appena descritta. In un altro filone, nessuno meglio che lo stesso paziente è nella posizione di discutere degli effetti positivi o negativi di un farmaco in relazione al grado di benessere o malessere che gli fornisce la sua partecipazione a uno studio clinico che si propone di convalidare i possibili effetti teorici di un farmaco non sufficientemente provato clinicamente. Ebbene, nonostante tutto ciò, noi ricercatori continuiamo ostinatamente a verificare le modifiche dei biomarcatori degli aspetti relativi alla qualità della vita del paziente. Solitamente, i rapporti che può fornire lo stesso paziente e derivati dalla sua esperienza con il farmaco oggetto dello studio non vengono quasi mai valutati come obiettivo fondamentale di uno studio. È vero che i quaderni in cui si raccolgono le note secondarie e i dettagli sulla qualità della vita e l'accettazione del farmaco fanno parte della struttura dello studio, ma quasi mai assumono la rilevanza necessaria ad assumere una posizione di primo piano pari a quella dei risultati finali. In un vano intento di discolpa, si spiega a tal proposito che la soggettività individuale non consente di stratificare in un modello matematico rigido l'impatto di un sintomo o di un altro nel contesto generale che si intende analizzare. In altre parole, se ci riferissimo al dolore, che un "dolorimetro" in cui ciascuno contrassegnasse la propria soglia disagio o di miglioramento, risulterebbe uno strumento di lavoro inutile in quanto i suoi risultati finali non avrebbero la sufficiente penetrazione matematica da renderlo "statisticamente significativo". In questo contesto, i farmaci che migliorano o neutralizzano le epigastralgie prodotte dall'ulcera gastrointestinale sono generalmente valutati dai ricercatori su due versanti principali: la ricorrenza di sanguinamenti e le necessità di interventi
chirurgici, ma in pochi casi i risultati rispecchiano il grado di miglioramento clinico degli ulcerosi, sebbene ciascuno di essi, a titolo singolo, abbia una soglia di percezione del dolore completamente soggettiva. Il che non ha neppure troppo senso commerciale, dato che niente interessa maggiormente al medico e al paziente che alleviare un sintomo (l'epigastralgia) che rende la vita insopportabile, mentre la possibilità di evitare un sanguinamento intestinale o un intervento chirurgico d'urgenza sono percepiti come meno determinanti rispetto al trattamento sia dal medico sia dal paziente. In altri termini, se un antiulceroso riesce ad avere successo, lo fa più per i suoi effetti risolutivi sul dolore di stomaco che per l'eventualità di una improbabile emorragia. E questo, inoltre, lo sanno perfettamente bene i laboratori farmaceutiche che promuovono tale tipo di studi. La maggior parte degli studi clinici valuta i sintomi rilevanti secondo una scala numerica un po' stupida, ma perfettamente valida ai fini dell'estrazione di risultati matematici. Pertanto, i sintomi vengono stratificati in una valutazione fornita dallo stesso paziente nel suo quaderno della qualità della vita in base al seguente modello: Assegni un 1 se il sintomo di cui soffre è "leggero", assegni un 2 se percepisce il sintomo come "moderato" e assegni un 3 se considera il sintomo come "grave". Quando si arriva al calcolo finale, si procede a estrarre la media aritmetica dall'insieme e si conclude dicendo che il tale sintomo è stato aggravato o migliorato di un 54,72% (tanto per fornire un dato) e restiamo tutti altrettanto perplessi che prima di iniziare. Che significa ridurre percentualmente un dolore? Tutti i malati aspirano legittimamente a liberarsi del sintomo e l'attenuamento parziale è in realtà una cosa di cui nessuno si accontenta. Esistono altre scale ancor più pittoresche del "dolorimetro", una specie di nastro metrico che va da 1 a 100 e in cui il paziente stabilisce il clivaggio dove crede si trovi il suo benessere o malessere. E che conclusione di carattere pratico possiamo ottenere se la riduzione nel "dolorimetro" prima e dopo lo studio è scesa da 62 a 44, ad esempio? La pratica medica dimostra che oggi il paziente si sente meglio, domani un po' meno bene e il giorno successivo estremamente dolorante, per poi ristabilirsi in seguito. Ebbene, considerando che questo accade nella pratica quotidiana dell'ambulatorio medico, gli studi clinici intendono derivare conclusioni chiare applicando modelli matematici che non risolvono adeguatamente i capricci mutevoli e imprevedibili della biologia umana, ignorando inoltre la ricettività tanto individualizzata che ogni paziente sperimenta di fronte al malessere.
In molti casi, i questionari medici di followup sono eccessivamente diretti. In questo senso, è molto comune chiedere al paziente in modo insistente circa determinati sintomi, sui quali, invariabilmente, si ottiene una risposta assolutamente condizionata. Ad esempio, se si chiede con enfasi "Quanti eventi di mal di testa ha avuto dall'ultima visita?" Il paziente, in questo momento, ripercorre nella sua memoria gli eventi, innanzitutto cercando di ricordare se ha avuto mal di testa e successivamente quante volte e con quanta intensità. La risposta non sarà accettabile, in quanto la domanda è stata eccessivamente condizionante. Sarebbe molto più logico chiedere: "Ha avuto qualche disturbo o qualche sintomo nuovo che pensa di poter mettere in relazione con il nuovo trattamento dall'ultima visita?" A partire da lì, il paziente si sentirà molto più libero di dare una risposta molto più coerente e in linea con la propria evoluzione. A volte, succede che il resoconto dei pazienti non rientri nei piani del progetto elaborati dai ricercatori per lo sviluppo dello studio. È raro che aspetti relativi alla vita intima delle persone siano elementi da prendere in considerazione al momento di valutare gli impatti sulla qualità di vita imputabili all'azione del farmaco studiato, nonostante l'evidente importanza che possono avere. Ad esempio, tutti sappiamo in che modo problemi di carattere personale, coniugale, sessuale, professionale, economico ecc. possano riuscire a ripercuotersi sulla qualità della vita delle persone e in che modo tali problemi possano perfino alterare lo stato di salute. Tuttavia, raramente tali alterazioni vengono analizzare in relazione con l'azione dei farmaci. Un paziente che accetta di partecipare a uno studio clinico raramente è rappresentativo di ciò che realmente si verifica nella popolazione generale e questa inaccuratezza non viene quasi mai contemplata nelle conclusioni degli studi clinici. Pochi pazienti diventano così disciplinati come quelli inclusi in uno studio. Non solo assumono scrupolosamente il farmaco, ma ad ogni visita fanno al medico un resoconto delle compresse assunte e di quelle che hanno smesso di assumere. In quale ambulatorio medico si procede in questo modo? I soggetti arruolati in uno studio clinico rispettano rigorosamente la dieta consigliata, fanno l'esercizio fisico quotidiano raccomandato, controllano scrupolosamente il loro peso per evitare pericolose deviazioni e si preoccupano più di altri di raggiungere gli obiettivi clinici e analitici che fanno parte dello studio. Se così non fosse e il paziente mostrasse un atteggiamento poco collaborativo con i ricercatori, sarebbe escluso immediatamente dallo studio a causa di una "inaccettabile violazione del protocollo". Stando così le cose, si potrà facilmente dedurre, i risultati e le conclusioni derivanti da uno studio di questo tipo
potranno essere applicati esclusivamente a quei pazienti che mantengano un comportamento esemplare nella loro vita abituale, sebbene l'esperienza ci insegni che di questi sono pochi coloro che poi vediamo negli ambulatori di ogni giorno. Non sono parimenti accettati negli studi quei pazienti con prognosi vitali negative e a breve termine. Si è soliti escludere pazienti affetti da malattie terminali come cancro, diabete non controllato, ipertensioni gravi e refrattarie, insufficienza cardiaca, renale o epatica di grado avanzato ecc. Cioè, la maggior parte degli studi preferisce verificare gli effetti dei farmaci in una popolazione poco malata e con aspettative di vita lunghe, escludendo invece coloro che hanno problemi seri e prognosi negative. Questo desiderio dei ricercatori di trovare "pazienti puri", non contaminati da altre malattie concomitanti conduce all'invalidazione dei risultati finali, in quanto noi medici ci occupiamo abitualmente di pazienti molto contaminati in cui la purezza patologica si verifica molto di rado. E tuttavia, quando si elaborano le conclusioni finali degli studi e si stabiliscono le indicazioni del farmaco analizzato, si tende a generalizzarle per renderle idonee al trattamento sia di pazienti "patologicamente puri" sia di coloro che non hanno potuto essere inclusi nello studio a causa della presenza di caratteristiche non idonee. Paradossalmente, una percentuale compresa tra circa il 5 e il 10% dei pazienti inclusi nella preselezione degli studi possiede allo stesso tempo sia criteri di inclusione sia di esclusione, e quindi il compito di decidere per l'accettabilità o l'inaccettabilità definitiva spetta in ultima analisi del ricercatore. Uno studio condotto in Finlandia alcuni anni fa mise in evidenza questa spinosa questione. Furono esaminati 400 pazienti affetti da ulcera gastrica per analizzare le complicanze gravi che avrebbero potuto eventualmente presentarsi in un periodo di 10 anni e la protezione che era possibile ottenere con la somministrazione di un certo farmaco. Dei 400 pazienti, solo 80 (20 %) mostrarono criteri di ammissibilità adeguati a essere arruolati nello studio, mentre il resto fu escluso. Al termine del periodo di osservazione, si constatò che le complicanze "ammissibili" erano state molto basse e la protezione del farmaco risultò statisticamente significativa. Tuttavia, qualcuno analizzò tutti i dati, sia quelli idonei sia i 320 che furono respinti come non arruolabili. Questa analisi post hoc dimostrò che in oltre il 70% dei 320 casi erano state osservate, con lo stesso farmaco, complicanze molto gravi, molte delle quali mortali.
Un esempio simile lo otteniamo in molti studi realizzati per esaminare gli effetti favorevoli di determinati farmaci nella sopravvivenza postinfarto miocardico. Sappiamo, epidemiologicamente, che la mortalità totale nel primo anno dopo infarto varia tra il 6 e il 10 % considerando tutti i casi a livello mondiale. Nella maggior parte degli studi pubblicati, la mortalità del primo anno non solo è inferiore a circa il 2-3%, bensì anche quella del placebo è del 3-4%. Per spiegare tale differenza vi sono argomenti abbastanza semplici: negli studi clinici i criteri di inclusione ed esclusione filtrano intenzionalmente la selezione, in modo che i pazienti inclusi sono quelli che presentano i profili patologici meno compromessi, il che indubbiamente influenza fortemente la mortalità globale, si faccia o meno alcun intervento terapeutico di sorta, come dimostrano perfino gli effetti del placebo. Davvero non è facile applicare determinati modelli di studio per questioni tanto fallibili come la biologia o percezioni tanto individualizzate come i sintomi, ma è chiaro che i sistemi di studio attuali non risolvono il conflitto. Magari un accordo più adeguato potrebbe riuscire a conciliare entrambe le procedure, armonizzandole, il che potrebbe tradursi in una visione molto più realistica delle autentiche dimensioni del problema, tentando di evitare che i pazienti arruolati negli studi siano più rappresentativi di una popolazione generale e non un gruppo di élite poco rappresentativo come avviene attualmente.
8.- GLI STUDI CLINICI DEVONO ESSERE SEMPLICI, IN DOPPIO O TRIPLO CIECO CONFRONTATI A PLACEBO? SI DOVREBBE CAMBIARE LA METODOLOGIA E LA SISTEMATICA?
È un fatto noto da tempo l'effetto placebo che può comportare tutto ciò che viene ingerito per via orale dall'aspetto di farmaco, che si tratti di un farmaco vero o di un placebo. Quando si realizzano studi clinici, l'azione del placebo può migliorare non solo i sintomi collegati alla psiche come il dolore, bensì a volta possiamo assistere perplessi a riduzioni notevoli della pressione arteriosa, a una migliore tolleranza all'esercizio fisico e all'angina pectoris, o perfino alla 'miracolosa' guarigione di un'ulcera gastrica. La trasmissione orale ci insegna da molti anni come guaritori o luoghi di profonda fede religiosa possano riuscire a far sparire immediatamente le verruche cutanee o far camminare degli invalidi da anni sulla sedia a rotelle a causa di malattie neurodegenerative "incurabili". Personalmente, non ho mai compreso del tutto né gli effetti del placebo né le guarigioni istantanee o spettacolari. Forse la mia mente, esageratamente razionale e abituata a un modo di pensare eccessivamente eclettico, mi ha portato a questo tipo di rifiuto in base al quale ciò che non è dimostrabile non esiste, per tanto che l'evidenza me lo metta sotto gli occhi. A proposito delle impostazioni in semplice, in doppio o triplo cieco degli studi clinici e che abbiamo già spiegato in precedenza, crediamo che sia una buona pratica, e pertanto utile, fondamentalmente perché diminuisce notevolmente le inaccuratezze. Nello studio in cieco semplice, il paziente è l'unico a ignorare se ciò che assume sia un placebo o un farmaco attivo. Entrambi i composti devono essere non fisicamente distinguibili tra loro. Nella maggior parte degli studi la fase placebo solitamente precede quella del trattamento attivo o viene mantenuta in uno dei gruppi durante tutta la durata dello studio. Nello studio in doppio cieco, sia per il paziente sia il team di ricercatori ignorano ciò che viene assegnato. Questo rappresenta il modo più consigliabile e quello
che solitamente viene utilizzato nella maggior parte degli studi, poiché riduce al minimo la possibilità di inaccuratezze. Il triplo cieco è solitamente meno comune, poiché per motivi di sicurezza il comitato scientifico che coordina lo studio deve sempre sapere se un dato paziente si trova sotto placebo o farmaco attivo affinché, in caso di necessità, sia possibile intervenire per risolvere eventuali problemi medicalmente. Gli studi in cieco sono necessari e i loro risultati sono più credibili. Questo perché quanto maggiore è l'interesse dell'obiettivo primario perseguito tanto maggiore deve essere la mancanza di conoscenza di ricercatori e pazienti in relazione a ciò che viene assunto (farmaco attivo o placebo). Logicamente, il lettore penserà che ciò non sia sempre possibile per ovvie ragioni. Uno studio in cieco può essere realizzato quando parliamo di trattamenti farmacologici cercandone gli effetti a fronte di un problema specifico di salute o una malattia, ma non è fattibile quando compiamo ricerche su procedure chirurgiche (ad esempio, risultati di un modello di protesi rispetto a un'altra o evoluzione di un problema di aritmia trattato con un antiritmico rispetto a un defibrillatore impiantabile ecc.) o quando ci si prefigga di conoscere l'impatto favorevole o sfavorevole di uno stile di vita (dieta ed esercizio fisico) a fronte dell'obesità. Nonostante le buone intenzioni di cui ci si arma solitamente per realizzare studi farmacologici effettivamente in cieco, a volte è impossibile mantenerli nell'ignoranza assoluta. Molti pazienti possono percepire se si trovano nel gruppo placebo o in quello di trattamento attivo a seguito della comparsa di nuove manifestazioni cliniche che non accusavano prima di iniziare lo studio clinico. E così, in molti di loro appartenenti al gruppo di trattamento attivo, solitamente compaiono sintomi nuovi, ad esempio palpitazioni o polso rallentato, o tendenza a svenimenti o diarrea, stitichezza, cefalea ecc. che essi associano rapidamente all'azione della pillola che viene loro somministrata nello studio clinico. Quando comunicano al ricercatore la percezione di questa nuova sintomatologia, questi, che già conosce benissimo tutti gli effetti collaterali imputabili al farmaco dello studio, finisce per sapere anche in quale gruppo di randomizzazione è stato incluso il suo paziente. Non si tratta di una questione futile, in quanto a partire da lì sia il medico sia il paziente saranno "più sensibili" a queste azioni derivate dall'agente dello studio,
il che a volte potrebbe portare a essere più interventista, modificando magari il dosaggio o aggiungendo altri farmaci consentiti nell'impostazione dello studio, ma che potrebbero alterare il risultato finale. Questa "violazione" circostanziale e non intenzionale del doppio cieco costituisce un'inaccuratezza indiscutibile che influirà decisamente sul risultato finale. A mo' di aneddoto, racconterò ciò che mi riferì qualche anno fa un collega galiziano che dirigeva uno studio clinico in doppio cieco, randomizzato e incrociato. Un giorno, uno dei pazienti inclusi nello studio avvertì il medico che gli era stato cambiato il farmaco, nonostante l'aspetto esterno del placebo e del farmaco fossero identici. Il medico restò alquanto perplesso, dato che né lui né tantomeno il paziente dovevano conoscere la formulazione di quelle pillole. Quando il medico chiese al paziente quali fossero state le circostanze che lo avevano indotto a quella conclusione così peregrina, il paziente rispose in modo inappellabile: "Molto facile, dottore - gli disse -. Le pastiglie che mi dava all'inizio dello studio galleggiavano nell'acqua nel water, mentre queste nuove quando le getto nell'acqua affondano." Scherzi a parte, ogniqualvolta analizziamo i risultati di uno studio clinico, dovremmo accertarci bene se il semplice o doppio cieco sono stati condotti scrupolosamente, dato che l'inaccuratezza che potrebbe essere introdotta nel risultato finale non sarebbe trascurabile. Si pensi, ad esempio, che se sappiamo già in che modo un agente placebo può influire in una determinata sintomatologia, se stessimo investigando esattamente dei sintomi, i risultati potrebbero non rispecchiare fedelmente l'azione del farmaco per se a fronte dell'azione del vero placebo. Furberg descrive un fatto verificatosi negli Stati Uniti nel primo decennio degli anni '70. Un gruppo di ricercatori dell'Istituto nazionale americano della salute ha condotto uno studio in doppio cieco per un periodo di nove mesi al fine di scoprire se la vitamina C possa avere qualche effetto protettivo contro la comparsa del raffreddore comune in inverno. Si diceva che Linus Pauling, che morì all'età di novant'anni e che non aveva mai sofferto di catarro, ingerisse ogni giorno 20 grammi di vitamina C, una quantità 20 volte superiore a quella solitamente raccomandata nei casi di carenza. Furono inclusi nello studio 300 volontari sani, metà dei quali furono assegnati alla vitamina C e l'altra metà al placebo. Il risultato finale mostrò che l'incidenza del raffreddore comune in
entrambi i gruppi era stata simile, ma in quelli che assumevano vitamina C il catarro era durato di meno ed era meno sintomatico. Ciononostante, analizzando accuratamente i fatti, si scoprì che un gruppo di soggetti estremamente "curiosi" non aveva rispettato il doppio cieco aprendo le capsule e assaggiandone il contenuto (il sapore della vitamina C è molto caratteristico) e alcuni di loro fecero addirittura un'analisi della formulazione. Quando i ricercatori analizzarono ciascun soggetto singolarmente, verificarono che coloro che non avevano violato il protocollo avevano avuto un'intensità e una durata dei sintomi catarrali simili per un gruppo o l'altro, mentre in coloro che sapevano ciò che stavano assumendo la durata del raffreddore comune era stata più breve e i sintomi più leggeri rispetto a quelli di coloro assegnati all'assunzione di vitamina C. Cioè, furono in un certo qual modo "vittime" dell'effetto placebo. Il caso descritto nel paragrafo precedente dimostra come gli studi in semplice e doppio cieco possano vedere modificate le proprie conclusioni se il mascheramento di ciò che si sta assumendo viene alterato. Correlato a quanto detto in precedenza, vi è anche il fatto che molti pazienti inclusi in uno studio clinico possono, poiché lo stabilisce la Convenzione di Helsinki, abbandonare volontariamente lo studio in qualsiasi momento del suo svolgimento senza che sia possibile fare nulla per trattenerli, siano o meno a conoscenza di ciò che stanno assumendo, a prescindere dalla comparsa di effetti secondari indesiderati. Altre volte, sono gli stessi ricercatori che adottano la decisione di escludere un determinato paziente dallo studio perché magari ha violato il protocollo in modo inaccettabile, perché il suo quadro clinico peggiora o a causa di effetti indesiderati non eticamente accettabili. Dunque, in che modo tali modifiche in itinere dello svolgimento dello studio possono influire sulle sue conclusioni finali? A volte, le decisioni volontarie o imposte per l'abbandono di uno studio clinico in corso da parte di uno o più pazienti possono influenzare in modo decisivo i risultati. Vediamolo con un esempio: Lo studio Anturane Reinfarction Trial (ART) è un esempio molto caratteristico del modo in cui determinati abbandoni possono influenzare in modo favorevole il risultato finale. L'obiettivo primario di questo studio era stabilire se un Sulfinpirazone come l'Anturane, con note proprietà sulla adesività delle piastrine per prevenire la formazione di coaguli di sangue, migliorasse la prognosi a due anni in pazienti sopravvissuti a infarto miocardico. Settantuno dei 1.629 pazienti
arruolati nello studio lo abbandonarono prematuramente. Quando si analizzarono i dati, si verificò che esattamente questi 71 casi (38 assegnati ad Anturane e 33 a placebo) non rientravano nei criteri di ammissibilità richiesti per l'inclusione. Il fatto potrebbe are quasi inosservato, ma approfondendo l'analisi si rilevò che di questi 71, 10 dei 38 pazienti trattati con Anturane erano deceduti (26,3%) rispetto a 4 del gruppo placebo (12,1%). Le differenze sono evidenti: Anturane dava risultati molto peggiori rispetto al placebo. Tuttavia, i risultati finali, ovviando le differenze appena menzionate ed eliminando i pazienti che erano stati esclusi, configurarono dei risultati completamente diversi, naturalmente favorevoli al Sulfinpirazone. È evidente che tutte queste inaccuratezze di metodologia e followup influiranno tanto più sui risultati quanto più ridotto sarà il numero di pazienti e controlli inclusi negli studi, dato che uno studio piccolo evidenzia questi fatti, mentre i megastudi tendono a diluirli.
9.- LE METANALISI: UN CALDERONE DOVE TUTTO È AMMESSO?
A prescindere dall'esperienza che ciascun medico acquisisce nel corso della propria vita professionale, è indiscutibile che noi medici non disponiamo di altre fonti di informazione se non quelle che vengono pubblicate. Tali fonti di saggezza vengono somministrate in corsi, conferenze, simposi, workshop e soprattutto riviste scientifiche stampate o divulgate su altri i più moderni. A essi ci rivolgiamo tutti per fornire prestazioni ottimali, come la società giustamente ci richiede, in una professione che richiede un continuo aggiornamento, poiché in caso contrario, smettere di informarsi significherebbe diventare obsoleti nel giro di dodici mesi. A tal fine, gli articoli scientifici ben redatti e con un'ottima presentazione (non quelli retorici e ancor meno quelli ambivalenti per non dire ingannevoli) sono quelli che realmente ci forniscono le conoscenze necessarie per offrire ai nostri pazienti una medicina di qualità più alta. A volte, la complessità di determinate malattie e il relativo trattamento giustificano che affinché una tesi acquisisca legittimità è necessario che sia avallata non solo da un'esperienza medica isolata, bensì che sia il risultato conclusivo di molte esperienze volte allo stesso fine. Cioè, non fu sufficiente che Flemming scoprisse che il Penicillum Notatum, che casualmente si posò sulla sua piastra di test agar sangue, annientava determinati batteri che crescevano spontaneamente, bensì in seguito furono necessarie numerosissimi e ripetuti esperimenti medici che stabilissero che la penicillina curava davvero molte delle infezioni a quei tempi inesorabilmente mortali. Il "that is funny" di Sir Alexander Flemming dovette essere riconfermato con il "that is true" di milioni di esperimenti individuali in tutto il mondo. Con quanto detto in precedenza, intendo che solitamente molte ipotesi e tesi mediche messe in evidenza per la prima volta in uno studio clinico isolato necessitano di una conferma, per ripetizione, in altri studi medici simili e soprattutto siano avallate dalla pratica medica quotidiana. Questa esperienza dello studio clinico reiterato spinge i medici allo studio di molti di essi con l'obiettivo di accertarsi di quanto si dice nel complesso. Tuttavia, accade che frequentemente le stesse impostazioni diano risultati, se non
contraddittori, almeno poco coincidenti in molti casi, il che provoca la conseguente confusione di coloro che li analizzano. E questa rappresenta una delle sfide più ardue che deve affrontare il medico dal momento in cui due lavori volti verso la stessa direzione generano risultati non coincidenti o contraddittori tra loro. Per risolvere questa ambiguità, alcuni analisti di studi clinici già pubblicati hanno implementato una singolare formula analitica che hanno chiamato metanalisi, una specie di "zuppa Bouillabaisse" in cui si mescola qualsiasi tipo di pesce e il cui sapore finale risulta a volte indecifrabile. Le conseguenze risultano all'apparenza paradossali, poiché sebbene si dovrebbe pensare a priori che i colori che compongono l'insieme di un quadro dovrebbero tendere all'armonia per evidenziare la bellezza dell'insieme, l'esperienza ci insegna, tuttavia, che molte volte i pennelli che sono stati usati da molte mani diverse hanno gettato in modo arbitrario sulla tela pigmenti distorti che hanno dato come risultato un quadro astratto difficile da interpretare. La metanalisi è composta da un numero più o meno ampio di studi clinici già pubblicati e i cui progetti e metodologie sono in certo qual modo simili. Raggruppandoli tutti e analizzandone minuziosamente i risultati, gli analisti della metanalisi derivano conclusioni che hanno lo scopo di rafforzare l'obiettivo principale di tutti gli studi, con la strana idea che "non tutto il male viene per nuocere", senza tener presente, nella gran parte dei casi, che le singole inaccuratezze producono una eco potente quando si sommano nel complesso metanalitico. Ad esempio, se la conclusione finale di uno studio clinico che entra a far parte della metanalisi dà un risultato di scarsa significatività statistica e va a sommarsi a quello di uno studio simile dotato di grande potere statistico, il metanalista ricava la media aritmetica e tenta di conciliare il risultato sfavorevole con quello favorevole dando luogo a un risultato "accettabile". Per riuscire a trarre una conclusione obiettiva da questo tipo di metanalisi, il lettore deve essere molto critico, poiché alla fine di tutto sorgono le inevitabili domande: Quale dei risultati è maggiormente credibile, quello favorevole o quello sfavorevole? Perché, se la modalità è stata più o meno simile, alcuni ricercatori hanno ottenuto dei risultati sfavorevoli e gli altri invece favorevoli? E perché devo beneficiare del risultato medio offertomi dalla metanalisi quando le inaccuratezze di tale procedura si rivelano essere una cassa di risonanza per le singole inaccuratezze di ciascuno degli studi presi separatamente?
Nonostante quanto sopra, molte conclusioni di alcune metanalisi sono servite affinché voci interessate amplificassero i loro ambigui risultati tentando di creare un clima favorevole ai loro scopi. Speculano con il risultato medio e applicano, in modo dogmatico, la risultante di un valore che la maggior parte delle volte è di scarsa credibilità. Dovremmo aggiungere ora che non tutto è negativo nelle metanalisi. Uno studio metanalitico realizzato con rigore critico, metodologia scrupolosa e soprattutto che tenga conto dell'impatto negativo dell'inaccuratezza d'insieme, consente di combinare un numero straordinariamente elevato di pazienti affetti dallo stesso problema, magari che seguono lo stesso trattamento, il che potrebbe aumentare il potere statistico su un particolare aspetto della ricerca stessa. Ad esempio, se l'intento è conoscere l'impatto di un particolare processo nella mortalità generale, la metanalisi estende l'eco all'aumentare del potere statistico dell'insieme. Al contrario, se la metanalisi ha lo scopo di conoscere aspetti poco misurabili come indici della qualità della vita o riduzione nella scala del dolore, i risultati saranno all'apparenza molto poco scientifici e soprattutto scarsamente convincenti. Le metanalisi consentono, allo stesso modo, di realizzare uno studio selettivo di sottogruppi che in un altro modo, e in base allo scarso numero che sarebbe possibile analizzare nello studio isolato, non risulterebbe con il sufficiente potere statistico necessario a derivare delle conclusioni. Tuttavia, non bisogna dimenticare che una metanalisi molto obiettiva pondera il risultato finale evitando gli estremi radicali e pericolosi. A volte, finisce che le metanalisi stabiliscano il proprio pool analitico raggruppando indiscriminatamente popolazioni molto diverse tra loro, il che invalida il risultato, che dovrebbe essere applicato in modo selettivo. Così, è abituale che l'insieme di soggetti inclusi in una metanalisi provengano non solo da Paesi con culture e stili di vita molto diversi, ma anche nella maggior parte dei casi non sono solo multinazionali ma comprendono anche vari continenti. Basti un esempio per determinare la dispersione di dati che può generare una metanalisi. In Spagna, l'incidenza di patologie tanto comuni come l'ipertensione o la malattia coronarica è assolutamente eterogenea a seconda della comunità di cui parliamo. Se realizziamo studi comparativi tra comunità come la Galizia, le Canarie o la Catalogna, le differenze tra queste possono essere quasi del 50%. Se questo si verifica in un Paese di dimensioni medie come la Spagna con stili di vita più o meno simili tra le diverse regioni che compongono l'insieme nazionale, immaginiamo cosa può succedere se si realizzano studi medici
comparativi o si mescolano dati metanalitici tra Paesi tanto diversi come la Norvegia, l'Uruguay e lo Zambia. Molte metanalisi tendono a includere sia gli studi pubblicati sia quelli non pubblicati e questa è allo stesso tempo una cosa positiva e negativa. Da un lato, includendo quelli non pubblicati, a causa delle loro incoerenze o perché le conclusioni sono state incontestabilmente negative o perché il potere statistico è stato insufficiente, mescolandoli con quelli pubblicati, l'insieme potrebbe portare a un risultato ancora più confuso, con l'incremento pericoloso dell'inaccuratezza e della dispersione metanalitica finale. Dall'altro lato, l'insieme di tutti questi, se la metodologia è stata corretta, darà come risultato finale qualcosa di più equilibrato. A tal fine, dovesse mai servire a qualcosa la metanalisi (cosa di cui dubito), si dovrebbero includere quegli studi che sono stati ben progettati e dotati di impostazioni e obiettivi molto coerenti e ben definiti. Le metanalisi dovrebbero fare riferimento esplicito alla loro metodologia di lavoro sui criteri di inclusione ed esclusione dei vari studi individuali che sono stati selezionati o rifiutati per far parte dell'insieme. Tuttavia, succede che molte metanalisi con interessi propri, cioè inconfessabili, includono soltanto studi clinici già pubblicati e i cui risultati sono sempre stati positivi, escludendo il resto. Ciò basta a rendere meno credibile il risultato finale. Inoltre, le metanalisi includono nell'insieme pazienti con caratteristiche molto diverse. È normale che ciascun singolo studio proponga i propri criteri di inclusione ed esclusione, in base all'età, la gravità della malattia su cui si realizza lo studio, le malattie concomitanti, gli stili di vita e la dieta, i profili demografici come il sesso, l'età e l'indice di massa corporea, i farmaci, la conformità al trattamento e perfino metodologie specifiche in relazione agli esami complementari di tipo analitico (sangue, urina e altri fluidi) o tecniche strumentali per lo studio dei vari problemi specifici (ecografie, radiologie, procedure chirurgiche, protesi ecc.). D'altro canto, le metanalisi lavorano con studi clinici dalle dinamiche molto diverse, il che non consente un'analisi rigorosa dell'evoluzione temporale di problemi specifici. Cioè, derivare, ad esempio, conclusioni globali di morbilità e mortalità temporalizzate in base a studi che hanno stabilito i propri periodi di studio in modo arbitrario e molto distinti tra loro non si può fornire all'insieme il rigore necessario affinché la conclusione finale sia accettabile. Se uno studio
analizza le circostanze di un gruppo per un periodo di un anno, i risultati non dovrebbero essere metanalizzati con un altro la cui evoluzione è di cinque o più anni. La media risultante non dovrebbe essere aritmetica, come di solito viene presentata. Sarebbero necessari calcoli basati sulla trasformata di Fourier veloce e neanche così le conclusioni finali avrebbero la validità necessaria per are un'azione clinica. Potremmo concludere segnalando che le metanalisi costituiscono una metodologia di studio, ma i suoi limiti non sono eccessivamente ampi come, al contrario, lo sono le inaccuratezze e le conclusioni che da essi è possibile derivare. Tutti i lettori di queste procedure dovrebbero essere molto critici nell'interpretare i dati ed estremamente cauti nel tentare di mettere in atto nella loro pratica medica le proposte avanzate in molti di essi. Qualcuno ha sottolineato, non senza motivo e buon umore, che "le metanalisi stanno alle analisi come la fisica alla metafisica. Cioè, nulla".
10.- LA PUBLICAZIONE DEI RISULTATI: L'IMPORTANZA DELLA SCELTA DEL MEZZO.
Delle persone notevoli e importanti solitamente si dice, in modo scherzoso, che "fino a che il loro necrologio non compaia pubblicato su ABC, ufficialmente non sono morti". La pubblicazione di qualsiasi notizia è importantissima non solo per qualsiasi scopo che si desideri perseguire, ma anche il mezzo scelto per diffonderla deve essere di grande impatto. I ricercatori lo sanno bene, sia perché desiderano divulgare le proprie scoperte a un pubblico il più vasto possibile, sia perché da tale divulgazione sperano di ottenere i maggiori e migliori benefici. Ma c'è di più: da un lato, i ricercatori conoscono bene i mezzi di maggior impatto, dall'altro i patrocinatori degli studi li cercano con impegno e a volte con tutti i loro sforzi affinché una data pubblicazione compaia in un mezzo di comunicazione di prestigio, e infine se è così è perché sanno che i medici, che in fin dei conti sono quelli che metteranno in pratica le conclusioni degli studi, cercano le loro migliori informazioni scientifiche nelle riviste di maggiore prestigio medico. Pertanto, non è sempre buono né tantomeno garantisce l'autenticità di quanto pubblicato per quanto possa essere "selettivo" il mezzo in cui lo si pubblica. A volte, ho assisto perplesso agli interessanti dibattiti prodottisi nei nostri congressi e simposi, in cui si intendeva risolvere due posizioni confrontate con un argomento "netto": "Questo è così perché è stato pubblicato sul New England Journal of Medicine, su Lancet o sull'American Journal of Medicine" e con questa semplicità così poco accettabile, si tenta di appianare il disaccordo; una parte resta scioccamente soddisfatta e l'altra stupefatta per la futilità dell'argomento, ma ovviamente sia gli uni sia gli altri restano quasi sempre con il dubbio. La domanda a quanto espresso in precedenza può essere sintetizzata molto semplice: Il prestigio di una rivista medica garantisce l'autenticità e l'affidabilità dei risultati di uno studio clinico? Personalmente, ho i miei dubbi, che non sono di tipo metafisico, in quanto mi baso sul fatto che ciò che oggi si pubblica come un dogma in una rivista di indiscusso prestigio, dopo poco tempo un'altra, di pari reputazione, lo smentisce categoricamente.
Ciononostante, c'è qualcosa che è chiaro e come tale dobbiamo segnalarlo: nella maggior parte, le riviste mediche e soprattutto quelle più rinomate, non solo sono molto severe e critiche con quanto pubblicheranno ma, dispongono anche di un buon numero di consulenti molto affidabili e di nota fama, senza la cui approvazione nessuno studio concreto sarebbe accettato se privo di alcuni determinati requisiti. Tra questi requisiti occorre citare l'interesse scientifico di quanto si intende pubblicare, i suoi aspetti innovativi, l'idoneità di impostazione e realizzazione della metodologia, l'elaborazione dei risultati, i dettagli statistici, la stessa discussione fatta dagli autori e una bibliografia adeguata che compaia e arricchisca i contenuti dell'articolo. Inoltre, si suppone che le valutazioni prepubblicazione realizzate dagli esperti siano fatte in cieco, cioè nell'articolo non figurano né i nomi dei ricercatori né il centro in cui è stata realizzata la ricerca. Questo, solitamente, è così, ma per vari motivi, ho qualche dubbio personale al riguardo. Ad esempio: alcuni ricercatori preparano lo sviluppo della metodologia dello studio in un modo tale che a volte è molto facile scoprire la fonte del lavoro. D'altro canto, a volte sorprende che lavori di poca significatività clinica, sempliciotti, ma suffragati in parte o nella loro interezza dall'industria farmaceutica ottengano una maggiore eco rispetto ad altri molto più importanti ma di minor impatto economico e che solitamente sono messi in pratica da centri non sovvenzionati, quindi senza nessun tipo reale di ciò che viene comunemente indicato come "conflitto di interessi". Inoltre, succede che sebbene i valutatori tentino di essere obiettivi nelle loro conclusioni, molti di loro svolgono questo lavoro quasi in modo completamente esclusivo, il che li può portare a un'attività eccessiva la cui base deve essere solidamente ata dall'imparzialità. A volte, gli editori inviano delle note al valutatore per indicargli "l'interesse" della rivista per un determinato articolo specifico. In altri casi, altre pubblicazioni di maggiore o minore impatto non dispongono di valutatori. Si tratta di un lavoro che a volte è remunerato, mentre altre no, in quanto è lo stesso comitato di redazione che realizza la valutazione. Si deve supporre che tale comitato di redazione conosca bene la provenienza dell'articolo di cui viene richiesta la pubblicazione. Ma c'è di più: i valutatori, dopo aver analizzato il testo e prima dell'accettazione per la pubblicazione, possono inviare dei commenti al ricercatore, dandogli dei "suggerimenti" affinché modifichi determinati aspetti dell'articolo, condizione
sine qua non per la sua pubblicazione. È ovvio che molti ricercatori, con la prospettiva di vedere i propri lavori pubblicati, accettano i suggerimenti a modificare il contenuto dell'articolo. Oggigiorno, l'esistenza della maggioranza delle pubblicazioni dipende da una parte dagli abbonati e dall'altra dalla pubblicità. Ciò potrebbe comportare che il marketing che fa girare l'industria farmaceutica "motiverà" il comitato di redazione della rivista a condizionare la presenza o l'assenza di determinate pubblicazioni. Tutti sanno che sponsorizzare la pubblicità in una rivista medica su un prodotto specifico richiede che i contenuti di quest'ultima non pregiudichino gli interessi commerciali dello sponsor. Ciò spiegherebbe perché gli articoli con contenuti positivo compaiano con una veste migliore rispetto a quelli neutri o con effetti contraddittori. Nel mondo finanziario attuale l'impatto delle notizie può essere decisivo per i risultati. La maggior parte delle principali società farmaceutiche internazionali sono quotate nelle Borse dei principali mercati mondiali. Una notizia positiva "bomba" su un particolare farmaco può far salire le azioni in Borsa in un modo straordinario, rivalutando l'azienda, ma al tempo stesso una comunicazione negativa potrebbe comportare una vera e propria catastrofe economica, soprattutto se il farmaco in questione può avere effetti collaterali indesiderati o pericolosi. Recentemente, il Rimonabant, un farmaco "miracoloso" contro l'obesità e dai sedicenti effetti spettacolari per smettere di fumare, dovette essere ritirato di corsa dal mercato farmaceutico a causa dei disturbi psichiatrici che poteva produrre, e si sospettò che alcuni suicidi potessero essere stati causati dall'ingestione di questo anoressizzante. Il crollo di questo farmaco provocò, ovviamente, un crollo parallelo nelle azioni in Borsa del laboratorio che lo produceva. Ciò è noto a tutti coloro che lavorano in questo ingarbugliato mondo che, a volte, tesse una complicatissima tela piena di pori dai quali non sempre ciò che filtra è acqua pulita. Solitamente, al momento di presentare i risultati di determinati prodotti se ne evidenziano gli effetti positivi, mentre quelli negativi tendono a essere occultati o eliminati per òvvi motivi. Ciò che succede è che l'occultamento in questo mondo di salute e di malattia non solo è pericoloso, bensì la maggior parte delle volte è impossibile. Tutte queste circostanze dovrebbero incoraggiare i lettori delle grandi e prestigiose riviste mediche a essere molto critici con tutto ciò che si pubblica e
stabilire se gli scienziati che hanno realizzato il lavoro di ricerca e i valutatori che li hanno giudicati sono davvero indipendenti dallo sponsor. Le grandi industrie farmaceutiche e alcune aziende scientifico-mediche hanno tentato di risolvere questa potente e ben nota tendenza implementando un documento che hanno chiamato "conflitto di interessi", mediante il quale, una volta che tutti coloro che sono coinvolti riconoscono di non avere azioni in Borsa dell'azienda, né ricevere sovvenzioni sotto forma di borse di studio o altri sostegni in denaro per il lavoro in questione, assicurano che "avendo le mani libere", l'autenticità di tutto ciò che viene pubblicato è indiscutibile. Come diceva García Márquez in uno dei suoi ultimi romanzi, "il popolo trova sempre la verità, perfino dove non è possibile".
CONCLUSIONI: QUALE DOVREBBE ESSERE IL FUTURO DELLA RICERCA MEDICA?
Per forza di cose, il futuro della ricerca biomedica non potrà essere né così povero come in ato né così interessato come quello presente. In tutti i modi, è utile segnalare che, data la complessità dell'essere umano e del suo modo di ammalarsi, i programmi di ricerca clinica non saranno mai né ottimali né efficienti al cento per cento. Migliorandone la metodologia e cercando formule meno arbitrariamente statistiche come quelle attuali potremmo riuscire a conciliare due scienze tanto diverse come l'infallibile matematica e la fallibile biologia. Negli ultimi anni si è imposta una nuova concezione che potrebbe essere utile in alcune procedure nella ricerca clinica. Mi riferisco a ciò che ha assunto il nome di "medicina traslazionale" che in breve tenta di trasferire le scoperte elementari e primarie della ricerca di base alle complesse applicazioni cliniche. Un eccellente editoriale pubblicato da Bermejo e collaboratori nella Revista Española de Cardiología (REC 2009;62:66-8) fa una critica molto appropriata sulle limitazioni e proiezioni della ricerca medica attuale basata sulla medicina traslazionale. È evidente che più complesse diventano le procedure di analisi più si allontano i risultati della ricerca di base (sperimentale, sia su animali sia in vitro) dalle applicazioni cliniche. A riprova di ciò, è che nonostante ora più che mai si realizzino ricerche e si investa sempre di più, la comparsa di nuovi farmaci commercializzati è ogni giorno più scarsa e ancor meno le loro applicazioni cliniche. Si calcola che di circa cento ricerche di base su nuove molecole con presunte proprietà farmacologiche solo una o due sono arrivate nelle farmacie, mentre il resto sono state rifiutate. E ciò sia a causa della loro mancanza di efficacia terapeutica o delle loro interazioni farmacologiche, sia a causa della loro tossicità inaccettabile. Ciononostante, la "presunzione terapeutica intuitiva" di una nuova molecola, che potrebbe potenzialmente trasformarsi in farmaco applicabile a livello medico, insieme con i legittimi interessi commerciali, è ciò che spinge l'industria farmaceutica, i centri di ricerca e gli sponsor, ufficiali o meno, a mobilitare risorse significative per la ricerca e poi "traslare" le scoperte primarie al campo clinico. Tuttavia, succede che quasi il 99% di tali scoperte si
perdono per la strada, per i motivi spiegati in precedenza. Nonostante ciò, la Food and Drug istration americana ha deciso di destinare oltre 10.000 milioni di dollari ai centri che attualmente lavorando su modelli di ricerca medica traslazionale. La spiegazione è ovvia: la medicina traslazionale, in modo intuitivo ma anche persuasivo, tenta di trasferire all'ambulatorio medico dati prodotti in una provetta o dall'osservazione di un animale di sperimentazione le cui circostanze vitali sono radicalmente diverse da quelle degli esseri umani nella loro vita quotidiana. Una cavia nella sua gabbia non è la stessa cosa di un paziente nel suo letto. Queste scoperte in provetta o di biostudio in fase I solitamente non rispecchiano fedelmente quelle con cui noi medici ci confrontiamo ogni giorno di fronte a problemi molto personalizzati, poiché da sempre si dice che il buon medico non è colui che tratta le malattie, bensì gli ammalati in modo individuale. Nonostante i grandi progressi attuali e l'eccellente strumentalizzazione messa al servizio di una Medicina migliore, il miglior medico è colui che, dotato delle conoscenze più solide e aggiornate, si trasforma nel miglior sarto terapeutico per confezionare a ciascuno dei suoi pazienti l'abito migliore su misura. Con ciò, non intendo dire che non si debbano seguire le Guide di buona pratica medica elaborate da comitati di veri esperti, ma applicarle in modo irrazionale senza tener conto dell'individualità di ciascun caso invalida da un punto di vista professionale colui che segue tali indicazioni alla lettera senza fermarsi a riflettere sul classico argomento dettato da Galeno oltre 20 secoli fa: "Il miele e il vino sono buoni, lo so, ma fanno bene al mio paziente?" È evidente che la Medicina non potrebbe migliorare senza una ricerca adeguata e continua. Sembra pertanto necessario che gli studi clinici debbano continuare, ma dal mio punto di vista e dalla prospettiva che mi deriva da molti anni di ricerca clinica, dovrebbe cambiare molto nella loro realizzazione. A tal fine, occorrerebbe includere questa disciplina come materia obbligatoria nelle scuole di Medicina di tutti i Paesi, far acquisire dimestichezza con essa agli studenti, ai medici durante il loro periodo di formazione e ai medici clinici esperti nelle procedure abituali di ricerca di base e ricerca clinica e nelle analisi biostatistiche. Le università e i centri ad hoc dovrebbero recuperare la loro capacità di ricerca sia di base sia clinica e i governi dovrebbero implementare risorse nuove affinché i costi economici necessari per tali procedure siano interamente coperti dalle Agenzie statali del farmaco e non dall'industria farmaceutica, come succede attualmente, poiché non è accettabile che chi promuove i finanziamenti sia anche chi si attende dei risultati dalla cui fattibilità dipenderà inesorabilmente
il suo conto economico e il valore delle sue azioni di Borsa. Infine, dovrebbe essere promossa qualsiasi tipo di azione per tentare di avvicinare il più possibile il laboratorio di ricerca di base al letto dove soffre il paziente. A oggi, è un fatto sicuro che noi ricercatori di base e quelli clinici non comunichiamo tra noi in modo palese. Noi sappiamo di loro tanto quanto loro sanno di noi, ma nella pratica, ciò che ci unisce è la mancanza di comunicazione. È indubbio che i biomarcatori, a cui abbiamo già fatto riferimento in varie occasioni nel corso di questa monografia, sono assolutamente necessari per conoscere in dettaglio i meccanismi più intimi di coloro che sono affetti dalle malattie, allo stesso modo in cui le analisi genetiche ci mostrano oggigiorno, dalla scoperta del genoma umano, il motivo per cui alcuni soggetti sono affetti da una malattia e altri del loro ambiente più prossimo no. Ma non sarebbe ragionevole, né prudente dal punto di vista medico, speculare con i biomarcatori tentando di stabilire conclusioni di efficacia terapeutica degli agenti farmacologici basandosi esclusivamente sulle modifiche dei biomarcatori e restando inoltre queste tesi ate, in modo indiscutibile, dai freddi e astratti numeri forniti dalle statistiche, soprattutto quando molti dei biomarcatori oggetto di ricerca in laboratorio o non esistono nell'essere umano o nella pratica sono impossibili da rilevare. È un fatto incontrovertibile che, grazie ai risultati della ricerca biomedica, negli ultimi anni abbiamo assistito a una raffica di continue scoperte e alla realizzazione pratica di risorse innovative la cui efficacia, sebbene puntino nella giusta direzione, sono ancora in attesa di una dimostrazione e di conferme chiare. Mi riferisco all'applicazione di tecniche di terapia cellulare per processi fino ad ora molto difficili da risolvere o perfino incurabili o alla comparsa di nuove risorse diagnostiche, sempre meno invasive, per consentire un approccio diagnostico più accurato, o a risoluzioni delle immagini complesse che ci consentono di vedere fino agli angoli più reconditi dell'organismo per investigare in modo comodo e sicuro tutti i segreti finora nascosti di molte malattie. È evidente che pretendere di disporre della miglior medicina, come richiede la società moderna, obbliga a implementare risorse la cui solidità è in dubbio a causa della chiara mancanza di volontà di coloro che devono erogarle. D'altro canto, la complessità dei processi patologici con cui deve confrontarsi il medico a fronte di una popolazione malata ogni giorno in aumento e ogni giorno, inoltre, più legittimamente esigente, obbliga a un continuo aggiornamento per il quale
non esistono né eccessive possibilità né, soprattutto, tempo sufficiente. Sono numerosi gli interrogativi che al riguardo potremmo porci basandoci sui fatti certi e la cui risposta, temo, dovrà attendere qualche anno per ottenere una soluzione ragionevole. Non credo che tale risposta globale dipenderà dai risultati e dalle conclusioni nati dagli studi clinici, per quanto siano necessari; la soluzione, se si arriva a scoprire, sarà la conseguenza derivata dalla concomitanza di fattori multipli in cui soprattutto loro dovranno sorvolare su qualcosa che ai nostri giorni non gode di grande prestigio. Mi riferisco, è abbastanza chiaro, all'onestà individuale e soprattutto collettiva.
EPILOGO
Non posso considerare conclusa questa monografia senza esprimere la mia gratitudine a tutti coloro che, in un modo o nell'altro, hanno contribuito, direttamente o indirettamente, alla sua pubblicazione. Innanzitutto, a tutti i pazienti che, in modo volontario e libero, hanno partecipato agli studi clinici in cui sono stato coinvolto. Sono loro i grandi protagonisti di questa storia e senza di loro nulla di quanto ho scritto in queste pagine avrebbe senso. Da qui invito tutti coloro che possono contribuire a questa attività scientifica, perché è solo in questo modo che la scienza medica potrà continuare a progredire. Il mio riconoscimento va anche ai professionisti medici e sanitari che collaborano e continuano a collaborare con me in queste attività. È unicamente dal lavoro di squadra che si può sperare di ottenere i benefici che tutti noi cerchiamo in questa attività di ricerca. Mi rivolgo anche ai comitati scientifici ed etici degli studi clinici, alle agenzie nazionali ed internazionali del farmaco e all'industria farmaceutica per il loro contributo allo sviluppo della ricerca biomedica. Sono stati molti i colleghi che hanno recensito in modo critico queste pagine prima della loro pubblicazione. Da tutti e ciascuno di essi ho ottenuto utili consigli che mi hanno aiutato, a volte, a stimolarmi e altre sono riusciti a stemperare il mio pensiero perché fosse il più equanime possibile nella stesura di questo testo. In special modo, il professor Manuel Serrano Ríos, che si è fatto carico di leggere in modo esaustivo e dettagliato questa monografia per poi aggiungere il prologo. I suoi consigli, suggerimenti, commenti e note al margine sono stati per me di grande utilità e hanno costituito una magnifica opportunità per continuare a imparare dalla sua vasta esperienza di medico ricercatore. Infine, il mio riconoscimento più sentito va a questi meravigliosi esseri che ci ha regalato Madre natura e che hanno dato il titolo a questa monografia. Mi riferisco ai porcellini d'India, alle cavie, ai ratti di laboratorio, ai vermi, alle rane...e in generale agli animali da sperimentazione che orientano e guidano gli scienziati per far sì che l'uomo del nostro tempo possa vivere più a lungo e meglio.