POWER STORY GIOVANNI SWICH
TITOLO ORIGINALE POWER STORY
© 2011 GIOVANNI SWICH
Edizione digitale: febbraio 2014
ISBN: 9788868856038
Edizione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl
A Marcello, Adriana, Antonio.
A Luca.
“E’ come se vivessimo braccati da un assassino che prima o poi giungerà a stanarci: corriamo tutti verso una fine inesorabile.”
Woody Allen
“We are all in the gutter, but some of us are looking at the stars.”
Oscar Wilde
Power è un gran bel ragazzo. Ha quasi vent’anni e potrebbe fare grandi cose, ma la sua vita si divide tra l’odiata facoltà di Economia e l’insostenibile peso dei pomeriggi trascorsi nella sua camera affrescata, con la testa schiacciata sui libri di finanziaria, cercando di dar a malapena il secondo esame. L’unico lato positivo della sua vita sono le nottate trascorse nelle discoteche di Milano e dintorni, folli serate scandite da musica assordante, modelle, e vestiti di Armani. Ma il ventisette ottobre del millenovecentonovantotto la sua vita iniziò a cambiare, per non tornare mai più a esser quella di prima, colpa di suo fratello e di una ragazza tanto bella quanto pericolosa.
INDICE
L’inizio L’incontro La cena Una mattina di studio Riflessioni Perle di saggezza Preparativi Era meglio evitare Ancora vergine Venerdi’ sera Church’s Pranzo Primo contatto Meglio starsene a casa Non abbandonare mai le buone abitudini Il test Infanzia Porta romana
Considerazione Il ricco vince sempre La soluzione migliore Tutto liscio Si pensa al futuro Dallas Mai piu’ come prima Imbattibile Potevo essere un grande pianista Basta pagare Servizio fotografico Considerazione La conferma Filetto Fuori controllo Tutto nel cervello La proposta Holliwood Il mattatoio La prima volta Scappo di casa
Provano a calmarmi Tranquillita’ Parole senza peso Strani incontri Vigilia prima parte Vigilia seconda parte Vigilia terza parte Considerazione L’abbronzatura e’ fondamentale Ultimo dell’anno Ristabiliamo i contatti Un bravo ragazzo Annego A casa sua L’appello Capita e non puoi farci niente Sempre piu’ in fondo Sono morto La vita continua La lettera Sempre lo stesso
L’ escort di silicone In trasferta Il brunch!! Colloquio pomeridiano (Tanto per non studiare) Di notte Un uomo pericoloso 5 Novembre 2004. Prima o poi tutto ha un senso Il glam Il monco Un vero fotoreporter Considerazione Il lavoro Epilogo Si cade sempre in piedi Il buio Saint tropez Nota
L’INIZIO
Incominciò tutto il ventisette ottobre millenovecentonovantotto. Da quel giorno la mia vita non fu più la stessa. Ore sei e quarantacinque. Entra in camera mia madre, con o svelto, oltreando la grande e polverosa libreria, diretta al letto di Antonio, ancora in un sonno profondissimo, la bocca umida, semichiusa, il capo spettinato coperto all’altezza dell’orecchio dal chiaro lenzuolo azzurro. - “Antonio, Antonio…, forza è ora…,” - naturalmente, non avendo alternativa, mi sveglio anch’io, dovendolo accompagnare, per l’ultima volta, in stazione. Palpebre degli occhi come saracinesche incriccate e senza lubrificante. Deve essere in Università a Milano per le otto e mezza. E’ un grande giorno, si laurea. Sbrigo al volo le solite abitudini del mattino, per indossare almeno un aspetto decente, visto l’ora del risveglio, da turnista. Guardando dalla finestra di camera mia mi accorgo di quanto è terso e limpido il cielo, sembra una giornata d’inizio giugno. Solo qualche cirro filamentoso se ne sta sopra il cedro del Libano a fissarmi. I giardini delle ville vicino non sentono l’arrivo dell’autunno, il verde domina ancora e il decadimento del ciclo stagionale sembra nascosto, al di là dell’alta e fitta siepe di agrifoglio incastonata nel tappeto verde perfettamente rasato. Con l’aiuto di un buon binocolo e della luce così intensa, riesco persino a vedere la Madonnina in cima al Duomo e la Torre Velasca. Milano. Saluto mia madre, mentre prepara la colazione. Attraverso la sala da pranzo, con
addosso la vestaglia blu in cashmere, dono di mio padre per Natale dello scorso anno. - “Sbrigati cazzone, ti aspetto in macchina.” - urlo a mio fratello mentre lotta assiduamente con il nodo della cravatta (Burberry) davanti allo specchio del bagno, i faretti alogeni posti ai lati dell’ampio specchio puntati sul collo sotto lo sguardo fiero di mia mamma. - “Fottiti.” – risponde con la fronte sudata. Scendo lo scalone del settecento, stucchi restaurati maniacalmente e colonne di marmo sabbiate e tirate a lucido con perfetta cura. Sgattaiolo dal portone in legno e corro attraverso le Azalee con la faccia in fiamme e non capisco come mai mi ostino a far lampade ogni giorno, ma una giustificazione plausibile stenta ad arrivare: melanoma, basalioma, invecchiamento precoce della cute, congiuntivite, tutte stronzate, proclami di medici del cazzo. I primi ad essere perennemente scuri in viso. Abbronzati si sta meglio, non ce ne sono di palle, e se poi se hai qualche ruga non importa, fa uomo con esperienza, quello che conta è il presente, non il ato nè tantomeno il futuro. Ore sette e trenta. Mio fratello non si vede ancora, il treno è alle sette e trentasette e a quell’ora la statale è un imbuto colmo di traffico, e per arrivare in stazione dieci minuti abbondanti non sono abbastanza. Finalmente lo vedo sbucare dal portone di casa, in un vestito grigio di LoroPiana, ben pettinato con la valigetta in pelle marrone Bottega Veneta nella mano destra e l’impermeabile grigio di Zegna nell’altra, ai piedi un paio di Tricker’s nero opaco. - “Muoviti sono in ritardo.” - e io, ingranando la prima: - “Fanculo, dovevi fartelo ieri sera il nodo alla cravatta.” - sori straazzardati, semafori rossi e stop violati senza timore, clacson urlanti come pitbull isterici, la stazione di Cernusco Lombardone compare davanti ai nostri occhi ancora assonnati come la Mecca davanti a Maometto. Cernusco Lombardone, ma che cazzo di nome é?!
Mentre scende dalla macchina le porte cigolanti delle carrozze del treno si spalancano, lo guardo con ammirazione e gli dico: - “Ci vediamo dopo, stai sereno.” – riparto, ma un picchiettio improvviso sul finestrino mi fa voltare di scatto in preda la panico: - “Power! Che sorpresa! Ciao, come stai? Non riesco a crederci.” – Sai, amico lettore, quando pensi che non incontrerai mai una persona ad un determinato orario, in un determinato luogo, soprattutto in una frazione di tempo così breve, e invece accade così, senza un motivo, e non riesci a comprendere il perché. - “Manu?! Che sorpresa ragazza, ma che ci fai qua?” - domando trattenendo uno sbadiglio trasformato in una bolla d’aria singhiozzante. - “Vado a Milano, in Università a dare un esame, è già il secondo appello, ma non mi sento ancora tanto preparata…”- continua fantasticando di essere una strafiga. - “Come al solito. Tesoro, guarda che è finito il tempo del liceo e delle limonate con gli sconosciuti sulle scale di servizio sotto la pioggia.”- alzo un sopracciglio e la squadro, le tettine stranamente ancora acerbe sotto la camicetta bianca appena inamidata da scolaretta. - “E tu, come al solito, sei lo stronzo di sempre!”- sorride ricordando i bei momenti. - “Sweet dreams?! Ragazza, forse sbaglio…ma non sei stata pluricannata, in prima e poi in terza? E’ inutile che hai infilato quella camicetta da prima banco…ehm, diciamo che sono un attento osservatore della carriera scolastica dei miei vecchi coinquilini di classe.. non che fossi Heisenberg, certo, ma almeno avevo, anzi ho, una buona memoria.. sai chi è Heisenberg? Ma non sai un cazzo.” – strabuzza gli occhi impallidita. Mi giudica un minorato mentale. Dai tempi del liceo ha un aspetto più gradevole, probabilmente la camicetta (comunque dozzinale) e non più la maglietta del Che, le dona un’aria da impiegata succhiatrice, del tipo: prima di prendertelo in bocca mi levo gli occhiali e li appoggio sulla scrivania in fianco alle bolle di trasporto. - “Visto che sei così saggio, la tua carriera universitaria da economista come prosegue?”- asserisce, glissando la mia domanda su Heisenberg, cercando di
mettermi in difficoltà. - “Ragazza, ho dato nove esami, sai quelli più complessi, matematica generale, economia aziendale, diritto pubblico, li ho ati tutti al primo colpo…ma tu, piuttosto, voti ancora comunista?” - praticamente sono già laureato. - “Bravo.., ascolta devo lasciarti, sai, altrimenti perdo il treno e l’esame, sei sempre un gran figo. Anche appena alzato, magari ci sentiamo e una sera usciamo a ber qualcosa, chiamami…”- mi accarezza la mano e corre verso la carrozza. Il capostazione annuncia la partenza con voce metallica. - “Magari…”- ma non ho nemmeno il numero del suo cellulare. Dopo aver realizzato di averle raccontato un mucchio di stronzate sui miei esami, mi ritrovo di nuovo sulla statale supertrafficata da camion di ogni genere diretti verso la Svizzera. In verità ne ho dato solo uno, tentandolo ben due volte prima di arlo con un misero diciannove. All’incrocio della Comit svolto a destra imboccando il Viale Verdi, quartiere Bronx di Merate, squallido e grigio anche in una giornata così splendente. Sacchi di spazzatura trabordanti di rifiuti di ogni genere disseminati come primule appena fiorite. Un marocchino su una centoventisette latte e menta mi taglia la strada senza rispettare lo stop. - “Testa di cazzo!!” – non si accorge nemmeno di me. Non vorrei mai abitare in Viale Verdi. Mi ritrovo in piazza Prinetti, centro degli interessi del paese e dei brianzoli, che fanno affari anche alla domenica mattina, col Campari in mano, tra una bestemmia e l’altra. Dopo aver infilato l’auto nel box, mi arrampico per lo scalone di gran fretta. - “E’ andato?” – domanda mia madre con l’asciugamano bianco di Frette in testa avvolta da una nuvola profumata al gelsomino. - “Ha preso il treno per miracolo, come al solito era al limite. Che buon profumo, che shampo hai comprato? Non è il tuo solito, o sbaglio?” - seduto al tavolo stile impero posizionato al centro della sala da pranzo agguanto una fetta biscottata integrale iniziando ad imburrarla, indeciso se spalmarci la marmellata
di fragole o di arance. - “Non c’è la marmellata di lamponi? E il pane di segale? E’ finito?”- borbotto con disappunto. - “Quello che c’è lo trovi sul tavolo, devo andare all’Esselunga nei prossimi giorni,” – vaga dal bagno allo spogliatoio, indecisa nei movimenti, nervosa nel tono di voce. - “Ma che cazzo! Sapete perfettamente che la mia preferita è quella di lamponi!! Ve ne fregate…lasciamo perdere..mi ci mancava alzarmi così presto.” - ed è vero, vado matto per la confettura di lamponi, è la migliore. Terminata la colazione mi trovo spaesato sulla scelta del vestito da indossare, e questa incertezza mi spacca il cervello. - “E’ stato bravo tuo fratello, mi auguro che sarà ripagato per tutta la fatica e l’impegno messi per gli esami, la tesi, il diploma di pianoforte, tutte le sere con la testa china sulla scrivania a studiare anche dopo cena…impara da lui, invece di pensare solo a divertirti e alle ragazze, se vai avanti così…” - Mia madre e la solita storia di mio fratello, modello da imitare e seguire, un figlio che tutte le madri sognano avere in casa, un dono del Signore. Meglio di me, sboccato e menefreghista col mondo intero. Ma che cazzo me ne frega, tanto vado avanti per la mia strada. - “Senz’altro sarà ripagato.” - risponde mio padre leggendo una delle sue solite riviste culturali con al naso un paio di occhiali canna di fucile rettangolari Armani, e continua: - “Dobbiamo muoverci, in tangenziale ci sarà un casino pazzesco, e poi bisogna ritirare la tesi dal rilegatore, non so bene dove.., Antonio me l’ha spiegato ma non ricordo bene..”- e ripone sul tavolo il plico di fogli che sta analizzando. - “Scusa un attimo, non per rompere i coglioni, ma non dobbiamo incontrarci in Festa del Perdono alle due di questo pomeriggio?! Cristo Santo, sono solo le otto e mezza, ci vorranno venti minuti per andare a Milano!”- sbraito mentre penso al vestito da indossare. Torno in camera e mi siedo un attimo (ma proprio un attimo) alla scrivania. Alla vista degli appunti di finanziaria, l’esame più complesso, bastardo e noioso di tutto il corso di Economia cerco di trattenere un conato di vomito.
Scartabello in mezzo a quei fogli orrendi e scarabocchiati di formule, indici di capitalizzazione, attualizzazione, matrici, vettori, procedimenti vari. Porca troia, chemmerda. Cerco di riordinare, elaborando una cronologia alle lezioni seguite, scansando almeno mia madre mugugnante nella zona giorno. Ricordati, un po’ d’ordine nelle cose significa soprattutto ordine mentale. I soliti detti del cazzo. Al momento mi martella in testa solamente il pensiero di come vestirmi, l’indecisione se mettere il vestito di seta di Bardelli, nel qual caso sarei stato scambiato per uno dei laureandi, oppure scegliermi una giacca sportiva e un paio di pantaloni magari un po’ più eleganti, non avendo idea della tinta della camicia. E poi la cintura, quella di Armani o Versace, le scarpe, Paciotti, Lotus, o Church’s. Mi trovo smarrito. Non avendo una risposta istantanea chiedo consiglio a mia madre, che non mi sente nemmeno, troppo impegnata a decidere il suo tailleur. Dopo quasi un’ora di profonda riflessione decido di mettermi un paio di pantaloni spigati di Versace, colore grigio scuro, molto sobri, di classe, abbinati sempre a una cintura di Versace comprata quando lo stilista era ancora vivo, probabilmente la più bella da lui disegnata, nastro di cuoio nero opaco, altezza quattro centimetri, con fibbia di chiusura in metallo cromato e medusa in rilievo. Per la camicia ne scelgo una di Bagutta, azzurro chiaro chiaro, quasi bianco, con polsini da chiudere con gemelli (in oro bianco, di Cartier, presi in prestito a mio padre) molto elegante, e come giacca afferro quella di un abito Armani. Blu, in misto seta, sportiva, adatta a tutte le occasioni. Dalla scarpiera decido per un paio di scarpe di mio padre, classiche, marrone scuro, fatte a mano da un artigiano di Firenze, dal prezzo non identificabile e prima di infilarle le lucido con un panno blu di Prada trovato su uno scaffale in lavanderia. Scelgo il Barbour carta da zucchero, per evitare di prender qualche colpo di freddo alla gola, informale e classico, non proprio il mio stile, ma senz’altro adatto all’avvenimento. Noto di fronte all’enorme specchio del bagno di esser quasi perfetto, tranne un ciuffo di capelli leggermente fuori posto, sistemato al volo con uno spruzzo di
lacca Biopoint. Infilo il Daytona e spruzzo un pò di Le Male di J.P.Gautier, anche se in verità mi verso addosso metà uomo verde forzuto. Entra in anticamera mia madre, in un tailleur grigio scuro di Fontana, sotto una camicetta bianca Armani in seta, leggermente scollata. Porta il suo collier in diamanti e zaffiri, dono di mio padre il giorno della mia nascita, uno splendore, luminoso come il sole surreale che illumina il nostro piccolo mondo dorato. Sul rever della giacca una spilla raffigurante il labirinto di Minosse, in oro giallo con al centro un brillante scintillante, anche quella regalo di mio padre. E’ ancora molto bella mia madre, non dimostra affatto i suoi anni. I capelli, naturali, castano chiaro, non sentono il are del tempo, e, nonostante le sue coetanee, stronze e invidiose, si tingano da una vita, e siano iscritte tutte a Figurella, a lei un barlume di vecchiaia sembra uno sconosciuto vagabondo in cerca di fissa dimora. Mio padre, invece, completamente bianco, mi sora in altezza di tre centimetri (sono uno e ottantaquattro) ed è anche lui un uomo bellissimo. Abbronzato, ma non lampadato (anzi odia i centri abbronzatura, dicono siano da parvenù). Le ragazze lo guardano, gli occhi azzurri risaltano subito sul viso dorato dal sole. - “Che scarpe metti?”- le domando - “Quelle che ho comprato da Gucci per andare a New – York lo scorso inverno” – s’infila un anello di Tiffany in oro bianco e diamanti. - “Ma non c’entrano un cazzo”- mugugna mio papà dalla sala da pranzo - “Impara a farti gli affari tuoi, impicciati delle tue scarpe, non delle mie.”- lo secca di scatto e si volta nella mia direzione. - “Anche se a pranzo non saremo a casa, bisogna andare a prendere il pane per stasera. Io di sicuro non ho tempo per andarci, vai tu?”- Col capo accenno a un sì impercettibile, e in meno di un secondo sono fuori casa. Sento i i rimbombare sul selciato, nella via poche persone di aggio, e non vedo nessuna donna attraente. Non che a Merate fosse una novità.
Il mio sguardo sfiora il cancello in ferro battuto di Villa Belgioioso, una delle tenute storiche più glamour della Brianza, con tanto di parco secolare, e mi accorgo che le porte finestre sotto il portico sono spalancate. Tendaggi antichi di fregi pregiati in oro e velluto rosso svolazzano nel vento colpiti dallo sciabordio della luce. Al di là di esse solo il cielo azzurro, così vivido che mi sembra per un momento di vedere il mare dell’isola d’Elba. Come dalla nostra terrazza alla Biodola. Rimango sconvolto dalla bellezza dell’istantanea. Giunto in Cooperativa, luogo di ritrovo e pettegolezzo di tutte le donne meratesi, punto dritto al bancone del pane. Vedo una fila della Madonna, e realizzo che sono appena le nove e trenta. Ma si sa, le contadine si svegliano alle quattro e, come le galline, cenano alle diciotto e vanno a letto un’ora dopo. Sanno parlare solo il dialetto stretto e guardano con diffidenza, giudicando estranei e riprovevoli i non – brianzoli. - “Tieni Power”- la commessa, cappellino “Brivio Salumi” calzato sulla testa come un goldone perfettamente aderente mi a il pane e sorride costretta dall’etica lavorotiva. La cortesia prima di tutto. - “Grazie mille.”- Che culo, ho evitato tutta la coda. Pago con moneta sonante il cassiere Flavio, sordo e ignorante, e rientro subito a casa. Al citofono solo silenzio. Riprovo e finalmente qualcuno vede la mia faccia nel visore. Entro sbuffando. - “Ma dove cazzo eravate?!”- lancio il sacchetto del pane in direzione della cucina, che va a incastonarsi perfettamente nello scaffale della dispensa lombarda. - “Stavo ando l’aspirapolvere in camera tua e il papà era in bagno. Quella cretina della Teresa si è data malata”- e mio padre paga stipendio e contributi. - “Per favore, ma fai i mestieri vestita così?! Ma ce la fai?!”- scuoto la testa attonito. Mio padre, uscito dal cesso, con il dopobarba di Lancôme ancora umido e luccicante sulla pelle abbronzata, ripete a nastro: - “Sbrighiamoci cazzo, siamo in ritardo, sbrighiamoci.” – la solita storia.
- “Che rottura di coglioni.”- giornata estenuante all’orizzonte. - “Bravo, vai a prendere la macchina nel box e aspettaci in giardino”- schiarisce la voce. - “Va bene, tanto poi mi tocca stare in giardino come un demente per mezz’ora.”La mia predizione si avverò. Seduto in auto con la radio a canna aspetto tre quarti d’ora abbondanti finché i portoni dello scalone si spalancano, riflessa nei quadri di vetro la nostra magnolia secolare, e i miei escono diretti verso di me con o deciso. Cedo il volante a mio padre, e mi rifugio sul sedile posteriore, ammonendo mia madre di star seduta davanti, nella giustizia della parti. - “Chi ha spostato la frequenza della radio! Giovanni sei stato tu, adesso come faccio, che tasto deve schiacciare? Cristoooo.”- sferra un pugno sul display della radio cd Pioneer. Mio padre non hai mai capito un cazzo di radio, computer e quant’altro necessiti una minima propensione all’elettronica. - “Lascia stare, già una volta hai cozzato con quella vecchia troia per cambiare stazione, faccio io. Vedi schiacci due volte il tasto band, questo in mezzo, e da fm vai in am. Sto davanti, è meglio.”- Non capisco perché le persone di una certa età sono così impacciate e ottuse. Mio padre lo fa apposta per far pesare la sua autorità del cazzo, ce l’ha nel sangue. - “ami i soldi per la tangenziale.”- i servi. - “Non li ho, chiedili alla mamma, e poi non siamo ancora alla barriera. Non ce la fai proprio più.”- sempre più nervoso mi guarda in cagnesco. - “Tieni, dovrebbero essere giusti.”- alta tensione nell’abitacolo, dalla pelle e dalla radica sprizza vetriolo. - “Conviene entrare da Forlanini, forse evitiamo il traffico, e poi si arriva dritti in Festa del Perdono.”- dico notando una F355 nero arci sulla destra.
Uno con una macchina così può farlo. Prossimi al centro fotocopie, per ritirare le tesi rilegate, non troviamo uno straccio di parcheggio e, visto il traffico intensissimo, lasciamo la macchina in doppia fila. Mio padre va a ritirare le copie e io parlo con mia madre, ricalcando ancora una volta tutti gli sforzi di mio fratello per conseguire quella maledetta laurea, tutte le sere trascorse sui libri anche dopo cena, tutte le mattine con la sveglia puntata alle sei e trenta per essere in laboratorio, l’alternarsi con il pianoforte per raggiungere il diploma prima della laurea. Mio fratello è una persona da stimare e da invidiare, vorrei essere come lui. Ha una volontà e dei coglioni d’acciaio temperato. - “E pensare che un anno fa, all’inizio della tesi voleva smettere perché il papà non era stato tanto bene.”- ricorda mia madre ad alta voce, la luce del giorno sempre più abbagliante trai i tigli prossimi a perdere le foglie. - “Ecco le tesi rilegate, sembra un lavoro ben fatto, anche per il prezzo.”- mio padre si ferma a fissare il plico di volumi prima di risalire in macchina. Prendo in mano questi libroni, cinque copie, e sulla prima pagina compare il nome di Antonio inciso in stampatello a chiari caratteri color argento. Sotto, in formato ridotto l’intestazione e il titolo della tesi, argomenti per me incomprensibili. - “Marcello, prova a vedere se trovi parcheggio vicino al conservatorio, dove c’è il Griffa, poi facciamo un pezzo di strada a piedi.”- suggerisce saggiamente mia madre, mentre ci scoglioniamo imbottigliati nel traffico. - “Occhio alla merda!”- esclamo a gran voce a mia madre quando sta aprendo la portiera per uscire dalla macchina. Con una smorfia di orrore misto a sdegno mette in piedi il solito discorso sentito e strasentito sul fatto che i padroni dei cani, e soprattutto, chi vive in città, ha l’obbligo categorico di raccogliere con una paletta gli stronzi che queste bestie lasciano in giro. - “Dovessi vedere a Bergamo alta!! Perché non brevetti una turca per cani? C’è
più merda lì che nelle fogne, bisogna eggiare, in punta di piedi.” – stranamente fa caldo e anche a Milano l’aria è profumata. - “Ma sì, tanto porta fortuna”- ribatte mio padre, e io: - “Sto cazzo, vai a fare un esame con le scarpe sporche di merda, poi vedi.”Sento vibrare nella tasca destra della giacca lo startac. - “Pronto.”- rispondo prontamente, con mia madre attaccata al culo per sentire chi è che stressa il suo bambino. - “Power!!”- in sottofondo “Last train home” di Pat Metheny - “Bollinger!!”- dall’altra parte l’unico amico vero e sincero su cui posso contare. Come i ragazzi della Compagnia delle Indie. - “Cazzo vuoi?”- chiedo allontanandomi da mia madre. - “Ho prenotato per il Titanic giovedì sera, cerca di portare delle troie, altrimenti poi ci danno dei culattoni, mi raccomando, non fare il coglione come al solito, altrimenti ti taglio fuori.”- un Guru. - “Ok, io ci sono, proverò a chiedere a qualche mia amica, anche se non ne ho, cercherò di rimediare qualcosa, al massimo porta quella poveretta della tua portinaia, come si chiamava… Ciaky e quell’altra poveretta, Baby…”- inizio a deprimermi. - “Barnaki e Baby?! Ma sei scemo, il cavaliere ha appena deciso di licenziarle e ce l’hanno a morte anche con me, comunque proverò a chiederglielo..”riattacca. - “Saluti.”- rispondo infilando lo startac di nuovo nella tasca. - “Chi era?” - mia madre incuriosita. - “Ma fatti i cazzi tuoi!”- esordisce mio padre. Una volta ogni tanto si è premurato di darmi man forte.
L’INCONTRO
Sono ormai quasi le tredici e trenta e tutti stiamo crepando di fame. Mentre aspettiamo l’arrivo di Antonio dal laboratorio in Bicocca, ci facciamo forza e pranziamo con uno di quei toast cartonati al prosciutto cotto ricavato da spalle olandesi radioattive che ti fanno pagare come un piatto di Beluga. Nonostante l’abbia divorato alla stregua di un lupo affamato da secoli, il languore non si decide a scomparire. Ogni tanto lancio occhiate al di là delle vetrine del bar, attirato continuamente dalla luminosità del cielo, dagli alberi vivi e dai colori fulgidi della giornata. Qualche foglia gialla umida sparsa sul marciapiede preannuncia un autunno non ancora conclamato. Scorgo visi di ragazzi allegri con zaini in spalla pronti per seguire i corsi e un paio di marocchini appostati nell’atrio dell’Università in cerca di cannaioli abituè per smerciare fumo a buon prezzo. Terminato il breve pranzo, per un cazzo sostanzioso, entriamo in Statale, tra una folla di ragazzi e ragazze con enormi borsoni pieni di fotocopie e libri, (flash, mi vengono in mente al volo i miei lucidi di matematica finanziaria lasciati sparsi e disordinati sulla scrivania. Fu la prima volta per me visitare quel posto, e non immaginavo ancora quanto avrebbe inciso sulla mia vita. Il chiostro, scolpito da ornamenti barocchi e intarsi così reali da sembrare vivi, colpisce la mia attenzione costringendomi ad un isolamento momentaneo dagli altri. All’interno del quadrato, racchiuso dal colonnato, un prato estremamente curato e incantevole, di un verde che, accentuato dalla luce del sole, risulta fastidioso soffermarsi a fissarlo. Mi ripiglio. Strano, vedere ragazzi ultra alla moda (io li batto tutti), in un posto così antico. - “Giovanni.”- da lontano sento la voce di un vecchio amico di liceo di mio fratello, Andrea, non tanto alto, tendente al buriccio, poverino, con il viso
sempre bordeaux, gli occhiali con la montatura in argento, costantemente attento al risparmio e a mettere via quattrini, di cui la sua famiglia ne possiedono un’ ingente quantità. Colpa di una fortunata eredità lasciatagli da uno zio molto ricco, intrallazzone ai tempi di guerra. - “Oh, ciao Andrea, come va? Hai trovato traffico?”- gli chiedo mentre saluta i miei. - “No, ho dormito a Milano, per cui non mi si è posto il problema. Mi sono svegliato con calma, sono venuto a piedi, ho fatto una eggiata.”- notare che tra i beni ereditati spicca un palazzo in Corso Venezia di ventiquattro appartamenti. Mi guardo in giro per individuare Antonio, e non è difficile per me rendermi conto che due ragazze mi ano in fianco incrociando il mio sguardo. Mi lanciano un sorriso al rallentatore. Attimo infinito, il chiostro non esiste più. Si voltano e proseguono fino ad entrare in un’aula. Cazzo, una è proprio atomica, mai visto niente di simile. L’altra sì, carina, ma Lei. Alta, sull’uno e ottanta, senza tacchi, un paio di tette da cardiopalma, talmente grosse e sode da far scoppiare la camicetta sotto al maglione giallo (MaxLara), un culo brasiliano in jeans sfilacciati (D&G) sotto fianchi perfetti. Cristo Santo. Probabilmente con la giacchetta mi trovavano ridicolo. - “Ciao Giovanni.”- non capacitandomi di chi cazzo mi stesse salutando rispondo con un ciao disinteressato, senza nemmeno vedere chi ho davanti. - “Ah cazzo, ciao Alberto, scusami ma ero sovrapensiero”- non lo vedo nemmeno. - “Tuo fratello è già in aula magna? Ah, no, eccolo qua. Ehi Antonio, allora sei pronto?”- e gli mette fraternamente una mano sulla spalla destra. E mio fratello, per nulla teso: - “Sì, Fari è su con la commissione, sono il secondo.”- si schiarisce la voce.
- “Ma dai, è una cazzata, una formalità. Dura neanche dieci minuti, poi vedrai come ti senti libero! Forza.” – sorridono entrambi. Io no. Questo Alberto, figlio di un ricco gastroenterologo di Buenos – Aires, pare uscito da un film di Kusturika: sandali ai piedi, bermuda rossi quasi arancioni, maglia bianca sbiadita sfrangiata molto zingaresca, capelli corti nerissimi, barba sfatta su una pelle olivastra, occhi neri senza fine, buchi di culo al posto delle pupille. Più di un terrone, un marocchino. Il ragazzo, già laureato e dotato di un’intelligenza pressoché geniale, è ricercatore presso la facoltà di chimica al centro “Milano Bicocca”. Tradotto in parole povere, ha trovato il modo di non far un cazzo a spese della famiglia. - “Minchia Alberto! Giovanni, che classe!! Pettinato, abbronzato e vestito così sembri il figlio di Berlusconi!” – quale? Penso tra me e me. - “Ciao Lorenzo. Tutto bene? Dai, sei dopo mio fratello, spaccategli il culo a quella commissione di vecchi merdosi con la pancia piena!!” - Lorenzo, altro cervellone del gruppo, ha il pezzo di carta in mano ormai. Alto, robusto, capelli neri con la riga, occhiali rotondi in acciaio, un po’ pallido, nonostante ostenti una gran sicurezza, ha le mani sudate e la testa tremante. Ogni tanto mio fratello mi raccontava, durante le cene in famiglia (lo ricordo ancora con il viso stanco e le occhiaie profonde) che ogni giorno, terminato il pranzo, se un panino e una mela si possono definire pranzo, le imprese di Lorenzo. Si chiudeva a chiave in ufficio e dormiva per pomeriggi interi. Non aveva mai voglia di fare un cazzo. Lasciava le analisi che gli spettavano sempre ad altri, e lui se ne andava a dormire in uno stanzino di servizio, su una sedia scassata in formica. In questo giorno così importante c’è anche la sua ragazza, sca, provvista di un culo gigante che le impedisce di are tra le porte dell’aula magna. Di viso abile, occhi neri, labbra leggermente carnose, carnagione olivastra, capelli corvini. Una marocchina sbiadita. Ogni volta che incrocia il mio sguardo mi strizza l’occhio. Pensavo fosse un tic, così la prima volta rimango indifferente. Invece ci sta prendendo gusto. Ma che cazzo, allora è una troia!! Cristo, sei lì con il tuo ragazzo che si deve laureare, uno dei giorni più importanti della sua vita, e fai l’acchiappacazzi con me!!
Arriva un altro ragazzo, alto poco meno di un metro e sessanta, Alessandro. Vedo i genitori bofonchiare tra di loro e percepisco un accento vagamente meridionale. Suo padre, giallo in faccia, pancia in evidenza, coppola, occhiali scuri, loden cammello di infima categoria. Stento a capire bene cosa mi rappresenti. Forse la caricatura di Totò Riina. Biascica solo cazzate. Ma non lo sto nemmeno a sentire. Fa fatica a reggersi in piedi. La madre, anche lei matrona sicula, mi ricorda una delle donne di servizio di mia mamma però vestita a festa. Al loro adorato figlio ho piazzato tre mesi prima un Motorola ottomilasettecento dall’incerta provenienza, procuratomi da un mio amico che ha giri strani. Non gli avevo increstato tanto, mi sembra un centello, brasato poi in discoteca con qualche troia. - “Come va il cellulare Alessandro?” - gli domando prima di salutarlo, notando che ci smanetta sopra nervosamente. - “Bene, grazie, solo che ho trovato in memoria dei nomi quando mi avevi detto che era nuovo.”- ma che cazzo voleva? L’ha acquistato con il cinquanta per cento di sconto, pecoraio imbecille. - “Per forza, ma quelli sono i numeri della mia sim. Sai, prima di consegnarti il telefono ho voluto verificare che funzionasse bene, e non avesse difetti. Aspetta, ti faccio vedere. Dammi qua.” - Quante palle. Faccio il gesto di sfilar la mia sim dallo startac per comprovare la realtà dei fatti, ma lui mostra prontamente il suo orgoglio di uomo mediterraneo. - “Ma sei pazzo, ciccredo!! Cimmancherebbe, miffido divvoi!!!” – m’infila lo startac nel Barbour e mi abbrraccia. Mentre mio fratello parla con i suoi amici e colleghi di Facoltà, il Rolex segna le quattordici ate da oltre un quarto d’ora. Presto lo avrebbero chiamato. Mi affaccio dalla balconata e vedo nel chiostro ancora quelle due ragazze in contro luce. Incrocio negli occhi Lei, che subito si volta verso l’altra. In quel momento sento la testa pompare, il collo della camicia stretto, i polsi gonfiarsi e i palmi delle mani sudare. Sto soffocando, stelle e strisce nel cielo,
cedronelle fluttuanti nell’aria da un fiore di Gelsomino all’altro. Nell’aula magna ciò che mi colpisce è l’abbigliamento austero della commissione. Tutti indossano toga e parrucca. Deve essere una storia proprio seria, sembra più una laurea in legge, non in chimica. Mi aspettavo di trovare una sfilata di analisti in camice bianco. - “Amore, avvicinati, la commissione sta per chiamare tuo fratello”- mia madre mi viene incontro, l’ansia dell’attesa sul viso commosso. - “E ora tocca al nostro Antonio Duchi, che ci esporrà la sua tesi, frutto di approfondite ricerche, peraltro di notevole interesse tecnico-scientifico, vertente la caratterizzazione di materiali per la realizzazione di congiunzione P-N con caratteristiche I-V modificabili.” – applauso. Antonio si dirige verso il proiettore dei lucidi, sicuro e sereno. Noi tre seduti di fronte a lui in prima fila, i suoi amici in quella subito dietro. Il silenzio si fa improvviso e di piombo. Faccio una panoramica dell’aula e noto con grande sorpresa e soddisfazione quante persone sono presenti per lui. Dalla commozione inizio a smandibolare, ma fingo un attacco di allergia per cui schiarisco la voce e cerco di ripigliarmi. Mio fratello, mentre spiega i suoi lucidi tappezzati di grafici, sembra molto sicuro di sè, appoggiato anche dal fatto che il professore con cui ha curato la tesi è parte della commissione. E’ una brava persona il professor Fari, basso, un po’ buriccio (anche lui), con la barba bianca, perennemente paonazzo in viso, quasi sempre filtrato di barbera. Avrebbe potuto tranquillamente essere un alpino piuttosto che un docente di Scienze dei Materiali. Durante l’esposizione, riguardante concetti e nozioni a me assolutamente ignoti e incomprensibili, noto che la stilografica Mont–Blanc con cui mio fratello indica le formule e le slides di dati ogni tanto trema. Forse, in fondo, non era poi così sicuro. Espone tutto alla perfezione, con precisione e puntualità, e la Commissione è visibilmente soddisfatta. Per il voto occorre attendere ancora che gli altri presentassero la loro tesi. Mia madre e mio padre avevano gli occhi lucidi.
- “Bravo, sei stato bravissimo. Hai visto, il Presidente annuiva continuamente, sei stato di una chiarezza e perfezione impeccabili.” - dicendo queste parole mio padre lo abbraccia forte e mia madre fa lo stesso. Aspetto un attimo che si ripigli, poi lo bacio sulla guancia. - “Complimenti frocione.” – lo abbraccio e sento il suo viso sudato. Una miriade di persone sono presenti nell’aula e contare quante siano è impossibile. Alcune ben vestite, con costosi orologi e vistosi gioielli, altre indossano vestiti più classici, sobri, mentre altri, anonimi, senza nessun modo di qualificarli, non c’entrano proprio un cazzo. Marmaglia silente. Sono piacevolmente colpito in particolar modo da una elegante signora sulla cinquantina, con un tailleur Burberry (classico a quadrettoni), abbronzatissima e truccatissima, stile Madame Toussot, tinta biondo platino, tendente anche alla bella presenza. Probabilmente se avesse avuto dieci anni di meno l’avrei anche scopata. Anzi sicuramente. Sono sbalordito quando la sento esordire brillantemente con un: - “Cristo Santo, hai visto che brava la Patri, se gli è mangiati tutti, é proprio brava.”- se gli è mangiata tutti?! Porca troia, i miei coglioni si sgretolano per terra in frantumi. Non che io sia uno fine o di classe, ma in quel momento mi sto vergognando di essere lì ad ascoltare quella bifolca – stracciona, anche se col tailleur di Burberry. Avrei voluto riempirle la boccaccia di merda. Mi riprendo e caccio fuori la testa sulla balconata che si affaccia all’interno dell’atrio della facoltà e in quel momento mi volto, così, spontaneamente, e senza un perché, a destra, e, sorpreso, realizzo che a meno di un metro ci sono ancora quelle due ragazze, in silenzio, con gli occhi puntati su di me. Quella non superfiga tiene salda nella mano destra una Polaroid usa e getta, particolare sfuggitomi durante l’incontro fugace precedente nel chiostro. Faccio un o ancora a destra nella speranza di non fare notare il mio interesse (non sono mai stato un morto di figa) per accorciare ancor di più la distanza e vederle meglio.
Cazzo, Lei è una dea, avrei voluto trovare il coraggio per approcciare, ma non sapevo dove cazzo andare a prenderlo. Stavo perdendo tempo, dovevo agire ma non riuscivo. Mi trovavo bloccato, una statua stalattitica in preda alla soggezione. Gesù non mi stava aiutando. Ho la bocca secca, come il letto del Po’ durante i periodi estivi, le orecchie fumanti, rosse e gonfie e gli occhi fuori dalle orbite. Rimango impalato come un qualsiasi pirla per quasi venti minuti a fissare la più strafiga mai vista in vita mia, ormai a meno di mezzo metro circa da me, e non riesco nemmeno a dire una banale frase del cazzo tipo: “ciao, tutto bene?” Oppure, “che bella giornata, non sembra nemmeno autunno” o, “vorrei poterti cacciar la lingua in bocca e infilartelo da tutte le parti.” Stavo diventando un pollice abbassato. Anzi abbassatissimo. Dovevo solamente sparare qualche stronzata delle mie, era così semplice, e invece zero, silenzio assoluto. - “Giò!”- mio padre mi chiama, volto la testa al rallentatore, il collo come un braccio di una gru arrugginita e pronta da rottamare. - “Giò, vieni, intanto che aspettiamo di conoscere il voto andiamo con Antonio e i suoi amici sotto al bar a ber qualcosa.”- Mi sento smarrito, un blocco di marmo mi comprime lentamente gli organi del basso ventre. Non l’avrei più rivista, forse dovevo agire prima, molto prima. Abbandono il sogno e torno alla realtà, la guardo di sfuggita mentre mi fissa e da coglione sempre ubbidiente raggiungo il codazzo gioioso di amici a famigliari per andar al bar. Sempre lo stesso. Scendo lentamente le scale, mentre ascolto disinteressato quello che gli altri dicono. Cazzate, cazzate, cazzate. Il mio sguardo punta fisso alla balconata, come un laser ad alta precisione, ipnotizzato, verso le due ragazze che ancora stanno lì a fissarmi. - “Antonio, c’è il fotografo, vuoi qualche scatto?”- percepisco in lontananza la voce rilassata e distesa di mia madre, come in un bosco gelido e pieno di nebbia. Il profumo dei rovi. - “Ma no, vuole più di duecentomila per, mi sembra, venti fotografie, non ne vale la pena”- ribatte mio padre.
- “Per me può anche ficcarsele su per il culo.”- concludo alterato. Una signora mi guarda con disgusto, la mano sulla bocca in segno di indignazione. La fulmino in cagnesco. Mentre gli altri discorrono ancora su queste cazzo di foto, noto con una spada nel cuore, che sulla balconata non c’è più nessuno. Nell’atrio, tra una folla sterminata di ragazzi sorridenti, in preda a scambiarsi appunti, le vedo ancora eggiare lentamente nella mia direzione. Mia madre costantemente in sottofondo. Bla bla bla. A pochi i da me, prendo come appiglio la prima cazzata che mi salta per la testa ed esclamo, pietoso e ridicolo: - “Ah, le fotografe dell’ università!”- attendo una risposta fulminea, pronta a farmi vergognare. Sento aprirsi le terra sotto i piedi. E invece mi sento dire da Lei: - “Ciao, come ti chiami?”- e io quasi ammutolito: - “Giovanni, e tu?” – non aggiungo nient’altro. - “Silvia. Cosa fai qua, ti stai laureando?”- mi domanda. Polvere di stelle. - “Ma no, magari, ehm, è mio fratello che si è appena laureato in chimica”inizio a sudare di nuovo, una rondine sfreccia in mezzo a due arcate del chiostro. Lei, guardando la sua amica, non dice più niente. Aveva esaurito le cazzate. Quell’altra rimane muta e un profumo di gelsomino si sparge nell’aria, un rifolo di vento mi sposta un ciuffo di capelli. E, insieme all’unisono: - “Va bè, ciao”- se ne vanno. Rimango impietrito, non un numero, né un cazzo di indirizzo. - “Giovanni, vieni, sbrigati, che festeggiamo! Apriamo una bottiglia di champagne!!”- ancora mia madre. Bla bla bla.
Lorenzo, spettatore silente della ridicola scenetta mi raggiunge di corsa incuriosito, e, dimentico della fidanzata e dei famigliari esclama: - “Cazzo, che fighe pazzesche! Ma di dove sono? Le conoscevi?”- non gli rispondo neanche e mi limito a camminare nervosamente, i pugni stretti in tasca sudati e nevrotici. Il mio pensiero fisso, un trapano nel cervello, è: - “Coglione, devi farti dare il suo numero, non puoi non rivederla!!” - l’istinto. Vedo che si stanno allontanando molto a rilento in direzione della fermata del metrò, con lo sguardo fisso nei mie occhi. Con o molto svelto, quasi di corsa scanso un gruppo di matricole puzzolenti di marijuana, le raggiungo di nuovo, la tensione ormai sciolta. Mi lancio, non avevo più nulla da perdere. - “Silvia, scusa, puoi fermarti un attimo?”- rallentano il o, si voltano sorridenti. Dai capelli una nuvola di Angel si sparge nell’aria. - “Dimmi”- e io: - “No, volevo sapere di dove sei..”- e Lei: - “Abito qua dietro, in Porta Romana..”- noto un leggerissimo accento meridionale. - “Non sei di Milano, vero?”- domando gentilmente. - “No, sono nata a Roma, ma sto a Milano, sai sono iscritta alla facoltà di Giurisprudenza qui in Statale. Comunque lei è mia sorella, Stefania.”- non si assomigliano per niente, Lei sicuramente ha meno anni. - “E tu, cosa fai di bello, studi in Statale?”- mi chiede visibilmente incuriosita, gli occhi attenti e spettacolari in un filo di mascara nero. - “No, sono iscritto al terzo anno di Economia e Commercio a Bergamo.”- Balla stratosferica, ma necessaria e fondamentale. D’altronde se le rivelavo di aver solo vent’anni ed essere iscritto a malapena al secondo anno di Università mi mandava affanculo all’istante.
Con molta intraprendenza e grande coraggio le domando: - “Ti va di lasciarmi il tuo numero di telefono? Così magari una sera di queste andiamo a ber qualcosa…”- o andava o non andava. In quel momento cala un gran silenzio. Chissà se Gesù mi avrebbe aiutato.. Lei: - “0348-8295555”.- e io continuo a dire : - “02..02..e poi?”- e Lei : - “No, no, è un cellulare, non ho il fisso..0348-8295555”.- e io di nuovo: - “Sei d’accordo se ti chiamo? Non ti scoccia?”- e Lei: - “No, ma figurati, anzi.” - Registro due volte il numero per evitare di perderlo. - “Adesso, scusami tanto, ma devo andare, mi aspettano al bar, sai, genitori, parenti, amici, è stato un piacere, davvero. Ci sentiamo, ciao.”- non ho molta voglia di tornare con gli altri. - “Ok, ciao, è stato un piacere anche per me.”- mi stringe la mano. Torno sulla terra, e mi rendo conto di essere completamente stremato, paralizzato dalla fatica spesa per dire quattro stronzate senza senso e imbarazzanti. - “Cazzo, ma sei un mito, porca miseria l’hai cuccata con niente, pazzesco!”Lorenzo e Alberto avevano assistito da lontano alla mia performance, ma non si rendevano conto che, come pensavano, non era stato poi così semplice e liscio. Dentro al bar sento la testa vuota. Non me ne frega più un cazzo dei miei, del perché mi trovo in quel posto. Chi cazzo sono quelli col bicchiere in mano, la laurea di mio fratello, Lei, una strafiga da paura. Io lampadato, Versace, Bagutta, Armani, Cartier, Daytona, vaffanculo, SL, Gautier, la villa all’isola d’Elba, Portofino, Cristal, Krug, Paciotti, Lotus, Ferretti, Azimut, avrei comprato il televisore al plasma e una casa a Saint Tropez, l’ultima serata all’Holliwood, le troie. Vaffanculo, tanto finiamo tutti sotto terra. Sguardi di nuovo a me famigliari e gocce di sudore dalla fronte fino alle gote,
realizzo che non mi era mai capitato di chiedere in modo così spudorato il numero di telefono a una ragazza in pieno giorno, in un’occasione così très particulier. Mi sento stordito, ma nello stesso tempo elettrizzato ed eccitato. - “Ma dov’eri finito? Chi erano quelle due ragazze con cui ti sei fermato a chiacchierare, cosa volevano? Non mi sembravano a posto e poi ho visto che avevano in mano una macchina fotografica. Sono due troiacce, non ti avranno mica fatto delle fotografie?”- il solito istinto salvavita di mia madre. - “Ma che cazzo mamma! Stai tranquilla, non hanno scattato nessuna foto, goditi questa giornata, che così, come queste ce ne sono davvero poche, soprattutto per me.”- l’abbraccio rilassato. Pochi minuti alle diciassette, decidiamo di rientrare in facoltà. Di nuovo in aula magna, ma con un’atmosfera totalmente differente, aspettiamo con ansia e trepidazione l’arrivo della commissione. Si aprono le porte, in testa al gruppo dei professori capeggia il presidente, sguardo arcigno e severo. Dopo essersi seduti, spalancano un enorme registro sul quale si trovano scritti in chiari caratteri tutti i nomi dei futuri laureati e i relativi punteggi. Secondo le stime, approssimative, mie e di mio fratello, la sua valutazione doveva aggirarsi intorno al centodue, tenendo conto di tutto l’impegno e la costanza con cui aveva frequentato il corso di laurea, le esercitazioni in laboratorio, le ricerche per trovare i dati della tesi, le prove e gli esperimenti. - “ Silenzio per favore.”- pronuncia il presidente parruccone, la voce increspata dal muco della vecchiaia. - “Ora elencherò le votazioni associate ai relativi laureandi, ormai direi, laureati. Dell’acqua Alessandro cento, Provasi Lorenzo 102, Duchi Antonio 110 e lode, Bergamini Patrizia 110…”- e continua nell’elencare gli altri. Voltandomi verso Antonio vedo nel suo viso una reazione di grande soddisfazione, reazione non esagitata, ma contenuta e di gran classe, degna di un gentlemen.
Come un lord, con calma serafica, o lento e sicuro, si dirige verso la commissione e, stringendo la mano a tutti, in particolare al suo professore a cui sorride con grande riconoscenza e soddisfazione, ringrazia e chiude un capitolo importante della sua vita. Noto negli occhi di Alessandro e Lorenzo una strana invidia, i visi non più bonari come prima, dimostrata da amari sorrisi e occhiate stronze puntate su mio fratello. Ma a lui credo non gliene fregasse un cazzo, e neanche a me. Anche loro adesso fanno parte del ato. Comunque sia, sono fermamente convinto del fatto che se uno ha i coglioni, ma quelli veri, che sia uscito con l’ottanta, col novanta o col cento, i risultati e, soprattutto, i guadagni si vedono dopo. Non ho il minimo dubbio che Antonio avesse sotto due palle d’acciaio grandi come palloni da basket. - “Antonio, Giò, cosa facciamo?”- domanda mia madre sistemandosi la borsa sopra la spalla. - “Ma.. adesso saluto i professori e i ragazzi, poi possiamo anche andare.”risponde Antonio con in mano la sua tesi. Ho voglia di tornarmene a casa, e, pensando al gran traffico sulla tangenziale vista l’ora, pronostico ripetuti rallentamenti, accompagnati da svariate madonne di mio padre. - “Allora, Antonio, complimenti, esposizione chiara e precisa. Sei soddisfatto? Adesso cosa farai?”- domanda il relatore di mio fratello. E lui: - “Sì, a me interessava prendere un voto superiore al centodue, devo dire di essere molto contento, spero che a giorni mi chiamino per il servizio civile, non ho intenzione di perdere tempo.”- bisogna sempre andare oltre. Aspettando in disparte che si esaurissero i soliti convenevoli e saluti del cazzo vedo solo gente in grado di dire: - “Grazie professore, mio figlio, mia figlia le sono riconoscenti…”- tutti ossequiosi.
- “Ma che cazzo, dico io!”- uno si fa un culo allucinante per cinque – sei anni, esami su esami, angosce su angosce, e deve pure ringraziare! Se mai sono i genitori che dovrebbero ringraziare i figli piuttosto che i docenti, Santo Dio. Fortunatamente ciò non è accaduto a mio fratello, i miei hanno gentilmente salutato e basta, senza leccare il culo a nessuno. NON E’ MAI STATA UNA NOSTRA PREROGATIVA. - “Giò, possiamo andare”- dice mia madre al mio fianco, il suo braccio intorno alla mia spalla. Camminando per via Corridoni, in direzione della macchina, penso e ripenso a Lei e allo strano modo in cui l’ho incontrata e conosciuta. Sono sicuro, e non sono mai stato sicuro di un cazzo in vita mia, che se Antonio non si fosse mai laureato quel giorno, io e Lei non ci saremmo mai incontrati. Che strano destino. - “Giò, guarda com’è bello”- riflette mia madre stringendo la mano attorno al mio avambraccio. - “Cosa, chi?”- rispondo interdetto. - “Il papà, hai visto com’è in forma?”- continua estasiata. - “E’ vero, hai ragione, ripensando a un anno fa.”- concludo io. - “Chissà se un giorno vedrò anche te laureato….”- si chiede mio padre appoggiando la mano sulla mia spalla. In quel momento non sono in grado di dire più niente.
LA CENA
L’orologio Braun della cucina segna le sette e mezza ate. E’ nostra abitudine metterci a tavola grosso modo un’ora più tardi. Sbavo dalla fame e ho la pressione a terra. I due toast al cemento non avevano saziato granchè, - “Va bene un’insalata di riso? Tanto poi c’è la torta e lo champagne per festeggiare.”- Mia madre aveva già deciso cosa preparare appena sveglia. Un sì unanime è la risposta di tutti, e, a dir la verità, nonostante la mia fame allucinante, non me ne frega un cazzo di cosa voleva preparare. - “Bravo Tony, sei stato un vero borgia oggi, complimenti!”- dico a mio fratello mentre si sta svestendo in camera. Il riposo del guerriero. Lui non risponde, fa solo un cenno dignitoso con la testa. Stanco, sommerso dagli sbadigli, gli occhi rossi e sottili, i capelli spettinati, si muove a rilento. Gesti compiuti per inerzia, senza più pensieri. Il telefono di casa squilla, una, due, tre, quattro volte: -”Allora, non risponde nessuno!?”-, con tono veemente mio padre dal soggiorno sbraita seduto sulla sua poltrona in vimini. Key west. Cerco e ricerco il cordless per la stanza, finito sotto il cuscino in seta sul mio letto. Lo agguanto, e noto il segnale delle batterie pulsare. Sta morendo. - “Pronto”- rispondo monocorde. Sono stanco, mi gratto la testa e concludo di non essere particolarmente performante. Anche le mie risorse sono a zero. - “Allora?”- dall’altro capo mia zia Nives. - “Alla grande, da Dio. Centodieci con lode, è stato bravissimo, ora è distrutto, poverino. Sai, la stanchezza ti piomba addosso di colpo, quando finisci tutto devi per forza riposarti. Anch’io sono a pezzi.”- mi gratto il sopracciglio destro. - “Guarda Giovanni, sono proprio felice, Antonio è così bravo, Laura!! Ha
preso centodieci a lode. In ogni cosa ce la mette tutta, adesso deve festeggiare, perché non si fa un bel viaggio non so, in America, in Francia, dove cazzo vuole. E ora che si svaghi un po’.” - la immagino mentre parla gesticolando tipo entrenouse di lusso ormai stagionata, bionda platino, straingioiellata, straprofumata, stravestita e strafirmata. - “Se lo meriterebbe proprio, ma non credo potrà purtroppo. A giorni riceverà la telefonata dall’Ospedale. Sai quella menata di cazzo del servizio civile, che due coglioni, uno si sbatte tutta la vita e non può nemmeno prendersi il tempo necessario per recuperare le forze e ripigliarsi un po’. Tra il diploma di pianoforte e la laurea in chimica, Antonio non ha mai vissuto. E’ ora che si tiri un po’ fuori .”- discorro con profondo rammarico e dispiacere. - “Ma ce l’ha la ragazza?” – sento in lontananza latrati di rottweiler affamati. - “Non credo proprio, e dove lo trova il tempo? Dei cazzi suoi non m’intrometto mai, tiene tutto per sé, anche lui fa così con me. E’ un tacito accordo reciproco. Ognuno si sbroglia le proprie situazioni da solo. Anche se forse dovrebbe venire un po’ con me in discoteca, l’unico posto dove si può manducare facilmente.”- il mio habitat naturale. - “Ma tuo fratello non è un tipo da disco.”- osservazione pienamente corretta. - “Hai ragione, conoscendo poi i suoi amici..tutti para-intellettualoidi del cazzo. Per loro il top del divertimento è organizzare un pizzino al sabato sera. Per quanto mi riguarda il pizzino se lo possono schiaffare nel culo, dritto tirato. Mi è capito una volta di andar con loro, e quasi mi sparavo in bocca. Per carità di dio, arriva la mamma, ci sentiamo, ciao.”- Mentre o il cordless Antonio sfila proprio in fianco a me. - “Guarda stronzo che ho sentito tutto.”- si schiarisce la voce. - “E allora? E’ la verità, vai a mangiarti un pizzino, magari con le cipolle e senza glutine!”- lo secco. E il pensiero vola proprio ai suoi amici, che si autodefiniscono il “Gruppo Storico”. E spicca nella mia mente l’immagine di Glutine, un insopportabile cretino, e per di più brutto come la merda, sfigato da impazzire. Si crede chissà chi. Tra noi la radice dell’odio è profonda, non ricordo nemmeno il suo nome, ormai rimpiazzato dagli infiniti nomignoli con cui amo prenderlo per il culo.
Sembra un asino calvo. Senza capelli, perennemente giallo in faccia, magro più di uno stuzzicadenti, pieno di acciacchi, ogni tanto ne molla anche una (che gran signore) ma fa finta di niente. Dico che assomiglia a un asino per come ride, anzi, per come raglia. Si differenzia dalla fortunata bestia esclusivamente perché si regge in piedi su due gambe. Ogni volta che il Gruppo Storico si riunisce non trascorrono nemmeno dieci minuti che corre subito al cesso per poi ritornarci continuamente. E’ un’odissea. L’arroganza e la presunzione di tale coglione non hanno limiti. Si crede il migliore, il numero uno. Le sue specialità sono le imitazioni: da Carlo Verdone ad Aldo, Giovanni e Giacomo, da Claudio Bisio a Mike Bongiorno fino a Benigni. Quando esaurisce il suo repertorio di cazzate imitatorie attacca con delle barzellette da oratorio, che fanno ridere solo lui. Un altro membro della congrega di mio fratello è il pianista fallito, Maurizio. Bravo ragazzo, gran cervello. Diplomato, come mio fratello, in pianoforte ha un solo handicap: è alto un metro e cinquanta, fate voi. Di conseguenza le mani non sono quelle di un gigante, anzi assomigliano di più a quelle di un nano. Il ragazzetto necessiterebbe di un po’ di GH. C’è da dire che, tuttavia, possiede un gran musicalità, ben mostrata nell’esecuzione con vari gemiti di godimento e versi abominevoli. Il piccoletto ha anche il diploma di composizione e direzione d’orchestra, e sa analizzare le opere. Dimenticavo, è diplomato anche in organo, tale titolo gli assicura un posto la domenica mattina nelle chiese dei paesini brianzoli per accompagnare il coro dei chierichetti durante la messa. Il suo sogno senz’altro sarebbe stato quello di diventare il Pollini del nuovo millennio. Forse perché porta lo stesso nome. Purtroppo le sue zampette non glielo hanno consentito e allora, un po’ per tirare a campare, si arrabatta dando lezioni di pianoforte nel suo paesino avviando giovani gallinari alla carriera pianistica. La sua fidanzata, Sara, è un bidone cosmico, praticamente senza capelli, bianca all’inverosimile. Se fa una lampada diventa ancora più bianca. Ha il naso a becco, un culo mastodontico e puzza come una cimice. Però è molto ricca, quindi il nostro pianista fallito è a posto per la vita.
Il nanetto ha una sorella, Giulietta, uhhhhm, che nome. Falsa magra, dalla pelle colore latte cagliato e gli occhi azzurri, un po’ sporgenti alla Raymond Burr, capelli corvini. Nel complesso potrebbe risultare piacevole, ma anche qui c’è un problema. Anche lei, come Glutine l’asino, si caga addosso ogni due per tre. Stava con un arabo del cazzo, brutto come la merda, ma ricco, che vive a Philadelphia. Adesso si è mollata e convive con un compositore new age (new cosa?) a Monaco. Furba, dopo aver imparato l’inglese ora sta apprendendo il tedesco, e intanto prende pesci. Tempo sei mesi e si metterà con un se e andrà a Parigi. - “E’ pronto! Antonio, Giò, venite.”- la cena è servita. Siamo tutti felici. Mia madre mi a la marmitta colma d’insalata di riso, e poi si versa dell’Evian nel bicchiere di cristallo. L’insalata di riso non è uno dei miei piatti pollice alzato, ma questa è ottima, ricca di olive taggiasche, tonno Rizzoli (il numero uno), uova sode (di fattoria), cetrioli (di fattoria), ma senza wurstel, per me insopportabili, soprattutto da quando un mio amico, Diello, che aveva un’azienda di salumi, poi fallito miseramente per, come dice lui, colpa dei fornitori, mi aveva detto che nell’impasto per farli gli operai spesso e volentieri ci pisciavano dentro. Chemmerda. - “Allora Antonio, oggi è un grande giorno per te. Hai visto che ne è valsa la pena fare tutti quegli sforzi? - mio padre, la voce tremante e sommessa. - “Sì, è proprio vero, e pensare che tre anni fa, quando non riuscivo a dare fisica due volevo mollare. Era luglio, sono stato anche male e la mamma mi portato addirittura dal dottore, pensavo di venir ricoverato per appendice.”- ricorda Antonio. - “Ah sì, mi ricordo, è stata una tragedia, non sapevamo proprio cosa fare, eravamo tutti preoccupati. Per fortuna che con quelle pastiglie ti è ato. Sei stato bravissimo. Come secondo cosa volete? C’è del formaggio, del cotto, e l’insalata.”- continua mia madre.
- “No, io sono a posto così.”- mi verso dell’Evian. - “Anche noi.” – Mio padre e mio fratello si uniscono a me. - “Allora tiro fuori la torta e lo champagne dal frigo.”- mia madre ripone i piatti usati sulla cucina del gas (Mièle) e sulla lavastoviglie (Aeg) per prendere dal frigo (Mièle) l’occorrente per festeggiare. La torta, la mia preferita, strepitosa, impastata con cioccolato, ricoperta di glassa al burro resa leggermente densa dalla permanenza in frigo, ha all’interno uno strato di crema, sempre al cioccolato, sta sopra un costosissimo vassoio d’argento, pesante come un macigno, brillante da infastidire lo sguardo al riflesso della luce alogena del lampadario. Antonio taglia la prima fetta e sbocciato lo champagne riempiamo i calici. - “Ad Antonio.” – mio padre si alza dalla sedia con il calice in mano. - “Ad Antonio.” – ripetiamo tutti con la voce rotta dalla commozione.
UNA MATTINA DI STUDIO
La mattina seguente mi sveglio presto, verso le setta e mezza. Devo studiare un bel po’, a breve avrei avuto il compitino di matematica finanziaria, uno degli esami più complessi del corso, forse il più duro. Dopo la solita abbondante colazione, una tazza di yogurt Muller con cereali, due fette di pane americano con marmellata Menz & Gasser, una tazza fumante di caffelatte, una spremuta e una banana, mi metto alla scrivania con un plico di appunti fossilizzato alla mia destra. Una muraglia cinese in costruzione. Leggo i titoli delle dispense. Non so un cazzo. Guardo disorientato il tavolo, colmo e stracolmo di pigne di fogli disordinati, pacchi di fotocopie e prove d’esame degli anni precedenti. Sembra abbandonato da anni luce. Cerco di far ordine e trovo anche un como Staedtler, la cui provenienza stento a ricordare. L’unico modo per imparare e strappare un diciotto era fare più esercizi possibile, esercizi sopra esercizi. Autovalori, spazi lineari, matrici, ammortamenti, attualizzazioni, capitalizzazioni, tutte nozioni e formule che, secondo il mio modesto parere non servono a un cazzo. E poi teoremi su teoremi, da imparare a memoria, in totale dovevano essere più di una cinquantina, da saper a menadito. Alcuni dei miei colleghi di corso mi hanno raccontato di gente che ava entrambe le prove intermedie, magari anche con trenta, e poi, sistematicamente, veniva sturata all’orale, perché si scordavano un semplice aggio di una dimostrazione. Questo mi sembrava assurdo. Il fattore panico non è calcolato durante il colloquio orale. Molto spesso mi chiedo se sia più importante capire le cose o impararle a memoria. I professori, fin dalle elementari, esaltano sempre e solo la prima possibilità, ma, in realtà, quello che tocca fare a noi ragazzi e ripetere fino a sboccare ogni singola formula, ogni singolo aggio.
Come mi stanno sul cazzo i professori, non li ho mai sopportati. Li odio. E’ da quando ho dovuto cambiare scuola alle elementari che combatto contro questa categoria di frustrati. Non posso vederli, sono tutti uguali, fatti in serie come i preservativi (almeno questi servono a qualcosa), pedanti, noiosi e, per quanto riguarda i docenti universitari, anche se prendono dei bei soldi, appena possono te la mettono nel culo in una frazione di secondo. Esercitano il più bieco e stronzo dei poteri: intimorire i ragazzi, mettendoli a disagio e in soggezione, e fotterli appena vanno in pallone. A me è successo molte volte, e per questo provo solo pena nei loro confronti. Maestri, professori, docenti sono dei figli di puttana, meschini e frustrati. Completato una dozzina di esercizi sul determinante lancio un’occhiata al Daytona. Sono quasi le dieci e trenta, fuori il sole splende ancora alla grande, ma non più come il giorno prima. Adesso, apparentemente sta calando la normalità di sempre, ma qualcosa nella mia testa è cambiato. L’immagine di Silvia continua a riaffiorare nei mie pensieri e mille dubbi e supposizioni sono in gestazione. Non sono in grado di arrivare in Porta Romana, specialmente se poi di sera mi sparo qualche drink atomico. Il traffico m’intimorisce e non so destreggiarmi a dovere tra i mille incroci, semafori, sensi vietati e tutto il casino che Milano comporta. Qualcuno doveva insegnarmi bene la strada, e non potevo certo chiederlo a mio padre. Prima dovevo dare questo cazzo di compitino, ormai mancavano solo sei giorni e mi stava assillando. Nonostante abbia seguito tutte le lezioni e le esercitazioni non sono abbastanza pronto, mi occorre molto più tempo, con sei giorni mi facevo una sega. D’altronde il tempo non si può allungare o accorciare, è quello che è. Tentare non costa nulla. Ci mancava poi mio fratello fresco di laurea. Mi era venuto il fuoco al culo, sentivo impellente la voglia di concludere il prima possibile. E poi mio padre… Quaranta minuti nel limbo dei miei pensieri, l’unica cosa da fare è un po’ di palestra. Non credo nei fisici gonfiati, tanto per intenderci alla Schwarzenegger o alla
Stallone, troppo fuori misura, andavano molto negli anni ottanta. Per carità ci sono sempre donne che seguono l’ideale del super – steroidato, ma non mi alleno sicuramente per diventare uno tra questi. E poi, con tutti quegli ormoni buttati giù ti si rimpicciolisce e poi non tira neanche. Credo invece nei fisici super – definiti, stile Brad Pitt, un mito, grande pollice alzato. Ogni muscolo deve essere perfettamente evidenziato, certo un po’ gonfiato in maniera naturale, ma visibile perfettamente nella sua struttura. Logicamente per tirar fuori un fisico così devi essere già predisposto e questo vuol dire che, se sei obeso, non provarci nemmeno o almeno, se ti ci metti, buona fortuna. Sono sempre stato sul punto di iscrivermi in palestra, ma non l’ho mai fatto. Quello che mi ributta indietro è vedere tutte queste persone sudate affannarsi in mille esercizi fin quasi a sboccare, per tirare su il culo. La puzza degli altri mi nausea. Allora ho allestito una super palestra performante in casa, comprando un paio di manubri Weider, una panca Weider, un tappetino e una barra di trazione a pressione da posizionare tra gli stipiti della porta, per la gioia di mia madre, ormai sverniciati e rovinati. Inserisco “Bang!… Greatest Hits” dei Frankie goes to Holliwood nel lettore Philips, indosso una canottiera bianca Armani Uderwear, dei boxer neri Armani Uderwear, e mi specchio prima di iniziare. Panca sul tappetino, mi scaldo con delle flessioni. Quattro ripetizioni da dieci per i pettorali superiori, un minuto di pausa tra una serie e l’altra, poi ancora flessioni, con il palmo delle mani in corrispondenza delle pelvi, sempre quattro ripetizioni da dieci per i pettorali inferiori. Continuo con molteplici esercizi per gli addominali, per definirli sempre di più, quasi una paranoia. Non so più quali esercizi cercare per sfasciarmi l’addome. Realizzo di averne fatti più di seicento, certo non tutti di fila. Li differenzio, addominali alti, centrali, bassi, ma, sentendo “Born to run” ne sparo cento in fila fino allo stremo (soprattutto bassi, alle donne piacciono di più). In seguito, sdraiato sulla panca e madido di sudore, impugno i manubri con un carico da sedici chili e faccio tre ripetizioni da dieci, per i bicipiti. Sento scoppiare le vene dell’avambraccio e delle tempie.
Per finire, visto che sono carico a dovere e la necessità di dire basta è un imperativo morale, ma dire basta significa ancora una volta fino a quando non crolli a terra spaccato rantolante, faccio venti flessioni alla barra di trazione. Quanto mai. Dovevo dire basta. Alla ventesima ripetizione sento un schricchilio sordo provenire dallo stipite della porta. La barra cede. Cado a peso morto e m’impunto con la schiena sullo spigolo della cassapanca (del seicento) che quella cazzona di mia madre ha posizionato in anticamera. Il dolore, lancinante, fendente e micidiale s’irradia per tutta la cassa toracica e uno strano calore sconosciuto mi soprende. Provoco un gran botto, un tonfo portentoso e inevitabile. Antonio si alza dalla scrivania e corre vicino a me, un accenno di riso incontenibile sul volto. - “Cosa è successo?”- di corsa mia madre dalla cucina. - “Il coglione è caduto, che sfigato, ah ah ah!”- e mio fratello continua e ridere. - “Ma vaffanculo brutto frocio testa di cazzo, ho battuto la schiena sullo spigolo, mi fa un male della Madonna.”- mentre urlo con voce tremante realizzo di essere ancora sdraiato a terra senza riuscire a muovermi. Sento delle scariche arrivarmi dalla schiena fino al cervello. Brividi gelidi solcano tutto il corpo esplodendo nei lombi come pentole a pressione sfondate da proiettili impazziti. Antonio e mia madre cautamente mi aiutano a sollevarmi. Non era il caso di scherzare. Formiche elettriche puntellano la spina dorsale come picchi incazzati dal becco aguzzo su un tronco troppo nodoso e resistente. Pipistrelli svolazzanti dagli occhi spiritati con le ali viscide, un lampo nel cielo azzurro, la canottiera e i boxer inzuppati di un fluido bollente aderiscono alla pelle come carta da parati.. - “Cristo Giovanni, hai tutta la canottiera strappata e sporca di sangue!!”esclama mia madre terrorizzata con le mani unite sul volto, bocca spalancata e segni di terrore solcano le sue guance ancora giovani. - “Forza, dai, cercate di sfilarmela, senza strattoni però.”- esalo un filo di voce stanco e rauco. Movimenti forzati e decrepiti intervallati da dolori intensi pronti ad esplodere come crateri silenti.
- “Cazzo Giovanni!! Hai un taglio esagerato, il sangue continua a scorrere. Vai a prendere subito l’acqua ossigenata e il Mercurio Cromo, ci vuole anche del cotone idrofilo, muoviti!! E’ il caso di portarlo al pronto soccorso, ci vogliono senz’altro dei punti, l’emorragia non si ferma.”- Antonio, il viso ora sformato dallo spavento, comanda ordini intransigenti a mia madre, in pallone con la mascella tremante. - “Col cazzo, in quel posto dimmerda non ci metto piede neanche morto. Cercate di medicarmi in fretta che devo fare la doccia, sono bagnato fradicio e non voglio prendermi anche un raffreddore!! Cazzo, sbrigatevi!”- Una macchia di sangue rappreso sul parquet, una piccola pozza rosso rubino dai contorni indefiniti mi rende seriamente preoccupato. Il sangue è restio a smettere di pompar fuori dalla ferita. Lentamente mi trasportano sul letto, grossi aghi brucianti trafiggono la mia schiena per scaricare sui lombi scosse ad alta tensione. A pancia in giù e con il culo all’aria mi colano un litro di acqua ossigenata sul profondo taglio. Un bruciore infernale, una piastra di una vaporella decisa a sostare sulla mia schiena. - “Mettiamo il mercuro cromo. Continua a sanguinare, sarebbe necessario andare immediatamente in ospedale.”- continua mio fratello. - “Ancora con questa storia! Ho detto di no! Cristo, metteteci su una cazzo di medicazione, le graffe dei punti sulla schiena non le voglio! Mi rimane il segno per vent’anni.”- stavolta urlo a stento e il dolore aumenta a dismisura. Avrei voluto prendere l’inventore di quella cazzo di sbarra e sparargli in testa. - “Non addormentarti, mi raccomando, hai perso molto sangue, e, oltretutto, ti sei preso un grande spavento. Se solo fossi caduto un pochino più in là, lo spigolo ti si sarebbe conficcato nella spina dorsale, e allora sarebbe stata una vera tragedia, non avresti più camminato.”- crack crack, un attimo e diventavo bipede. - “Cazzo, è vero, se avessi preso quello spigolo in pieno mi sarei sfondato la schiena, finivo sulla sedia a rotelle per tutta la vita. L’ho vista proprio brutta, Gesù cristo, per fortuna è andata così.”- aggiungo stordito, gli occhi pesanti. Mi sento mezzo scemo, un pò ubriaco.
- “Come va?”- mio fratello rientra in camera dopo avere messo via i medicinali. - “Fanculo, ti sei messo a ridere come un coglione. Sembra comunque che la ferita bruci molto meno.”- mi alzo per andare in bagno, e realizzo di non poter far la doccia. Un paralitico. In casa ritorna la calma apparente. - “Antonio, mi accompagni a far la spesa?”- domanda mia madre dalla sala da pranzo. - “Vengo anch’io.” - esordisco. - “Che cazzo dici scemo, andiamo noi, stai qui e riposa.”- mi ferma mio fratello. - “Neanche per idea, col cazzo, ho scelto così e vi accompagno, mi sono già stancato di starmene a letto. Per un taglietto”- la mia decisione è irremovibile. - “Va bene, basta che stai attento, la ferita è fresca, non è il caso di strapazzarsi per niente, rischieresti solo di perdere altro sangue. Comunque non devo prendere tanta roba, devo solo andare a ritirare il pane e comprare quattro cose.”Mentre si sta allacciando un braccialetto d’ora giallo (Bulgari) mia madre esprime il suo consenso. Camminiamo tutti e tre in via S. Ambrogio e inizio a sparar cazzate senza senso una dopo l’altra, a fiume. Non è di sicuro un comportamento normale. ando davanti al fiorista, l’unico della via, mia madre saluta i proprietari, due persone anziane sposate da chissà quanti secoli. La moglie supera sicuramente i centocinquanta chili, con il viso sformato a tal punto da far fatica a vederle gli occhi. I capelli, straunti, i vestiti non classificabili. Un tipo vintage. Ogni volta che apre quella fogna di bocca si sente solo lei nella via. Sembra proprio un mostro. Il marito, al contrario non pesa più di sessanta, massimo sessantacinque chili, senza neppure un dente, il naso a becco, gli zigomi pronunciati, i capelli di un colore indefinito, tra il nero e il marrone, porta sempre un cappellino rosso anteguerra, una camicia a quadrettoni sgualcita, i pantaloni perennemente sporchi di terra. Lo si vede spesso per strada e estirpare erbacce dalle aiuole pubbliche. Probabilmente non si lava da anni.
Nel complesso posso dire siano bravissime persone, certo non di categoria stile Beverly Hills, ma lo stesso a modo. - “Salute a tutti!”- grugnisce la moglie. - “Buon giorno!”- mia madre risponde con estrema gentilezza.. - “Cazzo, è micidiale, sembra uscita dal manicomio. E i capelli? Ci spremi l’olio extravergine. E sono miliardari.”- dico a mio fratello. - “Hai ragione, è orrenda. E lui? Almeno potrebbe rifarsi i denti, con tutti i soldi che hanno. A guardare bene, ne ha solo uno…ed è nero…”- aggiunge mio fratello.. Ed è proprio così. I due fioristi hanno i miliardi, un sacco di terreni, titoli e proprietà da far invidia a Mazzarò, ma restano e resteranno sempre dei veri brianzoli e non spenderanno mai un nichelino bucato per migliorare il loro aspetto. E’ contro la loro natura. Più ne hanno, più ne vogliono, più si trasandano. Per andare in cooperativa incappiamo nella macelleria equina, che, volgarmente parlando è la bottega in cui si vende carne di cavallo. Come un film visto troppe volte il titolare, Marlboro rossa in bocca a filo filtro, se ne sta sull’uscio, triangolino bianco in testa con marchiato sopra il muso di un cavallo stilizzato che strizza l’occhio. Come al solito, sta tirando una valanga di bestemmie con un vecchietto del suo stesso stabile. Si lamenta del servizio deputato alla nettezza urbana. Ruta, il suo congnome, non raggiunge il metro e settanta, la faccia scura scura (non abbronzato), cotto dalle sigarette, sembra più un meridionale, direi quasi un tunisino. Magro e smilzo pare davvero uno di quei marocchini che s’incontrano ai semafori con la bottiglia colma di piscio e detersivo lavapiatti con annessa spazzola per pulire i vetri. Nonostante ciò i suoi discorsi sono improntati principalmente all’affannosa ricerca di qualche tecnica spaziale per sterminare in massa i terroni, i negri e gli ebrei. Il suo mito è Hitler. Quando s’incazza realizza un mix pirotecnico di bestemmie, parolacce, perle di saggezza brianzole, a tal punto che se fossi uno dei suoi due figli, un maschio della mia età e una ragazza di due anni in più (me la scoperei), farei pagare un supplemento ai clienti per sentirlo. Probabilmente non se ne rendono neanche
conto dell’intelletto e dell’arguzia del loro padre. Nel supermercato dei comunisti, regno del gossip meratese, ci avviciniamo al bancone dei salumi. Affettati in gelatina, formaggi stagionati, tartine gelatinose ai gameberetti, un mix di sapori locali e fragranze gallinare. Ormai conosco la scena e memoria, sempre quella da anni. - “Guarda Antonio, adesso Mario, con o svelto e occhi sbarrati, si dirige verso la mamma e le porge il sacchetto del pane fatto a Imbersago, ringraziandola e augurandole cortesemente buona giornata. Nel frattempo arriva la Gabriella, nel cappottino Burberry con un cazzo di cane cavalier al guinzaglio, la camicia scollata con fuori le tette. E’ il caso che se le rifaccia, sembrano delle mele avvizzite.”- rendiconto a mio fratello mentre tutto ciò sta accadendo. - “Ma che cazzo di coda! Ma questi stronzi non possono aprire un’altra cassa!”esclamo, elettrizzato dalla ferita e nervoso per la difficoltà motoria. - “Ambrogio, insomma, ma le sembra giusto?! Ma non vede che coda?!”- mia madre al caporeparto, che fa orecchie da mercante. Potere operaio. Naturalmente nessuno butta fuori il naso e ci spariamo così allegramente tutta la fila. Il lassismo regna sovrano alla coop di Merate. Lassismo fa rima con comunismo… - “Come va la ferita?”- chiede Antonio raddrizzandosi gli occhiali (Giorgio Armani) starnutendo. - “Salute!!Ma, abbastanza bene, anche se brucia un po’, ma credo sia normale.”gli rispondo pensando a Silvia. - “Hai rischiato davvero grosso, sei proprio uno scervellato, per quattro muscoli ti stavi quasi ammazzando.”- ancora mia madre. - “Ok, hai ragione, ho capito, adesso basta rompermi i coglioni!! Brad Pitt sicuramente non ha una sbarra del cazzo come la mia.”- la interrompo mettendo i piedi avanti per un’eventuale sbarra da fissare nel muro. Trapano e fischer, sconvolgente. - “Eh no, caro, se pensi di trapanarmi tutto il muro per un attrezzo dei tuoi te lo scordi. E poi non capisco come mai ti ostini con quegli esercizi così pericolosi,
tanto sei bello lo stesso.”- mio fratello mima l’ammiraglio in preda a scrutare l’orizzonte con un super cannocchiale.. - “Quante cazzate, hai visto Brad Pitt che muscoli ha? Ecco devo tirami anch’io così. E’ stradefinito!! Tutti abbiamo una ione.”- l’intento è quello di chiudere il discorso. - “Ci credo lo pagano milioni e milioni di dollari, a te non danno un cazzo. Anzi, spendi pure fior di soldi per quattro attrezzi costosissimi. Anzi correggo, li fai spendere a loro.”- insiste mio fratello. Giuda. - “Porca troia, basta, tanto faccio quel cazzo che voglio. Cosa dovrei fare? Stare in casa a tirarmi seghe tutto il giorno come fai tu?!”- le seghe, uno dei miei sport preferiti. - “Oh, ma vaffanculo, che cazzo vuoi da me? Intanto ieri mi sono laureato, tu devi farti ancora, se tutto va bene tre anni di università, e non credo che siano abbastanza se vai avanti così. Quando avrai finito ne riparliamo, così vediamo chi si spara seghe tutto il giorno!”- ho colpito in pieno il suo orgoglio. Un marocchino compare come una fantasma borbottando frasi senza senso, la mano tesa alla ricerca di spiccioli. - “Non ho i soldi neanche per cagare.” – se ne va. Ma sì, non me ne frega un cazzo, non rompetemi i coglioni, andate affanculo tutti e due! Ci mancava anche questo negro… Ahh cazzo!!!”- il taglio picchia. Ci troviamo davanti al portone di casa. Il cielo sta lentamente colorandosi di piombo, odore acre di legna bruciata serpeggia per la via e un rifolo di vento gelido squarcia la strada deserta. La desolazione non si può combattere. Ed ecco l’inverno. Mentre saliamo lo scalone nessuno parla, silenzio assoluto. Afferro il maglione (Lambers) appoggiato sulla sponda del letto, e sento quel cazzo di taglio tirare di brutto, come se un pazzo serial killer abbuffato di acidi si stia divertendo a punzecchiarmi la schiena con un punteruolo. Prima di iniziare di nuovo a palestrarmi sarebbe trascorso un lungo periodo di riposo. Che giramento di coglioni. So che sarei caduto nella depressione più completa, non solo perché impossibilitato ad allenarmi ma in particolar modo
perché non sopporto qualsiasi tipo di dolore. Naturale, tutti non lo tollerano, ma c’è chi riesce a dominarlo e a non farci caso più di tanto e chi, invece come me, non ce la fa proprio. Sono completamente refrattario al dolore. Non parlo solo del dolore fisico, ma anche di quello mentale. Capisco quando inizia, ma non so mai come farlo smettere e uscirne fuori, più vuoi che finisca più ti assorbe, ti snerva, ti rinsecchisce. Il dolore, chemmerda. A pranzo realizzo di avere le gambe pesanti come macigni, e di non avere fame. Fisso il piatto di pasta al pesto preparato in casa come un oggetto non precisamente identificato. Ha un aspetto invitante. Schegge di pinoli in purea di basilico tritato con grana e aglio. Raccolgo le forze, ingoio la prima forchettata, e in pochi minuti ripulisco il piatto con la stessa voracità di un clochard al Savini. Ore tredici e quarantacinque. Beautiful. Corro nel salone e sintonizzo la tele (Sony) su Canale Cinque. Stronzata colossale, biblica, offensiva per l’ntelletto, manuale dell’ignoranza e della beceraggine. Ma lo seguo da quando frequentavo le medie, e non riesco a perdere una puntata. Guai se dovesse accadere. Le rare volte che succede, quando vado in Università o preso da qualche impegno inderogabile (qualche scopata improvvisata) le videoregistro. Sinceramente della trama e degli amorazzi di questa soap non me ne frega un cazzo. Lo guardo per la presenza di numerose gran fighe, anche se tutte attrici fallite. Ciò non toglie che rimangono sempre gran fighe. Mio padre dice sempre che guardare quella merda è roba da froci. Sono consapevole della sua ragione, ma non me ne frega un cazzo. Lo guardo lo stesso. Sprofondato trai i cuscini ricamati del divano in seta bianca, gli occhi assonnati e in stato catatonico, seguo la milionesima puntata, quando il trillo del cellulare distrae la mia attenzione. Non riesco a carpire il senso di un dialogo concitato tra Eric e Ridge sulla scomparsa di alcuni bozzetti rubati. Divento nervoso e la ferita ne risente.
Mi alzo lentamente per non strappare la medicazione e con o agonizzante mi dirigo in camera. Agguanto lo scarafaggio impazzito, lo apro e sul display brilla il nome di Cinzia. Cinzia, e chi cazzo è? Mente locale, frullo figurine di ragazze nell’archivio dei miei emisferi, e realizzo in una frazione di secondo che sto scartando una telefonata con una troia volgarissima, tutta tette e culo, che ho conosciuto il venerdì precedente al “Carpe diem” (dove?) . - “Pronto!”- mi sento in affanno, e il cuore pulsa assordante nei timpani. Tun, tun, tun. Un megafono che si dilata lentamente ad ogni battito. - “Giovanni?”- una voce senza senso domanda dall’altra parte. - “Sono io, chi è?”- lo so perfettamente. - “Ciao Giò, sono Cinzia, la ragazza che hai conosciuto al Carpe settimana scorsa, non so se ti ricordi, ma mi hai lasciato il tuo numero…a dir la verità ce li siamo scambiati..ehm..scusa molto..ti diturbo?”- esordio penoso, degno da call center per prodotti alimentari da discount. - “Sì, ora ricordo, no, figurati, non stavo facendo praticamente nulla, allora come va?”- se solo avesse avuto idea di quanto mi stesse spaccando i coglioni dalla vergogna si sarerebbe sparata un pallettone in testa. - “Bene, adesso sono in pausa pranzo, così mi sono decisa a chiamarti per verificare se questo era, o meglio adesso è, il tuo numero.”- va avanti con tono sempre più manageriale. - “Ok, ora hai visto, è il mio numero ragazza.”- realizzo di aver al telefono una stracciona con grandi pezze al culo. - “Sai, lavoro in una ditta di surgelati, praticamente vendo il pesce.”- cerca di stupirmi. Ascolto inorridito, la mano sulla bocca tremante trattiene un conato di vomito. - “Insomma sei una rappresentante di pesce?”- o Cristo, a questa piace talmente il cazzo che ha deciso di trovare un mestiere non molto lontano da un altro tipo
di professione, che tratta altri tipi di natanti. Così si tiene in allenamento. - “Ah che bell’impiego!!! Allora ti tiri insieme molto presto la mattina, fai il giro dei supermercati. Mio zio (il fratello di mio padre) lavorava in quel settore, ma ormai è da tempo in pensione. Aveva in mano la zona di Bergamo e dintorni.”- Cazzo, quanto mi rompono le palle questi discorsi così penosi. Ha chiamato perché vuole scopare, è l’unico motivo. Ciò è ipocrita e fa perdere un sacco di tempo a entrambi. Le cose dovrebbero andare così: c’è attrazione, allora si ciula, altrimenti fanculo alle chiacchiere da bar, sarebbe tutto più semplice e lineare. - “Senti, stavo pensando, ti va se ci vediamo una sera di queste magari per andar a bere qualcosa?”- taglio corto, la puntata di Beautiful sta finendo. - “Vedo che vai subito al punto, eh?”- ha il coraggio anche di essere ipocrita. - “Non fraintendermi, ma trovo che sia meglio vederci e fare un confronto viso a viso, così pour parler, magari davanti a una buona bottiglia di Champagne, che ne dici, ehm, domani sera ho un impegno, venerdì sera?”- affretto clamorosamente. - “Mi farebbe molto piacere, anche se appena bevo un po’ vado fuori, però venerdì dovrei uscire con delle amiche, ti va se facciamo sabato?”- altro che amiche, dovrai andare a scopare con qualche stronzo. Brutta troia. - “Dai, va bene, hai detto se non sbaglio che abiti a Vimercate..troviamoci alle ventidue davanti al negozio di calzature in centro, poi decidiamo insieme dove andare, ok?”- mentre le parlo il timer del telefonino indica dieci minuti e quarantotto secondi. Sento un tumore crescermi nel cervello. - “Va bene, allora a sabato sera, ciao, baci.”- dice scocciata. - “Baci anche a te, ciao ciao.”- finalmente termino la commedia. Torno in soggiorno e Beautiful è terminato. Vaffanculo Cinzia.
RIFLESSIONI
Torno in camera e noto sulla mia scrivania un imponente plico impolverato di appunti di finanziaria racchiusi in cartelline di plastica a buchi attendere la mia attenzione. Merda di matrici e sistemi lineari. Zero voglia. Mi soffermo a pensare un attimo a quanto cazzo ho studiato in tutta la mia vita. E a quanto ancora dovrò rompermi i coglioni a farmi venire il culo quadrato per imbottirmi il cervello di nozioni e concetti che non mi serviranno a un cazzo. Sento brividi di fuoco formicolare lungo la schiena. So che molte persone hanno fatto lo stesso e molte altre lo dovranno fare, ma non cambia nulla, questa rimane solo una bella consolazione del cazzo. La giovinezza se ne va sui libri di scuola, per quelli fortunati, per quelli sfigati sulla catena di montaggio. Quando è ora di godersi la vita ecco che ormai ti ritrovi vecchio, devi lavorare e non ti tira più il cazzo. E poi, quando il giorno ti sembra infinito, un bel tumore ti fa saltare per aria. L’esercizio inizia più o meno così: “Determinare il sottospazio lineare delimitato dagli estremi..bla bla bla…”. Agguanto la mia stilo (Spalding & Bros) e tento di risolverlo. Mi affido alla fantasia e dopo quattro aggi senza logica realizzo che la soluzione non si avvicina minimamente con quella del libro. Che studente brillante. Carta straccia. Riprovo ancora. Un altro foglio bianco, un muro indistruttibile, una tavola da riempire. Ma non sono Leonardo. Averlo davanti sul tavolo rende l’idea di pulito e di ordine. Il problema è nel mio cervello, l’ordine per quelle stronzate non bussa nemmeno. Al secondo fallimento cambio tipologia di esercizio. Stavolta si parla di procedimento di Gram Schimdt (Gram cosa?). Stesso risultato. La verità è che non me ne frega un gran cazzo e la voglia di capire manca totalmente. - “Non concluderai mai niente nella vita” – squittisce la voce della coscienza.
Ho addosso uno scazzo tremendo, forse perché so già che il compitino sarebbe stato un disastro, ma anche di questo non me ne frega grosso modo un cazzo. Mi dispiace più che altro per i miei, abituati al cervellone infallibile di mio fratello. Oltre allo scazzo filodepressivo sento tirare il taglio, devo misurare tutti i movimenti. Davanti allo specchio del bagno tolgo la maglietta aderente (Emporio Armani Underwear) nera, e con sollievo vedo la medicazione intatta e, soprattutto, priva di tracce purulente. Nonostante quella sbarra del cazzo mi ha segato gli allenamenti per un bel pezzo, noto di essermi allenato a dovere fino al momento dello sfracello. Mi sto definendo alla grande. Spalle e deltoidi appaiono possenti, non giga, ma proporzionati, definiti e duri come l’acciaio; i bicipiti segnati dalle vene in rilievo, misurano circa trentasei centimetri; le braccia disegnate da fasci di muscoli in evidenza a ogni movimento, possono essere tranquillamente paragonate a quelle di un centometrista. Profonda e perfettamente depilata, la linea centrale del busto inizia in corrispondenza della fine del collo e prosegue solcando il torace in due pettorali ben squadrati, nervosi e tonici più che mai. Per inciso la barba la faccio una volta ogni due settimane. Gli addominali, sfasciati, sembrano scolpiti da Prassitele e a ogni respiro ciascun muscolo pulsa singolo, elastico e segnato. Non ho un filo di grasso. Infilo una maglia (Fruit Of The Loom), sgualcita e bucata da tutte le parti, ma grande due misure in più, in modo tale da non ostacolarmi nei movimenti. Mi sento più libero e comodo. Vago per casa senza motivo, con mia madre che rompe il cazzo perché non studio. Decido di chiudermi di nuovo in camera e mettendo “The power of love”, per non sbattermi a cercare un altro cd, mi sdraio con il pacco stretto in mano. Mi sento depresso, (come?), e stanco. La depressione non è definibile con chiarezza, credo sia differente da individuo a individuo, ma uno dei sintomi più comuni per identificarla è la progressiva voglia di starsene a letto, aspettando chissà cosa o chi.
Mi trovo sulla buona strada. Non ho novità in vista, se non un cinema la sera successiva con Bollinger e due cessi, la solita festa al Carpe venerdì sera e una probabile scopata con Cinzia al sabato. Rifletto sulle miserie umane. In più ho la schiena squarciata. Credo che non mi sarei fatto più sentire con Silvia. Guardo il soffitto a cassettoni nella penombra, un alveare a celle rettangolari affrescate, pronte a crollarmi addosso, poi la libreria di ciliegio in fianco al mio letto, stracolma di libri e polvere, il Daytona indica la diciassette e quarantacinque, l’ora di cena si sta avvicinando. Non ho voglia di sentire i soliti discorsi dei miei. Chiudo gli occhi.
PERLE DI SAGGEZZA
Giovedì, il fine settimana è alle porte. Sento l’eco del cellulare in lontananza. Non riesco a trovarlo, qualcuno l’ha spostato, senz’altro mia madre o quella vecchia troia della domestica per far la polvere sulla scrivania. O qualcun altro? Seguo i trilli e la caccia al tesoro termina in bagno, sul ripiano in plexiglass dell’angoliera, tra le creme Estée Lauder e la lozione per capelli Shisheydo. - “Pronto!”- rispondo sull’ultimo squillo. Deglutisco e mi preparo alla conversazione. - “Allora!!”- dall’altra parte Bollinger. - “Non ci sto più dentro. Pollice abbassato. Stasera dobbiamo andare al cinema con quelle là?”- vedo la serata prima di viverla. - “Se non ne hai trovate di meglio..ehh caro Power, tu non fai un cazzo per gli amici, dormi sugli allori, sono sempre gli altri a farti i favori, a trovar le fighe, a portarti in giro, cazzo, perché non ho la tua faccia…altrimenti…”- numero uno. - “Ehi! Ehi! Ehi! Amico?! Perché? Quelle due le definisci fighe?”- facce unte di marmellata scaduta con addosso scarpe dozzinali e vestiti di bancarelle antiche, puzzolenti di carcassa sudata. - “Sono meglio di una pedata nel culo ragazzo, e poi per uscire al giovedì sera vanno bene. Se questa serata trascorre piacevolmente la prossima settimana le portiamo all’Atlantique, così le tiriamo ubriache con degli ottimi cocktails, e poi ci facciamo succhiare un po’ di nettare. A parte che Barnaki me la sono fatta già un po’ di volte. Una sera l’ho tirata nuda e cosparsa di olio Johnson, sembrava una biscia. Scivolava dapperttutto..eh, amico come sempre l’ho faccio per te.”continua con questa storia. - “Col cazzo che spendo centocinquanta carte per una cena, Cristo!! Dico, se
fossero delle modelle o delle stragnocche ok.. ti concedo al massimo una pizza dalle nostre parti a non più di venti carte, ma a quelle poveracce non offro un cazzo. Già che le porti al cinema. Due conti: le offriamo il biglietto, spesa complessiva pari a lire trentamila? Ecco rimediato il pompino. Sai, un pompino non si rifuta mai. All’Atlantique con quei cessi?! Amico, non scherziamo, non ci fanno nemmeno entrare. Quindi, a che ora i?”- mi gratto la guancia perplesso. - “Ehm, bravo, tieni via i soldi, tanto non te li porti nell’al di là. Arrivo verso le ventuno e trenta, quando sono da te ti faccio uno squillo.”- ho ancora due ore di cazzeggio. - “Oh ma vaffanculo, ho vent’anni, spero di crepare dopo i quaranta (e prima dei quarantacinque). Ok, ci si vede dopo..ah, ricordati di lavare l’uccello, magari scatta qualche pompino…”- penso a Silvia. Decido di spararmi un lettino superabbronzante. Noto un lieve decadimento della gradazione di marrone. Voglio diventare un negro biondo. - “Sicuro, hanno tutte e due i denti marci, chemmerda.”- realizzo quale superabbronzante scegliere. Opto per quello atomico dell’Arval, da melanoma fulminante. - “Sempre di una finezza esemplare, complimenti fratellino, hai sciacquato bene la bocca stamattina? Sei un gran signore.”- Antonio, come al solito mentre a nel corridoio adiacente alla mia camera non si scorda mai di ascoltare le mie telefonate. E’ un modo come un altro per rompermi i coglioni. Spalanco la finestra. L’aria nebulosa e umida, è più fredda dei giorni ati. L’autunno è arrivato.
PREPARATIVI
- “Tesoro, sbrigati, sono quasi le nove e stai ancora cenando. Non so, muoviti, visto che devi fare anche la doccia. Ehm, non si fanno aspettare le persone.”- mi amadre sfila il piatto di riso da sotto il naso e lo sostituisce con la terrina colma di radicchio. - “Cazzo, hai ragione. Devo star attento a non bagnar la medicazione, poi ci metto una cifra a phonarmi, sarà il caso di tagliar un pò i capelli, però sono così biondi…” - medito ad alta voce, seriamente preoccupato per il mio tono muscolare. - “Sarà il caso…” - aggiunge mio padre sfogliando il “ De Senectute” di Catone. - “Cosa vuoi dire?”- lo punzecchio irritato, destando il suo interesse a proseguire nelle puntuali considerazioni. - “Che sembri un bifolco, ti manca solo la chitarra e gli stivali a punta.”prosegue senza alzare gli occhi dallo scritto. - “Non ho tempo per le tue cazzate, devo prepararmi per uscire, del mio look ne parliamo un’altra volta.”- azzanno una mela con la buccia e mi alzo da tavola. - “Sei peggio di una bella fica.”- mi congeda, voltando pagina. - “Bravo, hai ragione, scusa ma sono di fretta e non ho tempo per discutere”mi fiondo in camera pensieroso. Indeciso sull’abbigliamento da indossare, spalanco le tre ante dell’armadio (Tisettanta) radiografando i possibili abbinamenti consoni alla serata. Le nostre prede non meritano nemmeno i vestiti del mercato. Profondamente ignoranti, rozze, misere, con manie di grandezza, sbucate dalle fogne, convinte all’ennesima potenza che se ti accompagni a gente con i soldi, automaticamente per osmosi il portafoglio (il loro), come per magia, si rigonfia di dobloni, e a fine
serata ti ritrovi ricco. Ma l’unica verità è che sarebbero tornate a casa povere come quando, speranzose e credulone, erano salpate dal focolare domestico. Troiette di poco conto. Tra le innumerevoli T – shirt (Emporio Armani), blu navy, bianche, nere, grigie, un paio rosa, azzurre, tre viola, camicie (di tutte le marche, Bagutta, Ralph Lauren, Emporio Armani, Armani Collezioni, Brooks Brothers, Cornelliani, Lorenzini, Aspesi, Versace Jeans, Versace V2 Classic, Trussardi, Helmut Lang, Etro, ma non le metto mai, Hermes, Gucci, Gianfranco Ferrè, Iceberg, Yves Saint Laurent) i golf, tutti in puro cashmere (Loro Piana, Armani Borgonuovo, Malo), a filo doppio, preparo sul letto una camicia Versace Jeans, sbiadita di un azzurro tendente al grigio, con due tasche, in corrispondenza del petto, ricamate con la classica V, e un maglione blu Armani Borgonuovo, morbido, del tipo non vale un cazzo, ma quando la gente lo tocca se ne deve solo stare zitta e avere rispetto. Scelta critica per i pantaloni. Insieme occupano un’anta intera del guardaroba, (jeans di tutti i tipi, a vita bassa o alta, a zampa, a tubo, eleganti, con le pinces o senza, di tutte le marche, Versace Jeans, Armani Jeans, Armani Collezioni, Armani Borgonuovo, D & G, non li metto mai, Gucci, Levi’s, ormai definitivamente out, Gianfranco Ferrè, Lanvin, Ives Saint Laurent, Iceberg, Cornelliani) concludo al volo con un paio di Versace Jeans Vintage del tipo non vale un cazzo, ma quando la gente vede la marca deve solo stare zitta, ben aderenti al culo e al pacco. Mettono in spudorato risalto le cosce muscolose. Li butto con menefreghismo sulla sedia in vimini stile Havana e Daiquiri (come?). Prima di svaccarmi per non più di dieci minuti nella doccia staziono al volo in lavanderia per scegliere le scarpe. Non penso più di tanto, non c’era tempo. Sfilo dalla scarpiera un paio di stivaletti (Hogan) dell’inverno ato, nero opaco, sempre adatti per ogni occasione, frase retorica e del cazzo, ma purtoppo rende bene l’idea, ipertaccate internamente, mi slanciano ancor di più, sfiorando il metro e ottantotto. Grandioso Con affanno tachicardico, mi precipito nel bagno (piastrellato in pietra serena), stendo il tappetino (Versace), davanti all’entrata della doccia, spalanco le porte in cristallo azzurrato e avvio lo start. Un getto d’acqua calda, anzi bollente, a livello ustione, mi sfiora il dorso della mano. Una scossa potentissima mi fa schizzare all’indietro, rischiando di sfondare il cristallo della porta, ma riesco a mantenere l’equilibrio, aggrappandomi al miscelatore (Grohe). Sento la schiena
di nuovo squarciata, il vapore esala dal piatto caldo per stagliarsi sul corpo traumatizzato e ciondolo alla ricerca di un appoggio stabile. Sposto l’attenzione sulla medicazione, garza umida rossastra appicicata con del cerotto nastrato da sostituire. Ritorno stabile e lascio uno spiraglio tra le ante scorrevoli. Il vapore esala all’esterno, portando la temperatura ambiente a clima equatoriale. La maglietta (Fruit of the Loom), i boxer (Emporio Armani Underwear), i pantaloni della tuta (Nike), le calze blu (Valentino), due salami arrotolati sul pavimento, giacciono per terra arruffati e pronti per essere centrifugati. L’acqua rimbalza e zampilla prima sulla testa sudata, poi sulle spalle, fino a cadermi sui piedi in modo lieve e piacevole. Sono colpito da spruzzi d’acqua profumati, gradevoli, delicati. Afferro dal porta sapone in plexiglass la crema detergente alla mandorla e cocco Atkinsons, ne verso un quantitativo copioso tra le mani e, con raffinata precisione la spalmo su tutto il corpo, partendo dal collo, poi la faccia e le spalle. Proseguo sui bicipiti, i pettorali e gli addominali (stradefiniti), sulla schiena, driblando la lacerazione medicata, per terminare sui glutei e in un secondo momento sul cazzo, rotolandomi tra i palmi i coglioni, massaggiandoli ripetutamente, fin quasi a farmelo diventare duro, ma non mi va di spararmi una sega, purtroppo non ho tempo. Verso lo shampo (Revlon) sul cuoio capelluto e inizio a massaggiar la testa fino a creare una massa di schiuma uniforme, densa e purificante. Nel frattempo il vapore dilaga in tutto il bagno, offuscando completamente la vista. La nebbiolina umidiccia, tipica dei bagni turchi (Hotel de Paris) ha reso la stanza un piacevole Hammam. Sgancio dal muro la maniglia della doccia (Grohe) e provoco un getto d’acqua gelida. Ogni muscolo s’intirizzisce e diventa più duro e vigoroso (come?). Mi sciacquo con cura millimetrica. I fiotti, ghiacciati e taglienti, hanno scacciato lo scazzo e la stanchezza, ombre di ricordi fastidiosi. Agguanto un grande telo da bagno bianco (Yacht Club Montecarlo) steso sul calorifero in acciaio a parete e mi asciugo velocemente, percependo il calore riflesso sulla pelle rigenerata. Sfrego tutto il corpo con attenzione maniacale. Col pettine (in avorio), sgroviglio i capelli ciocca per ciocca, (non metto mai il balsamo, riduce drasticamente il volume) e, dopo averli frizionati con una
lozione rinforzante (Shisheido) procedo alla messa in piega. Soffi d’aria calda. Il Phon (Revlon Professional) mi aiuta a creare volume. Leggermente cadenti, le onde dorate mi ricoprono le orecchie, lasciando scoperta la fronte abbronzata, pronunciando gli zigomi, la mascella squadrata e le labbra carnose. Ogni ciuffo deve essere posizionato in modo conforme al mio viso. Una leggera nebulizzata di fissante (Biopoint, alla vitamina B – 5) e lascio il bagno. Torno in camera a vestirmi. Sento la pelle tirata e riposata. Ventuno e trenta in punto, squillo e sul display compare Bollinger. Mi spruzzo addosso mezzo litro di profumo (Le Male, J. P. Gautier), sul collo e sui capelli. Afferro un giubbotto (Armani Borgonuovo), in tessuto tecnologico e traslucido con cerniere in metallo a vista e attraverso il palazzo. Porto un paio di jeans (Versace) sfumati con la fiamma ossidrica. Grido ciao a qualcuno che non sente e non percepisco riscontro. Ma non mi preoccupo e lascio alle mie spalle la porta di casa. Come al solito sono il migliore.
ERA MEGLIO EVITARE
Intirizzito aspetto nella via, davanti al portone di casa, col buio e il freddo come amici. Ho una sete micidiale e la bocca bollente. La strada, illuminata appena da un lampione mezzo sfasciato, la cui lampadina troppo debole emette una luce giallognola, nebulosa e fioca a tal punto da illuminare a malapena l’ingresso di casa mia e un pezzo d’asfalto semi bagnato dal piscio di qualche cane bastardo, appare deserta. Un gran rombo di motore snervato e fuori giri, certo non l’otto cilindri dell’sl, all’altezza dell’atrio Belgioioso, preannuncia la fermata della y gialla (come l’sl) davanti al mio portone. Nonostante l’sl sia un due più due, Bollinger non si sarebbe mai minimamente sognato di sprecarla con due cessi di infimo livello come quelle che mi sta portando. Ecco l’utilitaria festante. Indosso la maschera per l’occasione e inizio la recita. E’ brutto quando devi fingere senza saperne il perché. O meglio, porto la maschera scelta dalle aspettative richieste. Sto trasformandomi in un vanghetto ignorantello brianzolo. Tutto è preparato, sai cosa dire e quando devi farlo, e non te ne frega un cazzo di niente, se non di sborrar sui loro candidi visi innocenti e immacolati. Implorano la mia marmellata zuccherosa. In basso a destra al portoncino d’entrata noto una chiazza rossa scura fumante e grumosa. Rimango seriamente perplesso, e non riesco a capirne bene l’origine. - “No, stai pure…Power Ranger, vai dietro, cosi iniziate a toccarvi..”- Bollinger scende dall’auto, entro nell’abitacolo e sfilo sul sedile posteriore, squadrando la signorina accomodata che sgrana gli occhi alla mia vista. - “Ma dai, vado dietro io, è alto, non vedi, non ci sta cacciato lì, io sono piccolina..”- è vero, un piccolo cesso. Di solito quelle piccole hanno le tette grosse. A questa si sono dimenticati di fargliele. Zero, il pattume totale. Per farmelo tirare in canna e scoparla dovevo toccarmi i pettorali. E l’idea di infilarglielo non mi ava neanche per l’anticamera delle balle. Quando entro in contatto con nullità come questa signorina spazzatura, e mi
tocca pure condividere con loro il sedile posteriore sfregando il mio pantalone di Versace con quello straccetto dozzinale indossato da quella poveretta, mi si contrae lo stomaco, preda di una sensazione veramente fastidiosa, un misto di bruciore e conati di vomito, che riesco a trattenere grazie a un fair play degno di Lord Darlington. Indossa un profumo acre, da bottega di paese, sicuramente spacciato come essenza segreta, afrodisiaca e introvabile, proveniente da lontani paesi esotici, dalle palme piene di frutti divini e dal mare popolato di bionde e abbronzate sirene dalle tette enormi. Straccivendola con manie di grandezza. - “Che profumo gradevole, davvero glamour. Mi pare di non averlo mai sentito, è molto accattivante, dove l’hai preso?”- con la maschera del grande attore, neanche Laurence Olivier ce l’avrebbe fatta, cerco di dare un senso al momento che sto vivendo. - “Hai ragione, l’ho sentito a Milano, al Tocqueville, su un modello della compagnia delle Indie, e, inebriata (come?) gli ho domandato dove l’avesse acquistato. Non ricordandosi di preciso mi ha lasciato il suo numero, non so perché, e sta di fatto che poi l’ho anche piombato, due giorni dopo. Stupito dalle mie prestazioni, siamo usciti a cena e me l’ha regalato. Pensa Anna, che carino, e mi ha offerto pure la cena, un figo esagerato. Comunque è una bottiglietta con un’etichetta (fa anche la rima) con la scritta in oro, essenza di Ebano.” - che fortunata la ragazza, un cesso e si scopa pure i modelli. Stupito dalle mie prestazioni? Millantava il vero? non credo proprio, sinceramente pensavo alla solita bomba per far colpo. - “Sai cos’è l’Ebano?” – chiedo parecchio infastidito. - “Certo!!!Ah, Anna, pensa sia un’ignorante. E’ una nazione. Ma per chi mi hai preso?!”- risponde supponente e odiosa come una giraffa nel culo. Ammasso di carne inutile e senza cervello. - “Hai sentito Bollinger? L’Ebano è una nazione..hai portato un fenomeno. Perché non la mandiamo al milionario?”- stracciona senza nemmeno il minimo d’istruzione. Chemmerda. Noncurante del discorso instaurato tra Bollinger e l’altro genio, ci ritroviamo nella sala Energia del cinema di Melzo, illuminata da luci soffuse e gente borbottante contenti nello sgranocchiare i loro rancidi popcorn. Prendiamo posto
aspettando l’inizio del film. Con la coda dell’occhio vedo bene Barbara, la scopatrice di modelli indiani. Le faccio una tac approfondita. Fa davvero cagare. Il volto, un ovale giallastro con la fronte ad ogiva, tempestata da merdosi brufoli ricoperti con fondotinta dozzinale, come quel cazzo di fottuto profumo merdoso. Gli occhi, anche se apparentemente blu, manifestano idiozia e stoltezza, senza lasciar trasparire un minimo bagliore di luce, di acume, fanno da contorno ad occhiaie spugnose e violacee, cadenti fino alle ginocchia. Insignificante nello sguardo, stupido, senza un segno di distinzione. Non so, le labbra carnose, una mascella decente, o un bel nasino. Tutto appare scialbo, vuoto, senza senso, come la sua esistenza. Non so perché mi trovavo lì. Alla fine chiuderemo gli occhi e saremo catapultati nello spazio. Di nuovo corpi vaganti in cerca di dimora. Noto tra i suoi capelli sfibrati, (chi sarà mai il suo parrucchiere?), un fermaglio, raccattato sicuramente per pochi spiccioli in qualche bottega di paese (no, forse al mercato), di dimensioni grossolane e di cattivo gusto raffigurante un ramarro, la cui funzione non mi appare tanto chiara. Raccoglie in una simil treccia una ciocca centrale sopra la mitica fronte, per poi farla scendere sulla spalla priva di muscolatura. Malnutrita fin dalla nascita, la bocca lascia intravedere denti marci. Zero seno, sotto a un maglioncino rosso sdrucito, altro meraviglioso capo proveniente al cento per cento da qualche bancarella economica, che cade sciabalento fino ad in incontrare un culo di dimensioni bibliche, avvolto in jeans marroni (da dove arrivavano?). Rosso e marrone, un’accoppiata vincente per una miss attraente. Cosa mi rappresenta? Porca troia, perché mi trovo con lei. Questo cazzo di Titanic non finisce più. Certo, i soliti effetti ipergalattici, veramente giga le tette della Winslet, bravo Di Caprio. Vincente Cameron. Tra il primo e il secondo tempo niente break, la gola secca, sputo schegge. In fianco a Bollinger, seduta a gambe larghe, una strafiga bionda, abbronzata col naso gommato e le tette stragonfie, mi sveglia dallo scazzo atomico che sto attraversando. Nonostante sia buio, forse grazie alle luminose scene di affondamento del fottuto transatlantico noto che anche lei mi sta fissando, la mano stretta a quella di un vecchio di merda con al polso un Daytona d’oro. Che
voglia di toccarle le tette, magari uscire dal cinema con lei e andare chissà dove, sapere il suo nome, come scopa, e mandare affanculo quei cessi ignoranti che mi stanno rubando il tempo. Guardo l’ora sul cellulare, quasi l’una, e il pacco prosegue lentamente. Volo alla laurea di Antonio, e di colpo, a Silvia. La sua immagine fissa s’interpone a Di Caprio che sprofonda lentamente nei gelidi abissi, e realizzo di non poter lasciar perdere, devo conoscerla e far l’amore con lei. Del resto, in fondo non me ne frega un cazzo. Bollinger e Anna scherzano, probabilmente lui spiattella puttanate a non finire, l’altra stracciona con le lacrime si agita sulla poltrona mentre Di Caprio cola a picco. Scena drammatica, starnuti, ragazze commosse, fazzoletti accartocciati, avvinghiati intorno a narici gonfie di dispiacere. Il bel Leonardo ormai è precipitato in culo all’oceano. Immagino Anna unta di olio prenderlo nel culo da un negro con il cazzo di dimensioni ciclopiche. - “Ah, ah, ah!!” – risata fragorosa, strasquillante, volgare, rieccheggia dal fondo della sala, tra le ultime file. - “Ah, ah, ah, ah!!! Ah, ah, ah!!!”- non finisce più. Un tipo davvero brillante. - “Stronzo, hai finito di rompere i coglioni, abbiamo pagato per veder il film in pace”- uno spettatore irato proferisce due file più avanti. - “Ma vaffanculo, ho pagato anch’io testa di cazzo, faccio quello che cazzo voglio e vaffanculo un’altra volta”- il ridoliere a sua volta. - “Forza, forza, trovatevi di fuori. Ah, ah, ah!!” – aizzo le tenzone, mentre Baby si volta scocciata. Rimiro per la sala e in lontananza vedo un tipo con camicia bianca, gesticolare e inveire alla fila innanzi a lui. Il ridacchiere. - “Stronzo” – un coro di benpensanti si scaglia contro di lui. Se la ride più di prima. Titoli di coda, accompagnati dalla canzone di Celine Dion, diventata poi tormentone e successo planetario di tutto l’inverno remixata in innumerovoli
versioni. Finalmente alzo il culo ormai diventato quadrato e usciamo dalla sala. Le ragazze si scusano e vanno alla toilette a sgrillettarsi. Bollinger, serioso, con la faccia tra lo sconvolto e lo scazzato mi guarda scuotendo la testa. - “Chemmerda, un gran film del cazzo.”- inevitabile, - “Ahhhh…non ne potevo più. Almeno te la porti a casa Anna o sega sotto le coperte?!”- scaldo il dialogo cercando un modo per dimenticare quel drammone di merda. Sarei andato volentieri a fare quattro salti. - “Ma non so, non sono in vena stasera, ho litigato ancora con la Lara, sarà la terza volta da inizio settimana, non so che cazzo ha, dev’essere sclerata per il super lavoro, forse l’hanno caricata di troppe responsabilità. Almeno così lascia intendere. Dice frasi senza senso, assurde, una dietro l’altra, non si trattiene più, è fuori completamente, non so più che cazzo fare. “- sembra davvero in para. - “Ma spizza?”- chiedo data la minuziosa descrizione del soggetto sclerato. - “Come?”- risponde non capendo. Gli occhi guardano nel nulla. - “Tira di pizza, di coca, insomma. Si fa i raglioni!! Polvere di stelle…”- cerco di chiarire il concetto. - “Ma sei pazzo! Non fuma nemmeno, credo non si sia mai fatta neanche uno spinello, è escluso, fuori discussione, non oso nemmeno pensarci.”- sembrava l’avessi spaventato a morte. - “A Milano gira come l’acqua, si dice. Non mi meraviglierei, ormai la usano tutti. Almeno hai provato a parlarle con calma, a quattr’occhi? Forse si può risolvere tutto con un po’ di buon senso.”- tranne la morte. - “Sì, secondo te..” – lui, faccia distrutta, preoccupata, stra-ansiosa, gli occhi lucidi e distaccati. - “Comunque Barbara è da sbocco, se me lo vuole succhiare deve pagare!! E poi è così demente che pensa di essere strafiga. Cristo, sembra le abbiano dato una martellata sui denti. Credo che non la rivedrò mai più.”- sentenzio mentre quelle due troie tornano sorridenti verso di noi. In fondo non stavano spendendo
nulla. - “Siete d’accordo se andiamo a berci qualcosa? “- domandano allegramente con la borsetta mezza aperta in mano, quella di Anna con metà fazzoletto bianco (dozzinale) penzolante fuori, segno che si è appena asciugata le mani (o la figa).”- non avrei tirato più fuori il becco di un quattrino, per la serata ho sforato il budget. Proporre una gita al motel sarebbe stato più dignitoso. - “Io dovrei svegliarmi presto domattina, ehm, sapete ho un compitino très très difficile. Ok fregarsene, ma un minimo di finta serietà nei confronti dei miei è necessaria, altrimenti mi sbattono davvero fuori casa a pedate nel culo.”- in tal modo svicolo il loro bieco tentativo di estorcermi ancora del denaro. In macchina, stavolta le ragazze sul sedile posteriore, ho la sensazione che Barbara si aspetti qualche attenzione da me. Meglio guardar la strada nel buoio. Nessuno prende parola (fortunatamente), l’insegnamento della serata si sta profilando. Sintonizzo la radio su RMC, che trasmette “ Outside” di George Micheal, nuovo hit del momento. Quella canzone mi fa dar fuori di testa, alzo il volume e inizio a canticchiarla. - “And yes, I’ve been bad..Doctor won’t you with me what you can? You see I think about it all the time…twenty fuor seven…” – numero uno. - “A me è piaciuto molto, Leo è molto sessuale.”- esordisce quell’idiota di Anna rovinando apposta il sound. Essere spregevole, figlia di nessuno. - “Sessuale, non sensuale? Forse stai sbagliando..” – corregge Bollinger. - “No, no, sessuale, sprizza ( o spruzza?) sesso da tutte le parti, cioè, spiego, mi viene voglia di scoparmelo subito. Se fosse qui non gli chiederei nemmeno di portarmi a cena.”- chiarisce. Hanno in testa solo la cena. - “Sessuale?!! A questa le è andato il cervello in acqua, ma che cazzo sta dicendo?” – penso sbigottito e stranamente il taglio torna dolente. - “Sì, perché Di Caprio viene a chiedere a te di uscire, ehm, scusa, di scopare. Ragazza, stai con i piedi per terra, per cortesia. La Winslet, a parte la sua recitazione davvero eccellente, scoppia di ciccia, dovrebbe andare da Wanna
Marchi, anche se mi sa che per quel culo non si può fare più di tanto. D’accordo!!!”- sentenzia Bollinger ripigliato. - “Ok, ciò non toglie le tette da urlo, secondo me, fantastiche, da farti schizzar in due secondi. Viva la spruzzata. La donna se non ha un seno abbondante non si può definirla tale. Se vado con una senza due belle pere non mi tira neanche. Finisce che palpo i miei pettorali.” – Ancora con questa storia, sto rischiando di cadere nel monotono. - “Noi due abbiamo una seconda e, personalmente non invidiamo quelle col seno grosso, sai che peso…” – puntualizza Anna stizzita. Si è sentita chiamata in causa. - “Infatti non vi chiederò mai di uscire in separata sede, almeno che non andiate a farvele rifare. Se siete interessate ho il numero e l’indirizzo di un bravo chirurgo plastico, mio amico, uno dei migliori di Milano, e del mondo, un vero pollice alzato. Se vi mando io vi fa anche un ottimo prezzo”- pensano stia scherzando. - “Grazie, sei molto gentile, comunque ci sono tante cose in una ragazza oltre le tette, non so, gli occhi, il fascino, lo sguardo, le sue idee, le opinioni…insomma non puoi ridurre tutto a un paio di tettte! – aggiunge quell’altro cesso di Barbara. Loro non avevano nulla, solo delle grandi, enormi, e bucate pezze al culo. - “Quello che conta è il cervello!! Può esser la migliore, tette grosse e sode, culo perfetto, grande fascino, ma se ha in testa le stronzate finisce tutto in merda.”- sbotta in modo spropositato Bollinger.
ANCORA VERGINE
Venerdì, giorno vip della settimana. Tre anni fa non mi era consentito uscire dopo cena. Nemmeno il venerdì. Troppo piccolo, a detta dei miei. In verità ancora adesso per loro è un enorme problema, ma non possono farci un gran che. Uscire e divertirmi per me è indispensabile, come respirare. Programma della serata: aperetivo verso le diciannove e trenta, possibilmente un buon dayquiri, anche due, con mia cugina e altre sue amiche, qualcuna, per non dire tutte, un po’ zoccole, stile stivali a zeppa, autoreggenti nere a rete, minigonna oro, maglietta iperaderente con generosa scollatura, con facce del tipo: - “seguimi in bagno così te lo succhio menandotelo con la mano tatuata.” A seguire ristorante, dove entrerò già ubriaco e barcollante e in chiusura festa al Carpe. Mia cugina è P.R. del locale e, anche se non porta nessun altro tranne noi, qualcosa s’intasca sempre. Si è piombata il padrone. Incombe un grande problema. Il Daytona segna le nove e trenta e di tirar su il culo dal letto non ne voglio sentire parlare. Non ho voglia di affrontare la giornata. Quando arriva la sera? Naturalmente zero intenzione di studiare e, dopo una riflessione durata un millesimo di secondo, realizzo di mandare a fare in culo ancora una volta gli appunti almeno per la mattina. Infilo un cd di MC HAMMER (ma che fine del cazzo ha fatto?!), dall’album “ The Funky Headhunter” e digito cinque sul telecomando e “ Pumps and a bump” risuona per tutta la stanza. Bassi pesanti e arrabbiati come caterpillar pronti a demolire un palazzo. Vado in bagno e, dopo aver pisciato, cerco di guardare in che condizioni si trova la mia schiena.
Nonostante un sonno profondo e una notte serena mi sento più intontito e rincoglionito del solito. E’ forse il caso di iniziare a prendere il Prozac? Stacco la medicazione davanti allo specchio. Sembra tutto ok, neanche la minima parvenza d’ infezione, il taglio sembra rimarginato, neanche una sbavatura, senza l’ausilio di punti e graffette. Mi sento soddisfatto, ecco lo sprazzo per tirare sera. Non vedo l’ora di ricominciare a palestrarmi. Tirata la corda del cesso schiaffo tutta la testa nel lavandino traboccante d’acqua gelida e una scossa elettrizzante fende il corpo, rendendomi vispo e solerte. Asciugo il viso, e, dopo essermi pettinato accuratamente, spalmo un po’ di vitamina E sotto gli occhi per rilassare la cute e renderla morbida. Inizio a gironzolare per casa, mi accorgo di essere solo e realizzo di star bene, sollevato, anche se il motivo di tale stato mi sfugge. Torno in camera e alzo il volume, già a livelli fuorilegge. I bassi di “One mo time” iniziano a pompare per tutta la casa e cercando qualcosa da mangiare noto in sala da pranzo, sul tavolo del seicento un post – it con scritto: - “Siamo andati a Milano a fare un giro, probabilmente torniamo nel primo pomeriggio, preparati qualcosa, noi stiamo fuori per pranzo. Ricordati di andare a ritirare il pane. Un bacio.”- la calligrafia di mia madre rasenta sempre quella di un handicappato. Ingurgito tre grammi di creatina accompagnati da succo d’arancia, infilo un paio di 501, scegliendoli tra gli altri senza farci caso. Hanno un taglio sulla chiappa destra, una maglietta Polo Ralph Lauren bianca a manica lunga, le Nike Air ultimo modello e un giubbetto di Gucci mogano. Stoppo lo stereo e, rubate dal cassetto della scrivania di mio padre le chiavi dell’ sl, mi fiondo dritto nel box. Apro la portiera stramassiccia, infilo il med sotto il volante, schiaccio il pedale del freno, giro la chiave nel cruscotto, seleziono il cambio automatico in posizione “R”, sveglio il motore cinquemila e i suoi otto cilindri. Lentamente oltreo il cancellone e sfilo sul piazzale della chiesa, poi volto a
sinistra per Via Baslini e due vecchie troglodite sdentate mi guardano come se fossi su un’astronave. Arrivo in piazza da vero smargiasso, scapottato, con il riscaldamento al massimo e, nonostante la retina e vetri alzati, folate d’aria fredda, intruse e pungenti, mi spettinano. Butto l’auto di traverso su due parcheggi, evitando in tal modo che qualche stronzo mi possa bollare le portiere. M’incammino verso il bar posto al centro della piazza, e, una volta lì, ordino alla commessa cicciona (forse è incinta? Impossibile, ha più di sessant’anni) un cappuccino col cacao e un croissant alla marmellata. Lo addento e realizzo che fa davvero cagare, sembra di cartone e il caffè del cappuccino assomiglia a petrolio tirato giù dal culo di un negro. Non protesto, ma compatisco. Per sciacquarmi la bocca ordino una spremuta d’arancio senza ghiaccio. La trovo grosso modo dignitosa. E che cazzo, non ero mica da Cova in MonteNapoleone. In fianco a me a sorseggiare un marocchino, Angela, famosa per le sue simpatie verso i ragazzini, sui trentasei, bionda tinta, pelle stracotta da lampade e Caraibi (e da cazzi soprattutto), tette e naso strarifatti. Sul polso destro porta un submariner acciaio e oro fondo blu e su quello sinistro innumerevoli bracciali Bulgari. Le mani, raggrinzite e piene di microscopiche macchie scure, tempestate di anelli di Cartier, stanno appoggiate al bancone stuzzicando patatine al formaggio. Indossa un paio di pantaloni pitonati color crema Trussardi. A completare la figura un giubbetto di nappa nera Versace con cerniere d’oro in rilievo e stivali di Casadei a punta, con super tacchi da dodici. Tutti quei gioielli non è che le siano poi costati chissà che. Per un certo periodo, non rimembro bene, forse dall’ottantacinque all’ottantotto, ha fatto la commessa in una gioielleria a Porto Rotondo, località in cui molti meratesi hanno le case vacanza e si fotteva di gran lena il padrone. Cronaca rosa. Ancora adesso, dopo un matrimonio sull’orlo del collasso, con uno straingranato imprenditore del settore tessile, con monopolio a Milano, la vedono molto spesso nei vari motel della Brianza e della bergamasca con ragazzi giovani e strapalestrati. Si dice che vada matta per le Gang Bang. Puttana che troia! Pago, mi fissa arrapata. Le strizzo l’occhio e torno alla macchina. Seduto nell’abitacolo, regolo, il sedile nella posizione più comoda. Giocherello un po’ con il poggiatesta. Su e giù, su e giù.
Appoggiata la mano sul pomello del cambio, metà in radica e metà in pelle, optional dell’sl 600, il sorriso di Silvia si materializza davanti a me. Un plasma primordiale. Al posto delle luci del cruscotto, non so come mai e perché, ma così all’improvviso, vedo un’istantanea di Lei davanti agli occhi. Sono stordito, confuso, e sento brividi febbricitanti. Torno alla realtà quando sul parabrezza, infilata nel tergicristallo, una multa sventola prendendomi bellamente per il culo. Molto strano, anzi quasi sconvolgente, i vigili sanno perfettamente che quella è la macchina di mio padre. L’afferro coi nervi a fior di pelle, e realizzo che l’importo scritto col cazzo da qualche analfalbeta in divisa, ammonta a circa sessantasettemila. Sessantasettemila lire!! Porca troia, stelle e strisce schizzano da tutte le parti del mio cervello. Inizio a smandibolare. Scendo dall’auto sbattendo la portiera con estrema violenza e realizzo che a meno di cento metri da me si trova parcheggiata la uno scassa di quei bastardi. Realizzo anche di non aver mai visto quel vigile. Me ne frego. - “Scusi, buongiorno. Ho lasciato la macchina in sosta, aperta, per neanche dieci minuti, non poteva lasciar perdere?”- dico in tono moderatamente pacato, le mani gesticolanti. - “Signore, ho visto la non – presenza del gratta e sosta e ho dovuto provvedere, mi spiace. E’ la legge.”- risponde, con noncuranza. Per caso, sta cercando di educarmi? - “Ah, capisco, mi ha punito, ci vuole rigore in questa società.”- inizio a bollire. - “Non comprendo le sue parole. Prego?” – prosegue per la sua strada e cerca di impartire consigli utili. - “Sa, io abito davanti alla chiesa, il palazzo protetto dalle Belle Arti e dai Verdi, con quel cancellone veramente enorme. Mi ascolti bene: enorme, in ferro battuto, che vedrebbe anche Mister Magu. Bene, a ogni funzione è automatico non poter uscire perché, vuoi il caro estinto di turno o gli sposi felici da rispettare, qualche macchina occupa sempre il aggio, nonostante ci sia il cartello, enorme anche quello, provvisto di autorizzazione comunale, con scritto, lo saprà meglio lei di me, o carraio: divieto di sosta. Proseguo, ogni volta, mia madre, ripeto, ogni volta, vi ha sempre, ripeto, sempre, telefonato, e guardi
un po’, voi siete arrivati sempre, ripeto sempre, quando ogni funzione era terminata e il cancellone era sgombro. Che strana coincidenza ricorrente. Ma la multa la date a me. Va bè, il Comandante Brivio non è in giro?”- pensavo avesse inteso il senso del mio discorsino. Ma lui è un funzionario modello, di quelli davvero ligi al dovere. Siamo incorruttibili. - “Il Comandante Brivio non c’entra. Forse non ha inteso, lei ha commesso un’infrazione, ed è giusto e corretto nei confronti dei suoi concittadini punire questi comportamenti che alla lunga potrebbero originare un profondo mal costume. Non concepisco i favoritismi, la mia professionalità li esclude e il mio senso del dovere impone l’insegnamento dell’uguaglianza.”- non ha capito proprio un cazzo. - “Ok Maresciallo, sa cosa le dico? Ha fatto più fatica lei a farmi la multa che io a pagarla.”- Pezzente, con le pezze al culo. Dopo avergli stracciato in faccia quella cazzo di contravvenzione merdosa me ne torno in macchina senza dare più retta alle stronzate di quel figlio di troia fallito. Neanche a farlo apposta, davanti al monumentale cancellone di casa una at, sosta come in un parcheggio normale, senza nessuno a bordo. Schiacciato il freno a mano a pedale, lascio l’sl a motore . Provo ad aprire la portiera di quel cesso con le ruote e naturalmente la trovo chiusa e con l’antifurto. Incazzato come una iena affamata da secoli, la faccia paonazza, livida e cianotica, senza nemmeno contare fino a due, esplodo un calcio sulla la portiera del conducente ammaccandola pesantemente, e me ne vado a far un giro. L’esigenza di ascoltare qualcosa per calmarmi diviene inevitabile. Dal bracciolo porta-cd sfilo “ Duets parte 2” di Frank Sinatra. “I’ve got you under my skin” cantata con Bono allevia un poco le incazzature di un attimo prima. Butto tutto alle spalle. Bisogna sempre buttare tutto alle spalle. Zizzago cazzeggiando per i paesi limitrofi pensando alla serata in programma e realizzo di non essere più così tanto entusiasta. Tra l’altro il taglio sulla schiena sta tornando a bruciare senza saperne il motivo, e ho una gran voglia di fottere.
Nella tasca sinistra dei jeans percepisco una vibrazione fibrillante e sfilo il telefonino. Sul display il nome di Daniela. Una, tra le tante, pazza di me, ma ancora vergine. Quando andavo sul discorso glissava. Il massimo che sono riuscito a strapparle è una sega, e il più delle volte fatta male. Non ne sente di scopare, e la cosa mi fa andare in bestia. - “Hallo Dany, how are you?” – rispondo con noncuranza e strafottenza. - “Bene Giò, e tu?” – in adorazione. - “Niente male amica, a parte una multa appena presa e uno stronzo che non mi ha fatto entrare in casa mia. Non mi lamento. Come mai mi chiami?”- Si è decisa a farsi finalmente infilzare? - “Guarda, se vuoi metto giù..” - minacce senza senso. So che non l’avrebbe mai fatto. - “Ma no. Che cazzo dici, sto scherzando.” – proseguo ricercando lo scopo della sua telefonata. - “No, ehm, senti sono a casa sola, so che è un po’ tardi, ma se ti va di venire a pranzo da me mi farebbe molto piacere…”- la troia. - “Why not? In fondo mia madre non c’è e di cucinare non se ne parla proprio, sai, la domestica l’abbiamo mandata via più di un mese fa…ok, fra dieci minuti arrivo. Bye Bye.” – inizio a sbottonarmi i jeans. - “Ti aspetto.” – e attacca il telefono. - “Sì, a gambe aperte, finalmente.” – rifletto ad alta voce. Scalata la marcia da D a 3, affondato il piede sull’acceleratore faccio scattare il kick – down. Le gomme posteriori slittano e, tra un controsterzo e l’altro mi ritrovo al volo davanti al cancello della fortunata. Bella casa, senza uno stile ben definito, non contrastante con la campagna brianzola. Noto delle telecamere agli angoli della recinzione, lei fuori dal cancelletto ad aspettarmi. Capelli neri a caschetto, ben curati, pallore dominante sul viso, uno a settanta, forse qualcosina in più.
Gli occhi nocciola si stagliano sotto un pesante trucco fresco, il rossetto evidenzia labbra vogliose, seducenti, anche se non carnose. In complesso non fa tanto schifo, una cosa sfiora la perfezione, il nasino, veramente alla se (come?), piccolino, senza un difetto, ben modellato, all’insù. Il corpo, non certo quello di Naomi, può starci dentro ancora un paio di annetti. Poco seno, una seconda scarsa, tirata, compensata però da un piacevole fondoschiena, alto e definito dai fianchi belli stretti, anche se in versione nature non glielo avevo mai visto. Me in fondo mi trovo lì per quello. Di mangiare non me ne fotte un cazzo, si tratta del solito pro – forma. - “Ciao! Puoi farmi infilar la macchina in giardino, sai, non è mia…” – le chiedo con voce vellutata. Inizio la recita. - “Ma certo, non preoccuparti, tanto i miei non tornano prima di stasera.”- che carina, potevo tranquillamente trastullarla, lasciando libero arbitrio alla mie fantasie deviate. - “Grazie mille..”- Dopo la multa ci mancava mi fottessero pure l’sl. Percorro una gradinata in cotto (fiorentino?), parlando di studio (come sei messa con gli esami?) e di alcuni amici in comune, fidanzati ormai seriamente da tempo, per trovarmi al volo col culo sul divano in seta, a righe bianche e rosa, a mangiar sushi, e a veder MTV. Sorseggio Perrier ghiacciata. - “Come mai quest’idea d’invitarmi qui? Non metti un po’ di sound?” – domando scavallando la gamba mettendo in risalto il pacco. - “Forse perché non ci vediamo da tanto…e..”- mi fissa intimidita. - “Giusto, hai ragione, non mi sembra un buon motivo però…non hai del vino bianco?” – e continuo a imbarazzarla. Metterla in difficoltà mi diverte. - “Perché no? Sei fidanzato? Ehm, sì, aspetta, vado in cantina e vedo quello che c’è. Non bevo mai, è mio padre che se ne occupa…non scappare mi raccomando.” – chiede sempre più stordita. - “Quello mai” – rispondo con la sicurezza di un supereroe. Ritorna con una bottiglia di Sassicaia, e proclama.
- “Ho trovato la prima che mi è capitata sotto mano. Tieni, aprila.” - e mi porge il cavatappi. Penso seriamente di scolarmela tutta. - “Grazie, non conosco…ma è un ottimo modo per provare qualcosa di diverso. Bisogna sempre provare tutto. Non trovi?” – balla cosmica. Abbassa lo sguardo sotto i miei riflettori. - “E innamorato?” – insiste, lentamente le gote le si arrossano e gli occhi diventavano lucidi. Eppure non fa caldo. Stappo il vino e proseguo nel fissarla dentro le pupille. - “Cosa?! Non credo proprio tesoro…ma siamo a casa tua o in una centrale di polizia?”- inizio a innervosirmi. - “Perché, qualcosa non va?” – la paura dell’inesperta sta dando i primi segnali. - “Non so, sembra un terzo grado…adesso tocca a me…” – le prendo la mano nelle mie. - “E tu, sei fidanzata?” – la interrogo. - “Quello mai” – che cazzo sta facendo. Copia? - “E innamorata?” – insisto, anche se non me ne frega un cazzo. - “Sì.” – e china gli occhi. - “Ah, e…, sentiamo, di chi, lo conosco per caso?” – continuo, lei inizia a sudare. Le faccio bere un bel calice di buon nettare raccomandandole di buttarlo giù in un fiato. - “Certo, gli sono seduta davanti” – e mi guarda. Fingo stupore ALLARGANDO LA BOCCA IN UN SORRISO RIDICOLO. Senza riuscir a ribattere con un’altra domanda m’infila la lingua in bocca, iniziando subito a toccarmi con la mano sopra i pantaloni il cazzo facendo un movimento ondulatorio, accelerandolo quando si accorge che è diventato duro. Mi slaccio i bottoni dei 501 e le infilo dentro la mano tremante e fuori controllo, subito pronta a toccarmi con il pollice la cappella. Pollice…
- “Levati i pantaloni e i boxer” – comanda? - “Anche tu…” – le sussurro nell’orecchio mentre le pastrugno quelle poche tette che si ritrova, facendole credere d’aver in mano le bocce di Pamela Anderson (chi?). - “No, dopo…” – la solita tecnica del tirar in là. Tanto con una sega non vengo. China la testa sopra il mio cazzo, andando su e giù, su e giù, e mi accorgo che lo sta gustando parecchio. Lecca la cappella, poi lo scaramella tutto, per poi riprenderlo in bocca fino in gola. L’alzo di peso e la tiro nuda. Le infilo l’indice e il medio dentro la figa strabagnata, massaggiandola delicatamente. Scivolano dentro all’istante, senza nemmeno il minimo attrito, e, mentre lei fa un po’ di versi sfilo dal portafoglio un goldone Control ritardante. - “No.., no.., continuo a succhiartelo, non mi va di farlo…” – che cosa?! - “Come, non ti va di farlo? “ – le dico ritraendomi da lei con scatto improvviso. Sono sul divano col cazzo ancora duro e la fisso. Mi volto e guardo il vuoto. - “Cristo ragazza, a vent’anni sei ancora vergine! Ma non ti sei accorta che siamo quasi nel duemila?”- non ce la fa proprio più. Cervello di bambina in corpo di ragazza. Bevo metà bottiglia a canna e cerco di divaricarle le gambe per bene, ma non cede. - “Eh, lo so, hai ragione, ma non me la sento…ti prego, non andare, finisco di farti il pompino, mi sembrava ti pie…” – cha cazzo fa, supplica? PENOSA. - “Neanche per sogno” – con l’uccello già molle, in meno di un secondo mi ritrovo sulla porta d’ingresso, lei ancora sdraiata e bagnata. Nella mano destra la bottiglia mezza piena. Sosto ancora un attimo a fissarla in silenzio. Finisco di bere e lascio la bottiglia per terra, in fianco all’uscio della porta. - “Grazie per il pranzo. Ah, aprimi il cancello per favore. Addio!!”- esco facendo un gran fracasso alle mie spalle, e sfilo le chiavi dell’sl dai jeans. - “Sei uno stronzo!! Vaffanculo!!” – sento in sottofondo urla e insulti mentre
salgo in macchina ubriaco.
VENERDI’ SERA
Di uno scazzo cosmico agguanto dal frigo una Red Bull per ripigliarmi un po’. Indosso un paio di pantaloni neri di una tuta Adidas, una felpa bianca Americanino e sono a piedi nudi. In casa nessuno e le lancette del Daytona indicano quasi le diciotto. - “Dove cazzo siete?” – domando a mio fratello tra un sorso e l’altro mentre la batteria del cellulare sta reclamando energia. - “Ancora a Milano, la mamma ha incontrato in Rinascente delle sue vecchie amiche, abbiam pranzato insieme e ora siamo a casa di una di loro in Corso Venezia. Non so di preciso a che ora arriveremo. Ah, mi chiede se hai mangiato e se sei andato a ritirare il pane.”- sento in lontananza un miscuglio di voci sconosciute. - “Porca puttana, lo sapevo di aver dimenticato qualcosa, Cristo. Cazzo Antonio, non sono uscito stamattina, non mi andava, sai quel taglio sulla schiena, mi brucia ancora un po’, ate voi quando tornate.” – balla stratosferica. - “Va bene, sei il solito stronzo, ciao.” – riattacca indignato. Lo richiamo immediatamente. - “Pronto”- risponde seccato e con tono sostenuto. - “Testa di cazzo, per le sette e mezza esco, sto fuori a cena e poi forse vado al Carpe, le chiavi le avete, spero. O sbaglio?”- domanda ridondante perché mi sono svegliato con la porta chiusa a chiave, ma almeno ho il pretesto per dire di non esserci a cena. - “Certo. Scusa, a che ora vai in quel locale pieno di froci e di troie?” – lui va solo ai concerti di musica classica.
- “Perché vuoi venire con qualche sfigato dei tuoi amici? Penso di andarci per mezzanotte, mezzanotte e mezza massimo. Se dovessero romperti i coglioni all’entrata digli che sei con me, vedrai, le porte si apriranno come per magia.”non riesco a immaginare mio fratello in discoteca, neanche a sforzarmi. - “Ma vaffanculo, chi cazzo ti credi di essere?” – dice sfottendomi. - “Amico, tuo fratello è il migliore. Ricordatevi il pane.” – attacco il telefono. Stanco senza sapere come mai, e realizzando che la Red Bull è l’ennesima stronzata pubblicitaria per far palate di soldi, mi butto sul letto schiacciando le orecchie per un’oretta. Nel buio della stanza cerco a tastoni sulla scrivania il Rolex, difficilmente rintracciabile, finito sotto qualche appunto di finanziaria. Buio dappertutto, soprattutto nella mia testa. So che un giorno dovrò piangere sul serio. Quando studierò? L’oscurità mi chiede domande senza risposta… Black out. Sento vibrare lo startac, sul display il nome di mia cugina lampeggia sclerotico. - “Sì, pronto” – rispondo con la bocca impastata e gli occhi ciondolanti. - “Ma dove sei?” – sorpresa dalla mia voce debole e assonnata. Mentre realizzo che sono le venti ate cerco di ripigliarmi all’istante, - “Cazzo sono ancora a casa, ehm, per dirla tutta a letto, sai ho avuto una giornataccia. Dove siete?”- chiedo incuriosito. Pastamatik nel palato. Mi accendo. - “Al Totem, muoviti ti aspettiamo. Ci sono anche delle mie amiche ansiose di incontrarti, sbrigati.” – lancio il telefono sul letto e mi fiondo in doccia. L’acqua gelida sveglia tutti miei sensi e mi spanna il cervello, lesto a pensare a quali vestiti indossare. Pantaloni in fresco di lana nera (Armani Borgonuovo), perfetti, sembrano cuciti addosso, maglia in filato di cashmere (Armani Borgonuovo), aderente, blu scuro, morbidissima e costosissima.
Dalla scarpiera decido di calzare un paio di mocassini di Prada, testa di moro (come?), classici, perfetti, costosissimi. Di categoria. M’inondo di profumo (Le Male, J.P. Gautier). Flash allo specchio, un colpo di phon e lacca e realizzo ancora una volta di essere il migliore. Lancio la y in tangenziale mentre alla radio trasmettono una vecchia canzone di Mina. In un attimo mi ritrovo nel parcheggio del Totem. Incastro l’antifurto contropallato per evitare di farmi fottere la macchina, e con camminata da star holliwoodiana sul red carpet, entro nel locale superaffollato facendomi largo tra la gente, catturando lo sguardo di tutte le donne vestite senza un minimo di gusto e classe. Non vedo armonia. Radiografando ogni tavolo realizzo che mia cugina sta a quello centrale circondata da un manipolo di battone di pessimo livello: le sue amiche. Pollice abbassato. “Save a prayer” dei Duran Duran rimbomba per tutto il locale, a volume esagerato. Nonostante il frastuono pazzesco, da cardiopalma, il tacco delle mie Prada mi rimbalza nelle orecchie isolandomi da tutti quei bifolchi che purtroppo mi circondano. Avrei voluto scalciarli via a pedate nel culo. Cerco una sedia per unirmi alla tribù di troie che mi avrebbe accompagnato per tutta la serata e inizio a scannerizzarle una ad una, cercando quale avrei potuto infilzare senza il minimo sforzo. Dal tavolo, seduto in fianco a Laura, si alza una mora, intorno all’uno e settanta, con in mano un dayquiri alla fragola, gli occhi puntati addosso colmi di lussuria, e, andomi vicino, struscia volentieri il suo bel culo avvolto da un mini argentata (comprata sicuramente al mercato) sul mio pacco, e mentre incrocia i miei occhi, realizzo che ha una gran voglia di cazzo. Non so se inseguirla subito nel cesso e sbattermela seduta stante oppure aspettare, bermi un paio di drink, fumare un pacchetto di Malboro e mandarmi il cervello in ebollizione. Decido per la seconda opzione, sono troppo pettinato e
per il momento di macchie sui pantaloni non ne voglio sapere. Visiono attentamente le altre zoccole, e assorto in fantasie erotiche con una decina di ragazze copertina in un letto gigantesco in mezzo a un parco fiorito, mi accorgo che il fumo presente nel locale mi sta inumidendo gli occhi, più del dovuto. Conosco grosso modo tutti i presenti, alcuni venivano al liceo, altri l’incontravo nei vari bar della Brianza. La maggior parte cercano di recitare la parte dei mondani, anche se alla fine rimangono solo dei bifolchi senza un filo di classe. Li capisci dalla faccia contadina, dalla parlata dialettale, e il più delle volte nascondono la gallina sottobraccio da strangolare con un bel colpo secco e cucinare per il pranzo della domenica. Tra innumerevoli strette di mano con gente di cui non me ne frega assolutamente uno stracazzo, cerco di rintracciare mia cugina, sparita di colpo, lasciando il maglione (Jil Sander) sulla sedia vuota. Per caso non sarà già chiusa nel cesso a succhiare qualche cazzone? La riconosco dalla chioma finto bionda e dalla sua risata suina dietro una grande colonna di cemento armato posta al centro del locale vicino al bancone colmo di drinks. Con lei c’è Manuela, la sua inseparabile amica (di letto?), pugliese, con due tette enormi, da maxi – spagnola, occhi azzurri, su un viso alquanto troieggiante e stralampadato, con il culo fasciato in una mini nera lucida. Insieme a loro Greta, la ragazza di uno dei proprietari del Carpe, il mio per innumerevoli dayquiri. Carina, magrettina, brianzola d.o.c., occhi azzurri su un viso acqua e sapone, tranne che per le labbra stragonfie, cosparso di lentiggini, i capelli rossi, la fossettina sul mento, un fisico minuto stretto in un paio di jeans (D & G) e in una maglietta (Chanel) antracite. Ai piedi un paio di stivali neri (Ferragamo) di categoria. Insieme a loro torno al tavolo, intenzionato a conoscere le altre troie sedute. - “Ciao testa di cazzo, bacino sulla guancia, come va?” – esordisco con il mio smagliante sorriso. Inconfondibile. - “Stavamo aspettando proprio te per ordinare, come mai così tardi? Non è da te cuginetto.” – mi domanda inondandomi di Angel. Profumo da vera figa. - “E’ vero, cazzo, ho avuto una giornataccia, così mi sono sdraiato con l’intenzione di ripigliarmi in cinque minuti e alla fine ho dormito un’ora. Quei
bastardi dei vigili mi hanno appioppato una bella multa, ma vaffanculo. Dammi una sigaretta, sono all’aria.” – e accendo una Malboro Light, la prima di una lunga serie. - “La Manu e la Greta le conosci mi sembra..loro non credo, lei è Antonella e l’altra è Valeria. Sono single e molto disponibili.”- due puttane da gara. - “Oh, piacere, Giovanni. Io Sono Antonella, per te Anto…” – baci e abbracci. - “E io sono Valeria.” – baci e abbracci. - “Laura, non ti assomiglia per niente, non ce l’hai mai detto di avere un cugino così splendidamente splendido, sei proprio una bastarda. E’ proprio un gran figo, gli offriamo anche da bere..cosa prendi?”- sempre più troie, mi sento un marchettaro. - “Grazie mille Antonella, ho bisogno di un bel Martini Dry con ghiaccio. Sei molto gentile.”- e le strizzo l’occhio andomi la lingua sulle labbra. - “Scusa, vorremmo ordinare?”- schiocco le dita e fermo una cameriera più all’aria di me. - “Dimmi tutto tesoro.” – penna e taccuino in mano pronta per ordinare. - “Io un Martini Dry con ghiaccio, voi ragazze, cosa prendete? Antonella?” – domando sputando una nuvola di fumo gigantesca. Il fumo fa male. - “Io un gin – tonic, Manu?”- brillante la ragazza. - “Sì? Ah, un cuba. Havana sette.” – la tettona ci dà dentro. - “Cugina?”- chiedo fissando le tette enormi di Manu. - “Vodka e succo di pesca” – si accende una sigaretta, stretta tra dita da pigmeo. - “Valeria, Greta? Voi cosa gradite?”- non farò mai il cameriere da grande. Ma riuscirò a conquistarmi un posto dignitoso nella società senza farmi più parare il culo dai miei genitori? - “Anch’io un Martini Dry.”- Greta.
- “E per me una media rossa.”- conclude Valeria, Swatch anonimo al polso. - “Ok bella, hai sentito? due Martini Dry con ghiaccio, una vodka con succo alla pesca, un cuba e una media rossa. E vai con Dio.” – le dico strizzandole l’occhio un’altra volta. - “Perfetto tesoro, torno subito.” – sculettando in un paio di Levi’s stracciati recapita l’ordinazione ai ragazzi del bar, impizzati da far schifo. - “E Antonio? Perché non è venuto?” – ci mancava solo Antonioue. - “Fortunatamente ho aperto gli occhi senza nessuno tra le palle…è andato con la mamma a Milano, so che dovevano tornare nel primo pomeriggio, ma chi li ha più visti? Gli ho fatto uno squillo prima, magari dopo fa un salto al Carpe…ma non so, occhio! Arriva da bere.”- mentre parlo a mia cugina realizzo di non sapere quale tra loro sarebbe stata la mia preda. L’indecisione è una brutta cosa. - “I due Martini qui, il cuba per la bionda vera, vodka e pesca per l’altra bionda finta, poi devi are dietro la sedia, altrimenti bella, mi rovesci tutto addosso.”e scivola davanti a me schiaffandomi le tette in faccia. - “Hai ragione, bello.” – strizza ancora l’occhio. - “Ho sempre ragione, quant’è?” – in procinto di smargiassare Antonella mi afferra la mano e incrocio i suoi occhi. - “Giò, ho detto che offro io. Ricordati, quando dico una cosa la faccio sempre… e stasera devo dirti un sacco di belle cose…”- Antonella è davvero brillante. - “Antonella, sono solo le ventuno, non mi hai ancora detto niente, mi dici dopo tutto al Carpe, cosa ne pensi?” – sorrido stra – malizioso e lei capisce. - “Sono cinquantaquattro, prego.” – la cameriera porge la mano, come i mendicanti. - “Tieni e grazie bella.” – le o i soldi. - “Grazie a te bello.” – si volta di nuovo e ancora una volta mi strizza l’occhio.
- “Ah, a proposito, com’è andata l’altra mattina? Ma non ho ancora capito, con quanto si è laureato?” – si accende un’altra Malboro. - “Il massimo, cosa pensavi? E’ andato forte, è stato un gran gallo. Sai che non sono uno con la lacrima facile, ma eravamo tutti commossi. Poi è successo un fatto strano.” – parlo volentieri di mio fratello, con ammirazione. - “Cosa è successo? Minchia, sei sconvolto, hai cambiato espressione in meno di due secondi. Ti è svanita l’abbronzatura.” – e notando il mio cambiamento diviene curiosa. - “Ma niente di così sconcertante, però voglio raccontarti…” – e il mio pensiero corre subito a Silvia. - “Sono tutta orecchie. Vai avanti” – prendo un’altra sigaretta e l’accendo. - “Prima di entrare in aula magna abbiamo aspettato gli amici di Antonio nel chiostro dell’università, bellissimo, com’era bellissima la giornata, non pareva nemmeno Autunno. Nel frattempo non sapevo cosa fare, sai, in fondo, dopo svariate strette di mano con parenti e conoscenti, lo scazzo ti viene subito. Così inizio a guardarmi intorno e noto al volo due ragazze, una strafiga e l’altra carina, girarmi in giro con una macchina fotografica. Di primo impatto non ho dato molta importanza alla loro presenza. Trascorse due ore, stavano ancora a guardarmi. Non ti sto a raccontare i particolari, comunque le ho agganciate e conosciute e, senti questa, quella strafiga mi ha mollato il numero. Ah, dimenticavo, si chiama Silvia, è romana ma abita a Milano.”- e faccio cadere la sigaretta nel posacenere. - “E allora?”- mia cugina per niente meravigliata. - “E allora cosa?” – replico. - “E allora?! Le sei piaciuto e vuole uscire e conoscerti, mi sembra semplice. In fondo, se non eri mio cugino ti sarei saltato addosso anch’io. Non vedo dove sia il problema. Le hai telefonato?”- beve un sorso di cuba dal bicchiere della sua amica. - “Non ancora, devo fare un mezzo esame del cazzo per l’università, e poi vorrei lasciare are una settimana, per non dare l’impressione del morto di figa.”- annuso i polsi inamidati di profumo.
- “Oh, guarda, Giovanni è insicuro. Come se del compitino e dell’università te ne fregasse qualcosa. Ma non venire a propinarmi queste cazzate. Ti conosco da quando succhiavi ancora il dito. Chiamala. Perché non le telefoni adesso?”- e controlla il visore del suo cellulare. - “No, ho bisogno di calma, con un Martini e questo casino non riuscirei a dire niente di buono e convincente.”- e “ Papa was a rolling – stone “ cantata da George Micheal rimbomba per tutto il locale. Qualcosa di buono finalmente. Un attimo di riflessione. - “La chiamerò domani.” – e scrocco a mia cugina un’altra Malboro. - “Bravo, ora divertiamoci. Non so se hai notato, ma Antonella ti mangia con gli occhi. Lo vuole…”- e anche lei si accende una Malboro. Sto individuando la preda. - “Ho capito, Lauretta, la notte è giovane, non posso sbattermela mica sul tavolo ora!”- faccio un lungo tiro intervallato da un sorso di Martini. - “Perché no?! Saresti il migliore!”- sfoglia ancora la lista. - “Ti sbagli, lo sono già.”- e trangugio quello che rimane nel mio bicchiere, ingoiando il ghiaccio e risputandolo nel bicchiere vuoto dove rimbalza rumorosamente. Poi m’infilo in bocca il limone e lo succhio con gusto. - “Hai visto Antonella? Guarda come succhia bene il limone?” – la tettona bionda strizza l’occhio. Ma che cazzo, tutte che mi strizzano l’occhio. - “E’ vero, succhia le cose da quando era bambino, è esperto!”- che troia mia cugina. - “Avete ragione, ma ora ho cambiato, preferisco leccare, non storta i denti e c’è più gusto, si sente di più. Mi sembra che siate voi le esperte nel succhiare, o sbaglio? No Antonella?” – e stavolta strizzo io l’occhio. - “Certo, a me piace molto.”- e ride volgarmente. - “Dove si va a mangiare ragazze?” – sono sull’ubriaco andante.
- “Non so, chiedi a Laura, è lei che organizza sempre tutto.”- risponde quella a cui piace tanto succhiare. - “Cugina, dove cazzo si va a mangiare?” – domando ormai in piedi. - “Sopra al Carpe, è sempre loro magari ci fanno lo sconto o non paghiamo. Fanno anche la pizza.” – e si alza anche lei. - “Ah sì, ci sono già stato un paio di volte con Bollinger e gli altri, poi si scende in discoteca direttamente da sopra, senza pagare l’ingresso.” – so sempre tutto. - “Certo, non preoccuparti. Ops, ma non sarò mica ubriaca?”- straparla, e stenta ad alzarsi. - “Ragazze, sono solo in macchina, non ho nemmeno l’autoradio e soffro di depressione, chi viene con me?”- biascico realizzando di poter scommettere un milione di dollari di caricare Antonella la succhiatrice. - “Non c’è problema, sarò io il tuo Virgilio!” – esclama Antonella con un grande sorrisone e le scintille negli occhi, prendendomi sotto braccio. Mi accompagna al parcheggio. Sbatto contro ragazzi alticci e chiedo scusa. Cortesemente le apro la portiera, sale in macchina e la gonnellina si alza fino a metà coscia. Ce l’ho già in canna. - “Ragazze, ci troviamo in pizzeria fra un po’, voi iniziate ad entrare, ok?” – dico con la testa fuori dal finestrino. - “Come tra un po’? Ci si arriva in un attimo!”- quella troia vacca di Manuela non ha ancora capito che nella vita è sempre meglio farsi i cazzi propri. - “Ehm, è vero, ma Antonella deve farmi vedere come succhia!”- rispondo cercando di dar un senso alla serata. - “Dai, deficiente, ci vediamo là!”- conclude mia cugina sospesa tra i tacchi e l’alcool. - “Allora Anto, posso chiamarti Anto, non è vero? Fumi?”- le chiedo mentre sfilo fuori dal parcheggio.
- “Come cosa? Le sigarette! No, scherzo, te li fai gli spinelli, le canne?!” – e le tocco il fianco con il gomito. - “Sì, ogni tanto se capita. Ma come mai una domanda così personale?” – abbozza un sorriso, e mi fa capire di non essere più tanto a suo agio come dentro al locale. - “Tesoro, non ti ho chiesto mica quante volte scopi in settimana o se lo prendi nel culo! Cristo, la vera ragione è che ho nel cassettino davanti alle tue meravigliose gambe un bel cannone pronto per essere sfumazzato. Se ti va possiamo spararcelo insieme prima di andare a cena. Che ne pensi? Almeno ci viene un po’ di appetito.”- apro il cassetto e faccio scivolare il braccio in mezzo alle ginocchia, sfiorando il nylon nero delle sue calze. - “Ok! Perché no? In fondo si vive una volta sola.” – dopo un attimo di riluttanza decreta finalmente un pollice alzato. Accendo la tromba e la fiamma per pochi centimetri non mi ustiona lo zigomo destro. Accosto vicino a un campo (di grano?), nei pressi delle scuole medie di Cernusco, in una via praticamente sempre deserta. Dopo un profondo e beato tiro o il fac simile della sigaretta a quella baldracca impaziente e agitata. Nella luce, se si può definire luce uno spiraglio luminoso, offuscato dal fumo, proveniente da un lampione distante non più di trenta metri, noto i suoi capelli, castani, acconciati con una valanga di gel (o sborra?), comunque molto curati. Una fila di orecchini, in acciaio, dalle forme più bizzarre (mezzaluna, sole, margherita), tempesta il lobo sinistro e un diamantino blu sta incastonato nel nasino abbronzato. Un po’ di cenere cade sul body nero, sotto il seno (probabilmente una terza), per cospargersi sul tappettino. - “E’ da molto che conosci mia cugina?”- le domando realizzando che quella canna è un po’ troppo elaborata. - “Non da tanto, sarà tre mesi. Sai, io e un’altra ragazza lavoriamo in un negozio di intimo al Gigante, ad Arcore e un giorno è entrata con sua madre, tua zia, credo, e sono diventate delle buone, anzi delle ottime clienti. Poi una cosa
tira l’altra ed eccoci qua.”- mi ria il cannone ormai oltre la metà. - “E’ vero, loro comprano sempre tutto, è nel loro stile. Spendono da far paura.”- confermo tirando e trattenendo il respiro mentre una macchina sfreccia nel buio come una saetta. - “Laura mi diceva, poco prima che entrassi al Totem, che stai facendo l’università. Anche a me sarebbe piaciuto. Senz’altro avrei scelto psicologia. Tu per cos’hai deciso?”- minchia che conversazione seria. Altro che pompini… - “Economia e commercio, ma è soltanto un modo per allontanare il tempo in cui dovrò iniziare a lavorare. Lavorare, verbo molto distante da me.”compiacendomi della mia condizione guardo l’oscurità fuori dal finestrino con la coscienza di essere un privilegiato. - “Il viziato di merda.”- sentenzia la troia invidiosa fottendomi il cannone. - “Guarda, è quasi finito, un paio di tiri poi conviene andare, altrimenti pensano che siamo già andati al motel prima di cena.”- spengo il cannone. Un’altra macchina sfreccia ancora più veloce, spazzando le foglie a bordo strada. - “Non sarebbe male.”- aggiunge accavallando le gambe, lasciando intravedere le morbide cosce sotto le calze nere trasparenti. - “In che senso? Non capisco…”- faccio il finto scemo. - “Non fare il tonto, andiamo, è meglio. La serata deve ancora cominciare.”- e mi caccia una Vigorsol in bocca. Nel parcheggio della pizzeria le altre quattro teste di cazzo aspettano in piedi e visibilmente curiose. - “Teste di melone, che cazzo fate? Le parcheggiatrici?”- sfotto fatto e inebetito. - “No, bellissimo, aspettavamo voi. Qui c’è puzza uhm…che strano profumino…di maria…ehm, bastardi! Potevate chiamarci! Questa non a.”Valeria, battuta sarcastica e superflua, si sta accendendendo una Malboro Rossa.
- “Chi è Maria? Non la conosco. No, ragazze, non abbiamo fumato un cazzo, è il suo nuovo profumo.”- continuo a sfottere mentre Antonella scoppia a ridere volgarmente. LE RISATE PAESANE. - “Entriamo, ho una fame della Madonna, a proposito, testaccia di cazzo, hai prenotato?”- ambisco a un tavolo decente, sono in vena di show. - “Cretino, ma con chi credi di avere a che fare? Sono la PR più quotata. Non a caso presto mi fidanzerò con Gianfranco.”- non ci crede nemmeno lei. - “Laura, ma vai a cagare! E piantala di dire cazzate. Come scopa te ne scopa mille altre. Sei una sognatrice.” – poveretta. - “Bravo, hai ragione, complimenti, però evitiamo sparate in sua presenza, mi raccomando, vorrei far la figura della brava ragazza.”- e anche stavolta stenta a crederci. - “Ciao Giovanni, come va? Tutto bene? Cazzo sei sempre il migliore!”quell’esordio l’avevo sentito miliardi di volte. Così Giancarlo ci accoglie. Occhialetti ovali, stampati su un viso tondo slavato, capelli biondi con riga a sinistra perennemente lisciati e tirati da una parte, naso appena a becco (chi è? Robert Redford?), una giacca marroncina a quadrettini, sempre quella, sotto un gilerino giallo canarino e un paio di pantaloni di panno marrone scuro lisi. Il tutto di marca non comprensibile. - “Ciao gallo, sempre alla grande, e tu?” – rispondo stringendogli la mano intravedendo un Submariner acciaio fondo nero al polso sinistro. Forse per quello si sta salvando. - “Sempre al massimo!! Manuela, Antonella, Valeria, siete fantastiche, come sempre…ah, Greta, il tuo futuro marito è in cucina con una cameriera…gli stanno lucidando il matterello..scherzo tesoro, è con il cuoco.”- non ce la fa più. - “Grazie Giancarlo, i tuoi complimenti sono sempre stragraditi, tu, piuttosto, sei sempre elegantissimo, davvero.”- Non so se mia cugina lo sta pigliando per il culo oppure fa sul serio, ma sto scoppiando a ridergli in faccia. Mi sento all’aria. - “Grande Power, stasera sarà sensazionale, abbiamo invitato delle strafighe della Fashion che hanno sfilato anche per Armani, Ferrè, Mattiolo. Vedrai che ci
divertiremo un sacco, poi ci sono sempre Katia, Barbara, insomma venerdì al top, come sempre.”- Non ci sta più dentro. Questa per me è solo gavetta. - “Vai, Gianfranco, sei sempre il migliore!” – esclamo mollandogli una sonora pacca sulla spalla della giacchetta. - “Venite, vi faccio accomodare, seguitemi.” – prende per mano mia cugina e ci accompagna al tavolo. Un vero padrone di casa. La pizzeria è strapiena, con molte ragazze scopabili, senza manico al seguito. ando tra i tavoli noto i loro sguardi sfuggenti diretti a me. Cerco di incrociarli tutti. L’adrenalina mi spacca il cervello e incomincio a non capire più un cazzo. Respiro affannoso e tachicardia galoppante, vertigini e ombre oscure si addensano nelle mie pupille dilatate e dubbi primordiali sulla mia esistenza traballante frantumano una realtà ridicola e menzognera. Proseguo con il teatro. Il giallo delle pareti mi sembra troppo luminoso e lo scricchiolio delle Prada rintrona ancor di più il mio stato mentale. - “Cazzo cugina, dammi una sigaretta.”- le frugo nella borsetta di Vuitton come un ladruncolo affamato, senza nemmeno rendermene conto. - “Stronzetto, si chiede per favore! Ho capito che stasera mi finisci tutto il pacchetto. Guarda, è l’ultima che ti mollo.”- la troia. - “Tranquilla, per Natale ti regalo una stecca intera, dai, cazzo, fammi accendere. Grazie, sei un mito.”- le schiocco un bacio sulla guancia. Percepisco la bocca impastata e gelatinosa, come se mi avessero infilato nel palato un asciugamano imbevuto di aceto e sapone di Marsiglia. - “Cosa prendete ragazzi? Ciao biondo..” – sfiorando con la mano i miei supercapelli, Michela, una con due tette fenomenali, abbronzatissima, sta in piedi vicino al tavolo aspettando le nostre ordinazioni. Sfoglio i menù e mi colgo impreparato (è sempre brutto sentirsi impreparati) e trovo serie difficoltà nel decidere quali pietanze ordinare. - “Io prendo una pasta al ragù.”- Antonella per prima. - “Per me una pizza quattro stagioni.” – segue Valeria.
- “Anche per me.”- si accoda mia cugina. - “No, io sto leggera, prendo una margherita.” – Greta. - “Ma sei incinta?”- domando da stronzo. - “No, sono a dieta.”- risponde seccata. - “Per me andrà bene una napoletana. Ah ragazze, prendiamo due bottiglie di Chardonnay?”- domando aspettando una risposta istantanea. - “Va bene.”- sto facendo il pieno alla grande. - “Ma no, per me una minerale naturale.”- l’unica discorde ovviamente Greta. - “Allora sei incinta davvero!”- ridacchio di gusto vedendo il suo viso ingrugnito di rabbia. Ma vaffanculo. - “Cazzo, ma come fai a scoparti quello?” – stuzzico mia cugina mentre sgranocchio un grissino San Carlo. - “Fatti i cazzi tuoi, è così simpatico, non vedi che bel tipo, e poi mi vuole veramente bene. Lunedì sera andiamo a teatro insieme, e poi…” – la poverina non ha capito un cazzo. Lei sta recitando senza nemmeno rendersene conto. - “E poi dove?” – continua Valeria, visibilmente invidiosa. - “E poi la infilza e arrivederci e grazie.” – concludo in una grande risata. - “Grazie per avermi anticipato.” – conferma Manuela. - “Senti chi parla, te le fai tutte e poi un bel calcione nel culo. Che ipocrita di merda sei…”- mia cugina ci crede davvero. - “Scusa un attimo, ehm, hai visto lui e hai visto me? Forse devi andare dall’oculista…vuoi che ti prenoti una visita approfondita?”- le consiglio finendo di masticare il grissino. - “Ma che scoperta!! Gianfranco è un uomo, tu sei ancora un ragazzo, e poi le
voci che dicono su di lui sono tutte stronzate. T’assicuro, è una persona seria, fidati.”- sempre più convinta. - “Ascolta cuginetta, lo dico per te, perché ti vedo già sul divano, anzi, no sul letto, a piangere e a buttare via lacrime per niente. Non attaccarti troppo, e non fare affidamento sui sentimenti, non ti fanno più ragionare.” – cerco di fare il serio. Consigli come oro colato. - “E’ proprio quello il bello! Oh, ma come sei psicologo stasera, è l’effetto del cannone di prima?”- domanda Manuela pestandomi le tette in faccia. - “Se vuoi dopo ce ne facciamo un altro io e te, bellezza.” – rispondo ipnotizzato da quelle mega bocce extralarge. - “Quanti ne vuoi bello.”- intuisce la mia intenzione di tirargliele fuori all’istante. - “Per stasera è tutto mio. Giò nel privè sei tutto mio, voglio starti seduta vicino. Dobbiamo finire quel bel discorso, non ricordi? Che abbiamo dovuto interrompere, altrimenti facevamo tardi. Un discorso molto mistico..”- con piacevole beatitudine Antonella accarezza la mia mano. - “Gliel’hai già toccato? O meglio, preso in bocca?” – mia cugina domanda con voce a volume da stadio. - “Ma Laura!! Cosa dici!! Non sono mica una mignotta!!”- urla anche lei. - “Io sì invece…” – le bisbiglio nell’orecchio e lei ride di brutto. La pizza è da pollice alzato. Mi sparo in bocca i capperi uno dietro l’altro, accompagnati da generosi bicchieri di vino trangugiati tutti in un fiato. Sento la pressione alzarsi ad ogni sorso. - “Giò, ma non stai bevendo un po’ troppo?”- domanda mia cugina. - “Ma che cazzo, ehm, forse hai ragione, ma sta pizza è salatissima, poi le acciughe…non preoccuparti la bottiglia la pago io.”- rispondo con la bocca impastata e le bollicine ancora scoppiettanti sulle labbra. - “E allora c’è bisogno di bere solo vino? Hanno scoperto anche l’acqua, non lo
sapevi?”- mi stressa di nuovo. - “A facisse i cazzi tua, cugina!”- si volta irritata verso Antonella e comprende di non rompermi i coglioni più del necessario. - “Com’è la pasta tesoro?”- domando ad Antonella, sguardo fisso negli occhi accarezzandole la coscia come un vecchio bavoso. - “Ottima, apri la bocca…senti che bontà, bel figo.”- mi ficca la forchetta rischiando di sfondarmi le gengive, lasciando cadere tre grossi maccheroni intrisi di sugo. Nel frattempo stringo la presa su di lei. - “Uhm, davvero eccellenti, vuoi un po’ di pizza?” – domando accarezzandola sempre più da porco. Inizia a tirarmi. - “ Sei troppo gentile, ma poi altro che andar giù a ballare e palestra. Non me le levo più di dosso queste calorie…finiscila tu.”- dice guardando la mia mano ondulante sulla coscia. - “Fra un po’ non ti levi più di dosso me.”- penso con il cervello completamente sommerso dalle bollicine. - “Manca poco e mio cugino se la sbatte sul tavolo…se lo vedesse sua madre non ci crederebbe, non sai, pensa d’avere un angioletto come figlio…”commento di mia cugina espresso sottovoce a Manuela. - “Laura, ascolta, siamo qua per divertirci o per parlare di me e dei cazzi di famiglia? Quando fai i cazzi tuoi, in tutti i sensi, non lo spiffero a nessuno. Se vuoi apro il libro?”- dopo averle detto così, le tappo la bocca e smette finalmente di rompermi i coglioni. Versato un altro bicchiere (di vino) ad Antonella incrocio la forchetta e il coltello nel piatto vuoto. Devo tirare un rutto da catastrofe primordiale ma mio malgrado lo ricaccio indietro. Lei beve di gusto, più fuori di me, e le brillano gli occhi. Non credo avesse il raffreddore. Un’occhiata fugace al Breitling di mia cugina mi suggerisce che ormai il momento per trasferirsi in discoteca è giunto. In fondo mancano solo cinque minuti a mezzanotte.
- “Tesoro, l’addition, thank you.”- fermo la cameriera con le tette giga ammiccando e ciò infastidisce parecchio Antonella. Ma, come al solito, non me ne frega un cazzo. iamo da un scala interna, che collega la pizzeria alla discoteca, sita al piano inferiore, aggrappato a un corrimano in ferro battuto, barcollante, sostenuto al braccio di Antonella, e finalmente prendiamo possesso del nostro tavolo nel privè. Sghignazzi insensati e palpate reciproche fanno da sottofondo insieme alla musica. Seduto sulla poltrona in velluto rosso ho davanti a me il culo della tettona, che rimbalza su e giù in concomitanza con i miei occhi. Il tavolo, ovviamente riservato, è colmo di frutta e due bocce di Moêt immerse nei cestelli traboccanti di ghiaccio aspettano solo di essere stappate. Alè, sbocciamo. Tutta la vita. Devo ripigliarmi. Decido di farmi un giro al cesso, prima di esser trasformato in una graveolente latrina strapiena di teste di cazzo ubriache e manesche. Il locale si presenta semi deserto, qualche cameriera finisce di riempire di patatine e cazzate varie i piatti sul ripiano di marmo bianco illuminato da faretti alogeni sprizzanti di luce azzurrata. Un David di Donatello verde marino psichedelico con la foglia di fico sul cazzo e la scritta Men in fronte sta stampato sulla porta del bagno. Il cesso a piedoni mi guarda e io, immobile con l’uccello in mano piscio con un getto sonoro, potente, squillante, evitando di spruzzarmi le Prada. Sputo sulla parete. Affogo le mani e i polsi sotto l’acqua gelida del rubinetto, la faccia stralunata e sconvolta appiccicata allo specchio. Cerco disperatamente di recuperare un minimo di lucidità. Scombussolato dal cannone e dal vino sento di crollare da un momento all’altro. Lavo il viso e senza asciugarlo torno nel privè, dubbioso se farmi Antonella. - “Tutto a posto?”- mi domanda mia cugina, gli occhi perplessi. Mi viene in mente mia madre, le mani tremanti chiuse sul cordless, disperata ad aspettarmi
sulla poltrona in vimini della sala da pranzo con gli occhi gonfi di lacrime. - “Certo ragazza, perché? dovrebbe andare storto qualcosa?”- gocce d’acqua miste a sudore colano dalla fronte paonazza. - “No… chiedevo, hai una faccia sconvolta…” – e aggrotta le sopracciglia incredula. - “E’ vero, hai ragione Laura, nel cesso ho incontrato il mostro cattivo, voleva mettermelo nel culo, ma che cazzo.” – in sottofondo “Maria” di Santana. - “Ciao bellissimo, oh, che pettorali!!” – Katia, strafiga ragazza immagine mi sta abbracciando mentre sorseggio il mio Moêt. Stivali in pitone rosso (Sergio Rossi), tette rifatte strette quasi a scoppiare in una canotta bianca super aderente (Diesel), culetto veramente perfetto avvolto in Jeans (Extè) strettissimi sfilacciati sulla chiappa destra e sul ginocchio sinistro. Capelli biondissimi, schiariti ancor di più dal sole, occhi verdi come il mare di St. Barth, pelle stracotta dal suo ultimo viaggio ai Caraibi, in compagnia di un vecchio stronzo ingranato, uno dei tanti che la mantengono, non può essere oggetto di nessuna critica. Katia è una strafiga, anche se stratroia. - “Uhe! Katia, ogni volta che ti vedo sei sempre più strafiga! Pazzesco, fenomenale, grande, bellissima, abbronzatissima!! E poi che linea, sei una Venere!!” – non ci sto più dentro, Antonella fa cagare in confronto. - “Giovanni, sei sempre gentilissimo, un vero signore. I tuoi occhi penetrano il cuore lasciandomi senza fiato. Se solo avessi dieci anni di meno ti avrei chiesto di sposarmi.” – Col cazzo che l’avrei sposata, sarei stato cornuto col prete sull’altare e improvvisamente povero. - “Ragazza, ti sposerei subito.”- e la bacio sulla guancia. Falso di merda. Nel tavolo in fianco al nostro scorgo tre brutte baldracche di Merate, dedite allo spettegolezzo più infimo e cattivo, capace di rovinarti per sempre la reputazione. Nella loro lista nera occupo il posto di “Finocchio d’oro” di Merate. Insomma, spompinavo e me lo facevo mettere nel culo da un paio di nigeriani una sera sì e una sì. Come al solito non me ne frega un cazzo, basta vederle per capire l’astio che le divora.
Una, non mi ricordo bene se si chiamasse Elena o sca, è una cicciona del cazzo, con la faccia identica a quella di un maiale all’ingrasso, con gli occhiali dalle lenti paragonabili a fondi di bottiglia. Un’aquila. Il resto del corpo imita molto bene un ammasso di merda maleodorante. L’altra, tale Daniela, non raggiunge il metro e cinquanta. Con il culo fermo a sessanta centimetri da terra, ha il coraggio e l’impudenza di fissarmi con occhi ignoranti circondati da profonde occhiaie da chemioterapica, infossati sotto una fronte costellata di brufoli sopra la quale pende un ciuffo striminzito di capelli neri, tagliati da qualche parrucchiere di quarta categoria spacciato sicuramente poi per Aldo Coppola, unti e schifosi come lei. La terza infine è da assimilare a uno scopa Vileda, il mocho, con riccioli biondastri, tinti male, evidentemente il parrucchiere è sempre lo stesso, che cadono senza una forma definita a lato degli occhi, color nocciola, offuscando la fisionomia del viso mezzo deforme, più lungo del normale (idrocefalo?). E quando eggio per Merate ha avuto pure il coraggio di prendermi per il culo. Intanto “Freedom” di George Michael riempie il locale, ormai stracolmo di gente. Tommy ha prenotato quattro tavoli per un totale di venti posti e più. Personaggio straricco, il padre ha appalti con lo Stato e la sua famiglia la conosco dai tempi delle scuole medie. Con lui ho avuto sempre un buon rapporto, poi ci siamo persi di vista per un po’, e, dicono che in pochi anni fosse diventato frocio. Ci credevo a stento. Le solite voci dettate dall’invidia. - “Ciao Giò, come stai? “ – mi stringe la mano lasciandomi intravedere un Daytona in oro bianco. - “Grande Tommy, tutto al top! Cazzo, sei in forma bello! Mi ha detto Claudio che sei iscritto a Ingegneria Gestionale a Bergamo. Anche tu?”- incrocio le braccia in modo tale che veda il mio Daytona. - “Sì, ma mi sono già rotto i coglioni, non ci capisco un cazzo e poi sono fisso in ditta da mio padre. Cazzo bell’orologio Giò, si fa fatica a trovare in acciaio, ce l’ho anch’io così, non l’ho mai messo, lo tengo da collezione. Fin dalle medie avevi gran classe nel scegliere le cose, ricordo che eravamo gli unici già con i Wayfarer? Tu sei in città alta, giusto? Vicino a lingue, chissà quante belle fighe girano!”- e si sfiora le narici (pizza show) col dorso della mano e noto che il suo
Daytona ha il fondo in madreperla, e continua: - “Figa, sei sempre contornato da ragazze bellissime, vai cazzo, così si fa! Io sono con amici e coppiette scoppiate, ma mi sto rompendo il cazzo. Ti lascio il mio numero, così organizziamo una bella serata, molto happy, a proposito, dillo anche a Claudio. Ma lo senti ancora?”- e si ria le narici di nuovo e mi offre un bicchiere di champagne, che naturalmente accetto molto volentieri. - “Non so dove sia finito. Da quando ha la tipa fissa non s’è più visto. Chemmerda, tre anni di clausura. Personalmente voglio tirare i quaranta prima di sistemarmi, anzi il mio gioielliere consiglia i quarantacinque. La vita è breve Tommy.” – e trangugio anche quel bicchiere come acqua fresca. - “Hai ragione bello, da vendere. Ci becchiamo dopo in giro.” – stappa un Veuve e si siede al suo tavolo. - “Chi è? Ma che bel ragazzo? Lo conosci’”- mi grida nell’orecchio Manuela, visibilmente attratta. Il Daytona fa sempre un gran bell’effetto. - “Se lo sposi sei a posto tutta la vita, anche quella di tuo figlio e di prossime altre venti generazioni. Ma, francamente, non credo tu abbia la minima chance. Comunque, per levarti lo sfizio, te lo presento, così ci provi.” - le rivelo la triste verità. - “Non ho bisogno tesoro. Dei soldi e della bella vita non me ne frega niente. Per me conta la sincerità, l’onestà e i valori, mica le scenografie effimere.”quante balle. Le donne quando ano il limite sono davvero ridicole. Cercano cercano cercano. - “E allora perché sei al tavolo con me? Dai, scherzo, se lo dici tu allora ci credo.” – la compatisco. Sporgendomi dal balconcino in ferro battuto un bagno di folla stupisce il mio sguardo e inizio a molleggiarmi a ritmo di “I just can’t get enough” dei Depeche. Jeans fiammati, pantaloni in pelle aderenti, straelasticizzati, di tutti i colori, verdi, oro, bianchi, azzurri, rosa, neri, arancioni, un sacco di belle fighe vestite da supersguange ballano a ritmo forsennato nella pista e in ogni parte del locale. Ora “Blu” degli Eiffel 65, costituisce un sound totalmente out per le mie orecchie.
In fianco a me un frocio continua a guardarmi il culo e sento i suoi occhi addosso, fissi. Situazione veramente fastidiosa. Così dopo altri due colpi di Moêt punto dritto alla zona bar dove una strafiga bionda con tacchi da dodici di Sergio Rossi mi punta sorridente. Mi avvicino alla sua destra, cercando un approccio naturale, e con la coda dell’occhio cerco di capire se è attenta ai miei movimenti. - “Ragazzo, un dayquiri al limone, bello carico mi raccomando…”- o con grande charme la mano tra i capelli profumati. - “Bevi qualcosa? Vedo che sei un po’ scazzata.”- la immagino già a pecora. - “No, grazie, sono solo stanca, ho lavorato tutto il giorno, poi degli amici mi hanno trascinato qui, ma sogno il letto, faccio fatica a reggermi in piedi.”poverina, avrebbe avuto bisogno di un bel bastone a cui aggrapparsi. - “Oh, perdonami, ma che lavoro fai? Io mi chiamo Giovanni, per gli amici Power, e tu? Non vedevo grandi segni di stanchezza sul suo volto.”naturalmente, tendendole la mano, le mostro il Daytona, cercando di umiliarla prima del dovuto. - “Grazia…no, sai sono operaia in un’industria che produce stampi. Facciamo principalmente paraurti per auto…”- la povera cenerentola. - “Mica male, per che case lavorate?”- fingo interesse. Sono sempre più convinto che dovrei iscrivermi a una scuola di teatro. - “Uhm, un po’ per tutte, Audi, Bmw, Mercedes, il mio padrone è multimiliardario. Abbiamo commesse in tutto il mondo. E’ pazzesco per essere una ditta a Castello Brianza…”- e alza le spalle invidiosa del potente. In tutti gli ambiti, in tutti i paesi, sempre la stessa storia. - “Ah, allora sei una delle tre Grazie?”- trangugio l’ennesimo cocktail, assatanato e stretto nella morsa del cazzo. - “Come, scusa?” – risponde seccata. La signora. - “No, niente, mi stava uscendo una cazzata. Perdonami ancora. Ma quanti anni hai? Senz’altro non più di venti. Hai una pelle veramente perfetta. “- per lavorare
tutto il giorno, tutti i giorni, ha davvero un aspetto magnifico. - “Sei molto gentile, ma ti sbagli, ne ho ventisei, o ho bruciato le tappe. Sono separata e ho pure un figlio, te ne intendi di bambini?”- oh cazzo, la ragazza sbroccata con il figlio a carico. Tenta la carta della comione. - “Minchia, ho detto per caso, qualcosa di male? Scusami tanto, sai questi drinks vanno giù come acqua fresca. Non penso proprio tu sia una troia da discoteca, altrimenti non sarei qui a parlarti. Comunque levo il disturbo bellezza così non rompo più i coglioni.” – invece penso profondamente che sia una gran succhiatrici di uccelli. - “No, ti prego, non prendertela. La stanchezza mi fa comportare così. Stai travisando, non te la prendere, rimani.” – e mi trattiene il braccio sinistro. Sta abboccando. Piccoli sorsi di dayquiri mi lisciano la gola e mi sento un dio in terra. Gonfio i muscoli sotto la camicia e tasto fiero il bicipite. - “Da dove vieni?” – chiede, ora mezza abbracciata. - “Sono di Marte…dai scherzo…ma per come mi poni la domanda… non sono mica un alieno ragazza…sono di Merate, hai presente Merate, no?”- e molleggio sulle ginocchia. Mi viene in mente il pagliaccio dai capelli arancioni seduto allegramente sulla mia poltrona in camera. - “Ma certo, è un bel paesino, insomma paesino, è quasi una città. Se non sbaglio conta quasi diciasettemila abitanti. Poi so che presto rifaranno la piazza e sicuramente sarà ancora più delizioso.”- ma chi cazzo è? Un’addetta al piano regolatore di Merate? - “Ragazza, non so quante persone abitano a Merate, non le ho mai contate. E sinceramente, la piazza andava al massimo anche così. Ma parliamo di cose più serie. Come mai separata?”- sorrido interessato. - “Mio marito, anche se lo rispetto, è un coglione. Scusa, ma dico sempre quello che penso. Invece di mantener fede al matrimonio con la sottoscritta per vivere una vita tranquilla, allevando nostro figlio, ha preferito star sempre con mia suocera, ossia sua madre. Per il primo anno ho avuto pazienza, poi, dopo un esame di coscienza molto approfondito e realistico mi sono detta basta, non
poteva più continuare così. Evidentemente non mi amava sul serio…”- e alza gli occhi al cielo mentre “I will survive” di Gloria Gaynor mi spacca il timpano. Non a caso mi trovo nella sala revival, e, cazzo, ho finito il dayquiri. Ne voglio un altro. - “Sono proprio cose brutte da vivere, parlo naturalmente, da osservatore esterno. Ehm…in terza persona, capisci? Non credo nel matrimonio, penso sia una sorta di trappola, non solo per l’uomo, ma soprattutto per i figli, ovviamente se ci sono. Sono loro a rimetterci più di tutti.”- mi sto trasformando in un vero saggio, e lei annuisce sistematicamente a ogni mia stronzata. Mentre ordino un altro drink, Antonella a e mi pizzica il culo. - “Playboy, fra dieci minuti me ne vado, mi daresti uno strappo al Totem? Non so se ricordi, ma ho la macchina parcheggiata là. Se però è un disturbo posso sempre farmi portare dalle altre…fammi sapere, sono al tavolo.” – nella mia testa decido di accettare l’invito. - “Mia cugina, sai, usciamo sempre insieme. Ascolta, ti va di lasciarmi il tuo numero? Così portiamo avanti il discorso in un posto più intimo, conosco un sacco di bei locali, ok?”- la fisso senza batter ciglio. - “Certo, aspetta, devo aver nella borsetta una penna e un pezzo di carta…, eccoli.” – e scarabocchia al volo (ma era andata a scuola?) dei numeri che, nonostante la scrittura paurosa, comprendo subito. - “Ragazza, è stato un piacere, ti chiamo (chiavo?), presto, molto presto. Fidati “- la bacio sulla guancia. - “Va bene, allora aspetterò”- e contraccambia. Dopo i soliti penosi saluti me ne torno nel privé. Non me ne frega un cazzo neanche di lei, l’ultima sbroccata sulla faccia della terra l’ho appena rimorchiata, e grandi dubbi su chiamarla o meno mi stanno devastando. In fondo averle estorto il numero è come averla già scopata. La mia autostima cresce ancora di più. Un po’ come quando sei fuori a cena con una strafiga che dice di adorarti e appena a il primo stronzetto di turno dal visino carino e dal corpo da vero macho si volta per guardarlo e poi fa finta di niente. Peggio delle corna.
- “Vedo che hai fatto conquiste, carina la ragazza.” – Antonella mi afferra il braccio mentre ingrano la prima per uscire dal parcheggio costellato di macchine e di stronzi. La ragazza sta a distanza, un po’ nervosa nei gesti e nelle espressioni. Gelosia precoce. - “Routine Antonella, routine. Ti porto alla macchina o andiamo a farci un giro?”- azzardo mentre si sta allacciando la cintura di sicurezza, stringendo le gambe cercando di coprirsele il più possibile con la gonna. - “Mi spiace, preferisco andare a casa, sai, domattina devo svegliarmi presto, faccio un giro con mia sorella a Milano, ehm, shopping.”- sversata di brutto, cerca in tutti i modi di lasciarmi a bocca asciutta. - “Devo, devo, devo. Dovevi mostrarmi anche come succhiavi, però fa niente, tuttavia va bene così.” – non mi controllo più. - “Ma sì, stavo scherzando, e poi c’è già la biondina…telefonale dopo avermi mollato nel parcheggio, così il giro lo fai con lei, e anche tutto il resto.” – Sbuffa con la mano sinistra a pugno sotto il mento. - “Hai ragione anche tu. Scusa, ma non capisco perché ce l’hai con me. Prima volevi in tutti i modi scoparmi, e non negarlo. L’hai chiaramente manifestato. Adesso la mutazione in verginella, ecco la suora toccata nel profondo. Siamo gelose prima del tempo?” – il distacco iniziale ormai sembra il muro di Berlino. Imbocco a canna la tangenziale. - “Tesoro, le ragazze non sono tutte lì ad ascoltare le tue stronzate! Ho capito come sei. Solo perchè pensi di essere bello credi di scoparle tutte, bè a me non sta bene, e per cortesia rallenta, sai, vorrei vivere ancora una ventina d’anni, almeno.” – continua a gesticolare nervosamente con la mano sinistra. - “Tranquilla, è tutto sotto controllo, non sto correndo poi così tanto. Pensavo finisse in un’altra maniera stasera, purtroppo non è colpa mia se la pensi così. Sinceramente, bellezza, credo che uno come me lo scoperai soltanto nei tuoi più fervidi sogni, forse. Un consiglio, abbassa solo un po’ le ali, non hai le qualità per tenerle alte, fidati. Chiama qualche tuo amichetto squallido e fattelo, un giorno rimpiangerai di aver fatto la figa con me. Ah, visto, siamo arrivati sani e salvi. Per favore scendi in fretta dalla macchina e chiudi adagio la portiera,
grazie.” – sgambetta così fuori dalla y alla velocità della luce. - “Pezzo di merda!” – mi saluta col dito medio alzato. Riparto sgommando e la mando affanculo. Il cellulare vibra nella tasca e un pronto impastato e fievole spira dalla mia bocca gelatinosa. - “Giò, dove sei?” – mia madre dall’altra parte. - “Sto arrivando, vai a letto cazzo, cinque minuti sono a casa.” – dopo quattro parcheggio la y nel box.
CHURCH’S
- “E ieri sera, cos’hai fatto?” – chiede Ricky sorseggiando il cappuccino, scrutandomi sotto gli occhiali da sole Byblos con lenti da miope. Capelli troppo lunghi, barba incolta. Sabato mattina, il Daytona segna venti a mezzogiorno, non ho dormito un cazzo e un gran mal di testa non vuole lasciarmi in pace. Sto parlando con un mio vecchio amico, vecchio nel senso che ci conosciamo da anni, alto quasi due metri, giornalista e fotografo, vestito a puntino. Si considera un anticonformista, anche se veste esclusivamente con abiti inglesi. Possibilmente in cashmere. Siamo al bar in piazza, più lercio del solito. - “Lasciamo perdere. Ambrogio? Un caffè, grazie. No, stavo dicendo, sono uscito a cena e poi sono andato al Carpe con mia cugina e delle sue amiche.”piccone conficcato nel cervello. - “Fighe?” – domanda Jimmy riponendo la tazzina del caffè sul bancone in marmo bianco. - “Insomma..sì, niente male, una potevo scoparmela senza problemi..dovevi vederla al ristorante. Ci mancava me lo prendesse in bocca sotto al tavolo, poi, non so che cazzo è successo, probabilmente si è pigliata male perché parlavo con un’altra, mi ha dato il pollice abbassato a fine serata. Troia, fanculo.” – ho una gran voglia di fumare, ma evito e mi limito a vuotare una bustina di Misura – Diet nel caffè bollente e a trangugiarlo come un assetato del cazzo. - “Sei un coglione, dovevi leccarle il culo tutta la sera, farla sentire l’unica donna del mondo, adesso avevi le palle sgonfie e non stavi qui a smangiarti. Almeno l’altra te la sei fatta?”- leva gli occhiali e strizza gli occhi un paio di volte. - “Ma che cazzo no!! Mi ha mollato il numero di telefono, è sposata, no, scusa, separata con un figlio piccolo. Il bagaglio a mano. Bella storia di merda, ma non me ne frega un cazzo.” – la tazzina è vuota, così decido di ordinare un altro
caffè. - “Cambiando discorso, tu conosci qualche altro locale, oltre a quel posto di merda dove sei stato ieri sera, per fare delle sfilate? Cazzo, fa un caldo della madonna qui dentro.” – domanda sbottonandosi il giubbetto di renna color biscotto. - “Che cazzo stai dicendo cretino? Non fai mica il fotografo giornalista? O mi sono perso qualcosa? Che cazzo c’entri con le sfilate?”- sfilo dalla tasca un Tempo per soffiarmi il naso, la polvere di quel bar merdoso mi sta soffocando. Sento l’arrivo di una bronchite acuta. - “Cretino, ti spiego. C’è un tizio di Lecco, che ha appena aperto un’agenzia di modelle e vorrebbe organizzare delle sfilate, o dei concorsi, non so che cazzo, del tipo mister o miss qualcosa, in qualche discoteca della zona. Visto che tu sei l’uomo della notte ho chiesto a te.”- pulisce le lenti degli occhiali con la fodera del giubbino. - “E che cazzo ci guadagno io? Cristo, usciamo da qui, l’allergia mi sta spaccando il naso, lascia stare, ci penso io, tu sei un pezzente.” – pago al volo senza controllare il resto. - “E tu sei un signore. Non so cosa potremmo guadagnarci, ma, come tutte le idee, ci sono sempre delle incognite…poi se va bene magari un po’ di soldi si raccattano.” – usciamo da quel posto del cazzo. - “Ascolta, posso chiedere a mio zio. Sai che fa impianti di amplificazione per discoteche, teatri, stadi e cazzi, credo sia la persona più adatta, anche se non so se sia a casa, forse è in America per un lavoro con Parsol, un cazzo di coreografo ballerino. Comunque telefono a mia cugina la prossima settimana. E ti faccio sapere”- un pallido sole illumina i nostri pallidi volti. Forse dovrei spararmi una bella lampada al più presto. - “Tranquillo, con calma. Ma poi Antonio si è laureato?” - schiarisce la voce. - “Che cazzo hai, il raffreddore? Sì, martedì, è stato il migliore. Poi ho conosciuto una strafiga allucinante, mi ha mollato il numero, ma non so se chiamarla. E’ la più bella ragazza che abbia mai visto e conosciuto.”- alzo le sopracciglia e le spalle.
- “Ma stai diventando frocio per caso? Martedì? Dovevi già chiamarla coglione. Ma sei scemo? Ma che cazzo stai facendo? Di dov’è? Non ce la fai più.” – probabilmente, anzi, sicuramente ha ragione, ma non so cosa fare. - “E’ di Milano Jimmy, zona Porta Romana, non so come arrivarci, ci sono andato poche volte in macchina da solo. Anche se il suo accento è meridionale. E’ la migliore, te l’assicuro, un corpo e un viso, non immagini nemmeno, spettacolari.” – infilo i Wayfarer. Sento gli occhi pesanti e stanchi. Mi viene da vomitare. - “Allora sei doppiamente coglione! Ma chiamala, che cazzo te ne frega! Scusa, ma non ti riconosco più. Non sai andare a Milano? E’ una stronzata, prenditi uno stradario… Porta Romana? Esci in Forlanini, tiri diritto fin dove c’è il palazzo del Coin, all’incrocio giri a sinistra, prosegui fino alla Rotonda della Besana, dove tuo padre ha fatto la mostra su Leonardo, è impossibile che non ti ricordi, vai avanti cinquecento metri e sei arrivato alla Porta, bang! E’ una stronzata. Fottitene Power, non è difficile. Sbrigati, poi te ne penti.”- Una fredda ventata mi spettina e mi taglia in due. Ravano nelle tasche del montone (Armani Collezioni) e sento il pacchetto di sigarette venire in mia salvezza. Ne accendo una, e subito sto meglio. - “Hai ragione, ma sai quanta merda c’è a Milano?! Non è Merate, dove sai tutto di tutti, Cristo, e se è una psicopatica? Chi cazzo mi trova più? Adesso esagero, ma ho dei dubbi.”- mi vedo sezionato in un cassonetto della spazzatura. - “Senz’altro ti può rapire. Ma sei fuori? Ma basta con le stronzate. Gianni, ripigliati e telefonale prima possibile. Ma non credi che t’ha mollato il numero solamente perché sei un bel ragazzo e magari vuol avere una storia o storiella (storione?) o una bella scopata? Se poi è meridionale, è calda e di problemi non se ne fa di sicuro. Hai meditato già fin troppo. Devi andare a prendere il pane e il giornale?”- ci dirigiamo verso Piazza degli Eroi. - “No, compro solo il giornale, al resto ci pensa mia mamma.”- penso a Silvia. Bambini rompi coglioni giocano vicino alla fontanella, visi di persone del paese straconosciute incrociano il mio sguardo, salutandomi con un cenno di mano forzato. Un signore mai visto sbuca dalla popolare di Lecco contando quanto ha prelevato, un’anziana donna, strattonata dal suo yorkshire, si sta soffiando il naso barcollando su tacchi troppo giovani, i tigli stanno perdendo le foglie già da
un pezzo e i tronchi spogli sembrano in fin di vita. - “Sì, mi dia il Corriere, per favore?” – lascio cadere le monete nella mano dell’edicolante. - “Ma non compravi il manifesto? O l’unità? Vedo che ti sei evoluto, comunista!” – Jimmy si diverte spesso prendendomi per il culo. - “Cazzo che belle scarpe ragazzo, proprio da operaio, dove le hai comprate?” – mi fermo e le analizzo per bene. - “Di categoria, sono Church’s, le ho comprate l’anno scorso a Milano, non ricordo bene dove. Sono anche molto comode.”- le sta ammirando fieramente. - “Roba da ricchi, ragazzo.” – osservo. - “No, bello, roba da Ricky.” – ride con la basletta prominente. - “E’ quasi l’ una, vado a casa a metter qualcosa sotto i denti per poi svaccarmi a letto un paio d’ore, ho un gran mal di testa e faccio fatica a tenere gli occhi aperti, poi stasera devo uscire con una vacca da gara. Ci aggiorniamo domani? Più o meno alla stessa ora?”- prendo la via di casa. - “Ok, ragazzo. Chiamala e non fare il coglione!”- parole sante.
PRANZO
- “Cazzo com’è dura, sembra la suola di una scarpa, da chi l’hai presa?” – domando a mia madre mentre cerco disperatamente di tagliuzzare una bistecca stravecchia di qualche stravecchio manzo cazzuto. - “Dal Sandro, è filetto Giò, perché? Non è buona? Antonio, com’è?”- guarda mio fratello intento anche lui ad utilizzare il coltello come una scimitarra. - “Ci vuole una sega elettrica. Non è il massimo, anche se ho provato molto di peggio, comunque non è un gran che. Sì, a dir la verità fa veramente schifo.”- e riesce a staccare un pezzo di carne nervoso dalla bistecca bastarda. - “ami l’insalata, per favore, dov’è il sale?” – è estremamente insipida. Nel complesso, fa tutto cagare. - “L’ho messo, va bene così, è condita abbastanza, e poi lo sai, troppo sale fa male. Sei già troppo nervoso, è meglio non esagerare.” – senz’altro mia mamma ha ragione, ma quell’insalata l’avrebbe rifiutata anche una capra cerebrolesa. Dall’armadio sopra il piano cottura (Mièle) afferro la scatola di sale fino e spolvero a dovere la bistecca di cuoio e l’insalata insipida, divorandole al volo. Mi sono levato un peso. Mio padre non dice nulla, si limita a fottersene, probabilmente sta elucubrando attorno a qualche libro di recente lettura. - “Come va la ferita? Ti tira ancora?” – domanda mia madre interessata mentre sparecchia - “Gli tira qualcos’altro.” – risponde mio fratello. - “Che coglione, ogni tanto sento picchiettare. Evidentemente si starà cicatrizzando.” – rifletto ad alta voce e realizzo che mio padre scuote la testa ridendo.
- “Perché ridi? Ho rischiato la sedia a rotelle, cazzo!” – azzanno una grossa mela lucida (la mela del peccato?). Vado in camera e realizzo di vedere sulla mia scrivania i soliti fogli con scritto qualche esercizio di finanziaria sbagliato, scarabocchiato e mai concluso. Un film ormai visto troppe volte. Come al solito sono troppo stanco per studiare. Le gambe doloranti, la testa rintronata, il respiro affannoso, gli occhi annacquati. Fanculo il compitino e finanziaria, devo ripigliarmi in fretta. Piombo in un sonno profondo, buio, segreto. Sembro un cadavere. Nulla mi tocca, pochi pensieri sfiorano la mia mente, anzi quasi nessuno, solo uno. Forse entro sera avrei telefonato a Silvia. Sicuramente le avrei spedito un sms.
PRIMO CONTATTO
uan - “Testa di cazzo, non vedi che sono a letto!? Sto dormendo vai da qualche altra parte rottoinculo!” – la sonata numero trentadue di Beethoven, suonata da Backaus fischia nell’altoparlante in fianco al mio orecchio riempiendo l’oscurità della stanza. Risveglio tempestoso. - “Vedo!! Sono ormai quasi le sette e mezza, ed è ora di finirla di fare il fannullone, alza il culo imbecille! Non dirmi che esci anche stasera?!” – Antonio fratello sta mutando in Antonio padre. - “Certo cretino, che cazzo sto in casa a fare? A menarmelo tutta sera?” – commento con la testa sotto il cuscino. Bocca impastata più del solito, e cispa giallastra sulle ciglia. - “Non ti farebbe poi così male…” – seduto alla scrivania con il capo chino segue attento la musica sullo spartito. Tirata la corda del cesso afferro lo startac e lo accendo. - “Ciao Silvia, sono Giovanni, il ragazzo biondo che hai conosciuto martedì all’università. Ti lascio il mio numero così se ti va possiamo vederci ancora…” – aspetto. Dopo un attimo d’incertezza, sciolto subito dal ricordo dei suoi occhi, del suo corpo, dalla sua voce, ripesco dalla rubrica il suo numero e dopo un respiro trattenuto a fatica e una vertigine di paura lancio il messaggio. Il primo o finalmente è stato fatto. L’sms prende volo nella rete, nella speranza che arrivi a destinazione e che Lei si faccia sentire al più presto. Il Daytona segna quasi le venti e non ho un gran appetito e, dal profumo, per cena mi aspetta un piatto esagerato di pasta col cavolo. All’indomani avrei
tassativamente ritentato di fare qualche flessione e almeno mezz’ora di corsa sul tapisroulant. Non mi andava gran che di uscire con quella baldracca di Cinzia, non sapevo nemmeno il motivo per cui le avevo chiesto di vederci, ma ormai non potevo tirarmi indietro, anche perché rischiavo di non farmela più dandole buca al primo appuntamento. Non m’interessava tanto scoparla quanto più che altro toccarle le tette, sembravano veramente enormi, grosse e sode. Anche la bocca, super dipinta e turgida sembrava fatta apposta per succhiarlo. Aveva la troiaggine scritta in faccia. Guardo fuori dalla finestra le luci di Milano brillare all’orizzonte nel buio della serata mentre milioni di persone stanno vivendo la loro penosa routine. Mi soffermo per un tempo indefinito. Chi corre a casa per cenare da solo ed ha come unica compagna la televisione con le sue stronzate, chi si prepara per volare in qualche paese esotico, chi batte per la strada, uomo o donna che sia, chi s’appresta a concludere contratti miliardari, chi abbassa la saracinesca di qualche bottega, anche se di botteghe ormai non ne esistono più, chi corre a cena nei ristoranti super-lusso senza una lira, chi muore rimpiangendo quello che non ha potuto fare e solo lui sa cosa avrebbe dato per recuperare il tempo perduto. E chi, come me, che aspetta la telefonata di una sconosciuta e si prepara per uscire con una troia. Con il pensiero ormai perso nelle mie riflessioni sull’universo umano sento che lo startac ha iniziato a squillare all’improvviso infrangendo il silenzio tombale che regna gelido in camera. - “Pronto!” – rispondo il più in fretta possibile mentre le campane irrompono battendo gli otto rintocchi serali e una Bentley Azure blu entra nella villa in fondo alla via di casa mia. - “Giovanni?”- domanda una voce fievole, vellutata dall’altra parte. - “Sì, sono io, chi è?” – domanda superflua. - “Ehi, ciao! Sono Silvia, ho appena ricevuto il tuo sms, a dir la verità non ci speravo più. Ti disturbo?”- molto educata, l’accento al telefono risulta più marcato, anche se il suono della sua voce è dolcissimo e sensuale. - “Figurati, è fantastico sentirti, non immagini neanche quanto. Allora come
va?” – dimentico tutti i problemi, dal compitino di finanziaria al taglio sulla schiena. - “Bene, anche se sono stanca morta. Non so perché, ma in questo periodo dell’anno mi sento priva di energie, non ho voglia di far niente purtroppo. E poi con questo tempo, grigio e triste, dovrei approfittarne per studiare, invece sto sempre a letto a dormire. Forse ho la malattia del sonno, e tu?”- domanda incuriosita. - “Sì…ehm, vediamo da dove iniziare…dai, scherzo, dovrei far un compitino di finanziaria a giorni, mi sembra settimana prossima e, sinceramente, non so niente. Mi manca la voglia di studiare e di mettermi sotto con gli esercizi. Poi trovo sia una materia talmente noiosa e complicata, senza un minimo appiglio d’interesse. In più la docente è un’inetta, si preoccupa solo di prendere le firme invece che spiegare a dovere. Guarda non farmi parlare, altrimenti inizierei a dir le parolacce e a farti subito una brutta impressione.” – Avrei voluto dirle quanto è troia e testa di cazzo quella vecchia bastarda rincoglionita, ma mi trattengo dal farlo. - “Io, invece, andavo matta per la matematica, ricordo l’esame di economia politica, tutti quegli esercizi su costi marginali, curve d’isocosto, e poi le varie teorie sull’evoluzione dell’impresa. Devo dire però che il mio professore spiegava benissimo, non mi annoiavo mai. Adesso studio a casa, sai, con i diritti bisogna imparare a memoria e stop. E dimmi, di dove sei, non me l’hai ancora detto…”- inizia a entrar nel particolare. - “Conosci Arcore?” – domando sicuro della risposta. - “Come no.”- prontamente. - “Io abito vicino, grosso modo a dieci chilometri, verso Lecco in un paesino, Merate, nella ridente e verde Brianza. Non si può certo definire una metropoli cosmopolita come Milano, Roma o New – York, ma in fondo non si sta poi così tanto male. L’inquinamento è minimo…l’hai mai sentito nominare?”- non sono più sicuro della risposta successiva. - “No! Cioè, Arcore sì, ma Merate, a dirti la verità no, mai sentito. Ma dev’essere un posto interessante. Sai, notando la tua eleganza, pensavo che la laurea fosse tua. Certo, anche con una maglietta sgualcita e bucata staresti benissimo lo stesso. Però, vedendoti in giacca, tutto tirato, sembravi molto serio.
Dico sembravi, perché non ti conosco, ancora…, dai scherzo!” – la vedo davanti a me, splendente come quel giorno. - “Ora dimmi tu…come mai ti trovavi in Statale? Dal momento che non frequenti più i corsi…” – cerco di capire se è stato proprio un giorno fortunato. - “Domenica è venuta a trovarmi mia sorella da Roma, non so se hai notato, teneva in mano una macchina fotografica, voleva fotografare a tutti i costi il chiostro dell’università, è all’ultimo anno, studia Belle Arti. Pensa, non avevo proprio voglia di uscire quel giorno, come dicevo, ero stanchissima. Ma Stefania mi ha tirato per i capelli. Com’è strana la vita…” – ecco la conferma. - “Quindi i tuoi sono di Roma?” – dico, sperando che a Milano vivesse da sola. - “Sì, abito da sola, che tristezza. Anche se ogni tanto vengono a trovarmi, non è mai come averli sempre intorno. E poi mi mancano i miei gatti e il mio cane…”- parla con un filo di nostalgia. - “Capisco. Non ho mai abitato da solo, mi piacerebbe, soprattutto quando sei giovane immagino sia una bella esperienza. Cambiando discorso, ricordi che ti avevo invitato a bere qualcosa una di queste sere?”- cerco di arrivare al punto e di dar finalmente un senso alla telefonata. - “E come potrei dimenticarlo?! Certo, ricordo benissimo! Che ne dici la prossima settimana?”- attimo di silenzio imbarazzante. - “Perfetto, che ne dici dopo mercoledì? Aspetta un secondo, fammi controllare, sì, magari giovedì, venerdì, quando vuoi. Sai quel compitino…so già di non arlo, ma vorrei mostrare un attimo d’impegno ai miei. Se evito di uscire la sera prima è meglio…spero tu mi capisca. Ho una gran voglia di rivederti…” – altro attimo di silenzio, quasi glaciale. - “Anch’io ho voglia di vederti…allora ci sentiamo, uhm, magari lunedì? Che ne dici?” – quella voce sempre più vellutata. - “Quando vuoi, comunque dico che è tutto perfetto.” – la telefonata si sta avviando alla conclusione. - “Hai ragione, lo penso anch’io, è tutto perfetto. Bye bye.” – silenzio.
- “Ciao…” – rispondo ipnotizzato mentre quel frocio di mio fratello irrompe di nuovo in camera. - “Che cazzo facevi stronzo? Origliavi la mia telefonata?” – urlo, ma senza cattiveria. - “Ma che cazzo me ne frega, non sono mica tua madre, cretino! Levati dal cazzo, devo sentire questo cd.”- e infila nel lettore le danze ungheresi di Brahms suonate da Katchen.
MEGLIO STARSENE A CASA
- “Rocca, Rocca, Rocca…trovato!” – il Daytona segna le ventuno e quarantacinque, il mio anticipo raggiunge quasi il quarto d’ora. Non so di preciso il motivo per cui mi trovo fermo in quel parcheggio davanti alla chiesa del paese in compagnia di quattro gatti del cazzo che zampettano azzuffandosi qua e là spruzzando di piscio gli angoli delle saracinesche dei negozi colmi di roba di qualsiasi genere da vendere agli stronzi come me. Ho il motore e poca benzina nel serbatoio, zero voglia di finire chissà dove, la mia mente non oltrea la previsione di guidare per più di venti chilometri. Penso a un posto tranquillo, un po’ demodè ormai, ma adatto per parlare senza farsi trapanare le orecchie da qualche dj impizzato. Un flash nello specchietto, e, nonostante un principio di occhiaie, sono sempre il migliore. Un Carrera bianco, scapottato, sfila lentamente nella via deserta. Noto la pinze rosse dei freni Brembo. Nell’abitacolo una gran figa, mora, occhi neri, mille per cento brasiliana, a la mano sulla testa di uno stronzo pelato, come se Dio l’avesse rifornito di una folta chioma da accarezzare. Viscido, lampadato, bordeaux come il vino che molto probabilmente si sono scolati un’ora prima. La troia che sto aspettando arriva su una Twingo bianca da rottamare, sporca da far schifo, i fendinebbia accesi in una limpida serata. La nebbia probabilmente risiede da molto tempo tutta nella sua testa. Non avrei mai dovuto organizzare questo appuntamento, sarebbe stato molto meglio starmene a casa piuttosto a sentir mia madre rompermi i coglioni tutta notte, oppure schiaffarmi subito a letto, risparmiando soldi, fatica e stress. Poco importa, devo risolevere al volo la serata. Il mio corpo, la mia mente partecipano involontari a questa sofferente situazione di scazzo e disgusto solo per colpa mia. Quella ciucciacazzi parcheggia in fianco alla y, anche perché non credo potesse
far diversamente, dato che quello è l’unico posto libero. Prego Gesù Cristo affinché non mi centri l’auto. Dal finestrino mi saluta e prima di scendere cerca sul sedile posteriore la borsetta. Con un gran botto chiude la portiera della misera autovettura e in piedi, sull’attenti, si tira la gonna fin su le ginocchia, lasciando vedere le calze nere di nylon, molto attenta a non mostrar le cosce. - “Oh cazzo, anche lei si sta trasformando nella suora del momento!” – accenno a un misero saluto (è misera lei come la sua fottuta twingo del cazzo) accompagnato da un altrettanto sorriso schifato. Non scendo nemmeno per andarle incontro, attendo che salga di suo spontanea volontà. Non è il caso di essere cavaliere con un soggetto del genere. - “Buonasera bell’uomo!” – esordisce catapultandosi nell’abitacolo baciandomi e sfregandomi con la mano imbullonata da anelli in finto argento (peltro?) il collo. - “Ragazza, stai da Dio, e noto con stupore la tua splendida forma! Complimenti bella, sei uno schianto!” – rasento la perfezione. La verità è che sembra un’albanese senza tacchi, di altezza direttamente a livello cazzo, con le tettone imbragate in un top bianco straaderente (sicuramente della Città Mercato) e super trasparente. Non compete nemmeno con l’ideale di bellezza, non c’entra un cazzo con Grace Kelly, ma senz’altro ti manda il cazzo su Marte. Con quelle labbra stradipinte, un chilo di trucco sparso sul viso, i capelli neri come il carbone, gli occhi verdi smeraldo (unico segno di distinzione), la vedo già godere con la mia faccia schiacciata e ansimante tra le sue zucche giganti. Chemmerda. - “Dove mi porti bello?”- si allaccia la cintura di sicurezza. - “Ragazza, guarda che sono un provetto guidatore, il tuo gesto mi offende… profondamente…”- attimo di silenzio – tensione. - “Scherzo tesoro, la metto sempre anch’io, non si sa mai.” – sdrammatizzo il discorso cadendo nei pietosi luoghi comuni del tipo tu puoi esser il miglior pilota del mondo ma gli altri possono ammazzarti da un momento all’altro. - “Ah, ti stavo già dando del maleducato rientrante nella categoria dei super
cafoni. No, è questione d’abitudine, basta dimenticarsi una volta, e magari è proprio quella in cui ti capita il danno, sai è così strana la vita.” – continua a cadere nell’ovvietà più banale. - “Hai ragione, è proprio strana…” – annuisco volando col pensiero a Silvia. - “Hai mai sentito parlare del Dedalo? “ – chiedo realizzando che si trova a meno di quindici chilometri da dove mi trovo. - “No, com’è? Non dirmi che è una birreria perché ultimamente tutti quelli con cui esco mi trascinano sempre in pub pseudo irlandesi in cui servono sempre Guinnes e sparano a tutto volume gli U2….” – per caso vuole far la signora? - “Sbagli dolcezza, è un bel posto, dove si può tranquillamente parlare senza farsi venire la raucedine e la musica è molto soft. Inoltre fanno degli ottimi dayquiri, e l’ambiente è hi - tec. Insomma, nel complesso è gradevole, molto friendly.” – faccia da ebete ammattita. - “Come?! Va bene, andiamo.” – ha un bel punto interrogativo disegnato sulla fronte bassa. Testa d’asino non fu mai calva. - “No, niente…” – rispondo con comione e disprezzo. Parcheggio la y in una viuzza a pochi i dal locale, ben nascosta, e lei, notando i posti liberi nel parcheggio non obietta la mia decisione. Dentro, la luce soffusa domina su un parquet in rovere chiaro e poca gente è seduta ai tavolini in acciaio satinato. D’altronde è solo l’inizio della serata. Una cameriera abbastanza graziosa, in canotta bianca (anche lei) D&G, dall’ampia scollatura e pantaloni neri aderenti, i capelli biondi sciolti, la pelle appena abbronzata, ci accompagna verso un divanetto, bianco, in pelle, e, lasciandola sfilare davanti a me, noto subito il suo bel culo, pronto da spaccare. Ordino un dayquiri e la sventurata di turno un Martini bianco liscio. Tolgo il giaccone di Armani e lo appendo su un dozzinale appendiabiti in acciaio, quindi mi faccio are da Cinzia la sua giacca in panno, cercando di vedere la marca senza farmi notare. Ma la marca non c’è, e questo significa che proviene al cento per cento da bancarelle di stracci del solito mercato di paese. Low profile.
Cercando di non posare continuamente lo sguardo sulle sue super tette, racconto di me, vomitando discorsi strautilizzati in occasioni analoghe. Non sa quello che mi gira sul serio per la testa, e come la sto giudicando. Intanto la gente inizia ad occupare ogni angolo della sala. E per essere sabato sera noto con piacere l’assenza dei soliti ragazzini rompicazzo in cerca di risse. L’età media si attesta intorno ai venticinque massimo trent’anni. Io, nonostante uno fra i più giovani, sono il più bello, come sempre il migliore. Noncurante di Cinzia guardo intorno con grande scazzo, attento alle altre ragazze, la maggior parte delle quali, fighe, ricambiano il mio sguardo, lanciandomi occhiate d’intesa, e Dio solo sa quanto avrei voluto starmene lì per i fatti miei. - “Oh, ma cosa pensi? Ci sono anch’io…” – mi riprende a bassa voce. - “Sai che cazzo me ne frega di te, rottame con le tette grosse!” – quella sarebbe stata la risposta giusta. - “Ops, scusa cara, ma sto ripensando a degli esercizi molto complessi di finanziaria…sai ho un mezzo esame mercoledì, e non so quasi niente…”sempre più scazzato. - “Finanziaria? Che cos’è?” – sbarra gli occhi. - “Lasciamo perdere. Piuttosto, raccontami un po’ di te, della tua vita, dei tuoi amori…”- fingo un minimo d’interesse. - “Senti bene queste parole: disastro completo! Ripeto, disastro completo, e credici perché è la pura e semplice verità.” – sorseggia il Martini. Nettare divino. - “Cristo ragazza, come siamo pessimisti e catastrofici! Ma non sai che c’è gente che muore di fame in Africa?”- la vacca pensa di essere una donna vissuta, all’indomani dell’estrema unzione. - “Dunque, fammi ben ricordare…, adesso ho ventisei anni eh, sì, perfetto, me ne sono andata di casa a ventidue, a convivere con uno stronzo da competizione. Ho trascorso un inferno durato due anni e poi dietro front di nuovo a casina dai miei, tra mille litigate e discussioni. E questo periodo a due è stata la peggiore esperienza della mia vita. Non so perché l’ho fatto, ma se sapevo prima, guai, mai più.” – reclama il bicchiere vuoto.
- “E poi? Forza sono tutto orecchie, tra i ventiquattro a oggi la situazione è migliorata? Oppure, siamo sempre più alla deriva?” – di ciò che le domando non me ne frega un gran cazzo. - “Diciamo che mi sono buttata nel lavoro…prima quando ero con Mario non lavoravo, se non qualche volta. Gli facevo da segretaria, sai, nell’azienda dei suoi. Adesso è da sei mesi che sono impiegata in questa ditta di prodotti surgelati di Villasanta. Prima stavo presso un’agenzia immobiliare, ma poi continuavo ad avere battibecchi con il titolare e mi sono licenziata. Comunque questo lavoro non mi dà un cazzo di soddisfazioni, anzi credo che fare la rappresentante di surgelati non sia la mia massima aspirazione, ma suppongo, in generale non lo sia per tutte le donne. Basta parlar di me, ma perché studi Economia e Commercio?”- avrei voluto risponderle: - “ Per non far la tua fine.” – mi trattengo. - “Perché voglio diventare il Gekko del duemila!” – esclamo finendo il Dayquiri. - “Il nuovo chi, scusa?” - replica sbigottita, sgranando quegli occhi dimmerda. - “No, niente, non lo conosci, diciamo semmai che mi piacerebbe molto riuscire a diventare commercialista, o, ancora meglio finanziere…” – cerco di farmi capire. - “Ah sì, quelli con la divisa! Bello, ma ci vuole la laurea? Non credevo..”- non ho più parole, devo cacciarglielo al più presto in bocca così non avrebbe più parlato. - “No, non hai capito, finanziere nel senso di chi dispone di ingenti somme per poter comprare e vendere società…ci sei adesso?” – brutta cerebrolesa, testa di cazzo, stronza puttana. - “Ah sì, giusto, perfetto, come Richard Gere in Pretty Woman?” – ci manca solo Pretty Woman. - “Sì, più o meno…” – con l’unica differenza che lei non è Julia Roberts. In un fiato secco il Dayquiri e non so se ordinarne un altro. - “Prendiamo qualcos’altro?” – sventaglia il bicchiere vuoto davanti alla mia
faccia stanca e depressa. - “Mica andavi fuori subito?” – ripenso a quando mi ha chiamato. - “In genere sì, cioè, però quando bevo il Martini di solito reggo bene…e poi è sabato sera e domani si dorme.”- che poveraccia. Naturalmente mi tocca di nuovo pagare per un altro dayquiri (stavolta lo prendo alla fragola) e per un altro Martini, sempre bianco e liscio. Stranamente al secondo giro mi sento vispo, iper recettivo, e la troia inizia ad appoggiarsi mettendomi le mani sul cazzo e strusciandole sui bottoni dei miei Jeans Versace, biascicando discorsi allucinanti. Intanto le prendo in mano le tette, accarezzandole in corrispondenza del capezzolo, sentendo che è enorme e duro. - “E’ il caso di andare…” – suggerisco aiutandola a infilare il giaccone del mercato. Appena saliti in macchina, assatanata, me lo prende in bocca, cacciandoselo fino in gola, tastando contemporaneamente i coglioni, andando su e giù con la chioma nera, sopra la quale la mia mano l’accompagna nel movimento. Di colpo mi trovo la sua bocca appiccicata alla mia e mi spara dentro la lingua, e io, ritraendomi le dico: - “Aspetta tesoro, prendo il Control, intanto sfilati le mutandine.”- e mentre me lo infilo facendolo scivolare sull’uccello impiastrato della sua saliva, le tolgo le mutandine, realizzando di trovare un lavandino fuori controllo. Mi monta fino a gridare come una forsennata. Io non vengo, e per questo ci rimane male. Arrivo a casa e mi sparo una sega sborrando nella vasca idromassaggio. Faccio una doccia bollente per levarmi lo schifo che quella vacca mi ha gettato addosso. La mattina seguente Cinzia prova a telefonarmi. Non rispondo, e di lei, per fortuna, non ne ho più sentito parlare.
NON ABBANDONARE MAI LE BUONE ABITUDINI
Da quando sono iscritto all’Università non ho mai, ripeto mai, ato un fine settimana sui libri e anche se il compitino di finanziaria è alla porte e la mia preparazione tende a meno di zero, di sicuro non è mia intenzione rompere questa piacevole consuetudine per un esame del cazzo. E’ una grigia, piovosa domenica, e la maggior parte dei comuni mortali l’avrebbe trascorsa sul divano o sotto le coperte a riposare per riprendere la loro triste e penosa routine settimanale, scandita da cartellini timbrati, incazzature, invidie e frustrazioni quotidiane. Il mio programma prevede l’assenza dal focolare domestico dalle quattordici e trenta fino a orario non stabilito, tutto dipende se decido di tornarmene per cena oppure no. Sicuramente non l’avrei fatto, anche perché non mi va l’idea di ascoltare le stancanti e fastidiose paranoie di mio padre. Al pensiero sento già la nausea attanagliarmi lo stomaco. - “Giovanni hai la testa piena di stronzate! Se continui così a romperci i coglioni ti sbatto fuori di casa a pedate nel culo, senza una lira! Per te, tua madre non dorme più la notte! Apri il cervello e smettila di seguire come modelli i tuoi amici! Guarda e impara piuttosto da tuo fratello! Non concluderai mai un cazzo comportandoti così!”- In sintesi questo sarebbe stato lo scenario. Situazione esclusa, sotto tutti i punti di vista. Cazzo, quando iniziava a rigurgitare merdose sentenze di questo tipo il massimo sarebbe stato piantarli davvero, e mandarli affanculo, sparire per sempre e non sentirli più. Aspetto Bollinger, in piazza, a venti metri dalla chiesa e chicchi di riso sparsi qua e là costellano le fessure tra i sanpietrini, segno inequivocabile che in mattinata qualche stronzo fallito si è appena sposato. Quattro stupidi piccioni zampettano qua e là manifestando la loro profonda intelligenza beccandosi l’un l’altro, mugugnando all’impazzata. Li avrei seccati tutti, fanno davvero schifo.
Sporchi e malsani. Bollinger arriva quasi subito, e quei bastardi di uccelli spiccano il volo insieme puntando verso il campanile. - “Ragazzo, dove andiamo?” – domando con trepidazione nell’ abitacolo dell’ SL, mentre smanetto l’autoradio alla ricerca di una canzone decente. - “Dove cazzo vuoi andare? A Milano a ber qualcosa, così vediamo di trovare qualche donna decente.” – schiaccia sull’acceleratore, facendo voltare il sacrestano e la perpetua intenti a pulire il piazzale dai rimasugli post celebrazione. - “Di categoria, però.” – continuo a smanettare innervosito, realizzando che trasmettono solo programmi sul calcio. Sfrecciando a più di duecento all’ora, in tutta sicurezza e comfort, bruciamo la tangenziale. Sintonizzo finalmente su “One” degli U2, trasmessa da Radio MonteCarlo, e ci ritroviamo in meno di venti minuti nel centro di Milano. Viaggiare con una sl da oltre centosessantamilioni non è da tutti, e questo senza dubbio costituisce un valido motivo per attirare lo sguardo, soprattutto quello delle fighe e dei loro presunti uomini, incazzati e consapevoli di essere poveri cristi. Ovviamente parlo della maggior parte della persone, di coloro che trainano la nostra società verso l’uniformità dei costumi e del luogo comune che chi ha successo e lo mostra è uno stronzo senza rispetto. Tutte cazzate. Qualsiasi persona, se avesse i soldi, lo dimostrerebbe, per il senso innato di voler emergere e vincere insito nell’uomo-bestia. Ognuno lo manifesta secondo i propri gusti, che non è detto siano i medesimi degli altri, ma resta il dato di fatto che anche il più stronzo degli scansafatiche trova nell’accontentarsi la scusa del proprio fallimento. Inoltre se l’SL è gialla, come quella di Bollinger, le persone si voltano automaticamente, schiumando bava dalla bocca, sconvolte. - “La gente se potesse ci ammazzerebbe…” – commento alla ricerca di un’altra canzone orecchiabile, in tono con l’ambiente. All’incrocio di Via Verri con MonteNapoleone noto, alla mia destra sul
marciapiede, dei gorilla ingiacchettati di nero e RayBan, con Yaesu infilati in tasca e auricolare penzolante dall’orecchio, che circondano un omino in giacca crema, la barba grigiastra, gli occhialetti tondi d’oro, il viso unto e stanco e il naso appuntito. Pare mefistofele. Con il braccio destro cinge la vita di una gran figa, mezzo metro più alta di lui, orientale, dagli occhi neri profondissimi e sprizzanti di luce, stagliati nella sensualità della pelle ambrata e da un sorriso incantevole, accentuato da labbra gonfiatissime color fucsia. Quando realizzo di chi si tratta, Salman Rushdie si trova in via S. Andrea, voltandoci le spalle insieme alla sua bella (di turno?) e ai suoi cazzo di gorilla. Non ci ha degnato nemmeno di un fugace sguardo. Cultura superiore. Svoltiamo a sinistra percorrendo la via più “in” del centro a o d’uomo cercando di non schiacciare i soliti nani giapponesi con le loro super telecamere di ultima generazione, pronti a filmare ogni prodotto esposto nelle scintillanti vetrine delle boutique super – chic. La Cina ci distruggerà. Modelle marchettare strafighe ci guardano attraverso i loro occhiali dalle lenti fumé cercando di capire chi cazzo siamo, fantasticando nelle loro teste di cazzo bacate e vuote. - “Guarda quella, cazzo che culo! Sto male!” – esclama Bollinger levando la mano dal cambio automatico portandosela alla bocca colto dallo stupore. In effetti si riferisce a una bionda di gran categoria, che sorregge un uomo altrettanto bello, biondo anche lui, ma con una gamba amputata. A giudicare dal Daytona in oro bianco di lui e dai gioielli di Bulgari e tailleur di Armani di lei, appartengono ad un ceto decisamente superiore. Avrei scommesso tranquillamente un milione di dollari che senz’altro sono fratello e sorella. - “Come fa a chiavarne uno senza gamba?” – rifletto a voce alta. Può essere anche il migliore, il più ricco, ma dubito che quella strafiga riesca a bagnarsi davanti a uno gambizzato, non lo ritengo concepibile. E’ come se scoi una mutilata, credo che non mi si alzerebbe per nulla al mondo, neanche se avessi davanti un porno in home theatre. - “Dici che se la fotte?” – Bollinger è assalito dagli stessi pensieri. - “Ma non scherziamo, sarebbe ridicolo. Sarà sua sorella. Nota, si assomigliano
un casino, biondo lui, bionda lei. E poi sono uguali, anche il naso, tutti e due li hanno martellati e rifatti e poi il colore degli occhi, il taglio della bocca…non c’è dubbio, avranno gli stessi genitori. Che saranno fuori discussione delle persone anziane di gradevole aspetto.” – continuo a fissare commosso le stampelle del tipo. Non appena termino la mia dissertazione lo sgambato la bacia slinguandola e lei contraccambia. Ci guardiamo esterrefatti. Se avessi scommesso sarei diventato un povero Cristo. Chemmerda i poveri cristi. - “Andiamo a berci qualcosa al Sant’Ambroeus? Mia madre ci va sempre, la considera la miglior pasticceria del centro, quella in cui i signori della Milano da bere si ritovano per il tè delle diciassette, per entrare bisogna essere in lista.” – e intanto scruto dal finestrino alla ricerca di un parcheggio. - “Cosa?” – Bollinger strabuzza gli occhi. - “Dai coglione, pianta la macchina da qualche parte!” – naturalmente trovare un posto avrebbe significato vagare ore e ore senza nemmeno la certezza di trovarlo. A ciò rimediamo piantando la macchina sulle strisce, in odore di multa. - “Beccheremo la multa. Io non sgancio una lira ragazzo.” – apro la portiera. - “Ma non me ne frega un cazzo, basta che non me la sbattano sul carro attrezzi, e poi alla domenica non rompono i coglioni, fidati. Andiamo a berci un tè verde, tipo Twinings.”- ci mischiamo nella folla di Corso Matteotti. In effetti mia mamma ha ragione, un tripudio di eleganti cappotti in cashmere Burberry portati da cinquantenni straeleganti e un sacco di signore vestite Hermés riempiono la pasticceria chiacchierando amichevolmente tra loro, formando un’elitè ipenetrabile. - “Che cazzo prendi? “- non ottengo risposta. - “No, dico, che cazzo prendi?” – e una vecchia ingioiellata si volta squadrandomi con disprezzo. - “Ah, scusa, prendo un tè alla vaniglia.” – Bollinger si ripiglia. - “Ok, per me un succo alla pera, e un tè alla vaniglia…”- ordino realizzando
che il barista avrebbe voluto infilarmelo nel culo. Bel quadretto, in fianco ho una vecchia paralitica tenuta insieme con lo stucco utilizzato nei loculi del cimitero e al di là del bancone un frocio orrendo e odioso. Non vedo la minima presenza di coetanei. Il succo, nonostante fosse servito su un piattino d’argento l’avrei trovato senza problemi anche al discount pagandolo dieci volte meno. - “Com’è il tè?”- Bollinger analizza le persone che ci stanno intorno. - “Scotta.” – forse gli è andato affanculo il cervello. - “Cazzo lo so che scotta! Intendo: speziato, gradevole, sa veramente di vaniglia, oppure è mischiato a qualche altro sapore, non so, tipo mandarino, cannella? Cazzo, scotta,, non hai ordinato un tè freddo. Cos’ hai? Sei svarionato? Ho capito, vuoi infilzarti la vecchia alla mia sinistra disgutata dal mio linguaggio trés chic.” – alzo la voce. - “E’ impossibile, ma come si permette? Caro, questo giovanotto (Giovannotto?), mi sta importunando, sembra impazzito, ma è drogato? Lei si droga? Sta pronunciando frasi irripetibili che coinvolgono direttamente la mia persona. Chiamami (chiavami?) subito il direttore, voglio che venga cacciato immediatamente, mischiarmi con gente di simile acume intellettivo è alquanto blasfemo e terribile. Forza caro..” – povera nobildonna. - “Le ripeta pure, nessuno si scandalizza, non si preoccupi, giro porno tutti i giorni. E lei ha un gran bel cappotto, di grande categoria, peccato per la moglie, non c’entra proprio un cazzo. Signori è stato davvero un gran piacere. Andiamo fuori dal cazzo altrimenti spacco tutto e infilo il bicchiere e la tazzina su per il culo a questa vecchia troia.” – Bollinger osserva sorridendo incapace di prevedere cosa sarebbe successo da lì a pochi minuti. - “Devo finire il tè..” – e appoggia la tazzina sul piattino sopra la fetta di limone. - “Fallo finire a quella puttana e a quello sfigato di suo marito. Fuori dal cazzo, via via, e basta bere tè, fa venire i bruciori.” – usciamo mentre la duchessa addolorata discute con il direttore, un tipo alto, dai capelli brizzolati e gli occhiali di Cartier.
- “Sì, i bruciori al culo.” – sfila dalla tasca dei jeans le chiavi dell’sl. - “Ma porca troia, un’altra! Ma vaffanculo!” – straccia l’ennesima multa. - “Te l’ho detto, perché cazzo non mi hai dato retta! Lo sapevi, siamo nel centro di Milano, le danno in piazza a Merate, figurati qui.” – ma sì una in più una in meno, che cazzo ce ne fregava. - “Peccato, mi si è stracciata tra le mani, quando arriverà la pagherò, fanculo vigili di merda, falliti e invidiosi del cazzo! Altre sessantaquattro mila tirate nel cesso.” – Quello che rimane di quel merdoso foglietto prestampato giace stracciato a terra sulle strisce in cui si trovava l’sl. Mentre torniamo (a duecentoquaranta sotto il cavalcavia delle torri bianche), ascoltando “ Club Tropicana”, infilo la mano in tasca sfilando lo startac, e realizzo che alle diciannove e quarantacinque era arrivato un messaggio. Apro l’ostrica in plastica e il display s’illumina. - “Mi piaci da morire. Silvia.” – Non dico niente.
Il TEST
Ho ato il lunedì e il martedì con in mano la sfera di cristallo cercando di intuire quali potevano essere i possibili esercizi del compitino e trascrivendo minuscoli bigliettini fotti-il-professore di formule e definizioni, ma una galassia di dubbi offusca la mia mente, già sparuta di concetti e satura d’incertezze. Per dirla con chiarezza non so un cazzo, e non presentarsi sarebbe stata la scelta migliore, quella più dignitosa. Avrei evitato di far un gran figura del cazzo con i professori. Già mi vedevo classificato come il miglior asino dell’università. Il giorno di questo maledetto compitino lascio il letto alla sette e mezza spaccate, per esser col culo in macchina alle otto. L’inizio del test è previsto per le nove e, senza dubbio, tra l’appello e tutte le precauzioni attuate dai docenti non avremmo cominciato prima delle nove e mezza. Senza dubbio avrei consegnato in bianco. Macchine come formiche e camion fuligginosi, grandi come palazzi, formano lunghe code ai semafori, creando la tipica andatura da coma e io, tra una parolaccia e l’altra, non so nemmeno perché mi trovo in mezzo a quel manicomio. Senza dubbio per far un piacere ai miei, una finta scena dimostrativa sul mio impegno scolastico e sul coraggio di affrontare un esame così complesso. Finalmente imbocco l’autostrada a Capriate. Il traffico si presenta scorrevole e in neanche dieci minuti mi ritrovo davanti al Grand Hotel San Marco, diretto verso città Alta. Senz’altro gran bel posto, raffinato, elegante, di grande categoria, celebrata da tutti: scultori, artisti, stilisti, musicisti, finanzieri e ultimamente anche calciatori. Molto spesso in piazza vecchia capita di imbattermi in troupe televisive con attori e attrici superbelli. Trovare il parcheggio è come missione impossibile, così cerco di ripiegare su quello a pagamento, ma anche lì trovo completo. Cazzutissimi bergamaschi. Lo Swatch Iron indica le nove e non so dove cazzo infilare la macchina. Tento e ritento nei pressi delle mura ma niente da fare, neanche l’ombra di uno spazio largo a sufficienza per la y.
L’ultima speranza rimane vicino al campo da calcio. Provo, ma anche lì nulla, nada, solo parcheggi riservati ai residenti. Così, fregandome, incastro la y in una vietta vicino a via Salvecchio, e supplico con le mani unite verso il cielo di non prendere l’ennesima multa. Il chiostro in Via Tassis si presenta stragremito di studenti ansiosi con i libri in mano, le facce segnate da numerose notti ate sui libri (come me) a memorizzare la formula meno prevedibile, e, come al solito non me ne frega un cazzo. Non vado matto per Bergamo alta. Non capisco come mai, ma penso che la causa sia da ricercare nella grettezza e ignoranza imperanti dei suoi abitanti. Tutti ricchi, ma molto fastidiosi e paesani, donne e uomini dalla parlata dialettale firmata Gucci e Cavalli. Mai avrei comprato, a contrario di molti amici e conoscenti la casa in una di quelle splendide viuzze. Un altro fattore è l’aria gelida d’ Inverno, forse perché ti taglia la faccia in mille pezzi mentre cammini sul pavé, forse perché non sopporto l’università e di riflesso anche il luogo in cui si trova, ma la mia convinzione si radica nell’odio verso quei bifolchi rifatti. Contadini arricchiti. Sento lo stomaco pesare come un macigno, seduto sulla poltrona dell’ex cinema con un banchetto sul quale riesco, a malapena, ad appoggiare il foglio bianco per scarabocchiare qualche conto (non so nemmeno una formula, nemmeno ricordo più quella per calcolare il determinante). Quella troia della docente inizia l’appello in ordine alfabetico, e, naturalmente entro tra i primi e, alzando la mano per comunicare la mia presenza un assistente che assomiglia molto a un cane bastonato sdentato mi comunica di stracciare il mio foglio, che non ce n’è bisogno e di lasciare la mia borsa di Fendi bene in vista. Figlio di puttana. Quando sfilo la calcolatrice scientifica dalla mia borsa di nuovo il cane bastonato si avvicina. - “Prego, può girare la sua calcolatrice mostrandomi il retro?”- sto stronzo mi ha preso di mira. Tra migliaia di studenti con milioni di bigliettini deve rompere il cazzo proprio a me. - “Guardi pure, sono pulito, niente escamotage, ho tutto in testa…” –
strafottente. - “Non si sa mai.” – risponde sempre più odioso. Pensavo mi chiedesse di aprire anche il culo per guardarci dentro. Porca troia quanto avrei voluto spaccare la faccia a quella testa di cazzo. - “Ehi, come ti chiami?” – mi rivolgo a un cesso da competizione seduto davanti a me, con un maglioncino rosa infeltrito. Sicuramente ho a che fare con una contadina di Clusone. - “Maria…” – mi caga di striscio, intuendo di avere a che fare con un asino dalle orecchie molto lunghe. Di sicuro gli argomenti li conosce a menadito, e, per questo, si fa i cazzi suoi, escludendo certamente la possibilità di condividere la sua sapienza con qualcun altro, tantomeno con uno stronzo come me che non ha studiato un cazzo e che la reputa una sfigata fallita. - “Io mi chiamo Giovanni, oh, mi raccomando, cerchiamo di aiutarci, come sei messa, sei preparata? Io so bene gli autovalori…” – balla assurda, ma cerco di fingere un minimo di preparazione per avere una mano sulle altre domande. - “Abbastanza, sono un po’ perplessa sul procedimento di Gram - Schmidt, per il resto qualcosa dovrei sapere, spero.” – si strappa le pellicine dalle unghie mal curate. - “Oh, se mi dai una mano ti offro una cena. Che ne dici?” - le avrei allungato anche un centone. Mi compatisce con un ghigno sardonico e si volta dall’altra parte fottendosene altamente della mia proposta. Di fianco, sulla destra, a distanza di un posto, ritrovo un ragazzo con cui l’anno prima avevo seguito il corso di Economia Aziendale, e naturalmente tento l’approccio anche con lui. - “Uhe, ciao, hai studiato?” – sono pronto a dar qualsiasi cifra. - “Un cazzo!” – sembra sincero. - “Cerchiamo di fare lavoro di squadra, ti pare?”- non so più a chi aggrapparmi. Che situazioni odiose, soprattutto quando vedi gli altri più sicuri e spigliati di te
e non riesci a capire come mai ti trovi a dovere chiedere aiuto e alla fine realizzi che la colpa è solo tua. Ti senti tagliato fuori e handicappato. - “La puttana maledetta consegna compiti diversi a file diverse, fila A, fila B, così nessuno può copiare. Troia!!” – dettaglio mancante. L’unica mia salvezza è quella stronza sbiadita di Maria, ma vedo che sta già scrivendo sul compito che non le hanno neanche consegnato, ormai immersa nel suo mondo di matrici a cazzi quadratici. Chemmerda. Prende la parola quella cicciona del cazzo di docente. - “Allora ragazzi. Silenzio per favore, silenzio…silenzio!! Il compito, molto semplice, si compone di dieci domande, di cui sette vertono su esercizi elementari, e le rimanenti tre teoriche. Avete quattro possibilità di risposta, dovete barrarne solo una, quella ritenuta da voi esatta. Avete a disposizione due fogli timbrati dall’università e quarantacinque minuti, non un minuto in più, non uno in meno, e, sarò chiara una volta per tutte, il primo che becco copiare dal compagno o da qualche bigliettino verrà ritirato senza esitazione il compitino e cacciato fuori dalla sala. Quattro miei assistenti controlleranno, intesi!? Bene e buon lavoro.”- e chi cazzo si crede d’essere. Si siede e apre il Corriere iniziando a sfogliarlo con serenità. Quando mi arriva il compitino sotto il naso lancio un’occhiata a tutte le domande. L’arabo, lingua da me mai imparata, mi pare più comprensibile. - “Ma che cazzo è questa merda?” – penso a voce alta. Non so da che parte cominciare. La teoria praticamente l’ho vista di striscio a casa e non c’entra un cazzo con quella degli esercizi del test e per quanto riguarda la parte pratica solo il quesito in cui bisogna calcolare il determinante mi ricorda qualcosa. Tento subito con quello ma il risultato da me trovato non assomiglia a nessuno dei quattro indicati nelle risposte, e il panico inizia a salirmi dallo stomaco alla gola, facendomi deglutire saliva acida e pesante come calce, e frenetici colpi di tosse soffocano i polmoni.
Allungo il collo e le orbite cercando di scoprire cosa ha crociato quella troia di Maria, ma lei si accorge e al volo ritrae il foglio coprendolo col braccio e io non esito neanche un secondo a sbuffarle in faccia e mandarla affanculo. Gioco alla lotteria. Sparo a cazzo, scarabocchiando sui fogli timbrati formule che tra loro non relazionano per niente, mettendo un autovettore insieme ad una matrice, senza un minimo e sensato collegamento. Guarda caso trovo anche un esercizio sul famoso procedimento di Gram - Schmidt, protagonista di questa splendida giornata, e senz’altro quella troglodita mestruata davanti a me lo sta risolvendo senza batter ciglio. Sinceramente dopo dieci minuti di ansia e singulti realizzo che del test non me frega più un cazzo, e l’unico pensiero galleggiante nella mia testa si configura nel display dello startac con impresso la frase: - “ Mi piaci da morire. Silvia.” Ho già perso fin troppo tempo. Terminato l’ultimo, anzi per l’esattezza, il decimo esercizio vedo che gli assistenti iniziano a ritirare i compiti, senza lasciar nemmeno il tempo per revisionare il lavoro svolto. Non che la cosa mi riguardasse in particolare modo, tanto il mio sarebbe stato un N. C. (non classificabile), ma almeno per chi si è impegnato, un minimo di supervisione finale è dovuta. Il mio capolavoro viene prelevato alla velocità della luce e impilato in un grosso faldone con scritto A in nero sulla copertina in cartone arancione, e nell’aria si dice che i risultati sarebbero stati esposti entro la sera stessa. Ma di starmene lì ad aspettare, non se ne parla nemmeno, tutto tempo sprecato, meglio tornare a casa. Sguardi soddisfatti e occhi vincenti, altri disperati, come se il mondo dovesse finire quel giorno dentro quelle quattro mura polverose e odoranti di vecchio, e io, sfuggente, non capisco come mai mi trovo in mezzo a quella scena, e mi vedo fuori da tutto quel casino di preoccupazioni e commenti, e capisco di non c’entrare nulla e di non vedere l’ora di saltare in macchina e ascoltare una canzone di George Michael, e non vedere più nessuno. - “Giovanni, com’è andata?” – domanda il ragazzo in fianco a me conosciuto all’esame di Economia Aziendale. - “Come doveva andare, è inutile chiederlo ora. Comunque non sapevo niente, ma non me ne frega un cazzo, tenterò un’altra volta. E tu, te la sei cavata? Ho
visto che scrivevi a più non posso, sembrava sapessi tutto.” – rispondo con un misto di menefreghismo e strafottenza. - “Ma, credo di aver azzeccato gli esercizi e un paio di domande di teoria, ma non sono così sicuro. Adesso non resta altro che aspettare. Andrò in biblioteca a consultare dei testi.”- faccio due calcoli e realizzo che un bel diciannove su venti se lo sarebbe portato a casa e così anche un bel mezzo esame. - “Bravo, vedrai, sei ato. In bocca la lupo, allora, io sgamo, devo scappare a casa. Ci si becca in giro.” – e io mi porto a casa un sonoro calcio in culo e un paio di orecchie d’asino. Ora il mio problema consiste nell’elaborare una balla decente in modo da non sentire i miei cagarmi il cazzo per un mese e mostrare, al mio rientro sulla porta di casa, una faccia affranta e dispiaciuta. - “Allora com’è andata?” – ecco la frase di benvenuto di mia madre al citofono. - “E apri questa cazzo di porta, porca troia!!” – la mia risposta. Sullo scalone cerco ancora di mimare l’espressione più triste, sconsolata e affranta mai vista sul mio viso, tendente ad esprimere dispiacere, dolore e soprattutto rabbia. Rabbia per il compitino esageratemente complesso, dolore perché non sono mai stato un campione di esami come mio fratello, dispiacere per l’ennesima delusione verso i miei genitori, che ogni volta si aspettano un trenta e lode. Scricchiolio della porta blindata e la scena si presenta così: mia madre in fondo al salone davanti alla portine antiche laccate di grigio tenue e in fianco all’angoliera del settecento, con in mano il cordless, segno che se non fossi arrivato da lì a breve avrebbe iniziato a bombardarmi di chiamate, e la faccia di chi già sa. Evidentemente la mia performance recitativa sta funzionando come preventivato. - “Ragazzi! E’ andata di merda, porca troia!! Complicatissimo, esercizi mai spiegati a lezione Cristo Santo, e poi non sono nemmeno riuscito a copiare, praticamente l’assistente mi è stato in culo tutto il tempo, ronzandomi in torno continuamente, come una mosca su uno stronzo!!” – inizio deludente, posso far di meglio.
- “Poi mi han cacciato dentro delle domande di teoria strabastarde! Eppure avevo studiato, cazzo!! Io pianto quella merda di università!!” – ormai il più è fatto, ecco che viente incontro abbracciandomi. - “Non preoccuparti tesoro, riproverai il prossimo appello, e andrà meglio, non demoralizzarti, vieni qua amore.” – mi abbraccia e mi sento sollevato da terra cento metri. - “Ma se non hai studiato un cazzo, deficiente! Sei uscito fino a domenica, piantala di recitare e cacciar puttanate, imbecille!!” – quel pozzo di scienza di mio fratello sbuca fuori dal cesso con in mano dei libri di fisica quantistica. Ma non si è appena laureato? - “Tu fatti i cazzi tuoi, e tornatene a cagare!! Io non mi sono mai intromesso nei tuoi studi e sei pregato di far lo stesso con me, quindi vaffanculo, coglione!!” – lo fulmino con gli occhi. - “Per forza non ti sei mai intromesso, non era necessario, ho sempre, ripeto, sempre, studiato come una bestia tutti i santi giorni, e infatti i risultati si sono visti, mi pare.” – odio il suo fare da professor Sotutto, anche quanta sborra produce un elefante masturbandosi al chiaro di luna al polo Nord mentre un eschimese si fotte una foca. - “Ma vaffanculo, brutto stronzo, fatti i cazzi tuoi, non i miei, ok?” – più m’incazzo e più sale in cattedra. - “Basta!! Smettetela!! Non hai ato l’esame, fa niente, non importa, si sapeva, non hai studiato praticamente nulla, se non in questi ultimi due giorni. Sarebbe sembrato inverosimile che tu lo assi, non credi?” – accettabile la reazione di mia madre. - “Devi darti una bella mossa, cosa vuoi, finire l’università a trent’anni? Sei sempre fuori a divertirti, coi nostri soldi, e hai il coraggio di lamentarti se non i gli esami?” – il professore continua, senza mettere il freno a mano e io sto perdendo proprio la calma. - “A parte che era un test e non un esame, e lo rifarò il prossimo appello, e poi che cazzo è questa storia dei soldi? Non capisco, stai guadagnando di nascosto? Fino a prova contraria sono la mamma e il papà che foraggiano, e non mi sembra neanche di buttarli come dici tu. Quindi, fatti i cazzi tuoi un’altra volta! Pensa se
magari fossi ato?! Non è il caso di aspettare i risultati?” – cerco di mostrarmi meno asino di quello che sono. - “Ma che cazzo vuoi avere ato, a chi la vuoi raccontare, cretino!” - non ce la fa proprio più. - “Antonio, vai di là! Sparisci, levati dal cazzo, tornatene nel cesso e vaffanculo!” – la storia si sta facendo davvero pesante e fastidiosa. - “Bravo, bravo! Urla, tanto sega sei e sega rimani!” – il professore inizia a diventare attore di teatro. - “Ma basta sul serio!! Mi avete spaccato i coglioni in mille pezzi, me ne vado, e siete pregati di lasciarmi perdere almeno per un’ora e, vi avviso, se entrate nella mia stanza vi arriva la sedia e il tavolo in testa!” – li mando affanculo un’altra volta (la decima) sbattendo con un fragoroso colpo la porta che conduce nelle mie stanze. Inesorabilmente la depressione sta prendendo possesso di me. Le tenebre mi attanagliano i pensieri e tutto diventa lento, difficile, faticoso, e ogni gesto del mio corpo pare quello di un ottantenne morente, scandito da impulsi cerebrali ancora più artritici. A fatica realizzo che a malapena il prossimo appello sarebbe stato all’inizio di Gennaio, forse il dodici o il tredici, e ciò vuol dire la piena disponibilità di almeno quindici giorni per non fare niente e dedicarmi un po’ a me stesso, sperando almeno di ripigliarmi da questa crisi eggera del cazzo. Gli obiettivi, o meglio, l’obiettivo principale consiste nel rivedere Silvia il più presto possibile, e ora ho il tempo necessario per organizzare in qualche modo un incontro. Non so bene né dove né quando, ma devo farlo, e anche in fretta.
INFANZIA
Il Daytona segna quasi le diciassette e trenta, così decido di uscire a prendere una boccata d’aria e a fare quattro i, cercando di sbollire l’incazzatura nel disperato tentativo di ritrovare un minimo di serenità. o dalla Piazza e, non incontrando nessuno di interessante con cui spendere un quarto d’ora di conversazione costruttiva mi limito a dare un’occhiata veloce alle poche vetrine scarsamente illuminate e male assortite, e, guardandomi attorno noto una desolazione spaventosa. The day after. Neanche il sempre verde gruppo di pensionati si presenta davanti ai miei occhi come invece di solito accade. Probabilmente la gente si è ritirata in casa a cenar con pasta e fagioli davanti alla televisione. Zero voglia di rientrare, così allungo la strada del ritorno ando per viale Cornaggia. E’ strano, ma nel nome di questa via, si racchiude il mondo della mia infanzia e adolescenza, e con esse, senza essere patetico, il periodo più felice, spensierato e azzurro dei miei vent’anni. Nel condominio dei Pini, al tredici di Viale Cornaggia, vivevano grosso modo una cinquantina di famiglie. Il complesso era formato da tre grossi edifici residenziali di colore giallo canarino con le persiane grigie, non saprei a quale tipo di architettura inserirli, in cui ciascuno conteneva un numero che variava da quindici a venti appartamenti, a seconda della grandezza, costruiti in tavolati simili a carta velina. Si sentiva pisciare in dolby surround la gente tra un appartamento e l’altro, e quelli che facevano il bagno pareva percorressero i quattrocento in stile libero. Nonostante questo, gli stabili erano particolarmente signorili e prestigiosi, grandi soggiorni con verande, cucine spaziose, camere super luminose, bagni di venti metri quadri, parquet ovunque. Trovo molto difficile e frammentario delineare il netto profilo sociale di tale comunità. In generale stavamo tutti economicamente molto bene e si andava d’accordo. Borghesia medio alta.
Si gravitava sullo stesso livello di reddito e, malgrado invidie e cattiverie tipiche di qualsiasi comunità, ci conoscevamo tutti, e ancora oggi le persone più care a me risalgono a quel luogo. Ricky abitava sotto di me, e ricordo una frase di mio padre, nella quale sosteneva (non sbaglia mai), di aver contato una domenica pomeriggio più di cinquantaquattro bambini, tra i quali, naturalmente c’ero anch’io, giocare sul grande prato al centro del complesso residenziale. Trascorrevamo le giornate giocando interminabili partite di calcio, organizzando i più svariati giochi di squadra, i soliti, nascondino, guardie e ladri, e infiniti altri, che ora mi fan solo sorridere (o commuovere?) ma che a quel tempo erano la mia vita, senza pensieri e meravigliosa. Ogni volta, il pallone volava in cima agli alberi, la maggior parte dei quali secolari, e si finiva sempre cercando in tutti i modi di recuperarla. Siccome ero l’unico che riusciva ad arrampicarsi, senza percepire minimamente il pericolo mortale cui si poteva incorrere accidentalmente, ma solo l’ebbrezza dell’altezza e del raggiungere sempre un punto più alto (la solita storia), mi divertivo immensamente a sfoggiare la mia destrezza a scalare questi enormi giganti dalla mille braccia, magari tre, quattro volte al giorno. Ancora adesso ando per la strada si vede l’imponente Faggio, uno tra i più grandi d’Europa, tremendo e furibondo durante i temporali estivi: uno spettacolo indescrivibile, da crepacuore. Quando mi affacciavo con Antonio dalla finestra della nostra camera dalle pareti blu, gli spruzzi d’acqua e le folate di vento colpivano dritto i nostri faccini impauriti ma nello stesso tempo stupefatti dal gigantesco albero danzante. Per quanto fossi piccolo, capivo già quando una era figa o meno. E di strafighe nel condominio ce n’erano a bizzeffe, purtoppo più grandi, molto più grandi di me, e non mi rimaneva altro se non il piacere di spararmi moltitudini di seghe pensando a loro. Ricordo quando stavo per suonare il camlo a un mio amico, avevo più o meno sette anni, quando un rumore strano, simile a un ronzio di calabrone, proveniva dalla porta antistante quella a cui ero diretto. Insieme a questo strano sibilo sentivo gemiti crescenti, intervallati da versi incomprensibili. Incuriosito mi fermai davanti alla porta. Lì abitava una gran bella famiglia, il
padre faceva il chirurgo (macellaio?) e aveva delle figlie strafighe, ma anche molto troie. Notando un bagliore dal buco della serratura (il famoso buco) e non controllando più la mia curiosità (bisogna essere sempre curiosi, mi dissero vent’anni dopo), ci appoggiai l’occhio, alla ricerca della causa di questi versi continui, di quelli che si sentono solo nei film quando due scopano. Ma quello che m’interessava di più era questo ronzio, un incrocio tra un minipimer e il battito di un’ape regina. Alla mia vista capii molto presto che le donne riescono a venire anche con dei cazzi di gomma elettrici colorati. La figlia dello strappa budella stava sul divano con le gambe aperte e gli occhi fuori dalle orbite, con un grosso vibratore infilato nella figa mentre Karma Chameleon dei Culture Club rimbombava allegramente nel soggiorno. La beccai proprio all’apice dell’orgasmo, mentre non ci stava più dentro. Peccato che avevo solo sette anni, altrimenti suonavo il camlo, pronto a sostituire il marshmallow gommato. Avrei dato qualsiasi cosa per scoparmi la macellaia, una strafiga, il cui compagno gestiva una salumeria, e, naturalmente lei gestiva i salami. Abitava da sola, anche se lui andava a trovarla quasi tutte le sere per farle sentire la salsiccia, in un appartamento al piano terra con mini giardino annesso. Non indossava mai il perizoma. Durante il giorno riceveva altri palestrati, e le persiane della sua camera da letto erano perennemente chiuse. Ma le donne sono tutte troie? Mi domandavo spesso. Alta uno e ottanta, mora, capelli ricci, nerissimi, sempre abbronzatissima, con un sorriso micidiale, indossava abiti attillatissimi, trasparenti e cortissimi, lasciando intravedere spesso e volentieri il super culo, sodo, alto e rotondo. Le stavo dietro tutto il giorno, cercando, impresa impossibile, qualche modo per riuscire a infilzarla. Conoscevo tutti i suoi orari, e, sistematicamente, simulando incontri casuali, cercavo di instaurare una qualche bieca forma di comunicazione del cazzo. Un pomeriggio, di un’estate torrida, mentre palleggiavo davanti al suo box, tra
una bordata e l’altra, la strafiga si presentò agghindata da ciclista provetta, e, dopo avermi schiaffato in faccia una mountain-bike da urlo, Colnago, in lega e provvista di Shimano Deore, umiliandomi per bene, non mi trattenni e esclamai: - “Complimenti, bellissima la tua bici, quanti rapporti ha?”- o meglio, quanti cazzi hai preso oggi. Sempre questione di rapporti. - “Ventuno, grazie. Me l’ha regalata il signor Colnago in persona (non ci credeva nessuno), è il modello di punta, in titanio, ultraleggero.” – esordì la troia. Cercai di elaborare un piano, ormai il saluto me lo rivolgeva sorridendo, tanto valeva provar ad organizzare un giro in bici, visto la sua sfrenata ione per le due ruote (e due cazzi?), ma ogni perplessità e timore di una pedata in faccia erano in agguato. Avevo stabilito di beccare la macellaia durante uno dei miei appostamenti, di solito coincidenti con il mezzogiorno e il tardo pomeriggio, verso le diciotto, mentre lei rientrava da non so dove (da qualche cazzo duro) con la sua BMW cabrio nera (molto anni ottanta) e di domandarle se, per caso, non potevo aggregarmi in una delle sue peregrinazioni ciclistiche. Il coraggio per fermarla e combinare il tour con ipotetico finale in camporella me lo tirai fuori dal culo e, con grande e inaspettata sorpresa, accettò con piacere. L’appuntamento era stato concordato in calendario per il martedì della settimana seguente, davanti all’entrata principale del condominio, approssimativamente verso le sedici, con destinazione da tracciare insieme (pompini, seghe, cazzo in culo). Sbucando dalla rampa dei box, con la mia mitica bottecchia verde mi ritrovai nel punto prestabilito con dieci minuti di anticipo, aspettando. L’occhio fisso sullo Swatch, il caldo saliva dall’asfalto, la fronte fradicia, le gocce di sudore rigavano le lenti dei miei Wayfarer in tartaruga, incerto e indeciso su cosa dire e fare quando sarebbe arrivata. E la puttanona arrivò, spaccando il secondo, salutandomi come si saluta un bambino (cos’altro ero?) e in quel momento realizzai di non c’entrare un cazzo. Stavo elemosinando qualcosa che mai mi sarebbe stato dato, e un cocktail di
vergogna, imbarazzo e timidezza mi ò sopra come un TGV in piena corsa. - “Ciao, allora, avevo pensato di andare a Verderio, ando per Ronco e poi tornare da Robbiate. Che ne dici, è un po’ corto come giro, ma ho degli impegni (cazzi) alle cinque e mezza (cazzi), e non posso tardare molto.” – insomma chiarì gentilmente che mi stava facendo un grande favore. Senza nemmeno riuscire a dire ok va bene, partì su quella cazzo di bicicletta in pompitanio, sfilando in fondo Viale Cornaggia, mostrandomi quel culo parlante stretto nei fusò neri. Pietrificato per trenta secondi la vidi sparire, senza nemmeno voltarsi per vedere se fossi dietro di lei, capendo che di me non gliene fotteva un cazzo. Figuriamoci di scoparmi, non le ava neanche per l’anticamera del cervello. I trenta secondi si moltiplicarono in cinque minuti, ati a ciondolare sulla canna della mia Bottecchia, sotto il sole di un luglio infuocato e il sudore era raddoppiato per l’incapacità di gestire quella troia. Non sapevo cosa fare. Seguirla per cosa? Per essere di troppo, e trattato come un cane bastardo affamato che segue uno sconosciuto in cerca di fissa dimora? Non so cosa mi saltò in mente, ma decisi di riprenderla, così mi lanciai a cannone. Il contachilometri digitale fissato vicino al manetto destro del cambio segnava cinquantotto all’ora. Zizzagai tra le macchine parcheggiate in piazza Prinetti, catapultandomi al volo lungo la discesa dell’oratorio, una discesa micidiale, ripidissima, vedendo finalmente all’orizzonte il suo gran bel culo ondeggiarmi davanti. - “Ho pensato di raggiungerti, in fondo non è bello che te ne vada in giro tutta sola in bicilcletta..” – la sua risposta fu una smorfia di disprezzo e comione, tipica di chi giudica in silenzio. Intanto dal marsupio griffato Gucci, sfilò il cellulare (Nec), oggetto da me a quel tempo sempre sognato e desiderato, rispondendo prontamente a qualche cazzo che scopava, cercando di lasciarmi indietro, cosa ardua per la signorina ciucciacazzi. A quel tempo andavo anche a dormire con la bicicletta. Capendo ormai di essere veramente di troppo, e anche se un camion mi buttava a bordo strada faceva lo stesso, non si sarebbe nemmeno accorta, decisi di svoltare
per tornare al condominio e abbandonare definitivamente il sogno di scoparmela. Ogni cosa a suo tempo, pensai mentre pedalavo con così tanta foga da non accorgermi di essere già davanti all’ingresso principale dove poco più di mezz’ora prima attendevo con trepidazione e speranza qualcosa di impossibile. Ora la macellaia è fallita, mi hanno detto di averla incontrata a Sesto San Giovanni, dimessa, riconoscibile a stento, con addosso vestiti del mercato, insieme a un vecchio, ancora più conciato di lei (dicono sia un commercialista, ma dubito fortemente), con il quale convive da quelle parti. Guidava una y-dieci da rottamare. Addirittura mi è stato riferito che per un paio di centoni la si poteva scopare in macchina nei parcheggi dei distributori. Traslocai dal condominio a sedici anni e quel posto, i ragazzi, le piante, il meraviglioso parco, il profumo dell’Oleans Fragrans di inizio primavera, le farfalle cacciate con mio fratello, le corse in bicicletta, le partite a pallone, a tennis, le serate estive ate all’ombra del gigantesco faggio, in silenzio ad ascoltare i rumori della notte (a pensarci l’urlo dell’upupa desta ancora in me strani brividi), le guerre con la cerbottana, mia madre che urlava infinite volte il mio nome dal balcone per farmi rincasare quando tardavo sempre, i miei pantaloni corti a righe bianche azzurre, la maglietta di Heatrow regalata da mio padre al ritorno da un viaggio d’affari a Londra, saranno con me tutta la vita.
PORTA ROMANA
Persiane accostate, camera in penombra, solo la lampada in ottone, english style, sul tavolo in rovere di mio fratello illumina la sua mano mentre scrive appunti su chissà che cazzo, assorto come non mai. Il cervellone. Con volume sommesso, tipo start di celebrazione funebre, sento in sottofondo il primo tempo del concerto numero uno in re minore di Bach, per piano e orchestra, eseguito da Gould. - “Dove cazzo è lo stradario di Milano?”- risposta: silenzio. - “ Scusa, dove cazzo è lo stradario di Milano?” – finalmente alza la testa, mi fissa con occhi impietosi. - “Non vedi, sto lavorando, non ho tempo. Vai fuori per favore.”- le sua risposta mi manda i nervi in brace fumante, ma cerco di trasformare la rabbia in calma e trattengo una serie d’insulti e imprecazioni paurose. Gli stacco la spina della lampada, lasciandolo nel buio più totale, anche se riesce lo stesso tranquillamente a leggere. - “Riattacca la spina, per favore, e non farmi incazzare.”- sentenzia senza nemmeno spostarsi di un millimetro. - “Non se prima mi dici dove posso trovare quello stramaledetto stradario.” – rimango immobile davanti a lui con la spina penzolante nella mano destra e la faccia strafottente. - “E che cazzo ci devi fare con lo stradario?! Ah, inizio a capire, me l’hanno detto Lorenzo e Norberto che hai conosciuto una strafiga di Porta Romana, scommetto lo brami per trovare la strada giusta per andare a trovarla, ho fatto centro? Lo sai che tua madre pensa che la tua new entry e la sua amica siano due troie, e che Porta Romana sia piena di travestiti?”- naturalmente sono tutte troie. - “Sinceramente ho visto travestiti migliori di certe fighe. Dammi quel cazzo di
stradario altrimenti ti faccio un bel centro nel tuo culo. La ragazza insieme a Silvia era sua sorella, e tu due così le conosci forse quando chiudi gli occhi la sera per addormentarti.”- continua a star seduto. - “Silvia! Sembra vi conosciate da una vita, hai già cenato con i suoi? Coglione, lo trovi nella mia borsa, non farti vedere dalla mamma, altrimenti inizia a metterti le microspie nei boxer. Riattacca la spina per favore.”- mi fiondo subito ad agguantare la borsa, dalla quale sfilo lo stradario. Corro nel bagno e lascio Antonio al buio mentre farfuglia ingiurie nei miei confronti. - “Porta Romana (Corso di)” – e una serie di lettere affiancate a numeri indicano il settore da me cercato. La comprensione di queste tavole non mi chiarisce dove cazzo è situata questa Porta Romana. Mi sembra di giocare a battaglia navale. Dovevo assolutamente chiedere a qualcuno la strada. Fino a Viale Forlanini riuscivo a arrivare, oltre non sapevo da dove cominciare. Zero voglia di domandare ai miei, avrebbero iniziato ad allertare la C. I. A e l’ F .B. I, scatenando un’indagine mondiale. Nemmeno a mia cugina e a mia zia, parlano troppo, sarebbe venuto all’orecchio di mia madre due minuti after la mia richiesta. Qualcosa deve pur venirmi in mente. Squillo di Startac da mittente ignoto. Strano, non succedeva mai, solitamente chi mi chiama si fa sempre riconoscere. Dopo neanche trenta secondi, un altro ancora, sempre sconosciuto. E a me non piace. - “Ma la gente al giovedì mattina non ha un cazzo da fare se non rompere i coglioni con gli squilli?” – penso, quando i tre inconfondibili bip acustici dello Startac mi avvertono dell’arrivo di un sms. - “Ciao bell’economista, com’è andato il compitino di finanziaria? Un bacio, Silvia.” – il dubbio sorge spontaneo. - “Mi ha visto per neanche cinque minuti, abbiamo parlato ancora meno, dal vivo e al telefono, e mi tratta come se avessimo già scopato una dozzina di volte, inviando sms lusinghieri. Ma non sarà davvero una troia?” – un dato è certo. Non ho mai incontrato una ragazza così strafiga, e presto l’avrei rivista. Non so cosa risponderle, se fare il figo dicendo: tutto bene, non ho sbagliato
nulla, oppure se dirle la verità, e mettere subito in mostra la mia spiccata intelligenza. Ma dubito le interessasse sul serio, così medito per circa dieci secondi e la frase da comporre risulta: - “Malissimo…nella sfiga però posso concedermi una pausa di dieci giorni… così possiamo incontrarci…ho voglia di vederti al più presto…baci, Giò.”- lo invio al volo, fregandome di far la figura dell’asino, optando per dire la verità. Conviene dir la verità? E altrettanto al volo, altri tre segnali del cazzo: “- Anch’io, non vedo l’ora di vederti, ti chiamo domani…Silvia.” – e realizzo che entro il fine settimana l’imperativo categorico risulta: - “Coglione, impara la strada.” – mi fermo a pensare.
CONSIDERAZIONE
Non c’è niente che non si possa fare, basta volerlo, ma volerlo per davvero. Anche se ciò necessita uno sforzo enorme, faticoso a tal punto da far perdere la cognizione della realtà e confondere così il giorno con la notte, isolandosi da tutto e da tutti.
IL RICCO VINCE SEMPRE
Nella tasca dei miei Jeans Versus neri vintage sento lo startac vibrare, e, senza far caso al display lo afferro rispondendo serafico e scazzato: - “Sì..” – e dall’altra parte: - “No. Coglione, stasera ci sei?” – e io, ancora più scazzato: - “Certo ragazzo, qual è il menù per la serata? Scusa, volevo dire, per la nottata…” – noto che l’unghia del mignolo della mano destra è tagliuzzata e irregolare. - “Ma…, mio cugino con altri ragazzi e ragazze, speriamo fighe, ci hanno invitato a cena in un posto vicino a Lecco, dicono che fanno un filetto da bagnarsi, poi non so, decidiamo quando abbiamo finito.” - non mi sembra un gran programmone, ma l’incognita di trovare facce nuove (di donne) è l’unica oasi di speranza per farmi uscire da scazzoland. Così, dopo un attimo di esitazione e incertezza mi esprimo in merito: - “Trés bien Bollinger, i tu come al solito? Ma non esci con la Lara stasera? O deve venire anche lei col guinzaglio?”- pausa di vuoto nel cellulare. - “Lascia stare, o verso le venti e trenta, quando arrivo ti faccio uno squillo.”- riattacca istantaneamente. Vedo la loro storia al tramonto. Non che ne fossi felice, certo, ma per quanto poco conoscessi Lara sapevo di non esserle mai andato a genio. Mille per cento mi aveva sempre catalogato come l’amico figo-guasta coppie-spacca-fighe, portatore di corna e guai. Prima di mettersi con Bollinger aveva avuto una storia con un tale di nome Nicola, detto il Balla, lunga nove anni, di cui gli ultimi due di tira e molla estenuante. Entrambi, Lara e il Balla, frequentavano la stessa compagnia di Bollinger e Bonny (cugino di Bollinger), più altri ragazzi e ragazze, tutti single e
scopatori incalliti, costantemente in cerca di emozioni da penetrazio. Gli ultimi due anni in questione divennero tragici perché la ragazza aveva capito come girava (gira) il mondo, commistione di macchine da sogno, ville con piscina, ristoranti per clienti dalle tasche piene di contanti, vacanze a bordo di panfili e televisori al plasma, Rolex scintillanti e gioielli vergognosamente costosi. Insomma, l’unico faro di tutto ciò nell’area di Merate e nei limitrofi cinquanta chilometri si materializzava in Bollinger, e di questo lei se ne accorse nei famosi ultimi due anni della sua storia con il povero Balla, che diceva di possedere una fortuna, ma che andava in giro con una Golf anteguerra e aveva comprato un CBR usato a rate. Millantava di essere ingegnere, laurea sudata e per questo dedicata esclusivamente a se stesso. Imbarazzante. Quando un amico comune di Milano, benestante, lo riaccompagnò una sera a Merate, il Balla si fece lasciare a Imbersago davanti al cancellone di villa Moratti, spacciandola per casa sua. Mah. Naturalmente una donna riesce a spezzare un equilibrio apparentemente indissolubile e, specialmente Lara, divise tutta la compagnia e Bollinger, senza pensarci due volte, non disdegnò le sue attenzioni sempre più insistenti. Ora sta con lui da quasi quattro anni e, molto spesso in Estate, quando siamo da lui a bordo piscina (interna e esterna) sdraiati su lettini con cuscini a righe bianche e blu a sorseggiare Cristal e a mangiare anguria, io, mio fratello, Lara, Bonny e Bollinger (che non fa mai il bagno perché dice che l’acqua è sempre troppo fredda) ci divertiamo a ipotizzare quale destino abbia ingoiato il Balla dopo essere stato trombato dalla sua ex con cui è stato nove anni, e, ogni volta il discorso si conclude con i più svariati finali. Mi sembra che l’ultimo si concretizzasse in una domanda semplice semplice: sarà diventato miliardario?
LA SOLUZIONE MIGLIORE
- “Ma che cazzo, perchè non dici meno puttanate?”- appoggio sulla tavola il bicchiere (il terzo) di Barbaresco, ormai sbronzo e con voce impastata. Dislessico. Ribatto a Bonny, realizzando che sul mio piatto una chianina immersa nel sangue m’invita ad essere azzannata al più presto, e inizio a preoccuparmi perché è stata scolata anche la seconda bottiglia di vino, e, se devo iniziare a cenare, è urgente ordinarne un’altra al volo. Codice rosso. - “Per favore, un’altra di queste… ehm, di Barbaresco, no, ehm, volete cambiare o prendiamo sempre questo?” – propongo agli altri, mentre stanno parlando dell’ultima raccolta di George Michael e di quanto fosse una figata il nuovo singolo “Outside”, e intanto sento il cazzo diventarmi duro, senza sapere come mai. Sarà stata la cameriera che quando si è fermata per ordinare mi ha toccato la spalla stuzzicandola con il pollice (alzato?) e non realizzo bene se sia figa o meno, ma sembra aver due belle gambe e un culo sodo. Forse non è italiana e con buona probabilità smania per prendermelo in bocca. - “Che cazzo mischi, va bene il Barbaresco, e poi non c’è un vino più costoso qua dentro, quindi o vai in un’enoteca oppure ti adegui. Sì, ne porti un’altra, grazie.” – Sentenzia Bollinger con ancora addosso il Moncler giallo sl, e non credo abbia capito che nel locale fa un gran caldo e che forse sarebbe stato meglio levarselo e rilassarsi un attimo, e noto che anche lui ha addocchiato l’extracomunitaria, che si diverte a flirtare con tutti i clienti. Forse è avvezza alle ammucchiate. - “Non conosci bene Milano evidentemente. Esiste un sottobosco di delinquenza da far invidia a Scarface. Un conoscente mi ha raccontato di un suo amico, un bel ragazzo, ingranato a dovere, con Porsche e Daytona, che ha abbordato una strafiga in discoteca, mi sembra all’ Holliwood, o forse era il Plastic, non ricordo bene, pensando di pomparla la sera stessa, magari lasciandole anche la mancia. Bene, lei gli ha detto di trovarsi fuori nel parcheggio..sì, era l’Holliwood, verso le quattro perché necessitava di un aggio per tornare a casa, lasciandogli l’aspettativa di un’imminente gran scopata. Il poveretto si è ritrovato nel posto concordato. Lei arriva puntuale, anzi
puntualissima, accompagnata da due negri bestiali, stile Tyson, che lo portano, dopo averlo steso con un pugno sul viso, su un Ducato attrezzato come un’ambulanza. Sai cosa gli hanno fatto al poveretto?” – sgranocchia un grissino. - “Lo hanno inculato a raffica uno dietro l’altro mentre lei si divertiva a sditalinarsi.” - aggiunge Bollinger monitorando la cameriera. - “Magari! Lo hanno addormentato, anestesia totale, e il malcapitato si è risvegliato dopo quattro ore dall’altro capo di Milano, vicino a Piazzale Corvetto, con un occhio in meno e un rene asportato. Ragazzo, quindi occhio alle donne che incontri casualmente, e sopattutto così disponibili.”- un brivido corre lungo la mia schiena anestetizzata e decido di bermi il quarto bicchiere di Barbaresco appena stappato. - “A lui vogliono asportargli l’uccello, poi glielo cacciano in bocca e lo lasciano all’angolo di Montenapoleone e via S.Andrea, davanti a Cova!” – l’umorismo di Bollinger raggiunge come sempre vette altissime, e scoppio in uno dei miei risatoni vergognosi e la cameriera vedendomi così sbronzo e sbroccato mi sorride e il cazzo continua a diventarmi sempre più duro. - “Bravo Bonny, bellissima storia, commovente, adesso l’amico del tuo conoscente va ancora all’Holliwood? Lo sai che continua a messaggiare scrivendo frasi allucinanti del tipo “mi piaci da morire, non vedo l’ora di rivederti, bell’economista e bla bla bla”, e vuole rapirmi secondo te? “ – domando con la bocca piena di carne, e spezzando il pane (come Gesù) realizzo di avere le mani sudate e gli occhi brucianti. Il vino sta facendo il suo effetto. E se un giorno non ci saranno più animali da macellare, potremo mangiarci l’un con l’altro? Fissando metà fetta di filetto, intrisa di sangue, mi vedo a cena con Silvia, in atteggiamento molto intimo per poi uscire dal ristorante e essere bloccato da grossi energumeni che, dopo avermi massacrato di botte, con l’aiuto di un trinciapollo per capponi oversize, si dilettano a sezionare il mio corpo, facendomi lo scalpo per inventare un nuovo tipo di parrucca bionda da lanciare sul mercato e cavandomi gli occhi dalle orbite con cucchiai roventi per sviluppare lenti a contatto più umane possibili. E continuo: - “Che cazzo dovrei fare, menarmelo e pensarla?” – e intanto un miliardo di dubbi percorrono ogni singola particella del mio corpo. E se davvero qualcuno avesse intenzione di farmi sparire per poi vendermi a pezzi sul mercato nero?
- “Scusa, non diciamo più cazzate, soprattutto non facciamo della fantascienza! In fondo, anzi, senza in fondo, sei così un bel figone, mi sembra del tutto normale e giusto che una ragazza ti stia dietro, non vedo nulla di strano. Chi sta a Milano poi ragiona in modo estremamente diverso dal nostro. Siamo solo dei provinciali retrogradi, manchiamo di comunicazione istantanea, in città tutto si consuma all’istante, bisogna sapere cogliere l’attimo, direi che hai atteso fin troppo bello mio. E tu, Bonny, non sarai per caso invidioso?”- Cecilia, un bell’esemplare di figa con cash in borsetta, trentenne, caschetto moro, corpo affusolato, gran culo in Jeans Replay, Body Pinko con scollatura evidente, una terza abbondante (rifatta), Rolex Datejust con ghiera in oro bianco, s’intrufola dopo aver sentito la favoletta del rene, con gli occhi lucidi (e la figa bagnata), più fuori di me. So che adora prenderlo nel culo e sditalinarsi per poi farsi venire in faccia. Questo dettaglio mi fa apprezzare ancora di più il suo bel fondoschiena. - “Lo sai che a Porta Romana ci sono i travestiti che te lo mettono nel culo?” – Bollinger non ci sta più dentro, fatica a gestire le posate, e, da bravo artista in gestazione, continua a fare cazzi sulla tavola con il pane integrale e i grissini di sesamo, chiamando la cameriera e mostrandoglieli mentre si lancia e ordina un’altra bottiglia di Barbaresco. - “E’ vero, magari anche Silvia è un travone, rischierò di prenderlo nel culo, ormai siamo nel duemila e dobbiamo stare al o con i tempi. Porterò con me un bel tubo di vasellina industriale, non si sa mai.” – e intanto davanti a me visiono Cecilia a novanta sul tavolo con le mutandine abbassate mentre si tocca il clitoride gemendo, e m’invita a infilarglielo nel culo, ma io, prima di ubbidire, le faccio scivolare nella figa, dalla parte del fondo, una bottiglia di vino vuota bagnando l’etichetta numerata. E intanto la cameriera continua a sorridermi dal bancone mentre prepara i caffè. - “Dopo che ti sarai incontrato con questa famosa Silvia, la strafiga espianta organi, ti chiamerai Tony Renis! Altre due bottiglie di questo, paga Tony!” – e finalmente Bollinger toglie il Moncler consegnandolo a un cameriere dall’aspetto poco gradevole e noioso. Per Bollinger, che non regge il vino per un cazzo, essere ubriaco, significa aver scolato a malapena tre, massimo quattro bicchieri. Non so ancora per quanto avrebbe retto
- “Bonny, sei pratico di Milano, vero?” – e il cazzo ormai mi sta bucando i jeans di Versace, e quella troia di cameriera continua a strizzarmi l’occhio e non smette di stuzzicarmi. - “Sì, dimmi bello!” – Cecilia si rivolge verso di me. - “No, non ti ho chiesto niente, perché?” – ora la immagino con la testa sul mio uccello. - “Non so, mi hai chiamato?” – e se le proponessi di salire in macchina con lei dopo cena? - “Scusa, c’è stato un misunderstanding, stavo chiedendo una cosa a Bonny, mi sa che hai frainteso…” – le strizzo l’occhio. - “Non ho capito, ma fa niente, non ti preoccupare bello!” – gira lo sguardo verso Bonny che sta parlando con un’altra ragazza, ricciola e rossa di capelli, meno figa di Cecilia, ma allo stato alcolico in cui mi sto riducendo mi sarei fatto anche lei. - “Lei lavora a Milano, in centro, sa tutto, è un satellitare umano, chiedile qualsiasi via, vedrai saprà spiegarti bene la strada..” – continua Cecilia indicando la tipa con cui Bonny sta conversando. - “Nessuno ci ha ancora presentati, comunque mi chiamo Giovanni, e tu?” – cerco di fare il gentile, anche se non me ne frega un cazzo del suo nome. Forse mi stuzzica l’idea di come ce l’ha sotto. Rossa, depilata oppure a rettangolo, e se ingoia quando lo prende in bocca e se magari anche lei, come la sua amica di tavolo gode a prenderlo in culo mentre si trastulla il clitoride. - “Luana, molto piacere, come? Non sai arrivare in centro?” – quanto sono noiose le ragazze che pensano di sapere tutto e vogliono salire in cattedra, magari con le autoreggenti e una penna a forma di cazzo in bocca. - “Porta Romana è in centro? Devo andare lì…qual è la strada meno complicata. Sai, la conosco più di notte Milano..” – mi fissa con aria di supponenza, con in bocca un grissino integrale, gli occhi verdi, e con in mano il bicchiere di vino, facendolo roteare, come un provetto somelier. - “Scusa tesoro.. cosa c’entra la notte?” – continua, convinta di essere in classe
e di fare la maestra. - “No, è che cambia la luce, sai giorno, notte…ma che lavoro fai tesoro?”- sto rimanendo fin troppo nei ranghi, e tempo trenta secondi se non cambia registro l’ha mando affanculo al volo. Brutta troia. - “Lavoro da Prada in Montenapoleone, sono responsabile vendite.. per andare in Porta Romana è semplicissimo. Esci in Forlanini, prosegui dritto per Ventidue Marzo e all’altezza del Coin, giri a sinistra, oltrei la Rotonda della Besana e arrivi precisamente davanti alla Porta.” – che brava ciucciacazzi, ma non ho capito proprio niente, forse me lo avevano già spiegato, ma non ricordo bene chi. Non le chiedo nemmeno di ripetere, sarebbe stato imbarazzante, così recito banali cenni di assenso e le rabbocco il bicchiere in segno di ringraziamento. - “Grazie mille Eliana, davvero precisa, mi sei stata di grande aiuto. Quando arriverò a destinazione ti faccio un fischio..”- compiaciuta si gasa perché pensa di avermi aiutata davvero. - “Mi chiamo Luana…è stato un piacere..” – ma si rende conto del nome che le hanno dato? Ma che cazzo di testa si ritrovano i suoi genitori? Data la complessità per raggiungere questa Porta Romana del cazzo e le riprese di me senza un occhio e con il rene asportato e chissà quale altro organo (il cazzo), si sta delineando lentamente nel mio cervello un’altra brillante idea, probabilmente l’unica possibile per fugare ogni dubbio sulla fine che avrei potuto fare nel recarmi da una fantomatica espianta organi travestita da super figa in un’enorme metropoli. Non mi sembrava affatto una psicopatica, tutt’altro. Cristo se è bella. La numero uno. - “Falla venir su a Merate? Che cazzo te ne frega.” – dice Bonny accendendosi una Marlboro Light. - “Come, scusa?” – rispondo sorpreso della coincidenza di pensieri. - “ Dille di venire su, che cazzo te ne frega, così vedi se ci tiene davvero oppure è una troia come tutte le altre. Scusa, mi porti altro pane? Grazie mille.”- tira una generosa boccata, stuzzicandomi la voglia di sfumazzare.
- “Non sono tutte troie, stronzo!” – si stizza Cecilia, un’altra della tavolata, scordandosi che la prima della lista è lei. - “Ci stavo pensando anch’io, e mi sembra la conclusione più sensata, visto che alla laurea di mio fratello mi è stata attaccata al culo per più di due ore. Mi offri una siga?” – e realizzo, in tutta lucidità, come se l’alcool che ho trangugiato non fosse mai stato assimilato dal mio organismo, che quella sarebbe stata la soluzione atta a distogliere ogni mio dubbio. - “Prendi pure, ci mancherebbe.”- l’accendo con un accendino sul tavolo vicino al cestino del pane. - “A dir la verità un po’ mi scazza, sai può anche mandarmi affanculo, di solito i cavalieri vanno a prendere sotto casa le loro dame.”- ispiro profondamente. - “Ma ce l’hai la carrozza? Basta con queste cazzate. Se ti manda affanculo, ti sei tolto al volo un prolema e significa che di te non gliene fotte un cazzo. Invece da come hai raccontato, dagli sms che ti spedisce, sembra avere un gran voglia di scoparti. Poi non so, magari mi sbaglio, è una verginella.” – Bonny ha ragione, e noto la cameriera alle sue spalle, imbruttita perchè non sto più filrtando. - “Non so, forse avete ragione voi, ma che cazzo le dico? Abito a Merate, se ti va d’incontrarmi vieni tu? In fondo è vero, se ci tiene così tanto che muova il culo per prima. Scusa, ehi, mi porti un caffe? (per favore)” – il tavolo è disseminato solo di bottiglie vuote, e briciole. Cerco la cameriera, ma non è più inquadrata nel mio campo visivo da un bel pezzo. Probabilmente è già a pulire i cessi. Proseguo. - “Domani quando mi telefona, ha detto che mi telefona, le propongo di venire a Merate. Speriamo accetti, penso di sì, speriamo, sai che figa, spaventosa, guarda Bonny, una cosa pazzesca.” – tendo a lasciarmi trasportare dal pensiero di rivederla, al dubbio di cosa sarebbe successo tra di noi, al timore di un rifiuto alla mia proposta. Trangugio il caffè (senza zucchero) e scrocco un’altra sigaretta a Bonny. Sento gli occhi bruciare e lacrimare. Non ci sto più dentro, ho bisogno di un po’ d’aria fresca per ripigliarmi e mettere insieme le idee. Fuori dal ristorante sbircio il Daytona. Mezzanotte e mezza. Perplessità e indecisione atroci sul come proseguire la serata mi fanno andare il sangue al
cervello, e non capisco come mai il caffè e l’alcool stimolano a livelli primordiali la voglia di far sesso e il cazzo mi sta comunicando che una bella scopata è quello che ci vuole per risolvere la situazione. Dai discorsi degli altri capisco la voglia delle due troie di rintanarsi in un pub irlandese (in Brianza) a non più di cinque chilometri da dove ci troviamo, sfumazzando qualche sigaretta in compagnia, idea odiosa come un cazzo in culo (mai provato), e Bollinger, non fa altro che ripetermi che anche lui ha trovato da poco un nuovo lavoro in Montenapoleone da Versace. Sarebbe andato volentieri a casa a vedere “La mia Africa”, il film migliore. Cristo Santo, è venerdì sera, non me ne strafotte un gran cazzo di quelle due e di cosa vogliono, l’imperativo categorico doveva essere quello di volare al Carpe o in qualche altra discoteca, magari di Milano, così finalmente avrei imparato la strada (in quelle condizioni?), per cercare qualche bella ragazza da abbordare, possibilmente senza figli al seguito e altre stronzate varie, ma sento ronzare nell’aria sopra la mia testa il nome “Up and Down”, e immagino già boccali di birra rossa e piadine con cotto e zola. Chemmerda. Cristo Santo, abbiamo mangiato fino a vomitare ed ora spunta l’idea del tramezzino, e in quel momento capisco che la gente non ce la fa più (anche oggi). Non si sa cosa inventare per far are il tempo. Non me ne frega un cazzo di quel merdoso pub, nè tanto meno delle chiacchiere in compagnia. Mi trovo in un vicolo cieco, oscuro e profondo. Avrei voluto mollarli e tornarmene a casa o raggiungere mia cugina al Carpe, e così un pompino da qualche sua amica l’avrei rimediato sicuramente, ma quando la macchina non è tua, e non hai il comando della circostanza, e sei legato a quattro deficienti (che coglione sei stato), bisogna prevedere sempre tutto (non si può mai prevedere sempre tutto), non ti resta altro che adeguarti, lasciandoti trascinare in situazioni insopportabili. Così decidono gli altri per te. - “Mi raccomando, visto che la mia storia con la Lara sta andando a puttane, quando vedi la tua amica ragazza-espianta-organi chiedile di trovare un’amica per il Bollinger, così poi andiamo tutti a Santa. Se poi è una figa pago tutto io, e la sera andiamo a Portofino da Puni in piazzetta, a mangiare il risotto. Lo sai che è il migliore? Non ho mai provato niente di simile.” – salgo sulla sua y, e ho già i timpani spaccati da “We live here” di Pat Metheny. - “Cazzo, abbassa il volume un attimo, per la puttana! Non ci sono ancora
uscito e attacchi con la storia delle amiche, porca troia fammela frequentare un po’ poi vediamo. Certo se le sue amiche sono strafighe come Lei, non sarebbe mica male. Ascolta, testa di cazzo, io in quel posto di merda adesso non ci vengo, rischierei di far una strage, lascia andare Bonny e quelle troie, andiamo da un’altra parte, hai idea di quanti sfigati ci sono dentro lì?” – allaccio la cintura di sicurezza, percependo il sapore acre del Barbaresco fermentato venirmi su dallo stomaco. Reflusso gastroesofageo? - “Veramente?” – Bollinger s’infila in bocca una Vigorsol senza zucchero. - “Ma stai scherzando? Non troviamo neanche una figa, soprattutto al venerdì. Ti concedo, la domenica come serata tranquilla, ma Cristo, ripigliamoci, e poi che cazzo volete? Mangiar ancora?! Ma basta, molla tuo cugino e quelle due dementi…” – rialzo il volume. - “Sì?” – urla Bollinger allo startac mentre non capisce che forse sarebbe stato meglio abbassare il volume. - “Allora, cosa facciamo? Dai, va bene, così Power è contento.”- e infila il cellulare nella tasca del Moncler giallo. - “Perché dovrei essere contento?” – sono sull’incazzato andante. - “Bocciato Up and Down, si va al Carpe, da come ho capito ci sono alcuni amici delle due cretine con il tavolo…” – grazie al cielo il peggio è stato evitato, non avrei sopportato di vedere quattro bifolchi, provvisti di durango, seduti a gambe larghe su sgabelli in legno massiccio, con un litro di birra nel bicchiere (e un altro nello stomaco), a mangiar patatine straunte cosparse di ketch-up, e sentire parlare di calcio. Si prospetta uno scenario abbastanza gradevole, così, sapendo di bere ancora un paio di drinks (almeno), lancio in bocca un Maloox, cercando di succhiarlo più in fretta possibile, e, dopo aver smanettato per circa un quarto d’ora con la radio, finalmente sintonizzo su RMC che trasmette “Easy lover”. Alzo il volume a cannone. - “She’s an easy lover…” - cantano Phil Collins e Philip Baley mentre m’immagino già seduto al tavolo con qualche zozza profumata da pastrugnare. Ed eccoci di nuovo, il film riparte.
Cestello zeppo di ghiaccio con bottiglia di Veuve Cliqueut pronta per essere sbocciata. Noto, visionando l’ambiente, poche cose interessanti. Zero fighe e tanti ragazzi (solito film) e, riando, con visione a trecentosessanta gradi, non riesco ancora ad individuare mia cugina, nè tanto meno nessuna delle sue amiche (troie), sempre abbastanza appariscenti. Nonostante il Daytona indica la una il locale elomosina clienti, e, cosa ancora più insolita, il priveè appare semivuoto, neanche Gianfranco trotterella, come suo solito, tra un tavolo e l’altro, e, in tutta onestà, non l’ho visto nemmeno all’entrata. Una troia strabbronzata sfila davanti mostrandoci un gran bel culo avvolto in pantaloni di ecopelle nera stralucidi, e Bonny incrocia il mio sguardo e lo stesso pensiero (strapparle quei pantaloni del cazzo a metterla a novanta) ci colpisce inesorabilmente, facendoci, inevitabilmente, stappare la bottiglia di champagne. Il famoso linguaggio universale. Come se non fossimo già fuori. - “Porca troia, non sarebbe mica male farle sentire un po’ l’attrezzo, cazzo che caldo fa?” – Bollinger succhia un coca – havana ghiacciato da una cannuccia rosa (a Bollinger piace il rosa, quando l’ho conosciuto indossava Superga rosa con stringhe bianche con disegnati sopra dei cuoricini) e la faccia madida di sudore. - “Ma che cazzo bevi cretino, non vedi che ho preso lo champagne? Stai cercando la pace in un coma etilico?!” – mi faccio allungare una siga da Bonny, e intanto la figa strabbronzata mi si piazza davanti quando realizza che abbiamo preso il tavolo (guarda caso) e stiamo sbocciando Veuve, e che sono bello fuori e mi si può chiedere di tutto. - “Questi figli di puttana mi hanno dato la tessera con consumazione obbligatoria, al Bollinger hanno dato una cazzo di tessera obbligatoria!? Mi fanno ridere, non hanno idea di quanto guadagno..”- e gli strappo la tessera dalla mano mentre me la mostra, seguendo con la coda dell’occhio la strafiga che continua a fissarmi senza schiodarsi, e continua a arsi la mano (unghie stralunghe smaltate madreperla) tra i capelli (neri con riflessi blu), e mi sorge il dubbio sul suo paese d’origine (Brasile o Venezuela?). - “Coglione, con questa non pagavi un cazzo, è gialla, non vedi, non ti serviva bere, ora ti toccherà scucire un venti carte in più, oltre naturalmente lo
champagne. Cazzi tuoi, tanto sei ricco.” – accendo la sigaretta e sposto il pensiero alla strafiga davanti a me. - “Hai ragione, che cazzo me ne frega. A proposito, ma dove sono le due troie che han cenato con noi? Non saranno mica a spompinare qualcuno nel cesso! E i loro amici sfigati col tavolo? Bonny, sono delle povere Criste!!Alla fine il tavolo lo abbiamo preso noi.” – Bollinger ormai segmenta frasi senza senso, ma piacevoli all’udito, veramente divertenti. - “Bevi con noi?” – abbozzo con la strafiga, porgendole in mano un flûte (cosa?) traboccante di champagne e schiuma, col cazzo come il granito, così duro da impacciarmi nei movimenti. Ma come al solito, non me ne frega un cazzo. Se lei se ne fosse accorta sarei ben contento, così avrebbe capito senza male interpretare le mie intenzioni (cazzo da tutte le parti, dita nel culo, leccate, e per finire una bella spruzzata sul bel visino abbronzato, così avrei quantificato meglio il mio sperma.) - “Con piacere.” – la troia tende la mano per presentarsi mettendomi sotto il naso un Datejust acciaio e oro fondo blu con brillanti, e mi accorgo dalle mani, raggrinzite e piene di efelidi, che raggiunge tranquillamente i quaranta, forse li supera anche di un paio di giri. - “Piacere, Giovanni, e tu?” - le stringo forte la mano spugnosa fissandola negli occhi blu, realizzando che ha le sopracciglia disegnate e la bocca rifatta, domandandomi quanti cazzi quella bocca così gonfia ha succhiato, e non ci sto più dentro, avrei voluto prenderle la mano e cacciagliela nei miei boxer Armani. Devo controllarmi altrimenti rischio di tornare a casa e masturbarmi sul lavandino. - “Barbara, molto piacere…ti vedo spesso qua, hai sempre il tavolo?”- sta stilando la sua classifica personale, cercando di capire se sono ingranato a dovere e degno di parlare con lei oppure se impersonifico lo studentello che nel pomeriggio ha trovato fortunatamente sul suo cammino un portafoglio con qualche centinaio di biglietti da mille da spendere con gli amici. - “Quasi tutti i venerdì tesoro, e di solito faccio due, tre bottiglie.”- mentre parlo visiona minuziosamente il mio Daytona, avvicinandosi sempre di più, fino a buttarmisi addosso grazie a uno stronzo ubriacone che non sa dove andare. Ma lei non gli dice nulla, si limita ad accasciarsi sul mio petto.
- “Complimenti, che pettorali!”- in un sorso trangugia l’intero flûte. - “Ancora bellissimo…” – la carità. Cerco di non scostarla da me (di levarsi non ci pensa minimamente), e afferro la boccia dal cestello e riempio fino all’orlo un altro bicchiere, appoggiandolo alla sua bocca (sembra un marsh mallow, anzi due), e ingoia lo champagne fino a farle mancare il respiro così da schizzarlo sulla sua maglietta bianca scollata con la scritta Daddy. - “Mi hai bagnata tutta, e tu? Non ne bevi più?”- e adesso che cazzo fa? Mi offre champagne dalla mia bottiglia? - “Non immagini nemmeno quanto ti farò bagnare…” – penso a voce alta, col cazzo che è tornato ad essere d’acciaio e lo sciabordio della musica che mi rimbomba nelle orecchie, fino a non farmi sentire più niente. - “Non sento nulla, come hai detto?” – ormai mi è avvinghiata addosso e inizia a strusciarsi coi suoi panta in ecopelle spingendo la figa (calda?) così forte da sentire i bottoni dei jeans urtarmi la cappella (grossa?), e la mia lingua sta lentamente entrando nella sua bocca, e sento il suo fiato (puzzolente di cazzo) alitarmi in faccia. - “Perché non mi accompagni in bagno, tesoro…” – la troia continua a strofinarsi col palmo della mano la narice destra, nella quale vi è infilzato un mini brillante. Mi prende sottobraccio (continua a sorridermi), e noto, a lato della consolle, mia cugina (lei non mi vede) flirtare con Gianfranco, entrambi complici e sorridenti. Mi fiondo dentro l’antibagno delle donne, noncurante delle svariate puttanelle invidiose che si stanno truccando (hanno occhi solo per me) e in meno di un secondo mi isolo nel cesso, e un odore di piscio stantio inasprice le mie narici, facendomi lacrimare gli occhi (già incendiati), mentre, cosa molto strana, percepisco la musica molto distante (sono troppo ubriaco?). La troia sfila fuori dalla tasca dei pantaloni in ecopelle una bustina e una carta di credito (American Exspress) e io le metto la mano sul cazzo, e le caccio la lingua in quella fetida boccaccia, e sento la sua, umida e pastosa, sventolarmi nel palato a ritmo irrefrenabile. - “Aspetta un attimo, ti va un po’ di energia?” – e intanto tagliuzza con la carta un sasso di coca sul coperchio in metallo del porta carta igienica e noto che ha i
capezzoli belli tirati. - “No, mi spiace, quella merda non la tocco. Sei una drogata del cazzo.”- le notifico mentre da un cinquanta arrotolato a cannuccetta, tira profondamente due strisce bianche belle lunghe buttando indietro la testa esclamando con grande soddisfazione: - “Cazzo ci voleva proprio!!” – e slacciandomi i pantaloni, come se neanche avesse sentito ciò che le ho appena detto, mi spolvera la cappella con la pizza rimasta sul coperchio. S’infila il cazzo in bocca, e dalla scollatura fa sgusciare fuori un bel paio di tette (una terza), rifatte e abbronzate. Inizia ad andare su e giù con la testa. - “Cazzo, sei proprio una troia!!” – ormai ho gli occhi fuori dalle orbite, la schiena appoggiata alla porta. Si cala i pantaloni calati e infila una mano nel perizoma nero (Armani) iniziando a sgrillettarsi. Realizzo che ha la figa completamente depilata (ma già lucidamente bagnata) e pronta per prenderlo. Si alza e mi guarda con la faccia paonazza e sudata, le pupille dilatate e si lecca le labbra infilandomi il dito con cui si era sditalinata in bocca facendomi sentire il suo sapore. - “Come ce l’hai grosso!! Uhm, com’è duro, lo voglio dentro, devi infilarmelo dappertutto!!”- e la giro con forza e cattiveria, piegandola a novanta, cacciandole per bene due dita nel culo. Le strappo il filo del perizoma (che cade a terra fradicio), e finalmente glielo infilo dritto nella figa, senza far fatica e dopo due colpi (forse uno e mezzo) viene così intensamente da lasciarmi la cappella piena di schiuma. Quindi, senza nemmeno rendersene conto, le spacco il culo, (già rotto, anche lì scivola senza il minimo attrito) spingendo malvagiamente. Le sborro dentro. Ritraendomi, madido di sudore in viso (non ci sto più dentro), occhi iniettati di sangue e pupille grandi come nocciole, rimango inerme e sospirante per trenta secondi, mentre lei me lo riprende in bocca (per pulirlo), ormai quasi molle, e sento voci di donne nell’antibagno lamentarsi per il protrarsi della nostra permanenza (non abbiamo scopato per più di dieci minuti) e quando si alza per rivestirsi tenta di baciarmi, ma evito la commedia del momento scostandomi dal suo viso per asciugarmi la fronte con un pezzo di carta igienica. Lei non se la prende più di tanto e si rinfila le tette nella maglietta macchiata di sperma (bianca, una volta asciugato non se ne sarebbe accorto nessuno) dicendomi:
- “Non perdi mica tempo, vero?” – ripone la carta di credito nella tasca dei pantaloni, mentre la bustina rimane sul pavimento (cosparso di piscio), insignificante (per noi). Prova di nuovo a baciarmi. - “E’ meglio che usciamo, non vorrei farmi cacciare fuori dal locale, sicuramente avranno già avvisato la sicurezza, sai, conosco il proprietario, ma sarebbe fastidioso dare spiegazioni, soprattutto dopo aver lasciato tracce non del tutto irrilevanti. Ho una buona reputazione qua dentro.”- sapendo di dovere affrontare un mucchio di troie incazzate perché non sanno dove cambiarsi il Tampax cerco di mantenere la calma, in vista di insulti e accuse. - “Con Gianfranco sono stata insieme per due settimane, e conosco anche tutti i buttafuori.” – ma di ciò non me ne frega un cazzo. Sento vibrare lo startac e realizzo che Bollinger mi sta chiamando per la quarta volta. - “E quelli te li sei fatti tutti in una volta? Bollinger, dove sei?”- sbuco fuori dal cesso col telefono all’orecchio cercando di non dar retta a nessuna di quelle stronze che mi additano con disprezzo evitando di voltarmi per vedere se quella troia mi sta seguendo o se è ancora dentro a mettersi il rossetto. - “Coglione, tu dove sei, ti stiamo cercando da un’ora!” – e io: - “Sto venendo al tavolo, ho dovuto sistemarne una, aspettami…sto arrivando..”- e, fotografando la pista, realizzo che in quella mezz’ora in cui sono mancato, si è popolata di gente (la maggior parte ubriachi e fatti), che balla “Relax”, e le cubiste, colpite dalle luci delle strobo, dimenano culi strasodi, tatuati e abbronzati, in mini tanga, e quasi tutte hanno le tette rifatte, e sento il bisogno irrefrenabile di accendermi una sigaretta e bermi un altro bicchiere di champagne. - “Ciao! Come stai? Sei sempre il migliore!! Tutto bene?” – Gianfranco mi viene incontro mostrandomi il suo ciuffo biondiccio (ossigenato), abbracciandomi e piazzandomi in mano un flûte di champagne (detto fatto), con gli occhi raggianti e mi comunica che mia cugina è fantastica e che avrebbe voluto sposarla (l’aveva già infilzata) e non sa come mai gli affari ultimamente stanno andando così a gonfie vele e che finalmente si sente realizzato. - “Che cazzo fai, dai retta a quell’asino di occhio di biscia?” – Bollinger mi si affianca imbottito di alcool e non capisco chi sia occhio di biscia, e la troia che ho inculato nel cesso inizia a strusciarsi addosso a un mezzo tossico (solo
cocainomane) per poi scomparire dalla mia vista e confondersi nella pista. Bollinger ormai sta delirando e inizio a sentire le gambe cedere dalla stanchezza, e il dj sta suonando l’ultimo cd degli Artful Dodger realizzato con Craig David. - “Ho visto occhio di biscia che stava toccando da tutte le parti quel gran cesso di tua cugina, e tu, uhm, dove cazzo sei finito? Hai ciulato la tigre del Bengala? Sai che occhio di biscia le ciula tutte nell’ufficio? “ – e io: - “Gliel’ho infilato anche nel culo, senza goldone, e mi ha messo la pizza sulla cappella, e sono completamente all’aria, dov’è mia cugina, l’ho vista prima vicino alla consolle con occhio di biscia. Figa, fa ridere…occhio di biscia.”- ed ecco Laura venirmi incontro barcollante con un dayquiri alla fragola in mano e la minigonna (Chanel) stropicciata e la siga in bocca. - “Ciao cugina, sei sporca di rossetto ai lati della bocca, hai succhiato il cazzo a occhio di biscia nel suo ufficio? Sai che lo fa con tutte?”- trangugio un paio di sorsi di dayquiri e le prendo dalla mano la sigaretta (Malboro light) mentre mi fissa con aria dubbiosa. - “Ma hai scopato con la tigre del Bengala? Sai che è una troia, vero?” – non capendo quale fosse la differenza tra mia cugina e la signorina a cui ho sfondato il culo (non è vero, era già più che rotto) mezz’ora prima realizzo che le voci corrono più in fretta nei locali che in paese. Microcosmo. - “Non le ho sganciato una lira, anzi voleva pure farmi spizzare a dovere, offriva lei. E tu? A proposito, mi ha detto occhio di biscia che presto vi sposerete…come ce l’ha? Largo e corto oppure lungo e sottile? Girano in fretta le voci…” – Bollinger si sta piegando in quattro dalle risate, e mentre butto in terra la sigaretta (ho quasi fumato il filtro) una bionda (ragazza immagine) dalla terza straabbondante (rifatta), inizia a flirtare. - “Tesoro, c’era dentro l’Antonella nell’antibagno, vi ha visto uscire dallo stesso cesso con gli occhi fuori dalla testa, tutti sudati, non credeva ai suoi occhi. Arrivo caro..” – e si volta verso Gianfranco che l’aspetta vicino la cassa. - “Tutta invidia, la tua amica Antonella è una povera crista. Mandala affanculo da parte mia!” – e mantre la bacio per salutarla mi caccia in mano un free . - “Non are nemmeno in cassa, vai tranquillo, occhio di biscia pensava venisse anche mia madre, usalo tu. Ciao bello…ci sentiamo domani.” – realizzo
di risparmiare un bel trecentomilalire. - “Grazie cugina, a domani, e occhio a occhio di biscia!” – e quel testa di cazzo di dj inizia a far girare le pietose canzoncine della Carrà & Co. e noto con tristezza che i brianzoli vanno in visibilio, e grazie a Dio non porto in tasca una Smith & Wesson 357, altrimenti avrei aperto il fuoco contro tutti quegli stronzisfigati che ballano senza senso. E’ ora di andare a casa.
TUTTO LISCIO
Sabato mattina, ore dodici e trenta. Giornata grigia. Inizia a piovere, quella pioggia umida e bastarda che s’infiltra nelle ossa e non ti molla mai, neanche se t’inginocchi a pregare nostro signore Gesù Cristo. La testa mi scoppia, il piccone fisso nella fronte non mi regala un attimo di pace, martellandomi in mezzo agli occhi (iniettati di sangue e appiccicosi) e l’unica mia via d’uscita è tracannare una bottiglia di Evian (ne bevi quanta ne vuoi e non ti fa un cazzo) insieme a un paio di Aulin e sperare in un po’ di sollievo. Trovo il sapore dell’Aulin disgustoso, ma cerco di ingoiare l’intruglio schiumoso senza pensarci e mentre sto bevendo realizzo, notando di aver dimenticato di caricare lo startac (batteria a zero), che la sera prima dovevo essere completamente all’aria e così infilo lo spinotto del caricatore nel culo del cellulare (morto), e la casa è vuota (tanto per cambiare). Silenzio assordante, e, data l’ora di pranzo, afferro la caffettiera dalla piastra elettrica (Miele) bevendone direttamente il contenuto (amarissimo e freddissimo), realizzando che questa sarebbe stata la mia colazione. Nel bagno dei miei, la luce dei faretti posti a lato del grande specchio mi procura un fastidio tremendo. Noto di avere un aspetto davvero cadaverico (pallidissimo, occhiaie blu, naso arrossato). Sento le gambe stradoloranti, piscio nel lavandino (il cesso ha la tavoletta abbassata) mentre l’acqua gelida mi bagna i polsi completamente atrofizzati e solcati da vene spesse e pulsanti. Monitorando gli eventi del pomeriggio sono consapevole di non aver un cazzo da fare (non ho mai posseduto un’agenda), ma un flash improvviso ravviva il mio stato da morto vivente avvisandomi che da un momento all’altro avrei potuto ricevere la chiamata di Silvia, straevento al quale non mi sento pronto ed è impossibile sottrarsi. L’odore dei capelli intrisi di fumo e lacca mi dà il voltastomaco, e ogni volta che
rutto, ne tiro circa due o tre ogni quarto d’ora, sento gli acidi gastrici partir dall’ano e arrivare in gola e ustionare le pareti dello stomaco, provocando un dolore così intenso e lancinante che quasi sto per svenire. - “Non dirmi, non ci credo, pazzesco!!” – mia madre seduta sul divano, col telefono appoggiato sulla pallida guancia, intenta a sfogliare l’ultimo numero di Marie – Claire, lo sguardo fisso sul monitor (Sony) a volume ridottissimo. Il film in onda è “Gli spostati”. Ma allora in casa non sono solo. - “Ma sì Adriana, è così! Da quando ha affittato la barca è sempre in cantiere, non torna mai a casa e se ne frega del lavoro, dei teatri, dei fornitori e lascia tutto sulle nostre spalle. Gli operai non sanno cosa fare e se ne stanno con le mani in mano, e li dobbiamo pagare. Ma non entrano più i soldi di due anni fa.”- sbuco in salone con in mano una banana. Non ho molta voglia di mangiarla ma sento il bisogno di recuperare zuccheri e tirarmi insieme. Tra l’altro il taglio è tornato a farsi sentire e inizio a pensare che forse sarebbe stato meglio farsi mettere dei punti. - “Chi cazzo è?”- trascino i piedi (non sono un drogato e neanche un barbone), con la voce rauca e scartavetrata dalle sigarette della sera prima (un pacchetto e mezzo in fin dei conti) e non capisco bene perché non hanno ancora inventato la pillola miracolosa per rimanere sempre giovani e belli. In fondo a chi cazzo fotte se il cervello va a troie? Meglio deficiente in un bel corpo, che scricchiolante e scemo con le mutande contenitive. - “Scusa Nives, tuo nipote è uscito adesso da camera sua. Sembre uno…ma sì..come si chiamano? I personaggi dei film horror? Ah, certo…uno zombie. Ma è uscito con la Laura ieri sera? Non è che sta esagerando, ormai non è in casa mai prima delle tre, se lo sa suo padre vedi. Mi tocca mettergli le gocce di Tavor nella camomilla per non farlo svegliare. Dio Santo, come sono ridotta. E’ la zia, Nando è ancora al cantiere. Ti saluta..”- lascio la buccia di banana sul tavolo in sala da pranzo. - “Salutamela, chiedile se domenica sera usciamo…” – ma non mi sta più sentendo. - “E’ stato qui appena due giorni, il tempo necessario per caricare il camion e spedire a Roma il materiale. Settimana prossima inizia il Rugantino, se ne frega di tutto. L’altra sera mentre faceva l’idromassaggio la Laura ha letto tutti gli sms
di quella troia che si sbatte in barca. Fa la barista, o la pr, non ho capito bene, in una discoteca vicino al porto. Ha ventotto anni, è drogata e continua a scrivergli cose oscene.”- mia zia cerca, senz’altro, conforto in mia madre, visibilmente preoccupata, raccontandole della crisi con suo marito. Percepisco a tratti la conversazione, ma non rimango per nulla sconvolto dalle imprese di mio zio. Ricordo quando è fallito e le banche gli avevano portato via tutto. Casa, macchine, mobili. Non aveva più un cazzo. Tutto era andato all’asta, persino un mezzo appartamento in cui viveva mia nonna, che mio padre ha ricomprato (aveva il diritto di prelazione) istantaneamente. Mio zio ha mangiato fuori miliardi a tutti. Terminata la telefonata ho saputo che da poco è tornato da Amsterdam, ci era andato con un suo operaio, Raphael, (a Raphael piace molto ascoltare le telefonate porno e menarselo). Ovviamente si è scopato un sacco di battone, ed è persino riuscito a imboscare nelle valigie della coca e della maria senza farsi sgamare all’aereoporto. Mio zio quando non sa cosa fare ed è annoiato si scola una bottiglia di Glen Grant in meno di un’ ora e fuma due pacchetti di sigarette al giorno e per ripigliarsi si fa un po’ di coca e va a dormire nel camper comprato da Vasco, che tiene in giardino e non lo può muovere perché senza libretto. Mio zio ha quarantacinque anni, ha avuto tre infarti e è stato sottoposto a due angioplastiche. Faccio scendere acqua bollente nella vasca (Jacuzzi) e realizzo di sentire lo startac che trilla a tutto volume in stanza, dando noia a mio fratello (occhi irritati e gesti convulsi del corpo) mentre suona un notturno di Chopin. Prima di afferrarlo, si trova sotto un plico di appunti di finanziaria (chi mai lo ha messo lì?), penso che forse sta arrivando la telefonata da me tanto attesa, e se così fosse stato avrei dovuto essere il migliore. Non una parola sbagliata, ogni pausa avrebbe dovuto essere giusta e misurata. Il display segnala il suo nome. - “Pronto.”- il mio tono, pacato e tranquillo, fin troppo impostato, sembra non lasci trasparire nessuna emozione (faccio il duro), e intanto sento il cuore battermi nell’orecchio, il viso scaldarsi e le guance arrossire. Ritorno in bagno e
chiudo l’acqua che scorre sfrigolando contro le pareti della vasca. - “Ehi, sono Silvia, come stai?”- una voce sottile mi stordisce, dolcissima come le onde che lisciano la Biodola, la mattina appena sveglio, docili e rassicuranti, la grandiosa forza del mare, che ripara e quieta l’animo, non di tutti credo, ma sicuramente il mio. - “Ciao Silvia, che bello sentirti. Adesso bene, e tu?”- avverto un senso di soddisfazione e certezza nell’iniziare la tanto attesa conversazione. - “Non c’è male…sto preparando un esame molto complicato, non so come ne verrò fuori..mamma mia è un pacco allucinante, ma parliamo di cose più belle, noi due per esempio… mi hai pensato in questi giorni?”- maliziosa curiosità. - “ Più di quanto tu immagini…e continuo a domandarmi quanto è strana la vita, che coincidenza è stata incontrarti quel giorno. Pensa…se non si fosse laureato mio fratello…e tu? mi hai pensato?”- gioco la carta della discrezione. - “Lasciamo stare, non mi fai dormire…e guai se non riesco a prendere sonno, non combino nulla, a malapena memorizzo una pagina di testo…mi stai scombussolando la vita.” – mi sembra strano averla colpita così tanto. - “Se vuoi metto giù…” – allontano lo startac dall’orecchio. - “Ma che sei pazzo!! Non dirlo neanche per scherzo…” – la sua voce s’intristisce. - “Come potrei. E’ inutile che giriamo intorno, ho voglia di rivederti, e mi sembra sia arrivato il momento di soddisfarla, non sei d’accordo?” – inizio a sudare. - “E certo, a dir la verità volevo rivederti da subito…ma tu e il compito di finanziaria…non è che sei fidanzato e inventi scuse?” – non ha capito un cazzo. Mi viene in mente “Outside” di George Michael. - “Come ci organizziamo? Sono onesto, non è che ho una grande dimestichezza (Bonny) con Milano. Quando vengo la sera mi portano sempre i miei amici e non so districarmi nel traffico…cazzo, sai, incroci, semafori e code di macchine…scusami molto ma è un po’ un problema…” – il gioco a a Lei, e PUO’ FARE DI ME QUELLO CHE VUOLE .
- “Guarda io non ho la macchina, sono abituata a spostarmi coi mezzi, ho una buona dimestichezza coi treni e metrò…dove abiti precisamente?” – forse Gesù mi sta aiutando di nuovo. - “Non credo tu conosca Merate, è un paesino vicino ad Arcore, carino c’è tanto verde…” – che cazzo fotte a Lei se è un bel posto o meno. CONTINUO A RIPETERMI. - “Arcore certo, lo conosco, Merate, oh my God, no…ma c’è la stazione?” – che cazzo fa?, inizia a parlare in inglese?…ma non è romana?! - “Sì, ehm, cioè, non proprio…se scendi a Cernusco Lombardone poi vengo a prenderti, devi vedere bene gli orari…da dove partiresti?” – neanche gli orari dei treni conosco, ma d’altronde fare il pendolare non ha mai fatto parte del mio background. - “O da Centrale o da Porta Garibaldi, non è che c’è molto da scegliere… quand’è che potremmo vederci? intendo il giorno e l’ora….” – la Jacuzzi è quasi piena ma senza la minima parvenza di schiuma, e le forbici (di solito le uso per rifilar le basette) sul ripiano in cristallo sopra il calorifero mancano. - “Ma…, a me potrebbe andare bene anche lunedì, martedì…non ho impegni incombenti…e poi è ora veramente di vederci.” - Intanto mio fratello gironzola davanti al bagno come un cane affamato. Non so cosa cazzo voglia, forse sta origliando o solamente deve pisciare (ci sono altri tre bagni). - “Perfetto, vada per lunedì..conterei di salire nel pomeriggio sul presto… controllerò se c’è un treno che arriva per le quattordici e trenta o giù di lì, così iamo insieme il pomeriggio. Però poi mi riporti a Milano. Allora ti chiamo io quando sono sul treno, sei d’accordo?” – Let’s go outside. - “Va benissimo, ho voglia di vederti.” – umidità nella stanza. - “Anch’io, ma mi riconoscerai? “ - lei sottovoce. - “Certo, anche in India tra milioni di persone. E tu?” – rispondo ricordandola nell’atrio dell’università. - “Ti vedo già. Allora a lunedì…” – capisco che le piaccio davvero.
- “A lunedì, un bacio…” - chiudo la telefonata. - “Un bacio a te bellissimo.” – e il dolce silenzio misto a bolle di sapone profumate invade la stanza. Andata. L’avrei rivista, forse una sola volta, ma non me ne frega un cazzo. Tutto prende senso.
SI PENSA AL FUTURO
- “Non hai mai immaginato come moriremo? E non tirarmi fuori la solita risposta: penso a cavallo di una troia strafiga stroncato da un infarto, che mi alzo e me ne vado, sto parlando sul serio.” – e taglio corto con una mezza troia cesso che ci sta servendo un moijto, ancora più merdoso di lei, allungandole due deca senza pretendere il resto, con la speranza di non vederla più davanti con quella faccia di cazzo e quelle mani trasandate. Chi fa la cameriera dovrebbe per prima cosa avere le mani perfettamente curate, niente unghie mangiate o tagliuzzate, niente pellicine tirate, niente dita incerottate, né smalto scheggiato. Sono con Bollinger in un bar vicino ad Arcore, l’Antigua (lounge bar), niente di che, arredamento rustico (come?), pavimento in cotto, tavoli e sedie in rovere, musica del cazzo (lounge?), nessuna figa degna di uno sguardo. Solo ragazzi storditi da gin tonic stracarichi, segnati in faccia dal duro lavoro in fabbrica, insoddisfatti della loro vita. - “Ma che cazzo stai dicendo? So solo che morirò prima di te e di tanti altri stronzi più ricchi di me. Il come non so, molto probabilmente qualche troia mi risucchierà l’uccello fino a farmi soffocare e i coglioni mi esploderanno in aria. Perché, pensi di morire già in paradiso? Non sai che non esiste un cazzo?”- e non ha ancora bevuto. - “Non sono Dante, e non ti ho chiesto se c’è il paradiso o l’inferno, sono curioso solamente di sapere come cazzo ce ne andremo affanculo, se con un infarto, un tumore, o ammazzati da qualcuno. Infarto lo escludo, non ho la pressione alta. E poi in quali circostanze. Se avrò qualcuno che mi terrà la mano e mi dirà cose che si dicono solo in quel momento oppure se sarò solo come un cane…” – sto andando in trip, e pensieri neri offuscano il mio cervello bacato. - “Non cambia un cazzo, se solo o in compagnia. Muori lo stesso, forse è meglio solo con te stesso, non procuri sofferenza ad altri. Comunque vada siamo soli.” – e non mi sono accorto di avere già finito il mio drink. Cerco una siga ma non vedo nessuno a cui poterla scroccare.
- “E quella? Ti ha già espiantato l’uccello per rivenderlo in Tunisia? “ – prosegue con un ghigno diabolico accartocciando tra loro due cannucce (una rosa e l’altra bianca), e finalmente fermo un cesso (ancora), che non aspettava altro, per farmi offrire una Malboro rossa. La tipa rimane ferma in fianco a me per trenta secondi bramante di una mia avance, ma disattendo le sue aspettative (non c’è ragione per cui ve ne siano). - “L’ho sentita stamattina, dovrebbe venire su lunedì in treno, nel primo pomeriggio…è stata lei a proporlo. Le ho spiegato che non sono molto pratico di Milano…ma ho anche promesso di riportarla….”- aspiro profondamente, nel palato odore di menta misto a tabacco. - “Hai fatto bene Power, sono proprio curioso di vederla…. Ma non fidarti anche se viene su da sola, non sai chi è, occhio a non metterti nei guai.” – prende in mano un’altra cannuccia (stavolta verde). - “La riportiamo insieme, così almeno imparo anche la strada, sei d’accordo?” – propongo al maestro zen questa opzione, evitando il presagio di scentrarmi in coda a qualche semaforo. - “Dai, così le faccio l’esame finestra.” – non capisco. - “Come? L’esame finestra, cosa vuol dire?”- strabuzzo gli occhi. - “Niente Power, una serie di domande mirate per carpirne l’indole. E’ il modo più sicuro.”- e la mia perplessità aumenta sempre più. - “Cha cazzo c’entra la finestra? Non parlarmi di esami che non so nemmeno quando finirò questa merda di università, che cazzo, non ci capisco dentro niente…e i miei sono convinti di vedermi laureato come mio fratello….forse fra vent’anni.”- mi trovo indeciso se ordinare un altro drink, o scroccare a qualche altra sfigata una sigaretta. - “Non vedo futuro per te amico, grazie a dio tuo padre ti ha parato il culo prima, non t’immagino proprio far il dipendente di qualcuno, credo sinceramente che non resisteresti un giorno.” – sento il mondo del lavoro lontano anni luce (quant’è un anno luce?). - “Non farò mai l’astronauta, e nemmeno lo scienziato. Non dico neanche “voglio far i soldi” perché è una frase così banale che ormai anche un bambino
di quattro anni ce l’ha in bocca.” – non so ancora se ordinare un altro drink. - “Quella sicuramente ce l’ha…”- fisso le bottiglie dei superalcolici, e mi soffermo su una fantastica boccia di Absolut. - “Scusa? non capisco……” – decido di ordinare ancora. - “Il cazzo, cretino, non hai visto che faccia da troia ha quella seduta vicino al camino?” – indica con la cannuccia (quella verde) una quarantenne con il seno rifatto (e la bocca, e il naso e gli zigomi….e la figa?) in jeans (D&G) e giubbetto (Oaks Ferrè), con un finto submariner e sulle dita da gallina di entrambe le mani una fila di anelli comprati in qualche bancarella di un mercatino di un qualche sperduto paese di provincia. - “Dai, avvicinala e offrile da bere….” – suggerisce Bollinger in avanti con la testa, aggrottando le sopracciglia e piegando in due la cannuccia (sempre quella verde). - “La solita troiona che ti succhia i coglioni, fin quando non te li strappa…mica male però..” – e inizia a incrociar lo sguardo e fatico a trattenere un sorriso di superiorità. Non sa che presto me lo avrebbe succhiato. Scendo dal trespolo facendo cenno al barista (rotea nervosamente lo shaker) di prepararmi un vodka cranberry e di portarmelo al più presto. Mentre barcollo (gli occhi lacrimosi e incendiati), senza aver programmato l’approccio, ma non me ne frega un cazzo (come al solito), medito qualcosa da dire a quella troia affamata e analfabeta. Mi sarebbe piaciuto darle un biglietto con scritto: “ Ciao, lo sai che ho un cazzo fuori misura? Non ti ci sta dentro.” – ma non avrebbe certo capito. - “Scusa, cosa ne pensi di come lo fa roteare?” – le domando urlando per via della musica amplificata all’improvviso senza alcun motivo (nessuno compie gli anni e non è una discoteca) e, non capendo come mai quella trovata, realizzo che molto probabilmente le ho appena alitato addosso una poderosa dose di alcool. Frugo nelle tasche in cerca di una vigorsol e, una volta verificato di esserne sprovvisto, ripiego su Bollinger (di solito le porta sempre con sé, al gusto di mela). - “E’ un figo!!” – evidentemente ha appena pippato, o oppure necessita
urgentemente dell’assistenza di un buon oculista. - “Non sono frocio, vorrei solo sapere se ti piace come lo fa…ehm..roteare…. – e mi volto per tornarmene sul trespolo dimenticandomi istantaneamente di quella deficiente cerebrolesa. - “Ehi, ma dove vai?” – mi volto di nuovo (mi sta venendo il torcicollo) e la vedo richiamarmi all’ordine col busto proteso in avanti mostrando la maglietta bianca riempita da tette rifatte veramente bene. Ritorno all’attacco. - “Me ne vado e cedo volentieri la poltrona al barista, vedo che sbavi da un bel pezzo…” – mi fa posto sul suo sgabello, ma è talmente ridotto che non so dove appoggiarmi. - “Non ci stiamo seduti tutti e due, forse è il caso che prendo un altro trespolo…” – afferro dal banco il mio cocktail, pregando il signore che quella troia oltre a quelle tette micidiali, avesse una sigaretta da offrirmi. - “Lascia, siediti tu, facciamo un po’ per uno…” - mi cede il posto, mostrandomi un culo da paura sotto jeans (D&G) bianchi quasi trasparenti, (si vede il filo nero del perizoma). Non ho idea di cosa mi rappresenti la sua amica, indefinibile, sembra senza corpo. Magra, in vestiti veramente anonimi (pantaloni neri di velluto dalla marca non identificabile sprovvisti di cintura, accompagnati da una camicetta bianca risvoltata sulle braccia magrissime e da un golfino scialbo color crema appoggiato sulle spalle). L’unico elemento decorativo è un Daydate in acciaio sul polso destro. - “Invitiamole in piscina, Power non perdere tempo, le scopiamo e le mandiamo affanculo, non vedi che donnette, bramano i baristi, Gesù Cristo!” – Bollinger sta dando un senso alla serata. - “Bella serata? Non trovate?” – e abbozzo un sorriso a duecento denti (nonostante la mia dentatura perfetta, sto testando un trattamento sbiancante di ultima generazione). - “Insomma, la solita routine….non vi ho mai visto, di dove siete?” – inizia a rendersi conto di chi ha di fronte.
- “ Merate, conosci? In verità solo io, lui è di un paese vicinissimo…” – ha solo occhi per me, sorseggio avidamente (non sono un bambino del Biafra) il mio drink trovando così nuove cazzate da propinarle. - “Sì, vado a comprare le scarpe da San Giorgio, è un bel posto….dammi da bere!” – si gira volgarmente a elemosinare una sorsata dal drink della sua amica (aspetta che le offra qualcosa?). - “Comunque mi chiamo Serena e lei Iolanda….voi?” – non me ne frega un gran cazzo del nome di quelle due troiette. - “Power, e lui Bollinger….” – strabuzzano gli occhi incredule. - “Che nomi sono!! Ma arrivate dallo spazio?!” – e senza chiedere permesso la mia preda si lancia al bancone prendendo un’absolut liscia dal suo barista preferito. - “Appena vedrà quanto ce l’hai lungo capirà che siamo sul serio di un altro pianeta…a me va bene anche l’altra, non sai quanti cessi mi sono fatto in vita mia!” – Bollinger sgomita, sembra più eccitato di me, nonostante avesse bevuto una misera coca-cola. - “Sono i nomi migliori….che lavoro fate?” – scommetto che sono due shampiste senza un quattrino (il Daydate è finto). - “Siamo fisioterapiste all’ospedale di Lecco, e voi?” – non sono andato molto lontano, in pratica fanno tirare per l’ultima volta il cazzo a vecchi decrepiti. - “No, ehm, io sto finendo l’università, Economia e Commercio e lui è uno, ehm, stampeur….” – inizio a non connettere più, nebbia profonda si sta parando davanti ai miei occhi, ormai sprofondati nell’alcool. - “Che noia, le solite domande di rito….che fate dopo?” – vado subito al dunque, senza inventare cazzate. - “Niente, ce lo stavamo chiedendo anche noi…è una serata così noiosa, ci vorrebbe qualcosa per ravvivarla, sai è così deprimente addormentarsi insoddisfatti.” – deprimente è la sua smania di prendere ancora cazzi da giovincelli.
- “Che ne dite di venire a ber qualcosa a bordo piscina?” – si guardano illuminate. - “Ma come? Fa freddo fuori?” – Iolanda incredula. Non sa che la ricchezza trasforma il freddo in caldo. - “Hai, ragione, ma se la piscina è interna, riscaldata a temperatura equatoriale, possiamo far finta di essere ad Antigua.” – non ci sta più dentro. - “Ma siamo già all’Antigua!!” – risponde Iolanda. Mi trattenengo dal sputarle in faccia e incrocio lo sguardo basito di Bollinger.
DALLAS
In macchina Bollinger continua a sbandare con lo scopo di confondere le due fortunelle che ci stanno seguendo su una Ford Fiesta anteguerra, bordeaux, infangata e mal messa. La strada che conduce a Bollinger’s House è stretta, in salita, al buio, e senza i fari dell’auto la si può individuare a fatica. La proprietà occupa un’intera collina e, ovviamente, quando immagini l’inimmaginabile capisci che, a volte, la realtà va ben oltre la fantasia. Il cancellone, in acciaio inossidabile, profilato da lavorazioni in oro, è racchiuso da grosse colonne in granito bianco, in cima alle quali sono poste due vistose telecamere. L’impressione è quella di venire costantemente spiati, non si sa da chi, ma è la sensazione che si respira fin dall’accesso nella strada privata. Tutto monitorato, nel minimo dettaglio. Le due poverette parcheggiano sotto al portico, a culo dell’sl, e una volta materializzate nel giardino non parlano più. - “Ehm, non abbiamo il costume da bagno…” – proferisce Iolanda quasi intimidita, mascherando la sua riluttanza. - “Guarda, mia sorella, ne ha un sacco, nuovi naturalmente, ancora confezionati, più o meno della vostra taglia.” – Bollinger la mette in careggiata in due secondi. Non capisco come mai stanno facendo dietro front, ho l’impressione che siano impaurite e non più così eccitate come un’ora prima. Non parlano, se non tra loro solo attraverso banali occhiate d’intesa (cosa devono dirsi?) e credo che non hanno ancora realizzato di essere state catapultate in un’altra dimensione. La piscina, illuminata a giorno, brilla di un verde intenso e l’acqua è calda e limpida, solo una parete di cristallo divide l’autunno dall’estate più splendente.
In fondo alla stanza giga, dietro al trampolino, macchinari Technogym sono pronti per essere utilizzati, e francamente sto pensando che quella sarebbe stata la soluzione migliore, visto il prospettarsi della nottata. Il Daytona segna le due ate e il mio metabolismo ormai è in catalessi da un pezzo. Mi dirigo verso la cantina adiacente gli spogliatoi in cerca di alcool. Afferro una Magnum di Veuve nella speranza di ravvivare un po’ il clima. Il tappo schizza in alto rimbalzando contro il soffitto (ornato di stucchi orientali) per poi finire sul fondo della piscina, e le ragazze finalmente escono dai camerini con indosso costumi Versace e Armani, e sembrano, guarda caso, aver assimilato una certa classe, lasciando lontano quell’alone di miseria che le ha contraddistinte fino a quel momento. - “Champagne!!” – esclama Bollinger con un ghigno satanico, nella mano destra la sua Nikon F5, pronto ad immortalare la serata. - “Oltre ad essere uno stampeur il mio amico è un ottimo fotografo, non ve l’ho già detto? Dovete vedere camera sua, ci sono un sacco di belle foto, di animali (uccelli), orologi, sguardi colti all’improvviso…” – le ragazze pendono dalle mie labbra, incuriosite (forse annichilite), da ciò che sto raccontando, e mentre discorro con grande fluidità le coppe sono già stracolme e ognuno di noi freme per bere avidamente. Accendo l’amplificatore Macintosh e faccio partire un po’ musica. Fast Love di George Michael da inizio alle danze. - “Gran fisico, complimenti!!” – mi sono appena sfilato la camicia. Rimango in jeans (Levi’s 501) e Serena sfracella la coppa di champagne sul bordo in granito della piscina. - “Eh, fa un po’ di ginnastica il ragazzo. Entrate dal lato in fondo, vicino alla sala fitness, l’acqua è più bassa.” – Bollinger se ne frega altamente dei vetri rotti. Mi tuffo trascinando dentro la spaccabicchieri, che non si lascia pregare, e con la mano destra sotto il costume inizio a sgrillettarle la figa (depilata), gesto che subito le fa roteare gli occhi, come se fosse in preda ad una crisi compulsiva. Inizio a sentirlo duro. Noto con piacere che Iolanda e Bollinger si dirigono verso i piani alti, ma la Nikon è rimasta sul tavolo in fianco alla Magnum. Appoggio il culo sul cordolo e la troia inizia a prendermelo in bocca, fissandomi mentre lo succhia (ma fan tutte così?), e con l’altra mano inizia a sfilarsi il costume. E’ munita di due bombe da pornostar, anche la bocca è ben rifatta, ma
la sua età si rivela dalle rughe intorno agli occhi, soprattutto quando li strizza mentre fa andare avanti e indietro la mano sul mio cazzo. Non bado più di tanto a quella succhiacazzi (ce la sta mettendo tutta), e per farla sfiancare penso alle tragedie del mondo (bambini poveri, guerre, pestilenze, Aids, tumori maligni, cardiopatie) isolandomi completamente dalla situazione che sto vivendo, provocando un distacco accentuato ancor di più dall’alcool ingerito (e che sto ancora ingerendo) realizzando la nullità delle nostre azioni, messe in atto solo per far trascorrere il tempo inesorabilmente insaziabile. - “Dai infilamelo….ti prego…” – la poveretta vive solo per quello, per farselo infilare. I suoi occhi mi stanno supplicando, il corpo bollente mi si avvicina gridando contatto, così la infilzo ripetutamente da dietro sentendo crescere i suoi gemiti fino a emettere l’urlo di liberazione. - “Ma non sei venuto?!” – domanda sbalordita e delusa (forse non è poi così capace come vuole dar a intendere), guardandomi con aria di sfida. - “Dai, prendimelo in bocca e vediamo cosa sai fare….” – e, scollegando la mente dai cataclismi, le imbratto la faccia per bene, schizzandola perfino sui capelli. Dando libero sfogo alla sua troiaggine finalmente si sente appagata e, anche se l’indomani non si sarebbe più ricordata del sottoscritto, la battaglia contro il tempo l’ha vinta ancora una volta, maturando la convinzione di riuscire a far spruzzare con piacere ragazzini dal cazzo ancora acerbo e profumato.
MAI PIU’ COME PRIMA
Non mi sono nemmeno accorto di avere dimenticato a Bollinger’s House i miei boxer di Armani, e la cosa m’infastidisce parecchio, visto che sono quelli da battaglia e il tanto atteso lunedì è arrivato e, lasciando perdere l’abbigliamento intimo, un miliardo di dubbi annebbiano i miei pensieri, scatenando una reazione a catena inarrestabile. Sono sempre in forma, ma il fatto è che non mi vedo smagliante (abbronzatura sbiadita e tono muscolare cadente, quel taglio del cazzo mi ha rallentato tutto il programma di allenamento) e la cosa mi fa innervosire parecchio, anche perché i capelli stanno perdendo volume e avrei voluto fossero più biondi (fare i colpi di sole sarebbe stato da finocchio). Lo startac trilla impazzito e sul dipslay la scritta “anonimo” lampeggia ripetutamente. - “Pronto…” – sono in procinto di sbadigliare. - “Ehi….sono Silvia, disturbo?” – Cristo Santo, e chi se lo aspettava, cento a zero che mi avrebbe imbastito qualche balla per non venire all’appuntamento o rimandarlo. - “Ma figurati, non stavo, ehm, facendo, ehm, sì, assolutamente niente, non mi disturbi affatto, anzi…”- frasi sconnesse e senza senso escono a fiume dalla mia bocca. - “Senti, ho visto i treni, ce ne sarebbe uno che parte da Garibaldi verso le quattordici e trenta e arriva a Cernusco intorno alle quindici e venti, che ne dici? Vieni a prendermi? Non me la farai mica fare a piedi?”- la sua voce è il top. - “Ma stai scherzando? Ci mancherebbe, sarò in orario perfetto. Finalmente ti rivedo, che strana sensazione….” – penso a voce alta. - “Hai ragione, non mi è mai capitata una cosa così, oddio, chiamarla cosa è
molto riduttivo, una….sensazione…, bravo, hai detto la parola giusta, così. Ma….” – la sento vicina. Non ho mai avuto difficoltà a rimediare scopate facili, ma analizzando bene, dove andavo a infilarlo ultimamente (correggo, dove sono andato sempre a infilarlo?)? Donne belle, rifatte e non, giovani e meno giovani, troie e non troie, intelligenti e stupide, ma sempre sciacquette senza stile, puttane agghindate da signore, in perenne ricerca di uomini nuovi con esperienze nuove. - “Ma cosa?”- chiedo incuriosito. - “Niente, ci vediamo fra un paio d’ore, allora ti aspetto…” – glissa abilmente. - “Va bene, a dopo. Un bacio.”- inizio la paranoia acuta. - “Un bacio a te.” – riattacca. Mi vengono in mente i discorsi di Bonny e Co.. Non vorrà mica espiantarmi l’organo? Addirittura si sbatte a prendere il treno, stare in un vagone puzzolente con gentaccia sciabalenta per vedermi, da Milano, una città dove tipi come me ce ne sono a migliaia, e anche molti altri migliori, a Merate, che di bello c’è soltanto il paesaggio. Sento e so di andar incontro a eventi imprevisti e impensabili, ma non posso non rivederla, me ne sarei pentito per tutta la vita (quanto avrei vissuto ancora?). Il Daytona segna le quattordici. Manca solo un’ora e mezza. Mi pettino accuratamente, phonando i capelli con aria fredda, con il profondo intento di dargli la forma più naturale possibile, ma non riesco a trovar una capigliatura decente, così decido di farmi una doccia e mettermi completamente a nuovo. Finalmente sono tornato me stesso, perfetto, sul viso applico un po’ di crema colorata (Estèe Lauder Day Wear Plus), e l’abbronzatura di colpo si ravviva, e con due colpi di spazzola e una spruzzata di lacca (Biopoint) torno ad essere, come sempre, il numero uno. Decido di non mettere nessuna camicia, ma bensì una felpa nera misto cashmere e lana (Ferré) ed un paio di jeans (Versace) grigio scuro, e sono talmente agitato che mi scordo completamente di mettere la cintura, e, guardando il Daytona realizzo che manca solo mezz’ora all’arrivo del treno, e devo ancora mettermi il
profumo e prepararmi psicologicamente. Così infilo un paio di Paciotti e saluto mia madre in procinto di farmi domande insistenti. - “Ci vediamo tra un paio d’ore” – la liquido senza spiegazioni. Fuori c’è una nebbia fitta, l’Inverno sta arrivando prepotentemente, tutto sembra cupo e triste e non capisco come mai gli stati d’animo mutano come le stagioni. Avrei voluto essere sempre azzurro e ridere come un bambino, spensierato e innocente, lontano dalle disgrazie della vita. Continuo a rimanere esterefatto e non riesco a capire come mai si fosse ostinata così tanto a rivedermi. Non mi rassegno a credere di esserle diventato importante dopo il breve incontro alla laurea di mio fratello. Alle quattordici sbuco con la y dal cancellone, torturandomi con paranoie e ragionamenti che non portano a nessuna conclusione sensata se non a quella più ovvia, e, cioè che evidentemente l’ho colpita davvero. Giungo in stazione con un quarto d’ora abbondante di anticipo. Qualcosa non mi fa star tranquillo. Sono molto agitato, e, nonostante faccia freddo, sudo in maniera esagerata (non mi sono drogato e non ho neanche bevuto), e mi domando se quello che sta accadendo non sia premeditato e studiato a tavolino nel minimo dettaglio da chissà chi. M’imbosco in una stradina infangata, a lato della stazione (un fabbricato mal tenuto e deprimente) dietro una siepe, rischiando quasi di rimanere bloccato con le ruote posteriori (se avevo l’sl ero fottuto), e aspetto. Un’attesa lunga ed estenuante, ricordo solo un’altra volta un’angoscia così profonda e paurosa, e non avrei mai voluto più riprovare questa sensazione. Il treno proveniente da Milano delle quattordici e trenta arriva in perfetto orario. Poche persone si fermano alla stazione di Cernusco, forse una decina, magari meno. Arrivò, e per me fu la rovina. Non mi vede, e aspetto. Da una borsa nera scamosciata tira fuori uno startac (grigio, quello a led),
compone un numero, e sento il mio vibrare nella tasca sinistra dei jeans. Non rispondo. Il treno riparte cigolante e nessuno è sceso con Lei. Vado nella sua direzione, e vedendomi (non le sfugge niente), infila furtivamente il telefono nella tasca della giacca (una pelliccia di visone scuro con all’estremità della coulisse due pon-pon). Indossa una minigonna nera inguinale, stivali aderenti (Sergio Rossi) neri scamosciati con tacco da dodici, e sotto la pelliccia riesco a vedere il rigonfiamento del seno (micidiale!!) avvolto in una maglietta di ciniglia (nera anche quella). Non capisco come mai si trova in questo posto sperduto da Dio. Una strafiga così non l’ho mai beccata da nessuna parte. Non ha un difetto (almeno vestita), di proporzioni perfette, sembra disegnata al computer. E’ tornata l’Estate. - “Ehi, hai visto? Finalmente ci si rivede!!” – sorride con grande dolcezza. - “Finalmente….come stai?” – sale in macchina e mi bacia sulla guancia. Il suo profumo (non l’ho mai sentito) si riversa su di me come l’odore del mare portato dal vento. Non si dimentica mai l’odore del mare. - “Ehm, bene….e tu?” – tutta la mia esuberanza è svanita, mi sono trasformato in un agnellino. - “Adesso benissimo, dove mi porti?”- ostenta grande sicurezza, l’atmosfera del momento non la turba affatto, anzi si trova perfettamente a proprio agio, come in un salotto di gente per bene. - “Se ti va, c’è un bar qua vicino, andiamo a ber qualcosa….che ne dici?”- mi cade l’occhio (non per caso) sulle sue gambe perfette e realizzo che porta le autoreggenti. Scorgo un ritaglio di coscia e inizia a tirarmi il cazzo in maniera spudorata. Sto male, anzi malissimo. Gocce di sudore piovono dalla fronte e le ascelle zampillano come fontane impazzite. Come pretendo di instaurare un discorso serio dopo quello che ho visto? - “Va benissimo, basta star tranquilli, così possiamo parlare senza essere disturbati. Sono nelle tue mani..” – non sapendo ancora dove portarla, realizzo che il posto più riservato presente nel circondario è il Bar Pasticceria Milena a Robbiate. Niente di che, posto del cazzo, ma se non altro saremmo stati soli.
La cameriera che si avvicina per prendere l’ordinazione è una studentessa del liceo che mi aveva fatto un pompino nel cesso della discoteca “Eclisse” durante una festa di fine anno (il quarto) e che se non sbaglio ero il decimo della fila. Il mattino seguente per i corridoi della scuola si mormorava avesse ingoiato una quantità di sborra pari a una lattina di coca-cola (33cl). Naturalmente la tratto come se non l’avessi mai vista (lei fa lo stesso), anche se entrambi ricordiamo perfettamente il nostro incontro ravvicinato. - “Cosa prendi?” – le chiedo mentre si sfila la pelliccia. - “Ma…non saprei, un whisky…dai scherzo! Sono astemia, un bicchiere di vino e non capisco più nulla, davvero, vado in tilt!” – rimane lì, scollata, con un girocollo a forma di cuore (in oro bianco) e ha veramente un seno pazzesco (non capisco se è rifatto). Ad ogni gesto del corpo non si muove di un centimetro, punta verso l’alto, e, anche se non lo dà a vedere, sa benissimo di essere insuperabile. - “Dai, vada per un te, con dei pasticcini….e tu?”- gesticola con le mani perfettamente curate (smalto trasparente) e tre anelli (in oro bianco, tutti uguali e senza solitario) in quella sinistra (è mancina), e un vistoso Tennis al polso destro. Si fida bene a prendere il treno con quel bracciale indosso. - “Un te anche per me, grazie….poi mi porti dei pasticcini misti….ehm, fai tu….metticene un paio con il cioccolato…anche più di un paio, per favore.” – quella troia sbiadita non mi guarda nemmeno in faccia mentre prendo l’ordinazione. Eppure mi sembra di esser stato veramente gentile. Cosa pensava che le dicessi, per caso ti ricordi di quando mi hai fatto un pompino nel cesso dell’Eclisse? O forse si sta domandando chi sia la creatura seduta di fronte a me, e non riesce a darsi una spiegazione. - “Strano, non trovi?”- mi coglie alla sprovvista. - “Ehm…cosa?”- domando, intuendo quello che sta per dirmi. - “Che siamo qui finalmente. Io e te, soli, non trovi?” – e, tra le lampade e l’imbarazzo, non riesco ad immaginare quanto sia paonazzo in quel momento. - “Hai ragione, è strano anche il modo in cui ci siamo conosciuti. Non sapevo se mai più ti avrei rivista. Almeno fin quando non ti ho domandato il numero. E,
sinceramente, anche lì non ero molto convinto.” – mi fissa dritto negli occhi, e, stranamente non riesco a sostenere il suo sguardo. - “Non sarei tornata a casa senza la certezza che ci saremmo incontrati di nuovo…accidenti a tuo fratello…ma proprio quel giorno doveva laurearsi!? E anche mia sorella, non volevo nemmeno uscire. Mi ha costretta, per fotografare il chiostro della Statale. Sai, studia Storia dell’Arte a Lecce, sta preparando la tesi.” – cazzo, quanto è bella. La puttana col grembiule ci serve il tè, probabilmente nel mio ci ha sputato dentro (era ancora il mio sperma che aveva ingoiato all’Eclisse), e un piatto generosamente assortito di pasticcini appena sfornati, dall’aria invitante. - “E chi li mangia tutti quei dolci?” - domanda spaventata. - “Tu!” – le rispondo pensando a quanto mi sarebbe costata la merenda fuori programma. - “Non credo proprio, devi darmi una mano, non posso permettermi di ingrassare, sono quasi al limite…” – e realizzo che anche lei rientra nella congrega delle patite della dieta, e non vedo l’ora di vederla nuda e analizzare ogni piega del suo corpo, esterna e interna. - “Vado matto per il cioccolato (e per la figa), ma non posso esagerare perché soffro di bruciori di stomaco (gastrite?), che mi costringono a sopprimere parecchio la mia voglia…quindi sei iscritta a Giurisprudenza? Quanti esami hai dato?”- sto portando il discorso sul banale. - “Me ne mancano tre, ma sto già preparando la tesi. Ma che discorsi noiosi….ti prego non facciamo i tipi comuni, non lo siamo…” – mi prende la mano tra le sue e stringe forte. - “Ok, hai ragione. Sei fidanzata?” – domanda a bruciapelo. - “Secondo te se fossi fidanzata starei qui a parlare con te!? E tu?” – capisco che forse le interesso davvero, e che i miei organi vitali sono salvi. - “No, sono libero…di storie serie fino adesso non ne ho avute…” – la più vera delle verità.
- “Ah, ho capito, sei un playboy….non ti nascondo che si vede…” – sta facendo diventare la conversazione scontata. - “Ti sbagli, forse quando incontrerò la persona giusta sarà il momento per fermarsi.” – comprendo a fondo che la persona da me cercata sta seduta di fronte a me. - “L’ultima storia seria che ho avuto è terminata sei mesi fa…stavo con un cantante italiano, ma è stata disastrosa..non metterti mai con qualcuno che fa quel mestiere, ti rovina la vita.” – inizio a essere molto interessato. - “Ma è famoso?” – strabuzzo gli occhi, cercando di tenere sotto controllo la mia curiosità. - “Ohhh!! Altro che!! Peccato che non è tanto a posto.” – è recalcitrante a dirmi chi cazzo sia, così inizio a non starci più dentro. - “E come mai è finita?” – deglutisco un pasticcino al cocco senza masticarlo. Quasi mi strangolo. - “Così, quando una persona è ingestibile e inaffidabile non merita la mia attenzione e pazienza, soprattutto non sopporto un aspetto della vita: essere presa in giro. “ – se hai successo e fama non penso che l’amore si riduca ad una sola ragazza. Perché la maggior parte dei cantanti e degli attori famosi sono single? Nel mondo dello spettacolo doverebbero ammettere la poligamia. - “Forse non sono persone poi tanto affidabili….Ma dimmi chi è, scrive belle canzoni?” – non si trova particolarmente a proprio agio, così decido di lasciar perdere e non parlarne più, almeno in quel frangente. - “E’ diventato famoso per una canzone in cui narrava di suicidarsi perché era stato lasciato dalla ragazza…ma si trattava di una trovata commerciale….lasciamo perdere.” - realizzo di chi sta parlando, e non so come mai, ma mi assale un senso di inferiorità che mi rende silenzioso ed è una sensazione veramente spiacevole. - “Ah, ho capito…bel ragazzo…e come l’hai conosciuto?” – la curiosità mi divora, e lei se ne accorge. - “Oltre che studiare, lavoro anche per un’agenzia…sai, fanno teatro, cinema e
moda…spettacolo..così ad una festa organizzata da Carlo Verdone a Roma lo conobbi e mi sembrava così un bravo ragazzo…e invece è veramente fuori. Lasciamo stare..”- realizzo che non vuole parlarne. - “Ah, conosci Carlo Verdone? Fa ridere….” – ormai faccio fatica a imbastire un discorso, mi sento schiacciato, sfinito, senza parole. - “E’ veramente un gran signore, è amico di mio padre, si conosconono fin da ragazzi, poi hanno intrapreso strade molto differenti…”- smetto di fare domande e deglutisco l’ultimo pasticcino al lampone. - “ Scusami molto, sai dov’è la toilette?” – si alza sbattendomi in faccia il seno sodo e gigante. In quel momento avrei desiderato alzarle la gonna e sbattermela sul tavolo, fregandomene altamente del via vai di persone. Ciò che mi arresta dal farlo è la paura di essere respinto e di non rivederla mai più. - “Guarda..attraversa la stanza, la prima porta a sinistra….” – si volta ringraziandomi e la vedo sculettando scomparire nella sala. I baristi si voltano per ammirarla. Sento vibrare lo startac, è Bollinger. - “Dove cazzo sei? Devi venire subito!!” – ho sempre avuto il difetto di mettere in mostra le mie conquiste, non so perché, anzi, in realtà il motivo mi è chiaro pefettamente, è un fatto di vanità. Il bisogno di dimostrare. Ma dimostrare cosa? E a chi soprattutto? - “Sto tornando da Vimercate, che cazzo è successo?”- e di botto gli rispondo. Non voglio che mi veda mentre parlo al telefono. - “Vieni da Milena, a Robbiate, sbrigati, altro che espianta reni!!” – rinfilo lo startac nella tasca dei jeans (Versace) e non capisco come mai è ancora nel cesso. Dopo un paio di minuti riappare, mi viene incontro, sorride e strizza l’occhio, e non ha le mani bagnate, neanche il minimo gesto per asciugarle, e mi domando ancora che cazzo sia andata a fare in bagno. Si siede, estrae dalla borsa uno specchio, si guarda ripetutamente e avrei voluto dirle che è perfetta e che non deve curarsi se anche qualche capello non le sta al posto giusto.
- “Prendi ancora qualcosa?”- le domando mentre mi fissa in silenzio. - “No…sei pazzo, ho già assunto una bella dose di calorie!! Con tutti i pasticcini che mi hai fatto mangiare….” – e mentre mi volto per dirle che è bellissima trovo Bollinger davanti a me con il suo Moncler (giallo), i jeans (Versace) celesti. In mano le chiavi dell’sl. Lei lo fissa come se avesse visto un marziano. Lo invito a sedersi al nostro tavolo, e lui saluta con un cenno della testa. - “Lui è Bollinger, un mio grande amico…Lei è Silvia, la ragazza presente alla laurea di mio fratello, ricordi che ti ho accennato a qualcosa?” – entrambi sappiamo benissimo che non è stato solo un banale accenno. - “Piacere…Bollinger.. che nome è?” – e io: - “Fino a due anni fa lo chiamvano J.R….adesso è Bollinger, sai lui non rivela mai il suo nome e nemmeno l’età.” – Lei sorride mostrando una dentatura perfetta, messa ancor più in risalto dal lucida labbra. - “Non dargli retta, dice solo scemate….” – l’imbarazzo del mio amico è evidente, fatica a guardarla in faccia, fissa per terra. Per ripigliarsi ordina una Diet Coke con poco ghiaccio. - “Che bell’orologio hai, è tutto colorato!” – Lei esclama fissando lo Swatch ultra sottile con il cinturino giallo (come l’ Sl e come il Moncler) e il quadrante formato da quadratini viola, azzurri, rossi e verdi. Le lancette (arancioni) indicano le quindici e trenta e il tempo vola. - “Carino…è di mia sorella….il mio amico qui parla molto di te, lo sai?”- mi guarda con il suo sorriso sarcastico. - “Spero che dica solo belle cose…” – avrei risposto anch’io così. - “Ci mancherebbe altro, ho raccontato come ci siamo conosciuti….grazie a mio fratello.”- e la vedo che mi fissa dritto negli occhi come se Bollinger non esistesse nemmeno. - “Solo questo?!” – ride prendendomi le mani tra le sue.
- “Che mani fredde hai!! Ma stai male?” – vedo con la coda dell’occhio Bollinger sorseggiare la coca dopo aver rovesciato il ghiaccio nel posacenere, osservandola attentamente (senza farsi capire) in ogni suo movimento. - “Vuol dire che sto bene, se sono calde ho la febbre, e non sarei qui. Ho la pressione bassa.”- e me le sfrega ancora. - “Sai a che ora c’è un treno per Porta Garibaldi?” – domanda intimidita. - “Ma sei matta, ti riporto io a Milano, anzi, Bollinger, devi tornare in azienda?”- e lui: - “No..” – risponde indeciso. - “Perfetto ti accompagnamo noi, non voglio che tu prenda di nuovo il treno.” – mi alzo e mi avvio alla cassa per pagare e quella troia della cameriera mi guarda ancora giudicandomi in silenzio. Forse non realizza di essere conciata proprio male. - “iamo da casa, così mollo la macchina.” – Lei sta per salire sulla y ma l’accompagno sull’sl e la macchina non le provoca nessun effetto. - “Sali con lui, è un bravo ragazzo, fidati.” – le apro la portiera accompagnandola per sedersi e mentre si sta accomodando sul ricco sedile la minigonna si assesta e l’elastico nero ricamato in pizzo dell’autoreggente mi sbalordisce. Con a culo l’sl arrivo davanti al cancellone di casa dico a mia madre che accompagno Bollinger a Vimercate da un suo cliente e che sarei tornato entro l’ora di cena, rassicurandola che la mattina dopo avrei iniziato a studiare seriamente. L’ultima cosa che m’interessa in quel momento è l’università. Si sistema sui sedili posteriori (l’sl di Bollinger è omologata due più due). Praticamente è sdraiata, vedo ancora le autoreggenti e stavolta si accorge anche Lei ma non lascia trasparire alcun segno di vergogna. Avrebbe dovuto sistemarsi subito la gonna. Se ne sta davanti ai miei occhi con la pelliccia aperta, i capezzoli turgidi e duri sotto la maglia, le gambe divaricate quasi completamente, le mutandine nere si abbinano alle autoreggenti, la bocca
semichiusa, e le pupille dilatate. Bollinger guarda nello specchietto retrovisore mentre smanetta con la radio. Ha capito che mi stavo gettando completamente in un mare di merda senza fondo, e dal quale uscirne sarebbe stato praticamente impossibile. - “Lascia questa stazione!” – gli fermo la mano su RMC, mentre attacca “Outside”. - “Ti piace George Michael?”- la dico guardandola trasalito. - “E’ il mio cantante preferito, questa canzone è fantastica.” – così alzo il volume e guardo il contachilometri. Sfrecciamo a duecento verso Milano. - “Destra o sinistra? Non ricordo bene…” – domanda Bollinger aspettando il verde del semaforo in Piazza Cinque Giornate mentre fuori ormai la sera ha conquistato Milano e un tram strapieno di persone (tutte stanche) ci a davanti, e mi soffermo a pensare a quando sarei riuscito a rivederla, e realizzo che di questo al bar non ne avevamo parlato. - “Ehm…gira a destra, va bene…” – e con un colpo di acceleratore l’sl scoda e al volo ci ritroviamo alla fine di Viale Majno, in prossimità dei bastioni di Porta Venezia e qualcosa non quadra. - “Questa non è Porta Romana, dovevamo svoltare a sinistra….lo volevo dire… ma sei sicura di abitare in Porta Romana?” – commenta Bollinger svoltando con una manovra da ritiro patente per riprendere la direzione giusta. - “Ma certo, è che sono abituata a muovermi in metrò, qua a Milano non ho l’auto, e con le vie è un gran casino…perdonatemi…” – non deve scusarsi, nessuno di noi ha fretta. - “….la Rotonda della Besana.., è questa la strada giusta, bravo Bollinger!” – dice appoggiandomi la mano sulla spalla e sentendo pronunciare Rotonda della Besana un flash improvviso mi colpisce facendomi ricordare di una mostra su Leonardo (da Vinci) che mio padre aveva diretto quando ero bambino, e un mosaico di immagini disordinate volano nella mia testa e per un attimo me ne vado. - “Eccoci, siamo arrivati!! Lasciatemi pure all’incrocio, davanti alla porta, così non dovete riimmetervi nella coda….” – mentre scendo saluta Bollinger
stringendogli la mano e ringraziandolo per il cortese aggio e mi sbatte ancora in faccia queste cazzo di autoreggenti. Sembrava lo fe apposta, e afferrando la mia mano la conduco fuori dall’abitacolo. - “E’ stato bello, davvero.” – mi bacia sulla guancia. - “Anche per me. Ci vediamo presto.” – attraversa approfittando del semaforo verde, vedendola scomparire tra le macchine che sembrano formiche impazzite, e suoni di clacson nevrotici risuonano fastidiosamente e la scritta di un negozio “Mariposa” al neon gialla mi sta a guardare.
IMBATTIBILE
- “Non c’è che dire. E’ la migliore. Andiamo a prendere la pizza da Spontini?”Bollinger sentenzia e so che ha reagione. - “E le autoreggenti? Puttana che figa!! Ma che tette ha? Sono vere?” – l’ho ancora davanti sdraiata sui sedili con le gambe aperte. - “Secondo me sì, anche se vanno contro la forza di gravità. Il naso sembra rifatto, anche se non ne sono tanto sicuro. C’è da dire che è proporzionatissima. La sai la storia delle proporzioni, no? La sezione aurea… Power, per un po’ sei a posto.”- continuo a pensare alle autoreggenti. - “Questa la porti nell’appartamento di tua nonna, la ospiti a dormire e vedi che bell’Inverno trascorri. Altro che le poverette delle nostre parti, fatti vedere in giro al più presto con lei così sistemi tutti.” – sento di aver fatto centro, nel vero senso della parola. Infatti. Mentre svoltiamo in una traversa di Buenos Aires lo startac inizia a vibrare nella tasca dei jeans, e il display lampeggia con la scritta anonimo. - “Pronto!”- esclamo ancora eccitato. - “Ehi..sentivo già la tua mancanza….” – abbasso il volume della radio mentre sta andando in onda il giornale orario che dà notizia della ennesima strage in Medio Oriente. Un altro terrorista si è fatto saltare in aria, imbottito di tritolo. - “Non ci credo…come va?” – mi volto col pollice alzato verso Bollinger che sta cercando di infilare l’sl tra due bidoni della spazzatura, ipotesi che subito abbandona per parcheggiarla davanti a un portone con il cartello o carrabile. - “Prendo due margherite?” – chiede conferma a bassa voce. - “Ok, la mia con mozzarella di bufala e pomodorini…” – scende lasciando le chiavi nel cruscotto.
- “Scusami…ma stavo dando indicazioni a Bollinger su che pizza prendermi, dicevi?”- e nell’abitacolo regna un silenzio assoluto, nonostante fuori ci sia un gran casino. Profumo di pelle e radica. - “Ho capito….una sera possiamo andare a mangiarla insieme, che ne dici?” – non aspettavo altro, e intanto il mio pensiero va dritto alle sue autoreggenti in pizzo nero. - “Certo, per me va bene anche domani sera….” – non rifletto neanche un decimo di secondo. - “Ehm…questa settimana c’è qui mia zia, quindi la sera sono vittima dei suoi inviti, non posso mancare, i miei la mandano apposta in perlustrazione. Mi spiace proprio tanto, ma settimana prossima sono completamente libera. Durante il giorno, invece, non ho nessun problema.” – altra settimana di vacanza. - “Anch’io sono liberissimo, ho tutto il tempo che vuoi…” – avrei disdetto anche gli impegni più gravosi (non ne ho mai avuti). - “Comunque ti ho chiamato per dirti una cosa….” – silenzio di piombo: - “Spero non brutta…” – e Lei: - “Mi piaci sul serio, non ti ricordavo così bello, cioè si, ma non così, davvero, sei stupendo…e poi hai un non so che…” – sta andando sul pesante. - “Anche tu sei fantastica…non vedo l’ora di vederti ancora..” – Bollinger esce dalla pizzeria con in mano un enorme pacco fumante, che a stento riesce a tener tra le mani, e mi domando se avesse preso pizza per sfamare un intero reggimento. - “Siete tornati già a casa?”- domanda quasi sottovoce mentre apro la portiera a Bollinger (mi sono chiuso dentro) e non so se mentirle o meno. - “No, siamo ati a prendere una pizza da Spontini, conosci?” – l’odore di mozzarella liquefatta ammorba l’abitacolo e il calore appanna i vetri. - “Non giro molto la sera a Milano, preferisco starmene in casa a vedere un film in pace, le discoteche non fanno per me, sono più da serate a casa di amici, e tu?” – a questo punto devo farlo per forza.
- “Ogni tanto qualche giro in discoteca con gli amici lo faccio, ma capita raramente, sono del tuo stesso parere, organizzare serate a casa di amici è più bello.” – Non me ne frega un cazzo della serate in casa di amici, le trovo di una noia micidiale, almeno che non ti capita di essere invitato in un attico di qualche personaggione dove le fighe vanno avanti e indietro dal cesso e tra una pippata e l’altra ti succhiano il cazzo fino a farti uscire gli occhi dalle orbite. - “Allora vedremo di tirar insieme qualche bella serata con i miei e i tuoi amici, giusto?” – aspetto impaziente. - “Giusto!” – maschero fino alla fine. - “Allora ci sentiamo….ehm, domani ok?” – noto una bionda platinata camminare verso Piazzale Loreto con il culo stretto in jeans viola (marca non identificabile). - “A domani allora, un bacio….” – e Lei: - “Guarda che non resisterò…ti spedirò qualche messaggino…un bacio.” – e io: - “E io non resisterò a risponderti….un bacio a te..” – attacco. - “Sei cotto!! Porca troia, il Power cotto…dille di tirar fuori subito un’amica altrimenti ti spacco il culo!!” – attacca ancora con la storia delle amiche. - “Figa, fammi uscire un paio di volte, poi vedrai che qualcuna salta fuori!”- e in meno di mezz’ora varco la soglia del cancello di casa e sento mio fratello che strimpella la sonata di Liszt.
POTEVO ESSERE UN GRANDE PIANISTA
Nonostante mio fratello avesse una sensibilità maggiore, o ancora meglio, una musicalità più spiccata, tecnicamente risolvevo qualsiasi aggio senza problemi e, soprattutto senza gran studio e perdita di tempo. La mia permanenza giornaliera al pianoforte toccava a fatica la mezz’ora, e non badavo più di tanto alle sfumature di piano e pianissimo. Ho sempre prediletto gli studi di Chopin (li eseguo tutti) e quando ho fatto un concerto al liceo (in quinta), attaccando come bis il numero dodici (“La caduta di Varsavia”), ho scaricato grandi palate di merda addosso a tutti quelli che mi consideravano soltanto un figlio di papà stronzo e presuntoso. La mattina seguente venivo riverito dal Preside al bidello, dalla fighetta matricola alle mie compagne maturande (la maggior parte facevano dei gran pompini nei cessi tra un cannone e l’altro) e così mi sono salvato il culo, visto la mia condotta quasi sempre a filo bocciatura. Addirittura all’esame di maturità mi hanno cambiato la materia, rifilandomi storia al posto di inglese. Grandissimi FIGLI DI PUTTANA. Mia madre mi schiaffò davanti alla tastiera quando avevo ancora sette anni (appena compiuti) e non potevo vedere né solfeggio, né l’insegnante, che, anche lei, mi giudicava un cerebroleso. In effetti non andavo molto d’accordo con i due e i tre quarti, il cantato, i dettati, il setticlavio, e nemmeno con i vari Rossomandi e Czerny, tutti esercizi noiosi e merdosissimi, composti da arpeggi, accordi, scale e scalettine da fare in punta di dita. La maestria mestruata voleva che suonassi piano perché temeva che da un momento all’altro le disfassi il suo Steneway cazzuto strausurato e stravecchio. Temeva il tracollo della martelliera. E così ogni anno sfornava un bel gruppetto di ragazzetti adatti più a prenderlo nel culo che a fare i pianisti. Ogni settimana mi appioppava sul quadernetto degli esercizi un paio di note comportamentali. In effeti il libro di solfeggio non lo aprivo nemmeno, in compenso a otto anni sapevo suonare anni il Children’s Corner di Debussy senza cannare una pausa e a dodici eseguivo perfettamente il “Chiaro di Luna” e “La
Patetica”, a quindici le “Variazioni su un tema di Paganini” di Brahms e la sonata di Liszt, nonché le ballate di Chopin e altri pezzi tecnicamente complicati. Avrei potuto sicuramente diventare un pianista professionista, un grande, ma non avrei retto col culo sulla panca otto ore tutti i giorni. E’ davvero un massacro fisico e psicologico, inoltre la concorrenza non ha limiti. I bambini russi e cinesi sono diplomati già in gestazione e anche se non hanno i soldi neanche per cagare qualche benefattore o cacciatore di talenti pronto a portarli al Conservatorio lo trovano sempre. E poi col cazzo che mi sarei ritrovato col fisico scolpito. Mai visto un pianista bello in forma, sono tutti gracili con la pancia e le braccia da malfamato, e neppure mi è mai capitato di trovarne qualcuno nei locali alla moda a spupazzarsi donne dalle tette di gomma, non che questo certo sia meritevole di lode, ma se non altro è uno dei deterrenti che spiega perché poi va a finire che anche i pianisti sono tutti froci bavosi. - “Dai, fammi provare un attimo…”- lo scanso a bordo panca, ritrovandoci seduti in due. - “Lascia pure chiuso lo spartito, vado a memoria, anche se è un po’ che non tocco la tastiera, ehm, come faceva?” – attacco le ottave della sonata di Liszt, avendo un attimo di smarrimento, ma la cognizione della tastiera arriva subito. Suonata quasi tutta la partitura con mio fratello in fianco trovo sulla soglia della camera mia madre commossa e mio padre che scuote la testa (si chiede perché sono così una testa di cazzo) e mi sembra davvero strano la mia difficoltà nel dare un test di matematica finanziaria di difficoltà elementare rispetto al pezzo che ho nelle mani (nel cervello) e giungo alla conclusione (elementare anche quella) che le matrici non trasmettono nulla a livello emozionale. Mi spiego, non è che se calcoli un determinante corretto ti viene la pelle d’oca, mentre saper suonare la sonata di Liszt ci si sente in un certo qual modo appagati. Visto la situazione (non suonavo insieme a mio fratello da una vita) decidiamo di eseguire la fantasia a quattro mani di Schubert, anche se non è uno dei miei autori prediletti, e così, risolvendo i problemi di sincronia iniziali, e trattenendo il mio tocco pesante (faccio l’accompagnamento) cerco di essere il più lieve possibile. Allietiamo i miei genitori per una mezz’ora abbondante. Sono molto felici.
Il fottuto taglio si sta rimarginando, anche se ormai lo sfregio sarebbe rimasto indelebile, non che la cosa mi spie più di tanto, ultimamente ho sentito da qualche parte (forse al telegiornale) di una setta che ha lanciato la moda di tagliarsi per poi esibire le cicatrici (i tagli preferiti simboleggiano croci) come tatuaggi e di giorno in giorno gli adepti di questa corrente di pensiero stanno crescendo sempre di più e la chiesa teme che il fenomeno assuma proporzioni non solo allarmanti, ma soprattutto blasfeme. Realizzo soddisfatto che finalmente posso riprendere i miei allenamenti a pieno ritmo. Vado nel negozio di articoli sportivi più vicino e compro una poderosa scatola di creatina e cinque dischi da due chili ciascuno per aumentare il carico di lavoro. Appena fuori dal negozio stacco dal blister tre pastiglione e le ingoio a secco, senza nemmeno bere un po’ d’acqua, e salendo sulla y sento vibrare lo startac in tasca. Apro il guscio e vedo sul display la scritta anonimo. - “Pronto….” – il mio tono di voce è normale. - “Ehi.. sono Silvia, ciao….come stai?” – e io: - “..che bello sentirti, bene…e tu?” – salgo in macchina deglutendo l’ultima pastiglia. - “Bene, oggi non ho voglia di far niente, poi c’è mia zia che continua a stressarmi e tra una scusa e l’altra mi tira sempre in ballo, vuoi per accompagnarla a far shopping, vuoi per andare a mangiare a casa sua… insomma…non riesco a star un attimo in pace, ora mi sta aspettando per pranzare con lei. E tu, che fai di bello? Dove sei?” – infilo la statale trentasei per tornare a Merate. Dietro di me una serie S nera. - “Insomma…di bello, sono appena uscito da un negozio di articoli sportivi per comprare dei pesi…”- percepisco il rombo di un motorino provenire dal suo ricevitore. - “Ho visto che sei messo bene, sei un falso magro…” – non capisco: - “Un falso magro?” – e Lei: - “Non fraintendermi, non sto dicendo che sei grasso, anzi, si vede che sei
massiccio e asciutto, che fai attività fisica…sei bellissimo, mi piaci da morire… te l’ho già detto, anzi scritto…non riesco a non pensarti, poi dall’ultima volta che mi hai accompagnato…” – fisso il cruscotto. - “Sai benissimo che anche tu mi fai impazzire…a proposito, quando ci vediamo? Come sei messa nei prossimi giorni?”- aspetto la sua risposta con il cuore in gola: - “Mia zia rimane a Milano fino a sabato mattina, poi ci sono…potremmo organizzare per sabato pomeriggio, andiamo a prendere un tè e a fare un giro in centro se ti va.” – ingoio un’altra pastiglia. - “Certo che mi va, stai scherzando, non vedo l’ora…” – e mai come in quel momento sto dicendo la verità. Una gran sete mi attanaglia il palato, effetto collaterale del blando integratore, e in macchina non ho nessuna bottiglia di Evian a portata di mano. La salivazione mi impasta la bocca, senza darmi tregua. Sudo e la voglia di correre mi prende nelle gambe. - “Allora come rimaniamo d’accordo?” – domanda intimidita. Ho bisogno di bere assolutamente e così svolto per l’Esselunga, sorando a destra una decina di macchine per accapararmi al volo un parcheggio vicino all’entrata. - “Confermiamo addirittura per sabato pomeriggio? Che ne dici? Facciamo verso le quattordici e trenta?”- domando consapevole di essermi giocato l’ora di sonno pomeridiana. Ma per Lei ne vale la pena. Vale la pena far tutto. - “Direi che va benissimo, ma dove sei ora? Sento un gran casino…”finalmente sto agguantando un cassa di Evian dallo scaffale, scansando il carrello di una troia occupata a parlare al cellulare, mentre la gente mi vede come un malato di mente fuggito da qualche manicomio (madido di sudore, con gli occhi iniettati di sangue). Ma non mi sono drogato. - “Al supermercato, devo comprare dell’acqua, a mia madre si allungano le braccia, sai le cassette pesano troppo…” – scoppia a ridere, ma non capisco come mai. - “Perché ridi? E’ vero, sono come macigni…” – e continua sempre più forte.
- “Dai, smettila….ci sentiamo ancora prima di sabato, vero?”- e frugando nel portafoglio (non ho neanche una lira) estraggo la carta di credito, che lancio alla cassiera (orrenda) aspettando di firmare la ricevuta. - “Ma certo splendida, stai scherzando, ci sentiamo quando vuoi.”- la biro che quella stronza squattrinata mi allunga non funziona. Gliela lancio indietro scocciato. - “Va bene, ti mando un bacio…” - e io: - “Un bacio anche a te…” – attacco, notando la cassiera spazientita con un’altra penna in mano. Brutta troia schifosa, che cazzo aspetta, la firma del messia? Forse vede in me un tipo sereno che parla tranquillamente al cellulare con una strafiga che per caso avrebbe voluto essere lei? Oppure ho sott’occhi la solita frustrata finita, come la sua vita, davanti al nastro trasportatore a contare i soldi degli altri? Mi scolo una bottiglia da un litro e mezzo di Evian e realizzo di sentirmi davvero sollevato. Ho smesso anche di sudare, gli occhi si sono normalizzati, niente più lacrime e rossore, mi sento completamente ripigliato. La mia situazione con l’università implica necessariamente di VOLARE a casa a studiare, ma non ho voglia di star male di nuovo, così decido di andare a correre. Fa bene correre, esalta l’ambizione al sucesso, più ti senti stanco e più ci dai dentro, non riesco a smettere fin quando il cuore pulsa talmente tanto da farmi scoppiare i timpani, e ogni o è così pesante e dolorante che sono costretto a stringere i denti per arrivare fino alla fine. Un po’ come la vita, l’unica differenza è che quando corro stabilisco io quando smettere. Dopo essermi rilassato per un’ora nella doccia (ho corso così intensamente che sento le tempie scoppiare) alzo il cordless e compongo il numero di Silvia attivando la funzione numero riservato. Al quinto squillo risponde - “Ehi bellissima…che fai?”- per nulla sorpresa: - “Ehi…niente di che, mi sto vestendo per andare in Università a prendere gli orari delle lezioni.. e tu?” – sono sdraiato sul letto con il cazzo in mano: - “Sono in relax, ho corso per quasi un’ora….mi sto ripigliando. Beata te che
abiti vicino all’Università, io devo farmi un pacco di viaggio…lasciamo stare l’argomento che mi viene male…” – e penso subito all’infinita fila di esami che avrei dovuto superare e un conato di vomito mi prende all’improvviso. - “Sai che non vedo l’ora di vederti? Conto i giorni e poi conterò le ore…” – continua a sbalordirmi sempre più. - “Se non c’era tua zia ero da te anche adesso…” – e Lei: - “Davvero?” – e io: - “Puoi scommetterci…” – e avrei puntato qualsiasi cifra. - “Accidenti, mi spiace, ti prego, aspetta fino a sabato…il tempo a in fretta…” – e io, trasferitomi in bagno per pettinarmi, con il viso attaccato allo specchio: - “Hai ragione, troppo in fretta.” – e il rossore agli occhi sta ritorìnando e penso di essere allergico a qualcosa, ma ciò è impossibile. L’inverno sta arrivando e la natura è andata a dormire.
BASTA PAGARE
- “Pronto…” – rispondo con la faccia schiacciata sul cuscino senza nemmeno guardare il display. - “Ma dove cazzo sei finito?” – Bollinger domanda stupito. - “Sono in casa, perché? Che ore sono?”- e lui: - “E’ ata da un pezzo l’ora di cena, e sono qua davanti al tuo cancellone che sto aspettando da più di mezz’ora, ti ho fatto uno squillo come d’accordo, ma stai dormendo?” – ricordo di aver cenato con i miei e aver tracannato da solo quasi una bottiglia di Brunello, e di essermi sdraiato cinque minuti. - “Cazzo, scusami, dammi un quarto d’ora e scendo…arrivo…Cristo…” – con la bocca impastata mi alzo ancora agonizzante e realizzo che un altro venerdì sera sta per iniziare e per la notte non sono stati fatti progetti. Il pensiero che all’indomani l’avrei rivista mi svia dal programmare impegni imminenti e, stranamente, non me ne frega quasi un cazzo di niente. - “Dai, muoviti!” – attacca mentre in sottofondo sento “ Last train home” di Pat Metheny. Trovo in anticamera mia madre, già in vestaglia (sono le 22.30) intenta a preparare dei vestiti da portare in lavanderia e mio fratello con aria stanca si aggira per la sala da pranzo con un pezzo di cioccolato (Domori) in mano, e il mio problema, come al solito si materializza nel quagliare il giusto mix di vestiti per la serata. Non ho tempo di riflettere, così infilo una felpa (Ralph Lauren) blu, un paio di jeans stracciati ( Armani jeans) e, realizzo che i capelli non sono un gran che. Così li phono alla cazzo con dell’aria fredda fissandoli con un paio di vaporizzate di lacca Biopoint. Agguanto una banconota da centomilalire dal portafogli di mio padre e capitombolando giù per lo scalone, con le fibbie delle scarpe (Paciotti) slacciate, realizzo di non aver messo il profumo, e questa dimenticanza mi manda in
fibrillazione. - “Dove cazzo andiamo, non ho organizzato niente…”- esordisco senza nemmeno salutare. Quando vengo svegliato di colpo divento una iena. - “Oggi ho sentito che due delle mie operaie parlavano di un posto chiamato “Il Tintero” a Milano, zona Foro Bonaparte…hanno detto che quando ci sono state settimana scorsa si sono vergognate da morire perché pieno raso di modelle…e visto che loro sono decenti…suggerisco di far un salto.” – in effetti le lavoranti del Cavaliere sono tutte scopabili (Bollinger tra un album e l’atro le ha infilzate tutte). - “Perfetto, anche se non sono nelle migliori condizioni, porca troia non ho messo neanche la crema..cazzo, questi jeans del cazzo sono troppo lunghi, coprono la spada, devo dire a mia madre di portarli dalla sarta.” – inizio a smanettare nervosamente con la radio. - “L’hai sentita?” – superfluo chiedere a chi si riferisse. - “Non mi molla un attimo. Senza tregua, domani pomeriggio la rivedo…” – inizio a rilassarmi. Il cervello certe volte combina strani scherzi. - “Occhio, lo so che è a posto, cioè, si vede…non si può dire niente, ma vai coi piedi di piombo, mi raccomando. Ricordati sempre: le donne calcolano tutto, nel minimo dettaglio. Noi pensiamo di essere avanti, ma ci sbagliamo. Non saremo mai al loro livello.” – la vita è una questione di livelli. Parcheggiamo in doppia fila. - “Niente male questo posto…”- nel locale noto subito una mezza brasiliana (non è bionda né mora, l’incarnato punta all’olivastro) sorseggiare Moêt su un puff in pelle bianca accompagnata da un vecchio abbronzato. - “Quante troie…tutte a pagamento!! Vedi, se vuoi guadagnare un botto di soldi non hai tempo per coltivare una bella storia. Inimmaginabile poi pensare di costruire una famiglia. Basta pagare, come per tutto del resto. E poi se devo pagare, pago per farmi della strafighe, mica per allevare marmocchi che cagano dappertutto? Power, ma per favore.”- realizzo che in fondo questa teoria non è poi così male.
- “Cosa bevi?”- sfilo il centone dalla tasca dei jeans. Mio padre non si accorge mai se gli fotto pezzi da cinquanta o da cento. - “Un vodka tonic, e tu?” – concordo nella scelta. Il primo è come l’acqua fresca, e in due sorsi il bicchiere rimane asciutto, così ne ordino un altro senza pensarci due volte, vedendo con estremo piacere che quella troia mezza brasiliana contraccambia insistentemente il mio sguardo, non potendone più del vecchio che le tiene la mano viscidamente. - “Dovrebbero pattuire che flirtare con il primo che capita comporta uno sconto significativo sulla parcella…” – commenta Bollinger già ubriaco. - “Cazzo è proprio una gran troia, si fa pagare e poi vuole scopare con te…falle cenno di andare nel cesso, scommetto un altro drink che come minimo ti lascia il numero, una bottiglia di Moêt che te la scopi.”- in fondo non mi costa nulla, bisogna sempre tentare nella vita, e quel vecchio pezzo di merda del cazzo non si è nemmeno accorto di me. E’ bello entrare gratis dove gli altri pagano. - “Guarda…uhh, come guarda, se non la porti nel cesso sei un coglione!!! Se avessi i tuoi capelli e la tua faccia, vedevi dov’ero a quest’ora..”- niente, è andato. Ma la troia color caffèlatte ha deciso di farmi la risonanza magnetica. Sembra ipnotizzata. - “Adesso vedi…” – alzo il braccio e con l’indice indico il cartello toilette, e lei allarga il sorriso. Mi volto verso Bollinger e sorrido stradivertito. Dieci minuti dopo sta allargando le gambe per prendere il mio cazzo, la faccia tutt’uno con la porta del cesso. L’aria non è puzzolente, anzi profuma di Gled, merito della vietnamita appostata fuori con lo spazzolone in mano (mi sarei scopato anche lei) e un piattino cosparso di monetine. E’ bagnata come il il lavandino al quale ho aperto l’acqua per attutire i rumori. A fatica riesce a trattenere i gemiti e ogni volta che lo prende sento bagnarmi sempre più, e realizzo che sto per venire, ma non è ancora il momento. La piego in avanti alzandole il vestito (Yves Saint Laurent) fino a metà schiena e con le mano destra le divarico per bene le natiche (è decisamente curata e depilata) e sfilandoglielo dalla figa (non c’è bisogno di sputargli sopra, sembra inzuppato di bagno schiuma) lo punto dritto nel suo bel buco del culo.
- “Sì culo!! Dai, dai, ah…ah!!” – Sì culo??? Entra senza il minimo sforzo, e lei ormai dal godimento grida senza più trattenersi. Così decido di inondarla di sperma. Mi lavo nel lavandino, emettendo una sonora pisciata al sapore di Vodka. Lei si tira su le mutandine e ride da ebete. Risalgo al piano superiore. - “Senti qua…”- metto sotto il naso a Bollinger l’indice e il medio. - “Cazzo fai?” – e io: - “Scusa? Per favore, una bottiglia di Moêt Riserva, grazie mille.. ah, paga lui…” – e il cameriere sgattaiola dietro al bancone, riempiendo alla velocità della luce il cestello di ghiaccio. - “Profumo di buco del culo di brasiliana…gliel’ho messo da tutte le parti, se guardi attentamente ha lasciato la striscia sul pavimento…perde la mia sborra…”- e la bottiglia è già sul tavolo e la troia ha ripreso a fissarmi e il vecchio non si è accorto di nulla, e la accarezza come un cazzo di papà premuroso. - “Ma che schifo!! Non arrivavi più…quant’è?” – sfila duecentomila dal fermaglio d’oro. - “Centonovanta.” – dice il cameriere abbozzando un sorriso. - “Tieni duecento, ma stappa la bottiglia.” – e con un gran botto fa schizzare il tappo in fondo al locale. - “Alle troie.” – proclamo facendo scontrare il flûte con quello di Bollinger. - “Alle troie.” - conferma lui. Brindo a lei. La fisso e le assegno un pollice alzato. - “Domani pomeriggio devo incontrarla, vieni anche tu?” – durante il ritorno, dopo aver tracannato mezza bottiglia, sento la testa viaggiare per lo spazio, gli occhi sono incendiati più che mai e una stanchezza spossante sta sopraggiungendo. Il Daytona segna le quattro e mezza e mi domando perplesso come mai mia madre non si è ancora fatta sentire. - “Ancora! Che cazzo vengo a fare, a reggere il moccolo? Ma non l’hai
imparata la strada?’”- non so neanch’io perché volevo essere accompagnato per la seconda volta, ma c’è qualcosa di non chiaro, e da solo non riesco a capire. Bisogna sempre capire. - “A che ora?”- mi domanda Bollinger. - “Ma…penso verso le tre, devo sentirla in mattinata….porta la macchina fotografica, le facciamo qualche scatto…” – gli occhi iniziano a chiudersi. - “Bravo, buona idea.” – mi addormento con la testa appoggiata al finestrino. L’sl sfreccia nell’oscurità, autolimitata a duecentocinquanta all’ora.
SERVIZIO FOTOGRAFICO
Non ho la minima cognizione di che ore siano. Mascella di piombo e mani gelate. Rispondo alla vibrazione dello startac lasciato sul comodino senza scannerizzare il display. - “Ehi…disturbo?’”- dall’altra parte la voce eccheggia nella mia testa come se avessi traslocato al centro della terra ed intorno a me vedo solo deserto e nient’altro. Tenebre infinite. Non ricordo quasi nulla della serata trascorsa, e ho il solito martello pneumatico impiantato nella fronte. - “Ehm…un attimo, che ore sono?”- so chi è dall’altra parte, ma sbaglio le parole, e non me ne accorgo, escono così. Sono ancora fuori. - “E’ quasi mezzogiorno…ma che hai? Stai dormendo ancora?” – in effetti ho bisogno di altre tre ore di sonno profondo. - “Ehm…cioè sì…ho fatto un po’ tardi…” – scartabello tra i soldi e gli appunti di finanziaria sulla scrivania in cerca del Daytona scomparso (ma dove l’ho lasciato?). - “E….dove sei stato?” – ce l’ho al polso. - “Vicino a foro Bonaparte… al Tintero…non male, io e Bollinger, ho bevuto troppo…come va? Allora ci vediamo oggi pomeriggio?” – e dall’altra parte: - “E’ un posto alla moda, ci sono stata una volta, ehm, comunque mia zia è ripartita…va bene..a che ora ci vediamo?”- fatico a pensare una risposta sensata. - “Ehm…facciamo per le quindici? O è troppo presto?”- ho la testa come un pallone gonfio di formiche impazzite. Devo trangugiar assolutamente qualche pastiglia il prima possibile. - “Direi che è troppo tardi…uffa, non vedo l’ora di vederti…” – la ragazza scalpita.
- “Dammi solo il tempo per mangiar qualcosa e farmi una doccia….cerco di far il più presto possibile…sei uno splendore…” – ho ancora addosso l’odore di quella troia brasiliana. - “Va bene… ci troviamo davanti a Mcdonald’s. Quando sei nei paraggi fammi uno squillo, così mi precipito subito….” – inizio ad alzarmi lentamente, come un vecchio malato. - “A dopo allora….un bacio…”- sto varcando la soglia del bagno, e come al solito in casa non c’è nessuno, e l’incubo di prepararmi una mezza colazione sopraggiunge nella mia testa. Devo metter sotto i denti qualcosa, mi sento uno squalo affamato. - “Un bacio….”- sfilo l’uccello per pisciare e realizzo che è così piccolo e ammosciato da sembrare un verme schifoso. Gli uomini vivono per il cazzo, non è ridicolo? Il solito biglietto dei miei sul tavolo in sala da pranzo dice che sono andati a fare spese (non è indicata la destinazione) e che prima delle quattordici non si sarebbero fatti vedere, e facendo due calcoli a rilento realizzo che forse li avrei rivisti verso l’ora di cena, o se non addirittura, la mattina seguente. Prendo dal frigo una bistecca di filetto, e, vista l’ora di pranzo e il mio stato psico-fisico assimilabile a quello di Jim Morrison in post-concerto inizio a far scaldare la piastra. Prendo il cordless e digito a memoria il numero di Bollinger e dopo una lunga attesa (probabilmente sta ancora dormendo) risponde con voce impastata: - “Pronto….” - e io: - “Alle quattordici da me…” – e lui: - “Ma sei fuori, sono ancora a letto….lo sai che ci metto una vita a prepararmi…”- e io: - “Non rompere il cazzo, alza il culo, fatti un bel bagno, mangia qualcosa e ami a prendere…ah, ricordati la macchina fotografica…”- faccio scorrere l’acqua bollente della doccia per riscaldare la stanza.
- “Va bene, ma mi aiuti a portare l’attrezzatura….”- gli attacco prima che finisca il discorso. Rimango paralizzato mezz’ora a sentire lo scrocio dell’acqua sul mio corpo. Faccio una fatica tremenda a lavarmi. Mentre mi fisso allo specchio realizzo che la piastra in porcellana per cuocere la bistecca sta prendendo fuoco, e un odore di olio bruciato serpeggia per la casa, e per forza mi precipito nudo a spalancare tutte le finestre, con il rischio di prendere una broncopolmonite. Dopo aver rimediato l’accapatoio (stranamente finito in lavanderia) mi cucino quella cazzo di bistecca, accompagnandola con della rucola e dell’acqua minerale, anche se avrei preferito del buon chianti. Ma il mio stomaco è devestato. Tiro un rutto fotonico e mi accingo a scegliere l’abbigliamento pomeridiano. Non ho molta voglia di dilungarmi, così opto per i jeans indossati al Tintero, ma vedo che sono tutti macchiati di sborra secca. Così li getto dritti nel cesto di roba da lavare, e ne scelgo un paio (Armani jeans) blu scuro, messi forse due volte. Allacciando al polso il Daytona sento lo startac fare uno squillo, e, guardando dalla finestra del soggiorno noto l’sl davanti al cancellone. Asciugo i capelli al volo e mi precipito per lo scalone, riflettendo sul concetto di ricchezza e benessere. Senza questi si trascorre una vita di merda. - “Come sei messo?” – una ventata di Escape mi fa arrossire gli occhi. - “Non sto in piedi, cazzo. Sono uno straccio.” – in effetti siamo entrambi pallidi e con occhi straincendiati. RMC trasmette “ Fresh” dei “Cool and the gang” e la canto mentalmente. - “Perchè cazzo mi hai fatto prendere la macchina fotografica, vuoi farle un servizio porno?” – lo startac comincia a tremare nella tasca dei jeans. - “Pronto…” – mia madre in crisi convulsiva. - “Ma dove sei?” – sbuffo nella cornetta. - “Sto andando a far delle foto con Bollinger…”- balla stratosferica ma con un filo di verità. - “Ma cosa stai dicendo? Se c’è un tempo merdoso!!” – sa perfettamente che
non le sto raccontando la verità. - “Infatti, è ottimo per le foto in bianco e nero. Sai l’inizio dell’inverno, la nostalgia dell’estate…” – e Bollinger sghignazza. - “Sei un deficiente!! Vieni a cena?” – un attimo di silenzio per riflettere. - “Sì, cioè, penso di sì….non sento più..c’è qualche interferenza…ciao…” – attacco. - “Ma vai a cagare cretino, non ne posso più…”- ha ragione, ma non posso farci niente. - “Che coglioni, se non mi metto a studiare seriamente mi rovinano.”- ma non ho proprio lo stato mentale (e fisico) per are pomeriggi a rompermi il cazzo su quattro formule di merda. - “Ma le hai detto che vogliamo farle qualche foto?” – e io, isterico nel cercare una canzone abile. - “Non ricordo….merda ma non c’è un cazzo di decente…” – mi soffermo su radio tre, che trasmette un notturno di Chopin suonato da Rubinstein, e mi addormento per dieci minuti, colpito da una botta di stanchezza improvvisa. - “Dove dobbiamo trovarci?’”- domanda Bollinger. - “Ehm, ah, dove siamo…sì, vicino a Mcdonald’s, devo chiamarla….” – compongo in fretta il suo numero, mettendo in mute la radio. - “Ehi.., sono io, siamo davanti a Mcdonald’s…ti aspettiamo…”- e Lei: - “Come ti aspettiamo? Con chi sei?” – domanda sorpresa: - “Con Bollinger….sai, avevo difficoltà a trovare ancora con la strada…”- dico, senza nemmeno far più caso alle parole che escono dalla mia bocca. - “Ho capito…esco ora di casa, tra dieci minuti sono lì..” – attacca infastidita. Forse le sta sul cazzo la compagnia di Bollinger, magari avrebbe preferito essere sola con me, e la capivo, anch’io ci sarei rimasto male se avesse portato una sua amica (forse non più di tanto, bisognava vedere l’amica) ma non me ne frega un
cazzo, qualcosa non quadra ancora perfettamente. E’ come quando il tempo è incerto, non sai se verrà un temporale o se continuerà a risplendere il sole. Nel dubbio, un ombrello può essere di grande aiuto. - “Cazzo dice?”- Bollinger disattiva il mute dalla radio (Rubinstein continua a suonare). - “Tra dieci minuti dovrebbe arrivare…mi chiedo dove possa abitare, secondo te? Ma per che cazzo non mi dice di andare a prenderla sotto casa?”- capirlo è impossibile. - “Come faccio a saperlo, non vedi quanti edifici e vie. Può anche arrivare con il metrò, guarda….là c’è la fermata…anzi, dall’altro lato della strada ce n’è un’altra.” – mi guardo intorno. - “In effetti….” – e con gli occhi fissi sulla fermata realizzo che in meno di un minuto un migliaio di persone sono sbucate dal sotterraneo. - “Eccola, sta arrivando….cazzo con stivali e panta lucidi…” – e lui: - “E’ proprio una strafiga…” – scendo dall’sl per andarle incontro. - “Ciao..come stai?”- sfioro le labbra con le sue: - “Bene, sei sempre più bello…”- e io: - “Sono un po’ fuori forma, avrei bisogno di riposare di più.’” – mi tremano le gambe. - “Ciao Bollinger, come stai?”- gli porge solamente la mano, limitando la sua sfera di attenzioni a me. - “Un po’ stanco, Power mi fa andare a letto tardi la sera…”- e io: - “E alzare presto la mattina…che cazzo è? Uno spot?”- si accomoda sui sedili posteriori, si slaccia il giubbotto (Gucci), rimanendo con un maglione rosso di lana leggera, molto aderente, che le comprime i capezzoli, dritti e gonfi. - “Andiamo a fare un giro in ceeeentrooooo?” – schizza Bollinger all’improvviso, sgommando e scodando verso Viale Majno, superando una
ventina di macchine, sia a destra che a sinistra. - “Uhao, non c’è come una tirata con l’sl per farti andare l’adrenalina a mille.”proclamo voltandomi verso di Lei. - “Ehi, Bollinger, hai il piede pesante…ma tua mamma si fida a mandarti in giro con lui?”- e io: - “Certo, è la sua che non si fida sapendo che è con me…” – ci infiliamo in un parcheggio sotterraneo in Corso Venezia. - “Che ne dici se andiamo a farci un giro per negozi e poi a bere un tè?”propongo ripigliato dallo sparo con l’sl (non sento più la stanchezza). La guardo ancora e rimango esterrefatto dalla sua bellezza. Non so perché siamo in piedi uno di fronte all’altra, soprattutto perché lei sta in piedi di fronte a me. - “Certo, facciamo quello che vuoi….e tutto quell’armamentario cos’è?”- fissa la borsa con l’attrezzatura fotografica che Bollinger si sta mettendo in spalla. - “Lascia, lascia, la porto io…”- gliela sfilo, caricandomela sulla schiena. - “Cazzo, pesa una cifra, ma ci hai messo dentro i sassi?” – e lui: - “Hai visto, si fa fatica….il più delle volte rinuncio a far foto perché devo caricarmi quel peso allucinante.”- è un’attrezzatura di primissimo livello. Macchina, obiettivi, tutto Nikon. - “Ti va se facciamo qualche scatto?”- e, temendo un diniego seccato, risponde: - “Assolutamente no, anzi, magari facciamo qualche foto insieme io e te. Poi però le voglio tutte.”- cosa pensava? Che forse le avrei utilizzate per qualche rito voodoo del cazzo? - “Senti Silvia, il mio amico Power mi ha detto che eri fidanzata con un cantante famoso….giusto?”- Bollinger mi coglie alla sprovvista. - “Ah…vi dite proprio tutto voi due! Sì, certo, e allora?” – va sulla difensiva. - “No, niente, mi chiedo come mai sei qua con noi….i personaggi famosi e il successo sono ambiti da tutti…”- Bollinger incalza.
- “E’ vero, ma io voglio l’onestà e la sincerità dalla persona che sta con me. Pensa che non ho avuto alcun tipo di rapporto con lui, intendo rapporto sessuale. Non mi dava affidamento, così gli ho chiesto di far il test dell’Hiv, ma non l’ha mai fatto. Poi le telefonate e i messaggi che riceveva, una ragazza dietro l’altra. Devo essere la sola, altrimenti posso averne quanti ne voglio, più di un personaggio famoso. Fidati.” – e Bollinger: - “No, no, mi fido. Hai capito Power, pensaci bene.”- ci inoltriamo per Corso Vittorio Emanuele. Stento a credere alla storiella del test, tutti quelli che stanno insieme scopano, solo i bambini durante le scuole elementari quando giocano a marito e moglie non fanno le porcate (perché sprovvisti di nozioni su cazzo duro e figa bagnata). Probabilmente è stato un modo per mettermi sull’attenti levandomi dalla testa il pensiero di scoparla al volo. E poi, non poteva usare i preservativi? - “Dai!! Andiamo su là!!” – esclama prendendomi la mano, indicando un edificio in stile fascista in fianco al Duomo, di marmo bianco-rosato, in cima al quale un mucchio di persone gremiscono la terrazza dell’ultimo piano assitendo a qualche spettacolo ancora non identificabile. Sembra entusiasta di essere con me. Mi trascina (lo zaino con la macchina fotografica è davvero pesante), su per le larghe scale che conducono allo show. Bollinger la guarda ipnotizzato. E’ veramente il massimo. Sulla terrazza che domina Palazzo Reale, il Duomo e la Galleria un gruppo di vietnamiti (o forse indiani) suonano musiche new age e due ballerine truccatissime danzano seminude al freddo. Non capisco cosa stanno rappresentando, anche se tra flauti e sintetizzatori si destreggiano dignitosamente. C’è molta gente perché non si paga il biglietto. Bollinger ci dà dentro parecchio con la macchina fotografica, intercambiando innumerevoli obiettivi. Silvia sa mettersi in posa, senza la minima difficoltà, stando agli input del maestro. - “Guarda dritto, stai ferma, Power tieni la stampella per favore.”- il garzone apprendista. - “Mettetevi in mezzo alle due colonne, un po’ più centrato, ecco guardala…
perfetto. Silvia, sfilati il giubbotto, ok, così….fermi.” – scatta tre volte di fila. - “Ora parlate…”- e io: - “Di cosa?”- e Bollinger: - “Di qualunque cosa, fregatene, parli sempre di cazzate…”- Lei ride: - “Hai visto, mi dice che sono un cazzaro, che ne pensi?”- mi guarda fissa sorridendo, e sento il suo profumo. - “Dove sei stato in vacanza?”- mi domanda mentre Bollinger si sente Helmut Newton. - “Da lui a Santa Margherita e poi all’Isola d’Elba…e tu?”- non riesco a staccarle gli occhi dai suoi. - “I miei hanno una casa sulle coste laziali e una barca. D’estate cerchiamo sempre di riunirci per trascorrere una settimana tutti insieme, viene anche mia nonna. Magari il prossimo anno potresti are a trovarmi…”- lascia cadere la frase. - “Basta che m’inviti…”- le bisbiglio. Il suo profumo non mi lascia un secondo. - “L’ho appena fatto.”- la bocca quasi attaccata alla mia. Tutto il resto è scomparso. - “Basta Power, per me può andare bene così.”- Bollinger ripone due rullini nello scomparto dello zaino. - “Peccato, iniziavo a divertirmi. Andiamo a prenderci un tè.”- propongo mentre due colombe volano verso il Duomo. Il tempo sta correndo, sono le diciassette e quindici, e stranamente mia madre non ha ancora chiamato. Non sopporto la folla accalcata per Corso Vittorio Emanuele. Una manica di fannulloni di tutte le razze sguazzano con sorrisi stolti e felici perché sfoggiano sacchetti firmati più o meno di tutte le misure. Tagliamo per Via S. Pietro all’Orto, puntando verso Cova, e molte quarantenni abbronzate con le tette rifatte e perfette mi guardano flirtando e Silvia se ne
accorge, anche se non lo da a vedere. Il maître ci fa accomodare ad un tavolo nella saletta più piccola, assicurandoci che entro breve un suo collega sarebbe stato a nostra completa disposizione, e, sedute vicino al nostro tavolo un gruppo di troie dell’est banchettano gesticolando nervosamente (sono tutte pippate) e ai loro piedi risaltano due sacchetti di Cartier stracolmi di pacchetti regalo. La figa fa miracoli. Ordiniamo del tè con dei pasticcini al lampone, una decina, e Bollinger scusandosi va alla toilette e, vedendolo da dietro, realizzo che sta dimagrendo alla velocità della luce. E’ convinto che mangiare un pugno di riso e verdure cotte come fa il suo filippino (ha settant’anni ma ne dimostra 50) fa lavorare meno lo stomaco e si vive più a lungo. - “Bene, sei contenta di questo servizio fotografico?” – assaggio una pasta. - “Sono contenta di esser con te…domani pomeriggio sono libera, tu?”- penso bene, e, oltre alla mia ora di palestra non ho nessun impegno. - “Non ho programmi, sono completamente free…possiamo vederci..” – avrei voluto baciarla, ma l’austerità dell’ambiente intorno a noi non lo permette. Sarebbe stato scandaloso, troppi vecchi stronzi. Clima da studio notarile ben avviato. - “Stavolta vieni da solo, la strada ormai la conosci…” – Bollinger sbuca dal corridoio, con le mani ancora umide. - “E’ vero, credo di averla imparata, al massimo chiedo a qualcuno…poi lui lavora.” – e una coppia di cinquantenni dall’aria triste si sta sedendo in un tavolo all’angolo sotto un dipinto raffigurante un mazzo di margherite dentro un vaso provenzale. Non si parlano nemmeno. - “Alla fine siamo soli…”- dico con voce sommessa. - “Come?”- domanda Bollinger. - “Ottimi questi pasticcini, versati una tazza di acqua calda…che bustina vuoi?”- gli porgo il piattino con svariate fragranze di Twinings. - “Voglio tutte le fotografie, capito? Soprattutto quelle con lui.” – mi prende la
mano tra la sue, e Bollinger mi guarda strabuzzando gli occhi. Sto per prendere un’altra tazza di tè, ma realizzo che l’acqua calda è terminata, e chiamando una cameriera vedo sedersi a lato, due tavoli dopo il nostro, Tronchetti Provera con un uomo di mezza età dai capelli brizzolati. Bollinger e Silvia non si accorgono nemmeno. - “Ma gioca a pallavolo quella?”- e indico la cameriera (altissima) che ci sta portando un’altra teiera fumante. - “Sì, con le balle degli altri…”- dice Bollinger con aria stanca. Lei non abbozza nemmeno un sorriso e io mi trattengo, anche se sto per scoppiare. Avrei voluto ridere a tutto volume. - “Dai Bollinger, bevi ancora un po’ di tè che ti ripiglia…e finisci i pasticcini.”gli verso dell’altra acqua fumante nella tazzina decorata con disegni raffiguranti papaveri e macaoni. - “Stasera che fai?”- le chiedo a titolo puramente informale, sapendo di non aver la forza per poter ritornare di nuovo a Milano. Tra dieci anni farò molto peggio. - “Devo riordinare degli appunti, poi credo che inizierò a dargli una prima lettura, così tanto per prendere cognizione dell’argomento.” - Urti di vomito cominciano a farsi sentire in fondo allo stomaco, e il pensiero vola sopra al malloppo di fogli accatastato sulla mia scrivania, e la preoccupazione di non riuscire a preparare l’esame di finanziaria si manifesta sul mio viso, sposando il pallore per la stanchezza (ma non ho mai fatto lampade?), con tremiti della bocca e delle palapabre. Inizio a sudare nonostante percepisco un gran freddo e le persone che parlano nella stanza appaiono ai miei occhi mute. Solo forme di corpi in movimento senza senso e rigagnoli zampillanti percorrono tutto il mio essere. - “Andiamo?” – una signora anziana si controlla il trucco in uno specchietto di Tiffany sfilato con garbo da una Kelly di Hermès senza sapere che ancora pochi giorni la separano dal cerone finale. - “Andiamo? Power sei gelato! Stai bene?”- Silvia mi stringe la mano nella sua chiamandomi ripetutamente e solo quando riprendo contatto con il mondo reale rispondo:
- “Tutto a posto, stavo pensando a una cosa…..scusatemi molto, ma è abbastanza importante…aspettatemi fuori che intanto pago…”- sfilo un cinquanta dalla tasca dei jeans combattendo con Bollinger perché intenzionato a pagare. - “Allora ti aspetta un serata di studio….mi sa che me ne andrò a letto senza neanche cenare, sono troppo stanco…” – caricando lo zaino in spalla saluto il cameriere lasciandogli un deca di mancia. - “Tu sei fuori, guadagna più di me e te messi insieme…” – dice Bollinger sottovoce, mentre Silvia è in Montenapoleone davanti alla vetrina di Gucci, e tutti gli uomini si voltano per guardarla, e li capisco perfettamente e mi chiedo se Lei si rende conto delle sue infinite possibilità. - “Strano, non ricambia lo sguardo di nessuno, o è veramente astuta oppure gli interessi sul serio.”- e io: - “Hai ragione, guarda sempre nella mia direzione. E’ bene?” – non mi risponde. - “Ehi, come siete lenti, che c’è? Pesa lo zaino? Vuoi che lo porti io? Sono forte sai?”- e continua a saltellarmi in torno con aria da fanciulla pura e innocente, gli occhi pieni di allegria. - “Grazie che sei venuto, mi ha fatto davvero molto piacere, ho voglia di star sola con te.” – mi bacia sulla guancia e incrocio i suoi occhi. Sembrava davvero felice.
CONSIDERAZIONE
Non immaginavo di infilarmi in un labirinto senza fine. Tutto ha una direzione, uno scopo. I fatti non accadono perché devono accadere, ma perché siamo noi a volere che accadano. Alla morte non c’è scampo, ma almeno quando sopraggiunge tutto finisce e dopo non hai tempo di chiederti come mai è venuta a trovarti. Non pensi: se avessi saputo avrei lasciato perdere, non c’è possibilità di scelta. Ma nella vita reale, anche se è fatta di incontri, di coincidenze e fortuna, puoi scegliere. E le scelte che facciamo determinano le conseguenze e il nostro futuro. Il detto carpe diem non sempre vale. Molto spesso gli attimi conviene lasciarli fuggire. Si vive tranquilli e accontentarsi di poco è già molto. Sono sempre stato un incosciente, e il peggio è essere giovani e incoscienti. E’ un mix micidiale. Può provocare danni irreparabili.
LA CONFERMA
La notte seguente ho dormito per dieci ore consecutive, come un bambino. Una tirata unica, da mezzanotte alle dieci. Mi sento finalmente rilassato, e anche le occhiaie e il pallore sono scomparsi. Posso tranquillamente girare uno spot per creme di bellezza. Perché non l’ho ancora fatto? - “Cazzo che dormita, non mi capitava da un’eternità.”- dico mentre mi spingo verso la cucina. In sala da pranzo è tutto apparecchiato e anche questo è veramente insolito. - “Pranziamo come le galline brianzole?”- esordisco davanti a mio fratello che tiene in mano degli spartiti. - “Vengono tua cugina e tua zia a mangiare, hanno litigato con Nando. E’ tornato stamattina alle sette fatto e ubriaco. Indovina un po’? Dopo che ha sboccato nel letto ha dato alla Laura una scarica di legnate. Grottesco, non ti pare?”- la coca fa brutti effetti. Non ho voglia di star a sentire i problemi di famiglia, anzi non me ne frega proprio un cazzo. Agguanto il cellulare ancora spento e compongo il numero di Silvia, aspettando una risposta. Tre squilli, quattro squilli, niente, così butto giù. Evidentemente dorme ancora, forse perchè ha ato la notte a studiare. E’ quello che avrei dovuto fare anch’io al più presto. Mi butto a cannone a fare degli addominali, e nonostante sono carico di riposo, dopo tre serie da trenta, il fiato inizia a mancarmi, colpa dell’alcol e della vita sregolata che sto conducendo con ostentata allegria. Dicono che per recuperare una serata in cui si dorme poco ci vuole quasi una settimana. Facendo due conti al volo, avrei dovuto dormire per un anno di fila dieci ore a notte. Forse mi sarei ripigliato. Mi sparo in bocca tre pastiglioni di creatina, trangugiandoli con un bicchierone
di succo d’arancia e o ai manubri caricando fino a diciotto chili. Una fatica pazzesca mi manda in ebollizione. Sudo tantissimo, gli occhi iniettati di sangue e le vene in corrispondenza delle tempie sformano il viso ad ogni sollevamento. Sembro un mostro. Dopo quaranta minuti di allenamento mi lancio dritto in bagno fiondandomi sotto un getto d’acqua ghiacciata. Mi accascio sul piano in porcellana lasciando che l’acqua mi picchi insistentemente sulla testa, realizzando di aver fatto un pessimo allenamento e che forse sarebbe il caso di correggere completamente il mio life style. Inizio a regolare l’acqua calda e a insaponarmi con un nuovo gel (Esteè Lauder) particolarmente profumato e nutriente, andando a massaggiar la testa e rilassandomi. Mi si chiudono gli occhi (come mai? ho dormito alla grande) e perdo i sensi inoltrandomi nel buio più completo. ano dieci minuti quando qualcuno bussa insistentemente alla porta del bagno e, di soprassalto, mi sciacquo tutto il corpo ancora intorpidito. - “Un attimo, ho quasi finito!!” – urlo dall’interno della cabina e di colpo smettono di bussare. Fuori dal bagno sento in lontananza squillare lo startac, così corro a piedi nudi (rischiando di scivolare e ammazzarmi) in camera. - “Cazzo, potevate anche evitare di bussare così, mi avete fatto asciugare in fretta, rompi coglioni!!” – afferro il cellulare quando sta smettendo di squillare, e la chiamata senza risposta segna numero anonimo. Prima di chiamarla opto per tirarmi insieme e vestirmi. - “Guarda che nessuno ha bussato alla porta, hai le traveggole?”- dice mia madre con il cordless all’orecchio per sentire dove si trovano mia zia e mia cugina. - “Allora sono diventato scemo, o ci sono i fantasmi, ma per favore. Sarà stato l’Antonio…” – strofino l’asciugamano in testa. - “Ma se non si è mosso da camera sua, neanche per un attimo. Smettila. Dovresti piantarla di fare tardi la sera, ti stai giocando il cervello.” – sbuffo e le chiudo la porta del bagno in faccia.
Infilo una camicia bianca (BrooksBrothers) e un maglione di cashmere (Armani Collezioni) e, fortunatamente sistemo i capelli in meno di dieci minuti, mettendoli in piega perfettamente. Devo comprare Angel. - “Pronto…” – risponde al primo squillo. - “Ehi… ti stavo mandando un messaggio, ho visto la tua telefonata..stavo ancora dormendo, stanotte ho fatto tardi…ho letto tutto un libro, così ho inquadrato la materia. Poi ti ho richiamato ma non mi hai risposto…”- e io: - “Ero in doccia, sai ho fatto palestra….stavo pensando…che fai per pranzo?”domando a bruciapelo. - “Ehm…niente sono sola, volevo sentire una mia amica, ma se mi proponi qualcosa…possiamo trovarci che mangiamo insieme. Tanto dovevamo già incontrarci questo pomeriggio…”- grazie al cielo ho trovato il modo di evitare di frantumarmi i coglioni sentendo i problemi di mio zio drogato. - “Bene…perfetto, a che ora ci troviamo?”- mi sto innervosendo perché non riesco a trovare i miei occhiali da vista, che sono sicuro avere lasciato sulla cassa dello stereo in camera mia. - “Ehm, facciamo alle tredici? Al solito posto, davanti a Mcdonald’s…ok?” rovisto anche sulla scrivania e realizzo che si sono volatilizzati. - “Perfetto, a dopo allora…”- e Lei: - “Vieni da solo, vero?” – e io: - “Certo….l’ho imparata la strada ora…a dopo…”- e attacco. - “Non ci sono per pranzo, devo andar via…”- grido a mia madre mentre scelgo quali scarpe da indossare. - “Come mai, vengono la zia e la Laura a pranzo…dove vai?”- devo elaborare una palla al volo. - “Vado da Bollinger in piscina, ha organizzato un pranzo con delle sue amiche….”- opto per gli anfibi (Timberland) messi solo un paio di volte e intanto mio padre a vicino scuotendo la testa. Non ha mai approvato il mio
modo di vestire. - “Quante palle che hai….” – borbotta per il corridoio con in mano un volume de “La ricerca del tempo perduto”. - “Papà non ci credi? Se vuoi chiamo Bollinger e ti faccio parlare insieme…” – ormai è già chiuso nel suo studio, e anche se mi avesse sentito non avrebbe mai telefonato a nessuno. - “Giò, ma scusa, non porti niente? a a prendere una torta. Peccato, se sapevo te ne preparavo una io..”- sfilo dall’armadio il Barbour blu. - “Tieni, prendi dei soldi, così ti fermi in pasticceria e compri una meringata… quanti siete?”- mia madre prende dal portafoglio un cinquanta e me lo mette in mano. Indossa un buon profumo, ma sono così di fretta che non mi soffermo a chiederle di chi sia, limitandomi a prendere i soldi e a catapultarmi nel box. Accendo la y, stavolta non devo dimostrare nulla, e, guardando il polso mentre infilo la chiave nel cruscotto, rimango stupito di non aver nemmeno messo il Daytona. Qualcosa sta cambiando. Arrivo in Forlanini in meno di venti minuti, anche perché di traffico non se ne vede proprio, addirittura sono largamente in anticipo. Tutto sembra scorrere liscio, l’unico grave problema consiste nel non aver ancora pensato al posto giusto dove portarla a pranzo. Di sera è tutto diverso, qualsiasi posto medio alto va bene, c’è in giro gente, ogni locale ha una sua caratteristica, accentuata solamente dal fatto che fuori è buio e l’abitudine della gente per uscire a mangiare si concretizza nell’andare a cena e non nell’uscire a pranzo. Soprattutto se è domenica e si è abituati a stare in casa con la famiglia. Chi cazzo esce a pranzo la domenica a Milano? Una modella svedese che avevo scopato un sabato nel parcheggio del Carpe Diem, alle cinque di mattina (lei a novanta sul cofano dell’sl), era stata così gentile di invitarmi il giorno dopo a un brunch (era una pezzente e pensava di stare a Manhattan) all’Hotel Diana a Milano, vicino Porta Venezia. Invito che declinai senza pensarci due volte. La troia capiva solo alcune parole: cazzo, succhia, lecca, mettimi dentro, figuriamoci se potevo sostenere una conversazione della durata di un pranzo. Non ricordo nemmeno il suo nome.
Parcheggio davanti a McDonald’s alle dodici e quarantacinque, e sembra, se non fosse stato per il freddo (l’Inverno è arrivato), ferragosto. L’uscita della metropolitana è deserta e vedo macchine solo quando i semafori segnalano il rosso. Desolante. Sento di dover andare a pisciare, ma non so dove, tutti i bar sono chiusi, e la vescica sta per saltare in aria. La creatina e i pesi non fanno bene alle reni. Opto per il bagno all’interno del Mcdonald’s (sono presenti solo quattro marocchini che mangiano patatine fritte con ketch-up ad un tavolo a destra dell’entrata e sono contenti come invitati a cena da Alain Ducasse). Decido di non prendere nemmeno un caffè. Ovunque mi giro vedo cartelloni che reclamizzano il Big-Mac, i polletti fritti e altre svariate pietanze guarnite con molteplici salse che sembrano essere fabbricate in paradiso. Tutto quello schifo mi procura il voltastomaco. Nessuno dei commessi si accorge che sono stato nella toilette e molto probabilmente non mi hanno neanche visto. Torno alla macchina e aspetto in piedi. Mancano solo cinque minuti. Sbuca da una via trasversale (“Via Sabotino”), e quando mi vede sorride come una bambina, accennando una leggera corsa. Indossa un paio di jeans stretti (Fornarina), un Moncler viola, chiuso fino al collo, e stivali neri (Casadei) col tacco da dieci. Ci abbracciamo così, istintivamente, e ci guardiamo negli occhi fino a perderci. E poi ci baciamo. Lunghissimo, eterno, sento la sua lingua attorcigliarsi con estrema violenza alla mia, sembra imprigionata e liberata all’improvviso, come un purosangue selvaggio, chiuso in un recinto senza via di scampo e di colpo lasciato correre per distese di prati infinite. Non posso far altro che seguirla in ogni suo gesto convulso. E mi fissa con gli occhi perfettamente truccati, senza batter ciglio. Mi accarezza i capelli, e poi il viso, senza mai staccarsi, le sue candide mani sono bollenti e tremanti. Inizio a tremare anch’io e, senza accorgermene una lacrima scende dal mio occhio destro. Tutti gli orologi sono saltati per aria. - “Ehi, lo sapevamo fin dall’inizio…”- e io: - “Fin da quando ti ho chiesto il numero all’Università?”- e Lei: - “No…stai sbagliando, fin da quando ti ho visto entrare nel chiostro con la tua famiglia. Ti ho voluto sin dal primo momento che sei apparso nella mia vita.
Baciami ancora, ti prego…” – la stringo forte accogliendo di nuovo la sua bocca. - “Andiamo in macchina, è meglio…”- dico. Continua a baciarmi. - “Sei sicuro? Io voglio continuare a baciarti…non m’importa dove….”- e ci attacchiamo di nuovo. - “Aspetta….saliamo…”- dico, mentre si stacca sorridendo, con le guance arrossate: - “Va bene…dove andiamo? Non dirmi che hai fame….” – l’ultimo dei miei pensieri è quello di pranzare. Non connetto più, non so neanche come mettere in moto l’auto, la prospettiva di percorrere qualche chilometro diventa un incubo. Lei mi afferra di nuovo strattonandomi contro di sé, riprendendo a baciarmi, con più impeto di prima. Non ci sto più dentro, la desidero, come mai ho desiderato nessun’altra. - “Ti voglio…” – le dico: - “Anch’io, ti desidero da impazzire, non resisto più…” – e io, cosciente di quello che sta accadendo: - “Dove andiamo? Non possiamo rimanere qui….”- ingrano la prima immettendomi verso Corso di Porta Romana. - “Gira qua…” – mi indica una vietta senza via d’uscita. A destra c’è un cantiere dismesso, così imbosco la y dietro un cingolato, al riparo da qualche possibile viandante, anche se tutto sembra deserto e privo di vita. - “Cazzo, non posso portarti su a casa mia perché mio padre mi tiene sempre sotto controllo…” – e io, non capendo: - “Ma i tuoi mica stanno a Roma?”- aggiungo: - “E certo, ma nel palazzo dove abito, per la precisione un piano sotto al mio, c’è un giudice con la scorta molto molto amico di mio padre che ha ricevuto l’ordine di controllare chi viene a trovarmi e comunicargli sempre ogni mio movimento. Dopo l’esperienza con quello di cui ti ho parlato l’altra volta con Bollinger non ti dico, sono pedinata a vista.”- annichilito e catapultato
completamente in un mondo da me lontano miliardi di anni luce scatta la curiosità per sapere chi cazzo sia suo padre. - “Ma….cosa fa tuo padre?”- attendo come i bambini che aspettano la mattina di Natale. - “Il notaio, e poi insegna all’Università.”- spengo il motore e poi: - “Alla Luiss?”- e prontissima risponde: - “No, lì insegna mia madre…ma basta parlare…”- inizia ad accarezzarmi la coscia e non ce la faccio più, i boxer mi stanno saltando in aria. Faccio scorrere a fine corsa la zip del Moncler, e infilo la mano sinistra sotto la maglietta grigia di pizzo (La Perla). Inizio a massaggiarla sotto il seno destro, sentendo che è straduro e sodo, fissandola dritto negli occhi. Ansima. Tira fuori la lingua cercando la mia, che le sparo in bocca percependo l’odore della sua saliva, con un movimento teso e ribelle, volto a occupare ogni angolo libero del suo palato. Le strappo con forza la maglietta, scoprendo piacevolmente che non porta il reggiseno e un seno così perfetto non lo avevo mai visto, neanche nei porno. Non è rifatto eppure punta verso l’alto e i capezzoli, in rilievo, hanno un diametro pari a quello del culo di un tappo di Cristal appena sbocciato. La perfezione. Sento che mi sbottona i jeans per tirarmelo fuori. - “Aspetta…aspetta…”- le dico, infilando un cd di Sakamoto nell’autoradio. - “Come faccio ad aspettare….ti voglio dentro di me, voglio sentirti mio, sei mio, hai capito?”- e inizia a prendermelo in bocca. Sento già che sto per venire, anche se non è mia intenzione. - “Voglio che me lo infili dappertutto…”- dice con la cappella in bocca, afferrando la mia mano ficcandosela nelle mutandine (nere di pizzo). La stacco dal cazzo, cercando il modo più veloce (e meno complesso) per sfilarmi del tutto i pantoloni. Lei li ha già calati all’altezza delle ginocchia, e con il dito indice si sta sgrillettando. L’ha ben curata, sembra il prato all’inglese di
casa mia, un rettangolino perfettamente simmetrico, umido e profumato. Non mi trattengo un secondo, così inizio a leccargliela, spingendo la lingua dentro le grandi labbra, per poi spostarle il dito infilandoci il mio, sfregando il più velocemente possibile. Si bagna sempre più. Il piacere l’ assorbe completamente, con la mano cerca disperatamente il cazzo, ma non voglio che me lo prenda di nuovo in bocca, sarei venuto senza nemmeno cacciarglielo dentro. - “Stai calma….fammi prendere un attimo di fiato…mi piace da morire leccartela e sentire che godi, sei fantastica….” – si limita a dirmi: - “Dai…dai…mettimelo…”- così faccio appello a tutte le catastrofi umane, e, cercando di infilarmi il preservativo, le divarico le gambe perfette mentre continua a sditalinarsi. Lo prende in mano e strappa il preservativo gettandolo fuori dal finestrino. - “Voglio sentirti senza, non me ne frega niente…dai, dai…” – lo faccio scivolare dentro e inizio a spingere, e di nuovo ci ficchiamo la lingua l’uno nella bocca dell’altra. Quattro colpi e non si trattiene più. Grida all’impazzata. - “Dai!!! Dai!!! Sto venendo, vengo…vengo!!” – mi spruzza la cappella con il suo orgasmo. - “Tiralo fuori, voglio prendertelo in bocca, dai, dammelo in mano…” – e non so se sfilarlo, o lasciarlo dentro ancora. Non connetto più. - “Non lo vuoi ancora dentro un po’..?”- continuo a pomparla. - “Dammelo in bocca, dai…” – eseguo l’ordine. - “Sto venendo tesoro, stai attenta…” – non sente nemmeno. Ingoia tutto, fino all’ultimo spruzzo, anzi, fino all’ultima goccia. - “Ehi…” – la guardo sorridermi. Era stupenda. Davvero. Gronda di sudure, gocce saline stillano dalla fronte fino a entrarmi negli occhi, sento le gambe bagnate come se avessi fatto una doccia, gli avambracci lucidi
sembrano unti di mallo. Me ne sto seduto con i boxer calati e l’uccello, bagnato di saliva e sperma, ancora teso. Ammiro il suo corpo, e avrei voluto farla mia per sempre. Nessuna descrizione, neanche la più analitica, poteva rendere giustizia alla sua paradisiaca bellezza. Sorride, andomi la mano tra i capelli umidi del suo profumo. Nessuno parla. Tutto è già stato detto. Trascorre mezz’ora prima di rivestirci, iniziamo a sentire il freddo. Non prova nessuna vergogna, si mostra fiera del suo intimo. Sa di essere perfetta. - “Sei bellissima.” - non c’è nient’altro da dirle. - “Anche tu. E quindi?”- mi fissa dolcemente. - “Per fortuna siamo qui, non ti pare?”- mi sfiora le labbra con le sue: - “Per fortuna che ti sei deciso a mandarmi l’sms con il tuo numero, avevo perso ogni speranza. Perché hai impiegato così tanto tempo?” – lascio cadere ogni teoria riguardante l’orgoglio maschile e tutte le solite puttanate. - “Perché eri troppo. Un miraggio irraggiungibile, ancora adesso non credo ai miei occhi.” – scuote la testa incredula: - “Sei pazzo, guai se non ti avessi più rivisto, non ho smesso di pensarti un attimo. Anche ieri pomeriggio, avrei voluto fermarti mentre aggiavamo e baciarti. E poi farlo ancora e ancora…e invece ti sei presentato con Bollinger. Mi sentivo legata…a proposito, che dice Bollinger di me?”- cerco di prendere tempo e mi allaccio i bottoni dei jeans. - “Che non ha mai visto in vita sua una ragazza più bella di te, e che finalmente ho fatto centro.”- scuote di nuovo la testa. - “Esagerato!! Ci sono ragazze mille volte meglio di me. Comunque è vero, hai fatto centro in tutti i sensi!” – e si guarda in mezzo alla gambe e scoppiamo a ridere tutti e due. - “Bene, e adesso?”- capisco dove vuole arrivare. - “E adesso…andiamo a mangiare qualcosa….” – sferrandomi un pugno
leggero sulla coscia dice: - “Dai….hai capito perfettamente quello che intendo..” – decido di non usare mezzi termini. - “Non sono fidanzato e non ho legami con nessuno…quello che è successo oggi, anzi correggo, quello che è successo da quando ti ho visto la prima volta, è un mondo sconosciuto ai miei occhi. Non mi era mai capitato. E credo che non mi capiterà mai più…perciò voglio con tutto il cuore rivederti. Vorrei che entrassi a far parte della mia vita. Davvero. In tutti i sensi.” – lo volevo veramente. - “La stessa cosa è per me, ora che ti ho trovato non mi scappi. E’ molto più di una banale attrazione fisica. Hai visto, anche il viaggio in treno per me non è pesante, posso venire a trovarti quando voglio. Naturalmente se ci sarai e, soprattutto, se lo vorrai.”- e io: - “Puoi venire a trovarmi tutti i giorni, anzi, mio padre ha degli appartamenti vuoti, cioè, ehm, nel senso che non ci abita nessuno…ma sono arredati. Puoi fermarti due, tre giorni, anche quattro. Io sarò lì con te. Che ne dici?” – accarezza il mio viso ancora madido di sudore: - “Magnifico.” – si prospetta un Inverno indimenticabile. - “Una cosa però…” – torna a baciarmi. - “Cosa?” – voglio che sia tutto chiaro e limpido sin dall’inizio. - “Prima di scopare qualcun altro, devi dirmelo. Nel senso, prima di farlo lasciami libero. Non lo sopporterei.” – il solo pensiero che qualcun altro la possa toccare mi manda all’aria completamente. Anche questo non mi era mai capitato. - “Impossibile, non succederà. Voglio te e basta…capito? Ehi! Hai capito?” – la guardo nel suo splendore annuendo con la testa. L’orologio del cruscotto segna la mezz’ora abbondante dopo le quindici, e il tempo è volato. Il traffico sta aumentando e punto in direzione centro, alla ricerca di un posto per ripigliarci, sento tremendamente il bisogno di inghiottire qualcosa. La bocca si
sta prosciugando come spazzata dal vento del deserto e improvvisamente sento una gran sete. - “Ho bisogno di buttar giù qualcosa al più presto….non conosci nessun posto a portata di mano, ehm voglio dire qui vicino?” – inizio a vedere ombre e nebbie. - “Prosegui verso Largo Augusto, avanti trecento metri c’è un posto dove fanno degli ottimi tranci di pizza, è aperto giorno e notte, non ho una gran fame…” – cazzo io mi sarei mangiato un orso del Polo Nord con la pelliccia. - “Eccolo, lo vedi? E’ quello d’angolo…non scendo, t’aspetto in macchina, sono impresentabile, guarda che capelli…uhh, mon dieux, che disastro..” – non capisco come possa non essere affamata. Il posto si chiama “Eco Pizza” ed è un buco di malapena trenta metri quadrati per una temperatura di almeno quaranta. Quando entro mi sento svenire. Un caldo spropositato, Una brutta cinese mi guarda nervosa pensando di essere sulla catena di montaggio. - “Plego?” – plego? E continua a fissarmi con una faccia di cazzo veramente insopportabile. Non ho ancora scelto il trancio di pizza da prendere, anche perché non vedo sottomano nessuna lista per poter decidere. - “Ehm, sì, mi scusi non ho ancora scelto…non c’è una lista?” – e lei, con odio xenofobo: - “Sopla, guardi sopla!!” – alzo gli occhi verso l’alto e un cartellone scritto a mano (non si capisce un cazzo delle descrizioni) elenca i vari tipi di pizza. BRUTTA TROIA, SEI DA UNA VITA IN ITALIA E NON HAI ANCORA IMPARATO UNA PAROLA D’ITALIANO. - “Sì..ehm, mi dia un trancio di margherita…grazie e una bottiglietta di acqua fredda.” – e occhi a mandorla indica il frigo nell’angolo: - “Acqua là!” – stavo per mandarla affanculo ma mi trattengo, sicuramente mi avrebbe sputato nel trancio, così agguanto una Evian e al volo la tracanno, sbirciando fuori dalla vetrina. Silvia se ne sta in macchina smanettando con il cellulare.
- “Pizza plonta, plego!! Sono sette.” – e prendo il mio trancio addentandolo come un barbone che non mangia da mesi. Pago sfilando dalla tasca dei jeans un deca ancora sudato e maleodorante, in attesa che quella puttana bastarda mi sganci il resto e lo scontrino. - “Glazie!! Salve” – e me ne vado da quel posto infernale mandandola affanculo. Neanche il tempo di arrivare alla macchina che ho divorato la pizza (non era un gran che), ma se non altro sto recuperando un po’ di carboidrati. Mi sento davvero sfinito. Silvia sta venendomi incontro, sorridente e con il Moncler slacciato. - “Ehi, posso bere un po’ d’acqua? Non hai schifo?” – la seconda domanda appare superflua. - “Ma stai scherzando!!” – e prima che beva le caccio la lingua in bocca. - “Mi andrebbe un caffè, e fumerei volentieri una sigaretta…non ne hai una vero?” - prosciugo la bottiglia di Evian, scuote la testa in senso negativo. - “Non fumo…però lì c’è un bar tabacchi, un caffè lo prendo volentieri anch’io.” – lascio la y aperta, senza badarci più di tanto. Compro un pacchetto di Malboro Light da dieci e ordino due caffè serviti imediatamente. Dal tavolino in cui siamo seduti vedo bene la mia auto, cosa che mi conforta. Sarebbe stato parecchio scocciante dire ai miei che mi avevano rubato la macchina. - “Che pensi?” – si avvicina con la sedia. E’ la prima volta che apprezzo realmente le attenzioni di una donna. - “Scusi, ha da accendere per favore? Niente, sono felice.” – e il cameriere (frocio) mi porge gentilmente l’accendino. - “E di cosa sei felice?” – non si scosta neanche se fumo. Per un attimo scannerizzo l’interno del bar. Vecchie bottiglie di Laphroaig di tutte le annate sono sparse come soprammobili in ogni angolo della stanza. Al bancone poche persone, un paio di signori distinti parlano dell’ultimo modello che la Jaguar ha prodotto e una coppia di turisti americani discute studiando una mappa della
città. I camerieri sono entrambi dei finocchi paurosi e la proprietaria, una signora verso i settanta, vistosamente truccata, sta seduta dietro la cassa, guardinga e boriosa. - “Di me e di te. Lo sai benissimo, che fai stasera? Se non hai impegni, posso dire ai miei che non torno per cena.” – s’intristisce di colpo e abbassa gli occhi. - “Devo studiare, sai, il libro che ho letto stanotte…quando devo prepararmi per un’esame non esco mai di sera. E’ un problema di media, mio padre ci tiente molto.” – speravo in una risposta diversa. - “Capisco…so cosa vuoi dire….” – e lascio cadere il discorso, spegnendo la sigaretta in un posacenere Stella Artois. - “Possiamo sempre vederci di pomeriggio, poi fa tre mesi non ci saranno ostacoli, staremo insieme anche a cena, dopo cena, di notte….” – non capisco come possa starsene in casa la sera, io non ce la farei. Ho trascorso il periodo liceale segregato perché dovevo alzarmi presto tutte le mattine. Arrivavo al sabato sera completamente esaurito. Prima di entrare in discoteca bevevo una bottiglia intera di Martini, un paio di Adelscott e fumavo una mezza dozzina di cannoni. - “Va bene, credo si possa fare… devo pianificare anch’io lo studio… per il sottoscritto mettere la testa sui libri di sera è impossibile. Oddio, anche la mattina non è un’idea molto eccitante…ma per te questo e altro…” – ovviamente prima di mezzogiorno non se ne parlava nemmeno di aprire libro. E poi dovevo fare i conti con le lezioni all’Università. Cazzo, stava diventando un problema di dimensioni bibliche. - “Esagerato!! La sera nessuno ti rompe e c’è tranquillità, non ho il telefono fisso in casa e spegnendo anche il cellulare sono super concentrata. Mi sa che dovrò farti un corso di metodologia dello studio…” – non ne avevo bisogno, anche mio fratello studiava sempre di notte, attaccava dopo cena e finiva come minimo alla una. Tutti siamo predisposti a fare delle scelte e a seguire certi percorsi. C’è libertà e la mia è stata quella di scegliere di fare il matto quasi tutte le sere (e le notti). Pagherò le conseguenze, forse no, ma non me frega un cazzo. Intanto faccio quello che voglio. Bisogna fare sempre quello che si vuole. - “Bene, e adesso?” – e stavolta è lei a guardare l’orologio.
- “Oh my God!E’ tardissimo…devo andare in palestra, il mio personal trainer mi aspetta già da un quarto d’ora…ti scoccia se ti chiedo di accompagnarmi? E’ qua vicino, in Piazza Cavour. Accidenti…avrei dovuto avvissarlo. Colpa tua, vedi? Mi stai già scombussolando la vita.” – e mi bacia. La porto al “Down-Town”, e di solito quando arriva il momento di scaricare qualcuna sono sempre felice di tornare al paesello a starmene per i cazzi miei. Stavolta mi piange il cuore. - “Ehi…tutto bene?” – non ho voglia di tornare a casa e sono andato in fissa. - “Come? Ah sì, certo tesoro…quando ci rivediamo?” – ci abbracciamo e baciamo per oltre cinque minuti. - “Te l’ho detto…domani pomeriggio, devo andare in Università a vedere degli orari..comunque ci sentiamo stasera, dopo che ho finito di allenarmi…ciao…” – si allontana costeggiando il Palazzo dell’Informazione, per poi sparire nell’edificio accanto. Imbocco Corso Venezia e medito a quanto sarebbe stato giusto terminare la giornata insieme, con una cena e poi a bere un drink in qualche locale alla moda. Evito di esser insistente, non voglio mostrarmi debole sin dall’inizio, anche se mi sento tale. Percepisco il suo predominio e questo mi spaventa terribilmente. Quando si varca la soglia dell’irrazionalità niente ha più senso. E questo è male. Le poche ore dedicate allo studio si plasmavano durante il pomeriggio, e i risultati erano già pietosi. Eliminando anche quelle la situazione si sarebbe fatta veramente complicata, profilando un’imminente crisi famigliare. Per un mese inventarmi un corso pomeridiano sarebbe stato credibile, ma non avrei potuto andare avanti così all’infinito. E poi dovevo dare quel maledetto esame di finanziaria, lasciato ad ammuffire sulla scrivania. A gennaio c’era il primo appello, e di solito sono quelli più semplici, perciò non restava altro che studiare di mattina (magari anche di sera), se volevo creare meno rogne possibili ai miei. Se tagliavano i fondi ero veramente nella merda. - “Caro Bollinger, è partita la bomba!! Che cazzo stai facendo? Mi senti?” – armeggia con il trapano e un gran frastuono boicotta la telefonata. - “Porca puttana, sto sistemando le casse dello stereo in camera, ho ordinato un Mcintosh, domani dovrebbe arrivare. Che cazzo vuol dire è partita la bomba?” –
continua a sferragliare. - “Cazzo, fermati!! Ho appena fatto un pomeriggio di sesso sfrenato con Silvia…” – si blocca all’istante. - “Dove?” – silenzio assoluto. - “In macchina. Paurosa…indescrivibile. Non immagini…” – e uno stronzo con una Porsche Targa anni ottanta mi supera sulla destra. - “Bravo Power, siete insieme?” – a questa domanda rimango in silenzio. - “Non lo so, cioè, mi ha detto tante cose belle, del tipo non è solo una banale attrazione fisica, ora che ti ho trovato non mi scappi…frasi del genere…” – e lui: - “Sono solo parole…d’effetto certo, ma solo parole, ricordati Power, i fatti, nella vita contano i fatti. Basta con la carità.” – riprende a trapanare. - “Mi sembra che di fatti ce ne siano, non può mica succedere tutto in un pomeriggio. Domani dovremmo rivederci, possiamo incontrarci tutti i pomeriggi, così mi ha detto. Prende il treno per venire su, facciamo un po’ per uno..” – e lui: - “Il treno, che fatica…e perché non vi vedete di sera? E quando studi? Non sai che durante il giorno o si lavora o si studia. Non è sempre domenica…” – mi sembra mia madre. - “Di sera non può, sta preparando un esame, studia di notte, è una cervellona. Il padre notaio, la madre docente…” – s’intromette interrompendomi: - “E che cazzo, di sera non esce!! Dille di studiare durante il pomeriggio, o di mattina. Come fai a credere che il padre sia notaio e la madre docente. Quante volte hai raccontato alle modelle che tuo padre produce testate nucleari per portartele a letto? Cerca di capire se ti racconta balle, non sto dicendo che lo sta facendo, ma verifica tutto. Abita a quaranta chilometri da te, non sai nulla, e poi a Milano. Conosciamo bene cosa c’è a Milano, stai attento. Ci sei dentro fino al collo. Ed è la prima volta che ci fai sesso.” – sudo freddo, e stavolta non è la creatina. - “Addirittura secondo te non dovrei uscirci più…” – sento sferragliare:
- “Non sto dicendo questo, assolutamente. Ti sto solo avvisando di fare attenzione e di vagliare e verificare tutto quello che racconta. Vedi, sta prendendo l’iniziativa e stai subendo. Dai per scontato la tua completa disposizione tutti i pomeriggio, sei pazzo. Proponi tu, e vedi se ti segue.” – su RMC trasmettono “Edge of heaven” degli Wham. - “E quindi? che cazzo devo fare?” – yhea yhea yhea. - “Abbassa la radio, non sento un cazzo…te l’ho detto, prendi tu l’iniziativa. Devo andare, Davide mi sta chiamando, ci sentiamo. Ciao.” – panico più completo. In fondo erano solo parole, e la parole se le porta via il vento e non costano nulla. Ma stava di fatto che non riuscivo a distogliere il pensiero da tutto quello che era successo un paio d’ore prima. Dirle che non ci sarei stato il pomeriggio seguente significava non mantenere ciò che ci eravamo promessi guardandoci negli occhi e rovinare così la magia di quel momento. Ero deciso ad andare fino in fondo. Sono quasi a casa e una stanchezza tremenda mi prende d’assalto e non capisco come mai mia madre non ha ancora telefonato, questa cosa mi sta sbalordendo. L’oscurità è scesa completamente e una foschia densa prepara strade umide e viscide e una domanda fulminante mi traa il cervello: e se Bollinger avesse ragione?
FILETTO
Varcando il cancellone noto che le luci in casa sono stranamente tutte spente. Mi attacco allo startac e il cellulare dei miei è staccato. Questo è ancora più strano. Provo con quello di mio fratello ed ottengo lo stesso risultato. Nessun biglietto mi comunica il motivo della loro assenza. E’ l’ora di cena (ho mangiato solo un trancio di pizza), e il pensiero di mettermi a cucinare mi nausea, sono stravolto. Chiamo Ricky per invitarlo fuori a mangiar qualcosa. - “Va bene, tanto neanche i miei sono a casa…t’aspetto tra venti minuti, ok?” – realizzo che devo ripigliarmi un attimo. - “Fai tra mezz’ora….a dopo…” – e lui: - “Ho capito, devi lavarti il cazzo…a dopo.” – attacca. M’infilo sotto la doccia con il profumo di Silvia ancora addosso, e intorno a me c’è solo un silenzio pauroso, lo scroscio dell’acqua che colpisce le pareti della doccia genera un picchiettio simile al becchettare dei picchi contri i tronchi dei pini nei boschi sopra Cavalese. Stranamente non si è fatta ancora sentire, eppure sono trascorse quasi due ore e la lezione con il personal trainer doveva essere terminata da un pezzo. Prima di chiamarla decido di lasciar are ancora un po’ di tempo. Inizio a innervosirmi, le parole di Bollinger continuano a girarmi e rigirarmi nel cervello senza darmi un attimo di pace. Infilo l’accapatoio e getto in lavanderia i boxer sporchi di sperma e saliva, provando ancora a rintracciare i miei (cellulari morti) e, andomi il pettine tra i capelli, vado in camera a prepararmi per uscire un’altra volta. Lo startac inizia a dar di matto, e, aumentando l’intensità della lampada alogena lo afferro vedendo sul display la scritta anonimo. - “Pronto!!” – rispondo sollevato e brillante sapendo che l’unica persona che
chiama con numero privato è Silvia. - “Ma dove cazzo sei finito?” – e invece sbaglio, è mio fratello. - “No, voi dove cazzo siete finiti!! Sono arrivato da un’ora e non c’è nessuno, il papà e la mamma, sono con te? E i cellulari? Perché sono spenti?” – sento delle interferenze. - “Siamo dall’Alessandra, non si sente bene, i cellulari non prendono, ceniamo qua, c’è altra gente, se vuoi venire anche tu, stanno preparando il risotto ai funghi.” – se fosse solo per il risotto sarei andato volentieri, ma non è serata per tirarmi secco con discorsi seri tra persone serie. - “No, no, esco con il Ricky a mangiar al volo una pizza, non preoccupatevi. Ci vediamo dopo, altrimenti domattina. Saluta tutti…ciao..” – attacco sempre più teso e deluso. Fuori tira un gran vento freddo, due gatti neri scivolano sotto il portico per scomparire tra le ortensie in giardino, spezzandone alcuni rami e causando un gran fracasso. Opto per l’sl di mio padre e frugando nel bracciolo centrale in cerca del telecomando prendo coscienza di esserne sprovvisto. - “Cazzo, che palle!!” – esclamo, scendendo dalla macchina (la lascio in moto con il freno a pedale tirato) per aprire il cancellone a mano. Il piazzale della chiesa è deserto, neanche una macchina parcheggiata. Tutto appare triste e pesante. Che desolazione. Ricky aspetta sulla strada, sotto la lampada che illumina in modo maldestro l’ingresso del condominio, vicino a una montagna di sacchi dell’immondizia buttati ai lati di Viale Cornaggia. Parla al cellulare. Con una parrucca poteva essere tranquillamente un travestito. Accosto e mi sporgo per aprirgli la portiera, e una ventata di freddo gelido riempie l’abitacolo. - “Da ricco!!” – entra con la giacca che puzza di fumo e a fatica riesce star nel sedile. - “Jimmy, ti sei allungato ancora? Che cazzo ti danno da mangiare, il nandrolone? Tira indietro il sedile.”- penso seriamente sia affetto da gigantismo, forse ha l’ipofisi che non funziona bene.
- “Ma vaffanculo, le ere con me non vedono l’ora di succhiarmi il cazzo. Alto come sono pensano che ce l’ho come quello di Rocco. A proposito l’ hai visto il suo ultimo film? Ne incula dieci di fila e poi le prende a schiaffoni.” – devo dire a mio padre che è ora di mettere l’hard – top. - “Come? Le prende a schiaffoni?” – lo startac è morto. - “Sul culo, le prende a sberle e poi le inonda di sborra. E’ un mito, ha un uccello da paura.” – prima di entrare al ristorante le avrei telefonato. - “Bella storia. Dove andiamo? Perché i tuoi non ci sono? Dove sono andati?’” – smanetto nervosamente con la radio, realizzando che stanno trasmettendo solo canzoni penose. - “Cazzo hai? Le palle gonfie? Andiamo al Clichè?” – un posto vale l’altro, così imbocco a canna la statale, sorando tre dementi che marciano a o d’uomo. - “L’ho scopata…” – e spengo la radio. - “No…pollice alzato!! Sei un grande!!” – sono devastato dalla fame, e faccio saltare altri due coglioni, dando giù fino in fondo con l’acceleratore, toccando i centocinquanta. - “Jimmy, non immagini che chiavata. Altro che le mezze-seghe delle nostre parti. Il problema però è che non si fa sentire, aveva detto: ti chiamo quando ho finito la lezione con il personal trainer. Porca troia, non durerà mica quattro ore questa cazzo di lezione.” – ride a crepapelle. - “Sì, il personal trainer…l’ha infilzata dopo di te!! Altro che palestra. E’ il caso di dire la palestra di sto cazzo. Occhio a quel cretino con l’Alfa, pezzente!! Poveraccio!!” – nel parcheggio del ristorante non trovo un cazzo di parcheggio, e l’idea di aspettarne uno mi manda in bestia, così opto per piazzare l’sl in una vietta che sbuca sul retro del locale. - “Aspetta un attimo, non ci sto più dentro.” – estraggo lo startac e compongo il numero di Silvia. Dopo quattro squilli ecco la sua voce. - “Ehi..pronto..” – ansima e ha il fiatone.
- “Ciao…che fine hai fatto?” – Jimmy mi inoltra un pollice abbassato. - “Uff, un casino, ho cenato al Down – Town con un’ amica, e la batteria del mio cellulare si è scaricata accidenti. Sono arrivata a casa ora, ti avrei chiamato tra poco.” – poteva essere una giustificazione plausibile. Ma come stavo ragionando? Non doveva fregarmene un cazzo di quello che aveva fatto o non fatto. Inizio a preoccuparmi sul serio. - “Capisco…come stai?” – non ho argomenti. - “Stanca morta…oggi ho fatto due allenamenti se non ricordi?! Mi sa che non riesco proprio a studiare stanotte. E tu, che fai?” – dice allegramente, quasi ridendo. - “Sto andando a mangiare un boccone con un mio amico…” – e Jimmy continua a darmi il pollice abbassato e stavolta inizia a scuotere anche la testa. - “Così vai in giro….hai capito? Sei un furbetto!! Come mai eri in casa tutto solo?” – più che altro sono un disperato. - “I miei sono a cena da una coppia di amici, lei è notaio…” – m’incammino verso l’entrata del ristorante, Ricky si sta spazientendo e due coppie all’entrata aspettano che si liberi un tavolo. - “Ho capito..domani pomeriggio ci vediamo, vero? Quanto sono stanca, lo sai? E’ colpa tua..” – non so ancora come giustificare il pomeriggio fuori casa a mia madre, ma sicuramente la mattina seguente avrei escogitato un escamotage perfetto. - “Certo che ci vediamo. Sarebbe stato bello se ci fossi stata anche tu stasera. Mi piaci davvero. Non sto scherzando.” – Jimmy si mette la faccia tra le mani, dandomi sottovoce del coglione. - “Sarebbe piaciuto pure a me, non vedo l’ora di abbracciarti, lo sai che alla mia amica ho raccontato tutto?! Era scandalizzata…e tu? non l’avrai mica detto a qualcuno?” – sto pensando di mettere i manifesti in tutta Milano. - “Certo che no! Quello che accade tra noi è nostro e basta. Perché l’hai detto alla tua amica? Chissà cosa avrà pensato… “ – sinceramente non me ne frega un cazzo se qualcuno viene a sapere che ho scopato in centro a Milano una strafiga
allucinante, anzi costituisce una grande impresa, degna di essere raccontata. - “Tra donne confidarsi è normale, è gossip puro, senza malizia. Certo, non ho raccontato proprio tutti i particolari, se non che sei il ragazzo più bello che abbia mai conosciuto in tutta la mia vita e che fremo di gioia al pensiero di domani pomeriggio. Di rivederti…Anzi, quasi quasi pensavo di prendere il treno, e venire io, come l’altra volta. Così facciamo un po’ per uno.” – mi volto verso Jimmy dandogli un pollice alzato che risponde alzando il dito medio. - “Come vuoi, se non ti costa fatica…poi ti riaccompagno a Milano, possiamo anche cenare qua dalle mie parti, in collina ci sono degli ottimi ristoranti. Che ne dici?” – e Jimmy: - “Ma ce la fai?” – e lo mando affanculo. - “Credo ci sia il tuo amico che t’aspetta…ci sentiamo domattina, così ci organizziamo. Mi sa che dormirò subito, sono veramente stanca. Non andare a far il pazzo nei locali dopo, hai capito?” – e continua con questa storia. - “Mangerò una pizza veloce poi vado a letto anch’io. Allora a domattina, va bene?” – e Lei: - “Perfetto, ti chiamo appena mi sveglio..ciao..un bacio.” – e io: - “Un bacio.” – e attacco. - “Tu non ce la fai più. E’ mezz’ora che ci stiamo gelando le palle. Sei un fottuto testa di cazzo, guarda che ore sono. Ci sono ate davanti cinque coppie.” – e io: - “Fottiti coglione, tanto pago io, così puoi ordinare anche il dolce e il caffè.” – entriamo nel locale e una puzza di carne bruciacchiata mista a fumo di sigarette ci ammorba, fino a farci lacrimare gli occhi. - “Signori? Avete prenotato?” – il cameriere ha l’aria di un punk in crisi di astinenza, piercing al naso e alle orecchie, viso bianco alla Marilyn Manson. - “No.” – incrocio lo sguardo di Jimmy che inizia a sogghignare. - “Prego, seguitemi.” – squadrandolo mentre cammina realizzo che deve essere
anche un finocchio di quelli potenti. - “E da dova cazzo è saltato fuori questo?” – domando a Jimmy. - “Non ce la fa più neanche lui.” – risponde mentre maschera di cera ci fa accomodare, accendendo la candela posta al centro. - “Pensa che siamo due froci…ci sborra nel piatto…” – Jimmy lo fissa mentre arriva con i menù in mano. - “Da bere?” – si rivolge guardandomi negli occhi, cercando l’intesa, e la situazione inizia a infastidirmi parecchio. - “Acqua minerale, grazie, di vino ne ho già bevuto parecchio.” – lo liquido freddamente. - “Ok, rio tra un po’…” – mentre se ne va sculettando, prendo in mano schifato il menù, optando subito per un filetto cotto su piastra rovente con radicchio. Scelta condivisa anche da Jimmy. - “Hai capito, viene su domani pomeriggio con il treno. La porto al Valenzasca e la distruggo. Dovresti vedere come scopa, le piace da morire. Non capisco solo se va fuori così perché è il sottoscritto a mandarla davvero al settimo cielo, così dice lei, o se un vibratore le fa lo stesso effetto.” – l’aprichiappe torna al tavolo per prendere l’ordinazione. - “Signori, cosa posso portarvi?” – per renderlo felice avrei voluto ordinagli un bel piatto di salamelle. - “Due filetti cotti su piastra rovente e una bottiglia d’acqua. Naturale, grazie mille.” – e lui: - “Cottura?” – e Jimmy: - “Media” – e io: - “Al sangue, grazie” – e il frocio: - “Grazie a voi.” – capisco vedendolo camminare tra i tavoli che ha il culo distrutto, a ogni suo movimento fluttuante i clienti si voltano disgustati.
- “Fisso che ci sborra nel piatto…non vede l’ora di mettertelo nel culo.” – e io: - “Secondo me glielo hanno tagliato, pare una donna, scommetto che ogni giorno si trangugia una badilata di ormoni. Chemmerda. Dammi una sigaretta, sono a pezzi.” – è davvero insolito vedere un personaggio così folle fare il cameriere. Qualcosa non quadra. - “Ma è figa?” – e io: - “Fin quando non l’hai davanti non puoi capire. E’ la migliore. Tutte le altre che ho scopato fanno pena, non c’entra un cazzo con la Brianza, non regge neanche con le modelle marchettare che ogni tanto porto fuori per tirarmela. Ha le tette vere, una terza abbondante, ma stanno più su di quelle rifatte.” – pesandoci non riesco a trovare una spiegazione a questo fenomeno, va contro le leggi della fisica. Non ha diciannove anni. - “I capezzoli?” – un flash mi riporta a cinque ore prima con lei che godeva con la bocca attaccata alla mia e le tette gonfie di piacere. - “Enormi e in rilievo.” – finalmente arrivano i filetti fumanti. A colpo d’occhio sembrano immacolati. - “Porca troia, i capezzoli larghi e sporgenti, da impazzire. Se me ne capita una così, ciao, vengo nelle mutande, non riesco nemmeno a tirarlo fuori.” – assaggio un pezzo di carne, cercando di capire se sia surgelata. Non mi sembra e dopo il primo assaggio concludo che è gradevole. - “Buona. Domani viene in treno, pomeriggissimo. Invece di studiare vado a chiavare, niente male. Però.” – e Jimmy: - “Non vedo sborrate nel piatto. Sul serio niente male come pomeriggio, falle delle foto, chiama Bollinger. A proposito il guru l’ha vista?” – anche il radicchio sembra gustoso. - “Certo, le abbiamo fatto un bel servizio fotografico in Piazza Duomo, aspetto che sviluppi le foto, poi te le faccio vedere. Bollinger ha confermato che una così non l’ho mai avuta. Quando l’ha vista non parlava più. E Bollinger ne ha conosciute di fighe vere, lo sai meglio di me.” – guardando verso l’entrata noto una quarantenne straritoccata e rifatta. Bellla donna, anche sensuale e provocante, ma non mi provoca alcuna reazione particolarmente intensa. Anzi,
continuo a cenare come se non l’avessi nemmeno vista. - “Power, guarda quella. Puttana che troia!!” – in effetti risulta molto appariscente, le tette strarifatte arrivano al collo, ma analizzandola da vicino, sta procedendo verso un tavolo vicino al nostro, il viso è una maschera di sangue, nonostante i vistosi interventi plastici. Gli occhi minuscoli sono infossati tra gote e zigomi ultraliftati. - “Zucche notevoli, quasi una quinta, ma il viso è osceno. Chissà quanti cazzi ha succhiato, non vedi che faccia da vecchia puttana? Ormai è sul viale del tramonto.” – ingoio l’ultima forchettata di filetto e finalmente mi sento sazio. - “Quando sono sul viale del tramonto si salvi chi può. Tutti i cazzi che possono prendere li acchiappano senza ritegno, belli e brutti, grassi e magri. Non vedi lui, avrà dieci anni di meno, e non è neanche un bel ragazzo. Eppure finita la cena chissà che gran scopata vanno a farsi. Avrà sotto venti chili di era. Che faccia da schifosa. Non ti sei accorto come ci ha squadrato? Ti ha sorriso, che troia!!” – con denti nuovi di zecca incastonati tra labbra gonfiate partorisce un sorriso grottesco, da pagliaccio impazzito. - “Jimmy, quella a i cinquanta. Le mani, cazzo, guarda le mani! Sembrano quelle di una strega. Chissà che strano effetto quando ti prende in mano il cazzo, secondo me è devastante. Grazie che mi hai avvisato del suo sorriso, non lo contraccambio neanche per cortesia.” – accenno all’aprichiappe di portarci due caffè. - “Che ore sono? Ho dimenticato il Daytona….inizio a non capire più un cazzo, Silvia mi sta facendo un brutto effetto.” – i caffè vengono subito serviti. - “Le undici e venti, siga?” – non c’è neanche da chiedermelo. Accendo un Malboro Light con estremo piacere e ordino il conto. - “Lascia Jimmy, carta di credito. Grazie.” – firmo la ricevuta e trangugio un limoncello offerto dall’aprichiappe. In fondo è stato gentile.
FUORI CONTROLLO
Capisco dallo sguardo di mio padre che ormai sto tirando parecchio la corda. Non sono mai in casa, non faccio altro che far fuori un mucchio di soldi, e lo sfriso di mettermi seriamente a dar esami non mi a neanche per l’anticamera del cervello. Preannuncio che la seconda parte del corso di finanziaria, il solo nome mi procura il vomito, è programmato grosso modo ogni giorno dalle sedici alle diciannove, così ho architettato il paraculo per trascorrere i pomeriggi con Silvia senza essere continuamente ricercato. Devo solo far una copia delle chiavi di uno degli appartamenti che i miei hanno in un residence a due chilometri da casa, così avrei potuto disporre tranquillamente di privacy quando e come avrei voluto. Rinunciando all’invito di mia madre ad accompagnarla a fare un po’ di spesa, con la scusa che devo studiare un paio d’ore, mi procuro le chiavi da uno dei cassetti della scrivania di mio papà e mi catapulto dal ferramenta per farmene un doppione. Rovistando nelle tasche dei jeans realizzo di essere al verde. Entro in camera dei miei, il profumo (Van – Cleef & Arpels) che mia madre ha indossato dieci minuti prima, mi allieta le narici, e scoperchiando la preziosa scatola russa contenente i gioielli di famiglia posta a destra di una foto dei miei giovani (erano bellissimi anzi sono bellissimi) rovisto in cerca di banconote facili. Agguanto cinquantamilalire da una spessa mazzetta di contanti posta sotto un paio di bracciali in oro bianco e diamanti appropriandome senza il minimo senso di colpa (i soldi vanno sudati) richiudendo la scatola e lasciandola immacolata. Non se ne sono mai accorti, ho sempre spazzato. Sguscio fuori casa come un ladro, diretto dal mastro di chiavi (Ghostbusters è un capolavoro assoluto), lasciando sul tavolo in sala da pranzo un foglio con su scritto: sono andato a far delle fotocopie per l’esame di finanziaria veramente
importanti. Conto di tornar prima di mia madre. - “E’ un problema, per quella blindata deve tornare nel pomeriggio.” – quel testa di gran cazzo del ferramenta non ha capito che nel pomeriggio devo essere già nell’appartamento e non posso aspettare. - “No…non posso aspettare, è davvero necessario che io le abbia ora…è importante…” – e quello stronzo inizia a sbuffare. - “La macchina per duplicare le chiavi blindate è fuori uso…per le altre non c’è nessun problema..” – ha il fiato che puzza d’alcool. Ubriacone di merda. - “Papà, c’è qualche problema?”- dal retro del negozio esce un ragazzo sulla trentina, di media corporatura con gli occhiali, i capelli a spezzola intrisi di gel. Indossa un toni da lavoro bucato da tutte le parti. - “Il signore non capisce che non possiamo duplicargli le chiavi per le porte blindate, non funziona la macchina….”- gli occhi semichiusi e parla per inerzia. - “Papà, non hai capito, non possiamo duplicare le chiavi per le cassaforti, sai quelle che hanno il buco in mezzo….questa è per una semplice porta blindata, me la dia, mi scusi molto. Vai di là a sistemare il reparto giardinaggio, sono arrivati i vasi di terracotta da etichettare.” – il figlio, scocciato e indignato, si trova in evidente difficoltà. - “Mi scusi ancora…mio padre è anziano…gliela faccio subito….se ha la cortesia di aspettare cinque minuti..” – comprendo l’imbarazzo della situazione e la vergogna per suo padre gli dipinge il volto di rosso rubino, la sua voce inizia a tremare guardandomi con occhi lucidi. - “Non si preoccupi, aspetto…” – a o svelto si dilegua dietro una tendina a quadretti rossi e bianchi, avviando la macchina per doppiarmi le chiavi, dal suono insopportabile, simile a una sega elettrica. Le chiavi per il paradiso mi sono costate trentaduemilalire. In casa non c’è ancora nessuno, straccio il foglio che ho scritto poco prima e trangugio direttamente dal contenitore mezzo litro di succo d’arancia gelato, sentendo vibrare nella tasca dei jeans lo startac. Prima di rispondere lancio un’occhiata al Daytona che segna le undici e quarantacinque.
- “Pronto.” – e dall’altra parte. - “Non mi scrivi neanche per darmi il buongiorno…” – in effetti potevo sprecarmi in qualche smanceria, ma dovevo organizzare il piano per il pomeriggio, e sono completamente assorto nell’evitare qualche o falso. In fondo sarei stato a lezione e non dovevo essere disturbato. - “Ehi…hai ragione, ma è stata una mattina un po’ movimentata…ho sbrigato alcune faccende di importanza vitale…” – mentre parlo ripongo le chiavi al loro posto, curando perfettamente che riprendano la posizione originaria prima del mio prelevamento. - “Hai dormito?” – mi domanda sbadigliando. Sento che si stiracchia nel letto. - “Insomma, un po’ di preoccupazioni, l’università, l’inverno che sta arrivando, la armi chimiche, tu….” – inizia a ridere. E’ la risata di chi non ha problemi. - “Io?! Ci stiamo solo facendo del bene….oggi ci vediamo vero? Vengo a trovarti…ricordi? Prendo il treno dell’altra volta..” – incastro perfetto. Sarei sbucato da casa verso le quattordici e un quarto, come se il corso avesse inizio alle quindici. Un paio d’ore abbondanti di lezione e un’ora e mezza per il ritorno (a quell’ora il traffico è insostenibile) e sarei tornato sfiancato da una pesante lezione di matematica finanziaria. Avrei cenato tranquillamente e poi sarei uscito (meritatamente) ancora. Un ragazzo esemplare. - “Certo che mi ricordo…lo sai che tutto dipende da te adesso’” – anche se lo dico come battuta è la pura, triste e semplice verità. - “In che senso…non capisco…” – ha capito benissimo. - “In tutti i sensi tesoro…non ci sei che tu…a che ora arrivi?” – cambio volutamente discorso. - “Come l’altra volta…però poi mi riporti tu…cosa facciamo? oltre a stare vicini vicini….?” – mi sta andando già in canna. Mi sento pronto a combinarne di ogni genere. - “Facciamo l’amore tutto il pomeriggio…” – inizia a sospirare: - “Non dirmi così ti prego…ho voglia di toccarti…” – è già bagnata.
- “Non iniziare, altrimenti devo andare in bagno a masturbarmi…sai che sono un bravo bambino, non posso fare queste cose…” – sempre più duro. - “Ok, smettiamola, riserviamoci per questo pomeriggio…te ne farò…santo cielo, non riesco a non pensarti, mi giri in testa tutto il giorno, vorrei mandarti via, stai scombinando la mia esistenza…non riesco a studiare, faccio perfino fatica a mangiare. Non rispondo più al telefono, e a ogni squillo del cellulare spero che sei tu…vorrei averti sempre…” – parole di grande effetto, indelebili. - “Più o meno è la stessa cosa per me, forse di più. Ci sono, e ci sarò, per sempre.” – dall’altra parte silenzio. - “Ehi..pronto…ci sei?” – strani singulti in sottofondo. - “Silvia…tutto bene?” – non capisco la reazione. - “Certo, va tutto benissimo…scusami, ma non risco a trattenere la emozioni, sono un po’ fuori, devi farci l’abitudine…ci vediamo dopo? In stazione a Cernusco?” – è quasi l’ora di pranzo e mia madre non si è fatta ancora vedere. - “Certo tesoro….a dopo….” – attendo la risposta. - “Vado a prepararmi, un bacio infinito.” – e attacca. Infilo nella valigetta dell’Università un paio di libri di Finanziaria, un quaderno e una bottiglia di Eviàn…tanto per sostenere tutto il teatro che ho imbastito. In camera c’è disordine, la mia scrivania sembra abbandonata da mesi, un’ ammucchiata di libri, cd e giornali di moda, intervallati da filamenti di polvere accumulati in mesi di noncuranza e menefreghismo. Inizio ad apparecchiare la tavola, e a far bollire l’acqua per la pasta quando ecco mia madre. - “Non faccio la pasta, ho comprato il filetto (ancora), prendi l’insalata dal frigo e lavala, metti il pane nel cestino..” – si dilegua nelle sue stanze e per un momento penso che si sia accorta della manomissione della scatoletta russa. Ma le mie preoccupazioni si rivelano infondate, torna sorridente in sala da pranzo chiedendomi se ha telefonato qualcuno. Mi comunica che nel pomeriggio sarebbe ato il giardiniere per vedere quali rose nel portico sono da sostituire. Un paio sono morte durante l’estate, senza motivo. Forse colpa dei gatti,
ultimamente ne vedo ovunque, un paio anche di razza siamese. Non si sa la loro provenienza. Sporcano di merda dappertutto. Un giorno li avrei massacrati uno per uno. - “A che ora arrivi dall’Università?” – tagliuzzo la carne senza alzare la testa. - “Ma…penso verso le sette….dipende dal traffico…comunque ti faccio uno squillo quando mi muovo da Bergamo. Perché questa domanda?” – non voglio destar dubbi, ma inizio a preoccuparmi. L’università ha il numero verde e mia madre ha sempre indagato su tutto quello che mi sta intorno. L’inizio delle indagini coincide sempre con un bombardamento di domande mirate. Aspetto la prossima. - “Così, per sapere a che ora cenare..” – sembra all’oscuro di tutto, ma poi una domanda mi fa rabbrividire. - “Ma quelle ragazze con in mano la macchina fotografica presenti alla laurea di tuo fratello? Le hai più sentite?” – sputo singhiozzante un pezzo di filetto che sto masticando. - “Cazzo, mi è andato di traverso!! No, non so che fine abbiano fatto…perché?” – senza volgermi lo sguardo si alza per prendere la bottiglia di olio toscano (Dop) appoggiato sopra la credenza di fine ottocento. - “Strano, ero convinta che ti fossi sentito con quella più alta…meglio così, una preoccupazione in meno…” – l’aria da madonna infilzata la sta catturando, intristendole l’espressione del viso (è morto qualcuno di caro?) mandando i mie nervi in delirio. - “Quali sono le altre?” – domando quasi incazzato. - “L’università…io e il papà non vediamo l’ora di vederti laureato…pensa che soddisfazione…non dico per noi, ma per te stesso….” – inizia il ricatto morale. - “Cazzo, come se fosse così semplice!! Ce la sto mettendo tutta, porca troia!! Cosa credi, che matematica finanziaria sia una eggiata?” – calco la mano e mi mostro impegnato (come se studiassi dieci ore tutti i giorni). Cerco di tranquillizzarla. - “Lo so, ma forse sbagli approccio, non c’entra quanto tempo dedichi allo
studio, ma è il modo, la concentrazione. Se hai la testa via perdi solo delle ore….” – mi alzo portando con me il piatto e afferrando dell’uva appena lavata. - “Sì, sì, basta, ho capito….Vuoi? Tra poco devo andare a lezione… - non ce la faccio a reggere una discussione prima di andare a prenderla, voglio star sereno. Riesco a trattenermi, tirando una profondo respiro. Conto fino a cento. Ormai ho capito che presto mio padre avrebbe lanciato l’ultimatum. La situazione sta diventanto veramente pesante. - “No…mangio una mela….stai attento, vai piano..” – saluto mia madre con un ciao a bassa voce, e sgattaiolo fuori casa, lasciando le preoccupazioni dell’università nella mia camera. Era inevitabile, la morale comune, tipica del ragazzo modello (non del modello ragazzo), imponeva la regola matematica: c’è un problema che genera infiniti altri problemi, scatenando malcontento e insoddisfazione? Risolvilo subito e tutto andrà a posto. Ho sempre preferito rimandare, con la sicurezza che tanto tutto, prima o poi, si sarebbe sistemato e che qualcuno avrebbe riparato i danni (e le relative conseguenze) che commettevo, mettendo una bella pezza disinfettante. Le conseguenze si protraggono per anni e spesso non si riescono a cancellare e tutto si accumula, generando una massa inamovibile e intrattabile.
TUTTO NEL CERVELLO
Arrivo a Cernusco con dieci minuti di anticipo, e nell’attesa smanetto istericamente la radio, sintonizzandomi dopo uno scanner durato un paio di minuti su radio tre, che trasmette il secondo tempo del secondo concerto per pianoforte e orchestra di Rachmaninoff, ormai sul finire. Sono curioso di sapere chi sia il pianista ma il fischio del treno proveniente da Milano distoglie la mia attenzione verso l’uscita della stazione. Persone come api che stanano fuori dall’alveare si riversano copiose in strada. Silvia non si vede. Trascorrono un paio di minuti prima che appaia davanti a me abbracciandomi, visibilmente sconvolta e pallida. - “Mi hanno seguito….andiamo via…” – non capisco. - “Chi ti ha seguito? E perché?” – vengo a contatto con una situazione estranea e inaspettata. Non so come gestirla. - “Era grosso, avrà avuto quarantanni, pelato, con gli occhiali scuri…ho aspettato per vedere se scendeva dal treno ma è rimasto su….” – la storia si complica e non riesco a prendere contatto con la nuova realtà. - “Ferma, ferma un attimo, calmati e racconta…chi ti ha seguito? E perché?” – si avvicina al quadro dei comandi mettendo in moto la macchina. Meglio allontanarsi dalla stazione il più presto possibile. Ingrano la prima, diretto verso Merate. - “Sul metrò.. pensavo a una coincidenza…mi fissava, sai capita tutti i giorni in città che qualcuno ti guarda perché vuole attaccare discorso…poi sono scesa in stazione Centrale ed è sceso anche lui. Sempre a distanza, non aveva capito che mi ero accorta…così conclusi che… mi stava seguendo.” – ha la voce tremante, ed è sempre più splendida nel suo cappotto nero di Gucci. - “Ma era un maniaco? Ti ha fatto qualche cenno per adescarti?” – non so spiegarmi l’accaduto. Eppure c’è sempre un perché.
- “Assolutamente no…c’è lo zampino di mio padre…è d’accordo con il suo amico… il giudice…fin quando sono a casa ha monitorato ogni mio movimento. Ha capito che non faccio più le stesse cose con cadenza perfetta come prima e vuole vederci chiaro…si preoccupa soltanto per me. Nel palazzo dove abito, il portinaio e suo fratello telefonano a un uomo della scorta del giudice per segnalare l’ora in cui esco la mattina e l’ora del mio rientro la sera. Una volta Alessandro, il fratello ci ha provato facendomi capire che se ci fossi stata non avrebbe più avvisato nessuno.” – rimango in silenzio, sconvolto. Imbocco la strada che porta al Residence dove avremmo trascorso il pomeriggio. - “Scusa un attimo….se vivi sola a Milano è logico che tu possa far un po’ quello che vuoi, senza rendere conto a nessuno…” – frase scontata ma vera. - “Non capisci…non conosci mio padre, è fissato con l’Università, vuole che dia tutti gli esami in tempo e con il massimo dei voti…la prima cosa che mi chiede al telefono non è come stai, ma come va lo studio…è allucinante.” – mai quanto la situazione in quel momento. - “Scusami molto, ma vuoi dirmi che questo tizio ti ha seguito perché non studi negli orari stabiliti da tuo padre? “ – non è l’unica domanda che volevo farle. - “Non è solo questo, è che le persone che frequento a Milano sono tutti ragazzi di Roma, con cui sono cresciuta, e i genitori dei quali sono strettissimi amici dei miei. Evidentemente hanno visto che non sono, tra virgolette, più presente come prima e ne avranno parlato a mio padre. Tutto per colpa tua!” – e mi caccia la lingua in bocca. - “Se vuoi possiamo anche non vederci più…” – mi molla uno schiaffo. - “Non dirlo neanche per scherzo…” – parcheggio la y ed entriamo nel condominio, ando da un’entrata secondaria, scansando la portineria. Chiamo l’ascensore, mentre inizia a slacciarmi la cintura dei jeans afferrandomi con la mano il cazzo. Con la lingua mi ria tutto il collo, e sento i brividi correre lungo la schiena. Entra in un’altra dimensione (respira profondamente). Apre il cappotto mostrandomi il seno (sembra ancora più gonfio), sotto un corpetto in pizzo nero (Victoria Secret) e la voce della televisione di un condomino rimbomba per tutto il corpo scala. Forse qualche sordo non sa leggere il labiale.
E’ strano come si sia dimenticata di quell’uomo che l’ha inseguita spaventandola a morte poco tempo prima di incotrarci, bollente con la lingua nella mia bocca e le mani nei boxer. Sembra non essere mai stata pedinata da nessuno. L’ascensore si spalanca, entriamo sbattendo contro la parete in acciaio. Le volto il viso contro lo specchio (mi fissa), le alzo la gonna, e con un gesto spontaneo divarica appena le gambe. Porta un perizoma nero bordato oro (Victoria Secret). Lo scosto e le infilo un dito nel culo già umido. Emette un sussulto di piacere. Arriviamo al terzo piano. Con gran fatica agguanto le chiavi per aprire la porta blindata. Non si stacca dalla mia lingua, ho i pantaloni calati mentre si sta chinando per prendermelo in bocca. - “Dobbiamo entrare, aspetta, se sbuca qualcuno ci denunciano per atti osceni, vado nei casini con i miei…sei pazza….o Cristo Santo…” – non posso far nulla, le mie difese si sono praticamente azzerate. - “L’hai detto…” – conclude mentre entriamo nell’appartamento. Poca luce entra dalle persiane socchiuse, penso di aprirle (mi piace guardare) ma non ho scampo. Immobilizzato sul pavimento in cotto le lecco, in sequenza la figa (strabagnata ancora prima del mio intervento) e il buco del culo (non c’è la minima traccia di emorroidi, segno di un’esistenza rilassata) sovraeccitandola con l’indice premuto sul clitoride. Ansima profondamente, mi lucida con la lingua la cappella (entro pochi minuti le avrei inondato la bocca di sperma). Si tiene il seno tra le mani e si sminuzza lentamente i capezzoli (duri più del mio cazzo) e sospesa a pecora sopra di me, è catapultata in un’altra dimensione (quella della follia?). Mi sfilo dalla sua presa e la inculo con estrema violenza. Urla qualcosa di incomprensibile, e invece di ritrarsi si spinge ancora più a fondo sul mio cazzo. Sorride di piacere. Le schiaccio la faccia per terra infierendo dentro il suo canale bagnato, ormai completamente aperto e dilatato. Si muove convulsamente, alla pari di una una macchina da stampa industriale di ultima generazione, perfettamente oliata ed efficiente. Non risparmia nemmeno un gemito di godimento, gocce di sudore iniziano a scivolarle dalle ascelle (depilate al laser) al seno, facendomi sfuggire la presa.
Il pendolo del settecento in soggiorno alla destra del camino segna con i suoi rintocchi le quindici e trenta. Non smette mai, suona ogni mezz’ora. Non se ne accorge, dalla figa le fuoriesce una schiumetta bianca. Urla ininterrottamente. Mi lascio andare e decido di venirle dentro. Rimango inerme sul pavimento, estenuato, con i capelli ridotti a una massa di paglia arruffata, intrisa di sudore e lacca, gli occhi brucianti. L’ho davanti, accovacciata, e sfiancata. Con un gesto disinteressato si rimette il reggiseno. - “Mi hai fatta venire non so quante volte….” – dice calma e rilassata. - “E’ la cosa più importante?” – apostrofo ansimante. - “Sì.” – riprende la sua tranquillità. - “Perché?” – m’incuriosisce sempre di più. - “Non vengo mai. Solo quando sono innamorata.” – un minuto di silenzio. La fisso. - “Capisco.” – rispondo. So quello che devo dire, ma mi alzo di scatto diretto verso il bagno padronale. - “Devi andare in bagno?” – faccio finta che sia tutto normale, raccattando i boxer (Armani) finiti dentro un vaso cinese da cinque milioni. - “Vai prima tu…ti aspetto, intanto raccolgo i pezzi…” – ha il pelo lucido. - “Ce ne sono tre, attraversa il corridoio, la prima porta a destra, c’è tutto il necessario per farti una doccia, anche il phon, da qualche parte.” – va verso la cucina e apre una bottiglia di Evian sul tavolo in ciliegio. Se ne sta in piedi sprovvista di perizoma, con la figa all’aria. Visione dal corpo perfetto. Mi guarda tra una sorsata e l’altra. - “Mettiamo un po’ di musica, ti va? Vuoi dell’acqua?” – ha notato lo stereo (Sony) nello scaffale della libreria in soggiorno, in fianco cd sparpagliati alla rinfusa, senza un ordine preciso, come il momento che stavamo vivendo. Inserisce “The Gold Experience” di Prince e seleziona “ I hate you”, modulando il volume a media densità. Si avvicina e riprende a baciarmi, stavolta vellutata,
senza impeto, accarezzandomi la linea degli occhi. - “Ti amo….” – pronuncia quasi impercettibilmente abbracciandomi. - “Ti amo anch’io.” – non lo avevo mai detto perché non lo avevo mai provato. La prendo ancora due volte, prima sul divano in pelle, e poi nella doccia. Entrambe le volte scarico una tale quantità di sperma ingiustificabile. Una canna aperta. Non riesco a trattenermi, non c’è pestilenza né miseria ritardanti alle quali aggrapparmi. Si è impossessata completamente della mia mente.
LA PROPOSTA
- “Hai programmi per l’ultimo?” – domanda mentre si phona i capelli, avvolta in un asciugamo (Frette) color crema profumato di lavanda. Con la capigliatura bagnata e spettinata risalta ancora di più la perfezione del suo viso. Anche struccata pare di porcellana. - “Nulla, non so cosa farò tra due ore, figurati all’ultimo dell’anno…perché?” – le dico abbracciandola e accarezzando la sua guancia contro la mia. - “Lo trascorriamo insieme? Io, te e una bottiglia di champagne…qui, facciamo l’amore tutta notte. Che ne pensi?” – non esito a risponderle. - “Grandioso.” – si volta e riprende a baciarmi. Quel pomeriggio non tornai più sul discorso in merito all’uomo che l’aveva pedinata. Sembrava se ne fosse completamente dimenticata e non volevo insistere in merito all’aspetto di quel nuovo personaggio, così optai per rinviare l’interrogatorio, nonostante bramavo per conoscere il motivo dell’inseguimento avvenuto prima del nostro incontro. Dopo la doccia sento la pelle del viso secca e arida, e una convulsa crisi di panico sopraggiunge facendomi frugare nervosamente nei due armadietti a lato destro della doccia, realizzando di trovare solo detersivi e prodotti per la pulizia della casa (Pronto, Glassex Multiuso, Cif, Ammoniaca) e sto dando di testa. - “Vuoi?” – mi tende un tubetto di crema idratante Sisley. Mi si apre il cuore. - “Grazie tesoro, mi hai salvato il culo…” – si mette a ridere mentre fruga nel suo Beauty (Sisley) alla ricerca del contorno occhi (Shisheido) e del lucida labbra (Estèe Lauder). - “Sei ben rifornita…” – non posso non trattenermi. - “E’ mia sorella, quella più piccola, dice che ho la fortuna di avere una pelle priva di imperfezioni…e che devo mantenerla tale…lo sapevi che avevo un’altra
sorella? Non te ne ho ancora parlato? Ha quattordici anni, è bellissima…mi regala sempre queste creme…” – non ricordo di essere a conoscenza di un’altra sorella e la cosa non mi turba più di tanto. - “Regala dei buoni prodotti, anzi ottimi, sono i migliori…a proposito, non so nemmeno il tuo cognome…” – sto finendo di tirar la crema sulla guancia destra. Quando la si applica sul viso bisogna sempre stenderla, o meglio, tirarla dal basso verso l’alto, contro la forza di gravità. Mia madre me lo dice sempre. - “Fa ridere…no…mi vergogno…” – il calore della doccia ha appannato tutto lo specchio. - “Oh…non devi preoccuparti, anche il mio è esilarante….” – dico soddisfatto dell’elasticità della mia cute facciale. - “Ma il tuo lo so, ricordi? La laurea di tuo fratello…t’assicuro, il mio è molto più ridicolo….E’ il cognome di un avvocato famoso…” – stento a capire. - “Agnelli?” – butto il primo che mi viene in mente. - “Ma no!!! Non è italiano….dai, che t’importa?” – mi interessa molto invece. - “Ma non sei mica di Roma?” – non trovo soluzione a questo rebus del cazzo. - “Certo, ma non c’entra nulla…..è un avvocato di una famosa serie televisiva….”- l’indovinello è stato indovinato. - “Cazzo, Mason!! Ti chiami Silvia Mason?” – scoppia a ridermi in faccia. - “Certo, scemo!! Ma non scherzarmi…capito?” – dice picchiettandomi leggermente con il pugno in testa. - “ Non è poi così ridicolo, Silvia Mason…con due enne o una?” – domando sfottendo. - “Con una …smettila..!!” – apre la finestra per far uscire un po’ di vapore. Inizio a soffocare. - “Fai giurisprudenza, ti chiami come Silvia Mason, cazzo, sei una predestinata…” – infilo i jeans e afferro la bombola di lacca (Elnet), nuova, mai
usata. - “Perché dici tutte quelle parolacce? Non stanno bene in bocca ad una persona fine come te…” – può darsi avesse ragione, ma sono sempre state insite nel mio DNA. - “La prima parola che ho pronunciato a due anni è stata: vaffanculo…diciamo che in prospettiva sono anche trattenuto. Tra cavolo e cazzo preferisco cazzo, tra accidenti, caspita e ops, scelgo porca troia…scusa…” – le sfilo il phon dalle mani notando che ha terminato di asciugarsi i capelli. - “Strano…fai come vuoi, però non ti si addicono…” – inizio a spruzzarmi il fissante alternando colpi di calore a spazzolate aggiungendo: - “C’è gente che non dice una parolaccia e commette azioni tremende…” – rifletto a volce alta, vedendola dileguarsi in soggiorno, curiosando tra i libri posti sopra la mensola in acciaio sotto una stampa antica di Milano grande un metro e venti per ottanta, di notevole valore. - “Stasera che fai?” – domanda dandosi l’ultimo tocco di mascara (Max Factor). - “Mi piacerebbe invitarti a cena e poi are tutta la notte nel tuo letto…” – sorride tristemente, come se fosse un desiderio irrealizzabile. - “Le guardie del giudice amico di mio padre non mi mollano un attimo..lo sai, ma questa settimana metto a posto tutto, dirò in famiglia che ho conosciuto il principe azzurro…anzi penso che Stefania abbia fatto la spia…chiede sempre di te…” – un attimo di smarrimento (non ho collegato al volo che Stefania è il nome della sorella conosciuta all’Università) e guardo il pendolo che indica venti alle diciotto. - “Ho capito…allora andrò allupato in qualche locale in cerca di donnacce…” – sentenzio provocatorio. Aspetto la sua reazione. - “Vorrà dire che inviterò a casa un paio di modelli amici miei a ber qualcosa dopo cena…” – rido amaramente. - “Ahh…ahh…eh…ti ammazzo…” – l’unico mio commento.
Imbocco la tangenziale sgombra, i pendolari invadono la corsia opposta, generandomi pensieri ingombranti per il ritorno. Sicuramente mia madre avrebbe chiamato. Su RMC trasmettono “Outside” (ormai è l’hit del momento) e realizzo ancora una volta che è davvero la migliore canzone in circolazione. “Let’s go outside… let’s go outside…in a sunshine…” non riesci a cacciartelo via dalla testa. Silvia mi sta abbracciando, senza staccarsi mai, e un’erezione improvvisa mi assale famelicamente, ma faccio finta di nulla, anche se avrei voluto fermarmi in un’area di servizio e sfilarle le mutandine di nuovo e leccargliela per bene ancora una volta. Tutta la vita in autostrada. L’orologio digitale della y segna le diciotto e trenta, e il crepuscolo ha ceduto il posto alle tenebre ormai da un bel po’ e le luci degli appartamenti in periferia lasciano intravvedere l’interno di loculi mal arredati (tutto in formica) dalla pareti scrostate, addirittura prive di intonaco, illuminati da luci depressive e misere, e il solo pensiero di far parte di quel mondo mi raggela il sangue. - “Ehi…c’è qualcosa che non va?” – mi a la mano tra i capelli ancora umidi. - “Ehm…no, assolutamente…” – per fortuna queste parole mi riportano alla realtà, e il suo viso risplende nella penombra dell’abitacolo. - “Lo sai che vorrei star sempre con te….” – aggiunge infilandomi la lingua in bocca mentre aspetto il verde di un semaforo in Corso Buenos-Aires. - “Potremmo iniziare subito da stasera…” – la butto con tono provocatorio e una smorfia interrogativa (più polemica) si dipinge sul mio viso. - “Lo sai come sono messa, per ora dobbiamo organizzarci e vederci di pomeriggio. Non preoccuparti tesoro, entro domenica parlerò con mio padre, te l’ho già detto. Anch’io desidero tantissimo are più tempo con te. Lo voglio davvero…credimi.” – potevo crederle, ma stava di fatto che ero stato abituato sempre a comandare, a decidere quanto ore dedicare a qualcuno, e non mi era mai stato negato nulla da nessuna. Un vecchio avvizzito con una troia al fianco mi sora su una Azure blu metallizzato, e guardo Silvia che non ci fa nemmeno caso (sta recitando?) e rimango scioccato dal suo comportamento. Niente clamore ne davanti all’sl ne
tantomeno davanti ad un’Azure. Per caso sto avendo a che fare con una ragazza anacronistica?
HOLLIWOOD
- “Penso che lo trascorrerò con Silvia….e una bottiglia di Cristal…” – sono svaccato su un divanetto nel privè dell’Holliwood bevendo Absolut Cranberry Juice (il terzo) con una modellina turca di sedici anni (carina anche se troppo baffuta) mentre Bollinger sta parlando a una polacca (gran figa ma si vede dalla misera espressione del suo volto che ha appena finito di ber l’acqua infangata dalle pozzanghere in qualche paesino sperduto dell’est) di John Titor, l’uomo venuto dal futuro, intervistato due ore prima in un programma in onda su raitre. - “E chi è Silvia?” – pensavo mi domandasse: chi è Cristal. In un limbo ammorbato di nebbia alcolica, il mio cervello sta meditando sul fatto che alle israeliane appena nate fanno saltare in aria il clitoride e che se scopano possono solo farsi penetrare nel culo. O forse sono le arabe. Non mi ricordo esattamente. - “E’ una strafiga, dice di amarmi…” – mi cadono continuamente gli occhi sulla sua minigonna inguinale e riesco a vedere il colore del suo intimo (perizoma viola comprato alla bancarella di Istanbul) anche perché la troia si diverte a tenere le gambe divaricate. Il dj mixa “Personal Jesus” dei Depeche Mode e mi sento barcollante, nonostante sia quasi sdraiato e immobile. - “Anche tu…” – è programmata per dire sempre le stesse cose, come le troie negre di strada. - “Tesoro, ho sotto il cazzo. Non sono una femminuccia, mi piace leccare le ere, quelle belle fresche.” - mi guarda come i bambini alle prese con la prima elementare che non riescono ad apprendere i concetti basilari. - “ere? Non conosco ere….” – brutta testa di cazzo ignorante, se ne sta davanti con gli occhi sgranati (le pupille grosse come palle da bigliardo) ondeggiando al ritmo della musica con il flûte in mano, quasi vuoto, facendomi cenno di farle il rabbocco. Di tette non è poi il massimo, avrebbe dovuto programmare al più presto una seduta dal chirurgo plastico per farsi dare una bella gonfiata.
- “Sono come gli uccelli al femminile, vuoi ancora da bere, vero? Ti piace lo champagne?” – sono sul punto di proporle un giro al cesso per verificare la teoria del salto del clitoride, quando realizzo che Bollinger sta riempiendo di insulti la sua fottuta zingara. - “Chi ti credi di essere? Brutto maleducato? Non sono mica una troia?” – correggo, è lei che lo sta insultando, alzandosi e minacciandolo con fare nevrotico, additandolo al pubblico disprezzo e la gente seduta sugli altri divanetti ci guarda con aria interrogativa. - “Bollinger, che cazzo hai combinato? Le hai chiesto dei soldi?” – la troia non smette di sbraitare, sembra in acido, in preda a una crisi delirante. - “Tesoro, bevi ancora un po’ di champagne, e vedrai che ti a…” – sembra non sentire. Assisto. - “Le ho chiesto qual era la procedura a questa signorina….niente di più…” – apprezzo il nuovo comportamento evoluto di Bollinger, probabilmente in sintonia con quello che quella zingara gli ha lasciato intendere. - “Tesoro, rilassati, è miliardario….divertirti un po’ con lui, potrebbe farti un gran bel regalo stasera…scusami, non scappare, dobbiamo finire il discorso sulle ere…” – punto dritto in direzione della pazza isterica, facendo un giro su me stesso, al ritmo di “ Original Sin” degli INXS, fissando dritto negli occhi una studentessa americana (non tanto alta, bionda con due supertette) vogliosa di maltrattamento carnale istantaneo. - “How are you? Vedi, è industriale, capisci?! Industriale?! Fatturato, utile, miliardi, sl..qua davanti parcheggiata!!” – appena sentito le due magiche consonanti in sequenza l’espressione del suo viso muta radicalmente. - “SL?? Avete SL??” – la troia. - “Lui ha SL, proprio parcheggiata davanti all’Executive, Hotel Executive, hai presente?” – inizia a sventolarmi il flûte vuoto, segno che si è calmata e il sorriso le si è ristampato in faccia. - “Capito, spesso vado a Excutive…ma è gialla SL?” – con la conda dell’occhio spio l’israeliana e la studentessa che, nel frattempo hanno iniziato a far conoscenza, parlando un inglese fluente.
- “Certo, come la Rolls di J. Gastby…” – rispondo cercando di farle capire che non è giallo taxi. - “Chi?” – risponde venuta da Marte. Così le scrocco una Malboro Light, che mi offre a stento, e poi la mando affanculo ricacciandola a Bollinger. - “Allora ragazze, bevete ancora un po’ di champagne, forza, offre Bollinger!” – esaltato dalla possibilità di portarle via insieme, ormai sembrano amiche da una vita, sono sul punto di proporgli una partecipazione a GIOCHI SENZA FRONTIERE. Sento vibrare lo startac, e, afferrandolo in mezzo al rimbombo assordante della musica, visualizzo una chiamata senza risposta a carico di Silvia. E’ solo uno squillo. Così gliene faccio uno anch’io. Dopo un minuto ecco comparire la letterina di sms, con scritto: - “Sei sveglio mio principe azzurro?” - cazzo se lo sono. Così le rispondo: - “Certo mia principessa, che fai di bello?” - , e dopo una frazione di secondo: - “Sono a letto e sto pensando a te. Quando ci vediamo?” -, visto che è venerdì e ha DICHIARATO che entro domenica avrebbe parlato con suo padre le scrivo: - “Domenica sera potremmo uscire a cena, che ne dici?”rimango in attesa. Trascorre un minuto, nel quale occupo intrattenendo due nazioni, arriva la risposta: - “Approvato! finalmente la nostra prima cena!e poi….?” - intanto “Papa was a rolling stone” (versione live) di George Michael inonda il privè e le due troie straniere si sono cimentate in una lap dance isterica sul divanetto, strattonandomi per la manica della camicia (Armani Collezioni), chiaro segno di invito a partecipare al loro balletto sexy – multietnico. Avrei voluto scriverle: non vedo l’ora di leccare ancora la tua figa umida e profumata. Ma mi limito semplicemente a: - “e il dopo lo trascorreremo vicini vicini, spero nel tuo letto….” - lasciandole intendere che sarei stato lieto di essere invitato finalmente a casa sua. - “Sarai mio ospite tutta notte….bye bye…” -, in fondo è ciò che aspettavo. Infilo lo startac di nuovo nei jeans (Versus) e balzo sul divanetto, notando che Bollinger ha cacciato la lingua in bocca a quella emerita puttana che un minuto prima faceva la verginella e penso a quante centinai di cazzi avrà succhiato nel suo paese e che sicuramente prima di fingersi una star con noi si faceva sbattere nel retro bottega da qualche sporco macellaio macilento. Prima non avrebbe dovuto nemmeno questionare, stavamo spendendo mezzo milione per farle bere
del nettare prezioso. La bambina turca mi afferra la fibbia della cintura (Gianni Versace) tirandomi verso di se e anche quando balla tiene le gambe ben divaricate, come se avesse perennemente un cazzo in culo, e cerca di slinguarmi. La studentessa del college, si posiziona dietro di lei, stringendole con le mani prive di anelli le cosce olivastre, cercando di tirarle su la minigonna, mentre lo sento diventar duro. - “ Un ballo da sballo.” – proclamo e in giro c’è aria di bordello d’ alta classe. - “Brother….sister…” – George Michael canta idolatrato da miglaia di fan e decido di infilar la lingua in bocca prima all’americana, sentendola calda e puzzolente di champagne, e poi all’altra, che ha avuto la brillante idea di precedermi. Mi trovo a combattere contro due lingue lesbicanti comandate da troie straniere in calore e, sbirciando con la coda dell’occhio in direzione del divanetto, realizzo che Bollinger mi sta guardando dandomi il pollice alzato. - “Andiamo a scopare?” – propongo senza peli sulla lingua (anche perché me li avevano spazzati via tutti), teso dal cazzo ormai pulsante e pronto a esplodere. Si guardano a due centimetri di distanza (esiste un linguaggio universale), con il viso gonfio di piacere, e sicuramente le mutandine strabagnate, per circa dieci secondi, tirando su con le narici. Inizio a contrattare con la israeliana. - “Non hai un po’di coca?” – come al solito mi trovo di fronte a quella parte di ragazze (il novanta per cento) che per prendere il cazzo hanno bisogno del pizza show. - “Tesoro, ti ho già offerto il Cristal, se vuoi ti propongo anche un tour di Milano sull’sl parcheggiata qua fuori.” – risoluta nella sua posizione, e convinta dall’atteggiamento di quell’altra puttanella (il suo sguardo consiglia: gliela diamo solo se ci porta la coca) ha smesso di colpo il suo balletto, per contrattare il buono scambio. - “Bollinger! Sbrigati, vieni dai, ho bisogno del tuo aiuto…” – urlo facendo l’occhiolino alle due malcapitate. - “Tranquille ragazze, lui ha tutta la coca di cui avete bisogno….” – dico urlando nell’orecchio all’americana, che torna sorridente a toccarmi, stavolta tastando la consistenza del mio pacco.
- “Però dobbiamo uscire di qua…andiamo in un albergo vicino, prendiamo una camera e iniziamo a tirare fino a domattina, che ne dite?” – sembro più elettrizzato di loro. - “Wonderful!! Great!!” – prendo il Cristal e lo trangugio a canna fino all’ultima goccia. - “Ahhh…sembra piscio marcio…andiamo via con queste due, fai la parte dello spacciatore…reggi il gioco…” – Bollinger annuisce senza fare domande (anche lui è straubriaco) e corre a salutare la sua stracciona di turno, sfoderandole il suo biglietto da visita fluorescente, raccomandandole di chiamarlo, promettendole che l’avrebbe portata a trascorrere un week-end a Santa Margherita. Guardo il Daytona che segna venti alle quattro e inizio a star in pena per mia madre. Fuori dall’Holliwood ci troviamo catapultati in una fiera di ragazzi di tutti i colori, cinesi vestiti come rapper, metallari strafatti con piercing grandi come monete infilzati nel naso che mi guardano attoniti (l’alieno sono io), punkettary barcollanti dai capelli fucsia con bottiglie di Beck’s e cannoni in mano camminano caracollando da un marciapiede all’altro, con gli occhi fuori dalle orbite e capelli acconciati come galli cedroni. - “Altro che Via Montenapoleone Bollinger, Milano by night…e queste troie? Che ne facciamo? Pensano che hai la pizza in macchina…” – la stanchezza inizia a farsi sentire, per scoparle avrei dovuto davvero farmi un paio di piste. - “Sono dilaniato, liberatene, non vedi che sono due poverette…figurati se pago l’hotel a quelle…” – mi stanno incollate bramanti di spizzare l’impossibile. - “And then?” – domanda Miss College. - “And then…, wait a moment…facciamo manovra con la macchina, aspettateci qui…un minuto.” – prendo una scusa come un’altra, senza ragionarci, mi sento spossato e gli occhi iniziano a essere puntellati da spilli di stanchezza. - “Girls, mi fate un grosso favore, andate a prendermi una bottiglietta di minerale naturale in quel bistrot? Intanto iniziamo a buttar giù…Bollinger usa la carta di credito..” – sono talmente credibile che si precipitano al volo in direzione del baracchino per rendermi servigio. - “Queste sono da ammazzare….dai, fuori dai coglioni!! Sbrigati, via, via!!” -
urlo accompagnato da un ghigno satanico e con un colpo pesante di acceleratore le spediamo affanculo, lasciandole nella merda. - “Le infilzerà qualche marocchino…e l’israeliana, come farà? Senza il clitoride…ma? Ah. no, è vero, sono le arabe..mah..” – completamente sconnesso mi addormento mentre Radio Maria trasmette la parabola dell’alba.
IL MATTATOIO
Finalmente domenica. Il sole, ombra giallognola dietro una fitta coltre di nubi e visibile ad occhio nudo, può essere scambiato tranquillamente per la luna. Non che la cosa intacchi più di tanto il mio umore, visto che ho dormito alla grande e mi sento ben disposto verso il prossimo. Opto per un’oretta di corsa in mezzo ai boschi. Correre su strada è veramente dannoso per la spina dorsale, soprattutto se non s’indossano un paio di Nike Air ultrammortizzate, come le mie, che, fungendo da cuscinetto, alleviano le scosse inferte dall’asfalto e, soprattutto in fase di sprint finale, mantengono il piede nella corretta posizione di allungo, riducendo praticamente a zero il rischio di storta alle caviglie. Mentre sciolgo i muscoli con un po’ di stretching nel piazzale del cimitero una bionda rifatta sui quarantacinque mi fissa sorridendomi mentre scarica un doberman dal retro di una Range verde scuro. Ricambio il gesto, con un movimento automatico della bocca, senza distrarmi dal mio allenamento. Saltello sul posto per circa cinque minuti, l’aria ha un sapore campestre, tipica di un giorno di festa. Mi addentro nel bosco, per un sentiero stretto dalla pendenza abbastanza ripida, realizzando di aver dimenticato a casa il mio lettore cd portatile Panasonic, quando un fagiano (maschio o femmina?) sbuca fuori da un sentierino adiacente tagliandomi la strada, rallentando il o, e creando non pochi problemi alla mia andatura che si era stabilita ottimale. Raggiungo un poggio al culmine del quale si para dinnanzi a me il cancello (tre videocamere stanno sospese sulle colonne in marmo rosa ai lati del portone in ferro battuto lavorato) della villa del proprietario di una multinazionale farmaceutica amico dei miei. Molleggiando sulle ginocchia, a zig zag prendo la direzione verso Imbersago, il cartello di legno marcio, con le scritte in rosso ormai sbiadite, indica un tempo di percorrenza pari a un’ora e dieci (cronometraggio probabilmente riferito a
persone ottuagenarie) e una puzza micidiale m’investe improvvisamente, rischiando di farmi perdere l’equilibrio e ruzzolare in fondo a un dirupo fitto di arbusti spinosi, profondo una decina di metri. Non capisco la provenienza. Ad ogni o si inasprisce sempre più, fino a essere insopportabile, togliendomi il fiato per correre. Un sapore così sgradevole non lo avevo mai sentito prima d’allora, nemmeno un immondezzaio gemellato con un campo appena concimato poteva essere paragonato a quell’essenza malefica e putrida, dall’odore misto a sangue seccato e olio bruciato. Trattengo il respiro e, con fatica estenuante, accelero il ritmo della corsa, ostacolato dall’assenza di autonomia polmonare e anche da un fracasso di ferraglia assordante, la cui origine sembra risiedere al di là di una siepe incolta alta all’incirca tre metri posta al mio lato sinistro. Fisso con lo sguardo verso la sorgente di quella gran cassa infernale noto che piccoli frammenti viscidi di gelatina color crema iniziano a piombarmi addosso dal cielo e l’aria diventa sempre più irrespirabile. Sto per svenire. Accelero il o. Non sento più fiato, ma essendo ormai in condizioni critiche, devo uscirne fuori da quello schifo. Giungo davanti all’entrata di un un salumificio, e versi terrificanti e incomprensibili eccheggiano da un grosso capannone davanti ai miei occhi. A lato di questo, un tubo metallico spara a dieci metri d’altezza (forse più), con un getto potentissimo, un liquame paglierino, a tratti rubino, i cui schizzi ormai hanno completamente imbrattato la mia tuta Adidas. Il grasso sgorga a quintali e il mio disgusto si acuisce quando realizzo di scorgere a non più di un isolato un residence signorile con bambini e mammine giocherellanti felici (fingono?) vicino ad un’altalena, noncuranti della merda con cui devono convivere, giorno e notte. Finalmente fuoriesco da quel tunnel nel quale involontariamente mi sono imbattuto, consapevole che la mia autonomia polmonare è ridotta pari a zero. Rallento il o e l’andatura diventa poco più che una misera marcia veloce. Percorro a rilento non più di seicento metri.
Ai piedi della Madonna del Bosco, con balzi che coprono due gradini alla volta, mi arrampico come un ragno fino alla cima, sorando tutte le suore in preda al loro rosario. Tre gradini, una novena. Quando, all’apice della gradinata, sul sagrato perfettamente pulito, con le tempie pulsanti e doloranti, il viso sformato e cianotico, si para dinnanzi a me una sorella (la madre badessa?), scrutandomi con occhi riprovevoli sentenziando: “Quanta fatica per niente!” – automaticamente le rispondo: - “Lo dice lei!” – e riprendo la corsa con la vista completamente annebbiata. In meno di venti minuti mi ritrovo davanti al cancellone di casa. Ho esaurito completamente tutto l’ossigeno per la volata finale, nel tentativo di compensare la pausa obbligata fatta davanti al mattatoio, anche se avrei preferito percorrere il tragitto senza un attimo di pausa, alternando scatti isterici a momenti di corsa tranquilla. Nudo davanti allo specchio, con una bottiglia di Evian mezza piena nella mano destra (la vena dell’avambraccio sembra scoppiare in prossimità del polso da un momento all’altro), mentre la doccia bollente con i suoi umidi vapori inizia a riscaldare il bagno, noto che l’addome è completamente lucido di sudore, tirato e cesellato, senza nemmeno una minima patina di grasso e felice realizzo che la corsa ha creato i suoi benefici. Si vede proprio che non faccio un cazzo tutto il giorno.
LA PRIMA VOLTA
- “Dove suono?” – domando a Silvia camminando verso Porta Romana dopo aver parcheggiato la y in divieto su un marciapiede, incastrandola tra due aiuole incolte e pesantemente cosparse di merda di cane. - “E’ il citofono numero novanta, dovrebbe esserci il famoso portinaio…non dargli retta. Prendi l’ascensore e schiaccia il primo tasto in alto a destra.” – nell’atrio in marmo verde, nessuno si accorge della mia presenza. Posto all’ultimo piano dell’unico grattacielo impiantato nel centro di Porta Romana l’appartamento di Silvia non si può definire proprio tale. L’ascensore arriva direttamente in una saletta, esagonale, la cui funzione è quella di anticamera e spogliatoio. Il bianco domina. Al centro della stanza immacolato e perfettamente pulito un tavolo in cristallo, la cui marca al momento non sono in grado di ricordare, appoggiato su un unico perno in acciaio temperato, impiantato nel parquet a listoni chiari disposti a lisca di pesce. Di fronte ho una porta a scomparsa in vetro smerigliato e acciao. Diffusori Bang & Olufsen suonano dolcemente musica new age, forse Cafè del Mar, e inizio a sentirmi stordito. Anche l’aria sembra perfettamente sterilizzata. Percepisco in lontananza dei i attutiti. La porta scivola dentro la parete ed eccola apparire. Scalza, indossa un accappatoio bianco, leggermente aperto davanti. I capelli ancora umidi, sono legati formando una treccia raccolta da un fermacapelli in argento a forma di Morfo. Il viso, velatamente lucido, pare come appena nebulizzato. Non dice una parola e mi bacia. Lo scandire del tempo non ha più senso. - “Hai visto che ho mantenuto la promessa?” – bisbiglia con il sorriso di chi l’ha sempre vinta.
- “Iniziavo a dubitare…” – rispondo con un filo di voce. - “Non devi mai dubitare di me….dai vieni…vuoi restare fisso qui tutta la sera..?” – abbracciandomi con il seno stragonfio che struscia contro la mia schiena, mi spinge in una stanza (cento metri quadri, forse di più) al centro della quale sta un divano enorme (B&B) a forma di elle, a otto posti in pelle bianca, posizionato su un tappeto persiano, il cui fondo blu risalta sul parquet chiaro, e davanti a me una vetrata enorme fotografa Milano, mostrandomi la città nel buio brillante di luci scintillanti. - “Anche dalla torretta di casa mia vedo la madonnina del Duomo…certo, non così da vicino…” abbozzo intimidito dal lusso manifestatamene discreto del suo superattico, mentre sta preparando dei drinks nell’angolo bar, senza levarmi gli occhi di dosso. - “Ma davvero? Vuoi del ghiaccio?” - in preda a una crisi di panico sono riluttante nel rispondere. - “Ehm…” – un gran caldo piomba nella sala. - “Sì…tanto, grazie….” – e mi sfilo il maglione (Armani Borgonuovo) in cashmere gettandolo sul divano, avvicinandomi lentamente verso di Lei, che versa del Martini in pesanti bicchieri di cristallo lavorato riempiti per metà di gin. - “Vuoi farmi ubriacare per caso? Ma non eri astemia?” – le ricordo, realizzando che è in procinto di preparare due bombe alcoliche paurose. - “Sì. Vedi cosa mi fai fare..” – mi porge il bicchiere. Brindiamo a noi due. - “Hai una vaga idea di come ci sentiremo dopo questi?” – domando mentre scosta il maglione dal divano, per farlo scivolare sul parquet, lasciando allentare la cintura dell’accappatoio. - “Certo..non dirmi che sei spaventato di fronte a un po’ di Martini?” - avrei tracannato tutta la bottiglia se solo me lo avesse domandato. - “Ma stai scherzando? E’ solo che dopo devo guidare….” – mi a la mano vellutata tra i capelli, spettinandomi. A un’altra l’avrei insultata ordinandole di levarmi immediatamente le mani dalla testa.
- “Ohh…non vedo il problema, puoi fermarti a dormire, vedrai che letto grande c’è nell’altra stanza….” – e scosta la testa indicando con gli occhi un’altra porta a vetri (sempre a scomparsa), in fondo alla zona living, dietro l’enorme divano. Che cazzo avrei raccontato a mia madre? E mio padre? Stavolta rischio davvero di essere buttato fuori di casa a calci nel culo. Già li vedo in delirio chiamare il 118 per verificare se qualche sala rianimazione del circondario ospita un ragazzo biondo vestito con abiti firmati e la testa sfracassata. Si alza dal divano accennando un o di danza, conturbante e meravigliosa, roteando su se stessa, allentando la cintura, mostrandomi il pelo perfettamente curato e lucido. Trangugio il poderoso intruglio. Ci caccio dentro la faccia, infilandole la lingua nella figa, profumata, scivolosa e aperta, stuzzicandole il clitoride. Tira un profondo sospiro, finge che tutto sia normale, intenta a prepararmi un altro drink micidiale (stavolta il gin raggiunge i tre quarti del bicchiere e di ghiaccio se ne vede ben poco). Gliela lecco per quasi un’ora, interrompendomi solo per far fuori altri due drink stracarichi, e lasciarla riprendere fiato, dal momento che mi è venuta in faccia tre volte e continua ad ansimare scongiurandomi di farla finita e finalmente di infilarglielo. Ma ho preso gusto, così mi strapazzo di nuovo, scolando a secco direttamente dalla bottiglia l’ultimo gin rimasto e, inginocchiato, riprendo a leccare, stavolta posizionandola a gambe ben divaricate sul divano, lasciando sul parquet l’accappatoio, stringendole i seni gonfissimi, pronti a esplodere da un momento all’altro. - “Ehu….tesoro, non dirmi che sono vere….” – sono talmente ubriaco che tutto quello che mi a per la testa lo sparo fuori dalla bocca come un cesso parlante. - “Cosa?! Dai…oddio, sei pazzo…” – paonazza, gli occhi lucidi e le pupille come due fondi di bottiglia, si irrigidisce ancora, inondadomi di nuovo la faccia. - “Le tue belle tette, non sembrano tutta farina del tuo sacco…” – e le caccio la lingua dentro la sua bocca umida e bollente, continuando a sditalinarla velocemente. - “Ti sbagli…sono le mie…non ho cicatrici…che ne dici se ci trasferiamo di là
in camera…ho voglia di sentirti dentro..” – cazzo, quanto era bella..e il profumo che aveva addosso, sempre lo stesso. Quel profumo. Non lo avrei mai più dimenticato. - “Va bene…dio…sei fantastica…non beviamo più?” – come se non fossi abbastanza pieno. Ma come sempre, l’eccesso doveva essere la mia regola base. Oltre l’eccesso cosa c’è? - “Confermo…sei proprio matto…io non bevo più..già mi stai portando a far cose non codificate nel mio DNA, se vuoi c’è una bottiglia di Vodka nel frigobar..lì sotto…” - come un robot la afferro, compiaciuto nel notare la marca (Absolut) e il contenuto per metà già ghiacciato. Svito il tappo e verso altri due bicchieri (stavolta la vista annebbiata e fuori fuoco non mi permette di capire se sono ancora di cristallo). Scoppio in una risata frenetica e irrefrenabile. - “Perché ridi? Guarda che ti faccio una punturina…” – cercando di bere realizzo di aver versato il malefico superalcolico dentro un candelabro in plexiglas (Kartell) manifestando definitivamente la mia pietosa condizione pari a quella di un ubriacone di strada. - “Oh cazzo, devo essere proprio andato…non hai una sigaretta da qualche parte? Ho una voglia pazzesca di fumare..” – caracollo sul divano, scaraventando a terra l’aggeggio impostore, con i jeans sbottonati. - “Ho di meglio, un po’ di cannabis nell’altra stanza…non preoccuparti per il candelabro, domani la donna erà a far le pulizie…” – la prendo in braccio, anche se a stento riesco a reggermi in piedi. Sento di avere un alito fetido, così cerco di parlare il meno possibile e di starle a debita distanza. La camera copre più o meno una superficie di venticinque metri quadri, e sembra più quella di uno yuppye in carriera, con appeso alla parete di fronte al letto giapponese un monitor al plasma quarantadue pollici Sony (in quegli anni non lo compravi a meno di diciotto milioni), e a lato un armadio a specchi B&B a otto ante, con apertura a pressione. Niente soprammobili né fotografie. Ci rotoliamo nel letto, pronto a tirarlo fuori (non vedo l’ora), ma l’urgenza di darmi una sciacquata alla bocca è impellente. - “Tesoro..dov’è il bagno?” – avvinghiata come un’ostrica (bagnata) indica una porta a scomparsa in fondo alla stanza, vicino ad un’altra enorme vetrata.
Il bagno, assimilabile a un monolocale, è occupato per la gran parte da una vasca idromassaggio a due posti, con gradini d’accesso in marmo bianco e display dieci pollici per impostare i programmi di relax (Silvia li avrebbe poi chiamati così), tra i quali figura anche la voce “sauna rigenerante” ed è talmente grande che fatico a localizzare il cesso, che se ne sta sospeso alla parete, anche questa in marmo, ma stavolta rosa. - “Porca puttana, è proprio una ricca….” – realizzo mentre piscio allegramente e il profumo di mariuana fa capolino in bagno. - “Non fumartela tutta…” – scherzo cercando uno spazzolino e un dentifricio quando la fotocellula del lavandino fa zampillare dal miscelatore satinato un getto d’acqua tiepido. Rimango basito alla vista della mia faccia sformata e pallida sotto i faretti alogeni dello specchio incassato nel muro, con gli occhi iniettati di sangue e cispa, i capelli arruffati e senza volume. E’ spuntata persino una ruga trasversale sulla fronte mai vista prima. Trovo nell’armadietto a lato dello specchio uno spazzolino da viaggio incartato Alitalia con dentifricio sbiancante annesso, dietro a un flacone di tonico struccante Sisley. Incuriosito dai suoi prodotti di bellezza sbircio negli altri cassetti. Oltre a numerose fragranze (Chanel n. 5, Escape, Angel, Trèsor) c’è una lacca per capelli Cielo Alto, smalti per unghie Revlon (madreperla, rosso, fucsia), un contenitore con dei batuffoli di cotone idrofilo, un Phon Revlon Professional, una spazzola, un pettine e una pinzetta nera. Lavo i denti, cercando di sfregarli in profondità, in modo da rimuovere l’odore dell’alcool stantio, raschiando anche la lingua, trattenendo un sussulto di vomito improvviso. Sciacquo per bene il palato, ripetendo un’altra volta l’operazione, per essere più sicuro di avere un alito fresco. - “Ehi..ma che fai? Stai bene?” – domanda preoccupata. In effetti, sono dentro da più di un quarto d’ora. - “Arrivo….scusa, ma non trovavo il dentifricio…” – nel frattempo, oltre ad avere rollato un bel cannone si è infilata solo le autoreggenti. Maledette autoreggenti.
Sdraiata sul fianco, con il seno in bella vista e la sigaretta elaborata stretta tra le umide labbra, m’invita al banchetto. Le luci della città illuminano tre quarti della stanza. Mi a lo spinello e in due tiri lo secco agilmente, ma questa fretta mi costringe a sdraiarmi al suo fianco, accarezzando le gambe fasciate nel nylon nero, partendo dall’elastico in pizzo, stretto intorno alle cosce ben sode, fino alle caviglie sottilissime, con lo sguardo perso nei suoi occhi. - “Che pensi?” – le domando. - “Sembri un angelo…” - con la mano nei miei capelli, e la voce gentile. - “Sono quello che vuoi?” – l’erba inizia a far il suo sporco effetto. - “Non chiedo altro, stai qua tutta notte, ti prego.” – non potevo mettermi alla guida in quello stato, dieci a zero mi sarei schiantato in tangenziale, facendo morire di crepacuore i miei. Anche se era quasi mezzanotte invio un sms a Bollinger con scritto: - “ Se ti chiama mia madre dille che sono da te a dormire, grazie. Domani ti spiego..” – poi compongo il numero di mia madre facendo segno a Silvia di star in silenzio. - “Pronto…” – risponde con voce dormiente. - “Sono io, guarda che sto a dormire da Bollinger, non preoccuparti, arrivo domattina.” – un attimo di silenzio eterno. - “NO!!TU VIENI A CASA IMMEDIATAMENTE!!!! HAI CAPITO!!!” – mi alzo andando in bagno, e chiudendo dietro di me l’anta scorrevole. - “Ascolta, non urlare che svegli il papà…” – ma non riesco a prendere la parola. - “TUO PADRE E’ GIA’ SVEGLIO!!!!E’ QUI CHE SENTE!!! MUOVITI E VIENI A CASA!!!” - è fuori di sé, in tutti i sensi. - “Non posso, stai calma….” – si è trasformata un cane rabbioso. - “NO!!! IO NON STO CALMA!!!!SEI UNO SCHIFO!!!UNA VERGOGNA!!!SPARATI!!!HAI CAPITO?VEDI DOMANI MATTINA APPENA METTI PIEDE IN CASA!!!!NON HAI RISPETTO, CON QUELLO CHE CI E’ APPENA CAPITATO. VERGOGNATI!!!” – e riattacca.
Mi è sempre stato detto in tutta tranquillità di non rischiare, se non me la sentivo, di guidare la notte, di star pure fuori a dormire, anche in Hotel. L’importante era comunque avvisare, per non creare preoccupazioni. E così avevo fatto. Torno in camera notando che si è infilata sotto le coperte e il suo viso esprime disappunto. - “Perché non le hai detto che sei dalla tua ragazza?” – in quel momento non ho ancora la cognizione precisa di cosa s’intenda davvero per proprietà. - “L’hai detto…sei la mia ragazza…siamo insieme allora?” – anche se sono pieno come una botte di Jack Daniel’s e fumato come uno sciamano prima di un rito voodoo del cazzo, so perfettamente il punto a cui voglio arrivare. - “Certo, cosa pensi, che quello che stiamo facendo è un discorso da incontro occasionale? Sei il primo con cui non mi vergogno di mettermi a nudo, in tutti i sensi, di venire quante volte il mio corpo vuole, di farmi toccare il seno, lo sai che non sopporto se qualcuno me lo tocca? Non ho mai provato niente di simile. E mi piace, sono innamorata di questo trepidare al tuo arrivo, del brivido che mi scuote il tuo sguardo. I tuoi occhi sono come il cielo di giugno, felici perché l’Estate è alle porte. Perché non hai detto ai tuoi che sei con me?” – e io, da vero bastardo: - “E tu? Lo sa tuo padre che sei con uno che hai conosciuto così per caso in un pomeriggio….” – interrompe il mio contrattacco mettendomi la mano sulla bocca. - “Ma certo!! Cosa credi?! Mia sorella ha spifferato tutto, sanno che non sono più sola. Francamente avrei preferito che l’annuncio l’avesse fatto la diretta interessata. Non sopporto quando la gente s’impiccia delle mie cose, soprattutto se si tratta di affari di cuore. Penso che la persona che mi ha seguito sul treno me l’avesse appioppata proprio lui, come già ti dissi. Mi sa che ha fatto prendere informazioni riguardo il tuo conto..” – ascolto, pieno di interesse: - “Non ho nulla da nascondere, la mia famiglia è gente per bene. Ora che i tuoi sanno, penso che quest’inconveniente non capiterà più, giusto? Anzi, adesso puoi venire da me senza essere pedinata da qualche guardia in borghese, o sbaglio?” – le mollo un pizzico sul suo gran bel culo sodo. - “Ehi…verrei a cercarti anche sulla Luna, inseguita da un esercito di mercenari incazzati. Vieni qui e baciami.” – per fortuna mi sono lavato i denti. Facciamo l’amore tutta notte, senza dirci più niente, illuminati solo dalle luci della città,
per poi addormentarci abbracciati. Prima d’allora non avevo mai dormito con nessuna.
SCAPPO DI CASA
Varco il cancellone e vedo i miei affacciati al balcone del salone incazzati neri. Le campane suonano gioiosamente mezzogiorno, anche se, date le circostanze, c’è ben poco da star allegri. Infilo la y nel box il più lentamente possibile, mentre ho in anteprima tutta la scena: mia madre in lacrime, con il viso scartavetrato per aver ato tutta la notte insonne, nonostante l’avessi avvisata di non essermi schiantato contro nessun muro, mio padre pronto a buttarmi fuori casa a pedate nel culo senza darmi un soldo perché avevo dato l’ennesima prova di irresponsabilità, ricordandomi che solo i barboni si comportano come me. Tanto vale scaraventarmi in mezzo alla strada almeno così faccio finalmente la vita del vagabondo non solo di notte, ma anche durante il giorno. Attraverso il giardino con lo sguardo chino, fissando la ghiaia perfettamente rastrellata, cercando qualche erbaccia da estirpare, per prendere ancora tempo, pensando in fondo che poi non ho fatto niente di male. Sento gli occhi pesanti, e il solito cazzutissimo mal di testa non mi lascia tregua. Ogni gradino dello scalone è un supplizio. Tutum, tutum, ho le pulsazioni a mille, grondo, e nessun pensiero mi solleva da ciò che sto per affrontare. - “Dove sei stato?” – dice pacatamente mio padre, terreo in faccia. - “L’ho detto alla mamma stanotte, sono rimasto da Bollinger a dormire. C’è qualche problema?” – non avrei mai dovuto pronunciare quella domanda. Un poderoso schiaffo si assesta sulla mia guancia destra facendomi girare la testa di centottanta gradi. L’odore del sangue impregna il palato. Rimango senza parole, l’ultima volta che le presi da mio padre fu durante il terzo anno di scuola media, quando mi beccò un pacchetto di Malboro Rosso nello zaino Invicta, imoboscato nel libro di matematica. - “La prossima volta non ti faccio nemmeno entrare, hai capito? Ci hai rotto davvero i coglioni. Sei uno stronzo.” – e scompare nel suo studio. Mia madre
impalata davanti a me con gli occhi gonfi, pronti a sgorgare l’ennesimo fiume di dolore, sta per aprire bocca nella speranza di instillarmi il senso di responsabilità che non ho mai avuto (e che mai avrò), molto probabilmente perché se l’era pappato tutto mio fratello sei anni prima del mio avvento. Opto anch’io di sparire nella mia camera senza dire una parola, lasciandola sola nel silenzio della stanza. Avrei voluto scoppiare a piangere, ma da quando vidi mio padre riemergere moribondo dalla sala operatoria il quattordici agosto dello stesso anno alle ore quindici e trenta in seguito ad un intervento durato quasi quattro ore (tre ore e quarantacinque minuti per l’esattezza) giurai a me stesso di non disperare più per delle cazzate. Questa era una di quelle, e mi spiaceva molto che loro non lo capivano. O forse facevano finta. Ma si sa, l’educazione si forma nei primi tre anni di età. Mi balza in mente di far un salto nell’appartamento teatro due giorni addietro delle mie rocambolesce performances con Silvia, così rovisto nel fondo del cassetto della mia scrivania in cerca della chiavi duplicate, quando mi piomba (tanto per cambiare) lo sguardo sulla pila di appunti di finanziaria, e una stretta lancinante s’impossessa del mio stomaco. Trangugio quattro pastiglioni di creatina sperando di ripigliarmi nel più breve tempo possibile. Dicono che la creatina crea un deposito permanente di ferro nelle reni e fa pisciare sangue. L’appello è previsto per il dodici gennaio alle ore otto e trenta (non avrei dormito tutta notte, l’idea di svegliarmi così presto mi avrebbe sicuramente fatto fare degli incubi spaventosi), e, facendo un breve calcolo previsionale, con una media di tre-quattro ore al giorno di testa schiacciata sui libri avrei potuto cavermela con un diciotto stiracchiato. Sguscio fuori casa munito di appunti e calcolatrice grafica Texas Instruments, infilati in un sacchetto Luis Vuitton, ando davanti a mia madre in preda a un attacco di lacrime facili, senza nemmeno salutarla, limitandomi a dire da vero bastardo: - “ Non so quando tornerò” – e lei, con un sibilo rantolato: - “ Ehhh….dove vai……?” – non rispondo e con i coglioni sfracassati me ne vado. Sbatto il portone di casa. - “Sono fuori, ma che cazzo, per una stronzata del genere…non spaccio mica. Gesù Cristo…” – camminando per Viale Cornaggia, la gente si volta per il mio tono di voce decisamente sopra le righe.
PROVANO A CALMARMI
- “Sai come sono i tuoi genitori, è il solito discorso, Antonio è stata la tua rovina. Comunque non far disperare mia sorella, si è appena ripresa da quest’estate. Non essere cattivo con lei…cerca almeno di dare questo cazzo di esame..così li tranquillizzi per un po’…” – mia zia si diletta a dispensare consigli tra un colpo di phon e l’altro. - “Tutti ci siamo appena ripresi…mi ha tirato uno schiaffone della madonna!! E li ho avvisati, me l’hanno sempre detto: chiama se fai tardi, così non stiamo in pensiero….cazzo fa freddo oggi, vero?!” – forse sono i postumi della serata precedente. - “Sempre con la stessa storia: e non devi fare tardi, e non ci meritiamo questo, e vai con le troie, e butti via un sacco di soldi, e sei sicuro che non ti droghi, e sei sicuro che non bevi, ma che cazzo, per caso volevano un figlio frocio?” – ho una gran voglia di accendermi un sigaretta, ma frugando nelle tasche trovo solo delle monetine inutili e un accendino. - “Cercano solo il meglio per te, e vogliono tenerti lontano dai guai…a proposito, sei uscito con quella là…ehm Silvia, quella dell’università, giusto?” – e con chi altro potevo uscire, mi stava perforando il cervello. Continuo a pensarla. - “Certo, dovresti veder che casa, paurosa, un mega attico con vista su tutta Milano. Se non avessi loro sarei un povero cristo. Quasi quasi le propongo di ospitarmi.” – entro nell’appartemento del peccato, deponendo sul tavolo il malloppo da studiare. - “Ma smettila di dire stronzate, abbi un po’ di comprensione per mia sorella….ma non ricordi come stavate messi ad agosto?” – proprio lei parla di comprensione, che ha sulla coscienza il padre di sua figlia. - “Lo ricordo meglio di tutti….” – nuoto in un mare di dolore.
- “Dove sei? Laura, cazzo, chiudi i cani in giardino, non voglio che entrino in casa, sporcano dappertutto!! Scusa…” - scartabello dando un ordine agli appunti, cercando di approfondire la mia conoscenza sugli autovettori. - “Sono al Valenzasca, per un paio d’ore non voglio essere disturbato….” – non basta una giornata intera per leggere tutti gli appunti. Qualcosa ricordo, cazzate, ma la parte più grossa, tenuta insieme da una cartellina trasparente sfondata, abbraccia argomenti incredibilmente complicati e noiosi. Ammettendo anche di imparare quell’ammasso di merda caratacea, non me ne viene in tasca un solo centesimo. Anzi, mi consumo la vista e il mio mal di testa sicuramente sarebbe aumentato a dismisura, non tenendo conto poi dell’incazzatura che ho addosso. - “Ho capito, chiamo tua madre e la tranquillizzo, ci sentiamo dopo…a proposito, venerdì sera abbiamo preso il tavolo all’Atlantique, vieni?” – naturale. - “Certo…salutami mia mamma…” – e attacco. Mi assopisco, una cappa di sonno sopraggiunge inaspettata. Tenere la Parker in mano equivale a scalare il Violet in mezzo a una tormenta di neve. Non resisto, mi cade la testa sul tavolo. Vado nella stanza da letto e schiaccio le orecchie sul cuscino. Sento freddo, mi trovo in carenza di proteine e in preda ad un attacco di brividi, la fronte mi scotta. Prendo il piumino dall’armadio e mi addormento, dimenticandomi completamente dell’esame di finanziaria. Sogno mio padre in una luminosa giornata di maggio, elegante sulla sua bicicletta Atala grigio metallizzata, sorridente e bellissimo, che percorre una strada di campagna, in mezzo a un prato verdissimo, inseguito da vorticose Cedronelle e plananti Macaoni.
TRANQUILLITA’
I giorni seguenti trascorsero con amabile serenità. Niente risse furibonde, né urla piagnucolanti, mio padre non parlò più dell’accaduto, nemmeno quando conferiva nel suo studio da solo con mia madre. Ogni tanto (almeno una volta alla settimana) si riunivano solo loro due per diverse ore, parlando addirittura per interi pomeriggi. Discorrevano a bassa voce, e, quando avo in corridoio, l’unico rumore che riuscivo a sentire era lo stropiccio dei fogli di carta accartocciati e gettati nel cestino di vimini a lato della sua scrivania. Vedevo Silvia quasi sempre di pomeriggio, saltando tutte le esercitazioni di finanziaria, e, dopo lo schiaffo di mio padre limitai le uscite serali solo al giovedì, al venerdì e al sabato sera. Il giovedì lo trascorrevamo insieme, uscivamo a cena. Giravamo i ristorantini tipici della Brianza. Montevecchia le piaceva molto. Le altre due serate le trascorrevo con Bollinger, a cui raccontavo l’evoluzione della mia storia, confessandogli di esserne ormai completamente dipendente. - “Caro Power, ti sei bevuto il cervello.” – mi diceva scuotendo incredulo la testa. Arrivava puntuale con lo stesso treno, come la prima volta, e osservavo con scrupolosa attenzione se qualcuno la seguiva, cercando di capire se dietro quegli occhi così calmi e commoventi si nascondeva qualche improvviso e inaspettato ripensamento. Avevo una paura fottuta di non rivederla più. Facevamo l’amore come se fosse sempre l’ultima volta. Ci prendavamo con violenza inaudita. Concludere un discorso non era possibile, se non durante il tragitto dalla stazione all’appartamento, ma erano solo parole scollegate. Appena saliva in macchina si sfilava il perizoma e me lo cacciava in bocca e io cercavo di continuare a parlare, domandandole com’era andato il viaggio e se qualcuno l’aveva importunata. Ma era solo una recita, se ne stava sul sedile con le mani infilate sotto la minigonna, e cacciandosi le dite bagnate di figa in bocca, se le leccava per bene per poi rinfilarsele subito in mezzo alle gambe.
L’appartamento era diventato il ricettacolo di sperimentazioni artisticoacrobatiche. L’inverno aveva intrappolato il tempo, e Natale con il suo profumo stava arrivando. Sapevo che durante le feste sarebbe tornata a Roma per trascorrere un po’ di tempo in famiglia. Spesso raccontava di suo nonno, persona di intelligenza impareggiabile, diplomatico e conoscitore di un migliaio di lingue e della sua grande casa, del suo gatto siamese (Batuffolo) e del suo cane (Spank), e del fatto che erano tutti veramente uniti. Quando non ci incontravamo avamo le ore al cellulare. Ricaricavo continuamente, in media spendevo cinquantamilalire al giorno, candidandomi dignitosamente tra i primi ad avere il cancro al cervello dovuto alle emissioni di onde elettromagnetiche. Ma non me ne fregava un cazzo. Progettavamo week-end in barca, giornate ate insieme a ricercare la felicità, continuava a ripetermi che dovevo andare a Roma, che mi avrebbe fatto vedere i posti più suggestivi della capitale. A Roma ci andai da bambino, con la mia famiglia, per la premiazione di un film di mio padre. Affittamo una suite all’Hotel Cicerone, ultimo piano con marmi e quant’altro, un appartamento in grande stile. Era l’ultimo dell’anno del millenovecentottantasette e andammo a cenare “Da Cesare”, una trattoria dove le famiglie bene della capitale si riunivano per dare sfogo alle loro più insaziabili fantasie culinarie. Ricordo di aver ordinato le pappardelle al sugo di lepre, e poi il cotechino con lenticchie, avevo nove anni e niente era scontato. A mezzanotte stappammo lo champagne in Hotel e mangiammo la veneziana. In tv su raiuno davano “Cotton Club” e mia madre impazziva per le cuffiette che portava Diane Lane e diceva che quella era classe, mica le battone che facevano i balletti durante i quiz a premi. Non sapeva cosa sarebbe venuto dopo. Prima che partisse, il diciotto di dicembre, camminammo per tutta Milano, il freddo bruciava la pelle, ammo in Monte Napoleone, e vedendo una Testarossa dissi che la Ferrari con il nuovo modello 360 Modena aveva fatto davvero il salto di qualità, gettandosi alle spalle definitivamente la nomea di macchina da macellaio e da pappone. Lei stringendomi la mano mi parlò in modo del tutto naturale del fatto che suo padre l’aveva ordinata e che era un apionato collezionista del cavallino di Modena. Così preso dall’entusiasmo entrai da Cartier. La commessa, una vecchia dalla figa rotta, mi salutò senza troppa enfasi, forse perché così facendo le sarebbe saltata fuori la dentiera. Ci domandandò con bon-ton trattenuto se avevamo bisogno di qualcosa in particolare. Le risposi che davamo solamente un’occhiata, e cortesemente la
ringraziai, anche se avrei preferito mandarla affanculo. Silvia si fermò davanti alla vetrina dei bracciali, fissandone uno in oro con diamanti, molto lucente e sfavillante, e quando mi avvicinai fece finta di niente, mi prese per mano e proseguimmo in direzione del reparto orologi. Non sono mai andato matto per un Pasha o un Tank, meccanicamente credo valgano ben poco. Certo, se mi si dice di considerarli come gioielli allora è un altro discorso, ma non comprerò mai un orologio griffato Cartier. Stranamente, quella sera andai nel suo appartamento, avvisando mia madre che avrei fatto tardi, inventando una cena tra amici con finale in discoteca per festeggiare l’arrivo del Natale e di comunicare a papà che in fondo eravamo quasi nelle vacanze natalizie, di non arrabbiarsi. - “Mi sto dando da fare, il dodici lo erò…non preoccupatevi…” – ovviamente, seguivo tutti i pomeriggi le esercitazioni e lasciavo intendere di essere diventato un dio delle matrici. La mia preparazione era tale e quale quella di ottobre, forse peggio. Non ricordavo nemmeno come si calcolava il determinante. Ma non me ne fregava un cazzo. Doveva sempre studiare, ma quella sera mi disse che non ce la faceva più, voleva sentirmi ancora una volta, così ci trascinammo nel suo attico, iniziando a toccarci in ascensore per poi finire prima sul divano dove le sborrai in faccia e poi in camera da letto, divertendomi a incularla in piedi davanti al panorama cittadino. Due giorni dopo, dando fondo a un po’ di soldi spazzati a mio padre, acquistai quel bracciale, gettando sulla scrivania di quella vecchia commessa del cazzo, che in quell’occasione scoprii essere direttrice del negozio, sei milioni di lire in pezzi da cinquanta, facendo incidere sul retro del prezioso gioiello la semplice scritta: “Forever”. Il significato non lo sapevo nemmeno io. Imboscai il pacchetto nella borsa Fendissime dell’Università, sotto un paio di dispense, in maniera assolutamente anti sgamo. Sono sempre stato un fenomeno a fare sparire le prove. Sfiancato dalla mia vita parallela (avevo perennemente le occhiaie), per stare sveglio, continuavo a fumare di nascosto, e ogni volta che mia madre, sentendo i vestiti maleodoranti di tabacco bruciato, mi chiedeva se all’università non ci fosse un divieto al fumo le rispondevo che se ne fottevano tutti, in biblioteca la gente fumava peggio che in una sala d’oppio turca. Tra la palestra, ormai il mio
unico atempo, e lo scopare, ero dimagrito un paio di chili, realizzando con immensa soddisfazione di non aver mai visto i miei addominali così scolpiti e definiti. Mi sentivo buono, nonostante dormissi in media quattro ore a notte. I miei pensavano che il mio atteggiamento positivo fosse dovuto alla presunta sicurezza dell’apprendimento impartitomi durante le esercitazioni pomeridiane. Mi faceva piacere vederli sereni. E così arrivò il giorno della sua partenza. Non avevo dormito tutta notte, e lo straccio che usava la donna di servizio di mia madre per pulire il pavimento era un’Orchidea al mio confronto. Mi sentivo una merda. Mi aspettava al solito posto per le tredici e trenta, e poi saremmo andati a pranzo da qualche parte. Non sapevo ancora dove l’avrei portata.
PAROLE SENZA PESO
Indosso un paio di stivaletti neri Paciotti, un jeans nero Versus, una dolcevita Armani Borgonuovo, blu scuro in cashmere e, dopo aver inghiottito con della spremuta d’arancia, tre pastiglioni di creatina, rovisto sulla scrivania in cerca di qualcosa di indefinito, con l’unico scopo di mostrare a mia madre che mi sto preparando per andare in Facoltà. Quella mattina mi sono iscritto all’appello di finanziaria, fissato per il dodici gennaio del nuovo anno. Forse, prima del suo ritorno per festeggiare insieme l’ultimo sarei riuscito a studiare qualcosa e magari, con un colpo di gran culo, are quel merdoso esame. Ormai la strada per andare a prenderla la sapevo a memoria, la tangenziale è sgombra e impiego a malapena quaranta minuti. Se ne sta davanti al McDonald’s vestita come il primo giorno che era scesa dal treno a Cernusco. Con le stesse autoreggenti. Il suo viso è più che mai rilassato, senza un filo di preoccupazione, e quando mi vede sorride beatamente, mostrando i denti perfetti. Propone di andare in centro a far un giro in Rinascente e poi fermarci a pranzare da qualche parte. – “Va bene, quello che vuoi.” – rispondo, come sempre, senza remore. Avrei accettato qualsiasi cosa. Ci infiliamo nel parcheggio sotterraneo di Piazza Diaz e, visto che mi ha costretto a guidare per Corso di Porta Romana con i Jeans alle ginocchia, scambiando il mio cazzo per un Chupa Chupa (Suka Suka), la giro sul fianco sollevandole la minigonna infilandoglielo dentro per bene, senza far il minimo attrito (era strabagnata), massaggiandole le gambe all’altezza dell’elastico ricamato delle leggendarie calze. Dopo quattro colpi inzia a gridare e m’infila le unghie di tutte e due le mani nelle chiappe, conficcandomele dentro fino a lacerarmi la pelle. Il mio cazzo scoppia e lo sfilo fuori appena in tempo, cospargendole il suo gran bel culo sodo di fresca crema naturale. - “Oh…quanta…ti sei proprio lasciato andare…” – si volta, felice di
prendermelo in mano tutto impiastrato e gocciolante, toccandosi il fondo schiena lucido e impastato. - “C’è anche roba tua amore….” – le dico mentre sorride tristemente. Sapevamo che poi non ci saremmo visti per dieci giorni. Non che fosse un secolo certo, e poi con il Natale di mezzo, il tempo, intervallato da abbondanti cene e interminabili pranzi sarebbe ato lievemente, senza contare che dovevo assolutamente prepararmi a quel cazzo di esame e recuperare definitavemente il rapporto con i miei. Andiamo a pranzare al ristorante della Rinascente, all’ultimo piano, con vista ravvicinata sul Duomo. Mi sento osservato da tutti, non che l’avvenimento mi dispie, ma la sensazione è la medesima di quando vado in discoteca. Un sacco di vecchie troie mi mangiano con gli occhi, inforcando le posate nelle bocche dipinte e gonfiate, fantasticando sull’effetto che gli avrebbe fatto la mia presenza al loro tavolo. - “Ci guardano con invidia…” – controlla il display del suo cellulare, aggrottando le sopracciglia. - “Li capisco, lo farei anch’io…va tutto bene?” – le domando percependo quel senso di vuoto che mi stritola le budella. - “Certo…è che…mi spiace…devo partire…anche se fra dieci, oddio nove giorni torno, ma non sono pronta a staccarmi da te per così ehmm…, tanto tempo…” – ha gli occhi annacquati, e fatica a reggere il mio sguardo. Dio com’era bella. - “Anche per me è lo stesso…., a dire la verità è da una settimana che ci penso, e mi sembra così..non so…tutto pazzesco…” – sento un bel groppo in gola, tipico delle situazioni in cui si rischia di scoppiare a piangere a dirotto. - “Preferisco pensare a quando ci rivedremo, lo sai che ti amo?” – arriva la cameriera con il blocchetto per prendere l’ordinazione, una donnetta insignificante, la faccia dilaniata (tipica di chi si alza alle sei di mattina) con la penna stretta nella mano tremante e lo sguardo di chi non vede l’ora di tirare sera. - “Sì. E io amo te.” – ordiniamo due filetti e una bottiglia di Biondi Santi. Le stringo la mano e quella stronza di cameriera chiede con scazzo atomico se
vogliamo anche dell’acqua. Le ordino di portare dell’Evian, al che fa una faccia stranita e si dirige a chiedere qualcosa al barista dietro al bancone del bar. Parliamo a lungo di noi, del miracolo che ci ha fatti incontrare, dei miei occhi, secondo Lei non sono proprio azzurri, ma ai lati sfumano in un grigio tenue, del suo futuro lavoro, sicuramente, alla luce dei nuovi incontri, sarebbe stata a Milano, magari si sarebbe trasferita in un appartamento più grande in Corso Venezia, dipendeva da suo padre. Si esprimeva sicura, pianificava obiettivi a lungo termine senza motivare come ci sarebbe arrivata. Tutto era un gioco, semplice, anzi facilissimo. Nessun ostacolo, l’ingranaggio procedeva perfettamente al suo volere. E anch’io ero completamente subordinato a ogni sua parola. Non potevo non ascoltare con la massima attenzione quello che diceva, poiché le mie azioni dipendevano dai suoi impegni e ora che partiva mi sentivo smarrito, ed ero sul filo di una crisi isterica. Per fortuna due bicchieri di vino mi calmano e continuo a parlare più spigliatamente, divorando il filetto come un licaone affamato. Dopo il quarto sono a ruota libera, niente mi ferma più e mi sento il protagonista di tutto il ristorante. Salta fuori che suo padre ha una barca (un Ferretti, ma mi sembra me l’avesse già detto), ma che non utilizza quasi mai perché nei weekend è troppo impegnato con la sua squadra di pallone. Dai diffusori “Older” di George Michael rilassa l’atmosfera e non bado nemmeno a quella troia di cameriera che sparecchia il nostro tavolo. - “Hai da fare dopo?” – mi domanda, prendendomi la mano, sapendo perfettamente la mia risposta. - “No…mi scusi sarebbe così gentile di portarmi delle fragole spruzzate con dello Champagne, per favore?” – e di nuovo fa la faccia storta. Sono sempre più convinto che quella stronza sta rubando lo stipendio al suo principale. Naturalmente pago in contanti (spazzati la sera prima), lasciando diecimilalire di mancia, e mi convinco che se fossi stato solo non le avrei dato nemmeno un nichelino del cazzo, anche perché le fragole facevamo veramente schifo, e quella troia le aveva innaffiate con un prosecco da quattro soldi. All’uscita mi sento alticcio e bello leggero, Corso Vittorio Emanuele brulica di donne attraenti vestite eleganti, e, senza dire un parola, eggiamo fino al
parcheggio. La scarico in prossimità di casa sua, a cinquanta metri dall’atrio di ingresso, e inizio a girovagare alla disperata ricerca di un buco per infilare la macchina. Aspettando di immettermi nel traffico, la seguo con la coda dell’occhio, mentre sfila dalla borsa il cellulare trillante, cercando di capire a chi sta rispondendo. Ma ormai sono troppo distante e il traffico assordante rende impossibile percepire e distinguere ogni voce, rumore, persino le bestemmie di un barbone malandato e ubriaco, che non si rassegna alla sua miseria, sdraiato sul marciapiede in fianco alla fermata del tram a un metro da me, risultano incomprensibili e distorte. Parcheggio in contravvenzione sul marciapiede di Viale Caldara, rendendomi conto che non vale la pena perdere metà del pomeriggio girando a vuoto per un cazzo di parcheggio, quando mi arriva un suo sms con scritto: - “Ho lasciato tutto aperto (ma proprio tutto), ti aspetto in camera.” – così, dopo aver sfilato dalla borsa Fendissime il braccialetto, la getto nel bagagliaio e, con o spedito (sto quasi correndo), punto dritto al grattacielo, senza rispettare i semafori, e alzo il dito medio agli automobilisti che, incazzati neri, mi suonano offesi. In ascensore nonostante ho il fiatone lo sento bello duro, pronto per essere sessualmente superoperativo. Entro nel luminoso salone, profumo di Gelsomino attizza ancor di più il mio stato di uomo allupato, e dalla camera percepisco della musica a me conosciuta. Immediatamente rovisto nel bar in cerca di qualcosa di atomico da scolarmi, ma non trovo niente all’altezza della situazione, a parte un Whisky invecchiato di trent’anni mai visto sugli scaffali dei supermercati nazionali, nemmeno nelle enoteche più costose. Incuriosito, svito il tappo (non era stato mai aperto) e usmo. Un odore pungente di tabacco e mare mi traa le narici, fino a sfondarmi il cervello, costringendomi a riporre la soporifera bottiglia nel mobiletto, come se scottasse. Fu allora che vidi il prezzo sull’etichetta del fondo, mille sterline, il che voleva dire all’incirca tre milioni di lire. E dove cazzo è andata a prenderlo quel merdoso intruglio? - “Ehi, ma che fai? “ – chiudo l’anta facendo finta di niente. Decido di starmene in silenzio. - “Ehm, arrivo amore, che buon profumo di gelsomino…è scoppiata la primavera?” – e lascio cadere per terra il giubbotto, sfilando anche la dolcevita,
sparandola inavvertitamente con il piede destro in fondo alla stanza. - “Vieni dai…” – quel dai significava che le sta bruciando la era, e questo pensiero me lo fa stratirare. Ma quella bottiglia di Whisky? Non riesco a togliermela dalla testa, con quel prezzo. E poi aveva detto che non beveva quasi mai. Entro in camera. Sta sotto le coperte, con la gamba destra in autoreggente che sbuca fuori dal letto, il lenzuolo le copre il seno, più sodo che mai. Candele profumate illuminano tenuemente le pareti rendendole quasi arancioni, e una bottiglia di Dom Perignon con due calici svetta immobile sul comodino come una statua di Botero, pronta per essere stappata. E’ fuori questione, in fatto di alcolici non sta badando a spese. L’afferro, e, dopo averla shakerata a dovere (sono a torso nudo e jeans) la sboccio, spruzzando da tutte le parti, per poi riempire i bicchieri fino a sbordare, bagnando tutte le lenzuola di seta. Dalla tasca dei jeans sfilo il braccialetto. - “Ma cos’è?” – domanda sgomenta. - “E’ per te…dai aprilo..” – non mi sono mai trovato in una situazione del genere. L’unico regalo che avevo fatto a una ragazza, era stato in terza liceo, in occasione di San Valentino. Ricordo di aver donato alla malcapitata dalle tette enormi un palloncino rosa gonfiabile trovato in un negozio di articoli demenziali, con la scritta: - “ Uhau, che bombe!! Me le faresti toccare?” – e la sua risposta fu un calcio nelle palle seguito da insulti piuttosto pittoreschi. Per fortuna non mi prese bene anche perché avevo previsto una simile reazione, per cui con un scatto istantaneo mi arretrai, lasciandola con la gamba sospesa nell’ampio corridoio dell’istituto. - “Ehi, ma non dovevi….tu sei pazzo…” – dice con lo sguardo fisso sul pacchetto incartato. - “Aprilo, dai, che aspetti..” – divento rosso, e anche questo non mi è mai capitato, cazzo.
Scarta il pacchetto con la massima attenzione, senza strappare nemmeno il nastro decorativo, e quando vede il contenuto, sgattaiola fuori dalle lenzuola saltandomi in braccio, con la era all’aria, catapultando la bottiglia di Champagne sotto il letto, infilandomi le unghie nella schiena, vicino al taglio fresco di cicatrice. - “Sai quanto ho pensato a quel bracciale? E’ stupendo….tu sei pazzo, sul serio, non sei per niente registrato. Non mi va di partire…” – e di colpo si fa triste. - “Pensa, festeggeremo il primo nostro ultimo dell’anno insieme…” - anche se è magrissima, inzia a pesarmi non poco, così l’accompagno dolcemente sul materasso, divaricandole per bene le gambe. Sta già sbrodolando. - “Siamo belle bagnatine….vedo, fammi sentire meglio…” – e lo tiro fuori sfregandole la cappella sul clitoride, iniziando ad ansimare. Un fiume di Dom Perignòn si è riversato sul parquet bianco, distogliendomi un attimo dal mio lavoro. - “Lascia stare, non preoccuparti, è trattato con non so quale vernice speciale… vieni, dai, entra dentro di me…ti amo…” – e come al solito, faccio quello che chiede. - “Ti amo….” – ed è la più triste delle verità. E il giorno seguente partì per Roma.
STRANI INCONTRI
Le mie finanze piangevano, e l’assurda idea di dover “tirar la cinghia” non mi sfiorava neanche di striscio. Ci sarebbero state più probabilità che un cacciatore sparasse nel Montana e mi colpisse sulla torretta di casa mia, che io smettessi di uscire a far il matto. Così decido di mettere in atto una sottrazione di fondi serale. Entro nella camera di mia madre e infilo la mano nel pozzo dei miracoli, sfilando a caso, dalla mazzetta di pezzi da cento, un piccolo gruzzolo all’insegna di due imminenti nottate con Bollinger. Realizzando di aver spazzato appena quattrocentomilalire e pensando che trascorrerò anche l’ultimo con Silvia, per nulla soddisfatto ne prendo ancora duecento. Attuo la reazione del ritorno allo stato primordiale. Già ero tendente all’infantilismo (tutt’altra cosa rispetto all’elefantismo), ma da quando se n’è andata, sono tornato ad essere il Power di sempre, forse peggio. Da due giorni tiravo tranquillamente le quattro, senza fare chissà che, a parte ammazzarmi con quattro cannoni a notte di pura erba condita con qualche superadditivo chimico (stavo sul cesso un paio d’ore tutte le mattine), sparando cazzate in giro per i bar con l’uomo più alto del mondo e Bollinger (che non partecipavano mai ai miei riti indiani). Dormivo fino alle undici, e, visto il periodo di feste natalizie i miei non mi pressavano con il countdown degli esami. Al pomeriggio trascorrevo dalle tre alle quattro ore sui presunti appunti di finanziaria trascritti durante le presunte esercitazioni (quali?), cercando ancora di capire come si calcolasse il determinante di una matrice inversa. Avevo capito la nozione, e forse anche la pratica, ma purtroppo mi ero fumato via la voglia. Per ripigliarmi, verso l’ora del tè trangugiavo quattro pastiglioni di creatina per poi mezz’ora dopo sfogarmi con gli esercizi, soprattutto addominali, cercando di tirarmi e definirmi sempre più. Per un pezzo di carne marcia. Ci sentivamo tramite sms ogni ora, e poi al telefono un paio di volte al pomeriggio e prima di cena, e poi ancora sms fino a mezzanotte. Mi piaceva
perché era sempre Lei a prendere l’iniziativa, con vari input, del tipo: - “Penso a quando eravamo sotto nel parcheggio e te lo tenevo in mano…” – oppure: - “Il tuo bracciale mi ricorda la luce dei tuoi occhi…” – e ancora:- “Sono tre giorni che non ci vediamo e mi sembra un secolo…” – tutte frasi, a detta di Bollinger, scritte per abbindolarmi, ridicole e pietose. Secondo il mio mentore ormai ero sempre più un burattino con la faccia da pagliaccio, e non risparmiava discorso senza mai attaccarmi. Un giovedì sera, dopo aver cenato pacificamente con i miei e aver parlato con mio fratello sulla tecnica e l’esecuzione perfetta de “I quadri di un’esposizione” di Musorgskij, eseguiti da Katchen, la chiamai, realizzando con mio grande stupore che aveva il cellulare staccato. Sicuramente stava trascorrendo come me un po’ di tempo immersa nel calore famigliare delle feste. Ma l’avvenimento mi aveva irritato parecchio, soprattutto perché, al contrario, io il cellulare lo tenevo sempre , trepidante e in attesa di qualche suo sms. Chiamo Bollinger, che guarda caso sta arrivando a Merate per riportare dei film in videoteca, domandandogli se gli va di andare a far un giro da qualche parte. In meno di cinque minuti è davanti al mio cancellone con l’sl ad aspettarmi. Phono i capelli, fissandoli con la lacca (Biopoint), e infilati un paio di jeans (Armani) grigio sfumato, la mia dolcevita nera in cashmere (Armani), e gli stivali (Prada), caracollo dallo scalone gridando a mia madre che non so quando sarei tornato, che tanto sono con Bollinger, e di star tranquilla. - “Porca troia, ha il telefono spento, ma che cazzo…non capisco, non è mai successo.” – esordisco senza nemmeno salutarlo. Il profumo di Escape ammorba l’abitacolo. - “Ma ti sei lavato con il profumo stasera? Mia nonna diceva di fare il bagno nel latte…mantiene giovani ed è meno irritante per la cute lo sai? Dovresti provare..prendeva il Gerovital..” – mi accorgo di non indossare il Daytona. Cazzo. - “Ancora la stai pensando? Power, rilassati…è Natale, sarà con i suoi. Di dov’è, scusa? Roma, mi hai detto. Eh, lo sai che fanno delle grasse mangiate nei ristoranti. O magari avrà la batteria del cellulare scarica. Può capitare, non credi?” – mi prende per il culo. So che quando meno me lo sarei aspettato, avrebbe fatto saltare una delle sue
frasi del giorno, come una bomba ad orologeria. - “Quante cazzate, esistono le batterie di ricambio…ma Cristo, non funziona la radio?” – sto smanettando senza ricevere alcun segnale. - “Se l’accendi, forse…” – in effetti il display, privo di illuminazione non fornisce segni di vita. Individuo sulla tastiera il tasto Power e affondo delicatamente con l’indice, iniziando a ricercare, freneticamente, tra una bestemmia e l’altra, una canzone decente. Dai nervi inizio a vedere sfuocato, e, non riesco a capire come mai lo startac non mi avvisa che qualche suo messaggio è in arrivo. Fisso l’orolgio nel cruscotto, sono quasi le dieci e mezza e macino in silenzio le ipotesi più strane. Sintonizzo su “Let’s Dance” di David Bowie, e mai avrei immaginato che dieci anni dopo quella canzone sarebbe diventata di nuovo un successo planetario grazie alla cover di Craig David. - “Dove cazzo andiamo?” – dopo mezz’ora tombale decido ad aprire bocca, anche perché quell’atmosfera funeralesca non ha senso, e, senza pensarci proclamo: - “Le parole non costano niente….” – mi esce improvvisamente, senza l’intenzione di voler rimandare a Bollinger ciò che lui mi disse, ma, a rifletterci bene è così. - “Cosa ti avevo detto…ma non vuoi ascoltarmi. Non riesco a capire come mai tu, il Power, sia affetto dal disturbo ossessivo compulsivo. Ma ti vedi, aprirai quel cazzo di cellulare quattro volte al minuto, stai attento perché rischi di spaccarlo in due. Ma tirati insieme per piacere. Non buttare via il tuo tempo con Silvia, stai bruciandoti. Vedo come ti guarda l’universo femminile, se solo fossi io come te….non puoi capire, facevo una strage. Non aspettarti grandi cose da lei, sei il suo atempo, renditene conto in fretta e scappa. L’hai ispezionata per bene in questi pomeriggi, accontentati, lasciala a Roma, e quando torna a Milano, lasciala a Milano. Stai tirando per il culo i tuoi con questa storia dell’esame. Che cazzo combini, ma ti sei rincoglionito?! Per carità, nessuno mette in dubbio la difficoltà della materia, ma stai perdendo solo del gran tempo. E il tempo è più prezioso di qualsiasi altra cosa.” - aggrotto le sopracciglia, cercando di ascoltare con tutta l’attenzione possibile.
- “Cazzo, hai ragione, ma è peggio della droga, mi ha completamente assorbito. Certo che non posso andare avanti così, ma per che cazzo non mi risponde e ha il telefono spento!!Porca puttana…oggi pomeriggio aveva detto che ci saremmo sentiti dopo cena, c’è qualcosa che non quadra. E’ che non ho nemmeno il suo numero di casa…altrimenti…fermati al primo tabacchino che trovi sulla strada per favore.” – sento necessariamente un estremo bisogno di fumare, e anche di bere un superdrink. - “Niente, sei completamente andato ragazzo mio, devi sbatterci ancora di più il muso per capirla. Non mi ascolti nemmeno, non ti sto dicendo cazzate. Dammi retta, lascia stare quel telefono, anzi spegnilo, pensaci domani.” – accosta a un distributore di tabacchi. Compro un pacchetto di Malboro Light e ne accendo una all’istante, tirando un gran boccata distensiva, cercando di controllarmi. Ma un profondo senso di angoscia investe ogni mio muscolo, demolendomi totalmente e nella mia mente iniziano a profilalarsi molte domande. Getto per terra la cicca di sigaretta e risalgo in macchina. - “Non posso, se chiama mia madre e sono irraggiungibile avvisa la polizia, cazzo che palle anche con questa storia. Dove andiamo? Sinceramente di andare a rincitrullirmi in qualche discoteca stasera non ne ho proprio voglia” - guardo ancora una volta il display muto e inattivo. - “Non so, facciamo un giro, io non ho nemmeno voglia di bere alcolici…” – e schiaccia sull’acceleratore in direzione di Milano. - “Cazzo è giovedì sera e non c’è in giro nessuno, eppure è quasi Natale, ma dove si sono ficcati tutti?” – stranamente Corso Buenos Aires sembra più una strada del Far West, neanche una coda ai semafori. Fermi ai bastioni di Porta Venezia optiamo per svoltare a destra verso Piazza della Repubblica. Corso Como. Tanto per cambiare. - “La gente è partita, non sono mica come noi. Abbiamo le case al mare e ci ostiniamo a rimanere a Merate, tutto per pigrizia. Un giorno ce ne pentiremo, ma sarà troppo tardi.” – sentendo queste parole il morale mi va in pezzi. Mi sento distrutto. Devo fumare un’altra sigaretta. - “Caro Bollinger, ma i telegiornali non dicono mica che c’è crisi? Ma dove va la gente a raccattare i soldi? Noi ce ne stiamo nel nostro paesello per pigrizia, e
poi perché ci sentiamo qualcuno. E non si tratta nemmeno di una questione di soldi. Il brianzolo medio, come ben sai, a furia di arare campi e macellare bestie si è riempito per bene le tasche. Ma non li spende e preferisce starsene in quaranta metri quadri arredati con divani bucati e tavoli in formica. Ho sentito perfino che per risparmiare non tirano neanche la corda del cesso. Dopo aver pisciato gettano nella tazza un bel secchio di acqua riciclata. E questo per loro è il massimo. E’ questione di cultura. Ma fuori dal nostro circondario non siamo un cazzo di niente e ci sentiamo sperduti e, al di là di quattro battoncelle che bazzicano nelle discoteche che si accontentano di appoggiare per mezz’ora il culo sul sedile dell’sl e sentire le mie stronzate sugli andamenti finanziari del pianeta, siamo meno di zero caro mio. Confesso di essere veramente stanco. Almeno Silvia non l’ho conosciuta mentre smarchettava davanti a un bancone a bere gin-tonic, sbocchinando una sigaretta come se fosse un grosso cazzone. Gira lì a destra c’è un parcheggio a pagamento.” – e m’infilo un’altra Malboro in bocca. - “Di quello che pensano dalle nostre parti di noi non me ne frega un cazzo, preferisco crepare vent’anni prima del previsto con le palle infilate dentro qualche buco di lusso e un paio di Ferrari nel garage, piuttosto che svegliarmi tutte le mattine con nel letto una normale brava donna da mantenere a vita. Andiamo a far due i è meglio.” – ci ritroviamo davanti al Casablanca. Sento musica abbastanza decente. Facendo mente locale, al giovedì sera un tale di nome Gigi (PR dei Vip) fa feste esclusive con stellette simil puttane e vari papponi finti industriali, e, a giudicare dalle puledre bionde e scosciate alla porta poteva anche essere così. - “Che cazzo gli diciamo per entrare?” – domanda Bollinger allacciandosi il piumino giallo (Moncler). Fa davvero freddo, uno o due gradi al massimo, il cielo arancione sembra scoppiare da un momento all’altro. Sento l’odore secco della neve. E il gelo si sfracella come un macigno impazzito anche sopra di me. - “Lasciami fare.” – i soliti stronzi energumeni se ne stanno dietro a un cordone rosso rubato in qualche sacrestia spuntando dalla lista i nomi degli invitati, rimbalzando quelli non iscritti, ricacciandoli come delle merde. - “Sai come li chiamano quei coglioni? Door Selector…che mestiere fai? Il Door Selector…chissà se c’è l’esame di Stato per praticare la professione del Door Selector…cazzo Bollinger, te ne rendi conto, il Door Selector!! Satasera sarò giudicato da un Door Selector…” – il sangue mi va dritto al cervello. Se ci
rimbalzano sono pronto a scaricar addosso a quei poveretti mangiafreddo una mare di merda socialmente razzista. Ed eccomi innanzi al loro giudizio: - “Buonasera.” – abbozzo un sorriso di gomma, finto quanto la loro pietosa messinscena. - “Buonasera. “ – risponde lo stronzo con un cappellino “D&G” nero taroccato. - “Siete in lista?” – domanda l’altro stronzo con i mano una ricetrasmittenti Kenwood. - “Hai visto Bollinger, siamo al Pentagono. Sì, siamo invitati da Gigi, ci sta aspettando dentro. Guardi, mi è arrivato un suo sms stasera.” – e gli schiaffo in faccia il display dello Startac con la scritta: “Selezionare sistema, selezionare?”. - “Ah sì, bene, prego ragazzi. Buona serata.” – non ci fanno nemmeno pagare il biglietto d’ingresso. - “Che cazzo c’era scritto?” – Bollinger allibito, mi prende sottobraccio incuriosito dal mio cellulare. - “Niente, quegli stronzi non sanno nemmeno leggere.” – lasciamo i giacconi alla guardarobiera, una vecchia battona ridicola, agghindata come un elefante da circo. Il locale è strutturato in due grandi sale, una adibita a ristorante (un nauseabondo odore di carne bruciata ammorba ogni angolo della stanza) e l’altra a discoteca, con un grande bancone sul quale svettano bottiglie di superalcolici e champagne di tutte le marche. Al centro, posta dietro queste troneggia una Nabucodonosor di Cristal. Inizio a sbavare. Una cubana niente male serve da bere e noto con piacere che non c’è nulla da pagare. Tutto open bar. Alla fine me la sono giocata proprio bene. La gente sta in piedi a balle. Attacco con due gin-tonic belli potenti, che trangugiamo come un bicchiere di Evian, senza batter ciglio, in un fiato, accorgendomi che quella puttana cubana non si è certo sprecata nel dosare il Bombay. Non contento gliene ordino altri due, facendole notare che siamo maggiorenni da un bel po’ e di non preoccuparsi del mio stomaco, che è resistente come una marmitta catalitica. Stavolta esagera nell’altro senso, riducendo l’acqua tonica a una blanda dose pari a un campione di profumo, diluita con due minuscoli cubetti di ghiaccio. Compiaciuto la ringrazio e, voltandomi per porgere a Bollinger la sua bomba alcolica noto che sta parlando
con un signore di mezz’età pelato con i baffi, dalla corporatura massiccia. Al polso porta un Submariner d’oro massiccio. Ha una faccia nota, ma non riesco a collegare dove l’ho già vista. Mi avvicino sorseggiando il mio drink, con lo stomaco fumante d’alcool. Mi sento all’aria, e accendo una sigaretta. - “Tieni Bollinger, agli analfabeti.” – e mi presenta. - “Lo conosci? Anche lui abita a Merate, non l’hai mai visto?” – mi sforzo di ricordare, ma non riesco a focalizzare il momento preciso in cui mi ero imbattuto nella sua figura. - “Power, piacere di conoscerla. Sì, mi sembra di averla vista da qualche parte, ma non ricordo dove…” – mi stringe la mano con una forza paurosa. - “Nando, piacere, ma per gli amici sono Sventrax. Sì, so chi sei, ti vedo spesso a Merate, conosco di vista anche i tuoi genitori. Abitavi nel Condominio dei Pini in Viale Cornaggia. Mi ricordo di te fin da quando eri un bambino, avevi i capelli biono platino, eri l’idolo di mia moglie.” – stordito aspetto che mi comunichi anche il saldo del mio conto corrente. Non riesco a ricordare dove l’avessi visto e sa praticamente tutto di me. - “E’ vero, sono io, ehm…sì, guardi che i capelli non erano tinti.” – non so più che cazzo dirgli. Per ripigliarmi secco un altro gin tonic, con l’intenzione da lì a cinque minuti di ordinare ancora. Infatti non trascorre neanche il tempo di appoggiare il bicchiere al bancone che ne ho in mano un altro, stavolta ancora più carico. A fatica mi reggo in piedi e Bollinger parla animatamente con l’uomo d’acciaio ma sono talmente fuori che non riesco a capire quello che si dicono. Sento le parole come lampi, cercando di capire alcuni minuti dopo il senso dei loro discorsi, ma risulta essere un’impresa titanica. Indubbiamente si conoscevano molto bene. Ogni tanto l’uomo d’acciaio, guardandomi sorridente, tira un destro sulla spalla a Bollinger, scuotendolo come un fuscello in mezzo a una tempesta, ma sono pugni d’amicizia, senza forza. - “Tirava di boxe, lo sai? Basta Sventrax, cazzo!!” – e l’uomo d’acciao adesso ride di gusto. E lancia una bestemmia così, tanto per gradire. - “Ah sì…si vede, Bollinger, te l’ho già detto, dovresti fare un po’ di palestra. Cristo sembri un deportato di Auschwitz…” – e trangugio assetato l’ennesimo drink. Ormai ho ato la soglia della lucidità da un pezzo, vedo tre Bollinger e due uomini d’acciaio e mi brucia lo stomaco come se avessi ingurgitato la
carbonella per accendere le stufe della prima guerra mondiale. - “E ha fatto anche la guardia del corpo a quelli che cantavano “Vamos a la playa”…come cazzo si chiamavano…i Righeira…no, Sventrax, mi ricordo quando guidavi la serie S…” – due ragazzine mi urtano di proposito, anche loro a malapena riescono a star in piedi. Le fisso con sguardo perso e realizzo che non ho voglia di flirtare con nessuno. Mi limito a fumare un’altra sigaretta scrutando la mia nuova conoscenza. - “Sono qui con dei russi molto potenti. Hanno delle società petrolifere e diverse acciaierie. Tramite un mio amico di Rozzano gli ho organizzato il servizio sicurezza durante il loro soggiorno in Italia. Hanno al tavolo di quelle fighe, puttana troia, ate a vederle, siamo in fondo, nell’altra sala. Vorrei invitarvi con me, ma sono molto diffidenti, e c’è da stare attenti.” – con la scusa di andare in bagno mi assento un attimo. Sgattaiolo incuriosito nell’altra sala, e quattro giganti vestiti di nero stanno di guardia a un gruppo chiassoso di neo miliardari. Sul tavolo ostriche ghiacciate e una ventina di Magnum di Cristal prosciugate, più quattro bocce di Grey Goose. E naturalmente un mix di modelle brasiliane, russe, nigeriane, strafatte, scalze e mezzenude, che ballano scoordinate al ritmo di “Enjoy the silence” dei Depeche Mode. Guardo l’ora sul cellulare, constatando che non ha chiamato nessuno. Torno da Bollinger, vedendolo ancora con la mano sulla spalla dolorante, confermando all’uomo d’acciaio la validità delle modelle al loro tavolo super blindato. Sventrax si lascia sfuggire confidenzialemte che, terminata la sessione Casablanca, aveva avuto l’ordine di prenotare al “Four Season” due megasuite, con pieno di Dom Perignon, per concludere la nottata con i fiocchi. - “Hai capito Power? Per alcune persone non esistono parametri di ricchezza.” – sentenzia Bollinger. Si frappone l’uomo d’acciaio. - “Non è detto, dipende. Per te, o meglio per tuo padre, il parametro è stato investire sul tempo, sacrificando anni di vita per costruire un’azienda cercando di farlo con onestà, dando lavoro a tante persone e scegliendo una strada onesta. Per altri, soprattutto se nasci in un paese dove vince non chi s’impegna di più ma chi, e seguitemi bene, in certo qual modo, non è tanto pulito..il parametro, o meglio, i parametri diventano altri. E non sono certo le tasse non versate o i contributi non pagati. E neanche le raccomandazioni. Capite? Entrambi i boss nell’altra sala hanno i revolver nella giacca. Perché? Mi chiederete, giusto?
Forse hanno pestato i piedi a qualche monopolista, oppure dietro una facciata se ne nasconde un’altra. Non so, dico per dire…” – dopo aver ascoltato e squadrato una modellina (la fissiamo tutti e tre come dei lupi affamati) proveniente dal tavolo dei killer russi, medito di prendermi un altro cocktail, ma rinuncio. Sono sul filo di vomitare. L’uomo d’acciaio sempre sorridente assesta un altro pugno sulla spalla a Bollinger, congedandosi da noi perché il lavoro lo richiama. Lo saluto preparandomi ad un’altra poderosa stretta di mano, irrigidendo tutto il braccio e, mentre stringe forte, cerco anch’io di fare lo stesso, attutendo il dolore. - “Cazzo, personaggino questo Sventrax, te lo raccomando. Qual è il suo lavoro di facciata?” – commento cercando un posto per sedermi. Sono distrutto. Le gambe mi fanno male come a una sessantenne affetta da trombosi cronica e gravi problemi di circolazione. - “Ma…non ho mai ben capito anch’io…si occupa di investigazioni, organizza squadre di sicurezza private, dicono che abbia lavorato in Africa per i servizi segreti. Mio padre lo conosce bene, ha avuto bisogno del suo aiuto per un nostro cliente che non pagava. Erano mesi che non si faceva trovare, questo stronzo. Una mattina venne in azienda Sventrax, vestito di tutto punto, camicia bianca e abito blu. Lui e mio padre si chio in sala riunione per mezz’ora. Non so cosa si siano mai detti, il fatto è che verso le sei del pomeriggio, rientra Sventrax sorridente con il malloppo riscosso in una valigetta e la camicia stropicciata con delle macchie rosse rubino. Meglio di un avvocato, non ti pare? In fondo è una brava persona e se lo conosci bene per farti un favore è capace di andare nel fuoco. Mi ha lasciato il suo nuovo numero, lo cambia spesso. Mi ha detto che se abbiamo bisogno, di chiamarlo quando vogliamo, per noi c’è sempre. Cazzo mi sarebbe piaciuto aggregarmi per andare al “Four Season”, porca troia, Power, c’è un mondo che neanche immaginiamo.” – e finisce il suo drink, masticando il ghiaccio rimasto sul fondo del bicchiere. - “Andiamo a casa….sono a pezzi.” – dico, con voce stremata e distorta. In tangenziale controllo (ancora!!) il cellulare, praticamente morto, e, anche se sono ate le due da un pezzo, provo a comporre il suo numero. Risponde il ripetitore automatico Omnitel, dicendo meccanicamente che al momento il
cliente poteva avere il terminale spento oppure non essere raggiungibile. Sfrecciando nella notte, alzo il volume della radio sintonizzata su RMC, che trasmette musica lounge, cercando di rilassarmi inutilmente. I miei pensieri si fanno troppo ingombranti e non riesco a trovare un attimo di pace. Mi sento sull’orlo di un tracollo isterico. - “Bollinger, ci si sente domattina, ok?” – scendo dall’sl, notando che in casa le luci sono tutte spente. Almeno non devo affrontare il terzo grado di mia madre. - “Ok, notte Power. Pensa a Sventrax…e rifletti.” – schizza via con un rombo pazzesco, facendo scodare l’sl. Prima di aprire il cancellone mi accendo una Malboro soffermandomi sull’uomo d’acciaio. Mai avrei pensato che presto sarebbe entrato nella mia vita. Tiro una bella boccata e per un attimo ritrovo un po’ di serenità.
VIGILIA PRIMA PARTE
- “ami il patè, aspetta, ho i ravioli bollenti, non riesco a tenere in mano il piatto, dai muoviti!!”- siamo la vigilia sera. E’ allestita una tavola pari ai banchetti organizzati a Versailles prima della processione di ricchi e viziosi cortigiani verso la ghigliottina. Sulla tovaglia bianca ricamata a mano con fregi in oro, oltre alla cristalleria che comprende due caraffe del settecento che ciascuna costa come un box, e all’argenteria ereditata da qualche lontano parente, perfettamente integra, ciò che stupisce di più sono i piatti preparati da mia madre durante la settimana precedente, frutto di interminabile, eccezionale e, senza ombra di dubbio incomparabile esperienza maturata studiando con ione e analiticità le ricette dell’Artusi. Decido di bere solo vino, realizzando che mio padre ha aperto un paio di bottiglie di Barolo regalategli da un suo amico proprietario di un’azienda vinicola nelle Langhe da abbinare ai ravioli in brodo e al patè, e messo in fresco, nel cestello in fianco al mio posto, una bottiglia di Bollinger (l’ha scelta apposta?) per il salmone coi crostini, gli sgombri, e tutto il resto. Senza contare che nel frigo sono pronte altre cinque bottiglie di Dom Perignon. Destreggiarsi non è semplice e scegliere da quale piatto iniziare la grande abbuffata natalizia mi manda seriamente in tilt. Silvia ha sempre il telefono spento e non so come fare per rintracciarla. Al contrario il mio startac è sempre sveglio. Ma quella sera lo lascio in camera, e avrei dato un’occhiata al display solo dopo aver concluso la cena in santa pace e senza fretta, escludendo ogni istinto ossessivo-compulsivo. Trangugio subito due calici di champagne riempiti fino all’orlo, preparandomi psicologicamente a fare incetta di antipasti. Ho la bava alla bocca, e inizio ad andar su di giri, così mi lancio sul vassoio del salmone affumicato, anche se mi fermo un attimo, perché dopo averlo scrutato attentamente mi sembra che avesse nuotato per l’ultima volta nella candeggina. - “Sì, metti Keith Jarret, aspetta, ti o il vino…” – mia madre, felice di
vederci a tavola sereni, si accorge della mia riluttanza nello scegliere le fette del pesce decolorato. - “Tesoro, cosa c’è? Non è buono’ c’è qualcosa che non va?” – chiede di colpo sformata in viso. - “Ma che cazzo ha fatto questo salmone? Ha nuotato nella candeggina?…non vedi com’è pallido…” – mia madre sorride di nuovo e, guardandomi come uno stolto, risponde molto pacatamente. - “E’ il miglior salmone che c’è sul mercato. Proviene dal Canada. E’ così perché non è stato pescato nel mare del Nord Atlantico, dove c’è un’alta concentrazione di mercurio, estremamente dannosa per la salute. Inoltre non lo hanno nutrito in batteria, come tutti gli altri, così arancioni, pieni di vitamine coloranti. Quelli del supermercato sono tutti salmoni tossici. Antonio, prendi l’insalata russa.” – sta di fatto, che un salmone così pallido non l’ho mai mangiato. Assaggio la prima fetta, e, testando la qualità eccezionalmente superba, ne catapulto altre quattro nel mio piatto. Come al solito ha ragione, non c’entra un cazzo con quegli altri in circolazione. - “Ma, sinceramente credo che i notturni suonati da Rubinstein siano ineguagliabili. Il numero uno opera quindici è il suo capolavoro, nessuno è mai stato in grado di interpretarlo con tale intensità e ione. Mi chiedo come mai non hai scelto di fare il concertista…” – ogni Natale c’è sempre il dibattito su come mai avevo deciso di lasciar perdere la tastiera come professione. - “Ancora con questa storia…facevo fatica a stare seduto sulla panca un’ora, figuriamoci trascorrerne otto ogni giorno. Per poi? Far la fame ed essere smerdato da qualche fenomeno cinese mandorlato o russo? Forse potrei esibirmi a torso nudo ed eseguire gli studi di Chopin con i pantaloni di pelle nera, una sorta di Billy Idol della musica classica. Lancerei una nuova tendenza, ma dubito che al Conservatorio potrebbero mai accogliermi in sala Verdi. Forse in qualche festa fetish. Eh? che ne dici Antonio?” – mio fratello si limita a sorridere schifato. - “Ho visto la mamma del tuo amico Maurizio, mi ha detto che sta iniziando a frequentare il corso per direzione di orchestra. Mentre sua sorella si è iscritta a una scuola di equitazione con la scusa che andare a cavallo stimola
l’intelligenza.” – e, dopo un bel sorso di champagne, commento: - “Sì, quella del cavallo.” – segue una risata delirante. - “Smettila di bere…Marcello, cosa vuoi? Ancora dell’antipasto o inizio a scaldare la piastra? Tu, è meglio che ci dai un taglio con lo champagne…c’è il filetto…non vorrai berlo anche con la carne?” – sto prosciugando la bottiglia. - “Lo sai che non mi piace il vino rosso, proseguo così. Tanto poi non devo uscire in macchina, lasciami bere in santa pace almeno durante le feste.” – e, vedendo che la bottiglia è quasi in secca, mi premuro di fare ancora il pieno, alzando il calice e brindando al Natale. - “Forza, atemi i piatti. Antonio, prendi il burro da mettere sul filetto, è nel ripiano in alto del frigo.” – la nebbia si impossessa del mio cervello. Solo con l’antipasto ho bevuto quasi un litro di champagne. Anche se il filetto sta per essere servito mi scuso e vado in camera in direzione della finestra. Vedo il cellulare sulla scrivania e lo ignoro volutamente. Apro la finestra e caccio fuori la testa nelle fredde tenebre e un vento gelido percorre ogni fibra muscolare del mio corpo, catapultandomi di nuovo nel mondo reale. Inizio a piangere come un bambino, senza motivo (e invece sapevi perfettamente qual era), rimanendo inerme per cinque minuti. - “Ehi, ti stiamo aspettando. Perché non vieni? Fa un freddo cane qua dentro, vieni di là. Non stai bene?” – le lacrime si stanno ghiacciando sulle guance bollenti, - “Ehm, no no…arrivo, stavo controllando una formula per l’esame…” – non regge, e mio fratello fa finta di niente. - “Dai, sbrigati, il filetto è pronto. Ti stiamo aspettando.” – molto discreto, e torna in sala da pranzo. M’infilo in bagno, chiudendo la porta con la chiave, dando due mandate. Sono sconvolto, il viso ha assunto un colore violaceo simile a una prugna schiacciata. Pensieri lancinanti scorrono nella mente. Mi vedo a quarant’anni senza un soldo costretto a vendere le case di famiglia perché non ho voglia di lavorare, chiuso in un monolocale subaffittato fino ai cinquanta e poi a vagabondare in qualche parco di periferia e avere come convivente una bottiglia di whisky rubata in un merdoso discount tappata con una cicca americana. A sessanta mi avrebbero
trovato morto assiderato, con addosso vestiti sgualciti inzuppati dal mio piscio e le unghie sporche di merda, privo di denti e senza neanche essere più in grado di parlare. E la cena che sto affrontando sarebbe stato solo un vago ricordo di cosa significasse essere felici. Aziono anche l’idromassaggio per coprire i miei singhiozzi. Ormai non riesco più a controllarmi, e un vapore dolce e profumato di bagnoschiuma alla vaniglia e fiori d’arancio (Cartier) si diffonde per la stanza. Infilo la testa nel lavandino riempito fino all’orlo, bagnandomi il colletto della camicia nera (V2), cercando di tornare alla normalità. Ma cos’è la normalità? Prendo il Visustrin dall’armadietto (una confezione nuova di zecca per tamponare il rossore provocato da traumi post-cannoni) e riverso tre gocce per ciascun occhio, aspettando di vedere l’effetto con il viso spiaccicato sullo specchio. A parte la vena rigonfia in corrispondenza della tempia, sembro avere ripreso il mio colore normale. Afferro il Phon (Revlon). Lo aziono sulla scritta “Maximum” facendomi investire da una ventata di calore impressionante. In meno di un minuto, la camicia è perfettamente asciutta. Mi assesto la pettinatura e realizzo che improvvisamente il pallore ha preso il sopravvento. Aggrottando le sopracciciglia incredulo raggiungo la consapevolezza che è arrivato il momento di riprendere un po’ di colore. Ritorno a tavola con apparente normalità. - “Tesoro, ma dove sei stato? Va tutto bene? Come mai hai i capelli così bagnati?” – e io, con una calma irreale. - “Mammina, non sono poi così bagnati…ho sciacquato la faccia, sai..troppo Champagne, a proposito…papà, ami la boccia.” – e mentre mio padre con un crostino di salmone in mano mi a la bottiglia interviene ancora mia madre. - “Smettila di bere così, non uscirai mica con la macchina dopo, vero?” – sbuffo e mi ritraggo sulla sedia, alzando gli occhi perfettamente limpidi al cielo. - “Non lo so, magari a Bollinger, magari non esco nemmeno, non sentite che il cellulare è muto?” – ringhio come se fosse colpa loro. E invece il trillo squillante stile Wall Street richiama l’attenzione di tutti. Scatto sulla sedia catapultandomi in camera, convinto di vedere il suo nome lampeggiare sul display. Invece è Bollinger, e tutto intorno a me crolla. Perdo ogni sintomo di realtà. Le pareti si sgretolano, e il soffitto affrescato inizia ad
animarsi convulsamente, assumendo come dominante il nero. Il parquet si sta schiodando dalla soletta e mi viene in mente quando abbiamo ristrutturato casa i controlli delle belle arti e quello stronzo di architetto che voleva farci are una trave di cemento armato in mezzo al salone, e mio padre che gli stava ribaltando la scrivania in testa. - “Carissimo Bollinger, come stai?” – sento il rumore dell’autoradio in sottofondo. - “Che cazzo hai? Sei già ubriaco?” – non ci vuole molto per capirlo. - “Cazzo, l’aereo appeso in camera sta prendendo il volo, l’omino dentro la carlinga mi sta facendo ciao ciao con la mano. Sei in giro brutto cazzone?” – la coda del pianoforte si sta aprendo da sola, diventando prima viola poi azzurra. - “Sei messo bene, mi sembra. Forse Silvia la superfiga non si fa sentire? Non ce la fai proprio più.” – inizia a girarmi la testa, e mi sdraio sul letto a pancia in giù. - “Cazzo, andiamo da qualche parte, o mi hai telefonato per prendermi per il culo? Devo finire di cenare con i miei, a di qua, vogliono farti gli auguri. Come al solito sei ospite sempre gradito, privilegio concesso davvero a pochi… comunque non si è fatta sentire. Ti aspettiamo.” – e attacco recependo a malapena un sarò lì tra un’ora. - “Scusate…a Bollinger a farvi gli auguri, poi esco con lui. Guarda che sta bruciando la piastra..” – e trattengo un rutto apocalittico. - “Ma esci anche stasera che è la vigilia? Non andrai ancora a Milano?” – sempre la stessa storia. - “Mamma, non preoccuparti, andiamo in un bar qua vicino, poi non guido io, e ora che usciamo erà ancora un’ora e mezza e tu starai già svenendo sul divano. Papà dille qualcosa…” – e s’intromette mio fratello. - “Ma perché non cerchi di stare un po’ in casa, guarda che facendo sempre tardi ne risente lo studio e la memoria.” – il cervellone. Mi sento già all’aria, e di sorbirmi il predicone durante la vigilia di Natale è fuori discussione, così mi verso altro champagne nel bicchiere dell’acqua.
- “Guarda che brucia il filetto. E poi la mattina mi tiro insieme presto…” – e come una sciabolata interviene mio padre. - “Quando hai l’esame?” – e un colpo di tosse che non ho previsto sopraggiunge facendomi sputare lo champagne nel piatto del filetto, materializzando una tiepida poltiglia giallo paglierino bavosa. Mi sembra di sentire suonare le campane. - “Bisogna dire qualcosa al prete….ehm, il dodici, ho il secondo compitino… poi a febbraio l’orale.” – e non mi ricordo più un cazzo, mi sento la faccia in fiamme e sono sul punto di tornare a piangere. Improvviso. - “Tesoro, non stanno suonando le campane. Marcello, per favore, sta studiando, vedrai che lo erà in un soffio. Lasciatelo stare stasera. Se esci con Bollinger e non guidi, non mi preoccupo. Vai tranqullo” - mia madre si alza per servirci il filetto e torniamo a parlare in tutta tranquillità di come il tempo trascorre rapidamente (anche se non sembra). E, senza nemmeno rendercene conto, un altro anno sarebbe scivolato via, e ci saremmo ritrovati di nuovo a festeggiare nella nostra meravigliosa casa. O almeno questo era ciò che desideravo. Il cellulare trilla, e sono talmente rassegnato che non mi aspetta nessuna sorpresa. E infatti ancora una volta è Bollinger che mi avvisa di aprirgli il cancellone, non trova posto in piazza. Così lascia l’sl nel giardino e si presenta con una bottiglia di Dom Perignon Rosè. - “Sei sempre il benvenuto, come ben sai, ma portandoci questa in dono ti sei assicurato la nostra ospitalità per sempre. Scherzo, sei il numero uno. Auguri.” – e lo abbraccio. - “Buonasera Bollinger, come sta?” – nonostante si conoscessero da una vita, i miei, salutandolo, gli rivolgono ancora del lei. Davanti a mio padre si sente sempre intimidito. Ogni parola, anche la più scontata, calibrata alla perfezione, sembra non provenga nemmeno dalla sua bocca. - “E’ il cd che vi ho duplicato, come le sembra?” - si rivolge incuriosito, mentre la mia preoccupazione principale si materializza nel mettere lo champagne in frigo.
- “E’ inutile, è già fresco abbastanza…” – e mia madre annuisce compiaciuta. Nonostante ci siano due (o forse tre) bottiglie già aperte, trovo cortese brindare con la neoarrivata. La tensione sta salendo, e avrei voluto lanciare contro il muro lo startac muto. - “Buon Natale!” - e le coppe tentennano all’unisono. Mia madre si alza e bacia mio padre, stringendolo forte. E, commossi, ci abbracciamo tutti. - “Stai benissimo. E’ di pasticceria, Bollinger, so che lei ci tiene molto…” – facciamo parte della categoria dei merdoni. Ma non è una scelta, semmai una condizione. Si nasce in un certo ambiente e questo è il comune denominatore per cui siamo insieme. Si chiamano affinità, e, lasciando perdere l’aspetto esteriore, che è puramente un fattore di unione di cromosomi e DNA, per cui siamo di aspetto diverso, rappresentiamo una serie di interessi, abitudini, visioni, che ci accumunano, rendendo lieti e condivisibili i momenti di incontro. Bollinger aveva duplicato il cd a mio padre, che di musica se ne intendeva parecchio, si era presentato con il vino adatto e riusciva a intrattenere lunghi colloqui stando sempre sulla stessa lunghezza d’onda, sapendo interloquire perfettamente. E il risultato era l’armonia, che significava stare bene insieme e rendere la vita serena e piacevole. Sarebbe impossibile condividere questi momenti con gente di livello inferiore. E non è mai stata una questione di soldi. Ogni categoria raggruppa lo stesso numero di persone, quelli con il cervello sviluppato non possono sopravvivere neanche un nanosecondo insieme a chi pratica solo lavoro manuale. La vita è questione di livelli. - “Bollinger, dove andate?” – decido di spegnere definitivamente il cellulare. Non ha più senso aspettare come un coglione l’arrivo di un messaggio, con la speranza di sentirmi meglio. - “Qui vicino, signora, ci sono dei ragazzi che festeggiano..in un locale. Non si preoccupi, non beviamo, andiamo così..tanto per stare in compagnia. Antonio, vieni anche tu? Il ragazzo è cotto…” – lo brucio con lo sguardo, se va oltre gli spacco la bottiglia in testa. - “Prendi il piatto, per questo ti meriti la più grossa…” – azzanno una fetta di panettone, realizzando che è davvero di qualità superba, come tutta la cena del resto. - “Eccellente signora, ben cotto, si vede…”- sta cercando di salvarsi il culo in
corner, ma mia madre, per fortuna filtrata per bene anche lei, non si è nemmeno accorta. In meno di mezz’ora il delicato preparato di pasticceria è svanito dall’elegante tavola e consumiamo altri due brindisi, prosciugando la bottiglia portata da Bollinger. Infilo il giubbotto (Armani Collezioni), e abbracciando di nuovo i miei ci congediamo, e il bisogno di fumare si sveglia improvvisamente, ma sprovvisto di sigarette, medito su quale sia il tabacchino più vicino. - “Cazzo non ho neanche una sigaretta, porca puttana. Trova qualche distributore, dovrebbe essercene uno sulla statale.” – inzio a scannerizzare le stazioni dell’autoradio, posizionandomi su RMC che per l’occasione trasmette quelle pallosissime canzoncine natalizie composte ad hoc dagli artisti di tutto il mondo. - “Questa merda non la reggo…non stasera…o Cristo Santo ho dimenticato il cellulare, fa niente tanto l’ho spento.” – Bollinger scuote la testa. - “Stamane per caso al Brico Center ho incontrato Sventrax. Gli ho detto di raggiungerci se non aveva impegni. Ti scoccia?” – non me ne frega un cazzo, potevano esserci Dio e il Diavolo che si scolano una bottiglia di Cristal che per me è lo stesso. - “Bene, così gli offriamo da bere e ci sdebitiamo per il trattamento di favore riservatoci l’altra sera. Fermati, fermati!!” – scendo con il cervello ormai in ebollizione con in mano la moneta per prendere dal distributore un pacchetto di Malboro Light. - “Ti scoccia se me ne accendo una? Non resisto più…” – so già la risposta, mentre sintonizzo la radio su StudioPiù che trasmette “Last Christmas” degli Wham. - “Non ti azzardare, due minuti e siamo arrivati.” – e schizza scodando. Il posto non è un gran che, ma certe troiette con la barba bianca e la gonnella rossa svolazzanti per il locale attente a prendere le ordinazioni non sono poi tanto male. Quattro sfigati ubriachi bevono pinte di birra da un litro al bancone, bofonchiando apprezzamenti in dialetto sulle cameriere e guardandoci storto
perché abbiamo parcheggiato proprio all’ingresso. Non ho mai sopportato chi beve la birra. Un orologio da parete dipinto d’argento vigila da sopra al bancone, segnando mezzanotte. Quando ero bambino a quell’ora mi trovavo nel letto già da un pezzo perché nella notte Babbo Natale sarebbe arrivato portandoci i doni desiderati e richiesti puntualmente nelle nostre lettere appese alle porte del soggiorno. La mattina dopo, verso le sette mi trovavo felice sotto l’albero a scartare i regali con mio fratello, per poi leggere quello che mio padre aveva scritto con caratteri volutamente tremolanti su un foglio bianco firmato Babbo Natale, lasciato in fianco a una tazza di latte metà vuota e a un piattino con i resti sbriciolati di una fetta di panettone. La finestra era stata socchiusa, segno che se n’era volato via con la slitta. A mezzanotte e mezzo arriva l’orda di gente. Io e Bollinger recuperiamo un tavolo vicino alla vetrata che si affaccia sulla strada esterna, in modo da tenere sott’occhio il via vai di gente. Mi sento veramente storto, ma non ho voglia di fermarmi, così ordino una bottiglia di Moêt e mi faccio portare quattro calici, al che la troietta carrozzata con una terza abbondante arriccia il naso e non capisce, ma dopo che la guardo con occhi ammicanti non si mette neanche a chiedere come mai questa duplicazione. - “Ha voglia di cazzo quella Power!! Power…pronto?!” – con gli occhi vitrei fisso il vuoto assoluto nel fragoroso vociare della gente e mi chiedo quale cazzo di scopo abbia quella falsa bontà manifestata così apertamente che spinge gente sconosciuta ad abbracciarsi fraternamente per augurarsi il Buon Natale. - “Eh…cosa c’è? E’ arrivato da bere?” – vedo la troietta avvicinarsi sorridente con il cestello stracolmo di ghiaccio, e di colpo mi ripiglio sfilando una Malboro dal pacchetto schiaffandomela in bocca. - “Chi la stappa?” – al di là della finzione inscenata da tutti, questa ragazzetta si sforza di fare il suo dovere fino in fondo, sorridendo quasi naturalmente. - “Tesoro, stappala tu, non vedi, io sono a pezzi e il mio amico non ha la forza, guarda che braccia magre…” – scoppiando a riderle in faccia, realizzo che ha due tette davvero stratosferiche (ma le migliori non sono quelle di Silvia?), e non vedo l’ora di infilarci dentro la testa. - “Come mai quattro bicchieri? Ma non siete in due?” – con occhi fissi sul suo
decoltè, le rispondo, sorridendo: - “ Ma gli altri due sono per te e la tua collega bionda che sta servendo a quel tavolo di bestie feroci…” – ride e, roteando la bottiglia ghiacciata fa schizzar via il tappo, felice di riempirci i bicchieri. Così, porgendole il suo (la troia se l’è riempito fino all’orlo e ha chiamato la sua amica), brindo tristemente felice e mi avvicino a lei, sussurrandole nell’orecchio, senza il minimo pudore. - “Quando hai finito di lavorare, ci becchiamo fuori per farci meglio gli auguri?” – Bollinger, dopo avere scambiato gli auguri con l’amica bionda (povera malcapitata), si volta di scatto, tirandomi un calcio da sotto il tavolo, come se fosse entrata nel locale qualche stella di Holliwood. Scruto con la coda dell’occhio (in fin dei conti non sono poi così tanto rintronato) e vedo Sventrax che si avvicina, facendosi largo senza problemi in mezzo alla gente, che nell’ultimo quarto d’ora, è aumentata a dismisura, riducendo i metri cubi d’aria necessari per una degna sopravvivenza, con una giacca di pelle nera aperta e una camicia bianca troppo stretta per il suo corpo troppo massiccio da toro incazzato. - “O cazzo, è arrivato…”- constata Bollinger, con un filo di rassegnazione mista e preoccupazione. - “La gente lo scansa volentieri direi…” – commento, quando ormai dista non poco meno di due metri da noi. Il gladiatore invecchiato guarda libidinoso le cameriere, e strizzandomi l’occhio, si ritrova seduto al nostro tavolo, come un amico di vecchia data. Il suo pugno poderoso colpisce la mia spalla destra, facendo schizzare fuori un fiotto di champagne dal bicchiere che tengo saldo in mano. Sono pronto per mandarlo affanculo, ma invece mi limito a sorridere stando al gioco. Ripete la stessa scena con Bollinger. La cameriera non recepisce il mio invito e si limita a sorridermi languidamente, rivolgendosi agli altri tavoli sclerata nel raccogliere le ordinazioni. - “Porca puttana, Sventrax, sono magro, te l’ho già detto, con i tuoi pugni mi scardini….hai visto Power, è ubriaco marcio…” – Bollinger fa cenno al barman di dargli un calice per il nostro nuovo ospite. - “Ma no…dai..ragazzo? Un’altra bottiglia, per favor, la offro io…” –
mentalmente non riesco a ricostruire quanto ho bevuto. Sicuramente tre bottiglie ci stanno tutte, ma non mi sento ancora al limite. Un paio di bicchieri li avrei retti ancora. - “Non ci posso credere, Jimmy….guarda Bollinger, è arrivato Jimmy…è sempre più alto…” - mi sento bollire, grondo di sudore e le mani mi tremano. Sto facendo una vita del cazzo, e non vedo futuro. Così mi accendo una sigaretta e, visto che sarebbe arrivata un’altra bottiglia, trangugio ancora un po’ di champagne, preparando il bicchiere. La voglia di inifilare il cazzo dentro quelle tette belle sode e giovani mi sta devastando il cervello. Un altro pugno mi arriva sulla spalla, e stavolta mi stanno veramente girando i coglioni. Quella confidenza non l’ho mai concessa. Così mi volto verso Sventrax, sul punto di dirgli: - “Cazzo, ma la vuol finire, ma vaffanculo…” – e mi accorgo che il secondo pugno me l’ha tirato Jimmy, e Sventrax se ne sta tranquillo sullo sgabello a parlare con Bollinger. - “Jimmy, me ne ha appena mollato uno lui!! Mi avete distrutto la spalla…testa di cazzo..” – così mi volto, cercando con lo sguardo la cameriera, ma la vedo impegnata a troieggiare con uno sfigato vicino alla cassa. - “Brutta troia…Jimmy che cazzo ci fai qua…strano, non è un Brithish Ambient…comunista!” – sbadigliando ordina un caffè e levandosi il piumino (Aspesi) colore grano rimane con un maglione in cashmere verde bottiglia, fresco di negozio. - “Sei all’aria…hai gli occhi fuori dalla testa. Sventrax, allora? Tutto bene?” – si stringono la mano come due amiconi di vecchia data, facendomi restare con la bocca aperta. Sono sorpreso. Questo personaggio lo conoscevano tutti, tranne me. Impossibile. - “Come cazzo fai….ehm, scusa, come fate a conoscervi?” – domando a Carlo d’Inghilterra rialzato di cinquantacentimetri. - “E’ amico di mia madre, grande Sventrax…cazzo sei sempre in forma, tiri ancora di boxe?” – sto zitto, sollevato da questa conoscenza comune. Altro champagne viene servito dall’amichetta bionda, e Bollinger coglie l’occasione per intrattenerla al nostro tavolo allungandole il biglietto da visita (Printing Consultant) fluorescente. In quel momento la puttanella che voglio impalare si fa
vicino, dicendomi: - “ Fra un’ora e mezza stacco, dove possiamo trovarci?” – ho le sue splendide e sode bocce appoggiate al mio avambraccio, e Sventrax guarda di sottecchi divertito, intento a parlare con Jimmi di calcio, e l’immagine di Silvia all’Università durante la laurea di mio fratello si fa di nuovo chiara nella mia mente. E realizzo che entro due giorni, stando a quello che mi ha promesso, ci saremmo rivisti, per trascorre il primo ultimo dell’anno insieme. In fondo mi ama e non si fa sentire da quando è partita. Il suo cellulare al momento (ma quando lo avrebbe ri?) si trova spento, gettato chissà in quale cassetto. Penso un secondo di rinunciare all’incontro con la poveretta travestita da Babbo Natale, ma un senso di vendetta e la voglia di inifilarlo da un’altra parte sopraggiunge inesorabilmente. - “Tesoro, troviamoci davanti alla chiesa di Merate, c’è un bel piazzale. Tra un’ora e mezza…” – non mi rendo neanche conto se fossi in grando di reggermi in piedi, una volta fuori di lì. Ed ecco un altro gancio sulla spalla illesa. - “Oh Cristo, ma basta…” – Sventrax ride dandomi un pollice alzato. - “Bravo, quella fra un’ora ti smonta…si vede. Dai, dai bevi. No, insegno in una palestra a Robbiate, ci sono un paio di ragazzi ben messi, promettono bene. Ma è difficile sfondare nel mondo della boxe. Fin quando non arrivi ai campionati italiani non vedi una lira.” – e sferra un pugno a Bollinger, che fortunato, si scansa e lo manda a vuoto. - “Sto bevendo troppo, basta pugni signor Sventrax.” – la cameriera succhiacazzi continua a fissarmi, ormai sputo parole senza senso, ma “Outside” risuona inaspettatamente nel locale. Strano. Allora mi ripiglio, e, spinto dal ritmo, accendo un’altra sigaretta ondeggiando sullo sgabello all’unisono con la canzone. - “And yes, I’ve been bad/ Doctor won’t you do with me what you can?/ You see think about it all the time/ Twenty four seven…” – le gente mi fissa come se fossi un pagliaccio. Toccandomi la fronte realizzo di essere madido di sudore. Brucio la sigaretta in
due tiri e ho la vescica sul punto di scoppiare. Mi alzo per andare al cesso. Impresa titanica, si trova al piano interrato e devo percorrere tutto il locale, scansando la gente che mi scruta torva. Visi sformati forse anche più del mio, accentuati dai lineamenti duri e poco eleganti tipici dei brianzoli, somiglianti molto ai porci grugnanti pronti a scannarsi per un pezzo di merda, mi fissano in cerca di rissa. - “E’ occupato…” – uno stronzo con la bottiglia di Beck’s in mano sta impalato davanti a me, lamentandosi che gli scappa più del necessario e non riesce a trattenersi e che se non si fosse liberato un bagno nel giro di due minuti l’avrebbe fatta nel lavandino. Cerco di non incrociare il suo sguardo, sapendo di non riuscire a trattenermi dal prenderlo per il culo. Sono convinto che il signor Sventrax avrebbe assunto l’onere di difendermi. Così decido di iniziare a contare a testa bassa fino a quando non fosse arrivato il mio turno. - “When the moon is high…and the grass is jumpin’…” – canticchio con l’uccello in mano bello rilassato, spruzzando urina da tutte le parti tranne che nel buco della turca. In tutto quel putridume, non è il caso di dar il buon esempio. - “Allora, ti muovi!!” – un altro contadino ammazza galline sta sollecitando il suo turno. Ma me la prendo con calma notevole, devo svuotare completamente la vescica, in previsione di una bella scopata con la pseudo coniglietta natalizia del piano superiore. Rimango a scrollarmelo ancora un po’ (forse due minuti), suscitando sempre di più le ire della coda che si sta formando. - “Cazzo ragazzi, un attimo! Non siamo mica ad Auschwitz!! Mi ci vogliono più di dieci secondi..” – un tripudio di bestemmie mi investe, e un demente (anche con lui con una bottiglia di Beck’s in mano), guardandomi con aria stralunata mi dice: - “Cos’è Auschwitz?” – sgattaiolo fuori dal bagno mandandolo affanculo. - “Sei andato a tirarti una sega?” – anche Bollinger ormai è in preda al delirio. Il signor Sventrax discute animatamente con il padrone del locale. In seguito vengo a conoscenza che vent’anni prima si erano sparati per un banale diverbio, ma fortunatamente nessuno si era fatto male. Ora sono amici.
- “Power non hai ancora bevuto abbastanza…forza ragazzo, dacci dentro!! E’ finita anche questa!!” – non so il motivo ma inizio a fischiare, mentre un altro bicchiere (quanti saranno stati? Venti? O forse trenta..) di champagne scorre nel mio stomaco, e guardo il mio compagno di sventura flirtare di brutto con la babbina bionda. Cento a zero che da lì a due ore si sarebbe trovata nel tempio e, dopo un’attenta e approfondita visione di “Solaris” di Tarkowskij, le avrebbe sfilato le mutandine per poi sodomizzarla per bene. - “Allora, per la chiesa devo proseguire lungo questa strada, giusto?” – impreparato, con la testa altrove, faccio un’immensa fatica a muovere la mascella per risponderle, mentre sento lo stomaco esplodere, attraverso strani segnali. - “Eh….giustooo, poi allo stooop svoltii a sinistraa, tra mezz’ora ti aspettoooo davanti a un grande cancelloooneee, è casa…” – e lei, più fuori di me, senz’altro si è appena spizzata un grammo (ha le pupille stra-dilatate), annuisce frettolosamente senza nemmeno darmi il tempo di terminare il mio brillante discorso. E se ne va a servire un altro tavolo. - “A quellaaa le spaccooo il culoooo, ti ha per caso telefonato Silvia?” – sono in orbita e Bollinger torna a parlare con il Sig. Sventrax. - “Power, mi trovo tra mezz’ora con lei, l’ho invitata nella stanzetta…prima le faccio vedere un po’ di foto, poi metto su un bel film e le canto la canzoncina del Bollinger…” – vado in palla. - “Cazzooo, portami almenoo a casa…non riesco a reggermi in piedi..come faccio a scoparla?” – così accendo un’altra sigaretta, nella speranza di ripigliarmi, ma ormai mi sento irrecuperabile. Così ordino un cuba libre, nella speranza di riuscire a recuperare almeno il dono della parola. - “Sig. Sventrax, deve insegnarmi a tirare di box, sa devo difendermiiii dai malintenzionati….Jimmy…guarda che sfigato quello, non ce la fa più, continua a provarci con la mia camerieraaa…non sa che tra meno di venti minuti la infilzerò per bene!!! FORZAAA!!!” – traballo sullo sgabello, e trangugio in un fiato l’ultimo cocktail esplosivo, sperando in un effetto Niagara. Sfilo cinquantamilalire dalla tasca dei Jeans e li pesto in mano al cassiere, un tipo insignificante a cui non frega un cazzo dell’andamento della serata. La signorina tutta tette mi guarda strizzandomi l’occhio in segno di conferma e
inizio a pensare seriamente cosa sarei riuscito a farle. Dalla cintura in giù tutto si presenta silente. Nessun segnale elettrico di piacere, anzi, un profondo senso di staticità progressiva sta sfociando nel torpore più assoluto. Sogno il mio letto. La musica inizia ad affievolirsi e la nottata si prepara a chiudere i battenti. Bollinger si avvicina al bancone ruzzandomi con uno spintone, costringendomi a riaprire gli occhi. - “Cazzo Power, sei partito completamente. Stavi dormendo in piedi….andiamo fuori a prendere una boccata d’aria fresca…” – e io, come ferito da un proiettile: - “Ma sei fuori, sono tranzilloo…” – e m’infilo un’altra sigaretta (l’ultima del pacchetto) in bocca, avvertendo nel palato un odioso odore di bruciato, reso ancora più fastidioso dalle esalazioni dell’alcool provenienti dai meandri dello stomaco, ridotto peggio di un bidone dell’umido. - “Power, vai a letto e riposa che domani è Natale e devi pranzare serenamente con la tua famiglia. Per le lezioni di boxe fatti dare il mio numero da Bollinger, chiamami quando vuoi..” – stavolta non mi colpisce nessun pugno maldestro. Saluto Sventrax annuendo alle sue parole e stringendogli la mano con forza, nonostante faccio una fatica tremenda. Mi manca il fiato e sento il cuore nel cervello.
VIGILIA SECONDA PARTE
Sul piazzale della chiesa regna un gran freddo e l’orologio del campanile indica le tre meno un quarto, ma la cognizione del tempo nelle circostanze in cui mi trovo è un fattore puramente indicativo e trascurabile. Un gatto nero sbuca fuori da un cestino pieno di immondizia puzzolente, avvinghiando tra i denti una testa di pesce fritto completa di occhi stralunati. Sto appoggiato alla colonna del mio cancellone, scrutando le finestre di casa. Sembra apparentemente tutto tranquillo, nessuna luce e movimento sospetti. La piazza è deserta. Una bomba atomica scoppia dentro di me. In un istante inizio a vomitare di tutto, una fitta lancinante traa i miei intestini, centrifugando quello che ho mangiato, bevuto e fumato. Rigurgito un fiume di poltiglia biliosa e sanguinolenta. Sputo fiotti verdastri e fumanti, pezzi di crostini inzuppati di cubalibre si stagliano sul selciato come cemento a presa rapida. Non riesco a prendere respiro, la bocca si è trasformata in una canna aperta. - “O cazzo, sono proprio messo male…” – commento percependo un puzzo fetido e impastato. Ancora un fiotto atomico e faccio fatica a riprendere fiato. Sento il ronzio di una smart in Via S. Ambrogio avvicinarsi lentamente. Deve essere la troietta che rispetta l’impegno preso. Mi scosto dall’abbondante pozza di liquame, pulendomi le scarpe insudiciate con un Kleenex stropicciato che ho nella tasca posteriore dei jeans. Respiro profondomente più volte, percependo nelle narici un intenso odore di sangue, nella speranza di essere presentabile. Cerco di rimettermi in piedi, ma un altro conato doloroso mi costringe a piegarmi di nuovo in due dal dolore, così da sputare di nuovo per terra del liquido maleodorante stavolta bluastro.
- “Porca puttana, ma basta!!” – scorgo a una cinquantina di metri una smart blu e nera (la solita povera Crista) avvicinarsi cautamente. Con il fazzoletto sudicio detergo gli angoli dalla bocca inzaccherati e crostosi. Un eroinomane sul punto di andare in coma per una dose tagliata male stava meglio di me. Tremante mi rizzo in piedi, cercando di assumere una postura normale, domandandomi se forse non sia il caso di rinunciare all’imminente incontro e andaremene a letto. In fondo la mattina seguente avrei dovuto presentarmi bello brillante per festeggiare il Santo Natale insieme alla mia famiglia. Ma non me ne frega un cazzo. Di bambino in me non c’è più neanche la minima ombra. Così la smart si ferma davanti al Power stremato. - “Scusa, ma ho dovuto aspettare che mi pagassero la serata…” – il mio morale si sta sgretolando, avrei voluto chiederle quanto avesse guadagnato per dare retta a tutti quei coglioni che hanno affollato il locale, ma mi limito a dirle con un filo di voce impiastrata: - “Non preoccuparti, ne ho approfittato per fumarmi una sigaretta e prendere una boccata d’aria. A proposito, spostati avanti lì per favore, non vorrei che si svegliassero i miei…” – scusa del cazzo, ma non è il caso che si accorgesse dello schifo che ho lasciato sull’asfalto. - “D’accordo…” – la smart prosegue parcheggiando davanti al portone della chiesa. Lo stomaco sembra essersi calmato, anche se in bocca permane un fetore acido e fastidioso, scaturito dalla bomba di succhi gastrici scatenata ingurgitando tutto quell’alcool. - “Che bel calduccio, si sta proprio bene…non pensavo avesse un abitacolo così grande…” – la temperatura raggiunge tranquillamente i venti gradi, e, guardandomi nello specchietto, una maschera di dolore ha preso il posto del mio splendido viso. Gli occhi, cisposi e infuocati, infossati nelle occhiaie violacee, riescono a mala pena a stare socchiusi. Il pallore è devastante, e sento le labbra anestetizzate. La povera scema inizia a infilarmi la lingua in bocca, sfiorandomi il naso con le sue guance bollenti, sbottonandosi la camicetta bianca con ricamata la scritta del locale in corrispondenza del taschino in cui si infila il blocchetto per le ordinazioni. Che pena, anche stavolta il solito gioco “Baciamoci e tutto andrà meglio”, e mi prende in mano il cazzo molle come una cicca americana masticata per ore.
- “Non ci sto più dentro….” – se lo infila in bocca, cercando in tutti i modi di tirarmelo dritto. Ho esaurito le mie forze, così inizio a pensare al culo di Silvia, e percepisco che mentre me ne sto in compagnia di questa sfigata, Lei se lo sta facendo sfondare da qualcun altro. Ma, come può essere possibile? Dice che mi ama. Finalmente il sangue affluisce, e, infilandole per bene la mano nelle sue mutandine (rosse con i fiorellini bianchi), comincio a sditalinarla per bene. Scavando dentro con il dito medio (strabagnato), sussulti di godimento, ovattati dall’ingombrante presenza del mio uccello (strabagnato), provengono dal cavo orale della signorina. Con la mano destra inizia ad aprirsi le chiappa, allargando ancora di più la era rasata. - “Apprezzo molto la cura che hai nel depilarti…” – le strapazzo con la lingua il capezzolo bello polposo. - “Apprezzerei tanto che me lo infilassi…non senti come sono bagnata…” – mi domanda sempre più sconvolto come mai non si sia accorta del mio fiato osceno. O è più ubriaca di me, oppure la voglia di prenderlo a sopra a tutto. Il mio pensiero si concentra su cosa Silvia sta facendo nello stesso momento in cui mi accingo a inculare una poveretta sulla sua Smart. E la visione della sua espressione mentre gode con me prende il posto del viso sciatto della cameriera. La dolorosa sensazione che un altro cazzo diverso dal mio la penetri facendole strabuzzare gli occhi di piacere mi fa impazzire. Non mi rendo nemmeno conto di avere sopra di me una ragazza abbastanza carina in preda al piacere più sfrenato. - “Cazzo che bello, come ce l’hai duro, ah ah ah….” – chissà se suo padre l’avesse vista in tale condizione, cosa avrebbe pensato. Così, nonostante mi ritrovo al posto dell’uccello una manganello in acciao temperato, dopo che mi ha cosparso la cappella di umore orgasmico, lo sfilo e glielo piazzo per bene nel posteriore, lucido e scivoloso. - “Non ti scoccia vero?” – non si cura nemmeno della mia cortese domanda. Se lo spinge dentro fino in fondo, gemendo di piacere e sditalinandosi per bene il clitoride, urlando sempre più. Decido così di allacciare le sinapsi. Mi lascio andare. Le cospargo di sperma il buco del culo, e, dopo averlo sfilato utilizzo la
sua camicetta ricamata per pulirmelo e asciugarmelo. - “Cristo, mi hai fatto godere una cifra….” – sentenzia con gli occhi neri sbavati di mascara, le guance arrossate, sciatta e sbrindellata nella miss da lavoro. Cerco di collegare ancora un attimo il cervello per formulare il gentile congedo. - “Anche tu, cara, sei…, ehm, come dire, stata veramente performante….ecco sì, performante, è il termine più adatto. Possiamo rivederci qualche volta, che ne dici?” – è l’ultima cosa che mi a per la testa. - “Certo! Abiti lì, vero?” – indica il cancello di casa mia. Non ha capito proprio un cazzo, poveretta. Non mi allaccio nemmeno i jeans, sintomo eloquente che non ce la faccio proprio più. - “Sì, hai una penna e un foglietto, così ti lascio il mio numero di cellulare…? Che ne dici, magari in queste vacanze possiamo vederci con più calma, potremmo organizzare con la tua amica e Bollinger, ti andrebbe?” – che recita assurda e senza senso, ma mi spiace immensamente essere scortese, data la sua estrema generosità. Lei sorride di gran piacere, porgendomi una penna del locale con annesso il corrispondente taccuino. Celermente le lascio il mio numero di cellulare, congedandomi il più in fretta possibile. - “Tesoro, ecco. Sì è fatto veramente tardi, domani ho il pranzo di Natale con tutta la famglia, sono esausto…” – la bacio sulla mano, come una cortigiana del cazzo, chiudendo dietro di me la portiera della sua Smart, senza nemmeno sentire i suoi saluti. Tanto sono tutte parole inutili.
VIGILIA TERZA PARTE
Uno schiaffo (il primo di una lunga serie) mi colpisce sulla guancia destra senza provocarmi nemmeno il minimo dolore. A seguire altri due, così forti da rintronarmi e mandarmi molleggiato vicino alla sedia a dondolo, sulla quale appoggio il culo nudo. Sono talmente all’aria che non ho neanche tirato su i jeans intrisi di sperma fresco. - “Ma come ti sei ridotto, imbecille!! Ho chiamato i carabinieri e l’ospedale, sono le sei meno un quarto!! Dove cazzo sei andato, tu e quell’altro demente… Cristo, è la vigilia di Natale, ma non hai nemmeno, cazzo, dico un minimo di coscienza?! Sei uno stronzo, un figlio come te non me lo meritavo!!!Puzzi come un ubriacone della stazione Centrale, e sei in mutande, ma che cazzo hai combinato, pezzo di sciagurato cialtrone.” – mia madre è fuori di sé. Rido. Isterica e con le lacrime agli occhi, mi sta completamente ricoprendo di schiaffi e pugni. Non sostengo una scena simile, la testa mi gira così velocemente che la figura della mia castigatrice mi si presenta davanti nel riverbero dell’alba, che illumina tenuemente il salone, in dieci modi diversi, uno più isterico dell’altro. - “Ehm, cazzo mamma, ero qua sotto, con una cameriera sopra…il cellulare era scarico, dai smettila, mi rovini il trucco…” – e un’altra sciabolata arriva a scardinarmi il naso. - “Cazzo, questa mi ha fatto male veramente….come mai non c’è anche il papà? Vuoi che lo vada a chiamare, almeno così si sgranchisce anche lui un po’ le articolazioni e prendo due piccioni con una fava…a proposito di fava, aspetta che mi allaccio i jeans, così la mia non spicca il volo…” – e giù un’altra legnata. - “Chi è stavolta la puttanella? Una che fa la cubista? Oppure qualche drogatella che hai abbordato raccontando le tue solite stronzate sui soldi e sul successo? Ma che cazzo vuoi che ci creda alle puttanate che racconti? Non riesci a dare neanche un esame all’Università? Vergognati, non voglio nemmeno che tuo padre ti veda in questo stato, non voglio che subisca traumi, dopo quello che ha ato. Vergognati, sei una vergogna!!!” - e assesta un’altra battuta. Cado sul
pavimento senza trattenermi. - “Ci sei andata quasi vicino, fa la cameriera, ed è una gran troia succhiacazzi… dubito che sia laureata…però vorrebbe rivedermi….” – mi alzo, diretto verso il bagno, realizzando che mi sto pisciando nei boxer. - “ Dove vai, brutta testa di cazzo, è tua madre che ti sta parlando!!!” – mi limito a proferire le ultime parole: - “In bagno, altrimenti ti piscio sul tuo costoso tappeto, e poi voglio vedere chi lo pulisce. E poi a letto, perché non mi reggo più in piedi…auguri di Buon Natale…” – mi rifugio nelle mie stanze. - “Scervellato!! Domattina vedi come ti sistemo…” – sparisco.
CONSIDERAZIONE
Il Natale, nonostante le legnate prese da mia madre la notte della vigilia, trascorse nella serenità più dolce e completa, scandita da un interminabile pranzo, a base di ravioli di carne con burro e salvia, crostini di salmone, champagne, panettone guarnito con crema ai canditi e frutta secca, interrotto solamente da una breve sosta per il tè delle diciassette con sottofondo musicale di Errol Garner, e ripreso da un’altrettanta prolissa cena, ancora a base di ravioli (in brodo), salmone (spruzzato con il limone), panettone e champagne. Per il bene del mio stomaco decisi di terminare il banchetto durato un giorno intero con una fetta di ananas fresco, perfettamente maturo.
L’ABBRONZATURA E’ FONDAMENTALE
Ed ecco il trentuno dicembre millenovecentonovantotto. Lei non si era fatta più sentire, nonostante avessi provato a telefonarle ininterrottamente sia con numeri schermati che con il mio ufficiale trovando sempre quella cazzutissima voce robotica della Omnitel che mi ripeteva sempre lo stesso messaggio: l’utente da lei chiamato potrebbe avere il cellulare spento od essere irraggiungibile. Fumavo in continuazione di nascosto e da lì a dodici giorni dovevo dare l’esame di finanziaria, unica possibilità per dimostrare ai miei di valere qualcosa, cercando così di offuscare la mia figura di protagonista di nottate festaiole, che costituivano il mio unico, apionato e vero divertimento. Stavo dimagrendo alla velocità della luce, effetto della creatina e di un ritrovato americano alle anfetamine presentato sottoforma di pastiglie dietetiche-energetiche che mi sparavo ogni mattina insieme alla spremuta d’arancio. La cosa mi allettava parecchio, visto la definizione dei miei addominali, mattonelle di cemento ricoperti da un sottilissimo strato di epidermide. Distrutto dalla mancata conferma della nottata prestabilita e tanto attesa in compagnia di Silvia e di una buona bottiglia di Champagne, mentre mi sparo un lettino abbronzante alla massima intensità dopo essermi fatto un bagno rilassante (sono nevrastenico), chiuso nel cesso, realizzo di dovere festeggiare l’entrata nel nuovo anno senza nessuna compagnia femminile, a letto, solo con il mio uccello in mano. Tre squilli dello startac mi segnalano l’arrivo di un messaggio. Mancano ancora dieci minuti al termine dell’abbrustilimento totale. Devo essere costantemente super abbronzato, anche perchè ultimamente le occhiaie stanno diventanto sempre più visibili, e non voglio assolutamente essere paragonato a un panda stanco che si arrampica su una cazzo di pianta di bambù rinsecchita. Non conosco ancora il testo del messaggio, nè tantomeno il mittente, ma ormai non me ne frega un cazzo, spero solo che la mia melanina reagisca a dovere. Il pensiero di stare sotto un’altra mezz’ora mi balena nel cervello, ma decido di non esagerare. Di notte ho già abbastanza incubi.
Sgattaiolo in camera come un ladro, mentre mio fratello si diletta con i “Les Adieux “ di Beethowen. Non ho voglia di commenti sullo stato del mio corpo, molto simile a quello di un pellerossa, ustionato e lucido di crema senza filtri. - “Amore mio, mi spiace molto, ma mio padre ha scoperto tutto e mi vieta di tornare a Milano fino a dopo l’Epifania. Sono mortificata, ricordati che ti amo. Silvia.” – non voglio sapere altro. Provo rabbia e incredulità, e un filo di bava va a bagnare il display illuminato di verde. Bestemmio ad alta voce, e mio fratello s’interrompe sul finire di un arpeggio, manifestando la sua indignazione alle mie imprecazioni. - “Non rompermi il cazzo anche tu, ti consiglio di andare avanti a suonare.” – e così fa appena mi vede solo con i minislip e le vene delle tempie gonfie come quelle di un toro incazzato nero. - “Scoperto che cosa? Sono un delinquente? E’ minorenne e non può decidere autonomamente di prendere un treno e venire a Milano di sua iniziativa? Ti amo? Ma non gli aveva raccontato di noi due?” – decido di non rispondere al suo messaggio. Aggrotto le sopracciglia cercando di riflettere e di trovare una soluzione per calmarmi. Torno sotto al lettino un’altra mezz’ora, ma sento un gran freddo, e la lampada non riesce a scaldarmi, nonostante rigagnoli di sudore colano copiosamente sul petto lucido di crema superabbronzante. Mi sta scoppiando il cervello. Sento bussare alla porta del bagno, e molto tranquillamente e con tono gelido, domando chi invade i miei momenti di relax. - “C’è tua cugina in linea, chiede di te, cosa le devo dire?” – i cordless sono fatti apposta per essere utilizzati senza muovere di un centimetro il culo da dove ci si trova, limitando lo sforzo dei movimenti ad un valore pari a zero - “Se forse mi i il portatile, magari le rispondo…” – proseguo con voce monocorde e ipnotizzata, avvicinandomi con il viso oltre la soglia massima consigliata. Affero l’apparecchio - “Pronto. Ciao cara, come stai?” – sento mia madre farfugliare le solite
stronzate sul melanoma e sul pericolo indotto dalle lampade abbronzanti, ma non ci faccio nemmeno caso. - “Bene. Stasera allora sei a festeggiare con Miss Università?” – sembra una presa per il culo. - “Lascia stare, non faccio niente. Voi?” – sicuramente non se ne sarebbero state con le mani in mano. - “Facciamo una festa in capannone, con cena e quant’altro, se vuoi venire, dillo anche a tuo fratello. Poi si balla, si inizia dalle ventidue in poi…ci sono anche le cubiste.” – non avrei retto tutta notte con lo sguardo rivolto verso il soffitto, rimuginando sul messaggio senza darmi una spiegazione. Al momento non possedevo la lucidità necessaria per un ragionamento che filasse, anche se, a dir la verità, in quegli ultimi giorni dell’anno il mio cervello stava andando completamente a rotoli. Era arrivato il momento di inziare a capire. E così fu.
ULTIMO DELL’ANNO
La malcapitata me lo sta succhiando mentre ho ancora la bocca impastata di coca e champagne. Confesso che secondo i miei parametri ho sul mio cazzo un gran cesso, ma sono talmente all’aria che appena scaduto il conto alla rovescia di mezzanotte, tutti i presenti, presi dall’euforia generale, si sono abbracciati e baciati speranzosi in attesa di un anno migliore. E a me è capitata questa. Chemmerda. Siamo imboscati negli spogliatoi dove gli operai di mio zio si cambiano la mattina per poi andare a tirare i fili elettrici. C’è puzza di buccia di banana marcia e sigarette bruciate e Sweet Dreams degli Eurythmics risuona al piano di sopra mentre tutti gli invitati, metà strafatti, ballano senza un ordine ben preciso. Come ben venuto, mio zio si è sicuramente premurato di distribuire pezzi di coca a tutti i suoi collaboratori, e quando è stato servito il secondo da filippine barcollanti (fatte anche loro?) quello con le pupille nella normalità clinica era solo mio fratello. A inizio serata, durante la cena a base di salmone (ancora!) e Moêt Chandon, avevo messo gli occhi addosso a una gran figa russa, stranamente dai capelli mori e gli occhi scuri come la pece. Ma il suo ragazzo, un impresario teatrale, pieno di coca fino al buco del culo, mi guardava incazzato nero, e, visto che il suo braccio palestrato somigliava tanto alla mia gamba, ho deciso di evitare l’abbordaggio. La gente presente, parassiti di un mondo irreale e parallelo, vivendo la vicinanza con attori e rockstars, non è in grado neanche più di riconoscersi davanti allo specchio. Tutti si atteggiano a divi post performance stellare da incassi record. E invece ho a che fare solo con sbroccati squattrinati. Quella che si sta dando da fare con me lavora part time a fianco di mia cugina, e come lei, sembra appena tornata dai carabi. Oltre ad essere lampadata, a forza di andare avanti e indietro con la testa, mi sta sbavando il bordo della camicia bianca (Armani Borgonuovo) con la terra che si è sparata in viso per sembrare ancora più abbronzata. Non succhia un gran che, ma dopo averle fatto ingurgitare tre cocktail di cui la percentuale di Absolut era pari all’ottanta per cento dell’intruglio e tirare un grammo di polvere del diavolo non riesco più a
scollarmela di dosso. E di ballare con un mezzo cesso di fronte a tutti, soprattutto davanti a quella stronza russa, non era proprio il caso. Ma visto il brutto tiro che Silvia mi ha giocato, di are la nottata a pensarla cercando di capire il significato del messaggio lanciatomi in extremis, è giusto che mi svagassi con la prima troietta che mi sarebbe ata sotto le spazzole. Vedendola darsi così da fare provo una gran pena, e non so nemmeno se sfilarle le mutandine o limitarmi a riempirle per bene di panna fresca la sua bocca dalle labbra fini e irritanti. Stranamente non mi tira neanche come si deve e la consistenza da lei percepita è tranquillamente analoga a quella di una Big Bubble masticata per ore. Ma, visto l’andazzo al piano superiore da operetta grottesca (si è ati alla tombolata), e il mio stato poco vigile, trovo molto più comodo e piacevole starmene tranquillamente seduto a farmelo succhiare da una cagnetta in calore. Noto che vuole alzarsi per andare oltre (per caso cerca di mettermi la lingua in bocca?) ma sento nello stomaco un grande immondezzaio, così la costringo a stare con la testa bassa trattenendola con la mano, spingendoglielo in bocca fino quasi a farla soffocare. Il colore del suo viso si sta alterando leggermente per diventare bordeaux, e, senza volerlo, inizio a sorridere senza motivo, ma non si accorge. Ma che cazzo sto facendo? Guardo il Daytona che segna le due e venti, e, computando al volo, realizzo che me lo sta succhiando da ormai un’ora e mezza, e il solo pensiero di sditalinarla mi fa venire il vomito. Così le sborro in bocca, lasciandola finalmente libera dalla mia morsa e, tra un gemito e l’altro, mi abbottono la camicia facendole notare stizzito le macchie di fondotinta impresse sul costoso tessuto. - “Ma stai scherzando?” – dice pulendosi la bocca con un fazzoletto rosa di carta afferrato da una borsa taroccata Luis Vuitton. - “Non credo proprio…” – le rispondo, imboccando la scala che porta al piano superiore, senza neanche voltarmi per salutarla. - “Dove sei stato? Ma che faccia hai? Sei tutto spettinato…” – mi domanda mio fratello, vistosamente alticcio, il che è un evento eccezionale, alla pari di un asteroide sul suolo terrestre. - “Dammi qua…avevo bisogno di scaricarmi…a proposito, se dovesse attaccar bottone la segretaria di tua cugina evitala…niente male, chi te l’ha preparato?” –
intanto “Club Tropicana” rallegra l’ambiente e mio zio con il suo tirapiedi, Rafaèl, travestiti da gallo cedrone, ballano strafatti e senza ritmo. - “Cazzo, fanno ridere però. Auguri Antonio..andrà meglio quest’anno?” – di colpo sono travolto da una grande tristezza, e le lacrime mi riempiono gli occhi, e, anche se non è mia intenzione farmi capire da mio fratello, lui se ne accorge lo stesso, ma fa finta di niente. Per concedermi il tempo di ripigliarmi (devo, altrimenti sarei scoppiato davanti a tutti) va al bar a prendere da bere. - “Auguri, è il caso di brindare con dello champagne. Cerca di are l’esame, la mamma e il papà sono preoccupati, è per questo che ti stanno così addosso.” – so benissimo quanto ci tengono. Ma quell’incontro mi ha cambiato la vita, e sto andando alla deriva. - “Non potevi laurearti il giorno dopo?” – e trangugio in un fiato tutto il vino. - “Come?” – strabuzza gli occhi incredulo. - “Fa niente, un giorno ti racconterò…andiamo a bere ancora, tanto qui sono tutti completamente andati.” – lo prendo sottobraccio facendoci largo tra gli ubriaconi danzanti. Alla mia destra, mentre aspettiamo altre due coppe di champagne, si avvicina la troiona russa, sprovvista di manico, fattissima, con le mani tremolanti che a stento riescono a reggere un Absolut tonic. Non mi curo minimante della sua presenza, e rivolgo lo sguardo verso mio fratello, cercando, se possibile, di non calcolarla minimamente. - “Allora, bel biondone, come stai? Ti ho visto in magazzino mezz’ora fa con la segretaria di Nando, sei proprio un porco!!” – tuona in una risata irrefrenabile. - “Non è il magazzino, sono gli spogliatoi, e poi non è la segretaria di Nando, è quella di Laura, e lavora solo part time. E tu, perché non ti fai i cazzi tuoi? Forse lavori per il Kgb?” – mi volto di nuovo verso mio fratello, cercando disperatamente una sigaretta. - “No, è che dovevo andare alla Toilette, ed ho sbagliato strada…” – guarda caso si sta accendendo una Malboro Light, così, abbozzando un misero sorriso, gliene domando una.
- “Ma certo, anche se dovresti andare a chiederla a quella che te lo stava succhiando pochi minuti fa….” – ride di nuovo accendendomela con uno zippo in acciaio troppo grande per lei. Così mi viene in mente il suo manico momentaneamente assente. - “Scusa Antonio, la sistemo in un attimo. Ma il tuo fidanzato dove si trova in questo momento? Più che un impresario teatrale assomiglia molto a uno appena sbucato di galera, capisci? Prigione? Siberia? Tanto freddo? Magari volevi esserci tu al posto di quella, mezz’ora fa, o sbaglio?” – quella testa di cazzo mi si butta addosso senza smettere di ridere e non capisce nemmeno quello che dico. Ha le pupille completamente nere e dai capelli scuri folate di Escape allietano il mio olfatto. - “Per essere scema come una capra usi un buon profumo, complimenti. Ora è il caso che ti scansi, se vuoi evitare che il sottoscritto si faccia male andando a sbattere contro un pugno del tuo spacciatore.” – e infatti lo stronzo sta arrivando, così mi volto e riprendo a parlare con mio fratello, evitando di incrociare il suo sguardo. Non sono in grado di sostenere una discussione con una testa di cazzo analfabeta appena uscito di galera. Al polso porta un submariner braccialato in oro giallo con fondo blu, davvero un orologio di categoria, e dalla tasca dei jeans pende un portachiavi Mercedes. - “Spostiamoci perché non voglio rogne con quell’elemento, non m’ispira fiducia…” – sarebbe bastata una parola sbagliata e sicuramente mi avrebbe completamente demolito, lasciandomi per terra esanime. - “Scusa, avrei bisogno di parlarti un attimo, sei il nipote di Nando, giusto?” – troppo tardi. Non è che non volevo discutere con lui, ma proprio non ce la facevo, la stanchezza che mi accompagnava da una settimana si era svegliata di colpo, e come la mantide femmina divora il maschio più debole ecco che mi sento attanagliare lentamente dal fantasma fisiologico che prosciuga lentamente le forze, rendendomi gli occhi pesanti e ancora più arrossati. - “Sì, sono io, mi dica.” – attendo. - “Venga un attimo con me, scusi, le rubo un attimo suo fratello, glielo riporto subito.” – con le ossa rotte e un braccio spezzato, penso. Torniamo nello spogliatoio, lui innanzi a me, e noto nel punto in cui la segretaria me lo ha succhiato per bene dei kleenex stropicciati sparpagliati per terra. La
cosa non mi tocca minimamente. - “Che ne dice della mia ragazza? Ho visto che stavate socializzando parecchio su di sopra al bar, o sbaglio? Non è di sicuro paragolanbile a quel cesso che ti sei portato un’ora fa qua sotto, giusto?” – si rivolge dandomi del tu e ciò mi infastidisce parecchio. - “Le ho chiesto se poteva per favore offrirmi una sigaretta, e questo non le è dispiaciuto per niente.” – cazzo sembra Mike Tyson, la camicia bianca aderisce completamente al corpo ultrapalestrato e ultrabombato, la faccia scura, squadrata e immobile dista dalla mia non più di trenta centimetri, con gli occhi incollati ai miei. Non ho la minima intenzione di abbassare lo sguardo. - “Ne vuoi un’altra? Ma sì dai, così sciogliamo la tensione.” – continua a fissarmi, accendendosi una Malboro Rossa che m’infila tra le labbra con un gesto estremamente naturale. Si vede che è abituato a fare scenette simili. - “Per me poteva essere quella una stra figa e la tua tipa un gran cesso pieno di coca fino al buco del culo. Dipende dai punti di vista. Se vuoi puoi chiamarla così chiariamo che è stata lei a finirmi volutamente tra le braccia. Magari ce lo succhia a tutti e due, non credo si tiri indietro. Dovresti tenerla di più al guinzaglio. A propostito bell’orologio, un po’ da arabo ma complimenti, niente male davvero.” – tiro una bella boccata, sbuffandogli il fumo in faccia. So che può spaccarmi la testa con un solo pugno, ma non mi va di essere preso per il culo il primo giorno dell’anno. Al piano superiore il dj sta girando “It’s only love” dei Simply Red. - “Cazzo, sei spiritoso, ma Katya non è la mia fidanzata. Diciamo che lavora per me. Veniamo al dunque bello, vedo che anche tu non disdegni la polvere magica e le belle donne. Oltre a occuparmi di teatro, che è il business primario, ho un’attività parallela che, ehm, diciamo, occupa meno tempo e rende molto di più. Ti parlo in tutta franchezza perché conosco bene Nando e mi piaci, sei un figo, un brillante e si vede che ami la bella vita. A proposito, complimenti anche a te per il tuo di orologio, di gran classe.” – è bastato un colpo d’accendino per impersonificare la gentilezza in persona, e non ci vuole molto per capire Così mi rilasso e ascolto tranquillo quello che mi sta per dire. - “Faccio quello che posso. Sentiamo, cos’hai da propormi?” – certe persone riescono a mutare personalità molto facilmente. Questo idiota di primo impatto
ha voluto intimorirmi, e sicuramente non bisognava fargli girare i coglioni più del dovuto, era chiaro che poteva ammazzarti di botte in qualsiasi momento, ma non era il suo scopo. Tutta quella messa in scena con la battona di turno era per venire a propormi il suo campionario di droga e mignotte. Ma con me stava sfondando una porta chiusa. Non avevo una lira, nonostante mi presentassi come un principe ereditario. Già di soldi ai miei ne fottevo abbastanza, ci mancava che mi lanciassi con qualche altra stronzata delle mie diventando un tossico puttaniere. - “Non è male Katya, vero? Bene, ne ho altre venti meglio di lei da farti visionare. Bionde, brune, rosse, rifatte e non, tutte delle grandissime strafighe. Ovviamente sono disponibili al cento per cento, e non è che dopo una scopata ti mandano affanculo, stanno con te tutta notte. Ovviamente dentro la borsetta hanno dinamite pura, intendi? Ah, eccola qua la star della serata!” – di nuovo quella testa di cazzo mi si getta addosso mentre succhia un lecca lecca al lampone. Ancora m’investe il suo profumo. - “Intendo perfettamente, complimenti hai senza dubbio un bel giro. Il quibus per il il servizio completo?” – la signorina m’imfila la mano nei boxer stringendomi il cazzo già duro. - “Tesoro, guarda che non l’ho nemmeno lavato, potresti prendere delle malattie..” – irrefrenabilamente scoppia a ridere, iniziando a menarmelo di gusto. - “Diciamo che stasera te la regalo come assaggio, poi se hai bisogno, diciamo…visto che sei il nipote di Nando, con un milione possiamo starci dentro. Questo è il mio biglietto da visita, ora torno sopra, ho un paio di contratti da chiudere. Mi raccomando, il discorso vale anche per tuo fratello.” – mi abbraccia fraternamente. Sul biglietto, in carattere Courier New, c’è scritto: “ Alvaro Bonanno Manager Teatrale”, e a seguire solo il numero di un cellulare. - “Grazie a te, Alvaro, senz’altro ci sentiremo presto.” – e scompare. La signorina intanto si è messa a novanta con i jeans calati lasciando in bella vista il perizoma rosso, le braccia distese sul tavolo cosparso di pinze, attrezzi da lavoro e ritagli di gomma piuma. - “Sei molto allettante, davvero, ma non sto tanto bene, ho esagerato. Non prendertela male, ma se vi facevate avanti a inizio serata, le cose potevano
andare in un altro modo. Ora sono completamente scarico. Non fraintendere, sei davvero una gran figa, ma sai perfettamente che ho già dato. Puoi tirarti su i jeans, scusami molto, c’è mio fratello che mi aspetta.” – ritorno al bancone del bar dove mia zia parla amabilmente con Antonio, e non è vero che mi sento esaurito, ma la mia mente per un attimo è volata a Silvia e la coca e lo champagne hanno esaurito il loro effetto benefico e confusionale. Se in tasca avessi avuto un milione, senza neanche pensarci l’avrei barattato con Bonanno per un po’ di dinamite, solo per dimenticare quegli ultimi giorni di attesa, la sua mancanza e quel messaggio inspiegabile. - “Bel personaggio il vostro amico Alvaro Bonanno, davvero. Ma che cazzo di nome gli hanno dato? Ha tanto lavoro?” – domando a mia zia, sfatta e ridicola nei suoi occhi al botulino mentre trangugia golosamente un margherita alla fragola. - “Ma che tanto lavoro, è un pappone del cazzo. Lui deve dei soldi a noi, per i contatti che gli procuriamo. Ha tentato di farti scopare quella battona con cui è venuto?” – è strano come tutti sanno sempre le cose e te le dicono sempre dopo. - “Certo, mi ha anche proposto di diventare suo cliente abituè per la modica cifra di un milione, “servizio all inclusive”, coca e troie in un colpo solo. Ha una scuderia di venti puledre da urlo. E siccome sono vostro nipote, pratica un prezzo amico. Un vero affare, non vi sembra. Mi può fare un gin lemon? Con molto gin, grazie.” – mio fratello stranamente fuma una sigaretta, e non dico che la cosa mi faccia piacere, ma almeno mi rendo conto che anche lui è umano e possiede un minimo di vitalità. Non dico niente, non sta facendo nulla di male. I sensi di colpa non esistono, è la morale comune che li impone. Se fai qualcosa di sbagliato allora paghi. Non è assolutamente vero, sono solo rigidi schemi mentali, artificiosamente imposti da noi stessi. - “E’ un testa di cazzo, lascialo perdere, quella addirittura è sieropositiva, si fa anche le pere. Altro che scuderia, fa battere solo lei, non ci sarai mica andato insieme?” – sudo freddo. Alla parola sieropositiva, decido di scolarmi in un colpo solo il cocktail che ho appena ordinato. E non ho nemmeno i preservativi con me. Confesso che ero sul punto di infilaglielo dritto su per il culo, avevo una gran voglia. Ma la depressione, forse il down improvviso mi aveva fermato. Se una situazione del genere mi fosse capitata in qualsiasi altro momento, anche di sanità mentale, mi sarei sentito il numero uno, facendola gridare di piacere.
- “Ero quasi sul punto…ma che cazzo mi vieni a raccontare? Quella sieropositiva? Ma l’hai vista bene?” – mia zia sbuffa stufata. - “Batteva sulla strada, poi l’hanno presa a lavorare in un locale di lap-dance. Era la più gettonata, arrivava a fare cento pompini a notte, e chissà cos’altro. E una sera, c’era anche quel demente di tuo zio, per festeggiare la prima di non mi ricordo bene quale pièce, sono andati nel suo locale, e quel drogato del cazzo si è innamorato di lei. Ora non hanno una lira, non farti abbagliare dall’orologio e dalla marcedes, sono tutti monili in prestito. La fa battere con chiunque, spartendosi il ricavato poi tra di loro. Sono dei parassiti del cazzo.” – per fortuna quel cesso di segretaria mi ha salvato il culo. La baracconata termina verso le sette di mattina, e per tornare a casa faccio guidare mio fratello. Sono esausto, non ne posso più. Le strade si aprono deserte e da un bosco nei pressi di Montevecchia spunta fuori una volpe, che si pianta in mezzo alla strada. Ci arrestiamo guardandola in silenzio mentre si avvicina alla mia portiera. Per un attimo alza il muso incrociando i suoi occhi giallastri con il mio sguardo, per poi scomparire scodinzolando nel vicino campo. Fa molto freddo, e il sole sta spuntando dietro la collina. Regnava una calma metafisica. Era il primo gennaio del millenovecentonovantanove. Così ebbe inizio il peggiore anno della mia vita.
RISTABILIAMO I CONTATTI
Le feste finirono, ma non per me. A sette giorni dall’esame continuavo a far finta di darmi da fare con gli esercizi e le dispense, chiudendomi a chiave in camera tutti i pomeriggi come un vero secchione. In realtà, rincoglionito dalle inderogabili nottatacce (uscivo anche senza un preciso motivo, solo per rifilarmi in qualche bar a bere e fumare di nascosto), dormivo la maggior parte del tempo, diciamo, dalle due alle tre ore, riservando a malapena mezz’ora, che di solito mi serviva per ripigliarmi (ho sempre avuto la pressione bassa), per fare qualche esercizio sui determinanti. Gli unici che avevo imparato in cinque mesi. Non era nemmeno un centesimo del programma d’esame. Devo dire che negli ultimi tre giorni, forse guidato da una tenue e infinitamente microscopica ambizione, ci avevo dato dentro abbastanza, arrivando a risolvere diversi esercizi sulle matrici inverse e sugli autovalori. Certo, niente di che, ma almeno potevo sperare che mi andasse di culo, risicando un misero diciotto. Dopo il suo messaggio non ho avuto più sue notizie, e il mio Startac, a parte qualche telefonata ricevuta da Bollinger e le solite cazzate scritte dalle sciacquette di turno in cerca di momenti di conforto, era come se fosse spento. Non la cercai, nemmeno con il numero schermato per verificare se avesse il cellulare . Il pensiero del suo sguardo, della sua voce e di tutto quello che ci eravamo detti mi trapanava il cervello giorno e notte. Mangiavo poco o niente, e, bombato dalle stronzate che mi sparavo nello stomaco, non sentivo nemmeno un barlume di fame. Mia madre mi domandava continuamente se tutto andava bene e io, ogni volta, la rassicuravo dicendole che ero un po’ teso per l’imminente esame. Balle su balle. La sera del nove gennaio fuori nevischiava e faceva un gran freddo. Arrivò un altro messaggio, il secondo dopo quello incomprensibile dell’ultimo, che mi comunicava del suo imminente rientro a Milano. Precisamente recitava così: - “ Amore mio, capisco perfettamente il tuo silenzio, anch’io mi sarei comportata nello stesso modo, ma vorrei almeno poterti spiegare come sono andate le cose. Non chiedo una risposta subito, anzi non so nemmeno se mi risponderai. Però io
aspetto, perché ho davvero bisogno di te. Un bacio, Silvia.” – Come al solito mio fratello stava suonando (si esercitava negli arpeggi dell’ultimo studio di Chopin) e io mi rintanai nel cesso. Anche stavolta decido di non rispondere. Chiamo Bollinger, che costantemente aggiornato sugli ultimi avvenimenti già il due gennaio mi aveva consigliato di non farmi mai più sentire e di non cadere nei suoi inviti. - “Sono in videoteca, tra cinque minuti o a prenderti, vestiti…” – sono sollevato da questo invito. Non so con chi parlare, e sono sconvolto. Avevo pensato di andare a farmi un’ora di corsa, ma il freddo, intenso e tagliente, avrebbe potuto causarmi un mal di gola da guinnes dei primati, e la mia intenzione di presentarmi all’appello del dodici sta crescendo in me sempre più fermamente. - “Sono già vestito, quando sei qua sotto fammi uno squillo.” – il profumo di risotto ai funghi permea la mia zona notte, segno inequivocabile che nel giro di un’ora la cena sarebbe stata servita. - “Esco un attimo, c’è Bollinger che mi sta aspettando davanti al cancellone, torno tra mezz’ora. Buon profumino…” – mia madre sta per dirmi qualcosa, ma sgattaiolo fuori casa così alla svelta che non ci faccio caso. E infatti subito lo startac squilla istericamente. - “Dimmi…” – la brucio. Me ne sono stato tutto il pomeriggio in casa e, proprio nel momento in cui esco, improvvisamente ecco che deve parlarmi con urgenza impellente. - “Guarda che non ti aspettiamo per cenare, e, se il riso scuoce, poi fa schifo…ti saluto.” – risponde sintetica e irritata dal mio modo sbrigativo. - “Va bene…come si dice uomo avvis…cazzo si è pigliata proprio male.” – borbotta qualcosa d’incomprensibile. Stranamente, visto il tempo pessimo, si presenta con l’sl, e dal tubo di scappamento un fumo bianchissimo si propaga abbondantemente nel buio circostante. Il piazzale somiglia più a un campo deserto e la macchia di vomito lasciata da me la sera della vigilia risulta ancora visibile. - “Cazzo, certo che le strade le puliscono davvero bene…ciao Bollinger.” – ci dirigiamo verso Piazza Prinetti.
- “Andiamo a prendere un caffè? Fa un freddo allucinante…chissà che fine avrà fatto la cameriera della vigilia? La tua l’hai più sentita?” – percorriamo Via Baslini al rallentatore, il Comune ha avuto la brillante idea di inchiodare in una strada paragonabile a una mulattiera i dossi rallentatraffico. - “Che furbi, e poi si ammazzano sulla statale. In vent’anni che abito a Merate mai sentito di un incidente in questa via. Mi ha mandato un secondo messaggio, scrive che deve spiegarmi come sono andate le cose, e vuole vedermi. Ah, dimenticavo, mi chiama amore mio, come se fosse tutto come prima.” – spengo la radio, ho bisogno di silenzio. Ultimamente ne ho avuto ben poco. - “Ma come sei messo? Cristo, sei sconvolto, di sicuro non ti fa bene. E quanti sono? Tre mesi che la vedi? Ma poi sono anche stufo di ripeterti le cose…scendi che parcheggio.” – la piazza è deserta, solo la luce del bar offuscata dal nevischio risalta nell’oscurità della sera. Due signori anziani dal viso noto camminano tranquillamente verso le loro abitazioni, scrutando l’sl. Accennano un lieve saluto. Il saluto di quelli che nella loro vita hanno salutato troppe volte. - “Il mio consiglio, ma te l’ho ripetuto ormai non so più quante volte, è che devi lasciare perdere. E’ solo tempo buttato, l’università è ferma, non hai un soldo. E tutta la tua ambizione di sfondare nella finanza? Guarda che come Gordon Gekko non ci diventi se perdi la bava e il controllo per una figa straccia. Sono il primo a dire di non aver mai visto nulla di simile, ma dovevi limitarti ad andarci a letto e farla finita così. Invece ti sei, scusami se mi viene da sorridere, che è peggio di ridere, ti sei fidanzato. Fidanzato!!! Vedevi se mi tiravano un pacco della portata dell’ultimo dell’anno, altro che star qui a distruggerti per due messaggi del cazzo. Tanto lo so che la rivedrai, e so già che ti lascerai prendere per il culo ancora. Ma cosa vuoi farci, mi auguro che fra una decina d’anni rideremo di questa conversazione e di Silvia.” – una macchina dei carabinieri rallenta sotto la torre del castello. Entriamo nel bar. - “Hai ragione, ma voglio capire e sapere come stanno le cose realmente. Suo padre le ha proibito di salire a Milano perché dice che ha scoperto tutto. Ma cosa doveva scoprire? Sono un tipo a posto, senza problemi e sai perfettamente da che famiglia provengo. Mi ha trattato come uno straccione, e questo non mi va giù, come non riesco a digerire il fatto che per dieci giorni ha tenuto il cellulare spento, così, improvvisamente. E prima di partire mi aveva promesso che ci saremmo sentiti ogni giorno, e, t’assicuro, lo diceva in tutta sincerità. Due caffè Ambrogio, grazie.” – e ci accomodiamo a un tavolo.
- “Una volta stavo con una ragazza, una bomba, capelli ricci neri, tette più o meno come quelle di Silvia, forse un po’ meno grosse, comunque un fisico mozzafiato. Scopavamo dalla mattina alla sera, avevo più o meno la tua età e giravo con la serie S blu. Andavamo tutte le sere a cena a Milano e poi a ballare, tiravo le mattine a casa sua. Sempre a metterglielo dentro, da tutte le parti. Abitava da sola. Scopava così bene che non ho mai più provato le stesse sensazioni con nessun’altra. Ero innamorato di quella persona e i miei non erano d’accordo, mia madre aveva la convinzione che fosse una troia bugiarda. Non immagini le liti che sono saltate in famiglia, mio padre s’incazzava talmente tanto che mi lanciava una sera e una sera sì qualsiasi cosa avesse tra la mani. Una volta addirittura un pollo intero. Lo ha preso dalla teglia prima che la cameriera lo infornasse e per poco non mi prese in testa.” – sto a sentire, ma non mi interessa più di tanto. Non è detto che quello che gli era capitato sarebbe dovuto accadere per forza anche a me. Così annuisco con la testa mostrandomi attento. - “Sì Bollinger, e com’è andata a finire?” – ci viene servito il solito caffè all’uovo. - “E’ inutile che fingi, ti conosco, non te ne frega un cazzo di ciò che ti sto raccontando, ma non perché sei disinteressato, piuttosto perché ci sei dentro fino al collo. E l’unico modo per venirne fuori è annegarci completamente. Quello che ti consiglio è di perdere ossigeno il più presto possibile e toccare il fondo e poi scavare ancora. Solo lì capirai il senso delle mie parole e crescerai di colpo. E’ andata finire che, fatte le mie debite indagini, con i soldi di mio padre, quella stronza ne teneva in ballo quattro come me. Tutti pensavano di essere gli unici per lei, e invece potevano raffigurare tranquillamente i protagonisti di un colorato teatrino di marionette. La mia storia non è la Bibbia, e, caro Power, non voglio insegnarti niente. O lasci perdere da adesso e so che non lo farai, oppure scopri tutto quello che puoi scoprire su questa persona, senza mai farti capire. E se è vero quello che racconta, ma dubito molto, bene, buon per te. Fai di tutto per continuare questa storia. Ma se i suoi racconti sono balle, allora…” – e con un sorso beve il caffè, raschiando con il cucchiaino il fondo zuccheroso. - “E allora cosa?” – replico posando la tazzina sul tavolo. Nel locale la radio trasmette un telegiornale. - “Vedi di fargliela pagare. Per iniziare controlla se quando sta con te tiene il cellulare . Quando va al cesso per lavarsi la figa, sbircia bene il registro
delle chiamate ricevute e la rubrica e via così. Intanto questo è il numero di Sventrax, vedi, se vuoi farla pedinare. Lui è la persona adatta. E’ invisibile, non lo becchi neanche morto. Prima di contattarlo però, cerca di far le tue ricerche da solo. Se non riesci a scovar nulla tienilo come ultima risorsa. Dovrai riconescegli qualcosa. Ricorda: nessuno fa niente per niente, e solo i froci girano con le lesbiche e viceversa. Non farti inculare. Mai. “ – sento sorgere in me una forza che fino adesso non ho mai conosciuto e percepito. Non mi sento più un cane bastonato che aspetta piagnucolento il ritorno del suo padrone per riavere l’osso tanto meritato da mordicchiare. Così inizio a meditare cosa scriverle. Sarebbe stato un messaggio premuroso, che avrebbe lasciato intendere al di là di ogni dubbio la mia più completa disponibilità a sentire le sue spiegazioni e a capirle. Dovevo raccogliere tutte le informazioni che mi forniva e verificarle una per una. - “Sarà un gran bel lavoro…stradifficile, perché in fondo è l’unica di cui mi sono innamorato. A te lo posso dire, e sarebbe devastante non rivederla più.” – Bollinger sospira, dando un’occhiata al display del suo startac. Capisce quello che sto confessandogli. - “Senz’altro, se poi è sgamata come penso, non si farà beccare così facilmente. Ma questa è l’unica via d’uscita per tornare ad essere te stesso. Andiamo a casa, è tardi. Stasera pensa con calma a quello che vuoi scriverle, e poi domattina mandale un messaggio. Scommetto un milione che in meno di trenta secondi ti risponderà esprimendo la sua incontenibile gioia nel sentirti. - “Vediamo..lascia pago io..” – fuori dal bar mi accendo un Malboro Light e ci fermiamo nella solitudine invernale. Siamo gli unici fuori casa in tutta la piazza. Forse in tutta Merate. Dei sopravvissuti. - “Ricordati: tienimi aggiornato su come vanno le tue indagini. Mi raccomando, una testa neutrale riesce sempre a consigliarti senza pregiudizi. Datti una bella calmata e smettila di fumare, hai gli occhi fuori dalla testa, e fra un po’ per mascherare le occhiaie non ti basteranno più le lampade.” – faccio un cerchio con il fumo e getto a terra la sigaretta per tre quarti ancora integra. - “Infatti, metto anche il fondotinta di mia madre.” – mi riporta a casa. Entro mentre gli altri stanno finendo il risotto ai funghi, ma non mi dicono nulla, anche se vedo che mia madre si trattiene a stento. In vista dell’esame
preferiscono lasciarmi perdere, e non rendermi teso più di quanto già non sia. Per tutta la cena, composta, oltre che dal risotto con i funghi, da scaloppine (sempre con i funghi), insalata, Barolo d’annata, strudel e frutta, me ne sto zitto e pensieroso. - “Amore, c’è qualcosa che non va?” – mia madre mi sbalordisce, ha radicalmente mutato atteggiamento. Probabilmente si stava rendendo conto che mi trovavo sul filo di un esaurimento nervoso e una sola parola sbagliata poteva farmi saltare come una bomba che aveva terminato il suo conto alla rovescia. - “Brava mamma, mi fai sempre cenare come un re…” – elargisco un bacio sulla fronte abbracciandola. Rimane sconvolta, non è abituata a questi miei gesti di spontanea gratitudine, e anche lei mi stringe forte, come non succedeva da anni. - “Sei ancora il mio bambino, lo sarai sempre. Ti vedo stanco, c’è qualcosa che non va? Sei dimagrito molto e lo so che dormi davvero poco. Sei sicuro che è solo lo stress dell’Università? Davvero, va tutto bene?” – so che la mia risposta ancora una volta sarebbe stata solamente un altro cumulo di menzogne, ma non potevo stare a raccontarle tutto, non avrebbe capito e sicuramente sarebbe intervenuta in qualche modo. E non volevo, un piano di azione l’avevo trovato e la mia priorità era perseguirlo con ogni mezzo, a qualsiasi costo. E’ quasi mezzanotte, me ne sto a letto con gli occhi arrossati, il cellulare in mano e una spossatezza invasiva mi è piombata addosso come un carico di pietre piovute dal cielo. Non riesco a oliare il cervello e a formulare un messaggio sensato da inviarle. Mi addormento con il cellulare in mano e vestito. La mattina seguente, alle sette e trenta, mi sveglio spontaneamente, e tutta la stanchezza è scomparsa. Sento la pelle fresca e levigata, e mi viene una gran fame. Attacco il telefono alla corrente, la batteria si trova completamente a terra, e mi reco in sala da pranzo per fare colazione. - “Sei già in piedi?” – domanda sconvolta (di nuovo?) mia madre, mentre prepara il caffè. - “Sì, mi sono addormentato presto, ero esausto. Che c’è di buono?” – sgranocchio un biscotto bretone al burro afferrato dal vassoio in argento posto al
centro del tavolo. - “Ho preso una marmellata ai mirtilli molto gustosa, aspetta che te la porto. Vedrai, è squisita, ne ho comprati tre vasetti.” – da tempo non vedevo i miei genitori così tranquilli e sereni. Quella mattina si stava bene in casa. Non vedevo nubi all’orizzonti, anche se presto sarebbero arrivate di nuovo. Mi avvicino alla scrivania, e afferro il cellulare ormai ricaricato a dovere, optando per lanciarmi in qualche esercizio sul teorema di Gram-Schmidt, altro argomento altamente probabile del tema d’esame ormai imminente. L’appello è previsto per le otto e, facendo due calcoli veloci, avrei dovuto alzare il culo dal letto intorno alle sei e trenta. Una mazzata spaventosa. - “Tesoro, mi sei mancata tantissimo. Dimmi quando possiamo vederci…” – troppo melenso, meglio una frase di routine, lasciando trasparire un minimo di acrimonia, almeno per il pacco tiratomi all’ultimo dell’anno. - “Ehi..penso sia giusto ascoltare le tue spiegazioni. Fammi sapere quando e dove ci possiamo vedere. Un bacio…” – la formula giusta per iniziare finalmente a fare luce su tutta quella strana storia. Non mi aspetto una risposta veloce, ma non trascorrono nemmeno trenta secondi che alle otto e ventitrè i tre squilli dello startac mi avvisano dell’arrivo di un messaggio. Stranamente è sveglia anche lei, oppure lascia il cellulare anche di notte. Così, con fare ossessivo compulsivo, apro lo startac leggendo ad alta voce: - “ Per fortuna mi hai risposto, pensavo di averti perso…prima di comunicarti quando vederci voglio sapere se puoi perdonarmi o meno. Puoi?” – che cazzo significa? Prima volevo sentire com’era andata la storia, sapere precisamente tutti i dettagli del perché suo padre le aveva negato di tornare a Milano come avevamo concordato insieme. - “Prima voglio sapere con precisione perché non sei venuta a Milano e, soprattutto, perché non mi hai avvisato e avevi sempre il cellulare spento…e me lo devi raccontare a voce, guardandomi negli occhi, quando ci vediamo, se, ci vediamo…” – premo il tasto invio. Ho voglia di insultarla, dandole della stronza menefreghista, della contaballe, ma, grazie anche al riposo della notte, riesco a trattenermi, senza trascendere come ormai è mio solito fare. Partire con insulti e accuse significa banalmente are dalla parte del torto e, se nasconde qualcosa, farla scappare.
- “Allora se non mi perdoni adesso non ci vediamo. Ciao.” – la risposta adeguata sarebbe stata un bel vaffanculo ma anche stavolta evito, limitandomi a controbattere in tempo zero con un serafico: - “ Va bene, come vuoi. Ciao e buona giornata.” – e lancio lo startac contro il muro con una tale violenza che scoppia in mille pezzi. La pila sbalza dietro il pianoforte, l’antenna vola dietro la libreria e il guscio di plastica schizza in fondo all’entrata della stanza, e il display insieme a qualche scheggia di plastica nera va a finire non so come in bagno. - “Ma cosa è successo!? Qui c’è un pezzo di plastica nero, ma che cos’è?” – mia madre, sentendo il gran fracasso, varca la soglia della stanza con aria terrorizzata. - “Niente, mi è andato per sbaglio il telefono sul muro. Lascia stare, finisco l’esercizio poi raccolgo i pezzi, non preoccuparti.” – le rispondo ancora calmissimo, con la testa china sul tavolo, attento a capire il testo dell’esercizio che sto svolgendo. Quando entra in camera per visionare meglio l’accaduto, mi soffermo con lo sguardo fisso fuori dalla finestra, notando con grande stupore che il giardino è stato completamente imbiancato e le piante, simili a spaventaeri giganti con troppa forfora, se ne stanno leggermente incurvate con i rami verso il basso, piegate e doloranti dall’eccessivo peso della neve. - “L’hai lanciato contro il muro, sei fuori di testa?” – continuo a guardare fuori per vedere se torna a nevicare. - “Non riesco a fare un esercizio, adesso riprovo. E’ una materia molto complicata, ma chi cazzo me l’ha fatto fare. E sono solo all’inzio, Gesù Cristo. Il papà dov’è?” – non ho ancora letto il testo del problema che poso sulla scrivania la MontBlanc e inizio a perlustrare la camera in cerca della sim. - “Si sta vestendo, penso che uscirà a prendere il giornale. Ne hai un altro? E’ danneggiato irreparabilmente.” – la trovo, è finita sotto il tappeto davanti al pianoforte. - “Nel cassetto del mio letto ce ne sono altri quattro come questo e due ottomilasette…non ho problemi da quel punto di vista…un ulteriore ottimo aspetto del benessere. Lascia stare, li raccolgo io i pezzi, dai vai di là.” – e mi chino a raccattare il guscio totalmente crepato. Mia madre, con la faccia tesa e gli occhi tristi, è preoccupata, e non voglio che
mangi la foglia, mi conosce troppo bene. Non credo abbia bevuto la storiella assurda dell’esercizio complicato. Con mio fratello sicuramente sarebbe stata credibile, ma con me non ha alcun senso. Prendo dal cassetto un altro startac, scelgo quello con il guscio in alluminio, e carico istantaneamente la batteria, infilando la sim nella tessera portachip e lo accendo. Funziona perfettamente. Salutandola mi rinchiudo in camera, fissando il display del sostituto, quando inizia a trillare rumorosamente. - “Ho appena sfracellato lo startac contro il muro…” – Jimmy dall’altra parte scoppia a ridere. - “No!!! Ma ce la fai?” – fatica a parlare. - “Non ce la faccio più, hai ragione. Andiamo a prenderci un caffè?” – altra scusa per non studiare. Tanto anche se stavo in camera avrei ato il tempo a rimuginare e a smacchinare. - “Aggiudicato, tra mezz’ora in piazza.” – sto diventando come i vecchi brianzoli, dalla mattina alla sera al bar a contarsi fregnacciate con gli amici. Quando non si ha più niente dalla vita ecco che ci si rifugia nei bar, e si parla delle cazzate come se fossero i fatti che guidano e comandano le sorti del mondo. Li ho sempre giudicati dei falliti, ma stranamente sto diventando uno di loro. Con la differenza che ho cinquant’anni di meno. In fondo posso essere considerato un prodigio. - “Esco con Jimmy, vado a prendere un caffè, ho il cervello che sta scoppiando.” – mia madre è concentrata sulle sue carte, e sotto la T.A.C. c’è il Jack di cuori, ossia il sottoscritto. - “Devi darti una calmata, non puoi essere così teso. Hai davanti trenta e a esami, come farai ad affrontarli tutti? Tuo fratello non ha mai avuto reazioni del genere.” – mio fratello è un O.G.M. da quel punto di vista. Gode quando studia, ed è ovvio che l’università non gli sia pesata. - “Va bene, mio fratello, mio fratello…ci vediamo dopo.” – cammino per Via S. Ambrogio come un lupo bavoso e rantolante cercando qualche bestia da sbranare, e rabbiosamente digito messaggi incomprensibili, del tipo: che cazzo
chiedi perdono? Non sono il Papa, né tantomeno un prete che dispensa assoluzioni. Oppure: sei solo una cazzara di Roma, niente altro. Vaffanculo.” Ma non le invio nessuno di questi miei pensieri. Cammino con o svelto, quasi correndo, per sfogarmi, inzaccherando i miei stivaletti Timberland nella neve grigia di gasolio. L’unico modo per giungere ad un conclusione e, soprattutto, ad una spiegazione, è concederle fittiziamente perdono, lasciandola credere di essermi calmato. Tutto sarebbe stato come prima, forse meglio. La lontananza ci avrebbe riavvicinato, e ogni dubbio sul suo vero amore per me sarebbe svanito. - “Hai mangiato i tortelloni di Arturo Sborrazzi?” – notando un paio di Church’s nuove ai suoi piedi e uno stato d’animo particolarmente beato e rilassato, Jimmy mi apre la porta del Bar usando la cortesia di farmi entrare per primo. - “Ma che cazzo stai dicendo? Belle, nuove? State pelando fuori i soldi al vecchio?” – all’interno del locale trovo tre persone, due a me sconosciute, la terza (quanto mai avevamo scelto quel bar) è una vecchia checca che conosciamo da una vita. Si chiama Roberto, fuma golosamente una Merit ultrasottile e tracanna un Gin Lemon senza ghiaccio. E’ una gay dichiarato all’ennesima potenza, ma con noi non ci ha mai provato. - “Ciao puttanella..” – mi bacia sul viso, cospargendomi di bava acida e schiumosa le guance ben levigate di Sisleya. Guardo Jimmy con una smorfia schifata e lui simula un pompino con la mano vicino alla bocca con la lingua che gli gonfia il palato. - “Ciao caro, vedo che ci stai dando dentro alla grande. Ti han forse detto che devi morire presto?” – unge anche Jimmy, a cui sorrido e alzo il dito medio. - “Tu hai invece la faccia dello spompinatore, oddio, sei orrendo…ma cos’hai fatto stanotte?” – e gli appoggia una mano sul culo, al che Jimmy si ritrae di scatto. - “Bevete qualcosa?” – accenno alla barista due caffè, di cui uno senza zucchero. - “Pago io, mi raccomando, metta sul mio conto…” – ringrazio senza nemmeno
questionare. Di sbattermi a dire: lascia ci mancherebbe, o non pensarci neanche non mi a neanche per l’anticamera del cervello. Si è offerto di pagare e paga. - “Sono innamorato ragazzi, non ce la faccio più. E’ interessante, interessantissimo.” – non male come inizio di conversazione. - “Un’altra volta!! E di chi? E’ delle nostre parti?” – domanda Jimmy con piglio da cronista. - “Si vede che questa testa di cazzo fa il giornalista…no…non lo conoscete, è di Milano. Oddio è bellissimo. Scuro, due occhi profondissimi, un fisico pazzesco…e ha un cazzo…” – parla in estasi, e, considerato che l’ultima volta che l’avevo incontrato era innamorato di un Senegalese residente a Saint Louis e che, ogni mese andava a trovarlo, realizzo che il personaggio si sta a suo modo evolvendo. - “Cos’ha??” – lo inzigo apposta, toccando con il piede Jimmy che a stento riesce a trattenersi. - “Un uccello nero enorme, scopo tutti i giorni. E’ interessante, molto…” – e trangugia il suo drink. Ne ordina subito un altro. Lo scruto sorridendogli. Davanti a me vedo una larva umana, pelato e con il viso segnato da profonde e indelebili rughe. Solo gli occhi azzurri esprimono un minimo senso di vita. Porta una camicia Ralp Lauren a righe bianche e blu, dei pantaloni bianchi Armani, mocassini Sebago bicolore, rosa e azzurri e un giubbetto trapuntato liso Henry Loyd cosparso di macchie bianche secche. Fuori sta riprendendo a nevicare di nuovo. - “E’ interessante. Mi spieghi cosa vuoi dire quando dici è interessante?” – noto che ha dei residui di bava bianchi negli interstizi ai lati della bocca. - “Dice che sono bellissimo, non me l’ha mai detto nessuno. Pensa, viene da una famiglia araba molto ricca, il padre gli ha donato cinquantamila euro per venire in Italia. Sai cos’ha ne ha fatto?” – scuoto la testa bevendo quel disgustoso caffè all’uovo scrutando Jimmy con la coda dell’occhio. - “Li ha spesi tutti in coca, puttane e cazzi. L’ho conosciuto in un cinema a luci rosse per checche e subito mi si è avvicinato per farmi un pompino. Sono tre mesi che non capisco più niente. Scopiamo come dei pazzi, gli dò venti euro al giorno e spesso andiamo in Viale Padova in un garage con dei suoi amici, arabi
anche loro, a far delle ammucchiate. E’ meraviglioso.” – però, interessante davvero. - “E tua moglie e i tuoi figli cosa dicono?” – gli domando incuriosito cercando di capire. - “Un cazzo, non sanno niente. E poi anche se lo sapessero non si devono permettere di giudicarmi dal momento che non fanno un cazzo dalla mattina alla sera, grazie al sottoscritto. Li mantengo da una vita. E poi con lei mi piace sempre scopare. Quando torno alle quattro di mattina da Viale Padova, come è successo stanotte, la sveglio trastullandola con il mio attrezzo ancora caldo e facciamo delle grandi scopate. Pensa che riesco ancora a venire con estremo piacere. Ah, mia moglie è una grande scopatrice. E’ interessantissimo.” – tartaglia convinto frasi sconnesse e, pronto con un’altra sigaretta infilata nella mostruosa bocca impastata, si lancia di nuovo in un altro pietoso monologo. - “Lo amo, anzi, sono innamoratissimo. Nessuno mi ha mai detto sei bellissimo. E il modo in cui lo fa, con quella bocca carnosa, anche se gli manca qualche dente, si vede che mi ama sul serio. Lo capisco. Penso che gli pagherò un buon dentista, così potrà avere un sorriso perfetto. Sapete come sono geloso quando mi dice che è in giro per Milano da solo? Vedo come gli altri lo guardano. Quello stronzo sculetta continuamente per farsi vedere. Se lo becco che mi fa le corna guai, potrei morire di dolore. Se siamo insieme non mi dà fastidio. Può prenderlo tranquillamente nel culo da un altro, perché ci sono anch’io ed è tutto alla luce del sole. Ma se lo fa di nascosto…Signora, mi fa un altro Gin Lemon? Molto gentile, porca puttana devo tornare al lavoro, ma per fortuna oggi finisco presto così mi fiondo subito a Milano da lui…” – guardo Jimmy, e concordiamo senza nemmeno bisogno di proferirire parola, di uscire dal locale, abbandonandolo alle sue elucubrazioni devastanti. - “Hai capito? Questo lo prende nel culo tutti i giorni da una moltitudine di arabi, torna a casa e si ciula anche quella poveretta di sua moglie. Secondo te usa precauzioni?” – ho voglia di accendermi una Malboro ma non ho con me il pacchetto. - “Ahhh…non sa neanche cosa sono. Ma l’hai visto? Non ce la fa più, è andato completamente. E’ marcio da far schifo.” – l’uomo è un’entità strana. Per certi aspetti è degno di stima, basta pensare a coloro che hanno fatto la
storia, creato multinazionali dal nulla, viaggiato tra i pianeti (l’uomo è stato davvero sulla luna?), scoperto nuovi elementi chimici e vaccini, dipinto quadri unici, composto sinfonie e pezzi geniali, diretto film indimenticabili. Per altri è assimilabile a una gigantesca discarica scavata in mezzo al deserto, traboccante scheletri di bestie stremate, sfaldati e trasformati in alberi per avvoltoi, iene e licaoni. Quando mi stravolgo in discoteca mi sento anch’io sprofondare nelle sabbie mobili, e la strana sensazione è che, pur essendone pienamente cosciente, provo un godimento sfrenato e infinito, e il mio essere mefistofelico, si innalza a legge divina. Penso che quello che prova Roberto sia più o meno la stessa cosa, anche se vista da un punto di diverso. Conosco benissimo quella sensazione. - “Ora devo risolvere quel problema, questo pomeriggio le scrivo per incontrarla.” – entrambi abbiamo dimenticato di prendere l’ ombrello, la neve scende secca e a raffiche veloci e il freddo gelido penetra nelle ossa. Ma star fuori e pensare è un piacere. - “Perché le scrivi? Telefonale, sempre con questi messaggi del cazzo. Parlale e chiarisci i tuoi dubbi, devi andare giù duro.” – Jimmy non ha capito che non è più questione di chiarire o meno, si tratta solo di sapere. Sapere se dice la verità su di Lei, su di noi e su quello che abbiamo vissuto fino a prima di Natale. - “Mister Uccello, strano…ti sta bene come soprannome…non è più tempo per chiarire, è tempo di sapere. Vedi, la neve è bianca, giusto? E’ candida e pulita, prima di toccare terra. Voglio solo sapere se questa persona, così mortalmente meravigliosa e dagli occhi sinceri, sta giocando pulito. Sai quante volte gioco sporco? Tutti i venerdì sera, ma è solo per dar libero sfogo al mio cazzo. Si beve, si sballa, e si scopa, tutto qui. Niente discorsi seri. Anzi, non si parla neppure. Ma fa parte del gioco, le ragazze che incontri nei locali ci vanno apposta per rimediare scopate facili. Ma loro non mentono, non hanno bisogno, non devono proteggere niente in quelle due, tre, quattro ore di trasgressione. Quattro perché può capitare quella che non si vuole far sbattere nel cesso e preferisce la macchina o il motel. Ma Lei non l’ho incontrata così, è stato tutto un susseguirsi, o meglio, un rincorrersi. Addirittura le ho fatto prendere il treno per Cernusco perché Bollinger mi aveva messo in testa che faceva parte di una banda che trafficava in organi ed era intenzionata a espiantarmi un rene. Anche se una volta, ora non ricordo bene, era spaventata perché un tale l’aveva seguita. A detta sua era stato il padre a metterglielo alle calcagne…o meglio un giudice amico di suo padre che abita nel suo stesso palazzo di Milano e che non la vedeva più fare il solito tram tram..mah!! Non capisco…” – un gran fracasso in direzione del bar
richiama la nostra attenzione e, avvolto nel suo giubbetto da quattro soldi, Roberto è uscito dimenticandosi di aprire la pesante porta a vetri, andandoci a sbattere contro e perdendo l’equilibrio. Cascato a terra, alla stregua di una vecchia in calo di zuccheri, si rialza bello brillante, farfugliando qualcosa al proprietario, probabilmente sono solo scuse incomprensibili. Sgattaiola fuori dal locale come un ladro da strapazzo. - “E’ impazzito….ma almeno se la gode ancora. O così crede..ti saluto, vado che inizia a far freddo sul serio.” – mi volto verso la torre del castello Prinetti. - “Siamo a gennaio, cosa pretendi, il sole e quarantagradi?” – non sarebbe stato male.
UN BRAVO RAGAZZO
Il ragazzo si siede di fronte a me, con un giubbotto di pelle blu firmato e jeans alla moda stracciati mentre Leyla, la brasiliana, si dimena sul palco, sul punto di sfilarsi il perizoma, assediata da cinquantenni in completo gessato, abbronzati e impomatati. La serata non sta andando male, fino adesso sono state servite venti magnum di Champagne ai tavoli e il bancone brulica di gente assetata di fica con mazzi di banconote in mano. La sicurezza sfila discretamente tra i tavoli senza farsi notare. Con lui c’è Bollinger, lo conosco fin da quando era un bambino. Suo padre aveva aiutato mio fratello a venire fuori dalla merda, e per questo gliene sono debitore a vita. Faccio portare due cuba libre ai miei amici, perché la signorilità deve essere sempre un valore primario, in ogni momento e situazione, e lascio fumare tranquillamente Power anche se non si potrebbe, ma lo vedo parecchio nervoso e teso. Gli propongo un privè con Leyla ma scuote la testa confessandomi che ha finito di scopare appena due ore fa, e tiene l’uccello ancora cosparso di marmellata fresca. - “Sì, in effetti il mio amico qui presente ha provato a farsene quattro diverse in un giorno, senza nemmeno lavarselo, prima di incontrare questa Silvia. Poi è andato giù di corda. Sai ha perso un po’ lo smalto” – non bisognerebbe mai perdere lo smalto, nemmeno ad un certa età. Ho sempre cercato di tenermi in forma, fin da quando facevo pugilato e sparato in testa a uno che era entrato in casa dei miei minacciandoli di farli fuori se non avessi pagato un milione al suo capo per un bar che avevo aperto a Reggio Calabria. Ma è storia vecchia, ora mi occupo solamente di recupero crediti e seguo un paio di locali di lap dance in centro. Non fumo, non bevo e non mi drogo. L’ho provata quando lavoravo per un gruppo di trafficanti spagnoli, ma è stato solo una volta, a Marbella, servita su vassoi d’oro massiccio alla festa di compleanno del figlio di un capo clan. Mi ci hanno costretto. Era gente con cui
non si poteva scherzare, ho visto molte persone sparire in mare dentro sacchi di juta con ai piedi legati macigni pesantissimi, solo per non avere rispettato un ordine, anche il più banale. Ho sniffato tre strisce lunghe venti centimetri l’una, della roba migliore, e non mi hanno fatto niente. Sono abbastanza attivo anche senza prendere sostanze stimolanti. Vado a letto alle sei mezza tutte le mattine e alle nove sono in macchina diretto dai creditori a riscuotere. Prima gli parlo tranquillamente, cercando di far capire loro che il lavoro fatto implica un dovere sacrosanto e cioè, quello di pagarlo, che sia fatturato o meno. Se non riescono a comprendere (tutti capiscono perfettamente) allora metto il cannone sul tavolo. A quel punto anche se non li hanno riescono in qualche modo a trovarli e così porto almeno un acconto ai miei mandanti. Una volta mi sono presentato a Rozzano a casa di un napoletano che aveva comprato tutti i mobili da un mio caro amico industriale di Cantù, la cui azienda ha un fatturato intorno ai venti miliardi annui. L’importo che dovevo riscuotere era un’inezia, si parla dell’ordine di due milioni. Questo imbecille mi si presenta con in mano un fucile a pompa carico, sai quelli che si vedono nei film americani. La situazione era parecchio tesa, così, seduti in cucina, gli ho parlato educatamente ma questo non ne voleva sentire, ripetendomi che era completamente a secco, che faceva battere sua moglie e sua figlia per tirare avanti, e che quando avrebbe messo insieme il gruzzolo si sarebbe fatto vivo lui. Come, non lo sapevo. Non conosceva la mia provenienza e non sarebbe riuscito a risalire a me in nessuno modo. So come trovare le persone perciò so anche come nascondermi. Intanto mi guardavo in giro e vedevo i mobili del mio amico dare lustro a una casa orrenda. Non sentivo nemmeno più le stronzate che farfugliava, non mi interessavano. Così comparve sua moglie, sui cinquant’anni, in reggicalze e topless che si offrì per un giro in camera da letto. Mentre la signora cercava di preparare quattro uova fritte, rischiando di ustionarsi i capezzoli molli nella padella, la afferrai per i capelli puntandole il cannone dritto nell’orecchio, stuzzicando per bene il grilletto, costringendola ad accasciarsi sul pavimento. Lo stronzo non si aspettava una reazione del genere. Sempre tranquillamente gli avevo ribadito che il mio capo vantava diritto a quei soldi, e che se non tornavo nel pomeriggio con il malloppo li avrei dovuti rimettere di tasca mia. Lavoro a percentuale. La scena stava sfociando nel ridicolo. Il cretino, pensando che avessi in mano una pistola giocattolo invece che preoccuparsi mi rise in faccia, masticando un pomodoro. Aveva i denti neri e marci dalla coca e sudava come un maiale, rendendo ancora più giallastra la canottiera azzurra Cagi lisa e unta. Così non ci ho più visto. Non mi piace essere preso per il culo, non piace a nessuno credo, ma ognuno reagisce a suo modo. Gli sparai dritto in un ginocchio facendolo guaire come un cane ferito durante una battuta di caccia e scaraventai con un potente calcio in culo la
moglie per terra, urlandole di spegnere quelle uova del cazzo e di andare a rintanarsi in camera. Se suo marito faceva il bravo presto l’avrebbe raggiunto, altrimenti sarebbe venuto via con me. Presi la padella, ancora con le uova scoppiettanti e intrise di olio scadente, e la avvicinai agli occhi del povero ignorante, facendo cadere, come se fosse stata una svista, una goccia di olio bollente sulla sua fronte. Lo intimai di tirare fuori questi fottuti soldi del cazzo, altrimenti avrei continuato a versargli il resto negli occhi. Non riusciva a parlare, perdeva sangue putrido a fiotti, e un pezzo di osso fuoriusciva dalla coscia. Avevo sbagliato mira, se prendevo il ginocchio era meglio, avrebbe sentito più dolore e forse perso meno sangue. Così il grassone infilò la mano nel cassetto a lato della cucina e sfilò una bella mazzetta di cinquecento euro. A occhio dovevano essere cinquemilioni. Non gli ho dato nemmeno il tempo di contare la mia parte, li ho afferrati tutti e me li sono schiaffati in tasca. Riposi la padella sul tavolo, dopo averla riversata sulla ferita dove poco prima gli avevo sparato. Lo salutai mentre si dimenava per terra smandibolando, inzuppato di sangue e sempre più inguardabile. Il ragazzo depone sul tavolo in vetro, sorretto da gambe d’acciaio, dieci milioni cash, in banconote da centomila lire, senza che gli chieda nulla. Rimango colpito dalla prontezza con cui lascia il pacchetto di soldi a mia completa disposizione. Gli dico di riprenderseli pure, che a lavoro terminato in qualche modo ci regoleremo, senza necessariamente l’utilizzo di soldi. Sarà in debito con me di un favore. E’ di ottima famiglia e sono sicuro che saprà, se necessario, contraccambiare a dovere. Con me solo chi non ha fissa dimora e niente da perdere può bleffare, ovviamente a suo rischio e pericolo. - “Mi diceva Bollinger che vuoi sapere tutto su questa ragazza, sbaglio? Non male, decisamente non male.” – rinfilandosi i soldi nella tasca del giubbetto mi sbatte in faccia il primo piano di una ragazza sui venticinque con alle spalle il Duomo. Dal colore del cielo doveva essere Inverno. I tratti del suo viso rasentano la perfezione. - “Ha il naso rifatto?” – domando incuriosito, cercando di capire. - “Ecco, anche io le avevo fatto la stessa domanda. Ma ha risposto assolutamente di no. Power? Secondo te?” – Bollinger gira la testa verso il ragazzo cercando una conferma.
- “No, non è rifatta assolutamente. Scusate, ma che cazzo c’entra? Non vedo il nesso. Mi sembra invece che Leyla abbia fatto il tagliando completo. Comunque ottimo risultato. Ascolti, il fatto che non vuole essere pagato vuol dire che le indagini saranno fatto all’acqua di rose? O, se preferisce, per essere più chiaro, alla cazzo di cane? Se così fosse la prego di accettare i miei soldi. Voglio sapere tutto. Per metà sono riuscito da solo. Pensi, ho smascherato balle a ottocento chilometri di distanza senza muovere un dito. Sto ricostruendo un puzzle, mi manca tutto sulla sua vita a Milano. Abita all’ultimo piano di questo grattacielo in Porta Romana. E’ un attico enorme. Un piccolo dettaglio, ci abita solo quando vado a trovarla, altrimenti non esiste nessuno in quell’appartamento. Dovrebbe abitarci una tale che fa di cognome Cingarelli, ma sta a Londra. Ha materiale sufficiente per iniziare?” – mi lancia sul tavolo un’altra foto raffigurante un edificio altissimo, avevo presente più o meno quale fosse. Strana storia, un paio di ipotesi mi vengono subito in mente, ma non gliene parlo, avrebbe significato mancare di professionalità. - “Per i soldi abbiamo chiarito, farò il mio lavoro come quando mi pagano profumatamente, Bollinger è garanzia di serietà per entrambe le parti. Per ora ciò che mi hai detto mi sembra abbastanza, da domani inizierò a incastrarti i pezzi dell’altra metà del, come l’hai chiamato? Mosaico? No…scusa, puzzle. Non so quanto tempo ci verrà, il tempo è sempre un’incognita non calcolabile.” – entrambi i miei ospiti mi guardano annuendo. Chiamo Leyla e Cindy e li invito a seguirle verso l’uscita, salutandoli calorosamente. - “Aspetto sue notizie. Arrivederci.” - li faccio uscire dal retro del locale.
ANNEGO
Meditando a lungo, circa un paio d’ore, decido di spedirle un sms sintetico e telegrafico: - “Ti perdono, quando possiamo vederci?” – aspetto una risposta istantanea ma niente. Così lo rinvio e decido di far un po’ di palestra, sfogando i nervi per bene. Dieci minuti di addominali su panca a velocità supersonica non mi fanno un gran che, solo un po’ di sudore nelle parti critiche del corpo. Così prendo la corda per saltare, e, senza preoccuparmi di infilare alcun cd nello stereo, inizio a saltellare contando ad alta voce, quasi urlando. Dopo venti minuti piomba in camera mia madre preoccupatissima pensando che stessi iniziando a straparlare. - “Tesoro, va tutto bene?” – si tranquillizza all’istante vedendomi in preda alla foga dei miei esercizi. - “Sì, sto facendo un po’ di movimento, sai lo studio…sviluppa il cervello, ma rattrappisce il resto dell’organismo. C’è del tè fresco?” – e mi guarda sbalordita. - “A gennaio il tè fresco! Ma stai dando i numeri?” – domanda fuori luogo, ma mentre sto saltellando mi è saltato nel cervello il profumo del caldo estivo durante le mie corse per i boschi dietro casa. Adoro correre quando c’è afa e umidità, espello tutto lo schifo accumulato e sedimentato durante l’inverno e bere un bicchiere di tè fresco al gelsomino, quando si è allo stremo delle forze e ti accorgi che il cuore è sul punto di scoppiare e gli occhi stanno per saltare fuori dalla testa, è un ripiglione formidabile. Tutte le altre bibite sono cazzate chimiche, altamente pubblicizzate e allo stesso modo altamente nocive e dannose per il nostro organismo. - “Hai ragione, ma saltare con la corda fa sudare come la corsa d’estate. Dai, fuori…” – la ributto indietro, senza darle tempo di rispondermi. Sono carico e voglio arrivare a quaranta minuti di saltelli. Sto grondando e percepisco il cervello sgombro da inutili pensieri. Non sento segnali di messaggi in arrivo, e per questo aumento la velocità dei saltelli, sempre di più.
Che cazzo sta facendo per non rispondermi subito? Ma non era così ansiosa di incontrarmi? Ho voglia di prendere in mano il telefono, chiamarla. Ma temo ancora di sentire la voce elettronica che gentilmente mi comunica che il telefono è staccato oppure momentaneamente irraggiungibile. Così sarebbe finito sul muro un altro cellulare. Non mi rimane che l’attesa. La risposta giunge a due ore di distanza, mentre sto digitando un VAFFANCULO seguito da dieci punti esclamativi, il cui testo letterale recita: “Grazie a Dio ci sei ancora. Vediamoci domani pomeriggio, ti aspetto a casa mia…vieni sul presto, così abbiamo tutto il tempo.” – e la mia risposta istantanea è: - “Ok, ci vediamo domani alle 14 da te. Buona serata.” - dopo di che silenzio assoluto. Tutto ormai è automatico, avrei detto come al solito ai miei che sarei volato in Università per vedere gli orari degli esami e le classi in cui si sarebbero tenuti. Tutte balle, ho tre giorni per presentarmi al primo appello, e ricordo solo alcuni frammenti di teoria mischiata a esercizi senza senso. Ma è l’ultimo dei mie problemi, devo solamente preoccuparmi di capire. Capire se vale la pena rivederla (sicuramente quando l’avrei avuta di fronte la risposta sarebbe stata affermativa, già la immagino con le autoreggenti…), se è una gran bugiarda, se il suo silenzio è riconducibile davvero a suo padre e ad una condizione famigliare pari al carcere di Stallone in “Sorvegliato speciale”. Il giudice residente nello stesso palazzo, il tizio (esiste o è una sua fantasia? O peggio ancora sono balle?) intenta a seguirla in treno, l’ultimo dell’anno, il telefono morto, basta, basta, basta!! Non ne posso più, scappare da un labirinto al confronto lo vedo come uno scherzo. Senza pensarci due volte m’infilo sotto il lettino Uva e carico il timer per quaranta minuti. Il giorno dopo sarei dovuto apparire smagliante, in gran forma e insuparabile. Conosco perfettamente il suo punto debole, mi ha conosciuto abbronzato come le rocce di Anthèor, con i capelli super laccati e gli occhi luccicanti di azzurro. Indubbiamente, se fossi stato conciato come un clochard della stazione Centrale non si sarebbe nemmeno voltata. L’uomo è piccolo piccolo e non se ne rende nemmeno conto.
A CASA SUA
- “Bene, sei sempre in gran forma…uhm…ma ti si sono ingrossate?” – massaggio dolcemente le sue tette sode, parlandole a cinque millimetri dalla sua splendida bocca, appena umettata con un rossetto dalla nuance rosa chiaro. - “Dici?…No…non mi sembra, e a te, ti si è ingrossato?” – se lo stringe in mano, come se fosse un hot dog pronto da azzannare. - “Mi sono tenuto in allenamento…” – mi viene in mente la sbroccata dell’ultimo dell’anno, con la faccia di terracotta. Non mi sento per niente in colpa, anzi, è stata l’unica nota positiva di quella serata. - “In che senso?” – domanda aggrottando le sopracciglia incredula. - “Tante gran seghe tesoro…a proposito, veniamo a noi…cos’hai fatto all’ultimo?” – domando a bruciapelo, iniziando a contare il tempo per la risposta. Che fu istantanea, senza nemmeno il più lieve dei cedimenti. - “Ho festeggiato con i miei al loro club.” – adesso spunta anche un club. - “Davvero, e che club è?” – se mi prende per il culo, lo sta facendo egregiamente. Il re delle fregnacciate aveva incontrato la sua regina? - “E’ un circolo privato, di cui mio padre è Presidente. Una specie di setta massonica…dai scherzo!! C’erano una marea di anziani con annesse relative consorti, sembravano tutti dei manichini. Dopo mezzanotte si sono messi a ballare sulle note dei valzer di Strass, ubriachi e traballanti nei loro vestiti in raso, lustrini e paillettes. E tu, cos’hai fatto?” – parla, parla senza darmi alcuna informazione a cui appigliarmi. - “L’ho ato con mio fratello. Mio zio ha fatto una mega festa nella sua azienda. Niente di grandioso. Ho bevuto come un dannato, pensandoti. Perché non ti sei fatta sentire? Almeno per avvertirmi, dirmi che non potevi…e non la sera stessa…” – nella vita, quando si è sinceri, è naturale assumere l’espressione
che si ha dentro. Sento tremare le mascelle, e le labbra lentamente cedermi in una smorfia di tremenda sofferenza. Comprende perfettamente il mio stato. Sfila le mani dai pantaloni e mi accompagna sul divano. - “Ehi, che c’è? Adesso sono qui…di cosa ti preoccupi. Te l’ho scritto, è stato mio padre a proibirmi di tornare. Se fosse stato per me, il ventisette festeggiavamo anticipatamente. Cosa devo fare…oh Dio, non fare così. Siamo qui io e te ora…” – un rigagnolo di dolore traccia un sentiero triste sulle mie guance. Il pensiero di iniziare a toccarci e finire sotto le coperte mi procura un voltastomaco inspopportabile. Scoppio in un pianto fanciullesco, ininterrotto, e sul suo viso (non mi ha mai visto in uno stato simile) compare un’espressione mai notata, di spavento e sgomento. Quando lo scherzo va oltre, colui che lo commette, spaventato e addolorato, viene colto dal rimorso. Come i bambini che si pestano per gioco e il più forte, non necessariamente di stazza più corpulenta, mette al tappeto l’avversario, il quale, sfinito e senza più forze né voglia di reagire, lascia martoriarsi sperando che il doloroso supplizio si concluda nel più breve tempo possibile. Il vincente, vedendo che non ha più nulla da vincere, viene colto da quella strana benevolenza e misericordia comionevole, che lo spinge naturalmente a smettere il suo piccolo massacro e a dire, con tutto il candore tipico dei bambini: - “ Mi perdoni? Non volevo.” – oltremodo però, accade di non udire risposta dall’altra parte, perché il senso di vergogna della sottomissione sfocerebbe in un tremendo pianto. E sarebbe un’altra sconfitta. Il suo telefono inizia a trillare in lontananza, probabilmente si trova nella stanza da letto e, mentre mi abbraccia forte, le dico di andare a rispondere. Ma Lei: - “ Lascia stare, chissenefrega…ci sei tu ora.” – e poi? Chi ci sarebbe stato? Dopo cinque minuti nei quali ho continuato a piangere, singhiozzare e a ripetere come un autistico: - “Perché? Perché? Non capisco perché…tuo padre ti ha proibito….” – ricomincia a suonare, stavolta insistentemente. Ma non si muove da me, e tutti e due facciamo finta di nulla, come se niente possa disturbarci. Mi ripiglio, e le domando se per favore posso andare in bagno a ricompormi la faccia. Sento la bocca impastata, gli occhi secchi e pungenti, i capelli
scarmigliati, e l’uccello molle come un’acciuga in salamoia, privo di forza e schiacciato nei boxer sudati di vergogna. - “Vuoi che venga con te?” – pronuncia sconvolta, riallacciandosi maliziosamente il reggiseno e la camicetta bianca che poco prima ho lentamente sbottonato. - “Ma non pensarci neanche, faccio da solo…cinque minuti e torno come nuovo.” - m’infilo nel bagno, umido e profumato di bagnoschiuma alla menta, chiudendomi a chiave. Lo specchio risulta ancora appannato con qualche gocciolina di condensa. Un buon profumo fresco e piacevole, così inizio a cercare il magnifico preparato. Ma nella doccia, accanto al miscelatore Grohe non trovo nulla, mi lancio a rovistare nell’armadietto sotto al lavandino, e, anche lì, stranamente, nessuna traccia di prodotti da toilette. Solo un pacchetto di cotone idrofilo, quattro rotoli di carta igienica rosa e due saponette Lysoform verdi. Niente di più. Sciacquo il viso con dell’acqua tiepida, sentendo subito con estremo piacere un sollievo confortante. Afferro l’asciugamo Hermès dal calorifero a parete, impregnato dello stesso profumo e sfrego la faccia energicamente. E così mi cade l’occhio in direzione della bilancia Soehnle, sopra cui stanno arruffati dei jeans Guess blu e un perizoma Armani nero. Dalla tasca anteriore dei jeans fuoriesce l’antenna del suo startac. Faccio scorrere di nuovo l’acqua nel lavandino, aumentando il getto al massimo, in modo da offuscare qualsiasi rumore, appendendo il costoso asciugamano alla maniglia Olivari, in modo tale da coprire il buco della serratura. E’ sempre una questione di buchi. Mi scaravento sui jeans, e con l’indice controllo il perizoma, di aspetto stropicciato ma immacolato, privo di macchie sospette. Non contento lo annuso, senza percepire alcun odore sgradevole realizzando che deve essere stato indossato per poco tempo. Lo ripongo nella stessa maniera in cui l’ho trovato, ando ad esaminare il cellulare. Inizio a sudare, non mi piace la situazione, mi sento come un ladro di frutta al mercato. Aprendolo in concomitanza a un colpo di tosse, che per coincidenza risulta catarroso e verosimilmente reale, due trilli acuti segnalano con relativa didascalia sul display che la batteria è scarica. L’acqua calda scende ininterrottamente, e lo specchio torna ad appannarsi. Visiono nel menù, dalla lista “Chiamate in arrivo”, le telefonate perse. La mia permanenza sta sfiorando i cinque minuti, e aspetto da un momento all’altro che arrivi a domandarmi se sono ancora vivo. Il mio sfogo, teatrale ma sincero, l’ha
colpita, ed è più che comprensibile vedermela piombare per conoscere il mio stato emotivo. Inizio a scorrere la lista, e le due telefonate a cui non ha risposto durante il mio pietoso piagnisteo provengono entrambe da numero privato. Le altre corrispondono ai seguenti nomi: PAPA’, STEFY, MAMMA. Insomma, un vero ritratto di famiglia perfetto. Ed ecco bussare: toc toc. E la sua voce, preoccupata e ansimante: - “ Ehi, va tutto bene? Ma che fai? Stai male?” – blocco il miscelatore, mi guardo allo specchio, con un calcio getto sopra i jeans l’indumento intimo rimasto sul w.c., pressa poco nello stesso modo in cui l’ho raccolto, e afferrando l’asciugamo dalla maniglia (sicuramente si è chinata per spiare), apro la porta, cercando di tornare a manifestare un’ espressione di normale sicurezza. Risulato: non ho trovato nulla. Le telefonate sono apparse oneste e immacolate, a parte quelle a cui non ha risposto. - “Tutto bene, dovevo solo bagnarmi il viso con un po’ d’acqua fresca. Ora mi sono ripreso. Tranquilla.” – mentalmente riassumo le azioni compiute durante i pochi minuti trascorsi nel bagno. Tutto sembra regolare e nulla fuori posto. Sembra, infatti. Il telo di Hermès è riposto sul porta asciugamani. Guardo la bilancia, e, con fremito di sorpresa, i jeans e il perizoma giacciono sul pavimento e non più sopra essa. Penso bene di continuare a recitare la mia parte di ragazzo sconvolto, così stropiccio gli occhi arrossati e tremanti mascherando il timore che mi abbia beccato rovistarle nel telefono. - “Dai…andiamo di là, ho preparato il tè, è in fusione. Ti piacciono i biscotti alla pasta di mandorle?” – spegne la luce del bagno, e mi abbraccia ancora una volta a lungo. Mi accomodo sul divano. La fisso mentre sorridente versa con estrema cura l’infuso bollente nelle tazze da tè Alessi. Sul tavolo ha preparato un vassoio di dolci tipici siciliani dall’aria invitante, chiaro segno di prelibatezza fuori dal comune. Avrebbe potuto servire qualsiasi merendina da banco, invece ecco in bella mostra un dolce tipico e ricercato. - “Devono essere buonissimi…” – commento. - “Cosa aspetti? Dai, prendine uno. Provengono da una pasticceria in centro, sai, li fanno arrivare direttamente da Messina. Per assurdo sono più freschi di quelli che trovi in Sicilia.” - e sgranocchia una pasta alzando gli occhi al cielo mugolando di piacere.
- “Quanto sono buoni….” - mastica elegantemente sistemandosi il maglioncino di cashmere rosa chiaro a V sopra la camicetta, tirandomi un’occhiata maliziosa. - “Quanto fanno ingrassare….mi stupisci…non ti ho mai visto mangiare così… devono proprio piacerti.” – commento sorseggiando dell’ottimo tè al gelsomino. Fa una smorfia di incomprensione. E’ divina. - “Voglio dire, ti sei buttata praticamente sul vassoio…amene uno, quello con la ciliegia in mezzo…” – alza le spalle con noncuranza, come se non fosse un problema di particolare gravità. E infatti non lo è. - “Lo sai che sei meraviglioso? Aspetta che prendo dell’altro tè, devo dire che dopo averti visto piangere ho guardato la tua anima.” – trascendente. Mi sono sentita colta alla sprovvista. Ciò che non riesco a capire, nonostante mi sforzassi enormemente, è la capacità, del tutto naturale, che ha di conciliare momenti di estrema ione con altrettanti di commovente dolcezza e purezza. - “Grazie, e adesso?” – soffio sull’infuso bollente. So che in tempo prossimo allo zero saremmo finiti di nuovo a rotolarci nel letto (o in qualsiasi altro posto), ad alitarci addosso e a scambiarci i nostri liquidi corporali. Dopo aver appoggiato delicatamente la tazza sul tavolo mi salta in braccio, lisciandomi i capelli con la mano dalle unghie smaltate rosa chiaro. Sento di non avere armi in quel momento. Ancora una volta le avrei creduto. - “E adesso…” – lasciando la frase in sospeso si avvicina, con le mani strette nelle mie, baciandomi. Ed ecco di nuovo il suo profumo. - “Non dire più una parola.” – obbedisco.
L’APPELLO
Di nuovo alla resa dei conti. Il chiostro di Via Tassis gremisce di ragazzi con i libri in mano, frenetici, preoccupati e isterici. Mi sono svegliato alle sei e dieci e sono andato a dormire alle tre e mezza con in corpo due Vodka Martini. La sera prima, nonostante sapessi perfettamente di dovere sostenere quell’esame così insormontabile, avevo deciso di sdrammatizzare andando in giro per bar a sparar cazzate con Bollinger e Jimmy. L’argomento della serata era il bagaglio a mano. - “Non ho ancora provato….ma non so se riusicerei a scoparmene una mentre il figlioletto, con la scusa di andare a dormire… dal buco della serratura mi guarda il culo andare avanti indietro mentre sto pompando sua madre…crescerebbe con dei seri problemi mentali..credo…” – sono a metà del primo drink e nel locale non c’è in giro un’anima, solo il padrone che sta maledicendo il momento in cui abbiamo messo piede nella sua bettola. E’ un locale di infima categoria, vicino a Bernareggio. Non ricordo il nome perché non c’è nemmeno l’insegna. Un bar squallido lo riconosci dall’insegna al neon, possibilmente fucsia, uno di infima categoria non lo riconosci proprio. Il bancone, cosparso di macchie di vino, briciole e pezzi di pomodoro, trasuda sporcizia da qualsiasi angolazione lo guardo. L’ignorante con la camicia a quadri non si sforza nemmeno di dare una ata con lo straccio, anzi, se ne fotte proprio e ci prende gusto nel farlo. - “Certo che non è il massimo della pulizia…no Jimmy? tu che sei abituato ai pub inglesi..cazzo un altro paio di Church’s, ma hai vinto la lotteria ultimamente? Bollinger, bevi Coca-Cola? Hai visto? Questo è un ricco…” – non ho fatto palestra e non mi sento abbastanza stanco. - “Ultimamente ne ho conosciuta una davvero fantastica, con un gran bel culo e due tette da urlo. Lei ha il bagaglio a mano, ma lo lascia ogni tanto ai suoi, diciamo per una sera a settimana. Così vado a casa sua, faccio quello che devo fare e alla grande anche. Lo sai che quelle che hanno partorito ce l’hanno più
elastica? Scivola dentro senza far fatica. Uhuuu…”- sempre più delirante e realistico, Bollinger si impegna a mimare la scena, andando avanti indietro con il bacino, stretto nei Jeans Versace. - “E’ impazzito….” – sentenzia Jimmy sghignazzando di gusto mentre beve della merdosa acqua tonica. - “Ehhhhh!!!! Impazzito…. è vero!!….ce l’hanno bella larga, altro che le verginelle di vent’anni!! Puoi andarci dentro con tutto il braccio. T’assicuro, non sentono niente. Cazzo, da lì esce un bambino!!Ma sai cosa vuol dire? E’ come se ti sfilassero dal culo un panettone. Dopo ci a anche un Caterpillar e non te ne accorgi!! Non credi Power?!” – sputo fuori il ghiaccio sul bancone, scoppiando a ridere, fottendomene altamente del demente che ci fissa inorridito. - “Tanto fa già schifo…sei il numero uno!! L’ho sempre detto. Cazzo mi sto sbrodolando il maglione di Versace….merda…” – dall’odore non sembra neanche Martini, ma più vermouth da discount. Quello stronzo ha fatto il travaso. Straccione. E chissà che Vodka mi ha rifilato. - “E poi con la scusa che devono crescerlo, accudirlo, aiutarlo nei compiti, non hanno mai tempo libero, così hai la libertà assoluta anche di coltivare relazioni extra. Se hanno il bagaglio a mano sono bruciate, non possono pretendere una relazione fissa. E lo sanno perfettamente, tutto quello che le offro, è un di più non dovuto. Capito Power?! Un di più non dovuto.” – una nuova frontiera. - “Fa ridere, il bagaglio a mano! Eccezionale.” – e così, tra una stronzata e l’altra, abbiamo tirato le due. Impiego un’ora e mezza ad addormentarmi, con lo stomaco che fa a pugni con l’infernale intruglio del barista straccione. Non ho pace. Mi addormento, ma è un sonno intermittente, come le luminarie di Natale, che si spegne quando mio madre mi accarezza la spalla, con delicatezza e amore per dirmi: - “E’ ora….” – con la testa ancora dolente mi tiro insieme. Fuori il freddo è micidiale, tremo ad ogni movimento. La cosa strana è che dell’esame non me ne frega assolutamente nulla, non mi pongo alcuna domanda, e non ho preparato neanche un bigliettino. Il mio livello di SBATTIMENTO sta raggiungendo vette inaudite. Lo startac vibra una volta nella tasca del montone Armani Le Collezioni. Lo
afferro incuriosito, e noto sul dipslay l’indicazione che due sms sono pronti per la lettura. Il primo, di mia madre, che mi scrive di star tranquillo e che tutto sarebbe andato bene. L’altro è di Silvia e, precisamente recita: - “Mi sono toccata tutta notte pensandoti, ora sono ancora più eccitata. Dai, vieni subito a trovarmi….ti aspetto.” – la mente mi dice: - “Spegni il telefono, non darle retta, e se chiederà spiegazioni su come mai non hai risposto dille che stavi ancora dormendo.” – ma nel contempo mi vengono in mente scene straporno, e i boxer iniziano ad essermi d’intralcio. Accendo una Malboro e ispiro profondamente, sorridendo ad un’assistente niente male in tailleur grigio e mantella di cashmere nera mentre cammina verso l’entrata dell’aula con l’elenco degli iscritti e che mi ha inquadrato dal primo giorno di corso. Deve avere sui quarant’anni e, nonostante abbia dedicato la vita allo studio e a svariati dottorati, manifesta una gran voglia di scopare. Lo si capisce da come scruta i ragazzi, me compreso. Non ne posso più di starmente fuori al freddo. Ho i brividi. - “Cazzo che freddo, sto gelando.” – penso a voce alta captando commenti analoghi con aggiunte di frasi colorite destinate a svanire in fumi caldi e pieni di speranza. Tutti preoccupati per l’esame, a continuare a riare formule, regole, dimostrazioni a voce alta. A me non me ne frega un cazzo. Finalmente il docente sbuca da una porticina alla quale nessuno ha fatto caso. Nella mano destra l’elenco stretto in un guanto di nappa nera. Leggo e rileggo il super sms, estraniandomi completamente dalla situazione che percepisco. E la domanda viene spontanea: - “ Ma che cazzo di senso ha starsene lì? Voglio dire, sono perfettamente consapevole di non essere minimamente preparato. In più, sprovvisto di biglietti da utilizzare nella fortunata evenienza di essere piazzato nelle ultime file. Non ho la minima possbilità di arlo. I pochi esercizi fatti non sono serviti a nulla, se non a confondermi ancora di più le idee.” – e allora? Meglio andare a farsi una bella scopata. - “Bene, signori. Libretto in mano, procediamo con l’appello. Iniziamo dalla A.” - ciao ciao esame. Sarà per un’altra volta. In macchina un lieve torpore s’impossessa delle mie articolazioni. Ho decisamente dormito poco. Mi spiace avere deluso i miei ancora una volta. Un geyser ininterrotto inizia a sgorgare dai miei occhi stanchi e spenti. Ma non lo
sanno, e mai lo avrebbero saputo. Così decido nel pomeriggio, quando li avrei rivisti, di tirare fuori dal cilindro un’altra stronzata per tirare in là. Del tipo: - “Ma….non so, due esercizi sono sicuro di averli azzeccati. Invece, riguardo a quello sugli autovalori, confrontandomi con gli altri studenti siamo raggiunti a risultati discordanti, anche se il procedimento utilizzato era il medesimo. Forse qualche semplificazione non effettuata. In tal caso non sarebbe un errore, ma bensì una svista, e, quindi non particolarmente penalizzante. Comunque saprò i risultati fra un mese.” – e i mesi sarebbero diventati due, poi tre, fino ai risultati della successiva sessione. Tempo utile per prepararmi (forse) nuovamente all’esame. Non impiego molto ad arrivare di nuovo a casa sua. Si fa trovare nuda nel letto, profumata e realmente bagnata. Spengo il cellulare e inizio con la punta della lingua ad assaporare il suo clitoride. Non ne ho mai abbastanza. Il detto: il troppo stroppia non esiste. Tutte cazzate. Scopiamo come la prima volta per tre ore filate (il tempo dell’esame), staccandoci solo per bere dell’Evian a temperatura naturale, andocela direttamente dalla bottiglia. Non parliamo gran che, solo reciproche domande per sapere se l’indice di godimento ha toccato (come al solito) le stelle. E infatti entrambi ci scambiamo solo conferme, condite con frasi rassicuranti che prospettano certezze inequivocabili. Mi dice nell’orecchio (anche se siamo soli), oltre al solito ti amo, che non disdegna avermi sempre accanto. Io cerco, con la coda dell’occhio e senza dare segni tipici dei cani da tartufo, il suo cellulare. Il silenzio tinteggia le pareti bianche in maniera inverosimile. Non un ticchettio, uno scricchiolio, non riesco a percepire nemmeno il battito del mio cuore sfinito. Impossibile che nessuno disturbi. E’ il caso di fare una gita al bagno, mi trovo imbrattato dall’addome in giù, e, vedendola distesa nuda (è perfetta) e dormiente la copro con il lenzuolo inzuppato del suo profumo, dando un’occhiata al cuscino appena velato di fondotinta. Utilizzo le sue pantofole in spugna rosa, di cinque numeri inferiori al mio e m’intrufolo nel bagno. Chiudo la porta a chiave. Questa volta non noto perizomi sparsi, nè altro indumento. Tutto perfettamente in ordine e complementare con l’assenza di rumori solitamente casalinghi. Opto per infilarmi nella doccia angolare in cristallo. Lavarsi a pezzi sarebbe stato più faticoso e meno rilassante. L’acqua bollente scroscia prepotentemente e rigenerante. Da un barattolo privo
di etichetta verso del liquido trasparente azzurrato sulla spugna naturale, levando dai pori di quest’ultima un pelo scuro arricciato. Mentre mi sfrego in profondità eliminando i residui di sperma ormai essicati penso (tanto per cambiare) alla mia vita inconcludente e a dove sarei finito andando avanti così. Non ho prospettive, non sono attratto da nulla se non dalle fighe, e da ottobre a quel momento solo dalla sua. I miei sogni (quali?) se ne stanno andando affanculo alla velocità della luce. Sento uno strano rumore sfumare con lo scroscio dell’acqua, e non riesco a capire bene da che parte provenga. Mi sciacquo velocemente (anche se ho una gran voglia di starmene un’ora sotto il getto bollente), incuriosito nel cercare di capire cosa ha rotto quel silenzio irreale. Agguanto l’asciugamano senza far caso all’etichetta, diretto verso lo specchio a parete. Sulla mensola in acciaio inossidabile, simile a un grosso scarafaggio lobotimizzato, il suo cellulare sta dando di matto. Come il mio, per vedere chi sta chiamando, è necessario aprire il flip. E così faccio. Anomino. Solo anonimo. Zzz zzz, anonimo, rispondere? Cosa devo fare? Chi la cerca? Sto trasalendo, mi manca la salivazione e ho un brutto presentimento. Il mio pollice sta digitando il tastino con stampata sopra la cornetta verde, a conferma della domanda posta dal display. Devo sapere. - “Ehi! Va tutto bene? Ti sei sciolto nella doccia?” – che coincidenza, la maniglia della porta sta ruotando verso il basso e così, con un gesto fulmineo e silenzioso ripongo il telefono diventato muto sulla mensola, e mi avvolgo l’asciugamo (stavolta noto l’etichetta Ralph Lauren), intorno alla vita. - “Ma no, ho preferito fare una doccia, sai è più rilassante che lavarsi a pezzi.” – sento le guance pulsare e gli occhi lacrimare. - “Ma va tutto bene?” – si avvicina toccandomi il petto ancora umido. Ci fissiamo negli occhi, come se sapessimo di sapere. Ha capito. - “Stava vibrando il tuo cellulare…” - la fisso, senza batter ciglio. Lei fa lo stesso. - “Come mai non hai risposto?” – una goccia di sudore sta solcando la mia fronte bollente e umida. - “Non stavano chiamando me. E poi ero ancora in doccia.” – allunga il braccio
afferrandolo e visionando attentamente il display. Una smorfia dubbiosa le fa accartocciare il labbro inferiore, e puntare gli occhi verso il soffitto. - “Non capisco chi mi cerca continuamente con il numero riservato. Anche prima del tuo arrivo mi hanno telefonato e quando ho risposto hanno attaccato. Ed ecco che riprende a vibrare di nuovo. - “Ancora. Pronto.” - aguzzo le orecchie in modo di sentire la voce del suo interlocutore. Solo silenzio. - “Pronto! Chi parla?” – dall’altra parte il silenzio. Mi fa segno di starmene zitto e ubbidisco. - “Pronto….pronto!!! Ma insomma chi parla?!” – e chiude il telefono. - “Niente, hanno attaccato. Sono stanca, mio padre dice che non c’entra niente. Eppure mi sento controllata, anche queste telefonate. Il mio numero l’hanno in pochissimi e sono tutte persone fidate. Credo che farò mettere il telefono sotto controllo. Ho paura…” – mi asciugo, sfilandomi l’asciugamano rimanendo con l’uccello all’aria leggermente in tiro e molleggiato. Glissando apposta non raccolgo il suo commento. Sfrego la testa ancora umida con l’asciugamano e cerco nell’armadietto un deodorante. - “Non preoccuparti, sarà qualcuno che si ostina a sbagliare numero. Dov’è il deodorante?” – so come risolvere un discorso annacquandolo nel nulla più profondo. - “Non uso deodoranti…metto del profumo piuttosto. Te lo vado a prendere se vuoi…” – tutto programmato come una macchina a controllo numerico. Si intasca il cellulare e non si scompone minimamente vedendomi nudo. Potevo anche non esserci. La sua mente sta elaborando altre informazioni, sicuramente più importanti. - “Non preoccuparti. Piuttosto mi rimedi un phon? E se hai un po’ di lacca mi salvi la vita.” – si defila in camera annuendo, per tornare, dopo neanche trenta secondi, con un asciugacapelli simile a un bazooka. - “Ti aspetto di là…” – non sembra Lei.
CAPITA E NON PUOI FARCI NIENTE
Ho ritrovato l’ombra della morte a febbraio. Nel primo checkup di controllo, durante la scintigrafia ossea, trovano nello scheletro di mio padre qualcosa che non quadra perfettamente. - “Una manomissione dello sterno. Strano, nella tac di agosto, prima di esser operato, non avevamo notato quella macchia in corrispondenza dello sterno. E’ meglio approfondire.” – commentano i professori della super clinica privata in cui mio padre sei mesi prima era stato operato. Molto semplicemente non lo avevano notato. Prima di procedere ad un eventuale controllo invasivo, tradotto: un’altra operazione da macellai, era consigliabile effettuare altri esami preliminari di sicurezza, tradotto: ininterrotti bombardamenti nucleari ininterrotti da varie angolazioni e sezioni e con diversi macchinari di ultima generazione. Ogni esame è preceduto dall’assunzione a stomaco vuoto di pappette ignobili (altrimenti i marcatori non fanno effetto) per poi essere sottoposti a gironi infernali sotto macchine ultrateconologiche. Mia madre ha negato categoricamente sia a me che a mio fratello di accompagnarli nel viaggio all’inferno. - “Non è il caso, sono solo controlli di prevenzione. Il papà non sente alcun dolore, e poi dovete curare la casa.” – ricordo bene la sua faccia. In un giorno è invecchiata di trent’anni, come ad agosto. Sono partiti di mattina verso le sei e mezza, sicuri di tornare intorno per mezzogiorno con la certezza che tutto sarebbe andato per il meglio (non avevamo dubbi, papà era in forma splendida), senza nessun bisogno di approfondire alcun esame. In fondo era stato ispezionato da cima a fondo l’estate precedente, e i professoroni lo davano per guarito al cento per cento e senza dubbio fuori da ogni pericolo e recidiva. E invece, quando mia madre mi
telefonò sul cellulare verso mezzogiorno e mezzo dicendomi, con voce spezzata dalla paura e tremante dall’imminente oscuro presagio e piena ormai di remota speranza, che era stato trattenuto nel reparto di Medicina Nucleare per ulteriori accertamenti, realizzai di ritrovarmi catapultato di nuovo a rivivere l’incubo dell’estate trascorsa. E con me tutta la mia famiglia. - “Stai calma, che esami deve fare ancora?” – cerco di trattenere il pianto, ma la voce, calma e straziante, non riesce a essere normale. Non ce la faccio, mi distrugge il pensiero di mia madre sola a fissare la spessa porta d’acciaio verde sopra la quale il simbolo della radioattività a forma di trifoglio lampeggia ininterrottamente nero su fondo giallo. - “Non ho capito bene, un’altra tac e poi delle radiografie a sezioni. I medici non sanno dare una spiegazione. Non può far la risonanza perchè i punti in metallo della vagotonia verrebbero sparati in giro e ci sarebbe al novanta per cento un’emorragia. Non so quante ne ho in tasca. Hai sentito tuo fratello?” – sono solo, e non voglio staccarmi dal telefono. Per non averli accompagnati mi sento uno stronzo di dimensioni bibliche. Mi vergogno. Dovevo fregamermene e fare di testa mia, saltando in macchina con loro anche se non erano d’accordo. Avrei avrei…oh Gesù, a cosa stavamo andando incontro di nuovo? Non era bastato lo strazio di quattro ore di operazione di agosto e di tutto il resto? Perché? Perché… - “Aspetta che sta suonando il telefono di casa…stai in linea..sì, ciao…stanno trattenendo il papà in clinica per ulteriori esami, c’è qualcosa che non va…ho sul cellulare la mamma. Va bene, ci sentiamo dopo. Ciao.” - e attacco. - “Era lui, ti sta telefonando. Metto giù, appena hai finito di parlargli richiamami..stai tranquilla. Aspetta un attimo, come sta il papà?” – tamburello nervosamente sull’ultimo ripiano della libreria in camera mentre percepisco lo sgomento di mia madre. - “Non parla più. Ti richiamo appena ho sentito Antonio.” – immagino mio padre, solo, in mezzo alla ferraglia delle macchine radiogene, svestirsi e seguire dignitosamente le direttive dell’equipe medica di turno. Quando sei in quelle stanze non importa il livello sociale a cui appartieni, le macchine, le case, il lavoro, gli orologi, i quadri, e tutto il resto. Contano solo i giorni che si presume di contare, e che non si sa se saranno molti e felici, o molti e tristi, scanditi da
cure massacranti che se non ti ammazzano subito ti annientano poco a poco e non capisci, da quanto ti mandano fuori di testa, se sei ancora vivo o sottoterra, oppure pochi e talmente lancinanti da non poter avere il tempo per realizzare la fulminea, atroce e sconcertante tragedia. Solo a girovagare per casa mi fermo in soggiorno a fissare una foto in bianco e nero di mio padre ragazzo, prima di una partita a calcio, insieme ai suoi compagni di squadra. Sorrideva come un bambino, e un ragazzo dai capelli scuri, alla sua destra, più basso di lui di una spanna abbondante, lo fissava con ammirazione e affetto. Il suo sorriso non è cambiato. Chissà quando l’avrei rivisto. Il cellulare mi vibra in mano, e rispondo senza nemmeno contemplare il display, interrompendo il primo squillo. - “Pronto.” – non riesco quasi a parlare. Sbavo. - “Sono io, ho sentito la mamma.” – dall’altra parte mio fratello, voce stanca e avvilita. - “No è in sé, ho sbagliato, dovevo andare anch’io. Altro che star in casa ad aspettare.” – non riesco a darmi pace in alcun modo. - “Lascia stare lo stato emotivo di tua madre. Se fosse quello che stiamo pensando tutti non riuscirebbe nemmeno a muoversi dal dolore. Hai idea di cosa vuol dire avere una metastasi allo scheletro?” – brividi di freddo mi fanno pulsare le tempie. Sento tremare lo stomaco. - “No, e preferisco non saperlo.”- vado nello studio di mio padre e mi accascio sulla sua poltrona. - “E invece è bene che lo sai. Mi sono documentato su un sito americano mentre tua madre straparlava. Le ossa, oltre che a far male, si sbriciolano come grissini. In breve non riuscirebbe nemmeno ad alzarsi dal letto, figurati guidare e andare in bicicletta. Secondo me lo stanno bombardando di radiazioni inutili, facendogli più male che bene. E poi dovrebbe prendere le anche, come primo punto, non lo sterno. Nella casistica che ho letto non c’è nemmeno un episodio di metastasi allo sterno.” – orrore, orrore. - “Allora cosa stanno facendo?” – e lui:
- “Ah, non lo so, mi sembra un eccesso di zelo. Adesso devo andare, mi stanno chiamando. A dopo, chiama la mamma e dille di star tranquilla. Ah! Anche tu, vedrai che è solo un controllo approfondito.” – la mente razionale di mio fratello non conosce sconvolgimenti emotivi. Di nuovo il mio cellulare strilla. Mia madre - “Ho parlato con Antonio, dice di star tranquilli, è solo uno scrupolo in più. Secondo i suoi ragionamenti non dovrebbe esserci niente di così grave. In effetti non starebbe in piedi dal dolore, e lo sterno andrebbe in frantumi.” – sta piangendo, i suoi nervi sono già stati messi a dura prova. - “Per quanto ne avete ancora?” – domando convinto di sentirmi rispondere qualcosa del genere: tra mezz’ora ci muoviamo e nel primo pomeriggio siamo a casa così pranziamo insieme. - “Non lo so, ho chiamato il Professore, è stato gentilissimo, ci riceve dopo in studio.” – tutto come a fine luglio, con l’unica differenza che fuori il tempo è grigio e fa un gran freddo. Le brutte notizie si addicono di più al clima invernale. L’unica consolazione che al momento posso trovare. - “Capisco. Sta uscendo, ti richiamo io.” – nell’ora e mezzo che a senza sentir nessuno (non posso nemmeno chiamare mia zia per comunicarle quello che sta succedendo, non voglio tener occupato nessun telefono), inizio a vagare su internet in cerca di informazioni. Bombardato da mille articoli, studi, commenti di ricercatori e studiosi dell’evoluzione della malattia e sulle possibili cure da affrontare, non trovo risposta che va al di là di un’aspettativa di vita compresa tra i due e i cinque anni nell’ipotesi migliore. Lasso di tempo percorso da iniezioni giornaliere di morfina e beveroni a base di farmaci chemioterapici leva capelli-azzera-difese-immunitarie, e trasforma-larve-umane. Riducono la dignità solo a un’ombra proiettata in fotografie di ricordi felci. Non voglio che mio padre faccia quella fine. E così inizio a pregare. Per chiedere aiuto, per tornare indietro nel tempo a quando abitavamo ancora al Condominio dei Pini e ogni sera dovevo sorbirimi la sua ramanzina perché durante il giorno dicevo parolacce a spronbattuto e un turpiloquio così precoce e irriverente in bocca a un bambino di buona famiglia generava seri dubbi sulla sua educazione. Per non dovere abbracciare ogni giorno mia madre cercando di rassicurarla sapendo che frasi del tipo andrà tutto
bene, forse si sono sbagliati, vedrai che quest’estate torneremo tutti insieme all’Isola d’Elba e staremo a parlare fino alle due di notte in terrazza guardando il mare, non lo avrebbero guarito. Per non addormentarmi sfinito con il sapore salato delle lacrime sulle labbra e svegliarmi sapendo che nelle altre stanze, da un momento all’altro, l’urlo di mia madre avrebbe sgretolato i miei vent’anni di vita. Pregavo perché doveva ancora assistere alla mia tesi, perché glielo dovevo, perché avevamo ancora tante cose da dirci, per vederlo invecchiare serenamente con sua moglie e discutere ancora sul colore da scegliere per le tende del salone. Per avere ancora tempo. Il telefono di casa trilla rompendo il silenzio assordante. - “Pronto” – cerco di trattenere il mio dolore, scoppiato senza averlo interpellato durante la mia preghiera. - “Abbiamo parlato con il Professore, domani lo ricoverano al piano solventi. Lo opereranno, devono prelevare un pezzo di tessuto osseo per analizzarlo. Così non riescono a trovare una spiegazione. Abbiamo prenotato la stanza, nel pomeriggio dobbiam esser qui dopo pranzo per il check in.” – il tempo si è fermato. Istantaneamente il nastro si è riavvolto al dodici di agosto, giorno in cui, con la certezza che il mostro, una volta debellato, non avrebbe fatto più irruzione a casa nostra, mio padre inziava il suo soggiorno in clinica. - “Come non capiscono? Ma come cazzo è? Con tutti gli esami che hanno fatto, non sanno darsi una spiegazione? Un prelievo d’osso? Ma che cazzo mi stai dicendo?” – urlo nella calma irreale della casa, solo con la mia voce, rotta dal pianto delle disperazione. - “Non fare così, il Professore gli ha schiacciato lo sterno, pesandosi sopra con tutto il corpo, e non gli ha provocato alcuna reazione. E’ ottimista.Vogliono solo vederci chiaro, è giusto..smettila, non far così.” – nelle sue parole ancora una volta la speranza di sei mesi prima. La cornetta non mi sta in mano, riesco a stento a trattenere il cordless, ho la maglietta completamente sudata. Eppure sono seduto e immobile. Una goccia di sudore cade dalla mia fronte abbronzata sul ripiano in pelle della scrivania di mio padre, quasi sfiorando la foto di noi cinque anni prima sulla terrazza all’Isola d’Elba, al tramonto, felici.
- “Cosa fate? Venite a casa?” – domando, la voce bollente di lacrime trattenute. Anche lei si trova nella stessa situazione, sento mio padre che le dice di prendere la borsa, con la voce tranquilla e serena. - “Grazie, sì stiamo andando alla macchina..Antonio sa già tutto, non telefonargli. Saremo a casa fra poco…vedrai che andrà tutto bene.” – e la comunicazione s’interrompe. Sperare, rimane solo quello. Devo parlare con qualcuno, la sua voce sarebbe stata d’aiuto, anche se non ho intenzione di non dirle nulla. Afferro il corless sudato e compongo il suo numero. - “Pronto.” – risponde subito dopo il primo squillo. - “Ehi…sono io..” – sconsolato e certo di iniziare una conversazione confortante aspetto di sentirmi accogliere come sempre, con dolcezza e sensualità. - “Pronto…Pronto!!” – il nulla. Schiaccio il tasto redial e il suo cellulare risulta spento. Provo altre tre volte, e il telefono risulta sempre spento. Così aspetto, ma a mezz’ora e non si fa viva, nemmeno un messaggio. Dopo aver riprovato istericamente altre svariate volte (venti), lancio il cellulare contro il muro, sfracellandolo a due millimetri da un quadro di Munari. Inginocchiato con la testa sul pavimento a racattare i frantumi dello startac, l’antenna storta e scappellata sembra una cannuccia ata sotto le fauci di un dragone incazzato, noto che del guscio ne è rimasta solo la metà. La sim, finita sotto la frangia di seta del tappeto ereditato da mia nonna, non è danneggiata. Gettati nella spazzatura i pochi pezzi recuperati senza perdere tempo a cercare i restanti relitti, m’infilo in camera a rovistare nel mobile delle cianfrusaglie per recuperare un ottomilaesette con batteria ultraslim e relativo caricatore da utilizzare istantaneamente. Attaccato alla corrente, e, compiaciuto del fatto che funziona ancora perfettamente, aspetto il segnale di ricezione, che risulta, stranamente, maggiore dello startac. Il menù e il servizio messaggi sono settati correttamente (perfetti) e realizzo che Silvia si trova, evidentemente, impossibilitata a contattarmi. Il motivo lo conosce solo Lei. Ed ecco il cancellone aprirsi e dalla macchina scende mia madre con in mano un pacco di buste vestite con il marchio della clinica, guardarmi attraverso i vetri, con il suo viso bianco e tormentato, gli occhi stanchi sotto la montatura d’oro, la
camicetta di seta stropicciata e sotto l’altro braccio, tra la borsa e un altro sacchetto, contenente una bottiglia di Evian mezza piena, la sua pelliccia di visone, ridotta al minimo ingombro. Entra. - “Preparo un tè, ne abbiamo bisogno..” – e l’abbraccio. Le sue lacrime bagnano le mie spalle e mi viene in mente quando da bambino mi facevo male, per una sbucciatura al ginocchio o inezie simili ed era lei a consolarmi. Ora tocca a me.
SEMPRE PIU’ IN FONDO
I miei genitori trascorsero una settimana in clinica, nella stessa stanza, soli loro due, come ad agosto. Uno dei pochi privilegi che i benestanti possono permettersi è quello di non condividere i propri dolori in corsia insieme ad altri malcapitati. L’operazione non fu tanto dolorosa, pensavamo tutti peggio, e la degenza sopportabile. Il professore ci spiegò nei dettagli l’intervento, la cui durata non superò l’ora e mezza, manifestando le sue perplessità sulla possibile presenza di metastasi ossee. - “Gli abbiamo estratto un pezzettino d’osso scavando con un cucchiaio affilato. Lo sterno sembra perfettamente intatto e privo di alterazioni significative.” – disse con calma serafica. Bisognava attendere due settimane per l’esito dell’esame istologico, che, per essere davvero tranquilli, doveva escludere la minima presenza (anche una sola cellula cancerosa avrebbe dato avvio ad un ciclo di cure mirate) di legami con la malattia diagnosticata ad agosto. La vita, durante quel periodo di attesa infinita, non fu vita. Anche se mio padre si riprese celermente e tutti fingevamo la normale quotidianità, che non deve mai essere disprezzata, spesso ci trovavamo tutti e tre, mentre lui se ne andava a eggiare, a piangere e a domandarci quale futuro avremmo potuto vivere. Nessuno riusciva a chiudere occhio per più di due ore di fila, e di notte spesso incrociavamo i nostri visi disfatti per ingerire litri di Lexotan. Mia madre e mio fratello crollavano, a me non creava alcun beneficio. Il sonno non arrivava comunque. Nonostante lo strano incitamento di mia madre ad uscire con gli amici, trovavo odioso ubriacarmi pensando al disastro che stavo vivendo. Le scuse del tipo: esci almeno non ci pensi non facevano per me. Lei non rispondeva mai alle mie chiamate, nemmeno se chiamavo con il numero mascherato. Ma non avevo tempo per indagare sul come e perché si stava nascondendo, o dileguando, dalla
mia vita. Ero giunto alla conclusione di aver vissuto una storia, se tale si poteva definire, senza senso, solo sentimenti profondi urlati ripetutamente a squarciagola. Eppure ci credevo. Bollinger veniva a casa nostra tutte le sere, appoggiando il culo avvolto nei jeans di Armani sul divano e parlando con mio padre di fotografia e cinema fino a notte fonda. Una quiete drammatica si era presa la briga di intonacare le pareti di casa. Ogni giorno aspettavamo la telefonata dalla clinica, sempre più stanchi ed esausti. Una mattina, in Università, durante un colloquio con un assistente di Finanziaria (non ricordo nemmeno più la data dei prossimi appelli) non avevo realizzato che mentre parlavo di formule e autovalori stavo piangendo. Colpito anche dal mio pallore mi aveva domandto se era il caso di accompagnarmi in ospedale. - “Non si preoccupi, c’è mio padre che a breve prenderà l’ascensore per volare ai piani alti. Ecco, se può offrirmi una sigaretta, gliene sarei molto grato.” – strabuzzando gli occhi, mi risponde: - “Prego, può prendere tutto il pacchetto, tanto in macchina ne ho altri due. Le lascio anche queste dispense…” – mi limito a scroccargliene una e a prendermi il plico di appunti. - “Con questi lo erò finalmente?” – domando con il sapore delle lacrime in bocca. - “Ci può scommettere..ora vada a riposare..” – molto gentile. Le dispense (un centinaio di slides) rappresentano la risposta alla prova, come tutte le lezioni del corso che non avevo seguito, ma mi limito a infilarle nelle mia borsa di Fendi con l’intento di lasciarla marcire ancora a tempo indeterminato. Sulla strada del ritorno imbocco per sbaglio una statale che a per Dalmine, e, con stupore (sono le undici del mattino) noto che ai lati della strada, una ventina per parte, delle prostitute fanno l’autostop a bordo marciapiede. Schiaccio il pedale del freno e inzio ad analizzarle una ad una. L’immigrazione ha i suoi lati positivi. Un paio, di colore, hanno la mano (anelli di plastica e unghie posticce dalla
smalto nero) in mezzo alle gambe e le tette fuori, entrambe con una quarta abbondante, le autoreggenti viola, in tinta con il rossetto e il mascara. Si ano la lingua rosa sulle labbra. - “Vieni da noi, dai..” – inizia a diventarmi duro e immagino la scena, intente a leccarsela mentre glielo spingo nel culo ripetutamente, un po’ all’una e poi all’altra, magari aiutandomi con qualche attrezzo di gomma, così per stuzzicare di più la mia pulsione animalesca. Oltreandole, mentre con la coda dell’occhio spio dallo specchietto noto che quella con la minigonna più corta si stuzzica il capezzolo, incappo in un travestito (altro uno e novanta e di colore) che se lo sta menando cercando di metterlo sull’attenti. L’ha lungo come un braccio. Sorride e richiama la mia attenzione scappellandosi. - “Ma inculati, forse da solo ce la fai..” – commento con lo sguardo puntato in direzione di un gruppo di ragazze bionde naturali dalla carnagione chiara, in foseaux bianchi trasparenti. Non sembrano assetate di sesso, anzi, gli occhi patiscono la loro situazione, tristi e sfuggenti nel cercare il minimo incrocio con il mio sguardo. Evito e accelero. In casa non trovo nessuno. Attacco un po’ di musica e mi sdraio esausto sul divano nel salone principale senza sfilarmi nemmeno i mocassini (Prada). George Michael canta una versione unplugged di “Hand to mouth”, particolarmente strumentale. Mi chiedo come mai non abbiano avvisato. La musica vibra nell’aria e da molto tempo sto vivendo una straziante infelicità, sopportabile ancora per poco. Non so quanto sarei resistito. Sul tavolo, tra la zuppiera d’argento e un vaso di Lalique, il mazzo di tarocchi di mia madre. La vedo davanti, le mani perfettamente curate, intente a mescolare, pescare, interpretare e scegliere quali carte avrebbero presagito correttamente la nostra vita nei prossimi giorni. Da tredici a dieci, secondo schemi per me incomprensibili, fino a sceglierne solo una, il cui segno, rosso o nero, cuori o picche, avrebbe dato il responso tanto atteso e sperato. Serve anche questo. Provo a telefonarle con numero visibile. Suona libero, e nessuno risponde, la comunicazione termina naturalmente, e riprovo. Stesso risultato. Non voglio pormi domande, non ho risposte. - “Sweet little baby on a big white doorstep she needs her mother but her
mother is dead jus another hooker that the lucky can forget just another hooker it happens everyday…” – riprovo con il numero filtrato. Ed ecco la sua voce. - “Pronto.” – sommessa e ladra, sembra un’estranea. - “Ehi, sono io..perché mi eviti?” – il sospiro del rimpianto. Non risponde, solo lunghi e profondi conati d’ansia. - “Non puoi capire. E’ successa una cosa, preferirei non parlarne. Come stai?” – la tecnica è la stessa usata dal sottoscritto per sbolognare carrozzerie in via di rottamazione. Senza spiegazioni, per poi sviare nel generale più banale e squallido. - “Vorresti che ti dicessi che va tutto bene? Non è così. Mio padre è in clinica e presto sapremo quanto gli rimarrà. Sei sparita, senza un perché, almeno all’ultimo un sms ti eri degnata di inviarmelo, ora il nulla. Cosa è successo? Cosa significano le parole per te? Ne hai una vaga idea? “ – l’intensità del suo respiro aumenta. E così arriva la seconda mazzata colossale. - “Sono rimasta incinta.” – scoppia a piangere. Il telefono cade sul tappeto e la mia vita, sgretolata e rovinata, si devasta completamente. Un filo di bava sbuca dall’angolo destro della mia bocca, denso e maleodorante come l’alito che risiede nel palato da oltre una settimana. Colpi di tosse isterica urtano dolorosamente la cassa toracica, secchi, asciutti e maledetti e in gola sento l’odore del sangue. - “Ho bisogno di bere…” – unica frase sconnessa sbucata senza senso. Trangugio, con la stessa facilità con cui bevo Evian, mezza bottiglia di Laphroaig, senza batter ciglio. Mentre mi sto dissetando rio tutti i rapporti avuti insieme, cercando di individuare quello in cui avevo fatto strike. Impossibile individuarlo. Le travi del soffito si animano, iniziando a volteggiare. - “Sei fottuto caro Power. Questo è il conto.” – sentenzia quella più grossa, diventata verde acqua, strizzandomi l’occhio. Davanti a me la finestra, il profumo delle tende appena lavate rappresenta l’unico e rimpianto collegamento con il vecchio mondo.
- “Non ho niente da saldare.” – mi accascio sul tappeto, la bottiglia di whisky da un milione di dollari si stacca dalla mia presa, caracollando sull’angolo della cassettiera del settecento, sbriciolandosi alla stregua di una misera San Pellegrino. E così perdo i sensi. Purtroppo sono solo svenuto. Riapro gli occhi (due fessure prive di vita), strusciando la guancia sul tappeto, solo un’ora dopo. Il cellulare, aperto e senza linea, segnala la solita letterina del cazzo. Mi domanda se sto bene, e come mai la comunicazione si è interrotta così bruscamente. Corro in bagno a vomitare, la fronte gelida e sudata sembra spianata dalla glassa al caramello delle torte di mia madre. Piegato sulla tazza getto, oltre ad un litro di bile verdastra, il whisky e anche il fumo della sigaretta offertami gentilmente dall’assistente di Finanziaria. Non vedo più l’abbronzatura di tutte le mie lampade, né traccia dei sorrisi vincenti dopo scopate colossali. Il mio viso, sgretolato, sciupato e invecchiato di dieci anni, pare una pellicola biancastra di Domopak utilizzata decine di volte. Faccio fatica a guardarmi. Torno in soggiorno e raccolgo i cocci, senza nemmeno preoccuparmi di dover dare una spiegazione della sua mancanza. Altri problemi occupano la casa. Asciugo l’impiastro con della Scottex, consumando un rotolo intero, e spruzzo mezza bottiglia di Escape per mascherare l’odore aspro di alcool invecchiato. Una fatica tremenda. Sudato e tremante, raccolgo l’ultimo frammento della costosa bottiglia, realizzando di avere bevuto inutilmente, così-tanto-per, alla stregua di un menomato mentale, o forse peggio, di un animale impazzito. Il cesso si mangia tutto, vetro, alcool, e Scottex inzuppata. Afferro il pacchetto di Merit di mio padre dal cassetto della sua scrivania. Estraggo una pagliuzza e l’accendo con il Dunhill senza pensarci due volte, ispirando profondamente. Provo sollievo, un gran sollievo. La richiamo. - “Ma dove sei finito? Stai bene?” – mi schiarisco la voce. Il bruciore della bile mi spappola la gola.
- “Ho avuto un attimo di smarrimento, scusami. E adesso cosa intendi fare?” – sembra il finale di una tipica storiella di paese brianzola. Silenzio. E ancora silenzio. - “Silvia…? Ci sei?” – ansima. Un attimo ancora di silenzio e poi scoppia a piangere. Cazzo sto iniziando a pensare di essere una catastrofe per chiunque mi conosca. - “Non piangere, almeno tu. Ti prego.” – le mie parole non servono a nulla. - “Scusami, scusami…ma non hai idea dello stato in cui mi sento.” – da una parte la morte e dall’altra la vita. E io mi trovo in mezzo. - “Silvia, cosa abbiamo intenzione di fare?” – accendo un’altra sigaretta, e un colpo di acidità atomica mi brucia atrocemente il palato. - “Niente, non ti preoccupare. Ci penso io.” – attimo di silenzio. Poi: - “Eccome se mi preoccupo. Perché non mi hai chiamato appena te ne sei accorta?” – continua a singhiozzare, annacquando di nuovo i miei occhi invisibili. - “Perché non sarebbe cambiato nulla, e perché non volevo che stessi male anche tu. Non ho mai voluto farti soffrire. Prevedevo un futuro diverso, come avevamo prestabilito sin dall’inizio. Non doveva accadere.E poi ci ho già pensato io…” – quest’ultima frase, lasciata sfumare..ed eccoil nocciolo nero delle nuvole cariche di tempesta. - “In che senso ci ho già pensato io?!” – e Lei: - “In quel senso, hai capito perfettamente. L’altro ieri, in una clinica privata a due isolati da qua. Mi ha aiutato una mia amica di Roma che è venuta a trovarmi apposta.” – sto ribollendo, ho l’Etna in eruzione sulla testa. - “Ma che cazzo mi stai dicendo? Hai abortito senza dirmi nulla? Ah, Cristo Santo!! Non capisco…” – lacrime a dirotto, e a stento prosegue nel discorso. Non riesco ad immaginarla disperata, la ricordo sempre sorridente e senza nemmeno un problema reale. Quel giorno all’Università.
- “L’ho fatto per te, per me. E per lui. La prova più dura e difficile mai affrontata, e ora devo riprendermi facendo piazza pulita.” – oltre la montagna, spunta il declino irreversibile e travolgente. - “Cosa vuoi dire?” – un filo di voce sbuca dalle mie labbra bavose e gonfie. Accendo un’altra sigaretta, non ha senso fumarne solo due. Avrei fumato il pacchetto intero in una botta sola. Il delirio assoluto ha preso il mio posto e non capisco dove sto andando a finire. Cammino a stento verso la cucina. Realizzo che in frigo c’è una bottiglia di Martini fresca fresca e pronta da scolare. - “Hai capito cosa voglio dire, non sei scemo. Ora m’interessa solo ritrovare un po’ di pace e rimettermi. Ti prego, lasciami stare, mi farò viva quando tutto sarà tornato alla normalità.” – lontani ricordi, parole dette prive di senso, senza significato, dettate da gioie momentanee, infette da semplici sentimenti imbevuti di gioia artefatta. - “MI STAI SCARICANDO. PRENDO ATTO, MA NON CONDIVIDO. SEI SICURA?” - e vai con il Martini, una bella tracannata di dieci secondi. - “Sì, è meglio così. Ciao.” – attacco senza dirle niente.
SONO MORTO
Non ricordo quasi più nulla dopo la sua ultima telefonata. Quando schiudo gli occhi, supino nel letto in camera, tra le lenzuola profumate di lavanda, sembrano trascorsi cent’anni. Sento la pelle del viso levigata, al sapore di borotalco. Il bianco della stanza, ossigenato e setoso, mi fa comprendere che qualcosa è cambiato.
LA VITA CONTINUA
E Il sole ritornò nelle nostre vite. - “Il professore ha chiamato, non c’è la minima traccia di cellule cancerose. Stasera festeggiamo, ma tu brinderai con dell’Evian.” – il dormiveglia inganna le gioiose parole di mia madre, lasciandole sfumare al pari di sogni incompresi dai contorni indefiniti. - “Ehm…cosa stai dicendo…quanto ho dormito?” – la luce abbagliante di una giornata stranamente primaverile dipinge la stanza materializzando chiaramente la figura di mia mamma seduta ai piedi del mio letto, vestita con un tailleur di Cristian Dior. - “Il papà è guarito definitivamente, o meglio, non ha mai avuto nulla. La biopsia ossea è negativa a tutti gli effetti, probabilmente è una manomissione di tanto tempo fa, causata forse da un incidente. Ora che ricordo, quando era andato fuori strada con la Triumph capitombolò sul volante proprio con lo sterno. Finalmente è finita.” – la malattia, con la stessa improvvisa, drammatica sorpresa con cui entrò nella nostra casa, se ne andò silenziosamente e per sempre in un mattino radioso di fine Inverno, così, prendendo a calci in culo la morte.
LA LETTERA
Prendo una Mont Blanc di mio padre e un foglio di carta da lettere e, accantonando momentaneamente un problema sui flussi finanziari, attacco:
Merate, 14 marzo 1999
Cara Silvia, ripenso al giorno in cui ci siamo incontrati. Tutto rasentava la perfezione, anzi, sto sbagliando, era la perfezione. La forza del tuo sguardo, l’intesa immediata, il dolce dispiacere di doversi lasciare per poi conoscersi. Mi domando, ma so che non ci sarà mai risposta, perchè i nostri destini si sono incontrati. Per mio fratello? A volte penso: se la discussione della sua tesi fosse stata fissata, non dico tanto, il giorno precedente a quel ventisette ottobre o il seguente, ora non esisteremmo. Non avresti mai sentito il mio profumo, visto i miei occhi, sentito il mio calore. Conosciuto il mio amore. Ti ringrazio per avermi fatto capire questo sentimento, o, meglio ancora, lo definirei dono, intangibile e struggente, come il mare bagnato di sole al tramonto. Starei a fissarlo tutta la vita. Quello che è successo dopo lo conosciamo fin troppo bene. Poi qualcosa ha cambiato il nostro cammino. Confesso, al cospetto della mia giovane età, di aver trovato in te la mia compagna di vita. La creatura perfetta. Sorriderai, o magari, non so se è meglio o peggio, riderai, di queste mie parole, ma la mano che le sta scrivendo è guidata solo dal sentimento anzidetto, profondo, ribollente e vivido. I tuoi occhi mi accompagnano in qualsiasi posto mi trovo, non mi mollano mai.
Gli stessi di quando ci siamo visti la penultima volta da te, quando mi hai detto: adesso sono qui, di cosa ti preoccupi? Infatti, adesso. Credevo di averti per sempre. Ma la mia certezza rappresentava solo un’illusione, dettata, lasciamelo dire, dalla convinzione dei tuoi atteggiamenti, dalle tue parole, dall’amore che dicevi di nutrire nei miei confronti. Quando cammino credo sempre di vederti sbucare da qualche via, pronta a corrermi incontro ad abbracciarmi e sorridermi. So che non accadrà ancora, come so che non prenderai più il treno per venire nel nostro appartamento, non lo aveva mai fatto nessuna. Eppure sembravi davvero felice, avvolta nella tua pelliccia di visone scuro. Ricordi quando sei arrivata indossando le autoreggenti? Hai voluto provocarmi sin dall’inzio, Dio quanto sei bella. Come farò? E’ la domanda che mi sta perseguitando ogni giorno. L’incidente accaduto, di cui non mi hai fatto parola, credo abbia messo a dura prova la tua sensibilità rispetto al mondo esterno. Dovevi parlarmene, ti sarei stato vicino, e avrei provveduto ad ogni tua necessità. Non capisco perché hai voluto di proposito sbrigar tutto da sola. Mi permetto di dire che hai sbagliato. E stai sbagliando. Un dubbio, hai poi scoperto chi ti seguiva quando venivi a Merate? Era sempre la stessa persona che ti telefonava senza proferire parola mettendoti in agitazione? E’ inutile dirti che sto davvero male, non voglio generare la tua comione, ma il mio stato d’animo è ridotto a pezzi. Sto cercando di rimettermi in sesto, ma senza di te non so come farò. Ti aspetto.
Giovanni
SEMPRE LO STESSO
Tornare a cazzeggiare sugli appunti di finanziaria non è poi così tanto male. Anche di domenica pomeriggio. Stavolta l’impegno è padrone, tanto da prolungare la permanenza sulla scrivania fino a tre ore al giorno, fine settimana compresi. Dal cellulare nessun segnale. So che per molto tempo, forse per sempre, non si sarebbe fatta sentire. Che storia del cazzo, mi manca il respiro pensando di non toccarla più. Come morta. Il distacco è lo stesso, acuito dall’assenza di rassegnazione tipica di quando qualcuno lascia il mondo terreno. Neanche con il telefono quadriband puoi parlare ai morti. Con Silvia mi basta comporre il suo numero sul cellulare, mascherandolo. Sicuro che avrebbe risposto. Ma non è mia intenzione. Data la chiarezza delle sue parole, mi limito a rispettarla, convinto, nel profondo del cuore, anche del suo, che un giorno, non tanto distante si sarebbe fatta risentire. - “Alle due e mezza da me, finalmente torniamo in pista. Quando arrivi fammi uno squillo.” – dopo essermi pompato per bene i bicipiti, m’infilo nella doccia, cosparso di sudore e con le vene delle tempie pulsanti, gli occhi bordeaux e il fiato spezzato. La splendida normalità ha ripiantato le radici nella vita quotidiana e mi sto preparando allegramente ad andare in gita con Bollinger a Milano. Un’ora abbondante sotto l’acqua bollente mi ha permesso di scrutare il mio stato fisico, e, nonostante negli ultimi tempi avessi patito le pene dell’inferno, realizzo di essere tornato in ottima forma. Merito della disciplina, diventata mia fissa compagna. Almeno un’ora al giorno di esercizi o corsa nei boschi. Prendo la lettera, la infilo nella tasca del mio nuovo giaccone Armani Borgonuovo di cashmere blu, morbidissimo, regalatomi da mio padre e mi catapulto sul piazzale della chiesa. In confronto la steppa sembra un luogo affollato. Non un’anima viva, solo la voce di un gioco a quiz televisivo sbuca dallo spiraglio di una finestra lasciata semichiusa, al secondo piano nell’edificio
di fronte a me. In attesa leggo gli annunci degli appartamenti in vendita a Merate nella vetrina dell’immobiliare posta al piano terra del palazzo di fonte a casa mia, e, computando, realizzo che ci vogliono almeno tre milioni di lire al metro quadro per un appartamento di cento metri in Viale Verdi. Un vero furto. Case popolari anni settanta. La mediazione dell’agenzia è fissata nella misura del tre per cento, dovuta sia dalla parte venditrice che dalla parte acquirente. Computo ancora e realizzo di nuovo che in quello specifico caso, il titolare del bugigattolo si sarebbe intascato a operazione conclusa intorno ai diciotto milioni di lire. Non male, davvero non male. Il tuono dell’sl irrompe nella quiete sonnacchiosa del primo pomeriggio. - “E allora?” – spalanco la pesante portiera, inondato da una zaffata di Escape, scrutando con la coda dell’occhio una vecchietta ficcanaso con la testa nascosta dietro a una sudicia tenda a quadrettini bianchi e rosa al terzo piano dell’edificio antistante. Spiona, stanca evidentemente di farsi i cazzi suoi. Forse non se li è mai fatti. - “E allora salta su!” – lanciato il giaccone sui sedili posteriori, mi accomodo, appoggiando il polpastrello dell’indice sinistro sul frontalino della radio cd. - “Quella vecchia troia non si fa mai i cazzi suoi…ci guarda nel culo a tutti. Ma va dentro, rincoglionita!! Un giorno all’altro le secco quel suo gattaccio di merda che viene nel nostro giardino a spruzzarci di merda le colonne del portico.” – le alzo il dito medio. - “Ci sono dei prodotti fenomenali…gli preparari delle belle polpettine ripiene, con l’aggiunta di ehm…cazzo non ricordo il nome del prodotto, devo chiederlo al mio giardiniere, è eccezionale. Fa effetto dopo un’ora, noi l’abbiamo utilizzato perché continuavano di notte a buttarci gatti randagi oltre la siepe, nella parte bassa del giardino. Va bene uno, due, tre, ma quando ce ne siamo ritrovati dieci e il box ridotto ad un merdaio ho dato carta libera al signor Este. In due giorni è cominciata la decimazione. Una volta mi hanno pisciato sul cofano dell’sl. Quando ho il riscaldamento sembrava di essere in una camera a gas. Puttana, stavo crepando. “ – Ancora una volta “Outside” in sottofondo. - “Le ho scritto, dobbiamo are in Porta Romana, devo lasciare al portinaio la lettera. Voglio esser sicuro che arrivi a destinazione.” – scuote la testa, senza commentare.
ano due minuti, il tempo di lasciare finire la canzone, che attacca. - “Ancora sei lì a perdere tempo, la lettera?! Sai cosa se ne fa della tua lettera quella? Se la infila su per il culo, e si fa un gran risata alle tue spalle. Oh Power, ma perché stai buttando via il tuo tempo così?” – la sfilo dalla tasca del giubbotto e la stringo tra le mani, alla stregua di un oggetto inestimabile. - “Vuoi leggerla? Ah…non sì può, l’ho affrancata. Cosa ne pensi della Coccoina? Potresti levare l’hard top.” – devio il discorso, per non ricordare. - “Non m’interessa. Lettere, ricordi, tutte cazzate. Cosa ne rimane? Niente, le macchine danno molte più soddisfazioni. E se non ci fosse l’Aids, sarei il primo ad andare a troie. Almeno c’è una vasta scelta. E poi in una seduta puoi anche noleggiarne due o tre alla volta. Pensa che storia.” – in effetti potrebbe essere il prossimo traguardo. - “Allora Porta Romana bella?” – taglia in direzione Forlanini sorando a destra un camion a due rimorchi e una decina di auto, con finale di clacson. - “Vedi? La gente non ce la fa più…non è colpa mia se tutti vanno come dei trattori…” – in un attimo siamo fermi a un semaforo in Corso Ventidue Marzo a scrutare i anti alla ricerca di qualche figa da abbordare. - “Ma scusa un attimo, ti ricordi? Non sapeva nemmeno se Porta Romana era a destra o a sinistra? Non ti è sembrato strano?” – torna alla mia mente il momento in cui, sdraiata sui sedili posteriori, in autoreggenti e scosciatamene spudorata, diceva ridendo, come se tutto fosse facile: - “Non ricordo…prova a svoltare a destra…” – e poi siamo arrivati praticamente ai bastioni di Porta Venezia. Ah… - “Ma certo, non sapeva nemmeno dov’era, credo fosse dovuto all’ebbrezza del momento…in fondo mi sembrava entusiasta di me…devi proseguire dritto, vedi, dove c’è quel grattacielo, abita all’ultimo piano…”- quante cazzate. - “Papà notaio la mantiene alla grande, però. Non potrei permettermelo un superattico così, hai detto che è arredato con supermobili? Non c’è verso di andare a trovarla? Sono curioso di vedere la vista…” – pianta l’sl davanti all’entrata, e una coppia di signori anziani a eggio con il loro Labrador si voltano a scrutarci incuriositi. - “La lascio al portinaio e arrivo subito.” – l’ingresso lo conoscevo
perfettamente, mancava solo Lei. In reception non c’è nessuno. Aspetto cinque minuti abbondanti. Così mi avvicino alle caselle postali, cercando di individuare quella con il suo cognome. Saranno state un centinaio, ma Mason proprio non esiste. Alcune hanno impresse sulla targhetta in plexiglass al posto del nome solo numeri e, pensando alla sua riservatezza, giungo alla conclusione che la sua è senza dubbio una di quelle. Mi viene in mente il suo citofono, ma di caselle con il numero novanta neanche l’ombra. Aspetto ancora dieci minuti, quando finalmente da una porta in mogano appare come un fantasma una ragazza sui vent’anni, che gentilmente mi saluta e mi domanda lentamente se sto cercando qualcuno. - “Dovrei consegnare una lettera alla signorina Mason, posso lasciarla a lei? Ho provato a guardare le caselle ma non ho trovato la sua. Magari è identificata da un numero…” – oltrea il bancone con un mazzo di chiavi penzolanti nella mano destra e la faccia con disegnato in fronte un bel punto di domanda. Staziona un paio di minuti e, dopo aver controllato dettagliatamente, come un segugio, si volta, scrutandomi dall’alto al basso. Sicuramente sta immaginando di girare un pornazzo nella hall del palazzo con il sottoscritto. Un attimo di silenzio. - “Mi spiace signore, ma in questo stabile non abita nessuna signorina Mason, evidentemente ci dev’esser un errore.” – quella brutta troia non si rende nemmeno conto di sapere quale sia il suo ruolo nella società. - “Penso che si stia sbagliando, forse è il caso che mi chiami il portinaio….” – si irrigidisce come se l’avessi ricoperta di insulti. In effetti aspetto che termini la sua giustificazione da analfabeta incapace per scaricarle addosso un mare di merda. - “E’ mio padre…adesso lo chiamo, in ogni caso il cognome Mason non mi hai mai detto nulla. Aspetti. Papà, sono qui in portineria con un signore che chiede di una certa Mason, deve lasciarle una busta. Io non so chi sia, tu l’hai mai sentita?” – scuote la testa e mi fissa compiaciuta. - “Mi spiace, sta sbagliando…anche mio padre, che lavora qui tutti i giorni, abitiamo al primo piano, non ha mai sentito parlare di questa persona…” – ne è convinta.
- “Ma come? Abita nell’attico all’ultimo piano, quello super, tutto imbiancato di bianco..” – l’espressione perplessa incartellata sul suo viso comune fa posto al raggio di sole che colpisce l’intelletto e rischiara i dubbi sul finire dell’enigma. - “Ah!!Ma certo ho capito…” – a quella cretina finalmente si è snebbiato il cervello. - “Vede che avevo ragione..” – la faccia di cazzo ritorna davanti ai miei occhi. - “Si sbaglia, all’ultimo piano abita la signora Cingarelli..ora è a Londra perché ha raggiunto suo marito.” – non ho mai sentito questo nome, e non mi dice assolutamente nulla. - “Scusi, ma quanti anni ha la signora Cingarelli?” – impallidisco. Le pupille iniziano a tremarmi, qualcosa non torna. Mi guardo intorno, e poi in direzione dell’ascensore, e in alto, e ho già vissuto tutto. Sono stato in quel posto, più di una volta, e lo conosco perfettamente. - “Sulla trentina, è un avvocato.” – ma che cazzo sta succedendo. Mi volto verso l’entrata, con le gocce di sudore che hanno scambiato la mia testa per un giardino stremato dal sole. Bollinger sta varcando la porta a vetri lamentandosi, indicando il suo Daytona d’oro diamantato fondo champagne. - “Power, c’è qualche problema? E’ mezz’ora che aspetto.” – punto dritto su quella troia di portinaia che non sa nemmeno cosa sta dicendo. - “Ancora una curiosità, questa avvocato o avvocatessa, fisicamente com’è? Mi spiego, bionda, mora, rossa, alta, magra, grassa, non so checcazzo, mi dica lei. Cingarelli? Sto cercando Silvia Mason, porca troia!! Non capisci un cazzo, se vuoi ti disegno la piantina di quel fottuto super attico di merda, rincoglionita!!” – trascendo la situazione. Pesto i piedi sul pavimento in marmo e mi scappa da pisciare. - “Ho già camminato su questo merdoso pavimento!!” – la pezzente si attacca alla cornetta e in un secondo piomba il padre, il portinaio con la p maiuscola. - “E poi lei dovrebbe essere il portinaio che la pedinava? Su ordine del giudice? Abita qui un giudice giusto?” – il padre non ha per niente l’aria di un tipo losco da pedinamento, anzi, sembra abbastanza affabile e mi scruta come se fossi un cane rabbioso, cercando di tenermi a bada.
- “Signore, di giudici qui non ce ne sono, e non ho mai pedinato nessuno. La signora Cingarelli abita realmente nel superattico, solo che è fuori dall’Italia e non so quando rientrerà. E’ bionda ed è una persona molto elegante e felicemente sposata. Di giudici in questo condominio non ne ho mai visti. Mi spiace, questa è la verità. Sono nato in questo palazzo e so perfettamente chi sono i residenti. Mio padre è stato il primo portinaio. Ora, se non le dispiace la pregherei di uscire, altrimenti sarò costretto a chiamare la polizia o i carabinieri. Come preferisce. “ – Bollinger, capendo la mal parata saluta al mio posto e scusandosi mi trascina fuori dal palazzo. - “Va bene, va bene, la solita storia del lavoro di generazioni…aspetta cazzo!! Fammela chiamare così chiarisco tutto. Porca puttana, non vedi che stanno raccontando un sacco di stronzate! Mi stanno prendendo per il culo…” – tiro fuori lo startac e compongo il suo numero. - “Sali in macchina, Cristo Santo, non voglio rogne con gente di quel tipo, non hai visto che sono dei miserabili?” – il suo cellulare è staccato. - “E’ spento, riproverò dopo. Ma non me ne frega un cazzo se sono miserabili. Hanno detto un sacco di stronzate, porca puttana. Fammi rientrare che vedi…” – mi scaraventa in macchina e schizza a cannone verso viale Majno. - “Caro mio, ti ha preso proprio per il culo, ed il bello è che non te ne rendi ancora conto e in più le dai ancora ragione. Oh Power, sei un poveretto.” – una pugnalata. Ho bisogno almeno di fumare, bere un Vodka Tonic e se fosse stato possibile mi sarei sparato una striscia lunga venti centimetri. - “Cazzo portami in un bar, devo assolutamente fermarmi per comprare le sigarette. Cristo Santo, è sparita nel nulla. Guarda, parcheggia, lì c’è un distributore automatico.” – aveva mentito. Su tutto, fin dal primo giorno. - “Ah ah ah ah, Power, ti ricordi quando ti mettevo in guardia? E tu a darmi contro, ma cosa credi? Non sono mica un coglione, quella ti ha preso per il culo. Che scoperta, un bel ragazzo come te, tutte vorrebbero farsi una scopata ed averti sempre a disposizione. E tu? Lì ad aspettare, mentre lei si faceva i cazzi suoi. Sai come la penso?” – mi scappa una lacrima ingestibile lungo la guancia destra. - “Sì, cioè no. Non me ne frega un cazzo!” – fuori dall’abitacolo fa un gran caldo, e le strade iniziano ad affollarsi. La cerco in mezzo alla gente.
- “E te lodico lo stesso. Ti ha riempito di balle! Addirittura ti ha fatto credere di essere incinta e di aver abortito. Con la stessa facilità di una cagata. Ecco, e tu avanti e indietro, avanti e indietro, e giù benzina, chilometri, e tempo. E scommetto che appena si farà sentire la scai di nuovo, e crederai ad ogni sua stronzata. Ah..chemmerda.” – accendo una Malboro Light, e rimango in silenzio. - “Allora metto la macchina in quel parcheggio a pagamento, aspettami qui.” – al primo incontro, si era preoccupata di prendere il treno e venire a Cernusco, anche tutte le altre volte. Preferiva farsi un’ora di treno piuttosto di doversi attrezzare per mascherare il vero stato della sua vita. E i suoi occhi mentre dicevano di amarmi? Dicono che quando si è sinceri non si abbassa mai lo sguardo. Lei non lo ha mai fatto. Ora sento freddo, così sfilo dal pacchetto un’altra sigaretta. Bollinger sbuca dall’ingresso del parcheggio e cammina verso di me. Ha l’espressione triste. - “Dobbiamo andare dal signor Sventrax.” - dico con voce tremante. - “Sai che stavo pensando la stessa cosa mentre parcheggiavo? In fondo è giusto, devi fargliela pagare.” - Il cielo si è fatto grigio e cupo.
L’ ESCORT DI SILICONE
Per rilassarmi inizio a frequentare di nuovo il mondo della notte, l’unico vero campo che conoscevo alla perfezione. Mi tenevo alla larga dal cellulare, un altro startac con il guscio in argento a cui avevo applicato al posto della targhetta Motorola lo stemma della Mercedes (lo trovavo molto elegante), era andato a spiaccicarsi contro il muro. Non volevo ricadere nel disturbo ossessivo compulsivo che mi costringeva a are giornate intere ad aprire e chiudere il telefono per vedere se aveva chiamato o mandato sms. Una notte, invitati dal commercialista di Bollinger, afficionado del sesso a pagamento ci siamo intrufolati alla festa di una escort di lusso, in un locale di Milano, dal nome altisonante, Astoria. Spaziamo nuovi orizzonti. L’ambientazione ricorda molto quella dei bordelli ritratti nei film anni venti, con stanze ricoperte da moquette rossa e tappezzeria unta e bisunta. Lampadari di Murano colano dal soffitto traballanti e provvisori. Un dj pescato in chissà quale mattatoio sta al centro della sala collezionando successi italiani da voltastomaco, da Little Tony a Raffaella Carrà. Perché al peggio non c’è mai fine. La festeggiata è una troiona con una quinta rifatta, ossigenata e avvolta in una sottoveste nera di pizzo. Una stola di volpe argentata le cinge il collo abbronzato come un cappio pronto da stringere. La bocca siliconata e il viso gonfiato la rendono davvero una donna sgradevole e grottesca. E’ la sua festa di compleanno ma ha posto il severo divieto di non comunicare gli anni in questione. Più è sui quarantacinque, forse un paio in più. Per tre quarti è di gomma. Quando mi vede si avvicina all’amico di Bollinger, sussurrandogli qualcosa nell’orecchio tenendo gli occhi puntati su di me. Lui sorride e si avvicina a noi. Ogni tavolo è provvisto di cestello con bottiglia di Moêt. Gli uomini invitati, tutti sopra i cinquanta, si lanciano in balletti patetici con ragazzine in miniabiti firmati dai colori più svariati. Sono tutte troie a pagamento, italiane, con Rolex al polso e costosissimi gioielli che le guarniscono abbondantemente. Un po’ come le costosissime torte di Cova. La festeggiata funge da maîtresse. Anche in quell’ambiente c’è una gerarchia. L’amico di Bollinger ci aveva raccontato che ne combinava di tutti i colori: aveva iniziato la sua carriera in un appartamento di lusso in centro con altre professioniste. Per ogni appuntamento la cifra d’ingresso si aggirava sul milione, ovviamente pagato ante prestazione. La inculava facendo a turno con un
negro dal super cazzone gigante mentre lei si dilettava leccandola a una vecchia schifosa di nome Renata (la proprietaria di casa). - “Mi ha detto di non dirti niente sul suo vero mestiere. Considerala un architetto d’interni. Si spaccia così. In arte si fa chiamare sca, ma il suo vero nome è Monica. Ecco che arriva. Reggi il gioco.” – la precede un’ondata di profumo asfissiante. Il profumo delle troie. Che differenza con quelle poverette incontrate al ritorno dall’Università. Queste la vergogna non l’hanno scritta in faccia, se ne stanno con tutta tranquillità nelle loro eleganti vesti con il sorriso a fior di labbra. Recitano perfettamente la parte, scordando l’identità della vita reale e il vero ruolo che possono ricoprire. Il cazzo l’hanno nel DNA. E questo fa loro gran comodo. - “Ah…molto piacere, Monica.” – mi stringe la mano e mi bacia sulle guance, inzaccherandomi la camicia di Armani di fondo tinta. Mi fa sentire la potenza delle sue tette, enormi e fuori dal normale. Il mio primo pensiero spontaneo è immaginare la grandezza dei suoi capezzoli. Inizia a galopparmi nei boxer, e più la fisso più la immagino mentre si fa eiaculare in faccia da un esercito di negri. Puttana che troia. - “Power, il piacere, è mio. GRAN BELLA FESTA. DAVVERO. DI GRAN CLASSE.” – mi ringrazia e, scusandosi, si catapulta in braccio a un vecchio con al polso un Daytona in oro bianco. - “E’ un avvocato di Bergamo, la scopa tre o quattro volte la settimana. Le ha intestato un appartamento a San Remo, di sessanta metri quadri. Pensate la figa cosa può far fare. Queste hanno capito tutto.” – commenta con amarezza il commercialista. - “Se sua figlia fe questo mestiere, perché di mestiere si tratta, direbbe lo stesso?” – gli domando senza scherzare. Ma fa finta di non sentire, e non risponde. - “Puttana che troia, Bollinger. Da un estremo all’altro, non ti pare? Non conosco la mezza misura.” – la osservo con disgusto muoversi tra le maschere di dolore di uomini senza più niente, nonostante il portafoglio pieno, sedendosi sopra le loro ginocchia, sui loro cazzi mosci e striminziti. - “Vedi dove possono arrivare? Pensa che non sappiamo nulla, che la reputiamo una persona normale, con dignità e un lavoro rispettabile. Sono sempre più
stanco. Chemmerda.” – ed eccola nel suo finto sorriso alle prese con “I will survive” in preda a casquet traballanti in braccio ad un altro vecchio grifagno dall’abito in cashmere blu. - “Cazzo, è ridicola. Vuoi metterla con Silvia?” – Bollinger annuisce. - “ Che scoperta, come fai a innamorarti di quell’ammasso di silicone? E’ spazzatura vivente. Eppure si diverte, ma se ne renderà conto di come è messa? Prenderà minimo tre cazzi al giorno. Chissà come ce l’ha elastica, una fionda.” – il cellulare non è mai stato così in silenzio, nessuno trillo. Lontani i tempi di quando scriveva in continuazione di amarmi. - “Pagherei per vederla montare con quei dinosauri. Cento a zero che quando glielo prende in mano si sbrodolano subito. Versami un po’ di quel cazzo di champagne, inizio ad avere la gola secca. Numero uno.” – indosso un bracciale in pelle borchiato oro Versace, costruito personalmente da Bollinger. Una pacchianata allucinante, ma si accorda perfettamente con l’ambiente in cui mi sono catapultato. - “Allora, come ti sembra la mia festa? Carina, vero?! Ahhhh….” – mi pizzica la chiappa. Non l’ascolto, sproloquia frasi senza senso. Evito di sentirle, la considero meno di zero. Alla stregua di una nullità. - “Bella, piena di vita direi. ami il bicchiere.” – scocciato nell’averla al mio fianco trangugio lo champagne in meno di un decimo di secondo, emettendo un gassoso rutto, espressione del mio malessere. Se ne accorge e mostra un’espressione corrucciata. Si crede lo stesso una gran signora. - “E quanti anni compi?” – la brucio innervosito da quella sua espressione ebete e sgradevole diametralmente opposta al finto sorriso impresso fin da quando si è presentata. - “Caro, non si chiede l’età ad una donna.” – prevedibile e banale. - “A una signora vuoi dire….” – prende e se ne va a confabulare con l’amico commercialista, tenendo lo sguardo fisso su di me. Scommetto che vuole cacciarmi dal locale. Ed ecco arrivare l’amico di Bollinger in veste di ambasciatore.
- “E’ arrabbiata con te. Pensava fossi un signore, le hai digerito praticamente in faccia e poi sei stato scortese domandandole l’età.” – lo brucio: - “Pensa quando si fa sborrare in faccia. Lì non si arrabbia di certo, e poi, che cazzo significa che una fa la festa di compleanno e non è dato sapere quanti anni compie? Ma mi state prendendo tutti per il culo? Bollinger, digli qualcosa.” – mi verso un altro champagne. Dietro di me sfila una stanga di due metri dal culo perfetto, intenta ad accendersi una Malboro. Memore dell’ultima mia performance mi ero imposto di andarci piano con gli alcolici e le sigarette. Ma Cristo Santo, non sto mica bevendo Laprhoaig, è solo champagne. E una sigaretta rilassante non equivale certo a svenire ancora una volta. E poi ho una voglia pazzesca di stringere il filtro tra le labbra, percepire il suo sapore acre misto all’acidità delle bollicine. Una droga difficile da dimenticare. - “Scusa cara, sto morendo dalla voglia di fumare…mi offri una sigaretta? Saresti davvero un tesoro.” – davanti ho un’altra della congrega, dai denti fatti a Capodimonte e le labbra gonfiate in Michelin. - “Piacere, comunque mi chiamo Jois.” – sicuramente nome d’arte. - “Power, piacere. Grazie per la gentilezza, vuoi bere qualcosa con noi? Come vedi siamo i più vicini alla tua età.” – le troie di lusso ti fissano come ipnotizzate. Non c’entra se sei Brad Pitt o Alvaro Vitali, ti fanno credere di essere il numero uno in assoluto, e, quando ti scuciono un bel milioncino, in contanti, e se lo rinfilano nella borsetta di Chanel (perché pensano di essere donne di classe), ti mandano affanculo in un attimo, almeno che non ritiri fuoi altri soldoni. E così loro vincono e tu, pensando che una sborrata di dieci secondi valga tutto l’oro del mondo, perdi come il più fallito dei falliti. Con un milione in meno. - “Certo, con piacere. Siete amici di sca, vero?” – ed ecco il manifesto collegamento al tacito accordo che vige tra loro. Una setta dai nomi fittizi mascherata da false professioni, composta da supersucchiacazzi che pensano pure di essere donne serie. Le donne con la D maiuscola. - “Certo, anche se non ho ancora capito quanti anni compie…scommetto che tu lo sai? Vero Bollinger che lei lo sa?” – la tocco con il gomito, e noto che indossa un Franck Muller Casablanca, in oro bianco e cinturino nero di coccodrillo.
- “Certo che lo so, ma la Francy ci ha imposto il divieto di dirlo…sai le donne.” – le o un bicchiere colmo di Veuve Cliquot, e agguanto la sigaretta che prontamente ha per me. Rinasco. - “GRAZIE MI HAI SALVATO LA VITA.” – sorride e mi prende sottobraccio. - “Tesoro, per così poco. Oh, come ci sta guardando male…” – è più alta di me di almeno venti centimetri, e nenche porta tacchi vertiginosi. Scruto sempre la gente che balla intorno. Tutti, nella loro ridicolaggine, stanno a proprio agio. - “Scusami, chi ci sta guardando male?” – si gratta la tempia, coprendosi con il dorso della mano la bocca per mascherare ciò che sta per dirmi. - “La Francy, ti ha messo gli occhi addosso. E teme che stiamo flirtando. Pensa te…” – dai calcoli, la festeggiata è la vecchia del gruppo e, se tanto mi da tanto, la presidentessa del circolo delle troie. La maîtresse per grado di anzianità. - “Cazzo, da come si muove sembra un capitano d’industria. L’ho appena conosciuta, come ho appena conosciuto te, pertanto non vedo territorialità nè predominio nel suo atteggiamento. Se fossi in te mi irriterei. Puoi parlare con questi dinosauri e non puoi farlo con me?” – oltre ad indossare un orologio da capogiro porta un trilogy da trenta milioni. Queste donne sanno perfettamente cosa non significa la fatica. Sudano solo per far sborrare quattro cazzi striminziti e rugosi. - “Mi piacerebbe parlarti con più calma, magari potremmo andare nell’altra saletta dove questa pessima musica è meno assordante. Ti va?” – percepisco la sua brama di saltarmi addosso, e di farsi una scopata come si deve. Con la coda dell’occhio tiene monitorata la sua direttrice. Cappelmastra. - “Ohhh….piacerebbe molto anche a me, sta arrivando.” – la sua zampa di gallina afferra la mia mano fortunatamente ancora adolescente, e quelle sue labbra somiglianti molto a due canotti di lattice inziano a blaterare. - “Ah, cosa state tramando voi due…Jois hai visto che bel ragazzo, potrebbe fare l’attore. Potrei presentarlo a quel mio amico, sai…?” – quante cazzate senza senso mi tocca sentire. Le brutte persone non fanno mai nulla per migliorarsi. Ecco, lei poteva tranquillamente essere l’attrice di una serie di film porno con protagonisti anche animali, tipo cavalli ed elefanti. Scalpito dalla voglia di confidarle che sono a conoscenza del suo segreto e che l’ apprezzo per il ruolo
che occupa nella scala sociale. - “Tesoro, te lo porto via un attimo. Vieni con me, oh ma che bel bracciale!” – mi trascina a forza in fondo alla sala, zigzagando in mezzo a quella marmaglia decadente e penosa di persone che hanno chiuso con la vita, per farmi sfilare in una porta di vetro dietro la consolle diretta da un dj pippato e zingaresco. - “Devi darmi subito il tuo numero di telefono, dobbiamo vederci, l’ho detto a Luigi, sei il mio vero regalo di compleanno.” – si slaccia il bottone della sottoveste sparandomi in faccia le tette enormi, abbronzate e noto che al posto dei capezzoli il chirurgo le ha spiacciato due castagne matte. Puttana che troia. - “Ma certo, segnalo sul tuo cellulare. Vieni qua.” – inizio a slinguarla pensando a quanti cazzi sono ati da quella bocca. Mi faccio schifo. Per completare l’opera lo tiro fuori e le pianto il dito medio dritto su per il buco del culo sudato. Emette un rantolo di finto dolore, forse vuole farmi credere che ha mantenuto le verginità, aspettando il principe azzurro e l’altare? Sorride e si mette in ginocchio. C’è una grande differenza (inspiegabile) tra lo troie e le brave ragazze seppur vogliose. Ho inchinato al mio cospetto una professionista del cazzo, ne conosce esattamente la conformazione e i punti più sensibili. Vengo in meno di due minuti, e butta giù tutto. Puttana che troia. - “Che signora..” – sorride e m’infila nella tasca dei Jeans (Versace) il suo biglietto da visita. Lo afferro e in rilievo oro a caratteri Book Antiqua risplende: “Monica Miravaglia, Architetto d’Interni”. Eccezionale. - “Settimana prossima vado a Montecarlo perché sto cercando di comprare casa. Vorrei che mi accompagnassi. Naturalmente sei mio ospite.” – Avevo bisogno di cambiare aria e dimenticare, non potevo pensare sempre a Lei. Così, senza nemmeno pensarci rispondo: - “Va bene, credo che verrò.” – mi ci mancava una vecchia troia, che si fa sbattere da vecchi schifosi dall’uccello traballante. Se lo sa mia madre crepa subito. La serata termina alle tre, dopo aver scolato con Bollinger una magnum di Moêt offerta dalla vecchia succhiacazzi, illustrando, con il viso sformato e cotto dall’alcol, nei minimi dettagli la mia performance nel retro consolle. Mi faccio schifo, e più mi faccio schifo, più bevo. Noto l’amico commercialista restarsene in silenzio, limitandosi ad annuire con il sorriso amaro stampato in faccia. Dopo
aver urlato a squarciagola che MONICA MI HA APPENA INVITATO A SUE SPESE A MONTECARLO, sobbalza dalla sedia, rischiando di sfracellarsi sulla moquette unta e bisunta. In fondo sponsorizza anche lui. - “Capisci, e ha ingoiato tutto, sorridendo compiaciuta!!! Ahahahaha…” – quando realizzo che qualcuno mi giudica, o per invidia, o per qualche altro stronzissimo motivo decido di non fermarmi e di demolirlo fino alla fine. Non posso farci niente, doveva pensarci bene prima di invitarci, evidentemente quella sera si sentiva solo. - “E pensa che ha detto che paga tutto lei. Sta cercando di acquistare casa nel Principato. Hai capito, con la figa? Altro che mio padre e il Cavaliere!! E non ha costi fissi, se non il detergente intimo per lavarsela e qualche scatola di goldoni. A proposito, lo fa mettere sempre il preservativo?” – mi volto con gli occhi sprizzanti di euforia verso il malcapitato. - “Certo, e fa l’esame per l’HIV ogni tre mesi…” – scrocco una Malboro rossa da un pacchetto capitato così per caso sul nostro tavolo e sorrido compiaciuto. - “Pensa, meglio delle ragazze che scopi al volo in discoteca. Quelle preferiscono prenderlo al naturale. Come il tonno…ahahahaha!!! Che brava donna la nostra Monica!!” – il dj si sta sballando con Barry White girando “ Let the music play”. Se non altro si avvia a concludere con un po’ di classe. Saluta calorasamente i suoi clienti, per arrivare al nostro tavolo con il grottesco ghigno degno di Joker. La scrutto attentamente, con gli occhi reali dello champagne, e inizio a pensare a come umiliarla alla grande. E un barlume diabolico s’insinua tra le sinapsi della mia testa bacata.
IN TRASFERTA
Mi ritrovo in coda prima di Ventimiglia a bordo della smart cabrio di Monica la troiona. Sono quasi le due del pomeriggio. Nella settimana trascorsa dal nostro primo contatto mi ha tartassato di telefonate adulatorie, ribadendo l’invito per il weekend monegasco (A SUE SPESE), con la prospettiva di diveritirci un sacco. In effetti lei lo sta facendo alla grande, utilizzando il mio cazzo come spazzolino, decisione repentina per ammazzare il tempo provocato dalla coda immobile. Se ne frega dei camionisti che ci strombazzano vedendola accasciata sul mio basso ventre, con il perizoma spuntare dai Jeans D&G stracciati e mezzi calati in corrispondenza della sua intimità pelosa. Dopo essersi presa in faccia il mio sperma alcolico, dato che la sera prima ho fatto il matto al Carpme Diem fino alle cinque con mia cugina e mia zia a colpi di caipiroska al limone, si asciuga, soddisfatta e compiaciuta del suo operato, le labbra siliconate con un Kleenex profumato alla menta, per poi sfilare dalla Birkin di Hermes un tubo di crema solare protezione 15 di Helena Rubinstein, ritoccandosi con cura ossessiva gli zigomi abbronzati. Noto che le zampe di gallina, seppur rallentate da trattementi estetici persistenti, ombreggiano con insistenza su quel viso sformato e senza sentimento. - “…appena arrivati ho prenotato i capelli da Aldo Coppola, e poi verso le diciassette abbiamo il check-in all’Hotel de Paris.” – noto che ha imparato la lezione a memoria. - “Come?” – evaporo il lime dalle orecchie e la sua vicinanza m’infastidisce. - “Vedrai, non sei mai stato nella Spa dell’Hotel de Paris? C’è la piscina, è meraviglioso…” – e bla bla bla. Povera scema. Mentre accendo l’aria condizionata mi cade l’occhio sulla sua borsetta. Dentro, sotto una trousse portatrucchi e una bottiglietta mignon di Angel ci sono due belle mazzette, anzi, mazzone, di soldi, frutto di lavoro sudato e remunerato onestamente.
- “No, cara, non ci sono mai stato. Per come la descrivi dev’essere un paradiso. Lo sai che sei fantastica?” – ci provo un gusto afrodisiaco nel mentirle e nel vedere quella sporca faccia volgare sorridermi e annuire ad ogni stronzata che proferisco a furor di legge. - “Vedrai la piscina, oh tesoro, ho capito subito che saremmo andati d’accordo. Svolta a destra, siamo quasi arrivati.” - per organizzare questa pagliacciata ho propinato a mia madre la trasferta di un paio di giorni da Bollinger a Santa Margherita, con altri amici. Motivo: lo stress galoppante da studio. I miei non hanno battuto ciglio quando il mio mentore si è presentato con l’sl davanti al cancellone aiutandomi a caricare le valigie nel baule. Mi sono fatto portare a Milano davanti alla casa della nostra escort, un appartamento di cento metri quadri in un palazzo del settecento in Via Conservatorio, roba da ventimilioni al metro quadro. Comprato a colpi di cazzo. La porta d’ingresso, blindata all’esterno è imbottita in pelle bianca, per attutire i gemiti dei clienti. Va a fare colazione tutte le mattine da Taveggia, insieme ad industriali, notai, commercialisti e avvocati. Una troia che si diverte a far il mestiere della troia. Povera gente onesta. - “Ma che cazzo te ne frega, cerca di spennarle un po’ di soldi, ma non l’hai vista che merda di persona, pensa di fare fessi tutti. Vedi di farti regalare un bel Ferrari, almeno tu hai la possibilità per farlo.” – queste le ultime parole di Bollinger prima di ripartire per tornarsene in Brianza. In quel momento, solo con la mia valigia e trentamila lire in tasca stavo per scoppiare in lacrime. Mi mancavano la mia casa e i miei. E così la nostra puttanona fa il suo ingresso all’Hotel de Paris alla stregua di una star del cinema o, meglio ancora, di una super donna d’affari, che muove i fili del mondo, andando fiera di avere prenotato una suite all’ultimo piano con vista sulla piazza del Casinò e accesso libero ai molteplici servizi che il super hotel offre. Non vede l’ora di asseggiare di nuovo la cucina di Alain Ducasse. L’ultima volta che ci ha soggiornato è stata con il suo ex, che possiede (a detta sua), oltre ad un attico a Manhattan e uno chalet a St. Moritz, una collezione di splendide Ferrari d’epoca. - “Anche se preferisco quelle di adesso, come il 360 Modena. Ti ci vedrei bene sopra, amore mio. Ti posso chiamare amore?” – il consierge, un signore sui
sessanta super abbronzato con occhiali da vista in oro giallo Cartier si dimostra molto cordiale con la nostra eroina, chiedendole in perfetto italiano, come sta e ridandole di nuovo il benvenuto all’Hotel de Paris. - “Chiamami come vuoi. Sei la migliore.” – più la riempio di complimenti, più si gasa. Prima di trasferirci nella suite, e dopo aver ammirato la hall dell’ albergo, sponsorizzata dalle migliori marche di orologi (Rolex, Cartier, Pateck, etc…) e di prodotti di bellezza di livello superiore (Sisley, Prairie, Estèe Lauder, La Mer, etc..) andiamo a piedi dal parrucchiere delle star, come ama definirlo la nostra bagasciona. - “Dopo torniamo a facciamo un bel tuffo. Guarda, in quel palazzo ho visto un appartamento molto interessante. Vogliono un miliardo e mezzo, è molto esclusivo, non vedi, è tutto in cristallo. L’ultimo piano è occupato da Claudia Schiffer.” – non capisco se sta scaricando una fila di balle, oppure millanta verità assolute. E ripenso a quelle povere donne sulla strada e la guardo camminare per le vie di Montecarlo come la regina del principato. Ma non c’è differenza tra lei e quella poverette. Fanno ambedue lo stesso mestiere, loro per necessità, Monica per comodità e perché, a suo modo, si è creata il suo universo totalmente inattaccabile. La odio. Convinta di mostrarsi grande facendomi vedere che vanta un’amicizia decennale con Aldo Coppola, rimane delusa perché il noto coiffeur si è dovuto trattenere nello showroom di Milano dato che ha stretto un accordo molto importante con una famosa casa di prodotti per i capelli. Nostra signora dei mille cazzi rimane mortificata. Rimedia giustificandosi che il taglio lo avrebbe eseguito un collaboratore di Aldo, “uno che sa creare delle pieghe perfette come opere d’arte”. Il salone completamente arredato in minimal style, è popolato da una schiera di signore over sessanta ingranate, abbronzate, ingioiellate e rifatte. Chi con la testa sotto il casco, chi con ciocche di capelli accartocciate in stole di carta stagnola, chi alla cassa sgancia centoni con nonchalance. Un gay di gran classe mi schiaffa in mano una rivista con le pagine zeppe di primi piani di personaggi famosi photoshoppati per farmi scegliere quale
acconciatura avrei preferito. - “Hai una testa perfetta, oh ma che capelli…sei biondo naturale…ti farei un po’ Brad Pitt in Thelma & Luise.” – con questa ridicola scusa si sta facendo tirare il cazzo trastullandomi la testa. - “Sicuro che non vorresti farmi come Catherine Deneuve in Bella di Giorno? Fa come vuoi, sei tu il maestro. Rendimi un servigio prezioso, fammi lo shampo con dell’acqua gelida.” – accuso stanchezza, non ho mangiato un cazzo e mi sento uno straccio. Anche gli occhi iniziano a incendiarsi. - “Oh, come sei focoso! Certo caro…” – povero imbecille, non vede l’ora di prendermelo in mano. Monica, “ The International Bitch”, se ne sta con la sua testa artefatta sotto i getti scroscianti del miscelatore in acciaio inox. I miei occhi dolenti cadono in prossimità delle cicatrici disegnate imperccetibilmente sotto il mento e dietro le orecchie, visbili solo in quella postura, e un dubbio atroce sta squarciando il mio animo tanto tormentato. Il giro di boa è lontano anni luce, a i cinquanta da un pezzo. Come cazzo sto messo. L’acqua gelida mi procura una scarica che mi ripiglia e il profumo dello shampoo smorza parecchio la mia voglia di fumare e bere. Intabarrato in un mantello bianco sintetico, il nostro amico artista, si lancia nella sua personale opera d’arte, utilizzando come cavia la mia testa dolente. Mi lascio andare, intontito dalle stronzate in simil se vomitate da quell’essere sprovvisto di personalità. Nel dormiveglia la rivedo come la prima volta, alla laurea di mio fratello, nel fotogramma in cui mi inseguiva per le scale che conducevano all’aula magna, e mi chiedevo dove fosse finita. Mi sveglio all’improvviso, sentendo prendermi la mano, e trattenendo un urlo di terrore. Quella schifosa di Monica siede sulla poltrona alla mia destra, con un grande asciugamano giallo arrotolato in testa. Mi guarda sorridendo. Un incubo. - “Ahm, tesoro, visto che ci sono anch’io?” – le zampe di gallina risaltano sempre più.
La guardo gelidamente, senza battere ciglio e proferire parola. Brutto clown del cazzo. Le sue tette sembrano ancora più gonfie, ma la mia è solo una sensazione dovuta alla stanchezza. Il calo di zuccheri mi sta consumando. - “Cara, non è il caso di mangiare qualcosa prima di andare a farci belli alla Spa? Sai, sono abituato a mangiare regolarmente tre volte al giorno.” – le altre signore, la più conciata indossa un Daytona in acciaio fondo nero con diamanti, mi scrutano con un misto di indifferenza e comione. La frase di mia madre “non farai mica la fine dell’uomo da marciapiede” rimbalza nella mia testa come una pallina d’acciaio fuori controllo in un flipper impazzito. Everybody’s Talkin’. - “Non ti preoccupare, quando abbiamo finito ti porto in una pasticceria dove fanno il miglior cioccolato al mondo…lo sai che il cacao allieta i sensi?” – tradotto: lo sai che il cacao fa tirare di più il cazzo? Sicuramente è quello che fa prima di farsela leccare dai suoi clienti. Mangiarsi una belle tavoletta di cioccolato afrodisiaco della pasticceria di Montecarlo. Ecco svelato l’arcano: più ingurgita cioccolato più si bagna. - “Ma davvero? Pensa, che scoperta.” - e richiudo gli occhi, isolandomi dalla ridicola situazione. Dopo un quarto d’ora di sonno profondo e salutare (neanche un sussulto di reazione all’isterico rumore del phon) mi ripiglio, con la chioma praticamente identica a come sono entrato un’ora prima. Conto: trecentomilalire. Non male. Se aggiungiamo il trattamento della troiona tocchiamo tranquillamente la vetta del milione. Non me ne frega un cazzo di come quel minorato mentale ha spuntato i miei capelli, deve però assolutamente smetterla di lodare il suo operato con fastidiosa enfasi e false divinazioni. - “Cara, hai visto, uhm..stasera se andate al Casinò con il taglio che gli ho fatto devi stare attenta a non perderlo di vista. C’è la possibilità che qualche ereditiera molto chic te lo rapisca. Oh, perfetto, un lavoro magnifico.” – sco, il mio parrucchiere di Merate, al confronto è un maestro. E non costa un cazzo, trentaseimilalire. E gli piace la figa. - “E’ stupendo, quanto ti devo tesoro. Carta, grazie.” – giù una bella strisciata di American Express Oro, e alla Miravaglia brillano di incontrollata soddisfazione gli occhi piccoli e liftati.
Più il conto è salato, più si sente realizzata. In pasticceria divoro una fetta di torta al cioccolato, una fila di pasticcini alle fragole e due caffè senza soffermarmi sul sapore, (anche di quello me ne fotto alla stragrande) e realizzo che la mia priorità consiste nel recuperare il più possibile energia per tirare sera. Dai diffusori del locale trasmettono “Outside” ed è l’unico elemento positivo di quel momento. Stavolta il nostro fenomeno paga sessantamilalire con un bel bigliettone da cento. E’ sempre più soddisfatta. - “Vedo che ti piace Prince..” – dice sicura di se, all’uscita della patisserie. - “Non è di Prince. OUTSIDE E’ L’ULTIMA HIT DI GEORGE MICHAEL.” – rimane ammutolita e visivamente contrariata. Prima di addentrarci nella piscina interna e nella Spa ci soffermiamo un’oretta nella suite, megastanza arredata con megamobili megantichi con megaletto. Mi tocca pagare il conto. Mentre la signora si spoglia, vado in bagno a sciacquarmi il viso e, data la stanchezza latente, decido di pisciare nel lavandino, doppio, in marmo decorato. Una megavasca idromassaggio, chiamarla così è riduttivo, assomiglia di più a una minipiscina, sprofonda nel pavimento in mosaico con ai bordi vistose piramidi di crema idratante Hermes da cento ml che s’intonano perfettamente con il lusso sfrenato dell’ambiente. Dai diffusori invisibili musica new age intontisce l’aria. La trovo nuda nel letto, senza coperte, con le tettone cosmiche puntate verso il soffitto e la era pelosa aperta e unta. Si sta succhiando il pollice e ha una gran voglia di scopare. Tanto per cambiare. Senza chiedere permesso se lo schiaffa in bocca, lasciandomi impalato con i pantaloni calati alle ginocchia, strizzandomi le palle fin quasi a farmi urlare. Tiene gli occhi bene aperti, e con la lingua fa un sacco di versi, come le attrici dei porno di Mario Salieri. Divarica la gambe mostrando le sue cavità con vanto e fierezza. Decido di pestaglielo dentro. Urli acuti e potenti, misti a frasi tipo: che cazzone grosso che hai, sborrami in faccia, sono la tua troia, provengono dalla sua fottuta bocca rifatta, e una spruzzata degna di un geiser si riversa sulla cappella, ungendomi il pube. Puttana che troia. La giro come una vacca, aprendole per bene l’ano arrossato (chissà quanti cazzi l’hanno sfondato) e, dopo averlo dilatato con tre dita (tutte insieme), e bagnato con uno sputo dalla mira infallibile, la inculo fino a farlo scomparire. E un altro
getto orgasmico va a colpirmi i coglioni, già fradici abbastanza. Puttana che troia. Le scarico dentro un litro di sperma, per poi cadere sfiancato nel letto. Si alza come se niente fosse e la guardo cercando di darle un senso. Ma non riesco proprio a trovarlo. Rifletto su chi fossero stati quei pazzi che avevano deciso di procreare un essere tanto schifoso. Dalla valigia da escort sfila un barattolo di Oki sol e un costume da bagno invisibile, bianco e nero. E viene a prendermi ancora il sonno, stordendomi senza scampo in mezzo alle lenzuola da cambiare. La rivedo sul divano della sua presunta casa, stuzzicarmi e invitarmi ad intrattenerla, con una tazza di tè in mano. - “Tesoro, ma insomma, non ti sei ancora preparato? Non ho parole..” – la nostra troiona si stizzisce, in accappatoio bianco firmato Hotel De Paris e Pasha in oro giallo al polso. Freme per andare a fare un tuffo. - “Tesoro una sega, non vedi che sono distrutto, vai tu, io mi faccio una bella dormita…” – ed ecco spuntare la sua vera natura, l’altro aspetto bestiale. La bocca, traballante di per sé perché troppo gonfiata, inizia a tremare all’impazzata e le pupille si dilatano come se avesse fatto una pippata stellare. Per non parlare del pugno che colpisce il ripiano in marmo del mobile posto davanti al letto dei porci. - “Non ci penso proprio, fai il favore di metterti il costume da bagno e venire con me. Ti ricordo che sei mio ospite e siamo già in ritardo con la tabella di marcia.” – il completamento della bestia. O a cavalcioni a prenderlo nel culo oppure a ringhiare e far capricci. Un essere inutile, o meglio, utile solo a se stessa. - “Va bene nostra signora, dammi un attimo che vado a infilare il costume così scendiamo in piscina e fai la tua bella figura.” – conto fino a cento per grazia divina. Le spennerei anche l’ultimo capello che ha in testa. Povera scema. La sua facciaccia di merda sformata si rimette in squadra e torna a recitare la parte della fidanzata adulata. La piscina interna lascia senza dubbio allarmati, se non altro per l’enorme Pecten marmoreo che ci sovrasta inquietante. Occupiamo due lettini vicino all’accesso alla sauna e al bagno turco, e una decina di modelle, dalle gambe chilometriche e dalla pelle giovane e profumata, scivolano nell’acqua sorridenti strizzandomi
l’occhio. Nostra signora se n’è accorta e il fatto la manda in bestia. La sua reazione è quella di lanciarsi in effusioni ridicole, rendendo ancor più evidente il mio ruolo di marchettaro. Stanco di quelle moine pietose mi lancio in acqua, e, nonostante sia quasi bollente, una scarica di brividi mi taglia in due. Tremante decido di fare un paio di vasche, ma la stanchezza mi blocca a metà della prima. Con la coda dell’occhio noto Monica la schifosa entrare lentamente in acqua, con movimenti pesanti e rallentati dalle sue pesanti protesi fuori dall’ordinario. Mi raggiunge come un cane (da lecca) che non molla mai la sua preda, e con il viso struccato è ancora più grottesca, una caricatura di se stessa. Ogni volta che la scruto la scure del tempo si abbatte su di lei, sciabordando anelli di età istantanei. Un signore distinto sui settanta, dal fisico apprezzabile, abbronzato e dai capelli bianchi, con al polso un Paul Newman in oro giallo, la guarda come se aspettasse di essere salutato. Lei se ne accorge, molto probabilmente ha realizzato la sua presenza molto prima di quanto immaginassi, e fa finta di niente. Ma non vuole demordere. Vecchi uguale soldi. Mi allontano, scomparendo sott’acqua, per dargli il tempo di salutarsi ed analizzare la scena. E così è. Notando con sollievo la mia assenza, Monica la succhiacazzi si precipita tra le braccia del gentiluomo abbronzato dal cazzo galoppante (scalpita visivamente nei Sundek oro) per salutarlo e prendere accordi su una possibile oretta da trascorrere insieme per svuotare i suoi poveri vecchi coglioni striminziti e macilenti. Sguscio dalla piscina, in mezzo a due modelle brasiliane che ho addocchiato, e mi rifugio in sauna, dove l’aroma di profumi speziati e la nebbia vaporosa accarezzano i miei sensi mandando affanculo quella merda che sta contrattando per farsi infilzare dal vecchietto ricco e bavoso. Grazie a dio le due modelle decidono di farmi compagnia, ridacchiando sonoramente e flirtando in maniera esplicita. Non c’è nessun altro nella stanza rovente, solo noi tre, e dato che mi sembrano anche fatte oltre ogni misura, le raggiungo sedendomi in mezzo a loro sulla panca di marmo decorata con stemmi reali. Iniziano a slinguarsi per bene, sfilandosi il reggiseno reciprocamente. Il caldo, soffocante e infernale, e la stanchezza incalcolabile, non m’impediscono di biascicare delle frasi prive di senso in inglese. Ma loro sono più andate di me, per cui iniziano a trastullarsi gioiosamente il seno e a guardare il mio costume lievitare a vista d’occhio. Entrambe possiedono un dono inestimabile: un culo da ottava meraviglia del mondo (quali sono le altre sette?). Così, quando iniziano ad accarezzarmi i quadricipiti infilo la lingua prima a quella seduta alla mia destra, limonandola a dovere, poi a quella sinistra, concedendole lo stesso trattamento.
Il gioco mi piace parecchio. Sento l’acidità della loro saliva, e, se fosse stato in un altro frangente le avrei spedite a calci in culo, ma la situazione e il clima perverso che si sta profilando è un ottimo deterrente per proseguire nel teatrino improvvisato. Il Daytona segna le diciotto e trenta e della Miravaglia non vedo ombra, cento a zero che si è imboscata con il vecchietto per rimborsare la mia ospitata a Montecarlo. Su quella faccia la generosità non ha mai eggiato. Non mi soffermo a domandare alla due strafighe brasiliane il loro nome, sono oltre, così infilo entrambe le mani nei minitanga (uno nero e l’altro azzurro marino) stuzzicando il loro sesso depilato e bagnato. Le dita sgusciano internamente come oliate e la loro freschezza scellerata mi fa odiare ancora di più quell’ammasso di carna putrida e gommata della signora nostra troiona. Mi lancio a leccarla a turno e loro, sprizzanti e eccitate, si piantano a pecorina davanti a me, che rimango in piedi con il cazzone irto in mano. Lo infilo, stantuffando per bene quella più fatta, con il costumino nero, che sbrodola in meno di quindici secondi. Poi o all’altra, che non ci mette molto di più, forse venti. Mi levo la soddisfazione di penetrarla anche nel il culo (solo a quella fattissima, l’altra ci pensa lei con il dito medio) e, nonostante la venuta cosmica di un’ora prima, scarico un altro getto stallonico. Il tutto senza preservativo. Un capogiro da svenimento mi spaesa, offuscando il soffitto in mosaico con la pareti di marmo. Vedo uno schermo nero. Mi accascio sulla panca in marmo, con il fiato da maratoneta e il costume intriso di sperma. Le splendide amazzoni svaniscono sorridenti, lasciandomi intendere che ci saremmo rivisti (quando?). Così mi accascio, senza forze e soprattutto, senza la minima voglia di trascorrere ancora del tempo con l’escort stagionata. Ed eccola irrompere nella scena. - “Oh, ma cos’hai fatto? Sei tutto impiastrato?” – sbavo, mi manca un bel pranzo, il tè di mia madre e i soliti problemi quotidiani. Penso a quanto avrebbe potuto rendermi felice trovare al mio ritorno nella stanza reale, un suo sms. Senza un filo di entusiasmo la fisso con gli occhi iniettati di sangue. - “Ripensavo a prima…noi due in stanza mentre facciamo l’amore…mi è diventato duro e mi sono masturbato…non ho resistito…vieni qua..” – noto qualcosa di diverso rispetto a quando l’ho lasciata prima della splendida performance con le modelline, ma non capisco. In fondo non me ne frega proprio un cazzo. Semplicissimo, si è cambiata il costume. Indossa un Armani a due pezzi, rosa, e si è raccolta i capelli.
- “Oh, ma che porco che sei…non vedo l’ora di riportarti in camera…dai vieni qua, devi sciacquarti il costume, non puoi farti vedere conciato come un bambino che ha appena scoperto i giornaletti spinti. - “Ma indossi un altro costume…come mai?” – avrebbe potuto anche confessarmi di essere reduce da un’ ammucchiata con cento Bingo Bongo e duecento chierichetti che non avrei battuto ciglio. Manifesto il mio finto interesse per compiacerla. - “Oh, mi si stava sfilacciando l’elastico della parte sopra…sono corsa in camera a cambiarlo, potevo anche stare in topless, ma penso che non avresti gradito..o sbaglio?!” – vado avanti a fingere, percependo ancora il sapore di ciliegia acerba nel palato. - “Certo, hai fatto benissimo, guarda che quando sono geloso m’incazzo di brutto.” – mi abbraccia affettuosamente, irritandomi ancora di più. Che coraggio. La sua vicinanza mi bombarda il cervello di impulsi sgradevoli. Inizio seriamente a pensare di farle fare una brutta fine. Annegarla in una delle piscine più glamour del mondo sarebbe stata la cornice perfetta per sbandierare il termine della sua inutile esistenza. Non per tutti i cazzi che ha preso, succhiato, menato, leccato, ma perché si sta proponendo come persona seria. Non ha niente a che fare con gente come mia madre. - “Sei fantastico. Torniamo in camera che ci aspetta la cena.” – La cena appunto. Il Daytona indica le venti e, dopo l’ennesimo bagno bollente trascorso in pace (non sentire la sua voce fastidiosa sembra un sogno), la curiosità di cenare nella sala Napoleon costituisce l’unico appiglio per tenere gli occhi aperti. La gola inizia a bruciarmi. Rovisto nella sua trousse firmata Chanel in cerca del magico collutorio post pompino, e ne verso una discreta quantità nel bicchiere di Hermes, gorgogliando un paio di gargarismi. Mi avvolgo nell’accappatoio Hotel de Paris (che avrei fatto sparire in valigia insieme alla pantofole, alle creme, al tè e ai vini pregiati), e ritorno in camera. E la sorpresa non è di quella più gradite. - “Amore, è arrivata la cena.” – sul terrazzo della stanza ci aspetta un tavolino miseramente apparecchiato, adatto alla Barbie e ai suoi amici. Sarebbe stato meglio un pic nic ai bordi della tangenziale con panini raffreddati e cassetta porta frigo Giò Style. Quale materia cerebrale risiede nella scatola cranica di quella demente? La cena.
- “Bene, aspetta che asciugo i capelli e mi vesto.” – ritorno in bagno e realizzo che ogni volta che scompare dalla mia visuale mi sento sollevato. - “Ma no, dai, è una serata calda, vieni fuori così, in accappatoio, è tutto apparecchiato. Dai…” – la gola, un incendio galoppante e in via di sviluppo, inizia a darmi noia. - “Ma non prendiamo freddo?” – mi accomodo davanti alla bottiglia di champagne Bollinger (se l’è portata da Milano, regalo di qualche vecchio schifoso perdi-bava) e in mezzo al tavolino, sta un gran vassoio coperto dal famoso cappello in acciaio. La pietanza, un mistero. - “Ma sei matto, non vedi che bella serata. Tutta per noi, guarda, le luci del porto. Sono meravigliose.” – come si sente sicura di sé, avida dispensatrice di generosità e gratitudine. Ed ecco la presa per il culo definitiva. Quando vedi una fantastica bottiglia di champagne, pronto per essere sbocciata, t’aspetti di trovare sotto il coperchio in acciaio una bella aragosta, oppure, un salmone ai ferri. O dei crostini con caviale e burro. Cristo mi ha portato a Montecarlo! - “Sei pronto per la sorpresa?” – la mano da gallina avvizzita agguanta il coperchio in acciaio inox. Schiumo per la fame. - “Prontissimo.” – lentamente solleva il cappello metallico, con gli occhi fissi puntati su di me e pieni di allegria, e quello che scopro va oltre le allucinazioni di un malato psichico sotto effetto di eroina tagliata male. - “Voilà!” – Voilà un cazzo. Una mini torta in cioccolato nero fondente (si vede che è l’unico alimento, oltre lo sperma, che riesce a digerire senza particolari problemi) marchiata Taveggia (anche quella se l’è portata da Milano) tagliata in due parti identiche. Amore è arrivata la cena. E tutto è apparecchiato. Voglio ammazzarmi. Una torbida nebbia autunnale si insinua nella mia testa, invischiandosi nei meandri più inaccessibili. Mia madre non mi ha mai presentato una cena così. Quando si esce di sera per andare al ristorante di solito si ordina un filetto al sangue, oppure un risotto ai funghi, o pasta al pesce. E alla fine si decide se prendere il dessert o meno. Ma alla fine. Chissà cosa sta
mangiando Silvia. Come mi manca. - “Che cena, però.” – e stappo lo champagne. Brindiamo a questa pagliacciata. La bacio, dicendole che ha avuto un’idea davvero strepitosa e che non vedo l’ora di ringraziarla sotto le coperte. - “Mi stai lusingando, sei un tesoro. Ahh…” – gioca a far la bambina, così decido di spingere la mia performance recitativa a livelli inauditi. - “Mi stai conquistando il cuore Monica….dai ceniamo.” – in tre minuti termino la mia porzione di torta. Lei impiega mezz’ora. Tagliuzza in minuscoli pezzettini il cioccolato, e a completamento lavori esprime la sua sazietà, compiacendosi di essere piena come un uovo. - “Finiamo la bottiglia dentro, sul letto.” – mi sdraio sventolando il cazzone duro dal nervoso (o la scopo fino allo svenimento o la uccido) lasciando cadere a terra l’accappatoio. - “Con tutto quello che abbiamo mangiato è meglio lavarsi i denti. Vado prima io, non scappare, mi raccomando.” – sono curioso di vederla in azione con qualche suo cliente attempato. Chissà se prima di consumare gli consiglia di sciacquare la dentiera nel collutorio oppure se preferisce patire i filapperi di cibo in cambio di un centone in più. Propendo di più per la seconda ipotesi. Non ho mangiato un cazzo e, incazzato nero, decido di supplire alla carenza di zuccheri trangugiando ancora dello champagne, lasciando alla cretina un residuo ridicolo, pari neanche a mezzo flûte. Me ne frego se se si incazza. Voglio fargliela pagare in tutti i modi, mi sta prendendo per il culo con tutte le sue stronzate sul cibo e su una differente alimentazione fatta di cioccolato, caffè e sborra. Lei supplisce giornalmente ingerendo grandi e differenti quantità di sperma, per quello tira avanti senza problemi. Non un sintomo di stanchezza, nemmeno uno sbadiglio. Cristo, io sono ridotto uno straccio, sento anche i brividi e al mille per cento mi sta arrivando un febbrone da cavallo. Chiamo casa. - “Ciao, come state?” – risponde mia mamma tranquilla e serena (non sospetta nulla). Sento che sta preparando l’infuso per la sua tisana pre sonno. - “ Bene tesoro, e tu? E’ sempre bella la casa di Bollinger?” – mi sento un verme viscido e strisciante, senza vergogna.
- “Meravigliosa, di gran classe. State tutti bene?” – in fondo che chiamassi da Montecarlo o da Santa Margherita non cambia nulla, m’interessa sapere se stanno tutti bene. - “Certo, la vita è tornata a scorrere serenamente. Devo andare, inizia il secondo tempo.” – la voce squillante di mio padre in lontananza. - “Va bene, che film state vedendo?” – la troia sta tirando la corda del gabinetto. Non dovevo esser lì. - “ Frantic. Ciao amore, ci sentiamo domani. Riposati che sei stanco.” – avrei voluto essere seduto con loro sul nostro magnifico divano nella nostra magnifica casa. - “Non ti preoccupare, mi sto rilassando. Buonanotte.” – attacco con gli occhi umidi. La nostra troiona sbuca in sexi lingerie nera e autoreggenti. Le bombe cosmiche trabordano volgarmente da sotto l’elastico. Puttana che troia. - “Hai visto, è il modello di punta dell’ultima collezione La Perla. E’ di tuo gradimento?”- solo un frocio avrebbe detto di no. Le verso addosso il vino e la cosa la irrita. Ma si trattiene, dato che le ho preso in bocca il capezzolo succhiandoglielo come un neonato affamato di latte nutriente. Dopo averlo trastullata a dovere con una spagnola da brivido, la ruzzo sul materasso, facendola rimanere in bilico a bordo letto, con la testa penzolante in giù, fin quasi a toccare con la fronte abbronzata la mouquette dal valore inestimabile. La scopo facendola venire un paio di volte, ma non mi sento pienamente soddisfatto. Ed ecco l’ideona. Guizzano nella mia mente bizzarra e in preda ad un febbre crescente le immagini della piramide di crema idratante Hermès. Così, stanco di spingerla nervosamente e farla godere, procurandole un piacere straordinario (Joker ormai si sta sformando a furia di gemiti mostruosi) mi stacco lanciandomi nel bagno del re ed afferro la piramide più grossa. - “Vieni qua amore mio…” – le dico, afferrandola e posizionandola a pecora sul materasso foderato da superlenzuola di lusso. - “Oh, amore…ma cosa fai, vuoi massaggiarmi?” – non fa in tempo a dir nient’altro che le cospargo il buco del culo di crema gradevolmente profumata. Lei sta completamente al gioco, pensando che nel giro di pochi minuti le avrei infilato il cazzone.
Sento la febbre salire, scalando temperature bollenti. Vado in palla, avvito la cima della piramide e inzio a spingergliela per bene dentro l’ano, che si dilata senza problemi. - “Ah, mi fai male…ma perché non ci metti il cazzo e mi sborri dentro?” – la signora dell’Astoria, complimenti. - “Perché preferisco menarmelo.” – l’ho duro come una mazza d’acciaio, e nel delirio mi torna in mente la faccia di Silvia mentre viene e proclama il suo infinito amore nei miei confronti. E tutte le altre frasi del cazzo che non sto nemmeno più ad elencare e che conoscete perfettamente. Preso in pieno dai ricordi dimentico il momento che sto vivendo. Mi trovo catapultato di nuovo sul divano di casa sua, mentre mi preparava il tè…. - “Ahhhhh…mi fai malissimo!!!” – torno alla triste esistenza della nostrasignora-succhia-cazzi-agli-ottantenni, con la piramide praticamente fagocitata nel suo culo marcio. Ho perso la cognizione della realtà. Così, anche se strilla come una gallina mentre viene impalata, le piazzo l’uccello in faccia, pestandoglielo in bocca, ponendo drasticamente la parola fine alle sue odiose farneticazioni. Le sborro in fronte, negli occhi, sulle labbra da Joker, e non pare mai averne abbastanza, nonostante avesse il buco del culo dilatato come una camera d’aria usurata e inutilizzabile. Con l’uccello sgonfio come un gavettone scoppiato, mi rannicchio nel letto, dando un’occhiata al Daytona, che segna le due e trentacinque. Mi isolo completamente dalla scena, tornando nella mia stanza, nel mio letto. Chiudo gli occhi. Ho i brividi e la gola in fiamme.
IL BRUNCH!!
Vengo svegliato da un urlo di terrore. Senza voce domando se sta andando a fuoco l’Hotel o se per caso c’è stato un terremoto di cui ho ignorato le scosse. - “Ahhh, guarda cosa mi hai fatto stanotte!! Sei un pervertito!! Uno schifoso..” – parla lei. Sulle preziose lenzuola, una chiazza di sangue rappreso e incrostato disegna un rombo irregolare e sbavato, di circa dieci centimetri per lato. Con la coda dell’occhio la fisso, cercando di non scoppiarle a ridere in faccia. Smandibolo per trattenermi, e mi sfila davanti in direzione del bagno scalza e nervosa. Il Daytona segna le nove e trenta e non sono di sicuro in gran forma. Chiamo la reception e ordino la colazione completa per due. Un atto di estrema gentilezza. Al volo e a tempo di record olimpionico, un ragazzo in livrea con tanto di carrello ricco di brioches, svariati tipi di spremute in caraffe d’argento, pasticcini e marmellate in minuscoli vasetti, parcheggia davanti al letto sacrificale. Lo sventurato è colpito dalla macchia rubino, essiccata e disgustosa, ma il suo stupore, impercettibile, dura un nanosecondo. CHISSA’ QUANTE NE AVEVA VISTE. Conscio di non avere una lira, agguanto dal portafoglio di Fendi della nostra troiona una centella e gliela schiaffo in mano. Incredulo ringrazia, sfilando via leggero nella sua miss. Lo scroscio dell’acqua cessa. Afferro una brioche al cioccolato e mi preparo una tazza di caffelatte come mia abitudine. Cazzo, un sogno. ALTRO CHE LA TORTA DI CIOCCOLATO DI TAVEGGIA. MA CONOSCE IL SIGNIFICATO DI CENA? Sbuca in accappatoio e asciugamano avvolto in testa, come un cazzo di Marascià senza minchia, e quando s’accorge del banchetto, imbastito sul letto a sua insaputa, mi assassina con uno sguardo pestifero. - “Ma sei pazzo? Cos’è tutta questa roba? Ma che stai facendo?” – la fisso, squadrandola senza batter ciglio nè scandire una parola, agguantando un altro croissant e ficcandoci dentro i denti, impregnando la lingua di marmellata alla fragola. Avrebbe potuto buttarsi dal terrazzino, in modo tale da scomparire definitivamente dalla mia vista, così da lasciarmi beato a manducare le leccornie dell’Hotel de Paris. Chissà se la ha preparate Alain Ducasse in persona? Chi lo può sapere.
- “Sto giocando a pallone. Fra poco faccio goal.” – fruga nella valigia e con atteggiamento isterico sfila da un barattolo delle capsule bianche che trangugia con dell’Evian. Scuote la testa. - “Ho prenotato il brunch per mezzogiorno! Se mangi tutte quelle porcate come fai poi? Non avrai più fame, e io cosa faccio?! Pranzo da sola?” – non sono neanche le dieci, e pensa al brunch. Puttana che troia. - “Dopo stanotte ho bisogno di integrare, mi hai sfiancato…ma io ti ho sfondato…” – e trangugio la spremuta come l’ultimo affamato sulla faccia della terra. Lei si sta incazzando sempre di più. Decido di calcare la mano ancora un po’. A minuti avrebbe mostrato il suo vero volto. - “Uhm, a proposito, come mancia al bravo garçon che ha portato questo ben di Dio gli ho dato una centella.” – mi guarda inorridita. - “Ma sei pazzo, non so tu, ma io non ho mai tirato fuori quella cifra come mancia.” – adesso arriva il bello. - “L’ hai appena fatto. Erano tue! Tesoro, hai a che far con uno sbroccato squattrinato.” – e verso del caffè nella tazza. Sento lo stomaco gorgogliare, in preda alla preparazione per la tazza. Così trangugio una quantità di caffeina tale da far andare al cesso un reggimento di spartani. - “Sei un pezzo di merda!! E questa è la riconoscenza per averti portato qui? Schifoso bastardo!! Sono una scema.” – ridicola, una vecchia battona in preda al panico. Come cazzo sono finito in quella stanza a Montecarlo con un essere così abbietto? Forse ero più disperato di lei. - “Tu mi hai invitato a tue spese, senza neanche conoscermi. Questo vuol dire che ti sei assunta il rischio di portarti appresso un pazzo scatenato, magari solo rispettabile in apparenza. Tutti viviamo di apparenze, o sbaglio?” – si spoglia, e realizzo con immensa soddisfazione che la discussione sta degenerando. S’infila un paio di Jeans D&G da un milione, e una maglietta nera (come lei) aderente Versus, senza reggiseno. Le domando se gradisce qualcosa dal ricco vassoio invitandola a farmi compagnia. Non risponde. Si rifugia nervosamente nel bagno attaccando il phon. Non mi interessa minimamente di come la sta prendendo, in fondo quella centella è il corrispettivo per una pompa. Non avrebbe pesato di certo sul suo menàge familiare.
Le brioches mi ripigliano, anche se il bruciore in gola aumenta esponenzialmente. Ed eccola cotonata più che mai, di nuovo pronta a far colpo sui vecchi nella sala del brunch. Non mi degna nemmeno di uno sguardo, muovendosi sempre più incazzata nella stanza in cerca di qualcosa che non riesce a trovare. - “Scusa, m’impresteresti il cellulare, devo chiamare casa, ehm…il mio è scarico.” – così evito di pagare lo scatto estero. Me lo scaraventa addosso, rischiando di finire nella caraffa della spremuta. - “Grazie. Molto gentile. Ma non sei contenta di avere un bel giovane come me al tuo fianco nel Principato?!” – torna in bagno con la trousse dei trucchi sbattendo la porta. Non c’è nessuno, così lancio il telefono profumato sul suo cuscino, versandomi dell’altra spremuta. M’infilo il girocollo in cashmere di Armani e aspetto di entrare in bagno. Mi sento sazio e ripigliato, il Daytona segna le dieci e trenta e quella sporca succhiacazzi non si decide a liberarmi la toilette. Guardo fuori dal terrazzo il porto, l’Hotel Hermitage, il Casinò, le persone, e non riesco a dare un’architettura uniforme al panorama che sto contemplando. L’ordine e la ricchezza, comuni denominatori di un ristretto universo, regolano la vita di un manipolo di fortunate persone, alla stregua di un meccanismo perfetto. La polvere non si sarebbe mai posata sulle strade di Montecarlo.
COLLOQUIO POMERIDIANO (TANTO PER NON STUDIARE)
- “Alla fine non reggevo più. E’ stato devastante, tre giorni praticamente senza mangiare e tre notti senza chiudere occhio. Con quella che mi aveva scambiato per un vibratore parlante. E il brunch?! Due cosce di pollo in gelatina monegasca con quattro spezie del cazzo. Pietoso, da ricchi, ma pietoso. E’ il suo lifestyle. La povera cretina alla fine mi ha fatto talmente comione che mi sono lanciato e, al ritorno, all’altezza di Savona, le ho fatto il pieno alla Smart. Trenta mila lire. Contando che ho sganciato una centella al garçon che ha portato la colazione in camera, sono sempre a credito di settantamila lire. L’avventura monegasca mi è costata una settimana con quaranta di febbre. Cazzo pensavo di crepare. Tieni, prenditi un depliant dell’Hotel de Paris, quando trovi la donna della tua vita. “ – Sorseggio una Diet Coke. Ho deciso di smettere definitivamente con gli alcolici e darmi una regolata (stavolta sul serio), programmando una dieta ferrea a base di pasta, filetto, verdura e frutta a volontà. Una Coca Cola ogni tanto rappresenta il mio unico sfizio. Di fighe non ne voglio più vedere, la recente scorpacciata fatta con la puttana delle puttane sta deviandomi verso l’omosessualità, o meglio verso la castità. - “Ma che cazzo te ne frega, le hai spennato un po’ di soldi, ora tenta con la Ferrari. Porca puttana si è bruciata la lampada Uva.” – Bollinger traffica con una macchina da stampa, con addosso un toni da lavoro cosparso di sgommate di olio unte e impossibili da smacchiare. - “Quella non tira fuori nemmeno un nichelino per il sottoscritto. Ragiona solo per se stessa. Che cazzo credi che mi abbia portato a Montecarlo per far cosa? Per adescare vecchi miliardari e ciuccargli, oltre alla pelle di daino, un bel pacco di soldoni. L’ha fatto davanti a me con una naturalezza devastante. In compenso mi sono fatto due modelle da cardiopalma. E’ quasi un mese che non la sento e sai come sto bene. Non la voglio più tra i coglioni. A proposito, dobbiamo andare dal nostro, o meglio, mio nuovo amico e risolvere la questione di Silvia e sapere tutto.” - una zaffata di solvente mi fa starnutire e pizzicare la gola. - “Quando vuoi. So che gestisce un nuovo night con escort di lusso, direi che una di queste sere possiamo andare a trovarlo. L’ho sentito l’altro giorno e mi ha
domandato come stavi. Quando arrivo a casa dopo cena gli faccio uno squillo e concordo l’appuntamento. Sai che dovrai pagare? E CHE NON SI SCHERZA CON QUEL PERSONAGGIO? Non voglio rogne nei tempi a venire.” – avvia la macchina da stampa riponendo il martello nella cassetta dei ferri. Mi limito ad annuire e a finire la lattina. Rutto. - “Cazzo, finalmente è partita. Vado a casa, sono a pezzi. Sto meditando una bella letterina per la tua amica Monica. Non è giusto, ti ha preso per il culo anche quel rifiuto umano. E’ peggio del peggio, una vecchia rifatta, che si spaccia per giovincella al tempo delle mele. O figa, non sei più Power, sei Pierre Cosso. Andiamo.” – ci avviamo fuori dal capannone e noto compiaciuto la soddisfazione di Bollinger nel chiudere il cancello della sua azienda. Un’altra conferma che mai avrei fatto il dipendente. - “Dai, falle una bella letterina, se la merita quella vecchia troia. Hai carta bianca. Ci sentiamo stasera sul tardi o domattina.” – salto sulla y e accendo la radio. RMC trasmette il radiogiornale, che m’informa di un attentato a Napoli nel quale sono state state fatte fuori una quindicina di persone. La notizia non urta particolarmente la mia sensibilità e non mi stupisco per niente.
DI NOTTE
Zero voglia di andare a dormire. Svaccato sul divano con mia madre alla mia destra ormai nel mondo dei sogni, chiudo e riapro ossessivamente lo startac, muto come non mai. E’ quasi mezza notte, e la voce di Kirk Douglas ne “ I Cinque volti dell’assasino” rimbomba per il salone. E’ uno dei capolavori della videoteca di mio padre. Non mi accorgo nemmeno dei colpi di scena presenti nel finale, mi limito ad assistere ivamente allo scorrere della pellicola. La mia mente cerca una spiegazione. Ma non la trova e si rigira su se stessa. Ripercorro tutta la nostra storia, o meglio, la mia. Lei è scomparsa nel nulla. Dopo l’aborto praticato in clinica (mai mi ha detto quale fosse l’istituto), sembra svanita. Nessuno nel palazzo dove c’incontravamo l’aveva mai incontrata, e di giudici non ne esistevano. Il portinaio per poco non mi cacciava a pedate nel culo, e, se avessi insistito, sarei finito in caserma. La lettera dormiva nel cassetto della mia scrivania con gli appunti di finanziaria. Smacchinavo continuamente, senza tregua, fino all’esasperazione, ma non trovavo un filo logico da attribuire agli ultimi miei sei mesi di vita. Spengo il martoriato telefono, ormai stanco anche lui. Saluto i miei, colpiti dall’ atteggiamento che ho assunto negli ultimi giorni e mi butto nel letto, con gli occhi sbarrati. E’ scomparsa anche la voglia di uscire a fare il matto. Penso a quanto tempo ho davanti. Cosa sarebbe accaduto da quel momento ai prossimi mesi? So che non l’avrei mai più rivista, ma non posso non capire come stanno realmente le cose. Questo mi fa andare avanti. L’obbiettivo di comprendere tutto fino in fondo avrebbe abbattuto ogni balla e sgretolato i momenti indimenticabili vissuti con Lei, rendendoli acqua ata. Bisogna avere sempre un obbiettivo. Monica, l’ultima della serie, non rappresentava nulla, solo un diversivo sgradevole per rendere tangibile la ruota del tempo. E così tutte le altre troie. E anche sbevazzare, farsi i cannoni e le righe, un cumulo di cazzate pazzesche, per sublimare piacevoli sensazioni eggere. E lo studio? Dubito molto che con quelle cazzo di matrici e di autovalori sarei potuto diventare Gordon Gekko.
Tutte stronzate senza un minimo di fondamento. Ha più possibilità di comprarsi un Azimut di trenta metri il fruttivendolo brianzolo del mercato del martedì che per trent’anni ha scaricato e ricaricato cassette di mele e pesche dal rimorchio del suo caminioncino scassato che io con quattro lauree. L’unico motivo per cui un fruttivendolo brianzolo non comprerà mai un cazzo di barcone è perché deve spendere il nero che tiene nelle celle frigorifero insieme ai cetrioli e ai peporoni surgelati. E i miei. Sempre preoccupati e insoddisfatti del mio comportamento, tesi e nella fase: “che ne sarà di nostro figlio, non lo vediamo mai sereno”, non conoscono quale sia realmente il mio rovello. E non avevo intenzione di farglielo sapere, non ho mai creduto nel rapporto genitori amici. Silvia è affar mio, e, nonostante sento il bisogno di parlarne a chiunque, sarebbe stato assurdo trascorrere una cena in famiglia discorrendo tranquillamente di come Lei mi diceva ti amo mentre glielo spingevo nel culo. Mia madre sarebbe morta per avere ingoiato la forchetta e a mio padre, anche se, dopo tutti gli esami a cui era stato sottoposto, non risultava un soggetto particolarmente predisposto, gli sarebbero venuti quattro ictus di fila. Allora è meglio sostenere la tesi dell’estrema difficoltà dell’esame di finanziaria che mi sta prosciugando le meningi e perdere dieci chili al mese. Mi sarebbe piaciuto diventar un collezionista d’arte. E poi, quante situazione inspiegabili. Mia madre si sta sempre più attaccando ai tarocchi e prepara diversi feticci portafortuna e sciacciasfiga. Li intrufola da tutte le parti, nei cuscini del letto, nelle borse, nei cassetti porta oggetti delle auto. Crede siano una sorta di protezione ultraterrena e molto vicina al divino. Direte: ignoranza. No, mia madre sa perfettamente come affrontare la vita e non ha bisogno di insegnamenti da nessuno. Tutti abbiamo le nostre paranoie. Continuo, a intervalli di dieci minuti, a guardare nella penombra della notte se le mie babouches marocchine in cuoio arancione sono perfettamente allineate sul parquet. Non si spostano di un millimetro. Chissà che ore sono. Ho sentito spesso raccontare da gente priva di sensibilità che la notte porta consiglio e prepara ad affrontare i problemi del giorno dopo serenamente. Perché non la sento più? Non ci sto dentro, mi fanno male i muscoli. A i svelti mi avvicino alla finestra. Ruoto la maniglia. Latrati di cani in calore (strano, non è il periodo) rimbombano dal giardino di Villa Belgioioso. Almeno loro hanno ancora voglia di scopare. Accendo il cellulare, con l’intenzione di comporre il suo numero, ma appena c’è campo, i tre cazzutissimi trilli di sms mi comunicano che è pervenuta una
telefonata da un numero altrettanto cazzutissimo il cui prefisso è zeroottotretre. Da dove cazzo proviene quella chiamata? E, mentre medito, con il sudore che cola dalla fronte, un altro sms piomba sul display. Stavolta dal suo cellulare. Entrambi segnano la una e mezza. Il secondo recita testualmente: - “ Ehi, ti ho cercato ma avevi il cell. spento. Fa niente. Ci sentiamo domani.” – niente baci, niente convenevoli. Ora ho anche un numero fisso. Accendo il computer e inizio a smanettare sui vari programmi dei gestori telefonici. Risultato: zero. Nessun utente corrisponde a quel numero. Collegamenti pindarici con la mente mi comunicano che il prefisso di Milano è zerodue, di Roma zerosei, e zeroottotretre? Inserisco un numeo a caso nella maschera del programma e stavolta compare il risultato. Quel prefisso proviene da Nardò, in provincia di Lecce. Puglia. Ma che cazzo succede? Forse era partita per una vacanza? Mason, Roma, madre, Luiss, padre, notaio, Porta Romana, casa di mia nonna, l’attico nel palazzone, il portinaio, la guardia, il giudice, l’aborto, le telefonate con la linea disturbata, la barca dei suoi, sua sorella (poteva essere chiunque), il chiostro, la Statale, il ventisette ottobre, la stazione di Cernusco, il treno, le autoreggenti, George Micheal, ti amo, ti amo. Cazzo devo dormire, l’indomani Bollinger mi avrebbe comunicato quando andare dal suo amico guardaspalle. Ma non riesco a chiudere occhio e inizio a preoccuparmi seriamente. Il giorno dopo sarei stato uno straccio e non avrei assimilato nessun alimento, deludendo il mio tono muscolare. Ho voglia di fumare. E di bere. Dal cassetto della mia scrivania, sotto la scatola di uno Swatch perso chissà dove, contenente delle cartine Ritz e un bel sacchettino con della mariuana fresca fresca, afferro un pacchetto da dieci di Malboro Light che tengo da una vita come scorta per far fronte alle emergenze. Trovandomi sottomano quella roba mi rollo un bel cannoncino, e, anche se fatto su col cazzo, inizio a pipparmelo a dovere riflettendo. Faccio una scappata nel salone vuoto e senz’anima (tutti dormono). Rovisto nel bar. Mi verso, stando attento a non causare movimenti bruschi (se mia madre avesse visto quella scena sarebbe morta all’istante) un bel bicchiere da scotch di Laphroaig senza ghiaccio e me ne torno in camera. Finalmente inizio a ragionare. Ha fatto la mossa sbagliata. Sicuramente si sarebbe inventata un’altra storiella del cazzo, condita da qualche frase convincente e maliziosa, mandandomi ancora in trans. Che quel numero sia di qualche suo parente, come la zia di Milano che abitava in Brera? E se davvero voleva stare nascosta di certo non si sarebbe fatta più sentire. E un altro bel sorso del potente whisky cola nello stomaco lindo di un mese di astinenza forzata. Accompagno la sorsata con due tiri di canna, che mi mandano all’aria, ruttando senza trattenermi. La consapevolezza di riuscire a sbrogliare l’oscuro inganno sta crescendo dentro di me vertiginosamente. La sveglia della
Braun segna le tre e mezza, e solo in quel momento realizzo di essere stato in piedi per due ore, solo con indosso i boxer affacciato con la testa sudata fuori dalla finestra. Ci saranno stati due, massimo, tre gradi. Lancio il filtro unto in giardino e appoggio il bicchiere prosciugato sulla scrivania. Silenzio.
UN UOMO PERICOLOSO
- “Gran bell’entrata, cosa fa adesso? Il pappone di lusso?” – e Bollinger, inserendo il Med nell’sl appena lucidata: - “ No, gestisce un locale di spogliarelliste. Ne ha altri. Un mio amico viene spesso, ehm…mi sembra due, tre volte la settimana e mi ha detto che sono delle strafighe con il pedigree. Ci lascia un paio di milioni a botta. Certo, noi non potremmo mai gestire un posto del genere.” – nel frattempo lo startac vibra nella tasca sinistra dei miei nuovi Jeans Armani stracciati rischiando di far saltare in aria le cuciture. - “Ma chi cazzo mi spacca le palle adesso…ah, mia cugina.” – e Bollinger: - “ Quella demente…” – fa freddo, e mi pento di non aver preso la mia nuova sciarpa in cashmere che mi ha comprato mia madre settimana scorsa da LoroPiana. Temo un’improvvisa faringite. Il giubbotto di pelle rappresenta l’unico ornamento alla moda in occasione della serata. Vista la temperatura, intorno ai sei, massimo sette gradi, un bel Moncler non avrebbe stonato. - “Ehi, come va? Hai news?” – domando scrutando incuriosito i due mastini da cento chili di supermuscoli dopati e con la faccia ingrugnita ai lati dell’entrata. - “Non proprio, però siamo sulla buona strada. Il prefisso corrisponde al comune di Nardò. L’Emanuela, la conosci, l’amica bionda di mia cugina, ci abitava. I suoi genitori e sua sorella vivono ancora lì. Siamo sulla buona strada. Dopo i al Carpe? Naturalmente ho il tavolo…ci sono un po’ di mie amiche.” – perché no, un salto ci sta sempre dentro alla grande. - “o con Bollinger volentieri. Ora sono a Milano, tra un’ora e mezza saremo con voi. Bene, datemi una mano, comunica alla tua amica che se mi trova il capo della matassa le allungo una centella. Cazzo, mi sta costando questa indagine, ma sai bene, che devo capire. A dopo, ora devo entrare in un bel posto.” – attacco, sentendo in sottofondo il vociare delle sue amiche zoccolette. - “Signori, prego, questo è un club privato, avete la tessera?” – non esordiscono come mi sarei aspettato. Bollinger mi sfila davanti e tende la mano a quello più cattivo.
- “Buonasera, abbiamo un appuntamento con il signor Sventrax, ci sta aspettando. Anzi forse siamo leggermente in ritardo.” – gli stringe la mano amichevolmente e pronuncia in italiano sconnesso: - “ Voi siete i Signori?” – cortesemente gli rispondiamo con un cenno del capo e altrettanto cortesemente proferisce dopo essersi consultato con qualcuno alla ricetrasmittente Yaesu: - “ Prego, seguitemi, siete i benvenuti.” – ci fa strada. Da un pesante tendaggio all’imbocco delle scale che portano al cuore del locale sbuca il nostro amico, in camicia bianca mezza aperta, con aria professionale. Sorride. Al seguito un paio di troie da urlo. Bollinger gli stringe la mano e lui, come un animale affettuoso, gli scarica un gancio sulla spalla che lo fa traballare energicamente. Bollinger ride, e gli chiede come vanno gli affari. Lui scuote la testa informandolo che non se la a male. La figa ha sempre tirato. Poi a a me, squadrando il mio abbigliamento (cento a zero che ha monetizzato all’istante il valore dei miei vestiti), salutandomi come un grande amico di vecchia data, con un altro pugno, stavolta sulla mia di spalla, ma meno potente. Noto con piacere una strafiga brasiliana dimenarsi in un folle finale di lap dance dove incastra per bene il culo nella pertica in acciaio lucidato. E’ vestita solo con un paio di Wayfarer neri. Mi fermo un attimo a guardarla, e, a differenza del costume e dell’ipocrisia generale non mi sembra che il suo dovere lo svolga con disgusto o sotto mentite spoglie. Ha un corpo da sballo pirotecnico, e la pelle ambrata la rende alquanto drizzevole. Un bel gruppo di vecchi bavosi abbronzati dai capelli argentati, con in mano mazzette di centoni legate con elastici, fanno a gara a chi la lecca per primo. iamo nell’ufficio e con un cenno della paffuta mano il nostro interlocutore ci fa portare due Cuba Libre ghiacciati. Rovisto nella tasca del mio giubbetto in cerca di una sigaretta e, accertatomi di avere il permesso di sfumazzarmene una, l’accendo ispirando profondamente. Sono molto nervoso. - “Ho visto che guardavi con stupore la mia Leyla, se vuoi te la chiamo e vai a fare un bel privè, ti assicuro che ti tornerebbe il buon umore, e prenderesti la vita con più calma.” – in effetti la proposta non mi scivola via facilmente, tanto da aspettare a rispondergli almeno trenta secondi. - “Che cazzo è? Uno slogan pubblicitario? Magari dopo. Sa, ho appena finito di darci dentro per un paio d’ore questo pomeriggio. Ho ancora i boxer imburrati.” – balla stratosferica, ma detta con credibilità.
- “Sì, in effetti il mio amico qui presente ha provato a farsene in un giorno quattro diverse, senza nemmeno lavarselo, prima di incontrare questa Silvia. Poi è andato giù di corda. Sai ha perso un po’ lo smalto” – parole sante. - “Grazie Bollinger, ma non credo che siamo ad un casting di film porno.” – le banconote non mi stanno più nella tasca interna del giubbotto. Così decido di schiaffarle sul tavolo. Dieci milioni di lire freschi freschi, frutto di spazzo isterico a danno dei miei. Il nostro interlocutore non si strabilia per niente (probabilmente è abituato a trattare cifre ben superiori oppure finge come un maestro). Anzi mi dice che Bollinger è garanzia di serietà e pertanto può fidarsi ciecamente. Comanda di rimettermeli in saccoccia. Sfilo la sua foto, una di quelle fatte appena conosciuta, durante la eggiata in piazza del Duomo. La fisso prima di farla scivolare sul tavolo. Poi la butto sulla scrivania in pelle. L’afferra contemplandola profondamente. - “Mi diceva Bollinger che vuoi sapere tutto su questa ragazza, sbaglio? Non male, decisamente non male. Ha il naso rifatto?” – strabuzza gli occhi da cinghiale arrapato. - “Ecco, anche io le avevo fatto la stessa domanda. Ma ha risposto assolutamente di no. Power? Cosa ne dici?”- Bollinger volta la testa cercando nel mio sguardo una conferma. Si, sta andando fuori tema. Non è una perizia sul suo stato fisico. Doveva solo fissarsi bene in quella testa da delinquente la sua fisionomia, per seguirla. - “No, non è rifatta assolutamente. Scusate, ma che cazzo c’entra? Non vedo il nesso. Mi sembra invece che Leyla abbia fatto il tagliando completo. Comunque ottimo risultato. Ascolti, il fatto che non voglia essere pagato vuol dire che le indagini saranno fatto all’acqua di rose? O, se preferisce, per essere più chiaro, alla cazzo di cane? Se così fosse la prego di accettare i miei soldi. Voglio sapere tutto. Per metà sono riuscito da solo. Ho smascherato balle a ottocento chilometri di distanza senza muovere un dito. Sto ricostruendo un puzzle, mi manca tutto sulla sua vita a Milano. Abita all’ultimo piano di questo grattacielo in Porta Romana. E’ un attico enorme. Un piccolo dettaglio, ci abita solo quando vado a trovarla, altrimenti non esiste nessuno in quell’appartamento. Dovrebbe abitarci una tale che fa di cognome Cingarelli, ma sta a Londra. Ha materiale sufficiente
per iniziare?” – lancio sul tavolo la seconda foto, l’edificio in questione. Annuisce con la testa, come se avesse capito al volo l’ubicazione dell’edificio. - “Per i soldi abbiamo chiarito, farò il mio lavoro come quando mi pagano profumatamente, Bollinger è garanzia di serietà per entrambe le parti. Per ora ciò che mi hai detto mi sembra abbastanza, da domani inzierò a incastrarti i pezzi dell’altra metà del, come l’hai chiamato? Mosaico? No…scusa, puzzle. Non so quanto tempo ci verrà, il tempo è sempre un’incognita non calcolabile.” – sembra professionale. Così, con un briciolo di soddisfazione mi rintasco i soldi, e gli tendo la mano per formalizzare, a quanto meno, a gesti, il nostro accordo. Chiama quella gran figa di Leyla e un’altra bomba atomica dai capelli platinati e le tette da pornostar ad accompagnarci all’uscita. In cuor mio so che avrebbe scovato tra le pieghe più remote delle balle che Silvia ha propinato. - “Aspetto sue notizie. Arrivederci.” – Bollinger lo saluta ringraziandolo profondamente per il favore che ci sta facendo. Usciamo dal retro del locale.
5 NOVEMBRE 2004.
o all’Esprit per bermi un caffè. Il Daytona indica le dieci e trenta, l’aria è tersa e tiepida, e percepisco stranamente il profumo di Olea Fragrans nell’aria. Il sole scotta ancora, e viene voglia di stare in Fred Perry. - “Come siamo in tiro ragazzo!” – mi fa il gestore del bar, uno senza arte nè parte capitato lì per caso. Non certo Tom Cruise in Cocktail. - “Tra due ore mi laureo.” – suona strano. Neanche. Pazzesco. Indosso un completo blu Armani Borgonuovo, scarpe Church’s, camicia bianca Armani Borgonuovo, Cravatta Armani Borgonuovo, cintura Versace V2. - “Ah, complimenti.” – ringrazio dignitosamente. Sorseggio il caffè privo di zucchero cercando di ripercorrere la scaletta della discussione. Gli ultimi giorni li ho trascorsi senza mettere fuori il naso dalla finestra. Punto a un buon punteggio. In fondo la mia media si attesta sul ventisei abbondante. La tesi, il cui titolo suona così: “ La figura del liquidatore nel concordato preventivo con cessione di beni”, è un libro rosso rilegato di centoventi pagine, nelle quali ho dettagliato le modalità, con richiami dottrinali e citazioni di casi pratici, per giungere alla soddisfazione dei creditori sociali. Le procedure concorsuali possono essere una strada che conduce a Gordon Gekko. Pago l’Espresso e mi accendo una Malboro Light. Rimango nel portico lastricato in granito, cosparso di mozziconi di sigaretta. Ispiro profondamente. Sono soddisfatto. Mangio e conduco una vita normalissima, sono tornato a far palestra e corro quasi un’ora e tre quarti, un giorno sì e uno no. Bevo molto meno, e la cocaina, le canne e la vitaccia fanno parte della preistoria. Sono sempre più convinto che George Michael non abbia rivali.
Il mio nuovo cellulare, un Sony modello CMD Z7, trilla e vibra infinitamente meno dello startac dei tempi ati. Di sms ne arrivano ben pochi. Sono rilassato, fumo un’altra Malboro light e chiedo ancora un caffè, stavolta doppio. Un mese fa ho conosciuto in discoteca una strafiga di nome Sara che mi sta prosciugando il portafoglio. Mi ha raccontato che quando aveva dodici anni suo zio le mostrava il pene (parole sue) e le toccava la vagina, fino a provocarle orgasmi multipli. Credo voglia fiondarsi mio padre. In ogni caso è una bomba del sesso. Uno e settanta, tette enormi, capelli ricci neri profumati di lavanda, culo sodo, pelle perennemente abbronzata. E’ scimmiata per Scientology e ieri, mentre la scopavo nel culo in camera mia, mi ha confermato che, in base alla sua tabella di priorità (c’è sempre una tabella per le priorità Giovanni) io mi trovo al primo posto e pertanto sarebbe venuta a sentire la mia dissertazione sul diritto fallimentare. Salgo in auto. Ascolto un po’ di radio, sintonizzandomi su RMC che sta trasmettendo “Victims” dei Culture Club, stranamente in una cover di George Michael del 1991. L’autostrada per Bergamo è libera. In meno di mezz’ora mi ritrovo in Ateneo. Rivedo gli altri compagni di corso, invecchiati e apiti. Li avevo persi di vista da quando, dopo aver tentato sette volte, ando poi con un misero diciotto, tirato per i capelli, l’esame di finanziaria, decisi di scegliere l’indirizzo “Economia e Legislazione per l’Impresa”, che, tradotto, significava, starsene in casa a studiare tutti i diritti, scalciando i corsi per cui era necessaria una frequentazione con obbligo di firma. Il motivo, non per niente riconducibile alle aree d’interesse che nutrivo per le scienze economiche, era molto più semplice: mi rompevo enormemente i coglioni a svegliarmi presto la mattina e muovere il culo per andare a seguire i corsi. Ognuno ha i suoi tempi. Così, dopo avere sbrogliato tutto l’imbroglio, mi sono dedicato allo studio dei diritti, aiutato dalla mia prodigiosa memoria. Ho perfezionato anche l’esecuzione della sonata in si minore di Liszt, eliminando completamente lo spartito dal leggio. Per preparare diritto privato ho impiegato un mese e mezzo, stando comodamente seduto in terrazza a casa all’Isola d’Elba, seguendo il corso del sole, dall’alba al tramonto, intervallando momenti di studio profondo a sedute superabbronzanti e bagni rilassanti. Ricordo l’11 settembre 2001. Mi trovavo sdraiato nel terrazzo principale a godermi un pomeriggio di sole limpido quando il cellulare squillò e Simona, la ragazza che stavo frequentando (una modella davvero molto intelligente), mi avvisa che a New York stavano crollando le torri. Non abbiamo mai avuto la televisione in quella casa, un modo per distaccarsi definitivamente dal mondo reale, così siamo corsi al Bar di Scaglieri a visionare in diretta ciò che stava accadendo. Non commento fatti al di là della mia portata. Ricordo solo la
faccia sconvolta di mio fratello e dei miei genitori. - “Io e la mamma siamo saliti dieci anni fa.” – è stato il commento di mio padre. Nel bar il il gelo della tragedia eclissò quella ventosa e limpida giornata di settembre. Manca ancora un’ora alla mia performance e non sento per niente la tensione. L’udienza è fissata nell’aula Magna al secondo piano, grande sala iper moderna dalle pareti grigie con vetrate a oscuramento automatico. Ricordo il 27 ottobre 1998 e vado in paranoia. Sembra trascorsa una vita. Inizio a guardarmi intorno e cerco qualcuno che non c’è. Vengo distolto dalla vibrazione del cellulare. - “Pronto, dove siete?” – dall’altra parte mia madre. - “Qua all’ingresso, il papà sta parcheggiando con l’Antonio.” – Scendo nell’atrio e vedo una signora molto elegante, nel completo grigio scuro di Fontana. Noto, sotto le lenti dei suoi occhiali d’oro, i suoi occhi lucidi. L’abbraccio per non scoppiare a piangere e la ringrazio con voce tremante. - “Hai visto, ce l’ho fatta anch’io.” – le sussurro respirando con immensa soddisfazione. Lei si a il fazzoletto intorno gli occhi e lo ripone nella tasca del tailleur, in fianco alla spilla raffigurante il labirinto di Minosse in oro giallo. Che strano dire: ce l’ho fatta anch’io. L’avevo promesso, e la promessa è stata mantenuta. Ed ecco mio padre, nell’abito blu di Canali e Church’s. Come sempre abbronzato e sorridente. Con o svelto gli vado incontro e lo bacio sulla guancia. Sorride e mi abbraccia forte. - “Stai tranquillo, hai finito. Questa è solo una formalità.” – annuisco senza proferire parola. Chiedo dov’è mio fratello, ma non faccio in tempo a terminare la domanda che me lo trovo davanti elegantissimo, in abito grigio Armani Borgonuovo, il collo della cravatta Burberry appena allentato. Ne ha fatta di strada mio fratello. Non avevamo dubbi. In tempo zero, appena terminato il servizio civile è entrato, non so bene con quale qualifica, nel centro ricerche di una multinazionale petrolchimica. In tre anni ne è diventato
responsabile, e a ottobre, il ventisette (guarda caso) è stato nominato in consiglio di amministrazione. Non è mai a casa, si divide tra Shangay, New York, SanPietroburgo e altre innumerevoli città sparse per il mondo. E’ sempre stato una mente superiore. E adesso tocca a me. Mi guardo in giro spaesato, e non vedo nessun altro di mia conoscenza, a parte la folla dei parenti degli altri neolaureandi. Saliamo al secondo piano e vedo mio padre che prende accordi con il fotografo di turno, un ragazzo molto umile che cerca di fare il suo mestiere e tirare a campare. Il Sony mi vibra nella tasca dell’abito e il display dal fondo arancione segnala che Sara mi sta chiamando. - “Ciao cara, dove sei?” – sento “Amazing” di George Michael in sottofondo e noto con piacere che la ragazza sta assorbendo le mie buone maniere. Ha una micra viola che dice di essere per lei come una figlia, i genitori sono separati, la madre ha avuto problemi di droga ed è spesso ospite da psichiatri di basso livello. E’ sempre sotto effetto di Prozac. Il padre, uomo attraente (dice lei) lavora in una rosticceria in Corso Venezia e ogni tanto è fortunato perchè consegna qualche coscia di pollo fumante a personaggi del jet set milanese. Per questo mi dice che è un grande e che è un uomo di successo. - “Mio padre è un vincente.” – ama ripetermi durante le nostre cene allo Smeraldino. Ed ecco la commissione, presieduta dal Professor Ramalli, mio ex docente di Informatica, un mezzo frocio apionato del Pascal, linguaggio con cui francamente non ho molta dimestichezza. Nonostante questo, mi aveva appioppato un bel ventisette, anche perché alla fine l’esame si risolveva in una banale prova scritta, detta più semplicemente test a risposta multipla (la domanda più complesse era: che cosa s’intende per modem?), seguito da un orale elementare, in cui il qui presente mi aveva chiesto di mostrargli sulla barra degli strumenti l’icona in excel per sommare una serie di dati incolonnati. Ce l’avrebbe fatta anche un minorato mentale. Gli altri due membri non li avevo mai visti, presiedevano corsi da me non prescelti. Ed ecco il Professor Caffi, mio mentore, Professionista di fama internazionale, che ha saputo infondere interesse in un cervello apparentemente amorfo,
disinteressato e senza colore. L’unico con la toga, espressione di rigore e serietà. Spesso si associa a signorilità un oggetto, qualsivoglia come un orologio, un abito, un’auto. Il mio Professore la rende solo con lo sguardo, vispo e vivace sotto gli occhiali in oro giallo di Cartier. Lo saluto con riverenza e stima, mi chiede come sto e gli rispondo che sono un po’ teso, lui mi dice di non preoccuparmi, che è solo una formalità, le stesse parole di mio padre, mi stringe la spalla con affetto. Nel frattempo vedo salire dalle scale Sara, con in mano un mazzo di rose bianche e un gran sorriso sul viso. Indossa un completo gessato di Yves Saint Laurent, su tacchi da dieci. Il gran culo, avvolto nel pantalone, può essere tranquillamente quello di una brasiliana. Sodo e gonfio, tendente ad allargarsi leggermente in corrispondenza dei fianchi. Sotto la giacca, la camicia bianca semiaperta lascia intravedere le tette supercosmiche. Le vado incontro, lei mi bacia sulla bocca, mi abbraccia e mi consegna i fiori, molto scenografici. La ringrazio e mi trovo impacciato nel dover rifilare il mazzo a qualcuno. La presento ai miei genitori, mia madre la squadra subito, realizzando (come al solito) che non è alla mia altezza, ma si sforza di essere cortese, anche se la messa in scena risulta poco credibile. - “Vedo caro mio che ti piacciono sempre le donne di un certo tipo..” – mi bisbiglia mio padre mentre Sara sta salutando Antonio visibilmente impacciato. Non siginifica nulla per me quella ragazza, sebbene fosse una bomba. Avrei voluto ci fosse un’altra persona. Il Presidente annuncia sorridendo il mio nome, definendomi, su suggerimento del mio Professore, un alunno che si è distinto per impegno e approfondimento, nel ricercare sentenze, pubblicazioni e casi concreti, valutando nel mio lavoro le possibili modifiche che saranno applicate con la prossima riforma del diritto fallimentare. In seguito presenta la mia guida, che non ha bisogno certo di presentazioni. Segue un applauso scrosciante e prolungato. Il Daytona segna le quattordici e tocca a me. Ora l’adrenalina mi sta spaccando le tempie. Amici e parenti gremiscono l’aula. Il Presidente chiede cortesemente di far silenzio, soprattutto come riconoscimento nei mie confronti per l’ottima tesi che devo
riassumere in breve. Mi volto guardando i miei genitori e gli amici. Noto che Sara sta seduta in mezzo ai miei genitori e mia madre è incazzata come una vipera affamata. Il mio Professore dopo una lunga introduzione sul motivo per cui ho scelto di trattare una figura così controversa, soprattutto negli ultimi tempi in vista dell’imminente riforma, si rivolge a me come a un figlio chiedendomi di dettagliare la formazione dello stato ivo. Premettendo che, a differenza del fallimento, nel concordato preventivo non è prevista una verifica giudiziale dei crediti, ma bensì una verifica puramente amministrativa, svolta dal commissario giudiziale, mi lancio in una completa e puntuale dissertazione di un quarto d’ora sull’argomento oggetto di domanda. Mi sento pienamente a mio agio e soddisfatto, notando il compiacimento del mio Professore e degli altri membri della Commissione. Le mie parole, argomentate con collegamenti a sentenze e a casi pratici si riversano a cascata nel silenzio dell’aula. Con uno spunto da maestro il mio Professore mi suggerisce di argomentare il rendiconto del liquidatore. Specifico, senza soffermarmi neanche un minuto per riflettere, che il punto fondamentale è il principio secondo cui ogni amministratore di affari altrui deve rendere il conto alla fine della gestione. In seguito definisco i destinatari a cui il liquidatore deve fare riferimento, specificando per ognuno l’ordine di importanza, il compito a loro riservato. Non un attimo di esitazione, non una parola fuoriposto. Tutto perfettamente calibrato. Il silenzio si fa sempre più assordante. Mi collego alla ripartizione dell’attivo, considerando gli aspetti comuni con il fallimento e mi avvio verso la chiusura della procedura specificando la sorte dell’imprenditore durante la fase esecutiva. Il mio Professore annuisce con la testa. Segno che posso tranquillamente avviarmi alla conclusione. Guardo di sfuggita il Daytona e realizzo con mia grande sorpresa che ho parlato per più di quaranta minuti, catturando l’interesse di tutti. Termino con la valutazione degli organi sociali dopo la sentenza di omologazione e analizzo brevemente i loro rapporti con il liquidatore giudiziale. Chiude il dibattito il Presidente, ringraziando il relatore e me, complimentandosi ancora una volta per il magistrale lavoro e la chiarezza espositiva. Mi sono laureato. Volgo lo sguardo verso i miei genitori commossi e vedo mio fratello sorridente
con gli occhi tremanti, mi alzo stringo la mano al Presidente e agli altri membri della Commissione, sinceramente grato per i loro complimenti. Il mio Professore mi raggiunge con un gran sorriso e mi abbraccia: - “Sei stato bravissimo, davvero. Complimenti.” – mai mi ha dato del tu. Mia madre arriva e si spezza piangendo. - “Il mio Giò, vieni qua…tesoro mio..” – sento gli occhi ardere, le gote scoppiare e trattengo il groppone in gola, l’abbraccio forte. Non mi curo di Sara che sta parlando con un sorrisone magnifico al mio amico sco. Ed ecco mio padre, ancora più abbronzato e splendido di quel ventisette ottobre millenovecentonovantotto, anche lui a stringermi e a baciarmi. - “Sei il nostro eroe, Giò. Hai visto, ce l’hai fatta.” – ed è vero. A mio papà, a mia mamma e a mio fratello, senza di loro non ce l’avrei mai fatta. Dimenticavo, questa è la prima pagina della mia tesi. - “Eh sì..” – le gambe mi reggono per miracolo. Mio fratello mi cinge con il braccio dal dietro, e mi scompiglia con affetto i capelli. - “Quando scalerai la Pfizer ricordati di me.” – e ci abbracciamo. Ricordo noi bambini e il suo aiuto per i compiti di matematica. S’incazzava perché sbagliavo sempre. Mi ha aiutato anche al liceo quando dovevo risolvere le derivate e gli integrali. Mi proietto avanti dieci anni e immagino cosa saremo. E non m’importa sapere se ho sfondato nel lavoro o raggiunto il successo e tutte le solite cazzate. Vorrei semplicemente sentire l’armonia che sto vivendo fino a quel momento. Vedere i miei sempre insieme, invecchiare mano nella mano felici e fieri dei loro figli. Ma non ho la sfera di cristallo e non sono Dio, purtroppo. Temo l’avvenire. Riecco la Commissione entrare in pompa magna, con in mano un blocco intestato all’Università. Ci invitano a sederci, stavolta occupo il posto centrale tra i miei genitori e attendo con elettrizzante trepidazione il responso. - “Bene, eccoci di nuovo.” – attacca il Presidente. - “Come scontato era ovvio che la decisione sarebbe stata così breve. Infatti non v’è stato bisogno di conferire, data l’unanimità di giudizio. Più che altro è
stata una piacevole pausa per fare un’amichevole chiacchierata con il nostro Professor Caffi.” – sorridenti e sereni, mi guardano con ammirazione. - “Bene, ma veniamo a noi. Giovanni Duchi..” – mi alzo di scatto, con le gocce di sudore sfrigolanti sotto la camicia, il viso paonazzo. - “Come anticipato, le rinnovo i miei complimenti e con grande soddisfazione le posso dire che oggi, cinque novembre duemilaquattro lei si laurea con centodieci e lode. Si faccia stringere la mano.” – mi avvicino, barcollante e tremante. Vedo il mio Professore annuire, lo sguardo soddisfatto e vincente. Stringo la mano a tutti i membri della Commissione e flash. Ce l’ho fatta.
PRIMA O POI TUTTO HA UN SENSO
Domani è oggi. Dell’aguzzino che ho assoldato nessuna notizia, anche se sono trascorsi solo tre giorni. Ma, d’altronde, come ha detto, il tempo costituisce un’incognita non calcolabile. Decido di rispondere al suo sms, visto che non si era fatta più sentire (ti amo, diceva una volta). - “Ciao.” – mi limito. Subito abbocca. Credo aspettasse solo quello. - “Grazie al cielo ci sei ancora. Come stai? Se ti chiamo disturbo?” – non ha nessun altro da tormentare, sono tornato ad essere il suo gingillo paranoico. - “Normale. Chiamami pure, non sto facendo nulla di che.” – zzz..zzz…il cellulare inizia a starnazzare. Un’agonia di quattro squilli e rispondo. Sto leggendo un articolo su come fosse così semplice morire senza motivo, solamente a causa di errori stupidi. Sicuramente è meno doloroso che lasciarci le penne dopo una lunga malattia. Meglio picchiar la testa come William Holden nella sua casa a Santa Monica che soffrire come Freddie Mercury. Indubbiamente. - “Pronto.” – eccola ancora una volta. - “Ehy. Come stai? Non mi hai risposto nell’sms, e come mai non ti sei fatto più sentire? Ero in ansia.” – come da copione. Ha abortito, e chiede a me come sto. Qualcosa che non funziona. - “Me l’hai chiesto tu, non ricordi?. Normale. Tu, piuttosto, come stai? Mi sembra che dopo un aborto la tua ripresa sia stata davvero brillante. Come se non fosse successo nulla.” – sto partendo. Le scintille di rabbia mi bruciano i neuroni e le mani e i piedi iniziano a bollire come arrostiti in una padella colma di olio sfrigolante. - “Per favore, non sai minimamente come sto. So quanto hai dentro, come stai male, per questo non ne parlo.” – tutte cazzate. Dopo un aborto non puoi fottere per due mesi e la vagina è ridotta a un colabrodo. Lei non sembra nemmeno
avere un minimo fastidio, né un prurito, né un bruciorino. La sua voce, costantemente calma e serena, sta sempre in bilico tra il riso e l’ronia. Quello che aveva dentro fino a poco tempo fa lo sapevo perfettamente. Il mio terribile sospetto si materializzava davanti alle mie pupille con la sua immagine intenta a sgrillettarsi mentre si faceva fottere da uno o più maschioni dal cazzone gigante. Muoio dalla voglia di domandarle a chi sia intestato il numero dell’altra sera, e come mai mi ha chiamato da Nardò. Vado avanti a far lo scemo, meglio così. Tale mi ha considerato fino adesso. Magari la nostra conversazione se la sta già godendo il mio aguzzino. Il cravattaro. Credo in lui, e nelle sue spiccate capacità esplorative e particolarmente convincenti. Il telefono di casa irrompe nella tranquillità del giorno, ho una voglia pazzesca di fumare ma sento apparecchiare in sala da pranzo e non saprei nemmeno dove rimediare una Malboro Light. Sento bussare alla porta della camera, e senza neanche dire avanti, mia madre, con voce squillante e ben sveglia mi comunica che la Laura deve parlarmi assolutamente. E’ davvero importante. Mi fissa con il viso trepidante. Mantenendo una certa signorilità annuisco con il capo confermandole che l’avrei richiamata appena mi sarei staccato dall’altra linea. - “Certo che questa tua cugina non ti molla un attimo. Davvero sicuro che non avete le storie insieme?” – banalità da falsa gelosa. Mi interrogo sul perché sto ancora ad ascoltarla. Bollinger ultimamente continua a ripetere che il cazzo e la figa creano disagi. - “Dille che le telefono tra dieci minuti.” – e mia madre, su richiesta di mia cugina insiste. - “Guarda che è estremamente urgente!!” – così dico a Silvia che l’avrei richiamata dopo mezz’ora, salutandola gentilmente e lanciando lo startac sulla scrivania. - “Cazzo, ma non vedi che ero occupato al cellulare!! Dammi qua…” – afferro il cordless. - “Spaccacoglioni, cosa c’è di così urgente? Se per stasera hai in programma qualcosa ti rispondo che non ho voglia di far niente. Sono a terra di brutto, di umore, di tono muscolare e di soldi.” – o la mano tra i capelli profumati. Sto usando uno shampo di mia madre della Lancôme eccezionale.
- “Ho delle notizie sulla tua amica Silvia.” – sorrido. Ora dobbiamo far un piccolo salto all’indietro. La mattina seguente al ricevimento dell’sms con il numero proveniente da Nardò, ho chiamato al volo mia cugina raccontandole dell’episodio, ricordandomi che la sua amica Manuela (quella con le tette grosse e la voglia perenne di cazzone) è originaria di Gallipoli. Senza nemmeno chiederglielo Laura si era offerta bellamente per avere da me carta bianca per adoperarsi a trecentosessantagradi nel ricercare il domicilio di quel numero, con l’aiuto della sua compagna d’avventure. Nonostante avessi continuato per mezz’ora a ripeterle che non risulta da nessuna parte, mi aveva detto sbuffando: - “Lascia perdere, ci penso io. Stai tranquillo e aspetta un paio di giorni. Poi mi ringrazierai.” – Concordando nella sua decisione, le avevo promesso che se la sua amica fosse riuscita a cavarne fuori qualcosa, una scopata con il sottoscritto non gliela avrebbe negata nessuno. E forse anche una cena con gatêau di panna e marmellata (la mia). - “Sono tutto orecchi. Parla pure.” – un attimo di silenzio simile al tonfo sordo generato dall’accecante bagliore di luce creato dal lampo che illumina tutto lo spazie visibile. Cerco le sigarette. - “La sorella di Emanuela va alla medie a Nardò…” – la interrompo sbuffando. Accendo una Malboro Light. - “Mi fa piacere, le medie sono scuole dell’obbligo, non lo sapevi?” – i preamboli non servono a un cazzo. La maggior parte dei discorsi che fa la gente non servono a niente. Solo parole sparate a cazzo tanto per riempire l’aria e stordire l’udito. Come sono stanco, la stanchezza irritante della tensione, dell’irrequietezza e dell’insoddisfazione. Ecco cosa stavo diventando: un cazzo di insoddisfatto. - “Piantala, imbecille. Senti qua. Manu è partita per andare a trovare i suoi in Puglia. Sai che loro abitano da quelle parti?” – anche mia cugina, che dà tutto per scontato, non ha ancora capito che bisogna spiegarsi bene in certe occasioni. - “E chi cazzo lo sa? Non è nel mio interesse conoscere la residenza dei genitori della tua amica. Mah..” – non riesco a comprendere il suo punto di arrivo. - “Bene, lei porta sempre con sé un’agenda, dove annota tutto. Appuntamenti,
numeri di telefono, appuntamenti e poi ancora appuntamenti. Quando è arrivata a Nardò, mentre sua sorella minore, lo sai no, che ha una sorella minore?” – ancora con la stessa storia. Non riesce proprio a far collimare quei quattro minuscoli neuroni del cazzo che le volano in quel cervello mal ridotto e confezionato sotto vuoto. - “Anche questo non lo sapevo. Cugina per favore, ho la pressione ai minimi storici e le palle a penzoloni, quasi quasi le posso usare come stringhe. Arriva al punto che poi devo sorbirmi anche l’interrogatorio di mia madre.” – guardo il Daytona e realizzo che dieci minuti sono ati abbondantemente. - “Bene, l’agenda era riposta in una valigia e quando la stava disfando, nel momento in cui aveva sfilato una camicetta (di che marca?), l’agenda, paf, cadde per terra, e sua sorella, che la stava aiutando, ha notato il numero di telefono che mi hai girato annotato su un post-it.” – la storiella inizia a avvincermi. Tutto prima o poi ha un senso. - “Ah. PROSEGUI, STO ASCOLTANDO.” – e cosi fa. - “Bene, quel numero di telefono è di una sua compagna di scuola media. Tale Claudia Esposito. O meglio è il numero dell’abitazione della famiglia di questa Claudia Esposito. Subito la sorellina ha fatto mille domande.” – stranamente il taglio alla schiena, a grande richiesta, torna a farsi sentire con delle stilettate elettrizzanti. Colpi di coltelli affilati spappolano i lobi del mio cervello. - “E lei cosa le ha risposto?” – gemo con la bava alla bocca. Acidità e succhi gastrici ipercloridrici mi stanno corrodendo. - “Che il cugino (tu), di una sua amica (io), sta frequentando una ragazza di Milano che l’ha chiamato da quel numero. E visto che proviene da Nardò e non risulta nell’elenco telefonico, si è offerta di fare una ricerca in loco.” – sto guardando la finestra, e penso che effetto farebbe lanciarsi nel vuoto. - “PROSEGUI, STO ANCORA ASCOLTANDO.” – la mia voce si sta trasformando in un latrato rotto dalla rabbia che lentamente si assesta sulla via per esplodere. - “La famiglia Esposito è molto importante. Lui è Notaio e la moglie insegnante, non so di cosa, non sono stata a soffermarmi su questo dettaglio. Mi sembra che un fondo di verità in quello che ti ha raccontato ci sia. Inoltre la
Manu mi ha confermato che la sorella maggiore di questa Claudia studia e abita a Milano. Ah, dimenticavo, si chiama Silvia. Vedi, un fondo di verità c’è.” – il tallone mi batte pesantemene per conto suo sul parquet, alla ricerca di petrolio. - “Non è riuscita a sapere in che via abita?” – stranamente non riesco nemmeno a bestemmiare. Mi sento completamente traato da parte a parte. Un lieve bruciore mi rode nell’ano. - “A Nardò? Ma che cosa te ne frega?” – come sempre ha bisogno della lavagna e del gessetto. Mia cugina era riuscita a terminare le medie a furia di sganciare mazzette ai professori. - “Ma noooo, a Milano! Sto parlando di Silvia, cazzo. Non sei riuscita a sapere dove abita?” – si sta accendendo una sigaretta. - “Eh sì, e poi? Non ti basta quello che mi ha riferito?” – mia madre, sentendo che sto alzando la voce, si intrufola in camera con la scusa di portarmi una busta della banca che ho visto sulla dispensa della cucina da più di tre giorni. Le faccio segno di menare le tolle al volo. - “E del cognome Mason? neanche il minimo accenno?” – conosco la risposta. - “E’ un’invenzione. Una cazzata!! Mason…si chiamano Esposito!! Devo andare, mia madre mi sta aspettando nell’altra stanza con la commercialista. Domani sera vieni a ballare o stai chiuso in casa a rimuginare?” – in quel momento non so come chiudere la telefonata. - “Non so…ciao..” - e attacco. Riprendo in mano lo startac e faccio partire la chiamata. Non risponde, così riprovo altre due volte, a distanza di trenta secondi l’una dall’altra. Niente, zero. Silenzio assoluto. Eppure sapeva che l’avrei richiamata. Un altro startac nuovo di zecca finisce schiacciato sul muro.
IL GLAM
Quante serate in vita mia ho fatto trangugiando cocktail e scolandomi bottiglie di champagne. Non sono mai riuscito a smettere, e sono arrivato alla conclusione che un altro giro di locali e di drink sarebbe stato l’ideale per dimenticare. Chiamo Bollinger a rapporto e alle ventuno e trenta ammaino le vele da palazzo alla volta di un’altra seratina da ricordare. Di comune accordo optiamo per un preserata senza tante pretese. Mi sparo due coppe di champagne in un localino in Brera, scroccando una sigaretta a una signora che è in fissa sulle mie fattezze. La studio bene, e, notando il suo volto distrutto e segnato dalla vecchiaia, la ringrazio stringendole la mano e salutandola con estrema gentilezza. - “Capito la storiella del cognome?” – inzio a strascicare le parole. - “Ma che cazzo vuoi? Ancora stai perdendo la testa per quella cazzara? Ma non hai più rispetto per te stesso?” – Bollinger indossa il Daytona d’oro fondo champagne con indici in diamanti. - “Ancora, devo capire. A proposito il cravattaro non si è ancora fatto sentire? Troppo impegnato a incassare la provvigioni delle sue marchettare? Secondo me se ne sta fottendo altamente. Era meglio che s’intascasse i miei soldi. Quando paghi hai diritto di chiamare e sapere. E, soprattutto, sei lecitamente autorizzato a spaccare i coglioni più del dovuto. Scusa, me ne fai un altro? Ecco, è possibile metterci dentro un paio di fragole tagliuzzate? Questo poveretto non capisce un cazzo.” – impacciato il barista cinese-vietnamita mi scruta come un marziano. Ha le fragole sul bancone, a venti centimetri dal suo campo visivo e non riesce a collegare quello che gli ho appena detto. - “Caro, sono lì, alla tua sinistra. Dai, dai, hai visto che ce l’hai fatta?!” – mi viene in mente un amico dei miei genitori che ha fatto fortuna con la borsa. Beveva una bottiglia di champagne al giorno. A cinquantatre anni gli hanno scoperto un cancro al pancreas metastatizzato ai polmoni e al cervello. Nel giro di tre mesi se n’è andato affanculo.
- “Non c’entrano i soldi. Mi deve un sacco di favori, non preoccuparti che ci sta lavorando sopra. L’hai detto, è furba, e se ti ha mentito sul cognome chissà quante altre cazzate ti ha propinato. Quello che mi chiedo anch’io è perché? In fondo non le hai fatto nulla. Poteva essere chiara dall’inizio, e invece è stata una gran farsa. Ma neanche, una messinscena senza motivo. Bevi che ti a.” – afferro una fragola e la inghiottisco intera. - “Aspettiamo, cosa devo dirti. Ma se entro settimana prossima non mi fa sapere nulla procedo per strade alternative. Guarda, guarda cosa sta entrando. Non male la mora.” – tre over trenta (over da un pezzo) varcano l’entrata del locale, ridanciane, alticce e strafatte. - “Quale delle due? Mi sembrano delle gran fighe entrambe. La bionda ha due tette da porno. Porca troia, guarda che roba!!” – in effetti raffigurano il prototipo delle nostalgiche bastarde a un piede dalla fossa. Quelle ormai finite che si aggrappano ancora ai cazzi dei giovincelli. Ma non sono niente male. Appoggiano il loro culo stagionato a mezzo metro da noi, iniziando tutte e tre e flirtare con il sottoscritto. Così ordino un altro champagne per me, che non ho ancora iniziato a bere quello del terzo giro. Ma avere due coppe di Moêt sul bancone noto che sta stimolando abbondantemente la loro curiosità. - “Bollinger, fatti sotto. Sono da attacco, porti un Laphoraig al mio amico, con una bottiglietta di coca a parte e del ghiaccio.” – ed ecco la mora dai capelli da pagliaccio sotto shock sorridermi, con i denti perfetti, stretta in jeans D&G, maglietta nera Versace ultraderente sul seno ipergonfio e scarpe Stuart Weitzman. I capelli, ricci, cadono sulla fronte microfillerizzata. Il naso e la bocca, esempi di chirurgia plastica di medio livello, le stanno appiccicati come francobolli raggrinziti su buste ingiallite. L’altra mora, venti centimetri abbondanti più di me, indossa un vestito verde smeraldo in seta Les Copains, a filo sopra il ginocchio. La fisso attentamente mentre mastico un altro spicchio di fragola semiacerba e non capisco. C’è qualcosa nei suoi occhi che non mi quadra. Anche lei naso, bocca e tette nuove di zecca, stavolta esempio di avanzatissima chirurgia plastica. Rimango perplesso. Mi fissa in modo estremamente imbarazzante. La scruto attentamente. - “Cazzo, c’è qualcosa che non va.” – scuoto la testa aggrottando le
sopracciglia. - “Ancora, vedrai che il nostro amico si farà sentire prima di quanto immagini. Per il resto non c’è niente da capire. Ti ha preso per il culo fin dall’inizio, ormai è assodato, non credo ci sia un motivo preciso.” – e fisso la mora oggetto di analisi. - “No, no, non sto parlando di Lei, guarda quella, c’è qualcosa che non va. Sembra un gran figa, eppure mi rimbalza. Cazzo non riesco a capire.” – sta di fatto che mentre la analizzo la riccia ha stroncato in meno di cinque minuti un vodka tonic e sta accendendosi una Malboro light. La guardo e parto. - “Che ne dici di una sigaretta per una coppa di champagne?” – sorride, se lo aspettava. D’altronde devo scegliere, e la riccia mi sembra quella più facile. - “Non bevo champagne splendore, però la sigaretta te la meriti.” – per pareggiare, le ordino un altro vodka tonic atomico. Bisogna sempre pareggiare. Ringrazia porgendomi l’accendino. Ci presentiamo ufficialmente, e subito viene svelato l’arcano. La mora vestita di verde si chiama Valentina, la riccia che da lì a poco me lo avrebbe succhiato come una forsennata, Aurelie, la bionda, una Barbie uscita male, Cristina. Cristina ha le tette più grosse di tutte. Valentina, le cui caviglie sono tre volte le mie, infatti è un trans. Tecnicamente ormai donna, perché se l’è fatto tagliare. Mi è subito addosso. Con la bocca siliconata e il viso totalmente incipriato inizia a porgermi delle domande interessanti. Sento le bollicine alle stelle, la testa inizia a rotearmi, gli occhi si stanno incendiando e sento di non connettere più. - “In ogni caso ha vinto Lei.” – commento fuori tema. - “Come?” – domanda Bollinger con l’odore di torba addosso. Mi ripiglio e inizio a dialogare elegantemente con le tre signorine. M’interessa capire il travestito.
- “Hai i coglioni grossi?” – mi chiede senza pudore. La riccia sente di sfuggita e s’intromette, pensando che sia scemo. Ordina un Moijto, specificando al barman, di esagerare con il rhum bianco. - “Normali.” – Bollinger s’ingozza rischiando di spruzzare in faccia il Laphroaig alla bionda. - “No, ma intendo dire…li hai pesanti?” – che disastro. - “Non ho mai provato a pesarli.” – rispondo e mi volto verso la riccia strizzandole l’occhio. - “Scusa, ma pensa che sia un cerebroleso? Può aver fatto tutte le operazione del mondo, ma lo becca anche un cieco dall’altra parte della terra che è un trans. Come si chiamava prima della ghigliottina, Valentino? Oh Cristo Santo.” – se mi vedesse mia madre parlare con quella cosa mi caccia di casa a calci nel culo. - “Ma il cazzo, quanto l’hai lungo?” – ordino un’altra coppa di Champagne, e raggiungo la consapevolezza che è meglio ordinare una bottiglia. E così faccio. - “Cinque centimetri quando è in tiro. Mi è capitato addirittura di infilarlo e non sentire niente. Come se non entrasse. Le donne che vengono con me spesso mi chiedono: ma me lo hai infilato? E io rispondi di sì, e poi vengo. E tieni conto che metto il preservativo, per cui c’è anche un po’ di spessore in più.” – imbattibile. - “Non ci credo…mi piacerebbe verificare. Hai capito Cri? Ce l’ha lungo cinque centimetri….oh tesoro, come sei glam.” – Bollinger mi guarda paonazzo. So cosa sta pensando. Inorridisco. E inizia: - “ Sai cos’è il glam?” – questa non l’ho mai sentita. Ormai è sempre più di moda accorciare i nomi, inframezzare i discorsi con tesoro, amore, gioia, cucciolo. Ma glam, da dove cazzo se l’è andato a pescare quel cazzo di travestito? - “No Bollinger, e stappa la bottiglia che ho bisogno di bere.” – ordino un Mum con della crema di fragole, un cestello di ghiaccio e un carpaccio d’ananas. - “E’ la punta dell’uccello.” – mi volto verso il trav e le dico, offrendole un bicchierino. - “Vedi cara, certi uomini impazzicono perché pensano d’averlo troppo corto,
altri invece perché convinti di avere sotto un braccio se lo accorciano. Certo, non definitivamente, no. Gli danno una spuntatina, così, perché non dia fastidio negli slip.” – e le strizzo l’occhio. Non proferisce più parola, si volta a parlare con Cristina. - “La tua amica sta giocando sporco con me. Penso che abbia vagamente intuito che non m’interessano i cazzi, nemmeno se sono tagliati.” – Aurelie si sta accendendo una sigaretta e si avvicina con insistenza alla mia bocca, con gli occhi sgranati pieni di coca. Non mi sono accorto di questo dettaglio. Evidentemente l’alcool la sta caricando come una bomba atomica pronta a scoppiare senza preavviso. Sembra si diverta parecchio. La gente si diverte, come se niente fosse. Vedo Bollinger impietrito, con la faccia sconvolta fissare il display del suo cellulare. Aurelie nel frattempo mi sta leccando la faccia, con la lingua spessa e bollente. - “Dai, andiamo in bagno che inizio a leccarti il glam…” – mentre stava entrando mezz’ora prima mi aveva colpito per una sua frase detta all’amico banana segata in un discorso tra donne in cui sosteneva di essere una signora. - “Capisci, non posso abbassarmi a questi livelli cara. Io sono una signora.” – ecco, lo sta proprio dimostrando. - “Vuoi invitare anche la tua amica trans? Così se lo mena per quel che gli è rimasto?” – mi prende in mano le palle, stringendomele, mentre la musica si è trasformata da lounge a clubbing isterica. Inizio a innervosirmi. La sto slinguando e fisso il trav eccitato. - “Il tuo o la tua compagna ci guarda, scommetto che gli tira di brutto. Mi caccia fuori la lingua e strizza l’occhio.” – Aurelie lievita, ormai è alle cozze completa. - “Non ce l’ha più, si è fatta operare. Ora anche lei ha la patatina. Gliel’ho vista, è di plastica, ed è più larga della nostra. Ed è pure sposata, porta la fede di Tiffany.” – l’oggetto della nostra conversazione si avvicina con la bava alla bocca. - “Che cazzo mi stai dicendo, che è sposata e che le, o gli, puoi infilare dentro un braccio? O cazzo sta arrivando. E noto che ha le peggiori intenzioni.” – eccola e senza chiedere permesso m’infila la mano dentro la camicia, massaggiandomi il pettorale e stuzzicando il capezzolo. Sorride libidinosa e
cerca di mettermi anche la lingua in bocca. - “Guarda che Aurelie non è gelosa. Facciamo sempre queste cose in due, sei imbarazzato? E poi siamo cosìffuori…” – non ha capito un cazzo. La sua mano sta sfilando dritta verso il mio basso ventre, alla ricerca del cazzo. Vedo Bollinger vitreo in viso con gli occhi fissi su di noi. Quando incrocia il mio sguardo mi fa segno di avvicinarmi. - “Dai, andiamo tutti e tre in bagno. Ti facciamo dei bei massaggi…tu tiri di coca?”– suggerisce Aurelie, in piena botta, con la mano nascosta nei miei boxer. Il trav mi apre la camicia (Armani Borgonuovo) e la musica diventa sempre più isterica. Un marocchino cerca insistentemente di vendere delle rose a una coppia di sfigati seduti in un tavolino vicino all’ingresso. - “Dopo ragazze, bevetevi ancora dello champagne, ve lo consiglio. E’ ottimo, scusatemi molto, Bollinger mi sta reclamando…sapete siamo froci.” – l’idea di fare una porcata come si deve nel cesso non mi va via dalla testa, anche se con uno che se l’è tagliato per far bella figura. Cazzo, pure sposato. Chemmerda. - “Bollinger, quella faccia da funerale cosa significa? Ti hanno rubato l’sl?” – mi schiaffa in faccia il cellulare, con la chiamata senza risposta del nostro uomo. E un messaggio, scritto in maiuscolo che recitava: - “ Ragazzo, ho bisogno di parlare con te e il tuo amico. L’ho chiamato ma non mi risponde. Fatemi sapere.” – la musica diventa hard core. Mi scoppia la testa, afferro la bottiglia di champagne scolandola in un fiato e lascio le tre puttane a toccarsi in preda ai fumi della polvere magica. Pago il conto, circa trecentomilalire, e saliamo sull’sl, multata perché parcheggiata in zona portatori d’handicap. - “Allora, ci siamo?” – domando smandibolando, con il sudore che mi cola dalla fronte, e gli occhi bollenti e roteanti. - “Così sembra.” – risponde Bollinger scaraventando il verbale fuori dal finestrino, schizzando per Via Pontaccio.
IL MONCO
Il puzzo ammorbante di un Cohiba piazzato in bocca a un russo ubriaco e arrapato, con le mani nella marmellata unta di una ballerina cubana, mi stordisce facendomi traballare come uno sgabello usurato. Sono più ubriaco di quanto pensassi e le urla degli uomini bestie con i cazzi duri come salmoni surgelati mi stordiscono. Siamo scortati da un energumeno rasato, dall’espressione sgradevole in abito nero, che c’informa cercando di esprimersi al meglio che Sventrax ci sta aspettando. - “Prego, i signori siete pregati di venirmi dietro.” – venirmi dietro. Ha il sopracciglio ancora tumefatto e il naso incerottato. Sul palchetto uno spettacolo lesbo riscuote ovazione tra gli assatanati, in particolare quando una bionda, corazzata in silicone, infila un vibratore bi-testa negli orefizi di una negra dal corpo scultoreo. - “Cazzo, ma godranno davvero?” – urlo a squarciagola a Bollinger, dato che Libertango di Grace Jones è sparata a volume altissimo, quasi in distorsione. Il fumo è asfissiante e le ragazze in topless e perizoma brulicano per il locale lucide e abbronzate. Sembrano ricoperte di glassa al cioccolato. La media è notevole, che tradotto, nello stato in cui mi trovo (a metà strada tra il delirante e il confusionale) me le sarei fatte tutte. Ho una voglia atroce di scopare. O di spaccare la testa a qualche malcapitato. Ed eccoci nella sala insonorizzata. I fumi dell’alcool stanno offuscando la realtà secondo le mia manie. Dietro la scrivania ecco il nostro uomo, che cerca di sintonizzare la sua ricetrasmittente. Si alza e ci viene incontro sorridente, rilassato e tranquillo, quella tranquillità tipica di chi non ha paura di nulla. Colpisce Bollinger sulla spalla con un leggero pugno, ma stavolta senza scardinarlo, poi si ferma a guardarmi. Noto che dall’ultimo incontro il suo sorriso è cambiato. Ha rifatto i denti. Sembra un cinghiale. Mi dà una pacca sulla spalla e realizzo che è un gesto di comione. Lo stessa usanza utilizzata nei funerali, quando a cerimonia terminata i partecipanti porgono le condoglianze ai parenti del caro estinto. La ricetrasmittente emette un sibilo acuto e il nostro uomo farfuglia qualcosa.
- “Scusate un attimo, devo risolvere una questione. Ultimamente c’è un gruppo di rumeni che non sa stare al loro posto. Insultano le ragazze e non vogliono pagare.” – si apre la porta e un altro guardaspalle conduce nella stanza, sottobraccio, uno sulla trentina, più ubriaco di me e puzzolente di merda e benzina. Mr Cravattaro lo invita gentilmente a sedersi su una sedia di fronte alla scrivania, e gli chiede se vuole qualcosa da bere. - “Dobbiamo levare il disturbo?” – domando con estrema delicatezza al guardaspalle che ci ha accompagnati nella stanza delle torture. Lui, rigido come un pezzo di marmo, risponde di no, possiamo stare lì a goderci lo spettacolo. Io guardo Bollinger e capiamo che i prossimi dieci minuti non sarebbero stati facili da digerire. Il nostro uomo, vedendo quel rifiuto del malcapitato si alza e si versa un bicchiere di Gin. Lo assaggia, soddisfatto del gusto che gli solletica il palato. Lo fissa schifato, chiedendogli se per favore può guardarlo dritto negli occhi. Il rumeno scoppia in una risata fatta di coca e rum, emettendo un rutto imbarazzante. Lo guardo e capisco che era meglio non farlo. Se ne accorge e attacca: - “Cazzo vuoi da me? Ricco biondo, non guardarmi in quel modo perché ti ammazzo.” – il nostro uomo scuote la testa, compatendolo. Me ne sto zitto, non merita neanche una delle mie parole. Penso a quanto è strana l’umanità e mi chiedo ancora una volta se davvero siamo tutti uguali. La risposta non arriva. Ma il naso dello stronzo che parla troppo riecheggia con un crik crak fastidioso contro il pavimento di marmo grigio, disegnando una virgola rosso rubino. Non contento il nostro eroe gli spacca la bottiglia di Gin sulla testa, facendo schizzare i vetri in tutto l’ufficio. Il malcapitato inizia a ribellarsi, non sentendo il taglio che gli si è aperto sulla fronte e dal quale sgorgano elettroliti di sangue. Scalcia, bestemmia e sbava, le gambe gli tremano e cerca di reagire, mollando pugni in aria. Ma non lo inquadra perfettamente, solo colpi a vuoto. - “Una volta mi sono fatto succhiare il cazzo da una troia di settant’anni. L’ho fatto così, per divertirmi. Lo sai che non riusciva a prendermelo in bocca perché aveva la labirintite? Continuava a farselo ballare da una mano all’altra e non riusciva a fare centro. Un po’ come te adesso. Ragazzi, guardate cosa mi tocca
fare.” – e gli caccia in bocca lo stivale in pitone, facendolo singhiozzare. Schiuma sangue e le braccia, solcate da vene rigonfie fremono di impulsi involontari. Non mi dice più che cazzo vuoi. Dal cassetto della scrivania il mio referente sfila un trinciapollo, adatto più che altro per un toro steroizzato. - “Cazzo Bollinger, stiamo andando parecchio sul pesante.” – mi viene da vomitare. Il cravattaro mi sente e alza le spalle come se tutto fosse nella norma. Si china sul malcapitato e gli afferra la mano destra. - “Vuoi ancora sditalinare le mie donne, sporco rumeno del cazzo? Se fai il bravo ti lascio solo quella sinistra, altrimenti esci di qui e vai dritto dritto in ospedale con le mani in tasca per davvero. E non credo che te le riattacchino così in fretta.” – stabilizza il polso tra le due ganasce affilate e riprende a urlare. - “Stronzo di merda, vuoi ancora vedere ballare le mie donne? Rispondi!” – un pugno esplosivo gli sfonda lo stomaco, facendolo rantolare come un cane travolto da un camion a duecento all’ora. - “Sì, ti prego, basta, basta. Perdono, prendi miei soldi, ho cinquecentomilalire nelle mutande. Prendile.” – e così fa lasciandolo con i calzoni calati e il cazzo simile a una lumaca rossa rattrappita. Allenta la presa con il trinciapollo, e inizia a riprendere fiato. - “Rivestiti, stronzo.” – tremante cerca di ricomporsi, e realizzo che bisogna sempre stare al proprio posto in certi ambienti. - “ Grazie signore. Chiedo perdono ancora.” – con un colpo improvviso il trinciapollo torna in scena e il mignolo del poveraccio salta via schizzando sul piano in cristallo della scrivania. - “Così sono sicuro che non rifarai il coglione. Portate via questa merda.” – Bollinger sta sudando senza accorgersene, e trema. Chiazze scure disegnano cerchi perfetti sul Moncler sotto le ascelle. - “Bollinger, che cazzo fai? stai andando a fuoco. Prenderte ancora da bere.” – la calma plumbea si mescola con il sottofondo musicale del bordello adiacente. Le persone scelgono mestieri per ione, per vivere, e per far soldi. Presumo quelle oneste. Ma non il nostro eroe. Non riuscivo a classificarlo in nessuno
contratto da dipendente e in nessun albo di qualsivoglia libera professione. Eppure a vederlo non sembrava così micidiale. Non finirò mai di ripeterlo. Sono sicuro che quello che faceva non era poi così disdicevole. In fondo il nuovo monco straniero non si era comportato bene in casa d’altri e non voleva pagare. E invece bisogna sempre pagare, soprattutto quando si cerca il sesso. Anch’io stavo pagando, non con soldoni, ma con ben’altro. - “Ragazzi, che stanchezza, era da un mese che li tenevo sott’occhio. Sapete: questi rom del cazzo o di qualsiasi altra razza siano ti massacrano la famiglia fino all’apice dell’albero genealogico se fai loro uno sgambetto. Cristo, non ne potevo più, mi hanno fatto perdere la pazienza. Spero non vi siate spaventati, o sbaglio? Dai, facciamoci una bevuta. Cazzo Bollinger, ripigliati!” – ride dandoci l’ennesima pacca sulla spalla. Lo show appena visto ha provocato in me reazioni sgradevoli, quasi disgustose, ma il bello doveva ancora arrivare.
UN VERO FOTOREPORTER
Mi lancia sul tavolo un mazzo di fotografie. La prima ritrae Silvia da sola che entra in un palazzo anni sessanta in una strada a me famigliare. Le scale che portano all’ingresso sono di marmo bianco. Non riesco a vedere bene la placca dei citofoni e ai lati del portone grosse fioriere vuote in pietra bianca troneggiano imponenti. Il numero civico è sette. Non sono mai stato in quell’androne. Me la fa scorrere davanti e mi siedo. Lascio sulla foto una goccia di sudore, mi guardo le mani e noto che è come se le avessi immerse in un catino d’acqua fetida (o come se mi ci avesse pisciato sopra un siamese). La seconda foto ritrae una serie E nera ferma davanti al palazzo e Lei che aspetta. Indossa la stessa pelliccia del nostro primo incontro alla stazione. La terza foto ritrae un uomo sulla quarantina che l’abbraccia e la bacia con ione sulla bocca. Indossa un abito grigio spigato e avvolta al collo porta una sciarpa beige in cashmere. Si vede che sono felici. Bevo in un sorso tutto il gintonic che nel frattempo hanno servito e stringo il pugno sinistro. Ne approfitto per sfilare una Malboro da un pacchetto a portata di mano sul piano in cristallo. L’accendo e butto il fumo nei polmoni. Mi viene da tossire, quasi da vomitare, ma riesco a tenere dentro tutto. Vedo che di fotografie ce ne sono parecchie, guardo il Daytona e noto che le lancette indicano venti alle due. Il bisogno di bere mi divora ancora e mi domando dove cazzo sto andando a finire. Entra una spogliarellista dicendo che il suo turno è finito e se può andare a sistemare un cliente in macchina. - “Ha una Jaguar, è ingranato, gli pelo fuori un milione.” – compiaciuto il nostro uomo annuisce e le concede il permesso. Lei si allontana, squadrandomi da cima a fondo. - “Che brave le mie donnine, sono la soluzione migliore. L’ho sempre detto.
Paghi e vieni subito. E’ tutto esentasse.” – il mondo come spazzatura. Ma il nostro spazzino mi sta servendo alla grande, neanche l’ispettore Derrick avrebbe fatto di meglio. Proseguiamo con il meraviglioso servizio fotografico. Che grande attrice. La quarta fotografia ritrae l’uomo sempre più sorridente (mi accorgo che ha fatto il trattamento sbiancante ai denti) che porge un mazzo di Rose bianche a Silvia e insieme si avviano dentro l’androne del palazzo. Dimenticavo, siamo sempre a Milano, Viale Montenero al numero sette. Lei ride di gioia, e mi chiedo se una persona così felice possa aver subito un aborto. - “Bene, e adesso?” – chiede Bollinger, bocca spalancata, sedimenti di bava negli interstizi delle labbra. E’ rosso come Mangiafuoco dopo una scintillante spruzzata di fiamme. Non riesco a formulare una risposta. - “E adesso arriva il bello. Guarda un po’. Una tipo caliente questa ragazza, in tutti i sensi.” – l’aguzzino sembra divertito. Ha ragione. La quinta fotografia ritrae una grande vetrata. Si riesce a vedere perfettamente l’interno. - “E’ l’ultimo piano. Dev’essere uno potente, non bello certo come te, ma potente di sicuro. Bollinger, hai visto che obbiettivo? Non te l’aspettavi da un teppista come me?!” – schizzi di bile collosa e alcolica mi strisciano in gola, mischiati a bolle di fumo. La sesta, la settima e l’ottava fotografia mostrano un piano sequenza dei due mentre sorseggiano champagne in flûte di cristallo e iniziano a baciarsi apionatamente (nella terza si stringono le mani). Non parlo neanche più, mi limito a scorrere i fotogrammi sotto i miei occhi increduli e pieni di odio. La nona ritrae loro che si baciano su un divano in pelle nera di Cassina e, più dettagliatamente: Lei seduta sopra il nostro nuovo personaggio con la camicia mezza sbottonata, le tette in evidenza, scalpitanti nel fuggire dal reggiseno. Sorride e gli a la mano tra i capelli neri a spazzola. Cerco di vedere bene l’espressione del suo viso e non vedo segni di dolore, di afflizione, né tantomeno di trauma post intervento. Aborto. - “Ragazzi, certo che è proprio una gran figa. Bravo Power, in ogni caso ti
faccio i miei complimenti. Davvero notevole. Splendida. Ma secondo te fa le marchette?” – lo fulmino con lo sguardo, dimenticandomi della scena a cui ho appena assistito. - “Non credo proprio, suo padre è un notaio potentissimo. Compra te e il tuo locale dieci volte. Con tutte le ragazze dentro.” – non gradisco questa confidenza così improvvisa e Bollinger se ne accorge scrutandomi seriamente preoccupato. - “Oh Cristo, ragazzo stavo scherzando. Non prendertela. Neanche per queste fotografie, è tutto uno questione di cervello. Sei giovane e ne vedrai ancora delle belle.” – non se l’è presa, anzi dispensa consigli sinceri e preziosi. La decima foto ritrae Silvia nuda (stavolta l’immagine è ancora più nitida e ravvicinata) completa solo di autoreggenti. Lui non si vede. Le stesse con cui si era prensentata a Cernusco, al nostro primo incontro. Bollinger mi stringe l’avambraccio, così forte da bloccarmi la circolazione e gli occhi mi si annacquano inconsapevolmente. Ho un aspetto inguardabile, da horror film di serie b. Proseguiamo. L’undicesima foto vede Silvia in piedi nuda in preda a stuzzicarsi la figa, gli occhi eccitati e lui che entra nella stanza solo completo di boxer a quadrettoni rossi e blu. Non riesco a capire la marca, ma realizzo che i miei sono molto più cool. Fisicamente non c’entra un cazzo, spalle piccole, zero pettorali, zero addominali, ha pure la pancia e il petto ricoperto da una coltre di peli a molla. Mi chiedo come possa bagnarsi con un soggetto del genere. La dodicesima foto vede questo nuovo personaggio gemere di piacere, mentre Siliva è scomparsa sotto il fuoco dell’obiettivo. Ricordo come amava prendermelo in bocca ed in quel momento ero convinto mentre me lo stava succhiando di esserci solo io. E questo era quello che mi aveva fatto credere. Sempre. Ed ecco, come ogni animale, stillare in me la sanguinosa sete di vendetta. Proseguiamo. La tredicesima foto ritrae Silvia appoggiata a novanta contro il davanzale. Stavolta l’espressione del viso mi comunica che lo sta prendendo nel culo, la conoscevo molto bene. Lui, con il viso paonazzo e le labbra serrate dal piacevole sforzo, le caccia il pollice in bocca. Anche in tensione, di muscoli non ne vedo proprio. Nemmeno un’ombra nascosta. Sicuramente come intelligenza rasenta la genialità.
Ma torniamo alla vendetta, strano sentimento. Da bambino chi mi prendeva in giro pagava sempre in qualche modo. Alle medie, uno continuava a dirmi di essere un frocio. Al terzo giorno, all’uscita delle lezioni, lo spintonai facendolo ruzzolare a terra e gli tirai la bicicletta addosso tagliandogli con la corona della catena l’avambraccio. Lo portarono al pronto soccorso e lo cucirono con quattro punti. Ora mi saluta e mi chiede come sto. Potrebbe anche evitare. Il nostro eroe ha fatto un vero capolavoro. Noto la sua soddisfazione, e certo, se mi fossi rivolto ad un investigatore privato mi sarebbe costato anche un capitale e non avrebbe lavorato così bene. Bollinger, indignato e sconvolto, ordina un Laphroaig senza ghiaccio, e lo trangugia in un fiato. - “Però, non pensavo una storia così del cazzo.” – mi volto lentamente e incrocio i suoi occhi sconvolti. Le labbra mi tremano, e smandibolo come un eroinomane in crisi di astinenza. Ho davanti il cratere di un vulcano sprizzante lava incandescente. Lo vedo sgretolarsi lentamente, come nei miei peggiori incubi infantili. - “Eh, adesso arriva il bello.” – la quattordicesima foto ritrae Silvia mentre si asciuga la bocca intrisa di sperma, che gaudente lo guarda come guardava me, con gli stessi occhi e mi chiedo chi fosse veramente. - “Una troia, anzi, peggio. Perché quelle che lavorano per lui una dignità l’hanno. Lo fanno per soldi. Lei no, lo fa perché è malata.” – non mi accorgo di pensare a voce alta. Cazzo sto ando fuori. Mi faccio portare un altro gin e il nostro eroe mi chiede se desidero un tiro di ottima bamba, regalo di un russo che si è trovato magnificamente nel suo locale. Annuisco devastato. Sfila dal cassetto un sacchetto di plastica trasparente colmo di polvere di stelle. Mi butta un vassoietto d’argento e ne cosparge un mucchietto sulla lucida superficie. Bollinger mi fissa e in quel momento mi vergogno da sprofondare sotto terra, ma ormai non me ne frega più un cazzo. - “Amico mio, fatti un raglione anche tu. Non vedi come sei magro, Cristo!” – Percepisco che Bollinger si sente di troppo, e così mi sparo nelle narici due pistoni Polistil da gara. - “Cazzo, mica male, questo russo ti vuole bene. Mandami qua due delle tue ragazze, ho voglia di farmelo succhiare.” – il nostro eroe si prodiga all’istante e comunica a uno dei suoi di mandar due cerbiatte immediatamente nell’ufficio.
- “Ed eccole, guarda che cosa ti offre madre natura. Forza, fatti sotto.” – la nebbia inizia a colarmi dal cervello, un velo di cataratta precoce si distende davanti a me. Sento la mora, nuda con il pelo unto, sbottonarmi i jeans e ravanare……e gli occhi si chiudono e mi perdo nella disperazione.
CONSIDERAZIONE
Il secondo movimento del concerto di Ravel per pianoforte e orchestra interpretato da Michelangeli instilla nell’animo la pace commovente che si prova quando il dolore per la morte di una persona cara si esaurisce e lascia spazio alla tranquilla rassegnazione di chi sa che tutto è finito e si può solo ricominciare. Lo ascolto molto spesso mentre percorro la strada che porta verso l’osservatorio quando il sole sta per tramontare dietro una collina d’erba sul cui cucuzzolo domina una vecchia cascina di contadini. Guarda fisso davanti a me. Mi accorgo che hanno appena fatto una pista ciclabile e un uomo sulla sessantina dai capelli bianchi vestito estivo cammina attento dietro a suo nipote che pedala sorridente sulla sua bicicletta rossa. La sera sta calando e la calura estiva si fa sentire piacevolmente. Amo questi momenti di pace. Silvia non la sento più da sette anni e molto cose sono cambiate.
IL LAVORO
Sono riuscito ad entrare in un importante studio commerciale in centro a Milano. Niente a che vedere con Gordon Gekko. Il ringraziamento per la mia laurea è stato fare centomila fotocopie in un anno. A giugno, dopo una semiparesi alla parte destra del corpo, con dolori lancinanti e ricovero in ospedale, ho deciso di mandarli affanculo. Nove mesi buttati nel cesso. Il mio dominus, un testa di cazzo sfigato con gli occhiali e la fortuna di aver sposato una riccona cesso della Milano bene, dopo avere dimostrato con due calcoli da minorato mentale che non era abbastanza quello che facevo e che se avessi voluto imparare il mestiere del commercialista sarebbe stato necessario permanere in studio fino alle quattro di mattina, ha rischiato seriamente che lo scaraventassi dal settimo piano. La sua faccia di cazzo spiaccicata sarebbe stata un dipinto vivace sull’asfalto grigio di Via Vittor Pisani. Quasi un capolavoro contemporaneo. Non faceva per me. I miei genitori mi hanno sempre sostenuto. E devo rimgraziarli ancora una volta. Non finirò mai di farlo. E così mi sono messo a lavorare per i fatti miei.
EPILOGO
Dopo il resoconto avuto dal nostro cravattaro e il mio ennesimo svenimento (non sono riuscito neanche a venire nonostante erano in due a darsi da fare) fui portato all’ospedale. M’infilarono un tubo in bocca e prosciugarono tutti gli intrugli che avevo ingerito. Non fecero l’esame per verificare la presenza di droghe. I miei ancora ora pensano che sono stato a dormire a casa di Bollinger, dato che avevamo rimorchiato delle ragazze davvero speciali. Questa storiella non risparmiò l’ennesima sfuriata di mio padre con i soliti anatemi catastrofici e il presagio di una vita da fallito totale. Dopo due giorni di ripresa istantanea decisi di cambiare sul serio. E mi dedicai alla conferma della verità. Non alla spiegazione, quella non l’ho mai avuta. Vendetta. La rividi ancora. Su consiglio di tutti, Bollinger in prima fila, cercai di troncare, senza dare nè ricevere perché o come mai. Avrei dovuto sparire e basta. Impossibile. Agli stessi dicevo: sì, non preoccupatevi, sto bene, è ata, non me ne frega più un cazzo. Così, in seguito alle solite telefonate senza capo né coda, c’incontrammo un mese dopo la scoperta della verità. Anch’io sapevo recitare molto bene. Inutile dire quanto fosse splendida, ogni giorno diventava sempre più ammaliante. L’amavo ancora. Nel giaccone di Armani Borgonuovo (nuovo di zecca) infilai nelle tasca destra profilata in nappa il catagolo delle prove inconfutabili e una pistola non registrata, una Smith & Wesson 357 Magnum. Mi era costata cinque milioni ed è inutile spiegare come ne fossi venuto in possesso. Al giorno d’oggi se uno è sgamato e ha quattro soldi in tasca può far miracoli. Un avvocato penalista molto importante, amico dei miei, dice sempre che andare in prigione è veramente difficile. Forse se ti filmano mentre spari in testa a uno si ha la certezza. Era una giornata di metà maggio. Nonostante nell’aria si respirava l’arrivo dell’estate pioveva tiepidamente e il cielo grigio, stentava e regalare una tregua
di luce. Come al solito mi disse di andare a casa sua, che stava preparando un buon tè e avremmo trascorso il pomeriggio a letto. Di aborto non ne parlava più. - “Non vedo l’ora di abbracciarti.” – era la verità. E’ strano come non riuscissi ancora ad odiarla completamente. Percorro la tangenziale a più di duecento all’ora, e stranamente su RMC trasmettono “Outside”. E tutto il film torna a galla. Il cellulare suona, e sca, la mia nuova ragazza, una modella fantastica, mi chiede se mi va di uscire a cena la sera stessa. - “Magari ci facciamo un sushi e poi vieni da me.” – suggerisce gentilmente. Anche lei è una fan di George Michael. Mi sono messo con lei perché dovevo tirare avanti in qualche modo. L’ho conosciutai all’Armani Privè. Come scusa per attaccare era venuta a domandarmi le ore. Il Daytona segnava le due e trenta e mi chiese successivamente se mi andava di fumare una sigaretta con lei. Dopo aver parlato un po’ delle solite cazzate l’avevo invitata a cena il giorno successivo. La sera dopo gliela stavo già leccando per bene in un parcheggio vicino al castello sforzesco. Ci siamo rivisti altre volte e decisi che era ideale come compagna scenografica. Parcheggio a pagamento in corso di Porta Romana. Controllo e ricontrollo che l’arma sia carica a dovere e quando realizzo che il tamburo ha inserito sei colpi il cuore inizia a pompare a mille. Sono felice. Cammino verso il grattacielo, scrutando le persone sotto le lenti scure dei miei nuovi Oakley Romeo, e noto una commistione di razze galoppante. In cinquecento metri di strada ho incontrato cinesi, nigeriani e rumeni chiedermi qualche spicciolo. Non li ho neanche per me. In ascensore conto l’alfabeto e medito che forse sarebbe stato meglio assoldare un sicario. Ma non aveva prezzo vedere la sua faccia perfetta, sempre imibile, sconvolgersi al ritmo della verità. Non ci sto più dentro cazzo. Eccola. La finzione materializzata a persona. Per essere più rilassato, prima di partire da casa mi sono sparato tre seghe di fila e un’ora di palestra a livelli
record. Sono tornato a prendere la creatina e un paio di altri prodotti consigliati dal mio nuovo personal trainer, adatti alle persone sopra i settant’anni. Stimolano la produzione di testosterone a ritmi vertiginosi. L’ho straduro e temo che scoppi da un momento all’altro. - “Che bello rivederti. Da adesso cambierà tutto. Staremo insieme tutti i giorni, ho riflettuto, giorno e notte, sei l’uomo della mia vita. Oddio, come mi sei mancato. Non puoi capire. Lo so solo io. Te lo giuro.” - non mi aveva mai stretto così forte come in quel momento. L’abbraccio di chi si sente in colpa e prova comione per aver ingannato il prossimo. La fisso negli occhi e vedo che piange. Non era mai successo, l’attrice si stava dedicando al melodramma. Le tragedie non erano mai state il suo forte. La scopo come una troia di strada, senza nemmeno sfiorarle la bocca con le labbra, nonostante mi avesse cercato con drammatica costanza. E anche dopo insisteva. La mente ha fissato indelebile il suo viso in preda al godimento isterico ritratto nelle fotografie scattate dal nostro amico, salvatore della mia anima. E la scopo ancora, piegandola a novanta sul davanzale interno di marmo della finestra. Vedo il duomo, e immagino che qualcuno ci faccia degli scatti. Sdraiati sul letto nessuno dei due proferisce parola. Rispetto ad allora tutto è diverso. Vado in bagno e faccio una doccia bollente. Indosso il solito accappatoio. Sento ancora il suo profumo. - “Come stai?” – la sua faccia è preoccupata, il sorriso svanito e le occhiaie scure assumono un colore strano, quasi viola. - “Bene, cosa mi dici dell’Avvocato Pirrese?” – la sua bocca prende a tremare convulsamente e con le mani stringe il lenzuolo nello stesso modo in cui si cerca di far uscire le ultime gocce da un limone ormai secco e spremuto innumerevoli volte. - “Chi?” – mi tocca sopportare l’ennesima storiellina del cazzo. Bollinger una volta vedendo una cicciona mi disse: non fa differenza tra lei e la tua Silvia, deve solo entrare e uscire. E’ molto semplice, è inutile che facciamo tante storie sulla bellezza. Sta tutto nel nostro cervello. - “Non offendermi ancora, ho delle foto interessanti da mostrarti. Aspetta un
momento, adesso arriva il bello, non muoverti.” – infilo nel lettore cd il concerto in sol di Ravel eseguito da Michelangeli e seleziono il secondo tempo. Sfilo dal giubbotto le preziose foto conservate in una busta trasparente, assicurandomi che la pistola sia ancora nella profonda tasca. Decido di attendere prima di sparare. Torno in camera e la trovo nella stessa posizione di prima. - “Guarda, è questa la clinica dell’aborto?” – la mia voce sibila. Lancio le foto sopra la coperta. Si trasforma. Gli zigomi perfetti si scompongono e il suo cellulare inizia a trillare. - “Rispondi per favore, non c’è più bisogno di recitare. Sei andata oltre.” – non parla e non si muove. Così, con estrema delicatezza le o il chiassoso cellulare. - “Se vuoi rispondo io, così parlo un po’ con il tuo fidanzato, ehm…scusa, con il tuo convivente. Sarebbe un bel match, non trovi?” – si decide a prendermi di mano il telefono, sfiorandomi appena. - “Pronto.” – non riesco a sentire le parole del suo interlocutore, come al solito sta abbassando il volume. - “No, ora sono in università, arriverò tra un paio d’ore, circa. Bene, grazie.” – le stesse cazzate che propone a me le propone all’altro. O agli altri. Prende tempo, nonostante il suo interlocutore ha chiuso la telefonata. Sta meditando la strategia da adottare nella prossima mezz’ora. Non è pronta ad affrontarmi. Ripone il cellulare sul comodino, vicino al perizoma nero Armani senza dire una parola. - “Non è come pensi.” – non ha ancora capito che non sto recitando in una puntata di Beautiful. - “Non penso niente e non cadere nel banale. Non lo sei mai stata. Ti ascolto, prosegui.” – sono seduto in fondo al letto, con lei che si mordicchia le unghie, nervosa e pallida. - “Anzi proseguo io, Silvia Esposito. Non abiti a Roma, e tuo padre non è notaio lì. Tua madre non insegna alla Luiss.” – alza il sopracciglio, come se non approvasse. Prende la parola.
- “No, aspetta ti prego. Vivi a Nardò, non ricordo di preciso la via, ma l’ho segnata su qualche foglietto a casa, sulla mia scrivania, insieme agli appunti di finanziaria. Hai due sorelle, Stefania e Claudia e convivi con il personaggio delle foto.” – cerca di bloccarmi. - “Stai zitta!!!Cristo Santo, lasciami finire!!” – perdo le staffe, e sono ricoperto di goccioline di sudore. - “Non abiti qui, ma convivi in un appartamento in Viale Monte Nero, con l’avvocato che ho menzionato poco fa. Vedi, uso termini propri di un’ arringa, alla Perry Mason, ah, per entrare meglio nella parte. Mason, come il tuo cognome inventato.” – s’intromette sommessamente, con espressione contrita. - “E’ il cognome di mio nonno.” – esatto, di suo nonno, per depistare ogni traccia. - “Ancora, cazzo!! Devi chiudere la bocca!!” – gocce di saliva acida sfrigolano dalla mia bocca ormai senza freno. Nella mia mente zone oscure annebbiano gli emisferi cerebrali. Sto impazzendo. Lei, visibilmente terrorizzata stringe il lenzuolo come se fosse l’ultimo appiglio esistente prima di scomparire nel buio infinito di un precipizio senza fondo. - “E quale guardia del corpo, giudice e cazzo di portinaio con suo fratello!! Ma cosa Cristo mi hai imbastito. Hai creato un mondo perfetto. Ti amo, ti amo, siamo fidanzati. E dimmi, anche all’ultimo? L’hai preso da qualcun altro? O meglio dal tuo fidanzato ufficiale? Mio padre non mi fa venire, bla bla bla!!! Cazzo!!” – e scaglio il mio cellulare contro la vetrata, nella speranza di vederla frantumata in mille pezzi. E invece rimbalza come una gomma impazzita sul letto, senza scomporsi minimamente. - “E adesso hai cinque minuti per spiegarmi tutto.” – la odio. - “Ti stai sbagliando…davvero, io ti amo. Lui non c’entra, siamo cresciuti insieme. Tu non puoi capire, fin dall’inizio, appena ti ho visto, ti ho voluto.” – farfuglia frasi di rito. E’ quasi giunto il momento di farle saltare in aria il suo viso perfetto. - “Stronzate, stronzate, stronzate!! Ci siamo sempre promessi che se ci fosse stato qualcun altro dovevamo dircelo prima. Il fatto è che tu l’hai sempre avuto, e mi hai preso per il culo. Sin dall’inizio.” – il mio tono, ora pacato e sereno
rasenta la follia. Fisso il mio riflesso nella vetrata, e mi vedo azzurro.” – di nuovo il suo cellulare trilla, e per Lei è un sollievo. - “Rispondi, tanto non devi mascherare più nulla. Forza, siamo tutti adulti, forse non l’hai ancora capito.” – stesso fotogramma di prima. - “Sì, ho capito, ho capito. Ma devo parlare con un professore, non so di preciso quanto impiegherò. A dopo.” – la fisso sorridente. - “Non sospetta niente, vero?” – gli occhi le escono leggermente dalle orbite, e la sua preoccupazione aumenta pesantemente. S’infila il perizoma, e non risponde. - “Non preoccuparti, dalla mia bocca non uscirà nulla, non sono vendicativo.” – mento allegramente. Oltre a seccarla da lì a poco sogno di gettare il suo convivente nel vuoto e vederlo sfracellato al suolo. - “Non vuoi capire, non ti ho detto nulla perché sapevo che ti avrei perso subito. Non potevo non rivedere i tuoi occhi. Ma non ti ricordi come ti sono stata dietro alla laurea di tuo fratello? Pensi che il mio atteggiamento sia così con tutti?” – lacrima come una puttana ferita nell’orgoglio. - “Mi ricordo solo questa immagine, e il modo in cui lui ti sta dietro. Vedi bene? Lo vedi? Ahhh, lascia stare, Cristo Santo, stai inventando un sacco di cazzate. Perché? Dovevi dirlo subito, avrei capito, avrei fatto l’amante, come sempre. E invece hai voluto che m’innamorassi di te, fino a farmi dimenticare di tutto, della mia famiglia, dell’università, degli amici, e di me stesso. Non posso dimenticarlo.” – urlo così forte da far risultare assordante il silenzio tra una frase e l’altra. Stringe le ginocchia al seno, gli occhi sempre più annacquati somigliano ormai a biglie d’acciaio lucidissime. La mano di un gigante mi sta spappolando lo stomaco e con una morsa lancinante spreme senza pietà l’ ultimo spiraglio di speranza. E’ arrivato il momento. La coincidenza dell’appagamento, del famoso te la faccio pagare perché mi hai ucciso quando non era ancora il momento, rendendomi inerme di fronte alla vita che scorre davanti, e sofferente più della morte stessa. Mio padre, mia madre, mio fratello.
Corro in bagno a vomitare, la testa rotea come una trottola impazzita e la gola frigge di principi attivi fastidiosissimi. Lei si affaccia sulla soglia della stanza, in una vestaglia di seta rigata bianca e blu. Piange ancora e inizia ad avere sospetti sul mio comportamento. - “Ahm, che schifo, cazzo. Mi sono ripromesso di smetterla con le droghe e l’alcool. Anche se poi ci ricado sempre. Anche questo è colpa tua. Mi puoi preparare un tè caldo con del limone? altrimenti non mi ripiglio più.” – si sta avvicinando per tenermi la testa che si è messa a ballare il twist. - “Vattene, non ho bisogno della tua comione, sei il peggio del peggio. Vattene.” – scompare scuotendo la testa. Sempre il suo fare: tanto vinco sempre io. Sono convinto che anche stavolta, nonostante le lacrimucce lunghe quanto quelle di una bambina capricciosa a cui i genitori hanno rubato la Barbie, sta pensando di uscirne indenne . Sento gli occhi gonfi e brucianti. Mi guardo nello specchio e quello a cui assisto non mi piace affatto. Non sono più io, e la domanda che viene a trovarmi, come una cometa sfuggita alla sua scia è: ma ne vale davvero la pena? A vent’anni? E i miei sogni? Risposta: vendetta. Torno in camera, cercando di ricompormi dignitosamente. Le mani cianotiche non riescono ad allacciare i bottoni dei jeans. Le sento tremanti all’inverosimile e stentano a percepire la presa. Meglio, premere il grilletto sarebbe stato più facile. Vado in soggiorno. La teiera Alessi fuma vapore e Lei si è premurata di preparare le tazze (Alessi anche quelle) in porcellana bianche disegnate da Philippe Starck con annesse sui piattini bustine di Twining alla pesca. - “Sai che non è casa tua, perché ti comporti come se lo fosse?” – mi volto cercando il giaccone e realizzo che ha mantenuto la stessa posizione di quando sono entrato. A colpo d’occhio si nota il rigonfiamento nella tasca del manico della 357. Sorseggio il tè. Il suo viso, segnato e sofferente, non sorride più così beffardamente. In quel momento non finge, sta capendo che può perdere il suo mondo perfetto. Non soffre non perché non mi avrebbe mai più incontrato, ma bensì perché tutta la sua finzione, le sue balle e frasi perfette, le si stanno sgretolando. Sprofonda e non può farci nulla.
- “Ma se ti ho detto che da ora in poi potremo stare insieme perchè ho capito che sei tu quello che voglio davvero, quell’altra è una situazione complicata, che ho messo a posto. C’è voluto tempo ma ho sistemato tutto. Ti prego, torna in te.” – sollevo il culo dalla sedia, ingurgitando l’infuso bollente in un fiato, senza dire più una parola. E’ giunto il momento. Vendetta. - “Le solite cazzate. Prendo le sigarette.” – infilo la mano nel giubbotto e con estrema cura afferro il gelido manico del cannone, mentre Lei è seduta di spalle. Il riscatto sta perfezionandosi. La canna fredda appoggiata alla nuca, un tempo da me amata infinitamente, è pronta per detonare. Non si è ancora accorta. Quando si volta nemmeno un elettroshock alla massima tensione avrebbe potuto impressionarla così tanto. Strabuzza gli occhi, la sciabola dell’odio sta scagliandosi inesorabilmente sulla sua anima. In quel momento non esiste legge, norma, avvocati che possano fermarmi. - “Come mai le tue guardie del corpo non fanno irruzione e mi sbattono per terra immobilizzandomi? Cazzo, non dovevi prendermi per il culo, stronza maledetta, pensavi che me ne stessi tranquillo come un cazzo di cane bastardo che se ne va con la coda tra le gambe? Mi fai ridere.” – non parla, piange a dirotto. - “Fai quello che ti dico, non hai più speranza di fottermi ancora, stavolta detto io le regole. Aborto? Ma non ti vergogni puttana da quattro soldi? Mentre mio padre stava male, te ne sei fottutta bellamente, pensando che tanto andava bene così. Sei una merda. Apri la tua bella bocca del cazzo, così invece che sentire il cazzo (a cui non sai resistere) senti un bel pezzo di acciaio temperato stuzzicarti il palato. Non ti bastava il mio, vero?! Ami tenere il piede in due scarpe. Valutiamo cosa è meglio per me. Lui è ricco, un avvocato affermato, ti dà sicurezza e sei sicura che mai mi tradirà, non è un bell’uomo ma ti vuole davvero bene. Per te farebbe qualsiasi cosa. Il ragazzo della laurea all’Università è splendido, atletico, ma deve terminare ancora gli studi, e poi il suo pensiero principale è uscire la sera con amici e divertirsi. Però è uno stallone da gara, difficile rinunciare al suo cazzone. La soluzione: riempire di balle entrambi. Balle perfette direi, ma non troppo. Così hai tutto. Quella dell’aborto è stata
atomica, mi chiedo da dove l’hai pescata. Ah Cristo Santo, devi essere proprio bacata. Dovevo capire subito e invece hai voluto stupirmi con le autoreggenti. Apri di più quella cazzo di bocca stramaledetta.” – sgorga lacrime di sangue e dal naso filamenti di catarro giallo colano marmorei sulle sue guance di porcellana. - “Non credo sentirai gran che, la detonazione dapprima sfonderà il palato, polverizzandoti letteralmente i denti, ohhhh cazzo…dopo di che la pallottola proseguirà il suo viaggio pirotecnico verso il cervello, riducendolo a una polpetta di carne trita. E ogni brandello che andrà a disegnare quel bel muro bianco conterrà il seme di tutte le balle che mi hai propinato. Sarà un vero capolavoro. Hai qualcosa da dire? Ops, scusa non puoi più farlo, hai una canna in bocca. Ahahahha, pronta!!! Ti consiglio di chiudere gli occhi.” – e il dito affonda sul grilletto.
SI CADE SEMPRE IN PIEDI
Da quel giorno non ho saputo più nulla di Lei. Ho terminato l’Università, due storie pseudo serie alle spalle e come contorno una moltitudine di storielle da una notte. Una con cui sono uscito, una cicciona piena di ritenzione idrica, di venticinque anni, a cui l’ho tirato fuori senza offrirle neanche un drink, mi ha guardato basita e ha esclamato scandalizzata: - “Guarda, ehm…, io all’inizio ci metto un po’, poi vado.” – l’ho lasciata per strada. Ho provato anche ad andare con dei ragazzi, così, tanto per. Un’altra, conosciuta in barca (un settanta metri) a S.Tropez, dopo aver ingoiato il mio sperma ha sentenziato: - “Tesoro, com’è densa, tu mangi troppa carne.” – ho scoperto che fa la escort ed è stata pure in galera per traffico internazionale di cocaina. Una brava persona. Sono sempre convinto che nella vita bisogna provare tutto. I miei genitori stanno invecchiando serenamente e mio fratello ormai è un super top manager. I primi mesi dopo l’ultimo incontro mi aspettai una perquisizione dei carabinieri, una denuncia, o qualcosa di simile. Ma la vita continuava a scorrere tranquillamente. Non avevo ammazzato nessuno. Ero stato sul punto di farlo. Non ho mai cambiato numero di cellulare. Un giorno incontrai per caso Emanuela, l’amica di mia cugina, mentre eggiavo a Merate per Via Manzoni. Dopo i soliti baci del cazzo annessi a gli inutili salamelecchi fu lei ad andare sull’argomento. Avrei voluto non parlarne mai più con nessuno. - “Ma ti ricordi della figlia del notaio?” – asciugo il palato, deglutendo la saliva che si produceva a ritmi vertiginosi. Strabuzzo gli occhi. - “Certo. Non ricordo più mia cugina ma Lei sì. Perché questa domanda?” – si drizza come se dovesse attaccare a dirigere la sinfonia n. 1, in re Maggiore di Mahler. - “Si è sposata, proprio il mese scorso, nella loro mega villa a Santa Maria di
Leuca, con un tale, un avvocato, figlio di un amico del padre, avvocato anche lui, ma di provincia. Certo non un pezzo grosso come il notaio. So che si conoscevano fin da bambini, mi sembra si chiami Pirrese. Sì, Pirrese. Mia sorella, presente al matrimonio ha detto che non è per niente un uomo attraente. Anzi, per farla breve, è uno sfigato da competizione. Festa in grande stile, e poi tutti ospiti nei bungalow della tenuta. E tu? L’hai più sentita?” – sento le sue parole infrangersi nell’aria con la potenza di un uragano. Quasi mi stendono a terra. - “No, non ho saputo più nulla.” – avrei voluto farle altra domande ma fisso il suo Sector da quattro soldi. - “Splendore, devo andare…è tardissimo, salutami tua cugina quando la senti, è una vita che non ci vediamo. Ciaooo.” – e mi schiocca un bacio sulla guancia scomparendo in direzione del castello Prinetti.
IL BUIO
Quando la vidi piangere, diperata con la canna lucida in bocca, le mani congiunte in preghiera, le lacrime inarrestabili, e una chiazza giallastra di urina sul parquet bianco, nella follia funesta che il mio cervello, spappolato da bombe chimiche ingurgitate durante quella terribile giornata, e il mio stato d’animo, spugna di inganni immeritati e bombardato ininterrottamente da balle senza un senso logico, stavano dando alla luce, in preda ad un arcobaleno di orbite incollate al soffitto e gangli sparati nella stanza, realizzai di essere il salone per un ospite inatteso: la pietà. Sentimento indefinibile. L’indice stava affondando sul grilletto, ero arrivato pressoché a metà corsa, avvertendo la detonazione pronta a esplodere come un bel botto di capodanno. Ed eccolo prendere la parola senza interpello: - “L’unico a cui devi rendere conto sei tu caro Power. Ricorda, ha agito così perché sei il numero uno, quell’altro è solo un cornuto. L’hai visto in fotografia, i problemi abitano nel cervello che vuoi polverizzare. Il nazismo e il comunismo sono finiti, non servono più esecuzioni. Guarda, si è pisciata pure addosso, è spaventata sul serio.” – non aveva alcuna immagine, e non so per quanto tempo rimasi in quello stato. Mi sentivo amorfo, galleggiante, e il mio viso viola (niente specchi di fronte a me), sembrava tumefatto e sentivo crescere funghi prataioli sul cuoio capelluto. Schegge di raziocinio illuminato stavano affondando nella mia mente ridotta a un plum-cake non lievitato. - “E cosa diranno i tuoi genitori? Sono brave persone che si sono sacrificate tutta la vita per te. Ti hanno dato il benessere di cui ti vanti tanto e senza di quello saresti un povero Cristo. Dovresti pensare alle fatiche che hanno sostenuto. Lavorare, lavorare, lavorare, nient’altro ha fatto tuo padre, ed è mancato poco che andasse a trovare la mia collega del piano superiore. Non sembri ricordare nulla, sei ingrato e irriconoscente. Vergogna. Di donne è pieno il mondo. Ehh sì, caro mio, non pensare che sia una frase comune, ma è così. Lo sai, hai pensato a ficcarlo da tutte le parti, anche quando presumevi di star con lei. Ma prova a fermarti a pensare se fosse stata davvero la tua fidanzata. Fedele, premurosa, nonché pronessa sposa.” – parole sante.
- “Siamo tutti dei poveri Cristi, dobbiamo crepare, c’è chi prima, c’è chi dopo.” – lo sbuffo ammorbante di un alito cavernoso mi dava il voltastomaco, pesante come il piombo. Continuava a ragliarmi contro. - “Pagherà da sola, la galera non fa per te. Moriresti dopo un’ora di permanenza, altro che vestiti di Armani.” – un conato di vomito stava salendomi per la gola, attizzando colpi di tosse inizialmente leggeri. - “Tanto non mi prenderanno, sono il numero uno, l’hai detto tu.” – stava svenendo, gli occhi incandescenti, segnati da venuzze rosse, spuntavano fuori dalle orbite stagliati in occhiaie viola. Come pestata con estrema violenza. - “Lascia stare, non vale la pena, compatiscila. Ricorda i tuoi genitori e il tuo mondo, quello a cui aspiravi. Vattene e sarai libero.” – le sfilai la pistola dalla bocca. Si accasciò sul pavimento, senza dire una parola, come una foglia secca in balia della brezza autunnale. Tremava costantemente, e dalla bocca uscivano filamenti densi di bava rossastra. Mi voltai di scatto, come investito da un fulmine improvviso e fiotti di bile verde fuoriuscirono dalla bocca, andando a schizzare sul tavolo, e sulle sedie. Rigurgitai l’anima, un sapore salmastro s’incollava al palato e la gola bruciava come investita da una tonnellata di acido muriatico. Schiattai sul pavimento, esausto e sfinito, la 357 ancora nel palmo della mano. Rimasi inerme, sentivo la fronte bruciare e gli occhi, coperti di lacrime, producevano rigagnoli di muco verde. BLACK OUT TOTALE. Al mio risveglio mi trovai nella stessa posizione di quando avevo perso i sensi, sempre con la pistola nel palmo della mano. Un dolore lancinante mi stava perforando il cervello, mossi la gamba destra avvolta da un formicolio da coma semestrale, e avvicinai il polso destro al viso. Il Daytona segnava le otto di sera. Il che voleva dire che ero svenuto per quattro ore abbondanti. Balzai in piedi e una scossa assimilabile a una sciabolata sganciata dal diavolo mi tagliò in due il torace, in crisi di risonanza per i dolori che mi stavano demolendo lo stomaco. Sputavo schegge. Vagai per l’appartamento come uno zombie, la pistola scarica nella mano, e il mio corpo macilento strisciava come una bestia ferita e dolorante. Non c’era più nessuno. Recuperai i proiettili da sotto il divano, infilandoli nella tasca dei jeans.
- “ Silvia. Silvia.” – zero risposte. Andai in bagno e vomitai un’altra volta. Acqua mista a grumi di sangue, lo stomaco sempre più dilaniato. Guardai in ogni stanza. Nessuna traccia di donna. Tutto era sparito. Dentro gli armadi il nulla, solo buste di plastica vuote e cartucce antitarme. Nel bagno neanche più gli asciugamani, nemmeno la vestaglia a righe appesa dietro la porta. Il cervello lentamente stava tornando a funzionare. Mi sciacquai il viso con acqua gelida e realizzai di essere bianco cadaverico. Le vene rigonfie sulle tempie, viola e pulsanti di sangue ad alta pressione, rappresentavano linee color pastello su una maschera di cera color avorio. Scrutai ogni angolo dell’appartamento, le tazze da tè perfettamente asciutte erano state rimesse ordinatamente nella dispensa. In camera, un letto immacolato immobile perfettamente in ordine si era scordato delle fattezze dei nostri corpi. Nessuna piega lo stava innervosendo. L’immagine di ordine, pulizia e perfezione riprendeva molto i dipinti d’interni raffigurati nei quadri di Hopper. Dalla vetrata Milano scintillava al tramonto e là fuori nessuno si stava curando di me. Infilai il giaccone con in tasca la pistola scarica e il cellulare stretto in mano. Mia madre non si era fatta ancora sentire. Non rimaneva altro che andarmene. Mi voltai verso il salone e fissai dall’anticamera il divano, il tavolo e per un attimo vidi ancora noi due abbracciati, immobili a fissare il panorama, come all’inizio. Era il momento di andarsene. Chiamai l’ascensore. Chi sarebbe entrato dopo di me? E se avessero filmato tutto? Sbucai dall’atrio del palazzo, non c’era nessuno, lentamente scesi i gradini, guardandomi in giro. Clacson isterici animavano l’atmosfera, un signore sulla settantina dai capelli tinti color nocciola e il naso adunco mi urtò inavvertitamente lasciando nell’aria un alone di sudure stantio. Il tram sferragliò verso Porta Romana, con a bordo umanità assorta nella solita mediocre routine. Lo sguardo fisso nel vetro unto di aliti pensosi di ogni età e sesso. Tra poco la giostra del tempo per me chiudeva un altro giro e mi sentivo troppo vecchio per l’età che indossavo.
Sentii vibrare nella tasca dei jeans il telefono e sapevo che mia madre si sarebbe fatta sentire. - “Pronto.” – la voce tranquilla di chi è esausto e vuole solo un po’ di riposo. - “Ciao tesoro, per che ora arrivi? è quasi pronta la cena.” – la voce rilassata. Ritorno alla normalità. - “Tra quaranta minuti sono a casa, ho dovuto fotocopiare tutte le dispense di Revisione.” – quante balle avevo raccontato? Prima di arrivare a casa dovevo fermarmi al traghetto di imbersago. - “Va bene, c’è una bella bistecca di filetto con l’insalata, so che ti piace tanto.” – commovente. Avevo i nervi completamente sfaldati - “Perfetto a dopo.” – le vie stranamente non erano intasate dal traffico e sbucai da Milano in meno di venti minuti. Percorsi la tangenziale a non più di novanta all’ora, avevo il terrore di vedere riflesso nello specchietto retrovisore i lampeggianti bastardi di qualche volante in cerca di gloria. Oltreai la barriera di Carugate, notando che il casellante, obeso e pelato con gli occhiali rettangolari dalla montatura in tartaruga nera, mi aveva fatto aspettare oltre due minuti per alzare la sbarra. Ma non m’innervosii, rimasi ad attendere i suoi lenti e flaccidi movimenti da suino oversize affamato. All’altezza di Carnate si stava formando una coda ingiustificata. Rallentai, radiografando se a destra o a sinistra potevano esserci delle vie secondarie per evitare eventuali controlli. In lontananza luci intermittenti di fastidiosi lampeggianti appiccicati sul tetto di due cellulari dei carabinieri posti di fronte allo scatolificio Benedetti. La bocca mi tramava, strade pronte da imboccare non ne vedevo, non esistevano. Figli di puttana, mi stavano in culo. La strada bloccata, cani lupo inquisitori scodinzolavano zampettanti vicino alle autovetture in cerca di qualcusa o qualcuno. Estrassi il cellulare e composi il numero di Jimmy. - “Che cazzo sta succedendo a Carnate, ci sono due camionette dei carabinieri impalate in mezzo alla strada e stanno facendo deviare il traffico. Stanno cercando qualcuno?” – la voce assonnata, scazzata, in preda a sbadigli post risveglio rispose:
- “Mah…non so, bho..sarà un controllo, di solito mi avvisano, ma mi sono appena svegliato. Aspetta che mi trilla il cellulare. Che palle…Pronto, si, ah. Dove? Carnate, va bene arrivo. Ma vaffanculo, stavo così bene a letto. Niente Power, stanno cercando una banda di albanesi che hanno svaligiato un paio di ville a Lomagna. Devo venire a far delle foto, cazzo che coglioni!! Ci sentiamo dopo.” - e attaccò, lasciando a metà una sonora bestemmia. I carabinieri puntavano la torcia in faccia agli automobilisti, chiedendo documenti e libretti di circolazione. Sfilai il portafogli dal bracciolo e presi il libretto dal cassettino, cercando di anticiparli e limitare la mia permanenza sotto il torchio della legge il minor tempo possibile. Ed ecco il mio turno. - “Buonasera, patente e libretto per favore.” – illuminavano l’interno dell’sl con la torcia, i visi scuri e abbronzati. Scrutavano la patente e confrontavano i miei lineamenti con quelli della foto. - “La vettura a chi è intestata?” – avrei voluto far il gradasso come sempre, ma stavolta era consigliabile una buona dose di umiltà e collaborazione. - “E’ di mio padre.” – altra domanda. - “E risiedete nella stessa abitazione?” – che imbecilli, come al solito volevano esercitare la loro misera autorità. - “Certo.” – si guardarono con il loro fare da ebeti. Di due cervelli non ne tiravano insieme mezzo. Sicuramente avevano avuto entrambi un’infanzia difficile. - “E come mai suo padre le lascia in mano una vettura così potente? Lei è veramente giovane” – accento calabrese molto marcato. Mi domandavo come mai non si facevano i cazzi loro. - “Così. Si fida.” – si guardarono, e naturalmente, l’invidia era alla base delle loro considerazioni senza senso. - “Vabbeè, vabbeè, può andare. Ma non schiacci troppo sull’acceleratore, mi raccomando!!” – poveri dementi, ignorantelli. Giunsi al traghetto in meno di dieci minuti. Scannai la macchina a centottanta chilometri orari sulla statale che va da Robbiate e Imbersago. Ero l’unico sulla
strada, prendendo a limite la curva del Respiro. Per fortuna avevo le sospensioni attive. Il fiume, una tavola piatta e scura come una colata di catrame bollente, salmastra e puzzolente di fogna umida, scorreva lento alla stregua di un lumacone viscido e svogliato. La desolazione regnava in mezzo ai boschi circostanti. Solo zanzare e insetti paludosi ronzavano nell’aria di piombo. Sfilai l’arma illegale dalla tasca del giubbotto e la caricai. Un gruppo di folaghe starnazzanti si alzò in volo verso un cespuglio di canne paludose, incastonate a bordo fiume. Scaricai il revolver centrando lo specchio d’acqua con le sei pallottole come se fosse un enorme corpo da punire e massacrare. Lacrime di sale stillavano sul viso cadaverico e impalato. Con le mani unite sul manico della pistola lanciai un urlo straziante. Scaraventai la pistola nel fiume, usando il braccio destro come un giocatore di baseball. La spalla si elettrizzò dal dolore. La corrente se la inghiottì con un tonfo sordo e ovattato, creando un piccolo mulinello che si autorisucchiò come un imbuto senza freno. Nessuno l’avrebbe mai ritrovata. Nessuno l’avrebbe mai cercata. Nessuno mi fornì mai una spiegazione.
SAINT TROPEZ
Sto bevendo una Perrier con ghiaccio e limone al Cafè de Paris sul molo. E’ metà luglio e sto guardando lo Yacht di Armani attraccato a trenta metri da me. Non c’è tanta gente, anche se il fermento estivo è galoppante e nei prossimi giorni la cittadella sarà congestionata. Ci sono trenta gradi, batte un sole secco, profumato, e non sono mai stato così meravigliosamente felice in vita mia. “Here I am” di George Michael è trasmessa dalla casse del locale. Ho appena comprato Rem in profumeria e sto aspettando mia madre che finisca di fare il giro del marcatino in Place des Lices. Ho chiuso un affare importante a Milano e posso permettermi una lunga vacanza estiva. I miei genitori hanno acquistato casa da queste parti cinque anni fa, e non sono mai stati così in forma. Il tempo scorre come un fiume in piena e so che un giorno mai più sarà come il privilegio di questi attimi preziosi. Mi sono laureato e la ragazza con cui stavo è andata a farsi suora. Misteri della vita. Ho compiuto trent’anni il giugno scorso e non ho mai dimenticato nulla. Bollinger, eternamente presente nella mia vita, sembra non essere mai invecchiato. Nonostante l’abbia invitato infinite volte si è sempre rifiutato di venire in queste terre magiche perché è convinto che a Saint Tropez ci siano troppi ricchi e lui non si sentirebbe a suo agio. La verità è che non ha voglia di spararsi cinque ore di macchina, anche se forse il mese prossimo riuscirà a schiodarsi da Santa Margherita e are Ventimiglia. Ci sentiamo tre, quattro, cinque volte al giorno ed è ancora lui a guidarmi nelle scelte e negli obiettivi di questo strano percorso chiamato vita. Mio fratello si è legato da cinque anni con una persona che non c’entra proprio un cazzo. La famosa Giulietta, la sorella del suo caro amico Maurizio, che con la scusa di imparare le lingue ha pensato bene di farsi tutta l’Europa. L’ultimo, prima di mio fratello, un mezzo marocchino residente a Monaco di Baviera, l’ha
letteralmente cacciata fuori di casa a calci nel culo, cambiando persino la serratura. Non le ha mai spiegato il perché di questo gesto così estremo. Ora dopo un paio d’anni trascorsi dallo strizzacervelli, ha scoperto mio fratello il Santo, trasformato all’occorrenza in servo perfetto. Per un pezzo di carne marcia usata il Santo si sta annientando. Soffre di emorroidi ormai da un anno e mezzo e non riesce a risolvere il problema. La camola (così l’ha soprannominata mia madre) non perde un attimo di tempo, ogni weekend lo prenota per i suoi “viaggetti”. Premetto che il servo lavora dodici ore al giorno e ogni tanto dovrebbe riposare un po’. Mia madre glielo ricorda spesso: la salute non va mai trascurarata, ma lui non ascolta e, nello stesso modo in cui una marionetta muove i suoi i secondo le indicazioni del burattinaio, mio fratello esegue minuziosamente ogni ordine impartito severamente dalla camola. Per un pezzo di carne marcia usata. Non importa se sono stronzate o cose serie. Dal teatro al cinema, alle cenette, al centro benessere, alla domenica culturale, al concertino del fratellino, agli esami all’intestino. Forse anche lei è allergica al glutine. A proposito di glutine, il nostro mulo parlante è stato il più previdente del circolo Picwick. L’unico ad aver fatto davvero il salto di qualità. Da orrendo poveraccio che mangiava il panettone sulle ginocchia di sua madre si è trasformato in benestante a tutti gli effetti. Ha sposato una bella signora attempata, una ginecologa, di famiglia ricca milanese e ha pensato bene di fare strike. Tra tre mesi diventa padre, e può tranquillamente godersi la vita in santa serenità. Mia cugina e mia zia sono scomparse dalla nostra vita. Dopo l’ennesimo fallimento di quel fenomeno di mio zio Nando, hanno supplicato in cinese mia madre affinché mettesse a garanzia della banca di turno un nostro appartamento a fronte di un finanziamento per ritirare la gestione di un negozio di intimo nel centro di Arcore, dalle prospettive redditizie fantasmagoriche. Ovviamente mia madre, sempre gentile e signora, dopo aver cortesemente ricordato loro che gli ultimi soldi donati in beneficenza necessari a risanare l’azienda e a saldare tutti i debiti con i fornitori e le banche, erano invece stati utilizzati bellamente da mio zio per comprarsi un’altra barca, qualche dose in più di cocaina e svariate scopate con puttane di lusso, le congedò negando fermamente questo fastidioso pegno. Scomparvero dal salone di casa a suon di pianto e stridor di denti, rinfacciando le cene offerte e le serate al Carpe Diem ora diventato Deluxe, discoteca pessima, ormai popolata di delinquenti
locali, albanesi e marocchini spacciatori di mariuana. Alla fine anche quelle le aveva pagate mia madre. “ An easier affair”, ultimo hit di George Michael risuona dalle casse del locale e sono sempre più convinto che il nostro George sia più che mai il numero uno. Un giorno lo inviterò a casa mia. Una miliardaria bionda seduta al tavolino alla mia destra con al polso un Submariner in oro fondo blu si accende una Malboro Light, mi fissa facendomi l’occhiolino. Avrà quarant’anni ed è completamente rifatta. Non porta il reggiseno e le tette puntano dritte verso il sole. Ai piedi due borse di Vuitton trabordanti di acquisti e una di Armani con annessa scatola nera all’interno. - “Vous voulez une Malboro Light?” – aveva abboccato. Nonostante la sera prima avessi tracannato una bottiglia di Cristal offerta dal Pakistano a Les Caves Du Roy, e fumato un pacchetto di sigarette, oltre a un paio di Vodka Tonic, bramavo una bella tirata di tabacco. - “Exscuse moi, mais mon francais c’est ne pas très bon. Vous etes très gentil, mais j’attend ma mere..ehm..vuos avez compris…?” – le sue labbra, assimilabili al tender dello yacht di Armani, si allargano in un sorrisone gentile e sensuale. - “Ehm..çe soir ja vais a les Caves, voulez-vous venir avec moi?” – alza gli occhiali da sole di Bulgari e annuisce gentilmente. Così mi presento e ci salutiamo come amanti di lunga data. La nottata è stata pianificata. - “Don’t let me tell you who are is not enough, don’t let them tell you that it’s wrong, or that you won’t find love..” – usmo Pleasure di mia madre in lontananza. E’ inconfondibile. - “Tesoro, come stai? Scusami se ti ho fatto aspettare così tanto ma ho comprato un po’ di cosine per la casa. Guarda che bella borsa, e poi questi fiori, sono meravigliosi…la Marinette ha delle stoffe davvero deliziose.” – la bionda si sta allontanando lentamente, si volta ancora una volta e sorride di nuovo. Il compromesso è stato controfirmato. - “Brava, hai fatto il pieno. Bevi qualcosa?” – l’aiuto ad appoggiare i sacchetti ai piedi del tavolo e faccio cenno al cameriere di prendere l’ordinazione. - “Bevo un caffè. Cos’hai fatto qua tutto solo? Piccino mio…” – il mio nuovo
Motorola Umts Touchscreen vibra e sul display compare la faccia di Luca, alle spalle happy people conversare a “Les Palmiers”, sullo sfondo il mare, una tavola blu scintillante. - “Dove cazzo sei? Sbrigati, qua è pieno raso..” – eccezionale nuovo compagno di serate e feste, nonché super boy palestrato e intellettualmente onesto della Milano da bere, dotato di grande cultura, filosofo e impareggiabile osservatore del trend femminile. E’ un numero uno. - “Porto mio madre a casa e arrivo, ordinami qualcosa da bere intanto. Ah, per stasera siamo a posto.” – ribatte ma attacco e vedo mia madre rovistare in una delle suo molteplici borse. - “Cos’è a posto?” – ed ecco la gestapo. Non molla mai. - “Ma niente, abbiamo conosciuto delle ragazze, le ragazze..ragazzi dovete lasciar stare le ragazze..in spiaggia ieri all’Aperetivo. Mi hanno chiamato dicendomi se stasera ci trovavamo con loro al Les Caves. Ovviamente ho accettato la loro proposta.” – annuisce rassegnata, sa che le sto proponendo una balla delle mie. - “Ohhh Giò, non cambierai mai. Posso farti una domanda? E’ personale, ma è da tempo che la medito.” – mia madre non ha mai saputo nulla di me e Silvia, di tutto quello che è stato e che mai si potrà cancellare. Solo Bollinger sa come sono andate a finire le cose. Levo gli occhiali da sole (Cartier) e li appoggio sul tavolino, in fianco al portacenere. La guardo nei suoi occhi, che conoscono a memoria il film della mia vita. - “Certo, puoi farmi tutte le domande personali che vuoi. Sei mia madre, senza te e il papà sarei un disperato, uno tra milioni di persone vaganti nello spazio.” – mi accarezza la testa. - “Dai che mi spettini!!” – dal locale “La mer” cantata da Charles Trènet soffia con dolcezza tra le persone. - “Tra tutte le donne che hai avuto, ma ti sei mai innamorato di qualcuna, dico di una in particolare? Che bella questa canzone, mi ricorda i miei tempi. Lo sai che anch’io e il tuo papà ballavamo?” – la guardo e rimetto gli occhiali da sole, non voglio si accorga che gli occhi mi si stanno annacquando senza freno.
- “Certo mamma. Ricordi la laurea di Antonio, il 27 ottobre del 1998?” – beata ascolta la musica, sollevata con leggerezza. - “E come potrei dimenticare i giorni più importanti della mia vita.” – sembra una ragazzina sorridente. - “Ecco quella ragazza che era entrata per assistere la discussione della tesi di Antonio. La pugliese, di Lei mi sono innamorato.” – rimane ferma un attimo. Poi riprende a canticchiare serenamente. - “L’avevo capito quel giorno, e anche i seguenti. Non hai vissuto un bel periodo in quell’anno. Poi il papà. Ma vi siete frequentati?” – inutile mentire, sarebbe stato una mancanza di rispetto imperdonabile. - “Certo, ed è stato meraviglioso.” – Mi viene da piangere. - “Perché non me l’hai mai presentata?” – le prendo le sue mani tra le mie, e schiarisco la voce. - “Quanti anelli hai messo oggi? Perché è stato meglio così, fidati. Guarda hanno alzato il volume della canzone. Alzati, balliamo, non l’abbiamo mai fatto.” – la prendo tra le braccia accompagnandola sul finale della canzone in mezzo alla gente seduta e divertita. La vedo felice e commossa. I camerieri si fermano e applaudono. - “E poi? Non mi racconti come è andata finire?” – una lacrima le scende lentamente sotto la lente scura, rigando il suo viso eterno, nel caldo secco di Saint Tropez. E un soffio di salsedine travolge le nostre vite.
NOTA:
I PERSONAGGI E I FATTI NARRATI SONO ESCLUSIVAMENTE FRUTTO DELLA FANTASIA E DELLA MENTE MALATA DELL’AUTORE. OGNI RIFERIMENTO A PERSONE O FATTI E’ PURAMENTE CASUALE.
Giovanni Swich è nato a Milano l’otto giugno di non si sa quale anno. Vive tra Merate, Milano e Saint Tropez. Ha avuto un’ infanzia felice, senza subire traumi, e un’adolescenza spensierata, ricca di esperienze campestri. Amava cacciare le farfalle. Dopo avere frequentato il liceo scientificio “M. G. Agnesi” nel suo amato paesello, si è laureato in Economia e Commercio all’ Università degli Studi di Bergamo, con la speranza di diventare un borgia della finanza. Non crede nel prossimo, uomo o donna che sia. Sono tutti pronti a fotterti allegramente. Sta a noi precederli. Prevenire è meglio che curare. Ama il mondo delle discoteche con tutto quel che ne consegue. Lo trova molto interessante. Purtroppo deve limitarsi nelle sue brillantissime escursioni notturne per evitare di causare troppi e spiacevoli traumi alla sua famiglia. Soprattutto a sua madre, che ancora oggi l’aspetta vagando da una stanza all’altra fino a quando non vede lampeggiare dalla finestra della sala da pranzo la luce giallastra del cancellone di casa. Data la grande disponibilità delle Case Editrici nello scovare autori emergenti, ha deciso di autopubblicarsi, senza mendicare niente a nessuno. Non l’ha mai fatto in vita sua.