Alan Palma
PREDA/PREDATORE
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Indice
capitolo 1 capitolo 2 capitolo 3 capitolo 4 capitolo 5 capitolo 6 capitolo 7 capitolo 8 capitolo 9 capitolo 10 capitolo 11 capitolo 12 capitolo 13 capitolo 14 capitolo 15 capitolo 16 capitolo 17 capitolo 18
capitolo 19 capitolo 20
capitolo 1
PREDA Quando intravide il cadavere, Elena perse i sensi. Sentì le gambe sciogliersi come fossero di burro e cadde, ritrovandosi tra le mie braccia appena in tempo, prima che rovinasse a terra. Tenendola delicatamente in braccio, la portai fino ad una macchina della Polizia parcheggiata sul ciglio della strada, dove la adagiai sul sedile posteriore. «Chiamo un’ambulanza.» mi disse una agente, cercando di alleviare il mio senso di impotenza. La guardai dritta negli occhi, prima di annuire senza dire niente. Abbassai lo sguardo sul volto di Elena, era pallido e liscio come porcellana. Mi chinai appena e le accarezzai la fronte con la punta delle dita, scostandole una ciocca di capelli dal viso. Coraggio, piccola mia! Serrai i pugni, cercando di trovare la forza per affrontare quello che mi aspettava e mi diressi verso il punto dove era stato commesso l’omicidio. L’aria gelida della notte penetrava nei polmoni, mentre il buio fitto mi avvolgeva completamente, interrotto solo dalla vorticosa luce azzurra dei lampeggiatori. Mentre avanzavo nell’oscurità, sentivo il mio respiro farsi pesante, affannoso, accompagnato dallo scricchiolio dei miei i sul selciato. Più avanti, sagome nere si muovevano lentamente facendosi luce con delle torce, la cui luce proiettava in modo contorto le loro ombre allungate sul terreno. Erano gli uomini della Scientifica, intervenuti per i rilievi, alla ricerca di indizi e dell'arma del delitto. Una telefonata anonima aveva avvertito la Polizia della presenza di “un corpo insanguinato” su una pista ciclabile nella prima periferia di Roma e, quando i militari erano accorsi sul posto, intorno alle 23.30, ogni forma di soccorso si era rivelata inutile. Riccardo Bevilacqua fu raggiunto quando, oramai, se ne poteva constatare solo il decesso. All’improvviso, il mio piede urtò qualcosa sul terreno, facendomi trasalire. Dal
rumore prodotto, pareva essere qualcosa di metallico, pensai a delle catene, ma il buio mi impediva di identificare chi o cosa aveva prodotto quell’inquietante stridulo. Un istante dopo, un cono di luce squarciò le tenebre, bruciandomi gli occhi. Istintivamente, gettai le braccia in avanti per coprirmi gli occhi col palmo delle mani. Il fascio di luce, danzando nervosamente sul mio corpo, si diresse verso il basso, fino ad illuminare le mie scarpe. Solo allora capii che qualcuno degli uomini aveva puntato su di me la sua torcia elettrica. Guardai per terra, dove il telaio di una bicicletta sfavillava di mille colori come tanti Swarovski. La mountain bike di Riccardo. «Faccia attenzione!» mi urlò l’uomo con la torcia, prima di scomparire di nuovo nell’oscurità. La luce si spense e tutto ripiombò nel buio. In quel posto così tetro restai smarrito, disorientato, nel tentativo di raccogliere i miei pensieri che si sovrapponevano confusamente l'uno sull'altro. Dove mi trovo? Perché sono qui? E poi... qui dove? Scrollai leggermente il capo per scacciare quei pensieri dalla mia testa e mi diressi con o deciso verso il punto dove era stato commesso l’omicidio. ai tra gli agenti della Scientifica, qualcuno di essi si scusò per avermi sfiorato, e mi fermai attonito davanti al cadavere. Appena lo vidi, una morsa alla bocca dello stomaco mi afferrò violentemente, mentre un’incontenibile voglia di piangere e urlare mi fece tremare le mani. Riccardo giaceva ai miei piedi, con una profonda ferita alla testa, dalla quale era uscito parecchio sangue che aveva formato una piccola pozza sotto il suo viso. Mi abbassai sulle ginocchia e, quando vidi l’espressione del suo volto, con gli occhi vitrei e fissi sul nulla, cercai di trattenere le lacrime con ampi respiri. Chiusi gli occhi, sforzandomi di non piangere… ma in un attimo le lacrime mi bagnarono il volto. Piansi, piansi con rabbia e con dolore, pensando a chi aveva potuto fargli una cosa così orribile. «Devono essere spuntati da una di queste siepi che delimitano la pista ciclabile... Lo hanno buttato giù dalla bicicletta e lo hanno colpito alla testa con quel bastone.» L’uomo con la torcia elettrica, orientò il fascio di luce in direzione della vegetazione ai lati, e quindi sulla pista ciclabile, fin quando il cerchio di luce inquadrò un paletto di legno.
«Hanno preso quello che la vittima portava con sé e, quindi, si sono dileguati rapidamente, facendo perdere le loro tracce.» Finita la fredda ricostruzione, l’uomo si voltò verso di me, guardandomi fisso negli occhi, come per dimostrarmi che si fidava di me e che io avrei dovuto fare altrettanto con lui. «Sono l’ispettore Desideri.» Incrociai per un attimo il suo sguardo, prima di tornare sul corpo di Riccardo. «Chi... Chi è stato a fargli questo?» domandai con un filo di voce. Desideri affondò le mani nelle grosse tasche dell’impermeabile e, con voce pacata, mi chiese: «Era un suo amico?» Quella semplice e apparentemente innocua domanda, mi provocò una fitta allo stomaco. Chiusi gli occhi per trattenere quello che sarebbe stato un pianto disperato, mentre sentivo il suo sguardo che mi studiava con attenzione. Inspirai profondamente, facendo entrare l’aria gelida nei polmoni. Quindi annuii in silenzio con un semplice cenno del capo. «Probabilmente zingari. In questa zona, poco più in là, c’è un campo nomadi abusivo. Stiamo già indagando.» Restai imperturbabile, con lo sguardo perso nel buio, mentre Desideri, guardandomi con aria di sfida, aggiunse «Li troveremo, quei cani.». «Stia attenta a dove mette i piedi!» gridò qualcuno dietro di noi. Ci voltammo entrambi di scatto, scorgendo Elena in compagnia della agente che l’aveva soccorsa poco prima. Appena la vidi, le andai incontro correndo e la abbracciai forte. Mentre la stringevo, chiusi gli occhi come se volessi dimenticare tutto ciò che avevo appena visto. Lei restò immobile senza dire niente, mentre sentivo il suo respiro farsi lento. Sollevai la testa dalla sua spalla e, dopo pochi istanti, vidi il suo volto impallidire, mentre teneva gli occhi fissi sul cadavere di Riccardo. «Non guardare.» le dissi tirandola a me. La abbracciai ancora e, mentre la stringevo, alzai lo sguardo incrociando quello di Desideri che, in silenzio, mi fissava dubbioso.
capitolo 2
Tre settimane dopo, nella sede della Charleston Tobacco International, l’attività procedeva coi consueti ritmi frenetici, nonostante la cappa di malinconia che sembrava ancora avvolgere i diversi uffici. Lo sgomento e il dispiacere si leggevano sui volti dei colleghi, i quali si erano trovati privati, senza un apparente motivo, di una figura importante. Riccardo era considerato da tutti una persona di elevate doti morali e professionali, ben voluto dai colleghi e particolarmente stimato dai superiori. In pochi anni la sua carriera era stata folgorante, ando da brillante neo-assunto a manager capace e determinato. Per tutti, Riccardo rappresentava non solo un modello di riferimento da emulare nel lavoro, ma anche l’esempio da seguire nella vita di tutti i giorni. I suoi genitori erano morti in un incidente stradale quando era ancora bambino, ed era stato affidato ad una zia depressa che si suicidò con una dose eccessiva di barbiturici quando Riccardo aveva l’età di vent’uno anni. Tutti ammiravano il ragazzo orfano che, tra mille problemi e sofferenze, si era laureato a pieni voti e, con le proprie forze, era riuscito a raggiungere i vertici di una importante multinazionale. Una multinazionale che con i suoi 950 miliardi di sigarette prodotte ogni anno nelle 70 fabbriche dislocate in tutto il mondo, rappresentava una delle società di tabacco leader nel mondo. Un autentico colosso, che produceva nove fra le prime venti marche più vendute nel mondo, con una quota pari al 25% del mercato internazionale di sigarette. Al quarto piano, in piedi nel mio ufficio, osservavo in silenzio la pioggia che incessantemente picchiava sulla vetrata. Le gocce d’acqua scendevano lungo il vetro, muovendosi le une con le altre, rincorrendosi, fermandosi e ripartendo di nuovo, in un gioco privo di significato. Alzai gli occhi fino a incrociare il mio stesso sguardo riflesso nella vetrata. Restai immobile a fissarlo per alcuni minuti, i miei occhi sembravano assenti e persi nel vuoto. Un lampo fece balenare nella mia mente la dolorosa scena di diversi giorni prima, l’angosciante nugolo di figure scure che sembrava danzare attorno al corpo senza vita di Riccardo. Chinai il capo fino a toccare il vetro con la fronte. Un flusso di pensieri inondò la mia mente riportando a galla il nostro primo incontro, che coincise col mio primo giorno di lavoro. Fu proprio lui, Riccardo, ad accogliermi appena varcata
la porta d’ingresso. Mi strinse la mano come un amico ritrovato dopo tanto tempo. «Stefano Preite?» mi chiese con un gran sorriso. «Si.» gli risposi. «Lieto di conoscerti. Io sono Riccardo Bevilacqua.» Mi offrì il caffè, poi iniziammo il giro degli uffici. «Lui è il nostro nuovo collaboratore.» diceva ad ognuno che incontravamo. Tutti sorridevano e annuivano, mentre io ricambiavo imbarazzato. Da quel giorno ebbe inizio la mia avventura nella CTI, sotto la guida di Riccardo. Furono anni di duro lavoro ma anche di eccellenti risultati. Tutto questo anche grazie alla straordinaria capacità di Riccardo di trasmettere conoscenze, esperienze e giuste motivazioni che gli permisero di creare un team di persone ad elevata performance. Eravamo un gruppo affiatato, solidale, stavamo bene insieme e riuscivamo pure a divertirci… finché i rapporti non si incrinarono in modo irreparabile. Lo squillo improvviso del telefono mi strappò dai ricordi, riportandomi al presente. Staccai la fronte dal vetro e mi voltai a guardare il telefono, come se fosse un oggetto sconosciuto. Mi avvicinai alla scrivania e, prima di prendere il ricevitore, lessi sul display il numero di chi mi stava chiamando. Era la reception. «Sì.» risposi con voce bassa, ma con tono fermo. «Dottor Preite, ho in linea una chiamata per lei… è la Polizia.» aggiunse timidamente la receptionist. Restai per qualche secondo senza riuscire a dire nulla, come paralizzato, guardando dubbioso la cornetta. La Polizia? «Dottor Preite?» la voce della receptionist mi riportò alla realtà. «Si… Si, la prendo.» le dissi. La musichetta di attesa si inserì per qualche secondo, dopo di che risposi.
«Pronto, sono Stefano Preite.» «Buongiorno, dottor Preite. Sono l’ispettore Desideri, del commissariato di piazza Venezia. Ci siamo conosciuti la sera del ritrovamento del cadavere di Bevilacqua.» L’ispettore Desideri, l’uomo con la torcia elettrica! «Si, ricordo… dica pure, ispettore.» «La disturbo per chiederle se stasera ha la possibilità di fare un salto qui in commissariato. Avremmo qualche domanda da porle riguardo Bevilacqua.» La sua voce sembrava tranquilla. «Certo.» risposi dopo qualche istante di esitazione, curioso di ciò che desiderava chiedermi. «Avete scoperto qualcosa?» chiesi. Notai che, prima di rispondere, l’ispettore prese un respiro. «Preferiamo che ci raggiunga in commissariato… le spiegheremo tutto.» «Capisco. Conto di uscire dall’ufficio per le sette e trenta.» «È perfetto.» rispose Desideri, il quale tagliò corto «Allora ci vediamo stasera. La saluto.» Restai in piedi davanti alla scrivania, con la cornetta del telefono ancora sull’orecchio. Dubbioso, mi interrogavo sul perché la Polizia mi aveva rintracciato e, soprattutto, su quello che aveva da chiedermi su Riccardo. La cosa mi mise una certa ansia. Tornai vicino alla finestra, mentre mille pensieri mi affollavano la mente. Guardai fuori, accorgendomi che era smesso di piovere e che un timido sole stava facendo capolino. Improvvisamente qualcuno bussò alla porta e, subito dopo, aprì senza attendere il permesso. Era De Longhi il quale, entrando precipitosamente, disse «Stefano, sono arrivati quelli della Freeman. Ti stanno aspettando nella sala riunioni.» Solo allora ricordai dell’incontro fissato due giorni prima con una grossa agenzia pubblicitaria, la quale doveva curare il lancio dell’edizione limitata di un prodotto. Negli ultimi anni, la CTI ricorreva spesso a questa tecnica di
marketing, mettendo in commercio lo stesso prodotto in confezioni speciali, create per attirare l'attenzione dei potenziali compratori. Soprattutto giovani. «Arrivo subito. Per favore, di’ loro di attendere qualche minuto.» dissi a De Longhi, il quale uscì senza richiudere la porta. Tornai alla scrivania e presi il mio blocco degli appunti. Feci un profondo respiro e mi diressi verso la sala riunioni. A pomeriggio inoltrato, rientrai esausto nel mio ufficio, la giornata era stata pesante, come ormai di consueto. Il mio ufficio era essenziale: entrando dalla porta a vetro fumé, dov’era affissa una targhetta nera riportante il mio nome, si sfiorava un divano in pelle marrone giungendo di fronte a una scrivania con su un computer, un tappetino per il mouse con il logo della CTI e un paio di riviste di economia. Il resto dell'ufficio era composto da una libreria con decine di libri e altri documenti, e due sedie davanti alla scrivania. Ero da tempo giunto a conclusione che l’ufficio aveva un assoluto bisogno di un po’ di personalità. Pertanto, avevo cominciato a riempirlo di trofei sportivi, fotografie incorniciate, libri ispiratori e un quadro con una copertina di un album dei Pink Floyd. Mi accomodai sulla poltroncina della scrivania e, dopo aver disattivato lo screen saver e digitato la , aprii Outlook per una rapida occhiata alla posta elettronica… Niente di urgente. Guardai l’orologio, le lancette segnavano le sette ate. Spensi il computer e uscii dall'ufficio attraversando il lungo corridoio, dove ormai regnava il silenzio. Qualche secondo dopo, giunsi davanti all’ascensore, la cui spia rossa indicava che era occupato. Ero troppo stanco per prendere le scale, così attesi che si liberasse. In un istante i miei pensieri volarono alla telefonata di Desideri. Avremmo qualche domanda da porle riguardo Bevilacqua. Perché “avremmo” e non “ho”? Quanti sarebbero stati ad attendermi in commissariato? In quanti avrebbero ascoltato la mia deposizione? E che intendeva Desideri con “Qualche domanda?” Dieci, venti… forse cinquanta domande? Un interrogatorio! Si, volevano mettermi sotto torchio, volevano estorcermi una… confessione! «Stefano!» la voce improvvisa di Elena mi fece sobbalzare. Immerso nei miei pensieri, non mi ero accorto che le porte dell'ascensore si erano aperte. «Cercavo te. Te ne stai andando?» mi chiese uscendo dalla cabina. «Si, sto andando dalla Polizia.» «Dalla Polizia? » mi chiese stupita
«Sono stato convocato dall’ispettore Desideri… vuole farmi qualche domanda su Riccardo.» La sua espressione si contrasse. «Cos’ha da chiederti?» mi domandò, mentre entrambi entravamo nell’ascensore. «Non ne ho idea, non mi ha accennato niente.» replicai. «Ti posso accompagnare?» mi chiese lei mentre premeva il pulsante del piano terra. Ci pensai qualche secondo, prima di annuire. In fondo non ci vedevo nulla di male. Uscimmo dal palazzo della CTI, camminando a o spedito. Provai a fermare un taxi, ma trovarne uno libero a quell’ora non era facile. Decidemmo così di proseguire a piedi, del resto Piazza Venezia non era tanto lontana. Imboccammo via Condotti, ando davanti alle scintillanti vetrine dei famosi nomi del lusso italiano. Il nome della famosa strada, derivava dalle condutture dell'Acqua Vergine che nel XVI secolo servivano la parte bassa del Campo Marzio. «Ma non ti ha accennato proprio niente l’ispettore… come si chiama? » mi chiese Elena. «Desideri.» risposi, mentre dribblavo due turisti giapponesi intenti a fotografare le insegne di Gucci. «…mi ha solo riferito l’intensione di farmi qualche domanda su Riccardo. Nulla di più.» «Non sarai mica tra i sospettati?» Mi chiese lei con un sorrisetto ironico, anche se la voce lasciava trasparire curiosità e preoccupazione allo stesso tempo. Le lanciai un’occhiata fulminea. Venti minuti dopo, eravamo in Piazza Venezia di fronte al palazzo ottocentesco sede del commissariato di Polizia. Entrammo dal portone principale, trovandoci di fronte ad un grande gabbiotto di vetro per l’accettazione. «Salve» dissi all’agente che sedeva all’interno «Ho un appuntamento con l’ispettore Desideri.»
Una voce gracchiante, di cui si faticava a capire le parole, mi rispose attraverso l’altoparlante posto sul vetro «Lei è il signor? » «Stefano Preite.» risposi «Attenda.» Il militare consultò il monitor, dopodiché afferrò il telefono e digitò un numero sulla tastiera. Nel frattempo mi voltai a guardare Elena, la quale sembrava tesa. Quando si accorse che la stavo osservando, scrollò le spalle e fece un timido sorriso. «Potete accomodarvi nella sala d’attesa al primo piano.» annunciò il poliziotto, mentre azionava il dispositivo che apriva la porta che conduceva negli uffici. Appena varcata la soglia, ci trovammo di fronte ad una stretta scalinata che portava al piano superiore. La salimmo lentamente, sbucando in un’ampia stanza dove ci accomodammo su una delle panche di legno poste ai lati, in attesa di essere ricevuti da Desideri. Restammo lì seduti senza dire niente, con in testa mille pensieri diversi, mentre da un ufficio in fondo alla sala d’attesa, il martellante rumore del ticchettio di una macchina da scrivere, si confondeva con le voci di due uomini. Elena girò la testa verso di me e, quando fece per dirmi qualcosa, una voce ferma e perentoria la anticipò «Avanti, prego! ». L’ispettore Desideri comparve da una porta vicina a quella da dove provenivano le voci dei due interlocutori. Appena rividi la sua faccia, ebbi un flashback che mi riportò improvvisamente indietro nel tempo, fino alla tragica sera del ritrovamento del corpo senza vita di Riccardo. sco Desideri era un uomo sulla cinquantina, il corpo robusto e massiccio da ex paracadutista, un metro e settanta di altezza. I tratti del viso abbastanza pronunciati, con la fronte piatta tipica di chi è molto pratico e materialista e con due occhi neri, non troppo grandi, ma che originavano lo sguardo penetrante e fermo di una persona sicura e determinata. Mi alzai per entrare nel suo ufficio, mentre Elena restò seduta indecisa se seguirmi o meno. In fondo Desideri aveva convocato solo me. La guardai e, prima di riuscire a parlarle, intervenne Desideri. «Prego, venga anche lei…Signora? » «…Elena Baldacci, sono una collega del dottor Preite.» rispose lei timidamente.
«La prego signora Baldacci, si accomodi.» disse l’ispettore abbozzando un sorriso della durata di un millisecondo. L’ufficio dell’ispettore era molto semplice ma ben arredato, con una grande scrivania di legno scuro che occupava tutta la parete davanti alla porta. Vicine alla scrivania, due poltrone sulle quali l’ispettore ci invitò ad accomodarci. Lui sedette alla scrivania, appoggiandosi subito all’alto schienale della sua poltrona. Io e Elena ci accomodammo sulle due sedie dall’altra parte del tavolo. Guardandomi intorno, scorsi una fotografia di una donna che, supposi, doveva essere sua moglie. Sbottonai la giacca e accavallai le gambe, ero teso, mi sentivo impaurito e impaziente allo stesso tempo. Desideri assunse il comando della discussione. «Dottor Preite l’ho convocata qui in commissariato – e per questo la ringrazio per aver accettato – per chiedere la sua collaborazione nella soluzione dell’omicidio Bevilacqua… e, a questo punto, la chiedo anche a lei, signora Baldacci.» Era garbato e, mentre parlava, i suoi occhi neri guadavano alternativamente me ed Elena. «Ciò che vi sto chiedendo è semplicemente di raccontarmi il tipo di rapporto che avevate con Bevilacqua e, soprattutto, se ultimamente, prima della sua morte, avete notato qualcosa di strano nei suoi comportamenti o di insolito nei suoi atteggiamenti… Vi prego di non avere alcun timore o titubanza nel riferirmi qualsiasi particolare che possa apparirvi come una semplice sciocchezza. Credetemi, la maggior parte dei casi si risolve grazie a dettagli che sembrano futili e che invece non lo sono.» arono lunghi secondi di silenzio, durante i quali rimanemmo tutti perfettamente immobili. Poi fui io il primo a parlare. «È difficile parlare di una persona che non è più tra noi, con la quale si è condiviso un tratto di vita, dividendo momenti, esperienze, emozioni…» La mia voce uscì stentata, rauca. Così triste che suonò strana anche alle mie orecchie. Desideri annuì senza dire niente. Continuai, raccontandogli degli anni ati insieme a Riccardo, fatti di duro lavoro ed enormi soddisfazioni, nonché del rapporto mutato degli ultimi mesi, rapporto che si era fatto teso.
«Come mai? » chiese Desideri, curioso di conoscere la risposta. «Non lo so.» risposi scuotendo il capo «Riccardo era spesso nervoso, intrattabile, si intestardiva in cose inutili. Il clima era diventato insopportabile, accompagnato da una crescente intolleranza reciproca, tanto che avevamo smesso di frequentarci… Poi, per fortuna cambiai ufficio, e il rapporto si interruppe per sempre.» Desideri si sporse in avanti, appoggiandosi sui gomiti per riflettere. Nell’ufficio calò un silenzio assoluto. Sembrava di essere sospesi nel tempo. All’improvviso Elena, che fino a quel momento aveva assistito in silenzio, disse: «Scusi, ispettore…» Lui la guardò un po’ sorpreso. «Noi…vorremmo sapere se avete scoperto qualcosa… se avete qualche sospetto, se siete sulle tracce di qualcuno…» aggiunse poi timidamente. Desideri si appoggiò allo schienale della sua poltrona e, incrociando le braccia, ammise «Per ora non c’è alcun indiziato, anche se i miei uomini stanno setacciando tutta la zona dov’è stato commesso l’omicidio. In quell’area ci sono due campi rom e diverse baracche in cui vivono sbandati e immigrati giunti con le ultime ondate migratorie. È una specie di terra di nessuno, dove i balordi colpiscono rapidamente e tornano a scomparire altrettanto rapidamente nella boscaglia. Tutto porterebbe ad un omicidio a scopo di rapina.» Guardammo l’ispettore rassegnati, con lo sguardo di chi riceve conferma di un sospetto che è ormai divenuto una certezza. «Tuttavia, c’è qualcosa che non mi quadra.» Appena pronunciò quelle parole, i nostri volti assunsero un'espressione stupefatta. L’ispettore aprì il cassetto della sua scrivania e, dopo aver dato una rapida occhiata all’interno, prese un pacchetto di sigarette. Ne tirò fuori una e, prima di accenderla, ci chiese se il fumo ci desse fastidio. Figuriamoci! Si alzò in piedi e si avvicinò alla finestra, aprendola quel tanto che bastava per far uscire all’esterno la boccata di fumo che espirò. «Perché rapinare un ciclista?» Desideri attese qualche secondo prima di proseguire. La sua domanda, per quanto semplice, spiazzò entrambi. Infatti né io né Elena sapevamo cosa
rispondere. «Per qualche moneta? Dieci, venti euro al massimo? Per il cellulare o l’i-pod? … o per la bottiglia di Gatorade?» aggiunse poi con un leggero sarcasmo. «E poi, perché colpire con tanta violenza? In un modo così brutale, da fracassare il cranio ad una persona? Non vi sembra esagerato per una stupida rapina?» Rimanemmo a fissarci tutti quanti, senza riuscire a trovare uno straccio di risposta. Fu poi Elena a provare a rispondere. «Forse vedendo il magro bottino, l’aggressore ha scaricato tutta la sua rabbia su di lui, fino ad ammazzarlo.» L’ispettore la guardò come se avesse detto la cosa più ovvia del mondo e un po' perplesso disse: «Signora Baldacci, qui in commissariato raccogliamo ogni giorno decine di denunce da parte di vittime di una rapina, e le assicuro che sono rare quelle che finiscono in modo tragico, se non per circostanze assai particolari. Circostanze che, in questo caso, sono sicuro di poter escludere.» Desideri spense la sigaretta a metà nel posacenere e, con voce sicura, aggiunse: «Secondo me la rapina è tutta una messa in scena. L’assassino conosceva bene i movimenti di Bevilacqua, gli ha studiati per giorni, se non per settimane. Sapeva che, in sella alla sua mountain bike, percorreva sempre lo stesso tragitto, la sera, dopo il lavoro. L’ha atteso nascosto nella vegetazione e, una volta giunto sul punto, gli è piombato addosso e l’ha ucciso a colpi di bastone. Poi ha simulato una rapina, per indirizzare in tal senso le indagini. Per me si tratta di una esecuzione in piena regola.» «Un’esecuzione?» dissi meravigliato «Che significa un’esecuzione?» «Un regolamento di conti. Che si tratti dei servizi segreti o di un marito geloso, questo ancora non lo sappiamo, ma di certo non si è trattato di un ladro così idiota da ammazzare un uomo per due euro.» «Oh, mio Dio!» esclamai portandomi la mano sulla bocca. Mi girai verso Elena, la quale, mi guardò con occhi sgranati, mentre una lacrima le rigava la guancia. A quel punto Desideri decise di lasciarci andare. «Bene, non vi rubo altro tempo. Vi ringrazio per la vostra disponibilità e, se avete altro da raccontarmi, contattatemi pure.» ci disse allungandoci due biglietti da visita. Sulla sua faccia riapparve l’espressione cordiale.
Gli stringemmo la mano e, ancora scossi, ci avvicinammo alla porta per uscire dal suo ufficio. Ad un tratto, come un tuono, la sua voce risuonò improvvisa nella stanza «Ah, dimenticavo!» Io ed Elena ci voltammo di scatto, contemporaneamente. «Vi ricorda qualcosa la parola “Santer”?» domandò Desideri, con voce che non pareva più la sua. Esitai qualche secondo prima di rispondere «Santer?… no, non mi dice nulla…» «E a lei signora? » chiese rivolgendosi ad Elena «Mai sentita… Perché ce lo chiede, ispettore? » replicò lei. «Non vi ho raccontato la cosa più interessante.» disse avvicinandosi alla sua scrivania. «Dopo l’aggressione il ladro – chiamiamolo così – ha portato via i pochi oggetti che Bevilacqua aveva con sé, ma non il cellulare. Probabilmente perché lo teneva in un posto dove l’assassino non lo poteva vedere. Fatto sta che, dopo essere stato scaraventato per terra e ripetutamente colpito alla testa, il povero Bevilacqua non è morto subito.» appena udii quelle parole, sgranai gli occhi incredulo. «Ancora agonizzante, ha trovato la forza di prendere il suo cellulare e di scrivere un sms. O meglio una parola: “Santer”. Ma poi non ce l’ha fatta ad inviarlo... è morto.» Restammo impietriti davanti alla porta, mentre l’ispettore proseguiva col suo racconto. «Ancora non sappiamo a chi era indirizzato quell’sms. Abbiamo analizzando i tabulati telefonici delle chiamate e degli sms in entrata e in uscita, e abbiamo individuato un sms ricevuto da Bevilacqua la mattina dell’omicidio, dal testo enigmatico: “il nome del test?”. Forse quella parola, “Santer”, era la risposta a quel sms. Ma è solo un’ipotesi. Il numero del mittente di quell’sms risulta disattivato.» Poi l’ispettore, fissandomi cupamente, aggiunse: «Certo, quello che è veramente
strano è che Bevilacqua, agonizzante, in fin di vita, si sia preoccupato di inviare un sms a qualcuno… o almeno ci abbia provato. Doveva trattarsi di una informazione assai importante, che la vittima voleva a tutti i costi fornire e in qualsiasi condizione.» Rimanemmo tutti quanti in silenzio, mentre ognuno di noi pensava ad una possibile spiegazione. Desideri alzò le spalle, quindi, si avvicinò alla porta. «Ok, chiamatemi se avete bisogno.» Uscimmo dal commissariato profondamente scossi. Percorremmo in silenzio una decina di metri, quando Elena disse con voce rotta: «Tutto ciò è assurdo!» «Già…» replicai ancora incredulo «Chi può essere stato a volere tutto questo? » «Non lo so… Riccardo deve aver combinato qualcosa di grosso per essere ucciso in quel modo.» «E poi quell’sms, “il nome del test?”, a quale test si riferisce?» si domandò Elena. Scossi la testa, non avevo la minima idea a quale misterioso test fe riferimento il messaggio. «Dai, adesso è meglio andarcene a casa. Vuoi un aggio? » le chiesi. «No prendo un taxi.» «Sicura? » le chiesi sottovoce, guardandola negli occhi «Si, non ti preoccupare. Grazie.» Fermai un taxi e feci salire Elena. «A domani.» le dissi «A domani, Stefano.» e partì via.
Restai qualche secondo ad osservare l’auto allontanarsi. Il freddo si faceva sentire, infilai le mani nelle tasche e alzai il bavero della giacca. Tornando verso l’ufficio, non potevo fare a meno di pensare alla tesi avanzata dall’ispettore Desideri. Riccardo ammazzato non per un infame tentativo di rapina finita male, ma volontariamente per vendetta. Ma da chi? E perché? Eppure i dubbi che l’ispettore aveva sollevato sulla rapina finita male erano ragionevoli. E poi quel nome trovato sul cellulare di Riccardo: Santer. Perché, ancora agonizzante, si è tanto preoccupato di scrivere un sms con quel nome? E a chi era indirizzato il messaggio? Rischiavo un mal di testa. Una macchina ò a tutta velocità su via del Corso distraendomi dal mio rimuginare silenzioso. Diedi un’occhiata all’orologio: le 20.20. Mi affrettai lungo via Condotti per raggiungere il mio scooter. Giunsi in Piazza di Spagna, la quale si presentava bellissima nella sua naturale eleganza. Nonostante il brutto tempo, gruppi di turisti vi eggiavano contenti, fotografandone ogni angolo. Restai qualche minuto ad osservare la scalinata di travertino che portava su, fino alla chiesa di Trinità dei Monti. Da qualche parte nella piazza, c’era un punto dal quale si poteva vedere l’obelisco Sallustiano inserirsi perfettamente tra i due campanili della chiesa. Ripresi a camminare nel freddo che si faceva più pungente, era uno degli inverni più freddi che ricordassi. Giunsi dinanzi alla sede della CTI e guardai l’austera facciata del palazzo. Il mio scooter era parcheggiato poco di fronte all’entrata. Recuperai il casco da sotto la sella, lo indossai, misi in moto e partii. Nella via verso casa, il mio pensiero tornava di continuo alle parole dell’ispettore. …perché rapinare un ciclista? …la rapina è tutta una messa in scena …per me si tratta di una esecuzione in piena regola. Poco dopo, giunsi a casa e mi diressi in bagno, dove feci velocemente una doccia. Lo scoscio dell’acqua calda per un attimo mi fece dimenticare tutto quello che era successo... Già, per un attimo. Uscii dalla doccia, mi avvolsi in un asciugamano e andai in camera dove mi stesi sul letto con gli occhi chiusi. Provai a dormire... non ci riuscivo, ero inquieto, nervoso. Mi venne in mente la scena del cadavere riverso sulla pista ciclabile. Pensai al suo sguardo perso nel vuoto, a quegli occhi che forse erano rivolti al cellulare che aveva in mano, con quel messaggio che aveva scritto con le sue ultime forze. Santer. Chi diavolo era?
capitolo 3
PREDATORE L’incessante cinguettio degli uccelli intenti a procurarsi il cibo fra gli alberi, mi svegliò dal mio sogno. Aprii gli occhi, con la luce del sole che filtrava attraverso la leggera tenda posta sulla finestra. Restai qualche secondo a osservarne le sinuose evoluzioni provocate da un vento che soffiava nervoso e che svelava il verde della campagna circostante. Il ticchettio delle lancette dell’orologio scandiva un ritmo ossessivo. Alzai lo sguardo sulla parete di fronte, dove era appeso un orologio a pendolo le cui lancette indicavano le sei ate. Posai la testa sul cuscino, ripensando al sogno che avevo appena fatto e che, da qualche settimana, si ripeteva quasi ogni notte. Un sogno surreale ma che, proprio per questo, assumeva una forte valenza simbolica. Una spiaggia deserta, infinita, in un luogo che mai avevo visto… il mare brillante, calmo, lontanissimo… sulla sabbia anziché ombrelloni e sdraio, centinaia di letti di alluminio rosso che, posti disordinatamente uno accanto all’altro, come un lungo fiume si perdeva fino all’orizzonte… su uno di essi un uomo sedeva pensieroso, mentre osservava la sua immagine riflessa in uno specchietto che teneva in mano. Girai la testa sul cuscino e vidi il suo volto addormentato, sereno, disteso. Era bellissima, col suo viso così tranquillo, quelle labbra, il suo profumo... Le scostai i capelli dal suo viso, dalle sue labbra dischiuse, mentre il suo respiro regolare faceva da sottofondo. Un istante dopo, le sue palpebre si alzarono leggermente e due straordinari occhi neri lentamente si schio, illuminandosi alla luce del mattino. «Buongiorno, amore.» le sussurrai dolcemente. Lei ricambiò con un leggero sorriso e, dopo aver posato la testa sul mio petto, chiese «Che ora è?» «È ancora presto… dormi ancora.»
Lei emise un mugolio stanco e, lentamente, avvicinò le sue morbide labbra alle mie tenendo gli occhi incollati ai miei. Sentii la sua bocca appoggiarsi sulla mia, mentre mi regalava un altro dei suoi splendidi baci. Ricambiai quel bacio poi si staccò e mi disse «Preparo la colazione.» Si alzò dal letto e, mentre si infilava la leggera camicetta di seta, le osservai la schiena e il sedere perfetto. Uscì dalla camera dirigendosi in cucina, mentre io restai sdraiato a fissare il soffitto, immerso nei miei pensieri. Pensavo a quanto ero stato fortunato a trovare una persona bella e straordinaria come lei. Un intenso profumo di caffè aleggiò nella stanza, mentre sentivo la caffettiera gorgogliare. Poco dopo, entrò lei con due tazzine di caffè e, sedendosi accanto a me, annunciò solenne: «La colazione è servita, signor Bevilacqua! » Scoppiammo entrambi a ridere. Poi lei, guardandomi intensamente negli occhi, cominciò a sbottonarsi lentamente la camicetta, un bottone alla volta. La guardai, leggendo la sfida nel suo sorriso. Si tolse la camicetta, facendola cadere sul pavimento. Un secondo dopo, Sara fu sopra di me, seduta sulle mie gambe, che mi abbracciava, mi baciava, si dimenava per la ione che ci stava avvolgendo. Mentre la possedevo, chiusi gli occhi avvertendo la sensazione dell'odore del mare che si univa al suo profumo sensuale. Il suo gemito di piacere mi riportò alla piacevole realtà. Aprii gli occhi, guardando il suo seno che ballava una danza sensuale. Raggiungemmo insieme l'orgasmo, liberando tutta la tensione erotica che avevamo accumulato in quei lunghi minuti.
capitolo 4
PREDA Con un sussulto mi svegliai dall’incubo che mi aveva terrorizzato nel sonno, ritrovandomi seduto sul letto e con il cuore che batteva a tamburo. Intriso di sudore, restai immobile per qualche minuto, giusto il tempo per riprendere contatto con la realtà. Quindi, mi alzai in cerca di un po’ d’acqua. Presi una bottiglia dal frigo e mandai giù cinque sorsi che tolsero la secchezza che avevo in gola. In piedi davanti al frigo, ripensai al terribile incubo, considerandolo come segnale della presenza di conflitti interiori non risolti che mi affliggevano e mi tormentavano. Mi scappò una risata beffarda, come per esorcizzare quel pensiero. Riposi la bottiglia nel frigorifero e mi diressi in camera, mettendomi a letto. Avevo bisogno di riposare. Chiusi gli occhi cercando di riaddormentarmi, ma tornai inevitabilmente al brutto sogno. Una miriade di pensieri mi pervase il cervello, tanto che sentivo di essere prossimo alla pazzia. Decisi di alzarmi di nuovo e di andare a darmi una rinfrescata, con la speranza di trovare un po' di sollievo. Entrai in bagno e, quando accesi la luce, la mia stessa immagine riflessa nello specchio mi fece sussultare. Ero mal ridotto. Provai a sciacquarmi un po’ il viso, ma ormai di dormire non se ne parlava più. Aprii la finestra del bagno e una tenue luce azzurrina illuminò la stanza, mentre una pungente brezza fredda toccò il mio viso. Cercai con lo sguardo il piccolo orologio sullo specchio, le cui lancette segnavano le cinque e trenta. Aprii il rubinetto della doccia e il getto di acqua fredda mi fece sobbalzare, il che contribuì a svegliarmi definitivamente. L’acqua, divenuta tiepida, mi scorreva sulla faccia e sul corpo, mi sentivo già meglio. In pochi attimi una buona doccia conferisce vitalità e vigore. Uscii dalla doccia e mentre mi infilavo nell’accappatoio, osservai la mia faccia stanca riflessa allo specchio. Necessitavo di una bella vacanza… e di una donna stabile. Entrai in cucina e accesi il televisore per l’edizione del mattino del telegiornale. Dopo le notizie di politica interna, il cronista annunciò …nuovi sviluppi riguardanti il brutale omicidio avvenuto lo scorso febbraio… Mentre leggeva la notizia, scorrevano le riprese sul luogo dove era avvenuto l’omicidio di Riccardo. Un brivido mi percorse lungo la schiena nel rivedere lo
stesso luogo in cui ero stato giorni fa. Alzai il volume del televisore, rimanendo con gli occhi incollati sullo schermo. …gli investigatori ritengono che si tratti di una rapina finita male forse a causa della reazione inaspettata da parte della vittima. L’aggressore avrebbe atteso Riccardo Bevilacqua – questo il nome della vittima – nascosto tra le sterpaglie e, dopo averlo colpito con un paletto di legno divelto dalla staccionata, gli ha sottratto i pochi oggetti che portava con sé ed è scappato, facendo perdere le proprie tracce. Si indaga nel mondo dei rom. Infatti nelle vicinanze c’è un piccolo campo nomadi abusivo, mentre più avanti c’è un altro insediamento regolarmente autorizzato… Il cronista introdusse poi il problema degli zingari …come dimostrano i dati forniti dal Ministero dell'Interno, negli ultimi anni i rom sono risultati al primo posto tra gli stranieri per gli omicidi volontari, per i furti in abitazione e nelle rapine in esercizi commerciali. Il Governo sta… Spensi la tv, sapevo che gli zingari non c’entravano nulla. “Un’esecuzione”, aveva sentenziato l’ispettore Desideri, lasciando me ed Elena sconvolti. Sorseggiai il caffè caldo, mi ci voleva proprio a quell’ora del mattino. Posai la tazza sul televisore, osservando a lungo i residui della miscela di caffè sul fondo. In realtà i miei pensieri vagavano altrove. Erano tutti concentrati su quel misterioso nome trovato sul cellulare di Riccardo: Santer. Era un nome di persona? Una località? Oppure si trattava di una parola d’ordine o qualcosa del genere? Forse effettuando una ricerca su internet poteva saltare fuori qualcosa di interessante. Già, perché non ci avevo pensato prima? Decisi che appena arrivato in ufficio l’avrei cercata sulla Rete. Mi vestii velocemente e, nel giro di poco tempo, ero già in sella al mio scooter, immerso nel traffico cittadino che, a quell’ora del mattino, era ancora tollerabile. La sede centrale della CTI si trovava in piazza di Spagna, all’interno di un palazzo d’epoca. A dispetto della facciata esterna, in totale armonia con la piazza, l’interno del palazzo era completamente moderno con uffici arredati secondo l’ultima tendenza, climatizzati, e con computer collegati in Wi-Fi. Ogni piano era formato da un lungo corridoio con gli uffici sul lato esterno, dai quali si potevano ammirare gli splendidi panorami della Capitale. Quelli che davano su Piazza di Spagna erano i più prestigiosi ed erano occupati dai dirigenti, mentre le sale riunioni erano sul lato interno del corridoio. Nel sotterraneo c’era
una parcheggio pieno di Mercedes, BMW, Porche e chi più ne ha più ne metta. Parcheggiai lo scooter e salii al piano superiore dove si trovava la hall della CTI, un salone enorme al centro del quale si trovava il bancone della reception. Salutai la guardia giurata che a quell’ora – le sette e dieci – presidiava la reception in attesa che arrivasse l’impiegata. Presi l’ascensore e, quando le porte si aprirono al quarto piano, mi trovai di fronte gli addetti alla pulizia, i quali spingevano grossi secchi di plastica con spazzoloni e prodotti per la pulizia. Li salutai, procedendo a lunghi i verso il mio ufficio, determinato a cominciare la mia ricerca. Appena avviato il computer, aprii la finestra di Google e, dopo aver digitato il nome “Santer”, comparve una lunga lista di link ai siti correlati. Hotel, palestre, autonoleggi, una società di informatica, tutte attività che in un modo o in un altro, avevano a che fare con quel nome. Esaminai attentamente l’elenco, cercando di individuare qualcosa che, in qualche modo, potesse ricondurre a Riccardo. Non rilevai nulla di interessante. Decisi di procedere con la ricerca focalizzandomi sui nomi di persona, individuando decine di articoli legati a nomi di avvocati, medici, commercialisti e anche gente comune. Tra questi figurava un ministro del Governo portoricano, un certo Eriberto Santer, inchiodato da un video sadomaso che lo ritraeva in un appartamento mentre partecipava ad un’orgia insieme a quattro prostitute. Pochi giorni dopo lo scandalo, fu trovato sulla poltrona del suo studio morto suicida dopo essersi sparato in bocca. Scossi il capo per togliermi quell'immagine dalla testa e chiusi la pagina, continuando a scrollare il lungo elenco. All’improvviso, la suoneria del mio cellulare ruppe con irruenza il silenzio che avvolgeva tutto il piano. Trasalii e balzai in piedi, afferrando la giacca dall’attaccapanni e frugandovi nelle tasche alla ricerca del telefonino. Finalmente lo trovai, prendendolo in mano che ancora squillava. Cercai di rispondere con naturalezza, impostando il tono di voce per renderlo il più calmo possibile. «Si, pronto?» «Stefano, buondì.» rispose Antonio Ercolano, capo della funzione new business. «Ciao, Antonio.» risposi sciolto. «So che non hai molto tempo da dedicarmi prima del management meeting, ma ti devo chiedere una cortesia.»
Merda! Come ho potuto dimenticare il management meeting? Ogni primo venerdì del mese, si svolgeva la riunione del management, nella quale si faceva il punto sulle singole attività e l'analisi dei dati di vendita dei vari prodotti. Era stato l’amministratore delegato in persona a volerla, e quel giorno, ultimo venerdì del mese di Maggio, alle ore 10.30 era in programma la riunione! Guardai l’orologio, fortunatamente erano ancora le 9.20. «Dimmi pure.» replicai. «Sono ancora a Minsk per definire l’accordo con i vertici di Gasavia. Mancano ancora dei dettagli e poi speriamo di chiudere in giornata.» Oltre ad attività e partecipazioni legate al core business del tabacco, la CTI possedeva anche partecipazioni in importanti aziende operanti in altri settori quali quello immobiliare, finanziario ed industriale. La Gasavia era attiva nella produzione, distribuzione, e fornitura di elettricità e gas nella Bielorussia nordorientale. Inoltre, dopo l’apertura del mercato, la società operava anche in altri settori come le telecomunicazioni ed il riciclaggio di rifiuti su tutto il territorio bielorusso. «Lo spero per te!» risposi. Poi chiesi il motivo della chiamata. «Avrei bisogno dei dati di vendita dei nostri prodotti top registrati nell’ultimo mese. Stasera siamo tutti a cena dall’ambasciatore e, se dovesse saltar fuori l’argomento, vorrei fare bella figura… Giusto due o tre prodotti.» «Nessun problema. Vediamo… potrei comunicarti i dati delle Charleston One sempre molto buoni, come quelli delle F21.» replicai. «Sì, e anche i dati delle Pantera che sembrano andare forte.» «Certo, le Pantera.» annuii. Poi aggiunsi «Stai tranquillo, Antonio. Finita la riunione, quando avrò i dati delle vendite, ti chiamerò per farti un rapido quadro della situazione.» «Bene Stefano… ti ringrazio.» «Figurati, ci sentiamo dopo.» risposi
«Okay, a più tardi.» Chiusi la finestra di Google e aprii il mio rapporto mensile che dovevo leggere nel corso della riunione. Come direttore del marketing, avevo la responsabilità di definire e gestire le strategie di lancio e promozione dei prodotti. Compito assai arduo nel mondo del tabacco, in cui le variabili di marketing mix non erano in alcun modo governabili o minimamente influenzabili. Infatti, la produzione e vendita dei tabacchi lavorati era scrupolosamente regolamentata da norme nazionali e comunitarie, nonché da convenzioni internazionali che ne regolavano tutti gli aspetti: dalla pubblicità, per la quale vigeva il divieto totale, al confezionamento, per il quale era stabilito che metà della superficie del pacchetto doveva contenere avvertenze sanitarie quali “Il fumo uccide” nonché l’elenco degli ingredienti utilizzati nella fabbricazione; dal prodotto, per il quale erano definiti i livelli dei tenori di nicotina, catrame e monossido di carbonio, al prezzo, le cui richieste di variazione dovevano essere correlate da una scheda tecnica rappresentativa degli effetti economici derivanti dalla variazione di prezzo richiesta. Se a questo si aggiungeva il divieto di fumo previsto per i luoghi pubblici e per quelli aperti al pubblico, come bar e ristoranti e ai luoghi di lavoro, il quadro si complicava ulteriormente. Rilessi velocemente il rapporto e uscii dall’ufficio portando con me il laptop. Era ancora presto per la riunione, avevo il tempo per un caffè. Mi avvicinai al distributore automatico posizionato al centro del corridoio, inserii la moneta nella fessura, e premetti il tasto del caffè corto. Mentre il liquido scuro cadeva nel bicchiere di plastica, pensai che stavo esagerando coi caffè. Ultimamente avevo toccato il record personale di undici caffè in un giorno… tuttavia quel giorno avevo bisogno di stare sveglio. I management meeting si svolgevano sempre nella sala riunioni al quinto piano, lo stesso piano che ospitava anche l’ufficio dell’amministratore delegato. Con i suoi dieci metri di lunghezza per sei di larghezza, era la sala riunioni più grande dell’intero edificio, che ne contava altre quattro, una per piano. La porta a vetro fumé era chiusa e la luce all’interno era accesa. Cercai di capire se vi era qualcuno all’interno, mi parve di si. Diedi un’occhiata all’orologio, erano le dieci meno cinque. Decisi di entrare. Afferrai la maniglia e aprii lentamente la porta. La sala era vuota. Forse era stato uno scherzo della mia immaginazione, ma attraverso il vetro ero sicuro di aver intravisto un'ombra muoversi all’interno della sala. Restai qualche minuto sulla soglia ad osservare l’enorme tavolo color noce posto al centro. Le poltroncine in pelle erano ordinatamente accostate una
affianco all’altra, mentre al centro del tavolo un videoproiettore era posizionato in modo che l’immagine fosse proiettata esattamente al centro della parete di fronte. Sul lato opposto troneggiava un televisore al plasma di 42 pollici usato per le videoconferenze. Entrai nella sala e, mentre mi avvicinavo al tavolo, sentivo l’impercettibile scricchiolio del parquet sotto le suole. Posai il laptop sul tavolo, quando, con la coda dell’occhio, vidi una persona seduta a capo tavola, davanti al grande televisore. Mi girai di scatto, fissando la poltroncina vuota. Rimasi interdetto per qualche secondo, prima di rendermi conto che era tutto frutto della mia immaginazione. Non riuscii a spiegarmi come, ma ebbi la sicurezza di aver avvertito la presenza di Riccardo, che mi fissava con un’espressione minacciosa, quasi di sfida. «Ciao Stefano.» una voce dietro le mie spalle mi fece sbalzare il cuore in gola. Mi girai di scatto, guardando verso la porta dove vidi Rosaria, la segretaria dell’amministratore delegato, la quale, portandosi le mani sulla bocca, esclamò «Oh, non volevo metterti paura. Perdonami!». Rimasi immobile, fissandola con uno sguardo del tipo “ma sei impazzita a presentarti così all’improvviso!” Invece le dissi «Non ti preoccupare, Rosy, ero sovrappensiero…» «Hai bisogno di un aiuto?» mi chiese «No, già tutto fatto grazie.» Rosaria appese il soprabito sull’attaccapanni e prese velocemente possesso della sua postazione, era in evidente ritardo. Dopo aver il suo computer e sistemato velocemente alcuni documenti sulla sua scrivania, si accomodò con grazia accavallando le gambe. Era proprio graziosa. I suoi occhi celesti, i capelli castano chiaro e l’espressione del suo volto mi ricordavano Marzia, la prima e l'unica ragazza a cui feci la classica “dichiarazione”. Ne ricevetti un netto rifiuto. La sala riunioni andò lentamente riempiendosi di uomini in giacca e cravatta (più o meno intonata) e di donne nel tipico tailleur da manager rigida. In piedi accanto alla finestra, un gruppetto di tre persone interloquiva sui più disparati argomenti, mentre gli altri presenti si erano accomodati su entrambi i lati lunghi del tavolo ricoperto di fogli, report e tabelle. Un pacchetto di Charleston Classic era appoggiato su un tavolino in un angolo della sala, a disposizione di tutti i partecipanti. Nonostante il divieto di fumo nei luoghi di lavoro, all’interno della
CTI si chiudeva un occhio per chi voleva fumare. Io ero seduto al fianco di un collega tutto intento a picchiettare sul suo laptop, probabilmente per inviare qualche e-mail. Di fronte a me era seduto il direttore delle risorse umane che, con gli occhiali dalla montatura dorata fissati a una catenella, leggeva un fascicolo e, di tanto in tanto, bisbigliava qualcosa al suo vicino. Altre due persone entrarono ridendo e chiacchierando. L’aria era distesa. Tra responsabili e stretti collaboratori eravamo circa una dozzina. sco Verdini scivolò piano nella stanza e, dopo avermi salutato con una pacca sulla spalla, posò il suo notebook sulla sedia vuota accanto a me. Un istante dopo, sulla porta d’ingresso comparve Renato Mauri, l’amministratore delegato della CTI. Tutte le teste si voltarono nella sua direzione, mentre le tre persone vicine alla finestra cessarono di conversare, richiamati al cospetto del capo. Renato Mauri, aveva cinquantaquattro anni, ma non li dimostrava. Sfoggiava una splendida abbronzatura con i capelli neri come lucido da scarpe pettinati all’indietro. I denti erano impeccabili, e cioè bianchissimi e drittissimi. Vestiva costosi completi di Armani, Prada, Pal Zileri e di altri stilisti che non avevo mai neppure sentito nominare. Era temuto, soprattutto per le sue sfuriate durante le riunioni dei dirigenti, dove sceglieva sempre un poveraccio da strapazzare per tutto il tempo. Durante gli incontri non dovevi fargli sprecare nemmeno una frazione di secondo, soprattutto se ciò era causato da una tua imperfezione o, ancora peggio, da un tuo errore. In tal caso ti poteva succedere di tutto, come essere umiliato, deriso, o cacciato dalla sala. «Buongiorno a tutti.» disse con un sorriso forzato, salutando con tono cordiale ma fermo. Una buona parte dei presenti rispose al saluto, mentre io ricambiai con un cenno del capo. Muovendosi rapidamente, prese posto a capo tavola dove appoggiò il suo inseparabile block-notes e la sua Mont Blanc. «Purtroppo non abbiamo molto tempo a disposizione.» dichiarò senza dare troppe spiegazioni. I partecipanti presero velocemente posto, mentre sulla parete comparve una immagine sfuocata che dopo qualche secondo risultò essere la slide iniziale della presentazione sulla situazione del mercato. Il titolo recava “Management Meeting – Maggio”. «Avanti De Simone, cominci pure.» disse indicando la diapositiva. De Simone scattò in piedi e, dopo essersi schiarito la voce, annunciò: «Finalmente possiamo iniziare questo secondo quadrimestre con un po’ di
ottimismo. I dati sul venduto hanno registrato un leggero trend positivo. Probabilmente la legge anti-fumo, a circa un anno dalla sua entrata in vigore, ha cessato di generare i suoi effetti negativi. A fronte di un calo dell’1,1% delle vendite rilevata nel mese di aprile, si è registrato un calo dello 0,4% nel mese di maggio. Si può pensare che per il prossimo mese, storicamente forte, possiamo aspettarci delle buone notizie.» Tabelle e istogrammi sintetizzavano la situazione. Dopo la breve introduzione, si ò ad esaminare le performance da ogni singolo brand dalla CTI. Le Charleston Classic avevano registrato un calo delle vendite, rispetto allo scorso anno, del 5% mentre la perdita di mercato si era attestata al 2,7%; stesso discorso per le Charleston Lights, l’atro brand di punta della società, e per le Kingdom Gold. Positiva era invece la performance delle Kingdom, delle Charleston One e delle Pantera. In effetti su questi tre brand si era operato un restyling del packaging, anche se lo stesso era stato fatto per le Kingdom Super, che però aveva registrato una perdita di mercato, sempre rispetto allo scorso anno, dello 0,7%. Di fronte a questi dati Mauri rimase imibile, imperturbabile. Poi si alzò in piedi e, con la sua solita e diretta schiettezza, disse «Dobbiamo pensare al presente, alle operazioni attuali. De Simone, permettimi di ricordare che, quando questi dati verranno resi pubblici, il capitale azionario subirà un’enorme batosta. E’ una situazione che dovrebbe far tremare le vene ai polsi, invece tu ti dichiari ottimista. Dovrei dedurne che tu abbia la situazione in pugno, che abbia pensato a qualcosa di eccezionale per il rilancio della nostra azienda, altrimenti perdonami, ma mi è proprio difficile in questo momento capire il tuo ottimismo.» «Si, bene, ecco... Io avrei pensato…» «Avrebbe pensato, o ha pensato?», lo incalzò Mauri «Si, certo, ho pensato… la prossima settimana le consegnerò…» «La faccia finita!» Lo interruppe bruscamente. Poi si rivolse ai convenuti «Come tutti sappiamo, la legge antifumo ci sta creando enormi danni. I nostri nemici vogliono vederci con entrambi i piedi nella fossa e ci stanno riuscendo. È una questione di vita o di morte. Dobbiamo reagire, non basta un marketing
aggressivo.» Si guardò intorno con aria minacciosa, accertandosi che le teste annuissero con deferenza. Mauri andò avanti per diversi minuti, al termine dei quali scattò in piedi e uscì dalla sala frettolosamente. Fra il vociare generale, tutti si alzarono dalle poltroncine per ritornare alle proprie attività. Alcuni uscirono rapidamente dalla sala senza salutare, altri iniziarono impegnative conversazioni al telefono, altri, invece, restarono per commentare i risultati. Io sistemai i fogli con gli appunti che avevo preso durante la riunione e, mentre compivo il gesto di alzarmi per andare via, un profumo fresco e inebriante riempì le mie narici. Inspirai lievemente per sentire meglio quel profumo… era particolare, si trattava inequivocabilmente di un profumo da donna. Voltai lentamente la testa, fino a quando il mio sguardo carico di curiosità non incontrò il sorrisetto malizioso di Simona Di Paola. Oltre a ricoprire il ruolo di responsabile dell’ufficio legale della CTI, Simona era una mia assidua corteggiatrice. In qualsiasi luogo o situazione si trovasse, sfruttava l’occasione per attirare la mia attenzione e fare colpo su di me. Non era bellissima, ma la sua intelligenza e la sua eleganza facevano di lei una donna affascinante. «Ciao, Stefano.» mi salutò battendo le palpebre. Risposi al saluto con un sorriso. «Come stai?» mi chiese. «Bene, e tu?» «Oh, non mi posso lamentare!» Rispose con un velo di ironia. «Che fine hai fatto? Da quando sei diventato… importante, non ti fai più vedere né sentire. Cos’è? Non mi ritieni più all’altezza?» Sorrisi, anche se odiavo le persone che usavano il sarcasmo per fare pesare le cose. «Smettila!» risposi ridendo «Purtroppo il tempo…» «…non è mai sufficiente.» concluse lei, usando un tono volutamente provocatorio. Ridemmo insieme, poi cambiando espressione aggiunse «Anche questo mese Mauri ha trovato la sua vittima sacrificale. Povero De Simone, eppure i dati non lasciano margine ad interpretazioni…» «Merda, i dati!» esclamai scattando in piedi. Afferrai il cellulare che avevo in
tasca e composi il numero di Ercolano, mentre Simona mi guardava come se fossi un demente fuori di senno. Attesi qualche secondo, dopodiché rispose la voce registrata dell’operatore telefonico, la quale mi comunicò che il suo telefono non era raggiungibile. Restai qualche secondo a fissare il display del telefono pensando a cosa fare. «Un sms?» mi suggerì Simona, la quale aveva capito che stavo cercando di contattare qualcuno. Un sms! Certo, perché non inviare un messaggio! Salutai Simona, promettendole che mi sarei impegnato a trovare il tempo per un aperitivo e uscii dalla sala lasciandomi alle spalle il suo sguardo e il suo profumo. Attivai la funzione T9 e cominciai a scrivere il testo dell’sms “Come promesso ti invio i dati: Kingdom +0,3% - Charleston One +0,6%...” Il messaggio era quasi completo, dovevo solo aggiungere il risultato delle Pantera e l’sms poteva essere inviato. Aiutandomi col T9, scrissi le prime lettere del nome e, quando giunsi alla penultima lettera, la “R”, restai bloccato come colpito da un fulmine. Santer Non so dire per quanto tempo rimasi a fissare il display, non me ne resi neanche conto. Poi, con la mano che tremava convulsamente, portai il dito sulla lettera A, sperando che non accadesse ciò che temevo. Pantera Allontanai d’istinto il cellulare, come per scacciare un pensiero che piano piano stava cominciando a svilupparsi nella mia mente. «Oh, mio Dio!» sussurrai, chiudendo gli occhi. «Stefano?». All'improvviso una voce ruppe il mio silenzio carico di domande. Mi girai di scatto, nascondendo il cellulare dietro la schiena. Era De Simone il quale, sorpreso dalla mia improvvisa reazione, tirò istintivamente indietro la testa. «Stai bene?» mi chiese preoccupato.
Continuai a fissarlo con occhi sgranati, senza dire niente. «Cos’hai la dietro?» mi chiese, indicando la mano dietro la schiena. Ancora stordito, voltai la testa e guardai dietro la mia spalla, come se ignorassi ciò che la mia mano stringeva. Lentamente, tirai fuori il braccio mostrandogli il cellulare. De Simone lo guardò perplesso, poi, vedendomi sconvolto, mi chiese «E’ successo qualcosa? Ti hanno comunicato qualche brutta notizia?» «No… no… tutto ok.» riuscii a farfugliare. Mi sentii la testa girare mentre le forze mi stavano abbandonando. «Forse ha bisogno di un po’ d’aria.» disse qualcuno nel corridoio, mentre una voce femminile propose di chiamare addirittura un’ambulanza. De Simone si offrì di accompagnarmi in bagno, sostenendomi per un braccio. «Un po’ d’acqua fresca dovrebbe rimetterti in sesto.» Entrammo in bagno e, lanciando un’occhiata allo specchio sul lavandino, vidi il mio volto pallido come quello di un cadavere. Aprii il rubinetto e raccolsi nelle mani l’acqua che fuoriusciva. Mi sciacquai il volto, asciugandomelo con delle salviette che De Simone gentilmente mi porse. «Va meglio?» mi chiese. «Si…si, grazie.» Risposi ancora un po’ scosso. «Un leggero malore… un giramento di testa…» «Troppo lavoro. Dovresti prenderti una vacanza.» disse lui uscendo dalla toilette e raccomandandosi di avvertirlo qualora ne avessi bisogno. Lo ringraziai e, appena chiuse la porta, entrai nel box sedendomi sul water. In un attimo i miei pensieri tornarono irrefrenabilmente a ciò che avevo appena scoperto, con una domanda che mi martellava la testa. Afferrai il cellulare e digitai di nuovo le lettere della parola Pantera, fino alla penultima lettera, la R. Il T9 propose Santer. Chiusi gli occhi, portandomi la mano sulla fronte. Ora risultava tutto chiaro. Riccardo, colpito alla testa col paletto, era stato abbandonato sulla pista ciclabile perché ritenuto morto dal suo assassino. In realtà Riccardo, seppur ferito gravemente, era ancora vivo. Con le ultime forze che gli erano rimaste, aveva cercato di comporre il messaggio, Pantera, ma prima di digitare la lettera A e inviare l’sms, era morto! Aprii gli occhi, fissando le piastrelle davanti a me con
sguardo perso. Ma se il testo dell’sms era Pantera, a quale misterioso test faceva riferimento il messaggio che aveva ricevuto poco prima? A quello che ne sapevo io non era in atto alcun test sulle Pantera. A pensarci bene la CTI non aveva mai svolto un vero e proprio test neppure sugli altri brand. Certo, c’erano stati numerosi restyling dei brand già esistenti o lanci di nuovi prodotti in specifiche aree per valutarne gli impatti, ma non si era mai parlato di test, che implicava qualcosa di diverso. Era un vocabolo non presente nel dizionario della CTI. E allora, di quale test si trattava? Avvertivo un cerchio alla testa che diventava sempre più serrato. Dovevo parlarne con qualcuno, altrimenti rischiavo di diventare matto. Si, ma con chi? Chi sarebbe stato così stupido da credere ad una simile idiozia? Restai ancora qualche secondo a riflettere, poi, come colpito da un fulmine, mi alzai di scatto e mi fiondai verso l’uscita. Uscii rapidamente dalla toilette, cercando di non farmi vedere. ai davanti alla sala riunioni, ormai vuota, e poi davanti all’ufficio di Rosy, la quale non si accorse del mio rapido aggio. Mi infilai nell’ascensore e, giunto al secondo piano, entrai di corsa nell’ufficio di Elena, la quale era assieme a due colleghe, davanti ad un monitor. Vedendomi entrare in quel modo prepotente, Elena mi guardò con una faccia stranita e sfilandosi gli occhiali mi disse: «Stefano! Ti pare il modo di…» «Elena, puoi venire con me? Ho urgenza di parlarti.» la interruppi bruscamente. Il suo sguardo divenne serio e penetrante, mentre le altre due colleghe mi guardavano come se fossi un pazzo. In realtà un po’ lo sembravo. Forse lo ero diventato del tutto. «Scusate, ve la rubo solo qualche minuto.» dissi loro mentre, tenendo Elena per un braccio, la trascinavo fuori dal suo ufficio «Ma insomma…!» protestò lei mentre, entrati in ascensore, mi guardava con due occhi infuocati. «Stefano, mi vuoi spiegare che diavolo ti prende? Sto preparando la presentazione per…» «Per favore» la interruppi ancora «devo parlarti di una cosa che ho appena scoperto… un sospetto che, se confermato, avrebbe degli impatti sconvolgenti.» La porta dell’ascensore si aprì e, dopo aver percorso velocemente il corridoio, entrammo nel mio ufficio. Chiusi la porta a chiave, mentre Elena si accomodò sul divano di pelle marrone, guardandomi preoccupata. Cercai di restare calmo,
sedetti anch’io sulla poltroncina dietro la scrivania, mettendomi la testa fra le mani per analizzare meglio la situazione. Alzai quindi la testa e, rivolgendomi ad Elena, le chiesi con voce sommessa «Ti ricordi del messaggio sul cellulare?» Elena mi guardò perplessa «Messaggio sul cellulare?» «Cristo, Elena! il cellulare di Riccardo! Ti ricordi che l’ispettore Desideri ci disse che Riccardo stringeva un cellulare in mano il giorno del rinvenimento del cadavere?» «Uh, certo… ricordo che ci disse che stava cercando di scrivere un sms… ma non ricordo altro.» La guardai quasi con disprezzo. Come aveva potuto dimenticare quella parola che per giorni e giorni era diventata il mio tormento, la mia ossessione? «Allora, te lo ricordo io. Sul cellulare di Riccardo c’era un sms con la parola Santer.» «Si, ora ricordo. È vero…» «Okay, okay, risparmiami i ricordi e i vuoti di memoria.» ribattei alzando una mano davanti alla sua faccia. «Desideri ci disse che in fin di vita Riccardo scrisse quella parola, Santer, e ci chiese se ne avevamo mai sentito parlare. Noi ovviamente rispondemmo di no. Tu, tra l’altro, te ne sei pure dimenticata ma non è questo ciò che conta.» Elena annuì, provando un certo imbarazzo. «Poi aggiunse che la mattina dell’omicidio, Riccardo aveva ricevuto un sms dal testo enigmatico: “il nome del test?”. Credo di aver trovato il legame con quella misteriosa parola.» le dissi con la voce che tremava per l'emozione. «Finito il management meeting, ho dovuto inviare un sms ad Ercolano con i dati di vendita di alcuni nostri brand e, per fare più veloce, ho attivato il dizionario T9. Sai cos’è, vero? È quella funzione che quando scrivi una parola sul telefono ti propone quella più probabile, tenendo conto dei tasti digitati.» Elena annuì. «Ho scritto i primi due prodotti e quando sono arrivato a scrivere il terzo, le Pantera, indovina che parola mi ha proposto il software del T9?»
«…Santer?» rispose lei titubante «Brava!» dissi con un filo di emozione, mentre lei mi guardava senza capire. «Era Pantera il vero messaggio che Riccardo stava cercando di scrivere prima di morire! Solo che ormai esausto morì, lasciando incompleta la parola che, per effetto del T9, risultava essere Santer, la stessa ritrovata poi al momento del rinvenimento del corpo ormai cadavere di Riccardo.» Lei mi guardò perplessa, poi scosse la testa guardando altrove «Non capisco dove vuoi arrivare. Ammettiamo che il testo dell’sms fosse davvero Pantera e che esistesse davvero questo fantomatico esperimento, di cui né io né te conosciamo l’esistenza. Quale sarebbe il legame col suo omicidio?» «Potrebbe essere stato ucciso proprio perché conosceva l’esistenza di questo esperimento segreto e magari era in procinto di rivelarlo a qualcuno.» «Dai, Stefano…» «”Regolamento di conti”. Ricordi cosa ci disse Desideri? Riccardo è stato fatto fuori perché ha dato fastidio a qualcuno o perché divenuto scomodo e pericoloso.» Lei sembrò annuire debolmente, segno che stava seguendo il mio raccapricciante sospetto. «E poi» continuai «come spieghi il fatto che Riccardo, agonizzante, abbia cercato con tutte le sue forze di rispondere a quell’sms?» «Ok, è un’ipotesi. Ma potrebbe sempre non esserci alcun legame tra tutti questi fatti.» «Giusto, potrebbe. Ma se così non fosse, saremmo di fronte ad una raccapricciante verità la cui origine è ben lontana dalla malavita di strada ed assai vicina ai nostri ambienti ben più altolocati.» «Non lo so…Certo, se così fosse sarebbe un gran casino.» «Già…»
capitolo 5
«Personalmente preferisco la seconda proposta.» Il mio tono era calmo e deciso, mentre attentamente esaminavo una delle proposte grafiche per le Delta Gold, storico marchio della CTI. Staccai gli occhi dal monitor incrociando gli sguardi poco convinti del gruppo marketing, riunito nel mio ufficio. Da un paio di mesi era stato avviato un progetto di restyling dei marchi storici della CTI in un’opera di rinnovamento che avrebbe donato maggiore appeal ai vari loghi, rendendoli più accattivanti e moderni. Il nuovo packaging delle Delta Gold doveva trasmettere positivamente il concetto di “cambiamento” sia al fumatore fidelizzato, per il quale “cambiamento” doveva significare una migliorata qualità del prodotto, sia al nuovo acquirente per il quale “cambiamento” doveva essere sinonimo di “nuova esperienza”. «Il giallo è espansione, è ricerca del nuovo, del cambiamento, della liberazione dagli schemi!» affermò con tono compiaciuto Loris, il consulente dell’agenzia grafica. «Giallo? Cosa vuoi comunicare con quel giallo?» gli chiesi dubbioso «Giallo è un colore tenue, chiaro.» «É chiaro che la tua idea non va.» tagliai corto secco, mentre Loris avrebbe voluto scomparire dentro la sua giacca, tra i bottoni della sua camicia. All’occhio di un non addetto ai lavori, le cinque proposte grafiche sembravano essere tutte uguali: si trattava semplicemente di diverse versioni della lettera greca delta, posta al centro del pacchetto di colore azzurro, con la scritta “Delta Gold” posizionata poco più in basso. Ma per un esperto di marketing si trattava di particolari di importanza fondamentale, soprattutto in un mercato particolare come quello del tabacco, fortemente regolamentato e con una concorrenza ai limiti del fair play.
La discussione aveva preso un bel ritmo, con dei toni che ogni tanto diventavano un po’ troppo accesi. Io dibattevo con Loris, il quale era determinato a farmi cambiare idea riguardo la sua proposta che ritenevo già superata. All’improvviso, uno dei presenti si inserì nella nostra discussione, «Stefano… il telefono… sta squillando.» Preso dalla discussione, non avevo sentito il telefono squillare. Mi avvicinai alla scrivania per prendere la telefonata e, prima di sollevare il ricevitore, lanciai un’occhiata sul display per vedere chi fosse a chiamare. Quando misi a fuoco il nome che era comparso, mi scappò un’espressione che mise a tacere tutti quanti «Cazzo, Mauri!». Con la rapidità di un felino, afferrai il ricevitore e, con voce leggermente tremante, risposi: «Ingegnere?» Dall’altro capo del telefono sentii un clic e capii che aveva riattaccato. «Merda, ha messo giù!» dissi con una voce che era quasi un bisbiglio. Mi girai verso gli altri, i quali avevano smesso di parlare e mi stavano guardando silenziosi. Mi voltai di nuovo verso il telefono e composi il suo interno. Dopo due squilli, rispose una voce ferma e autoritaria «Mauri?» «Ingegnere, sono Stefano. Non ho fatto in tempo a prendere la sua chiamata… aveva bisogno di me?». «Si, Stefano. Ho bisogno di parlarle. Può salire da me tra… facciamo una mezz’ora?» «Certo.» Risposi con garbo alla sua richiesta. Misi giù il telefono e, tra gli sguardi dei presenti, mi avvicinai alla finestra, dove guardai fuori senza proferire parola per un intero minuto. Mauri aveva bisogno di parlarmi? Di solito quando chiamava qualcuno nel suo ufficio non era mai un buon segnale. Venticinque minuti più tardi, eggiavo nervosamente su e giù di fronte all’ufficio dell’amministratore delegato, in attesa che la porta si aprisse. Dall’interno del suo ufficio, si sentivano provenire delle voci che discutevano concitate, e una di queste era quella di Mauri. A dire la verità, la cosa non mi colpì affatto conoscendo il tipo. Pensai invece a chi poteva essere il mal capitato
di turno, costretto a subire gli attacchi verbali di Mauri. Mi avvicinai alla porta, tentando di percepire qualche parola, ma le pareti insonorizzate non lasciavano filtrare nulla, se non sorde urla indecifrabili. Alzai lo sguardo sulla targhetta nera posta al centro della porta, sulla quale una scritta bianca recitava “Ing. Renato Mauri – Amministratore Delegato”. Un senso di ansia mi chiuse lo stomaco, pensando a quello che mi aspettava una volta al di là di quella targhetta. Camminai ancora avanti e indietro lungo il corridoio, quando la porta si spalancò improvvisamente e ne uscì un uomo visibilmente alterato. L'uomo, sulla sessantina, alto poco meno di un metro ottanta e una barba corta leggermente brizzolata, aveva un’espressione piuttosto arrabbiata, con la bocca contratta fino a fare sparire le labbra già sottili. Arretrai di un o per schivarlo, seguendolo con lo sguardo mentre mi ava accanto. L’uomo sembrò non accorgersi subito della mia presenza, ma quando mi vide si arrestò di colpo, guardandomi con un’espressione del tipo “non posso crederci”. Feci un cenno di saluto, abbassando appena la testa, ma lui continuò a guardarmi sorpreso e meravigliato. Rivolse poi lo sguardo verso Mauri, il quale immobile sulla soglia, guardava imbarazzato entrambi. L’impressione che ebbi è che l’uomo fosse fortemente preoccupato dal fatto che, trovandomi dietro la porta, avessi potuto sentire la loro conversazione. L’uomo tornò a fissarmi e, dopo essersi aggiustato il bavero della giacca, si diresse verso le scale dove scomparve. «Prego, Stefano, accomodati!» intervenne Mauri, dandomi del tu e fingendo che tutto fosse normale. andomi davanti, mi disse che tra un minuto mi avrebbe raggiunto, dirigendosi poi verso la toilette, dove entrò chiudendosi dietro la porta. Dopo un attimo di esitazione, entrai nel suo ufficio, accomodandomi sulla poltrona girevole di fronte alla sua scrivania. In attesa del suo ritorno, ripensai allo strano comportamento di quell’uomo, all’espressione stupita che avevo visto comparire sul suo volto nel vedermi lì. Poi la mia attenzione si concentrò sull’immenso ufficio di Mauri. Ero disorientato, non riuscivo a immaginare perché fossi lì, seduto di fronte alla sua scrivania. Su di essa erano presenti dei fascicoli disposti su una pila ordinata, due o tre quotidiani più una copia dell’Economist, oltre al suo inseparabile block notes. Il mio sguardo vagò sulla scrivania, fino a cadere accanto al suo laptop, dove c’era una foto incorniciata di lui con sua moglie in posa davanti al Partenone. A giudicare dalla foto, lei doveva avere su per giù la stessa età, era di bell’aspetto, elegante e dal fisico slanciato. Alzai lo sguardo sull’imponente libreria di pregiato legno scuro, dove file di libri d'ogni colore, tutti in ordine, lucidi, coi titoli dorati sulle coste, attendevano di essere consultati. Accanto alla libreria, due vetrate si allungavano dal pavimento al soffitto, e la vista su Roma era mozzafiato. Un gabbiano si posò
sul davanzale ed i suoi occhi gialli guardarono dentro. Pensai a quanto fosse strano che in una città distante 50 Km dal mare, ci fossero i gabbiani. L’uccello volò via quando Mauri, rientrando, chiuse la porta. «Allora giovanotto, come va dalle tue parti?». Mi chiese mentre, girandomi attorno, si accomodava sulla sua poltrona. La sua faccia era stranamente rilassata e lui sembrava aver ritrovato la solita grinta, come se nulla fosse. Ovviamente, nessuno dei due aveva la men che minima voglia di ritornare sull’episodio. «Stiamo lavorando sul restyling dei marchi storici. Abbiamo delle proposte di packaging delle Delta Gold che ci ha presentato l’agenzia grafica. Tra un mese ci sarà il lancio sul mercato col nuovo confezionamento.» Risposi. «Bene.» ribatté Mauri con un mezzo sorriso che lasciava trasparire l’accavallarsi di altri pensieri nella sua mente. «Veniamo a noi.» Disse poi perentorio. «Ti ho chiamato perché voglio che porti a termine un progetto speciale per me.» Un progetto speciale? Non capivo. «Conosci l’ALOF?» L’ALOF, l’Associazione per La Lotta contro il Fumo. Si trattava di una potente ONLUS, la cui finalità era quella di divulgare informazioni sui danni causati dal fumo, mettendo in atto feroci campagne di prevenzione e organizzando convegni, meeting e seminari finalizzati alla sensibilizzazione dei rischi connessi al tabagismo. L’associazione promuoveva, inoltre, la raccolta di fondi finalizzata a finanziare la ricerca scientifica e la formazione professionale nel campo della lotta al tabagismo. «Sì, la conosco.» risposi, dimostrando tutto il mio fastidio nel sentir parlare di tali associazioni. «Tutti gli anni organizza una serie di convegni per sensibilizzare la comunità sui danni provocati dall’eccessivo uso di tabacco. L’anno scorso l’iniziativa ha riscosso un buon successo, soprattutto tra i media, e quest’anno pare che l’evento avrà una risonanza ancora maggiore.» Commentò Mauri ammiccando. «A questi incontri partecipano medici, politici, personaggi pubblici e,
soprattutto… giornalisti.» aggiunse poi con voce carica di sottintesi, mentre si adagiava contro l'alto schienale della poltrona. «Quest’anno siamo riusciti a ottenere che un rappresentante della CTI presenziasse agli incontri, in modo che rendesse chiara a tutti la nostra posizione riguardo la diffusione del fumo e riguardo ai rischi connessi al tabagismo. Sai bene il problema che ci ha creato proprio questo tema…» aggiunse poi riferendosi a quello che era successo tre anni prima, quando un avvocato dell’Unione Consumatori ebbe l’avventata idea di chiedere alle società produttrici di tabacco, CTI in primis, il rimborso dell'assistenza sanitaria contro le malattie da fumo: un ammontare di oltre dieci miliardi di euro all’anno. La CTI presentò ricorso in tribunale, accusando l’Unione Consumatori di volere distruggere una delle più importanti industrie mondiali. Dopo una prima sentenza contraria, la CTI riuscì a fare abolire le leggi che la colpevolizzavano. Nonostante questa parziale vittoria, le azioni registrarono un meno 15 per cento in un anno e, ancora peggio, si assistette ad una catastrofica perdita di immagine. Da allora ogni anno la società investiva milioni di euro destinati ad argomenti come smettere di fumare, gli effetti del fumo sulla salute, il fumo ivo e la prevenzione del fumo tra i giovani. «Voglio che sia tu a partecipare a tutti gli incontri, voglio che sia tu a rappresentare la CTI.» mi disse guardandomi dritto negli occhi, per cogliere la minima indecisione nella mia risposta. Avvampai all'istante, sentendo pronunciare quelle parole e sentendo il suo sguardo puntato come un fioretto sulla mia fronte. Avevo possibilità di scelta? Potevo rispondere liberamente che l’idea di farsi sbranare da un branco di fanatici salutisti mi metteva una certo disagio? Inspirai ed espirai lentamente, chiudendo per pochi istanti gli occhi. Poi drizzandomi sulla poltrona dissi sicuro «D’accordo, ci sto.» Lui annuì, soddisfatto per la mia risposta. Poi, frugando tra i fascicoli impilati sulla scrivania, prese una brochure che lesse dopo aver inforcato gli occhiali. «Qui c’è tutto il programma… Dunque, gli incontri sono cinque in totale. Il primo è a Reggio Calabria il 22 giugno… poi il 12 luglio a Torino… tieni!» Disse porgendomi la brochure. Su di essa era raffigurata un’immagine in bianco e nero di un uomo in procinto di accendere una sigaretta. La fiamma dell’accendino era di colore viola.
La osservai per qualche istante senza dire nulla. Poi alzai gli occhi, incrociando il suo sguardo spietato e indagatore fisso nei miei occhi. «Ascoltami Stefano.» disse staccandosi dall’alto schienale della sua poltrona, appoggiando i gomiti sul piano della scrivania per portarsi più vicino «da quando sei entrato nella CTI, hai dimostrato di essere una persona capace e affidabile. Hai dimostrato di poter superare brillantemente tutti gli impegni, conseguendo ottimi risultati. Noi riponiamo la massima fiducia nelle tue capacità ed è per questo che ti ho proposto quest’occasione unica.» Sembrava sincero e convinto di ciò che diceva. Sorrisi abbassando la testa con modestia. «Stai tranquillo, vedrai che supereremo anche questa sfida… e poi l’istinto mi suggerisce che tu hai le palle, l’astuzia e il talento per farcela.» aggiunse poi con decisione. «Va bene» dissi alzandomi «comincio a preparare il mio intervento.» «Ottimo!» rispose lui annuendo. Mi diressi verso la porta e, giunto vicino alla maniglia, mi sentii improvvisamente chiamare da lui. Mi bloccai e mi voltai di scatto. «Dica, ingegnere.» «Come te la cavi con Word?». Mi chiese, tenendo gli occhi fissi sul suo laptop. «Benone… Ha bisogno di aiuto?». Domandai «Si… Con questa nuova versione non ci capisco più un cazzo!… è cambiato tutto!» di colpo era ritornato il solito Mauri, scontroso e irascibile. Ritornai sui miei i, giungendo di fronte alla scrivania dove allungai il collo per vedere sul monitor. «Vedi? non riesco a stampare una copia di questo documento senza i commenti e le revisioni di coloro che lo hanno modificato. Vorrei una stampa pulita e leggibile!» Mauri prese un foglio da un plico composto da un centinaio di pagine che aveva davanti a sé e mi fece vedere la stampa di un testo che aveva tutta l’aria di essere
un contratto. Sulla stampa erano presenti numerose correzioni e annotazioni apportate da altri soggetti che avevano letto e modificato il testo e che effettivamente lo rendevano difficile da leggere. Naturalmente, non avevo la più pallida idea di come si potesse fare per eliminare le revisioni che il programma inseriva automaticamente nel testo. Mi avvicinai al portatile dell’amministratore delegato, il quale si alzò per farmi spazio, facendomi addirittura accomodare sulla sua poltrona girevole. Dopo diversi minuti ati a cercare una possibile impostazione, lanciai una prova di stampa, mentre Mauri era vicino alla stampante posta qualche metro più avanti. «Perfetto!» esclamò soddisfatto «finalmente posso leggere il documento, senza tutti quegli scarabocchi ai margini. Grazie, Stefano.» mi disse fissandomi negli occhi con una gratitudine che mai avrei immaginato. «Si figuri.» risposi con il solito sorriso educato. «Adesso puoi lanciare la stampa di tutto il documento. E mi raccomando: salvami una copia del file così come l’hai impostato. Non voglio correre il rischio di ritrovarmi ancora a litigare con quelle maledette revisioni.» «Okay, lo salvo con un “vers_2” finale» gli dissi. Lanciai la stampa e quindi scelsi il tasto Salva con nome. Si aprì una finestra di dialogo attraverso la quale poter scegliere il nuovo nome del file e la directory di destinazione. Prima di confermare il salvataggio, non potei fare a meno di dare una rapida occhiata alle directory e ai files contenuti nella cartella. Scrollai velocemente l’elenco: Contratto1 Budget_MF Contratto2 Altro Procedure Distribuzione
Test_Pantera Test Pantera? Appena lessi il nome di quella directory sussultai come se avessi preso una scossa. Sgranai gli occhi e, incredulo, avvicinai la testa al monitor per leggere di nuovo. Test Pantera. Improvvisamente la mia mente fu illuminata da un ricordo dal quale prese forma un altrettanto improvviso sospetto. Alzai lentamente gli occhi sull’uomo che avevo di fronte, il quale era impegnato nella raccolta dei fogli che spuntavano dalla stampante. Mauri sa! Lo fissai con insistenza e con un briciolo di panico, con l'espressione di chi sospetta una inquietante e terrificante verità. Non può non sapere! Mauri si voltò improvvisamente, guardandomi da sopra le lunette che aveva come occhiali. Immediatamente, distolsi lo sguardo per non tradire la violenta, nuova emozione che in quel momento animava la mia mente. Regolamento di conti! Sentii il cuore battere a mille, dovevo uscire da quel luogo. «Io… io vado.» riuscii a dire. Mauri annuì, continuando a guardarmi negli occhi un po' perplesso «Certo, vai pure e grazie di nuovo.» Uscii alla svelta dal suo ufficio, dirigendomi verso l’ascensore, mentre mille interrogativi mi frullavano nella testa. No, non poteva essere, non era possibile. Scossi il capo, cercando di allontanare quei pensieri orribili. Entrai nel mio ufficio e mi avvicinai alla vetrata per guardare fuori su piazza di Spagna. In realtà i miei pensieri erano altrove.
capitolo 6
Seduto sulla panca dell’aeroporto “Leonardo da Vinci”, ero in attesa dell’imbarco per Reggio Calabria, dove era in programma il primo dei cinque convegni organizzati dall’ALOF. Erano ate tre settimane da quando avevo scoperto la presenza di una directory denominata “Test Pantera” nel PC di Mauri e, da quel giorno, non l’avevo più rivisto. Ero sempre più convinto che, in quella directory, c’era la chiave per scoprire l'orrore che si celava dietro la morte di Riccardo. Ne ero certo, ma avevo taciuto e non avevo rivelato i miei sospetti a nessuno. Mi guardai attorno nel terminal, dove visi stanchi e assonnati delle persone che arrivavano, si mischiavano con quelli eccitati e impazienti delle persone che partivano. Gente di ogni continente, con ideologie, mentalità e modi di vestire differenti. Mi avvicinai all’ampia vetrata, dalla quale potevo vedere tutto ciò che accadeva sulla pista. Era un continuo atterrare e decollare di aerei. Proprio davanti a me, potevo osservare alcuni grossi aerei che scaricavano pesanti casse di legno. Avvisiamo i signori eggeri che tra qualche minuto procederemo all’imbarco sul volo Alitalia AZ1159 diretto a Reggio Calabria. Per facilitare le operazioni d’imbarco si raccomanda… La voce della hostess mi distolse dai miei pensieri, riportandomi alla realtà. Mi misi in coda in attesa del mio turno per l’imbarco. Qualche minuto dopo, ero seduto in aereo con la cintura di sicurezza allacciata. Un quarto d’ora dopo l’aereo decollò e, durante il volo, tutto filò liscio fino all’atterraggio. Quando l’aereo si arrestò completamente sulla pista, slacciai la cintura di sicurezza e, con calma, mi alzai per aprire la cappelliera sopra di me. Gli altri eggeri, già in piedi, si accalcavano nel corridoio per scendere dall'aereo. Aperta la cappelliera, afferrai la borsa del PC e la giacca, nel cui interno c’era l’indirizzo dell’albergo dove sarei dovuto andare. Salutai la hostess e uscii subito nel finger, che mi condusse alla riconsegna bagagli. La sala del ritiro bagagli era essenziale e non molto grande. Dal rullo trasportatore erano cominciati ad uscire
i primi bagagli e diversi viaggiatori avevano già ricevuto il proprio bagaglio e si erano allontanati. Io mi avvicinai al rullo trasportatore in attesa del mio trolley. Qualche minuto dopo, quando erano rimaste solo poche persone, improvvisamente il nastro si arrestò. Io e gli altri, tra cui un ragazzo straniero, ci guardammo perplessi. Che abbiano smarrito i nostri bagagli? Non era improbabile, considerato che nel mondo ne venivano persi circa 90 mila al giorno. Bloccai un addetto dell’aeroporto per chiedergli spiegazioni sulla fine dei nostri bagagli. Mi consigliò di attendere ancora un po’ e poi di esporre denuncia all’ufficio reclami. Mi recai subito dove mi aveva indicato l’addetto, dove una gentile hostess, dopo aver controllato su un terminale, mi comunicò che, a causa di un problema logistico, il mio bagaglio era rimasto a Roma. Ottimo! Le lasciai il mio recapito telefonico, in modo da essere contattato una volta recuperato il mio trolley. Presi un taxi e mi diressi verso l’Hotel Excelsior dove vi giunsi verso le quattro del pomeriggio. Espletate le formalità di rito alla reception, entrai in stanza, dove posai la giacca sul letto e la borsa sulla scrivania. La stanza era molto bella e arredata con gusto, con i forti raggi del sole che la illuminavano filtrando da una tenda che copriva tutta la parete laterale. Mi avvicinai e scostai leggermente la tenda per vedere fuori. Lo spettacolo che mi si presentò mi lasciò senza fiato e mi ricompensò ampiamente della disavventura in aeroporto. Un mare blu cobalto si stendeva davanti a me scintillante come uno specchio, con le coste rosse della Sicilia sullo sfondo. Una barca contro corrente procedeva lenta, mentre un'altra barca seguiva la corrente navigando leggera sulla superficie dell'acqua dello Stretto. La vista di quel magnifico panorama mi fece star meglio. Mi venne in mente il Miraggio della Fata Morgana, uno spettacolare fenomeno ottico visibile solo dalla costa calabra che rendeva le immagini della Sicilia ravvicinate e persino moltiplicate dal mare. Rientrai in stanza e mi stesi sul letto ad occhi chiusi con ancora l'immagine di quel magnifico paesaggio. Dopo un po’ mi alzai ed entrai in bagno per una doccia. Il getto d’acqua in faccia quasi mi divertiva, come un rilassante gioco d’acqua che mi faceva inspiegabilmente sentire meglio.
Rimasi sotto l'acqua per circa mezz'ora e ne uscii come nuovo, quasi fossi un'altra persona. Accesi in phon e, mentre mi asciugavo i capelli, sentii un rumore provenire dalla camera, come se un oggetto fosse pesantemente caduto per terra. Spensi l’asciugacapelli. Silenzio. Doveva essere stato frutto della mia immaginazione, pensai. Finii di asciugarmi i capelli e, mentre mi vestivo, sentii di nuovo lo stesso colpo secco. «Chi è?» Chiesi titubante. Nessuna risposta. Entrai in camera e, muovendomi con circospezione, aprii l’armadio per controllare se vi si era nascosto qualcuno e poi mi chinai per dare un’occhiata sotto il letto. Quando constatai che non c’era nessuno, mi scappò una risata, riflettendo su quello che stavo facendo. Scossi la testa. Forse era colpa dei troppi libri gialli. Ero ancora inginocchiato, quando il telefono cominciò a squillare. Afferrai il ricevitore e lo appoggiai all’orecchio «Pronto?» «Buonasera, parlo col signor Preite?» rispose una voce femminile con un marcato accento calabrese «Si, sono io.» risposi. «Signor Preite, è l’aeroporto di Reggio Calabria. Volevo informarla che abbiamo recuperato il suo bagaglio.» «Ah bene!» risposi. «Preferisce venire a prenderlo in aeroporto o glielo facciamo recapitare in albergo?» chiese gentilmente la donna. «Se è possibile, vorrei che me lo recapitaste voi.» «Bene, il bagaglio le arriverà in serata. Grazie e ci scusi ancora per il disagio.» «Grazie a voi.» La conversazione terminò e, quando misi giù la cornetta, notai che accanto al telefono c’erano alcune brochure messe appositamente lì per attirare l’attenzione. Ne presi qualcuna per dare un’occhiata e, quando giunsi all’ultima
brochure, esclamai potandomi la mano sulla fronte «è vero! come ho fatto a non pensarci prima!» Mi vestii rapidamente e corsi al Museo Archeologico Nazionale. Fortunatamente all’ingresso del museo non c’era tanta gente e, dopo pochi minuti, ero già alla cassa. «Un biglietto.». «Quattro euro.» rispose stancamente il cassiere. Con una certa eccitazione, cominciai la mia visita al museo. Anche se di notevole importanza, i primi reperti fossili esposti, in prevalenza provenienti dalla Locride, non suscitarono il mio interesse. In fondo, non erano loro che cercavo. Proseguii perciò rapidamente, girando tra i corridoi e le sale del museo, mostrando un irriverente disinteresse per i preziosi pezzi esposti. Qualche minuto dopo, scesi per una rampa di scale che conduceva in una sala del piano inferiore dedicata all’archeologia subacquea, nella quale era esposta una numerosa varietà di anfore di epoca romana rinvenute nel Mar Ionio. Percorsi l’intera sala dove, alla fine di essa c’era una porta a vetro automatica. Al rilevamento della mia presenza, le fotocellule fecero scattare il congegno di apertura della porta. Varcai la soglia, accedendo in un ambiente completamente diverso da quello in cui mi ero trovato fino a quel momento. La temperatura era più fresca rispetto a quella delle altre sale del museo, le pareti erano bianchissime e più curate delle altre, telecamere di sicurezza erano fissate vicino al soffitto, dove erano posizionati anche dei faretti. Un custode era seduto poco più in la della porta d’ingresso. Appena entrato lanciai un’occhiata all’interno dell’ampia sala, rimanendo immediatamente rapito dalla visione di qualcosa di straordinario. Una coppia di statue bronzee raffiguranti possenti corpi maschili nudi, si stagliava nel bianco delle pareti circostanti. I Bronzi di Riace erano lì, in perfetta immobilità, in attesa di essere ammirati in tutto il loro grandioso aspetto. Avanzai lentamente verso di loro, ignorando la altrettanto famosa “Testa del Filosofo”, nonché il guardiano. Giunsi dinanzi al primo dei due barbuti guerrieri, il bronzo A, detto anche “il Giovane” il quale, fiero e ruggente, sembrava fissarmi con i suoi occhi di avorio, che parevano vivissimi e con i guizzanti muscoli pronti allo scatto, come a rispondere a qualsiasi sfida. Lo osservai in ogni particolare: dai denti ricoperti d'argento, a contrasto con il labbro di rame rosso, alla barba riccia, come la folta chioma, le cui ciocche erano state fuse una
per una, alle vene che sembravano pulsare al ritmo del suo cuore. ai quindi al bronzo B o “il Vecchio”, più calmo e rilassato, anch’esso rappresentato in atteggiamento di grande naturalezza, con la muscolatura raffigurata in ogni particolare, tesa in una atletica vitalità. La posizione delle braccia e delle mani, faceva ritenere che avesse una lancia nella destra e uno scudo nella sinistra, mai ritrovati. Pare che, in epoca romana, i due bronzi furono gettati in mare dall'equipaggio di una nave in difficoltà per il mare grosso. Poi, nel 1972, a 300 metri dalle coste di Riace, furono casualmente ritrovati da un giovane sub a otto metri di profondità. Da allora, i due eroi avevano trovato la loro casa nel museo di Reggio, dove tutti potevano ammirare la loro maestosa perfezione. Trascorsi parecchio tempo dinanzi a loro, dopodiché uscii dal museo soddisfatto. Giunto in albergo, chiesi alla reception la chiave della mia camera. «La 208.» «Subito, dottore.» rispose l’addetta alla reception, porgendomi le chiavi. Afferrai il pesante ciondolo di metallo riportanti le lettere H ed E, Hotel Excelsior, e mi diressi verso l’ascensore. All’improvviso mi sentii chiamare: «Dottor Preite.» Era l’addetta alla reception. «Dall’aeroporto è arrivato il suo bagaglio.» mi disse indicando il mio trolley. «Finalmente!» risposi sollevato. «Glieli faccio portare in camera?» mi chiese. «No, non si preoccupi ci penso io… è solo un trolley.» Giunto in camera, poggiai il mio bagaglio sul letto e, con calma, feci scattare le due chiusure laterali. Dopo averne frettolosamente controllato il contenuto, presi i vestiti e li sistemai nell’armadio, scegliendo la polo meno stropicciata, che indossai assieme ai jeans e ad un paio di New Balance. Uscii dalla stanza, dirigendomi nel ristorante panoramico posto sulla terrazza all’ultimo piano. Uscendo in terrazza fui ancora rapito dal panorama dello Stretto che, da lassù, appariva ancora più pittoresco, col disco arancione del sole al tramonto che
andava lentamente scomparendo dietro i monti della Sicilia. «Buonasera.» mi accolse un sorridente cameriere. «Gradisce dell’acqua?» Risposi di si e, in un istante, il cameriere scomparve, lasciandomi di nuovo assieme al paesaggio tinto di azzurro e d’arancione. Per cena ordinai pesce spada alla messinese, caponata di contorno e un ottimo vino bianco di Cirò. Dopo cena tornai subito in camera. Il giorno dopo mi attendeva una giornata impegnativa. La platea del Teatro Nazionale era completamente piena, con la prima fila riservata alle personalità più importanti, e le altre file occupate dai giornalisti e da persone interessate al dibattito. Alcuni fotografi si erano appostati agli angoli del teatro, mentre una TV locale aveva piazzato una cinepresa nel corridoio centrale. Sul palco campeggiava un lungo tavolo con sedie e microfoni, con i riflettori puntati sui posti dove si sarebbero accomodati gli invitati, tra cui io. Alle spalle un enorme pannello sul quale era riportato il titolo del convegno: “Fumo, Salute e Prevenzione”. In attesa che il convegno iniziasse, lanciai un’occhiata in platea. Tutte le persone delle prime file erano sedute al proprio posto, mentre le altre più in fondo si accingevano a prendere il proprio. Salii i quattro gradini che portavano sul palco e mi accomodai in corrispondenza del cartello “dott. Stefano Preite – Charleston Tobacco International S.p.A.”. Salutai con un cenno le tre persone già sedute all’estremo opposto del tavolo, un medico esperto in patologie correlate al fumo e due parenti di vittime del tabagismo. Ero un po’ agitato, sapevo bene che potevo essere bersaglio di pesanti accuse per i danni arrecati dai nostri prodotti. Ma mi ero preparato. Sul tavolo c’erano alcune bottiglie d’acqua, ne presi una e versai un po’ d’acqua nel bicchiere monouso. Pochi minuti, dopo salirono sul palco il Sottosegretario alla Salute, il presidente dell’Associazione per la Lotta al Fumo e il vicesindaco di Reggio Calabria. Il convegno ebbe così inizio. Il e, uno speaker di una radio locale, dopo aver salutato e presentato i partecipanti, ò la parola al presidente dell’ALOF, il quale si alzò in piedi e, guardando verso il pubblico, esordì con una frase che ebbe un effetto dirompente. «Nei prossimi venti anni, il fumo ucciderà otto milioni di persone.» il presidente fece una pausa per sottolineare la drammaticità della sua affermazione. In platea
calò un silenzio pesante come l’acciaio. «Questo è ciò che gli esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità hanno calcolato. Il tabacco è l'unico prodotto in libera vendita che uccide da un terzo a metà delle persone che ne fanno uso. Un dato agghiacciante.» commentò con un filo di voce. Un brusio si sentì provenire dalla platea. «Il fumo provoca gravi danni all'organismo. In ogni boccata di fumo sono contenute milioni di sostanze ossidanti e irritanti, come ad esempio la nicotina, il monossido di carbonio, il benzopirene e altre sostanze cancerogene.» La telecamera della tv locale continuava a riprendere, mentre i flash dei fotografi scattavano a ripetizione, nel silenzio quasi surreale che regnava in platea. «Conseguenza di tutto ciò è che le sigarette sono la causa del 20% delle morti nei Paesi sviluppati, oltre ad essere causa del 90% dei tumori polmonari, l'80% delle bronchiti croniche ed enfisemi polmonari, il 20% dei malanni cardiovascolari. Il tutto con il benestare dello Stato che, oltretutto, deve sopportare un costo di 6 miliardi di euro all’anno sul sistema sanitario nazionale.» Il presidente pronunciò queste parole rivolgendosi al sottosegretario alla salute seduto accanto a me «Non basta il divieto di fumo nei locali pubblici. Occorrono politiche di prevenzione, programmi di aiuti a chi vuole smettere di fumare.» Il sottosegretario annuì tenendo lo sguardo fisso davanti a sé, mentre un forte applauso era partito dalla platea. Il presidente dell’ALOF proseguì lanciandosi in una agghiacciante disamina sui danni provocati dal fumo, concludendo il suo intervento col ricordo dell’importante attività svolta dall’ALOF dalla sua fondazione, avvenuta nel 1981. Anni fatti di innumerevoli battaglie, manifestazioni, raccolte firme e petizioni popolari, tutte finalizzate al duplice scopo di fare smettere di fumare e di salvaguardare i diritti dei non fumatori. Parole che strapparono un lungo applauso dalla platea. Fu poi la volta del sottosegretario alla salute, il quale prese la parola annunciando investimenti a sostegno di coloro che necessitavano di trattamenti nei centri antifumo o di farmaci necessari per combattere la dipendenza. Il politico poi ammise: «Purtroppo ai divieti imposti dalla legge non sono corrisposte efficaci campagne di informazione e di sensibilizzazione, soprattutto
tra i giovani. Per questo serve un nuovo impegno nella lotta al fumo e ho preparato e presentato al Senato un disegno di legge che vieta il fumo all'interno delle aree scolastiche, anche nei cortili e negli spazi aperti.» Parole giuste, sagge e condivisibili quelle del sottosegretario, ma che nascondevano un’ipocrisia inimmaginabile. Il e prese la parola e si rivolse a me «Dottor Preite, sappiamo che la sua società, una delle maggiori produttrici di sigarette al mondo, è da tempo impegnata in una politica di prevenzione del fumo tra i minori.» Presi la parola rispondendo con un tono molto formale, istituzionale. «Negli ultimi anni ci siamo impegnati per la prevenzione del fumo tra i giovani in diversi modi e continueremo a farlo. Collaboriamo con il Governo per impedire l'acquisto di tabacco da parte dei giovani essendo, tra l’altro, favorevoli a leggi che impongono un'età minima per l'acquisto di tabacco. Aderiamo ad iniziative di prevenzione organizzate dalle varie associazioni, tra cui l’ALOF, il cui scopo è anche quello di diffondere informazioni sugli effetti del fumo.» La mia voce divenne più determinata «Tuttavia, vorrei sottolineare il ruolo fondamentale che hanno i genitori nell'educare i propri figli e nello spiegare loro quanto sia importante non fumare. Magari cominciando a tenere le sigarette fuori dalla portata dei bambini, oppure non fumando in loro presenza. Solo così si potrà portare avanti una lotta di prevenzione del fumo tra i minori.» Un applauso si levò dalla platea, mentre tutti i convenuti annuivano muovendo lievemente la testa. Il e chiese alla platea dei giornalisti se qualcuno di essi aveva domande da porre ai convenuti. Un reporter del Corriere formulò una lunga domanda rivolta al Sottosegretario sulla reale volontà del Governo di intraprendere una seria lotta contro il fumo; il Sottosegretario tirò fuori dal suo cappello a cilindro l’ennesima risposta ad effetto, tesa a confondere le acque e le idee. Toccò poi agli altri giornalisti che fecero le loro domande equamente ripartite tra il Sottosegretario e il presidente dell’ALOF.
Mentre il dibattito andava avanti, seduto al mio posto, pensavo alle affermazioni fatte nel mio intervento. In fin dei conti potevo ritenermi soddisfatto, avevo dato una risposta breve ma che incontrava il consenso di tutta la platea. Con il mio intervento avevo dato un’immagine di società attenta agli aspetti sociali e rispettosa del contesto socioculturale nel quale era collocata. Mentre pensavo a tutto questo, dalle file più lontane della platea sentii provenire una voce che, con tono deciso, diceva: «Io vorrei rivolgere una domanda al qui presente rappresentante della CTI.» Le teste delle prime file si girarono in direzione della voce, mentre io dal palco non riuscivo a vedere da dove essa provenisse. Poi, al centro del corridoio, comparve una giovane donna che, avanzando verso il palco, mi fissava con un atteggiamento quasi di sfida. Il e mi guardò perplesso, in attesa di un mio cenno di assenso, mentre io la scrutavo negli occhi, per cercare di intuire le sue intensioni. Quindi, con tono rilassato, le dissi «Prego, sono a sua disposizione.» La giornalista non si fece sfuggire l’occasione e prese immediatamente la parola: «Dottor Preite, lei ha affermato che la sua società è attivamente impegnata nel diffondere informazioni sui danni provocati dal fumo. Sia onesto! Le multinazionali sono state sempre ben accorte nel diffondere informazioni sui reali effetti del fumo, omettendo scomode verità che avrebbero leso i propri interessi. È ben consapevole del fatto che se, sin dall’introduzione delle sigarette sul mercato, si fossero avvisati i consumatori sugli effetti nocivi del fumo, il loro successo non avrebbe raggiunto livelli mondiali ed è probabile che i governi ne avrebbero proibito addirittura la vendita.» Un silenzio tombale calò in teatro. Poi qualcuno fece partire un timido applauso che, pian piano, diventò sempre più fragoroso. Attesi che l'applauso e le voci scemassero, prima di prendere la parola: «Personalmente su questo non ho dubbi.» La platea, e la stessa giornalista, rimasero spiazzati dalla mia repentina risposta «Infatti, con la mentalità paranoica e retrograda che sembra prevalere oggi, anche le automobili, i computer, la plastica, il telefono cellulare non sarebbero permessi, assieme a migliaia di altri prodotti, perché tutti quei prodotti “fanno male” alla salute e all’ambiente, almeno secondo certa ideologia idiota e oscurantista, che vuole benefici senza pagare i prezzi.»
La mia risposta fu fulminante e fece partire un altro applauso, che però non scoraggiò la giornalista, la quale riprese la parola. «Ma è indubbio che le sigarette rappresentino un prodotto pericoloso per la salute umana, lo afferma anche l’OMS. E in quanto prodotto dannoso, chi le produce e le vende è responsabile dei danni arrecati ai fumatori e dei rischi che essi corrono.» Ero abituato a queste affermazioni, pertanto avevo già la risposta pronta. «Certo, perché la propaganda antifumo vuole farci credere che le sigarette sono un prodotto che fa male sempre e comunque, escludendo la possibilità che possa essere migliorato, reso meno dannoso. Pertanto, l’unica soluzione è quella di non usarlo. Ma chi ha impedito che ciò accadesse? Negli anni sessanta negli Stati Uniti, il governo, assieme all’industria del tabacco, avviò un programma di ricerca e sviluppo con lo scopo di produrre una sigaretta meno dannosa. Nel 1980 la ricerca di base fu completata, creando i presupposti per una sigaretta più sicura. Ma a quel punto tutto si fermò. Grazie all’influente lobby dell’industria farmaceutica che, nel frattempo aveva compreso l'enorme potenziale economico e sviluppato soluzioni alternative per somministrare nicotina, prevalse l’abolizionismo e il proibizionismo. Improvvisamente, le autorità sanitarie fecero diventare le sigarette un prodotto mortale e l’industria che le produceva assassina. La domanda che tutti dovremmo porci è: quanti milioni di persone ha ucciso la soppressione della sigaretta più sicura?» I volti delle persone nelle prime file erano attoniti, cercando di comprendere la portata dell'imminente scontro. «Ma si rende conto di quello che dice?» attaccò la giornalista «Il tabagismo è un’epidemia mondiale che provoca perdita di produttività, malattie e morte. Le compagnie del tabacco continuano ad anteporre i loro profitti alla vita, la loro espansione alla salute, il loro guadagno al benessere della gente …» Qualcuno le tolse il microfono e cercò di calmarla, mentre, rossa in viso, continuava a urlare i suoi slogan anti-tabacco. Il e cercò di ristabilire la calma dichiarando terminato il convegno e augurando la buonanotte a tutti, mentre io e la giornalista ci lanciavamo ancora occhiate di sfida. Mi alzai e salutai con una stretta di mano gli altri partecipanti tra cui il presidente dell’ALOF, il quale mi chiese di scusare l’intervento fuori programma.
Scostando il pesante tendone rosso, mi diressi nelle quinte dove, un secondo dopo, piombò la giovane giornalista, la quale urlando come una forsennata mi disse «Non ho ancora finito con lei!» Si avvicinò e si mise di fronte, il mio naso sfiorava il suo, mentre le sue urla mi sfondavano i timpani «Le vostre sono attività per puri interessi finanziari, senza rispetto della vita umana, operando con l’inganno e la menzogna e in maniera…» «Per favore… per favore!» la supplicai, allargando le mani in segno di resa. La giornalista, un po’ sorpresa, smise di urlare, guardandomi con i suoi occhi carichi di rabbia e di indignazione. «Senta signorina, io non conosco il motivo di questa sua aggressività ma… le andrebbe di continuare la discussione stasera a cena? Sarà mia ospite. Ma per favore, la supplico di smetterla di urlarmi in quel modo!». Dopo qualche secondo di stupore iniziale, sulle sue labbra comparve un sorriso angelico «Ok.» «Bene, le lascio il mio biglietto. Ecco. Mi chiami più tardi.» Lei lo prese e, lanciandomi un’ultima occhiata felina, si girò e scomparve dietro il tendone rosso. All’uscita del teatro, fermai un taxi e vi salii al volo. «All’Hotel Excelsior.» dissi al conducente. Ero stanco, l’ultima parte di convegno mi aveva stremato, ma ero comunque soddisfatto. Avevo risposto a dovere a quella giornalista tanto carina quanto rompicoglioni. Il suo intervento non era stato concordato, chissà se era stata mandata da qualcuno con il preciso obiettivo di creare scalpore. Il tassista arrestò la macchina, eravamo davanti all’ingresso dell’hotel. Qualche minuto dopo, entrai in stanza e andai a farmi una doccia. Restai sotto il getto tiepido per una ventina di minuti, senza nemmeno aprire gli occhi, godendomi ivamente l'acqua che accarezzava la mia pelle. Ne avevo bisogno, anche per eliminare i pensieri superflui. Quando uscii stavo molto meglio; indossai l'accappatoio e rientrai in stanza, dove mi buttai sul letto. Sentii gli occhi diventare pesanti, sempre più pesanti, non riuscivo a tenerli aperti. Poi tutto divenne buio. Un suono simile ad un ronzio, mi si insinuò nel cervello, senza capire da dove esso provenisse, forse dalla mia immaginazione. Con molta fatica, aprii gli occhi e, pian piano, misi a fuoco il soffitto della stanza dove mi trovavo. Dopo qualche secondo, riconobbi la camera dell’hotel mentre il ronzio persisteva. Con la coda
dell’occhio vidi una luce bluastra a pochi centimetri dalla mia testa. Era il mio cellulare che, con la suoneria disattivata, vibrava incessantemente. Coi sensi ancora annebbiati, lo afferrai e lessi sul display il numero del chiamante, un numero che non avevo memorizzato nella rubrica. «Pronto?» risposi con la voce ancora impastata. «Pronto, sono Sara.» Sara? Chi é Sara? «Si…» risposi senza aggiungere altro «Volevo anzitutto scusarmi per il comportamento di oggi, mi sono lasciata andare un po’ troppo…» Certo! Sara, la giornalista! «…e poi volevo sapere a che ora possiamo vederci per l’intervista.» «Sara… così si chiama?!» dissi con tono vagamente seccato «Conosce l’Hotel Excelsior? All’ultimo piano c’è un ristorante.» «Si, lo conosco.» «Bene, allora ci vediamo lì alle nove.» «D’accordo» rispose lei «alle nove al ristorante dell’Excelsior.» Restai qualche secondo pensieroso, maledicendo la proposta che le avevo fatto di incontrarci a cena per continuare la discussione. Oltretutto, l’indomani avevo la sveglia alle 6.30 per andare all’aeroporto e di are una serata intera a parlare di multinazionali senza etica, morti per tabagismo e speculazioni varie con una idealista radicale non ne avevo la minima intenzione. Controllai l’orario sul display del cellulare. Erano le 20.16. Mi vestii in modo informale e salii all’ultimo piano, dove c’era la terrazza col ristorante. Uscii dall’ascensore che portava direttamente nel ristorante e diedi un’occhiata in sala per vedere se lei era già arrivata, ma non la vidi. Guardai l’ora, erano le 21.03. Decisi di attenderla al bar posto in fondo all’enorme terrazzo. Mi sedetti su uno degli sgabelli e ordinai al barman un Negroni, quando sentii una voce provenire dalla mia destra «Sono qui!»
Guardai in direzione della voce, scorgendo una donna in un elegante abito scuro che, appoggiata di spalle sulla balaustra della balconata, mi salutava. Con mio enorme stupore scoprii che era proprio lei. Si avvicinò al bar avanzando con un o cadenzato ed affascinante, in quell’abito aderente che le esaltava in maniera fantastica le sue forme. Non sembrava affatto la giornalista in jeans che poche ore prima mi aveva bersagliato di accuse e insulti. «Buonasera.» mi disse mentre fumava una sigaretta. «Buonasera.» ricambiai un po’ impacciato, aggiungendo «Mi era sembrato di capire che era contraria al fumo.» Lei si limitò a fissarmi con i suoi bellissimi occhi, mentre scrollava le spalle. «Beviamo qualcosa?» le chiesi «Si, quello che ha preso lei.» «Possiamo darci del tu.» «Ok …quello che hai preso tu.» Qualche minuto dopo eravamo in un tavolino posto vicino l’angolo, dietro una palma. La serata era bellissima e fresca e l'odore del mare si univa al suo profumo sensuale. «Il panorama che si vede da quassù è veramente incantevole» mi disse ammirando lo Stretto . «E’ meraviglioso» risposi «D’Annunzio definì il lungomare di Reggio come “Il miglio più bello d’Italia”. Non aveva torto.» Quindi assunsi un tono più professionale «Allora, che cosa volevi chiedermi?» Come risvegliata da un sogno, la giornalista prese lentamente la sua borsa ed estrasse alcuni fogli piegati. «Ho qui una serie di domande. Allora…» Afferrai i fogli e glieli sfilai di mano.
«Le leggerò in aereo e in settimana ti invierò una e-mail con le risposte.» Lei mi guardò negli occhi e, senza dirmi una parola, mi regalò un sorriso che illuminò tutto il suo viso, rendendolo dannatamente bello. Rimasi senza fiato. «Per quale testata lavori?» le chiesi «Sono una giornalista free lance. Mi guadagno da vivere scrivendo e vendendo articoli a testate diverse.» rispose lei. Il cameriere ci interruppe portandoci da bere. In quell’istante mi cadde l'occhio sul suo generoso decolleté, dopodiché guardai altrove. La serata ò piacevolmente, nel corso della quale ci raccontammo delle nostre esperienze lavorative e del percorso difficile e tortuoso che ogni giorno ci toccava affrontare, fatto di orari, scadenze, verifiche dei risultati e confronto con i superiori. Lei mi guardava interessata e, a volte, esprimeva le sue opinioni ed esperienze. Più la osservavo e più restavo colpito da quel suo aspetto affascinante e travolgente e da quel suo viso un po’ esotico. Dopo la cena a base di pesce, la serata volgeva al termine e, a breve, ci saremmo dovuti salutare. Chissà quando l’avrei rivista e, soprattutto, se l’avrei più incontrata. Lei si alzò per andare alla toilette e, nel frattempo, bloccai un cameriere al quale chiesi di mettere tutto sulla mia stanza. Pochi minuti dopo Sara ritornò sulla terrazza. «Hai per caso pagato?» mi chiese. «Certo.» risposi tranquillo. Lei mi abbracciò e, sussurrandomi nell’orecchio, mi disse «Cosa posso fare per ricambiare?» La guardai negli occhi e le sorrisi. Lei sorrise a sua volta, col suo sguardo furbetto. Entrammo nell’ascensore e scelsi direttamente il tasto del terzo piano. Mi girai e, accarezzandole la guancia, partii con un bacio apionato. Lei rispose all’attacco infilandomi la lingua in bocca. Fu uno dei momenti più belli della mia vita, finché le porte dell’ascensore non si aprirono.
Appena entrammo in stanza, mi spinse a sedere sul letto e si piazzò di fronte a me. Lentamente e sensualmente, si tolse il vestito, apparendo in tutta la sua splendida ed affascinante nudità. Era di una bellezza quasi violenta, con i lunghi capelli neri che le si posavano sui seni. In un attimo me la ritrovai di sopra. Nuda e profumata, si mise a cavalcioni cominciando a baciarmi e a leccarmi. Facemmo sesso, sesso violento, forte, pieno di ione. Sentire il suo corpo sopra il mio mi piaceva, godevo e lei godeva con me. La preda era caduta nella trappola.
capitolo 7
PREDATORE La campagna si estendeva fin sotto i monti lontani, costellata di piante di tabacco disposte con geometrica precisione. La notte ata era piovuto e il terreno emanava il leggero profumo della terra umida. Il tempo si era perfettamente ristabilito, con un bel sole che inondava le campagne, a tratti addolcito da una leggera brezza. Tra le lunghe file di piante di tabacco, procedevo lentamente alla guida della macchina mieti-tabacco, facendo attenzione alle asperità del terreno reso a tratti impraticabile dalle stagnazioni d'acqua piovana. La macchina raccoglitrice aveva sostituito la faticosa raccolta manuale delle foglie di tabacco, consentendo alla Charleston Tobacco International di ottimizzare le risorse e risparmiare sui costi di gestione. Le foglie, dopo essere staccate gradualmente dal gruppo defogliatore della macchina, venivano smistate su nastri trasportatori obliqui che le gettavano nel contenitore posto nella parte posteriore. Da qui le foglie venivano prelevate, per essere poi portate nei depositi, dove venivano trattate con speciali agenti chimici e, quindi, essiccate in locali a temperatura e umidità controllate. Negli sterminati campi di proprietà della CTI, di macchine mieti-tabacco ce n’erano sei, le quali, quotidianamente, rifornivano i quattro depositi per lo stoccaggio del prezioso raccolto. Il terreno era stato suddiviso in quattro lotti – denominati “A”, “B”, “C”, e “D” – ed ogni lotto aveva il suo deposito per lo stoccaggio. In qualità di responsabile del lotto C, il più esteso dei quattro, avevo il compito di sovraintendere tutte le attività connesse alla raccolta delle foglie di tabacco, attività che costituiva una fase intermedia nel lungo processo di fabbricazione del prodotto finale: la sigaretta. Dopo il trapianto, che avveniva ad aprile, le piantine di tabacco erano sottoposte ad una serie di operazioni colturali che servivano a migliorarne la loro crescita. Nel mese di agosto avveniva la raccolta delle foglie, le quali venivano poi essiccate in locali a temperatura e umidità controllate. Le foglie di tabacco essiccato venivano poi portate nelle fabbriche, dove sofisticate macchine
producevano da 8.000 a 14.000 sigarette al minuto. Mentre avanzavo alla guida della macchina mieti-tabacco, un grosso ostacolo si presentò davanti. Una voragine, che sembrava essere improvvisamente formatasi nel terreno, si trovava proprio al centro del sentiero tra le due file di piante, impedendomene il aggio. Probabilmente il forte temporale della notte scorsa aveva fatto cedere il terreno. Arrestai di colpo la macchina e, dopo essere smontato, mi avvicinai alla voragine per un rapido sopralluogo. Il caso necessitava dell’intervento di una squadra di manutentori. Tornai alla macchina dove, dal cruscotto, afferrai la ricetrasmittente per avvisare il responsabile del servizio di assistenza. «Sono Bevilacqua, lotto C. Chiedo assistenza.» La trasmittente riprodusse una voce gracchiante «Dimmi Riccardo, sono in ascolto.» «Ciao Max. Una voragine di un paio di metri mi ostruisce il aggio.» «Okay, ti mando i ragazzi.» Rispose la voce gracchiante, che poi aggiunse «Vedi di non avvicinarti troppo, non voglio perderti proprio oggi. Non sopravvivrei col rimpianto di non avere visto la tua faccia disperata dopo la sconfitta di stasera.» «Ah ah ah. Se vuoi vedere una faccia disperata, potrai vederla stasera davanti a uno specchio.» «Non li hai fracassati tutti dopo l’ultima sconfitta?» «Falla finita, Max. E piuttosto ricordati di portare la bottiglia della grappa di tuo zio.» «Tranquillo.» rispose. Poi il tono della sua voce divenne di nuovo serio «La jeep sta per partire adesso, tra poco i ragazzi saranno da te.» «Grazie, Max.» Diverse ore dopo, alla guida del mio fuoristrada, avanzavo saltellando lungo i sentieri tra le piantagioni. Giunto vicino all’enorme cisterna per l’irrigazione, imboccai uno largo stradone che conduceva verso il mio casolare.
La CTI aveva assegnato ai responsabili di ogni lotto un’abitazione di campagna, un casolare, dove i responsabili potevano trasferirsi assieme alle loro famiglie e controllare più da vicino le attività. Gli altri operai vivevano in case poste ai bordi della proprietà e quotidianamente facevano la spola con i campi. Giunto a casa, parcheggiai il fuoristrada nel garage posto sul retro, e mi diressi lentamente verso la porta d’ingresso. «Amore, sono a casa.» «Ciao.» disse Sara raggiungendomi all’ingresso, mentre si puliva le mani con uno strofinaccio. «Uhmm! Che buon profumino!» dissi sporgendomi in avanti «Stai cucinando qualcosa di buono, vero? Muoio dalla fame.» dissi. «Certo, caro» rispose Sara «sto cucinando per te… e per i tuoi amichetti!» aggiunse con un tono di benevola ironia. «Merda… stasera c’è la partita!» esclamai, mettendomi la mano sulla fronte, come segno di disperazione. Poi la abbracciai e la strinsi forte a me, lei rispose al mio abbraccio. «Ti amo.» le dissi dandole un bacio intenso. «Anch’io, Riccardo.» disse lei rimanendo stretta tra le mie braccia. Quella sera nell’ampio salone del casolare, assieme agli altri responsabili dei lotti e agli operai più fidati, eravamo tutti disposti di fronte al grande televisore, in trepidante attesa del fischio d’inizio. Niente riesce a calamitare l’attenzione e a consumare energie nervose quanto una partita di calcio. Anche se quella con l’Argentina era una partita amichevole, gli animi erano accesissimi con i pronostici che si sprecavano. «Stasera li facciamo neri» disse qualcuno dal divano in fondo. Era Mario, del lotto B. «Ma dove vuoi andare con questa squadra?» gli rispose un collega. «Gli faremo un culo così stasera, quanto vuoi scommettere?»
«Mario, per favore ricordati che sei ospite!» «Lascia stare, Marco» intervenni io «e comunque sono d’accordo con Mario.» «Scommetto quello che vuoi» rispose Gianluca «stasera con la difesa che abbiamo vinceranno loro, te lo dico io.» «Si, ci daranno un’altra lezione come già successo nei mondiali del novanta» dichiarò Giovanni. I Mondiali di calcio. «Riccardo, mi dai una mano?» mi chiese Sara, spuntando dalla porta che dava alla piccola cucina. La raggiunsi mentre stava armeggiando con gli arnesi da cucina. La abbraccia da dietro, posando delicatamente le mani sui suoi seni. Sara si voltò con un sorrisetto da furbetta, dicendomi «non ora… c’è gente…». Lasciai la piacevole presa e, come un cameriere, portai un vassoio pieno di salsicce nell’ampio salone. La partita stava per cominciare.
capitolo 8
PREDA L’incantevole panorama del Golfo di Napoli visto da un’altezza di 9.000 metri, non mi distolse dal mio pensiero fisso. Anche se un po’ intontito per le poche ore di sonno, riavvolgevo e proiettavo continuamente il film della notte appena ata. Mi trovavo in uno stato mentale quasi ipnotico, con l’immagine di Sara ancora davanti agli occhi mentre si dimenava su di me, dei nostri corpi che sembravano fatti apposta per unirsi, del suo volto con gli occhi socchiusi per il piacere. Frammenti di sensazioni ancora vive, come il profumo della sua nudità e il sapore dei suoi baci sulla bocca. Poi, verso le tre, Sara era dovuta andare via. Ci salutammo con un lungo e sensualissimo bacio, promettendoci che presto ci saremmo rivisti. Avvisiamo i gentili eggeri che abbiamo iniziato la fase di atterraggio. Vi preghiamo di chiudere il tavolino, allacciare le cinture… La voce gentile e fasulla della hostess, mi distrasse per un secondo ma il mio pensiero tornò subito a Sara. Pensai a come il destino, per un suo qualche disegno divino, ci aveva fatto incontrare in un modo che mai avrei immaginato prima di allora. Poi l'incontro a cena, dove ci eravamo dilungati in discorsi profondi e raccontato delle nostre vite e, infine, eravamo finiti a letto. Così, come in un copione scritto dal migliore degli sceneggiatori. Un improvviso sobbalzo mi riportò di nuovo al presente. L’aereo era atterrato puntuale all’aeroporto di Fiumicino. Preghiamo i eggeri di rimanere seduti e di attendere… Il vociare sempre più intenso dei eggeri coprì il messaggio della hostess, accompagnato da decine di suonerie di cellulari che si accendevano. Una ventina di minuti dopo ero già alla fila dei taxi, dopo aver recuperato il mio bagaglio. Accesi il cellulare, sperando che lei mi avesse cercato. E invece niente. Salii sul mio taxi e indicai all’autista la destinazione: l’indirizzo di casa furono le uniche parole che scambiai con lui. Mentre l'autista si districava nell’intenso traffico
cittadino, chiusi gli occhi per riaprirli che eravamo praticamente sotto casa. Pagai il tassista, ed entrai in casa. Avevo bisogno di una doccia e di una bella dormita. Mi tolsi i vestiti e mi infilai sotto la doccia. Mentre l’acqua bagnava il mio corpo, mi venne in mente ancora lei, ma stavolta mi sforzai di non pensarci. Uscii dalla doccia e, mentre mi asciugavo, mi diressi in camera, dove mi stesi sul letto. Accesi la tv e dopo qualche minuto caddi in un sonno profondo.
capitolo 9
Il giorno dopo ero già in ufficio di buon’ora. Ero solo nel piano, di solito la gente arrivava un paio di minuti prima delle nove. C’erano solo gli addetti alla pulizia, i quali si affrettavano a completare il loro lavoro. Inaspettatamente, alle 8.15, giunse la prima telefonata della giornata, che di norma era la manifestazione di qualche problema. «Preite.» risposi senza nemmeno guardare chi fosse. «Dottor Preite, buongiorno. Sono l’ispettore Desideri.» Balzai sulla sedia. «Buongiorno, ispettore, dica pure… Ha novità?» «Abbiamo catturato uno degli assassini di Riccardo.» mi disse lui con voce ferma. Appena sentii quelle parole sgranai gli occhi, appoggiandomi allo schienale della poltrona. Restai qualche secondo senza parlare, dopo di che dissi: «Sarò subito da lei.» Rapidamente ripresi l’ascensore e, sceso in garage, montai sullo scooter ancora caldo. Uscii dal garage mentre le porte automatiche non erano ancora del tutto aperte, dirigendomi verso il commissariato. L’ispettore Desideri mi condusse in una stanza dove, attraverso un vetro divisorio, era possibile vedere in un’altra stanza senza essere visti. «L’abbiamo preso ieri sera. Eravamo sulle sue tracce da giorni e ieri lo abbiamo localizzato sulla Prenestina, all’interno di un bar frequentato da immigrati. Si è lasciato arrestare senza opporre resistenza.» Oltre il vetro divisorio, seduto su una panca, un uomo di corporatura magra ma muscolosa, barba incolta, con un paio di jeans e una maglietta del Chelsea, fissava il pavimento con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e le mani intrecciate
come se stesse pregando. «Lo abbiamo interrogato per tutta la notte, fin quando ha confessato di essere stato lui, assieme ad un complice, ad aver ucciso Bevilacqua.» Un misto di rabbia ed odio mi assalii e dovetti fare molta fatica a placare il mio istinto di entrare nella stanza per prenderlo a calci e pugni. «Non ha ancora fornito l’identità del complice. In realtà sostiene di non conoscere il suo nome e di essere stato ingaggiato da un’altra persona in uno di quei bar frequentati da immigrati, simile a quello dove lo abbiamo beccato. Sembra che questo terzo personaggio gli abbia proposto di fare la rapina ad un ciclista il quale, a suo dire, portava con sé una grossa somma di denaro. Denaro che però il rumeno afferma di non avergli mai trovato addosso.» «Grossa somma di denaro? Quindi si tratta di una rapina. Non mi aveva parlato di regolamento di conti?» «Infatti c’è qualcosa che non mi convince. Dovremo ancora interrogarlo per capire bene se sta mentendo o meno e, soprattutto, dobbiamo catturare gli altri complici.» Restai ancora qualche minuto ad osservare l’assassino di Riccardo, dopodiché ringraziai l’ispettore e ritornai in ufficio profondamente turbato e con in testa mille pensieri. Chi erano i misteriosi complici che, con la prospettiva di un ricco bottino, avevano ingaggiato il rumeno? Qual era il loro vero obiettivo? Era solo quello di eliminare Riccardo? Lo squillo improvviso del telefono mi fece sobbalzare. Sollevai il ricevitore e risposi con una calma apparente «Si.» «Preite, sono Mauri… Come stai?» Mauri. Appena sentii la sua voce fui colpito da un profondo senso di colpa per il fatto di aver sospettato di lui così in fretta. Pervaso dalla vergogna, sentii il desiderio di spiegargli tutto e poi chiedergli scusa… ma sarebbe stato troppo complicato. E poi, come dirgli che mi ero permesso di sbirciare sul suo PC? «Bene, grazie.» risposi
«Volevo sapere com’è andata giù a Reggio. Puoi salire da me tra una ventina di minuti?» «Certamente!» Un quarto d’ora più tardi ero già al quinto piano di fronte alla porta chiusa dell’ufficio dell’amministratore delegato. In attesa che Mauri riaprisse la porta, entrai nella stanza della sua segretaria, Rosy. «Ti faccio compagnia.» le dissi, ricevendo come risposta il suo solito sorriso gentile. Trascorsi qualche minuto a chiacchierare con lei, quando sentii la necessità di andare in bagno. Chiesi a Rosy dove si trovasse la toilette e lei me la indicò in fondo al corridoio. Entrai nel bagno che pensavo essere più lussuoso rispetto a quelli degli altri piani, ma che invece scoprii essere praticamente identico. Entrai in uno dei due WC, chiudendomi la porta alle spalle e pensando a quante volte Mauri aveva fatto questo gesto. Non feci in tempo a slacciarmi la cintura, che sentii la porta principale aprirsi e, subito dopo, dei i e la voce di qualcuno che parlava al telefono. La voce era inconfondibile, era quella di Mauri. Per un motivo che non seppi spiegarmi, restai in silenzio ad ascoltare la conversazione, decidendo di uscire senza farmi vedere da lui. Mauri entrò nel WC affianco, continuando a parlare al telefono da dietro la porta. Attraverso la sottile parete che divideva i due WC, potevo udire la sua voce, che di tanto in tanto rispondeva al suo interlocutore all'altro capo del telefono. Decisi che era il momento di uscire dal mio nascondiglio. Afferrai la maniglia per aprire la porta, ma proprio in quell’istante sentii azionarsi lo sciacquone del WC accanto, quello in cui si trovava Mauri. Restai con la maniglia stretta nella mano, immobile. Okay, avrei atteso che Mauri fosse uscito dalla toilette. Lui parlava ancora al telefono, stavolta la voce era più chiara e potevo ascoltare perfettamente ciò che diceva. «Si… si capisco, però... non so.....» Parole che per me non avevano alcun senso. Improvvisamente il tono della sua voce divenne più aggressivo e leggermente preoccupato. «…cosa? ne sei certo?»
Non capivo, ma più avano i secondi, più cresceva la mia curiosità e il mio interesse per le sue parole. Accostai l'orecchio alla porta, per sentire meglio. «Non è possibile… stavolta si fa come dico io!» Poi, Mauri pronunciò una frase che mi colpì come un fulmine, che mi si stampò a fuoco nella mente, che ebbe il potere di aprirmi gli occhi sulla malvagità umana. «…si, ma stavolta non voglio un altro Bevilacqua. Intesi?». Sgranai gli occhi, mettendomi una mano davanti alla bocca, per ricacciare dentro qualsiasi parola mi potesse scappare. Mauri uscì rapidamente dalla toilette, mentre io, tenendo la schiena attaccata al muro, scivolai shoccato e inorridito sul pavimento. Che significato aveva quella frase che continuava a rimbombare nella mia testa, quel “non voglio un altro Bevilacqua”? Come un fulmine, tornarono nella mia mente tutti i sospetti iniziali di un suo coinvolgimento nell’omicidio di Riccardo. Restai con la testa appoggiata sulle ginocchia per alcuni lunghissimi minuti, mentre nella mia mente si andava formando una bucolica immagine di una fredda notte nella periferia romana… il corpo senza vita di Riccardo riverso sulla pista ciclabile… l’espressione del suo volto, con gli occhi aperti e fissi verso il nulla. Riaprii gli occhi, mentre nella mia mente si susseguivano ancora le immagini di quell'incubo. Decisi che era ora di uscire da lì e di affrontare Mauri. Avanzando nel corridoio, mi diressi verso la porta del suo ufficio, col cuore che mi batteva a tamburo. Dovevo restare calmo, provai con un respiro profondo, ma l'immagine del corpo senza vita di Riccardo martoriava la mia mente. Giunsi a pochi i dalla porta del suo ufficio, quando mi sentii chiamare dalla voce squillante di Rosy. «Stefano!» mi voltai verso di lei, cercando di sorridere «L’ingegnere ti sta cercando. Mi ha chiesto se eri venuto qui, ti aspettava. Io gli ho risposto che eri andato in bagno…»
Restai a guardarla immobile, trattenendo il respiro, in preda al nervosismo. Poi le risposi «Okay.» seguito da un finto sorriso. Mauri sapeva che ero in bagno. Serrai i pugni e mi avvicinai alla porta del suo ufficio, dove bussai due volte prima di sentire un sonoro «Avanti!» Aprii la porta col cuore che mi batteva all’impazzata. Lui era seduto alla scrivania, con il portatile , intento a leggere una delle decine di mail che quotidianamente riceveva. Lo salutai stringendogli la mano. «Prego, accomodati pure.» Mi disse con la sua solita cordialità. Senza aggiungere altro, mi accomodai sulla poltrona di fronte a lui. Lui staccò gli occhi dal monitor e con un sorriso mi disse «Allora, raccontami un po’. Com’è andata giù in Calabria?» Compiendo uno sforzo terribile per apparire il più naturale possibile, gli raccontai di come si era svolta la convention, del mio intervento e di tutte le discussioni che ne erano scaturite. Gli raccontai anche delle domande un po’ scomode di una giornalista rompicoglioni, senza ovviamente raccontargli che, la sera stessa, me l’ero portata a letto. «Ottimo!» esclamò l’amministratore delegato. «Il tuo intervento è stato utile, anche perché ha fornito un quadro totalmente realistico di quello che oggi è il mondo del tabacco e, per questo, è stato molto apprezzato; infatti si è concluso con un applauso del pubblico. Ciò potrebbe avere un ritorno di immagine clamorosamente positivo» disse con un ghigno, aggiungendo «ci è costato un po’ più del previsto, ma mi posso ritenere soddisfatto.» «Certo.» mi limitai a rispondere e, mentre lo dicevo, non riuscivo a scacciare quel pensiero che, insinuoso, si stava conficcando sempre di più nella mia mente. Assassino! «Adesso pensiamo al prossimo incontro, a Torino.» Aggiunse. «Sì…» dissi con un sorriso che mi sforzai di far sembrare autentico. Quindi mi alzai, gli strinsi la mano e mi girai verso la porta. Fu solo allora che Mauri parve accorgersi del mio comportamento sfuggente. «Stefano… tutto bene?» mi chiese.
Mi arrestai, rimanendo bloccato con la mano sulla maniglia. Quindi mi voltai verso di lui, riuscendo a dire un “si” finto come una moneta da tre euro. Ci guardammo per alcuni secondi, occhi negli occhi, poi uscii dal suo ufficio, chiudendomi la porta alle spalle. Scesi giù di corsa per le scale ed, entrato nel mio ufficio, mi chiusi dentro. Mi sedetti alla scrivania e cominciai a pensare, massaggiandomi le tempie. …non voglio un altro Bevilacqua.. Le coincidenze stavano diventando troppe per non supporre un collegamento tra i vari episodi, tanto numerose che portavano a un'unica sconvolgente ipotesi: Mauri era in qualche modo coinvolto nell’omicidio di Riccardo. Forse era il mandante di quel “regolamento di conti” paventato da Desideri. La directory sul suo PC! Ero certo che in essa era contenuto qualcosa che avrebbe spiegato molte cose e che avrebbe incastrato Mauri. Dovevo avere l’accesso sul suo PC e copiare il file. Dovevo farlo di nascosto, senza che qualcuno lo sapesse o che lo sospettasse… soprattutto se questo qualcuno era Mauri. Dovevo correre il rischio di essere scoperto, con conseguente condotta criminale… ma era un rischio che ero disposto a correre, pur di scoprire cosa si celasse dietro la morte di Riccardo Bevilacqua. Ovviamente da solo non ce la potevo fare. Per portare a compimento il mio folle piano, avevo bisogno di un complice. Ma non solo... necessitavo di qualcuno di cui potermi fidare ciecamente. Guardai il mio computer e notai che sul monitor c’era attaccato un post-it con su scritto “Quando torni chiamami. Elena.” Composi subito l’interno di Elena. «Stefano!» Rispose lei con voce delicata «Non ti sei fatto per nulla sentire! Com’è andata alla convention?» «Bene!» le risposi in modo un po’ brusco. Poi, senza darle il tempo di replicare, aggiunsi «Elena, devo parlarti.» «Anch’io.» rispose lei. «Ti raggiungo.»
«No» esclamai. «Non ora. Vediamoci durante la pausa pranzo.» «Ok ti aspetto qui…» «Meglio se ci incontriamo da qualche parte, fuori.» «Ma Stefano…» «Possiamo vederci alla libreria all’angolo di via dell’Umiltà.» La interruppi «La conosci?» «…si, la conosco, ma…» «Bene allora ci vediamo lì per l’una e mezza. Ok?» «Ok.» rispose lei perplessa e con un filo di preoccupazione. All’una e 35 ero nella sezione narrativa della libreria, in attesa che mi raggiungesse Elena. Di fronte a me, grandi scaffali, dove decine e decine di libri erano messi in bella mostra. Fra di essi un libro dalla copertina completamente nera attirò il mio sguardo. Mi abbassai per prenderlo, quando una voce mi costrinse a fermarmi. «Hai letto l’ultimo di Henry Potter?» Era la voce di Elena. Alzai la testa di scatto, incontrando il suo sguardo sincero. «Sediamoci a quel tavolino in fondo.» le dissi senza troppi preamboli. Ci sedemmo e, prima di cominciare a parlare, feci un grosso sospiro. «Elena, quello che sto per rivelarti è qualcosa di estremamente grave e che ti sembrerà assurdo, ma ti giuro che è vero. Dovrai fidarti di me, e soprattutto non dovrai dirlo a nessuno, nemmeno ai tuoi amici, capito?» Lei mi guardò con gli occhi pieni di paura, spaventata. Poi annuì senza dire nulla. Feci are qualche secondo di silenzio prima di riprendere a parlare «So chi ha ucciso Riccardo.» dissi con un tono che non ammetteva repliche. Poi con tono secco aggiunsi «Renato Mauri.»
Vidi il suo volto impallidire, divenire una maschera di cera. «Cosa?» Disse con un filo di voce, appena udibile. Diedi un'occhiata intorno per controllare che non ci fosse qualche collega e per accertarmi che nessuno ci potesse udire. «Renato Mauri. E so anche perché Riccardo è stato ucciso.» Elena scosse la testa, visibilmente turbata «Ma…» «Ti racconterò tutto.» le dissi, poi proseguii «Poco fa sono stato da lui, mi ha convocato per sapere com’era andato il convegno dell’ALOF. Sono salito da lui, ma la porta del suo ufficio era chiusa e nell’attesa che Mauri si liberasse, per un motivo che non ti sto a spiegare, ho dovuto far uso della toilette. Mentre ero chiuso all’interno di uno dei due WC, è entrato proprio lui parlando al telefono, io ho ascoltato la conversazione senza essere visto. Ho atteso che finisse, non volevo che mi vedesse in bagno, nella sua toilette. Così ho ascoltato tutta la telefonata e soprattutto una frase, che mi ha lasciato sconvolto.» Feci una piccola pausa poi continuai «al suo interlocutore, Mauri ha detto “Non voglio un altro Bevilacqua”. Capisci? “un altro Bevilacqua”, un altro omicidio!» Lei sgranò gli occhi, incredula a ciò che aveva sentito uscire dalla mia bocca. «Ma aspetta.» le dissi con tutta la calma di cui ero capace «Nel suo computer, ho scoperto che tra i tanti files e directory, c’è n’è una con un nome che forze dovrebbe ricordarti qualcosa. Il nome della directory è “Test Pantera”. Ricordi l’sms che aveva ricevuto Riccardo sul suo cellulare? “Il nome del test”. E la risposta che stava cercando di dare? “Pantera”.» Lei fece di si con la testa «Ebbene, Riccardo sapeva qualcosa che non doveva su questo esperimento segreto e forse era in procinto di rivelarlo a qualcuno. Così è stato deciso di eliminarlo e, per non attirare troppi sospetti, è stata inscenata una rapina.» Quindi aggiunsi con tono freddo «Elena, Renato Mauri è coinvolto nell’omicidio di Riccardo!» Sentendo queste parole, Elena si mise la mano sulla bocca per non scoppiare a piangere. Vidi i suoi occhi diventare rossi, mentre le sue mani cominciarono a tremare.
«Cos’è sta sciocchezza, Stefano?» mi chiese lei incredula «E’ così… e per avere la certezza, dobbiamo scoprire cos’è contenuto in quella directory nel PC di Mauri.» «Tu sei pazzo!» esclamò lei «No, non sono pazzo. Sto solo cercando di scoprire la verità su Riccardo. Oramai il pensiero di una responsabilità di Mauri nella sua morte si è insinuato inesorabile ed implacabile nella mia mente. Sono ormai convinto che le cose non sono andate come ce le ha descritte la Polizia.» le dissi afferrandole le braccia. «Tra l’altro, proprio oggi mi ha chiamato Desideri dicendomi che hanno catturato uno degli assassini, un rumeno. Ma anche qui c’è qualcosa che non torna.» I suoi occhi erano gonfi di lacrime. «Sembra che il rumeno sia stato ingaggiato da qualcuno con la promessa di una grossa somma di denaro da ricavare dalla rapina. Invece non ha ricavato un bel niente… se non uno stupido lettore mp3» «…il suo inseparabile archivio» disse Elena sottovoce. «Come?» le chiesi «Il suo inseparabile archivio. Oltre ai file musicali, Riccardo utilizzava il lettore mp3 per archiviare tutti i suoi files più importanti.» «Cazzo!» esclamai «Ecco cos’altro volevano gli assalitori di Riccardo! Dopo averlo ucciso col bastone, gli assassini hanno preso il lettore mp3. Adesso si spiega come mai hanno quasi ignorato gli altri pochi oggetti che Riccardo portava con se, tra cui il cellulare, che poi, moribondo, ha utilizzato per scrivere l’sms. Il lettore mp3 doveva contenere file con informazioni scottanti, in grado di compromettere qualcuno di importante… forse informazioni sul misterioso test delle Pantera.» La guardai fissa negli occhi, mentre lei sembrava sul punto di piangere e le dissi «Elena, dobbiamo avere quella maledetta directory.»
capitolo 10
PREDATORE Il terreno aveva assorbito gran parte dell’acqua caduta nella notte precedente. Uno dei primi selvaggi temporali di fine estate, che scaricavano nell’aria tutta la loro ira, squassando la pace campestre… per poi svanire così come era arrivato. Non pioveva più adesso, il cielo era sereno, con il rosso infuocato del sole al tramonto che colorava le colline circostanti, con i suoi raggi che coprivano il verde dei campi. In sella alla mia mountain bike, imboccai un sentiero tra le piantagioni, facendo attenzione alle asperità del terreno. La mountain bike era diventata la mia ione: vagabondare nel silenzio della sera avvolto dal profumo inebriante delle piante di tabacco, mi rilassava. Mi aiutava a distendermi dopo una lunga, faticosa giornata e a liberarmi dall'accumulo di pensieri che servivano solo ad occupare spazio nel cervello. E poi pedalare mi faceva sentire meglio fisicamente. Avanzando lentamente, svoltai per un lungo viale sterrato costeggiato da bassi muretti, che divideva il lotto C dal lotto B. Il lungo viale portava dritto alla recinzione che delineava la proprietà della CTI. Alta più di due metri, la robusta recinzione di rete metallica era stata fatta costruire anni prima, per impedire l’accesso ai “soggetti esterni”, così come venivano definiti gli intrusi. Non si trattava dei comuni ladri di tabacco, che comunque costituivano un problema per tutti i produttori. Il problema maggiore era rappresentato dalle organizzazioni contro il fumo, contro le multinazionali, contro gli ogm, i no global e chi più ne ha più ne metta, che muniti di rastrelli, zappe e attrezzi vari, effettuavano veri e propri blitz notturni finalizzati alla distruzione delle piante. Il danno subìto era spesso ingente e in più di una occasione aveva costretto la CTI ad acquistare la materia prima, il tabacco, da altri produttori. Anche per questo aleggiava il sospetto che, dietro queste violente manifestazioni in nome dell’umanità, in realtà si nascondesse la mano della Mondial Tobacco, la principale concorrente della Charleston. Pedalando senza sosta, giunsi in poco tempo vicino alla recinzione metallica, dove arrestai la mountain bike. Era mia abitudine recarmi in quel posto, poco prima del tramonto, ad osservare gli ultimi raggi del sole morente illuminare la
campagna circostante. Guardare quel paesaggio mi faceva stare bene e mi rilassava. Scomparso l’ultimo spicchio di sole, era l’ora di tornarsene al casolare, dove Sara era in attesa del mio ritorno. Ripresi il mio giro, pedalando lungo il sentiero che costeggiava la recinzione e, una volta giunto al primo bivio, avrei imboccato la via di casa. Ormai era buio e il vento della sera agitava le foglie di tabacco che sembravano muoversi al ritmo di una danza sensuale. Una luna bellissima illuminava a giorno il paesaggio e brillava sulle foglie ancora bagnate. All’improvviso, il mio sguardo venne catturato da un piccolo bagliore in mezzo agli steli delle piante di tabacco. Frenai di colpo, provocando il blocco della ruota posteriore, la quale lasciò un piccolo solco sul terreno. Smontai dalla bicicletta e, incuriosito, mi avvicinai al punto dove doveva trovarsi l’oggetto che aveva prodotto il luccichio. Guardai attentamente sul terreno ma l’oscurità della notte non permetteva di scorgere nulla. Tornai di corsa verso la mountain bike e, dopo aver il faretto elettrico sul manubrio, orientai il fascio di luce in direzione delle piante. Muovendo lentamente il manubrio, scandagliai il terreno, finché il luccichio ricomparve per un istante, per poi svanire di nuovo. Bloccai il fascio di luce in quella direzione e mi avvicinai al punto esatto, dove mi abbassai per vedere meglio. Proprio lì, in mezzo alle piante, c’era un oggetto dalla forma di una piccola scatola di cartoncino lucido. Rimasi ad osservarlo per un tempo indefinito, dopodiché lo raccolsi con estrema delicatezza dal terreno. Lo portai sotto la luce del faretto della bicicletta… si trattava di un pacchetto di sigarette. Cercai di leggerne la marca e, quando vidi l’immagine stampata sulla faccia del pacchetto, un lampo mi percorse lungo tutta la schiena. Un pacchetto di Pantera! Ne esaminai rapidamente lo stato, lo aprii e, dopo aver rapidamente constatato l’assenza di sigarette, lo richiusi. Evidentemente qualche operaio, infischiandosene del divieto di abbandonare rifiuti sul terreno, l’aveva gettato tra le piante dopo aver preso l’ultima sigaretta. Il che doveva essere successo non da molto, visto che l’involucro era ancora asciutto e praticamente integro. Mi guardai attorno per scorgere l’eventuale presenza di qualcuno nei paraggi, ma vidi solo le piantagioni che si perdevano in uno spazio immenso fino ad essere inghiottite dall’oscurità. Misi il pacchetto di Pantera nel marsupio e montai sulla bicicletta per riprendere la via di casa. Durante il tragitto, illuminato dalla notte stellata e dalla luna piena, ripensai alla strana sensazione che avevo provato vedendo la marca impressa sul pacchetto. Sensazione che non seppi spiegarmi e che, per chissà quale strana associazione mentale, mi era balenata nella mente. Diversi minuti dopo, giunsi sul viale che conduceva verso casa. Oltreai il cancello in ferro ed entrai nella recinzione del giardino, diretto nel retro del
casolare dove si trovava una piccola rimessa. Misi a posto la mountain bike e chiusi il portone di legno. Mentre percorrevo a piedi il breve tratto che portava verso l’ingresso di casa, la vista del bidone dell’immondizia mi fece venire in mente il pacchetto di Pantera che avevo messo nel marsupio. Lo aprii e presi il pacchetto. Lo osservai ancora per qualche secondo, come per accertarmi che non me lo fossi sognato, dopodiché lo gettai nel bidone della spazzatura. Rientrai in casa, e salutai Sara col mio solito «Ciao amore, sono tornato» Sara mi rispose da un’altra stanza «Ciao». Sentivo la sua voce avvicinarsi, stava venendo verso di me «Ti ha cercato Marco, è ato da qui poco f… che hai fatto?» mi chiese indicando le mie scarpe da ginnastica. Guardai immediatamente verso il basso e quando vidi le scarpe ricoperte di terra bagnata, mi scappò un’imprecazione. «Ma Riccardo, dove sei finito?» mi chiese con una faccia tra lo stupito e il divertito. Quello stupido pacchetto di Pantera! «Ah, niente.» risposi con voce vaga «mi era parso di vedere qualcosa tra le piante di tabacco, così sono smontato dalla bici e mi sono addentrato nella piantagione, camminando sulla terra bagnata. In realtà si trattava del riflesso della luna su una foglia bagnata.» Lei mi guardò dapprima con aria dolce, come se si trovasse di fronte ad un bambino. Poi scoppiò in una risata che le illuminò il volto e che cercò subito di trattenere portandosi la mano alla bocca. «Smettila di prendermi in giro e, piuttosto, portami un paio di pantofole, se non vuoi che ti riempia la casa di impronte.» le dissi con voce vagamente seccata. Lei si allontanò ridacchiando e scuotendo la testa. Dopo qualche secondo, ritornò con le pantofole in mano. «Tieni.», disse porgendomele. Mi sfilai le scarpe da ginnastica, e le domandai «Che stavi dicendo a proposito di
Marco?» «Ah, Marco!» rispose lei «è ato da qui poco fa, per avvisarti che domenica non può venire a caccia con voi» «Problemi?» «Non lo so, mi ha solo detto di riferirti questo… Dammele.» disse poi indicando le scarpe «ci metterò due ore per farle ritornare come prima… semmai ci riuscirò.» La serata trascorse con la solita tranquillità. Anche quella sera la cena preparata da Sara si era rivelata squisita. Dopo cena decidemmo di prendere il fresco della serata estiva sull’altalena posta nella veranda che dava sul giardino. Abbracciati l’un l’altro, ci lasciammo cullare dall’altalena, sotto un cielo tempestato di stelle e col sottofondo del suono dei grilli. Dopo qualche minuto ato a chiacchierare, mi accorsi che Sara si era addormentata sul mio petto. Le accarezzai dolcemente i capelli, perdendomi nell'osservarla dormire e abbandonandomi a quell'atmosfera magica, in un mondo fatto di pace, tranquillità e silenzio. Rimanemmo così per qualche minuto poi, ad un certo punto, Sara si svegliò. «Sono stanca… io vado a mettermi nel letto…» disse strizzando gli occhi. Poi, con un sorrisetto da furbetta, aggiunse «non sono così stanca, sai?» Mi fece l’occhiolino e si diresse in camera. Buttai giù l’ultimo sorso di limoncello e chiusi gli occhi, ripensando alla giornata appena trascorsa, anche questa carica di impegno e di duro lavoro. Tra i tanti pensieri, mi balenò nella mente quel pacchetto di sigarette vuoto trovato fra le piante. Ripensai alla strana reazione che mi aveva provocato la vista del logo delle Pantera, un senso di malessere originato da un inspiegabile presentimento, che non seppi collegare con nessun evento. Aprii gli occhi con quel pensiero ancora nella mente e, con uno scatto istintivo, mi alzai dall’altalena e mi diressi di corsa sul retro della casa. Come guidato da un sesto senso, corsi affannosamente fino al grosso bidone dei rifiuti. Aprii il coperchio e, quando vidi il pacchetto, avvertii un brivido scendermi lungo la spina dorsale, senza motivo… lo stesso brivido provato poche ore prima. Lo presi con cautela, quasi con la paura che si rompesse e, tenendolo nel palmo della mano, lo osservai per qualche secondo. Era un normalissimo pacchetto di Pantera, di quelli che si
potevano acquistare in tabaccheria. Aprii lentamente il pacchetto che sembrava vuoto… ma in realtà non lo era. Al suo interno, sul fondo, era presente qualcosa, qualcosa di simile a… un biglietto di carta piegato. Sgranai gli occhi per la sorpresa, mentre una goccia di sudore mi rigava la fronte. Alzai gli occhi, guardandomi attorno per controllare che nessuno mi avesse seguito… una reazione priva di qualsiasi fondamento logico. Rovesciai il pacchetto, facendo cadere il biglietto di carta sul palmo della mano. Lo osservai per qualche secondo con curiosità e attenzione, come se dentro potessi trovarci chissà quale strano segreto. Si trattava di un piccolo foglio di carta a quadretti piegato in due. Con estrema cura lo aprii e, quando lessi ciò che vi era scritto, trasalii. Riccardo Bevilacqua 3303422345 Il mio nome seguito da una sequenza di numeri, un numero di telefono. Sgranai gli occhi, col respiro che si faceva sempre più affannoso. Che ci fa il mio nome su quel biglietto? E quel numero? Non è il mio. Lessi due, tre, quattro volte quel numero di telefono, cercando di collegarlo a qualcuno che conoscevo. No, si trattava di un numero a me sconosciuto. Restai interdetto per qualche minuto, poi decisi che era ora di tornare dentro casa. Ripiegai con cura il biglietto e lo infilai in tasca. Mentre ritornavo alla veranda, un mucchio di domande affollava la mia mente. A chi apparteneva quel numero? Perché era scritto sotto il mio nome? Da chi era stato lasciato tra le piante? E lo aveva fatto appositamente perché lo ritrovassi? Tutte domande alle quali non sapevo dare una risposta. A meno che… a meno che non provavo a comporre quel numero di telefono. Solo così potevo risolvere quello che si era rivelato un mistero e che, col are dei minuti, mi stava angosciando sempre di più. Frugai freneticamente nella tasca dei pantaloni e tirai fuori il foglietto, dispiegandolo con cura. Osservai ancora una volta quel numero, compiendo un ulteriore sforzo mnemonico... niente. Afferrai con decisione il telefono e composi il numero, mentre sentivo i battiti cardiaci che salivano fino in gola. La linea era libera, la tensione alle stelle. Primo squillo… Secondo squillo… Lanciai un’occhiata in direzione della veranda per accertarmi che Sara non fosse
uscita e mi stesse osservando... Terzo squillo… Al quarto squillo, una voce sussurrata rispose «Pronto?». Provai subito una specie di déjà vu sonoro, quella voce ignota mi era familiare. Restai come paralizzato, senza proferire parola, il tempo sembrò arrestarsi di colpo, come fossi in un fermo immagine. arono diversi secondi, prima che la voce continuò a parlare «Sei Riccardo?» Sgranai gli occhi. Conosce la mia voce? Esitai qualche secondo prima di riuscire a farfugliare qualcosa «…Si… con… con chi parlo?» «Alla cisterna, domani sera alle sette.» La misteriosa voce fu telegrafica dopodiché la comunicazione si interruppe. Immobile, come caduto in un sonno profondo, restai a fissare il display del cellulare per diversi minuti, pensando all’identità del misterioso personaggio. Chi diavolo è? E che cosa vuole da me? E poi, la sua voce… Mi avviai verso la porta di casa, continuando a pensare a lui. Chiusa la porta, entrai in camera da letto dove Sara giaceva tranquilla. Mi misi a letto cercando di non svegliarla e chiusi gli occhi. «Ti spettavo. Hai fatto tardi…» disse lei improvvisamente, con voce rotta dal sonno. Mi voltai, incrociando i suoi occhi profondi e malinconici. Il mio cuore cominciò a battere più forte, non volevo dirle del biglietto, della telefonata e di tutto il resto. «La sai una cosa? Mi sono addormentato sull’altalena!» abbozzai. Lei mi guardò dubbiosa, poi aggiunse «Sono uscita per chiamarti… e tu non c’eri.» Era una delle rare volte che mentivo a Sara e, per giunta, adesso non sapevo cosa risponderle
«Probabilmente sei uscita mentre ero nel retro a mettere a posto la mountain bike. Non l’avevo ancora fatto.» Lei mi guardò sospettosa, poi, senza aggiungere altro, si girò dall’altra parte e si rimise a dormire. Non lo so se mi aveva creduto. Appoggiai la testa sul cuscino, mentre mille pensieri si accavallavano nella mia mente. Poi il sonno ebbe il sopravvento. L’uomo sembrava agitato, preoccupato... Con la testa china, eggiava nervosamente tra i letti rossi, assorto nei suoi pensieri... Improvvisamente si fermò come se avesse trovato qualcosa sulla sabbia... Si chinò e cominciò a scavare una buca proprio accanto al suo letto… notò che c’era qualcosa… la tirò fuori dalla sabbia… era un oggetto tondo con un manico… uno specchio… lo prese e lo osservò girandolo e rigirandolo più volte… poi guardò il suo volto riflesso e, sconsolato, si mise seduto sul letto e cominciò a piangere. A bordo del mio fuoristrada, percorsi a tutta velocità il rettilineo sterrato che portava dritto al casolare. Avevo da poco terminato col lavoro quotidiano tra le piantagioni e, senza perdere tempo, mi ero messo subito in macchina dirigendomi verso casa. Per tutta la giornata non avevo fatto altro che pensare e ripensare alla misteriosa telefonata della sera prima ed era tanta la curiosità di scoprire chi si nascondeva dietro quella voce così familiare e al contempo così estranea. L’appuntamento era vicino alla grande cisterna dove era conservata l’acqua destinata a rifornire i mezzi agricoli per l’irrigazione delle piantagioni. Un luogo che tutti nella zona conoscevano per via dell’enorme silos visibile anche da diverse centinaia di metri. Mentre guidavo, lanciai un’occhiata al mio orologio e mi accorsi con un soprassalto che erano le sei e venti ate. Rischiavo di fare tardi. Avevo poco più di mezz’ora per prepararmi e raggiungere con la mia mountain bike il misterioso personaggio. Per di più, avendo deciso di non rivelare nulla a Sara, doveva sembrare che andassi a fare il mio solito giro serale in bici. Superai il cancello in ferro battuto, continuando sul vialetto che portava al casolare. Giunto sul retro, arrestai la macchina con una brusca frenata che lasciò il segno dei pneumatici sullo sterrato. Scesi dal fuoristrada, con la nuvola di polvere sollevata dalla frenata che si stava ancora diradando. Chiusi lo sportello e mi diressi di corsa verso la porta di casa. Dovevo fare alla svelta, non potevo rischiare di far saltare l’appuntamento, non me lo sarei mai perdonato. Entrai in casa, trovandomi di fronte Sara che mi osservava stupita «Ciao.» mi salutò «dove vai così di corsa?»
«Da nessuna parte.» le risposi cercando di apparire il meno nervoso possibile «mi preparo per il mio giro in bici… il sole tramonterà tra non molto.» Lei rimase in silenzio per alcuni secondi, poi chinò la testa e mi guardò sottecchi. Sembrava molto scettica ma io restai imibile ed entrai in bagno. Quando richiusi la porta, sentii i sensi di colpa assalirmi alle spalle e colpirmi in pieno. Aprii il rubinetto e mi sciacquai il volto con abbondante acqua fredda. Mi guardai allo specchio e provai comione per me stesso. Che coglione! Perché non raccontarle tutto? In fondo non c’era nulla di male! Ma ormai non c’era tempo, dovevo fare alla svelta. Feci una doccia veloce, dopodiché rientrai in camera con l'accappatoio ancora addosso. Aprii il cassetto del mobiletto con le mie cose, da dove presi una maglietta sportiva che indossai rapidamente. Alzai lo sguardo sull'orologio appeso alla parete. Erano le sei e quarantasette! Veloce, veloce, devo essere veloce. Entrai nel piccolo ripostiglio dove, allineate dentro la scarpiera, trovai le scarpe da ginnastica. Le infilai ai piedi e, quando mi voltai per uscire, mi trovai di fronte Sara. Sobbalzai, guardandola con gli occhi sbarrati, mentre lei restò imibile, continuando a fissarmi come se niente fosse. «Tutto ok?» le chiesi rivolgendole un sorriso. «Si…» rispose lei «è che mi sembri un po’ strano. Sei entrato di corsa e adesso stai uscendo di nuovo…» «Cos’ho di strano? Ho solo un po’ di fretta. Tutto qui.» le dissi, sforzandomi di apparire il più sincero possibile. Poi mi avvicinai a lei e, scostandole i capelli dal viso, le dissi «Vuoi che rinunci al mio giretto in bici?» Stavo bluffando, ma era la mia unica chance per uscire dal vicolo cieco in cui mi ero cacciato. Lei mi guardò, cercando di leggere la mia mente attraverso i miei occhi. «No… no, che dici? Vai, io ti aspetterò qui.» mi disse. La abbracciai delicatamente e le diedi un lungo e dolce bacio. «Ti amo.» le dissi in un sussurro, guardandola dritta negli occhi.
«Ti amo anch’io.» rispose lei. Ci abbracciammo di nuovo e, mentre la stringevo, chiusi gli occhi pensando alla mia spudorata bugia. Era la seconda volta in due giorni che le mentivo e la cosa cominciava a preoccuparmi e ad incidere sul mio umore. Quando aprii gli occhi, il mio sguardo cadde sull’orologio appeso in camera da letto. Cinque minuti alle sette! Con un gesto brusco, mi staccai da lei e mi diressi verso la porta. «A più tardi» le dissi afferrando la maniglia. Aprii la porta e uscii di casa sotto il suo sguardo sorpreso, incredulo, attonito. A o svelto, mi diressi sul retro del casolare, fino alla rimessa, da dove tirai fuori la mountain bike. Montai in sella e cominciai a pedalare più forte che potevo lungo la stradina sterrata che portava all’esterno del recinto. Superai il cancello di ferro e, guidando velocemente, presi lo stradone, dirigendomi verso il luogo dove la misteriosa voce aveva stabilito l’incontro: la cisterna. L’enorme silos, fatto costruire dalla CTI per rifornire i mezzi per l’irrigazione, si innalzava in un’area all’interno del lotto B. Con i suoi dieci metri d’altezza dominava la proprietà ed era visibile da diverse centinaia di metri. Dal casolare era possibile raggiungere l’area dove esso sorgeva, percorrendo uno stradone che scendeva verso il campo incrociandosi con altri stradoni che tagliavano i campi per tutta l’estensione della proprietà. Il terzo di questi, portava dritto alla cisterna. Questo stradone sterrato aveva una curiosa particolarità: la parte terminale, quella che andava a congiungersi con lo spiazzale della cisterna, era costituita da un tratto di pista ciclabile, facente parte di un percorso fatto costruire dal precedente proprietario. La pista era stata successivamente demolita per dare spazio alle coltivazioni, quando il terreno fu acquistato dalla CTI, eccetto per quel tratto che venne utilizzato come parte di stradone. Le sette erano ormai ate da qualche minuto e rischiavo di far saltare l’appuntamento. Decisi di prendere una scorciatoia, uno dei tanti sentieri che ava in mezzo alle piante di tabacco. Nel giro di pochi minuti avrei raggiunto il luogo stabilito… infatti, dopo aver percorso qualche centinaio di metri tra i sentieri in mezzo alle piantagioni, vidi comparire il silos. Man mano che mi avvicinavo, la sua mole si ergeva sempre più maestosa, così come sempre più grande diventava la mia curiosità sull’identità del misterioso personaggio. Dopo aver percorso l’ultimo tratto di terreno fra le piantagioni, spuntai finalmente sullo stradone che conduceva dritto al piazzale della cisterna. Ormai mancava poco e, dopo qualche metro percorso a forte velocità, il terreno sconnesso
divenne infatti liscio e dritto: ero sulla vecchia pista ciclabile. Pedalare su quel tratto di strada era decisamente meno faticoso rispetto al terreno fra le piantagioni, costellato di buche, sassi e pozzanghere. Ne approfittai per tirare un po’ il fiato, la folle corsa mi aveva stremato. Avanzai lentamente lungo la vecchia pista ciclabile, ormai l’enorme cisterna si trovava a pochi metri da me. Ero giunto a destinazione. Arrestai la mountain bike e appoggiai il piede sulla pista ciclabile per stare in equilibrio. Mi guardai attorno, ma non sembrava esserci anima viva. La quiete regnava sovrana in quell’atmosfera quasi surreale col sole prossimo al tramonto e il silenzio che dominava il paesaggio. Per diversi minuti restai in attesa che il misterioso personaggio comparisse e si fe vedere, ma fu inutile. Ero arrivato troppo tardi! Sconsolato, girai il manubrio per andarmene quando improvvisamente, dalle piante di tabacco, si mosse un’ombra che, con movimenti rapidissimi, spuntò e si posizionò davanti a me.
capitolo 11
PREDA Lo squillo improvviso del telefono, fece scivolare la matita che facevo nervosamente dondolare tra le dita. Chiusi gli occhi tirando indietro la testa, mentre un improvviso senso di ansia mi colpì allo stomaco. Da qualche giorno, ogni volta che sentivo squillare il telefono, avevo il terrore che dall'altra parte della cornetta ci fosse l’ispettore Desideri o Renato Mauri pronti a sconvolgermi ancora una volta l’esistenza. Aprii di colpo gli occhi, mettendo faticosamente a fuoco tutto ciò che mi circondava e, senza leggere sul display, sollevai la cornetta. «Si?» risposi con una voce completamente neutrale, inespressiva, deglutendo il nodo che mi si era formato in gola. Quando sentii la voce di uno dei tecnici dell’assistenza, il quale mi spiegò che doveva installare un aggiornamento sul mio computer, scaricai tutta la tensione e l'ansia che si era creata dentro di me. «Un normale intervento di routine. Quando posso avere a disposizione il suo computer?» Quando vuoi! pensai, lasciandomi andare in un eccesso di euforia. Poi tornai alla solita calma. Guardai l’orologio posto sulla scrivania: segnava le tredici e ventiquattro «Io sto giusto per uscire a pranzo. Se le va bene glielo posso lasciare durante la pausa…» «Va benissimo, dottore. Allora la raggiungo subito.» Feci appena in tempo a riattaccare la cornetta, che qualcuno bussò alla porta. «Avanti!» risposi, chiedendomi se fosse già il tecnico dell’assistenza. Lentamente la porta si aprì, quel tanto che bastava da lasciar intravedere il viso di Simona di Paola.
«Disturbo?» mi chiese col suo solito sorrisetto malizioso. «Figurati, entra pure.» le risposi alzandomi per andarle incontro. Simona non se lo fece ripetere due volte e, entrando con o sicuro, si chiuse la porta alle spalle, accomodandosi sul divano di pelle. Prese un pacchetto di sigarette e, estraendone una, se la mise tra le labbra, la accese inspirando ed espirando il fumo. «Allora... a cosa devo l'onore?» Le chiesi con uno dei miei più rassicuranti sorrisi «Beh, stavamo facendo un certo discorso, poi ad un certo punto sei scappato come Harrison Ford nel Fuggitivo …non ti volevo mica arrestare, sai?» disse prima di inspirare di nuovo il fumo. Ovviamente si riferiva alla figuraccia che avevo fatto nella sala riunioni, il mese prima, quando senza volerlo, mi aveva fatto ricordare di chiamare Ercolano, il quale dalla Bielorussia, era in attesa dei dati sulle vendite che mi aveva chiesto… da lì a poco mi sarei trovato scaraventato in una agghiacciante verità. In un attimo, mi arono nella mente tutti i fotogrammi di quel giorno, di quei momenti, carichi di tensione e frenesia. Merda, i dati!... Un sms?... Certo, perché non inviare un messaggio!… Santer, Pantera… Oh, mio Dio!... Un po’ d’acqua fresca dovrebbe rimetterti in sesto… Un leggero malore… un giramento di testa… Troppo lavoro. Dovresti prenderti una vacanza… Il fumo si diradò rapidamente e rimasero solo gli occhi di Simona fissi sui miei. «Scusami…» le dissi con voce dispiaciuta «e grazie per avermi fatto ricordare dei dati che dovevo inviare ad Ercolano.» «Non c’è di che…» rispose con un’espressione beffarda. Poi guardandomi col solito sorrisetto mi disse «…mi sei debitore di qualcosa, allora.» Naturalmente, Simona non si fece sfuggire l’occasione per lanciare uno dei suoi messaggi ad alto contenuto erotico. «Che ne diresti di un invito a pranzo?» risposi senza raccogliere la sua
provocazione «Qui di fronte fanno dei tramezzini che sono la fine del mondo.» «Beh di fronte a questo invito non posso certo rifiutare… comprende anche una birra?» Ridemmo insieme, Simona era proprio una donna con uno spiccato senso dell’umorismo, ma anche moderna e anticonformista che capiva veramente il pensiero di chi aveva di fronte. Simona si alzò dal divano e, fissandomi intensamente, si avvicinò alla mia scrivania, dove appoggiò le mani e si sporse in avanti. Vidi la sua faccia avvicinarsi lentamente, i suoi occhi e le sue labbra farsi sempre più grandi. Proprio in quel momento qualcuno bussò alla porta e, senza attendere risposta, la aprì. «Buongiorno… posso?» chiese il tecnico dei computer, fermo sulla soglia. Senza voltarsi, Simona alzò gli occhi al cielo in un'espressione tra l'infastidito e il disgustato e, lentamente, tirò indietro la testa. Con un gesto della mano feci cenno al ragazzo di entrare, mentre Simona, senza degnarlo di uno sguardo, si portò davanti alla finestra che si affacciava su Piazza di Spagna, con gli occhi fissi sul panorama. «Ecco, il computer è tutto suo.» dissi al tecnico «Le è sufficiente un’ora?» «Si, un’ora è più che sufficiente.» «Bene.» replicai con tono fermo. Poi guardai verso la finestra e chiesi a Simona «Andiamo?» Senza dire nulla, lei si girò e si diresse verso l’uscita attraversando con o deciso tutta la stanza. Io la seguii e, appena giunto dinanzi alla soglia, mi sentii chiamare dal tecnico «Dottore?» «Si?» gli risposi con tono vagamente irritato. In realtà avrei dovuto ringraziarlo per avermi salvato da una situazione imbarazzante. «Mi scusi… avrei bisogno della sua . Per poter installare
l’aggiornamento dovrei riavviare più volte il computer e…» «Okay, okay» lo interruppi bruscamente «Tutankamon.» Il giovane tirò fuori dal taschino un foglio di carta giallo, sul quale annotò la . Uscii dal mio ufficio e, mentre ci dirigevamo verso l’ascensore, Simona commentò col suo solito sarcasmo «E poi dicono che i tecnici non sono mai puntuali.» Poi, parlando più a se stessa che a me, aggiunse in un sussurro «È tutto il giorno che va girando negli uffici.» Le porte dell’ascensore si aprirono lentamente e, appena vi entrammo, lei tornò alla carica «Allora, dottor Preite» mi disse posando le sue unghie rosse sulla mia spalla «mi hanno riferito della tua brillante performance al convegno…» «Aspetta!» la interruppi bruscamente. Lei sobbalzò, tirando indietro la mano come se il contatto l’avesse scottata. «Cos’hai detto?» le domandai guardandola fissa negli occhi. Simona mi guardò sorpresa per qualche secondo, come per accertarsi che non stessi impazzendo. Poi ripeté lentamente «Mi hanno riferito che…» «No, non del convegno!» dissi scuotendo la testa «quello che hai detto prima a proposito del tecnico dei computer!» Facendo rapidamente mente locale, Simona rispose «È da stamattina che sta girando in tutti gli uffici per quel cavolo di aggiornamento… È stato anche da me…» aggiunse. «…e ha chiesto anche a te la del tuo computer?» «Certo.» rispose senza capire. Proprio in quel momento l’ascensore arrestò la sua discesa e le porte si aprirono al piano terra. Lei uscì dalla cabina, mentre io restai dentro con lo sguardo fisso, perso nei miei pensieri. Simona fece qualche metro nel corridoio… poi si accorse che non ero con lei e si girò di scatto «Stefano?» mi chiamò con tono preoccupato.
Come risvegliato improvvisamente da un sonno, spostai lo sguardo su di lei e le dissi «Devo tornare in ufficio… devo fare una cosa… ti chiamo dopo.» Premetti il tasto del quarto piano, le porte si richio con i nostri sguardi fissi negli occhi dell'altro. Mentre l’ascensore compiva la risalita, un solo, unico pensiero mi si insinuò nella mente. Se il tecnico aveva ato tutta la mattinata ad effettuare l’aggiornamento dei computer nei diversi uffici, doveva aver effettuato lo stesso intervento anche sul laptop di Mauri. Pertanto, così come aveva fatto con me e anche con Simona, aveva probabilmente chiesto a Mauri la di accesso al suo pc, in modo da poterlo riavviare più volte. Il foglio giallo! Dovevo avere quel pezzo di carta sul quale il tecnico aveva appuntato le di tutti i computer, del mio, di Simona e… anche di quello dell’amministratore delegato! Certo, la mia era una convinzione basata su delle ipotesi: che il tecnico fosse ato da Mauri per compiere l’intervento, che gli avesse chiesto la di accesso e che se la fosse appuntata su quel pezzo di carta… ma non potevo andarmene col dubbio, senza verificare. Su quel foglio c’era la chiave che avrebbe permesso a me ed Elena di accedere al computer di Mauri e di scoprire cosa era contenuto in quella maledetta directory, denominata “Test Pantera”. Sì, ma come fare per avere quel foglio? Di certo non potevo chiedere al tecnico di farmi dare una sbirciatina all’elenco dei nominativi con le dei pc, sarebbe stata una violazione della privacy che non mi avrebbe mai permesso di compiere. Le porte dell’ascensore si aprirono al quarto piano. Mentre mi avviavo verso il mio ufficio, mi arrovellavo il cervello nell’intento di trovare un modo per avere la . Tramortire il tecnico sferrandogli un colpo letale? Offrirgli del denaro in cambio della ? Rubare il foglio? Ero ormai davanti alla porta del mio ufficio, dovevo tentare il tutto per tutto. Feci un grosso respiro e varcai la soglia. Il tecnico era seduto sulla mia poltroncina con gli occhi fissi sul computer e, quando mi vide entrare all’improvviso, fece un leggero balzo. «Ho dimenticato di prendere un documento.» dissi mentre gli avo davanti dirigendomi verso l’armadio che custodiva il mio archivio. Il tecnico rispose annuendo con un sorriso scemo, quindi tornò a concentrarsi sul monitor. Per qualche minuto feci finta di cercare all’interno dell’armadio… poi scostai leggermente la testa, il tanto che bastava per sbirciare.
Il tecnico, concentrato sul monitor, digitava vorticosamente sulla tastiera. Indossava una t-shirt nera a maniche corte che metteva in mostra tutti i suoi tatuaggi e un paio di blue jeans. Il foglio giallo, devo trovare il foglio giallo! Abbassai gli occhi sulle tasche posteriori dei blu jeans… sembravano essere vuote. Portai lo sguardo sulla scrivania e… eccolo! Il foglio giallo era appoggiato proprio accanto al computer, in attesa di essere consultato. Girai la testa e guardai nell’armadio, come se al suo interno fosse custodita la soluzione per rubare quel maledetto foglio, magari in qualche faldone… certo, il faldone! Chissà se poteva funzionare… Afferrai uno dei pesanti faldoni dall’archivio e con un colpo secco lo tirai fuori. Tenendolo con entrambe le mani, mi diressi verso la scrivania, dove lo appoggiai proprio sul foglio giallo. Il giovane alzò lo sguardo e mi chiese «Le serve la scrivania? Cerco di farle spazio.». «No, non si preoccupi. Mi appoggio qui, continui pure. Grazie.» Aprii il faldone e tirai fuori alcuni fogli in cui era descritta una oscura regolamentazione sulla distruzione dei prodotti resi dai clienti. Finsi di essere interessato a uno di essi, restando una manciata di secondi a leggerne il testo, dopodiché lo rimisi nel faldone. Mentre con la mano sinistra sistemavo rapidamente i fogli all’interno del faldone, l’altra mano scivolò sul dorso e lentamente infilai due dita sotto la copertina… sentivo la liscia superficie della scrivania scivolarmi sotto i polpastrelli, fino a toccare il foglio di carta. Spinsi ancora più a fondo… ecco ora lo tenevo da un angolo. Sentivo il cuore battere all’impazzata, ma dovevo avere sangue freddo. Ormai ce l’avevo, lo tenevo stretto contro la copertina di cartone, dovevo solo andarmene... Con uno scatto del braccio tirai a me il faldone, ma nel compiere quel brusco movimento, sentii il foglio scivolare lentamente dalle dita… lo stavo perdendo… si stava sfilando… Chiusi gli occhi, pregando il Cielo affinché non mi sfuggisse. Nella sua caduta verso il pavimento, il foglio si infilò sotto la scrivania, andando ad urtare contro la caviglia del tecnico, il quale guardò immediatamente in basso. «Le è caduto qualcos…» riuscì a dire, prima di accorgersi che si trattava del suo foglio. Guardò subito sulla scrivania dove, ovviamente, non c’era alcun foglio
giallo. «Ops… Mi scusi.» gli dissi con un filo di voce. «Oh, non si preoccupi, dottore. Al massimo l’avrei chiamata per richiederle la .» mi rispose mentre raccoglieva il foglio dal pavimento. Mi voltai e portai il faldone al suo posto, salutai il tecnico dei computer e uscii dal mio ufficio. Percorsi il lungo corridoio frustrato e amareggiato per aver bruciato la mia unica occasione, ero arrabbiato con me stesso, non riuscivo a darmi pace. In ogni caso, decisi che non mi dovevo dare per vinto. Proseguii più avanti ed entrai in bagno, senza chiudere la porta. Avrei aspettato il tecnico e poi l’avrei seguito. Dovevo avere quel foglio, era l’unico modo per ottenere quella dannata . Attesi diversi minuti, finché non sentii dei i rimbombare per tutto il corridoio. Spiai attraverso la porta socchiusa: era lui che camminava nella mia direzione. Tirai indietro la testa per evitare che lui si accorgesse di me, e restai nascosto dietro la porta. Il ragazzo aprì la porta per uscire dal piano, mentre io, lentamente, uscii dalla toilette e, camminando nel corridoio, mi avvicinai alla porta. La aprii proprio nel momento in cui le porte dell’ascensore si stavano chiudendo. Mi avvicinai con un balzo alla porta dell’ascensore per leggere sulla targhetta il piano dove l’ascensore si sarebbe fermato. …3…2…1. Primo piano! Scesi rapidamente per le scale, giungendo al primo piano e ando accanto all’ascensore, vuoto con le porte aperte. Lentamente, aprii la porta che conduceva al piano e lanciai un’occhiata nel corridoio. Proprio in quel momento il tecnico stava entrando in un ufficio a metà del corridoio. Senza fare il minimo rumore, chiusi la porta e mi avvicinai verso l’ufficio. Dal suo interno, proveniva il rumore della tastiera battuta dalle dita veloci e sicure del tecnico. Rimanendo attaccato al muro, spiai all’interno della stanza, dove vidi il tecnico seduto di spalle armeggiare con un computer posto su una scrivania. Tirai indietro la testa. Come fare ad avere quel dannato foglio? Non ne avevo la benché minima idea e, oltretutto, dovevo sbrigarmi, o rischiavo di farmi scoprire da qualcuno di ritorno dalla pausa pranzo. All’improvviso il rumore della tastiera terminò. Il tecnico aveva finito, dovevo nascondermi! Senza perdere altro tempo, entrai in un ufficio vicino, fortunatamente vuoto a quell’ora, nascondendomi dietro la porta. Immobile e col fiato sospeso, attesi che
il giovane se ne andasse, mentre dalla stanza affianco, sentivo provenire diversi rumori: una sedia che veniva spostata, un interruttore che veniva spento e uno strano rumore… era sembrata carta, carta che veniva strappata.. anzi, non strappata… appallottolata. Il foglio giallo! In un attimo il mio volto cambiò espressione, si illuminò, divenne radiosa. L’ha davvero fatto? Qualche secondo dopo, sentii i suoi i avvicinarsi fino a giungere davanti alla mia porta. Trattenni il fiato mentre nelle orecchie sentivo il battito del mio cuore. Il giovane ò oltre e proseguì fino alla porta d’uscita del piano. Appena sentii la porta richiudersi tirai un sospiro di sollievo e, subito dopo, entrai nell’ufficio affianco, alla ricerca di un cestino dei rifiuti. Individuai quello vicino alla scrivania dov’era stato poco prima il tecnico. Guardai dentro e, fra i vari rifiuti, individuai subito il foglio giallo appallottolato. Non potevo crederci, il tecnico aveva veramente gettato il foglio! Lo afferrai con uno scatto felino e, appoggiandomi sulla scrivania, lo dispiegai. Prima di leggere il suo contenuto, diedi un’occhiata alle mie spalle. Libero. Guardai di nuovo il foglio. Su di esso era riportato un elenco di una ventina di nominativi con accanto le dei relativi computer scritte a penna. Lessi rapidamente l’elenco, individuando il mio nome, quello di Simona di Paola… poi individuai quello che stavo cercando: MAURI – Mexico86 Non ci credevo, tra le mie mani avevo la del pc di Mauri! Piegai delicatamente il foglio, e lo infilai nella tasca interna della giacca. Uscii di corsa dalla stanza e tornai nel mio ufficio, chiudendomi dentro a chiave. L'adrenalina accumulata poteva finalmente avere sfogo, così esultai come se avessi segnato un goal. Si, si, si! ata l’euforia, mi sedetti sulla poltroncina a riflettere. Il primo o era stato fatto, adesso bisognava andare avanti. Guardai l’orario, erano le due e mezzo, e sentii il mio stomaco reclamare. Dovevo mettere qualcosa sotto i denti o rischiavo di svenire. Prima di uscire non potevo non avvertire Elena, ero sicuro che non avrebbe creduto alle sue orecchie. Composi il suo interno e, quando lei rispose, le annunciai con voce strozzata per l’emozione «Ce l’ho!». Sulle prime Elena non capì, sembrò un po’ sorpresa, confusa. Poi mise a fuco e con un filo di voce mi chiese «…ho capito bene?»
«Si, hai capito benissimo.» risposi, cercando di non farmi cogliere dall'emozione. Sapevo che non sarebbe stato possibile parlare per telefono per paura di essere intercettati da qualcuno, allora tagliai corto e dissi «Ci vediamo stasera al solito posto.» Poco prima delle 19, uscii di corsa dall’ufficio per dirigermi al caffè della libreria, dove Elena già mi attendeva seduta ad un tavolo. Entrai e, sedendomi di fronte a lei, lessi nei suoi grandi occhi tanta curiosità ma anche tanta paura. Ci fissammo per qualche secondo, poi mi chiese serissima «Hai la del computer di Mauri?» Restai in silenzio, limitandomi ad annuire con la testa e a sorriderle. «Come diavolo hai fatto?» mi chiese sbalordita. Versai un po’ d'acqua nel bicchiere che avevo davanti e ne bevvi due sorsi. Cominciai, quindi, col racconto, partendo dalla telefonata del tecnico dei computer fino al goffo tentativo di rubare il foglio giallo e di come l’avevo incredibilmente recuperato. Quando finii, lei sembrava incredula. La guardai dritta negli occhi e, con voce bassa ma decisa, le dissi: «Elena, adesso dobbiamo andare avanti, abbiamo la possibilità di avere quel maledetto file. È lì la chiave per scoprire chi è il vero assassino di Riccardo, ne sono sicuro.» Lei rimase in silenzio e, ancora una volta notai, un velo di paura nei suoi occhi. Paura determinata dalla consapevolezza che stavamo cominciando a fare sul serio e che poteva costarci caro. «Non ti preoccupare» le dissi prendendole una mano , accarezzandola col pollice «andrà tutto bene. Scopriremo la verità.» Lei mi guardò poco convinta, ma ormai eravamo in gioco. Decidemmo di preparare il piano la sera stessa a casa mia.
capitolo 12
Intorno alle 21.30, il camlo di casa suonò a ripetizione. Quando aprii la porta mi venne incontro un volto impaurito e teso. Elena entrò di corsa, assicurandosi che avessi chiuso immediatamente la porta. «Tutto bene?» le chiesi guardandola preoccupato. «Qualcuno mi ha seguita mentre venivo qui.» rispose lei affannosamente, mentre si affrettava ad entrare in casa. Mi guardò e solo allora notai un luccichio nei suoi occhi, come se stesse per piangere. Sgranai gli occhi sorpreso e, un istante dopo, mi diressi verso la porta per aprirla. «No!» disse lei con tono spaventato, mentre la sua mano tremante stringeva la mia. Mollai la maniglia e, vedendola in quello stato, cercai di farla calmare. «Va bene. Non c'è alcun motivo di preoccuparsi Elena, qui sei al sicuro, saremo insieme, non ti lascerò sola un attimo.» dissi cercando di essere il più convincente possibile. «Adesso diamo un’occhiata dalla finestra e se c’è qualcuno chiamo subito la polizia. Okay?» I suoi occhi mi fissarono per un momento interminabile, poi annuì senza dire nulla. Lasciai la sua mano che ancora serrava la mia e andai alla finestra, aprii la tenda e guardai fuori: non c'era nessuno nel raggio di due isolati. Mi girai verso di lei, la quale nella semioscurità mi fissava con l’espressione terrorizzata. «Non c’è nessuno fuori.» le dissi, facendole cenno di avvicinarsi. Lei esitò per qualche secondo. Poi, con un grande sforzo, si avvicinò incerta, dubbiosa e guardò fuori. Quando si accertò che la strada era deserta, si girò verso
di me e, prendendomi una mano, con tono isterico disse: «Stefano, ti assicuro che una macchina mi ha seguito fin qui. Aveva i fari troppo alti e non ho potuto…» «Okay, okay.» le dissi trascinandola verso il divano «Ora siediti qui e rilassati. Forse sei un po’ tesa, è normale. Ma adesso devi credermi, qui sei al sicuro.» Abbassò gli occhi e sedette sul divano rimanendo immobile, senza dire nulla. Le portai un bicchiere d’acqua e mi sedetti affianco. Lei bevve qualche sorso, tenendo il suo sguardo fisso sul pavimento. Proprio in quel momento il suono del camlo fece sobbalzare entrambi. Ci guardammo spaventati come a volerci dire: “che facciamo?” Mi avvicinai alla porta e guardai dallo spioncino: era il ragazzo delle pizze. Feci segno ad Elena che era tutto okay e aprii la porta. Dopo aver preso i due cartoni, diedi qualche euro di mancia al ragazzo, il quale salutò cortesemente e andò via. Prima di chiudere la porta, lanciai un'occhiata fuori per controllare che non ci fosse nessuno nei paraggi. Non c’era anima viva. Probabilmente tensione, paura e ansia avevano avuto il sopravvento sulla sua razionalità, generando in lei la sensazione di essere seguita o spiata. Chiusi la porta a chiave e mi avvicinai al divano, dove appoggiai i cartoni delle pizze. «So che a te piacciono i carciofi, quindi ti ho preso una capricciosa.» le dissi. «Grazie.» mi rispose, abbozzando un timido sorriso. Mi accorsi che l’angoscia e la paura stavano lentamente svanendo dal suo sguardo. Presi anche due birre dal frigo e mi sedetti accanto a lei. Mangiammo direttamente sul divano guardando un pò di TV per scaricare la tensione e, una volta terminata la cena, fui io a rompere per primo il silenzio. «Elena, se non te la senti di affrontare una… cosa così impegnativa e rischiosa, dimmelo subito, avrai tutta la mia comprensione. Anche io certi momenti…» «No!» mi disse lei con un gesto secco della mano «non lascerò che la morte di Riccardo resti impunita per colpa delle mie stupide paranoie!» aggiunse poi con tono deciso. Sorpreso per il suo cambio di umore così repentino, la guardai con aria interrogativa per alcuni istanti. Poi, con tutta la calma che riuscii a trovare in quel momento, le chiesi guardandola fissa negli occhi: «Sei sicura di voler
correre il rischio di essere scoperta, con tutte le conseguenze che ciò comporterebbe?» «Sì.» mi rispose lei, come animata da un'intima rabbia che improvvisamente le stava ribollendo dentro. «Bene.» le dissi alzandomi dal divano e cominciando a camminare pensieroso avanti e indietro «Siamo in possesso della per accedere al computer di Mauri. Adesso viene la parte più difficile.» Mentre mi muovevo nella stanza, sentivo il suo sguardo che mi fissava. «Dobbiamo introdurci nel suo ufficio senza essere visti, accendere il computer usando la , copiare il file su questa» le dissi mostrandole la mia pen drive a forma di delfino «spegnere tutto e uscire rapidamente dall’ufficio senza essere scoperti e senza lasciare tracce.» Elena continuava a guardarmi in silenzio. «Per fare tutto questo occorre agire di sera, quando tutti i dipendenti lasciano i propri uffici e nel giro di mezz’ora, in azienda, non rimane più nessuno… nessuno eccetto la guardia di sicurezza. Dalla reception, tiene sotto controllo la situazione all'interno della CTI attraverso una decina di monitor collegati a delle telecamere sparse nel palazzo e che sorvegliano tutti i piani.» «E come pensiamo di introdurci nell’ufficio dell’amministratore delegato senza essere visti dal vigilante?» mi chiese Elena. Era una domanda che mi ero posto anch’io e che sapevo che mi avrebbe fatto. «A questo punto entri in gioco tu.» le risposi subito «Io?» mi chiese lei curiosa «Proprio tu, esatto. La sera del “colpo”, io andrò dalla guardia giurata, inventandomi qualcosa per distrarlo dai monitor e perdere tempo. Nel frattempo tu ti introdurrai nell’ufficio di Mauri e farai il tuo lavoro. Ovviamente dobbiamo studiare tutti i minimi dettagli.» «Certo» rispose lei con tono sarcastico «E come pensi di distrarre la guardia? Esibendoti in un gioco di prestigio?»
«Potrebbe essere un’idea…» dissi ridendo. Lo stesso fece lei, scuotendo la testa «Dai Stefano, cerca di essere serio!» «Adesso non lo so, ma non è difficile trovare un argomento interessante su cui intavolare una chiacchierata. Dobbiamo pensarci su… ma in fretta.» dissi serio. «Ma dai…» «Mah, argomenti ce ne sono.» «…per esempio?» Restai qualche secondo a riflettere poi dissi «La recessione! Potrei parlare di prezzi troppo alti e di stipendi troppo bassi!» «Stefano! Quelli sono discorsi che si fanno dalla parrucchiera!» «Invece ti sbagli. Sono discorsi che fanno tutti.» «Ma va!» disse lei sorridendo ironicamente. Seguirono alcuni minuti di silenzio durante i quali ognuno cercava una possibile soluzione. Concentrato, tenevo gli occhi fissi sul tappeto e, proprio in quel momento, la tv annunciò un evento memorabile. Tutti pronti mercoledì sera per il match di ritorno tra la Roma e il Liverpool, in cui si deciderà la prima finalista della Champion’s League… Immediatamente girai lo sguardo verso Elena, la quale senza darmi neanche il tempo di farle l’unica e sola domanda possibile, disse «…ed è pure sfegatato!»
capitolo 13
La mattina seguente, di buon’ora, ero chiuso nel mio ufficio a riare e ripercorrere mentalmente tutte le azioni del nostro piano, il cui unico e solo fine era copiare dal laptop di Mauri la directory Test_Pantera. Ognuno di noi aveva un compito ben preciso da svolgere e da portare a termine con la massima attenzione e rapidità. Una leggera distrazione, un piccolo o falso avrebbe significato ritrovarsi in un enorme guaio. Per il resto, fu una giornata come tante altre, fatta di telefonate, appuntamenti, riunioni, caffè veloci, documenti e dossier da preparare. Nulla di insolito, insomma, se non per quello che sarebbe successo quella sera. Tra le sette e mezza e le otto, l’edificio si svuotò e alle otto e mezza non c’era ormai più nessuno, neppure gli stacanovisti più irriducibili, i quali erano corsi a casa per vedere la partita. In piedi nel mio ufficio, ammiravo Piazza di Spagna distesa davanti a me, cercando di stemperare il nervosismo e l'ansia che mi attanagliavano ogni volta che pensavo a quello che di lì a poco sarebbe accaduto. Per la prima volta sentii la paura invadermi, aumentare ad ondate, salirmi dentro come una febbre. Quella che stavamo per fare era una cosa troppo grande e rischiosa nello stesso tempo. Insomma, stavamo per fare una stronzata! Proprio in quel momento Elena entrò nel mio ufficio. Si chiuse la porta alle spalle e si sedette di fronte a me fissandomi con i suoi occhi azzurri, dai quali traspariva tanta determinazione ma anche tanta paura. Eravamo entrambi tesi come corde di violino e io cercavo di evitare di incrociare il suo sguardo, per non tradire il mio stato d’animo. «Sono usciti tutti.» mi disse con voce neutra. Lanciai un’occhiata all’orologio appeso al muro, il quale segnava le 20.45. L’arbitro doveva aver già dato il fischio d’inizio. Mi alzai in piedi e aprii il cassetto della scrivania, da dove tirai fuori un i-phone. Lo accesi e, dopo aver navigato nel menù touch screen, attivai l’applicazione tv e comparvero sul display le immagini della partita tra la Roma e il Liverpool.
«Bene.» le dissi riponendo l’i-phone nella tasca interna della giacca «io vado. Appena ti do il via, sai cosa fare.» Elena annuì con un leggero cenno del capo. Ognuno di noi conosceva a memoria la sua parte, le mosse da fare, le cose da dire. Varcai la soglia e, appena feci il primo o nel corridoio, sentii un sussurro provenire dalle mie spalle «Stefano!». Mi girai di scatto e vidi i suoi occhi azzurri e profondi che mi fissavano come se volesse dire qualcosa, ma fosse consapevole che non sarebbe servito a nulla. Ci guardammo dritti negli occhi per secondi che parvero interminabili… poi mi voltai e, con o deciso, mi diressi verso l’ascensore. Appena misi piede nella cabina, sentii un senso di inquietudine, di ansia e di vera e propria paura impadronirsi della mia mente. Abbassai la testa e chiusi gli occhi come per scacciarlo via e, quando li riaprii, vidi la mia immagine riflessa nello specchio di fronte. Avevo l’aria stanca, lo sguardo incupito e le mascelle serrate. Coraggio! mi dissi inspirando a fondo e quindi premetti il pulsante per arrivare al pian terreno. Quando le porte si aprirono un brivido di paura mi attraversò la schiena, sentii il terrore insinuarsi dentro di me come un coltello nelle viscere. Feci un profondo respiro per allentare la tensione. Cosa mai può succedermi? Mi feci coraggio e mi avviai verso l’ampio ingresso della CTI, dove al centro si trovava la reception. Mentre avanzavo, sentivo il rumore dei miei i che rimbombavano lungo il corridoio deserto, mentre da lontano proveniva l’indistinto gracchiare di una radiolina. Sentendomi arrivare la guardia alzò di scatto la testa, come sorpreso per la mia presenza a quell’ora. «Buonasera dotto’» disse lanciando una veloce occhiata al suo orologio da polso. «Vedo che stasera non sono l’unico a fare gli straordinari.» aggiunsi serafico. Lui si limitò a rispondermi con un sorriso e con un cenno del capo. «Esco a prendere due tranci di pizza. Io e la mia collega ne abbiamo ancora per un po’…» «Faccia pure, dotto’.» rispose lui, mentre dalla sua radiolina da quattro soldi usciva un crepitio di parole indecifrabili. Uscii alla svelta dalla sede della CTI, ritrovandomi in una Piazza di Spagna quasi deserta, silenziosa, con i negozi chiusi. Entrai in una pizzeria al taglio poco
distante, dove ordinai due tranci di pizza con prosciutto e funghi e consegnai dieci euro al ragazzo. Tornai verso il portone d’ingresso e, prima di varcare la soglia, attesi qualche momento per trovare la giusta concentrazione. Ci siamo, mi dissi con la fronte già madida di sudore. Ciò che conta è restare calmo e recitare bene la mia parte. Feci un lungo respiro e varcai il portone d’ingresso. Non fa male, non fa male, non fa male! continuavo a ripetermi mentre avanzavo a o deciso verso la guardiola del vigilante, pronto a sferrare l’attacco. «E pensare che proprio oggi c’è la partita della Roma!» dissi con una naturalezza che non pensavo di avere «Approposito, sa dirmi il risultato?» «Zero a zero.» rispose la guardia, mentre con un orecchio era concentrato sulla radiocronaca. Scossi la testa a mo’ di risposta, mentre il mio pensiero volava al quarto piano, nel mio ufficio, dove Elena era in attesa del mio segnale. Uno squillo sul suo cellulare e via, di corsa al quinto piano! Infilai la mano nella giacca e afferrai l’i-phone, lo tirai fuori e, dopo aver attivato l’applicazione tv, mi sintonizzai sulla gara di calcio. Appena comparvero le immagini della partita, girai il display in direzione del vigilante. …la formazione giallorossa sembra tenere bene a bada l’avversario… Vidi i suoi occhi spalancarsi per la sorpresa e brillare di una gioia improvvisa. Sapevo bene che era assolutamente vietato concedersi distrazioni durante il servizio. Tuttavia, non faticai più del dovuto a convincerlo ad avvicinarsi e a concentrarsi sul match. …ancora la Roma in avanti mentre il Liverpool sembra in balia di un avversario troppo forte… Mentre il suo sguardo era ormai diventato un tutt’uno col display del mio iphone, lanciai un’occhiata alle sue spalle, dove una dozzina di monitor trasmettevano immagini in bianco e nero di scale e corridoi. Decisi che era il momento adatto per dare il segnale ad Elena. Senza dare nell’occhio, lasciai scivolare lentamente la mano nella tasca dei pantaloni dove si trovava il secondo cellulare, quello con cui dare il via libera ad Elena. Lo afferrai, tenendo il pollice sul tasto di chiamata. «Nooooooo!!!» L’urlo disperato del vigilante mi fece sussultare il cuore, inducendomi con un riflesso incondizionato a lasciare il cellulare che tenevo
nella tasca. Una stupida palla-gol della Roma, terminata in una rimessa dal fondo per il Liverpool! Mi guardò per condividere tutta la delusione per l’azione da gol mancata e in tutta risposta simulai delusione e rabbia. Ancora una volta la mia bravura nel recitare mi lasciò sorpreso. … adesso la formazione inglese sembra tenere le redini del gioco… Infilai di nuovo la mano in tasca e, dopo aver ripreso il cellulare, contai fino a tre prima di premere il tasto di chiamata. Il telefono compose l’ultimo numero chiamato, quello di Elena. … capovolgimento di fronte, De Rossi guida l’azione… Mentre il vigilante continuava a seguire l’azione, con la coda dell’occhio tenevo sotto controllo i monitor posti alla sua destra, in attesa di veder comparire Elena… e infatti, dopo pochi istanti, in uno dei monitor che trasmetteva le immagini di una scala, comparve una figura, la quale velocemente saliva i gradini. Elena! In un attimo ò sotto la telecamera di sicurezza e quindi sparì dal monitor. … Totti… tiro… fuori!... «Merda!» esclamò il vigilante. Ci guardammo senza dire nulla, quindi ritornammo sulla partita. Lanciai un’altra occhiata sui monitor… e, un istante dopo, ecco comparire Elena su un altro monitor, che stavolta la ritraeva davanti all’ufficio di Mauri. Sentii i battiti del cuore farsi sempre più veloci e l’adrenalina esplodermi sotto la pelle. Se solo in quel momento il vigilante si fosse girato in direzione dei monitor, l’avrebbe sicuramente scoperta e da quel momento sarebbe cominciata la nostra fine. Guardai il monitor, Elena aveva la mano sulla maniglia e stava per aprire. Sentii un rivolo di sudore scendere lungo la tempia mentre i battiti del cuore mi rimbombavano nelle orecchie. Coraggio, apri quella dannata porta! Finalmente, vidi la porta aprirsi quel tanto da permetterle di entrare nell’ufficio di Mauri e, subito dopo, chiudersi alle sue spalle. «Vai che segnamo!» dissi esultando, accorgendomi un attimo dopo che il pallone era in possesso di un giocatore del Liverpool. La guardia giurata mi lanciò un’occhiataccia… poi ritornò sul display.
Da quel momento, arono diversi minuti, con la partita che andava avanti verso la fine del primo tempo. Il mio pensiero era costantemente su Elena che, chiusa nell’ufficio dell’amministratore delegato, era alle prese col suo computer per copiare quel dannato file. Lanciai un’occhiata al monitor puntato sulla porta di Mauri… la porta era ancora chiusa. Fu quando abbassai lo sguardo che incrociai gli occhi scuri e gelidi del guardiano che mi fissavano da chissà quanto tempo. I nostri occhi si scrutarono per alcuni interminabili secondi, poi abbozzai un sorriso e abbassai lo sguardo sul display. Sentii il suo sguardo sospettoso indugiare ancora su di me, poi girò lentamente la testa e ò in rassegna tutti i monitor. Pregai il Cielo che proprio in quel momento Elena non aprisse la porta. …quindici minuti al termine del primo tempo. La Roma pressa ma la squadra ospite risponde colpo sul colpo… La guardia girò la testa e, dopo avermi lanciato una rapida occhiata, ritornò sulla partita… pericolo scampato. Ma quanto ci metteva Elena a copiare il file? Era trascorsa una decina di minuti da quando si era intrufolata nell’ufficio di Mauri e cominciavo ad avvertire una po’ di ansia. All’improvviso, lo squillo di un cellulare risuonò nel silenzio della grande sala, interrotto soltanto dalla voce del telecronista. Il suono proveniva dall’interno dei miei pantaloni, ma mi ci volle qualche secondo prima di realizzare che si trattava del mio cellulare. Il vigilante mi guardò negli occhi e poi abbassò lo sguardo in direzione della tasca, come per invitarmi a rispondere subito e far cessare quella maledetta suoneria. Con fare un po’ impacciato, presi il cellulare e quando lessi sul display il nome del chiamante, strabuzzai gli occhi: Elena! Ma che diavolo le è venuto in mente? Perché mi sta telefonando? Non è prevista una chiamata nel nostro piano! Mi sforzai di mostrarmi calmo agli occhi del vigilante, il quale continuava a fissarmi. Mi allontanai camminando in direzione del portone d’ingresso. «Sì.» risposi secco «Stefano, abbiamo un problema.» la voce di Elena sembrava quella di una bambina spaventata. «Sì…» dissi lanciando un’occhiata verso la reception, dove la guardia di
sicurezza era concentrata sull’i-phone «…cioè?» «Ho inserito la ma il sistema mi dice che non è valida. Ho provato a digitarla in diversi modi, ho scritto “Mexico” con l’iniziale maiuscola, e poi con la minuscola… niente. Ho provato a scrivere “Mexico” e “86” uniti e poi con uno spazio… il messaggio è sempre lo stesso, “ non valida, riprovare”.» «Ok, annulliamo tutto.» dissi con voce sussurrata ma con tono fermo «Mi spiace ma…» «Non c’è problema. Distraggo la guardia e, appena ti do il segnale, ritorna alla svelta nel mio ufficio.» «… va bene.» rispose lei con un pizzico di amarezza. La era sbagliata! Non ci potevo credere. Eppure ero certo di averla letta correttamente sul foglio che il tecnico dell’assistenza aveva gettato nel cestino dei rifiuti. E allora com’era possibile? Non riuscivo a capacitarmi. Poi un sospetto mi balenò nella mente… L’ha cambiata! Mauri aveva cambiato la dopo l’intervento del tecnico sul suo pc. Come avevo potuto non pensarci prima? Era una cosa che dovevo prevedere prima di correre il rischio che stavamo correndo. Che stupido ero stato! Deluso e scoraggiato, ritornai verso la reception dove la partita di calcio teneva incollata la guardia al display dell’i-phone. Almeno quello aveva funzionato nel nostro piano, il quale, fino a qualche secondo prima, era sembrato perfetto, ma che invece aveva rivelato una falla che in quel momento appariva banale e scontata. Quella , quel “marchio” dei mondiali di calcio svolti in Messico nel 1986, Mauri l’aveva cambiata. Me lo sarei dovuto aspettare da un tipo sospettoso e diffidente come lui. Avvicinandomi alla reception pensai a quale poteva essere la nuova . Mexico86… i mondiali di calcio… Improvvisamente fui colpito da uno di quei flash che illuminano la mente, che spesso sembrano rivelatori di una verità assoluta, di quelli in grado di paralizzarti per un istante. Certo! È possibile! Mi fermai a pochi metri dalla reception e composi freneticamente il numero di Elena. Dopo un paio di squilli rispose «Via libera?» «Elena, mi è venuta un’idea. Prova con “Italia90”.» le dissi.
«Ma avevo già spento…» «Sbrigati, cazzo!» «Okay, okay… ho il computer… si sta caricando Windows… ci siamo, ora digito Italia90… Si, sono entrata! Stefano ha funzionato!» disse lei, quasi incredula. Aveva funzionato! Incredibile, la mia intuizione si era rivelata corretta! Dopo un attimo di esaltazione, ripresi subito il controllo «Bene Elena, sai cosa fare adesso… e cerca di farlo in fretta!» «D’accordo.» rispose, chiudendo subito dopo la comunicazione. Mi voltai verso la guardia giurata, la quale vedendomi arrivare mi annunciò «Dotto’ il primo tempo è finito zero a zero.» e, porgendomi l’i-phone, aggiunse «Adesso devo fare il giro di controllo.» Cristo! Quella sera rischiavo seriamente un esaurimento nervoso. Lui uscì dalla reception, dirigendosi verso il corridoio dove si trovava l’ascensore e la porta di accesso agli uffici del pian terreno. Io lo seguii a pochi i. Era un tipo basso con un’uniforme blu scuro, e mentre camminava, spostava goffamente il peso del corpo da un piede all’altro. «Io comincio dal pian terreno… voi a che piano siete?» «Al quarto.» risposi «Bene… a fra poco allora» disse lui spingendo il maniglione antipanico col fianco, entrando nel corridoio che portava agli uffici del pian terreno. La porta si richiuse lentamente alle sue spalle. Io entrai nella cabina dell’ascensore e, appena si chio le porte, presi subito il telefono e chiamai Elena. «Stefano?!» rispose lei «A che punto sei?»
«Ho trovato la cartella, la sto trasferendo sulla pen drive. Mi occorrono ancora quindici minuti.» «Quindici minuti?! Ma che stai trasferendo tutto l’hard disk?» «Che ne so? Sono files pesanti!» «La guardia ha cominciato il giro negli uffici. Adesso è al piano terra» «Merda!» «Si, merda!» «Che faccio se non ho ancora finito col trasferimento dei files?» «Rimani calma e nasconditi da qualche parte. Individua subito un posto dove nasconderti, sotto la scrivania o dietro il divano accanto alla libreria.» «Oh, Dio!» «Stai tranquilla, andrà tutto bene.» «Sì, andrà tutto bene.» ripetè lei prima di chiudere la comunicazione. Le porte si aprirono al quarto piano. Entrai di corsa nel mio ufficio e mi sedetti alla scrivania con le mani intorno alla testa, l'attesa era atroce. Pensai per un attimo al casino che sarebbe potuto succedere se in quel momento, la guardia fosse entrata nell’ufficio dell’amministratore delegato e avesse beccato Elena. Immaginavo la sua faccia incredula, sarebbe arrivato a puntarle contro la pistola in dotazione. Dai, Elena, fai alla svelta! ai lunghi interminabili minuti ad aspettare quando, improvvisamente, sentii lo stridore delle porte dell’ascensore echeggiare nel corridoio. Alzai la testa di scatto. Era il vigilante o Elena? Sentii la porta del piano aprirsi… il rimbombo prodotto dagli anfibi nel corridoio non lasciava spazio ad interpretazioni. Merda! Mi lasciai cadere sullo schienale della poltrona e, emettendo un profondo sospiro, mossi il mouse per disattivare lo screen saver. Inserii la mia e aprii una qualsiasi presentazione in Power Point, in attesa dell’arrivo del vigilante… che infatti, dopo qualche minuto, comparve sulla soglia del mio ufficio.
«Eccomi Dotto’… è cominciato il secondo tempo?» Presi l’i-phone e attivai l’applicazione tv. «Non ancora» gli risposi «…ma non manca molto.» Lui annuì con un sorriso e scomparve rapidamente nel corridoio. Sentii i suoi pesanti i ritornare verso l’ascensore e, quando udii la porta del piano chiudersi con un tonfo sordo, andai a controllare nel corridoio. Libero. Presi il cellulare e chiamai Elena. «Si» rispose lei con una voce che sembrava più un sussurro «Elena, hai finito?» «Due minuti.» «La guardia sta salendo. Nasconditi!» Sentii il click del telefono che si chiudeva. Appoggiai la schiena sulla poltroncina, inspirando ed espirando profondamente per scacciare la tensione. Dovevo inventarmi qualcosa per evitare che Elena fosse scoperta, ma non sapevo cosa. La guardia di sicurezza sarebbe giunta entro breve e avrebbe perlustrato tutti i locali. La mia mente vorticava alla ricerca di una plausibile scusa da potergli dire. Forse l’avremmo convinto che Elena si era ritrovata per errore nella zona sbagliata. Magari avrebbe funzionato, la guardia sembrava nutrire della simpatia nei miei confronti. Ma che cosa sarebbe successo se fosse stato ligio alle regole, chiedendole di mostrargli il badge e accorgendosi che non aveva assolutamente nulla a che fare con l’ufficio dell’amministratore delegato? No, non potevamo rischiare. Non avevamo scelta, Elena doveva nascondersi. Il mio sguardo cadde sull’i-phone appoggiato sulla scrivania, dove erano comparse sul display le immagini di sco Totti sul dischetto di centrocampo, in attesa del fischio d’inizio. …Tutti pronti per l’inizio del secondo tempo… partiti!... La guardia doveva ormai essere giunta al quinto piano. Mi misi a pregare. … aggio per Totti, tiro… gooool! Splendida rete del capitano giallorosso!
Roma in vantaggio. L’esultanza del telecronista mi distolse per un attimo dai miei pensieri. La Roma aveva segnato. Se fosse accaduto qualche minuto prima, io e la guardia ci saremmo magari abbracciati per la gioia. Alzai gli occhi verso il soffitto, un’idea si stava formando nella mia mente… e, senza perdere altro tempo, la misi subito in atto. Mi alzai rapidamente, la poltrona con le rotelle andò a sbattere contro il muro, mentre di corsa uscivo dal mio ufficio diretto al quinto piano. Presi le scale, salendo i gradini due alla volta e, giunto al quinto piano, spalancai la porta. Lanciai un’occhiata nel corridoio e vidi la guardia di spalle con la mano sulla maniglia della porta dell’ufficio di Mauri. Fu in quel preciso istante che lanciai un urlo di gioia incontenibile «Gooool!!!» Con lo sguardo terrorizzato, il vigilante si girò di scatto per guardarsi le spalle, e quando mi vide, gli ci volle poco per capire che la Magica Roma era ata in vantaggio. Dai suoi occhi lucidi trapelò commozione pura. «Uno a zero! Gol di Totti!» esultai «…davvero?» «Si, si, si!» lo guardai entusiasta, aspettandolo a braccia aperte «Gooool!» rispose il vigilante, abbracciandomi e saltellando insieme a me per la gioia. Chiunque ci avesse visti in quel momento, avrebbe pensato che eravamo amici da anni. «je famo un culo così a ‘sti inglesi!» la sua voce echeggiò nel corridoio deserto. «Guarda il replay.» gli dissi mentre gli stampavo sulla faccia il display. «Fantastico!» disse. Poi la sua espressione ritornò di nuovo seria «devo… devo completare il giro.» disse indicando con lo sguardo il corridoio. «Ti accompagno.» dissi annuendo. Camminammo lungo il corridoio, superammo l’ufficio di Mauri e ci dirigemmo verso gli altri uffici del piano. Fortunatamente, nel trambusto per il gol segnato,
pareva aver dimenticato di non aver neppure aperto la porta dell’ufficio dell’amministratore delegato dove, da qualche parte, si era nascosta Elena. Avanzando assieme al vigilante, tenevo l’i-phone in bella vista in modo da seguire insieme la partita. Improvvisamente, non lo vidi più al mio fianco. Quando mi voltai, vidi il vigilante fermo a pochi i da me «E la sua collega?» mi chiese dubbioso. Fu una di quelle domande che ti travolgono lasciandoti a bocca aperta… e infatti, colto di sorpresa, non riuscii a dare nessuna risposta. «Non mi aveva detto di essere assieme ad una collega? Nel giro al quarto piano non l’ho vista…» disse pensieroso. Restai come bloccato e, quando stavo per farfugliare qualcosa, la guardia si era già incamminata verso la porta di uscita del piano. Scese rapidamente le scale, mentre io lo seguivo a poca distanza. Giunti al quarto piano, percorremmo con i rapidi il corridoio. Ero pronto a colpirlo appena si sarebbe accorto che non c’era anima viva all’interno. Con irruenza entrò nel mio ufficio e, un istante dopo, sentii un urlo di paura attraversare tutto il piano. Mi arrestai di colpo. C’era una donna all’interno. Elena! «Mi scusi, signora.» si affrettò a dire il vigilante. Con immenso stupore e sollievo, vidi Elena seduta sulla mia scrivania davanti al computer. «Ma insomma, sono modi di entrare? Mi avete fatto venire un colpo!» protestò lei «Scusi ancora.» ripetè mortificato il vigilante «Scusaci, Elena, ci eravamo preoccupati.» «Si, nel giro di controllo che ho fatto poco fa, non c’era nessuno e allora siamo scesi per capire come mai.» si giustificò il vigilante «Che cosa vuole che ne sappia io? Probabilmente è ato mentre ero in bagno.» era bravissima. Se non avessi saputo che stava recitando, ci avrei creduto anch’io. «E tu, mi vuoi dire dove sei stato tutto questo tempo? Non dovevi prendere le
pizze?» mi chiese con sguardo severo. «S…si. È meglio che chiudiamo per oggi. Che ne dici se ti offro la cena?» le chiesi, mentre il vigilante scivolava fuori dalla stanza. Pochi secondi dopo, la porta del piano si chiuse col solito tonfo. «Allora?» le chiesi desideroso di sapere com’era andata. «Allora…» rispose lei facendo dondolare la pen drive a forma di delfino. «C’è l’hai fatta!» esclamai mentre lei ridacchiava annuendo. Ci abbracciammo gioendo ed esultando. «Adesso andiamo.» le dissi guardandola negli occhi «Dove?» chiese lei curiosa «A cena. Non te ne sono debitore?»
capitolo 14
Con una brusca frenata, arrestai lo scooter di fronte all’appartamento di Elena e, dopo averlo parcheggiato, salimmo velocemente sulla piccola scalinata che portava alla porta d’ingresso. Mentre Elena frugava freneticamente nella borsa alla ricerca delle chiavi, controllai che la pen drive fosse ancora al sicuro nella tasca interna della mia giacca. Dopo tutta la fatica e i rischi che avevamo corso per procurarci quei file, sarebbe stato un vero peccato perdere tutto per una disattenzione. Entrammo in casa e, prima di richiudere la porta, lanciai un’occhiata fuori per controllare che nessuno ci avesse seguito. Del resto, l’unico che avrebbe potuto farlo era la guardia della sicurezza, la quale non sospettava minimamente di essere stato raggirato in un modo così perfetto… o, almeno, così speravo. Elena accese la luce e buttò le chiavi su un mobiletto vicino all'entrata. L’appartamento non era molto grande, ma curato nei dettagli, con un arredamento in stile orientaleggiante e con numerosi oggetti di stile etnico. Mentre lei entrava in un’altra stanza, io mi tolsi la giacca e presi posto sul suo divano dalle raffinate fantasie floreali. Ero esausto, sentivo la stanchezza prendere il sopravvento, avrei voluto dormire per qualche ora. Ma l'eccitazione di avere tra le mani la chiave che mi avrebbe aperto la porta ad un mondo che non avrei mai immaginato, mi teneva ancora sveglio. Elena ritornò col suo laptop e con gesti rapidi lo avviò e lo appoggiò sul divano, accanto a me. In attesa che il sistema si caricasse, mi chiese se volevo bere qualcosa. «Ce l’hai una birra?» le domandai. Aprì il frigo e prese due lattine dallo scomparto, porgendomene una. Facemmo toccare le due lattine per brindare alla nostra operazione riuscita. «Siamo stati bravi.» commentai soddisfatto. «Due professionisti del crimine!» aggiunse lei con tono ironico. Scoppiammo entrambi a ridere, senza sapere se quelle erano risate di gioia o semplicemente un riso isterico.
Entrambi bevemmo un sorso della nostra birra, poi, guardandola negli occhi, le dissi: «Brava Elena, sei stata grande.». Il mio era un complimento sincero ed era un modo per ringraziarla per il rischio che aveva corso. Lei abbassò lo sguardo e, rossa in viso, mormorò «Lascia perdere.» Ci fu un attimo di silenzio prima che lei iniziasse a parlare «Adesso dobbiamo scoprire cos’è contenuto nella directory… a proposito, dov’è il delfino?» Senza perdere tempo, infilai la mano nel taschino interno della giacca e, dopo avere afferrato la pen drive, gliela porsi. Elena la prese in mano come se fosse la cosa più fragile del mondo, quasi temendo che si rompesse al minimo contatto. Con estrema cura la inserì nella porta usb del suo laptop, che nel frattempo aveva completato il processo di avvio. Pochi istanti dopo, comparve l’icona del drive e, quando Elena vi accedette, un brivido mi attraversò il corpo. Test_Pantera. Quella maledetta directory, che tanto ci aveva fatto penare, finalmente era lì davanti a noi, in attesa di essere esplorata. Ci guardammo per qualche secondo, come per cercare l'uno negli occhi dell'altra la conferma a proseguire. Senza staccare gli occhi dai suoi, annuii con un piccolo cenno del capo. D’improvviso, il suo volto cambiò espressione, si irrigidì, come se stesse cercando di nascondere un timore improvviso. «Fallo tu.» disse Elena andomi il mouse. Era una reazione che non mi aspettavo da lei, ma sorrisi scuotendo il capo e, con un gesto deciso, aprii la directory.
capitolo 15
PREDATORE Sul tratto di pista ciclabile che costeggiava le piantagioni di tabacco e che conduceva dritto allo spiazzale dell’enorme silos, mi trovavo a pochi i dall’ombra che, come un fantasma, si era improvvisamente materializzata di fronte. Respirando affannosamente, per mantenere un briciolo di controllo, tenevo lo sguardo fisso sulla scura figura che restava immobile davanti a me. Nella posizione in cui mi trovavo, con la bicicletta tra le gambe che limitava i movimenti, era un gioco da ragazzi saltarmi addosso… del resto, chi mi poteva assicurare che non si trattasse di una trappola ordita da qualcuno che voleva rapinarmi? Strizzai gli occhi per mettere a fuoco e capire se era una persona che conoscevo oppure no. Quando osservai bene i tratti del suo viso, con mia profonda sorpresa scoprii che si trattava di una donna. Una donna! Chi era? E che voleva da me? La osservai attentamente, era giovane, dai lineamenti dolci e delicati, anche se il suo volto sembrava quasi impietrito con un’espressione che pareva rivolta nel vuoto… forse attendeva che le parlassi. «Chi è lei?» le chiesi con tono secco, cercando di nascondere l'agitazione che cresceva di secondo in secondo. Appena udì la mia domanda, la giovane donna si portò istintivamente la mano sulla bocca, come per reprimere un pianto improvviso. Quella reazione, così improvvisa e inaspettata, mi lasciò sorpreso ma contribuì a sciogliere la mia tensione. No, non si trattava di un rapinatore. Lasciai are qualche secondo, poi cercai di cambiare approccio. «Lei mi conosce?» le chiesi, usando un tono di voce più gentile. Immobile e preoccupata, la donna continuava a fissarmi come se quasi volesse assicurarsi che fossi davvero lì e non stesse sognando. In quello sguardo ipnotico c’era qualcosa di tanto singolare che mi turbava, mi disorientava, mi urtava. Uno sguardo che racchiudeva qualcosa di… familiare. Con estrema lentezza, la sua mano cominciò a scendere fino a scoprire la sua
bocca, il suo mento. Poi, abbozzando un mezzo sorriso, mi rispose con voce leggermente tremante «Si… ci conosciamo.» Ancora una volta, nel giro di pochi minuti, restai di sasso. Ci conoscevamo… ma in quel momento non riuscivo a ricordare chi fosse, pensai alla moglie di uno dei tanti operai che ogni giorno lavoravano nelle piantagioni di tabacco. Osservai meglio il suo viso, sperando in un’illuminazione. Niente… anche se quegli occhi mi erano vagamente noti. «Posso chiederle in quale circostanza ci siamo conosciuti?» le chiesi guardandola confuso. Lei non rispose, ma continuava a fissarmi come se desiderasse sfiorarmi ma senza osare ad avvicinarsi di più. «Senta, purtroppo io ho la memoria un po’ corta. Quindi mi deve perdonare se…» «No, no!» mi interruppe all’improvviso «non ti devi preoccupare.» mi disse scuotendo la testa. «Lo so che non riesci a ricordarti di me… è ato tanto tempo.» disse dopo una pausa. Restai immobile sulla mountain bike, senza riuscire a capire di che diavolo stesse parlando. Questo mi fece innervosire un pò. «Insomma, mi vuole spiegare chi è e perché mi ha chiesto di venire qui stasera?» La donna rimase come sorpresa dal mio scatto di rabbia ma dimostrò di capire il mio nervosismo «Si… ti spiegherò tutto.» Lasciai cadere la mountain bike sul tratto di pista ciclabile e, lentamente, avanzai nella sua direzione. Avvicinandomi vidi i suoi occhi diventare rossi e una lacrima le cadde sulla sua guancia «Oddio, che ti hanno fatto!» disse portandosi la mano sulla faccia.
capitolo 16
PREDA Alle 6 del mattino la sveglia, odiosa come sempre, cominciò a suonare senza sosta. Senza aprire gli occhi, allungai la mano e la spensi, anche se avrei preferito scaraventarla dall'altra parte della stanza… ma quel giorno mi attendeva un viaggio impegnativo con destinazione Torino, luogo del secondo convegno organizzato dall’ALOF. Mi alzai dal letto, rendendomi conto di non essermi neppure tolto i vestiti che avevo indossato la sera prima. Ieri sera! In pochi istanti, come fotogrammi di un film autobiografico, mi arono nella mente le immagini e i ricordi del giorno prima: la partita di calcio, la sbagliata e quella corretta, il giro di controllo della guardia di sicurezza, l’urlo di paura di Elena... e poi le raccapriccianti informazioni contenute nella directory “Test Pantera”. Provai un senso di inquietudine, di ansia, di vera e propria paura. Nella semioscurità, mi alzai dal letto e attraversai la stanza, con la luce proveniente dall’esterno che illuminava scarsamente il tragitto. Entrai in bagno, dove mi tolsi i vestiti intrisi di sudore. Regolai l'acqua della doccia e mi feci accarezzare dal tiepido getto dell’acqua. Restai immobile sotto l’acqua per dieci minuti buoni, cercando di tenere la testa sgombra da ogni pensiero. Ma i ricordi della notte precedente mi riaffioravano nella mente come bolle di sapone. Ero ancora profondamente scosso per il piano criminale che il vertice della CTI aveva messo in atto, con spietata e lucida follia. Uscii dalla doccia e mi fermai davanti allo specchio a guardare la mia immagine riflessa. All’improvviso, fui travolto da una crisi di coscienza. Come potevo continuare a lavorare per una multinazionale senza scrupoli, il cui unico scopo era di trarne il maggior vantaggio economico, fatturando e lucrando sulle vite degli altri? Provavo un senso vergogna, ma anche amarezza, tristezza e tanta rabbia. Sentivo il bisogno di reagire in qualche modo, di andare via dalla CTI. Poi pensai a Riccardo, al suo omicidio, alla verità che forse stava venendo a galla. No, non potevo mollare proprio adesso, dovevo andare avanti. Rientrai in camera, mi vestii velocemente e preparai il bagaglio in fretta e furia mettendoci il minimo indispensabile. Aprii la porta d’ingresso, l’aria fresca mi accarezzò le guance penetrando nei polmoni,
ripulendomi la mente da ogni pensiero. Il taxi era parcheggiato davanti casa a motore spento, in mia attesa. Montai in macchina e al tassista dissi telegraficamente «Fiumicino.» Lui partì come un razzo. Arrivati in aeroporto, pagai il tassista e mi diressi verso l’entrata dove, al mio aggio, le porte automatiche si aprirono sibilando. Camminando a o spedito, giunsi ai banconi del check-in, dove una lunga fila di persone procedeva lentamente. Guardai l’orologio, per fortuna ero di buon anticipo. Giunto finalmente il mio turno, la hostess controllò i miei documenti e stampò la carta d’imbarco. «Uscita A22, imbarco alle ore nove e quindici. Buona giornata.» «Grazie.» le risposi automaticamente, dirigendomi subito al varco dei controlli di sicurezza. Quella mattina, per essere puntuale, avevo fatto tutto di fretta, quindi avevo a disposizione un po’ di tempo libero prima dell’imbarco. Vagai un po’ in giro, osservando le vetrine dei negozi di abbigliamento e dando un’occhiata ai libri di una delle tante librerie sparse all’interno nell’aeroporto. Mi sentivo ancora un po’ intontito per le poche ore di sonno della notte precedente. Mi occorreva un caffè. Entrai in un bar vicino al gate del mio imbarco. Ordinai un caffè e mi sedetti in un angolo, dove presi a sfogliare un giornale. Saltate le prime pagine dedicate alle notizie di politica interna con le sordide lotte di potere e affari organizzate dai partiti politici, mi soffermai sulle notizie di economia, in particolare su un articolo che parlava dell’esplosione dell'outsourcing, indicato come possibile via d'uscita alla stretta sui budget societari. «Caffè.» annunciò il barista con aria stufata. Abbassai il giornale e, dopo avergli lanciato una rapida occhiata, presi la tazzina e cominciai a sorseggiare il caffè. Guardai l’orologio, le lancette segnavano le otto e trentun minuti, pochi minuti ancora e sarebbe cominciato l’imbarco sull’aereo. Continuai a sfogliare il giornale e, quando giunsi alle notizie di cronaca, tra i vari articoli lessi in un trafiletto una notizia che mi raggelò. ROMA: NUOVO SUICIDIO IN CARCERE. Un altro detenuto si è suicidato in carcere la scorsa notte a Roma. Si tratta di un 34enne rumeno che si è impiccato usando i propri vestiti. Il detenuto si era dichiarato reo confesso del brutale
omicidio, avvenuto lo scorso Febbraio, di un giovane manager di una importante multinazionale. Secondo le stime del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, è il ventiquattresimo suicidio dall'inizio dell'anno. Protendendo il collo in avanti, avvicinai gli occhi per vedere meglio e, quando vidi la sua foto, lo riconobbi, sobbalzando indietro inorridito. È lui! l’uomo che ho visto in commissariato! Come ipnotizzato da quella faccia che pareva lanciare a tutti uno sguardo di sfida, restai diversi minuti con gli occhi appiccicati alla foto, mentre la mia mente tornava a quella mattina, quando, da dietro il vetro divisorio, avevo visto quell’uomo di corporatura magra che, con le mani intrecciate come in preghiera, fissava pensieroso il pavimento. L’abbiamo preso ieri sera... Si è lasciato arrestare senza opporre resistenza… ha confessato di essere stato lui, assieme ad un complice, ad aver ucciso Bevilacqua… Sembra che un terzo uomo gli abbia proposto di fare la rapina… Suicidio… ma perché? Forse i rimorsi e i sensi di colpa per l’atroce delitto l’avevano portato a quel gesto così estremo… o forse c’era dell’altro dietro la sua morte. Le due hostess cominciarono le operazioni di imbarco, mi alzai e mi misi in fila, continuando a pensare a lui. Una volta entrato in aereo, mi accomodai al posto assegnato. Appoggiai la testa allo schienale e, poco dopo il decollo, mi addormentai, complice la stanchezza accumulata e il rumore ipnotico dei motori. Quando riaprii gli occhi, guardando fuori dall’oblò, mi accorsi che stavamo per atterrare. Ritirato il bagaglio, noleggiai una macchina e mi diressi verso Torino. Dopo pochi chilometri percorsi a buon ritmo, mi accorsi di non aver ri il cellulare dopo essere sceso dall’aereo. Appena lo feci, trovai tre chiamate perse di Elena e un sms. Quando lo lessi trasalii “Siamo nei guai. Chiamami.” Composi immediatamente il suo numero con la mano libera, mentre con l’altra tenevo il volante. Attesi qualche secondo, prima che lei mi rispondesse «Stefano.»
«Ciao Elena. Che succede?». «Mauri ha scoperto che qualcuno è entrato nel suo computer.» Sembrava molto agitata, la sua voce era tremolante. «Cosa?» dissi sgranando gli occhi, incredulo «Come è successo? …e come l’ha scoperto?» «Non lo so… poco fa è arrivata una mail della sicurezza aziendale in cui si dice che “a seguito di un grave episodio verificatosi ai danni dell’amministratore delegato, il quale ha denunciato un accesso fraudolento al suo computer da parte di ignoti, si consiglia vivamente di proteggere il proprio computer con una per impedire l'accesso da parte di utenti non autorizzati”. C’è anche una procedura per consultare data, ora, minuto e secondo di ogni volta che il computer viene o spento… Ci hanno scoperti, Stefano!» Appena Elena pronunciò quelle parole, sentii lo stomaco serrarsi in una morsa, la testa girare, il panico salire. Come diavolo era potuto accadere, dopo tutta la nostra preparazione e l’accurata organizzazione? «La mail della sicurezza parla di ignoti…» osservai con finto ottimismo. «Si… in questo momento stanno verificando l’orario di entrata e di uscita di tutti i dipendenti. Ho paura, tanta paura.» «Stai tranquilla, Elena. Il fatto di aver finito tardi di lavorare non implica necessariamente che siamo stati noi… è successo mille altre volte. Chiamami appena scopri qualcosa.» «Ok.» rispose lei sommessamente, prima di chiudere la conversazione. Eravamo fottuti. Quanto tempo sarebbe trascorso prima che la sicurezza aziendale giungesse sulle nostre tracce? Pensai a quello che poteva succedere. Immaginai le reazioni sdegnate e stupite dei colleghi, pensai alla faccia esterrefatta di Mauri quando avrebbe appreso che eravamo stati noi ad intrufolarci di nascosto nel suo ufficio. Pensai alla sua profonda delusione, dopo la fiducia che mi aveva manifestato… Dopo qualche minuto ato seduto in macchina a pensare a quello che sarebbe successo da lì a poco, mi accorsi di essere giunto alle porte di Torino. Dopo un
centinaio di metri si materializzò una lunga fila di automobili che transitavano lentamente, a o d'uomo. Rallentai sin quasi a fermarmi e, giunto dietro l’ultima automobile, abbassai il finestrino e misi fuori la testa per capire il motivo della lunga fila. Non riuscivo a scorgere nulla da quella posizione, forse si trattava di un incidente. Avanzando lentamente, mi accorsi che la causa del rallentamento era invece provocata dalla presenza di un semaforo. Mi lasciai andare contro il sedile sbuffando, ero stanco e non vedevo l’ora di mollare la macchina in un dannato parcheggio e andare a riposare un po’. Proprio in quel momento partì la suoneria del mio cellulare. Lo recuperai dal sedile eggero, ossia da dove l’avevo scaraventato conclusa l’ultima conversazione. Prima di premere il tasto di risposta verificai sul display il nome del chiamante. Era ancora Elena. «Elena.» risposi a mo’ di saluto «Sei arrivato?» «Quasi, sono in coda a un semaforo… Hai novità?» Elena parve cambiare improvvisamente umore, la sua voce divenne un sussurro come se provasse fatica a raccontare. «Mentre ero nell’ufficio di Mauri, vedendo la sagoma della guardia attraverso il vetro della porta, per cercare di fare il più alla svelta possibile, ho scollegato la chiavetta usb senza seguire quella noiosa procedura di rimozione sicura.» Tirai indietro la testa e chiusi gli occhi, pregando che non fosse come temevo. «Proprio in quel momento la guardia di sicurezza ha aperto la porta e mi sono dovuta nascondere sotto la scrivania per non essere vista. Poi sei spuntato tu, urlando come un forsennato per distrarre la guardia. Quando vi siete allontanati nel corridoio, approfittando di quel momento di distrazione, sono uscita velocemente dall’ufficio di Mauri, senza spegnere il computer… tanto si sarebbe attivato automaticamente lo screen saver, tornando a come l’aveva lasciato Mauri… ma del messaggio di rimozione non sicura me ne sono proprio dimenticata...» «…così stamattina quando Mauri ha riattivato il computer, ha visto il messaggio e si è fatto un mucchio di domande.» Dissi io con un sospiro profondo.
«…si» rispose lei con voce tremante Chiusi gli occhi, cercando di non palesare il mio nervosismo e concentrandomi sul mio respiro che si faceva sempre più affannoso. Dopo qualche secondo ritrovai la calma, e quando parlai la voce uscì sicura e tranquilla. «Ascoltami Elena, la cosa che devi fare adesso è cercare di capire se sono già sulle nostre tracce. Hai capito? Scopri se ci stanno dando la caccia. Stai tranquilla, andrà tutto bene, intesi?» «Mi dispiace, Stefano ma…» «Non ti preoccupare, ce la faremo.» le dissi prima di chiudere la conversazione. Le automobili in coda si mossero una dopo l'altra, prima lentamente, poi sempre più veloci, per poi rifermarsi bruscamente. Frenai, ritrovandomi vicinissimo al semaforo, dietro un Espace nero. Immerso nei miei pensieri, cercavo di trovare una scappatoia, una via di fuga. Ma ormai eravamo nei guai fino al collo, e di lì a poco sarebbe cominciato il nostro calvario. Qualcuno suonò il clacson in segno di protesta, alzai la testa e vidi il semaforo verde e la strada di fronte a me completamente sgombera. Inserii la marcia e partii in direzione dell’albergo. Qualche minuto dopo giunsi all’hotel dove, oltreato l'ingresso, entrai nel parcheggio antistante. Scesi dalla macchina, presi i miei bagagli e mi diressi verso la reception per ritirare la chiave della camera. Feci velocemente il checkin e salii in camera usando l’ascensore. Entrato nella stanza 319, tolsi la giacca e mi buttai sfinito sul letto. Il viaggio era stato lungo e faticoso e le notizie che mi aveva dato Elena mi avevano messo in grande agitazione. Decisi di dormire un po’, chiusi gli occhi ma nella mia testa sentivo ancora il rimbombo delle parole di Elena. Mi girai e rigirai nel letto, cercando di pensare a qualcos’altro sperando di addormentarmi, ma sentivo la testa scoppiarmi. Dovevo fare qualcosa per distrarmi, forse un po’ di tv mi avrebbe aiutato a tenere sgombera la mente. Cercai il telecomando e, dopo averlo puntato in direzione della tv a schermo piatto, premetti un pulsante. La tv restò spenta. Provai di nuovo premendo il tasto di accensione, ma niente, la tv continuava a non accendersi. Allungai un braccio e afferrai il telefono per chiamare la reception. Premetti il tasto “9” e, dopo due squilli, mi rispose una voce gentile e disponibile «Sono Sabrina, come posso aiutarla?». Proprio in quel momento sentii il mio cellulare squillare, probabilmente era di nuovo Elena.
Ignorando la receptionist in attesa dall’altra parte del telefono, frugai in fretta nella tasca della giacca in cerca del cellulare che continuava a suonare imperterrito. Finalmente lo trovai, lo afferrai velocemente e, quando lessi il nome del chiamante, trasalii. Avvicinai gli occhi al display toccandolo quasi con il naso. Sì, avevo letto bene: a chiamare era proprio Sara. «Pronto?» udii la gentile voce della receptionist gracchiare attraverso l'altoparlante del telefono, mentre il cellulare continuava imperterrito a squillare. «Ehm…niente….il cellulare…» riuscii a farfugliare «…richiamo dopo.» Aggiunsi mettendo giù il ricevitore. Emisi un profondo respiro, nel vano tentativo di impostare la voce in modo da farla sembrare tranquilla e premetti il tasto di risposta «Pronto?!» «Ciao» mi rispose una voce suadente «sono Sara.» «Sara! che bella sorpresa! Come stai?» risposi col cuore che mi martellava dentro come a voler schizzare via dal petto. «Bene, grazie» rispose sempre con lo stesso tono di voce «Volevo salutarti, è un po’ che non ci sentiamo.» «È vero, dopo quella sera non ci siamo più sentiti.» le dissi, pentendomene subito dopo. Non volevo darle a vedere che ricordavo quella sera infuocata trascorsa insieme, ma soprattutto che avessi una voglia matta di rivederla. Decisi di cambiare argomento «Mi trovo in un albergo a Torino, sono appena entrato in stanza…» «Scusami, forse ti ho chiamato in un momento inopportuno. Se vuoi possiamo risentirci…» «No, non ti preoccupare mi sono già sistemato.» «Sei pronto per il secondo round?» quando sentii quella domanda, il sangue mi si raggelò nelle vene. Voleva significare che anche lei avrebbe partecipato all’incontro dell’ALOF? «Cosa? Non mi dire che farai ancora la moralista rompiscatole?»
«Eh già…» «Giuro che stavolta scenderò in platea e ti prenderò a ceffoni!» sentì il suono di una risata provenire dall’altro capo del filo. «Sei già stato in giro per la città?» mi chiese subito dopo. «No. Stavo giusto pensando di andarci, è la prima volta che vengo a Torino.» In realtà tutti i miei pensieri erano concentrati sulle orribili notizie che mi aveva dato Elena. «Se ti fa piacere, potrei accompagnarti al Museo Egizio…» Quelle parole giunsero come un lampo di fuoco, dritte nel mio cuore. «Dove? …voglio dire …ti trovi a Torino a-adesso?» le chiesi con un filo di voce «Si.» «Certo, volentieri! Non vedo l’ora di rivederti e poi fare la visita in due sarà ancora più interessante… tra quanto ci vediamo?» «Ce la fai tra… diciamo… un paio d’ore?» «Si, tra due ore è perfetto.» «Bene. Ti o a prendere io. Dov’è il tuo albergo?» Le diedi l’indirizzo e, prima di chiudere, mi disse: «mi raccomando sii puntuale.» «Ok.» risposi sorridendo e chiusi la conversazione. Restai a riflettere in silenzio per diversi minuti. Sara si era rifatta viva e “casualmente” proprio in occasione del convegno dell’ALOF, dove sapeva della mia presenza. Evidentemente era alla ricerca di altro materiale da presentare al giornale per cui lavorava. Mi stava usando? Forse, ma non mi importava. A me piaceva da impazzire e il desiderio di portarmela di nuovo a letto era più forte del mio orgoglio. Il ricordo del nostro primo incontro si riaccese vividissimo nella mia memoria: la cena sulla terrazza, il bacio in ascensore, la notte di sesso.
Senza perdere altro tempo aprii la valigia, e tirai fuori i vestiti informali che in tutta fretta avevo messo la mattina. Li appoggiai sul letto, per fortuna nel fare il bagaglio avevo pensato bene di buttarci dentro anche un paio di Lee. Due ore più tardi uscii dall’albergo e attesi il suo arrivo. Era una bella giornata, con i raggi del sole che pungevano sulla pelle, mentre un vento caldo soffiava nervoso tra i miei capelli. Guardai l’orologio, erano le undici e lei sarebbe dovuta essere già da me. Quando alzai lo sguardo, da lontano scorsi una figura che riconobbi subito: Sara. Appena mi vide mi salutò agitando leggermente la mano destra e cominciò a venirmi incontro. Mentre si avvicinava con la sua innata classe, mi guardava con il suo splendido sorriso e, appena fummo vicini uno di fronte all’altro, ci abbracciammo stretti, tanto da sentire il suo cuore battere insieme al mio. Sara mi guardò con i suoi splendidi occhi neri e mi diede un bacio sul lato della bocca. «Come stai?» mi chiese quando si staccò da me. «Bene… e tu?» «Io bene.» «È bello rivederti.» le dissi mentre il mio sguardo si posava vorticosamente sui suoi capelli neri, sul suo viso rotondo, sulle sue labbra rosse. Lei sorrise sommessamente, in modo elegante. Avrei voluto chiederle dov’era finita tutto quel tempo e perché si era fatta viva solo allora. Ma lasciai stare, avevo intenzione di godermi la giornata insieme a lei. «Andiamo, la macchina l’ho lasciata dietro l’angolo.» disse lei indicando un incrocio più avanti. Ci incamminammo e, mentre avanzavamo, notai il suo abbigliamento, composto da una camicia bianca di Ralph Lauren, un paio di pantaloni blu attillatissimi e due Hogan chiare immacolate. «Sempre in giro a convincere la gente di stare dalla parte dei buoni?» disse lei. «L’azienda ripone molta fiducia nella mia diplomazia.» «Non te la cavi male, devo dire… l’ultima volta sei riuscito a circuire persino una seria ed onesta giornalista» mi disse poi in tono ironico. Ridemmo insieme. Lei mi prese sotto braccio, si strinse a me e continuammo a camminare lentamente. Aveva un buon profumo, dolce e delicato.
«Com’è andata con l’articolo?» le chiesi «Bene, è piaciuto. Ho ricevuto anche i complimenti.» «Non ti hanno chiesto come hai fatto a reperire tutte quelle informazioni, così confidenziali?» «Mi conoscono. Sanno che ottengo ciò che voglio, quando lo voglio.» «Devo dire che hai un metodo infallibile.» aggiunsi, pentendomene subito dopo. Ero stato volgare ma lei non lo diede a vedere. Sara era una persona ironica ed intelligente. Dopo un centinaio di metri, svoltammo a sinistra ed entrammo in una stradina stretta dove era parcheggiato un Espace con le quattro frecce accese. Il monovolume, completamente nero e con i vetri oscurati, aveva le due ruote laterali sul marciapiede. «Dove pensi di andare con questo furgone?» le chiesi ironico «È l’unica macchina che sono riuscita a trovare appena arrivata in aeroporto.» mi rispose, mentre apriva lo sportello e montava in macchina. Lo stesso feci anch’io e, appena le fui affianco, vidi i suoi occhi fissi sui miei «Perché non ti sei fatto sentire per tutto questo tempo?» mi chiese a mo’ di rimprovero. La guardai in faccia, osservando i suoi occhi farsi sempre più gelidi. Non feci in tempo ad aprire bocca per mormorare una scusa, che lei si avvicinò e mi baciò. Le nostre lingue si incontrarono, prima quasi timorose poi sempre più impavide. Si cercavano, si trovavano e si bramavano di desiderio. Sentii la sua mano sulla mia guancia, per poi scivolare sul collo. Io allungai la mano per accarezzarle il fianco ma, un istante prima di sfiorarlo, sentii un intenso dolore sul collo, simile alla puntura di un insetto. Ritrassi subito la mano e la portai istintivamente sul collo, dove il bruciore aumentava sempre di più. Un attimo dopo cominciai a vedere delle luci argentee e a provare un senso di giramento di testa, simile ad uno svenimento. Chiusi gli occhi ed avvertii la sensazione di volare. Confuso e stordito, allungai la mano verso la sua faccia, sfiorandole la guancia. Improvvisamente, una mano invisibile, pesante e decisa, mi afferrò da dietro e mi trascinò sui sedili posteriori dell’Espace. Lottai con tutte le forze residue per divincolarmi ma caddi all'indietro emettendo urlo soffocato dal terrore. Attraverso i vetri oscurati, vidi il cielo azzurro sfumare verso un colore indefinibile. Poi fu il buio totale.
capitolo 17
PREDATORE In piedi sulla pista ciclabile, la mountain bike abbandonata per terra, scrutavo con sospetto la misteriosa donna, in attesa che mi rivelasse la sua identità e il motivo per il quale mi aveva dato quell’appuntamento. Con gli occhi fissi in terra, come per sfuggire al mio sguardo carico di domande, lei sembrava intimorita, quasi terrorizzata all’idea di aprire bocca. Poi alzò la testa e, con voce tremolante, disse: «Lo so… che quanto sto per raccontare ti sembrerà incredibile... Ma per quanto assurdo possa sembrarti, devi credermi, è la verità.» Mi guardò con i suoi occhi azzurri, per leggere una mia minima reazione alle sue parole. Io annuii, invitandola a proseguire, anche se in realtà non comprendevo del tutto il significato di quelle parole. «In realtà… tu non sei… chi credi di essere.» Aggrottai le sopracciglia, scrutandola con sguardo interrogativo. «Non capisco, si spieghi meglio.» Le chiesi con un tono leggermente alterato. Lei parve esitare, fece are diversi secondi. Poi con voce decisa disse: «Tu non sei Riccardo Bevilacqua!». Sentendo quella folle affermazione, mi scappò una risata che era un misto tra il sarcastico e il nevrotico. Mi convinsi subito di avere di fronte una pazza squinternata o, peggio ancora, una che voleva prendersi gioco di me. Tuttavia, decisi di rimanere al gioco, curioso di capire fin dove voleva arrivare. «Ah, no? E chi sarei allora?» le chiesi con un tono un po’ ironico e un po’ beffardo. «Riccardo Bevilacqua è morto... È stato assassinato.»
Restai con gli occhi incollati sulla donna, colpito da tanta sicurezza nel tono della sua voce. «Non ha valutato l’ipotesi che si trattasse di un caso di omonimia?» ribattei immediatamente con un pizzico di arrogante saccenteria. La donna non rispose ma si avvicinò lentamente alla mia faccia, fissandomi intensamente, come se fosse intenzionata a darmi un bacio. I suoi occhi azzurri erano vicinissimi ai miei. «Il tuo vero nome è… Stefano Preite.» Un lampo attraversò la mia mente, colmandola improvvisamente di un moltitudine di pensieri, di immagini, di domande. Stefano Preite. Quel nome mi si era materializzato nel buio della mente, in un frastuono di emozioni che, come una tempesta, mi avevano devastato l’anima. Restai impietrito, aggrappato a quel nome come se realmente mi appartenesse. «Chi… chi è Stefano Preite?» le chiesi balbettando. «Sei tu.» rispose lei laconica, come se fosse una cosa evidente. «È la tua vera identità.» mi disse fissandomi intensamente negli occhi. Poi, sospirando, volse lo sguardo verso le piantagioni di tabacco, come per trovare la giusta concentrazione. «Diverso tempo fa… qualcuno ti ha rapito e ti ha fatto… qualcosa al cervello. Poi ti ha attribuito un’altra identità, quella che oggi credi essere la tua.» Qualcuno?... Qualcosa? Quelle parole echeggiarono nella mia mente per lunghissimi istanti e fecero serpeggiare la paura nel mio cuore. Un’altra identità!? «Lei è pazza!» le dissi con un tono di voce che sarebbe dovuto essere stizzito ma che, invece, risuonò poco convinto. «Le concedo trenta secondi per andarsene, dopodiché sarò costretto…» «Io sono Elena.» mi disse con voce rotta dalla commozione, alla ricerca di una insperata comprensione.
«Elena…» sussurrai con un filo di voce, mentre il suo volto si illuminava di una luce di speranza, di illusione. La fissai intensamente, cercando di aggrapparmi al ricordo dei suoi occhi, così familiari, conosciuti. Occhi che mi riportavano indietro nel tempo. «Devi credermi! Qualcuno ti ha fatto una specie di lavaggio del cervello e poi ti ha cucito addosso un’altra identità… quella di Riccardo Bevilacqua.» disse lei quasi in lacrime. Quelle parole rimbombarono nella mia mente, così forte che dovetti sorreggermi alla staccionata che delimitava lo spiazzale della cisterna dalle piantagioni di tabacco. Mi si avvicinò lentamente e appoggiò la mano sulla mia spalla. «Io e te eravamo colleghi, eravamo entrambi nella sede centrale della CTI.» Nella sede centrale della CTI? Ripiombai nel buio. Elena attese un mio cenno di assenso, ma presto i suoi occhi si riempirono di delusione. «Insieme indagammo sull’omicidio del nostro collega e amico Riccardo… il vero Riccardo Bevilacqua.» Il vero Riccardo Bevilacqua? Era assurdo, ma mi sforzai di continuare ad ascoltarla. «Scoprimmo che il vertice della CTI era in qualche modo coinvolto nell’omicidio e...» «Alza le mani!» ordinò improvvisamente una voce perentoria, che sembrava provenire dalle foglie di tabacco alle mie spalle. Mi girai di scatto, guardando in direzione delle piantagioni, dalle quali spuntò una canna di un fucile. In un misto di sorpresa e terrore, alzai subito le mani, mentre dall’oscurità emersero i lineamenti di un volto che riconobbi subito. Sara! Sgranai gli occhi in un'espressione di stupore, e abbassai le mani. Sbattei una, due, tre volte le palpebre, per mettere a fuoco una visione che difficilmente la mia mente riusciva a percepire: Sara col mio fucile da caccia minacciosamente spianato e il colpo in canna! «Sara!» esclamai con un filo di voce.
«Ti avevo detto di sparire.» disse lei rivolgendosi alla donna, fissandola con sguardo intenso e cattivo. Mi girai verso Elena, la quale con un’espressione lievemente impaurita, la fissava con occhi di ghiaccio. «Cosa gli hai raccontato?» le chiese con tono autoritario, mentre avanzava lentamente con il fucile sempre puntato su di lei. «La verità.» le rispose fredda Elena. Quella parola risuonò come un eco nella mia testa, fino a perforarmi il cervello. La verità. Finalmente Sara parve accorgersi di me e, guardandomi negli occhi, mi disse: «Riccardo, questa donna è pazza. È qui perché cerca di ingannarti.» Il suo volto non era quello solito, dolce, sereno, pacato, ma aveva assunto dei lineamenti duri fino a sembrare quello di un’altra persona. «Sara, abbassa quel fucile!» le dissi col cuore che batteva all’impazzata. Una breve pausa di silenzio seguì quella che più che una richiesta risuonò come un ordine: «È meglio che ritorni al casolare. Io sistemerò questa intrusa come merita.» «Che… che hai intenzione di farle?» le domandai con un filo di voce, mentre un brivido di terrore mi percorreva la schiena. «Ti prego Riccardo, torna a casa.» rispose secca. «Il tuo nome è Stefano… ricordi?» Improvvisamente, la voce di Elena risuonò alle mie spalle, calma, tranquilla, persino dolce. Mi girai di scatto trovando i suoi occhi che brillavano come due gemme. «Taci, stronza!» le urlò rabbiosamente Sara e, un istante dopo, il colpo del fucile risuonò nella valle. In un attimo, mi chinai sulle ginocchia coprendomi la testa con le mani, in un gesto dettato da un istinto di autoprotezione. Quando alzai la testa, lo spettacolo che mi si presentò davanti agli occhi fu agghiacciante, il più orrendo che avessi mai visto: il corpo di Elena che giaceva sul terreno, immobile e privo di vita. Le ha sparato! Benché inorridito, riuscii a riprendermi quasi subito. «No, no, no!» urlai
correndo verso Elena, la quale giaceva distesa davanti a me, mentre una pozza di sangue compariva sulla pista ciclabile. Devono essere spuntati da dietro una di queste siepi… lo hanno colpito alla testa con quel bastone… Per me si tratta di una esecuzione in piena regola… Chiusi immediatamente gli occhi per scacciare quei terribili frammenti di memoria e, quando li riaprii, trovai gli occhi azzurri di Elena, la quale, con un ultimo respiro, mi sussurrò: «Cerca… Renato… Mauri…». Incredulo, inorridito, assistetti impotente di fronte al suo volto che diventava sempre più simile ad una maschera di cera. Pensai al suo racconto assurdo, insensato… ma che aveva scatenato nella mia mente una pioggia di ricordi sorti dal nulla. «Andiamo!» mi ordinò improvvisamente una voce femminile proveniente da dietro le mie spalle. Girai la testa, trovando la canna del fucile puntata sulla mia fronte. Alzai lentamente gli occhi fino ad incrociare lo sguardo penetrante e minaccioso di Sara… mia moglie Sara. Guardai a lungo i suoi occhi che apparivano di ghiaccio, parevano possedere qualcosa di maligno, diabolico. «Cos’hai fatto?» le chiesi in un sussurro. «Forza muoviti, se non vuoi fare anche tu la stessa fine.» mi rispose lei secca, agitando la canna del fucile. Sgranai gli occhi allibito, contraendo il viso in una smorfia che era una via di mezzo tra disgusto e disappunto. La stessa fine. Non potevo credere che quelle parole fossero state pronunciate da mia moglie. No, non poteva essere vero. Sto sognando. Era la donna che pochi minuti prima avevo stretto tra le mie braccia dicendole di amarla e adesso, quella stessa persona, aveva il mio fucile da caccia puntato sulla mia testa. In un misto di incredulità e orrore, posai delicatamente la testa di Elena e mi alzai tenendo le mani in alto. «Al casolare.» La sua voce risuonò come un ordine. Senza dire nulla, mi voltai lentamente tenendo le mani in alto e cominciai a camminare. Ormai il sole era tramontato e l'oscurità della sera aveva cominciato a prendere possesso dell'ambiente. Percorrendo i sentieri fra le piantagioni di tabacco, mille pensieri mi turbinavano per il cervello. Improvvisamente tutto stava cambiando. La mia vita si stava trasformando in un inferno, si stava
rimodellando. Mia moglie era dietro di me col mio fucile da caccia puntato sulla schiena, con la minaccia di fare fuoco. Col are dei minuti tutte le mie certezze si stavano sciogliendo come neve al sole. Che diavolo stava succedendo? Dovevo saperlo o rischiavo di impazzire. Improvvisamente, arrestai il o e mi voltai. Presa alla sprovvista, Sara indietreggiò di qualche o, tenendo puntato il fucile su di me e pronta ad esplodere un colpo se solo avessi accennato ad una reazione. «Sara» le dissi tenendo i palmi delle mani rivolti verso l’esterno, in segno di arrendevolezza «che cosa sta succedendo? Hai ucciso una povera innocente e adesso mi tieni puntato quel fucile addosso. Perché?» le chiesi in un tono che rivelò tutta la mia preoccupazione ed ansia. Lei sembrò non prestare molta attenzione alla mia domanda. «Ti ho detto di andare al casolare!» mi urlò infatti rabbiosamente, puntandomi contro il fucile, pronta a spararmi un colpo da un momento all'altro. Ci guardammo per infiniti attimi, occhi negli occhi, cercando di leggere nel suo sguardo, un minimo segno di emozione, di preoccupazione, di sofferenza … ma il ghiaccio dei suoi occhi mi raggelò il sangue nelle vene. Aprii la bocca, ma le parole non uscirono. Poi, scuotendo debolmente la testa, le voltai le spalle e riprendemmo il cammino verso casa. Una decina di minuti più tardi, eravamo in prossimità del casolare. Da lontano potevo vedere il cancello di ferro che consentiva l’accesso al cortile antistante. Mi guardai attorno, nella speranza di individuare qualcuno che, per caso, si trovasse nelle vicinanze e che, soprattutto, ci stesse osservando… ma non c’era anima viva! Chiusi gli occhi, come per fuggire da quell’incubo che era dannatamente vero, reale… quando improvvisamente, dalle mie spalle udii provenire un tonfo e un piccolo lamento. Riaprii subito gli occhi e mi girai di scatto. Sara era distesa sul terreno che, nel disperato tentativo di recuperare il fucile finito proprio vicino ai miei piedi, stava compiendo il goffo tentativo di rialzarsi. Realizzai subito che era inciampata in una delle tante buche che si erano formate dopo le forti piogge dei giorni scorsi e, cadendo, le era sfuggito il fucile. In una frazione di secondo, misi il piede sul fucile, e con uno scatto felino lo raccolsi da terra e lo puntai su di lei. Vedendo la canna del fucile puntato sulla sua fronte, Sara si bloccò, restò immobile, guardandomi con due occhi di chi sapeva di essere ormai perduto, spacciato.
«Alzati lentamente» le dissi con un tono sprezzante «non mi costringere a farti del male.» Mentre pronunciavo queste parole, per diversi interminabili secondi, dovetti lottare duramente con me stesso per reprimere il desiderio di premere il grilletto. Dopo quello che aveva fatto a quella povera ragazza e quello che stava facendo a me, si meritava un buco in fronte. Ma non potevo trasformarmi anch’io in un assassino… l’assassino della mia adorata moglie. Guardai i suoi occhi spalancati e terrorizzati, quegli stessi occhi in cui mille volte mi ero perso nella loro dolcezza… ma in quel momento, sentivo il loro freddo toccarmi la pelle e il cuore. Perché questa follia? Per quale terribile segreto? Sara si alzò lentamente e, senza dire nulla, proseguì il cammino verso il casolare. Mi guardai attorno, stavolta pregando il Cielo che non ci fosse nessuno nelle vicinanze. Come avrei potuto giustificare il fucile puntato dietro la nuca di mia moglie? E il cadavere di quella ragazza sullo spiazzale della cisterna? Avrebbero subito dato la colpa a me… in fondo ero io quello col fucile. Dopo un centinaio di metri, percorsi a o svelto lungo il sentiero che portava al casolare, accedemmo nel cortile antistante e giungemmo davanti alla porta di ingresso. Durante il breve tragitto verso casa, nessuno dei due aveva aperto bocca evitando persino di incrociare gli sguardi. Prima di aprire la porta, Sara si voltò e mi guardò con gli occhi lucidi e arrossati. Per nulla intenerito dal suo sguardo, le feci cenno di entrare agitando la canna del fucile. Appena entrati in casa, lei si mise sul divano della cucina, proprio lì dove mille volte ci eravamo scambiati le prime effusioni prima di andare a letto. Chiusi la porta, dopo aver dato un’ultima occhiata fuori e mi sedetti sul tavolo posto di fronte a lei. La guardai dritta negli occhi, dai quali traspariva un infinito senso di tristezza, occhi che nascondevano qualcosa di oscuro. Sara prese un lungo respiro, e con un'espressione seria e pensosa, cominciò il suo racconto. «Fu lo stesso Renato Mauri a contattarmi. All’epoca lavoravo per un’agenzia di investigazioni specializzata nelle indagini industriali» disse con voce fredda, lo sguardo fisso sulle dita intrecciate «mi disse che aveva bisogno del nostro aiuto
per delle indagini sul personale, in quanto aveva forti sospetti su dei dipendenti, i quali avevano assunto comportamenti che potevano danneggiare l'azienda.» «Ci incontrammo così in un albergo all’E.U.R. dove mi confessò il suo timore che qualcuno fra i suoi dipendenti fe spionaggio industriale. Mi disse che aveva già indagato per conto suo, per scoprire chi faceva arrivare all’esterno informazioni riservate. Mi disse che il cerchio si era stretto attorno a due persone… una di queste ora giace nello spiazzale della cisterna.» Disse guardando fuori dalla finestra. Poi rivolse lo sguardo su di me «L’altra eri tu.» Io? Sgranai gli occhi, mentre sentivo il cuore che batteva all'impazzata, il respiro farsi affannoso. Iniziai a parlare per rendermi conto di balbettare. «C-come io?... io s-sono sempre stato qui…» Lei alzò la mano, come per chiedermi di non interrompere il suo racconto. Dopo diversi secondi, in cui la mia mente vagò alla ricerca di una spiegazione più logica e razionale alle sue parole, decisi di farla proseguire, annuendo leggermente col capo. «Mi venne chiesto di scoprire tutto il possibile dei sospetti: situazione familiare, situazione economica, quante e quali persone frequentavano in casa e fuori. E per diversi mesi tu e la tua collega foste seguiti, spiati, intercettati… finché non scoprii che stavate indagando sull’omicidio del vostro collega, Riccardo Bevilacqua.» Appena sentii pronunciare il mio nome ebbi un sussulto. Era la seconda volta che sentivo il mio nome attribuito ad un’altra persona, per giunta assassinata. Chi diavolo era costui? «Chi è Riccardo Bevilacqua?» le chiesi «Era un tuo collega e amico.» Un mio amico? Scossi il capo, non conoscevo nessun altro che portasse il mio stesso nome. Lei continuò, ignorando la mia smorfia di dissenso. «Fu ucciso a colpi di bastone mentre faceva un giro sulla sua bicicletta su una pista ciclabile alla periferia di Roma. La versione ufficiale parlò di un tentativo di rapina finita male da parte di due balordi, anche se gli investigatori erano convinti – e penso lo siano tuttora – di una messa in scena.» Una messa in
scena? «Proprio per questo motivo, tu e la tua collega decideste di scoprire la verità e chi si celava dietro il suo omicidio… giungendo a sospettare in un coinvolgimento di Renato Mauri, l’amministratore delegato della Charleston.» «Decideste, così, di fare irruzione nel suo ufficio e frugare di nascosto sul suo computer alla ricerca di qualcosa che potesse incolparlo. Trasferiste alcuni file su una pen drive convinti che in quei file vi fosse contenuta la chiave per scoprire la verità sulla morte di Riccardo… e in effetti qualcosa c’era.» «A quel punto Mauri si rese conto che la situazione stava sfuggendo di mano. Così decise di intervenire prima che la scomoda verità saltasse fuori. Mi propose di lasciare l’agenzia investigativa e di lavorare esclusivamente per lui… e io accettai. Il mio nuovo ruolo fu completamente diverso: da semplice spettatrice diventai una protagonista della tua vita.» «Inizialmente la mia missione fu una sola: sopprimerti.» Per nulla sorpreso, annuì come per dire “Certo, ovvio!” «All’ultimo momento lo stesso Mauri decise poi per una soluzione diversa.» Sara alzò gli occhi e mi guardò a lungo, intensamente. Pareva un po’ intimidita, e incapace di proseguire col suo racconto. Sembrava aver paura di me, della mia reazione alle parole che avrebbe detto. La guardai dritta negli occhi, dopo di che appoggiai il fucile sul tavolo sul quale ero seduto. Quando mi voltai lei continuò. «Fosti rapito, drogato e sottoposto ad una sorta di lavaggio del cervello da un’equipe di medici, durante il quale, ti fu completamente stravolta la personalità, ti cancellarono alcuni ricordi, e te ne alterarono altri, in modo che, tornato cosciente, saresti diventato un’altra persona, con un’altra identità. Così da Stefano Preite responsabile marketing e comunicazione, diventasti Riccardo Bevilacqua, responsabile del lotto C e felicemente sposato con Sara Giacobini… fino a nuove disposizioni.» La luce al neon riempiva di luce i suoi occhi, gli stessi che tutte le mattine ritrovavo al risveglio, mentre una lacrima le scendeva lungo la guancia. Restai immobile, sopraffatto da un senso di angoscia, di terrore, di totale confusione. Cominciai a tremare in maniera incontrollabile, a sentire dei brividi su tutto il mio corpo. Mi toccai la testa, nel tentativo di percepire con la punta delle dita un minuscolo foro, una cicatrice lasciatami dai miei aguzzini.
Cerca Renato Mauri. Come un lampo improvviso, mi arono nella mente le ultime parole pronunciate da Elena, prima di emettere l’ultimo respiro. Colto da un raptus di rabbia, afferrai Sara per un braccio, e la trascinai verso l’uscita. Prima di uscire, aprii la piccola cassaforte a muro da dove, assieme ai soldi e ai documenti, presi la mia Beretta M92.
capitolo 18
«E’ lui.» La voce di Sara uscì in un sussurro che arrivò flebile alle mie orecchie. Guardai in direzione del palazzo che ospitava la sede della Charleston Tobacco International dove, ferma davanti al cancello automatico, c’era una Jaguar XJ nera con vetri oscurati, attraverso i quali non si distingueva alcunché. Mi alzai in piedi e, prendendola per mano, cominciammo a scendere i gradini di Trinità dei Monti. Fingendoci una coppia di turisti, avevamo pazientemente atteso l’arrivo di Renato Mauri seduti sulla scalinata di Piazza di Spagna. Durante il viaggio verso Roma, Sara mi aveva raccontato altri particolari sulla mia vita precedente, quella di Stefano Preite. Mi aveva parlato delle mie abitudini, dei miei spostamenti, della mia accanita ricerca dei responsabili dell’omicidio di Riccardo. Per me era pazzesco ascoltare il racconto di un’altra vita che, in realtà, era la mia. Mi aveva raccontato del nostro primo incontro, a Reggio Calabria, durante un convegno in cui ero tra i relatori e lei, nei panni di una giornalista, mi aveva messo in difficoltà con una serie di domande provocatorie… tutta una messa in scena. E anche di quando, a Torino, la giornalista Sara si era fatta viva stavolta con l’obiettivo di rapirmi. Da quel giorno non avrebbe più rivisto Stefano Preite… ma Riccardo Bevilaqua. «Puoi andare.» le dissi, senza distogliere lo sguardo dall’ingresso del garage riservato al personale della CTI. Sentii il suo sguardo puntato su di me, i suoi occhi gelidi che mi fissavano, che mi penetravano nel cervello, ma non riuscii a girarmi. Non volevo guardarla negli occhi, avevo paura che i bei ricordi ati insieme mi saltassero addosso tutti insieme, come uno stormo di farfalle impazzite. La sentii piangere silenziosamente, ma la mia rabbia era troppo profonda, la sentivo pulsare nelle vene, mi stava bruciando vivo. La porta del garage si aprì accompagnata da uno stridore metallico, mentre la macchina si mosse lentamente varcando l’ingresso. Camminando a o spedito, mi allontanai da lei ed entrai nella rampa d’accesso. Mentre oltreavo il cancello elettrico, che poco dopo si richiuse alle mie spalle, sentivo il fragoroso suono del motore della sua Jaguar in lontananza. Entrai nel parcheggio semivuoto e mi diressi a o svelto verso la macchina, mentre un tanfo di gasolio bruciato assaliva barbaramente le mie narici. Muovendomi con la massima cautela, mi
avvicinai alla macchina ando rapidamente da un pilastro all’altro. Giunto dietro a quello più vicino, trattenendo il respiro per la paura di essere visto, tirai fuori la testa per sbirciare. Eccola! I due grossi fari posteriori della Jaguar erano proprio dietro di me, mentre il guidatore era intento a posizionare l’automobile tra le due strisce bianche del parcheggio. Tirai indietro la testa, poggiando la nuca sul pilastro, col cuore in gola e la fronte imperlata dal sudore. Avevo il timore di non essere all'altezza per un’operazione così rischiosa, così azzardata, così folle! Si trattava di sequestro di persona sotto la minaccia di arma da fuoco. E per giunta ai danni dell’amministratore delegato di una importante multinazionale! Ma non potevo tirarmi indietro, dovevo conoscere la verità, sapere quale orribile segreto si celava dietro quei vetri oscurati, riappropriarmi della mia vera identità. Chiusi gli occhi per pochi secondi, riaprendoli quando sentii il motore spegnersi. Era il momento… il momento di are all’azione. Trassi un profondo respiro e afferrai la pistola che tenevo ben nascosta nei jeans. In un attimo, sbucai da dietro il pilastro e uscii allo scoperto, cominciando a correre verso la macchina con la pistola puntata in avanti, proprio come avevo visto fare nei film polizieschi. Mentre mi avvicinavo, sentivo l’adrenalina corrermi lungo le vene fino al cervello. Un istante dopo giunsi allo sportello posteriore destro e, dopo averlo aperto con forza, mi introdussi nell’automobile. «Non si muova!» urlai, puntando la pistola dietro la nuca dell’uomo. Il suono della mia voce echeggiò all’interno dell’abitacolo. Non avevo paura di lui, l'avrei eliminato in meno di due secondi, se solo avesse accennato una reazione. Sorpreso, impaurito, incredulo, l’uomo restò fermo al suo posto senza lasciarsi sfuggire nemmeno una parola. Lentamente, sollevò le mani davanti alla faccia, i palmi aperti. «Ho… solo poche decine di euro» la sua voce uscì atona e roca, senza tuttavia riuscire a nascondere la tensione. «Non sono qui per questo.» gli risposi guardandolo dritto negli occhi attraverso lo specchietto retrovisore. Il suo sguardo, smarrito e terrorizzato, era fisso nei miei occhi, come a voler capire le mie intenzioni. Poi, come colpito da una improvvisa rivelazione, sgranò gli occhi e biascicò «Tu!». In un colpo, il suo volto cambiò espressione, ando dalla paura allo stupore,
con lo sguardo che pareva chiedersi se fosse in presenza di un fantasma sbucato da nulla. «Cosa vuoi?» mi chiese con un velo di preoccupazione negli occhi. Non ebbi esitazioni e risposi «La verità!». Renato Mauri mi guardò con un'espressione di commiserazione e, scuotendo leggermente la testa, mi disse: «La verità? A volte può essere più crudele di qualsiasi violenza fisica, e rivelarla può causare più male che bene… Molto spesso le persone non vogliono neppure saperla.» «Beh, non è il mio caso» gli risposi premendogli la canna della pistola dietro la nuca «io la verità la voglio conoscere tutta quanta.» Lui mi guardò per diversi secondi attraverso lo specchietto retrovisore, osservò i miei occhi carichi di rabbia e di determinazione. Poi, emettendo un sospiro di pura rassegnazione, sembrò annuire. «Nel mio ufficio.» disse con tono secco. «Cosa?» chiesi incredulo, cercando di mantenere il più possibile la calma. «Andiamo nel mio ufficio» disse lui voltandosi «non vorrai conoscere la verità qua dentro!» Per la prima volta mi ritrovai faccia a faccia con l’uomo che aveva cambiato per sempre la mia vita, che aveva rimodulato la mia identità. Lo guardai sospettoso, sapevo di aver a che fare con una persona potente e pericolosa. Tuttavia, decisi di correre il rischio e fidarmi di lui. «D’accordo. Niente scherzi però.» gli dissi mostrandogli la pistola. Lui la osservò come se stesse guardando un giocattolo «Quella… la puoi anche mettere via.» «Andiamo!» gli dissi con un tono che sembrava più un ordine che una richiesta. Scendemmo dalla macchina, trovandoci uno di fronte all’altro. Lui mi squadrò come un genitore severo guarda suo figlio, mentre io ricambiavo il suo sguardo.
Senza perdere altro tempo, ci dirigemmo verso una piccola porta di metallo posta in un angolo del garage, oltre la quale una rampa di scale conduceva al piano superiore. Le salimmo in silenzio, giungendo al piano superiore dove, una porta immetteva nella grande hall della Charleston Tobacco International. Mauri afferrò la maniglia ma, quando la abbassò per aprire, appoggiai la mia mano sulla sua. Lo guardai dritto negli occhi come a consigliarlo di non fare brutti scherzi. Lui annuì, fissò la maniglia per qualche secondo, poi spinse e aprì la porta. Una volta dentro, ci dirigemmo a o svelto verso il bancone della reception, dove l’impiegata salutò cortesemente l’amministratore delegato. Io lanciai un’occhiata nella grande sala, dove due guardie giurate erano appostate all’ingresso. «Buongiorno, ingegnere.» «Buongiorno Martha. Il signore è…» mentre pronunciava quelle parole strinsi la pistola che tenevo nascosta. Se solo avesse provato a fregarmi, l’avrei tirata fuori e gliel’avrei puntata sulla nuca «… con me.» A quelle parole sospirai lievemente per sollievo. «Certo, ingegnere. Le consegno subito il Visitatore. Buona giornata.» rispose la ragazza sorridente, dopo avermi consegnato il . Normalmente, avrei dovuto fornirle i documenti, ma se era l’amministratore delegato in persona a garantire, la procedura di sicurezza poteva essere byata. Appesi il al bordo esterno della giacca, e ci dirigemmo verso l’ascensore che, come per magia, era già al piano con le porte spalancate, in nostra attesa. Entrammo in cabina, dove Mauri spinse dalla pulsantiera il tasto 5. Le porte si chio alle nostre spalle e, dopo pochi secondi, si riaprirono accompagnate da un bip. Prima di uscire dalla cabina, lo guardai dritto negli occhi per un breve istante, come per ricordargli di non fare brutti scherzi, dopodiché ci affrettammo ad uscire. Pochi secondi dopo, entrammo nel suo ufficio dove, dopo aver chiuso la porta a chiave, tirai fuori la pistola. «Ti ho detto che quella non serve…» mi disse Mauri squadrando l’arma con aria insofferente, mentre si metteva comodo sulla sua poltrona in pelle. Seguì una pausa, durante la quale prese un sigaro da un cofanetto nero sulla sua scrivania. Lentamente, abbassai la Beretta. «E’ stata Sara a rivelarti tutto, vero?» mi domandò mentre si accendeva il sigaro con cura. Restai in silenzio, non avevo intenzione di raccontargli quello che era
successo la sera prima. Lui continuò comunque «Lo sapevo che non avrebbe funzionato». Mauri si alzò e si diresse alla finestra, fermandosi a osservare il panorama. «Certo, non poteva durare a lungo…» disse sottovoce, quasi a voler nascondere le parole. Trascorse un intenso silenzio, durante il quale parve riordinare i ricordi e le idee. Poi, improvvisamente, come se fosse uscito da una lunga e tormentata indecisione, si voltò verso di me, di scatto. «Il tuo vero nome è Stefano Preite» disse guardandomi fisso, per leggere nel mio volto i segni di qualche meraviglia «e tempo fa ti mettesti in guai seri» Lo guardai in silenzio, e ciò lo invitò a continuare «per questo, decisi di prendere la situazione in mano, di aiutarti… salvandoti così la vita.» Sgranai gli occhi in un'espressione di stupore. Mi ha salvato la vita? Mauri si voltò nuovamente verso la finestra, come se il panorama sottostante lo aiutasse a raccontare. «Eravamo stufi di assistere al continuo calo delle vendite, e profondamente delusi nel vedere vani tutti i nostri sforzi nel tentativo di invertire il trend. Occorreva fare qualcosa di diverso, rischiare, tirare fuori i coglioni e giocare sporco, così come facevano i nostri competitor.» Lo guardai incuriosito, mentre lui guardava insistentemente fuori dalla finestra. «Avvalendoci della collaborazione di un'azienda biotecnologica svizzera, creammo una nuova varietà di tabacco, le cui foglie contenevano tassi di nicotina maggiori del tasso naturale. Come sai, la nicotina provoca rapidamente dipendenza. Quando viene assorbita attraverso i polmoni, giunge al cervello attraverso i vasi sanguigni, procurando una sensazione di benessere e di rilassatezza. Ma quando, col are dei minuti, l’effetto della nicotina si va via via affievolendo, l’individuo diviene nervoso, irrequieto, si agita. L’organismo, ormai drogato, pretende un’altra dose, scatenando una irrefrenabile necessità di fumare. Ed ecco che il fumatore accende un’altra sigaretta per soddisfare tale necessità.» La mia espressione si fece incredula, ma lui non parve farci molto caso. «Coltivate segretamente in Italia, queste piante contenevano maggiori quantità di
nicotina grazie a una serie di trattamenti chimici e a manipolazioni dell'ingegneria genetica. Le foglie delle nuove piante, opportunamente selezionate ed essiccate, venivano miscelate alle foglie di tabacco normale. Il tutto, allo scopo di suscitare e mantenere la tossicodipendenza dei fumatori.» «Sempre agendo nella massima segretezza, realizzammo un nuovo prodotto contenente questa nuova varietà di tabacco, da lanciare sul mercato. Si trattava di un’edizione limitata delle Pantera, uno dei nostri prodotti più venduti.» Pantera. Appena sentii quel nome, un brivido mi percorse lungo la schiena, lo stessa sensazione che avevo provato quando avevo trovato il pacchetto che Elena aveva abbandonato in mezzo alle piantagioni. «Prima di lanciare il nuovo prodotto, fu necessario compiere un test su un numero ristretto di individui, scelti nella popolazione civile. Qualora il test avesse fornito riscontri positivi, avremmo diffuso il prodotto a livello nazionale con l’obiettivo finale di utilizzare le foglie della nuova varietà anche per la produzione degli altri prodotti della CTI.» Test Pantera. «Per ridurre il rischio di essere scoperti, si stabilì di condurre il test segreto su un campione “silenzioso”, cioè che non creasse troppo clamore, soprattutto nei casi di… effetti collaterali. Scegliemmo, perciò, le cavie umane all’interno dello strato più debole della popolazione: zingari, immigrati, gente povera… ovviamente fumatori.» Aggiunse con una smorfia di disgustato piacere. «I punti vendita dei quartieri più degradati delle grandi città furono riforniti delle Pantera “sperimentali”. Nei primi mesi della sperimentazione i risultati furono incoraggianti. Il numero di fumatori era in crescita, così come le vendite delle Pantera. Non mancarono gli effetti collaterali: otto fumatori – quattro pakistani, e altre quattro persone di cui non ricordo la nazionalità – morirono per tabagismo. Poca cosa, se si considera che nel mondo, ogni 6 secondi, muore una persona per tabagismo…» «Il periodo della sperimentazione – sette mesi – stava ormai giungendo al termine e il momento di procedere con la diffusione del prodotto su tutto il territorio nazionale stava per arrivare. Ma a questo punto qualcosa andò storto.» Mauri si allontanò dalla finestra e si mise a sedere sulla poltrona. «Uno dei partecipanti al progetto top secret minacciò di spifferare tutto e, in cambio del suo silenzio, chiese 10 milioni di euro. Una follia!» aggiunse con un
leggero sorriso sulla bocca «Il suo nome era Riccardo Bevilacqua.» Sgranai gli occhi rimanendo a bocca aperta. Ha pronunciato il mio nome? Lui parve accorgersi della mia reazione, così si affrettò subito a chiarire «No, non tu…» disse con un leggero ghigno «quello vero!» Quello vero? «Oltre al profondo sconcerto che provammo tutti nei suoi confronti, cominciammo a temerlo. Era divenuto un soggetto pericoloso... e pertanto andava neutralizzato. Naturalmente, decidemmo di non cedere al suo ricatto, ma fummo tuttavia costretti ad interrompere la sperimentazione. Dovevamo prima sistemare la nostra scheggia impazzita.» «Cominciammo così a tenerlo sotto controllo. Ascoltavamo le sue conversazioni, leggevamo le sue mail, lo pedinavamo ovunque egli andasse… fino a quando scoprimmo che si era messo in contatto col vertice della nostra principale concorrente, la Mondial Tobacco. In cambio di denaro, Bevilacqua promise di fornire loro informazioni segrete “altamente compromettenti per la CTI”, così come lui stesso definì i dettagli del progetto Pantera. Ovviamente quei simpaticoni non si fecero sfuggire la ghiotta opportunità di distruggere una loro acerrima concorrente. Così l’amministratore delegato di allora, Frank Domino, decise di incontrare Bevilacqua. Come luogo dell’appuntamento fu scelto un posto isolato, in una zona periferica a sud di Roma, dove sarebbe avvenuta la consegna dei file contenenti tutti i dettagli del progetto Pantera in cambio del denaro. Evidentemente Bevilacqua nutriva più di qualche sospetto di essere spiato e l’incontrarsi in un luogo così inconsueto lo faceva sentire tranquillo… un altro ingenuo che pensava di non essere scoperto!» Aggiunse Mauri con una punta di sarcasmo. «In ogni caso, occorreva prendere urgentemente una decisione, prima che il tradimento si perfezionasse. E la decisione fu unanime: fermare Bevilacqua a qualsiasi costo e ricorrendo a ogni mezzo, anche illegale e violento.» L’espressione di Mauri si fece molto seria e abbassò lo sguardo malinconicamente, sospirando. «Ingaggiammo due killer, i quali, il giorno dell’appuntamento, attesero Bevilacqua nascosti tra la vegetazione e, quando lui ò a bordo della sua mountain bike, gli saltarono addosso e lo uccisero, simulando una rapina finita male. Prima di fuggire, i due presero il suo i-pod contenente i file dei documenti
compromettenti che Riccardo avrebbe dovuto consegnare a Frank Domino. Il futuro della Charleston Tobacco International non era più in pericolo.» Disse con un debole sorriso, mentre io continuavo a fissarlo in silenzio con una faccia assolutamente inespressiva. «Uno dei killer, un rumeno, si fece poi beccare dalla polizia e qualche giorno dopo morì suicida in carcere… in realtà fu tutta opera nostra. La morte di Bevilacqua, invece, destò grande sgomento e commozione sia all’interno della CTI che fuori, con reazioni di condanna nei confronti degli immigrati clandestini, i quali, come succede in questi casi, furono additati come colpevoli dell’omicidio e quindi avversari e nemici da combattere... Certe volte l'ignoranza e i pregiudizi della gente raggiungono livelli al limite del ridicolo.» aggiunse con un tono di profonda amarezza. «Ma ci fu anche chi non volle credere all’ipotesi della rapina finita in tragedia, e che intuì che dietro l’omicidio di Bevilacqua ci fosse tutt’altro. E fra questi c’eri anche tu.» mi fissò dritto negli occhi, il suo sguardo era di ghiaccio. Io lo guardai senza dire niente, ma con l’evidente espressione di chi avrebbe detto “ma che cavolo stai dicendo?”. Mauri annuì con la testa, sembrò quasi percepire il mio pensiero. «Un tempo… tu lavoravi qui, proprio nella sede dove ci troviamo adesso. Insieme ad altri giovani – tra cui Riccardo – facevi parte della nuova generazione di manager. Giovani brillanti e determinati, capaci di contribuire efficacemente alla gestione ed ottimizzazione del business e di garantire la continuità all’azienda.» «Io… io lavoravo… qui?» dissi con un file di voce, mentre sentivo una forte stretta alla bocca dello stomaco. «Già.» rispose lui annuendo con la testa. Lo guardai incredulo, allibito, sentivo la morsa allo stomaco farsi più serrata. «Quale… ruolo ricoprivo?» gli chiesi. «Tu eri il responsabile Marketing e Comunicazione dell’azienda.» disse lui secco. Il responsabile Marketing e Comunicazione? Ma che razza di follia era mai quella? Che mucchio di stronzate mi stava raccontando Mauri? Mi soffermai a riflettere un po’... era assurdo ma decisi di far finire il suo racconto «io e… Riccardo ci conoscevamo?» gli chiesi «Certo. Eravate anche amici e quando apprendesti della sua morte, non riuscisti
a darti pace. Come detto, non eri convinto della tesi della rapina finita male, e così decidesti di indagare sulla sua morte, fino ad arrivare a sospettare un mio coinvolgimento. Devo dire che, ancora oggi, non so cosa ti spinse a sospettare di me, ma ci avevi visto giusto. Anzi, i tuoi sospetti si fecero così forti e pressanti da indurti a compiere un gesto che nessun altro si sarebbe mai sognato di fare. Entrare nel mio ufficio e rubare dal mio computer i file del progetto Pantera.» Per un attimo Mauri si lasciò scappare una risata, per poi tornare immediatamente serio. «In realtà non fosti tu fisicamente a compiere l’insano gesto, ma una tua collega, la quale spinta dai tuoi stessi sospetti, ti aiutò nel comune intento di scoprire la verità.» «Chi?» gli chiesi «Chi era?» «Questo non conta… ciò che conta è che io mi accorsi di tutto. E non fu difficile risalire ai due autori del furto.» Sgranai gli occhi in un'espressione di stupore, non avrei mai creduto possibile udire una rivelazione simile. Mauri non mi diede il tempo di chiedergli altro che andò avanti col suo racconto. «Così, fummo di nuovo costretti a decidere su come procedere con altre due schegge impazzite. Dovevamo fermare la nuova minaccia, ma stavolta non potevamo utilizzare lo stesso… trattamento utilizzato per Bevilacqua. Tre omicidi di altrettanti dipendenti della CTI in così poco tempo, avrebbe alimentato pesanti sospetti.» Improvvisamente il suo sguardo divenne ombroso, la sua voce suonò amara, priva della sicurezza con cui aveva raccontato fino a quel momento. «Fu il dottor Leclercq, uno scienziato della società biotecnologica svizzera, a suggerirci di ricorrere all’U0126.» Come colpito da una frustata in pieno volto, scattai sulla poltrona «Cos’è?» Per nulla colpito dalla mia reazione, Renato Mauri proseguì con calma la sua confessione. «L’U0126 è un potente medicinale in grado di intervenire sul riconsolidamento, ossia sul meccanismo che regola il trasferimento dei ricordi dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine. È un farmaco utilizzato per curare le persone traumatizzate da qualche evento drammatico e, se usato in dosi
massicce, può stravolgere completamente i ricordi. Tutti, anche quelli più profondi. In poche parole abbiamo rimosso dalla tua memoria ciò che non volevamo tu ricordassi.» «Fosti rapito e il dottor Leclercq eseguì il trattamento con l’U0126, dopodiché ti attribuimmo un’altra identità, quella di Riccardo Bevilacqua, e ti collocammo nelle nostre piantagioni segrete.» Appena udii quelle parole, un fremito invase il mio corpo, sentii la rabbia crescere e ribollire dentro di me. Come colpito da un improvviso raptus scattai in piedi, la poltrona scivolò sulle rotelle e andò a cozzare contro la parete laterale. Sollevai la mano e puntai la pistola che stringevo in pugno, sulla sua fronte. «Cosa mi avete fatto?» urlai con tutta la disperazione che avevo in corpo. «Farabutti!». Sentivo il cuore battere a mille, il respiro farsi sempre più veloce e irregolare. Mauri restò immobile, pietrificato, come se, in qualche modo, attendesse quella mia rabbiosa reazione. Ti ammazzo, bastardo! La decisione era ormai presa e non c'era modo di cambiarla. Il dito, saldamente premuto sul grilletto, stava per far esplodere il primo colpo, quando il telefono sulla scrivania prese a squillare. I nostri sguardi si posarono immediatamente sul telefono che, imperterrito, continuava a squillare. arono infiniti secondi, durante i quali rimanemmo immobili a guardarci negli occhi. «Faccia alla svelta.» gli dissi, cercando di reprimere la voglia irrefrenabile di piantargli una pallottola in testa. Mauri mosse con titubanza la mano, afferrò il ricevitore e lo accostò all’orecchio. arono pochi secondi, durante i quali non aprì bocca. Poi, porgendomi la cornetta, mi disse: «È per te.»
capitolo 19
Nell’ufficio dell’amministratore delegato, guardavo con due occhi sbalorditi Renato Mauri, il quale, col braccio proteso in avanti nel gesto di offrirmi la cornetta del telefono, era in attesa che prendessi la chiamata. Restai immobile, come pietrificato, mentre una pioggia di domande investiva la mia mente. Chi diavolo è? E che cosa vuole da me? Ma soprattutto, come fa a sapere che mi trovo qui? Senza perdere altro tempo, afferrai il ricevitore con la mano sinistra, mentre con l’altra tenevo la Beretta puntata su Mauri. Se solo provi a fregarmi, giuro che ti faccio un buco in fronte. Con la mente ancora in balia di mille interrogativi, accostai il ricevitore all’orecchio e risposi chiedendo chi fosse. «Chi è?» Dall'altro capo, una voce femminile pronunciò delle parole che mi fecero accapponare la pelle «Scappa! Stanno venendo a prenderti!» La voce di Sara era piena d’ansia, agitata... Restai immobile, cercando di trovare la lucidità per superare lo shock e ragionare. Chi stava venendo a prendermi? Forse Sara si riferiva agli uomini della sicurezza? O si trattava di un altro stratagemma, stavolta architettato per lasciare libero Mauri? «Sbrigati!» disse ancora Sara con voce concitata, prima di sentire il suono della linea interrotta. Come potevo fidarmi di lei? Come potevo credere alla donna che per tutto quel tempo mi aveva ingannato? A colei che aveva interpretato la parte in una sporca commedia scritta da una mente diabolica? Eppure il tono della sua voce, stavolta, appariva sincero… Alzai gli occhi, incrociando lo sguardo apatico di Mauri, il quale, nel frattempo, era rimasto sulla sua poltrona, senza capire esattamente cosa stesse accadendo. Gli restituii il telefono e, senza aggiungere altro, cominciai ad indietreggiare verso la porta, lentamente, tenendo gli occhi fissi su di lui. Il suo sguardo divenne immediatamente preoccupato, spaventato, non capiva che intenzioni avevo. Giunsi vicino alla porta, dove afferrai la maniglia e la abbassai con un colpo secco di polso. Con uno scatto improvviso, girai su me stesso e cominciai a correre nel corridoio con tutto il fiato che avevo in corpo. L'eco rimbombante dei miei i si faceva sempre più
frenetico, mentre le pareti scorrevano veloci affianco a me. In un attimo giunsi davanti all’ascensore dove, un secondo prima di premere il pulsante di chiamata, la spia rossa si accese. Occupato! Con il cuore che batteva all'impazzata, decisi di prendere le scale. Scendendo freneticamente i gradini, mi scontrai con una ragazza, facendole cadere tutti i fogli che aveva in mano. Continuai a correre giù per le scale come un forsennato, sino ad arrivare al quarto piano, dove udii un rumore di i frettolosi proveniente dal basso. Arrestai la mia folle corsa e, ancora ansimante, lanciai un’occhiata nelle scale sottostanti, dove individuai alcuni uomini in divise scure salire con impeto. La Polizia? Sara era stata sincera. Qualcuno doveva essersi insospettito nel vedere l’amministratore delegato assieme ad un tipo dall’aria alquanto strana. Ero fottuto. Tornai sui miei i e raggiunsi la porta che conduceva al quarto piano. La aprii, ritrovandomi nella metà esatta di un lungo corridoio sul cui lato destro si trovavano diversi uffici. Da una delle porte laterali, vidi affacciarsi un tizio dall'aria seria – forse un responsabile o un direttore – il quale, dopo aver guardato un attimo, mormorò qualcosa e richiuse la porta a vetro. Nel frattempo sentivo le voci nelle scale farsi sempre più forti e più vicine: ormai erano a pochi metri e dovevo trovare un posto dove nascondermi, non avevo molto tempo. Qualcuno urlò frasi incomprensibili, probabilmente degli ordini, ma alle mie orecchie giunsero solo frammenti. Mi parve di sentire la parola “sparo” e poi “ufficio di Mauri”. In preda al panico, lanciai un’occhiata nel corridoio, dove, proprio nel fondo, c’era una porta sulla quale c’era un cartello con su scritto qualcosa, ma ero troppo lontano per leggere cosa. Improvvisamente, fui colto da un’intuizione. L’uscita di emergenza! A o svelto, superai gli uffici posti lungo il corridoio, quando, giunto a una distanza sufficiente, lessi ciò che era scritto sul cartello: “Toilette”. Oh, merda! Nascondersi là dentro, era come cacciarsi in un tunnel senza via d'uscita. Dovevo pensare, e farlo alla svelta, se volevo sfuggire alla mia inesorabile condanna. arono interminabili istanti durante i quali mi sforzai nel disperato tentativo di trovare una’idea, una soluzione. Poi, come un fulmine a ciel sereno, un pensiero invase la mia testa. Un pensiero terribile, che mi fece paura, ma che non potevo impedirmi di formulare. Con lo sguardo fisso davanti a me, in una sorta di trance ipnotica, afferrai la pistola che portavo dietro la schiena e avanzai verso la porta dell’ufficio più vicino. Si, avrei usato qualcuno dei dipendenti sfruttandolo come scudo umano e dettare delle condizioni per essere lasciato libero. Era un’idea folle, ma rappresentava l’unica possibilità che avevo. Lentamente mi avvicinai alla porta a vetri, con la pistola stretta tra le mani e col cuore che batteva a mille. La porta era chiusa e non si sentiva alcun rumore provenire dall’ufficio. Alzai gli occhi sulla targhetta nera posta sulla porta a vetri e quando lessi il nome che vi era scritto, trasalii. Per infiniti attimi
restai lì, immobile, con gli occhi fissi su quel nome che volevo dimenticare, cancellare dalla mia mente. Quel nome che mi suscitava repulsione, che non sentivo parte di me... ma che toccava il mio cuore e mi faceva provare un’astratta intimità che non avevo mai provato prima. Su di essa c’era scritto “dott. Stefano Preite – Marketing e Comunicazione”. Guardai attraverso il vetro offuscato della porta e vidi che al di là non c’era nessuno, la luce era spenta. Con la mano che tremava come una foglia, afferrai la maniglia, avvertendo una sensazione stranissima, di paura ed angoscia... indescrivibile. Tentai di ruotarla verso il basso ma, con sorpresa, mi accorsi che era chiusa a chiave. Tirai e spinsi ancora con più forza, ma la porta non si apriva. No, non potevo rinunciare a quella che sarebbe stata l'unica occasione per dare tregua alla mia mente sconvolta. Lanciai un’occhiata nel lungo corridoio, il quale era deserto, sebbene dagli uffici giungeva un rumore confuso di voci mescolate tra loro. Feci un o indietro e sferrai un calcio alla porta con tutta la forza che avevo. La porta si spalancò, sbattendo violentemente contro il muro, senza tuttavia rompersi in frantumi. Restai sulla soglia ad osservare il locale in penombra, era come trovarsi in un posto sconosciuto ma già visto, in cui ero già stato. La luce era spenta, le tende tirate e, al centro della stanza, un telo di plastica copriva una scrivania. Varcai la soglia e chiusi la porta dietro di me, il tanfo aveva saturato l'ambiente. Mi avvicinai alla finestra e scostai un po' la tenda con la mano. La luce del sole inondò la stanza, costringendomi per un attimo a chiudere gli occhi. Osservai per qualche istante il panorama su Piazza di Spagna, piena di turisti. Poi, guardai nella stanza, dove un magico pulviscolo fluttuava nell’aria. Lanciai un’occhiata in giro, alla ricerca di qualcosa che potesse ricondurre la mia memoria in quel posto. Assorto nei miei pensieri, mi abbassai sulla scrivania e scostai il telo di plastica. Prima di frugare nei cassetti, controllai attraverso il vetro opaco della porta che non ci fosse nessuno fuori. Ma, proprio in quel momento, notai il quadro sulla parete di fronte e mi si strinse un nodo in gola. Lasciai perdere la scrivania e, come guidato da un istinto paranormale, mi avvicinai lentamente al quadro. Su una spiaggia deserta, centinaia di letti che, come un fiume, si perdevano fino all’orizzonte. Seduto su uno di essi, un uomo si guardava in uno specchietto che teneva in una mano… Il sogno che da più notti mi ossessionava e che tormentava il mio sonno. Quella scena, quel paesaggio così surreale esisteva veramente, era una foto stampata su tela e che raffigurava la copertina di un disco, “A Momentary Lapse of Reason”
dei Pink Floyd. Immobile dinnanzi al quadro, lo osservai a lungo, consapevole di aver trovato il motivo per il quale quella scena surreale entrava nei miei sogni quasi ogni notte… e perché il sognarla mi turbava così a fondo. La vedevo tutti i giorni quando lavoravo qui. Improvvisamente, ebbi un'illuminazione. Cosa nasconde dietro? Allungai le braccia e, con cautela, staccai il quadro dalla parete e lo posai sul pavimento. Con mia profonda delusione scoprii che dietro al quadro non era nascosto nulla. Nessun messaggio. Nessuna cassaforte. Nessun aggio segreto. Niente. Proprio in quel momento udii un gran trambusto provenire dal corridoio, un rumore fatto di voci e di i affrettati. Stanno arrivando. Ormai non avevo più scampo, e in più ero stanco di rincorrere una verità intangibile e inafferrabile protetta da chissà quale segreto. Afferrai il quadro per la cornice con entrambe le mani e, mentre mi avvicinavo alla parete per rimetterlo al suo posto, sfiorai qualcosa, qualcosa attaccato sulla parte posteriore del quadro. Sgranai gli occhi e, in un lampo, girai il quadro sul retro per vedere cosa le mia dita avevano sfiorato. Si, c’era qualcosa… un foglio di carta piegato in più parti e attaccato con del nastro adesivo proprio vicino al bordo interno della cornice. Un messaggio! «Da quella parte!» Il risuonare di voci e di i si facevano sempre più vicini, dovevo sbrigarmi. Staccai il foglio con decisione ma con delicatezza, per evitare di romperlo e cominciai a togliere il nastro adesivo. Sentivo crescere in me l'ansia, l'agitazione, ma soprattutto la curiosità di leggere il messaggio scritto su quel pezzo di carta. Quando dispiegai il foglio, con mia grande sorpresa scoprii che su di esso non c’era alcun messaggio. Al suo interno c’era un oggetto: un ciondolo di plastica, o qualcosa di simile, a forma di delfino. Aggrottai le sopracciglia, domandandomi che significato aveva quel curioso oggetto. Lo osservai con maggiore attenzione, notando che alla base della testa del delfino vi era un piccolo solco. La testa poteva essere staccata. Lo feci lentamente, scoprendo che, in realtà, non si trattava di un ciondolo, ma di un chiavetta usb. In quel preciso istante la porta si spalancò all'improvviso ed entrarono quattro uomini armati. «Polizia! Mani in alto!» urlò un agente. Balzai all’indietro, facendo cadere sul pavimento la pen drive. Uno di loro si avvicinò mostrandomi il tesserino «Desideri, squadra mobile. La dichiaro in arresto per l’omicidio di Renato Mauri.»
capitolo 20
OGGI «Negli anni Venti l'obiettivo delle multinazionali era conquistare il mercato femminile. Negli anni Cinquanta, tale obiettivo si è esteso sui giovani e, da allora, il target è diventato sempre più giovane.» Io sono là, in piedi, lo sguardo rivolto sugli spettatori delle prime file, ormai riesco a capire in tempo reale le loro reazioni, percepire le loro emozioni. I loro occhi sono fissi su di me, in trepidante attesa che dalle mie labbra escano altre shoccanti parole. Parole che parlano di abusi e di crimini commessi dalle multinazionali del tabacco a discapito della gente ignara dei loro loschi e pericolosi traffici. «Oggi le multinazionali puntano sulla fascia di età compresa tra gli 8 e gli 11 anni.» Faccio are qualche secondo di silenzio, il tempo di far risuonare nelle coscienze dei presenti quella frase così spietata e carica di tensione. Poi continuo a parlare tra il silenzio di tutti, e più parlo, più il pubblico mi ascolta con maggiore attenzione. Sì, il mio lavoro oggi è proprio questo: giro il mondo per tenere convegni e conferenze riguardanti i danni provocati dal fumo e sulle responsabilità dell’industria del tabacco. Un lavoro che svolgo con ione e coscienza, perché mi fa sentire importante per l'aiuto concreto che posso offrire divulgando informazioni autorevoli e diffondendo la consapevolezza sulle terribili conseguenze del fumo. Un lavoro che mi ha permesso di conoscere tanti posti nuovi e, soprattutto, tante persone che hanno apprezzato il mio mettermi in gioco. Fu il presidente dell’ALOF a contattarmi appena la mia vicenda fu resa di pubblico dominio. Una storia che creò scalpore e che scosse l’opinione pubblica in tutto il mondo, al punto da spingere quasi tutti i governi ad intraprendere una
lotta contro le multinazionali del tabacco, che fu definita dai media “titanica”. Il presidente dell’ALOF mi propose di entrare a far parte dell’organizzazione e di partecipare ai numerosi convegni in giro per l’Italia e l’Europa. Strano come cambiano le cose, come cambia la vita, come ti avvolga nel suo vortice e cambi forma e senso nel giro di pochissimo tempo... Diventai così membro dell’ALOF, dove mi impegnai con grande determinazione alla lotta contro il fumo. In poco più di un anno, partecipai ad oltre quaranta convegni in tutta Europa, fino a quando decisi di mettermi in proprio e continuare da solo. Da allora, mi guadagno da vivere partecipando a convegni e scrivendo articoli su riviste specializzate. Da poco ho pubblicato il mio secondo libro, un saggio scritto assieme ad un giornalista sulle strategie adottate dalle multinazionali del tabacco per incrementare le vendite ai danni della salute pubblica. Ed è la ragione per la quale oggi mi trovo in questo lussuoso albergo di Lugano: presentare il mio ultimo libro. «I giovani costituiscono la quota di mercato più ambita per l’industria del tabacco, la quale impegna rilevanti risorse per studiarli quasi fossero cavie da laboratorio. Anziché rilevare gli effetti del tabagismo, le multinazionali cercano di trovare strategie efficaci ad indurre alla dipendenza da fumo un numero di adolescenti sempre maggiore, allo scopo di creare clienti a lungo termine. Loro ovviamente smentiscono, ma intanto la pubblicità sulla stampa destinata ai teenager aumenta, così come aumenta nei luoghi da loro frequentati, compresi quelli in prossimità delle scuole.» È stato il primo dei due libri che ho pubblicato, a darmi la notorietà che oggi posso vantare, un libro che ha venduto 15 milioni di copie in tutto il mondo. Di recente, una casa di produzione ha acquistato i diritti per una trasposizione cinematografica della storia descritta nel libro. Sì, perché in esso racconto una storia, una storia vera, realmente accaduta. È la mia, quella che per diciotto lunghi anni, si è sovrapposta a quella di Riccardo Bevilacqua. Una storia incredibile, che sembra uscita dalla penna di uno sceneggiatore di Hollywood, ma che è reale. Una storia che racconta come la sete di potere e di ricchezza porti l’uomo a compiere gesti di estrema crudeltà. È un libro che ho scritto dopo la terapia regressiva a cui mi sono sottoposto e grazie alle massicce somministrazioni di ubiquitin-idrolasi L1, un enzima in grado di far recuperare gran parte della memoria. Ricordi che sono divenuti sempre più ampi, più nitidi.
Ricordi che mi sono riaffiorati nella mente come un racconto di un'altro anziché vissuti di persona, tanto da rischiare di sommergere e annullare la mia personalità. Ricordi fatti di nitidi flash, immagini cucite insieme, parole dette una dopo l'altra, figure lontanissime nel tempo. E di sguardi. Sguardi impressi nella mente come marchi a fuoco, vivi e brucianti nella mia memoria… Lo sguardo di Elena, fisso sul monitor del laptop, è sconvolto e disgustato. Ancora non ci crede. Non crede a quello che abbiamo appena letto, alle terribile verità tenuta nascosta da Mauri nella directory “Test_Pantera”. Mi guarda inorridita, mentre io continuo a leggere freneticamente i dettagli della sperimentazione. Lo sguardo dell’ispettore Desideri è fisso e concentrato sul curioso oggetto che ha appena raccolto dal pavimento in un ufficio della CTI, al quarto piano. I suoi occhi osservano attenti la sua forma, tanto singolare da non lasciare dubbi su ciò che rappresenta: un delfino. Alza gli occhi su di me, mentre i suoi agenti mi trascinano verso l’uscita del quarto piano. I nostri sguardi si incrociano per degli attimi che sembrano interminabili, poi si sfuggono. Allora, prima della cura, non potevo sapere che fui io stesso a nascondere la chiavetta usb dietro al quadro del mio ufficio, il quadro raffigurante la copertina di «A Momentary Lapse of Reason» dei Pink Floyd. In essa erano contenuti i file del progetto Pantera che Elena aveva copiato dal computer di Mauri… Lo sguardo di Renato Mauri è freddo e tagliente come un rompighiaccio, incute paura, soggezione, terrore. Lo immagino dietro la scrivania del suo ufficio, mentre fissa la sua Smith & Wesson, la osserva, la controlla. Poi, la afferra nella mano destra e, con un movimento lento, se la punta sulla testa. È fredda la canna sulla tempia, ma una volta premuto il grilletto sarà tutto diverso… E poi c’è il suo sguardo, i suoi occhi grandi, limpidi, profondi, dai quali ogni giorno mi nutrivo del suo finto amore, senza esserne mai sazio. Era tutto un pietoso quanto ignobile bluff, una commedia raccontata nel teatrino della parrocchia, un personaggio montato e costruito ad arte per tenermi a bada. Ancora oggi mi chiedo se per un momento, per un solo istante, Sara è stata veramente innamorata di me... Ma ci sono gli stessi occhi infuocati da uno sguardo carico di sfida. Taci, stronza! E il colpo del fucile che risuona nella valle. Elena, stramazza al suolo. Per fortuna il proiettile le ha attraversato la carne senza toccare alcun organo e, dopo essere stata soccorsa dagli uomini allertati dallo sparo, è salva, è viva.
«Nei paesi occidentali, nei prossimi anni, si consoliderà il trend nella caduta del consumo di tabacco. Tuttavia, a questo fenomeno, farà riscontro un notevole aumento della diffusione del fumo nei paesi in via di sviluppo che costituiranno per le multinazionali del tabacco un mercato di enormi proporzioni. Ne è la dimostrazione la pubblicità del fumo, particolarmente attiva in Sud America, in Cina e nei Paesi dell’Europa dell’EST.» Guardo gli spettatori, penetro nelle loro menti attraverso i loro occhi. I loro sguardi diventano pensieri, convinzioni… fino a divenire coscienza. «Ditemi voi, gentili signori, ditemi, quale governo è oggi disposto a spendere 90 milioni di euro in campagne di prevenzione del fumo e a cure per il tabagismo? Mentre una multinazionale del tabacco li spende eccome, per propagandare il proprio marchio. E cosa dire sul fatto che le multinazionali sapessero ben prima che la scienza acquisisse i dati su come agisce la nicotina nel cervello? » Gli sguardi diventano opachi, sfuggenti. La gente tende ad evitare le domande scomode, quelle che inducono a riflettere o che fanno pensare troppo. Probabilmente per una sorta di timore della propria reazione provocata dal conoscere determinate cose. La gente ha paura della verità. «E cosa pensare sugli investimenti per far sì che la dipendenza aumentasse, introducendo sostanze come l’ammoniaca o il cacao o altre seicento sostanze? Le sigarette oggi in commercio contengono una percentuale di tabacco inferiore di quasi il cinquanta per cento rispetto a quelle di cinquant’anni fa, e i morti per tabagismo sono aumentati del trecento per cento.» La mia voce si fa ancora più bassa e roca, quasi un sussurro. «E allora, non crediamo alle multinazionali quando parlano dell'innocuità del fumo ivo. Perché si servono di scienziati apparentemente indipendenti il cui compito è sempre lo stesso: creare confusione nell'opinione pubblica.» Silenzio. Lungo, pesante, intollerabile. Poi un timido battito di mani, altri se ne uniscono piano piano, l'applauso cresce, monta. Alla fine tutti in piedi ad applaudire, grida d'ovazione. Io alzo una mano in segno di ringraziamento e, lentamente, mi dirigo verso il lungo tavolo posto al centro del palco, dove il e annuncia la fine del mio intervento. Il pubblico continua ad applaudire mentre qualcuno si avvicina con una copia del libro in mano. In pochi secondi una piccola fila si forma davanti. La gente mi a davanti, mi guarda,
mi saluta, mi parla. Il suo intervento è stato molto interessante… Sono sconvolta… Complimenti davvero… Le cose che ha detto sono sotto gli occhi di tutti… Congratulazioni... Io stringo mani e firmo autografi. La stanchezza comincia a farsi sentire ma l'adrenalina è ancora al massimo. Do un’occhiata all’orologio, sono quasi le ventitré. Torno con lo sguardo sulla scrivania dove, con leggera sorpresa, trovo una copia del mio primo libro, quello che racconta della mia incredibile vicenda e che mi ha reso famoso. «Il mio primo libro…» osservo mentre faccio l’autografo sulla copertina. «Il secondo!» mi risponde una voce, leggermente rauca ma piuttosto decisa. Alzo lo sguardo, trovandomi di fronte un uomo sulla sessantina, vestito in maniera distinta in un completo color crema. Sembra un uomo d'altri tempi con una barbetta ben curata che forma un piccolo pizzo sul mento. «Scusi?» gli domando guardandolo con un sopracciglio inarcato. «Questo è il suo secondo libro» mi risponde con fare gentile. Continuo a fissarlo nei suoi occhi verdi, per capire se sta cercando di prendermi in giro. Poi gli rispondo: «Credo che si stia sbagliando, il secondo libro è…» «Certo, certo» mi risponde con un leggero sorriso «ma forse posso darle una mano a scrivere la parte che precede il racconto contenuto in quello che lei chiama “Primo libro”.» Lo guardo senza capire, solo adesso mi accorgo del suo marcato accento se. Sento una leggera ansia che inizia ad insinuarsi subdolamente all'altezza della bocca dello stomaco. «Quale parte? Ma… ma lei chi è?» «Mi segua.» mi dice con un tono a metà tra una richiesta gentile e un ordine. «Seguirla… dove?»
«Qui non possiamo parlare. Fuori c’è un piccolo ristorante dove potremo stare tranquilli.» «Senta io…» «Signor Preite, sono sicuro che quello che ho da dirle le interesserà molto. Pertanto valuti con molta attenzione se rinunciare o accettare… In fondo è solo un invito a cena.» Senza darmi neanche il tempo di aprire bocca, l’uomo dall’accento se volta le spalle e va via. Lo guardo ad occhi spalancati, mentre col suo incedere lento ed elegante, si allontana fino a raggiungere la pesante tenda di velluto rosso che divide la sala dall'ingresso. Un istante dopo ci scompare dentro. Resto immobile come incantato, mentre una moltitudine di domande comincia ad aleggiare nella mia mente. Chi diavolo è quel tizio? Cos’ha di tanto interessante da dirmi? Qual è la parte che precede il racconto del mio primo libro? Abbasso gli occhi sul tavolo dove trovo la copia autografata del mio primo libro. L’ha dimenticata… o l’ha lasciata appositamente perché la trovassi? “La mia doppia vita”, un titolo che non lascia spazio ad alcuna immaginazione. Lo apro e sfoglio le prime pagine. Mi soffermo sulle prime righe, dove racconto la sera del rinvenimento del cadavere di Riccardo. La parte che precede il racconto contenuto in quello che lei chiama primo libro. Come colpito da una scossa elettrica, scatto in piedi ed esco di corsa dalla sala convegni scansando la pesante tenda. Percorro il lungo corridoio tappezzato di rosso che conduce alla hall d’ingresso. Giungo alla reception dove mi faccio strada tra un gruppo di turisti appena arrivati ed esco dall’albergo. Fuori l’aria è gelida e le macchine ano veloci, lasciando una nuvola di fumo dietro di loro. Guardo in giro alla ricerca del ristorante. Cyrano. Eccolo! Attraverso la strada rischiando di essere travolto, ma ormai non mi importa più niente. Salgo sul marciapiede ed entro nel ristorante, spingendo la porta che si apre senza resistenza. Lancio un’occhiata tra i tavoli. Niente, non lo vedo. «Buonasera» la voce gentile del cameriere mi costringe a distogliere lo sguardo. «Buonasera. Sto cercando un signore sulla sessantina, con un pizzetto…» «Dottor Preite!» una voce improvvisa risuona nel locale. Mi guardo attorno senza capire da dove proviene. Alzo lo sguardo accorgendomi
di un piano superiore del ristorante e... eccolo lì, appoggiato alla ringhiera che, con un sorrisetto forzato, mi fa cenno di raggiungerlo. Mentre lo guardo sento una strano senso inquietudine che non mi lascia stare da quando l’ho visto la prima volta. «Le scale in fondo a destra, signore.» la voce del cameriere mi arriva all’orecchio come un proiettile esploso a distanza ravvicinata. Mi giro di scatto fulminandolo con lo sguardo. Poi, a o svelto, raggiungo il fondo del locale, dove trovo le scale che portano al piano superiore. Salgo i gradini due alla volta e, in un attimo, mi ritrovo sul piano. Eccolo lì, seduto ad un tavolino rotondo, come se fosse in attesa di un vecchio amico. Avanzo lentamente, mentre i nostri sguardi sono sempre l'uno dentro l'altro. «Prego, si accomodi pure.» mi invita con un gesto della mano e sempre con lo stesso sorriso stampato sul volto. Mi siedo di fronte a lui. Noto qualcosa nei suoi occhi, il suo sguardo è strano, tra il severo e il dispiaciuto. Faccio per aprire bocca ma lui mi precede. «Io sono il professor Vincent Leclercq.» La pelle mi si accappona all’istante, la sento incendiarsi, bruciare. Resto a bocca aperta. Leclercq! «Lei!» gli dico in un sussurro, mentre un moto di rabbia interiore mi attraversa il petto. Cerco di rimanere calmo, emetto lunghi e misurati respiri. Leclercq mi guarda in silenzio, come se volesse penetrarmi nella mente e ascoltare tutti i pensieri. «Cosa vuole?» sibilo, guardandolo con tutta la rabbia che ho dentro. Rabbia. Solo quella provo in questo momento. Lui continua a fissarmi come se nulla fosse, immobile, come se si aspettasse la mia reazione e avesse quasi sperato di sentire quella domanda. Distoglie lo sguardo da me, fissando un punto indefinito, come per trovare la giusta concentrazione. Poi chiude le palpebre emettendo un lungo sospiro, si appoggia allo schienale della sedia e con voce grave dice: «Qual è quella forza misteriosa che spinge perfino un tranquillo impiegato in giacca e cravatta a compiere gesti folli e apparentemente insensati?» mi fissa coi suoi occhi oscuri e magnetici.
«No, non pensi all’amore…» mi dice con un sorriso sarcastico sulle labbra. «È l’odio! l’odio viscerale, quel serpente insidioso che ti striscia dentro, ti si attacca alle budella, penetra nelle vene e si inerpica sempre più in alto fino a giungere al cervello dove, giorno dopo giorno, inietta il suo veleno, distorcendo la visione del mondo. E allora spinge il tranquillo individuo a compiere gesti che prima neanche immaginava. Azioni assurde, dettate da un suo turbamento o da una sua inquietudine.» Lo guardo senza capire, scruto la sua espressione indecifrabile, il che contribuisce a rendere ancora più confuso il senso del suo discorso. «È esattamente ciò che l’ha spinta a compiere un gesto così funesto, così estremo: l’odio.» Non capisco. Leclercq lascia are interminabili attimi, durante i quali sento il cuore battere furiosamente nel petto. «Da Bevilacqua ha raccolto preziosi insegnamenti, che le sono stati certamente utili per il futuro della sua carriera. Ha condiviso anni di duro lavoro, impegno, sacrificio, ma anche anni di soddisfazioni e gratificazioni. Questo ha contribuito a rafforzare il vostro legame e, oltre ad essere un amico, per lei Riccardo ha rappresentato un maestro, un punto di riferimento.» «Poi tutto muta. Improvvisamente Bevilacqua diventa intrattabile, irascibile, scontroso con tutti. Anche con lei, comincia ad assumere un atteggiamento arrogante, rigido, severo. In breve tempo il vostro diviene un rapporto conflittuale che porta a scontrarvi più di una volta e a dare origine ad una forte rivalità.» Il discorso prende una piega che non mi piace affatto, mi terrorizza. «Così, l'unica soluzione che le rimane è quella di chiedere di cambiare ufficio. E lo fa, rivolgendosi direttamente all’amministratore delegato, Renato Mauri.» Appena sento pronunciare quel nome, un brivido mi corre lungo la schiena. Renato Mauri. Sono anni che non oso nominarlo, impedendo anche alla mia mente di pronunciare quel nome. «Ma la società non accetta il suo trasferimento, costringendola ancora a sopportare altri giorni tormentati fatti di vessazioni e umiliazioni… fino al giorno in cui Bevilacqua arriva a chiedere il suo licenziamento. Allora monta la
rabbia, l’odio viscerale, lei sembra essere posseduto da un demone e implora ancora una volta Mauri di essere separato da Bevilacqua… e a questo punto l’amministratore delegato capisce che il suo odio nei confronti di Riccardo è al punto più alto. Può essere finalmente usato per eliminare il traditore, il ricattatore, colui che l’aveva minacciato di spifferare alla concorrenza il suo piano criminale. La preda è pronta per tramutarsi in predatore.» Lo guardo con gli occhi sgranati, mentre sento il cuore battere ormai a tamburo. «Eliminare Riccardo è la soluzione giusta, inevitabile, definitiva.» Sento uno squarcio aprirsi nello stomaco, come se qualcuno mi avesse tirato un calcio con uno zoccolo arroventato. «Mauri ha già un piano per eliminare Bevilacqua: una rapina finita in tragedia, da compiere la sera stessa in cui Riccardo avrebbe consegnato i file del progetto Pantera all’amministratore delegato della Mondial Tobacco… e il piano viene portato a termine.» Leclercq mi guarda per un istante poi riprende a parlare. «Assieme ad un complice lei lo attende nascosto tra le sterpaglie e quando transita la mountain bike gli saltate addosso. La vittima cade rovinosamente sulla pista, e mentre il complice la immobilizza, lei, che nel frattempo ha divelto un paletto di legno dalla staccionata, lo colpisce ripetutamente alla testa. I suoi occhi sono pieni d’odio, il collo gonfio delle vene, la sua bocca deformata da una sorriso maligno. Il complice la osserva sorpreso e inorridito, mentre il sangue della vittima schizza su di lei, bagnando il suo volto. Così decide di mollare la presa, non erano quelli i patti… fa due i indietro osservandola accanirsi su Riccardo… poi il suo sguardo cade sui pochi oggetti che la vittima portava con se, li afferra e scappa via. Lei si ferma, il corpo è ormai esamine sulla pista ciclabile. Il lavoro è portato a termine.» Prendo fiato e apro la bocca per dire qualcosa, ma mi rendo conto di non saper bene come reagire a quella assurda, terribile rivelazione. «Finalmente si sente libero, sollevato, fiero di quel gesto… ma ben presto il rimorso la risucchia irrimediabilmente nel suo tremendo vortice. Così giunge il pentimento, il pianto, il dolore. In preda alla disperazione, corre da Mauri, gli dice che vuole costituirsi e rivelare tutto alla Polizia. Ma lui non può permettere una simile follia.»
Le parole di Leclercq escono come lava incandescente. «Lei non ne vuole sentire parlare, è deciso a costituirsi… diventando così un problema… un’altra scheggia impazzita da abbattere prima che sia troppo tardi.» Lo guardo con un senso di orrore che mi pervade l'animo, mentre una fitta allo stomaco mi fa contorcere il viso, come se mi avesse sferrato un pugno con violenza. «Che fare allora? Un altro omicidio? No, due dipendenti della CTI morti in circostanze misteriose è decisamente troppo…» La sua voce è comata, come quella di chi fa fatica a raccontare. «L’U0126 è la soluzione, la cura.» Mentre pronuncia quelle parole un sorriso mefistofelico gli balena sul volto. «In un istante, le sue sensazioni, le sue emozioni, il ricordo della notte appena ata svaniscono come una nuvola di fumo, ritrovandosi nei giorni successivi a rincorrere una verità che sembra sempre sfuggirle dalle mani… ma alla fine la realtà rovina sempre tutto, vero?» Le sue parole frullano nel mio stomaco come vespe impazzite, le sento salire, pungermi la gola… afferro il bicchiere che ho di fronte portandolo alla bocca e bevendo tutto d'un fiato. Riapro gli occhi, la sedia davanti a me è vuota. È andato via! Scatto in piedi rovesciando il tavolino, mentre sento la testa girare e un forte bisogno di vomitare. Ricado all’indietro con un grido di rabbia, attirando l'attenzione di tutti. Io... io l’assassino! «Tutto bene signore?» Come ho potuto? «Signore… Sta bene?» Mi alzo e barcollante mi dirigo verso le scale che scendo sorretto dal cameriere, il quale, con sguardo preoccupato, mi chiede «Le chiamo l’ambulanza?» «No…» gli rispondo ancora confuso «…è tutto ok.»
Esco dal ristorante e comincio a correre con le lacrime che mi bagnano il volto, ignorando tutto quello che mi circonda, urtando i anti che mi vengono incontro, sbattendo contro il muro. Dove posso andare? Qual è la mia meta? Il mio viaggio è ormai giunto al capolinea, il mio ato mi ha travolto, mi ha tradito, mi ha ingannato. Quanto tempo erà prima che la giustizia cominci a muovere i i verso la verità, verso me? Quanto dovrò aspettare prima che comincino a braccarmi, a darmi la caccia? Fuggirò, mi nasconderò. Non so quanti saranno ma saprò soltanto che ci sono. E mi cercheranno. Non ci sarà notte in cui potrò dormire. Nessun riposo. Scappare, soltanto questo. Io sono la preda. Loro, i predatori. Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzione dell’autore e hanno scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.