Processo Alchemico 371l69

Gianfranco Pereno

Processo Alchemico

Ama, ama follemente, ama più che puoi e se ti dicono che è peccato ama il tuo peccato e sarai innocente.

William Shakespeare (Romeo e Giulietta)

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1

«Non so quanto tempo ci metterò a morire e neppure quanti giorni dovrò ancora consumare implorando pietà, ma di una cosa sono certo: un attimo dopo che sarò spirato mi metterò al tuo fianco e non ti abbandonerò più un solo istante, fino a quando non arriverà anche il tuo turno di venire in questo atroce abisso di tormenti!» Poi l’uomo girò lentamente la testa verso il potente prelato che si teneva prudentemente discosto dal tavolaccio, intriso di sangue scuro sgorgato da infinite torture. «Solo allora lascerò lui per venire da te e quello che avrai visto accadere al tuo boia non sarà nulla a confronto dell’orrore che invaderà da quel momento il tuo corpo e la tua mente. Ti starò appiccicato fino a quando non esalerai l’ultimo respiro, aspettando con ansia che la tua misera carcassa rinneghi la sua sudicia anima, per ghermirla e gettarla nel più profondo degli inferni, dannata e maledetta per l’eternità!» Il silenzio che aleggiò nella segreta sembrò cristallizzare per un attimo il sorriso beffardo intagliato nell’affilato volto di Varro, l’energico arcidiacono del temibile vescovo di Novara. Fu solo un breve istante, poi il religioso tracciò sull’uomo legato al tavolaccio un frettoloso segno della croce e il boia lasciò nuovamente cadere con forza il pesante maglio, che reggeva a fatica con entrambe le mani, sul ginocchio destro del condannato. L’urlo, che si mescolò con il sinistro frastuono delle ossa che si frantumavano sotto il colpo devastante, parve rimbalzare sulla nera tonaca del prete, per poi perdersi in un’infinita serie di macabri echi nel freddo buio delle celle circostanti. Varro fissò compiaciuto alcune schegge d’osso che si erano conficcate nel legno duro, levigato negli anni dagli innumerevoli corpi che vi erano stati legati sopra,

poi, con rassegnazione estrasse da una grande bisaccia di pelle che portava a tracolla una spessa pergamena, e solo dopo aver intinto con prudenza la punta del suo stilo in un calamaio di rame, incassato nell’alto leggio che aveva di fronte, si degnò di guardare il condannato negli occhi, ponendo la sua prima domanda. «Dov’è nascosto Dolcino?» «Fottiti!» La pesante mazza calò nuovamente su quello che restava del ginocchio.

2

Odo si svegliò con un terribile mal di testa. La sera precedente nessuno aveva avuto il coraggio di buttarlo fuori dalla Lanterna nera, per il semplice motivo che non si caccia da una taverna il boia del vescovo solo perché è ubriaco fradicio; soprattutto se aveva appena spezzato un braccio a un coglione di fabbro che si era stupidamente rifiutato di cedergli il posto sulla panca più vicina al camino. Così lui aveva potuto continuare indisturbato a bere fino a notte inoltrata, sempre più frustrato e sempre più solo. L’uomo rotolò pesantemente sul pagliericcio cercando di mettersi seduto, ma il mondo attorno a lui continuava a rifiutarsi di assumere una qualsiasi forma concreta. Barcollò fino alla tinozza appoggiata malamente sul nudo pavimento di terra battuta e cacciò risoluto la testa dentro un’acqua sporca e ghiacciata. L’effetto fu immediato e una scarica d’adrenalina scosse il suo grosso corpo intorpidito. Odo si alzò faticosamente in piedi, lanciando nel frattempo un rapido sguardo fuori dalla finestra. Nonostante i grossi rigagnoli d’acqua che gli colavano dai capelli, accecandolo, notò infastidito che il sole era ormai alto nel cielo. Maledizione!! Era in ritardo e disgraziatamente l’arcidiacono non aveva il dono della pazienza, sicuramente era già arrivato da tempo al posto di guardia e ormai doveva essere furioso per non aver potuto incominciare, sin dalle prime luci dell’alba, l’interrogatorio della strega.

In fondo però a lui la cosa andava bene, avrebbe dovuto sì sorbirsi la sua ira e forse addirittura qualche nerbata dal capoposto, ma ne sarebbe stato ampiamente ripagato quando Varro avrebbe successivamente riversato tutta la sua collera sulla strega. Sarebbe infatti toccato a lui, perfetto esecutore della libidine del prelato, godere di quel corpo sodo e sensuale che li attendeva entrambi, impotente, nella camera delle torture. Ancora incerto sulle gambe, afferrò il cappuccio di pelle nera e si catapultò fuori dalla porta, ma già dopo pochi i dovette fermarsi di colpo. Una fitta al ventre lo fece piegare repentinamente, mentre un sapore amaro gli riempiva la bocca. Sputò un grumo di materia scura e rimase a fissare stupito anche lo schizzo di schiuma rossastra che lo accompagnava, mentre veniva lentamente assorbito dalla polvere della strada. «Maledizione!» Sibilò tra i denti, «devo star male proprio oggi che posso finalmente mettere le mani sulla giovane Lucilla!» Poi scosse la testa, mentre si raddrizzava ad aspirare l’aria a pieni polmoni. Ignorando gli sguardi prudenti dei pochi anti, affrettò quindi il o in direzione delle prigioni, ma ugualmente non poté fare a meno di pensare a quando, il giorno prima, gli era finito in bocca un minuscolo frammento d’osso schizzato dal corpo maciullato di quel merdoso alchimista. Per più di dieci ore aveva messo tutto il suo impegno nell’estorcere al condannato le informazioni che servivano all’arcidiacono, ma quel piccolo omuncolo non aveva voluto saperne di rivelare i suoi segreti. Nella segreta faceva un caldo bestiale e poiché ormai a quel disgraziato gli occhi erano già stati bruciati da un pezzo, si era deciso a togliersi il cappuccio di pelle che gli impediva di respirare liberamente. Ma proprio mentre fracassava le ultime articolazioni rimaste ancora miracolosamente intere in quel corpo ormai irriconoscibile, uno spruzzo di sangue, misto ad una poltiglia d’ossa e cartilagini, lo aveva colpito in pieno

volto. Aveva sputato con rabbia quello schifo a terra, prima di assestare con calcolata perfidia un’ulteriore mazzata su alcuni nervi che sapeva ancora sensibili, ma gli era rimasto ugualmente in bocca il sapore di quella strana sostanza fuoriuscita dal corpo maciullato. Lo stesso sapore che aveva lo sputo di poco prima, un gusto amaro e speziato che gli si era attaccato alla gola e che nemmeno i tanti boccali di vino erano riusciti a eliminare. Quando varcò la porta del posto di guardia, la prima cosa che gli venne incontro fu il sorriso marcio del capoposto. Quell’uomo lo odiava e tutti sapevano che ambiva al suo posto di boia, ma per sua fortuna Varro lo disprezzava, evidentemente soddisfatto dalle capacità professionali che lui invece aveva sempre dimostrato. Ignorò volutamente quella merda d’uomo, nonostante stesse stringendo, con malcelata ansia, il corto scudiscio utilizzato per le punizioni destinate all’accozzaglia dei soldati che aveva sotto i suoi ordini. I soldati veri, quelli abituati alla guerra, erano stati da tempo reclutati dal vescovo e costituivano un piccolo esercito temibilissimo. Varro, seduto su uno sgabello collocato in un angolo della stanza, gli lanciò uno sguardo di fuoco, poi, senza dire una parola, gli indicò la ripida scala di pietra che scendeva nelle segrete.

3

Come si aspettava, Lucilla era ancora incatenata sul tavolaccio di tortura, nella stessa posizione in cui l’avevano lasciata la sera precedente. Completamente nuda. Odo notò con soddisfazione, che la notte trascorsa in compagnia dei grossi topi che infestavano i sotterranei aveva intaccato notevolmente il morale della ragazza e che ora finalmente negli occhi ramati non brillava più quello sguardo fiero che esibiva sfrontatamente ogni qual volta la s’incrociava per strada. Sapeva che nella notte il terrore della ragazza doveva aver raggiunto livelli elevatissimi. La consapevolezza della sua completa vulnerabilità nell’essere immobilizzata su quel tavolaccio, alla mercé di qualsiasi cosa, doveva averla fatta impazzire di paura al minimo fruscio. L’immaginazione poi, doveva averle inevitabilmente ingigantito, istante dopo istante, ogni possibile minaccia latente al di là della pesante porta, per non parlare degli orrori che già sicuramente temeva si celassero nel buio all’interno della cella stessa. «Dio mio, che schifo!» L’esclamazione, scivolata fuori dalle labbra secche dell’arcidiacono, gli fece portare lo sguardo tra le gambe spalancate della ragazza, dove una pozza d’escrementi testimoniava la lunga notte d’orrore di Lucilla. A un cenno frettoloso di Vanno, il boia raccolse da terra un secchio di legno e dopo averlo riempito in una cisterna colma d’acqua gelida, lo svuotò con un gesto rapido sulle cosce della sua vittima. «Bastardo!» Rotolò fuori dalla gola di Lucilla.

Odo sorrise, la voce roca e spezzata della ragazza era un’ulteriore testimonianza di quanto avesse urlato nella notte. Lasciò correre lo sguardo su quel corpo morbido e sensuale, soffermandosi a osservare i pesanti seni che tremolavano a ogni vano tentativo di liberarsi dai ceppi; ma stranamente non si sentiva eccitato, anzi, un sudore freddo stava incominciando a serpeggiargli fastidioso lungo la schiena, mentre la vista gli sembrava sempre più annebbiata. Maledetto vino! «Sei tu Lucilla da Campertogno, la figlia del mugnaio?» La voce dell’arcidiacono gli arrivò da lontano e la nera figura in piedi, dietro il leggio, tremolava fastidiosamente alla luce delle torce che intanto stava accendendo con cura attorno al tavolo di tortura. «Sei stata accusata di stregoneria e di aver avvelenato, cinque giorni fa, il latte di una capra con lo scopo di asse due neonati, e di aver poi utilizzato i loro poveri corpicini per riti immondi con il demonio! Come ti dichiari?» Il boia evitò di guardare in viso la prigioniera. Sapeva benissimo che l’accusa era completamente fasulla, come lo sapeva altrettanto bene l’arcidiacono, ma la ragazza aveva fatto la fesseria di diventare l’amante di quello strano alchimista. Un uomo sicuramente interessante, ad essere sinceri, ma che certamente non meritava di portarsi a letto una simile bellezza, oltre a esibire stoltamente simpatie troppo evidenti per i Dolciniani. Odo, con la fronte imperlata di sudore e le mani che gli tremavano ormai in modo incontrollato, s’appoggiò malamente al bancone dove teneva le pinze da arroventare e il rumore dei ferri che cadevano a terra interruppe pericolosamente il monotono interrogatorio di Varro. Il boia si voltò allarmato verso l’arcidiacono. «… la ricerca sul tuo corpo dei marchi del maligno… »

La voce cantilenante del prete aveva per fortuna ripreso a risuonare determinata tra le spesse mura e Odo s’affrettò a riordinare sul tavolo gli attrezzi che per primi avrebbe utilizzato per estorcere le confessioni alla ragazza. Ormai la procedura era ampiamente collaudata. Sapeva che Varro si sarebbe eccitato sempre più a mano a mano che l’interrogatorio prendeva piede, ma poiché l’arcidiacono non si sarebbe mai mosso dal suo leggio, ad un certo punto sarebbe toccato a lui agire al suo posto. Quanti corpi aveva posseduto in tanti anni, sotto gli occhi bramosi del prelato, con la scusa di estorcere assurde confessioni? Quante volte aveva abusato liberamente di tante disgraziate solo per dimostrare, al di là di ogni dubbio, la loro indole perversa che le aveva condotte a peccare contro la Chiesa e contro Dio? Anime dannate, possedute dal demonio e dedite alle più bieche depravazioni. Sapeva che anche questa volta, quando il corpo della ragazza non avesse avuto più nulla da dare, Varro si sarebbe arreso alla sua ione interiore, raggiungendo il suo segreto piacere. Ma sapeva anche che la lussuria del religioso sarebbe poi sfociata in un feroce senso di colpa e che ogni successiva frustata, ogni colpo, ogni morso di tenaglia che avrebbe ordinato di infliggere ancora a quel corpo, sarebbe stato vissuto dall’arcidiacono non più con sadico godimento, ma come espiazione per la sua inconfessabile libidine. Un dolore che a volte Odo pensava che il prelato provasse veramente, tanto la sofferenza irrigidiva i suoi lineamenti ed il suo respiro diventava affannoso e disperato. In seguito, a volte per interi giorni, Varro rimaneva immancabilmente rinchiuso nei suoi appartamenti e i servi riferivano che trascorreva tutto il tempo in ginocchio nella minuscola cappella che aveva fatto allestire accanto alla sua camera da letto. Poi, immancabilmente, lui veniva nuovamente convocato nei sotterranei.

Solo il giorno prima era stato diverso. L’interrogatorio e la crudelissima tortura che aveva poi portato alla morte l’Alchimista, erano stati un’altra cosa. Varro era stato evidentemente spinto da motivazioni insolite e lo testimoniava la meticolosità che aveva avuto nel porre domande insolitamente precise e l’ansia e la frustrazione che aveva provato invece per le vaghe e lacunose risposte ottenute. Lui era solo un boia, di politica e di eresie non ne capiva molto e di Fra Dolcino e dei suoi seguaci sapeva solo quello che si mormorava nelle taverne. Si diceva che quegli uomini si considerassero puri di cuore e quindi si ritenessero superiori alle leggi imposte dalla Chiesa. Che, convinti di non poter peccare, si lasciassero andare a pratiche sessuali anche fuori dal matrimonio, senza provare incredibilmente nessun senso di colpa. ... non so quanto tempo ci metterò a morire e neppure quanti giorni consumerò ancora implorando pietà, ma di una cosa sono certo: un attimo dopo che sarò spirato mi metterò al tuo fianco e non ti abbandonerò più un solo istante, fino a quando non arriverà anche il tuo turno di venire in questo atroce abisso di tormenti!... Il ricordo della maledizione che l’Alchimista gli aveva lanciato, rimbombò improvvisamente nella testa di Odo, facendolo barcollare nuovamente in malo modo. «… pentiti e confessa subito, o subirai la giustizia divina sul tuo stesso corpo…» La voce di Varro, che gli arrivava già carica d’eccitazione, gli si mescolò dentro assieme al cupo ricordo dello sguardo acuto del condannato del giorno prima. Il terrore e l’angoscia che avevano deformato i lineamenti di quel disgraziato, non erano stati però sufficienti a nascondere lampi di qualcos’altro, accenni a mondi sconosciuti e a segreti accuratamente celati e potenti. Sapeva che quell’uomo era stato arrestato per motivi politici e che la sua

condanna a morte era già stata scritta in anticipo, ma ora il dubbio che nell’accusa di essere uno stregone ci fosse qualcosa di vero, acquistò improvvisamente peso, diventando in pochi istanti un enorme macigno. Se fosse stato vero che si trattava un potente mago, allora la sua maledizione poteva dimostrarsi una cosa seria e concretizzarsi nella realtà! «Boia! Preparati!» Odo si voltò terrorizzato verso Varro, aveva la pancia attanagliata da un dolore lancinante e l’evidente eccitazione del prelato gli sembrò una cosa lontana e ridicola. Si obbligò a fissare il sesso esposto di Lucilla, cercando di avvertire nei suoi pantaloni un accenno di erezione. Nulla! Solo una feroce nausea che gli faceva salire in gola fiotti di saliva acida e nauseabonda. Intuì l’ordine dell’arcidiacono e disperato allungò il braccio cercando di afferrare un oggetto che potesse sostituire il suo pene floscio, ma attorno a lui ormai tutto vorticava velocemente e l’aria stessa si faceva a ogni attimo più densa e scura. Poi i suoi visceri cedettero di colpo.

4

Varro fissò stupito il suo boia, accorgendosi solo in quel momento delle condizioni dell’uomo. Lucilla era una sofferenza che lo assillava ormai da molto tempo, da quando in una calda sera d’agosto l’aveva vista per caso bagnarsi nel ruscello dietro al mulino del padre, certa del riparo offerto dal grande salice e dalla tranquilla solitudine del luogo. Lui stava ritornando da una missione alquanto riservata per conto del vescovo e non ci teneva molto a farsi vedere per strada, per cui aveva tagliato per i campi, sicuramente deserti a quell’ora ormai tardiva. La ragazza nuotava lentamente nell’acqua scura e se a un certo punto non si fosse messa a canticchiare, l’avrebbe sorata senza nemmeno scorgerla. E si sarebbe salvato! Invece era rimasto immobile nelle ombre della sera, spiandola mentre usciva dall’acqua per sedersi poi sulla riva a pettinarsi con cura i capelli, completamente ignara della sensualità che emanava il suo giovane corpo. Aveva provato con tutte le sue forze a dimenticare quella scena, ma inevitabilmente quell’atmosfera di calda intimità gli si era ripresentata regolarmente, esplodendo incontrollabile nei suoi desideri e accendendo prepotentemente le sue voglie più nascoste. Aveva quindi iniziato a spiare costantemente la ragazza e dopo poche settimane non solo ne conosceva tutte le abitudini, ma anche poche parti di quel giovane corpo conservavano ancora i loro segreti. Si rendeva conto del rischio altissimo che correva ogni qual volta strisciava nell’erba alta per raggiungere il ciglio del ruscello, rimanendo poi ad attendere, a volte molto a lungo, l’arrivo dell’oggetto dei suoi desideri; ma non gli

importava, ormai la ragazza era diventata per lui un’ossessione incontrollabile. Poi l’estate era finita e con i primi venti freddi Lucilla aveva smesso di bagnarsi al ruscello e per lui era iniziato un angoscioso periodo di amara frustrazione. Una sera di ottobre, quando ormai aveva già deciso di abbandonare, anche con lo sguardo, la finestra illuminata dietro la quale si muoveva l’ombra affaccendata della sua ione, un’altra ombra furtiva scavalcò una finestra. L’arcidiacono si bloccò sconcertato, la ragazza era sola in casa, di questo ne era sicuro. Lui stesso aveva fatto in modo che il mugnaio fosse stato convocato nel pomeriggio nelle cucine del vescovo con la scusa di un sacco di farina avariata, ed era certo che almeno ancora per un paio d’ore il padre della ragazza sarebbe stato trattenuto lontano da casa. Varro estrasse dalla tonaca l’affilato stiletto che non l’abbandonava mai e con estrema prudenza si avvicinò alla casa, ma quando si arrischiò a lanciare un rapido sguardo oltre la finestra, rimase di sasso. Lucilla era distesa sul grosso tavolo della cucina, mentre un uomo le stava strappando con furia gli abiti dal corpo. Varro strinse con più forza il manico del suo pugnale, ma proprio mentre si accingeva a scavalcare a sua volta il davanzale, l’improvvisa risata della ragazza lo immobilizzò. Le mani della donna avevano afferrato l’uomo per i capelli, ma solamente per attirarne con forza la testa contro il petto nudo, mentre le sue gambe cingevano sicure le reni dell’uomo. L’arcidiacono rimase immobile nel buio della notte, paralizzato a osservare l’amplesso selvaggio che si stava consumando a pochi metri dai suoi occhi. Quando poi la ragazza, con un movimento sinuoso, si voltò a pancia in giù sul tavolo, Varro fuggì nella notte, il petto che si rifiutava di far entrare l’aria e il cervello che furiosamente annaspava alla ricerca della più feroce vendetta che potesse escogitare.

Poi la mano di Dio calò inaspettata, e due giorni dopo sul tavolo dell’arcidiacono giaceva aperta una lettera del vescovo di Vercelli, Raniero de Pezzana Avogadro, dove gli si ordinava di intraprendere azioni più incisive nella lotta contro i movimenti eretici e indicava di seguito alcuni seguaci di fra Dolcino, scelti tra i più attivi e pericolosi. Varro era rimasto a lungo assorto, a fissare un nome, lui quell’uomo lo conosceva bene, nonostante che da due giorni avesse davanti agli occhi non il viso carismatico dell’eretico, ma le sue natiche nervose che si muovevano sicure tra cosce bianche e morbide. Un rantolo orribile, che uscì dalle labbra del boia, riportò Varro alla realtà. Allibito, rimase a fissare disgustato la poltiglia nauseabonda che iniziava a colare fuori dai pantaloni consunti dell’uomo, che ormai si contorceva terrorizzato sul pavimento. Le labbra nere e gli occhi che sembravano voler schizzare violentemente fuori dalle orbite, rendevano il volto di Odo un’orrenda maschera fatta di angoscia e di dolore. Lucilla stessa aveva smesso di agitarsi e stava fissando allibita il suo carnefice che, in quel momento, si era messo in ginocchio a fissarsi stralunato il ventre, gonfiatosi improvvisamente in modo innaturale; poi con un ululato, l’uomo incominciò a strapparsi di dosso la camicia, prendendo ad artigliarsi la pelle orribilmente tesa. Quando le grosse unghie nere del boia incominciarono a lacerare la sua stessa carne, penetrando in profondità tra i visceri, la ragazza voltò di scatto la testa orripilata, mentre a pochi i da lei, Varro, pallidissimo, fissava Odo con aria sgomenta. Il cuore del boia cedette improvvisamente, e dentro un urlo lacerante, l’uomo cadde di colpo sulla schiena, mentre spasmodici sussulti delle gambe facevano tremare le sue budella insanguinate, ferocemente artigliate dalle dita contratte. Varro voltò a sua volta il capo disgustato, riportando lo sguardo sul corpo di Lucilla, che intanto aveva iniziato a divincolarsi in preda ad un vero e proprio attacco isterico.

Le gambe spalancate della ragazza attirarono subito la sua attenzione, ma quando spostò gli occhi cercandone il viso, fece un rapidissimo o indietro, accanto al tavolo di tortura era comparso improvvisamente l’Alchimista, intento ad accarezzare con dolcezza i capelli ramati di Lucilla. Varro aprì la bocca per chiedere aiuto, ma l’uomo alzò lo sguardo verso di lui, allungando nello stesso tempo un braccio nella sua direzione. «Ora tocca a te!» L’arcidiacono si coprì il viso con le mani, poi qualcosa gli si ruppe dentro e fuggì alla cieca, lontano da tutti quegli orrori.

5

Due mesi dopo un uomo si muoveva sicuro nella piccola casa che era stata dell’Alchimista. Il viso scavato del visitatore, non aveva più nulla del fascino aristocratico che fino a poco tempo prima attirava immancabilmente gli sguardi furtivi delle parrocchiane e incuteva rispetto e soggezione nei signorotti locali. Varro sembrava solo l’ombra dell’uomo affascinante che era stato, e lo stesso vescovo si stava chiedendo se fosse ancora il caso di tenerlo al suo servizio o se invece fosse arrivato il momento di sostituirlo con qualcuno di più affidabile. A frenarlo erano soprattutto i risultati che l’arcidiacono riportava costantemente nella lotta contro i movimenti eretici che impestavano le sue terre, il suo zelo era encomiabile e mai i Dolciniani si erano trovati con l’acqua alla gola come in quel momento. Il prete si sedette per l’ennesima volta allo scrittoio dove l’Alchimista aveva trascorso gran parte della sua vita di studioso. Da quando aveva fatto mettere sotto sequestro quella casa, non aveva lasciato are giorno senza trascorrere lunghe ore tra quelle mura, sfogliando libri e pergamene, cercando con tutte le sue forze di svelare i segreti che quelle pareti ancora sicuramente celavano. Informazioni e documenti su cui ancora non aveva potuto mettere le mani, nonostante tutti gli sforzi compiuti da lui e dai suoi uomini. Dopo essere fuggito sconvolto dalle segrete, era rimasto rinchiuso per interi giorni nella sua cappella privata, in assidua preghiera e in completo digiuno, terrorizzato di veder nuovamente comparire lo spettro dell’Alchimista e di doversi confrontare con la maledizione che l’uomo gli aveva scagliato contro. Poi lentamente, con il are dei giorni, aveva ripreso il controllo dei suoi nervi

e assieme alla ritrovata fiducia in se stesso, anche i fatti accaduti avevano incominciato a assumere nuovi aspetti. Evidentemente l’Alchimista doveva essere riuscito in qualche modo ad avvelenare il suo carnefice, e prima o poi lui avrebbe sicuramente ritrovato tra le carte e gli appunti dello studioso prove per avvallare il sospetto. E certamente solo la concomitanza fortuita tra l’atroce morte del boia ed il proprio stato d’animo, colmo di odio e ione verso Lucilla, aveva potuto provocare in lui un’allucinazione così reale e terrificante. Comunque, per precauzione, aveva fatto rinchiudere la ragazza tra le mura sicure di un tranquillo convento dell’Alta Val Sesia, lontano da chiunque potesse conoscerla e parlarle. Una cosa era comunque propenso ad ammettere: che l’uomo a cui era appartenuta quella casa non era stato affatto uno stupido. L’arcidiacono possedeva una cultura invidiabile anche nell’ambito dell’alta cerchia ecclesiastica, particolarità che l’aveva portato sin da giovane a essere notato dal potente Vescovo di Novara, che ne aveva fatto il suo braccio destro. Varro, nato da un rapporto occasionale tra un alto prelato romano di aggio e l’avvenente figlia di un ricco signorotto del vercellese, era stato fin da piccolo indirizzato verso il mondo ecclesiastico. La madre invece, fatta entrare ancora minorenne in convento, aveva terminato il suo castigo in una gelida notte d’inverno, senza aver mai avuto la possibilità di vedere il volto del figlio. Lui comunque aveva ricevuto un’educazione di ottimo livello e la sua intelligenza pronta e l’assoluta mancanza di qualsiasi scrupolo, l’avevano ben presto fatto notare dal vecchio arcidiacono del Vescovo di Vercelli, che aveva coltivato con cura quella che intuiva essere un’enorme ambizione personale, portandolo a soli vent’anni a sostituirlo nei delicati incarichi richiesti dall’amministrazione vescovile. Era ato così dalla cura dei poveri alla supervisione della gestione di proprietà ecclesiastiche, per arrivare poi ad incarichi riservati sulla sorveglianza del clero che operava all’interno della diocesi vercellese e quando a ventiquattro

anni era stato infine chiamato dal Vescovo di Novara, con il compito d’esaminare i candidati al sacerdozio, ottenne anche il diritto di compiere visite pastorali ai sacerdoti di campagna. In breve tempo, grazie alla sua scaltrezza e all’assoluta spregiudicatezza di modi, divenne il consigliere principale del vescovo, con il mandato di preservare la purezza della fede e della disciplina nell’intera diocesi. Quello che i suoi superiori non potevano però sapere, era che nonostante l’arcidiacono dimostrasse un completo disinteresse verso qualsiasi cosa non portasse a un pratico tornaconto personale, e che lo ritenessero capace di svolgere in modo encomiabile i suoi incarichi solo perché consapevole che soltanto come strumento perfetto delle rapaci mire dei suoi superiori, poteva aspirare a godere a lungo dei suoi notevoli privilegi, in fondo all’animo lui bramasse alla Vera Conoscenza. La cultura greca e latina, che per la cerchia ecclesiastica locale si riduceva a una mera esibizione, per lui invece rappresentava qualcosa di molto più profondo. Platone e Aristotele non erano solo nomi da spiattellare per mettere in difficoltà stupidi parroci di campagna, il più delle volte incapaci di comprendere addirittura il senso stesso delle liturgie che officiavano o a controbattere arroganti bifolchi che ripetevano maldestramente gli strambi concetti eretici arraffati nelle bettole. Per lui quelle idee e quelle filosofie erano veramente qualcosa di vivo e indispensabile, anche se appartenevano a un Varro a volte sconosciuto a lui medesimo. Come sarebbero stati stupiti i suoi avversari se avessero saputo che non solo conosceva perfettamente i presupposti filosofici da cui nascevano le loro eresie, ma che addirittura condivideva gran parte delle idee espresse dal “Libro sulla concordia del Nuovo e Vecchio Testamento” di Gioacchino da Fiore. Gli stessi Fratelli del Libero Spirito avrebbero strabuzzato gli occhi nello scoprire nella sua biblioteca personale, scritti del filosofo e teologo se Amaury di Bène, in cui insegnava un credo di tipo panteistico e neoplatonico e dove si affermava come Dio fosse compreso in tutte le cose. Dio, essenza di tutto ciò che esiste!

Di conseguenza anche l’uomo era parte di Dio, a sua volta Divino! E che quindi, una volta raggiunta la conoscenza di Dio e consapevoli di essere un tutt’uno con Lui, non era più possibile peccare, con la logica conseguenza che a quel punto non era certamente necessario avere intermediari che imponessero precetti morali o ecclesiastici di qualsiasi tipo. A Varro in realtà, di Dio non importava nulla, se non nella misura che la sua esistenza rendeva possibile il predominio della Chiesa sul mondo e il perdurare di tutta quella serie di privilegi e di poteri che lui contribuiva così bene a conservare e alimentare. I bellissimi concetti filosofici degli eretici li aveva relegati a livello di divertenti giochi per la sua mente acuta, ritenendoli al massimo un interessante scambio d’intuizioni tra persone di una casta più elevata, capace di vedere oltre la banalità del Potere e della Ricchezza. Dio l’aveva sicuramente inventato qualcuno che aveva bisogno di avere alle spalle una forza suprema che gli permettesse brame di dominio e sconfinate ambizioni. Una forza spaventosa e occulta che potesse rendere gli uomini schiavi delle loro stesse paure e della loro ignoranza. Lui aveva avuto la fortuna di capirlo presto, ed era con vero zelo che impiegava tutte le sue forze per mantenere, pur nel suo piccolo, perfettamente oliato quel meccanismo perfetto. Con un sospiro si riscosse dai suoi pensieri e aprì con delicatezza il grosso tomo che aveva di fronte. Si trattava del diario personale dell’alchimista, dove lo studioso aveva vergato di suo pugno anni di studi e ricerche. Sul volto di Varro si delineò un vago sorriso, mentre sfogliava con attenzione quelle pagine ricoperte da una scrittura accurata e di illustrazioni dettagliatissime. Per sua fortuna era riuscito ad evitare di includere quel libro tra gli atti d’accusa, nonostante bastasse da solo per accusare l’uomo di alta stregoneria.

I numerosi documenti sparsi in giro per la casa, che attestavano i legami tra lo studioso ed i seguaci di Fra Dolcino, erano stati più che sufficienti a farlo arrestare e condannare al rogo. O più precisamente a bruciare quello che restava della carcassa torturata a morte di un uomo le cui uniche colpe erano state quelle di avere opinioni diverse da quelle suggerite dal vescovo, e soprattutto quelle di aver messo le sue luride mani sul corpo di Lucilla. L’Alchimista non avrebbe mai potuto immaginare che molti degli esperimenti descritti in quegli appunti erano già stati compiuti in ato da Varro nei sotterranei della sua casa, due piccoli vani attrezzati con cura maniacale, con le migliori strumentazioni che era riuscito a confiscare nel nome della Chiesa e del Vescovo. Un disegno, che illustrava un metodo molto ingegnoso per ottenere oli metallici utilizzando acque corrosive, attirò la sua attenzione al punto di avvicinare la candela alla pagina, nel tentativo di decifrare con più accuratezza alcuni minuscoli appunti. Nel farlo il cero si spense. Senza curarsi di reprimere l’imprecazione che gli era salita alle labbra, l’arcidiacono si alzò per riaccendere lo stoppino alle braci del camino e fu proprio grazie a quel gesto che notò il mattone. La camera era rimasta al buio e solo le basse fiamme del camino fornivano una fonte di luce. Per quello lo vide. Anche se perfettamente allineato agli altri che costituivano la base del camino, uno dei mattoni irradiava una strana luce. Varro s’inginocchiò incuriosito. Nitide impronte di polpastrelli rilucevano di una strana sostanza verdognola e luminescente. L’arcidiacono appoggiò con cura le proprie dita in corrispondenza di quelle orme

e spinse con forza. Uno scatto metallico sulla sua destra gli fece ritrarre di scatto la mano, ma la comparsa di un’apertura nel muro attirò tutta la sua attenzione. Dopo aver ri il cero che reggeva ancora in mano, lo avvicinò cautamente alla piccola nicchia che occhieggiava scura nel bel mezzo della vecchia parete di pietra. Quel nascondiglio era stato costruito con vera maestria e Varro lasciò scorrere ammirato la luce della candela lungo la pietra perfettamente tagliata che costituiva lo sportello di quella piccola cassaforte. Il gesto gli salvò la vita. Il soffocato soffio che uscì da quella piccola cavità non sarebbe mai stato emesso, se lui non avesse disturbato con la fiamma lo scomodo inquilino. Con un balzo Varro si gettò indietro, mentre una forma scura scivolava dalla fenditura per cadere pesantemente a terra. L’arcidiacono fu un lampo, e afferrato un pesante sgabello di legno lo fracassò con violenza sul corpo arrotolato del serpente. Solo dopo molti altri colpi frenetici dati quasi alla cieca, la sua attenzione equamente divisa tra quello che si contorceva sul terreno e il buio foro sulla parete, Varro si concesse di riprendere fiato. Aveva la tonaca appiccicata alla schiena e un sudore freddo gli imperlava la fronte. Con cautela e soprattutto senza abbandonare per un solo istante la piccola fenditura sul muro, riuscì ad accendere un grosso candelabro, ritrovando, assieme alla luce più forte, anche parte del suo respiro. In un angolo della stanza era stata appoggiata al muro una lunga torcia e Varro s’affrettò ad accendere anche quella. Reggendo poi con il braccio sinistro, ben teso in alto, il candelabro, si avvicinò nuovamente al micidiale nascondiglio con la torcia puntata in avanti.

Con la punta del piede colpì leggermente quello che restava della grossa vipera arrotolata sul pavimento, poi rassicurato, rivolse tutta la sua attenzione al foro nel muro. Ora la luce era sufficiente per vedere con chiarezza all’interno dell’intera nicchia e a parte quello che gli parve il dorso di un libro non intravide altro. Posò la torcia tra le braci del camino, solo per afferrare saldamente uno dei lunghi attizzatoi di ferro, quindi, cercando di illuminare nuovamente al meglio l’interno del nascondiglio, infilò il ferro con determinazione nella cavità. Nessun movimento indicò la presenza di altri occupanti letali. Varro sospirò di sollievo, e dandosi ugualmente dello stupido, avvolta la mano nel suo mantello, con rapidità afferrò il libro misterioso, lo appoggiò quindi con cura sul tavolo, andando poi rapidamente a spingere nuovamente il mattone sotto il camino. Ci fu un ulteriore scatto metallico e il nascondiglio scomparve come per magia. Con disgusto raccolse con l’attizzatoio la vipera morta, lanciandola velocemente tra le braci, e dopo un ultimo sguardo alla parete ritornata perfettamente liscia, riportò la sua attenzione sul libro misterioso. Sicuramente se l’Alchimista aveva protetto in modo così letale quel nascondiglio, quello che custodiva doveva avere per lui un valore notevole. Aprì con cura il piccolo tomo, voltando con attenzione la spessa copertina di cuoio cesellato. Se la vipera l’aveva fatto sudare freddo, quello che lesse sulla prima pagina, vergato con una calligrafia delicata ed elegante, lo lasciò completamente congelato. Le miroir des simples ames anienties et qui seulement demourent en vouloir et desir d’amour.

6

Se l’arcidiacono aveva compiuto i suoi studi in latino e greco, la lingua più parlata tra i nobili era il se o perlomeno quello che ava per se. Educato in tal senso dalla ricca famiglia materna, ma soprattutto grazie allo stretto contatto con la sua badante, originaria di Bayonne, che l’aveva di fatto adottato, sin da bambino era stato abituato a parlare correttamente quella lingua, anche se il pesante accento dei Pirenei che aveva inevitabilmente assimilato, avrebbe di fatto torcere il naso alla corte parigina. Varro intanto, si era lasciato cadere letteralmente sullo sgabello, lo sguardo incredulo inchiodato sulla firma che spiccava nitida in fondo alla prima pagina. Marguerite La Porète. Non riusciva a crederci! Aveva davanti quello che sembrava essere l’originale del più importante libro di una delle pensatrici più controverse che ci fossero in circolazione e che, a quanto ne sapeva, era stata confinata al silenzio, pena la certezza di seguire sul rogo il libro che aveva avuto il coraggio di scrivere. “Lo specchio delle anime semplici” com’era comunemente indicato nella ristretta cerchia d’iniziati, era uno dei testi più interessanti che circolavano tra i vari movimenti eretici e che aveva inoltre influenzato profondamente il pensiero di più di qualche uomo di cultura anche nell’ambito della Chiesa stessa. Il libro, scritto sotto forma di dialogo tra l’Amore, la Ragione e l’Anima, narrava della crescita dello spirito nel suo desiderio d’unione con Dio, attraverso sette stadi successivi. Solo che in diversi aggi la donna esprimeva pericolose opinioni, come il concetto che un’anima, per esempio, conquistata dall’amore per il Creatore, può e deve garantire alla natura tutto ciò che essa desidera, avvicinandosi

pericolosamente alle convinzioni divulgate dai Fratelli del Libero Spirito. Questi ultimi, convinti di essere pervasi dallo Spirito Santo, ritenevano di essere talmente perfetti da poter commettere qualsiasi atto senza correre il rischio di peccare, seguendo alla lettera il detto di San Paolo: Tutto è puro per i puri. Varro però, sapeva bene che in quel libro c’era ben altro. Sapeva che rappresentava un vero vertice del pensiero religioso, una sorta di dichiarazione della nobiltà stessa dell’anima. L’arcidiacono sfogliò con attenzione le pagine con la delicatezza che può mettere un amante nell’accarezzare il corpo dell’amata, mentre i suoi pensieri vagavano liberi oltre le mura di quella stanza. Aveva notato immediatamente che il testo era scritto in se volgare, confermando le voci che affermavano che Marguerite La Porète lo avesse scritto per la gente comune, o almeno per quelli che almeno sapevano leggere e non solo per la ristretta cerchia di pensatori e letterati, e questo gli fece tornare alla memoria voci udite mesi prima su un altro letterato di Firenze, che sembrava stesse scrivendo la storia di uno strano viaggio negli inferi, appunto in italiano volgare. La sensazione che qualcosa d’importante stesse nascendo nel mondo culturale gli procurò nuovamente un leggero brivido, lasciandolo preoccupato a fissare le pagine ricoperte dalla calligrafia elegante e sicura dell’autrice. Fino a quel momento, tutto quello che riguardava la delicata attività di pensiero che aveva come scopo la pericolosa indagine su Dio, era stata affidata a lingue che, come il latino e il greco, erano riservate a uomini colti, per lo più formatisi culturalmente nella Chiesa stessa, e quindi quando scaturivano diversità di pensiero o d’interpretazione, in realtà erano più scontri di misero potere terreno che vere e proprie rivoluzioni culturali. Il popolo ignorante moriva in sanguinose guerre di religione seguendo ignaro le insegne di nobili che mascheravano le loro ambizioni ognuno sotto il manto della vera fede, qualunque essa fosse; ma se ora, liberi pensatori si permettevano nientemeno di pubblicare le loro idee in una lingua che potesse essere compresa da chiunque, il pericolo che il popolo incominciasse a ragionare con la propria testa, arrivando ad avere addirittura convinzioni proprie, era un pericolo di

incredibile portata. Se poi si arrivava ad affermare che Dio è amore e che se si amava, si diventava un tutt’uno con Dio, senza la necessità di dover più utilizzare intermediari, la catastrofe era inevitabile. Decadeva il potere stesso della Chiesa, e con esso il potere dei Principi investiti da Dio. Il Caos! Varro chiuse con rabbia il libro e per un attimo fu tentato di gettarlo a far compagnia a quello che rimaneva della vipera, ma il suo gesto si fermò a metà. Qualcosa si era mosso alle sue spalle. Con uno scatto fulmineo il prete si voltò, estraendo il suo stiletto e puntandolo rapidamente contro il pericolo. Nulla! Con prudenza arrischiò qualche o per gettare un rapido sguardo verso il piccolo ingresso, ma la porta d’entrata era ancora protetta dal grosso catenaccio che lui stesso aveva chiuso. Rassicurato, si voltò per raccogliere il libro dallo scrittoio, ma rimase allibito. Gettato sopra il tavolo c’era ora il mantello dell’Alchimista. Col pugnale puntato in avanti, Varro si mise furiosamente a rovistare per la stanza, rovesciando sedie e aprendo armadi, urlando nello stesso tempo pesanti insulti a chiunque osasse celarsi nel buio. Ben presto dovette però arrendersi all’evidenza di essere completamente solo. Afferrò quindi il mantello con l’intenzione di gettarlo nel fuoco, ma la sensazione di calore che l’indumento ancora conservava gli bloccò il gesto a metà. Sembrava che il proprietario se lo fosse appena tolto e che addirittura anche il

suo odore fosse ancora trattenuto dalla pesante stoffa. L’Arciprete, terrorizzato, afferrò sia il diario dell’Alchimista sia il libro della Marguerite La Porète, fuggendo poi a gambe levate, senza nemmeno guardarsi alle spalle, lontano da quella piccola casa pregna di oscura magia.

7

L’alto muro del convento proiettava una densa ombra nera che avvolgeva completamente il corpo raggomitolato sotto il grande rosmarino. La luna, celata a sua volta da pesanti nubi cariche di pioggia, lasciava trasparire solo a brevi tratti un vago chiarore spettrale, ma per la maggior parte del tempo il buio e la pioggia facevano da padroni incontrastati nella fredda notte primaverile. Un lampo squarciò l’intero giardino, rivelando per un attimo un viso spaventato, in netto contrasto con il determinato bagliore che invece lampeggiava nello sguardo, intento a scrutare incessantemente attorno. «Tre…quattro…cinque…sei.» Il fragore improvviso del tuono sembrò far tremare impercettibilmente i grandi sassi del muro. «Bene!» Mormorò la ragazza, «si sta allontanando.» Mezz’ora dopo, quando ormai nell’aria si avvertivano solamente lontani borbottii, attutiti dalla leggera pioggerellina che ancora si ostinava a cadere fastidiosa, nel giardino del convento stonava solo la lunga scala a pioli del giardiniere, appoggiata ironicamente contro il lato più alto e protetto del muro di cinta, quello che separava le suore dal profondo bosco pieno d’indefinibili pericoli. Un luogo oscuro, dove non era raro incontrare lupi affamati o peggio ancora vagabondi non meno pericolosi, ma che per la fuggiasca significava libertà e dove anche le dure spine dei rovi sembravano sussurrare parole piene di speranza. Mentre correva sicura e veloce, la ragazza sorrideva all’idea che quando, alle prime luci del mattino, la sua fuga sarebbe stata inevitabilmente scoperta, non

solo alla madre superiora sarebbe venuto un colpo, ma che anche il giardiniere si sarebbe trovato ad affrontare giorni difficili a causa della propria sbadataggine. Quel porco però se lo meritava! Anche se in fondo doveva ammettere che senza la viscida bramosia di quel residuo d’uomo, lei non sarebbe mai riuscita a procurarsi la scala che le aveva permesso la fuga. Un soffio inconfondibile la fece arrestare di colpo e Lucilla rimase immobile su una sola gamba, sperando angosciata che il fruscio attorno ai suoi piedi s’allontanasse velocemente. Le mancava solo di pestare una vipera, proprio quando aveva appena riguadagnato la libertà. Per fortuna il serpente aveva altro da fare che occuparsi di lei e dopo poco la ragazza riprendeva sollevata il suo cammino, evitando comunque con molta cura di are troppo vicino ai muri diroccati della baita che le si era parata di fronte. Il pensiero del giardiniere che doveva aver ato la notte ad aspettarla nel fienile, con il suo misero uccello in tiro, le fece tornare il sorriso sul viso indurito, poi la ragazza scomparve nel buio del sottobosco, anche se il suo o denotava ora una ben maggior cautela. Fu solo dopo mezzogiorno che Lucilla incominciò a considerarsi al sicuro e approfittò di una piccola grotta scorta per caso, per ripararsi dalla pioggia che nel frattempo aveva ricominciato a cadere copiosa. Dopo aver accuratamente controllato che non vi fossero all’interno inquilini sconvenienti, estrasse dal tascapane l’affilato coltello che si era prudentemente portato dietro e dopo aver tagliato alcuni arbusti, li utilizzò per mimetizzare alla meglio l’ingresso della piccola caverna. Era nata in montagna e non ebbe difficoltà ad accendere un piccolo fuoco con quello che la grotta gli offriva; foglie secche, ramoscelli, escrementi di capra, alcune pigne rotolate dentro chissà come. Accertatasi che il fumo non segnalasse troppo la sua presenza si decise ad aprire il fagotto cerato che si era trascinato dietro.

Ne estrasse una coperta asciutta e un pezzo di formaggio, quindi si spogliò completamente e dopo aver sistemato con cura gli indumenti fradici accanto al fuoco, si raggomitolò nella ruvida stoffa, il cibo stretto nella mano. Dopo pochi morsi si addormentò di colpo. Si risvegliò con il buio. Il fuoco si era spento e solo poche braci rimanevano a occhieggiare invitanti, ma Lucilla sapeva bene quanto fosse pericolosa la luce di notte, la si poteva vedere da lontano, addirittura da un versante all’altro delle colline. Con cautela, quasi a tatto, raccolsegli indumenti ancora fastidiosamente umidi, ma non poteva permettersi di aspettare oltre. Con un brivido si vestì velocemente e di buon o riprese la sua fuga; dopo pochi minuti sudava già sulla ripida salita che l’avrebbe condotta definitivamente al sicuro. Il colpo la raggiunse esattamente in mezzo alle scapole. Violento e imprevedibile. Lucilla vide il terreno corrergli incontro e il rumore che fece la sua testa urtando contro un grosso masso venato di nero, fu l’ultima cosa che sentì. Il risveglio questa volta fu molto più doloroso. La testa le doleva terribilmente e trascorsero lunghi minuti prima che si rendesse conto che la nausea che l’opprimeva era dovuta al sordo malessere provocato dalla mancanza di circolazione del sangue, bloccata da una rozza corda attorcigliata attorno ai polsi. «Ti sei svegliata finalmente!» La voce sgraziata piombò su di lei come una mazzata. Lucilla avrebbe riconosciuto la voce del guardiacaccia del vescovo tra migliaia di altre.

Era feroce come le pelli di lupo che adoperava per vestirsi, sempre se si potesse parlare d’indumenti quell’ammasso di cotenne che si portava addosso, tenute assieme da innumerevoli e complicati legacci. E anche il suo fiato rispecchiava fedelmente l’odore di carogna che esse emanavano. «Cosa ci fa una bellezza come te da sola in mezzo alle montagne?» Il volto sfregiato dell’uomo si pose a pochi centimetri dai suoi occhi e Lucilla gli sputò addosso. L’uomo in tutta risposta rise sguaiatamente. «La mia povera moglie mi supplicava sempre di lavarmi prima di scoparla, ora penso di essere pronto.» Solo quando l’uomo si sollevò, mostrandosi in tutta la sua alta statura, Lucilla si rese conto di dove erano. Il guardiacaccia, dopo averla colpita, doveva averla riportata indietro a spalla, per poi gettata su un mucchio di foglie secche dentro la baita diroccata che aveva superato la notte precedente. Lo vide rovistare con una mano sotto le pelli, poi, assieme ad un sorriso feroce, l’uomo fece emergere un grosso pene sporco. Lucilla cercò di alzarsi, ma lui la centrò con una pedata in pieno petto, mandandola nuovamente a finire, senza fiato, in mezzo al mucchio di foglie. In un attimo le fu addosso. Si sentì stringere la gola da dita nodose, mentre il corpo dell’uomo si faceva spazio tra le sue ginocchia. Disperata, sollevò i polsi ancora legati, in alto, altre la sua testa, cercando tentoni qualunque cosa potesse servirle per difendersi, ma solo grumi di foglie umidicce riempirono le sue mani affannate. L’uomo intanto aveva conquistato il posto che voleva e con un urlo di trionfo le

lacerò il vestito sul petto scoprendole i seni bianchissimi, mentre lei, con le dita sempre più intorpidite, continuava a frugare alla cieca nella ricerca di un’improbabile arma. Finalmente trovò qualcosa, ma l’improvvisa consapevolezza di quello che aveva tra le dita le gelò il sangue nelle vene, lasciandola paralizzata. L’uomo confuse il terrore della ragazza con l’arrendevolezza e con un grugnito si lasciò cadere su di lei, cercandole famelico la bocca. La vipera fu letale. Colpì l’uomo esattamente alla vena giugulare, iniettandogli in un istante tutto il contenuto delle due ghiandole velenifere. Il guardiacaccia schizzò in piedi incredulo, tenendosi una mano sulla gola. Improvvisamente divenne paonazzo, crollando poi di schianto sulle ginocchia, per afflosciarsi subito dopo lentamente di lato. La consapevolezza dell’atroce fine che l’aspettava era stata più veloce del veleno e il terrore gli aveva spaccato il cuore. «Strega!» Il grido, repentinamente soffocato, fece voltare a Lucilla il viso verso la porta. Un soldato si stagliava sulla soglia, la lunga picca puntata verso di lei, e al suo fianco Varro sembrava uno spettro nero. «É il diavolo!!» L’arma nelle mani dell’alabardiere tremava visibilmente, mentre gli occhi sconvolti dell’arcidiacono erano ancorati sul petto della ragazza dove, annidato tra gli ampi seni scoperti, il serpente ancora soffiava infuriato. «É stregoneria! Uccidiamola subito!» Urlò nuovamente il soldato. Varro avrebbe voluto fermarlo, ma il lento ondeggiare della testa della serpe

sembrava averlo avvinto completamente. Non avendo ottenuto risposta dal prelato, il soldato alzò in alto la picca, contraendo contemporaneamente i muscoli della schiena per imprimere la maggior forza possibile nel colpo mortale. La freccia lo centrò esattamente tra quei muscoli, oltreando il farsetto di cuoio per arrestarsi poi, con un rumore sordo, dentro il torace robusto. Varro osservò il soldato cadere come se la cosa non lo riguardasse, poi venne afferrato per la tonaca da un altro soldato che era intanto sopraggiunto trafelato. «Dolcino! Sono gli uomini di Dolcino! Bisogna fuggire! Sono in tanti!» Varro, ancora inebetito, fu trascinato via sotto una pioggia di frecce, mentre negli occhi conservava la visione della vipera rossiccia che strisciava lentamente sul nudo corpo di Lucilla.

8

Anno domini 1305

La neve continuava a cadere dura e fitta e il vento la faceva turbinare ovunque come fosse farina gelata. Il freddo era così feroce che anche i più rudi montanari non avevano nemmeno il coraggio di fermarsi per pisciare ai margini del ripido sentiero, che oltretutto sembrava svanire nel nulla solo pochi metri più in alto. Margherita volse il viso tagliato dal gelo verso lo sparuto gruppetto che costituiva la retroguardia dei disperati che comandava e a fatica distinse tra gli stracci ricoperti di neve, la divisa del capitano delle sue truppe regolari. Truppe regolari! Trentasei disertori dell’esercito cattolico che tentavano invano d’insegnare a contadini e montanari l’arte della guerra. Trentasei disperati che in cambio d’asilo e di una pagnotta, cercavano di convincere altrettanti disperati che non era poi così difficile tagliare la gola a un uomo utilizzando una comune roncola, o come fosse lecito fracassare un cranio con un robusto martello da fabbro. La donna scosse la testa frustrata. Non doveva essere così severa, in fin dei conti quei soldati si erano uniti a loro spontaneamente e la loro presenza contribuiva notevolmente a migliorare il morale degli ultimi ribelli che stava faticosamente guidando verso la salvezza. Se riuscivano a superare anche quell’ultimo o, avrebbero poi potuto riparare nella loro nuova roccaforte sulle pendici del monte Rubello, vicino a Trivero, nel

più sicuro territorio della provincia di Vercelli. Quando il capitano Gherardo le ò accanto, Margherita non ebbe bisogno di pronunciare nessuna parola, le bastò appoggiare il suo sguardo tormentato negli occhi del soldato, per formulare la domanda più angosciante. «Non temete mia signora» sussurrò l’uomo voltando ugualmente il capo verso valle, «non c’insegue nessuno!» Poi, dopo essersi avvicinato con cautela alla donna infagottata nel pesante mantello nero, sorrise rassicurante. «Quelli dell’esercito del vescovo sono soldati, non capre di montagna e questo freddo gelerebbe loro l’armatura addosso, non esiste frusta o denaro che li possa convincere ad arrampicarsi in questo posto dimenticato da Dio. Inoltre, a nessun uomo sano di mente potrebbe venire in testa che si possa valicare il o in questa stagione e il diavolo mi porti se non penso anch’io che sia pura follia fare anche solo un o in più.» Sulle labbra di Margherita da Trento fiorì un rapido sorriso, poi, dopo aver appoggiato delicatamente una mano sulla spalla del grosso soldato, riprese con lui la faticosa salita. La donna aveva già esperienza di picchi innevati. Solo l’anno prima, a fianco di Dolcino, aveva percorso le montagne lombarde della Bergamasca in un’epica attraversata che aveva portato più di tremila persone, tra uomini e donne, a rifugiarsi in Val Sesia, dopo che la mano terribile della Santa Inquisizione era giunta anche in Trentino per accendere tre odiosi roghi. Nulla però l’aveva preparata alla disperata fuga che era stata nuovamente costretta a intraprendere. Nonostante l’aiuto dei valligiani Valsesiani, l’assedio che l’esercito cattolico aveva predisposto si era rivelato insostenibile e lei aveva preso la disperata decisione di compiere quella sortita, ritenuta impossibile, per tentare di salvare in extremis la sua gente. Un paio di tornanti più avanti, dove il sentiero concedeva un minuscolo spiazzo,

un rapido movimento attirò il suo sguardo e allarmata, strinse la spalla al capitano. Anche l’uomo doveva essersi accorto di qualcosa, poiché con la destra aveva già estratto per metà la spada dal fodero, mentre con l’altra mano faceva rapidi cenni all’arciere che aveva accanto. L’uomo scomparve silenziosamente dal sentiero e per lunghi istanti solo il turbinio della neve sembrò dominare il tempo. Poi lo schiocco netto della corda di un arco spezzò l’incanto, seguito da un grido eccitato. Margherita faticò a stare al o con il soldato, ma ugualmente si obbligò a correre verso la minuscola radura. Quando riuscì a sbirciare oltre le ampie spalle del capitano, rimase a fissare stupefatta una grossa volpe che ancora agitava freneticamente le gambe posteriori. La freccia l’aveva colpita in pieno petto. Un tiro perfetto. «Questa sera si cena!» Ridacchiò l’arciere, «carne dura e amara, ma pur sempre carne!» Margherita scosse il capo sollevata, ma poi l’immobilità del capitano la sorprese. Incuriosita, seguì la direzione del suo sguardo, individuando un piccolo cumulo di foglie e inconfondibili chiazze di sangue che macchiavano la superficie candida della neve tutto attorno. Si avvicinò con cautela, avvertendo la presenza rassicurante di Gherardo accanto a lei. Quando riuscì a decifrare quello che aveva sotto gli occhi rimase per un attimo attonita, poi inorridita si voltò di scatto, assalita da violenti conati di vomito. La bestemmia che scaturì dalla gola di Gherardo sembrò per un attimo arrestare

anche la tormenta di neve, poi un gelido silenzio riportò tutti nella realtà. Margherita si fece forza e con un coraggio che non pensava di possedere si costrinse a inginocchiarsi accanto al cumulo di foglie. Con delicatezza spostò i rami e le poche pietre che ancora coprivano il corpicino, una misera tomba che la volpe affamata non aveva fatto fatica a violare. Con delicatezza la donna cercò di ripulire dal terriccio il viso ormai grigio del bambino, cercando di ignorare i segni dei terribili morsi che dilaniavano il piccolo corpo, ma quando riconobbe in quei piccoli resti Gioacchino, il figlio del mugnaio, sentì il cuore scoppiargli nel petto. Solo la sera precedente lo aveva sentito tossire stretto alla madre, talmente gelato da non avere neppure più la forza di piangere. Ma non si potevano accendere fuochi, la loro fuga doveva avvenire nel più stretto silenzio, figurarsi segnalare con luci la loro presenza a chilometri di distanza. Doveva essere morto nella notte e sua madre non aveva potuto far altro che depositarlo sulla nuda terra, troppo gelata per essere scavata, accontentandosi di ricoprirlo di sassi e foglie. Gherardo intanto aveva estratto la spada e con fatica stava scavando una profonda fossa a pochi i di distanza. Quando finalmente il capitano si spostò per permettergli di posare il bambino nella piccola tomba, le parve di udire un piccolo singulto sfuggire dalla gola del soldato, ma gli occhi glaciali e le mascelle contratte dell’uomo non lasciarono trasparire alcun sentimento al suo sguardo indagatore. «Vuoi dire qualche parola, mia signora?» Margherita scosse il capo esausta, ma poi ebbe come un ripensamento e dopo essersi frugata nelle vesti, estrasse un piccolo flauto di legno che appoggiò delicatamente tra le dita del bimbo. Poi con caparbietà si mise ad aiutare il capitano a ricoprire di terra e neve la piccola tomba.

Quando un’ora dopo, raggiunsero il grosso del gruppo che aveva trovato rifugio in una serie di profonde grotte, lo sguardo di Margherita da Trento era di una determinazione assoluta. «Margherita? Cos’è successo? Ci siamo preoccupati tutti non vedendovi arrivare.» «Non preoccuparti Lucilla. Tutto a posto!» Poi non reggendo lo sguardo indagatore dell’amica aggiunse sottovoce: «Cerca Agata, ha bisogno d’aiuto.» Negli occhi di Lucilla ò un lampo di sorpresa, poi la sua bocca assunse un’espressione amara. «Gioacchino?» Margherita abbassò gli occhi, evidentemente non era stata l’unica a sentir tossire il bimbo la notte precedente.

9

Lucilla si allontanò silenziosa, la mente ormai rivolta solo ad Agata e al suo dolore. A mano a mano che s’addentrava nell’intricato dedalo di grotte che le si paravano davanti, la donna incontrò gruppi sempre più numerosi di fuggiaschi intenti a dividersi il poco cibo che era rimasto, stretti attorno a piccoli fuochi che già da soli sembravano un vero miracolo. In una grotta più grande scorse l’imponente figura del mugnaio, intento a spostare, con l’aiuto di altri tre uomini, alcuni grossi sassi che collocavano poi con cura in cerchio nel mezzo della caverna. In un piccolo anfratto, appoggiata con la schiena alla fredda roccia, Agata fissava silenziosa il vuoto. Le sue mani, abbandonate aperte sul grembo, ogni tanto si animavano per mimare nell’aria una parvenza di carezza, ma poi, dopo qualche istante, ricadevano vane sulla gonna lacera e infangata. Lucilla s’avvicinò silenziosamente, andando a sedersi su una grossa radice a qualche o di distanza, ma arono parecchi minuti prima che la donna voltasse gli occhi verso di lei. «Non ho potuto fare nulla. Non sono stata capace di aiutarlo. É colpa mia!» Il sussurro fu quasi impercettibile, ma la disperazione e l’angoscia che uscirono da quelle labbra lacerate dal freddo vibrarono invece piene di una forza devastante. Lucilla quasi barcollò sotto l’urto di quel dolore, poi delicatamente andò a inginocchiarsi accanto ad Agata e con gentilezza prese tra le sue le mani tremanti della donna, poi quando avvertì il tremito rallentare, appoggiò la mano destra sul ventre di Agata.

La donna la fissò per un attimo stupita, poi chiuse gli occhi sfinita. Lucilla chiuse gli occhi, richiamando alla memoria un simbolo arcano, lo tracciò con la punta della lingua sul proprio palato per tre volte, poi, a mano a mano che avvertiva il potere di quel gesto prendere forma, ne visualizzò un altro ben più segreto e potente. Lo tracciò allo stesso modo e si rilassò più tranquilla, lasciando che il suo corpo fe da tramite tra la forza della Madre Terra e quella donna distrutta dal dolore. Il mugnaio intanto fissava le due donne incerto. Non gli andava a genio che la strega gironzolasse troppo attorno a sua moglie e addirittura ora, che sembrava intenta a compiere un vero e proprio sortilegio su Agata, fu tentato di andare a cacciare via quella strana donna. “La padruna di serpent” la chiamavano. La signora dei serpenti! Il racconto di come l’avevano trovata mesi prima in una baita diroccata, aveva fatto il giro di tutte le bocche e si diceva che addirittura dal suo ventre uscissero vipere pronte a mordere chiunque tentasse approcci sconsiderati. Ma lui non ci aveva mai creduto e inoltre Margherita da Trento la trattava da amica, anzi, le due donne sembravano inseparabili, e se la loro signora, la compagna di Dolcino, le dava fiducia, allora anche loro le dovevano rispetto. Fissò per un lungo istante il viso della moglie. Una dolcezza che non riconosceva da tempo sembrava voler addolcire i tratti di quel viso che tanto aveva amato e che ancora adorava sopra ogni cosa. L’uomo abbassò quindi gli occhi sulle sue grandi mani callose. Mani adatte a sollevare pesanti sacchi di farina e a far muovere macine gigantesche, ma che non erano state capaci di salvare un piccolo bambino e nemmeno a scavargli una fossa dignitosa.

Vinto, abbassò il capo, incapace di guardare in volto gli uomini che aveva accanto, poi con rabbia afferrò da solo un enorme sasso e con uno sforzo gigantesco andò a collocarlo accanto agli altri già disposti in circolo. Tutta quella gente aveva bisogno di calore e dovevano accendere un grosso falò se volevano riscaldare veramente quei corpi assiderati. Il fumo sarebbe stato risucchiato dalle viscere della montagna e fuori, nel gelo assassino, non si sarebbero scorte tracce di quel popolo di fuggitivi. Lucilla avvertì il calore delle fiamme sulla schiena e il benessere che le si propagò per tutto il corpo la fece uscire dal torpore in cui era caduta. Sollevò lo sguardo su Agata, notando che anche la donna si era addormentata e ora i suoi lineamenti sembravano addolciti dai riflessi guizzanti delle fiamme. Con fatica si sollevò in piedi, sgranchendosi le gambe anchilosate dalla scomoda posizione, attirata dal fuoco che l’invitava ad avvicinarsi al benefico calore delle sue fiamme, ma una lunga fila di donne si era formata silenziosamente alle sue spalle. Sguardi pieni di speranze timorose che le stringevano il cuore, pesando come macigni sulla sua triste consapevolezza di non poter far nulla per loro. Ma per tutti era “La guaritrice”, uno strano essere metà donna e metà demone, ma che sapeva però curare. Un essere misterioso che conosceva i segreti delle erbe e delle piante e che a volte anche con il solo potere delle mani sapeva alleviare dolori e addirittura guarire mali terribili. Guardò sconsolata quella fila di creature che non avevano nulla da offrire se non la loro disperazione. Vide che molte di quelle donne non erano lì per loro stesse, ma che nascondevano quasi con timore figli e figlie che la sbirciavano curiosi e spaventati da sotto strati di stracci umidi e sporchi. Sapeva che quasi tutte avrebbero chiesto qualcosa per un marito, un fratello, un padre, uomini troppo orgogliosi per venire di persona dalla strega, ma

ugualmente ridotti allo stremo dalla fame e dalla fatica. Toccava alle donne quel compito, spettava a loro mantenere il legame con l’antica religione, con il mistero. Loro, le più deboli, erano quelle che segretamente tenevano unito l’intero gruppo e che con la loro fatica umile e nascosta permettevano la sopravvivenza di tutti. Dopo un ultimo sguardo rassegnato al caldo fuoco invitante, Lucilla si risedette sulla grossa radice, facendo un piccolo gesto invitante alla prima della fila. Due ore dopo era completamente esausta, la testa le girava e i crampi allo stomaco erano diventati ormai insopportabili. «Bevete questo, mia signora. Vi aiuterà.» Una ciotola colma di vino bollente comparve davanti ai suoi occhi, e mentre un forte odore di chiodi di garofano si faceva prepotentemente strada dentro di lei, gli occhi di Lucilla si posarono sulla mano ferma e delicata che la reggeva. Il suo sguardo risalì lentamente su per un braccio ricoperto di pelli tenute assieme da robusti legacci, fino alla macabra maschera da boia che scompariva sotto un ampio cappuccio di lana grezza. L’istintivo brivido che la percorse si stemperò nel calore emanato dagli occhi dolci dell’uomo. Tutti lo chiamavano“Il Boia”, ma nessuno sapeva il suo vero nome e nessuno aveva mai visto il suo volto sotto la maschera di cuoio. Era comparso dal nulla qualche mese prima, chiedendo asilo e qualcosa da mangiare. L’istintiva diffidenza e la paura verso un possibile agente del vescovo erano svanite presto, spazzate via dalla disponibilità dell’uomo e dal fatto che una spia avrebbe scelto sicuramente un travestimento meno appariscente di quella lugubre maschera. Ugualmente su di lui giravano voci terribili, si sussurrava che fosse originario del milanese e che avesse subito orribili torture che gli avevano devastato il viso.

Addirittura c’era chi giurava che il suo torturatore, credendolo morto, l’avesse gettato in un angolo per disfarsi successivamente del corpo, ma che lui con uno scatto improvviso gli si fosse gettato addosso strappandogli a morsi la carotide e che poi fuggendo, avesse rubato al suo carnefice quella maschera che era ormai diventata la sua seconda pelle. Comunque Dolcino stesso lo salutava con rispetto e l’abilità che lo sconosciuto dimostrava nel saper riparare gli attrezzi e le armi, lo aveva fatto accettare benevolmente in quella comunità di disperati, dove in ogni caso non mancavano certo individui che ostentavano terribili cicatrici o mutilazioni inguardabili. Lucilla accettò con un sorriso il vino, e la mezza pagnottella che comparve come per magia dalle pieghe del mantello del “Boia”, le sembrò il più meraviglioso dei doni. «Dovresti riposare mia signora! Domani mattina presto riprenderemo la marcia.» «Grazie, penso proprio che seguirò il tuo consiglio, sono esausta.» L’uomo lasciò scorrere uno sguardo preoccupato sul suo corpo, poi scuotendo leggermente il capo, s’allontanò silenzioso. Strano uomo, pensò la ragazza, mentre finalmente con in mano la ciotola e il pane, riusciva a trovare un posticino accanto al fuoco. Immediatamente le persone che aveva accanto si scostarono cautamente, la storia dei serpenti continuava evidentemente a preoccupare notevolmente i suoi compagni.

10

Con lo sguardo inchiodato sulla schiena di Lucilla, rannicchiato in un angolo buio della caverna, il “Boia” stava a sua volta sorseggiando vino bollente da una misera ciotola di legno. Il pesante mantello nero, che lo celava quasi completamente agli sguardi stanchi degli uomini che aveva attorno, non riusciva però a nasconderlo dai suoi stessi pensieri. Solo tre mesi prima le sue mani reggevano un contenitore ben diverso, un prezioso calice d’oro contenente il Sacro Sangue di Nostro Signore, e non indossava nemmeno luridi stracci, ma calde vesti di lana sotto i ricchi paramenti con cui stava celebrando la messa domenicale. Varro scosse la testa cercando di scacciare il ricordo. Era stata la sua ultima messa, l’ultima funzione religiosa che aveva officiato prima di mettere in atto il suo piano. Dopo la sua fuga dalla baita, inseguito dalle frecce degli uomini di Dolcino, l’arcidiacono si era riparato con i pochi uomini che gli erano rimasti nel convento da dove Lucilla era fuggita e dove proprio poche ore prima, si era recato con l’intento di riprendersi la sua prigioniera. La notizia della scomparsa della ragazza lo aveva mandato su tutte le furie e si era lanciato al suo inseguimento con i pochi uomini della sua scorta personale, non immaginando certo di imbattersi in un nutrito gruppo di ribelli. La collera e lo sconcerto per la scena a cui aveva assistito lo avevano sopraffatto per parecchi giorni, ma poi le sue indubbie capacità gli avevano permesso di recuperare il consueto autocontrollo e di consolidare il piano che aveva elaborato per eliminare in modo definitivo i nemici del vescovo e della Chiesa. Da tempo era giunto alla conclusione che non poteva più fidarsi delle sue spie,

contadini ignoranti pronti a vendersi per una moneta d’argento o per qualche pollo, se voleva dare un colpo mortale a Dolcino e alla sua marmaglia, doveva agire di persona. Quando aveva esposto il suo piano al vescovo, aveva visto l’alto prelato impallidire dallo stupore, ma poi negli occhi intelligenti di quell’uomo combattivo, si erano delineate chiaramente le opportunità vincenti di una simile mossa. Il rischio era alto, ma le possibilità di riuscita prevalsero sulla sua proverbiale prudenza e quando il vescovo allungò la mano per porgergli l’anello da baciare, Varro seppe di aver ottenuto carta bianca per il suo disegno. Per questo si era recato di persona in quello sperduto convento dell’alta Val Sesia, doveva riprendersi la ragazza che considerava indispensabile per l’esecuzione del suo progetto e scoprire invece che era fuggita l’aveva fatto infuriare. La successiva e definitiva scomparsa della ragazza e il serio rischio che aveva corso in prima persona, l’avevano però obbligato a modificare parecchi dettagli, ma era poi riuscito ugualmente a mettere a punto un perfetto piano d’azione. Margherita da Trento entrò nel suo campo visivo facendolo arretrare istintivamente nell’ombra della grotta, ma la donna era diretta verso Lucilla e si disinteressò completamente di lui. Rassicurato, Varro riprese la sua posizione, ritornando a fissare questa volta entrambe le schiene delle due donne, intente a confabulare testa contro testa. L’arcidiacono scosse perplesso il capo. Ricordava benissimo come si era sentito euforico nel nascondere sotto quel vestito di pelli, che aveva sostituito la sua tonaca, la fiala di veleno e l’affilato stiletto che costituivano le sue armi segrete, e rivide il lampo selvaggio che gli era ato negli occhi mentre fissava se stesso nel grande specchio della sua stanza. Un alto e allampanato pastore, sporco e puzzolente, con una macabra maschera da boia sulla testa.

Il suo piano era di una semplicità sconcertante. Si sarebbe infiltrato tra le fila dei Dolciniani e avrebbe ato personalmente informazioni alle truppe del vescovo e l’efficiente sistema di comunicazione che aveva stabilito con il suo capitano delle guardie, aveva effettivamente garantito per intere settimane un rapido scambio di rapporti. Informazioni che avevano permesso all’esercito cattolico di poter stringere in una morsa fra Dolcino e la sua banda d’eretici. Per la prima volta il vescovo era veramente sul punto di vincere e la disfatta di quella banda di pezzenti sembrava ormai cosa fatta. Lui era riuscito ad infiltrarsi così bene che non solo godeva di completa libertà di movimento all’interno dell’accampamento, ma addirittura era sovente invitato alla tavola di fra Dolcino dalla stessa Margherita da Trento, che aveva da subito manifestato nei suoi confronti un’evidente quanto imprevista simpatia. Lo stesso Dolcino s’intratteneva con lui in animate discussioni che si protraevano a notte fonda, in compagnia del vino caldo che per fortuna era sempre disponibile. «Non abbiamo cibo!» Si lamentava scherzosamente Dolcino, mentre sollevava la sua ciotola al calore delle fiamme del camino, «ma almeno il Buon Dio ci ha fatto trovare intatta una cantina personale del vescovo e ora lui è obbligato a mangiare i suoi fagiani bevendo semplice acqua!» Quante volte aveva avuto la possibilità di servirsi della sua fialetta di veleno, quante volte sarebbero bastate poche gocce versate di nascosto in quella ciotola per porre fine a tutto, ma aveva pensato che ormai l’eretico era alle corde e sicuramente il rogo sarebbe stato un castigo ben più giusto, oltre a rappresentare un monito esemplare per tutti i suoi seguaci. Ma poi Margherita da Trento l’aveva spiazzato! La sua idea assurda di sottrarsi alla morsa dell’esercito con quella fuga tra le montagne, in quel particolare periodo dell’anno poi, aveva qualcosa di veramente folle, ma doveva riconoscerlo, anche di geniale. E quando quel piccolo popolo si era messo in moto, lui non aveva potuto far

altro che seguirlo. La velocità del piano di fuga e la segretezza con cui era stato messo in atto gli aveva inoltre impedito di comunicare la notizia al suo capitano e ora doveva attendere di arrivare a destinazione, se mai ci sarebbero arrivati, per riprendere il suo lavoro di spia.

11

«Un topo!» L’urlo, lanciato all’improvviso da una donna, scatenò l’inferno. Da un mucchio di stracci scattarono in piedi una mezza dozzina di ragazzini che, urlando come forsennati, si lanciarono all’inseguimento di un grosso ratto che zigzagava impazzito tra gli ultimi cumuli di neve sporca. Altre donne presero ad urlare, mentre alcune voci più robuste si levarono per organizzare la battuta. Fu questione di pochi minuti, poi la bestia penzolò inerte, la lunga coda stretta nel pugno di Mario, il fabbro. Varro, che si era affacciato allarmato dalla bassa apertura della sua tenda, scosse la testa. Quattordici! Se non aveva sbagliato il conto, quello era il quattordicesimo topo che catturavano quel giorno e se considerava anche gli ultimi due cani rimasti, che aveva visto macellare nella mattinata, la zuppa serale sarebbe stata sicuramente la più sostanziosa dell’ultima settimana. Un falco lanciò un grido rauco che echeggiò a lungo nell’aria cristallina e l’arcidiacono rimase a lungo a fissare il cielo, invidiando l’immenso senso di libertà che il sicuro volteggio del rapace esprimeva prepotentemente. «Vola! Vola! Amico mio! Trovati un’altra preda, tu che puoi!» Lo sfogo, quasi bisbigliato dalla donna che gli era comparsa a fianco, lo fece voltare sorpreso. Lucilla era incredibile, sembrava essere fatta della stessa sostanza dei miraggi,

compariva nei posti più impensati senza fare il minimo rumore, eterea come una fata dei boschi. Il suo corpo magrissimo, come d’altronde quello di chiunque altro ormai, emanava al contrario delle altre donne, una forza e una determinazione inconsueta, come se per lei la fame e la disperazione fossero elementi ristoratori e corroboranti. «Non guardare troppo a lungo il cielo, “Boia”, da lì non ti arriverà nessun aiuto temo!» Varro sorrise sotto la maschera. Poi con un gesto istintivo, che sorprese lui per primo, mise un braccio sulla spalla della ragazza. «Che ne diresti invece di andare a cercare un altro po’ di quelle strane erbe che hai cucinato l’altro giorno? É stata la zuppa più buona che abbia mai mangiato!» Lucilla rise divertita, per nulla turbata dal suo abbraccio. «Affare fatto! E se sei disposto a cedere il tesoro che nascondi nella bisaccia, ti preparo la miglior cena della tua vita!» Varro rimase pietrificato e per un attimo temette d’essere stato scoperto. Accuratamente avvolta in un morbido panno, la boccetta del veleno continuava a rimanere intatta sul fondo della sua capace borsa di pelle. «Le cipolle!» Esclamò Lucilla fraintendendo completamente il suo irrigidimento, «si sente il loro odore a metri di distanza!» L’arcidiacono fece fatica a recuperare il suo sangue freddo e ancora leggermente impacciato estrasse le tre cipolle selvatiche che aveva raccolto il giorno prima. «Come potevi pensare di nascondermi una simile ricchezza! Se sei disposto a rinunciare allo stufato di topo, questa sera ti offro io una zuppa di verdure coi fiocchi!»

Varro era impallidito sotto la maschera che celava i suoi lineamenti, per quanto si fosse trovato sovente a contatto con la ragazza durante quei lunghi mesi, aveva sempre accuratamente evitato di rimanere da solo con lei, il rischio che Lucilla potesse riconoscerlo era altissimo e se fosse stato scoperto la sua vita sarebbe durata al massimo una manciata di minuti. Era il 23 marzo del 1307 e da un anno erano ormai arrivati nella loro nuova roccaforte sul monte Rubello . Ora, al finire dell’inverno, i suoi sforzi di spia erano finalmente giunti al loro coronamento e solo pochi giorni mancavano ancora all’attacco in forze dell’esercito cattolico. Erano arrivati in quel luogo scosceso proprio nel marzo precedente, dopo la pazzesca fuga organizzata in pieno inverno da Margherita da Trento, tra tormente di neve e gelate assassine. La prematura aria di primavera aveva fatto credere a tutti di essere in salvo, ma lui era riuscito ugualmente a riorganizzare in fretta i contatti con i suoi uomini. Il lavoro accurato che aveva saputo tessere, aveva fornito alle truppe del Papa Clemente V, che finalmente si era deciso ad indire una vera e propria crociata contro i Dolciniani, notizie di prima mano sui piani degli eretici, ed aveva inoltre insinuato astutamente dissapori con le popolazioni Biellesi che, a differenza di quelle Valsesiane, non avevano fornito o ai ribelli, anzi si erano dimostrate più volte nettamente ostili. «Allora?» La voce della donna lo riportò alla realtà. «Solo che… non ti senti imbarazzata a cenare da sola con uno come me?» La risata cristallina che uscì dalla gola di Lucilla trasformò per incanto la donna in una ragazzina impertinente. «Ci vuole altro che una maschera da boia per spaventarmi, e poi sono o non sono “la signora dei serpenti”? Sei tu quello che dovresti aver paura!» Fu il pomeriggio più bello che Varro trascorse sulle montagne.

L’aria si era notevolmente riscaldata e il profumo intenso della primavera sembrava insinuarsi piacevolmente anche nei suoi vestiti sporchi e maleodoranti. Erano mesi che ormai desiderava maggiormente un buon bagno a una tavola imbandita, ma Lucilla pareva invece perfettamente a suo agio mentre ispezionava con sicurezza il sottobosco ancora innevato. Sembrava che fossero gli stessi alberi a suggerirgli dove cercare, indicandogli lo spiazzo più soleggiato dov’erano spuntati teneri germogli a lui sconosciuti, che lei raccoglieva con l’aria di chi ringrazia riconoscente il bosco per i suoi doni. Varro aveva smesso da tempo di cercare cibo a sua volta, lui non riusciva a vedere altro che foglie marce e vecchi ricci vuoti e si accontentava di seguire la ragazza rilassato, beandosi gli occhi della sua leggerezza e della sua tranquillità. Dolcino, il vescovo e le eresie stesse gli sembravano cose lontane, appartenenti a un altro mondo e ad altre genti. «Incredibile! Guarda “Boia”, una stella alpina!» Lucilla si era inginocchiata eccitata accanto ad un grosso sasso ricoperto da uno spesso strato di muschio luccicante d’umidità. Varro si avvicinò incuriosito, rimanendo a fissare a sua volta il piccolo fiore peloso che, solitario, faceva capolino da una fenditura del masso. In quel momento la ragazza sollevò il capo e mentre un raggio di sole colpiva il suo volto pallido, accendendo una ciocca di capelli ramati, Varro si rese conto di essere innamorato. Quell’improvvisa consapevolezza lo sgomentò, facendolo barcollare per una frazione di secondo e solo in quel momento prese coscienza di quanto anche lui fosse cambiato in quei mesi. Tutto preso dalla sua missione aveva completamente trascurato se stesso, tutto il suo impegno concentrato a mantenere efficiente il ruolo che si era scelto, attento a non tradirsi e a infliggere nel contempo il maggior danno al suo nemico. Lucilla era un’ossessione che continuava a perseguitarlo e quando l’aveva ritrovata al campo di Dolcino ne era rimasto sconvolto.

Aveva faticato molto, soprattutto all’inizio, a celare agli occhi di quella piccola comunità la ione che quel corpo scatenava in lui, ma poi, senza che se ne fosse veramente reso conto, qualcosa dentro di lui era mutato. L’aveva osservata lavorare con le altre donne, impegnate nelle piccole coltivazioni che riuscivano a strappare alla montagna o intenta a lavare i panni al ruscello e a poco a poco si era abituato alla sua presenza e alla sua allegria, assoggettato anche lui dal fascino misterioso che la donna emanava e che la faceva accettare e temere in ugual misura da quella comunità così eterogenea. Senza volerlo aveva imparato a rispettarla, trovando in lei una compagna, e anche i brividi di eccitazione che quel corpo sapeva ancora provocargli erano diventati anch’essi con il tempo strani compagni che scaldavano le sue giornate, lontani anni luce dal crogiolo peccaminoso che fino a poco tempo prima aveva avvelenato il suo animo. Quando entrarono ridendo nella capanna di Lucilla il buio aveva già incominciato a inghiottire la valle sottostante. La fame e l’aria che si era fatta improvvisamente frizzante, gli avevano fatto fare l’ultimo pezzo di strada quasi di corsa e fu naturale per entrambi ritrovarsi trafelati di fronte al fuoco del camino a stringersi a vicenda. A Varro gli si fermò il cuore. Appena resosi conto del tenero abbraccio con cui aveva circondato Lucilla, si era aspettato che la ragazza si divincolasse furiosa, respingendo sdegnata quello che per tutti era un mostro dal volto sfigurato e orribile, invece aveva avvertito i muscoli della ragazza rilassarsi, mentre il corpo flessuoso si adattava alla sua stretta. Disorientato si staccò bruscamente, compiendo istintivamente un o indietro. «Ravviva il fuoco intanto! Io vado a prendere acqua pulita!» Varro si accorse che il tono della voce della donna era volutamente improntato a non dare rilievo al suo imbarazzo e sinceramente grato della gentilezza, s’inginocchiò accanto al camino, alimentandolo con nuovi ciocchi di legna secca.

Un’ora dopo nella piccola stanza l’atmosfera era nuovamente calda e distesa e la zuppa fumante che Lucilla aveva posato sul tavolo emanava un profumo delizioso a cui nessuno dei due seppe resistere. Per lunghi minuti si sentì solo il rumore dei cucchiai di legno che cozzavano dentro le ciotole e l’aria surriscaldata dal fuoco del grande camino e il vino corposo contribuivano a rendere l’ambiente intimo e rilassato. «Non t’importa cosa pensano la fuori?» Varro era sinceramente stupito, «in molti ci hanno visto entrare assieme e domani gireranno voci in tutto il campo.» Lucilla sorrise sorniona, mentre si toglieva lo scialle ormai inutile e permetteva agli occhi del suo compagno di sondare un’abbondante porzione di scollatura che occhieggiava dal corsetto allentato. «A parte il fatto che per Dolcino e la sua gente il sesso non è peccato, e che lasciano al vescovo tutto il divertimento di espiare la sua lussuria repressa tra le fiamme dell’inferno, io per loro sono solo una strega e non oserebbero mai lasciarsi sfuggire commenti sulla mia vita privata.» «E io sono il mostro inguardabile! Bella accoppiata!» «Se vuoi puoi levarti quella maschera di cuoio, ho visto talmente tanti orrori nella mia vita che non penso proprio di rimanere turbata dalle tue ferite.» A Varro gli si gelò il sangue nelle vene e dovette ricorrere a un abbondante sorso di vino per riprendersi. «Mi spiace Lucilla, ma non penso di essere pronto ad accettare il rischio, non penso di riuscire a sopportare l’orrore che potrei leggere nei tuoi occhi. Questa sera è uno dei più bei momenti che ho vissuto in vita mia e non voglio rischiare di rovinare tutto.» Un lampo indecifrabile ò negli occhi della ragazza che, dopo aver afferrato le ciotole vuote, le andò a sciacquare in un secchio vicino alla porta. Varro, imbarazzato, sia alzò a sua volta e con fare impacciato si mise a curiosare per la stanza.

Ben presto la sua attenzione fu al massimo livello. Quelle che a prima vista aveva scambiato per cianfrusaglie da ciarlatana, si rivelavano essere invece boccette e ampolle ordinatamente catalogate, ognuna con scritto sopra il contenuto e la sua composizione. Inoltre alcuni tomi appoggiati su uno sgabello sembravano essere dei veri trattati alchemici. Ne aprì uno a caso e rimase così sbalordito nell’osservare uno straordinario disegno che raffigurava sfere di varie grandezze che roteavano tra loro che non si rese conto che la ragazza era venuta a mettersi al suo fianco. «Il mio compagno era un alchimista e questi libri sono quello che è rimasto di lui. Ognuno di essi basterebbe per mettere al rogo il suo possessore e conosco una persona che sarebbe disposta a qualunque cosa pur di trovarli e distruggerli.» L’evidente tremore delle mani di Varro fu anche questa volta travisato dalla donna, che dopo avergli appoggiato delicatamente la testa contro la spalla, accarezzò amorevolmente l’illustrazione. «Ma anche voi Dolciniani credete in Dio!» Esplose Varro, incapace di trattenersi, «questi libri invece negano la sua esistenza, affermano leggi contrarie al Credo cristiano. Sono vere opere del demonio!» «“Boia”, tu mi stupisci!» Varro credette d’essersi tradito, ma il tono irriverente di Lucilla lo fece desistere da gesti inconsulti. «Voi cristiani credete di sapere tutto. Siete convinti di avere in mano la Verità e siete sempre pronti a giudicare e a condannare, ma in realtà non sapete nulla!» «Perché dici: Voi cristiani? Dolcino pur dentro la sua eresia è pur sempre un credente!» «Io non sono Dolciniana, se è solo per questo e non sono neppure cristiana!»

Lucilla si era nel frattempo allontanata di qualche o e lo fissava cauta. «La mia fede religiosa ha fondamenta ben più antiche delle vostre e trae origini da una cultura nata molto prima del vostro dio.» Varro, esterrefatto e incapace di credere alle parole della donna, si lasciò cadere di peso su uno sgabello. Da un pezzo ormai si era amaramente pentito di aver trascinato Lucilla davanti al boia e di essere arrivato al punto di ordinare la sua tortura, e nascondendo anche a se stesso i veri motivi delle sue decisioni, aveva voluto convincersi che la ragazza fosse stata solamente plagiata dalle idee ingannevoli dell’Alchimista e che una volta messa di fronte alle verità della Fede, si sarebbe sicuramente pentita dei suoi peccati, accettando con gioia di ritornare tra le braccia della Chiesa e, nei suoi sogni più audaci, anche tra le sue braccia. Ma ora scopriva che non solo Lucilla non era mai stata la vittima inconsapevole delle menzogne di un uomo dedito al male, ma che lei stessa si professava sacerdotessa di un culto sacrilego e blasfemo che negava addirittura l’esistenza stessa di Dio. «E perché tu hai detto: Voi Dolciniani?»

12

Il tono tagliente di Lucilla riportò Varro alla realtà, appena in tempo per vedere la mano della ragazza che si avvicinava determinata alla sua faccia e alla maschera di cuoio che la ricopriva. In quel momento arrivarono i latrati! Dapprima un brontolio sommesso e lontano, poi il ringhio distinto e feroce dei mastini utilizzati dalle avanguardie dell’esercito del Papa, lacerò il buio della notte. Varro schizzò in piedi sbalordito. Impossibile! L’attacco era stato concordato solo per l’indomani alle prime luci dell’alba e l’esercito del Papa doveva nella notte solo limitarsi a circondare i ribelli, lasciando poi a lui la trattativa per la resa,. Nell’accampamento vivevano ancora quasi duemila persone, di cui moltissime erano donne e bambini, non era pensabile un attacco diretto! Lucilla che nel frattempo era corsa a spalancare la porta, era rimasta come folgorata sulla soglia. Varro, sopraggiunto alle sue spalle, rimase a sua volta sgomento nel vedere le decine di terrificanti macchie nere che sfrecciavano tra le capanne, la bava bianca che schizzava dalle loro fauci spalancate. Afferrò la ragazza per il vestito e con uno strattone la tirò dentro, mentre con la spalla sbatteva la pesante porta sul muso di una bestia enorme. L’urto lo fece sobbalzare, ma per fortuna il chiavistello scattò ugualmente e alla belva non rimase altro che sfregiare inutilmente il legno con i suoi grossi artigli.

Lucilla era caduta a terra malamente, ma stava ugualmente tentando di rimettersi in piedi, l’espressione combattiva e risoluta. Senza riflettere Varro afferrò un grosso ramo che attendeva di finire tra le fiamme del camino e con determinazione lo calò sulla testa della donna. Raccolse poi frettolosamente alcuni spezzoni di corda e se ne servì per legarle strettamente mani e piedi e solo dopo averle gettato addosso le coperte del letto, afferrò un forcone nell’angolo degli attrezzi e con cautela socchiuse la porta. Fuori regnava il caos più assoluto, dopo i mastini dovevano essere arrivati i reparti d’assalto, manipoli di soldati di ventura che solitamente venivano lanciati allo sbaraglio nei primi attacchi, li aveva già visti all’opera e in piena coscienza non sapeva se fossero più belve loro o i cani che li precedevano. Comunque ora riusciva ad intravvedere anche uomini a cavallo e quello voleva dire che erano entrate nell’accampamento anche le truppe regolari con i rispettivi ufficiali. Uscì furtivo, ovunque grida e confusione. Rasentò alcune capanne che erano appena state incendiate, scavalcando con cautela corpi riversi e scomposti. Un ragazzotto, con la schiena appoggiata a una porta, singhiozzava silenziosamente, gli occhi sbarrati a fissare le sue budella che gli riempivano le mani. Sollevò lo sguardo verso Varro, incredulo, poi le sue ginocchia cedettero e cadde con il viso nel fango. Istintivamente l’arcidiacono sollevò la mano per una veloce benedizione, ma un’ombra nera calò sopra di lui, obbligandolo a rannicchiarsi in un angolo, il lungo forcone puntato in avanti. «Monsignore!» «Goffredo!» Lo scambio di battute che esplose nel buio rivelò un reciproco sollievo, poi

Varro si alzò in punta di piedi per abbracciare il cavaliere che gli si era parato di fronte. Goffredo da Varallo non era solo il suo luogotenente, era un amico, forse l’unico uomo di cui si fidasse ciecamente. «Cos’è accaduto, per Dio! Dovevate farvi vedere solo domani mattina! Sapevate che qui ci sono donne e bambini, sarà un massacro!» «Non ho potuto fare nulla Varro! Gli uomini del Papa hanno assunto il comando. Vogliono dare un segnale forte ai movimenti eretici e non daranno quartiere a nessuno. L’ordine è di non avere alcuna pietà!» «Sono pazzi! Non possono fare una cosa del genere!» «Ho qui il tuo abito talare, indossarlo sopra quegli stracci, se ti vedono vestito così rischi di essere ucciso immediatamente!» Con un rapido gesto il capitano lanciò all’arcidiacono un grosso fagotto, mentre si scrutava attorno con attenzione. Varro l’afferrò al volo, poi indicò a Goffredo una capanna. «La dentro c’è Lucilla, è legata! Portala in un posto sicuro, subito!» Poi diede lui stesso un colpo alla groppa del cavallo, osservando preoccupato il cavaliere scomparire nel buio. La mezz’ora seguente fu un vero incubo e Varro dovette far ricorso a tutta la sua abilità per evitare sia i soldati sia i ribelli. Aveva tenuto sul volto l’ormai inutile maschera da boia, e tentennava a indossare la tonaca, intuendo paradossalmente che se avrebbe potuto difendersi senza rimorsi dall’attacco di un soldato papale, si sarebbe trovato invece in seria difficoltà a combattere con qualcuno della comunità di Dolcino. Con quegli uomini aveva condiviso per mesi non solo difficoltà e fame, ma anche risate e vino. Era stato accettato e aiutato nei problemi quotidiani senza che nessuno gli avesse

mai chiesto nulla in cambio, e anche se era ancora profondamente convinto della giustezza e della nobiltà della causa della Chiesa, cosa che gli aveva permesso di non provare sensi di colpa per il suo lavoro di spia, sapeva nel suo profondo che non sarebbe però mai riuscito ad alzare un’arma contro nessuno di loro. Fu così che si trovò, svoltando un angolo, seriamente in difficoltà. Preso dallo sgomento di quanto gli accadeva attorno, era sbucato imprudentemente nella piccola piazza dove Dolcino aveva fatto costruire un’umile chiesetta. Sulla soglia, Margherita da Trento, affiancata da due compagne, tentava di tenere a bada tre molossi ringhianti, mentre una decina di soldati del gruppo d’assalto ridevano sguaiati, incitando con le torce i cani ed esibendosi in gestacci volgari. Alle spalle delle tre donne, oltre la porta sfondata della chiesa, un nugolo di bambini si stavano stringendo l’un l’altro terrorizzati. Varro intuì di non avere più scelte. I soldati si accorsero subito del suo arrivo e puntarono determinati le loro armi contro di lui. «Fermi!» Urlò il prelato mentre si strappava dal capo la maschera e sollevava in alto la tonaca che ancora stringeva nel pugno. «Sono Varro Frangipani, Arcidiacono del Vescovo di Novara e queste donne sono sotto la mia protezione e quella della Santa Chiesa!» I soldati si arrestarono sorpresi. Poi uno di loro si avvicinò a Varro, indicandogli con la mazza ferrata il forcone che ancora stringeva in pugno. L’arcidiacono lasciò cadere l’attrezzo, mettendosi a cercare furiosamente il crocefisso nelle pieghe della tonaca che ostentava visibilmente con l’altra mano. L’uomo, senza perderlo di vista, lanciò un’occhiata obliqua al suo capitano, ma

lo sguardo bramoso che quest’ultimo rivolgeva alle forme delle donne, gli fece nascere un perfido sorriso sul viso butterato. Varro avvertì sotto le dita il freddo argento del crocefisso, esattamente nel medesimo momento in cui il soldato gli calava la pesante mazza da guerra sulla testa. Tutto divenne improvvisamente nero, ma non così velocemente da non lasciargli impresso nelle retine lo sguardo deluso di Margherita da Trento, inchiodato sul suo volto finalmente privo di maschera.

13

«Era ora che ti svegliassi!» Varro richiuse gli occhi infastidito, poi, dopo aver sondato istintivamente con l’udito lo spazio che aveva attorno, riaprì con cautela le palpebre. Si trovava nella sua camera e accanto al letto Goffredo era sprofondato nella sua poltrona preferita, una gamba appoggiata con noncuranza sul bracciolo imbottito di velluto verde e una caraffa di vino in mano, da cui beveva direttamente senza alcun pudore. E sempre senza remore si era sfilato gli stivali, lasciandoli ben inzaccherati di fango fresco sul suo prezioso tappeto veneziano. «Pensavo volessi dormire per l’eternità! Non ti spiace naturalmente se nel frattempo mi sono servito direttamente dalla tua cantina personale, vero?» «Sei ubriaco!» «Vero!» Con uno sforzo Varro tentò di mettersi seduto, ma una fitta lancinante dietro agli occhi lo fece ripiombare sul cuscino. «Calma amico, devi muoverti adagio. É un miracolo che tu abbia ancora la testa tutta intera. Bisogna ammettere che il tuo Dio deve volerti molto bene per averti salvato, o forse solo non aveva voglia di averti così presto tra i piedi e ha preferito lasciarti qui a rompere i coglioni a noi!» «Vai al diavolo!» «Un giorno o l’altro qualcuno mi ci manderà di sicuro, ma non certamente ora!!» La risata del soldato si spense all’interno della brocca con un eco curioso.

«Cos’è successo?» Varro aveva un tremendo dolore alla testa e faceva fatica a mettere a fuoco i ricordi. «É una settimana che sei a letto e sinceramente all’inizio ti avevamo dato per spacciato, addirittura è venuto il Vescovo in persona a impartirti l’Estrema Unzione.» Ora gli occhi dell’arcidiacono erano ben spalancati. «Sei stato fortunato! Dopo che ho trovato Lucilla nella capanna che mi avevi indicato, ho preferito affidarla a due uomini sicuri, con l’ordine di condurla direttamente nella mia tenda e sono tornato indietro a cercarti. E ho fatto bene!» La pausa, riservata ad un lungo sorso di vino, ha un effetto così teatrale che infastidisce visibilmente Varro. «Sono arrivato giusto in tempo per fermare quei figli di puttana prima che si fero le donne, anche se non così in tempo da evitarti quella botta in testa.» Un lampo di preoccupazione a rapido negli occhi di Goffredo, ma subito dopo la sua aria spavalda riprende il sopravvento. «Pensando che ti avessero ucciso, mi sono scagliato addosso a quei bastardi! Avevo con me tre dei miei cavalieri e non ci abbiamo messo molto ad aver ragione di quei banditi da strada. Ti assicuro che hanno terminato di prendersela con donne e preti!» «Margherita?» Il ricordo dello sguardo colmo di triste derisione, che gli aveva riservato la compagna di Dolcino, lo assalì a tradimento, facendogli improvvisamente tornare alla memoria gli ultimi tragici eventi. «É nelle segrete della prigione, guardata a vista dai miei uomini, mentre Dolcino invece è stato portato via direttamente dai soldati del Papa. É stato un massacro, si sono salvati solo in centoquaranta. Pochi i bambini.» «E Lucilla?»

«Al sicuro a casa mia, con due uomini ben determinati a proteggerla!» Varro si lasciò nuovamente sprofondare nel cuscino, cercando di far mente locale e di radunare le idee. «La signora non ha speranze, rassegnati!» Il pratico buon senso dell’amico irritò nuovamente l’arcidiacono. Margherita da Trento non aveva scampo, lo sapeva bene, ma ugualmente sentirlo affermare in maniera così spiccia dal capitano lo stava mandando in bestia. Quella donna si meritava sicuramente di essere punita, i suoi errori erano stati enormi e il suo peccato imperdonabile, ma ugualmente gli si rivoltava lo stomaco al solo pensiero di quello che avrebbe dovuto subire. «Comunque, visto che tu eri nel mondo dei sogni, ho fatto qualche visita discreta a una dozzina di persone che contano e sembra che molti di loro siano disposti a chiedere clemenza per la donna. Basterebbe una sua pubblica abiura unita a un sincero pentimento e si potrebbe pensare a farle terminare i suoi giorni nel silenzio di un convento.» «Non lo farà mai! Ormai la conosco bene!»

L’alba era fredda e il sole stesso, nonostante fosse il primo di giugno, sembrava volersi rifiutare di comparire, nascosto dietro un denso velo impregnato di un’umidità pesante e appiccicosa. Fra Dolcino era in piedi sul piccolo palco di legno che era stato eretto in tutta fretta nella notte. Di fianco a lui due enormi soldati con le insegne del Papa e un piccolo frate dall’aria rinsecchita. Le catene che gli imprigionavano polsi e caviglie erano pesanti e macchiate di sangue rappreso, ma sembrava che l’uomo nemmeno le notasse e stava eretto, la testa alta e la schiena dritta come un soldato sull’attenti, esibendo con sincera noncuranza i grossi lividi e le ferite che il cosciente lavoro del boia aveva

lasciato sul suo volto. Solo i suoi occhi rivelavano un abisso incolmabile di disperazione e di angoscia, ma l’oggetto di tale tormento non era lui, ma la figura scura che, a una cinquantina di i più avanti, era saldamente legata a un palo issato su una catasta di legna secca. Margherita da Trento stava ricambiando il suo sguardo con la medesima disperazione, nei suoi occhi l’immagine insostenibile del suo uomo martoriato da giorni e giorni di torture e violenze. La donna era stata irremovibile, nessun accenno ad alcun pentimento e tutte le minacce erano scivolate su di lei senza scalfirla minimamente. La sentenza era quindi stata veloce ed inappellabile. Il rogo! E il vescovo, furioso, aveva voluto che Dolcino assistesse all’esecuzione in prima fila, su un palco tutto per lui, sotto gli occhi di una folla eccitata e rumorosa. Lo squillo improvviso dei corni da guerra fece sobbalzare Varro, che con gli occhi incollati alla bibbia che stringeva in mano, non osava alzare gli occhi verso la condannata immobile a pochi i da lui. Le trombe zittirono, poi un araldo avanzò impettito fino al centro della piazza principale di Biella. Varro si sforzò di alzare il capo. Due grandi cataste di legna e fascine legate strettamente erano state collocate al centro della piazza, ognuna con un lungo palo conficcato nel mezzo. Su quella di sinistra era stata incatenata Margherita da Trento. Dei suoi bei capelli, tagliati malamente dal carnefice, non rimanevano che rade ciocche cortissime, quando non mancavano del tutto, lasciando ben visibili chiazze di cute sporca e arrossata.

A destra, sorretto solamente da un grosso legaccio che gli circondava il busto, Longino Cattaneo, il luogotenente di Dolcino, sembrava uno spaventaeri spezzato.

Pochi metri separavano i due roghi, quel tanto che bastava per dividere e distinguere chiaramente i due condannati, ma abbastanza vicini per trasformarli in un’unica pira una volta che il vento avesse preso possesso delle fiamme. La folla si era zittita e la voce stentorea dell’araldo lesse senza incertezze gli atti d’accusa verso i due eretici e scandì inesorabilmente la condanna. Poi iniziarono a rullare i tamburi. Dolcino e Margherita, che non avevano smesso un solo istante di fissarsi negli occhi in quello che sembrava essere un unico sguardo fatto d’amore e di disperazione, sobbalzarono all’unisono. Quando il boia avanzò con una grossa torcia accesa nella mano destra, Varro, alzò a sua volta la mano, bloccando il carnefice che già stava per dar fuoco alla pece che ricopriva le fascine. Nel suo pugno proteso contro il cielo, la croce argentata sulla copertina di cuoio scuro della bibbia, mandò un lampo sinistro. «Pentiti donna!!» Poi, dopo aver lanciato un fugace sguardo verso il palco del vescovo, s’arrampicò velocemente sulla scaletta di legno ancora appoggiata alla catasta di Margherita. Il boia voltò stupito a sua volta il capo verso il palco delle autorità, ma poi, come soggiogato dalla croce d’argento che il prete gli teneva puntata contro, toccò con un ginocchio la terra, abbassando confuso il capo sul petto. «Pentiti donna!!» Ripeté l’arcidiacono accostandosi minaccioso a Margherita da Trento.

«Pentiti e salva la tua anima!» Un mormorio serpeggiò tra la folla e molti uomini abbassarono a loro volta il capo. «Boia, tu mi stupisci una volta di più!» Margherita si era rivolta a Varro con il soprannome con cui l’aveva sempre chiamato, un sorriso tirato sul volto e uno stupore sincero negli occhi umidi di pianto. «Non posso fare altro per te, mia signora!» Le sussurrò Varro. La folla aveva gli occhi solo per il libro che il prete aveva accostato alle labbra dell’eretica, per quello non notò minimamente il lungo stiletto che sbucò dall’ampia manica della tonaca. Margherita vide l’arma che si appoggiava sotto il suo seno e represse un leggero brivido, poi sollevò gli occhi verso Varro. «Grazie “Boia”, decisamente sei un uomo complicato. Peccato non averti conosciuto meglio!» Poi si raddrizzò quanto più le era possibile, allontanando le labbra dal libro sacro. La folla rumoreggiò, accompagnando il brusco vacillamento del sacerdote, evidentemente sgomentato dal rifiuto dell’eretica. Sembrò che per un attimo i loro due corpi si urtassero, poi il prete scese frettolosamente dalla pira e afferrò lui stesso la torcia, strappandola dalle mani del carnefice. Un rapido gesto e la pece prese fuoco. Seguì una nuvola di fumo acre e denso, poi le fiamme lambirono entrambi i roghi, salendo vivide verso il sole pallido e lontano.

L’odore di carne arrostita fece venire il voltastomaco a Varro, che cadde in ginocchio esausto, la bibbia stretta nella mano destra, la sinistra contratta sul manico dello stiletto insanguinato, ben nascosto tra le pieghe della tonaca.

14

La Rocca delle Donne.

«Hai rischiato molto con quella torcia! Il vescovo è rimasto molto contrariato.» Varro scrollò le spalle, riempiendo il bicchiere che il capitano gli porgeva con il liquido ambrato e dolce del vino riservato alla messa. «Dice che i preti devono benedire e pregare per l’anima dei peccatori, dargli fuoco è compito del boia!» L’ironia per nulla celata del soldato, era quasi comica, ma il mutismo distaccato che dominava il volto dell’arcidiacono finì per spegnere il sorriso sul volto di Goffredo che, dopo aver lanciato un rapido sguardo verso la porta chiusa, continuò sottovoce. «Lucilla è difficile da gestire, bisogna trovare una soluzione. Uno dei miei uomini porterà a lungo il ricordo delle sue unghie sulla faccia e solo per essersi distratto un attimo, lasciando incustodita la porta d’ingresso. Inoltre prima o poi la sua presenza verrà notata e ci saranno domande.» «Dammi ancora un paio di settimane, poi saprò farla sparire. Credimi!»

Le prime luci dell’alba filtravano ormai da parecchi minuti dai vetri colorati del rosone situato sopra l’altare, diffondendosi nella piccola cappella dentro una miriade di raggi iridescenti, ma la figura immobile, inginocchiata in preghiera sul freddo pavimento di marmo lucido, non pareva essersene minimamente accorta. Varro era in quella posizione dalla notte precedente, da quando, dopo essere

scivolato silenziosamente tra le ombre proiettate dalle alte colonne della navata, si era rifugiato in una piccola cappella laterale dedicata alla Santissima Vergine Maria. Nulla, nella figura curva in meditazione, ricordava l’arrogante sicurezza da sempre ostentata pubblicamente dall’arcidiacono del Vescovo, i quasi due anni trascorsi come spia tra le fila dei Dolciniani avevano intaccato profondamente l’animo del prete e avevano lasciato ferite aperte sia nel cuore dell’uomo che nelle sue sicurezze di religioso. Nonostante tenesse gli occhi ancora chiusi, Varro percepì l’arrivo del mattino e la consapevolezza che presto sarebbero arrivati i primi fedeli gli procurò un leggero stato di agitazione, la sua solitudine stava per terminare e con essa scadeva anche il tempo che aveva a disposizione per prendere una decisione definitiva. Erano mesi che ormai il suo animo era travagliato da dubbi e incertezze, ma solo dopo essere ritornato finalmente nel suo mondo, tra i suoi pari, nella sua casa e dentro i suoi vestiti, si era dovuto arrendere all’evidenza dei suoi sentimenti e dei suoi pensieri. L’eresia di Dolcino e dei suoi seguaci non l’aveva minimamente intaccato, ma ugualmente il tempo trascorso a stretto contatto con quella strana gente lo aveva profondamente mutato e con sgomento si era reso conto che il suo tormento non derivava tanto dai concetti aberranti proclamati da quegli uomini, ma piuttosto da come avevano saputo morire per le loro idee, e improvvisamente si era sentito depredato delle sue sicurezze. Aveva da sempre basato tutte le sue certezze sul fatto che fosse giusto che ognuno cercasse il proprio tornaconto personale e che fosse più meritevole di lode chi meglio riusciva a consolidare attorno a se potere e prestigio. Per questo ammirava il suo vescovo e credeva ciecamente nella Chiesa stessa. La sconfinata opulenza che la Chiesa di Dio ostentava pubblicamente, era segno inequivocabile del volere stesso di Dio, che riversava sui suoi ministri la sua benevolenza e il suo sostegno. Non si era mai vergognato di cercare il proprio personale interesse in ogni suo atto, come d’altronde aveva sempre visto fare attorno a lui.

Il clero e i nobili facevano di tutto per consolidare e aumentare costantemente il loro potere e anche se non sempre questo giustificava i mezzi da loro utilizzati, comprendeva benissimo la necessità dei loro sforzi e la giusta causa che li ispirava. Ma i pazzi come Dolcino avevano incrinato le sue sicurezze e soprattutto lo sguardo limpido di Margherita da Trento aveva scardinato le sue certezze con la forza di un ariete. Non si pentiva minimamente delle scelte e delle decisioni che aveva preso sino ad allora, nemmeno delle più drastiche, ma sempre più frequentemente si chiedeva che valore avessero ancora concetti che avvertiva sempre più lontani e privi di autentica sostanza. Che la Chiesa dovesse difendere il suo potere, sia spirituale che temporale, era innegabile, ma lui ormai si sentiva fuori da quel mondo e avvertiva che la cosa ormai non lo riguardava più. Aveva visto uomini e donne morire per un’idea, urlare il loro strazio al cielo, piangere e supplicare, ma senza per questo venire meno a qualcosa che custodivano nell’anima, concetti impalpabili e sicuramente inutili, che però valevano per loro più della stessa vita. Rispetto, Libertà, Amore. Un leggero scalpiccio al fondo della navata principale lo fece riscuotere dal torpore che lo dominava ormai da molte ore e si alzò in piedi cercando di raddrizzare il corpo anchilosato, poi, fissando la statua della Vergine si fece istintivamente il segno della croce. Il gesto gli costò fatica. «In nomine Patris…» Rimase però con il braccio a mezz’aria, avvertendo che quel simbolo tracciato sul suo corpo era dolorosamente privo di significato. In quell’istante capì di aver preso la sua decisione.

La Rocca delle Donne.

Sembrava che il nome derivasse da una leggenda che narrava di una antica popolazione germanica del nord, i Cimbri, sconfitta dal console Mario ai campi Raudii nei pressi di Vercelli e che, dopo la disfatta, un nutrito gruppo di donne si fosse rifugiato su quella roccia, costruendoci sopra le loro dimore. Ma ormai solamente un monastero era rimasto a dominare incontrastato il picco. Varro aveva accolto l’invito della Madre Superiora per presenziare alle cerimonie religiose in cui otto novizie avrebbero preso i voti e il Vescovo era stato ben felice di accordargli il permesso di rappresentarlo ufficialmente. Le malelingue sussurravano che se il livello di santità di quelle pie donne era oltre ogni dubbio, non altrettanto era la reputazione della loro cucina, ma Varro non ci dette peso. L’aria pensierosa sul suo volto ormai perennemente pallidissimo, gli conferiva un alone quasi di mistero, che accentuava santamente le già rigidissime regole che sancivano i suoi contatti con le religiose, permettendogli di trascorrere quei giorni protetto dalla completa solitudine. Varro si sporse leggermente dal parapetto di pietra su cui si era appoggiato. Sotto di lui lo strapiombo terminava bruscamente nelle acque limpide del Po, oltre, la pianura e i boschi si stendevano a perdita d’occhio sino alla possente cerchia delle Alpi, maestosa nei suoi picchi innevati scintillanti al sole. Il prete riabbassò lo sguardo, scrutando attento il tortuoso sentiero che scendeva dalla rocca sino al piccolo approdo sulla riva del fiume. Punto di scambio dell’intero territorio vercellese, quotidianamente arrivavano alla Rocca delle Donne ogni genere di mercanzie trasportate da capaci barconi, a forza di remi quando scendevano la corrente, trainati da buoi che macinavano incessantemente la riva, imbragati a lunghe funi, quando dovevano invece risalirla. Quell’approdo era fonte di vita e di lavoro.

Per questo, annualmente, dal convento scendeva una processione per impartire una solenne benedizione sia alle strutture, sia agli uomini che quotidianamente vivevano sulle acque del fiume. L’arcidiacono allungò il braccio per raccogliere la sua bibbia appoggiata sulle pietre del muretto e nel prenderla la sua mano tremò leggermente, mentre un riflesso rossastro balenò sulla croce d’argento incastonata nel cuoio della copertina. Varro ritornò con lo sguardo sul ripido sentiero. Quello sarebbe stato suo Calvario, lo sapeva benissimo, sicuramente più facile da fare visto che doveva percorrerlo in discesa, ma sempre di Calvario si trattava. Tre ore dopo, alla testa di una lunga processione, preceduto solo da un ragazzotto che portava con orgoglio una grossa croce di legno annerita dal fumo di un’infinità di candele, mise piede sul pontile dell’approdo. Dietro di lui, le otto suore appena consacrate smisero di cantare l’interminabile salmo che li aveva accompagnati nella discesa e si posero ordinatamente in fila, alla sua destra, lungo tutto l’argine. Alla sua sinistra invece, presero posto un centinaio di fedeli che costituivano di fatto l’intera popolazione del piccolo borgo. Varro prese fiato, poi, mentre alzava la destra in un ampio segno di benedizione, intonò a sua volta un salmo di ringraziamento. Su una grossa chiatta ormeggiata di fronte a lui, una trentina di barcaioli stavano inginocchiati in silenziosa partecipazione. Alcuni di loro, evidentemente addetti al trasporto della farina, ostentavano sopra gli indumenti imbiancati, grossi sacchi cuciti grossolanamente e gli ampi cappucci che servivano a riparare loro il capo durante il trasporto delle merci, erano calati sui loro volti, rivolti rispettosamente a terra. Varro ebbe un improvviso brivido di paura e subito, come se avesse intuito il suo disagio, uno degli uomini inginocchiati sollevò leggermente la testa.

Il volto familiare di Goffredo apparve dall’ombra del cappuccio, ma il ghigno e gli occhi folli che esibiva erano quelli di un demonio. Con un urlo il capitano si sollevò in piedi, gettando a terra il sacco che aveva sul capo, immediatamente imitato da una decina di uomini. Il balenare sinistro dell’acciaio di lunghi pugnali fece lanciare grida spaventate alle suore allineate accanto a Varro, poi, prima che i fedeli assiepati sulla riva potessero rendersi conto di quello che stava accadendo, Goffredo si lanciò contro l’amico. «Per Dolcino!» Urlò. Varro rimase immobile, anche quando il pugnale si conficcò nel suo ventre, forando i paramenti sacri e macchiando di sangue scarlatto i delicati ricami d’oro della stola, e nemmeno accennò alla minima resistenza quando due uomini lo afferrarono per le spalle e lo gettarono nel fiume. Le urla delle suore raggiunsero il cielo, ma fu la terra che invece tremò sotto il rombo di cavalli al galoppo. Due uomini erano infatti sopraggiunti di gran carriera, portandosi appresso animali già sellati. Goffredo ed i suoi uomini balzarono velocemente in groppa, e improvvisamente apparvero nelle loro mani torce accese che vennero lanciate sul tetto di paglia dell’approdo e sulle barche vicine. «Dolcino! Dolcino è vendicato!» Le urla echeggiarono a lungo, anche quando dei sicari non rimase altro che la polvere sollevata dagli zoccoli dei loro cavalli.

15

Lucilla era completamente disorientata. La notizia dell’assassinio di Varro, volata di bocca in bocca per tutta Novara, era arrivata come una bomba anche nella casa di Maddalena, l’amante di Goffredo da Varallo, dove la ragazza continuava ad essere tenuta prigioniera. Il garzone del mugnaio, che per primo era arrivato con la notizia, asseriva che addirittura il vescovo stesso si fosse rinchiuso nel suo palazzo, protetto dalla sua scorta personale, e che aveva già inviato richiesta di nuove truppe del Papa per rimpiazzare immediatamente gli uomini del capitano, non ritenuti più sicuri. Il tradimento di Goffredo aveva lasciato tutti allibiti, la sua amicizia con l’arcidiacono era nota a tutti e il fatto che potesse essere stato ugualmente assoldato da chi aveva interesse a vendicare Fra Dolcino aveva qualcosa di terrorizzante; l’incubo dell’eresia ritornava prepotentemente, strisciando inquietante sia nelle silenziose sacrestie come nei sontuosi palazzi del potere ecclesiastico. La casa di Maddalena era in realtà un piccolo cascinale circondato da alberi da frutto, a poche ore dal centro di Novara, ma la sua collocazione, lontano dalle vie principali di commercio, gli consentiva di godere di una notevole tranquillità. Ci si arrivava da una sola strada, che già dal mattino successivo all’assassinio dell’arcidiacono era stata attentamente presidiata dalle truppe personali del Vescovo, e quando questi si erano poi presentati per perquisire la casa, Lucilla era stata nascosta in tutta fretta in una cantina segreta, abilmente celata sotto il pavimento della camera padronale. Fu quindi veramente sorpresa quando, dopo molte ore, la botola sul soffitto del suo nascondiglio si aprì e vide comparire il volto sorridente di Goffredo. «Coraggio bellezza, ora puoi venire fuori! Quei coglioni se ne sono andati!»

Lucilla salì frastornata la scala e subito i due uomini che la sorvegliavano ormai da mesi, richio silenziosi la botola e vi risistemarono sopra il pesante tappeto che la occultava completamente. Vide che nella stanza era presente anche Maddalena che, con un dito sulle labbra, le faceva cenno di rimanere in silenzio. Goffredo intanto si era inginocchiato per estrarre da sotto la piastra del grande camino uno stretto baule, poi, sfilata dalla giubba la catenella che teneva sempre al collo, staccò con cura una piccola chiave. I due guardiani estrassero i loro pugnali e si collocarono ai lati della porta, ma quando il capitano aprì con cautela il pesante coperchio, il luccichio di un grosso mucchio di monete d’oro attirò l’attenzione di tutti. Goffredo riempì velocemente due sacchetti di cuoio, che lanciò con precisione ai suoi uomini, un rapido cenno di ringraziamento e i due soldati scomparvero nel più assoluto silenzio. Maddalena si era nel frattempo accostata al suo uomo per aiutarlo a trasferire tutte le monete restanti in diverse bisacce dall’aria robusta e sicura. «Come hai potuto!!» Sibilò Lucilla. «Pensavo di averti fatto un favore!» Il capitano non sollevò nemmeno il capo. La donna era furiosa. «Varro era un essere spregevole e meritava certamente di morire per tutto il male che ha fatto in vita sua, ma asslo così! E poi pensavo foste amici!» La risata del soldato rimbombò sinistra nella camera. «Un soldato ha solo due amici, l’oro e un bel culo per cui valga la pena di spenderlo!» La sua risata si spense sullo schiocco della pacca che lasciò cadere sul fondoschiena sporgente della sua donna, mentre Lucilla si mordeva le labbra

contrariata, gli occhi stranamente lucidi di pianto. Goffredo si raddrizzò in tutta la sua imponente statura, fissando la ragazza negli occhi, improvvisamente serio. «Margherita da Trento era di nobile famiglia e nonostante la sua scelleratezza l’abbia fatta ripudiare da tutto il suo casato, certe cose non si possono tollerare. C’è l’onore da salvaguardare e il tradimento di Varro non poteva restare impunito. Inoltre il movimento di Dolcino conta ancora alcuni influenti sostenitori che hanno pensato fosse il caso di dare un avvertimento chiaro sia al Vescovo che al Papa.» Lucilla scosse la testa contrariata, poi intuendo che con la scomparsa dei suoi guardiani era finalmente libera, si diresse verso la porta. «Dove pensi di andare?» Goffredo aveva appena sussurrato la domanda, ma il tono era ugualmente intimidatorio. «Morto Varro, cosa ci faccio io qui?» «Fai parte del mio compenso.» «Che cosa vuoi dire?» «Che chi mi ha pagato mi ha ordinato di tenerti!» «Sei pazzo! Io non sarò mai una delle tue puttane!» Il coltello che le sfiorò il viso, conficcandosi profondamente nella porta dietro di lei la lasciò allibita, soprattutto quando si rese conto che se Maddalena avesse voluto ucciderla non l’avrebbe mancata sicuramente. La donna fremeva d’ira repressa e Lucilla istintivamente controllò che non ci fossero altre armi a portata di mano della donna. «Se vuoi un consiglio, evita di star da sola con Maddalena, potrà essere muta, ma il coltello lo sa usare benissimo!»

Stupefatta, Lucilla si rese conto solo in quel momento che effettivamente non aveva mai udito la donna pronunciare una sola parola, aveva sempre creduto che fosse dovuto all’altezzosità della ragazza verso una prigioniera o a una forma di gelosia nei suoi confronti, ma ora incominciava a vedere la compagna di Goffredo sotto una luce diversa. «Devo ammettere che non sei niente male e che finalmente hai messo un po’ di ciccia nei punti giusti, ma non sei il mio tipo. E poi pensi proprio che sia così scemo da scoparmi “La signora dei serpenti”?» Il tono sarcastico del capitano mandò su tutte le furie Lucilla, che afferrato un pesante candelabro lo scagliò contro l’uomo. Un istante dopo il capitano le stava accanto, la sua mano guantata l’aveva afferrata per i capelli e la ragazza temette che le si strape il cuoio cappelluto. «Stammi a sentire bene, strega o troia che tu sia, a me non fai paura e se non fosse che fai parte del mio contratto di lascerei volentieri in pasto agli uomini del Vescovo. Loro non si farebbero certamente tanti problemi a tirar fuori le vipere che hai in pancia, magari usando le punte delle loro picche! Ma devo consegnarti a chi mi ha pagato! E purtroppo ti vuole anche tutta intera!» Con uno strattone la mandò a sbattere violentemente la testa contro il legno ruvido della porta, poi con ritrovata calma, fece un cenno a Maddalena, che incominciò silenziosamente a tirar fuori da una cassapanca alcuni poveri abiti da contadina.

16

Uscirono silenziosamente da una porta che dava sul retro del cascinale, dov’erano collocati sia il porcile che i pollai, e s’infilarono tra gli alberi di mele con il o lento ma costante dei contadini. La giornata volgeva al termine e i braccianti stavano rientrando alle loro catapecchie, il capo basso e l’aria stanca di chi aveva avuto una dura giornata di lavoro. Nessuno fece caso alle tre figure che presero il sentiero del bosco, nemmeno i soldati che dall’alto della collina osservavano annoiati il vecchio zoppicante che, più che condurre, si faceva trasportare da un asino malconcio, seguito da due donne che non avevano certo un’aria migliore. Ma appena entrati sotto l’ombra protettiva delle alte querce, Maddalena ò attorno alla vita di Lucilla una robusta corda, annodandosi poi con sicurezza l’altro capo al suo polso sinistro. Allo sguardo stupito della ragazza rispose scostando lo scialle e rivelando i manici di tre coltelli accuratamente infilati alla cintura. L’avvertimento era chiaro e a Lucilla non rimase che allungare il o per stare dietro a Goffredo, che ora non appariva certamente né vecchio, ne zoppo e ne stanco. Si fermarono solo dopo due ore, di fronte ad una piccola capanna dal tetto di paglia. All’interno, solo un misero giaciglio fatto di foglie secche racchiuse in ruvidi sacchi cuciti alla meglio tra loro, un camino in pietra completamente annerito dal fumo e un tozzo tavolo di quercia con attorno alcuni sgabelli traballanti. Mentre Goffredo accudiva l’asino, Maddalena, dopo aver accuratamente legato tra loro le caviglie di Lucilla, accese con tranquillità il fuoco e si mise a cucinare.

Come se non avesse fatto altro in vita sua, la ragazza estrasse da un canovaccio un mucchietto di ceci già bolliti e con gesti rapidi e sicuri li sbucciò, poi nella pentola finirono carote, cipolle, sedano, foglie di salvia, un rametto di rosmarino e uno spicchio d’aglio. Un’ora dopo erano tutti e tre attorno al tavolo a mangiare a occhi bassi una zuppa profumata e densa, accompagnata da una caraffa di vino forte che Lucilla stessa non disprezzò affatto. Terminata la cena Goffredo uscì per controllare ancora una volta l’asino, mentre Maddalena ripuliva tutto con cura meticolosa, ma quando l’uomo rientrò, Lucilla avvertì che qualcosa era cambiato. Goffredo, appoggiato con le spalle alla porta, la stava fissando pensieroso, quindi, dopo aver scambiato uno sguardo d’intesa con la sua donna, estrasse il coltello dalla cintura e si avvicinò a Lucilla. Un colpo netto e i lacci che le imprigionavano le caviglie caddero a terra, assieme all’aria truce che l’uomo aveva mantenuto sino ad allora. Il solito sorriso beffardo apparve sul bel volto di Goffredo, mentre si sedeva per afferrare la caraffa di vino rimasta sul tavolo. «Ora ascoltami attentamente! Quello che è successo a Varro non ti riguarda. Ciò che ti deve interessare invece, è che io non sono un tuo nemico e soprattutto non lo è l’uomo che mi paga per proteggerti.» Lucilla era rimasta silenziosa, completamente disorientata dal mutamento repentino dell’atteggiamento del capitano. «Sembra che non solo Margherita da Trento abbia parlato bene di te in una sua lettera indirizzata al mio nuovo signore, ma pare addirittura che lui stesso abbia avuto in ato stretti rapporti di amicizia con un certo alchimista di tua conoscenza.» Lucilla era esterrefatta. «Ora, come ti ho già accennato, tra i compiti assegnatemi dal mio nuovo Signore, rientra anche quello concernente la tua sicurezza e per questo devo chiederti d’ora in avanti di aver fiducia in noi due e di non tentare di fuggire.

Finora sei stata legata non tanto per impedirti una stupida fuga, ma per farti are per una mia prigioniera in caso fossimo stati catturati dagli uomini del vescovo. L’unica cosa che ti posso anticipare è che stiamo andando nei possedimenti del mio nuovo padrone, dove è già stata preparata una casa tutta tua, in completa autonomia. Non domandarmi altro, perché sinceramente non so molto di più e comunque sarebbe troppo pericoloso darti altre informazioni, giacché la possibilità di essere ancora catturati è tutt’altro che remota.» Lucilla lanciò uno sguardo preoccupato verso Maddalena, ma incredibilmente anche la donna ora le sorrideva divertita. «Hai davanti a te solo due scelte possibili,» riprese serio Goffredo «o ti fidi di quello che ho appena detto e ci segui senza problemi, oppure esci da quella porta e vai dove ti pare. La fuori potrai trovare gli uomini del vescovo e non sto a rammentarti quello che ti aspetterebbe in quel caso, oppure puoi trovare un mio uomo che ti taglierà la gola, nel caso avessi mentito. Però puoi anche trovare la libertà e scomparire per sempre. A te la scelta!» Poi, come se la cosa avesse perso per lui ogni interesse, afferrò la sua compagna per la vita e la trascinò ridendo verso il pagliericcio. Lucilla rimase pensierosa accanto al camino, con una moltitudine di domande dentro il cervello e altrettante sensazioni contrastanti dentro il cuore. La morte di Varro l’aveva messa in uno stato di grande agitazione. Da una parte si sentiva sollevata che quell’uomo terribile fosse morto, ma dall’altra il ricordo di quell’altro uomo, quello celato sotto la lugubre maschera di cuoio del boia, che aveva imparato a conoscere in quegli anni trascorsi sulle montagne, continuava a tormentarla. Aveva un bel dirsi che era stata solo l’abilità di una spia diabolica, la cui opera aveva poi condotto tutti alla rovina, ma la sensazione che in quell’uomo vi fosse qualcosa di buono si rifiutava di abbandonarla. Varro o il “Boia”? La spia astuta o l’uomo gentile e premuroso che in tanti avevano imparato a apprezzare in quei lunghi mesi di sofferenza e di difficoltà?

Lo sfregiato che era stimato da Dolcino e protetto dalla stessa Margherita da Trento, o l’arcidiacono che la fissava spietato mentre era nuda sul tavolo della tortura? Poi quando Goffredo e la sua donna, senza nemmeno attendere che le braci si attenuassero, iniziarono una danza fin troppo esplicita, si rannicchiò sconsolata con spalle appoggiate alle pietre calde della canna fumaria, la testa racchiusa tra le ginocchia, gli occhi inondati di lacrime silenziose. Fu risvegliata dalla mano fresca di Maddalena che si era appoggiata delicatamente sulla sua spalla. Balzò allarmata in piedi, rischiando di rovesciare la ciotola di latte caldo che la donna le stava porgendo. «Scusa!» Mormorò rendendosi conto della situazione. Il sorriso sul viso di Maddalena sembrò rischiarare l’intera stanza e solo allora Lucilla si rese conto di quanto la ragazza fosse veramente bella. «Forza fanciulle! Siamo in ritardo!» Goffredo era entrato con irruenza nella capanna, seguito da una ventata d’aria pregna d’umidità. Alle sue spalle, oltre la porta aperta, l’asino stava sconsolato sotto una pioggerellina leggera che sembrava evaporare non appena gli toccava il manto spelacchiato.

17

Camminarono per tutto il giorno, aggirando prudentemente villaggi e piccoli paesi. Goffredo sembrava instancabile, sempre lo stesso o, l’immutabile sorriso impresso sul volto, Maddalena lo seguiva leggera come una fata dei boschi, soffermandosi solo per brevi istanti a raccogliere erbe o funghi che depositava con attenzione in un piccolo paniere. Dormirono in una legnaia isolata, ma già all’alba erano nuovamente in cammino, per arrestarsi poi, ancora avvolti da una leggera foschia sull’argine fangoso del grande fiume. Goffredo si era fatto nell’ultima mezz’ora, più cauto nei movimenti e il sorriso era gradatamente scomparso dal suo viso, sostituito da un’espressione guardinga, soprattutto quando il bosco aveva lasciato il o, quasi improvvisamente, ad un alto canneto che aveva rallentato notevolmente il loro procedere. L’asino soprattutto aveva incominciato a dare inquietanti segni di nervosismo e il gruppetto era quindi avanzato cauto in un basso acquitrino in cui affondavano tutti fino alle caviglie. Improvvisamente la prua di una grossa barca si parò d’innanzi a loro e Lucilla, presa alla sprovvista, inciampò malamente in una cima semisepolta dalla melma, che ormeggiava l’imbarcazione a una nodosa radice affiorante sul terreno. La sua esclamazione di dolore fu subito soffocata dalla mano di Maddalena che s’appoggiò determinata sulle sue labbra, mentre Goffredo scostava con cautela alcune canne, rivelando l’intero scafo che galleggiava nell’acqua bassa. Immediatamente alcuni corvi si levarono in volo spaventati, mentre il soldato sguainava la spada allarmato. Lucilla s’appoggiò al bordo dell’imbarcazione per alleviare il dolore lancinante

che le stava paralizzando la caviglia, ma quello che scorse all’interno dello scafo la fece ritrarre inorridita. Le orbite vuote d’un volto biancastro l’avevano fissata dai paioli della barca, ma a terrorizzarla non erano state le orrende ferite sul viso che era servito da banchetto agli uccelli, ma la corta freccia dalle piume gialle che spuntava beffarda dal torace dell’uomo. «Per le palle del diavolo!» L’imprecazione di Goffredo fu accompagnata dal sibilo di un’altra freccia di balestra che si conficcò profondamente nel legno a pochi centimetri dalle sue dita. «Un’imboscata maledizione! Tenete giù la testa!» L’asino si divincolò ragliando, strappando la cavezza dalle mani di Maddalena e caricandola spaventato. L’istintivo spostamento che fece le salvò la vita, poiché il dardo destinato al suo petto, centrò invece il grosso collo dell’animale. Impazzita dal dolore, la povera bestia si lanciò nel folto del canneto sgroppando furiosamente e creando uno scompiglio di canne rotte in mezzo ad alti schizzi di fango e acqua. Goffredo intanto, dopo aver reciso con un colpo netto la cima d’ormeggio, aveva appoggiato le spalle allo scafo, mentre con i piedi tentava disperatamente di far presa nel fango scivoloso. Lucilla si unì a lui nella spinta, ma proprio mentre la barca prendeva l’abbrivio verso la forte corrente del fiume, una rete calò sul suo capo. Un soldato sbucò dai canneti, piombando su di lei con gutturali grida di trionfo, ma poi sulla sua gola si materializzò il manico di uno dei coltelli di Maddalena e l’uomo rotolò su se stesso, piombando nell’acqua che si colorò immediatamente di rosso. La donna tentò di districarsi dalle maglie della rete, ma a ogni movimento non faceva altro che rimanerne maggiormente avviluppata, poi si sentì trascinare via.

Una parte della rete era rimasta impigliata a una delle bitte dell’imbarcazione, che ora la corrente stava catturando con sempre maggior vigore e Lucilla perse l’equilibrio. Prima di riuscire a chiudere la bocca, un fiotto d’acqua e fango le si infilò con forza in gola e con sgomento s’accorse di essere finita sotto il pelo dell’acqua. Provò a scalciare, ma la rete e i suoi vestiti pesanti la trascinarono inesorabilmente a fondo. Il panico s’impadronì di lei, facendola dimenare come un’ossessa, con l’unico risultato di esaurire subito la poca aria rimastale nei polmoni. Il buio l’avvolse, mentre il bruciore dentro il suo petto diventava insopportabile e la consapevolezza della morte ineluttabile le esplodeva nel cervello. Inaspettatamente non le importò più di nulla, Varro, il “Boia”, Margherita, l’Alchimista, sembravano ora nuotare accanto a lei, eteree figure che la circondavano e l’accarezzavano dolcemente, ma poi i loro volti sorridenti si trasformarono improvvisamente in maschere macabre e terrificanti, dai denti affilati e dallo sguardo colmo di un male antico e terribile. La donna urlò, e il suo grido sembrò far vibrare le molecole stesse dell’acqua, colpendo e sconquassando quegli spettri terrificanti. Un’eterea figura s’insinuò tra loro, una sirena affascinante dai seni turgidi e dal viso bellissimo che l’afferrava per i capelli e la trascinava con determinazione verso la luce. Goffredo, ancora aggrappato con un braccio allo scalmo del remo, allungò l’altra mano per afferrare Lucilla che emergeva dall’acqua, sospinta da una Maddalena ansante e praticamente nuda. Poi la corrente li afferrò definitivamente, trascinando via in un susseguirsi di rapide giravolte, sia l’imbarcazione che i trenaufraghi aggrappati disperatamente ad essa, finchè scomparvero oltre l’ansa del grande fiume.

18

Anche se a fatica, il capitano riuscì ad issarsi a bordo, subito imitato da Maddalena, poi ambedue afferrarono saldamente a quattro mani la rete da pesca che ancora avvolgeva Lucilla e la sollevarono con un ultimo sforzo, adagiandola infine con cura sui paioli insanguinati. Mentre Maddalena s’inginocchiava a tagliare le maglie della rete, Goffredo s’impadronì della barra del timone, cercando di mantenere la barca al centro del fiume, in modo da sfruttare al massimo la corrente ed evitare nel contempo d’incappare nei pericolosi mulinelli che si formavano vicino alle rive. Lentamente Lucilla riprese conoscenza, ma ci volle ancora una mezz’ora prima che le ritornasse la mente lucida e che il petto le smettesse di bruciare. «Se te la senti, dovresti dare una mano a Maddalena!» La voce sicura di Goffredo alle sue spalle scosse definitivamente la donna che, alzatasi prontamente in piedi si guardò attorno, tentando di afferrare la situazione. Il capitano era al timone e dalla sicurezza con cui stava appoggiato alla grossa barra, sembrava avvezzo alla navigazione e non dimostrava alcuna difficoltà a governare quel pesante barcone da carico. Maddalena invece si era rannicchiata a prua e riparata dagli alti bordi dell’imbarcazione, si godeva il tepore del sole nascente con la schiena appoggiata ad alcuni grossi sacchi colmi di farina. A parte una leggera camiciola, la ragazza era completamente nuda e il ricordo della sirena che l’aveva salvata ritornò improvvisamente nella mente di Lucilla. La giovane era stata più tempestiva di lei e avendo subito capito quale sarebbe stata la loro unica via di fuga, aveva anche intuito che i loro abiti pesanti si sarebbero trasformati in una trappola mortale.

Si era quindi sfilata rapidamente il vestito tuffandosi tra i canneti ed evidentemente, Lucilla doveva ringraziare proprio la sua libertà di movimento se poi la ragazza era riuscita ad afferrarla per riportarla in superficie. Maddalena intanto, dopo essersi spostata dalla fronte una ciocca di capelli bagnati, le indicò con il mento un mucchio di stracci. Con raccapriccio Lucilla vide che da sotto alcuni sacchi gettati frettolosamente sul fondo della barca, spuntava un piede scalzo, sporco e dalle spesse unghie rugose. Intuì che si trattava del marinaio ucciso e al ricordo del volto devastato dai corvi, un conato le salì in gola, ma si fece forza e dopo aver afferrato il corpo per i piedi, aspettò che le mani della sua compagna fero presa sulla camicia dello sventurato. Lo sollevarono a fatica e dopo alcuni piccoli dondolii lo scaraventarono fuori bordo, rimanendo poi ambedue a guardare il corpo che, dopo aver galleggiato per qualche secondo, veniva inghiottito dall’acqua calma del fiume. Maddalena si riscosse con un brivido e afferrato un secchio legato a una lunga corda lo gettò con decisione in acqua, risollevandolo poi con notevole sforzo e svuotandolo sui paioli insanguinati. Anche Lucilla si diede da fare e raccolto un sacco vuoto, si mise a strofinare con rabbia il fondo della barca. Un’ora dopo l’imbarcazione aveva cambiato aspetto. Maddalena, con grosse gocce di sudore che le rigavano l’incavo dei seni, sollevò il viso verso il sole ormai caldo e splendente, permettendo finalmente al suo stupendo sorriso di inondargli il volto. Lanciò quindi uno sguardo attento alle rive che sfilavano lente attorno a loro, voltandosi poi con aria interrogativa verso il suo uomo. Al rapido cenno di assenso, si sfilò con un gesto di stizza anche la leggera camiciola e con un salto spettacolare si tuffò nelle acque del fiume. Lucilla rimase esterrefatta, ma poi anche lei fissò dubbiosa Goffredo.

«Al diavolo!» Sbottò, e spogliatasi completamente si gettò a sua volta oltre il bordo della barca. Nuotò a lungo, con bracciate lente ma vigorose, scaricando nello sforzo tutta la paura accumulata e mentre l’acqua portava via dalla sua pelle fango, sangue e orrore, anche la tensione che l’aveva attanagliata in quei lunghi mesi si sciolse magicamente. Improvvisamente si sentì libera, nuovamente padrona del proprio destino e l’euforia dello scampato pericolo sembrò generare dentro di lei energie illimitate. Goffredo intanto aveva accostato a una delle rive e l’imbarcazione, uscendo dalla corrente principale, aveva rallentato notevolmente la sua corsa. Esausta, Lucilla nuotò con calma verso il barcone e notando che da un bordo ora pendeva una scaletta di corda, s’issò con agilità. L’imbarazzo di mostrarsi completamente nuda agli occhi del capitano durò pochi istanti e il sorriso di Maddalena, che la invitava a sdraiarsi accanto a lei sul legno caldo della barca, le tolse ogni dubbio. Dando quindi con disinvoltura la schiena al capitano e non solo quella, si distese a fianco della ragazza, permettendo ai raggi del sole di asciugare indisturbati la sua pelle bianca. Goffredo con un sospiro riportò lo scafo in mezzo al fiume, gli occhi attenti alle rive, anche se ogni tanto distoglieva volentieri lo sguardo per bearsi della vista di quelle due strane donne che si erano nel frattempo addormentate al sole, mano nella mano. Un brusco movimento dello scafo svegliò Lucilla, che si mise seduta, coprendosi istintivamente i seni con il braccio piegato. «Solo un tronco galleggiante! Scusa se ti ho svegliata.» L’aria divertita di Goffredo, con gli occhi puntati sul suo corpo nudo, la mise in imbarazzo e istintivamente cercò qualcosa con cui coprirsi. Una mano delicata le porse quella che sembrava essere un pezzo di ruvida vela e Lucilla s’affrettò ad arrotolarsela attorno al corpo.

Con un rapido sguardo notò che anche Maddalena aveva fatto lo stesso con una stoffa simile e che ora stava fissando il suo uomo con aria di sfida, giocherellando con l’affilato coltello che aveva utilizzato per tagliare le vele. Imbarazzata, Lucilla cercò con lo sguardo i suoi vestiti e con sorpresa vide che erano stati sciacquati e che ora stavano ben stesi ad asciugare al caldo sole del pomeriggio. Maddalena era impagabile! L’unico che si stava facendo asciugare gli abiti addosso era Goffredo, ma pur confidando nella lama di Maddalena, Lucilla fu contenta che fosse così.

19

Quando avvistarono l’approdo di scambio, con i suoi barconi colmi di merci ordinatamente ormeggiati uno accanto all’altro, il largo pontone del traghetto collegato con grosse funi all’altra riva e il fumo che saliva invitante dal camino di una taverna praticamente costruita sull’acqua, il sole stava ormai calando e l’aria si era notevolmente rinfrescata. Lucilla già da tempo aveva potuto rivestirsi e anche se la lunga gonna conservava ancora tracce d’umidità, la sensazione di sicurezza che gli abiti le davano era impagabile. Maddalena invece, con ancora la sola vela come abito, era andata a rannicchiarsi nuovamente a prua, nascondendosi tra i grossi sacchi di farina che costituivano il carico della barca. Goffredo ormeggiò con perizia, ma solo dopo essersi preventivamente accertato dell’assoluta mancanza di soldati nei paraggi. Comunque aveva prudentemente riallacciato alla cintura la sua spada e aveva collocato a portata di mano tutte le possibili armi che avevano trovato a bordo. Coltellacci, trincetti, grossi martelli e punteruoli, sembravano essere stati riordinati da un marinaio eccessivamente pignolo, e solo un occhio allenato alla guerra poteva accorgersi invece della loro posizione strategica. Attirarono comunque inevitabili sguardi stupiti, dal momento che era strano non vedere a bordo “barcaioli”, ma Goffredo aveva escogitato un piccolo trucco. Appena ormeggiata la grossa barca, si era messo a guardarsi attorno perplesso, prima con aria scocciata, poi sempre più rabbuiato. Lucilla intanto era sbarcata a scrutare sconcertata la banchina e poi anche il capitano a sua volta scese a terra, andando a informarsi presso un gruppetto di scaricatori incuriositi, se per caso avevano visto i tre uomini che dovevano

imbarcarsi quella sera sulla sua barca. Alla prevedibile risposta negativa del gruppetto, il capitano andò su tutte le furie e imprecando contro “stupidi caproni capaci solo di ubriacarsi con il loro stesso piscio” e promettendo al cielo di tagliare un numero imprecisato di membri più o meno flosci, risalì a bordo. Le imprecazioni continuarono a salire al cielo anche dopo che il capitano ebbe lanciato a Lucilla un piccolo sacchetto, ordinandole in malo modo di andare a comprare qualcosa da mangiare. Se qualcuno degli uomini sul pontile venne minimamente sfiorato dal pensiero di proporsi come marinaio, il coltellaccio che irosamente il soldato continuava a conficcare nella barra del timone, sicuramente fu più che sufficiente per dissuaderlo all’istante. Lucilla non comprò solo cibo e vino, ma riuscì anche a trovare abiti caldi per Maddalena e un corsetto nuovo per se, visto che quello che possedeva era stato danneggiato dal coltello della giovane quando aveva tagliato la rete che la stava soffocando. Appena ritornò a bordo, Goffredo, con un’ennesima e possente bestemmia, tolse l’ormeggio riportando velocemente il barcone al centro della corrente, seguito dagli sguardi di scherno che gli esperti uomini del fiume lanciarono verso quello stolto che si stava avventurando sulle acque all’imbrunire. Goffredo attese di essere fuori vista, poi si mise a cercare con gli occhi un posto sicuro dove attraccare. ò però un’altra mezz’ora prima che riuscissero ad individuare una spiaggia tranquilla dove la pesante barca potesse arenarsi dolcemente. Goffredo saltò velocemente a terra, andando a legare saldamente una lunga cima al tronco di un albero, mentre Maddalena, che non aveva ancora smesso di pavoneggiarsi nei suoi nuovi vestiti, apriva con curiosità il fagotto colmo di provviste che Lucilla aveva portato. Non azzardandosi ad accendere fuochi, si spartirono grosse fette di formaggio e spezzarono in parti uguali una grossa forma di pane nero speziato, affrontando il freddo della notte grazie a una capace brocca di vino forte che si rivelò

stranamente di ottima qualità. Infine, posizionati con cura i grossi sacchi di farina in modo da creare giacigli sufficientemente comodi, si arrotolarono nelle spesse vele della barca. Appena smisero di far rumore la natura attorno a loro si risvegliò immediatamente; i grilli sembravano aver deciso di disputare una battaglia senza quartiere contro le rane che, con il loro gracidio sovrastavano indubbiamente ogni altro rumore, ma anche i gufi e barbagianni non dimostrarono alcuna pietà per il sonno delle tre figure rannicchiate tra i sacchi.

20

Lucilla, ancora frastornata per gli avvenimenti della giornata e non riuscendo a prendere sonno, dopo un po’ strisciò silenziosamente sino all’ampia poppa del barcone, rimanendo a fissare pensierosa la luna che si rifletteva sull’acqua scura del fiume. «Non dormi?» Goffredo si era materializzato al suo fianco senza che lei avesse avvertito il minimo rumore e spaventata si ritrasse istintivamente, ma il soldato si era messo a sua volta ad osservare tranquillo i giochi dei raggi della luna sull’acqua. Rimasero in silenzio a lungo, poi Lucilla, dopo aver lanciato uno sguardo nel buio in direzione della figura immobile di Maddalena, sussurrò: «É sempre stata muta?» Avvertì il respiro dell’uomo arrestarsi per un lungo istante, poi la voce di Goffredo le arrivò smorzata e il racconto che udì le soffocò il cuore. «Avevamo appena conquistato una roccaforte, dopo una settimana di scontri violenti. I miei uomini erano stremati dalla fame e dalla mancanza di sonno e quando invademmo la rocca scatenarono tutta la loro furia repressa. Sterminata la guarnigione, si abbandonarono al saccheggio. Completamente ubriachi entrarono in una delle case ove i soldati del forte avevano alloggiato le loro puttane. Quando arrivai io, tre di loro avevano già violentato e sgozzato due donne e si stavano divertendo con una bambina. Le avevano appena mozzato la lingua e visto che per loro era troppo magra, per puro spregio volevano tagliarle i minuscoli seni per poi sodomizzarla come un ragazzino. Avendo visto ben di peggio, stavo già per andarmene quando incrociai gli occhi della bambina. Erano pieni di paura e dolore, ma mandavano incredibilmente anche scintille che rivelavano una determinazione e una forza sconfinata. Non so perché lo feci, forse perché anch’io ero ubriaco fradicio, ma colpii a tradimento i miei uomini e mi caricai sulla spalla la bambina. L’affidai al gruppetto di donne che seguivano

il nostro piccolo esercito e solo dopo alcuni giorni mi ricordai di lei. Era sopravvissuta alla mutilazione e quelle donne l’avevano curata e protetta pensando che fe parte del mio bottino di guerra. Non mi sentii di abbandonarla e ritornando a Novara la lasciai in quel cascinale dove hai vissuto anche tu. Mi era stato concesso l’uso di quel possedimento dal vescovo in persona in cambio di alcuni miei servigi, ma dal momento che io vivevo praticamente negli alloggi della guarnigione in città, una famiglia di contadini si occupava del frutteto e dei lavori nei campi e quindi trovai normale affidare a loro la bambina. Ci furono altre campagne militari e ogni volta che ritornavo trovavo la bambina sempre più alta e robusta. Solo anni dopo presi a are lunghi periodi nel cascinale. Maddalena, così l’avevano chiamata i miei contadini, era nel frattempo diventata donna, ma io me ne accorsi solo udendo un pesante commento espresso da uno dei soldati della mia scorta. Punii quell’imbecille, ma da quel momento Maddalena divenne per tutti “la donna del capitano”. Comunque fu solo nell’estate successiva che incominciai a conoscerla meglio, quando, obbligato a rimanere a letto per una brutta ferita al fianco, Maddalena incominciò ad occuparsi di me. Era lei che mi portava da mangiare e che mi cambiava le fasciature, che arieggiava la stanza e che ava le ore a scacciar via le mosche quando la febbre mi faceva inzuppare le lenzuola di sudore. Con l’inizio dell’autunno ero quasi guarito e avevo preso a fare lunghe eggiate nel frutteto. Maddalena mi seguiva immancabilmente come un cagnolino, una decina di i dietro di me, silenziosa e con la testa bassa. Ma bastava che inciami leggermente o che una fitta mi fe arrestare che subito me la ritrovavo al fianco, pronta a sorreggermi. Mi ero affezionato a lei e all’inizio dell’inverno, ormai ristabilito, prima di riprendere il comando alla guarnigione pensai che dovevo occuparmi del suo futuro. Così una sera feci chiamare Marta e Giuseppe, i miei fattori. “Penso che bisognerebbe trovare un marito a Maddalena” dissi impacciato, “mi sembra che abbia l’età giusta.” L’uomo mi guardò imbarazzato, appoggiando alternativamente il peso del grosso corpo da un piede all’altro e intuendo quello che gli ava per la testa aggiunsi: “Sono disposto a dargli una dote adeguata che compensi in qualche modo anche la sua menomazione, fammi sapere quale sarebbe la cifra giusta e io farò in modo di procurartela!” All’uomo si accesero gli occhi, mentre mi rassicurava che avrebbe subito avvisato il sensale del paese e che si sarebbe personalmente interessato di organizzare ogni cosa. Uscì quasi di corsa, ma la moglie, che era rimasta per tutto il tempo a fissarmi in silenzio, scosse il capo. Poi si avviò anche lei verso l’uscita, ma una volta raggiunta la porta si voltò a guardarmi negli occhi, poi disse sconsolata: “Certo che voi uomini non capite proprio niente!” Rimasi di sasso. Non solo per la sfrontatezza della frase, ma

perché aprì inaspettatamente una finestra sconosciuta nel mio cuore. Chiesi a Varro di concedermi ancora alcuni giorni di convalescenza e li trascorsi a osservare di nascosto Maddalena. Per la prima volta la vedevo con gli occhi di un uomo ed era bella, bellissima. La bambina scalciante in quella stanza insanguinata era scomparsa dai miei ricordi e con essa i miei rimorsi. Mi sorpresi a compiere piccoli gesti di gentilezza nei suoi confronti, sciocchezze, ma che facevano aprire sorrisi imbarazzati sul suo volto ancora lievemente abbronzato, ma dagli occhi perennemente tristi. Poi una sera, dopo avermi portato in camera una tazza di vino caldo con miele, per contrastare un mio accenno di raffreddore, al posto di uscire chiuse la porta dall’interno. Avvertii lo scatto del chiavistello alle mie spalle e istintivamente cercai con gli occhi la spada, ma quando voltai la testa, vidi Maddalena che faceva scivolare a terra il vestito, rimanendo completamente nuda. Imbarazzato, allungai le mani in avanti, mentre le facevo cenno di rivestirsi, ma lei rimase immobile, le braccia lungo il corpo, gli occhi fissi nei miei. Il suo sguardo era quello che avevo visto quel maledetto giorno, triste e rassegnato, ma nello stesso tempo indomito e invincibile. Solo che questa volta era permeato di una muta domanda. Diventammo amanti e da quel giorno è stata la mia unica donna e penso lo sarà per sempre.» Lucilla aveva le lacrime agli occhi, ma quando volse lo sguardo verso l’uomo, non trovò che il buio. Goffredo era scomparso silenzioso com’era arrivato e solo aguzzando lo sguardo riuscì a scorgere le forme dei suoi due compagni abbracciate tra i sacchi a prua. Rivolse perplessa lo sguardo alla luna, chiedendosi se fosse stato tutto un sogno o se veramente il capitano le avesse raccontato quella storia incredibile e le prime luci dell’alba la trovarono addormentata con la fronte ancora appoggiata alla barra del timone.

21

Navigarono ancora per tre giorni sul fiume, incrociando, man mano che si avvicinavano alla foce, un sempre maggior numero di chiatte e barconi da carico simili al loro. «Sarà meglio lasciare la barca!» Disse Goffredo all’alba del quarto giorno. «Ormai diamo nell’occhio e presto ci saranno in giro troppe voci sul nostro conto.» «Non penserai di abbandonare il barcone alla deriva?» Chiese Lucilla allarmata. «Neanche per sogno!» Ridacchiò Goffredo misterioso. Il capitano si rivelò abilissimo e già nel primo pomeriggio si stavano lasciando alle loro spalle il trafficato snodo di Ficarolo. Questa volta a cavallo! Dando prova di una disinvoltura portentosa, Goffredo aveva attraccato a uno dei pontili dell’importante centro commerciale e dopo aver nuovamente inscenato la storiella dell’armatore abbandonato dai suoi uomini, finì per svendere carico e imbarcazione a un mercante che non credeva alla fortuna che gli era capitata sotto mano. La cifra comunque bastò per acquistare agevolmente tre buone bestie con tutto il necessario per una lunga cavalcata e viveri in abbondanza. A Lucilla piaceva cavalcare, nata in un grande cascinale dove si allevavano

stalloni per la guerra, i cavalli erano stati la sua prima fonte di giochi. Il proprietario dell’allevamento era diventato ricco rifornendo indiscriminatamente le varie fazioni in continua lotta tra di loro e solo grazie alla qualità dei suoi cavalli e all’esclusivo addestramento che sapeva impartirgli, era riuscito a evitare di ritrovarsi ogni mattina con la gola tagliata e le scuderie vuote. La ragazza, come tutti i suoi coetanei d’altronde, aveva imparato a montare prestissimo e non la spaventavano quei focosi destrieri che venivano abituati al fragore delle armi, a effettuare rapidi scarti e a ignorare trombe e urla assordanti. Con sollievo aveva subito notato che anche Maddalena era una buona cavallerizza e si godette la lunga galoppata pomeridiana lasciando che il vento le scompigliasse i capelli e si portasse via pensieri e preoccupazioni. Dormirono in una stazione di cambio, ma all’alba, quando Goffredo le costrinse a ripartire, i suoi muscoli indolenziti non erano più così contenti di scorgere il suo cavallo che già picchiava nervosamente uno zoccolo sul terreno polveroso. Ma fortunatamente Goffredo sembrava essersi rilassato e concedeva ai cavalli un trotto leggero che dava a tutti il tempo di guardarsi attorno e godersi lo spettacolo del territorio verdeggiante in cui erano immersi. I campi avevano lasciato spazio a piccole colline e bassi filari di viti si perdevano in ogni direzione. Sembrava che le guerre in quel posto non fossero mai ate e che le bande di soldati di ventura che infestavano tutto il nord, non avessero mai adocchiato quel piccolo paradiso. Goffredo si affiancò sorridente al cavallo di Lucilla, lasciando che le due cavalcature prendessero lo stesso o. «Ora che ci siamo lasciati alle spalle i soldati del Papa posso finalmente rivelarti la nostra destinazione.» «Sei certo che siamo al sicuro?» Lucilla faceva ancora fatica a considerarsi libera.

«Tranquilla! Oltretutto si sono dimostrati solo dei coglioni! Se avessi organizzato io quell’imboscata non avrei mai lasciato intatta la barca. É stato un errore madornale e presumo che qualche testa sia ruzzolata nel fango per quello!» Lucilla si voltò a fissare il capitano, quell’uomo sapeva disorientarla. «Stiamo andando a Trieste!» «Trieste?» L’uomo annuì. «Intanto è un libero comune, il che vuol dire né Papa né Imperatore, ma soprattutto è proprio a poche miglia da quella città che vive il signore di Moncolano. Lucilla scosse la testa. Per quanto cercasse nei ricordi, non rammentava di aver mai sentito pronunciare quel nome né da Margherita da Trento né dall’Alchimista. «Che uomo è?» Chiese infine. «Ad essere sincero lo conosco pochissimo anch’io. Di lui so solo che è un uomo riservatissimo e che ha fatto lunghi e solitari viaggi in terre lontane. Lo dicono dotato di una cultura vasta e profondissima che lo ha portato ad addentrarsi in sentieri filosofici e pensieri religiosi estremamente pericolosi. Lo descrivono inoltre come un esperto alchimista e più di qualche maldicente sussurra che sia addirittura uno stregone. Comunque nessuno osa avvicinarsi troppo al suo castello, dove vive in completa solitudine, se si esclude una ristrettissima cerchia di servi.» Il capitano ebbe un momento di imbarazzo, ma poi scrollò le spalle. «Era appena rientrato proprio da uno dei suoi misteriosi viaggi quando mi ha contattato per commissionarmi quel piccolo lavoretto alla Rocca delle Donne.»

Lucilla rabbrividì. Improvvisamente aveva ripreso consapevolezza del fatto che Goffredo era in realtà solo un sicario prezzolato, un uomo senza scrupoli che aveva tranquillamente assassinato un amico per una manciata di pezzi d’oro. Quella verità le tolse improvvisamente ogni entusiasmo e dopo aver dato un colpo di talloni al ventre del suo cavallo si allontanò senza dire una parola, ma se avesse potuto vedere il sorriso misterioso che era comparso sul bel volto di Goffredo, ne sarebbe rimasta notevolmente stupita. Per tutto il giorno Lucilla rimase chiusa nel suo silenzio e anche quando Maddalena le si avvicinò in più di un’occasione, di lei non notò altro che i manici dei coltelli che spuntavano dalla fascia che le cingeva strettamente la vita. Ci vollero altri due giorni per arrivare al castello di Moncolano, ma quando uscendo dall’ombra del bosco, si ritrovò sulla sommità di una piccola collina, intenta ad ammirare la superficie azzurra del mare, il cuore le si aprì improvvisamente. La vastità di quella distesa d’acqua, solcata da innumerevoli creste di spuma bianca, sollevate da un vento caldo e profumato, le diede una sferzata d’energia che sfociò nell’improvvisa e determinata risoluzione che non avrebbe mai più permesso a nessuno di decidere della sua vita e del suo destino. Al diavolo Goffredo e al diavolo soprattutto quell’oscuro signore di Moncolano, a costo della vita avrebbe ripresa in mano il suo destino, si sarebbe imbarcata sul primo legno che lasciava il porto e sarebbe sparita oltre quell’orizzonte sconfinato, lontana dal suo ato e da tutto quello che l’aveva fatta soffrire. Determinazione che ebbe il suo primo scrollone dopo solo mezz’ora, quando davanti a loro comparvero quasi per magia le prime case di un piccolo borgo che, arroccato sulla cima della collinetta, si estendeva poi con le ultime abitazioni verso la baia e la grande città di Trieste che sfidava impunemente le onde del mare. Goffredo s’inoltrò con sicurezza in un dedalo di stradine lastricate da ciottoli che facevano risuonare gli zoccoli dei cavalli, poi, proprio alla fine del paesino, s’arrestò davanti a una casetta di pietra, circondata da un piccolo giardino incolto che confinava direttamente con il fitto bosco.

«Questa è casa tua!» Disse mentre scrutava perplesso le erbacce che crescevano ovunque. «Ho la sensazione che avrai il tuo da fare per rimettere in sesto questa catapecchia!» Poi, come se nulla fosse, s’allontanò seguito da Margherita, lasciando una Lucilla completamente esterrefatta che, solo quando il capitano fu scomparso dietro l’angolo, riuscì a guardarsi attorno con più attenzione. La casa, a due piani, aveva un tetto spiovente ricoperto da sottili lastre di pietra ed era stata costruita su un piccolo terrapieno che dava direttamente sul mare. Lucilla si avventurò cautamente sino al limite del terreno. Sotto di lei un piccolo dirupo di una trentina di metri dava sui tetti di un altro gruppo di case simili alla sua, oltre, i boschi scendevano indisturbati sino a una minuscola spiaggia di sassi bianchissimi. Lo spettacolo del mare aperto di fronte a lei era qualcosa di spettacolare e con fatica si costrinse a voltarsi verso l’ingresso della casa. Con cautela spinse il pesante uscio, attendendo che i suoi occhi si abituassero al buio che vi era dentro, poi individuata una finestra chiusa, con risolutezza andò ad aprirla. La luce inondò immediatamente la stanza, portando con sé una ventata salmastra che spazzò via in pochi minuti l’aria umida e stantia che vi regnava. Lucilla si guardò attentamente attorno e notò che si trattava di un unico locale, con un grande camino che occupava quasi interamente la parete a nord. Era arredata con pochi mobili in legno massiccio, ma puliti, anche se dall’aspetto vecchio e abbondantemente usato. Una madia per il pane, un tavolo con due sedie, una capace cassapanca intarsiata con semplici motivi floreale, due sgabelli a tre gambe accostati al camino. In un angolo, una ripida scala di legno portava al piano superiore e con un

sospiro la donna si arrischiò a salire. Al buio trovò al tatto il chiavistello di un’altra piccola finestra, ma quando l’aprì rimase di sasso e i ricordi che le piombarono addosso minacciarono di soffocarla. Era nella casa dell’Alchimista! Con sgomento si guardò attorno, il letto con cui aveva condiviso sonno e ione con quell’uomo meraviglioso era lì davanti ai suoi occhi, con accanto il suo scrittoio di noce scurissimo, circondato dagli scaffali colmi di libri e manoscritti, frutto di tanti anni di lavoro e di studio. Lasciò che i ricordi la riconducessero alla sua infanzia. Aveva solo otto anni quando sua madre l’aveva portata a casa dell’Alchimista, non sapeva il suo nome come forse non lo conoscevano nemmeno gli abitanti del villaggio. Tutti lo chiamavano l’Alchimista e basta. Non aveva mai visto sua madre così intimorita e con la testa bassa la seguì per tutta la casa, memorizzando dove si trovavano le stoviglie, la madia per riporre il pane e tutto il necessario per pulire i pavimenti, poi sua madre sussurrò qualcosa d’incomprensibile e uscì quasi di corsa. Lei rimase invece sulla soglia, gli occhi fissi sulla schiena del padrone di casa che non si era mai mosso dal tavolo accanto alla finestra, interamente concentrato a leggere qualcosa su un grosso libro, poi l’uomo parve destarsi e lentamente volse il capo verso di lei. Lucilla rimase stupita di vedere un volto giovane, incorniciato da una corta barba bionda, ma soprattutto rimase affascinata dallo sguardo incredibile dell’uomo, permeato da lampi di allegria, curiosità e di una quasi fanciullesca voglia di vivere. Da quel giorno praticamente non abbandonò più quella casa, arrivava alle prime luci dell’alba e se ne andava circa un’ora prima del tramonto. Lei non parlava, l’Alchimista rimaneva in silenzio, tutto preso dai suoi studi o

rinchiuso per ore nel suo laboratorio, inaccessibile a tutti. Poi un giorno l’uomo la sorprese a sfogliare un libro e prima che lei fuggisse spaventata, appoggiò un dito sulla copertina. «Regimen sanitatis.» «Re…gimen sani…tatis?» Ripetè incuriosita la bambina. L’Alchimista la guardò con aria severa, ma Lucilla un anno dopo, anche se non aveva detto nulla a casa, sapeva leggere e scrivere. A tredici anni traduceva senza fatica ricette latine di complicati preparati d’erboristeria e a quindici iniziò a studiare con fanatica determinazione il greco. Fu in quel periodo che accadde, con semplicità, come se fosse la cosa più naturale al mondo. Divenne l’amante dell’Alchimista. Solo dopo un altro anno sua madre intuì qualcosa e improvvisamente si trovò affiancata, nelle incombenze domestiche, da una vicina acida e anziana, assolutamente incapace di capire le meraviglie che c’erano in quel posto, ma abilissima a non staccarle gli occhi di dosso. Il loro divenne allora un amore fatto di sotterfugi e di fughe notturne, attimi rubati alla disattenzione degli altri, ma sempre più saldo e profondo. Si ridestò dai suoi ricordi con un brivido. Com’era possibile che tutta quella roba fosse lì? La pensava distrutta dal fuoco o dalle mani ignoranti dei soldati, invece era tutto intatto, compresi i preziosi alambicchi e le tante provette accuratamente allineate su solidi scaffali. Con occhio esperto fece un rapido inventario. Erbe, radici, estratti, tutto sembrava essere stato preparato da una mano

competente per un uso immediato. Un rumore al piano di sotto la fece sobbalzare e con cautela si sporse a sbirciare dalla botola il piano di sotto. Una vecchia curva, ricoperta da un grosso scialle nero, era entrata sino al centro della stanza e la fissava dal basso con aria timorosa. «Sei tu la “Signora dei serpenti”? C’è una donna che sta partorendo, ma qualcosa va male. C’è bisogno di te!» E improvvisamente Lucilla comprese che lei, quella nave, non l’avrebbe mai presa!

22

Goffredo e Maddalena erano intanto arrivati sotto le mura del castello. Anche se era più conosciuto come “La torre di Moncolano”, in realtà si trattava di una costruzione poderosa e ben munita, in grado di ospitare un centinaio di cavalieri e un numero doppio di fanti. Collocata strategicamente sulla strada di ponente, chiudeva il o a chiunque volesse scendere dall’altopiano carsico verso Trieste. In quel momento solo una piccola guarnigione era a disposizione del signore di Moncolano, ma l’arrivo di un uomo dell’esperienza di Goffredo da Varallo lasciava intuire un prossimo notevole rafforzamento delle truppe, anche perché i rapporti fra Trieste e Venezia non erano esattamente amichevoli e l’ipotesi di una guerra a breve non era per nulla da scartare. I due soldati di guardia al ponte levatoio salutarono il loro comandante con un leggero colpo di spada sui lunghi scudi, erano già stati agli ordini di Goffredo in precedenti battaglie e quando il capitano li aveva fatti cercare, avevano accettato l’ingaggio senza far domande. Con estrema attenzione non abbandonarono il loro posto ne abbassarono le armi neppure quando i cavalli di Goffredo e Maddalena superarono al o il ponte levatoio e anche quando salutarono rispettosamente la compagna del loro comandante, non staccarono un solo istante gli occhi dai movimenti della coppia. Conoscevano bene il loro capitano e sapevano che non avrebbe tollerato la benché minima mancanza sulle procedure di sicurezza, nemmeno per rendergli omaggio. Lasciati i cavalli a uno stalliere, la coppia si diresse immediatamente verso gli appartamenti del signore del castello, ma non avevano ancora terminato di salire la scala in pietra che portava al grande salone delle armi, che un uomo gli venne

incontro di corsa. «Goffredo!» «Varro!!» L’abbraccio fu violento, dal momento che ambedue stringevano l’amico con forza, incapaci di proferire la minima parola. Poi si staccarono sorridendo, anche se negli occhi di Varro miriadi di domande si stavano accavallando vorticosamente, poi l’arciprete si sforzò di ricomporsi e avvicinatosi a Maddalena le pose un bacio delicato sulla fronte. «Rilassati! É tutto a posto!» Risuonò alle sue spalle la voce del capitano, «Lucilla è sistemata nella sua nuova casa e non sospetta nulla. E soprattutto nessuno ci ha seguito!» «Lo sapevo che potevo fidarmi di voi, non avevo alcun dubbio, come so anche che il debito che ho contratto nei vostri confronti non potrà mai essere pagato.» «Aspetta che scopro dove hai nascosto le chiavi della cantina e se fossi al posto tuo non ne sarei così sicuro.» Varro sorrise, mentre scortava personalmente la coppia verso le loro stanze. «Tu piuttosto,» disse piano Goffredo prendendo l’amico sottobraccio, «sei ancora certo della tua decisione?» Varro non rispose, qualunque cosa avesse detto non sarebbe stata sufficiente né per compensare il gesto dell’amico, che per lui aveva addirittura sacrificato il suo onore, diventando per tutti un traditore e un bandito, né per spiegare la sua scelta di abbandonare la tonaca e l’invidiabile posizione sociale raggiunta. La messinscena del suo assassinio era stata inevitabile per scomparire senza lasciare tracce, poiché sicuramente nessuno avrebbe mai associato un defunto, anche se brillante arcidiacono, con l’oscuro signore di un lontano maniero, estremamente misantropo e dal carattere impossibile e riservatissimo. «E se t’interessa saperlo, in quelle bisacce c’è ancora, quasi completamente intatto, il piccolo tesoro che mi hai affidato.»

Disse Goffredo mentre si sfilava gli stivali e si lanciava con un balzo sull’invitante letto che troneggiava nell’ampia stanza in cui erano appena entrati. «Tienilo! Consideralo pure un regalo di nozze!» Ribatté ridacchiando Varro. «Ti devo però confessare che per caso mi sono portato appresso un certo forziere che in teoria apparteneva al vescovo. Ho il sospetto che sia rimasto piuttosto perplesso scoprendone la sparizione, ma sono sicuro che riuscirà ugualmente a sopravvivere al dolore!» La risata che scaturì dalla gola del capitano giunse probabilmente sino alla spiaggia. Lasciati gli amici, Varro ritornò con cuore più leggero nei suoi appartamenti, ma, come gli capitava ogni volta, ebbe la sensazione di invadere l’intimità di qualcun altro, dal momento che non riusciva ad abituarsi a non trovare la tipica camera di un sacerdote, con l’inginocchiatoio, il crocefisso alla parete e gli abiti talari accuratamente appesi e spazzolati. Il suo sguardo si spostava, immancabilmente perplesso, dai sontuosi mantelli agli stivali di varia foggia, per non parlare poi di spade e altre armi da taglio accuratamente collocate sulla parete accanto al camino. Solo i libri, sparsi ovunque, accomunavano quella stanza con quelle che aveva avuto in precedenza. Si avvicinò alla finestra, cercando di individuare con lo sguardo il tetto della casa di Lucilla e un gelo improvviso gli morse il cuore, ora che quella donna che aveva scoperto di amare profondamente era finalmente a pochi metri da lui, era anche diventata una chimera irraggiungibile. Sapeva bene che Lucilla non avrebbe mai potuto contraccambiare il suo amore, e nemmeno l’oblio del tempo avrebbe mai potuto attenuare l’odio e il giusto disprezzo che la donna covava nei suoi confronti. Scosse la testa frustrato, lasciando scorrere lo sguardo nella stanza. Aveva sentito parlare per la prima volta del signore di Moncolano anni prima,

proprio da un luogotenente di Goffredo. Il soldato era stato al servizio della famiglia Flabian durante le lotte che avevano portato Trieste a diventare un Libero Comune e in occasione di un banchetto aveva narrato di uno strano nobile che possedeva delle terre confinanti, amante della solitudine, degli studi e dei viaggi. A Varro quel personaggio era rimasto impresso e quando, presa la decisione di abbandonare il Vescovo di Novara, aveva incominciato a chiedersi dove riparare, gli era ritornato in mente quello strano individuo. Il suo piano originale consisteva semplicemente nel chiedergli asilo e protezione e non aveva certamente mai immaginato che, durante l’incontro segreto abilmente organizzato da Goffredo, il nobiluomo gli morisse per cause naturali praticamente tra le braccia. L’idea della sostituzione venne proprio al capitano, notando la notevole somiglianza fisica tra Varro e il signore di Moncolano e anche se la cosa era estremamente azzardata, l’arciprete avvallò il piano, il nobile non aveva né una famiglia né parenti prossimi e stava inoltre tornando nelle sue terre dopo anni di vagabondaggi in Terrasanta. Non potevano chiedere di più alla fortuna. Goffredo prudentemente, si era di recato di nascosto al castello di Moncolano e facendosi are per il nuovo capitano delle guardie organizzò l’arrivo di Varro. Quindi, quando l’ormai ex arcidiacono giunse in quelle che erano diventate le sue terre, trovò ad attenderlo solo un esiguo gruppetto di servi e qualche guardia, saggiamente scelti dal capitano tra quelli che mai avevano conosciuto di persona il vero signore del castello. Varro comunque viveva isolato tra la biblioteca e il laboratorio che aveva fatto allestire nei sotterranei del castello e le chiacchiere che da sempre erano in circolazione sulla stravaganze del nobile, si ammantarono di un ulteriore alone di mistero grazie agli oscuri studi a cui ora si stava dedicando. Timori che lasciavano Varro soddisfattissimo, visto che gli tenevano lontano inopportuni visitatori.

Gli stessi notabili di Trieste si tennero alla larga, nonostante l’autonomia di cui il Libero Comune disponeva, frequentare un personaggio che odorava di magia e occultismo era ugualmente troppo pericoloso e si accontentarono nell’essere rassicurati dal notevole rafforzamento della guarnigione del castello.

23

Lucilla stava staccando alcune tenere foglioline d’erba menta, facendo molta attenzione a non danneggiare le pianticelle appena cresciute quando il grido acuto di un gabbiano le fece sollevare la testa e istintivamente il suo sguardo vagò sulla distesa azzurra del mare che aveva di fronte. Le vele bianche di un vascello che stava lasciando il porto di Trieste spiccavano nitidamente nell’aria tersa del mattino e la donna si soffermò a guardarla pensierosa. Quante navi aveva ormai visto salpare? Eppure il desiderio d’imbarcarsi, che l’aveva colta prepotentemente cinque anni prima, quand’era giunta per la prima volta in quel luogo, non si era mai più riproposto. Seguì volutamente la rotta del vascello, lasciandolo gradualmente rimpicciolire all’orizzonte, poi quando finalmente il veliero scomparve alla sua vista, rimase ad ascoltare il suo cuore. Nessun rimpianto, nessuna tristezza. Con un senso di appagata felicità ritornò a occuparsi delle sue pianticelle, aveva un infuso da preparare e doveva sbrigarsi se voleva utilizzarlo già il mattino seguente, ma mentre rientrava in casa i ricordi tornarono a farle visita. Da quando aveva varcato per la prima volta quella soglia, non aveva più avuto un attimo di noia, la voce che una curatrice era arrivata in paese si era sparsa in un lampo e già dopo un mese bussavano alla sua porta persone che avevano percorso intere giornate di cammino per chiederle un rimedio o a volte anche solo una parola di conforto. E lei aveva sempre aperto la porta a chiunque.

Arrivavano con in mano un pollo, delle uova o anche solo con un cesto di frutta o verdura, e titubanti lo depositavano davanti all’uscio, aspettando intimoriti. Quando lei li faceva entrare, sulle loro facce si delineava sovente un’espressione di stupore, alcune volte permeata di paura, ma poi lei si sedeva ad ascoltare le loro richieste, informandosi sui loro problemi e sui loro malanni. Lasciavano che lei prendesse tra le sue mani lisce i loro palmi ruvidi e callosi e alla fine uscivano tutti immancabilmente con un rimedio o un consiglio, quando non si ritrovavano tra le mani molto più di quello che avevano portato. A lei bastava poco per vivere e la generosità che dimostravano le persone nei suoi confronti era più che sufficiente per permetterle di dividere quello che aveva con chi ne aveva più bisogno. Inoltre dal castello arrivava giornalmente pane e pollame, a volte accompagnato da cacciagione o da intere forme di formaggio stagionato, il signore del castello la privilegiava di costanti attenzioni, eppure lei non l’aveva mai visto. In cinque anni non era mai riuscita a incontrarlo, nonostante avesse più volte pregato Maddalena, che fungeva da instancabile intermediaria o lo stesso Goffredo, di permetterle di conoscere e ringraziare il suo protettore. «Lascialo perdere!» Rispondeva immancabilmente il capitano scrollando le spalle. «Per me quell’uomo si è ormai fuso il cervello nei tanti esperimenti che compie nel suo laboratorio! Ti protegge? Bene! Non pretende nulla in cambio? Benissimo! Cosa vuoi di più? Ringrazia la tua buona stella e sorridi! Inoltre mi sembra che tu abbia molto da fare, no?» Effettivamente le sue giornate erano piene. A parte il tempo che dedicava alle innumerevoli persone che venivano a chiederle aiuto, le ore sembravano non bastare mai! Infusi e pozioni da preparare, piante e radici da coltivare o da cercare nei boschi. E poi intere notti insonni ate sui libri che erano stati dell’Alchimista,

cercando cure, imparando proprietà nascoste di erbe e di minerali, o addirittura veleni da sottrarre a serpenti e a ragni disgustosi. E poi c’erano i regali del signore di Moncolano! Quelli veri! Una sera tardi, Goffredo aveva bussato alla sua porta con discrezione e Lucilla gli aveva aperto con una certa titubanza, l’amore che il capitano dimostrava per Maddalena era noto a tutti, ma lei non riusciva ancora a fidarsi del tutto di quell’uomo che aveva saputo uccidere senza rimorsi un amico. Una baruffa tra innamorati poteva sempre accadere e nulla avrebbe potuto impedire al capitano di venire a prendersi una rapida consolazione tra le sue gambe. Invece Goffredo, dopo essersi fatto offrire un boccale di vino, le consegnò un volume accuratamente avvolto in un panno di velluto. Era un trattato sugli effetti che alcuni cristalli e minerali esercitavano sull’organismo umano, con disegni dettagliatissimi dei vari organi che ne venivano influenzati e curati, ma non solo, vi erano anche descritte minuziosamente le potenzialità che alcuni di quei cristalli potevano esercitare sia sull’umore che sul comportamento delle persone. Lucilla, di fronte a quel regalo prezioso e inaspettato, rimase sopraffatta dall’emozione e vergognandosi dei suoi amari preconcetti verso Goffredo, s’affrettò a cercare nello scaffale una pozione da regalare a Maddalena, afflitta ultimamente da fastidiosi dolori articolari. Goffredo la ringraziò con un sorriso e dopo aver dato un rapido sguardo alla stanza, la lasciò sola con il suo nuovo tesoro. Altri libri analoghi, sicuramente provenienti dalla biblioteca del castello, le erano stati donati in seguito, a volte accompagnati da disegni anatomici di una tale perfezione da lasciarla ammutolita dalla meraviglia. Evidentemente erano documenti che il nobiluomo aveva raccolto durante i suoi lunghi viaggi e sovente molti testi e disegni avevano a margine note e descrizioni vergate con caratteri sconosciuti e svolazzanti.

Quando un giorno si ritrovò tra le mani un volume dov’era minuziosamente descritta la tecnica di estrarre un bambino dal ventre della madre, con disegni che indicavano con precisione quali tessuti tagliare e come poi ricucirli senza danneggiarli, Lucilla pensò di avere tra le mani l’opera stessa del Diavolo. Aveva già visto compiere operazioni analoghe sugli animali, ma un conto era aprire la pancia a una cavalla, un altro era infilare la lama di un coltello nel ventre di una donna e i disegni erano poi così reali che la donna si chiese a lungo come avesse fatto l’artista a riprodurli così fedelmente. Ma quando, nemmeno un mese dopo, si ritrovò con la moglie del capomastro stesa sul tavolo della sua cucina, le gambe insanguinate da un’emorragia inarrestabile e il ventre che sembrava scoppiare, ringraziò tutti i diavoli dell’inferno per quegli insegnamenti così precisi e quei disegni inequivocabili. Il capomastro ritornò a casa sconvolto, ma sua moglie stringeva tra le braccia due gemelli perfetti e affamati. Da quel giorno la reputazione di Lucilla aumentò a dismisura, ma crebbe di pari o anche la sua nomea di strega.

24

«Deve avere un culo liscio come una colonna di marmo! E tette morbide come…» «Chiudi quella boccaccia!» «E perché mai? Io non ho paura di quella strega!» «Dovresti invece!» «Palle! É solo una puttana che conosce un po’ di erbe e qualche parola in latino!» La conversazione, ormai solo malamente biascicata tra due ubriachi che su tavolo vicino facevano fatica anche solo a tener sollevata la testa, aveva finito per infastidire Adelmo. Ascoltare cosa dicevano gli altri era il suo mestiere, ma nonostante ciò, la cosa gli risultava ormai estremamente noiosa. Fare la spia era tutt’altro che l’avventura romantica che aveva sognato sin da ragazzo, quando aveva, avventatamente, incominciato a fare quel lavoro per il signore di Modena. E ora, dopo quarant’anni di onorato servizio per decine di padroni diversi, l’unica cosa che aveva rimediato era una fastidiosissima gotta che lo faceva zoppicare vistosamente. Sapeva che era ormai ora di smetterla con quel mestiere, non solo perché faceva fatica a are inosservato, ma fondamentalmente perché si era stancato di are le sue giornate a ficcanasare sotto la pelle della gente. Il mestiere di spia si riduceva in pratica a are gran parte del tempo svaccato sulle panche di luride taverne, a bere vino marcio e ad ascoltare tutto quello che veniva detto attorno.

Dopo, se avevi fortuna, potevi ricucire qualche frase presa a caso, imbastire una notizia plausibile e cercare di venderla al padrone del momento, se ti andava bene, guadagnavi qualche pezzo d’argento che ti permetteva di pagare puttane e osterie più decenti, se ti andava male, rischiavi il bastone o peggio! Stava già per alzarsi e andarsene per i fatti suoi, quando una frase lo fece immobilizzare. «Quella strega ha le vipere nella pancia! Prova a scopartela e ci lasci l’uccello!» «Palle!» «Ti dico che la chiamano “La signora dei serpenti” e uccide tutti quelli che provano anche solo a toccarla!» La signora dei serpenti!! Adelmo era diventato una corda tesa, anche se nulla nel suo comportamento lo lasciava intravvedere. Se la prima dote di una spia era quella di avere un aspetto comune, era l’arte dell’imibilità che faceva la vera differenza. La signora dei serpenti! Quella sì che era una notizia. Da mesi era sulle tracce di un anello che figurava tra le gemme di un piccolo tesoro trafugato anni prima al Vescovo di Novara. Il gioiello era ritornato nelle mani del vescovo per puro caso, come pagamento di un tributo dovuto da un piccolo mezzadro e il potente prelato l’aveva immediatamente riconosciuto, Adelmo era stato quindi convocato in gran segretezza e messo immediatamente sulle tracce di un certo forziere che aveva preso il volo anni prima alquanto misteriosamente. La pista dell’anello lo aveva portato, dopo un lungo quanto inutile girovagare, fino a Trieste, ed ora improvvisamente spuntava dal nulla una persona che credeva ormai morta e sepolta.

Lui Lucilla se la ricordava bene, da quando con la scusa di pedinare l’Alchimista non si perdeva una sola movenza di quel corpo seducente e sensuale e quando infine era stata arrestata, aveva addirittura cercato di corrompere una delle guardie della prigione per poter entrare nella sua cella anche solo per un’ora, ma sulla ragazza aveva già messo gli occhi Varro, il potente arcidiacono del vescovo e il carceriere non aveva voluto rischiare il collo. La fuga della donna era diventata poi leggenda tra i soldati della guarnigione e l’orribile racconto della morte del guardiacaccia che aveva tentato di violentarla, aveva finito per girare tutte le taverne della regione. Adelmo si era poi convinto che fosse morta negli scontri che avevano segnato la fine di Fra Dolcino, ma evidentemente era stato troppo affrettato nel trarre conclusioni. Un’ora dopo, svuotate altre due brocche di vino offerte di tasca sua, sapeva tutto sulla “Signora dei serpenti”, quand’era arrivata, dove abitava e cosa faceva per vivere. Così il mattino seguente, poche ore dopo l’alba, era già appostato dietro il tronco di una grossa quercia intento a fissare ancora incredulo l’oggetto di tanti suoi sogni morbosi che raccoglieva tranquillamente erbe nel suo piccolo orticello. Vedendo Lucilla rientrare in casa sorrise. Lui alla storia dei serpenti non ci aveva mai creduto e sicuramente l’unica biscia che la donna si sarebbe ritrovata tra non molto tra le gambe, sarebbe stata quella che si stava ora agitando nella sua patta dei pantaloni. Aveva già sguainata la spada per metà, quando il rumore degli zoccoli di un cavallo al trotto lo fece acquattare velocemente nel suo nascondiglio. Maledicendo sottovoce l’intruso, cercò di mimetizzarsi il più possibile sotto il folto cespuglio, ma l’esclamazione di stupore che gli fuggì dalla gola, rischiò ugualmente di farlo scoprire. Il cavaliere appena sopraggiunto era Goffredo da Varallo!! Adelmo rimase inebetito, cosa ci faceva l’ex capitano delle guardie del Vescovo in quel posto?

Strisciando con cautela sulla pancia, trovò un piccolo avvallamento che gli garantiva una maggior protezione, pur consentendogli ugualmente di avere una buona visuale della facciata della casa. Goffredo intanto era sceso dal cavallo e stava trafficando dentro a una delle capaci bisacce legate alla sella. La porta della casa si aprì all’improvviso per lasciar uscire Lucilla che reggeva tra le mani una brocca di latte e un cesto coperto da un lino bianchissimo. «Ci mettiamo sotto il fico?» Adelmo si mosse con precauzione di qualche metro e allungando il collo riuscì a scorgere, a fianco dell’orticello, un piccolo tavolo di legno con accanto due ceppi che fungevano da sgabelli. «Perfetto! Non ho ancora mangiato nulla questa mattina!» Rispose nel frattempo la voce allegra di Goffredo. «Cosa mi hai portato di tanto importante da far stancare così questa povera bestia?» Lucilla aveva intanto preso lo stallone del capitano direttamente per la cavezza e lo stava conducendo presso un piccolo abbeveratoio. «Solo una misera forma di formaggio, mia bella signora! In sudore del cavallo è dovuto invece al forsennato inseguimento di una volpe che ci ha attraversato sbadatamente il sentiero.» «Non avrai fatto male a quella povera bestiola, vero?» «Rilassati, quel piccolo demonio si è preso bellamente gioco di noi, lasciandoci ambedue con un palmo di naso e il fiatone.» Il cervello di Adelmo girava vorticosamente. Ricordava che Goffredo, assoldato da qualcuno che voleva vendicare Fra Dolcino, era fuggito subito dopo aver assassinato l’arcidiacono del Vescovo e gli stessi uomini del Papa gli avevano dato a lungo una caccia spietata.

Ritrovarlo quindi in un Libero Comune come quello di Trieste, dove non dominava né l’Imperatore né il Papa, era dopotutto una cosa abbastanza logica, il fatto curioso era, guarda caso, che proprio in quel periodo fosse sparito anche il famoso forziere. La pista dell’anello rubato l’aveva condotto fin lì e ora aveva di fronte due personaggi che avevano avuto molto a vedere sia con il vescovo che con chi lo circondava. Solo una coincidenza? Possibile che fosse stato Goffredo a impossessarsi del forziere? Come capitano delle guardie indubbiamente disponeva in quel periodo di una libertà di movimento notevole e oltretutto era logico supporre che fosse a conoscenza dei nascondigli dove il vescovo custodiva i suoi beni. E Lucilla? Era solo una sua complice o era stata parte del suo compenso per tradire e asse l’arcidiacono? O forse addirittura era stata proprio lei a farlo innamorare di se, per poi corromperlo definitivamente? Scosse la testa, comunque fossero andate le cose, ora lui si ritrovava tra le mani una vera fortuna. La sola testa di Goffredo valeva oro e se poi fosse riuscito anche a recuperare il forziere o almeno quello che ancora rimaneva del tesoro trafugato, il vescovo sarebbe stato sicuramente molto, ma molto generoso. E così, nel giro di mezz’ora, apprese dai discorsi che gli arrivavano chiari e distinti, che Goffredo era diventato addirittura il comandante della guarnigione del castello, oltre che uomo di fiducia del signore di Moncolano. Con estrema prudenza, Adelmo sgattaiolò verso il folto del bosco, con il cervello in subbuglio. Aveva bisogno di trovare prove certe che convalidassero i suoi sospetti, poiché

avvertire il vescovo poteva non bastare a indurlo a intraprendere un’azione diretta verso Goffredo. Trieste era un Comune temuto e ben armato e di conseguenza ben difficilmente il Vescovo di Novara avrebbe rischiato di esporsi in prima persona, diverso era invece provare che l’ex capitano delle guardie fosse un assassino di preti e che soprattutto avesse rubato direttamente nelle casse della Chiesa. Quando rientrò nella piccola stanza che aveva affittato sopra la taverna, aveva già un piano in mente e controllò accuratamente che le minuscole ampolle dei veleni fossero ancora al loro posto nel piccolo scrigno di palissandro, quindi scese a cena, alla ricerca delle informazioni di cui aveva bisogno. Tre giorni dopo era davanti alla porta delle cucine del castello. Uno dei cuochi era morto improvvisamente il giorno precedente e per pura fatalità l’oste della taverna si era ricordato che, quell’ometto zoppo e insignificante che aveva affittato una delle sue camere, affermava di essere stato in ato uno dei cuochi del Signore di Milano. Adelmo in realtà non rischiava molto, Goffredo da Varallo non l’aveva mai praticamente visto in volto, data la natura riservata dei suoi servigi, a convocarlo era sempre stato il segretario personale del vescovo e pochissime persone sapevano chi fosse veramente. Ma la sua sicurezza gli morì in gola quello stesso giorno, quando, svoltando un angolo con un grosso cesto di verdure in mano, urtò la morte in persona. Il suo cuore smise di battere, il cesto gli scivolò dalle mani e un paio di rape ruzzolarono tra gli stivali del fantasma. Adelmo era pietrificato. «Ehi! Attento buon uomo, se avevi spade al posto delle carote a quest’ora sarei morto sbudellato!» Poi lo spettro s’allontanò ridendo, lasciandolo inginocchiato sul pavimento a raccogliere tremante cespi di lattuga. Varro!?

Adelmo stentava a credere ai suoi stessi occhi, ma non poteva essersi sbagliato! L’arcidiacono del Vescovo di Novara era vivo e vegeto, altro che sprofondato a ingrassare vermi nelle limacciose acque del Po. Improvvisamente tutto gli fu chiaro e incominciò a intuire il tranello che era stato perpetrato. Varro, il capitano, Lucilla, il tesoro rubato, la messa in scena dell’omicidio e la sparizione del corpo nelle acque scure del fiume, quei tre erano stati diabolici e nessuno aveva mai sospettato assolutamente nulla. La spia ritornò velocemente nelle cucine, poi con una scusa s’allontanò furtivo. A mezzanotte aveva già percorso una ventina di miglia verso Novara e aveva tutte le intenzioni di farne altrettante prima di concedersi una piccola sosta, a costo di far scoppiare il cuore alla sua cavalcatura.

25

Erano giorni che l’inquietudine non abbandonava Varro, eppure tutto sembrava perfettamente normale. I rapporti dei suoi informatori confermavano che Venezia ancora non dava segnali di imminenti ostilità, anzi, sembrava che la diplomazia di Trieste avesse trovato buoni ascoltatori nello stesso Consiglio della Serenissima, e anche dalle terre oltre le Alpi le notizie che gli erano pervenute quella settimana erano rassicuranti. Nonostante questo però, un senso di angoscia gli stringeva il cuore, come se qualcosa si sforzasse di venir fuori ma non trovasse la strada giusta per farlo. Con una scrollata di spalle allontanò i brutti presentimenti e mandò a chiamare il capo dei braccianti, aveva bisogno di almeno trenta braccia in più per la vendemmia imminente e non voleva rischiare che il maltempo rovinasse un raccolto che si prospettava eccezionale. Già dopo il primo anno si era reso conto del potenziale economico che la produzione del vino poteva dare sulle sue terre, ma le vigne erano praticamente abbandonate e le tecniche utilizzate dai contadini erano scadenti se non addirittura controproducenti. Il vero signore di Moncolano, troppo preso dai suoi viaggi, non si era mai interessato veramente né dei suoi terreni, né dei suoi contadini. Varro aveva quindi acquistato nuovi vitigni e assunto braccianti dalla vicina Croazia e dopo pochi mesi aveva fatto venire esperti vignaioli addirittura dalle colline veronesi. Nella biblioteca del castello, aveva trovato note relative ad antiche coltivazioni che risalivano addirittura al periodo romanico, dove si parlava di un “Vino pretoriano” o “Pucino”, apprezzato addirittura dalla moglie dell’imperatore Augusto, Giulia, che si diceva ne apprezzasse le virtù curative.

E proprio grazie a quelle informazioni era riuscito in breve tempo ad ottenere un vino rosso forte e deciso, che non solo era apprezzato nella vicina Trieste, ma riscuoteva sempre più successo anche nella ricca Repubblica di Venezia, che a sua volta aveva iniziato a esportarlo nei suoi territori. Se continuava così, si sarebbe trovato in breve tempo con le casse talmente piene da poter pensare di acquistare nuovi terreni e dare il via a una vera e propria produzione su vasta scala.

Un tuono improvviso fece vibrare i vetri dell’ampia finestra della sua camera e con un balzo Varro fu sul piccolo balconcino in pietra, gli occhi puntati al cielo. Da est si avvicinava un temporale con i fiocchi e un’immensa massa nera ricopriva completamente i boschi, risucchiando quasi le cime degli alberi in un nulla angoscioso. Ci mancava solo una grandinata fuori stagione. Imprecando nel più schietto dialetto vercellese, s’infilò rapidamente gli stivali pesanti e staccò con rabbia il pesante mantello da un gancio dietro la porta. Quando raggiunse il cortile, grosse gocce di pioggia facevano già buchi nella polvere. Si cacciò l’ampio cappuccio sulla testa e si diresse rapido verso la scuderia, pochi i e si rese conto del silenzio. Tutto era diventato improvvisamente senza suono. Poi tutti gli alberi dei boschi circostanti sembrarono spezzarsi contemporaneamente e lui si tuffò al riparo offerto dal tetto spiovente della cappella mentre con un frastuono infernale il cortile si riempiva di palle di ghiaccio. Per dieci minuti sembrò che il cielo stesso crollasse addosso al piccolo castello e ai suoi abitanti, poi rapida com’era arrivata, la grandinata finì e il buio profondo lasciò spazio a squarci di cielo di un azzurro accecante.

Varro incredulo si piegò a raccogliere un pezzo di ghiaccio, aveva le dimensioni di una grossa noce e non era certamente uno dei più grandi, disperato corse alla scuderia, ma nonostante l’aiuto degli stallieri gli ci volle parecchio tempo a sellare il suo cavallo e a convincerlo ad uscire all’aperto. La povera bestia era ancora terrorizzata e minacciava seriamente chi gli stava attorno con calci e morsi, ma Varro aveva in mente solo le sue vigne e l’idea del disastro che l’attendeva l’aveva reso ancora più furioso del cavallo. Balzò in groppa all’animale e con decisione lo guidò verso il ponte levatoio, costringendo a ubbidirgli a forza di speroni e colpi di redini, poi, una volta all’aperto, lo lanciò a un galoppo sfrenato, lasciando che la povera bestia scaricasse liberamente paura e dolore. Ovunque guardasse il panorama era lo stesso, una coltre bianca che ricopriva ogni cosa, tetti sfondati e contadini con le mani nei capelli che si guardavano intorno ammutoliti, ma solo quando raggiunse i primi filari delle vigne si rese conto del reale disastro. Sembrava che giganti inferociti avessero scaricato ovunque la loro rabbia, non era rimasto in piedi nulla, non un grappolo, non una sola foglia era sopravvissuta alla furia della natura. Varro balzò giù dal cavallo disperato, lasciando con indifferenza che la sua cavalcatura s’allontanasse ancora frastornata. Le ginocchia non lo ressero e cadde pesantemente sui grossi chicchi di grandine che ricoprivano il terreno. Non sentiva nulla. Nemmeno la freccia che gli si conficcò tra le scapole. «Coglione! Avevo detto di non tirare!» «Era solo! Quando mai ci sarebbe capitato di trovarlo nuovamente senza scorta!» «Bestia!! Mi serviva vivo! L’ordine del vescovo era preciso!»

Adelmo si stava trattenendo a fatica dalla tentazione di sgozzare il suo uomo, mentre si chinava a tastare la vena del collo di Varro. Quell’imbecille aveva rovinato il suo piano, con l’arcidiacono morto svaniva la sua possibilità di intascare la lauta ricompensa promessagli dal Vescovo di Novara, oltre a compromettere addirittura il recupero del tesoro. Per fortuna gli rimanevano ancora il capitano e la donna. «Arriva gente!» Il tagliagole che aveva colpito Varro era sempre più terrorizzato, già al mattino, quando si era appostato con Adelmo per tener d’occhio l’ingresso del castello, non era molto convinto di dover assalire un religioso, ladro e farabutto, ma pur sempre prete! Poi il giorno aveva ceduto improvvisamente posto alla notte e la grandinata terrificante che era seguita l’aveva convinto che, inequivocabilmente, Dio disapprovava l’enorme peccato che stavano per compiere, e quando poi Adelmo l’aveva trascinato sulle tracce di Varro, non c’era un solo nervo del suo corpo che non vibrasse impazzito, mentre il sacchetto delle monete con cui era stato comprato, ben nascosto nella sua giubba, sembrava essere diventato incandescente. Un sudore altrettanto bruciante gli colava negli occhi, accecandolo e quando intravide il prelato cadere in ginocchio non aveva capito più nulla e aveva scagliato la freccia con tutta la paura che aveva in corpo, voleva farla finita subito, guadagnarsi il suo oro e fuggire da quel posto maledetto. Per quello non si era minimamente ricordato che l’ordine era di catturare viva la loro preda. «Meglio sparire!» Adelmo stava già correndo imprecando verso il suo cavallo e lui lo seguì affannato, con l’unico desiderio di mettere quante più miglia possibili tra il suo collo e il sacrilegio che aveva appena commesso.

26

Goffredo era come impazzito. Prendeva indifferentemente a calci mobili e uomini, urlando la sua rabbia e la sua frustrazione al cielo e all’inferno in ugual misura. Varro era schizzato fuori dal castello così velocemente che era stato impossibile per chiunque seguirlo e quando la sua guardia personale lo aveva poi raggiunto, lui era già immerso nel suo sangue. Chi diavolo potevano essere quei bastardi? Le impronte indicavano due uomini a cavallo e dalle tracce che avevano lasciato era evidente che si trovavano appostati da tempo fuori dalla mura del castello. Era stato quindi un agguato premeditato e questo eliminava i tagliagole da strada e apriva scenari inquietanti. Istintivamente scartava l’idea di sicari inviati dalla Serenissima. Non che ritenesse i Veneziani incapaci di una cosa simile nei confronti di un alleato di Trieste, ma riteneva improbabile che il Consiglio dei Dieci utilizzasse un sistema così rozzo per i suoi fini politici. La minaccia arrivava evidentemente da altre direzioni e se questo si fosse rivelato esatto voleva dire che il segreto dell’arciprete era stato scoperto. Il mandante più ovvio a cui pensare era il vescovo di Novara e se l’alto prelato era venuto a conoscenza dell’inganno che aveva subito, Varro non era l’unico a avere un’arma puntata al cuore. Trattenendo l’ennesima imprecazione entrò nella camera da letto dell’amico che giaceva sull’ampio letto ancora vestito, a parte la giubba e la camicia che erano state tagliate frettolosamente per mettere a nudo la ferita.

La nera asta della freccia era ancora conficcata nella schiena e alcune bende erano state frettolosamente utilizzate per arginare l’emorragia. Incredibilmente l’arciprete era ancora vivo, anche se il suo respiro era ormai più lieve del battito d’ali di una farfalla. Goffredo si avvicinò cauto al volto cereo dell’amico, cercando un minimo segno del miracolo che invocava, ma la vita sembrava ormai essere sfuggita da quel volto intelligente e caparbio. Non rimaneva che una cosa da fare e la cosa lo spaventava ancora più della morte che sentiva aleggiare nella stanza. L’unica che poteva compiere un disperato tentativo era Lucilla, ma la donna, di fronte all’improvvisa rivelazione che il suo carnefice era ancora vivo, come avrebbe reagito? Avrebbe tentato l’impossibile o invece l’avrebbe finito con le sue stesse mani? Qualcuno bussò delicatamente alla porta e con uno sforzo Goffredo andò ad aprire. Lucilla era tra i due soldati che erano andati a prelevarla e reggeva a fatica tra le mani un grosso cesto, dove evidentemente aveva messo i suoi medicamenti. «Goffredo! Cosa succede? Mi hanno detto che il signore di Moncolano è stato colpito da una freccia!» Goffredo la fece entrare, facendo però attenzione di lasciare il suo corpo tra la donna ed il letto. «Lucilla… » «Lasciami are, devo vedere il tipo di ferita!» Il capitano fece un o a lato, i muscoli pronti ad afferrare la donna al minimo segno di pericolo. Lucilla arrivò sino a sfiorare il letto prima di rendersi conto chi fosse il ferito, era talmente concentrata sull’asta nera della freccia, con la mente rivolta ai danni

che la punta poteva aver fatto agli organi interni, per prestare subito attenzione al volto dell’uomo. Poi un urlo d’incredulità esplose dalla sua gola e Goffredo fu sul punto di gettarsi su di essa. «Varro?» «Lucilla! Non è come credi! Ti posso spiegare! Per l’amor di Dio credimi!» Un lampo d’odio deturpò il viso della donna, mentre faceva un o indietro e estraeva velocemente il corto pugnale che utilizzava per sminuzzare erbe e radici. «Non farlo!» La mano del capitano era corsa all’elsa della sua spada, mentre la sua mente si chiedeva se mai avesse avuto il coraggio d’estrarre l’arma. Lucilla impugnava saldamente il manico del coltello, mentre a sua volta le avano nel cervello miriadi di pensieri. Varro e il signore di Moncolano erano la stessa persona? Il suo boia e il suo benefattore erano un tutt’uno? L’uomo a cui doveva ogni cosa era anche quello che aveva contribuito a distruggere la sua vita precedente e aveva fatto uccidere le persone che amava? «Lucilla. Posso spiegarti tutto, ma ora salvalo!» «Salvarlo?» «Solo tu puoi farlo!» «Non ci penso neppure!» Ma proprio mentre pronunciava quelle parole qualcosa cedette nel suo cuore e il volto terreo del moribondo sembrò deformarsi lentamente, lasciando al suo posto una maschera da boia.

«Maledizione!» L’imprecazione uscì sibilando dal petto della donna, mentre appoggiava il canestro ai suoi piedi e con lo sguardo ritornava a concentrarsi sulla ferita al centro della schiena. «Tanto morirà ugualmente!» Sbottò. «Tu provaci!» «Sei un figlio di puttana!» «Sì!» «Una carogna che si è approfittata della mia amicizia!» «Sì!» «Ma per il demonio! Cos’ha quest’uomo di tanto speciale che ti lasci insultare in questo modo? Che cos’è per te?» «É un amico!» «Un amico? Questa carogna ha fatto giustiziare uomini innocenti e ha goduto nel vederli torturare! Me lo ricordo ancora il suo sguardo mentre ero nuda sul tavolaccio del boia!» «É cambiato!» «Cambiato? Può cambiare una serpe velenosa?» «Salvalo e lo vedrai con i tuoi occhi!» «Fatti fottere!» «Lucilla!» Dalla gola del capitano, il nome della donna uscì unito a un lamento così profondo che lei voltò il capo stupita, poi, dopo averlo fissato a lungo negli occhi, sussurrò:

«Fai portare molta acqua bollente, panni puliti e avvisa Maddalena che ho bisogno di lei. Poi levati dai piedi e non farti più vedere!»

27

Il dolore era feroce, ma più del tormento che sembrava lacerargli ogni muscolo del corpo, era il terrore provocato dalla tranquilla espressione sul volto dell’Alchimista che lo faceva impazzire. L’uomo era in piedi accanto al suo letto e sorrideva, mentre pezzi del suo corpo cadevano a terra e ferite orrende si aprivano in continuazione nella carne sporca e tumefatta. Quando una serpe uscì dall’orecchio mozzato dell’uomo per lasciarsi cadere sul letto, Varro urlò disperato. L’Alchimista rise divertito, sputando saliva e sangue dalle gengive spaccate dagli innumerevoli colpi di martello. «Te l’avevo promesso che sarei stato al tuo fianco.» Varro tentò di alzarsi, ma i muscoli non reagirono e non riuscì a muoversi di un solo centimetro. «Preparati! Non morirai subito e avrai tutto il tempo per impazzire dal terrore prima che qualche demone si degni di venire a ghermire la tua anima schifosa. Io sono qui per tenerti la mano mentre i tuoi incubi peggiori ti faranno lentamente a pezzi, mentre le tue budella si trasformeranno in grovigli di serpi e la tua carne verrà mangiata dai vermi. Ogni colpo che ho ricevuto verrà ricambiato, ogni mio lamento uscirà raddoppiato dalla tua gola e sentirò ogni supplica che ho urlato sgorgare centuplicata dalle tue labbra tumefatte. Ti guarderò spegnerti attimo dopo attimo, sapendo che sarà solo l’inizio e che per te il tormento durerà all’infinito!» Quasi a suggellare l’orribile maledizione, un altro volto si affiancò a quello dell’Alchimista e riconobbe il volto bello e terrificante di Lucilla, con il sorriso sulle labbra e lo sguardo folle che brillava di odio e di disprezzo.

Varro fissò quel volto che lo derideva e incredibilmente sentì di amarlo veramente. Improvvisamente svanirono dentro di lui dubbi e menzogne e il dolore atroce che provava sembrò purificare in un istante ogni suo errore e l’amore per la donna lo colmò improvvisamente, ma subito dopo, la certezza dell’impossibile contraccambio lo gettò nell’angoscia più profonda. Ora sapeva cos’era il dolore estremo e aveva colto per un attimo i confini del vero inferno, quelli della dannazione assoluta, il territorio dove l’amore era stato bandito per sempre. Il baratro eterno a cui lui era destinato.

«Varro!» «Non ce la fa!» «Deve farcela!» «La ferita è troppo profonda e anche se la punta della freccia ha solo sfiorato il cuore, a fatto ugualmente danni irreparabili.» «Devi salvarlo!» «Perché? Comunque ho fatto tutto quello che potevo, ma non penso possa bastare.» «Maledizione!» «Non bestemmiare! Solo Dio può in questo momento salvarlo!» «Proprio tu parli di Dio? Tu! Atea ed eretica!» «Parlavo del tuo Dio! La mia Dea lo ha già bandito da un pezzo!» «Maledizione!» «Io vado, non ho più nulla da fare qui!»

«Ti faccio scortare a casa da una decina di soldati. Ho già fatto preparare un carro, raccogli tutto quello che ti serve e ritorna subito al castello.» «Ti ho già detto che io non posso fare altro per lui, quindi prega il tuo Dio!» «Non è per Varro. Temo che a colpirlo siano stati uomini del Vescovo di Novara. Se ho visto giusto sapranno anche di te e quindi sei in pericolo. La tua casa non è assolutamente più sicura.» «La gente ha bisogno di me!» «Verranno qui! Controlleremo chi sono e potrai continuare a curarli.» «Scordatelo! Io raccolgo le mie cose e me ne vado! Vai al diavolo tu e… lui!» «Non pensarci neppure! Prova a allontanarti di un solo o dai miei uomini e ti ritroverai incatenata nei sotterranei!» «Vieni tu a torturarmi?» «Piantala maledizione! Proprio non vuoi capire? Quell’uomo ti ama!» Lucilla vacillò, completamente colta di sorpresa, l’incredulità dipinta sul volto. «Quel porco vuole solo scoparmi, non sa neppure lontanamente cosa significhi la parola amore!» «Eppure in tutti questi anni ti ha rispettata! Poteva piegarti ai suoi desideri quando e come voleva!» «L’avrei ucciso!» «Ti dico che ti ama!» «Ha ucciso il mio uomo, ha distrutto Dolcino e tradito Margherita, ha mentito a gente innocente che l’aveva accolto con il cuore aperto. Ha vissuto con noi celandosi sotto una maschera solo per poterci poi colpire con la spietatezza di uno scorpione!» «Seguiva un suo Credo e pensava di fare la cosa giusta!»

«Vai al diavolo!» «Prima o poi lo vedrò di sicuro e quel giorno probabilmente avrò anch’io una spanna di ferro nella pancia, ma sino ad allora farò di tutto perché tu sia qui quando Varro si sveglierà!» «Se si sveglierà!»

28

Fuori la notte era fredda e il fuoco nel camino faceva fatica a riscaldare l’ambiente, Maddalena si alzò dal giaciglio che aveva sistemato in un angolo della grande stanza di Varro e andò ad aggiungere nuovi ceppi sulla brace incandescente. Lucilla si mosse adagio. Da una settimana dormiva accanto all’amica in quel letto improvvisato, ma mentre per Maddalena era stata una scelta volontaria, lei non era altrettanto sicura d’essere altrettanto libera nei movimenti. Goffredo era premuroso verso entrambe e qualsiasi cosa chiedessero veniva immediatamente portato da servi abili e silenziosi. Ma le guardie fuori dalla stanza non la rassicuravano affatto e non riusciva a capire se servivano a proteggere il signore di Moncolano o a impedire a lei di andarsene. Dal letto di Varro giunse un debole lamento. Era incredibile come quell’uomo continuasse a sopravvivere alla ferita, comunque era convinta che fosse solo questione di tempo, sarebbe morto sicuramente molto presto. La sera stessa in cui l’aveva curato era stato colto da una febbre altissima che l’aveva fatto delirare a lungo, sembrava che tutti i diavoli dell’inferno si dimenassero dentro il suo corpo e si era agitato talmente tanto che avevano dovuto legarlo al letto. Alle prime ore dell’alba si era decisa a riaprire volutamente la ferita e a operarlo com’era descritto in uno dei libri che lui stesso le aveva regalato. Già l’anno precedente, il fabbro del paese, riproducendo fedelmente alcuni

disegni che lei gli aveva mostrato, aveva forgiato speciali coltelli e attrezzi dalle forme particolari, ma era la prima volta che si era trovata a utilizzare simili strumenti su un uomo vivo. Spinta dalla volontà di apprendere a fondo le tecniche che trovava nei vari trattati, aveva di nascosto operato animali trovati morti o gravemente feriti nei boschi e con stupore aveva sperimentato l’utilità di certe curvature e la facilità con cui le permettevano di raggiungere e manipolare vene e tessuti interni. Operando Varro, aveva scrupolosamente osservato tutte le procedure che indicavano minuziosamente come are prima sul fuoco le lame metalliche, per poi tagliare e ricucire quello che aveva reciso. Ma nonostante fosse sicura di aver fatto del suo meglio, l’arciprete sembrava morto e solo un debolissimo alito appannava leggermente lo specchio che regolarmente lei appoggiava sulle sue labbra secche. Lucilla inoltre era seriamente preoccupata d’aver veramente esagerato nelle dosi dell’infuso che, aiutata da Maddalena, aveva fatto filtrare nella gola di Varro prima di aprirgli la schiena, e pregava la Dea Madre che la donna non ne fe cenno a Goffredo. Ci mancava solo che l’accusassero di averlo avvelenato! Ma poi lentamente l’uomo prese a respirare con più tranquillità, nonostante la febbre avesse ripreso prepotentemente possesso di quel corpo che fino a poche ore prima era diventato di ghiaccio. Purtroppo con la febbre ritornarono anche gli incubi che gli martoriavano sia il cervello che l’anima, così violenti che le donne si ritrovarono costrette a legarlo nuovamente al letto. Nei giorni successivi peggiorò e ora nuovamente era difficile distinguere se fosse vivo o morto, ormai era giunta la sua ora, Lucilla ne era convinta. Un mormorio indefinibile sembrò filtrare tra le labbra fredde e lei istintivamente avvicinò l’orecchio al volto. «Lu… cil… la…»

La donna si raddrizzò sgomenta, tutto si era aspettata di sentire tranne che il suo nome tra le labbra di quello che era stato il suo carnefice e le parole di Goffredo rimbombarono nelle sue orecchie, ma s’affrettò a scacciale. Amore! Impossibile! Quell’uomo ossessionato da lei e che sicuramente bramava il suo corpo era completamente incapace di amare. Fece per allontanarsi, ma la mano di Maddalena s’appoggiò sulla sua spalla e rassegnata allungò un braccio per afferrare uno sgabello lì vicino, poi con un sospiro si sedette accanto al moribondo. Un momento dopo l’amica le depose delicatamente sulle spalle una morbida pelliccia e il tepore del pesante indumento le diede uno strano senso di pace, mentre il viso di Varro si confondeva nel buio della stanza, illuminato solo per brevi istanti dai bagliori provenienti dal camino. Nuovamente Lucilla ebbe l’impressione di vedere al posto del suo volto la maschera di cuoio da boia che tanto a lungo aveva osservato negli anni trascorsi sulle montagne e istintivamente prese tra le sue la mano dell’uomo. Il brivido che le percorse il corpo la lasciò allibita, ma il disgusto che si aspettava di provare da quel contatto non avvenne e nonostante fosse angosciata, non trovò il coraggio di staccarsi. Un conto era stato operarlo, entrare con forza dentro il suo corpo, aprire e tagliare la sua carne, un altro era invece tenere la mano a quel mostro. Il tempo ava lentamente, ma ugualmente non riusciva a trovare il momento giusto per ritrarsi, qualcosa sembrava filtrare tra quel palmo gelato e le sue mani che invece scottavano innaturalmente. Terrorizzata pensò che l’uomo la stesse stregando e tentò di allontanarsi, ma non riuscì di muoversi di un solo centimetro. Anzi, il contatto si consolidò maggiormente e avvertì un’energia sconosciuta che risaliva lentamente le sue braccia, raggiungendole le spalle per diffondersi poi

piacevolmente lungo la schiena. Varro respirò più profondamente e lei assecondò il proprio respiro al suo, poi, come guidata da un’altra volontà una delle sue mani andò ad appoggiarsi delicatamente sul plesso solare dell’uomo, mentre l’altra s’adattava più dolcemente nel palmo di quell’essere odiato. Regolò il suo respiro con quello di Varro e lentamente tutto il suo essere s’adattò ai ritmi dell’uomo. Qualcosa di completamente nuovo stava accadendo in lei e avvertiva un’energia sconosciuta fluire dal suo corpo a quello del moribondo, poi l’immagine della Dea Madre si stagliò nella sua mente e sentì scorrere nelle vene la stessa forza dell’Universo. Era come se fosse diventata un ponte tra la Dea e l’uomo che aveva accantoe così cercò il vuoto nella sua mente, lasciando che quella energia meravigliosa fluisse liberamente attraverso le sue mani. Perse la cognizione del tempo, mentre incominciava a riconoscere la vita che scorreva debolissima dentro quel corpo inerte. All’inizio fu il suo sangue che si fece sentire. Lo sentiva pulsare lentamente e nella sua mente presero forma diramazioni infinite di vene colme di linfa vitale, ma le pulsazioni non erano quelle giuste, qualcosa non funzionava, la circolazione non era regolare, s’interrompeva di colpo per poi riprendere a scatti repentini. Lentamente quelle vene divennero le sue, le sentiva sempre di più distintamente, carne della propria carne, e più le sentiva proprie e maggiormente riusciva a controllarne il flusso. Ora non erano più un incomprensibile labirinto, ma logiche diramazioni in cui viaggiava una rossa forza vitale. Costrinse il sangue a circolare con maggior regolarità e le pulsazioni sempre più rassicuranti la portarono ad ascoltare con attenzione i battiti del cuore dell’uomo e si stupì della disarmonia dei movimenti, di come si contraeva per poi cedere all’improvviso.

Le illustrazioni che innumerevoli volte aveva consumato con gli occhi, sfogliando avida le pagine ingiallite dei trattati, rimbalzarono vivide nella sua mente e ogni particolare di quella meravigliosa macchina fatta di muscoli e carne le parve familiare. Sapeva esattamente a cosa serviva ogni singola vena e come doveva comportarsi ogni minima parte di quel portentoso organo, come la propria energia lo stesse accarezzando, penetrandolo dolcemente, quindi gli girò attorno osservando i danni provocati dalla punta della freccia e i segni lasciati invece dalla lama dei suoi coltelli. Valutò la tenuta dei sottili fili di sutura che le sue dita avevano cucito e la fatica che faceva l’energia a scorrere in quei punti, poi una parte della sua mente andò a cercare anche il proprio cuore e trovatolo, cercò di regolarli entrambi come se fossero una cosa sola. Il tempo sembrava essersi annullato, lasciando il posto a un’unica melodia che pretendeva sempre più attenzione e concentrazione, un suono dapprima inesistente che si trasformò presto in una sinfonia prepotente e immensa. Tutto divenne luce e Lucilla si sentì esplodere, disintegrandosi in una infinità di mondi che roteavano in un’armonia perfetta.

Quando si svegliò, la luce dell’alba filtrava dalle pesanti tende accostate e gli ultimi moccoli delle poche candele ancora accese, tremolavano incerti. Un respiro caldo e regolare le solleticava l’orecchio. Stupefatta si guardò attorno, scoprendo d’essersi coricata accanto al corpo di Varro e con un balzo repentino scese dal letto, rassettandosi istintivamente i vestiti. Maddalena, che dormiva raggomitolata nel suo pagliericcio, si svegliò di soprassalto e dopo aver lanciato un rapido sguardo per la stanza, la fissò con aria interrogativa. Lucilla rimase immobile, incapace di qualunque pensiero.

La compagna di Goffredo scosse la testa, poi, mentre un lieve sorriso le increspava le labbra, si voltò dall’altra parte e riprese a dormire. Lucilla si staccò dal letto e andò ad aprire la finestra, l’aria fredda del mattino penetrò rapidamente sotto i suoi vestiti e le snebbiò la mente, poi, dopo qualche minuto ritornò accanto al letto, rimanendo ad ascoltare il respiro regolare dell’uomo. Sarebbe guarito! Ne era sicura! E un’altra certezza le riempì improvvisamente lo stomaco, il malefico Varro che aveva conosciuto nelle segrete delle prigioni era sparito e il suo posto era stato preso dal “Boia” gentile e delicato che aveva conosciuto nelle fredde giornate di montagna. L’odioso arcidiacono aveva lasciato spazio al misterioso signore di Moncolano, allo studioso che l’aveva spinta verso un sapere profondo, all’uomo che aveva saputo, con estrema discrezione, dare un senso alla sua vita. Il tocco leggero sulla sua spalla la fece sussultare, poi le mani di Maddalena la condussero con dolcezza verso il giaciglio dove si lasciò abbracciare senza fare alcuna resistenza. Pochi istanti dopo s’abbandonò a un pianto dirotto, affondando la testa nei folti capelli dell’amica. Nel tardo pomeriggio Varro apriva gli occhi.

29

«Ho il cadavere giusto capitano!» Goffredo non mosse un muscolo, il buio aveva preso possesso della stanza da un pezzo, ma lui non aveva voluto accendere nessuna candela, da ore stava alla finestra, gli occhi fissi a scrutare l’oscurità che circondava il castello, perso a inseguire pensieri angoscianti. Lucilla aveva affermato proprio quella mattina che Varro sarebbe sopravvissuto e questo a lui bastava, ma se da un lato si sentiva sollevato per la sorte dell’amico, dall’altro sapeva che il pericolo che incombeva su di loro era immenso. «Sai cosa fare!» Il soldato alle sue spalle emise un monosillabo incomprensibile, poi, silenzioso com’era arrivato, scomparve. In tutti quei giorni, la mente pratica di Goffredo non aveva smesso un solo istante di vorticare e diversi piani di difesa si erano delineati nella sua testa, ma finché non avesse saputo con certezza da dove proveniva il pericolo non avrebbe potuto sicuramente organizzare nulla di concreto. La fuori c’era qualcuno che li voleva morti, ma per il momento era inafferrabile e misterioso più della nebbia stessa. Con uno scatto d’ira chiuse gli scuri di legno massiccio, poi si avviò con o deciso verso la camera di Varro. Trovò l’amico che dormiva tranquillo, il respiro regolare, anche se il pallore del volto rimaneva preoccupante. Si sedette accanto al letto, con il desiderio prepotente di un boccale di vino caldo, ma sapeva che non era certamente il momento di permettersi simili lussi.

Comunque chiamò un servo e gli ordinò di portargli pane e formaggio, qualche oliva e una brocca d’acqua. Un’ora dopo stava ancora svogliatamente sbocconcellando il primo tozzo di pane, quando Varro aprì gli occhi. Goffredo si piegò su di lui afferrandogli delicatamente la mano. «Sei stato colpito da una freccia alla schiena. Lassù, alle vigne.» L’espressione stupita negli occhi dell’amico gli fece comprendere che non doveva essersi accorto dell’imboscata e che quindi con ogni probabilità non aveva visto il suo aggressore. «Chi…» «Non ti sforzare, avremo tempo per parlare, Lucilla dice che sei fuori pericolo!» Nell’attimo stesso in cui pronunciò quelle parole Goffredo si diede dell’imbecille e lo sguardo spaventato di Varro confermò l’errore che aveva appena fatto. Nel confessargli che Lucilla lo aveva curato, aveva anche ammesso che il segreto dell’arcidiacono era stato svelato e che la ragazza ora conosceva il vero volto del signore di Moncolano. «Ho dovuto farlo! Stavi per morire e lei era l’unica che poteva salvarti! Non ho avuto scelta.» Varro richiuse gli occhi mentre il suo respiro divenne affannoso e irregolare. «Calmati per Dio! Poteva ucciderti ma non l’ha fatto! Qualcosa l’ha fermata e ti ha salvato la vita. Volontariamente!» Quando l’amico riaprì gli occhi, Goffredo si ritirò sgomento, la paura che aveva letto in quello sguardo l’aveva colto di sprovvista, poi comprese che il terrore di Varro non era per la sua vita, ma per l’inevitabile momento in cui avrebbe rivisto Lucilla. «É ora di smetterla con le menzogne! Tu l’ami! Lei lo deve sapere e devi essere

tu a dirglielo!» L’arcidiacono voltò la testa verso la finestra e incredibilmente il suo volto si riempì di lacrime. Colto completamente di sorpresa il capitano rimase immobile, poi per coprire il suo imbarazzo e il dolore dell’amico, andò a spegnere il candelabro appoggiato sullo scrittoio.

«Il signore di Moncolano ha chiesto di lei Capitano!» Il sole era già alto nel cielo quando il soldato arrivò trafelato nel posto di guardia. Goffredo, che stava intensificando i turni delle sentinelle in modo da prevenire qualsiasi attacco al castello, si voltò sorpreso, poi dopo aver dato un ultimo rapido ordine al capoposto, si avviò di corsa verso le stanze di Varro.

«Adelmo!» Goffredo fissò disorientato l’amico. «Era Adelmo! L’ho incrociato tempo fa vicino alle cucine. Non l’avevo riconosciuto, ma ora sono certo che era lui!» «Adelmo?» «Una delle spie del vescovo! Come fai a non ricordarti?» Il capitano si accasciò per un istante su se stesso, poi la rabbia esplose improvvisa e sferrò un calcio al pitale sistemato ai piedi del letto, mandandolo a sbriciolarsi sul muro di fronte. «Conosco quel nome, ma non l’ho mai incontrato di persona! Dannazione!» Ora, la strana morte del cuoco e la sparizione improvvisa del suo sostituto, incominciavano a prendere senso, e Goffredo si maledì per l’errore che aveva

commesso permettendo a una spia del vescovo di intrufolarsi nel suo castello. «Quel volto mi ha perseguitato tutta la notte, ma solo questa mattina l’ho finalmente associato alla spia. É un uomo molto scaltro, anche se non penso sia stato lui ha colpirmi, non ha alcun interesse a volermi morto.» Quel lungo discorso sembrò stancare Varro, che si afflosciò esausto tra i cuscini. Goffredo gli appoggiò una mano sulla spalla. «Riposati! Ora che conosco da dove viene il pericolo posso preparare una difesa. Stai tranquillo, non si avvicineranno!» Ma una volta uscito dalla stanza però, tutta la sua sicurezza sparì completamente, sostituita da una miriade di domande a cui non sapeva dare risposta, e dove l’unica cosa certa era che il vescovo sapeva del loro inganno. La domanda ora era se la spia fosse stata mandata solo per raccogliere informazioni o se invece per predisporre un vero e proprio attacco, ma ugualmente, perché uccidere Varro? L’amico aveva ragione, la sua morte non serviva al vescovo, quell’uomo era troppo scaltro per perdersi in una vendetta così rapida e inconcludente, sicuramente avrebbe preferito avere Varro vivo tra le mani. Goffredo scosse la testa, troppe cose gli sfuggivano e da pratico uomo d’arme si concentrò su quello che conosceva e sulle mosse che andavano fatte subito. Due ore dopo, un mesto squillo di trombe, annunciava dalla torre più alta del castello la morte del signore di Moncolano.

30

La fila partiva già dal cortile. Una lunga processione di contadini che avano lentamente e a testa bassa davanti alla camera ardente dove giaceva la salma del loro signore. Anche i notabili di Trieste erano transitati davanti a quella porta e sotto lo sguardo severo dei due soldati di guardia, avevano fissato a lungo la figura adagiata su un catafalco ricoperto da uno spesso broccato rosso fuoco. La camera era avvolta nella completa oscurità e solo la luce delle alte candele che circondavano completamente la salma facevano risaltare il metallo della splendida armatura che il nobile indossava. Il signore di Moncolano era a capo scoperto e il suo viso affilato e severo sembrava di cera nel pallore della morte. Dopo un rapido segno della croce i notabili si allontanarono velocemente, i pensieri già volti verso il capitano delle guardie e il tesoriere che li attendevano in una stanza riservata. Goffredo li aveva avvertiti con largo anticipo che ogni proprietà sarebbe ata al Comune di Trieste, non solo terre, vigne e cantine, ma anche i consistenti crediti che il signore di Moncolano vantava verso alcuni ricchi commercianti Veneziani e Ferraresi. Con enorme stupore si venne inoltre a sapere che il tesoriere aveva ricevuto l’incarico di consegnare ad ogni nucleo famigliare di Moncolano una discreta somma di danaro e che anche i soldati si erano ritrovati con la paga triplicata. L’eccentricità di quello strano nobile raggiunse il culmine quando il suo funerale non terminò nel cimitero, ma su una piccola imbarcazione che venne portata al largo e poi data alle fiamme con tutti gli onori, salutata da una vera folla che si era accalcata sulla riva.

«Che figlio di una bagascia rognosa!» Il Vescovo di Novara era una furia, mentre prendeva a calci i messaggeri che gli avevano appena raccontato lo sfarzoso funerale del Signore di Moncolano. «Adelmo! Voglio la mano destra di quell’imbecille che ha scagliato la freccia! Subito!» Poi si soffermò sul volto terreo della spia, domandandosi se fosse il caso di pretendere anche da quell’imbecille un più che tangibile riconoscimento per il suo fallimento, ma seppe dominarsi, quell’uomo gli serviva ancora. Dopo tutto sussisteva sempre la remota possibilità che Varro gli avesse teso un ennesimo tranello e che anche quella morte fosse solo un’altra scaltra messinscena. La cosa peggiore, era però che la donazione di tutti i beni al Comune di Trieste, gli aveva tarpato qualsiasi possibilità di avanzare pretese verso Varro, sempre che fosse riuscito a dimostrare che il suo arcidiacono e il signore di Moncolano erano stati la stessa persona. Doveva rimettere Adelmo alle calcagna di Goffredo e di quella strega di Lucilla, se c’era un trucco loro erano l’anello debole della catena e la sua spia questa volta avrebbe fatto meglio a non fallire.

Lucilla chiude la porta della sua casa con estrema delicatezza, quasi non desiderasse sentire il rumore del catenaccio, poi, mentre si volta ad osservare per l’ultima volta la distesa del mare, una silenziosa presenza sotto il fico attira la sua attenzione. Aguzza immediatamente lo sguardo allarmata, ma poi un sorriso si delinea sul suo volto stanco. Anche gli uomini della sua scorta si accorgono in quell’istante dell’intruso e sfoderano rapidi le spade.

«Fermi! É un amico!» Il suo comando arresta i soldati, anche se le loro armi rimangono ben salde nelle loro mani. «É solo uno dei vignaioli!» Quindi con un gesto gentile, fa cenno all’uomo di avvicinarsi. Il contadino esce dall’ombra con titubanza, gli occhi fissi sulle lame sguainate. «Vieni Bernardo, ti aspettavo.» L’uomo la guarda con l’espressione di chi è stato troppe volte tradito dal destino. «Allora è vero che vai via!» «Sì.» «E noi come faremo?» «Ne troverete un’altra.» «Come te non ce ne sono!» Lucilla nasconde il groppo che le sale alla gola piegandosi verso il grosso cesto che ha accanto e vi fruga dentro il tempo sufficiente per riprendersi, poi, dopo aver estratto un sacchetto di pelle, lo porge all’uomo. «Un pizzico ogni sera dentro un boccale d’acqua bollente, aspetta che si raffreddi e poi fallo bere a tua figlia, vedrai che si riprenderà presto.» Bernardo allunga la mano incredulo. «Ti sei ricordata!» «E come potevo dimenticarmi di quella piccola peste!» L’uomo ondeggia indeciso, poi raddrizza la schiena e senza degnare di uno sguardo i soldati estrae da sotto il suo mantello due fagiani.

L’immediato mormorio della scorta è zittito dalla risata di Lucilla. «Perfetto! Nulla è meglio di un po’ di cacciagione per favorire la convalescenza, ma ricorda a tua moglie di mettere poco rosmarino.» Poi con un gesto gentile ma deciso, fa scomparire i doni nuovamente sotto il mantello dell’uomo. «Per fortuna che questi due uccellacci sono morti di vecchiaia, altrimenti questi bravi soldati avrebbero dovuto arrestarti per bracconaggio!» Un rapido sorriso transita negli occhi dell’uomo, mentre una spressione di riconoscenza illumina il suo viso, quindi, silenzioso com’era arrivato, scompare. Lucilla indica il grosso cesto a uno dei soldati. «É meglio se ci sbrighiamo, Goffredo non ha certamente la dote della pazienza!» Un’ora dopo sono al porto e la donna sta fissando pensosa la stretta erella che collega il pontile al barcarizzo di una grande galea. «Sembra che alla fine ne prenderò una!» Mormora piano, mentre una grande vela bianca viene spiegata al sole da marinai simili a scimmie multicolori.

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L’ennesimo conato la lascia esausta e se non fosse per la grossa cima che ha assicurata alla vita, finirebbe sicuramente oltre la murata. Al suo ennesimo rifiuto di ritirarsi nell’alloggio riservato agli ufficiali nel castelletto di poppa, un marinaio dal viso tutt’altro che rassicurante l’aveva legata strettamente a una bitta fissata al robusto parapetto di quercia, poi se n’era andato scuotendo la testa.

Avevano fatto in tempo a lasciare il porto di Trieste che il vento era rafforzato e nel giro di poche ore si era scatenata una delle più insidiose sciroccate che il comandante Domenico De Marco ricordasse. La galea grossa da merchado, che comandava con orgoglio, era una delle ultime navi uscite dall’Arsenale di Venezia, dotata di un unico e innovativo timone centrale, messo al posto dei consueti due laterali e spinta da ben tre alberi che gli consentivano una velocità portentosa con il vento favorevole, era la galea più moderna della Muda diretta a Brindisi, quattro scafi attrezzati per il commercio che navigavano circa un miglio l’uno dall’altro. Ma proprio la velocità della nave era stato il motivo che avevano indotto l’Ammiraglio designato dai Patroni del consorzio, a relegarla in coda alla Muda, un po’ per non correre il rischio che distanziasse troppo il grosso del convoglio, un po’ perché ancora titubante su tutte le innovazioni apportate allo scafo. Ora invece, in mezzo alla tempesta, proprio quei tre alberi erano più d’intralcio che altro e tutta la manovrabilità era affidata ai rematori che davano ormai evidenti segni di cedimento. A dispetto dei folti baffi, che dimostravano come tutti fossero uomini liberi e non galeotti, la frusta era sibilata più volte nelle ultime ore; non tanto per persuadere drasticamente uomini ormai sfiniti, ma quanto per permettere la sincronizzazione

delle remate su ambedue i lati delle murate. Nonostante ci fossero cinque uomini a ogni remo, era difficile mantenere la prua al vento e governare quel grosso scafo, dal momento che le alte incastellature di poppa e di prua venivano continuamente investite dalle raffiche in modo inesorabile. Alte ondate s’infransero contro il legname dello scafo con preoccupanti tonfi sordi e immediatamente il comandante, nonostante fosse impegnato a redigere le ultime note sul libro di bordo, s’accorse che la corrente aveva cambiato direzione. L’homo de conzeio, un timoniere ancora inesperto nell’uso di quella nuova diavoleria della bussola magnetica, doveva aver mantenuto la rotta indicata da quel dannato aggeggio, perdendo di vista la direzione da cui provenivano invece le onde. Con una bestemmia il comandante schizzò fuori dalla sua cabina, mentre un beccheggio più accentuato, accompagnato dallo stridio delle carrucole del timone, gli fecero intuire che anche l’ufficiale di navigazione si era accorto dell’errore e che stava tentando di far rimettere la prua contro le onde. De Marco salì rapido i gradini che conducevano al cassero, investito dalla pioggia scrosciante e istintivamente lanciò uno sguardo altre la murata, verso la cresta spumosa delle onde che sopraggiungevano gonfie e possenti. La nave aveva finalmente sentito la pressione esercitata dalla pala del timone e stava allineando lentamente la prua con la corrente. Un’ombra scura comparve nell’incavo dell’onda che stava sopraggiungendo, per sparire poi all’improvviso. Un terrore gelido avvolse il capitano. Non fece in tempo ad urlare: “Relitto a dritta!” che un’enorme albero sbucò dalla spuma bianca per schiantarsi contro la prima fila di remi. L’urto fu violentissimo e l’urlo dei rematori che venivano schiacciati ai loro posti, salì al cielo come una maledizione.

La nave ricevette quindi solo la spinta della fila dei remi situati al lato opposto dello scafo e quindi girò su se stessa. Le alte incastellature di poppa e di prua fecero da vela al forte vento di scirocco e la galea s’inclinò pericolosamente. Le ondate ora colpivano la nave lateralmente, facendola rollare paurosamente. Una serie di schiocchi superò il rombo della tempesta e il comandante comprese che stavano saltando le funi che legavano il carico sottocoperta. Oltre 200 tonnellate di merci che, sotto forma di botti di olio e di vino, ma soprattutto di balle di lana di Firenze erano state stivate con cura prima della partenza. De Marco impallidì. Sapeva perfettamente che non era stato preso nessun accordo assicurativo con il Sensale di Sicurtà, l’armatore della nave aveva contratto ultimamente seri debiti di gioco e aveva puntato a ricavare il massimo da quel carico, risparmiando all’osso sulle spese. Scelta che l’aveva indotto anche ad assumere forzatamente marinai scadenti e poco esperti. Si voltò verso i rematori e vide che il caos era indescrivibile. Pur essendo abituati a vivere all’aperto e sotto qualsiasi tempo, quegli uomini non avevano resistito e nonostante la frusta schioccasse ancora nell’aria, avevano abbandonato i loro posti e fissavano disperati il mare oltre la murata, cercando d’individuare il profilo della costa. La maggior parte di loro non sapeva nemmeno nuotare, ma non era la prima volta che un marinaio si salvava gettando a mare delle zattere di fortuna e rimanendovi poi aggrappato sino a quando le correnti non spingevano il tutto sulla spiaggia. Una serie di onde gigantesche si levarono all’orizzonte e il comandante comprese che era arrivata la loro fine.

Ebbe a malapena il tempo di voltarsi verso la sua eggera, ancora saldamente legata alle bitte della murata, che la prima di quelle enormi masse d’acqua colpì la fiancata. La galea si piègò paurosamente e parecchi marinai furono scagliati in acqua, ma miracolosamente lo scafo riemerse in mezzo a una immensa schiuma biancastra. Con un balzo il comandante fu accanto alla donna terrorizzata e sfilò il coltello dalla cintura, mentre il forte rollio portava la murata a filo dell’acqua. L’onda successiva colpì il ponte completamente esposto, fracassando tutto quello che trovava e dilagando nella stiva. La galea tentò ugualmente di raddrizzarsi, ma come un animale colpito a morte piegò le zampe e ripiombò di fianco, gli alberi percossero le onde e si spezzarono con uno schianto assordante, poi l’acqua spumeggiante sommerse tutto. Dalla nave capitana, circondato da un gruppo di ufficiali increduli, Varro fissava sgomento l’agonia della galea, poi, quando l’ennesima onda sommerse definitivamente lo scafo, il suo urlo trafisse la tempesta. Goffredo s’affrettò ad afferrarlo per un braccio e, spalleggiato da due robusti marinai, lo trascinò senza tanti complimenti nella sua cabina.

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«Avrei dovuto esserci io su quella nave!» Varro aveva afferrato Goffredo per una spalla e lo strattonava violentemente. «Calmati, per il demonio! O ti si riaprirà la ferita!» «É morta al posto mio!!» Urlò l’arcidiacono cercando di alzarsi dal pagliericcio. Il capitano valutò per un breve istante l’espressione dell’amico, poi intuita la sua risolutezza, lo colpì violentemente al mento. Varro crollò tramortito e Goffredo ne approfittò per legarlo saldamente, quindi alzò la rete di protezione, agganciandola con cura agli appositi uncini di ferro infissi nel basso soffitto. Diede infine un ultimo sguardo all’amico svenuto e assicuratosi che non potesse essere sbalzato dalla cuccetta dal forte rollio, uscì nella tempesta. Della grossa galea non c’era più traccia. Avvertì sotto i piedi una vibrazione diversa e lanciando uno sguardo ai rematori si accorse del nuovo ritmo che stavano impartendo alle vogate, evidentemente la fine di quella nave più grande della loro doveva averli notevolmente scossi e la paura aveva impresso nei loro muscoli nuova energia. La violenta sciroccata durò ancora due giorni e quando finalmente scorsero la torre di vedetta del porto di Fermo, urla di gioia si levarono dalle tre navi rimaste della Muda. Sfilando sotto la rocca che Lorenzo Tiepolo, prima podestà di Fermo e poi doge di Venezia, aveva fatto erigere un centinaio d’anni prima, Goffredo venne assalito dall’angoscia.

Fermo era un Comune alleato di Venezia e lui l’aveva scelto come prima tappa per la fuga di Varro, ma ora che Lucilla era morta non aveva idea delle scelte che avrebbe fatto il suo amico e il futuro gli appariva estremamente incerto. Subito dopo l’attentato, rendendosi conto che la protezione offerta dalla rocca di Moncolano non era più sufficiente e non avendo sottomano altre soluzioni, aveva predisposto nuovamente il trucco della finta morte, ignorando di fatto che il pericolo veniva proprio da chi un inganno simile l’aveva già subito e scoperto. Accortosi poi dell’errore, aveva deciso ugualmente di seguire il piano originale, ma in accordo con Varro, aveva optato per una fuga definitiva, contando, se necessario, di raggiungere addirittura l’Inghilterra. Non solo le rotte commerciali aperte dalla Serenissima giungevano praticamente ovunque, ma la solitudine delle lunghe navigazioni li avrebbe messi efficacemente al riparo dalle spie del Vescovo e mentre sulla terraferma si sarebbe scatenata una caccia selvaggia, loro avrebbero avuto la possibilità di scegliere, lungo il tragitto, il posto migliore dove ricominciare la loro vita. Quella Muda, composta da quattro galee, era sembrata perfetta per i loro scopi e avevano pagato il aggio per un ricco commerciante sulla nave più grande e tre per un signorotto e le sue due serve su una più piccola, anche se la capitana del convoglio. Varro, ancora estremamente debole per la ferita, aveva bisogno di riposare e il maggior spazio offerto da quella galea che raggiungeva i cinquanta metri era sembrata la soluzione migliore, solo che al momento della partenza, visto il cattivo tempo che si stava annunciando, aveva voluto a ogni costo cedere il suo posto a Lucilla. E ora proprio quella nave era affondata. Aspettarono il tramonto per sbarcare, poi con un carro trainato da due buoi, si fecero condurre con tutti i loro bagagli in una locanda situata a ridosso del muro della roccaforte, dove presero due diverse stanze. Esausto, Varro si fece servire una leggera cena direttamente in camera e sprofondò quasi subito in un sonno agitato, Goffredo invece rimase sveglio a lungo, con la testa di Maddalena appoggiata sul petto, ambedue incapaci di accettare la crudele sorte che aveva ghermito Lucilla.

Rimasero in porto un’intera settimana, attenti a raccogliere ogni informazione che trapelava dalle navi che ogni giorno attraccavano e che avevano percorso la loro stessa rotta, ma a parte vaghe segnalazioni di qualche piccolo relitto alla deriva, della grossa galea non era rimasta traccia. Non giunse nemmeno notizia di nessun marinaio che fosse riuscito a raggiungere la costa vivo e per quanto riguardava i cadaveri era ancora troppo presto, il mare avrebbe conservato ancora per molti giorni i loro corpi, prima di gettare a riva quello che i pesci non erano riusciti a mangiare. Infine, con la morte nel cuore, Goffredo contrattò un aggio su una nuova Muda diretta a Cipro, tre robuste galee che viaggiavano a mezzo carico in attesa di riempire le stive proprio sull’isola, per proseguire poi per la Sicilia, dov’erano attese con impazienza da alcuni mercanti spagnoli. L’armatore fu felicissimo di ottimizzare il suo guadagno con l’inatteso imbarco di quei due ricchi signori e riservò loro le cabine più spaziose, oltre a dare personalmente ordine al comandante di frustare a sangue chiunque si fosse fatto sentire a pronunciare frasi offensive verso la dama che li accompagnava. I rematori portarono le navi fuori dal porto, poi con estrema attenzione i marinai addetti alle vele issarono i grossi pennoni in testa d’albero e con altrettanta cautela tesero le sartie che consentivano alle vele di raccogliere al meglio il leggero maestrale, allascando nel contempo quelle non necessarie a mantenere l’andatura. In breve le tre imbarcazioni presero un’andatura elegante, leggermente sbandata a dritta, ma sufficientemente veloce per permettere ai vogatori di ritirare i remi e godersi la corrente che li spingeva lungo la rotta prestabilita. Goffredo, cingendo con un braccio la vita sottile di Maddalena, fissava preoccupato il viso pallido di Varro che, in piedi a poppa, aveva lo sguardo perso oltre l’orizzonte, come se fosse incapace di staccarsi dal punto ove le acque avevano ghermito Lucilla. Poi l’ex arcidiacono si voltò e lentamente s’accasciò sui gradini del cassero, il capo tra le mani e gli occhi pieni di lacrime.

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Non che ci credesse molto, ma a volte poteva rivelarsi vantaggioso seguire quelle navi. Il tempo era pessimo e il sapore del vento preannunciava una violenta burrasca, ma questo al suo equipaggio non importava più di tanto e a lui personalmente andava benissimo. Non c’era di meglio di una sciroccata coi fiocchi per far ballare quei grossi cassoni delle galee e sovente accadeva che i marinai terrorizzati mollassero a mare il carico che avevano in coperta. Raccogliere quello che per qualche ora riusciva a galleggiare, prima che Nettuno nascondesse tutto tra i suoi tesori, non era certamente come conquistare un’intera nave, ma poteva ugualmente rivelarsi un buon affare. Assur sogghignò, fiutando il vento e controllando la fileggiatura della grossa vela. Il suo era lo scafo più veloce dell’intero golfo e anche se aveva solo venti uomini d’equipaggio era in grado di creare grossi guai anche alle galee che contavano almeno duecento uomini. E questo, per un pirata, era una cosa fondamentale! Ognuno dei suoi uomini non solo era in grado di rimanere al remo per ore senza lamentarsi, ma sapeva anche come destreggiarsi tra cime e scotte e la navigazione a vela non aveva segreti di sorta per nessuno di loro. Erano in grado di stringere al vento più di qualsiasi altra imbarcazione che conoscesse e ognuno di quei tagliagole era capace di centrare con un verrettone da balestra una testa a cinquanta braccia di distanza, qualunque fosse la condizione del mare.

Osservò la grossa galea prendere male un’onda e sogghignò, forse la giornata non era del tutto persa. Controllò con uno sguardo i suoi uomini, poi s’appoggiò risoluto sulla barra del timone e si portò sulla scia della sua preda, con la pazienza e la silenziosità di uno squalo. La tempesta infuriava da ore e si stava rivelando molto più violenta di quanto avesse in un primo tempo immaginato, il suo piccolo scafo veniva scagliato in alto da ondate spumeggianti per poi ricadere con colpi sordi nell’incavo profondo di onde maligne, ma Assur rimaneva abbarbicato alla barra del timone con una determinazione assoluta. Navigava dal giorno in cui aveva compiuto i sei anni. Quel giorno suo padre lo aveva imbarcato ufficialmente come membro della ciurma senza dire una parola. Al posto di permettergli di sciogliere gli ormeggi dalle bitte fissate sul pontile, come facevano normalmente tutti i bambini che si radunavano sul molo per salutare le navi che partivano per qualche razzia, gli aveva indicato con un braccio un bugliolo sistemato accanto all’albero della piccola galea. Incredulo, con un balzo Assur era saltato a bordo, e da allora praticamente non ne era più disceso. La sua era una famiglia di pirati Narentani e per quanto ne sapeva, nessuno degli uomini che conosceva aveva mai fatto altro mestiere nella vita. Il padre, nelle lunghe notti ate al timone, amava raccontare storie che riguardavano i loro avi giunti da terre lontane, a bordo di veloci imbarcazioni dalla prua altissima e con la testa di drago; di come fossero abilissimi marinai e temutissimi guerrieri, dei loro nomi impronunciabili e dei tanti nemici che per secoli avevano tentato di annientarli. Ora però, di quelle divinità affascinanti e terribili nessuno ricordava praticamente più nulla e il loro unico credo era rimasto il mare e il pugnale. Imparare come si manovrava un remo o come stringere il manico di un coltello, erano tra le prime cose che un bambino apprendeva e lui stesso aveva ucciso il

suo primo nemico che ancora non aveva compiuto i dieci anni, un grosso balestriere veneziano che aveva preso di mira suo padre durante un arrembaggio. Il soldato, con una quadrella gli aveva prima colpito il braccio destro, un colpo di striscio ma sufficiente per fargli cadere la spada, poi con un ghigno si era piegato per ricaricare con ambedue le mani la sua arma, sicuro di piantare il successivo dardo nel cuore di quel pirata ferito e disarmato. Il bambino che gli si parò di fronte gli fece rialzare la testa di scatto, poi infastidito gli urlò di levarsi dai piedi. Suo figlio sarebbe sicuramente fuggito a gambe levate di fronte a quel feroce latrato, invece con estremo stupore, vide che quel ragazzino era rimasto immobile a fissargli la gola esposta. Intuì di essere morto nell’istante in cui vide scattare il piccolo braccio. Il coltello compì un arco regolare nell’aria e la lama affilata non fece nessuna fatica ad aprire un profondo solco nella carotide del soldato, l’uomo cadde in ginocchio incredulo, poi si accasciò su un fianco mentre la tolda sotto di lui s’inondava di sangue. Assur tolse la balestra dalle mani del suo nemico e di corsa la portò al padre, che da lontano aveva osservato tutta la scena. Cercò nei suoi occhi un segno di approvazione, ma vi scorse invece solo un dolore profondo, poi quel viso arso dal sole si aprì in una smorfia di ringraziamento, mentre già il suo sguardo selezionava un obiettivo da colpire. Da quel giorno i marinai lo guardarono in modo diverso e quando una settimana dopo, la nave di suo padre salpò per una scorreria nelle acque di Chioggia, trovò un altro bambino alle prese con il bugliolo. Comprese in quel momento di essere diventato uno di loro e senza domandare nulla si sedette sulla panca accanto a un rematore e ancora adesso, nonostante avesse ereditato da anni la nave da suo padre, non disdegnava di sedersi al remo come un qualsiasi marinaio della ciurma, taciturno e infaticabile. Un’onda anomala attirò la sua attenzione e con delicatezza fece deviare la prua di qualche grado verso il vento.

La prua salì sull’onda e la testa di drago che fungeva da polena puntò le sue fauci verso le nuvole nere di tempesta, poi un rapido colpo di timone fece planare lo scafo lungo la dorsale dell’onda per poi raddrizzarlo nuovamente per affrontare quella successiva. A dispetto del fortunale avevano tenuto dispiegata la vela, anche se avevano abbassato il tangone a metà albero, in questo modo la forza del vento continuava a fornire una spinta notevole allo scafo, senza peraltro farlo inclinare eccessivamente. Chiaramente non potendo stringere al vento, dovevano zigzagare in continuazione per stare dietro alle loro prede, ma mentre i marinai nemici si sfiancavano ai remi, loro si facevano portare dal vento, risparmiando le forze per un eventuale scontro. Sulla galea non dovevano esserci meno di duecento uomini e un combattimento diretto era impensabile, ma sicuramente i marinai veneziani non erano soldati e quando si sarebbero visti bersagliati da implacabili verrettoni, non avrebbero esitato a gettare in mare parte del carico per levarsi dalle calcagna quella nave pirata stretta e velocissima. Improvvisamente intuì il pericolo. Non solo la tempesta sembrava aver raggiunto il suo apice, ma le correnti erano mutate repentinamente e ora le grosse onde si incrociavano, giungendo da direzioni diverse. Una combinazione terrificante dove governare una nave era praticamente impossibile. Lanciò un urlo d’avvertimento alla ciurma, ma quegli uomini avvezzi al mare, avevano già a loro volta intuito il pericolo e avevano iniziato ad assicurare ogni cosa fosse ancora mobile all’interno della nave, poi, dopo aver lanciato uno sguardo al loro capitano, si legarono a loro volta alle numerose bitte e anelli infissi nel robusto legno dello scafo. Anche Assur si assicurò alla vita una robusta cima, poi si arrotolò più volte attorno polso la scotta che regolava la vela. Timone e vela, tutto ora era lasciato alla perizia del capitano.

Le indubbie doti marinare dell’elegante scafo avrebbero contribuito a farli galleggiare, ma solo l’abilità del timoniere avrebbe saputo assecondare vento e mare, permettendo alla nave di superare l’inferno liquido che stava per piombare addosso a tutti. Con un morbido movimento della barra del timone Assur allontanò di qualche grado la prua dal vento, il forte scirocco avrebbe investito lo scafo più di traverso, imprimendogli una maggior velocità che avrebbe favorito l’azione del timone. Inoltre, a differenza della grossa Galea che aveva ammainato tutto, la spinta del vento sulla loro vela sapientemente abbassata, avrebbe mantenuto la loro imbarcazione costantemente sbandata, impedendole di rollare pericolosamente. Il rischio era quello di rovesciarsi sotto una raffica di vento più forte delle altre e proprio per questo il timoniere reggeva la scotta con la mano, pronto ad allascare o a cazzare la vela alla minima variazione di vento o di mare. Quel gioco snervante durò ore, poi un urlo della ciurma distolse l’attenzione del capitano dal violento fileggiare della vela. Gli uomini indicavano con il braccio qualcosa all’orizzonte e Assur aguzzò lo sguardo. La grande galea stava roteando su se stessa e sotto la pressione delle onde aveva incominciato a oscillare violentemente. Scomparve per un lungo momento per poi ricomparire all’improvviso sulla cresta di un’onda come una balena ferita. Quindi si piegò nuovamente su un lato e nonostante l’ululato feroce del vento Assur fu sicuro di sentire lo schianto degli alberi. L’urlo di decine di imprecazioni zittì per un istante la tempesta, poi lo scroscio della pioggia lavò via bestemmie e insulti, mentre i pirati vedevano sfumare il loro bottino. Approfittando di un salto di vento Assur arrischiò una virata e puntò dritto la prua verso la nave che stava affondando.

Stava rischiando grosso ad avvicinarsi in quel modo, urtare un relitto nascosto sotto il pelo dell’acqua significava finire anche loro nella gola dei pesci, ma le urla dei suoi marinai che lo incitavano a far presto gli tolsero ogni prudenza; erano mesi che non riuscivano a mettere le mani su qualcosa di sostanzioso e ora avevano a portata di mano un bottino che poteva valere mesi di navigazione e fatica. Di norma le galee da merchado avevano circa la metà del carico nella stiva e l’altra metà sul ponte, solitamente la mercanzia più leggera e con un po’ di fortuna potevano sperare di recuperare un bel po’ di quella roba prima che la nave affondasse definitivamente. Gli uomini sciolsero le cime a cui si erano assicurati e tirarono fuori le balestre. Duecento uomini erano tanti e la disperazione li avrebbe resi pericolosissimi, niente di meglio di una raffica di frecce per far capir loro che non avrebbero raccolto superstiti e che era meglio tenersi alla larga dalla loro nave, comunque lo stato del mare era così terribile che avrebbe scoraggiato chiunque ad avvicinarsi. Le urla dei naufragi si gelarono mano a mano che gli i superstiti che annaspavano nelle acque spumeggianti, intuirono che tipo di nave era quella che stava sopraggiungendo e l’insperata salvezza divenne pesante come una lapide. Per loro, o l’abisso sotto i piedi o il filo di una spada su quella nave. Assur, con un’abile manovra, virò sottovento allo scafo capovolto della galea, gli uomini lanciarono i rampini d’abbordaggio e dopo un paio di minuti il grosso relitto li protesse alla meno peggio dal vento e dal mare. Immediatamente alcuni pirati si gettarono in mare e scomparvero sotto i flutti e quando ricomparvero, subito un altro gruppo si tuffò a sua volta senza esitazione. Cinque minuti dopo erano circondati dal carico della galea che era ancora in grado di galleggiare, liberato dai coltelli dei pirati che si erano immersi a recidere le reti e le funi che lo trattenevano. Lo schiocco delle balestre avvertì i naufraghi che non era il caso di avvicinarsi e subito dopo grosse reti, a cui erano stati assicurati decine di barilotti vuoti,

furono gettate a mare. In breve il bottino fu radunato e la nave pirata si staccò dalla galea che ormai aveva iniziato a inabissarsi velocemente. Assur fece prendere il vento alla vela, facendo attenzione che il lungo cavo che assicurava le reti alla poppa, non intralciasse il timone. Decine di naufraghi tentarono di aggrapparsi a quell’unica speranza di salvezza, ma le balestre fecero nuovamente sentire la loro voce e i naufraghi vennero colpiti uno ad uno. Il vento divenne padrone della vela, ma questa volta la nave pirata aveva il mare in poppa e inoltre la rete con il bottino faceva da ancora galleggiante, stabilizzando lo scafo. Addirittura il capitano diede l’ordine di alzare la vela di un paio di braccia verso la testa d’albero, per acquistare maggior abbrivio e impedire che il loro carico fosse più veloce di loro e li potesse speronare. Due ore dopo l’orizzonte era completamente sgombro e a parte la tempesta che si stava allontanando, nulla rimaneva ad indicare la tragedia che si era consumata in quelle acque. Nuovamente fu un urlo dei marinai a distogliere l’attenzione di Assur dalla navigazione. Alcuni uomini stavano indicando qualcosa a poppa e il capitano si voltò incuriosito, notando solo allora, incastrato a una delle ultime reti, un drappo rosso che fluttuava tra la spuma delle onde. Un’onda più grossa lo sollevò più in alto e accanto al drappo comparve un braccio bianchissimo. Immediatamente alcune balestre comparvero minacciose, ma Assur lanciò un ordine e le armi si abbassarono, nonostante rimbalzassero sul ponte diversi borbottii di disappunto. Quella del capitano non era stata pietà, ma piuttosto una forma di rispetto verso quell’uomo che non si era arreso e che da ore combatteva con le onde, sapendo

benissimo che il suo destino era comunque segnato. «Tiratelo su!» «É un veneziano!» Uno dei marinai sputò in acqua, ma poi afferrò per primo la cima che tratteneva la rete e incominciò a tirare. Quando la loro preda fu sottobordo ricomparvero le balestre, ma furono proprio i balestrieri quelli che rimasero per primi stupefatti, quando si videro a loro volta osservati dagli occhi furenti di una giovane donna.

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Girne era come inondata dall’oro del tramonto che accentuava la miriade di colori che turbinava nelle sue strade. La lieve brezza, proveniente dal mare, dava finalmente respiro dopo il caldo che aveva gravato tutto il giorno sulle migliaia di persone che si erano accalcate indaffarate nelle strette vie stracolme di mercanzie. Le stesse mura del grande castello che si protendevano nelle fresche acque del porto, emanavano ancora il calore accumulato dai cocenti raggi del sole che rosolavano da giorni, piante, uomini e animali. Goffredo, accompagnato dal patrono della nave che li aveva imbarcati, si aggirava con fare annoiato tra i banchi ancora traboccanti di mercanzie. Era vestito con gli abiti consoni a un ricco mercante, ma la disinvoltura con cui portava la spada al fianco la diceva lunga sulla sua capacità di servirsene e forse per questo non veniva minimamente infastidito dalle bande di monelli che circondavano invece gli altri mercanti, urtandoli e infilando ovunque le mani in cerca di un borsellino malamente custodito. Paron Toni, questo era il nome del suo accompagnatore, saputo che i suoi ospiti erano intenzionati ad aprire nuovi commerci, si era reso disponibile a presentarli a uno dei migliori sensali dell’isola e dopo aver mandato un servo con un biglietto già in mattinata, ora si stavano recando a cena proprio a casa dell’importante agente di commercio. Dopo essersi allontanati dal porto e costeggiato un profumatissimo agrumeto, si arrestarono di fronte a un robusto portoncino di quercia, incastrato in un alto muro di pietra bianca. Appena varcato l’ingresso Goffredo rimase di sasso. Erano entrati in un vasto giardino dalla tipica impostazione turca, dove lunghe e

strette vasche dotate d’innumerevoli zampilli rinfrescavano piacevolmente l’aria, ma i mutevoli giochi d’acqua servivano soprattutto a evidenziare un’infinità di statue, sapientemente collocate tra fiori e alberi, che davano la sensazione di ritrovarsi nel mezzo di una festa surreale, dove ospiti dotati di una delicatissima pelle lattea conversavano silenziosamente tra loro, allietati da fauni saltellanti che reggevano flauti o morbidi grappoli d’uva. E non aveva importanza se più di qualche giovane donna fosse senza braccia o se addirittura avesse dimenticato la testa da qualche parte, il fascino che esercitavano era coinvolgente e ammaliante. «É il mio unico vizio!» Una voce morbida alle sue spalle fece sobbalzare Goffredo. «Le piace?» Il capitano si voltò, ancora impressionato da quello spettacolo e si trovò di fronte a un uomo piccolo, notevolmente grasso, infilato dentro un ampio paio di pantaloni a sbuffo rosso fuoco. Una vistosissima fascia di seta azzurra circondava più volte il ventre prominente che faticava a essere contenuto in una leggera camicia di lino bianchissimo, mentre un turbante altrettanto candido completava l’abbigliamento. Ma se il giardino aveva sorpreso Goffredo, il veloce dialetto veneziano del suo ospite lo lasciò ammutolito. «Non si faccia ingannare dal mio aspetto, mi chiamo Alvise e la mia casata è quella dei Dolfin, ma vivo qui ormai da cinquant’anni e ho preso ad apprezzare usi e costumi locali. Comunque se il mio modo di vivere mi fa ben accettare dai mercanti provenienti dal mondo islamico, il mio cuore è saldamente veneziano.» Goffredo annuì cortesemente, ritornando a guardarsi attorno affascinato. «Penso di aver raccolto la più vasta collezione di statue originali del mediterraneo. Ovunque, i miei agenti acquistano per me opere dei più grandi scultori e molti mercanti greci fanno apposta scalo a Girne solo per propormi qualche pezzo trovato sottoterra dai loro contadini. I pezzi maggiormente conservati li riservo per il giardino, ma come ben presto potrà vedere, anche

l’intera casa raccoglie oggetti degni di meraviglia.» Quando a tarda notte, sia Goffredo che paron Toni furono riaccompagnati alla nave da una nutrita scorta di servi armati, avevano scoperto che il sensale era un notevole bugiardo. Quello delle statue non era il suo unico vizio! La cena fu un vero sfarzo. Seguendo la tradizione islamica mancava il maiale, ma nessuno se ne accorse, dal momento che pernici e tordi avevano fatto la loro comparsa accompagnati da una varietà impensabile di verdure. Carote, rape, cipolle, porri, ravanelli, cetrioli, asparagi e soprattutto melanzane che, private dell’amaro con il sale, vennero servite fritte in grandi vassoi ovali. Sul tavolo erano presenti anche grandi ciotole con pezzi d’agnello marinati in latte acido ed aceto e diverse qualità di pesci fritti in olio di sesamo, il tutto mescolato ad altre ciotole più piccole ricolme delle più svariate spezie, coriandolo fresco, menta, cumino, maggiorana. E sopra a tutto aleggiava un tenue ma persistente profumo di muschio e ambra. Comunque furono i dolci che ebbero il posto d’onore, paste col ripieno di mandorle, datteri, noci, pistacchi, frittelle alle mandorle, ma anche verdure candite e frutta servita marinata nello zucchero e condita con acqua di rose. Il fatto che poi fossimo stati serviti solo da servitori maschi, la diceva lunga anche sugli altri gusti del padrone di casa. Comunque, appena servito un caffè nero e denso, i servi scomparvero, lasciando i tre uomini alle prese con i loro affari. Varro aveva deciso che, visto che dovevano apparire agli occhi di tutti come comuni commercianti, tanto valeva farlo per davvero e aveva incaricato Goffredo di informarsi se ci fosse in giro qualche affare da intraprendere. Per fortuna, quando aveva ceduto il suo posto a Lucilla, i marinai avevano trasbordato i suoi effetti personali sulla nuova nave, compreso il famoso forziere

sottratto al Vescovo di Novara. Un piccolo tesoro che, sommato ai guadagni ottenuti in quegli anni dalle rendite dei terreni di Moncolano, gli potevano consentire di intraprendere senza problemi qualsiasi attività giudicasse favorevole. «E tutto dipende naturalmente dalla disponibilità di danaro che volete mettere in gioco…» La frase, lasciata svanire con noncuranza, si disperse nell’aria assieme al tenue fumo di incensi accesi da mani misteriose, che avevano fatto svanire gli odori dei cibi e ora acuivano i profumi della notte che giungevano dal giardino. Fino ad allora il sensale aveva elencato, con lieve accenno di noia, un cospicuo numero di possibili affari che aveva in quel momento tra le mani, elencando pregi e difetti della merce con competenza e schiettezza, quindi, con altrettanta onestà, aveva per ognuno di loro preventivato i pro e i contro, asserendo che solo mettendo i suoi clienti nella possibilità di valutare in anticipo rischi e profitti poteva continuare a conservare la fiducia di cui godeva e di conseguenza incrementare i suoi affari. Goffredo, con noncuranza, prese un dolce da un vassoio di vetro e al suo posto vi appoggiò uno smeraldo grande come una noce. Il lampo che attraversò gli occhi del suo anfitrione gli fece capire di aver finalmente ottenuto la giusta considerazione. Alvise Dolfin volse la testa verso Goffredo, sondandolo con uno sguardo impenetrabile, quindi batté rapidamente le mani e comparve un servitore con un vassoio su cui troneggiavano alcune bottiglie per nulla in sintonia con l’Islam, ma molto con la Serenissima. «A pensarci bene avrei un affare interessante tra le mani. Una cosa che non proporrei a chiunque dal momento che richiede, per essere portato a termine con successo, uomini determinati e dotati di un notevole spirito d’avventura.» Poi, indicando la spada che Goffredo aveva appoggiato accanto a se, riprese ironico: «E voi sembrate essere proprio la persona giusta! Certamente è un affare di una

certa rilevanza, ma le aspettative sono eccezionali.» Senza scomporsi Goffredo appoggiò accanto allo smeraldo un rubino della stessa misura. Il singulto del patrono della nave fu quasi comico, mentre invece dal viso di Alvise Dolfin scomparve istantaneamente ogni traccia di superficialità. «Questo sì che è parlar d’affari!» Con un’agilità impensata per la sua stazza, il sensale balzò in piedi e cortesemente fece cenno ai suoi ospiti di seguirlo. Furono quindi condotti in un’ampia stanza con librerie ovunque e dove sulle pareti spiccavano grandi mappe dettagliatissime. Alvise si avvicinò a una di esse e rimase pensieroso a fissarla in silenzio. Goffredo e paron Toni si erano intanto posizionati alle sue spalle, e dal momento che ambedue sovrastavano il sensale di tutta la testa, poterono ammirarne i dettagli con tutto comodo. Non solo vi era rappresentato il bacino del mediterraneo al completo, ma anche l’Inghilterra e alcune isole ancora più a nord erano dipinte con cura sorprendente. Linee di diverse grandezze e colori partivano da Venezia, diramandosi poi per tutti i mari, alcune erano sottilissime, altre apparivano maggiormente marcate o tratteggiate in modi diversi, e vi erano anche rotte tracciate solamente con puntini messi in fila con cura maniacale Goffredo rimase impressionato dalla miriade di luoghi che le rotte mercantili della Serenissima toccavano, per non parlare poi degli itinerari che partivano dai rispettivi porti per addentrarsi ovunque nella terraferma. Alvise Dolfin allungò visibilmente emozionato una mano, e con delicatezza appoggiò l’indice su una linea blu che partiva esattamente da sotto il leone alato che dominava la laguna di Venezia. Goffredo notò immediatamente che era l’unica linea tracciata con quel colore e

spessore su tutta la carta. Istintivamente seguì la rotta e con sua meraviglia gli vide percorrere tutto il mediterraneo per raggiungere lo stretto di Gibilterra, oltrearlo e proseguire lungo le coste del Portogallo e della Francia fino a raggiungere proprio l’Inghilterra. «L’abbiamo chiamata la muta delle Fiandre e sarà il fiore all’occhiello di tutto il commercio veneziano!» Poi di fronte allo sguardo perplesso dei suoi ospiti aggiunse eccitato: «Una muda speciale, composta da cinque delle migliori galee della Serenissima arriverà tra dieci giorni, il tempo di caricare le mercanzie che già abbiamo nei magazzini e ripartirà per aprire le frontiere a una nuova rotta che susciterà la meraviglia in tutta la marineria mercantile.» Paron Toni aveva gli occhi luccicanti di fronte a quella nuova via commerciale così temeraria e il suo cervello sicuramente già calcolava i favolosi profitti che ne potevano derivare. Arrivare direttamente in Inghilterra senza are per la Francia, significava un enorme risparmio in termini di gabelle e dazi che le carovane di commercianti dovevano pagare a ogni confine e i rischi che pur potevano derivare dalla navigazione in quelle acque pericolose e sconosciute erano mitigati, se non annullati del tutto, dalla possibilità di evitare i tagliagole che infestavano ormai tutte le strade carovaniere conosciute. «Abbiamo bisogno di un uomo come lei!» Il sensale aveva intanto appoggiato una mano sul braccio di Goffredo, con un trasporto che contrastava la flemma che l’aveva caratterizzato per tutta la serata, i suoi occhi luccicavano febbrili e la respirazione si era fatta affrettata e irregolare. «Lei è un uomo d’arme, lo si vede immediatamente, abituato all’azione e a prendere rapide decisioni. Inoltre, assieme al suo socio rimasto a bordo, ha dimostrato di disporre dei fondi sufficienti per affrontare un’avventura come questa. Il rischio è altissimo, inutile negarlo. La rotta è in gran parte sconosciuta e altre alla pericolosità di un mare ignoto, non sappiamo quasi nulla della gente

che incontreremo, dello stato dei porti, della presenza di pirati o di altri ostacoli che potrebbero compromettere il progetto. Ma se si arriva in fondo, i vantaggi saranno immensi e chi deterrà il monopolio di quella rotta diventerà ricco in modo inimmaginabile.» Goffredo era immobile, gli occhi fissi sui posti sconosciuti indicati da quella rotta ancora da realizzare, della favolosa ricchezza prospettata dal sensale non gli importava più di tanto, certamente non disprezzava i vantaggi economici che potevano derivare da una simile avventura, ma quello che più lo interessava era la possibilità di offrire a Varro uno stimolo per ricominciare a vivere. Un obiettivo difficile da raggiungere, ma era una sfida che forse avrebbe potuto distrarlo dalla disperazione in cui era caduto. «E quanto costerebbe questo giochetto?» «Trentamila ducati d’oro.» Goffredo non mosse un muscolo, la cifra era altissima e rappresentava quasi l’intero capitale di cui, lui e Varro, potevano disporre e se andava male si sarebbero trovati in seria difficoltà. Lui avrebbe sempre potuto tornare a fare il mercenario, ma Varro? Senza contare che la maggior parte di quel denaro avrebbe dovuto metterla proprio il suo amico. «Ne parlerò con il mio socio,» disse asciutto «e domani mattina le farò avere una risposta!»

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«Fallo!» «Sai che rischi tutti i tuoi beni?» «Hai detto che i guadagni saranno altissimi.» «Se ci va bene! Ma con tutta probabilità le navi finiranno sul fondo dell’atlantico, noi perderemo tutto e ci lasceremo pure la pelle.» «In quel caso che differenza vuoi che faccia morire ricchi o poveri?» Varro non aveva neppure alzato la testa dal libro che stava leggendo e l’intera discussione sembrava non averlo minimamente interessato. Goffredo scosse la testa, portando lo sguardo fuori dalla finestra. Venti giorni dopo uscivano con la prima marea a bordo della San Marco, la nave capitana di una muda compatta, formata da più di mille marinai sceltissimi, capaci di maneggiare con uguale disinvoltura sia il remo che la spada. Per quell’avventura l’Arsenale di Venezia aveva costruito appositamente cinque grandi galee da merchado che raggiungevano le 250 tonnellate, dotandole dei più moderni timoni centrali e collocando su ogni nave ben due bussole magnetiche. I carpentieri avevano inoltre modificato gli attacchi dei pennoni delle vele, consentendo così agli scafi di ottenere accentuate andature di bolina, indispensabili per affrontare con più tranquillità le onde dell’oceano e del mare del Nord. A differenza delle vecchie galee, queste erano state progettate per navigare soprattutto a vela e richiedevano ormai l’uso dei remi solo per le manovre in porto o per le prolungate bonacce di vento. La stiva della San Marco era colma di mercanzie preziose, soprattutto grosse

balle di sete e bauli colmi di spezie provenienti dal lontano Oriente, merci che avevano prosciugato una considerevole parte del capitale a disposizione di Varro e Goffredo e andavano ancora considerate le spese per il viaggio e la paga dell’equipaggio. Se fossero riusciti nella loro impresa, sicuramente i mercanti inglesi avrebbero acquistato con bramosia quegli articoli pregiati e loro, oltre a ricavarne un elevatissimo guadagno, avrebbero potuto comperare a loro volta le richiestissime lane inglesi, da far poi lavorare agli abili tessitori della pianura padana. Quello che però continuava a preoccupare Goffredo era Varro. Da quando era salito a bordo era rimasto chiuso nella sua cabina, intento a leggere misteriosi libri da cui sembrava incapace di separarsi, era diventato intrattabile e nemmeno Maddalena aveva più accesso all’alloggio. Non voleva essere accudito e permetteva a malapena a un marinaio di portargli i pasti che il più delle volte si accontentava di sbocconcellare. Ma fu solo una settimana più tardi che Goffredo si spaventò. Spinto da un oscuro presentimento, entrò senza bussare nella cabina dell’amico con la scusa di un danno a una delle casse di spezie, e sorprese Varro nel bel mezzo di un rito su un consunto libro di magia nera. L’arcidiacono rimase per un momento come paralizzato, poi si lanciò contro l’amico con gli occhi iniettati di sangue, ma un pugno micidiale lo centrò al mento, mandandolo disteso sul tavolaccio del pavimento. Quando riacquistò i sensi, Goffredo stava già gettando a mare, dalla finestrella di poppa, candele, libri e pentacoli tracciati con un più che sospetto inchiostro di un colore brunastro. «No! Fermo! Non farlo!» L’urlo di Varro accentuò solo la determinazione di Goffredo che, terminato di scagliare tra le onde quello che reggeva ancora tra le braccia, si voltò furibondo verso l’amico. «Questo da te proprio non me lo sarei mai aspettato!»

«Ma non capisci? É l’unico modo per riaverla!» «Riaverla?» «Esistono modi per comunicare con l’aldilà, ne sono certo! Su quei libri c’era la strada per arrivare a lei!» «Su quei maledetti libri c’era solo la strada per la tua pazzia!» Varro si raggomitolò su se stesso, scosso da singhiozzi e Goffredo gli si avvicinò furioso, ma poi visto lo stato dell’amico, l’afferrò sotto le ascelle e sollevatolo di peso, l’obbligò a coricarsi nella sua cuccetta. «Ti mando Maddalena!» Solo il pomeriggio seguente Varro uscì sul ponte della nave, aveva il viso terreo, ma lo sguardo era ritornato lucido e determinato. Scorse Goffredo che stava conversando con il capitano della San Marco e fece loro un cenno di saluto, poi s’appoggiò al robusto parapetto di poppa, respirando a fondo la brezza salmastra che arrivava da ponente. Dopo poco avvertì accanto la discreta presenza dell’amico. «Grazie!» La fatica con cui udì pronunciare quella parola mise a disagio Goffredo, ma poi lo sguardo di riconoscenza di Varro lo rinfrancò. «Penso veramente di essere stato un pazzo.» «Succede!» E la laconica risposta chiuse definitivamente il discorso.

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Due uomini afferrarono la donna per il vestito e con un solo gesto la sollevarono a bordo, lasciandola poi cadere ai piedi del gruppetto che si era intanto radunato a poppa. Risate sguaiate echeggiarono un po’ ovunque, mentre qualche mano più intraprendente incominciò a ispezionare l’inatteso bottino. Il rapido lampo di una lama lasciò una lunga striscia rossa sull’avambraccio di uno degli uomini, ma l’unico risultato che ottenne fu che un’altra decina di mani inchiodarono la ragazza sulle assi della tolda. «Rapida come un serpente la veneziana!» L’uomo ferito si leccò con lentezza il sangue che colava dal leggero taglio che spiccava sulla sua pelle scura, poi con rabbia sollevò la sottana della ragazza scoprendola sino alla vita. «Vediamo cosa sa fare questa baldracca veneziana, voglio proprio vedere se il suo sangue è migliore del mio! Capitano! A te l’onore di aprirla per primo!» Assur rise divertito, mentre valutava con occhio esperto le lunghe gambe della donna. Ma qualcosa gli impedì di esercitare quel suo diritto e la vaga sensazione di stima, che aveva provato per quello che credeva essere un marinaio sopravvissuto, continuava a persistere dentro di lui, nonostante avesse scoperto che si trattasse di una semplice femmina. Con un gesto fece cenno ai suoi uomini di farne quello che volevano e rimase a osservarli mentre rovesciavano un grosso barile per poi legarvi saldamente la ragazza a pancia in giù. Un coltello squarciò di netto gli abiti inzuppati e la donna si rivelò in tutta la sua

nudità. Ci fu un attimo di silenzio, in cui tutti gli occhi rimasero puntati su un corpo armonioso, sensualissimo nelle sue forme esposte ed indifese, poi ci fu solo la rissa per accaparrarsi i primi posti della fila. Assur si spostò lentamente davanti alla donna e con calma si piegò per guardarla negli occhi. Non un accenno di paura sembrava albergare in quello sguardo, solo una rabbia fredda che tentava di traargli il cuore. Nemmeno negli occhi di veterani abituati ormai a tutto aveva mai visto tanta determinazione e decidendo di accettare quella sfida tanto silenziosa quanto impari, avvicinò ancor di più il capo verso la donna. Voleva essere lui a cogliere il primo cenno di cedimento quando i suoi uomini avessero incominciato ad abusare di lei, ma nel fare il movimento, l’amuleto che teneva legato al collo con una pesante catena d’oro, uscì dalla sua camicia e dondolò luccicante davanti agli occhi della ragazza. Lucilla era sfinita, la lotta contro le onde l’aveva completamente sfiancata e stava ormai per cedere al freddo e al sonno quando i pirati si erano accorti di lei. In un primo tempo aveva sperato che la nave si sarebbe avvicinata alla costa quanto le sarebbe bastato per abbandonare la sua fortunosa zattera di salvataggio e raggiungere a nuoto la riva, ma i pirati invece avevano mantenuto una rotta in mare aperto e con il are delle ore ogni sua speranza era progressivamente scemata. Ora sapeva esattamente cosa l’aspettava. Aveva visto troppe volte come la soldataglia riduceva le prigioniere nel corso dei saccheggi e aveva colpito quel marinaio non tanto per difendersi, quanto nella speranza che l’uomo, in una reazione violenta, l’uccidesse subito. Ora invece le sarebbe toccato soffrire a lungo, prima che una mano ormai stanca le tagliasse la gola per poi essere gettata ai pesci. Il luccichio davanti agli occhi attirò ugualmente la sua attenzione.

Un amuleto d’oro, a forma di martello, dondolava beffardo a pochi centimetri dal suo naso. Inaspettatamente riconobbe i simboli incisi nel metallo e seppe come maledire i suoi carnefici. «Che Thor vi incenerisca! Cani infedeli!» Urlò con tutte le sue forze. L’effetto fu travolgente. L’uomo che dietro a lei aveva già incominciato ad allargarle le cosce, balzò via terrorizzato, urtando malamente i compagni alle sue spalle e anche il portatore dell’amuleto era a sua volta indietreggiato repentinamente, serrando il piccolo martello nel pugno come per proteggerlo. Lucilla mise a fuoco il suo volto, non doveva avere più di trent’anni e una corta barba nerissima incorniciava un viso bruciato dal sole. L’uomo, che appariva veramente spaventato, saettò lo sguardo tra lei e gli uomini che aveva attorno, poi con un gesto secco si strappò l’amuleto dal collo e lo fece nuovamente dondolare davanti ai suoi occhi. «Come fai a conoscere il nostro Dio?» Lucilla trattenne il fiato, mentre il suo cervello vorticava tumultuosamente. I simboli che aveva visto incisi sul martello lei li ricordava bene, appartenevano a un libro che le era stato regalato da Varro l’inverno precedente. Un grande libro dalla copertina di legno, in cui vi erano narrate storie di fanciulle guerriere che, in groppa ai loro bianchi cavalli, andavano a prendere le anime dei caduti nelle battaglie per portarli nel loro paradiso. Racconti di grandi praterie celesti e di possenti guerrieri comandati da un dio terribile e bellissimo, Wotan, e di suo figlio Thor, un dio giusto armato di un martello da guerra magico, che una volta lanciato ritornava sempre nelle mani del suo padrone.

Era rimasta affascinata da quelle storie che le avevano tenuto compagnia in molte fredde notti sferzate dal vento e dalla neve e aveva inoltre scoperto similitudini tra i simboli che ricoprivano quelle pagine e alcuni disegni conservati tra le carte dell’Alchimista. «Dico a te donna, come conosci il nome del nostro Dio?» Un lampo di speranza serpeggiò in Lucilla. Se per qualche oscuro motivo quei predoni credevano in quegli strani Dei forse poteva tentare di giocarli e sperando di non essere tradita dalla memoria lanciò una nuova maledizione. «Che Whotan vi secchi gli occhi e riempia di piaghe i vostri corpi, miserabili che osate profanare una sacerdotessa di Freya!!» La sua frase ebbe un effetto devastante. Lucilla sapeva che Freya era una divinità femminile basilare, signora della magia e dea dell’amore, ma non aveva certamente immaginato di turbare così a fondo i suoi aguzzini. L’uomo con la barba balzò in piedi sconvolto, mentre i pirati fecero il vuoto attorno a lei. L’uomo con il braccio ferito si fece avanti incerto e con un gesto rapido la coprì con quello che sembrava un pezzo di vela, per poi tornare immediatamente tra i suoi compagni. Assur era completamente frastornato, sentire quella donna maledirli in nome di Dei che pensava nessuno più conoscesse, lo sconcertava. Suo padre era un profondo credente, ma quell’oscura religione ormai veniva tramandata solo in un ristretto gruppo di famiglie, le stesse che poi componevano l’equipaggio della sua nave e quella di suo cugino Goran. La maggior parte dei pirati Narentani che riparavano ad Almissa non avevano credo o al massimo seguivano credenze derivate da disordinate mescolanze di religioni diverse.

Il martello di Thor che portava al collo, era appartenuto a suo padre e prima di lui a suo nonno; potevano portarlo solo i figli maschi e identificava immediatamente il capo in carica. Era la prima volta che una persona estranea al loro clan lo riconoscesse in modo così esplicito e questo lasciava tutti stupefatti. Il fatto poi che quella donna si proclamasse addirittura una sacerdotessa di Freya aveva dell’incredibile. Lucilla comprese di aver fatto breccia nell’animo di quel branco di tagliagole e tentò il tutto per tutto. «Volete sciogliermi o devo invocare Frey perché vi renda tutti sterili?» Assur fece un rapido cenno, i legami che imprigionavano la donna vennero recisi e Lucilla si levò in tutta la sua altezza. Con calma lasciò cadere a terra il suo vestito ormai a brandelli e ostentando assoluta indifferenza per gli sguardi puntati sul suo corpo nudo, volse lo sguardo verso il brandello di vela che le era stato gettato addosso. «Spero abbiate qualcosa di meglio da offrirmi!» Immediatamente alcuni uomini scattarono verso la stiva e un paio di minuti dopo ricomparvero per porgerle con deferenza una grande pezza di seta ricamata. Lucilla si avvolse con calma la stoffa attorno al corpo, coprendosi con cura anche il capo. Ora di fronte ai pirati si ergeva la figura imponente di una sacerdotessa dagli occhi fiammeggianti, il cui carisma aveva ormai oscurato il misero ricordo della preda da violentare e uccidere. L’uomo dal braccio ferito si dondolava sui piedi in preda ad una agitazione crescente, evidentemente la consapevolezza d’essere quello che stava per abusare per primo di quella strana donna lo stava lacerando dentro; poi, senza riuscire a sollevare lo sguardo verso il proprio capitano, cadde in ginocchio davanti alla donna, porgendole a testa bassa il suo coltello.

«Colpisci! Sono io che ho tentato di profanare il tuo corpo!» Lucilla prese con calma la lama affilata, riflettendo velocemente sulla cosa più giusta da fare. «Thor è un Dio giusto ma non è un sanguinario, sarà invece la mia signora, la grande Freya, che se vorrà m’indicherà la tua punizione. Per ora alzati e ritorna dai tuoi compagni!» Poi, per ogni evenienza, ripose l’arma tra le pieghe del suo vestito. Il gesto non sfuggì ad Assur, che alzò un sopracciglio sorpreso, quella donna era un vero mistero. Dalle poche frasi pronunciate si capiva benissimo che non era veneziana e che doveva provenire da terre lontane, e l’idea che in qualche posto ci fossero genti che onoravano i loro Dei e con un culto così profondo da avere addirittura delle sacerdotesse, era strabiliante. Il capitano fu assalito da un dubbio improvviso e dopo aver gettato un rapido sguardo verso le reti che galleggiavano a poppa si rivolse titubante verso la sacerdotessa. «Dobbiamo abbandonare tutto?» Lucilla fu presa di sorpresa, ma poi decise che aveva già tirato troppo la corda e che un errore a quel punto poteva costargli la vita. «Un bottino è un bottino e anche se non è stato conquistato con il valore delle armi, l’aver affrontato quella tempesta lo rende degno di essere preso.» Un boato si levò dagli uomini, mentre le labbra di Assur si piegarono in un impercettibile sorriso. «Tutti ai vostri posti, bastardi scansafatiche! Abbiamo già perso troppo tempo! Si torna a casa!»

37

Adelmo fissava pensieroso l’uscio sbarrato della casa di Lucilla. Era ato più di un anno dall’ultima volta che era stato lì, ma sembrava che in tutto quel tempo solo gli animali selvatici avessero osato superare il cancello del piccolo giardino. Dopo il funerale di Varro, aveva battuto tutte le strade che partivano da Trieste, cercando invano una traccia che lo conducesse al Capitano o alla strega, ma le sue prede sembravano essersi disciolte nel nulla. Sferrò irritato un calcio alla porta ricoperta di ragnatele e il sordo rimbombo che echeggiò nella casa vuota non fece altro che aumentare il suo malumore. Ormai il vescovo aveva esaurito la sua pazienza e già l’ultima volta gli era toccato faticare parecchio per ottenere ulteriori finanziamenti per poter continuare le sue ricerche, se non avesse trovato alla svelta una pista da seguire il suo padrone l’avrebbe scacciato e lui si sarebbe trovato a breve senza lavoro e senza soldi. Imprecando lasciò la casa alle sue spalle per andare a piazzarsi sul piccolo promontorio ventoso che dava sul mare. Non gli restava che quella via, ma la distesa immane di creste spumeggianti gli mise addosso un’angoscia fredda. Lui era un uomo di terraferma, un figlio di contadini che aveva visto il mare la prima volta a trent’anni suonati. In realtà aveva subito pensato che Goffredo potesse aver preso quella via, cercando rifugio in terre lontane, ma poi aveva considerato che anche il capitano era un uomo di pianura e aveva dato per scontato che pure lui preferisse un buon cavallo a quelle bare galleggianti dove, se non ti uccideva il coltellaccio di qualche marinaio a corto di soldi, ti uccideva il mare.

Ma ora non aveva scelta, ogni pista sulla terra ferma si era seccata e non gli rimaneva che affrontare quell’inferno liquido fatto di nausea, vomito e spruzzi gelati. Si voltò irritato e mezz’ora prima del tramonto era alle porte di Trieste, il morale sotto le scarpe e ancora tutta una notte davanti, fatta di taverne, vino e informazioni tanto spezzettate quanto inutili. Una settimana dopo era ancora al punto di partenza, senza nessun indizio su Goffredo e Lucilla. Poi, inaspettatamente, la dea bendata si accorse di lui. «San Marco proteggimi!! L’inferno ha vomitato i suoi dannati!!» Adelmo si voltò stupito verso l’uomo che, dall’altra parte della taverna si era alzato improvvisamente in piedi, rovesciando senza neanche accorgersene il boccale di vino che aveva di fronte. Gli occhi stupefatti e il pallore cadaverico che segnava ulteriormente quel volto già scavato, portarono gli sguardi di tutti gli avventori prima su di lui, poi verso la porta da dove era appena entrato uno sconosciuto. «Smettila di toccarti i coglioni e tira invece fuori i due zecchini d’oro che mi devi!!» Sbraitò il nuovo arrivato, mentre massaggiava esplicitamente il manico del coltello che spuntava minaccioso dalla larga fascia che gli circondava la vita, ma poi con una risata potente allargò le braccia. Un minuto dopo era tutto un vociare, pacche sulle spalle e boccali colmi di vino che si urtavano pericolosamente. Solamente dopo parecchio tempo Adelmo riuscì a capire cosa stesse accadendo. «Dai Bepi racconta!» L’oste aveva messo sul tavolo centrale della taverna una grossa caraffa traboccante, mentre le due cameriere facevano a gara nel portare il cibo in modo da rimanere il più tempo possibile accanto al nuovo arrivato.

«Se non fosse stato per la decisione di quel mercante, presa all’ultimo momento, di cedere la sua cabina alla donna, sarei da un pezzo in fondo al mare assieme ai miei compagni.» «Quale mercante?» Disse una voce. «Quale donna?» Incalzò un’altra. «Quello malato. Un ricco signore pallidissimo che faceva addirittura fatica a stare in piedi e che aveva pagato una fortuna per la cabina più bella. Ma poi, preoccupato per la tempesta in arrivo, aveva voluto lasciare il suo posto a una strana donna, tanto bella quanto riservata.» «La sua amante?» «É questo lo strano, se fosse stata la sua amante le avrebbe fatto condividere la sua cabina! Ma comunque doveva tenerla in grande considerazione, visto che addirittura è stato lui quello che è trasbordato su una galea più piccola e scomoda.» «Ma che è rimasta a galla però!» Ridacchiò l’oste. «Taci maledetto! Avevo degli amici sulla nave che è affondata e certe notti li sento distintamente chiamarmi dal fondo del mare!» L’oste impallidì visibilmente, poi, per riprendersi, riportò l’attenzione sulla eggera. «Parlaci della donna!» «Ve l’ho già detto, bella e misteriosa. E incuteva rispetto! Se a qualche marinaio sfuggiva qualche vivace apprezzamento a voce troppo alta, lei si voltava a fissarlo negli occhi, senza un’ombra di sorriso ma nemmeno di rimprovero, ed era immancabilmente l’uomo che abbassava per primo lo sguardo. Se devo dire il vero, mi era seccato parecchio che fosse toccato a me trasbordare, assieme ai bagagli del mercante, sull’altra galea. Mi sarebbe veramente piaciuto rimanere in compagnia di quella donna. Lucilla, mi sembra si chiamasse.»

Se l’aumento di brusio sottolineò come quella scelta gli avesse salvato invece la vita, per Adelmo servì invece a coprire la sua esclamazione di sorpresa. Lucilla? Possibile? Dovette attendere un paio di ore prima che il marinaio rimanesse solo al tavolo, circondato solamente da boccali vuoti e avanzi di cibo. La testa ciondolante e gli occhi resi cisposi dal troppo vino testimoniavano la fine del momento di gloria dell’uomo, ormai lontano dalla curiosità degli avventori che erano tornati a occuparsi dei loro consueti affari. Con in mano una brocca del vino migliore, Adelmo si sedette educatamente al suo tavolo. «Posso offrire un altro bicchiere a un compagno di sventura?» Lo sguardo appannato dell’uomo stentò a metterlo a fuoco, ma poi la sua mano si mosse sicura per sollevare il boccale vuoto. «Anche a me accade a volte di sentire i miei compagni morti urlare il mio nome di notte!» Mentì spudoratamente la spia. «Eravamo un bel gruppo, tutti amici per la pelle. Poi una maledetta mattina, poco prima di una tranquilla ricognizione, mi becco il calcio di un mulo sul ginocchio e mi tocca rimanere al campo. Al tramonto, mentre loro tornavano, caddero in un’imboscata. Tutti morti! Solo io sono sopravvissuto!» La testa del marinaio aumentò notevolmente il suo dondolio, affermando silenziosamente la sua alleanza con quel fratello di disgrazie. Adelmo riempì nuovamente i bicchieri. «Non avevo mai sentito la tua storia prima.» «Non potevi! Non è sopravvissuto nessuno a quel naufragio. Ed è la prima volta che io torno a casa dopo più di un anno.»

«Sei rimasto sempre sulla galea di quel mercante? Goffredo hai detto si chiamava, vero?» Chiese con distacco Adelmo. L’uomo drizzò la testa stupito e la spia pensò di essersi tradita. «Non ho mai detto il nome… anche perché non l’ho mai saputo.» «Scusa, forse ho capito male io! Il fatto è che ne conosco uno che è salpato proprio in quei giorni, un tipo alto, con i modi più da spadaccino che da uomo d’affari.» Un sorriso rassicurato tornò sul volto del marinaio e mentre cercava di tener fermo il bicchiere con entrambe le mani, sussurrò con aria d’intesa: «Allora doveva essere il compagno del mercante malato, quello che sembrava un vero soldato. Si vedeva lontano un miglio che la spada non la portava solo per bellezza.» Ad Adelmo andò di traverso il vino! Aveva dato per scontato che ad accompagnare Lucilla dovesse essere stato per forza di cose il capitano Goffredo, nascosto sotto le vesti di un tranquillo mercante. Scoprire invece che accompagnava un altro uomo l’aveva gelato. «Era molto vecchio quel tuo mercante malato?» «Vecchio? Per niente, solo che sembrava un cadavere. Era pallidissimo e non usciva quasi mai dalla sua cabina.» La spia era ormai in fibrillazione, non poteva crederci, quei figli di puttana l’avevano rifatto! Varro aveva nuovamente finto di morire! Adelmo ormai non aveva più dubbi sull’identità del misterioso mercante ed era sicuro che la storia della malattia fosse servita solo a celare la ferita della freccia. «Dove sono ora? Se è il Goffredo che dico io mi piacerebbe rivederlo e forse le

nostre strade potrebbero incrociarsi.» «Non ho idea! Loro sono sbarcati a Cipro mentre la mia nave ha proseguito invece per la Sicilia. Comunque, se si sono fermati per un po’ di tempo sull’isola, conosco un tale che potrebbe darti qualche altra informazione.» Poi la testa del marinaio cadde rovinosamente sul tavolo e Adelmo dovette attendere il mattino seguente per strappargli il nome del suo contatto a Cipro.

38

Lucilla fissava bramosa le assi consunte del pontile, un semplice salto e sarebbe stata libera, ma poi spostò rapidamente lo sguardo su Omar, valutando con occhio attento i movimenti dell’ultimo uomo del gruppo d’assalto di Assur ancora a terra. Si trattava di un colosso di quasi due metri che aveva trascorso la vita a maneggiare pesanti martelli da fabbro e che anche quando si metteva a fare il pirata non voleva sentir parlare di spade o altre sciocchezze simili. Comunque nessun spadaccino aveva mai gradito avvicinarsi a meno di due braccia dall’enorme mazza che teneva fissata con un gancio alla sua cintura. L’uomo stava ora disperatamente tornando alla nave con tutta la velocità concessagli dal peso di un compagno ferito caricato sulle sue spalle massicce. L’incursione era stata un enorme fallimento e a dimostrarlo erano i pochi uomini insanguinati che erano riusciti a tornare a bordo. Dalle poche frasi sputate dai superstiti, aveva intuito che la soffiata sull’ingente carico di sete preziose, scaricate da una galea maltese il giorno precedente, si era rivelata una maledetta trappola che li aveva decimati senza scampo. Da dietro alcune baracche sbucarono infatti una quindicina di soldati della Serenissima che, appoggiato un ginocchio a terra, puntarono le loro balestre. Nonostante il frastuono generato dalle urla che la circondavano, Lucilla udì distintamente il sibilo dei dardi. Il pirata fece quasi un salto avanti, come sospinto da una mano gigantesca, poi si arrestò con aria stupita, fissando i compagni che gli tendevano le mani oltre il bordo della galea e lentamente cadde sulle ginocchia, rimanendo quindi precariamente in bilico col peso del compagno sulle spalle.

Un’altra scarica di dardi lo scaraventò con la faccia nella polvere, mentre le quadrelle che non erano penetrate nella sua carne colpivano un attimo dopo lo scafo con sordi tonfi. Con un unico urlo di rabbia, i pirati rimasti a bordo scaricarono a loro volta le balestre contro i soldati che tornarono prudentemente a ripararsi dietro le capanne. Ora! Con un balzo Lucilla si lanciò sul molo, rotolando poi velocemente dietro una catasta di botti e reti da pesca. Il tempo di un rapido sguardo verso i soldati ancora nascosti e si lasciò scivolare nell’acqua scura del porto. Riemerse immediatamente e pur facendo attenzione a rimanere ben accostata ai piloni che sorreggevano il lungo molo di legno, non riuscì a impedirsi di voltare la testa verso la nave pirata che nel frattempo aveva mollato gli ormeggi e che a forza di remi si stava allontanando febbrilmente dal pontile. Assur, in piedi sulla murata, completamente indifferente ai dardi che avevano ripreso a crivellare la sua nave, la fissava muto, gli occhi colmi di una tristezza infinita. Inconsciamente Lucilla alzò una mano in un cenno di saluto e incredibilmente il capitano le sorrise, prima di voltarsi a urlare ordini ai suoi uomini. Lo scafo mise rapidamente la prua verso l’imboccatura di porto e sotto la spinta dei rematori acquistò immediatamente velocità. Il rimbombo di i concitati sulla sua testa la fece immergere spaventata e solo quando i suoi polmoni presero a bruciarle dolorosamente si arrischiò a rimettere fuori il naso, imprecando silenziosamente contro i pali interamente ricoperti di cozze taglienti che le ferivano mani e gambe, ma ugualmente non osò abbandonare la presa per paura che la corrente la trascinasse allo scoperto. In alto, alla vista di una grossa catena che incominciava ad emergere dall’acqua, le urla concitate dei soldati aumentarono improvvisamente d’intensità.

Altri soldati sbucati dal nulla, stavano armeggiando attorno a un grande argano che fino a quel momento era stato celato da grossi sacchi e, riparati dagli scudi dei compagni, tendevano attraverso tutta l’imboccatura di porto, quella che si stava rivelando una vera e propria rete realizzata con robuste maglie di ferro. L’imbarcazione pirata tentò immediatamente di virare, ma molti remi s’impigliarono, spezzandosi poi tra le urla di rabbia e di dolore dei vogatori. Altri soldati comparvero sui moli e la galea sembrò scomparire sotto una nuvola di dardi. Con negli occhi la netta sensazione di aver visto un toro attaccato da una miriade di api inferocite, Lucilla fece una rapida capriola e si immerse silenziosamente. Sulla sua testa sfilarono le scure carene delle barche all’ormeggio e facendosi guidare dai raggi di sole che filtravano tra uno scafo e l’altro, nuotò verso l’uscita del porticciolo. Riemerse al riparo dell’ultimo peschereccio e scostandosi dalla fronte i capelli fradici rimase a fissare sgomenta la decina di imbarcazioni che avevano ora circondato la galea, colme di soldati pronti all’abbordaggio. Per i pirati non c’era più nulla da fare, nessuno avrebbe avuto pietà. Un grosso cesto, evidentemente caduto in mare durante il trambusto, galleggiava capovolto accanto alla sua testa. Senza pensare, Lucilla vi s’infilò sotto e approfittando della corrente che usciva dal porto, si lasciò trascinare verso il mare aperto senza opporre la minima resistenza. Cinque minuti dopo era già oltre la rete metallica che teneva imprigionata la nave pirata e dopo altri dieci stava doppiando la punta del molo senza che nessuno si fosse minimamente interessato al canestro che la celava. Si lasciò trascinare ancora un poco dalla corrente, poi, abbandonato il suo nascondiglio, si mise a nuotare vigorosamente verso riva. Approdò esausta in una piccola baia deserta e solo dopo essersi accertata di essere sola si spogliò completamente, stendendo gli abiti fradici su alcuni

cespugli che punteggiavano la spiaggia. Dovette comunque aspettare fin quasi al tramonto prima che i suoi vestiti fossero sufficientemente asciutti e una volta accertatasi di essere presentabile, si diresse a o deciso verso le porte di Chioggia. Riuscì a oltreare il posto di guardia assieme a un gruppetto di contadini ritardatari e mentre alle sue spalle i soldati chiudevano accuratamente il grosso portone di legno che isolava la città per la notte, si diresse con determinazione verso il porto. Li sentì ancora prima di vederli. Il fetore che le colpì l’olfatto le rivoltò lo stomaco e a fatica trattenne i conati. Quando giunse in piazza erano lì, trentadue forche rizzate il circolo, ed a ognuna di esse penzolava un pirata. Anche il piccolo Milo non era stato risparmiato e il suo corpicino dondolava al vento assieme agli altri. Lucilla imprecò, il bimbo non aveva ancora nove anni e gli avevano concesso di imbarcarsi solo perché doveva trattarsi di una scorreria tranquilla, un semplice magazzino colmo di tessuti pregiati da svuotare e una rapida fuga rubacchiando lungo il tragitto qualche forma di formaggio e qualche gallina. Invece… Lucilla barcollò alla vista delle chiazze che si erano formate sotto i pirati penzolanti, una poltiglia fatta dagli escrementi che erano usciti dai loro corpi quando, nel momento in cui la corda gli aveva rotto le vertebre del collo, i muscoli avevano ceduto improvvisamente e che poi si erano mescolati con il sangue che continuava ancora a colare dalle ferite aperte. L’odore esalato, nel caldo della sera era insopportabile e a parte un paio di soldati messi a guardia, che se ne stavano ben distanti e controvento, non c’era in giro più nessuno. Lucilla si tappò il naso con un lembo del vestito e prudentemente si nascose dietro una colonna.

Al centro della piazza era stata collocata una grossa gabbia di ferro e dentro ad essa un uomo. Un debole gemito le fece trattenere il respiro, poi quella forma insanguinata si mosse e Assur si mise faticosamente in ginocchio. Lucilla intuì quello che doveva essere accaduto. Catturata la nave, i pirati erano stati fatti prigionieri e condannati immediatamente a morte. Le forche già pronte testimoniavano la presenza a Chioggia di almeno un Magistrato della Serenissima e questo la diceva lunga sull’accurata progettazione della trappola. Assur, come capitano, era stato risparmiato, ma solo per fargli assistere da dentro la gabbia, all’impiccagione di tutti i suoi uomini, in modo che potesse essere maledetto non solo dai Chioggiotti, ma anche dai suoi stessi compatrioti. Molto probabilmente, il giorno seguente sarebbe stato trasferito a Venezia, dove l’attendeva il supplizio pubblico nella Piazzetta, sotto l’occhio severo del Doge. L’angoscia la sommerse, ma doveva andarsene e in fretta, era troppo pericoloso per lei rimanere allo scoperto. I due anni trascorsi tra i pirati avevano modificato notevolmente il suo aspetto e le gonne colorate e i grossi orecchini ai lobi delle orecchie contribuivano immediatamente a contraddistinguerla come forestiera. Se qualcuno l’avesse associata alla ciurma dei pirati, per lei non ci sarebbe stato scampo, doveva assolutamente trovare al più presto abiti meno appariscenti. La fortuna le fece imboccare una calle secondaria, dov’erano ancora stesi alcuni panni ad asciugare. Evidentemente la proprietaria si era attardata nelle faccende domestiche per assistere all’impiccagione e aveva quindi deciso di lasciare il bucato ancora umido a sventolare per qualche altra ora al caldo scirocco serale. Fu un lampo e mentre fuggiva tra le calli deserte con il suo prezioso bottino,

sentendo scoppiargli nel cuore la gioia per la ritrovata libertà, già incominciava, o dopo o, a far progetti sul futuro. Ma tre ore dopo, una donna ben diversa era nuovamente sola sotto il colonnato che circondava la piazza. Gli occhi tristi di Lucilla avano lentamente da un corpo all’altro degli appesi e alla luce sfuggente delle fiaccole, che nel frattempo erano state accese attorno alla gabbia di ferro, scrutava quei volti che aveva imparato a conoscere bene in quei due anni di prigionia. Quei visi, ora deturpati dalle ferite e dallo spasmo della morte, rimbalzavano nel suo cuore vivi e palpitanti e li rivedeva ridere rumorosamente, mentre mani rapide s’infilavano sotto le sottane delle donne che ballavano attorno ai fuochi al ritmo di scatenati tamburelli, o li ricordava tesi nello sforzo di contrastare vento e acqua in tempeste che squassavano il cielo e la nave. Si soffermò sul viso stranamente sereno di Milo. Sembrava che la morte stessa si fosse impietosita e l’avesse accarezzato con mano benevola, consapevole che solo due giorni prima giocava allegro, di fronte a casa sua, con un rozzo cavallo di legno che gli aveva regalato il maniscalco, perso nelle sue fantasie da bambino, colme di sogni e d’avventure. Lucilla si riscosse con un brivido da quei ricordi e dopo aver lanciato uno sguardo alla sagoma immobile di Assur, raggomitolato dentro la gabbia, si diresse con o deciso verso i due soldati di guardia. Arrivata a pochi i da loro, sollevò la brocca di vino, pensando che era proprio vero che chi va con i ladri impara a rubare. Non aveva fatto molta fatica a trovare né il vino né tantomeno gli abiti da pescatore per Assur. La sua sola paura era che le erbe soporifere che aveva aggiunto al vino, avessero preso un gusto acido a causa del prolungato bagno nell’acqua di mare, ma non poteva attendere oltre. Assur la voleva a bordo durante le scorrerie, proprio per le preziose capacità curatrici che aveva dimostrato di possedere, e quindi anche quella volta aveva

alla cintura la capace borsa di pelle contenente tutto l’occorrente per prestare ai feriti il primo soccorso. E la le erbe, anche alcuni potenti oppiacei. Cacciò la brocca tra le mani troppo invadenti della guardia più giovane e fuggì via ridendo sotto la palpata più esperta del veterano, lasciandolo alle prese di un languido sguardo colmo di promesse. Mezz’ora dopo erano le sue mani quelle che frugavano febbrili il corpo del soldato, ma solo per sottrargli le chiavi della gabbia e un robusto coltellaccio. Lo sguardo stupito che Assur le rivolse, le fece comprendere l’assurdità del suo gesto, ma con una scrollata di spalle cacciò via ogni pensiero e si concentrò solamente nel fare il minor rumore possibile. Con fatica il capitano sgusciò fuori dalla gabbia e con un gemito si appoggiò pesantemente alle spalle della donna, ma poi, dopo aver preso fiato, la seguì con o abbastanza sicuro verso il buio delle calli circostanti. Lucilla lo condusse direttamente verso il porto, mentre alle loro spalle già si levavano acute grida di allarme, aiutandolo poi a salire su un grosso bragozzo ormeggiato un poco discosto dalle altre barche da pesca. Fece appena in tempo a scivolare accanto a lui, coprendo poi ambedue con una pesante vela, che numerose torce apparvero lungo i moli, guizzi rossastri che si riflettevano nell’acqua, lunghe lingue di fuoco che sembravano infrangersi contro le urla inferocite degli uomini che li stavano cercando. Assur respirava a fatica, ma la sua presa sul braccio di Lucilla era salda e senza tremiti. Era ferito, ma almeno sembrava non aver febbre né lamentava nessun osso rotto e solo quando le grida degli inseguitori si allontanarono, Assur allentò la presa, per cingerle subito dopo le spalle in un abbraccio protettivo. Quando Lucilla avvertì le dita dell’uomo farsi strada sotto la sua gonna, si divincolò, furiosa e stupefatta nel medesimo tempo. «Brutto bastardo! Ti ho appena salvato la vita e tu…»

«L’ho sempre detto che sei una donna speciale!» «Porco!» «Bugiarda!» Un tenue raggio di luna filtrò tra le pieghe della vela, illuminando per un attimo il sorriso selvaggio dell’uomo e Lucilla non poté fare a meno di rimanerne turbata. Le dita del pirata le strinsero con sicurezza l’interno della coscia, mentre le sue labbra cercavano determinate la sua bocca. La donna s’irrigidì, mentre la sua mano afferrava il manico del coltellaccio sottratto al soldato. «L’unico rimpianto che avevo in quella gabbia era quello di non averti avuta, e di non aver potuto dirti quanto sei importante per me.» La donna gli appoggiò la punta dell’arma contro il costato e spinse leggermente. Assur, senza abbassare lo sguardo, sorrise nuovamente, poi le sue dita le salirono senza esitazione verso l’inguine. «Ti amo!» L’immagine dell’Alchimista esplose nella testa di Lucilla, era nudo e sudato, con la smorfia tipica che gli caratterizzava il bel volto ogni volta che terminavano di fare l’amore. La donna trattenne il fiato, ma poi, mentre quel fantasma si dissolveva lentamente, una pace sconosciuta le invase il corpo. Fece scivolare la punta del coltello lungo la camicia insanguinata del pirata sino a raggiungergli la gola, poi dischiuse dolcemente le labbra per permettere alla lingua dell’uomo di entrare lentamente dentro di lei. Per un istante il ricordo di Varro s’inserì nei suoi pensieri, ma Lucilla lo scacciò con forza e permise alle dita dell’uomo di raggiungere senza sforzo il loro obiettivo.

Quando si lasciarono scivolare silenziosamente in acqua era ormai notte fonda, la marea aveva invertito il suo flusso e Lucilla si lasciò nuovamente risucchiare verso il mare aperto. Rasentarono i moli mantenendo solo la testa fuori dall’acqua, attenti a non provocare il minimo sciabordio e si immersero solo per oltreare il posto di guardia situato sotto la grande lanterna che segnalava l’ingresso del porto. L’alba illuminò due figure che camminavano spedite, gli abiti fradici, lungo un filare di alberi. Alle loro spalle Chioggia. Di fronte, l’ignoto.

39

Seguirono la costa per giorni, ma dal momento che preferivano spostarsi solo dopo il tramonto, erano obbligati a trascorrere le loro giornate acquattati in piccoli boschetti o in umidi canneti. Mentre Assur riprendeva le forze con una rapidità sorprendente, Lucilla rimaneva invece sempre più stupita dal cambiamento caratteriale che l’uomo stava dimostrando. Nonostante conservasse intatta tutta la sua determinazione e la sua attitudine al comando, aveva nei suoi confronti una delicatezza quasi imbarazzante e i lunghi sguardi che, complice l’ozio forzato a cui erano sottoposti, l’uomo posava su di lei, erano talmente carichi di amore e rispetto che Lucilla non sapeva più cosa pensare. Scoprire che il capitano l’amava era stato un fulmine a ciel sereno che aveva scardinato la barriera difensiva che da anni aveva accuratamente eretto per proteggersi. Dopo la morte dell’Alchimista, non aveva più voluto avere un uomo, e anche se il suo cuore era stato dilaniato tra l’attrazione per il “Boia” e l’odio per Varro, era stata felice che il destino l’avesse distanziata da quell’assurda situazione, allontanandola in modo definitivo da una scelta che avrebbe potuto distruggerla. Per quello che riguardava Assur invece, doveva ammettere d’essere rimasta attratta dalla vitalità dell’uomo e che più di una volta si era sorpresa lei stessa nell’avergli riservato sguardi tutt’altro che discreti, ma l’uomo l’aveva sempre ignorata, trattandola con una cortesia fredda e distaccata, per non parlare poi delle affilate unghie di Amina, la compagna ufficiale di Assur, che non le aveva staccato gli occhi di dosso sin dalla prima volta che aveva messo piede a terra. Fin dall’inizio, Lucilla, intuendo la potenzialità dell’inaspettato manto di immunità che le dava il are per una sacerdotessa di Freya, aveva perfezionato il suo inganno, creando attorno alla sua persona uno spesso velo di

mistero e di magia e aiutata inoltre dalle sue notevolissime capacità curative, era riuscita nel giro di pochi mesi a conquistarsi il rispetto da parte di quella comunità di fuorilegge, ed erano molti quelli che nei suoi confronti esternavano qualcosa che assomigliava ormai a una venerazione senza remore. Gli scontri tra ciurme erano frequentissimi e ciò comportava inevitabilmente un gran numero di feriti, ma paradossalmente la maggior parte delle morti non avvenivano durante gli abbordaggi, ma molto più tardi, a causa delle ferite che s’infettavano senza speranza. Il ferro della lame e della punta dei dardi era quasi sempre arrugginito e a volte bastava una banale ferita per portare a una morte dolorosa tra febbri e vomito. Normalmente dopo uno scontro, i combattenti si pisciavano sulle ferite più profonde, ritenendolo un valido metodo per evitare che la carne diventasse marcia e si riempisse di liquidi puzzolenti, ma le amputazioni erano ugualmente all’ordine del giorno, e solo bruciando con ferro rovente i monconi e ricoprendoli di pece bollente si riusciva a volte a salvare il malcapitato. Lucilla invece conosceva impiastri e unguenti che, spalmati anche sulle ferite più profonde portavano sollievo, e da quando era arrivata lei non solo le morti erano diminuite, ma addirittura c’erano molti più uomini che salvavano mani o gambe. Per questo Assur la voleva ad ogni costo a bordo durante le frequenti incursioni che faceva, e addirittura un gruppetto scelto di uomini era stato designato alla sua sicurezza. Quella temibile guardia del corpo non l’abbandonava un solo attimo e se Lucilla leggeva nei loro occhi una devozione sconfinata ed era certa che ognuno di loro si sarebbe fatto uccidere pur di difenderla, sapeva anche benissimo che non l’avrebbero mai lasciata andare via e che lei si trovava in una gabbia senza scampo. Solo la trappola che li aveva colti di sorpresa, decimandoli, le aveva concesso quell’attimo favorevole per la fuga, anche se nel momento stesso in cui era saltata si era aspettata ugualmente una coltellata nella schiena. Senza far rumore spostò lo sguardo sul profilo di Assur, profondamente addormentato al suo fianco, l’ombra di un grande fico li proteggeva dai raggi del sole pomeridiano, mentre le acque di un piccolo canale scivolavano lente a meno

di un metro dalle loro teste. Avevano fatto l’amore in quello stesso spiazzo che i primi raggi del sole schiarivano appena l’orizzonte dalla parte del mare, mentre alle loro spalle il nero della notte avvolgeva, ancora protettivo, campi e villaggi. Per tutta la notte avevano camminato seguendo la costa e solo quando l’imponente promontorio del monte Conero, si era stagliato alto nel cielo, Assur le aveva fanno cenno di fermarsi, guardingo aveva cercato un posto sicuro e aveva poi steso sull’erba bagnata il pesante mantello che aveva sottratto un paio di notti prima a uno stalliere ubriaco. Quando Lucilla aveva sentito il corpo caldo del suo compagno appoggiarsi al suo non si era sottratta al contatto, ma anzi si era arresa docilmente ai desideri dell’uomo offrendogli tutta se stessa. Assur le piaceva, ma ugualmente non riusciva a partecipare attivamente a quell’abbraccio; si limitava a concedersi in un piacevole abbandono, ma era molto lontana dalla ione travolgente che la scuoteva ogni volta che si era donata all’Alchimista. E questo, Assur lo aveva percepito benissimo.

40

Quando vide la donna legata al palo, con il vestito stracciato sulla schiena e le striature violacee che le rigavano le spalle, Adelmo pregò Dio di essere arrivato in tempo. Ci mancava solo che una manciata di soldati ubriachi rovinassero la sua preda. Il capitano della galea veneziana che lo accompagnava, lanciò un urlo, e il soldato davanti a loro si bloccò con il braccio alzato, lasciando che il corto scudiscio che reggeva nella mano pendesse floscio sul suo torso nudo. «Chi vi ha detto di frustare la prigioniera?» Il soldato abbassò il braccio, guardando imbarazzato un compagno accanto a lui, che con rapidità aveva intanto gettato qualcosa dietro una botte rovesciata. «Ci avevate detto di interrogare la prigioniera!» Balbettò quest’ultimo rosso in viso, «ma questa cagna infedele ci ha insultati tutti, ha maledetto San Marco e ha gettato un maleficio addirittura sul Doge! Volevamo solo insegnarle le buone maniere!» Adelmo allungò il collo per sbirciare oltre la botte, e la mazza ferrata, spalmata di grasso, che il soldato aveva nascosto in fretta agli occhi del suo comandante, testimoniava come quelle bestie intendessero insegnare le buone maniere alla donna. «Slegate e fate curare la prigioniera!» Sbraitò nuovamente il capitano, mentre con la coda dell’occhio valutava attentamente l’espressione di Adelmo, «l’Ammiraglio la vuole tra un’ora nella sua cabina!» L’ufficiale aveva visto benissimo la mazza, e se fosse stato per lui avrebbe lasciato fare ai suoi uomini; anche lui pensava che non vi fosse mezzo più efficace per far parlare quelle gatte selvagge che, come i loro uomini, non

temevano né la frusta né il ferro incandescente. Ma quell’uomo zoppicante, che il suo comandante gli aveva affiancato in quella spedizione, gli incuteva un acuto senso di disagio. Lo aveva visto, infuriato, prendere a calci la gabbia di ferro ormai vuota nella piazza di Chioggia, per poi fissare imibile i due soldati di guardia che vi venivano incatenati per essere frustati a sangue, sotto l’occhio severo dell’Ammiraglio Pisani in persona. Adelmo, ignorando tutti, s’avvicinò preoccupato alla donna che a malapena riusciva a reggersi sulle gambe, e con delicatezza le scostò dal volto i folti capelli arruffati, scoprendo completamente il volto affilato di Amina, la donna di Assur, il bastardo che continuava a sfuggirgli tra le dita. Lo sguardo di sfida che sembrò volerlo pugnalare lo fece sorridere rassicurato. Non tutto era perduto! Ci aveva messo tre mesi per convincere i veneziani sull’opportunità di quell’imboscata a Chioggia e un altro mese ad organizzarla, pagando di tasca sua due marinai che lasciassero trapelare, nelle osterie giuste, le false informazioni che erano poi giunte all’orecchio di Assur e del suo gruppo di tagliagole. Quando poi era giunto trafelato sul pontile di Chioggia, terrorizzato che le nuvole di frecce che trafiggevano in continuazione la nave pirata, potessero colpire anche la sua vera preda, non immaginava certamente che la fonte di tutta la sua ansia era proprio sotto i suoi piedi, immersa fino al collo nell’acqua scura del porticciolo, abbracciata alle cozze taglienti che incrostavano i pali verdi di alghe. Non ci aveva messo molto, una volta giunto a Girne, a trovare le tracce di Varro e Goffredo, quei due avevano lasciato una scia di soldi e di curiosità impossibile da cancellare, ma ormai erano salpati da un pezzo, e aveva intuito che seguirli sarebbe stata una pazzia. Da quanto era riuscito ad apprendere, facevano parte di un convoglio sorvegliatissimo che aveva fatto vela per rotte sconosciute e qualcuno aveva addirittura accennato che volessero uscire dal Mediterraneo, affrontando le acque del nord per raggiungere l’Inghilterra.

Impossibile mettersi sulle loro tracce. Deluso e rassegnato, Adelmo era sul punto di tornare dal Vescovo di Novara per comunicargli la fuga definitiva di Varro e soprattutto l’impossibilità di recuperare il famoso forziere, quando un uomo venne a sedersi al suo tavolo. Il sorriso marcio, che lo sconosciuto esibì con eccessiva affabilità, contrastava violentemente con il ricercato abbigliamento, ma si accordava perfettamente con il coltellaccio che portava con noncuranza sotto la grossa fascia di seta azzurra che gli circondava la vita. «Ho sentito che cercavi due uomini!» «Sono partiti da un pezzo!» «Lo so!» «E allora?» «Potrebbero interessare anche a me!» Adelmo scrutò con più attenzione lo sconosciuto, si vestiva come un ricco commerciante, ma aveva il puzzo inequivocabile del pirata. «Vagli dietro allora, per me sono irraggiungibili!» «Oh, se è solo per questo anche per me, ma ugualmente mi chiedevo quanto siano importanti per te!» La spia si trattenne a stento dal portare la mano allo stiletto che gli pendeva dalla cintura, l’uomo che aveva di fronte era sicuramente più veloce di lui e un simile gesto poteva costargli caro. Ugualmente però lo sconosciuto sembrò intuire i suoi pensieri e quello che restava dei suoi denti tornò a ammiccare tra le labbra secche, poi fece un gesto all’oste e una grossa caraffa di vino comparve in mezzo al tavolo. «Ma chi parte torna! E a volte ancora più ricco!» Adelmo rilassò le spalle, la cosa si stava facendo interessante e quasi senza

interesse chiese: «Come ti chiami?» «Selenio! Puoi chiamarmi Selenio.» Assieme alla seconda caraffa di vino arrivarono anche sei tordi arrosto e grossi pezzi di formaggio, ma fu solo dopo la terza caraffa che Adelmo ebbe chiara la situazione. La “Muta delle Fiandre”, così si chiamava il convoglio di Varro, aveva suscitato un notevole scalpore e molte voci correvano sul suo conto, compreso quelle che favoleggiavano un ritorno principesco, carico di immense ricchezze. «Ho due uomini a bordo che mi avviseranno quando saranno sulla via del ritorno, ma ugualmente ho bisogno di sapere qualcosa di più sui mercanti che hanno finanziato l’impresa, soprattutto su uno che sembra sappia usare bene la spada! E ho l’impressione che tu conosca parecchie cosette sul suo conto!» Fu così che ad Adelmo venne l’idea più pazza della sua vita.

41

Un mese dopo Adelmo contemplava soddisfatto la lettera del Vescovo di Novara che bollava ufficialmente Goffredo da Varallo come un ladro di beni ecclesiastici e accusava il suo arcidiacono, Varro Frangipani, di apostasia. Un altro plico, con il sigillo papale, conteneva l’atto di scomunica per Varro Frangipani e un ordine di comparizione davanti ad un tribunale ecclesiastico. L’occhio esperto di Adelmo valutò lo spazio che c’era tra i testo e le firme in calce, e un sorriso beffardo gl’illuminò il viso, c’era tutto lo spazio che gli serviva, eccome se c’era!

Il consiglio dei dieci si riunì in sessione straordinaria e dopo aver attentamente esaminato i documenti che il capo sestiere di Cannaregio aveva sottoposto alla loro attenzione, fece chiamare Adelmo, che già da tre ore aspettava preoccupato sotto l’occhio sospettoso di un robusto usciere. Quando la spia si trovò davanti alle toghe rosse dei consiglieri, un brivido lo costrinse ad un inchino forzato, tentare di giocare quegli uomini era un azzardo mortale, ma la posta in gioco era diventata altissima e lui doveva rischiare. Il Sovrintendente alle Attività di Polizia, prese subito la parola: «Questi documenti dicono che un certo Varro Frangipani, Arcidiacono del Vescovo di Novara, dopo aver commesso peccato di apostasia e abbandonato con l’inganno i suoi doveri ecclesiastici, si è introdotto sotto false spoglie nel territorio della Serenissima dove trama al soldo della Repubblica di Genova! É vero tutto ciò?» «Assolutamente!» S’affrettò a ribadire Adelmo, nascondendo in un nuovo profondo inchino il

sorriso che gli era affiorato alle labbra. Le poche righe che aveva abilmente aggiunto alla lettera del Vescovo, in cui si rivelava che l’arcidiacono era anche una spia dei Genovesi, erano un vero capolavoro, il cardine su cui basava tutta la sua truffa. «E sapete anche dove si trova ora questo Frangipani?» L’imbarazzo di Adelmo sembrò assolutamente sincero, poi con uno sforzo fissò il suo interlocutore negli occhi e sparò la sua bordata. «Ho fondati motivi per credere che Varro Frangipani, assieme al suo complice, Goffredo da Varallo, sia in questo momento, nelle vesti di un ricco mercante, imbarcato nella vostra Muta per le Fiandre!» All’unisono i membri del consiglio balzarono in piedi, bianchi in volto, indifferenti ai vari cappelli neri e alle fasce che nel frattempo erano scivolate a terra. «La muta delle Fiandre? Cosa ne sapete voi di questa spedizione?» Adelmo mantenne prudentemente l’aria contrita e spaventata. «I miei informatori mi hanno garantito che il Frangipani e Goffredo da Varallo, spacciandosi per ricchi mercanti, hanno acquistato un ingente carico a Cipro e si sono imbarcati come armatori nella muta diretta in Inghilterra.» Il silenzio che cadde improvvisamente nella grande sala sembrò assorbire ogni cosa, poi Adelmo fu fatto riaccompagnare il anticamera e la pesante posta che si chiuse alle sue spalle coprì la baraonda che si era già accesa furibonda. Sforzandosi di apparire impaurito, Adelmo gongolava segretamente, aveva fatto centro, ed ora l’intero Consiglio dei Dieci stava valutando spaventato il disastro di avere una spia dei Genovesi in una spedizione che doveva aprire la via ad un commercio fiorentissimo, e dove oltretutto erano state impiegate le più moderne tecnologie marinaresche.

Già il mattino seguente Adelmo era stato convocato dall’Ammiraglio Pisani e in

due giorni avevano messo a punto un piano per arrestare Varro e Goffredo, ma fu solo dopo un’altra decina di giorni che il destino gli riservò un’ulteriore magnifica e incredibile sorpresa. Alcuni pirati erano stati catturati durante una scaramuccia a nord della laguna e l’Ammiraglio Pisani aveva voluto presenziare di persona alla loro impiccagione. Adelmo, che in quei giorni era l’ombra stessa del comandante, gli era accanto. «Che possiate seguirmi all’inferno!» Urlò al loro indirizzo uno dei pirati quando gli misero la corda al collo. «Intanto vai avanti tu!» Gli gridò di rimando Adelmo, reso insolente dalla posizione di prestigio appena acquisita. «Se ci fosse qui la nostra sacerdotessa ti farebbe seccare l’uccello, bastardo!» Ribattè il pirata prima che il boia gli allungasse un pugno in pieno viso. «Le vostre streghe non ci fanno paura!! E se ci fanno abbassare l’uccello è solo perché hanno il pelo della figa che puzza più di quello di un cane bagnato!» La risata che accompagnò la battuta di Adelmo, fece infuriare il pirata, che nonostante il naso rotto riprese a urlare: «Che la sacerdotessa Lucilla ti maledica per l’eternità! Cane rognoso!» Adelmo trasecolò! Lucilla? Sacerdotessa Lucilla? Possibile? Con un balzo fu accanto al pirata, la punta del suo stiletto puntata sulla carotide del disgraziato. «Parlami di questa sacerdotessa!»

«Le posso assicurare Ammiraglio, che questa Lucilla, se fosse veramente la donna che credo, potrebbe essere la carta decisiva per catturare Varro Frangipani. É stata la sua complice e la sua amante. Molto probabilmente quel

traditore la piange morta nel naufragio e scoprire che invece è viva gli farà sicuramente commettere errori fatali. Inoltre, da quanto ha affermato quel pirata, il famigerato Assur la vuole sempre a bordo durante le sue scorrerie, e se riuscissimo a tendergli una trappola potremmo in un colpo solo mettere le mani sulla donna e decapitare quell’assassino!» Pisani era perplesso, l’ordine del Consiglio dei Dieci di assecondare quell’uomo abbietto l’aveva messo profondamente a disagio. Lui era un soldato, non una spia da bassifondi, ma lo stesso Doge gli aveva fatto capire chiaramente che la vicenda era delicatissima e che andava risolta al più presto e quindi, non avendo altre opportunità, dette carta bianca ad Adelmo. La cosa positiva era che avrebbero potuto veramente dare un colpo significativo ai pirati balcanici e per consolidare l’azione militare progettò anche un’incursione direttamente ad Almissa, nel caso fosse stata lasciata sguarnita di protezione dai pirati che fossero caduti nei tranelli orchestrati da Adelmo. Le trappole scattarono alla perfezione, sia a Chioggia che a nord della laguna, e addirittura tre navi pirata caddero nelle loro mani. Nonostante che Assur e quella Lucilla fossero ugualmente riusciti a fuggire, nell’incursione ad Almissa era stata fatta prigioniera la donna del capo pirata e con lei nelle loro mani, l’Ammiraglio Pisani era convinto che la cattura di Assur fosse solo questione di ore.

42

Amina è appesa per i polsi a una carrucola fissata saldamente alla trave sporca del soffitto. Ad ognuna delle caviglie ha legato un pesante sacchetto di sabbia e con le cosce stringe spasmodicamente un palo appuntito conficcato nella terra battuta della segreta. «Scomodo vero?» Il tono sarcastico di Adelmo riesce solo a procurargli uno sputo preciso dalla donna. «Selvaggia sino in fondo! É così che mi piaci!» Poi, mentre con cura si pulisce lo sputo dal giustacuore di cuoio, si rivolge distratto al boia che sogghigna accanto all’argano. «Abbassala di una spanna!» La punta del palo arriva a sfiorare i peli pubici della donna, che paonazza stringe ulteriormente le gambe nel tentativo di non scivolare più in basso. «Quanto pensi di poter resistere in quella posizione?» Ora la donna gli lancia solamente occhiate furibonde, mentre il panico incomincia ad impossessarsi di lei. «Questo è un giochetto che ho imparato dai tuoi amici turchi. Come hai potuto vedere, il palo è sì acuminato, ma la punta è stata abilmente smussata, così che può insinuarsi tra i tuoi visceri senza lacerarli subito. Non ho purtroppo l’abilità dei boia ottomani che riescono, dopo settimane, a far riuscire il palo dalla bocca mantenendo il condannato ancora vivo, ma ti garantisco che, adeguatamente spalmato di grasso, quel palo lo sentirai ugualmente salire per giorni, centimetro dopo centimetro.

«Fatti fottere!» «Visto che la metti su questo piano non penso che al mio boia dispiaccia infilartelo prima, per un buon palmo, tra quel pelo da puttana che ti ritrovi!» «Maledetti!!» A un cenno di Adelmo il boia stacca bruscamente la donna dal palo per spalmarne poi abbondantemente la punta con un grasso denso e nauseabondo. Poi ambedue rimangono a guardarla dondolare, finché il suo stesso peso non la riporta sopra la punta acuminata. Ora i tentativi di Amina di bloccare il palo con le gambe risulta vano, il grasso gli ha ormai unto l’interno delle cosce e i sacchetti di sabbia alle caviglie diventano sempre più pesanti. «Allora, vuoi iniziare questo eccitante amplesso con il diavolo o vogliamo parlare prima della scopata che si sta facendo in questo momento la nostra bella sacerdotessa con il tuo uomo? Di sicuro Assur non ha bisogno di ungere il suo palo per trovare accoglienza nel ventre di Lucilla!» L’urlo selvaggio della donna fa capire ad Adelmo di aver vinto. «Non hai scelta Amina! Dimmi dove posso trovare quella cagna, e ti assicuro che sarà lei a prendere il tuo posto!» «E Assur?» Adelmo fa un gesto con la testa al boia e solo dopo che l’uomo è uscito brontolante dalla segreta, sale su uno sgabello e avvina le labbra all’orecchio della ragazza. «A me interessa la donna! Assur è un problema dei veneziani! É già fuggito una volta, perché mai non potrebbe fuggire una seconda?» «Tu menti! Ucciderete pure lui!» In silenzio Adelmo appoggia una mano sul ventre della donna e con precisione la sposta in modo che il sesso si appoggi proprio sopra la punta del palo.

«Non credo che tu abbia molte scelte! Comunque Assur non mi interessa affatto, se trovi il modo di farlo fuggire fatti tuoi! Non sarò certo io ad impedirtelo!» «Levami di qui, bastardo!»

Alle prime luci dell’alba, un nutrito drappello di soldati della Serenissima è al galoppo verso il monte Conero, in mezzo a loro Amina cavalca sotto lo sguardo preoccupato di Adelmo. La donna gli ha rivelato che Assur ha da quelle parti un rifugio d’emergenza, con una piccola imbarcazione pronta a prendere il mare in ogni momento. Fuggendo da Chioggia, è effettivamente posto più vicino dove il pirata potrebbe essersi diretto, ma il problema vero era se loro riuscivano a raggiungere il minuscolo porticciolo prima le sue prede prendessero il volo. «É quella! Ne sono sicura! L’ho vista più volte ad Almissa.» Adelmo era perplesso. Alle prime ombre della sera avevano fatto irruzione nell’unica taverna che si affacciava sul minuscolo porticciolo, ma non avevano trovato la minima traccia di Assur e Lucilla, e anche l’oste e un paio di avventori, che erano stati senza tante storie interrogati a fondo, avevano dato l’impressione di non sapere assolutamente nulla dei due fuggiaschi. Furioso Adelmo si era precipitato sul molo, ma solo per scoprire che la barca di Assur era ancora al suo ormeggio. Possibile che quei due bastardi avessero preso un’altra via di fuga? Se non riusciva a mettere le mani su Lucilla il suo piano rischiava di avere un duro contraccolpo, nulla di irreparabile, in quanto l’obiettivo principale rimaneva sempre Varro, ma poteva minare la sua credibilità presso i Veneziani, oltre a toglierli la soddisfazione di avere finalmente la donna tra le sue mani. Furente ordinò al capitano dei soldati li legare nuovamente Amina e di rinchiuderla nella stalla sotto stretta sorveglianza, poi mandò due uomini a

requisire la stanza più bella, avrebbe pernottato lì, poi al mattino avrebbe deciso sul da farsi, per il momento l’unica soluzione che vedeva era quella di bruciare la barca e ritornare a Venezia. In fin dei conti il suo piano aveva portato alla cattura di tre navi pirata e lo smacco della fuga di Assur sarebbe stato compensato dallo spettacolo offerto dalle gambe di Amina, quando l’avrebbero impiccata in pubblico. Mentre due soldati legavano ridendo i polsi della donna, forse già pregustando una lunga notte con lei tra la paglia, un’ombra a poche decine di metri, estrasse silenziosamente un affilato coltello dal fodero che portava infilato nel corsetto. «Fermo Assur!» Il sussurro fu accompagnato da una mano delicata ma decisa che si appoggiò sul suo polso robusto. «Non è questo il momento!» «Cosa diavolo ci fa Amina qui! Dev’essere accaduto qualcosa di terribile ad Almissa!» Assur era furente e Lucilla dovette faticare parecchio per impedirgli di gettarsi sui soldati. L’intuizione del pirata, di aspettare nascosti sino alle prime ore del mattino, prima di alzare le vele e prendere il mare si era rivelata sensata. Assur l’aveva condotta, già in mattinata, in una minuscola capanna al limitare del bosco, poi, dopo aver attentamente controllato che non ci fosse nessuno nei paraggi, aveva iniziato a scavare tra le radici di un grande faggio. Dopo dieci minuti, Lucilla fissava incredula un piccolo forziere colmo di gioielli e monete doro. «Il nostro salvacondotto per la libertà!» Le aveva sussurrato divertito il pirata, mentre con cura trasferiva quel piccolo tesoro in robuste bisacce di cuoio.

«Ci sono altri due nascondigli come questo! É stata un’idea di mio padre e in tutti questi anni li abbiamo sempre riforniti costantemente. C’è quanto basta per vivere agiatamente per il resto dei nostri giorni!» Poi si erano distesi all’interno della capanna, attendendo la notte e la fuga per la libertà.

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«Eppure non ci sono dubbi! Amina li ha condotti qui! Non riesco a credere che possa avermi tradito!» «Calma Assur, ai visto che era legata!» «Non quando è arrivata però!» L’occhio attento del pirata aveva notato la relativa libertà della sua compagna quando i soldati erano piombati nella taverna, e Lucilla non seppe cosa rispondere. Con estrema cautela avevano seguito i movimenti dei soldati, e quando Amina fu trascinata nella stalla gli occhi di Assur lanciarono vampate di collera repressa. «Io un’idea ce l’ho!» Disse rapidamente Lucilla, più che altro per distrarre il suo compagno da qualche azione avventata e il pirata volse lentamente la testa verso di lei. «Conosco l’uomo che li comanda, è un fantasma del mio ato e mi chiedo come diavolo sia comparso in questo luogo, ma ti assicuro che è estremamente astuto e a questo punto non mi meraviglierei che ci fosse lui dietro la trappola di Chioggia.» Poi dopo aver dato di sfuggita un’occhiata ad Assur continuò: «E anche per quanto riguarda Amina non è difficile intuire il sentimento che l’ha spinta a condurli qui!» Assur arrossì violentemente sotto la pelle abbronzata. «Impossibile che sia per gelosia, non era ancora successo nulla tra di noi quando siamo salpati! Sai benissimo che è successo tutto dopo la nostra fuga da Chioggia!»

«Che stupido che sei! Amina se avesse potuto, mi avrebbe sgozzato il primo giorno! Possibile che voi uomini queste cose non le notiate mai! Adelmo non ci avrà messo sicuramente molto a metterle il dubbio, specialmente dopo la nostra fuga a due! Spero solo che non l’abbiano torturata, nelle sue condizioni…» Lucilla si morse la lingua in ritardo, era talmente preoccupata per la donna che aveva dimenticato con chi stava parlando. «Condizioni? Quali condizioni?» «Lascia perdere, non è il momento.» Balbettò Lucilla imbarazzata, ma Assur le afferrò i polsi con rabbia. «Vuoi dire che è incinta? Che sta aspettando un figlio mio?» La donna abbassò la testa confusa. «I sintomi c’erano tutti… ne sono quasi sicura…» «É incinta o no!!» «Sì.» Il pirata cadde in ginocchio, la testa tra le mani, mentre la donna si accoccolava accanto a lui silenziosa.

Un’ora dopo, due ombre scivolavano silenziose lungo il muro della stalla, per arrestarsi poi sotto l’unica finestrella debolmente illuminata. Con cautela Assur lanciò una veloce occhiata all’interno. A parte una vecchia mucca e un asino spelacchiato, solamente due soldati facevano la guardia ad Amina, tutti gli altri si erano trovati un posto nella taverna, lontano dal tanfo di letame che ammorbava la piccola stalla. «Pazienza, piccola puledra, ancora una mezz’oretta e erà la ronda, poi potremo divertirci un poco assieme! Intanto tu riscaldati, a me piacciono calde le cagne come te!»

«Ha ragione il mio compagno,» s’intromise l’altro soldato, mentre sfiorava con il dorso della mano la guancia della donna, «devi allenarti a tenerla in caldo, puoi essere certa che saranno in parecchi quelli che ti allargheranno le cosce prima che il boia ti metta la corda attorno al collo!» «Ehi! Tonio!» Riprese il primo uomo, «non è che quei bastardi con la scusa del cambio ci fottono il divertimento e si scopano per primi questa puttana?» «Ne sarebbero anche capaci! Soprattutto Checo! Con quel palo che si ritrova tra le gambe non deve vedere l’ora di divertirsi con questo bel culo!» «Alla malora! Tieni d’occhio la porta! Sono talmente in tiro che te la lascio tra qualche minuto, giusto il tempo di vedere come urla questa gatta selvatica.» Poi mentre il compagno si avviava ridendo verso la porta, il soldato incominciò a sbottonarsi i pantaloni. Amina, fissava il membro turgido puntato verso di lei con aria furibonda, ma le funi che la stringevano alla ruota del carro non le concedevano il minimo movimento. L’uomo fece un o avanti, ma poi il suo pene incominciò ad abbassarsi, sino a pendergli inerme tra le cosce. La donna sollevò gli occhi verso il viso del soldato, ma il suo sguardo si arrestò alla gola, dove una lama luccicante faceva un forte contrasto con i peli scuri della barba mal rasata. Un rapido guizzo di luce e la lama si colorò di rosso. «Ciao piccola! Cosa ci fai da queste parti?» Lo sguardo glaciale di Assur sembrava voler penetrare le pupille della compagna, ma con la rapidità di una rondine Lucilla si intromise tra i due e iniziò a recidere i legami di Amina. La maledizione che scaturì dalle labbra secche della sua rivale gli fece capire che non aveva tempo da perdere. «Zitta! Qualunque cosa ti abbia detto Adelmo è falsa! Siamo qui per liberarti!

Ora segui il tuo uomo e non fare domande!» Poi, senza degnare nessuno dei due di un solo sguardo, si diresse verso l’uscita, dove il cadavere dell’altro soldato giaceva scomposto. Quando le fiaccole presero a danzare impazzite sulla spiaggia, la vela di Assur era già gonfia di vento, invisibile nel nero della notte. Al tramonto del giorno dopo, quando all’orizzonte il promontorio del Gargano prese il posto del monte Conero, ormai solo un ricordo alle loro spalle, Assur portò l’imbarcazione ad arenarsi dolcemente su una piccola spiaggia deserta. Erano state ore difficili per tutti e si lasciarono cadere sulla sabbia ancora calda con un sospiro di sollievo. are quelle ore sulla piccola barca sotto lo sguardo inquisitore di Amina, era stata per Lucilla una fatica immane, ma la cosa che più l’aveva fatta soffrire era la mancanza degli abbracci di Assur che, chiaramente lacerato da sentimenti contrastanti, non aveva mai abbandonato il timone, lo sguardo puntato oltre la prua, carico di rabbia repressa. Amina invece, conscia del suo tradimento, aveva atteso la sua inevitabile punizione accovacciata a prua, insensibile alla fame e alla sete, lanciando in continuazione sguardi carichi d’odio profondo verso Lucilla. Dopo qualche minuto Assur le fece alzare, conducendole poi con sicurezza lontano dalla spiaggia, sino a raggiungere un piccolo ruscello in cui scorreva rapida un’acqua limpida e freschissima. «Oltre quel boschetto c’è un piccolo villaggio, dove potremo fermarci per la notte e acquistare cibo per i prossimi giorni. Lasciate parlare me e non date confidenza a nessuno! Non hanno nulla contro i pirati, ma nemmeno li amano e noi tre non eremo certo inosservati. Comunque domani faremo la traversata e metteremo l’intero adriatico tra noi e i cani veneziani che ci stanno alle calcagna.» Solo dopo cena, seduti solitari davanti al camino dell’unica taverna del borgo, iniziarono a raccontarsi a vicenda gli eventi di cui erano stati protagonisti. Lucilla venne così a conoscenza dell’incursione ad Almissa, dove Amina era

stata fatta prigioniera, e del fatto sconvolgente che Adelmo fosse alla caccia di Varro, oltretutto con tutta la potenza della Serenissima alle spalle, mentre la compagna di Assan fu messa al corrente dell’imboscata a Chioggia e dei particolari della loro fuga. Il pirata gettò un nuovo ceppo sul fuoco, poi con uno sguardo glaciale fissò Amina in volto. «É vero che porti in grembo mio figlio?» La donna sussultò, voltandosi a guardare spaventata Lucilla, poi con estrema dignità riportò lo sguardo verso il suo uomo. «So che non sarà certamente perché porto nella pancia un figlio tuo che perdonerai il mio tradimento. Ma ti prego, dopo che sarà nato, vorrei vederlo almeno una volta, prima di essere cacciata via!» Il volto di Assur era di pietra, ma Lucilla aveva da ore intuito che l’uomo aveva già fatto la sua scelta e approfittando che la donna non la stava in quel momento guardando, fece un lento cenno di assenso con il capo. Gli occhi del pirata brillarono di dolore, ma non un muscolo si mosse sul suo volto. «Tradirmi è stata la cosa più ignominiosa che potevi fare. Se fossimo sulla mia nave darei l’ordine di frustarti a morte un secondo dopo la nascita di mio figlio!» Amina era di marmo, il bel volto affilato illuminato solamente dai guizzi delle fiamme del camino. «Ma non siamo sulla mia nave e i miei compagni sono tutti morti.» L’uomo aveva lasciato cadere le mani in grembo e si fissava il palmo calloso delle mani come per vedervi il suo futuro. «Ora sono solamente un uomo senza patria, che sta per avere un figlio e che deve decidere del suo futuro.» I minuti arono lenti, senza che nessuno dei tre avesse il coraggio di guardare in volto i compagni.

Infine la voce di Assur superò di poco il crepitio delle fiamme. «Lucilla, ti lascerò una parte del bottino, vedi di farne buon uso, io e la mia famiglia prenderemo il mare domani mattina all’alba e affideremo il nostro destino nelle mani di Thor.» Poi con decisione si alzò in piedi, e senza il minimo tentennamento tese la mano aperta verso Amina, che lo stava fissando allibita.

All’alba, in piedi sul piccolo molo, Lucilla fissava la piccola vela che ormai si confondeva con l’orizzonte, poi, una volta scomparsa, lasciò scorrere lo sguardo sulla vastità del mare che aveva di fronte e un senso di angoscia le artigliò il cuore. Nonostante che Amina le avesse più volte chiesto di unirsi a loro, almeno sino a quanto non avessero raggiunto la costa albanese, lei aveva sempre rifiutato cortesemente, ma con estrema fermezza. Aveva compreso la difficile scelta di Assur e la rispettava, ma sapeva anche benissimo che non potevano più stare vicini, nemmeno per le poche ore della traversata, il loro doveva essere un distacco netto e irreversibile, solo così Assur sarebbe riuscito a mantenere l’impegno preso con Amina e con il figlio che doveva nascere. Quando il pirata le aveva consegnato una pesante borsa con la sua parte di tesoro, l’aveva fissata a lungo negli occhi e in quegli istanti lei aveva visto transitare tutto l’amore che l’uomo provava per lei. Poi Assur si era voltato e con o fermo aveva raggiunto la sua barca per aiutare la compagna a salire a bordo e Lucilla vide in quel momento un uomo nuovo, in cui il pirata era ormai solo un fantasma del ato. Ora davanti a lei c’era solamente un uomo che sfidava il destino per conquistare un futuro per lui e per la sua famiglia, e incredibilmente a compiere quella trasformazione era stato l’amore che aveva provato e che innegabilmente continuava ad avere per lei. L’ultimo sguardo di Assur fu lancinante nell’intensità del suo dolore, ma poi

l’uomo volse il capo verso Amina e un sorriso gli increspò il volto ribelle.

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La solitudine divenne enorme e la libertà che finalmente aveva conquistato, minacciò di sopraffarla, ma solamente una volta che voltò le spalle al mare comprese il rischio che veramente stava correndo. Era libera di andare dove voleva e la pesante borsa che aveva in mano le garantiva un lungo periodo di benessere, ma era sola, e una donna che viaggiava non accompagnata era una cosa inconcepibile, senza un uomo al suo fianco, sarebbe stata immediatamente notata e qualsiasi balordo si sarebbe immediatamente buttato su di lei. Con prudenza quindi, si tenne ai margini della strada e con il dubbio che avrebbe fatto meglio ad accettare l’offerta di Amina, si diresse a sud. Al tramonto però era realmente spaventata. Per due volte era riuscita a gettarsi nel bosco al aggio di alcuni gruppetti di soldati mal armati, evidentemente alla ricerca di un padrone o solamente dediti al brigantaggio e l’idea di entrare in una locanda per are la notte la terrorizzava. Per quanto potesse pagarsi una camera confortevole, era certa che, appena notato che viaggiava senza scorta, chiunque avrebbe potuto sfondare la porta di notte, con l’unico risultato che il suo tesoro avrebbe preso il volo e lei avrebbe rimediato una coltellata nel cuore, dopo naturalmente che i suoi aggressori si fossero divertiti a sufficienza con il suo corpo. Ma anche trascorrere le notti nei boschi non era certo una soluzione. Un vociare alle sue spalle la fece nuovamente rifugiare nella macchia, e dopo pochi minuti una decina di pellegrini comparvero dalla curva della strada. Bene acquattata dietro un folto cespuglio di gelso li osservò are, il gruppo pregava incessantemente e la cantilena dava loro il o, anche se notevolmente

stanco e indolente. Probabilmente dovevano aver percorso la via Francigena sino a Roma e ora continuavano la loro strada diretti a Gerusalemme. L’idea di unirsi a loro le ò come un lampo nel cervello, ma considerò che ugualmente avrebbe corso seri rischi, una femmina sola era sempre guardata male e soprattutto le donne del gruppo si sarebbero rivelate immediatamente ostili e sospettose. Poi uno scamlio attirò la sua attenzione. Quando comprese di cosa si trattava, si ritirò istintivamente ancora di più all’ombra del gelso, mentre però un’intuizione le faceva lentamente affiorare il sorriso sulle labbra.

Avvistarono il porto di Molfetta all’alba del 7 settembre, e Varro soddisfatto fece un cenno al capitano della galea, che si affrettò a confermare a tutto l’equipaggio che si erano guadagnati il premio supplementare promesso dall’armatore. Re Ladislao aveva da poco concesso alla città l’istituzione di una fiera franca da tenersi ogni anno dall’8 al 15 settembre, e in quei giorni si concentravano nel porto pugliese i migliori mercanti dell’intero mediterraneo. Varro aveva due galee cariche di preziose lane inglesi e del ricercatissimo “grosgrain”, oltre che di piombo e stagno, e quella era l’occasione giusta per realizzare il guadagno necessario per permettergli di dedicarsi alla sua nuova missione. La morte di Lucilla non gli aveva lasciato nel cuore solamente un vuoto infinito, ma il dolore di non essere riuscito ad ottenere il suo perdono, aveva fatto si che la vita stessa, per lui, non avesse più alcun valore. Qualsiasi iniziativa proposta da Goffredo non era stata in grado di generare nel suo animo il benché minimo interesse, e aveva lasciato al fedele amico il compito di occuparsi di tutte le cose materiali, rinchiudendosi sempre più in se stesso e nei suoi studi.

Ma poi nel porto di Anversa aveva conosciuto uno strano prete se e affascinato dal carisma dell’uomo lo aveva seguito prima a Londra, per poi proseguire sino a Brecon, dove venne presentato al principe di Galles in persona, Owain Glyndwr! Conquistato dalle idee del principe e dalla sua lotta di insurrezione verso la corona inglese, Varro ne sposò la causa, ma considerando le proprie finanze inadeguate per lo scopo, decise di intraprendere un ulteriore viaggio commerciale. Già nei primi porti inglesi avevano venduto tutta la mercanzia acquistata a Girne, e il loro affare si era talmente rivelato proficuo che, sentendosi appagati, avevano deciso di abbandonare il convoglio veneziano per cercare fortuna in quella terra così diversa dalla loro, ma ora, con la prospettiva di impegnarsi addirittura in una insurrezione che riguardava un intero regno, una maggior disponibilità di capitali era quasi indispensabile. Aiutato dai signori fedeli a Owain, riuscì ad acquistare a ottimi prezzi merce di prima qualità, e grazie ai buoni rapporti che aveva conservato con i comandanti veneziani, riottenne la disponibilità di due galee già pronte per il viaggio di ritorno. L’obiettivo era proprio la settimana di mercato a Molfetta, dal momento che ritornare a Venezia sarebbe stato, per lui e Goffredo, assolutamente impensabile. Ora, mentre l’intera muda delle Fiandre entrava in porto, Varro studiava interessato il caotico andirivieni dei barconi carichi sin quasi oltre il livello di galleggiamento, intenti a trasbordare mercanzie dalle navi alle banchine, dove centinaia di commercianti si contendevano a suon di monete d’oro primizie e rarità che giungevano da ogni dove. Gli armatori della muda veneziana avevano mandato avanti già da alcuni giorni una staffetta per prenotare un approdo direttamente alla banchina centrale, e a spargere tra i mercanti le voci sulle varietà e sulla qualità delle merci che sarebbero arrivate. Quindi fu con enorme sorpresa che, appena le loro galee furono ormeggiate al molo, al posto degli agenti di commercio, i capitani si trovarono di fronte i soldati della Serenissima.

Varro fu immediatamente individuato e arrestato e lo stesso Goffredo dovette la sua vita al semplice fatto che, aspettando ricchi mercanti, in quel momento si stava cambiando d’abito ed era lontano dalla sua spada. Una dozzina di soldati piombarono nella sua cabina prima che i marinai potessero avvertirlo e dopo una breve zuffa si ritrovò incatenato, assieme a Maddalena, su un carro dove già giaceva un Varro furente. Il tempo di scambiarsi un’occhiata interrogativa, che una risata alle loro spalle li fece voltare. «Bentornati signori! Il Doge in persona è ansioso di ricevervi e il suo boia sta già affilando i suoi attrezzi di lavoro.» Facendosi largo tra i soldati che circondavano il carro, Adelmo arrivò così vicino a loro che poterono avvertire il profumo dolciastro con cui aveva cosparso i lussuosi abiti che portava. Poi di fronte ai loro occhi sgranati, si fece dare un plico dal servo che gli stava a fianco e puntandolo verso di loro annunciò a tutti che i tre venivano arrestati per ordine diretto del Consiglio dei Dieci con l’accusa di alto tradimento e che ogni loro bene venisse immediatamente confiscato. Quando il carro scortato dai soldati, scomparve alla sua vista, Adelmo si voltò verso il molo, dove Selenio e i suoi uomini erano già pronti a salire a bordo delle due galee appena sequestrate. L’equipaggio sarebbe stato immediatamente sostituito e i due scafi trainati a una banchina isolata. Adelmo sorrise al pensiero che al mattino seguente non ci sarebbe stata più la benchè minima traccia delle due galee e che a Cipro due grandi magazzini erano già pronti da giorni a ricevere quel preziosissimo carico. Il piano che aveva concordato mesi prima con Selenio, era riuscito alla perfezione. Il Doge avrebbe appreso che, mentre i suoi due prigionieri erano in viaggio verso Venezia, le loro navi erano invece riuscite a fuggire e Adelmo, dal momento che scortava i traditori, non avrebbe potuto essere incolpato di nulla.

Poi, una volta visti i suoi nemici penzolare dalla forca e intascato il lucroso premio che aveva concordato con la Serenissima, sarebbe salpato a sua volta per Cipro, dove avrebbe diviso con il suo socio l’immenso guadagno derivato dalla vendita delle mercanzie inglesi. Con il sorriso ancora stampato sul viso, si diresse soddisfatto verso l’insegna che raffigurava due pesci spada impegnati in un improbabile duello, la taverna non era granché, ma il culo della cameriera mora gli era stato impresso dalla sera precedente. Niente di meglio per prepararsi a una lunga traversata su quelle dannate onde sempre in movimento.

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Il carro con la gabbia di ferro è già in vista della galea da guerra, dove l’Ammiraglio Pisani attende ansioso i prigionieri, quando un gruppo di mendicanti finisce davanti alle zampe dei cavalli. I soldati della scorta, imprecando, prendono a colpire con il piatto delle loro spade la banda di disperati, ma ottengono solamente di generare una furiosa bagarre che ben presto acquista l’aria di una vera e propria zuffa. Inferocite, le guardie alzano allora determinate le loro lame, ma solo per arretrare esterrefatte quando si trovano di fronte a una decina di lebbrosi, dalle bende putride e maleodoranti. I cavalli che trainano il carro si sono intanto imbizzarriti e scartando con violenza urtano alcune bancarelle che costeggiano la via. Lo schianto genera un confusione incredibile, soprattutto quando un grande tendone colorato si rovescia sul carro. Varro viene afferrato per le spalle e violentemente trascinato a terra, solo per essere poi immediatamente spinto, da mani brutali, in un viottolo di terra battuta. All’improvviso di fronte a lui si apre una porticina di legno e viene catapultato dentro una stanza buia, subito seguito da altri due corpi che gli cadono addosso, e solo dalla bestemmia che rotola nel nulla comprende che il corpo più grosso è quello di Goffredo. Fuori intanto i mendicanti sono spariti e si odono solamente le violente imprecazioni dei soldati che, sgomenti, menano fendenti inutili al tendone sotto al quale non c’è più nessuno. Nella stanza invece, si accendono improvvisamente una mezza dozzina di lampade ad olio e la loro luce accecante fa strizzare gli occhi ai tre prigionieri, poi Varro riesce a mettere a fuoco le bianche figure che ha di fronte e rimane

paralizzato. Allineati contro le pareti, una ventina di lebbrosi li stanno fissando con cattiveria, da sotto grandi cappucci calcati sugli occhi. Bende macchiate e moncherini orrendi vengono puntati verso di loro, mentre risate cadaveriche iniziano a serpeggiare tra quelle figure rivoltanti. Varro, a fatica, si mette in piedi, e subito avverte contro la sua, la spalla massiccia di Goffredo. Hanno ancora ambedue le mani saldamente legate dietro la schiena e possono quindi opporre ai loro sequestratori solamente il loro coraggio. Maddalena, ai loro piedi, tenta inutilmente di coprirsi le cosce che nella caduta sono rimaste esposte, ma la gonna le si è incastrata sotto il corpo e i suoi movimenti scomposti servono solo a metterle sempre più in mostra. Le risate aumentano di intensità e una figura si stacca dal gruppo per porsi di fronte a loro, il cappuccio di stoffa grezza manda un’ombra scura su un volto completamente avvolto da bende, celando lo sguardo dello sconosciuto dentro un nulla crudele e angosciante. Goffredo fa un o avanti, ma un pugnale compare nella mano del lebbroso e la punta acuminata si arresta implacabile a un millimetro dalla sua gola esposta, ma il soldato non batte ciglio. Il pugnale lo ricaccia indietro, poi la figura si accuccia su Maddalena e con la punta della lama affilata solleva maggiormente la gonna. «Se solo osi toccarla con un dito ti spappolo quel poco di cervello marcio che ti rimane sotto le bende!» Goffredo è nuovamente balzato in avanti, ignorando completamente il pugnale che ancora una volta cerca la sua gola, ma inaspettatamente il lebbroso scoppia a ridere. «Volevo solo accertarmi che la cucina inglese non avesse provocato danni, ma vedo che Maddalena ha ancora lo stesso culetto che ricordavo!!»

Poi lo strano personaggio si toglie il cappuccio e con un rapido movimento abbassa le bende che gli celano il volto. Agli occhi esterrefatti dei tre appare una Lucilla in piena crisi di ilarità, con le lacrime agli occhi e i singulti che le fanno sobbalzare i folti ricci sul viso paonazzo. Poi la donna riesce finalmente a controllarsi, e sporgendosi in avanti appoggia un leggero bacio sulla guancia di un Goffredo completamente disorientato. «Scusami, ma è stato impossibile resistere! Quando vi ho visti legati come salami non ho saputo trattenermi!» Poi tornata improvvisamente seria, la donna si avvicina a Varro. «Sembra che il destino, nonostante tutto, non abbia voluto dividerci. E forse questo dovrebbe farci riflettere.» Dieci minuti dopo l’intera stanza ha cambiato aspetto, un caldo fuoco è stato nel camino e sono comparse olive, forme di formaggio, grosse pagnotte e un paio di orci di vino. Goffredo è stato il primo a riaversi, e incapace di resistere alla curiosità si sta facendo raccontare tutto da Lucilla, mentre la donna, seduta accanto a Maddalena, la tiene per mano come farebbe una sorella che tenta di scusarsi per un brutto scherzo appena compiuto. «Quando poi Assur salpò con la sua donna…» continua intanto Lucilla, «mi trovai nella seria difficoltà di garantirmi l’incolumità. Per una donna sola è impossibile muoversi liberamente, ma fortunatamente il aggio di un gruppo di pellegrini diretti in Terrasanta mi diede l’idea. Al loro seguito sovente ci sono gruppetti di derelitti che vivono con quello che rimane delle elemosine raccolte lungo la strada e soprattutto i lebbrosi sono attentamente tenuti a distanza. Quindi se non potevo are inosservata, l’unica soluzione era quella di diventare visibilissima. Mi procurai quindi delle bende, un mantello e misi dei grossi campanacci sulla cima di un robusto bastone, poi mi accodai al primo gruppo diretto a Gerusalemme. Da più di un anno ormai, vivo in questo modo.» «Ma loro?»

Goffredo intanto ha fatto girare lo sguardo per la stanza. La maggior parte dei lebbrosi era subito sparita, ma alcuni erano rimasti e si stavano occupavano tranquillamente delle faccende domestiche. «Come avrai notato sono tutte donne! Alcune come me, sono sanissime, altre invece hanno superato la malattia o sono vedove o sorelle di lebbrosi che, pur rimanendo immuni dal contagio, ne hanno condiviso la sorte. Non hai idea della disperazione che c’è in giro, solo vivendo come un reietto scopri il mondo assurdo e miserabile in cui sono costretti a vivere. Senza volerlo ho iniziato ad aiutare i più bisognosi, preparando semplici rimedi per le loro ferite e bevande che alleviassero i loro tormenti e ben presto mi sono trovata al centro di una comunità di disperati.» Una ragazza intanto si avvicina per porgere a Goffredo un nuovo boccale di vino, anche lei si è tolta le bende dal viso e senza il mantello mette in mostra le forme piene di una contadinotta robusta. «Irene per esempio» riprende Lucilla, mentre la ringrazia con un cenno del capo, «aveva un marito che la picchiava in continuazione e quando una sera le fece perdere il figlio che aveva in grembo a furia di calci, aspettò che si addormentasse e gli tagliò la gola, poi venne da me in condizioni pietose. Gli svelai il mio trucco e la convinsi a fare altrettanto, salvandole la vita. Ma la voce circolò ugualmente e altre donne arrivarono.» «Sei incredibile!» Goffredo ha l’espressione di chi sta ascoltando racconti di guerra e guarda Lucilla come se fosse un eroe appena uscito dal campo di battaglia. «Ma come hai fatto a trovarti la fuori proprio mentre avamo noi? La vostra è stata un’imboscata accuratamente preparata e per fare una cosa simile ci vuole tempo!» Lucilla lancia uno sguardo fugace verso Varro, ma l’uomo è rinchiuso in se stesso, gli occhi lucidi e l’aria spaesata di chi non sa che pesci prendere, lontanissima dall’uomo sicuro che ricordava. «Non hai idea delle cose che vengono a sapere i mendicanti! Se in futuro dovrai organizzare una rete di spie ricordati delle mie parole e rimarrai sorpreso.

Comunque già avevo saputo da Amina che Adelmo e l’intera Serenissima erano sulle vostre tracce, ma non avevo la minima idea di come poter fare per avvertirvi. Se avevo risolto per il momento il problema della mia incolumità, non potevo certo partire per l’Inghilterra! Ma ugualmente venni a sapere che molti convogli, soprattutto da quando è stato organizzato il mercato, si fermavano a Molfetta durante il viaggio di ritorno e così decisi di fermarmi in zona per un po’, rinunciando a cercare fortuna altrove. Sia perché proprio non avevo idea di dove andare, sia perché ormai qui avevamo costituito quella che può chiamarsi una famiglia, nonostante sia costituita solo da donne.» Poi, dopo aver dato un bacio a Maddalena sulla fronte, si alza per scegliere alcune boccette da una credenza accanto alla finestra e date rapide indicazioni a una delle donne, la manda via in tutta fretta. «Scusate, ma ho parecchi malati che hanno bisogno di cure continue, non faccio certo miracoli, ma almeno soffrono un po’ di meno. Comunque, per quello che ci riguarda, una settimana fa buttò l’ancora in porto una galea veneziana da guerra e Adelmo fece vedere il suo brutto muso in tutte le taverne della città. Compresi immediatamente che era sulle vostre tracce e lo feci tenere sotto controllo dai miei mendicanti. Il resto lo conoscete!» «Ti dobbiamo la vita!» Varro pronunciò le sue prime parole, e lo sforzo che fece per trattenere l’emozione fu palese a tutti. «E non solo la vita!» Lucilla esplose in una nuova risata enigmatica. «Sono venuta anche a sapere che Adelmo e un certo Selenio, hanno in animo di far sparire le vostre navi per nasconderle poi a Cipro, ma in porto c’è ancora la galea da guerra veneziana e ora che siete fuggiti, sicuramente ci rimarrà a lungo. Non riusciranno certamente a far prendere il largo alle navi come speravano e quindi significa che anche i vostri averi al momento sono al sicuro, non nelle vostre mani di sicuro, ma ugualmente in un forziere sorvegliatissimo.» Goffredo balzò in piedi eccitato. «Giuro donna, che alla prossima guerra ti prenderò come luogotenente!»

Poi rivolgendosi a Varro sussurrò: «Non tutto è perduto, amico mio!»

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Adelmo era su tutte le furie, non solo l’Ammiraglio Pisani lo aveva insultato davanti a tutti per essersi fatto sfuggire i prigionieri dalle mani, ma Selenio stesso aveva minacciato di tagliargli la gola personalmente se non riusciva a trovare il modo di far uscire immediatamente dal porto le due galee dei mercanti. Per quanto si arrovellasse il cervello, non riusciva a comprendere come potesse essere accaduta una cosa simile e soprattutto chi avesse potuto anche solo aver pensato di far fuggire dei prigionieri della Serenissima. L’ammiraglio aveva immediatamente mandato in giro per le taverne e le piazze dei banditori che promettevano spietate ripercussioni su tutta la popolazione se non venivano immediatamente ritrovati i fuggiaschi, ma le pesanti proteste che immediatamente erano arrivate dai potenti mercanti presenti in quei giorni di fiera, preoccupatissimi per i loro affari, l’avevano convinto a modificare la minaccia in una lauta taglia sul capo dei tre ricercati. Quindi Adelmo non fu per nulla stupito quando, appena uscito da una bettola, un mendicante guercio e zoppo gli fece cenno di seguirlo. Con una mano sull’impugnatura del suo pugnale, la spia lo seguì in un vicolo deserto, pronto a difendersi da un’eventuale imboscata, ma l’uomo sembrava completamente innocuo e con voce titubante gli chiese se veramente i veneziani erano disposti a pagare una taglia sui tre fuggitivi. «Certamente! Ma solo dopo che li avremo tra le mani! Bada, se tenti di fregarmi ti ritrovi impiccato sull’albero maestro dell’ammiraglia!» L’uomo perse ad un tratto tutta la sua aria intimorita e Adelmo estrasse veloce il pugnale. «Quello non serve amico mio!»

Sibilò il mendicante mentre si guardava attorno furtivo. «Devi solo dire al tuo ammiraglio che se vuole i suoi tre uccellini deve sborsare ben di più di quella miseria che ha promesso!» Adelmo gli puntò il coltello alla gola. «Bastardo! Cosa pensi di fare?» «Calma amico! Se mi uccidi non riavrai mai quei tre! Sono ben custoditi credimi! Non penserai certo che abbiamo fatto tutta questa fatica per poche monete d’argento, vero?» Un lampo ò nel cervello di Adelmo. Incredibile, qualcuno aveva rapito i prigionieri per chiedere un riscatto a Venezia! Evidentemente i tagliagole locali avevano intuito che tutta quella mobilitazione era dovuta a qualcosa che alla Serenissima importava parecchio e l’arresto di due ricchi commercianti aveva consolidato la loro impressione, quindi avevano deciso di metterci lo zampino, sperando in un proficuo affare. Tentando di reprimere il sorriso che gli era affiorato sulle labbra, abbassò la lama, e sottovoce chiese quanti soldi volessero. L’entità della cifra lo fece barcollare, ma poi si rese conto che proprio l’enormità del riscatto rivelava quanto fossero inesperti i sequestratori, non sarebbe stato difficile stanare in seguito quei piccoli topi dalle loro fogne. Sicuramente la stessa guarnigione di stanza a Molfetta doveva conoscere benissimo i delinquenti della zona e li avrebbero presi uno per uno senza sforzo. Doveva solo prendere tempo. «Farò avere la vostra richiesta all’Ammiraglio Pisani, ma non voglio che venga torto un solo capello ai prigionieri! É importantissimo che arrivino vivi davanti al Consiglio dei Dieci!» «Non ti preoccupare! Sono in buone mani e saranno trattati con le dovute cure!»

«Come mi metto in contatto con voi?» «Ti ritrovo io, e ti dirò come farci avere l’oro!» Dilettanti! Con il sorriso sulle labbra Adelmo si diresse verso il porto, l’ammiraglio sarebbe stato soddisfatto dalle novità, ma ancora più sorpreso sarebbe stato quella serpe di Selenio. Il suo socio lo preoccupava, nulla gli avrebbe impedito di riservagli un’accoglienza calorosa una volta che fosse ritornato a Cipro, e andare nella tana del lupo per intascare la propria parte di bottino poteva significare per lui una ventina di centimetri d’acciaio affilato nella pancia, quindi doveva sbarazzarsi di quel bastardo, e alla svelta!

«É così Ammiraglio! Ormai è una cosa certa! Hanno organizzato l’attacco al carro non per far fuggire i prigionieri, ma per chiederne il riscatto! Devono aver capito quanto Venezia tiene a quei due e hanno pensato di ricavarne un bel gruzzoletto!» «La cifra è impensabile! Il Consiglio non approverà mai una spesa simile, nemmeno per riavere quei traditori!» «Non si preoccupi, Ammiraglio, non un solo zecchino uscirà dai forzieri della Serenissima. Le mie spie mi hanno già portato importanti informazioni e a breve avrò l’intera lista dei bastardi che hanno organizzato questo guaio.» «Te lo auguro! Il Doge sarà furibondo e lo stesso Consiglio dei Dieci chiederà la tua testa in caso di fallimento!» «Al mio collo ci tengo, non tema! Al massimo ci sarà bisogno di ungere qualche gola un po’ secca, ma nulla che qualche moneta d’oro e una buona lama non possano fare! E un nome posso già farglielo, quello di un certo Selenio. Non è un tagliagole del posto, piuttosto un pirata a quanto mi hanno detto, e quindi potrei avere bisogno dei suoi soldati.» L’ammiraglio, scuro in volto, fece un gesto al suo attendente che, dopo aver

aperto un cassetto dello scrittoio, lanciò ad Adelmo un sacchetto di monete. «Avrai tutto l’aiuto che ti serve! Ma voglio quei due traditori nella stiva della mia galea e i bastardi che li hanno fatti fuggire impiccati ai pennoni prima di domani sera! O sarà la tua carcassa che ingrasserà i gabbiani!» Adelmo scese dalla galea preoccupato, doveva organizzare un piano perfetto nel giro di poche ore, rintracciare i sequestratori, riprendersi Varro e Goffredo e far arrestare Selenio e i suoi pirati dai soldati della Serenissima. La cosa era difficile ma non impossibile, soprattutto ora che la sua pelle era in pericolo, sapeva bene che l’ammiraglio non scherzava affatto quando aveva minacciato d’impiccarlo all’albero maestro. Puntò deciso verso il comando di guarnigione, facendo sobbalzare il pesante sacchetto di monete appeso alla cintura e due ore dopo sapeva esattamente chi erano e dove si trovavano i più loschi individui del porto. Con il morale decisamente più alto tornò alla sua locanda e immediatamente fece cenno alla cameriera nera di raggiungerlo in camera, ragionava meglio dopo, e quella notte lui avrebbe avuto bisogno di tutta la sua lucidità, in poche ore si sarebbe giocato la vita e sicuramente avrebbe collaborato a farla finire a un bel mucchio di persone. Così, quando al posto della cameriera in camera sua entrò il guercio che l’aveva avvicinato nel pomeriggio, andò su tutte le furie. Con un balzo afferrò l’uomo per il collo e lo gettò a terra, poi puntandogli un ginocchio nella pancia gli lasciò una lunga striscia di sangue su una guancia con la punta del suo pugnale. «Lurido maiale! L’ammiraglio non pagherà mai il riscatto ma il gioco ora lo conduco ugualmente io! Io me ne frego dei prigionieri e c’è ugualmente in ballo molto più oro di quello che tu abbia mai immaginato, ma ne tu ne quelle merde dei tuoi compari siete in grado di prenderlo. Ora ti spiego cosa voglio e farai bene a tenere le orecchie bene aperte. Tu adesso mi porti dove tenete i prigionieri e mi farai parlare con i tuoi capi. Ci metteremo d’accordo, non temere, non intascherete certo quell’assurdità che avete chiesto, ma ti assicuro che un bel mucchio d’oro entrerà ugualmente nelle vostre tasche.»

L’uomo lo fissava terrorizzato, poi lentamente annuì con il capo e mezz’ora dopo Adelmo era in una stanza fumosa, attorniato da decine di occhi che lo fissavano con cattiveria. Per nulla impressionato, prese una sedia e si accomodò all’unico tavolo, dove si versò con calma un boccale di vino scuro. «Ora voi lavorate per me! Ho già tutti i vostri nomi e i soldati non ci metterebbero nulla a venire a prendervi uno per uno e impiccarvi sull’ammiraglia che c’è in porto. Ma io ho un altro progetto.» Un mormorio serpeggiò tra gli uomini presenti e Adelmo li fissò negli occhi uno per uno. «Voi bastardi, avete messo le vostre luride mani su un colpo più grosso di quanto il vostro cervello possa comprendere e avete mandato all’aria un piano progettato sin nei più piccoli dettagli. Ma il diavolo, per qualche ragione sconosciuta, deve volervi bene e quindi vi propongo un’alternativa.» Attorno a lui gli uomini discutevano apertamente tra di loro, ma più di qualche sguardo si indirizzava già verso Adelmo con palese interesse. «Chi è il vostro capo?» Chiese con aria annoiata Adelmo. Uno sguardo imbarazzato corse tra gli uomini presenti nella sala, poi il guercio che aveva contattato Adelmo e che evidentemente si era arrogato la veste di portavoce dell’intero gruppo, si fece avanti baldanzoso. «Qui siamo tutti capi!» «Non dire fesserie! Mi prendi per scemo? Il sequestro è stato organizzato alla perfezione e questo significa che ha lavorato una sola mente e che oltretutto sa come farsi ubbidire!!» Un mormorio impacciato tornò a circolare nel gruppo, poi nuovamente il guercio prese la parola. «Un capo c’era, ma l’abbiamo… destituito!»

«Cosa intendete dire?» «Il… vecchio capo voleva liberarli, ma noi abbiamo pensato che si poteva invece ottenere un bel riscatto, visto l’interesse che dimostrava la Serenissima verso di loro.» «Come liberare?» Adelmo era balzato in piedi perplesso, cos’era quella storia? Qualcuno aveva organizzato la liberazione di Varro? Ma chi diavolo poteva essere? E come faceva ad essere al corrente dei suoi piani? Con aria truce fece girare lo sguardo sul volto dei balordi che aveva di fronte, poi con gesto plateale tolse il sacchetto di monete che portava alla cintura e lo rovesciò sul tavolo. La bramosia che lampeggiò negli occhi degli uomini alla vista dell’oro, lo convinse di averli in mano. «Questo è solo un misero acconto! Ma ora mi raccontate tutta la storia e che sia la verità!» Mezz’ora dopo, fissava dallo spioncino di una robusta porta Lucilla, che camminava furiosa avanti e indietro nella piccola cella. Quella donna aveva la capacità di stupirlo ogni volta e nel profondo del cuore ne ammirava la determinazione e l’intelligenza, ma l’averla finalmente nelle sue mani gli faceva girare la testa dall’eccitazione. Quando quella banda di stupidi mendicanti gli avevano raccontato della donna che li comandava, non aveva voluto credere alle loro parole, e solo dopo che con i suoi occhi l’aveva vista nella stanzetta dove gli uomini l’avevano rinchiusa, aveva ringraziato il diavolo per essersi ricordato di lui. «E l’uomo che era con lei?»

Chiese al guercio, preoccupato. «Non c’era nessuno con lei! Si faceva are per una lebbrosa per muoversi liberamente, ma da quando è comparsa, più di un anno fa, nessun uomo le è stato accanto!» Quindi Assur l’aveva abbandonata al suo destino e Lucilla non aveva trovato di meglio che spacciarsi per una reietta per salvarsi la pelle, astuta la ragazza, ma non abbastanza per non venire tradita da stupidi tagliagole. «Fatemi vedere i prigionieri!» Il guercio fece girare lo sguardo tra i compagni, poi al loro cenno d’assenso lo condusse in una casa poco lontana, dove in una fredda cantina trovò Varro e Goffredo legati come salami a delle grosse botti. «Che bello rivedervi! Non siete andati molto lontano a quanto vedo!» «Bastardo! Appena ti metto le mani addosso…» «Calma capitano, l’unico che metterà le mani addosso a qualcuno sarà il boia del Doge, e non sarò certamente io quello che gioirà delle sue attenzioni!» Poi si voltò verso quelli che ormai erano diventati i suoi uomini con aria interrogativa. «E la donna che era con loro?» L’imbarazzo si mescolò a risate sommesse. «Veramente è un bellissima donna, e pensando che fosse sprecata in una prigione… l’abbiamo messa a lavorare con le altre puttane. Oltretutto è muta! Così oltre a non rompere i coglioni, non potrà mai nemmeno raccontare a nessuno la sua storia.» L’urlo di rabbia di Goffredo fece scoppiare Adelmo in una risata crudele. «Povero capitano! Tu sotto i ferri del boia e la tua donna sotto ben altri ferri! A quanto ne so, in questo bel posto ano i più robusti marinai del mediterraneo! E quasi quasi un giretto con lei me lo faccio anch’io prima d’imbarcarmi, così

avrò qualcosa da raccontarti durante il viaggio sino a Venezia.» Il ruggito di Goffredo fece indietreggiare l’intero gruppo e anche Adelmo ebbe un attimo di smarrimento, poi si riprese e dopo aver lanciato uno sguardo a Varro, che se ne stava immobile, come inebetito, uscì dalla cantina dentro una risata sguaiata.

47

«E ora aprite bene le orecchie!» Disse Adelmo appena ritornati nella casa dov’era tenuta prigioniera Lucilla. «Da questo momento prenderete ordini solo da me, almeno finché non realizzeremo il piano che ho progettato, poi ognuno per la sua strada e già vi posso assicurare che quel giorno le vostre tasche saranno notevolmente pesanti.» Il mormorio d’approvazione che serpeggiò per tutto il gruppo, lo rassicurò notevolmente e dopo essersi nuovamente seduto picchiò con la mano aperta sul tavolo per ottenere il silenzio. «Ora manderò il guercio sulla galea da guerra con una missiva per l’Ammiraglio Pisani. Sopra sarà indicato il nascondiglio di chi ha organizzato il rapimento…» L’improvviso brusio lo fece sorridere. «Non abbiate paura, non sarete certamente voi i colpevoli!» Poi, dopo aver fatto girare lo sguardo sui volti stupiti riprese. «I furfanti che si prenderanno tutte le colpe sono altri e il guercio guiderà direttamente i soldati ad arrestarli.» Poi, visto che naturalmente gli uomini che aveva di fronte non comprendevano si decise a spiegare: «Avevo fatto un accordo per fare sparire le due galee da merchado arrivate con la muda delle Fiandre, ma non solo siete arrivati voi a rompere le uova nel paniere, ma anche i miei ex soci si sono rivelati poco affidabili. Ora voi li sostituirete occupandovi delle navi, mentre loro finiranno ai ferri nelle prigioni veneziane. L’unico pericolo è il loro capo, un certo Selenio, che non deve assolutamente parlare o per noi è finita.»

«Ma quelle due navi sono piene come uova! Devono avere a bordo merci per un valore enorme!» Mormorò una voce nel gruppo. «E noi ce lo spartiremo!» Urlò Adelmo picchiando un pugno sul tavolo. Gli uomini non riuscirono più a trattenersi e grandi pacche vennero scambiate sulle spalle, mentre capaci brocche di vino comparvero dal nulla. Un uomo magro, con una lunga cicatrice sulla guancia si fece avanti titubante, quasi timoroso di guardare Adelmo negli occhi. «Io questo Selenio lo conosco. É un pirata del nord ed è molto pericoloso!» La banda di mendicanti ammutolì di colpo. «Per questo mando i soldati!» Riprese serio Adelmo. «Ho solo bisogno che, una volta che ha i ferri addosso, un coltello ben fermo faccia un lavoro rapido sulla sua gola. Quell’uomo non deve parlare con nessuno!» «Se è solo per questo la mia lama è affilatissima,» sorrise uomo, mostrando una fila di denti guasti, «se mi assicuri che i soldati lo incateneranno, puoi stare cero che non arriverà mai alla nave Ammiraglia. «Guarda che deve sembrare una zuffa o un regolamento di conti tra farabutti! Pisani non deve sospettare che è stato messo a tacere!» La risata che circolò tra gli uomini fece raddrizzare le spalle al mendicante, che dopo aver fatto girare uno sguardo d’intesa tra i suoi compagni, mormorò orgoglioso: «Se è solo per questo, hai appena comprato i migliori professionisti che potevi desiderare, tu manda i soldati a fare il lavoro duro, in quanto a quello fino lascia

fare a noi!» Un’ora dopo Adelmo fissava voglioso Lucilla dallo spioncino, che ormai esausta si era rannicchiata in un angolo della stanza, la voleva, ma non era ancora giunto il momento, prima doveva liberarsi di Selenio e organizzare la fuga delle galee, poi avrebbe avuto tutto il tempo per tagliare le unghie a quella gatta selvaggia.

L’ammiraglio Pisani fissava scuro in volto il plico che aveva tra le mani, alternando lo sguardo tra il foglio e il viso del pezzente che aveva di fronte, un individuo disgustoso che si grattava in continuazione una benda lercia che gli copriva un occhio. «Tu sai dove si trova questa “Taverna dell’orso”?» «Certamente eccellenza!» Il mendicante era evidentemente intimorito di trovarsi sul ponte della galea da guerra e le mani nervose degli ufficiali, posate sull’elsa delle loro spade, non lo tranquillizzavano certamente. «Puoi portarci i miei uomini?» «Arriveremo silenziosissimi! Conosco un vicolo che sbuca proprio accanto all’uscita secondaria. Nessuno avrà il tempo di fuggire!» «Come mai Adelmo non è venuto di persona?» «Ha detto di avvertire Vostra Eccellenza che doveva controllare che tutta la banda dei rapitori fosse al completo, soprattutto il loro capo, quel Selenio!» Ancora dubbioso Pisani si consultò con lo sguardo con i suoi ufficiali, poi con un sospiro prese la sua decisione. «Capitano! Raduni i suoi uomini migliori! Non uno di quei bastardi ci deve sfuggire! E voglio quel Varro e il suo compare davanti a me prima dell’alba!»

Adelmo sapeva di rischiare grosso, ma aveva dovuto per forza gettarsi nella tana del lupo. Con una scusa aveva dato appuntamento a Selenio alla “Taverna dell’orso” e aveva finto di mostrarsi preoccupato quando il suo socio gli aveva anticipato che sarebbe arrivato accompagnato dal grosso dei suoi uomini, evidentemente anche il pirata non si fidava affatto di lui e voleva proteggersi le spalle. «Allora, hai trovato il modo per far uscire le navi dal porto?» Il tono aggressivo di Selenio provocò un sussulto ad Adelmo, che lanciò immediatamente uno sguardo falsamente preoccupato ai due tavoli poco distanti, dove la ciurma del pirata lo stava fissando truce. «Tranquillo! Ho già pagato alcuni marinai fidati che nella notte si daranno da fare con le loro asce sotto la carena della galea da guerra. Nulla di serio, solo alcune piccole falle, ma che obbligheranno domani l’ammiraglio a far tirare in secco la nave per controllare. Inoltre ieri ho beccato l’ufficiale del secondo turno che si faceva fare un lavoretto da uno dei mozzi, e dal momento che Pisani non tollera questo genere di cose durante il servizio, il poveraccio rischia parecchio. Quindi già domani notte, poco prima dell’alba, farete uscire in silenzio le galee da merchado dal porto, mentre lui guarderà da un’altra parte, e con l’ammiraglia in secco nessuno potrà darvi la caccia.» «Mi sembra un buon piano.» Ammise il pirata, mentre distrattamente faceva un cenno ai suoi uomini, poi, visibilmente più rilassato, attirò l’attenzione dell’oste che immediatamente mandò al loro tavolo una brocca di vino e un grosso piatto di formaggio. Quando un’ora dopo i soldati della Serenissima irruppero nella taverna, la ciurma del pirata era quasi completamente sbronza, grazie anche alla botticella di vino forte offerta nel frattempo da Adelmo. Selenio balzò in piedi sfoderando il suo lungo coltello, ma immediatamente tre uomini gli piombarono addosso, e quando anche i soldati si unirono alla zuffa, Selenio aveva ormai il manico di un pugnale che gli spuntava dalle costole. Mentre i soldati avevano ragione sugli ultimi pirati, il guercio si avvicinò ad Adelmo e sottovoce gli comunicò che i suoi uomini erano già al lavoro sotto la

carena dell’ammiraglia. «Capitano! Faccia mettere ai ferri questi uomini e che non parlino con nessuno! Poi raduni una decina di uomini e mi accompagni a prelevare i fuggiaschi.» Venti minuti dopo il gruppetto di soldati era appostato all’angolo della casa dov’erano tenuti prigionieri Varro e Goffredo. Adelmo fissò il capitano veneziano negli occhi. «Lei rimanga di guardia qui fuori. É meglio se entro solo io con i miei due uomini. Se i pirati vi vedono sarebbero capacissimi di tagliare la gola ai prigionieri, mentre invece il Doge li vuole vivi e in grado di parlare. Una volta neutralizzati i guardiani vi faro chiamare, in modo che possiate poi scortarci dall’ammiraglio Pisani.» Quindi senza attendere risposta si accostò all’uscio della casa e con fare circospetto bussò discretamente sul legno il segnale convenuto. Immediatamente il pesante battente si scostò quel tanto che bastava per far are i tre uomini, richiudendosi poi immediatamente alle loro spalle. Solo la luce tremolante di una candela illuminava malamente la stanza, ma ugualmente Adelmo vide la preoccupazione sui volti dei mendicanti che costituivano ormai la sua banda. «É fatta ragazzi! Ora non ci resta che fare un po’ di baccano, come se ci fossimo azzuffati, poi noi tre porteremo fuori Varro e Goffredo, mentre voi, appena ce ne saremo andati, correrete a raggiungere il resto della banda sulle galee. All’alba dovrete essere già in alto mare. Liberi e ricchi!!» Poi, mentre gli uomini iniziavano a prendere a calci le sedie e a rovesciare mobili, si diresse a o rapido verso la cantina. Due lebbrosi, con il cappuccio calato sugli occhi, erano di guardia alla porta e istintivamente Adelmo rabbrividì nel argli accanto. Alla luce della fiaccola retta dal guercio, le botti mandavano ombre tremolanti e inquietanti, ma dei prigionieri non vi era traccia.

«Dove diavolo sono?» Urlò Adelmo mentre si voltava verso i due guardiani, ma l’incredulità lo lasciò paralizzato. I due lebbrosi si erano nel frattempo tolti i cappucci e gli occhi di Varro e Goffredo lo stavano fissando beffardi. «Non avrai mica pensato di essere l’unico capace a ordine tranelli, vero?» Adelmo arrivò solo a sfiorare il manico del suo coltello che la punta della spada di Goffredo gli graffiò il collo. «Ti conviene rimanere fermo o sarà l’ultimo gesto che farai!» Il capitano sorrideva, ma i suoi occhi mandavano gli stessi bagliori dell’acciaio della lama sguainata. «Ora, mentre tu te ne stai tranquillo in questa bellissima cantina, noi ce ne andiamo indisturbati, non senza averti prima ringraziato sentitamente per averci levato dai piedi i tuoi ex soci, trovato il sistema di bloccare la galea da guerra veneziana e tenute al sicuro le nostre navi con tutte le mercanzie. Lucilla avrebbe voluto dati un bacio di persona, ma in questo momento è troppo occupata a organizzare il nuovo equipaggio delle navi, e ha incaricato noi di porgerti i suoi saluti.» «Bastardi…» La furia di Adelmo terminò contro l’affilata lama di un coltello che, dopo aver incrociato la punta della spada di Goffredo, aprì una sottile linea rossa sulla gola dell’uomo. «No!» Urlò il capitano, ma già le ginocchia dell’ormai ex spia del vescovo di Novara si erano piegate, e il corpo scivolò pesantemente ai piedi del guercio. «Lo so che lo volevate vivo, ma dalle nostre parti le serpi si decapitano, non si sa mai quando possono mordere. Voi ora ve ne andrete, ma noi viviamo qui e non possiamo permetterci di rischiare il collo.»

Goffredo, ancora con la spada sollevata, fissò furente l’uomo che aveva di fronte, ma poi con un sospiro rimise l’arma sotto il mantello, mentre Varro levata una mano in alto, tracciò una veloce croce sopra il corpo riverso ai loro piedi. Cinque minuti dopo lo scamlio stonato, che proveniva dal bastone di due lebbrosi, fece arretrare maggiormente i soldati veneziani in attesa nell’ombra, che rimasero silenziosi a fissare i loro sporchi mantelli che venivano inghiottiti dalla notte.

48

Il piano di Lucilla era stato geniale e la sua banda di accattoni si era comportata in modo perfetto. Le due galee da merchado avevano lasciato alle primissime luci dell’alba il porto di Molfetta in perfetto silenzio, ma l’allarme era stato ugualmente dato e l’ammiraglia era salpata subito dopo di loro. Nella notte però, gli uomini di Lucilla non si erano solo limitati a fare seri danni alla carena, ma avevano anche attaccato alla chiglia lunghe cime a cui erano stati legati robusti canestri colmi di sassi. Appesantita e con il fasciame che faceva acqua, ben presto la galea da guerra fu obbligata a virare e a riguadagnare il porto, nonostante le urla e le bestemmie dell’ammiraglio Pisani che dall’alto del cassero fissava furioso le vele dei fuggitivi che rimpicciolivano all’orizzonte. Dall’altra parte dell’orizzonte altri occhi fissavano le vele della Serenissima rimpicciolire e quando queste scomparvero definitivamente un brivido di sollievo scosse i corpi delle quattro persone abbracciate a poppa della grande galea. Rimasero a lungo a fissare silenziose il mare vuoto, poi lentamente si allontanarono. Solo Lucilla continuò a fissare la tremolante linea dell’orizzonte senza muovere un muscolo. Non rimase però sola a lungo e la persona che aspettava da tanto tempo finalmente si materializzò al suo fianco. Lucilla avvertì prima il suo odore, una familiare fragranza di muschio che ora si fondeva con la fresca salsedine che saliva dalla scia lasciata dalla nave, poi avvertì il suo corpo solido contro le spalle e si lasciò abbracciare, finalmente in

pace. «Ti aspettavo!» Una morbida barba bionda scese a farle solletico sul collo, poi un lieve bacio dietro l’orecchio le fece scorrere un lungo brivido lungo la schiena. «Ti amo!» Mormorò la donna. «Nigredo.» Lucilla si irrigidì. «Albedo.» Continuò la voce. «Rubedo.» Terminò Lucilla con un sussurro. La stretta più forte dell’uomo gli incendiò il corpo e il mondo attorno a lei parve dilatarsi a dismisura. Poi il mare, la nave, le nuvole ripresero la loro forma originale e Lucilla avvertì l’aria fresca asciugarle la schiena. Nuovamente sola chiuse gli occhi. “Nigredo”, l’opera al nero in cui la materia si dissolve andando in putrefazione. “Albedo”, l’opera al bianco dove essa poi si purifica, sublimandosi. “Rubedo”, l’opera al rosso, lo stadio in cui si ricompone, diventando altro. Ancora incapace di accettare la verità aguzzò lo sguardo verso un altro punto dell’orizzonte, dove un uomo per amore aveva cambiato se stesso e veleggiava con la sua famiglia verso il futuro, poi il fruscio delle grandi vele della galea la riportò ulteriormente alla realtà.

Un leggero luccichio accanto alla sua mano attirò la sua attenzione e con delicatezza prese tra il pollice e l’indice un piccolo granello metallico. Una minuscola pepita d’oro scintillò alla luce del sole ormai alto sull’orizzonte. “L’Amore, è stato il tuo Amore a fare tutto.” Le parole frusciarono nell’aria, assieme al profumo di muschio, poi solo i battito delle vele scandì il are del tempo. Lucilla allungò il braccio, e con un sorriso affidò alle onde del mare l’ultimo regalo dell’Alchimista.

Fine