Segni particolari
A B B R O N Z A T I S S I M A
Roxanne D. Costa
Titolo | Segni particolari abbronzatissima
Autore | Roxanne D. Costa
ISBN | 9788891182807
Prima edizione digitale: 2015
© Tutti i diritti riservati all’Autore
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Indice
I. A nessuno frega di tua nonna
II. ‘Sta cazzo di cittadinanza
III. Il nuovo il vecchio e il nero
IV. Orgoglio vero
V. Quando esce il 3G?
VI. Toto Cutugno
VII. Clandestina
VIII. Poker face
Il razzismo va un casino quest’anno.
Fa tendenza. Razzismo ovunque, a perdita d’occhio. Cos’è veramente il razzismo? Lo domandate a me? Perché proprio a me? Perché sono di colore, forse? Questo è razzismo. Pensare che io sia tenuta a sapere qualcosa di più riguardo il razzismo rispetto voi per via dei miei ricci è razzista. Insinuare che io non sia italiana fino in fondo, nonostante la mia carta d’identità lo certifichi, vuol dire essere razzisti. Razzista, tuttavia, per quanto se ne dica, non è una parolaccia. Al contrario, ogni razzista è trendy quest’anno. Fa così now. E poi, in fondo, seppure razzisti, in cuor nostro siamo pur sempre tutti fratelli giusto? Amen sorella!
Ecco, questo libro è dedicato a tutti voi fratelli. In queste pagine, mi riferirò a voi rispettivamente come “fratelli d’Africa”, oppure come “fratelli d’Italia”. Immedesimatevi nei primi se vedete nella crema schiarente non un prodotto di bellezza ma un insulto ad una epica lotta sociale che finisce ogni frase in “… e tra le altre cose è anche cancerogena”. Se le frasi invece le iniziate con “questi vogliono fare i padroni a casa nostra…” consideratevi pure i secondi.
Lascio infine al lettore, il compito di decretare se quello di cui parlo sia assurdo, ridicolo, oltraggioso, oppure se invece l’assurdo stia nel vivere la propria vita segnati dal make up di cui si fa uso.
A nessuno frega di tua nonna
Questo libro non tratta di razzismo :( questo libro tratta esclusivamente di me e del rapporto che vivo con la mia nazione. Non lasciatevi ingannare dai miei ricci, io non sono “the change”. Non sto portando novità, io sono la vecchia solfa. Non sto gettando le basi per una società multiculturale. Sto cercando di ritrovare la cultura nel mio paese.
Non parlo dell’Italia di cui tutti parlano oggigiorno, quell'Italia che sta cambiando, quell'Italia che sta evolvendo, quell'Italia che sta mutando forma. Non parlo di un Italia perennemente congelata in un tempo indefinito e incompiuto come il gerundio che si usa di solito. Parlo al presente parlo di ora non mi rivolgo ad un futuro verso il quale mi trovo perennemente a qualche o, parlo di questa Italia. Questa, oggi, ragazzi miei è l’Italia. È il mio paese, a me frega poco e niente del colore della pelle delle generazioni precedenti in Italia. Tua nonna? Non me la sono mai cagata quella pelata. Io sono italiana, lo sono oggi, ora in questo momento e questo mi basta. Non mi interessa delle tradizioni che credete io non conosca. Mi duole dover spiccare in quel folklore a cui siete affezionati, ma questo, è il vecchio mondo odierno, iniziate a correre se non volete rimanere indietro. Questo paese è mio. Io non devo integrarmi, voglio metterlo in chiaro da subito. Non sono tenuta, e ad essere sincera non ci tengo. Integratevi voi se ci tenete. Adattatevi voi a me. Continuate ad immaginarmi diversa da voi, e integratevi con la diversità che ritenete più opportuna. Qui non facciamo il giro tondo tenendoci per mano scrivendo “il razzismo è brutto” sulla lavagna. Se volete essere razzisti fate pure. Integratevi, non integratevi, fate un po’ come vi pare.
‘Sta cazzo di cittadinanza
La cittadinanza, da sempre croce e delizia dei fratelli d'Italia. Vivono un rapporto conflittuale con l’idea di cittadinanza e le leggi che la determinano. Diciamo che è un nervo scoperto. È un argomento delicato come minimo. Se parli di cittadinanza, i fratelli d'Italia diventano isterici. Non toccategli il aporto, o si fanno tutti nervosetti. Saltano alla giugulare. Eppure, molto probabilmente uno su due non saprebbe neanche spiegare a parole sue il concetto stesso. In fondo, è un principio complesso, dal significato vasto. Rappresentazione dei diritti e doveri che vincolano il proprio rapporto con una determinata nazione. Non si dovrebbe confonderlo con la propria identità o nientedimeno ridurlo ad un vaga idea di appartenenza civile, etnica, culturale sancita da un contratto. Un pezzo di carta che ovviamente, può fare un enorme differenza, mache resta pur sempre un semplice pezzo di carta. I fratelli d’Italia il concetto non lo comprendono fino in fondo. Non lo saprebbero scrivere in stampatello. Tuttavia, questa benedetta cittadinanza ai figli di immigrati nati in Italia non la vogliono concedere. Ci stanno attaccati e non la mollano.
Credo veramente che abbiano una sorta di complesso psicologico a riguardo. Una condizione qualsiasi del cittadino, alla stregua dello stato coniugale per fare un esempio, finisce in Italia, per essere di interesse pubblico. C’è molta confusione. Isteria, oserei dire. È pieno di parrucchiere in Italia. “Cosa c’è scritto sulla tua carta d’identità?”. “Non sei italiana!”. Basta cliccare “Like” su una pagina Facebook dove si discuta del tema, per ricevere aggiornamenti e post nei quali poter leggere commenti feroci come: “MAI!!! Gli stranieri non saranno MAI Italiani! Punto e basta!!!”. Oppure: “Neanche per sogno!!! Che pensino a gli Italiani prima! Non ci servono altre persone!”. “Italiani si nasce non si diventa! Dovranno are sul mio cadavere!”. Postano anche le meme. Foto di scimmie e commenti volgari. E via col tormentone estivo: “Non esistono Italiani neri”. Me li immagino dietro il monitor ad inveire contro quelli che definiscono “non-italiani”. Per mancanza di interesse spesso, per mancanza di istruzione glielo concedo, per mancanza di tempo se vogliamo, non riescono neanche a trovare la nazionalità che vorrebbero attribuire ai loro invasori, così li definiscono semplicemente “non-italiani”. Lì, appena tornati da un lavoro che
hanno paura di perdere per colpa di una crisi che non finisce mai, seduti a picchiettare sulla tastiera del loro portatile, commentando alla meno peggio quello che credono di credere. Fa oggettivamente sorridere vedere quanto esagerino. Ridicolo.
Ci erei le serate a leggere certi post.
Divertita quanto perplessa, mi ritrovo a domandarmi incuriosita da dove nasca tutto questo odio. Perché tutta questa insicurezza da sfogare? Perché tanta violenza repressa? Un escalation senza fine di prepotenza andata a male. E poi, mi chiedo, perché interessarsi alla condizione giuridica di un bambino non vostro? È come se si proponesse di dare la cittadinanza ai figli degli immigrati levandola a i loro. Nessuno vi ha interpellato. “Maledettiiii!!! Tornate in Africa.” Ragazzi, diamoci una calmata, è solo un neonato, tra l’altro non ci è mai stato in Africa. Keep calm, and mind your business come direbbe la regina. Perché catalizzare tutta la propria frustrazione contro la carta d’identità del figlio di un immigrato? Si perché un immigrato che diventa italiano dopo anni di pazienza e un solenne giuramento lo accettano, ma l’idea che uno in Italia, italiano ci nasca, non la mandano proprio giù. Perché prendersi una giornata di ferie per andare a protestare affinché ogni bambino che nasca in Italia non abbia genitori stranieri? È davvero così spaventosa l’idea che questi pargoli propongono? Vi fa così paura un lattante? Riguarda un antica profezia di cui non sono al corrente? A me sembra follia. Ho vissuto finora in tre nazioni diverse, ho parenti in tre continenti su cinque, e giuro, non ho mai visto tanta ione riversata nella meticolosa attenzione per la documentazione altrui. Inizio a temere che girando per un Ikea di Roma mi possano chiedere la pianta catastale di casa alla cassa. Davvero, mi chiedo cosa stuzzichi la curiosità dei fratelli d'Italia negli affari dei figli degli immigrati, e semmai possa esistere, quale sia la motivazione che li spinge a opporsi con tale vigore al riconoscimento della loro nazionalità italiana. Perché non solo l’interesse stesso per la questione è curioso, ma soprattutto la sua portata. Cosa motiva un giovane a mettere più impegno e costanza nel contrastare lo Ius Soli che nel cercare lavoro? Tanta confusione.
Tra le principali motivazioni che creano la confusione e spingono i fratelli d'Italia a rigettare l’idea, prima di tutto vi è la superficialissima identificazione del nascituro con l’immigrato stesso, dunque reo del reato più infame si possa commettere in Italia di questi tempi. Da qui il protezionismo verso l’identità nazionale, sociale, culturale ed economica. Lo so, suona sarcastico, ma non lo è. I fratelli d'Italia credono davvero che il paese possa ancora vantare un identità culturale ed economica. Credo sia ovvio come intromettersi nel rapporto tra un essere umano e la terra stessa su cui nasce sia moralmente ed eticamente riprovevole, quello che più mi interessa è capire come l’aspetto politico o pratico della questione possa attirare l’attenzione di una così larga parte dei fratelli d'Italia, che a loro dire, ultimamente di problemi cui pensare ne avrebbero già ad abbondante sufficienza. Qual’è il vantaggio nel disconoscere questi bambini, e quale è la minaccia nel riconoscerli? Ma soprattutto, e questo mi fa impazzire mentre me lo domando, quale è lo Ius che impugnano quando credono di aver diritto di opinione a riguardo? Su quali basi si ritengono “più italiani”, per parafrasarli, di quei bambini tanto da aver diritto di veto sulla loro italianità?
Mi domando questo, visto che in Italia quando si parla di cittadinanza, si deve necessariamente menzionare l’argomento immigrazione. I fratelli d’Italia, adorano aggiungere l’immigrazione al discorso. Come il parmigiano sui maccheroni. “Aggiungi, aggiungi”. “Ancora un pizzico”. Ne vanno ghiotti. Non basta mai. Dove è il vero nesso tra i temi immigrazione e cittadinanza? Cosa hanno fatto i fratelli d’Italia di così diverso rispetto a gli immigrati per essere Italiani? Semplice: sono nati in Italia. Dunque perché ostracizzare ragazzi nati in Italia esattamente come loro? Come piccole birbe, rispondono facendo le linguacce “Nooooo! Non basta nascere in Italia. Noi abbiamo anche la mamma Italiana e voi no! Pappappero!”. Ecco la clausola, serve la mamma italiana per essere italiani. Tu guarda, che razza di legge dispettosa che vanno difendendo. Sono adorabili. Vogliono scoraggiare i figli degli immigrati nel definirsi Italiani e nel sentirsi tali, appellandosi ad una legge che non li riconosce, per colpa dei genitori. Li emarginano. Gli mettono i bastoni tra le ruote. Gli complicano le cose. Anche le più semplici. Gli fanno i dispetti augurandosi questi ragazzi cambino idea su dove siano nati prima di farsi maggiorenni. Avete mai visto il sito web del ministero? Provate a immedesimarvi in questi ragazzi per una buona volta. Andate nella sezione domande frequenti. Inviate un messaggio. Non funziona. Nel 2015 un sito web del genere è incostituzionale. Burocrazia lenta, arretratezza tecnologica, mancanza di sportelli informativi. Io solo per terrore di
quel sito web e di file a gli sportelli, annullerei ogni domanda; non vorrei mai dover aver nulla a che fare con richieste di cittadinanza. Tanta incompetenza e inettitudine scoraggerebbe chiunque nel fare domanda. L’Italia è una distributrice di biglietti automatica con attaccato un cartello con su scritto a mano: “Guasto - aut of horder”. I fratelli d’Italia, combattono la loro guerra a colpi d’incompetenza, assenteismo, e tanta tanta confusione.
Spesso dietro l’esigenza di quel riconoscimento, oltre l’aspetto civile, troviamo la banalissima necessità del quotidiano. La praticità di poter fare un viaggio in Europa senza are per la questura ad esempio. Poter partecipare ad un concorso, o giocare in una squadra giovanile. Magari un giorno perché no, votare. Ius Soli, gli dai il via, “Immigrato!” iniziano a ripetere. Riflesso spontaneo. Perché attaccano con il ritornello sincopato su gli immigrati quando si parla di Ius Soli? Perché parlano di stranieri, quando io parlo di bambini nati in Italia? Lo Ius Soli è forse l’occasione più opportuna per poter sfogare la propria intolleranza verso gli immigrati? Fanno pagare la loro frustrazione sociale alla prole degli stranieri? E se uno straniero non è un immigrato di che reato è colpevole suo figlio? Stranieri e immigrati sono la stessa medesima razza? Uno straniero in Italia è necessariamente un immigrato e viceversa? Vi sto mandando il cervello in brodo di giuggiole vero? Cerco di capire. Cerco di capirvi. C’è una correlazione diretta tra il senso patriottico per il quale la cittadinanza italiana dovrebbe farsi bandiera, e l’odio verso l’immigrato? Essere cittadini Italiani significa difendere la propria identità nazionale a colpi di intolleranza? Gli autoctoni dicono di difendere la loro cultura, ma in fondo, non è così. Cultura in Italia è finita. Sold out. La devono riordinare da fuori. Diamine, è proprio per questo che scrivo. Tanta intolleranza, e scarsezza di elasticità mentale, sono la manifestazione evidente di una cultura latitante. Ripetono di essere spinti da un senso patriottico. Beh, allora che mostrino un patriottismo sincero, che magari riesca a spingersi al di là del cantare l’inno prima della partita giusto fino al primo “Iddio la creò”. Ci vorrebbe una politica che valorizzi gli Italiani piuttosto che svilire gli immigrati con slogan meschini. Dove possiamo trovarla? Voglio andare in fondo a queste loro contorte argomentazioni, per capire se sono fondate. Voglio capire se c’è davvero solidità nel loro ragionamento, oppure, sono solo le loro solite cazzate. Italiani classici.
I fratelli d'Italia paventano costantemente la minaccia all’identità nazionale e alla loro stessa cultura. Ma di che parlano esattamente? Se intendono Cultura come istruzione, arte, letteratura e creatività, credo ci sia ben poco da difendere ormai. Raffinatezza, eleganza e modestia sono da molto, molto tempo ormai, valori perduti. Archeologia. I musei sono chiusi.
Quei valori hanno ceduto il o all’arroganza, la viltà e una sfrenata grettezza pronta a calpestare ogni idea. E le idee, intese per quello che significano, soluzioni che non esistevano, nuove, originali, rivoluzionarie, non sono più tollerabili in Italia. I fratelli d’Italia oggigiorno cercano la strada più facile, non la più travolgente come ci piace ricordare. Quando non la trovano si danno per vinti. I fratelli d’Italia non sono più quelli di un tempo, creativi affascinanti e sognatori. Ora sono maleducati e poco interessanti. Tristi come comici che non fanno più ridere. In giro per il mondo a mettersi in imbarazzo. Con il loro vestito buono, vanno ripetendo “Made in Italy!”, stringendo una forma di Parmigiano sotto braccio.
Parlano di Cultura riferendosi ad un insieme di valori? Ma quali? Tatuaggi e collane? Se intendono, i valori che fanno l’identità di un popolo, mi domando quali siano esattamente questi valori a cui tengono tanto. Parliamone. Religione? I fratelli d'Italia si sentono cattolici solo quando hanno un mussulmano davanti. Non si può levare il crocifisso da un luogo pubblico, tuttavia si può bestemmiare in serenità in strada. Istruzione? Si sollevano in punta di piedi fino l’altezza della loro terza media, solo quando parlano con uno straniero, altrimenti sono fieri di contraffare la loro palese mancanza di istruzione per genuinità, semplicità o modestia, facendone virtù. Si sentono capaci economicamente solo quando cacciano il mendicante che elemosina spiccioli, altrimenti piangono miseria e sventura. Amore per la loro patria? Dicono di amare la loro città ma la sporcano e la maltrattano perché tutto ciò che è pubblico, non lo sentono in fondo veramente loro. I fratelli d'Italia, ripetono di volere giustizia ma sono i primi a raggirarla anche solo per poche centinaia di euro. Fatalisti nel condannare innocenti, sperando che il turno non tocchi mai loro. Si lamentano della casta politica, per poi mettersi in fila per una casa popolare, senza averne diritto. Senza averne vergogna, chiedono aiuto al compare di turno per non pagare una multa per divieto di sosta. Sognano di essere famosi. I fratelli d'Italia si
ritengono Italiani solo quando devono tener fuori gli immigrati, ma sono i primi a sputare sul proprio paese, in Italia come all’estero. In puntata come in esterna. Sanno che il paese è come loro: per quanto voglia farsi credere elegante e raffinato a gli occhi altrui, in realtà si vende per poco e si affretta a darsi via finché c’è ancora domanda.
La realtà è questa, i fratelli d' Italia hanno perso cultura, religione, patriottismo e senso civico. Non se ne vergognano, non se ne preoccupano, ma si sbracciano per ricordarsi di quei valori con malinconica fantasia, quando a minacciarli è un indifeso su cui potersi prendere rivincite piccole. È un vero peccato.
Da qui il protezionismo. Non vogliono perdere l’opportunità di avere un perenne subalterno a portata di mano. I penultimi della società non vogliono finire ultimi. E come da copione la minaccia resta sempre l’immigrato. “Ci portano via lavoro!”. “Assegnano le case popolari prima a loro! Pensate prima a gli Italiani!”. Ora, se arrivi a poter dire che un immigrato senza permesso di soggiorno, scappato dalla guerra, senza casa, senza saper parlare italiano, sia capace di rubarti il posto di lavoro, dovresti chiederti dove è che hai sbagliato nella vita. Che razza di lavoro fai? Ma soprattutto, quanto sei scarso per farti surclassare da un immigrato in ciabatte e calzini? L’immigrazione non è la causa delle due righe inventate sul vostro curriculum vitae. L’invasione. Protezionismo economico che può comunque andare a farsi benedire quando l’invasore è forte come una multinazionale straniera. Che non si azzardino ad aprire macellerie halal in città; Happy Meal per tutti i bimbi! Forse è il caso di smettere di parlare di protezionismo economico quando è basato su una banale ipocrisia.
Un altra argomentazione da usare contro lo Ius Soli, è quella della tutela del patrimonio etnico italiano. Il punto chiave della loro fanfara alla fine è questo: l’etnia. Per favore, non fatemi iniziare nell’elencare con quante razze l’Italiano si sia meticciato nel corso della storia. Non che ci sia nulla di male, ma Ariani? Caucasici? C’mon son! Credete davvero che nel caso vi trovaste fuggiaschi a New York City i poliziotti alle vostre calcagna, diramerebbero un messaggio alla radio del tipo: “Il soggetto è un maschio, bianco di un metro e novanta per
ottanta chili”. Per favore! Ma che film vi fate? Non parlate di etnia per favore. Eppure i fratelli d’Italia non lo vogliono mandare giù, e credono davvero in cuor loro, di far parte di una precisa etnia. Adorano l’idea di essere cuochi con i baffi e il mandolino sempre pronti a farsi immortalare sui cartoni della pizza, e non vogliono che quell’immagine a gli occhi del mondo così popolare, venga compromessa. “Chi te la tocca quell’immagine?”. Al loro stereotipo etnico Mario e Luigi ci tengono molto, e fanno di tutto per ricordarmi come io non gli somigli. “Sarai Italiana sulla carta, ma non sei proprio Italiana, ti si legge in faccia”. Perché devi affaticarti gli occhi a leggermi in faccia piuttosto che sulla carta d’identità?” rispondo io. “Sono italiana è scritto qui. Carta canta”. Iniziano a negoziare: “Sarai italiana sulla carta ma non sei italiana-italiana”. “Non sei italiana. Di dove sei?” insistono. Io rispondo generalmente “Scusami, sono nata a Tokyo”. Tendenzialmente qui si arrendono. Dico questa bugia bianca per spiegargli come, non sia il caso di fare domande di cui non si possa comprendere la risposta quando è così profonda. Scherzo, faccio così per farli sentire stupidi come appaiono, per onor del vero, per dire al mondo a modo mio: “io so chi sono, da dove vengo e dove vado, non sarà la tua ipocrita curiosità a metterlo in dubbio”. Io so di essere italiana, sono solo i fratelli d’Italia a rimanerne sbigottiti, e neanche la mia documentazione alla mano li convince. Perché per i fratelli d'Italia io rappresento la loro guerra più importante persa in partenza. Io sono la manifestazione della loro stupidità messa in opera. Io sono italiana per Ius Sanguinis. Italiana per dinastia. Io sono italiana dalla nascita. Ero italiana in Etiopia ancor prima di parlare Italiano. Ho parenti italiani a tutti gli effetti, che parlano solo amarico, ma che se volessero potrebbero venire a Roma a fare i cosiddetti “padroni di casa” quando vogliono. Sono italiani. Sono fratelli d'Italia del resto. Pensateci, in questo stesso momento, grazie allo Ius Sanguinis, nascono altri fratelli d'Italia muniti di regolare cittadinanza italiana tanto in paesi del nord europa quanto in paesi del terzo mondo. Migliaia di italiani stanno emigrando verso altri paesi, stanno facendo figli Italiani che non non necessariamente parlano Italiano, non hanno baffi neri e non strimpellano il mandolino. Non sono certo esemplari della stirpe italiana alla quale i fratelli d’Italia credono di appartenere. Eppure quei bambini potranno venire in Italia se e quando lo riterranno opportuno, e nessuno potrà opporsi. Eppure d’italiano, quei bambini non avranno davvero nulla. Ora spiegatemi come può un bambino nato e cresciuto a Roma, essere meno italiano di loro?
Una bambina sta venendo al mondo proprio ora, nella sala parto di un ospedale
di Roma. I suoi genitori non sono italiani, dunque neanche lei. Tra qualche anno quella bambina frequenterà l’asilo, poi le scuole elementari, le medie, le superiori e l’Università. Nel corso di tutto quel tempo parlerà Italiano, guarderà “Amici” e mangerà pasta col tonno come tutti i suoi coetanei. Guiderà uno Scarabeo e porterà Verga agli esami di maturità. Lei però dovrà aspettare diciotto anni di emarginazione e “fare domanda” per rimanere incensurata. Deve chiedere permesso. Affronterà una trafila burocratica che le renderà le cose ancor più difficili e umilianti. Un giorno le urleranno “Hai mangiato abbastanza spaghetti? Torna al tuo paese!”. Come hanno fatto con mia madre. Come se non ci fosse differenza tra loro due. È evidente come questo principio sia scorretto come minimo. Assurdo come l’Italia non comprenda ancora quanto questo approccio non solo sia retrogrado, ma soprattutto quanto rappresenti un’arma a doppio taglio a livello sociale. Non è solo un orrore etico, è anche inverosimilmente idiota. È una mossa goffa di una nazione rincoglionita. Intere generazioni di giovani che sono stati dapprima esclusi, poi evitati e infine umiliati e feriti nel sentirsi divisi dai coetanei con cui sono cresciuti. In fondo, se questi ragazzi volente o nolente, prima o poi, in un modo o nell’altro, si salvi chi può, saranno Italiani anche sulla carta, non sarebbe più umano risparmiargli una adolescenza, un po’ più traumatica di quella degli altri? Piuttosto che bambini italiani, preferiscono produrre immigrati da far diventare italiani una volta adulti. Creano disadattati, complessati. E lo fanno a i loro stessi cittadini. È stupido. Seriamente, negare la nazionalità a i loro figli non fa scappare gli immigrati a mettere su prole altrove, in caso vi auspicaste un semplice deterrente all’immigrazione. L’unico risultato nel negare la cittadinanza ai figli degli immigrati, sta nel numero di stranieri in Italia che cresce sempre di più, all’infinito, perché aggiunge alla somma bambini a tutti gli effetti italiani. Neanche la matematica. “Tra un po’ saranno più stranieri che Italiani” ripetono i tontoloni. Ci credo. Includono tra gli stranieri anche gli stessi nati in Italia.
Il principio di sangue me ne rendo conto, si addice perfettamente al caso italiano in quanto territorio ad alta percentuale migratoria. Molti se ne vanno e troppi vengono, lo Ius Sanguinis sembrerebbe necessario. Tuttavia, i tempi cambiano e così fa il mondo. Ancorandosi nostalgicamente a questo principio di “sangue”, secondo il quale non basta nascere in Italia per essere Italiani, i fratelli d’Italia si illudono di bloccare l’evoluzione naturale del Paese. Un processo che è già in corso da anni e che sarebbe tanto da incoscienti ignorare, quanto da illusi cercare di fermare. Ripeto: da illusi cercare di fermare. L’evoluzione del mondo non si
può frenare. Fossilizzarsi sull’idea di un Italia che amavamo, bella, un Italia da raccontare come una favola che però proprio come una favola una volta cresciuti ci siamo dimenticati, ci impedisce di trovare nuove idee, di inventare nuove favole. L’Italia è ata, pitturiamone una migliore. Se si continua a are il messaggio attraverso la stessa legge che si è Italiani se si ha sangue Italiano, i fratelli d' Italia continueranno a credere che chi è dall’aspetto esotico è sicuramente uno straniero, quando in realtà è italiano ora, spaccandosi, dividendosi e diffidando. Ed ecco che i fratelli d’Italia finiscono per credere che un fratello d'Africa che dice di essere Italiano sia in realtà solo un extracomunitario che è riuscito a mettere in regola i documenti. “Magari sarà stato adottato”. Non si prende però in considerazione l’idea che quel ragazzo possa essere nato qui come loro, che possa essere un compagno di classe della figlia. Non si concepisce sia italiano senza se e senza ma. Senza un background o una cultura diversa dalla loro. La tarantella dura ormai da venti anni almeno, ero piccola. Si deve accettare l’idea che il mondo stia cambiando, ma lo si deve fare ora, non tra cinquanta anni, non abbiamo tutto questo tempo, io vivo oggi, non nel futuro. Vedono un fratello d'Africa per strada e si domandano subito cosa sia, come definirlo. “È un clandestino?”. “Regolare o irregolare? Un ragazzo di seconda generazione o uno adottato?”. Si fanno un’opinione, un’immagine con cui catalogarlo. Ed ancora rieccoci con la costante e ostinata curiosità per i documenti delle persone. Da dove nasce santo cielo questa ossessione per scoprire le carte? Non si accetta l’idea che un fratello d'Africa che cammina per strada sia banalmente Italiano, e non stia a noi sindacare sul suo rapporto con lo stato. Straniero fino a prova contraria. Essere garantisti è chiedere troppo? Che lascino alle dogane il controllo dei aporti. Che se lo ficchino in testa anche i giornalisti: non c’è modo di distinguere gli immigrati dagli Italiani vedendoli camminare in strada. Non esiste nessuno scanner adatto al compito, e non tutti sono nati con il dono del razzismo. “Basta camminare in strada per vedere quanti immigrati vivano nei nostri quartieri”. A me viene da ridere. Credevo di vivere in un paese dove solo l’Istat potesse essere in grado di darmi una stima sul numero di immigrati sul territorio, ma a dire di politici e giornalisti, è sufficiente eggiare in strada e contare i neri. Purtroppo, al di là della legge sul sangue e i documenti in regola, quello che conta per gli occhi dell’intolleranza è solo quella pelle che vede così diversa. Puoi nascere in Italia certo, ma non sei necessariamente Italiano, bisogna controllare i documenti.
Quindi niente cittadinanza per voi, fatevene una ragione voi fratellini d'Africa.
Siete appena nati? Non importa, per i fratelli d'Italia siete sempre e comunque dei mini immigrati. Siete entrati clandestinamente il giorno che sarà il vostro compleanno, e prima vi si sbatte fuori meglio è. Potranno mai i fratelli d' Italia un giorno capire la differenza tra voi e i vostri genitori? No, non c’è differenza. La differenza c’è solo tra voi e l’Italia. Siete nati in Italia per rubare il lavoro ai vostri coetanei. Siete nati in Italia per imporre la vostra cultura. Siete nati in Italia per rallentare l’apprendimento dell’Italiano ai vostri coetanei. Non vi integrerete mai in questo paese perché, nonostante siate appena nati, siete troppo diversi culturalmente. Siete nati in Italia ma non potrete mai essere davvero Italiani. Odio ridere di una situazione così delicata, ma dovete concordare che è ridicolo e imbarazzante per una nazione comportarsi così. La risata cerco di trattenerla ma la pelle d’oca per la vergogna di essere italiana non la riesco a controllare. Sì, perché la questione è davvero così semplice, e il protagonista è solo uno: il bambino appena nato. Per quanto lo vogliate soffocare nella culla un altro italiano è appena nato. Non è importante sapere quale ambasciata ha rilasciato il aporto dei genitori. Quel bambino ha un rapporto diretto con l’Italia. Non gliela potete toccare. Lo capireste se veramente ci teneste al vostro Paese. Un bambino viene al mondo e nel posto dove nasce deve fare la sua casa. Punto. È Vangelo. Tutto il resto è un cavillo. Tutto il resto è violenza contro l’umanità. Come si può non capirlo?
Continuo sinceramente a non comprendere quale sia il motivo di tanta intransigenza, tanta ottusità, ma soprattutto, cosa ci sia di così speciale in questa benedetta cittadinanza italiana. La cittadinanza stessa, non ha nulla a che fare con la facoltà di vivere nel paese che si è scelto. Tantomeno ha a che fare con la dignità umana. Non avere ’sta cazzo di cittadinanza non vuol dire meritare meno rispetto. Averla, tuttavia non significa necessariamente essere accettati o riconosciuti. Questo fin quando si cercherà l’approvazione, l’accettazione e il riconoscimento dagli stessi fratelli d’Italia, i quali ormai, non sanno più cosa voglia dire davvero essere italiani. Ma ancora una volta, ci tengo, vi ricordo che qui parliamo di bambini nati in Italia, non di immigrati. Neonati italiani. Non confondete le carte. Se nascono in Italia, non sono tenuti a dimostrare di essere italiani D.O.C. per usare un modo di dire che vi piace tanto. Non devono essere “italianissimi” per essere italiani. Non sono tenuti a superlativi. Non sono tenuti a integrarsi. Il paese è loro. Dovete capirlo. Vi avrei fatto volentieri un disegnino con i pastelli, ma purtroppo questo è un libro senza le figure.
Il nuovo il vecchio e il nero
Il prossimo che sento cantare “Mama Africa”, giuro che in Africa ce lo porto, e ce lo lascio. Per quanto se la mettano spesso in bocca, per quanto ne parlino a vanvera, dell’Africa le persone ne sanno solo la forma. È un’icona. Un hashtag. Usano la silhouette dell’Africa per farci magliette e orecchini, adesivi e tatuaggi. Anche i bambini la riconoscono, la sanno indicare sul mappamondo, e nei loro disegni avrebbero sicuramente più difficoltà a ritrarre l’Europa che l’Africa. Ma non è certo colpa dei bambini, se l’ Africa è così iconica, è colpa della cultura occidentale in cui viviamo, dei suoi equilibri e delle influenze che subiamo, fin da piccoli appunto. È colpa delle Nazioni Unite, dell’ONU, dell’Unicef. È colpa degli afroamericani e della loro comunità nera. È colpa del Reggae e di Bob Marley che, per quanto sia uno strepitoso musicista che adoro, resta un giamaicano che inneggia l’Africa. È colpa dei partiti politici che identificano gli immigrati con l’Africa stessa. È colpa di chi distorce l’immagine dell’Africa. È in questa confusione che quei bambini di prima, precocemente ottusi, mi chiederanno se parlo l’africano. Mi chiederanno come siano fatte le case in Africa. Mi chiederanno cosa mangiamo noi Africani, e io risponderò sogghignando: “Merda”, lasciando senza risposta la loro ipocrita curiosità. Il mondo è riuscito a fare dell’Africa la quinta essenza della povertà. Uno stereotipo. Prendiamo un po’ di tutto e lo mettiamo dentro un continente. Dentro un unico contenitore, tutto nel frullatore. I confini politici tra stati perdono ogni profilo sulla cartina, così come la loro dignità. Tutte le nazioni si fondono in un unico popolo, con un’unica storia, le stesse identiche tradizioni, la stessa lingua ufficiale. E ancora, lo stesso cibo, lo stesso modo di vivere e, dulcis in fundo, lo stesso disgraziato colore che perde ogni sfumatura. Paesaggi suggestivi, natura e animali selvaggi. Ritmi tribali. Antichi riti e culture. La Coppa d’Africa. Tramonti mozzafiato. Waka-Waka. Wow! Mi viene il mal d’Africa a pensarci! È colore. È etnico. È Afro. Questa è la più grande generalizzazione mai perpetrata. Centinaia di etnie diverse vengono combinate in una sola. Migliaia di tradizioni e culture perdono il loro vero valore fuse in una fasulla commistione. Un continente intero, un quinto del mondo, il venti o trenta percento della popolazione mondiale rimane accomunato sotto un’unica idea. Risponde ad un unico nome. In Africa, tuttavia c’è molto molto di più. Non basta una vita per vivere tutti quei paesi. Eppure con una parola si riduce tutto ad una vaga idea, spesso deviata. Tutto ciò non accade per nessun altro continente. Questo è il
trucco, un vero e proprio lavaggio del cervello. Un clamoroso falso sotto gli occhi di tutti. La convenienza economica dei paesi sviluppati è il motore di questa industria di disinformazione. L’ignoranza e la mancanza di cultura rendono facile tirare le somme. Quella è Africa. Dell’Africa ci insegnano solo quello che vogliono. Solo il peggio o solo il meglio in base all’opportunità. Per essere precisi, quello che meglio si adatta alla propaganda del momento. Ebola e voodoo. Foto di terre devastate dalla siccità si alternano a danze tribali sulle spiagge di Nairobi. Fame e guerra si alternano ad avventurosi safari. L’Europa è la culla di democrazia, cultura e benessere? L’America terra della libertà. L’Africa viene con un sarcasmo ufficializzato la suggestiva e misteriosa regina del Terzo Mondo. Il nuovo continente, il vecchio continente e il continente nero. Il leone dormiente. Ricca e maestosa ma torturata dalle sue sventure, come il protagonista di un romanzo.
Bel trucco. Questa facile associazione di tutti gli Stati con il continente stesso fa estremamente comodo al resto del mondo. L’Africa si fa emblema della povertà. Quinta essenza di inferiorità economica, culturale, sociale e militare. La fogna del mondo globale. Prendiamo ad esempio il Gabon. Quanti sanno con precisione dove si trova il Gabon? Non saperlo va bene, non può essere motivo di biasimo, non possiamo essere tutti Licia Colò. Quello che non va bene, però, è credere che essendo uno stato africano il Gabon, con tutta probabilità sarà simile se non identico al Mali. Se hai visto il Gabon hai visto l’Africa. Il Gabon, da parte sua, seppure volesse, non avrebbe comunque diritto di rifiutare la definizione di stato africano. L’occidente non gli permetterebbe di rifiutare l’accostamento con le nazioni confinanti. Pur volendo, non sarebbe libero di dichiararsi “non africano” nella speranza di discostarsi da un immagine tanto negativa quanto così ben radicata nell’immaginario collettivo. “Beh, questa è geografia” diranno molti. Non sono d’accordo. Io credo che proprio qui, l’oggettività della geografia si incontri al confine con la creatività del marketing più subdolo. Se ci pensiamo, i paesi del Maghreb, seppure tecnicamente lo siano, vengono definiti Africani molto raramente. Lo stesso vale per il Sud Africa ad esempio. Perché non può essere lo stesso per il Gabon? Ripetiamo che le etnie, con la loro cultura, religione, la loro tradizione e il loro storico attaccamento al territorio fondano una nazione. Così consideriamo ovvio, che i paesi che ho preso ad esempio, non rispecchiando l’immagine e la cultura africana, vengano definiti africani quanto il Gabon. Ma la mia domanda è questa: qual’è l’immagine e la cultura africana? Esiste davvero una cosa simile? Perché il
Gabon, non può respingere l’accostamento con l’Africa? Non può, semplicemente perché “Africa” è l’etichetta che il mondo ha cucito sulla pelle del Gabon e di tutti i suoi cittadini in quanto Fratelli d’Africa. Che gli piaccia oppure meno. È la pelle dei suoi cittadini che lo definiscono uno Stato Africano. Non solo si distorce la percezione verso un intero continente, ma il problema vero si viene a creare quando a questa idealizzazione di Africa si accompagna la più grande truffa della storia dell’uomo Fratello d'Africa: convincerlo della legittimità di questo perverso principio attraverso il concetto di Panafricanismo.
Il panafricanismo, è sempre lì, onnipresente. Perenne. È Matrix. Lo potete percepire. Talmente asfissiante che io ne avvertivo la presenza ancor prima di sapere che esistesse un termine per descriverlo. Molto spesso si confonde il panafricanismo per razzismo e viceversa, perché in fondo, si influenzano a vicenda . Il panafricanismo, è per certi versi, il razzismo che le stesse vittime si infliggono. È una penitenza. L’esodo. La diaspora. L’idea di un sottile e invisibile filo che accomuna e unisce tutti i fratelli d'Africa del mondo, in quanto provenienti dall’Africa, ha un impatto devastante sulla società nella quale viviamo. Questo principio è il razzismo stesso. Il fatto che le sue vittime ne abbraccino l’idea ne fa una trappola micidiale. Individui lontani e differenti tra loro vengono identificati, catalogati, etichettati e percepiti come identici in quanto originari del continente Africano. Tra le tante, la più grave conseguenza causata da questo concetto è l’identificazione di qualsiasi Fratello d'Africa del pianeta, come individuo Africano. Nel senso più vago e generico del termine, purtroppo. Ogni Fratello d'Africa, di qualsiasi nazionalità esso sia, viene caratterizzato da radici africane. Un ambasciatore, un portavoce a tutti gli effetti. Tutto ciò provoca per libera associazione una pericolosa generalizzazione che definisce ogni individuo Fratello d'Africa come figlio di Mama Africa, e tutti i Fratelli d'Africa come fratelli, appunto. Ingenuamente, si chiamano fratelli tra loro e gli altri si fanno creativi nel trovare curiosi neologismi per il termine “Africano”. Facile comprendere come tutto questo dia adito a libere e superficiali interpretazioni personali riguardanti l’identità e la reputazione del continente stesso, e conseguentemente dei suoi abitanti. Intendo dire, per semplificare, che ognuno può deliberatamente tirare fuori quello che meglio crede dall’idea di Africa. Se per il mio interlocutore l’Africa è sinonimo di povertà, degrado, ignoranza e corruzione, io sarò mio malgrado inevitabilmente e i n c o n s a p e v o l m e n t e , e s e m p l a r e d i quell’ecosistema. Sarò considerata dal mio interlocutore come povera e non istruita. Purtroppo, il senso
comune tende oggettivamente a vederla in quell’ottica. Così ogni fratello d'Africa del pianeta verrà immaginato come povero, corrotto e violento, come l’Africa. Sarà una vittima, facile da sottomettere come l’Africa. In una parola: inferiore. Da qui l’associazione libera. Si fa razzismo in buona fede. Si accetta l’idea di una supremazia sul continente come sui suoi abitanti. È un riflesso spontaneo di una società assuefatta al concetto, rimbambita dall’idea di un Africa arretrata, sottomessa e per questo compatita. Il diritto di superiorità in confronto di un altro essere umano, viene compreso. Essendo preponderante un’immagine profondamente negativa dell’Africa, l’inconscia associazione tra il nero e l’Africano genera automaticamente quella tra nero e povero. Il reietto. Il piccolo Calimero. L’immigrato, o extracomunitario, è per libera associazione un individuo del terzo mondo, e il terzo mondo a sua volta è immediato sinonimo di povertà, corruzione e sottosviluppo in generale. La capitale del terzo mondo è l’Africa. Non accettarlo significa negare l’evidenza. Questo è dovunque: nella politica, al Cinema, in TV, sui giornali e sui cartelli pubblicitari della tua città. Le immagini sono dovunque. Pubblicità progresso e spot a sostegno di cooperative di volontariato, ad esempio, fanno spesso uso di immagini d’impatto per sensibilizzarci al problema. Ed ecco che tra lo spot del detersivo e quello dell’ultimo modello di cellulare possiamo imbatterci in trenta secondi di denuncia sociale in cui vediamo bambini del Biafra malnutriti, ricoperti da mosche, ragazzi mutilati dalla guerra, terre dilaniate dalla siccità e chi più ne ha più ne metta. Nonostante il loro buon intento, decenni di simili campagne pubblicitarie hanno alimentato nell’immaginario collettivo la figura del nero come l’elemosinante globale. Questo, se devo essere sincera, senza neanche costruire questo esorbitante numero di pozzi, tra l’altro. Nell’intento di sensibilizzare la società si è involontariamente danneggiata l’immagine degli Africani e dunque dei fratelli d'Africa in generale. Potrei andare avanti con altri esempi per giorni. Il fratello d'Africa è divenuto il simbolo del mendicante mondiale nella cultura popolare. Milioni di foto, immagini, loghi. Nelle foto pubblicitarie una mano che elemosina è quasi sempre una mano nera. Una mano che impugna una pistola è nera. Una mano dietro le sbarre è nera. Le mani bianche aiutano ad alzarsi, aprono pacchi delle donazioni, maneggiano banconote. Fateci caso. La società ormai è assuefatta, e se una volta poteva turbare l’immagine del bambino con le mosche in faccia e l’addome gonfio, ormai attraverso la sua quotidianità non lo è più, bensì è divenuto normale, comune, popolare. Siamo desensibilizzati. Il bambino denutrito è qualcosa di tipico, iconografico, quasi folcloristico. Gli occidentali in vacanza visitano un villaggio, prendono un bambino in braccio, si fanno un selfie e lo postano su Facebook. Madonna se li porta a casa. Una foto ricordo, come un gondoliere a
Venezia. Ancora una volta la relazione tra continente e paese si va perdendo. I Londinesi si sentirebbero offesi nell’essere associati all’immondizia di Napoli per il semplice fatto di essere europei. Eppure nessuno ritiene che io possa sentirmi offesa in quanto Etiope nell’essere associata all’Apartheid sudafricano? Avrò questa libertà? Fin quando l’immagine del fratello d'Africa sarà direttamente ricollegata all’Africa, ogni fratello d'Africa sarà visto come un elemosinante globale e la sua specifica nazionalità non meriterà nessuna dignità. Troppa ignoranza e anni di disinformazione nei confronti del continente nero, hanno creato nell’immaginario collettivo la fantasiosa idea di un mondo diverso, che però non rispecchia la realtà e soprattutto non mi descrive affatto. L’identità dell’Africa e dei suoi singoli abitanti è deviata, asservita all’ignoranza di massa e calpestata attraverso un’immagine di povertà e miseria generalizzata, in nome di un’appartenenza, che purtroppo ha il sapore dell’emarginazione. Se non è propaganda, questa è disinformazione quantomeno.
Io sono nata in Etiopia. Ho vissuto come Italiana in Etiopia e come Africana in Italia. So esattamente cosa vuol dire parlare d’identità. Io so chi sono, non saranno le vostre parole a descrivere né me, né la mia patria. Avrò l’Etiopia sempre nel cuore, e sosterrò sempre la mia terra natale. Io non sono Africana prima di essere etiope. Non vi permetterò di sminuire l’Etiopia associandola a quel concetto di Africa che fa così comodo. Se lo fi vi permetterei di ridurre parte della mia identità a un idea vaga che non mi rappresenta affatto. Io ho un sogno. Sogno che un giorno gli Afroamericani si definiscano semplicemente Americani. Sogno che i ragazzi Italiani che di africano hanno solo i genitori, si definiscano Italiani con più vigore. Se ogni negroide del mondo capisse come la propria identità, le proprie radici, non debbano essere quelle che la Società gli impone semplicemente in base al colore della sua pelle, ma piuttosto quelle che lui stesso sente, che vive, che coltiva con le sue stesse esperienze nel mondo, il mondo cambierebbe.
Cominciando dall’Africa.
Orgoglio vero
Viviamo un periodo straordinario per essere fratelli d'Africa. Musica, cinema, TV, sport. I fratelli d'Africa fanno tendenza oggigiorno, c’è da ammetterlo. Al contempo si ripete come fosse notizia dell’ultim’ora, come la fisiologia, il DNA stesso dell’Europa, stia cambiando. Il continente diventa sempre più “fratello d'Africa”. Figli di immigrati, ragazzi adottati, “stranieri di prima, seconda e terza generazione”. Non si distinguono più i fratelli d'Italia dal resto. Con le spalle al muro, ormai si inizia a dover accettare l’idea che migliaia di giovani italiani siano fratelli d'Africa, e che molti fratelli d'Africa siano italiani. Il dibattito riguardo alla scomoda eventualità dell’esistenza di un Italiano nero si infiamma. Questo ibrido esiste, sta succedendo. Io esisto da anni, ma solo ora si accorgono di me. Solo ora sono attualità. Al contempo, il razzismo oggi si fa sempre più aggressivo: intolleranza, pregiudizio, aggressioni, offensive dichiarazioni pubbliche, cori da stadio, scimmie a gogo. Il razzismo va un casino quest’anno. Io sono la più trendy, perché non ho problemi con il razzismo, quello lo gestisco piuttosto bene. Il mio vero problema sfortunatamente è con L’Italia in generale, bianca o nera che sia.
Detesto dovergli riconoscere più rilevanza di quanto credo ne meriti, ma devo ammettere che la differenza di colore, ha un certo ascendente sulle persone. Il senso comune, l’immaginario popolare italiano, vuole che il bianco sia la maggioranza e il nero la minoranza all’interno della società. Trovare un fratello d’Africa madrelingua italiana, può essere sempre più comune, ma resta pur sempre un eccezione alla regola. Gli Italiani vedono un italiano nero come una curiosità. Strabuzzano gli occhi. Non mi riferisco ai cosiddetti razzisti sinceri, non lo faccio quasi mai, mi riferisco ai fratelli d’Italia in generale, perché di loro sono più preoccupata. Mi riferisco all’italiano medio, che seppure tollerante verso quelle che crede “altre culture” non le ritiene in fondo native come le radici che lui stesso invece può vantare. L’ineguaglianza, il pregiudizio, l’intolleranza tutto ciò lo possiamo respirare a pieni polmoni nel Bel paese. Forti dell’errore che fanno nel ritenere un fratello d’Africa direttamente connesso con l’Africa, i fratelli d’Italia si sentono più europei di lui nel parlargli. Si sentono padroni di casa e lo annusano come un ospite che ha superato la terza notte. La
pressione per un fratello d’Africa in Italia è pesante, onnipresente, perenne.
A causa del senso di inadeguatezza e isolamento che il Paese inocula nelle coscienze dei cittadini italiani neri, molti si trovano preda di sconforto, frustrazioni e crisi esistenziali. La propria identità viene costantemente messa in discussione e l’individuo si ritrova costretto a percorrere un percorso di crescita personale che non gli era necessariamente dovuto. Deve porsi continue domande su se stesso e sulle sue radici. Deve adattarsi alla Società in una maniera diversa da gli altri. Pochi riescono a vivere la loro identità in piena serenità. Il messaggio che continua ad arrivare dalla società è una eco che ripete: “Sei fuori luogo”. Ci si scontra costantemente contro un muro. Di fronte a simili ostacoli, qualcuno potrebbe ingenuamente pensare, che un fratello d’Africa farebbe di tutto per essere un fratello d’Italia. Non ci penserebbe due volte se fosse possibile. Eppure non è così. Io ad esempio mi adoro per come sono e non cambierei neanche se potessi, eppure ammetto di credere che se fossi bianca, la mia vita probabilmente sarebbe più facile in Italia. Questo pensiero, quest’idea di chirurgia estetica così invasiva, tuttavia, a me non è concesso, è un tabù. Troppo trasgressivo. Io e chi in Italia ha la pelle più o meno come la mia, affrontiamo il muro di una società ottusa e ostile, con una virilità, che non riesco a capire da dove provenga. Ci difendiamo dall’atteggiamento di sufficienza con cui il paese ci attacca con un armatura di narcisismo. Affrontiamo, la violenza della banale stupidità con una cieca sicurezza in noi stessi costruita sull’individualità dei terzi con cui condividiamo spesso solo il colore della pelle. Non siamo pienamente liberi di cedere, di mollare, di darci per vinti di fronte le offese di questa società. Non intitolati ad abbassare la testa. Non abbiamo la facoltà di sottrarci alla sfida alla quale la società ingiustamente solo noi invita. Dobbiamo riconoscerla, accettarla e pareggiarla quella gara. Lo facciamo con l’unica arma che resta a chi viene offeso e privato dell’identità, l’orgoglio. Appallottoliamo tutta la dignità che riusciamo a trovare in noi stessi e la sventoliamo nella speranza ci aiuti a riguadagnare rispetto, merito, uguaglianza. Quando non basta la cerchiamo in altri. La cerchiamo in quelli che come noi vivono questa ingiustizia, e dunque riteniamo in dovere di contribuire alla causa. Facciamo forza comune, uniti e compatti la nostra dignità individuale si inchina a quella del gruppo a cui la società stessa ci ha assegnato. Il nostro orgoglio diventa orgoglio nero per osmosi. Quell’orgoglio, in questa società italiana, nostro malgrado è fallace, e produce il risultato opposto. A mio avviso, l’orgoglio che cerchiamo di manifestare, è quello sbagliato. Il nostro orgoglio deve evolvere in una forma
nuova, moderna, rivoluzionaria, all’avanguardia. Una forma individuale principalmente. La mia è una violenta critica a l’idea di orgoglio nero di cui spesso sentiamo parlare. Se credete nell’orgoglio nero o nei suoi benefici, probabilmente questo è il momento di chiudere il libro, o mettervi seduti quantomeno. Io la vedo diversamente, e il mio punto di vista, sfortunatamente, può essere non compreso.
L’inefficacia dell’orgoglio nero, sta nel suo aggettivo: “nero”. Possiamo cambiare il termine nero con “Afro” o quello che più riteniamo consono e “rispettoso” nel rappresentare la nostra “cultura”, ma il risultato non cambia. Non è un sentimento spontaneo, autentico, ma piuttosto un onere a cui ci sentiamo richiamati per via dell’ostracismo di cui sopra. È la società che fa suscitare il sentimento in noi, è un riflesso, un gravame, non un emozione autentica. È una nostra prerogativa. In quanto fratelli d’Africa in una nazione occidentale che ci addita come diversi, siamo tenuti a rispettare e riconoscere il valore di quell’orgoglio, il quale ci aiuterebbe a trovare maggior sicurezza in noi stessi semplicemente onorando e inneggiando le nostre origini, le nostre radici, in un sistema che le sottovaluta quando non le disprezza. Vengo costantemente accostata ad una vaga idea di cultura o etnia che non è minimamente rappresentativa della mia identità, ma che tuttavia, ironicamente, mi trovo costretta a difendere ogni qualvolta venga offesa e calpestata, in quanto mio stesso sinonimo.
Questo è l’aspetto che più mi angoscia. Questa secondo me è la vera umiliazione. Un infezione della società. Per estirparla alla radice, non serve alcun orgoglio che al contrario ne legittimerebbe persino l’idea, serve un totale rifiuto sia di quel superficiale accostamento sia di quella fittizia idea di cultura, etnia o minoranza della quale io sarei tenuta a far parte .
Io sono un italiana come tante, con la sua storia e le sue esperienze. La mia individualità è un mondo a se. Sono una donna italiana. Eppure il colore della mia pelle, i miei ricci, i miei lineamenti, creano per me una definizione aggiuntiva: nera. Non posso essere considerata solo una donna italiana, il mio
colore, non è solo un accessorio, per la società, è un fattore importante, che non va tralasciato. Una peculiarità che suggerisce come io sia diversa dalla norma, e la mia identità non possa essere propriamente italiana fino in fondo. Sono una donna italiana certo, ma nera. Quell’aggettivo cambia tutto. Quel dettaglio mi rende meno italiana. Meno me stessa. Quell’aggettivo compromette la mia identità e al contempo, mi mette su un piano minore rispetto gli italiani che non vengono descritti così. Questo non è un mio complesso di inferiorità o una crisi esistenziale. È davvero la società che mi suggerisce questo costantemente, e per quanto ad ognuno di noi piaccia ritenersi in grado di “sbattersene” del pensiero altrui, il comportamento, l’attitudine, i lineamenti dei valori del gruppo di cui facciamo parte ci influenza eccome. Se l’Italia dice a un fratello d’Africa di essere diverso, di non essere italiano, di essere nero, di essere africano, lui per quanto resista e resista, alla fine tende a crederci. Lo stesso vale per i fratelli d’Italia, non fraintendetemi. Se l’Italia gli dice che chi è nero è diverso, non è italiano ma africano, loro ci credono. Eppure mi chiedo, questo mio colore, questo mio aspetto, deve necessariamente essere un fattore così importante tanto da essere considerato a tutti gli effetti la rappresentazione stessa della mia identità? Avere la pelle nera significa necessariamente dover essere africani per metà, e dunque conseguentemente, italiani non a sufficienza? Basta avere la pelle nera per definirsi africani? È necessario non averla per essere italiani? Io ritengo che tutto ciò non abbia senso. Credo, in altre parole, che la mia pelle, non abbia nulla a che fare, con la mia cultura né la mia identità, e per quanto la società mi voglia convincere del contrario, i miei connotati non sono quelli di un africana, ma quelli di un italiana, perché io stessa ne sono la prova vivente. Fin quando non si rigetterà la definizione di turno che la società ci vuole attribuire, nera o africana in questo caso, si farà sempre fatica a riconoscere la propria identità autentica. Crepe profonde nella propria autostima vengono rattoppate appunto con l’orgoglio nero. Non dobbiamo giustificarci del colore della pelle. Non dobbiamo credere di avere radici diverse da gli altri solo perché i nostri genitori sono nati altrove. Non dobbiamo trovare nessun orgoglio nelle nostre radici, perché farlo significherebbe accettare l’idea di doverlo fare. È l’onere dell’orgoglio nero che mi angoscia. Accettiamo l’idea di essere in dovere di dimostrare quello che siamo. Avalliamo l’opinione secondo la quale la dignità delle nostre radici potrebbe essere messa in dubbio in partenza. Io rifiuto quest’idea, non permetto di immaginare che qualcuno creda che io possa dover avere la necessità di tutelare quelle origini. Ostentare un orgoglio che ha il sapore del riscatto della mia dignità calpestata da una società che mi vuole esclusa, finirebbe proprio per minare la mia affermazione. Radici, cultura, background, tutto ciò mi viene attribuito arbitrariamente da una società a cui fa
comodo descrivermi come nera. Avete presente l’affermazione “Sei nera, fattene una ragione”? Beh io dico: “No, non facciamocene una ragione”. Io so bene chi sono, è l’Italia che nel descrivermi aggiunge un aggettivo cui non avevo fatto caso. Sono italiana, sono etiope, non sono africana o nera come mi descrivono. Non sono orgogliosa di essere nera, perché ciò vorrebbe dire accettare l’eventualità del contrario, che essere nera cioè si una vergogna della quale scusarsi. Essere orgogliosi per il modo in cui si è semplicemente nati, quasi sempre è un semplice espediente per ritrovare la propria dignità in un mondo che ci vede per quello che non siamo. È un fattore estetico. Se ci si vede qualcosa di più, significa non sentirsi appieno sicuri della propria identità, e questo spesso è colpa della società. La buona notizia, è che sta a noi spezzare questo meccanismo semplicemente affermandoci trovando quella sicurezza in noi e solo noi, non al di fuori. La mia africanità, per chiamarla così, non deve essere sancita dal mio colore o dai miei ricci, né può essere ostentata. È un sentimento mio privato che non si può dare a vedere.
Sapete quante volte mi hanno detto che ho dei bei ricci, o che a noi sta bene qualsiasi taglio? Io ci credo sempre. Se mi dicono che vorrebbero i capelli come i miei, nulla di strano. Tuttavia, se io rispondessi: “anche io vorrei i capelli lisci e biondi come i tuoi”, apriti cielo! Sarei immediatamente presa per una complessata, da entrambe le parti. Se in estate mi dicessero che vorrebbero avere il mio colorito, cosa che non di rado succede, nulla di strano. Se io rispondessi “io invece darei tutto per essere bianca come te”, beh, state pur certi che verrei sicuramente ricoverata d’urgenza per evitare ogni imminente tentativo di suicidio. Mi immaginerebbero lì al buio, rannicchiata in un angolo, presa a pettinare capelli ad una Barbie canticchiando un nenia inquietante. Una pazza! E io lì a spiegare: “No, non vi preoccupate, vi prego… intendevo solo.. il punto è che… i miei per spicciarli… poi il colore… il tiraggio li spezza… il colore… il balsamo… sai, la piastra li brucia… “. Questo perché per la società il colore della pelle va oltre l’esteriorità ma rappresenta la mia cultura. Ma non è così, il colore della pelle, è solo un aspetto esteriore non certo cultura. Io sono italiana, europea, il mio colore della pelle è italiano, europeo, non africano come la società vuole farmi credere. Gli italiani neri come molti amano definirli, sono moltissimi, la loro cultura, tanto quanto la loro pelle, è italiana non africana. Il colore della pelle, non dice chi sono, non racconta la mia storia, non può essere la mia voce, non rappresenta la mia identità. È fondamentale essere a proprio agio con il proprio aspetto certo, ma non se ne può essere orgogliosi. Sono
stanca di vedere la mia identità limitata in un colore. Sono stanca di immaginare un mondo dove una donna nera che si sbianca la pelle deve rendere conto al resto del mondo che la accusa di vergognarsi delle sue radici, sottintendendo così ve ne sia ragione. Crescono le bambine dicendogli: “Sei una bellissima principessina nera, si sempre fiera”. Ma che vuol dire? Perché deviare prematuramente quella bambina? Quella bambina è una bellissima principessina, punto. “Sono fiera di essere nera”. “Io sono fiera dei miei ricci”. Queste frasi le aborro. Ma che vuol dire essere fiera dei propri ricci? Cosa siete testimonial di uno shampoo? Preciso: queste frasi sono pronunciate anche da leader e personaggi referenziati. Non credo si possa essere fieri di come ci vediamo allo specchio, e finché insegneremo ai giovani fratelli d'Africa ad essere fieri e orgogliosi del loro aspetto, convinti che ne abbiano bisogno, non andremo da nessuna parte. Soprattutto quando lo facciamo non tanto per orgoglio sincero verso le proprie radici, ma piuttosto per il motivo perfettamente opposto, la tutela di un identità negata alla quale ci riteniamo chiamati a dovere per via di una società stantia che ci esclude. Questo orgoglio in più è spesso gonfiato come un pallone. Gli orgogliosi, fateci caso, quando parlano della loro fierezza non perdono occasione per sciorinare conoscenze illustri o elencare meriti.
“Sono un ingegnere”. “Sono laureato”. “Mio padre è uno scienziato”. “Mio cugino è un astronauta e il mio gatto è spaziale”. Perché ostentare? Come se non si potesse essere un fratello d'Africa senza talento. Perché voler valere mille per contare quanto zero? Quando ve lo metterete in zucca? Non è necessario essere dei medici neri per sentirsi alla pari di idraulici italiani. Costretti a dimostrare di essere eccezionali, per ottenere un banale pari merito. Io ho il diritto di non valere nulla, non mi obbligherete a dover dimostrare il contrario per esigere rispetto.
Molti fraintendono gravemente questa mia posizione. Io comprendo il valore alla base dell’amore per le proprie radici, e come sia importante ricordarle e riconoscerle in un mondo che le minaccia e le denigra. Tuttavia è proprio con il rifiuto, che io credo sia possibile rispondere a simili offese, non portando argomentazioni che le contraddicano. Quando rifiuto l’idea che dietro i miei ricci ci sia molto di più, sto solo affermando che mi sentirei terribilmente etiope anche se fossi pelata. Quando rifiuto di essere “nera”, io non sto rifiutando le mie
origini o la mia identità come molti mi accusano. Non vedeteci qualcosa di più profondo di quello che è, sto solamente rifiutando la banalità del colore nero. È il gesto più patriottico che si possa fare. Io amo le mie origini. Amo la mia identità, ma la mia identità non può certo essere ridotta a “essere nera”. La mia identità è specifica, unica, non vaga come il termine nera o africana suggerisce”, e non tollero il mio colore la metta in discussione. La mia individualità è sacra, e se per difenderla, se per emanciparmi, devo rifiutare l’idea di essere nera, lo faccio con serenità e gioia. Se semplicemente vedendo il colore della mia pelle credi di capire chi sono, mi stai offendendo. Se ritieni di poter dire di condividere la stessa cultura con me, solamente per il colore della mia pelle, sei tu a sminuire le nostre rispettive origini. Se dal colore della mia pelle, dai tratti del mio viso, dal suono della mia lingua invece intuisci la mia vera nazionalità, la storia del mio popolo, questo mi fa felice, chiedimi del mio paese te ne parlerò con sincero orgoglio. Se mi riconosci come etiope o italiana, possiamo parlare, ma se mi dai dell’africana guardandomi in faccia, non abbiamo nulla di cui discutere. Non dirmi che sono nera, perché non è così. Sono molto di più di una definizione di comodo. Mi spiace, per i tanti fratelli d’Africa, talmente schiavi di questa mentalità che non ritengano sia possibile, liberarsi di un etichetta così facilmente, rifiutandola semplicemente. Ma tanto è .
Con una fratello d’Africa io non ho altro in comune se non la quantità di melanina. La società invece fa di tutto per convincerci che il nostro legame vada oltre. Questo nel tentativo di convincerci di far parte di una minoranza. Essere diversi. Se si esige uguaglianza, si deve capire che l’ostentazione di quella diversità superficiale, estetica, è l’accettazione stessa della propria emarginazione. Si promuove il concetto di diversità come ricchezza nelle società multietniche, ma il risultato è quello di farmi sentire diversa mentre la società si arricchisce. Non pensiate che nera sia un etichetta che mi è stata affibbiata appena nata. Mi è stata assegnata molti anni dopo. Gentile concessione dell’Italia. Questo a dimostrare come il vedermi “nera” sia molto, ma molto, soggettivo. Perché non rifiutarla questa calunnia, piuttosto che andarne fiera? Quell’etichetta non te la levi. Va rifiutata con determinazione. Purtroppo non serve a nulla ripetere: “Sono fiera di essere nera, sono fiera di essere Africana”, quando quei termini nel linguaggio occidentale hanno una connotazione ben precisa. Parliamo due lingue diverse. Quelle parole in Italiano si traducono in “Sono fiera di essere una morta di fame, sono fiera di essere una straniera”. Orgogliosa di essere nera? Ma chi ci crederebbe a una simile affermazione? E
poi a che scopo ripeterlo? Chi vi ha messo questa croce addosso? Se questo è il senso comune che si attribuisce a nero, chi vorrebbe mai esserlo? Chi mai ne andrebbe fiero? Quel termine lo rigetto, non ne faccio motivo d’orgoglio. Non posso cambiare il senso delle parole, ma se permettete, posso rifiutarle se ritengo non sia necessaria una definizione privata. Per i nostalgici o i buoni di spirito, che vedono in quei termini solo il bello che l’Africa ha da offrire, mi dispiace per questa doccia fredda, ma oramai quei termini sono bruciati in quanto vogliono far intendere tutt’altro nel linguaggio comune occidentale. Non accettare nessuna definizione che è stata fabbricata su misura per noi allo scopo di frammentare la nostra individualità. L’individualità è la nostra unica salvezza. L’orgoglio nero, spesso, è solo vergogna mascherata da supereroe. In Etiopia, come in un qualsiasi altro paese con più fratelli d’Africa di fratelli d’Italia, non c’è motivo di quell’orgoglio. Questo basta a dimostrare come l’orgoglio nero sia solo la manifestazione dell‘esigenza di difendersi da una continua offesa. Io rifiuto completamente quell’offesa, e vivo ogni mancanza di rispetto nei miei confronti come tale, una mancanza di rispetto a me, non alla mia razza, alla mia cultura, al mio colore. Senza sbandierare un orgoglio sintetico che motiverebbe ancor di più le ragioni dietro quell’offesa.
Ma dove siamo arrivati? Siamo così patetici da riconoscere come gridare all’orgoglio nero sia solo la debole e fragile difesa di una cultura sottomessa piuttosto che una minacciosa aggressione razzista? “Sono fiera di essere nera” dovrebbe fare paura, santo cielo, non certo tenerezza. Quando inneggiamo il termine afro, stiamo inneggiando il nostro carattere ariano. Dovrebbe essere istigazione all’odio razziale. Immaginate un politico che si vanti dei suoi capelli biondi e della sua pelle bianca. Un politico che inneggi alla sua cultura, le sue tradizioni e la sua etnia. Sarebbe considerato un fanatico nazista. La mia domanda è: sarebbe così per sensibilità e tutela delle minoranze, oppure perché è davvero moralmente sbagliato inneggiare al valore della propria etnia, generalizzando la propria identità tanto da farne motivo d’orgoglio? Non saprei rispondere, ma quello che so, è che io non accetto l’idea che per me, questa domanda non si ponga, e sia libera di inneggiare la mia etnia, senza nessuno che si scandalizzi.
Se un’intera razza è orgogliosa di se stessa senza recare un crimine all’umanità,
può solo significare che quella stessa razza è considerata la vittima dalle altre. Innocua, mansueta, impegnata solo nel maldestro tentativo di riprendersi la dignità persa. La verità è che si usa la parola orgoglio, solo per dimostrare che essere neri non sia motivo di imbarazzo. Solo chi ha confuso il proprio aspetto esteriore con la sua stessa identità può lasciarsi convincere di doversi vergognare delle proprie radici, tanto da cercare disperatamente di farne motivo d’orgoglio. Questa è la vera vergogna. Veramente dobbiamo essere orgogliosi dei nostri ricci? Veramente ci dobbiamo convincere che il nostro colore sia un valore al fine di accrescere la nostra autostima? Dobbiamo trovare sicurezza interiore nell’ostentare una cultura che non è effettivamente quella che sentiamo ma piuttosto quella che la società ci attribuisce? Non sarebbe meno vanesio sorvolare sul proprio aspetto esteriore ed essere orgogliosi di se stessi? Non sarebbe più opportuno prendersi il rispetto piuttosto che chiederlo a chi ve ne manca? Portare rispetto solo per chi me ne porta per primo. Mancarne a tutti gli altri. Alla fine tutto si riduce semplicemente a questo, una personalissima mancanza di rispetto personale. Non so dove abbiamo sentito che si debba replicare alla mancanza di rispetto con intelligenza e superiorità ma io da tempo, mi abbasso a livelli nuovi quando me se ne manca. Mi rifiuto di dover andar fiera del colore delle mie mani. Mi rifiuto di enfatizzare l’idea di dover dimostrare il mio valore, il mio orgoglio appunto, a chi non merita il mio peggio. Il mio meglio lo tengo per me. Fin quando ci sentiremo in dovere di ostentare orgoglio per legittima difesa, la nostra fierezza sarà solo retorica. Non siamo tenuti a dimostrare nulla, e la nostra identità non può essere decretata dall'ottusità di una società morente che non ci rispetta individualmente ancor prima che in gruppo. L’amor proprio non a mai di moda. Un po’ d’orgoglio, per l’amor del cielo.
Quando esce il 3G?
Con il termine “seconda generazione” non si può definire una classe di individui, suvvia. Eppure, in Italia, ci si riesce eccome. Lo si usa per riferirsi ai ragazzi di colore. Sì, ho scritto di colore; se i fratelli d'Italia desiderano sostituire il termine con ragazzi neri, extracomunitari, figli di stranieri, clandestini, immigrati o stranieri si sentano liberi di farlo, non mi offendo. Il risultato non cambia invertendo gli addendi. Non mi dilungo in sofismi, parliamo della stessa cosa in fondo. Penso di aver chiarito a sufficienza come i termini di colore, straniero, immigrato o clandestino abbiano fuso il loro significato nella medesima cosa nel linguaggio comune:#nero. Se preferiscono, invece, che lo sostituiscano con il termine politicamente corretto che hanno creato su misura per sostenere questa idea che si regge sul nulla: “seconda generazione di immigrati”. No, dico, “seconda generazione di immigrati”. Si rendono conto che non esiste una cosa del genere, vero? Mi spiego. Immigrato è un termine che descrive un individuo che emigra da un paese per immigrare in un altro. Ripeto, si emigra da un paese per immigrare in un altro. Ora, questa è un’azione di certo non continuativa, si conclude, finisce, si esaurisce. Non è un ciclo perpetuo. Certo, ai fratelli d'Italia piace abusare della parola rendendola un aggettivo, così da disumanizzare l’individuo in se. Il termine diventa una peculiarità con cui una persona si deve sentire stigmatizzata a vita. Emigri una volta, e sei un immigrato per tutta la vita! Come se gli immigrati assero l’intera vita ad immigrare. Capaci solo di quello. Valigie in spalla, avanti e indietro, indietro e avanti di continuo. Questo mi basta per non farmici capire più nulla, ma tanto è. Me ne faccio una ragione. Ora, però, non posso sorvolare sulla follia di affibbiare lo stato di immigrato persino ai loro figli. Questo è troppo. Vedete, quando si usa il termine seconda generazione si fa questo: si dichiara un cittadino nato in Italia, immigrato. Se la madre di un bambino appena nato a Milano è immigrata, perché si è fisicamente spostata anni addietro dalla Liberia all’Italia, come può il bambino senza essersi mai mosso essere un immigrato? Non cammina ancora senza girello ed è un migrante? Rispetto a quale paese lo sarebbe poi? Non vedono che è un controsenso? È un paradosso. Se è un immigrato, è un migrante, finisce per essere un emigrante Italiano immigrato in Liberia secondo la loro contorta logica. Immigrato perché figlio di immigrati. Come fossero figli d’arte. Non avrei nulla in contrario se parlassero di figli di immigrati, ad esempio. La descrizione, in quel caso, sarebbe adeguata dal momento che il termine che si
ebbe per quei ragazzi sarebbe “figlio”. Nulla in contrario. Nel caso di seconda generazione è ben diverso, perché così facendo gli si attribuisce lo stato di “immigrato”. Ancora, se si usasse “prole di immigrati”, andrebbe bene. Ma qui blaterano di seconda generazione di immigrati senza vergogna. Immigrato non è una parolaccia, in un certo senso, è come dire trasferito. Può esistere una seconda generazione di trasferiti? Non avrebbe senso. E comunque, seppure si volesse proprio usare l’espressione, dovrebbe essere fatto metaforicamente. Non certo interpretando parola per parola. Sarebbe più opportuno intendere ad esempio, che gli immigrati degli anni Ottanta rappresentano la prima generazione, come quelli del Duemila la seconda. Non ci si dovrebbe riferire letteralmente ai figli. Mai riferirsi ai figli diretti, santo cielo. Non devono interpretare parola per parola. È comico o drammatico? “L’invasione parte II: Il ritorno”. Il sangue.
Torniamo sempre lì. Se hai sangue Italiano sei Italiano, altrimenti sei un alieno. Come se fossero di sangue blu. A loro non interessa se sei nato a Roma. Cosa è questa ossessione per il sangue che hanno i fratelli d’Italia? Sono forse vampiri? E così, bambini appena nati diventano “Immigrati 2G”. I cittadini di serie B. Non ha senso. Non capisco. È come se i fratelli d’ Italia, non esistendo i concetti con cui descrivere le loro idee, perché clamorosamente campate in aria, decidessero di inventarseli, creando parole tutte nuove. Poi con queste parole ci giocano e, volando con la fantasia, possono dire una cosa intendendone un’altra. Possono emarginare e denigrare, senza darlo a vedere. Io resto fuori dal gioco. Proprio non capisco. Effettivamente è un argomento difficile, io alzo le mani. Magari possono spiegarmi i luminari di cui certo l’Italia non scarseggia. Per partorire certi neologismi ci vuole un quoziente intellettivo così straordinariamente misero da risultare sorprendentemente creativo. Sì, perché sia chiaro, non ci sarà mai una 3G, non stiamo parlando di tecnologia. Inutile aspettare la terza generazione. Non essendo definita in una classe, classe ’91 ad esempio, chiunque nasca da stranieri anche in un futuro remoto, rientrerebbe nella categoria. Non se ne esce più. Tra cinquanta anni in Italia ci saranno ancora i ragazzi di seconda generazione. I ragazzi della Terza C. Questo paese è una barzelletta raccontata da scemi di guerra. Se non fa ridere è perché fa paura. Ed è proprio questo che quegli stessi ragazzi di seconda generazione farebbero bene a capire. Il paese ha bisogno di loro, non dei scemi di mestiere che non vogliono riconoscerli. Che i giovani si prendano il loro spazio senza chiedere. Non concedano un centimetro. Sia chiaro, non per raggiungere quei retorici e
pomposi traguardi di cui la storia della lotta all’ineguaglianza gli ha riempito la testa. Non allo scopo di “sferrare pugni al sistema”. Semplicemente, perché quello spazio in Italia è il loro, come l’aria che respirano, e nessuno può toglierglielo. Figuriamoci un fratello d’Italia. I fratelli d’Italia non sanno usare internet, volete che capiscano il mondo? I fratelli d’Italia credono che a Londra piova più che a Roma. Ingordi di ignoranza e luoghi comuni. Eppure i giovani si fanno sempre più confusi. Ormai anche in Italia sull’esempio statunitense non è raro sentire soprattutto i giovanissimi chiamarsi nero tra loro. Spuntano le TShirt con lo slogan “100% Nero”. Roba da pazzi. Come tatuarsi in fronte “100% Coglione”. Sei troppo ribelle! Fatti una selfie! Il termine inizia a diventare addirittura un’icona, un simbolo che rappresenta un’intera generazione di giovani in cerca di un’identità che la società italiana odierna nega loro, prima perché giovani, e in secondo luogo perché fratelli d'Africa. Al contempo questo approccio rappresenta una forte provocazione al sistema. Allettante per i giovani. Il nemico pubblico di una società che li rifiuta a prescindere. Esasperano un concetto che era già sbagliato di suo: il vecchio orgoglio nero. Si crede di partire dal principio “sono nero e me ne vanto”, ci si aggiunge “sono nero, me ne vanto e me ne sbatto” e ben presto l’atteggiamento finisce per rivelarsi quello che in realtà è: un grido d’aiuto di fronte al disagio. Schierarsi come obiettivo, essere il cattivo, è quanto di più trasgressivo un giovane possa fare, è un simbolo di ribellione. Gioventù bruciata. Il rischio, sottovalutando il problema, è quello di evolvere una banale ribellione adolescenziale in un disagio umano che allontana il soggetto dalla collettività. Si parte dalla maglietta con lo slogan ad effetto, e si finisce per subire l’effetto degli slogan. Inoltre, non bastando i problemi causati dal loro stesso paese, i giovani spesso hanno proprio le loro famiglie di origine, come zavorra pesante. “Non fare rumore”. “Noi siamo gli ospiti in Italia, un paese che effettivamente non ci accoglie con tanta enfasi ma, riluttante, è disposto a concederci qualche centimetro”. “Noi dobbiamo essere grati di questo e sapercelo gestire tra di noi”. “Non essere maleducato”. “Porta rispetto anche quando te ne mancano, anche se ti trattano con sufficienza”. Questi sono gli esempi, gli insegnamenti che i giovani ricevono. Ma sono così orgogliosi! Dio, quanto amor proprio trasuda da quei gesti. Spesso purtroppo a causa di limiti linguistici, economici, socioculturali, non sono all’altezza di are i figli come dovrebbero, e il rapporto genitorefiglio, si esaurisce prima. L’indipendenza arriva prima, spesso per forza di cose. Gli aspetti in comune diventano sempre meno. L’accento si fa diverso. Li accusano non appena i ragazzi si fanno “troppo Italiani”, terrorizzati che si distacchino dalla loro “cultura” e così da loro. La famiglia d’origine alimenta i complessi di questi ragazzi, come non bastasse la società che non li accetta. Gli ricordano di non essere Italiani a tutti gli effetti.
E i giovani si fanno sempre più confusi. Tanto confusi che spesso, seppure nati in Italia, si sentono più africani che italiani. Questo è ridicolo. Se l’unico rapporto diretto che hanno mai avuto con l’Africa è attraverso i loro genitori, come possono dire di essere africani? Come se una cosa simile, poi, volesse dire qualcosa. Sono confusi. Prima di tutto perché non esiste la cittadinanza africana. Può darsi che a scuola abbiano visto un altro fratello d’Africa, e balzati sul banco abbiano pensato “Ecco noi siamo uguali, siamo Fratelli d’Africa. Questo è il nostro gruppo, da oggi saremo amici”. Può darsi che abbiano genitori di un paese Africano questi ragazzi. La cultura che si respira in casa può darsi che li abbia influenzati a tal punto da sentirsi effettivamente parte di quella cultura. Allora lo fero, che gridino al mondo l’amore per la terra dei loro genitori e che vadano in pellegrinaggio alla ricerca delle loro roots una volta nella vita. Che lo facciano. Coraggio. Ma che siano precisi! Non generalizzino parlando di Africa a sproposito anche loro. Che puntino il dito sull’atlante indicandomi la nazione esatta che li rappresenta. Che prendano la bandiera del Paese Africano preferito, e corrano cantando l’inno. No, seriamente mi rivolgo a voi ragazzi, siate patriottici se volete, ma per il Paese a cui voi, e solo voi, sentite di appartenere, non quello che vi hanno fatto credere sia l’unico che vi accetti. Non fatevi negare questo sentimento. Oltre ad un’enorme crescita personale, darete un vero e importante contributo al continente africano. In questo modo, i singoli paesi verranno finalmente valorizzati individualmente, e la generalizzazione cesserà di omologarli in un’unica vaga area geografica. Sì, perché io concepisco il patriottismo, ma quella delle radici, che si vanno perdendo nel tempo e nello spazio per quanto fascinosa, ad essere sincera, è una storia che un po’ mi puzza.
I giovani, più confusi che mai, non bastando le famiglie di origine e l’intransigenza italiana, devono fare i conti anche con i fratelli d’Africa originali. Parlo dei fratelli d'Africa con aporto africano, e con quelli non si scherza. Gli originals. I fratelli d'Africa africani sono la peggior razza di fratelli d'Africa. Il panafricanismo ce l’hanno nel sangue. Sono quelli che quando io dico di non essere nera, urlano “Non è vero!!! Bugiarda! Sei neraaaaaa!!!”. “Lo devi direeeee!!!”. “Che tu sia maledetta!”. “Sharmuta!”. Non accettano l’idea che io non mi senta minimamente né nera né africana. Mi disprezzano fino a farsi venire l’ulcera. È affascinante vedere come certe persone si guastino il fegato nell’interessarsi di cose che non li coinvolgono direttamente. “Ti vergogni di
essere nera!!!”. “Guarda che non sei bianca!”. Vivono così male il loro colore, che morirebbero nel saper un’altra persona convivere con il proprio colore della pelle senza tutto quel melodramma. “Guarda che sei nera”. “Chi ti credi di essere? Sei come noi, non scappi”. Come se rifiutare di essere neri significhi volerli guardare dall’alto in basso. Forse il problema con la pelle nera ce l’hanno loro. Forse qualcuno li ha convinti di essere solamente neri. Ed eccoli lì a chiedermi: “Di dove sei?” Ed io: “di Roma”. “Sì, ma di che paese sei?” Ed io: “Ah scusami. In realtà sono per metà Giapponese e per metà Vietnamita. Tu di dove sei?”. Muoiono a contatto con le mie parole. Sì, perché gli originals non te lo perdonano. Che siano venditori ambulanti o imprenditori, pretendono che tu ti inginocchi e riconosca il fatto di essere nera e africana. Come loro. Non accettano di essere gli unici. Più si infuriano, più rido. E allora mi viene il dubbio: non è che tutta questa confusione dei giovani ragazzi 2G derivi proprio da questo? Se si definissero italiani con convinzione cieca, cosa s u c c e d e r e b b e ? I f r a t e l l i d ’ I t a l i a g l i s i scaglierebbero contro perché intolleranti. Gli originals li aggredirebbero perché furiosi della loro emancipazione. Ed ecco quindi che, sfiniti, accettano di definirsi per metà italiani, per metà africani. Cappuccino. Così i fratelli d’Italia si incazzano per metà e ai fratelli d’Africa africani ivo aggressivi non sale la bile, finché tutti sono fratelli. La società li spinge ormai a definirsi Afro-Italiani. Ragazzi, vi prego no, non lo fate. Non coniate neologismi degenerati. È una bestemmia contro voi stessi. È un’offesa contro le lotte di moltissime persone prima di voi. È censurare la mia vita riga per riga. Non so dove possiate aver trovato l’ispirazione per creare il termine, ma sospetto abbiate visto qualche film di Spike Lee di troppo. Ho indovinato? Spegnete la TV e cominciate a vivere in Italia. Afro-Americano è il termine che in pratica definisce i discendenti degli schiavi dell’epoca coloniale. Che ci si definisca anche il vostro cantante preferito, a me non interessa. Lui lo fa perché suo bisnonno non sapeva né il cognome né da dove venisse veramente. Brutta storia. Poveracci. Voi conoscete sia il vostro paese natale sia il vostro cognome non rinnegatelo. Non fatevi spettinare il cervello con simili sciocchezze. “Ma io in casa mia respiro cultura e tradizioni africane, che fanno del mio vissuto un’esperienza diversa da quella dei miei coetanei Italiani”. No, stellina, i tuoi coetanei “Italiani” respireranno in casa culture e tradizioni altrettanto diverse, che però non li fanno sentire in dovere di sentirsi diversi. Afro-Italiano non esiste, altrimenti esisterebbe anche Italo-Calabrese. Sei Italiano né più né meno di loro. Non definirti Afro-Italiano, non si può essere Africani part time. Da grande capirai.
Chi vi ha detto, poi, che essere Africani è una seconda scelta? Perché essere Africani non può essere un privilegio ed essere Italiani una vergogna? Il principio stesso da cui partite è sbagliato. Vi è mai balenato in mente che a me o a gli originals potrebbe far ridere un ragazzino che vive in Italia da sempre creda di appartenere alla loro Cultura? Probabilmente no, perché siete assuefatti anche voi all’idea che ci sia ben poco da guadagnare nell’essere Africani. Tristezza. Troppo comodo, definirsi Africani pensando di non fare torto a nessuno. Africani per quieto vivere. Senza neanche degnarvi di specificare la nazione alla quale pensate di appartenere. È mai possibile farsi le crisi d’identità solo perché quattro ladruncoli mangia-spaghetti vi fanno venire la sindrome da personalità multipla o tre morti di fame senza permesso di soggiorno si fanno invidiosetti? Non permettere a nessuno di dirti chi sei memento! Sei nato in Italia, in caso ti fossi dimenticato. L’Italia compie un sopruso quotidianamente negandoti la nazionalità, ma tu resti italiano. Non ti senti Italiano? Facci il callo, pochi Italiani ci si sentono. Ti senti Italiano? Benissimo. Il tuo colore non conta, sei Italiano punto e basta. Essere italiano significa essere come te. Chi vuoi che ci creda, se in fondo non ci credi neanche tu?
Toto Cutugno
“Toglietemi tutto ma non il mio …”. Ricordate la pubblicità del noto orologio? Un messaggio di marketing molto efficace che si addice perfettamente al caso dei fratelli d'Africa. “Toglietemi tutto ma non la mia pelle”. Se ai fratelli d'Italia non devi toccare la cittadinanza, non azzardarti a toccare la pelle ai fratelli d'Africa. Puoi togliergli tutto, compresa la loro identità, ma per carità fai attenzione con il colore con cui gli descrivi l’epidermide.
Tra i fratelli d'Africa oggigiorno va molto di moda, impegnarsi civilmente nel contrastare e limitare l’uso delle definizioni come “di colore”. Io assisto sorniona, al vivace dibattito. Sembrerebbe che definire “di colore” un fratello d'Africa sia più offensivo, più razzista, rispetto l’ultimo epiteto politicamente corretto appena uscito. Sapete perché? Ve lo sto chiedendo, io non l’ho ancora capito. Definire “di colore” un fratello d’Africa è offensivo, e all’offesa loro principalmente rispondono in tre modi. Molti fanno notare puerilmente “Di colore? E di che colore sarei?” Ancorandosi ostinatamente alla scala cromatica vera e propria. Confusi, ripetono: “Si io sono di colore. Ma anche tu lo sei. Sei di colore bianco.” Con triste consapevolezza cerco di spiegargli: “Si lo so, che anche loro sono di colore perché sono bianchi. Siamo tutti di colore. Ma la sfortuna stellina è che il colore che la società detesta qui è toccato solo a te”. Puoi ripetere per ore ad un “bianco”, che lui è rosa e tu marrone per la precisazione, ma non riuscirai a sensibilizzarlo sul tema, tantomeno vederlo vivere come maledizione il colore che gli vuoi affibbiare, nel tentativo di fargli capire come ci si senta. Acconsentirà dondolando la testa su e giù ti darà ragione come si fa ai pazzi, mentre tra se e se penserà “Mio Dio, come mi dispiace, per questa ragazza di colore, il colore, deve essere proprio un bel problema per lei…”. Siamo tutti di colore, siamo tutti diversi. Si, certo, siamo tutti di colore, siamo tutti diversi, ma tu resti di colore nero e lui bianco. Sembra una vittoria di Pirlo, non trovi? Quando ti definiscono di colore non stanno effettivamente notando il pigmento della tua pelle. Non sono interessati al colore. Non sono pittori con una deformazione professionale. Non gli viene un orticaria se non urlano il colore che vedono. Quando ti definiscono di colore ti stanno avvertendo che il tuo colore è quello sbagliato. Sei diversa, e devi ricordarti la tua posizione
di subalterna nella loro società. Molti iniziano nel fare notare come sia ironico che proprio i bianchi, come li definiscono, che arrossiscono quando sono imbarazzati, che impallidiscono, che si fanno verdi dalla rabbia, che si abbronzano o sembrano gialli quando stanno male, sono gli stessi a definire “di colore” i neri che al contrario non potrebbero vantare le stesse doti camaleontiche. Ironico. Molti altri urlano: “No! Non chiamarmi di colore, sono nera. Ne sono fiera”. Suscitando applausi ma dimenticando sistematicamente di spiegare cosa “essere nera" voglia dire esattamente. Una nera vera, ne sono fiera. Come Toto Cutugno a San Remo più o meno. Sono nera? Really? Ma si può pensare di combattere per la propria identità, gridando il colore che più si avvicina al tono della propria pelle? Sono nera. Non toccarmi i miei ricci, con quelle mani.
Prendono in prestito concetti preconfezionati e idee vecchie riciclate da altri paesi e cercano di forzarli nel contesto italiano dove ovviamente non si adattano e si deformano durante il processo.
Illudendosi che il problema si risolvi “riscattando” il termine nero, sempre di più accostato al termine “africano”, promuovono e divulgano il concetto di “Black & Proud", “Black is beautiful” and so on. Ma è inutile se non deleterio sforzarsi di restituire dignità al termine nero al termine afro, al termine africano e ogni sinonimo che la società occidentale gli accosta come extracomunitario ad esempio. Si perde di dignità nello stesso momento in cui si riconosce che quei termini, in bocca alle peggiori intenzioni rappresentino la propria individualità. Non riescono a capire come la loro stessa necessità di definirsi sia alla base della discriminazione che subiscono. Se definisco una persona come “bianca” non gli faccio certo un offesa. Tuttavia non gli faccio neppure un complimento. Essere bianchi è senza infamia ne lode. Essere bianchi è lo standard. La normalità. Un bianco non è tenuto a definirsi bianco. Essere neri al contrario, è essere fuori norma, vuol dire essere strani, stranieri, inadeguati, impopolari. Essere neri significa essere “non bianchi” a dire di molti. Un etichetta che descrive persone come “inferiori”. Badate bene, queste etichette non le impongono quei cattivoni dei razzisti, loro le usano solamente. Queste etichette le decretano le persone che le accettano, bianche e nere che siano.
Nera, Di colore, extracomunitaria, meticcia puttana o colf africana sono sinonimi della stessa calunnia, e io non posso accettare nessuno di loro.
Qualsiasi parola tu voglia usare, se la usi per descrivere la mia identità basandoti sulla mia pelle, non va bene. Ripetono “Negare le differenze equivale a negare la realtà. È ipocrita e razzista fingere di non notare la pelle altrui.” Non importa quanto io glielo spieghi non capiranno mai: io non nego la diversità, io promuovo la mia unicità. Nego la diversità con cui mi descrivi perché non rispetta la mia la mia individualità. Il mondo può vedermi come nera, di colore o straniera, ma non può convincermi che io lo sia davvero. Io so esattamente chi sono, lo tengo bene chiaro in mente, e questo mi basta, se alle persone circostanti sembro diversa, è un problema tutto loro, se un problema deve proprio esserci.
Il mio potrebbe sembrare un punto di vista esasperato, un principio fine a stesso. Qualcuno potrebbe domandarsi quale razza di termine dovrebbe usare per definirmi, a questo punto. Ma il punto principale è proprio questo: perché sentirsi in dovere di definirmi? Perché definire la mia etnia? Perché devi dire che sono nera ad alta voce? No, seriamente, rispondimi, perché ci tieni a riconoscere che io sia nera? Voglio capire. Non c’è bisogno di ricordarmelo. Non sussulto ogni mattina di fronte allo specchio. Giuro. Nera, meticcia, mulatta, mi avranno detto di tutto nella vita, ma io ancora devo capire: per quale cazzo di motivo senti l’esigenza di definirmi? Quale è la necessità di catalogarmi, di differenziarmi, di etichettarmi? Ovviamente la mia non è un’ossessione per il termine specifico. Non sto cercando una definizione politicamente corretta. Non sto promuovendo l’idea che certi termini siano offensivi e altri lo siano meno. Non sono diversamente bianca, se è per questo. Sto rifiutando ogni etichetta in sé.
Io non sono nera. Questo è il punto. Non sto rinnegando le mie origini. Tutt’altro, gli sto restituendo la dignità che il linguaggio comune aveva ridotto a un colore. No, dico: un colore. Stiamo pensando a quello che diciamo? Un colore. Come può un colore rappresentare la mia identità? Come si può
racchiudere una cultura in un colore. Nero nel linguaggio comune significa qualcosa che non ho scelto né meritato di essere. Molti vengono a dirmi che nero è bello, nel disperato tentativo di sollevarsi il morale. Io rispondo “Si si, nero è bello fratello”. Spero arrivi un giorno in cui sia illegale, urlare certe frasi in quanto istigatrici di odio razziale. Fino a quel giorno, fino a quando l’illegalità resterà un lusso per frasi come “Orgoglio Bianco” e “Bianco è bello”, la lotta all’uguaglianza sarà persa. Nera, non vuol dire “essere africana”, “Afro” non vuol dire “essere africana”, ed “essere africana” non vuol dire nulla di più di essere europea. I fratelli d’Africa si ostinano a cercare definizioni, termini, appellativi con cui si sentano più a loro agio, ma non comprendono come questa stessa necessità sia alla base della disuguaglianza. Non è l’aspetto dispregiativo di questi termini, a farne una minaccia, è riconoscere il dovere di accettarne almeno uno, quale esso sia. Un dovere esclusivo, un tributo che una razza, ha concesso ad un altra nel momento stesso in cui riconosce di dover darle credito. L’accettazione del loro dualismo, la confusione sulla loro vera natura, il complesso di un identità per metà fratello d’Africa per metà fratello d’Italia è solo la conseguenza dell’incapacità di sentirsi a pieno una delle due, senza alcuna approvazione da parte di terzi. Senza la benedizione di chi, come i bianchi, senza quella prefabbricata incertezza sulla sua identità, è libero da quel dovere.
“Negra”! Ecco la parola che stavo cercando per tutto il libro. Ce l’avevo sulla punta della lingua. Avrei voluto scrivere questo libro senza usare la parola che si ritiene, per un fratello d'Africa, la più offensiva in assoluto. Mio malgrado, devo necessariamente spiegare un paio di punti. Non vi sentiate offesi nel leggerla. Non ho scritto “banana”. È solo una parola, non sprecate tempo studiando l’etimologia del termine, dandogli più profondità di quanta ne meriti. Guardate al suo intento, perché quello è il suo vero significato. Cercate il dolo. Dove è l’offesa? Cosa ci ferisce? Quale nervo scoperto tocca?
Tutto il mondo è convinto che io debba sentirmi offesa dalla parola negra, è un offesa riconosciuta, istituzionalizzata. L’aspetto ironico della faccenda è che nessuno sa esattamente cosa ci sia di offensivo rispetto a nera. Forse una “G” scarlatta? Negra vuol dire “Nera!”. La lettera “G” è il punto esclamativo. Sono tenuta ad offendermi un poco di più. Eppure non so esattamente perché la parola
“Negra” sia così più offensiva, proprio perché il motivo si va perdendo nella storia. Non credo che ai tempi degli antichi romani o di Cleopatra, gli Africani venissero definiti così, seppure fosse, dubito si battessero per essere definiti “di colore” in quanto più “politically correct”. Più avanti nella storia so che molti venivano definiti “Mori”. Il mio sospetto, e nessuno me lo toglie, è che durante il colonialismo e lo schiavismo, gli spagnoli chiamavano lo schiavo Africano “negro”. Negro è la parola spagnola per il colore nero. Per giustificare lo schiavismo, si è detto pesta e corna degli Africani. Teorici e filosofi hanno scritto libri per sostenere la tesi. Così il termine ha acquisito un senso dispregiativo. Nessuno avrebbe immaginato che quel significato avrebbe riecheggiato secoli dopo. Ora la mia domanda è: cosa c’entra un fratello d’Africa con gli schiavi Americani di duecento anni fa? Niente. Un fratello d’Africa in Italia oggi, non ha nulla in comune con un afroAmericano. Il bisnonno del primo ha probabilmente venduto il bisnonno del secondo e per ironia della sorte ora entrambi hanno una offesa che li perseguita. Per un fratello d’Africa in Africa, la parola “negro” ha significato? Oppure è solo il modo con cui gli occidentali li definiscono? Io la parola “negra” non l’ho mai sentita in Etiopia. Eppure tutto il mondo ritiene io mi debba sentire offesa in quanto quella parola offende la mia stessa identità, la mia gente, il mio popolo.
Pensavo la vera offesa del termine stesse in questo: l’essere identificata in una determinata razza fatta schiava, alla quale vengo accomunata e dalla quale non posso dissociarmi. Alla fine il peccato originale sembra quello. In quanto esemplare di una categoria a rischio, il termine diviene un sinonimo del mio nome di battesimo. Ma non era questo.
Ho creduto la vera offesa fosse nel fatto che in quanto vittima, mi sia stato tolto il diritto di essere io stessa razzista. Il mio razzismo è buffo, fa sorridere. Intendo dire, che se io fossi razzista verso una persona bianca ad esempio, il mio, al massimo, sarebbe solo un personalissimo pregiudizio razziale, un caso isolato. Se lo fero contro di me, compierebbero un crimine contro tutta l’Africa, in quanto, ancora una volta, la razza che sono tenuta a rappresentare è ufficialmente riconosciuta come la perdente, indifesa, oppressa, sottomessa vittima del caso. Un fratello d’Africa non può essere razzista per gli occhi del mondo. Per questo, quando sento i giovani chiamasi negro tra loro senza colpo ferire, inorridisco,
perché nel momento in cui lo fanno, danno l’ennesima prova di come questo concetto sia vivo nella mentalità di tutti. Ragazzi sapete quanto quel termine sia offensivo, ma forse non sapete quanto sia banalmente brutto. È sgradevole, suona male. Sembra vedere uno lavarsi la bocca con la merda, è una scena brutta da vedere. Da evitare. Evitate almeno in pubblico se è proprio la vostra thing. “Ma cosa vuol dire? Come sei vecchia Roxanne! Non sai che l’offesa sta nel tono, non nella parola in se? Se me lo dice un amico, un fratello non c’è niente di male. Se me lo dice qualcuno che non conosco è un altra cosa…”. I giovani ripetono così. Allora largo ai giovani. A me non resta che girare per la mia città con nello stomaco questo pesante senso d’impotenza nell’incapacità di esternare il mio razzismo e in tasca pacchi e pacchi di mentine per l’alito da offrire a i giovani che incontro. Credevo l’offesa del termine fosse questo, ma ancora una volta non era così.
No, deve esserci qualcos’altro, che vada molto più a fondo. Negra è la mia offesa personale. Coniata su misura per me. Gentile omaggio della società. Soffro al suono di quelle sillabe per istinto innato. Come se io sia effettivamente tenuta a sentirmi ferita da un’offesa razziale. Un riflesso involontario. La società mette nelle mani dei fratelli d'Italia, un arma cui loro sono immuni, capace di colpire me in qualsiasi momento. Sta ai fratelli d' Italia, decidere se usarla o meno. Chi ha un istinto razzista ne approfitta per colpirmi, chi non lo ha mi guarda con comione. Sta ai fratelli d' Italia se essere razzisti o no. Secondo la società a me resta solo, l’inerme speranza di essere colpita il meno possibile durante la giornata. Questa ingiustizia, mi sembrava, la vera forza dell’offesa. Ma non era questo.
Per anni ho pensato, la vera offesa fosse l’impotenza che genera. Ho creduto questa particolare offesa è la più infima, perché non esiste nessun’altra offesa alla quale si possa contrapporla. A gli occhi della società, non c’è nulla che un fratello d'Africa possa fare per pareggiare il torto subito. Una volta che gli si urla contro negro, un fratello d'Africa potrebbe rispondere elencando tutte le bestemmie che conosce, ma l’unico risultato nel maldestro tentativo di difendersi, sarebbe suscitare pena negli occhi dei presenti. Se l’intera società ritiene che di fronte una simile offesa debba essere umiliata, per me si fa molto difficile convincerla del contrario. È questo senso di pena che mi tortura. Essere
compatita mi sfinisce. Gli sguardi comionevoli sono peggiori di quelli di sfida. In quegli occhi ho capito una volta per tutte il significato dell’offesa. Finalmente era chiaro, almeno per me. Mi stavano dando della “vittima” per tutto questo tempo! Semplicemente questo “vittima” null’altro. Puoi tradurlo in tutte le lingue che vuoi ma se qualcuno ti dice di essere una vittima e tu ci credi, ti assicuro che il o è breve a finire schiavi. Ora mi spiego tutto questo vittimismo e questi atteggiamenti ivoaggressivi dei fratelli d'Africa. Sono stati convinti di essere delle vittime e come tali non riescono ad alzare la testa.
Vittima per via di un termine a cui è stato dato un significato che non mi descrive, usata con un’intenzione che conosco bene. Non la sento mia. Diciamo che non fa per me. È la società che ritiene che quel termine mi debba necessariamente colpire, ora non può aspettarsi che lo faccia davvero. Il significato intimo della parola “negra” è “vittima”. Tutte le altre etichette che ho descritto sono null'altro che la sua versione edulcorata. Sinonimi politicamente più o meno corretti. Nera, di colore, africana, straniera, immigrata, extracomunitaria e via discorrendo. Avete svuotato il senso di ognuna di queste parole allo scopo di descrivermi semplicemente come un individuo oppresso, sottomesso, incapace di difesa in una società che non mi vuole. Non sono nulla di tutto questo. Io non sono vittima, non sono nera fatevene una ragione.
Sporca negra ci sarai tu “bianca” di merda.
Clandestina
In Italia tutti i Fratelli d'Africa, seppure cittadini Italiani, vengono comunque considerati immigrati, extracomunitari o stranieri quando hanno fortuna. Questa è la realtà. È un torto quotidiano con il quale ogni fratello d'Africa italiano deve fare i conti. Ammettiamolo, l’Italia è un paese che fa molto caso al colore della pelle non solo in estate. Io stessa sono sempre stata considerata una straniera. Esatto, può sembrare assurdo ma vedendomi camminare per le strade del centro, potreste pensare che io sia un’immigrata. Eppure sono qui a scrivere, potete leggere le mie parole, e le comprendete come fossero le vostre. Non vi sembro italiana? Sedete un attimo, quello che sto per dirvi potrebbe turbarvi. Io non sono un immigrata. Non sono mai stata clandestina, non sono una straniera e dunque tengo a precisare che non ho nulla a che fare con clandestini, stranieri o immigrati. Lo voglio sottolineare non certo per manifestare la mia italianità a chi scrive “gli immigrati anno rotto il cazzo” su Facebook, non ne avrei vantaggio. Lo faccio per mostrare come il ragionamento che segue non sia di parte. Vi garantisco che i fratelli d' Italia fanno una gran fatica a immaginarmi completamente distaccata dal concetto di immigrazione. Questo perché il colore della pelle in Italia, quando si fa scuro, è indice di “stranierezza”, ed essere stranieri equivale inequivocabilmente ad essere immigrati. Essere stranieri in Italia non è di per se un problema. Con una macchinetta fotografica al collo e un aporto di un paese sviluppato, lo straniero è ben accetto. Dio non voglia l’ambasciata di un paese del terzo mondo abbia rilasciato il vostro aporto, in quel caso straniero è immediatamente tradotto come “immigrato” in qualsiasi dialetto italiano. Lo sanno anche i bambini come potete stupirvi? Io sono nera per i fratelli d’Italia, dunque straniera, dunque immigrata. Eppure, rullo di tamburi, a gran sorpresa, io sono italiana. Dalla nascita, per giunta. Per diritto di sangue, come l’Italia desidera. Sia chiaro, non sono un’italiana nera. Non sono italoafricana, né Euroetiope, né qualsiasi altra diavoleria vi vogliate inventare per descrivermi a mia insaputa. Sono un’italiana media, come voi. Non ho nulla a che fare con gli immigrati, regolari o in fuorigioco che siano, più di quanto ne abbiate voi. Non lasciatevi ingannare dal mio fondo tinta. Dico tutto questo per assicurarvi che non c’ è conflitto di interessi né vizio di forma nel mio discorso. Non sono di parte ecco. Mio malgrado, ammetto che anni e anni della subdola identificazione con l’immigrato che ho subito da parte del mio paese, hanno contribuito a far sì che svilupi una sensibilità notevole sul tema. Sapete,
dopo anni che ti urlano “Straniera!”, impari a immedesimarti con gli stranieri con più facilità rispetto a quelli che te lo urlano. Credo che quindi il mio punto di vista possa essere interessante. E poi, lasciatemi essere il classico stereotipo se è questo che sembra. Ma voglio chiarire ancora una volta che questo non è il parere di parte di una persona “pro-immigrati”.
L’immigrazione non è un fenomeno nuovo. È un processo che non può essere fermato, può essere solo controllato. Deve essere governato. È questo che fa qualsiasi Governo. Gestire i flussi migratori è normale amministrazione. Questo deve essere chiaro. Purtroppo però si finisce sempre per considerare, in base ai propri principi morali, o più spesso ai propri pregiudizi, il fenomeno come un aspetto positivo o negativo. Diventa opinione, ideologia, e ovviamente politica. Destra e sinistra. Difensori degli immigrati e nemici degli immigrati. Volontari di associazioni per i diritti civili e ronde di quartiere. La questione soprattutto negli ultimi anni si è fatta spinosa. Provoca un impatto violento sulla vita dei cittadini e richiede veramente un’attenzione seria e urgente. Tuttavia, a ben vedere, l’argomento viene sistematicamente strumentalizzato a scopo politico. È sufficiente urlare “Fuori gli immigrati!” per aggiudicarsi migliaia di voti, e per quanto il trucco sia vecchio, in Italia funziona ancora. Eppure, l’immigrazione sta trasformando la struttura del paese, è davvero una questione che richiederebbe una seria e urgente considerazione. Non possiamo permetterci ancora dibattiti politici riguardanti il tema capaci solo di ruotare intorno a concetti superficiali, banalità, o idee superate.
In buona sostanza, si affronta il problema principalmente considerando il suo aspetto etico oppure quello più pragmatico. Sostanzialmente ci si domanda se l’immigrazione sia per l’Italia una sciagura oppure un’opportunità. Chi coglie principalmente l’aspetto più pratico della questione promuove il concetto di convenienza. Anche gli stessi difensori dei diritti degli immigrati finiscono per sottolineare l’importanza degli immigrati, nel tentativo di legittimarne la presenza su suolo Italiano. Lo straniero stesso, dal canto suo, assuefatto da questo approccio opportunistico al problema, quando interpellato si sbraccia per dimostrare principalmente quanto lavori, quanto consumi, quanto paghi le tasse e ancora quanto sia “utile” per il paese. Gira con gli scontrini in tasca. Si fa cenno ai contributi versati, si promuove il concetto di diversità come ricchezza. Si
ostentano titoli di studio che purtroppo non sono riconosciuti in Italia, ma che gli immigrati effettivamente potrebbero vantare. Come se non si potesse in effetti essere immigrati senza voglia di lavorare. Un immigrato pigro non è libero di esistere. Così come un immigrato asociale. Se dietro l’immigrazione c’è un tornaconto per l’Italia, allora che ben venga. Se piuttosto si dimostrasse più svantaggiosa che utile, allora va fortemente contrastata. Tutto questo è puro interesse. È speculazione, sfruttamento, chiamiamolo come preferiamo.
Ma ancora, si discute sulla pericolosità degli immigrati. Il reato commesso da un immigrato viene giudicato con l’aggravante razziale. Gli Italiani rivendicano il diritto sulle loro vittime. Che non vengano da fuori a rubare e violentare, per usare parole della loro propaganda. “Prima gli Italiani”. Il pregiudizio è proprio questo. Un immigrato è clandestino ancora prima d’esserlo. Un clandestino è un criminale ancor prima di compiere un reato. Coincidenza, però, l’uomo comune finisce per prendersela solo con chi di pericoloso ha ben poco. Ed ecco che scatta la violenza del branco sull’indifeso. Gli immigrati non sono più pericolosi degli Italiani. Anzi.
A mio parere non si dovrebbe trattare di valutare se la presenza di immigrati sul territorio sia conveniente o meno. Pericolosa o innocua. Ci eleviamo a ruolo di giudici e mettiamo la vita di queste persone sulla bilancia ogni volta che parliamo. Dovremmo riflettere piuttosto sul principio stesso di immigrazione e decidere se quest’ultimo sia un diritto inalienabile, in cui crediamo, oppure no. La nostra Costituzione crede in questa libertà oppure no? Rispondiamo guardandoci in faccia e chiudiamo la questione una volta per tutte. Crediamo in questo diritto? In base a questo si definisce il nostro livello di civiltà. Vogliamo mettere un limite alla libertà dell’uomo? Facciamolo. Vogliamo usare una definizione diversa per mettere un limite all’uomo? Facciamolo. Ma decidiamo. Mettiamo dei paletti alla libertà. Troviamo il coraggio, e dichiariamoci per quello che siamo. Prendiamo una parte. Ve lo assicuro, è così semplice. L’argomentazione dell’immigrato utile è eticamente scorretta, perché si basa esclusivamente sul contributo che lo straniero porterebbe, non su un diritto imprescindibile di libertà dell’uomo, sul quale un paese come l’Italia dovrebbe fondarsi. Lo straniero si batte per il suo diritto di vivere nel mondo. L’Italia dovrebbe essere così civile da riconoscere quel diritto per implicito; si fonda su
quei principi di libertà, non può tirarsi indietro all’occorrenza, in base al caso. È così assurdo? A me sembra pacifico. Le argomentazioni che ruotano intorno alla pericolosità degli immigrati perdono ogni validità quando la paura per il diverso le genera e la criminalità made in Italy si impegna a concretizzare. Guardiamoci allo specchio prima di giudicare, impareremmo molto.
La realtà? L’immigrazione non si può ostacolare; volente o nolente, la faccia dell’Italia cambierà, si evolverà. Dobbiamo aprirci al cambiamento. Dobbiamo imparare ad aprire le porte se non vogliamo che ci sfondino casa. Volete solo l’immigrazione regolare piuttosto che quella irregolare? Vi do una dritta: semplificate l’immigrazione regolare, vedrete che non ci saranno più clandestini.
Il problema non è solo Italiano, è europeo, se non addirittura globale. Queste persone non vengono qui per vedere Venezia o il Colosseo. Se il loro aporto glielo permettesse, volerebbero in Nord Europa senza neanche fare scalo in Italia. Cercano di entrare in Italia per essere in Europa per via degli equilibri del mondo che si stanno rompendo. Di questi equilibri l’Italia è pienamente responsabile. Non ha mai mosso un dito per fermare le guerre che producono gli esuli, al contrario le ha appoggiate e sostenute. Come me ne frego dell’Africa quando sono Etiope, io me ne frego dell’Europa quando sono Italiana. Io pretendo che l’Italia, il mio paese, sia un paese umano e coraggioso pronto ad accogliere, non importi quanto possa essere difficile. Mi aspetterei che il porgere la mano al prossimo fosse l’onore della mia nazione. Ma se proprio volessimo biasimare l’Europa, per averci lasciato soli, dovremmo cambiare atteggiamento. Non sarà facile farsi rispettare fino a quando parcheggeremo fannulloni ben pagati al Parlamento Europeo.
Si fomentano elettori contro gli immigrati a colpi di slogan. È lo sport nazionale. Giochi di psicologia spiccia e propaganda per casalinghe annoiate. I fratelli d'Italia li prendono in parola. Politici bifolchi che fanno del loro elettorato scimmie senza peli. Braccia rubate all’agricoltura. Fomentare la violenza contro una parte d’Italia, che volente o nolente vive e vivrà qui, è quanto di più vergognoso un partito di balordi possa fare. Questo è il vero cancro dell’Italia,
feccia capace solo di generare intolleranza, degrado e tensione sociale con discorsi demenziali e populisti. Questo è odio per la libertà. È questa l’Italia in cui vi riconoscete? È davvero finita per essere solo questo l’Italia? Ricettacolo di pavidi? Vuole dire questo essere Italiani? Sembra così. Parliamo di esseri umani, non di clandestini. Non sono criminali, sono disperati. Usare certi termini per desensibilizzare l’opinione pubblica e fomentare la prepotenza dei meno capaci, è tipico. È volgare. Gli esseri umani hanno lo stesso diritto di camminare sul pianeta, a prescindere dal pezzo di terra dove siano nati. Donne e bambini che gridano aiuto. Rischiano la vita per poter vivere. Vedono i loro cari morire durante il viaggio. Subiscono violenze e torture indicibili di cui io non ho il coraggio di scrivere. Superano tutto questo per una speranza. Una tenue fiammella che finisce per essere banalmente spenta dal soffio di meschini omuncoli coraggiosi di nulla. Il loro sterile ostruzionismo produce solo morti su morti, in un mare che si fa sempre più nero. Questo è il vostro mare, siatene orgogliosi. Popolo di navigatori mai partiti e ipocriti pensatori.
“Mandateli via!”. “Bruciateli!”. “Camera a gas”. Queste sono le parole di donne, bambini e anziani Italiani. L’amore, il futuro e la storia d’Italia. Questa è la nostra eredità, la nostra Italia, perché rimaniamo inermi mentre muore?
Spero l’Italia torni ad essere libera di pensare. Io sono libera di pensare e da qui tutto comincia. La libertà di pensiero genera la libertà di scrivere e di parlare. La libertà di desiderare e possedere come quella di rifiutare e concedere; la libertà di tutti i gesti come quella di aspettare, di sognare, di pregare. Oppure quella rivoluzionaria di cambiare. Camminare libera sul suolo di tutto il pianeta. Il mondo intero non può riuscire a contenermi. Non può definire l’individuo se quest’ultimo non si fa confinare in specifici recinti. Io sono titolare dello stesso spazio che il mio corpo fisicamente occupa, come il tempo che vivo e l’aria che respiro. Questo nessuno può espropriarmelo. Non c’è cittadinanza o aporto che possa delimitare la mia libertà personale. Non c’è nazione che possa obbligarmi a credere nei valori del suo inno. Non c’è bandiera che mi possa rappresentare ne frontiera che mi possa ostacolare. Non esiste cittadino se non quello che vive il mondo insieme gli altri. Non c’è nessuno straniero, perché io, non credo nella stessa definizione.
Sono libera. Sono umana.
Poker face
Io ho un sogno. Sogno segretamente di essere ricordata come la prima nera italiana ad aver fatto qualcosa che fino a quel momento nessun fratello d’Africa aveva fatto in Italia. Sarebbe rivoluzionario. Un modello per chi verrà dopo di me. Chi più di una prima nera, può essere citato ogni volta che in Italia si parli a vanvera di Africa o razzismo? Il mio nome sarebbe menzionato per primo. Il mio impegno riconosciuto finalmente per quello che vale: il talento di essere nera. Il mio merito apprezzato per la pionieristica attitudine di avere la pelle più scura dell’accettabile. Posso fare di tutto. Tentare in qualsiasi campo, se riesco in uno qualsiasi nel quale nessun fratello d’Africa mi abbia preceduto, sarò ricordata come la prima nera del caso. Che onore. La prima nera in Italia. Sarei una leader. Una portavoce. Una messia. The “Black Eva”. Sono sarcastica da almeno sette o otto righe, se non ve ne foste accorti. Essere definita come la prima nera sarebbe degradante. Imbarazzante. Tuttavia, molti fratelli d'Africa, nel leggere le righe qui sopra si saranno sentiti in disaccordo con la mia dispettosa ironia, vedendo nell’essere il primo nero di turno, motivo di gioia invece. Si perché molti fratelli d'Africa abbracciano con affetto l’idea secondo la quale essere “il primo nero”, significhi genuinamente combattere per l’uguaglianza e i diritti della propria comunità. Vedono in questo il fatidico “o avanti”, e questo li gonfia di orgoglio. Io al contrario ci vedo il contrario. Non vedo comunità da rappresentare, non ho i avanti da fare, ne tantomeno orgoglio da sbandierare. Sono cieca come una talpa ma ci vedo lungo. Ritengo essere annunciati come “la prima nera” sia la più clamorosa offesa razziale. Ritengo che dovermi dimostrare straordinaria per essere normale, sia ridicolo più di chi me lo propone. Lasciate che spieghi perché io, mi ritrovo sola, in preda tra rammarico ed euforia nell’assistere a questo freak-show dei primi fratelli d'Africa in erella. Lasciate che vi spieghi perché e soprattutto in che modo il mondo in cui viviamo mi porti a sperare di cuore di arrivare tardi. Ultima. Mai sul primo gradino del podio, nel tentativo di schivare la luce dei riflettori puntati sulla curiosa eccezione alla regola. Difendo il mio diritto di non valere nulla. Dimostro di non dover dimostrare nulla. Mi autoaffermo così, sempre fallimentare, come una proverbiale merda.
A mia totale insaputa, il mondo mi ha escluso dalla Società, e ha ritenuto onesto dovermi confinare in una minoranza. Mi ha anche assegnato una “comunità” a cui far riferimento. Quando sono nata, non ne sapevo nulla di questa storia, e con rammarico ho scoperto di non conoscere nessuno degli altri elementi del gruppo in cui mi hanno inserito. Ci credo non ci hanno accostasti per parentela o nazionalità, l’hanno fatto nella maniera più puerile e superficiale si possa immaginare: semplicemente per colore. Giuro, fosse stato un fattore meno superficiale io ci avrei anche creduto, ma così mi sembra proprio banale! Io ho sempre rifiutato l’idea di appartenere a questa comunità con vigore. “Combattere” è una parola forte, non si addice certo alla mia pacifica e ostinatamente pigra indole, diciamo solo che per una vita intera ho chiesto per forza di inerzia di mostrarmi il documento sul quale abbia firmato la mia appartenenza a questa categoria. Non importa dove vada, non importa la nazione in cui mi trovi, io, tecnicamente, sarei sempre tenuta a sentirmi parte di quella specifica porzione di società, e più informalmente me lo fanno notare, più io rifiuto l’idea.
Che figata rappresentare una minoranza etnica! So exclusive. Certo è affascinante far parte di un gruppo, ma quando il gruppo viene costantemente messo in discussione, sotto esame e soprattutto descritto come diverso dal resto della società inizi a sentir puzza di bruciato. Ti accorgi di come, gradualmente, poco a poco, la tua libertà venga messa altrettanto in discussione. Ti accorgi di vivere in una società che parte dal presupposto, che tu, in quanto nera, hai dei diritti negati, spazi non concessi, e offese gratuite. La tua situazione provoca la comione di alcuni e lo sprezzo di altri, ma tutti, tutti, compreso chi si trova nelle tue stesse condizioni, riconoscerà la tua diversità. Così il tuo talento, il tuo impegno, il tuo sudore, forse, ti riscatterà e poco a poco la minoranza di cui dovresti far parte, riguadagnerà quello spazio che informalmente le è stato tolto, sperando che un giorno l’uguaglianza trionfi. Surreale. Sfacciato. Dobbiamo sudarci il nostro spazio, si ripete, riprenderci poco a poco quello che ci è stato tolto. Ogni piccolo centimetro guadagnato è un o da giganti verso l’uguaglianza e va quindi rispettato, ricordato e onorato. “o dopo o ci riusciremo insieme”. Questi slogan sembrano recitati da un asino che insegue una carota. Riverberare l’idea secondo la quale certi spazi siano negati per certe comunità è un chiaro tentativo, di consolidare lo status quo. Per quanto tempo vogliamo sottolineare il colore delle persone? È davvero così straordinario per un Fratello d'Africa ottenere il suo spazio, tanto da celebrarlo nell’impresa? Ma
in che mondo vivete? Santo Cielo. Perché non capite come il semplice fatto di accettare l’idea secondo la quale sia oggettiva la necessità di lottare per i nostri traguardi personali più degli altri, equivalga a sostenere quello stesso meccanismo contro cui pensiamo di lottare?
Questa attitudine produce fenomeni curiosi. Come risultato di questa incessante corsa verso nuovi traguardi, il primo Fratello d'Africa che eccelle in qualsiasi settore nel quale fino a quel momento solo un bianco era riuscito, diventa un eroe. Un pioniere. È il primo Fratello d'Africa ad avere fatto un o sulla Luna. Qualsiasi cosa sia chiaro, qualsiasi cosa. È la mia sindrome del primo. Hanno esultato quando un Fratello d'Africa ha ottenuto la prima cattedra come insegnante. Hanno festeggiato per il primo musicista nero, per il primo giocatore di golf nero, per il primo attore nero. Di questo o arriveremo a entusiasmarci per il primo soffiatore di vetro di Murano nero. Non c’è settore nel mondo del lavoro, dello sport, della musica o della politica nel quale non si possa indicare il primo nero ad eccellere, e con il quale congratularsi. Come se il fatto stesso di essere un Fratello d'Africa sia un valore aggiunto, una facoltà, un fattore che rende l’impresa più rilevante. Un impresa straordinaria appunto. Girano film per ricordarcelo. Tutto ciò è assurdo. Un fratello d'Africa che raggiunge la cima, non dovrebbe fare più scalpore di un bianco nella sua stessa posizione. Eppure tutti applaudono, inconsapevoli del fatto, che ritenere certi eventi come veri e propri traguardi raggiunti da onorare, equivalga in effetti ad enfatizzare l’idea che sostiene la stessa impossibilità per un fratello d’Africa nel raggiungerli. L’accettazione dell’idea che certi angoli su questo mondo, per noi, siano fuori portata. Io ce l’ho la stoffa d’essere nera, deve esserci uno spazio anche per me da qualche parte.
Spostando l’attenzione su quell’ennesimo traguardo fasullo, si distoglie lo sguardo dal punto centrale, ovvero che lo stesso obiettivo non sarebbe mai dovuto essere un traguardo in partenza. Non sarebbe dovuto essere necessario lottare e sudare per ottenere qualcosa che era già a portata di mano. Tutto ciò che la società considera un “o avanti” sarebbe dovuto essere la norma. Il primo o se vogliamo. Praticamente, quando presentano un uomo come “il primo nero”, mi stanno sussurrando all’orecchio “Sei una merda, non scordarlo mai”. Riferendosi a me, si, proprio a me personalmente. E si aspettano che io prenda
nota, inizi a festeggiare, e me ne stia tranquilla e soddisfatta, almeno fino al prossimo colpo di scena nella lotta all’uguaglianza. Ma siete scemi? Sogno un mondo ideale? Vivo nel mondo dei sogni? Non credo proprio. Il mondo è fin troppo indulgente sul proprio livello di civiltà. Le minoranze sono toppo ottimiste sul proprio quoziente intellettivo.
Si rafforza nella mente di tutti l’idea secondo la quale, nella lotta all’uguaglianza, dopo un o avanti ve ne sia un altro e così via. Abbiamo ottenuto ancora una volta un po’ più giustizia di prima, ma la strada è ancora lunga. La strada è ancora lunga, questo è l’unico messaggio autentico che il pensiero comune percepisce. Di conseguenza, per il mondo, continua a essere tuttora fondamentale che si specifichi sulla didascalia della foto sulla prima pagina di un quotidiano come il presidente sia nero. Non sarebbe necessario quell’aggettivo. Essendo così visivamente evidente, io direi che l’informazione è quantomeno superflua. Inchiostro sprecato. E io ripeto tra me e me “Si, si. l’avevo visto, l’avevo visto”. “L’Italia applaude al primo presidente della Repubblica nero”, ad esempio, è una frase che a me suona come “L’Italia si stupisce di fronte al curioso caso del canovaccio che canta”. Risulta immediatamente bizzarro, e ovviamente suscita clamore e curiosità. A voi invece suona tutto normale. Sono io la pazza che considera un presidente fratello d'Africa nulla di eccezionale, o siete voi i folli che voterebbero per canovacci canterini a X Factor? Mi rivolgo proprio a voi fratelli d’Italia giornalisti, voi dovreste fare notizia, ma come pensate di poter tirarne fuori una credibile e soprattutto attuale, se guardate con occhi meravigliati l’idea di un presidente nero tanto da scriverci articoli? Siete decisamente non al o coi tempi, non prenderei consigli di moda da voi figuriamoci le opinioni.
Altro che opinioni, tutto questo produce solo stereotipi e generalizzazioni escludendomi dal resto della società italiana-italiana (wink-wink), ogni singola volta ve ne sia occasione. Ricordandomi come io sia reietta, vittima del razzismo e dell’intolleranza, ma che grazie a Dio le cose stanno finalmente cominciando a cambiare in questi ultimi ottanta anni. Che continuino, che mettano più impegno, che mi raccontino ancora del razzismo. Il razzismo non è il problema ognuno è libero di esserlo e ci mancherebbe che io gli auguri di smettere. Io sono una delle persone più razziste che conosca, e le minoranze che detesto vivono
tranquillamente nonostante me. Siamo tutti razzisti schifosi. Cambiare strada se di notte tornando a casa sentiamo dietro di noi un accento dell’est-europa? Chi non lo fa? Cambiare vagone quando vediamo un turbante? Semplice scaramanzia. Tenersi la borsa stretta tra le mani quando a una Rom? Buon senso, a patto che si dica Rom e non zingara ovvio. Perplessi da milanesi che si chiamano Ciro o Cosimo? Chi non lo sarebbe? Il problema non è il razzismo. Il vero problema è credere nell’ineguaglianza che genera. Credere che qualche categoria debba essere più a rischio di un altra. Credere nella mancanza di diritti, credere nello spazio che informalmente verrebbe negato in una società multietnica. Credere a lungo andare diventa accettare, e accettare, diventa are.
Accettando questo, accettiamo che alcuni individui facciano parte di una graduatoria, una categoria a parte che compete su un campo diverso. Questa è la manovra più subdola che si possa operare su una minoranza: convincerla di essere una minoranza appunto e riuscirci così bene da farla comportare come tale. Ritenersi solo una porzione della popolazione e non la popolazione stessa. La pecora nera. L’eccezione. La variazione. Mai perfettamente integrata. Rappresentante di meno voci e dunque in un certo senso con meno diritto di essere ascoltata. Ma soprattutto, in dovere di essere compatita. In dovere di combattere per il suo spazio e l’uguaglianza. Volete farmi credere di essere parte di una minoranza simile? Non ci casco. Metterlo nero su bianco sembra assurdo. Ma veramente credete, che in quanto nera, io sia diversa da voi? Tra l’altro diversa in peggio. Ma davvero ci credete? Chi l’ha stabilito il limite massimo di melanina che un individuo deve avere in circolo per essere a norma in Italia? Non riuscirete a convincermi. E comunque, se proprio dovete confinarmi in una fetta prestabilita della società, perché quella categoria la decidete voi, a vostro comodo? Perché solo una poi? Io non faccio parte solo di una minoranza se è per questo. Ho la tessera di molti club. Io sono donna, giovane, italiana all’estero. Poi certo, sono anche una “di colore”. Vorrei tanto poterne elencarne di altre, ma avete capito cosa intendo. Non costringetemi a convertirmi e are all’altra sponda solo nel tentativo di provare il mio punto. Come la bruttezza, la minoranza, la diversità, sta negli occhi di chi la vede. Non lasciamoci convincere da guerci sdentati che ci indicano come andare a sbattere contro il muro. Usiamo i nostri occhi per andare avanti. La mia lotta è contro l’accettazione di questa idea di diseguaglianza in Italia, non contro il razzismo. Cerco di spiegare come reiterare il concetto secondo il quale per i fratelli d’Africa in Italia, ci sia meno
spazio, meno diritti, meno tolleranza, sia il problema stesso che cerchiamo di risolvere. È finita l’epoca degli intellettuali che combattevano il razzismo e i razzisti che gli davano degli inferiori a colpi di superiorità. Dove sta scritto che all’ignoranza si debba rispondere sfoderando intelligenza? Dobbiamo capire che fin quando si chiede a qualcuno di “non essere razzista per favore”, lo mettiamo nella posizione di poter esserlo. Gli stiamo dando le chiavi della nostra prigione. L’unico modo per esigere rispetto è prenderselo. Con la superiorità, l’eleganza e l’intelligenza non si offende l’ignoranza, altrimenti l’ignoranza si chiamerebbe saggezza non trovate?
La mia non è utopia. Il trucco è proprio questo. Progresso, Integrazione, Futuro migliore, sono queste le parole con cui ci prendono per il culo. Ma di quale “Domani” parli? Mi stai prendendo per il culo da “Ieri”, ringrazia Dio che solo “Oggi” mi sia rotta il cazzo.
Non avrai la faccia tosta di pensare che dal momento che ci sei riuscito per tutto questo tempo, il processo per fermarti debba essere graduale?
L’Italia pretende che io stia qui bella paciosa ad aspettare il prossimo primo nero pronto a incoraggiarmi ma al contempo ricordarmi come per me , in fondo le cose siano diverse. L’ennesimo primo nero a dimostrazione di come ci sia spazio anche per me, ammesso che io mi possa essere distrattamente dimenticata di come quello spazio fosse stato già mio. Io non aspetto più, mi prendo lo spazio che mi serve. L’incessante corsa verso nuovi traguardi sul percorso dell’uguaglianza che diventa sempre più lungo, finisce qui per me. Andare fuori pista è l’unico modo per vincere. Ma soprattutto l’Italia pretende che io vada al suo ritmo, e diciamocelo andare al o dell’Italia, significa praticamente tornare indietro nel ato rispetto il resto del mondo. Io non credo di essere una novità, non credo di rappresentare il futuro del paese io sono il presente questo sia chiaro. Non sono una “nuova italiana”, ma anche ammettendo che voglia provare a capire il punto di vista dei fratelli d’Italia che mi vedono così all’avanguardia, non ho comunque il tempo di starli ad aspettare mentre barcollando cercano di raggiungere il resto del mondo. Continuate con le vostre
idee superate. Continuate pure a stupirvi ogni volta che mi vedete. Se solo sapeste il modo in cui vi vedo io. Una causa persa. Una brutta figura per il Paese. Non ho più tempo né pazienza per stare lì a spiegare, se non lo avete ancora capito, forse è destino. Chissà, magari un giorno.
Fino a quel momento: XOXO