Solstice - L'incantesimo D'inverno 5d6v4q

C.E.A Bennet

Solstice L'incantesimo d'Inverno

UUID:

Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com) un prodotto di Simplicissimus Book Farm

Indice

Il segreto Emma Giochi da ragazze Emma Nascondino Emma Tutto al suo posto Alec Streghe Emma Confidenze Emma Una giornata di scuola Emma Distanze di sicurezza Alec Discorsi da mocciose Emma Sam Emma Il vestito adatto Emma Una serata quasi danzante Alec Partenze Emma Qualcosa che non avevo notato Emma Sorprese Emma Un tempismo perfetto Alec Come volevasi dimostrare Emma L’intervista Emma

Il blocco Emma Per il tuo bene Alec Una mano lava l'altra Emma La coppia perfetta Emma Non è quello che sembra Emma A metà strada Alec Dolcetto o scherzetto? Emma Alcune tessere del puzzle Emma The show must go on Emma Mentre dormi Alec Una nonna per amica Emma Sam e Charlie Emma Un amico di vecchia data Emma Un regalo per noi Emma Un quasi piano e un ottimo risveglio Stiamo lavorando per noi Emma Promesse mantenute Emma Quando non ero ancora nata Emma Buon Natale Alec Tale padre, tale figlia Emma Saluti e spiegazioni Emma

La casa sulla spiaggia Emma Conoscenze in comune Alec Con tutta la forza che ho Emma Ringraziamenti

C.E.A Bennet

~ Solstice ~ L'incantesimo d'Inverno

Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, istituzioni, luoghi ed episodi sono frutto dell’immaginazione dell’autore e non sono da considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari, organizzazioni o persone, viventi o defunte, veri o immaginari è del tutto casuale. Realizzato da C.E.A Bennet Quest´opera è protetta dalla Legge sul diritto d´autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. Titolo originale: Solstice - L'incantesimo d'Inverno Copyright © 2014 by C.E.A Bennet All rights reserved www.thesolsticesaga.it

ISBN 9786050322057 Prima edizione digitale: settembre 2014 In copertina: immagine © Umberto Brambilla

Il segreto

Emma

Da dove mi trovavo la visuale era ridotta. Vedevo solo le due teste e le spalle, strette nei giacconi pesanti, uno rosso e l’altro blu, indispensabili per i rigidi inverni del Connecticut. Il vento soffiava forte, come aveva fatto per l’intera settimana e un pallido sole tramontava dietro gli alberi del parco, stiracchiando i suoi deboli raggi fino ai muri giallognoli della scuola. Un comune venerdì pomeriggio di novembre a Saint Claire, 13.457 abitanti, una quarantina di minuti di auto da Hartford, un quarto d’ora scarso dall'Oceano Atlantico. Una di quelle cittadine di provincia dove ci si conosce tutti. I ragazzi frequentano la stessa scuola dai cinque ai diciotto anni e hanno il tempo di diventare amici, innamorarsi e odiarsi a morte. I proprietari di teste e spalle sbirciavano a intervalli regolari dal muretto che costeggiava il lato nord e tracciava una netta linea di confine tra l’edificio scolastico e l’ampio parcheggio. Dietro di loro la rastrelliera delle biciclette si andava svuotando, mano a mano che gli alunni delle classi medie, troppo grandi per lo scuolabus ma ancora lontani dalla patente, liberavano i loro mezzi da catene e lucchetti e pedalavano veloci verso la libertà. Una girandola di giacche a vento, zainetti, voci e risate mi turbinava intorno intontendomi. Tormentavo nervosa le maniche del piumino rosa confetto. Adesso o mai più, continuavo a ripetermi. Adesso o mai più. Sapevo cosa stavano osservando con tanta attenzione, nascosti tra muretto e biciclette. Tony Marshall sarebbe uscito a momenti dalla porta principale con un paio di compari al seguito. Era il bulletto della scuola e, da qualche settimana, l’incubo peggiore di Sam Miller e Alec Stevens. Rispettivamente giacca blu e giacca rossa. Alec e Sam. Sam e Alec. Classe seconda, vicini di casa. Amici per la pelle.

Sedevano nel banco dietro di me e la mattina prendevano lo scuolabus alla mia stessa fermata. Erano miei vicini di casa e miei compagni di classe, ma non erano miei amici. Avrei tanto voluto che lo diventassero. Li vedevo girovagare per il quartiere, correre nel cortile della scuola, scambiarsi occhiate complici e segrete. Invidiavo la loro libertà, la conoscenza profonda che avevano l’uno dell’altro. Un mondo dal quale gli altri erano esclusi. Dovevo farne parte anch'io o meglio sentivo che avrei dovuto. Da alcune settimane, però, libertà e spensieratezza avevano subito un brusco calo. Tony e i suoi amici, più grandi di noi di un paio d’anni e decisamente più grossi, li avevano presi di mira. Ogni mattina all'entrata della scuola i loro cestini venivano requisiti e svuotati. Per giorni Sam e Alec avevano saltato il pranzo. Il gioco, però, aveva perso presto il suo fascino. Tony non ci aveva pensato due volte ad alzare la posta e pretendere il pedaggio in denaro. Eppure, nonostante tutto, i due piccoletti non avevano ceduto ai ricatti e nemmeno alla tentazione di chiedere aiuto ai genitori o alla maestra. Nemmeno a Justin, il fratello maggiore di Alec. Una dimostrazione di coraggio che non aveva condotto a grandi risultati se non a una ripetuta serie di pestaggi. Tutti i giorni alla fine delle lezioni prima di prendere l’autobus. Avevano resistito due settimane, poi avevano messo a punto un piano: aspettare nascosti dietro il muretto le 16.15, ora in cui Mr Tiggs, autista dello scuolabus, avrebbe aperto le porte della salvezza. A volte funzionava, il più delle volte no. Osservavo le loro manovre da giorni. Una parte di me li ammirava per come sopportavano le angherie di quello spocchioso di Tony. Sarebbe stato facile avvicinarli e offrire il mio aiuto, se fossi stata un maschio. Sarebbe stato ovvio. Saremmo stati amici naturali, fratelli di sangue da sempre. Invece ero una femmina e avevo poche speranze di star loro anche solo lontanamente simpatica. A meno che… Se avessi dimostrato di poter essere un’amica leale e coraggiosa, non soltanto una piscia-a-letto con le trecce? Così mi era venuta l’idea. Era rischioso a dire la verità. Se mamma lo avesse scoperto si sarebbe arrabbiata tantissimo, ma ne sarebbe valsa la pena. Cosa

facevo di male in fondo? Tony era cattivo, se lo meritava. Il mio piano consisteva nel convincerlo a sancire una tregua e per riuscirci dovevo offrire una valida merce di scambio. Sapevo come fare per procurarmela. Sarebbe bastato concentrarmi su Tony e vedere il suo segreto. Ero sicura che ne avesse uno. Tutti hanno un segreto. Una cosa fatta o detta, soltanto pensata o che è successa. Qualcosa che non si vuole far sapere a nessuno. Il mio è vedere i segreti degli altri. Sono una bambina speciale. Almeno così aveva detto mamma. Lo sono anche le mie sorelle, Eileen e Constance, ma nessuno al mondo doveva saperlo. Sarebbe stato troppo pericoloso. «Le persone hanno paura di chi è speciale come noi e la paura spinge a fare cose terribili. Potrebbero portarvi via da me e dalla nonna, capite bambine? Deve restare il nostro segreto». Così aveva detto e non ci saremmo mai sognate di raccontarlo a qualcuno o di usare le nostre capacità in pubblico. «Mai» aveva aggiunto. «Non provate a disobbedirmi, vi scoprirei immediatamente». Era vero. Mamma sapeva sempre quando stavi per dire una bugia. Era il suo segreto. L’avevo visto. Mi era costato una settimana di punizione e il discorsetto sulle bambine speciali, ma diventare amica di Sam e Alec valeva davvero un castigo o una predica. Avevo pensato a tutto. Il mio era un piano infallibile e molto più efficace delle loro fughe all'ultimo minuto. Eppure non mi decidevo a are dalla teoria ai fatti. Vedere il segreto di Tony era stata la parte più semplice. Avevo avuto l’imbarazzo della scelta: scartate le botte che prendeva dal padre (una cosa terribile, non ero così meschina) e gli innumerevoli furtarelli commessi ai danni di amici e compagni (se l’avessero scoperto non gli sarebbe importato granché), avevo optato per un segreto che mi avrebbe assicurato la vittoria a mani basse nella trattativa. La resa incondizionata. Se avessi spifferato quello che sapevo, Tony rischiava la sospensione. Invece esitavo. Da giorni conoscevo ciò che mi serviva per mettere in atto il mio

salvataggio, ma due diversi tipi di paura mi inchiodavano. Paura numero uno: mamma. Finché avessi tenuto il segreto per me, potevo coltivare la speranza che non si accorgesse della mia disobbedienza. Se qualcosa fosse andato storto, avrebbe impiegato mezzo secondo per capire come avevo fatto a mettermi nei pasticci. Paura numero due: Sam e Alec. Se mi avessero respinta? Potevano non voler dare ascolto a una femmina. I maschi sono così ottusi a volte. Da giorni, al suono della camla, cercando di non dare troppo nell'occhio, sgattaiolavo dietro di loro e li seguivo fuori da scuola. Li osservavo appostarsi dietro il muretto e aspettare il momento in cui Mr Tiggs avrebbe aperto le porte dello scuolabus, ma prima che potessi anche solo pensare di agire e decidermi a esporre il mio piano, loro si mettevano a correre. Forse non avevo i riflessi abbastanza pronti. Forse era una scusa come un’altra per rimandare. Per questo motivo, come incentivo a darmi una mossa, avevo fissato una scadenza: venerdì pomeriggio. Venerdì o mai più. E venerdì era arrivato, preciso e puntuale, come qualsiasi altro venerdì. Puntuale era stata la camla delle 16.00, che aveva annunciato la fine della scuola. Puntuali i nostri compagni, schizzati veloci fuori dall'aula. Tutti a parte Sam e Alec. Avevano raccolto le loro cose e messo lo zaino in spalla trascinandosi verso l’uscita. Raggiunto il solito nascondiglio, si erano acquattati con l’intenzione di starsene lì per i restanti dieci minuti di agonia. Solo qualche metro e la rastrelliera delle biciclette mi separavano da loro. La rastrelliera delle biciclette e la mia vigliaccheria. Ancora una volta me ne stavo impalata a tormentare le maniche del piumino. Dovevo sembrare il più convincente possibile e avevo il sospetto che il rosa confetto non aiutasse la faccenda della credibilità. Un o dopo l’altro mi avvicinai tanto da essere a portata d’orecchio.

«Ciao». Rigida, braccia lungo i fianchi. Che cavolo di voce mi era uscita? Sembrava il pigolio di un pulcino. Nessuno dei due si era accorto della mia presenza. Emma Hataway. Bambina speciale e inudibile. Molto bene. Riproviamo. «Ehm… Ciao!». Lo dissi più forte, cercando di mettere in quel ehm tutto il coraggio che mi rimaneva. Finalmente si voltarono nella mia direzione. Una faccetta molto stupita e una molto irritata. Occhi grigi. Occhi nocciola. «Ciao Emma». Gli occhi grigi e buoni di Sam erano sorpresi e dilatati dalla paura. La mia geniale idea forse non era poi tanto geniale. Oppure l’idea era geniale, ma il momento sbagliato. Chissà. «Mocciosa vuoi farci ammazzare? Non stiamo giocando a nascondino, se Marshall vede te, vede anche noi». Alec pronunciò la frase a denti stretti, con una specie di singulto strozzato nella voce. Da come mi aveva guardata avevo l’impressione che me l’avrebbe urlato in faccia, se non avesse avuto il terrore di attirare l’attenzione. Mi diede di nuovo le spalle e tornò a fissare impaziente lo scuolabus. Sam mi concesse un sorriso tirato, ma imitò svelto l‘amico. Un successone. Tutte le mie convinzioni si sciolsero come neve al sole. Il primo istinto fu di dar retta al mio orgoglio ferito, girare i tacchi e non farmi rivedere mai più. Una vocina nella testa, però, mi ripeteva che non avrei avuto un’altra occasione. Dovevo andare fino in fondo. Poco importava se non mi avrebbero voluto come amica, almeno li avrei aiutati. Arrivata a quel punto, la figura dell’idiota l’avevo fatta e nella peggiore delle ipotesi potevo sempre chiedere a mamma di cambiare scuola. O continente. Presi il coraggio a due mani. Briciole di coraggio a dir la verità. Lo buttai fuori tutto d’un fiato per paura che l’emozione mi mozzasse la voce nel mezzo della mia rivelazione.

«È stato Tony» ansimai. Avrei dovuto essere un pelo più incisiva. Ci riprovai prima che avessero il tempo di replicare e cacciarmi via. Alec non sembrava un tipo tanto paziente. Uno… due… tre… «È stato Tony a scrivere quelle cose orribili sulla maestra Taylor nel bagno dei maschi. L’ho visto». Dio fa che mi credano. Fa che mi credano. Di nuovo la faccetta stupita di Sam e quella irritata di Alec. «Allora?». Il tono della voce era più seccato dello sguardo, ma se non altro avevo attirato la loro attenzione. «Ho un piano». Il miserabile secondo di considerazione mi aveva dato la sicurezza per continuare. Ero pronta a vuotare il sacco. O la va o la spacca. «Di che diavolo stai parlando?». Gli occhi nocciola di Alec erano piantati nei miei. Scocciati, senza dubbio, ma anche interessati. «Un patto. Una tregua con Tony. Nessuno spiffera se a partire da oggi vi lascerà in pace». Detto così sembrava la soluzione più ovvia del mondo. Nulla poteva andare storto. «Wow! Forte!». Sam si voltò con slancio verso l’amico, traboccante di speranza e sollievo. Nello stesso istante la bocca di Alec si piegò in una smorfia di autentico disgusto. «Non ci facciamo aiutare da una femmina. Scordatelo». Reazione prevedibile. Alzai gli occhi al cielo in un moto di sincera stizza. Davvero mi credeva così ingenua? «Ovviamente» dissi scandendo bene le lettere e trattenendo a stento l’irritazione di dover spiegare una cosa così scontata, «dirò che l’avete visto voi. Sarò la vostra portavoce». Portavoce suonava bene. Una cosa da “bande”. Ai maschi piacevano quelle cavolate.

Sam mi guardava ammirato. Non sembrava dispiacergli che fossi io a tirarli fuori dai guai. Forse gli stavo simpatica. Uno su due non era male come risultato. Alec sembrava più difficile da convincere. La parola giusta era sospettoso. Pericolosamente sospettoso. I sospetti portano domande e non c’erano risposte che volessi dare. «Tu cosa ci facevi nel bagno dei maschi? Perché non sei andata subito a dirlo alla maestra?». Ecco. Giusto per fare un esempio di domande a cui non volevo rispondere. Non staccava gli occhi dai miei. Aspettava un mio o falso per dimostrare a Sam che di me non ci si poteva fidare. «Perché non sono una spia» ribattei piccata, ma compiaciuta. Avevo capito molto in fretta che per una come me, il modo migliore di sopravvivere a scuola era farsi i fatti propri. Senza contare che, considerato il modo in cui l’avevo scoperto, non mi sarebbe servito molto andare dritta da Miss Taylor. A meno che non volessi farmi scoprire da mamma o aggiudicarmi un nemico mortale per il resto delle scuole elementari, tutte le medie e forse le superiori. Chissà se Tony Marshall mi avrebbe inseguita fino al college? Meglio non pensarci. «Non sei una spia, ma resti una mocciosa. Cosa ci facevi nel bagno dei maschi?» Non avevamo fatto molti i avanti e Alec non sembrava intenzionato a mollare la presa. Beh, gli avrei chiuso quella boccaccia petulante una volta per tutte. «Mi nascondevo da Milly Bloom e Cinthya Wright». Lui pure si nascondeva da qualcuno. Forse quella lingua l’avrebbe capita. Avevo anch'io il mio piccolo inferno personale. Non era una loro esclusiva essere vittima di compagni prepotenti. Spesso mi capitava di trovare rifugio negli angoli più nascosti della scuola: sgabuzzini, sala delle caldaie, bagni dei maschi. Tutto pur di sfuggire alla derisione pubblica e a svariate tipologie di scherzi crudeli. Eileen cercava di proteggermi, ma non poteva starmi appiccicata tutto il giorno. Fortunatamente Milly eguagliava Tony in intelligenza, ma non in

corporatura. La mia patetica scusa era plausibile. Una bella mezza verità. Sempre meglio di una bugia tutta intera. Con la coda dell’occhio vidi lo scuolabus entrare nel parcheggio. Tony e due dei suoi fedelissimi, Gilroy Ford e Marcus Shiffer, ridevano in modo sguaiato appoggiati alle loro biciclette. Ogni tanto lanciavano brevi occhiate in direzione dell’ingresso della scuola. Ci aspettavano o meglio li aspettavano. Non avevamo più molto tempo. A momenti Mr Tiggs avrebbe aperto le porte per far salire gli studenti in fila indiana alla fermata. «Allora?» li incalzai nervosa. Ti prego di' di sì. Sam guardò implorante l’amico. «Per me va bene, Alec. Emma non ci tradirà e non dovremmo più preoccuparci delle botte e di tutto il resto». I suoi occhi erano così buoni, così liquidi. Come poteva Tony Marshall picchiare un bambino come Sam? Avevo visto quanto Alec potesse risultare irritante e potevo intuire con facilità cosa scatenasse in un tipo come Tony, ma Sam? Sam era la quintessenza della simpatia. Si scambiarono una lunga occhiata. Uno sguardo che aggiunse mille parole a quelle dette a voce alta. Alec, combattuto, iniziò a fissare un punto invisibile, come se stesse cercando qualcosa. La frase giusta per controbattere. Un motivo ragionevole per deludere Sam. Non li trovò e si arrese. Scosse le spalle. Un unico movimento che arrivò alla testa, coronata di riccioli neri. Come se avesse ricevuto un silenzioso assenso Sam si alzò e lasciò il suo nascondiglio. Mi tese la mano, sorridente e sollevato. La strinsi. Era calda, morbida. «Andiamo?» chiese rivolto all'amico. Alec si alzò controvoglia. Chiunque si sarebbe accorto che accettare il mio aiuto gli costava parecchio. Se non fosse stato per Sam si sarebbe fatto picchiare fino al quarto anno di liceo pur di non aver a che fare con me. Le porte dello scuolabus si aprirono e gli studenti cominciarono a salire per

prendere posto. Tony ci aveva visto e aspettava con un ghigno soddisfatto sul faccione rotondo. Tutti e tre guardammo in direzione del parcheggio, verso la fine di tutta quella storia. Inspirai profondamente. Era ora di entrare in scena. «Andiamo» mormorò Alec tra i denti. Dandoci le spalle si diresse verso lo scuolabus.

Giochi da ragazze

Emma

Trattare con Tony fu la parte più facile della faccenda. Più complicato fu iniziare il mio discorsetto diplomatico prima che il bullo e la sua banda dessero il via al consueto pre-autobus tra amiconi. Aveva già sollevato il braccio per colpire uno dei due, mentre Ford e Shiffer li bloccavano tenendoli per le braccia. Riuscii a trattenerlo, afferrando un lembo della giacca. Il pugno chiuso si fermò a mezz’aria non tanto per la mia presa d’acciaio, ma per la sorpresa di sentirsi trattenere. Non doveva essere capitato molto spesso. «Non lo farei fossi in te». Non avevo paura. Era impossibile che fosse così stupido da alzare le mani su una bambina piccola e indifesa davanti a tutti quei testimoni. «Cosa vuoi Hataway? Se cerchi rogne ce ne sono anche per te». Gli occhi azzurri, glaciali, sembravano divertiti dalla possibilità. Iniziai a sospettare che Tony non fe tanta distinzione tra i sessi come credevo. Arretrai impercettibilmente. La dea bendata venne in mio soccorso. Miss Taylor varcò l’uscita principale in quell’istante e si diresse verso l’auto parcheggiata nel piazzale. Molto vicino allo scuolabus. Tony sembrò abbandonare l’idea di picchiarci nell’immediato futuro. Approfittai della situazione cercando di apparire decisa. «Gentile da parte tua, ma no grazie» risposi educata. Volevo dimostrarmi indifferente alle sue minacce, ma non percepì l’ironia. «Abbiamo una proposta da farti» proseguii serafica. Cercai sul suo volto l’effetto delle mie parole. Gli occhi gelidi erano resi più minacciosi dalle sopracciglia aggrottate che li sormontavano. La grossa testa di capelli scuri, tagliati a spazzola era coperta da un vecchio berretto grigio, tutto sformato. Restò in silenzio in attesa che proseguissi e lo accontentai. «Sono qui come portavoce. Ti conviene ascoltare se non vuoi are un mare di guai» dissi guardando in direzione della maestra.

Miss Taylor, in piedi accanto all’auto, trafficava nella borsa alla ricerca delle chiavi. Scoccai a Tony un’occhiata allusiva. Chissà se il bullo della scuola conosceva il significato del detto “avere la coda di paglia”. Il buon vecchio Tony abboccò come un pesce all’amo o meglio come uno squalo a un piccolo, piccolissimo amo. In un attimo mi fu addosso. Ci separavano solo pochi centimetri. Sovrastare è un termine che non rende l’idea. Avevo la sensazione che sarebbe bastata la sua ombra per spiaccicarmi come un moscerino. Sam scattò in avanti cercando invano di liberarsi dalla presa di Ford. Alec si divincolava furioso nella stretta dell’altro bullo. Per spalleggiare Sam, certo. Non per difendere me, ma mi piacque pensarlo. Fu una sensazione gradevole, sufficiente a farmi sentire più sicura. Non ero sola. Se Tony mi avesse presa a calci qualcuno mi avrebbe aiutato a rialzarmi. Dovevo solo mantenere la calma. Farmi prendere dal panico non sarebbe servito a niente, anzi. Rischiavo di scatenare una visione e, per di più, fuori controllo. A volte capitava. Se ero molto emozionata o spaventata, il segreto arrivava prima che potessi provare a fermarlo. Poteva essere di chiunque, non ero in grado di scegliere il film in momenti come quello. Per alcuni lunghissimi minuti sarei stata completamente assente o sarei potuta svenire. Decisamente poco funzionale alla faccenda. Calma. Calma e sangue freddo. Inspirai a fondo. Avevo bisogno di una sferzata di aria fredda, che mi bruciasse i polmoni, che mi tenesse attaccata alla realtà. Ancorata a terra. Cosa poteva succedere? Al massimo Tony mi avrebbe mollato un pugno, mentre io potevo farlo sospendere. Nella migliore delle ipotesi espellere. Alcuni ragazzi si erano avvicinati, incuriositi dall’insolita scena: un soldo di cacio a un millimetro da un pugno di Tony Marshall. Alzai lo sguardo verso di lui. Solo un soffio ci divideva. Sentivo il suo alito aglioso sulla testa. Sperai che la mia voce suonasse abbastanza ferma.

«Ti hanno visto, Tony» sussurrai per non farmi sentire da chi ci circondava. Con la coda dell’occhio potevo vedere la giacca viola di mia sorella Eileen. Inconfondibile. Signore e signori ecco a voi la testimone oculare della mia disobbedienza. Dovevo rimanere concentrata. A mamma e a Eileen avrei pensato più tardi. Tony mi guardava torvo in attesa di una spiegazione. Avevo perso il filo. Dov’ero arrivata? Ah sì, la rivelazione. Il punto in cui Tony mi spacca la faccia. «Sam e Alec ti hanno visto mentre scrivevi quelle cose orribili su Miss Taylor» spiegai disinvolta. Mancava solo che mi mettessi a fischiettare. Serrai la mascella in attesa del colpo che sarebbe arrivato, ma attesi invano. Tony non mosse un muscolo. Per una frazione di secondo i suoi occhi si accesero di panico. Li strinse fino a farli diventare due fessure. Taglienti come la sua voce. «Bravi pidocchi. Siete corsi da mammina a raccontare tutto?» rispose sfrontato, ma non riuscì a nascondere una leggera nota di insicurezza. Tastava il terreno. «Non sono degli spioni. Vogliono proporre una tregua». La voce mi si strozzò in gola e le parole mi rotolarono fuori dalle labbra. Dovevo sforzarmi di riprendere il controllo. «Uno scambio di favori». Per quanto tempo sarei riuscita a sostenere il suo sguardo feroce? Se avessi abbassato gli occhi avrebbe pensato che eravamo troppo codardi per denunciarlo e avevo il terrore che si mettesse a fare domande. Non ero abbastanza lucida da inventare delle storielle credibili sui come e sui perché. Fortunatamente stavamo dando un discreto spettacolo: Miss Taylor aveva interrotto la ricerca delle chiavi e guardava nella nostra direzione. Aveva l’aria di volersi avvicinare per vedere cosa stava succedendo. Tony non aveva più tempo. Prendere o lasciare. La posta in gioco era troppo alta. Dopo un minuto, che sembrò eterno, capì di non avere alternative. Si guardò intorno per accertarsi che nessuno lo potesse sentire. «Va bene, Hataway. Questa però, prima o poi, me la pagherete. Tutti e tre». Si voltò verso Alec e Sam ancora stritolati nelle prese di Ford e Shiffer. Fece un

o indietro e sputò per terra. Mi aveva dato la sua parola. Molto d’effetto devo dire, almeno per una bambina di sette anni. Era finita. Il sollievo si propagò lungo tutte le fibre del mio corpo. Ce l’avevo fatta o quasi. «Se rompi la tregua Marshall, la rompiamo anche noi. Al contrario di te non abbiamo niente da perdere». Ero sembrata abbastanza minacciosa? Tony sprigionava rabbia e frustrazione da tutti i pori. Ricambiò la mia spavalderia con uno sguardo glaciale. Un pensiero gli attraversò la mente e sembrò dargli conforto. Una smorfia, che non poteva essere altro che un sorriso, gli increspò la faccia. «Per adesso,Hataway. Aspetterò il momento in cui avrete tutti e tre qualcosa da perdere». Aveva l’aria di essere una promessa. Con quel ghigno spaventoso ancora stampato sulla faccia, Tony fece cenno ai due compari di mollare la presa su Sam e Alec. Obbedirono controvoglia. Poi montò in sella alla bicicletta, imitato da Ford e Shiffer, e senza voltarsi, pedalarono attraversando il piazzale, lasciandosi alle spalle la scuola. Un brivido mi corse lungo la schiena ed esplose come una bolla d’aria nel cervello. Respirai a fondo, cercando di ricacciare indietro il presentimento nero come la pece, che mi stava invadendo la testa e i polmoni. Vischioso e senza nome si faceva strada e scavava gallerie d’ansia verso il cervello, troppo intorpidito per reagire. Conoscevo quella sensazione o meglio la rivivevo. Un allarme muto, istintivo, mi risuonava nelle orecchie e scatenava ricordi troppo dolorosi, sepolti nell’oblio della prima infanzia, dove li avevo nascosti per non doverli affrontare mai più. Papà. Allora il presentimento non era stato mio ma di Eileen e aveva risuonato come un’eco dentro di me, dentro mamma. La paura, quando si abbatteva così intensa, agiva su di noi come su una mente sola, un solo corpo. L’allarme naturale della nostra famiglia si rifletteva tra le figlie fino alla madre.

Un lampo di lucidità mi riportò nel parcheggio della scuola con Sam e Alec e l’autobus giallo in partenza. Oh cavoli. Se l’avevo sentito io, l’avevano sentito le mie sorelle. L’aveva sentito mamma. Il presentimento era stato forte e nitido. Potevo ancora sentire il ritirarsi lento e vischioso della pece, mentre lasciava dietro di sé ombre opache e umide. Mamma non sapeva chi di noi, quando e perché sarebbe stata in pericolo ma ciò non migliorava la situazione. Ignorava cosa fosse accaduto alle figlie, ma era sicura che qualcosa di terribile fosse successo o sarebbe accaduto in futuro. Dovevamo tornare subito a casa. In preda ai sensi di colpa la immaginai mentre si bloccava immobile nel bel mezzo di un’azione, impietrita con gli occhi dilatati dalla paura. Più o meno quello che doveva essere successo a me. Sam si era avvicinato e strattonava la manica rosa della mia giacca. Sembrava preoccupato. «Emma, dobbiamo andare o perderemo l’autobus». La piccola folla di curiosi si era dispersa e Mr Tiggs aveva già messo in moto. Vidi Eileen e Alec salire svelti sul pulmino. «Ti senti bene?» chiese Sam, ansioso. Ripensai all’immagine che avevo avuto di mia madre. Mi sarei preoccupata anch’io se avessi assistito alla scenetta. Era una bella sensazione, però. Quasi come avere un amico o essere molto vicini ad averlo. «Tutto bene». Cercai di annuire con convinzione. Non riuscivo ancora a comandare ai muscoli della faccia di contrarsi in un sorriso. Salimmo sull’autobus. Non mi sentivo molto stabile sulle gambe. Se Sam avesse mollato la presa sarei volata faccia a terra. Eileen, seduta tra i primi posti, mi lanciò un’occhiata tra il furioso e il preoccupato. Me la sarei dovuta vedere con lei prima di affrontare mamma. Mia

sorella aveva visto tutto o comunque abbastanza da farmi are un mare di guai. Mamma avrebbe voluto sapere cosa avesse scatenato il presentimento e avrebbe trovato un aiuto in Eileen. Mentire era fuori discussione, i suoi sensi speciali sarebbero stati ancora più affilati. Accidenti. Mia sorella avrebbe rischiato un castigo per coprirmi? Dalla sua faccia avrei detto di no. La superai in fretta e seguii Sam in fondo all’autobus, dove aveva preso posto Alec. Sbuffò vedendoci arrivare e si mise a contemplare il panorama fuori dal finestrino. Piazzale della scuola batte Emma uno a zero. Mortificante. Sam notò la mia espressione delusa e sorrise, stringendosi nelle spalle. Bastò per convincermi a sedere nella fila parallela alla loro. Solo il corridoio centrale ci divideva. Appoggiammo gli zaini per terra e ci voltammo l’uno verso l’altra. «Secondo te manterrà la promessa?». Parlava a bassa voce per non farsi sentire dai ragazzi seduti nelle file davanti a noi. Negli occhi, belli come il cielo di novembre, si scatenò una tempesta. Dubbio. Paura. Esitazione. Speranza. A cosa si riferiva? Alla debole tregua che eravamo riusciti a strappare per una serie di fortunate circostanze o alla minaccia di farcela pagare alla prima occasione? Minaccia che aveva scatenato il mio istinto di sopravvivenza, facendomi sprofondare nei presentimenti più cupi. «Credo di sì». Era vero in entrambi i casi. Mi guardò incerto. Con un gesto impacciato ò la mano tra i capelli biondo cenere tagliati corti, come per spazzolare via quei pensieri dalla testa. Sull’autobus faceva caldo a causa del riscaldamento e dei giacconi pesanti che ci ostinavamo a tenere addosso per evitare un noioso togli e metti. Le guance di Sam erano arrossate per il calore e gli occhi spalancati, felici. Le ultime settimane in balia di Tony e della sua banda dovevano essergli parse lunghissime e terribili. Una volta di più mi convinsi di aver fatto la cosa giusta e

sperai che mamma avrebbe capito. Dopo qualche secondo di silenzio apparve un luminoso sorriso, un'altra domanda, un altro discorso. Lontano anni luce da quello strano pomeriggio. «Domani verrai alla festa di Cinthya Wright?» La festa di Cinthya. Naturale che fossero stati invitati. La cosa strana era che fossi stata invitata io. Cinthya non era precisamente la mia amica del cuore. Di sicuro era stata obbligata a spedire il cartoncino rosa Big Bubble, scritto di suo pugno in bella calligrafia, nel quale si leggeva di essere felice di avermi come ospite al suo party di compleanno. La sorella maggiore di Cinthya, Britney, era una studentessa di mia madre. Il timore di inimicarsi la professoressa di storia dell’arte doveva aver avuto un certo peso nella compilazione della lista degli invitati. Era l’unica spiegazione plausibile: Cinthya era la più fedele alleata di Milly Bloom e come tale mi odiava. Chissà che rabbia dovermi invitare alla sua esclusiva festicciola. Di nuovo il pensiero mi fece gongolare. Riemersi dalle mie riflessioni giusto in tempo. Sulla faccia di Sam era sparito il sorriso ed era riapparsa l’espressione preoccupata. Meglio rispondere prima che cominciasse a prendere in considerazione l’ipotesi che fossi pazza. Cosa mi aveva chiesto? Ehm… Già. L’invito. La festa di Cinthya. «Non ho ancora deciso». La sacra arte del temporeggiare. L’idea di partecipare alla festa, finendo dritta nella tana del lupo, non mi aveva nemmeno sfiorata. Non ero un’idiota. Poco dopo il mio arrivo sarei stata spinta e chiusa dentro lo sgabuzzino o avrebbero sputato nella mia fetta di torta ed erano le prospettive più rosee che potessi immaginare. L’entusiasmo di Sam, però, mi aveva fatto intravedere nuovi imprevedibili scenari. Andare a una festa con loro. Con Sam che adesso era mio amico. Wow. «Perché non vieni con noi? Ci accompagna il mio papà. Possiamo darti un aggio, se vuoi». Potevo farmelo ripetere due volte? Saremmo arrivati alla festa insieme. Doppio wow.

«Va bene, grazie». I muscoli del viso scattarono in un sorriso. Sincero, entusiasta, senza ombre. Sentivo sulla faccia l’espressione idiota che non riuscivo a trattenere quando ero felice. Avrei dovuto chiedere il permesso a mamma… Oh cavoli. Non avevo considerato che sarei stata in castigo per il resto dei miei giorni. Ne era valsa la pena comunque, anche se avevo rischiato di prendere un pugno in faccia e sarei rimasta in punizione per tutta la vita. Peccato che Alec non la vedesse allo stesso modo. Aveva abbandonato la posizione finestrino, ma non l’atteggiamento bellicoso. Fissava torvo il sedile con le braccia incrociate, strette al petto. Possibile che ce l’avesse con me? Per quale motivo? Era andato tutto bene. Tony se l’era bevuta. Non aveva sospettato nemmeno per un momento che la faccenda fosse farina del mio sacco. Loro erano salvi. Salvi dall’umiliazione e dalle botte. Mi odiava tanto da non riuscire a provare un po’ di gratitudine? Non potevo crederci, forse era solo timido. «Verrai alla festa, Alec?» domandai, ma me ne pentii all’istante. Promemoria per il futuro: collegare il cervello alla bocca. Si voltò lentamente, come se la cosa gli costasse un immenso sforzo. Il suo sguardo scuro e gelido non prometteva niente di buono. «Mia madre mi obbliga ad andare e mi tocca pure arrivare alla festa insieme a te, mocciosa» rispose seccato. Dovevo imparare a non fare domande stupide a persone idiote. Incassai il colpo e restituii lo sguardo gelido. Beh, l’intenzione era quella. «Dai Alec, non fare il musone» lo rimproverò Sam. «Sarà divertente». Così dicendo gli mollò un pugno amichevole sulla spalla. Sembrava sapere come prenderlo. Solo una persona buona e paziente come Sam poteva sopportare l’ombrosità di Alec oppure la verità era un’altra. Forse non era sempre così. Magari si comportava così solo con me.

Una piccola fitta di dolore si fece spazio tra le mie costole. La ignorai. Non potevo permettere che arrivasse agli occhi. Non gli avrei dato la soddisfazione di vedermi piangere e di tirare su con il naso. La mocciosa. Sarebbe stato contento. No, non mi avrebbe vista versare una lacrima. Continuai a guardare dritto davanti a me, immersa in cupe riflessioni. I pochi chilometri che separavano il nostro quartiere dalla scuola erano già stati percorsi e l’autobus imboccò il viale alberato che attraversava la zona residenziale dove abitavamo. Mr Tiggs frenò bruscamente interrompendo il flusso dei miei pensieri e giunto alla fermata aprì le porte. Gli studenti accalcati davanti all’uscita iniziarono a scendere e a salutarsi sul marciapiede. Eileen era stata la prima a guadagnarsi la libertà e l’aria pungente del crepuscolo invernale. Aveva fretta di arrivare a casa o di parlare con me o entrambe le cose. Di sicuro era preoccupata per mamma e aspettava impaziente sul marciapiede. Potevo scorgere il suo piumino viola dai finestrini dello scuolabus. Viola era meglio di rosa ed era in tinta con la sua espressione furiosa. Ancora pochi istanti e sarebbe iniziato il mio pre-terzo grado. Percorsi abbattuta il corridoio centrale dell’autobus e raggiunsi mia sorella all’aria aperta. Alec e Sam scesero subito dopo di me e si incamminarono verso casa. Dopo qualche metro Sam si voltò e mi salutò con la mano. «Ci vediamo domani alle quattro. Ciao Emma». Sorrisi. Sam era mio amico. Alec, mamma, Eileen mi sembrarono meno terribili. «Ciao Sam». Non degnai Alec di uno sguardo. Le mocciose non salutano gli idioti. Mi voltai con aria di sfida verso mia sorella. Eileen spostò lo sguardo verde giada da me alle due teste che si allontanavano. Quando tornò su di me vi lessi una punta d’incertezza. Scosse la testa, facendo ondeggiare i capelli ramati e strinse gli occhi in un’espressione attenta. Faceva così quando cercava di capire qualcosa che le

sfuggiva. Come faceva papà. Un’altra immagine dal cassetto dei ricordi, un’altra fitta di dolore tra le costole. Non potevo pensarci. Non in quel momento. Scrollai la testa e tornai a concentrarmi su mia sorella. Eileen voleva capire le cose per conto suo. Arrivarci da sola, senza aiuti. La irritava chiedere spiegazioni, soprattutto chiederle a me: la sua imbranata e ipersensibile sorella minore. Ciò nonostante e con suo grande disappunto, non aveva scelta. Mamma aspettava sulla porta di casa. La vedevamo allungarsi sulle punte dei piedi per avere una visuale migliore della strada. Eileen sbuffò e m’incenerì con lo sguardo. «Hai tre minuti per dirmi cos’è successo nel parcheggio. Vedi di essere convincente». Quell’atteggiamento da sorella maggiore era davvero irritante considerato che avevamo solo un anno di differenza. La guardai torva e m’incamminai verso casa. Tre minuti per tirarmi fuori dai guai. Impossibile. Il castigo e la predica di mamma erano inevitabili. La delusione mi bruciò la gola. Alla festa volevo andare davvero. Il mio cervello corse veloce alla ricerca di una soluzione. Eileen non era mamma, non poteva sapere se stavi mentendo. Poteva convincerti, però, a fare qualsiasi cosa, senza che ti rendessi conto che era lei a volerlo. Qualsiasi cosa, anche dire la verità. Se avessi affrontato mamma e sorella insieme non sarei riuscita cavarmela, ma prese separatamente, forse… Decisi di vuotare il sacco, anche se in presenza di Elle non ero mai sicura di essere veramente io a volere qualcosa. «Tony Marshall e i suoi amici picchiavano Alec e Sam» esordii tranquilla. «Mi sono limitata a chiedere loro di smetterla». Tecnicamente era vero. Non era tutta la storia, era il succo della storia. Eileen sollevò un sopracciglio.

«Certo, come no e Tony non lo farà più, giusto? Perché gliel’hai chiesto tu». Il tono sarcastico era il suo cavallo di battaglia. Davvero notevole per una bambina di otto anni. Comunque giusto per la cronaca non gliel’avevo chiesto, l’avevo costretto. Toccò a me sollevare il sopracciglio, vagamente offesa. Eileen mi guardò per alcuni lunghissimi secondi. Poi capì. È svelta mia sorella. Sarcastica e perspicace. «Hai disobbedito di nuovo!» sbottò scandalizzata. «Proprio come stai facendo tu in questo momento. Credi che non mi accorga quando fai i tuoi giochetti per ottenere quello che vuoi?». Non potevo esserne sicura, ma era probabile. Improvvisamente non sentivo più tanta voglia di raccontarle com’erano andate le cose. Mi bloccò prima che potessi aprire bocca per protestare. «Basta così, non voglio sapere altro. Non ho intenzione di dare un altro dispiacere a mamma. Sarà già abbastanza scossa, quindi non fiatare e lascia parlare me». Insomma, mia sorella mi aveva concesso la grazia. Per poco non mi misi a saltellare sul posto e non le buttai le braccia al collo. Alcuni metri ci separavano dal vialetto d’ingresso. Mamma aspettava in veranda davanti alla porta. Eileen si fermò. Esitò un attimo, incerta se parlare o no. «Cosa ti ha detto Tony? Quella cosa è stata così vivida, più forte... Metteva i brividi». Un’ombra saettò rapida nei suoi occhi. Veloce come un battito di ciglia. Chissà se Eileen aveva un cassetto dei ricordi che preferiva non aprire mai. Chissà se il mio presentimento le aveva ricordato il suo. Allora non avevamo potuto fare niente. Lui se n’era andato e basta. Cercai di ridere disinvolta e riprendemmo a camminare attraverso al giardino. «Per un attimo ho avuto paura che avrebbe picchiato anche me». Non era proprio una bugia, più di una volta avevo temuto per l’incolumità della

mia faccia. Solo che era successo prima che promettesse di farla pagare a tutti e tre e temevo che sarebbe stato un conto più salato di un misero pugno. «Lascia perdere ti si legge in faccia. Mamma non si berrebbe questa frottola nemmeno per mezzo secondo. Non voglio finire in castigo per colpa tua» sibilò. Ormai eravamo a pochi i dalla veranda e dai sensi materni in allerta. «Rimani in silenzio» concluse secca. Mi precedette salendo per prima i gradini. Mamma ci aveva viste scendere dall’autobus e incamminarci verso casa. Aveva potuto costatare con i suoi occhi che eravamo vive e in grado di camminare sulle nostre gambe, così aveva permesso all’ansia di fare spazio all’irritazione. Aspettava nervosa in attesa di risposte. Gli occhi scuri, vigili. La figura sottile e slanciata sembrava goffa, imbacuccata nel vecchio maglione grigio, sformato ma caldo, che portava in casa. I capelli castani erano raccolti in una coda. Alcune ciocche più corte e sottili erano sfuggite al fermaglio e le davano un’aria disordinata. La mia giovane e bellissima mamma di nemmeno trent’anni. Ci venne incontro e insieme a un’ondata del suo profumo arrivò la voce sollevata ma intorbidita dall’ansia. «Bambine si può sapere cosa è successo? Cosa è stato?». Sospettosa frugava con gli occhi e le mani ogni centimetro del nostro viso e dei nostri corpi a caccia di ferite o lividi, cercando tracce di paura o preoccupazione. All’improvviso fermò lo sguardo su di me: Emma l’anello debole. Oh no. Un battito di ciglia ed Eileen si buttò tra le sue braccia, affondando il viso nel vecchio maglione. «Oh mamma scusami, scusami tanto» disse, la voce ovattata dalla lana. «È tutta colpa mia. Mi sono spaventata per una sciocchezza, solo uno stupido quasi incidente». La parola incidente catturò l’attenzione di nostra madre. «Quasi - incidente? Cosa vuol dire? Ti sei fatta male?» la sua voce si fece stridula. «Sto bene, mamma. Nel parcheggio della scuola uno di prima media mi ha quasi investito con la bicicletta. È sbucato dal nulla e me lo sono vista arrivare addosso. Fortuna che ha frenato in tempo». Eileen le scoccò un sorrisone.

Non ero l’unica che avrebbe dovuto lasciar perdere le bugie. Come poteva pensare che mamma si sarebbe bevuta una storia del genere? Elle però poteva convincerti a fare qualsiasi cosa senza che te ne rendessi conto. Anche farti credere che stava dicendo la verità. Mamma la guardò confusa. Era probabile che si stesse interrogando sulla genuinità delle sue sensazioni, proprio come avevo fatto io. «Mi è sembrato più un presentimento di pericolo che un pericolo immediato. È stato così vivido». Il ricordo di quella sensazione e di un’altra, identica ma lontana nel tempo e più dolorosa, si agitò nella mia mente. Per la terza volta in quel pomeriggio. «Dai, stiamo bene no?». Elle si sciolse dall’abbraccio e sorrise pacifica. «Cosa c’è per merenda?». Entrò in casa senza attendere una risposta. Notevole. Avevo molto da imparare da mia sorella. A confronto le mie macchinazioni erano roba da dilettanti. Per una frazione di secondo mamma sembrò esitare in bilico tra quello che aveva sentito e ciò che aveva sotto gli occhi: le figlie sane e salve a casa. Decise di convincersi che fosse tutto a posto. Mi accarezzò la testa e mi tolse lo zaino dalle spalle. «Entriamo, amore. Vostra nonna ha fatto i biscotti».

Nascondino

Emma

«Mi raccomando Em». Per la centesima volta mi sistemò la sciarpa intorno al collo. Se solo non fosse stata rosa anche quella… Accidenti. Mamma, in ginocchio davanti a me, aveva deciso di ammazzare il tempo tormentandomi con le ultime raccomandazioni. Era nervosa e non semplificava affatto le cose. Non succedeva spesso che andassi a una festa. Non succedeva mai a dire la verità. Difficilmente venivo invitata e le rare volte che accadeva mi rifiutavo di andare. Era mancato poco che fe cadere i piatti che stava mettendo nel lavello, quando le avevo chiesto di accompagnarmi a comprare un regalo da portare a Cinthya Wright per la sua festa di compleanno. Prima che potesse riprendersi dallo shock, avevo aggiunto gongolando che sarei andata insieme a Sam Miller e Alec Stevens. L’espressione di completo stupore che le si era dipinta sula faccia era stata impagabile. Peccato che dopo lo stupore fosse subentrata la sindrome da mamma apprensiva. A volte pensavo di preferirla infuriata. «Comportati bene». Il suo sguardo era colmo di sottintesi. Impossibile non capire a cosa stesse alludendo. «Non parlare con la bocca piena e fai quello che ti dicono». Prese un bel respiro. «Niente segreti, capito?». Sentii la faccia avvampare. Sospettava qualcosa? Non sembrava arrabbiata, solo preoccupata. Tutto nella norma quindi. Mamma era sempre preoccupata. Soprattutto lo era per me: la figlia più disobbediente, più solitaria, più silenziosa, più difficile. Le cose non erano sempre state così. C’era stato un tempo in cui la bambina più felice del mondo non avrebbe potuto competere con me. Un tempo che ricordavo poco, chiuso nel cassetto di velluto. Mi era rimasto il ricordo offuscato di un volto e di una voce. Un tempo in cui eravamo felici e mamma sorrideva sempre. Non che avesse smesso di sorridere. C’erano giorni, però, in cui farlo le costava un certo sforzo e c’erano giorni come quello. Giorni in cui la sua vita era

talmente piegata su di noi che ogni piccola novità o cambiamento nelle nostre infantili esistenze, proiettavano in lei le tensioni e le paure che provavamo. Se avesse potuto avrebbe voluto sentirle al nostro posto, ma non poteva. Così si limitava a condividerle, come se potesse alleggerire il fardello, invece lo rendeva solo più pesante. Vederla soffrire o agitarsi era una prova troppo grande per noi. L’unica soluzione per uscire dal circolo vizioso era sembrare felici. Eileen se la cavava alla grande. Per lei era come se quel tempo non fosse mai esistito. Non lo aveva rinchiuso in un cassetto, lo aveva cancellato. Constance non aveva mai vissuto diversamente. Non c’era stato un prima e un dopo per lei. Era nata e c’era già questo. Quanto a me, ero quella cui riusciva peggio di tutte. Mamma lo intuiva nonostante i miei sforzi e si preoccupava. A volte sembrava che le cose fossero più difficili per me che per chiunque altro e forse era davvero così. Avevo l’impressione che mi mancasse un pezzo: una sensazione quasi fisica d’incompletezza. Come se, così com’ero, non fossi stata intera. Mamma mi guardava dritta in faccia e non era il caso di pensarci proprio in quel momento. Era pronta a cogliere il più minuscolo accenno di nervosismo o paura per poterlo assorbire e farlo suo. Inspirai silenziosa e ricambiai lo sguardo con un sorriso. Se non fossi riuscita a farlo arrivare agli occhi non sarebbe servito a niente. Era buffo, ci stavamo studiando a vicenda. Una piccola ruga le increspava la fronte bianca e spaziosa, tracciando una linea dritta sopra le sopracciglia chiare e gli occhi castani, screziati di grigio. Occhi scuri come i miei. «Va bene, mamma. Ho capito, l’hai ripetuto mille volte» dissi regalandole un altro sorriso per rassicurarla. Teso ma sincero. Ricambiò immediatamente. Le labbra rosa, piccole e piene, scoprirono i denti bianchi come perle in uno scrigno foderato di corallo. Si alzò da terra e spazzolò via invisibili granelli di polvere dal cappotto blu, che sottolineava la figura esile e slanciata. Con un gesto della mano ravvivò i capelli, poco più lunghi delle spalle, sciolti in leggere onde disordinate.

In quel momento sentimmo avvicinarsi il rombo di un motore e il suono, nuovo e allo stesso tempo familiare, mi strappò dalla mia reverenziale contemplazione. «Mi sa che sono loro». Mamma guardò verso la strada. I vecchi olmi spogli interrompevano a intervalli regolari la superficie lineare del marciapiede. Nascoste dai rami, s’intravedevano le case dei nostri vicini, per lo più bianche o dai colori pastello, sormontate da un bel tetto rosso mattone. La nostra casa si trovava a circa metà della via. Due piani con soffitta, bianca e luminosa, con le imposte dipinte di azzurro. Era stata mamma a scegliere il colore e i fiori, ortensie e tulipani bianchi, che in primavera riempivano le aiuole ai piedi dello steccato di legno chiaro che circondava il giardino modesto ma ordinato. A est della casa affondava le radici una quercia imponente e vecchissima. Sparse sul prato le tracce della presenza di noi bambine: qualche giocattolo abbandonato e una vecchia altalena, che dondolava appesa ai rami della quercia. Jefferson Road si dipanava verso nord fino ai confini della città. Faceva parte della zona residenziale di Saint Claire, ma non c’era traccia di grandi sfarzi. Solo le tipiche villette da sobborgo americano, che imperversano nei film, con la veranda, il dondolo e un fazzoletto di giardino. Le proprietà dei Miller e degli Stevens erano confinanti, una decina di villette più a nord della nostra. La casa di Alec era la più grande di tutte. Nel corso dei decenni aveva subito parecchie ristrutturazioni e dell’aspetto originario era rimasto ben poco. A differenza delle altre, edificate circa nello stesso periodo e abbastanza recenti, la villa degli Stevens apparteneva alla famiglia da almeno quattro generazioni ed era una delle prime case a essere stata costruita in Jefferson road. Qualche metro prima della nostra casa la strada si spezzava in un leggero dislivello e da dove ci trovavamo, non era possibile vedere le auto arrivare. La macchina apparve dopo qualche istante e sostò davanti al cancelletto. Mamma voleva ringraziare di persona il papà di Sam e tenendomi per mano mi accompagnò fino alla familiare verde metallizzata. Il signor Miller scese dall’auto e ci venne incontro. Era un omone alto, ben piantato, dai modi simpatici e cordiali. Non notai subito

la somiglianza con Sam. Il mio nuovo amico era più slanciato ed esile del padre. Come se volesse dimostrare che mi stavo sbagliando il papà di Sam sorrise. Apparvero gli stessi occhi buoni e spensierati del figlio, solo più scuri e circondati da piccole rughe. I capelli brizzolati erano corti come quelli di Sam e a una seconda occhiata, potevo già riconoscere la bocca sottile e ben disegnata. Sorrisi pensando a come sarebbe stato Sam da grande: proprio come suo padre. Io non sarei mai diventata come mamma. Avevo i suoi colori, ma questo non bastava per essere come lei. Eileen, invece… Era bella come papà. La solita fitta tra le costole mi fece arricciare le labbra. Mamma abbassò lo sguardo su di me. Già allarmata e sofferente. Sapevo cosa le stava ando per la testa. Avrei potuto descrivere le immagini del film che scorrevano nella sua mente. Era sempre la solita storia di fronte agli uomini che ricoprivano il ruolo di padre e che per un motivo o per l’altro ci capitava di incontrare. Era convinta che la figlioletta di sette anni stesse pensando al suo di papà mentre quello di un altro bambino andava loro incontro. Il suo adorato papà. La mia espressione contrita le dava la certezza assoluta. Dovevo imparare a controllarmi. Circolo vizioso, circolo vizioso, ripetei mentalmente. Circolo vizioso. Le strinsi più forte la mano e sorrisi. Peter Miller ricambiò la stretta gentile ma timida di mamma. Era sempre esitante, a disagio con le persone. Come se fe tutto sottovoce, con delicatezza, per non far loro del male. Che assurdità, come se potesse fare del male a qualcuno. «Ciao Kate, come va? Ti trovo bene». Ignoravo che mamma conoscesse il papà di Sam, anche se avrei potuto immaginarlo. Chissà quante volte si erano incontrati alle riunioni scolastiche oppure la sera, quando mamma andava a buttare la spazzatura e i Miller portavano a eggio Byron, il loro bellissimo setter irlandese. Il signor Miller si rivolse a me. «Questa bella signorina è pronta per la festa?» «Spero di sì» mamma fece una risatina nervosa. «Grazie Pit per la cortesia, ricambierò alla prima occasione. Scusami se ti ho avvisato con così poco preavviso, ma Emma si è decisa all’ultimo minuto». Si bloccò, come se avesse

avuto un’illuminazione. Non ascoltò la risposta cortese del papà di Sam. Sembrava concentrata su qualcosa. Qualcosa che non riusciva ad afferrare. Oh oh. Si voltò verso di me con uno sguardo carico di sospetto. Molto eloquente, aggiungerei. Di buono c’era che mi trovavo a un o dalla fuga. Il disastro per il momento era rimandato. Sarebbe toccato a Eileen are un brutto quarto d’ora nell’immediato futuro e me l’avrebbe messo in conto. «Figurati. Se non ci si da’ una mano tra noi Con questi figli… ». Il signor Miller scoppiò in una risata sonora e mi fece l’occhiolino. Mamma lasciò la mia mano e si chinò per darmi un bacio. Aveva l’aria assorta, forse cercava di mettere insieme i pezzi del puzzle. Ancora lontana dal risolvere il rompicapo, si sarebbe fatta aiutare dalla figlia maggiore non appena messo il piede dentro casa. Il suo odore buono, familiare, mi avvolse come una nuvola. Se fossi riuscita a trattenerlo, a non farlo dissolvere nell’aria rigida del pomeriggio, non avrei avuto paura della sfuriata che mi aspettava al ritorno, dell’ostilità di Alec o degli scherzi crudeli di Milly e Cinthya. Mi sarei sentita a casa, al sicuro. Il signor Miller aprì la portiera e schizzai come una scheggia dentro l’auto. Era meglio non sfidare la sorte. Mamma non avrebbe impiegato troppo tempo a collegare il presentimento del giorno precedente alla mia improvvisa decisione di andare alla festa di Cinthya e capire quanto poco la faccenda riguardasse Eileen e quanto interamente me. Si trattava soltanto di fare i collegamenti giusti e mamma era veloce con i collegamenti. Il papà di Sam mise in moto e quando l’auto si staccò dal marciapiede la salutai con la mano dal finestrino. Potevo vederla farsi sempre più piccola, mentre percorreva il vialetto ed entrava in casa. Per nulla al mondo avrei voluto essere nei panni di mia sorella. Mi lasciai scappare un breve sospiro di sollievo. Era giunto il momento di salutare i miei compagni di viaggio. Alec e Sam occupavano i sedili posteriori dell’auto insieme a me, imprigionati dalle cinture di sicurezza e affondati nei soliti giacconi.

Si assomigliavano come il giorno e la notte. Sam, alla mia sinistra, sorrideva caloroso ed entusiasta; i capelli spettinati e gli occhi limpidi. Alec seduto accanto a lui, incurante della mia presenza, sembrava deciso a non staccare gli occhi dal panorama che correva, immutato nella sua banalità, fuori dal finestrino. Da dove mi trovavo potevo intravedere solo i ricci neri e la linea diritta del profilo. Il suo umore non sembrava migliorato rispetto al giorno precedente. Se non altro non era peggiorato. Sempre che potesse andare peggio di così. Beh sì. Avrebbe potuto insultarmi apertamente, ma dubitavo l’avrebbe fatto davanti al papà di Sam. Il tragitto fu breve e dopo una decina di minuti arrivammo a destinazione. La casa di Cinthya era grande e bellissima, molto diversa dalle nostre villette con giardino. La sua era una di quelle ville che si vedono sulle riviste, con la piscina e tutto il resto. Il signor Miller ci accompagnò alla porta consegnandoci alla mamma di Cinthya come un pacco postale. Salutò facendo le ultime raccomandazioni e ricordò a Sam che sarebbe venuta a prenderci la mamma di Alec. Impacciati, varcammo la soglia della grande casa e attraversammo il corridoio in direzione di una stanza che aveva l’aria di essere la sala da pranzo. Ogni cosa all’interno era di un bianco accecante e faceva apparire tutto più spazioso. Un’imponente tavola rettangolare occupava il centro della stanza. Lunga almeno due metri, era coperta da una tovaglia candida che scendeva fino al parquet dall’aria costosa. La tavola era sommersa da una distesa di pacchetti colorati. I regali, disposti a semicerchio, circondavano un’enorme torta a due piani, decorata con glassa rosa e cuori scarlatti di zucchero grossi come pugni. Diverse file di palloncini di varie tonalità di rosa dondolavano sospese da un capo all’altro della sala. Nonostante la mia scarsa esperienza in fatto di feste di compleanno era facile immaginare uno scenario simile declinato nei vari soggiorni delle bambine benestanti della mia età. Al quadretto mancava solo un fastidioso clown per coinvolgere gli invitati nei giochi cretini organizzati dalla padrona di casa, ansiosa di fare bella figura con le altre mamme e dalla solerte baby sitter, ansiosa di fare bella figura con la padrona di casa. Gli altri bambini, per lo più nostri compagni di scuola, ad eccezione di qualche

sconosciuto, probabilmente parenti o amici di famiglia, giocavano in giardino. Potevo vederli attraverso la porta a vetri alle spalle del tavolo, che dava sul prato perfettamente tagliato. Nessuno aveva l’aria di divertirsi granché. Chi non si rincorreva all’aperto ciondolava annoiato per la sala da pranzo. Cinthya, seduta su un divano di pelle color avorio, era presa dai regali, che aveva cominciato a scartare sotto la supervisione di Milly. Erano vestite come delle principesse e i capelli ben raccolti. Erano anche state truccate. Mostruose. E che noia. Si percepiva così tanto, che sembrava di poterla toccare. La signora Wright avrebbe fatto meglio a mettere meno palloncini e chiamare il clown. Il baraccone non esercitava su di me il minimo fascino e non mi sorprese che anche gli altri invitati si stessero stufando. Ho sempre pensato che fosse la compagnia la cosa più importante e la mia era ottima. «É il regno delle mocciose. La festa sarà una palla». Già. La compagnia. La voce seccata di Alec era giunta alle nostre spalle con una punta di “te l’avevo detto”. Non aveva ancora tolto la giacca e si guardava attorno in cagnesco. Sam si bloccò e sorrise con l’espressione di chi ha appena avuto un’ottima idea. Si voltò verso l’amico per condividerla. «Movimentiamola ». Un lampo gli attraversò gli occhi e andò a posarsi sulla bocca. Il volto di Alec rifletté come uno specchio l’espressione dell’amico. In quell’istante mi fu chiaro il motivo della mia presenza alla noiosa festa di Cinthya Wright: li avrei visti in azione e, con un po’ di fortuna, avrebbero coinvolto anche me. Alec e Sam erano capaci di divertirsi nelle situazioni più disparate. Li avevo osservati spesso. Sembravano davvero felici. Sempre sul punto di lanciarsi in una nuova avventura, di combinare un pasticcio che gli adulti avrebbero perdonato, perché insieme erano irresistibili. Per tutti quei motivi desideravo essere loro amica. C’era dell’altro, però, e non lo sapevo spiegare o dargli un nome. Forse nemmeno ne aveva uno. Era l’assoluta convinzione che il mio posto fosse in mezzo ad Alec e Sam. Mi

sembrava naturale condividere la loro felicità. Un diritto dalla nascita. Assurdo non fare parte del pezzo di mondo che si erano ritagliati. Era stato difficile riconoscersi solo perché ero una femmina. A qualcuno risultava ancora piuttosto difficile. Non aveva senso che Alec mantenesse nei miei confronti un atteggiamento ostile. Non avevo detto o fatto nulla che potesse averlo offeso e temevo che la sua antipatia avesse poco a che fare con le mie azioni. In quel caso la teoria sull’ineluttabilità della nostra amicizia non avrebbe quadrato molto, ma non aveva senso rimuginarci troppo sopra. Cosa mi avesse spinto verso di loro non aveva importanza, razionale o irrazionale che fosse. Ero a un o dall’ottenere ciò che desideravo e mi sarei ritenuta comunque fortunata. Un po’ della loro luce sarebbe arrivata fino a me. Non chiedevo di meglio. Ero impaziente di conoscere cosa avrebbero fatto per ravvivare la festa. Avevano un piano? Probabile. Quante volte si erano trovati in quella situazione? Molte. Alec e Sam erano sempre invitatialle feste, alle merende, ai pic-nic. Tutti li trovavano simpatici. Sentimento che nella maggior parte dei casi sembrava non essere ricambiato. Non che trattassero gli altri con sufficienza o cattiveria. Si limitavano a vivere in mezzo a loro senza dargli troppo bada. Almeno da quel punto di vista avevamo qualcosa in comune. «Andiamo a dare un‘occhiata in giardino». Alec aveva sostituito l’espressione torva con una febbrile e impaziente. Cercava l’elemento giusto per realizzare la sua personale idea di festa e il giardino sembrava fare al caso suo. Lo osservai meglio e capii ciò che non ero riuscita ad afferrare fino ad allora. Forse capire non è il verbo più adatto, aveva più a che fare con il vedere. Ritenevo la soggezione che provavo in presenza di Alec una conseguenza della mia scarsa propensione alla socievolezza. Da quando il mio punto di vista era cambiato, mi ero resa conto che se fosse dipeso soltanto da me, avrei provato lo stesso imbarazzo con Sam e non era affatto così. Stare con Sam, parlare con lui, non richiedeva nessuno sforzo, nessuna concentrazione. Palese ostilità a parte, c’era un’altra cosa che metteva miglia di distanza tra Alec e me: la sua bellezza.

Sam era bello, ma di un movimento puro, pulito, semplice. Comprensibile. Alec lo era in maniera indecifrabile. Dallo sguardo s’intuiva la tensione di un’intelligenza non comune, mentre nel profilo e nella forma regolare del viso una nobiltà che si può soltanto ereditare. Le labbra pallide, piene e che in quel momento lasciava leggermente dischiuse, come se fosse sul punto di dire qualcosa, facevano intravedere denti bianchi, perfetti. Soprattutto erano belli i suoi occhi. Castano chiaro, come terra diluita nell’oro, celavano un tormento, che mal si accompagnava ai tratti delicati di un bambino e che mi toccava perché sembrava somigliare al mio. Forse anche a lui mancava un pezzo. Alec era bello, bello di una bellezza adulta ma ancora innocente e si portava addosso quella bellezza come un vestito troppo grande e inadatto all’occasione. Inconsapevole. Mi sorpresi a fissarlo più di quanto fosse concesso e distolsi lo sguardo, cercando un punto qualsiasi dove nascondere ciò che in quell’istante si era mosso dentro di me. Confuso, annebbiato, ma palpitante. Fissare il pavimento di marmo mi sembrò l’alternativa più a portata di mano. Ero ancora sottosopra quando li seguii in giardino addobbato con palloncini e festoni degni di “Barbie compie gli anni”. Il prato curatissimo si estendeva fino alla pavimentazione rosa che circondava la piscina dalle linee circolari: due cerchi, uno sopra l’altro, che richiamavano il numero otto. La vasca era stata svuotata e ricoperta da un enorme telo di plastica trasparente. Sul fondo s’intravedevano delle decorazioni, forse mosaici. C’eravamo avvicinati al bordo e i miei due eroi scrutavano con attenzione il telone trasparente. Le pieghe avevano trattenuto la pioggia caduta nei giorni precedenti, fino a formare delle piccole pozzanghere nascoste dalle foglie secche trascinate dal vento. «Cosa facciamo?» Non spiaccicavo parola da una vita. Senza contare che non ero ancora capace di

leggere nel pensiero e il senso di quella contemplazione mi sfuggiva. L’unico che si preoccupò di rispondere fu Sam. «Caccia alla rana». Di nuovo il sorriso furbo dagli occhi alla bocca. «Ah» risposi dubbiosa. Ancora non riuscivo a capire e l’idea di dare la caccia a qualcosa non mi faceva impazzire. Qualsiasi cosa fosse. Per loro era divertente cacciare una bestiola indifesa? Iniziai a riconsiderare l’idea che mi ero fatta dei loro giochi felici. Felici e scemi. Da lontano doveva essermi sfuggito. Sam intuì i miei pensieri e buttò indietro la testa, incapace di trattenere una risata. «Non le faremo del male. La metteremo solo in un posto dove nessuno si aspetta di trovarla» concluse sornione. «Wow». Sarebbe stato meglio formulare delle frasi più lunghe. Tanto per non dare l’impressione di essere idiota. Alec, inginocchiato sul bordo della piscina, fissava un impercettibile movimento tra le foglie. «Volete fare silenzio? Forse ne ho vista una». Usando il plurale aveva incluso anche me. Si era accorto della mia presenza o suggeriva il fatto di esserne vagamente consapevole. Si allungò verso la superficie viscida e umida del telone di plastica e scattò in avanti, i palmi delle mani verso il basso. Un secondo dopo calarono sul mucchietto di foglie, chiudendosi a coppa. Si voltò verso di noi, con la soddisfazione negli occhi. «È stato più facile del solito. Il freddo le instupidisce» esclamò compiaciuto. Sam fu subito accanto all’amico. Una cosuccia verdastra tremava nelle sue mani. Alec sussurrava, come se

parlando a voce alta avesse potuto romperla. Accordammo subito il tono della nostra voce alla sua. Potevo sentire i loro respiri, resi affannati dall’eccitazione della caccia. C’era un che di segreto, di cospiratorio. Di nostro. Doveva essere così che si sentivano quando erano insieme. Potevo capirlo. Così ci sentivamo le mie sorelle ed io, a casa. Libere di essere noi stesse sotto gli occhi vigili di mamma e della nonna. Al di là delle mura domestiche eravamo costrette a portare il nostro segreto, ognuna il suo. Non sempre era facile. La soluzione migliore era tenere distanti gli altri, così non avrebbero notato le cose strane che facevamo e non avrebbero fatto domande. Il loro mondo, il nostro mondo. Due emisferi ben distinti, che ogni tanto si incrociavano. In quel punto, dove s’incontravano le linee delle mie due vite, potevo stare con Sam e Alec. Il mio segreto si sarebbe confuso con i loro e il fardello sarebbe stato meno pesante. Il pensiero mi piacque e mi ripromisi all’istante che mai avrei violato i loro segreti. Per nessuna ragione al mondo. Non sarebbe stato giusto. Se avevano deciso di fidarsi di me dovevo fare in modo di meritare la loro fiducia. Si alzarono da terra, mormorando qualcosa tra loro. Non riuscii a sentire cosa si stessero dicendo, ma non avevano perso il tono cospiratorio. «Cosa ne farete adesso?». Ero preoccupata per la bestiola, ma curiosa di sapere come sarebbe andata a finire. Sam stava per rispondermi, quando dalla porta a vetri apparve una ragazza bionda sui vent’anni. Cercava con scarsi risultati di radunare i bambini che si trovavano in giardino. Doveva trattarsi della baby sitter. Era arrivata l’ora dei giochi cretini. Ci avvicinammo per non dare troppo nell’occhio. «Bambini, cosa ne dite di giocare a nascondino? Seguitemi dentro, conterò fino a cento e voi potrete nascondervi dove vorrete!». La voce acuta voleva sembrare dolce, ma suonava soltanto mielosa e la ragazza aveva l’aria di una che avrebbe ucciso piuttosto che spezzarsi un’unghia o sporcarsi le scarpe. Avrebbe impiegato ore a trovarci tutti.

Alec teneva le mani dietro la schiena e un sorriso angelico sulla faccia. Mormorò a denti stretti, perché solo noi potessimo sentire. «Non potevamo chiedere di meglio, ma dovremo dividerci. Evitate la cucina, sarà meglio che nessuno di noi si faccia vedere nei paraggi quando troveranno la nostra piccola amica». Il sorriso angelico divenne un piccolo furbissimo ghigno. Poi corse dentro casa con la creaturina tra le mani. Ancora qualche minuto e sarebbe iniziata la festa. Almeno per noi.

Tutto al suo posto

Alec

Non avevo avuto il tempo di pensare a dove nascondermi. Una volta portata a termine la missione, ero sgattaiolato fuori dalla cucina, cercando di non farmi notare. Dovevo trovare un nascondiglio in fretta, così mi ero infilato nel posto più vicino. Era banale, ma abbastanza sicuro. Avevo lasciato la rana sul bancone della cucina in mezzo a vassoi di tartine e scodelle ricolme di salatini. Salatini, puah. A nessun bambino piacciono i salatini. Il pensiero che qualcuno potesse essere nascosto sotto il grande tavolo al centro della sala non mi aveva nemmeno sfiorato. Soprattutto che il qualcuno fosse Emma Hataway. La mocciosa più mocciosa che c’è. Con tutti i posti che c’erano. Beh, non ero costretto a parlarle e sembrava che nemmeno lei avesse voglia di rivolgermi la parola. Doveva aver capito che era meglio lasciarmi perdere. Mettersi a cercare un altro posto era fuori discussione. La biondina aveva quasi finito di contare e non ci tenevo a farmi beccare come un pollo della prima classe. Mi toccava rimanere lì e al diavolo la mocciosa. Non riuscivo a togliermela dai piedi, quindi era il caso di cominciare ad abituarsi. Tutta quella sceneggiata con Tony Marshall. Cosa le era saltato in mente? Aveva davvero rischiato di prenderle. Per noi. Accidenti a Sam e all’idea di accettare il suo aiuto. Con quella faccetta e gli occhioni da cucciolo spaventato… Non ci tenevo a diventare il baby sitter di Bambi. A volte non riuscivo a capire cosa gli asse per la testa. Si fissava e non c’era verso di farlo ragionare. Ce la saremmo cavata prima o poi. Tony si sarebbe stancato e sarebbe andato a tormentare qualcun altro. Invece adesso le dovevamo un favore e l’avremmo avuta sempre tra i piedi. Forse stavo esagerando, in fondo poteva non essere tanto male. Aveva dimostrato di essere sveglia, anche se sembrava più piccola della sua età. Il problema era un altro: Emma m’innervosiva.

Quando Marshall era stato sul punto di picchiarla ero scattato per difenderla senza rendermene conto. Se Ford non mi avesse tenuto per le braccia, mi sarei avventato su quell’idiota a pugni chiusi. Avrei fatto per lei ciò che non avevo avuto il coraggio di fare per Sam e me. Non sapevo perché, era stato un istinto, una reazione naturale. Poi c’era la cosa del sentirla. Se mi avessero chiuso con gli occhi bendati in una stanza piena di gente, sarei stato in grado di dire senza ombra di dubbio se nella stanza c’era anche lei. La sentivo. Non con le orecchie come sentono tutti, ma in un modo strano. Sulla pelle. Come una scossa di elettricità. Non mi ero avvicinato abbastanza da poterlo verificare, ma ero sicuro che se l’avessi toccata avrei visto crepitare le schegge di corrente, come quando ci si toglie un maglione di lana al buio e le si vede brillare nell’oscurità. Non era una brutta sensazione, ma era strana e non la capivo. Non era normale. Cos’era lei per me? Perché mi confondeva in quel modo? Mi sentivo vulnerabile, come se avesse scoperto un punto debole nella mia corazza. La ritenevo responsabile del mio disagio. Ero furioso con lei e allo stesso tempo affascinato dalle strane sensazioni che provavo. Trattarla male mi era sembrato l’unico modo per fronteggiare la situazione. Mi veniva abbastanza naturale, considerato quanto ero irritato e confuso. Non avrei saputo dire, però, se ero più arrabbiato con me stesso o con lei. Visto che avremmo dovuto dividere il nascondiglio, era meglio mettersi comodi. Presi posto sotto il tavolo, sedendo con le ginocchia strette al petto e facendo attenzione a mettere almeno un metro di distanza tra me e lei. Stava accucciata sui talloni, le braccia intorno alle ginocchia, affondata nella giacca. Orgogliosa, guardava dritto davanti a sé per non incontrare il mio sguardo. Le avevo fatto prendere un colpo quando avevo sollevato la tovaglia per potermi infilare sotto il tavolo. Io ero solo seccato, non sorpreso. Sapevo che l’avrei trovata lì.

Il disappunto le aveva arrossato le guance e l’imbarazzo fissato il colore. I capelli castano scuro, raccolti in una coda, lasciavano in bella mostra le curve morbide del profilo: gli zigomi alti, il mento rotondo, la bocca piccola ma piena, come quella di una bambola. Teneva il viso sollevato, gli occhi socchiusi e le sopracciglia aggrottate. Assomigliava un sacco a sua madre. L’espressione accigliata era buffa, stonava su un viso così dolce. Per un attimo l’irritazione svanì e mi venne voglia di farla sorridere. Ero sul punto di cedere e vanificare l’atteggiamento anti – Emma, portato avanti negli ultimi giorni, quando uno scalpiccio e delle voci congelarono il sorriso che mi stava spuntando sulle labbra. Ci irrigidimmo entrambi, le orecchie tese in ascolto. Gli occhi di Emma, marroni come la sabbia bagnata dal mare, si spalancarono attenti. «Certo che no, Sandy. È la secondogenita: Emma». Due paia di piedi si avvicinarono al tavolo. La voce era di donna, forse la mamma di Cinthya. Anche la persona che era con lei doveva essere una donna: portava scarpe con i tacchi. Il ticchettio sul parquet era inconfondibile. Emma era impietrita, io con lei. Fantastico. Ci voleva giusto un momento così per sentirmi più a mio agio. «Conosci la madre, Kate?». Fu l’altra donna a parlare. Aveva un tono strano, malizioso. «Caterina, vorrai dire. Si fa chiamare Kate, ma è italiana. Insegna storia dell’arte alla mia Britney. Vedessi quante arie da intellettuale che si dà. Si crede l’unica in questa città ad avere un po’ di classe». La mamma di Cinthya fece una piccola pausa, carica di significato. Immaginai cosa stesse per dire e sperai di sbagliarmi. «Non mi stupisce che il marito l’abbia piantata» concluse con un falso sospiro. La signora Wright aveva parecchie cose in comune con la figlia: la cattiveria per esempio. Mi voltai verso Emma. Avrei voluto non farlo, ma l’istinto irrazionale del giorno prima fu più forte di me. Sul suo volto era apparsa un’espressione indecifrabile,

un misto di confusione e dolore. Aveva lasciato andare le braccia lungo i fianchi, con i pugni chiusi che sfioravano il pavimento. Immobile e pallida come una statua di sale. Purtroppo non era ancora finita. «È vero che era incinta della terza figlia quando è scappato? Shelley Truman ha detto che era un uomo bellissimo». La seconda voce aveva risposto compiaciuta. Emma chiuse gli occhi. Non riuscivo a staccare i miei da lei. La mamma di Cinthya abboccò all’istante. «Avresti dovuto vederlo: da togliere il fiato. Le figlie non hanno preso molto dal padre, sono a mala pena carine» soffocò una risatina. «Dicono sia scappato in Europa. Un uomo del genere non può essere rimasto solo tanto a lungo. Si sarà fatto una nuova famiglia». Anche la donna chiamata Sandy rise divertita, come se la mamma di Cinthya avesse fatto una battuta. La rabbia mi fluì veloce al cervello. Irrazionale come lo slancio protettivo del giorno prima. Stupide galline bugiarde. Non era vero. Non era vero niente. Era ingiusto che parlassero in quel modo di Emma, di sua madre, di suo padre. Kate era la mamma che ogni bambino avrebbero voluto ed Emma era bella, bella come lei. Erano solo invidiose. Non era difficile capire il motivo di quella gelosia. Ricordavo il papà di Emma. Era amico di mio padre. Il Sam di papà. Uno schiocco secco interruppe il filo dei miei pensieri. Emma aveva serrato la mascella e abbassato la testa, sconfitta. Poi il mondo si spaccò in due. Fuori dal nostro nascondiglio continuò ad andare avanti, veloce. Rumoroso. Un fragore di vetri rotti e urla. Le due odiose paia di piedi corsero via, in direzione della baraonda. Riuscivo a malapena a capire cosa stesse succedendo nel mondo reale. Lontano da noi. Nell’istante in cui Emma aveva abbassato la testa, un’onda potente mi aveva inchiodato a terra e aveva contratto i miei sensi, tutto me in quell’istante. Un dolore acuto, lacerante m’invase. Un dolore che non era mio, ma mi apparteneva. Un dolore che doveva far parte di me, anzi ne aveva sempre fatto

parte ma per errore o per caso era stato messo nel posto sbagliato. E adesso tornava a casa. Lo sentivo fluire nelle vene, contrarre i polmoni mozzandomi il respiro, stringere lo stomaco in una morsa, irrigidire i muscoli. Lo sentivo arrivare agli occhi che sbarrati fissavano Emma. Aveva alzato la testa e a sua volta mi guardava. Impietrita in una smorfia stupefatta di orrore e disperazione. Non distinguevo più dove finivo io e dove iniziava lei. Eravamo noi due, mescolati nell’onda che ci lambiva entrambi. Ti prego. Ti prego non piangere. Se lo avesse fatto, non mi sarei più fermato. Avrei pianto lacrime che non erano mie. Con lei. Per lei. Al posto suo. Perché il dolore, l’abbandono che si gonfiavano e scorrevano in cerca di un posto dentro di me, non erano miei. Erano di Emma. Lo vedevo sulla sua faccia. Vedevo lei e sentivo quello che provava. Nella carne, nelle ossa. Era insopportabile. Ancora un istante e mi sarebbe scoppiata la testa. L’onda era arrivata fin lì e premeva, scavava. Si faceva spazio. Emma si era lasciata cadere per terra, incapace di rimanere in equilibrio sui talloni. Teneva la testa tra le ginocchia. Le braccia allacciate strette alle gambe. Come se dovesse tenere tutto insieme per non finire in pezzi. Dovevo farla smettere. Quindi feci l’unica cosa che ero in grado di fare. Un’eco dell’istinto folle che mi aveva guidato fin lì, non del tutto soffocato dalla desolazione e dalla paura. Con uno sforzo immenso mi allungai verso di lei e le presi la mano. Fu come gettare una fune sull’orlo di un dirupo e trovare un appoggio. Un sostegno su cui fare presa e iniziare a risalire, cercando i punti giusti dove appoggiare il peso e cominciando a sentire l’aria fresca sulla faccia. Un ponte sospeso nel vuoto su cui camminare e arrivare dall’altra parte. Al sicuro. Una scossa mi attraversò non appena toccai la sua pelle. L’onda smise di cercare.

Trovò il suo posto. Si dilatò per l’ultima volta e si contrasse fino a diventare una piccola bolla. Pulsava ancora dolorante, ma non lacerava più. Sentii i muscoli sciogliersi, i polmoni espandersi e riempirsi d’aria, lo stomaco rilassarsi. Ricominciai a percepire il mondo fuori dal nostro nascondiglio. Mi concentrai su una sensazione precisa, rassicurante. La piccola mano che tenevo nella mia. La pelle liscia, morbida. Esisteva. La stavo toccando, era reale. Quella certezza mi aiutò a tornare in superficie, ad ancorarmi di nuovo a terra. Potevo distinguere di nuovo me da lei. Con una differenza. Ogni cosa era al suo posto. Dentro di me non avrei trovato il più piccolo spazio vuoto. Se c’era stato, e mi sembrava impossibile tanto mi sentivo completo, ora era occupato da lei. Il fastidio, l’imbarazzo che avevo provato, erano svaniti. Lavati via dall’onda che aveva portato con sé una nuova consapevolezza: non avrei più permesso che si sentisse in quel modo. Che ci sentissimo in quel modo. Per qualche ragione eravamo legati l’uno all’altra. Il mondo ava attraverso di noi da un canale unico. Ciò che la feriva, mi feriva. Forse da qualche parte dell’universo, prima che nascessimo, qualcuno aveva commesso un errore. Aveva scambiato i pezzi. A me ne era toccato uno di Emma e a lei uno mio. Per essere interi dovevamo stare insieme. Cercai i suoi occhi spaventato da quello che avrei potuto trovare. Magari la rana era velenosa e avevo avuto un’allucinazione. Probabilmente aveva pensato che fossi impazzito. Avrebbe raccontato a Sam che mi ero messo a fare facce strane e le avevo preso la mano. Inorridii al pensiero. Emma sembrava ancora sottosopra. Il sudore le imperlava la fronte e lo sguardo era offuscato. Non c’era traccia del sorriso furbetto, anche se sembrava serena. Si muoveva lentamente, come se si fosse appena svegliata da un lungo sonno. Qualsiasi cosa fosse successa, era successa anche a lei. Era stravolta. Batté le palpebre e la nebbia si diradò. Sentii le sue dita muoversi nella mia mano. A malincuore feci per lasciarla andare, ma strinse la presa. Ne fui

sollevato. Non me la sentivo di perdere quel contatto con la realtà. Mi domandai se sarei stato in grado di alzarmi e uscire da sotto il tavolo senza cadere faccia a terra. Non dovevo avere un aspetto migliore del suo. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma non uscì alcun suono. Cercava le parole, ma era impossibile trovarle. Non si poteva descrivere o spiegare. Era così e basta. Adesso lo sapevamo e sarebbe stato tutto più facile. Non c’era niente che si potesse dire e con la mano libera le appoggiai un dito sulle labbra. Sospirò sollevata. Eravamo vicinissimi. Non mi ero accorto di essermi avvicinato tanto e sarei rimasto lì ancora. Era rilassante tenerle la mano. Aveva un buon odore. Profumava di mandarino e cannella. La tensione, addensata nella mia testa come un grumo, si stava sciogliendo e riprendevo il controllo del mio corpo. Sentivo i muscoli ancora indolenziti e avrei avuto bisogno di altri dieci minuti per stare bene. Solo che non li avevamo. A mala pena ne restavano cinque. Presto Sam sarebbe venuto a cercarci per cantare vittoria. Il nostro scherzo doveva essere riuscito alla perfezione a giudicare dal rumore che avevo sentito e ancora sentivamo in lontananza. Non mi andava che ci trovasse così. Non sarei stato capace di spiegarlo e soprattutto non volevo. Per quanto mi dispie avere un segreto con Sam, preferivo non parlargliene. Tre minuti. Non avevamo più tempo. «Come ti senti? Ce la fai a muoverti? Dobbiamo uscire da qui, fra un po’ verranno a cercarci». La voce uscì rauca. Sembrava ata un’eternità dall’ultima volta che avevo parlato. Emma sollevò un sopracciglio e mi guardò accigliata. «Tu ce la fai a camminare? Perché parlare non ti riesce tanto bene». Sembrava stare meglio. Avevo temuto che si sarebbe messa a fare discorsi imbarazzanti da mocciosa. Invece non era cambiato niente, mentre era cambiato tutto. Lasciai la sua mano e strisciai fuori dal tavolo. Emma mi seguì. La sentivo prendere fiato dietro di me. Per lo sforzo o per il sollievo?

Una volta fuori dal nascondiglio sollevai un lembo della tovaglia e le tesi la mano per aiutarla ad alzarsi. Accettò bofonchiando un grazie e presto fu in piedi accanto a me. Si ò una mano sulla fronte e tolse la giacca, che buttò sopra il divano. La imitai. Faceva veramente caldo. Per prima cosa dovevamo cercare Sam. Era probabile si trovasse in cucina da cui provenivano ancora qualche gridolino e il pianto disperato di Cinthya. Emma sedette sul divano. Fui tentato di lasciarla riposare, sembrava stanchissima, ma non volevo separarmi da lei. Non ancora. «Dai Hataway, andiamo a cercare Sam». La tirai per una manica verso di me. «Stavo aspettando te». Si alzò di scatto, ma perse l’equilibrio e la presi al volo. «Devo portarti in braccio?». Era di nuovo così vicina e così profumata. Mi piantò negli occhi uno sguardo orgoglioso. «Sono inciampata. Andiamo prima che perda la pazienza e ti prenda a pugni». Cercai di non scoppiare a ridere, ma fu impossibile. Immaginarla nell’atto di prendere a pugni qualcuno quando a malapena si reggeva in piedi, era davvero comico. Attraversai il salone in direzione della porta. La precedevo per mettere un po’ di distanza. Più le stavo vicino, più avevo voglia di avvicinarmi e non era il caso di assecondare quel desiderio. Sam si sarebbe fatto qualche domanda se mi avesse visto are dal non-ti-guardo-neanche-in-faccia allo starle appiccicato come una medusa sul bagnasciuga. Nell’anticamera c’era un via vai impazzito di gente. Gli invitati andavano e venivano dalla cucina. La biondina cercava di tenerli buoni, mentre la signora Wright era alle prese con una Cinthya paonazza e urlante. Sam era appoggiato allo stipite della porta con le labbra strette e il corpo scosso da un leggero tremore. Si tratteneva a stento dal rotolarsi a terra per le risate. Quando ci vide s’illuminò e fece cenno di avvicinarci. «Dove eravate? Vi siete persi tutta la scena».

Risposi con un ghigno e una scusa che a Emma non sarebbe piaciuta. «La mocciosa ha avuto dei problemi. Per fortuna avo da quelle parti». Sorrisi con l’aria disinvolta dell’eroe per caso. Emma m’incenerì con lo sguardo, ma non replicò. Se avesse potuto mi avrebbe volentieri tirato un calcio o una gomitata. Era uno so avere un’amica femmina. «Cos’è successo?» chiese a Sam. Nella voce solo una sottile vena d’irritazione. «Credo che Cinthya e il principe ranocchio abbiano mangiato dallo stesso piatto». Soddisfazione pura negli occhi. Mi offrì il pugno che fece sbattere contro il mio. «Cinthya ha lanciato il piatto giù dal tavolo e si è messa urlare come una scimmia. La baby sitter l’ha raggiunta e quando ha visto la rana si è messa a urlare anche lei. Hanno cercato di catturarla, senza riuscirci». Un successo. Raramente quello scherzo riusciva così bene. Anche a mio fratello Justin, dal quale avevo preso l’idea. L’aveva applicata con successo a suo tempo, quando toccava a lui annoiarsi alle feste di compleanno. Jay frequentava la prima media ed era diventato troppo grande per certe cose, ma io avevo fatto tesoro della sua “esperienza” sul campo. «La rana?» Ci voltammo sorpresi verso Emma, che ci guardava con un’aria preoccupata. «In che senso?» rispose Sam, confuso. Lei di rimando sbuffò, impaziente. «Che fine ha fatto?» Ah. Voleva sapere se era ancora viva. Proprio una cosa da femmine. «Credo sia scappata o sia nascosta. A dire la verità l’ho persa di vista» ammise il mio amico. Non sembrò per niente soddisfatta della risposta. Si capiva che era divisa tra la pietà per la bestiola e il gusto di aver rovinato la festa a Cinthya. «Se vuoi la cerchiamo e la riportiamo in giardino» sentii uscire dalla mia bocca.

Mi era dato di volta il cervello? Non era da me. Quella bambina diabolica aveva fatto di me un mostro. Sam mi guardò con la bocca aperta per lo stupore. Si stava chiedendo che fine avesse fatto il suo migliore amico. Me lo stavo chiedendo anch’io. «Sì, grazie». Non sembrava sorpresa dalla proposta, solo un po’ sospettosa. Ci stavamo dirigendo verso la cucina con l’intenzione di cercare la rana, minuscola e saltellante, in mezzo alla baraonda, quando mi accorsi che qualcosa non andava. C’era uno strano silenzio, come sospeso. La signora Wright teneva tra le braccia la figlia singhiozzante e guardava verso di noi. Poi Cinthya tirò su con il naso e puntò il dito verso Emma. Senza esitazioni. «Ti dico che è stata lei, mamma». Emma sbiancò, strabuzzando gli occhi per lo stupore. Avremmo dovuto immaginare che Cinthya se la sarebbe presa con lei. Il giorno prima aveva accennato a qualcosa ed era chiaro che non fossero amiche del cuore. «Non è vero» abbaiai. Era arrivato il momento di sdebitarsi per Tony Marshall. La mamma di Cinthya mi puntò gli occhi addosso. Non gradiva che sbugiardassi la figlia davanti a tutti. Chissà che faccia avrebbe fatto quando avrebbe capito che intendevo sbugiardare lei. Non vedevo l’ora. «Che cosa dici Alec? Perché Cinthya dovrebbe dire una bugia? Non vedi com’è sconvolta povera piccola?». Il tono voleva essere accondiscendente, ma non riuscì a trattenere l’irritazione. Ignorai le domande: troppi aggettivi mi venivano sulla punta della lingua e non era il caso di renderli noti al grande pubblico. «Emma ed io eravamo nascosti sotto il tavolo del salone». Nessuno colse il significato di ciò che avevo detto. Tranne Emma e la signora

Wright. La sua espressione... Sembrò quasi di vedergliela scivolare giù dalla faccia. Sam si mosse nervoso, ma non fece domande né mi guardò con aria interrogativa. Si fidò. Punto e basta. Ringraziai dentro di me per la sua fiducia cieca. «Naturalmente» balbettò la signora Wright, imbarazzata. I suoi occhi scattarono verso quelli della donna in piedi accanto a lei, bianca in volto nonostante il trucco pesante. Quindi l’altra gallina era la mamma di Milly. Avevo preso due piccioni con una fava. La signora Wright riprese a parlare, la voce in falsetto, resa più stridula dal nervosismo. «Naturalmente non può essere stata Emma, una brava bambina come lei. Non l’ho pensato nemmeno per un attimo!». Staccò la figlia da sé e le scoccò un’occhiata che non lasciava spazio a repliche. «Adesso basta frignare Cinthya. Torna a giocare con i tuoi amichetti, mentre Jessica ed io sistemiamo la cucina». Tutta miele si rivolse agli altri con un sorriso tirato come l’elastico di una fionda. «Bambini perché non tornate nel salone? Tra poco taglieremo la torta». Emma la guardò assente, le labbra piegate in una piccola smorfia di disgusto. Dopo qualche secondo scosse il capo e riemerse dai suoi pensieri. La prima occhiata fu per me. Riconoscente, con qualcosa dentro d’indecifrabile, che stuzzicò la piccola corrente sulla pelle e la fece crepitare. Distolse subito lo sguardo e ancora una volta si rivolse a Sam. Sbuffai impaziente. Ero stato io a tirarla fuori dai guai, senza contare il numero del tavolo. «Abbiamo una rana da salvare» disse con un tono che non ammetteva discussioni. Sam fece spallucce e lo imitai rassegnato. Bisognava abituarsi a quelle cose da femmine.

Si cresce. Percorrendo la stessa strada. Dividendo le occasioni, le sbucciature sulle ginocchia, le corse a perdifiato. Le mani tese dopo le cadute, i suggerimenti sussurrati in classe. I litigi, le riappacificazioni. ano gli anni. Si diventa uomini e donne, lasciando alle spalle i giorni dorati dell’infanzia. Si cambia. Prendendo posto in corpi nuovi. Stabilendo nuovi equilibri, proteggendo quelli vecchi. Con l’assoluta convinzione che ciò che siamo rimanga immutato nel tempo e si cristallizzi in quello che saremo. Senza dare peso ai nostri diciassette anni. Senza accorgersi che insieme a noi sono cresciuti i segreti che custodiamo. E hanno un prezzo che non siamo pronti a pagare.

Streghe

Emma

«In che senso?» Eileen era sconvolta. Altrimenti non avrebbe fatto una domanda così scema. Non che io l’avessi presa meglio, ma ho sempre avuto il buon senso di ammutolire di fronte a certe rivelazioni. Cosa c’era da aggiungere alle parole di mamma o da rimanerne sconvolti? Era ovvio. Soltanto che sentirlo dire così, con una definizione tanto netta e precisa, beh… Avrebbe fatto vacillare chiunque, non solo delle ragazzine. L’unica che sembrava dimostrare un briciolo di sangue freddo era Constance. Stava seduta al suo posto con l’aria annoiata, i piedi penzoloni e l’espressione di chi ha già sentito quella parte della storia e aspetta che il narratore proceda con il resto del racconto. I gomiti sul tavolo, la testa sostenuta dalla mano, ci osservava da sotto in su, spostando lo sguardo da Eileen, a me, a mamma. Evitava quello di Miranda. Lo avrei fatto anch’io al suo posto, ma per una volta non c’entravo nulla. Era tutta farina del suo sacco: il fatto di trovarsi lì, la famiglia Hataway al completo, sedute intorno al tavolo della cucina ad ascoltare le grandi rivelazioni. «A questo punto Caterina è inevitabile. Non credo tu possa aspettare ancora». Parole della nonna, accompagnate da uno sguardo determinato che voleva dire, senza ombra di dubbio, che se mamma non avesse trovato il coraggio, l’avrebbe fatto lei. Così Kate ci aveva radunate in cucina e aveva aggiustato il tiro sulla vecchia definizione di bambine speciali. «Streghe. Siamo streghe». Eh già. Grandi rivelazioni. Il plurale, che comprendeva anche lei, aveva ammorbidito il colpo. Se mamma era una strega, non poteva essere tanto brutto. Conoscevo qualcuno migliore di mia madre? La voce le si strozzò in gola e fu incapace di continuare. Non avrebbe voluto dircelo, era chiaro. Avrebbe preferito continuare con la storiella delle bambine super dotate e ipersensibili. Proteggerci dalla spaventosa verità.

Peccato che una sorellina che ferma il tempo con un gesto della mano, esuli dal concetto generalmente condiviso di “dotato” e si avvicini molto più a quello di stregato. «In che senso?». Fulminai Eileen con lo sguardo. Quanti sensi ci potevano essere? Poteva esistere una spiegazione diversa per ciò che tutte noi, in modo differente, eravamo in grado di fare? Era ovvio. Lo era sempre stato. Bisognava solo definirlo e ci aveva pensato mamma a farlo. In un certo senso mi sentivo sollevata: ora sapevo. Non dovevo più arrabattarmi nel tentativo di capire chi fossi. Per quanto sconvolgente, era bello avere un’identità. Una definizione precisa dei miei particolari talenti. Il mio livello di diversità rispetto agli altri. Ero una strega. Punto. Per Eileen non era così. Glielo si leggeva in faccia. L’identità vecchia le andava benissimo. Avrebbe dovuto farsene una ragione. Non era una scelta, ma un dato di fatto. Fino a quella mattina eravamo all’oscuro di tutto e la nostra vita procedeva normale, per quanto fosse possibile in casa nostra. Essere in ritardo e rischiare di perdere lo scuolabus si era rivelato la chiave di volta della nostra vita di adolescenti. Di streghe adolescenti. Il rischio lo correvamo quasi tutti i giorni. Impossibile rispettare le tabelle di marcia con due sorelle, una di quattordici e l’altra di diciassette anni e un solo bagno in comune. Una sfida contro le leggi della natura. Il giorno prima non avevamo corso abbastanza e l’autobus ci era ato sotto il naso. L’unica soluzione era stata tornare indietro e farci accompagnare a scuola dalla nonna. Niente di strano, se non fosse che l’auto di Miranda era più vecchia di lei e non superava i trenta chilometri orari. Imbarazzo e agonia. Nessuna di noi avrebbe ripetuto l’esperienza per il secondo giorno di seguito ma sembrò inevitabile quando l’autobus giallo ci sfilò davanti nel momento in cui mettevamo il piede fuori di casa. Iniziammo a correre, sapendo che sarebbe stato inutile, ma convinte che nella vita bisogna fare un tentativo. Sentivo lo scalpiccio di Eileen dietro di me, il

respiro affannoso, la borsa dei libri che batteva a ritmo contro il suo fianco, come contraccolpo al movimento della corsa. Lo scuolabus era fermo a duecento metri da noi e le porte stavano per chiudersi. Potevo vedere Sam salire l’ultimo gradino e Alec temporeggiare per farci guadagnare tempo. Gli feci cenno di non preoccuparsi, ci saremmo visti a scuola. Si strinse nelle spalle e salì. Ancora qualche giorno e Sam avrebbe finito di sistemare la vecchia Subaru del padre e poi… Addio giorni sull’autobus e benvenuti aggi in macchina! Peccato che quei giorni sembrassero non arrivare mai. Ne avevo fin sopra i capelli dello scuolabus. «Eh no, anche questa mattina no». Mi voltai verso le mie sorelle, che correvano dietro di me. A sbottare era stata Constance, che seguiva di poco Eileen. Si bloccò nel bel mezzo della corsa con il respiro corto, piegando il busto per riprendere fiato, le mani sulle ginocchia. Quando si raddrizzò aveva negli occhi un’aria determinata. «Sei fuori di testa? Abbiamo mezzo secondo, ti riposerai dopo» urlai senza fiato. Non è la cosa più facile del mondo correre guardando indietro, ma permette di vedere cose che non avresti immaginato. Tua sorella, che solleva la mano destra e fa il gesto di scacciare una mosca fastidiosa che le vola davanti al viso. Vedere il tempo che si ferma. Anzi che rallenta. La moviola della fermata dell’autobus. E noi perfettamente nitide, a velocità normale in un mondo sfocato, come una foto venuta male. Mi bloccai, impietrita dallo stupore e dal panico. Cosa stava succedendo? «Spicciatevi. Ce la faccio solo per qualche minuto». Connie mi superò e si diresse verso la fermata. Eileen mi raggiunse e mi guardò stupefatta in cerca di risposte. «Non guardare me, non ne so niente». Riuscii a mala pena a sillabare le parole. Troppe emozioni m’ingolfavano il cervello: paura, stupore, ammirazione.

Elle si riprese più in fretta. Procedette decisa, di nuovo in sé dopo lo sbalordimento iniziale. Raggiunse Connie e l’afferrò per un braccio, costringendola a voltarsi. «Da quanto tempo lo sai fare?». La scrutava severa, strizzando gli occhi per concentrarsi. Constance non aveva scelta, le avrebbe raccontato tutto. «Ahi Elle, mi fai male!». Cercò di divincolarsi, senza successo. Intuì che non si sarebbe liberata senza dare spiegazioni e sbuffando frustrata vuotò il sacco. «Da sempre. Una volta riuscivo a rallentarlo solo qualche secondo, per quello non ve ne siete mai accorte. Da qualche mese riesco a prolungarlo per due, tre minuti. Secondo più, secondo meno». Constance continuava a divincolarsi impaziente. Aveva fretta di raggiungere l’autobus e far scorrere di nuovo il tempo a velocità normale. Una volta in mezzo ai nostri compagni non avremmo più potuto parlarne. Purtroppo per lei eravamo troppo distanti dalla meta e mollare la presa avrebbe significato perdere l’autobus, vanificando gli sforzi fatti. Si sarebbe esposta con noi per niente. Digrignò i denti e continuò a sostenere lo sguardo inquisitore di nostra sorella. «Mamma lo sa?». Era una domanda retorica. Ovvio che non lo sapesse, Constance era ancora viva. «No, ma Miranda lo sospetta. Non credo di riuscirci ancora per molto, quindi se non vuoi perdere l’autobus, ti consiglio di darti una mossa. Ricordatevi di respirare in modo affannoso. In fin dei conti stavamo correndo». Eileen strinse la presa e la fulminò con gli occhi. Anche senza le doti persuasive avrebbe ottenuto qualsiasi cosa. «Non me ne frega niente dell’autobus. Cosa vuol dire che Miranda lo sospetta?». Terzo grado in piena regola. «Credo se ne sia accorta, perché quando lo fa lei sono l’unica che non si blocca. Ho cercato di rimanere immobile, ma l’ultima volta ha fermato tutto per un quarto d’ora e vi assicuro che non è semplice starsene impalati per quindici minuti». Eileen mollò la presa e iniziò a boccheggiare. Finalmente mi faceva compagnia. Decisi di intervenire. La situazione andava sbloccata. In tutti i sensi.

«Quando lo fa lei?». Avrei voluto esordire con un tono deciso non con un singulto strozzato. Connie mi guardò come se avessi fatto una domanda idiota, sollevando il sopracciglio nero e sottile. «É molto più brava di me. Lo estende per un raggio più ampio e se volesse potrebbe protrarlo per un tempo illimitato». Nei suoi occhi si leggeva l’ammirazione per un talento così sbalorditivo e un po’ di autocompiacimento. Nessuna di noi aveva un dono del genere. Probabilmente sperava che con il tempo sarebbe stata in grado di fare ciò che faceva Miranda. «Fico». Eileen si risvegliò dal torpore e mi fulminò con lo sguardo. Che palle. Dicevo sempre la cosa sbagliata. Però era vero. Rallentare il tempo. Wow. «Adesso possiamo andare? Non ce la faccio più». Constance si guardava intorno nervosa mentre alcune gocce di sudore cominciarono a imperlarle la fronte. Scostò dal viso i capelli e si diresse verso lo scuolabus o meglio verso l’enorme macchia gialla, che avrebbe dovuto essere l’autobus della scuola. «Avete tre secondi, dopo di che mollo la presa» avvertì. La superai. Avremmo dovuto per lo meno salvare le apparenze e Alec mi aveva vista in testa alle mie sorelle. Guardai verso l’autobus e mi parve di intravedere un movimento impercettibile tra le chiazze sfocate della macchia gialla. Strizzai gli occhi per mettere a fuoco l’immagine. Impossibile. Di sicuro mi ero sbagliata. Eravamo a un o dalla fermata quando tutto si rimise in moto. Le porte dell’autobus si richio a pochi metri da me. Mi precipitai a picchiare sui vetri. Con un singhiozzo l’autobus si abbassò. Mr Tiggs riaprì le porte e salimmo in silenzio sul mezzo scolastico. Stremata e sconvolta mi accasciai accanto a Sam. Eileen tenne d’occhio nostra sorella per il resto della giornata e una volta tornata a casa raccontò tutto a mamma. Una cosa del genere non si poteva tenere nascosta. Solo Connie, con l‘arroganza dei suoi quattordici anni, poteva pensare di essere in grado di gestirla. Non le avrebbe fatto male il discorsetto sulle bambine speciali, sul segreto e tutto il resto. Con nostro grande stupore mamma non reagì alla notizia come ci aspettavamo. Niente strepiti, castighi o sguardi accigliati. Si limitò ad annuire per l’intera durata del racconto di Eileen. Dopo di che sedette su una sedia, si prese la testa

tra le mani e rimase così per cinque lunghissimi minuti. La osservavamo immobili e mute in attesa che scoppiasse la bomba. Allo scoccare del sesto minuto Miranda entrò in cucina. Si chinò su di lei e le prese il volto tra le dita affusolate e pallide. «A questo punto Caterina è inevitabile. Non credo tu possa aspettare ancora». La voce era morbida, ma il tono deciso. Kate sollevò gli occhi da terra, persa nei suoi pensieri ma annuì. Si alzò e indicò il tavolo. Ubbidienti una volta tanto, sedemmo silenziose, sotto lo sguardo vigile di Miranda. Poi mamma prese un bel respiro e sganciò la bomba. «Streghe. Siamo streghe». Una parola e il significato della tua vita cambia per sempre. Streghe. Come nelle favole? Eh no. Niente avventure mirabolanti, solo il liceo della città e un segreto da custodire pesante come un macigno. Streghe cattive? No, certo che no. Sulla soglia dei diciassette anni conoscevo la differenza tra bene e male. Sapevo di non essere cattiva. A volte raccontavo qualche balla e avevo l’abitudine di cacciarmi nei guai, ma non avrei fatto del male a una mosca. Allora perché mamma sembrava preoccupata e sofferente? Come se ci avesse confessato di essere state colpite da una maledizione o una malattia. Fino a quel momento non era stato tanto male. A volte dovevamo camminare sulle uova, ma esistevano dei vantaggi: non avremmo più perso l’autobus. Guardai mia madre, silenziosa e pallida. Aspettava una reazione da parte nostra. Reazione che stentava ad arrivare. Eravamo troppo scioccate per parlare e troppo immerse nei nostri pensieri. A quelle profondità è impossibile riemergere subito, è necessario qualche minuto di decompressione. O qualche ora nel mio caso. Constance non osava fiatare ed Eileen si era presa un momento di concentrazione assoluta per raccogliere le idee. Io riflettevo sui pro e i contro, ma non mi sentivo sconvolta.

In fondo non l’avevamo sempre saputo? Aver dato un nome al nostro essere speciali lo rendeva così spaventoso? Così difficile da affrontare? L’importante è ciò che facciamo, non cosa siamo. Dovevo ammettere, però, che il concetto non era così largamente condiviso come mi piaceva pensare. Per molte persone essere normali e rientrare negli schemi prestabiliti è il termine di paragone sul quale giudicano tutti gli altri. La bilancia non avrebbe giocato a nostro favore se si fosse sparsa la voce. Per questo fin da bambine eravamo abituate a non esibire in pubblico le nostre capacità. La situazione non cambiava rispetto a quello che avevamo sempre fatto: controllarci. Dove stava la tragedia? Non riuscivo a capire. Mi lambiccai il cervello per trovare una soluzione, ma non feci altro che aumentare il mio nervosismo. Il silenzio in cucina si fece pesante. Almeno una di noi sarebbe dovuta svenire, o avrebbe dovuto scappare via urlando o mettersi a piangere. Invece restavamo lì, inchiodate davanti all’abisso. Con la differenza che io mi ostinavo a guardarci dentro per scorgerne il fondo. Miranda venne in nostro soccorso. Per fortuna, perché temevo che saremmo rimaste così per sempre: imbambolate in sala da pranzo. Non dovevamo essere streghe pericolose se il solo fatto di esserlo ci atterriva. «Da generazioni. La famiglia di vostra madre è una delle più antiche d’Europa e un tempo delle più potenti». La voce di Miranda si era fatta solenne e orgogliosa. «Il gene si trasmette da madre a figlia. Le vostre figlie saranno streghe, come lo è la madre di vostra madre e così risalendo, fino alla notte dei tempi». Lo disse con naturalezza, come se stesse spiegando a delle bambine molto piccole che mamma gatta partorisce i gattini e mamma mucca i vitellini. Le streghe mettevano al mondo streghe. È la natura, bellezza. Non c’era scampo, quindi. Cominciai a capire il perché dell’espressione di mia madre. Non era una scelta che aveva fatto per sé o per noi. Era così e basta. Da sempre. A Eileen sfuggì un gemito. Eppure mi domandavo se fosse davvero un destino tremendo. A me non dispiaceva, per lo meno non mi era dispiaciuto fino allora. C’erano delle implicazioni di cui non avevano parlato? Cose che non sapevamo e ci avrebbero fatto odiare ciò che eravamo? Perché lo eravamo, lo eravamo sempre state e a

quanto pareva lo saremmo state sempre. «Quindi?» chiesi per rompere il ghiaccio. Apparivo cinica e menefreghista davanti al tormento di mia madre e di mia sorella. Non per cattiveria, ma perché non riuscivo a vedere la tragedia. Miranda mi guardò con approvazione. «Dovevate saperlo e adesso lo sapete. Continuerete a vivere le vostre vite come avete fatto finora. Vi muoverete in mezzo agli altri con attenzione e grazia, come vi abbiamo insegnato e tu signorinella… ». Si rivolse a Connie, che si aggrappò alla sedia, ma sostenne il suo sguardo. «Hai l’assoluto divieto di fare ancora giochetti come quello di questa mattina. Hai una vaga idea del rischio che hai corso? Se qualcuno ti avesse vista?». Il tono della nonna si era alzato di qualche nota e aveva assunto un’aria vagamente divertita. Non era una predica, era un complimento. A Connie andavano sempre tutte lisce. Se avessi fatto una cosa del genere sarei rimasta in punizione per mesi, come la volta di Tony Marshall. «Sono stata molto attenta. Ho bloccato tutti a parte Em ed Eileen. Quando sono abbastanza vicina posso decidere chi tenere fuori, ma devo lavorare sulla durata. Resisto al massimo per cinque minuti» rispose risentita dal fatto che Miranda avesse sottovalutato il suo giudizio. Constance era chiaramente delusa da quelli che considerava scarsi risultati, ma a Miranda scappò un sorrisetto soddisfatto. Mancava solo che fe partire un applauso. Che nervi. Non vedevo l’ora di lasciare la cucina e stare per i fatti miei. Incapace di rimanere seduta un secondo di più mi alzai dalla sedia e andai ad abbracciare mia madre. Avevo capito cosa la tormentasse. Il pensiero che l’avessimo presa male o fossimo spaventate o altre cavolate materne. Bisognava solo rassicurarla. Mi chinai su di lei per metterle le braccia intorno al collo e baciarle la guancia morbida. «Va tutto bene, mamma. Non siamo preoccupate». La guardai sorridente e lei mi restituì lo sguardo. Nei suoi occhi una tristezza antica come il mondo. Cercò di rasserenarsi prima di parlare. Respirò a fondo e mi prese le mani. «Lo so, ma ti prego Emy: non prendere questa storia sotto gamba come il solito. Hai delle responsabilità nei confronti delle tue sorelle. Ci sono cose che dovreste

sapere, ma non oggi. Oggi ne abbiamo avuto tutte abbastanza». Si alzò dalla sedia e mi baciò la fronte, come quando ero bambina. Prese il bollitore, accese la piastra più piccola e si dedicò ai preparativi per il tè. Miranda iniziò subito a darle una mano; Eileen nel frattempo si era alzata e avvicinata alle ante più alte del mobiletto in rovere, dove tenevamo le tazze. Ne prese cinque, quelle che usavamo solitamente per la merenda. Constance aveva lasciato la cucina e si era buttata sul divano in salotto. Aveva la televisione e dopo una breve ricerca si era sintonizzata su un canale che trasmetteva sit-com demenziali. Tutto era tornato alla normalità, dopo una parentesi di costernazione. Costernazione che aveva lasciato dietro di sé solo un innaturale silenzio. Molto presto le abitudini del pomeriggio avrebbero sciolto anche quello. Potevo già sentire la risata di Connie provenire dal salotto. Uscii dalla cucina, ma non mi stravaccai sul divano di lino bianco al centro della sala, come una parte di me avrebbe voluto. Proseguii per il corridoio e mi diressi verso la porta di casa. Avevo bisogno di stare sola e prendere una boccata d’aria in giardino. L’aria era tiepida e la giornata bellissima. Un bel pomeriggio di maggio, uno di quelli che aspettavo per tutto l’anno non appena finivano. Non ne avrei mai avuto abbastanza. Fosse stato per me, sarebbe stato sempre maggio. Che cosa significava che avevo delle responsabilità nei confronti delle mie sorelle? Le avevo solo io o erano reciproche? Non mi sarebbe dispiaciuto dividere il fardello, ma dall’espressione di mia madre non sembrava il mio caso. Fantastico. Ad ogni modo ci avevo visto giusto. C’era dell’altro e a giudicare dal tono non si trattava di dettagli insignificanti. Beh avrei dovuto tenere quei dubbi per me, perché il discorso per quel giorno era off limits. Avevo mille domande che mi vorticavano nel cervello, tante da confondersi l’una nell’altra. Avrei dovuto essere paziente e aspettare che mia madre o Miranda fossero disposte a tirare fuori di nuovo l’argomento. Per ora preferivano andarci piano, una tessera del puzzle alla volta, per non traumatizzarci con troppe rivelazioni sconvolgenti.

Peccato. Non mi sentivo scossa o spaventata, ero solo curiosa. L’unica a esserlo tra l’altro. Eileen, ripresasi dall’abbacinamento iniziale, aveva deciso di comportarsi come se niente fosse, atteggiamento che portava avanti con ostinazione ogni volta che qualcosa rischiava di turbare le sue incrollabili certezze. Connie non doveva nemmeno fingere che non le importasse, era davvero così. Non faceva differenza per lei una definizione piuttosto di un’altra. Se Eileen rifiutava qualsiasi cosa potesse ferirla, chiudendola fuori di sé e ignorandone l’esistenza, Constance accettava tutto di buon grado. Accettare gli avvenimenti senza farsi domande era un modo come un altro di ignorarli. Molto meno doloroso e, a mio avviso, migliore. Per quanto mi riguardava, mi sarei mantenuta nel mezzo. Non potevo ignorare che fossimo streghe e che tutte le donne della nostra famiglia lo fossero state, ma nemmeno me ne sarei preoccupata troppo. Un giorno, forse, il problema avrebbe bussato alla nostra porta e saremmo corse ai ripari. Allora, non prima. Ammesso e non concesso che si trattasse di un problema, cosa di cui non ero convinta. Avevo preoccupazioni più stringenti e solo una cosa rischiava di farmi davvero male. Un dubbio strisciato fin lì, che non mollava la presa da quando avevo visto tutta quella tristezza negli occhi di mia madre. Tristezza che non aveva a che fare con le solite preoccupazioni per noi, ma che conoscevo altrettanto bene. Avrei potuto lasciar perdere. Non mi piaceva pensarci e in genere evitavo di farlo, al punto che i pochi ricordi custoditi rimanevano sigillati e intoccabili. Eppure non riuscivo a scrollarmi il pensiero di dosso. Dovevo sapere e c’era solo una persona alla quale potessi rivolgermi. Feci il giro della casa, fino a trovarmi di fronte alla finestra della cucina. Miranda era intenta a sistemare dei biscotti in un piatto. Si accorse che la stavo osservando e mi puntò i grandi occhi liquidi addosso. Occhi verdi talmente chiari che alla luce del sole apparivano gialli come quelli dei gatti. Le feci un cenno impercettibile e in tutta risposta annuì. Disse qualcosa a Kate e uscì dalla porta sul retro. Dopo qualche istante mi raggiunse in giardino. Mi allontanai dalla finestra, perché non volevo che mamma sentisse. Incuriosita dall’alone di mistero, Miranda mi seguì. Ci fermammo vicino alle vecchie

altalene, mi sedetti sulla mia preferita e iniziai a dondolare. Mi osservava, chiedendosi cosa mi asse per la testa. Ricambiai lo sguardo e l’immagine di quel momento si sovrappose a una di tanti anni prima, quando la bella signora dai capelli rossi striati di grigio era apparsa nelle nostre vite. «Emma hai sentito tua madre. Per oggi basta così». Non sembrava convinta, probabilmente non condivideva i metodi soft di mamma. Chissà qual era il suo ruolo nella faccenda. Miranda non faceva parte del ramo materno della famiglia. A dire la verità sapevamo a malapena da dove venisse. Una mattina, dopo che lui se n’era andato, aveva bussato alla nostra porta e si era presentata con poche parole. «Sono Miranda Foley. Chiamatemi nonna e non fatemi arrabbiare, così andremo d’accordo». Mamma l’aveva fatta entrare e non se n’era più andata. Non riuscivo a immaginare come sarebbe stata la nostra vita se l’avesse fatto. Se non fosse stato per lei, Kate non si sarebbe nemmeno alzata dal letto. Aveva portato luce ed energia in una casa che era diventata triste e apatica. «Si tratta di papà». Erano trascorsi tredici anni. Sarei mai riuscita a parlarne senza che la voce mi morisse in gola? Avevo fatto progressi comunque, un tempo non sarei stata capace di scandire le due sillabe. Miranda fissò lo sguardo su un punto lontano. Anche a lei non piaceva parlarne, ma sapevo che si trattava di un motivo diverso dal mio. Temeva di lasciarsi scappare qualcosa. Qualcosa che non dovevamo sapere. La nonna aveva un segreto. Mai mi sarei azzardata a cercare di vederlo. Non volevo avere altre informazioni dolorose su mio padre. Mi bastava la mancanza straziante che sentivo e il vuoto che aveva lasciato in mamma e nelle nostre vite, ma non volevo rimanere con quel dubbio. Miranda era l’unica in grado di darmi delle risposte. Rimase in silenzio, aspettando che proseguissi. Cercai le parole adatte. Non dovevo darle spazio per risposte ambigue o evasive. Volevo la verità. Ne avevo

bisogno per crescere. Mi avrebbe spezzata, ma sarei andata avanti e avrei smesso di idealizzarlo. Avrei buttato via la chiave del cassetto dei ricordi e non l’avrei aperto mai più. Come aveva fatto Eileen. «È per questo che se n’è andato?» Nuda e cruda. Era scappato perché aveva scoperto che la moglie e le figlie erano streghe? Il ricordo che avevo di lui lo poneva distante mille miglia da una vigliaccata del genere, ma potevo fidarmi di me stessa? Quando perdiamo qualcuno, il dolore non lo rende migliore di quanto non sia mai stato? Non volevo conoscere il motivo che lo aveva spinto ad abbandonarci, non ero ancora pronta. Avevo bisogno, però, di sentirmi dire che non l’aveva fatto per quello che eravamo. Sarebbe stato desolante e avrebbe spazzato via tutto ciò che ricordavo di lui. Avrei perso mio padre di nuovo. Miranda non riuscì a reprimere del tutto il dolore affiorato sul suo volto. Per un secondo mi sembrò vecchissima e mi turbò. La nonna non sembrava mai vecchia. Era una donna alta e magra Il viso spigoloso, incoronato da un’acconciatura rigida e antiquata che le dava un’aria regale. Portava sempre soltanto pantaloni e non c’era gesto, anche il più banale, che non eseguisse con una grazia innata, commovente. Non ero abituata a vederla vulnerabile o afflitta. Era la persona più forte e autoritaria che conoscessi. Mi pentii della mia domanda per l’effetto che aveva prodotto su di lei e perché cominciavo a temere che la risposta non mi sarebbe piaciuta. Avevo il cuore in gola e le lacrime in tasca. Il momento di debolezza ò in un battito di ciglia. Miranda si ricompose e mi riservò il cipiglio severo che sfoderava quando eravamo bambine e una di noi l’aveva combinata grossa. «Emma Amalia Hataway non osare mai più pensare una cosa del genere». Sembrava davvero arrabbiata ma addolcì il tono quando proseguì. «Nulla al mondo avrebbe impedito a vostro padre di amarvi».

Di amarci forse no, ma di andarsene sì. Restava l’innegabile fatto che ci avesse abbandonate e che, probabilmente, non sarei mai stata in grado di perdonarlo. Qualunque fossero state le sue ragioni. La nonna intuii cosa stavo pensando e mi prese il viso tra le mani come aveva fatto con Kate. «So che sei arrabbiata. É doloroso e difficile, ma devi fidarti di noi. Cerca di essere paziente, un giorno avrai tutte le risposte. Adesso è troppo presto». Di nuovo l’aria poco convinta. Mi arresi. Cominciavo a sentirmi stanca e confusa. Mamma non aveva tutti i torti, troppe emozioni per un giorno solo. Annuii con altrettanta poca convinzione. Miranda sorrise e sollevò lo sguardo in direzione della casa. La imitai. Incontrammo quello di Kate che faceva cenni dalla finestra. Sempre in silenzio mi spinse in direzione della porta sul retro. La sua voce suonò distante quando parlò come se non si trovasse accanto a me, ma al centro dei suoi pensieri. «Andiamo, tesoro. È pronto il tè». Insieme entrammo in casa.

Confidenze

Emma

Per la centesima volta mi rigirai nervosa tra le lenzuola. Non riuscivo a prendere sonno. Avevo sentito Eileen prepararsi per andare a dormire. Si era lavata la faccia e i denti, legato i capelli, indossato il pigiama. Connie dormiva da un’ora abbondante. Beata lei. Prima di infilarsi sotto la trapunta leggera, Elle aveva sospirato, felice. Dave si era deciso a invitarla al ballo di fine anno. Ballo che si sarebbe tenuto un paio di settimane più tardi nella sala conferenze dell’unico malandato hotel della città. Per giorni lo aveva sperato con tutta se stessa. Mi aveva confidato di essere stata tentata di usare il suo talento, per ottenere ciò che desiderava, ma aveva capito che sarebbe stato sbagliato e, soprattutto inutile. Svanito l’effetto si sarebbe trovata con un cavaliere imbrogliato e confuso, senza sapere se i suoi sentimenti erano davvero ricambiati. L’avevo rassicurata dicendo che doveva solo avere pazienza. Sarebbe bastato il modo in cui Dave la guardava per capire che era questione di tempo. Presto avrebbe trovato il coraggio di fare la sua mossa. Non poteva essere altrimenti: nessuno aveva mai negato nulla a mia sorella. Così era stato ed Eileen assaporava con il pensiero le gioie della festa. Se la conoscevo bene la sua mente era distante anni luce dalle rivelazioni del pomeriggio. Il timore che Dave venisse sapere chi fosse in realtà l’aveva turbata, ma doveva essere giunta alle mie stesse conclusioni: aver dato un nome a ciò che eravamo non avrebbe cambiato le cose. Tutto sarebbe rimasto come prima, semplicemente quello che da sempre eravamo in grado di fare aveva una definizione. Eileen sarebbe andata al ballo con Dave come stabilito. Si sarebbero divertiti e avrebbero deciso di vedersi ancora. Si sarebbero innamorati perché erano fatti l’uno per l’altra. Sarebbero stati felici. Mi scappò un sospiro, ma non carico di aspettative come quello di mia sorella. Rassegnato. Pesante. «Cosa c’è?» Non ero l’unica a soffrire d’insonnia, anche se la mancanza di sonno derivava da

motivi ben diversi. Al suo posto nemmeno io sarei riuscita a dormire. Sarei rimasta sveglia per l’impazienza, nell’attesa che arrivasse il mattino per poterlo rivedere. Magari pranzare insieme o uscire dalla classe e accorgersi che lui era fuori dalla porta ad aspettarmi. Eh già. «Niente». Non avevo voglia di parlarne. Di nuovo. Avevamo fatto quel discorso mille volte e non mi ero mossa di un millimetro. Ero molto risoluta, Elle lo sapeva, anche se non perdeva occasione per cercare di convincermi che stavo sbagliando. Era assurdo per lei, non riusciva a capire. Del resto come avrebbe potuto? Lei aveva dovuto solo scegliere. Aveva sopportato a mala pena qualche giorno nell’incertezza di non piacere a chi era stato tanto fortunato da essere scelto. Mia sorella non era presuntuosa, non aveva dato per scontato l’essere ricambiata, ma la sua sofferenza nasceva più dall’impazienza che da una reale paura di non piacere a Dave. Non aveva idea di quanto potesse essere difficile. Quanto fosse probabile per le persone normali non essere corrisposti. Chi non possedeva il suo carisma, la sua bellezza, la sua forza, si scontrava tutta la vita con situazioni del genere, fino a quando qualcuno, finalmente, arrivava. Se arrivava. Non ho mai creduto che fosse una cosa scontata. «Non te l’ha ancora chiesto?». Sembrava sorpresa e la cosa mi irritò. La sua sicurezza stuzzicava la minuscola parte di me così stupida da sperare. «No e non lo farà mai. Mai, okay?» Doveva piantarla una volta per tutte. Mi faceva solo sentire peggio e non era necessario. «Sei cieca, Em. A mala pena ti rendi conto di cosa senti per lui, come puoi essere sicura di quello che prova per te? Siete ridicoli tutti e due. Non capisco i problemi che vi fate». Sussurrava per non svegliare Constance, ma potevo cogliere tra i mormorii la sua sincera incredulità. Mia sorella mi voleva troppo bene. Non era oggettiva. Vedeva quello che voleva vedere. Quello che sarebbe successo se fosse stata nei

miei panni, ma io non ero lei. I miei panni erano molto diversi dai suoi. «I problemi me li faccio solo io e sono più che giustificati. Il discorso è chiuso, non c’è altro da aggiungere». Non ero seccata, solo stanca di dovermi ripetere ancora e ancora. Addolorata perché le sue parole alimentavano una speranza, che avrei impiegato giorni a soffocare e non sarebbe stata un’operazione indolore. «Se non è per Alec di cosa si tratta?». Insisteva, perché sapeva di avere ragione. E ce l’aveva. Certo che era per Alec. Era sempre per Alec, ma non nel senso che intendeva lei. Non risposi subito. Avevo bisogno di riordinare le idee. Non volevo mentirle, ma nemmeno darle soddisfazione. Avrebbe riattaccato con il solito disco ed ero troppo esaurita per sopportarlo. Alla fine decisi di liberarmi del peso. Magari un punto di vista oggettivo mi avrebbe aiutato. «Ho paura…» la voce mi si spezzò, inorridendo al pensiero che avevo formulato. Cercai di riprendere il discorso senza sembrare l’eroina di una tragedia greca. «Ho paura che si sia accorto di qualcosa. È stato strano tutto il giorno e sembrava volesse evitarmi. Forse ha capito… ». Non fui in grado di continuare. Non volevo nemmeno pensarci. A Eileen scappò una risatina. Molto confortante. Chissà come dovevo sembrarle patetica. «Lo trovo improbabile. Dovrebbe leggerti nel pensiero per poterlo solo lontanamente sospettare e non sarebbe comunque sufficiente. Testarda come sei, non mi stupirei se mentissi anche a te stessa». Fece una piccola pausa poi riprese divertita. «Non credo che il tuo atteggiamento scostante e distaccato possa avergli fatto intuire alcunché. Sicura di non essere stata tu a evitarlo tutto il giorno?» Molto divertente. Doveva esserlo perché lei sembrava divertirsi parecchio, anche se ero costretta ad ammettere che non si trattava di un’ipotesi inverosimile. C’erano giorni in cui non riuscivo a stargli vicino e fare finta di niente. Prenderlo in giro e parlare di cose sciocche e banali o ascoltarlo mentre con l’aria più annoiata del mondo raccontava a Sam delle ragazze che erano state così

temerarie da provarci con lui. Mai avrei permesso che parlasse di me con quel tono. Perdere la sua stima, il suo affetto sarebbe stato peggio di non poterlo avere. «Grazie per il o morale, Elle. Non so cosa farei senza di te». Volevo essere sarcastica per sdrammatizzare, ma risultai solo petulante. «Si sarà stancato della tua freddezza e ti starà rendendo pan per focaccia. Sarebbe ironico: cercare di attirare la tua attenzione nel modo in cui tu provi a tenerlo distante». Colsi un sorriso amaro nella sua voce, subito seguito da uno sbadiglio. L’avevo distratta abbastanza dal pensiero di Dave da farle venire sonno. Patetica e noiosa: un altro bel colpo alla mia autostima. «Non cerco di tenere lui distante da me. Cerco di tenere me distante da lui e non sarebbe ironico, sarebbe surreale». Per evitare ulteriori danni alla mia psiche era meglio chiudere il discorso. «Ora mi metto a dormire. Domani non voglio presentarmi in classe con la faccia pesta. Buonanotte». Eileen sospirò, ma mollò la presa. «Scappa Em, tanto ti riprendo. Sogni d’oro». Soffiò una risatina e rotolò su un fianco in cerca di una posizione più comoda. Dopo qualche minuto sentii il suo respiro leggero e regolare unirsi a quello di Constance. Io, al contrario, cercavo di prendere sonno su un letto di spine. Alec. Ancora Alec. Sempre Alec. Avrei mai smesso di pensare a lui? Mi sarebbe ata prima o poi? A volte pensavo che sarei diventata una di quelle vecchie zitelle che ano le giornate baciando la foto del fidanzato morto in guerra. Con la differenza che Alec non era il mio fidanzato e la cosa mi avrebbe resa ancora più patetica e pazza. Solo i matti hanno fidanzati immaginari. Confidarmi con Eileen non aveva dissipato le nuvole. Se Alec avesse capito che la situazione era cambiata, che non potevo più definirmi sua amica senza sentire un nodo alla gola grosso come un pugno? Avrebbe giustificato lo strano comportamento di quel giorno. Come poteva essere accaduto? Ero stata attenta a non far trapelare nulla. Da quando l’avevo capito, anzi elaborato, mi ero impegnata in maniera maniacale a condurre un comportamento che apparisse normale. Non solo di fronte a lui, ma

anche con Sam. Ero convinta di essere riuscita, ma se mi fossi sbagliata? Se a lungo andare ci fosse arrivato? Forse Sam l’aveva capito e glielo aveva fatto notare. No, impossibile. Non mi avrebbe mai tradita in quel modo. Me ne avrebbe parlato, avrebbe chiesto spiegazioni e se fosse stato Alec ad avere dei sospetti, gli avrebbe tolto il dubbio scoppiandogli a ridere in faccia. Sam non avrebbe preso sul serio un‘ipotesi del genere. Era convinto che mai avrei potuto tradirlo. Perché di tradimento si trattava. Rovinare la nostra amicizia, scompigliare gli equilibri che avevamo faticosamente conquistato. Mettere fine a quel periodo felice. E tutto per una cotta. La Emma che Sam conosceva e a cui voleva bene non sarebbe stata così stupida ed egoista. Già. Egoista sì, se avessi avuto delle speranze. Molto egoista. Non senza tormento. Stupida, però, no. Non ne valeva la pena. Avevo troppo da perdere e la certezza di non avere la minima possibilità, mi aiutava a portare avanti il mio piano. Con parecchio tormento. L’avevo capito alle soglie dell’adolescenza. Fino a quel momento non avevo visto quello che per Eileen era sempre stato ovvio. Me lo aveva fatto notare in occasione del mio primo ballo delle ragazze. Avevo quattordici anni, lei quindici. Ce ne stavamo in giardino a goderci il primo sole primaverile. Eileen si dondolava sulla nostra vecchia altalena, io leggevo un libro sdraiata sull’erba. Il terreno era umido, ma la temperatura dell’aria piacevole. A un tratto mi aveva domandato a bruciapelo se avessi chiesto ad Alec di accompagnarmi al ballo. L’avevo guardata stralunata. Non capivo. «É una buona occasione, no?». Mi osservava attenta, cercando di interpretare la mia confusione.

«Una buona occasione per cosa?». Il mio tono si era fatto tagliente. Quel discorso mi metteva a disagio. Rifletté, indecisa se parlare o meno. Optò per parlare, ma con la delusione nella voce. «Pensavo ti fidassi di me, che me ne avresti parlato». Cosa stava blaterando? «Del ballo, Eileen? In quale universo parallelo credi esista una versione di me che invita qualcuno ad andare a uno stupido ballo?» dissi ridendo. Mi aveva ammorbidita con la storia della fiducia. Certo che mi fidavo di lei: era mia sorella. L’adoravo. Non glielo dicevo abbastanza spesso. Anzi non glielo avevo mai detto, perché davo per scontato che lo sapesse. Esitò prima di rispondere, come se esprimere ad alta voce i suoi pensieri non fosse una brillante idea. Non era da lei sentirsi insicura. Sollevò lo sguardo per studiare la mia reazione. I suoi stupefacenti occhi verdi mi osservavano inteneriti. «Non parlavo del ballo, Em. Mi riferivo al fatto che sei innamorata di lui». Boom. Annaspai per un minuto interminabile di fronte a una verità così lampante. Solo chi mi osservava da vicino poteva vedere quello che non ero in grado di capire da sola. Solo mia sorella. Ci avevo vissuto dentro dal giorno della festa di Cinthya Wright. Da quando lui aveva allungato la mano sotto il tavolo del salotto e mi aveva salvata. Mi aveva tratta in salvo prima che annegassi. Non ne avevamo mai parlato e con il are degli anni mi ero convinta che qualunque cosa fosse successa quel pomeriggio era accaduta soltanto a me. Poco importava in fin dei conti. Custodivo il ricordo della sua mano nella mia, della scossa leggera, del suo dito posato sulla mia bocca per zittirmi. Quelle sensazioni, ancora così nitide nella mia memoria, non avevano un nome preciso, una definizione distinta. Ponevano Alec a un livello diverso rispetto a tutte le persone a cui volevo bene, ma non avevo mai collegato quei sentimenti al concetto di amore. Per me era Alec. Alec e basta.

Non che mi sfuggisse quanto fosse bello, brillante, intelligente e gentile. Sarebbe stato fin troppo facile innamorarsi di lui. Metà delle ragazze della scuola si erano prese una cotta e sospiravano vedendolo camminare al mio fianco per i corridoi. Al mio fianco da sempre. Forse il problema era stato proprio quello. Mi ero abituata. Non a lui, certo. Mi ero abituata al fatto di essere innamorata di lui. Era una cosa che faceva talmente parte di me, un sentimento che c’era sempre stato da non rendermi conto di quanto fosse cresciuto negli anni. Come il mio talento speciale. Ci convivevo da quando ero nata e non ci facevo più caso. C’era un altro elemento da considerare. Anche se ne fossi stata consapevole dal primo momento, l’avrei ignorato o almeno avrei cercato di farlo. Non avevo il diritto di sperare che Alec ricambiasse i miei sentimenti. Per lui, come per Sam, sarei rimasta sempre la bambina con il piumino rosa, impacciata e silenziosa. La sorellina da proteggere. Non mi avrebbero mai visto come una vera ragazza. Senza contare che lui era decisamente troppo per me. Nessuno a scuola aveva mai dato l’impressione di essersi accorto della mia esistenza. La cosa non mi stupiva, ma non mi spingeva certo a pensare che sarebbe stato il migliore di tutti a notare che stavo diventando una donna. Lo stesso ragazzo che mi aveva sotto gli occhi da una vita, che conosceva i miei difetti, che mi aveva vista cadere dalla bicicletta, sbucciarmi le ginocchia e sporcarmi di gelato al parco? Utopia. Ogni volta che ripensavo a quel pomeriggio in giardino non potevo evitare di irritarmi con Eileen. Se fosse stata zitta non me ne sarei mai accorta. Avrei continuato a credere di volergli bene solo perché era stato per pochi istanti il mio salvatore. Invece di sentirmi bruciare ogni volta che mi sorrideva, di impedirmi di toccarlo quando mi camminava accanto. Mi ero imposta una serie di comportamenti molto rigidi, che osservavo scrupolosamente. Non guardarlo se non quando mi rivolgeva la parola e soprattutto non toccarlo. In nessun modo, per nessun motivo. Poteva capitare che Sam mi spettinasse i capelli, mi abbracciasse in un momento di euforia o mi offrisse la mano per superare un ostacolo. Erano rari, ma c’erano.

Quando si trattava di Alec facevo di tutto per evitarli. Avevo il terrore di tradirmi, arrossendo o ricambiando il gesto con troppo fervore, ma soprattutto perché il mio corpo reagiva in maniera inaspettata. Ogni volta che mi ero trovata a contatto con lui una scossa leggera mi aveva attraversato il corpo dalle dita dei piedi fino alla punta dei capelli. Era impossibile che non se ne fosse mai accorto. Una volta i, poteva valere la scusa dell’elettrostaticità, ma dover giustificare il fenomeno ogni volta sarebbe stato imbarazzante. Per il resto prestavo attenzione a non trattarlo troppo diversamente rispetto a Sam, perché anche quello sarebbe risultato strano. Mantenevo un atteggiamento leggermente canzonatorio con entrambi e la mia conversazione scorreva sciolta, senza intoppi. Almeno nella maggior parte dei casi. Frequentavamo parecchie lezioni insieme, i nostri piani di studio erano pressoché identici e in classe non trovavo troppo difficile relazionarmi a loro. Per lo più prendevo appunti o quando si presentava l’occasione, intervenivo distrattamente alle loro conversazioni. Con Sam presente era più facile mantenere il controllo. Era una specie di ago della bilancia: mi aiutava a tenere in equilibrio i due piatti. A scuola, quindi, il problema si presentava di rado, perché difficilmente facevamo qualcosa che non comprendesse uno dei tre. Se non addirittura più persone come in pausa pranzo. Il nostro tavolo era parecchio affollato. Oltre a Eileen, Sam e Alec si erano aggiunti di recente altri commensali: Dave Peterson, compagno di basket di Alec, Anita, sorella di Sam nonché migliore amica di Connie e Madison Summers. Avevo conosciuto Madison al corso di recitazione e avevo legato con lei senza sforzo. Era simpatica, divertente e molto carina. Il pranzo era il momento che preferivo della giornata e durante il quale mi concedevo qualche strappo alla regola. Capitava che mi sedessi accanto a lui e da quella posizione potevo lanciargli qualche occhiata di sottecchi. Sempre con molta cautela.

Non mi sarei mai azzardata a oltreare la linea di sicurezza tracciata con tanta fatica, rischiando di vanificare i miei sforzi. La mia vita procedeva così da due anni. Mi trascinavo in quell’amore infelice e segreto, senza concedermi il lusso di sospirare o aggirarmi depressa per i corridoi come una normale sedicenne. Se l’avessi fatto, avrei scatenato la preoccupazione dei miei amici che mi avrebbero dato il tormento fino a farmi confessare. Così avevo imparato a mettermi sulla faccia un bel sorriso a trentadue denti e a ciarlare di sciocchezze dalla mattina alla sera. Le mie non erano le uniche regole in circolazione. Ne esistevano altre, sottointese, che avevano fissato fin dall’inizio i confini della nostra amicizia. Regola numero uno: niente discorsi da mocciose. Alec li definiva così da quando eravamo bambini e in questo modo evitavo il rischio di incappare in imbarazzanti conversazioni in merito a quale ragazzo della scuola mi pie o, ancora peggio e ancora più doloroso, quale ragazza della scuola pie a lui. Sam contravveniva spesso a questa regola senza chiedere nulla in cambio. Se avessi avuto bisogno di parlare l’avrei trovato lì, dov’era sempre stato e mi avrebbe offerto una spalla su cui piangere. Avrei voluto poterlo fare, ma non avevo scelta. Potevo costringere Sam a tenere nascosta una cosa del genere al suo migliore amico? Chiedergli di scegliere a chi essere fedele? Non lo meritava e gli volevo troppo bene per infliggergli un castigo simile. La pena era mia e solo mia. Nessuno avrebbe dovuto pagarne lo scotto. Ogni tanto mi sfogavo con Eileen, perché non prendeva la situazione troppo sul serio. Era convinta che si sarebbe risolta, quindi non se ne preoccupava. L’unica a stare male ero io ed era ciò che desideravo. La strada intrapresa, però, non era priva di ostacoli. C’era il ballo, ad esempio, e non era l’unica questione spinosa da considerare.

C’erano giornate come quella. Giorni in cui Alec si comportava in maniera incomprensibile e metteva un oceano di indifferenza e silenzio in mezzo a noi. Un oceano in cui mi sembrava di annegare. Vedevo concretizzarsi le mie paure: Alec gelido e distante, consapevole di ciò che provavo. Alec che mi diceva imibile che non potevamo più essere amici, perché non ero stata sincera e avevo perso la sua fiducia. Il danno e la beffa. Perdere tutto mentre facevo tutto per non perderlo. Ero stata attenta, riservata, discreta. Avevo protetto il mio segreto con le unghie e con i denti. I miei segreti. Sapere di avere come amica una strega non mi avrebbe fatto guadagnare punti. Eileen aveva ragione. Erano solo mie paranoie: forse ero stata troppo fredda nell’ultimo periodo e la mia indifferenza lo aveva irritato, perché immotivata. Immotivata per lui, non per me. La faccenda del ballo mi rendeva nervosa. Nessuno mi avrebbe invitata e per nulla al mondo avrei invitato qualcuno a mia volta. L’unico con cui desideravo andare era irraggiungibile e non mi sarei accontentata di un surrogato. Senza contare che prima avrei dovuto trovarne uno. Se fossi stata libera di scegliere sarei rimasta a casa a guardare un film, ma la cosa era fuori discussione. Sam e Alec non lo avrebbero mai permesso. Avrebbero rinunciato piuttosto che lasciarmi a casa da sola ed era quello che volevo evitare. Sarebbe stato umiliante, anche se una piccola parte di me gongolava al pensiero di tenere Alec lontano dalle braccia di qualche cheerleader. L’unica soluzione era aspettare. Se come gli altri anni i miei amici non avessero invitato nessuna ragazza, ci saremmo andati insieme. In caso contrario mi sarei inventata una scusa. Era già abbastanza patetico presentarsi con i due amichetti del cuore, andare con i suddetti amichetti e le loro consorti sarebbe stato insopportabile. Sbadigliai. Il sonno iniziava a prendere il sopravvento. Le preoccupazioni per il ballo, le rivelazioni del pomeriggio si confo con le immagini fluttuanti dei sogni, trascinandomi da uno stato di dormiveglia a un sonno più profondo.

Quella notte sognai mio padre. Era ovvio, scontato. Sapevo dal quando ne avevo parlato con la nonna, che il mio subconscio non me lo avrebbe risparmiato. I ricordi, che riuscivo a imbavagliare quando ero sveglia, appena intravedevano uno spiraglio ci si buttavano a capofitto. Esondavano nei sogni. Quella volta, però, fu diverso. C’erano gli stralci dei soliti momenti d’infanzia, ma anche un’immagine nuova che non avevo mai visto, sebbene sembrasse famigliare come un ricordo. Mio padre più maturo, sempre bellissimo ma più uomo. Non il ragazzo che ricordavo. Ci trovavamo nella mia stanza, non riuscivo a capire se fosse giorno o notte. Le persiane erano chiuse e dalla finestra non entrava nemmeno uno spiraglio di luce, solo un grigiore pallido si appoggiava alle cose delineandone i contorni. Forse era sera. Forse era un momento della giornata che non esisteva. Nei sogni tutto è possibile. James era chino sul mio letto, il volto contratto dalla tensione e dal dolore. Lo sentivo mormorare qualcosa, ma non ero abbastanza vicina da udirlo chiaramente. Mi mossi verso di lui, realizzando con sgomento di non essere in grado di muovere un solo muscolo. Avrei voluto domandargli cosa stava succedendo. Cosa ci faceva nella nostra camera? Perché era tornato? Dov’era mamma? Stava bene? Aprii la bocca per parlare, ma non uscì alcun suono. Cominciai a farmi prendere dal panico. Desideravo che mi abbracciasse per avere conforto, ma ero inchiodata al letto. Poi sentii pronunciare il mio nome. Non era la voce di mio padre. Era la voce di Alec. «Emma, sono qui. Emma amore, mi dispiace. Perdonami». Sussurri addolorati, pieni di sensi di colpa. Cosa dovevo perdonargli? Perché non riuscivo a parlare, a muovermi? Non riuscivo nemmeno a vederlo.

La luce pallida era sparita, sostituita da un buio nero e vischioso come pece. Volevo raggiungere Alec, cancellare la nota disperata dalla sua voce. Non avevo niente, niente da perdonargli. Non potevo sopportare di sentirlo soffrire. Stavo per chiedere aiuto a mio padre, perché mi strape dal buio e mi aiutasse a trovare Alec, quando mi svegliai. Mi ci volle un po’ per capire dove mi trovavo e che giorno fosse. Il ricordo del sogno era ancora vivido e risvegliarmi nello stesso luogo che mi aveva intrappolato e angosciato non aiutò a riprendere contatto con la realtà. Mossi lentamente le dita della mano. Risposero subito al comando del mio cervello. Sbattei le palpebre e le ultime ombre, che lambivano i margini della mia mente, svanirono. Sollevai la testa per vedere che ora fosse. Presto, ma non troppo. Mi sarei potuta alzare prima e avere il bagno tutto per me. Avere degli incubi aveva i suoi vantaggi. Mi alzai dal letto e cercai i vestiti e la biancheria facendo il meno rumore possibile. Se avessi svegliato le mie sorelle sarebbero stati guai. Eileen sarebbe stata intrattabile tutto il giorno e Constance avrebbe cominciato a litigare per avere la precedenza sul bagno. Uscii dalla stanza con o felpato, attenta a non far scricchiolare le assi del pavimento e mi diressi verso il bagno. Kate e Miranda usavano quello più grande nella parte ovest della casa, dove si trovavano le loro camere. ai davanti alle scale che portavano al piano di sotto. Sentii il tintinnio leggero delle tazze provenire dalla cucina e il profumo del caffè diffondersi per tutta la casa. Caffè italiano, fatto con la moka. Mamma doveva aver ato una nottataccia. Mi trovavo davanti alla porta della sua camera quando qualcosa d’inaspettato mi inchiodò. Un profumo familiare aleggiava nell’aria e mi arrivò dritto al cervello. Non trovò riscontro. Per quanto mi sforzassi non riuscii a collegarlo a qualcosa o a qualcuno.

Scrollai la testa per scacciare via quel pensiero. Non era sano cominciare la mattinata con ricordi, misteri o altra robaccia del genere. Era necessario darci subito un taglio. Forse era stato l’odore del caffè o l’aria primaverile che proveniva dalla finestra aperta della camera di mamma. Forse ero suggestionata dall’incubo che avevo fatto. Non aveva importanza. Avrei fatto la doccia e mi sarei preparata per andare a scuola. I fantasmi del ato era meglio lasciarli dove si trovavano. Nei miei incubi.

Una giornata di scuola

Emma

Ero pronta per la colazione. Non facevo mai caso a ciò che mettevo per andare a scuola e avevo deciso in fretta cosa indossare. Polo blu e jeans andavano più che bene. Raccolsi i capelli nella solita coda e scesi in cucina. Le mie sorelle si erano svegliate mentre finivo di vestirmi e avevano iniziato a litigare per il bagno. Alzarsi prima era stata un’ottima idea. Al piano di sotto trovai Kate. Aveva preparato la colazione per noi e stava finendo di bere il suo caffè. Le chiavi della macchina erano già sul tavolo. Sarebbe uscita da casa di lì a pochi minuti. Le piaceva arrivare a scuola di buon’ora. Aveva il tempo di sistemare le ultime cose e di godere dei rari attimi di pace nelle aule e nei corridoi. Mamma adorava il suo lavoro, ma gli adolescenti sapevano essere irritanti. Quel momento mattutino di tranquillità le dava la carica per il resto della giornata e le permetteva di sfuggire alle nostre liti da preparativi. «Buongiorno, tesoro. Come mai sei già pronta?» chiese stupita. Aveva l’aria stanca ma serena. Sembrava di buon umore. La camicetta bianca le metteva in risalto la pelle ambrata e gli occhi scuri e luminosi. Aveva raccolto i capelli con un fermaglio e indossava i pendenti d’argento regalati da papà per il loro primo anniversario di matrimonio. Metteva di rado quegli orecchini, indossarli la rendeva malinconica. Ancora una volta mi stupii di quanto fosse bella e di come il tempo sembrasse non are per lei. «Ho fatto un brutto sogno e mi sono svegliata presto». Sbadigliai e mamma rise. La osservai con più attenzione, ma la mia occhiata la innervosì e ruppe il silenzio per distrarmi. «Ne vuoi parlare?». Appoggiò la tazzina sulla tavola e allontanò la sedia cercando una posizione più comoda. Avrebbe sacrificato il suo momento preferito per ascoltare i miei turbamenti notturni. Non potevo permetterlo e sarebbe stato davvero poco gentile da parte mia rovinarle l’umore. Sarebbe successo senz’altro se avessi esordito dicendo: «Ho sognato papà chino sul mio letto, addolorato e terrorizzato e Alec che implorava il mio perdono».

La presenza di Alec le sarebbe piaciuta ancora meno. Mamma non riusciva ad accettare il fatto che stessimo crescendo ed era a dir poco sospettosa nei confronti dei ragazzi che ci giravano intorno, amici o fidanzati che fossero. Non era proprio il caso di raccontarle il mio incubo. «No, grazie. Non preoccuparti mamma, non è stato uno di quei sogni» aggiunsi per rassicurarla. Già, i sogni. Alcuni mesi prima avevo scoperto che i segreti non erano il mio unico asso nella manica. Si era aggiunta anche la faccenda dei sogni premonitori. Non che avessi previsto grandi cose: qualche incidente domestico e una nevicata straordinariamente fuori stagione. Niente di più. L’incubo di quella notte non faceva parte della categoria “cartoline dal futuro”, dato che era presente mio padre e Alec aveva fatto seguire la parola amore al mio nome. Fantascienza. «Non lo ricordo nemmeno. È svanito appena ho aperto gli occhi. Avrò sognato il compito di matematica o il ballo di fine anno». Feci una smorfia per sottolineare la parola “ballo”. Tanto per ricordare a mia madre che le occasioni mondane non facevano per me. Per tutta risposta sospirò. «Immagino tu ritenga questi eventi scolastici al di sotto della tua intelligenza, ma sono esperienze che non torneranno e con il are degli anni ti pentirai di non averle vissute come si deve» disse vagamente preoccupata. Si alzò per riporre la tazzina nel lavello. Indossò la giacca, afferrò le chiavi e mi baciò sulla fronte. «Buona giornata tesoro. Salutami le tue sorelle e fate le brave. Ci vediamo più tardi». Si diresse verso la porta sul retro, l’uscita della casa più vicina al garage. Aveva un piede sull’uscio quando si voltò e mi studiò con una strana apprensione negli occhi. «Emma?». Sembrò esitare, indecisa se uscire o parlare. «Uhm?» risposi con la bocca piena, perché nel frattempo avevo addentato un biscotto. Fece un cenno di diniego con la testa. «No, niente. A più tardi» e uscì. La sentii mettere in moto la macchina e percorrere il vialetto.

Girai pensosa il cucchiaio nella tazza. Mi sentivo pizzicare la base del naso e non era un buon segno. Con il tempo avevo imparato a interpretare quel piccolo prurito e poteva significare solo una cosa: mamma aveva un segreto. Un segreto che riguardava me. Era stata sul punto di parlarmene, ma qualcosa le aveva fatto cambiato idea. Riguardava le rivelazioni del pomeriggio precedente? Scossi la testa e cercai di non pensarci. Dovevo imparare a essere paziente. Kate e Miranda avevano promesso che presto ne avrebbero parlato e al momento c’erano problemi più stringenti. Come si sarebbe comportato Alec quel giorno? Sarebbe stato ancora gelido e distante? Ero impaziente di arrivare a scuola. Desideravo vederlo e scacciare il dubbio che mi tormentava. Se davvero il giorno prima era stato preso dai fatti suoi, l’avrei capito. Sperai che le mie vanitose sorelle si dessero una mossa. Dovetti aspettare una buona mezz’ora prima che fossero pronte, ma alla fine varcammo la soglia dirette verso la fermata dell’autobus. Eravamo addirittura in anticipo. Né Sam né Alec si trovavano alla fermata e una morsa mi strinse lo stomaco. Era molto peggio di quanto avessi immaginato. Avevano scoperto tutto? Erano talmente furiosi con me da non sopportare nemmeno di prendere lo stesso autobus? Mi stavano evitando? Camminavo abbattuta, immersa in quei tristi pensieri, quando sentii suonare un clacson alle mie spalle. Mi fermai e guardai la macchina che procedeva a o d’uomo lungo il marciapiede: una vecchia Subaru station wagon verde con i finestrini abbassati. Al volante c’era Sam traboccante di soddisfazione. Alec, al posto del eggero, faceva cenno di avvicinarci. Non erano arrabbiati, erano automuniti. Mi venne da piangere per il sollievo. Alec mi lanciò un’occhiata interrogativa. Tutta quella commozione per una macchina doveva sembrargli esagerata. «Le Hataway hanno bisogno di un aggio?». Non aveva finito di formulare la frase che le mie sorelle erano già salite in macchina. Mi fiondai dietro di loro.

«Quando hai finito di sistemarla? È fantastica!» domandai, saltellando sul sedile posteriore al colmo della gioia. Sembrava l’inizio di un giorno perfetto. «L’ho finita sabato scorso, ma volevo farvi una sorpresa. Ti piace? Alec ed io ne siamo già innamorati». Era raggiante. Continuammo a parlare della macchina fino a scuola. Sam parcheggiò nel primo stallo libero e ci dirigemmo verso il vecchio edificio giallognolo per affrontare un’altra giornata di lezioni. Salutai le mie sorelle e Sam, mentre insieme ad Alec mi incamminai verso l’aula dell’unico corso che seguivamo senza il nostro amico: trigonometria. Come se la mia connaturata antipatia per la materia non fosse sufficiente a distrarmi dalle lezioni del professor Graham. Trigonometria. Soffocai un gemito e mi bloccai in mezzo al corridoio a pochi i dal mio armadietto. Con tutto il casino delle streghe e di Constance mi ero dimenticata di fare le espressioni assegnate per casa e non avevo il tempo di copiarle da Alec. Lui ovviamente era un asso in trigonometria. Sbattei più volte la fronte contro lo sportello rosso del mio armadietto. Ero davvero nei guai. Se il professore mi avesse chiamata alla lavagna per risolvere l’esercizio, avrei fatto la figura dell’idiota e avrei abbassato la mia media già abbastanza imbarazzante. «Em, cosa succede?» La voce più bella del mondo era preoccupata e usciva dalla bocca più perfetta che avessi mai visto a pochi centimetri dal mio orecchio. Sussultai per la sorpresa. Quando era così vicino, mi sembrava di avere i riflessi più lenti come se mi muovessi in assenza di gravità. Sollevai la fronte e mi girai appoggiando le spalle alla fila di armadietti, lasciandomi scivolare a terra. Alec sedette subito accanto a me. Gli occhi

spalancati e ansiosi, in attesa di una risposta. «Ho dimenticato di fare i compiti per casa». Lo guardai avvilita, sicura che presto mi sarei immolata sull’altare della matematica. Mi fissò per una frazione di secondo per capire se stessi parlando sul serio. Poi scoppiò a ridere. Buttò indietro la testa di capelli neri disordinati, scoprendo i denti perfetti, aprendo le labbra pallide e piene. Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso. Guardavo il suo profilo, la mascella regolare, il naso diritto, il taglio sottile degli occhi. Ero ipnotizzata. Cercai di riavermi. Strizzai gli occhi, imponendomi di guardare davanti a me. A volte funzionava: se me lo toglievo dalla vista, riuscivo a riprendere il possesso delle mie facoltà mentali. Il via vai del corridoio si faceva sempre più frenetico e molto presto sarebbe suonata la camla della prima ora. Mi concentrai sui dettagli. Sulle borse che vedevo are. Sulle facce che ci guardavano perplesse. Su Jacqueline Mayer che mi fissava con un misto di fastidio e superiorità. Che cavolo voleva da me Jackie Mayer? Poi fissò Alec per attirare la sua attenzione e salutarlo, ma si era alzato proprio in quel momento dandole le spalle. In piedi davanti a me tendeva la mano per potermi sollevare da terra. Jackie mi lanciò un’occhiata tagliente e strinse le labbra riducendole a una fessura. Fu costretta a proseguire a bocca asciutta. Gongolai compiaciuta prima di alzare lo sguardo verso Alec, che aveva ignorato lei per aiutare me. Mi sentivo spaccata in due. Volevo, volevo, volevo toccarlo. Con tutte le mie forze desideravo sentire la sua mano nella mia, ma allo stesso tempo temevo che se l’avessi fatto avremmo preso la scossa. Vinse la parte di me che voleva, voleva, voleva.

Stupida, debole Emma. Solo in quel momento feci caso a come era vestito. Indossava una t-shirt grigio chiaro e la mezza manica lasciava scoperto l’avambraccio. Non potei fare a meno di fissarlo quando fletté il muscolo per tirarmi su da terra. Due tipi diversi di scosse mi attraversarono. Quella abituale del contatto, che risuonò con insolita energia per tutto il corpo e una nuova che mi fece arrossire. Una volta in piedi liberai in fretta la mano stretta nella sua e recuperai i libri dall’armadietto. Nascosta dall’anta rossa, emisi un profondissimo respiro. Accidenti a me e alle scosse. Perché faceva così maledettamente caldo? Avevo un problema, un problema vero: i compiti per casa. Era meglio concentrarsi su quello e lasciar perdere avambracci e strette di mano. Senza accorgermene sbattei con violenza l’anta dell’armadietto. «Dai, non fare quella faccia! Mi offrirò volontario, okay? Graham ti lascerà in pace». Aveva un tono divertito, canzonatorio. Se la sava il genio della matematica. Recuperai un briciolo di autocontrollo e farfugliai un grazie. «Andiamo, la prima camla è già suonata. Dai a me» disse prendendomi i libri. «Sei sicura di sentirti bene? Sei più strana del solito». Alec non era apprensivo come Sam, ma le mie bizzarre reazioni lo divertivano molto di più. Aveva un sorriso indecifrabile sulle labbra. Camminava lentamente, adattando il suo o al mio. Mi superava in altezza di almeno una ventina di centimetri. Chissà che noia per lui camminare a o di lumaca. «Sono solo stanca. Non ho dormito bene questa notte, ho fatto un sogno orribile» balbettai a mo’ di scusa. Si fermò all’improvviso. L’aria divertita era stata spazzata via da un’intensa curiosità, quasi ansiosa. «Cosa hai sognato?» chiese su due piedi. Che cavolo avevano tutti quella mattina? Avevo fatto un incubo, non era la fine del mondo.

Sarei uscita volontaria in trigonometria piuttosto che raccontargli il mio sogno. Per fortuna non avevo bisogno di rischiare tanto. Mi bastò alzare le spalle con disinvoltura e dire che non lo ricordavo. Annuì distratto mentre mi teneva aperta la porta dell’aula. Tutto filò liscio come l’olio. Alec si offrì volontario e si dimostrò all’altezza delle domande del professor Graham, strappandogli un ottimo voto. Finita la lezione, raggiungemmo Sam a Biologia. Il resto della mattinata trascorse tranquillo e arrivò presto l’ora di pranzo. Occupammo il nostro tavolo e gli altri ci raggiunsero ad eccezione di Eileen e Dave, che preferirono stare per i fatti loro. Avevano un sacco di cose da dirsi e da non dirsi. Guardai in direzione di mia sorella e mi lasciai sfuggire un sospiro impercettibile. Madison seduta accanto a me lo sentì e sorrise comprensiva prima di sollevare gli occhi su Sam. Interessante. Non ero l’unica ad avere un amore segreto. Possibile che non me ne fossi accorta prima? Mads, oltre ad essere una mia amica, era perfetta per Sam. La guardai meglio per cercare in lei i miei stessi sintomi. Non sembrava avere i miei problemi di autocontrollo. Appariva tranquilla, sorrideva con naturalezza e chiacchierava del più del meno. Non balbettava o arrossiva per un nonnulla. Insomma non risultava un’idiota completa come la sottoscritta. I capelli castano chiaro, lisci e lucenti, le sfioravano la schiena e gli enormi occhi verde acqua marina le illuminavano il viso dolce e regolare. Mads rideva e scherzava come sempre. Per questo la trovavo simpatica: vedeva il lato comico di ogni cosa e mi trovavo a mio agio con lei. Il suo senso dell’umorismo e la sua autoironia mi divertivano. Una schiappa melodrammatica come me aveva molto da imparare da lei. Era un tipo socievole e aveva il dono di mostrarsi a tutti per quella che era. Per tutti questi motivi Madison era l’unica ragazza della scuola con cui avevo stretto un rapporto di amicizia, eccezione fatta per le mie sorelle e per Anita, che era di famiglia quindi non contava. Le volevo bene e sarei stata contenta di aiutarla se si fosse confidata con me. Decisi che era una buona notizia e cercai di godermi il pranzo. Il cibo non era granché, ma Alec era seduto molto vicino a me per via delle dimensioni ristrette

del tavolo. Sentivo il suo calore e il suo profumo. Mi sarei concentrata soltanto su quello se non fossi stata costretta a rispondere alle domande che mi venivano rivolte. Alec raccontò della mia disavventura con i compiti di trigonometria e di come mi aveva tolto dai guai. Accompagnai il suo racconto con una serie di commenti sarcastici e alzando gli occhi al cielo di tanto in tanto. Conclusa la storia si voltò verso di me, il viso a pochissimi centimetri dal mio. «Cosa faresti senza di me?». Mi stava prendendo in giro, ma rispondergli a tono risultò difficile per la vicinanza inaspettata e per il significato che quella domanda aveva per me. Non sopravvivrei senza di te. «Farei i compiti per casa» risposi torva. Tutti scoppiarono a ridere, ma non mi unii a loro. Era irritante la sicurezza che dimostrava nei miei confronti. Nemmeno come amica ero certa di essere indispensabile per lui. La camla ci ricordò che era ora di tornare in classe. Mi alzai controvoglia, seguita da Madison e Sam che avevano la mia stessa lezione di letteratura inglese. Finsi di allacciarmi una scarpa lasciandoli proseguire da soli. Sam rideva per qualcosa che Mads stava raccontando e ogni tanto si ava la mano tra i capelli. Buon segno. Una punta d’invidia si fece spazio tra i miei pensieri. Madison era fortunata: poteva permettersi il lusso di provarci. Non era la sua migliore amica e soprattutto era abbastanza carina da sperare di piacergli. Magari di invitarlo al ballo o aspettarsi che lo fe lui. Cose che io non mi potevo nemmeno sognare. Emisi l’ennesimo sospiro della giornata e mi diressi verso l’armadietto per recuperare un quaderno che avevo dimenticato. Giunta a pochi i dalla meta qualcosa catturò la mia attenzione. Tre armadietti più in là, Jackie Mayer attorcigliava tra le dita sottili una ciocca di capelli biondo grano, divorando con gli occhi il ragazzo alto e moro con cui stava parlando e che mi dava le spalle.

Alto. Capelli neri, maglietta grigia. Jackie stava parlando con Alec. Solo allora capii l’occhiata che Jackie mi aveva lanciato quella mattina. Una delle ragazze più popolari e carine della scuola voleva Alec. Il mio Alec. Che meravigliosa notizia. Soffocai a stento un ringhio. Non stava con Charlie Thompson? Lui aveva capito con chi aveva a che fare e l’aveva scaricata? O viceversa, considerato la reputazione di Charlie. Quell’oca non ci aveva pensato due volte a buttarsi su Alec. Un’ondata di desolazione m’invase e mi crogiolai per un secondo nell’autocommiserazione. Come potevo competere con i capelli biondi, gli occhi azzurri, il fisico perfetto e la popolarità? Semplice: non potevo. Era una battaglia persa in partenza. Non bastavano gli ostacoli che esistevano tra di noi, dovevo anche fare i conti con una rivale praticamente perfetta e in cuor mio sapevo che Jackie non era nemmeno un’oca come mi piaceva pensare. Avevo parlato con lei in alcune occasioni e non era stupida. Molto al di sopra della media per essere una cheerleader. Mi trovavo abbastanza vicino da riuscire a sentire cosa si stessero dicendo e conoscevo Alec talmente bene da interpretare le sfumature della sua voce. Finsi di cercare qualcosa nell’armadietto con molta, molta calma. «Sei stato favoloso sabato scorso. Tutti quei tiri da tre… Abbiamo vinto grazie al tuo tocco magico». Jackie parlava colma di ammirazione, tutta fossette e sorrisini. Mossa sbagliata, carina. Alec odiava i complimenti. Pensava che nella maggior parte dei casi fossero falsi. «È stato merito di tutta la squadra» rispose imbarazzato. Guardò distrattamente l’orologio che aveva al polso. Aveva fretta, ma era troppo educato per liquidarla. «Certo» tagliò corto lei. «Mi chiedevo se avessi già chiesto a qualcuna di accompagnarti al ballo di fine anno. Charlie ed io ci siamo lasciati e ci tenevo a farti sapere che sono disponibile» disse accompagnando il tutto con il più

seducente dei sorrisi. Per lei si trattava di una semplice formalità: Alec le avrebbe chiesto di andare al ballo se avesse saputo che si era lasciata con Charlie. Le dita affusolate spostarono una ciocca di capelli dietro l’orecchio, piccolo e perfetto. Le mie infinite ricerche all’interno dell’armadietto dovevano apparire ormai più che sospette, ma non potevo andarmene. Dovevo sapere cosa le avrebbe risposto. Non avrei sopportato di rimanere con quel dubbio per cinque minuti, figuriamoci per giorni interi. Sentii lo stomaco schiacciarsi su se stesso e mi aggrappai con tutte le forze all’armadietto. Alec si strinse nelle spalle, imbarazzato. «Mi dispiace per te e Charlie» disse educato «ma sono già impegnato per il ballo». Fece una pausa e mi si fermò il cuore. Chi era la ragazza che Alec aveva invitato al ballo e perché non ne sapevo niente? Soprattutto: chi era preferibile a Jackie Mayer? «Andrò con Sam ed Emma. È una specie di tradizione e la rispetterò anche quest’anno» concluse con il sorriso nella voce. L’aria ricominciò a riempirmi i polmoni e mollai la presa sull’armadietto. Jackie m’incenerì con lo sguardo. Fu più forte di me, non riuscii a trattenere un sorrisetto di puro compiacimento. Non batté ciglio e si rivolse di nuovo a lui. «Divertiti con i tuoi amici, ma se cambiassi idea sai dove trovarmi» disse col sorriso sulle labbra piene, poi girò su se stessa con una mezza piroetta e si allontanò. Aggraziata e a testa alta. Dovevo ammettere che aveva incassato il colpo con stile. Richiusi l’armadietto, attenta a non far rumore. Non volevo che Alec si accorgesse che avevo sentito la conversazione. Stavo per sgattaiolare in direzione dell’aula d’inglese, quando mi sentii trattenere per la maglia. «Immagino che te la sarai sata». Beccata. Mi voltai. Mi osservava tra l’irritato e il divertito. Mi liberai dalla presa con

facilità e gli scoccai un’occhiataccia. «A quale momento della conversazione ti riferisci? Quello del tocco magico o quando ti ha raccontato della sua vita sentimentale? Perché penso che il primo sia stato di gran lunga il più esilarante». Meglio buttarla sul ridere. Era davvero imbarazzante, ma il mio umore era schizzato alle stelle. Non solo non esisteva nessuna misteriosa ragazza, ma avevo risolto anche il problema del ballo. «Sono contento che ti sia divertita alle mie spalle, mocciosa. Avresti potuto darmi una mano. Bella amica che sei». Parlava sul serio? Che cosa avrei dovuto fare secondo lui? «Oh sì, Alec sarei dovuta accorrere per salvarti da Jackie». Il mio tono voleva essere sarcastico, ma non ero così convinta che la cheerleader simil-californiana non fosse pericolosa. Almeno per me. «Non sembravi in difficoltà» aggiunsi torva. Mi fissò con attenzione come se si stesse concentrando su qualcosa. «Ti sbagli, voi ragazze siete davvero complicate. Non si può mai sapere come reagirete». Abbandonò l’espressione accigliata per una più compiaciuta. Come quella di chi ha appena risolto un rompicapo. Lo lasciai al suo compiacimento e volai in classe. Ero in ritardassimo. Per fortuna Sam mi aveva tenuto il posto. «Dov’eri finita?» disse in un soffio. Non feci in tempo a rispondere perché la professoressa Bishop ci fulminò con un’occhiataccia delle sue. L’ultima ora era se e considerata la mia scarsa propensione per le lingue avevo zero voglia di andarci. In corridoio incontrai Eileen. Raggiante. Ci incamminammo insieme verso i rispettivi patiboli. «Come è andata la tua pausa pranzo?» chiesi maliziosa. «Oh Em, è perfetto! È così dolce e simpatico e… bellissimo! Abbiamo parlato tanto e di moltissime cose. Ha insistito per portarmi i libri e mi ha sempre aperto la porta. Si è addirittura offerto di accompagnarmi a casa dopo la scuola, ma

credo che dirò a Connie di venire con noi. Non voglio che pensi di avermi in pugno, meglio tenerlo sulla corda». Fece una risatina. Le si leggeva in faccia che non ci credeva nemmeno lei. Era bello vederla così. Dave mi piaceva e sembrava il tipo giusto. Anche Sam e Alec lo trovavano simpatico e lo frequentavano spesso fuori da scuola. «Dunque ti rimane solo uno spinoso problema da risolvere. Trovare l’abito perfetto per il ballo e lasciarlo senza fiato. Non sarà difficile, qualsiasi straccio andrà bene. Non potrà resisterti». Mi sembrò quasi di vederla: bellissima ed emozionata sulla porta di casa, il suo cavaliere con la bocca spalancata. Gli avrebbe tolto il fiato. Tantissime emozioni mi si annodarono in gola. La felicità per Eileen, la malinconia per un momento così perfetto, la tristezza di non poterlo condividere fino in fondo con lei. Io non lo avrei mai avuto. Non così almeno. Mi pizzicarono gli occhi. Eileen se ne accorse e una smorfia di dispiacere le arricciò le labbra. «Em, scusami non avrei dovuto. Sono stata insensibile, mi dispiace». Alzai gli occhi al cielo per farle capire che aveva frainteso e stavo per parlare quando m’interruppe con aria decisa. «C’è una cosa che voglio dirti e te la ripeterò fino alla nausea: sei un’idiota se pensi che questa sia la cosa giusta da fare. Non puoi arrenderti senza aver provato». Si era fatta più apionata mentre procedeva nel suo discorso. C’era quasi da crederle. Quasi. «Devo andare Elle ho se e se aspetto un altro mezzo secondo non troverò abbastanza determinazione da entrare in classe. Sono davvero contenta per te. Non ti devi scusare o sentire in colpa. Ci vediamo a casa» la salutai con un bacio sulla guancia. Sapeva che non gliela avrei mai data vinta, nemmeno a parole. L’ultima ora di scuola durò un anno come tutte le lezioni di Miss Florant. I minuti sembravano non are mai e Jackie continuava a fissarmi bisbigliando qualcosa a Violet Roberts, compagna di banco e migliore amica. Davvero irritante. Mi consolò il pensiero di averla spuntata una volta tanto, anche se mi sfuggiva il perché: nessun maschio eterosessuale e sano di mente avrebbe rifiutato un invito da lei. Forse Jackie non era il suo tipo, il che coincideva alla perfezione con

l’idea che avevo di Alec. Era troppo modesto, troppo riservato per apprezzare una ragazza come Jackie. Non gli interessava la cheerleader trofeo da esibire davanti ai compagni di squadra. Esisteva sempre la possibilità che non gli piero le bionde oppure era innamorato di un’altra. Una ragazza che non lo ricambiava e per questo motivo si struggeva in silenzio come facevo io per lui. Chi poteva essere così idiota da lasciarsi sfuggire uno come Alec? Non trovai una risposta e decisi di non pensarci. Saremmo andati al ballo insieme come avevamo sempre fatto. Era quello che volevo. Perché preoccuparsi di qualcuno che forse nemmeno esisteva? Quelle elucubrazioni non facevano che aumentare la mia infelicità. Ero la peggior nemica di me stessa, la migliore alleata di Jackie Mayer. Avrei cercato un vestito decente e sarei andata alla festa. In fin dei conti erano momenti che non sarebbero tornati. Nemmeno per una strega come me.

Distanze di sicurezza

Alec

«Non dovevano solo salutarsi?» chiesi al culmine dell’irritazione. Sam mi rispose con il solito sorriso sornione. Nulla poteva turbare il pacifico Sam. «Sai come è fatta, si sarà persa in qualche discorso. Cos’hai? Sembri sui carboni ardenti». Nulla poteva sfuggire all’attento Sam. «Niente. Devo andare, ho allenamento». Distolsi lo sguardo da Emma e Madison che ridevano a una ventina di metri da noi. Guardai il mio amico e non potei fare a meno di notare in che direzione vagava il suo sguardo. «Madison è simpatica e piuttosto carina». A pranzo avevo intercettato delle strane occhiate. Anche Emma le aveva notate, gongolando all’istante. Avrebbe architettato di sicuro qualche manovra di avvicinamento. «Non provarci, fratello. Non ho intenzione di fare questa conversazione con te. Non adesso» sorrise tra sé. Il contrasto tra quello che aveva detto e l’espressione della sua faccia era davvero comico. «Potresti invitarla al ballo. Mi creerebbe un certo imbarazzo, perché ho detto alla Mayer che sarei andato con te ed Emma, ma sono disposto a sorvolare se deciderai di fare il grande o». Sam non si lasciò ingannare dal mio tono disinvolto e mi lanciò un’occhiata carica di disapprovazione. «Hai rifiutato un invito di Jackie Mayer? Tu sei pazzo Alec. Si può sapere perché? Anzi no, lo so il perché e… ». Non lo lasciai terminare. Non volevo parlarne con Sam. Non volevo parlarne con nessuno. «Non provarci fratello. Non ho intenzione di fare questa conversazione con te. Non adesso» lo rimbeccai. Sam scosse la testa e alzò gli occhi al cielo. Madison ogni tanto lanciava brevi occhiate nella nostra direzione. Il mio amico era più discreto, ma non meno insistente. Erano i primi i quelli. I primi momenti di una storia tra persone normali. Il mio umore già abbastanza nero, peggiorò. Era stata una giornata complicata. Avevo bisogno di esercizio fisico e di fare un allenamento massacrante per sgombrare la mente. Avevo bisogno di una doccia

ghiacciata che mi togliesse di dosso tutta la tensione accumulata. Starle accanto era stato quasi impossibile. Fin dal mattino quando le avevamo dato un aggio in macchina. Un momento prima era depressa e angosciata, l’istante dopo il suo umore era schizzato alle stelle. Mi erano venute le vertigini. Poi c’era stato l’episodio dell’armadietto. Orientarmi in quel groviglio di emozioni mi aveva fatto venire il mal di testa. Era ata dall’ansia al sollievo nella frazione di un secondo, dalla tristezza alla gioia in un battito di ciglia. E io avevo percepito tutto. Ogni sfumatura, ogni sospiro, ogni sbalzo d’umore. Dal giorno della festa di Cinthya Wright era come se le emozioni di Emma risuonassero dentro di me come un’eco. Sentivo quello che lei sentiva. All’inizio capitava di rado. Solo con le emozioni forti e improvvise, ma con il are degli anni ero diventato più sensibile e riuscivo a percepire molte più cose. Capitava anche con Sam, ma in modo diverso. Conoscevo il mio amico meglio di me stesso e potevo immaginare senza difficoltà cosa lo avrebbe fatto arrabbiare, lo avrebbe reso felice o lo avrebbe spaventato. Con Emma niente immaginazione. Sapevo cosa provava, perché una parte di me lo sentiva. Quella mattina mi aveva inchiodato quando si era ricordata di non aver fatto i compiti. Il minuto in cui avevo aspettato che mi dicesse cosa la preoccupava tanto era stato in assoluto il peggiore della giornata. Avevo pensato che sarei impazzito per l’ansia. Scoprire che si trattava solo dei compiti di trigonometria… Ero scoppiato a ridere tanto mi ero sentito sollevato. Troppo sollevato. Avevo abbassato la guardia e per poco non avevo commesso un errore. La colpa non era stata interamente mia. Emma aveva fatto la sua parte. Quando le avevo offerto una mano per rialzarsi non potevo immaginare che avrei scatenato una reazione del genere. Alle scosse ero abituato, non m’impressionavano più. Sapevo cosa aspettarmi. Avrei fatto finta di niente. Come sempre. Ma quella mattina non era andata come sempre. Si era aggiunto qualcosa di

diverso. Un calore, una tensione verso di me che non avevo mai percepito prima in lei. Emma ne era rimasta confusa, ma io no. Era una sensazione che conoscevo bene. Qualcosa contro cui combattevo tutti i giorni. Il desiderio. Solo l’ombra di ciò che provavo, ma sempre di desiderio si trattava. Ed era bastato. Se non fossi la persona più determinata sulla faccia della terra avrei ceduto all’istante. In quel momento. In corridoio, un minuto prima che suonasse la camla. Davanti a tutta la scuola. Avrei rovinato tutto. Eppure non mi era sembrato così orribile mentre la parte più debole di me prendeva il sopravvento. Sarebbe stato facile. Dopo averla sollevata da terra sarebbe bastato tirarla verso di me. Lei avrebbe appoggiato la mano sul mio petto, mentre le cingevo la vita. Sarebbe stata così vicina. Mi sarebbe bastato il dito di una mano per sollevarle il mento e avvicinare il suo viso al mio… Ma ce l’avevo fatta. Ero stato capace di resistere. Per tenere occupate le mani avevo portato i suoi libri. Poi se ne era uscita con quella storia del sogno. Una coincidenza inquietante: anch’io avevo fatto degli incubi la notte precedente. Emma nel suo letto. Non reagiva, non si muoveva, non parlava. La cosa peggiore era stato il senso di colpa atroce che provavo. Avrei voluto saperne di più, ma non ero riuscito a cavarle di bocca una sillaba. Non sembrava avergli dato troppa importanza e di riflesso mi ero tranquillizzato anch’io. C’era ancora qualcosa di ciò che facevo che non fosse in relazione a lei? Ah sì, giocare a basket. Il pensiero dell’allenamento mi riportò alla realtà. Anche Sam era silenzioso e assorto. Mi fece sorridere. Se conoscevo il mio amico, stava meditando su come impaginare il nuovo numero del giornalino della scuola. Beato lui. E pensare che era tutta colpa sua o merito suo, a seconda dei punti di vista. Mi

aveva aperto gli occhi. Non c’era voluto molto a dire la verità. La cosa stava già venendo a galla da sola, lui si era limitato a dare la spinta finale. Era bastata una semplice domanda, l’autunno precedente. Stavamo aspettando Emma nel parcheggio, proprio come quel giorno e proprio come quel giorno non si dava una mossa. La osservavo da lontano chiacchierare con alcune ragazze del corso di recitazione. A un certo punto uno studente del secondo anno le ò accanto. La guardò distratto, ma dopo aver fatto qualche o si voltò a guardarla di nuovo. Mi mossi nervoso, senza sapere perché. Sam aveva assistito alla scena, ma al contrario di me non continuò a guardare Emma. Si mise a fissare me. «Quanto ti darebbe fastidio se si trovasse un ragazzo?» Non ebbe nemmeno bisogno di mettere il soggetto nella frase. Capii immediatamente a chi si stava riferendo, ma non fui altrettanto pronto a bloccare la smorfia che mi si allargò sulla faccia. Una smorfia che non mi aspettavo. Emma e un ragazzo. Un ragazzo che non ero io. Mi sentii ribollire d’odio per quello sconosciuto. Per una persona che ancora non esisteva, ma che sarebbe potuta arrivare in qualsiasi momento. Per portarmela via. L’intensità della mia gelosia mi diede un’idea della natura di ciò che provavo per lei. Non reggeva più l’alibi pallido e consumato che mi davo quando mi sorprendevo a pensarla più spesso di quanto sarebbe stato normale: il legame speciale, unico che mi univa a lei. La finestra privata che avevo sulle sue emozioni. Il posto privilegiato dal quale potevo osservarla crescere. Da dove potevo sentirla vivere. C’era tutto questo, ma c’era anche dell’altro e non potevo più fare finta di niente. Mi sentivo ogni giorno più protettivo nei suoi confronti, ma anche possessivo e la gelosia che Sam aveva stuzzicato era solo la punta dell’iceberg, la parte più aspra e dolorosa della faccenda. C’era anche quella più dolce e pericolosa. L’effetto che mi faceva vederla, quello che scatenavano la sua vicinanza e il suo

profumo. Il calore che sentivo quando ero tanto coraggioso da toccarla. Calore che la nuova consapevolezza trasformò in un incendio che non ero in grado di domare. Poter percepire le sue emozioni non fu d’aiuto in quella prima fase. Anzi, peggiorò le cose. Non riuscivo a cogliere tutto e ancor meno riuscivo a interpretarlo. Ero troppo confuso e sopraffatto per dare un’interpretazione obiettiva di quello che le sentivo provare. Il suo atteggiamento schivo, il fatto che non avesse mai mostrato in modo chiaro una preferenza per me, mi convinsero che per lei non ero altro che un amico. Un fratello. Era impensabile rischiare di mettere a repentaglio la nostra decennale amicizia per un rifiuto annunciato. Me la sarei fatta are. Si trattava solo di una fase. Confondevo l’affetto che avevo per lei con qualcosa di diverso. Dopo un paio di mesi fui costretto ad ammettere che non si trattava di una cotta e che dovevo arrendermi di fronte all’evidenza. L’amavo. Ero innamorato di lei e lei non sembrava ricambiare. Lo accettai come un dato di fatto. Avrei preso quello che veniva. Voleva l’amico? Avrebbe avuto l’amico. Ma più mi rendevo conto di essere innamorato di lei, di esserlo sempre stato, più i contorni delle sue emozioni si facevano nitidi. Risuonavano più chiari dentro di me. In alcuni casi era impossibile sbagliarsi. Quando Jackie mi aveva chiesto del ballo, avevo percepito la rabbia di Emma tanto chiaramente che avrei giurato di poterla toccare. Si era arrabbiata perché era gelosa? Forse sì forse no. Il dubbio rimaneva, anche se iniziavo a vederci più chiaro. Non avevo la chiave dei suoi pensieri, non potevo essere sicuro che quelle emozioni fossero legate a me. Per questo non mi ero ancora deciso. Né in un senso né nell’altro. Non mi decidevo ad arrendermi. Non mi decidevo a provare. Se avessi fatto un errore l’avrei persa e non sarei stato in grado di sopportarlo. Non ero nemmeno pronto a parlarne con Sam. Nonostante avesse intuito tutto molto prima di me, aveva sempre rispettato il mio riserbo sull’argomento e gliene ero grato.

Volevo prendere da solo quella decisione e temevo che la sua opinione mi avrebbe influenzato. Tenevo troppo al mio amico per coinvolgerlo in una tragedia annunciata e non volevo metterlo in una posizione scomoda con Emma. No. Finché non avessi preso una decisione, avrei tenuto Sam fuori da quel casino. Glielo dovevo. «Hai una faccia Alec… Sicuro che non ne vuoi parlare?» domandò preoccupato, strappandomi dalle mie riflessioni. Stavo per rassicurarlo con una battuta quando qualcuno attirò la mia attenzione. Gilroy Ford procedeva a o spedito nella nostra direzione. Né io né Sam eravamo il suo obiettivo, che invece si trovava alle nostre spalle a una ventina di metri da noi. Sbuffai irritato. Ero convinto di essere stato abbastanza chiaro l’ultima volta. Avrei dovuto scandire meglio le parole o accompagnarle a delle illustrazioni colorate. Una frazione di secondo prima che mi asse accanto allungai il braccio destro per bloccargli la strada. «Ah ah Gil, dove stai andando? Cosa abbiamo detto a proposito delle distanze di sicurezza?». Mi rivolsi a lui con lo stesso tono che avrei usato con un bambino di tre anni. Era curioso come i ruoli si fossero invertiti rispetto a quando eravamo bambini. Ford non ci faceva più paura. La sua stella era tramontata da parecchio tempo. Era bastato che Tony uscisse di scena. Circa una settimana dopo il nostro patto nel parcheggio, Marshall sparì dalla circolazione. Solo parecchi anni più tardi scoprimmo che gli assistenti sociali lo avevano affidato a una casa famiglia. Il padre lo picchiava e furono costretti a nascondere Tony dall’altra parte del paese. La sua banda non resse il colpo e si sciolse. Alcuni si unirono ad altri bulli, altri cercarono di formare nuove bande, ma senza successo. Nessuno aveva il carisma di Tony o incuteva la stessa paura. Altri ancora, come Ford, si confo con il resto della massa e non diedero più notizia di sé. Nemmeno mi sarei ricordato della sua esistenza se non mi fossi accorto che si era messo a ronzare intorno ad Emma.

Non che lo considerassi un rivale temibile. Era rimasto smilzo, anche se non si era alzato molto e l’acne non aiutava a migliorare il paesaggio. La spavalderia dell’infanzia aveva lasciato spazio a un’irritante arroganza del tutto ingiustificata. Insomma, un personaggio odioso. Il problema era un altro: le sue attenzioni turbavano Emma. Si sforzava di essere gentile, ma sapevo che Ford la metteva a disagio e non potevo evitare di collegare quella sensazione all’episodio del parcheggio, nonostante fossero ati tanti anni. Non avrei permesso a nessuno di spaventarla o angosciarla, quindi Ford doveva starle lontano. Avevo fatto presente al nostro vecchio amico che se non voleva avere problemi era il caso che la smettesse di darle fastidio. Evidentemente non aveva recepito il messaggio. «Lasciami in pace, Stevens. Non sto facendo niente di male». Mi lanciò un’occhiata rabbiosa e spinse via il mio braccio. Sam appoggiato alla macchina rise sotto i baffi e si preparò a godersi la scena. «Non è quello che stai facendo che ti mette in una brutta posizione, ma quello che stai per fare. Fossi in te lascerei perdere». La parte del poliziotto buono gli veniva davvero bene. Io mi sentivo decisamente più tagliato per il ruolo del poliziotto cattivo. «Pensa ai fatti tuoi, Miller» abbaiò. Fu troppo per il mio pessimo umore. Lo afferrai per la maglietta e lo sollevai da terra di un paio di centimetri. Era molto più basso di me. «Stammi bene a sentire. Non te lo ripeterò una terza volta. Stai lontano da lei. Lontano almeno 50 metri. Sono stato chiaro? Cosa volevi fare, invitarla al ballo? Ti risparmio l’umiliazione di un rifiuto. Verrà con noi, fattene una ragione e sparisci». Lo lasciai andare e intercettai il suo sguardo carico d’odio. Lo ricambiai con piacere. «Da solo non ce la fai, Stevens? Deve esserci Miller a tenerti la mano?». Il suo tono sarcastico pizzicò delle corde che ignoravo di possedere. Cominciai a valutare in quale punto del corpo avrebbe fatto più male se gli avessi tirato un pugno. Sam si mise tra noi.

«Non è giornata, Ford. Sparisci». Non sorrideva più e lo smilzo lo prese abbastanza sul serio da andarsene. «Razza di idiota» ringhiai. Mi ero trattenuto a stento dal mollargli un calcio. «Tu hai un problema, lo sai? Se non lo risolvi, la situazione ti sfuggirà di mano e sarà molto peggio. Ascoltami Alec… ». Purtroppo una voce familiare interruppe la ramanzina di Sam. «Che situazione?». Emma era dietro di noi. Ero talmente furioso da non accorgermi che ci avesse raggiunti. Aveva visto la lite con Ford e si era avvicinata? Cosa aveva sentito di quello che avevo detto al suo ammiratore? Mi si gelò il sangue nelle vene. «Se vi state mettendo di nuovo nei guai, voglio saperlo. Devo pur raccontare qualcosa all’Fbi quando troveranno il cadavere di Ford nel bagagliaio della Subaru» commentò ironica. Per fortuna aveva solo visto lo scontro e si era avvicinata quando Ford se n’era già andato. Non sarebbe stato facile giustificare in maniera convincente la mia iperprotettività. «Fra un quarto d’ora inizia l’allenamento, devo andare a cambiarmi» dissi leggermente irritato. Era dispiaciuta che dovessi scappare via? Sentivo solo la curiosità di sapere cosa fosse successo con Ford. Non si metteva bene. Non avrebbe mollato l’osso e dovevo scappare. Mi dispiaceva lasciare Sam in quella situazione. Occorreva un diversivo, qualcosa per distrarla, ma non mi veniva in mente niente. «Stavo pensando che potremmo chiedere a Madison di venire al ballo con noi» esordì Sam esitante. A volte pensavo che potesse leggermi nel pensiero. Emma si voltò di scatto. Assolutamente entusiasta. Mi sfuggì un sorriso. Desiderava davvero la felicità dell’amica, potevo sentire le emozioni che la stavano attraversando.

La sicurezza di vedere confermati i suoi sospetti, la speranza per Mads, la tenerezza di scoprire un Sam forse innamorato. Una sottile vena di malinconia. Non c’erano gelosia o invidia o paura di vedersi rubare la scena. Non le importava che se Sam e Madison si fossero messi insieme, non avrebbero avuto più tempo per lei. Le sarebbe dispiaciuto e le sarebbero mancati, ma la cosa più importante era che fossero felici e avrebbe fatto qualsiasi cosa per aiutarli. Intercettò il mio sorriso e cercò di darsi un contegno per non esporre l’amica con il suo entusiasmo. «Mi sembra una buona idea. Spero non sia troppo tardi. Sai c’è la fila, ma non mi sembra che abbia detto di sì a qualcuno». Maliziosa e disinvolta. Povero Sam, era in trappola. «No, che hai capito? Non pensavo di invitarla io. Pensavo che potresti chiederle se le va di unirsi a noi. Non voglio che sembri un appuntamento e poi Alec ha detto a Jackie che sarebbe venuto al ballo con noi». Sam era troppo impacciato per essere credibile. Emma non se la sarebbe mai bevuta. Tuttavia decise di non insistere. «Ho sentito» disse guardandomi di sottecchi con uno strano tono di voce. «Domani le chiederò se è impegnata, ma puoi stare tranquillo: è impossibile che lo scambi per un appuntamento. Chi sarebbe così idiota da portare al ballo la ragazza che gli piace insieme a una comitiva di amici? La tua reputazione è intatta» concluse con una punta di sarcasmo. Ne esistevano parecchi di idioti del genere. In quel momento ne aveva davanti due. Sam mi guardò in cerca di aiuto. Purtroppo si era fatto tardi e dovevo andare. Il coach aveva minacciato di tenermi in panchina la prossima partita se fossi arrivato di nuovo in ritardo. «Sam, ti fermi in redazione o vai a casa? Altrimenti chiederò a mio padre di armi a prendere dopo l’allenamento». Avrei preferito tornare con il mio amico, forse si sarebbe fermata anche lei. Ogni tanto dava una mano a Sam con il giornale. Il pensiero di rivederla di lì a due ore invece che aspettare il mattino seguente migliorò le mie prospettive per l’immediato futuro.

«Ti aspetto. Devo sistemare l’articolo che ho scritto la settimana scorsa sui vincitori del concorso di scienze. Thousend ha promesso di pubblicarlo se riesco ad allungarlo di qualche riga» disse soddisfatto, poi si rivolse ad Emma. «Ti dispiacerebbe dargli un’occhiata? Ho bisogno del tuo parere, ma se fa schifo me lo devi dire» disse serio. Lei sorrise. Un sorriso furbo dei suoi. «Sarò un giudice imparziale, promesso. A patto che tu mi dica perché Alec voleva spaccare la faccia a Ford. Non pensare che lo abbia dimenticato solo perché ti sei messo a vaneggiare sul ballo». Aveva addirittura incrociato le braccia e ci fissava inquisitoria. Non era più soltanto curiosa, c’era un filo di preoccupazione tra le sue emozioni e il fatto che esitassimo nel risponderle non migliorava la situazione. Arricciò il naso e ne sfregò distratta la base. Si fece ancora più sospettosa e intuitiva. «Lo so che mi state nascondendo qualcosa». Ci guardava torva, in attesa. «Tu sei paranoica ed io devo andare. Ci vediamo più tardi». Avevo risposto bruscamente e le si leggeva in faccia che c’era rimasta male. Mi sentii malissimo. Camminai veloce verso la palestra cercando di dissipare il malumore. Ero in ritardo ed ero furioso. Con Ford, con Emma e soprattutto con me stesso. Odiavo trattarla con freddezza, ma era l’unico modo per non scoprirmi. Avevo corso parecchi rischi quel giorno. Stavo perdendo colpi, cominciavo a lasciarmi scappare troppe cose. Dovevo prendere una decisione. Stavo facendo del male a tutti e presto o tardi le cose sarebbero precipitate. Sam aveva ragione. Avevo un problema. Raggiunsi finalmente la palestra. Il parallelepipedo in cemento grigio, costruito più tardi rispetto al resto della scuola, era indipendente dal comprensorio scolastico. Un pugno nell’occhio, cupo e squallido nella sua banalità. Era difficile immaginare che all’interno di quelle mura si vivessero grandi emozioni. Il sapore della vittoria, lo spirito di squadra, l’amarezza delle sconfitte, le rivalità tra compagni. Alcune costruttive, altre meno. Non vidi nessuno dei miei compagni nei paraggi. Maledizione.

Accelerai il o e mi precipitai negli spogliatoi. Mi cambiai in fretta e mi unii agli altri a riscaldamento iniziato. «Stevens, ti fai venti giri di campo in più e scordati di giocare la prossima partita. Non toccherai palla finché non avrai imparato ad essere puntuale. È una questione di principio e di disciplina. Spero che sia l’ultima volta che te lo ripeto». Il coach Fox non sollevò nemmeno lo sguardo dalla cartellina. Non fiatai. Sarebbe stato inutile. Una stelletta in più a quella meravigliosa giornata. Iniziai a correre intorno al campo insieme al resto della squadra. Dopo qualche minuto sentii dei i ben ritmati dietro di me e presto il mio inseguitore mi raggiunse. «Mi toccherà giocare al posto tuo, Stevens». Charlie Thompson guardava davanti a sé con un’espressione soddisfatta sulla faccia. Il mento sollevato, i capelli biondo cenere tirati indietro da una fascia di spugna. Se la godeva un mondo. Gli avevo servito quello che desiderava su un piatto d’argento. Giocare nel mio ruolo in una partita importante. Ero stato un idiota. «Gira al largo. Non è giornata» ringhiai. Non ero sicuro che sarei riuscito a trattenermi dal mollare un pugno sul suo bel faccino. Charlie allungò il ò e inizio a correre davanti a me. Non voleva rischiare di perdere la partita del secolo per una rissa in palestra o di rompersi il nasino perfetto. Digrignai i denti. Detestavo Charlie Thompson. Non per una questione di rivalità sportiva, come tanti supponevano. Se Charlie era un giocatore più bravo di me, e questo era ancora tutto da dimostrare… Beh, tanto meglio. Avrebbe segnato più punti e ci avrebbe portato più in alto in classifica. Quello che non mi andava di Charlie era… Charlie. Era arrogante e presuntuoso. In campo faceva di tutto per emergere e ava la palla solo se costretto. Si comportava come se la cosa più importante fosse vincere e non vincere insieme. Guardava tutti dall’alto in basso, compreso il coach Fox.

Un arrogante, presuntuoso figlio di papà con un tiro da tre micidiale e zero rispetto per il genere femminile. Le ragazze per lui erano solo trofei da conquistare. Una volta vinti se ne dimenticava in fretta e ava a una nuova e più intrigante sfida. Doveva essere stato così anche con Jackie. Mi dispiaceva per lei. Era simpatica. Non era stato piacevole rifiutare il suo invito. Del resto non avevo scelta, non sarei andato al ballo se non con Emma. Jackie era carina, ma io appartenevo a un’altra. Ma lei mi apparteneva? Se un giorno fosse arrivato uno come Charlie Thompson non sarei riuscito a tenerlo lontano come facevo con Ford. Lei non era mia. Era libera di scegliere. Era libera di uscire con chi voleva e di innamorarsi. Non avrei potuto impedirlo. In veste di amico potevo solo stare a guardare. E nel mio caso sentire. Sarebbe stato un supplizio. Avrei cambiato scuola piuttosto, non avrei voluto vederla mai più. Non riuscivo a tollerare l’idea di lei con un altro, figurarsi il resto. Strinsi i pugni finché le nocche delle mani non divennero bianche. Sentivo le unghie affondare nel palmo. Inspirai forte nel tentativo di riacquistare un po’ di autocontrollo. Cercai un pensiero razionale in quel groviglio rabbioso e dolorante. Lo trovai. Al momento non c’era nulla di cui preoccuparsi. Emma sembrava contenta di andare al ballo con Sam e me. Se avesse desiderato essere accompagnata da qualcun altro l’avrebbe detto. Mi concentrai sugli esercizi. Almeno il coach avrebbe visto che mi stavo impegnando. Non ero la puntualità fatta a persona, ma ce la mettevo tutta. Che fossi in partita o no. Finito l’allenamento e fatta la doccia mi precipitai fuori. Mi sentivo meglio. L’esercizio fisico mi aveva aiutato a scaricare i nervi. Ero stanco ma sereno. Nel parcheggio mi aspettava la Subaru verde metallizzato con il motore . Emma sedeva davanti, al posto del eggero.

«Hai fatto da copilota questa mattina e sarà il tuo posto per i prossimi viaggi. Puoi concedermi almeno questo ritorno a casa?». Mi guardò con aria di sfida, sicura che non avrei ceduto facilmente quel privilegio. Ero ancora in grado di negarle qualcosa? La più sciocca e piccola delle cose? Alzai gli occhi al cielo e presi posto sul sedile posteriore.

Discorsi da mocciose

Emma

Cercai Madison tra la folla di studenti che brulicava nel campus della scuola. Non l’avevo vista per tutta la mattina e dovevo chiederle del ballo. Non bluffavo quando avevo detto a Sam che non sapevo se fosse ancora disponibile. Volevo provocarlo, ma non ero sicura che non fosse vero. Mads non mi aveva accennato a nulla in proposito. Forse aveva già accettato l’invito di qualcuno. Meglio verificare di persona e nessuno più di me poteva farlo con una certa abilità. Una cosa odiosa, me ne rendevo conto, ma era per il bene di Sam. Non l’avrei spinto in quella direzione se non fossi stata certa che non sarebbe stato un disastro. Era abbastanza il mio di cuore infranto, non desideravo avere la responsabilità di quello dei miei amici. Non me lo sarei mai perdonata. Finalmente la vidi fuori dalla caffetteria insieme con alcune ragazze del corso di recitazione. Attraversai il parco e la raggiunsi. «Ciao Mads, hai un minuto? Vorrei chiederti una cosa». Le sfiorai una spalla per attirare la sua attenzione. Il contatto fisico avrebbe aiutato a non perdere tempo. Cercai di concentrarmi su Sam. Se ci fosse stata traccia di lui nei segreti di Madison sarebbe stato facile trovarlo. Non mi andava di scandagliare tutto quello che teneva nascosto. Volevo concederle un minimo di privacy. «Ciao Em, certo. Dimmi tutto». Mi guardò fiduciosa con i suoi luminosi occhi verdi. Era la prima volta che usavo i miei poteri su una persona vicina, una persona che non fosse una delle mie sorelle e che si fidava di me. Mi sentii veramente in colpa. Non ero più tanto convinta che il fine giustificasse i mezzi, ma ormai ero in ballo e bisognava ballare. Nel vero senso della parola. «Sei già impegnata per sabato prossimo? Sarebbe bello se venissi con me, Sam e Alec. Non è come andare al ballo con un vero accompagnatore, ma sarà divertente» sorrisi timidamente in attesa di una risposta. Beh non solo di quella.

Esitò e in quella manciata di secondi m’infilai tra i suoi segreti. Avevo poco tempo, non potevo rischiare di farmi notare. Gli occhi vitrei non avrebbero aiutato a rimanere in incognito. Sam Sam Sam Sam. Ripetevo il nome nella testa come un mantra. La mia domanda aveva avuto l’effetto desiderato e non dovetti cercare a lungo. Mads stava pensando a quello che avrebbe voluto accadesse, al desiderio che custodiva gelosamente. Le era capitato di respingere un paio di offerte nella speranza che Sam la invitasse. Era con lui che sarebbe voluta andare, ma si era convinta che non glielo avrebbe chiesto. Ne aveva sofferto, ma la mia domanda aveva ri la speranza. Non tutto era perduto. Poteva andare al ballo con lui, anche se non sarebbe stato come l’aveva immaginato. Era sempre meglio di niente. Si sentiva elettrizzata e patetica allo stesso tempo. Ne avevo abbastanza. Ero come un’intrusa in un’area protetta. Tornai in me un millesimo di secondo prima che la mia amica rispondesse. Strizzai gli occhi per scacciare le ultime immagini rubate dalla sua mente, come se il riflesso del sole mi stesse dando fastidio. «Ho ricevuto un paio di inviti, ma niente di esaltante. Mi piacerebbe venire con voi, sarebbe una cosa nuova» sorrise, ma poi si accigliò. «Sicura che non sia un problema? Non vorrei sembrare invadente e… ». Non le lasciai terminare la frase. Se avesse immaginato cosa avevo fatto non si sarebbe fatta tanti scrupoli. «Saremmo felici se venissi e ho bisogno che mi aiuti a tenere testa a quei due. eranno la serata a prendermi in giro per i capelli e il vestito. Mi serve un po’ di solidarietà femminile». Sorrisi incoraggiante e capì che non avrei accettato un no come risposta. «Se la metti in questi termini… ». Ricambiò con un sorriso più complice. Era una bella sensazione, nonostante il senso di colpa che provavo. Desideravo davvero che si confidasse. Forse non si sentiva pronta o non si fidava completamente di me. Dopotutto ero la migliore amica di Sam. La fine dell’intervallo fu annunciata dalla solita camla. Ci dirigemmo verso l’aula di storia. Le lezioni della professoressa Grant non erano male. Era una

brava insegnante, giovane e coinvolgente. Non era facile conquistare l’attenzione di una classe di sedicenni, avendo come uniche argomentazioni guerre e lotte di potere. Da lontano vidi Sam e Alec camminare in direzione della scuola. Ridevano e si spintonavano mentre varcavano le porte antipanico. Sembrava che le cose non fossero cambiate rispetto a quando erano dei bambini delle elementari. Custodivo un ricordo vecchio di dieci anni molto simile a quell’immagine. Eppure, nonostante le apparenze, era cambiato tutto. Sarebbe stata un’immagine innocua se non fosse per la reazione che sempre mi causava vederlo, anche da distante. Il battito del cuore accelerò e il sangue fluì velocemente al viso, colorandomi le guance. Abbassai lo sguardo per impedire a Mads di avere sotto gli occhi quella patetica versione di me. «Posso farti una domanda?» chiese incerta con il sorriso complice che le avevo visto sulle labbra poco prima. Oh oh. Non ero stata abbastanza svelta. Poco male. In fondo glielo dovevo, considerata l’escursione non autorizzata nei fatti suoi. «Ehm… sì. Di che si tratta?» risposi cauta. «Mi chiedevo come mai Sam non abbia pensato di invitare nessuna al ballo eccetto te. Potrebbe sembrare quasi che tra di voi… Beh… che tra di voi ci sia qualcosa di più della semplice amicizia». Ah. Dunque non si trattava di me. Si trattava di Sam. Mi trattenni dallo scoppiarle a ridere in faccia per non ferire i suoi sentimenti. Doveva esserle costato chiedermelo e aspettava con ansia una risposta. Mi sforzai di restare seria mentre respingevo quell’ipotesi ai confini del paranormale. «Ti prego, Madison. È un’assurdità. Mi sento male solo a pensarci. Sam ed io siamo amici, anzi siamo come fratello e sorella e se proprio lo vuoi sapere, è stata sua l’idea di chiederti del ballo» mi dispiacque sbugiardare Sam, ma non avevo altri assi nella manica.

Mads tirò un udibilissimo sospiro di sollievo e rifletté per qualche secondo. A un tratto ruppe gli indugi e iniziò a parlare a raffica. Un fiume in piena che travolse gli argini. «Sono contenta di essermi sbagliata. Davvero contenta. Speravo di sbagliarmi, ma ho preferito avere la conferma da te. Sarebbe stato davvero brutto se… Sai lui mi piace molto e… Davvero è stata sua l’idea? Oddio non ci posso credere. Però non significa niente altrimenti me lo avrebbe chiesto di persona, giusto? Tu cosa ne pensi? Sei la persona che lo conosce meglio, eccetto Alec ovviamente. Ne avete parlato? Sai se per caso... ». La interruppi per cercare di riprendere le redini della conversazione. Avevamo raggiunto l’aula di storia e avevo bisogno di tempo per riordinare le idee. Ancora qualche metro e saremmo state a portata d’orecchio. Sam era seduto al solito posto, vicino alla porta e se avesse sentito non avrebbe preso benissimo il mio tradimento. «Non parliamo granché di queste cose» sussurrai. «Non ha aggiunto altro e ho parlato anche troppo, se lo sapesse mi ucciderebbe» bisbigliai alla velocità della luce e pregai che riuscisse a capire quello che le stavo dicendo. «Credi di riuscire a fare finta di niente? Lo dico nel tuo interesse. Sam non sopporta essere messo alle strette. Dai tempo al tempo. È un buon segno, un piccolo o. Vediamo come si mette». Madison fece un piccolo cenno di assenso mentre prendeva posto accanto a me. Le cospirazioni amorose non facevano per me. Troppa tensione. Ne avevo abbastanza di miei di drammi. Alzai lo sguardo per cercare Alec e mi accorsi con stupore che era seduto di fianco a me. Ero talmente messa male che cercavo di stare vicina a lui senza accorgermene. Come un istinto. Lo guardai di sottecchi. Mi stava fissando. Strano. «Che c’è? Ho qualcosa sulla faccia?» domandai con un pizzico d’irritazione nella voce. «Non sulla faccia, ma di sicuro hai qualcosa». Fece una pausa e mi guardò con più attenzione. Deglutii nervosa. Le labbra perfette e pallide si aprirono in un sorriso quando notò Madison seduta accanto a me. «Sam si arrabbierà da morire. Avvisami quando lo verrà a sapere, non mi perderei la scena per nulla al mondo». Si accomodò sulla sedia, allungando le gambe come se fosse stato al

cinema. Come accidenti faceva? Era così irritante… e intuitivo. Gli sferrai una gomitata nelle costole. La scossa che seguì il contatto gli spense il sorriso sulle labbra. Lo guardai negli occhi, prima che il sangue mi fluisse alle guance e mi obbligasse a guardare da un’altra parte. Da qualsiasi altra parte. I miei respiri si fecero più brevi e veloci. L’aveva sentita anche lui. Non c’era ombra di dubbio. Sembrò sul punto di dire qualcosa quando Sam lo chiamò e lo costrinse a voltarsi. La professoressa Grant entrò qualche istante dopo pronta a raccontarci tutto sui padri pellegrini. Finita l’ora dovetti correre per non arrivare tardi a se. Dopo le lezioni del pomeriggio Madison ed io ci fermammo a scuola per un paio d’ore. Avevamo le prove dello spettacolo, che sarebbe andato in scena la prima settimana di giugno. La professoressa Bishop aveva scritto una rivisitazione in chiave moderna di “Molto rumore per nulla”, la mia preferita tra le di Shakespeare. Ci avevano assegnato dei ruoli minori essendo le più giovani del corso, ma non ci dispiaceva. Era giusto che fimo la gavetta. Dopo le prove Madison mi diede un aggio a casa. Lungo il tragitto parlammo di Sam. Quello che le piaceva di lui, cosa l’aveva colpita. Volle conoscere i suoi hobby. Se amava leggere o andare al cinema. Se fosse un tipo sportivo. Mi confidò ciò che avevo intravisto nei suoi segreti e dovetti stare attenta a non tradirmi, rivelando che sapevo più di quanto avrei dovuto. Era piacevole ascoltarla. Avevo l’opportunità di vedere Sam da un nuovo punto di vista. Di rado pensavo a lui come a un ragazzo. Lo avrei sempre visto come un fratello e sapevo che era così anche per lui. Che era così anche per Alec. Mads era perspicace, aveva intuito molte cose di Sam. Cose che io stessa avevo impiegato anni a cogliere. L’interesse per lui l’aveva resa più sensibile. Anch’io ero sempre attenta a cogliere in Alec il più piccolo battito di ciglia, il minimo cambiamento del suo umore volubile.

Arrivate sotto casa spense il motore e ci fermammo a chiacchierare. Aveva appena finito di raccontarmi di come si fosse accorta di avere una cotta per Sam, quando disse con aria maliziosa che era arrivato il mio turno. «Il mio turno per cosa?» chiesi confusa. «Per sfogarti. Se ti va» concluse imbarazzata. La coscienza m’imponeva di dire qualcosa. Lei si era aperta con me più di quanto potesse immaginare. «Non è che non mi vada. Solo che non c’è molto da dire» risposi stringendomi nelle spalle. «Allora qualcuno c’è! Penso anche di sapere di chi si tratta». Si mordicchiava il labbro incerta se parlare ancora o aspettare che lo fi io. Le feci cenno di continuare. Ero curiosa di sapere se avrebbe indovinato. Se era così intuitiva come pensavo, avrebbe fatto centro o forse ero io a essere un libro aperto. Impallidii al pensiero che non fosse l’unica ad aver letto qualcosa. «Alec… ?». Sembrava una domanda, ma conosceva già la risposta. Non so perché scoppiai a piangere. Forse perché avevo avuto la prova che tutti gli sforzi per nascondere i miei sentimenti erano stati inutili o perché avrei voluto vivere quei primi momenti, l’avvicinarsi l’una all’altro come stava succedendo tra Madison e Sam. Forse ero stanca di nascondermi, stanca di scappare, stanca di tenermi tutto dentro. Fu un pianto breve ma liberatorio. Quando i lucciconi smisero di debordare Mads mi allungò un fazzoletto. Mi soffiai il naso e la ringraziai. «Scusami. Non so cosa mi sia preso» mormorai imbarazzatissima. «Non preoccuparti. Quando avrai voglia di parlarne, ci sarò, okay?». Le sorrisi piena di gratitudine. Aveva capito che era meglio non insistere. Non meritavo tutta quella comprensione, considerato la poca privacy che le avevo concesso. La salutai con due baci sulle guance e scesi dall’auto. La seguii con lo sguardo fino a quando svoltò a destra e sparì dalla mia visuale.

Feci un mezzo giro su me stessa pronta a percorrere il vialetto d’ingresso, ma quello che trovai non fu la rassicurante immagine di casa mia immersa nella luce di un tramonto di maggio. Davanti a me c’era Alec. Con il fiato corto e l’aria preoccupata. Indietreggiai per la sorpresa. «Sei pazzo? Vuoi farmi venire un infarto?» farfugliai a caccia di aria. «Non ti verrà un infarto Em, hai solo sedici anni. È statisticamente impossibile». Il fiato corto non gli impediva di fare lo spiritoso. L’espressione preoccupata era del tutto sparita, tanto che mi convinsi di averla immaginata. Indossava i suoi pantaloncini peggiori e una vecchia maglietta, regalata da me e Sam qualche compleanno prima. La sua tenuta da jogging. Era sudato fradicio. Alcune ciocche nere si erano incollate alla fronte e le cuffie del lettore mp3 gli penzolavano al collo. Sudato, stanco, in disordine ed era bello lo stesso. Mi si strinse il cuore. Fece un o verso di me e mi guardò con più attenzione, come durante l’ora di storia. Distolsi in fretta lo sguardo. Non era ato molto tempo dalla mia personale interpretazione delle cascate del Niagara e avevo ancora gli occhi pesti. Non volevo che se ne accorgesse e iniziasse a fare domande. «Hai pianto. Cosa è successo?» Appunto quello che volevo evitare. Non ero sicura che sarei riuscita a mandare giù il groppo che mi sentivo di nuovo alla gola. Allungò una mano verso di me, ma il movimento si bloccò a mezz’aria. Stavo osservando le sue braccia già da qualche secondo e non riuscivo a staccare gli occhi da quell’immagine. La flessione armoniosa dei suoi muscoli produsse di nuovo quella nuova strana sensazione, che mi scivolò nella pancia e lì si sciolse. Una luce si accese nei suoi occhi e non aveva niente a che fare con il riflesso del tramonto. Arrossii per così tanti motivi che ne persi subito il conto. Il silenzio tra di noi si fece imbarazzante e mi decisi a rispondere. «Niente» farfugliai. «Roba da mocciose» mi affrettai ad aggiungere per fargli are la voglia di andare avanti con l’interrogatorio. Mi guardò accigliato. Non

gli bastava come spiegazione e sapeva che insistere non sarebbe servito. Sospirò sconfitto, ma non del tutto arreso. Feci un respiro profondo e l’aria di maggio mi riempì i polmoni. Mi sentii più lucida. La tensione tra noi calò, sciolta nell’aria frizzante e profumata della sera. Adoravo quel momento della giornata. «Posso fare qualcosa?» domandò poco convinto, pronto a ricevere un altro no come risposta, ma deciso a fare quello che poteva per aiutarmi. Aiutare me. L’amica testarda e pasticciona. La sorellina che non aveva avuto. Alec era gentile. Era premuroso. Era buono. La sua anima era luminosa quanto la sua corazza. Se ti innamorassi di me lo apprezzerei molto. Grazie. «Sì, vai a farti una doccia» dissi con un sorriso stropicciato e iniziai ad armeggiare con il chiavistello del cancelletto. Lo sentii sospirare paziente. Avevo bisogno di tornare a casa. Buttarmi sul divano e non pensare a niente. Mettere centinaia di metri tra lui e me, muri e porte e oppormi alla forza gravitazionale che premeva contro le pareti della mia determinazione. Era come se ci fosse un elastico invisibile teso tra di noi e più tiravo per allontanarmi da lui, più il desiderio di stargli accanto tornava indietro aumentato di cento volte. Fino a quando qualcuno avrebbe tranciato di netto il filo e allora sarei schizzata via lontano. Chissà dove e in quanti pezzi. «Ci vediamo» disse correndo verso casa. Mi voltai un’ultima volta per guardarlo mentre si allontanava.

~~o~~

Il mattino seguente Sam annunciò una grande novità. Era parecchio su di giri e dovetti farmi spiegare tutto una seconda volta.

Lo zio Jeff, fratello maggiore di suo padre, aveva telefonato la sera prima per proporgli un viaggio attraverso il vecchio continente. Lo zio di Sam lavorava per una ditta di Francoforte e aveva deciso di sfruttare alcune settimane di ferie arretrate per are del tempo con i nipoti. Sam era entusiasta del progetto, i signori Miller meno. Tuttavia era riuscito a strappare un accordo: se alla fine dell’anno scolastico si fosse presentato con una pagella immacolata ne avrebbero riparlato. Era praticamente fatta. Sam era uno studente brillante, quasi quanto Alec e di gran lunga migliore di me in trigonometria e se. «Quanto starai via?» domandai incapace di mascherare l’ansia che provavo. Per Madison non sarebbe stata una bella notizia e non lo era nemmeno per me. Sam era la mia roccia, il mio faro nella tempesta. Senza di lui come avrei fatto a restare in equilibrio? A resistere alla gravità? «Tre settimane. Partirò dopo il tuo compleanno e sarò di ritorno in tempo per gli ultimi giorni prima dell’inizio della scuola» dissero cercando di rassicurarmi. Come se il problema fosse il mio compleanno. «Tre settimane in Europa? Questo sì che è un viaggio! Verrà anche Anita?». Alec sembrava su di giri quasi quanto Sam. Lo fulminai con lo sguardo. «No, mamma e papà pensano sia troppo piccola» gli scappò un sorriso. «Meglio così. Non dovrò preoccuparmi di tenerla lontana dai guai e potrò pensare ai fatti miei». Si guardarono e scoppiarono a ridere, complici. Mi afflosciai sul sedile posteriore. Sam e le sue avventure in Europa. Io e i miei drammi in Connecticut. Davvero patetico. «Non posso lasciarmi scappare un’occasione del genere. Quando mi ricapita? Nessuno sentirà la mia mancanza, non ve ne accorgerete nemmeno. Per fortuna non ho una ragazza. Sarebbe stato difficile giustificare un’assenza così lunga, magari all’inizio di una storia». Scoppiò di nuovo a ridere. Da solo. Alec guardava con troppo interesse il paesaggio fuori dal finestrino, mentre io ero molto occupata a verificare che il sangue mi scorresse ancora nelle vene, visto che sembrava si fosse fermato.

Sam mi osservò dallo specchietto retrovisore con uno sguardo carico di sospetto e spense il motore. Eravamo arrivati a scuola. Sganciò la cintura di sicurezza e si girò per guardarmi in faccia. Alec cercò la posizione più comoda per godersi la scena. Mi spiò con la coda dell’occhio e si lasciò sfuggire un sorrisetto. «Emma?» Oh oh. «Hai invitato Madison al ballo?» chiese con studiata lentezza. «Ehm… Sì. Ha accettato» risposi cercando di apparire disinvolta. Non dovevo esserci riuscita granché, perché gli occhi si strinsero in due fessure, ancora più sospettosi. Afferrai la maniglia e feci per uscire dall’auto. «Ferma dove sei. Da parte di chi l’hai invitata?» la sua voce aumentò di mezzo tono. «Le ho detto che saremmo stati felici se fosse venuta con noi» misi parecchia enfasi sul pronome che avevo usato, ma si capiva che avevo tralasciato una parte importante del racconto. «E… » m’incalzò. Si preparava una bella tempesta. Potevo vedere i nuvoloni addensarsi nei suoi occhi. Presi un bel respiro. Se volevo essere convincente, dovevo sembrare decisa. Sicura di aver fatto la cosa giusta. «E che si trattava di una tua idea. Senti Sam, ho dovuto farlo. Credeva che tra noi ci fosse qualcosa. Non mi andava che lo pensasse e non ho aggiunto altro». Mi fermai perché non mi era rimasta più aria nei polmoni. Alec si mosse nervoso sul sedile. Sembrava volesse intervenire, ma qualcosa nello sguardo di Sam gli fece cambiare idea. «Ti avevo chiesto di non farlo sembrare un appuntamento, ma devi sempre fare di testa tua». Era davvero arrabbiato. Pensai a un modo per calmarlo e me ne venne in mente solo uno: minimizzare. «Stai prendendo questa storia troppo sul serio. Nessuna ragazza al mondo lo considererebbe un appuntamento. È solo uno stupido ballo e stai dando per scontato che lei sia interessata a te. Cosa ti da tutta questa sicurezza?»

Era un colpo basso, ma dovevo salvare capra e cavoli. Funzionò. Gli avevo stillato il dubbio. Rifletté per qualche secondo e poi guardò Alec, che si strinse nelle spalle. «Forse hai ragione» ammise. «D’ora in avanti, però, non prendere altre iniziative. Non ho bisogno dell’agenzia matrimoniale» concluse borbottando. «Okay» sorrisi cauta. «Mi dispiace». «Adesso andiamo o arriveremo in ritardo». Scendemmo dalla macchina. Quando fummo uno davanti all’altra mi diede un buffetto sulla guancia. Il peggio era ato. Mi diressi verso l’aula di trigonometria. Alec camminava silenzioso al mio fianco, come sempre tenendo il mio o. Stavamo per entrare in classe quando si rivolse a me. «Perché Madison ha pensato che ci fosse qualcosa fra te e Sam?». Il tono della voce era neutro, ma gli occhi tradivano una certa curiosità. Strano, Alec si era sempre interessato poco a queste faccende. «Forse si sente insicura. La paura ci mostra cose che non esistono e nasconde segnali che anche un cieco noterebbe». Nella maggior parte dei casi, avrei voluto aggiungere. Il discorso non valeva per me. Chissà che disastri avrei combinato se l’insicurezza non mi avesse messo un freno. Alec annuì distratto e sorrise. Tenendo la porta aperta mi fece cenno di entrare in classe.

Sam

Emma

Il senso di colpa. Gran brutto affare. Non riuscivo a concentrarmi sulla lezione che il professor Graham con infinita pazienza tentava di spiegare a una classe annoiata e sonnolenta. Ricopiavo diligente le formule scritte alla lavagna, senza capire niente. Non che fosse una novità per me, ma mi stavo impegnando meno del solito. Come potevo essere stata così stupida e indelicata? Avevo invaso la privacy di Mads. Ammesso che i miei intenti fossero nobili, erano sufficienti a giustificare un’azione così riprovevole? Non contenta avevo sbugiardato Sam per tirarmi fuori dai guai. Odiavo far arrabbiare Sam. Era quasi impossibile e di solito ci riusciva solo Alec. Ero proprio una stronza. Se mi fossi fatta gli affari miei, niente di tutto ciò sarebbe accaduto. Cosa mi era saltato in mente? Non ero in grado di gestire la mia vita sentimentale, figuriamoci quella degli altri. Per di più si trattava di esseri perfettamente in grado di cavarsela da soli. Gli avevo dato dell’arrogante. L’avevo convinto di avere ragione io e lui torto. Ero proprio una stronza. «La smetti di flagellarti? Non riesco a concentrarmi con te che ti dimeni sulla sedia». Il sussurro esasperato di Alec mi solleticò la nuca. Come accidenti faceva? A meno che non mi fossi messa a pensare a voce alta, il che era improbabile, non capivo come avesse fatto a intuire cosa mi stesse ando per la testa. Mi voltai verso di lui, attenta a non attirare l’attenzione del professore. Mancava solo che mi chiedesse il risultato dell’espressione per vedere se stavo seguendo. Ahahahaha. «Non mi stavo dimenando» bisbigliai accigliata. «Beh è come se lo fi. Trasudi senso di colpa. Se è per Sam stai davvero

esagerando». Che espressione strana aveva. Continuava a ricopiare i aggi scritti alla lavagna con l’aria più concentrata del mondo, ma faceva a pugni con il tono della voce: esasperata e quasi sofferente. Sembrava dissociato. «Sam è troppo buono ed io me ne approfitto sempre». Lo pensavo davvero, anche se l’intervento di Alec aveva mitigato il senso di colpa. Più che altro aveva spostato la mia attenzione su qualcos’altro o meglio l’aveva riportata al suo posto abituale: fissa su di lui. «Sam sa che hai ragione e in fin dei conti non credo gli dispiaccia così tanto. Aspetta che torni dall’Europa e se con Mads deve andare, andrà». La voce era tornata quella di sempre, anche nel bisbiglio si coglieva la sottile ironia con cui soppesava le cose che lo circondavano. «Se posso darti un consiglio, che sicuramente deciderai di ignorare» aggiunse con un sorrisetto che non preannunciava niente di buono «al tuo posto ne rimarrei fuori. Sei amica di entrambi e rischi di trovarti in una brutta posizione. Come questa mattina, ma elevata al quadrato». Sorrise sfacciato, lanciandomi un’occhiata di sottecchi. Non lo degnai di una risposta. Mi voltai verso la lavagna e non staccai lo sguardo da lì fino al suono della camla. Quando ci alzammo dai nostri posti, non si era ancora tolto l’espressione divertita dalla faccia. Lo guardai in cagnesco e intercettò la mia occhiataccia. «Ti sei offesa?» chiese trattenendo a stento le risate. «Secondo te?» Era troppo. Oltre il danno la beffa. Prima mi rimproverava, poi mi consigliava di farmi gli affari miei e rideva di me. Girai sui tacchi, decisa a proseguire impettita verso la porta. Non dovette fare nemmeno un o per fermarmi, gli bastò allungare una mano e afferrarmi il braccio. La scossa del contatto, gli occhi traboccanti pentimento e la bocca che si modellava in modo perfetto su un viso altrettanto perfetto, fecero evaporare tutto il mio risentimento. L’inamovibile Emma. Già. «Dai Em, stavo scherzando! Quanto sei permalosa». Quattro carezzevoli parole

con la sua carezzevole voce. Parlando mi aveva tirata a sé per far are un nostro compagno che aveva fretta di raggiungere la porta. Ero a un palmo da lui. Sarei andata in iperventilazione. Sentivo il cuore martellarmi nelle orecchie. Adesso mi viene una crisi. Se avesse capito che mi sentivo male sarebbe riuscito a prendermi al volo, prima che sbattessi la testa contro lo spigolo del banco. Magari sarebbe stato meglio. Mi sarei presa una bella commozione cerebrale. Così avrei dimenticato per sempre la figura da idiota che stavo facendo. Cominciai il conto alla rovescia, in attesa di svenire e piombare a terra. Tre… due… uno… Niente crisi. Lentamente cominciai a rilassarmi, il respiro a rallentare. Il martello pneumatico che avevo nelle orecchie si affievolì fino a spegnersi. Ero tornata in me. Stavo diventando la reginetta dell’autocontrollo. Clap clap clap. Alec non aveva ancora mollato la presa. Mi guardava perplesso in attesa di una risposta e del mio perdono. Ero abbastanza propensa a concederglieli entrambi. «Scusami sono un po’ nervosa. Questa storia di Mads e Sam, il maledetto ballo… ». Mi morirono le parole in gola. Lasciò andare il braccio e si fece più attento. Troppo attento. Dovevo essere davvero esaurita o un’idiota completa. «Nervosa per il ballo, Em? É una novità. Non hai sempre detto che sono tutte cavolate, anzi cito testualmente, “la parata annuale delle cheerleader organizzata da un comitato scolastico appositamente creato per il loro ego”?». Era incuriosito e divertito allo stesso tempo. Pregustava la mirabolante arrampicata sugli specchi che stavo per fare. «Certo che sono tutte cavolate. È solo che… ». Annaspai alla ricerca di qualcosa che avesse una parvenza di senso. Non chiedevo molto, solo una parvenza. «Ti ha invitata qualcuno?» disse interrompendo il mio incoerente balbettio. L’aria divertita era completamente sparita dalla sua faccia. La peggiore arrampicata sugli specchi della storia.

«Hai sbattuto la testa e stai delirando?». Sarcasmo. Il sarcasmo vince sempre. «Parlo sul serio. Mi vuoi rispondere seriamente per favore?». Non stava scherzando e nemmeno a me andava più tanto di scherzare. Sentivo gli ingranaggi del mio cervello mettere in moto dei terribili ragionamenti. Se mi fossi trovata un altro cavaliere, lui sarebbe stato libero di andare al ballo con Jackie. Per questo ci teneva a saperlo. Sprofondai nella desolazione. Alec era talmente buono e generoso da sacrificare una serata con la ragazza più bella della scuola per non lasciare a casa me. La piccola fiammiferaia. «Emma, per favore. Mi stai facendo diventare matto. Cosa c’è adesso?». Non mi azzardavo a proferire verbo per la paura che mi si spezzasse la voce e che i lucciconi, che stavo tentando disperatamente di ricacciare indietro, debordassero mettendo la ciliegina sulla torta a quella meravigliosa situazione. «Non mi ha invitata nessuno, ma se vuoi andare con Jackie sei libero di farlo. Non sei costretto ad accompagnarmi. Non dovrò reggere il moccolo a Sam e a Mads, perché non è un vero appuntamento e ci sarà talmente tanta gente che… » Non ci potevo credere. L’avevo detto davvero. Le parole erano uscite dalla mia bocca. Strozzate in un unico respiro, il che aveva avuto un certo peso sulla loro comprensibilità, ma erano uscite dalla mia bocca senza che scoppiassi a piangere. Wow. Per tutta risposta Alec alzò entrambe le sopracciglia e frenò il treno in corsa con l’aria più sbigottita dell’universo. «Tu hai sbattuto la testa e stai delirando. Andiamo, la prima camla è suonata da un pezzo e Sam non riuscirà a tenerci i posti per molto». Girò attorno al banco dirigendosi verso la porta. Rimasi immobile qualche secondo a contemplare mentalmente la mia performance da paranoica. Chissà quante stellette avevo guadagnato. Centinaia, senza dubbio. «Ti dai una mossa?»

Meccanicamente il mio cervello comandò alle gambe di muoversi. Scivolai attraverso la porta e mi lasciai guidare fino all’aula di Inglese dalla marea di studenti che transitava nel corridoio. Alec mi seguiva perplesso ma sereno. Entrai in aula e mi lasciai cadere sulla sedia accanto a Sam. Avevo bisogno del mio amico. Per un’ora di quella stramaledetta giornata mi sarei sentita più tranquilla. Stavo cominciando a cedere. Eileen mi aveva ripetuto mille volte che non ce l’avrei fatta a reggere per sempre e che prima o poi sarei scoppiata. Forse aveva ragione. Sam ci aspettava. Pacifico e sorridente. Mi guardò con il più affettuoso sguardo che gli avessi mai visto sfoderare. Nessuna tempesta negli occhi. Solo paffute e morbide nuvole. «Devo farmi perdonare per la sfuriata di questa mattina. Chiedimi tutto quello che vuoi» disse di slancio non appena mi sedetti accanto a lui. Era troppo per il mio sistema nervoso messo duramente alla prova e per i miei condotti lacrimali che cercavano di arginare la piena da un quarto d’ora. Sentii i lacrimoni rigarmi le guance e non ebbi il coraggio di alzare gli occhi. Continuai a fissarmi le ginocchia mentre la macchiolina d’acqua salata pian piano si allargava sui miei jeans. In lontananza sentivo la voce della professoressa Bishop annunciare alla classe che avremmo iniziato a parlare del periodo elisabettiano. Ero triste e umiliata, ma non era niente confronto a come mi sarei sentita quando avrei realizzato la meravigliosa figura che stavo facendo. Frignare davanti a tutta la classe. Alec avrebbe detto che era proprio una cosa da mocciose. Non riuscii a soffocare il primo singhiozzo. Sam riemerse dallo sbalordimento iniziale e prese in mano la situazione. Alzò la mano per attirare l’attenzione dell’insegnante che lo notò subito, felice che volesse intervenire o fare delle domande. Spiacente professoressa. Si tratta solo di un piantino alla “piccole donne”. «Professoressa, Emma non si sente bene. Credo sia un calo di pressione. Posso accompagnarla a prendere una boccata d’aria?». La Bishop guardò prima Sam e

poi me con la faccia affondata in un fazzoletto di carta ripescato dal fondo dello zaino. Fece un impercettibile cenno di assenso e riprese la lezione. Mi alzai senza staccare gli occhi da terra. Non avevo il coraggio di guardare le facce incuriosite dei miei compagni o peggio quella preoccupata di Alec. Prima di alzarmi lo avevo sentito chiedere spiegazioni a Sam. Avrei voluto essere Flash e attraversare l’aula in una frazione di secondo oppure Connie che poteva fermare il tempo. Nessuno si sarebbe accorto che avevo lasciato il mio posto e imboccato la porta. Non avrei avuto venti paia d’occhi puntati addosso. La traversata mi sembrò lunghissima. Tra le lacrime riuscii a vedere la porta e a evitare di sbattere contro lo stipite mentre uscivo, incidente che mi capitava a piena visibilità, figuriamoci in quelle condizioni. Una volta in corridoio Sam mi prese sottobraccio e mi condusse verso l’uscita. «È una bella giornata e un po’ d’aria ti farà bene. Abbiamo il permesso». Aveva un tono deciso. Rassicurante. Quello che mi occorreva. A quell’ora del mattino la maggior parte del campus era ancora all’ombra, ma trovammo una panchina baciata dal sole e ci sedemmo in silenzio per qualche minuto. All’aperto i suoi capelli sembravano più biondi e gli occhi più grigi, ma non quello cupo dei temporali: era luminoso come l’argento. Era bello il mio Sam. Non c’era da stupirsi che Mads si fosse presa una cotta per lui. Appena fui certa che sarei riuscita a dire due parole in seguito all’altra senza singhiozzare, presi un bel respiro e mi decisi a rompere il silenzio. «Mi dispiace». Più di così non ero in grado di fare. «Ti dispiace per cosa?». Sembrava aver dimenticato il bisticcio di qualche ora prima. Perché dovevano essere tutti così buoni con me? Mi facevano sentire peggio. «Per aver detto a Mads che è stata tua l’idea di invitarla al ballo e per averti

trascinato nel mio teen drama di serie B». Mi soffiai il naso con ciò che rimaneva del fazzoletto. I lucciconi erano finiti, ma parlare mi costava uno sforzo enorme. «Non ti devi scusare, Em. Il ruolo dell’amico consolatore posso interpretarlo solo con te, Alec non piangerebbe mai sulla mia spalla. Per fortuna» aggiunse inorridendo all’idea. «Grazie». Gli concessi un debole sorriso. «Mi vuoi dire cosa succede? Hai litigato con Alec o con le tue sorelle? Non posso credere che sia per il nostro bisticcio e non tentare di spacciarmi questa balla, sarebbe un insulto alla mia intelligenza». Non ci pensavo affatto, ma non avevo intenzione di dirgli la verità. «Non preoccuparti. Sbalzi d’umore, roba da ragazze. Siete fortunati voi uomini» annuii con convinzione. Avevo ripreso il controllo della situazione. La voce era tornata ferma, gli occhi asciutti, forse appena arrossati. Per fortuna non avevo l’abitudine di mettere il mascara, altrimenti me lo sarei trovato spalmato sulle ginocchia. «Okay, non insisto, però voglio che tu sappia una cosa» disse serio ma deluso dalla mia mancanza di fiducia. «Qualsiasi cosa accada, puoi contare su di me. Lo sai vero?». Non sembrava una domanda retorica. «Sono sicura di pochissime cose, ma questo lo so con certezza» dissi tirando su con il naso. Patetica. Mi abbracciò forte e scattò in piedi. «Andiamo adesso. La Bishop è stata comprensiva non voglio approfittarne». Sam il saggio. Sam il responsabile. Ci alzammo dalla panchina e tornammo verso la scuola. Mi domandavo spesso cosa ne sarebbe stato di me e Alec se non lo avessimo incontrato. Cosa saremmo diventati?

Io avrei intrapreso la mia carriera di asociale, mentre Alec avrebbe frequentato gente come Charlie Thompson e si sarebbe annoiato a morte. Sam ci rendeva migliori di quanto fossimo in realtà. Era così da sempre e sarebbe stato sempre così. Per evitare di deluderlo o di metterlo nei guai eravamo costretti a mitigare di molto le nostre intemperanze. Stemperava le ombrosità di Alec con il suo inguaribile ottimismo e riportava me sulla terra quando partivo per la tangente. Si sorbiva i miei sfoghi e i cupi, inspiegabili silenzi di Alec. Sam si occupava di noi. Si preoccupava per noi. Nonostante avesse mille impegni, il giornalino della scuola, gli allenamenti di nuoto e qualche ragazza che ogni tanto appariva all’orizzonte, ma che di rado superava il terzo appuntamento, Sam per noi trovava sempre il tempo: per la serata cinema da Alec, per le mie escursioni in libreria, per le gite alla spiaggia d’estate. Sam c’era sempre. Non si perdeva un compleanno, una partita, uno spettacolo. Non si era fatto mancare nemmeno la mia brillante, nel vero senso della parola, interpretazione della stella cometa per la recita di Natale in quarta elementare. Per una volta avrei voluto occuparmi di lui e della sua felicità, ma ero in grado di farlo senza combinare guai? Alec era convinto di no e forse aveva ragione. Mi lasciai scappare un sospiro che non sfuggì al mio amico. «Ti sei decisa a sputare il rospo?» «Non c’è nessun rospo da sputare. Mi stavo chiedendo se sarò mai in grado di sdebitarmi con te». «Non ti devi sdebitare, Em. Lo faccio per me: se stai bene tu, sta bene Alec e se state bene voi sto bene anch’io. Puro egoismo» soffocò un sorriso carico di sottintesi. Non avevo capito tutti i aggi, ma il messaggio era chiaro. Provavo qualcosa di simile anch’io. Ormai eravamo a un o dall’aula. A breve sarei dovuta rientrare e sopportare le occhiate curiose dei nostri compagni.

«Si vede che ho pianto?» Mi scrutò e cercò uno sguardo rassicurante nel repertorio degli sguardi rassicuranti alla Sam. Scosse la testa, negando quello che doveva essere evidente. «Chi sta cercando di insultare la mia intelligenza adesso?» domandai indispettita. Per tutta risposta scoppiò a ridere. Stavamo per entrare in classe quando dal bagno dei ragazzi dall’altra parte del corridoio, uscì Alec. Ascoltai i battiti del mio cuore prendere la rincorsa e accelerare. Sam era bello ma Alec toglieva il fiato. Distolsi lo sguardo in fretta perché mi resi conto che ci stava fissando a sua volta. Ci scrutava per tastare il terreno e capire che aria tirava. Era evidente che il peggio fosse ato e si avvicinò sollevato. «ata la tempesta?» esordì con leggerezza. «Tutto a posto. Roba da ragazze» rispose Sam con fare misterioso. «Roba da ragazze è peggio di roba da mocciose. Ho il sospetto che Emma per la prima volta sia vittima della sindrome da ballo di fine anno» disse imitando il suo tono cospiratorio. Mi stavano di nuovo prendendo in giro. «Vuoi dirmi che sta cominciando a ragionare come una ragazza?». Si guardarono per qualche secondo fingendo una certa preoccupazione. «Nah!» esclamarono insieme. Ah ah. Che siparietto divertente. «Avete finito di fare i buffoni? Torniamo in classe o la Bishop penserà che siamo scappati da scuola». Scoccai un’occhiataccia a entrambi mi avvicinai alla porta. «Non sia mai Em. Potrebbero sospenderti e ti perderesti il ballo». Ad Alec era tornato il buon umore. A mie spese, però. Afferrai irritata la maniglia della porta, ma prima di entrare in classe mi voltai per fargli una linguaccia. Il suono della sua risata e il ricordo dei suoi occhi divertiti e limpidi mi galleggiarono nella testa per il resto della giornata.

Il vestito adatto

Emma

I giorni che ci separavano dal ballo di fine anno arono talmente in fretta che a mala pena me ne resi conto e solo il giorno prima del grande evento ricordai di non avere un vestito adatto. Non che me ne importasse granché, ma credevo che avrei avuto più tempo per fare la mia scelta. Eileen aveva organizzato tutto nel più piccolo dettaglio e la sua accuratezza mi gettò nel panico. Capivo il bisogno di far filare tutto alla perfezione. Era il primo ballo con Dave. La sera in cui probabilmente si sarebbero scambiati il primo bacio. Mi sembrava banale come occasione, ma forse ero solo gelosa. Al suo posto avrei preferito che quel momento fosse imprevedibile ma Eileen era diversa da me. Era più concreta, più diretta. Per lei non contava il percorso, vedeva solo la meta e stava per raggiungerla. Aveva scelto un vestito di raso verde smeraldo, che richiamava il colore degli occhi e metteva in risalto il ramato dei capelli. Il bustino aderente lasciava le spalle scoperte e la gonna non troppo ampia, le arrivava alle caviglie. I sandali dai tacchi alti erano tinta sabbia. Li aveva mandati nonna Beatrice dall’Italia. Sarebbe stata bellissima. Madison aveva optato per un colore più tenue. Un lilla dolce, quasi glicine che le dava un’aria primaverile. Non era un vestito impegnativo come quello di mia sorella, ma le stava altrettanto bene. Le illuminava il viso e la semplicità delle linee slanciava la figura proporzionata e formosa. Niente tacchi per Mads, preferiva portare le ballerine, come me. Io cosa accidenti mi sarei messa? Mamma mi avrebbe accompagnato volentieri a fare shopping, ma non volevo comprare un vestito che avrei indossato una volta sola. Il fatto che in genere apprezzassi un abbigliamento comodo e informale non aiutava. Nel mio guardaroba non c’era traccia di raso e bustini. Solo polo, jeans e costumi da bagno. Rimaneva solo una cosa da fare e scesi al piano di sotto per cercare di risolvere il fastidioso problema.

Trovai mamma seduta al tavolo in noce della sala da pranzo, intenta a correggere una pila alta una spanna di compiti in classe. Ogni tanto scuoteva la testa e tracciava delle linee con una matita a due punte. Rossa o blu, a seconda dell’errore. I segni blu indicavano gli sbagli più gravi ed era di gran lunga la parte più consumata. Per l’ennesima volta fui contenta di non essere una studentessa di mia madre. Era severa quanto disponibile e pretendeva molto dai suoi alunni. Andava ripetendo che la storia dell’arte doveva essere considerata tanto quanto la letteratura nella formazione di un bagaglio culturale degno di questo nome. Era necessario conoscerne perfettamente gli albori e le correnti principali. Il fatto che mamma fosse italiana, nata in un paese considerato un museo a cielo aperto, giustificava a sufficienza le sue convinzioni. Non era sola in salotto. Miranda leggeva il giornale sulla vecchia poltrona vicino alla finestra. Quel pezzo di arredamento era un vero e proprio cimelio. Kate l’aveva acquistata in un mercatino dell’usato quando si erano trasferiti a Jefferson Road, poco dopo il matrimonio. Era una vecchia poltrona in pelle marrone senza poggiapiedi. L’interno dei cuscini era talmente malandato che non opponeva più resistenza. Si affondava avvolti dal profumo della pelle, resa liscia e morbida dall’usura. Intorno ai piedini, quattro pomelli di legno scuro, il rivestimento era così consumato che aveva perso il colore e dal basso verso l’alto s’irradiavano lunghe rughe bianche che arrivavano a lambire la seduta. Nessuna di noi si sarebbe sognata di disfarsene. Era la poltrona più comoda del mondo e la preferita di papà. Il mausoleo del nostro cimitero di ricordi. Nemmeno mamma aveva trovato il coraggio di buttarla via. Un’immagine che non ero stata abbastanza pronta a soffocare galleggiò nella mia mente per qualche istante. Un uomo giovane, i capelli rossicci spettinati, l’aria divertita. Se ne stava stravaccato sulla poltrona di pelle, i piedi a penzoloni sul bracciolo. Leggeva un libro tenendolo in alto davanti al viso con il braccio sollevato. A un tratto l’uomo alzò gli occhi verdi su di me e mi sorrise. «Emma?». La voce di mia madre mi ridestò dal sogno ad occhi aperti. Scossi la testa per snebbiare la mente e mi voltai verso di lei. «Posso chiederti una cosa o ti disturbo?» chiesi incerta. Sollevò la testa da una

pagina piena di segni blu. «Non mi disturbi affatto, ho bisogno di una pausa. Se non stacco boccerò tutti alla fine dell’anno e non credo che il Preside ne sarebbe contento. Di cosa hai bisogno?». Sfilò gli occhiali e si massaggiò le tempie. Un gesto che faceva quando era stanca. «Ho un problema, anzi una fastidiosa seccatura, ma non credo di poterla evitare. A meno che non prenda in considerazione l’eventualità di andare al ballo in costume da bagno». Non potei trattenere una smorfia a quel pensiero. «Meglio di no». Era comico vedere la stessa smorfia dipinta sul suo viso. «Sei sempre la solita. Ti accorgi il giorno prima che non hai niente da mettere? Eileen è pronta da una settimana». Sospirò di fronte alla mia inefficienza anti-eventi mondani. «Non mi sono resa conto che mancasse così poco tempo. Qualche saggio consiglio costruttivo?». Mamma ci pensò su e mi squadrò da capo a piedi. «L’unica soluzione è dare un’occhiata nel mio armadio. Ho in mente un abito che potrebbe andarti bene. Farò uno strappo alla regola, perché si tratta di un’emergenza, non pensare di attingere dal mio guardaroba per andare a scuola». Si alzò dalla sedia e la seguii fuori dalla sala e poi su per le scale. Era quello che speravo. Tra i vestiti di mamma avrei sicuramente trovato qualcosa che avrebbe fatto al caso mio. La camera dei miei genitori era grande e luminosa sui toni del panna e del giallo. Il letto matrimoniale al centro della stanza era in legno chiaro dalle linee semplici. Davanti al letto era stata sistemata una vecchia cassettiera sormontata da un grande specchio. In bella mostra, allineate secondo uno schema casuale ma in realtà ben studiato, erano incorniciate varie versioni infantili di noi sorelle e qualche immagine più recente. In fondo, nascosta dietro le altre, una vecchia cornice d’argento custodiva l’unica foto di papà di tutta la casa. Molte altre erano state chiuse negli scatoloni sotterrati in soffitta. Mamma aveva tenuto solo quella, ma era quasi impossibile notarla, a meno che non la si prendesse in mano. Cosa che mi guardai bene dal fare visto che la conoscevo a memoria. Da bambina avevo l’abitudine di entrare di nascosto nella camera di mamma e

osservare la foto di papà per qualche minuto. Avevo paura di dimenticare la sua faccia. La voce aveva cominciato presto a sfumare nei miei ricordi e non volevo perdere anche il resto. Ritraeva Kate e James da fidanzati, appena ventenni, seduti sulla panchina di un parco. Mi era sempre piaciuto pensare che fosse il Central Park di New York o qualche romantico parco europeo. Non si erano messi in posa. Mamma stava in braccio a papà, la testa riversa, gli occhi chiusi, i capelli raccolti. Rideva. Indossava una camicetta chiara e dei pantaloni sportivi, forse dei jeans. James, invece, guardava dritto nell’obiettivo. Teneva un braccio attorno alla vita di mamma, l’altro appoggiato allo schienale della panchina. L’aria sicura, i capelli spettinati ad arte. Un mezzo sorriso sulle labbra. Le stesse di Connie. Erano gli occhi a inchiodarmi ogni volta. Avevano un’espressione felice, ma c’era dell’altro. Un’inquietudine sul fondo. Il colore era lo stesso di Eileen, ma il tormento che s’intravedeva lo avevo ereditato io. L’idea che avevo dei miei genitori era più vicina ai due ragazzi della foto che non al concetto generalmente condiviso di “mamma e papà”. Erano rimasti gli stessi dopo il matrimonio: giovani, felici, innamorati. Il papà dei miei ricordi era un ragazzo che non stava mai fermo e baciava la moglie sulle labbra. Poi, tutto a un tratto, se ne era andato. Quando fui sicura che non avrei dimenticato il suo viso, smisi di andare di nascosto in camera di mia madre. Era un pezzo che non davo un’occhiata a quella foto. Mamma aprì la cabina armadio, ma non sembrò intenzionata ad entrarci. Rimase sulla soglia, concentrata e con gli occhi chiusi. «Trovato! Ero sicura di non averlo buttato via» esclamò soddisfatta. Fece un gesto nell’aria con la mano destra. Senza sbavature, preciso e perfetto. Bellissimo. Una busta per abiti volò attraverso la stanza e atterrò leggera sopra il copriletto color panna. Wow.

«Meglio che cominciate ad abituarvi. Ora siete grandi e sapete la verità. Non c’è pericolo che vi spaventiate per qualche trucchetto». Sedette sul letto, accanto all’abito. Rimasi imbambolata davanti all’armadio. Aprivo e chiudevo la bocca come un pesce in un acquario, incapace di emettere alcun suono. «Emma per favore, non ho tempo da perdere. Mi aspetta una montagna di compiti da correggere e devo preparare la cena. Vieni qua, siediti». Ubbidii in silenzio. Aveva steso l’abito sul letto, sopra la busta. Accarezzava il tessuto con la punta delle dita, lo sguardo perso, la mente chissà dove. Era molto elegante ed era di seta. Seta blu notte per essere precisi. Senza maniche, ma accollato e arricciato in vita. La gonna a palloncino arrivava un paio di dita sopra al ginocchio. Lo presi per appoggiarlo sulle spalle e vedere l’effetto che avrebbe fatto. Notai due nastrini partire dall’orlo che girava attorno al collo. Mi domandai che funzione avessero. Fu allora che mi accorsi della scollatura. I nastri servivano per fermare il vestito all’altezza della nuca e una volta legati, i lembi avrebbero lasciato intravedere una parte considerevole della mia schiena. La guardai dubbiosa. Non era esattamente il mio genere. «Non fare storie, starai benissimo. È inutile che ti dica che dovrai stare molto attenta. Ci tengo a quest’abito. Perché non lo provi?» disse incoraggiante. Ubbidii sbuffando, anche se in fondo ero contenta. Il vestito era bellissimo e mi stava discretamente. «Sei splendida, tesoro» commentò orgogliosa. Arrossii. Non mi sentivo a mio agio combinata in quella maniera. «Dovrai rinunciare alle tue amate ballerine. Mettere i tacchi per una sera non ti ucciderà». Fantastico. Mi sfuggì un lamento intravedendo il calvario che mi attendeva. Mamma mi guardò pensierosa e cominciai a sentire puzza di guai. Mi tolsi il vestito e cercai di rivestirmi il più in fretta possibile. «Sbaglio o siamo nervosette? Sarebbe una novità. Non ti è mai importato del ballo di fine anno. Chi ti accompagna?» chiese disinvolta. «Nessuno e non sono nervosetta. Ci vado con Sam, Alec e Madison. In comitiva».

Non avevo nulla da nascondere, era la pura verità. Eppure la sua faccia non presagiva niente di buono. Mi avrebbe fatto il solito predicozzo sui ragazzi? «Senti Emma, c’è una cosa che… » «MAAAAMMAAAA». La voce di Connie precedette per una frazione di secondo l’arrivo in carne ed ossa di mia sorella. Entrò come un tornado nella stanza. «La nonna dice che non ho il permesso di andare al ballo. Perché? Perché loro ci possono andare ed io no? Non è giusto». Connie mi lanciò un’occhiataccia. Adoravo i colpi di scena. Approfittai della sua provvidenziale entrata per sgattaiolare fuori, tenendo stretto tra le braccia il mio prezioso bottino. Kate avrebbe dovuto occuparsi della piccola furia e si sarebbe dimenticata in fretta il discorsetto che voleva farmi. Come se non lo conoscessi già a memoria. Entrai in camera. Eileen sedeva a gambe incrociate sul letto. Ripeteva ad alta voce la lezione di storia: la rivoluzione se. Quando mi vide entrare con l’abito tra le braccia il suo sguardo si accese di curiosità. «Finalmente! Quando l’hai comprato?» chiese lasciando da parte Maria Antonietta e prendendomi il vestito dalle mani. «Non l’ho comprato, è di mamma». Un sorrisetto compiaciuto le si modellò sulla faccia. Osservò con ammirazione il vestito. «Sarai bellissima. Hai finalmente iniziato a darmi retta?» chiese con aria di sfida. «Non è come pensi». «Allora com’è?» mi scoccò un’occhiata intensa. Troppo intensa. «Smettila Elle, non fare la prepotente. Non occorre che usi tuoi metodi, poi rimango fuori fase tutto il giorno. Te lo dirò se mi lasci il tempo di rispondere». Eileen sbuffò, ma abbassò l’intensità dello sguardo. Tornò a sedersi sul letto a gambe incrociate. «Ti ascolto» incalzò e io sospirai. Tanto valeva vuotare il sacco. Me l’avrebbe

estorto comunque e magari mi avrebbe fatto bene. Stavo accumulando troppa tensione. «È per via di Jackie Mayer» dissi lasciandomi cadere sul letto accanto a lei. Eileen sollevò un sopracciglio, perplessa. «Jackie Mayer?». In effetti, il collegamento non era così evidente per chi non trascorreva la maggior parte del suo tempo ad arrovellarsi su Alec. «Jackie ha cercato di farsi invitare al ballo da Alec… » iniziai. «Ricevendo come risposta un educato due di picche, quindi non vedo cosa c’entri Jackie con il tuo vestito» mi scoccò un’occhiata dubbiosa. C’entrava eccome. Jackie sarebbe stata bellissima. Avrebbe indossato un abito perfetto, acconciato i capelli biondissimi, il trucco non avrebbe avuto una sbavatura e avrebbe messo in risalto gli incantevoli occhi blu. Non avevo mai dato importanza a occasioni del genere. Non m’interessavano. Non mi sarei nemmeno divertita se non fosse stato per i miei amici. Per anni avevo indossato un tubino rosso e le ballerine più semplici che possedevo. Chiacchieravo con le persone che conoscevo e me ne stavo incollata al muro commentando i personaggi più assurdi. Ma Jackie aveva invitato Alec e lui aveva rifiutato. Sarebbe stata bellissima e lui l’avrebbe vista. Temevo che si sarebbe pentito di aver respinto il suo invito. Il minimo che potessi fare era rendermi presentabile. «Diciamo che sto cercando di rendere il confronto il meno pietoso possibile» ribattei sarcastica, ma Eileen non si lasciò ingannare dal mio tono. «È lei che non regge il confronto con te e Alec lo sa. L’unica a non rendersene conto sei tu» sentenziò. «Ad ogni modo se ti ha convinto a indossare un vero vestito e delle scarpe decenti, ben venga» concluse soddisfatta. L’accenno alle scarpe mi ricordò che il problema non era ancora risolto. Mi alzai dal letto e tornai al mio armadio. La fila di ballerine e scarpe da ginnastica che vi trovai all’interno fu scoraggiante. Mi voltai verso mia sorella che indicò il ripiano più basso del suo

lato del guardaroba. M’inginocchiai per cercare meglio tra le scatole disposte con ordine sulla mensola. Trovai in fretta ciò che stavo cercando: un paio di decolté blu, spuntate davanti, ma abbastanza alte, sette forse otto centimetri di tacco. Mi sfuggì un lamento e crollai a sedere sul pavimento. «Come fai a resistere?». Era sempre stato un mistero per me come Eileen riuscisse a fare tutto sui tacchi. Anche camminare per delle ore. «Abitudine. Lo sapresti se non andassi sempre in giro conciata come un maschio» rispose senza alzare gli occhi dal libro. Misi le scarpe da parte per evitare una delirante ricerca l’indomani e iniziai a fare i compiti per il lunedì, così da avere più tempo libero nel week end. Il giorno successivo la casa era in fermento. Connie si aggirava per le stanze con aria tetra e non rivolse la parola a nessuno fino all’ora di pranzo. Niente ballo per lei. Era in castigo. Mamma l’aveva sorpresa a fermare il tempo per sbirciare una risposta durante un compito in classe di biologia. Eileen prese possesso del bagno nel primissimo pomeriggio e ne uscì all’ora del tè. Per fortuna la casa era dotata di un secondo bagno altrimenti sarei andata al ballo senza aver fatto la doccia. Miranda si occupò delle acconciature e del trucco. Eileen preferì tenere i capelli sciolti. Li aveva lasciati asciugare all’aria e si erano arricciati in morbidi boccoli che le sfioravano le spalle. Io li feci legare in una treccia annodata dietro all’orecchio stile anni Trenta. La nonna mi osservò per qualche secondo e annuì soddisfatta. «Sei perfetta» mi baciò la fronte e mi girò verso lo specchio per mostrare il suo capolavoro. Tutto sommato non ero male. Sorrisi debolmente all’immagine riflessa. L’abito di mamma mi stava a pennello. Se non mi soffermavo troppo a pensare alla scollatura sulla schiena mi sentivo quasi a mio agio. L’unica nota dolente erano le scarpe. Mi facevano già male. Infilai un paio di ballerine nella borsa. Nel caso me la fossi vista brutta.

Alle sei e mezzo eravamo pronte. Non rimaneva che aspettare l’arrivo di Dave e degli altri. Sam e Alec sarebbero ati verso le sette e poi saremmo andati a prendere Madison. Dave arrivò per primo. Andai io ad aprire. Volevo vedere la sua espressione quando l’avrebbe vista scendere le scale. Mamma si affacciò dalla porta della cucina. «Buonasera signora Hataway. Ciao Em, complimenti, sei molto elegante. Eileen è pronta?» Si guardò intorno nervoso. «Ciao Dave, entra pure. Mia sorella scenderà tra un minuto. Anche tu non scherzi» sorrisi cercando di metterlo a suo agio, ma fu inutile. Era teso come una corda di violino. I grandi occhi castani vagavano per la stanza, saltellando da un punto all’altro. Ogni tanto ava una mano tra i capelli scuri, tagliati corti o si allentava il colletto della camicia. Quel minuto di attesa dovette sembrargli un’eternità. Poi gli occhi di Dave smisero di vagare. Quando Eileen mise il piede sul primo scalino, lui aveva già scritto sulla fronte a caratteri cubitali “SONO UN UOMO FORTUNATO”. Soffocai una risatina e mi godetti l’entrata trionfale di mia sorella. Se esisteva una ragazza con la quale Jackie non avrebbe retto il confronto quella era Eileen. Era stupenda e la felicità che provava le dava un’aria ancora più luminosa. Splendeva di luce propria. Dave non poteva che rimanerne abbagliato. Lo sentii mormorare qualcosa tra sé. Fece un o verso le scale, pronto a darle il braccio. Mamma uscì dalla cucina. «Elle, mi raccomando. Ti voglio a casa alle undici in punto. Adesso andate e divertitevi. Ciao Dave, buona serata». Lo fulminò con lo sguardo. Eileen rise e la baciò sulla guancia. «Sei bellissima, tesoro» disse mamma sistemandole una ciocca fuori posto. «Grazie. Non preoccuparti, faremo le brave. Ciao Em, ci vediamo dopo» e uscì di casa seguita da Dave.

Mamma sospirò e tornò a lavare i piatti. Gironzolai per casa in attesa dei miei cavalieri ritardatari. Erano trascorsi pochi minuti quando il suono insistente di un clacson mi annunciò che erano arrivati. Diedi un’ultima occhiata allo specchio e andai in cucina a salutare mamma e la nonna. «Chi fa tutto questo baccano?». Miranda sbirciava dalla finestra cercando di individuare la fonte del trambusto. «Spero sia sufficiente per convincerti che non ho un accompagnatore segreto» dissi con aria angelica a mia madre. «Non ho mai pensato che avessi un accompagnatore segreto, ma non significa che tu non mi stia nascondendo comunque qualcosa» ribatté seria. Arrossii fino alle orecchie. «Ne riparleremo. Ora vai e cerca di non rovinare il vestito. Vale anche per te quello che ho detto a tua sorella: sei splendida e ti voglio a casa per le undici». Diedi un bacio frettoloso a tutte e due e fuggii via. Aprii di scatto la porta, pronta ad attraversare il giardino, quando mi bloccai sulla soglia. Alec era davanti a me con un dito sul camlo. Mi si ingolfò il cuore. Per la sorpresa, ma non solo. Avrei dovuto immaginare che sarebbe stato ancora meglio. Era così elegante, diverso dall’Alec che ero abituata a vedere a scuola. Un uomo bellissimo stava davanti alla porta di casa con una mano a mezz’aria e un’espressione di autentico stupore sulla faccia. Cos’era quella parola che usavano gli adulti? Cominciavo a intuirne il significato. Dovevo aver dimenticato di respirare, perché non arrivò abbastanza ossigeno al cervello. La testa cominciò a girare e mi aggrappai allo stipite della porta. Un ottimo inizio davvero. Da quanto era iniziata la serata? Due secondi? Fantastico. «Tutto bene?» la voce gli uscì bassa e roca. Allungò una mano per aiutarmi, ma ci ripensò e la mise in tasca. «È colpa delle scarpe. Cosa ci fai sulla porta?» rantolai ancora a corto di ossigeno.

Se fossi riuscita a non guardarlo forse sarei arrivata fino alla macchina senza svenire. Guardai verso l’auto. Sam aspettava con il motore seduto al volante e faceva cenno di muoverci. «Sono venuto a sollecitarti. Siamo in ritardo» disse guardando l’orologio. «Siete in ritardo. Sono pronta da mezz’ora» mi chiusi la porta alle spalle. «Andiamo, Mads ci aspetta». Lo superai e scesi i gradini della veranda. Percorremmo il vialetto e salimmo in macchina. «Ciao Em. Scusa il ritardo, colpa di Alec. Sei uno schianto, bisognerà tenerti d’occhio questa sera. A che ora hai detto a Madison?». Sam scoccò un’occhiataccia ad Alec che non gli badò. Sembrava avere fretta. Interessante. «Comincia col tenere d’occhio la strada. Vorrei arrivarci viva al ballo. A Madison ho detto che saremmo ati per le sette». Alec guardava fuori dal finestrino in silenzio. Al contrario di Sam non sembrava affatto di buon umore. Si era pentito di aver rifiutato l’invito di Jackie? Mi agitai nervosa sul sedile. «Di noi che te ne pare? Stiamo bene?». Sam sorrise dallo specchietto retrovisore. «Benissimo» mormorai. Avrei voluto gettarmi dall’auto in corsa e tornare a casa, ma avrei rovinato il vestito. Sarebbe stata una serata lunghissima.

Una serata quasi danzante

Alec

Sarebbe stata una serata lunghissima. Sam aveva ragione: avrei ato tutto il tempo a tenerla d’occhio. A ribollire di rabbia ogni volta che qualcuno si fosse avvicinato. A sforzarmi di tenere un comportamento normale e disinvolto. A trattenermi dal toccarla. Ero furioso con me stesso. Avevo deciso di andare a prenderla sulla porta per avere il modo di sentire cosa provava. Avrei preso una decisione: buttarmi o lasciarla andare. I segnali fino a quel momento erano stati contrastanti. Speravo che cogliendola di sorpresa sarebbe venuto a galla un sentimento più definito che avrebbe dissipato i miei dubbi. Mi era sembrato un ottimo piano. Peccato che a essere colto di sorpresa fossi stato io. Quando me l’ero trovata davanti, bellissima e confusa, le mie emozioni avevano preso il sopravvento su tutto. Sentivo solo ciò che lei provocava in me, non il contrario. Non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso. Non era già abbastanza difficile? Doveva essere più bella del solito? Il vestito, i capelli, le guance arrossate. Uscendo aveva perso l’equilibrio e si era aggrappata alla porta. D’istinto avevo allungato la mano per aiutarla, ripensandoci immediatamente. Non ero sicuro che sarei riuscito a fermarmi. Il viaggio in macchina verso la sala che era stata affittata per il ballo, l’unica sala convegni dell’unico alberghetto di Saint Claire, fu un’agonia. Sam era talmente di buon umore da risultare irritante, mentre Emma se ne stava in silenzio con un’espressione abbattuta. L’arrivo di Madison aveva migliorato la situazione distogliendola dai pensieri che la tormentavano. Parcheggiammo in una delle piazzole di sosta riservate ai clienti dell’albergo e ci avviammo verso l’entrata. A qualche metro da noi Jackie discuteva con Thompson. Se erano tornati insieme non sembrava tutto rose e fiori. Emma la fissò per qualche istante e sul suo volto riapparve l’abbattimento di prima. Cercai di concentrarmi per capire cosa la disturbasse, ma senza successo. Ero troppo agitato, impaziente, nervoso. Troppo teso verso di lei per percepire alcunché. La sera in cui ne avrei avuto più bisogno, il mio sesto senso mi

abbandonava. Madison la raggiunse e la trascinò via per avere un po’ di privacy. Camminavano davanti a noi, a braccetto. Di nuovo fissai la pallida striscia di pelle che il vestito lasciava scoperta. Strinsi più forte il pugno che tenevo in tasca. Sam mi affiancò e mi guardò di sottecchi. Perché non si levava quel sorrisetto dalla faccia? Mi stava dando sui nervi. «Cosa c’è?» sibilai tra i denti. «Sembri malato. Mi spieghi cosa ti è preso? Prima di arrivare da Emma eri tutto su di giri e adesso sembri un cane bastonato. Ti vuoi rilassare e cercare di goderti la serata?» aveva rallentato il o e mi guardava divertito. Sapevo a cosa stava pensando. Cercava di provocarmi per farmi sputare il rospo. In macchina aveva centrato in pieno il problema. La serata avrebbe messo a dura prova la mia gelosia morbosa e il mio autocontrollo. «L’hai vista? Le sbaveranno addosso tutta la sera. Quando ha aperto la porta ho avuto l’istinto di spingerla dentro e chiuderla in casa» ringhiai sopraffatto dalla frustrazione. «Se non fossi un completo idiota avresti capito che esiste un’unica soluzione: diglielo Alec. Diglielo questa sera. Non capisco cosa stai aspettando». Scosse la testa senza smettere di sorridere. Sembrava contento della mia confessione. Era stato stupido non parlarne con lui, anche se non lo avrei ammesso a voce alta. «Senti chi parla» bofonchiai imbarazzato. «La mia situazione è molto diversa. Ho tutto sotto controllo, al contrario di te. Non vorrei che prendessi a pugni qualcuno. Lo dico per il bene tuo, di Em e di quel poveretto che questa sera avrà la malaugurata idea di non rispettare le “distanze di sicurezza”» sussurrò perché le ragazze si erano fermate e aspettavano davanti alla scalinata d’ingresso. Sam allungò il o e si avvicinò a Madison offrendole il braccio. Lei sorrise raggiante e lo seguì all’interno. Mi affrettai a raggiungere Emma. Guardava verso i nostri amici intenerita e malinconica. «Sento puzza di felicità questa sera».

«Immagino sia merito tuo. Dovresti essere orgogliosa del risultato» risposi cercando di rimanere concentrato. La seta le cadeva addosso formando morbide pieghe, lucide e fruscianti come onde del mare. «Lo sono. Sei ancora convinto di aver fatto bene a rifiutare l’invito di Jackie?». Una parte di me ascoltò la domanda, l’altra percepì una bolla di tristezza e paura. Piccola ma pulsante. Mi parve di sentire accelerare i battiti del suo cuore. Mi guardò con gli occhi spalancati in attesa. Tratteneva il labbro superiore con i denti, come faceva quando era nervosa. Chissà se era un tic di cui era consapevole. Per un attimo pensai a quello che avrei provato se quei denti fossero stati i miei. Tirai fuori la mano dalla tasca e le offrii il braccio. «Lo sono» dissi soltanto e la guardai con intensità, nel tentativo di riuscire a scavare più a fondo e capire se… «Stevens! Siete arrivati finalmente. Le tue fan ti attendono. Sempre che si ricordino che faccia hai, è un pezzo che non ti vedono giocare». L’odiosa e arrogante voce di Charlie Thompson. Mi voltai appena. Jackie sembrava in imbarazzo, ma accanto a lui faceva la sua figura. E viceversa. Erano perfetti insieme. «Ti cedo volentieri il fan club Thompson. Buona serata» tagliai corto gelido. «Non buona quanto la tua» mormorò abbastanza forte perché lo sentissi, sfoderando uno dei suoi sorrisi sprezzanti. Lanciò un’occhiata a Emma, imitato da Jackie che la fulminò con lo sguardo. D’istinto mi avvicinai. Jackie fiutò la situazione e prese sotto braccio Charlie, mettendosi tra me e lui. «Buona serata Alec. Ciao Emma» ci salutò e trascinò Charlie all’interno. Emma piegò la testa di lato sovrappensiero poi mi guardò con aria interrogativa. Sembrava più tranquilla. «Non credo sia il genere di rivalità che il coach Fox definirebbe sana. Cosa ti ha fatto? Ho pensato che sarei annegata nel testosterone». Non si era nemmeno accorta dell’eloquente occhiata di Charlie. «Thompson è un tipo competitivo e non si può stare simpatici a tutti, no? Dai, entriamo» dissi facendole strada.

La sala convegni era modesta e di medie dimensioni. Il comitato per il ballo aveva fatto del suo meglio per renderla accogliente, ma senza ottenere grandi risultati. Oltre alle sedie e ai tavolini apparecchiati per la cena, lungo i lati più lunghi della sala, erano stati disposti alcuni divanetti di finto velluto verde dall’aria piuttosto comoda. Dalle pareti erano stati staccati i quadri che le decoravano e i chiodi erano serviti per agganciare le file dei palloncini bianchi e azzurri, i colori del nostro liceo. Se esisteva un tema non sarei stato in grado di definirlo data l’accozzaglia di decorazioni e manifesti, ma i tavoli del buffet erano traboccanti di cibo e bevande. Almeno non saremmo rimasti a stomaco vuoto e con un po’ di fortuna avremmo trovato un divano dove restare seduti per il resto della serata. Non chiedevo di meglio. «Devono aver ridotto ancora il budget per il ballo di fine anno» commentò sollevando le sopracciglia sottili. Mi avvicinai a lei e iniziai a guardarmi intorno. Sam aveva occupato un tavolo e stava aiutando Madison a sedersi. «Andiamo a mangiare qualcosa?». Le indicai i nostri amici con un cenno della testa. «Alec lasciali stare. Se ci avranno tra i piedi tutta la sera non saremo molto d’aiuto». Aveva l’aria di chi è costretto a spiegare tutto a un bambino piccolo. «Allora cosa vuoi fare?» chiesi impaziente. «Cambiarmi le scarpe, ma dovrò sopportare questa tortura ancora per un po’. Facciamo un giro intanto e beviamo qualcosa». Si diresse verso il tavolo delle bevande. La seguii riluttante. Avrei preferito una zona della sala meno affollata e avevo di nuovo davanti la sua schiena. Mi porse un bicchiere mezzo pieno. Qualcosa alla frutta, senz’altro analcolico. «Non sei costretto a farmi da baby sitter» disse vagamente offesa. Cercava di liberarsi di me? «Non mi sento costretto, ma se vuoi che mi allontani basta dirlo» risposi con una punta d’irritazione. Sorrise e si affrettò a rispondermi.

«Avevo l’impressione che ti stessi annoiando». Si voltò. Eileen e Dave ci stavano venendo incontro attraverso la folla di studenti tirati a lucido. «Ciao Alec, ti dona lo smoking» salutò la maggiore delle Hataway guardando Emma di sottecchi, che abbassò immediatamente lo sguardo. «Grazie. Com’è la festa, Dave?» mi rivolsi subito al mio compagno di squadra. Eileen mi metteva a disagio. Anzi la parola giusta era soggezione. Ebbi un lieve giramento di testa. Strizzai gli occhi per mettere a fuoco chi avevo davanti e mi sentii meglio. Dave stava rispondendo alla mia domanda, ma non riuscii a cogliere quello che stava dicendo. Non era la prima volta che mi capitava. Avevo avuto un episodio simile qualche settimana prima, mentre salivo sullo scuolabus. La testa aveva cominciato a girare e per qualche minuto mi ero sentito come sconnesso dal mondo. Una sensazione più forte di quel piccolo capo giro. La voce di Emma diradò la nebbia e lo stordimento che provavo. «Elle, posso parlarti un secondo?» disse a denti stretti. Era arrabbiata con la sorella. Strano. Fino a qualche istante prima non avevo percepito nessun fastidio nei suoi confronti. Si allontanarono. Continuai a chiacchierare con Dave, ma cercai di tenerle d’occhio. Parlavano fitto, sussurrando per non farsi sentire dagli studenti che si dimenavano intorno a loro. Emma mi lanciò un’occhiata confusa. Tornarono dopo quella che mi sembrò un’eternità, anche se erano trascorsi solo pochi minuti. Nel frattempo il malessere era scomparso e il nervosismo rimasto. In quelle condizioni era impossibile sperare di cogliere con chiarezza le emozioni di Emma. Non avrei mai trovato il momento giusto se avessi continuato ad aspettarlo. Avrei dovuto smettere di pensarci e la soluzione sarebbe arrivata da sola mettendo fine a quel limbo. La mia nuova filosofia non sarebbe piaciuta a Sam, ma era meglio che logorarsi nell’incertezza.

Da quel momento non mi sarei aspettato più nulla, ma avrei provato a comportarmi nel modo più naturale possibile. «Venite a ballare?». Eileen aveva preso per mano Dave e lo stava già trascinando in mezzo alla pista. Emma si voltò verso di me indicando la massa di corpi in movimento davanti a noi. Sollevai un sopracciglio sperando che fosse una risposta sufficiente. Allora si diresse verso uno dei divanetti sistemati lungo il lato della sala e si sedette. Mi accomodai accanto a lei. Teneva sulle ginocchia un piattino di plastica rossa con dentro una fetta di torta. Le presi la forchetta dalle mani e tagliai un pezzo di dolce. Emma riprese la forchetta e divise a metà il resto della torta. Senza dire una parola finì la sua parte e mi porse la mia. Potevamo essere così intimi e così imbarazzati allo stesso tempo? La conoscevo come le mie tasche eppure non riuscivo a capirla. Non sarei riuscito a immaginarmi insieme a un’altra. C’era lei e basta. Non solo perché l’avevo davanti agli occhi da sempre ed era uno spettacolo al quale non volevo rinunciare, ma soprattutto perché mi portavo addosso tutto il giorno un pezzo di lei e non sapevo che ne sarebbe stato di me se ci fossimo separati. Desideravo portarla via da lì. Mi sarebbe piaciuto trovare un posto tranquillo per chiacchierare soli e indisturbati. Mi chinai su di lei. La musica era alta e non sarei riuscito a farmi sentire a una distanza normale. Un’ottima scusa per avvicinarmi più di quanto avrei fatto in altre circostanze. Inspirai forte per catturare il suo profumo, aspettando che fe riaffiorare alcuni ricordi. Senza volerlo con le labbra le sfiorai la guancia. Sentii un leggero formicolio nel punto in cui avevo toccato la sua pelle. Emma s’irrigidì, ma notai la pelle d’oca affiorare sul suo braccio. Abbassò e inclinò la testa per sentire meglio. I nostri visi non erano mai stati così vicini. «Andiamo via» sussurrai. Mi rispose annuendo con lentezza, sovrappensiero, ma senza esitare. Non le dispiaceva lasciare la festa per venire via con me. Non pensai a dove saremmo andati o cosa avremmo fatto. Volevo solo

allontanarmi dalla confusione e dal rumore. Portarla via da tutti quegli sguardi. Non volevo condividerla con nessuno. «Devo recuperare le scarpe. Sono in macchina» disse distratta. Era ancora molto vicina, ma guardava dritto davanti a sé. «Chiederò a Sam di prestarcela, torneremo a prenderli a fine serata». Non le lasciai il tempo di rispondere. Mi alzai dal divanetto e iniziai a cercare il mio amico per farmi dare le chiavi dell’auto e avvisarlo che saremmo andati via. Lo trovai a un tavolo del rinfresco che prendeva da bere. Per due. «Mi servono le chiavi della macchina. Ce la squagliamo». «Ve la squagliate?». Mi lanciò un’occhiata perplessa, poi ci ripensò. «Okay. Niente domande, tanto è inutile. Emma deve essere a casa per le undici e riportami la macchina, non posso tornare a casa volando». Sembrava più divertito che rassegnato. Cercò le chiavi nella tasca dei pantaloni e me le lanciò. Le presi al volo. «Grazie. Ci vediamo più tardi, divertitevi. Niente male per essere un nonappuntamento» sorrisi sornione e mi allontanai. Ero quasi arrivato a destinazione quando m’imbattei in Jackie. Era l’ultima persona che avrei voluto incontrare in quel momento. Temevo che fosse arrabbiata e Charlie non era con lei, cosa che non mi piaceva affatto. «Attento Alec, finirai per travolgere qualcuno». Il tono amichevole faceva a pugni con l’occhiata gelida che mi aveva rivolto. «Scusami, non ti avevo vista». Gli occhi blu di Jackie seguirono la direzione dei miei e una volta appurato chi stessi cercando, si strinsero in due fessure per la frazione di un secondo. Le labbra piene si storsero in una piccola smorfia. Di bene in meglio. «Perdonami, devo proprio andare». Feci per proseguire, ma mi trattenne afferrando una manica dello smoking. La guardai con aria interrogativa. «Ti va di ballare? Sono certa che la tua amica Emma può sopravvivere per cinque minuti senza di te». Il modo in cui aveva pronunciato la parola “amica”

mi diede un’idea dei sentimenti di Jackie nei suoi confronti. Mi liberai con delicatezza dalla presa. «Grazie Jackie, ma ballare non fa per me. Credo che Charlie ti stia cercando. Non è lui quello laggiù?». Non fece in tempo a voltarsi che ero sparito. La mia amica mi aspettava appoggiata alla parete. Le braccia dietro la schiena, guardava il soffitto con aria annoiata. La osservai per qualche secondo contento di non essere visto. Quando se ne accorse fece cenno di avvicinarmi. «Hai cambiato idea?» chiese arricciando la piccola bocca in un leggero disappunto. «Sono stato trattenuto, ma ho recuperato le chiavi. Possiamo andare» dissi sventolandogliele sotto il naso. Attraversammo la sala in direzione dell’uscita. Sapevo che tutti ci stavano guardando e che la nostra uscita di scena avrebbe scatenato qualche pettegolezzo, ma non m’importava. Se le cose fossero andate come speravo, si sarebbero dovuti abituare all’idea. Una volta usciti mi accorsi che l’aria si era fatta più fresca. Emma incrociò le braccia al petto e si strinse nelle spalle. Mi tolsi la giacca e gliela misi addosso. «Grazie. Questo vestito non è molto pesante» si giustificò. Me ne ero accorto. Mi misi a fissare un punto molto lontano nell’universo. Al contrario di lei mi sentivo bruciare e sapevo che non dipendeva dalla temperatura dell’aria. «È perfetto per la serata» dissi cercando di sembrare disinvolto. «Ti sta bene» farfugliai. Emma sollevò un sopracciglio, pronta a ribattere a quella che senza dubbio aveva scambiato per una presa in giro quando si bloccò. Arricciò il naso e strinse gli occhi. Vacillò, ma riuscì ad afferrare il corrimano in ottone. Pensai che fosse inciampata, poi lo sentii. Prese il sopravvento su tutto. Non esistevano più pensieri, solo l’istinto e l’istinto mi diceva solo una cosa. Pericolo.

Una scarica di adrenalina mi percorse dalla testa ai piedi. Più potente di quella che mi scorreva nelle vene durante una partita o quando spingevo sull’acceleratore. Il cuore pompava a mille sangue e rabbia e li distribuiva equamente a tutte le parti del corpo. Sentivo ogni singolo tendine contrarsi, pronto a scattare. Mi sembrò che fosse pieno giorno tanto la mia vista si era fatta acuta e l’udito sensibilissimo. Ogni rumore, anche il più impercettibile, mi si piantava nel cervello come una scheggia. Potevo vedere e sentire ogni cosa, come una preda sotto tiro che si accorge del predatore e rimane in allerta pronta a scappare o a difendere ciò che ha di più caro. Strinsi i pugni pronto a colpire. Dopo qualche secondo la sensazione di pericolo svanì, così com’era arrivata. Iniziai a rilassarmi senza abbassare la guardia. Tornò la luce ingannevole del crepuscolo e i rumori si affievolirono uno a uno. Mi voltai verso Emma. Era pallida, ma sembrava stare bene. La giacca era caduta a terra e si chinò per raccoglierla. «Tutto okay?» domandai guardandomi intorno ancora una volta. «Sono queste stupide scarpe, ho perso l’equilibrio» sorrise a stento, senza guardarmi negli occhi. Quella proprio non la bevevo. Tornai a osservarla. Cosa mi stava nascondendo? Aveva sentito ciò che avevo sentito io? Il pericolo, i sensi a mille, l’adrenalina? Emma e i suoi segreti. Un giorno sarebbe riuscita a fidarsi di me? «Ti porto io o di questo o arriveremo alla macchina domani mattina». Senza lasciarle il tempo di ribattere la presi in braccio e mi diressi verso la macchina. Pensavo che avrebbe opposto resistenza e che si sarebbe lamentata, invece non disse una parola né si divincolò tra le mie braccia. Appoggiò la testa alla mia spalla e si lasciò cullare dai miei i. Fu una dura prova. Nonostante fosse leggera come una piuma, percorrere i pochi metri che ci separavano dall’auto di Sam risultò meno facile del previsto. Sentivo la strana corrente attraversare la seta del vestito facendola crepitare e diffondersi dalle braccia fino al petto. Centinaia di piccoli delicati spilli e un

caldo insopportabile. Più difficile ancora fu sentirla così vicina, così viva tra le mie braccia e resistere alla tentazione di stringerla più forte. «Grazie, molto cavalleresco. Peccato che Jackie si sia persa lo spettacolo, avrebbe apprezzato il tuo gesto da gentiluomo» disse quando la deposi con delicatezza accanto alla macchina. Si appoggiò alla fiancata, come se fe fatica a reggersi sulle gambe. Nonostante il tono disinvolto, il viso era tirato, lo sguardo lucido. «Molto divertente» tagliai corto. Jackie era l’ultimo dei miei pensieri. Volevo andarmene da quel posto. «Hai deciso cosa vuoi fare? Non mi alletta l’idea di are qui il resto della serata». La sensazione di pericolo era scomparsa, ma il parcheggio sembrava più squallido e tetro di quando eravamo arrivati. La incalzai con lo sguardo e messa alle strette decise. «Luigi dovrebbe essere aperto, no?» E pizza sia. Luigi Corsini era il titolare di un locale del centro. Un comunissimo ristorante per famiglie, che frequentavamo da quando avevo memoria. Era il posto dove da bambini andavamo a mangiare con i genitori il sabato sera e la meta delle nostre prime uscite senza accompagnatori. Un porto sicuro dove servivano un ottimo caffè e una pessima cucina italiana. Emma lo adorava. Si fermava sempre a fare quattro chiacchiere con il vecchio ristoratore, rigorosamente in lingua madre. Cosa che mi affascinava e mi urtava al tempo stesso. Era come se una parte della sua vita non fosse alla mia portata. Come se volesse tenere me e Sam fuori dal cerchio. Non potevamo condividere tutto come avrei voluto, perché lei avrebbe sempre potuto nascondersi dietro a una lingua, a una cultura che non mi appartenevano. Conoscevo gran parte delle sue emozioni, l’avevo vista cadere dalla bicicletta, mi aveva ato la varicella ed io gli orecchioni. Aveva abbandonato i panni

della mocciosa disobbediente e irrequieta ed era diventata una ragazza, svampita e ipersensibile, ma anche divertente e lunatica. Tutto davanti ai miei occhi. Sarei stato capace di trovarla in mezzo a una folla di mille persone. Sapevo cosa la faceva arrabbiare e cosa la divertiva. Eppure, nonostante fosse parte di me ed io di lei, qualcosa ci teneva distanti. Qualcosa m’impediva di percepire con chiarezza i suoi sentimenti, mi frenava quando ero sul punto di dirle tutto. Avevo la sensazione che lei sapesse cosa e me lo tenesse nascosto. Non avrei saputo dire il motivo, ma qualunque cosa fosse mi faceva paura. «Vada per Luigi» acconsentii sconfitto. Salimmo in macchina e ci dirigemmo verso il centro. Guidai in silenzio, concentrandomi sulle marce della Subaru, più lunghe rispetto a quelle dell’auto di mio padre. Anche Emma taceva immersa nei suoi pensieri. Arrivammo al ristorante nel momento di picco della serata. Per trovare un tavolo avremmo avuto bisogno di un miracolo. Sofia, la nipote di Luigi, una ventenne dall’aria florida e simpatica, accoglieva i clienti all’entrata con uno strepitoso sorriso. Era sempre di buon umore, almeno così sembrava. Non appena vide Emma lasciò la sua postazione per salutarla con due baci sulle guance e le chiese se avessimo prenotato. «No, purtroppo. Abbiamo deciso all’ultimo minuto. C’è molto da aspettare?». Sofia controllò l’agenda aperta sul tavolino e fece cenno di seguirla. Ci condusse a un tavolo per due, vicino alla vetrata che dava sulla strada. «Per le figlie di Caterina c’è sempre posto. Avviso lo zio che sei qui, vorrà di sicuro salutarti» e sparì tra il via vai di camerieri. Ci accomodammo al tavolo e l’aiutai a sedersi. Nel toglierle la giacca sfiorai la striscia di pelle che il vestito lasciava scoperta. La punta delle dita mi bruciò come un’ustione. Inspirai a fondo e mi sedetti davanti a lei. Mentre le porgevo la carta arrivò Luigi.

«Ciao Emma, sei bellissima. Un appuntamento galante?» disse in italiano, facendo l’occhiolino. Emma arrossì e scosse la testa con un cenno di diniego. «Come sta la tua splendida mamma?» proseguì il proprietario del locale. «Molto bene Luigi. Grazie. Le porterò i tuoi saluti». La lingua sconosciuta fluiva dalle sue labbra come quella che condividevamo. La mia comprensione dell’italiano si fermava a grazie e arrivederci, quindi terminati i convenevoli si tornò in fretta all’inglese per fare le ordinazioni. Emma ordinò una pizza. Non avevo molta fame, ma la imitai. Sapevo che avrei dovuto finire la sua, perché di rado riusciva a mangiarne una intera. Alla pizza seguì il famoso tiramisù di Luigi. Generalmente non lo avrebbe diviso con nessuno, ma alla fine mi concesse un assaggio dopo averla implorata per cinque minuti. ammo il resto della serata seduti al tavolo a chiacchierare. Ero più rilassato rispetto a quando eravamo arrivati al ballo e non fu difficile concentrarmi sulla conversazione, impedendo alla mente di fare i soliti voli pindarici. Erano rare serate come quella, anzi forse era la prima volta che trascorrevamo tanto tempo da soli. Mi accorsi che le cose da dire erano tante e nei momenti di silenzio non c’era imbarazzo o tensione. Sprofondare per qualche istante nei nostri pensieri era naturale come parlare. Senza che me ne rendessi conto arrivò l’ora di andare a prendere Sam e Madison. Sapevo quanto Kate fosse inflessibile sugli orari e non volevo che Emma asse dei guai. Pagai la cena nonostante le sue lamentele e raggiungemmo l’hotel. I nostri amici aspettavano nel parcheggio. Ridevano e scherzavano, ma nulla lasciava intendere che tra loro fosse successo qualcosa. Decidemmo di riaccompagnare Emma per prima. Arrivati a casa Hataway scesi dalla macchina. Due i non mi avrebbero ucciso e non ci tenevo a reggere il moccolo durante i saluti post-ballo. Sam mi ringraziò con un’occhiata e sfrecciò via. Accompagnai Emma alla porta. Prese le chiavi da sotto un piccolo vaso della veranda. «È stato uno strano ballo di fine anno» sorrise scoprendo i denti bianchi come

perle. «Ci vediamo domani». Esitò guardandomi con un’espressione disarmante. «Buonanotte». «Buonanotte» balbettai, ma non mi sentì. Era sparita dentro casa, mentre il suo profumo si dissolveva nell’aria di una notte di maggio.

Partenze

Emma

«Hai preso tutto? Non vorrei che fossi costretto a comprare a Parigi quello che hai dimenticato, non te lo puoi permettere. Hai promesso di portarmi un regalo». Cercai di buttarla sul ridere e mandare giù il groppo che avevo in gola. Ridicolo. Sam sarebbe stato via solo tre settimane, era fuori luogo fare tutte quelle sceneggiate. Le partenze non mi erano mai piaciute. Avevo l’impressione che chi se ne andava, anche se per un breve periodo, si prendesse in ostaggio qualcosa di te. Mi sarebbe mancato tanto. Era la prima volta che ci separavamo per un periodo così lungo, ma Sam era entusiasta del viaggio in Europa e sarebbe stato meschino da parte mia rovinargli la festa. Al bando i lucciconi. Dovevo sfoderare il migliore dei sorrisi. Alec mi guardò di sottecchi e si lasciò sfuggire un sorrisetto. Che nervi. Possibile che mi leggesse tutto in faccia? Beh, non proprio tutto, per fortuna. La risata di Sam mi riportò alla realtà, giusto in tempo per farmi stritolare da uno dei suoi abbracci. «Dai Em, starò via solo tre settimane! Sarà dura sopportare Alec da sola, ma cerca di resistere okay?». Per tutta risposta l’amico gli tirò un pugno sulla spalla. «Stai attento alle si, fratello. Alla mocciosa ci penso io». Scoppiarono a ridere e mi guardarono per gustarsi la faccia che avevo fatto. La risata si amplificò a livello esponenziale. «Ah ah. Molto divertente. Vi devo ricordare che sono presente, vi sto ascoltando e non ho più sette anni?» Erano davvero irritanti quando facevano così e la battuta di Alec mi aveva fatto arrossire fino alla radice dei capelli. Bel colpo. Si prospettavano tre lunghe, imbarazzanti e pericolose settimane. Avevamo accompagnato Sam all’aeroporto di Hartford. Il volo per New York sarebbe partito da lì. Una volta fatto scalo al JFK, avrebbe preso l’aereo per Madrid, dove avrebbe trovato ad attenderlo lo zio Jeff.

Sam aveva convinto i genitori a lasciarlo partire. I suoi voti alla fine dell’anno erano stati buoni e vedere un po’ di mondo non gli avrebbe fatto male. Per quello ci trovavamo al terminal delle partenze in un’afosissima mattinata di fine luglio. Avevo il morale sotto i tacchi e un attacco di panico in tasca. Tre settimane senza Sam. Tre settimane da sola con Alec. Come avrei fatto a resistere? Arrivò il momento dei saluti. La voce all’altoparlante richiamò i eggeri del volo per New York e per Sam giunse il momento di imbarcarsi. Salutò goffamente i genitori e la sorella e scambiò un abbraccio da maschi con Alec. Se fossi stata di umore migliore li avrei presi in giro, ma ero sconsolata e cupa e per la tenerezza mi si strinse il cuore. Salutò me per ultima, abbracciandomi di nuovo. «Andrà tutto bene». Mi soffiò all’orecchio poi si staccò da me per guardarmi dritto negli occhi. «Ve la caverete alla grande e al mio ritorno avrai il tuo regalo, promesso». Non dissi niente. Il massimo che riuscii a fare fu un sorriso stropicciato e un cenno con la testa. Per un momento avevo avuto la sensazione che Sam avesse capito tutto e mi stesse rassicurando. Assurdo. Aspettammo che superasse le porte automatiche del cheek-in per salutarlo un’ultima volta, poi ci incamminammo verso il parcheggio. Alec si era fatto prestare la macchina dal padre. La sua sarebbe arrivata alla fine di agosto. Nuova di zecca. Nel frattempo si arrangiava. D’estate ci muovevamo in bicicletta e per i tragitti più lunghi trovavamo sempre un genitore disposto a prestarci l’auto. Avevamo un’oretta di viaggio davanti a noi e la cosa mi atterriva. Non tanto per la guida di Alec, non se la cavava male al volante, ma come prima prova avrei preferito qualcosa di più soft. Un’ora da soli in uno spazio angusto non era precisamente quello che avrei scelto per testare il mio autocontrollo. Iniziare da una situazione difficile però, avrebbe fatto apparire il resto molto più alla mia portata. Chi ben incomincia è a metà dell’opera, no? Inspirai a fondo e salii in macchina. Alec aveva messo la cintura di sicurezza e stava decidendo cosa ascoltare. Optò per una selezione che Sam aveva messo insieme e che avrebbe fatto da colonna sonora durante il viaggio in Europa.

Mise in moto e imboccò l’uscita in direzione dell’autostrada. Canticchiava a bassa voce per coprire il mio silenzio. Era immerso nei suoi pensieri e non sembrava aver voglia di fare conversazione. Mi costrinsi a guardare fuori dal finestrino e mi liberai in silenzio del sospiro che avevo impigliato in gola. Indossava una camicia leggera, a righe sottili bianche e azzurre e un paio di jeans blu scuro. Le solite scarpe da ginnastica ormai consumatissime ma belle perché vissute. Si era lasciato crescere i capelli nell’ultimo periodo e i ricci scuri erano cresciuti disordinati e ispidi intorno alla testa. Non so cosa avrei dato per affondarci la mano. Meglio non pensarci. Molto meglio. «A cosa pensi?» Aveva staccato gli occhi dalla strada e mi aveva sorpresa assorta nel panorama. Potevo vedere il suo riflesso nel finestrino. Dovevo rispondere. Sarebbe stato strano se non l’avessi fatto. Che sei bellissimo e che sono infelicemente innamorata di te. Da sempre. Avrei potuto dire così se avessi avuto istinti suicidi. Sarebbe stato un ottimo metodo per farlo uscire di strada. Cercai nella mia testa una risposta sensata, ma non trovai nulla. Era uno dei problemi. Non riuscivo a pensare quando c’era lui. A pensare in maniera coerente. Il mio sarcasmo evaporava. «Niente». Era tutto quello che ero riuscita a dire. Niente. «Em?». Il suo tono non sembrava promettere niente di buono. «Sì?». Che bella conversazione monosillabica. «Ti dispiace più per la partenza di Sam o per il tempo che dovrai trascorrere con me?». Una piccola smorfia gli piegò le labbra per una frazione di secondo, ma la nascose subito in un sorriso pieno di comprensione. Ecco. Fantastico. Mancava solo che pensasse una cosa del genere. Non mi dispiaceva rimanere sola con lui. Non mi dispiaceva per niente. Una parte di me era felice all’idea, ma sarebbe stato meglio non esprimere

interamente il mio entusiasmo. Mi voltai verso di lui con il sorriso più furbo che riuscii a modellarmi sulla faccia. «Non sono dispiaciuta, sono preoccupata. Temo che fare da baby sitter a tempo pieno vada al di là delle mie capacità». Tono canzonatorio, conversazione sciolta. Forse me la sarei cavata anche senza Sam. Ero stata in grado di formulare una frase di più di due parole e avevo fatto anche una battuta. Stavo migliorando. Alec buttò indietro la testa e scoppiò a ridere. Adoravo il suo modo di ridere. Si voltò per guardarmi di nuovo. Con qualcosa d’indecifrabile negli occhi. «Sarai un’ottima baby sitter. Non ho dubbi» sorrise sornione. «Posso decidere io come trascorreremo il tempo in queste tre settimane e organizzare una gita a sorpresa?» domandò speranzoso. Aveva un posto in mente, ma non riuscivo a immaginare quale potesse essere. In condizioni normali avrei avuto grosse difficoltà a negargli qualcosa, ma in quel momento era addirittura impossibile. Acconsentii senza riserve con l’unica condizione che avremmo dedicato del tempo ai compiti delle vacanze. Sbuffò, ma accettò il compromesso. Trascorremmo il resto del viaggio a fare progetti sui giorni che ci attendevano. Cercai in tutti i modi di farmi dire quali fossero i suoi piani, ma non riuscii a estorcergli nemmeno un indizio. Mano a mano che la strada scorreva sotto di noi, mi sentivo più tranquilla e a mio agio con lui. Mi sentivo bene. Eravamo fermi in macchina davanti a casa mia quando al mio ennesimo tentativo di scoprire i suoi piani mi zittì appoggiandomi un dito sulle labbra. «Fine dell’interrogatorio. È una sorpresa, cerca di avere pazienza. Sei peggio dei bambini. Sicura di non essere tu ad avere bisogno di un baby sitter?». La solita scossa leggera si diffuse su tutto il viso e arrivò in un lampo al cervello. Non esisteva un solo pensiero nella mia testa che non riguardasse quel gesto. La sensazione fisica che avevo provato quando mi aveva toccata, l’odore della sua pelle, il sapore che era rimasto sul labbro inferiore. Il ricordo che quel gesto aveva scatenato.

Non diede segno di aver percepito la scossa o di essersi accorto che ero partita per la tangente. Come sempre Alec si dimostrava imibile di fronte ai miei scompensi. Era più che altro divertito dalla mia curiosità. Compiaciuto. Possibile che fosse così distratto? Lo avevo sempre considerato un acuto osservatore, ma non ero oggettiva quando si trattava di lui. Avrei dovuto osservarlo meglio e mettere da parte i miei pregiudizi. Mi avrebbe aiutato a tenere i piedi per terra e a evitare di farmi scoprire nel giro di un paio di giorni. O di minuti se non mi decidevo a rispondergli. Scrollai la testa per snebbiarmi il cervello. Si aspettava una risposta. Una battuta magari. «È difficile da stabilire. Bisognerebbe tenere il conto». Non parlavo sul serio. Stavo scherzando, ma lui spalancò gli occhi entusiasta. «Ottima idea. Alla fine delle tre settimane scopriremo chi ha più bisogno dell’altro». Il suo sguardo faceva intuire che conoscesse già la risposta e la cosa non mi rassicurò affatto. Se avessimo scommesso su chi sarebbe uscito vincitore dalla sfida avrei vinto a mani basse. Non era difficile da immaginare. «Credo di essere in vantaggio. Senza la mia guida impeccabile e l’auto di mio padre non avresti potuto accompagnare Sam all’aeroporto, quindi due a zero per me». La situazione per certi versi era comica. Si credeva in vantaggio di due punti. Per come la vedevo io era già un milione a zero. Da anni. Mi scappò una risata nervosa. «Ti concedo un po’ di vantaggio solo perché sono molto generosa e non voglio ferire il tuo ego». Sentii una goccia di sudore scendermi lungo la schiena. Cominciava a fare caldo nell’abitacolo. «Devo andare, altrimenti mia madre penserà che sono scappata in Europa con Sam e chiamerà l’Fbi». Sorridere. Aprire la portiera. Scendere dall’auto, possibilmente senza svenire. Chiudere la portiera. Ero riuscita a fare tutto abbastanza bene, quando lui mi richiamò. «Em?» Aveva abbassato il finestrino e si era allungato verso il sedile del eggero. Mi guardava con un’espressione indecifrabile. Cosa diavolo aveva quel giorno? Sembrava vedermi attraverso, come se non avessi la pelle, i muscoli, le ossa. Come se davanti ai suoi occhi ci fossero soltanto i miei sentimenti, le mie paure,

le mie speranze, i miei desideri, tutti in fila e in bella mostra. Mi faceva sentire nuda, senza difese. Credevo che mi sarei sentita in imbarazzo, invece non era una brutta sensazione. Mi sentivo me stessa. «Sì?» Non potevo abbassare la guardia proprio in quel momento. Avevo fatto dei i avanti ma la strada era ancora irta di pericoli. «Cerca di non prenderti impegni in queste settimane, preferirei non doverti dividere con nessuno. Ho diritto a un po’ di esclusiva, no?». Era serio o mi stava prendendo in giro? Se mi fossi ricordata di respirare, forse sarebbe arrivato abbastanza ossigeno al cervello per capire la sua espressione e il tono della voce. Troppo tardi. Avevo perso il momento. Non feci in tempo a rispondere che se n’era già andato. Rimasi sul vialetto di casa a fissare la macchina che si allontanava. Era tutto così strano. Dalla sera del ballo Alec si comportava in maniera bizzarra. L’intera serata a dire la verità lo era stata. Si era allontanato da me solo pochi minuti e dopo nemmeno un’ora mi aveva trascinata via senza tante spiegazioni. Non che avessi intenzione di opporre resistenza. are la serata sola con lui equivaleva a vincere la lotteria senza aver comprato il biglietto: una circostanza contro la dura legge delle probabilità. Era stato un sollievo lasciare la festa. Continuavo a pensare a Jackie, al suo aderentissimo vestito rosso. Era splendida. Paragonarmi a lei era come mettere a confronto una rosa cremisi a stelo lungo e un non ti scordar di me. Paragone che non aiutava la mia autostima. A mettere la ciliegina sulla torta ci aveva pensato Eileen. In un eccesso di amore fraterno aveva provato a usare i suoi poteri su Alec. Per fortuna me ne ero accorta in tempo. Le circostanze m’impedivano di farle una scenata, ma ero riuscita a prenderla da parte e chiederle spiegazioni. Elle aveva liquidato la faccenda in fretta, senza mostrare il minimo senso di colpa.

«Puoi stare tranquilla. I miei poteri non funzionano su di lui. É come se mi trovassi davanti a un muro. Non so se sia normale, chiederò a mamma» aveva concluso pensierosa. Il perché fosse immune ai nostri poteri lo ignoravo, ma doveva esistere una spiegazione. Avrei voluto approfondire l’argomento, ma Alec ci stava guardando e Dave era impaziente di proseguire la serata. Tornata da lui lo trovai ancora imbronciato e nervoso. Si guardava intorno con aria sospetta, come se si aspettasse un’imboscata da un momento all’altro. Non riuscivo a capire il motivo di tanto malumore. Ogni tanto lo sorprendevo a fissarmi assorto con le sopracciglia aggrottate e l’aria frustrata. Eravamo seduti su un orribile divanetto quando mi aveva proposto di lasciare la festa. Forse andare via da tutta quella confusione avrebbe aiutato a sciogliere la tensione e avevo acconsentito senza esitare. Poi c’era stata la cosa nel parcheggio. Stavo per scendere il primo gradino della scalinata esterna quando la sensazione netta e precisa di un segreto mi aveva colpita come uno schiaffo. Il bruciore al naso era stato talmente forte e la percezione intensa da farmi perdere l’equilibrio. Mi ero aggrappata al corrimano prima di precipitare giù per le scale. Mi girava la testa e mi sentivo confusa. Non capivo da dove arrivasse. Non da Alec. Ero rimasta con lui tutta la sera e se mi avesse tenuto nascosto qualcosa, me ne sarei accorta. Era la prima volta che un segreto si annunciava in maniera così violenta e improvvisa senza che avessi davanti la persona che lo riguardava. Lo avevo percepito a distanza? Qualcuno voleva farmi del male? Mi guardai intorno, ma non vidi nulla. Nessun movimento, nessun rumore. Non mi sentivo affatto bene. Era come se un treno mi avesse investita a tutta velocità. Solo l’idea di attraversare il parcheggio mi faceva imperlare la fronte di sudore. Come se mi avesse letto nel pensiero Alec mi prese in braccio e non ebbi la forza di oppormi. Nemmeno nei miei sogni avevo sperato tanto. Mi concessi quel momento di debolezza e appoggiai la testa alla sua spalla. Il freddo che avevo

provato quando ci eravamo trovati all’aria aperta era del tutto sparito. Mi sentivo al sicuro tra le sue braccia. Era come riposarsi dopo un lungo viaggio. Era come tornare a casa. Non mi preoccupai della scossa o di ciò che avrebbe pensato. Assaporai il momento, il calore, il contatto tra di noi. Quando arrivammo alla macchina, fu come svegliarsi dopo un bel sogno. Mi reggevo a stento sulle gambe. La cena andò meglio del previsto. L’ambiente familiare riuscì a stemperare il nervosismo. A parte il fatto che per poco non mi mettevo a strillare in mezzo al ristorante. Nell’aiutarmi a togliere la giacca aveva toccato senza volerlo la pelle che il vestito lasciava scoperta. La scossa era stata più violenta del solito e inaspettata. Per qualche secondo avevo sentito una linea di fuoco bruciarmi la schiena. Sulla porta di casa ero talmente su di giri che stavo per salutarlo con un bacio sulla guancia. Fortunatamente la parte razionale del mio cervello aveva avuto la meglio. Qualcosa era nell’aria, molte cose stavano cambiando. A partire dalle abitudini della mia famiglia. Kate e Miranda si erano decise a illuminarci su alcune cose che avremmo dovuto sapere. Solo l’ABC, ma era meglio di niente. Esistevano due diversi tipi di poteri: attivi e ivi. I poteri ivi permettevano di controllare la mente, il tempo, i ricordi, le emozioni. I poteri attivi, al contrario, interagivano con la materia: gli oggetti, gli elementi naturali, gli essere umani. Erano più pericolosi e più rari. Andavano perfezionati attraverso lo studio e la disciplina se non si voleva andare incontro a conseguenze sgradevoli. I nostri poteri ivi dovevano servire a proteggere noi stesse e la nostra famiglia in caso di pericolo. Cosa ci minacciasse al momento non era dato sapere. Miranda disse che non c’era nulla di cui preoccuparsi. La natura ci forniva gli strumenti, ma questo non significava che ne avremmo avuto bisogno. In genere le streghe non avevano più di tre figlie e a ognuna di loro veniva assegnato un ruolo all’interno della famiglia. La primogenita era la guida. Avrebbe vegliato sulle sorelle e sarebbe stata a sua volta matriarca. La secondogenita, cioè io e qui viene il bello, era la guerriera, la protettrice della famiglia e avevo maggiori possibilità di sviluppare poteri attivi. Per poco non

cadevo dalla sedia dalle risate quando la nonna lo aveva spiegato con tono solenne. «Non c’è niente da ridere. Se scoppiasse una guerra o foste in pericolo saresti tu a dover combattere per difendere le tue sorelle» aveva commentato minacciosa. «Se scoppiasse una guerra se ne occuperebbe l’esercito degli Stati Uniti» ironizzai. «Non essere sciocca, sto parlando delle nostre guerre. In ato è accaduto. Clan rivali si sono scontrati fino a rischiare l’estinzione e la tua famiglia è molto potente. Saresti in prima linea». Guerre? Estinzione? Mi ò tutta la voglia di ridere. «Non le spaventare, Miranda» intervenne mamma. Poi si rivolse a noi, impietrite sulle seggiole della cucina. «Vostra nonna si riferisce a cose accadute moltissimo tempo fa. Oggi nessuno lotta più per il potere. È stato stabilito un ordine che per quanto fragile resiste da secoli». Avrei voluto altre spiegazioni, ma Connie premeva per sapere quale fosse il ruolo della terza figlia, così Miranda proseguì, lasciando da parte le lotte, il potere e il nuovo ordine. «La terza figlia ha il compito di acquisire nuove conoscenze e di trasmetterle alla famiglia. È un ruolo molto importante. Queste streghe custodiscono le storie e gli incantesimi più antichi e fanno in modo che vengano tramandati di generazione in generazione. Sono l’anello di congiunzione tra il ato e il futuro, per questo possono controllare il tempo». Constance sembrava delusa o forse temeva che sarebbe stata costretta a studiare pagine e pagine di vecchi tomi polverosi. Miranda le scoccò un’occhiata severa. «Non temere cara, il ruolo della terza figlia si è dissolto nel tempo. È proibito studiare le antiche conoscenze e ancor di più crearne di nuove. Sei sollevata per legge dalle tue incombenze». Il suo tono si era fatto aspro e la mia curiosità schizzò alle stelle. «Anche tu sei una terza figlia, nonna? È l’ordine di cui parlava mamma che ci proibisce di studiare?». Le domande mi si accavallavano nella mente e fluivano veloci alle labbra.

Volevo sapere, sapere, sapere. Sapere tutto. «Calma, ragazzina. Questa è un’altra storia, l’affronteremo un altro giorno. Avete molte cose da imparare e vi serve tempo per digerirle. Per oggi basta» concluse mettendo un freno alla mia curiosità. Nessuna delle mie sorelle batté ciglio. Ero l’unica a dimostrare interesse per l’argomento. Eileen era completamente assorbita dalla sua storia con Dave e Connie non lo trovava abbastanza stimolante. Elle sapeva quanto fossero speciali e irripetibili i primi mesi insieme ed era decisa a non perderne nemmeno un minuto. Trascorreva con Dave la maggior parte del tempo e tornava a casa con la testa tra le nuvole e un’espressione beata stampata sulla faccia. Era bello vederla felice e non mi stancavo mai di sentire i suoi racconti. Non potevo dire altrettanto di Sam e Madison. Avevo sperato che il ballo potesse essere l’inizio di qualcosa, ma Sam aveva portato avanti la strategia del nonappuntamento: tra loro non era successo nulla, nonostante avesse confessato di aver trascorso una bella serata. Temevo che il suo tergiversare dipendesse molto dal viaggio in Europa. Almeno per il momento Mads avrebbe dovuto aspettare. L’istinto mi diceva che si stava alzando un vento nuovo. Ancora non sapevo se sarebbe stata una brezza o un uragano.

Qualcosa che non avevo notato

Emma

«Emma, dove stai andando?». La voce di mia madre mi raggiunse quando avevo già un piede fuori dalla porta. «Vado a vedere un film… da Alec» aggiunsi frettolosa. Ero impaziente di andare, ma soprattutto non avevo voglia di subire l’ennesimo interrogatorio. Malgrado fossimo ormai grandicelle, mamma non aveva smesso di essere apprensiva. Per certi versi era diventata ancora più ansiosa, in modo particolare se si trattava di ragazzi: il suo incubo peggiore. Potevo comprenderla. Non doveva essere una eggiata crescere da sola tre figlie femmine. Tre adolescenti, due delle quali molto carine. Nelle ultime settimane, però, tutto quell’interesse aveva cominciato a risultare molesto. Soprattutto perché riguardava me. A Eileen non faceva troppo domande e lei aveva addirittura un ragazzo. Era ingiusto che si fidasse così poco di me. Da sempre ero la figlia che aveva dato meno preoccupazioni in quel senso. Beh almeno fino allora. Non che mi fossi persuasa che Elle avesse ragione. Continuavo ostinatamente a credere che Alec mi vedesse solo come un’amica, ma era innegabile che stessimo trascorrendo parecchio tempo insieme e mamma cominciava a farsi delle domande. Avrei voluto farmene qualcuna anch’io, ma ogni volta che tentavano di affiorare le ricacciavo prontamente indietro. Non potevo, nella maniera più assoluta, permettermi di sperare. «A casa sua? È una bella serata, perché non uscite?». Che stress. Come se dovesse preoccuparsi davvero di qualcosa. Da quando Sam era partito per l’Europa era diventata ancora più protettiva. «Siamo usciti ieri e anche l’altro ieri sera. Cosa c’è di male in una serata casalinga? Dovresti essere contenta che non andiamo in giro a ubriacarci o cose simili». Kate comparve sulla porta della cucina. Prese un bel respiro prima di parlare.

«Tu e Alec ate molto tempo insieme ultimamente». Non sembrò voler aggiungere altro, forse si aspettava che fossi io a dire qualcosa, magari qualcosa di rivelatore. Sogna mamma, sogna. «Se per ultimamente intendi gli ultimi dieci anni sono costretta ad ammettere che hai ragione. Non ti sfugge niente» risposi scocciata. Conoscendola non avrebbe apprezzato la battuta, ma ero troppo imbarazzata per rispondere in modo serio. Il sarcasmo vince sempre. «Emma». In quell’unica parola mise tutto il suo rimprovero. «Mamma, è Alec, hai presente? Alec. A parte il fatto che Sam è in Europa non è cambiato nulla. È giovedì, il che significa solo una cosa da sei anni a questa parte: serata film. Adesso vado, sono in ritardo. Ciao». Non le diedi il tempo di replicare e uscii in fretta di casa. Quel tipo di conversazioni m’innervosivano parecchio e si stavano facendo sempre più frequenti. In fondo al vialetto trovai Eileen, in attesa di Dave. Era molto bella e molto impaziente. Le aveva promesso una sorpresa. Chissà di cosa si trattava. «Dove vai?» domandò guardando con disapprovazione i miei pantaloncini color kaki e la polo bianca a righe blu che indossavo. Niente a che vedere con il suo luminoso vestito grigio perla. «Serata film. Sei bellissima ed io sono in ritardo. Ciao ciao». Corsi via prima di sorbirmi un’altra ramanzina. Con la differenza che mia sorella avrebbe cercato di spingermi nella direzione contraria a quella che avrebbe voluto nostra madre. Soffocai una risata mentre camminavo verso la casa degli Stevens. Avrei potuto fare la strada a occhi chiusi. Mi aprì la porta il padre di Alec e come al solito rimasi di sasso. Nonostante gli anni assero anche per lui, sul suo volto non c’era traccia dello scorrere del tempo. Qualche mese prima, cercando un paio di forbici in fondo a un cassetto della scrivania di mamma, ero incappata in una foto di papà e del signor Stevens. La foto era stata strappata da un vecchio annuario e i soggetti ritratti erano a malapena diciottenni. Eccezione fatta per i capelli brizzolati, il signor Stevens

non era cambiato molto. Il fisico atletico, lo sguardo grigio e magnetico. Chissà quanti cuori avevano spezzato quei due alle superiori. Il ricordo di papà si risvegliava sempre in momenti come quello. Era un’altra istantanea che avevo di lui, di un ragazzo che non avevo mai incontrato: ingenuo, un po’ strafottente. Conoscevo, invece, il tormento chiuso in fondo agli occhi dell’uomo educato e affascinante che avevo di fronte. Era lo stesso di mio padre. Lo stesso di Alec. Thomas Stevens incuteva una certa soggezione. Era molto diverso dai papà che si potevano trovare a Saint Claire. Sembrava non appartenere al mondo provincialotto e chiassoso della nostra città. Era docente di letteratura inglese a Yale, proveniva da una famiglia facoltosa ed era bello come un attore di Hollywood. Tutti si domandavano perché avesse deciso di restare a vivere nella sua cittadina natale, invece di trasferirsi a Boston o a New York. Qualunque fosse il motivo gli ero immensamente grata. Se il professore avesse avuto più alte aspirazioni residenziali non avrei mai conosciuto Alec e sarei rimasta senza un pezzo di me, perché dovunque fosse andato lo avrebbe portato con sé, privandomene e lasciandomi nella più desolante infelicità. Era un dato di fatto inconfutabile. Il signor Stevens mi fece cenno di entrare, salutandomi con il più caloroso dei sorrisi. Per un attimo mi parve di sentire i sospiri delle studentesse che accompagnavano il suo aggio lungo i corridoi del college. «Ciao Emma, come stai? Accomodati. Alec è nella stanza dei giochi. Non uscite stasera?» chiese discreto. I genitori erano tutti uguali. «Buonasera professore. Tutto bene, grazie. É giovedì: serata film» mi strinsi nelle spalle e sfoderai il sorriso più innocente del mio repertorio. Il padre di Alec annuì divertito. «Ah già, ora ricordo. Mi auguro che la scelta spetti a te. Alec non capisce niente di cinema» commentò. Beh il signor Stevens si preoccupava molto meno di mia madre.

«Sto cercando di educarlo, ma non è un’impresa facile» risposi con aria affranta. Scoppiò a ridere. La stessa risata che mi fermava il cuore. Fenomeno interessante l’ereditarietà. Forse anch’io mi portavo addosso qualcosa di mio padre. Un’espressione, un modo di fare. Doveva essere terribile per mamma. Cominciavo a capire perché avesse nascosto le foto. Non ne aveva bisogno. Salutai il professore e mi diressi verso la stanza dei giochi. Del rifugio della nostra infanzia era rimasto poco, ma era il nome che le avevamo dato da bambini e i nomi non si cambiano. Con il are degli anni e l’avvicinarsi dell’adolescenza erano scomparsi le macchinine e i giochi da tavolo per fare spazio a un enorme divano di pelle color caffè, uno schermo piatto e un lettore dvd. Solo il biliardino, relegato in un angolo, resisteva come ultimo vessillo dei nostri antichi atempi. La televisione era appesa alla parete in mezzo alle due porte finestre che davano sul giardino. Davanti a quel cinema in versione domestica erano stati posizionati strategicamente il divano e una piccola poltrona rotondetta dallo schienale basso. Di solito ero io a occuparla a causa delle sue dimensioni ridotte che non permettevano ai ragazzi di trovare una posizione comoda. Dall’altra parte della stanza c’era la scrivania di Alec. Dietro era appeso un grande pannello di legno sul quale attaccava ogni genere di cose: biglietti del cinema, fotografie, citazioni, articoli di giornale, qualunque cosa catturasse la sua attenzione o gli ricordasse un episodio degno di nota. Sul lato lungo della stanza correva uno scaffale carico di cd, libri e dvd, che circondavano ordinatamente un impianto hi-fi di ultima generazione. La mia vita, quella di Sam e Alec era tutta lì. Racchiusa nei titoli dei libri, nelle copertine dei dischi, nelle fotografie appese. Adoravo quella tana, era il posto più familiare del mondo per me, il più sicuro. «Non mi abituerò mai all’eco-mostro. Mi dici cosa non andava nel vecchio televisore?». Scoccai l’ennesima occhiata scettica all’enorme schermo ultra piatto. Mi avvicinai al divano convinta che Alec si trovasse lì, stravaccato o impegnato nella scelta del film. «Era vecchio. Se mettessi da parte i tuoi pregiudizi sulla tecnologia, ti renderesti

conto che vedere un film con questo schermo è tutta un’altra vita». La sua voce non proveniva dalla direzione che mi aspettavo. Mi scivolò nelle orecchie accarezzandomi la nuca. Alec era dietro di me e più vicino di quanto immaginassi. Sussultai, ma non osai voltarmi. Aggirai il divano e mi lasciai cadere sulla pelle fresca. Sapevo che presto il calore della serata estiva l’avrebbe resa appiccicosa, ma al momento rappresentava un sollievo. Alec si lasciò cadere accanto a me senza mettere troppa distanza tra noi. Potevo vedere le lentiggini che il sole gli aveva fatto affiorare sulle guance e sul naso. Avrei voluto toccarle con la punta delle dita e per evitare ogni tentazione bloccai le mani sotto le cosce. Cercai qualcosa d’intelligente da dire per spezzare il silenzio e distogliere da me il suo sguardo indagatore. A volte avevo la sensazione che cercasse di cogliere qualcosa in me, che nemmeno sapevo di possedere. Mi guardai le ginocchia e tentai di rilassarmi. Dalla finestra aperta entrava il profumo del gelsomino. Inspirai profondamente e mi allungai verso il tavolino davanti a noi per dare un’occhiata ai film sparsi sul ripiano di vetro. I titoli non annunciavano niente di buono. Alzai le sopracciglia e sollevai le custodie dei film davanti a lui con aria interrogativa. «Cos’hai scelto?» domandai sospettosa. «The Departed. A te piace Di Caprio e c’è un po’ di azione, così siamo contenti tutti e due» spiegò soddisfatto. Poteva andarmi molto peggio. La settimana precedente mi era toccato un film sulle arti marziali. Avevo contato i secondi che mi separavano dalla fine. Un vero e proprio strazio. Cercai la posizione più comoda per godermi il film. Era iniziato da pochi minuti quando mi lasciai distrarre da alcuni pensieri che nell’ultimo periodo mi avevano assorbita più di quanto giudicassi sano. Non era stato facile abituarmi alla nuova intimità. Lui ed io sempre da soli. Di rado avevamo coinvolto altre persone nelle nostre scorribande e quando l’avevamo fatto, trattandosi per lo più di Dave ed Eileen, avevo avuto comunque l’impressione che fossimo soli, tanto ero frastornata dalla sua presenza e tanto

lui sembrava concentrato su di me. Dalla sera del ballo le distanze tra noi si erano accorciate parecchio. Le sensazioni che da sempre provavo mi apparivano amplificate, come se avessero un’eco e tornassero da me raddoppiate in forza. Era strano, inaspettato, piacevole e il merito era soprattutto suo. Era un Alec diverso, più spontaneo e meno ombroso o forse mi ero rilassata tanto da poterlo apprezzare nel pieno del suo splendore. C’era stato un episodio, però, che non ero riuscita a interpretare e che, fossi stata più debole, avrei potuto leggere nel modo sbagliato. Da giorni sentivo l’esigenza di fermarmi qualche ora e avevo deciso di dedicare mezza giornata ai atempi casalinghi. Mi sentivo come se fossi scesa da una giostra. Scombussolata da mille sensazioni e cose nuove. Dovevo riprendere fiato. Così un pomeriggio avevo proposto di armarci di plaid, lettore mp3 e librone classico che non tramonta mai, e trascorrere qualche ora in giardino. Il suo, il mio, non importava. Gli concessi l’onore della scelta e optò per il grande prato dietro casa sua. «C’è più ombra» si giustificò. Non potevo dargli torto: il giardino degli Stevens si estendeva ampiamente dietro il grande edificio. I bisnonni di Alec avevano piantato un boschetto di frondosi aceri canadesi, il prato era curato, soffice e i fiori di stagione riempivano l’aria con il loro profumo. Avevamo steso il plaid sotto gli aceri più lontani dalla casa. Alec, sdraiato sulla schiena accanto a me, ascoltava con gli occhi chiusi l’ultimo album dei Mumford & Sons. All’ombra i suoi capelli sembravano ancora più neri. Sentivo il brusio della musica provenire dalle cuffie. Sapevo che canticchiava a bassa voce per non disturbarmi. Leggevo, sdraiata a pancia in giù, le gambe distese, le caviglie incrociate. Ogni tanto cambiavo posizione, giusto per riattivare la circolazione. Non faceva un caldo eccessivo. La notte precedente si era abbattuto sulla nostra regione un forte temporale e la perturbazione aveva mitigato di molto l’afa opprimente della settimana. La temperatura era perfetta, lui era perfetto.

Cercavo senza successo di concentrami sul libro. Avevo portato Anna Karenina e avrei dovuto immaginare che la lettura sarebbe stata difficile da seguire con Alec disteso a dieci centimetri da me. Sospirai. I tormenti di Anna mi sembravano bazzecole in confronto ai miei. Quanta arroganza. «È così triste?» sussurrò. Si era girato su un fianco, rivolto verso di me. Aveva tolto le cuffie e teneva la testa appoggiata al braccio destro. Gli occhi luminosi e intensi, puntati nei miei. Nella mano sinistra teneva un lungo filo d’erba. Pensai che la musica lo avesse annoiato e che desiderasse fare conversazione. Misi il segno alla pagina e lo accontentai. «Tristissimo» sorrisi soddisfatta. Le storie d’amore più erano tristi, più si aggiudicavano la mia assoluta devozione. Spostò lo sguardo sul sottile stelo verde che teneva in mano. Rifletteva su qualcosa, ma non avrei saputo dire se stesse pensando a quello che gli avevo detto o inseguendo un pensiero tutto suo. Continuò a giocherellare con il filo. Non sembrò voler continuare il discorso e riaprii il libro. Avevo appena iniziato a leggere quando m’interruppe di nuovo. «Quando leggi sembri in un mondo tutto tuo. Mi sento trascurato e questo non aiuta il tuo punteggio come baby sitter. Il mio vantaggio sta diventando imbarazzante» disse con un filo d’ironia nella voce. Mentre parlava tracciava linee sottili sul mio braccio con il filo d’erba. Dalla spalla fino al gomito. Sentivo la pelle d’oca correre dietro alla linea disegnata dal contatto indiretto con lui. Un gesto semplice, bellissimo. Non era forse quella la felicità? Eppure la natura umana è così votata all’insoddisfazione. Avevo quell’istante perfetto e già mi sentivo desiderare che lasciasse cadere il filo d’erba e mi sfiorasse la pelle con la punta delle dita. Avrebbe bruciato come un’ustione, perché già così, con il tocco mediato dal filo, sentivo il riverbero della scossa irradiarsi per tutto il braccio, ma non avrebbe avuto importanza. Avrei sopportato qualsiasi cosa purché mi toccasse. Non osai sollevare lo sguardo dal libro. I miei occhi mi avrebbero tradita in

mezzo secondo. «Dovresti provare. È un ottimo atempo» risposi meccanicamente. Avevo sviluppato una specie di pilota automatico per situazioni simili, quando un suo gesto o uno sguardo mi mandavano in tilt il cervello. «Preferisco guardare te, ma ammetto che non mi dispiacerebbe avere più attenzione. Lo sai? Assomigli un sacco a tua madre». Parlava distrattamente, come se stesse chiacchierando di cose poco importanti. Fu il suo tono a ingannarmi e commisi il grave errore di interrompere la finta lettura per guardarlo. Volevo ribattere a un’affermazione così assurda. Aveva lasciato cadere la mano sulla coperta vicinissima al mio avambraccio. Ogni tanto muoveva un dito e sentivo lo spostamento d’aria sfiorarmi la pelle. I suoi occhi mi avvolgevano completamente. Come se si stesse preparando per fare un ritratto e dovesse studiare i dettagli. Avrei potuto galleggiare in quello sguardo per ore. Fu difficile formulare una risposta coerente. Non ce l’avrei fatta senza anni di allenamento. Lo guardai perplessa, come se non avessi capito bene cosa aveva detto. In effetti, era così. «Vuoi dire che il colore dei miei capelli e dei miei occhi assomiglia vagamente al suo». Non era una domanda, ma semplice constatazione. «Voglio dire quello che ho detto». Sbuffò irritato e mi scappò una risata sincera, condita da una minuscola punta di amarezza. «Non dire sciocchezze. Mia madre è bella». Per me non c’era altro da aggiungere. Il discorso mi metteva a disagio e speravo che il mio commento gli impedisse di continuare. Cos’altro avrebbe potuto fare se non darmi ragione? «Anche tu lo sei». Fissava un punto dritto davanti a sé, lo sguardo perso nel vuoto. Poi si girò verso di me. «Nemmeno te ne rendi conto, ma fa parte del tuo fascino. Non ci tengo a cercare di convincerti» sorrise. Un sorriso consapevole. Aveva l’espressione dei genitori quando ti dicono “quando sarai grande capirai”.

Ecco. Proprio non me l’aspettavo. Non fui in grado di rispondere subito. ò un minuto, forse due. «Secondo me hai bisogno degli occhiali» farfugliai. Sospirò e scosse la testa, poi tornò disteso a pancia in su. Il resto del pomeriggio trascorse nella più placida normalità. Dentro di me imperversava una tempesta di domande, ma feci di tutto perché non si accorgesse di quanto mi avevano sconvolta le sue parole. Non mi ero mai preoccupata di come potesse vedermi, se mi considerasse bella o brutta. Mi ritenevo piuttosto insignificante, soprattutto rispetto a lui e avevo sempre creduto l’opinione largamente condivisa. Il suo commento aveva dato uno scossone ai miei argini, di solito, saldi come l’acciaio. Non si trattava di un caso isolato, comunque. Altri paletti erano stati spostati rispetto alle mie ferree regole di comportamento. Mi cullavo nella banale giustificazione che se fosse stato per me nulla sarebbe cambiato. Era lui a comportarsi in maniera singolare. Il contatto fisico tra noi era aumentato parecchio. Non che lo cercasse di proposito, ma non faceva niente per evitarlo. Se camminavamo mi stava vicinissimo e spesso capitava che mi sfiorasse con le mani o con le braccia. Se il vento mi spettinava i capelli con un gesto me li toglieva dalla faccia senza smettere di parlare e di guardarmi. Cercavo di tenere i piedi per terra e soffrivo all’idea che i nostri gesti avessero un significato così diverso per lui e per me. Se non fosse stato per l’abitudine a non illudermi, sarebbe stata una sofferenza sopportare in silenzio tutta quell’intimità. Al ritorno di Sam ogni cosa sarebbe tornata alla normalità. Non avrei dovuto vederlo così spesso e rimanere a lungo sola con lui, ma non riuscivo a rinunciare a quei momenti. Per quanto mi rendessi conto del pericolo che stavo correndo, di innamorarmi ancora di più, desideravo quegli istanti con una forza della quale non mi sarei mai ritenuta capace. Erano la mia ora d’aria. Mi sembrava di aver iniziato a respirare. A peggiorare la situazione c’era la sensazione costante che qualcosa lo tenesse

sulla corda. Il suo umore mutava senza motivo e ava dalle chiacchiere più disinvolte ai silenzi più cupi. Confusa e preoccupata domandavo cosa avesse e lui mi fissava di rimando con uno sguardo indecifrabile. Scrollava la testa e scacciava via le nuvole. A volte tornava sereno con qualche traccia d’impazienza nella voce. Altre ancora non rispondeva e si limitava a fissarmi concentrato, come se fossi io ad avere tutte le risposte e lui dovesse solo interpretarle. La paura che mi leggesse tutto in faccia, che potessi fare o dire la sciocchezza che mi avrebbe tradita, non mi abbandonava mai. Se fosse capitato proprio allora, con Sam lontano mille mila miglia, cosa avrei fatto? Mi sentivo più vulnerabile che mai. Mi dibattevo tra momenti d’estasi, quando mi sfiorava la pelle o giocherellava soprappensiero con i miei capelli, e d’ansia per le mie solite paure, che tornavano a spezzare l’incanto. Quando chiudevo gli occhi, mi sembrava di sentire le sue dita sfiorarmi le tempie o le sue labbra le guance, come la sera del ballo… Mi svegliai di soprassalto in un bagno di sudore. Non ricordavo quando i miei pensieri si erano trasformati in sogni. Lo schermo trasmetteva le immagini del film, nitide come una fotografia. Strinsi gli occhi feriti dal bagliore dell’ecomostro e mi guardai intorno. Mi accorsi con orrore che nel sonno ero scivolata addosso ad Alec. Per quanto tempo avevo dormito? Cercai di muovermi, ma con il braccio sinistro mi teneva stretta a sé per impedire che cadessi dal divano, mentre la mano destra stringeva con delicatezza il mio ginocchio. Con il pollice disegnava piccole virgole che lambivano il polpaccio. Doveva essere stato quel movimento leggero ma regolare, a svegliarmi. Avevo la testa appoggiata al suo petto e inspirai il profumo della pelle attraverso il cotone della maglietta, odorosa di ammorbidente. Mi arrivò come una scossa al cervello, dissipando la nebbia vischiosa del sonno. «Ti sei svegliata? Temevo di doverlo fare io. Sono quasi le undici, devi tornare a casa» la voce gli uscì bassa e ruvida. Il pollice interruppe bruscamente il disegno. Non sollevai lo sguardo nel timore che mi leggesse in faccia la confusione e

l’imbarazzo che provavo. Sciolse la presa e mi lasciò libera di staccarmi da lui. Ci volle tutta la mia forza di volontà per farlo. «Non mi ero accorta di essere così stanca» farfugliai. Mi chinai per mettere le scarpe. «Vederti dormire come un angioletto è stato molto rilassante» un sorrisetto gli si dipinse sulle labbra. Raccolsi in fretta le mie cose e mi diressi verso la porta finestra. Sarei uscita da lì per non disturbare il resto della famiglia. Senza dubbio erano tutti a letto. Stavo per salutarlo quando un movimento all’esterno catturò la mia attenzione. Mi era sembrato di scorgere un’ombra, un lampo nero attraversare il giardino immerso nel buio. Un’ondata di panico mi tolse il fiato come un pugno allo stomaco. Il tempo di un respiro e Alec era in piedi accanto a me, lo sguardo perso nel buio. Uscì di corsa nell’oscurità prima che potessi anche solo pensare di fermarlo. Nonostante avessi paura, lo seguii in giardino. Non avevo fatto più di tre i, quando me lo trovai davanti. Soffocai un grido per lo spavento. Il cuore mi martellava nel petto e mi girava la testa. Dovevo cercare di calmarmi prima che mi venisse una crisi. Era una reazione esagerata, me ne rendevo conto. Poteva essere un animale, un procione o un altro roditore, che si era avvicinato alla casa in cerca di cibo. Eppure il mio istinto mi diceva che c’era qualcuno là fuori. La stessa persona che avevo percepito nel parcheggio dell’hotel la sera del ballo. Forse stavo diventando paranoica. Ero in buona compagnia, comunque. Non potevo vedere in faccia Alec, ma aveva il respiro accelerato e la voce contratta dalla tensione. «Ti accompagno a casa». Mi prese per mano e attraversammo il giardino. Mi sentivo bruciare il palmo come se stesse andando a fuoco, ma non era doloroso. Il calore era avvolgente come una coperta e presto risalì il braccio e si diffuse in tutto il corpo. Piano piano prese il posto della paura e mi sentii meglio.

Avevo già vissuto una situazione simile ed era stato al compleanno di Cinthya Wright. Allora non si era trattato di semplice paura, ma di un dolore così intenso che pensavo mi avrebbe spaccata in due. Poi era arrivato Alec e si era preso il mio cuore per sempre. Dovevo ammettere che il fatto che fosse tremendamente bello e intelligente e buono aveva aiutato. Finché fosse stato al mio fianco, avrei affrontato qualsiasi cosa, compresi gli ignoti personaggi che si muovevano nell’ombra e mi pedinavano. Non era un pensiero rassicurante, ma potevo sbagliarmi. Magari mi ero lasciata suggestionare. Non mi era mai capitato di percepire i segreti a distanza. Avevo bisogno come minimo del contatto visivo, quindi era improbabile che fossi riuscita a sviluppare tanto le mie capacità. Nel parcheggio dell’hotel i miei camli d’allarme avevano senza dubbio fatto cilecca e l’episodio di quella sera era stato frutto della mia immaginazione. Avevo scambiato un innocente animaletto per qualcosa di più pericoloso. Avrei voluto tranquillizzare Alec, ma non sembrava in vena di chiacchierare. Lo sguardo brillava tagliente, come un lampo feroce negli occhi. Mi accompagnò fino alla porta senza smettere di guardarsi intorno. Anch’io avevo avuto paura, ma lui stava esagerando. Quelle precauzioni aumentavano la mia ansia invece di farmi sentire tranquilla. «Ti sei accorto che siamo arrivati o vuoi rimboccarmi le coperte personalmente?» scherzai per dimostrare che stavo bene e liberai la mano dalla sua presa ferrea. Mi concesse un sorriso tirato. La luce ferina nei suoi occhi era svanita. «Sono le undici spaccate. Sei tornata in orario anche questa sera. Tua madre non potrà dire che ti faccio fare tardi» sottolineò soddisfatto, poi si voltò di scatto verso la strada. Una macchina si era fermata davanti al vialetto: Dave aveva riportato a casa Eileen. Fine della serata anche per loro. «Mi sa che siamo di troppo» disse malizioso. «Scappo. Domani ci troviamo per una partitella con qualche compagno di squadra, tanto per rimanere in allenamento. Perché non fai un salto? È alle cinque». Sfoderò uno sguardo

parecchio convincente. «Vediamo. Se non fa troppo caldo, ma non prometto niente». Odiavo vederlo giocare. Stavo tutto il tempo con l’ansia che si fe male e disturbavo chi era seduto accanto a me per farmi spiegare le azioni. Raramente andavo a vedere le sue partite e sapevo che gli dispiaceva. «Devo andare. La veranda presto sarà affollatissima». Dave ed Elle erano scesi dal fuoristrada e lui la stava accompagnando alla porta per darle il bacio della buonanotte. Meglio eclissarsi alla velocità della luce. «Grazie per avermi accompagnata a casa». «Avevo bisogno di fare due i e sgranchirmi le gambe dopo aver fatto da cuscino per l’intera durata del film» commentò sornione. Avevo dimenticato il mio imbarazzante attacco di narcolessia. Arrossii per la vergogna e per il ricordo del suo pollice che sfiorava la pelle sottile del mio ginocchio. «Sogni d’oro Emma» sussurrò. Prima che potessi muovere un solo muscolo si chinò su di me e mi baciò la fronte.

Sorprese

Emma

«Allora la pagliacciata “Alec ed Emma amici per la pelle” è finita? Si è deciso? Cominciavo a pensare che non si sarebbe mai dato una mossa. Ho cercato anche di dargli un aiutino al ballo. Raccontami, non sto nella pelle». Eileen mi fissava impaziente sulla soglia della cucina. Le scarpe in mano e sul viso l’espressione ebbra di felicità. Feci capolino dallo sportello del frigo e la invitai ad abbassare la voce. Per un attimo ebbi il sospetto che fosse ubriaca, ma riflettendoci capii che da lontano doveva aver scambiato il bacio sulla fronte per qualcosa di più. Buttai giù un sorso di aranciata prima di cimentarmi nell’impresa di smorzare il suo entusiasmo. «Cosa significa per te dare un aiutino? L’avresti obbligato a fare qualcosa che non avrebbe voluto? Ti ringrazio, Eileen. Molto spontaneo, mi sarei sentita davvero ricambiata. Numero due: mi dispiace informarti che qualunque cosa tu creda di aver visto non è quello che pensi. Si è trattato di un innocentismo bacio sulla fronte. Niente di più». Stavo cercando di convincere lei o me stessa? Ero ancora piuttosto confusa e arrabbiata, anche se non capivo perché. «Ho solo provato a sollecitarlo a confessare i suoi sentimenti e l’esperimento è fallito. Quello che ha fatto è il semplice frutto della sua volontà. Compreso il bacio sulla fronte» terminò sprezzante. L’avevo offesa, ma non avevo intenzione di mollare. «Hai pensato per un secondo alle conseguenze? Se lo avessi spinto a confessare il suo amore per un'altra?» sibilai furiosa. Ero costretta a bisbigliare per non svegliare tutta la casa, togliendo molto effetto alla mia sfuriata. «Ti saresti fatta un piantino e avresti messo da parte questa storia una volta per tutte, invece di rimanere in un limbo senza risposte. Ad ogni modo non è successo e non sarebbe successo in ogni caso» ribatté testarda. Si avvicinò e mi prese le mani. Mi parlò con il tono accorato che usava sempre in circostanze simili. «Non sono mai stata tanto sicura di una cosa in vita mia. Ho visto con che occhi ti guardava quella sera e non l’ho notato solo io. Nessun ragazzo presente ha osato avvicinarsi a te per paura che Alec gli staccasse la testa». Fece una pausa e meditò per qualche secondo. «Deve essere un tipo geloso» sorrise maliziosa. «Se non fossi così testarda, te ne saresti accorta anche tu».

Era stata maledettamente convincente o io stavo crollando. I recenti avvenimenti avevano dato uno scossone alle mie traballanti tattiche difensive anti-illusioni. «Era solo un bacio sulla fronte, Elle. Non significa niente» risposi esausta più per orgoglio che per convinzione. «Al suo posto sarei stata più diretta, ma credo che finalmente abbia deciso e si stia preparando per il grande momento o qualcosa del genere. È questione di giorni, non aspetterà il ritorno di Sam. Perciò domani verrai alla partita, potrebbe essere la volta buona». Mia sorella aveva preso le redini della situazione e la lasciai fare. Ero troppo stanca per opporre un’efficace resistenza. «Sono convinta che stai sbagliando e non mi lascerò trascinare dal tuo entusiasmo da dea dell’amore. Vado a letto. Ti conviene imitarmi se domani non vuoi svegliarti con due occhiaie da zombie». Spensi la luce della cucina e mi avviai verso le scale. Eileen, rimasta al buio, mi seguì subito. In punta di piedi raggiungemmo la camera, stando attente a non fare rumore per non svegliare Connie e ci preparammo per la notte. M’infilai sotto le lenzuola con la convinzione che non avrei preso sonno. Il pisolino fuori orario e la dose di pensieri che mi girava per la testa, non avrebbero aiutato nell’impresa. «Sai di che cosa ci vuole parlare Miranda domani mattina?» sussurrò mia sorella dal letto accanto al mio. Sorrisi nel buio. Il mattino seguente ci attendeva una lezione sulle tradizioni della nostra famiglia. Non stavo nella pelle. Eileen, invece, ne avrebbe fatto volentieri a meno. Non si era ancora arresa all’idea e le chiacchierate con la nonna erano un supplizio per lei. «Storia» risposi cercando di moderare l’entusiasmo. Speravo che saremmo andate in fondo alla faccenda dell’Ordine e dei motivi per cui fosse proibito imparare e inventare incantesimi. «Fantastico» borbottò mia sorella da sotto il lenzuolo e si girò su un fianco dandomi le spalle. Cercai anch’io una posizione più comoda, ma il sonno mi raggiunse solo qualche ora più tardi. Il mattino svegliarmi fu un trauma.

Dopo aver fatto colazione, ci sedemmo attorno al tavolo della cucina. Miranda si assicurò che le finestre fossero ben chiuse, prese posto a capotavola e si preparò per iniziare. Gli occhi verdi brillavano sotto le folte ciglia. Si ò una mano tra i capelli striati di grigio e si schiarì la voce. Da giovane doveva essere stata una bellezza. «Oggi ci dedicheremo ai fondamentali senza scendere nei dettagli. Dovete sapere che esistono delle regole come in ogni comunità degna di questo nome e se non le rispetterete ci sarà chi si prenderà il disturbo di farvelo notare». L’introduzione non era accattivante. Regole. Sai che novità. «L’Ordine di cui parlava mamma?» chiese Connie soffocando uno sbadiglio. Miranda le lanciò un’occhiata carica di rimprovero. «Sì, Constance e ti sarei grata se non m’interrompessi ogni cinque minuti». Connie annuì e iniziò a giocherellare con una ciocca di capelli. La nonna si era appena giocata la sua attenzione. «È importante che abbiate presente quali sono queste regole altrimenti vi caccerete nei guai. Una la conoscete: niente giochetti di prestigio in pubblico. Nessuno deve sapere chi siamo e cosa sappiamo fare. È vietato parlarne con persone che non appartengono al nostro mondo. Come vi ho già detto non è permesso studiare gli antichi incantesimi o formularne di nuovi. Sono concessi i più innocui, che avrete modo di imparare. Non possiamo allontanarci troppo da casa o affrontare lunghi viaggi senza preavviso e, cosa ancora più importante, è assolutamente vietato usare i poteri attivi. Se una di voi ragazze dimostrasse di essere dotata di queste sciagurate capacità, avremmo l’obbligo di denunciarla al Consiglio dell’Ordine. Tutte le streghe con capacità attive sono tenute sotto stretta sorveglianza. A scopo precauzionale, dicono, ma vogliono solo essere sicuri che nessuna alzi troppo la testa». Un lampo di rabbia guizzò nei luminosi occhi di Miranda. La cosa iniziava a farsi interessante e non riuscii a trattenermi. «Cos’è l’Ordine e perché ha tutto questo potere?». Le spiegazioni che c’erano appena state date aveva aumentato le domande invece di dare risposte. «Ha vinto la guerra più lunga e sanguinosa che le streghe abbiano mai affrontato. Non siamo nate per combattere, ma per proteggere questo mondo e custodire i segreti della natura. La lotta decimò i nostri clan e le sopravvissute, stremate dalle perdite e dalle sofferenze, si arresero. Questo diede all’Ordine il potere di

stabilire le sue regole e di obbligarci a rispettarle » concluse cupa. «Come fanno a controllare ogni strega sulla faccia della terra? Hanno dei poteri come noi?». Connie sembrava abbastanza scettica. «Sì, ma non è il Consiglio ad accertarsi che tutte rispettino la legge. Interviene solo in un secondo momento giudicando i casi e decidendo le punizioni. A controllare ognuna di noi ci pensano i Custodi». Tre paia di sopracciglia si sollevarono per lo stupore, ma nessuna fiatò. La nonna approfittò del silenzio per proseguire. «Quando una strega lascia la famiglia d’origine per formarne una a sua volta, le viene assegnato un Custode. Egli avrà il compito di vigilare su di lei e sulle sue figlie. Un’antica leggenda narra che i Custodi furono creati per equilibrare il potere delle streghe e per proteggerle. Sono dotati di una forza fisica superiore a quella umana, hanno poteri simili ai nostri e profonde conoscenze delle arti magiche più antiche. Un tempo i clan vivevano nel rispetto reciproco, aiutandosi nei momenti di pericolo. Purtroppo la sete di potere e l’ambizione di pochi presero il sopravvento e portarono morte e distruzione. Per evitare la fine del nostro mondo fummo costrette ad arrenderci. Da allora siamo soggette alle loro leggi e dobbiamo sottostare alle loro punizioni quando le infrangiamo». «Quindi anche noi abbiamo un Custode. È una persona che conosciamo?» chiesi divorata dalla curiosità. «Non è una cosa di cui vi dovete preoccupare. Limitatevi a non combinare guai e vivremo tranquille». Miranda si alzò dalla sedia. Non sembrava intenzionata ad aggiungere altro. Non riuscii a nascondere la delusione. Morivo dalla voglia di scoprire chi fosse il nostro Custode. Ero sicura che si trattasse di qualcuno che conoscevamo, altrimenti la nonna non sarebbe stata così reticente. Mi lambiccai il cervello per il resto della mattina senza arrivare a una conclusione. Chiunque fosse aveva sempre agito con la massima discrezione, perché non trovai nessun elemento che in quegli anni l’avesse tradito e potesse rivelarmi di chi si trattava. Le cinque arrivarono in fretta ed Eileen riuscì a trascinarmi alla partita. Mi trovai seduta sugli spalti del campetto sotto un sole cocente e tesa come la corda di un violino. Non eravamo le uniche ragazze: Jackie era presente con un paio di amiche.

Aveva raccolto i capelli biondi in una coda e indossava un vestito dalla fantasia floreale, semplice, ma che le stava d’incanto. Notai subito il motivo della sua presenza: Charlie Thompson. A quanto pareva stavano ancora insieme. Avrei giurato che dopo il ballo fossero arrivati alla frutta. Alec guardò nella nostra direzione e salutò con la mano. Risposi in fretta al saluto. Non volevo che si distraesse e prendesse una pallonata in faccia per colpa mia. Nonostante non avessi mai capito niente di basket, mi parve una buona partita. Alec segnò parecchi punti, sebbene Charlie gli stesse col fiato sul collo. Presto portò la squadra in vantaggio. Era bravo, ma non giocava pulito e senza un arbitraggio decente le ava tutte lisce. La spuntò di poco. Alla fine della partita si avvicinò a Jackie e tentò di baciarla. Lei lo scansò in modo plateale e raggiunse le amiche fuori dal campo. Strano. Scesi le scalette degli spalti e andai incontro al mio giocatore preferito. Faceva parecchio caldo e per trovare refrigerio avevano improvvisato una doccia usando le bottiglie riempite con l’acqua della fontanella del campetto. Era fradicio dalla testa ai piedi, gli abiti zuppi d’acqua. Non subodorai l’inganno e mi avvicinai fiduciosa. Quando cominciai a sospettare qualcosa, era troppo tardi. Mi afferrò e mi tirò a sé mentre con l’altra mano svuotò la bottiglia d’acqua sulla mia testa. Rimasi senza fiato per qualche secondo, ma non potei fare a meno di scoppiare a ridere. Allora fece una cosa che non mi aspettavo. Lasciò cadere la bottiglia e mi abbracciò sollevandomi di qualche centimetro da terra. Mi accorsi a malapena della scossa, resa più sferzante dagli abiti fradici. Dopo qualche secondo mi rimise a terra e sciolse l’abbraccio. Staccarmi da lui fu quasi un dolore fisico. Avrei voluto mantenere un contatto anche piccolissimo. «Ti sei divertita?» chiese spostandomi una ciocca gocciolante dalla faccia e appoggiando la mano sinistra sul mio fianco. Così andava meglio. Provai a immaginare come dovevamo essere visti da fuori. In mezzo al campo, così vicini.

«Molto. Sei stato bravo per quello che vale». In realtà non mi ero divertita per niente. Avevo ato metà del tempo a preoccuparmi che non si fe male e l’altra metà ad arrabbiarmi ogni volta che subiva un fallo. «Sei una pessima bugiarda, ma grazie per essere venuta. Mi dispiace che tu abbia assistito a questo disastro. Thompson ci ha massacrati». La sconfitta gli bruciava e avevo la sensazione che dipendesse soprattutto da chi lo aveva battuto. Prese un lembo della mia maglietta tra le dita e lo strizzò. «Hai freddo?» chiese colpevole. In effetti avevo i brividi, ma non dipendeva dalla temperatura. «No. Non me la prenderei troppo se fossi in te, Thompson non se la sta ando troppo bene. Jackie sembrava molto propensa a schiaffeggiarlo qualche minuto fa» risposi distratta. Non riuscivo a concentrarmi sui discorsi. Era troppo vicino. «Peccato non l’abbia fatto. Continua a darle il tormento, nonostante si siano lasciati secoli fa». Il mio buon umore si sciolse come neve al sole. Jackie non era venuta alla partita per Charlie. Come avevo fatto a non capirlo? Era ovvio che con Alec non si sarebbe arresa al primo tentativo. Mi lasciai sfuggire un sospiro e lo guardai come se lo vedessi per l’ultima volta. I capelli disordinati incollati alla fronte, lo sguardo malinconico e limpido, le labbra pallide appena socchiuse. Lo stomaco si accartocciò su se stesso. Prima o poi avrei dovuto lasciarlo andare. Non eravamo mai stati così vicini come nelle ultime settimane, ma una parte di me sapeva che quel momento si avvicinava sempre di più. «Cos’hai? Sembri triste». Mi guardò, le sopracciglia aggrottate e l’aria interrogativa. Abbassai lo sguardo per nascondere quanto mi sentivo fragile e vulnerabile. Non volevo rattristarlo. Mi prese il mento tra le dita e lo sollevò per guardarmi negli occhi. Per la prima volta mi sembrò che mi guardasse come un uomo guarda una donna. Capii che sarebbe potuto succedere. Esisteva una remota possibilità che lui avesse la mia stessa voglia di baciarlo. In quel preciso istante, nel campetto assolato davanti a venti persone.

Non ero in grado di muovere un solo muscolo, nemmeno le palpebre per abbassarle e chiudere gli occhi. Il suo tocco m’immobilizzava e lo sguardo aveva incatenato i miei occhi ai suoi. Fece un mezzo o verso di me e con il braccio libero mi circondò la vita, appoggiando la mano sulla mia schiena. Stavo per alzarmi sulle punte dei piedi, incapace di resistere un secondo di più e mettergli le braccia intorno al collo, quando una voce dal tono strafottente ci riportò alla realtà. «Adesso capisco perché eri così distratto, Stevens». Un sorriso malizioso gli increspò le labbra piene. «Hataway, spero che tu non abbia intenzione di seguire il campionato quest’anno, altrimenti siamo spacciati» mi lanciò un’occhiata penetrante, mettendomi a disagio. Alec lasciò la presa e si voltò verso Charlie. «Cosa vuoi?». La voce tagliente, il pugno serrato lungo il fianco. Non l’avevo mai sentito rivolgersi a qualcuno con tanta irritazione. «Stavamo pensando di andare a mangiare qualcosa. Sei dei nostri?» chiese con un sorrisetto. Accidenti a lui. Non poteva aspettare cinque minuti? Dall’espressione compiaciuta che aveva sulla faccia sembrava l’avesse fatto apposta e forse era così. Con Charlie non si poteva mai sapere e tra lui e Alec non correva buon sangue. Chissà perché, poi. Per certi versi erano molto simili. Sportivi, popolari, bellissimi. Avrebbero avuto molte cose in comune se non fossero stati così diversi. Conoscevo Alec e sapevo che non si sarebbe lasciato influenzare dall’apparenza o dal pregiudizio. Se Charlie gli stava antipatico, aveva delle valide ragioni e non si trattava solo di rivalità agonistica come tanti credevano. Alec si voltò verso di me con l’espressione più combattuta del mondo. Nonostante la delusione mi fece sorridere l’idea che mi stesse chiedendo il permesso di andare. «Ti dispiace?» Se avessi detto sì avrebbe mandato al diavolo la squadra e sarebbe venuto via con me, ma non potevo essere tanto egoista. L’avevo avuto tutto per me nelle scorse settimane. Era giusto che stesse con i suoi amici.

«Non ti preoccupare. Devo fare una vera doccia e ho comprato un nuovo romanzo». Sperai che non si accorgesse quanto mi costava lasciarlo andare. Mi scrutò con attenzione per mettere alla prova la mia sincerità. Dovevo essere diventata brava, perché si ritenne abbastanza soddisfatto da confermare la sua presenza al dopo partita. «Allora datti una mossa. Fra un quarto d’ora partiamo». Il tono di Charlie non era più tanto disinvolto. Probabilmente aveva sperato che Alec non venisse e i suoi piani per la serata erano rovinati. Beh erano rovinati anche i miei se la cosa lo poteva consolare. Accennò un saluto e se ne andò verso l’uscita del campetto dove lo aspettava il resto della squadra. Aveva una bella camminata. Spavalda senza essere ridicola e al momento giusto si ò una mano tra i capelli biondi. Alcune ragazze venute a vedere la partita lo stavano osservando e scappò qualche risatina. Quella era la differenza tra loro. A Charlie piacevano le attenzioni, la popolarità. Non perdeva un’occasione per richiamare l’attenzione su di sé. E nemmeno una ragazza. A scuola non si contavano quelle che almeno una volta erano uscite con lui. Le più carine naturalmente. Eccetto Eileen. Arrivato il suo turno nella personale tabella di Charlie, gli aveva risposto di non essere interessata. Probabilmente l’unico rifiuto nella sua carriera di giovane latin lover. «Em?». Alec richiamò la mia attenzione, infastidito. «Scusami, ero sovrappensiero». Era arrivato il momento dei saluti. Purtroppo l’incanto di qualche minuto prima era stato spezzato. Un’occasione del genere non si sarebbe più presentata. Magari aveva preso un colpo di sole che gli aveva confuso le idee. Una volta tornato lucido si sarebbe domandato cosa gli fosse preso quel pomeriggio al campetto. Però era stato bellissimo andarci vicino. «Vai a letto presto questa sera. Domani mattina o a prenderti alle otto. Ricordi la gita che ti avevo promesso?» Annuii con vigore. Potevo dimenticare una cosa del genere?

«È arrivato il momento di farla».

Un tempismo perfetto

Alec

Se esistesse un premio per il tempismo lo vincerebbe mio padre. Cosa stava succedendo a casa? Avrebbe dovuto come minimo andare a fuoco vista l’urgenza con la quale aveva preteso il mio ritorno. «Subito» aveva detto Kate sulla soglia. Almeno avevo evitato una figura da idiota. La porta fortunatamente non aveva voluto saperne di aprirsi e avevo avuto il tempo di rimettere le mani a posto. Non ci tenevo a farmi sorprendere mentre cercavo di baciare sua figlia. Non che la cosa le fosse sfuggita. Aveva una luce negli occhi, sembrava panico. Soffocai in ringhio di frustrazione. Erano settimane che aspettavo quel momento. Lo avevo pianificato nei minimi particolari. La gita a sorpresa era stata un vero successo. L’ultima tappa di un percorso lungo, ma ben studiato. Non avevo lasciato niente al caso. Avevo aspettato che Emma fosse pronta. Avevo aspettato di avere abbastanza coraggio. Da giorni giocavo a carte scoperte, lanciando messaggi che sembravano cadere nel vuoto. Eppure sentivo cosa provava per me. Era impossibile fraintendere una sensazione così vivida. Non potevo aver immaginato le scosse e i brividi. Dovevo solo avere pazienza, farla abituare all’idea che le cose stavano per cambiare. Per anni ci eravamo opposti alla corrente, ma era diventato sempre più difficile e doloroso. Ero stanco di fingere e non ricordavo più i motivi per continuare a sottopormi a quella tortura. Era da stupidi non provare a fare un tentativo. Così avevo rotto gli indugi e ne avevo parlato con Sam prima che partisse per l’Europa. Temevo che l’avrebbe presa male e che si sarebbe opposto. Cosa avrei fatto in quel caso? Avrei calpestato i sentimenti del mio migliore amico? Avrei messo i miei desideri davanti a tutto? Non sapevo darmi una risposta. Le mie preoccupazioni si rivelarono infondate. Andò meglio di quanto avessi

mai potuto sperare. Sam era felice della notizia. Disse che si sentiva sollevato, da tempo desiderava parlarmene. «Dovreste vedervi, siete comici. Muoviti fratello, non farla più aspettare». Mi aveva addirittura abbracciato. Una scena da film. E mio padre aveva rovinato a tutto. Pedalavo furioso verso casa. Avevo ancora davanti agli occhi l’immagine del suo viso, arrossato e confuso. L’odore della sua pelle, la sensazione della seta sotto le mie dita, quando avevo affondato la mano nei suoi capelli per attirarla a me. L’arrendevolezza con cui si era lasciata guidare aveva placato la mia impazienza. Avevo rischiato di rovinare tutto mille volte nelle scorse settimane. C’erano stati momenti in cui ero stato a un o dall’afferrarla per un braccio e saltarle addosso come un lupo. Ma ero riuscito a controllarmi. Emma si meritava più di una scarica di ormoni. Si meritava l’appuntamento perfetto. Il momento perfetto. Non era stata un’impresa facile. Avevo dovuto tenere sotto controllo i miei istinti da uomo e lottare contro i miei dubbi da adolescente. I silenzi, i sorrisi tirati, la titubanza che riservava soltanto a me, mentre con gli altri sembrava spaccare il mondo, mi riempivano di domande e paure. Se non fosse stato per la sintonia che da sempre ci univa mi sarei arreso all’istante. Beh chiamarla sintonia era un eufemismo. C’era voluto del tempo per capire che il miscuglio di desiderio, calore, paura e dolore che le sentivo provare era collegato a me. A quel punto il mistero era risolto, perché quel tipo di emozione aveva un riscontro preciso nella mia personale gamma di esperienze. Tutte riconducibili a lei. Nonostante avessi la discreta certezza che provasse quello che provavo io, il suo atteggiamento spesso mi sviava, mi confondeva. Potevo rischiare di perderla e di rovinare tutto per un’intuizione? Se mi fossi sbagliato? Magari era autosuggestione, potevo averlo immaginato. A volte succede. Desideriamo talmente credere che una cosa sia vera che non riconosciamo la realtà dalla fantasia.

Decisi di aspettare ancora, fare finta di niente e tenere le mani a posto. Pensavo di essere forte abbastanza. Pensavo che con il are del tempo, il desiderio di toccarla, di averla per me si sarebbe fatto più debole, fino a scomparire. Invece era accaduto il contrario. I desideri aumentavano piuttosto che diminuire. Alla mia lista cominciai ad aggiungere centinaia di modi diversi di toccarla, di sentirla vicina. Potevo sentire le sue emozioni. Conoscevo il panico che le bloccava il respiro, la rabbia di fronte alle ingiustizie, il piacere davanti a un libro che amava, la tenerezza per i gesti più semplici. Sorridevo quando la sentivo sorridere, dovevo distogliere lo sguardo se le veniva da piangere. Emma mi apparteneva in modo unico sotto molti aspetti, ma non sotto tutti gli aspetti. Accettarlo fu prima difficile, poi impossibile. Fino a quando, al culmine della frustrazione, mi arresi. Non aveva senso lottare contro me stesso. Al diavolo i rischi, mi ero detto, se devo perderla la perderò. Dovevo tentare. Con metodo però. Non potevo permettermi di commettere uno stupido errore. Nelle ultime settimane mi ero dedicato alla sua personale muraglia cinese. Andava smantellata mattone per mattone. Con delicatezza certo, ma non avrei risparmiato nulla che potesse dividerci. Il viaggio di Sam era stato provvidenziale. Tutto quel tempo da are insieme, da soli. Dovevo sfruttarlo al meglio. All’inizio ci ero andato con i piedi di piombo. Ogni tanto le avevo lanciato dei segnali, ma sembrava fosse cieca o sorda e non avevo ottenuto molti risultati. Percepivo le sue emozioni, quelle che mi nascondeva o credeva di nascondere, ma non c’era traccia di segnali tangibili da parte sua. Fui costretto a sbilanciarmi più di quanto avessi previsto per quella prima fase. Il contatto fisico era il mezzo più facile per farmi capire, ma non altrettanto facile da gestire. Dovevo mettere sempre qualcosa tra la mia pelle e la sua: un filo d’erba, i suoi capelli. Toccarla in modo diretto sarebbe stato troppo per il mio autocontrollo. Me ne era rimasto veramente poco. Fremevo all’idea che molto presto, almeno così speravo, sarebbe arrivato il momento. Era stata una discesa dolce con qualche ostacolo, ma il gran giorno era arrivato.

Le avevo promesso una sorpresa: era arrivato il tempo di scartare il regalo. Ero ato a prenderla la mattina presto. Mi aspettava impaziente sulla porta. Indossava un abito bianco, i capelli castani cadevano disordinati sulle spalle. Bella come una mattina di maggio. Lo sguardo per l’eccitazione e la curiosità, spostava il peso da un piede all’altro, nervosa. Il pomeriggio precedente eravamo stati interrotti da quell’idiota di Thompson a un o dal nostro primo bacio e ci eravamo salutati confusi e imbarazzati. Temevo che la situazione lasciata in sospeso avrebbe rovinato il clima creato nelle ultime settimane. Avrei dovuto immaginare che non si sarebbe fatta spaventare da una cosa del genere. Appena scesi dalla macchina, le labbra piccole e perfette si schio in un sorriso. Le andai incontro e un’ondata di ciò che stava provando m’invase. Come tanti anni prima, ma a differenza di allora non c’era traccia di dolore o panico. C’erano luce e calore, impazienza e ammirazione. Non avevo più dubbi ormai, era pronta. Pronta per me. Pronta per diventare noi. «Non stai nella pelle eh?». Lo avevo sussurrato, perché non sapevo se rivolgermi a lei o a me stesso. Ci volle tutta la mia forza di volontà per non baciarla in quel preciso momento. Riprendere da dove eravamo stati interrotti. E andare avanti per ore. Aveva abbassato lo sguardo per non farmi vedere che stava arrossendo. Forse stava ripensando anche lei al campetto. «Un po’» rispose con voce roca. Sbaglio o era a corto d’aria? Aveva fatto appena tre gradini. Sorrisi compiaciuto. «Smettila di fare il buffone. Non ho ancora visto niente. Forza, stupiscimi». Tornò a guardarmi con aria di sfida. «Rimarrai senza fiato, promesso». Eravamo già sulla buona strada. Mi lanciò un’occhiata torva e carica di sospetto mentre salivamo in macchina. Il broncio le ò in fretta. Era troppo sulle spine per intestardirsi a portare avanti il bisticcio e se voleva scoprire la nostra meta doveva per forza parlare

con me. Capì tutto in stazione quando la voce dall’altoparlante annunciò la partenza del diretto per la grande mela. Eravamo sul binario, seduti su una panchina in attesa che arrivasse il treno. Si alzò di scatto con lo stupore e la meraviglia negli occhi. «Stiamo andando a New York?». Era in piedi davanti a me, le braccia piegate sul petto, le dita delle mani intrecciate, come faceva sempre quando qualcosa la coglieva impreparata. Gli occhi scuri spalancati e liquidi cercavano la risposta nei miei. Stiamo andando dove vuoi. Basta che mi permetti di venire con te. Meglio limitarsi ad annuire. Sorridere anche sarebbe stata una bella mossa. Batté le mani felice e tornò a sedersi accanto a me. La sentivo sussurrare, «New York. New York con te». Si rigirava le parole tra le labbra, come se avesse bisogno di ripeterle per fare suo quel pensiero. Fu allora che cambiò tutto. L’intuizione di un attimo le fece comprendere quello che le era sfuggito per tanto tempo. Dalla bolla che conteneva il suo amore per me, la matassa ingarbugliata di emozioni che mi aveva condotto fino a lei, sparì il dolore che l’aveva sempre lambita. Come si era sciolto il suo, si sciolse il mio e mi sentì travolgere. Ora che sapeva niente e nessuno avrebbe potuto fermarmi. L’istinto fu più veloce della determinazione e prima che me ne rendessi conto, avevo afferrato la sua mano e con un solo gesto l’avevo portata alle labbra. Mi arrivarono diverse sensazioni nello stesso momento. La scossa leggera come una puntura di spillo che mi attraversò le dita e poi le labbra, l’odore della sua pelle quando avevo avvicinato la sua mano al mio viso, mandarino e cannella e una nota dolce che da bambina non aveva, la percezione fisica del suo sguardo spalancato su di me. Caldo e incredulo. La felicità, la mia la sua, della resa. Una soltanto annullò tutto il resto. Il desiderio incontenibile di risalire con le labbra la linea del suo braccio, abbronzato dal sole, arrivare alla spalla coperta dalla manica arricciata del vestito. Sfiorarle il mento con la punta del naso e cercare la sua bocca ancora dischiusa per la sorpresa. Non riuscivo a vedere davanti a me nient’altro che quel percorso e a tutti i modi che avevo per farlo.

Mi salvò il treno. Fosse stato per me non l’avrei nemmeno sentito arrivare, ma una parte di lei era rimasta vigile e attenta al mondo esterno. «Il treno». La sentii dire con una voce che proveniva da chissà dove. La guardai assente. Avrei voluto che capisse lo smarrimento che provavo. Mi fissava di rimando preoccupata, vicinissima. Mi alzai controvoglia sempre tenendola per mano. Non fece niente per liberarsi dalla presa. Mi camminava accanto, talmente vicino che non erano solo le nostre mani a toccarsi, ma anche le braccia e con il viso mi sfiorava la spalla. Sentivo crepitare nell’aria l’elettricità che emanavamo sfiorandoci. Non parlammo per quasi tutto il viaggio. Cercavo di capire cosa le stesse ando per la testa. Sentivo che era preoccupata e confusa. Perché? Sedeva di fronte a me senza guardarmi. Ammirava assorta il paesaggio fuori dal finestrino. Ogni tanto mi concedeva un debole sorriso. Un paio di volte aveva dato l’impressione di voler dire qualcosa, ma ci aveva ripensato. Dopo mezz’ora ero arrivato al limite della sopportazione e mi agitavo nervoso sul sedile. «Ti ha morso una tarantola?». Il solito tono canzonatorio e disinvolto. Si era accorta che il silenzio mi metteva a disagio e aveva cambiato tattica. Aveva ripreso il controllo della situazione. Meglio così. Correvamo il rischio di annaspare nell’imbarazzo per il resto della giornata. «Il gatto ti ha mangiato la lingua?» risposi più bruscamente di quanto avrei voluto, ma non si offese. Trattenne un sorriso e cercò di assumere un’espressione provocatoria. «Avevi promesso che sarei rimasta senza parole». «Molto divertente» risposi offeso. Mi sentivo vulnerabile e l’attacco era la mia unica difesa. «Come sei permaloso». Si alzò e venne a sedersi accanto a me. Incerta cercò la mia mano e la prese tra le sue, senza sollevare lo sguardo dal pavimento. Mi dispiacque non poterla guardare negli occhi, ma in parte mi sentii sollevato. Chissà che faccia avevo, probabilmente sembravo un esaltato.

«È stata una sorpresa perfetta. È tutto perfetto. Non riesco ancora a crederci. Grazie». La voce era incrinata dall’emozione. «Beh la giornata è appena iniziata, ho ancora il tempo di rovinarla, ma ti garantisco che ci ho messo tutto il mio impegno». Scosse piano la testa, l’accenno di un sorriso sulle labbra. «Non c’è nulla che tu possa fare per rovinare questo momento, nemmeno se lo volessi». Si interruppe con un’espressione densa di curiosità e paura. «Solo che non riesco a capire il perché di tutto questo». Il perché? Cosa dovevo fare ancora? Mettere i cartelloni per le strade? Eppure non era falsa modestia. Percepivo davvero qualche titubanza a fidarsi dell’evidenza. Le sembrava impossibile che fossi innamorato di lei? Sarei stato curioso di conoscere le spiegazioni che si stava dando. Probabilmente al limite del paranormale. Non mi sarei scoperto un centimetro di più senza qualcosa in cambio. Non aveva l’esclusiva sull’insicurezza e mi sembrava di essere stato fin troppo sfacciato. «Perché secondo te?» Non era educato rispondere a una domanda con un‘altra domanda, ma non mi lasciava altra scelta. «Hai perso una scommessa?» rispose con aria di sfida. Sul piano dialettico era impossibile fregarla, mi avrebbe ribattuto all’infinito. Sospirai frustrato. Per la seconda volta mi salvò il treno. Arrivammo a New York e fummo costretti a interrompere la nostra chiacchierata. La Grande Mela ci travolse e stordì abbastanza da accantonare dubbi e paure e riuscimmo a goderci la gita. Non proprio come una coppia ben rodata, ma meglio di una al primo appuntamento. L’unica debolezza che mi concessi fu quella di tenerle quasi sempre la mano. Non volevo interrompere il contatto con lei, ma non mi arrischiavo a osare di più per paura di perdere il controllo come era successo in stazione o al campetto.

Emma si adattò in fretta al nuovo ruolo di quasi ragazza. Non sembrò mai in imbarazzo, si comportò naturalmente per tutto il giorno e, cosa più importante, non lasciò mai la mia mano. Sapevo che il momento decisivo della giornata sarebbe stato quando l’avrei riaccompagnata a casa. Avevo aspettato tanto, potevo aspettare ancora qualche ora. L’attesa avrebbe reso il momento più dolce. Quindi mi ero comportato bene per tutto il pranzo al Central Park e durante il ritorno in treno. Avevamo chiacchierato e fatto progetti per le settimane future. Discusso per l’ennesima volta se fare domanda a Yale o a Berkeley. Parlato di Sam e della sua possibile storia con Mads. Quel discorso, però, era stato accantonato subito, visto le imbarazzanti analogie con la nostra situazione. Non eravamo pronti ad affrontarla a voce alta. Il tempo delle parole, delle promesse sarebbe venuto poi. In quel momento preferivo godermi i sottintesi, l’attesa, la pelle. Ogni tanto mi concedevo il lusso di stringerle la mano e guardarla con l’espressione idiota che per mesi avevo cercato di nascondere. Di ritorno verso casa ricevetti una telefonata da mia madre. Aveva bisogno della macchina, perché papà sarebbe rimasto in ufficio fino a tardi e lei doveva andare al cinema con un’amica. Non era il massimo riaccompagnare a casa una ragazza in bicicletta, ma sapevo che Emma avrebbe apprezzato la svolta ecologica. Mi voltai verso di lei. Aveva l’aria serena, un sorriso leggero sulle labbra. Avevo aspettato tanto, potevo aspettare ancora qualche ora. Forse. «Che cosa vuoi fare questa sera?» domandai per distrarmi dal pensiero della sua bocca. Aggrottò le sopracciglia sottili e ci pensò su. Sembrava a corto d’idee. Mi piaceva pensare che fosse distratta dai miei stessi pensieri. Si mordicchiò il labbro superiore. Pessima mossa. Fui costretto a distogliere lo sguardo e fissare il pavimento. Cercai di concentrarmi sullo sferragliare del treno sui binari, sulla conversazione dei eggeri seduti dietro di noi.

«Farò un salto a casa a cambiarmi mentre porti la macchina a tua madre. Kate avrà bisogno di prove tangibili per convincersi del fatto che sono ancora viva e non sono stata rapita dagli alieni». La sua voce era scivolata morbida nelle mie orecchie. Sentirla parlare mi rimetteva nella giusta prospettiva. Esisteva una vita fuori dalla bolla dove ci eravamo rifugiati per tutto il giorno. Le case dove vivevamo, i genitori che ci aspettavano per cena, i vestiti negli armadi delle nostre camere. Mi dispiaceva separarmi da lei, anche se per così poco. Che sciocchezza. Avevamo davanti tutto il tempo del mondo, mentre quei momenti, il nostro avvicinarsi non sarebbe tornato mai più. Meglio godersi ogni istante fino in fondo. «Ne approfitterò per darmi una ripulita. Vengo da te per le otto e mezzo o è troppo presto?». Non le avrei concesso un minuto di più. «Va benissimo». La riaccompagnai a casa e riportai la macchina a mia madre appena in tempo. Mi guardò a lungo con aria complice. Mamma era un falco in queste cose. Probabilmente l’aveva capito prima di me. Avevo un’ora da far are. Feci una doccia e indossai dei vestiti puliti. Optai per una camicia, bianca a righine azzurre, e dei bermuda blu. Scarpe preferite e braccialetto di cuoio. Ero pronto e in anticipo, nonostante avessi svolto le operazioni con una lentezza imbarazzante. Avevo lo stomaco chiuso per la tensione e di mangiare non se ne parlava. Non rimaneva che incamminarmi a piedi spingendo la bicicletta. Tanto per perdere qualche minuto. Emma mi aspettava seduta sui gradini della veranda. In anticipo, sfatando la proverbiale lentezza delle donne nel prepararsi. Aveva sostituito il vestito bianco con una gonna azzurra che le arrivava al ginocchio e una camicetta blu con le maniche corte. I capelli sciolti sulle spalle erano ancora umidi e gli occhi spalancati su di me come li avevo lasciati. Abbandonai la bicicletta al suo destino e mi lasciai cadere accanto a lei. «Bella camicia» disse in un sussurro nervoso. Aveva paura. Potevo percepirlo

chiaramente, ma era una paura bella, emozionata. Una paura impaziente. «Hai deciso cosa vuoi fare?» dissi prendendole con disinvoltura la mano. Non sapevo perché, ma la sua piccola spaventata debolezza, mi aveva dato un’inaspettata fiducia in me stesso. Mi sentivo padrone della situazione. «Ehm no. Non riesco a farmi venire un’idea decente. Abbiamo fatto troppe cose nelle ultime settimane, le nostre possibilità si sono ridotte in maniera notevole». Per la prima volta in quella pazzesca giornata sembrava in difficoltà. Decisi di provocarla un po’. «Ci sarebbe una cosa che non abbiamo ancora fatto… » e le scoccai il sorriso più malizioso del mio repertorio. Boccheggiò, incapace di capire se la stessi prendendo in giro. Scoppiai a ridere e mi assestò un pugnò tra le costole. Non troppo forte, però. «Quanto sei scemo, Alec. Sappi che non ti ho preso sul serio nemmeno per un secondo». Puntualizzò con le guance arrossate. Irresistibile. Mi avvicinai per parlarle all’orecchio e volutamente le sfiorai il collo con le labbra. «Nemmeno per un secondo?» mormorai. Immobile e irresistibile. Così vulnerabile e perfetta. Avevo fatto una battuta cretina e maliziosa, ma non potevo fingere di non averci pensato. Ero un ragazzo di diciassette anni, innamorato di una ragazza bellissima. Se fossi stato abbastanza fortunato e meritevole, un giorno, lei sarebbe stata mia. Purtroppo l’argomento non favoriva il mio autocontrollo e rischiavo di perdere il premio come miglior fidanzato dell’anno. Era presto per scherzare su certe cose. Era azzardato anche solo pensarci. Mi sfuggì un sospiro. «Cosa c’è?». Non osava voltarsi verso di me. Sembrava tesa e teneva gli occhi bassi, ma la voce le era uscita morbida e assente. I suoi pensieri non erano molto distanti dai miei. Paura, calore, desiderio galleggiavano dentro di lei. Era come elevare alla potenza quello che stavo provando io. Non avrei resistito un minuto di più.

Distraila. Distraila. Mi alzai di scatto spaventandola a morte. «Andiamo a fare una eggiata». L’incantesimo era spezzato. Potevo sentire il suo cervello rimettersi in moto, riprendersi dallo stupore. Reagire alla mia proposta. «Okay». Camminammo a lungo senza dire niente. Forse non ce n’era bisogno o forse le cose erano talmente tante, che avremmo dovuto riordinare le idee prima di esprimerle a voce alta ed eravamo troppo confusi, stanchi e felici per riuscirci. Ogni tanto le prendevo la mano e lei rispondeva alla mia presa senza esitare. Un gesto naturale, collaudato da poche ore o da molti secoli. Quasi non sentivo più le scosse e i tenui riverberi che ci attraversavano non avevano niente a che fare con le scariche fastidiose che avevamo sentito fino a quel giorno. Anche l’elettromagnetismo si era arreso. Potevo sentirla inspirare a fondo mentre costeggiavamo le siepi di gelsomino dei nostri vicini. Lo sguardo basso, un sorriso leggero sulle labbra. Gli occhi luminosi e attenti quando, di tanto in tanto, si posavano su di me. Sentivo che il momento si stava avvicinando e ne ero attratto e spaventato allo stesso tempo. Sarebbe stato un punto di non ritorno. Sarebbe cambiato tutto. Nel bene e nel male non saremmo stati più gli stessi. Mi trovavo a un o dall’averla o dal perderla, ma fosse durato anche solo un minuto, ne sarebbe valsa la pena. «Torniamo indietro». Ero sembrato troppo impaziente? Emma annuì senza dire nulla. Non percepivo nervosismo o tensione in lei. Era solo in paziente attesa. Arrivati davanti al vialetto di casa sua, fece strada verso la veranda e si fermò sulla scala che conduceva all’ingresso. Si voltò verso di me, appoggiandosi al corrimano di legno. «Questa giornata pazzesca è finita». Tono finto disinvolto. Mi scappò un sorriso.

«Spero di non aver deluso le tue aspettative». Avanzai. Era tutto più nitido quando ero vicino a lei. Potevo sentire il calore, la speranza dell’attesa, la gratitudine. L’ammirazione. «Come potevo aspettarmi una cosa migliore di questa? È stata una bellissima sorpresa. Sarai stanchissimo, è meglio andare a dormire. Buonanotte». Sentii la sua paura prima ancora che potesse pensare di voltarsi, salire le scale e sparire in casa. Non mi scappi Emma. Le afferrai il polso e la tirai verso di me. Potevo sentire il suo cuore battere all’impazzata e il respiro farsi corto e veloce. Con la mano libera le circondai la vita, mentre l’altra affondava nei suoi capelli. Come sottofondo solo lo squillo del telefono di casa. Mi concessi un secondo per guardarla, le palpebre abbassate, le labbra dischiuse. Assaporai l’impazienza che le sentivo provare. Questo momento è unico. Irripetibile. È il momento. Mi chinai su di lei e chiusi gli occhi. Credo di non essere riuscito nemmeno a sfiorarla. La luce della veranda si accese all’improvviso e lo scatto della serratura la fece trasalire. Mollai la presa e mi sentii invadere dalla mia frustrazione e dal suo spavento. Sentii a mala pena le parole di Kate. La rabbia mi annebbiava il cervello. «Ci sentiamo domani». L’aveva detto lei, l’avevo detto io. Non riuscivo a ricordarlo. Avevo aspettato tanto. Mi ero impegnato perché fosse perfetto. Non c’era nulla che desiderassi più di quel momento. E mio padre aveva rovinato a tutto. Frenai con rabbia davanti a casa. Magari si sarebbe fatto un’idea di quanto ero seccato. Tutte le luci erano spente a parte nella stanza dei giochi. Mi parve un brutto segno.

Strano che il professore non fosse nel suo studio. Di solito leggeva fino a tardi, di rado guardava la televisione. Sbuffai ancora furioso. Mi seccava non aver concluso la gita in bellezza. Come desideravo da tempo, come Emma desiderava. Ne ero sicuro. Avremmo recuperato l’indomani. Forse. Il destino sembrava accanirsi ripetutamente sui miei goffi tentativi di dichiararmi. Prima Charlie, poi mio padre. Aprii la serranda del garage e parcheggiai la bicicletta al suo posto. Aprii la porta che collegava il garage al resto della casa. Percorsi il corridoio, ando davanti al bagno di servizio e alla lavanderia. Conoscevo il percorso a memoria, non avevo bisogno di accendere la luce. Il salotto era immerso nell’oscurità. S’intravedeva soltanto la debole lama di luce che filtrava dalla porta della stanza dei giochi. Cosa ci faceva lì mio padre? Ricominciai a sentirmi inquieto. Lo trovai in piedi davanti al pannello delle foto. Mi dava le spalle, ma sapevo cosa stava osservando. Due giorni prima aveva aggiunto le ultime foto scattate durante un pomeriggio al mare. La luce era perfetta, Emma bellissima. Lo scatto della porta strappò papà dai suoi pensieri. Si voltò e per la prima volta nella mia vita mi sembrò vecchio. Mio padre non sembrava mai vecchio. «Ti aspettavo» disse con voce stanca. Come se avesse pensato ad alta voce per delle ore e non gli fosse rimasto il fiato e la voglia di ricominciare a ordinare i pensieri. «Cosa succede? Mamma sta bene?». Non ero stato davvero preoccupato fino a quel momento. Arrabbiato, deluso, frustrato, ma non preoccupato. Qualcosa nell’espressione e nel tono di voce di mio padre mi aveva gelato il sangue nelle vene. «Non si tratta di tua madre. Mi dispiace Alec sono stato cieco, ma forse non è ancora troppo tardi». Di cosa stava parlando? Cercai il suo sguardo come quando ero bambino e avevo paura. Volevo una rassicurazione, volevo che mi dicesse che non c’era nulla di cui preoccuparsi. Invece non trovai niente di tutto ciò. Solo una profonda tristezza e senso di colpa.

«Troppo tardi per cosa?». Il presentimento che avevo percepito quando ero arrivato a casa si allargò a macchia d’olio assomigliando sempre di più al panico. «Siediti Alec. Dobbiamo parlare».

Come volevasi dimostrare

Emma

«Che succede?» Non sapevo se essere preoccupata o infastidita. Cosa aveva spinto il professor Stevens a chiamare il figlio con tanta urgenza? Forse si era allagata la casa. Per la seconda volta in meno di quarantotto ore venivo interrotta mentre cercavo di coronare il top dei miei sogni romantici. Perché era quello che stava succedendo, giusto? Alec stava per baciarmi. Ne ero abbastanza sicura, anche se sembrava troppo bello per essere vero. «Vieni dentro, Emma». La voce di mamma era un sussurro stanco. Una specie di sospiro addolorato. Non esattamente un buon segno. «È successo qualcosa a Sam?» Sorprendente quanto poco ci voglia per rovinare una giornata perfetta. Basta un attimo. Dimentichi la eggiata per le vie di Manhattan, il pranzo al Central Park. Gli abbracci e le mani che si sfiorano. Dimentichi quando ti ha trattenuta sulla porta di casa, prendendoti per un braccio e tirandoti a sé. Quando ha affondato la mano nei tuoi capelli e con l’altra ti ha circondato la vita. Dimentichi il martellare del tuo cuore e delle sue labbra così piene. Così vicine da non distinguere il suo respiro dal tuo. Accelerato, avido, in attesa. Non esisteva più niente di tutto ciò, mentre guardavo mia madre apparentemente reduce da una crisi di nervi. Senza conoscerne il motivo. «Non è successo nulla. Vieni dentro e vai a dormire». Sembrava arrabbiata, non mi guardava nemmeno in faccia. Forse si era accorta di qualcosa. Strano che non chiedesse dove eravamo stati e cosa avessimo fatto. Era la tattica dell’indifferenza? Sparire per tutto il giorno, lasciando soltanto un biglietto non era il massimo del comportamento filiale. Probabilmente aveva provato a chiamarmi mille volte, ma avevo il cellulare scarico.

Scivolai verso le scale in silenzio. Andare a letto non era una cattiva idea. Era stata una giornata lunghissima. Non ci potevo ancora credere. Era difficile fraintendere a quel punto e tante cose mi apparivano sotto una luce diversa. Eppure da quando Alec era sparito nel buio, pedalando come un pazzo verso casa, non riuscivo a scrollarmi di dosso un’inquietudine vischiosa e strisciante. Un presentimento di oscurità si agitava nella mia mente, inascoltato e pungente. Come la volta di Tony Marshall. Allora era stato forte, furioso e agghiacciante e non era accaduto nulla. Avevo solo bisogno di una bella dormita e sarei stata pronta per la nuova vita che mi aspettava. Attenta a non svegliare le mie sorelle mi preparai per andare a dormire. Nel buio potevo distinguere i respiri regolari di Connie ed Eileen. La notte era silenziosa e inodore. Mi era sembrata così profumata e viva appena un’ora prima. M’infilai sotto le lenzuola e chiusi gli occhi. Senza rendermene conto caddi in un sonno agitato e senza sogni. Quando mi svegliai l’indomani mattina era quasi ora di pranzo. Stupefatta, guardai due volte l’ora segnata dalla radiosveglia sul comodino: le 11.30. Kate in genere non permetteva che dormissimo fino a tardi. Fradicia di sudore, nonostante avessi scalciato lontano le lenzuola durante la notte, feci per scendere dal letto. La testa mi girò così forte che ricaddi sui cuscini. Portai la mano alla fronte: scottava. Febbre ad agosto? Fantastico. Avrei ato gli ultimi giorni di vacanza e i primi giorni della mia storia con Alec, bloccata a letto con l’influenza. Alec. Probabilmente si stava chiedendo dove fossi finita. Allungai una mano sul comodino e presi il cellulare. Nessuna chiamata, nessun messaggio. Forse anche lui aveva dormito fino a tardi e aveva optato per are di persona nel pomeriggio. Meglio avvisarlo che non mi sentivo troppo bene. Kate non lo avrebbe fatto salire e farmi vedere in quelle condizioni era l’ultima cosa che volevo. Poteva

chiamarmi però. Provai di nuovo ad alzarmi, questa volta con maggior successo. Mi trascinai in bagno. Ero uno straccio. Mi sciacquai la faccia con l’acqua fredda e lavai i denti. Restai a fissare la mia immagine nello specchio per qualche istante. Sembravo triste. Tutta colpa di quello stupido presentimento. Che potere cretino. A cosa servivano gli avvertimenti se non ero in grado di collegarli a un pericolo reale? Stavano solo rovinando un risveglio che avrebbe dovuto essere perfetto. Ne avrei parlato con Miranda. Doveva esistere un modo per imparare a gestirli senza violare troppe regole. Magari era necessario chiedere un nullaosta al nostro Custode. Interessante prospettiva. Erano giorni che mi domandavo chi fosse. Fu in quel momento che mi accorsi che la casa era troppo silenziosa. Dove erano finite tutte? Scesi le scale, attraversai la sala e mi diressi in cucina. Trovai un biglietto di Eileen sul frigorifero. «Sono da Dave. Mamma e Miranda sono uscite all’alba. Hanno spedito Connie dai Miller, senza lasciare detto dove andavano. Che cavolo è successo? Chiamami appena ti svegli». Non ci pensavo proprio. Elle stava esagerando come al solito. Probabilmente erano andate a fare shopping e non volevano adolescenti tra i piedi. Accartocciai il messaggio e lo buttai nella pattumiera. La testa riprese a girare e dovetti aggrapparmi allo schienale della sedia per non cadere. Forse una boccata d’aria fresca mi avrebbe fatto bene. Presi fiato e mi diressi verso l’ingresso. Afferrai la maniglia della porta e feci per abbassarla, ma oppose un’inaspettata resistenza. Eileen doveva averla chiusa sovrappensiero quando era uscita, dimenticando che ero in casa. Afferrai la chiave di riserva dallo svuotatasche sul mobile in entrata e la girai nella toppa. Niente. La serratura non scattava. Era improbabile che avessero chiamato un fabbro nella notte per cambiarla, quindi poteva significare solo una

cosa: punizione. Feci un tentativo con la porta sul retro per togliermi il dubbio. Stessa storia. Mi avevano letteralmente chiusa in casa. Molto simpatico da parte loro usare un incantesimo per impedirmi di uscire. Davvero onesto. La rabbia mi salì al cervello e la testa ricominciò a girare. Meglio non sprecare ulteriori energie, tanto non potevo fare nulla. Tornai sui miei i e arrivata in camera crollai sul letto. Per poco non schiacciavo il cellulare. Mezzogiorno. Dallo schermo non sorrideva nessuna bustina e non c’era traccia di chiamate perse. Sdraiata a pancia in su, fissavo le travi bianche del soffitto cercando di ricacciare indietro l’ansia. Mi sentivo stanca e confusa, ma non volevo addormentarmi. O forse sì. Sprofondai di nuovo in quello strano sonno muto e vischioso. «Em, svegliati! Svegliati ti prego!» Da un posto lontano mille miglia mia sorella chiamava con una voce che non era la sua. Perché non mi lasciavano dormire altri due, tre anni? Aprii gli occhi controvoglia, ma non dissi niente. Non avevo niente da dire. La bocca era asciutta per la sete e la gola mi bruciava. Avevo fatto un’altra sudata. Di questo o sarei morta disidratata. «Acqua» gracchiai. Odiavo essere svegliata così. Elle riempì il bicchiere che tenevo sul comodino e me lo porse. I suoi gesti mi sembrarono così lenti, così colmi di grazia. Mi si riempirono gli occhi di lacrime. «Come ti senti? Hai un aspetto orrendo. Devi mangiare qualcosa». Cercava di controllare il tono della voce, ma i muscoli del viso erano tirati. Gli occhi segnati e stanchi.

«Credo di essermi presa l’influenza o qualcosa del genere. Che ore sono?». Non capivo cosa avesse da preoccuparsi tanto. Feci per mettermi seduta, ma la cosa mi costò uno sforzo enorme. Eileen mi sostenne e mi sistemò il cuscino dietro la schiena. «Sono le 15.30» rispose assente. «Ho dormito solo un paio d’ore, ma è meglio che mangi qualcosa. Questa mattina non me la sentivo e ieri sera… ». Non mi lasciò terminare la frase. Mi guardò con lo sguardo intenso, un po’ irritato, che sfoderava quando non capivo al volo. «Sono le 15.30 di lunedì. Hai dormito un giorno e mezzo. Ieri quando sono tornata non sono riuscita a svegliarti e mamma ha ordinato di lasciarti stare». Ah ecco. Avevo dormito per un giorno intero e avrei dormito ancora se mia sorella e la sete non mi avessero svegliata. Alec. Allungai la mano di scatto verso il telefono. Niente. Nessun messaggio, nessuna chiamata. Forse era ato per vedere come stavo e non aveva voluto disturbarmi. Aveva senza dubbio lasciato detto di farmi sentire appena mi fossi svegliata. «Alec cos’ha detto quando è ato? L’hai visto?». Doveva essere ato, dato che non aveva scritto né telefonato. La mia mente non riusciva a concepire una soluzione diversa, nonostante l’ansia che mi tormentava fosse la stessa che mi aveva assalita quando se ne era andato. Quel presentimento orribile di solitudine, distacco. Quella paura. Odiavo avere paura. Meglio la disperazione della paura. «Non è ato, Em». Le parole le morirono in gola. «Mi dispiace». Ecco a lei signorina: la disperazione è servita. Insomma era sparito. Aveva fatto retromarcia, battuto la ritirata, cambiato idea, tirato i remi in barca. Senza dare spiegazioni. La relazione più breve tra le

relazioni brevi. Non era da Alec comportarsi così. Forse aveva capito che stava per commettere un grave errore, che si era lasciato prendere la mano, ma ignorare un mio messaggio nel quale accennavo di stare poco bene… Non che mi aspettassi fiori e cioccolatini, ma in condizioni normali avrebbe scritto per prendermi in giro e avrebbe portato delle aspirine. Quello era Alec. Ma le condizioni non erano più normali. Era arrabbiato? Avevo fatto qualcosa di sbagliato? Ah signorina, lo stai facendo di nuovo. Stai cercando delle giustificazioni. La versione più semplice è sempre quella vera. Aveva soltanto cambiato idea senza trovare il coraggio di dirmelo in faccia. Guardai il soffitto e cercai di ricacciare indietro le lacrime. Eileen distolse lo sguardo e prese un piatto con una fetta di torta che si trovava sul comodino. «È al cioccolato, l’ha fatta Miranda. Mangiane un pezzetto, fallo per me». Miranda. Miranda e la mamma. Il dolore prese la strada della rabbia e m’incendiò le vene. «Molto gentile da parte sua. L’ha cucinata prima o dopo avermi chiusa in casa? Puoi dire a mamma che non occorre che mi tenga in punizione, tanto non ho intenzione di mettere il piede fuori di casa, almeno per i prossimi dieci anni». Allontanai il piatto con la mano. Voleva essere un gesto stizzito, ma uscì fiacco e poco convincente. «Non hai abbastanza energie per fare la melodrammatica. Forza mangia». Eileen era preoccupata, ma restava sempre Eileen. Non avrebbe permesso che mi piangessi addosso nemmeno per un secondo. Mi porse di nuovo piatto e forchetta. «Mamma è strana in questi giorni. Non dice una parola ed è furiosa con

Miranda. Sai quando litigano, ma non vogliono farcelo capire? Beh si trattengono meno del solito. Anche la nonna è arrabbiata. Credo che nessuna delle due voglia cedere, ma in quanto al motivo della lite lo ignoriamo. Connie ha cercato di origliare da dietro la porta ieri sera, ma l’hanno scoperta subito». Cosa m’importava delle loro stupide discussioni? La mia vita era finita. Finita, perché ero stata così stupida da crederci anche solo per un attimo. Non avevo sempre saputo che sarebbe andata così? Ingollai il pezzo di dolce, amaro come il veleno e mi girai su un fianco. Volevo solo dormire. Sentivo già le palpebre farsi pesanti, la mente annebbiarsi. Il dolore ammutolire. Non sparire, no, però era un sollievo non sentirlo più urlare…

~~o~~

«Per fortuna sei tornato. Non so più cosa fare. Si sveglia solo per mangiare un boccone e poi si riaddormenta. Sam fai qualcosa, a te dà ascolto». Sam. «Gliel’hai detto, Elle? Bisogna dirglielo quando si sveglia. Non vorrai che venga a saperlo da qualcun altro o peggio… » Dire cosa a chi? «Peggio di così? Giuro che se lo incontro per strada gli metto le mani addosso». Eileen era furiosa. Che strano sogno. Di chi stavano parlando? «Non sappiamo come siano andate le cose. Sono sicuro che avrà le sue ragioni. Si sistemerà tutto vedrai». Non si sistemerà niente. Non avrebbe dovuto esserci niente da sistemare. «Mi sembra si sia mossa. Dobbiamo farla bere e mangiare. Questa cosa non è

normale. Emma? Emma, svegliati. C’è Sam». Sam. Sam ed Eileen. Potevo farcela. Potevo provare ad aprire gli occhi. Era difficile, erano così pesanti. Sbattei le palpebre e cercai di aggrapparmi a qualcosa. Tutto appariva annebbiato, confuso. Una massa informe di colori. Colori. Una chiazza verde davanti a me. Mi sforzai di mettere a fuoco. Cominciai a intravederne i bordi. Un braccio abbronzato spuntava da una manica verde. La maglietta che Sam aveva comprato l’estate scorsa alla liquidazione del negozio di articoli sportivi di Mr Tippen. Un verde inguardabile. «Emma, fai schifo. Dovresti prendere un po’ di sole. Sempre che tu riesca ad alzarti dal letto». Era partito spavaldo, ma mancava di convinzione. Dovevo avere davvero un aspetto orrendo. Comunque era tornato. Sam era lì. Seduto sul mio letto. Sam. Con uno sforzo immenso aprii gli occhi. La luce era abbagliante e non fui in grado di mettere a fuoco ciò che avevo davanti. Cercai di concentrarmi su un punto preciso per impedire alla testa di girare. Un paio di occhi grigi, spalancati per l’ansia agganciarono i miei e li implorarono di rimanere aperti. Non sarei stata capace di rifiutare nulla a Sam Miller, così mi arresi. Era arrivato il momento di affrontare la situazione. Me la sarei cavata. C’erano le mie sorelle e c’era Sam. Non potevo cancellare il dolore, ma potevo cercare di ignorarlo. Lo avevo fatto molti anni prima, quando ero una bambina. Sarei riuscita ancora una volta.

Io ero capacissima di tenerlo fuori, ma gli altri? Avremmo dovuto stabilire delle regole. Sembravano ansiosi di sapere come mi sentissi, di comunicarmi l’orribile novità che secondo loro non potevo ignorare. Terrorizzati al pensiero che potessi venire a saperlo da altri. Come se ci fosse bisogno di dirmelo. Li avevo sognati. Tra le migliaia d’immagini confuse che mi erano ate nella mente in quei giorni di sonno perenne, alcune spiccavano nitide e bruciavano come sale su una ferita. E se non lo avessi sognato, grazie al mio delizioso talento, ci sarei arrivata da sola. Non c’era bisogno che li vedessi con i miei occhi o mi raccontassero di loro. Era ovvio. Lo era sempre stato. Ero stata la prova generale di un meraviglioso show. Mi sedetti e appoggiai la schiena ai cuscini. Sam non si mosse e non aprì bocca. Stava bene, era in forma. La pelle abbronzata, i capelli incolti. Doveva aver preso una scottatura perché la punta del naso si stava spellando. Povero Sam. Chissà con quanto entusiasmo era tornato a casa, ansioso di raccontare le sue scorribande. Sicuro che avrebbe trovato tutto come lo aveva lasciato. Invece il nostro mondo era andato in pezzi. Eileen riempì d’acqua il bicchiere che tenevo sul comodino e me lo porse. Aveva l’aria stanca. L’aria di chi non dormiva da giorni. Avevo succhiato il sonno delle mie sorelle. «Bevi. Bevilo tutto e dopo ne berrai un altro. Ti alzerai dal letto, andrai a farti una doccia e ti metterai dei vestiti veri. Sam ed io ti aspettiamo giù». Girò sui tacchi e uscì dalla stanza. Sam si alzò e fece per seguirla, ma prima di uscire mi lanciò una lunga occhiata. «Em… ». Non lo lasciai continuare. Non potevo. Non era ammissibile sentire una sola sillaba sull’argomento. «Sam, ti prego, non dire niente. Non serve. Non voglio parlarne e non vorrò parlarne mai. So quello che c’è da sapere, non occorre aggiungere altro». Avevo cercato le parole giuste per non apparire melodrammatica, ma non era solo una questione di parole. Era una questione di tono e avevo fallito miseramente.

Non sembrava stupito, più che altro rassegnato. Tornò a sedersi sul letto. Cercò la mia mano e la strinse. Lottai con tutte le forze per non piangere. Mi guardava dritto negli occhi e non volevo che vedesse quella patetica versione di me. «Sapevo che mi avresti fatto questo discorsetto. Per ora possiamo evitare di parlarne, ma non potrai ignorarlo per sempre. Fra una settimana ricomincia la scuola e sarai costretta ad affrontarlo che ti piaccia o no. Io comunque ci sarò ogni volta che vorrai e ne avrai bisogno». Mi diede un buffetto sulla guancia e si alzò. «Grazie». Volevo dirglielo davvero. Chissà se si capisce quando si vuole ringraziare davvero. «Ti aspetto in cucina, datti una mossa. Tua sorella ti ha preparato da mangiare, vedi di farti venire appetito». Mi sorrise, lo sguardo triste ma pieno d’incoraggiamento. Cercai di restituirgli il sorriso. Un gesto più difficile del previsto. Erano parecchie le cose che non facevo da giorni. Mangiare qualcosa che non fosse una fetta di torta o dei biscotti per esempio. «Ci proverò. Credo di avere un po’ di fame». Almeno una sensazione simile. Un vuoto nello stomaco che risucchiava tutto. Sogni, speranze, desideri. Avrei voluto provare una sensazione fisica come la sete o sbattere il ginocchio contro lo spigolo del letto. Sentire un dolore reale che attutisse quello sordo e desolante che non mi abbandonava da giorni. «Hai una settimana per rimetterti in sesto. Sono tornato appena in tempo». «Per fortuna sei tornato». Non riuscii a dire altro. Impiegai le poche energie che mi rimanevano per scendere dal letto e trascinarmi in bagno. Dopo la doccia tornai in camera per cercare dei vestiti puliti. Presi le prime cose che mi capitarono sotto mano e con i capelli ancora bagnati scesi al piano di sotto. Sperai che Kate e Miranda non fossero in casa. Non avevo voglia di sentire i loro occhi addosso. Occhi pieni di domande e di preoccupazione.

Era probabile che Eileen avesse dato loro qualche spiegazione e se così non fosse stato, mamma aveva gli elementi per fare due più due da sola. Era quello che voleva. Poteva smettere di preoccuparsi della mia vita sentimentale. Dopo una breve parentesi al limite del surreale, era tornata a essere inesistente. E straziante. Ottimo risultato. Arrivata in cucina crollai sulla sedia più vicina. Eileen aveva preparato dei sandwich al prosciutto. Per quanto le sue attenzioni mi commuovessero sapevo che non erano gratuite. Il momento dell’interrogatorio sarebbe arrivato presto. Sedette a capotavola, mentre Sam prese posto davanti a me. Avevo la sensazione di essere circondata. Braccata è la parola giusta. «Brava, era ora. Non abbiamo molto tempo». Mia sorella mi lanciò una lunga occhiata penetrante. Una delle sue. La ignorai. «Sam ha detto che non ne vuoi parlare» continuò decisa. Sapevo che stava per arrivare un “ma” grosso come una casa, «ma non credo che ti faccia bene tenerti tutto dentro». Aspettò una risposta, che tardava ad arrivare visto che avevo la bocca piena e nessuna voglia di risponderle. «Esatto e non mi farai cambiare idea. Argomento chiuso. Dov’è Connie?». Erano parole al vento perché sapevo che Eileen mi sarebbe stata addosso per settimane. Meglio farle capire subito che non avrei ceduto per nessuna ragione al mondo. «Non cercare di cambiare discorso, ti ho già detto che il tempo stringe» ribadì ostinata. «Sta scoppiando la terza guerra mondiale?». Sarcasmo. Il sarcasmo vince sempre. Non capivo dove volesse andare a parare. Poco tempo per cosa? Sam si mosse nervoso sulla sedia. L’argomento non piaceva nemmeno a lui. Potevo biasimarlo? Lo attendeva un periodo tremendo. Diviso tra me e lui. Senza sapere come comportarsi o cosa fare per farmi stare meglio. Conoscendolo avrebbe vissuto con la preoccupazione costante di fare torto a uno dei due.

Avrei fatto di tutto per evitargli un tormento del genere. Dalla mia bocca non sarebbe uscita una sillaba che avrebbe potuto mettere in difficoltà l’unica figura maschile della mia vita che non mi avesse spezzato il cuore. Eileen commentò il mio sarcasmo con un sospiro stizzito, ma non demorse. «Sta per iniziare la scuola». Forse si aspettavano che reagissi in qualche modo, ma non lo feci. Incominciai a scrutare il sandwich con molta attenzione. La cosa non mi toccava. Non mi riguardava. Non mi avrebbe toccato più niente. Niente avrebbe più riguardato me. «Ho finito i compiti settimane fa». Buttai giù un altro boccone, ma fece più fatica a scendere di quelli che lo avevano preceduto. «Hai una settimana per rimetterti in sesto. Non permetterò che lui ti veda in questo stato. Non gli darai questa soddisfazione» il suo sguardo risoluto afferrò il mio come se potesse trasmettermi la sua determinazione. Sarebbe stato bello, perché una frustata in faccia avrebbe fatto meno male. La rabbia di Eileen, la preoccupazione di Sam, il pensiero di lui con lei. Mi ò davanti agli occhi uno scenario da incubo. Mia sorella aveva ragione. Una settimana era pochissimo tempo. Aprii la bocca per parlare, ma non emisi nessun suono. Non avevo voglia di pensare a una risposta pungente o solo vagamente sensata. Guardai Sam in cerca d’aiuto e l’aiuto, come sempre, arrivò. «Da dove vuoi che cominci? Parigi, Roma o Madrid? Che ne dici di ascoltare i miei racconti mentre scarti il tuo regalo?». Mise una mano in tasca ed estrasse una scatolina rossa che appoggiò sul tavolo. Era piccola, semplice, rivestita di stoffa. La spinse verso di me e allungai la mano per prenderla. Lanciò un’occhiata a mia sorella. Eileen si alzò indispettita dalla sedia e cominciò a riordinare la cucina. Si era momentaneamente arresa per non fare la prepotente davanti a Sam, ma non appena se ne fosse andato non mi avrebbe dato tregua. Avrei dovuto trovare le parole giuste per convincerla a lasciarmi stare.

Strinsi la scatola tra le mani. Sam fece cenno di aprirla. Titubante obbedii. Nella scatola riposava un pesciolino di vetro. Aveva il colore del mare ed era leggero come una piuma. Un braccialetto d’argento permetteva di metterlo al polso. Cosa che feci. Sam si ò la mano tra i capelli imbarazzato. Lo guardai senza sapere cosa dire. «È banale forse… Il vetro di Murano e tutto il resto, ma adori Venezia e ho pensato che te l’avrebbe ricordata». Mi sembrò di vederlo incappare in quel minuscolo oggetto in un assolato pomeriggio di agosto, sgomitando tra i turisti sudati e inebetiti dalla bellezza che li circondava. «Grazie, è un regalo perfetto. Inizia dal principio, da quando sei salito sull’aereo» dissi con il groppo in gola, ma ansiosa di conoscere ogni piccolo particolare del viaggio. Volevo sapere dove era stato, cosa aveva visto, chi aveva incontrato. Quanto e dove era stato felice. Volevo sapere di lui e distrarmi. Sprofondare in una vita che non fosse la mia. Sam parlò per un’ora. Era bravo con le descrizioni e riuscì a trasportarmi nelle città che aveva visitato, farmi immaginare la luce e gli odori delle strade, il gusto dei cibi. Lo ricambiavo con uno sguardo colmo di gratitudine. Eravamo in partenza da Parigi quando dalla porta di servizio entrò mia madre. Seguita da Miranda. Entrambe avevano le braccia cariche di sacchetti. La bocca di mamma si spalancò per lo stupore. Si ricompose in fretta e un sorriso di sollievo le increspò le labbra. Senza arrivare agli occhi. «Elle per favore dai una mano alla nonna. Sam, sei tornato! Come stai? Come è andato il viaggio?». Kate sembrava contenta di vederlo. Sembrava sollevata. Appoggiò i sacchetti sulla tavola e cominciò a svuotarli. «Tutto bene, grazie. Sono arrivato ieri notte e ora eccomi qua. Voi come state? Hai bisogno di una mano?». Si alzò e senza aspettare una risposta cominciò a

darsi da fare con la spesa. Mamma mi guardò prima di rispondergli. Distolsi lo sguardo. Ce l’avevo ancora con lei. «Stiamo bene. Tutto come al solito». Gli regalò un sorriso tirato senza aggiungere altro. «Sia ringraziato il Cielo! Chi ha compiuto il miracolo?». La voce sollevata di Miranda invase la cucina. «Sam» rantolò Eileen sotto il peso del sacchetto che stava portando dentro casa. La nonna attraversò la stanza e venne dritta nella mia direzione. Si chinò su di me e mi prese il viso tra le mani. Scrutò a lungo nei miei occhi bellicosi. Ce l’avevo anche con lei. «Come ti senti?» chiese seria, ignorando le mie occhiate rabbiose. Gli occhi da gatta scintillavano più del solito. Mamma la guardò con disapprovazione. Aveva l’aria triste. «Bene». Due sillabe prive di significato, ma non potevo rispondere in modo diverso. «Quando ti sei svegliata?». Mi tastò il polso con le dita fresche e appoggiò il palmo della mano sulla fronte per sentire la temperatura. Kate seguiva attenta i suoi movimenti. «Un paio d’ore fa e prima che tu me lo chieda: ho mangiato e bevuto». Cominciavo a sentirmi a disagio. Mia madre m’ignorava e mia nonna mi trattava come una bambina di sei anni. Sam era abituato alle piccole follie della nostra famiglia, ma si sarebbe accorto che la situazione non era normale nemmeno per noi e a dire la verità anch’io non sapevo cosa aspettarmi. Guardai Miranda con aria interrogativa, ma sembrava persa nei suoi pensieri. «Il peggio è ato» la sentii sussurrare.

Opinabile.

L’intervista

Emma

«Devo chiederti un favore. Il favore della vita». Sam mi guardava con aria implorante dall’altra parte della scrivania. Giocherellava nervoso con il cordino del cappuccio della felpa. La stessa felpa che avevamo comprato un paio di settimane prima ad Hartford. Shopping prescuola, un’idea di Eileen. Aveva funzionato: mi ero quasi divertita. Doveva essere un favore grosso o difficile da chiedere. Sembrava parecchio sulle spine, ma cercava di non darlo a vedere. Non ero nella posizione di negarglielo, piccolo o grande che fosse. Da settimane mi faceva da balia ed era il suo primo giorno da vice direttore del giornalino della scuola. Una delle poche novità positive dell’anno scolastico appena iniziato. Per il resto ogni cosa all’apparenza era rimasta uguale a se stessa. Non per me. Niente mi teneva legata al ricordo di quello che c’eravamo lasciati alle spalle. Era stata una battaglia arrivare indenni al primo giorno di scuola. Rimettersi in carreggiata, tornare ad avere un aspetto presentabile, prepararsi ai commenti sussurrati dietro le spalle al mio aggio. Eileen e Connie avevano avuto pazienza e determinazione. Molto più di me. Sopportato le notti insonni, le crisi di pianto, i silenzi. Le mie sorelle mi facevano da scudo nella speranza di rendere meno traumatico il ritorno a scuola. Connie aveva addirittura fermato il tempo davanti alle porte di sicurezza prima di entrare. «Prendi un bel respiro» aveva detto. Se mamma l’avesse scoperto l’avrebbe uccisa, ma non le importava. Non mi avevano lasciata sola un minuto: Eileen, Constance, Mads e Sam si erano dati il cambio a lezione, durante gli intervalli e le pause pranzo. Sembravo una sorvegliata speciale. Non perché temessero che fi qualche pazzia da esaurita o che scapi da

scuola. Volevano semplicemente evitare che fossi da sola quando li avrei incontrati. Precauzione inutile, perché lui a scuola non c’era o meglio io non l’avevo ancora visto. Avevo ato la maggior parte del tempo guardando la punta delle scarpe e prendendo appunti, ma era probabile che fosse lui a evitarmi. Non aveva importanza. L’essenziale era continuare a credere che non esistesse. Incontrarli per i corridoi mano nella mano non avrebbe aiutato le mie autoconvinzioni a scopo terapeutico. «Non hai che da chiedere» risposi cercando di sfoderare un sorriso convincente. Da qualche settimana il mio repertorio si era parecchio ridotto. Non riuscivo a farlo arrivare agli occhi. Da bambina ero molto più brava. Mi pentii all’istante di tutta quella disponibilità, ma non potevo tirarmi indietro. Avevo davanti la persona a cui avevo rovinato il penultimo anno di liceo, trascinandolo nel peggiore teen drama della storia. «Dovresti fare un’intervista al posto mio» continuò noncurante. Non sembrava una richiesta terribile. Poteva andarmi peggio, ma avrei creduto di più alla sua disinvoltura se la cosa non fosse stata preceduta da un preambolo di mezz’ora. La stava prendendo da Adamo ed Eva e non era un buon segno. «Me ne sarei dovuto occupare io, ma sono indietro con l’impaginazione e voglio che sia pronta entro questa sera» proseguì professionale. Era il solito perfezionista. «Chi devo intervistare?» dissi traboccante di convinzione e buoni propositi. Il Preside, la cuoca, il nuovo membro del club degli scacchi? «Charlie Thompson». Il nome gli uscì dalla bocca a fatica e finse di sistemare delle carte davanti a sé per non essere costretto a guardarmi in faccia. Ecco perché Adamo ed Eva. Il sorriso già poco credibile mi si congelò sulla faccia. «È il nuovo capitano della squadra di basket e Thousend vuole aprire il numero

di mercoledì con la sua intervista». Il nuovo capitano della squadra di basket. La squadra di basket e il vecchio capitano. Fantastico. «Se non te la senti Em… ». Non potevo continuare a vivere sotto una campana di vetro. Era una sciocchezza. Potevo farcela. Ce l’avrei fatta di sicuro. «Dove e a che ora?» lo interruppi. Conoscevo la risposta e non mi spaventava. Almeno per il momento. Sam mi fissò per un secondo, indeciso se rispondermi o meno. Si stava già pentendo di avermelo chiesto. Se le cose fossero andate male, si sarebbe sentito in colpa per giorni. «In palestra. Dopo l’allenamento». Di nuovo il tono noncurante. Gli riusciva quanto riusciva a me sorridere. Quando avevamo cominciato a mentirci a vicenda per non farci del male? «Okay». Non riuscii a sillabare altro. Era più impegnativo del “mettersi alla prova” a cui avevo pensato. Era sfidare la sorte, ma ero in ballo, perciò bisognava ballare. Dovetti sembrargli davvero convinta perché mi guardò con un misto di preoccupazione e sospetto. «Spero di essere all’altezza dell’incarico» dissi più a me stessa che a lui. Il suo sorriso rassicurante arrivò fino agli occhi. «È il soggetto a non essere all’altezza dell’intervistatrice». Mi allungò il registratore e un piccolo block notes che un attimo prima aveva tirato fuori dal cassetto della scrivania. «Non credo che l’intervistato sarebbe dello stesso parere» dissi per ribattere al complimento, anche se in realtà lo avevo apprezzato. Raccolsi la borsa dal pavimento e buttai dentro registratore e block notes. Mi alzai, aggirai la scrivania e salutai Sam con un bacio sulla guancia.

«Ora vado. Non è educato far aspettare l’astro nascente del basket. Augurami buona fortuna. Ci vediamo più tardi». Sam disse che non ne avrei avuto bisogno, ma non mi voltai per rispondere. Non ero così fiduciosa e temevo che me lo leggesse in faccia. Se avesse sospettato che la cosa mi angosciava mi avrebbe fatto fare subito dietro front. Uscii dalla redazione e m’incamminai verso la palestra. Aveva veramente bisogno del mio aiuto o faceva parte di una nuova terapia d’urto elaborata insieme a Eileen? Forse erano stanchi di fare da baby sitter a tempo pieno. Non si potevano biasimare. Era uno strazio starmi accanto. Musi lunghi, sospiri tra i denti, scatti di nervi. Tutto condito da una conversazione monosillabica. Non pronunciavo una frase di più di cinque parole da settimane. Era comprensibile che avessero deciso di buttarmi fuori dal nido. Immersa nell’autoflagellazione feci un giro assurdo per evitare di incontrare qualcuno. Arrivai in palestra senza intoppi, ma con qualche minuto di ritardo. Il campo per mia fortuna era deserto. C’erano solo il coach Fox che compilava il registro seduto a un tavolino e un Charlie dall’aria molto annoiata appoggiato alla ringhiera che separava i posti destinati al pubblico dal parquet di legno chiaro del campo. Mi erano sempre piaciuti i campi da basket. La visuale dall’alto, i soffitti infiniti, gli ambienti chiari, luminosi. Le uniche pecche erano l’odore di polvere e il freddo. Mi facevano venire il mal di testa. Charlie palleggiava indolente in abiti normali. Pulito e profumato, pronto per l’intervista. Il coach l’aveva fatto uscire prima per prepararsi al grande evento. Mi notò appena varcai le porte di sicurezza della palestra e un sorrisetto gli spuntò sulla faccia. Smise di palleggiare. Non fece un o per venirmi incontro e si gustò la mia imbarazzata erella. Carino era carino. L’aria strafottente, i capelli biondo cenere spettinati ad arte, il fisico atletico. «Bene, bene, bene» lo disse tre volte, scandendo le parole, senza staccarmi gli occhi di dosso, come un cattivo dei film.

Mi mise a disagio e per una frazione di secondo pensai a come ero vestita. Jeans e pullover blu? Proseguii decisa a non lasciarmi condizionare dalla sua spavalderia. «Guarda chi c’è. Miller non voleva urtare i sentimenti del suo amichetto e ha mandato te, Hataway? Coraggioso da parte sua». Mi guardò con il solito mezzo sorriso, sicuro di aver colto nel segno. Thompson era un genio del male. Con una sola frase era riuscito a farmi inviperire e darmi una pugnalata. Bersaglio centrato due volte. E quanta arroganza. Davvero aveva successo con le ragazze? Quel riferimento a lui sarebbe stato solo il primo di una lunga serie. Dovevo farci il callo, incassare i colpi. Sarebbe servito quando non avrei più potuto evitare l’inevitabile. Prima o poi a scuola ci si incontra. Lo guardai con aria di sufficienza e lo raggiunsi. Con un salto scavalcò la ringhiera e si sedette su una delle seggiole di plastica rossa. Con un cenno del capo indicò quella accanto a lui. Obbedii, senza nascondere lo sforzo enorme che mi costava. «Emma Hataway, quale onore» disse canzonatorio. Cercò una posizione comoda, si appoggiò allo schienale della poltroncina e mise le mani dietro alla nuca. Cosa m’importava di Charlie Thompson? Poteva dire quello che gli pareva. Non m’importava delle sue frecciate o delle sue allusioni. Non m’importava più di niente a dire la verità. «Sam è il vicedirettore del giornale e ha la possibilità di delegare i compiti fastidiosi ai suoi sottoposti» esordii con il tono saccente che sfoderavo nei momenti peggiori. «Sarei un compito fastidioso?» rispose divertito e niente affatto urtato dalla mia acidità. «No» feci una pausa per dare più enfasi alle mie parole. «Tu sei il compito fastidioso». Per tutta risposta scoppiò a ridere. Mi sarebbe piaciuto che almeno una volta nella vita qualcuno mi prendesse sul

serio. Così tanto per provare una sensazione nuova. Non potei fare a meno di accigliarmi. Reazione che lo divertì ancora di più. «Notevole» disse non appena si fu ripreso dallo scoppio d’ilarità. «Cosa?» domandai seccata. Di questo o avremmo impiegato una vita, mentre volevo solo concludere quella stupida faccenda il prima possibile. «Carina, intelligente e sarcastica. Un mix pericoloso». Mi guardò dritto negli occhi con un’aria che avrebbe dovuto essere seducente. A quel punto toccò a me scoppiargli a ridere in faccia. «Sarebbe il meglio che sai fare? Non dirmi che ci sono ragazze talmente stupide da lasciarsi impressionare da questi giochetti». Lo guardai sinceramente stupita e lui sorrise ancora, piuttosto divertito. Il leggendario fascino di Charlie continuava a rimanere un mistero per me, anche se c’era qualcosa, in effetti, nel modo di sorridere e nello sguardo che poteva attirare. Se non avesse mantenuto sempre quell’atteggiamento da stupido bullo, avrei potuto concedergli il beneficio del dubbio. In un’altra vita. In questa non avrei più concesso il beneficio di niente a nessuno. Avevo l’impressione che, nonostante i modi arroganti volessero dimostrare il contrario, non si prendesse sul serio nemmeno un po’ e, a dire la verità, mi piaceva. «Nella maggior parte dei casi no, ma vale la pena iniziare dal livello base. Se funziona si risparmiano un sacco di energie» spiegò. «Non è il tuo caso Hataway e ne sono molto contento» concluse soddisfatto. Se non altro era un bravo attore. «Farò finta di assecondarti per vedere fin dove hai il coraggio di spingerti. E poi ti riderò in faccia» gli restituii il sorrisetto. «Sentiamo. Perché saresti molto contento?» «Hai mai giocato a guardie e ladri?» disse fissando un punto lontano dall’altra parte del campo. «Perché?» risposi meccanicamente. Cercavo di capire dove volesse andare a parare senza dargli la soddisfazione di intuire che aveva la mia curiosità. Spostò il suo sguardo scuro su di me.

«Non c’è divertimento se il ladro si fa prendere subito». Sorrise con un minuscolo angolo della bocca. Una mossa impercettibile. Beh complimenti. Ci sapeva fare con le parole, le pause, gli occhi. Purtroppo non c’era più niente su cui fare presa. «Molto interessante» tagliai corto. «Prima che ti metta a parlare di stelle e tramonti possiamo cominciare l’intervista? Ho altro da fare» estrassi dalla borsa il block notes e il registratore. «Peccato tu sia così impegnata. Mi sto divertendo tantissimo» disse malizioso. «Dovresti rivedere il tuo concetto di divertimento oppure frequentare gente con cui avere delle conversazioni. Mi domando se sarai in grado di rispondere alle mie domande. Sei pronto?» restituii il sorriso malizioso e posizionai il registratore. La mia battuta pungente non aveva smosso di un millimetro l’espressione sicura e vagamente canzonatoria che aveva sulla faccia. Anzi sembrava ci provasse gusto a provocare e a essere provocato. Beh, aveva trovato pane per i suoi denti. Le ragazze che era abituato a frequentare si limitavano ad ammirarlo con aria sognante, il che a lungo andare doveva rivelarsi piuttosto noioso, mentre quelle con un quoziente intellettivo superiore a un invertebrato lo scaricavano o si tenevano alla larga da lui. «Prontissimo. Tu sei pronta?». Mi guardò di nuovo negli occhi, mettendomi a disagio. Non ero abituata a relazionarmi con tipi come lui. Per quanto radicata fosse l’idea che mi ero fatta di lui, un ragazzo arrogante e superficiale dall’aspetto gradevole, Charlie rimaneva un mistero sotto molti aspetti. Finalmente distolse lo sguardo e attaccai con l’intervista. Lo sport non era il mio cavallo di battaglia e le domande che avevo preparato nel breve tragitto dalla redazione alla palestra, erano abbastanza prevedibili. Poco m’importava di metterlo in difficoltà: sarebbe stato inutile. Charlie era molto sicuro di se stesso, soprattutto quando si trattava di basket e il nuovo ruolo di capitano gli calzava come un guanto. Un quarto d’ora più tardi avevo esaurito gli argomenti e mi preparai per

andarmene. Raccolsi le mie cose e le infilai nella borsa, poi mi alzai per abbottonarmi la giacca. «Già finito? Non mi hai chiesto la cosa più importante» disse con finto stupore, guardandomi da sotto in su. Non aveva abbandonato la posizione sbracata e l’aria da Don Giovanni. Pensai che potevo concedermi il lusso di assecondarlo per l’ultima volta. «Sarebbe?» domandai senza preoccuparmi di nascondere l’irritazione. «Il mio numero di telefono». I suoi occhi scuri guizzarono divertiti nei miei. Mi considerava davvero un’idiota o interpretava quella caricatura di se stesso solo per provocarmi? Stavo per rispondere che l’avrei trovato in qualsiasi bagno della scuola, quando mi lasciai distrarre da un rumore proveniente alle mie spalle. Una porta che sbatteva. Una porta che sbatteva forte. Con rabbia. E poi seppi che se mi fossi girata in quel momento mi sarei spezzata. Disintegrata. Spazzata via da ciò che per settimane avevo ficcato alla rinfusa in un buco da qualche parte dentro di me, cacciandolo in fondo con tutta la forza che mi restava. L’avevo sigillato con un piccolo tappo di sughero. Una diga fatta di sughero non era granché come diga e stava per saltare. Lui era lì. Dietro di me. Lo sentivo. Sentivo il calore, il respiro. Lo sentivo bruciare. Sentivo il dolore gonfiarsi e infrangersi contro la mia piccola diga. Potevo sentire le crepe allungarsi e l’acqua farsi strada e premere, premere, premere. Potevo sentire il suo sguardo attraversarmi il cappotto e incendiarmi il cuore. Dovevo andarmene. Andarmene subito via da lì. Non mi preoccupai di salutare Charlie, dell’espressione che doveva aver visto sulla mia faccia, della figura da pazza che stavo facendo. L’unica cosa che desideravo era raggiungere la porta senza vederlo per continuare a fingere che non esistesse, a credere che il dolore se ne sarebbe

tornato nel suo buco e avrebbe continuato a strisciare nell’ombra senza esplodermi in faccia. Scesi i gradini in direzione dell’uscita. Non sollevai lo sguardo da terra nemmeno per un secondo. Erano solo pochi metri e la porta sembrava sempre più vicina. Non sentivo niente tanto il cuore mi martellava nelle orecchie. Prima di attraversare la porta urtai contro qualcosa. La scossa si diffuse lungo il mio braccio come una frustata. Mi scostai bruscamente senza fermarmi e resistetti alla tentazione di alzare lo sguardo. Il suo profumo, l’odore familiare del bagnoschiuma che usava da sempre, mi schiacciò a terra. Portò con sé il ricordo di una sera d’estate, un contatto che per quanto mi sforzassi non riuscivo a cancellare. Era intollerabile. Soffocai un lamento, di frustrazione, di dolore. Di niente. Sentii l’aria fresca del tardo pomeriggio pizzicarmi la faccia. Continuai a correre per qualche metro, seguendo il perimetro dell’edificio. Voltato l’angolo mi fermai. Appoggiai la schiena al muro e mi lasciai scivolare a terra. Non sarei stata in grado di fare un solo o di più. Il dolore premeva da tutte le parti e cercava con ostinazione il modo per uscire. Mi presi la testa tra le mani e lasciai che mi lambisse. Mi sentivo scuotere dai singhiozzi e le maniche del cappotto inzupparsi di lacrime. Avrei voluto urlare. Tornare sui miei i e prenderlo a schiaffi, a pugni. Fargli sentire solo la millesima parte del male che provavo io. Non sarebbe stato abbastanza. Il dolore fisico a. Il mio sembrava non dovesse finire mai. Non so per quanto tempo rimasi in quella posizione. Dieci minuti, mezz’ora forse. Poi una voce famigliare attirò la mia attenzione e delle mani forti ma delicate mi aiutarono ad alzarmi. Mi sollevarono da terra, prendendomi in braccio. Dal luogo in cui mi trovavo non riuscii a capire cosa mi stesse dicendo la voce e dove le mani mi stessero portando. Sentivo solo un profumo caldo e rassicurante avvolgermi e cullarmi. Non cancellava il dolore, ma in parte lo leniva. Approfittai della tregua per sprofondare. Quando mi risvegliai mi ci volle qualche secondo per capire dove mi trovavo. Ogni cosa era immersa nel buio e nel silenzio. Era notte fonda.

Potevo sentire lo scandire di tre diversi respiri danzare intorno a me. Sapevo per istinto a chi appartenevano. Due di loro provenivano dai letti accanto al mio. Le mie sorelle sembravano dormire profondamente. Il terzo, meno profondo e più irregolare, mi accarezzava le tempie. Mia madre era sdraiata accanto a me. «Sei sveglia?» sentii sussurrare nell’oscurità. Non potevo vederla in faccia. Ero sdraiata su un fianco e le davo le spalle. Meglio così. I nostri rapporti erano ancora tesi, come se tutti i segreti che celavamo l’una all’altra avessero creato un muro tra di noi. Non avevo voglia di parlare con lei come con chiunque altro e lei, al contrario di tutti, non si mostrava interessata. Avrei dovuto esserle grata di tanta discrezione, era ciò che desideravo, ma mi sentivo più ignorata che rispettata. Non era da mia madre comportarsi in quel modo e la cosa mi feriva e disorientava. Ero contenta che fosse lì, a vegliare su un sonno che nemmeno ricordavo quando fosse iniziato. «Come sono arrivata nel mio letto?» bisbigliai con la voce impastata. «Ti ha trovata la nonna, grazie a Dio» si poteva sentire il sollievo nella sua voce. Cosa ci faceva Miranda a scuola? Forse era andata a prendere Connie dopo l’allenamento di calcetto. Una coincidenza fortunata. «Mamma?». Avrei voluto chiederle un mucchio di cose, ma c’era una domanda che comprendeva tutte le altre e non poteva più aspettare. «Cosa mi sta succedendo?»

Il blocco

Emma

Il sonno vischioso in cui ogni tanto sprofondavo cominciava a farmi paura e avevo l’impressione che Kate ne conoscesse la causa. ò qualche secondo. Non sapeva da dove cominciare e stava raccogliendo le idee. Sospirò piano e si mosse nervosa in cerca di una posizione più comoda. «Non ne siamo sicure. La mente cerca di proteggere il corpo o forse è il corpo che tenta di preservare la mente» esordì asciutta. «Potresti essere meno criptica?» chiesi esasperata dalla sua reticenza. Ero stanca di misteri. Volevo risposte e le volevo subito. Prese fiato e finalmente vuotò il sacco. «Le streghe non crescono come le bambine normali. Biologicamente sì, diventano adolescenti e poi donne, ma i loro poteri non si sviluppano in maniera graduale. Fanno degli scatti in avanti». La interruppi perché avevo già perso il filo del discorso. «Degli scatti?» domandai in un sussurro. «Ci sono dei momenti talmente importanti nella vita, così intensi che portano il potere a un gradino superiore. Lo aumentano». L’insegnante che c’era in lei aveva preso il sopravvento. Mi stava facendo la lezioncina. Buon per me, si sarebbe dimenticata di omettere particolari che come mamma avrebbe taciuto. «Tipo?» «Può essere la perdita di una persona cara o la nascita della prima figlia. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di momenti di grande gioia o di grande dolore» si fermò indecisa se continuare. «Sento puzza di un ma… » la incalzai. «… ma le streghe non sono tutte uguali. Voi in modo particolare. Tu e le tue sorelle avete esaurito tutti gli scatti regolamentari nello stesso momento». Non occorreva il genio della lampada per capire a che momento si stesse riferendo, era sufficiente l’incrinatura della sua voce. «Quando vostro padre se ne andò feci

il mio inevitabile scatto in avanti e voi con me, compresa Connie. Solo che raggiungeste il livello che io avevo acquisito in vent’anni». Cercai di immaginare la mia giovane mamma, abbandonata, incinta e con due streghe prodigio tra i piedi. Mi si strinse il cuore al pensiero di cosa avesse sofferto e della paura che doveva aver avuto. Per noi, per se stessa. «Per quale oscuro motivo?» domandai incredula. «Perché siete… speciali, tu più di tutte. All’epoca non capivo cosa stesse succedendo, mi ritrovai con due figlie piccole con i poteri di una strega adulta e una in grembo che prometteva altrettanto bene. Ero disperata e spaventata, non sapevo cosa fare. L’arrivo di Miranda fu provvidenziale e insieme cominciammo a fare delle ricerche per capire come arginare la cosa». «Arginare la cosa?» Non poteva essere il racconto della mia infanzia. O sì? «Il rischio che correvamo era troppo alto per poterlo sottovalutare, soprattutto per te. I poteri delle tue sorelle si sarebbero affinati con il tempo, rendendole un prodigio nel loro genere, ma tu saresti potuta diventare pericolosa». Cercai di metabolizzare le sue parole, di capirle fino in fondo. Come potevo essere pericolosa se tutto il mio potere consisteva nello spiare i fatti degli altri e fare sogni premonitori farlocchi? «Sei una seconda figlia e con il tuo potenziale sei destinata a sviluppare poteri attivi. Così la nonna ed io facemmo su di te un blocco. Ci sembrò l’unica soluzione possibile. Se avessimo immaginato che la cosa si sarebbe ritorta contro di noi… Beh è inutile pensare ai se e ai ma. È andata così e possiamo solo sperare di rimediare». Sembrava che cercasse di fare forza più a se stessa che a me. «Siamo arrivate al punto in cui rispondi alla mia domanda?» mi sforzai di scherzare. «Vorrei che tu prendessi sul serio questa faccenda, Emma. Non è un gioco. Dovrai imparare a controllarti fino a quando non avremo trovato una soluzione» rispose severa.

«Se sapessi cosa mi sta succedendo, potrei rendermi più utile» ribattei piccata. Per tutta risposta sospirò, ma continuò il racconto. «Al compimento del quinto anno d’età eseguimmo su di te un incantesimo che impedisse ai tuoi poteri di crescere e manifestarsi. Molte streghe lo fanno alle loro figlie durante l’infanzia, per tenerle sotto controllo ed evitare exploit in pubblico». Fin qui niente di strano. Se molte lo facevano non poteva essere pericoloso. Mamma continuò. «Non eri una strega bambina come le altre e fummo costrette a farlo un pochino più resistente». Ah ecco. Sorvolai sul pochino. «Quindi?». Non riuscivo a cogliere il nesso tra blocco e coma. «Fu un errore. Invece di rallentare la crescita dei tuoi poteri, il blocco in questi anni ha fatto da tappo: li ha compressi». La piega che stava prendendo il discorso non mi piaceva, ma non la interruppi. «Il risultato è che la più piccola emozione rischia di far saltare tutto. Il tuo corpo è costretto a fare l’unica cosa in grado di aggirare l’ostacolo: ti spegne». Era confortante scoprire di essere una bomba innescata. «Se non mi spegnessi cosa potrebbe accadere?». Era ata anche a me la voglia di scherzare. «Non lo sappiamo con certezza. Stiamo cercando un modo per togliere il blocco in maniera graduale, senza danni collaterali, ma è tenace e temiamo che prenda il sopravvento. Se dovessi provare un’emozione troppo grande, qualcosa di talmente forte da portare i tuoi poteri a un ulteriore scatto, ti scaraventerebbe in un sonno dal quale potresti non essere in grado di svegliarti». Ora il nesso tra blocco e coma lo coglievo nella sua interezza. «Perché adesso? Se ha funzionato per tutti questi anni, come mai è ato alle maniere forti?». Cosa era accaduto che mamma e Miranda non avevano previsto e aveva mandato all’aria il loro super incantesimo? «Non riesci ad immaginarlo?». Il tono si era addolcito facendosi più triste e meno preoccupato. No, non riuscivo a immaginarlo o forse non ero sicura di volerlo sentire a voce alta.

«Ti sei innamorata, Emma. Hai avuto un altro scatto, uno di troppo. La difesa che avevamo eretto è corsa ai ripari, rivoltandosi contro di te. In un certo senso ti sta proteggendo da te stessa» concluse addolorata. Non riuscii a risponderle. Mi si era formato un groppo in gola delle dimensioni di un pugno. Lo avrei preferito mille volte in faccia. Avrebbe fatto meno male. Respirai a fondo cercando di recuperare un briciolo di dignità. Non volevo sentire altro sull’argomento “ulteriore scatto”. Fine della storia. Cercai di cambiare discorso. «Cosa significa che la mente sta cercando di proteggere il corpo e viceversa?». «Le nostre sono solo teorie. Se il blocco cedesse non sappiamo quali effetti potrebbe avere su di te. Potresti non essere in grado di sostenere il potere che hai accumulato negli anni. Potresti morire o impazzire. Se così fosse la mente e il corpo si starebbero proteggendo a vicenda, una specie d’istinto di conservazione, ma siamo ad un punto morto; le nostre ricerche non fanno che sollevare nuovi interrogativi e la caparbietà della nonna non aiuta. Ha un’idea tutta sua e si ostina a portare avanti le sue assurde teorie» s’interruppe infastidita. «Uhm?». Avrei accettato qualsiasi teoria alternativa all’esplodere o impazzire. «É una lunghissima storia e non è il momento di sviscerarla. È tardi, devi riposare. Domani mattina devi andare a scuola». «Ma mamma… ». La mia arringa difensiva fu interrotta da un lungo sbadiglio. «Niente “ma mamma”. Dormi adesso. Dobbiamo impegnarci a tenere un comportamento il più normale possibile. Stiamo facendo troppo trambusto: svenimenti, tensioni… Qualcuno potrebbe accorgersi che qualcosa non va e farsi delle domande». Il tono di mamma mi spaventò. Da quando avevamo scoperto la nostra vera natura aveva sempre dimostrato una pacifica indifferenza nei confronti di chi avrebbe dovuto controllarci. La sua raccomandazione mi diede la misura di quanto stessi esponendo la mia famiglia e me stessa al pericolo. Aveva ragione: avrei dovuto imparare a controllarmi e per poterlo fare dovevo prima di tutto trovare pace. Dovevo dimenticarlo.

Mi sforzai di non pensare a lui proprio in quel momento. Sentivo il sonno, naturale e sano, arrivare, le immagini mescolarsi nella mia mente e le palpebre farsi più pesanti. Se mi fossi addormentata pensando a lui, l’avrei sognato… Camminavo sul bagnasciuga. Capii che si trattava di un sogno perché indossavo il vestito del ballo e l’acqua che mi lambiva piedi e caviglie non era fredda. Il che è impossibile. L’oceano è sempre freddo, almeno dalle nostre parti. Tirava un vento forte che mi spettinava i capelli e il cielo era plumbeo, carico di pioggia. Mi sembrava di camminare da ore. Avevo la sensazione di essere alla ricerca di qualcosa o qualcuno, ma non avevo la minima idea di chi o cosa fosse, sapevo solo che prima o poi l’avrei trovato. Desideravo tornare a casa. Temevo che avrebbe cominciato a piovere e avrei rovinato il vestito. Stravolta dalla stanchezza e dall’angoscia, mi fermai a contemplare l’oceano. Infinito, triste e grigio. «Non dovresti essere qui». Era apparso dal nulla accanto a me. La sua voce era di una tristezza completa, inesprimibile, ma anche sollevata. «Domani sarà più difficile. Non dovresti essere qui». Si sforzava, cercava le parole tra le mille che avrebbe potuto scegliere e dire. Le aveva scartate tutte, gli erano rimaste solo quelle. Mi voltai verso di lui. Alla tristezza si era aggiunta la frustrazione. La pena. Lo leggevo negli occhi, nella piega disperata della bocca. Nel sogno non sentivo dolore. Potevo stare di fronte a lui, guardarlo, senza sentirmi straziare. Scoprii di non avere nulla da dire, volevo solo rimanere con lui, in silenzio. Si rilassò anche lui e sorrise. Allungò una mano verso di me, ma il gesto rimase bloccato a mezz’aria. Qualcosa d’invisibile lo tratteneva e il mare alle nostre spalle iniziò a ringhiare e ingrossarsi. Cominciai a sentirmi scivolare via, lontano da lui, dalla spiaggia. «Svegliati» gridò come una preghiera. Nemmeno in sogno mi voleva accanto a sé. Nemmeno in quel mondo assurdo, senza tempo e senza freddo sopportava la

mia presenza. «Svegliati! Tra mezz’ora devi essere pronta, non vorrai far aspettare Sam anche questa mattina». La voce di mia sorella mi riportò alla realtà. Per incentivarmi mi aveva tolto di dosso la coperta. Avevo freddo e sonno e nessuna voglia di alzarmi. Sbattei le palpebre. In un secondo il racconto che mamma mi aveva fatto la notte precedente mi riempì la testa. Dovevo andare a scuola, lasciare da parte i drammi e comportarmi come una normale diciassettenne. Mi sarei vestita e pettinata con cura. Avrei fatto credere a tutti che stavo bene. Controllori onniscienti compresi. Mi lanciai sotto la doccia e venti minuti più tardi ero pronta. Buttai giù un sorso di spremuta e due biscotti e con solo cinque minuti di ritardo salii in macchina con Sam e Connie. Durante il tragitto parlammo dell’intervista e gli consegnai il registratore con il suo contenuto. Parcheggiammo nel solito stallo e Sam si diresse verso l’entrata posteriore. Aveva un’ora buca e l’avrebbe ata in redazione e mettere per iscritto ciò che avevo estorto al capitano della squadra di basket. Stavo per mettere il piede sul primo gradino della scala d’ingresso quando lo notai. Charlie aspettava con aria svogliata davanti alla porta, appoggiato al corrimano di ferro. Si guardava intorno indifferente come se non gli importasse granché di ciò che lo circondava. Il sole autunnale rischiarava appena i riflessi biondi dei capelli e il pullover grigio che indossava donava molto alla sua carnagione. Sembrava quasi innocuo visto così. Le mattine di ottobre tiravano fuori il lato migliore di tutti. Decisi di ignorarlo e salii le scale in direzione del mio quotidiano purgatorio personale. Guardando dritta davanti a me afferrai il maniglione antipanico, pronta a spingerlo verso il basso per entrare. «Non lo farei fossi in te». Mi fissava con la solita aria canzonatoria negli occhi scuri. Mi guardai intorno per accertarmi che stesse parlando con me, ma non c’era nessun altro nei paraggi. Gli risposi limitandomi a uno sguardo interrogativo.

«Stevens si è liberato di Jackie con una scusa e ti sta aspettando davanti al tuo armadietto». Spalancai la bocca per lo stupore. Si stava prendendo gioco di me? «Che ti importa?» risposi gelida. La situazione era assurda e la miglior difesa rimaneva sempre l’attacco. «Memore della scenetta di ieri volevo evitare che ti mettessi a correre e urlare davanti a tutta la scuola, ma hai ragione non sono fatti miei». Sempre sorridendo si staccò dal corrimano e cominciò a scendere le scale. Arrossii al ricordo di quello che era accaduto in palestra. Era ovvio che la mia crisi isterica non sarebbe ata inosservata. Stupida stupida stupida Emma. Se Charlie avesse detto la verità? Non riuscivo a immaginare cosa potesse volere Alec da me. Non aveva senso che volesse parlarmi dopo tutte quelle settimane. Forse si era deciso a mettere in chiaro un paio di cose dopo la mia reazione da Psyco del giorno prima. Non ero pronta. Ne ero assolutamente sicura. Misi da parte l’orgoglio e decisi di accettare l’aiuto di Charlie. «Sei sicuro?» chiesi stizzita. Mettere da parte l’orgoglio brucia. Si fermò sul primo scalino e si voltò verso di me. «Ero dietro di loro quando sono entrati a scuola e ho pensato di aspettarti all’ingresso per avvisarti. Conosco un’altra strada, la faccio quando sono in ritardo e non voglio are davanti all’ufficio del Preside». Il tono canzonatorio era sparito. Mi stava offrendo il suo aiuto, ma al contrario di ciò che avrei potuto immaginare, lo stava facendo senza bullarsi. «Il mio libro di trigonometria è nell’armadietto». Era l’ultima scusa del mio repertorio. La stavo raccontando più a me stessa che a lui. Sbuffò divertito e sorrise. Sapeva di aver vinto. Non era il solito sorriso che gli vedevo sfoderare dall’alto della sua arroganza. Sembrava più sincero.

«Ti presto il mio. Datti una mossa, Hataway». Mi voltò le spalle e lo seguii. Camminammo lungo il lato est dell’edificio principale. Dopo una cinquantina di metri ci fermammo davanti a una porta di sicurezza. Più piccola rispetto a quella d’ingresso. Charlie spinse il maniglione antipanico e ci ritrovammo in uno dei corridoi secondari. Lo percorremmo fino a confluire in quello centrale e confondendoci tra gli altri studenti. Non mi guardai indietro per avere la conferma delle sue parole. In fondo non volevo saperlo. «Perché?» chiesi a bruciapelo. «Perché cosa?». Si aspettava questa domanda, lo capivo dall’aria soddisfatta che aveva sulla faccia. «Perché mi stai aiutando». Faticavo a dirlo e crederlo mi risultava ancora più difficile. Aveva un secondo fine? Non sembrava il tipo che elargiva favori senza un tornaconto. «Se ieri avessi visto la tua faccia al mio posto ti daresti una mano anche tu» rispose serio. «Quindi ti faccio pena?» domandai sarcastica. Non riuscivo a bermi la storiella del buon samaritano. «Cerco di cambiare l’opinione che ti sei fatta di me, ma l’impresa è più ardua del previsto». Arrossii. Non era da me essere così scortese e antipatica. In genere concedevo il beneficio del dubbio ai peggiori elementi. Perché con Charlie era così difficile? Si fermò davanti al suo armadietto, lo aprì e ne estrasse il libro di trigonometria. Me lo diede e richiuse l’armadietto. Si ò una mano tra i capelli e senza guardarmi riprese a camminare. «Dove vai?» chiesi arrancando dietro di lui. Aveva accelerato il o ed era molto più alto di me. In pratica gli stavo correndo dietro. Che fastidio. «A se. Ci vediamo più tardi» mi lasciò stupefatta davanti all’aula del professor Graham. Entrai e meccanicamente mi lasciai cadere sulla sedia accanto a Mads.

«Ho provato a chiamarti ieri pomeriggio, ma avevi il cellulare spento. Tutto bene?». Gli occhi verde acqua lottavano tra l’irritazione e la preoccupazione. Sorrisi alla mia sensibile amica. «Scusami. Sono rimasta a scuola fino a tardi per intervistare Thompson» sfoderai la mia migliore aria disinvolta, «quando sono tornata a casa non mi sentivo bene e sono filata a letto. Cosa volevi dirmi?». Se Madison mi aveva cercata era per qualcosa di importante, altrimenti avrebbe aspettato di potermela dire a voce il giorno dopo. Un paio di colpetti di tosse del professor Graham le impedirono di cominciare il discorso. La lezione era iniziata e avrei dovuto attendere la fine per togliermi la curiosità. Mads sembrava sulle spine e ipotizzai che di qualunque cosa si trattasse doveva avere a che fare con Sam. Chinammo le teste sul quaderno per evitare di prendere una nota. Nessuna delle due ne aveva bisogno. Dopo qualche minuto mi allungò un biglietto. Lo dispiegai silenziosamente, attenta a non farmi beccare dal professore.

Come stai? Hai un’aria strana

Non sapevo cosa risponderle. Come potevo dirle cosa mi stava succedendo? Lei era una buona amica per me, ma io non potevo esserlo altrettanto. Non potevo essere sincera fino in fondo. Come avrebbe reagito se le avessi raccontato che, a causa di un incantesimo fatto quando ero bambina, rischiavo di implodere da un momento all’altro? Mi avrebbe presa per pazza. Meglio concentrarsi su di lei. Questo potevo ancora farlo senza saltare in aria.

Sto bene. Ho solo dormito male. Tu piuttosto, cosa volevi dirmi?

Ripiegai il biglietto e lo lasciai cadere dentro la sua borsa. Il professor Graham continuava imperterrito la sua lezione sulle equazioni di secondo grado. Appena si voltò verso la lavagna Mads afferrò il biglietto e lo lesse. Pensò qualche secondo alla risposta prima di scriverla. Aveva tutta l’aria di essere un discorso articolato. Prima di armi di nuovo il biglietto lo avvolse in un foglio arancione. Cominciai dal biglietto arancione. Era il volantino di una festa in maschera in occasione di Halloween. La notte delle streghe. La festa si sarebbe tenuta al vecchio cotonificio. L’immenso edificio era stato lasciato andare in rovina per anni, ma negli ultimi tempi era tornato di gran moda. Era stato riqualificato dall’ultima amministrazione locale e spesso veniva scelto dal comitato studentesco per manifestazioni di ogni tipo. Halloween non poteva essere da meno. A me quel posto metteva i brividi. Letto il volantino non c’erano più misteri per me. Indovinavo con una discreta sicurezza dove Mads sarebbe andata a parare. Come biasimarla? Da quando eravamo tornati a scuola avevo costretto i miei amici a una vita da reclusi e sospettavo che Sam stesse frenando parecchio con lei per il timore di trascurami in un momento così delicato. Era tipico di Sam sacrificarsi. Lo adoravo per questo, ma non ero così egoista da approfittarne. I tempi delle super attenzioni erano finiti. I miei amici avrebbero ripreso le loro vite da dove le avevano lasciate prima che cominciassi a dare i numeri.

Hai visto il volantino? C’è questa festa e DOBBIAMO ANDARE!!!! Sarà divertente e vedremo un po’ di gente. Che ne dici?

Con il dito le feci segno che ne avremmo parlato dopo. Graham si era girato un paio di volte e aveva guardato nella nostra direzione. Non era il caso di

intraprendere le fasi di convincimento “vieni alla festa con noi, non reggerai il moccolo” per iscritto. Meglio parlarne faccia a faccia elencandole tutti i vantaggi dell’andare alla festa solo con Sam. Per loro sarei stata soltanto un peso. Avrei fatto da tappezzeria tutta la sera, intralciando una possibile uscita romantica e subendo l’umiliazione di vedere Jackie e Alec insieme. Non sarei andata alla festa per tutto l’oro del mondo. Mads mangiò la foglia perché mi lanciò un’occhiata carica di rimprovero. Mezz’ora più tardi suonò la camla. Raccolsi le mie cose e mi alzai. Mentre gettavo alla rinfusa i libri nella borsa, cercai di illustrare alla mia amica come sarebbe stato meglio per tutti se io fossi rimasta a casa. «Scordatelo Em. Non ti lasceremmo da sola davanti alla tv. Se non verrai, non andremo nemmeno noi. Guarderemo un film insieme» disse decisa. Era un ricatto bello e buono. Sbuffai. Quando ci si mettevano erano davvero assurdi. Si erano preparati al fatto che avrei opposto resistenza ed erano corsi ai ripari. Se mi fossi finta malata non sarebbero certo venuti a casa a controllare, ma l’avrebbe fatto Eileen per loro. Maledizione. Ero in trappola. Uscii dall’aula imbronciata e afflitta. Ero talmente immersa nei miei pensieri che andai a sbattere contro Charlie. Mads, accanto a me, trattenne il fiato per lo stupore. Okay. Carino era carino. «Che ci fai qui?» esclamai più sorpresa che infastidita. Aveva l’aria rilassata come se si fosse appena svegliato da un sonnellino. «Cosa non hai capito della frase ci vediamo più tardi? Hai il mio libro di trigonometria» disse prendendomi il libro di mano. Inavvertitamente mi toccò. Non potei fare a meno di pensare che Charlie non mi dava la scossa, non mi toglieva il fiato, non mi annebbiava la vista ma, anche se non l’avrei ammesso nemmeno sotto tortura, non mi dispiaceva averlo intorno.

«Ah sì, grazie ancora» risposi imbarazzata e feci per raggiungere Madison che mi aspettava qualche metro più avanti. «Hataway?» mi richiamò. Mi voltai appena. «Sei libera a pranzo?» Mi guardai intorno imbarazzata. Una ventina di persone andavano e venivano per il corridoio. Fingevano di avere una gran fretta, ma non si stavano perdendo una virgola della conversazione. Sarebbe stato lo scoop della giornata. Fu allora che lo notai. Appoggiato al suo armadietto, qualche metro dietro a Charlie, c’era lui. Aveva l’aria di uno che non mangia e non dorme da settimane, ma al contrario di me non faceva niente per nasconderlo. Dicono che l’amore tolga il sonno e l’appetito e lui stava con Jackie. Eppure c’era qualcosa che stonava. Qualcosa che avrebbe dovuto esserci e non c’era. Non guardava nella nostra direzione, ma dritto davanti a sé. I pugni chiusi lungo i fianchi, la testa da un’altra parte, lo sguardo duro, quasi crudele. Prima che il dolore m’invadesse, prima che la testa mi scoppiasse e rischiassi per l’ennesima volta di svenire e non svegliarmi più, decisi di comportarmi come si sarebbe comportata una ragazza della mia età. Avevo il diritto di vivere una vita normale e potevo pranzare con chi mi pareva, anche con Charlie Thompson se ne avevo voglia. Ne avevo voglia? «Sì» gli diedi le spalle e seguii Madison in direzione dell’aula di Storia.

Per il tuo bene

Alec

Il coach Fox picchiettava nervoso la penna contro la superficie liscia della scrivania. Per l’occasione aveva tolto il cappellino da baseball portafortuna che teneva sempre addosso. Ogni tanto si ava una mano tra i capelli scuri nella speranza di cancellare la piega lasciata dal cappello. Non aveva ottenuto grandi risultati, dava ancora l’idea di essersi appena alzato dal letto. Era parecchio a disagio e non facevo nulla per facilitargli le cose. Era stato lui a organizzare l’incontro, se la sarebbe sbrigata da solo. Nemmeno mi sarei presentato, se non avesse minacciato di darmi un’altra nota. Per ingannare l’attesa cominciai a guadarmi intorno. L’ufficio che gli avevano assegnato la diceva lunga sulla considerazione di cui godeva il mio giovane insegnante di ginnastica. Era uno stanzino minuscolo con una minuscola finestra che dava sul parcheggio. Niente moquette o quadri alle pareti. Solo la scrivania, un computer e due sedie rivestite in finta pelle. L’unico arredo degno di nota era la vetrinetta dei trofei alle sue spalle. Una di quelle coppe dorate l’aveva vinta la mia squadra lo scorso campionato. Una partita fantastica. Il coach seguì la traiettoria del mio sguardo e mi scoccò un’occhiata severa. Sbuffai annoiato. Avrebbe attaccato di nuovo con il solito discorsetto motivazionale. «Alec, ho fatto chiamare tuo padre oggi per… ». Fu costretto a interrompersi, il padre in questione era arrivato. Thomas salutò l’allenatore con un cenno del capo e una stretta di mano, poi sedette sulla sedia accanto alla mia. Il coach lo studiò per qualche istante. Mio padre sicuramente stava facendo altrettanto con lui. «Immagino si stia domandando il motivo di questo incontro» indagò con cautela. «Presumo si tratti di Alec» rispose cortese. Papà non risparmiava il suo gentile sarcasmo a nessuno. «Non l’avrei disturbata se non fosse stato importante» tagliò corto l’allenatore. Era il genere di persona che per combattere la timidezza si nascondeva dietro a

modi bruschi, al limite dell’educazione. Thomas sembrò non farci troppo caso. «Non ne dubito, professore. Mi dica, qual è il problema?» lo incalzò. Fox iniziò a sfogliare il registro aperto sulla scrivania ingombra di carte, piani di gioco, calendari del campionato studentesco. L’occhio mi cadde sulla formazione della prossima partita. Il nome di Charlie svettava in cima alla lista. Il mio era tra gli ultimi, sotto la dicitura riserve. Il coach prese il foglio e lo porse a mio padre. Thomas inforcò gli occhiali e lo scorse velocemente. Lo lesse due volte prima di restituirlo, poi si rivolse a me per la prima volta da quando era entrato. «Cosa significa?» chiese calmo. Non avevo intenzione di rispondere. Continuai a fissare la vetrinetta dei trofei alle spalle del mio allenatore, che mi lanciò un’occhiata penetrante e rispose al posto mio. «Alec si è presentato a inizio stagione dicendo che rinunciava al ruolo di capitano della squadra. Mi è parsa una pessima idea ma non ho obiettato, pensando che volesse concentrarsi sullo studio. Beh comincio a credere che il problema sia un altro, visto che la scuola sembra essere finita in fondo alla scaletta delle sue priorità». Le cose cominciavano a mettersi male. Mio padre gli fece cenno di proseguire. «Il comportamento di suo figlio ha subito un brusco peggioramento nell’ultimo periodo» disse serio. «La mia media è perfetta» intervenni annoiato. Avevo voglia di andarmene da quello stupido ufficio. Era solo una perdita di tempo. Cosa si era messo in testa il coach? Di redimermi? «Non sto parlando della media, Alec. Mi riferisco al fatto che hai smesso di frequentare la metà dei corsi, rispondi agli insegnanti e litighi con i compagni». «Non litigo con i compagni» risposi serafico. Sul resto non avevo obiezioni. Mio padre emise un sospiro impercettibile. «Durante l’allenamento di ieri ha commesso talmente tanti falli su Charlie Thompson che ho temuto di doverlo portare al pronto soccorso prima della fine

della lezione». Sarebbe stato meglio, visto cosa era successo dopo l’allenamento, ma tenni quel pensiero e molti altri per me. Continuare a negare sarebbe stato un inutile spreco di energie. I registri e i fatti parlavano chiaro. Avevo sperato che la pagella immacolata mi tenesse lontano da seccature del genere. Mi sbagliavo. «I miei voti sono alti» ribattei ostinato. Cosa volevano da me? «Non bastano per essere ammessi in un buon college. Esamineranno il tuo curriculum da cima a fondo, compresa la condotta e le attività extrascolastiche. Stai compromettendo il lavoro fatto in questi anni e credo che i tuoi genitori abbiano il diritto di saperlo» concluse severo. Una volta il coach Fox mi piaceva. Era un tipo intransigente e pretendeva molto dai suoi giocatori, ma amava insegnare ed era un ottimo allenatore. In memoria dei vecchi tempi decisi di non gli scoppiargli a ridere in faccia e limitarmi a un sorriso beffardo. «Beh ora lo sanno. Posso andare?» dissi alzandomi. «Alec, siediti» ordinò mio padre con voce stanca. Si tolse gli occhiali e massaggiò le tempie, ma il momento di debolezza durò poco. Gli obbedii controvoglia. Mettersi a discutere avrebbe allungato l’agonia e avevo la sensazione che Thomas volesse andarsene quanto me. Con un po’ di fortuna me la sarei cavata in fretta. «Le chiedo scusa per il comportamento di mio figlio e la ringrazio di aver dimostrato tanto interesse nei suoi confronti. Alec è sottopressione in questo periodo, la scuola, qualche problema a casa. Le garantisco che mia moglie ed io prenderemo dei provvedimenti». Per un attimo accarezzai l’idea di domandargli che tipo di provvedimenti avesse intenzione di prendere. Il coach avrebbe avuto parecchio da imparare. Mio padre era un esperto in provvedimenti. «Se mi vuole scusare, ora devo proprio andare. Tra quarantacinque minuti ho lezione» concluse alzandosi e tendendo la mano verso l’allenatore. «Arrivederci Mr Fox». Il coach ricambiò la stretta di mano.

«Arrivederci professor Stevens. Spero di vederla alla prossima partita» aggiunse fiducioso. «Lo spero anch’io» mormorò abbastanza forte perché potessi sentirlo. Lo precedetti fuori dall’ufficio. Il corridoio era deserto, erano tutti a lezione. Cosa mi ero perso? Ah sì, trigonometria. Almeno la pagliacciata era servita a qualcosa. «Alec?» Mi voltai controvoglia verso mio padre. Era sorprendentemente fuori luogo in quel corridoio. L’elegante completo di tweed, la borsa di cuoio, i capelli brizzolati tagliati con cura. Ogni cosa di lui stonava con lo squallore del linoleum consumato, le file di armadietti ammaccati e le pareti grigiastre che ci circondavano. Mio padre mi era sempre parso irraggiungibile. Colto, affascinante, stimato dai colleghi, apprezzato dagli studenti, amato dalla moglie. Adorato dai figli. Beh, da un po’ di tempo raggiungerlo non era più in cima alla scaletta delle mie priorità. «Dovrò raccontare a tua madre di questo colloquio. Non le piacerà» disse osservandomi da dietro le lenti rettangolari. «È un vero peccato» ribattei sarcastico, sostenendo il suo sguardo. Inspirò a fondo e controllò l’orologio che aveva al polso. «Continueremo la conversazione a cena, ma ti avverto che stai tirando troppo la corda. Questo atteggiamento non ti porterà da nessuna parte» concluse imibile. Lanciai la mia ultima stoccata. «Sarà una piacevolissima serata. Non vedo l’ora». Girai sui tacchi e lo lasciai in mezzo al corridoio. Conosceva la strada per uscire, era stata anche la sua scuola. Mi diressi verso l’aula di se. Non era troppo distante da quella di trigonometria e forse sarei riuscito a… No, era una pessima idea. Meglio girare alla larga, prima di fare qualche cazzata. Avrei preso i libri che mi occorrevano e

sarei andato in classe. Punto. La cosa migliore sarebbe stata tornare a casa e fingermi malato, ma un’altra assenza avrebbe spinto Fox a mettere in atto il suo piano B: cacciarmi dalla squadra. Non me lo potevo permettere. Rinunciare al ruolo di capitano era una cosa, chiudere con il basket era un altro paio di maniche. Avevo bisogno degli allenamenti. I guai comunque non erano finiti. Jackie aspettava annoiata davanti al mio armadietto. Quando mi vide ò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e mi venne incontro sorridendo. La divisa da cheerleader le donava. Le dava un’aria piuttosto seducente. «Hai riavuto il tuo ruolo da capitano?» chiese guardandomi da sotto le lunghe ciglia scure. Il mio ruolo di capitano. La mia vecchia vita. «Ne abbiamo già discusso Jackie, il ruolo è di Charlie adesso, a me non interessa più» risposi leggermente irritato. Mi stupì di come suonasse vero, sotto diversi punti di vista. Aprii l’armadietto per cercare i libri di se. Jackie rimase in silenzio, tanto che pensai che se ne fosse andata. Solo quando chiusi l’armadietto mi accorsi che era ancora lì. Si avvicinò, appoggiò una mano sul mio petto e iniziò a giocherellare con un bottone della camicia. Fissai prima il bottone, poi lei. «Hai l’aria stanca» disse premurosa. «Ti va di are a trovarmi questa sera? I miei sono fuori a cena e potremmo stare finalmente soli. Rilassarci un po’… ». Parlava a bassa voce sebbene non ce ne fosse bisogno. Era molto bella. «Non posso, mio padre vuole parlarmi a cena» dissi cercando di essere gentile. «Capisco, non preoccuparti». L’espressione e i modi seducenti erano svaniti. I grandi occhi blu sembravano due pozze di ghiaccio. «Sarà per la prossima volta» mi concesse un sorriso tirato. Annuii distratto dal suono della camla.

Si alzò sulle punte per darmi un bacio. Sentii le sue labbra sfiorarmi la pelle. Nient’altro. La guardai allontanarsi ondeggiando verso le scale, i capelli dorati che le ricadevano sulle spalle. Alcuni ragazzi si voltarono e la seguirono con lo sguardo mentre si dirigeva al secondo piano verso l’aula di storia dell’arte. Stavo per andarmene quando notai Thompson uscire dalla classe di se. Incrociò Jackie che lo salutò con un sorriso. Sembrava avere fretta, ma forse era solo un altro modo per farsi notare. Fece finta di non vedermi e si piazzò davanti alla porta dell’aula di trigonometria. Era in forma. Molto più di me. Avevo perso peso nell’ultimo periodo e tagliato i capelli cortissimi per evitare il fastidio di occuparmene, mentre in lui non c’era un dettaglio che fosse fuori posto e non fosse stato studiato meticolosamente. La camminata, la pettinatura, l’aria annoiata. Charlie era una macchina da guerra. Si prefiggeva un obiettivo, programmava la tabella di marcia e la seguiva con scrupolo fino all’ultimo aggio. Fosse una partita di basket, un’interrogazione di fine semestre, la conquista di una ragazza difficile, aveva sempre un piano e quasi sempre otteneva ciò che voleva. Strinsi i denti e decisi di restare per vedere cosa avrebbe fatto, anche se lo sospettavo. Era sempre stata una questione di tempo. Sapevo che prima o poi avrebbe giocato la sua mossa. La porta dell’aula si aprì e la classe cominciò a fluire nel corridoio, impedendomi la visuale per una manciata di secondi. Approfittai della confusione per avvicinarmi. Fu allora che lo sentii fare il suo nome. Gli era uscito dalla bocca come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se l’avesse chiamata cento volte. Come se tra di loro ci fosse qualcosa. Non era possibile. Non così presto. Forse quello che avevo interrotto la sera precedente non era stato il primo incontro come avevo pensato. Forse Charlie era stato più furbo e svelto di quanto mi aspettassi.

No. L’avevo sentita giusto? L’avevo vista. Sapevo come stavano le cose. Sarebbe bastato guardarla un attimo per capire. Solo pochi secondi per togliermi il dubbio. Cedetti alla tentazione e la cercai tra la folla. Si era vestita e pettinata con cura. Non aveva l’aria di stare bene, ma nemmeno l’espressione disperata dei primi giorni. Sembrava determinata. Diversa dalla ragazzina terrorizzata e spezzata che avevo fatto fuggire la sera prima. Qualcosa era cambiato. Era meglio tornare sui miei i prima che si accorgesse che stavo origliando. In fondo cosa m’importava? Erano settimane che non le rivolgevo la parola. Poi lui la invitò a pranzo. Lo fece a voce alta, perché tutti potessero sentire. Tutti compreso me. Non ebbi bisogno di ascoltare la risposta. Non aveva motivi per dirgli di no. Glieli avevo portati via io. Mi appoggiai all’armadietto, ignorando i anti del corridoio che mi lanciavano occhiate curiose. Rimasi fermo immobile a fissare il vuoto per qualche minuto, aspettando che la furia si placasse, poi entrai in aula. Sedetti al mio posto, accanto a Sam. Per fortuna la professoressa Florant non era ancora arrivata. Il mio amico mi lanciò un’occhiata distratta. Qualcosa doveva averlo colpito perché alzò gli occhi dai compiti per casa e tornò a guardarmi. «Sembri più incazzato del solito» constatò divertito. «Sono più incazzato del solito» ribattei cupo, aprendo con stizza il libro di se sul banco. «Brutta giornata?» chiese desideroso di dedicarmi la sua attenzione. Cercava lo spiraglio. Il modo di infilarsi nella mia corazza e farmi sputare il rospo. Ci provava da settimane e non si era ancora arreso. Voleva capire, voleva aiutarmi ed io facevo di tutto per impedirgli entrambe le cose. Un altro al suo posto avrebbe lasciato perdere. Non Sam.

«Pessima» ringhiai. Mi incalzò, invitandomi a proseguire. «Charlie». Non aggiunsi altro. Sam guardò in basso e tornò ai compiti di se. Rimase in silenzio per qualche secondo, poi si voltò di nuovo verso di me. «Lo fa apposta». «Lo so». «Lei non lo sopporta». «Infatti». «Forse non avrei dovuto… » «Già» sbottai. Me ne pentii all’istante, ma era troppo tardi. Non era giusto prendermela con l’unica persona che ancora mi sopportava e soprattutto sapevo che non sarebbe rimasto zitto. Avrebbe detto qualcosa di sensato e razionale, di inconfutabile, che avrebbe peggiorato il mio umore. «Non è più un tuo problema, Alec». Era sensato, razionale e inconfutabile. Miss Florant entrò in classe e riprese la lezione di fonetica interrotta il giorno prima. Non ascoltai una parola. Continuavo a pensare alle parole di Sam. Aveva ragione, non era più un mio problema. Thompson poteva prendere in giro chi voleva e lei era abbastanza intelligente da evitare di cascarci. Non avevo il diritto di intromettermi. Ma era vulnerabile, ferita e arrabbiata. Non era lucida. Se avesse fatto una sciocchezza ne sarei stato responsabile. La professoressa mi colse in fallo due volte. Sam fu costretto a suggerirmi le risposte. «Grazie» dissi imbarazzato alla fine della lezione.

«Non c’è di che. Cosa lo studio a fare il se se no?» «Scusa per prima. Sono solo preoccupato». «Lo so». Camminammo in silenzio per un po’. «Ci parlo io» disse alla fine. Annuii con un cenno del capo. Ci separammo per andare ognuno alla rispettiva lezione. Sam non l’avrebbe fatto per me, ma era spinto dalle mie stesse motivazioni: era preoccupato e si sentiva responsabile. Il giorno prima, durante l’intervallo, se n’era uscito con la storia dell’intervista. «Ho pensato di chiedere a Emma di intervistare Thompson al posto mio». Era il suo modo di avvisarmi che sarebbe stata in palestra nel pomeriggio. Un modo per dire: esci dalla porta di servizio. «Perché?» chiesi più per fare conversazione che per reale interesse. «Ho troppe cose da fare ed è l’unica di cui mi fidi» tagliò corto e non approfondii, anche se avevo avuto la sensazione che ci fosse sotto qualcosa. A nessuno dei due piaceva parlare di lei. Non ci avevo più pensato fino a quando non mi ero ritrovato a correre intorno al campo, dietro a Thompson. Mi era sembrato più odioso del solito. Il coach aveva esagerato con mio padre a proposito dell’allenamento. C’erano stati dei falli durante la partita, è vero, ma Charlie aveva ricambiato con entusiasmo. Mi ero arrabbiato dopo. Lo osservavo stravaccato sugli spalti mentre metteva in atto le tattiche che gli avevo visto sfoderare decine di volte con metà delle ragazze della scuola. Eppure nemmeno quella era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Era il modo in cui la guardava. Era diverso. Le tattiche erano le stesse, ma lui era diverso. La osservava per capire che tipo fosse, non per capire cosa pensasse di lui. Era colpito.

Ed era pericoloso. Charlie Thompson non era Gilroy Ford. Mi era andato il sangue al cervello. Black out totale. Non ci avevo più visto ed era successo tutto quel casino. Il mio comportamento era stato imperdonabile. Lo era da settimane a dir la verità. Quella sera avevo solo dato il peggio di me stesso. Desideravo scusarmi, vedere come stava. L’avevo aspettata davanti all’armadietto per dieci minuti, ma niente. Forse mi stava evitando. Non gliene facevo una colpa. Se avessi potuto farlo, anch’io mi sarei evitato. Un centinaio di pensieri simili mi distrassero per la durata dell’ora di scienze. Jackie si accorse che avevo la testa da un’altra parte, ma non volle darmi la soddisfazione di mostrarsi interessata. Era ancora arrabbiata perché avevo rifiutato il suo invito. Prima di dirigersi verso la mensa, mi disse che avrebbe pranzato con Violet. Dovevano parlare di alcune faccende private. Annuii comprensivo, stando attento a non mostrarmi troppo contento per la notizia. Si sarebbe infuriata ancora di più. In realtà avevo fretta di parlare con Sam. Fu lui a trovarmi, mentre facevo la coda per il pranzo. «Sei solo?» chiese notando che Jackie non era con me. «Sì, prendi un posto anche per me?» domandai speranzoso. Annuì e andò a cercare un tavolo. Era da tempo che non pranzavamo insieme. Mangiammo chiacchierando del più e del meno. Fu come se di comune accordo avessimo deciso di fare finta che le ultime settimane non fossero mai esistite. Durò poco, ma mi aiutò a rimettere tutto nella giusta prospettiva. Ero abbastanza tranquillo quando Sam tirò fuori l’argomento. «Credo che non le importi» disse titubante. Lo guardai senza capire. «Non le importa?» ripetei incredulo. «Non le importa di essere presa in giro e usata da Thompson?». «Credo che non le importi più di nulla» mormorò.

Non le avrei permesso di diventare così. Non sarei rimasto a guardare mentre si buttava via, perché l’avevo delusa e non aveva più fiducia. Le avrei parlato o almeno avrei provato a farlo. Glielo dovevo. Mi alzai di scatto. La pausa pranzo era quasi finita e dovevo trovarla prima che tornasse in classe. «Dove vai?» chiese stanco, consapevole che non sarebbe riuscito a farmi desistere dai miei propositi. «Devo fare una cosa». «Alec, qualsiasi cosa ti sia saltata in testa di fare, è una pessima idea». Non rimasi ad ascoltare il resto. Gli battei una mano sulla spalla e corsi fuori dalla mensa. La cercai per i corridoi e in classe. Buttai la testa anche dentro il bagno delle ragazze, ma niente. Stavo per arrendermi quando suonò la camla di fine intervallo. Finalmente li vidi attraversare l’ingresso. Mi nascosi dietro una colonna e aspettai che arrivassero al suo armadietto. Mentre lei recuperava i libri per la lezione successiva, Charlie si accorse che li stavo osservando. Mi sorrise soddisfatto. Poi la toccò. Un gesto insignificante, che avevo compiuto un milione di volte e a cui non avevo mai dato il giusto peso. Il peso di vedere un altro farlo al posto mio. Se allora avessi saputo, se avessi immaginato… Ma allora non sapevo e non immaginavo. Poi era stato troppo tardi e non avevo avuto scelta. Anche lei si accorse di me. Percepii il panico e l’incertezza. Il dolore che le stavo causando, come un brusio costante di sottofondo. Lo avevo sentito anche la sera prima, ma c’era qualcosa di diverso. Non era più la corrente selvaggia, lasciata andare a briglia sciolta. Era come se l’avesse imbavagliato. C’era, ma non lo lasciava più urlare. Finalmente Charlie la lasciò sola. Rimase immobile. La testa incassata nelle spalle, senza voltarsi. Mi avvicinai. Non sapevo cosa dire e come farlo per il terrore di ferirla ancora.

«Emma… » dissi qualcosa, ma ne risultò un balbettio senza senso. Non riuscivo a pensare con lucidità. Non diceva nulla, non si muoveva, ma opponeva una muta resistenza dettata dall’esasperazione. Non aveva bisogno del mio aiuto, aveva bisogno che la lasciassi in pace. «Hai ragione. Non avrei dovuto, scusami» mormorai. Non avrei dovuto fare un sacco di cose e per tutte quelle cose mi sarei dovuto scusare, ma lei non era disposta ad ascoltarmi. Emma era così. Disegnava cerchi bellissimi, grandi e luminosi. Ti domandava se volevi farne parte. Dentro o fuori. In quei cerchi potevi fare ciò che ti pareva. Potevi essere te stesso. Era stato bellissimo stare nel suo cerchio. Se oltreavi la linea, però, se tradivi la sua fiducia, se l’abbandonavi, allora eri fuori e io quella linea non solo l’avevo superata, ma l’avevo spezzata e calpestata. Non importava che lo avessi fatto per il suo bene, lei non lo sapeva e comunque avrebbe fatto poca differenza. Ero fuori. Avevo fatto la mia scelta. Sapeva rialzarsi, ma dovevi lasciarglielo fare a modo suo, secondo le sue regole. Avrei potuto sgolarmi nel tentativo di metterla in guardia, non sarebbe servito a niente. Era il suo modo, le sue regole ed io ero fuori. Non avevo diritto di veto. Non più. Mi allontanai in silenzio. Sentendomi peggio di quanto mi fossi sentito fino a quel momento, perché avevo finalmente realizzato la portata delle mie azioni. Era forte. Si stava rimettendo in piedi. Stava disegnando un altro cerchio. Sam aveva avuto ragione ancora una volta. Era stata una pessima idea.

Una mano lava l'altra

Emma

«Scusa?» Sam annaspò tra la sorpresa e la preoccupazione, mentre camminavamo in direzione della mensa. Avevo appena comunicato che non avrei pranzato con loro, ma nel parco con Charlie. Meglio evitare la mensa. Le chiacchiere si sarebbero sprecate senza che lo sbandierassi ai quattro venti. «Dai, non fare quella faccia. Continuate a ripetermi di uscire, di stare in mezzo alla gente e per una volta che prendo l’iniziativa vi comportate come se stessi andando al macello» sbottai irritata. Mi ero già sorbita le raccomandazioni di Mads e il silenzio carico di rimprovero di Eileen. «Dovresti stare in mezzo alla gente non con Charlie Thompson. Non capisco Em, ti rifiuti di venire alla festa, ma vai a pranzo con chi fino a ieri era il tuo nemico numero uno» rispose sfoderando il suo tono più contrariato. «Non è mai stato il mio nemico numero uno. Non avevo una grande opinione di lui, ma gli sto concedendo una possibilità. Senza contare che me l’ha chiesto davanti a venti persone: non potevo essere così scortese da rifiutare» dissi per giustificarmi. Era una motivazione stupida, ma non me ne venivano in mente altre. «È tipico di Thompson ottenere ciò che vuole in tutti i modi e sai di cosa sto parlando. Fa l’amicone, ma il suo obiettivo è un altro» disse concitato, lanciandomi un’occhiata carica di sottintesi. «Illuminami per favore» sollevai un sopracciglio perplessa. Non avevo idea a cosa alludesse. «Vuole dare fastidio ad Alec» disse in un sussurro. Se non fosse stato davvero preoccupato non avrebbe detto una cosa del genere. Beh non aveva nulla da temere. Deglutii con forza il groppo che mi era salito alla gola. «È un’assurdità!» esclamai. «Comunque si accorgerà presto che i suoi sforzi sono inutili. Lascerà perdere e non lo vedremo più». Volevo chiudere la conversazione il prima possibile. Odiavo discutere con Sam anche se era solo

preoccupato per me. Non ne aveva motivo, avevo tutto sotto controllo. «Mi stai sottovalutando. Pensi gli basti sbattere le ciglia e toccarsi i capelli per farmi capitolare? Per chi mi hai presa?» dissi ridendo per alleggerire l’atmosfera. «Fai come vuoi, tanto lo faresti comunque, ma non hai più scuse: la settimana prossima verrai alla festa» concluse perentorio. Quanto meno avevamo raggiunto un accordo. Arrivati all’entrata della mensa, lanciò un’occhiata a Charlie che mi aspettava sulla porta e un pensiero gli corrugò la fronte. «Non era così che doveva andare» disse tra sé. Fosse esistita una crepa dentro di me in quel momento si sarebbe allargata ancora di più. «Scappo o non ci rimarrà il tempo di mangiare». Lo salutai con un bacio frettoloso sulla guancia. Sam scosse la testa ed entrò. Dopo tante settimane avrebbe potuto pranzare con lui. Le cose non andavano bene da quando… era tornato dall’Europa. Avevo fatto di tutto perché la nuova situazione non influisse in maniera negativa sul loro rapporto. Avevo rassicurato Sam mille volte esortandolo ad uscire con lui, gli avevo concesso lo spazio di cui potevano avere bisogno. Eppure Sam diceva che era lui a mantenere le distanze. Ne soffriva e io soffrivo per lui, ma non avevo il coraggio di sviscerare l’argomento. Mi sentivo nonostante tutto, colpevole. Le mie paure si erano avverate. Cercai di scacciare quei pensieri e mettermi nella disposizione d’animo di pranzare con Charlie. Cosa mi era saltato in mente? Dovevo essere impazzita. Mi aspettava davanti alla porta con un enorme sacchetto di carta. Lo raggiunsi, tentando di nascondere il nervosismo e apparire disinvolta. «Miller ti ha fatto la predica?» chiese divertito. Non sembrava importargli granché dell’opinione di Sam. Non sembrava importargli granché dell’opinione di nessuno. «Non conosco i tuoi gusti in fatto di cibo, ma ho provato ad andare sul sicuro. Cucina italiana». Ero curiosa di sapere come fosse riuscito a procurarsi un raffinato pranzo take away con così poco preavviso. Aveva già organizzato tutto? Sapeva che gli avrei detto di sì? Lo guardai accigliata.

«La tua pronuncia è orrenda, ma sono curiosa di sapere come hai fatto». «Joe, l’assistente di mio padre. Siamo amici, gli ho chiesto un favore ed eccoci qua. Non hai risposto alla mia domanda» aggiunse sornione. Alzai gli occhi al cielo, evitando di nuovo di rispondere. Lasciammo l’edificio scolastico per avventurarci nel campus. Era una bella giornata e molti studenti avevano avuto la nostra idea, tanto che la maggior parte delle panchine era occupata. Gironzolammo alla ricerca di un posto dove sederci. Ne avvistai uno in una zona tranquilla del parco. Appoggiò il sacchetto sulla panchina, si sedette e cominciò ad estrarre i contenitori. Me ne porse uno ancora caldo e mi sedetti. Mi ò delle posate di plastica e un tovagliolo. Lo ringraziai. «Visto che la mia pronuncia è orrenda, dimmi tu qualcosa in italiano» chiese con tono di sfida. Lo guardai con aria interrogativa. Non ero un fenomeno da baraccone e avevo la bocca piena di pennette al pesto. «Dai Hataway, non farti pregare». Decisi di accontentarlo, ma non senza togliermi una piccola soddisfazione. Presi tempo bevendo un sorso d’acqua e mandai giù l’ultimo boccone. «Sei un idiota». Charlie scoppiò a ridere. Niente lo offendeva, nessuno dei miei atteggiamenti sgarbati lo portava a indietreggiare di un o. E aveva indovinato il menù. Gli concessi un sorriso. «La mia pronuncia è senz’altro pessima, ma questo l’ho capito benissimo». Gettò il contenitore vuoto nel sacchetto e distese le gambe. «Non ho pensato a una seconda portata perché l’intuito mi diceva che avresti preferito il dolce, così ho preso due tiramisù. Si dice così no?» mi ò un altro contenitore e un cucchiaino di plastica. Il parco iniziava ad essere affollato e qualcuno dei anti gettava occhiate veloci e curiose verso di noi, mettendomi a disagio. «Sì, si dice così. Senti Charlie… » pensai che mi avrebbe interrotto di nuovo, invece si mise in ascolto e mi lasciò parlare. «Questa mattina, il pranzo… Ci

siamo ignorati per anni e adesso vuoi diventare il mio migliore amico?» cercai di dirlo senza sembrare aggressiva. Non lo stavo criticando, volevo solo soddisfare una curiosità. «Sbaglio o si è liberato un posto?» chiese malizioso. Ignorai la frecciatina e rimasi a fissarlo, in attesa di una risposta seria. «Per prima cosa hai suscitato il mio interesse. Sei strana Hataway. Divertente, ma strana». Non aveva idea di quanto fossi strana. «La seconda?» chiesi poco convinta. «La seconda è che potresti aiutarmi» concluse misterioso. Lo guardai perplessa. «Aiutarti a fare cosa?» «Ad alzare la mia media in letteratura. Il prossimo anno farò domanda a Yale e ho bisogno di una A. La Bishop dice che sei la migliore». Perché no? Era una distrazione come un’altra. Mi balenò per la mente un’idea. Malsana a dir la verità, ma risolutiva. Non finsi nemmeno di pensarci, avevo già deciso. «Okay. In cambio tu farai una cosa per me» rilanciai in tono pratico. Mi stavo vendendo l’anima al diavolo. Quello che ne era rimasto s’intende. «Di che si tratta?». Sembrava stupito dalla mia richiesta. Non si aspettava che la ragazza strana avrebbe alzato la posta. «Mi accompagnerai alla festa di Halloween. I miei amici mi danno il tormento. Se non vado resteranno a casa con me, ma l’alternativa è reggere il moccolo tutta le sera e fare da tappezzeria con addosso un ridicolo costume». Realizzai solo in quel momento che poteva sembrare una patetica scusa per estorcergli un appuntamento. Arrossii all’istante. «Tutto qui?» chiese sorpreso. Annuii. Sorrise mettendo in mostra una fila di denti bianchissimi e un nuovo scintillio negli occhi scuri. «Ti devo ancora un favore. Avevo già pensato di chiederti di venire alla festa con me». Spalancai la

bocca per la sorpresa, ma non dissi nulla. Salvata dalla camla. Era ora di tornare in classe. Charlie si alzò, raccolse i resti del pranzo e li buttò nel cestino accanto alla panchina. Lo imitai e ci incamminammo verso la scuola. «Grazie» bofonchiai imbarazzata. «Non c’è di che. Va bene se iniziamo domani? Potremmo fermarci in biblioteca. Credo sia aperta fino alle 19.00. Non preoccuparti per il ritorno, ti accompagno a casa quando abbiamo finito». Aveva pianificato tutto, dovevo solo dire sì. Lo lasciai fare. Era rilassante. «Okay» risposi meccanicamente. Aprì la porta antipanico e mi accompagnò fino all’armadietto. Non dissi nulla e lui neppure. Presi il libro e il quaderno di storia. «Beh allora a domani» lo salutai ma non mi stava ascoltando. Osservava qualcosa alle mie spalle e il suo sorriso si fece più strafottente. Poi mi guardò e con le dita mi spostò una ciocca di capelli dalla faccia. Potevo solo immaginare cosa o chi lo avesse spinto ad azzardare un gesto così intimo e non mi piacque. Una fitta mi attraversò il cervello. «Vuoi che ti accompagni in classe?» chiese canzonatorio. Le tempie mi pulsavano come un martello pneumatico. «No» risposi secca. Non avevo il coraggio di voltarmi. Charlie sorrise tra sé e senza aggiungere altro se ne andò. Rimasi immobile senza sapere cosa fare. Se fosse arrivata Connie e avesse fermato il tempo per qualche secondo… «Emma». Erano mesi che non lo sentivo pronunciare il mio nome. Il dolore prese la strada giusta, risalì la gola, arrivò agli occhi. Ero ancora decisa a non voltarmi. Non volevo che mi vedesse piangere e non volevo vederlo così da vicino. Era impensabile. Mi aggrappai all’anta dell’armadietto per non scivolare a terra. Vedere le sue lentiggini, le screziature dorate degli occhi, le onde nere dei capelli. Vedere

l’espressione crudele che gli serrava la mascella e sentivo rivolta a me. Eppure mi aveva chiamata in un sussurro, come se temesse di mandarmi in mille pezzi. «Emma, ti prego… non…» lasciò cadere le parole nel vuoto. Cosa voleva? Perché era venuto a cercarmi? Non era tardi per i sensi di colpa? Lasciami in pace Alec. Vattene via. Lasciami in pace. «Hai ragione. Non avrei dovuto, scusami» mormorò. Poi se ne andò. La pressione alle tempie diminuì e l’angoscia che mi aveva assalita mollò la presa. Respirai a fondo. Una, due, tre volte. Quando ebbi recuperato un po’ di fiato mi precipitai in bagno e mi sciacquai la faccia con l’acqua fredda. Ad aspettarmi fuori trovai Connie. La felpa verde con il cappuccio e la stampa di Pippo, i capelli neri come la notte legati in una coda di cavallo. Sembrava preoccupata e perplessa, ma non avrei saputo dire quale delle due emozioni prevalesse. Ero contenta di vederla. Magari se fosse arrivata cinque minuti prima… «Come stai?» chiese mordendosi il labbro. Aveva l’aria colpevole. Non dovevo avere una bella cera. «Perché?» «Non si risponde a una domanda con un’altra domanda, ma visto che sei diventata peggio di mamma è inutile che ci giriamo intorno. Ho visto tutta la scena» mi lanciò un’occhiata veloce per cogliere la mia reazione. «Grazie per l’aiuto Constance» commentai sarcastica. «Scusami, avevo pensato di intervenire ma poi… Non so… Qualcosa non mi convince. Lui non è come dovrebbe essere» concluse tra sé. Gli occhi neri fissavano un punto lontano. «In che senso?». Il mio tono impaziente la riportò sulla terra. Mi guardò indecisa se parlare o no.

«Lascia perdere, sono soltanto mie paranoie. Te la senti di andare a lezione?» chiese per cambiare discorso. «Certo. Anzi diamoci una mossa, siamo già in ritardo». La guardai di sottecchi. Qualcosa le frullava per la testa, ma non insistetti. Se l’avesse ritenuto importante, me l’avrebbe detto. Prima di entrare in classe mi prese la mano e la strinse forte. Le sorrisi grata per quel gesto d’affetto. Il pomeriggio trascorse senza altri intoppi e arrivò l’ora di tornare a casa. Raggiunsi Sam in redazione. Lo trovai davanti al computer immerso nella correzione di un articolo. Lasciai cadere la borsa dei libri e mi sedetti con agilità sulla scrivania. Mi sorrise fuggevolmente e tornò al lavoro. «Andiamo?» chiesi impaziente. Non vedevo l’ora di tornare a casa e rilassarmi un po’. Sam sorrise di nuovo, salvò il file su cui stava lavorando e spense il computer. «Stai fuggendo da Thompson? Il pranzo non deve essere andato molto bene» disse stropicciandosi gli occhi. Era un’indagine in piena regola, anche se cercava di apparire disinvolto. «Non fuggo da nessuno e per tua informazione il pranzo non è andato male» risposi sostenuta. «ma avevi ragione su una cosa, Charlie mi ha chiesto di aiutarlo in letteratura» confessai per dissipare i suoi timori. Sam alzò entrambe le sopracciglia. Doppio stupore. «E tu gli credi?» chiese poco convinto. Non riuscivo a capire se stesse mettendo in dubbio la mia buona fede o le intenzioni di Charlie. «Non lo so. Cominciamo domani, immagino che saprò farmi un’idea più precisa» dissi facendo spallucce. Mi riaccompagnò a casa e durante il tragitto raccontammo a turno le nostre giornate. Annunciai che sarei venuta alla festa e che non sarei stata sola. Ci tenni a sottolineare che era stata una mia idea e che non c’era nulla di cui preoccuparsi: lui e Madison dovevano pensare solo a divertirsi. Sam non sembrava entusiasta della soluzione, ma l’accettò senza fare storie. Si

lasciò scappare soltanto un sospiro. Arrivata a casa trovai Miranda ad aspettarmi sulla porta. Mi tastò la fronte e i polsi. Mi prese il viso tra le mani e con gli occhi verdi scavò dentro di me. «Come ti senti?» chiese seria. La guardai a mia volta. Era davvero necessario chiedermelo ogni volta? «Come ieri e come la settimana scorsa. Come due mesi a questa parte». «Questo lo so tesoro. Intendevo… So che tua madre ti ha spiegato un paio di cose» disse impaziente. «Anche oggi non sono implosa se è questo che vuoi sapere. Il mio autocontrollo sta migliorando. Ci sono stati un paio di momenti complicati, ma non sono svenuta o niente di simile». Nonostante il tono disinvolto, Miranda mi piantò gli occhi addosso. Cercai di minimizzare, non volevo peggiorare la situazione. «Come puoi constatare tu stessa sto bene e sono tornata a casa con le mie gambe». Rimase a fissarmi per qualche secondo poi si voltò ed entrò in casa. La seguii in cucina. Si voltò di nuovo verso di me e mi regalò un sorriso orgoglioso. «Sei un osso duro» la voce le si incrinò per un battito di ciglia. «Andrà meglio, vedrai». Mi sarebbe piaciuto crederle. L’idea che un giorno potessi stare bene mi sembrava impossibile. Non ero intera. Non si può stare bene se ci manca un pezzo di noi stessi. «Lo spero». Mi aveva appena detto che ero un osso duro, sarebbe stato crudele smentirla in zero secondi.

La coppia perfetta

Emma

Verso le sette scesi in cucina per aiutare Miranda a preparare la cena. Nel tardo pomeriggio il tempo era cambiato e aveva iniziato a piovere. Dapprima una pioggerellina leggera, poi sempre più forte fino a trasformarsi in un vero e proprio acquazzone. Avevo abbandonato più volte i compiti di se per osservare dalla finestra la parte migliore dell’autunno fare i bagagli. Kate era andata a prendere Connie all’allenamento di calcetto. Al ritorno si sarebbero fermate al supermercato per fare la spesa. Alle otto in punto ci sedemmo a tavola. Elle arrivò appena in tempo. Disse di aver fatto tardi in biblioteca per finire una relazione. Ebbe il buon senso di non specificare quale biblioteca. L’avevo vista andare via con Dave alla fine della scuola e dubitavo che avessero ato il pomeriggio a studiare. Dopo cena mamma uscì di fretta. Faceva da relatrice a una serie di conferenze sul Rinascimento italiano per il circolo culturale della città. Le piaceva tenere quelle lezioni. Aveva la possibilità di approfondire argomenti che a causa della rigidità dei programmi scolastici era costretta a saltare e gli adulti, al contrario dei liceali, facevano un sacco di domande. Elle mi aiutò a sparecchiare. Era silenziosa e aveva l’aria stanca. Mi chiese com’era andato il pranzo con Charlie. Concluso il mio racconto avrei voluto domandarle se andava tutto bene, ma mi anticipò dicendo di aver bisogno di fare un bagno e si eclissò alla velocità della luce. Non rimaneva che lanciarmi sul divano insieme a Connie, mentre la nonna prendeva possesso della poltrona posando ai suoi piedi la cesta della biancheria pulita da piegare. Nessuno al mondo sapeva sistemare la biancheria con altrettanta grazia. «Avete voglia di una lezione, bambine?» disse sbirciandoci da dietro una sottoveste di mamma. Spensi subito il televisore con grande disappunto di mia sorella. «So già tutto» ribatté piccata tentando di strapparmi il telecomando di mano. Non avrei mollato la presa per tutto l’oro del mondo. Miranda prese una manciata di calzini dalla cesta e studiò Connie per qualche secondo.

«Ne dubito, mia cara. Il fatto che tu legga di nascosto i libri che tengo sottochiave, non significa che tu sappia quello che c’è da sapere o capisca quello che c’è da capire» disse senza smettere di piegare un paio di calzini a righe colorate rosse, rosa e viola. Senz’altro di Connie. Mia sorella non si scompose e tantomeno lo feci io. Conoscevo il segreto di Connie e che la nonna lo avesse scoperto. Come avesse fatto, però, lo ignoravo. Miranda era bravissima a tenermi fuori. La sua mente per me era insondabile: captavo solo cose di poca importanza, che non si preoccupava di nascondere a fondo. «Scusa, nonna. Non lo farò più» bofonchiò Constance. Lasciò perdere il telecomando, arrendendosi all’idea di sorbirsi la lezioncina nel tentativo di fare ammenda. «Non ti sto vietando di farlo, sarebbe inutile, ma tieni per te ciò che leggi e, soprattutto, non metterlo in pratica». Il tono non ammetteva repliche e nessuna di noi fiatò. «Ora che siamo tutte ben disposte all’ascolto direi di cominciare». Depose con cura i calzini che aveva piegato nella cesta e si mise comoda sulla poltrona. «Questa sera voglio raccontarvi una delle nostre più antiche leggende» iniziò, ma mia sorella la interruppe subito. Pessima mossa. «Ma nonna, una leggenda non serve a niente» protestò. «Dietro a ogni leggenda c’è sempre un fondo di verità» ribatté Miranda. «Quindi mettiti tranquilla e ascolta. La storia che sto per raccontarvi parla di un fenomeno rarissimo, talmente raro che molti dubitano della sua esistenza» Era ovvio trattandosi di una leggenda, ma tenni la puntualizzazione per me. La nonna non l’avrebbe gradita. Mi sistemai sul divano in cerca di una posizione comoda. Connie fece altrettanto. «Cioè?» domandai sprimacciando un cuscino. «Hai mai letto qualcosa sulle coppie perfette?» chiese a Constance ignorando la mia domanda. Mia sorella annuì e si fece più attenta. L’argomento cominciava a suscitare il suo interesse. Guardai Miranda con aria interrogativa.

«Devi sapere, Emma, che una coppia perfetta è l’unione di due esseri complementari l’uno all’altra. Interi solo se uniti, disperati se separati» declamò seria. Mi venne la pelle d’oca. Miranda era brava a raccontare. Da bambine non andavamo a letto prima di aver ascoltato almeno un paio delle sue storie. Le migliori erano quelle di paura, anche se poi avamo il resto della notte a fissare il soffitto con gli occhi sbarrati. Per giorni mamma era costretta a controllare che sotto i nostri letti non ci fossero nascosti dei mostri. «Come le anime gemelle del mito greco» la interruppi sovrappensiero. Non mi sentivo particolarmente in vena di sviscerare l’argomento “amori della vita”. «Non esattamente. Secondo il mito tutti hanno da qualche parte del mondo la propria metà. Il difficile sta nel trovarla. Ma essere una coppia perfetta, è diverso. Trovarne una è quasi impossibile. Si devono verificare moltissime variabili perché avvenga. È il compimento di un destino, che può cambiare il corso della storia». Fece una pausa e ne approfittai per esprimere il mio scetticismo. «Il mito di una fantomatica metà perfetta è presente in molte culture» osservai. «Forse perché non è un mito» ribatté Connie. Ignorai l’intervento di mia sorella e proseguii con le obiezioni. «E il concetto stesso di fato è una soluzione troppo comoda. Non è l’uomo ad essere artefice del proprio destino? Siamo noi a determinare le nostre scelte, piccole e grandi che siano». Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. «Sei proprio sicura? Non credi che accadano avvenimenti, situazioni e incontri che sfuggono al nostro controllo? Hai deciso ogni cosa successa nella tua vita?» mi provocò Miranda. Nell’ultimo periodo ero stata in balia degli eventi e delle decisioni altrui, ma non significava che fossi incapace di agire. «Stiamo andando fuori tema, nonna. Non si era parlato di una dissertazione tra fatalismo e determinismo, ma di una misteriosa leggenda. Cosa c’entrano gli

androgeni con le streghe?» domandai piccata. «Una coppia perfetta è composta da una strega e un custode. Anzi il suo custode. Essi formano un intero completo, portano equilibrio l’una all’altro e forza». Connie aggrottò le sopracciglia scure. «Non è vietato?» chiese dubbiosa. Uhm. Qualcosa mi diceva che non ci sarebbe stato un lieto fine. «Non è sempre stato così e non pensiate che sia il divieto a determinarne la rarità. Quando nasce una coppia perfetta nulla può impedire che si unisca. Il custode è nato per la sua strega ed ella per il suo custode. Tenderanno sempre l’uno verso l’altra, perché separati non sono completi». «Perché è vietato?» chiesi interessata. Già che eravamo in pista, meglio condurre le danze. «Una legge imposta dal Consiglio dopo la sconfitta che ci ha posto sotto il loro controllo» rispose la nonna in maniera sbrigativa. «Lo avevo intuito, ma perché? Cosa ci sarebbe di male? E la faccenda dell’equilibrio e via dicendo?» insistei. Sembrava un divieto assurdo. Una restrizione del genere non ampliava la distanza che si era creata tra i due… fronti? «Perché fu una coppia perfetta a scatenare la guerra che indusse streghe e custodi a scagliarsi gli uni contro le altre. Da allora questi legami sono considerati fuori legge e così i figli che nascono da queste unioni». Connie ed io la guardammo sbigottite. «Non ha senso» dissi confusa. Tanti discorsi sul grande amore e si erano fatti fuori l’un l’altra? «È accaduto secoli fa. Gli europei avevano cominciato ad impadronirsi del Nuovo Mondo. Il vecchio continente si dibatteva tra la luce della modernità e il buio che si lasciava alle spalle. Streghe e custodi vivevano in armonia, mescolando le loro vite a quelle degli uomini e delle donne. In un piccolo villaggio, qualcuno dice in Italia, altri in Francia, nacquero a pochi mesi di distanza, una secondogenita figlia di strega e un bambino forte e vivace, figlio del loro custode.

La bambina venne chiamata Rose, perché era nata nel mese di maggio mentre al piccolo fu dato il nome del nonno paterno, Lance. Crebbero belli e forti, condividendo i giochi e l’infanzia. Erano inseparabili. All’epoca i legami tra streghe e custodi erano saldi, profondi, nessuno si stupì di fronte a una complicità così piena e un’armonia così totale. Un giorno la sorella primogenita di Rose, Vera, avrebbe scelto un marito tra gli uomini e Lance sarebbe diventato il custode della sua famiglia. Quel giorno, però, non arrivò mai. Compiuti i diciassette anni Rose e Lance si dichiararono reciproco amore e annunciarono il loro fidanzamento. Parenti e amici convennero sulla singolarità del caso, ma nessuno si oppose. Si giunse così al matrimonio. All’inizio prosperarono felici. I loro poteri aumentavano di giorno in giorno, prendendo l’uno energia dall’altra. Non li utilizzarono mai per piegare gli altri al loro volere o per arricchirsi. Erano sempre e solo al servizio di chi li circondava. La gente li amava e si rivolgeva a loro per qualsiasi problema». «Alcuni anni più tardi scoprirono con gioia di aspettare un bambino. La sorpresa fu doppia quando nacquero due bellissimi gemellini, Lidya e Richard». «Le streghe possono avere dei gemelli?» la interruppe Constance. Le lanciai un’occhiataccia. Mia sorella era un vero talento nel rovinare l’atmosfera. «È improbabile, ma non impossibile. Constance, prima di interrompere la prossima volta assicurati che la domanda sia pertinente» puntualizzò severa. «La domanda era pertinente» obbiettò piccata mia sorella. Miranda ignorò il commento e proseguì con la storia. «I due giovani amavano i loro bambini sopra ogni cosa, ma non tutti avevano accolto i piccoli come una benedizione. I membri più anziani della famiglia erano rimasti turbati dalla nascita di un bambino maschio. Nessuno sapeva che cosa sarebbe diventato. Avrebbe ereditato le doti della madre o del padre? arono gli anni e col tempo fu chiaro che mentre la piccola Lidya sarebbe diventata una strega molto dotata ma nulla di più, il fratello Richard racchiudeva un potenziale straordinario: i poteri attivi della madre e la forza prodigiosa dei custodi. Cosa ne sarebbe stato di lui una volta diventato adulto? I suoi poteri gli avrebbero permesso di sfuggire a qualsiasi controllo e se la sua indole si fosse

rivelata malvagia nessuno sarebbe stato in grado di fermarlo. Dopo aver meditato a lungo, la madre di Rose, Maya e il suo Custode, Phil, nonni dei piccoli, decisero di sottoporre il caso al Consiglio degli anziani per sapere come avrebbero dovuto comportarsi. Riponevano la massima fiducia nel Consiglio ed erano certi che avrebbero trovato le risposte di cui avevano bisogno. A quei tempi il Consiglio era composto da custodi molto saggi e potenti e in pari misura da streghe esperte nei segreti della natura e delle arti magiche più antiche. Rose e Lance inizialmente si opposero, ma i timori per il loro bambino crescevano e furono costretti a cedere alle suppliche dei genitori: avrebbero affidato Lidya alla zia Vera e accompagnato il piccolo presso il Consiglio. S’incamminarono verso nord e raggiunsero la meta dopo molte settimane. Arrivati a destinazione vennero ricevuti dall’intero Consiglio. I ragazzi risposero con sincerità alle domande e raccontarono la loro storia. Dopo averli ascoltati il consigliere più anziano annunciò che li avrebbe mandati a chiamare non appena fossero giunti a una conclusione. Per molti giorni gli anziani custodi e le streghe discussero sul da farsi. Accecati dalla brama di potere decisero di separare il bambino dai genitori per poterlo crescere in seno al Consiglio. Non riuscirono, però, a raggiungere un accordo su chi avrebbe allevato il piccolo. I custodi dichiararono che essendo maschio spettava loro controllarlo, le streghe ribatterono che i poteri attivi del bambino facevano di lui uno stregone. Rose e Lance, furiosi e atterriti all’idea di perdere il figlioletto, comunicarono all’assemblea che nessuno si sarebbe occupato di Richard a parte i suoi genitori. Sarebbero tornati al villaggio e avrebbero cresciuto i gemelli secondo i propri principi. L’accapigliarsi su una creatura innocente aveva dimostrato la poca credibilità del Consiglio: nessuno aveva offerto un valido aiuto o una soluzione. Annunciarono che sarebbero partiti l’indomani. Non tornarono più a casa. Quella notte i due giovani furono assaliti e uccisi nel sonno. Per mano di chi rimane un mistero, ma la stessa mano rapì il piccolo Richard, di cui si persero le tracce per sempre. L’indomani di fronte ai corpi di Rose e Lance e alla scomparsa del piccolo, le streghe e i custodi del Consiglio si

accusarono reciprocamente. Quel giorno iniziò la spaccatura che presto diventò una guerra. Durò decenni. Fino a che i Custodi non ebbero la meglio e, con l’aiuto degli uomini, decimarono le streghe e misero sotto stretto controllo le famiglie sopravvissute. Da allora vigono le leggi che siamo costrette a seguire. Ci sono stati dei cambiamenti nel corso dei secoli, aperture da entrambe le parti, ma l’unione di una strega e un custode è ancora considerata vietata e tremenda è la punizione per chi infrange il divieto». L’espressione pensierosa di Miranda si indurì. Serrò la mascella e tacque. Non amava le regole degli altri. Le andavano benissimo le sue. Bella storia, anche se un po’ tragica. «Lidya?» chiesi desiderosa di sapere se qualcuno della sfortunata famiglia l’avesse scampata. «Esistono diverse versioni. Alcuni sostengono che Lidya si trovasse con i genitori la notte della loro morte e che non sfuggì al massacro, ma sono propensa a credere che fosse rimasta con la zia e che Vera riuscì a tenerla al sicuro, spacciandola per una delle sue figlie. Lidya potrebbe essersi sposata e aver avuto a sua volta delle figlie, portando avanti il ramo femminile della famiglia. Esiste, però, una terza versione, la più crudele. La mia vecchia prozia Delia sosteneva che nessuna strega della famiglia di Rose riuscì a scampare alla follia degli uomini. I Custodi del Consiglio inviarono dei sicari al villaggio e si liberarono di tutte le streghe del clan. Comprese le bambine di Vera e la piccola Lidya». «È orribile. Perché uccidere delle bambine innocenti?» esclamai turbata. Nonostante si trattasse solo di una leggenda non dubitavo che cose simili fossero accadute. L’Inquisizione, Salem. Quante donne erano morte a causa della loro intelligenza e del loro sapere? «Per paura. La notte in cui Rose e Lance vennero assassinati, una strega del Consiglio, Anya, avvertì gli altri che se si fossero sporcati le mani di sangue innocente altro sangue sarebbe stato versato e la rovina sarebbe caduta su tutti loro: la bambina della profezia avrebbe fatto giustizia».

«Che profezia?» domandò Constance. «Una figlia di strega, nata dopo la prima, figlia della terra e del fuoco, avrebbe messo fine al mondo così come lo conoscevano». «Sembra una maledizione più che una profezia» mormorai. «Lo è. Non esiste delitto più abominevole dell’omicidio» tagliò corto Miranda. «La bambina della profezia arrivò?» chiese Connie curiosa di sapere come finisse la storia. «Scoppiò la guerra, iniziarono i massacri. Centinaia di bambine innocenti vennero strappate alle loro madri e uccise. Vennero risparmiate le primogenite, perché escluse dalla profezia e per evitare l’estinzione dei clan. Per quanto ci odino hanno bisogno di noi: niente streghe, niente Custodi. Loro esistono perché noi esistiamo e viceversa. Forse fu il motivo che li portò a smettere di ammazzarsi a vicenda. Siamo molto lontani dall’idea di giustizia, non trovate? Qualcuno, però, sostiene che la profezia si sia avverata: quando le streghe si arresero, stremate e decimate dalle lotte, nulla era rimasto come prima». «E tu, nonna, cosa pensi?». Miranda posò i suoi penetranti occhi su di me. «Non lo so tesoro, ma tutti i membri del Consiglio morirono misteriosamente. Eccetto Anya». «La rovina cadde su di loro» ripeté Constance soddisfatta. Una ben misera consolazione, dopo il male che avevano fatto. «La rovina cadde su tutti noi» ribatté la nonna solenne. «Sempre che la storia abbia un fondo di verità. Come è possibile che Rose e Lance non abbiano intuito cosa stava accadendo e non siano riusciti ad evitarlo?» domandai scettica. «Hanno cercato di evitarlo. Sentivano che stava per accadere qualcosa di orribile, perciò avevano deciso di lasciarsi alle spalle il Consiglio e correre a casa. Tuttavia, nonostante il loro potere fosse grande, erano molto vulnerabili. In una coppia perfetta se uno si ammala, si indebolisce o muore, l’altro ha poche speranze di sopravvivergli. Chi ha ucciso sapeva ed è bastato colpire una volta

per eliminarli entrambi» spiegò. Sospirai. Una tragedia che aveva portato conseguenze ancor più tragiche, però… Avevano trovato quello che la maggior parte della gente cerca per tutta la vita. Un amore talmente grande da seguire la persona amata anche nella morte. La nonna si accigliò. Forse intuì ciò che mi stava ando per la testa e strinse le labbra meditabonda. Cercai di sorridere e trovare la battuta giusta per alleggerire la tensione. Connie era immersa nei suoi pensieri e non era d’aiuto. «Si tratta solo di una leggenda. Scommetto che le cause della guerra tra streghe e custodi sono state altre: politiche, economiche… Niente a che vedere con maledizioni o profezie» dissi perché fosse chiaro che non mi ero lasciata impressionare dalla versione stregonesca di Romeo e Giulietta. «Forse o forse no. Non lo sapremo mai». Miranda si alzò dalla poltrona e raccolse da terra la cesta della biancheria. «Si è fatto tardi, è ora di andare a letto» disse precedendoci su per le scale. A metà della salita si voltò per sollecitarci. La serata era finita. Mi alzai dal divano, Connie mi imitò e ciabattando ci dirigemmo verso il piano di sopra. Mentre lavavo i denti non riuscii a smettere di pensare alla piccola Lidya, a cosa ne fosse stato di lei e del suo sfortunato gemello. Guardai di sottecchi le mie sorelle, intente nei preparativi per la notte e mi domandai cosa avrei fatto se ci avessero separate. Avrei cercato in lungo e in largo, fino all’ultimo angolo della terra, pur di ritrovarle.

Non è quello che sembra

Emma

La mattina ci svegliammo di pessimo umore e con le facce peste. Mi vestii in fretta e furia. Indossai un maglione di Eileen che avevo trovato sulla sedia della mia scrivania e i soliti jeans. Nel preparare la borsa mi ricordai di portare dei libri in più. Sarebbero tornati utili per le ripetizioni di letteratura. Ero curiosa di scoprire se Charlie avesse davvero bisogno di una mano o si stesse solo divertendo alle mie spalle. Sam era di buon umore e durante il tragitto in macchina raccontò del film che aveva visto la sera prima, un thriller sanguinolento che lo aveva entusiasmato. Insieme varcammo le porte antipanico della scuola e imboccammo il lungo corridoio degli armadietti. Stavo ridendo a una battuta sulla nuova pettinatura della professoressa Bishop, quando mi accorsi che davanti a noi camminava l’ultima coppia che avrei sperato di incontrare. La risata mi morì in gola. Jackie indossava una gonna scozzese a pieghe, decisamente troppo corta per la scuola. I calzettoni grigi arrivavano al ginocchio e la camicia bianca avvolgeva le sue forme perfette. I folti capelli biondi le ricadevano come una cascata dorata sulle spalle e avrei scommesso che gli occhi blu luccicassero come fanali mettendo in risalto la pelle di porcellana. Parlava a ruota libera, ridendo e scuotendo i capelli. Alec camminava accanto a lei, le mani nelle tasche dei jeans, la camicia fuori dai pantaloni. Aveva tagliato i capelli e perso parecchi chili. Fu come se un macigno si fosse incastrato in mezzo al petto. Mi sentii mancare il respiro e annaspai in cerca di aria. Sam seguì la traiettoria del mio sguardo per capire cosa fosse successo. Stava per trascinarmi via, quando lui si voltò. Non guardò me, guardò Sam. Il viso era scavato, pallido, la mascella serrata nell’espressione dura che avevo già visto. Eppure, se qualcosa avesse potuto tradire l’aria crudele e assente, sarebbero stati i suoi occhi. La pena che racchiudevano. Fui sottratta alla tortura con rapidità. Sam mi spinse in classe prima che Jackie capisse cosa avesse indotto Alec a fermarsi.

Non dissi una parola per tutta la lezione di scienze. Per quanto mi sforzassi non riuscivo a togliermi dalla mente l’immagine di quei due fianco a fianco nel corridoio. Il pensiero che lei potesse avere ciò che per anni avevo desiderato e, soprattutto, che lui amasse lei, lei e non me, mi consumava. Aveva scelto e avevo scelto una che non ero io. Perché? Mi sembrava sbagliato. I motivi erano ovvi e sotto gli occhi di tutti, eppure non riuscivo ad accettarli. Non bastavano. Mads domandò cosa avessi e Sam rispose che avevamo incontrato Jackie ed Alec. Madison annuì senza aggiungere altro. Il mio umore non migliorò nemmeno quando, un’ora più tardi, il professor Graham consegnò le verifiche di metà semestre e scoprii di aver preso una B in trigonometria. Uscii dall’aula rigirandomi il compito tra le mani. Almeno mamma sarebbe stata contenta. Mi diressi verso la lezione successiva e sulla porta trovai Charlie. In forma smagliante: pullover rosso attillato, rigorosamente firmato, e jeans. I capelli come sempre spettinati ad arte e un sorriso beffardo sulle labbra. «Ciao Hataway. L’aria malinconica ti dona» commentò sornione. «Sono sempre malinconica» ribattei torva. Non ero in vena di stare ai suoi giochetti. «Allora ti dona sempre. Cos’hai lì? Vedere vedere» e mi strappò la verifica dalle mani. Sbuffai spazientita dalla prepotenza. «B in trigonometria. È una cosa buona o abbiamo scoperto cosa ti rende tanto triste e cupa?» «B è una cosa buona. Faccio schifo in trigonometria» spiegai, sperando che mi avrebbe lasciato in pace. «Non riesco a immaginare qualcosa in cui tu possa fare schifo». Era ironico? Gli scoccai un’occhiataccia.

«Molto galante» osservai sarcastica riprendendomi il compito di matematica. «Ti ringrazio». «Sei venuto per disdire la nostra lezioncina?» indagai. Forse era tornato in sé. «Niente affatto. Ti stavo aspettando per ricordarti il nostro appuntamento. Dopo la scuola davanti alla biblioteca. A più tardi». Si allontanò senza lasciarmi il tempo di rispondere. Cosa mi sarei dovuta aspettare da uno come Charlie? Voleva qualcosa da me o gli interessava davvero migliorare il suo voto in letteratura? Non che la cosa mi importasse, ma avrei voluto evitare l’ennesima figura da idiota. L’ora di storia trascorse senza intoppi e finalmente arrivò la pausa pranzo. Mads prese una fetta di torta al cioccolato per me e mi costrinse a mangiarla tutta. Non avevo fame, ma non potevo continuare a mortificare gli sforzi delle persone che mi volevano bene. Le sorrisi grata per il pensiero e cercai di scrollarmi di dosso la desolazione e l’umiliazione che provavo. «A cosa pensi? Ehi! Quel maglione è mio!» la voce di Eileen mi fece trasalire. Si era seduta accanto a me e nemmeno me n’ero accorta. «Mi hai fatto prendere un colpo» dissi stizzita, cercando di asciugare con un tovagliolo l’aranciata rovesciata a causa sua. «Se sei sempre su un altro pianeta non è colpa mia. Cosa voleva Thompson questa mattina?» chiese sospettosa. Gli occhi verdi mi scrutavano attenti sotto le folte e scurissime ciglia. «Abbiamo abbondato con il mascara eh?» commentai ignorando la sua domanda. «Cerchiamo di cambiare discorso eh?» ribatté indispettita. «Che palle, Elle! Te lo dirò se prometti di risparmiarmi la predica» dissi a caccia di complicità. Volevo evitare l’ennesima tirata su quanto fossero pericolosi i tipi come Charlie, che ti prendono e poi ti mollano spezzandoti il cuore. Pensa, lo fanno anche i tipi come Charlie.

«Ti ascolto» disse più rilassata. «Mi ha chiesto di aiutarlo a studiare letteratura. Vuole migliorare la sua media per poter fare domanda a Yale il prossimo anno». Sembrava davvero innocente detto così. Mia sorella sollevò un sopracciglio ma non commentò. Sbirciò l’orologio che aveva al polso, mi guardò preoccupata prima di andarsene e lasciarmi a quello che rimaneva della mia aranciata. Silenzio assenso? Forse si era arresa all’idea che fosse meglio lasciarmi fare. L’ultima volta che aveva creduto di avere lei ragione e io torto non era andata troppo bene. Non gliene facevo una colpa, ma sapevo che si sentiva responsabile. Le avevo ripetuto mille volte che la colpa non era di nessuno e che se avessi voluto trovare a tutti i costi qualcuno con cui prendermela mi sarebbe bastato guardare in uno specchio. Avevo voluto cullarmi nell’illusione. Ero stata una stupida. Elle era molto lontana dal pensare che la colpa fosse mia e ce l’aveva a morte con lui. L’avevo sentita litigare con Dave che per solidarietà aveva cercato di giustificarlo. Per timore che i miei problemi avessero delle conseguenze negative su di loro, l’avevo pregata di non parlarne più né con Dave né con nessun altro. Mia sorella aveva esaudito la richiesta, ma se avesse potuto non avrebbe risparmiato a qualcuno una lavata di capo memorabile. La lezione di se trascorse più lenta e tediosa del solito. Dopo un’eternità giunse al termine e con essa, la lunga giornata di scuola. Raccolsi senza fretta le mie cose e mi diressi verso la biblioteca. Avevo avvisato Sam e Mads di non aspettarmi alla fine delle lezioni, perché mi sarei fermata a studiare con Charlie. Mads mi aveva scoccato un sorrisone. «Questa sera mi chiamerai per raccontarmi tutto?» aveva chiesto maliziosa. Ero arrossita senza un motivo e le avevo risposto che non ci sarebbe stato nulla da raccontare. Madison aveva sorriso di nuovo con l’aria di saperla lunga. Più di me senz’altro.

Charlie mi aspettava all’entrata della biblioteca, appoggiato al muro, la borsa a tracolla. Almeno era uno puntuale. Non potei fare a meno di notare, ancora una volta, che i suoi lineamenti, il suo modo di fare, lo rendevano piuttosto gradevole. Niente cuore in gola, brividi e scosse, ma era piacevole. «Sei puntualissima» esordì staccandosi dalla parete. «Prima iniziamo meglio è» dissi entrando in biblioteca. «Hai fretta di fuggire, Hataway? Cosa ti spaventa?» mi sussurrò per non disturbare gli altri studenti immersi nella lettura. Si era chinato su di me per farsi sentire e l’inaspettata vicinanza non mi infastidì troppo. Ignorai la sua provocazione e indicai un tavolo isolato rispetto agli altri. Meglio così, attiravamo già abbastanza l’attenzione. Molti di loro, probabilmente, si stavano chiedendo cosa fi insieme a Charlie Thompson. La cosa non aveva la minima importanza. Potevano ricamarci sopra fino allo sfinimento per quanto mi riguardava e forse non interessava nemmeno a Charlie. Cominciammo a svolgere la relazione che la professoressa Bishop aveva dato come compito per casa. Fu subito chiaro che il mio compagno di studi non aveva bisogno di ripetizioni. Era preparato e le sue intuizioni erano buone. Lavorammo intensamente per un’ora. Ogni tanto lo sorprendevo a fissarmi con un sorriso soddisfatto. Aveva l’aria di un gatto che, leccandosi i baffi, pregusta il momento in cui acchiapperà l’uccellino. Rispondevo a quegli sguardi con aria di sufficienza. «La pianti? É da maleducati fissare la gente» sbottai al colmo dell’irritazione. «Non so più come fare per attirare la tua attenzione. Sei tutta concentrata su questa stupida relazione» rispose abbassando il tono di voce e avvicinando la sedia alla mia. «Non attiri la mia attenzione, mi irriti e basta. Senza contare che la stupida relazione serve per farti prendere una A e tante A fanno uno Yale. Non è questo che vuoi?» domandai scocciata. «Anche». Si concesse un mezzo sorriso e tornammo al lavoro. Meno concentrati e più vicini di prima.

Dopo circa mezz’ora mi annunciò di avere bisogno di una pausa. «Vado al distributore a prendere una bottiglietta d’acqua. Ti porto qualcosa?» chiese stiracchiandosi. «No, grazie. Non metterci un’eternità, vorrei andare a casa prima che faccia notte» risposi annoiata, anche se una piccola pausa non dispiaceva nemmeno a me. «Ti porterò a casa prima di cena. A proposito, è arrivato il momento di presentarmi tua madre» disse con il suo mezzo sorriso. «Datti una mossa» risposi scandendo bene le sillabe. A che gioco stava giocando? Ripensai agli ultimi due giorni: l’intervista, l’entrata strategica dalla porta laterale, il pranzo. Non riuscivo a delineare una logica che mi aiutasse a trovare una spiegazione plausibile. Con tutte le ragazze che poteva avere perché perdeva tempo con me? Non ero certo il suo tipo: non ero bionda, non ero popolare e avevo dimostrato nei suoi riguardi solo irritazione. Guardai l’orologio. Era ato un quarto d’ora. Dove si era cacciato? Decisi di andare a cercarlo. Magari aveva incontrato una delle sue ammiratrici e si era fermato a fare il cretino. Uscii dalla biblioteca e mi diressi verso il corridoio laterale, dove si trovava il distributore delle bibite. Stavo per svoltare l’angolo quando il suono di una voce famigliare mi paralizzò. «Non sono stato abbastanza chiaro?». Il tono era tagliente come una lama. «Qual è il tuo problema Mr Universo? Devo ammettere che sfugge alla mia comprensione» rispose Charlie sarcastico. «Stai lontano da lei» non c’era traccia di ironia nella sua voce. Era furioso. Conoscevo quella collera comata. In genere rimaneva sotto controllo solo fino a un certo punto. Così Charlie ci aveva provato di nuovo con Jackie. Che stupido. Come poteva

pensare che non sarebbe corsa dal suo nuovo eroe per denunciare l’orrendo affronto? Probabilmente l’aveva fatto proprio per farlo andare su tutte le furie. Non me ne sarei stupita affatto. Forse non si era ancora tolto Jackie dalla testa. Ero contenta di sapere che avesse un cuore, meno che Sam avesse ragione. Si era sbagliato solo su una cosa. Era Jackie che Charlie voleva infastidire facendo il carino con me. Stavo per tornare in biblioteca a raccogliere le mie cose e andarmene a casa, quando la risposta di Charlie catturò la mia attenzione. «Non credo che la cosa ti riguardi. Non più» anche il suo tono aveva perso d’ironia e guadagnato in aggressività. Trattenni il respiro. Non aveva senso. Lui stava con Jackie. Li avevo visti eggiare per i corridoi quella mattina. «Vedi Stevens» continuò «non si può avere tutto. Se hai fatto un errore di valutazione non è un affare che mi riguardi. Hai perso il treno e adesso quel treno lo prendo io». Di cosa stava parlando? «Se ti azzardi anche solo a… ». Era sempre più in collera e sempre meno controllato. Charlie stava tirando troppo la corda. «A fare cosa? Tutto quello che non hai avuto il coraggio di fare tu?». E la corda si spezzò. Prima che avessi il tempo di pensare a cosa stavo facendo uscii di corsa dal mio nascondiglio e mi gettai in mezzo a loro per dividerli. Non ero stata abbastanza veloce. Avvinghiati l’uno all’altro, si spingevano contro le file di armadietti con violenza. «Alec sei impazzito? Smettila! Smettila immediatamente!» gridai spaventata, incerta su cosa fare. Non avevo la forza per separarli e temevo che non mi avrebbe dato ascolto. Mi era capitato altre volte di tirarlo fuori da una rissa, ma eravamo bambini e si trattava di stupidi bisticci tra maschi. Soprattutto tra noi le cose erano diverse. Invece mollò la presa su Charlie che ne approfittò per spingerlo via.

Alec sembrava non essersi fatto nemmeno un graffio. Guardava dritto davanti a sé con aria assente, come se il suo corpo fosse lì, ma la mente a miglia di distanza. Non potei fare a meno di pensare al sogno che avevo fatto. Alla spiaggia, alla pace che avevo provato nel ritrovarlo, nel stare accanto a lui senza dover parlare. Senza sentire dolore. Non c’era traccia di quel sogno nella realtà che vivevamo. Non c’era pace, non c’erano silenzi se non ostili. E il dolore era dappertutto. Distolsi lo sguardo prima di lasciarmi sopraffare dalla nostalgia e dalla sensazione di abbandono. Dal sonno vischioso che già mi lambiva le palpebre e mi annebbiava la mente. Cercai di concentrarmi su Charlie e mi volsi per vedere come stava. Con l’occhio destro e l’orgoglio pesti, si era lasciato scivolare a terra, appoggiandosi alla fila di armadietti. Si massaggiava una spalla. Mi chinai su di lui per controllare l’occhio che stava già diventando violaceo. Non capivo. Ero confusa, scossa e intontita. Se non era per Jackie, perché stavano litigando? Cosa ci faceva lui a scuola a quell’ora? Non aveva allenamento. D’istinto alzai gli occhi in cerca di risposte. C’era stato un tempo in cui avevo creduto che ogni volta che avessi alzato lo sguardo ci sarebbe stato. Con la risposta che stavo cercando. Invece era sparito senza dirmi nulla e si era portato via i miei giorni migliori. Quelli che avevo avuto e quelli che dovevano ancora venire. Si era portato via tutto. Per una frazione di secondo ricambiò il mio sguardo. Troppo poco perché riuscissi a leggervi qualcosa. Se ne andò sferrando un pugno micidiale a uno degli armadietti. Pensai che si fosse rotto una mano. Se avesse colpito Charlie con quella forza gli avrebbe spaccato la mascella. «Come stai?» dissi sforzandomi di tornare in me e aiutandolo ad alzarsi. Il mezzo sorriso tornò a saettare sulla bella bocca.

«Mi merito una ricompensa, Hataway. Ho appena fatto a botte per te».

A metà strada

Alec

Seppi che stava arrivando con qualche minuto di anticipo. L’avevo sentita circa a metà del percorso che separava la sua casa dalla mia. In fondo me l’aspettavo. Sapevo che non se ne sarebbe rimasta zitta e buona senza dire niente. Loro lo credevano. Non io. Era furiosa. Sentivo la sua collera crescere o dopo o. La lasciava andare a briglia sciolta sperando che le avrebbe dato il coraggio di fare ciò che stava per fare. Quello che secondo lei andava fatto. Nelle ultime settimane ero diventato bravissimo. Da diversi metri potevo delineare con chiarezza il suo stato d’animo e da vicino potevo cogliere tutto. Chissà cosa macinava la sua testolina mentre si avvicinava a quella che era stata una seconda casa per lei e che ormai non significava più nulla. Chissà che discorso si era preparata. Perché di sicuro nelle ultime ore aveva pensato e ripensato cento, mille volte alle cose da dirmi. Non l’avrei mai saputo. Non avrebbe scavalcato la staccionata che delimitava il giardino, non lo avrebbe attraversato e non avrebbe bussato alla porta finestra. Arrivata davanti al vialetto si sarebbe accorta della macchina di Jackie e sarebbe tornata sui suoi i. Affranta, umiliata e delusa. Ancora una volta e ancora una volta a causa mia. Me ne stavo lì ad aspettare quel momento per non lasciarla sola. Non l’avrebbe mai saputo. Ignorava che il fardello fosse equamente diviso, che non doveva portarne tutto il peso. Lo pensava, ma era meglio così. Poteva prendersela con qualcuno. Io con chi me la sarei dovuta prendere? Con il destino cinico e baro? Bella soddisfazione. Con me stesso? Avevo fatto quello che mi sembrava giusto fare.

Con loro? Non avevano scelta. Nessuno di noi l’aveva mai avuta, solo che allora non lo sapevo e lei non lo avrebbe saputo mai. Mi aggiravo per la stanza dei giochi, al buio, solo e nervoso. Nonostante la macchina parcheggiata nel vialetto, Jackie non c’era. Mi aveva prestato l’auto, perché mamma aveva preso in prestito la mia per andare a Boston a trovare zia Susan. C’era tensione tra lei e papà, così aveva deciso di cambiare aria. Litigavano a causa mia. Trasalii quando la sentii lasciare la strada principale e tagliare per il giardino dei Miller. Non voleva farsi notare e aveva deciso di arrivare dal retro. Non avrebbe visto la macchina di Jackie. Non sarebbe tornata indietro senza una spiegazione. Perché era quello che voleva e che mi aveva chiesto silenziosa dopo la rissa con Thompson. Spiegazioni. Non ero pronto a dargliene. Scattai verso la porta finestra. Non la vedevo, ma sapevo che aveva scavalcato la staccionata. Era entrata nel mio raggio d’azione. Tutto ciò che sentivo, che provavo non mi apparteneva più. Era suo. Confusione. Rabbia e confusione. Incertezza. Arrivata a destinazione non era più sicura che fosse la cosa giusta da fare. Rallentò il o, ma non si fermò. Un’ondata di malinconia la invase. Mi appoggiai alla parete perché non mi vedesse e rimasi immobile, in attesa. Sconquassato da ciò che provava lei e provavo io. Presi un bel respiro e rimasi in ascolto. Cercai di rilassarmi, di non farmi coinvolgere dalla sua rabbia e dal suo dolore. Dovevo restare lucido per poter gestire la situazione. Dovevo sembrare credibile. Prima della nostra rottura, ero in grado di distinguere il suo sentire dal mio. Spesso non mi rendevo conto di cosa si trattasse e non riuscivo a tradurlo nei suoi pensieri, ma rimaneva sempre distinto da me. Delineato. Nelle ultime settimane la linea di demarcazione si era fatta sottilissima e ciò che

provava influenzava il mio umore o i miei pensieri, orientava le mie azioni. Mi stavo indebolendo. Emma era furiosa e stava risvegliando la parte di me che era furiosa con lei. Charlie mi infastidiva, ma non era stato quello a spingermi fare a botte con lui. A darmi fastidio era la possibilità che a lei pie. L’idea che potesse rimpiazzarmi e farlo in così poco tempo mi feriva e mi mandava in bestia. L’ultima cosa che potevo permettermi di fare era rendere palese o peggio, dover spiegare la mia irritazione. Avevo sofferto per lei e l’avevo fatto in silenzio. Avevo mentito a tutti: a lei, a Jackie, a Sam; ora dovevo sopportare gli assalti di Thompson. Per quanto mi fossi impegnato e continuassi a farlo non potevo tenere testa a lungo a una cosa del genere. Stavo commettendo un errore dopo l’altro: il patetico balbettio nel corridoio, la rissa con Thompson. E presto l’avrei incontrata faccia a faccia. Strinsi i pugni. La mano mi faceva ancora male. Lì per lì non avevo sentito nulla, ma una volta tornato a casa aveva cominciato a pulsare. Avevo preso un analgesico e il dolore era diminuito. Temevo che prima o poi sarebbe successo qualcosa di simile, ma che fosse proprio Charlie... La situazione era già abbastanza impossibile. Alla fine delle lezioni li avevo visti entrare in biblioteca e non ero riuscito ad allontanarmi. Non sapevo cosa avrei fatto, l’unica cosa di cui ero sicuro era la necessità di evitarle a tutti i costi un errore simile. Girovagavo intorno alla biblioteca da un’ora e mezza, quando vidi Charlie uscire e imboccare il corridoio che portava ai distributori di bibite. Era la mia occasione. Gli avrei parlato per capire che intenzioni avesse. Avrei provato almeno. Lo avevo seguito cercando di non farmi sentire, ma a pochi i dal distributore si era girato per vedere chi avesse dietro di sé. Gli era spuntata sulla faccia l’espressione più odiosa che avessi mai visto. La stessa che aveva quando riusciva a fare un canestro senza l’aiuto di nessuno,

unita alla soddisfazione di essersi preso una rivincita. Trionfava e non potevo fare niente per fermarlo. «Che ci fai ancora a scuola, Stevens? Non trovi l’uscita?» aveva chiesto canzonatorio. Mi prudevano le mani, ma avevo cercato di controllarmi. Non ero cresciuto in mezzo ai lupi, sapevo quanto fosse sbagliato cedere alla rabbia, anche se Charlie se lo fosse meritato sul serio. «Cosa vuoi?» avevo chiesto per prendere tempo. «È strano che tu me lo chieda. Potrei farti la stessa domanda. Comunque posso risponderti se la cosa ti fa stare meglio. Voglio parecchie cose, tra le tante che tu ti tolga dai piedi. Quindi sei pregato di lasciarci in pace». Lasciarci. Scelta interessante. Era un avversario notevole. Perspicace, intelligente. Molto determinato quando si metteva in testa una cosa. Avevamo vinto parecchie partite grazie alla sua testardaggine. Bisognava dargliene atto. «Bravo Thompson. Tu sì che sai cogliere il nocciolo della questione» ironizzai a malincuore. Sarei dovuto andarmene invece di rimanere a subire le sue provocazioni. A Charlie piaceva tirare la corda, portarti fino al limite. «Al contrario di te a quanto pare. Perché non mi dici cosa vuoi e la facciamo finita? Ho altro da fare». Di nuovo quel sorrisetto soddisfatto sulla faccia. Era così dannatamente sicuro di se stesso. Il suo piano doveva procedere a gonfie vele. Giorno dopo giorno gli sembrava di essere più vicino all’obiettivo. Per uno come Charlie la conquista rappresentava la metà del divertimento. Non avrei mai permesso che Emma fosse un divertimento per nessuno. «Trovati un altro atempo» lo avvertii. Lo guardavo in faccia, rendendomi conto di quanto dovessi sembrargli debole in quel momento. Più lui ostentava calma e indifferenza, più io sentivo di perdere il

controllo. «Non sta a te decidere come devo trascorrere il mio tempo, senza contare che non vedo opporre troppa resistenza. Forse il problema è proprio questo, dico bene Stevens?». Come al solito aveva trovato il punto giusto e affondato il colpo. «Ora se hai finito di impormi la tua presenza ti saluto, la tua ex ragazza mi aspetta in biblioteca» mentre lo diceva non poteva avere un’aria più gongolante. Si voltò verso la macchinetta delle bibite, ne scelse una e dopo averla presa fece per andarsene. Lo fermai trattenendolo per un braccio. Il mio autocontrollo cominciava a scarseggiare. «Non sono stato abbastanza chiaro?» dissi tra i denti. «Qual è il tuo problema Mr Universo? Devo ammettere che sfugge alla mia comprensione» rispose beffardo liberandosi dalla mia presa. «Stai lontano da lei». Non avevo nessuna voglia di scherzare. «Non credo che la cosa ti riguardi. Non più» rispose secco. «Vedi Stevens,» continuò recuperando il tono arrogante. «non si può avere tutto. Se hai fatto un errore di valutazione non è un affare che mi riguardi. Hai perso il treno e adesso quel treno lo prendo io». Per lui era solo questione di tempo, era chiaro. Credeva di averla già in pugno. Non la sentii arrivare, ero troppo concentrato su Charlie. Se avessi intuito che si trovava a pochi metri da noi, le cose sarebbero andate in modo diverso. «Se ti azzardi anche solo a… ». Volevo provocarlo. Trovare una scusa qualsiasi per ricambiare il colpo che mi aveva appena inferto. «A fare cosa? Tutto quello che non hai avuto il coraggio di fare tu?». Non aspettavo altro. Mi scagliai su di lui. Nel momento in cui eravamo scattati l’uno contro l’altro, era sbucata fuori dal nulla, correndo e gridandomi di smetterla. Non avevo idea di cosa avesse sentito, ma si era rivolta a me, sicura che fossi stato io ad iniziare. Sarebbe bastata la sorpresa a farmi desistere e il suo tono spaventato mi aveva costretto a una resa immediata. Rimaneva sempre e comunque il mio appiglio con la realtà.

Non capiva il senso della scena a cui aveva appena assistito. Il dolore aveva fatto spazio alla sorpresa e alla confusione. Glielo avrebbe spiegato Thompson non appena me ne fossi andato. Avrebbe fatto la parte dell’eroe. Si era inginocchiata accanto a lui per vedere come stava. Aveva deciso chi fosse il cattivo e come darle torto? Potevo pretendere che si fidasse di me o sperare che vedesse i miei goffi tentativi di proteggerla? Non ero altro che un vigliacco per lei, un bugiardo. Charlie poteva presentarsi con una bella corazza scintillante e vendere la sua mediocrità a peso d’oro. Una grande tristezza la invase, un rimpianto straziante. Sollevò lo sguardo su di me e per una manciata di secondi decisi di cedere alla tentazione di ricambiare il suo sguardo. Incredulo, spaventato. Affamato di una spiegazione che le avrebbe restituito un po’ di pace, ma non ero in grado di darle. Non potevo. Era tutto così assurdo, ingiusto. Decisi di andarmene prima di combinare altri guai. Esasperato, sferrai un pugno a uno degli armadietti. Tornato a casa avevo cercato di calmarmi. Sapevo che non sarebbe finita lì. Mi era bastato quello sguardo per capire che sarebbe venuta di persona a chiedere spiegazioni. Le sarebbe costato uno sforzo pazzesco, ma non me l’avrebbe fatta are liscia. Infatti eccola dietro la porta a vetri, pronta a bussare. Di nuovo mi spiazzò perché entrò senza annunciare la sua presenza. Forse non mi aveva visto o lo aveva fatto sovrappensiero, in modo automatico. Rimasi appoggiato alla colonna. La sentii chiudere la porta scorrevole dietro di sé e cercare l’interruttore. In piena luce avevo ancora meno voglia di trovarmi faccia a faccia con lei, ma era inevitabile. Fece qualche o in avanti e si girò verso di me. Quando mi vide non si spaventò, sapeva che la stavo aspettando. Non disse nulla. Troppe cose affollavano la sua mente e ne era sopraffatta. Toccava a me parlare. Sarebbe sembrato normale ad esempio chiederle perché si trovasse lì.

Era una domanda retorica, ma poteva aiutare a rompere il ghiaccio. Per la prima volta dopo tante settimane mi permisi di guardarla da una distanza ravvicinata. Aveva legato i capelli, anche se qualche ciuffo ribelle era sfuggito al fermaglio e le incorniciava il viso. Era pallida e sembrava stanca, gli occhi segnati da un pianto ormai asciutto, che si portava addosso da settimane. Nonostante l’aria triste era impossibile non vedere quanto fosse arrabbiata, ma incapace di tradurre la sua collera in parole. Mi fissava furiosa con le labbra schiuse, i pugni serrati. La rabbia di Emma era sempre stata muta. Un tempo sarebbe bastato un silenzio prolungato per farmi capire che qualcosa non andava e sapevo che sarebbe toccato a me farle sputare il rospo. Almeno quello non era cambiato. A differenza delle altre volte, però, sapevo cosa l’avesse fatta arrabbiare e mi mancava la faccia tosta di far finta di niente. «Cosa fai qui? È tardi, non dovresti girare da sola a quest’ora» dissi con voce piatta. Non potevo cedere di un millimetro o sarebbe stato tutto inutile. Spalancò gli occhi sorpresa, come se avesse realizzato in quel momento di trovarsi davanti a me. La vidi riprendere il contatto con la realtà, afferrare la sua rabbia e buttarmela in faccia. «Ti sei bevuto il cervello? Mi spieghi cosa avevi in mente?». Non riusciva a guardarmi e i suoi occhi vagavano per la stanza. Cominciò a camminare avanti e indietro, nervosa, in attesa di una risposta. Distolsi lo sguardo e presi a fissare un angolo della libreria. Cercai di concentrarmi, di formulare una risposta che mettesse fine a quella situazione. «Mi ha provocato» risposi gelido. In fondo era la verità. «Ti sembra un motivo sufficiente per prendere a pugni qualcuno?». Si bloccò e mi guardò senza riuscire a trattenere lo stupore. Si stava domandando chi avesse davanti, cosa ne fosse stato di me. «Qualcuno no, Thompson sì» dissi sempre fissando la libreria. Rimase in silenzio meditando sulla mia risposta, poi si decise a dire cosa le ava per la testa. Sollevò il viso orgogliosa, la voce ferma, gli occhi scintillanti.

«Non devi farlo. Non ti devi preoccupare» s’interruppe un secondo per prendere fiato e coraggio. «Devi lasciarmi stare». In quelle parole c’era tutto il suo orgoglio. Le era costato dirle, almeno quanto era costato a me sentirle uscire dalla sua bocca. Aveva ragione, avrei dovuto lasciarla stare. Non prima di averla convinta a stare lontana da quell’idiota. «Una volta ottenuto ciò che desidera si sbarazzerà di te come ha fatto con tutte le altre» dissi con freddezza. Charlie voleva solo conquistare una preda difficile e are al livello successivo. Doveva capirlo anche lei. Si infuriò di nuovo e senza rendersene conto si avvicinò. Mi guardava, arrabbiata e ferita. «Numero uno a te cosa importa. Numero due chi ti dice che otterrà ciò che desidera e numero tre…» si fermò indecisa se continuare, ma era troppo in collera per trattenersi. «questa volta sono preparata». Lo disse con amarezza, per fare del male. Abbassai la testa sconfitto. Mi diede le spalle e si mosse verso la porta, ma l’idea che se ne andasse così era insopportabile. «Aspetta. Ti accompagno a casa». Mi resi conto dell’illogicità della mia proposta, ma sperai che potesse accettare una piccola tregua. Mi staccai dalla parete a cui ero rimasto appoggiato e mi avvicinai per uscire in giardino insieme a lei. «Non c’è bisogno» disse senza guardarmi. Voleva andarsene, in fretta e senza di me. Il suo rifiuto bruciò la miccia che aspettava di dar fuoco al mostro verde che nutrivo da giorni. «Charlie è fuori che ti aspetta?» domandai tagliente. Sentii l’istinto trasformarsi in azione. Le afferrai il polso un secondo prima che la sua mano colpisse la mia guancia. Una scossa intensa, dolorosa si propagò dal contatto e crepitò nell’aria.

Gli occhi le si riempirono di lacrime per la vergogna e la frustrazione. La sentii andare in pezzi e io con lei. Ero stato immaturo, egoista e crudele. Le avevo dato altre ragioni per continuare ad odiarmi. Si divincolò con forza e mi guardò con gli occhi pieni di rimprovero. «Non puoi permetterti di giudicarmi. Lasciami stare Alec, ti prego». Non potevo sopportare oltre quello spettacolo. Senza dire niente, sconfitto e addolorato, mollai la presa e la lasciai sparire nell’oscurità.

Dolcetto o scherzetto?

Emma

Incredibilmente riuscii a tornare a casa. La testa mi scoppiava e temevo mi venisse una crisi. Chi sarebbe venuto a cercarmi? A parte Connie, nessuno sapeva che fossi uscita. Miranda e mamma credevano che dormissi ed Eileen era da Dave. Avrei dovuto permettergli di accompagnarmi a casa, ma era impensabile tollerare quello strazio un minuto di più. Ero stata debole e stupida. Non avevo imparato niente. Dovevo sempre sbatterci la faccia, andare in fondo alle cose prima di capire. Almeno avevo la certezza che la rissa del pomeriggio fosse iniziata a causa mia. Il motivo era semplice da intuire: si sentiva in colpa. Era andato da Charlie per convincerlo con le buone o le cattive a lasciarmi in pace. Secondo lui era un pericolo e aveva cercato di proteggermi. Troppo facile. Non avevo chiesto il suo aiuto e, soprattutto, non sentivo il bisogno di essere protetta. Aveva scelto di stare fuori, sarebbe rimasto fuori. Poteva lenire il senso di colpa in altri modi. Non sarei stata il suo strumento per sentirsi meglio. Ero ancora su tutte le furie e mi sentivo peggio di quando ero uscita di casa. Si era aggiunto un misto di nostalgia e umiliazione. Davvero un’abile mossa. Connie mi aspettava sulla porta. Facendomi cenno di stare zitta, entrammo in casa. Tutto era avvolto nel buio e nel silenzio, ma raggiungemmo la nostra camera senza intoppi. Chiusa la porta, sedette sul letto e allargò le braccia. Affondai nel suo abbraccio e mi sfogai fino addormentarmi. La mattina dopo il suono della sveglia mi strappò da un sonno vischioso e senza sogni. Mia sorella era sdraiata accanto a me. «Come ti senti?» chiese con la voce impastata dal sonno. Potevo sentirmi peggio e glielo dissi. Cominciai a spogliarmi, avevo ancora addosso i vestiti del giorno prima. Scelsi la biancheria e degli abiti puliti per andare a scuola. Eileen non era nel suo letto, sicuramente aveva già occupato il bagno.

«Cosa ti ha detto?» domandò Constance mettendosi a sedere e soffocando un enorme sbadiglio. Aveva i capelli arruffati e la faccia pesta. Non doveva aver ato una bella nottata. A causa mia, tanto per cambiare. Ero stanca di essere un perenne pensiero per chi mi circondava. «Non ha negato» risposi con voce piatta. Se avessi dato importanza alla cosa ne sarebbe uscito l’ennesimo affare di stato. Mia sorella strabuzzò gli occhi. È sempre piacevole vedere raggiunti i propri obbiettivi. «Ma» continuai per chiudere il discorso, «gli ho detto di lasciarmi in pace». Era tutto ciò che avevo da dire sull’argomento. Ripensare alla sua espressione glaciale, alla freddezza della sua voce mi faceva male come un pugno in faccia. «E poi?» incalzò. Avrei dovuto immaginare che la versione breve del dramma non sarebbe bastata. «Gli ho quasi dato uno schiaffo» dissi con una minuscola punta di delusione. «Quasi? Perché?» domandò incredula. «Quasi perché l’ha parato in tempo e perché se lo meritava. Non mi va di parlarne, Connie e non c’è altro da dire. Dobbiamo andare a scuola» conclusi con voce stanca. Raccolsi le mie cose e andai verso il bagno. Sulla porta incontrai Eileen. Sembrava avesse scritto in faccia “sei un’idiota”. Connie doveva averla aggiornata sulle ultime scoppiettanti novità. Feci spallucce e m’impossessai del bagno. Un’ora più tardi eravamo in marcia verso la scuola. Il resto della giornata e della settimana trascorsero tranquilli. Le cose sembrarono tornare alla normalità, dopo una piccola parentesi di follia. Lui ritornò ad essere invisibile e i miei amici smisero di preoccuparsi all’ennesima potenza, limitandosi a preoccuparsi solo un po’. Una cosa, però, si era aggiunta rispetto a prima. Charlie non prese in considerazione le minacce di Alec e divenne una presenza fissa nelle mie giornate. Mi aspettava fuori dall’aula alla fine delle lezioni, spesso pranzavamo insieme e, ogni tanto, dopo la scuola mi accompagnava a casa. Cominciai ad abituarmi ad averlo intorno e se non fosse stato per qualche battuta ambigua, lanciata con disinvoltura, avrei pensato che le sue intenzioni non fossero

nient’altro che amichevoli. La cosa infastidiva Jackie, anche se non capivo il motivo. Mads disse di averla sentita ridere con le amiche nel bagno delle ragazze a proposito di quanto si fosse rammollito Charlie. Una volta non avrebbe perso tempo dietro ai capricci di una signorina nessuno, aveva commentato la capitana delle cheerleader. Lei stessa aveva ceduto in fretta perché alla seconda uscita senza bacio della buonanotte, Charlie aveva mostrato segni d’insofferenza. Doveva sentirsi proprio solo, poverino. Lucinda Hall le aveva fatto notare che, forse, la signorina nessuno gli piaceva davvero. Jackie non le aveva rivolto la parola per quattro giorni. Charlie non era l’unico a riuscire a distrarmi. Un’altra seccatura si era aggiunta alle facezie scolastiche: la festa di Halloween. Non sapevo dove trarre ispirazione per scegliere il mio travestimento. La prospettiva della festa aveva acquisito un minimo di fascino, visto che non sarei andata da sola, ma la faccenda del costume rimaneva piuttosto fastidiosa. Sembravano avere tutti le idee chiarissime. Sam e Mads si sarebbero travestiti da Clark Kent e Lois Lane, mentre Eileen e Dave da Antonio e Cleopatra. Connie era indecisa tra Principessa d’Oriente o calciatore, dipendeva da chi l’avrebbe accompagnata. Aveva ricevuto un paio d’inviti, ma non si era ancora decisa. Ed io? Che identità avrei assunto per la notte delle streghe? Ci pensò Charlie a dissipare i miei dubbi. Un pomeriggio tornando da scuola mi chiese se avessi delle preferenze. Risposi che non ne avevo la minima idea. «Ci speravo. Devi fidarti di me, ti piacerà. Te lo faccio portare da Joe venerdì pomeriggio» concluse soddisfatto. Aveva pensato a tutto. Lo guardai incerta. «Spero non sia niente di imbarazzante, perché rimando al mittente uomo tuttofare e costume e alla festa ci vai da solo» risposi torva. Charlie si era dimostrato migliore di quanto pensassi, ma non mi fidavo ancora al cento per cento di lui. Come al solito non prese sul serio nemmeno per un secondo le mie minacce. Scoppiò a ridere e mi assicurò di nuovo che mi sarebbe piaciuto.

Ci trovavamo sul suo suv tedesco davanti al mio vialetto. Aveva insistito parecchio per accompagnarmi e non ero riuscita a dire di no. Avrei preferito evitarlo. Era la terza volta quella settimana e temevo che a casa avrebbero cominciato a farmi domande su chi fosse il mio misterioso autista. Non avrei saputo come rispondere. Ad un tratto si fece serio e mi guardò con l’aria di uno che deve dire qualcosa di spiacevole e non sa da che parte cominciare. «Posso chiederti una cosa?» «Ehm sì» dissi incerta. Era strana tutta quella serietà. Il suo repertorio espressivo, di solito, spaziava dall’ironico al beffardo. Non mi aspettavo una svolta riflessiva e non sapevo come interpretarla. «Perché hai scaricato Stevens?». Spostò lo sguardo scuro davanti a sé. Delicato da parte sua. Spalancai la bocca per lo stupore. Forse non avevo capito bene. «Eh?». Fu l’unica sillaba che uscì dalla mia bocca. Per tutta risposta mi incalzò con un cenno. Avevo capito benissimo. «Per quale assurdo motivo pensi che sia stata io scaricare lui?» domandai incredula. «Non lo penso io, lo pensa Jackie». Ah, ecco. Lo pensa Jackie. Cosa?!? «Jackie si sbaglia. Lui ha scaricato me» protestai. «Anche se il termine scaricare non è corretto. Non stavamo insieme o cose del genere» aggiunsi correggendo il tiro e sperando che il mio tono lo inducesse a lasciar perdere l’argomento. «Strano» disse tra sé. Giocherellava soprappensiero con uno dei tasti che tempestavano il volante. «Cosa?» chiesi irritata.

Nessuna parola usciva da quella bocca senza uno scopo preciso. Ignorò la mia domanda e continuò a giocare con i bassi dell’autoradio. Mi sentivo malissimo. Perché Jackie pensava una cosa del genere? Perché ne aveva parlato con Charlie? Non aveva senso. «Devo farti una confessione» disse serissimo. Uhm. Di bene in meglio. «Dimmi» lo incalzai. Inaspettatamente mi accorsi di avere paura. Non avrei saputo dire di cosa, ma temevo che l’avrei scoperto presto. Troppo presto. «Ieri pomeriggio Jackie è venuta a trovarmi». Fece una piccola pausa ad effetto per sottolineare l’importanza della cosa, ma non gli diedi la soddisfazione di mostrarmi colpita. Si aspettava che fossi gelosa? Lo ero? Cercai dentro di me un solo minuscolo frammento del mostro verde che mi aveva divorata qualche mese prima, ma non ne trovai traccia. «Mi ha fatto capire in modo abbastanza esplicito che se ci avessi provato non mi avrebbe respinto» continuò. «Mi sono comportato da vero gentiluomo e quando ha capito che non sarebbe riuscita a farmi capitolare ha ripiegato su un momento confidenza». A quel punto lo interruppi. Mancava solo che mi raccontasse i problemi di cuore della coppia dell’anno. «Cosa ti sfugge del significato della parola confidenza?» scandii le sillabe del termine incriminato. «Jackie non sarebbe affatto contenta di sapere che sei corso a spifferarmi i segreti del suo cuore» aggiunsi sarcastica. Charlie alzò un sopracciglio perplesso dalla mia mancanza di interesse. «Non sei curiosa?» insisté malizioso. Gli scoccai un’occhiataccia, ma non bastò a farlo desistere. «Jackie dice che Stevens è sempre di cattivo umore e non la sfiora nemmeno con un dito. Spesso ha la sensazione di essere solo un ripiego» disse guardandomi di sottecchi. Non potei fare a meno di notare come la bella bocca si piegasse in una piccola smorfia incontrollata nel pronunciare il suo nome. «Non le ha mai parlato di cosa sia successo tra voi. Una sera, all’improvviso, le ha chiesto di uscire e non si è fatta troppe domande. Ultimamente, però, ha il

sospetto che l’abbia fatto solo per farti ingelosire» disse tutto d’un fiato per paura che lo interrompessi con le mie obiezioni. La situazione era ridicola. Ai limiti del paranormale, anche se detto da me non faceva molto testo. «Perché me lo stai raccontando?» chiesi al culmine dell’irritazione. Mi guardavo le mani, incapace di sostenere il suo sguardo indagatore. Stava dicendo un mucchio di assurdità. Li avevo visti insieme con i miei occhi. Lui aveva scelto lei. Altrimenti non mi sarei trovata lì in quel momento, poco ma sicuro. «Volevo solo informarti che ho resistito alla tentazione e non ho nulla da nascondere» la bocca si piegò in un impercettibile sorriso «ma, soprattutto, volevo capire come fossero andate le cose. Per evitare spiacevoli sorprese» mi guardò con un’intenzione che mi fece arrossire. «Vuoi un applauso?» chiesi sarcastica. «Grazie» rispose con aria di sfida. Lo guardai torva. «Non ho intenzione di giocare con te alle amichette del cuore. Ti ho detto la verità» cercai di dire con voce ferma. «Secondo me Jackie si è inventata tutto per non perdere la faccia» minimizzai. «Voleva testare il suo ascendente su di te e quando si è accorta che la stavi respingendo, ha ripiegato sulla storiella della fidanzata trascurata in cerca di consolazione» lo dissi con il tono più innocente del mio repertorio. Charlie fece spallucce e si limitò a dire che era peggio per lei. Era rimasta a bocca asciutta. «Possiamo smetterla adesso di parlare di Jackie? Mi farai dubitare del tuo disinteresse» conclusi con mal celata ironia. Ci salutammo poco dopo. Eravamo troppo immersi nelle rispettive riflessioni per fare conversazione. Lo salutai distratta e mi diressi verso casa. Percorsi il vialetto, salii le scale e mi sedetti sfinita sulla panca di legno appoggiata alle colonnine bianche della veranda. Che cosa era preso a tutti quanti? Charlie respingeva Jackie per non deludere me, Jackie ci provava con Charlie perché delusa da Alec e Alec ignorava Jackie.

Perché? Non era come si era aspettato che fosse o era lui a non corrispondere alle aspettative di Jackie? Forse Charlie si era inventato un sacco di balle. Impossibile. Se avesse avuto un segreto me ne sarei accorta. Era la cosa che più mi piaceva di Charlie: non aveva segreti. Faceva solo quello che aveva voglia di fare e diceva solo quello che pensava. Poteva essere irritante, ma sapevo cosa aspettarmi. Era una sensazione rassicurante. Charlie non andava interpretato, solo maneggiato con cautela. Nessuno avrebbe potuto ferirmi più di quanto avesse fatto lui. Quando esisteva un cuore intatto e inviolato da spezzare. Aspettative da deludere e sogni da infrangere. Non avevo più niente da perdere. Il resto della settimana trascorse velocemente e velocemente arrivò il giorno della festa. Non ero emozionata o depressa, solo curiosa di scoprire quale fosse il travestimento scelto da Charlie. Alle cinque in punto, come promesso, Joe si presentò alla nostra porta con in mano un voluminoso porta abiti. Lo ringraziai frettolosa. Non vedevo l’ora di essere in camera mia per svelare il mistero. Cominciai ad estrarre il contenuto dalla busta e non potei trattenere un sorriso. Bravo Thompson. Chapeau. Elle e Connie fissavano la montagna di velluto e crinoline con aria interrogativa. Avrebbero capito non appena lo avessi indossato. E così fu. Eileen alzò gli occhi al cielo, infastidita dal fatto che Charlie avesse avuto un’intuizione così azzeccata, mentre Connie commentò stupita che il ragazzo ci sapeva fare. Aveva deciso all’ultimo minuto che sarebbe andata alla festa senza accompagnatore. «Avrò più possibilità di conoscere qualcuno di interessante se un idiota non mi starà incollato addosso tutta la sera come una cozza» aveva spiegato. Il suo ragionamento non faceva una piega. Guardai allibita il costume da strega che aveva scelto. Solo Connie aveva la sufficiente ironia per un travestimento del genere.

Elle era bellissima come sempre. Il caschetto nero di Cleopatra le donava molto. Quanto a me… Ebbi qualche difficoltà a far are la mia ingombrante gonna dalla porta di casa. Decisi di aspettare l’arrivo del mio accompagnatore in giardino. Mamma era in modalità falco e non avevo nessuna voglia di presentarle Charlie. Non sapevo cosa fosse per me ne cosa sarebbe diventato. Come avrei esordito? «Mamma, lui è Charlie Thompson: il sostituto numero 1». Impensabile. Riconobbi le fusa del motore tedesco arrestarsi davanti al vialetto. Qualche istante dopo un Reth biondo cenere mi veniva incontro con aria soddisfatta. Il gatto aveva finalmente acchiappato l’uccellino? «Miss Rossella» salutò sorridendo sotto i baffi posticci. «Sei un idiota. Sono ingombrante come una mongolfiera, non credo che riuscirò ad entrare in macchina» risposi sostenuta per non farlo gongolare troppo. «Ti dona lo stile sudista. Di me che te ne pare?». Era una domanda retorica. Conosceva la risposta e non faceva niente per nasconderlo. «Non assomigli per niente a Clarke Gable» risposi sardonica. Scoppiò a ridere e mi aprì la portiera della macchina. Mi aiutò a salire, richiuse la portiera dietro di me e sedette al suo posto. «Andiamo a fare dolcetto o scherzetto a questi inconsapevoli yankee». E sfrecciammo verso il cotonificio. Azzeccatissimo, direi.

Alcune tessere del puzzle

Emma

La serata prometteva bene. Charlie si era rivelato un cavaliere perfetto. Non facevo in tempo a dire di essere affamata o di avere sete, che si materializzava con una bibita in una mano e nell’altra una fetta di torta. Era presente ma non assillante e ogni tanto si dava alla macchia per darmi la possibilità di stare con le mie sorelle o con Mads e Sam. Ero contenta di avergli chiesto di accompagnarmi alla festa. Se non fosse stato per l’imbarazzo di avere un costume così appariscente, mi sarei sentita perfettamente a mio agio ed era in gran parte merito suo. Sam e Mads sembravano più che mai presi l’uno dall’altra. Avevo notato gli sfioramenti e i sorrisi ed ero piuttosto sicura che al primo lento sarebbero scesi in pista. Sam doveva essere giunto alla conclusione che non aveva più senso tergiversare. Mads aveva dimostrato di tenere molto a lui: aveva aspettato per mesi e al liceo una settimana può durare anni. Ero immersa in quei pensieri quando la voce di Connie mi riportò alla realtà. «Come va?». Sembrava preoccupata. Continuava a spostare lo sguardo da me a un punto indefinito della sala. «Bene, perché?» Qualcuno le stava dando fastidio e cercava riparo dagli importuni? Mi lasciai scappare un sorrisetto: Connie spezza cuori. Mi fulminò con lo sguardo. Uhm. Non sembrava in vena di scherzare. «Hai saputo?» domandò cauta. Avrebbe preferito non farmi quella domanda e ancor meno essere lei a darmi la risposta. La faccenda doveva riguardare me o una di noi. Cominciai a sentirmi inquieta. «Cosa?» risposi fingendomi annoiata. Non volevo scatenare allarmismi prima del dovuto, magari era una sciocchezza. Si preoccupavano talmente tanto che reagissi male a qualsiasi cosa, che si

sentivano in dovere di farmi una preparazione psicologica di ore prima di darmi la notizia più banale. «Alec ha lasciato Jackie. È qui e non ti ha tolto gli occhi di dosso da quando sei arrivata. Non so cosa abbia in mente, ha un aspetto spaventoso. Temo che non potrai evitarlo ancora per molto». Lo disse tutto d’un fiato. Come quando eravamo bambine e confessavamo a mamma una cosa che l’avrebbe fatta infuriare. In un solo respiro ci stavano la storia, la giustificazioni e le scuse. Mi sentii mancare la terra sotto i piedi. Mi guardai intorno in cerca di un posto dove sedermi. A pochi metri individuai un divanetto libero. Ci crollai sopra e Connie con me. Pochi secondi dopo Elle ci raggiunse. Non avevo fatto una scenata e solo chi ci conosceva bene si era accorto che qualcosa non andava. Sam gettava occhiate nervose nella nostra direzione e tentava di distrarre Mads. Dave fingeva di ascoltare un compagno di squadra, ma fissava Eileen preoccupato e ansioso di raggiungerla. Elle mi allungò un bicchiere d’acqua e si mise davanti a me per nascondermi da occhi indiscreti. Non dovevo avere una bella cera. «Bevi adagio, fai un bel respiro e stai seduta. Non ti muovere da qui, vado a cercare Thompson e gli dico di portarti subito a casa» disse in tono che non ammetteva discussioni. Fu sufficiente a darmi la spinta di replicare. «Non se ne parla. Perché dovrei andarmene? Mi sto divertendo per la prima volta dopo mesi. Non mi chiuderò in casa per uno stupido pettegolezzo e anche fosse vero, a me cosa importa?» risposi con aria di sfida. Connie non fiatò, immersa nei suoi pensieri. «Vuoi che si prendano a calci davanti a tutti? Se ti venisse una crisi? Adesso vai a casa e porti Charlie con te». Mi fissò a lungo, stringendo gli occhi. Eileen era pronta anche ad usare il suo potere su di me. Quella prepotenza mi fece uscire dai gangheri. Cosa era preso alle mie sorelle? Volevano un riassunto delle puntate precedenti per rinfrescarsi la memoria? Alec aveva lasciato Jackie. Allora? Non aveva nulla a che vedere con me visto che mi aveva abbandonata dal giorno alla notte per correre da lei senza darmi uno straccio di spiegazione.

«Se ha deciso di lasciare Jackie sono affari suoi. Si sarà stancato anche di lei. Adesso se permetti vado a cercare Charlie e a godermi la festa». Mi alzai e mi rivolsi a Connie per avere un po’ di sostegno. Mi fissò di rimando in silenzio. Alzò le sopracciglia sorpresa dalla soluzione alla quale dovevano averla condotta le sue riflessioni. Lo stupore si trasformò presto in una cupa e addolorata preoccupazione. Non ero disposta a sentire altro. Girai sui tacchi e mi allontanai in cerca di Charlie. Vagai tra la folla senza prestare attenzione a ciò che mi circondava. Nonostante il sangue freddo che avevo ostentato ero in preda alla confusione. Non riuscivo ad ignorare la speranza che mi si era allargata nel petto. Cercavo di non pensare alle parole di Connie, di chiuderle da qualche parte. La parte razionale di me capiva che tutta quella storia non aveva senso, che poteva essere una bugia messa in giro da qualche male lingua. Jackie non era venuta alla festa, ma non significava che si fossero lasciati. E poi, fissarmi… Di certo guardava chissà dove pensando ai fatti suoi e mia sorella si era lasciata suggestionare. Doveva essere così. Non esistevano altre spiegazioni. Dove si era cacciato Charlie? Come se fosse stato evocato, lo vidi farsi strada in mezzo alla calca danzante e venirmi incontro. Aveva stampato sulla faccia il solito sorriso beffardo, ma più amaro di quando lo avevo lasciato al tavolo delle bevande. Erano poche le cose in grado di guastare il buon umore di Charlie e una di quelle era Alec. Pregai che non avessero litigato di nuovo. Sarei stata costretta a dare ragione a Eileen e a lasciare la festa. «Dove sei stato?» chiesi quando fu a portata d’orecchio. Sorrisi incoraggiante, decisa a non lasciarmi influenzare dalle ultime assurde novità. «In giro» rispose laconico. Mi fissò dritto negli occhi, come volesse leggermi nel pensiero. Sostenni quello sguardo stranamente serio. Non avevo nulla da nascondere. «Andiamo a ballare» disse prendendomi per mano e trascinandomi verso un gruppo di coppie impegnate in un lento stucchevole. Lo guardai stupefatta senza riuscire a trattenermi dal ridere. «Pensavo che ballare fosse una cosa da sfigati. Non vorrai rovinare la tua

reputazione di uomo di ghiaccio» lo provocai sperando che desistesse dall’imbarazzante proposito. Non impazzivo all’idea di trovarmi in una situazione che avrebbe attirato tanto l’attenzione su di noi. Si fermò voltandosi verso di me. Aveva messo da parte l’abituale spavalderia per lasciare spazio a un’espressione più mite. «Balla con me, Hataway. Non sto chiedendo molto mi pare». Sembrava tenerci davvero e annuii senza aggiungere altro. Mi condusse in una zona della pista meno affollata e appoggiò le mani sui miei fianchi. Era strana quella intimità, ma non invadente. I suoi gesti erano privi di malizia. Non stava cercando di forzare le cose o di tendermi un tranello. Voleva solo ballare. Esausta gli circondai il collo con le braccia, appoggiai il mento sulla sua spalla e chiusi gli occhi. Charlie non batté ciglio di fronte alla mia resa e continuò a condurre in silenzio. Si era calato perfettamente nei panni del gentiluomo sudista. Stavo pensando di dirglielo per prenderlo in giro, quando un forte prurito iniziò a pizzicarmi la base del naso. D’istinto aprii gli occhi. A pochi metri da noi c’era Alec, lo sguardo tagliente, fisso su di me. Sofferente, immobile. Non indossava un costume per la festa di Halloween e aveva l’aria sfatta, i vestiti in disordine. Era come se mi stesse chiamando senza aprire bocca. Come se cercasse di attirarmi a sé senza muovere un muscolo. Se Charlie non mi avesse tenuta stretta sarei stata spinta da una corrente invisibile verso di lui. Chiuse gli occhi e la mia vista si annebbiò. Tutto intorno si fece nero come la pece. Non sentivo più le mani di Charlie sui miei fianchi, né la musica che stavamo ballando. Un vortice spaventoso mi risucchiò verso il basso e mi sembrò di precipitare nel nulla a centinaia di metri d’altezza. Signore e signori, ecco a voi una crisi. Maledizione, Eileen aveva sempre ragione.

Quando riaprii gli occhi non mi trovavo più alla festa in maschera. In realtà non mi trovavo in nessun luogo fisico. Era una proiezione, un ricordo, anzi la proiezione di un ricordo, che per inciso non mi apparteneva anche se il luogo mi era familiare. Doveva essere un segreto importante e doveva riguardarmi da vicino, dato che non ero stata io a cercarlo, ma lui aveva trovato me. Considerato la fonte dalla quale proveniva non mi aspettavo nulla di buono. Il segreto apparteneva ad Alec e mi trovavo nella proiezione mentale di casa sua. Per la precisione nella stanza dei giochi. Avrei dato tutto l’oro del mondo per non conoscerlo, ma non c’era modo di sfuggire alla verità per quanto si stesse manifestando in maniera assurda. Avrei finalmente trovato le risposte che andavo cercando da mesi. Mi guardai intorno per capire in che giorno della sua vita mi fossi imbattuta. Alec era seduto sul divano, il volto tra le mani. Ogni tanto scuoteva la testa in segno di diniego. I vestiti, il braccialetto di cuoio legato al polso. Le scarpe da ginnastica consumate e sporche d’erba. Era il giorno della gita a New York. Stavo per assistere a ciò che era accaduto dopo avermi lasciata sulla porta di casa. Mi si fermò il cuore e la paura mi gelò il respiro. Non ero pronta. Seduto accanto a lui, suo padre. «Hai capito figliolo? È difficile da digerire e può sembrarti assurdo, ma abbiamo fiducia in te. Siamo sicuri che farai la cosa giusta.» Il tono di voce del signor Stevens era fermo, traboccante comprensione. Gli occhi, però, erano un altro discorso. Se avesse guardato il figlio in faccia non l’avrebbe ingannato altrettanto bene: ansia e senso di colpa galleggiavano nello sguardo grigio ferro. Per sua fortuna Alec non aveva nessuna intenzione di guardarlo. Doveva essere molto in collera, perché quando abbassò le mani non si voltò verso il padre, ma guardò davanti a sé. Gli occhi privi di espressione, le dita scosse da un tremito che non riusciva a controllare, nonostante continuasse a chiudere e ad aprire i pugni per farle smettere.

Non poter fare nulla per consolarlo spezzò ciò che rimaneva del mio cuore. Per mesi avevo sofferto a causa sua un dolore indicibile, ma vederlo così era cento, mille volte peggio. Desiderai sobbarcarmi quel dolore, farlo mio. Avrei potuto sopportarlo, ne avevo patito, potevo patirne ancora, ma non potevo sopportare che lo patisse lui. Avrei fatto qualsiasi cosa perché non soffrisse. E non potevo fare nulla. Davanti agli occhi avevo solo un ricordo, una cosa già stata, un dolore che forse era già stato curato. Perché mi veniva mostrato? In che modo aveva a che fare con me? «Permettimi di parlare con lei, di spiegarle. Capirà, ne sono sicuro, e non sarò costretto… » di nuovo si prese la testa tra le mani, poi l’alzò di scatto e guardò il padre, implorante. «Staremo attenti, posso prendermi cura di lei, l’ho sempre fatto. Ci nasconderemo, andremo dove nessuno potrà trovarci» le parole gli morirono in gola. Sapeva che la sua supplica sarebbe caduta nel vuoto. «Mi dispiace, Alec è troppo pericoloso. È vietato, lo capisci? Sei il suo Custode». Sei il suo Custode. No. Non poteva essere. Era inaccettabile. Inaffrontabile. Irrisolvibile. Eppure sapevo che era vero. Tutto acquistava significato sotto quella luce nuova. Il senso che non avevo mai trovato. Era doloroso, definitivo, insormontabile, ma era anche un sollievo. «La punizione per chi infrange la legge non è una predica. Vi aspettano la segregazione e la morte. Volete scappare e nascondervi tutta la vita? Non pensi alle ritorsioni a cui sottoporrebbero tutti noi per trovarvi se si venisse a sapere? E si viene sempre a sapere, perché il Consiglio ha occhi e orecchie ovunque, un potere sconfinato che va al di là delle vostre capacità, per quanto forti possiate essere insieme. E se non fosse abbastanza, Emma è una bomba ad orologeria che al minimo sussulto potrebbe esplodere». Thomas prese fiato, mentre il mio cuore perdeva un battito.

Avrei voluto essere in grado di pensare, mettere insieme le parole che avevo sentito, ma non riuscivo a tenere uniti tutti i pezzi di me stessa, figuriamoci a formulare un ragionamento coerente. «Dirle la verità non servirebbe a niente. Non la fermerebbe e trascinerebbe te con lei, noi con voi. Non c’è solo la vostra vita in ballo, ma la sicurezza di tutta la famiglia. Dovrai fare come ti ho detto, Alec. Evitare ogni contatto: non parlarle, non cercarla, non toccarla». Thomas non riuscì più a proseguire. Non riuscii più ad ascoltare. Il mio Custode. Alec era il mio Custode. Il mio Custode. Era finita. Non c’erano speranza, futuro, possibilità. La portata di quelle parole mi rimbombò nelle orecchie come un tuono senza fine. Non c’era stato un lampo che mi avvertisse del colpo che stava per assordarmi. La verità mi veniva mostrata e non potevo nemmeno urlare, piangere o ribellarmi. Ero solo un’ombra in un mondo di ombre e fuori da quell’incubo mi attendeva il castello di bugie costruito per noi. Avevamo mentito tutti a tutti. Mia madre, suo padre, lui, io. La voce di Thomas interruppe il corso dei miei pensieri. Era chiaro che proseguire gli costava uno sforzo enorme. Mi costrinsi ad ascoltare. Dovevo sapere. «… E trovare dell’altro. Si convincerà che non c’è speranza e andrete avanti con le vostre vite». Beh aveva eseguito gli ordini a puntino. Jackie era stata un’ottima scelta. Alec lo guardò con un’espressione colma di disgusto. Thomas continuò indifferente agli sguardi sprezzanti del figlio. «Un giorno anche lei troverà qualcuno. È tremendo e ingiusto, ma è l’unico modo. Resterai il suo Custode per tutta la vita, siete nati l’una per l’altro, ma non potete stare insieme. Sarà penoso, intollerabile, vi strazierà all’inizio, ma resterete vivi». «Da quanto lo sapete?» chiese Alec assente, la mente altrove. Suo padre approfittò della calma apparente per avvicinarsi, ma si ritrasse immediatamente, fermandolo con un gesto della mano. Thomas desolato si alzò e cominciò a

eggiare su e giù per la stanza. «Avevate due anni. James viveva ancora con loro. Andava tutto bene, eravamo felici. I poteri delle bambine non erano ancora manifesti e conducevamo una vita normale, per quanto normale possa essere nel nostro caso. Un giorno anche tu saresti diventato un Custode, come lo sono io, come lo era tuo nonno e come lo sarà tuo fratello Justin. Questo siamo, è la nostra natura, il nostro dovere. Al momento giusto vi avrei raccontato, come era stato fatto con me, la storia della nostra famiglia. Vi avrei spiegato i nostri compiti, quello che sarebbe stata la vostra vita. Pensavo che il momento fosse ancora lontano». «Era giugno, luglio non ricordo. Tua madre decise di portare te e Justin a fare visita alla zia Susan. Sareste stati a Washington qualche giorno, dove allora studiava e viveva tua zia. Poche ore dopo la vostra partenza, Kate telefonò disperata. Emma aveva la febbre altissima, piangeva e non riusciva a farla smettere. Le accordai il permesso di preparare un incantesimo per calmare e curare la bambina. Non feci in tempo a mettere giù la cornetta, che tua madre varcò la porta di casa con te in braccio. Mi spiegò che arrivati all’aeroporto una febbre improvvisa ti avevo colpito. Avevi iniziato a piangere e urlare e non c’era stato verso di convincerti a salire sull’aereo. La febbre di Emma, la tua… Chiamai Kate per sapere come stava la piccola. Mi disse che non c’era stato bisogno di preparare una pozione, perché la febbre com’era venuta se n’era andata. Fu un’illuminazione per me, ma non dissi niente a Kate. Mancavano dei tasselli e non volevo allarmarla inutilmente. Il fenomeno era raro e, almeno all’apparenza, inspiegabile. Qualche mese più tardi scoprii perché la seconda figlia di Caterina Morelli aveva un Custode tutto suo… » si interruppe e scosse la testa. La cosa più spaventosa, che mi ghiacciava il sangue nelle vene, non era che Alec fosse l’unica persona al mondo con cui non mi era permesso stare, ma che io, l’anello debole, la più fragile, incasinata, impacciata strega della terra, avessi un Custode personale. Ero pericolosa. «Non potete essere separati, non potete rimanere insieme. Ti accorgerai quanto ti indebolisca stare lontano da lei. Sarai irritabile, nervoso, triste. Ti sentirai cattivo e cercherai un capro espiatorio. Devi stare attento a non lasciarti andare.

Abbiamo tutti un lato oscuro, ma il nostro, se portato allo scoperto, può essere molto pericoloso». Thomas parlando si era avvicinato a un tavolino. Prese un bicchiere colmo di una bevanda giallognola e tornò al divano. «Bevi, Kate l’ha preparato per te. Lenirà la pena». Così dicendo lo porse al figlio. Alec alzò su di lui uno sguardo di fuoco. «È stato preparato per Emma? Ne avrà bisogno» commentò sarcastico. «È troppo rischioso tentare altri blocchi, potrebbero peggiorare la situazione» spiegò. «Pensi che non sarà un trauma per lei? Separarci potrebbe essere altrettanto pericoloso. Sento cosa prova per me. So come… È intollerabile, non lo permetterò mai» sembrò aggrapparsi all’idea, come se avesse trovato una falla, una crepa nel muro che lo separava da suo padre. Per un attimo assurdo sperai con lui, anche se sapevo come fossero andate le cose. Thomas guardò il figlio, pronto a parare anche quell’ultimo affondo. «Ha già affrontato l’abbandono. Gli argini terranno». Wow. La fiera del cinismo. Sì, gli argini avevano retto. Non ero più me stessa ma ero sopravvissuta. Era quello l’importante, no? Per loro, non per me. Avevo voglia di urlare. «Bevila tu la pozione della strega. Emma sentirà tutto, sentirò tutto anch’io. È il minimo che possa fare, per non sentirmi un vigliacco, un traditore, un bugiardo senza scampo» ringhiò, gli occhi spalancati, la bocca distorta in una smorfia di dolore e rabbia. Pensai che mi sarebbe scoppiato il cuore dal male. I sensi di colpa mi assalirono in un lampo. Era quello che avevo pensato di lui. Che avevano pensato le mie sorelle. Ero stata cieca. Cieca. Come avevo potuto pensare che Alec sparisse senza dare spiegazioni? Che fosse da lui comportarsi in quel modo? Per prima lo avevo tradito, ero stata vigliacca. Per prima ero stata bugiarda. Se avesse saputo chi ero, che cos’ero, non saremmo arrivati a quel punto. Avremmo escogitato un piano, saremmo rimasti insieme. E saremmo morti. Lo avrei ucciso. Al campetto. Sulle scale della veranda. Mia madre era arrivata appena in tempo. Il blocco sarebbe saltato e lo avrebbe ucciso. Io lo avrei ucciso.

Kate e Thomas ci stavano solo proteggendo. Lui mi stava solo proteggendo. Aveva sofferto molto più di me. Aveva sopportato il suo dolore, il mio dolore. Aveva subito la mia rabbia, la mia delusione. Gli sguardi carichi di rimprovero di Sam, le occhiatacce di Eileen, l’imbarazzo di Dave. Senza potersi difendere. Perché aveva deciso di rivelarmelo? Perché l’avesse fatto in quel modo era abbastanza chiaro. Se me l’avesse detto a voce, guardandomi in faccia, come avrei reagito? Lo shock avrebbe potuto scatenare ciò che avevano cercato di evitare con tanti sacrifici, ma perché farlo? Gli era stato proibito e Alec sembrava aver accettato, sebbene controvoglia, gli ordini del padre. Non aveva senso. Ripensai alle ultime settimane e trovai la risposta. Charlie. Ciò che non avevano fatto la separazione, la distanza, la frustrazione, aveva fatto la gelosia. Alec aveva Jackie, ma non era la stessa cosa. Jackie faceva parte del piano, Charlie no. Nessuno mi aveva detto: «Trova dell’altro». L’avevo scelto ed era l’unica cosa che davvero poteva portarmi via da lui. Un giorno anche lei troverà qualcuno. Alec lo sapeva e stava cercando di impedirlo. Si sarebbe fatto ammazzare prima di cedermi a un altro senza lottare. Era pazzo. Incosciente. E possessivo. Lo era sempre stato, anche da bambino. Quando giocavamo con gli altri ragazzini, stava sempre attento che nessuno mi desse fastidio o si approfittasse del fatto che ero una femmina, una mocciosa piccola e indifesa. Quando Gilroy Ford aveva iniziato a mostrare dell’interesse per me, gli aveva fatto vedere i sorci verdi. Avevo sempre pensato che fosse un atteggiamento da fratello maggiore, invece era semplicemente geloso. Lo era anche di Sam a volte. Distoglieva lo sguardo quando mi lasciavo andare a manifestazioni di affetto troppo entusiastiche, lo abbracciavo o gli stampavo un bacio sulla guancia. Manifestazioni che a lui erano negate, perché non mi sarei mai azzardata ad

avvicinarmi troppo per paura che mi leggesse in faccia o sulla pelle il trasporto che provavo. Avevo sempre pensato che guardasse dall’altra parte per pudore. Invece era geloso. Non riuscivo, però, a togliermi dalla testa un pensiero angosciante. Esisteva la possibilità che quello che provava non fosse reale e che in qualche modo lo stessi tenendo legato a me. Se Alec non fosse stato il mio Custode si sarebbe sentito così? Una vocina nella mia testa diceva di no. Era un imbroglio, un inganno, un incantesimo. Si era lasciato coinvolgere dal suo ruolo, dal legame che ci univa. Non avrei permesso a nessuno di fargli del male. Se il problema ero io, io avrei risolto il problema. Potevo controllarmi per amor suo. Potevo tenerlo al sicuro. Smettere di amarlo era impossibile, ma potevo fare in modo che non si sentisse costretto ad amare me. Thomas mi aveva chiamata bomba ad orologeria. Ero pericolosa per me stessa, per Alec, per la mia famiglia. Nessuno di loro avrebbe più sofferto a causa mia. Risoluta tornai alle ombre davanti a me. Thomas senza scomporsi aspettava che Alec si sfogasse distruggendo quello che aveva intorno. Da come era ridotta la stanza non doveva essere il primo di quegli eccessi di rabbia. Era tutto sottosopra, vestiti, mobili, libri. Sembrava fosse ato un uragano. Si trovavano lì da ore, fuori albeggiava. Doveva essere stata una dura battaglia. Thomas affrontò di nuovo il figlio. «Cerca di essere ragionevole Alec. Sarà insostenibile. Sentirai il tuo dolore, sentirai il suo. Avrai bisogno di tutto l’aiuto possibile. Kate l’ha appena preparata, ti farà bene. Bevi» di nuovo gli porse il bicchiere. Alec fece un o verso suo padre, prese il bicchiere e lo gettò nel camino, mandandolo in mille pezzi. «Grazie papà» disse con un sorriso amaro «Ne ho avuto abbastanza del vostro aiuto». Lo spettacolo era finito. Aprii gli occhi e tornai in me.

The show must go on

Emma

Rinvenni tra le braccia di Charlie. Mi parlava, ma non riuscivo a distinguere cosa stesse dicendo. Nessuno stava urlando e non sentivo sirene spiegate in lontananza. Almeno non ero esplosa. Aprii gli occhi e incontrai quelli del mio nuovo amico. «Come ti senti?» mi scuoteva con delicatezza per tenermi sveglia. Sentii qualcosa di bagnato e ruvido toccarmi la faccia. Mi voltai e vidi Eileen che mi frizionava la fronte. Gli occhi dilatati dalla paura. Non disse una parola. «Cosa è successo?» mormorai. Charlie aggrottò le sopracciglia perplesso. «Stavamo ballando e mi sei svenuta tra le braccia. Ti ci è voluto un po’ per riprenderti. Capita spesso?» sembrava preoccupato. Ti sei scelto una bella gatta da pelare, bello mio. «Ehm no, non troppo spesso» dissi cercando di sorridere. Cominciavo a sentirmi meglio. Cercai di mettermi seduta e guardarmi intorno, ma la presa di Charlie era ferrea. «Volevo chiamare il 911, ma le tue sorelle me l’hanno proibito. Dicono che ogni tanto ti succede. Attacchi di panico. Ti spavento così tanto?» disse ritrovando il sorriso malizioso. Lo guardai torva e maledissi Elle e Connie internamente. Sbattei le palpebre, sentivo gli occhi secchissimi. Stavano riaffiorando le immagini e le parole che avevo sentito. Mi si stritolò il cuore in una morsa. Gemetti. «Ti fa male da qualche parte?» La voce di Alec, gli occhi di Alec. Alec. Preoccupato, nervoso, impaziente. E la cosa peggiore: speranzoso. «No» dissi senza guardarlo in faccia, poi mi voltai in cerca di Charlie. «Portami via» dissi in un soffio. «Certo» rispose senza nascondere un sorrisetto trionfante. Mi sollevò da terra,

prendendomi in braccio e rivolgendosi a Eileen. «La porto a casa». Lei annuì. Dov’era Connie? «Mettila giù subito». La preoccupazione e il nervosismo erano aumentati. L’impazienza e la speranza svaniti nel nulla. Oh no. Non mettetevi a litigare adesso. Dall’aria bellicosa che aveva sulla faccia sembrava intenzionato a strapparmi dalle braccia di Charlie, ma qualcuno lo trattenne. Connie lo teneva per una manica. «Thompson porta Emma a casa» disse con un tono che non ammetteva repliche. Alec la fissò per un istante e lei di rimando. Restarono a guardarsi in un silenzio carico di tensione. Connie sapeva? Lo aveva intuito? Lo aveva saputo da mamma o dallo stesso Alec? Impossibile, me l’avrebbe detto. Il mio mondo si stava sgretolando giorno dopo giorno, ma ero sicura che mia sorella non mi avrebbe tenuto nascosta una cosa del genere. Charlie camminava in mezzo alla folla, cercando di guadagnare l’uscita. Alcuni dei presenti si erano accorti del mio svenimento, ma la maggior parte no. Ad ogni modo attiravamo abbastanza l’attenzione dal momento che Charlie stava attraversando la sala con me in braccio. La mia gonna era voluminosissima e andavamo di continuo a sbattere contro qualcuno. Ogni tanto si fermava per chiedermi se fosse tutto okay. Forse temeva che svenissi di nuovo. Non preoccuparti. A meno che tu non abbia uno spaventoso e fatale segreto. Lo guardai. Spavaldo, sicuro di sé. Se li avessi avuti avrei scommesso cento dollari che si stava divertendo un mondo. «Sei pessimo» dissi mollandogli un pizzicotto. Lui rise. Avevamo finalmente raggiunto l’uscita. Spinse la maniglia antipanico con le reni e la porta con la schiena. Tutto senza vacillare, stringendomi a sé. Una volta usciti attraversò il parcheggiò e raggiungemmo la macchina.

Non riuscivo a smettere di pensare ad Alec e al suo segreto. Desideravo tornare a casa. Ero stanca e avevo bisogno di riflettere. «Riesci a prendere le chiavi della macchina nella tasca dietro dei pantaloni?». «Mettimi giù, Charlie» dissi stancamente. Mi depose accanto alla macchina perché potessi appoggiarmi. Mi sentivo incerta sulle gambe, ma andava meglio rispetto a quando non ero nemmeno in grado di tenere gli occhi aperti. Cercai di scacciare Alec dai miei pensieri per qualche secondo. Le quattro frecce del suv saettarono nel buio. Charlie aprì la portiera e mi aiutò a salire in macchina. Durante il tragitto verso casa mi chiese più volte come mi sentissi e se avessi bisogno che, come un vero cavalier servente, mi portasse in braccio fino al mio letto. «Scordatelo» risposi articolando bene le lettere. «Vedo che cominci a sentirti meglio». Non avevo la voglia o la forza per decifrare i suoi giochetti. Una volta arrivati mi accompagnò davanti alla porta. La casa era immersa nel buio e nel silenzio. Forse Miranda e Kate erano con il professor Stevens a tramare alle spalle dei loro figli. Charlie aspettava che lo salutassi per poter tornare alla festa. «Grazie per il aggio e tutto il resto. Porto il vestito in lavanderia e te lo faccio riavere il prima possibile. È stata una bella serata anche se breve. Sei libero, puoi tornare alla festa» dissi comprensiva. Mi guardò senza dire niente. Perplessa dallo strano silenzio mi strinsi nelle spalle e iniziai a cercare le chiavi di casa nella borsa. A un tratto mi prese l’avambraccio e con dolcezza mi voltò verso di lui. Eravamo molto vicini e la sua stretta era salda. Non mi stava facendo male, ma non sarei riuscita a liberarmi facilmente se avessi voluto farlo. Cominciai ad innervosirmi e lo guardai in cagnesco. Lui rise e mi scostò dalla faccia una ciocca di capelli. «Non cercherò di baciarti Hataway perché mi sei svenuta tra le braccia non meno di mezz’ora fa e non credo sia la serata giusta, ma non posso prometterti

che non ci proverò la prossima volta che usciremo. Quindi se non sei interessata a questa meravigliosa opportunità o… » il suo sguardo si fece più duro «sei interessata ad altro, ti prego di farmelo sapere. Esistono svariati e delicatissimi modi. Sono sicuro che troverai le parole giuste» mi guardò dritto negli occhi. Lo sguardo castano scintillante. Un sorriso sicuro dipinto sulle labbra che voleva dire: «Se vuoi scaricarmi fallo, ma non prendermi in giro». Era giusto che lo chiedesse, ma non potevo pensare anche a quello. Non ero abbastanza lucida e non avevo ancora deciso cosa fare. Avevo bisogno di tempo. «Sei ubriaco?» dissi cercando di sdrammatizzare e guadagnare qualche minuto per formulare una risposta decente. «Non occorre che tu mi risponda adesso. Volevo solo essere chiaro e mi piacerebbe che lo fossi altrettanto con me». Il tono si era addolcito e il sorriso era privo dell’espressione spaccona che aveva sempre. Lasciò andare il mio braccio e mise le mani in tasca. «Certo» mormorai sovrappensiero. Doveva andarsene. Non c’era più tempo e ne avevo bisogno per raccogliere le idee. Alec sarebbe arrivato a momenti. Non avrebbe aspettato l’indomani mattina per parlare. Sempre che non fosse già arrivato e non avesse ascoltato il discorsetto di Charlie. «Buona notte» aggiunsi cercando di sorridere. «Notte». Girò sui tacchi, scese le scale e se ne andò. Entrai in casa e volai di corsa in camera. Se dovevo affrontare Alec, preferivo farlo in tuta e non vestita da Rossella O’Hara. Ebbi qualche difficoltà a sganciarmi il corsetto. Ero a pezzi e le mani mi tremavano. Buttai tutto su una sedia e indossai i vestiti abbandonati sul letto prima della festa. Quando non sapevo niente e credevo che il mio problema fosse non essere bionda e atletica. Decisi che l’avrei aspettato in giardino. Afferrai la maniglia, spalancai la porta e me lo trovai davanti. Strillai per lo spavento.

«Sei pazzo? Vuoi farmi venire un infarto?» gridai furiosa. Stava andando tutto storto. Avevo bisogno del vantaggio su di lui. Invece mi aveva preceduta come sempre. «Come ti senti? Non volevo spaventarti, ma dovevo parlarti. Subito». Gli tremava la voce, gli occhi erano cerchiati, spiritati. Mi dispiace tanto. Cosa ti sto facendo? Alzò lo sguardo, sollevato e fece un o verso di me. Arretrai d’istinto. Aggrottò le sopracciglia perplesso e si bloccò. Le mie azioni non corrispondevano a ciò che mi sentiva provare. Maledizione! Aveva colto il mio momento di debolezza. Sentiva tutto. Era impossibile così. Dovevo trovare il modo di tenerlo fuori dalla mia… testa? Non ero sicura che fosse la definizione giusta. «Cosa fai qui?». Dovevo tergiversare, distrarlo. Mi guardò serio. Mi studiava per capire come mi sentissi dopo la grande rivelazione. Forse si era fatto un’idea, ma non voleva sbilanciarsi. Ero confusa per lo più, difficilmente avrebbe potuto distinguere qualcosa di diverso dallo smarrimento e dall’ansia. «Lo sai cosa faccio qui. Dobbiamo parlare. Ho aspettato che finissi di cambiarti e sono salito» ripeté parlando con lentezza. «Come avresti fatto a capire che avevo finito?» chiesi con una punta di acidità. «Quando hai smesso di avere fretta ed eri solo nervosa, ho capito che eri pronta per scendere» disse con semplicità. Crollai sul letto. Era una lotta impari. Dovevo trovare il modo di spezzare il filo diretto che aveva sulle mie emozioni. «Se ci fosse stata mia madre?» chiesi sarcastica. Ero furiosa con lei, con Miranda. Con tutti. «Kate non è in casa ed è più sicuro qui del giardino».

«Più sicuro rispetto a cosa?» chiesi sprezzante. «Il pericolo sono io». Mi piantò gli occhi addosso. Una fiamma bruciava nel suo sguardo. «Non dire sciocchezze» e si avvicinò. Non potevo permettergli di fare un altro o. Non ce l’avrei fatta se lo avessi avuto vicino. Guardarlo negli occhi, controllarmi, tenerlo fuori. Mentirgli. Non guardarmi così, Alec. Mi alzai di scatto e aggirai il letto. Non c’era nulla che potessi mettere tra noi. L’uno di fronte all’altra, solo il mio letto ci separava. Era troppo poco e la tentazione di andare da lui troppo forte. Per fortuna mi paralizzava la paura che se lo avessi toccato avrei potuto fargli del male. Mi guardò stupefatto. «Hai paura di me? Sono io, Emma. Non è cambiato niente. Siamo tu ed io con la differenza che adesso sappiamo chi siamo». La sua voce era un sussurro. Un sussurro amatissimo e gli occhi così avvolgenti… Cercai di riprendere il controllo. Volevo ucciderlo? Potevo rischiare tanto per un abbraccio? «Non ho paura di te. Ho paura per te» risposi secca. Abbassò lo sguardo e sedette sul letto, dandomi le spalle. Tirai un sospiro di sollievo. Non vederlo in faccia mi avrebbe permesso di pensare con lucidità. Dovevo stare attenta a non lasciarmi andare e cercare di controllare le mie emozioni. Dovevo tenerle nascoste, come un segreto. Poteva la strega che scopriva i segreti, nascondere i suoi? Avrei tentato di fare l’opposto di quando volevo leggere il segreto di qualcuno. Invece di spingere l’energia fuori, potevo trattenerla. Mi concentrai. Chiusi gli occhi e feci un tentativo. Alec balzò in piedi. «Che succede?» Nella sua voce stupore e paura. Si voltò di scatto, ma si rasserenò vedendomi in piedi davanti a lui. Poi fece due più due e lo sconcerto e la rabbia presero il posto del sollievo. «Cosa stai facendo?». Era una domanda retorica.

«Ti tengo fuori» dissi con tutta la calma di cui ero capace, anche se lo sforzo era enorme. «Non puoi farlo» ribatté. La voce gli tremò. Era spaventato anche se cercava di ostentare sicurezza. «Lo sto già facendo». Era vero, lo sapeva. Sentiva che non mi sentiva più. Si infuriò. Non l’avevo mai visto così arrabbiato, nemmeno con suo padre. «Ti ammazzerai» disse con la voce strozzata dal panico. «Almeno non ammazzerò te» mormorai sfinita. Mi sentivo sempre più stanca. «Pensi davvero che tenermi fuori potrà salvarmi?» chiese tagliente. Non mi staccava gli occhi fiammeggianti di dosso. «Sarai libero. Smetterai di credere di dovermi qualcosa, di essere… » le parole mi morirono in gola. Non riuscivo a pronunciarle tanto mi sembravano surreali. «Innamorato di te? Pensi basti spegnere l’interruttore? Ci sono riuscito con te? Hai smesso di crederlo quando mi sono messo con Jackie?» fece una pausa. Si allontanò dal letto e si avvicinò alla finestra. Tenerlo fuori stava prosciugando tutte le mie energie. Ricominciò a parlare, senza voltarsi, con gli occhi fissi sul giardino. «Che idiota sono stato a non capirlo prima. È molto più semplice per te, hai Charlie adesso». Il suo tono era distaccato, gelido. Mi spaccò il cuore e mollai la presa. Che sentisse, che sentisse tutto. Non mi importava. Non ero abbastanza forte. Mi lasciai cadere sulla moquette azzurra. Avevo male dappertutto, al petto, alla testa eppure non sarei riuscita a versare nemmeno una lacrima. Mi sentivo gli occhi secchi e il fiato corto. Non feci in tempo a sbattere le palpebre che era accanto a me. Voleva toccarmi, ma esitava. Si avvicinò il più possibile. Se avessi sollevato lo sguardo da terra il mio respiro si sarebbe confuso con il suo.

«Non farlo mai più. Non lasciarmi solo con me stesso senza di te. È insopportabile» sussurrò. Stava veramente dicendo a me una cosa del genere? Lui a me? Lo guardai in faccia. «Lo so». Gli occhi gli si riempirono di colpa. Abbassò lo sguardo, cercò la mia mano e la prese tra le sue. La scossa fu violentissima e dolorosa. Un lampo blu scheggiò l’aria e fulminò la lampadina. Restammo al buio in silenzio per qualche secondo. Ero atterrita. Non potevamo nemmeno prenderci per mano. «Perdonami, pensavo di non avere scelta. Ero arrabbiato, spaventato. Credevo non ci fossero altre soluzioni, che sapessero cosa fosse meglio per noi, che ce l’avrei fatta. Invece non sono stato abbastanza forte. Non posso, non riesco a stare lontano da te. Non voglio. Pensano che sia pericoloso, ma sono stato più vicino a combinare un casino in queste ultime settimane che non negli ultimi dieci anni ati con te». «Se ti succedesse qualcosa a causa mia? Se ti fi del male? Non posso… » Mi zittì appoggiandomi un dito sulle labbra. Il solito brivido partì dalla mia bocca e arrivò in fondo alla schiena. Mi sollevò il mento e mi costrinse a guardarlo negli occhi. Anche nel buio potevo vederli scintillare. «Pensi davvero che saresti capace di farmi del male? Ti faresti uccidere piuttosto e mi farò uccidere piuttosto che accada una cosa del genere. Corriamo lo stesso rischio. Separati saremo solo più tristi e deboli, più esposti». Mi attirò piano a sé. L’aria crepitò ma non volarono altri fulmini. Con cautela mi accoccolai tra le sue braccia. Ero di nuovo a casa. Il nodo che mi stringeva i polmoni da settimane si sciolse. Mi sembrò di sentire di nuovo il sangue scorrermi nelle vene e il cuore, battere. «Come la mettiamo con il numero che è successo poco fa?» dissi inspirando il suo profumo. Così famigliare, così misterioso.

«Era da troppo tempo che non ti toccavo» la voce gli tremò e mi strinse di più, sempre con molta cautela. «Andrà meglio. Va già meglio. Ricordi quest’estate? Eravamo talmente abituati l’uno all’altra che non prendevamo la più piccola scossa». Mi sembrò di sentirlo sorridere nel buio. Era vero. Peccato che le scosse fossero state sostituite da tremori, brividi e impulsi vari. Peccato che non riuscissi a pensare ad altro che alla sua bocca e ci stavo pensando anche in quel momento. Non erano trascorsi nemmeno dieci minuti da quando avevamo fulminato la lampadina. Lo sentii irrigidirsi, allentare la presa. «Così non mi aiuti». C’era un filo di tensione nella sua voce. «Di cosa stai parlando?» domandai senza capire. Cosa avevo fatto? «A cosa stai pensando?» mi rimbeccò. Avvampai. Poteva leggermi nel pensiero? Ci mancava solo quello. «Mi leggi nel pensiero adesso?» indagai allarmata. «Se potessi vederti te lo leggerei in faccia, figurati se non riesco a sentirlo» mi strinse di nuovo a sé e affondò il viso nei miei capelli. Carichi di elettricità svolazzarono nell’aria. «Vuoi che ti tenga fuori?» proposi titubante. Non mi era chiaro cosa lo mettesse in difficoltà, ma sospettavo che fosse meglio non indagare. «Assolutamente no! È così piacevole. Resisterò» disse piano. Con le labbra mi sfiorava le tempie e i capelli. Lui doveva resistere a cosa? «Alec?» sussurrai. «Uhm?». Non sembrava in vena di una chiacchierata, ma volevo sapere. «A cosa dovresti resistere?» chiesi in un soffio. Sentii il suo respiro fresco sulle tempie. Sollevò la testa, ma non cambiò posizione. «Cosa desideri più di tutto in questo momento?» chiese incerto. Cominciava a tirare una pessima aria. Non lo avrei confessato per tutto l’oro del

mondo. «Non essere seduta sul pavimento» bofonchiai. Mi sollevò tenendomi in braccio e si diresse verso il mio letto. Mi ci posò sopra, appoggiò le spalle alla testiera del letto e allungò le gambe. Mi circondò con un braccio mentre con le dita disegnava piccoli semicerchi sulla mia felpa. Con la mano libera stringeva la mia. «Va meglio adesso?» Si divertiva un mondo a mettermi in difficoltà. Non risposi. Ero troppo intenta a evitare di pensare che me ne stavo abbracciata a lui al buio sul mio letto. Se c’era qualcuno che doveva imparare a controllarsi ero io. Lui sembrava campione mondiale di autocontrollo. «Emma?» disse piano. Lasciò andare la mia mano. Era molto, molto vicino. Troppo vicino. Mi sollevò il mento e mi trovai a pochissimi centimetri dalla sua bocca, dai suoi occhi luccicanti. Troppo vicino. Chiusi gli occhi. «È a questo che devo resistere» disse con voce roca. «E tu stai rendendo tutto molto difficile». Inspirai impercettibilmente. Sentivo il cuore martellarmi nelle orecchie come un tamburo. «Quello che desidero di più in questo momento è baciarti e se sento che lo desideri anche tu, allora penserò di poterlo fare e non riuscirò a fermarmi. Quindi fai la brava e smetti di pensarci» disse sospirando e appoggiandosi di nuovo alla testiera del letto. Beh, ero stata io a volere che mi rispondesse. Ero soddisfatta? Per niente. Forse suo padre e mia madre avevano ragione. Non volevo pensarci. Non in quel momento, meglio cambiare discorso. «Se parlassimo di qualcos’altro? Potrebbe aiutare» suggerii sfinita. Rimase zitto per qualche secondo, incerto se sputare o no il rospo. «Va bene» acconsentì alla fine. «Perché non parliamo di Charlie?» disse con una leggera punta d’irritazione nella voce.

Toccò a me irrigidirmi. Non mi andava di parlare di Charlie. Mi faceva sentire troppo in colpa. Non dissi niente. Alec sbuffò spazientito. «Lui ti piace» commentò stupito. Non era una domanda e il tono mi infastidì. Non era nella posizione di farmi una scenata. Aveva forse dimenticato con chi aveva trascorso il tempo negli ultimi tre mesi? «È molto coraggioso da parte tua irritarti. Charlie mi piace, è simpatico e mi ha fatto compagnia nell’ultimo periodo. Niente di più. Non credo tu possa dire lo stesso di Jackie. Dubito vi siate limitati a guardarvi negli occhi» ribattei seccata cercando di sciogliermi dall’abbraccio. Non riuscivo a perdonargli quella storia e la sua gelosia nei confronti di Charlie mi irritava da morire, perché era ingiusta. Non avevo fatto niente di male, io. Mi lasciò andare senza opporre resistenza. Pessimo segno. «Possibile tu sia così ingenua? Charlie vuole solo una cosa da te» ribatté cupo. Mi alzai di scatto dal letto. La testa mi girò e barcollai sulle gambe. Non mi sentivo molto in forma ma volevo allontanarmi da lui. Non importava cosa Charlie volesse da me. Alec sapeva che da me Charlie non avrebbe avuto nulla. Per me era diverso: non potevo sapere cosa avesse voluto Jackie da lui e cosa lui avesse deciso di darle. Inoltre non mi aveva risposto, stava glissando l’argomento. Lo stomaco si chiuse in una morsa e io nel silenzio. Non avrei aperto bocca fino a quando non mi avesse detto la verità. Cosa c’era stato tra loro? Perché non voleva parlarne? Che razza di amore era il suo se non era stato in grado di aspettarmi nemmeno tre mesi? «Emma torna qui» disse perentorio. Era ancora appoggiato alla testiera ma quando capì che non avrebbe ottenuto risposta, si alzò per raggiungermi. Continuavo a dargli le spalle e non mi mossi di un centimetro. Non ne ero capace, nonostante fossi arrabbiata e ferita. Mi abbracciò circondandomi con le braccia, appoggiò la testa tra la mia spalla e il collo e iniziò a parlare. Lo sentivo sussurrare vicinissimo al mio orecchio, il suo respiro mi pizzicava la nuca. Dovetti aggrapparmi alle sue braccia per non

svenire. «Perdonami. Non ho scuse. Ero arrabbiato, disperato. Non ero lucido. Pensavo davvero che fosse una buona idea. Volevo farmi odiare da te, tenerti distante altrimenti non ce l’avrei mai fatta. Ho iniziato a frequentarla. Le ho mentito. Ho detto che avevo bisogno di tempo. Per un po’ ha portato pazienza ma ero sempre di umore nero, infelice. In pubblico stavo più attento, ma quando rimanevamo da soli in pratica non parlavo, non la toccavo. Un pomeriggio mi fece una scenata. Disse che aveva capito tutto, che stavo con lei solo per farti ingelosire e che potevamo finirla lì. Desideravo solo che tu rimanessi viva. Così l’ho baciata» fece una pausa. Le mie ginocchia si piegarono, lui mi sostenne. Faceva male. Molto male. Restammo in silenzio per qualche secondo. Se avessi parlato mi si sarebbe spezzata la voce. Mi strinse ancora più forte. «Non ho provato niente Em, niente. Non facevo che pensare a te. Mi devi credere. Nei giorni successivi ho evitato in tutti i modi di stare solo con lei. Se l’è fatto bastare per un po’, ma ogni tanto dovevo… Perché non si insospettisse… Ero sempre più cupo, debole e disperato. Mi sentivo uno schifo per quello che stavo facendo a te, a lei, a Sam e in mezzo a tutto questo è arrivato Charlie. La sera in palestra, quando vi ho visti sugli spalti, il modo in cui ti guardava, come ti sentivi fragile e vulnerabile. Sono impazzito al pensiero che riuscisse… » non lo lasciai terminare la frase. Mi voltai rabbiosa verso di lui. «Cosa Alec? Baciarmi? Portarmi a letto? Quello che hai fatto tu con Jackie?» lo spinsi lontano da me. Non doveva toccarmi, mai più. Non sarei mai riuscita a togliermi dalla mente l’immagine di lui, di Jackie. Volevo urlare. Un piccolo lampo azzurro saettò nell’aria. «No, Emma no. Non credermi capace di tanto. Non avrei mai potuto. Devi credermi, non erano nemmeno baci veri e quando ha voluto di più l’ho lasciata. Non potevo. Io sono tuo» la voce, la bocca gli tremarono. Una luce scintillò nei suoi occhi, mi afferrò l’avambraccio e mi attirò a sé. Le sue parole mi rimbombavano nelle orecchie. Io sono tuo. Io sono tua.

Non ci dovevo pensare. Non ci dovevo pensare. Inspirai. Cercai di pensare al mare, ai compiti per il lunedì. Cercai di portare la mia mente, molto lontano da lì, da quello che provavo. Dal desiderio, dal mio amore per lui. Dalle sue mani, dalla sua bocca, dalla mia camera. Restammo abbracciati in silenzio per qualche minuto. Quando mi sentii più calma, provai a parlare. «Non possiamo farci questo ogni giorno. I nostri genitori hanno ragione. Forse dovresti tornare da Jackie e avere una vita normale. Vivere le cose che vivono tutti» mi mancò la forza di continuare. Mi strinse più forte, mi sollevò da terra e mi riportò sul letto. Si sdraiò accanto a me ma non vicino come prima, tenendomi solo la mano. «Voglio stare con te, voglio solo te. Troveremo il modo. Tua sorella ci aiuterà, però ho bisogno di sapere che è ciò che vuoi anche tu. Se vuoi una vita nomale, un ragazzo normale che puoi toccare, che puoi baciare, senza il rischio di ucciderlo e di non sopravvivere, non hai che da dirlo. Lo capirò. Ti lascerò andare». Sembrava già sentire il dolore di quella possibilità. «No» dissi senza un secondo di esitazione «Voglio stare con te, voglio solo te» arrossii e non dissi altro. Mi sentivo sopraffatta da quello che provavo. Poi ripensai alle sue parole. «Cosa vuol dire tua sorella ci aiuterà?» chiesi al colmo dello stupore. Aveva portato la mia mano alle labbra e la sfiorava molto, molto lentamente. Sentivo solo un piccolo riverbero. Nessuna scossa, niente dolore. «Dopo che hai lasciato la festa ho parlato con Connie. Ti vuole molto bene e mi ha concesso il beneficio del dubbio. Non credo si fidi del tutto di me, ma ha promesso che farà delle ricerche per trovare il modo di allentare il blocco o eliminarlo, così potremo comportarci come tutti senza rischiare di ucciderci» disse soddisfatto. Non ci pensare. Lo hai promesso. «Poi dovremo solo stare attenti a non farci scoprire e nasconderci tutta la vita dal Consiglio per non farci segregare e giustiziare» commentai sarcastica. Non avevamo scampo. Dovevamo arrenderci e farlo al più presto. Illuderci non sarebbe servito a niente, solo a farci sentire peggio dopo. Sempre che fossimo

così fortunati da avere un dopo. Se fossimo sopravvissuti al mio blocco o alla giustizia del Consiglio. «Saremo vivi e soprattutto saremo insieme. Non è abbastanza?» Lo era. Ma non potevo fare a meno di avere paura per lui. Mi tornò alla mente la leggenda di Rose e Lance, come erano stati assassinati per salvare il loro amore e il loro bambino. Mi si gelò il sangue nelle vene. Sarebbe stata la nostra fine? Eppure esisteva un barlume di speranza in quella storia: avevano trovato il modo per stare insieme senza farsi del male. Era solo una leggenda, ma tutte le leggende hanno un fondamento di verità, aveva detto Miranda. Miranda… Perché aveva raccontato a Connie e a me quella storia? Me l’ero domandato spesso e il motivo mi apparve finalmente chiaro. Stava cercando di dirci qualcosa, di mettere Connie sulla strada giusta. Ero troppo presa dal mio dramma per vedere i collegamenti ma forse mia sorella l’aveva intuito. Da un pezzo faceva le ore piccole sui libri polverosi che trovava in soffitta e ora si era offerta di aiutarci. Aveva già un piano? Come avevo fatto a non accorgermi che Miranda era dalla nostra parte? Dallo scorso agosto era ai ferri corti con mamma e la stessa Kate si era lasciata scappare che la nonna aveva una teoria tutta sua sulla faccenda. «Sei stato tu ad avvertire Miranda la sera che mi sono sentita male dopo averti incontrato in palestra» dissi stupita dalla mia stessa intuizione. «Non sapevo cosa fare. Avrei voluto portarti a casa, ma temevo che se ti avessi toccata… Eri troppo sconvolta, non volevo peggiorare la situazione, così ho chiamato Miranda» ammise rabbrividendo al ricordo. Ricordavo la rabbia, la frustrazione che avevo provato. Il desiderio di fargli del male. «Perché Miranda e non mia madre?» proseguii imbarazzata. «Miranda è stata l’unica ad opporsi al piano di tua madre e mio padre. Dall’inizio ha sostenuto che avrebbero solo peggiorato la situazione. Possiamo fidarci di lei» disse rassicurante.

Stavo per rispondergli quando il grido di un uccello mi interruppe. Era stato talmente forte che sembrò fosse planato in camera. «Cosa è stato?» chiesi alzandomi dal letto per controllare che la finestra fosse chiusa. Anche Alec si alzò. «È il gufo di tua nonna. Stanno tornando a casa. Devo andare». Da quando la nonna possedeva un gufo? La mia vita stava cambiando per l’ennesima volta e per l’ennesima volta troppo in fretta. Incapace di trattenermi, corsi alla porta di camera mia e gli sbarrai il aggio. «No» dissi titubante. Mi sentivo un’idiota, ma non volevo che se ne andasse. L’ultima volta che l’aveva fatto aveva impiegato tre mesi a tornare. Se suo padre l’avesse convinto di nuovo? Se gli avessero fatto un incantesimo per tenerlo lontano da me? Non potevo sopportare l’idea di perderlo ancora. Lui capì, perché capiva sempre tutto. Si avvicinò, mi prese le mani, le portò alle labbra, le baciò e le lasciò andare. Mi costrinse a guardarlo negli occhi nel buio della stanza con la sola luce dei lampioni che proveniva dalla strada. «Tornerò Em, non devi avere paura. Anche per me è difficile andare via, ma non posso rischiare di farmi trovare qui. Vado a casa a farmi una doccia e non appena tua madre andrà a letto ti raggiungerò, però devi promettere che proverai a dormire. Hai bisogno di riposo». Mi sembrò un buon compromesso. Le mie sorelle avrebbero ato la notte fuori e avremmo avuto la camera tutta per noi. «Va bene» acconsentii controvoglia. «Torna subito». «Torno subito» mi baciò la fronte, aprì la finestra e saltò nell’oscurità.

Mentre dormi

Alec

Ripercorrevo mentalmente le ventiquattro ore che avevano preceduto la festa di Halloween. Mi aiutava a distrarmi dal pensiero di lei, addormentata accanto a me. Sentivo il suo respiro regolare, tranquillo. Le guance avevano cominciato a riprendere colore. Starmi vicino le faceva bene. Faceva bene ad entrambi, anch’io mi sentivo più forte. Acquistavo energia minuto dopo minuto. Io la sua, lei la mia. Un cerchio perfetto. Papà aveva cercato di spiegarmi i ruoli delle sorelle all’interno della famiglia. Era buffo pensare che Emma ne rappresentasse la parte bellicosa. Almeno lo sarebbe stato, se non fosse stato tragico. Con quel potenziale quanto tempo ci sarebbe voluto prima che cominciasse a manifestare i primi poteri attivi? Cosa avrebbe significato per me? Sarei cresciuto con lei e i miei poteri con i suoi? Ero il guardiano della guerriera. Sarebbe stato buffo, se non fosse stato tragico. Emma sospirò nel sonno. Decisi di non indugiare oltre in quei pensieri. Eravamo molto vicini fisicamente ed emotivamente, era probabile che il mio umore influenzasse il suo sonno e desideravo che riposasse. Ci aspettava un periodo duro, di ricerca e sotterfugi. Avremmo dovuto trovare il modo di stare insieme senza farlo sapere alle nostre famiglie e ai nostri amici. Resistere all’attrazione che c’era tra noi. Almeno finché non avessimo trovato il modo di cedere senza farci del male. Sarebbe stato possibile? Non era il caso di farsi illusioni, eravamo dei dilettanti. Compresa Constance, anche se sembrava molto sicura di se stessa. «Esiste un incantesimo per tutto» aveva detto con aria di sfida. «Appunto» avevo pensato. Migliaia di incantesimi da cercare, conoscere, provare. Pericolosi e complicati incantesimi che non eravamo in grado di fare. Non avevo espresso le mie perplessità, non ne avevo il tempo. Desideravo raggiungere Emma al più presto. Parlare di quello che le avevo mostrato, assicurarmi che stesse bene ed evitare che Thompson rimanesse troppo a lungo

da solo con lei. Non propriamente in quest’ordine. Thompson. Un altro problema. Come se non fossero abbastanza quelli che avevamo prima del suo arrivo e dei suoi spocchiosi piani di conquista. Conoscendo Emma si sarebbe logorata per il senso di colpa e avrebbe voluto salvare il salvabile, mantenendo la sua amicizia. Sarebbe stato sempre tra i piedi facendo di tutto per raggiungere il suo scopo. Charlie non era il tipo da arrendersi al primo round. Al contrario, la cosa lo avrebbe stuzzicato parecchio. Non desiderava altro che un’aperta competizione. Aperta, non onesta. Avrebbe giocato sporco come sempre, magari aggiudicandosi la vittoria. Se non fossimo stati in grado di trovare una soluzione al nostro “piccolo” problema non avrei avuto altra scelta. Non potevo tenere Emma imprigionata per tutta la vita in un amore platonico. Romantico ma poco aderente al mondo reale, ai desideri che gli esseri umani provano. Il pensiero di vederla avvizzire giorno dopo giorno, senza conoscere cosa si prova a ricevere un bacio, senza il calore e la consolazione di un abbraccio. Senza poter avere dei figli. Non ero così egoista da privarla di tutto questo. Era talmente ostinata e idealista che avrebbe rinunciato senza esitare, ma sapevo che un giorno si sarebbe odiata per averlo fatto e avrebbe odiato me per non averglielo impedito. Che razza di amore era il mio, se non ero capace di fare questo sacrificio per lei? I piccoli pugni strinsero convulsi la mia felpa, come se dal profondo del sonno potesse intuire i miei pensieri e cercasse di tenermi con sé. Sarebbe stato straziante separarsi da lei, accettare l’idea che si sarebbe innamorata di un altro e con lui avrebbe costruito la sua vita di adulta. L’avevo lasciata soltanto per mezz’ora. Avevo fatto una doccia, cambiato la felpa e atteso il via libera nascosto tra gli alberi del giardino. Avevo portato una lampadina per sostituire quella bruciata. In piedi sulla sedia, mentre mi prodigavo per cancellare ogni traccia di quel piccolo incidente, avevo ripensato a come mi aveva fatto sentire toccarla di nuovo.

Avevo insistito parecchio per convincerla a mettersi sotto le coperte. Alla fine il sonno aveva avuto la meglio e si era addormentata. La osservavo dormire da un’ora. L’espressione beata, la piccola bocca dischiusa. Scossi la testa e distolsi lo sguardo. Cosa stavo facendo ventiquattro ore prima? Ah sì. Architettavo il mio piano per tornare dal lei. Non immaginavo che avrei dovuto metterlo in atto in così breve tempo. Se non fosse stato per Jackie avrei tergiversato ancora. Povera Jackie. Ero stato un’autentica delusione per lei, un duro colpo al suo ego, ma ero abbastanza sicuro che non fosse innamorata di me. La sua era sempre stata una questione di conquista. Rabbrividii al ricordo di lei che mi annunciava la sorpresa che andava preparando da giorni: una stanza prenotata al Blue Hill ci attendeva dopo la festa di Halloween. Mi si era ghiacciato il sangue nelle vene. Avevo accampato mille scuse. Mia madre non vuole che dorma fuori, domani devo svegliarmi presto, sono allergico agli alberghi di provincia. Tutto inutile. Le era bastato vedere la mia espressione per capire. Avevo già deciso di troncare con lei e mettere fine all’imperdonabile pagliacciata, ma la sua iniziativa aveva accelerato i tempi e reso tutto più sgradevole. Mi ero sentito un verme. Un verme libero però. Dopo essermi preso le parole che meritavo ero corso alla festa. La notizia si sarebbe diffusa in fretta e conoscendo Charlie non avrebbe aspettato a fare la sua mossa. Rivelare il mio segreto mi aveva permesso di guadagnare tempo e terreno. Avevo corso un rischio enorme, alla cieca ma l’istinto mi diceva che non sarebbe stato difficile. Mi ero lasciato andare, l’avevo cercata tra la folla, l’avevo chiamata nella mia testa e avevo liberato il segreto. Perché le apparteneva, come ogni altra cellula del mio corpo, ricordo, pensiero. Io sono tuo. Le ultime ore erano state pura fantascienza. Stare sdraiato accanto a lei, abbracciarla, toccarla, tornare a sperare di poterla baciare, era pura fantascienza.

Eppure, a dispetto di ciò che eravamo, di mio padre, di sua madre, del blocco, delle scosse, mi trovavo a pochi centimetri da lei a vegliare sul suo sonno, a sforzarmi di non pensare alla sua pelle candida, morbida e profumata. Eravamo troppo forti o troppo deboli ma eravamo insieme. Avremmo trovato il modo per stare ancora più vicini. Potevo già permettermi di sfiorarla senza bruciare tutte le lampadine della casa. La vicinanza protratta aiutava e poi avevo intuito che potevo assorbire l’energia e rendere i nostri contatti meno dolorosi, almeno per lei. Constance avrebbe fatto il resto. Un modo esisteva, ne ero sicuro, dovevamo solo trovarlo. La bolla dentro di me ricominciò a pulsare. «Alec?» mormorò. Durante il sonno le sue sensazioni si facevano lievi come piume. Le percepivo appena. Era rilassante. Chissà cosa l’aveva svegliata. Ero stato attento a non muovere nemmeno un muscolo. «Stavo pensando… » cominciò, ma venne interrotta dalla mia risata soffocata. «Stavi sognando vorrai dire». Nel buio potevo percepire l’occhiataccia che mi stava scoccando. «Nel mio caso non c’è molta differenza» ribatté acida. Confuso dalle sue parole non risposi. Cosa intendeva? Era sempre così tra le nuvole che anche da sveglia sognava ad occhi aperti? Le preoccupazioni la seguivano nel sonno? Era verosimile in entrambi i casi. Dal mio silenzio capì che non avevo colto l’allusione e sospirò piano. «Tuo padre non te l’ha detto?» «Detto cosa?» tremai al pensiero che ci fosse dell’altro. «Delle mie personali finestrelle sul futuro» aggiunse sarcastica. «Scusa?». Rimase in silenzio qualche secondo in cerca delle parole giuste. «A volte» esitò «Non spesso, quasi mai, sogno delle cose che devono ancora

succedere» non disse altro in attesa di una risposta che non arrivò. Avevo bisogno di un attimo per elaborare la notizia. Continuò, risparmiandomi una reazione immediata. «Avete ancora la casa alla spiaggia della Volpe dopo il promontorio?» La spiaggia della Volpe si trovava sul lembo di terra che divideva il lago di Little Pound dall’oceano Atlantico. Era una zona costiera tranquilla e incontaminata, a sud di Point O’Woods. Il padre di mio padre amava il mare e si era innamorato della spiaggia durante una gita con la moglie. Le leggende famigliari narravano che avesse pagato il terreno a peso d’oro pur di averlo e che avesse costruito la casa con le sue stesse mani. Il ricordo che avevo di nonno Richard, un uomo severo e riflessivo, faceva a pugni con l’immagine di lui che piallava le assi della veranda, ma considerate le recenti scoperte sulla famiglia tutto era possibile. «Sì, è chiusa da anni. Mamma avrebbe voluto venderla, ma papà ci è affezionato e ha sempre boicottato le trattative. Perché?» chiesi incuriosito. I processi mentali di Emma mi risultavano inspiegabili. «Devo parlare con Constance». Si alzò di scatto dal letto ma riuscii a placcarla, prendendo una scossa considerevole. I nostri movimenti erano stati troppo bruschi e improvvisi, impossibile assorbire l’energia e spingerla in un’altra direzione. Le sfuggì un lamento indispettito e acuto che mi sorprese. La scossa era stata forte ma non più di altre. La guardai affranto. Quante volte si era controllata, sopportando il dolore per non farmi preoccupare? Sapeva che se lo avessi immaginato non le avrei permesso di toccarmi. Scossi la testa, sperando che il buio nascondesse l’ansia che provavo. Emma era del tutto irrazionale. Mio padre aveva ragione? La mia resa l’avrebbe messa in pericolo? Ero stato così cieco da non vedere cosa le stavo facendo rischiare? «Dove credi di andare? Sono le tre del mattino. Non puoi piombare a casa dei Miller a quest’ora e poi tua sorella starà dormendo. Ha bisogno di riposare o hai dimenticato che ha fermato il tempo per rendere il tuo svenimento credibile?». La tenevo stretta, ma non troppo per non farle male. Si divincolava appena, più per orgoglio che per volontà di liberarsi. Le mie proteste catturarono la sua attenzione.

«Difficile che lo ricordi considerato che ero priva di sensi» ribatté seccata. «La tua sconnessione dal mondo è durata più di dieci minuti». Smise di divincolarsi e mollai la presa. Sedette sul letto a gambe incrociate davanti a me. «Continua» incalzò. La guardai in tralice non del tutto persuaso che avesse rinunciato all’idea di attraversare il quartiere nel cuore della notte per tirare giù dal letto la sorella minore e coinvolgerla in una della sue follie. «Quando ti sei allontanata, dopo aver discusso con Eileen, Connie ti ha seguita. Voleva convincerti a darle retta e farti lasciare la festa, ma ti ho trovata prima io. Quando hai perso conoscenza ha capito che stavi avendo una crisi e d’istinto ha fermato tutto per avere il tempo di pensare e agire». «Poi cosa è successo?» Non riuscivo a togliermi dalla testa l’immagine di Emma accasciata sulla spalla di Thompson con gli occhi vitrei. Per un lungo minuto avevo creduto di averla uccisa. Mi ero precipitato verso di lei senza preoccuparmi delle sue sorelle, senza rendermi conto che Constance aveva congelato quell’attimo e che avrei dovuto bloccarmi con lui. L’avrei fatto se fossi stato un ragazzo normale come Charlie, come gli altri ragazzi che si trovavano alla festa, ma non lo ero. Così Constance Hataway mi aveva beccato. A Eileen per poco non era venuto un infarto, mi fissava immobile con un misto di terrore e sfida. Connie si era limitata a guardami con un’espressione indecifrabile e glaciale. «Mi domandavo quando avresti fatto il primo o falso. Devo ammettere che ti ho sopravvalutato» aveva commentato tagliente. Non sembrava spaventata, al contrario di me. «Da quanto lo sai?» balbettai sconvolto. Non solo sembravo finito in una foto venuta male, ma ero all’oscuro del fatto che le sorelle di Emma fossero a conoscenza della verità. Cosa avrebbe significato per me? Mi odiavano? Era un tranello per smascherarmi e c’ero cascato come un allocco? Cercai di riacquistare un minimo di lucidità mentale. Ero stato io a decidere di

rivelare a Emma il mio segreto. Connie ed Eileen ci si erano trovate in mezzo. Solo che erano maledettamente brave e molto più forti di me. Volevo che Constance dicesse qualcosa, qualsiasi cosa, per capire cosa aspettarmi da lei. Aveva paura? Si sentivano minacciate? Erano due contro uno. Ne sarei uscito con le ossa rotte, senza contare che non avevo idea di cosa fossero in grado di fare. Beh a parte la capacità di fermare il tempo e il potere coercitivo di Eileen, ma era tutto ciò che sapevo e che mio padre mi avesse detto. «Lo sospettavo. Ora lo so» anche lei stava prendendo tempo, forse esisteva la remota possibilità che mi stesse ad ascoltare. «Non sono un nemico. Posso spiegarvi o almeno provare a… » non feci in tempo ad iniziare che Eileen si fiondò su di me, furiosa. Arretrai di qualche o. Connie era una cosa, ma la maggiore della Hataway era un altro paio di maniche. «Che cosa le hai fatto? Che cosa sei?». Ero paralizzato dal terrore di fare una mossa sbagliata. Non sarei riuscito a spiaccicare mezza parola, tanto meno spiegarle cos’ero e cosa avevo fatto alla sua adorata sorellina. Capì che ero troppo sconvolto per parlare e mi lasciò perdere. Si girò di scatto verso Constance. «Vuoi dirmi cosa sta succedendo? Se non me lo dici entro due secondi chiamo la mamma… » «NO!» gridammo entrambi. Quella terribile possibilità mi aveva svegliato dal torpore. Se Kate avesse saputo ciò che stava succedendo sarebbe stato tutto inutile. Per mia immensa fortuna anche Connie la vedeva allo stesso modo. Tirai un sospiro di sollievo. Eravamo dalla stessa parte. Eileen ci scrutò con aria interrogativa e rimase in silenzio in attesa di una risposta. «Mamma non lo deve sapere. Più tardi ti spiegherò tutto, ma adesso devi fidarti di me. Vai a cercare qualcosa per bagnarle la fronte, dobbiamo svegliarla» il tono di Constance non ammetteva repliche. Eileen girò sui tacchi senza dire una parola e sparì tra le figure immobili della sala. Io attendevo istruzioni o un terzo grado con i fiocchi.

«Cosa le hai fatto?» chiese brusca. Terzo grado con i fiocchi, la solita fortuna. «Le ho mostrato il mio segreto. Credo ci sia ancora in mezzo, ma a breve si sveglierà» balbettai per giustificarmi. Quelle ragazzine mi terrorizzavano. Connie strabuzzò gli occhi e cominciò ad urlare. «Ti sei bevuto il cervello? Dovevi farlo durante una festa piena di gente? Sarà sconvolta quando si sveglierà. Oh mio Dio, sei un completo idiota, Alec. Non mi stupisce che abbiano tentato di separarvi. Vi farete ammazzare». Camminava avanti indietro parlando da sola e lanciandomi occhiate di fuoco. Cercai di difendermi. «Non avevo scelta e non avevo tempo… ». Non mi lasciò terminare la frase. «Non provarci, non sono una stupida. Lo sai da mesi e ti decidi solo adesso? Proprio quando Charlie si profila all’orizzonte. Hai obbedito finché non ti è costato niente farlo. Fra un mese cambierai di nuovo idea?». Era più furiosa di Eileen e la rabbia la rendeva spietata nel suo giudizio. Nemmeno immaginava cosa avevo ato. Non sarei rimasto zitto davanti a un’accusa così ingiusta. Se c’era un pensiero che mi aveva aiutato nell’ultimo periodo era la certezza che quello schifo lo stavo sopportando per Emma, perché fosse al sicuro. «Non hai la minima idea di quanto mi sia costato e di cosa sia stata la mia vita negli ultimi mesi. Nemmeno ti riguarda, non è a te che devo delle spiegazioni. Te lo domanderò una volta sola Constance, vuoi aiutarci? Se sì grazie, altrimenti ce la caveremo da soli. Adesso sblocca questa gabbia di matti, Emma si sta svegliando e non vorrei che dovessimo soccorrere anche te. Non sei Miranda». Ci guardammo a lungo in cagnesco, l’uno di fronte all’altra. Quando Eileen fece ritorno con una salvietta di spugna intrisa d’acqua, ci trovò ancora intenti a studiarci a vicenda. Ci superò, appoggiò l’asciugamano su un tavolo vicino e si mise alle spalle di Charlie. «Connie, che aspetti?» chiese seccata e perfettamente padrona di se stessa. Constance spostò lo sguardo su di lei, sollevò la mano e scacciò un insetto invisibile davanti a sé.

Il mondo si rimise in moto e avvenne tutto molto in fretta. Emma crollò tra le braccia di Charlie, che la sostenne prontamente sebbene la cosa lo avesse colto di sorpresa. Dopo un paio di secondi di smarrimento capì che era priva di sensi e cominciò a chiamarla e a scuoterla. Mi prudevano le mani. Sarei voluto intervenire, ma non potevo. Se le sorelle avessero fatto qualcosa, mi sarei potuto avvicinare senza destare troppi sospetti. Finalmente Eileen lo raggiunse e finse di chiedere cosa stava succedendo. Annuì e disse qualcosa che da lontano non fui in grado di interpretare. Charlie sembrò insistere, ma lei gli piantò gli occhi addosso e con un gesto della mano indicò il divanetto libero più vicino. Charlie obbedì come un cagnolino. Si sarebbe buttato dalla finestra se lo avesse chiesto. Era stato saggio da parte mia temere la rabbia di Eileen, il suo potere era inquietante. Poco dopo ricomparve con la salvietta che aveva nascosto. Si inginocchiò accanto alla sorella e iniziò a frizionarle la fronte. Le sue labbra si muovevano velocemente, come se stesse mormorando una cantilena che conosceva a memoria. E poi Emma aprì gli occhi. Sapevo che era solo immersa nel ricordo che io stesso avevo desiderato farle conoscere, ma non avevo potuto fare a meno di sentirmi sollevato quando aveva ripreso conoscenza e impaziente di parlarle, di stare di nuovo con lei. Erano stati due lunghi mesi, avevo bisogno di aria. Volevo avvicinarmi per scoprire cosa provasse, ansioso di sapere se si sentisse bene, se il mio goffo tentativo di farle conoscere la verità avesse avuto delle conseguenze. La mia curiosità, purtroppo, era destinata a rimanere insoddisfatta ancora per un po’. Connie ordinò a Charlie di riportare a casa Emma. Capii che aveva qualcosa da dirmi. Non appena se ne furono andati, mi prese in disparte, mi guardò dritto negli occhi e inspirò a fondo. «Probabilmente me ne pentirò, ma ho deciso di aiutarvi. Ho letto abbastanza per sapere che siete nei guai fino al collo. L’unica soluzione è trovare un incantesimo. La buona notizia è che esiste un incantesimo per tutto, basta trovare

quello giusto». Sembrava molto sicura di sé, come se le avessi proposto un giochetto da ragazzi invece di cercare un complicato e antico incantesimo per eliminare il blocco di sua sorella. Non mi sentivo altrettanto ottimista, ma avevo fretta e non volevo irritarla con la mia scarsa fiducia nelle sue capacità. In fondo ero stato io a chiederle di aiutarci. «Alec, tutto bene?» La voce di Emma mi strappò dal flash back mentale. La guardai di rimando, ancora incredulo di averla di fronte a me. «Stavo solo ripensando a quello che è successo alla festa». Solo la luce dei lampioni illuminava la stanza. Mi invitò a continuare, ma non avevo più voglia di parlarne. «Credo di averti detto tutto… Piuttosto, le tue finestrelle sul futuro? Cosa hai sognato?» chiesi per cambiare argomento. Delusa distese le gambe, afferrò la coperta che aveva gettato via e si sdraiò accanto a me. «Non dirò nulla finché non avrò parlato con Connie e visto che m’impedisci di farlo ora dovrai aspettare fino a domani» ribatté piccata. Quanto era irragionevole a volte! Decisi di non darle soddisfazione. «Aspettare non mi ucciderà. A proposito, questa notte non durerà tutta la vita, hai pensato a come gestire le ultime novità alla luce del sole?». Ero curioso di sapere che piano aveva elaborato la sua macchinosa testolina. «In che senso?» rispose evasiva. Era tipico di Emma evitare i problemi il più a lungo possibile, ma non potevamo certo permetterci un lusso del genere. Se volevamo avere la minima speranza non dovevamo commettere nessuna leggerezza. «Che mi dici di tua madre? Se mi vedesse girare per casa, potrebbe farsi delle domande» risposi sarcastico. Per un attimo mi chiesi se avesse capito la gravità della situazione. «Non essere ridicolo, Kate e Thomas non lo devono sapere».

«Esatto, quindi a scuola non lo deve sapere nessuno. Con Sam come la mettiamo?» Sam rappresentava una delle parti più spinose e dolorose della faccenda. Non si era bevuto il mio improvviso interesse per Jackie. Aveva intuito che sotto c’era qualcosa, che non ero felice. Ero stato costretto a mettere una certa distanza tra noi per non rischiare di mandare tutto all’aria. Potevamo riavvicinarci? Cosa avrei raccontato? Mi avrebbe creduto e perdonato per i mesi di silenzio e gelo? «Facile: dirai la verità». Lo disse come se fosse la soluzione più ovvia. No, non si rendeva conto della gravità della situazione. «Quando sei svenuta hai sbattuto la testa?» «Sono serissima. Domani andrai da Sam con il capo cosparso di cenere e ammetterai di essere stato un cretino mondiale. Chiederai perdono mille volte e confermerai di aver lasciato Jackie. Racconterai che dopo aver parlato con me, abbiamo raggiunto una specie di tregua: ho deciso di concederti il beneficio del dubbio, ma per perdonarti mi ci vorrà del tempo. Semplice, no? Chiedi scusa Alec, è sempre il primo o» concluse soddisfatta. «Sarebbe la verità? Non ti sembra di aver tralasciato qualcosa?» dissi più sollevato. Ero felice che avesse trovato il modo per farmi riavvicinare a Sam senza raccontargli troppe bugie. «Assolutamente no. Il messaggio principale è espresso perfettamente dalla frase per perdonarti mi ci vorrà del tempo. Non conosco versione più vicina alla realtà» rispose con il suo peggior tono da maestrina. Si divertiva a tenermi sulle spine. Visto che le piaceva giocare con il fuoco… Era sdraiata su un fianco, accanto a me, dandomi le spalle. Mi chinai su di lei fino a poterle sussurrare nell’orecchio, molto attento a non sfiorarla nemmeno con un dito. «Non mi hai perdonato?» mormorai. Si irrigidì, ma parò il colpo. «Certo che no» rispose con un leggero tremolio della voce. Mi chinai ancora di

più, abbassandomi fino a raggiungere l’incavo delle clavicole. «Nemmeno un po’?». Con le labbra sfiorai la pelle. La scossa fu leggerissima e indolore. La sentii trattenere il respiro e scuotere leggermente la testa. Il gioco stava diventando pericoloso anche per me. Ero molto stanco e di autocontrollo me ne era rimasto poco. Con la punta del naso seguii la linea del suo collo. Se si fosse voltata la sua bocca avrebbe trovato la mia senza sforzo. La piccola bolla dentro di me pulsava alla stessa velocità del suo cuore. «E adesso?» mormorai. Scosse ancora la testa. Emma, Emma. Chi dei due conduce questa danza? Chiunque fosse era necessario rimanere vivi per scoprirlo, quindi con immenso sforzo, mi scostai da lei. Dopo una breve schermaglia si arrese concedendomi il suo perdono incondizionato e mettendomi a conoscenza del piano. «Non ci sarà bisogno di dirlo a Miranda, se ne accorgerà da sola. Parlerai con Sam e io con Mads, Daremo loro la stessa versione. È probabile che da questa sera abbiano altro a cui pensare, quindi non perderanno tempo con le nostre stranezze. Non vedo l’ora di sentire il racconto di Madison sulla festa» disse con un sorriso nella voce. «A proposito della festa» la interruppi. C’era una cosa che volevo sapere e visto che eravamo in argomento era meglio affrontarla. «Cosa dirai a Charlie?». Il mio tono era sembrato abbastanza disinvolto? Non volevo farla arrabbiare di nuovo. Emma sospirò. Non mi piaceva che sospirasse ogni volta che si parlava di lui. «Sarò onesta e gli offrirò la mia amicizia. Sempre che la cosa gli interessi» disse dispiaciuta. Dispiaciuta per Charlie Thompson. «Se la farà bastare per il momento e nel frattempo preparerà il terreno per il prossimo assalto. Non puoi mandarlo al diavolo e basta?» dissi cupo. Proprio come avevo previsto. «Non voglio mandarlo al diavolo, non ha fatto nulla di male. Se non vorrà la mia amicizia non avrai nulla di cui preoccuparti, se invece volesse di più, si accorgerà di non poterlo ottenere e non lo vedremo più. Lunedì a scuola gli

parlerò, ho bisogno di un paio di giorni di decompressione» concluse sbadigliando. «Fai come vuoi, ma non dire che non ti avevo avvisata» borbottai. «Alec sono stanca, mi si chiudono gli occhi. Dormiamo?» strofinò il viso sul cuscino, piegò le gambe e le avvicinò al petto, prendendo la posizione fetale del sonno. Potevo sentire la piccola bolla delle sue emozioni farsi leggera come una piuma. Mi sdraiai accanto a lei e appoggiai la testa sul cuscino. Un mio lungo sbadiglio sancì la fine della conversazione. Dopo qualche minuto mi lasciai accompagnare dallo scandire regolare del suo respiro e sprofondai in un sonno senza sogni. Dormi amore mio. Dicono che domani sia un altro giorno.

Una nonna per amica

Emma

Il suono ripetitivo e odioso della radiosveglia giunse ovattato da qualche parte, laggiù nel mondo reale. Che giorno era? Oddio la sveglia, la scuola, i compiti di trigonometria per lunedì. Mi sollevai di scatto dal letto. Dalla finestra entrava la luce fioca del giorno. Allungai la mano per spegnere il maledetto bip. Un foglio di carta scivolò a terra. La casa era immersa in uno strano silenzio, i due letti accanto al mio, vuoti. Erano le 7.30 del mattino ed ero sola. Una fitta di panico mi chiuse lo stomaco. Avevo sognato tutto? La festa, la crisi, la nottata? Era sembrato così reale. Stavo per sprofondare nella più cupa delle riflessioni, maledicendo il mio stupido potere onirico che rendeva tutto così vivido, quando una felpa grigia in fondo al letto, troppo grande per essere mia o delle mie sorelle, attirò la mia attenzione. L’afferrai e la indossai. Il suo profumo mi circondò come un abbraccio. Lui era stato lì, non l’avevo solo sognato. Era successo davvero, era tornato da me. Dove si era cacciato? Mi ricordai del foglietto caduto a terra e lo raccolsi.

Sono con te sempre. Sei con me sempre. Non avere paura. Ci vediamo più tardi. A. Aveva messo la sveglia così l’avrei trovato per prima. Se mamma fosse venuta a svegliarmi e l’avesse letto saremmo stati nei guai. Sorrisi, soffocando uno sbadiglio. Avevo dormito mala pena tre ore e mi sentivo più stanca di quando mi ero addormentata, vicinissima a lui, poco prima dell’alba. Era sabato, fortunatamente potevo dormire un altro po’. Le mie sorelle sarebbero tornate in tarda mattinata e verso le nove mamma o Miranda sarebbero venute a svegliarmi. In casa Hataway era vietato dormire fino a tardi.

Tornai sotto le coperte, ma non tolsi la felpa. Se mi avessero fatto domande potevo sempre dire che era di Sam. Dovevo riuscire a parlare con Miranda da sola… E con Mads… E Charlie! Cosa gli avrei detto… «Emma, svegliati, sono le nove e mezza. C’è da svuotare l’asciugatrice e vorrei che spolverassi i tuoi libri. Sto uscendo, quando tornano le tue sorelle chiedete alla nonna se ha bisogno di una mano in cucina. Alzati pigrona!». Kate stava spalancando la finestra in tenuta da jogging. Come faceva ad andare a correre con quel freddo? Sollevai la coperta fin sopra la testa desiderando solo di poter dormire altri cinque minuti. Mamma uscì dalla stanza canticchiando. Era di buon umore. Se avesse saputo chi mi aveva tenuto compagnia fino a qualche ora prima sarebbe evaporato in un lampo. Non appena sentii chiudersi la porta d’ingresso mi alzai dal letto e mi diressi verso il bagno. Lavai la faccia e i denti e mi soffermai a guardare l’immagine riflessa nello specchio. Nonostante le poche ore di sonno non avevo un brutto aspetto. Il colorito era migliorato e gli occhi luccicavano come fanali. La nonna se ne sarebbe accorta al primo o al secondo sguardo? Per non parlare della mamma-falco. Eravamo spacciati. Cercai di assumere l’espressione più triste del mio repertorio e mi concentrai sul nuovo segreto. La sera prima avevo scoperto di essere in grado di riuscirci addirittura con Alec, non sarebbe stato difficile proteggere il nostro segreto al resto del mondo. Immaginai di chiuderlo dentro un cassetto e nascondere la chiave. Era una cosa buffa, ma poteva funzionare. Legai i capelli e scesi in cucina. Miranda, avvolta in una vestaglia di velluto rosso, sciacquava le tazze della colazione e le riponeva nella lavastoviglie con i gesti aggraziati. Sembrava le sfiorasse appena e che l’acqua non potesse bagnare le sue dita affusolate. Mi dava le spalle canticchiando tra sé una canzone in una lingua sconosciuta. Mi fermai sulla soglia per osservarla. Era scalza e i piedi spuntavano dalla lunga camicia da notte bianca. Seguiva con piccoli i il ritmo della canzone misteriosa. All’improvviso si materializzarono sulla tavola una fumante tazza di tè forte,

come piaceva a me, e una fetta di torta. «Buon giorno bambina» disse con voce melodiosa senza voltarsi. Sconvolta dalla torta magica non battei ciglio né mossi un muscolo in direzione della tavola. «Santo cielo, Emma! Quante storie per un giochetto di prestigio. Forza, siediti e mangia. Hai dormito bene?». Poi si voltò e mi guardò in faccia. Il sorriso in un lampo sparì e si fece seria. Si avvicinò al tavolo, sedette e indicò la sedia di fronte a lei. Mi scrutava con i penetranti e luccicanti occhi. Dorati e intelligenti come quelli dei gatti. «Hai un ottimo aspetto» constatò. Una ciocca di capelli era sfuggita dall’acconciatura severa, ma l’aria disordinata non la rendeva meno autoritaria. «Sembra che ti dispiaccia» commentai sostenendo lo sguardo indagatore, ma non demorse. Anzi si fece ancora più attenta. «Niente affatto, ne sono lieta. Ora mangia» disse indicando la torta e alzandosi per tornare alle sue faccende. Feci colazione in silenzio e quando ebbi finito portai la tazza e il piatto al lavello. Sciacquai le cose che avevo usato e le riposi nella lavastoviglie. Mi schizzai la felpa d’acqua e il cucchiaio cadde sul pavimento facendo un baccano d’inferno. Avrei dovuto prendere esempio da Miranda e essere più aggraziata. Sospirai. Chissà cosa ne pensava Alec della mia goffaggine. Magari la trovava buffa o tenera. Buffa e tenera. Proprio come Jackie, insomma. Scacciai quell’inutile pensiero. Dovevo rendere la mattinata più produttiva, non c’era tempo da perdere. Miranda si era seduta di nuovo a tavola e sfogliava un libro di ricette, anche se avevo il sospetto che non ne avesse letto mezza riga. «Nonna?» la chiamai cercando di attirare la sua attenzione. Sollevò la testa da libro e mi guardò da sopra le lenti bordate d’oro, in attesa di spiegazioni. «Come posso sbloccare i miei poteri attivi?» domandai disinvolta. Speravo sarebbe esplosa, così avremmo messo fine alla pagliacciata e giocato a carte scoperte, ma si limitò a inarcare un sopracciglio prima di chinarsi nuovamente sul ricettario.

«Non puoi» rispose in tono incolore. Uhm. Aveva deciso di fare buon viso a cattivo gioco oppure ero una pessima giocatrice e aveva svelato il mio bluff in men che non si dica. «Quindi sono destinata a esplodere o a evitare tutte le emozioni della vita? Mi sembra debole come strategia» ribattei cercando di restare calma. Non si prese nemmeno il disturbo di sollevare la testa dal libro. «Non ho detto che è impossibile, ho detto che tu non puoi» rispose distratta, fingendosi assorbita dalla lettura. «Nonna!» sbottai al culmine dell’irritazione. Stavamo discutendo della mia sopravvivenza o della farina per fare i biscotti? Finalmente chiuse il libro, tolse gli occhiali e mi guardò negli occhi. «Emma dovresti sapere che non mi piacciono i giochetti. Dimmi cosa vuoi e valuterò se sia il caso di risponderti» disse incrociando le braccia. «Voglio aiutarvi a rimuovere o allentare il mio blocco» dissi decisa. «Perché? Anzi no, non dirmelo. Preferisco non saperlo, non sarò costretta a mentire a tua madre. É piuttosto difficile e richiede un mucchio di energie». Emise un profondo sospiro, ma si alzò e fece cenno di seguirla in sala. Si posizionò al centro della stanza e con un gesto della mano spostò il tavolino da sopra il tappeto. Fece planare dal divano due dei cuscini più grandi e sedette su uno dei due a gambe incrociate. La imitai, visto che il secondo sembrava destinato a me. «Meditazione?» chiesi sarcastica. Era quello il misterioso metodo per controllare le mie crisi? «Devi imparare a concentrarti e a indirizzare l’energia fuori di te. In questo modo potremmo allentare la pressione. Cominceremo dalla cosa più innocente: spostare gli oggetti. Solo di qualche metro, mi raccomando e cerca di pensare a qualcosa che non sia chiuso in un cassetto o in una scatola. Meglio iniziare dal livello base» disse chiudendo gli occhi e concentrandosi sulla respirazione. Forse le sfuggiva un piccolo particolare.

«Nonna?» «Uhm?» «Non so come fare». Mi sembrava abbastanza ovvio, considerato che non avo le mie giornate a far volare gli oggetti da una parte all’altra della casa. Miranda sbuffò e aprì gli occhi, carichi di rimprovero. «Il tuo problema Emma è che non ascolti. Cosa ho appena detto? Devi imparare a concentrarti, il resto verrà da sé. Abbiamo imparato tutte in questo modo. Dato le tue capacità è riprovevole che tu non sia già in grado di farlo da sola» sbottò. Tornò a concentrarsi sull’inspirazione e l’espirazione con gli occhi rigorosamente chiusi. Maledizione. Perché nella mia famiglia doveva essere tutto così difficile? Faceva presto a parlare lei, era un fenomeno. Insistere non sarebbe servito a niente quindi mi arresi all’idea di dovermi arrangiare. Chiusi gli occhi, incrociai le gambe e inspirai profondamente. Mi concentrai su uno dei libri che avrei dovuto spolverare. Sarebbe stato facilissimo, se fossi stata capace di spostarli col pensiero. Mi scappò una risatina. «Emma!» mi rimproverò Miranda. Tornai a concentrarmi su Anna Karenina. Ricordai il colore della copertina, la consistenza delle pagine, la pesantezza. Desideravo tenerlo in mano e poterlo sfogliare. Visualizzai lo scaffale in cui si trovava e il percorso che avrebbe dovuto fare per arrivare da me. Un piccolo tonfo mi fece aprire gli occhi. Il libro era davanti a me sul tappeto. Mia nonna sorrideva soddisfatta. Ero sbalordita. Aveva funzionato al primo tentativo? Fin troppo facile. «Molto bene. Sapevo sarebbe stata una eggiata per te» disse alzandosi. La imitai meccanicamente. Dove stava andando? «Tutto qui?» «Cosa ti aspettavi, bambina? Bisogna fare un o alla volta. Esercitati con questo e quando sarai pronta eremo al livello successivo. Ora sistema il salotto e vai a svuotare l’asciugatrice. Non fare giochetti davanti alle finestre, non si sa mai» concluse dirigendosi verso le scale.

«Ma nonna… » piagnucolai. Cosa mi sarebbe servito spostare oggetti da una camera all’altra? «Fai tesoro di ciò che hai imparato oggi. Senza basi non si costruisce niente. Un’ultima cosa, Emma: qualsiasi cosa stia succedendo, togliti quell’espressione dalla faccia o tua madre lo scoprirà prima che faccia sera» concluse severa e scomparve al piano superiore. Miranda sapeva? Di certo su Kate aveva ragione. Avrei dovuto inventare un modo per non destare sospetti. Nel frattempo la soluzione migliore era rimanere il meno tempo possibile sotto il suo sguardo indagatore. Corsi in lavanderia a svuotare l’asciugatrice. Riposi la biancheria nella cesta delle cose da piegare e il resto con ciò che andava stirato e mi fiondai in camera a spolverare. Avrei impiegato delle ore. Accidenti. Diedi un’occhiata al cellulare e mi accorsi di avere parecchi messaggi. Uno era di Eileen. Mi domandava come mi sentissi e avvisava che sarebbe tornata a casa dopo pranzo. La notizia non sarebbe piaciuta a mamma e a me non piaceva l’idea di riferirgliela. Il secondo era di Mads e mi strappò un sorriso.

Appena ti svegli chiamami. Ho una super super cosa da raccontarti! Avrei potuto fare l’indovina. Il terzo il messaggio dovetti sedere per leggerlo, perché iniziò a girarmi la testa. Questa volta non è sparito nell’oscurità della notte. Questa volta non mi ha lasciata sola. Un po’ di paura l’avevo. Esisteva la possibilità che mi dicesse da un momento all’altro che era troppo rischioso, che non voleva mettere le nostre vite in pericolo, disobbedire a suo padre. Eppure sapevo che non sarebbe andata così. Lo sentivo. Come l’estate precedente un presentimento di oscurità mi era scivolato sulla pelle quando l’avevo visto voltarmi le spalle e tornare verso casa, in quel momento sapevo che sarebbe tornato da me ogni giorno.

Come stai? Ti va di raggiungermi a casa? Quando vuoi… I miei resteranno a Yale tutto il giorno. Era un appuntamento? Beh, non esattamente. Era più un incontro segreto. Da soli a casa sua. Non era una brillante idea, ma non avrei detto no per tutto l’oro del mondo. Il problema era quello suppongo.

Sto bene… Devo pranzare a casa e chiamare Mads. Potrei essere da te per le quattro. Va bene. Sarebbe stato meglio se avessi detto subito... Resistere alla tentazione di mollare tutto e raggiungerlo fu davvero difficile. Finii di spolverare alla velocità della luce. Arrivò mezzogiorno e scesi in cucina per aiutare la nonna con il pranzo. Mamma era rientrata e correggeva alcuni compiti seduta al tavolo della sala mentre Miranda cucinava. Cominciai ad apparecchiare. Connie arrivò al momento giusto. Appena sedute a tavola l’attenzione di mamma si concentrò su di lei. Kate sapeva che Eileen sarebbe tornata nel pomeriggio, mia sorella l’aveva avvisata, e desiderava raccogliere informazioni sulla serata attraverso le figlie presenti. Il contributo che apportai alla conversazione fu misero, visto che la mia presenza alla festa era stata breve. Mi limitai ad annuire al racconto di Connie, cercando di assumere l’aria più annoiata e depressa della terra. In realtà non vedevo l’ora di potermi alzare, chiamare Mads e uscire di casa. Il pranzo volse al termine. Diedi una mano a sparecchiare. Ogni tanto Connie mi lanciava un’occhiata interrogativa. Finite le faccende post pranzo afferrai il telefono e mi chiusi in camera. Come volevasi dimostrare avevo previsto tutto. Il buon vecchio Sam si era fatto avanti e tra un lento e l’altro l’aveva baciata. Mads era fuori di sé dalla felicità. Aveva aspettato così tanto… La capivo benissimo. Io quanto avrei dovuto aspettare? Mesi? Anni? Meglio non pensarci o mi sarei rovinata l’umore.

Mi feci raccontare tutto più volte con dovizia di dettagli, sapevo che per Mads era una gioia ripeterlo e ripeterlo ancora. Esaurito il racconto per la terza volta mi chiese come fosse andata la mia serata dopo che Charlie mi aveva riportata a casa. Decisi di approfittare dell’occasione per introdurre l’argomento “il ritorno di Alec”. Dissi che dopo aver salutato Charlie avevo ricevuto una visita inaspettata. Madison non sembrò troppo sorpresa, ma mi raccomandò di stare attenta. La rassicurai dicendo che avevo proposto ad Alec una tregua e che non ero ancora disposta a perdonarlo. Mi dispiacque per la bugia, ma era necessaria. Nessuno doveva sapere che… Cosa? Non lo sapevo nemmeno io. Forse l’incontro di quel pomeriggio avrebbe definito meglio la situazione. Dopo un’intensa ora al telefono salutai la mia amica. Mi buttai sotto la doccia, asciugai i capelli con il phon, un avvenimento per me, indossai una maglietta blu a maniche lunghe, un maglioncino grigio e un paio di jeans, le scarpe da ginnastica d’ordinanza e mi accinsi ad uscire di casa. Connie non riuscì a trattenersi dal chiedermi dove stessi andando. Sorrisi e l’abbracciai. Mi sussurrò di stare attenta e mi strinse forte. In salotto trovai Kate. Era arrivato il momento di capire se i segreti, oltre a svelarli, ero in grado di custodirli. Mi concentrai sul mio. «Mamma, io esco». Mi diressi verso la porta d’ingresso disinvolta, abbottonandomi la giacca. Non il minimo tentennamento, nessuna esitazione. «Dove vai? Torni per cena?» rispose distratta. Sembrava molto presa dal compito che stava correggendo. La matita rossa violava senza pietà il candore del foglio steso davanti a lei. Funzionava. I miei segreti erano al sicuro per il momento. «Sì». Prima che si accorgesse che non avevo risposto a una delle due domande ero già fuori di casa. E fuori di casa mi imbattei in Charlie. «Hataway dove vai così di fretta? Lasciami indovinare, stavi correndo da me». Le mani affondate nelle tasche del giaccone verde scuro, il viso pallido nascosto dalla sciarpa e gli occhi castani divertiti. «Cosa fai qui?» domandai stupita, cercando di non inciampargli addosso. Si era messo proprio davanti alla porta.

Non ci voleva, avevo una fretta del diavolo. Senza contare che non avevo ancora pensato a cosa gli avrei detto. Accidenti. «Sono ato a vedere come stavi. Non mi era mai capitato di far perdere i sensi a una ragazza». Rise e fece un o verso di me. Arretrai d’istinto, ma la mia mossa non scalfì di un soffio la sua spavalderia. «Sto bene e non t’illudere, è stato solo un calo di pressione» risposi sostenuta. «Vorrà dire che sarai in forma per questa sera. Ti porto fuori a cena» sorrise spaccone. Non contemplava la possibilità che dicessi di no. Quanto era ampio il raggio d’azione di Alec? Sperai che non arrivasse fino a casa mia, perché se era in grado di percepire ciò che stavo provando, l’imbarazzo, il senso di colpa e una minuscola punta di rimpianto, sarei stata nei guai. «Grazie dell’invito, ma ho promesso a mia madre che avrei cenato a… ». Non mi diede il tempo di finire la frase. «Non c’è problema, o per le nove. Me lo devi Hataway, ricordi cosa ti ho detto ieri sera? Possiamo discuterne davanti a una tazza di caffè». Sfoderò la sua espressione più innocente. Non ero in grado di valutare il suo livello di sincerità, ma in fondo non era una cattiva idea. Mi sarei tolta il pensiero e avrei evitato l’imbarazzo di parlargli a scuola con gli occhi di tutti puntati addosso. «D’accordo, ti aspetto per le otto e mezza. Alle undici devo essere a casa, mia madre non tollera un minuto di ritardo. Ora devo scappare». Scesi i gradini della veranda e lui con me. Sembrava soddisfatto e aveva l’aria di uno che ammira un piano ben riuscito. Percorso il vialetto si fermò davanti al suv nero parcheggiato accanto al marciapiede. «Hai bisogno di un aggio?» chiese malizioso. «No grazie, vado a piedi. Ci vediamo più tardi». Lo salutai senza aggiungere altro e m’incamminai verso casa di Sam. Mise in moto e finalmente sparì nella direzione opposta alla mia.

Alec non l’avrebbe presa bene. Avrebbe preferito mille volte la versione in cui scaricavo Charlie nel corridoio degli armadietti, non certo davanti a una tazza di caffè in un bar del centro. Scaricare poi, che parolone. Eravamo solo amici. Charlie si divertiva a fare il cascamorto, ma non gli importava sul serio di me. Arrivata dai Miller svoltai a destra e feci il giro intorno alla casa. Il cancelletto sul retro era aperto come al solito. Attraversai il giardino e raggiunsi il lato confinante con il parco degli Stevens. Scavalcai la piccola staccionata e mi diressi verso la porta finestra della stanza dei giochi. Pensavo che avrei trovato Alec ad aspettarmi, invece la casa sembrava deserta. Guardai di nuovo all’interno. La stanza non era come la ricordavo. Il pannello dietro la scrivania era sparito e mancavano parecchi cd e libri dagli scaffali. Non solo. La mia piccola poltrona era stata rimossa. Aveva fatto piazza pulita. Nella sua stanza preferita non c’era più traccia di me. Non me n’ero accorta l’ultima volta che ero stata lì, dopo la rissa con Charlie. Fu come un pugno allo stomaco. Non riuscivo a staccare gli occhi da quel panorama desolante. «Tutto bene?». Un sussurro leggero dietro di me, la punta delle sue dita che seguiva la linea delle mie spalle, delle braccia fino ad arrivare ai miei pugni chiusi lungo i fianchi. Migliaia di piccole scosse che si liberavano nell’aria. «Dov’è la mia poltrona?» mormorai senza voltarmi. Tutto di lui mi circondava, la sua voce, il suo profumo. Lui. «Non volevo che… Rimetterò ogni cosa al suo posto. Mi sei mancata». Affondò il viso nei miei capelli. Centinaia di fili castani si librarono nell’aria. Centinaia di farfalle rosse turbinavano nel mio stomaco. Non volevo che smettesse. Desideravo che continuasse per ore, che mi voltasse e mi attirasse a sé come quella sera d’estate. «Ero da Sam, ti ho sentita arrivare. Ho detto che mi stavi aspettando. Sembrava contento. Possiamo fidarci di lui». Non la smetteva di sussurrare. Indifferente alle piccole scosse strofinava il naso sul mio collo, sulla nuca. Sfiorava i miei

capelli con la sua bocca perfetta. Mi sentivo così stanca. Così assonnata. Non potevo cedere alla tentazione di chiudere gli occhi. Se non mi fossi più svegliata? Ma avevo tanto sonno… Potevo chiudere gli occhi solo per un minuto? Potevo? Dovevo concentrarmi su qualcosa, qualcosa che non fosse lui, le sue mani, la sua voce per non svenire. Cosa aveva detto Miranda? Concentrati, il resto verrà da sé. Guardai davanti me. La mia immagine riflessa sul vetro della porta finestra e la maniglia della porta. Potevo vedere nella mia mente mentre afferravo la maniglia, l’abbassavo e… Lo scatto della serratura ci riportò al mondo reale. Afferrai quello scampolo di realtà per non affondare nel sonno. «Ma che… ». Per lo stupore fece un o indietro, interrompendo il contatto. Inspirai a fondo per snebbiare la mente e mi voltai verso di lui. Cercando di sorridere. C’era mancato veramente poco, non volevo che si preoccue. «Sei stata tu? Da quando… Ieri non lo sapevi fare» osservò scioccato. Annuire, sorridere, deglutire, parlare. «Mia nonna questa mattina… ». Mi mancò il fiato per continuare. Le ginocchia tremavano e mi appoggiai al muro per scivolare a terra. Pessima mossa. Il suo sguardo si fece più attento, poi spaventato e infine incrinato dal senso di colpa. «Em, cos’hai? Stai bene? Sono un idiota. Aspetta, ti prendo io… No, non ti tocco, lo giuro… Non so cosa fare… Cosa ti senti?». Agitatissimo, si accucciò accanto a me, per poi alzarsi, fare qualche o, tornare da me, prendere il telefono, mettere via il telefono, accucciarsi di nuovo. Quando fu di nuovo nel mio raggio d’azione lo afferrai per la manica. La scossa interruppe il suo corto circuito mentale. «ALEC! La pianti per favore? STO BENE» scandii le sillabe e tirandolo per la manica lo feci sedere accanto a me. «Datti una calmata o mi farai venire un attacco d’ansia».

Mi restituì uno sguardo cupo e silenzioso. Appoggiò le spalle e la testa al muro, prese un bel respiro e chiuse gli occhi. Il profilo perfetto si stagliava contro il muro candido della casa. La bocca dischiusa in una piega addolorata, le sopracciglia aggrottate, una ciocca nera come la pece saettava sulla fronte increspata dalla preoccupazione. Era così perfettamente bello, nobilmente perfetto, dolorosamente nobile, che se non fosse stato mio, se quel dolore non fosse stato per me, mi si sarebbe spaccato il cuore. Volevo consolarlo, rassicurarlo, scacciare i pensieri che gli affollavano la mente. La sua brillante, profonda, tormentata mente. Con delicatezza appoggiai la mano sulla sua. Un leggero riverbero, un minuscolo lampo blu. L’energia si stava riequilibrando, il giochetto della porta, ne aveva scaricata un po’. Decisi di provare qualcosa di più incisivo. Senza togliere la mano dalla sua, chiusi gli occhi e visualizzai la stanza come la ricordavo. Le foto appese al pannello, l’odore di cuoio della poltrona, la sensazione del parquet sotto i piedi nudi d’estate. I libri sul secondo scaffale, i cd dei Coldplay. Con i suoi occhi chiusi, la mia energia concentrata altrove, potevo provare a fare ciò che desideravo da quando avevo memoria. Con tutta la grazia di cui ero capace, seguii la linea della sua bocca con la punta del dito, del labbro superiore leggermente alzato, a scoprire la fila di denti bianchi. Sorrise emettendo un brevissimo sospiro. La piega sulla fronte si distese e aprì gli occhi. «Ti lascio sola per qualche ora e diventi una scassinatrice provetta e un’arredatrice d’interni? I rumori che provengono dall’interno non mi piacciono affatto». La sua voce uscì bassa e ruvida, ma lo sguardo era più calmo, l’aria più rilassata. «Sto solo facendo ordine» dissi picchiettando le dita sulle sue guance. «Ah sì?» disse dubbioso e si rifece serio. «Mi dispiace, è stato imperdonabile da parte mia agire con tanta leggerezza. Se tu non fossi così brava… Sei molto più forte di me. Finirò con l’ucciderti». Il suo umore era tornato cupo e disperato. «È tutta questione di allenamento. Imparerò altri metodi per tenere occupata l’energia e non prenderemo nemmeno la scossa. Entriamo, così potrai ammirare

il mio lavoro con i tuoi occhi». Mi alzai senza sforzo e gli lanciai un eloquente sguardo di sollecitazione. Sbuffando mi scoccò un’occhiataccia, ma scattò in piedi e mi seguì dentro casa.

Sam e Charlie

Emma

Mi fiondai sulla poltrona abbastanza soddisfatta del risultato e gettai la giacca sulla spalliera. Avevo fatto un buon lavoro. La stanza era tornata come la ricordavo. Alec si guardò intorno ammirato. E preoccupato. «Tua madre lo sa che Miranda ti sta insegnando a usare i poteri che non dovresti per nessun motivo saper usare?» chiese serio. «Sono giochetti che possiamo permetterci, anche mamma e Miranda fanno di queste cose». Era il solito guastafeste. «Tua madre e tua nonna non sono te. È probabile che in una sola mattina tu sia riuscita ad apprendere ciò che una “normale” strega impara in mesi di duro lavoro. Quanto tempo pensi che ci vorrà prima che tu raggiunga il livello che non dovresti raggiungere?» ribatté severo. Non stava parlando sul serio. Non poteva preoccuparsi anche di quello. «Stai esagerando. Sono solo innocenti incantesimi da ragazzine e mi permettono di scaricare un po’ di energia. Posso toccarti senza ustionarmi o svenire. Dovresti essere contento» replicai. «Sono contento quando sei al sicuro, sono contento se riesco a non ucciderti, sono contento se non ti scoprono, ti rapiscono e ti rinchiudono per sempre chissà dove. Ti sei mai chiesta, perché soltanto tu tra le tue sorelle, tua madre, tua nonna, sei l’unica ad avere un Custode personale?» Me l’ero chiesta, eccome. Mi ero anche data una risposta. Per qualche assurdo e inspiegabile motivo ero pericolosa. Al punto che la natura mi aveva assegnato un baby sitter 24 ore su 24. Peccato le fosse riuscito così bene. Era stato impossibile non innamorarsi da morire di lui. E da morire non era un’iperbole nel nostro caso. «So che non è normale, anche se non so ancora perché. Lo scopriremo. Ora possiamo smettere di pensare a drammi e catastrofi e are un pomeriggio insieme?» sbottai. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma cambiò idea. Sospirò e si lasciò cadere sul

divano davanti alla tv. «Cosa vuoi fare?» chiese irritato. «Parlare» ribattei. «A una certa distanza suggerirei». Sorrisi cercando complicità ma era ancora arrabbiato e non ricambiò. «Di cosa vorresti parlare?» chiese laconico. Meglio evitare l’argomento Charlie visto l’umore. «Come è andata con Sam?» domandai contenta di aver trovato un argomento che lo avrebbe risollevato. Un sorrisetto gli increspò le labbra. Era un buon inizio. «Bene. Mi ha preso a pugni». Pensai che si sarebbe staccata la mascella tanto l’avevo spalancata per lo stupore. «Cosa?!?» Scoppiò a ridere. Come al solito trovava le mie reazioni esilaranti. Mi irritava non sapere cosa trovasse di divertente nell’essere preso a pugni dal suo migliore amico, ma ero contenta di essere riuscita a farlo ridere. «Sai come è fatto. Ha buttato fuori quello che aveva da dirmi ed era assolutamente persuaso che mi meritassi un pugno. Non me l’ha dato forte e non ho reagito, perché anch’io ero abbastanza sicuro di meritarmelo» rise più amaramente di quanto avrei voluto. «Vi siete chiariti?» balbettai. «Credo di sì. Non so quanto si sia bevuto la storiella “avevo paura di rovinare tutto e sono scappato”, ma credo abbia apprezzato il mio primo o e le mie scuse. Mi ha fatto mille raccomandazioni. Mi riterrebbe responsabile anche nel caso in cui ti spezzassi un’unghia, insomma la tua felicità è nelle mie mani. Ha detto che non sapevo quello che avevi ato. Si sbaglia. So esattamente quello che hai ato». L’amarezza aumentava invece di diminuire. «Smettila di tormentarti. Ora sei qui, siamo qui». Mi guardò come se avessi detto una follia e buttò fuori cosa gli stava ronzando nella testa.

«Credi sia giusto? La soluzione migliore per te? Non sono tornato perché pensavo fosse giusto. Sono tornato perché non sono abbastanza forte, perché sono un maledetto egoista. Se avessi pensato alla tua felicità invece che alla mia, non sarei qui a rischiare la tua vita solo per poterti toccare». Sembravano tutti certissimi di sapere cosa fosse il meglio per me. Tutti tranne la diretta interessata visto che nemmeno sotto tortura mi sarei persuasa che stare lontano da lui fosse la cosa migliore. Lui come poteva crederlo? Al punto da essere infelice per il suo ritorno? «Pensi che m’importi di essere felice da qualche parte se non sono con te? Che potrei esserlo senza di te?» domandai incredula. «Avresti imparato ad esserlo. Mi avresti odiato e dimenticato. Questo era il piano e avrebbe funzionato se avessi sopportato il pensiero di vederti con un altro. Tu sei più forte di me. Sei andata a scuola tutti i giorni correndo il rischio di incontrarmi per i corridoi con una ragazza che non eri tu. Hai sorriso, camminato, fatto i compiti. Io non ho sopportato nemmeno il pensiero di una simile eventualità. Ho preferito trascinarti con me in questo casino per non doverti dividere con nessuno». Non riusciva a guardarmi in faccia, fissava un punto lontano davanti a sé con l’espressione fredda e distante dell’ultimo periodo. Non era cambiato niente. Sprofondai nella delusione. Beh, non mi sarei arresa senza lottare. «Dimenticarti? Tu per caso ti dimentichi di respirare? Non so quanto avrei resistito. Ogni giorno ho rischiato di addormentarmi e non svegliarmi più. Andavo a scuola perché dovevo, mangiavo perché dovevo, studiavo per distogliere un paio d’ore al giorno la mente dal pensiero di te. L’ho fatto per le mie sorelle, per mia madre e Miranda. L’ho fatto perché si aspettavano che sarei stata forte. Credi che quello fosse il meglio per me?» chiesi tagliente. La mia era ovviamente una domanda retorica. «Sì» rispose cupo. Come poteva essere tanto ostinato? Ero furiosa con lui. Stava rovinando un pomeriggio che avrebbe dovuto essere perfetto e cercava di allontanarmi dopo aver promesso che non l’avrebbe fatto mai più. Mi alzai di scatto dalla poltrona e mi misi davanti a lui. Se voleva andarsene l’avrebbe fatto guardandomi in faccia. «Sai cosa ti dico? Tornatene da Jackie nel mondo dorato dove non si corrono

rischi e nessuno si fa del male. Ti sentirai senz’altro meglio e avrai fatto il nobile gesto di sacrificarti per la mia… Come l’hai chiamata? Ah sì, felicità. Ti saluto, Charlie vuole che discutiamo della sua felicità davanti a una tazza di caffè. Magari lui è contento di are del tempo con me». Quanto mi sentivo meschina, cattiva e arrabbiata. Quanti affondi avevo inferto alla cieca senza sapere dove stavo colpendo. Anche per il groppo alla gola che si era trasformato rapido in lucciconi debordanti. Feci per voltarmi e dirigermi verso la porta, sperando di non andare a sbattere contro tutti i mobili della stanza, quando mi sentii afferrare la manica del maglione. La presa era delicata ma ferma. Mi attirò verso di sé e mi abbracciò. Fu come se centinaia di piccoli spilli pungessero ogni centimetro della mia pelle ma non avrei desiderato essere da nessun’altra parte. Mi lasciò sfogare. Piansi di sollievo, di tristezza, di frustrazione. A poco a poco le punture si fecero più lievi, fino a sparire del tutto. Quando mi fui calmata, cercò di sciogliersi dall’abbraccio, ma non lo lasciai andare. Non ero in grado di sopportarlo, almeno per il momento. Lo sentii ridere sommessamente. Sempre stringendomi, si sedette sul divano di pelle con me in braccio. Mi accoccolai tirando su col naso e appoggiando la testa sulla sua spalla. «Sei proprio una mocciosa» sussurrò. «Sei proprio un idiota» ribattei offesa. «Sono un egoista. Non riesco a stare un minuto senza di te quindi credo che ti rovinerò la vita ancora per moltissimo tempo» appoggiò le labbra sulla mia fronte e inspirò profondamente. «Mi sembra un’ottima idea». Lo strinsi più forte tanto per accertarmi che non gli tornasse la voglia di muoversi da lì. Restammo in silenzio, abbracciati senza pensare a nulla se non resistere alla tentazione di essere ancora più vicini. «Emma?» chiese titubante dopo qualche istante. «Uhm?». Non avevo voglia di parlare. Avevamo parlato abbastanza, però poteva baciarmi di nuovo la fronte se voleva. O la guancia. O.

«La storia del caffè, di Thompson e della sua felicità era una provocazione, giusto?». Il tono puzzava tanto di domanda retorica. Oh oh. «Non proprio» balbettai. «Cosa?» disse con voce strozzata. Accidenti, quanto si scaldava in fretta. Lo strinsi più forte sperando di riuscire a calmarlo. «Quando sono uscita per venire qui l’ho trovato sotto casa. Era ato per invitarmi fuori a cena. Naturalmente ho rifiutato, ma ho pensato che un caffè sarebbe stata una buona occasione per togliersi il pensiero. Piuttosto che a scuola, davanti a tutti». «Non ci andrai» ringhiò. «Non preferisci che chiarisca il prima possibile? Così non dovremmo più preoccuparci di questa storia» insistei con cautela. «Tu ti preoccupi, non io. Non ci andrai». Si tratteneva ma sapevo che gli stavano ando per la testa le cose peggiori. «È una vera prepotenza» ribattei. Non avrei subito senza discutere quella follia da fidanzato geloso. «Come fai a non capire? Ci proverà tutto il tempo, ti metterà alle strette, cercherà di avvicinarsi in tutti i modi e sei così vulnerabile… » «Grazie tante per la fiducia» sbottai. «Non è una questione di fiducia. Pensi che me ne rimarrò qui come un bravo bambino sapendo che sei da qualche parte con lui che cerca di metterti le mani addosso?» «Nessuno mi mette le mani addosso. Nemmeno tu» lo rimbeccai ostinata. «È solo questione di tempo» sorrise malizioso, ma tornò subito serio. Rifletté

qualche secondo, poi riprese. «Permettimi di seguirvi. Se si comporterà bene, non interverrò». Dal tono nutrivo dei seri dubbi. «A parti inverse ti piacerebbe sapere che ha assistito al momento in cui ti scarico per lui?». Gli scoccai un’occhiataccia. Un sorriso gli saettò sulla faccia. Poi avvenne tutto molto in fretta e non ebbi il tempo di reagire. Mi spinse indietro, bloccandomi tra il suo corpo e il bracciolo del divano. D’istinto rovesciai la testa, scoprendo il collo. La sua bocca era a pochissimi centimetri dalla mia. «Credo che il problema non stia tanto in un piccolo innocente bacio» mormorò. Non c’era traccia di insicurezza nella sua voce. Gli occhi scuri bruciavano. «Ah no?» sussurrai. Non ero in grado di muovere un solo muscolo, ma se ci fossi riuscita, non sarebbe stato per scappare. Tutt’altro. «Sarebbe riuscire a fermarmi» mormorò avvicinando le labbra alla mia gola, ma non la sfiorò nemmeno. Com’era il detto? Il fuoco, la paglia… Non ricordavo. Mi sentivo bruciare. Di scatto si mise seduto e scoppiò in una risata nervosa. Gli occhi fiammeggianti, la bocca serrata. Restai a fissarlo imbambolata. Almeno non ero stata a un o dallo svenire. «Se fosse stata una gara di autocontrollo avresti perso miseramente» sogghignò. «Vuoi un premio?» ribattei irritata. Avevo ancora il fiato corto e il cuore martellante nel petto. «Un giorno lo avrò» disse sicuro. «E ci tengo a essere il primo, l’unico e l’ultimo, ergo questa sera non appena Thompson farà un o falso… ». Sembrava desiderare quel o falso più di ogni altra cosa al mondo. Tentai di protestare, ma mi fermò subito. «Rimarrò abbastanza lontano da non riuscire a vedere né sentire, mi affiderò solo a ciò che ti sento provare. Se ti farà arrabbiare o spaventare è spacciato. A che ora avete appuntamento?» chiese storcendo la bocca. Era un compromesso, anche se l’idea non mi faceva impazzire. Sarei stata sulle

spine tutto il tempo con l’ansia che saltasse fuori dai cespugli per fare a pugni, ma almeno avremmo messo da parte quella stupida storia una volta per tutte. «Otto e mezza» borbottai. Sarebbe stato mega imbarazzante ed ero ancora arrabbiata per lo scherzetto del divano. Ad ogni modo non mi stava ascoltando. Era corso alla finestra che dava sul giardino davanti alla casa. Lo sentii imprecare a denti stretti. «I miei sono tornati. Molto prima di quanto pensassi». Si voltò verso di me, deluso e preoccupato. Non c’era bisogno che mi dicesse che dovevo sparire alla velocità della luce. Scattai in piedi e indossai il giaccone. Lasciò la finestra e mi raggiunse. Prese la mia mano e la portò alle labbra sfiorandola appena. Non sentii troppo dolore, perché eravamo stati vicini molto tempo e ci stavamo riabituando l’uno all’altra. «Scappo. Ci vediamo più tardi» mormorai. Non avrei voluto lasciarlo ma non potevo rischiare di farmi trovare lì da una delle persone che aveva complottato per tenerci lontani. «Liberati di Thompson in fretta» disse fissandomi con intensità. Annuii e corsi via. Con il cuore gonfio feci al contrario la strada che mi aveva portato da lui. Separarmi da lui mi metteva una certa angoscia. Era irrazionale, perché probabilmente l’avrei rivisto poche ore più tardi. Stavo per uscire dal giardino dei Miller quando un fischio richiamò la mia attenzione. Sollevai la testa: dalla finestra della sua stanza Sam fece segno di salire. Perché no? Entrai dalla porta sul retro e lo raggiunsi al primo piano. La camera di Sam era per me un luogo famigliare almeno quanto la stanza dei giochi. Ampia, luminosa, dagli spazi ben organizzati, le pareti e gli infissi bianchi. Il computer portatile occupava solo una piccola parte della scrivania invasa dalle carte, giornali, libri di scuola e di narrativa. Alle pareti non c’erano poster di attori o cantanti, ma le cartine dei luoghi che aveva visitato, le riproduzioni delle opere dei fotografi che più amava. Al centro della stanza il letto ad una piazza e mezza, il copriletto verde smeraldo. Scarpe e felpe erano sparse dappertutto, sul pavimento, buttate sulle sedie e sulla

scrivania. Sam armeggiava con la macchina fotografica seduto sul letto. «Sono ati gli Unni?» chiesi perplessa. Alzò lo sguardo su di me. Mi osservò per qualche minuto, poi sorrise. «Hai un bel aspetto» esclamò sorpreso. «È così difficile da credere?» chiesi ridendo. «Ultimamente sì». Si accigliò. Restammo in silenzio per qualche secondo, entrambi alla ricerca di un modo per affrontare il discorso. Anzi, i discorsi. «Allora?» esclamammo insieme. Scoppiammo a ridere. «Inizia tu, sono tutto orecchi». Depose la macchina fotografica, si appoggiò alla testiera di legno e distese le gambe. Sospirai e sedetti sul bordo del letto. Ero nervosa. Nessuno al mondo mi conosceva bene come Sam. Se avesse capito cose che non volevo sapesse o che non volevo sapere? Lisciai con le dita le pieghe verdi del copriletto. «Da dove vuoi che cominci?» domandai titubante per prendere tempo. «Non saprei… Dall’inizio?» scherzò nel tentativo di stemperare la tensione. «Prima o dopo il pugno?» chiesi severa. Scoppiò a ridere. «Dai Em, non gli ho fatto male e lo meritava. Succede tra fratelli» sorrise di nuovo. Era bello sapere che stavano tornando uniti come prima. «Non è una lunga storia a dire la verità. Ieri sera si è presentato a casa mia e ha chiesto scusa. Ha lasciato Jackie, ammesso le sue colpe. Sembra sincero» dissi evasiva. Il riassunto del riassunto. Mi pentii di non aver concordato meglio con Alec la versione da dare. «Questo me l’ha già detto lui. Raccontami qualcosa che non so, tipo, come stai tu» incalzò. «Sto bene, credo. È presto per dire che cosa sarà, se sarà. Vorrei solo che le cose

tornassero normali per un po’». Lasciai cadere quelle parole, in cui non credevo nemmeno io. «Non è possibile, lo sai. Siete troppo coinvolti. Tante cose stanno cambiando» aggiunse. «A proposito di cambiamenti… Sbaglio o anche tu hai qualcosa da raccontare?» dissi felice di poter cambiare discorso. Quel parlare di evoluzioni ineluttabili mi stava mettendo tristezza. «Immagino che tu conosca già una versione della storia» sospirò. «Può darsi. Raccontami qualcosa che non so» risposi con una punta di malizia. «Allora, com’è avere la ragazza?» «Non ho la ragazza» rispose imbarazzato. Lo guardai malissimo. Si stava già tirando indietro? «Non fare quella faccia! Devi sempre saltare alle conclusioni. C’è stato un bacio, vero, è stata una bella serata, vero, lei mi piace, verissimo, ma non sto per regalarle un anello di fidanzamento o robe simili. Vediamo come va» disse pratico. «Quanta razionalità Samuel Miller» lo rimproverai. «Mi biasimi per questo? Abbiamo visto cosa combinano i tipi ionali» ribatté. Touchè. «I tipi ionali faranno ammenda» dissi per difendere il colpevole chiamato in causa. Sam ridacchiò. «Quanto hai intenzione di farlo penare?» «Mah… Non saprei. Due mesi e mezzo?». Già, come no. Forse la battuta era uscita più amara di quanto avessi voluto. «Sappiamo entrambi che non resisterai più di una settimana». Sperai con tutte le forze che Sam avesse torto, perché in una settimana Connie non avrebbe mai trovato l’incantesimo. «Come l’ha presa il nostro biondo capitano?» continuò con un sorrisone. Gli pizzicai il polpaccio. Sapevo che moriva dalla voglia di

dirmi “te l’avevo detto”. «Non lo sa. Credo sappia che Alec e Jackie si sono lasciati, ma non il resto. Questa sera gli spiegherò la situazione» dissi abbattuta. Che situazione odiosa. «Auguri piccola» ridacchiò. «Lo trovi divertente?» «Abbastanza. Non conosco bene Thompson e non so come la prenderà, ma conosco Alec. Ci sarà da divertirsi» disse con aria sognante. Decisi di vendicarmi un po’. «Dove porterai Madison questa sera?» chiesi sfoderando il migliore dei miei sorrisetti. Sam rispose limitandosi a guardarmi con aria interrogativa. «È sabato Sam, si aspetterà che la inviti ad uscire. Hai presente un appuntamento? Robe simili?» ripetei facendogli il verso. Impallidì. Era chiaro che non ci aveva minimamente pensato. «A dir la verità volevo andare al cinema con Alec» balbettò. In quel preciso momento, come se fosse stato evocato, un Alec di ottimo umore entrò dalla porta. «Arrivano i soccorsi» esordì sornione. Sam si alzò per andargli incontro e lo salutò con un pugno sulla spalla. «Per fortuna sei arrivato. Emma è in modalità terzo grado» disse fingendosi molto sollevato. Alec si voltò verso di me regalandomi un luccicante sorriso con gli occhi e con la bocca. Arrossii. Era strano stare di nuovo tutti insieme, a carte quasi scoperte. Mi alzai dal letto e finsi di essere molto impegnata ad abbottonare la giacca. Mi avrebbero preso in giro per i successivi tre anni se avessero notato che mi stavo commuovendo. «Non vi assillerò oltre con i miei discorsi da mocciosa. Vado, Kate sarà contenta di sapere che sono viva e questa sera mi attende un caffè impegnativo». L’espressione giocosa di Alec si spense. Sam scoppiò a ridere e gli diede una gomitata. Alec ricambiò con un pugno sulla spalla. Scossi la testa e lanciai

un’occhiata torva ad entrambi. «Vedo che avete parecchie cose da dirvi. Avvertitemi quando avrete scoperto il fuoco o la ruota». Feci per andarmene ma tentennai. Avrei voluto abbracciare Sam, ma non sapevo come comportarmi. Quelle nuove dinamiche erano ancora un mistero per me. Sam colse il mio imbarazzo e rimediò come al solito. Mi venne incontro e mi stritolò in un abbraccio dei suoi. «Ti voglio bene» sussurrò. «Anch’io». Non aggiunsi altro. Da sopra la spalla del mio amico alzai gli occhi su Alec. Non c’era invidia o gelosia nel suo sguardo ma una speranza dolorosa, un’attesa che sembrava non dovesse finire mai. Ti darò tutto quello che ho. Possiedi già tutto quello che sono. Fino alla fine dei giorni. Mi sciolsi dall’abbraccio e corsi via. Correvo verso casa, piangendo e ridendo. Completamente dissociata sulla soglia della nuova vita. Non sapevo cosa aspettarmi, se sarei stata felice o mi sarei spezzata. Se avrei vissuto la pienezza dell’amore o mi sarei addormentata per sempre. Doveva essere quella la felicità. Un misto di speranza e paura, certezza e indecisione. Solo mentre aspetti puoi essere felice, perché hai tutto davanti a te, tutto è possibile, tutto deve ancora succedere. Quando aspetti che tutto cominci. Arrivata a casa mi fermai sulle scale della veranda per prendere fiato. Mi concentrai sul mio segreto per qualche minuto e assunsi l’espressione più neutra di cui ero capace. Connie ed Eileen guardavano la televisione. Di mamma e Miranda nessuna traccia. «Siete sole?» chiesi lasciandomi cadere sul divano accanto a Eileen. «Sì, credo siano andate ad un sabba». Constance ridacchiò, scuotendo i lunghi capelli corvini. Le scoccai una finta occhiata di rimprovero. «Sono andate al vivaio a scegliere i fiori per la prossima primavera» interloquì Elle senza staccare gli occhi dal televisore. Aveva un’aria strana.

«E bacche e radici e misteriosi semi» aggiunse Connie con aria complice. Scoppiai a ridere. Era comico il contrasto tra loro. Eileen sbuffò. Doveva essere uno di quei giorni “non ne voglio sapere delle vostre stranezze”. Come se non fosse un problema anche suo. Decise di cambiare argomento e si concentrò su di me. Evviva. «Dove sei stata?» chiese con lo stesso tono con il quale mi avrebbe chiesto l’ora. «Da Alec e poi da Sam. Ah quasi dimenticavo, più tardi esco con Charlie per un caffè» risposi disinvolta. Connie scoppiò in una fragorosa risata e io con lei. Eileen ci fissò livida. Era uno so vederla così arrabbiata. «Sei un’incosciente e tu, Constance, non sei da meno. Vi metterete nei guai, se non peggio» ci rimproverò furiosa. Si alzò dal divano e corse su per le scale. Connie ed io ci scambiammo un’occhiata perplessa. «Ha qualcosa» dissi sicura. «È strana da ieri sera. Non ha voluto dirmi dove ha dormito e so per certo che non era da Madison» disse Connie. Sembrava sollevata di poter condividere la sua preoccupazione con qualcuno. «Ci parlo io. Prima, però, ti devo chiedere una cosa» dissi esitante. Constance fece cenno di andare avanti. «Credi davvero che esista un incantesimo?». Era il dubbio che più mi tormentava e la mia unica speranza. «Ne sono convinta. Ricordi la storia che ci ha raccontato Miranda?» disse eccitata. Annuii. La leggenda della coppia perfetta era tornata alla mente anche a me, ma c’era un problema sostanziale: si trattava per l’appunto di una leggenda. «La nonna ha ragione, esiste sempre un fondo di verità. Ammesso e non concesso che siano vissuti due tizi che si chiamavano Rose e Lance, erano un Custode e una strega e hanno avuto addirittura dei figli». Feci per interromperla ma mi bloccò. «I figli sono il motivo per cui queste unioni sono vietate, Emma. Non capisci? Tolto il blocco, non ci saranno problemi. Cioè ce ne saranno, ma di natura diversa» concluse dubbiosa.

Prima che si perdesse nei suoi pensieri, le scoccai un bacio sulla guancia. Non c‘era altro di cui discutere per il momento e volevo andare da Eileen. Salii le scale e aprii la porta della nostra stanza. Elle, seduta sul letto, piegava la montagna di vestiti che aveva ammassato durante la settimana. Le piaceva mettere in ordine quando era nervosa, la rilassava. «Che succede?» dissi sedendomi accanto a lei. Alzò lo sguardo su di me. «È maledettamente difficile essere quello che siamo» ammise mordendosi il labbro. «Non dirlo a me» commentai cupa. Mi guardò con un’espressione indecifrabile. «Sta rischiando parecchio per stare con te». Sembrava assente, la mente chissà dove. Cosa l’aveva turbata tanto da renderla malinconica? Non era da lei. Eileen reagiva, sempre. Magari nel modo sbagliato, ma reagiva. «A dire la verità è convinto che sarei più al sicuro se stesse lontano da me» ribattei aggrottando le sopracciglia perplessa dal comportamento di mia sorella. Un lampo le attraversò lo sguardo. Per un battito di ciglia. «Deve amarti davvero molto. Invidiabile» disse sorridendo, ma con una pena negli occhi assolutamente nuova per me. La mia perfetta, bellissima, sorella maggiore con fidanzato adorante e conforme alle regole, invidiava me? Doveva aver preso una botta in testa. «Stai scherzando? Alec ed io non ci possiamo nemmeno toccare senza prendere la scossa. Senza contare che anche potendo non dovremmo farlo». Già, anche potendo. Eileen strinse le labbra e scosse la testa. «Cos’è questa storia del caffè con Thompson?» indagò. Era una campionessa nel cambiare discorso. Inutile cercare di cavarle di bocca qualcosa, evidentemente non aveva voglia di parlarne. Mi arresi e le raccontai brevemente il mio pomeriggio. Sorvolai su un paio di dettagli che non avrebbe gradito. Concluso il racconto mi fissò con aria preoccupata. «È questo che vuoi? Intendo, che vuoi veramente?» domandò a bruciapelo. «Sì» risposi serena. Era quello che potevo avere. Almeno per il momento.

Quando Kate e Miranda tornarono dalla serra scendemmo per preparare la cena. Connie aveva apparecchiato e aspettava l’ora di mettersi a tavola stravaccata sulla poltrona di papà, immersa nella lettura di un tomo dall’aria consumata e polverosa. Miranda le ò accanto e le scoccò un’occhiataccia. Connie sbuffò, chiuse il libro e lo nascose dietro il cuscino della poltrona. Se mamma avesse scoperto con che genere di letture si dilettava la figlia minore, non sarebbe stata affatto contenta. Cominciai a pulire l’insalata, mentre Eileen si occupava della carne. Kate era in lavanderia a caricare un’altra lavatrice. Tornò in cucina e sorrise soddisfatta vedendoci al lavoro. Fu una cena tranquilla. Parlammo della festa, chi c’era e cosa indossava. Ci scambiammo qualche innocente pettegolezzo. Tutto filò liscio fino a quando mamma domandò chi fosse ato a prendermi la sera precedente. Per un soffio non mi andò di traverso il boccone. Ero stata un’ingenua a credere che non avrebbe fatto domande. «Charlie Thompson» risposi cercando di non soffocare. Visto che eravamo in argomento era il caso di annunciarle che sarei uscita dopo cena. Mamma alzò la testa dal piatto e mi guardò divertita. Di sfuggita lanciò un’occhiata soddisfatta a Miranda che non le diede bado. «Quel Charlie Thompson? Non pensavo fosse il tuo tipo» commentò maliziosa. Arrossii. Potevo immaginare qualcosa di più imbarazzante? Il genere di situazione che sarebbe piaciuta un sacco ad Alec. «Non lo è, infatti. Siamo soltanto amici e questa sera, da buoni amici, andremo a bere un caffè. Se non ti dispiace» conclusi sforzandomi di comportarmi da figlia obbediente. «Niente affatto. Perché non lo fai entrare così me lo presenti?» azzardò. Povera mamma vittima delle mie macchinazione a danno delle sue. «Magari la prossima volta». Connie venne in mio soccorso iniziando a ciarlare di una compagna di classe che aveva litigato con Tizia e Caia per motivi al limite del paranormale. Aiutai a sparecchiare in fretta e furia e poi corsi a darmi una sistemata.

Alle otto e mezzo in punto sedevo sul suv del capitano della squadra di basket.

Un amico di vecchia data

Emma

La scelta ricadde sul locale più frequentato della città, il Dragonfly. Il posto adatto per are inosservati, commentai mentalmente. Due tavoli accanto al nostro, la migliore amica di Jackie, Violet Roberts, e il suo ragazzo, Taylor Hunt, sorseggiavano una Coca, esibendo sfacciatamente la loro felice unione. Nel giro di mezz’ora metà della scuola avrebbe saputo dove stavo trascorrendo il mio sabato sera e soprattutto con chi. Fantastico. Ordinati i caffè, Charlie sfoderò uno dei suoi leggendari sorrisi. «Sono curioso di sentire il discorsetto che ti sei preparata per scaricarmi» esordì disinvolto. La sua perspicacia non mi sorprese affatto. Avevo capito sin dal primo momento che Charlie non era un idiota. Fortunatamente non sembrava turbato dall’evolversi della situazione. Ci avevo visto giusto: per lui si era sempre trattato di un gioco. «Non ho preparato nessun discorsetto. Mi hai chiesto di essere chiara e lo sarò, ma immagino avrai intuito che… ». Non mi lasciò il tempo di terminare la frase. Si protese verso di me con un sorriso beffardo, forse più amaro del solito. «So cosa stai per dire e ti risparmio la fatica. Sappi che non sono il tipo che porta rancore, quindi accetto di buon grado il ruolo dell’amico. Sempre che al tuo nuovo-vecchio ragazzo non dia fastidio» disse calmo. Charlie era davvero imprevedibile. C’era qualcosa che potessi aggiungere? Aveva già fatto tutto lui. Gli scoccai un’occhiataccia. «Alec ed io non stiamo insieme adesso come allora. Credo che tu non debba… ». «Bando ai convenevoli» m’interruppe. «Tanto meglio. Possiamo fare una bella chiacchierata tra amici. Indovina chi è venuta a trovarmi oggi pomeriggio?» chiese con aria misteriosa. «Non riesco proprio a immaginarlo» risposi sarcastica. Dove voleva andare a parare? Cominciai a sentirmi inquieta.

«Povera Jackie» abbassò il tono della voce per non farsi sentire da chi ci circondava. «Era disperata. Il tuo amico Stevens si è comportato proprio male. Piantarla così dopo che… La faccenda della camera era stata una così bella sorpresa» disse scuotendo la testa. Di cosa accidenti stava parlando? «Non so a che cosa ti riferisci Charlie e francamente… » «Alla camera che Jackie ha prenotato al Blue Hill ovviamente» m’informò serafico. Una voragine mi si aprì sotto i piedi. E quando ha voluto di più, l’ho lasciata. Non potevo… Io sono tuo… Chi dei due stava mentendo? Alec per non deludermi o Charlie per fregarlo? Non stavo capendo più niente. Ero stanca dei loro giochetti, che se la sbrigassero da soli. Non volevo saperne di guerre al testosterone, me ne sarei chiamata fuori. Le tempie cominciarono a pulsarmi. Dovevo cercare di stare calma. Se Alec era nascosto da qualche parte là fuori, si sarebbe precipitato dentro al bar come un pazzo. Sperai che Sam fosse riuscito a convincerlo ad andare al cinema. In ogni caso sarebbe stata un’ottima mossa andarsene da lì, tanto per evitare drammi. «Charlie, scusami. Non mi sento bene. Mi accompagneresti a casa?» balbettai sfinita. Non era del tutto una bugia. La testa mi pulsava dalla nuca fino alle tempie. Annuì senza battere ciglio. Mi aiutò a mettere la giacca, pagò i caffè che avevamo appena assaggiato e una volta arrivati nel parcheggio aprì la portiera della macchina. Ricordai la sera precedente, quando era smontato dalla macchina vestito come un vero gentiluomo del Sud. In poche ore erano cambiate parecchie cose. Alec era tornato e niente aveva più importanza, ma non potevo fare a meno di pensare che una parte di me, forse, un giorno, avrebbe accettato l’idea che Charlie potesse diventare qualcosa di più di un amico. Non sarebbe mai stata la stessa cosa. Non sarebbe mai stato il vero “e vissero felici e contenti”, ma solo uno di quei possibili finali che i registi scartano perché poco avvincenti. Senza Alec la mia esistenza sarebbe stata un brutto film con un finale insipido.

Invece era tornato. Aveva disobbedito, ferito Jackie, tradito la fiducia di suo padre per tornare da me. Ne valevo la pena? I suoi sentimenti erano reali o indotti dal legame che ci univa? Non riuscivo a togliermi quel dubbio dalla testa. Il tragitto fino a casa trascorse in silenzio. Ero troppo immersa nei miei pensieri e troppo preoccupata all’idea di trovare Alec in veranda sul piede di guerra, che non riuscii a spiaccicare parola. Arrivati davanti al cancelletto di casa Charlie scese dall’auto per salutarmi. «È stata breve come prima uscita, non trovi? Comincio a pensare che tu sia allergica al mio fascino. È la seconda volta che ti senti male in mia presenza» commentò sornione. Fece un o verso di me. Arretrai d’istinto, ma non potevo andare lontano. Sentivo dietro le spalle il metallo freddo della carrozzeria dell’auto. In pratica ero in trappola. I suoi occhi scuri guizzarono maliziosi. Abbassò lo sguardo sulla mia bocca. «Mi dispiace, forse è ancora il malessere di ieri sera. Andrò subito a letto. Una bella dormita mi farà bene. Grazie per la chiacchierata, ci vediamo lunedì». Cercai di scivolare lateralmente e guadagnare la fuga verso il vialetto, ma fu più svelto di me e appoggiò entrambi i palmi delle mani alla carrozzeria della macchina, bloccando il aggio sia a destra che a sinistra. Se ci fosse stato Alec mi avrebbe lanciato uno di quegli sguardi alla “te l’avevo detto”. Beh non prima di avergli staccato la testa. «Toccami con un dito e mi metto a urlare» dissi con un sorrisetto. Non riuscivo a prendere sul serio la situazione e non volevo dare l’impressione di sentirmi sopraffatta. Le parole di Alec mi risuonavano ancora nella testa. Sei così vulnerabile in questo momento. Charlie scoppiò a ridere. Si staccò dalla macchina e mi fece are. Mi avviai verso il vialetto senza degnarlo di uno sguardo. Sbattei forte il cancelletto dietro di me. «Sei uno so Hataway e so essere molto paziente. Buonanotte». Sempre ridendo montò in macchina. Lo sentii mettere in moto e allontanarsi in direzione del centro. Tirai un sospiro di sollievo.

Finalmente sola. Di Alec non c’era traccia. Meglio così. Forse si era reso conto di quanto fossero infantili le sue manie di controllo e si era deciso ad andare al cinema con Sam. L’indomani avrebbe dovuto spiegarmi due e tre cosette. Non sarei stata in grado di affrontarlo in quel momento, ero troppo stanca e il mal di testa non mi dava tregua. Avevo appena messo piede sul primo gradino della veranda, quando notai sulla soglia una figura sconosciuta. Mi sorprese soprattutto perché si trattava di un uomo e di uomini non ne giravano molti in casa Hataway. A dir la verità non ne girava neanche mezzo. Non aveva un’aria famigliare e tanto meno l’aspetto di uno del posto. Era un uomo di mezza età, alto, magro, vestito elegantemente. Indossava una giacca di velluto blu, pantaloni scuri e scarpe lucide marroni. Una sciarpa grigia avvolgeva il lungo collo bianco. Il colorito era pallido e i lineamenti sottili, quasi aguzzi, crudelmente perfetti. Non appena si accorse della mia presenza si voltò e sorrise con un solo anglo della bocca. Sprezzante e soddisfatto. «Tu devi essere Emma». Non era una domanda. La sua voce era bassa, gradevole, ma come i tratti del viso, non riusciva a nascondere una comata crudele freddezza. Qualcosa si congelò dentro di me. Se fossi stata un gatto avrei estratto gli artigli e rizzato il pelo sulla schiena. Sentii l’energia scorrere come un torrente nelle vene. Chiusi tutti i cassetti della mia mente a doppia mandata. Chiunque tu sia, non puoi entrare. Miranda dietro di lui si chiuse la porta alle spalle. Lo sguardo tagliente, l’aria tirata. «Esatto Louis, questa è Emma e ora se vuoi scusarci… ». Aveva lasciato cadere la frase con un tono di gelida cortesia. L’uomo elegante non sembrava intenzionato ad andarsene. Salii gli ultimi gradini e mi misi accanto alla nonna per osservarlo più da vicino. I suoi occhi erano neri come la pece, i capelli biondi quasi bianchi lunghi fino alle spalle. Dei baffetti ben curati sormontavano il labbro sottile.

«Quanta fretta, Miranda. È così che si tratta un vecchio amico come me?» sorrise. Almeno ci provò perché quella smorfia non poteva essere un vero sorriso. C’era qualcosa di viscido nel modo in cui aveva pronunciato la parola “amico”. «Un vecchio amico come te non va nemmeno fatto entrare in casa» rispose gelida. «Miranda, Miranda… È questo l’esempio che vuoi dare alle tue ragazze?» disse ironico. Strinse gli occhi facendoli diventare due fessure taglienti come una lama. Sentivo l’odio che la nonna provava per quell’uomo uscirle da ogni poro della pelle. Mentalmente iniziai a costruire un muro che ci difendesse dalla sua presenza. Un muro invisibile che ci separasse dalla malvagità che emanava. Immaginai di intrecciare centinaia di migliaia di fili attorno alla casa, come un bozzolo, di murare le porte e le finestre, per tenerlo lontano da noi. Miranda mise una mano sulla mia spalla. Il torrente di energia divenne un fiume in piena. «Emma, tesoro, saluta il signore. Se ne sta andando» disse stringendomi leggermente la spalla. «Buona sera» dissi cercando di sostenere il suo sguardo. Lui lo ricambiò interessato. «È stato un piacere conoscerti, Emma. Speravo di incontrarti, anzi si può dire che sono venuto apposta per te» sorrise. Un sorriso gelido. Chi era quello sconosciuto e cosa voleva da noi? Sentii lo stomaco accartocciarsi come una palla di carta straccia. Ancora sostenni il suo sguardo, aggiungendo l’espressione più sorpresa che fui in grado di modellarmi sulla faccia. Strizzò di nuovo gli occhi e per una frazione di secondo una smorfia di frustrazione, forse di dolore, gli deformò i lineamenti perfetti. Durò un battito di ciglia, poi riprese l’espressione di gelida cortesia che aveva mantenuto fino a quell’istante. Estrasse con disinvoltura dal taschino della giacca un piccolo orologio d’oro, guardò l’ora ed emise un profondo sospiro. «Purtroppo si è fatto tardi, devo scappare. Avrei voluto fermarmi con tutte voi belle signore e signorine e magari salutare altri vecchi amici che abitano nei

paraggi, ma il tempo è tiranno. Dico bene Miranda? Tic tac tic tac». Se ne andava contro la sua volontà. La controllata formalità dei suoi modi non riusciva a celare la rabbia che covava. Provai un immediato sollievo al pensiero che da lì a poco se ne sarebbe andato. Lo sentivo strisciare verso di me anche se non aveva fatto mezzo o nella mia direzione. Mi fece pensare a una belva acquattata nell’ombra. Ovviamente io ero l’ignara gazzella. Fantastico. La nonna lo fulminò con lo sguardo. Se non altro non ero sola nella giungla. «Temo che il nostro prossimo incontro avverrà in circostanze ben più tristi. C’è poco da sperare con il povero William così malato». I suoi occhi dicevano che avrebbe ballato cantando sulla tomba del povero William e che avrebbe voluto farlo il prima possibile. Il labbro di Miranda tremò in maniera impercettibile e la presa sulla mia spalla si fece più convulsa. Se non avessi avuto addosso la giacca mi avrebbe conficcato le unghie nella pelle. «Spero che il nostro prossimo incontro Louis sia al tuo funerale». Esistevano le maledizioni? Avevo l’impressione che la nonna ne avesse appena formulata una. «Attenta Miranda. Stanno per finire i tempi in cui puoi giocare con il fuoco quanto ti pare». Aveva abbandonato il tono falso cortese per uno ben più minaccioso. D’istinto mi avvicinai di più a Miranda. «Se pensi sia arrivato il tuo momento ti sbagli». Non sembrava turbata o spaventata. Ero al sicuro accanto a lei, lo sapevo, eppure non riuscivo a impedire a una certa inquietudine di montare lenta dentro di me. Un presentimento di pericolo che avevo già conosciuto. «Ci rivedremo, che ti piaccia o no. Arrivederci mia piccola Emma» disse rivolgendosi a me, poi fece un cenno di saluto con la testa, scese le scale e prima di aver raggiunto il cancelletto svanì nell’aria. Libera di scatenare tutta l’ansia che provavo, mi voltai terrorizzata verso mia nonna. «Andiamo tesoro» disse in un sussurro spingendomi dentro casa.

La luce famigliare del soggiorno cominciò a dissolvere la sensazione vischiosa di oscurità che mi si era appiccicata addosso da quando avevo scorto la figura sulla porta. Seguii la nonna in cucina. Mamma, Eileen e Connie erano sedute intorno al tavolo da pranzo. Quando Miranda entrò, Kate balzò in piedi.. «Se ne è andato?» chiese angosciata. I suoi movimenti erano secchi, nervosi, le iridi scure si mescolavano al nero dilatato della pupilla. Al contrario Miranda sembrava padrona della situazione. Si avvicinò a mamma e la guardò negli occhi. «Il suo tempo stava per scadere. Non può fermarsi troppo senza un permesso ma tornerà. Quando lo farà, saremo pronte». Irradiava così tanta sicurezza che mamma si calmò all’istante. Annuì convinta stringendo le labbra, poi un pensiero le attraversò la mente, facendole corrugare la fronte. La sua espressione tradiva un misto di incredulità e preoccupazione. «Credi davvero che William… » esitò. Forse non voleva parlarne davanti a noi. «Non lo so». La sua maschera impenetrabile si incrinò. L’avevano tradita gli occhi, la voce. Il tempo di rendermene conto ed era tornata imibile come sempre. «Vai a fare quella telefonata, poi ci metteremo al lavoro. Non abbiamo molto tempo, mezzanotte è vicina». Mamma uscì dalla stanza e Miranda si voltò verso di me, ancora imbambolata sulla soglia. «Hai fatto un ottimo lavoro, cara». Le sorrisi grata per il riconoscimento anche se non ero sicura di aver capito a cosa alludesse. Stavo per domandarglielo quando intervenne Eileen. «Cosa sta succedendo nonna? Cosa voleva da noi?» «I nostri segreti tesoro, ma sono molto ben protetti» disse sorridendomi ancora. «Chi è William?» chiese Connie. Miranda la guardò. Un’espressione triste le si dipinse sul volto. «William e Louis sono Ambasciatori. I capi dei Custodi. William è il capo dei capi» rispose in tono pratico. Una spiegazione illuminante.

«Lo conosci, nonna?» domandai. Qualcosa nella sua espressione mi disse che lo conosceva. Eccome. «In gioventù abbiamo lavorato insieme». Non era la risposta che aspettavo e non l’aspettavano nemmeno le mie sorelle. La guardammo sbigottite. «Era un periodo di tensioni. Per non far scoppiare un’altra guerra, si decise di ricorrere alla diplomazia. William era l’assistente personale dell’Ambasciatore di allora, Julien Murat, il padre di Louis. Io la sorella minore di una strega molto dotata e molto sveglia, che era stata scelta come portavoce, Jane Foley. Eravamo giovani, idealisti, fu un bel periodo. Intenso ma bello». Miranda non riuscì a proseguire. Ci fissò per qualche secondo in silenzio, poi si mise ad armeggiare nell’armadietto delle pentole. Prese la più grande, la riempì d’acqua e la mise sul fornello. Da una delle credenze estrasse un rotolo di pelle scamosciata marrone chiaro, chiuso da una fibbia d’argento finemente cesellata. Al centro della decorazione erano incise le iniziali “A. M”. Lo depose sul piano da lavoro insieme a un mortaio munito di pestello, preso anch’esso dalla credenza. Aprì il cinturino stendendolo davanti a sé. Conteneva una dozzina di piccoli attrezzi: lame, pinzette, forbicine. «Questi sono gli strumenti che occorrono per preparare una pozione. Erano di mia madre. Un giorno saranno di Constance, se dimostrerà di averli meritati» le disse scoccandole un’occhiata severa. «Stiamo per preparare una pozione?» chiese la futura erede, fremendo d’impazienza. «Sto per preparare una pozione. Voi starete a guardare, non possiamo permetterci errori». Il tono non ammetteva repliche. «A cosa serve?» chiese Elle con una punta di curiosità. «A tenere lontano dalla casa le persone con cattive intenzioni. La prepariamo ogni anno, il giorno dopo Halloween. Voi vi occuperete di cospargere porte e finestre. In cinque impiegheremo meno tempo». Kate rientrò in cucina. Aveva in mano un sacchetto di carta e nell’altra una bottiglia di vetro. Depose entrambi sul piano da lavoro, si rimboccò le maniche e iniziò ad aiutare Miranda. Estrasse dalla busta dei semi neri che versò nel mortaio e cominciò a pestare.

«Bene, possiamo iniziare» disse la nonna soddisfatta. Cominciò a sminuzzare un ramo di lavanda, preso dal sacchetto. Il profumo si diffuse subito per la stanza. I suoi movimenti erano come sempre aggraziati e veloci. Mamma aveva ridotto i semi in una polvere nera e compatta. Batteva il pestello contro il mortaio, mentre con un filo di voce ripeteva una cantilena sconosciuta. «Cosa c’è dentro oltre alla lavanda e ai semi di papavero?» disse Elle storcendo il naso. Fin da bambina non ne aveva mai sopportato l’odore. «Semi di rosa canina e di verbena, acqua piovana della scorsa primavera, una goccia di sangue di vostra madre e alla fine aggiungeremo un ingrediente nuovo. Una goccia di sangue di Emma». Kate aprì la bocca per obiettare, ma Miranda la fulminò con lo sguardo. Fantastico. Non vedevo l’ora di immolarmi per la causa. «Perché di Em?» chiese Connie concentratissima. «Perché è la seconda figlia e perché sarà lei a mettere il sigillo» rispose mescolando in una ciotola la lavanda insieme all’acqua che aveva versato dalla bottiglia di vetro. «Miranda!» esclamò mamma scandalizzata. «Cos’è un sigillo?» ignorai le proteste di mia madre. Mi interessava capire, visto che me ne sarei occupata di persona. «Più o meno quello che hai fatto in veranda tesoro» ripose Miranda in tono rassicurante. Beh era stato facile, no? Mamma smise di pestare i semi e la fissò con aria sgomenta. «Cosa significa quello che hai fatto prima in veranda?» domandò con voce strozzata. «Non fare quella faccia, Caterina. È nella sua natura, lo sai meglio di me. Non ha nemmeno avuto bisogno che le dicessi cosa fare: ha riconosciuto il pericolo e agito di conseguenza. Non sono più delle bambine, è tempo che conoscano i rischi e imparino a difendersi. Lo sanno fare già piuttosto bene. Ora ami i semi di papavero, per favore» disse allungando la mano per sollecitarla. Kate

obbedì meccanicamente. Le sopracciglia aggrottate, lo sguardo perso. Chissà a cosa stava pensando. Miranda mescolò il tutto nella ciotola e lo versò nell’acqua bollente. Abbassò la fiamma e mise un coperchio. Sedette a capotavola e anch’io presi posto. Sembrò riflettere qualche secondo per raccogliere le idee prima di iniziare a raccontare. «Conobbi Louis Murat quando ero una giovane donna molo ingenua e inesperta e lui un bambino viziato e arrogante. Verso la fine degli anni Sessanta mia sorella Jane venne chiamata a Londra, perché intervenisse come portavoce nelle trattative diplomatiche tra streghe e custodi. Jane decise di portarmi con sé. Avevo 20 anni, non sapevo quasi niente della stregoneria e niente della vita in generale. Trascorrevo le mie giornate a girovagare per i corridoi del palazzo in attesa che mia sorella finisse di lavorare o mi limitavo a portarle il pranzo durante quegli eterni dibattiti. Un pomeriggio m’imbattei nell’assistente di Julien, William Lee Harrison. Aveva un paio d’anni più di me e come me si annoiava a morte. Diventammo amici. Il suo mentore aveva portato con sé il figlioletto Louis. Durante il giorno, però, era troppo impegnato nelle trattative e non poteva occuparsene, così lo affidava al suo apprendista. William scarrozzava Louis in giro per la città, cercava di mettere un freno ai suoi capricci e di insegnargli qualcosa. Murat era pazzo del figlio. Gli sembrava logico e naturale credere che gli avrebbe succeduto un giorno al comando del Consiglio e gli trasmise l’idea che la posizione fosse sua di diritto e per nascita. Niente di più falso. Esiste una certa meritocrazia nell’assegnazione delle cariche all’interno del Consiglio. Comanda chi è capace, chi è giusto. Comanda chi lo merita. Julien era un buon Ambasciatore, equo e integerrimo, ma aveva un grande difetto: era maledettamente arrogante. Chi se non il figlio avrebbe potuto prendere il suo posto? Al piccolo Louis tutto era permesso. Cresceva come un selvaggio, senza regole nè disciplina. Nessuno si preoccupava di insegnargli la distinzione tra bene e male o giusto e sbagliato. Era viziato, pigro, prepotente.

Quando la rovina si abbatté sul padre era ancora un bambino e la cosa lo segnò in maniera definitiva. Divenne un adulto crudele e senza scrupoli, pieno di rancore. Ha sempre ritenuto William la causa della rovina del padre e da quando ha ricoperto il ruolo di Capo del Consiglio non ha fatto che ostacolarlo. Ha cercato in tutti i modi di screditarlo, per prendere il posto che crede gli spetti di diritto». Miranda fece una lunga pausa. Il racconto l’aveva spossata ma avevo la sensazione che a stancarla fosse stato ciò che non aveva detto. Mancava una parte della storia, che non ci sarebbe stata raccontata. Almeno non quella sera. «Interessante, ma cosa ha che fare con noi?» chiese Eileen centrando la questione in pieno. Mamma guardò Miranda e le scoccò un sorrisetto. Ne avevo uno identico anch’io nel mio repertorio e più meno equivaleva a un “e adesso come pensi di cavartela?”. La nonna fece spallucce e si alzò per mescolare il contenuto della pentola. Ero talmente presa dal racconto che avevo scordato cosa stessimo facendo in cucina. «Questa è un’altra storia. Altra storia, altra sera» rispose perentoria. Kate la seguì, prese uno dei coltellini dal rotolo degli “attrezzi” e si procurò un minuscolo taglio sul polpastrello. Fece cadere un paio di gocce di sangue nella pentola fumante. «La pozione è pronta. Constance prendi tre ciotole dalla vetrinetta e tre pennelli abbastanza grandi dal terzo cassetto. Emma, vieni qui per favore, mi serve una goccia del tuo sangue. Hai visto come ha fatto tua madre? Forza, non ti ucciderà » disse sbrigativa. Mia sorella ed io ubbidimmo. La nonna con un mestolo divise il contenuto della pentola nelle tre coppe. «Ora facciamo il giro della casa. Elle, Constance ed io eremo gli infissi delle porte e delle finestre con la pozione, Caterina ed Emma le sigilleranno. Emma devi fare esattamente quello che hai fatto prima in veranda». «Va bene, nonna». Iniziammo il giro.

Sembrava una catena di montaggio. Le mie sorelle si occupavano delle finestre, Miranda delle porte. Kate le seguiva sfiorando gli infissi con la punta delle dita, mormorando a bassa voce una litania incomprensibile. Io chiudevo le operazioni. Al centro della stanza alzavo i miei muri mentali, tendevo fili, sigillavo la nostra casa. Impiegammo un’ora a completare l’incantesimo. Avevamo appena terminato con i lucernari della mansarda quando l’orologio a pendolo del salotto batté dodici rintocchi. Eravamo al sicuro. Ma da cosa?

Un regalo per noi

Emma

Stavo per seguire le mie sorelle e scendere le scale della soffitta, quando Miranda mi trattenne e mi mise in mano un involucro di carta. Nessun fiocco o disegno decorava la confezione. Semplice carta da pacchi, fermata da uno spago ancor più spartano. Un pacchetto anonimo o almeno così voleva sembrare. La nonna non era solita a quel tipo di attenzioni. I regali per tradizione si ricevevano esclusivamente in occasione dei nostri compleanni o per Natale. La guardai sorpresa e mi invitò ad aprirlo. Scartai il pacchetto. Conteneva una lunga catenina tanto sottile da sembrare invisibile. Alla catenina era appeso un ciondolo, una pietra nera, liscia, dalle striature blu cangianti come una notte senza stelle, incastonata in una semplice montatura d’argento. «È un opale nero. Se indossata assorbe l’energia» fece una pausa e mi guardò negli occhi. «Chi è talmente fortunata da possederne una la utilizza nelle fasi di aggio per equilibrare il potere. È un oggetto molto raro e da oggi è tuo. Potresti averne bisogno di tanto in tanto ma non abusarne mai» aggiunse seria. Il mio cervello non fece subito il collegamento equilibrio dell’energia-fidanzato magico che non si può toccare, ma il mio subconscio sì. «Assorbe l’energia» mormorai, lasciandomi conquistare dalla novità. Era un super regalo. Un regalo per noi. Miranda continuava a sostenerci. «Grazie» sorrisi colma di gratitudine senza riuscire ad aggiungere altro. «Prego. Non dire niente a tua madre e non mostrarla in pubblico» aggiunse asciutta e sospirò. Le costava separarsene, potevo leggerglielo in faccia. La maneggiava con una delicatezza quasi amorosa e un vago sorriso malinconico sulle labbra. Mi sentii in colpa a privarla di un oggetto che sembrava esserle così caro. Aggrottai le sopracciglia dubbiosa. Perché aveva scelto di darmela? Se era in possesso di qualcosa che avrebbe potuto tenere a bada il blocco perché non giocarsi subito il jolly? C’erano delle controindicazioni di cui non aveva parlato? Impossibile, Miranda non mi avrebbe fatto correre dei rischi senza avvertirmi.

Non feci nessuna delle domande che mi frullavano nella testa. Non volevo rischiare che cambiasse idea e si riprendesse la collana. Desideravo provarla almeno una volta. Se si fosse rivelata minimamente pericolosa per Alec o per me l’avrei restituita. Alec. Il bisogno di vederlo schioccò come una frustata. Erano ore che non avevo sue notizie. Com’ero riuscita a sopravvivere mesi interi senza di lui? Sembrava impossibile. La nonna mi squadrò preoccupata, ma non abbastanza da chiedermi a cosa stessi pensando. Arrossii al pensiero di doverle rispondere. Per distogliere il suo sguardo dal mio rossore le domandai di aiutarmi ad agganciare la collana e la ringraziai ancora una volta. «Non ringraziarmi tesoro, cerca solo di averne cura, è un oggetto che… » esitò in cerca delle parole. «Stai attenta e basta». Mi diede un buffetto sulla guancia e mi precedette giù dalle scale. La seguii fino alla porta della nostra stanza, ma non scesi al piano di sotto. Desideravo rimanere sola per qualche istante. Avrei provato a chiamare Alec. Dove avevo lasciato il cellulare? Mi accorsi di non averlo con me da quando ero uscita di casa per incontrare Charlie. Sicuramente l’avevo scordato sul comodino. Entrai in camera. Non feci in tempo a premere l’interruttore che un’ombra scura balzò verso di me e la porta alle mie spalle si chiuse con un colpo secco. «Si può sapere perché non rispondi ai messaggi e alle chiamate?» ringhiò a bassa voce. Era furioso. Ero felice che fosse lì, mi era mancato in maniera dolorosa e non vedevo l’ora di parlargli della pietra e di Louis, ma ero anche arrabbiata per quello che mi aveva raccontato Charlie e perché mi aveva spaventata a morte. Di nuovo. Non era nella posizione di fare una scenata. Se avesse alzato la voce tanto da farsi sentire da mia madre, solo un piano sotto di noi, ci avrebbe uccisi entrambi con le sue mani. E poi non ne aveva diritto e basta. Ero io quella arrabbiata. «Cosa ci fai qui?» sibilai.

«Provo a chiamarti da ore» sbottò a denti stretti. Non riuscivo a vederlo in faccia e capire quanto fosse arrabbiato e quanto preoccupato. L’unica luce proveniva dai lampioni della strada. «Ho dimenticato a casa il telefono» risposi piccata. «Comunque la mia uscita è stata brevissima, se è questo che ti preoccupa. Ti avrei chiamato, ma c’è stata un’emergenza». «Lo so. Dovevo andare al cinema con Sam, ma papà ha insistito perché rimanessi a casa. Mi ha spiegato cosa stava succedendo, dell’Ambasciatore. Sembrava preoccupato» esitò. Anche lui lo era, ma era arrabbiato con me e non voleva mostrarsi vulnerabile. «Abbiamo fatto un incantesimo per sigillare la casa» lo rassicurai. «So anche questo. Kate ha chiamato Thomas». Non c’era più tensione nelle sua voce. «ma credo che non mi abbia detto tutto e ci sia dell’altro sotto». Aveva risposto lentamente come se fosse stato distratto da qualcosa. «Non ci dicono mai tutto» risposi sostenuta. Si avvicinò, ma feci un o indietro. C’era qualcosa di cui discutere prima di are al dessert. «Perché sei arrabbiata? Con me?» chiese stupito. «Non saprei. Dimmelo tu, sai sempre tutto» risposi tagliente. Gli sembrava così impossibile che potessi arrabbiarmi con lui? Sospirò. Un respiro corto che assomigliava più a uno sbuffo stizzito. Era molto vicino anche se non mi aveva ancora sfiorata da quando ero entrata nella stanza. Così vicino che lo sentii fremere di rabbia. «Scommetto che è per qualcosa che ti ha detto quell’idiota di Thompson» ringhiò. «Bravo, sei sulla strada giusta. Vediamo come posso aiutarti… Blue Hill ti dice niente?». Meglio giocare a carte scoperte. Non avevamo l’eternità dei tempi davanti. Se al piano di sotto si fossero accorte di qualcosa o se una delle mie sorelle avesse voluto andare a dormire? «Allora?» disse disinvolto. Troppo disinvolto.

«Allora?!?» rantolai. Come poteva prendere tanto alla leggera una cosa del genere? Mi aveva mentito, lo stavo sbugiardando e mi rispondeva come se glia vessi detto “il cielo è azzurro”. Non cercava nemmeno di difendersi. La testa iniziò a girarmi. Non poteva essere vero. Rimase in silenzio qualche secondo poi capì. «Oddio. Non crederai davvero che… Maledizione Emma». Stava urlando sottovoce. Non avrei saputo definirlo in altro modo. «Ti riesce difficile fidarti di me? L’ho lasciata per questo motivo: desiderava di più. Non volevo né potevo darle quello che mi stava chiedendo. Fine della storia» concluse ancora arrabbiato ma compiaciuto. La mia gelosia lo deliziava, lo sapevo. Me la sentiva provare e gli dava la misura del mio amore per lui. Lo rassicurava, come la sua rassicurava me. Avevo creduto a Charlie solo per avere la possibilità di farmi consolare. Era leggermente meschino e mi sentii in colpa, anche se si era trattato di poco più di un sospetto. Un meccanismo difensivo del tipo: non può essere vero che sei tornato, che sei innamorato. Devi aver fatto per forza qualcosa di orribile. «Mi dispiace» mormorai. Mi dispiace di essere così sciocca e impaurita e debole. Mi dispiace. Si avvicinò di nuovo e non indietreggiai. Mi attirò a sé e mi abbracciò. Nessuna scossa, niente lampadine bruciate, punture di spillo lungo le braccia o il resto del corpo. Niente sonno, palpebre pesanti o svenimenti. Solo la pietra del ciondolo si era fatta più calda, la sentivo tiepida a contatto con la pelle sotto la camicetta, dove l’avevo nascosta. Miranda aveva ragione: la collana funzionava. «In cosa stai tenendo occupata la tua energia?» disse stringendomi più forte. Mi cullava, dondolando sulle gambe. Con le labbra sfiorava i miei capelli. Potevo sentire il suo respiro sulle tempie. Non c’era la solita tensione in lui, la cautela con la quale mediava ogni contatto fisico con me. Era molto più sciolto, rilassato.

«Miranda mi ha regalato una pietra che assorbe energia» dissi inspirando il più possibile il profumo dei suoi vestiti. «Ogni tanto avremo un po’ di tregua». La nonna si era raccomandata di non abusarne. «Sembrerebbe funzionare» mormorò assorto, come se stesse valutando diverse possibilità. «Mettiamola alla prova». Non stava chiedendo il permesso. Stava avvisando che l’avrebbe fatto. Mi fece sedere sul letto prendendomi per mano e sedette accanto a me. Non era da lui prendere l’iniziativa in modo così sfacciato. Non si trattava solo di mettersi alla prova, cedendo all’attrazione che ci spingeva l’uno verso l’altra, com’era successo lo stesso pomeriggio. Era stato doloroso per lui giocare con il fuoco ed era consapevole del pericolo che stavamo correndo. In quel momento, invece, sembrava dimentico del fatto che portare all’estremo una situazione così difficile poteva costare caro. Io stessa non ero spaventata, sentivo solo l’urgenza, la mia e la sua, del contatto. «Alec, non mi sembra una grande idea». Protestò debolmente la parte razionale di me. Troppo debolmente. «Ah no?» rispose scostandomi una ciocca di capelli dalla faccia. Nessuna scossa, niente sonno. La sua voce era bassa e ruvida. Sarebbe bastato quello a fami andare fuori di testa. Cominciò ad accarezzarmi i capelli, poi scese con la punta delle dita lungo il collo, sfiorò le spalle, le clavicole, arrivò al mento. Lo prese tra le dita e lo sollevò. Nessuna scossa, niente sonno. Un respiro tremulo mi sfuggì dalle labbra. Le dischiusi. Non sentivo altro che il martellio del mio cuore rimbombare nella cassa toracica. Chiusi gli occhi. Appoggiò le labbra sulla mia guancia. Nessuna scossa e niente sonno.

Scese verso il collo vicino all’orecchio, sfiorandolo appena con le labbra. «Emma» mormorò. Fine dell’autocontrollo. Inclinai la testa e cercai la sua bocca. Era intollerabile il pensiero di resistere ancora. Lo sentii esitare per una frazione di secondo, ma il mio desiderio era più forte e lo stava trascinando a fondo con me. Affondò una mano nei miei capelli e mi aggrappai a quella mano. L’altra cercò la mia e intrecciò le sue dita alle mie. Sentivo il suo respiro farsi sempre più corto. Dovevo solo avvicinarmi di più e lo avrei avuto. Avrei avuto tutto. Non desideravo altro. Mi spinse verso il letto e lo trascinai giù con me. A quel punto la pietra mi ustionò la pelle. Un grido di dolore e sorpresa mi si strozzò in gola. Si bloccò a un centimetro dalla mia bocca. Spaventato e addolorato si staccò da me. Indietreggiò fino alla finestra e si lasciò scivolare a terra. «Funziona ma non abbastanza» disse reprimendo la frustrazione. Un sospiro lunghissimo gli uscì dalle labbra. Ancora col fiato corto mi misi a sedere. Sentivo bruciare dove la pietra era a contatto con la pelle, ma non volevo toglierla per timore di fare peggio. All’improvviso ebbi un’intuizione. «Alec vieni qui» dissi concitata. Volevo mettere subito in atto l’esperimento che avevo in mente, ma desideravo soprattutto rassicurarlo. Potevo sentirlo addossarsi tutte le colpe, farsi sovrastare dai timori e dalle preoccupazioni che lo assillavano. «Non mi sembra il caso. Adesso me ne vado» rispose torvo ma non si mosse. Ecco che ci risiamo: è pericoloso, stammi lontana, non dovevo tornare… Bla bla bla. «Voglio provare a fare una cosa, anzi devi farla tu. Vieni qui e tocca la pietra» insistetti. Poco convinto si avvicinò al letto. Non sedette accanto a me, ma

s’inginocchiò ai miei piedi. Con molta calma estrassi il ciondolo da sotto la camicetta. Accidenti se scottava. Nonostante il buio vidi che la pietra non era più nera con cangianti venature blu, ma si era schiarita fino a diventare bianca e striata di bronzo. Emanava una luce tenue e qualche bagliore dorato nell’oscurità. Prendendo il ciondolo per la catenina lo allungai verso di lui. Lo prese in mano, lo soppesò e poi ò il pollice sopra la superficie liscia e luminosa della pietra. Non sembrò percepirne il calore. Quando lasciò andare il ciondolo la pietra non era più bianca, ma aveva assunto una tonalità più scura tendente al grigio perla. I bagliori erano spariti lasciando il posto a cangianti venature azzurre. Se quella era solo una pietra riequilibrante, io ero Biancaneve. «Come ti senti?» chiesi fremendo d’impazienza. Esitò in cerca delle parole giuste. «Bene» rispose incredulo. «Bene nel senso di felice o bene nel senso di più forte?» insistei. Nonostante il buio potevo immaginare l’occhiataccia che mi stavo lanciando. «Nel senso di più forte. Cosa significa?» domandò stupefatto. Ancora seduta sul letto incrociai le gambe e mi concentrai sull’interruttore della luce. Il momento romantico era finito e avevo bisogno di guardare in faccia il mio Custode. Strizzai gli occhi perché si adattassero gradualmente all’illuminazione artificiale della lampadina, dopo il tempo ato al buio. Mi concessi una manciata di secondi per ammirare il ragazzo inginocchiato ai miei piedi. I capelli neri spettinati, gli occhi color caramello dal taglio così raffinato, gli zigomi alti e la bocca piegata in un broncio ostinato. «Emma?» mi guardò perplesso ma divertito. Poi si alzò e sedette di nuovo accanto a me. «Smettila» sussurrò. «Mi metti in imbarazzo». Avvampai. Dimenticavo sempre la sua capacità di sentire i miei stati d’animo. «Sei deliziosa quando arrossisci»

commentò compiaciuto ma tornò subito serio. «Ora vuoi dirmi come facevi a sapere che toccando la pietra mi sarei sentito più forte?» Giusto. La mia teoria. Tu sei molto bello e io ho avuto un’intuizione, prima che vederti mi privasse delle facoltà mentali. «Credo che la pietra sia molte cose, tra le quali anche un veicolo, cioè possiamo definirlo così perché la funzione è la stessa». Perché era tanto difficile esprimerlo a parole? Nella mia testa era tutto così chiaro. «Spiegati meglio» disse sorridendo sornione. Stavo ingozzando a cucchiaiate il suo ego e non faceva niente per nasconderlo. Ero tentata di fargli una linguaccia e cucirmi la bocca. Finalmente percepì il mio fastidio e ridivenne serio, assumendo un’aria colpevole. Un abile manipolatore non c’è che dire o forse ero io a essere facilmente manipolabile. «La pietra porta la mia energia a te» spiegai. «Succede ogni volta che ci tocchiamo» osservò. «Non così tanta e in così poco tempo. Anche se ho il sospetto che il fattore tempo valga solo per noi. Una strega normale avrebbe impiegato giorni a caricarla. La pietra assorbe l’energia e ci evita di prendere la scossa». «Le scosse sono un problema relativo visto che stiamo imparando a controllarle e sopportarle. Quello che non mi è chiaro è perché una strega dovrebbe prendersi il disturbo di dare la propria energia a un Custode» commentò non del tutto convinto. Oddio, i ragazzi sono così ottusi alle volte. Distolsi lo sguardo dal suo profilo pensieroso. «Non è ovvio?» domandai sorpresa che non ci fosse ancora arrivato. «No» rispose asciutto.

«Perché lo ama» sussurrai. Le mie parole fluttuarono nell’aria per alcuni secondi. In silenzio ne assaporammo la portata. «C’è dell’altro» ripresi cercando di mantenere un tono di voce abbastanza neutro. «Ti ho detto che la pietra è tante cose, ma credo che tutte le sue potenzialità abbiano un unico obbiettivo. Permettere a una strega e a un Custode di stare insieme. Abbatte le barriere di qualsiasi natura siano. Poco fa abbiamo visto i tuoi soliti scrupoli e il tuo autocontrollo dissolversi». Rabbrividii al ricordo di quanto avevamo rischiato, di quanto eravamo stati vicini a… Non mi sorprese il fatto che non fossero brividi di paura. Esitai, perché c’era una cosa che volevo chiedergli ma non sapevo come fare. «Cosa hai sentito poco fa? Non sembravi tu, cioè lo eri ma in modo diverso. Più intenso e più libero». Fu lui ad arrossire. «Non è facile da spiegare» tergiversò. «Hai presente quando oggi ti ho detto che non sapevo se sarei stato in grado di fermarmi? Elevalo alla potenza. Non ho pensato nemmeno a fermarmi. È come un corto circuito. Gestire ciò che provo è abbastanza difficile e devo fare i conti anche con quello che ti sento provare. È come se lo sentissi due volte. Se non fosse per il terrore che ho di metterti in pericolo... È come una fame e ogni volta che ti guardo so che non sarò mai sazio. Non sarà mai abbastanza». Il suo sguardo era limpido e intenso. Conoscevo quella fame. Capii come si dovesse sentire. Avrei voluto sentire lui nello stesso modo in cui lui sentiva me. «Vorrei avere il tuo potere» dissi triste. Era ingiusto che mi fosse preclusa quella possibilità. «Amore mio, se avessi il mio potere non saremmo ancora vivi» commentò divertito. Sospirai. Probabilmente aveva ragione. Non avevo la sua forza di volontà e il suo autocontrollo. «Per fortuna ci sono le scosse» aggiunsi sarcastica. «Altrimenti ti avrei già ucciso». Rabbrividii e fu davvero di paura. Indovinò i miei pensieri e con cautela mi prese la mano portandola alle labbra.

Gli spilli tornarono a pungere ma non fu quello a far spuntare i lacrimoni. La sua bellezza, l’intensità del gesto mi stritolarono in una calda, angosciante morsa. «Andrà tutto bene» mi rassicurò. Annuii poco convinta. Non era ciò che ripetevo di continuo? «Sto bene, andrà tutto bene». Potevamo solo sperare che fosse vero. Potevamo solo crederci o arrenderci. «Thomas mi ha spiegato che le scosse sono solo uno degli impedimenti che si possono manifestare» disse per distrarmi. «Una diffidenza secolare scoraggia l’intensificarsi delle relazioni tra streghe e custodi. Quando i rapporti sono amichevoli è perché si vuole raggiungere un obiettivo comune o per semplice propensione personale. Nel caso di mio padre e Kate è come una fratellanza. Non è nella nostra natura stare insieme. Collaborare ma non cercarci come amanti. Se accade sono rapporti molto intensi. Totalizzanti». Entrambi guardammo le nostre dita intrecciate, percorse dalla luce azzurrina dell’energia che si riversava l’uno nell’altra. «I nostri genitori, per evitare che un’ipotesi simile si verificasse, hanno formulato un incantesimo dissuasore per tenerci lontani». Mia madre e suo padre avevano fatto cosa? «Un incantesimo cosa?» chiesi stupita. «Serve a impedire lo stringersi di un legame tra due persone. È un incantesimo molto sofisticato. La prima volta l’abbiamo infranto alla festa di Cinthya, ricordi?» Potevo dimenticare il giorno in cui era entrato nella mia vita? Niente era stato più uguale a prima. «Negli anni hanno cercato di renderlo più resistente. Per questo abbiamo impiegato del tempo a capire, a deciderci. I loro sforzi si sono rivelati inutili. L’incantesimo si è spezzato definitivamente a New York. Purtroppo per noi, se ne sono resi conto e hanno deciso di are al piano B. Il resto della storia lo conosci». Il piano B consisteva nel convincere il più forte e responsabile dei due a non mettere a rischio le nostre vite. Era un piano sensato ed era fallito. Se lo avessero scoperto cosa avrebbero escogitato? Si sarebbero arresi o avrebbero tentato di

nuovo? Potevano farlo? Miranda che ruolo aveva? «Facciamo un riassunto delle puntate precedenti: abbiamo superato l’avversione che dovremmo avere l’uno per l’altra, spezzato l’incantesimo dei nostri genitori e siamo in possesso di una pietra che dovrebbe permetterci di stare insieme. Dimentico qualcosa? Ah sì, il blocco assassino» conclusi sarcastica. Non se ne usciva. Un cul de sac. «Ad ogni modo la pietra non sembra funzionare con noi» osservò deluso. «Il problema è sempre lo stesso: sono sovraccarica per via del blocco. Ha accumulato troppa energia in poco tempo e ha iniziato a scottare. In un certo senso ci ha protetti. Si torna sempre al punto di partenza, se vogliamo fare dei i avanti dobbiamo rimuovere il blocco». Almeno la situazione non era peggiorata, anche perché peggio di così… «Dovrai indossarla fino a quando non sarà tornata nera, allora me la restituirai. Credo funzioni così» dissi sganciando la collana e lasciandola cadere nel palmo della sua mano. «Tienila nascosta. Tuo padre capirebbe di cosa si tratta e non farebbe i salti di gioia». Senza contare che la nonna sarebbe stata nei guai quanto noi. «Mi domando perché Miranda te l’abbia regalata» disse seguendo il filo dei miei pensieri. «Sembra che si diverta a metterci alla prova» aggiunse cupo. «La vera domanda è un’altra» dissi folgorata da un’idea e dalla mia stessa imbecillità. Come avevo fatto a non pensarci prima? «Cioè?» «Perché Miranda ne possiede una».

Un quasi piano e un ottimo risveglio

Più veloce. Molto più veloce. Correre, pensare, agire. La pietra di Miranda mi aveva reso più veloce. In tutto. Peccato che oltre ad aver amplificato i miei riflessi, la coordinazione, i movimenti e i pensieri, aveva aumentato a livello esponenziale anche l’urgenza di lei, l’istinto protettivo, la gelosia, il bisogno di starle accanto. Sempre. E sempre non era un vocabolo che potessimo annoverare nel nostro dizionario. Qualche volta era molto più vicino alla realtà. La cosa mi stava facendo impazzire. Mi sentivo pericoloso e cercavo di mantenere le distanze, sebbene le occasioni di vederla fossero poche. Portare la pietra, a prescindere da chi dei due la stesse indossando, abbatteva le mie barriere e mi spingeva a fare cose che in condizioni normali non avrei nemmeno immaginato. Avrei potuto mettere a rischio la sua vita. E lei me lo lasciava fare. Più volte l’avevo implorata di non indossare la pietra, chiuderla in un cassetto e non pensarci più, ma non voleva sentire ragioni. «Ti rende più forte. Devi esserlo. Se implodo e sarai abbastanza forte, sopravvivrai». Fine della discussione. Non si era mossa di un millimetro. Non potevo confessarle che portare la pietra mi faceva venire voglia di saltarle addosso ogni secondo. Avrebbe pensato che ero un selvaggio e aveva un’opinione così alta di me. Non potevo deluderla ancora. Non era l’unica ragione, comunque. Una parte di me non voleva che lei lo sapesse. La parte che desiderava che cedessi al canto della sirena, che rompessi gli indugi. La parte di me che ogni istante della giornata architettava il modo per poter arrivare allo stramaledetto bacio. Andavamo avanti così da settimane. Lei indossava la collana per qualche giorno o ora a seconda dei flussi che riusciva a canalizzare, poi una volta caricata la restituiva a me. Non avevo più pace. Il risultato era starmene sotto la sua finestra con in testa il folle piano di salire, rapirla e portarla in un luogo dove saremmo stati soli.

Senza avere addosso gli occhi delle sorelle, senza Sam e Mads che non dovevano sapere nulla di noi, senza genitori a cui nascondere ogni cosa, senza Charlie e Jackie. Solo io e lei. Ci avevo pensato tutto il giorno. A scuola mentre la osservavo da lontano, stando attento a non farmi vedere e senza potermi avvicinare (la scuola era il luogo peggiore in assoluto. Kate poteva saltar fuori in qualsiasi momento da chissà quale aula o sentire voci di corridoio su una nostra riconciliazione, quindi era vietato perfino guardarsi). Durante gli allenamenti mentre subivo i falli di Thompson uno dietro l’altro senza battere ciglio. A cena seduto a una tavola silenziosa come il deserto, con mia madre che mi osservava sempre più preoccupata e lanciava a papà sguardi colmi di rimprovero. Avevo stabilito tutto nel più piccolo dettaglio. Tenere la mente occupata mi aiutava a non impazzire. Era un piano degno di un folle e avrei dovuto trovare un atempo più produttivo, se solo fossi stato capace di pensare in maniera razionale. Purtroppo portavo la pietra da quattro giorni e non si decideva a are dal lilla al viola scuro. Emma l’aveva caricata troppo. Non era del tutto colpa sua: l’aveva indossata solo per mezz’ora. Una delle mezz’ore più belle della mia vita. Peccato che i segni dell’ustione non le fossero ancora ati. Scrollai la testa sperando di stemperare il senso di colpa. Era così ostinata e irresponsabile. Aveva promesso che si sarebbe sfilata la collana non appena avesse cominciato a scottare, invece aveva fatto finta di niente, finché il calore non era diventato insopportabile. Roba da rimanerci secchi entrambi. Avrei portato la pietra per molti più giorni del solito, cosa che non aiutava affatto il mio autocontrollo. La situazione cominciava decisamente a sfuggirmi di mano. Ero pronto ad arrampicarmi sulla quercia e saltare sul loro davanzale, quando ebbi un lampo di lucidità. Non potevo farlo. Avrei svegliato le sue sorelle e nella peggiore delle ipotesi, sua madre. Cosa avrei raccontato? Che soffrivo di sonnambulismo? E se fossi riuscito a destare la sua attenzione senza svegliare le altre, a portarla lontano da lì, ad averla per me come desideravo, cosa avrei fatto? L’avrei baciata così sarebbe implosa o caduta

addormentata per sempre? Come avevo potuto pensare di fare una cosa del genere? Mi lasciai scivolare lungo il tronco dell’albero e mi sedetti. Il terreno era freddo e umido. Cosa piuttosto normale a novembre ma non aveva importanza. Ero così preso dalla mia frustrazione che non mi ero accorto della persona, piccola e minuta, che stava di fronte a me. Almeno fino a quando non mi puntò la luce di una torcia in faccia. «Sei veramente messo male» disse con la risata nella voce. Trovava sempre tutto sosissimo. Beata lei. «Constance cosa fai qui? È l’una di notte. Non dovresti essere a letto? Se fossi stato un ladro o un serial killer?» dissi cercando di ripararmi gli occhi. Non poteva abbassare quella maledetta torcia? «Avrei fermato il tempo e il mio Custode non è un idiota come quello di mia sorella. Se ci fosse stato un pericolo avrebbe chiamato Kate o si sarebbe precipitato di persona. La domanda è: cosa fai tu nel nostro giardino alle due della mattina, perché, indovina un po’ Alec? Sei rimasto a rimuginare per un’ora». Connie non si fidava davvero di me. Le sorelle non mi avevano perdonato la messa in scena con Jackie. Sorprendermi in quello stato doveva essere uno so per lei. Sarei stato sincero, perché non pensasse che stavo tramando qualcosa nel buio della notte. Il che era esattamente ciò che stavo facendo. «Volevo vederla» dissi in tono di sfida. Distolse il fascio di luce dalla mia faccia per puntarlo sull’erba. «Pessima risposta» sibilò. «Tu cosa ci fai sveglia a quest’ora? Niente scuola domani?» ribattei sarcastico. «Ti tenevo d’occhio nell’attesa e nell’incrollabile certezza che avresti fatto qualcosa di stupido. Ed eccoti qua. Stupefacente, non è vero?» il tono aggressivo

aveva lasciato posto a quello con cui abitualmente si rivolgeva a me: il canzonatorio. Quasi fatto qualcosa di stupido. Tirai un sospiro di sollievo. Si sedette accanto a me, avvolta nella giacca pesante, le gambe fasciate da una tuta grigia, i capelli corvini raccolti. Puntò su di me gli occhi neri vagamente orientali, assumendo un’aria risoluta. Era difficile capire cosa asse per la mente della più giovane delle Hataway in condizioni normali, figurarsi a visibilità ridotta. «Ce l’ha ancora con te per la storia dell’altra sera, ma senso di colpa e mancanza hanno placato quasi tutta la furia» sorrise per una frazione di secondo, poi tornò seria. «Glielo devi dire che quell’affare ti sta facendo andare di matto». Di sicuro alla mente della più giovane delle Hataway non sfuggiva niente, ma non volevo darle la soddisfazione di averci visto giusto un’altra volta. «Cosa te lo fa pensare?» chiesi tagliente. «Ti osservo. Lo dico per amore di mia sorella, se ti capitasse qualcosa non si darebbe pace per il resto dei suoi giorni. Dateci un taglio con la pietra. Per quanto ti senta forte e super fico, non potrai reggere ancora per molto» sentenziò. Era irritante quando faceva così. Anche Emma aveva quel tono saccente nel suo repertorio, ma non era così fastidiosa. Era buffa. «Non sai di che cosa stai parlando» tagliai corto. «Può darsi, ma non toglie che te lo stia consigliando nel vostro interesse» ribatté stizzita. «Lei non lo permette. Vuole che la tenga per diventare più forte» mi giustificai beffardo. Lo stavo dicendo a Connie o a me stesso? «Ti prego, non insultare la mia intelligenza con questa patetica scusa. Se solo sapesse che portare la pietra ti fa stare male, la scaglierebbe dalla finestra o la restituirebbe a Miranda». Aveva sempre la risposta pronta. Discutere con lei era snervante, ma sarebbe

stato peggio farlo con Eileen. Come faceva Dave a sostenere quello sguardo impossibile? Niente a che vedere con i placidi, vellutati occhi di Emma. «Posso controllarlo». Soffocai un ringhio. Davvero molto credibile. «Vedo come ti riesce bene». «Devo solo concentrarmi su qualcosa che riesca a distrarmi» aggiunsi più calmo. Era vero, ma cosa mi avrebbe distratto dal pensiero di lei? Dimenticarti? Tu per caso ti dimentichi di respirare? Constance emise un breve sospiro e rimase in silenzio per qualche secondo. Stavo per alzarmi e tornarmene a casa, quando mi fece cenno di aspettare. «Ho promesso che vi avrei aiutati, ma con te in questo stato spreco il mio tempo a controllarvi invece che a fare le mie ricerche» disse polemica. «Vieni al punto» la interruppi brusco. Ero stanco di cincischiare al freddo, tenuto sotto scacco da una ragazzina petulante. «Potresti darmi una mano. Emma dice che sei diventato super veloce e ho una montagna di grimori da leggere. Vuoi un incantesimo per mettere fine alla tua agonia? Datti da fare». Mi tese la mano per suggellare l’accordo. «Cos’è un grimorio?» chiesi sospettoso. Naturale diffidenza nei confronti delle streghe. Avevo capito cosa intendesse mio padre, anche se Emma non mi faceva lo stesso effetto. «È un ricettario» rispose asciutta. La diffidenza era reciproca. «E tu come avresti fatto a procurartene una montagna?» insistei. «Sono di Miranda». Non aggiunse altro e sapevo che non lo avrebbe fatto nemmeno sotto tortura. Sperai che non si fossero messe nei guai per procurarsi quei grimori. Constance mi guardava, il sopracciglio sottile alzato, la mano tesa. Perché no? Era una streghetta testarda, ma voleva bene ad Emma. Inoltre mi sarei tenuto

occupato senza correre il rischio di fare danni o quasi farli. Strinsi la piccola mano nella mia. «Affare fatto. Me ne torno a casa, non prima di essermi assicurato che tu sia entrata. Sarò un pessimo Custode, ma l’ABC del gentiluomo lo conosco anch’io» scattai in piedi e l’aiutai ad alzarsi. Si spolverò la giacca dalle foglie e dal terriccio che vi si erano attaccati e si incamminò verso la veranda. La seguii per assicurarmi che entrasse. Una volta arrivata alla porta, mi puntò gli occhi ossidiana addosso. «Racconterò ad Emma della nostra chiacchierata. Non ho segreti con mia sorella» disse seria. Mi scappò una risata beffarda. Chi aveva segreti con Emma? Feci spallucce e la salutai con un gesto della mano. Non appena la porta si chiuse dietro di lei schizzai verso casa. In un battito di ciglia ero nel corridoio che conduceva alla mia camera. Era meraviglioso essere così veloci. Mi spogliai in fretta e mi buttai sotto le coperte. Giusto in tempo per fingermi addormentato e ingannare mio padre venuto a controllare se fossi nel mio letto. Dove altro avrei potuto essere? Non che i suoi timori fossero infondati. Mi si gelò il sangue al pensiero di cosa sarebbe potuto succedere se avessi messo in pratica ciò che avevo progettato. Emma non avrebbe opposto nessuna resistenza. Non aveva difese contro di me e io non ne avevo contro di lei. Eravamo l’uno nelle mani dell’altra. Come l’ultima volta in cui le avevo restituito la pietra, quattro giorni prima di quella assurda notte. La sera in cui avevamo litigato. Se chiudevo gli occhi potevo ancora vederla arrivare di corsa, le guance arrossate, le mani fredde, la giacca abbottonata male. L’aspettavo in giardino, al confine con la proprietà dei Miller. Era una serata gelida, senza stelle e con un vento freddo che frustava la faccia. Thomas era rimasto in facoltà a lavorare, mentre mamma era al bridge del mercoledì a casa di amiche. Avevamo più o meno un’ora prima che i miei

genitori tornassero. Poco tempo ma pur sempre qualcosa. Scavalcò la palizzata e mi venne incontro. Quando fu a un o da me si fermò, controllando l’istinto di buttarmi le braccia al collo. Avevo la pietra e da parecchi giorni non c’era stato nessun contatto tra di noi. Inoltre eravamo all’aperto e chiunque avrebbe potuto vederci, nonostante fossimo in una zona poco illuminata del giardino. Sorrisi per lo slancio d’affetto se pur soffocato. «Kate dove pensa che tu sia?» chiesi divertito. Vederla mi metteva sempre di buon umore. «Da Mads a fare i compiti» ansimò per il fiato corto, gli occhi luccicanti. «Il fatto che non percepisca la mia bugia mi dà la misura di quanto sia diventata brava a mantenere i segreti» aggiunse soddisfatta. In quei momenti mi sembrava sempre così vulnerabile, inconsapevole del peso che si portava addosso. Sapevo che si mostrava spensierata per non farmi preoccupare e lo sforzo me l’avrebbe resa ancora più cara se fosse stato possibile amarla di più. Entrammo nella stanza dei giochi dalla solita porta finestra. Emma entrò per prima, si tolse la giacca e la buttò sulla poltroncina. Chiusi bene la porta dietro di me e tirai la tenda perché non ci vedessero dall’esterno. Senza dire una parola mi tolsi la pietra, bianca come il latte con le fluorescenti venature bronzee e gliela misi al collo. Mi guardava con lo sguardo limpido, impaziente di abbracciarmi. Non appena chiusi il fermaglio della collana si appoggiò al mio petto e sospirò. Le mie braccia si chio d’istinto intorno a lei. «Come ti senti?» mormorò. «Bene» mentii. Stavo già cominciando a lottare contro il desiderio di sollevarla, portarla sul divano e placare la fame. «Allora posso provare a fare una cosa?» domandò timidamente, strofinando il naso contro la mia maglietta. Maledizione. Poteva? Certo che sì, visto che avevo appena detto di stare bene e

sarebbe sembrato sospetto non accordarle il permesso. Senza contare che ero molto curioso di sapere cosa avesse in mente. Soprattutto quello a dire la verità. «Sono tutto tuo» dissi allargando le braccia. «È una cosa che non ho mai fatto, quindi cerca di rilassarti. Non pensare a niente e chiudi gli occhi». Mi trascinò fino al divano e mi fece sedere. Non mi piaceva la piega che stava prendendo la situazione. Sedette accanto a me e mi scoccò un’occhiata di sollecitazione. Inspirai a fondo e chiusi gli occhi. All’inizio non sentii niente, se non il calore della sua presenza accanto a me. Dopo qualche istante cominciai percepire il lievissimo tocco delle sue dita risalire il mio avambraccio, la spalla, fermarsi sul collo, dove ancora più delicatamente appoggiò le labbra, per una frazione di secondo. Era vero. Non l’aveva mai fatto. Non era mai lei a baciare me, non se lo permetteva di solito per timore di darmi chissà quale scossa o farmi del male in qualunque altro modo. Sempre cauta avanzò sfiorandomi la pelle con le labbra fino alla guancia, dove le appoggiò con più decisione. Poi sospirò e abbassò la testa, appoggiando il mento alla mia spalla e rimase lì immobile per qualche secondo. «Posso aprire gli occhi adesso?» sussurrai. Annuì piano senza aprire bocca, solo con un leggero cenno della testa. Mi voltai verso di lei e le presi il viso tra le mani. Gli occhi scuri, punteggiati d’argento, l’ovale perfetto, la piccola bocca ben disegnata. Era bella anche così per me. Era bella soprattutto così. Con i capelli raccolti, l’aria smarrita, infagottata in un vecchio maglione sformato, il suo preferito. Avevo il sospetto che fosse del padre. Non glielo avevo mai chiesto per timore di vedere l’espressione dolorosa che compariva quando lo sentiva nominare. Rimanemmo così per un po’, incatenati l’uno all’altra, persi in una reciproca contemplazione. La quiete prima della tempesta.

Prima che potessi impedirmi di farlo, la sollevai e la presi in braccio. Con il braccio le circondai la vita, appoggiando la mano sulla sua schiena. Il suo respiro si fece più corto e veloce, annebbiò il poco che era rimasto della mia lucidità. Sollevò la testa e scoprì il collo, che baciai con urgenza con le labbra dischiuse e assaporai il gusto della sua pelle. Tremò tra le mie braccia, gli occhi chiusi, i denti che stringevano il labbro. Allora feci l’ultima cosa che avrei dovuto fare. Con la mano libera cercai la pelle sotto la lana del maglione e la trovai. La sfiorai con la punta delle dita. Risalii di qualche centimetro, sentendo la pelle d’oca nascere sotto il mio tocco. Sentire cosa provava non appena la sfioravo sarebbe valso tutte le scosse del mondo. Era una sensazione abbacinante. Con delicatezza spostai la mano sul suo fianco e con la punta del pollice sfiorai la pelle sottilissima della pancia. Fu allora che una fitta tremenda mi attraversò il cervello. Avrei voluto che il dolore fosse mio, ma non lo era. Immediatamente mi staccai da lei e la guardai in faccia per controllare che stesse bene. Era bianca come uno straccio, i segni dei denti impressi sulle labbra pallide. Con una mano stringeva la catenina per tenere la pietra distante da sé, con l’altra il collo del maglione. Le sfilai la collana e la misi al collo, poi allungai la mano verso la sua che stringeva la lana. «Fammi vedere» dissi con un tono che non ammetteva repliche. Ero stato uno sciocco, egoista, idiota. «No». Scosse la testa con energia. «Emma, sono già abbastanza arrabbiato. Adesso mi fai dare un’occhiata, poi la medichiamo» dissi tra i denti. Avrei medicato la ferita e l’avrei mandata via. E sarei andato a correre per miglia. Avrei corso fino a New York per sbollire se fosse stato necessario. Mollò la presa, sollevò il mento e si mise a guardare con insistenza sopra la mia spalla senza incrociare il mio sguardo. La guardai torvo indicando con il dito il maglione. Sbuffò stizzita, ma lo sfilò e slacciò i primi bottoni della polo grigia che indossava sotto. Con delicatezza scostai i lembi di stoffa.

Il ciondolo aveva lasciato impresso nella pelle il calco del suo contorno. Non era rossa come una normale bruciatura, ma viola come un livido vecchio di un giorno. Il primo strato di pelle era secco e screpolato. Sotto si intravedeva la pelle più rosa, striata di sangue. Doveva farle male ma non si lamentava. Troppo orgogliosa per ammettere di essere stata irresponsabile. «Tu sei pazza» dissi fulminandola con lo sguardo. Mi restituì un’occhiata torva e offesa. Corsi in bagno per prendere delle garze, cerotti e disinfettante. Non volle che fi la medicazione. Mi prese l’occorrente dalle mani e senza rivolgermi la parola andò alla scrivania e fece tutto da sola. Una volta terminato, prese la giacca e se ne andò senza salutarmi. Ero troppo arrabbiato per correrle dietro, chiederle scusa o qualsiasi altra cosa avrebbe voluto che fi. Sapevo di averla offesa ma anch’io ero scosso e furioso, soprattutto con me stesso per aver portato la situazione fino a quel punto. Escluso qualche fuggevole incrocio di sguardi a scuola, non la vedevo da quel giorno. L’avevo chiamata una volta al cellulare, ma eravamo ancora troppo arrabbiati e la telefonata era stata fredda e piena di silenzi. Mi girai e rigirai nel letto, stanco e abbattuto, fino a quando presi sonno e mi addormentai. Quando riaprii gli occhi fuori albeggiava. Ero steso su un fianco, rivolto verso la finestra. Ancora immerso nel dormiveglia, mi domandai se stessi ancora sognando perché lei era lì. Potevo sentirla, sdraiata dietro di me e poteva essere solo un sogno, visto che non aveva senso che fosse nel mio letto all’alba di giovedì mattina, con i miei genitori in casa e sua madre che avrebbe fatto il diavolo a quattro se non l’avesse trovata nel suo letto. Non era probabile ed era insensato. «Perché non me l’hai detto?» sussurrò alle mie spalle. Mi voltai verso la voce per mettere alla prova il mio subconscio. Eppure mi sembrava di essere davvero sveglio. Nella luce azzurrognola dell’alba vidi gli occhi pesti per la mancanza di sonno e un po’ arrossati. I capelli raccolti alla meglio in una coda, la felpa stropicciata e

umida. I pantaloni della tuta che usava come pigiama d’inverno. Se fosse stato un sogno, avrei sognato una Emma più felice e meno infreddolita. La coprii con il piumone e la strinsi a me. Indossavo solo una maglietta e dei pantaloncini e sentii il freddo del mattino che aveva portato con sé. «Come hai fatto ad entrare?» domandai con la voce impastata dal sonno. «Magia» disse con un sorriso. Poi mi piantò addosso gli occhi più colmi di senso di colpa che avessi mai visto. «Mi dispiace tanto. Non immaginavo fosse così difficile per te. Non voglio che la indossi se ti fa stare male». «Shhhh» la zittii. Non ci volevo pensare. Volevo solo godermi il risveglio. Ringraziai tra me Constance per essere stata così solerte nel raccontare il nostro colloquio alla sorella. Al contrario non l’avrei trovata nel mio letto, pentita e a caccia di perdono. «Come va la scottatura?» chiesi a bassa voce. D’istinto portò la mano al collo. «Meglio» arrossì. Non potevo vederla ma potevo percepire il calore diffondersi sulla pelle, perché la tenevo molto stretta. Non c’era urgenza in quell’abbraccio o la fame che tanto mi spaventava. Solo il bisogno di tenerla al sicuro. «Siamo una coppia molto litigiosa» dissi sfiorandole la fronte con le labbra. «Siamo una coppia molto affamata» disse con infinita tristezza. Non era il caso di mettersi a pensare alla fame, mezzo nudo con lei avvinghiata a me sotto le coperte. Meglio cambiare argomento. «Connie ti ha detto che l’aiuterò nelle sue ricerche?» domandai sebbene conoscessi già la risposta. Annuì. «Senti Alec… Non occorre usare la pietra. Posso evitare le scosse, se concentro le mie energie da qualche altra parte. Non serve, davvero. La restituirò a Miranda» bisbigliò convinta. Tremava ancora. Doveva aver preso una bella dose di freddo. Le ultime mattine erano state gelide e quella che stava per iniziare non sarebbe stata da meno. Conoscendola, dopo aver parlato con Connie, si era girata e rigirata nel letto per ore. Alla fine si era decisa e si era precipitata fuori di casa in barba al rigido inverno. Intrecciò le gambe alle mie, sfregando i piedi tra di loro per scaldarli. «È troppo rischioso. Più usi i tuoi poteri, più aumenta il rischio di scatenare

quelli attivi. La pietra ti aiuta a riequilibrare l’energia e rinforza me. È ottima. Ora avrò un’occupazione a tempo pieno, andrà meglio, vedrai» tentai di rassicurarla. Sospirò. «Hai già diverse occupazioni a tempo pieno: la scuola, gli allenamenti, gli amici, tenere a bada le cheerleader che ti saltano addosso» elencò sempre più preoccupata. «Intendo una vera occupazione. Fidati di me, andrà tutto bene». Almeno lo speravo. «Potremmo ingozzarci di dolci. Sai, la serotonina e via dicendo» propose. «Sublimare altri tipi di fame con il cibo mi sembra un’ottima idea» ridacchiai. «Così quando avrete trovato l’incantesimo sarò talmente brutta e grassa, che non mi vorrai più» ironizzò. Decisi di stare al gioco. Si stava rilassando e la piccola bolla delle sue emozioni diventava sempre più leggera. Dovevo tenerla sveglia, altrimenti come avrebbe fatto a tornare nel suo letto? Le sorelle avrebbero trovato una scusa, ma chissà se abbastanza plausibile. Meglio non correre rischi. «Impossibile. Papà dice che le streghe sono le donne più belle del mondo. Avete mille incantesimi per ritardare l’invecchiamento e un metabolismo velocissimo» ridacchiai. Mi pizzicò piano l’avambraccio e si lasciò scappare uno sbadiglio. «Devo andare o corro il rischio di addormentarmi. Non sarebbe facilissimo da spiegare a mia madre». Sciolse le gambe dalle mie, si mise a pancia in su, poi seduta. Un’ultima mossa ed era fuori dal letto, silenziosa come vi era entrata. «Ti accompagno» dissi gettando via le coperte e afferrando i primi vestiti che trovai sulla sedia. Presi uno dei miei giacconi dall’armadio e glielo feci indossare. Infilammo le scarpe, spalancai la finestra e la presi in braccio. Senza lasciarle il tempo di preoccuparsi o di opporsi saltai giù e corsi verso casa sua. Un battito ed eravamo in veranda. La feci scendere per permetterle di cercare le chiavi. In silenzio, attenta a non fare il minimo rumore le infilò nella toppa e fece scattare la serratura. Poi si girò verso di me, sillabò un grazie e sparì dentro casa.

Stiamo lavorando per noi

Emma

La collaborazione tra Connie e Alec mi rendeva nervosa. Non si stavano molto simpatici, anche se non capivo il motivo. Mia sorella era uno so e Alec… Beh, era Alec. Di tanto in tanto alzavo la testa dal grimorio che mi era stato assegnato e li osservavo. Connie leggeva concentrata, attorcigliando una ciocca di capelli corvini tra le dita affusolate. Sfogliava le pagine con calma, leggeva ogni riga, ogni parola e prendeva appunti su un quadernetto che teneva a portata di mano. Alec sembrava tarantolato. Sbuffava, si alzava, tornava a sedersi, sfogliava le pagine in maniera convulsa, poi svogliata, sempre mormorando tra i denti un’interminabile litania di “qui non c’è niente, non si capisce cosa c’è scritto, mi sto addormentando, ehi! questa era folgorata!”. La pazienza non era tra le sue qualità e mia sorella avrebbe sopportato quell’atteggiamento poco costruttivo fino a un certo punto. Temevo il momento in cui avrebbero iniziato a litigare, pensiero che mi impediva di concentrarmi sul lavoro. Per fortuna le occasioni in cui ci riunivamo per le ricerche erano rare, altrimenti non saremmo andati lontano. Quella domenica i genitori di Alec erano a New York in visita da alcuni amici e sarebbero stati fuori tutto il giorno. Cosa c’era di meglio che are la domenica impegnati in un bel lavoretto di gruppo? Probabilmente qualsiasi altra cosa, ma se volevo vederlo quello era il prezzo. Alec aveva imposto delle nuove regole: vietato rimanere soli. Gli lanciai un’occhiataccia. Connie si stava innervosendo, vista la velocità con cui tamburellava la matita sul tavolo. Avrebbe sbottato, si sarebbero messi a discutere e avremmo perso altro tempo. Andava meglio quando lavoravamo ognuno per conto proprio o meglio quando lavoravano. Nelle ultime settimane ero stata impegnata a imparare alcune nozioni che secondo Miranda mi sarebbero tornate utili. Una noia mortale, in realtà. Ero reduce da un’intera giornata dedicata alle proprietà dei fiori. Sospirai e mi alzai per sgranchire le gambe. Andai alla portafinestra ad osservare il giardino, congelato nel rigido inverno. Cosa avrei provato se i nostri sforzi

fossero stati ripagati e avessimo trovato l’incantesimo? Mi resi conto che non c’era traccia della felicità che avrebbe dovuto esserci. Non perché non lo desiderassi. Non esisteva cosa al mondo che desiderassi di più: placare la mia fame, la sua, tradurre in gesti ciò che provavamo l’una per l’altro. Quel pensiero, però, non riusciva a rassicurarmi. Sarebbe durato poco, ci saremmo visti con il contagocce, avremmo dovuto mentire, mentire e mentire, e chissà quanti altri pericoli e minacce ci attendevano. E saremmo stati soli. «Da dove viene questo pessimismo cosmico?» sussurrò alle mie spalle. Aveva sentito il mio malessere ed era corso da me. Una volta di più seppi che avrei affrontato qualsiasi cosa pur di stare con lui. Per lui. «Dobbiamo dirlo a Kate e Thomas. Sono stanca di raccontare bugie e abbiamo visto a cosa porta avere una montagna di segreti ingestibili. Non voglio fare i loro stessi errori» dissi guardandolo negli occhi e sperando che leggesse nei miei quanto era importante che capisse. Annuì con un cenno della testa. Non me l’aspettavo, pensavo avrebbe protestato e opposto resistenza. «Glielo diremo, ma» e questa volta fu lui a guardarmi con una strana intensità «lo faremo dopo aver trovato l’incantesimo. Avremo un elemento in più a nostro vantaggio». Era un compromesso ma aveva del senso. Sorrisi, soddisfatta del nostro accordo. «Em se hai finito di imitare una a caso delle sorelle Brontë e distrarre chi si suppone debba aiutarmi, potresti rimetterti al lavoro. Non sei nemmeno a metà del tuo grimorio» mi rimproverò Connie. Tornai al mio lato della scrivania, lasciandomi cadere sulla sedia. «A volte vorrei che bastasse chiudere la porta e lasciare fuori tutta questa roba: poteri incontrollabili, incantesimi che non si trovano, grimori» sbottai riaprendo il libro che avevo sotto il naso. Tanto non ci avrei capito un accidenti comunque. «Cosa hai detto?» chiese mia sorella con voce strozzata. Sembrava in preda a un attacco d’asma. «Ti senti bene?». Era pallida, lo sguardo lucido di chi ha la febbre molto alta.

«Ripeti quello che hai detto» insistette. Mi sembrò una follia ma l’assecondai perché si calmasse. «Che mi piacerebbe poter lasciare i problemi fuori dalla porta» dissi lentamente. «Perché non ci ho pensato prima? Emma sei un genio» disse lanciandosi su una pila di libri che aveva già esaminato. Prese un volume dall’aria molto vecchia e consumata e iniziò a sfogliarlo febbrilmente. «Dove l’ho visto? Sono sicura che fosse qui da qualche parte. Che stupida, non era nel grimorio della bisnonna ma di Delia, sua sorella!». Si lanciò su un altro volume, dalla stessa aria antica e logora. «Constance?» la richiamò Alec piuttosto seccato. Mi aveva raggiunta alla scrivania e osservava le affannose ricerche di mia sorella lanciandole occhiate perplesse. «Stiamo valutando la cosa dal punto di vista sbagliato. Eccolo!» esclamò euforica. «La zona franca!» gridò. «La prozia aveva il senso dell’umorismo» le scappò una risatina isterica. La guardai, sopracciglia alzate, braccia incrociate sul petto. Se magari si fosse degnata di spiegare… «Scusa, hai ragione. Lo sbaglio è stato concentrarsi su di te e non sul luogo». «Cioè?» continuavo a non capire. «Questo incantesimo permette di rendere un determinato luogo immune ai poteri magici e agli incantesimi di qualsiasi tipo. Chi varca la soglia ne viene spogliato e li recupera una volta uscito. Capisci? Niente poteri, niente blocco, niente pericolo» terminò trionfante in attesa di un applauso. «Dove sta la fregatura?» chiese Alec dubbioso. «Il luogo deve essere vicino ai quattro elementi, acqua, aria, terra e fuoco» disse Connie leggendo il grimorio. «La casa sulla spiaggia» mormorai.

Mi tornò alla mente il sogno che avevo fatto la notte di Halloween e l’esigenza che avevo sentito al risveglio di parlarne con mia sorella: la casa sulla spiaggia immersa nella foschia del mattino. Nel sogno la osservavo da lontano. Ero sola, in attesa. A un tratto era successo qualcosa di sconvolgente, ma mi stavo svegliando e non ero riuscita ad afferrarlo. Nel trambusto e nella convulsione delle assurde giornate che avevano seguito il ritorno di Alec lo avevo scordato e non ci avevo più pensato. Gli sguardi interrogativi a quel punto erano rivolti a me. Alec e Constance mi fissavano in attesa di chiarimenti. «La casa degli Stevens alla baia della Volpe. É vicina a tre elementi su quattro: è in riva al mare, l’acqua e la terra, e battuta dai venti, l’aria. Manca il fuoco ma suppongo basti accenderne uno» spiegai distratta nel tentativo di ricordare cosa fosse successo nel sogno. «Tecnicamente il fuoco è l’elemento dei Custodi, quindi se sarà Alec ad accenderlo dovrebbe andare bene. Gli altri appartengono alle streghe: l’acqua alla prima figlia, la terra alla seconda, l’aria alla terza». «Che in termini comprensibili significa?» domandai seccata. Da quando aveva iniziato a leggere i grimori, sapeva un sacco di cose che Eileen ed io ignoravamo e non sempre le condivideva. «Ogni strega ha una certa influenza sugli elementi atmosferici, la flora e la fauna del suo elemento. Sono poteri attivi molto pericolosi e difficili da gestire se si arriva a un certo livello». Ecco spiegate le lezioni di giardinaggio della nonna. Sondava il terreno per capire se i miei poteri fossero aumentati e nello stesso tempo mi insegnava a trarne profitto se si fossero manifestati. Il tutto senza accennare minimamente alla cosa per non avere problemi con Kate. «Fammi capire bene. Potenzialmente potresti scatenare una tempesta?» chiesi allarmata. Per la prima volta mi spaventò l’idea di ciò che potevamo essere in grado di fare. «Presumo di sì. Tu un terremoto ed Elle un nubifragio, ma è solo teoria. Non credo siano mai esistite streghe in grado di farlo. Miranda è la strega più potente che conosco ed è riuscita a malapena ad ammaestrare un gufo e sollevare una

leggera brezza. Non l’abbiamo mai vista arrabbiata però e in quel caso i poteri s’intensificano. Spero non capiti mai l’occasione di togliermi la curiosità». «Okay, fine della lezione. Torniamo a noi, per favore. Come funziona l’incantesimo?» chiese Alec impaziente. «Bisogna preparare una pozione e versarla intorno alla casa disegnando un cerchio, poi cospargerla su porte e finestre. C’è una formula che deve essere recitata da una terza figlia, naturalmente ci penserò io. Può essere fatto solo in due particolari notti dell’anno: il solstizio d’inverno e quello d’estate. Notti franche appunto che non appartengono a nessuna delle quattro stagioni». «Che giorno è oggi?» domandai temendo la risposta. «Il 18 dicembre» disse Connie con un sospiro. «Fantastico. Abbiamo solo tre giorni» esclamai. «O sei mesi» ribatté Alec calmo. Aspettare sei mesi? Lo guardai in cagnesco. «Cosa va nella pozione?» chiesi ostinata. «Grindelia, iperico e rosa canina. Sono piante dalle proprietà curative e magiche. Dovrò attingere alle scorte di Miranda e se ne accorgerà, stanne certa. Inoltre dovremo aggiungere le ceneri di un oggetto della casa, una goccia di sangue della strega che effettuerà l’incantesimo e… Oh no!» disse afferrando e sfogliando un altro volume abbandonato sulla scrivania, dall’aria più moderna e molto voluminoso. «Connie!» sbottai. «Abbiamo un problema. Serve il nulla osta del possessore della casa. Chi è il proprietario?» chiese ad Alec. «Mio padre. Cosa intendi per nulla osta?» chiese cauto. «Una dichiarazione di fiducia scritta oppure il suo sangue» disse leggendo la definizione dal librone. Era un glossario? Robe da matti. «Sono truculenti questi incantesimi» commentai inorridita.

«Il sangue rappresenta la forza vitale di una persona. È ciò che sei, ti tiene in vita. Non pensare di ottenerlo con la magia, sarebbe come imbrogliare e addio fiducia. Il proprietario lo deve donare di sua volontà». Perfetto, eravamo punto a capo. «Troveremo un altro luogo». Non c’era altra scelta. Non potevamo chiedere l’aiuto di Thomas senza confessare a cosa sarebbe servito il suo sangue e se lo avesse saputo di certo non ci avrebbe aiutato. «Non così sicuro, non in tre giorni e avremmo comunque lo stesso problema: abbiamo bisogno di un luogo chiuso. Non puoi rischiare di stare allo scoperto senza i tuoi poteri e senza quelli di Alec che possano proteggerti. No, lo faremo lì dobbiamo solo trovare il modo di procurarci il nulla osta. Sei sicuro che la casa sia intestata a tuo padre?» chiese aggrappandosi a quella speranza. «Sì, però essendo suo figlio la casa è anche mia, no?» rispose incerto. Non era da Alec affidarsi a una possibilità. «Potrebbe funzionare ma non bene come con il vero proprietario. L’incantesimo potrebbe risultare debole o durare meno» disse Constance titubante. «Perché quanto dovrebbe durare?» chiesi stupita. «Per sempre, in teoria. Una volta fatto, diventa per sempre una zona franca, a meno che non venga eseguito un contro incantesimo che, per la cronaca, non è riportato». «Proviamo» mi sentii dire. «Facciamo un tentativo, capiremo subito se non ha funzionato e riproveremo a giugno. Per allora riusciremo a trovare una soluzione». «È rischioso. Alec se la sente?» lo sfidò mia sorella. Non sapeva con chi aveva a che fare. «Sì» disse senza guadarla, fissando me. «Tu, Constance, te la senti?» aggiunse senza staccare gli occhi dai miei.. «Ho fatto una promessa, la manterrò» rispose decisa.«Allora iniziate a

raccogliere le erbacce che occorrono».

~~o~~

Era tutto pronto. Studiato nei minimi dettagli. Avremmo detto a mamma che saremmo andate a dormire da Mads per una sessione intensiva di studio pre-test di storia. Per rendere più credibile la nostra copertura saremmo andate davvero, ma verso le dieci Elle avrebbe “convinto” la nostra amica di essere stanchissima e che era ora di andare a dormire. Alec avrebbe aspettato in fondo alla strada con il motore . La casa sulla spiaggia si trovava a circa mezzora di strada da Saint Claire. Avevamo un’ora per preparare la pozione e completare l’incantesimo. Allo scoccare della mezzanotte Connie avrebbe recitato la formula. Era tutto pronto. Convincere Elle a far parte della spedizione non era stato facile, ma avevo bisogno che fosse presente. «Non ti aiuterò a fare questa cosa Em, è troppo pericoloso e poi… » esitò. Non mi piaceva che esitasse. Non esitava mai. «E poi?» la incalzai. «Ho un brutto presentimento». Non mi piacevano nemmeno i brutti presentimenti. Soprattutto i suoi. «Io non l’ho sentito» dissi più a me stessa che a lei. «Non è uno di quei presentimenti. È più una sensazione» spiegò. Bè una sensazione, non è un presentimento. Che cos'è una sensazione? «Solo perché non ti fidi di me!» esclamò Connie. Quello era senz'altro parte del problema. «Non potete certo biasimarmi. Non hai esperienza e sembra un incantesimo

complesso. Se qualcosa andasse storto sapreste cosa fare?». Nessuna delle due rispose. «Come immaginavo» ribatté esultante, sperando di aver detto abbastanza da convincerci a lasciar perdere. Ma non potevo lasciar perdere, non senza averci provato almeno una volta. Se avesse funzionato? Anche solo per un minuto. Se avesse funzionato? «Proveremo comunque, Elle. Dovresti venire con noi, a maggior ragione se pensi che qualcosa possa andare storto». Sapeva che avrebbe dovuto farlo, anche se non era d’accordo, anche se non le piaceva. Sapeva che noi l’avremmo fatto per lei. Desiderava solo tentare un’ultima volta per essere in pace con se stessa quando tutto sarebbe andato a rotoli. «Va bene» concesse furiosa senza aggiungere altro. Poi c’era stato il dramma delle chiavi. Alec aveva cercato ovunque senza risultato ed era stato costretto a chiedere alla madre. La risposta della signora Stevens era stata “chiedi a tuo padre”. Di bene in meglio. Thomas avrebbe fatto delle domande. Bisognava trovare una storiella convincente. «Dirò che ho intenzione di portarci Jackie per Capodanno, ma prima devo dare una ripulita e controllare che tutto sia a posto» disse evasivo. «Tuo padre non sa che vi siete lasciati?» chiesi cercando di apparire disinvolta. Ogni volta che sentivo parlare di Jackie mi si torceva lo stomaco. «No, Em. Dovrei spiegargli il motivo per cui l’ho lasciata e al momento non ho ancora trovato una scusa accettabile» ironizzò. Perché non provi con: “Sono innamorato di un’altra?”. Thomas, come avevamo previsto, non rispose senza cercare di andare in fondo alla faccenda, ma Alec riuscì a farsi dare le chiavi. «Come è andata?». «Sembrerebbe aver creduto alla storia della festa dopo un terzo grado di

mezzora. Gli allacciamenti sono tutti attivi, acqua calda, luce e gas. Dovrebbe esserci anche un caminetto se non ricordo male». «Thomas sentirà Connie fare l’incantesimo?» chiesi preoccupata. In fondo era il Custode delle mie sorelle. «Non ho la minima idea di quanto sia bravo mio padre, ma saremo a una quarantina di miglia di distanza ed è molto per un custode». «È il Custode di quattro streghe. Se attinge la sua energia da loro, come tu fai con me, credo che potrebbe sentire Constance anche a cento miglia». «Per gli altri non funziona come per noi, Em. Se fosse così mio padre sentirebbe quattro persone come io sento te e ti garantisco che umanamente è impossibile da sostenere. Può percepire il pericolo nel caso in cui una di loro ci si trovasse o se venisse dispersa una grande quantità di energia, come quando si fa un incantesimo, ma non è detto che capisca con chiarezza di chi si tratta. Potrebbe pensare che siano Kate o Miranda e a loro permette praticamente qualsiasi cosa». «Potrebbe decidere di accertarsene» insistei. Iniziavo a pensare che il nostro piano fe acqua da tutte le parti. «Quindi? Anche se cercassero di fermarci per quell'ora avremo finito e poi, poco male. Non eri tu che volevi vuotare il sacco con i nostri genitori?» disse prendendomi in giro. «Andrà tutto bene e se così non fosse, riproveremo. E riproveremo e riproveremo» disse prendendomi il viso tra le mani.

~~o~~

La casa era immersa nell’oscurità. I lampioni lungo la strada provinciale erano troppo distanti per portare luce alla spiaggia e le luminarie esterne della casa erano spente. Un vento gelido ci schiaffeggiava la faccia e sollevava granelli taglienti di sabbia ghiacciata. Da bambini avevamo trascorso lì molte domeniche. Domeniche di tuffi dal

pontile, di castelli di sabbia e scottature. Quella notte non c’era traccia della pace e della serenità che avevo provato nei giorni della nostra infanzia. Salimmo i gradini scricchiolanti della veranda. Le imposte erano chiuse e così le avremmo lasciate per non attirare l’attenzione, anche se era improbabile che qualcuno eggiasse sulla spiaggia a quell’ora e con quel freddo. Alec armeggiò con la serratura, indurita dalle intemperie e dal tempo. Finalmente la chiave girò nella toppa ed entrammo. Mi chiusi la porta alle spalle, mentre Alec andava alla ricerca del contatore. Dopo qualche minuto una debole luce inondò la stanza. I mobili ammassati al centro del soggiorno erano coperti da lenzuola e teli bianchi. I tappeti erano stati arrotolati e appoggiati al muro, accanto a una pila di scatoloni. Una scala di legno conduceva al secondo piano dove si trovavano le tre camere da letto e il secondo bagno. L’altro, minuscolo e cieco, era nel sottoscala. Nella mia mente emerse l’immagine del salotto, pieno di luce in un mattino d’estate di tanti anni prima. Eravamo ragazzini, avremmo avuto più o meno dodici anni. La mamma di Alec e quella di Sam ci avevano portati al mare a respirare un po’ di iodio. Prendevano il sole, leggevano e chiacchieravano sulle sedie a sdraio, senza mai perderci d’occhio, mentre noi facevamo lunghe nuotate, ci buttavamo dal pontile inventandoci tuffi assurdi, facevamo infinite partite a carte. La sera eravamo così stanchi che crollavamo non appena la testa sfiorava il cuscino. Furono giorni fantastici. Se mi avessero chiesto dove fossi stata più felice, avrei risposto in quel salotto. Mi sembrò di vederlo tra gli scatoloni e la polvere: il divano blu con i cuscini bianchi al centro della stanza, il parquet chiaro tirato a lucido e la cucina, che occupava una parte della sala e dava direttamente sulla spiaggia, attraverso una gigantesca portafinestra che occupava quasi tutta la parete. Nel mio ricordo era aperta e le tende di lino svolazzavano mosse dalla brezza. Scrollai la testa per svegliarmi dal sogno ad occhi aperti. Se tutto fosse andato come speravamo avremmo potuto mettere un po’ d’ordine e far tornare la casa all’antico splendore. Senza poter usare i miei poteri, certo, ma avrei spostato volentieri i mobili, sbattuto tappeti e arieggiato le stanze.

Le mie sorelle si misero in azione. Connie si precipitò in cucina e cominciò ad aprire gli armadietti alla ricerca di ciò che le occorreva, mentre Eileen estraeva dallo zaino gli strumenti e le erbe che avevamo portato da casa. Alec l’aiutò ad accendere il gas, poi si mise alla ricerca di un oggetto della casa da bruciare e accese il fuoco nel caminetto. Iniziammo a preparare la pozione in silenzio. Eileen riempì due pentole d’acqua e accese il gas per portarle ad ebollizione. Era la prima volta che preparavamo una pozione da sole, ma ci veniva naturale senza esitazioni o incertezze, come se lo avessimo fatto mille volte. Tagliai e sminuzzai le erbe e i fiori e li buttai nelle due pentole. Alec nel frattempo aveva trovato in uno scatolone un vecchio soprammobile di legno: raffigurava due delfini che spiccavano un salto. Uno di quei souvenir kitch che si trovano nei negozi degli acquari o dei parchi a tema. Non ricordavo di una gita in un luogo del genere e supposi che fosse un posto che aveva visitato con la sua famiglia. Gli diede fuoco e aspettò che bruciasse per raccoglierne le ceneri. Lo osservai. Le fiamme gli danzavano sul viso e striavano di rosso i capelli neri, mentre girava distrattamente l’oggetto con le pinze del set da barbecue. Sembrava molto concentrato, ma sapevo che la sua mente era chissà dove. Avrei voluto che non si preoccue sempre così tanto per tutto. Io non mi preoccupavo mai di niente e non era sano nemmeno quello. Nel frattempo Connie aveva inciso con una piccola lama il polpastrello del dito medio e versato nelle pentole alcune gocce di sangue. Chiamò Alec che fece altrettanto e poi versarono nella mistura anche le ceneri dell’oggetto. Mescolò il contenuto delle due pentole per qualche minuto, poi alzò lo sguardo su di noi che la osservavamo in religioso silenzio. «Ci siamo» disse sicura. Sembrava padrona della situazione. Avevamo stabilito che lei ed Alec avrebbero versato la pozione intorno alla casa, mentre Eileen ed io ci saremmo occupate di porte e finestre. Mancava mezz’ora alla mezzanotte. La casa non era immensa, ma c’era molto buio e camminare nella sabbia rallentava le nostre azioni. Per un istante temetti che non ce l’avremmo fatta, che stavamo rischiando inutilmente, che qualcosa sarebbe andato storto, che l’incantesimo non avrebbe funzionato, che…

«Hai cambiato idea? Se non te la senti ci fermiamo e torniamo a casa». Si era avvicinato e mi guardava comprensivo. «No, andiamo avanti. Sono solo preoccupata che vi succeda qualcosa a causa mia». Alec e Connie iniziarono il giro intorno alla casa. Eileen ed io procedemmo come per l’incantesimo di protezione fatto la notte dopo Halloween. Con i pennelli bagnammo gli infissi e tracciammo due diagonali partendo dall’alto verso il basso, incrociate al centro. La casa aveva due finestre ai lati dell’ingresso, la grande porta che dava sulla spiaggia e altre tre finestre al primo piano, una per camera, più quella del bagno. La porta fu il pezzo più difficile: dovetti prendere una sedia per arrivare a spennellare la parte più alta dell’infisso. Finito il giro, uscimmo di casa e aspettammo che Connie e Alec terminassero. Pochi secondi prima della mezzanotte Alec ci raggiunse. «Constance dov’è?» chiese Eileen preoccupata. «Sta recitando la formula di chiusura. Non mi vuole tra i piedi». Dopo un tempo che mi sembrò un‘eternità mia sorella ci raggiunse. Aveva l’aria stanca e le tremavano le mani. Niente dava l’impressione che qualcosa intorno o dentro la casa fosse cambiato. Mi sentii travolgere dalla delusione. Per un istante avevo creduto davvero che ci saremmo riusciti. «Allora?» chiese Alec impaziente. «Dobbiamo aspettare che il terreno assorba la pozione. Fra tre giorni sapremo se ha funzionato, ma è rischioso farsi vedere da queste parti. Facciamo davvero una festa per Capodanno. Avremo modo di verificare se abbiamo avuto successo» disse Connie con il fiato corto. Sembrava non reggersi in piedi. Eileen ed io scattammo verso di lei per sorreggerla. «E con Sam e Mads come la mettiamo?» chiesi perplessa. Non ero sicura che fosse una grande idea coinvolgere i nostri amici, ma sarebbe parso strano non festeggiare l’ultimo dell’anno insieme. Per non parlare di Dave. «Non credo ci sarà bisogno di fare grandi discorsi. Se non ha funzionato ce ne

accorgeremo subito, metteremo da parte la faccenda e penseremo a goderci la festa. In caso contrario cercheremo di lasciarvi da soli» disse Constance con un sorrisetto. Eileen le scoccò un’occhiata di rimprovero degna di mamma. Arrossii violentemente. «Non intendevo… Non mi stavo preoccupando di quello» ribadii seccata. «Male, visto che siamo qui perché possiate rimanere da soli senza uccidervi». Doveva essere molto stanca e nervosa. La guardai torva e aprii la bocca per rispondere, ma Elle scosse la testa in maniera impercettibile. Alec lo notò e prese in mano la situazione.«Vedremo. Quello che dovevamo fare l’abbiamo fatto. Sistemiamo tutto e andiamocene da qui».

Promesse mantenute

Emma

Se mi fossi decisa a prendere la patente non mi sarei trovata in una situazione del genere. Elle me lo ripeteva da mesi. Lei l’aveva presa subito, anche se negli ultimi tempi non le era servita granché. Dave la ava a prendere e la portava dappertutto. Sam lo aveva fatto per me prima di mettersi con Madison e avrebbe continuato a farlo, se non avessi iniziato ad arrangiarmi. Non era giusto imporre la mia presenza ai due piccioncini. In quel frangente, però, mi sarei dimostrata meno sensibile se mi fossi ricordata di chiedergli quanto sarebbe rimasto a scuola nel pomeriggio. Avevo fatto tardi in biblioteca e una volta uscita, avevo realizzato di essere l’unica rimasta nei paraggi. Dove avevo la testa? La risposta era semplice: alla casa sulla spiaggia. Non riuscivo a pensare ad altro. Non vedevo Alec dalla notte dell’incantesimo e mancava ancora una settimana a Capodanno. La biblioteca mi era parsa il luogo adatto per trovare una distrazione. Mi ero sbagliata. Ogni volta che prendevo in mano un libro il mio cervello riusciva in modo perverso a ricondurre tutto a lui. Così mi ero arresa e avevo cominciato a spulciare alcuni tomi di botanica per sapere qualcosa di più sulle piante che avevamo usato per i recenti incantesimi. Si trattava in larga parte di erbe e fiori dalle proprietà curative, spesso usate nella medicina omeopatica. Alcune di esse in dosi eccessive potevano essere pericolose. Una fitta alla testa particolarmente acuta mi spinse ad alzare gli occhi dal libro. Fuori era buio. Con il pollice e l’indice premetti le palpebre nella speranza di alleviare il dolore che mi pulsava nelle tempie. Sbuffai irritata. Mi attendeva una eggiata di mezz’ora. Per fortuna non era ancora arrivata la neve, anche se per Natale avevano previsto che sarebbe caduta abbondante. Considerata la mia spiccata tendenza a confermare la legge di Murphy, non mi sarei stupita se avesse deciso di anticipare di un giorno mettendosi a nevicare in quell’esatto momento. Alzai gli occhi verso il cielo color vinaccia. Miranda diceva che era il colore del cielo quando sta per nevicare. Fantastico. Mi sentivo inquieta al pensiero di camminare da sola per mezz’ora, anche se

conoscevo la strada e attraversava zone residenziali abitate e tranquille. Mi guardai intorno per controllare se ci fosse qualche altro tiratardi. Nessuno ovviamente. Chi sarebbe rimasto a scuola la vigilia di Natale? La cosa poteva tornare a mio vantaggio. Se in giro non c’era anima viva potevo arrischiarmi a chiamare Alec e farmi venire a prendere. Dave gli aveva chiesto o morale durante l’acquisto del regalo per Eileen. Solo dei ragazzi potevano ridursi a fare lo shopping natalizio il pomeriggio della Vigilia. Alec ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma non poteva dire di no all’amico. Mi scappò un sorriso al pensiero di quei due al centro commerciale, sperduti e disperati in mezzo agli scaffali. Probabilmente si erano arresi ed erano scappati. Nella peggiore delle ipotesi avrei aspettato che finissero gli acquisti. Chissà se Alec aveva comprato qualcosa per me. Da amici non avevamo l’abitudine di scambiarci regali, ma le cose erano cambiate. Più o meno. Ad ogni modo avevo preso il suo settimane prima: una felpa degli Knicks, la sua squadra di basket preferita. Sarebbe andata a sostituire quella dimenticata negli spogliatoi dopo un allenamento e mai più ritrovata. Presi il cellulare dalla borsa per chiamarlo e mi accorsi di avere soltanto una tacca di batteria. Si sarebbe scaricato non appena composto il numero. Optai per un messaggio.

Sono bloccata a scuola, mi eresti a prendere? Ti aspetto nel parcheggio. Il cellulare si spense durante l’invio. Pregai che arrivasse comunque a destinazione e m’incamminai. Durante il tragitto decisi che avrei aspettato una ventina di minuti. Se non fosse arrivato, mi sarei diretta a piedi verso casa. Alec lo avrebbe immaginato e mi avrebbe recuperata lungo la strada. Il centro commerciale non era distante dalla scuola. Si sarebbe liberato di Dave con una scusa e mi avrebbe raggiunta. Conoscendolo non gli sarebbe piaciuta affatto l’idea che aspettassi sola nel parcheggio.

Mi calai il berretto sulla testa e tirai su il cappuccio bordato di pelliccia ecologica. Le fitte alle tempie si erano fatte più forti e pensai che mi avrebbe fatto bene coprirmi meglio. Chiusi il parka blu fino all’ultimo bottone e sistemai la sciarpa, perché mi tenesse al riparo la gola e il collo. Camminavo senza fretta, era inutile correre visto che avrei dovuto comunque aspettare. Non appariva come un luogo spaventoso: era ben illuminato e dall’altra parte della strada c’era una fila di villette. La luce proveniva dalle finestre e dalle decorazioni natalizie dei giardini: renne, babbi natale e bastoncini di zucchero intermittenti. Perché allora mi sentivo così nervosa ad attraversare il parcheggio vuoto? Se fosse stato pieno di auto non sarebbe stato peggio? Chiunque avrebbe potuto acquattarsi e tendermi un’imboscata. Imboscata? Cosa andavo farneticando? Erano timori del tutto irrazionali. Strofinai il naso con la mano guantata. Mi resi conto solo in quel momento che mi prudeva. Qualcuno, nascosto nell’ombra, aveva un segreto. Non era una sensazione nuova, avevo già vissuto una situazione simile. Stavo cercando di ricordare dove fosse successo, quando un rumore di i dietro di me, attirò la mia attenzione e mi indusse ad affrettare il o. «Chi non muore si rivede» disse con tono piatto una voce alle mie spalle. Era una voce giovane, di ragazzo. Una voce che non riconobbi, ma che per qualche motivo mi mise a disagio. Nemmeno per un secondo pensai che non si stesse rivolgendo a me. L’aspetto negativo di un parcheggio vuoto è che qualunque cosa accada si è soli. Mi voltai per vedere chi fosse, curiosa di associare la voce a una faccia. La curiosità uccide il gatto, dicono. Era un ragazzo dalla corporatura robusta, non troppo alto e dall’aria trasandata. Doveva avere all’incirca la mia età, al massimo un paio di anni di più. Aveva capelli scuri, tagliati corti come un militare. Indossava uno di quei piumini senza maniche color fango, sopra un giubbotto di jeans dal quale spuntava una camicia a scacchi rossa e nera e dei jeans logori che avevano visto troppi lavaggi per essere definiti in buono stato. Ai piedi portava degli anfibi, scuri e rovinati. Mi domandai se non avesse freddo. Anche Sam aveva un piumino simile, ma lo metteva in autunno sopra le felpe, non in pieno inverno. Lo guardai bene in faccia. Sembrava sicuro di conoscermi ma non riuscivo

proprio a ripescare il suo viso dai cassetti della memoria. Un compagno di squadra di Alec? Un alunno di mamma? Niente. Eppure era famigliare, qualcosa nella sua voce aveva una lampadina nella mia testa. Poi vidi i suoi occhi. Un azzurro che sarebbe apparso scialbo, se non fosse stato per la freddezza dello sguardo che li rendeva spietati. Occhi azzurri e gelidi come il ghiaccio. Bam. Le porte della memoria si spalancarono con un colpo secco. «Tony Marshall» mormorai. D’istinto indietreggiai e per un secondo mi sembrò di essere di nuovo la bambina di sette anni che sfida il bullo della scuola nel parcheggio. Il cuore cominciò a martellarmi nel petto. Si avvicinò con un sorriso compiaciuto sulla faccia, contento di essere stato riconosciuto. L’espressione gli si stropicciò sul viso come un foglio di carta straccia. I sorrisi non erano mai stati il suo forte, nemmeno da bambino. Non riuscii a ricambiare quella specie di smorfia. Il nervosismo era schizzato a mille e diventato più simile alla paura. Non aveva senso che Tony fosse nel parcheggio, il giorno della Vigilia di Natale. Non frequentava la nostra scuola da anni. Cercai di razionalizzare. Forse era venuto a trovare dei parenti per le vacanze e preso dalla nostalgia aveva fatto un salto per vedere la vecchia scuola. Aveva gironzolato lì intorno e si era imbattuto in me. Aveva senso. Sembrava verosimile. «Ne è ato di tempo, Hataway. Ti sei fatta carina. Non sei più una mocciosa con le trecce» disse con un mezzo sorriso. Fece un o verso di me e di riflesso ne feci uno indietro. «Sei tornato in città per le feste?» domandai nervosa. Non mi piaceva. Non mi piaceva la situazione, non mi piaceva lui e aveva un segreto. Il prurito al naso non ava, doveva essere un segreto terribile o, ipotesi ben peggiore, doveva riguardare me. Cosa che avrebbe dato un senso ben diverso alla sua presenza nel parcheggio. Tutti abbiamo dei segreti. Perché quello di Tony avrebbe dovuto riguardare me? Non avevo niente a che fare con lui. Sperai che Alec fosse abbastanza vicino da sentire quanto fossi spaventata e si desse una mossa.

«Non proprio, torno di tanto in tanto. Ho delle faccende in sospeso» arricciò le labbra e affondò le mani nelle tasche. Cercava di guadagnare terreno, ma per ogni o che faceva verso di me, cercavo di farne almeno due indietro. Non mi staccava gli occhi di dosso. «Capisco. Beh, ora devo proprio andare, magari ci si vede in giro». Non aspettai che rispondesse, girai sui tacchi e ripresi a camminare a o sostenuto verso la strada. Stavo per mettermi a correre quando mi afferrò il braccio, costringendomi a voltarmi verso di lui. Non lo avevo sentito arrivare, era silenzioso come un gatto. Stavo per intimargli di lasciarmi andare, quando la collana che portava al collo attirò la mia attenzione. Era una catenina militare con due piastrine di riconoscimento. Un soldato in licenza. Sarebbe stato in grado di uccidermi senza nemmeno sporcarsi le mani. «Come sta la professoressa? Me lo domando ogni volta che penso a come è morta mia madre» disse in un sussurro rabbioso, gli occhi traboccati d’odio. «E i due finocchi dei tuoi amichetti?» sentivo il suo alito puzzolente di tabacco sulla faccia. Cercai di divincolarmi dalla stretta, ma sembrava una morsa d’acciaio. Più mi agitavo, più stringeva, più mi faceva male. «Lasciami andare. Cosa vuoi? Lasciami ho detto» non strillavo, ma ci mancava veramente poco. Ora sapevo chi mi stava spiando la sera del ballo di Primavera e nel giardino di Alec. Avrei riconosciuto la malvagità di quel segreto anche in mezzo a una folla. La cattiveria. Il proposito di far soffrire per avere vendetta. Cosa avevo fatto a Tony Marshall per farmi odiare a tal punto? Perché aveva tirato in ballo mia madre? Non poteva essere per quello stupido litigio da ragazzini. Erano ati dieci anni. Sarebbe stato da pazzi. In fondo niente mi impediva di credere che non lo fosse, dato che ero abbastanza sicura che mi spiasse da mesi per tendermi un agguato nel parcheggio. Potevo tentare di colpirlo e approfittare del momento di stupore per scappare?

Non si aspettava che reagissi. Sarebbe bastato attraversare la strada e suonare a una qualsiasi di quelle villette per chiedere aiuto. Se non fossi stata in preda al panico, avrei provato a vedere il suo segreto per capire cosa avesse in mente, ma non ero abbastanza lucida per mettermi a frugare nella sua testa. Avrei perso tempo non sapendo cosa cercare e si sarebbe accorto che stavo architettando qualcosa. «Mostreremo alla cara mammina cosa significa perdere un figlio» disse trascinandomi lontano dall’entrata e dirigendosi verso un punto poco illuminato dove si trovava una berlina argentata piuttosto anonima che prima non avevo notato. Cosa voleva fare? Caricarmi in macchina per portarmi dove? Mi si gelò il sangue nelle vene. Non avevo mai avuto tanta paura in vita mia. Mi scoprii incapace di fare un altro o, incespicai e caddi a terra. Avrebbe dovuto trascinarmi di peso alla sua dannata macchina, perché non lo avrei aiutato a portarmi nel bosco per uccidermi o chissà che altro. Mi risollevò tenendomi per il braccio e mi scosse con violenza, come se volesse farmi riprendere i sensi. Un’ondata di nausea mi rovesciò lo stomaco. «Non capisco di cosa tu stia parlando» rantolai nel tentativo di guadagnare tempo. Magari si sarebbe perso in spiegazioni e avrei ritardato il momento in cui mi avrebbe caricata in macchina e portata distante decine di miglia dalla possibilità di cavarmela. «Non lo capisci… Scommetto che hanno preferito non raccontare niente per non turbarti, povera piccina» mi canzonò, ma non c’era ombra di risata nella sua voce. Mi fissò a lungo, stringendo il braccio con forza e costringendomi a guardarlo negli occhi. Il suo sguardo era lucido e spietato. «Tua madre ha ucciso i miei genitori» mi alitò in faccia con rabbia. Avevo la prova che fosse completamente pazzo. Solo Dio sapeva il film che si era fatto quello squilibrato e che tipo di colpe attribuisse a mia madre. Cosa c’entrava lei con i suoi genitori? Nemmeno li conosceva. Ad ogni modo aveva deciso di prendersela con me e stando a ciò che diceva le possibilità di uscirne viva non sembravano molto alte. Tanto valeva provare a lottare fino all’ultimo.

La mano fu più svelta del pensiero. Con uno schiaffo gli colpii il viso. Avevo i guanti, ma sperai di avergli fatto abbastanza male. Mi guardò stordito dal colpo inaspettato. Poi sogghignò. Restituì lo schiaffo prima che potessi pensare di schivarlo. Sentii la bocca riempirsi di sangue e gli occhi di lacrime per il dolore e l’umiliazione. Era il primo schiaffo che ricevevo in vita mia. Ero ancora stordita dal ceffone quando mi afferrò i capelli con forza, tirando verso il basso. Strillai per il dolore. Il sangue mi montò alla testa. «Sei un maledetto bugiardo. Un povero pazzo, sadico. Ti senti un vero uomo a picchiare una ragazza? L’hai imparato da tuo padre?». Non avrei dovuto dirlo, me ne sarei pentita, ma ero accecata dalla rabbia e colpivo alla cieca. Mi torse il braccio dietro la schiena e mi spinse facendomi camminare davanti a sé. Quando vide che non mi muovevo di un o, mi sollevò per la vita come se fossi una piuma. Sembrava non sentire il mio peso. Scalciai e cercai di divincolarmi senza successo. «Sei una lottatrice. Ci divertiremo» disse con una risata amara, ma tornò subito serio. «Apri ancora quella bocca velenosa e ti spezzo il collo». Non dubitai per un secondo che fosse capace di farlo. Imperterrita continuai a sferrare calci a raffica per lo più a vuoto, finché finalmente qualcosa presi. Lo sentii imprecare e annaspare in cerca d’aria. Colpii di nuovo, lo stesso punto e mollò la presa. Sentii il terreno sotto i piedi. Tony piegato su se stesso con una mano si massaggiava il basso ventre, con l’altra cercò di riprendermi. Lo spinsi lontano e iniziai a correre. Non vedevo dove stavo andando. La mia era un fuga alla cieca dettata dal panico. La speranza di scappare da ciò che mi aspettava una volta che fosse riuscito a caricarmi sulla macchina mi dava la forza che mi serviva. Riuscivo solo a vedere il cemento scorrere sotto le scarpe da ginnastica e sentivo il cuore scoppiare nel petto. Ad un tratto una forza contraria alla direzione in cui stavo andando mi afferrò i polpacci, togliendomi il terreno sotto i piedi. Ebbi la prontezza di buttare le braccia in avanti prima di cadere per riparare la faccia e la testa. L’impatto con il suolo fu duro e mi lasciò interdetta per qualche secondo. Mi afferrò per la giacca

e mi voltò. Il ginocchio sinistro faceva male. Con tutto il peso del corpo mi immobilizzò a terra. Temevo che il braccio su cui ero caduta fosse rotto, perché sentivo pulsare il dolore fino alle tempie. Pregai per una morte rapida e indolore. Stavo per morire, Tony mi avrebbe uccisa. Seppi che avrei perso i sensi quando la vista mi si annebbiò o forse erano le lacrime. Se fossi svenuta non avrei sentito niente. Volevo solo addormentarmi e sognare Alec. Vederlo per l’ultima volta, anche solo nella mia mente. Non volevo morire. C’erano tante cose che avrei voluto fare, vedere, provare e volevo stare con Alec ancora, ancora e ancora, ma Tony Marshall era venuto a saldare il conto e non c’era più tempo. Chiusi gli occhi per non vedere la sua faccia ansimante a pochi centimetri dalla mia. Avrei voluto tapparmi le orecchie per non sentirlo e il naso, per togliermi dalla testa l’odore sgradevole che emanava: di sigaretta, birra e sudore. Si buttò su un fianco, schiacciando con tutto il suo peso il ginocchio. Una fitta di dolore mi traò il cervello, luminosa come un lampo. Faceva male, tanto male. Qualcuno poteva farlo smettere? Fu allora che il dolore si placò e non sentii più l’enorme peso schiacciarmi a terra. Per un attimo pensai di essere morta e scoppiai a piangere, un pianto isterico con i singhiozzi, come una bambina. Poi l’emisfero razionale del mio cervello ebbe la meglio. Se fossi morta, il braccio e il ginocchio non mi avrebbero fatto male. Qualcuno mi sollevò la testa e l’appoggiò su una superficie più morbida del cemento. «Emma, mi senti? Hai qualcosa di rotto? Posso sollevarti? Fai un cenno con la testa» una voce preoccupata, una voce amica. Feci per alzarmi, ma partì una fitta di dolore talmente forte che mi strappò un gemito. Avevo fatto leva sul braccio sbagliato. «Tranquilla, ti tiro su io, prima però devo sapere se hai sbattuto la testa». Ero quasi sicura che fosse Dave, la voce sembrava la sua ma non lo vedevo bene e non aveva senso che fosse lì. Ne avrebbe avuto se ci fosse stato Alec, ma Alec non c’era. Dov’era? Poi capii.

«No… Digli che torni indietro. Gli farà del male… Per favore diglielo» biascicai in preda al panico, cercando di nuovo di alzarmi. Alzai la testa e sbattei le palpebre per diradare la nebbia. Dal nulla apparve un’altra voce alle mie spalle. Una voce bellissima anche se stressata dall’ansia. «È scappato», la voce che amavo imprecò. «È cosciente? Da dove viene il sangue? Cosa le ha fatto quel bastardo?». Era proprio arrabbiato. «È cosciente ma non so quanto sia lucida. Il sangue viene da un taglio sul labbro, non sembra profondo. Non vuole dire dove le fa male e non mi fido a spostarla, se avesse qualcosa di rotto? Dobbiamo chiamare il 911, Alec». «Emma? Emma, amore, ascolta. Mi devi dire dove ti fa male okay? Così io e Dave ti portiamo via. Andiamo in un posto caldo, dove i dottori faranno sparire il dolore, ma devi dirmi dove ti fa male». Potevo fare un immenso sforzo e dirglielo, perché aveva davvero bisogno di saperlo. Ci teneva tanto ed era molto preoccupato. Non volevo si preoccue. «Il braccio. Mi fa male il braccio e il ginocchio» mormorai. «Dave, vai a prendere la macchina e chiama Eileen. La portiamo a casa. Non credo che abbia battuto la testa, è solo sotto shock». Mi sollevò piano prendendomi dalle spalle mentre Dave correva verso l’auto. Dalla nuova posizione, potevo vedere le ruote della jeep nera. «Ascolta Em, dovrei riuscire a sistemarti il braccio e il ginocchio, così non dovremo andare all’ospedale, okay? Non so bene come si faccia, andrò ad intuito. C’è qualche altro posto dove ti fa male?» la voce vibrò per la rabbia. Scossi la testa. Appoggiò le mani fredde sulle mie tempie e le labbra sulla fronte. Non appena le sue dita entrarono a contatto con la pelle, sentii un leggero pizzicore e poi un fluido caldo avvolgermi i pensieri come una coperta, soffermarsi sulla bocca e scendere piano fino al braccio e ancora più in giù, arrivare al ginocchio. Il calore si fece più intenso e il dolore arrivò. Incapace di sopportarne ancora, persi i sensi.

~~o~~

«La ringrazio signora per averci lasciato parlare con sua figlia. Deve essere stato difficile per lei, ma ci sarà di grande aiuto per trovare chi l’ha aggredita. La terremo aggiornata sulle indagini. Questo è il mio biglietto, nel caso vi venisse in mente qualcos’altro». Il detective Kirland strinse un po’ troppo la mano di mamma. Gli si leggeva in faccia che avrebbe voluto che Kate usasse quel numero anche per altri motivi. Cercai di trattenere un sorrisetto. Non era un brutto uomo. Uno tipo che si sarebbe potuto definire interessante. Alto, lineamenti marcati, occhi e capelli scuri. Si muoveva con sicurezza e dava l’impressione di essere bravo nel suo lavoro. Mamma gli concesse un fuggevole sorriso e annuì distratta. Nemmeno si era accorta che le stava facendo la corte. A sua discolpa bisognava dire che non era la serata ideale per un approccio. Un maniaco sbucato dal nulla, convinto di avere un conto in sospeso con lei, mi aveva rotto un braccio, lussato un ginocchio e tentato di rapirmi, anche se non proprio in quest’ordine. Il detective Kirland non eccelleva in quanto a tempismo. Appena fu uscito, Kate chiuse la porta a doppia mandata e tornò in salotto. Si lasciò cadere sul divano. Miranda arrivò subito dalla cucina munita di vassoio. Lo appoggiò sul tavolino davanti al divano, le zuccherò il caffè e glielo porse. Me ne stavo appollaiata sulla poltrona di papà avvolta in due coperte, tenendo con una mano un impacco alle erbe sul labbro. La nonna aveva giurato che quella roba avrebbe evitato che si gonfiasse, ma non mi fidavo al cento per cento: puzzava troppo di menta per i miei gusti. Le osservai insonnolita. Gli antidolorifici mi avevano messa ko. «Dovresti andare a letto» sentenziò Kate lanciandomi un’occhiata preoccupata. «Prima voglio sapere tutta la storia. Credo di averne diritto» risposi soffocando uno sbadiglio. I patti erano che avrei parlato con la polizia se loro mi avessero raccontato tutto. Era un ricatto bello e buono, ma mia madre sapeva essere davvero ostinata. Emise un profondo sospiro, ma non oppose resistenza. Non avrei mollato facilmente e lo spavento l’aveva resa arrendevole. Sotto diversi punti di vista. «Iniziò tutto con il vostro litigio nel parcheggio, quando ti sei servita delle tue capacità per avere qualcosa da usare contro di lui. Ricordi? Ero furiosa, perché

mi avevi disobbedito ed era stato un gesto davvero scorretto da parte tua». Mamma fece una lunga pausa per sottolineare, ancora una volta, quanto fosse stato grave ciò che avevo fatto. Come dimenticarlo? Avevo ricevuto una punizione esemplare e la ramanzina più lunga della mia vita. A distanza di anni, però, ero ancora convinta di aver fatto la cosa giusta. Per Alec e Sam ne sarebbe valsa sempre la pena. «Ti obbligai a raccontarmi cosa avevi visto frugando tra i segreti di Tony e scoprii ciò che avveniva in quella famiglia. Decisi di parlarne con il Preside Marlowe senza specificare come ero venuta a conoscenza della situazione. Probabilmente pensò che la madre di Tony mi avesse fatto delle confidenze. Marlowe era una brava persona, molto attento ai ragazzi, soprattutto i più difficili come Tony. Aveva intuito da tempo che qualcosa non andava e aveva deciso di intervenire una volta appurato che le chiacchiere in circolazione su Kevin Marshall fossero vere. Le mie parole lo persuasero che fosse arrivato il momento e decidemmo di avvisare i servizi sociali. Avrebbero fatto chiarezza e messo Tony e sua madre al sicuro, almeno così credevamo. Le indagini ci diedero ragione. Scoprirono che venivano maltrattati e picchiati da Kevin. Offrirono a Stacy il loro aiuto, ma contro ogni previsione si rifiutò di abbandonare il marito e furono costretti a portarle via il bambino. Quando andarono a prendere Tony, Kevin era fuori città e una volta tornato pensò che fosse stata la moglie a denunciarlo. Litigarono violentemente. Era ubriaco e durante la lite, Stacy cadde battendo la testa. Morì sul colpo. Kevin fu incriminato per maltrattamenti e omicidio colposo, ma non sopravvisse molto alla moglie: dopo qualche settimana si tolse la vita, incapace di sopportare il senso di colpa» concluse mamma con voce stanca. Se Tony non mi avesse riempita di botte, avrei potuto provare pena per lui. La sua era stata una vita difficile fin dall’infanzia. Non mi sorprese che avesse cercato qualcuno a cui dare la colpa. Quello che non mi tornava era come avesse fatto il collegamento giusto. Di sicuro i dossier dei servizi sociali erano riservati e non poteva aver collegato da solo mia madre alla storia. Come aveva scoperto che era stata lei a denunciare il padre? «Non avrei mai creduto che potesse provare del rancore o cercare vendetta» riprese Kate ma non sembrava più rivolgersi a me. Parlava piano seguendo il suo

flusso di coscienza. «In questi anni ho pensato spesso a lui, chiedendomi che vita stesse facendo. Non mi sono mai pentita di ciò che ho fatto. Suo padre avrebbe finito per ammazzare anche lui se non l’avessimo portato via da quella casa. Stacy, completamente succube del marito, non era abbastanza forte per proteggere il figlio». Mamma si prese la testa tra le mani. Miranda le ò un braccio intorno alle spalle. «Credo che anche tu abbia bisogno di riposo, cara. Qui siamo al sicuro, nessuno può farci del male». Mamma la guardò per un istante e annuì in silenzio. Si alzò e venne da me. Mi tastò la fronte con il palmo fresco della mano e mi baciò la testa. «Sto bene, mamma. Non ho l’influenza» dissi seccata. Da ore non facevo altro che ripetere che stavo bene. Ovviamente non mi credeva nessuno. «Quando calerà l’adrenalina, si abbasseranno le difese immunitarie. Hai preso l’antidolorifico?» chiese ansiosa. «Sì, mamma. Va tutto bene, okay? Ha ragione la nonna, è meglio andare a letto» dissi gettando via le coperte e cercando di alzarmi. Nemmeno il tempo di fare leva sul braccio sano che Alec uscì dalla cucina e in un attimo fu accanto alla poltrona. Se lo ò dietro il collo e mi circondò con un braccio la vita, mentre con l’altro mi sostenne le gambe. Appoggiai la testa sulla sua spalla, soddisfatta. Per fortuna che i capelli mi coprivano il resto del viso, perché ero arrossita non appena mi aveva sfiorata. Era davvero patetico il ruolo della damigella in pericolo, ma che fosse il mio eroe non lo era affatto. Sorrise impercettibilmente, forse indovinando le mie fantasticherie. Kate non aprì bocca. Alec aveva messo in fuga il pericoloso assalitore salvandomi la vita. Almeno per quella sera godeva della sua fiducia, o quasi. «Ti porto in camera» sussurrò. Guardai i begli occhi ancora addolorati. Avrei voluto prendergli il viso tra le mani e scongiurarlo di dirmi cosa gli ava per la testa ma non potevo. Mia madre gli lanciò un’occhiata carica di sospetto. «Ehm ehm» si schiarì la voce per attirare la sua attenzione. Alec alzò lo sguardo ambrato su di lei. «Ho detto ai tuoi genitori che ti avrei riaccompagnato a casa. Sono impazienti di vederti e sapere che stai bene. Tua madre era molto

preoccupata, non vorrai farla aspettare». La fiducia era esaurita. Mamma gli aveva permesso di rimanere nei paraggi per un po’, visto che gli doveva il fatto che fossi ancora viva e non chiusa nel bagagliaio di una berlina nascosta nel bosco, ma non aveva cambiato idea. Probabilmente voleva fargli un terzo grado con i fiocchi. «Grazie, Kate» rispose asciutto, incassando il colpo. Con le dita gli accarezzai la nuca per consolarlo. «Porto Emma in camera, non credo le faccia bene fare le scale. Scenderò subito». Sosteneva il suo sguardo, senza sfidarla. Mamma annuì e ci lasciò are. Sospirai. Non era piacevole essere al centro di una guerra di nervi. «Grazie ragazzo. È stata una vera fortuna che tu e il tuo amico foste da quelle parti» disse Miranda quando le ammo accanto. Mi sembrò che il suo sguardo da gatto si fosse posato per un secondo sulla catenina che spuntava dal colletto della camicia di Alec. Strinse gli occhi meditabonda e sorrise sorniona. Alec annuì e iniziò a fare le scale. Sentivo gli occhi di mia madre fissi su di noi. Rimase imibile fino a quando restammo nel suo campo visivo. Non appena fummo al piano di sopra mi strinse forte. Mi baciò la fronte e i capelli. Non eravamo rimasti soli un secondo da quando mi aveva trovata nel parcheggio, stordita e sanguinante. «Mi dispiace. È scappato, non sono riuscito a fermarlo. Avrei potuto inseguirlo ma non sapevo cosa ti fosse successo. Quando siamo arrivati, l’ho visto, accovacciato su di te, ho pensato… Dio! Non sapevo se ti avesse uccisa o ti fosse venuto un attacco. Giuro che troverò e ucciderò quel cane con le mie mani, fosse l’ultima cosa che faccio». Sapevo che l’avrebbe fatto davvero e non volevo certo che se ne andasse a caccia di uno squilibrato. Probabilmente Tony non aspettava altro. «Non ci pensare nemmeno» dissi sottovoce ma con fermezza. «C’è la polizia per queste cose. Lo troveranno e lo metteranno in prigione, in un ospedale psichiatrico o che so io. Non andrai in giro a fare il giustiziere della notte. Prometti Alec. Giura che non lo farai» mi aggrappai alla sua felpa e lo costrinsi a guardarmi negli occhi. Annuì con un cenno del capo. I lucciconi funzionano quasi sempre.

«Promesso». Strofinai il naso contro il cotone della felpa e sul suo collo, indifferente alla piccola scossa. Poi mi bloccai, ripensando alle sue parole. Aveva detto qualcosa d’importante che non riuscivo ad afferrare. «Cosa c’è? Ti fa male il braccio? Sto stringendo troppo?» chiese ansioso, staccandosi da me. Scrollai la testa. Cosa stonava in tutta quella faccenda? «Qualcosa non torna ma non riesco a capire cosa». «Va bene, Sherlock. Ne riparleremo domani, ora devi andare a letto e io a casa, altrimenti tua madre penserà che pur di sfuggirle sono scappato dalla finestra » disse più sereno. L’interrogatorio di mia madre e i nostri sciocchi segreti, dovevano sembrargli una eggiata dopo quello che avevamo ato. «Non ti invidio affatto. Se ti può consolare toccherà anche a me nei prossimi giorni. Soprattutto se non riuscirai ad essere convincente». «Ripeterò che avamo da quelle parti, ho percepito che eri in pericolo e ho convinto Dave con una scusa a are da scuola. Se avesse dei sospetti non ti lascerebbe mettere il piede fuori di casa e ti perderesti la festa di Capodanno» ribatté, indugiando sulla mia bocca. «Non mi farà uscire comunque. Non finché Tony se ne andrà in giro aspettando l’occasione per rapirmi e farmi a pezzi» sospirai. «Non ti preoccupare, mio padre lo sta cercando. Ha i suoi metodi. Lo prenderanno» disse con una strana luce negli occhi. «Alec, hai promesso» lo ammonii severa. «Ti ha fatto del male» ringhiò. «Sì e non voglio che ne faccia a te o che ti metti nei guai a causa sua, perché è esattamente ciò che vuole» sbottai. Ormai eravamo arrivati in camera. Le luci erano spente, le mie sorelle

dormivano grazie a una pozione calmante che la nonna le aveva costrette a bere. Non poté ribattere per paura di svegliarle. Mi depose sul letto e mi avvolse in una coperta. La discussione al momento era chiusa, ma non ero sicura di aver avuto l’ultima parola.

Quando non ero ancora nata

Emma

Da bambina credevo che rimanere svegli la notte di Natale fosse un peccato da non commettere. Babbo Natale avrebbe pensato che non mi fidavo di lui e se ne sarebbe andato via arrabbiatissimo, senza lasciare nemmeno un pacchetto di caramelle. Naturalmente ciò scatenava una considerevole dose di ansia infantile che mi impediva di prendere sonno. Al minimo rumore chiudevo gli occhi e mi fingevo addormentata, fino a che non crollavo davvero esausta per la veglia forzata. Avevo smesso di credere a Babbo Natale da parecchi anni, ma le cattive abitudini sono dure a morire e anche quella Vigilia non riuscivo a prendere sonno, complice la recente aggressione e il maledetto tarlo che mi girava per la testa e non riuscivo ad afferrare. Il braccio e il ginocchio erano solo un po’ doloranti grazie all’intervento di Alec e degli antidolorifici e il labbro non si era gonfiato come Miranda aveva promesso. Tutto sommato me l’ero cavata piuttosto bene, anche se non per merito mio. I miei poteri si erano rivelati piuttosto inutili. Allungai la mano verso il comodino per bere un sorso d’acqua e mi accorsi con disappunto che il bicchiere era vuoto. Sbuffai seccata. Non restava che combattere contro la pigrizia e scendere in cucina. Afferrai il bicchiere e senza fare rumore uscii dalla stanza. La casa scricchiolava ad ogni o e mi ritrovai ad invidiare i ninja. Strano che distratta com’ero non fossi ancora andata a sbattere contro qualcosa. A metà scale mi accorsi che non ero l’unica a soffrire d’insonnia. Dalla cucina proveniva la voce di mamma. Si sforzava di parlare piano, ma il bisbigliare strozzato non prometteva niente di buono. Lei e la nonna stavano litigando? Perché? Mi avvicinai alla porta per origliare e capire se potevo interrompere la discussione. Avrei ascoltato lo stretto indispensabile, non una parola di più. Se fosse stata una discussione seria, sarei tornata a letto con la sete. «Non esiste, è troppo rischioso. Non meno di un mese fa era qui. Aspetta solo un nostro o falso e glielo stai servendo su un piatto d’argento. Miranda, dì

qualcosa, ti prego!» implorò frustrata. Non stavano litigando tra di loro. Stavano litigando con qualcuno. «Caterina ha ragione. Ha messo insieme tutti i tasselli, è molto vicino. È un pessimo, pessimo momento» la voce della nonna suonò decisa come quando voleva chiudere una discussione senza se e senza ma. Un pessimo momento per cosa? «Restare a guardare mentre uno squilibrato vi dà la caccia non è tra le mie opzioni». C’era un uomo nella nostra cucina. Non riuscii a collegare la voce a una faccia, perché il suono era attutito dalla porta chiusa. Mi sembrò famigliare, ma allo stesso tempo ero sicura di poter scartare il professor Stevens, nonostante fosse l’unica presenza che avrebbe avuto un senso nella nostra cucina alle due del mattino, almeno dopo quello che era successo. «La polizia lo sta cercando e poi ci sono Thomas e… Alec, siamo al sicuro» aggiunse mamma irritata. Contare sulla persona che aveva cercato in tutti i modi di tenere lontano da me, doveva seccarle parecchio. Depennai Thomas dalla lista. Non poteva essere lui dato che ne stavano parlando. «Ho visto» tagliò corto la voce. Oh accidenti! Perché avevano messo porte così spesse? «Se non fosse stato per il ragazzo staremmo cercando Emma nei boschi» disse Miranda. «Dovreste accettare l’idea che ho ragione e lasciare che le cose seguano il loro corso». «NO» esclamarono insieme Kate e l’uomo misterioso. Ci fu un secondo di silenzio. Su qualcosa inspiegabilmente erano d’accordo, ma cosa aveva a che fare lui con me ed Alec? «Se resti ti troverà e sarà la fine per tutti noi. Sei stanco e lo capisco, ma questo non è il momento adatto» riprese Miranda.

«La mia decisione è presa. Starò attento, non abbasserò la guardia». Chi doveva stare attento a cosa? «Hai già abbassato la guardia, stai già rischiando e non te ne rendi conto. Non c’è solo la tua vita in ballo, anche le tue figlie sono coinvolte». Le tue figlie. «Le mie figlie hanno bisogno di me». Le mie figlie. «Hanno bisogno di te vivo e al sicuro». «Ti prego, James. Ascolta tua madre, ascolta me… » James. Ascolta tua madre. Il mio cervello andò in corto circuito. Non poteva essere. Non c’era mio padre dall’altra parte della porta. Non era reale, stavo sognando. Mio padre, mia nonna, mia madre. Tutti pezzi andarono al loro posto. Un’inattesa, sconvolgente epifania. Il bicchiere mi cadde dalle mani, frantumandosi in mille pezzi. Le voci provenienti dalla cucina si zittirono. Rimasi immobile, bloccata sulla soglia di quell’evento pazzesco, talmente fuori dalla mia portata che non riuscivo a realizzarlo, a pensarlo. Non riuscivo immaginarlo. Mio padre. Mio padre che mi spingeva sull’altalena, che mi aveva insegnato a nuotare. Mio padre che ballava un lento con mamma nel salotto. Mio padre che aggiustava una bicicletta nel garage mentre giocavamo in giardino nella piscina gonfiabile. Mio padre che se ne era andato, che era sparito. Mio padre che si era perso le mie recite di fine anno, i primi i di Constance, che si era perso Constance. Mio padre che non aveva conosciuto i ragazzi di Eileen, che non l’aveva vista

con l’abito del suo primo ballo. Mio padre che non aveva scritto, che non era mai ato a trovarci, che non mandava regali per Natale o biglietti per il compleanno. Quel padre, era lì. Avanti Emma. Spingiti con le braccia. Puoi arrivare ancora più in alto e se cadi ti prendo io. Se cadi ti prendo io. Forza, prendimi se ci riesci. Adesso che cado da un’altezza che nemmeno riesco a quantificare. Prendimi al volo, papà. La porta si spalancò e Miranda apparve sulla soglia. L’espressione impietrita dallo stupore. Alle sue spalle mia madre in piedi, i palmi appoggiati alla tavola mi guardava attonita. Sembrava volesse spalancare all’infinito gli occhi o chiuderli per non vedere. Accanto a lei l’uomo alto, bello, disperato che ricordavo. I capelli ramati, gli occhi verde foglia in lotta tra il dolore e la gioia. Un po’ di barba, qualche ruga intorno agli occhi. «Avevo sete» mormorai. Non avanzai né tornai sui miei i. Riuscivo solo a pensare che ero scalza e che se avessi fatto un o mi sarei tagliata con i cocci del bicchiere. Strizzai gli occhi. Ero rimasta al buio fino a quel momento e la luce improvvisa della cucina me li fece bruciare. Come ci si sente quando si rivede il proprio padre dopo 14 anni? Non lo sapevo. Non sapevo come mi sentivo. Non sapevo se sentivo, se vedevo davvero. Non sapevo più niente. La nonna mi guardò per una frazione di secondo, chiuse la porta alle sue spalle, alzò la mano sinistra e scacciò l’aria davanti a sé. Il tempo si fermò, congelando la casa in quell’istante. «Dovresti essere a letto. Non fa bene al ginocchio fare avanti e indietro per le scale» disse tranquilla. Schioccò le dita e il bicchiere si ricompose sotto i miei occhi.

«Perché hai fermato il tempo?» chiesi cauta. Non sapevo cosa aspettarmi. «Per parlare». «Non credo di aver voglia di parlare, nonna» misi molta enfasi sull’appellativo, usato per anni con tanta leggerezza. Come avevo potuto essere così stupida e cieca? Era ovvio. Non aveva fatto niente per nasconderlo. Era solo colpa nostra: non avevamo voluto vedere. Miranda sollevò un sopracciglio, vagamente accigliata. «Infatti. Io parlo, tu ascolti» disse prendendomi per le spalle e spingendomi in salotto. Prese una coperta dal divano, mi ci avvolse e mi fece sedere. Schioccò di nuovo le dita e apparve sul tavolino una tazza fumante. «Bevi, aiuta a rilassarsi» disse porgendomi la tazza bianca con il manico sbeccato. «Che pozione è?» chiesi con sospetto. «È camomilla. Zitta, bevi e ascolta» disse perentoria. Bevvi un lungo sorso. Il liquido caldo scese per la gola e nello stomaco, ma ero troppo sottosopra per credere che una camomilla mi avrebbe disteso i nervi. Portai le ginocchia al petto, appoggiai il mento su quello sano e attesi che iniziasse il racconto. Avevo intuito alcune cose in tempi non sospetti e sperai che il racconto di Miranda avrebbe aiutato a mettere insieme i tasselli. Scostò una ciocca di capelli dalla faccia, accese la abatjour sul tavolino accanto al divano e spiò di sottecchi per controllare se fossi pronta ad ascoltare la storia che avrebbe cambiato la mia vita. «Avevo vent’anni. Non ero mai stata innamorata in vita mia. All’epoca desideravo solo essere libera, imparare una professione e andarmene di casa per sfuggire alle rigide regole di mia madre. Quando Jane disse che mi avrebbe portata a Londra ero al settimo cielo. La grande città, le persone che avrei incontrato, i posti che avrei visitato, mi turbinavano nella mente come un meraviglioso catalogo di occasioni da scegliere e catturare al volo. L’idea che a Londra avrei conosciuto l’amore della mia vita non mi sfiorò nemmeno per un istante. Eppure era là ad aspettarmi, nell’atrio del palazzo dove alloggiavamo e

dove avvenivano gli scambi diplomatici delle nostre rispettive delegazioni». «William… Lo sapevo! Quindi la pietra è sua» esclamai, contenta di aver indovinato. «É nostra. Almeno lo era, adesso protegge un’altra strega e un altro Custode» disse concedendomi un sorriso complice. «No, nonna. Voglio che tu gliela restituisca. Non me lo perdonerei mai se gli succedesse qualcosa a causa nostra» dissi preoccupata. Louis aveva detto che William era malato. Perché non aveva la pietra con sé? «William è in grado di badare a se stesso. La vuoi sentire questa storia? Non posso bloccare i tuoi genitori per ore, chi la sente tua madre poi?». Annuii con vigore. «Era bello?» chiesi per invogliarla a proseguire il racconto. «Come un dio. Lo è anche adesso» aggiunse sorridendo. «Da giovane assomigliava al tuo Alec. Alto, capelli neri, occhi scuri, ma non nel carattere. William era più disinvolto e sfrontato. Aveva sempre la battuta pronta e un sorriso malizioso da sfoderare. Constance me lo ricorda molto. Tutti lo adoravano. Louis lo venerava come un fratello maggiore, gli stava sempre appiccicato. Will si era affezionato e lo portava con sé dappertutto. Forse le cose sarebbero andate diversamente se non avesse avuto un debole per quel ragazzino» scosse la testa con un sospiro. «Amore a prima vista?» chiesi scettica. «Non proprio, almeno non per lui» ammise. «All’inizio non sembrò prestarmi molta attenzione. Ero più giovane di qualche anno, una ragazzetta magra come un giunco con una chioma fiammeggiante e di un’impertinenza indisponente, senza contare che ero una strega. Trascorremmo molto tempo insieme e imparò a conoscermi. Quando si accorse di essere innamorato di me disse che non potevamo più vederci. Durò una settimana, poi mandò un biglietto dove scriveva che aveva bisogno di parlarmi e quella sera durante una eggiata in giardino ci scambiammo il nostro primo bacio. La notte ci incontravamo di nascosto, mentre di giorno fingevamo di non conoscerci. In capo a un mese progettammo di fuggire insieme, lasciandoci tutto alle spalle».

«Dove pensavate di scappare? Il Consiglio vi avrebbe trovato prima o poi». Thomas l’aveva detto anche ad Alec: ovunque ci saremmo nascosti, loro ci avrebbero trovato. «Ne dubito. É molto difficile rintracciare un’apolide». «Una che?» «Un’apolide. È un fenomeno abbastanza raro. Sono streghe libere dall’influenza dei Custodi e non soggette ai loro poteri. Un Custode non può percepirmi e i loro incantesimi non hanno effetto su di me. Avrebbero potuto cercarmi per decenni e avermi sotto il naso senza riuscire a vedermi». L’avessi avuto io un potere del genere… «Quindi siete riusciti a scappare?» domandai divorata dalla curiosità, nonostante l’espressione triste della nonna non fe supporre nulla di buono. «Il giorno prima della data in cui avevamo progettato di fuggire, Louis mi denunciò al Consiglio. Da quando ero entrata nella vita di William, il suo beniamino non aveva avuto più tempo da dedicargli. Eravamo giovani, innamorati, il resto del mondo non esisteva per noi. Louis ne soffrì terribilmente. Ero solo una minaccia per lui e gli stavo rubando l’unico amico che avesse mai avuto. Raccontò di avermi vista eggiare di notte con un uomo nel parco assegnato ai Custodi. All’epoca bastava molto meno per finire nei guai. Non fece il nome di William ma Julien mangiò la foglia. Si era accorto che tra me e il suo assistente c’era qualcosa, ma gli parve peggiore il comportamento di Louis, che metteva a repentaglio la vita e la libertà di un altro essere umano per vendicarsi e ottenere ciò che voleva. Si assunse la responsabilità del comportamento del figlio e si prese la colpa. Confessò di avermi attirata con l’inganno e che avevo respinto i suoi attacchi. Non smentii la sua versione, sebbene fosse profondamente ingiusto. Avrei fatto qualsiasi cosa perché William fosse al sicuro. Gli credettero senza fare troppe indagini e chio la faccenda. Jane e Julien volevano riformare il sistema, allentare i divieti dei rapporti tra streghe e Custodi. A molti l’idea non piaceva e la sua ammissione di colpa offrì la possibilità di mandare a monte le trattative e mantenere lo status quo.

Julien venne sfiduciato e perse tutto: il ruolo, la moglie, il figlio. Louis non gli perdonò di essersi sacrificato per salvare William e me, una sconosciuta, una strega. Quando suo padre morì, decise di riversare il suo odio sulla persona che secondo lui era la vera causa della rovina della sua famiglia: William». «A te cosa successe nonna?» chiesi rapita dal racconto. «Jane mi mise sul primo treno e mi rispedì a casa. Qualche settimana più tardi scoprii di essere incinta». Un leggero rossore le coprì le guance. Al tempo doveva essere stato uno scandalo. «Riuscii ad avvertire William, prima che mia madre se ne accorgesse e mi chiudesse in casa. Non potevo uscire o vedere nessuno. Disse che una terribile infezione polmonare mi aveva colpita e che avrei ato del tempo in Italia per guarire. A modo suo si prese cura di me e la mia gravidanza procedette senza intoppi almeno fisicamente. In realtà ero disperata. Mi mancava William ed ero terrorizzata all’idea di ciò che ne sarebbe stato di me e del bambino. L’unica cosa che mi dava un minimo di speranza era il pensiero che una volta nato saremmo scappati, avrei trovato suo padre e ci saremmo fatti una vita da qualche parte nel mondo. Purtroppo avevo sottovalutato mia madre. James nacque in una piovosa notte di metà ottobre. Amalia ebbe il cuore di farmelo tenere in braccio per qualche minuto. Ero stremata dal travaglio e dalla malinconia, ma poter stringere il mio bambino mi rasserenò. Era bello, forte e sano. Pieno di capelli rossi e con due fanali verdi al posto degli occhi. Mia madre me lo prese in fretta, con la scusa di doverlo pulire e mi chiese come volevo chiamarlo. Avevo fantasticato tanto su di lui e risposi sicura che il suo nome sarebbe stato James. Mi diede da bere una pozione, dicendo che mi avrebbe restituito un po’ di energie. Dormii per ore e quando mi svegliai mio figlio era sparito. Amalia disse che l’aveva fatto per il mio bene, che la mia posizione di donna non sposata era aggravata dal fatto che avessi avuto un figlio da un Custode, che avevo mentito davanti al Consiglio per salvare un colpevole e rovinare un innocente, senza contare quello che avrebbero fatto a William e al bambino. Me l’avrebbero portato via comunque, almeno così sarebbe stato al sicuro. Caddi in una profonda depressione che durò mesi. Non riuscivo a reagire, non volevo. Non sapevo dove fosse il mio bambino, William sembrava avermi

abbandonata, avevo sulla coscienza Julien. Mi lasciai andare e smisi di mangiare. La depressione compromise le mie difese immunitarie e l’infezione che mia madre si era inventata mi colpì davvero. Poi Will mi trovò. Aveva creduto che fossi davvero in Italia e aveva cercato in lungo e in largo. Non trovandomi era tornato in Inghilterra e aveva fatto un ultimo disperato tentativo, pensando che fosse assurdo che mi tenessero nascosta proprio in casa mia. Mi trovò divorata dalla febbre, smagrita e infelice e mi portò via con sé. Per mesi si prese cura di me e forse fu uno dei periodi più belli della mia vita, nonostante fossimo straziati dalla mancanza di nostro figlio. Sapevamo che nonostante tutto era più al sicuro dove si trovava. Quando mi fui rimessa, qualche mese più tardi, lasciammo l’Europa e ci trasferimmo negli Stati Uniti. William disse al Consiglio che la disgrazia di Julien lo aveva molto colpito e che desiderava vivere la sua vita come un uomo normale. Cercavamo di non rimanere troppo nello stesso luogo, per non attirare l’attenzione. L’America era immensa e nessuno ci conosceva. Potevamo spostarci con facilità e coprire le nostre tracce. Iniziammo da Chicago, poi Atlanta, New Orleans, Baltimora. Girammo per tre anni. Abitavamo a San Francisco da quasi un anno quando Louis ci trovò. William, che parlava correntemente il se, faceva il traduttore per una piccola casa editrice, mentre io avevo trovato lavoro come illustratrice di libri per bambini. Facevamo una vita tranquilla, ritirata, bastando a noi stessi. Pensavo sempre a James. Mi domandavo dove fosse, se le persone con cui stava lo amavano abbastanza. Un giorno uscendo da un negozio m’imbattei in Louis. Non seppi mai se fosse arrivato lì per caso o fosse sulle nostre tracce, ad ogni modo non faceva differenza. Riuscii ad allontanarmi senza farmi vedere. Forse non era in grado di rintracciare me, ma poteva trovare William, la nostra casa, scoprire che stavamo insieme. Capii che la favola era finita, che avevo avuto anche troppo. Non tornai nemmeno a casa, per il terrore che scoprisse dove abitavamo. Entrai in una cartoleria, comprai della carta da lettere. Gli scrissi che mi ero imbattuta in Louis, che non ero sicura che sapesse di noi e per non correre rischi lasciavo la

città. Gli diedi appuntamento da lì a un mese, in un fast food sulla statale per andare a Los Angeles dove ci fermavamo spesso. In quell’occasione decidemmo di separarci. William sarebbe rientrato nei ranghi. Se Louis stava raccogliendo prove contro di lui, la mossa migliore era tornare al lavoro come Custode e dissipare i sospetti che l’assenza prolungata aveva seminato. Mi misi alla ricerca di nostro figlio. Non avevo niente che potesse condurmi a lui, solo una debole pista. La cameriera personale di mia madre, Elizabeth Moore, aveva sposato in fretta e furia il fidanzato, John Hataway, ed era partita con il marito per il Nord America il giorno dopo la nascita di James. Sospettavo che mia madre avesse affidato a loro il bambino e arrivati negli Stati Uniti, l’avessero spacciato per loro. Girai il paese in lungo in largo e dopo quattro anni di ricerche li trovai. Erano sbarcati a New York, dove avevano vissuto per alcuni anni, poi si erano trasferiti a Saint Claire dove James frequentava la scuola elementare e trascorreva le sue giornate con Thomas Stevens. L’ironia della sorte aveva voluto che mio figlio diventasse amico di un Custode. Gli Hataway erano brave persone, gli volevano bene e si prendevano cura di lui. Era un bel bambino, vivacissimo e intelligente. Mi feci assumere dalla scuola come insegnante di disegno per poterlo vedere tutti i giorni. Era portato e mi offrii di dargli delle lezioni private per coltivare quel talento. Bessy mi riconobbe ma fece finta di nulla e non si oppose, così ebbi la possibilità di conoscere meglio mio figlio e creare un legame con lui. Desideravo anche verificare se avesse cominciato a manifestare i suoi poteri. Era figlio di una strega e un Custode, era impensabile che non avesse ereditato nessuna capacità. I primi i sintomi, infatti, iniziarono a manifestarsi con l’adolescenza. Nonostante la profonda amicizia che lo legava a Thomas, James era avulso dal nostro mondo incapace di rendersi conto delle sue potenzialità. Il fatto di essere più forte, più veloce dei suoi compagni non lo sorprendeva. Si confrontava con Thomas, che era forte e veloce quanto lui e gli bastava. Il fatto che riuscisse sempre a farla franca, che nessuna delle sue bugie venisse scoperta o i suoi segreti svelati, lo attribuiva a una fortuna sfacciata e alla sua riservatezza.

Richard Stevens non ebbe mai nessun sospetto. Non era in grado di percepire James, che non era una strega né un Custode e per quello che sapeva era figlio degli Hataway, una normalissima famiglia di origine inglese. Quanto a me, James sentiva il legame speciale che ci univa, il mio amore per lui e continuò a farmi visita anche quando smise di prendere lezioni di disegno. Finite le superiori, vinse una borsa di studio per merito a Yale e partì per il college, ovviamente con Thomas. Nello stesso periodo ricevetti notizie dall’Inghilterra. Mia madre si era ammalata e decisi di raggiungerla per adempiere ai miei doveri filiali. Aver ritrovato James, aver ato del tempo con lui, me l’aveva fatta odiare meno e pensai che sarebbe stato crudele farla morire da sola. James mi scriveva di tanto in tanto o gli telefonavo per sapere come stava. Non sapevo quando sarei tornata in America, mia madre purtroppo alternava periodi in cui stava meglio ad altri in cui la malattia la costringeva a letto per settimane. Approfittai di quel periodo per studiare i grimori di mia nonna, delle prozie e antenate varie e are del tempo con le mie sorelle e nipoti. Erano trascorsi circa due anni dalla mia partenza quando ricevetti una lettera da James dove mi annunciava di essersi sposato. Sua moglie, Caterina, molto presto avrebbe messo alla luce una bambina, la loro primogenita. Allo stesso modo un anno più tardi mi annunciò del tuo arrivo. Mia madre morì il giorno prima che tu nascessi. James volle a tutti costi darti il suo nome. Suggerii di lasciar scegliere a Kate il primo e metterti Amalia come secondo. Ci sentivamo con meno frequenza ma non potei fare a meno di percepire che qualcosa lo tormentava. Non faceva che ripetermi di quanto fosse innamorato della moglie e delle sue bambine, ma era irrequieto e pensieroso. Tua madre dopo la nascita di Eileen aveva rivelato di essere una strega e gli aveva parlato dei Custodi, dei suoi poteri, delle regole che governano il nostro mondo. Inizialmente la cosa non lo aveva turbato ma presto cominciò a fare due più due. A vedere in maniera diversa il legame con Kate, a confrontare i poteri della moglie alle proprie capacità personali. Da tempo sospettava che gli Hataway non fossero i suoi veri genitori, così una

sera andò da loro e costrinse Bessy a dire la verità. Confessò che io ero sua madre, che ero una strega, che la signora, così chiamava Amalia, lo aveva affidato a loro per metterlo al sicuro. Il giorno stesso mi mandò un telegramma con il quale mi scongiurava di tornare in America. Ci saremmo incontrati a New York. Presi il primo volo. Fu durante quell’incontro che scoprii che mia nuora era una strega e le mie nipotine, compresa la terza in arrivo, erano in pericolo. James non poteva rivelare a Kate chi fosse veramente senza renderla complice e avrebbe capito molto presto che il marito le stava tenendo nascosto qualcosa. Caterina avrebbe potuto cominciare a domandarsi come mai i suoi poteri non avevano effetto sul marito, avrebbe fatto domande, magari alle persone sbagliate e se Louis fosse venuto a conoscenza di un fantomatico marito stregone dai capelli rossi… Sarebbe stata la fine. Gli domandai se il Custode della moglie avesse qualche sospetto. Mi rivelò che il Custode scelto per Kate da quando si era trasferita in America era proprio Thomas. Ma era il figlio più piccolo di Thomas a preoccuparlo. Sembrava ci fosse un legame particolare tra lui e te. Kate e Thomas non sapevano spiegarlo ed erano molto turbati. Gli spiegai che poteva significare solo una cosa e che le sue figlie andavano tenute nascoste meglio di quanto era stato fatto con lui. Dovevano are inosservate nella maniera più assoluta, nessuno avrebbe dovuto capire chi fossero. La stessa cosa valeva per il figlio di Thomas. Lasciarvi fu la decisione più difficile della sua vita ma non c’era altra soluzione. Ogni istante che ava con voi metteva a rischio l’incolumità di tutta la famiglia. Scrisse una lunga lettera a tua madre e mi pregò di stare con voi fino a che Kate ne avesse avuto bisogno. Prima di tonare a casa ò da Thomas e gli raccontò tutto. Poi cenò con voi e quando fu certo che foste addormentate se ne andò». «E adesso è tornato» sussurrai, ancora immersa nel lungo racconto. «Vorrebbe tornare ma è una pessima idea». «Louis l’ha trovato?» chiesi angosciata.

«Louis ha trovato noi. Sono vent’anni che dà la caccia a William. Prima o poi avrebbe trovato qualcosa per rovinarlo e quel qualcosa siete voi. Non ha le prove per collegarvi a lui, ma se trovasse James sarebbe molto più facile dimostrare che si tratta di suo figlio e che Julien era innocente. Voi siete il modo per arrivare a James e James è il modo di rovinare William. Ci accebbero di aver tramato per rovesciare il sistema in combutta con gli Stevens. Ci rinchiuderebbero con l’accusa di alto tradimento, Thomas e Alec compresi, senza nemmeno prendersi il disturbo di processarci». «Ho un milione di domande». «Immagino tesoro, ma non abbiamo tutta la notte e magari ti piacerebbe rivolgerne qualcuna anche a tuo padre» disse esitante. «Forse, non lo so… Come ha fatto Louis a trovarci secondo te?» chiesi immersa nelle mie congetture. «Credo che abbia semplicemente cercato, cercato e cercato per anni. William ha sempre provato a tenerlo lontano, affidandogli incarichi in giro per il mondo, senza esagerare per non destare sospetti. La sua posizione nel Consiglio ci ha protetto, nascondendo le tracce della nostra presenza, ma Louis è molto abile e molto motivato. Non si darà pace finché non avrà raggiunto il suo scopo». «Perché James ha deciso di tornare se è così pericoloso?» «È preoccupato per te». «Per me?» «L’aggressione, la faccenda di Alec… » «É stato lontano per quattordici anni e si preoccupa adesso di ciò che ci succede?» osservai pungente. «C’è una cosa che devi sapere Emma e non ti piacerà. Spero tu capisca perché i tuoi genitori hanno preso determinate decisioni… ». La guardai con aria interrogativa. «Tuo padre vive e lavora a New come architetto e almeno un paio di volte al mese incontra tua madre». «Per tutto questo tempo ha vissuto a meno di due ore da qui?» chiesi sconvolta.

Meno di due ore. E io avevo vissuto senza padre per quattordici anni. «È molto abile a tenere segreto ciò che lo riguarda e non era necessaria una distanza eccessiva per tenervi al sicuro. In questo modo poteva incontrare tua madre con una certa regolarità e avere vostre notizie. Ha cercato di non perdersi niente. Spesso a la notte qui. Vi osserva mentre dormite. Per mesi ha addormentato Connie appena nata, quando tua madre era troppo stanca. Quando la bambina ha cominciato a parlare e a dire papà, ha dovuto smettere. Per lui è stato come perdere tutto di nuovo». «Perché non dirci niente? Avremmo potuto vederlo, are del tempo con lui». «E caricare delle bambine di un peso così grande? Correre il rischio che con la vostra innocenza rivelaste dove si trovava vostro padre? Come potevamo spiegarvi che il vostro papà non poteva vivere con voi?» «Poi siamo cresciute» ribattei astiosa. «Siete cresciute ma non sapevate nulla. Tenervi all’oscuro vi ha protette, ma vi ha impedito di acquisire gli strumenti per comprendere determinate cose, capirle, farle vostre. Abbiamo cominciato a trasmettervi i fondamentali, a spiegarvi i meccanismi, ma la nostra tabella di marcia ha subito una forte battuta d’arresto quando tuo padre ha visto te e il tuo Custode girare mano nella mano a Central Park». Miranda mi scoccò un’occhiata severa. «Okay, il resto della storia lo conosco. Cosa succederà adesso?» dissi imbarazzata. «Se tuo padre ha deciso di restare ne approfitterò per raggiungere William e assicurarmi che stia bene. Sono convinta che Louis volesse solo spaventarmi ma preferisco verificarlo di persona». «Poi tornerai, vero?» «Con tuo padre a casa non avrete più bisogno di me». «Con mio padre a casa avremo ancora più bisogno di te e poi questa è casa tua, hai la tua camera. Nessuno ti manderà via». Mi sfilai la collana con la pietra e la restituii. «Riportala a William, gli appartiene e ne ha più bisogno di noi».

«Grazie, cara. Quando saremo più tranquilli incanterò una pietra per voi» disse sorridendo. «So cosa provi per Alec, anche tua madre lo sa, per questo è così spaventata. Quello che non riescono ad accettare è che non possono impedirlo. Tentare di ostacolarvi vi spingerà a fare un mucchio di sciocchezze e a mettervi nei guai ma nessuno mi dà ascolto. Per questo mi sono fatta mandare la pietra da William e l’ho data a te. Pensavo che avrebbe aiutato senza mettervi in pericolo». «Perché nonna? Perché Alec è il mio Custode?» «Perché sei la seconda figlia di una seconda figlia e di uno stregone. Nipote di un Custode potente e di una strega abbastanza dotata. Insomma tesoro, c’è molto potenziale in te e il legame speciale tra te e Alec ha fatto il resto». «Pensavo fosse una conseguenza non una causa» ribattei accigliata. «Oddio Emma, ma non hai ancora capito? È l’amore che provate l’uno per l’altra che intensifica le vostre capacità, non il contrario. Tu e Alec siete una coppia perfetta».

Buon Natale

Alec

Non era educato presentarsi senza preavviso la mattina di Natale ma ero preoccupato. La sera prima Emma era stata aggredita ed ero arrivato giusto in tempo per vederla picchiare da uno squilibrato. Le aveva lussato un ginocchio, rotto un braccio e procurato un taglio sul labbro. E quel tipo era ancora a piede libero. Nessuno sapeva cosa avesse in mente e non m’importava che fosse presto o che sua madre non mi volesse tra i piedi. Sarei andato a vedere come stava. L’alternativa era andare a caccia di Tony Marshall, lussargli due ginocchia, spaccargli due braccia e rompergli il labbro, ma avevo promesso di non mettermi nei guai e l’unica alternativa era comportarmi da maleducato. Ero sicuro che Emma avesse ato sveglia la maggior parte della notte. Dalla mia camera non potevo distinguere cosa stesse provando, ma sapevo che non dormiva. Aveva preso sonno solo verso le quattro del mattino. Mi ero girato e rigirato nel letto per tre ore e alla fine mi ero deciso ad andare da lei. Al diavolo sua madre. Feci gli scalini della veranda, domandandomi se fosse o no il caso di suonare il camlo alle 7.30 della mattina e dandomi dell’idiota per non averci pensato prima. Emma dormiva, sentivo le sue emozioni leggere come piume. Mi mancò il coraggio di svegliarla e decisi che sarei ato più tardi. Stavo per tornare sui miei i quando sentii la serratura della porta scattare. Forse Miranda o Kate erano sveglie e mi avevano visto arrivare. Sperai che fosse Miranda. Non avevo voglia di sorbirmi un’altra predica. Kate era stata abbastanza chiara quando mi aveva riportato a casa, la sera prima. Avrei potuto riassumere il suo discorso più o meno con queste parole: “Ti ringrazio per averle salvato la vita ma stai lontano da mia figlia”. Non sarebbe stata contenta di trovarmi lì meno di 12 ore dopo avermelo detto. Quando la porta si aprì mi trovai davanti l’ultima persona al mondo che avrei potuto immaginare. Cazzo. Quasi mi veniva un infarto. «Buongiorno Alec. Sei un tipo mattiniero» disse stupito di trovarmi sulla soglia.

Lui era stupito? Io cosa avrei dovuto dire? Per una frazione di secondo pensai che fosse un sogno o un incubo, a seconda dei punti di vista. Non poteva essere vero. Eppure l’aria pungente del mattino trasformava i miei respiri in vapore. Non era un sogno. Nei sogni non c’è freddo. Lo guardai senza riuscire a spiaccicare parola, ancora sopraffatto dalla sorpresa. Era rimasto come lo ricordavo e non lo ricordavo perché avevo una memoria prodigiosa, ma perché lo studio di papà era tappezzato di foto di quando era giovane e parecchie ritraevano l’uomo davanti a me. Alto, fisico atletico. I capelli mossi castano-ramati, lo stesso colore di Eileen, erano folti, tirati indietro sulla fronte. Gli occhi verdi non avevano perso la sfrontatezza che si coglieva nelle immagini che lo ritraevano. Indossava un paio di jeans e un maglione scuro. Sarebbe potuto are per uno degli studenti di mio padre, se non fosse stato per la barba incolta che gli punteggiava le guance e qualche ruga d’espressione intorno agli occhi. Era strano che mi avesse riconosciuto. Dovevo essere cambiato parecchio dall’ultima volta che mi aveva visto. Avevo smesso di bere dal biberon tanto per cominciare. «Buongiorno… signor Hataway» balbettai come un idiota. Era una situazione paranormale. Me ne stavo impalato davanti a un uomo scomparso da quattordici anni. Cosa avrei dovuto dire? Bentornato a casa? Buone feste? Pensai ad Emma. Non mi sorprendeva che fosse rimasta sveglia tutta la notte. Doveva essere stato uno shock e tanto per cambiare, non ero con lei. «Emma come sta?» chiesi aggressivo. Per tutta risposta mi guardò divertito. «Miranda non ha esagerato» disse osservandomi incuriosito. «Perché non vieni dentro? Immagino tu voglia constatarlo di persona» fece cenno di entrare e si scansò dalla porta per farmi are. Entrai senza aggiungere una parola. Cosa ci faceva lì? Era tornato per restare? Cosa avrebbe significato per noi?

Sarei stato felice se Emma fosse stata felice di averlo di nuovo a casa, ma non avevamo bisogno di altre complicazioni. L’istinto mi diceva che per quanto simpatico e gentile potesse sembrare, James faceva sempre parte della squadra dei genitori e la sua opinione non sarebbe stata diversa da quella di Kate e Thomas. Gli lanciai un’occhiata carica di sospetto. «È in salotto, si è addormentata sul divano. Miranda e Cat sono di sopra, stanno parlando alle ragazze. Svegliala pure, presto arriverà il detective Kirland. Si chiama così, giusto? Vuole farle qualche altra domanda. È un bene che tu sia qui, la farà sentire più tranquilla, anche se Cat non ne sarà affatto contenta» disse trattenendo un sorriso. Lo guardai sbigottito. Non solo era comparso dal nulla ma sembrava sapere tutto. Cosa stava succedendo? Si dimostrava meno ostile della moglie o forse era solo felice di essere a casa. Non avevo dubbi sul fatto che avrei scoperto presto da che parte aveva deciso di schierarsi. «Vi lascio soli. Se avete bisogno di me sono in cucina» disse prima di dileguarsi dietro la porta a vetri. Sconvolto mi diressi in salotto. Emma dormiva sul divano, avvolta in una coperta. I capelli arruffati ma l’aria abbastanza serena. Mi sedetti in fondo al divano, vicino alla sua testa, cercando di non svegliarla. Il labbro non si era gonfiato ma il piccolo taglio si vedeva nitidamente. Lo sfiorai con un dito e presi la scossa. Non me l’aspettavo, forse Emma toglieva la pietra per dormire. Aprì gli occhi e sorrise. «Buongiorno» sussurrai. «’Giorno» disse sbadigliando e coprendosi la faccia con la coperta. Alzai gli occhi al cielo, per me era bellissima sempre. «Ho preso la scossa. La pietra è già carica?» chiesi sottovoce. «Scusami» mormorò soffocando un altro sbadiglio. «L’ho restituita a Miranda, è una lunga storia. Cosa fai qui?» disse raggomitolandosi ancora di più sotto le

coperte. «Non indovinerai mai chi è venuto a trovarci» mormorò senza nascondere il sarcasmo. «Non indovinerai mai chi mi ha aperto la porta» ribattei per farle capire che parte della storia la conoscevo già. Mi guardò stupita. «É ancora qui?» chiese sottovoce. Annuii con un cenno del capo. Aggrottò le sopracciglia sottili, non sembrava entusiasta della notizia. «Devi vestirti. Sta per arrivare Kirland, ha delle domande da farti» dissi per cambiare argomento. «Ho già detto tutto quello che mi ricordo». Si sollevò senza caricare il peso sul braccio dolorante. Quando si fu messa a sedere mi inginocchiai davanti a lei, appoggiando il palmo della mano destra sul suo ginocchio e con l’altra afferrai con delicatezza il gomito del braccio sinistro. Chiusi gli occhi e lasciai che la mia energia arrivasse a lei. «Va meglio?». Per tutta risposta sorrise. La guardai sollevato. Era bello fare qualcosa di concreto per farla stare meglio, dato che non ero stato in grado di evitarle il peggio. «Devi avere pazienza e collaborare. Visto che non posso occuparmene personalmente, lascia almeno che lo faccia la polizia» aggiunsi con una sottile vena polemica. Mi scoccò un’occhiataccia. «Ne abbiamo già discusso» sibilò. «Ti ricordo che sono io che devo proteggere te, non il contrario» ribattei torvo. «Sei un Custode, non un cacciatore di taglie». Guardò in direzione delle scale e fece per alzarsi. «Devo andare a prendere dei vestiti». «Non credo sia una grande idea. Tua madre e Miranda stanno parlando alle tue sorelle» sussurrai. Una smorfia di dolore le attraversò il viso ma non era per le ferite. Pensava a come si sarebbero sentite Elle e Connie. «No, non è una grande idea. Forse in lavanderia c’è qualcosa di pulito». Tornò dopo un quarto d’ora con addosso una tuta. Si era spazzolata e legata i capelli, lavata i denti e la faccia. Si sedette sul divano accanto a me, avvolgendosi di nuovo nella coperta.

«Ieri sera sono ato da Sam. Ha visto la macchina della polizia parcheggiata davanti a casa vostra, era molto preoccupato». Non che avesse smesso di esserlo dopo il mio racconto ma almeno sapeva cosa fosse successo. «Spero tu l’abbia tranquillizzato. Non voglio che ricomincino tutti a preoccuparsi». Era assurda. Come poteva pensare che chi l’amava non fosse preoccupato per lei? Feci finta di niente e continuai il mio racconto. «Quando sono rientrato a casa ho sentito delle voci provenire dallo studio di mio padre. Discuteva con qualcuno. Ho pensato fosse strano, perché era tardi e non credevo avesse ospiti, ma ora immagino fosse andato a fargli visita un vecchio amico» conclusi ironico. «Lui è sempre stato qui, Alec. Abita a New York. Riesci a immaginarlo? Tutti questi anni a chiederci dove fosse, cosa stesse facendo e lui era a due ore di treno da casa. Ha dormito qui una notte al mese per quattordici anni e non ce ne siamo mai accorte». Le parole le rotolarono fuori dalle labbra. Non riuscivo a capire. «Kate sapeva dove si trovava? Gli permetteva di tornare una notte al mese? Non ha senso… » «Anche tuo padre lo sapeva e Miranda. Lo sapevano tutti, tranne noi». «Perché?» «Perché è figlio di Miranda». «Non dire assurdità. Perché una strega possa avere un figlio maschio, deve… Oh merda». «Già». «Beh ora si spiegano alcune cose. Quindi lui cosa sarebbe? Cosa sa fare?» chiesi sconvolto. «È molto forte e veloce come un Custode e la nonna dice cha ha un sesto senso

infallibile. Percepisce il pericolo, le bugie, i legami tra le persone. È bravo a far perdere le proprie tracce e a mantenere i segreti». «Se è in grado di mantenere i segreti, perché nascondersi?» «I segreti erano troppi. Continuare a vivere con noi avrebbe significato dedicarsi quotidianamente a nascondere ogni elemento che potesse ricondurre a lui. Senza contare che all’epoca non era abile come lo è diventato negli anni. Ha ato la maggior parte del suo tempo libero a cercare una soluzione ai problemi che abbiamo». «Pensi che incontrasse anche mio padre?» chiesi stupito. «Ne sono sicura. Magari non spesso come poteva fare con Kate, ma le nostre famiglie sono legate a filo doppio. Noi due siamo il risultato finale di un’equazione assurda. Io sono la tua forza, tu sei il mio equilibrio. Io sono forte, tu sei il più forte. Se dovessero scoprire cosa siamo in grado di fare insieme, il Consiglio prenderebbe anche te. Rappresenti una minaccia, tanto quanto la rappresento io. Tuo padre ci ha protette per proteggere te». «Se è così rischioso, perché è tornato?» chiesi confuso. «La scusa ufficiale è l’aggressione di Marshall ma Miranda dice che è stanco, vuole stare con mamma, con noi. Vivere la vita che si è scelto. Si illude che io possa aiutarlo ora che sono grande e sto diventando più forte». «Puoi?» «Forse, non lo so. Se non fossi in grado? Sarei così egoista da mettere a repentaglio la vita di tutti solo per riavere mio padre? Questo non sembrerebbe il momento adatto per un ricongiungimento famigliare: chi gli dà la caccia è molto vicino a scoprire il piccolo segreto di mia nonna» commentò abbattuta. «Non sarebbe egoista, sarebbe umano» osservai comprensivo. «Per quanto si fermerà?» «Pensavo che mamma fosse riuscita a convincerlo a partire, ma dato che ti ha fatto gli onori di casa, probabilmente resterà. Almeno fino a quando non avranno preso il mio assalitore» un brivido la scosse.

«Hai freddo? Vuoi che ti cerchi un’altra coperta?» «Mi piacerebbe bere una tazza di caffè caldo, ma non ho il coraggio di entrare in cucina» disse piano, come se stesse ammettendo una grave colpa. «Sono una vigliacca. Che razza di persona ha paura ad incontrare il proprio padre dopo quattordici anni?» aggiunse con la voce incrinata. «Una persona sensibile e molto arrabbiata» dissi baciandole la fronte. «Vado a prenderti il caffè». L’odore della sua pelle mi accarezzò le narici e mi diede alla testa. Lasciai che l’energia provocata dal contatto pizzicasse le mie terminazioni nervose. In cucina trovai James intento a preparare la colazione. Era inconfutabile che stesse preparando dei pancakes e avesse fatto il caffè. Quando entrai si voltò sorridente verso di me. «Tutto okay?» chiese senza smettere di mescolare l’uovo sbattuto in una ciotola trasparente. Non risposi subito. Avevo bisogno di un minuto per riprendermi dalla visione del redivivo James Hataway che preparava dolcetti nella sua cucina. Cucina che conosceva perfettamente, visto che si muoveva con sicurezza e trovava ciò che gli occorreva senza sbagliare un colpo. «Volevo una tazza di caffè» balbettai. Prese la preferita di Emma, bianca con il bordo azzurro, dalla vetrinetta delle tazze, ci versò dentro il caffè fumante e me la porse. «Scotta, fai attenzione. Lo beve senza zucchero, vero?». La sua non era domanda. Voleva farmi capire che nonostante l’assenza sapeva tutto della figlia. «Grazie» risposi asciutto e feci per andarmene, non sapevo che altro dire. «Alec, aspetta un momento» mi richiamò. Mi fermai, ma non dissi nulla in attesa della sua prossima mossa. «Non sono tornato per sconvolgervi la vita o creare altri problemi» aggiunse serio. «È quello che spero».

Stava per ribattere quando suonò il camlo. Lasciai la cucina e tornai in salotto, mentre James andava ad aprire la porta. Mi sedetti accanto ad Emma e le diedi il caffè. Ringraziò con sorriso. Era tesa come una corda di violino. Mi avvicinai di più senza toccarla ma sfiorandola appena. James entrò in salotto seguito da Kirland. Emma alzò gli occhi su di lui, lucidi per l’emozione. Il padre le sorrise, indicò a Kirland l’altro divano e sedette sulla poltrona di cuoio. Emma lo fissava come fosse stato un miraggio, un’allucinazione a cui non poteva credere. «Prego, si accomodi. Caffè?» chiese come un vero padrone di casa. Beh lo era. Era la sua casa, il suo salotto, la sua poltrona. Sua figlia. «Devo chiederle scusa signor Hataway. Immagino non sia il massimo ricevere una visita della polizia la mattina di Natale. Sono sorpreso di trovarla qui, non avevo capito che vivesse con la signora Morelli e le ragazze». Kirland lo stava radiografando da capo a piedi. La sua espressione era decisamente sconfortata. «La sicurezza delle mie figlie viene prima di tutto. Per lavoro sono spesso all’estero, ma sono rientrato appena ho saputo. Vado a prepararle il caffè. Emma e il suo ragazzo risponderanno a tutte le domande». A Emma andò di traverso ciò che stava bevendo e cominciò a tossire in maniera convulsa. Rossa in viso lanciò un’occhiata di fuoco al padre, che sorrise sotto i baffi. Per fortuna Kate non era presente. «Come ti senti, Emma? Sembri ancora abbastanza scombussolata» chiese Kirland comprensivo. «In effetti lo sono, signore. Ci sono novità?» «Abbiamo trovato un’auto abbandonata in una zona residenziale poco distante da qui. Sembrerebbe corrispondere alla descrizione. La stanno esaminando per vedere se il tizio che ti ha aggredita ha lasciato qualche traccia». «Si chiama Tony Marshall, il tizio».

«Oh sì, certo. Sai se questo Marshall conosce qualcuno a Saint Claire? Ha degli amici o dei famigliari che potrebbero ospitarlo?» chiese spulciando tra i suoi appunti. Non sembravano esserci sviluppi tali da giustificare una visita il giorno di Natale. A Emma scappò un sorrisetto che sparì quando suo padre tornò con il caffè per Kirland. «Come ho già detto non lo vedevo dai tempi della scuola elementare e credo che la stessa cosa valga per i suoi amici. Però ricordo che indossava una medaglietta di riconoscimento, forse è nell’esercito» aggiunse cauta. «Detective, lei pensa che possa trattarsi di uno stalker o questo tizio ha aggredito altre ragazze?» Mi mossi nervosamente. Non mi piaceva l’idea che quel cane di Marshall l’avesse spiata o si sentisse attratto da lei. «Stiamo prendendo in considerazione ogni possibilità ma Emma ha detto di non aver ricevuto lettere o messaggi da lui. Solitamente gli stalker cercano di avvicinare le loro vittime in modi più blandi, prima di are a un’aggressione vera e propria» spiegò Kirland ma James lo ascoltò solo per metà. Qualcosa aveva catturato la sua attenzione. Kate stava scendendo le scale. Si alzò e le andò incontro. Lo sguardo che aveva rivolto alla figlia non era niente confronto a quello che stava dedicando alla moglie, che lo ricambiava adorante. Non avevo mai visto una cosa del genere, nemmeno nei film. I miei genitori si amavano ma in modo normale. Quei due sembravano provenire da un altro pianeta. «Buongiorno detective. Novità?» chiese stringendogli la mano. Si sedette accanto ad Emma, scoccandomi un’occhiata fulminante. «Stavo spiegando a suo marito che al momento seguiamo diverse piste. Non si preoccupi, in genere riusciamo a chiudere questi casi in pochi giorni. I personaggi come Marshall sono pericolosi, ma non molto astuti, lo prenderemo. Uno dei miei ragazzi rimarrà nei paraggi per controllare che non ci siano problemi. Nel frattempo tenete gli occhi aperti e… » disse rivolgendosi a Emma «Non andare in giro da sola». Il suo sguardo lo fece sembrare quasi un rimprovero. Si alzò, ci augurò buon Natale e uscì preceduto da James che lo accompagnò alla porta.

Nella stanza calò un silenzio imbarazzante. Era meglio levare le tende. Emma stava abbastanza bene e non volevo irritare Kate più del necessario. «Devo andare. Sono contento di vedere che stai meglio, Emma. Ci vediamo» dissi cercando di sembrare il più distaccato possibile. Lei alzò uno sguardo fuggevole su di me e tornò a fissare il contenuto della tazza. «Grazie per essere ato. Ci vediamo» rispose asciutta. Infilai la giacca, salutai Kate con un cenno e mi diressi verso la porta. «Non ti fermi a pranzo, Alec?» chiese James. Kate gli lanciò uno sguardo di fuoco. «Grazie per l’invito signore ma mio fratello è in arrivo da Berkeley, se non ha perso l’aereo come al solito. Trascorrerà la pausa natalizia in famiglia». «Bene, mi sembra giusto. Allora fai gli auguri ai tuoi genitori e trascorri un buon Natale». Poi si rivolse alla moglie. «Cat puoi venire un momento?». Lei lo guardò con aria interrogativa ma lo seguì. Emma si alzò per accompagnarmi. Dalla cucina provenivano le risate dei suoi genitori, intervallate da qualche secondo di silenzio. «Oggi pomeriggio andrò da Sam. Ci vediamo lì» bisbigliai. «Hai sentito Kirland, dubito che mi lasceranno mettere il naso fuori di casa». «Ha detto di non andare in giro da sola, non di non andare in giro» risposi malizioso. «La conosci mia madre. La mia vita sociale è finita, almeno fino a quando non rinchiuderanno il mio fan numero uno e butteranno via la chiave». Rimase in silenzio per una manciata di secondi poi mi lanciò uno di quei suoi sguardi intensi, quelli a caccia di risposte che un tempo ero così bravo a dare. Su quale pietra appoggiare il piede per attraversare il ruscello senza scivolare. Come arrampicarsi sugli alberi. Come risolvere un problema di trigonometria. I nomi che non le venivano in mente. Avevo tutte le risposte prima di innamorarmi di lei. Poi lei era diventata la mia

risposta per tutto. «Perché secondo te?» «Perché è pazzo?» risposi attonito. Marshall era un caso senza speranza. L’unica soluzione era chiuderlo a doppia mandata in un luogo dove non avrebbe più fatto del male a nessuno. «Forse» rispose sovrappensiero e senza rendersene conto si appoggiò a me in cerca di un abbraccio. Meccanicamente chiusi le braccia intorno a lei. La scossa arrivò ma meno intensa di quelle che l’avevano preceduta. Non sarebbe stato facile tornare ai vecchi regimi, c’eravamo presi parecchie libertà da quando Miranda le aveva dato la pietra. «Dovremo stare più attenti d’ora in poi» sussurrai. Era rischioso in ogni senso, Kate avrebbe potuto riemergere dalla cucina da un momento all’altro. «Già» annuì assente. «Non preoccuparti per mia madre, è talmente presa da James che a malapena si rende conto di avere delle figlie. È una vera seccatura, tu non puoi sfiorarmi che succede un casino ma uno sciroccato quasi mi uccide e… » non finì la frase. Restò ferma immobile per qualche secondo, poi cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza. «Emma?» Cosa stava succedendo o sarebbe successo o non sarebbe dovuto succedere? «Qualcosa mi era sembrato strano ma non riuscivo a capire cosa. Adesso lo so». «Cioè?» «Il mio blocco. Non è saltato il mio blocco» mormorò più a se stessa che a me. «PER FORTUNA non è saltato il tuo blocco, Emma. Altrimenti non saremmo qui a fare questa chiacchierata» dissi con voce strozzata. Il pensiero del rischio che aveva corso mi mise i brividi. Non era abbastanza

essere in cima alla lista di uno psicopatico? «Lo so ma non è strano? Dovrebbero essere le grandi emozioni a causarne la rottura e ti assicuro che non ho mai avuto così tanta paura in vita mia. La paura è un’emozione, perché non è saltato o non mi è venuto nemmeno un po’ di sonno?» «Beh sei svenuta» sussurrai in preda al senso di colpa. Non mi sarei mai perdonato per non essere stato abbastanza attento. Per non essere arrivato prima. Per averla lasciata sola. «Per il dolore e lo shock. Non è la stessa cosa, lo riconosco quando arriva» ribatté piccata. «Ammettiamo che tu abbia ragione… » esordii poco convinto. «Io ho ragione» mi interruppe. «Allora perché secondo te?» dissi facendole la stessa domanda. «Forse la paura non è un’emozione scatenante» rifletté dubbiosa. Dalla cucina non provenivano più risate. Presto Kate sarebbe venuta a controllare se me ne fossi andato. Avrei preferito che Emma non si lambiccasse il cervello in continuazione – quello avrebbe dovuto essere compito mio – ma sarebbe stato già abbastanza se fossi riuscito a non creare altri problemi. «Non pensarci adesso, cerca di riposare. Devo andare, altrimenti tua madre mangerà la foglia e abbiamo un incantesimo da mettere alla prova. Lo hai dimenticato?» sussurrai, sfiorandole la bocca con un dito. «Non riesco a pensare ad altro» mormorò allacciando lo sguardo al mio. Feci mie le promesse che conteneva. Avrei dato tutto per mantenere quelle che stavo facendo guardandola. Presi un bel respiro e mi costrinsi ad uscire. Il dolore che le sentii provare mentre me ne andavo, si fuse con il mio nel separarmi da lei.

Tale padre, tale figlia

Emma

Lo osservavo cucinare seduta al posto che da diciassette anni occupavo al tavolo della cucina. Il suo l’aveva preso Miranda, a capotavola, alla mia destra. Di fronte a lei, mamma. Ero cresciuta così, con due donne a capotavola. Donne straordinarie, sotto diversi punti di vista. In quel momento nella nostra cucina c’era un uomo. Non un uomo qualunque ma colui che si supponeva essere mio padre. Si affaccendava intorno alla moglie, cercando di rendersi utile. Se non avessi saputo che avevano continuato a vedersi e amarsi, nonostante non vivessero sotto lo stesso tetto, mi sarebbero bastati pochi secondi per capire perché Kate non si era trovata un nuovo fidanzato o simili. Nessuno avrebbe retto il confronto con James. Non solo perché era sfacciatamente bello, a quello forse ci si abitua, ma perché tutto ciò che c’era in lui, gesto sguardo parola, tutto, era per lei. Nessun amore avrebbe retto il confronto con il suo e la cosa era reciproca. L’amore tra i miei genitori era talmente manifesto che sembrava si potesse toccare, che aleggiasse nell’aria invisibile ma consistente. Li osservavo rapita formare un tutt’uno sfiorandosi, concludere uno i gesti dell’altra, come una danza semplice e perfetta di cui conoscevano ogni o. Eppure c’era chi riteneva quella armoniosa perfezione sbagliata. Talmente contro natura da costringerli a separarsi, nascondersi, vivere lontani. Più li guardavo, più percepivo l’assurdità della cosa. Perché non avevano lottato per restare insieme? Per noi, avrebbe risposto Miranda. Anche lei era stata costretta ad abbandonare James e William per salvare loro la vita. Le colpe dei padri ricadono sui figli. Lo avrebbero chiesto anche a me se avessero saputo. Lo avevano chiesto ad Alec. Loro si erano sacrificati, perché noi avremmo dovuto essere da meno? Se potessimo scegliere di chi innamorarci vivremmo in un mondo migliore.

Me ne stavo lì imbambolata da cinque minuti, quando mia madre si accorse della mia presenza. James fagocitava tutta la sua attenzione, ogni sguardo e pensiero. Non erano sulla terra quando stavano insieme, erano chissà dove. «Come stai tesoro?» disse preoccupata, come se avesse ricordato solo in quell’istante di vivere in un brutto mondo. «Sarebbe meglio che rimanessi a letto o sul divano. Il ginocchio deve riposare». Un altro pensiero le si affacciò alla mente, rendendo ancor più sgradevole il ritorno alla realtà. «Alec è andato via?» chiese senza riuscire a nascondere l’irritazione e riprendendo a mescolare il sugo. La visita mattutina doveva esserle sembrata sospetta, meglio non lasciar trapelare nemmeno una briciola di nervosismo. «Dieci minuti fa» risposi tranquilla. «È stato gentile a are. Non avevate litigato o qualcosa del genere?» indagò. «Qualcosa del genere. Voleva solo accertarsi che stessi bene». Era vero. Se mamma stava sondando il mio livello di sincerità avrebbe trovato pane per i suoi denti. Si ritenne soddisfatta e mollò la presa. Guardò James di sottecchi, poi guardò me. Lasciò perdere il sugo e pulì le mani in uno strofinaccio abbandonato sul piano della cucina. Un lieve sorriso le spuntò sulle labbra. «Torno di sopra. Eileen si è chiusa in bagno e si rifiuta di uscire e tua nonna vuole partire per non so dove. Se hai bisogno di qualcosa… » s’interruppe. Doveva essere troppo strano per lei concludere con “chiedi a tuo padre”. Annuii senza dire una parola e la lasciai andare. James si sostituì a lei e riprese a mescolare. Restammo in silenzio qualche minuto, studiandoci a vicenda. Non era molto diverso da come lo ricordavo. Solo più adulto. Io, invece, dovevo essere cambiata parecchio. Cosa sapeva di me? Ricambiava il mio sguardo indagatore, forse non sapeva cosa aspettarsi. «Ti sembrerà di avere davanti un estraneo» esordì timidamente. Avrei potuto dire lo stesso.

Non si mosse da dove si trovava e gliene fui grata. Non ero pronta per abbracci e strette di mano. «A un estraneo si concede il beneficio del dubbio». Sorrise a dimostrazione di aver incassato il colpo. «So che Miranda ti ha spiegato alcune cose». Sembrava in difficoltà ma non feci nulla per andargli incontro. Era sparito per quattordici anni, il minimo che potesse fare era trovare le parole per scusarsi. «Sì». Non riuscivo a fare a meno di fissarlo. Studiare i suoi movimenti, la sua espressione. Cercare nell’uomo davanti a me il poco di padre che avevo conosciuto e ricordavo. Nella mia mente non c’erano che poche istantanee, immagini sfocate che nemmeno sapevo se rappresentassero momenti reali o fossero il frutto della mia immaginazione. Il cervello riempie meccanicamente i buchi nei nostri ricordi. Magari mi ero inventata tutto, perché non ricordavo nulla. Magari lui non era mai esistito. No, era impossibile. Era davanti a me e, per quanto flebile, esisteva un riscontro con la mia memoria. «Non godo di nessuna attenuante?» chiese sorridendo. Il mio atteggiamento aggressivo lo inteneriva. Non avevo presa sugli uomini, padri o fidanzati che fossero. «Non ho ancora deciso». Lo avevo amato molto, di un amore infantile e totale. Era il mio eroe ed era sparito nel nulla. Ora ricompariva dicendo “mi dispiace, l’ho fatto per voi”. No, non sapevo se avrebbe goduto delle attenuanti. «Alec sembra uno che sa il fatto suo» proseguì disinvolto. M’irrigidii. Era un trabocchetto? Durante l’interrogatorio lo aveva indicato al detective come mio ragazzo, ma

poteva essere una battuta. Meglio fugare ogni dubbio prima che chiedesse spiegazioni a mamma. «Credo tu abbia frainteso la situazione. Alec non è il mio ragazzo. Si è solo trovato nel posto sbagliato al momento giusto o viceversa». Dubitavo che la spiegazione sarebbe bastata, ma non ne avevo altre. Per una manciata di secondi James non disse nulla. «Percepisco i legami, Emma e la loro intensità. Possiamo saltare la parte in cui fai finta di non sapere ciò che sai e cerchi di convincermi che siete solo amici» disse imitando il mio tono tranquillo. La nonna aveva accennato alle capacità di mio padre, ma non lo avevo collegato al fatto che sarebbe stato in grado di scoprirci. Non ci voleva. Ero troppo vicina alla meta per rischiare di mandare tutto all’aria. «Non capisco di cosa tu stia parlando» ribattei ostinata. Sorrise di nuovo. Depose il mestolo di legno, abbassò la fiamma sotto la pentola e si avvicinò al tavolo. Prese una sedia e sedette accanto a me. Aveva un buon odore. Ecco una cosa che ricordavo con una discreta sicurezza: il suo odore. Non avrei saputo dire se fosse il dopobarba o il bagnoschiuma, sapevo solo che non era cambiato. Quando ero bambina e mi teneva in braccio aveva lo stesso odore. Una piccola confortante certezza in un mare di dubbi. Beh era qualcosa. «Siete molto bravi a recitare la vostra parte, ma ci sono cose che non potete nascondere» disse guardando dritto davanti a sé. «È come se viveste dello stesso respiro. Non ho mai percepito una cosa simile prima d’ora» aggiunse. Arrossii. Era la stessa cosa che pensavo di lui e di mamma. Avevo fatto di tutto per tenere nascosto quello che c’era tra me e Alec. Il mio incantesimo non aveva funzionato. Fine della favola. James non aveva messo al corrente Kate della novità, ma era questione di tempo. Non l’avrei mai persuaso a tenere il segreto ma volevo capire quale sarebbe stata la sua prossima mossa. «Perché non l’hai detto a mamma? Non sarebbe la prima volta» commentai

sarcastica. «Non posso. Hai messo il veto». Ho fatto cosa? «Ho fatto cosa?». Il pensiero si tradusse in parole udibili prima che potessi rendermene conto. «Hai messo il veto. Alec è il tuo segreto. Sono pochi in grado di scoprirlo, a meno che non sia tu stessa a rivelarlo e quei pochi non possono rivelarlo a loro volta. Questo significa mettere il veto» aggiunse sereno. La cosa non sembrava turbarlo più di tanto. «Però tu l’hai scoperto» dissi cauta. Lo sapeva, non c’era alcun dubbio. Tutta quella storia dei legami… Se ero riuscita a custodire così bene il mio segreto, tanto da renderlo impronunciabile, come mai lui lo conosceva? «I nostri poteri sono simili. Tu puoi vedere i segreti degli altri e custodire i tuoi. Io custodisco qualsiasi segreto e ne vedo qualcuno negli altri. Sei mia figlia, conosco i tuoi poteri meglio di te stessa, sono i miei, so come aggirarli, ma sei anche molto tenace e questo ti rende forte. Forza che rende i tuoi segreti inviolabili. Tua madre non lo vede, nonostante sia sotto i suoi occhi e io, sebbene ne sia a conoscenza, non ne posso parlare». «Miranda se ne è accorta» ribattei testarda. «A Miranda non hai voluto tenerlo nascosto. Ha visto ciò che desideravi mostrarle e non ti tradirebbe mai. Ritiene sia meno pericoloso permettervi di stare insieme. Non c’è bisogno che ti dica che sono d’accordo con tua madre. Sto cercando il modo di aggirare il veto per poterle dire che, a dispetto di quanto credono, siete tornati insieme. Alec mi piace, è il figlio del mio migliore amico e darebbe la vita per te, ma i tuoi poteri sono troppo instabili, non è sicuro lasciarvi carta bianca» disse severo. «È più complicato di così. Non stiamo insieme, non nel modo in cui credi» risposi sprezzante. Stanno insieme due che non si possono nemmeno toccare? Che non hanno futuro?

«É solo questione di tempo. Vi siete dati da fare per trovare una soluzione, non è vero? Ancora non so quale sia, ma sicuramente finirete per farvi del male». Il suo tono si incupì. Per la prima volta, fece trapelare la sua preoccupazione. «Perché mi stai dicendo tutto questo?» domandai frustrata. «Sei grande, è giusto che tu venga trattata come un’adulta. Non ho mai condiviso l’idea di Cat e Thomas di lasciarti all’oscuro, scaricando tutto sulle spalle di Alec. Non mi sbagliavo, visto come sono andate le cose: non ha retto nemmeno tre mesi». «È stato molto difficile per lui» ribattei infastidita. Io non avrei resistito tre giorni. Se n’era andato da dieci minuti e già mi mancava. «Per te non lo è stato?» domandò con un sorriso triste. Non risposi. Il vuoto che avevo sentito allora non si poteva descrivere a parole, ma poteva leggermelo in faccia in quell’istante. «Perché sei tornato?» chiesi per cambiare discorso. «Sono tornato per stare con voi e con mamma. Sono tornato per prendermi cura della mia famiglia». «Miranda dice che è pericoloso» insinuai. «Può darsi ma tu sei più importante». «Se lascio Alec ti metterai al sicuro? Te lo domando, perché se così fosse assomiglierebbe molto a un ricatto morale e farebbe a pugni con la faccenda del trattarmi come un’adulta» commentai acida. «Saresti disposta a lasciarlo pur di liberarti di me?» chiese divertito e un po’ amareggiato. «Preferirei non avere tutta la famiglia sulla coscienza» ribattei torva. Era quello che mi stava chiedendo? Se Alec fosse rimasto nella mia vita, lui sarebbe stato costretto a restare per proteggermi, rischiando di essere scoperto. Ergo rischiavamo tutti. Alec compreso.

«Sono io che ho deciso di tornare; ti sto solo chiedendo di stare attenta. Se non vuoi farlo per te, fallo per lui. Rischia quasi quanto te». «Lo so» sussurrai. Appoggiò il palmo della sua grande mano sopra la mia. «Starò attenta». Lasciai la mano dov’era per qualche secondo. «Vado a farmi una doccia». Uscii dalla cucina e mi diressi verso la nostra camera. Trovai Connie seduta sulle scale con lo sguardo perso nel vuoto. Era pallida, gli occhi lucidi, che spostava da una parte all’altra della stanza, nervosamente. «È in cucina» dissi baciandola sulla fronte. «Non ho il coraggio di entrare». «Prendi un bel respiro, siediti e rimani a guardarlo per qualche minuto. Pensa alle cose che vorresti dire o non pensare a niente». L’aiutai ad alzarsi e le sistemai un paio di ciocche corvine fuori posto. «Coraggio. Non morde e ti adora. È impossibile non adorarti». L’abbracciai e proseguii la mia salita. Presi la biancheria pulita e un cambio di vestiti e mi diressi verso il bagno. Mamma stava ancora cercando di convincere Elle ad uscire, mentre Miranda faceva la valigia in camera sua. Al momento sembrava aver fallito su entrambi i fronti. Ero costretta a usare il bagno di Kate, visto che il nostro era occupato. Mi buttai sotto il getto di acqua calda, stando attenta e non strattonare il braccio malandato. Lavarsi i capelli con una mano sola risultò abbastanza difficile. Finita la doccia indossai i jeans e la maglia che avevo scelto, legai i capelli ancora bagnati. Nel frattempo Kate aveva convinto Elle ad uscire dal bagno. Si erano chiuse in camera nostra insieme a Miranda. Chissà se prima di sera sarebbero riuscite a farle incontrate papà. Scesi in salotto. La stanza era deserta, Connie era in cucina con James e decisi di lascarli soli. Stavo per buttarmi sul divano quando suonò il camlo. Chi poteva essere? Non erano tutti davanti alla tavola imbandita o a scartare i regali sotto l’albero? Nessuno sembrò aver sentito che avevamo visite e non potei fare a meno di alzarmi e andare a vedere chi fosse.

«Buon Natale, Hataway. Sei viva. Malconcia ma viva». Charlie, avvolto in un capotto dall’aria costosa, mi fissava con il suo miglior sguardo canzonatorio giocherellando con le chiavi della macchina. «Charlie… Buon Natale anche a te» dissi stancamente, spostandomi per farlo entrare. Come aveva fatto a sapere dell’aggressione? Si guardò intorno e sfoderò un sorriso degno della copertina di una rivista patinata. Sotto il cappotto portava una bella giacca scura e per l’occasione indossava anche la cravatta, rossa ovviamente. Stava benissimo e ne era spudoratamente consapevole. «Grazie. Non posso fermarmi molto, ma ho saputo cosa è successo e sono ato a vedere come stavi» concluse, andosi una mano tra capelli. «Grazie, non avresti dovuto». Mi diressi in salotto e lui mi seguì. Si tolse il cappotto e lo appoggiò sullo schienale del divano. Lo invitai a sedersi accanto a me. «Cosa hanno scoperto del tizio che ti ha aggredita?» chiese serio. «Quando mio padre me l’ha detto non ci potevo credere». Il padre di Charlie era procuratore al tribunale di Hartford. Forse il mio caso era capitato a lui. «Stai bene? Papà mi ha assicurato che non hai riportato ferite gravi, ma devi esserti presa un bello spavento. È stata una rapina? Per fortuna che Super Stevens è sempre in allerta». Conosceva tutti i dettagli. Alla faccia del segreto professionale. Lo guardai torva. «Charlie» lo ammonii. Non avevo voglia di imbarcarmi nell’ennesima discussione su Alec. Il discorsetto di James era stato sufficiente. «Hai ragione, scusa. Per la prima volta sono stato contento che Stevens ti pedini come un maniaco». «Non mi stava pedinando. È stata una fortunata coincidenza» ribattei infastidita. «Fortunata davvero» disse soffermando il suo sguardo sul mio labbro malconcio. «Ti fa male?» chiese un po’ serio. Solo un po’. «È meno grave di quello che sembra. La polizia dice che lo prenderanno, è

questione di tempo. Sono già sulle sue tracce» dissi ostentando una tranquillità che non provavo. Era difficile non pensare che Tony fosse fuori, da qualche parte, in attesa di finire ciò che aveva iniziato. «Posso chiedere a Joe di fare qualche ricerca su di lui. Come si chiama?» «No Charlie, non voglio che ti metta nei guai. Ci sta già pensando la polizia» sorrisi per ringraziarlo del pensiero. «Come vuoi» disse alzandosi e prendendo il cappotto. «Ora devo proprio andare, altrimenti chi la sente mia madre? Avremo già la casa piena di parenti e bambini urlanti» disse annoiato. Le feste in famiglia dovevano essere una tortura per lui. Nessuna ragazzina adorante, solo vecchie zie che domandavano quanto fosse cresciuto. Sorrisi al pensiero della faccia che avrebbe fatto di fronte ai teneri buffetti sulle guance e alle banalità che solo gli sconosciuti costretti a stare nella stessa stanza potevano formulare. Mi alzai anch’io e lo accompagnai alla porta. Salutandolo mi alzai sulla punta dei piedi per dargli un bacio sulla guancia. Fu molto svelto e io molto ingenua. Spostò la testa di lato e invece della guancia, incontrai la sua bocca. Per una frazione di secondo sentii le sue labbra sulle mie. Schizzai indietro, come se mi avesse dato una schiaffo e lo guardai inorridita. Come aveva potuto? In quel modo? Ero talmente furiosa che non riuscivo a pensare a un insulto che rendesse l’idea. Mi ero fidata e lui se n’era approfittato. «Ti avevo detto che ci avrei provato». Per nulla intimorito dalla mia reazione, si godeva la piccola vittoria. Lo incenerii con lo sguardo e lo spinsi fuori di casa. Se l’avessi avuto sotto gli occhi un altro istante avrei potuto fargli veramente male. «Non farti più vedere» sibilai furiosa. Era ancora davanti alla porta con un insopportabile sorriso presuntuoso sulla faccia. «Sparisci» sbottai sbattendogli la porta in faccia. Maledetto baciatore a tradimento. Come avevo potuto essere così ingenua? C’ero cascata come una stupida.

Alec aveva detto che… Alec. Aveva sentito? Dovevo mandargli subito un messaggio prima che fe qualcosa di stupido. Ovviamente avevo lasciato il cellulare in camera. Corsi verso le scale, dimenticando di avere un ginocchio non in perfetta forma e una fitta di dolore mi attraversò il cervello. Di bene in meglio. Dall’inorridita sorpresa ero ata al dolore fisico. Come minimo avrebbe creduto che qualcuno mi stesse facendo di nuovo del male. Non avevo tempo di zoppicare fino al piano di sopra. Mi concentrai sul cellulare cercando di ricordare dove l’avevo messo. Immaginai mentalmente la forma e il colore, l’usura dei tasti. Dopo pochi istanti si materializzò davanti a me. Spento. Avevo dimenticato di metterlo in carica e non potevo chiamare Alec a casa. Se avesse risposto Thomas cosa avrei detto? «Scusi, ho sbagliato numero?». C’era solo una persona in grado di aiutarmi senza fare troppe domande. Saltellai fino al divano e afferrai il cordless abbandonato tra i cuscini. Composi in fretta il numero. «Pronto?» «Sam?» «Emma! Ero preoccupatissimo. Ho provato a chiamarti sul cellulare, ma rispondeva sempre la segreteria telefonica. Pensavo stessi ancora dormendo. Come ti senti? È pazzesco… » «Sam Sam Sam» lo interruppi il più dolcemente possibile. Non volevo lasciare Alec in ansia e, soprattutto, volevo evitare che si precipitasse a casa. C’era il veto, l’incantesimo e via dicendo ma mia madre non era scema. «Puoi farmi una favore? Manderesti un messaggio ad Alec? Digli che ti ho detto di dirgli che sto bene e che poi gli spiegherò tutto» chiesi concitata. «Lo scrivo subito. Certo che siete strani voi due» commentò ma non fece domande. Rimase in silenzio per qualche secondo mentre digitava il messaggio. «Ecco fatto. Adesso puoi dirmi come stai?» riprese severo.

«Grazie e scusami. Non so dove ho messo il cellulare e non ricordo il numero a memoria» spiegai debolmente. «Sto bene tutto sommato» dissi sorpresa di riuscire a parlarne con tanta leggerezza. «Alec mi ha detto che eri conciata male» rispose cauto. «Sai com’è fatto, esagera sempre». Non volevo che si preoccue. «So anche come sei fatta tu. Minimizzi sempre» ribatté, poi restò in silenzio per qualche secondo. «Per fortuna sono arrivati Alec e Dave. Avrei dovuto chiederti se avevi bisogno di un aggio dopo la scuola. Se ti fosse successo qualcosa, non me lo sarei mai perdonato». «Non è colpa tua Sam se Marshall ha cercato di aggredirmi» lo rassicurai, immaginando cosa gli stesse ando per la testa. Doveva sempre sentirsi responsabile per me. Per tutto. «Non ha cercato di farlo, l’ha fatto» rispose torvo. «Non fa differenza. Se ti metterai in testa di essere in qualche modo responsabile di ciò che è successo, sarò io a mettere in atto un’aggressione a tuo danno». Rise, sollevato. «Okay, mi sembra che tu stia abbastanza bene. Più tardi pensavo di are a trovarti con Mads, se non disturbiamo… Ah! Alec, ha risposto» esclamò. «Cosa dice?» chiesi impaziente. «Okay e mi fa gli auguri di Natale». Almeno una era fatta. Per quanto tempo sarebbe rimasto buono e tranquillo in attesa di avere mie notizie? «Giusto! Buon Natale, Sam». Dopo gli auguri mi affrettai ad aggiungere che lui e Mads potevano venire quando volevano, tanto non mi sarei mossa di casa. Non appena ebbi riagganciato, mi resi conto di essere stata troppo avventata nell’invitare a casa Sam e Mads. Cosa avrei detto a proposito di mio padre? L’avrei nascosto nell’armadio? Era meglio chiedere delucidazioni. Entrai in cucina. Constance stava mostrando a James i suoi poteri. Il mestolo di legno galleggiava immobile sopra la pentola. Papà la guardava ammirato.

«Stavo mostrando cosa sono capace di fare» spiegò soddisfatta. Connie era talmente generosa e pronta a lanciarsi in tutto. Non avrebbe perso tempo con le recriminazioni. Lui era tornato. Le bastava e, in fondo, bastava anche a me. Mi rivolsi a James per dissipare ogni dubbio. «Cosa dobbiamo dire agli estranei? Esisti? Non esisti? Visto che non potrò uscire di casa fino a nuovo ordine ho invitato un paio di amici oggi pomeriggio e mi piacerebbe sapere la versione che dobbiamo dare per evitare incidenti» dissi cupa. «Meglio se rimango ancora in incognito. Almeno fino a quando la situazione non sarà più delineata. Mi nasconderò al piano di sopra» concluse con un sorriso. Pranzammo in cucina. Kate e Miranda non avevano avuto il tempo di preparare grandi cose e fu un pranzo tutt’altro che natalizio, anche per il clima che si respirò a tavola. Eileen si era decisa a scendere per mangiare con il resto della famiglia, ma per tutto il tempo si rivolse soltanto a noi sorelle. Alla fine del secondo, un arrosto con patate un po’ arrangiato, annunciò che Dave stava per venire a prenderla. Avrebbe mangiato il dolce dai Peterson. «Preferirei che rimanessi a casa» esordì mamma con cautela. «Non dovrò fare altro che salire in macchina di Dave, poi non mi muoverò da casa sua. Tornerò dopo cena» concluse secca. Kate sospirò ma non fece obiezioni. Preferiva lasciarla sbollire? Pensava che Dave le avrebbe fatto bene? Non mi era chiaro ma non feci domande. L’espressione di mia sorella non invitava a fare grandi chiacchierate. Avrei provato a parlarle al suo ritorno. Come mamma speravo che are del tempo con Dave l’avrebbe pacificata. Non lo invidiavo affatto, Elle sarebbe stata intrattabile. Il pomeriggio proseguì tranquillo. Sam e Madison arrivarono verso le cinque, ansiosi di vedere come stavo e di conoscere la mia versione della storia. La mia sensibile amica pianse per tutto il racconto, mentre Sam ascoltava in

silenzio, osservandomi con i suoi nuvolosi occhi grigi. Ogni tanto dava una pacchetta sulla spalla di Mads per consolarla. Per alleggerire la conversazione chiesi come avevano trascorso il Natale e chiacchierammo del più e del meno. Li stavo accompagnando alla porta, quando Mads chiese di andare in bagno. Le indicai la strada per quello di servizio accanto alla lavanderia. Rimasti soli, Sam mi guardò fisso senza dire nulla. «Cosa c’è?» dissi per spingerlo a sputare il rospo. «Adesso capisco perché Alec era stravolto ieri sera. Mi stupisco che non sia in giro a dargli la caccia e ucciderlo con le sue mani» disse cupo. «Sam, ti prego non ti ci mettere anche tu. Dovresti cercare di impedirgli di fare qualche cretinata» lo pregai. Se c’era qualcuno a cui Alec avrebbe dato ascolto quel qualcuno era Sam. «O aiutarlo a farla». «Samuel! Prometti che non lo farai, altrimenti verrò a cercarvi e potrete ritenervi davvero responsabili se dovesse succedermi qualcosa». Colpo basso ma a mali estremi, estremi rimedi. «Lo terrò d’occhio ma tu non muoverti da qui» disse finalmente sorridendo e abbracciandomi. Mads ci raggiunse qualche istante più tardi. Sam l’aiutò a indossare il cappotto e la salutai con due baci sulle guance. Mi guardò con l’espressione ansiosa che aveva quando qualcosa la preoccupava. Gli occhi verde acqua sembravano ancora più grandi. Le sorrisi rassicurante. In quel momento Connie scese le scale e attraversò il salotto. Si appoggiò allo stipite della porta e salutò i miei amici. Per una frazione di secondo lanciò a Madison un’occhiata indecifrabile. Non appena furono usciti, mi voltai verso di lei. Conoscevo mia sorella come le mie tasche. I suoi sguardi non erano mai gratuiti. «Cosa c’è?» chiesi incuriosita.

«Niente» disse stringendosi nelle spalle. «Sono una bella coppia», ma si era già tradita. Come dicevo, conoscevo mia sorella come le mie tasche.

Saluti e spiegazioni

Emma

«Ho lasciato la lista di incantesimi che potrebbero servirti nel cassetto del mio comodino» disse Miranda controllando per l’ennesima volta di aver chiuso la valigia. Mamma annuì triste. «Vi farò avere mie notizie appena sarà possibile» aggiunse con dolcezza. Kate l’abbracciò. «Tornerò presto, cara» mormorò, sciogliendosi con delicatezza dall’abbraccio. «Fai attenzione». James la guardava preoccupato. La nonna stava andando da William, mio nonno. Le figure maschili della mia vita erano notevolmente aumentate nelle ultime ventiquattro ore. Chissà se James lo aveva mai incontrato. Gli lanciai un’occhiata di sfuggita, ma oltre alla preoccupazione per Miranda non colsi nient’altro. «Certo» rispose tranquilla, poi si rivolse a noi con il solito cipiglio severo. «Cosa sono quelle facce? Su, non sto partendo per il fronte. Salutatemi vostra sorella. Mi dispiace non poterla aspettare, ma il mio volo parte alle dieci. Mi raccomando» il verde dei suoi occhi si fece più intenso. «Fate le brave». Constance le buttò le braccia al collo senza dire nulla, poi fu il mio turno. «A presto, nonna» sussurrai. «A presto, tesoro» disse lanciandomi un’occhiata carica di raccomandazioni. Uscì dalla porta sul retro per non dare nell’occhio. Un taxi l’aspettava nel vialetto. Non era il caso che mamma girasse in macchina di notte visto i recenti incontri che avevo fatto e di mandarci James non se ne parlava proprio. Non sapevamo dove fosse diretta, non aveva voluto dirlo a nessuno. «Meno sapete, meglio è» e così aveva liquidato l’argomento. Avrebbe potuto essere il motto della nostra famiglia. In cucina calò un silenzio carico di tensione. Ognuno immerso nelle sue preoccupazioni che per certi versi erano le stesse. Miranda era partita, Elle sconvolta, papà in pericolo, io ero stata aggredita da un pazzo, mamma era preoccupata per tutti noi, Connie… Cosa aveva Connie? Connie aveva tutti quei pensieri, più i suoi.

Mi sentivo confusa e stanca. Era stata una giornata lunghissima, avevamo bisogno di riposo, ma soprattutto Kate e James avevano bisogno di rimanere soli. «Credo che me ne andrò a letto» lanciai un’occhiata eloquente a mia sorella. «Anch’io» disse simulando un enorme sbadiglio. Ecco, quello forse era troppo. «Va bene, ragazze. È stata una lunga giornata. Emma hai preso l’antidolorifico?» chiese mamma stropicciandosi gli occhi. Era esausta. James le ò un braccio intorno alla vita, l’attirò a sé e le baciò la testa. Non ero pronta per le effusioni genitoriali, meglio battere subito in ritirata. «Non ne ho bisogno, sto bene. Buonanotte» e volai fuori dalla stanza seguita da Constance. Arrivate in camera ci lasciammo cadere sui rispettivi letti. «Potrei addormentarmi all’istante» disse soffocando un altro sbadiglio. «Allora non stavi fingendo» esclamai. In fondo non era strano che fosse stanca, che lo fossimo tutte. Chissà come stava Eileen… «Niente affatto, sono distrutta». Si sdraiò sul letto e si voltò verso di me. «Come stai?» «Bene, credo. Considerato cosa è successo ieri, il ritorno del padre perduto e il fatto che oggi Charlie Thompson mi ha baciata, direi bene». Constance scattò a sedere come spinta da una molla. «Ha fatto cosa?» gridò. «Shhh! Vuoi che mamma ti senta?» la rimproverai, però mi sentii subito meglio. Avrebbe fatto bene parlarne, era tutto il giorno che mi tenevo quel peso sullo stomaco «A tradimento, sia ben chiaro. Con l’inganno e mi ha a mala pena sfiorata, l’ho scacciato immediatamente» precisai. Ero ancora infuriata per quello che aveva fatto. Aveva rubato il mio primo bacio. Sempre che si potesse definire un bacio. Non era così che l’avevo immaginato. Non con lui, non in quel modo. Non che l’avessi programmato ma era

abbastanza scontato che, se l’incantesimo alla casa sulla spiaggia avesse funzionato, avrei finalmente baciato Alec. Da quando avevo memoria ero sempre stata innamorata di lui. I ragazzi sembravano non notarmi e io non notavo loro. Alec sarebbe stato il primo ed era tutto ciò che avevo sempre sognato. E poi era arrivato Charlie. Ce l’avevo a morte con lui. Connie sembrava più sconvolta per quella sciocchezza che per il fatto che nostro padre fosse in salotto a guardare la televisione. «Alec lo sa?» chiese senza abbandonare l’espressione stupefatta. «Non ancora» dissi in preda ai sensi di colpa. «Non avrai intenzione di dirglielo, vero?» Avevo giurato a me stessa, che non avrei più tenuto nascosto nulla ad Alec, soprattutto una cosa del genere. «Certo che ho intenzione di dirglielo» ribattei. «Si arrabbierà da morire» disse scandendo le sillabe dell’ultima parola e tornando a sdraiarsi sul letto. Aveva ragione. Si sarebbe infuriato anche con me. Mi aveva avvisata di non fidarmi di Charlie ed io non avevo voluto dargli ascolto. «Lo so. Tu piuttosto… Sicura che vada tutto bene?». C’era qualcosa che la disturbava, ne ero certa. «Sì, è solo che… ». Fu interrotta dal bussare insistente di qualcuno. Il rumore non proveniva dalla porta come avrebbe dovuto essere, bensì dalla finestra. Connie era la più vicina e andò ad aprire. Era preoccupato, infreddolito. Bello, preoccupato e infreddolito. Scavalcò il davanzale ed entrò in camera. «Ciao» disse imbarazzato. Mi squadrò per controllare che stessi bene. Si rasserenò per un istante, poi mi

guardò confuso. Mi sentivo in colpa e probabilmente si stava domandando come mai. «Tu hai un problema» disse Connie scoccandogli un’occhiataccia e dandogli le spalle. «Credo che sia meglio che mi ritiri in camera di Miranda. Leggerò un po’, se li sento salire corro ad avvisarvi». Prese un vecchio volume nascosto sotto il materasso che aveva tutta l’aria di essere un grimorio. «Ne riparliamo domani, okay?» dissi promettendolo con gli occhi. Annuì, dandomi il bacio della buonanotte. Uscì e chiuse la porta dietro di sé. «Ho interrotto qualcosa?» chiese irritato. «Sì» risposi secca. Era il modo di arrivare? Voleva che mia madre lo scoprisse? «Hai detto più tardi ti spiego. Più tardi è arrivato. Se non avessi perennemente il cellulare scarico, non sarei costretto a piombare in casa tua senza avvisare» sibilò. Cavoli, era già arrabbiato. «Hai ragione» ammisi. Meglio non farlo infuriare ulteriormente. «Emma?» il tono si era addolcito ma solo perché era preoccupato. Mi odiavo per averlo fatto preoccupare e mi odiavo per averlo fatto arrabbiare. «Questa mattina, dopo che te ne sei andato è ato Charlie» dissi prendendo un bel respiro. Alec non disse nulla, né mosse un solo muscolo della faccia. Semplicemente sedette sul letto di Connie, davanti a me. Continuai, incoraggiata dalla calma apparente. «Ha saputo dell’aggressione e voleva sapere come stavo. Si è fermato pochi minuti» feci una pausa per dargli la possibilità di dire qualcosa. Niente, nessuna reazione. «Volevo salutarlo con un bacio sulla guancia, ma all’ultimo secondo ha spostato la testa e ha cercato di baciarmi» le parole mi morirono in gola. «Sei innamorata di lui e vuoi lasciarmi?» chiese imibile. «Sei scemo?» «È una domanda seria, rispondi seriamente» la voce finalmente gli tremò. Almeno era una reazione.

«Certo che no». «Bene. Allora posso andare a spaccargli la faccia». Si alzò di scatto, ma lo bloccai immediatamente tenendolo per la manica e lo obbligai a risedersi. «Tu non vai a spaccare la faccia a nessuno, non sei un selvaggio» dissi con un tono che non ammetteva discussioni. «Ti chiedo scusa, avevi ragione. Sono stata un’ingenua». Gli occhi ambrati cercarono i miei e li trovarono subito. «Non sono arrabbiato con te. Non è colpa tua se lui è un arrogante, prepotente figlio di… » «Alec!» esclamai. Non l’avevo mai sentito imprecare in quel modo. Si liberò dalla presa e andò verso la finestra. «Alec, ti prego… » per una frazione di secondo non potei impedirmi di avere paura. Si voltò di scatto verso di me. «Non andrò da lui, lo prometto, ma devi lasciarmi andare via, perché sono molto arrabbiato e ho bisogno di correre». Annuii con un cenno del capo, spalancò la finestra e sparì nel buio. Mi alzai per chiuderla. La neve annunciata per Natale, era finalmente arrivata. Dal cielo color vinaccia scendevano grossi e soffici fiocchi. Presto avrebbe attaccato. La vista della neve in condizioni normali mi avrebbe rallegrato ma non quella sera. Non ero proprio dell’umore adatto. Camminai nervosa su e giù per la stanza, torcendomi le mani. Dov’era andato? Cosa avrebbe fatto? Con quel tempaccio e la rabbia che aveva in corpo, poteva succedere qualsiasi cosa. E c’era Marshall a piede libero. Questa però prima o poi me la pagherete. Tutti e tre. L’antica minaccia di Tony mi risuonò nelle orecchie, come se fosse ancora lì, a un o da me, come tanti anni prima nel parcheggio della scuola. Se avesse deciso di vendicarsi su Alec invece che su di me? Era in grado di badare a se stesso, ma nonostante tutti i nostri poteri non eravamo immuni alle violenza. Io ne ero la prova.

Le dita ossute e fredde della paura mi agguantarono lo stomaco. Era tutta colpa mia. Connie aveva ragione, non avrei dovuto dirglielo. Se gli fosse successo qualcosa… Sarei andata a cercarlo. Avrei fatto attenzione e al minimo segnale di pericolo sarei tornata sui miei i. Afferrai il primo maglione che mi capitò sotto mano e presi dall’armadio un vecchio giaccone di Eileen. Il mio parka era al piano di sotto sull’appendiabiti del corridoio. Irrecuperabile. Non potevo are davanti a mamma e papà e dire che andavo a fare una eggiata. Infilai scarpe, berretto, sciarpa e guanti. Aprii la finestra. Mi sporsi per valutare la distanza che mi separava dal suolo. Accidenti, era un bel salto. Per il mio ginocchio non sarebbe stato un bel momento, ma potevo calarmi dalla grondaia. «Cosa credi di fare?» Alec stava appollaiato sopra la mia testa, seduto su un ramo della grande quercia. Ecco, come faceva a salire. Si arrampicava sull’albero. Mi sentii svenire per il sollievo. Era al sicuro. Sotto la neve ma al sicuro. «Stavo venendo a cercarti» risposi offesa. Era sempre rimasto lì. Non aveva voglia di farsi una corsetta, semplicemente non voleva avermi davanti agli occhi. «Spostati, per favore» disse divertito. Almeno l’umore era migliorato. Feci qualche o indietro e in un balzo fu di nuovo in camera mia. Ignorandolo cominciai a spogliarmi. Anche lui tolse il giaccone, lo buttò su una sedia e sedette sul mio letto. Mi fece cenno di raggiungerlo. «Ti senti meglio?» domandai torva, sedendomi distante da lui. Annuì e mi guardò perplesso, sfoderando uno dei suoi sorrisi migliori. Uno di quelli che si allungavano fino agli occhi, senza ombre. Uno di quelli che lo illuminavano come una giornata di sole. «Sei arrabbiata?»

«Sì, Alec. Sono arrabbiata. Decidi tutto tu. Quando andartene, quando restare. Quando litigare, quando fare pace. Non sapevo dove fossi andato, cosa volessi fare. Ero preoccupata da morire». «Lo so. Ecco perché sono tornato indietro» disse tranquillo. Si avvicinò. «La tua corsetta?» ribattei sarcastica. «Ho promesso che non avresti più sofferto a causa mia e non potevo lasciarti in preda all’ansia. Stavo per bussare alla finestra, quando ti ho vista correre su e giù per la stanza. Ero curioso di sapere cosa avessi in mente, anche se lo sospettavo». Credevo mi avrebbe fatto la predica, invece il suo sguardo si fece più intenso. «Sei matta» sussurrò senza staccare gli occhi dai miei. Ero in balia del suo sguardo. Si avvicinò ancora. «C’è un tipo completamente pazzo che ha tentato di ucciderti, hai un ginocchio ridotto uno schifo e stavi per saltare giù dalla finestra per me?» «Ero preoccupata» mormorai assente. Non ero più lì, ero in un mondo dove quello che ci circondava non esisteva. Con la punta del dito medio sfiorò il dorso della mia mano. Chiusi gli occhi, lasciando che la scossa mi attraversasse. Cercai un modo per occupare la mia energia. Mentalmente visualizzai uno dei libri della libreria. Lo feci apparire sulla scrivania e una mano invisibile cominciò a sfogliarlo. Era voluminoso, avremmo avuto un po’ di tempo. Alec mi prese per mano. Lo guardai di sottecchi. «Se ti avessi toccata un quarto d’ora fa avremmo bruciato tutte le lampadine della casa» disse sommessamente. «Eri così arrabbiato?» mormorai triste. «Non solo. Per un attimo ho pensato che avrei potuto fare come Thompson: prendere senza chiedere il permesso. Portarti di peso alla casa sulla spiaggia, esporti al pericolo. Tutto per soddisfare un impulso» un bagliore gli saettò negli occhi. «Non l’hai fatto» lo rassicurai.

«No, c’era troppa rivalsa e molto poco di ciò che avrebbe dovuto esserci» disse triste. «È umano, Alec. È normale sentirsi così. Non sei una brutta persona, sei solo geloso». Mi prese il viso tra le mani. Mi osservava in silenzio. Con il pollice accarezzò il taglio sul labbro. Le sue, pallide e dischiuse, tremarono. «Mancano sei giorni. Dobbiamo solo aspettare» sussurrò. La sua sicurezza mi rattristò. Non ero così convinta che sarebbero riusciti a prendere Marshall in meno di una settimana ma non lo dissi. Per lui era importante crederci, ci avrei creduto anch’io. «Ti ho preso una cosa per Natale» dissi alzandomi e andando verso l’armadio. Cercai tra i ripiani il pacchetto che avevo nascosto. Sorrise, prendendo dalla tasca della giacca un involucro di carta colorata. «Anch’io» disse soddisfatto. Tornai a sedermi accanto a lui e ci scambiammo i regali. «Prima tu» disse deciso. Aprii la confezione. Una sciarpa rossa, soffice e morbida, mi scivolò tra le mani. «Grazie» dissi in un soffio. Stava per scartare il suo pacchetto, quando entrò Constance. «È tornata Eileen. Devi andartene, quando salirà è probabile che Kate la segua per parlare» bisbigliò concitata. Alec mi lanciò uno sguardo dispiaciuto ma agguantò la giacca e il regalo. «Grazie, lo aprirò a casa. Ci sentiamo domani». Mi baciò sulla fronte e lo accompagnai alla finestra. La spalancò e saltò giù. Lo vidi correre come un fulmine verso casa, nonostante la neve e il vento. Richiusi la finestra e feci sparire le tracce del regalo. Connie aveva già nascosto il suo grimorio e si era infilata sotto le coperte. La imitai nonostante fossi ancora vestita e spegnemmo la luce. Fingere di essere addormentate aveva un duplice vantaggio: avvalorava la scusa usata con la mamma per scappare dalla cucina ed evitava ad Elle una predica.

Kate non avrebbe nemmeno cominciato per timore di svegliarci. Come aveva predetto Connie, mamma seguì Elle fino in camera, ma quando vide che stavamo già dormendo rinunciò al suo discorsetto. «Ne riparliamo domani» sussurrò decisa. Eileen chiuse la porta dietro di lei e accese la luce. «Grazie» disse piano. Era stravolta. Profonde occhiaie le segnavano gli occhi. I capelli, di solito sciolti, erano raccolti in una coda severa che lasciava scoperta la linea morbida del collo e metteva in risalto gli zigomi alti. Le labbra ben disegnate erano pallide, niente rossetto, niente mascara. Si sedette sul letto di Connie. Ci tirammo immediatamente su a sedere. «Come è andata la serata padre e figlie?» chiese sarcastica. Il pomeriggio con Dave non sembrava averla pacificata granché. «Siamo rimaste in camera» risposi senza scendere troppo nei dettagli. «Come stai?» «Come vedi» rispose secca. Non aveva voglia di parlare. Forse temeva che avremmo cercato di convincerla ad ammorbidire la sua posizione nei confronti di James. Non era una paura infondata, ma avevamo il buon senso di lasciarla stare, almeno per il momento. Se Dave non era riuscito a farla sentire meglio, noi non saremmo state capaci di fare di più. «Ti saluta la nonna. È partita un’ora fa. Ha detto che le dispiaceva non aspettarti ma aveva il volo alle dieci» dissi disinvolta. Elle mi guardò assente. «La nonna» ripeté sarcastica. Non stavamo andando affatto bene. «Emma ha baciato Charlie Thompson» disse Connie con lo scopo di distrarla a mie spese. «Constance!» sbottai. Volevo dirlo a Eileen ma avrei preferito farlo io e darle una versione più vicina alla realtà. «Hai fatto cosa?» chiese Elle scandalizzata. Un lampo della sua solita luce le

brillò nello sguardo. Beh, distrarla sembrava funzionare. «Non ho baciato Charlie Thompson. Lui ha provato, e sottolineo provato, a baciare me. Con scarsissimi risultati» spiegai stizzita. Doveva essere proprio l’argomento del giorno? Con tutte le cose che erano successe? Eileen mi guardò con aria interrogativa e fece cenno di proseguire. Le raccontai della visita di Charlie e della reazione di Alec. Mi ascoltò attenta e anche Connie lo fece, visto che parte della storia mancava anche a lei. «Ti infastidisce che sia così geloso?» chiese quando ebbi finito. Un sorriso leggero le si dipinse sulla bocca. Aveva sempre trovato la gelosia di Alec divertente, anche quando io non ne sospettavo l’esistenza. Per lei era una prova d’amore, ma per me era solo qualcosa che lo faceva soffrire. Speravo non fosse consumato dalla stessa gelosia che avevo provato quando stava con Jackie. Era come se qualcuno mi avesse rubato l’aria. Non riuscivo a respirare. Mai avrei voluto che si sentisse così. «Mi dispiace per qualsiasi cosa lo faccia soffrire, soprattutto se a farlo sono io». «Non è colpa tua, Em. Alec è grande e vaccinato. Dovrebbe imparare a controllarsi» sentenziò. «Lui si controlla moltissimo» ribattei sostenuta. «Come no» rispose Connie con una punta di sarcasmo. «Connie ce l’ha con Madison, ma non ho ancora capito perché» dissi per prendermi la rivincita. «Emma!» esclamò. Le scoccai un sorrisetto. «Non è vero» sbottò indignata. «Sì, che è vero». «No».

«Sì». Eileen ci guardò dapprima divertita, poi scoppiò a ridere. Smettemmo di bisticciare. Lanciai un’occhiata complice alla piccola di casa. Sorrise con un angolo della bocca, come quando aveva la testa da un’altra parte o era triste. La faccenda era più seria di quanto pensassi. Avevano litigato? Una delle due me l’avrebbe detto e non si frequentavano abbastanza da avere un motivo per litigare. Doveva essere qualcos’altro ma cosa? «Cosa ha fatto Madison per irritare la nostra sorellina?» chiese Eileen per prenderla in giro. Mi pentii di aver tirato fuori il discorso. Se mi fossi accorta che la cosa la faceva soffrire, sarei stata più attenta. Connie aprì la bocca per parlare ma non ne uscì alcun suono. «Scherzavo, Elle. Volevo solo far arrabbiare Connie. Che ne dite di andare a letto sul serio?» dissi per chiudere definitivamente il discorso. Ci alzammo e cominciammo a cambiarci per la notte.

~~o~~

Lo squillo del telefono rimbombò per la casa sprofondata nel sonno. Lo sentivo come un’eco lontana, appartenente a un altro mondo. Un mondo dove la notte accadono cose orribili e inevitabilmente c’è chi viene a ricordartelo. Quattro squilli. Cinque squilli. Poi qualcuno rispose. Mi alzai a sedere, ancora mezza addormentata. Che giorno era? Mercoledì. Mercoledì 29. In vacanza le giornate sembravano tutte uguali. In quei giorni avevo vissuto come in una dimensione parallela, staccata dal mondo reale. Chiusa in casa con le mie sorelle e i miei genitori. Miranda era chissà dove, Alec non poteva venirmi a trovare. Eileen proseguiva la sua guerra

fredda, senza vincitori, Connie si distraeva saltellando intorno a James tutto il giorno. Mamma era in perenne bilico tra preoccupazione e felicità. Nessuno di noi sapeva cosa sarebbe successo. Eravamo in stand by. In attesa che qualcosa, qualcuno dal mondo esterno fe ripartire la nostra vita. La casa sulla spiaggia, l’incantesimo mi apparivano come un’occasione perduta o un miraggio. Una possibilità che non esisteva. Non mi ero arresa, quello mai. Solo avevo accettato che il momento tanto atteso fosse rimandato a data da destinarsi. Durante le rare e brevi telefonate Alec mi aveva raccontato come si stesse dando da fare con Sam a riordinare la casa per la festa. Avevano fatto la spesa, pulito i pavimenti e i bagni, spolverato, fatto partire la vecchia caldaia, preparato i letti. Tutto era pronto per accogliere gli ospiti: le mie sorelle e me, Anita, Dave, Mads e Sam. Alec aveva anche elaborato le spiegazioni da dare ai genitori. Io avrei detto a mia madre che sarei andata a una festa da un amico di Dave con le mie sorelle e per non correre il rischio di guidare di notte sulle strade ghiacciate ci saremmo fermate a dormire. La sua copertura, invece, prevedeva una breve vacanza di un paio di giorni con Sam, Madison e Jackie. Dave sarebbe ato a prenderci nel pomeriggio, mentre Alec si sarebbe occupato di Sam e Mads, per poi ritrovarci tutti alla Little Pound. Peccato che fossi bloccata nel mio limbo e ci sarei rimasta fino a nuovo ordine. La stessa cosa valeva per le mie sorelle, anche se loro avevano diritto a qualche ora d’aria, al contrario di me. Sospirai e mi rigirai nel letto infastidita. Dovevo smettere di pensarci, altrimenti non avrei mai ripreso sonno. Feci un bel respiro e cercai di sgomberare la mente. Stavo per riaddormentarmi, quando sentii la voce di James nel corridoio. Allora non era stato uno scherzo telefonico. Era una telefonata vera. Chi chiamava alle tre del mattino di mercoledì? Era successo qualcosa a Miranda? Il cuore cominciò battermi forte. Scalciai le coperte e scesi dal letto. Eileen si lamentò nel sonno ma non si svegliò. Facendo il meno rumore possibile uscii dalla stanza.

James, appoggiato al cassettone del corridoio, ascoltava con attenzione la voce dall’altra parte del ricevitore. Indossava dei pantaloni della tuta grigio scuro, una maglietta bianca ed era a piedi nudi. Si ò una mano tra i capelli e annuì. Si accorse di non essere più solo e alzò lo sguardo su di me. Non sembrava preoccupato o triste o arrabbiato per essere stato svegliato nel cuore della notte. Mi sentii sollevata. Se si fosse trattato di Miranda non sarebbe stato così tranquillo. «Grazie per aver chiamato detective. No, non si preoccupi. Ha fatto benissimo. Buonanotte». Premette il pulsante rosso del cordless per chiudere la conversazione. Detective alle tre del mattino poteva voler dire solo una cosa: Tony Marshall. James rimise il telefono nella base sopra il cassettone sorridendo tra sé. «Lo hanno preso mentre si aggirava da queste parti. Una vicina si è insospettita e ha chiamato la polizia. Lo stanno già portando alla centrale» disse a bassa voce. Poi mi abbracciò. Era la prima volta da quando era tornato a casa. Era la prima volta da quando avevo tre anni. Glielo lasciai fare perché ero sollevata. Mi permisi di farlo perché quando ero una bambina lui era il mio eroe e mi aveva appena detto che il pazzo che aveva tentato di chiudermi nel baule di un’auto a noleggio non mi avrebbe più fatto del male e soprattutto non ne avrebbe fatto alle persone che amavo. Quella notizia significava tante, troppe cose. Eravamo al sicuro. Kate mi avrebbe permesso di uscire di casa. Saremmo potute andare alla casa sulla spiaggia. James sarebbe tornato da dove era venuto. «Non andare via» sussurrai senza guardarlo in faccia. Si chinò verso di me, che ero tanto più bassa di lui. Lo ero da sempre. «Non vado da nessuna parte. Non più». Anche se era il 29 dicembre mi sembrò Natale.

La casa sulla spiaggia

Emma

Ad ogni o mi sembrava di sprofondare sempre di più nella sabbia. Mi sentivo goffa e impacciata, imbacuccata nel maglione pesante e nel parka abbottonato fino al mento nonostante avessi la sciarpa. L’aria era gelida, ma non aveva spazzato via le nubi. Il cielo plumbeo si confondeva con le acque grigiastre dell’oceano. Sentivo il freddo penetrarmi dentro le ossa. La neve non aveva attaccato sulla sabbia a parte qualche macchia al limitare del bosco che si espandeva fitto dietro la casa. Avevamo parcheggiato sul ciglio della strada, in una piazzola che d’estate era adibita a zona pic-nic. Da lì partiva un breve sentiero che conduceva direttamente alla spiaggia, non lontano dalla casa degli Stevens. Una eggiata di circa dieci minuti e per circa dieci minuti avevo arrancato dietro a Alec, fino a quando, mosso a pietà dal mio udibilissimo fiato corto, si era fermato ad aspettarmi. Dopo una rapida occhiata alle mie condizioni e alla conseguente risata si era deciso a venirmi incontro. Aveva preso la borsa dove avevo infilato il minimo indispensabile e il sacco a pelo e se l’era caricata sulle spalle insieme al suo zaino. Aveva sorriso, raggiante. Avrei voluto rispondere con almeno la metà del suo entusiasmo. L’iperventilazione e una discreta dose di malumore non erano di grande aiuto. «Stai esagerando. Avremmo fatto sì e no mezzo miglio» esclamò senza abbassare di un volt il sorriso luccicante. «Mezzo miglio a pieno carico e su terreno ostile» ribattei torva. Mi guardò veramente per la prima volta in quel pomeriggio. Inumidì il labbro inferiore e alzò entrambe le sopracciglia, sorpreso. «Sei nervosa?» chiese stupito, ma a bassa voce per non farsi sentire da Sam. A breve il nostro amico ci avrebbe raggiunti. «Un po’». Bloccai a metà strada un sospiro. Sospiri uniti a occhiate torve e nervosismo lo

avrebbero condotto presto a scoprire ciò che tentavo di tenere nascosto da ore e ci sarebbe rimasto male. Non avevo dubbi purtroppo: era impossibile che l’incantesimo avesse funzionato. Stava andando tutto bene. Troppo. Ogni ostacolo superato. Ogni problema risolto. Ogni preoccupazione svanita nel nulla. Tony Marshall era in prigione. James al momento sarebbe rimasto con noi. Mamma non vedeva l’ora di are un paio di giorni da sola con lui e aveva concesso il permesso di dormire fuori senza tante storie. Miranda stava bene. Aveva dato sue notizie e avevo forti ragioni per credere che si trovasse proprio dove desiderava stare. Tutto troppo perfetto. L’incantesimo non poteva funzionare, era una sfida contro la dura legge delle probabilità. «É un peccato che non abbiate visto la casa prima che Alec ed io ci mettessimo all’opera, apprezzereste di più il nostro lavoro». La voce di Sam proveniva alle mie spalle. Mi voltai verso il nostro amico, anche lui piuttosto su di giri. Maschi. «Un vero peccato» commentò Connie senza nascondere il sarcasmo, arrancando dietro di lui. Il caschetto biondo di Anita comparve poco dopo la coda corvina di mia sorella. Mi si affiancò e lasciò cadere sulla sabbia il suo bagaglio. Dopo qualche istante ci raggiunsero anche Dave, Eileen e Mads. Lanciai un’altra occhiata alla casa. A pochi metri da noi la casetta bianca dei miei ricordi si stagliava contro il verde della foresta, talmente scuro da sembrare nero. Non aveva nulla del luogo in cui avevo trascorso molte felici giornate della mia infanzia, anche se niente all’apparenza era cambiato. Il paesaggio, la casa sembravano immutati. Mancavano il calore e la luce del sole d’estate e i sogni che allora non si erano ancora infranti.

Cercai di distogliere il pensiero dal nostro imminente fallimento, ma non potei fare a meno di ripercorrere tutti i aggi ancora una volta per cercare di capire cosa poteva essere andato storto. Dopo la notte del Solstizio d’Inverno Alec aveva trascorso più di qualche ora tra quelle mura. Purtroppo non aveva saputo dire se l’incantesimo fosse riuscito; non aveva percepito nessuna differenza rispetto a prima e, checché ne dicessero lui e le mie sorelle, la cosa non faceva ben sperare. Constance sosteneva che Alec poteva essere immune all’incantesimo, essendo risultato nel rituale il proprietario. Il vero proprietario della casa, però, era il signor Stevens; Alec la possedeva solo indirettamente. Non avevamo seguito la formula alla perfezione e quella leggerezza poteva aver compromesso la riuscita dell’incantesimo. Constance aveva cercato altre informazioni nel grimorio della prozia Delia, ma non veniva riportato nessun esempio o caso particolare. La prozia non spiccava per iniziativa e si limitava a seguire le formule a puntino. Non rimaneva che sperimentare noi stesse l’efficacia della nostra variante. Magari senza che qualcuno si fe del male. Eileen sarebbe stata la prima ad entrare. Mi ero opposta con forza alla sua decisione, ma non c’era stato verso di farle cambiare idea. Far cambiare loro idea: Alec, ovviamente, era d’accordo con lei. «Vediamo che effetto ha su di me. Se avete fatto un casino hai idea di cosa potrebbe fare al tuo blocco? Non se ne parla, entro per prima». Fui costretta ad arrendermi. Non si trattava solo di me ma della sicurezza di tutti. Alec si avvicinò alla casa e salì i gradini della veranda. Depose a terra la mia sacca e lo zaino e prese la chiave di casa dalla tasca del giaccone. Aprì la porta ed entrò. Mentre gli altri lo seguivano, per perdere qualche minuto e farci superare, finsi di mostrare a Connie qualcosa sulla scogliera. Eileen chiuse la fila ed entrò per ultima. Ammutolimmo entrambe per la tensione. Mi aggrappai al corrimano delle scale di legno, mentre Connie impallidiva a vista d’occhio. Le afferrai la mano nell’istante in cui Elle oltreò la soglia. Niente. Non successe niente.

Nessuna nuvoletta di fumo blu, nessun lampo di luce, boato, esplosione. Niente. Si voltò verso di noi perplessa. L’avevo detto io: impossibile. La seguimmo dentro casa. Connie visibilmente seccata e io con il morale sotto le scarpe. Alec mi guardò con aria interrogativa. Mi strinsi nelle spalle. Arricciò le labbra ma non disse nulla. Del resto cosa avrebbe potuto dire? Nessuno degli altri sapeva cosa stava succedendo. Anzi cosa sarebbe dovuto succedere. Perché non stava succedendo niente, altrimenti mi sarei sentita diversa. Più leggera e libera o più debole e incompleta? Non avrei saputo dirlo, in fondo non aveva importanza. Mi sentivo esattamente come prima. Ergo l’incantesimo non aveva funzionato. Ero pronta all’eventualità, era sempre stata la prima della mia lista, eppure non riuscivo a impedirmi di essere malinconica. Sentivo già farsi strada il rimpianto di qualcosa che non avrei avuto. Alec uscì cupo e silenzioso di casa. Il buonumore era svanito come neve al sole. Improbabile che gli altri non lo avessero notato. Lo seguii con lo sguardo attraverso la finestra e lo vidi dirigersi verso il capanno dove tenevano gli attrezzi e le scorte di legna per il caminetto. Non gli sarei corsa dietro. Aveva bisogno di stare solo. Avrebbe preso a calci qualche ciocco di legno e per dieci minuti si sarebbe lasciato travolgere dalla delusione, poi avrebbe reagito. Ad Alec non piaceva perdere e non si sarebbe arreso al primo tentativo. Per la prima volta da quando avevo messo piede in casa mi guardai intorno. Sam non si sbagliava, avevano fatto un ottimo lavoro. Erano state tolte le vecchie lenzuola che avevano protetto i mobili dalla polvere, i tappeti sbattuti e rimessi al loro posto. Il caminetto era pronto per essere e la dispensa piena. Mancava solo il clima giusto per una festa. Da quando Alec era uscito regnava uno strano silenzio, colmo d’imbarazzo. Decisi di prendere in mano la situazione. Cominciai a dare istruzioni per organizzare la serata e gli spazi che avevamo a disposizione.

«Portiamo le nostre cose di sopra, così non ammassiamo troppa roba nel soggiorno. Elle, Mads ed io dormiremo nella camera matrimoniale. Connie e Anita si sistemeranno nella stanza dei bambini. I ragazzi si organizzeranno in salotto con i divani» dissi disinvolta. Sam aprì la bocca per lo stupore, ma ebbe la prontezza di richiuderla immediatamente. Era stata Eileen a decidere di separare le coppie nella fase notturna del nostro Capodanno. «È una serata tra amici» aveva detto decisa «non un week end romantico». L’avevo lasciata fare, ma sospettavo che i motivi che l’avevano spinta a una soluzione così appropriata fossero altri. «Perché non accendete il fuoco intanto?» sorrisi con aria innocente al mio amico. Salimmo al piano di sopra e ci dividemmo. Constance e Annie presero possesso della cameretta, la stessa che Sam, Alec ed io occupavamo da bambini. Noi “grandi” ci dirigemmo verso la camera degli Stevens. Entrai per prima e lascai cadere la sacca ai piedi del grande letto in legno chiaro al centro della stanza. Elle e Mads mi imitarono. I colori predominanti erano il bianco e il blu, come nel resto della casa. Ai due lati del letto erano stati messi due piccoli comodini, mentre di fronte ad esso troneggiava una cassettiera bianca. Attaccate al muro, in belle cornici d’argento, una serie di foto della famiglia. Alec e il fratello Justin, ritratti in diverse età e alcune dei signori Stevens. Un Alec bambino mi sorrise da una foto che conoscevo bene. Ne esisteva una copia sul pannello della stanza dei giochi. Mi affacciai alla finestra. Alec faceva avanti indietro dalla casa al capanno, trasportando cassette piene di ciocchi di legno. Elle e Mads finirono di sistemare le loro cose, recuperammo Connie e Anita e raggiungemmo i ragazzi in salotto. Sam e Dave seduti sul tappeto avevano iniziato una partita a Monopoli al tavolino davanti al caminetto dove crepitava un fuocherello appena . La legna di Alec l’avrebbe rinvigorito.

«È così che vi date da fare?» lo rimproverò Madison ma gli occhi la tradirono all’istante. Si buttò sul divano alle spalle di Sam. Connie e Anita presero posto sull’altro divano. Elle andò a sedersi per terra accanto a Dave. La salutò con un sorriso, poi si chinò su di lei e la baciò. Elle ricambiò il bacio ma non il sorriso. «Ho dimenticato i guanti in macchina. Andresti a prenderli?» chiese staccandosi da lui. A cosa le servivano i guanti? A volte era davvero capricciosa. Un piccolo bagliore saettò nel verde dei suoi occhi. No comment. Davvero scorretto. Mamma non ci aveva insegnato niente? Connie, che come me aveva osservato la scena, rideva sotto i baffi. «Certo». Dave le strappò un altro bacio. «Quando avrò finito la partita» e riprese a giocare. Elle non replicò. Dovevo aver frainteso le intenzioni e il luccichio dei suoi occhi. Mi diressi verso la cucina con l’intenzione di darmi da fare. Meglio lasciare le coppiette ad amoreggiare davanti al camino. Constance ed Annie vennero a darmi una mano. Fuori dalla porta finestra la tavola argentata del mare si increspava in ricci di schiuma che si scioglievano sulla battigia. Due persone per cucinare erano sufficienti, considerato che dovevamo solo scaldare ciò che era stato preparato dai genitori ed essendo una frana ai fornelli mi dedicai alla ricerca di piatti e stoviglie. Apparecchiare la tavola era una cosa che potevo fare senza combinare disastri e mi avrebbe tenuto la mente occupata. Dopo cinque minuti, però, avevo finito. Mancavano solo i bicchieri per completare l’opera. Sarei andata a chiedere al padrone di casa dove li tenevano nascosti. Era rimasto solo abbastanza. Indossai il giaccone e la sciarpa. Afferrai la maniglia, aprii la porta e andai a sbattere contro Alec che stava rientrando in quel momento. Ci guardammo per una frazione di secondo. «L’hai sentita?» chiesi in un sussurro.

Perché io non l’ho sentita. «No» rispose senza staccare gli occhi dai miei. Eravamo talmente coperti da giacche e maglioni che gli strati avevano di sicuro fatto da scudo. La scossa c’era stata ma non l’avevamo sentita. Come se volesse smentire i miei pensieri mi afferrò la mano. Niente. Intrecciò le sue dita alle mie. Niente. Con la punta del pollice disegnò piccoli cerchi sul dorso. Niente. Non ci potevo credere. Mi voltai verso mia sorella. «Constance?» «Uhm?» bofonchiò sovrappensiero mentre cercava di capire come accendere il forno per scaldare l’arrosto preparato dalla signora Summers. «Credo che tu abbia qualcosa che ti vola intorno alla faccia» dissi guardandola con intenzione. «Eh?» mi guardò di rimando, seccata. «Constance? Dovresti proprio sollevare la tua mano. È arrivato il tempo di farlo» dissi imitando il gesto che faceva per attivare i suoi poteri. Persino Eileen aveva capito e guardava Constance scuotendo leggermente la testa. Conoscendola avrebbe preferito che lasciassimo perdere. «Ah, sì!». L’occhiata di rimprovero di Elle aveva svegliato Connie dal suo torpore. Alzò la mano destra e scacciò il solito insetto invisibile. Chiusi gli occhi, convinta che li avrei riaperti sull’istantanea sfocata della stanza. Non poteva essere che così. «Miller secondo me stai barando!». Il vocione di Dave rimbombò per tutta la

sala. Madison scoppiò a ridere. La stretta di Alec si fece più salda. Connie sorrideva trionfante. Il suo incantesimo aveva funzionato. Contro ogni probabilità. Lanciò un’occhiata compiaciuta in direzione di Alec. Lui si complimentò con un cenno della testa. Fu solo allora che me ne resi conto. Se volevo, potevo. Esisteva, grazie a mia sorella, un angolo di mondo dove potevo essere e fare ciò che desideravo. Non ero alla mercé di un destino che aveva deciso tutto. Il tempo delle riflessioni sarebbe arrivato poi. Avrei calcolato con realismo le prove che ci attendevano il giorno dopo o quello dopo ancora ma non in quel momento. Avevo vinto. Forse solo una battaglia, ma sempre di vittoria si trattava. Senza i miei poteri ero libera. Libera di scegliere. Scegliere di farlo o non farlo. In altre parole potevo vivere. In quella casa sulla spiaggia non esisteva il “non si può, non si deve”. Esisteva solo il presente, l’attimo. Mi voltai di nuovo verso Alec. Le sensazioni che provavo si riflettevano in lui come uno specchio ma c’era anche dell’altro: l’urgenza che aveva soffocato fino ad allora affiorava nello sguardo quasi febbrile nell’assoluta immobilità dell’attesa. Come nello spazio di tempo che precede la rincorsa prima di un grande salto. E dall’altra parte c’ero io. Lasciò andare la mia mano senza dire una parola, si tolse la giacca e la sciarpa. Lo imitai e mi diressi verso le scale. Lanciai un’occhiata agli altri seduti intorno al piccolo tavolino. Avevano iniziato una nuova partita per permettere a Mads ed Elle di unirsi al gioco. Non si sarebbero accorti che avevamo lasciato la stanza. Sentivo solo gli occhi di Constance seguirmi su per le scale. Non mi voltai indietro per vedere se mi avesse seguita, aprii la prima porta che mi trovai davanti ed entrai. Era la camera dei bambini. I lettini erano disposti come nei miei ricordi, uno accanto all’altro, separati soltanto da un piccolo comodino bianco. Appoggiato alla parete un grande armadio di legno chiaro, accanto una scrivania e una sedia. In fondo a entrambi i letti, c’erano due bauli bianchi. La signora Stevens ci teneva le lenzuola e gli asciugamani per gli ospiti. Quando eravamo piccoli e ci fermavamo a dormire,

veniva aggiunta una piccola brandina sotto la finestra. Era perfetta per me. Se il sonno tardava ad arrivare mi sedevo sul letto e osservavo il mare, mentre la brezza salmastra mi accarezzava la faccia. Era un bel ricordo. Con le dita sfiorai il bordo liscio del baule usurato dal tempo. In alcuni punti la vernice si stava scrostando, scoprendo le venature naturali del legno. Avrei voluto ricordare tutto. Ogni piccolo dettaglio di quella stanza, di quel momento. La luce che entrava dalla finestra, l’odore dell’aria, un misto di polvere e detersivo, la superficie delle cose al tatto. Non volevo perdere niente. Avremmo avuto altri momenti, ma quello era unico e non sarebbe più tornato. «Stai bene?» chiese titubante. Stavo bene? Avevo solo paura di non vivere abbastanza. Mi voltai verso di lui. Era appoggiato allo stipite della porta. I jeans, un maglione grigio chiaro a collo alto di lana pesante, intrecciata. Un sorriso lieve sulle labbra appena dischiuse, le mani affondate nelle tasche. Si staccò dallo stipite, chiuse la porta e mi venne incontro. Restai ferma dov’ero, ma sorrisi cercando di sciogliere la tensione. Si fermò a un o da me. «Allora?» incalzò. Lo guardai perplessa. Allora cosa? Restai a fissarlo per qualche secondo. Il naso diritto, le labbra piene, gli occhi screziati dalle pagliuzze dorate. I capelli stavano ricrescendo. Si inanellavano neri e corti intorno alla testa. Il suo aspetto, la sua tenacia, il suo cuore. Tutto in lui era luminoso e bello. Per lui avrei fatto qualsiasi cosa. «Cosa?» sussurrai. «Tutto bene?» chiese di nuovo, intenerito dalla mia aria ebete, poi aggrottò le sopracciglia e si fece serio. «Hai cambiato idea?» Scossi la testa con convinzione. Non riuscivo a parlare, mi sentivo la gola secca e un ronzio nelle orecchie. Non avevo cambiato idea, era solo che… Avrei voluto fosse inaspettato, ma nelle nostre vite non c’era spazio per le sorprese. Non se volevamo sopravvivere.

Avevamo preparato un incantesimo, architettato un piano, aspettato per settimane, coinvolto i nostri amici, infranto decine di regole. Non era il nostro momento, era un aggio obbligato. Una volta raggiunto, cosa avremmo fatto? Saremmo ati al livello successivo? Battaglia dopo battaglia. Era quello che ci attendeva per tutta la vita? «Torniamo giù» disse a un tratto. Mi osservava con espressione determinata, cercando di decifrare ciò che si agitava dentro di me. «Non è il momento» mormorò. Prese la mia mano e la portò alle labbra. Era bello sentire i brividi che il contatto procurava, senza che le scosse li soffocassero. Era una sensazione piena e mi ricordò il motivo per cui mi trovavo lì. Perché lo volevo. Lo volevo più di ogni altra cosa, lo volevo a tal punto da mettere a rischio me stessa, lui e le persone che amavo. Perché la fame che sentivo era come un urlo impigliato in gola. Dovevo almeno tentare di placarla, anche se non sarebbe servito. Sarebbe aumentata e aumentata e aumentata ed era questo che mi faceva paura. Avevo paura di non riuscire a fermarmi, che una volta tornati alla vita “normale” non sarei più stata capace di trattenermi, schiacciata dalla mancanza di quei momenti. Non sopportavo l’idea che Alec mi mancasse in nessun modo, ma il desiderio deve essere più forte della paura se vogliamo rimanere vivi. Era la mia battaglia, non potevo arrendermi. «Aspetta» mormorai. Intrecciò le sue dita alle mie e rimase a guardarmi, silenzioso e attento. «C’è una cosa che voglio dirti. L’ho immaginato in mille modi diversi e adesso mi sembrano tutti stupidi, quindi te lo dirò e basta. Forse non troverò le parole giuste, sempre che esistano, però… » «Emma» m’interruppe e con la mano libera mi sollevò il mento. Ci mettevo sempre troppo a dire le cose importanti, le volte che riuscivo a dirle. Se usi troppe parole per spiegare una cosa perdi l’attimo. «Anch’io. Da sempre. Nemmeno ricordo quando è cominciato. Anzi quando l’ho scoperto, perché c’è sempre stato. Un giorno me ne sono reso conto e basta». Lo

guardai accigliata e confusa. «Cosa c’è?» sussurrò divertito. Aveva avvicinato il suo viso al mio. «Non me l’hai lasciato dire». «Non ho bisogno di sentirtelo dire. Mi basta sentirtelo provare». Con delicatezza sciolse le sue dita dalle mie e mi cinse la vita, mentre faceva scivolare l’altra mano dal mento alla nuca. Si chinò su di me e con le labbra mi sfiorò la fronte, il naso, le guance. Mi mancò il respiro ma non chiusi gli occhi. Dischiusi le labbra, inspirando appena. Mi alzai sulle punte dei piedi, circondandogli il collo con le braccia. Era un trovarsi spontaneo, dopo essersi tanto cercati. «Sei troppo alto» mormorai. Dovevo piegare indietro la testa per riuscire a vederlo in faccia. Strofinai il naso sulla sua guancia. «Sei troppo bella». Un istante prima di chiudere gli occhi lasciai scivolare il mio sguardo dentro il suo. Per quanto tempo è per sempre? A volte solo un secondo. Chiusi gli occhi, perché quel secondo non volevo vederlo, volevo sentirlo. Appoggiò le labbra sulle mie con la delicatezza e l’incertezza delle prime cose. C’era molta confidenza in quel bacio e appartenenza. E il timore reverenziale dato dalla consapevolezza di aver appena assistito a un evento unico e di averne assaggiato il sapore. «Finalmente!» esclamai per sdrammatizzare. Sorrise baciandomi la punta del naso e poi di nuovo le labbra. Le premette sulle mie con più sicurezza. Era più rilassato, più sciolto. Alec è uno che impara in fretta.

La situazione cominciava a sfuggirmi di mano e la parte razionale del mio cervello mi diceva che era meglio andarci con calma. Mi staccai con delicatezza da lui. «È meglio tornare o cominceranno a pensare male» disse con voce roca. Annuii con un cenno della testa. Non avevo ancora abbastanza fiato per parlare. Mi cedette il o e mi seguì al piano di sotto. Quanto eravamo stati via? Non avrei saputo dirlo. La cosa sembrò essere ata inosservata. Solo Constance mi lanciò uno sguardo carico di domande. La raggiunsi in cucina mentre Alec si lasciò cadere sul divano accanto ad Anita e iniziò a prendere in giro Sam e le sue leggendarie tattiche per vincere a Monopoli. Ogni tanto alzava lo sguardo su di me e ogni volta che i miei occhi incrociavano i suoi mi sentivo le guance andare a fuoco. Sedetti sullo sgabello accanto al bancone, dando le spalle al salotto. Toglierlo dal mio campo visivo avrebbe aiutato a mantenere la concentrazione. Appoggiai i gomiti al ripiano e il mento tra le mani e osservai mia sorella, concentrata sulla cottura dell’arrosto. Ero sicura che avesse la testa da un’altra parte. «Cosa c’è?» chiese irritata. «Stavo per domandarti la stessa cosa». Gli occhi neri guizzarono per un secondo verso il salotto, poi tornarono a fissare i miei. «Niente. Come è andata? Hai un’aria assolutamente ebete» domandò disinvolta e decisa a non rivelarmi cosa le asse per la testa. «Bene». Distolsi subito il pensiero da ciò che era successo. Dovevo farlo se volevo concentrarmi su mia sorella. Era il minimo, considerato quello che lei aveva fatto per me. «Vuoi dirmi cosa ti preoccupa? Da quando siamo arrivati hai il broncio». «Non hai altro a cui pensare?» sibilò stizzita dalla mia insistenza e scostando con un gesto secco una ciocca sfuggita dalla coda. Stavo per ribattere con altrettanta stizza, quando la voce di Sam mi interruppe.

«Cosa avete da confabulare?» chiese divertito. Aveva abbandonato il gioco per raggiungerci in cucina. «Em, hai combinato un pasticcio dei tuoi? Guarda che non abbiamo le scorte per un mese, se bruci la cena dovremo mangiare i biscotti». Un lieve rossore spuntò sulle guance di mia sorella. Non degnò Sam di uno sguardo e iniziò a mescolare il contenuto di una pentola con un’aria molto concentrata. «Per fortuna se ne sta occupando Constance. La cena è salva!» disse sollevando un coperchio per accertarsi di persona che non avessi bruciato l’arrosto. Nel farlo toccò involontariamente il braccio di Connie che smise di mescolare e per una frazione di secondo abbassò le palpebre. Non avevo bisogno dei miei poteri per scoprire i segreti degli altri, mi bastava aprire gli occhi. «Che si mangia?» chiese sbirciando il contenuto della pentola. «Quello che avete portato» rispose Connie asciutta. Sembrò non fare caso ai suoi modi bruschi e iniziò a chiacchierare con me. Era difficile rimanere concentrata sui discorsi senza lasciarmi distrarre dalla mia scoperta. Sam. Ecco spiegati i malumori di Connie, il fastidio nei confronti di Mads, l’occhiataccia e la battuta sfuggite il giorno di Natale. «Sono una bella coppia» aveva detto, ma non le avevo creduto. Ora capivo perché e avevo una vaga idea di come dovesse sentirsi. Nel mio caso era una farsa e Alec non era davvero interessato a Jackie, ma non lo sapevo quindi non faceva differenza. Il dolore che abbiamo provato se lo riconosciamo nelle persone che amiamo è il peggiore di tutti, perché ne conosciamo il sapore. Sappiamo come ci si sente e cosa arriverà dopo. Constance era mia sorella, la più piccola. Ero stata così impegnata a raggiungere

i miei obbiettivi che avevo perso di vista i miei compiti. Uno di questi era aiutarla e proteggerla. Se avessi intuito prima l’interesse nei confronti di Sam, non l’avrei costretta a are il Capodanno con lui e la sua ragazza. Si trattava solo di questo o c’era qualcosa di più? Sam era impegnato e sembrava abbastanza coinvolto. Senza contare che Connie era più piccola di noi di quasi tre anni. Era più matura della maggior parte delle ragazze della nostra età, ma probabilmente Sam la vedeva ancora come una bambina. «Emma, sei tra noi?». Il suo tono divertito e l’espressione interrogativa mi riportarono alla realtà. Mi aveva fatto una domanda e stava aspettando una risposta? Accidenti. Di cosa stavamo parlando? «Scusami, mi sono distratta. Dicevi?» dissi scuotendo la testa come se potessi scacciare sul serio i pensieri. Non sembrò sorpreso dalla mia mancanza di concentrazione. Soffocò un sorriso a dir poco malizioso. «Qualcuno ha lasciato la testa al piano di sopra». Avvampai. Per la serie: la cosa sembrava ata inosservata. Sam, da vero gentiluomo, ignorò il mio imbarazzo. «Mi chiedevo se dalla spiaggia riusciremo a vedere le lanterne della baia». La baia, le lanterne. Le cose normali delle persone normali. A nord della spiaggia della Volpe, al di là del promontorio che ne segnava il confine naturale, si estendeva la baia di Little Pound. La notte di Capodanno gli abitanti della zona si radunavano sulla spiaggia e allo scoccare della mezzanotte accendevano decine di lanterne cinesi che si libravano nell’aria scomparendo nella notte prima di prendere fuoco. «Credo che riusciremo a vederle volare». Guardai fuori dalla finestra e scrutai il cielo, come se potessi trovare già la scia luminosa ed effimera delle lanterne invece della luce grigia di un crepuscolo nuvoloso.

Un’ora più tardi eravamo seduti a tavola. I complimenti alle varie cuoche si sprecarono e potemmo definirci più che soddisfatti alla fine dell’abbondantissima cena. Tutti eccetto la sottoscritta. Il ricordo della camera dei bambini e il pensiero di Connie mi avevano completamente tolto l’appetito. Alec era seduto alla parte opposta del tavolo e mi lanciava lunghe occhiate interrogative. Cercai di apparire rilassata ma fu inutile. Per quanto mi sforzassi, sapeva cosa si agitava dentro di me, anche se non ne conosceva la causa. Avrei voluto cedere alla tentazione di andare da lui e riprendere il discorso interrotto nella camera dei bambini. Mi sembrava di vedere l’angolo della sua bocca sollevarsi leggermente in un sorriso ogni volta che distoglievo lo sguardo. Mancava un quarto d’ora alla mezzanotte quando, indossate giacche, sciarpe e berretti, decidemmo di uscire di casa per vedere le lanterne. Come al solito impiegai un’eternità a prepararmi. La cerniera del parka non sembrava intenzionata a fare il suo dovere. Gli altri si precipitarono fuori mentre Alec attendeva paziente sulla soglia. Una volta usciti tutti, chiuse la porta dietro di loro e mi raggiunse. «Lascia, faccio io». Con una lieve pressione sistemò la cerniera ribelle e la fece scorrere fino ai lembi del cappuccio. «Grazie» mormorai. Odiavo quell’impacciata e balbettante versione di me. Era così stucchevole. Avrei voluto essere sicura e aggraziata come Eileen. «Cosa c’è che non va?» Era ovvio che me l’avrebbe chiesto, ma era altrettanto ovvio che non potessi dirglielo. Non era un mio segreto. Non riguardava me, riguardava mia sorella. «Connie ha dei dispiaceri e non so come aiutarla» risposi vaga, senza mentire. Alec annuì comprensivo. Si appoggiò allo schienale del divano, divaricando leggermente le gambe e mi attirò a sé. Non opposi resistenza e lo ringraziai dentro di me per aver fatto la prima mossa. Per quanto lo desiderassi non sarei riuscita a prendere l’iniziativa. Di nuovo armeggiò con la cerniera del parka, ma la fece scorrere verso il basso fino ad aprirla del tutto.

«Siamo rimasti soli, condizione che non si ripeterà facilmente nelle prossime ventiquattro ore. Che ne dici se per cinque minuti lasciamo da parte i problemi e ci dedichiamo a qualcosa di più piacevole?» Il tono avrebbe voluto essere spavaldo, ma la voce era sfumata in un sussurro ruvido e assente, perché il pensiero era andato più avanti dell’azione. Dico di sì. Lo pensai e basta perché non riuscii a dirlo. L’azione era andata più avanti del pensiero. Fu un bacio più profondo del precedente. Placò la fame ma ne svegliò altre sommerse. Sconosciute e brucianti. Quelle che poche ore prima erano state placide acque si trasformarono in un fiume in piena. La pelle, la bocca, le mani non erano più sufficienti. Tutto ciò che ero non era più sufficiente. La sensazione di completezza che provavo accanto a lui era sempre stata una questione mentale ed emotiva. Non avevo mai pensato che potesse avere un’eco fisica e che il richiamo sarebbe stato così intenso. Qualcosa che non aveva bisogno di essere elaborato dal cervello ma era puro istinto, come la fame, la sete, la paura e come tale non c’era bisogno che qualcuno ci spiegasse cosa fosse e cosa fare. Era sempre stato lì, nascosto da qualche parte e ora affiorava in superficie. Era la cosa più forte e totalizzante che avessi mai provato. E si interruppe bruscamente. Alec si staccò da me e mi fissò, il viso a pochi centimetri dal mio. Una serie di espressioni gli arono sulla faccia, rapide come un temporale estivo. Se c’era stata una lotta l’aveva domata subito. Sbatté le palpebre e quando riaprì gli occhi era di nuovo padrone di se stesso. «Basta così. Direi che abbiamo tirato abbastanza la corda». Sembrava distante centinaia di miglia. Cercò un sorriso da mettersi sulla faccia ma non lo trovò. Fissò il pavimento e inspirò a fondo. Si sciolse dall’abbraccio e con le mani si puntellò sullo schienale del divano per alzarsi in piedi. Lo guardai frastornata, mentre cercavo di riprendere il contatto con la realtà. Fino a un secondo prima ero in viaggio verso qualcosa che mi avrebbe fatto sentire intera e all’improvviso mi trovavo in un salotto davanti a un Alec più sconvolto che estasiato.

«Mi dispiace» mormorai mortificata. Alzò finalmente gli occhi da terra. «Ti dispiace per cosa esattamente?» chiese alzando entrambe le sopracciglia per lo stupore. I lineamenti del viso erano più rilassati, la voce aveva ripreso il solito tono canzonatorio e affettuoso. Mi lasciai sfuggire un impercettibile sospiro di sollievo. Non sembrava avercela con me. Mi incalzò con lo sguardo. «Ho fatto qualcosa di sbagliato?» chiesi incapace di trattenermi. Sorrise, ma restò in silenzio per qualche secondo. «No» mormorò e mi guardò da sotto in su, a metà strada tra il divertito e il perplesso. «Andiamo, ci perderemo il volo delle lanterne. Se non altro sono fuochi meno pericolosi di questo».

Conoscenze in comune

Alec

Fissavo lei che guardava le lanterne bruciare nel cielo nero come la pece. Non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso. Non riuscivo a smettere di pensare a un modo per restare di nuovo soli. In salotto mi ero lasciato prendere dal panico. Mi ero trovato ad un o dal perdere il controllo e battere la ritirata mi era sembrata l’unica cosa sensata da fare. Per giorni mi ero ripromesso che se l’incantesimo di Constance avesse funzionato mi sarei comportato bene. Non avrei approfittato della situazione. Era stato terribilmente difficile. La sua resa improvvisa e incondizionata aveva fatto vacillare anche me ma ce l’avevo fatta. Da quel momento non avevo fatto altro che mangiarmi le mani. Quante possibilità esistevano che si presentasse di nuovo un’occasione simile? Non eravamo nemmeno sicuri della durata dell’incantesimo. Tutto sembrava contro di noi e potevamo non avere un’altra opportunità e io l’avevo gettata al vento, perché non ero stato capace di controllarmi. Affondai le mani nelle tasche e strinsi i pugni. Emma mi guardò con la coda dell’occhio. Fece per darmi una gomitata ma si trattenne. Non ci toccavamo da quando aveva varcato il confine delineato dall’incantesimo e aveva ripreso possesso dei suoi poteri. Temevamo che la minima interazione fisica scatenasse ciò che eravamo riusciti a tenere fuori dalla porta. Era improbabile ma non impossibile. Meglio non rischiare. Strinse le labbra, trattenendo quello superiore con i denti e abbassò lo sguardo, imbarazzata. Sembrava indecisa se dirmi cosa le ava per la testa. Esaminai velocemente il suo stato d’animo e decisi che più di tutto avrei potuto definirla impaziente. Non ero l’unico a essere sulle spine. Lei era solo più brava di me a nasconderlo. «Ho freddo» disse e mi guardò titubante. «Torniamo dentro?». Aveva un’espressione assurda. Un misto di incertezza e impazienza. E io? Io che espressione avevo? Meglio non pensarci. Annuii e distolsi lo sguardo da lei. Incrociai quello di Constance. Ebbi l’impressione che ci stesse

osservando da un po’. «Che ne dite di un giro a Big Pound?» disse esagerando un entusiasmo che non sembrava provare. Non si era rivolta a noi, aveva guardato Mads e Mads aveva afferrato al volo. Le ragazze sono brave in queste cose. Se avessi provato a mandare un messaggio subliminale del genere a Sam o Dave non avrei ottenuto risultati soddisfacenti in così poco tempo. «Ottima idea! Sam?» lanciò al mio amico un’occhiata inequivocabile. Sam aprì la bocca, sicuramente per dire che non aveva nessuna voglia di andare a Big Pound, ma qualcosa nell’espressione della sua ragazza gli fece cambiare idea. Come dicevo, le ragazze sono brave in queste cose. Sam mi guardò per capire se doveva andare o restare. Annuii con un impercettibile segno del capo. Visibilmente sollevato sorrise a Mads e aggiunse che si sarebbe unito volentieri al gruppo. Eileen titubò per un attimo, il tempo sufficiente perché Dave la convincesse. Poi toccò a noi. «Emma?». Annie le sorrise maliziosa. «Io o, mi dispiace. Ho troppo freddo» rispose imbarazzata. «Resto io con lei» aggiunsi tagliando corto. La situazione era talmente palese che rasentava il ridicolo. Pochi minuti dopo erano in marcia verso il sentiero. Emma aveva salutato la sorella minore con uno sguardo carico di riconoscenza. «A quanto pare abbiamo la casa tutta per noi» dissi guardando dritto davanti a me. «A quanto pare». Cominciò a indietreggiare lentamente. «Chi arriva per ultimo lava i piatti!» urlò, girandosi di scatto e cominciando a correre verso la casa. Le concessi un po’ di vantaggio. Quando fu a pochi metri dalla scala di legno, la raggiunsi e la superai, mettendomi davanti alla porta e impedendole di are.

«Sei odioso» ansimò a un o dal primo gradino. Aveva il respiro corto e le guance arrossate. Varcò con cautela il confine di protezione. Una scheggia di luce blu crepitò nel buio del portico. L’aria intorno a lei ondeggiò per una manciata di secondi. L’incantesimo stava iniziando a cedere? Sapevo che si stava ponendo la stessa domanda, ma l’assenza di una risposta non l’avrebbe fermata. Attraversò la veranda e si mise davanti a me. Mi guardò da sotto in su, provocante e innocente allo stesso tempo. «Cosa dicevi a proposito della casa tutta per noi?» mormorò. Mi chinai su di lei e la baciai. Potevo concedermi il lusso di assaporare ogni piccolo dettaglio di quel bacio, perché era il terzo e non dovevo fare i conti con la paura e la cautela del primo e l’impazienza e l’avidità del secondo. Ero partito carico di buoni propositi ma mano a mano che la tensione iniziale diminuiva, Emma si rilassava. E più si rilassava, più era propensa ad abbassare la guardia e a lasciarsi andare. Per me era impossibile non seguirla in quel percorso. Ciò che l’aveva spinta a intraprenderlo era elevato in me all’ennesima potenza. Avevo già messo i miei buoni propositi in un cassetto e stavo per buttare via la chiave, quando la sentii irrigidirsi. Mi bloccai immediatamente e mi staccai da lei. I lineamenti del viso erano contratti. La fronte aggrottata, imperlata di sudore. Si ò una mano sulle palpebre, strizzando gli occhi. «É qui» mormorò, soffocando una smorfia di dolore. «Lo sento. La zona franca sta cedendo» bisbigliò spaventata. Fu come prendere una secchiata d’acqua in faccia. Come risvegliarsi in un luogo che non si conosce. Come fare i conti con il mondo reale. Non poteva essere. Era stato arrestato. Eravamo al sicuro.

Forse Emma si sbagliava. Forse attraversare la zona franca dopo quello che era successo tra noi aveva incasinato l’incantesimo e i suoi poteri. Forse. Ma se l’incantesimo stava cedendo e Tony ci aveva trovati, i rischi che correvamo erano aumentati esponenzialmente. «Andiamo dentro e avvertiamo gli altri. Manda un messaggio a Eileen, dille che avvisi la polizia e che stiano lontani da qui. In casa dovremmo stare abbastanza tranquilli» dissi cercando di apparire calmo. «Alec, qualcosa non va» mormorò tesa. Si guardava intorno disorientata, come se non riconoscesse il luogo in cui si trovava. Non era più la casa sulla spiaggia ma una trappola. Ed ero stato io a portarla lì. «Certo che qualcosa che non va. Marshall dovrebbe essere in prigione, non a vagare nei boschi» sbottai furioso. Scosse la testa ma non approfondii. Non avevo tempo di fare congetture, volevo solo metterla al sicuro. Entrai. La casa era immersa nel buio. Emma dietro di me chiuse la porta. Cercai l’interruttore della luce facendo scorrere le dita lungo il muro alla mia destra alla ricerca della plastica liscia dell’interruttore. Non sentii arrivare il colpo che mi sferrò allo stomaco. Mi piegai su me stesso, mentre il dolore si espandeva dal plesso solare ai polmoni fino al cervello in fitte lancinanti. Poi arrivò da un punto diverso. Mi stava prendendo a pugni in faccia. Picchiava forte ma ero felice che si stesse occupando di me. Avrebbe lasciato stare lei. Emma. Si lanciò sulla massa scura che mi aveva attaccato, tirando calci e pugni alla cieca. Il mio assalitore non se lo aspettava. Si staccò da me e mi spinse contro il comodino accanto alla porta. Sbattei la testa sullo spigolo. Non so per quanto tempo rimasi privo di sensi. Forse un paio di minuti. Quando rinvenni mi sentivo le ossa e l’orgoglio pesti. Ogni centimetro della mia faccia pulsava. La luce era accesa. Emma mi dava le spalle, inginocchiata davanti a me. Forse

per soccorrermi o difendermi o forse era stata colpita anche lei e si stava rialzando. Ero troppo debole e dolorante per poter muovere un solo muscolo. Tenni gli occhi chiusi. Fingermi privo di sensi era la cosa migliore che potessi fare. Mi avrebbe dato un minimo di vantaggio su Marshall, ma non sarei riuscito a ingannarlo a lungo. L’addestramento militare faceva di lui un avversario più forte di quanto avessi immaginato. Mi aveva preso alla sprovvista e riempito di botte, riducendomi uno straccio. Niente avevano potuto fare il mio sesto senso e le mie “capacità”. Da mesi non mi sentivo così umano. Così debole. Una volta tornato in piedi gli avrei restituito tutto con gli interessi e se avesse fatto del male ad Emma… Strinsi i denti e una fitta di dolore mi attraversò la mascella. Quell’idiota me l’aveva rotta? «Se ti muovi o emetti il più piccolo suono il tuo amico non arriva a domani». La sua voce era beffarda, gelida, senza la minima traccia d’incertezza. Era sempre stata così, anche quando Tony era un ragazzino e, a pensarci bene, era una delle cose che allora mi spaventava di più. «Prima dovrai are sul mio cadavere» la voce le tremò. «Non chiedo di meglio, te lo assicuro, ma ho promesso al Maestro di non farti del male. Il discorso non vale per il traditore, quindi non sfidarmi Hataway. Dovresti aver imparato che sono uno che mantiene le promesse». Non potevo aprire gli occhi per vedere dove si trovava, ma lo sentivo camminar avanti e indietro. Era nervoso, impaziente. Perché? Cosa stava aspettando? Chi era questo Maestro? «Beh non hai fatto tutto da solo. Hai avuto bisogno di un aiutino, dico bene Tony? Cosa ti ha promesso in cambio?» chiese tagliente indietreggiando impercettibilmente verso di me. Tony scoppiò a ridere. Una risata lunga e amara che si interruppe bruscamente. «Vendetta» disse come se potesse gustarne il sapore. Emma indietreggiò ancora

un poco. «Scommetto che ti ha trovato lui» fece una piccola pausa. Tony non rispose ma smise di camminare. «Ti ha raccontato la sua triste storia, non è vero? Tutto sommato avete delle cose in comune e ti sei lasciato convincere a fare il lavoro sporco. Sei proprio un bravo cagnolino». Era ata dal tagliente al canzonatorio. Una china pericolosa. Facendo molta attenzione spostai il braccio verso di lei. Non capivo cosa avesse in mente, ma era chiaro che stesse cercando di avvicinarsi. «Brava Hataway, hai fatto quasi centro. C’è una cosa, però, che non sai». Il suo tono aveva la sicurezza di prima, ma si era fatto più aggressivo come se si sentisse minacciato. «Che la tua medaglietta indebolisce i miei poteri? Una sua idea immagino e piuttosto ingegnosa, devo riconoscerlo». Sentivo le sue dita grattare il parquet alla ricerca delle mie. Le allungai lentamente finché non trovai il calore della sua mano. Le sfiorai la pelle del dorso e presi una leggera piccolissima scossa. Emma aveva ragione, l’incantesimo stava cedendo. Strinsi le sue dita più forte e l’energia arrivò come un boccata di ossigeno. Mi snebbiò la mente e attutì il dolore alla mascella. All’improvviso fu tutto chiaro. Non ero stato in grado di sentire il pericolo e di reagire all’attacco di Marshall, perché la zona franca mi aveva impedito di attingere energia dal potere di Emma, indebolendo parecchio il mio. Se fosse riuscita a distrarlo ancora avrei recuperato abbastanza forze per tentare di farci uscire vivi da quella casa. «Non siete che dei mostri: la tua famiglia e quella del traditore. Presto avrete finito di fare del male alla gente. Il Maestro vi darà ciò che vi spetta, farà giustizia e avrò la mia vendetta». Il suo tono metteva i brividi. Parlava come un invasato. Emma strinse convulsa le mie dita. Un altro fiotto caldo mi attraversò la pelle. «Come no» assentì sarcastica. Tony non rispose, lei proseguì. «E tu gli credi, giusto? Pensi che ti lascerà andare sapendo quello che sai? Sei un ingenuo. Si libererà di te senza sforzi. Credi che sia tuo alleato, invece sei solo un

galoppino». Fece una pausa e scoppiò a ridere. «Mi fai pena». Il disprezzo nella sua voce era palpabile. La corda che aveva tirato fino a quel momento si spezzò. Tony si lanciò su di lei e io scattai in piedi. Bloccai il pugno a mezz’aria, piegandogli il braccio dietro la schiena e lo spinsi contro il muro. Un paio di volte. Non avevo recuperato tutte le forze, ma il fattore sorpresa mi era tornato utile. «Prova solo a pensare di sfiorarla e mi implorerai di mettere fine alle tue sofferenze» gli ringhiai all’orecchio. Gli strappai dal collo la medaglietta con un colpo secco e la gettai lontano. Se avessi lasciato fare al mio istinto non se la sarebbe cavata con così poco. Si divincolò e strinsi maggiormente la presa. «Em, come stai?» «Dobbiamo andarcene Alec, presto lui sarà qui e… ». Le parole le morirono in gola. Sentii la sua presenza ancora prima di vederlo. «Antony, mio caro, cosa non hai capito di: “tenerli separati e non fare del male alla ragazza”? Non vorrei essere nei tuoi panni in questo momento, il giovane Stevens sarà furioso». Marshall rabbrividì e si bloccò immediatamente. La voce alle mie spalle voleva essere cortese, ma il tono educato ero sporcato dalla rabbia e dal dispetto che non era in grado di controllare. Mi voltai verso chi aveva parlato, senza mollare la presa sul nostro vecchio compagno di scuola. Un uomo di mezza età, alto ed elegante era appoggiato al corrimano della scala. Indossava un completo marrone di ottima fattura. I capelli biondo platino gli cadevano sulle spalle e mettevano in risalto il pallore della pelle. Le maniere disinvolte e il tono educato stridevano con la tensione palpabile che regnava nella stanza. La cosa più spaventosa, però, erano i suoi occhi. Neri come la pece e gelidi. Non occorrevano presentazioni. Potevo immaginare facilmente chi fosse venuto a farci visita. Improvvisamente mi sembrò tutto perfettamente ovvio. Eravamo stati stupidi e ciechi. Emma si avvicinò a me senza staccare gli occhi dal nuovo arrivato. Del sangue le era colato dal naso e si stava seccando.

«Ce ne hai messo di tempo. Cominciavo a sperare che qualcosa fosse andato storto» disse ironica. «Cara signorina Foley noto con sincero disappunto che hai ereditato il peggio dai tuoi nonni: un fastidioso tono arrogante e un pessimo senso dell’umorismo». «Devi essere male informato, Louis. Il mio cognome non è Foley». L’Ambasciatore si lasciò sfuggire una risatina compiaciuta. «Non facciamo il gioco dei cognomi, mia piccola Emma. Finiresti dalla padella alla brace e la vostra situazione al momento non è delle più rosee. Vediamo cosa bolle in questa casetta sperduta: un incantesimo di quarto livello non autorizzato, immagino lo abbiate trovato in un grimorio. É vietato addirittura possederli, non c’è bisogno che ti ricordi cosa succede a chi li legge. Cosa direbbe l’irreprensibile nonno se sapesse che le sue nipotine sono così indisciplinate? È proprio vero che il figlio del calzolaio… Ce ne sarebbe abbastanza per portarti via seduta stante, senza indagare sul motivo per cui siete venuti meno a queste piccole regole di convivenza civile. Per quello non c’è nemmeno bisogno di are dal tribunale, si finisce direttamente nelle nostre poco confortevoli prigioni» disse con un sorriso cortese. Emma impallidì ma non batté ciglio. Era vero. Avevamo infranto le nostre leggi in tutti i modi possibili. Louis era un Ambasciatore di alto grado. Aveva l’autorità e il potere di arrestarci e chiuderci in una cella fino alla fine dei nostri giorni. Noi e le nostre famiglie. Allora perché tergiversava? Cosa voleva? Aveva fatto tanta strada, trovato Tony, tramato e macchinato con lui solo per arrestare una ragazzina di diciassette anni? Ne dubitavo. «Tuttavia ho deciso di essere indulgente. Devo ammettere che voi ragazze Hataway avete del talento. Del resto non poteva essere altrimenti. L’incantesimo di protezione che avete fatto alla vostra casa… Davvero scortese. Se non fosse stato per il nostro comune amico Tony non sarei mai riuscito ad incontrarti in queste favorevoli circostanze». «Ci hai comunque deliziate con una visita» rispose sarcastica. «Purtroppo si è rivelata poco fruttuosa. Potremmo definirla un mero sopralluogo. Grazie al cielo sono un uomo dalle mille risorse e avevo pronto un piano più efficace».

«Farmi picchiare nel parcheggio? Complimenti, molto raffinato». «Mia cara, a volte bisogna tapparsi il naso e lasciare che altri si sporchino le mani se vogliamo ottenere qualche risultato. Ho mancato di eleganza ma ho ottenuto il mio scopo. Il coniglio è uscito dalla tana, proprio come avevo previsto» concluse deliziato dall’esito del suo piano. Quale coniglio? Di cosa stava parlando? Non riuscivo a concentrarmi. A pensare con lucidità. «Come hai fatto a trovarci?». Emma sembrava molto più padrona della situazione. «Ho cercato Miranda e suo figlio per quarant’anni. Ho frugato nel suo ato, perlustrato le case in cui ha abitato, interrogato amici, parenti, domestici. Ho controllato ogni famiglia di streghe del paese alla ricerca di qualcosa che potesse portarmi da lei. È buffo, ripensandoci… Alla fine sai cosa mi ha condotto alla vostra casetta nel Connecticut?» domandò divertito. «Il fatto che sei maniaco compulsivo?» Louis arricciò le labbra. I modi di Emma lo irritavano ma cercava di resistere alle provocazioni. Cedervi l’avrebbe fatto sembrare debole. «Il vostro cognome. La prima volta che lo lessi nel registro delle nascite mi colpì, ma non fui in grado di collegarlo a qualcuno. Mi rimase in testa come un sassolino fastidioso nella scarpa. Ah! La nostra mente che affascinante e complicato mistero! Diversi anni più tardi ebbi l’illuminazione durante una visita a mia madre. Mentre la cameriera mi versava il tè, ho ricordato che Hataway era il cognome da sposata della cameriera personale di Amelia Foley, la tua bisnonna. Una meravigliosa coincidenza, non trovate?» «Meravigliosa come coincidenza, debole come pista» insistette. «Non direi. Ho ricontrollato i registri e mi sono precipitato a Saint Claire per raccogliere informazioni. Avevo bisogno di qualcuno che vi tenesse d’occhio e mi aggiornasse sulle vostre abitudini. Avrei preferito farlo personalmente, ma non posso fermarmi troppo in un posto senza dare spiegazioni al Consiglio e se l’avessi fatto William avrebbe capito quanto ero vicino alle sue promettenti nipotine e sarebbe corso ai ripari. Così mi sono messo alla ricerca di qualcosa o

qualcuno che potesse tornarmi utile e indovinate un po’? Ho trovato il nostro comune amico Antony. Che storia commovente! Ottimamente documentata nel fascicolo scolastico di tua madre, che il meticoloso preside aveva archiviato. È proprio vero che le buone azioni non rimangono mai impunite. Rintracciarlo e convincerlo a unirsi a me è stato un gioco da ragazzi. Ho dovuto permettere che la polizia lo arrestasse per calmare le acque. Avevo bisogno di trovare l’occasione per incontrarti mia cara. Ed eccoci qua. I vostri genitori non sanno dove siete, siete entrambi indeboliti dalla zona franca e non ho dovuto muovere un solo muscolo per ottenere tutto questo, se non liberare il mio giovane aiutante, il che è stato piuttosto facile». «Non ne dubito» sibilò Emma. «Non sai quanto mi abbia reso felice scoprire che la seconda figlia di James stava seguendo le orme della nonna. Ero certo che mi avreste offerto una splendida occasione per incontrarvi. I giovani innamorati sono così prevedibili e così stupidi. Ho temuto il peggio quando Tony mi ha riferito che uscivi con un’altra ragazza, giovane Stevens. Immagino si trattasse di un debole tentativo di evitare il peggio. Per fortuna il vero amore trionfa sempre, dico bene?» «Cosa vuoi?» tagliai corto. Ero stanco di sentirlo blaterare su quanto il suo piano fosse perfetto. Ogni parola che usciva da quella bocca viscida e sottile, era come sale su una ferita aperta. Se fossi rimasto con Jackie… Era tutta colpa mia. «Per prima cosa ti sarei grato se lasciassi andare quel povero ragazzo. Se continui strapazzarlo gli staccherai un braccio». Emma si girò verso di me e fece un piccolo cenno del capo. La guardai incredulo ma obbedii. Presi Marshall di peso e lo spinsi verso il suo Maestro. Tony perse l’equilibrio, ma riuscì ad evitare di cadere aggrappandosi al corrimano delle scale. «Contento?» domandai velenoso. «Non ancora, ma lo sarò presto» rispose ambiguo. Indietreggiai di nuovo senza dargli le spalle. «Siete molto collaborativi, vi ringrazio. Torniamo a noi, abbiamo perso abbastanza tempo. Dunque, dicevamo? Ah sì, cosa voglio. È molto semplice, voglio il figlio della strega. Sono parecchi anni che lo cerco, ma si è rivelato un tantino sfuggente e sapete come si dice, no? Se Maometto non va alla montagna… Tu, piccola mia, sei il metodo più veloce ed efficace. Dovrò solo sedermi da qualche parte ad aspettare l’arrivo del caro James» concluse

soddisfatto. «Cosa c’entra mio padre?» indagò Emma con un filo di voce. «Manchi d’immaginazione mia cara. Non è ovvio? Quando tutti sapranno chi è veramente, William sarà rovinato e finalmente giustiziato. A Miranda si spezzerà il cuore. Perdere in un colpo solo compagno e figlio… Terribile!». Socchiuse gli occhi per assaporare meglio il momento. «Cosa ti fa pensare che ti aiuterò a rovinare la mia famiglia?» chiese scettica. Louis la guardò divertito. «Perché se non lo farai ucciderò il giovane Custode davanti ai tuoi occhi e non sarà né rapido né indolore». Un brivido mi corse lungo la schiena. Non dubitai un istante che l’avrebbe fatto, ma non avrei permesso che fe del male a Emma. «Non puoi». Mi voltai verso di lei. Sembrava tranquilla, sicura di se stessa. Come se avesse sempre avuto un asso nella manica e fosse arrivato il momento di giocarlo. «Certo che posso. Ascolta e dimmi se funziona. Giovane psicopatico uccide il fidanzato della sua vittima. Della ragazza nessuna traccia. Titoloni da prima pagina, che dici? Il giovane Stevens è troppo debole per difendersi e tu sei poco più di una normale ragazzina. L’incantesimo sta cedendo, ma ci vorranno ore prima che possiate recuperare le energie per uscire vivi da qui se decideste di mettervi contro di me. Ora fai come ti dico e non gli verrà fatto del male». «Ho detto che non puoi». Louis scoppiò a ridere. Una risata lunga e beffarda. «Chi me lo impedirebbe? Una piccola insignificante strega come te?» sogghignò. «Se uccidi lui, uccidi me. Siamo una coppia perfetta. Allora sarà mio padre a cercarti e ti darà la caccia fino in capo al mondo» rispose tranquilla. Siamo che cosa? Stava bluffando. Le coppie perfette non esistono. «Le coppie perfette non esistono» rispose Louis stanco dell’ennesima perdita di

tempo. «Può darsi. Vuoi provare?» lo sfidò. «Sono stanco di giocare, ragazzina. Sono stato paziente ma non ho tempo da perdere. Ci sono diversi metodi per costringerti a fare ciò che voglio. Vuoi provare?» Non le lasciò il tempo di rispondere. Una fitta tremenda mi attraversò il cervello, seguita da un’altra e poi un’altra ancora. Sempre più forti, sempre più ravvicinate. Mi presi la testa tra le mani e caddi in ginocchio. Avrei voluto urlare, ma non potevo. Non mi sentivo aria nei polmoni, né sangue nelle vene. Poi cessò. Emma era in ginocchio accanto a me. Gli occhi sbarrati per la paura. Era pallida, il viso contratto in una smorfia di dolore. «Mi dispiace» mormorò. Si chinò su di me e mi baciò. Avrei voluto afferrarla per il braccio e trattenerla, ma non ero in grado di farlo. C’era molta pena in lei, ma anche rabbia e determinazione. Cercai di dire qualcosa ma mi zittì con un dito. «Io sono con te sempre. Tu sei con me sempre». Un fiottò di energia calda mi scaldò le labbra, ma non era sufficiente a rimettermi in piedi. Si asciugò gli occhi e si alzò. «Andiamo» disse gelida. Soffocai un lamento. Non potevo fermarla, non potevo difenderla. Non potevo fare niente. «Sono lieto che tu abbia preso la giusta decisione. Dammi solo un minuto mia cara devo occuparmi di una fastidiosa incombenza». Si voltò verso il suo galoppino. «Tony, la nostra breve collaborazione finisce qui. Non ho più bisogno dei tuoi servigi. Ti prego non prenderla sul personale, si tratta di un male necessario. Sono sicuro che al mio posto faresti lo stesso». Non c’era traccia di pietà nella sua voce o di rammarico. Una punta di fastidio semmai.

«No!». Emma gridò ma era troppo tardi. Un lampo rosso saettò nell’aria e illuminò la stanza. Tony non ebbe nemmeno il tempo di urlare. Tutto quello che udii della sua fine fu il tonfo sordo del corpo che cadeva sul pavimento.

Con tutta la forza che ho

Emma

Lo aveva ucciso. Senza esitazioni con un gesto della mano. Crudele, brutale, istantaneo. Tony aveva eseguito gli ordini alla perfezione, lo aveva condotto da noi. Il suo unico sbaglio era stato fidarsi di lui. Credere alle sue promesse. Avevo avuto paura di Tony. Da bambina nel parcheggio della scuola, mentre picchiava i miei amici e cercavo il modo di farlo smettere. Da adulta quando nel parcheggio della scuola aveva picchiato me. Lo avevo odiato per avermi aggredita e spaventata. Avevo desiderato fargli del male quando aveva pestato Alec, ma nemmeno per un secondo mi era mai ato per la testa di ucciderlo. Louis aveva spazzato via la sua vita in un battito di ciglia. Il motivo? Aveva finito di servirsi di lui e Tony sapeva troppo, con il are del tempo sarebbe diventato un problema. Cosa avrebbe fatto a James se fosse riuscito ad arrivare a lui? A Miranda e William? Non avevo mai nutrito dubbi sulla serietà delle sue minacce e ciò che aveva inflitto ad Alec era stato un assaggio sufficiente dei suoi metodi. Dovevo fermarlo a qualsiasi costo e c’era solo una cosa che potessi fare. Lo avevo capito mentre impotente fissavo Alec contorcersi sul pavimento. Non aveva emesso un lamento. Il silenzio più assordante che avessi sentito in vita mia. E il più straziante. Il dolore fisico che avevo sentito non era niente, paragonato al pensiero di quello che lui stava soffrendo. Non avrei permesso che succedesse una seconda volta. Da quando Louis era apparso, il mio istinto mi aveva suggerito di guadagnare tempo per capire cosa avesse in mente. Del racconto del suo piano perfetto mi interessava poco, era il suo obbiettivo che mi premeva conoscere. Lo immaginavo ma avevo sperato di sbagliarmi. Invece… Le colpe dei padri ricadono sui figli. Nessuno, però, dice che è vero anche il contrario. Se Louis fosse riuscito ad arrivare a James, sarebbe stato solo a causa mia. Mia la colpa, mio il dovere di rimettere le cose a posto. Non sarebbe stato facile, ma valeva la pena tentare e per prima cosa dovevo uscire da quella casa e portare Louis con me.

Prima di andarmene lanciai un ultimo sguardo ad Alec. Disteso a bocconi sul pavimento, pallido come uno straccio, mi lanciò un’occhiata implorante. Sorrisi debolmente come se potesse bastare a rassicurarlo. Fui intimamente grata che non riuscisse a muoversi e a parlare. In condizioni normali avrebbe fatto qualsiasi cosa per trattenermi e mi sarebbe mancato il coraggio di continuare e oppormi ai suoi tentativi di salvarmi. Toccava a me salvare lui, mio padre, le mie sorelle. Mamma. Era il mio compito in fondo, quello per cui ero nata. Pugnantis filia. Avevo riso la prima volta che Miranda aveva parlato dei miei compiti secondo le nostre leggende. Sarebbe stato meglio se avessi fatto meno la spiritosa e avessi ascoltato di più. Ormai non aveva importanza, me la sarei dovuta cavare con quello che avevo. Mi concentrai su l’amore che provavo per Alec, sugli ultimi mesi che avevamo trascorso insieme, su quella stessa sera nella cameretta dei bambini. I suoi occhi, la sua bocca. La sua anima splendente. Erano le sensazioni che volevo lascargli come ricordo, non il sapore della paura e della rabbia che stavo covando. Nonostante fossero le uniche frecce che rimanevano al mio arco. Louis mi spinse fuori dalla porta, sbattendola dietro di sé. Uscii in veranda con l’anima lacerata, lasciando che la rabbia crescesse mano a mano che mi avvicinavo al confine della zona franca. L’Ambasciatore mi trascinò verso le scale tenendomi per un braccio. Era giusto? Lo meritavamo? No. Per quanti errori Miranda e William avessero commesso, nulla era stato fatto in cattiva fede o con lo scopo di fare del male. La vendetta di Louis era un conto troppo salato da pagare. Era stato lui a denunciare Miranda al Consiglio. Lui a costringere il padre ad auto-accusarsi per rimediare alla meschinità che aveva commesso. All’epoca era un ragazzino, ma abbastanza grande da sapere cosa sarebbe accaduto a mia nonna se il Consiglio avesse creduto alle sue accuse. L’aveva denunciata per liberarsi di lei, ma la cattiveria gli si era ritorta contro e a farne le spese era stato suo padre. Julien si era sacrificato. Effetti collaterali che

un bambino di dieci anni non poteva essere in grado di calcolare. Per decenni Louis aveva cercato un capro espiatorio, forse per alleviare il senso di colpa che provava. Non gli avrei permesso di distruggere la mia famiglia per ottenere una vendetta di cui non aveva diritto. Quando scesi l’ultimo gradino della veranda l’aria vibrò intorno a me e l’onda tenuta fino a quel momento sotto controllo iniziò a ingrossarsi velocemente. Non abbastanza però. Avevo bisogno di più tempo. «Dove stiamo andando?» chiesi bloccandomi a pochi metri dalla casa. Un vento freddo e salmastro mi schiaffeggiava la faccia ma Louis sembrava non sentirlo. Quell’uomo sembrava non sentire niente. «In un posto sicuro dove attenderemo l’arrivo del tuo paparino. Non impiegherà molto a trovarci, vedrai. Credo sia piuttosto abile in questo genere di faccende». Cercò di procedere verso il bosco trascinandomi con sé, ma puntai i piedi e opposi resistenza. Fu costretto a fermarsi e la cosa non gli piacque. Mi lanciò un’occhiata interrogativa e profondamente annoiata. «Hai cambiato idea mia cara? Se occorre possiamo tornare indietro e discuterne con il giovane custode. Cercherò di essere più persuasivo» disse mellifluo. Sapevo che aveva troppa fretta di andarsene per ricominciare tutto da capo. «Metterò il veto. Papà non mi troverà mai» ribattei ignorando la sua minaccia. Gli scappò una risata carica di commiserazione. «Pensi che non sia in grado di aggirare un veto? Hai solo diciassette anni e sono un Ambasciatore di alto grado. Forse puoi fregare i tuoi genitori ma non me» sibilò e strinse più forte la presa sul mio braccio. «Alec li avvertirà, troveranno il modo di salvarmi. Non sai con chi hai a che fare». Cercai di divincolarmi. Non per fuggire, per distrarlo. «So perfettamente con chi ho a che fare. Conosco il vostro punto debole, perché fate tutti lo stesso patetico errore: amare. William e James non rischierebbero mai di mettere in pericolo la tua vita. Faranno a gara per sacrificarsi. Si arrenderanno prima ancora che faccia giorno» concluse soddisfatto.

Lo fissai sgomenta. Era vero. Non avevo altra scelta che mettere in atto il mio piano o almeno provarci. Fuori dalla zona franca potevo cercare il suo di punto debole. Sperai che fosse abbastanza distratto dagli eventi da abbassare la guardia. In quel caso la sua mente e i segreti che custodiva sarebbero stati alla mia portata. Tentar non nuoce. Iniziai a scavare. Avevo poco tempo ma se la mia intuizione era esatta… Bingo. «Anche tuo padre l’ha fatto non è vero? Il patetico errore di sacrificarsi. Non per te, suo figlio. Chi c’è di più importante di un figlio?» chiesi con un sorrisetto. Avevo inferto il primo affondo, non rimaneva che aspettare che avesse l’esito che speravo. «Sei brava ragazzina ma anche stupida. Non ti conviene giocare con il fuoco e stai camminando su un terreno pericoloso» disse in un soffio gelido. Il nervo era scoperto. Colpii ancora. «Nessuno è più importante di un figlio. Esiste però una persona di pari valore: un altro figlio. Magari più meritevole. Magari un figlio che non è malvagio». Una volta afferrato il segreto che mi serviva, potevo farne ciò che volevo e usarlo contro di lui. I segreti. Non è per questo che li custodiamo? Perché sappiamo quanto male possono fare? Come armi che chiunque può usare contro di noi. Cominciavo a capire perché quel potere fosse stato dato alla seconda figlia. Se conosci il segreto di qualcuno, lo hai in pugno. «Credevo avessi imparato la lezione. È pericoloso sbirciare i segreti altrui» sibilò minaccioso. «È così non è vero? William era figlio di Julien. L’avevi scoperto? È stato quello che ti ha spinto a denunciare mia nonna? Forza Louis, è il momento della verità. Vuoi mentire a tua nipote in punto di morte?» lo incalzai sarcastica. Il pensiero che fosse davvero mio zio, il fratello del padre di mio padre, mi fece correre un brivido lungo la schiena. «Immagino tu abbia già trovato le risposte che cerchi» disse lentamente. Cercava di opporsi alle mie indagini ma con scarsi risultati.

«È più avvincente sentire il racconto da chi l’ha vissuto in prima persona». Rifletté per qualche secondo, combattuto tra il perdere altro tempo o altre energie nel tentativo di tenermi fuori dalla sua testa. Perse il tempo, come avevo sperato, ed era ciò di cui avevo bisogno. Ogni istante che Louis perdeva, io recuperavo terreno. «La gente crede che i bambini vivano felici e contenti nel loro mondo dorato, invece si accorgono di tutto. Specialmente i più intelligenti e intelligente, mia cara, lo sono sempre stato. Sapevo che mio padre tradiva mia madre. Non l’ha mai amata. Il loro fu un matrimonio d’interesse: mamma era ricca, Julien ambizioso. Lei lo amava. Lui no. Ebbe decine di amanti, ma ignoravo che avesse avuto figli da altre donne e che William fosse il mio fratellastro». «E ti aspetti che io ti creda?» commentai sarcastica. «È la verità. Denunciai tua nonna, perché volevo liberarmi di sua sorella. Jane Foley all’epoca era la nuova amichetta di papà. Con Miranda sotto processo, Jane avrebbe avuto altro a cui pensare. Avrebbe lasciato Londra e mio padre. Tutto sarebbe tornato alla normalità. Almeno questo era ciò che prevedeva il mio infantile piano». «Perché denunciare Miranda se era di Jane che ti volevi liberare?» «Quanto sei ingenua, carina. Jane era un’autorità all’epoca. Non avevo speranze. Chi avrebbe creduto a un ragazzino petulante? Sarebbe stata la mia parola, contro la sua. Miranda, invece… Un’apolide senza controllo, giovane e indisciplinata… » «Era un bersaglio molto più facile» conclusi al posto suo. Come poteva un bambino di dieci anni progettare un piano del genere? «Peccato sia andato tutto storto». «Un vero peccato. Julien temeva che se Miranda fosse finita davanti al Consiglio, William si sarebbe consegnato o qualche sciocchezza del genere. Così lo anticipò, scagionò lei e finì in prigione. Lui stesso mi confessò di William, la sera prima di denunciarsi. Un momento padre-figlio davvero struggente. In una cosa, però, mi sono superato». Volutamente lasciò il discorso in sospeso per alimentare la mia curiosità. Mi seccava dargliela vinta, ma non avevo scelta se volevo sentire la fine della storia.

«Mi sfugge in cosa saresti stato tanto grande. Separare tuo padre da Jane ti sembra un’impresa degna di finire nei libri di storia?» «Fu l’unica consolazione. Jane fece il diavolo a quattro per scagionarlo, ma aveva le mani legate. Non poteva tentare di dimostrare l’innocenza di Julien senza che la propria sorella e il figlio prediletto del suo grande amore finissero nei guai. Mia madre fece in modo che non potesse andare a trovarlo in prigione. Non si videro mai più e mio padre non lasciò mia madre per lei. Alla fine avevo ottenuto ciò che desideravo anche se a un prezzo molto alto. Eppure non è questo a rendermi particolarmente orgoglioso». Non mi degnai di chiedergli cosa lo deliziasse tanto. Lo avevo visto e la sua crudele soddisfazione mi faceva rivoltare lo stomaco. Era un mostro. Un mostro senza cuore. «Hai perso la lingua ragazzina? Dov’è finita la tua urticante spavalderia? È tutto diverso, vero? Quando ci si affaccia sull’orlo dell’abisso si rimane senza parole. Non pensavo che avrei ottenuto così grandi risultati: Miranda, William, i tuoi genitori. Tu stessa e il giovane custode. Nessuno di voi è riuscito a vivere con la persona che ama se non per brevi periodi. Una maledizione davvero ben riuscita» rise soddisfatto. Lo fissai sgomenta. Quell’uomo, un potente Ambasciatore, era a conoscenza dei nostri segreti e ci odiava. Ci odiava a morte. Per la prima volta mi resi conto di quanto fossero tutti in pericolo. «Cosa ne sarà di loro?» Louis mi fissò per un attimo interminabile, senza dire una parola. Sembrava sovrappensiero. «Non ho ancora deciso. Potrei consegnarvi al Consiglio, rovinare la reputazione di William, farlo arrestare. Probabilmente scamperebbe all’esecuzione. È troppo astuto e troppo amato da quei vecchi leccapiedi. Tuo padre, poi… Il massimo che posso sperare è che lo allontanino da voi e lo rinchiudano da qualche parte. Tutto sommato sto cominciando a riconsiderare il mio piano. Potrei occuparmene io stesso, ho dei metodi infallibili come hai potuto constatare di persona. A proposito di prove empiriche… » batté le mani in preda all’entusiasmo. «Hai visto tu stessa che avevo ragione». «A proposito di cosa?» ringhiai. Non aveva avuto ragione su tutto? Sulla mia stupidità, sulla debolezza di James.

Su Tony. Aveva previsto tutto. Cos’altro voleva ancora? Il premio Nobel? «A proposito delle coppie perfette. Non esistono, naturalmente» gongolò. «Cosa ti rende tanto sicuro?» chiesi recuperando un po’ di coraggio. Non che fosse cruciale, soprattutto alle luce degli ultimi avvenimenti, ma era importante per me. Il mio amore per Alec, il suo per me. Il nostro esistere insieme. In quel momento era il senso della mia vita. «Se foste una coppia perfetta, avresti sentito ciò che la mia piccola manifestazione di forza ha prodotto su di lui. Un corpo solo, un solo sentire dice la leggenda. Ti assicuro che non ho fatto nulla per risparmiartela». Per la frazione di un secondo lo sguardo mi cadde sul palmo della mia mano destra. Usciva ancora sangue dove le unghie erano affondate nella pelle e il ricordo delle fitte di dolore che Alec aveva provato era ancora scolpito nelle mia mente. Un corpo solo, un solo sentire. L’avevo sentito eccome. Non intensamente quanto Louis si aspettava ma c’era di mezzo un incantesimo, il mio blocco, la volontà di Alec di proteggermi. E poi è risaputo che la soglia del dolore di una donna è più bassa di quella degli uomini. Una vocina nella mia testa, però, diceva che era meglio lasciarlo nella sua convinzione. «Avevi ragione» mentii e nascosi la mano nella tasca del parka. Avevo bisogno di temporeggiare ancora e mi era rimasta qualche altra domanda da fare. «Cosa ne sarà di me? Delle mie sorelle?». Al pensiero di quello che sarebbe potuto succedere a Eileen e a Connie mi sentii morire. Louis studiò la mia espressione e rise seccamente. «Le tue deliziose sorelle… Quanto talento c’è in voi! È quasi un peccato uccidervi. Credo che mi lascerò ispirare dal momento, ma prometto che cercherò una morte all’altezza delle straordinarie giovani streghe che siete» sorrise assaporando il pensiero che aveva appena formulato. Non riuscivo a immaginare se a dilettarlo fosse il divertimento che avrebbe

provato uccidendoci o il dolore che avrebbe causato alle persone che odiava. Miranda, William. Papà. «Adesso basta ragazzina, sono stanco delle tue stupide domande. Non credere che non abbia capito cosa stai cercando di fare. Risparmia il fiato, i tuoi tentativi sono inutili. Nessuno che possa veramente aiutarvi sa dove ti trovi. È ora di andare». Mi tirò a sé con più forza rispetto ai precedenti tentativi. Persi l’equilibrio e caddi. Si piegò in avanti per afferrarmi e rimettermi in piedi ma iniziai a divincolarmi disperatamente. Lo sentii mormorare qualcosa tra i denti, senza riuscire a capire cosa stesse dicendo. Mi strinse il polso con forza e con l’altra mano mi schiaffeggiò. In un istante la bocca mi si riempì di sangue. Accecata dalla rabbia e dell’umiliazione glielo sputai in faccia. D’istinto balzò indietro ma non mollò la presa. Per il contraccolpo cadde, trascinandomi con sé. Rovinai su di lui. Era la mia occasione. In un lampo mi rimisi in piedi e fuggii in direzione della casa. Corsi qualche metro, poi una frustata rovente mi colpì la schiena. Risalì la colonna vertebrale, arrivò al cervello. Non c’era parte del corpo che non mi fe male. Una sola cellula che non gridasse di farla finita, qualsiasi cosa pur di farlo smettere. Un corpo solo, un solo sentire. No no no. Ti prego, fallo smettere. Alec lo avrebbe sentito. Di nuovo. Non era un pensiero sopportabile ed era l’unico che mi fosse rimasto. Fallo smettere. Farò tutto quello che vuoi. Caddi faccia a terra. Il sapore della sabbia umida si mescolò al sangue. Era finita. Non potevo scappare, ma non sarei morta con la faccia affondata nella sabbia e la bocca piena di sangue. Non avrei aspettato che mi raggiungesse e mi umiliasse un’altra volta, prima di farla finita. Lo avrei raggiunto io. Sarebbe stata l’ultima cosa che avrei fatto. O quasi.

Con un immenso sforzo mi rialzai in piedi. Voltai le spalle alla casa e barcollai lentamente verso il mio aguzzino. Quando fui a distanza di qualche o, mi pulii la bocca con la manica della giacca. Una smorfia di disgusto gli si dipinse sulla faccia. Non potei fare a meno di scoppiare a ridere. All’assassino faceva schifo il sangue. Non era che un mostro e stava per distruggere tutto quello che amavo. Lasciai avvampare la rabbia covata fino a quel momento. Avevo bisogno che le fiamme bruciassero alte. «Sono stato abbastanza persuasivo? Spero di non dovermi ripetere una terza volta: è ora di andare» disse afferrandomi di nuovo per il braccio. Si bloccò di nuovo a causa di un rumore proveniente dalla casa. Lo avevo sentito anch’io e mi voltai per vedere cosa stesse succedendo. Ero certa che fosse il rumore di una porta aperta con violenza. Sperai di sbagliarmi. Alec era sulla soglia e si trascinava verso le scale. Se avesse ato il confine della zona franca… Non c’era più tempo. Non ho bisogno di sentirtelo dire. Mi basta sentirtelo provare. Ruotai l’avambraccio e afferrai il gomito di Louis, troppo sorpreso per reagire. Forte del vantaggio riversai tutta la mia rabbia, la mia umiliazione, il mio dolore nella presa. L’onda cresciuta fino a quel momento fluì sempre più veloce dal petto al braccio. Guardai negli occhi neri come la pece e sorrisi soddisfatta. Fu il pensiero di ciò che stavo perdendo che fece saltare il blocco. La straziante perdita di Alec, di quanto mi sarebbe mancato in qualsiasi posto fossi andata a finire. Il poco tempo che avevo ato con mio padre. Il dolore che avrei causato a mia madre.

La paura per quello che sarebbe successo alle mie sorelle. Il senso di colpa schiacciante che avrebbe provato Miranda. Il college che non avrei mai fatto. I figli che non avrei mai avuto. I libri che non avrei mai letto. I posti che non avrei mai visitato. La mia vita perduta. La vita che quell’uomo, pallido e malvagio, mi stava impedendo di vivere. In qualsiasi abisso stessi per sprofondare lo avrei portato con me. Quando il blocco saltò mi fece male. Fu come se una bomba di vetro fosse esplosa nella mia testa. Poi le schegge diventarono milioni di gocce e ruscellarono a perdifiato verso il braccio. Un fiume in piena della stessa materia dei fulmini e crepitante come una scossa. Louis all’inizio non capì. Cercò di liberarsi dalla mia presa, ma più si agitava più la corrente prendeva forza e velocità. Iniziai a indebolirmi. Più il fiume si ingrossava, più mi sentivo mancare. Le palpebre si fecero sempre più pesanti e presto non riuscii più a reggermi i piedi. Caddi in ginocchio, Louis con me. Anche la sua forza andava esaurendosi. Se fossi crollata per prima sarebbe stato tutto inutile. Mi concentrai di più. Sul mio braccio, sul suo. La corrente divenne accecante. Mi riparai gli occhi con l’altro braccio. Il vento mi portava alle orecchie la voce che più amavo. Mi chiamava ma non potevo tornare indietro. Resta lì dove sei. Non ti muovere. Ti prego, non ti muovere. Avrei voluto raggiungerlo. Guardarlo in silenzio, come nel mio sogno. Alec, la spiaggia, la meravigliosa appagante pace che avevo provato. Era stato un bel

sogno e io avevo tanto sonno. Forse mi sarei addormentata e lo avrei sognato. Ancora e ancora e ancora. Non lo avrei toccato mai più ma potevo sognarlo. Sarebbe stato tutto più sopportabile. Lo sapeva? Sapeva che non sarei tornata indietro? Per quello la sua voce suonava così disperata? Mi dispiace tanto. Louis cominciò a capire e a urlare. Si agitava con violenza ma la mia presa era ferrea. Non lo avrei lasciato andare per nulla al mondo. Non gli avrei permesso di fare del male alle persone che amavo. Non sai con chi hai a che fare. Lo avevo avvertito. Louis lo avrebbe definito senz’altro un patetico errore. Sacrificare la propria vita per le persone che amiamo. Era ironico che a sconfiggerlo fosse proprio l’elemento su cui lui aveva puntato tutto per vincere. Avevo battuto mio nonno e mio padre sul tempo e avevo vinto la gara del sacrificio. La voce che più amavo sembrava sempre più vicina. Il terrore che potesse rimanere coinvolto in quello che stava per succedere mi diede la spinta finale. Il bloccò si contrasse e si dilatò per l’ultima volta. Affiorò alla superficie e sotto forma di lampo percorse il mio braccio fino alla mano. Lì esplose in un bagliore accecante. Gli occhi neri come la pece si spalancarono per il terrore. Aprì la bocca per urlare, ma non ne uscì alcun suono o forse non ero più in grado di sentire nulla. Fu il mio ultimo pensiero. Quello e la sensazione che qualcuno avesse afferrato la mia mano. Poi l’oscurità.

i. E una voce di donna. i e una voce di donna, sempre più vicini. Urlava un nome che avrei voluto dimenticare. Invece avevo dimenticato tutto il resto e mi era rimasto solo quel nome. Quel nome e il dolore. Era dappertutto, come l’oscurità. «Li ho trovati Miranda. Sono qui». Un’altra voce. Altri i. Una luce come un taglio su un lenzuolo nero. «Forza, ragazzo. Sveglia, lo so che ci sei. Apri gli occhi». Ancora lampi. Ancora stelle. Sì, ero un ragazzo. Lo ricordavo. Ma perché aprire gli occhi se non c’era più niente da guardare? Ricordavo fosse così, anche se non sapevo perché. «Will, ti prego… Il ragazzo è sveglio? Lei è viva? Will… Will… » Lei è viva? Solo quel nome e tutto il dolore. E un pensiero. Sentivo. Sentivo le voci, sentivo il freddo. Sentivo il dolore alle ossa, alle mani. Ero vivo. «Dobbiamo svegliare il ragazzo. Se va a fondo non riusciremo a riportarla

indietro». Era importante riportarla indietro. Aveva senso. Se lei tornava allora tutto aveva di nuovo senso. «Lo so. È cosciente?» «Va e viene. Miranda… Se era con lei quando è saltato il blocco… » «No, è vivo. Starà bene, la riporterà indietro. Può sentirmi?» «Non lo so». «Ragazzo, mi senti? Devi svegliarti». Svegliarsi in un mondo dove lei non esisteva. No. «Miranda… » «Maledizione, Alec. Che razza di Custode sei? Svegliati. Combatti». Lei avrebbe combattuto. Lo avrebbe fatto per me. Emma. Ricordai chi ero. E lottai.

Ringraziamenti

A Edoardo perché mi ama e nessuno sa perché.

A Valentina perché è la mia persona e crede in me sempre. Anche quando non ci credo io.

A Pietro perché non ci sono i dragoni e perché mi aiuta a rimanere con i piedi su questa terra.

A Giovanni per avermi incitata quando stavo per mollare la presa. A Matteo per l’entusiasmo e per avermi detto: prova.

A Dora che l’ha letto tutto d’un fiato e a sca che l’ha letto in un giorno. A Ana Maria, Eleonora, Margherita e Valentina.

A Umberto che ha disegnato l'Inverno.

A Pajeta perché ogni volta che camminiamo sulle tavole di un palcoscenico mi ricorda che se ci credi, puoi.

Alla mia famiglia perché se sono come sono lo devo a voi e perché se non fossi come sono non avrei nessuno da ringraziare.

Grazie

Per scoprire anticipazioni, novità e prossime uscite della saga

visita il sito www.thesolsticesaga.it

o segui le pagine Facebook The Solstice Saga

Twitter Midwinter@solsticesaga

e C.E.A Bennet su Goodreads.

Stay tuned!