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SOTTO IL CAPPUCCIO

Romanzo

di

Pierluigi Felli

Pubblicato da Fuoco Edizioni

* * * * *

Copyright Fuoco Edizioni – http://www.fuoco-edizioni.it

1^ Edizione Settembre 2015

Ogni riferimento a persone o fatti reali è dettato da coincidenza casuale o pura licenza artistica.

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Se un cannibale quando mangia si serve del coltello e della forchetta, si tratta di un progresso?

Stanislaw Jerzy Lec

Indice

PROLOGO

I.

II.

III.

IV.

V.

VI.

VII.

VIII.

IX.

X.

XI.

XII.

XIII.

XIV.

XV.

XVI.

XVII.

XVIII.

XIX.

XX.

XXI.

XXII.

XXIII.

XXIV.

XXV.

XXVI.

XXVII.

XXVIII.

XXIX.

EPILOGO

NOTE DELL’AUTORE

AUTORE

PROLOGO

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All’inizio erano tutti la stessa immondizia: truffatori, rapinatori, spacciatori di droga, estorsori, usurai. Poi hanno deciso di prendere ad ammazzarsi gli uni con gli altri, dividendosi di conseguenza in clan malavitosi. E nacque così la raccolta differenziata. La venuta alla luce di un nuovo e ben diverso clan ˗ anzi klan ˗ fu dovuto quindi non solo ad una volontà ecologista, diciamo così, ma anche all’esigenza di rigenerare il Paese e di riscattare la razza bianca dall’umiliante condizione in cui era precipitata negli ultimi anni. L’onore è come il falco. A volte ha bisogno del cappuccio.

Immaginate il pianeta Terra in un prossimo futuro. Problemi di sovrappopolazione e di invecchiamento avranno di sicuro prodotto le conseguenze già immaginate dall’economista e filosofo inglese Malthus nel 1815, proprio quando i rappresentanti di tutti gli Stati europei erano in congresso a Vienna, nel suo Saggio sulla rendita. Teorie che tuttavia non allarmarono nessuno e vennero condivise nei secoli successivi solo da pochi illuminati. I cinque continenti che nel 1870 venivano calcati complessivamente da un miliardo di persone ne hanno progressivamente ospitate: il doppio nel 1920, quattro miliardi nel 1970, otto nel 2020 e sedici nel 2070. Gli Stati più avanzati del pianeta, dunque, in ragion del fatto che la popolazione mondiale raddoppiava ogni cinquant’anni esatti, si sono visti costretti, di conseguenza, a porre dei rimedi per non subire il collasso totale e finale. Mentre le migrazioni partivano in gran parte dall’Africa, dove l’età media degli abitanti si era attestata sui venti anni, per raggiungere l’Europa, Continente Vecchio per antonomasia, nel quale il maggior numero degli esseri umani aveva quasi cinquanta primavere sulle

spalle, le tecnologie più avanzate furono chiamate a risolvere il problema di rendere completamente abitabili zone pressoché deserte da secoli, quali in particolare la Terra del Fuoco, i Poli, il Nord˗Est del Canada, l’Alaska, la Groenlandia, la Siberia e il Sahara. Nel frattempo, però, le razze avevano preso a combattere tra di loro. Alcune, nel corso del XXI secolo, si sono quasi del tutto estinte; altre si sono spostate; altre ancora si sono rafforzate; mentre una o due, per resistere, per tenere botta, si sono viste costrette a mutare, ad adattarsi. A sopravvivere come i camaleonti nel mondo delle serpi. Da Palusville, nella Florida, dove sono accaduti i fatti che stanno per essere raccontati, la razza negra era scomparsa da quando i loro componenti, i Neri appunto, decisero di raggiungere luoghi che più gli si confacevano quanto a compagnia e ad opportunità lavorative. Stranamente non si registrarono violenze statisticamente rilevanti e anche i traumi ricevuti dai singoli a causa dello sradicamento dal nido furono limitati nel numero. Al contrario, quasi tutti i movimenti furono soltanto il frutto di una contagiosa influenza che i primi a partire trasmisero agli altri fratelli che li avrebbero seguiti nel cammino e raggiunti nelle varie destinazioni. Quanto invece agli amerindi Seminole, ai cosiddetti Rossi, va ricordato che costoro erano stati quasi interamente cancellati dalle mappe già da un paio di secoli. Benché vantassero con orgoglio il fatto di non essersi mai formalmente arresi ai Bianchi ˗ il loro capo più famoso, Manetola, si rifiutò sempre di firmare trattati (forse però anche a causa del conclamato analfabetismo che lo attanagliava) ˗ nella sostanza si erano lasciati morire o al più andare, rinchiudendosi nelle poche riserve sparpagliate anche negli Stati limitrofi, concentrando quindi tutte le loro energie residue nelle danze tribali, nelle esibizioni di lacrosse, sport di cui si parlerà in questa storia, e in qualche fumata di gruppo col calumet ad uso e consumo dei turisti paganti. Solo alcuni riuscirono a far soldi con l’apertura e la gestione dei casinò, ma anche tale attività non poté certo far risvegliare in loro né la fierezza né la coscienza di appartenere ancora ad un popolo che era stato guerriero e che mai si era fatto domare dalle armi, dalla civiltà e dal progresso dei Bianchi invasori. A Palusville ne sopravvivevano alcuni rappresentanti, circa mezzo migliaio, per lo più solitari, dediti all’alcolismo e al mendacio.

Anche i Bianchi di razza caucasoide, lì stanziatisi sin dal diciottesimo secolo a seguito delle prime migrazioni di gente ispanica proveniente dall’Europa, hanno visto ridurre la loro leadership ad alcuni campi, lasciando diversi settori della vita produttiva e sociale dello Stato in mano ad altri. Ai Bianchi, ad esempio, è rimasta la gestione della Sanità, della Giustizia e dell’Istruzione, mentre quella relativa alla Finanza, all’Economia, all’Ambiente, all’Urbanistica e allo Sport è ata di mano, è controllata da una neo razza, dominante ed interamente composta da un’accozzaglia, un guazzabuglio, un minestrone, una paella, o ancor meglio un pot˗pourri (letteralmente putrida pentola) di individui chiamati dall’uomo di strada semplicemente Zombi. Torna all’indice

I. Torna all’indice

La festa scoppiò a metà pomeriggio. Era giugno inoltrato, il sole ancora alto, a Palusville, quando la locale squadra di lacrosse, i Pilgrim Fathers, avevano appena vinto l’ultima partita di campionato, quella per l’accesso nella massima serie. Il lacrosse, uno sport violento a metà strada tra l’hockey su prato e il football americano, rappresentava l’ultimo ricordo della popolazione residente di ciò che c’era prima dell’arrivo dei coloni pionieri. Quando in palude viveva soltanto la nazione dei Seminole, dedita alla coltivazione del mais, alla caccia, al baratto e appunto al gioco del lacrosse. In fondo, per realizzare una partita, bastava un campo incolto, quattro pali e una certa abilità manuale nel costruire le racchette, con annessa retina per catturare la pallina ˗ o le farfalle, se si era scarsi ˗ e arsela fino a lanciarla oltre i legni per la segnatura del punto. Ora gli indigeni, i rossi, non ci sono praticamente più, ma il lacrosse, paradossalmente giocato, apprezzato e seguito solo dai bianchi e dagli zombi, è rimasto come principale attività sportiva della zona, addirittura più diffusa del baseball e del basket. Facile dedurre, di conseguenza, quanto grandi e coinvolgenti siano stati i festeggiamenti di quel giugno 2071. Innanzitutto va presentato il presidente del club: Obi Kalergi. Espadrillas bianche, pantaloni di tela candida e camicia color neve sbottonata a vu sul petto marrone, aveva fatto posizionare attorno a tutto lo stadio da seimila posti decine e decine di bocche ferrose, pronte a far schizzare verso la luna piena razzi di fuochi d’artificio che si sarebbero aperti ad ombrello per poi sparire nello Spazio. Attorno a lui solo Yes Men, zì buana, che gli stringevano la mano e lo riempivano di pacche sulle spalle possenti, di baci sulle guance o di virili abbracci gorilleschi più di quando, non più di tre anni prima, era stato eletto primo cittadino di Palusville. Quanta strada abbiamo fatto, noi Kalergi! pensò un attimo soltanto, con orgoglio, nella bolgia, ricordando ˗ e concentrando varie vite in un flash ˗ la storia sua, dei

genitori e degli avi di cui non poteva che aver solo sentito raccontare. Dai tempi dell’arrivo del primo della schiatta, che era giunto là nel 1923, poco dopo il ritiro del grosso dei Seminole nella riserva di Hard Rock, e che schiattò presto (impiccato per un crimine che non aveva commesso), erano ati molti oceani sotto i ponti prima di arrivare a lui, ad Obi Kalergi. Il quale poi, con il sopraggiungere della laurea, della ricchezza e della fama, riuscì pure a far dimenticare all’intera Palusville ˗ anzi all’intera Daltonville ˗ di essere uno zombi. I risultati parlavano per lui: in tutta la città non c’era uomo che dal nulla, come si dice, fosse riuscito a scalare la vetta in così breve tempo. Praticamente sconosciuto ai più fino al 2064, se non per una mediocre carriera tra le fila dei Pilgrim Fathers quando questi vivacchiavano tra i dilettanti, esplose quell’anno, in tutta la sua straordinaria beltà, quando la sua faccia di bronzo apparve in una sola notte riprodotta su migliaia di manifesti elettorali, ovviamente affissi fuori dagli spazi consentiti. Palusville invasa in poche ore poté, a seconda, conoscerlo o riconoscerlo sopra un’infinità di palloncini gonfiati con l’elio, di penne a biro, di coccarde bicolori e di spille tonde. I point di sostegno a Kalergi aspirante al titolo di consigliere comunale spuntavano come funghi dopo una pioggia scrosciante, mentre centinaia di adolescenti dalla faccia pulita, e soprattutto rigorosamente bianca, distribuivano in ogni dove dollari finti con su stampato il volto del candidato al posto di quello di George Washington. Qualche maligno vi colse un messaggio subliminale, ma le minoranze dissenzienti, si sa, spesso parlano a voce bassa e in tribunale non confermano mai. Sulle poltroncine accanto a lui, il giorno dell’ultima di campionato, si ritrovò tutto il gotha della Palusville bene, oltre al governatore della Florida, venuto apposta dalla capitale Tallahassee con tanto di inutile scorta. L’evento, del resto, aveva in sé i connotati della straordinarietà: nessun club di lacrosse era stato capace sino ad allora di infilare sei promozioni di categoria in sei anni consecutivi, senza mai un periodo d’appannamento, uno stop fisiologico o un momento di stanca. Poco importava, alla maggior parte dei cittadini di Palusville, se questa impresa da annali, da Guinness, fosse stata realizzata non solo grazie ad indubbie doti manageriali, quelle che in campi come questi non ti fanno sbagliare un acquisto di giocatore, ma anche e soprattutto in virtù di una valanga di denaro piovuta, tutta assieme, nelle casse della società sportiva chissà come e per volontà di chissà chi.

Due gradini sotto la créme della città, composta essenzialmente da giudici corrotti, avvocati conniventi e imprenditori mendicanti, quindi sempre nel settore della tribuna d’onore (quella dove nell’intervallo tra il secondo e il terzo tempo di gioco servono il tè coi pasticcini), mangiavano lupini e noccioline due amici per la pelle di Obi Kalergi, compagni sin dall’infanzia, fin dal giorno in cui il futuro sindaco e presidente fece loro copiare il compito di matematica ˗ cinque per quattro, dieci diviso due, operazioni del genere ˗ in cambio di una protezione che, iniziata appena fuori dal plesso scolastico, sarebbe durata anche troppo, diventando poi, col tempo che li fece prima ragazzi e poi adulti, persino soffocante. Quasi che quei due là stessero in quella medesima zona vip dello stadio non solo per smoccolare nel più incomprensibile degli idiomi, non solo per rendere il cemento sottostante un tappeto pressoché perfetto di bucce, non solo per vedere la partita di una squadra mai seguita quand’era scarsa, non solo per dimostrare ai loro sodali assiepati nel settore dei popolari che loro entrano gratis ed entrano dappertutto, ma anche per ricordare al Numero Uno della città le origini comuni, da dove veniva, con chi se la faceva e per soprammercato per rammentargli pure che non c’è 1 senza 2 e 3. Prodigi dell’aritmetica. Dopo la premiazione e l’ultimo ballo delle cheerleaders, e dopo le danze dei giocatori nudi sotto le docce di champagne, e selfie, e post, e twitter, e via su youtube in tempo reale, la squadra venne fatta rivestire alla bell’e meglio e quindi salire su uno di quei pullman scoperchiati che si noleggiano in occasioni speciali, alla stregua della Cadillac nei matrimoni kitsch. Il Palusville Tour fu un autentico bagno di folla, mentre l’ebbrezza per la felicità si era intanto unita a quella dovuta all’alcol ingurgitato. L’autobus avanzava a o d’uomo, compresso da una calca in delirio pericolosamente vicina alle ruote. La main street della città, invasa al aggio del mezzo, era stata inghirlandata con striscioni di giubilo che la attraversavano in orizzontale, appesi in aria da terrazzo a terrazzo, come da brevetto Panni Stesi in Little Italy. Dalle finestre i cittadini meno entusiasti comunque si sbracciavano contenti, lanciando urrah! neanche stessero assaporando atmosfere già vissute dagli antenati, quando dall’unica via della town arrivava il carro con sopra le nuove signorine per il saloon, prodighe di moine e ancor più bercianti e sorridenti del pubblico maschile che ben presto si sarebbe loro proposto per la conoscenza. Un cronista attento, ancor meglio se immerso nel cancan, avrebbe potuto persino registrare un curioso fenomeno, consistente in una sorta di contaminazione linguistica che pare avesse preso l’intera tifoseria dei Pilgrim Fathers: nessuno parlava più strettamente americano! Come se la lingua degli avi emigranti di ciascun fan si fosse impossessata dei discendenti, degli allegri nipotini, che di conseguenza, in

mezzo alle frasi in un inglese al solito imperfetto, inserivano, buttati là, termini spagnoli, si, metìs, cayun, tedeschi o cinesi. Le parole straniere uscirono dalle bocche in maniera incontrollabile fino al mattino successivo, allorché gli abitanti si risvegliarono fieri d’esser per una volta, grazie al lacrosse, tutti figli devoti della stessa madre: Palusville. Beh, tutti… c’è anche chi la visse diversamente, quella calda notte di un carnevale fuori stagione. Torna all’indice

II. Torna all’indice

Hot Dog aveva appena compiuto cinquant’anni, anche se il suo cervello, notoriamente poco equipaggiato, non era mai stato in grado di superare i dieci. Un po’ citrullo, si definiva lui stesso durante uno dei suoi non rari momenti di consapevolezza di sé. In verità l’autoironia, l’eccessiva e cosciente svalutazione del proprio pensiero e della propria condizione, non gli apparteneva, semmai era presente in lui un paradossale sapere di non sapere che lo rendeva, in tal senso, quasi unico. Il deficit mentale unito ad un fisico da fumetto facevano di lui il compagno ideale con cui giocare per i bimbi bulli, il giullare nelle feste della matricola tra goliardi o, peggio, il buffo trastullo per qualche eccentrico malavitoso in carriera lettore di Batman. L’obesità, a suo modo perfetta nell’armonia delle forme sferiche, lo portava a divenire a volte palla da bowling, altre canotto salvagente, altre ancora pera da boxe. La testa pelata, le orecchie polpose a cavolfiore, il naso camuso e il sorriso sempre stampato sopra un ovale artisticamente riconducibile al primo Cimabue, che come lui faceva una cosa e ne sbagliava due, lo rendevano il più ambito degli antistress. Va da sé che Hot Dog, per farsi accettare da una comunità umana altrimenti aliena, respingente, non poté far altro che rendersi clown. È il destino di quei diversi che per farsi ben volere dai normali accettano di diventare loro servi. Ultima risorsa del debole per non soccombere in una società crudele gestita dai forti, direbbe un sociologo. Se gli universitari alternavano alle vessazioni, mai troppo pesanti peraltro, sempre un affetto sincero che Hot Dog percepiva d’istinto, al contrario i delinquenti lo usavano e basta, prendendo senza mai dare; anche la cena che gli offrivano di tanto in tanto era funzionale solamente allo scopo di vederlo ubriaco, in modo da poterlo così gestire meglio. Uno dei numeri più apprezzati era quello dell’Hot Robot, sorta di break dance epilettica che terminava con lo stramazzo a terra del pagliaccio, che poi si rialzava sorridente per raccogliere applausi, lupini e noccioline. In alternativa a questo classico, v’era il Cinghiale, performance obiettivamente meno impegnativa che in sostanza consisteva nell’adagiarsi mezzo nudo sulla tavolata di un ristorante, tipo appunto il cinghiale arrosto sulla fiamminga, per poi permettere di farsi impreziosire, condire, dai commensali con una mela rossa in

bocca, un paio di ciuffi di prezzemolo nelle orecchie e una carota appoggiata, per fortuna solo appoggiata (anche i malavitosi hanno un’anima), tra le grasse natiche. La vittima, già preventivamente riempita di benzina al gusto di birra, di solito iniziava subito a ridere, senza riuscire a controllarsi, e di conseguenza il frutto incastrato tra le fauci veniva presto morsicato e spaccato, almeno quando la mandibola non rimaneva bloccata nella posizione d’apertura. Lo scherzo, in realtà, lo subivano il cameriere e ancor di più gli altri avventori, costretti all’imbarazzo costante nel vedere la pietanza flambé umiliata a due i da loro e alla frustrazione, quella tipica della gente comune e perbene che cerca dentro di sé il coraggio ˗ di alzarsi ed intervenire a difesa, o magari solo di protestare col proprietario del locale, oppure di chiamare semplicemente la polizia ˗ senza però trovarlo. Zitti, facciamoci gli affari nostri (nuovo motto ONU), altrimenti finisce male. Venti giorni prima della madre di tutte le partite, Hot Dog aveva perso la propria, di madre. Già figlio unico con padre scomparso da tempo, era quindi rimasto davvero solo, e per sempre. Il peggioramento della sua condizione ˗ al ritardo mentale si era dunque aggiunto lo stato di neo orfano ˗ ingenerò nella sparuta minoranza dei cittadini sensibili alle difficoltà altrui (ad occhio e croce un otto per mille) sia senso di tenerezza che di preoccupazione per il suo domani, un futuro oramai senza più una linea guida. Un timore che tuttavia si sarebbe ben presto rivelato eccessivo. Mai sottovalutare infatti la capacità di reazione alle sventure degli oligofrenici: ha del bestiale. Con l’ingenuità di un bambino, Hot aveva chiesto al capo dei fans dei Pilgrim Fathers di omaggiare la madre facendo rispettare un minuto di silenzio prima della finale, e alla risposta affermativa ˗ data ovviamente solo per toglierselo di torno ˗ gongolò per ore, di nuovo felice, e andò a spargere quella falsa notizia del raccoglimento in onore della sua cara mamma per tutta Palusville. Il giorno dell’incontro scoprì, altrettanto chiaramente, di essere stato preso in giro e di conseguenza s’immalinconì a dismisura. Tuttavia il rammarico e il dispiacere sostarono in lui pochi secondi, come nell’infante il aggio dal pianto al riso è un attimo. Lo stato di allegria raggiunse in lui picchi altissimi nel momento del fischio finale, poi rimase costante per tutto il tardo pomeriggio e infine, con il sopraggiungere delle prime ombre della notte, scomparve all’improvviso. Di colpo, innanzi alla sua ingombrante figura, si erano materializzati, bui nel

buio, i due amici per la pelle di don Kalergi, e per Hot Dog non fu più festa. Vogliamo solo divertirci un po’, gli dissero. Torna all’indice

III. Torna all’indice

Pick e Rollo erano cresciuti sempre assieme, stessa spiaggia stessa fogna. Zombi bastardi, li chiamavano, anche se nessuno ha mai avuto il coraggio di appellarli così al momento del faccia a faccia. I preti, come anche tutte le persone buone d’animo e fiduciose nel prossimo, credono che nella vita si possa cambiare registro. La redenzione, il pentimento sincero, la possibilità per il lupo di perdere sia il pelo che il vizio, sono per essi capisaldi del pensiero. Nel concreto, sappiamo, il quadro è alquanto diverso: l’incendiario che si riscopre pompiere rappresenta l’eccezione di una regola per cui il cattivo resta sempre tale, sia da bambino che da ragazzo, da adulto come da vecchio. All’inizio furono tutte aggressioni. Dalle loro case popolari ˗ abitazioni chiaramente sottratte con violenza ai legittimi proprietari ˗ i predatori Pick and Rollo piombavano nelle piazzette dei quartieri circostanti, materializzandosi all’improvviso in mezzo ai gruppetti dei bambini normali, figli di quella borghesia che lavora e non si lamenta. Più bianchi del bianco ˗ quando al pigmento si aggiunge il terrore ˗, questi ultimi si bloccavano, pietrificati, davanti all’avanzare dei due serpenti, che tuttavia in prima battuta non si mostravano mai aggressivi, semmai abili attori nella parte dei falsi amici, quelli che prima si insinuano, ingannandoti, e dopo un po’, solo dopo un po’, mordono. Dai ragazzini a modo avevano imparato le movenze, imitate alla perfezione eccedendo forse solo leggermente quanto a smorfie e gesti, troppo affettati, smielati, ridicoli nel loro insieme, quasi che la perfidia già presente in loro gli imponesse di scimmiottare i coetanei ˗ scimmie che scimmiottano l’uomo è proprio il massimo ˗ rendendoli anche effeminati. Come a voler annunciare un proclama in ragion del quale noi vi ruberemo perché voi siete senza difese come le donne. Chiedere di giocare insieme era soltanto preliminare alla pretesa di vincere la partita, con relativo bottino da portare via. Premio che a volte consisteva nella pallina, quando Pick e Rollo si sentivano magnanimi come l’imperatore romano visto alla tv che non disdegnava alzare il pollice, altre nella mazza da baseball e nel maggior numero dei casi semplicemente nella banconota

da un dollaro che le mamme avevano riposto nelle tasche dei figli per una merenda che tuttavia avrebbe rifocillato altri. Le prepotenze, gli scherni, le umiliazioni subite da piccolo, poi te le porti appresso anche da grande. Ti lasciano dentro un senso di incapacità a difenderti, di inadeguatezza nelle lotte di tutti i giorni, di debolezza diffusa, nelle mani che non si serrano a pugno come nel sangue che non genera prole resistente, al punto che non dovrà destare stupore se l’unica reazione che immagini possibile e giusta possa alla fine risultare quella di abbracciare un credo, farti cavaliere e calarti sul volto un cappuccio di tela bianca che parte da una base larga sulle spalle e finisce con un puntale che non ce la fa a reggersi dritto. Si piega sempre ma non si spezza mai. Per spiegare la crudeltà di alcune carogne spesso non serve raccontare un presente fatto di prestiti che non potranno mai essere restituiti al tasso richiesto e che provocheranno nelle vittime consapevoli (strane figure, queste) la perdita dei beni, compresa la dignità, o di imposizioni di gabelle, di imposte, che vanno ad aggiungersi a quelle legali e che provocheranno nelle vittime, questa volta inconsapevoli di ciò che li aspetterà, magari all’inaugurazione della propria bottega, la perdita della tranquillità, se non persino dell’attività commerciale stessa. Per spiegare la crudeltà di alcune carogne spesso non serve raccontare un presente fatto di truffe agli anziani ˗ la feccia quasi sempre è vigliacca ˗ che si fanno accompagnare in banca o che aprono a tutti la porta di casa, oppure di società fittizie messe su solo per pilotare una bancarotta ai danni dei poveri creditori, privati o enti che siano. Non serve. Perché può essere sufficiente stimolare nel lettore il ricordo di quand’era anche lui bambino e scendeva a giocare nel cortile sotto casa col terrore dell’arrivo degli zombi. Bastardi. Torna all’indice

IV. Torna all’indice

La tecnica usata da Pick e Rollo era semplice e al tempo stesso efficace, oltre che abbondantemente rodata. Senza bisogno di alcun microchip da innestare nella testa altrui, la coppia conosceva una parolina, peraltro non particolarmente significativa, che se pronunciata provocava in Hot Dog sempre lo stesso impulso reattivo, sconnesso e incontrollabile. La sollecitazione verbale aveva in sé il potere di dare il la ad urla ed improperi che spesso degeneravano in azioni violente e convulse ai danni di vetrine, che venivano spaccate, o di motociclette, che con forza improvvisamente erculea potevano essere sollevate dall’asfalto e lanciate nel mezzo delle corsie stradali della città. La schiuma che a fiotti gli schiaffeggiava le guance prima di gocciolare a terra, e gli occhi strabuzzanti che si rivoltavano mostrando solo la carnosa superficie bianca del bulbo, e le grida strazianti che gli uscivano dalla gola, presto seguite da una incredibile spossatezza, fecero crescere nella popolazione la credenza che Hot Dog potesse diventare, quasi a comando, un lupo mannaro, tanto mite di regola quanto feroce se stimolato. Pick and Rollo sapevano e si comportavano di conseguenza. Prima aizzavano e poi, a debita distanza, controllavano la bestia, non disdegnando l’uso di lunghi bastoni, o persino di fruste, come dei veri e propri domatori circensi. Il punto di sfinimento giungeva nella vittima in contemporanea all’esaurirsi delle risate dei carnefici, quasi che ci fosse un accordo tra i tre, e così alla fine le strade si dividevano. Con Hot Dog che restava però stravaccato sul terreno ancora per minuti, dopo l’esaurimento delle pile, come un automa flaccido percorso soltanto da alcune scosse d’assestamento, uguali a quelle che avvertono i pesci sui banchi dei mercati ittici prima di rendere l’anima a Nettuno. La scena appena descritta venne replicata anche nella notte dei festeggiamenti. Solo alle tre del mattino Hot Dog trovò in se stesso la forza di estrarre il suo cellulare dalla tasca e di digitare il numero telefonico dell’unico amico che avesse mai avuto. Il soccorso, pronto, neanche a dirlo, arrivò sul posto quando

gli stravizi dei fans non si erano ancora conclusi, quando Halloween non era ancora rientrato nelle tombe. “Accompagnami alla polizia” disse, subito dopo esser stato aiutato a risollevarsi. “È la centesima volta che ti ci porto,” valutò a voce bassa il suo pard di sempre “e ogni volta è la stessa storia: andiamo dallo sceriffo per denunciare e usciamo senza ottenere soddisfazione…” aggiunse con rammarico. E così, per mantenere la tradizione, pure quel centunesimo tentativo non andò diversamente dai precedenti. Le parole dello sceriffo ribadivano un atteggiamento che pareva costruito ad arte. Ad un certo punto del colloquio, il vecchio Rod Steiger ˗ così si chiamava il massimo rappresentante dell’ordine della stazione di polizia ˗ avanzava una scusa qualsiasi (ne inventava sempre una diversa) per lasciare Hot nelle mani dell’assistente Jimmy Johnson e appartarsi con l’accompagnatore nella stanza contigua al suo ufficio. Le scene si ripetevano in maniera costante e ciascuna di esse era sempre uguale alla precedente. Al limite potevano cambiare alcune frasi, mentre altre apparivano le stesse, fotocopie di un originale iniziato già da qualche annetto. “Ma siamo sicuri che sia andata proprio in questo modo?” “Perché noi… il nostro Hot lo conosciamo bene, ormai…” “E poi le prove, le avete?” “Li ha visti qualcuno, i due?” “C’è qualche testimone?” “Ma lo sapete, poi, che nell’eventuale processo Hot dovrà essere in grado di… di spiegarsi, ecco!” “Su, occorre solo farlo ragionare… Quella è gente pericolosa, non lo devo dire io, lo sanno tutti qui in città…” “Gli conviene?”

Una volta fuori ˗ ore quattro di un mattino ancora senz’alba ˗ nessun sonno sarebbe stato in grado di diradare le nubi accalcatesi davanti all’orizzonte dei due amici. Nembi soffici e ingannevoli che ottundono qualsiasi ragionamento. Poi Hot Dog, convinto a soprassedere per l’ennesima volta da uno sceriffo portiere di notte, venne ricondotto a casa dall’amico. E per fortuna prese a piovere. Torna all’indice

V. Torna all’indice

L’unico amico di Hot Dog era stato un fan accanito dei Pilgrim Fathers, ma già da quattro anni aveva deciso di non seguirli più. Coerentemente, anche per il pomeriggio della finale si era trovato altro da fare. La prima idea venutagli in mente era stata addirittura quella di andare allo stadio per seguire la partita tra gli sfegatati del club ospite ˗ il disamore verso i propri colori doveva evidentemente aver raggiunto picchi elevatissimi per arrivare solo a pensare un’azione del genere ˗ ma gli mancò la faccia per attuarla. Optò invece per una serata casalinga, da trascorrere innanzitutto preparando la cena insieme alla moglie. L’intento poi di ritirarsi nel suo studiolo, mentre fuori Palusville stava tutta agghindata a festa, per comporre una delle sue oramai famigerate lettere anonime da spedire ai due quotidiani della città gli sembrò quasi divertente. I guanti, sempre gli stessi, dopo l’uso vennero riposti nel terzo cassetto del comò, il solito, con eccessiva cura. L’azione, reiterata, di spostarli continuamente e ogni volta sempre solo di qualche millimetro, fino a quando non si sentiva contento della posizione ritenuta appropriata, era la spia che in lui vi fosse un che di malato, se non addirittura di maniacale. L’ordine è importante, sussurrò l’uomo mentre stava facendo scivolare sulla mano destra curvata a coppa tutti i ritagli non utilizzati del settimanale più venduto nell’intera Florida. Quindi selezionò le lettere da incollare sul foglio bianco, e il fai da te produsse un collage in pieno stile pervertito sessuale anni ’70 del secolo ato. Le cose più semplici sono pure le più efficaci, ragionò ancora, felice per non aver anche quella volta ceduto alle lusinghe del computer e di Internet. Una mail la puoi criptare quanto vuoi, ma alla fine esce sempre fuori uno, più bravo di te, che ti scopre, concluse, prima di risistemare le forbici nello scomparto delle posate in cucina. Ogniqualvolta che i due quotidiani di Palusville pubblicavano la lettera, regolarmente le vendite aumentavano. Il nuovo comunicato di The Owl, del Gufo (questo l’alias che si era dato), suscitava sempre un certo interesse nella

popolazione locale. È proprio un gufo, commentò in una sola ed unica occasione Obi Kalergi. Non so se assomigli anche al rivoltante volatile in cui si riconosce, ma di sicuro è il classico esemplare di cittadino di cui non se ne ha bisogno e di cui, un domani, non se ne sentirà la mancanza. Figura di riferimento, forse, di una sparuta minoranza che vigliaccamente vive nell’ombra e che gode soltanto delle disgrazie altrui. È l’esempio di scuola dell’incapace che fa dell’invidia dei vincenti l’unica risorsa. Nell’elaborare una valutazione, Obi Kalergi aveva intuito bene, ci aveva visto giusto: il Gufo era certamente un codardo. Tuttavia si sbagliava circa la sparuta minoranza: i gufi, ossia coloro che a Palusville, in cuor loro, auguravano il male ai Pilgrim Fathers, non erano per niente pochi, anzi. Certo erano invisibili, silenziosi, anche timorosi di manifestare il dissenso, e sempre le loro azioni si rivelavano più che altro come delle omissioni, o meglio come delle inazioni, che in quell’ultimo giorno, ad esempio, consistettero nello sbirciare da dietro una persiana la vita di quei concittadini che acclamano i loro beniamini senza però mai porsi una domanda, senza la volontà o forse la capacità di analisi o di critica… ma considerarli quattro gatti no, proprio no, era stato un errore di valutazione. Torna all’indice

VI. Torna all’indice

Il mattino successivo pareva il day after la fine del mondo. Intorno alle sette si era alzato un improvviso vento, buono solo per rendere lo scenario ancor più apocalittico. Le cartacce in volo realizzavano buffi balletti, con i fogli che si libravano in aria, facevano strane piroette per poi planare a terra e rialzarsi di nuovo e di colpo. Per apprezzarne una certa leggiadria, l’adulto, sempre troppo preso dai suoi affari, si sarebbe dovuto munire degli occhi del bambino, spalancati alla vita, sgranati verso il futuro, costantemente disposti allo stupore, meraviglia delle meraviglie. Ma le scuole erano chiuse e in giro, a quell’ora, v’erano soltanto addetti alle pulizie stradali, per lo più impegnati ad azionare dalla cabina di manovra curiose macchine aspiranti e disinfettanti, e giornalai, intenti ad alzare le serrande delle proprie edicole e a spacchettare le riviste e i quotidiani già deposti all’alba dal distributore. A proposito, le due gazzette di Palusville erano uscite con due prime pagine diverse, se non persino diametralmente opposte. L’Echo aveva riempito l’intero foglio d’apertura con una fotografia dei Pilgrim Fathers abbracciati, il trofeo vinto poggiato sull’erba, davanti agli accosciati, e un’esplosione di coriandoli dietro la fila in piedi dei giocatori schierati in posa. EROICI!, il titolo, a lato del quale scendeva giù l’articolo di spalla, ovvero l’editoriale firmato dal personaggio più autorevole della città, lo scrittore Christo Cobb, già vincitore nel 2068 del prestigiosissimo Patriot Book Award. La cerimonia dell’assegnazione di uno dei riconoscimenti più ambiti nel mondo della narrativa statunitense era stata seguita, fino a sera inoltrata, da gran parte della popolazione di Palusville, incollata ai televisori per are con inutili incoraggiamenti via cavo il loro oramai illustre concittadino durante lo spoglio delle schede, sulle quali centinaia di giurati avevano vergato il titolo del romanzo preferito tra quelli giunti in finale. La vittoria per un pugno di voti rese il trionfo ancor più emozionante. Christo Cobb, il vecchio cowboy, una volta sul palco fece pure tenerezza. La sua vita di fatiche, trascorsa durante la gioventù tra le mandrie che popolano più

delle persone il Wyoming e in età adulta chino sulla tastiera del computer, e in generale i suoi sessant’anni portati uno sull’altro con qualche acciacco di troppo, parvero di colpo pesare non poco sulle sue spalle. Con una mano si poggiava sul manico ricurvo del suo bastone di noce e con l’altra strozzava il collo ad una bottiglia di whisky, la cui marca era lo sponsor della serata conclusiva, quando in uno straripamento d’euforia innalzò al cielo il liquore e con il pensiero, in silenzio nel frastuono, solo in mezzo a tutta quella confusione, come diceva una canzone di tanti anni fa, brindò ai suoi avi, grazie ai quali lui era arrivato lassù. Quindi, questa volta con la voce, diede alla moglie quel ch’era della moglie, e cioè il merito di averlo sempre sostenuto, soprattutto nei periodi dello sconforto, stato d’animo che lo scrittore, qualsiasi scrittore, anche il più pulp che nelle difficoltà ci sguazza, è portato spesso ad amplificare. Un omaggio pubblico alla fedeltà della consorte di sempre; cosa che peraltro, nei tempi del divorzio-lampo abbondantemente acclarato, suonò quasi come una poetica stonatura, come una stecca di classe. Qualche lacrima si era già insinuata tra i peli ispidi dei suoi baffoni canuti, come ruscelletti che scendono a valle lambendo i tronchi di una fitta foresta innevata, ch’era la sua folta barba, quando il lampo di una macchina fotografica, una di quelle di una volta chissà come sopravvissuta, fermò il suo sorriso più aperto. E fu quello lo scatto che presto sarebbe stato acquistato dalle maggiori agenzie di stampa americane. Fino ad un’ora prima della consacrazione, Christo Cobb era considerato un povero illuso, uno strano che invece di lavorare scrive. E sì, perché il mestiere dello scrittore è visto come tale solo se il romanziere in questione ha raggiunto la fama o la ricchezza, altrimenti costui è semplicemente lo scemo del villaggio che scrive perché non ha niente di meglio da fare, o forse perché è già ricco di suo e può permetterselo. Va da sé che, appena conquistata la gloria, Christo Cobb divenne per gran parte della brava gente di Palusville, o meglio per tutti coloro che fino ad allora non avevano mai letto nemmeno una riga di un suo libro, l’amico carissimo con cui avevano giocato da piccoli. Non ci si meravigli, di conseguenza, se il più venduto quotidiano della cittadina, roba da cinquemila copie al giorno, abbia dato a Christo largo spazio sulla prima pagina del giornale uscito all’indomani dell’apoteosi dei Pilgrim Fathers.

L’incenso di cui odorava l’articolo risultò particolarmente stordente nella parte in cui lo scrittore elogiava il presidente Obi Kalergi, a suo dire vittima non solo degli invidiosi, dei gufi, ma anche di una specifica e individuata intellighenzia, a lui politicamente contrapposta, che invece di riconoscergli indubbi meriti e palesi capacità preferiva attribuirgli vizi, inventati di sana pianta, neanche a dirlo, con l’unico scopo di gettargli addosso discredito. Niente di chiaro o di accertato, a suo dire, ma esclusivamente voci, pettegolezzi, infamie e maldicenze, tutte rigorosamente anonime, volte a far credere che Obi Kalergi fosse un padrino e Palusville la terra dei Soprano. Nulla di più inesistente! La criminalità a Palusville è la trovata del giorno di quattro allarmisti di professione! garantì sull’Echo il nuovo Melville. In contemporanea, sul Seminole Citizen, duecento copie scarse al dì, la mente del direttore che alla bisogna fungeva anche da cronista, da inviato speciale, da caporedattore, da correttore di bozze, da fotografo free˗lance, da impaginatore, da stampatore e da distributore delle quattro facciate costituenti il tutto, partoriva il più antitetico degli articoli. L’opera quotidiana, tanto artigianale quanto ben curata, aveva ovviamente un raggio d’azione limitato, locale se non addirittura circoscritto all’interno di una comunità fantasma, ma questo pareva non impensierire affatto Mister Tuttofare. Un omone grande, grosso e per niente fesso, che più che un essere umano, nel vederlo, sembrava una quercia, anzi una mangrovia gigante, di quelle che resistono, solo nelle paludi della Florida, all’avanzare della più distopica delle società umane: la statunitense. Per compensare il cognome maggiormente diffuso al mondo, Smith, i suoi genitori avevano pensato bene di dotare il loro unico figlio maschio, quinto della nidiata, del più improbabile e irriverente dei nomi di battesimo: Manitù. E così nacque Manitù Smith, altro supereroe di Palusville. Il titolo del pezzo giornalistico che fece scandalo, sia per il contenuto che per la decisione di farlo uscire in contrapposizione all’altro, a quello tutto rose e fiori della concorrenza allineata al potere, fu Miracolo in nero. Come dire: due interpretazioni per un unico fine, quello di attaccare frontalmente l’attore Obi Kalergi e la sua gang. Il gioco stava tutto nella parola nero: come il colore della pelle di Kalergi, anche se ad essere precisi gli zombi sono mulatti con scaglie di parmigiano marrone su carpaccio olivastro, e come il presunto business illegale e nascosto, messo su per evadere il fisco e riempire le casse della società sportiva.

Il miracolo, tipicamente americano, del self-made˗man Obi Kalergi, aveva scritto Manitù Smith, ha sì avuto la sua acme nella giornata di ieri, ma è partito da lontano. Tanto, negli ultimi anni, i Pilgrim Fathers scalavano le categorie, quanto il loro presidente, parallelamente, faceva carriera nella politica. Un’ascesa folgorante iniziata con l’elezione a consigliere comunale di Palusville e culminata con quella a sindaco della città. A proposito della sua prima vittoria, la vox populi fa diffondere un curioso dato che io, da cronista zelante qual sono, non posso far altro che registrare e riportare: “Davanti ad imperturbabili tutori dell’ordine, file di zombi sbandieravano davanti ai seggi elettorali per chi avrebbero di lì a poco votato, in qualche caso senza neanche accomodarsi nella cabina. Presente e attiva in loco persino una sorta di servizio navetta che li accompagna al seggio e che poi li riporta nelle loro case. Al termine dello scrutinio, a notte inoltrata, nessun dubbio dunque sul candidato più votato in assoluto nell’intero comune di Palusville: Obi Kalergi”. E con la stessa velocità si sono realizzate le fortune dei Pilgrim Fathers, risorti anche grazie alle disponibilità economiche dell’allora consigliere comunale che impressionarono tutti gli altri soci del sodalizio lacrossino. Qualcuno però cominciò a chiedersi della provenienza di tali dollari, senza trovare risposta. Rimane ancora da capire come si sia potuto are da una situazione finanziaria disastrosa ad una invece florida ˗ in fondo siamo in Florida! mi si potrebbe ribattere ˗, visto che dalla visura camerale della Società di lacrosse Pilgrim Fathers non risulta alcun aumento di capitale… Ma, purtroppo, di tutto questo alla città importa poco o niente. A Palusville, dove nullatenenti possiedono grattacieli, dove lo sceriffo riceve in regalo due proiettili via posta, dove un giudice efficiente viene per promozione allontanato, dove un procuratore federale una mattina apre la porta della sua villetta e al posto del latte e del quotidiano trova una testa di tacchino… in una città così ridente, dicevo, ciò che conta davvero è la vittoria di ieri dei Pilgrim Fathers! Torna all’indice

VII. Torna all’indice

Notte calda, lunga e soprattutto affollata, quella del aggio dalla seconda alla prima serie e dalla primavera all’estate. Notte di tifosi in festa e di prepotenze, di lettere anonime e di articoli da prima pagina, di sceriffi indolenti e di criminali in vena di scherzi, di eroi in piazza a ballare e di vigliacchi chiusi in casa a sbirciare da dietro una tendina. Notte di Solstizio, di gufi e di cappucci bianchi.

Sei ex ufficiali delle Giacche Grigie, ossia dell’esercito confederato sudista reduce dalla sconfitta nella Guerra Civile Americana contro i Nordisti, si riunirono il 24 dicembre 1865, in una vecchia abitazione del centro di Pulaski, nel Tennessee, con l’intento di fondare un club per vincere la noia e l’amarezza. Non molto tempo dopo decisero anche il nome: Ku Klux Klan. I primi due termini derivano da una voluta storpiatura del vocabolo greco kyklos, circolo, mentre il terzo, proposto da un accanito lettore dei romanzi storici di Sir Walter Scott, quello di Ivanhoe, venne aggiunto per rafforzare, dato che allude al vincolo di sangue presente in ogni famiglia, lo spirito di corpo. Meno di due anni dopo, nella stanza numero 10 del Maxwell House Hotel di Nashville ebbe luogo il primo convegno nazionale delle tre K. Lo scopo, poi realizzato, era quello di strutturare in America un vero e proprio Stato nello Stato, occulto e spietato, retto appunto da un preciso ordinamento piramidale. Questa nazione prenderà il nome di Invisibile Impero, a sua volta suddiviso in Reami (l’equivalente dei singoli Stati federali), Domini (corrispondenti ai distretti congressuali), Province (ossia le contee) e Covi (le città). Ogni ripartizione territoriale avrà di conseguenza un responsabile: il Grande Stregone dell’Invisibile Impero, il Gran Dragone del Reame, il Gran Titano del Dominio e così via. Ciascuno di essi, infine, poteva contare su degli stretti collaboratori dai

nomi altrettanto grotteschi: Genii, Idre, Furie… Denominazioni, palesemente ridicole, che paiono provenire più che altro dalla fantasia di un gruppo di bambini riuniti, all’insaputa dei genitori, nella loro capanna nascosta. Nomi che destano ilarità, insomma, anche se a ben vedere non c’era proprio nulla da ridere…

A Palusville, Florida, nell’ormai famosa notte della Vittoria, i klansmen del nucleo locale, invece di mischiarsi nei festeggiamenti, si riunirono in un luogo segreto poco fuori città per battezzare un nuovo adepto. La cerimonia fu indetta dal Gran Ciclope del Covo attraverso il collaudato metodo del messaggio cifrato collocato in un annuncio presente nell’apposita pagina riservata del Seminole Citizen. La scelta di servirsi di questo quotidiano invece che dell’altro ben più diffuso era dovuta ad un semplice calcolo di probabilità: meno lettori uguale minor percentuale di essere decifrati. E poi c’è da aggiungere che Manitù Smith non diceva mai di no, consapevole com’era del fatto che la sua creatura poteva continuare a sopravvivere solo grazie agli annunci a pagamento, che sì rendevano esteticamente orrida l’intera ultima pagina, ma al tempo stesso rimpinguavano regolarmente le esangui tasche del giornale. Tutto si svolse come da programma, anche se quella notte mancarono all’appello diversi affiliati. Addirittura risultarono assenti, per la prima volta in vita loro, i due Falchi Notturni, attendenti del Gran Ciclope cittadino. Qualcuno, da sotto il terrificante cappuccio a cono forato all’altezza degli occhi, ipotizzò sghignazzando che le diverse defezioni potessero dipendere dai concomitanti festeggiamenti per i Pilgrim Fathers. “Magari stanno ancora ballando insieme allo zombi!” la buttò là Lingua Tagliente, alludendo chiaramente al presidente Obi Kalergi. “Se così fosse non ci sarebbe proprio niente da ridere!” lo zittì il Gran Ciclope. La setta del Ku Klux Klan, dopo l’attentato di Oklahoma City, avvenuto una ventina d’anni prima, che fece centosessantotto morti e di conseguenza indusse il Presidente degli Stati Uniti in persona ad una dura stretta contro le milizie

suprematiste dell’estrema destra americana, aveva ritenuto opportuno divenire ancor più prudente, riorganizzando i propri insiemi e sottoinsiemi in maniera clandestina. Non solo continuando a celare i volti ai nemici, è ovvio, ma vieppiù facendo sì che ciascun membro non conoscesse l’identità anagrafica del confratello. Non fu un caso, dunque, che dell’iniziato numero 51, area Palusville, si potesse immaginare solo una evidente struttura corporea esile, la stessa che per l’emozione si agitava sotto la candida tunica, e null’altro. “Il motivo che ti spinge ad entrare nel Klan è serio e disinteressato?” formulò la prima domanda il Gran Ciclope, con accentuata enfasi. “Sì!” rispose il neo incappucciato, facendosi forza da solo. “Sei un cittadino nato negli Stati Uniti d’America, bianco e non ebreo?” “Sì!” bissò, muovendo leggermente gli occhi, prima a sinistra e poi a destra, quasi a voler controllare che il numero degli altri klansmen disposti ai lati, su due ali di fila, non fosse mutato. “Sei contrario a qualsiasi rapporto che ti leghi ad una causa, un governo, una congrega, un capo, che non siano degli Stati Uniti? In ato hai mai tenuto simili rapporti?” “Sì, sono contrario, rispondendo alla prima domanda. E no, non ho mai intessuto tali rapporti, quanto alla seconda.” L’esplicazione, che prese il posto dei monosillabi, sembrò come dargli un’iniezione di fiducia. “Credi ai dogmi della religione cristiana?” incalzò Polifemo. “Sì, credo!” “E credi fermamente che gli Stati Uniti e le sue istituzioni siano superiori a qualsiasi altro governo civile, politico o ecclesiastico del mondo intero?” “Sì, lo credo!”

“Giuri quindi solennemente di difendere e rispettare le istituzioni degli Stati Uniti d’America senza alcuna riserva?” “Giuro” affermò, anche se per un attimo, un attimo soltanto, pensò alla palese contraddizione tra l’impegnarsi da una parte al rispetto degli organismi di un Paese e poi al tempo stesso appartenere ad un’organizzazione ritenuta illegale dalle leggi di quel medesimo Paese. “Credi nello spirito del Klan” proseguì l’officiante “e sei disposto a rimanergli fedele?” “Sì, ci credo, e sì, sono disposto.” “Sei, ancora, disposto ad obbedire alla nostra Costituzione e alle nostre leggi, attenendoti ai nostri costumi, alle nostre usanze e alle nostre regole?” Regole antitetiche a quelle del nostro Paese, pensò di nuovo, prima di ribadire il: “Sì, sono disposto!” “Si potrà infine fare sempre affidamento su di te?” e così il Gran Ciclope completò il test d’ingresso. A numero chiuso e solo leggermente differente da quello per l’accesso alla facoltà di Odontoiatria nell’Università di Yale. “Sì” rispose per l’ennesima volta il pivello, ora svuotato d’energie mentali. Per un momento i botta e risposta gli ricordarono i Rinunci a Satana? che da bambino udiva in chiesa e che gli mettevano in corpo tanta, tanta paura. Quindi il Gran Ciclope ˗ a più riprese m’è venuto da scrivere Gran Ciambellano, mah! ˗ lo insignì a tutti gli effetti del titolo di klansman e lo invitò a recitare, a mo’ di preghiera, l’atto d’impegno finale. Immediatamente dopo l’ultimo termine pronunciato dal ministro capo e una frazione di secondo prima che il neofita prendesse la parola, ogni klansman presente in sala soffiò sulla fiammella del cero alla propria destra, fino a quando la V di fuoco che si era formata davanti al decano che poneva le domande e al giovane che rispondeva non sparì del tutto. Anche le volute di fumo si dissolsero nell’aria, quando nel buio più pesto l’iscritto numero 51 del Covo di Palusville prese a declamare…

“Io sottoscritto, effettivamente nato in questo grande Paese, autentico, fedele e leale cittadino degli Stati Uniti d’America, nella mia natura di maschio di razza bianca e di origine gentile, persona di fidati e temperati costumi, sano di corpo e di mente, rispettoso credente nei sacri principi della religione cristiana, ugualmente credente nel necessario mantenimento della supremazia bianca e in tutti i canoni di un sano e puro americanismo, ho fatto molto rispettosamente domanda di entrare a far parte dei Cavalieri del Ku Klux Klan.” “E sei stato accettato” sancì, laconico, il Gran Ciclope.

Alle due meno dieci della mattina i klansmen sgattaiolarono fuori dalla villa dove era avvenuto l’incontro per correre ognuno, o la maggior parte di essi, verso la propria abitazione. Del resto, alle due spaccate, in diretta streaming dall’istituto penitenziario di massima sicurezza di Tallahassee avrebbero trasmesso l’esecuzione della condanna a morte tramite iniezione letale di un detenuto zombi e… Se è pure innocente c’è più gusto! aggiunse un klansman. Torna all’indice

VIII. Torna all’indice

Tanto il 21 giugno i quotidiani di Palusville erano andati in stampa con le rispettive prime pagine impostate in modo diametralmente opposto, quanto quelle del 22 potevano are quasi per due fotocopie. Titoli identici sopra contenuti simili per annunciare e raccontare un fatto di sangue occorso proprio durante la notte dei festeggiamenti. OMICIDIO A PALUSVILLE, intitolavano i due fogli, sino ad allora divisi in tutto fuorché dal fatto che sia Manitù Smith che il direttore responsabile dell’Echo possedevano la medesima conoscenza del mestiere. Il titolo, dicevano, per colpire il lettore ed indurlo all’acquisto deve essere, uno: semplice; due: diretto; tre: composto da pochissime parole; quattro: ad effetto; e infine deve andare subito al sodo, nel cuore della notizia. Solo nel sottotitolo, di una o due righe, ci si può sbizzarrire. È lì che c’è più spazio per l’arte, per frasi tipo Era andato per la festa e gliel’hanno fatta. Il morto, che si chiamava Pick Wood, era stato diviso per l’eternità dall’amico Rollo tramite un devastante colpo di mazza da golf, entrata con inaudita violenza nella regione laterale del cranio nota come tempia. Subito estratta, l’arma impropria si era portata appresso molti grumi di sangue e alcuni residui di materia cerebrale (di quella che c’era, intendiamoci: non molta), sparsa di notte sull’asfalto di un marciapiede e schiacciata all’alba ˗ la famosa alba dei morti viventi ˗ da un brav’uomo che al telefono con la polizia volle restare ignoto. Il Golfista, come fu ben presto ribattezzato l’assassino dalla stampa dell’intera Florida, aveva fatto la sua prima vittima. Torna all’indice

IX. Torna all’indice

Lo sceriffo Steiger arrivò sul luogo del delitto alle otto meno cinque. Con il volto contrariato di chi ha dormito male per la sesta luna consecutiva, maledisse il giorno in cui la moglie l’aveva convinto a cambiare il materasso del letto matrimoniale e giurò su Dio che dalla notte successiva sarebbe andato a dormire nella cameretta del figlio. Stanza dipinta di celeste, con gonfie nuvole bianche disegnate su; stanza abitata da alcuni personaggi inventati da Disney e arredata da lui stesso (dallo sceriffo, non da Walt), che con il legno ci aveva sempre saputo fare, quando la sua signora era ancora in attesa. Una stanza che poi è rimasta così, ferma, immutata, cristallizzata. Intoccabile tempio di un bimbo morto troppo presto. È ora di finirla!, quasi si arrabbiò con se stesso, mentre a i pesanti stava per raggiungere, affaticato, la scena del crimine. Sono venti anni che non vivo e… non ce la faccio più! Stasera, o rientro in quella maledetta camera o mi ammazzo!, pensò infine lo sceriffo Steiger, già stanco alle otto meno cinque di un dannato mattino che sin dal buongiorno non prometteva nulla di buono. Rod Steiger… questo era il suo nome, ve l’ho già detto? Esattamente come quell’attore di un secolo fa, quello che interpretò proprio lo sceriffo nemicoamico dell’ispettore Tibbs... beh, dicevamo, col tempo era diventato pure grasso. Appesantito, preferiva definirsi lui, pari pari ad un elefante che ogni mattino si vede mammut allo specchio. Grasso, dunque, e sudava pure. Spesso, sempre, o comunque troppo. E a nulla potevano essergli utili i suoi fazzoletti di stoffa, quelli mai capiti dalla consorte e che lui si ostinava a are e riare sulla nuca madida, alternandoli solo agli altrettanto infruttuosi schiaffi scaccia zanzare. Le stesse che volteggiano nella canicola e sguazzano nella palude. Nella ville in cui Rod era nato, cresciuto, pasciuto e non ancora morto. Purtroppo, ci aggiungeva.

La sera precedente aveva anche esagerato nel bere. Si era ingurgitato, ad uno ad uno, a colpi secchi, dieci bicchierini di un pessimo bourbon arrivato caldo caldo da Naples invece dei soliti nove. Come al bar quand’era ragazzo: manda giù senza pensarci su, era il motto della sua comitiva di buontemponi. L’alcol scendeva, senza che le papille fero in tempo a gustare il sapore, solo per sentir bruciare le budella, solo per apparire uomo vero. E quella sera, come ieri, come sempre, la sensazione che avvertiva gli parve ancora uguale. Anche se molto, da allora, era mutato: il luogo (la casa isolata invece del locale pubblico), la compagnia, amici non ne aveva più, e pure l’atmosfera, perché da giovane arrivava anche a piangere di gioia, per la tanta allegria che lo pervadeva, mentre da sessantenne, a pochissimo dalla fine del mandato, le lacrime che gli colavano lente dagli occhi erano mute e solitarie. Voi però non fatevi prendere dalla pena, dalla tenerezza, dalla comprensione o, peggio ancora, dalla comione, perché lo sceriffo Rod Steiger, noto anche come Bad Fatty, non lo meriterebbe affatto e nemmeno lo apprezzerebbe. Anzi, rischiereste pure che, sentendosi preso in giro, la prendesse talmente a male da sbattervi in cella per un week-end intero. Come faceva il venerdì sera con gli ubriaconi. Perché lo sceriffo di Palusville non li aveva mai sopportati, gli alcolisti. Non ne parliamo se anonimi. Giunto finalmente ad un o dal cadavere, in barba a qualsiasi manuale di scienze investigative, posò la suola della sua scarpa destra sopra il braccio visibile del morto, che era riverso su un lato, irriconoscibile a prima vista sia per il sangue colato sulla faccia che per la posizione non frontale, e accompagnandolo con un calcio lo mandò supino. Quindi sputò in terra una pallottola di infimo tabacco e, dopo aver osservato meglio l’ucciso, lasciò che nella sua solita espressione da bulldog, nel suo grugno perennemente accigliato, potesse trasparire una ghigna ancor più marcata, un’espressione che conteneva due sentimenti addirittura contrapposti: soddisfazione ed indifferenza. “Uno di meno” disse soltanto, con le mani sempre infilate nelle tasche dei suoi pantaloni d’ordinanza color cachi, prima di comandare alla prima divisa che gli capitò a tiro di fargli pervenire foto e rilievi. “Con calma” aggiunse. Torna all’indice

X. Torna all’indice

Già, con calma. Pick Wood era stato coinvolto, nel corso della sua intensa vita criminale, in almeno una decina di fatti di sangue avvenuti a Palusville negli anni immediatamente precedenti la sua dipartita. E ne era uscito sempre intonso. Tre mesi di carcere una prima volta, nove un’altra, solo uno un’altra ancora, ma in fondo niente di che, routine, normale amministrazione, disagi preventivati, danni collaterali e nulla di più. Il battesimo del suo esser sempre ingiustamente messo in mezzo avvenne quando un centauro entrò con tutto il casco ancora sulla zucca dentro una pescheria e sparò al titolare, uomo sospettato di appartenere ad una gang di rapinatori di banche; quindi, venne sfiorato dalle indagini sulle uccisioni di un suo zio, fatto saltare in aria dentro una macchina imbottita di tritolo, e di un membro di una banda rivale alla sua, inseguito fin dentro l’oratorio della chiesa di San Paolo e fulminato all’interno del cortile assolato solo perché il cancello d’accesso sulla via Damasco ˗ che il prete, pastore giudizioso, lasciava sempre aperto per ogni evenienza ˗ quel giorno stramaledetto venne chiuso in anticipo sul calar del buio. Pick Wood fu pure ascoltato come persona informata sui fatti nell’ambito dell’inchiesta sull’esecuzione di un giovanissimo affiliato al Ku Klux Klan, rapito, fatto inginocchiare e infine giustiziato con un colpo di 44 alla nuca, e se la vide davvero brutta quando una sua impronta digitale venne rilevata sul cofano di un’auto abbandonata tra le sterpaglie, con tanto di conducente crivellato di proiettili. Per sua fortuna, tempo dopo un bianco confessò l’omicidio e così lui poté uscire dalla galera dove era stato sbattuto. Allorquando, infine, nello stretto giro delle ventiquattro ore, prima un suo parente entrò di diritto nel repertorio ufficiale dei primati per aver ricevuto sei pallottole in corpo senza tuttavia raggiungere il Creatore (il record precedente resisteva da quasi un secolo e lo deteneva niente po’ po’ di meno che Sua Santità Giovanni Paolo II) e poi due bianchi ˗ un giovane capo dei Pilgrim Fathers e un delinquente incallito ˗ vennero fatti fuori per vendetta, Pick Wood ritenne opportuno non farsi vedere per le vie di Palusville il tempo necessario a che tutti

si dimenticassero che poteva, magari di striscio, entrarci pure lui nel regolamento di conti. La guerra a suon di pallettoni tra la canaglia dei bianchi e la ciurmaglia degli zombi interessò la ridente cittadina tanto cara a Christo Cobb per almeno un quinquennio, o forse più, con altre gambizzazioni come piovesse, regolamenti di conti tra spacciatori, agguati alla luce del sole e assassinii compiuti da assassini (che sono un po’ come gli arbìtri compiuti dagli arbitri, se vogliamo). Fino a quando però il controllo del territorio non andò tutto nelle mani di Pick e Rollo, gemelli del goal. Ecco: la raccomandazione finale dello sceriffo, peccatore pure lui, impartita dopo aver lanciato un’ultima occhiata al cadavere dello zombi, rimanda al pensiero dell’intera comunità onesta, e quindi fessa, di Palusville. Finché i malavitosi si ammazzano tra di loro… Chi se ne frega! Meglio così! Uno di meno! Indaghiamo, sì, ma… con calma. Torna all’indice

XI. Torna all’indice

La mattina successiva lo sceriffo si svegliò, come si suol dire, girato, ma considerata la tegola che gli era caduta tra capo e collo non poteva essere altrimenti. Per fortuna, però, lui conosceva bene l’antidoto da prendere in casi come quelli. Altre volte si era ritrovato in situazioni e condizioni uguali o simili e sempre era stato in grado di recuperare l’umore giusto. Gli bastava montare sull’auto di servizio con il suo secondo Jimmy Johnson e andare ad appostarsi all’imboccatura dell’interstatale che porta a Palusville. Qualche decina di minuti d’attesa, spesso anche meno, a dire il vero, e alla fine il pollo targato New York ava sempre. A quel punto, conscio del suo ruolo nella società civile della Florida Felix, sporgeva fuori l’avambraccio, applicava sul tettuccio la sirena lampeggiante blu e di conseguenza, tutto eccitato, spingeva il piede destro sull’acceleratore fino a che, giunto a tallonare il cittadino di turno, gli intimava di accostare lungo il ciglio della strada. Poi, se dentro l’abitacolo gli sventurati erano due o più, Bad Fatty si sarebbe divertito ulteriormente e allora sì che la disposizione del suo animo sensibile ai mutamenti sarebbe appunto cambiata in meglio per tutta la giornata. “Patente e libretto, prego” si inizia sempre così. Un classico del tutore in divisa. “Hummm… vediamo…” “È tutto a pos…” “Ruote sgonfie… ahi ahi ahi ahi!” “Ma veramente le abbiamo fatte con…” “È pericoloso, lo sapete?, andare in giro con gli pneumatici… o si dice i pneumatici? Voi che venite dalla città, voi che avete studiato, dovreste saperlo, no?” “Hemmm… sì… credo si dica gli ma…”

“Crede… Ehi Jimmy, lo senti? Il signorino che scende qui in Florida per divertirsi con le nostre ragazze crede… non è neanche sicuro…” “Senta agente noi…” “Sceriffo della contea. Non agente. Agente è quel mio sottoposto che vede lì in fondo e che ora starà certamente rimuginando sul fatto che magari la sua promessa sposa, tra parentesi uno scherzo della natura, potrebbe restare affascinata da tre degenerati come voi, che venite qua a raccontarci come si vive bene in mezzo alla confusione, al bordello della Grande Mela Bacata! Perché vedo dalla targa che venite da New York, vero?” “Sì, veniamo da New York, sceriffo, ma che c’entra da dove venia…” “C’entra eccome, ragazzino, perché voi forse non sapete che il maggior quantitativo di droghe proviene proprio dalla vostra metropoli di pervertiti, è chiaro?” “Ok, guard…” “Beh forza, allora ditemi: cosa ci siete venuti a fare qui in palude?” “D’accordo, sceriffo, non abbiamo fatto niente, non abbiamo niente da nascondere e quindi le rispondo: siamo venuti a trovare un nostro zio che abita a Naples e questa mattina abbiamo avuto la brillante idea di spingerci fin qui da voi, per un’escursione nelle famigerate Everglades. È consentito?” chiese infine, piccato, il giovane universitario in vacanza. “Certo che lo è, ci mancherebbe” rispose Bad Fatty mentre si tirava su la visiera del cappello. “Ora però, per essere sicuri che state dicendo la verità e che non volete prendervi gioco dell’istituzione che rappresento, vi faccio una domandina semplice semplice, una soltanto, e voi, al mio tre, dovrete rispondermi tutti insieme. Compris?” “Ma è assurdo…” sussurrò il guidatore. “Mai vista una cosa del genere…” ci mise il carico il navigatore. “Sembra di stare in un sogno” aggiunse il terzo, quello seduto sul divanetto posteriore, quello che di solito porta gli occhiali da vista. “Anzi, dentro uno di

quegli incubi da film dell’orrore. Adesso ci manca solo di rompere la coppa dell’olio e di andare a bussare alla prima casa di campagna che incrociamo per chiedere soccorso e così ritrovarci in balia di una famiglia di cannibali del posto.” “Spiritoso” commentò lo sceriffo abbozzando addirittura un sorriso. “Comunque la domanda, facile, è questa: come si chiama questo vostro zio di Naples? Ma dovete rispondere in contemporanea e non prima che abbia terminato di contare, intesi? Se no non vale e vi squalifico! Uno…” “…” “Due…” “…” “Tre!” “Zio Alfie!!!”

“Si salvarono all’unisono. Ricordi, Jimmy?” “Sì capo, come potrei dimenticarlo? Lei se la prende sempre con le auto targate New York… la rilassa tanto…” “Proprio così. Non c’è niente di meglio per incominciare una giornata che si prospetta dura che far mettere una bella strizza a qualche newyorkese in villeggiatura. Non li sopporto, i newyorkesi…” “Forse perché ne ha una in casa da trent’anni, eh capo?” I risultati dell’autopsia giunsero sulla scrivania dello sceriffo in anticipo sul suo stupore. L’uomo era stato ucciso, orientativamente tra le tre e le cinque del mattino, con un solo colpo, va da sé violentissimo, di mazza da golf. Ferro peraltro volutamente lasciato sul posto dall’omicida, come una firma dal vago sapore seriale.

Sul corpo non risultavano segni di ferite recenti, né sulle nocche o sotto le unghie erano state rinvenute tracce che potessero far presupporre una colluttazione tra la vittima e il suo carnefice. Ogni elemento, insomma, concorreva a far pensare ad un attacco improvviso e fulmineo, di quelli che non lasciano possibilità di reazione e di scampo all’aggredito, le cui luci si sono spente per sempre senza che abbia potuto nemmeno soddisfare la curiosità di vedere in faccia il suo assassino. “Il killer” pensò a voce alta lo sceriffo mentre sfogliava il referto “deve essere riuscito ad avvicinare lo zombi da dietro. Poi si sarà solo spostato leggermente di lato, per far compiere alla mazza un mezzo cerchio nell’aria, largo come quello del giocatore di baseball quando batte dal piatto. Assaltato a tradimento, non deve essersi reso conto di niente. Cranio fracassato e mazza fin dentro il cervello come un mestolo nella brodaglia. Quindi l’ha abbandonata là, tipo guanto bianco di sfida, ovviamente linda da impronte digitali. Tutto sommato, nella sua semplicità, il gesto ha prodotto uno swing perfetto, direi.” Torna all’indice

XII. Torna all’indice

Un merito, tra i tanti, del romanziere Dashiell Hammett è stato quello di spostare gli omicidi dalle atmosfere rarefatte delle camere chiuse, ottime per le trasposizioni teatrali, create dai giallisti classici, Agatha Christie in testa, alla strada. E sulla via, vicoli bui o bassifondi sporchi, ogni dubbio, si sa, va risolto con i modi spicci di chi usa carezze e ricatti al posto delle deduzioni e dell’enigmistica applicata al delitto. In questo, non per dire, Bad Fatty era un autentico maestro. Uno che inoltre conosceva bene le quattro o cinque azioni che di lì a quarantotto ore avrebbe dovuto compiere: assistere al funerale, ricevere qualche soffiata, interrogare i sospettati, controllare gli alibi e trovare eventuali testimoni. Non necessariamente in quest’ordine. Certo, lui avrebbe preferito continuare anche nei giorni a venire col solito tran tran fatto di multe ai forestieri di aggio grazie al suo autovelox truccato o di operazioni di sloggio dei medicanti che ai semafori deturpano la beltà del paesaggio attraverso il primitivo e sempre valido mezzo del calcio nel sedere. Ma che volete, la vita è questa, il mondo è crudele e non sempre è primavera. La stazione di polizia era rimasta quella del 1886, quando venne rimessa a nuovo in occasione dei festeggiamenti per la cattura di Geronimo e poi mai più toccata. Un destino di Bad Fatty, evidentemente, quello di muoversi dentro luoghi, cameretta o ufficio che fossero, dove nulla viene spostato da un’infinità di tempo. Qui, sul posto di lavoro, un cancelletto di legno scricchiolante divide l’androne, occupato solo da una lunga panca simile a quella sulla quale l’imputato attende il verdetto in tribunale, dallo spazio in cui, assiso sopra una cattedra sopraelevata, un cane da guardia in divisa dà, con l’aria svagata di noncuranza che hanno gli addetti ai servizi pubblici, al malcapitato di turno il per essere ricevuto dallo sceriffo nella sua stanza personale, se ti dice bene, o per essere trascinato nella camera degli schiaffi, se ti dice male, o in ultimo per venir scaraventato direttamente in gattabuia a far compagnia ad un maniaco sessuale, se ti dice

malissimo. E nella lunga storia di quel posto c’è stato pure chi è riuscito a visitare tutti e tre i vani in diciannove secondi netti. Record della contea. “Jimmy!” urlò lo sceriffo, dal profondo della sua soffice poltroncina girevole. “Jimmy!!!” ripeté con maggior vigore, quando l’agente semplice Jimmy Johnson, un novellino con tanti brufoli e poca esperienza, aveva già abbassato la maniglia dorata della porta. “Comandi, capo!” si prostrò il ragazzo, titubante ed intimorito come ogni volta, come sempre, anche quando non v’erano motivi validi per giustificare lo stato apprensivo. “Hai notizie sul traffico telefonico del morto nell’ultima settimana della sua vita ˗ con chi ha parlato, che tipo di sms ha inviato o ricevuto ˗ e dalle telecamere attaccate sui cornicioni o appese ai lampioni? Ho dato ordine di sequestrare tutte le bobine, comprese quelle private, di proprietà delle banche o di alcuni negozi… insomma tutte!” Che esempio di operatività, penserete voi, e ci avreste visto giusto se non fosse per il fatto che il fervore di Bad Fatty, il suo pronto andare al sodo, mal si conciliava con la rivista Caccia e Pesca sfacciatamente aperta al centro del suo tavolo, quasi fosse la più urgente delle pratiche insolute. “Pick Wood non ha utenze telefoniche intestate a suo nome e in tasca gli abbiamo rinvenuto solo un cellulare con scheda prepagata, da cui però non aveva ancora chiamato nessuno. Evidentemente l’avrà acquistata nella stessa giornata della sua morte… quindi niente. Quanto ai nastri delle telecamere, li ho ritirati personalmente” rispose la giovane marmotta. “Anche se poi non sono così tanti” aggiunse con un che di modestia nella tonalità della voce. “E allora?” “Allora poco o niente, almeno per adesso. Li ho visionate molti… però…” “Però magari l’hai fatto con la fretta del principiante che vuole trovare subito qualcosa d’interessante o che non quadra, vero?” “Credo che abbia ragione” ammise Jimmy Johnson l’Apprendista. “Rivedrò tutto con più calma e attenzione, capo… ma intanto voglio segnalarle un paio di

cosucce.” “Parla.” “Innanzitutto premetto che quella notte in città c’è stata tanta, troppa confusione: i Pilgrim Fathers hanno…” “Lo so, vai avanti. Non l’ho mai sopportato, il lacrosse. Sia perché è lo sport dei pellerossa e sia perché gliel’ho giurata da quando mi scartarono in un provino. Ma lasciamo stare… piuttosto continua e vai al punto.” “Ma se è il gioco dei Seminole, allora perché lei ha fatto un… Va be’, non divaghiamo. Nella grande baraonda, dicevo, purtroppo c’erano tutti e tutti hanno visto tutti e quindi nessuno ha visto nessuno.” “Cos’è, un nuovo scioglilingua per deficienti?” “No, capo, non mi permetterei mai, lo sa, io a lei devo tutto. Volevo soltanto rilevare che più c’è caos e più diventa difficile individuare, stanare, cogliere aggi insoliti o presenze strane. Una cittadina che scende tutta in strada equivale, per assurdo, ad una città completamente deserta.” “Stop, senti un attimo: meno filosofia e più concretezza, ok?” “Ok, vado al sodo. Le telecamere in funzione non hanno ripreso niente di particolare, mentre quelle nei pressi del luogo del delitto sono state ambedue, perché erano due, rotte. Dall’assassino durante la festa, immagino. Comunque badi, sceriffo, che abbiamo anche una decina di tamponamenti, ruote di auto bucate, due cassonetti dell’immondizia bruciati, vari muri imbrattati, una vetrina di negozio andata in frantumi e vari altre conseguenze delle imprese importate dagli ultras europei del soccer, di cui l’America non aveva certo bisogno…” “Lo so, lo so, non sai tu quanta voglia avrei di occuparmi di questi vandali invece che dell’omicidio di quello zombi… ma purtroppo non posso, non decido io, e quindi mettiamoci l’anima in pace per un bel po’ di giorni. Sempre se non scopriamo subito il colpevole e così lo premia… ehm… ci leviamo di torno questa rogna. In ogni caso,” riprese fiato, il Cattivo Grassone, “di Pick Wood che mi dici? Nessuna ripresa?” “Non proprio nessuna. Era già notte, almeno un’ora prima del delitto, o forse

pure di più, quando una telecamera ha inquadrato la futura vittima e un suo compare che si stavano prendendo gioco di un povero handicappato, che peraltro qui da noi in polizia è di casa: si tratta di Hot Dog. Mentre l’altro risponde al nome di Rollo Din.” “Lo conosco bene, quel rifiuto umano… e allora?” “Allora niente di che, purtroppo. Dopo aver giocato, diciamo così, qualche minuto con Hot, se ne sono andati via ridendo.” “Uno dei due, tuttavia, ora non ride più” constatò, empirico, lo sceriffo. Torna all’indice

XIII. Torna all’indice

Il funerale fu un vero spettacolo di arte varia. Venne scelta, per le esequie, la chiesa più importante di Palusville, quella costruita al centro della città, punto iniziale o terminale (a seconda che vi si celebrino battesimi o si impartiscano estreme unzioni, mi pare chiaro) di quattro larghe vie, che tagliano l’intero agglomerato urbano come una croce greca può dividere in spicchi un cerchio zeppo di costruzioni. Una delle strade, la più ampia, costeggiata da due lunghe fila di esotiche palme giganti, conduceva all’ingresso principale del luogo santo, dove sobri mattoncini in cotto vengono spezzati da un paio di grossi oblò composti ciascuno da un mosaico di vetri smerigliati, lucentissimi, dai colori accesi, con abbondanza di viola e di rosso amarena su tutti gli altri. Per Bad Fatty e il suo agente più fidato, alla bisogna fotografo di volti patibolari, porsi di spalle all’edificio di culto si rivelò dunque la scelta più indovinata per godere dell’arrivo del carro funebre, avvistato quando mancavano ancora centinaia di metri alla meta finale. Lo guidavano quattro cavalli bianchi da circo ornati con pennacchi neri, forse sottratti con dolo ad Hollywood a qualche comparsa di film del genere cappa e spada, e lo seguivano a piedi moltissime persone, tra le quali spiccavano per stazza e gonne lunghe diverse donne, professioniste del lamento, che alternavano alle incomprensibili geremiadi ˗ roba da far rabbrividire l’esperanto ˗ dei mugolii da prefiche dell’antica Roma. Fiori, e assolutamente nessuna opera di bene, erano stati richiesti dal clan dei Wood tramite i necrologi che a iosa avevano tappezzato in un amen la città. E talmente tanti ne vennero portati che il sagrato divenne subito un’infiorata, una sgargiante moquette come non se ne vedevano a Palusville dai tempi in cui impazzavano i rave psichedelici nel nome dell’acido lisergico derivato. “Mi pare di stare dentro la copertina dell’ellepi del Sgt. Pepper dei Beatles” sintetizzò mirabilmente lo sceriffo, prima di spronare ancora, per la terza o quarta volta, l’occhialuto Jimmy Johnson a scattare flash su flash.

All’uscita del feretro, portato a spalla da sei analfabeti selezionati per l’occasione, con la funzione religiosa conclusasi solo pochi minuti prima, un artificiere dilettante lanciò nello Spazio decine di fuochi, di botti di capodanno, che macchiarono il cielo di colori fantastici come tanti zampilli di fontane da giardino. In contemporanea partì un prolungato applauso, che a Bad Fatty ne ricordò uno già visto nell’antica pellicola del Pianeta delle Scimmie. Quindi, sciami di conoscenti iniziarono ad avvicinarsi, con fare incredibilmente comato, ai familiari più stretti del non-morto defunto, che potrebbe anche essere un ossimoro. Jimmy Johnson immortalò nell’atto delle sentite condoglianze una miriade di zombi, un buon numero di appartenenti ai Pilgrim Fathers Fans, qualche ben noto estremista di destra e diversi ex boxeur. Uno di questi ultimi, in omaggio all’amico morto che in gioventù aveva calcato il ring con risultati non eccellenti, annunciò ai fedeli il proprio personale impegno ad indire, con ricorrenza annuale, un memorial pugilistico in ricordo dello scomparso. Il successo sarebbe stato garantito, perché quando si tratta di ossequiare la memoria di un cattivo esempio la gente di Palusville risponde sempre e accorre in gran numero all’evento. “Che incredibile commistione umana” constatò lo sceriffo, rivolgendosi, tra uno sbuffo e l’altro, al suo vice. “Forse solo all’inferno potremo rivedere tanta canaglia tutta insieme, eh, Jimmy, che ne dici? Così diversa… eppure… eppure anche così simile. Come giudicare altrimenti la visione di tanti miliziani della svastica che parlottano amichevolmente con i membri della razza inferiore? Di notte sognano la loro totale eliminazione e di giorno li accompagnano all’assalto di qualche furgone blindato. Chissà se questa comunanza” si interrogò ancora Bad Fatty “è soltanto strategica, prima della resa dei conti nel giorno del giudizio, o è proprio indice di un’autentica somiglianza. Neonazisti e zombi: uguale prepotenza, stessa vigliaccheria, identico grado di scolarità. Forse questi ultimi sono solamente un po’ più lenti…” concluse mister Stella di Latta, che da anziano si stava rivelando come un grande amante delle similitudini più ardite. “Poi non parliamo dei pugili” disse la sua Jimmy Johnson. “Non li sopporto proprio!” si lasciò sfuggire, accompagnando la frase con un moto di stizza. “Soprattutto quando si riempiono la bocca di parole come noble art o rispetto dell’avversario. In loro non ho mai visto niente di nobile o di artistico. Tanta cattiveria, questa sì l’ho veduta, e pure una certa naturale predisposizione ad andare in giro in compagnia di pit bull senza muola e a soggiornare negli istituti di pena.”

“Di arancio vestiti, direbbe un poeta.” Dalla cattedrale di San Paolo defluirono, come tanti rigagnoli di un ruscello, tutte le persone che avevano assistito alla messa. Nell’osservarle con la dovuta attenzione, parevano perfettamente uguali a coloro che più di duemila anni prima avevano votato Barabba il giorno del ballottaggio con Gesù. Tornato nuovamente spoglio di bestie, di cavalli e di Cavallini rampanti, con la bara rivestita d’oro massiccio già sulla via del cimitero (cappella privata extra lusso, ci mancherebbe), sul piazzale antistante la chiesa si stagliò una corona, retta da due assi di legno disposte ad X, che sormontava un cuscino di lucida seta gialla. Il presente floreale, eccessivamente ingombrante, volgarmente ingombrante, riportava sul nastro in preda a svolazzamenti il nome in corsivo dell’assente più illustre. “Mancava solo il sindaco Kalergi e la feccia poi sarebbe stata al completo” osservò Bad Fatty, consapevole di come non sempre sia conveniente per un generale di corpo d’armata presenziare ad un addio pubblico, soprattutto quando il morto era stato un colonnello dal pedigree non certificato dall’accademia. Torna all’indice

XIV. Torna all’indice

Gli interrogatori partirono la sera stessa del de profundis. Il primo ad essere convocato fu il gemellino di Pick Wood, quel Rollo Din che da galantuomo qual era ritenne opportuno presentarsi in compagnia del miglior avvocato di Palusville, il quale entrò nell’ufficio dello sceriffo vestito con un completo, pantaloni, giacca e cravatta, che si continua a vendere anche in Grecia solo grazie ai penalisti e ai becchini. In compenso, Rollo sfoggiava attorno al collo tre catene di dimensioni differenti, un orecchino con brillante incastonato al centro del lobo, quattro bracciali, due per polso, e otto o nove anelli alle dita ˗ si salvava a malapena un pollice ˗ tra i quali spiccavano uno a foggia di testa leonina e un altro di tipo piscatorio, con tanto di impronta ad immagine di Pietro che lancia la rete nel lago di Tiberiade. Neanche la Madonna di Pompei!, pensò Bad Fatty, che si sorprese non poco per la frase che gli era uscita dalla bocca, presto complimentandosi con una mente inesorabile, la sua, che al volo aveva riesumato un’esclamazione di moda ai tempi del nonno, quando a Palusville c’erano ancora i mangiaspaghetti. “Chiuse, le Ferrari?” domandò loro lo sceriffo, al posto del saluto. “Perché sapete,” proseguì “con tutti questi delinquenti che ci sono in giro…” L’insolito benvenuto non smosse di un millimetro l’imibilità di mister Rollo, che prima si accomodò senza attendere il permesso e poi, dopo un’occhiata d’intesa rivolta al suo legale, disse soltanto: “Cosa vuole, sceriffo?” “Vorrei scoprire chi ha ammazzato il tuo amico” rispose, dry, Bad Fatty. Che proseguì la frase solo tra sé e sé… per complimentarmi con lui… “Anch’io” non fu da meno Rollo Din. “Bene. Allora vuol dire che abbiamo lo stesso obiettivo.” “La pena di morte.”

“In Florida, del resto, non l’hanno ancora abolita” constatò lo sceriffo, che aggiunse, cercando così di eliminare dal colloquio ogni ulteriore elemento surreale: “Sappiamo che siete stati insieme per molte ore della notte… di quella notte… Le telecamere sparse in città parlano da sole, ma mi chiedevo se vuoi aggiungere qualcosa. Tipo a che ora vi siete lasciati e se hai un alibi tra le tre e le cinque del mattino. È anche tuo interesse rispondere. In fondo, se collabori, ci aiuti a scoprire l’assassino di un tuo amico, di uno della tua stessa razza.” “Non sono una razza, sono un popolo” esordì l’avvocato, evidentemente etnologo per hobby, e fu come udir rotolare la pietra di una sentenza d’alta corte. “Grazie per la specificazione,” rispose subito Bad Fatty “ma non…” “Ma non toglie e non mette nulla alla mia decisione” riparlò Rollo “di non voler dire niente. Di alibi ne ho quanti ne vuole, lo potete immaginare, e se sarò costretto dalla legge ve li presenterò ad uno ad uno. Ma non ditemi di andare a braccetto con uno sbirro… Con tutto il rispetto, sceriffo.” “Sta bene” non si scompose Bad Fatty. “Però dite al vostro cliente” continuò volgendo la testa verso il difensore “di non lasciare…” “Assistito, sceriffo. I medici hanno i pazienti e le prostitute hanno i clienti, mentre gli avvocati hanno solo assistiti, e non è la stessa cosa. Anche se poi, volendo andare fino in fondo nell’analisi, va ammesso che tutte e tre queste meritorie professioni sono unite non soltanto dall’essere delle autentiche missioni, ma pure dal fatto che si prefiggono il medesimo risultato: quello di lenire le sofferenze altrui.” “Vedi, Jimmy, che faccio bene ad arrabbiarmi quando sento qualcuno sostenere che la nobiltà d’animo non si acquista con una laurea? Comunque ha ragione lei, va bene così, non riferisca nulla al suo assistito e tanti saluti.” Appena i due furono usciti fuori dalla stazione di polizia, l’agente Gin, da dietro la tastiera del computer si permise di chiedere al suo diretto superiore il motivo di tanta accondiscendenza verso un sospettato e il perché di così poca grinta nell’affrontare un interrogatorio scemato subito in semplice colloquio. “Si è portato appresso l’avvocato, figliolo, e quindi non avrei potuto fare altro. Mica potevo prenderli a sberle, no? Anche se mi sarebbe piaciuto, eccome se mi sarebbe piaciuto dargli addosso. Soprattutto al secondo, credimi. Comunque

nulla è inutile, perché questi faccia a faccia servono sempre a qualcosa, fidati.” La sera, tornato a casa per la cena, Bad Fatty notò che per la milionesima volta la moglie, come faceva da vent’anni, aveva apparecchiato anche per il figlio che non c’era più. In effetti fu tentato anche quella sera, per la milionesima volta, di rimettere piatto, posate, tovagliolo e bicchiere al loro posto, in credenza e nei cassetti, con la solita meravigliosa lentezza. Ma non lo fece. Dopo venti anni di rassegnata routine, quella sera là non disse cara, non le carezzò i capelli riuniti a crocchia dietro la nuca e soprattutto non aprì sportelli nella cucina. Bensì spalancò la finestra, prese il piatto bianco del figlio fantasma come fosse un frisbee e lo lanciò in strada. Quindi afferrò la gola della consorte con una sola mano e quasi l’alzò da terra. Non mollò la presa, lo sceriffo, fino a quando il gorgoglio di dolore non si tramutò in rantolo di premorte. Soltanto allora allentò un pochino la morsa, giusto per farla riprendere a respirare, per far sì che il sangue compresso nella testa ricominciasse a circolare, ad irrorare il cervello quel tanto che poteva servire. Nel momento in cui si sincerò, infine, che l’amata sposa avrebbe ben compreso il messaggio, pronunciò una frase, una soltanto, semplice e al tempo stesso terribile. “Se rivedo ancora, anche una sola volta, quel posto in più a tavola, prima ti scanno e poi ti butto ai porci.” Quindi, ritrovando chissà da dove la calma, si informò su quali manicaretti avesse preparato per cena il tesoro della vita sua. Torna all’indice

XV. Torna all’indice

Per la mattina successiva era stato convocato Hot Dog. Una chiacchierata con lo sceriffo, in fondo niente di più per un soggetto che in quel solo giorno avrebbe potuto indossare una duplice veste: quella, sicura, di vittima di soprusi e quella, eventuale, di teste. Assassino no, che fosse lui l’assassino non sembrava proprio possibile. Nell’attesa che Hot irrompesse nel posto di polizia, con la foga già messa in campo in altre decine di occasioni ate, Bad Fatty e il suo vice Jimmy Johnson ˗ chiamato dallo sceriffo anche Miami Vice, data la sua qualifica e considerato che si stava in Florida ˗ si ritrovarono a parlare del più e del meno. Perché capita, sia nella vita di tutti i giorni che nei peggiori romanzi, e non dovete stupirvene, anche questo: e cioè che due rappresentanti della legge, in orario di lavoro e dunque nel pieno esercizio della loro funzione, invece di occuparsi del caso facendo magari il punto della situazione, per cinque minuti o forse pure dieci decidano di mettersi a scambiare due chiacchiere sull’essere e sul divenire, come diceva Talete. (di sicuro non era Talete) “Ehi, capo,” partì la recluta “ma lei se lo ricorda quando qui a Palusville c’erano ancora i neri?” “Negri, figliolo, quante volte te lo devo ripetere che si dice negri?” “Ma veramen…” “Comunque sì, me lo ricordo” e allora, come per caricare l’orologio della mente, come per dare lo start al ato remoto, si infilò nell’orecchio un quarto di dito mignolo e incominciò a girare, alla stregua di una mini trivella che cerca il cerume nel pozzo delle trombe di Eustachio. “Vivevano tutti nello stesso quartiere, verso le paludi, dove per spostarsi

usavano, al posto delle macchine, vecchie barche dai nomi scrostati o motoscafi di quart’ordine, che però filavano a pelo d’acqua ch’era una meraviglia. Ai negri piacevano quei posti: acque piatte e interamente ricoperte da ninfee galleggianti, salici come chiome al vento, balaustre, imbarcaderi… roba da suicidi, insomma.” “Quasi come a Venezia!” “Non proprio, figliolo. Qui, quand’ero piccolo io, le sabbie mobili stavano dappertutto: un piede messo male e amen, addio mia bella. Io ci andavo perché m’ero fatto due amichetti negri… di nascosto da mio padre, mi pare ovvio, che votava Ku Klux Klan… e insieme ci divertivamo un mondo. Le acque verdastre della laguna sembrano statiche, ma al dunque si rivelano ingannevoli ed infide. La melma permette ai fiori e alle piante di galleggiare sull’acqua, con le ranocchie che ci si spaparanzano sopra, sdraio, occhiali da sole, cocktail in mano e cannuccia tra le labbra. Poi però, all’imbrunire, noi acquattati aspettavamo i padroni della palude per tirargli i sassi… Sentivi prima un fruscio, quindi un impercettibile smottamento del fondale, ed ecco che spuntavano fuori due occhi a palla, due fanali con tanto di palpebre a sipario che si aprivano e si chiudevano ogni tot secondi tra un battito e l’altro, regolarissimi. Ci potevi rimettere l’orologio, se ce l’avessimo avuto. Infine apparivano le creste dei dorsi… e allora noi… giù con le sassate e via! Scappavamo verso le case, seguendo un percorso preciso che solo i miei compagni conoscevano a menadito. Se a Venezia si pescano, non lo so, i ricci di mare o le vongole, qua gli alligatori avrebbero pescato noi, se non fossimo stati sempre attenti. Ricordo che poi, arrivati sulla terra ferma, lì nel quartiere, diciamo così, dove stavano le famiglie dei negri, poteva capitare anche di vederli, gli alligatori intendo, attraversare tranquillamente una strada o are, che so, in mezzo ad un parcheggio. Tanto terribili apparivano dentro il loro elemento naturale, quanto inoffensivi, lenti e pure un po’ ridicoli, con quelle zampette a reggere tutto il corpo, come palafitte in movimento, erano sulla terra. La palude era il nostro mondo, ragazzo. Il nostro parco divertimenti e il nostro zoo privato. Allora ci viveva ancora una tribù di Seminole, che mettevano paura più dei lucertoloni! Con tutte quelle piume in testa, le casacche leggere e dai colori accesi, col viso dipinto, ogni tanto ne sbucava uno da dietro una pianta, tra i giunchi, nei canneti, e noi ce la davamo a gambe levate perché, nelle nostre fantasie di bambini, loro, i pellerossa, erano i selvaggi, erano i diavoli di Satana” e nel pronunziare quest’ultima frase Bad Fatty scosse la testa e si lasciò andare ad una risata tanto inattesa quanto fragorosa. Una grassa risata piena di nostalgia. Quindi continuò,

logorroico come non mai. “Oggi invece i Seminole non fanno paura più a nessuno. Nemmeno ai lattanti. Tranne Manitù Smith, che è uno tosto e che poi è seminole solo da parte di madre, o addirittura erano i bisnonni ad essere purosangue, perché poi hanno cominciato ad incrociarsi con i negri, che sono per natura degenerati, e hanno perso tutto… Stavo dicendo?” “Dei nativi che…” “Nativi nativi! Pellerossa, figliolo, quante volte ti devo ripetere che si chiamano pellerossa o al limite indiani?” “Ma veramen…” “Comunque, a parte Manitù Smith, che tiene un giornale, e io lo ammiro pure, anche se non mi sta troppo simpatico, tutti gli altri pellerossa mi fanno soltanto pena. O sono ricchi, furbi e ignoranti, nei loro casinò, ma sono pochi, o chiedono l’elemosina sui marciapiedi, e sono la maggioranza. Almeno i negri se ne sono andati via per stare meglio, e hanno fatto bene… anche se in fondo non li ho mai capiti. La loro zona… molti non lo sanno… non era niente male: vivevano in casette fronte strada, con tanto di giardino per il barbecue della domenica, tabellone e canestro da basket con la retina a maglie di ferro e veranda per fumare la pipa sul dondolo al tramonto. Con un po’ di voglia di fare ˗ ma i negri ridono per un nonnulla e sono pigri per dna ˗ e d’inventiva, le loro case sarebbero potute diventare quelle che oggi le agenzie chiamano villette residenziali monofamiliari. Non molto differenti, posto auto escluso, dalla proprietà dei Simpson.” “Nel sentire lei, capo… mi scusi ma mi pare di stare a leggere La capanna dello zio Tom.” “Non ho mai aperto un libro in vita mia, io!” affermò con sconfinata fierezza. “Beh, io invece i negri, come li chiama lei, sceriffo, per forza di cose ho imparato a conoscerli solo attraverso i romanzi. Tipo appunto La capanna dello zio Tom della Beecher Stowe, che resta però il più infarcito di pregiudizi e di luoghi comuni sul negro buono, riconoscente e persino consapevole della propria inferiorità, quasi a proprio agio nella posizione sociale del suddito fedele. O Il buio oltre la siepe, ben diverso, a mio avviso un capolavoro, il cui titolo

originale e più appropriato è Uccidere un uccellino canzonatore, della Harper Lee, donna pure lei, discendente peraltro di quel generale Lee delle truppe sudiste sconfitte a Gettysburg… o Radici di Alex Haley, o Mandingo di Kyle Onstott. Tutti romanzi da cui hanno tratto delle pellicole cinematografiche particolarmente apprezzate, c’è da aggiungere. Come si fa a dimenticare Kunta Kinte? O Gregory Peck nei panni dell’avvocato Atticus Finch? Per non parlare del pugile peso massimo Ken Norton, che ruppe pure la mascella a Cassius Clay, nell’erotico e morboso Mandingo.” “Stop!” intimò Bad Fatty. “Di lezioncine non ne ho bisogno” aggiunse, nel tentativo di preservare la sua brutalità. “Non volevo metterla in difficoltà, capo, mi creda. In lei c’è tutta la saggezza della vita vissuta, c’è la cultura dell’esperienza, e non è poco. A proposito degli zombi, ad esempio, lei cosa ne pensa?” “Del morto e del suo compare?” “No… intendevo proprio degli zombi come popolo. Ormai ci siamo abituati a vederli tra di noi, non ci facciamo quasi più caso… ma in fondo chi sono? Da dove vengono? E quand’è che sono arrivati qua in Florida? A volte mi sembra di esser parte di un sistema sociale che ha voluto rimuovere dalla memoria un periodo, che ha dimenticato qualcosa del proprio ato.” “Ti dovevi laureare in sociologia, ragazzo.” “Ma no, sceriffo… è solo che mi interessa scoprire certi meccanismi collettivi, tutto qui. Molti, quasi tutti in verità, dicono che sono arrivati con i barconi, con le boat people dell’ondata migratoria di cinquant’anni fa, ma io non ci credo…” “Se è per questo c’è anche chi sostiene che sono apparsi all’improvviso, extraterrestri provenienti da non so quale pianeta che ci hanno mangiato i ricordi… e questo ti pare verosimile? Se vuoi sapere la mia, la faccio facile: secondo me gli zombi ci sono sempre stati, sin dalla notte dei tempi. È solo che quand’erano pochi, tutto sommato inoffensivi, relegati nei loro quartieri e al limite dediti soltanto al furto del rame o dei cavalli, non ci si faceva caso, quasi nessuno s’è accorto della loro esistenza. Quando invece hanno prima fatto il salto di qualità nel mondo del crimine, quindi hanno iniziato a comandare e alla fine si sono presi la nostra bella Florida, anzi gliel’abbiamo lasciata prendere, per vigliaccheria e senza muovere un dito, ecco che allora i bianchi, di colpo, si

sono svegliati! E ora la situazione è in due parole questa: c’è chi si indigna, pochi, e chi se li è fatti amici, la maggioranza. Va di moda avere un amico zombi che all’occorrenza ti risolva un problema, sai? È trend, fa cool, ti dà un certo tono!” “Poi però c’è anche chi tenta di combatterli… come lei, capo!” A toglierlo definitivamente dall’imbarazzo in qualche modo creatosi ci pensò Hot Dog, anima candida, che irruppe nella stazione di polizia con la delicatezza di un cucciolo ferito di rinoceronte cieco. “Li denuncio!!! Mi dovete aiutare… contro questi bastardi! Bastardi! Bastardi!!!” furono le frasi del monotematico, tanto mal articolate quanto paradossalmente chiare nel contenuto. Per me è idrofobo. No, secondo me è epilettico. Macché! Qui ci troviamo di fronte ad un raro caso di licantropia diurna. Vedete? Sta sbavando! Queste erano state di norma le considerazioni riferibili al comportamento di Hot Dog, ma quell’ultima volta, per fortuna, quando dietro alle sue spalle apparve il suo amico del cuore, tutti si chetarono all’unisono. A voi è già stato presentato sotto le mentite spoglie del Gufo. The Owl il Pauroso. Torna all’indice

XVI. Torna all’indice

Fondamentale entrare sempre insieme e sempre a seguito di un preciso fatto accaduto. Per non destare mai sospetti. Poi, una volta dentro, ci avrebbe pensato lo sceriffo, in ossequio ad un accordo che veniva rinnovato ogni volta, a dividere la coppia in modo da restare qualche minuto a tu per tu con il Gufo. Il giochetto andava avanti da anni e spesso aveva anche prodotto i suoi piccoli frutti. Certo, poteva pure accadere che vi fosse l’urgenza di un abboccamento da consumarsi immediatamente, senza programmazione, e allora occorreva inventare al volo una scusa per vedersi di nascosto, tipo amanti, ma era un’eccezione. Perché la regola era un’altra e come ormai avrete intuito anche voi consisteva nel periodico rendiconto che A faceva a B sulle voci inerenti tutto ciò che di illegale si stava svolgendo o si sarebbe svolto a Palusville. Insomma: c’era lo sceriffo, c’era lo scemo del villaggio e c’era un uomo qualunque, il quale un giorno decise di far suo il nome di un preciso rapace per coltivare il mestiere dell’informatore e l’hobby dello scrittore di lettere anonime. La storia del Gufo è quella di un ragazzo, mai cresciuto del tutto, che a modo suo è riuscito anche da adulto a rimanere dentro il mondo della play station e delle fiabe a lieto fine. L’alto senso di giustizia, il sistematico impulso ad aiutare gli indifesi, peraltro fortificato dalle visioni serali nonché seriali di telefilm con i punitori a far da protagonisti, il Dexter della polizia di Miami in primis, ci mancherebbe, lo portarono a tentare di intraprendere, terminata l’università, prima la via della magistratura e poi la carriera all’interno delle forze dell’ordine. Tuttavia, per un verso o per un altro, non fu in grado di concretizzare la sua ambizione, e questo provocò, nel tempo, innanzitutto l’insorgere di uno stato depressivo e quindi, una volta ristabilitosi, la necessità di trovare comunque un altro impiego che

soddisfe la sua naturale inclinazione. Che fare, però? Che fare, a quel punto, se non il confidente, il soffia, la spia? Anche se quest’ultima definizione al Gufo non era mai piaciuta perché lo rendeva troppo 007, troppo pulito per uno che invece aveva scelto il più sporco dei mestieri possibili. Cioè quello, per assurdo invece nobile, di chi, a rischio continuo della propria pelle, si immerge in una discarica solo per uscirne con la notizia giusta, che spifferata al piedipiatti non corrotto ˗ sono pochi, ma ce ne sono ˗ serve a ripulire le strade di qualche rifiuto. Cioè quello di chi, in una società nella quale il valore più alto è l’omertà, non si fa gli affari propri, peraltro rischiando più di tutti perché agisce senza distintivo e senza protezioni. Da solo come un super-eroe, per l’appunto. “Perché lo fai?” gli chiese, guarda tu, esattamente quel giorno, lo sceriffo. “Per i pochi dollari che mi i” rispose il Gufo, all’improvviso quasi contento della possibilità di sfogarsi che gli era stata concessa. “In verità c’è una grande soddisfazione, che ti riempie e che è difficile da capire, se non la si vive, nel sapere che grazie a te, e solo a te, un delinquente è finito al fresco, tutto qui. Certo, io, da buon gufo, volo ancora basso… ma forse non sarà sempre così. Per ora mi accontento di far cogliere sul fatto uno spacciatore, di segnalare un abuso edilizio, di fotografare un fan dei Pilgrim Fathers che ruba in un megastore, cosette del genere. A proposito…” e si prese all’improvviso una pausa di riflessione. Più breve di quelle che le sue fidanzatine si prendevano con lui prima di lasciarlo per un altro, ma non tanto breve da evitare che lo sceriffo avesse il tempo per spronarlo. “Parla!” “Quattro giorni fa c’è stato uno scambio di opinioni, chiamiamolo così, tra il sindaco Kalergi e uno dei due capi dei Pilgrim Fathers Fans…” “Little Tony?” “Sì, lui.” “Non era difficile indovinare il nome. Uno zombi e l’altro bianco, oltre che razzista e sospettato di appartenere al Ku Klux Klan rifondato. Ufficialmente svolge il lavoro di galoppino per un politico di mezza tacca, consigliere

comunale a Naples del partito nemico di quello di Kalergi. Comunque continua.” “Niente… mi pare che si siano incontrati per caso in pieno centro città, di mattina. Ne è nato un alterco, al culmine del quale Little Tony ha apostrofato il presidente della sua squadra con un eloquente zombi di merda. Sembra che il sindaco non abbia reagito…” “Sai, il ruolo che ricopre…” “Ma se la deve essere ugualmente legata al dito, se è vero che la sera stessa i suoi scagnozzi, il morto ammazzato e Rollo Din, sono andati a bussare alla porta di casa di Little Tony, che stava a cena con tutta la sua famiglia, mamma, moglie e due o tre figli… non so bene quanti ne abbia.” “Ce ne importa poco. E allora?” “Allora l’hanno fatto scendere in strada e uno dei due zombi gli ha piazzato la pistola in quel triangolino che sta tra le sopracciglia e l’inizio del setto nasale.” “Precisino, che sei! In quei momenti, aggiungo io, se guardi troppo la canna rischi di diventare strabico, lo sai?” “Non ci avevo mai pensato. In ogni caso, poi, pare con molta calma, lo hanno semplicemente invitato, per il futuro, a disertare la curva dello stadio. Che adesso, lo saprai, è completamente in mano agli zombi. Intimidazioni, rivendita dei biglietti d’ingresso, cresta sull’organizzazione delle trasferte, gestione del marchio…” “E lui ha obbedito?” domandò Bad Fatty, mentre tutti i polpastrelli della sua mano destra si stavano coordinando nello scovare qualche vietcong imboscato tra il cuoio capelluto. “Ogni volta che mangio un’arancia a colazione,” si giustificò “mi gratto la zucca per ore.” “Credo proprio di sì” rispose il Gufo. “O almeno diciamo che alla finale di campionato nessuno l’ha visto, e infatti i cori d’incitamento li ha lanciati l’altro capo, ora promosso ammiraglio. In fondo, diciamocela in tutta franchezza: lei cosa avrebbe fatto, sceriffo?” “Io? Beh… invece di vedermi la partita di lacrosse, io me ne sarei andato a giocare a golf. È uno sport che toglie i pensieri, rasserena l’anima.”

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XVII. Torna all’indice

A Little Tony non era mai andata giù. Non lo sopportava proprio, che una tifoseria ˗ la sua tifoseria ˗ storicamente composta soltanto da bianchi fosse stata contaminata, sporcata diceva lui, dalla presenza, anche massiccia, degli zombi sugli spalti. E non solo: l’affronto maggiore aveva cominciato a viverlo quando anche la società venne rilevata da uno zombi, appunto il Kalergi. Ma ci rendiamo conto? si chiedeva con retorica ogniqualvolta arringava i soldati a lui fedeli, ormai ridotti a poche unità, dell’esercito dei Pilgrim Fathers Fans. La nostra città, nata grazie ai pionieri, ai coloni, ai puritani, ora è retta da un sindaco zombi; e ugualmente, come se non bastasse, pure la nostra squadra di lacrosse, sostenuta da tempo immemorabile solamente dai discendenti delle famiglie bianche, ora ha come gestore lo stesso zombi, Obi Kalergi. A volte, per assurdo, penso ˗ come dice il detto? ˗ che si stava meglio quando si stava peggio! Perché siamo quasi arrivati al punto di rimpiangere i tempi in cui a Palusville vivevano ancora i negri e il lacrosse lo giocavano gli indiani. Che almeno erano uomini veri, nemici leali. Il fastidio nell’esser costretti a condividere con gli zombi la gioia di una vittoria, con annesso rischio di abbracciarli dopo una rete, unito all’imbarazzo provato quando era capitato di dover spiegare come fosse possibile per dei bianchi sostenere una squadra presieduta da un non morto, aveva portato, tempo addietro, i Pilgrim Fathers Fans alla decisione di fondare un nuovo club di lacrosse. Un club smaccatamente ariano, per capirci. Purtroppo per loro, però, l’avventura durò solo l’arco di tre stagioni, tutte vissute nell’anonimato dell’ultima serie, e dopo l’entusiasmo dei primi momenti, quello dovuto alla novità, i duri e puri ritornarono sui loro i, dimostrando in tal maniera che la coerenza non è una qualità che si può acquistare all’emporio. Mentre, in sostanza, i Pilgrim Fathers Fans si esibivano davanti a cento spettatori ˗ ers sulle gradinate che incitano altri ers improvvisatisi giocatori, potremmo definirli ˗ i Pilgrim Fathers E Basta, con a capo il più votato dei primi cittadini della Florida, davano il meglio di loro dinanzi a migliaia di apionati. Ciò fino a quando, giunti questi ultimi alle soglie dei grandi

palcoscenici, i Fans organizzati ritennero semplicemente che tutto sommato fosse arrivato il momento di abbandonare il loro progetto alternativo per risalire sul carro del vincitore. E di colpo non importò più nulla che il Vincitore fosse uno zombi. Tutti i Pilgrim Fathers Fans furono d’accordo a ritornare nell’ovile… che poi è la casa dove brucano le pecore, no? Tutti tranne uno, a dire il vero, perché Little Tony si oppose, affermando che occorreva rimanere autonomi da Obi Kalergi e dai Pilgrim Fathers, che a suo dire avevano tradito i principi delle origini vendendosi agli zombi. Tipo tosto, il piccolo Tony. Talmente deciso e risoluto che i bookmaker della città lo quotarono subito come il primo dei sospettati, come il più maggiordomo dei maggiordomi, quando, sei giorni dopo l’omicidio di Pick Wood, uno dei dodici figli illegittimi di Rollo Din entrò negli uffici del Police Department di Palusville per denunciare la scomparsa del proprio padre. “Che ne pensa, capo, di questa nuova notizia?” domandò il Vice Miami. “Parli della sparizione di Rollo Din?” “Sì, certo.” “Beh… penso che aveva dei bellissimi tatuaggi old style, ecco che penso” rispose lo sceriffo. “Aveva?” Torna all’indice

XVIII. Torna all’indice

Trentasei ore prima dell’ultimo avvistamento di Rollo Din ˗ pareva in buona salute ˗ il Seminole Citizen era appena uscito con una prima pagina, al solito diversa, dedicata ai Washington Redskins di football americano e ai Los Angeles Clippers di pallacanestro. Sembrerà strano, ma lo sport non c’entrava per niente.

“Bufera in casa dei Clippers. Il proprietario della franchigia, l’ottantenne Donald Sterling, è stato radiato da ogni carica presso un qualsiasi club della NBA per aver pronunciato, durante un colloquio telefonico privato intercorso con la sua ex fidanzata, le seguenti parole: Non capisco perché devi postare su Instagram le fotografie di te che posi con i tuoi amici neri. Fai quello che vuoi, vacci a letto, esci pure con loro, ma non portarmi alla partita questa gente… In contemporanea: la Virgin America, sponsor ufficiale della squadra, si è tirata indietro; i cestisti della squadra hanno inscenato una protesta contro il loro datore di lavoro presentandosi in campo contro i Golden State Warriors con il lutto al braccio e con i calzettoni, le fasce e i polsini neri; e persino il presidente degli USA ha invitato mister Sterling a vendere la sua quota di proprietà e a farsi da parte. A nulla è valso” aveva scritto Manitù Smith “far rilevare le origini ebraiche del razzista, o il fatto che questi aveva pronunziato il termine neri e non il politicamente scorretto, anche se esatto, negri, o che la conversazione via cavo fosse stata carpita con dolo e illegalmente resa pubblica. Tutto questo è importato poco, anzi niente, all’opinione pubblica di una nazione, l’America!, dove, in anticipo sul Paradiso, gli ultimi sono davvero diventati i primi. Non meno ridicolo è stato il ricorso di alcune tribù di indigeni miei cugini alla lontana per ottenere che il sodalizio dei Washington Redskins togliesse, o al limite modificasse, il soprannome Pellerossa perché ritenuto offensivo e discriminante rispetto ad esempio al più preciso Nativi. Volete un mio commento? Dopo che il grande capo pellerossa Manetola trafisse col suo pugnale il trattato di resa ai visi pallidi urlando Combatteremo finché crescerà l’erba!, l’esercito degli Stati Uniti si convinse di poter sopraffare con facilità i Seminole. Di fatto, però, novemila soldati americani, benché armati di tutto punto, rimasero per mesi impantanati

nella melma delle Everglades, tra sciami di insetti e nugoli di rettili, e alla fine non riuscirono affatto ad avere la meglio su meno di duemila guerrieri rossi. Occorreva evidentemente cambiare tattica, o meglio rispolverare quella di sempre, quella basata sull’inganno. Quando il generale Jesup comunicò a Manetola di esser disposto a ridiscutere un accordo, quest’ultimo acconsentì a vederlo, fiducioso della bandiera bianca, l’ingenuo. L’incontro infatti segnò la sua fine: all’arbitrario arresto seguì prima il carcere e poi la morte. Senza il condottiero più carismatico, la resistenza indiana subì una sbandata, ma non si piegò. Molti Seminole ripiegarono nell’accogliente Messico o sulle isole Bahamas, ma non pochi rimasero in palude per proseguire la guerriglia. A nulla valsero le taglie faraoniche poste sulla testa da mozzare di ogni pellerossa e l’impiego sistematico di mute di cani ferocissimi da inseguimento. L’ultimo tentativo fu quello di offrire laute somme di denaro in cambio di spontanee migrazioni. Fallita anche questa soluzione, al governo americano non rimase altro che rassegnarsi alla presenza in Florida della più irriducibile delle tribù indigene. I bianchi, all’atto del consuntivo, avevano malamente impiegato quaranta milioni di dollari e sprecato oltre mille e cinquecento vite di giacche blu. Manetola, che solo il tradimento aveva potuto strappare alla sua terra, aveva dunque vinto. E ancor oggi, nelle Everglades, se si sa indirizzare bene l’orecchio, è possibile sentire la presenza degli spiriti dei pellerossa che non si arresero mai. Tutto il resto è lana caprina. Parola di Redskins. Augh!”

L’ultima pagina, invece, la 4 per l’esattezza, di un foglio ancora ciclinprop e ormai storico a Palusville, riportava, nel mare piatto e noioso di tanti AAA Cercasi o Vendesi, un annuncio cifrato per destinatari incappucciati. Si capiva che era urgente una riunione per la sera stessa, nella solita villa abbandonata, poco oltre la palude, ma l’inserzionista frettoloso non aveva fatto i conti con uno di quegli alluvioni che hanno reso la Florida il miglior set per film biblici. Le avvisaglie, in questi casi, si sa, le portano sempre il vento, che all’improvviso prende a fischiare e a staccare le foglie dagli alberi, e le bestie, che in anticipo di minuti sulle sensazioni degli esseri umani captano il cambio d’atmosfera e schizzano via a trovare rifugi sicuri. Poi c’è solo da fermarsi in attesa che i la tempesta, rimanendo ciascuno nella propria tana, casa o covo che sia.

La perturbazione, quella sera violentissima e neanche breve, parve riuscire quasi a sollevare il livello della palude al punto, pensate, che per le salamandre divenne invero arduo reggersi in equilibrio sui loro surf alla clorofilla durante la corsa verso i lidi di una nuova residenza. Le scariche elettriche apparse in cielo, una appresso all’altra, avevano reso il luogo fissato per l’incontro ancora più lugubre, soprattutto quando i primi fantasmi bianchi iniziarono ad aggirarsi per il maniero. Due scale prive di corrimano salivano da lati opposti fino a congiungersi nel pianerottolo d’entrata, al centro della magione, davanti al portone d’accesso. Le finestre, o almeno tre delle quattro presenti sulla facciata principale, erano mancanti di vetri, mentre alcune ante di legno sbattevano ripetutamente sugli infissi e sui muri, in alternanza. Piante rampicanti di varie specie avevano aggredito gran parte dello stabile, come una vita aliena che con pazienza conquista ogni giorno un centimetro di un cadavere pietroso e mattonato che forse, un dì lontano, avrà conosciuto pure lui momenti di festa e di gioia confederata. L’invito era stato reso noto solo con poche ore d’anticipo, lo scatenamento degli elementi ci aveva messo del suo e poi c’è anche da aggiungere che i bei tempi della fede assoluta e dei grandi falò erano decisamente andati; ragion per cui al rendez˗vous si presentarono soltanto otto irriducibili klansmen. La buriana era appena ata, dunque, nel momento in cui il Gran Ciclope prese per primo la parola. La natura, allora, al proferir della sillaba iniziale, sembrò gradualmente risvegliarsi grazie ai suoi inconfondibili rumori: i eri ripresero a cinguettare, i rami degli alberi si sgranchirono di nuovo, i fruscii delle innocue piante si confo con lo scalpiccio prodotto dalle zampe degli alligatori che tornavano negli stagni e con lo strisciare sinistro delle serpi attorcigliate ai giunchi più grossi, come naufraghi che vanno su per l’albero maestro, ultimo appiglio prima di maledire il creato per non averli fatti nascere pesci. Quindi l’umidità esplose nuovamente, mentre banchi orizzontali di nebbia avanzavano come armate nel buio incombente. Nel mezzo di tutto ciò, le candide tuniche dei novelli congiurati donavano al paesaggio un che di cupo e di tetro.

Che erano uomini e non spettri ce lo dicono alcuni elementi di contorno, solo all’apparenza insignificanti, che ridanno allo spettatore la speranza che alla fine il bene possa ancora trionfare perché solo le persone, e non i fantasmi, possono essere scoperte e sconfitte. I convenuti calzavano infatti stivali di gomma dura talmente ricoperti di fanghiglia che il loro colore verde militare appariva per lo più a tratti e quello giallo di un paio di scarponi si rivelò solo quando i proprietari pensarono bene ˗ come probabilmente da sempre ordinavano loro le mogli prima di ogni rientro a casa ˗ di battere ripetutamente e con energia le suole sul terreno: la mota schizzò quindi altrove, sporcando interni già impolverati e cadenti, e così il giallo trionfò sotto le vesti bianche come il sole quando fa capolino all’alba. Tutti indossavano, sopra il saio della purezza, mantelline impermeabili. Le stesse che, appena terminato di svolgere la loro precipua funzione antinfluenzale di copertura, vennero prima scosse più volte nel vuoto e infine appese sui pannelli di tre attaccapanni. Gesti normali, comuni, consueti in inverno nei corridoi di ogni abitazione, nelle hall di qualsivoglia circolo di amanti del biliardo o negli ingressi di tutti i pub ove si gioca a freccette tra un sorso e l’altro di schiumosa birra. Gesti semplici che si ripetono nel tempo. Gesti a cui nessuno fa caso, a meno che a compierli non siano degli incappucciati che si fanno guidare dal Grande Stregone di un Impero in guerra. Che fossero individui in carne ed ossa, dicevamo, e non apparizioni di ombre paradossalmente bianche lo rivelarono dunque queste piccole azioni di tutti i giorni: uno scarpone di diversa foggia o la mantella riposta sopra un divano e non allineata alle altre solo perché chi la indossava, uomo tra uomini, appunto, magari ha temuto che si potesse confondere, a fine riunione, con un’altra uguale. Proprio come si faceva alle feste di compleanno con i bicchieri di plastica: dopo aver bevuto vai sempre a cercare un angolino particolare dove riporre il contenitore per poi ritrovarlo con la sicurezza che sia il tuo. Anche il delitto, potremmo aggiungere, a volte fiorisce nei campi della quotidiana normalità. “Portate il prigioniero!” comandò il Gran Ciclope del Covo di Palusville, senza però volgere lo sguardo verso un preciso subordinato. “Vado io!” si offrì uno dei sette klansmen disposti a ranghi liberi dinanzi al loro capo.

L’occhio attento di un osservatore allenato avrebbe di sicuro notato che i due fori creati nel cappuccio del volontario per permettergli di vedere non erano stati aperti alla medesima altezza dalla base. Del resto quei particolari copricapo a cono non erano stati ordinati ad una fabbrica o commissionati ad uno stilista di Miami Beach, ma erano ciascuno il prodotto artigianale dei taglia e cuci realizzati da mogli mute e servizievoli. Ed una di esse, evidentemente, aveva sgarrato di qualche millimetro. Il delitto, ribadiamo, a volte si nutre della più assoluta normalità. Torna all’indice

XIX. Torna all’indice

Ce ne vollero due, di klansmen, per condurre Rollo dinanzi a tutti. Uno alla sua destra e uno alla sinistra, alzarono la seggiola dove l’avevano legato come un rosbif e con fare massonico lo disposero sul banco degli imputati. Criminale davanti ad una giuria di criminali. I colpi che si erano già abbattuti sul suo volto si vedevano tutti. Lividi arrecati senza la minima preoccupazione che potessero essere un domani rilevati. Forse anche per questo il prigioniero, consapevole del destino che di lì a poco l’avrebbe atteso, non la smetteva di lanciare improperi all’indirizzo dei sequestratori. Gli insulti e le minacce di chi o è sciocco o è semplicemente conscio del proprio destino. Solo per qualche momento ˗ un minuto o poco più ˗ si insinuò nell’anima del condannato la speranza di venir fuori da quella palude, di potersela chissà come ancora cavare. Fu quando il Gran Ciclope, invece di rispondere al Perché? reiterato più volte da Rollo (la curiosità alberga nelle menti dei morituri, a quanto pare), decise all’improvviso di dare un’opportunità alla vittima. Magnanimo come un monarca ai tempi d’oro dell’Uganda. “Un attimo di silenzio” richiese, questa volta alla stregua di un preside che si rivolge alla sua scolaresca. “Bene” continuò spostando il capo in direzione di Rollo Din. “Allora, zombi, stammi a sentire e cerca pure, se puoi, di metterti nei miei panni… Oddio, si fa per dire. Ti parlo con tutto l’affetto possibile, ma comprenderai bene che per me, anzi per ognuno di noi, è già un’impresa stare qui davanti a te, che sei, diciamocela tutta, più brutto di una qualsiasi opera dell’avanguardia postmoderna di artisti che ora va per la maggiore.” Qual è, in fondo, la differenza tra un’opera di Picasso e un incidente d’auto? pensò quindi per un attimo, prima di riprendere a parlare.

“Dunque aiutami a non andare per le lunghe e concentrati, ché voglio darti una chance: se mi saprai rispondere alla domanda che sto per farti… suspense… doppia suspense… potrai andartene da qui libero!” Constatata l’assenza assoluta di mormorii o commenti, elevò leggermente il tono della voce ovattata dalla tela aderente alla bocca per dire: “Credo di meritarmi un applauso…” e a quel punto giù ovazioni, spellate di mani, clap clap da stadio, gioia incontenibile ed autentico tripudio. Era diverso tempo, infatti, che non si vedeva a Palusville un Gran Ciclope così bravo a coniugare l’autorevolezza con l’ironia. “Basta bast bas…” si schernì, gigione. “Piuttosto andiamo alla domanda. Sei pronto, zombi?” Rollo abbassò la testa una sola volta. La faccia tumefatta appariva lucida, imperlata da gocce di sudore che senza sosta scendevano dalla fronte. Gli occhi ˗ due palle nerissime ˗ ricordavano quelli di un bambino affamato e ancora speranzoso di ricevere un tocco di pane. “Allora ascoltami… e ti avverto che puoi esprimerti pure a parole tue. Lo faccio per venirti incontro, ok? Bene: cos’è un jumbo?” A Rollo non parve vero. La domanda era facilissima e lui conosceva ovviamente la risposta. Del delinquente ch’era stato in anni di carriera non sembrava esser rimasto nulla. E del bimbo ch’era diventato da pochi minuti non aveva assunto solo gli occhi ma anche l’ingenuità e la fiducia nel prossimo. “È un aereo…” rispose, con la semplicità dei puri. Ancora silenzio nell’aula, in attesa dell’ormai scontato verdetto. “No, mi spiace” decretò il Gran Ciclope, diffondendo stupore a destra e a manca. “Intendevo con la g, la g di George Washington… peraltro un padre della Patria! Il giambo, caro mio, è il piede metrico della poesia greca e latina ed è formato da una sillabe breve e da una lunga. A ben vedere, tuttavia, pensa tu che strano: questo curioso lemma ha pure un secondo e diverso significato… che è quello di scherno, di beffa. Non so se hai colto il nesso” aggiunse, e con una mano, guantata anch’essa di tessuto bianco, forse lino, mimò un gesto, come a voler avvitare con le dita un’invisibile manopola posta accanto all’orecchio

corrispondente. “Per essere chiari, Rollo carissimo, mi sono preso gioco di te!” Dopo quella frase scoppiò un’univoca, compatta e devastante risata. Alcuni, poi, si misero ad ululare per il divertimento, altri si ressero a più riprese la pancia per contenere lo sbellicarsi e infine uno si alzò pure un lembo di troppo della candida stoffa per detergersi le ultime lacrime. “Mamma mia quant’è bella la vita!” gridò un klansman. “È un’elegia!” specificò un altro. “È un distico elegiaco!” urlò un terzo. “È un distico giambico, a questo punto!” concluse un ultimo incappucciato. E via ancora con le risate. Di nuovo risate. Tante risate. Risate che tuttavia si interruppero in simultanea allorché un rumore improvviso spezzò l’allegria condivisa. Parve a molti il sibilo di una frustata nell’aria, ad altri il fischio acuto di una sferzata di vento inatteso. Era invece il suono del Golfista. Torna all’indice

XX. Torna all’indice

La nuca venne centrata in pieno. Anche se da quella distanza, a dire il vero, non ci voleva molto. Effetto deflagrante. Fiotti di sangue denso, quasi polposo, schizzarono dalle froge e soprattutto dalla bocca, che si otturò. All’urlo di dolore, infernale, seguì presto un lungo gorgoglio e almeno una cinquantina di scatti convulsi della testa, uguali ai postumi di una scossa elettrica. Fremiti da salmone fresco steso sul bancone di marmo di una pescheria. È morto, ma il corpo ancora non lo sa. Il capo klan aveva colpito, colpito di nuovo, e sei dei sette spettatori riuscirono a contenere la reazione in uno scatto della testa o in un indietreggiare dei talloni accompagnato dallo strozzamento in gola di qualsiasi parola. Soltanto uno, evidentemente il più giovane, il più inesperto, colui che solo pochi giorni prima aveva ricevuto il battesimo di fuoco, non fu in grado di controllare la propria pancia, che fece scattare verso l’alto una sorta di ascensore. Così, in un batter di ciglia, la cena da poco consumata arrivò prima in gola, poi nel palato e in ultimo, dopo la breve corsa del giovane lontano dagli occhi dei suoi confratelli, fuori, finalmente, a mo’ di una cascata che diventa in un niente pozza acida e maleodorante. “È un ragazzo… Impressionabile come tutti i ragazzi” giustificò il Gran Ciclope, a mo’ di un papà che conosce il mondo, sa come vanno queste cose e non si preoccupa affatto se il suo figliolo è ancora tenero. Perché tanto si farà, eccome se si farà. Il silenzio di tomba, dopo un omicidio, è d’obbligo. Dura di norma almeno un paio di minuti. Poi però tocca tornare operativi e rimboccarsi le maniche senza ulteriori indugi. “Fatelo sparire” ordinò indicando, come se ce ne fosse stato bisogno, il cadavere dello zombi Rollo Din, riverso in terra con il volto schiacciato su una mattonella e il resto del corpo, ancora imprigionato alla sedia, fermo in una posizione

innaturale, scomposta, involontariamente simile al braccio di una svastica. “Buttatelo nella gora degli alligatori e qui pulite bene tutto” concluse il Gran Ciclope di Palusville, uomo coscienzioso, amico degli animali. Di minuti invece ne trascorsero otto prima che uno dei cavalieri della camelia si accorse che il nuovo arrivato non era però tornato indietro dalla precipitosa ritirata. Di sua sponte, diligente, si staccò dal gruppo per dirigersi verso la stanza vicina, quella dove i conati dell’imberbe si erano esauriti nella più assoluta riservatezza. Tuttavia del giovane non v’era alcuna traccia. Nella camera solo un camino triste, un lampadario con gocce di cristallo di Boemia, una pozza di alimenti in avanzato stato di macerazione ˗ che se lasciati lì avrebbero irrimediabilmente corroso il pavimento in rovere di Slavonia, c’è da aggiungere ˗ e quindi orme di stivali numero 43, che a i regolari portavano mota e vomito prima in un altro vano e infine all’aperto. Come la scia dei sassolini di Pollicino che si perdeva nel bosco. “Se n’è andato… è scappato…” altro non disse, il klansman sospettoso, appena rientrato nella sala della macelleria. Quattro o cinque secondi di interdizione precedettero un ennesimo ed ultimo comando del Gran Ciclope. “Trovatelo! Conosciamo la palude certamente meglio di uno sbarbato! Tre di voi appresso al debole di stomaco, mentre voialtri tre liberatemi dalla vista di questo zombi. E mi raccomando: niente testimoni. Che il traditore vada a far compagnia a Rollo Din nella pancia dei lucertoloni! Addio.” Veder saltare il fuggitivo tra pantani, acquitrini e sabbie più o meno mobili fu come assistere all’allenamento di un olimpionico di salto triplo. Nemmeno un batrace del Kansas avrebbe potuto fare meglio, perché l’improvvisato atleta fu capace di uscire fuori dalla palude mortifera senza sbagliare un colpo, senza mai andare a fondo nella melma con un solo piede. Medaglia d’oro. La fortuna dei principianti.

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XXI. Torna all’indice

Una volta giunto alle porte della città, l’incauto razzista reputò conveniente disfarsi sia dell’abito monacale che del cappuccio. Durante la fuga non si era sfilata la maschera per non essere riconosciuto, ovviamente, e si era tenuto addosso il vestito perché gettarlo lungo la via avrebbe significato dare agli inseguitori un punto di riferimento. Aveva pensato così, e la decisione presa di corsa (in tutti i sensi) si rivelò indovinata. Il sudore e in progressione l’affanno, l’angoscia, la paura e il terrore sfociarono quindi nella salvezza. Di ore ne erano trascorse diverse, ma non abbastanza per veder sorgere la palla incandescente. Fece in tempo a rammaricarsene, il romantico, prima che una incredibile spossatezza gli consigliò di trovarsi presto un posto sicuro dove abbandonare le sue residue forze. La buona sorte lo baciò ancora una volta. In lontananza si notava un chiarore, l’alone prodotto da un lampione solitario, e si intravedeva la sagoma di un casolare di campagna che lui, Fortunello, sapeva essere disabitato da un dì. Aveva già preso la decisione di raggiungerlo quando si mise a riflettere sulla stranezza della vita: dopo tanto cuore in gola, tutto si sarebbe aspettato tranne che esser letteralmente travolto da una impellente esigenza di sonno. Avrebbe voluto tornare a casetta, o meglio ancora andare dalla polizia per ammettere gli errori dovuti all’età e vuotare il sacco su ciò a cui aveva assistito, impotente, ma le membra e le palpebre gli imponevano altro. Andare nanna, disse esattamente così, tipo Tarzan al figlioletto Jack, ma tra sé e sé, come fosse un cucciolo scampato per miracolo alla furia della progenie di Erode. Il fieno, si sa, per un ragazzo può essere di gran lunga più accogliente di un materasso. L’aurora, dopo tre ore di incubi, comunque spuntò, e non poteva essere altrimenti: il gioco del cambio della guardia tra sole e luna, in fondo, durava da sempre, dagli albori del big bang, fin dai tempi di Nabucodonosor e anche prima. Alla fame, che aveva cominciato a farsi sentire, riuscì a non pensare troppo. L’esigenza primaria era un’altra, era quella di denunciare tutto per diventare di

conseguenza personaggio pubblico, aumentando così le probabilità di mettersi in salvo definitivamente. Dello sceriffo Steiger non si era mai fidato ˗ chissà perché, poi, dato che non lo conosceva di persona ˗ e allora mise subito da parte l’ipotesi di precipitarsi innanzitutto da lui. La scelta, di rimando all’aver scartato la prima soluzione, non lasciava che un’altra opzione e basta. Nelle cittadine, come forse anche nelle metropoli, chi può dirlo, se non è A allora è B, non si scappa. Chi vuole rendere noto qualcosa di grosso e di illecito o va dalla Giustizia o bussa prima alla porta della Stampa. Scelta nelle scelta, quella tra l’Echo e il Seminole Citizen, e anche in questo caso pesò sulla decisione la fiducia nelle figure di riferimento a capo dei due quotidiani. E Manitù Smith poteva essere tranquillamente posto, quanto a rettitudine, varie spanne sopra il collega rivale e solo una sotto a Gesù. Per lui medaglia d’argento, di conseguenza. Tutti a Palusville sapevano che Manitù Smith dormiva nei locali del suo giornale, e quando non lo faceva, comunque apriva la serranda alla prima luce dell’alba. Antiche abitudini della gente di una volta. Cappuccetto Rosso bussò sul vetro smerigliato del Seminole Citizen più di un’ora oltre l’aurora, intorno alle sei e mezza, e nel compiere quel banale compito immaginò per un secondo di stare nel Far West e non in Florida. “Ragazzino!” Lo salutò così, il vecchio Manitù, corrucciando non poco la fronte. “Posso parlarle, direttore?” “Ci conosciamo?” “No… ma a lei la conoscono un po’ tutti e…” “Anch’io devo averti visto in giro, da qualche parte, ultimamente.” “La città è piccola.” “La gente mormora.” “E la papera non galleggia.”

“Soprattutto se sbaglia stagno” concluse il direttore del Seminole, esperto botanico. “Entra, avanti, e pulisciti bene le scarpe, ché mi sporchi tutto. Anzi, toglitele proprio, è meglio.” “Ok” e il fuggiasco sarebbe rimasto a piedi nudi come un carmelitano se non fosse stato per il suo paio di calzini bianchi fuori moda, di quelli che se te li scorge una ragazza prima di… Di andarci a letto te lo puoi scordare. Per il resto indossava pantaloni di un beige coloniale, alla zuava, camicia bianca a sbuffo da cospiratore che vorrebbe il Quebec se, occhialetti da vista con un elastico che legava le stanghette tra di esse dietro la nuca, zazzera biondo cenere, con la frangetta, e vari fili di fieno (o di paglia, mai capita la differenza) sparsi qua e là, su tutti i vestiti, camuffati nella chioma e persino appiccicati sulle guance rubiconde. Classico nerd universitario, tanto per inquadrarlo. Pieno stile Richie Cunningham, l’intramontabile. “Che mi racconti, figliolo? Anzi…” e mutò espressione dopo averlo osservato meglio “che ti è successo, direi.” “Ecco, direttore…” “Intanto accomodati dove trovi posto. Quella pila di vecchi quotidiani sembra proprio una pila di vecchi quotidiani… e invece è una poltrona, pensa!” Manitù Smith aveva calcato sulla zucca un cappellaccio da australiano, bianco con fascia nera attorno alla cupola. Lo portava sulle ventitré, alla John Wayne. Solo la penna di corvo che gli scendeva giù, dietro un orecchio, poteva far intuire al prossimo l’esistenza di avi pellerossa. Quindi indossava, non senza classe, un gilet di renna sopra una camicia giallo ocra, mentre riguardo alla parte bassa è meglio, molto meglio, lasciar perdere: ciabatte infradito e pantaloni del pigiama rosa pallido, pieni di pilucchi e rinforzati all’altezza della patta e del sedere da un rammendo di stoffa a quadri grossi, inguardabile. ava per un bell’uomo, ma erano i particolari a fregarlo. “Grazie” rispose quindi il bamboccio. Poi fece un sospiro, come a voler prendere fiato e coraggio al tempo stesso. “Appartengo, purtroppo, al Ku Klux Klan e… questa notte ho assistito ad un omicidio” disse.

“Lo so.” Torna all’indice

XXII. Torna all’indice

Dalla padella alla brace, fece in tempo a pensare il ragazzo senza nome, che all’improvviso si sentì, più che in preda al panico, semplicemente sfinito. Di nuovo privo anche di una sola stilla d’energia. Manitù Smith gli puntava addosso una Colorado Jager calibro 22, a canna lunga, di fabbricazione svizzera, imitazione della Colt. Produce fori piccoli, è vero, ma ugualmente letali se chi la impugna sa il fatto suo. Altri pensieri, al giovinotto, non vennero in mente: la tipica tabula rasa di chi si trova a guardare il mondo dalla parte sbagliata. Dalla parte del foro d’uscita di una sputafuoco. “Non muoverti e stai calmo” ordinò il pistolero con la freddezza d’espressione di chi non vuol sentire repliche. “D’accordo…” accennò il malcapitato con un sopravvissuto filo di voce, quasi femmineo, che scomparse del tutto quando lo sguardo si volse dritto verso un paio di stivaloni di gomma riposti accanto allo stipite di una porticina che pareva essere quella del bagno. Scarponi che si adoperano, per essere chiari, quando si vuole andare a pesca di trote nel fiume o a caccia di zombi in palude. Erano ancora belli impiastricciati di tutto quel po’ che si può trovare nelle Everglades dopo il aggio di un uragano, ma nella zona alta, quella che copre i polpacci e che solitamente è nascosta dai pantaloni, la tinta originaria era rimasta e si notava eccome. Gialla netta, se non addirittura accesa. Il colore già visto addosso a chi era presente nella villa della morte. È finita, pensò… ma si sbagliava. “Non è come sembra” l’avvertì infatti Manitù Smith prima di iniziare a spiegare ogni cosa. “Ti verso il caffè” disse subito dopo, il gentiluomo d’antan. “Non ho brioche” aggiunse, quasi a scusarsi, in un frangente come quello, per l’imperdonabile falla

nel servizio. Quindi andò al sodo: “Mi sono infiltrato nel Ku Klux Klan un anno fa, o poco meno, e non è stato per niente facile. Di questi tempi anche per entrare nella Spa del razzismo ci vuole la raccomandazione. Da non crederci…” “Povera America!” “All’inizio l’ho voluto fare perché sono sempre stato, sono e resterò un giornalista ficcanaso. Per ricavarci, insomma, un servizio da vendere, magari al Post, o anche per farci uscire fuori un libro˗inchiesta, sulla falsariga di quello del famoso Stetson Kennedy di un secolo fa. Accumulo informazioni, studio l’ambiente, respiro l’aria ˗ aria doc, eh! ˗ e alla fine li ridicolizzo ben bene, avevo pensato. Poi però… col are dei mesi… m’è cresciuta dentro l’idea di andare oltre. Quando ho capito che a parte il folklore, i proclami, i raduni iniziatici, il rituale della croce di fuoco e qualche azione dimostrativa c’era pure la criminalità, mi sono detto: se ci riesco, io a questi qua li faccio sbattere tutti in galera!” “E perché allora non l’ha fatto? Ha avuto un anno a disposizione…” “Che dire… hai ragione pure tu. Non ho scusanti, perché non sono stato capace di intuire il momento giusto, perché non ho saputo cogliere l’attimo… anche se non mi sarei mai aspettato una deriva così immediata. Gli eventi sono precipitati nel giro di ore e… e ci è scappato il morto.” “Il semaforo, all’incrocio pericoloso, lo mettono sempre dopo l’incidente mortale, mai prima” disse il saggio. “E in ogni caso i morti sono due…” “Già, due. E neanche quello, avevo capito, dannazione! Fino a stanotte ho creduto davvero ad un serial killer, e mi ci è voluto di vedere il ferro da golf in mano al Gran Ciclope per fare due più due… ma oramai era troppo tardi per intervenire. Mi avrebbero ammazzato là, sul posto, senza pensarci su una frazione di secondo. Invece tu, alla fin fine, ragazzino come sei, hai avuto sì paura… ma anche tanto fegato, tutto sommato.” “Sì, va bene, le credo… sono costretto a crederle… ma ora che si fa?” “No, figliolo, adesso siamo in ballo e tu devi essere convinto al cento per cento, non devi essere costretto a credermi… Guarda, tieni!” e Manitù Smith, Asso di cuori, Fante di picche, giocatore d’azzardo, girò a sorpresa il revolver ponendo il calcio sul palmo del giovane timido. “Adesso il gingillo calibro Ora pro nobis è

in mano tua e le parti in campo si sono invertite. Mi credi, ora?” “Le credo” rispose, non prima d’aver buttato un’occhiata al tamburo, pregno di confetti di piombo. Da bambino mi piacevano più quelli rossi al cioccolato, che si compravano per le comunioni, rispetto a quelli alla mandorla dei matrimoni, pensò, tanto per distrarsi. “Allora dammi del tu, che il lei non l’ho mai sopportato, e apri le orecchie, perché davanti a noi non è che abbiamo molto tempo.” Il caffè nero si era freddato, ma il teenager, giovane ben educato, di buona famiglia, moderato nei comportamenti, morigerato nei costumi e di sangue sano, bevve lo stesso. “Dobbiamo agire subito e senza tentennamenti. Innanzitutto tu da qua non esci; rimani nascosto per almeno un giorno, forse due, e cerca anche di non far are la tua ombra davanti alle finestre e alla vetrata. Da leggere ne hai quanto vuoi e puoi farti una doccia, mentre io ti porterò del cibo a più riprese, un po’ alla volta per non destare sospetti. Piuttosto: hai spento il telefonino?” “Andato. M’è caduto nella palude durante la campestre.” “Meglio così, irrintracciabile. Quindi io andrò prima dallo sceriffo per…” “Lo sceriffo Steiger? Ti fidi di Bad Fatty? Io non mi…” “Tu sei troppo piccolo d’età per conoscere tanti eventi accaduti. Adesso non c’è tempo, ma una cosa, una soltanto, te la posso dire: il vecchio Rod è un uomo convinto davvero che i bianchi siano cittadini di serie A e gli zombi di serie B, se non Z, ed è pure il classico tipaccio che quando c’è da chiudere un occhio se quattro figli di papà bianchi, ed ubriachi, su una di quelle loro decappottabili vintage schiamazzano, strombazzano e di notte si divertono lanciando petardi addosso a qualche casa, lo fa, anzi li chiude tutti e due, gli occhi… ma poi si ferma lì. Davanti ad un duplice omicidio no, non fa distinzioni, lo conosco bene, credimi. Fa solo finta di fregarsene ˗ in fondo deve tener fede al suo personaggio, intrattabile e classista ˗ ma vedrai che andrà avanti come un treno, fintantoché non avrà messo le manette ai polsi del colpevole. Insomma, malgrado il suo vantato razzismo, alla fine della storia te lo ritrovi sempre dalla

parte della vittima, chiunque essa sia. E soltanto allora tornerà a riposarsi, senti a me.” “Uno a volte si lascia influenzare da quello che si sente in giro…” si giustificò il ragazzo. “Lo so, capita ed è pure normale che capiti. Ma non sempre, ricorda, l’abito che uno si cuce addosso fa…” “L’ho già sentita.” “Bravo. Allora concludo: insieme allo sceriffo, a cui racconterò tutto, è chiaro, preparerò una trappola nella speranza che il Gran Ciclope ci caschi. Per prima cosa occorre che si convinca della tua morte, e poi che si persuada dell’urgenza di una nuova riunione. Appare complicato, ma potrebbe pure rivelarsi un gioco da ragazzi.” “Allora fa per me.” Torna all’indice

XXIII. Torna all’indice

Manitù Smith suonò il camlo dell’ufficio di polizia mascherando la tensione grazie ad alcuni rudimenti della meditazione zen imparati chissà dove. Venne ad aprirgli direttamente Bad Fatty, all’occorrenza usciere, spesso tuttofare, individuo in fondo eclettico, quando ci si mette, oltre che ligio al dovere, dato che era presente sul posto di lavoro, imperterrito, come sempre e senza mai lamentarsi. Non chiederti cosa può fare l’America per te, ma cosa puoi fare tu per l’America, non a caso, era il motto dello sceriffo Rod Steiger, crumiro ante litteram. “Ah che bella giornata!” esordì nel vedere Manitù sull’uscio. “Questa mattina, appena alzato dal letto, ho la televisione e ho subito beccato un programma incentrato sul problema della discriminazione degli zombi, povere creature. Poi, una volta uscito di casa, mi ha fermato in strada un ogm umano per chiedermi dove era ubicato ˗ ha detto proprio così ˗ l’ufficio per registrare le unioni gay. Io allora gli ho sferrato un calcio, mi pare scontato, stavo anche in divisa, ma non l’ho preso e m’è partita pure la scarpa. Figura di merda, tra parentesi. E ora, per completare, arrivo a lavoro e chi mi ritrovo davanti al primo bussare della giornata? Cavallo Pazzo! Che magari vorrà informazioni su dove si depositano i ricorsi per riottenere la proprietà di qualche sacra collina, vero? Ora tu dimmi: cosa può esserci di peggio?” Bad Fatty aveva una pancia stupenda e un senso dell’umorismo fantastico. Come non volergli bene? “Che dirti: incontrare uno sbirro?” contro-rispose ˗ punto interrogativo in più, punto interrogativo in meno ˗ Manitù Smith. “Comunque, Rod, è un affare serio” e così riportò l’ordine, facendo in contemporanea svanire quel po’ di buonumore che si era sparso nell’iperuranio. “Metti per un momento da parte almeno due o tre delle tue fobie più eclatanti e

ascoltami bene: so chi ha commesso i due omicidi.” L’ultima frase la bisbigliò solamente. “Due?!?” In ufficio, a quell’ora, non c’era anima, ma a Bad Fatty venne lo stesso istintivo ruotare di qualche grado la testa e insieme le pupille, a destra e poi a sinistra, tipo spettatore agli U.S. Open di tennis, per guardare attorno come a volersi sincerare dell’assenza in loco di orecchie larghe. “Vieni nella mia stanza” disse, con lo sguardo di colpo ombroso. Si sedettero uno di fronte all’altro ˗ in mezzo la scrivania, pezzo di poco pregio anche se il legno appariva antico e massiccio ˗ e subito lo sceriffo parlò: “Racconta” disse. “Che sai?” “Non il nome, purtroppo, ma se agiamo bene potremo arrivarci nel giro di qualche giorno.” “Fammi capire… ma prima dimmi chi sarebbe questo secondo morto.” “Un minuto solo di pazienza, ché preferisco andare con ordine. Intanto inizio col dirti che circa un anno fa mi sono infiltrato nel Ku Klux Klan.” “Benemerito club di bricconcelli. Ma sei pazzo?” “Sì… no… non lo so. In ogni caso ho capito che è stato il Gran Ciclope ad uccidere sia Pick Wood che, questa notte, davanti ai miei occhi, Rollo Din.” “Rollo Din?!?” “Sì. Ieri, in tarda serata, dopo l’alluvione, ci siamo visti nella villa della palude, quella abbandonata che sta…” “Ce n’è solo una e poi la conosco perché da bambino ci andavo a giocare ad indiani contro cow˗boy. Secondo te da che parte stavo?” “Immagino… e comunque ti stavo dicendo che siamo arrivati là ch’eravamo soltanto in otto, di klansmen… o forse un paio già c’erano, perché ad un certo

punto è uscito fuori lo zombi, Rollo Din, appunto, insalamato su una sedia, già malmenato… e insomma il Gran Ciclope, dopo un discorsetto dei suoi, un po’ c’eravamo abituati e quindi nessuno… o almeno credo nessuno… se lo poteva aspettare che all’improvviso cacciasse fuori una mazza da golf e splatt!, gli ha praticamente sfondato la testa.” “Stai scherzando?” “Ti sembra possibile che sia venuto qui da te a prima mattina per scherzare su una cosa del genere?” “No… hai ragione, ma è che… mi pare un sogno…” “Piuttosto un incubo… e non è nemmeno finita là. Uno dei nostri… insomma nostri, diciamo dei loro… per un pelo non ci restava secco, per la meraviglia e per la paura, e così prima ha rimesso e poi se l’è data a gambe.” “Per le Everglades?” “Sì, e gli ha detto incredibilmente bene. Dio l’ha assistito o o ˗ o forse è stato Manitù, chissà ˗ e questa mattina, praticamente all’alba, me lo sono ritrovato al giornale. Di te non si fidava: possiamo biasimarlo?” “E ora che fine hanno fatto i…” “Lo zombi è pasto per gli alligatori e il fuggitivo, un ragazzo, sta nascosto da me. Gli ho detto che sarei venuto qui e che avremmo, insieme, organizzato tutto.” “Tutto cosa? Questo è un dipartimento di polizia e io sono uno sceriffo, non ce lo scordiamo! Quindi dovrò fare i miei i…” “Certo, chi te lo sta negando? Ma occorre agire con intelligenza e nella consapevolezza che se ci si muove bene possiamo pure arrivare a chiudere il cerchio: catturare l’assassino, smantellare la struttura del Ku Klux Klan e magari ti ci scappa pure una promozione.” “Sai che ci faccio, io, con un avanzamento di carriera? Mi ci… lasciamo stare, ché è meglio! Comunque mi hai convinto, ti ascolto, vediamo che proponi e poi deciderò il da farsi.”

“Lo sceriffo di Nottingham sei tu. Il più cattivo dei cattivi.” “Appunto.” “In ogni caso credo che non ci sia nulla di straordinario da fare; la mia idea è tutto sommato semplice, poi non so se sarà lo stesso facile realizzarla… Comunque, dicevo: per prima cosa bisogna tranquillizzare la famiglia del giovane scampato, il nostro testimone. Per fortuna mi ha detto che vive soltanto con la madre e col padre. Non ha fratelli, non va più a scuola, ancora non lavora e una ragazza non ce l’ha.” “Ecco allora perché è entrato nel Ku Klux Klan! L’ho sempre detto io: se fai sesso, la violenza non ti attrae.” “Non ti sapevo così psicologo…” “A forza di frequentare il mio Vice Miami…” “In ogni caso, continuo, troviamo la maniera di rasserenare questi genitori sulla sorte del figlio non rientrato a casa, senza far scorgere a nessuno cosa c’è sotto, e il primo tassello è messo.” “Il più facile, anche se dobbiamo sbrigarci. E poi?” “Poi dobbiamo assolutamente… A) tenere tutti all’oscuro dell’omicidio di Rollo Din; B) far invece credere al Klan che il testimone non è più in fuga perché è morto; e infine… C) attirare in un tranello l’omicida, il Gran Ciclope.” “Semplice a dirsi…” “Ma non a farsi, lo so. Però non vedo altre scelte.” “Mmmmmm… Come pensi che si debba agire?” chiese Bad, l’Umile. “Sul primo punto c’è poco da dire. Tu non sai niente, nessuno ti ha detto niente e quindi continua normalmente a considerare Rollo Din uno scomparso. Limitandoti di conseguenza nelle ricerche, chiaramente blande perché ora sai da me che è già andato a cavalcare le celesti praterie.” “Anche gli zombi ammettete nella vostra riserva di caccia eterna al bufalo?”

“No, in effetti… Gira voce che Manitù, quello vero, abbia fatto storie persino sull’entrata libera degli Apache… troppo ladri… figuriamoci per gli zombi! No, hai ragione e faccio ammenda: frase sbagliata.” “Va be’… però il problema sorgerà nell’attimo in cui lo stato di scomparso di Rollo Din… anzi per l’esattezza di persona sequestrata… produrrà di riflesso l’arrivo di qualche So Tutto Io dell’FBI. La competenza, purtroppo, è loro, e lo è ancor di più se i federali considereranno anche il primo omicidio, quello di Pick Wood, a sfondo razziale. Da qui a momenti, quindi, la faccenda si farà ancor più intricata.” “Beh… non ci avevo pensato… ma so che al Giacca&Cravatta del Federal Bureau, tu, se ti ci metti di buzzo buono, puoi rendere l’ambientamento il meno idilliaco possibile. E in ogni caso, prima che comincerà a prendere le misure eranno magari alcuni giorni. Quelli che serviranno a noi per giungere a dama.” “Bah! Speriamo… Intanto vai al punto due.” “Sì… qui il compito sarà tutto mio. Tu non lo sai, Rod, ma il Klan, per incontrarsi, usa il mio quotidiano, o meglio gli annunci in quarta del mio giornale. Frasi in codice, a volte un falso Svendo tutto, niente di che, insomma, ma finora è andato sempre liscio, nessuno si è accorto di nulla e noi…” “Continui col noi…” “L’abitudine, oramai… Volevo dire che il Klan si è sempre riunito in santa pace, ecco.” “La stessa santa pace che dà agli altri, direi.” “A questo punto potrei continuare col medesimo metodo. Annuncio agli altri del Covo rivelazioni sul traditore e… incrociamo le dita.” “Così però il Gran Ciclope ˗ presumo che sino ad oggi sia stato sempre lui il convocatore d’assemblee, l’amministratore del condominio ˗ capirà, dato che quest’ultimo annunzio non verrà da lui, che puoi essere stato tu a farlo.” “Io, e perché? Lui crede di avermi sempre usato solo come inconsapevole vettore d’appuntamenti segreti, null’altro, e poi un Gran Ciclope non penserà

mai che un mezzosangue come me possa essere riuscito ad entrare nell’Invisibile Impero. Piuttosto crederà alla cosa più scontata, e cioè al fatto che uno dei tre che ha sguinzagliato all’inseguimento del fuggitivo alla fine l’abbia acciuffato e ucciso, come da ordine impartito. Tra i tre c’ero anch’io, ti dico, e fortuna vuole che dopo qualche centinaio di metri ci siamo divisi, e di conseguenza nessuno ha potuto sapere degli altri. In realtà io ho provato solo per un breve percorso a seguire la pista; sai, per raggiungerlo, per tentare di prenderlo per primo e così salvargli la pelle, ma poi non ce l’ho fatta più, sono uscito dalla palude, mi sono spogliato e me ne sono andato al giornale.” “L’età, il fisico…” commentò lo sceriffo dall’alto delle sue fattezze. “Quindi, infine,” proseguì Manitù Smith, senza raccogliere e rilanciare con una facile contro umiliazione “come terza azione… anche se ora che ci ragiono sopra potrei compierla in contemporanea con la seconda… convoco una nuova riunione. Sì: nel medesimo annuncio ˗ è meglio e facciamo prima ˗ comunico anche l’esigenza di un incontro, fissato per il giorno X alle ore Y, con lo scopo di raccontare com’è terminata la serata di ieri. Tre righe sul Seminole Citizen e scatta la trappola. A quel punto intervieni tu con i tuoi e ci smascheri tutti. Semplice, no?” “Come il matrimonio tra una giraffa e uno scimpanzé. La sai?” “No.” “Baciami in bocca toccami il culo, baciami in bocca toccami il culo. Infarto alla prima notte di nozze.” Torna all’indice

XXIV. Torna all’indice

La visita dell’agente speciale Scott Mulder del Federal Bureau of Investigations di Miami arrivò puntuale come i granchi sulla spiaggia a giugno. O come i fenomeni celesti, se preferite i parallelismi astronomici. Anche lui, come Manitù Smith il giorno precedente, bussò alla porta del dipartimento di polizia e anche a lui, come a Manitù Smith, andò ad aprire Bad Fatty. Il vaffanculo era dunque nell’aria. Tanto più che, al momento delle presentazioni sulla soglia, l’agente, invece di dare il buondì e declinare le generalità, pensò bene di ignorare lo sguardo dello sceriffo, preferendo nell’ordine: estrarre dalla tasca un mini registratore, azionare un pulsante dei quattro presenti, portarsi l’apparecchio nelle immediate vicinanze delle labbra e prendere a colloquiare con se stesso.

“Dopo due ore di viaggio faccio una breve sosta lungo la strada, al Kriminal Beef (mi rifocillo con ottima carne di manzo, manzo criminale, me lo appunto), continuo per altre tre ore e giungo in questa cittadina mezza sperduta: Palusville, 51.201 abitanti, per lo più bianchi, anche se pare esservi un grande stanziamento di zombi. Il cartello di benvenuto ai forestieri comunica, oltre al nome della città e al numero dei residenti all’ultimo censimento, altre quattro curiose informazioni: Attenzione: attraversamento alligatori, cucina tipica, cimitero ombreggiato, noia diffusa. Rilevata la presenza di pochissimi nativi. Assente la popolazione afroamericana. Prima di giungere davanti alla sede del dipartimento di polizia ˗ era presto ˗ ho compiuto un giro per la periferia. Al lusso apparente del centro, con palazzi in stile Imperatore Pedro e abbondanza sia di palmizi che di fontane, fa da contro altare un hinterland composto da villette rose dall’incuria, tutte uguali, con giardini mal curati e verande cadenti. Poi il paesaggio degrada in palude, zona lacustre con derive naturali verso l’acqua regolarmente puntellate da larghe piattaforme di legno che si sporgono dalla

terraferma per metri e metri. Segnalo, qua e là, caratteristici locali dai cui soffitti pendono reti a bilancia per la pesca di frodo e sulle cui mura spuntano musi impagliati di bestie che emanano afrori ancora non catalogati dalla scienza ufficiale. In tali posti, ove, beninteso, si spilla birra gelata e si distilla il Cointreau con l’orzata, sedimentano avventori votati al grugnito, eufemisticamente definibili soprappeso, gran lettori reciproci di tatuaggi e pessimi giocatori di biliardo. Tra di essi m’è parso di riconoscere mio padre, scappato di casa quand’ero adolescente con la scusa dell’acquisto di un paio di calzini e dato oramai per defunto da mamma, che poi si è risposata con lo zio Tibia. Ecco dov’era finito!”

Bad Fatty lo ascoltò attentamente per un altro paio di minuti, mantenendo sempre un’espressione imperturbabile, fino al clic finale. Quindi lo fece accomodare sulla migliore poltroncina del suo ufficio e gli rivolse la parola solo per dirgli: “Mi scusi un attimo.” Con il telefono fisso, una specie di coleottero gigante placcato di bianco avorio, selezionò il numero del cellulare di Manitù Smith, all’uopo gran inventore di soluzioni bislacche utili per l’umanità. “Ci sto!” gli disse appena l’altro proferì il Pronto? di routine. “Parti con l’annuncio e vediamo come va” aggiunse, mentre attraverso lo sfoggio di un brevettato sorriso falso teneva buono l’agente Scott Mulder da Miami. Meglio stare appresso ad un indiano comunista che a questo qua di fronte, pensò, subito dopo aver terminato di parlare. In verità Manitù Smith, uomo d’azione e non di cincischiamenti, aveva già predisposto il testo da inserire nella solita pagina degli avvisi pubblicitari. In anteprima, Ladies and Gentlemen, Mesdames et Messieurs, soltanto per voi che avete pagato! “Vendo dvd La casa del terrore con contenuti extra, interviste post finale, lettura soggetti alternativi, paesaggio set, rivelazione segreti di produzione. Inviare offerte entro h.21 di giovedì al…” e seguiva un numero telefonico inesistente.

Era presente ogni elemento utile: luogo, giorno e ora del nuovo appuntamento e utilizzo di termini adatti a far sviluppare nel lettore il desiderio di conoscere l’esito della caccia (post finale, rivelazione segreti…). Tocco di classe ultimo quella parolina set dai molteplici significati: da quello scontato di luogo per le riprese cinematografiche a quello, quasi subliminale, di serie di oggetti dello stesso tipo, insieme di cose affini, come un set di valigie, di mazze da golf… Torna all’indice

XXV. Torna all’indice

Nei tre giorni che precedettero l’auspicato plenum del KKK lo sceriffo diede il meglio di sé, rivelando in primis inaspettate doti di temporeggiatore. The Cunctator: super˗eroe dello sviamento delle indagini, gran costruttore di matasse, re degli insabbiamenti. Vittima: l’FBI; complice: la signora Steiger; mezzo adoperato: gamberetti drogati all’hawaiana (una delle specialità gastronomiche di quest’ultima). “Ottimi, signora, davvero squisiti! Ne prendo volentieri un altro po’! Suo marito è un uomo fortunato…” Il marito, in cucina principe consorte, si era dato l’impegno di farsi amico l’agente Mulder per settantadue ore, minuto più minuto meno, prima di scoprire le carte e farlo partecipare nell’assalto finale. Coinvolgerlo all’ultimo momento voleva dire ridurre sensibilmente i rischi di una soffiata, abbassando dunque le probabilità che la voce della trappola giungesse al Gran Ciclope o a qualche suo fedele suddito. Su Manitù Smith, arrivati a quel punto, doveva far affidamento per forza; del figlioccio Jimmy Johnson aveva fiducia e basta, da sempre, senza se e senza ma; e infine, quanto a Mulder, venendo questi da fuori, anche se non proprio dal freddo come quella famosa spia, v’erano ottime possibilità che fosse estraneo alla mala aria che si respirava a Palusville. Qualunque altro poliziotto andava tenuto fuori dal gioco. La notte antecedente a quella dell’appuntamento nella villa abbandonata Bad Fatty sognò. Era tempo che, la mattina al risveglio, non rammentava le immagini che gli avevano fatto visita nelle tenebre. Allo sbocciare di quella giornata, tuttavia, il ricordo dell’esperienza onirica appena vissuta gli apparve con nitidezza. Con i piedi già poggiati a terra, seduto dunque sul materasso in una postura incredibilmente meditativa, Bad Fatty volle subito raccontare il sogno alla sua vecchia sposa, che intanto, silenziosa come una filippina, gli porgeva su un vassoio marchiato dal logo della Coca˗Cola una colazione a base di sciroppo d’acero e cornflakers.

L’alzata energica della serranda fece entrare con prepotenza nella camera coniugale raggi splendenti di sole. Luce!, quindi, in netta contrapposizione al buio dell’incubo. “Ho sognato di assistere impotente alla sfilata di tutti i klansmen di Palusville” confidò. “Ma non stavamo nella main street della nostra città, come avveniva un tempo, no… eravamo in quella maledetta villa dove andavo a giocare da bambino con i miei due amici negri, la casa abbandonata oltre la palude, sai. Dalla nebbia… c’è sempre nebbia nei miei sogni… sospesa nell’aria a pochi metri da terra, mi sono apparsi come spettri, uno in fila all’altro, decine di incappucciati. C’era il barbiere, Jack dell’emporio, addirittura il notaio Peckimpour e il povero mister Boone, il sacrestano… Entravano nel portone principale, marciando con una lentezza di movimenti esasperante, dopo esser saliti da una delle due scalinate. Soltanto il primo indossava una veste nera e non quella solita bianca. Poi, pressoché all’improvviso, nelle mani di alcuni sono sbucati fuori dei campanacci e altri strumenti musicali… maracas… tamburelli… e quindi hanno incominciato una danza macabra, intanto che continuavano ad avanzare e mano a mano a scomparire all’interno di quel rudere. Beh, alla fine, non ci crederai, ma il capo klan, quello tutto nero, si è tolto il cappuccio, mi ha sorriso e… era mio padre… Poi, di colpo, sempre durante il sonno, stavo ancora dormendo, ho avvertito una stilettata al cuore, una fitta pazzesca, e allora ho pensato che sarei morto qua, sul letto, di crepacuore, se non fossi riuscito a svegliarmi. Infine ho raggiunto una pace che non ti dico e mi sono sentito benissimo… Quando in ultimo ho realizzato che stavo assistendo ad un rituale funebre, mi sono finalmente svegliato, anche se di soprassalto, tutto sudato, ed ora eccomi qui. Durante quell’ultimo minuto di dormiveglia, comunque, ho avuto la netta sensazione che quello era il mio, di funerale.” Magari, pensò soltanto la signora Steiger, senza darlo assolutamente a vedere, mentre con fare pieno di riguardi gli elargiva una carezza. “Povero sceriffo mio” disse. Nel frattempo, dalla radio poggiata sulla lavastoviglie in cucina, uscivano le strofe di una canzona lontana. Honolulu baby/Sure know your stuff… Honolulu baby/Gonna call your bluff… Bad Fatty andò con la memoria a Stan Laurel & Oliver Hardy e gli tornò il

buonumore. Torna all’indice

XXVI. Torna all’indice

Jimmy Johnson obbedì, Scott Mulder acconsentì e Manitù Smith ottenne, a suo rischio e pericolo, la concessione a presenziare alla cattura. Gli fu detto di mettersi da parte, che sarebbe stata un’azione temeraria e che non era cosa per imbrattacarte, ma niente: la sera prima aveva visto in televisione la puntata dello scrittore˗poliziotto Castle e non ci furono santi, come dicono a New Orleans. Tuttavia gli eventi non si svolsero né in una maniera prevedibile né in quella preventivata. Tanto traffico v’era stato dalle parti della villa della paura durante il sogno, per nulla premonitore, di Bad Fatty, quanto silenzio e nient’altro si trovarono di fronte i quattro uomini in quell’ora e mezza ˗ dalle 20 alle 21,30 ˗ che trascorsero accucciati attorno al luogo della riunione. Uno per ogni punto cardinale. Si aspettavano, nei minuti immediatamente precedenti l’orario fissato, un’entrata alla spicciolata dei vari membri del Ku Klux Klan locale, ma nella realtà dei fatti accaduti nessuno entrò, né in anticipo né in ritardo, all’interno della casa e nessun klansman ne uscì. Almeno con i propri piedi… Al semplice via! impartito dallo sceriffo, capostazione mancato, effettuato tramite un gesto di braccio a mo’ di leva, l’uomo posizionato ad est lo imitò, e così fece quello a nord per lanciare il segnale d’attacco all’ultimo della rosa dei venti (da non confondere col numero, anche perché erano solo quattro). Dunque il quartetto irruppe nella villa con le pistole spianate. Come in uno di quei film del cazzo interpretati da Steven Seagal, aggiungerei. E la scena che si parò loro di fronte non fu certo neanche una delle cento immaginabili. Ore prima, evidentemente, più klansmen avevano condotto lì un uomo e lì lo avevano lasciato. In modo tale che la polizia lo trovasse senza sforzi, il volto nascosto sotto il cappuccio del Gran Ciclope e i polsi legati ad una sedia di paglia già usata non molti giorni prima. “Vediamo chi è.”

La frase dello sceriffo Rod Steiger fu recepita dall’allievo Jimmy Johnson come un comando, e di conseguenza furono le gambe di quest’ultimo a muoversi con più celerità rispetto a quelle degli altri due. La mano esile e lentigginosa del ragazzo afferrò il cono terminale, nonché gelato, del cappuccio e a lui parve all’improvviso di possedere la forza di Ursus, tutta concentrata in quelle dita strette a pugno attorno ad un lembo di stoffa bianchissima. Tirò verso l’alto, è ovvio, e lo fece con inappropriata energia. “E voilà!” urlò quindi, sentendosi di conseguenza un mago alle prese con lo svolazzare di una coppia di colombe da matrimonio. La faccia sudata di Little Tony pendeva da un lato del corpo, come a voler toccare con la guancia la clavicola destra. Non al punto tuttavia da celare gli occhi: due diademi incastonati dentro un ovale contratto in una smorfia allucinata. Bad Fatty gli si avvicinò come se quanto visto fosse roba di tutti i giorni e servendosi di indice e medio uniti pressò per un paio di secondi un preciso centimetro quadrato del collo dell’uomo. “È ancora vivo” annuntio vobis. “Sembra esser stato drogato: rallentamento del battito cardiaco, dilatazione delle pupille. È come se avesse ingerito una pozione magica di peyote” diagnosticò in sequenza l’agente Scott Mulder, due anni persi nella facoltà di Medicina. Anche se poi nella vita, come nel porco, tutto torna utile prima o poi. Giunti tutti e quattro attorno al pacco umano, mani conserte dietro la schiena come dei pensionati in ansia per la sorte di una buca nell’asfalto stradale, decisero presto di ergersi a chirurghi in consulto post operatorio. “A mio avviso, colleghi,” improvvisò Manitù Smith “due sono le cose: o hanno voluto sacrificarne uno, e non uno qualsiasi ma il capo branco, per salvarsi tutti ˗ e non lo credo ˗ o questo qui” e additò Ciuffo Ribelle “non c’entra niente, magari è solo una pedina, un soldato semplice vestito da colonnello dell’esercito dell’Invisibile Impero. Probabilmente è un capro espiatorio. Secondo me l’hanno

incastrato bene bene e poi ce l’hanno servito su un piatto d’argento, come si dice. In fondo, pensateci bene, è il colpevole perfetto: forse soltanto lui in città assomma su di sé sia il movente ideologico ˗ Little Tony è un razzista della prima ora, di origine protetta, si sa ˗ che quello prettamente personale. Non dimentichiamoci infatti che il divieto d’accesso allo stadio, Tony Manero qua, l’ha ricevuto direttamente da Pick e Rollo, a brutto muso e armi in pugno. A Palusville lo sanno pure i sassi. “Sempre complottisti, voi pennivendoli” intervenne Bad Fatty. “Spesso e volentieri la risposta al perché di un omicidio è quella più semplice, e a volte è pure banale. Qui mica stiamo davanti ad un mistero della stanza chiusa, eh!” Torna all’indice

XXVII. Torna all’indice

La polizia, sin dai tempi della famosa indagine sul caso Remo ˗ lo Stato contro Romolo, sentenza depositata in Roma il 21 aprile del 753 a.C. ˗ ha fatto propria la regola delle quattro L: Love, Lucre, Loathe o Lust. Amore, Avidità, Odio o Lussuria. Come dire che un buon investigatore, davanti ad un assassinio, è bene che analizzi innanzitutto la possibilità della preesistenza di un rapporto tra vittima e uccisore incentrato su uno di questi quattro punti. Un gran numero di individui uccide perché non riesce a risolvere diversamente un problema serio sorto con un’altra persona. Ammazza dunque per questioni di sesso, o di interessi economici, o per risentimento, malanimo, o magari per il fatto che non è capace ad accettare civilmente la fine di un rapporto sentimentale. Da che mondo è mondo A elimina B perché reputa che questi gli abbia causato un danno estremamente grave o che dall’omicidio possa trarre un giovamento futuro. Con l’arrivo invece della società contemporanea, ossia quella del trionfo della psicanalisi, A comincia a decidere di far fuori qualcuno non perché ha questioni aperte con questo qualcuno, bensì in quanto ha profondi problemi, evidentemente irrisolti, solo con se stesso. Nasce così la figura del serial killer, disturbato mentale per eccellenza, che non uccide più B perché ce l’ha con lui, ma coglie nel mucchio le proprie vittime. Odia ad esempio tutte le donne e ne pesca una a caso tra la categoria delle prostitute (mai sentito di un serial killer di zitelle di chiesa, però, ed è un’ingiustizia!). Va da sé che diventa molto più difficile arrestarlo, fosse solo per il fatto che tra i due non preesisteva alcun rapporto, nessun contatto, nulla. Lo sceriffo Rod Steiger da Palusville, un granello di sabbia (mobile) nella spiaggia del pianeta Terra, propendeva per la teoria delle quattro elle e quindi, nel caso specifico, aveva colto nell’odio nato per l’umiliazione subita il motivo, il movente, della vendetta. Ma è proprio Little Tony il vero colpevole dei due omicidi? Se pensiamo alle angherie subite, la lista delle vittime di Pick e Rollo che possono essersi trasformate in vendicatori è lunga e comprende pure, senza andare lontano, Hot Dog o chi per lui, per dirne una. Arrestato per duplice omicidio, occultamento di cadavere e associazione a

delinquere aggravata dallo stampo discriminatorio, Tony Manero venne condannato in via definitiva soltanto per l’ultimo reato contestato e scontò in tutto tre anni pieni di galera. Dietro le sbarre della miglior prigione della contea di Collier aderì dunque alla Fratellanza Ariana, costola carceraria dell’International White Power, nella quale ribadì il giuramento di fedeltà alla causa. Lì dentro ebbe modo di consolidare ulteriormente la sua ideologia e vieppiù di far crescere il numero dei suoi tatuaggi. Tuttavia si mise in luce una sola volta, quando inscenò una protesta compiuta tramite un breve sciopero della fame contro l’amministrazione penitenziaria, rea a suo dire di non argli una sufficiente dose mensile di brillantina. Da allora in poi divenne per tutti, guardie comprese, Grease, e questo soprannome, in un certo senso, rappresentò la sua salvezza. In sede d’appello, il procuratore in persona, evidentemente in vena d’autogol, aprì squarci di dubbi circa la colpevolezza dell’imputato Manero nel momento in cui annunciò in aula: “Può mai macchiarsi di crimini così efferati un uomo che si fa chiamare Grease?” Da quella domanda retorica in avanti ogni udienza fu tutta una discesa libera, fino all’assoluzione finale. Una volta fuori dalle mura del bagno penale, Little Tony si diede quindi alla poesia. Imperterrito, vinse il concorso Non Son Tutte Belle le Razze del Mondo grazie al suo capolavoro Sei venuto col gommone, componimento in rima sulla iattura dello sbarco di centinaia di migliaia di zombi sulla costa della Florida, avvenuto molti anni prima attraverso il mezzo nautico del battello pneumatico noto pure come gommone. Versi satirici realizzati, neanche a dirlo, usando il metro giambico… Torna all’indice

XXVIII. Torna all’indice

Ad essere onesti, Little Tony fu baciato dalla dea bendata due volte, cosa già di per sé eccezionale se si pensa che, come recita il detto, la dea bendata è tre gradi sopra la fortuna (motto in verità inventato su due piedi dall’autore del romanzo). Non solo in appello ˗ secondo grado voluto dall’accusa per cercare di ribaltare la sentenza d’assoluzione in primo grado relativa al reato più grave ˗ ma anche nel corso del giudizio iniziale. La sorte propizia, nello specifico, si materializzò durante l’udienza riservata all’ascolto dei testimoni. Tra questi, infatti, uno gli fornì l’alibi per il secondo assassinio, quello di Rollo Din. Il nome dell’uomo chiamato a deporre a favore dell’imputato circolava in città da qualche giorno, ma un conto sono le voci e un altro paio di maniche è vederselo lì, in aula, carne ed ossa pronte a rispondere a qualsiasi domanda pur di contribuire a far dichiarare innocente un suo nemico. Già, avete letto bene: proprio un suo nemico. Perché chi salvò la vita a Tony Manero, tra lo stupore diffuso dell’intera popolazione, fu il sindaco di Palusville, nonché presidente del locale club di lacrosse dei Pilgrim Fathers, Obi Kalergi.

“Giura di dire la verità, solo la verità, nient’altro che la verità?” “Lo giuro!” e la mano sinistra scivolò via da sopra la copertina in pelle di una copia rilegata dell’Antico Testamento, mentre la destra, sino ad allora alzata a palmo aperto all’altezza della tempia, riscendeva lungo il fianco. Sono elegantissimo, pensò soddisfatto, prima di apprestarsi a parlare, e in particolare a rispondere alla domanda delle domande. “Dove si trovava sabato 26 giugno 2071 dalle ore 20 alle 24?”

“Sin da prima dell’ora di cena e per tutta la serata e la notte sono rimasto a casa mia, in villa.” “Solo?” “No, sono un uomo sposato, io. Ero con mia moglie, con la più piccolina delle nostre due figlie e con il qui presente mister Tony Manero.” In contemporanea alla pronuncia del nome, Obi Kalergi indicò con l’indice proteso leggermente in avanti, tipo mano nel Giudizio Universale, l’imputato, evitando in tal modo di rispondere alla conseguente domanda di prassi: Lo riconosce in questa aula? Quindi proseguì: “Avevamo… come si dice tra bambini… fatto pace dopo un’incomprensione, un diverbio avuto alcuni giorni prima. In cuor mio l’avevo già perdonato, e quindi ho voluto semplicemente invitarlo a casa per… sì insomma, per stare un po’ insieme. In fondo è stato per anni il direttore dell’orchestra dei fans della mia squadra di lacrosse…” “Esattamente, sa dirmi cosa avete fatto e se in quell’arco d’orario che le ho detto… e che per non sbagliarci le ripeto: dalle otto di sera fino a notte inoltrata… l’imputato Tony Manero si è mai allontanato dalla sua abitazione?” “No, mai!” La certezza dei vincenti nella vita. “Non è mai uscito,” proseguì “se non dopo l’una di notte per ritornarsene a casa, immagino. Per quanto riguarda la sua prima domanda, quel che abbiamo fatto, le dirò: le solite cose che si compiono quando si ha un ospite in casa. Abbiamo parlato nel salotto, gli ho fatto visitare tutte le centoquattro stanze dell’umile dimora dove vivo, abbiamo assistito insieme alla visione del filmino del mio matrimonio nei Caraibi, quindi abbiamo eggiato lungo gli ettari del mio orto, poi ci siamo fermati a bordo piscina per sorseggiare un metropolitan e infine ci siamo messi a tavola per cenare. Niente di che, le solite cose, come le ho già detto. In ultimo ancora, dopo aver mangiato, abbiamo cominciato a giocare.” “A golf? So che avete un nove buche con tanto di illuminazione…” provocò il procuratore.

“Ma no… cosa va a pensare!” si schernì, senza scomporsi, il sindaco, donando altresì alla platea un sorriso sotto i baffi che non portava. “Sono apionato di pinnacolo. Conosce?” “Come no!” stette al gioco il magistrato. “Ogni volta che do le carte mi infilo un due nero nella manica, pensi lei.”

L’azione di uno zombi ˗ e non di uno qualsiasi, bensì del più fulgido emblema dei morti viventi ˗ che getta il salvagente ad un bianco razzista, prototipo del suo peggior nemico, si tramutò all’istante nella più vincente delle mosse. Sia per la difesa di Little Tony che per… il bis a sindaco del candidato Kalergi. La testimonianza nel processo in coincidenza con l’inizio della campagna elettorale fu vista da alcuni come un caso e da altri, palesemente più smaliziati, come una trovata pubblicitaria. In ogni caso, l’azione a sorpresa in tribunale portò in dote, di lì a trenta giorni, i voti necessari alla riconferma come primo cittadino. Il messaggio, confezionato a dovere, che arrivò agli elettori si rivelò tanto banale quanto valido. Obi Kalergi era stato presentato dalla sua macchina elettorale come un uomo talmente onesto, specchiato e limpido, da ar sopra non solo alla divisione tra le razze nemiche, ma anche a quel risentimento personale nato per lo sgarbo, o sgarro, subito il giorno in cui venne apostrofato da Tony Manero. Il tutto per far sì che trionfasse la giustizia, in virtù della quale un uomo innocente, a prescindere da chi fosse e da cosa avesse combinato in ato, non può e non deve mai essere condannato. Va da sé che la riconferma a sindaco venne considerata dal 63% dei votanti soltanto come un naturale effetto a vantaggio di un individuo cristallino che aveva semplicemente, attraverso la testimonianza, colto l’occasione per contribuire ad abbattere gli odiosi steccati che ancora in parte resistono tra bianchi e zombi. Torna all’indice

XXIX. Torna all’indice

Palusville,qualche anno dopo.

Lo sceriffo, coadiuvato dal suo Vice Miami, aveva continuato ad elevare multe agli stranieri con targa dello Stato di New York, anche se in compenso, nonostante questo suo voler mantenere la tradizione anti-newyorkese, era riuscito a migliorare sensibilmente i rapporti con la moglie. In sostanza Bad Fatty, tutto sommato un buon padre di famiglia mancato, aveva finalmente smesso di trattarla in maniera differente a seconda dei propri scatti d’umore, mentre lei intanto aveva finalmente smesso di apparecchiare per tre. Per il resto, non ce l’aveva fatta a rassegnarsi all’idea d’aver fallito, ma quella sensazione d’incompiutezza si esplicava soltanto in un prurito ricorrente e nulla più. La su citata consorte, conosciuta nel circondario come la signora Rose (va detto, anche se stiamo ai titoli di coda), aveva vinto il primo premio in non so quale programma televisivo sui cuochi dilettanti d’America e ne fu abbastanza felice. Il piatto che presentò in finale era a base di cosce di pollo ed era stato cucinato utilizzando i seguenti ingredienti: un cucchiaio di vino bianco, due cucchiai di burro, una cipolla, cento grammi di bacon, due cucchiai di concentrato di pomodoro e due di farina doppio zero, cinquecento millilitri di brodo di pollo, un cucchiaio di mostarda, uno di peperoncino, uno di timo, uno d’origano e vaste spruzzate di paprica, aglio, pepe nero e zenzero. Alé. L’agente FBI Scott Mulder prima venne licenziato e poi si riciclò come consulente esterno di una nuova serie tv, rifacimento del vecchio sceneggiato Twin Peaks che ottant’anni prima aveva incollato il popolo americano allo schermo. La matricola numero 51 del Ku Klux Klan di Palusville, poi divenuta teste a carico dello stesso KKK, è stata senza nome fino ad ora e, a differenza del trattamento riservato alla signora Rose Steiger, tale la facciamo rimanere. Non fosse altro per essere in linea con la più ferrea delle regole degli incappucciati.

Manitù Smith ha continuato col suo mestiere anche dopo le ben note vicissitudini in cui si era fatto in qualche modo coinvolgere. Una volta di troppo, tuttavia, se la prese in un suo articolo con il re Obi Kalergi, il quale ˗ e mo’ basta!, pare che disse ˗ reagì ordinando ai suoi schiavi dei Pilgrim Fathers Fans di affiggere all’entrata dello stadio uno striscione di insulti contro il pennivendolo comunista. Frase ingiuriosa, peraltro incredibilmente priva di errori d’ortografia, che campeggiò per ben due giorni di fila perché nessuno osò rimuoverla. Il fegato, del resto, è merce rara e per di più Bad Fatty era andato da poco in pensione. Il neo Nobel, ma neanche brut, Christo Cobb aveva fatto tesoro degli eventi accaduti durante l’estate del 2071 ricavandone il suo più bel libro, un romanzo di fantascienza progressista intitolato Quando gli zombi invasero la Florida arricchendola, che poi uscì sotto Natale al grido Christo for Christmas! Dopo tale ennesimo successo continuò a scrivere per l’intera sua vita migliaia e migliaia di righe. Neanche una di queste, però, fu di solidarietà a Manitù Smith. The Owl, il Gufo, scrittore di comunicati anonimi nonché gola profonda al servizio di se stesso, della legalità e in particolare di Bad Fatty, proseguì con il suo secondo lavoro ottenendo, nel tempo, sempre meno attenzione e visibilità. Un comunicato, tuttavia, pur nella sua inutilità sostanziale, ottenne spazio nella prima pagina del Seminole Citizen, quando ancora esisteva un foglio chiamato così. Parlava dei due omicidi come se i morti fossero ancora freschi, ma le parole parvero provenire da un luogo e da un tempo lontanissimi. In sintesi, l’autore, prendendo spunto proprio dalla teoria delle quattro L, aveva evidenziato quanto non era mai uscito in precedenza, e cioè che curiosamente le indagini non erano mai state dirette verso colui che poi ha tratto il maggior interesse sia dalle morti dei due zombi che dall’incarcerazione, pur se limitata nel tempo, del razzista Little Tony. Cui prodest? dicevano i Latini prima di cercare di risolvere un qualsiasi indovinello. A chi giova? Hot Dog finì i suoi giorni terreni in una casa di riposo per licantropi spersa in un canneto tempestato di gigli e salici piangenti. Pochi attimi prima di tirare le cuoia a causa di un tumore maligno mai affrontato con le dovute cure, farfugliò nel delirio alcune frasi che l’infermiera slava dell’ospizio riportò al Gufo più o meno in questi termini: Sono proprio contento che quei due zombi schifosi sono schiattati pure loro… e bene pure per il carcere a quel capo tifoso… così s’impara a promettere il minuto di silenzio per mamma e a non mantenerlo! Bastardi tutti!!!

In ultimo Obi Kalergi. Nella qualità di amministratore della città di Palusville ha trascorso un secondo mandato a dir poco burrascoso. Le grane amministrative cominciarono appena dopo l’insediamento del nuovo consiglio comunale e nel giro di pochissimi mesi nessun settore venne risparmiato dagli scandali. La direzione del dipartimento della cultura ˗ la minuscola è d’obbligo ˗ non l’assegnò a nessuno, e del resto come si fa a dargli torto? La diffusione del sapere in fondo non produce alcun profitto economico, si sa. Gli altri campi di attività pubblica, al contrario, vennero all’ottanta per cento occupati da politici zombi e al venti da bianchi asserviti agli zombi. Il ramo del Bilancio e delle Finanze se lo accaparrò un famigerato e navigato esperto in interessi ed interessi sugli interessi, già proprietario di una banca privata illegale. Quello dello Sport, un imprenditore che come primo atto pensò, generoso ch’era sempre stato, di donare al Comune un terreno di sua proprietà. Ciò al fine di realizzare il nuovo impianto per il lacrosse. Non solo lo stadio, però, ma anche negozietti, cinema e fast food annessi. Grazie al direttore del Commercio la città fu ancor di più invasa, rispetto al ato, da slot machine e sale scommesse. Per merito di quello all’Ambiente, invece, si registrò, oltre ad un proliferare di discariche per la nettezza urbana e all’inaugurazione di una struttura all’avanguardia nel trattamento dell’amianto, anche un netto salto di qualità nella raccolta giornaliera dei rifiuti solidi: fatta fallire l’azienda compartecipata della Palusville Cleaner, il genio delegato all’ecologia sostituì i lavoratori mandati a casa con un agguerrito, organizzato e soprattutto famelico branco di alligatori onnivori. Tutti del luogo, ovviamente, perché, come recitava il più diffuso dei volantini a sostegno del sindaco in campagna elettorale… QUI A PALUSVILLE SI FAVORISCE LA MANODOPERA LOCALE!!! Il capo dell’Urbanistica si batté come un leone affinché venisse realizzata l’immensa opera della cementificazione dell’intera palude circostante. Il progresso dell’uomo non può mica fermarsi davanti ad una foresta! diceva sempre, e poi non sta scritto da nessuna parte, ripeteva ancora, proprio lui,

l’illetterato, che il verde dà più ossigeno di un bel piano particolareggiato! La commissione Trasparenza, infine, venne offerta, come da fair play oramai istituzionalizzato, ad un membro vetraio di quella opposizione partitica specializzata nella più concreta forma di baratto primordiale riassumibile con le parole Se te do questo a te, tu che me dai a me? Nonostante varie problematiche sorte in ogni dove lungo il cammino, il sindaco Obi Kalergi uscì indenne persino da un paio di tentativi di delegittimazione. Nessun evento sfavorevole, dunque, si era rivelato così forte da riuscire ad abbattere la sua proverbiale fiducia nel futuro, nel bel domani. Neanche quell’ultimo grattacapo occorso allorquando il compartimento ai Lavori Pubblici si ritrovò senza più un dollaro in cassa per asfaltare manti stradali ridotti ormai come un colabrodo. Buche ovunque, in alcuni i addirittura degli autentici crateri, non solo provocarono le scontate rimostranze dei residenti, ma scatenarono anche alcune menti goliardiche, che con ironia ed intelligenza (la prima non può esserci senza la seconda, mentre la seconda può sussistere in soggetti privi della prima dote. Siamo quasi alla fine e vi lascio questa breve perla di saggezza fatta in casa) si dilettarono sul web mettendo in piedi una burla contro il Comune di Palusville imperniata proprio sul problema strade. Fu così che nacque il PRIMO TROFEO DI GOLF SU ASFALTO CITTA’ DI PALUSVILLE. Iscrizione gratuita e ricchi premi! Le classiche diciotto buche furono individuate dal comitato dei burloni lungo il tratto della main street che partiva dalla chiesa di San Paolo, e con gran sorpresa di tutti le adesioni arrivarono a iosa. Frotte di improvvisati golfisti della domenica in scoppola scozzese, Lacoste, pantaloncino aderentissimo e guanto bianco alla mano sinistra si presentarono, nell’ora esatta del giorno stabilito, al grido di VIVA IL CATRAME! e ABBASSO IL GREEN! Lo stesso padre Ralph che sovrintendeva da tempo la cattedrale fu praticamente obbligato a sferrare il colpo d’inizio benedicendo la manifestazione con un appropriato CHE LA PECE SIA CON VOI! Tutto insomma pareva andare per il meglio, durante quel surreale meeting antigovernativo, quando il sindaco in persona, Faccia Bronzea, irruppe sul campo di gioco. “Paura, eh!” disse soltanto, mentre avanzava sventolando con la manonera un

foglietto. Poi, appena giunto nei pressi dell’abborracciato banchetto della giuria, prima sfoggiò il più solare dei sorrisi immaginabili e quindi spianò sul tavolino, davanti agli occhi dei suoi detrattori, la carta. “È la ricevuta della mia iscrizione al torneo!” urlò, anticipando ogni sorpresa. “Ed io intendo assolutamente giocare!” protestò infine, spiazzando tutti con questa sua volontà di accettare, in tutti i sensi, la sfida lanciatagli. Diavolo d’un sindaco! pensò l’organizzatore della protesta, ora preso in contropiede, colpito d’incontro, prima di pronunciarsi ufficialmente sulla sua richiesta. Dunque, dopo una breve e concitata confabulazione intrapresa con gli altri appartenenti al direttivo del comitato ambientalista The Good Giant, parlò. Con fermezza, educazione, e pure con un pizzico di coraggio. “Abbiamo controllato e in effetti la sua iscrizione, sindaco, risulta agli atti. Pensavamo ad uno scherzo di dubbio gusto… ma evidentemente non era così. Davanti al valore della regola non possiamo quindi fare a meno di ammetterla in questa gara. Una gara che però, le ricordo, è stata indetta per sollevare l’attenzione dell’opinione pubblica su un problema, non solo di viabilità ma anche di civiltà, riconducibile proprio alla sua mala… amministrazione. Di conseguenza, questa sua presenza qui ci sembra provocatoria e non ne cogliamo il senso. Lei, più che partecipare, dovrebbe spiegare… ma come le ho premesso, non la escluderemo. Si prenda allora una mazza e inizi pure.” “Grazie,” rispose Obi Kalergi “ma ho il mio personale, di ferro.” Non gli restò altro, a quel punto, che divaricare le gambe, prendere le misure dello spazio che lo divideva dalla pallina butterata, accennare due o tre colpetti di prova per essere sicuro almeno di beccarla, e via, fendere l’aria fino allo stock! di partenza. Il viaggio durò qualche secondo, brevi momenti d’attesa, e poi la pallina atterrò con un pluff acquoso esattamente dentro la buca numero 1 distante circa trenta metri. Centro perfetto, swing da professionista.

In mezzo al pubblico, tra la folla accorsa, era stato predisposto un servizio d’ordine. Per sicurezza, perché in casi come quelli non si sa mai. A capitanare gli uomini in divisa municipale c’era ancora lo sceriffo Rod Steiger, il quale assistette al colpo d’apertura del sindaco e all’improvviso, come colto da un’illuminazione, capì ogni cosa. Si guardarono a vicenda, sindaco e sceriffo, datore di lavoro e lavoratore, e in pratica nel medesimo momento accennarono ambedue un ghigno, che si prolungò oltre il dovuto, alla vediamo chi smette prima. Gioco di sguardi fissi, palpebre che erano diventate fessure e ripetuti anche se millimetrici su e giù con le teste, come a dire che io so che tu sai che io so, vero? Certo, lo sceriffo non aveva prove… ma Bad Fatty, nell’intera vita sua, aveva sempre considerato la prova di un crimine un qualcosa in più, tutto sommato un’inezia, un elemento sicuramente non indispensabile per punire, a modo suo, il colpevole. Ancor più se zombi. Torna all’indice

EPILOGO Torna all’indice

Quando esistono molteplici spiegazioni, in genere quella giusta è la più semplice. Bad Fatty capì d’aver intuito bene quando, il sei novembre dello stesso anno del torneo di golf, partì la campagna per le Presidenziali. Sul motivo per cui Obi Kalergi abbia voluto dare una lezione a Little Tony nulla quaestio. Prima ti salvo dall’accusa più grave solo per un mio tornaconto elettorale regalandoti il più inaspettato degli alibi, che magari all’occorrenza potrà valere anche come mio alibi, avrà pensato il sindaco nel momento della testimonianza a suo favore, e poi mi godo i tuoi tre anni di galera. Ossia il tempo adatto per far sì che Tony Manero potesse in tutta tranquillità meditare su chi sia opportuno offendere e chi no. Quanto invece agli omicidi dei due zombi, ci volle la partenza delle primarie per la scelta dei candidati alla Casa Bianca per mettere Bad Fatty nella condizione di comprendere qualcosa in più. Per la prima volta nella storia degli Stati Uniti d’America, infatti, dopo l’avvento di un presidente afroamericano, Barack Obama, e di una presidentessa, Hillary Clinton, pare che i tempi fossero maturi anche per un capo di Stato zombi. E considerato che nell’entourage del prescelto si era fatto inserire pure Obi Kalergi, che sicuramente in cuor suo aspirava alla futura carica di governatore della Florida, va da sé che quest’ultimo non avrebbe potuto di certo permettersi che Pick Wood e Rollo Din, autentiche memorie storiche delle sue malefatte, rimanessero in vita. Riuscirà uno sceriffo non più in servizio a dimostrarlo? Torna all’indice

NOTE DELL’AUTORE Torna all’indice

Sono consapevole di alcune inesattezze presenti nel libro. Nella maggior parte dei casi le ho inserite per esigenze di trama, qualche volta per sfizio. Ad esempio… Lo storico capo dei Seminole non si chiamava Manetola ma Osceola. Ho scelto il primo nome in omaggio all’omonimo personaggio fumettistico amico di Zagor. A proposito di dichiarazioni in ossequio, pure la città di Naples, effettivamente situata in Florida, è stata più volte menzionata anche perché è lì che è morto a sessantacinque anni d’età il calciatore della SS Lazio Giorgio Chinaglia, mio idolo da bambino insieme a… Zagor. Sì, già so cosa state pensando e vi do ragione: sono un vecchio ragazzo infelice. Il lacrosse è uno sport giocato prevalentemente dai pellerossa Huron ed Irochesi, non dai Seminole. I Puritani venuti dall’Inghilterra nel 1620 non hanno fondato alcuna città in Florida, essendo sbarcati nel Massachusett. Di conseguenza anche il nome Pilgrim Fathers non avrebbe senso per un club della Florida perché i Padri Pellegrini, appunto, si sono insediati sì sullo stesso versante, ma molto più a Nord, vicino l’attuale Boston. L’attentato di Oklahoma City, citato nella narrazione per le conseguenze legislative prodotte ai danni delle milizie suprematiste bianche, è purtroppo accaduto realmente ed ha effettivamente provocato 168 morti, ma c’è stato nel 1995 e ovviamente non intorno al 2050, come scritto. Infine la divisa dello sceriffo. Ho deciso di darle il caratteristico colore cachi perché così l’ho vista in molti film ambientati negli Stati Uniti, anche se so che in America se ne trovano anche di blu e di grigio metallizzato. Tramite Internet

non sono riuscito a scoprire quale tinta viene usata in Florida e sinceramente non mi è sembrato il caso di prendere l’aereo per andare sul posto a risolvere di persona il dilemma. Peraltro, con quanto guadagno con un romanzo mi sarei potuto permettere sì e no il viaggio di andata. Di conseguenza, una volta raggiunta Naples, lì avrei vissuto i restanti giorni della mia vita, lì forse avrei pubblicato un romanzo in lingua seminole e sempre lì, infine, solo e abbandonato da tutti, sarei morto. Come Chinaglia, però! Torna all’indice

Pierluigi Felli è nato a Roma nel 1965. Ha raggiunto la notorietà nel 2003 con l’opera Camerata addio, un caso editoriale senza precedenti che ha conquistato il pubblico di tutto il mondo con oltre mille e cento copie vendute. È autore anche di altri trentaquattro romanzi e di tre raccolte di racconti.