UN LOMBARDO ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE
Dai ricordi di Ettore Molinari
Carlo Maria Lomartire
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Copyright 2014 Carlo Maria Lomartire
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Questa è la storia di un lombardo alla prima guerra mondiale. L’ho ricavata dalle pagine di memorie che il nonno di mia moglie, Ettore Molinari, ha scritto, ormai quasi ottantenne, nella seconda metà degli anni ’60, come ho potuto dedurre dalle date dei fogli della vecchia agenda sui cui ha appuntato i suoi ricordi con una grafia incerta e malferma. Sono ricordi che risalgono alla famiglia d’origine di nonno Ettore – lo chiamavo così anche io – e che, non a caso, si fermano alla fine di quel terribile conflitto e al ritorno a casa, ad una serena e calda normalità di affetti e lavoro, che perciò, forse, non era necessario ricordare, riordinare e magari in qualche modo tramandare. Nelle memorie degli anni di una giovinezza impegnativa, laboriosa ma felice e soprattutto di quelli tragici e terribili della guerra, sentiva il bisogno di mettere
ordine. Inoltre spesso nonno Ettore aveva parlato con me e con mia moglie dei suoi ricordi giovanili, in particolare di quelli di guerra, e questo mi ha permesso di interpretare e integrare quanto aveva lasciato per iscritto.
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I TAGLIAPIETRE
Tre anni e cinque mesi di guerra, fatica, fame, freddo e la lunga prigionia hanno cambiato il corso della mia vita e dei miei pensieri. In quei giorni il mio desiderio più forte era quello di tornare a casa, nella mia famiglia, a riabbracciare i miei cari, mia moglie e i miei figli. Però, in un certo senso, quello che è tornato a casa non era lo stesso Ettore che era partito per la guerra quel 13 giugno del 1915. Quell’esperienza mi aveva profondamente cambiato, perciò sempre più spesso provo forte l’impulso a ripensare alle mie origini, a rievocare gli anni della mia formazione. Mio padre si chiamava Giosuè. Proveniva da una famiglia di artigiani tagliapietre di Bardello, nel Varesotto. Tagliapietre erano suo nonno, suo padre e i suoi zii, tutti tagliapietre nella mia famiglia d’origine, chissà da quante generazioni. Mia madre si chiamava Virginia, ed era nata in una famiglia di commercianti e pastori nella vicinissima Gavirate, sul lago di Varese. Perciò ho sempre pensato che quello specchio d’acqua, in realtà distante qualche chilometro da Varese, dovesse più giustamente chiamarsi lago di Gavirate. A quei tempi l'istruzione obbligatoria arrivava alla terza elementare, perché poteva bastare saper leggere, scrivere e fare di conto per imparare un mestiere, anche se, in realtà, non sempre chi aveva completato quel brevissimo ciclo scolastico era veramente in grado di leggere, scrivere e fare
di conto: i migliori riuscivano a scrivere solo alla fine della prima classe. Comunque mio padre, finita la terza elementare, quindi ancora bambino, si diede ad imparare il mestiere che gli imponeva la tradizione famigliare: un paio di anni di apprendistato, naturalmente non retribuiti, com’era normale allora nelle botteghe artigiane nelle quali, anzi, spesso era l’apprendista a pagare il “maestro” per la sua disponibilità e per le conoscenze che gli trasmetteva. Uno zio paterno aveva a Gavirate una bottega per la lavorazione delle pietre in genere, dove mio padre andò a lavorare. Dopo un altro lungo apprendistato, finalmente cominciò ad essere retribuito. Rimase in quella bottega fino a quando si sposò con Virginia. Aveva da poco preso moglie, infatti, quando, gli si presentò l’occasione di un lavoro autonomo: la prospettiva di mettersi in proprio gli piaceva molto e lo zio lo lasciò andare, sebbene a malincuore. Giosuè, dunque, formò una squadra con altri colleghi scalpellini e si trasferirono tutti dalle parti di Aosta, dove avevano preso un lavoro. Era in costruzione la linea ferroviaria Ivrea-Aosta, classificata fra quelle della Rete complementare dello Stato, il cui esercizio sarebbe poi stato affidato alla Società Ferrovie dell’Alta Italia. Erano gli anni appena successivi al 1870, all’unità d’Italia e alla presa di Porta Pia e il giovanissimo Regno stava costruendo con ingenti investimenti la sua rete ferroviaria, con l’ambizione di recuperare decenni di ritardo per portarsi al livello degli altri paesi europei, in particolare della vicina Francia che per i Savoia e la classe dirigente piemontese allora al potere costituiva lo stato modello. Mio padre e la sua squadra, dunque, presero in appalto i lavori in pietra relativi ad una tratta ormai prossima al capoluogo della Valle. Mia madre, che naturalmente aveva seguito il marito come le mogli degli scalpellini, si occupava, aiutata dalle altre donne, della cucina e dei lavori domestici per tutti. Quel lavoro per le ferrovie durò alcuni anni. Nacque in quel periodo un primo figlio di Giosuè e Virginia, che chiamarono Ettore, come mio nonno, il padre di mio padre e come avrebbero poi chiamato me. Amatissimo da papà e mamma ben presto diventò una sorta di mascotte della squadra di scalpellini. Ma morì che non aveva ancora compiuto sei anni e i miei di questa tragedia familiare, della morte del loro adorato primogenito non
hanno mai voluto parlare. Non ho mai saputo neppure di quale malattia fosse morto. Ho solo capito fin da piccolo che per loro quella perdita deve essere stata terribile. Vennero poi alla luce anche due bambine, la seconda delle quali morì appena nata. Non c’è da meravigliarsene, in quegli anni in Italia morivano poco meno della metà dei bambini sotto i 5 anni. Erano tragedie frequenti, una specie di crudele normalità, ma i genitori ne soffrivano lo stesso. Nel frattempo, portato a termine il lavoro in Valle d'Aosta, tutta la squadra, ormai ben affiatata, specializzata in quel tipo di lavori e con ottime referenze, si era trasferita a Borgotaro, che allora tutti chiamavano Borgo Val di Taro o semplicemente Borgo. Lì mio padre aveva preso in appalto nel 1882 la fornitura delle pietre lavorate occorrenti per il rivestimento della galleria ferroviaria di valico lunga quasi 8 chilometri sulla linea Parma-La Spezia, la cui costruzione era iniziata un paio di anni prima e sarebbe durata un altro quindicennio. Ricordo bene con quanto malcelato orgoglio ancora molti anni dopo mio padre mi parlava di quel lavoro, che spesso chiamava “quell’impresa”. Era evidente quanto fosse fiero di aver partecipato per tanti tempo alla colossale opera di modernizzazione del Paese che fu la costruzione della rete ferroviaria italiana, al momento dell’Unità quasi inesistente. La famigliola, dunque, si stabilì in una casetta in montagna, interamente costruita in pietra, ricordo ancora le grandi travi di legno sul soffitto, a un'ora circa di cammino da Borgo, nei cui paraggi si trovava la località dove avrebbero dovuto aprire la cava per l'estrazione dei materiali occorrenti. Mio padre era un tipo piuttosto dinamico ed energico e non si risparmiava né sul lavoro, almeno 14 ore al giorno di dura fatica, né in amore: fu così che io nacqui in quella zona, a Borgo Val di Taro e non nella terra della mia famiglia, il 18 giugno 1888. Mi fu messo il nome di Ettore, mio nonno, come al primogenito morto a sei anni. A differenza di come aveva fatto con gli altri miei fratelli, rapidamente svezzati, pensando forse che fosse stata questa un causa delle precocissime morti, mia madre mi allattò a lungo, fino al sopraggiungere di una nuova gravidanza. Dopo di me nacque infatti un'altra bambina, Cecilia, che,
diversamente da me, venne presto affidata ad una nutrice di Bardello. La mamma avrebbe voluto tanto tenerla con sé, ma fu mio padre a imporre questa decisione perché pensava gli impegni già pesanti di sua moglie non le permettessero di occuparsi anche di tre figli piccoli. Io, invece, per fortuna, rimasi sempre con babbo e mamma. A Quei tempi, dovendo scegliere chi far crescere meglio, si sceglieva il figlio maschio, future braccia per il lavoro, per procurare il pane da portare a casa.
II FARINA DI CASTAGNE
Tutto questo, naturalmente, mi è stato raccontato col tempo o ne ho sentito parlare in famiglia, perché i miei primi ricordi risalgono solo al terzo o quarto anno di vita. Rammento benissimo, ad esempio, che mia madre si faceva portare a casa la farina a sacchi e faceva il pane per tutti in un forno in pietra e muratura che si era fatto appositamente costruire dagli operai della squadra di mio padre. La legna non mancava di certo, giacché vivevamo in mezzo ad un grande castagneto e quando si facevano brillare le mine per staccare dalla montagna i massi da cui ricavare le pietre, molti castagni erano abbattuti dai macigni che rotolavano giù per la china, bastava lasciarli asciugare bene al sole per settimane ed erano pronti da bruciare. Per di più era disponibile molto legname di quello utilizzato per la costruzione della ferrovia, per fare le traversine e le varie baracche, anche se non avremmo potuto prenderlo per nostro uso privato. Oltre che della cucina, mia madre doveva sempre occuparsi anche della gestione domestica e dell'accudimento non solo della sua famiglia ma anche degli operai che lì si trovavano soli. Ricordo anche che al mattino si svegliava verso le tre o le quattro per fare il pane e mi portava con sé, facendomi alzare alla stessa ora, per evitare che, girando per la casa al mio risveglio, io potessi disturbare il sonno di mio padre. Anche procurarsi l'acqua non era facile. La mamma doveva andare a
prenderla ad una fonte piuttosto lontana per portare a casa due pesanti secchi per volta. Mio padre le aveva fatto costruire una specie di piccolo lavatoio, che in pratica consisteva in un fontanino ed una pietra scavata. Ma bisognava lavare in ginocchio ed era molto faticoso. Lo so perché la mamma mi portava con sé anche al lavatoio e io mi annoiavo molto a stare lì da solo a vederla lavorare: avo le ore a giocare da solo con i sassi e gli arbusti che trovavo per terra. Ho imparato così, forse, a cavarmela sempre da solo e a non sentire sempre il bisogno della compagnia. Appena fui ritenuto in grado di dare una mano - cosa che avvenne molto presto, in pratica quando cominciai ad andare a scuola in una piccolissimo istituto distante tre o quattro chilometri da casa, distanza che ogni giorno percorrevo a piedi, andata e ritorno - la prima mansione affidatami fu quella, faticosissima, di andare a prendere l'acqua. Ricordo che dovevo trasportarla in due fiaschette di vetro - non ce l’avrei fatta a portare recipienti più grossi - e capitava che, quando mi fermavo per riposarmi, le mettevo a terra. Se però qualcuna non era ben appoggiava, cadeva e rotolava lungo la china finendola corsa contro un sasso o il tronco di un albero e andando in mille pezzi. Tornato a casa, naturalmente, era inevitabile una bella sgridata. È successo più di una volta. Quando era tempo di funghi io ed la mamma uscivamo di casa all'alba e andavamo nel bosco. Spesso ci bastava fare pochi i per raccoglierne un bel po'. I castagneti, infatti, solo l'ambiente ideale per i funghi. E ancora adesso la zona di Borgo Val di Taro è famosa per i suoi profumati porcini. Ricordo ancora oggi con l’acquolina alla bocca le grandi mangiate di porcini - ma anche finferli, mazze di tamburo e a volte persino di ovuli come mai più in vita mia: alla brace, crudi in insalata o, quando c’era il riso, in risotti che mi sembra di non aver mai più mangiato così buoni. Ma forse la memoria esalta le sensazioni.
Poco lontano da casa nostra abitava una famiglia piuttosto numerosa di contadini e pastori con la quale i miei strinsero amicizia. Il capofamiglia era un vecchio arzillo e molto in gamba che tutti chiamavo “nonei”, nonno nel dialetto del posto. Mi voleva bene e quando potevo svignarmela andavo a trovarlo e lui mi regalava sempre qualche frutto. In quella casa trovavo anche dei bambini con i quali giocare; non tutti, però, erano simpatici,
perché a volte qualcuno di loro mi prendeva in giro per il mio modo di parlare, per il mio dialetto che era molto diverso dal loro, tanto che a volte non proprio riuscivamo a capirci. Con uno di quei bambini, però, andavo abbastanza d’accordo, perché aveva la mia stessa età e non mi prendeva mai in giro anche perché era piuttosto timido, perciò era con lui che giocavo più spesso. Si chiamava Antonio, dico si chiamava perché poi ho saputo che è morto in guerra, per colmo della sfortuna proprio nelle ultime settimane, nell’autunno del 1918. Al mio ritorno a casa alla fine della guerra me lo disse mia madre che aveva mantenuto contatti con quella famiglia amica di Borgo alla quale scriveva almeno un paio di volte all’anno, perché, diceva, quando eravamo lì erano sempre stati molto gentili e disponibili con noi. Antonio aveva un fratello più piccolo, Renato, nato poco prima che lasciassimo Borgo. Un tipo particolare, molto diverso da Antonio. Dalla mia mamma, infatti, ho saputo che Renato è andato in guerra volontario, nemmeno diciottenne, negli Arditi. Prima aveva partecipato a tutte le manifestazioni in favore dell’intervento italiano contro l’Austria per Trento, Trieste e la Dalmazia. Era entusiasta di D’Annunzio e leggeva tutti i giorni il giornale di Mussolini, “Il Popolo d’Italia”. Dopo la guerra aveva seguito D’Annunzio nell’impresa di Fiume e poi aveva partecipato alla “marcia su Roma” di Mussolini. Era diventato un personaggio importante del Partito nazionale fascista nella sua zona. Ma il mio migliore amico era il “nonei” e a me piaceva molto stare da lui. Talvolta facevamo un po’ di fatica a capirci perché anche lui parlava nel suo dialetto e io in quello che si parlava in casa, ma comunque riuscivamo a intenderci. Al mio ritorno la mamma, se si era accorta della mia assenza, mi sgridava per essermi allontanato senza chiedere il permesso e per il tempo perso invece di lavorare o fare i compiti. A quei tempi, per quanto posso ricordare, in una famiglia come la mia il gioco non era contemplato fra le attività consentite ad un bambino e il lavoro, anche faticoso, era un dovere per tutti, senza distinzione d’età. Io avevo molta soggezione del babbo: così grande, mi sembrava, con quei grossi baffi neri che gli davano un'aria tanto severa. Ma lo vedevo di rado, perciò con lui avevo poca confidenza. Infatti era sempre al lavoro, in cava o in galleria, e a casa rimaneva assai poco, solo per la cena e per dormire.
Spesso, anzi, era impegnato anche di notte perché in galleria si lavorava in continuo per 24 ore e a squadre. Io, perciò, approfittavo delle sue assenze per andare a giocare con i miei vicini ma quando si avvicinava l'ora del suo possibile rientro a casa, mi affrettavo a tornare. Se non arrivavo per tempo, cosa che avveniva abbastanza spesso, erano sculacciate: non era ammissibile che io non fossi a casa quando mio padre rientrava e ci si sedeva a tavola per la cena. Ero punito anche per un ritardo di qualche minuto. A casa del “nonei” si faceva il pane con la farina di castagne, secondo le usanze di quelle zone e data la grande abbondanza di quei frutti. Mi sembra di ricordare che un tipo di pagnotta schiacciata si chiamava “piattona”. Veniva cotta in un forno particolare, una specie di focolare coperto da una cappa, che si trovava al centro di un grande locale adibito a cucina dove, di fatto, chi stava in casa viveva tutto il giorno. Facevano un gran braciere, che riscaldava bene sia il piano del focolare sia una cappa sovrastante che credo fosse di ferro o ghisa. Quindi pulivano bene il piano per sistemarci le pagnotte prima impastate, coprendolo poi con quella cappa già riscaldata sopra la quale, per mantenerla calda, si cospargeva la brace tolta prima dal piano. A cottura avvenuta i pani venivano tolti e se ne mangiava per tre o quattro giorni. Anche a me piaceva molto quel pane che non ho più mangiato da quando siamo venuti via da Borgo. In quella zona le castagne, la cui produzione era molto abbondante, bastava raccoglierle e a anche noi piccoli andavamo nel castagneto per tirarne su un bel po’ e portarle a casa e più ne raccoglievamo più ci sentivamo bravi a grandi, ci sembrava di essere utili alle nostre famiglie. Erano un alimento base, utilizzate in tanti modi, le castagne: venivano bollite o tostate dopo averne aperto la dura buccia con un taglio a croce per evitare che scoppiassero, ma servivano soprattutto per farne quelle meravigliose pagnotte. Per ricavarne la farina si facevano essiccare disponendole su delle grate tutto intorno al focolare, che di solito in quelle case di montagna era molto grande. Quindi, a essiccatura avvenuta, venivano ben sbucciate. Quel pane di castagne, dunque, era il prodotto principale delle famiglie di quella zona e la base di loro alimentazione. Veniva consumato accompagnandolo con latte di pecora o di mucca, i grandi con un bicchiere di vino rosso, formaggio pecorino e ricotta. Un pasto che a me piaceva molto, mi sembrava ottimo.
L’operazione di essiccatura e sbucciatura delle castagne lo ricordo come una specie di rito domestico. Avveniva la sera, quando la famiglia era raccolta intorno al focolare, in una atmosfera di allegria e sembrava la conclusione di un giorno di festa. Spesso partecipavo anche io con la mamma che andava a dare una mano e ricordo con tanta nostalgia quelle serate piene di gioia e di calore. Serate che sembravano ancora più allegre se fuori nevicava, come spesso accadeva d’inverno in quelle zone. Se per gli adulti le nevicate erano più che altro un grande disagio – a volte erano tanto abbondanti che mio padre doveva fermare il lavoro per giorni – per noi bambini era occasione di giochi e divertimento. Ricordo delle ferocissime battaglie di palle di neve, dopo le quali tornavamo a casa sudati e con gli abiti zuppi: “Ti buscherai una polmonite!” mi gridava la mamma, talvolta accompagnando la sgridata con un paio di scapaccioni. Comunque allora per me la neve era fonte di gioia e occasione di divertimento: certo non potevo immaginare che anni dopo, durante la guerra, per aver ato tanti mesi nella neve e nel fango avrei finito per odiarla. Più tardi solo le belle fioccate delle mie parti, quando, nelle giornate più fredde anche il lago di Varese gelava e si copriva di bianco, mi riconciliarono con la neve.
III GAVIRATE
A Borgo Val di Taro rimasi fino all'età di sette anni, quando il babbo, nel 1895, portò a termine i lavori che aveva in appalto e decise di tornare a Bardello per aprirvi finalmente un suo laboratorio, come desiderava da tanto tempo. Ormai intendeva sistemarsi definitivamente nella nostra zona e perciò diede inizio alla costruzione di una casa a Gavirate, su un terreno che qualche tempo prima suo suocero, il babbo di mamma Virginia, aveva acquistato nei pressi della sua abitazione. In attesa che la costruzione della nostra nuova casa fosse completata ci sistemammo un anno a Bardello, a casa del nonno e
della nonna paterni con un fratello del babbo. Io fui mandato a scuola, dove mi creai nuovi compagni di giochi. Così quei mesi arono in fretta e, completata la costruzione della nostra nuova casa, finalmente ci trasferimmo a Gavirate. Lì i miei, per affiancare l'attività di mio padre, ancora in fase di avviamento, aprirono, oltre al laboratorio, una bottega di stoffe e chincaglierie varie di cui si sarebbe occupata mia madre, aiutata dal babbo nel suo pochissimo tempo libero e da noi bambini dopo l'orario scolastico. Noi piccoli, in realtà, potevamo aiutare davvero poco, perché nel frattempo dovevamo anche fare i compiti a casa, che erano molti, e la povera mamma, impegnata com'era, non poteva tanto occuparsi di noi. Ma quelli erano tempi così, bisognava arrangiarsi. Tanto più che nessuno di noi pensava che le cose potessero essere diverse. Durante le vacanze, anziché andare in villeggiatura al mare o in montagna, un lusso che allora potevano permettersi solo i signori molto ricchi, le mie sorelle aiutavano la mamma nelle faccende domestiche e nel negozio, mentre io dovevo andare a pascolare i maiali. Sì, perché per accrescere le fonti di sostentamento, erano arrivati anche quelli, che a me erano anche simpatici, con qualche pollo e qualche coniglio. Venerdì, giorno di mercato a Gavirate, mi mandavano a vendere i fazzoletti. Erano dei bei fazzolettoni grandi, di cotone, di un giallo chiaro quasi paglierino - forse era il colore naturale del tessuto non sbiancato. Li vendevo a 15 centesimi l'uno e 25 centesimi la coppia e avevo un discreto successo, perché ne smerciavo un bel po'. Nella mia ingenua fantasia di bambino mi sembrava di aver capito, chissà perché, che molti dei miei clienti fossero uomini che avevano scordato il fazzoletto a casa. Quando avevo esaurito la mia scorta, correvo nel negozio della mamma, depositavo i soldi e facevo rifornimento di nuova merce. A dire la verità quello di andare a vendere sul mercato era un lavoro che, nonostante i buoni risultati, mi piaceva poco, non ero a mio agio, sentivo che era una cosa che non faceva per me. Ma dovevo pur farlo, l'idea di sottrarmi a quell'impegno non mi ha sfiorato neppure per un momento, era impensabile.
Quando, in un certo periodo, sembrarono venire di moda certi cordoncini con fiocchetti ai capi al posto delle solite cravatte, fui mandato a vendere anche quelli. Ma non andò come per i fazzoletti, fu un fallimento, proprio non se ne vendevano, dalle nostre parti quella roba non piaceva. Un venerdì d'estate faceva un gran caldo e, arso dalla sete, andai a bere un sorso d'acqua alla fontanella comunale. Come tutte, anche quella aveva alla base una piccola vasca per la raccolta dell'acqua. Io mi sporsi in avanti per bere e i fiocchetti dei cordoncini finirono tutti in quella vaschetta, inzuppandosi ben bene e diventando, perciò, invendibili. Avevo combinato un bel guaio e non sapevo come presentarmi a casa, dove prevedevo che sarei stato certamente punito. D'altra parte dal mercato dovevo venir via perché la gente vedeva quella roba bagnata e mi rideva dietro – o almeno così mi sembrava. Avevo una gran voglia di piangere e mogio mogio mi avviai verso casa. Ma tergiversavo e perdevo tempo perché mi mancava il coraggio di presentarmi. Finché fu mia madre a vedermi, mi chiamò e quando le fui vicino capì cosa avevo combinato e cominciò a gridare. Mi rifilò anche qualche scapaccione ma alla fine la cosa si risolse meglio di come avevo temuto. Francamente me ne aspettavo di più. La conclusione della vicenda, anzi, fu per me molto positiva perché così ebbe termine la mia mansione di venditore al mercato. E fu una vera liberazione, non ero proprio tagliato per quel mestiere e i miei lo avevano finalmente capito. Tuttavia non per questo ebbi pace, perché mi fu subito affidato un altro incarico. Il babbo era amico di un certo signor Benedetto, proprietario di una specie di alberghetto o pensione. Aveva anche, adiacente alla locanda, un negozio di granaglie e dove teneva un lambic o lambicco per la distillazione delle vinacce. Intendeva adibire questo locale a ristorante dell’albergo e osteria e per questo aveva bisogno di un garzone. Mio padre gli offrì il suo sostegno, consistente nel mio lavoro. Con quel mestiere fortunatamente avevo già un po' di dimestichezza, perché mi capitava spesso di aiutare la mamma nei lavori domestici. Si trattava, dunque, di andare in cantina a prendere il vino e la birra, aiutare a preparare i tavoli, pulire i bicchieri e, insomma, dovevo fare un po' di tutto, in modo da non essere mai fermo, da non starmene con le mani in mano. Ingenuamente coltivavo la speranza che con l'inizio della scuola mi
avrebbero lasciato libero; ma era un'illusione, perché nella giornata infrasettimanale di vacanza, che era il venerdì – allora c’era questa concessione, credo nelle zone agricole, proprio per lasciare che i figli potessero dare una mano in casa e in campagna - dovevo comunque andare a fare il “piscinin”, il “piccolo”, come si diceva allora, al ristorante. Comunque, nonostante tanti impegni extra-scolastici e la mia vivacità, per non dire indisciplina, a scuola me la cavavo abbastanza bene e portavo a casa sempre dei bei voti. Almeno di questo i miei genitori potevano essere contenti, ma non lo davano a vedere e questo mi dispiaceva, mi sembrava ingiusto.
Quel lavoro al ristorante durò diversi anni, benché ogni tanto anche lì ne combinassi una delle mie. Come quella volta che avevamo diversi avventori di riguardo: c'erano, fra gli altri, certi importanti clienti fissi: un notaio, un veterinario e un avvocato. Per il vino ognuno di questi aveva i suoi gusti: c'era chi lo voleva chiaro e chi scuro, chi amabile e chi secco. In cantina alla mescita avevamo quattro o cinque qualità, per accontentare tutti. Io dovevo preparare il tavolo dando a ciascuno il suo vino preferito. Ma quel giorno ero di pessimo umore perché pensavo ai miei amici liberi di andare a divertirsi e correre e a giocare con le palline di vetro, che era la mia ione anche perché in quel gioco ero molto abile. Allora, distratto e soprappensiero, feci una gran confusione col vino: a chi lo voleva chiaro lo diedi scuro, a chi lo voleva amabile lo diedi secco e viceversa. Al momento del pasto cominciarono le proteste. I clienti chiamavano la signora Olimpia, la proprietaria, moglie del signor Benedetto: “Ma che vino mi ha dato?”. E lei naturalmente se la prendeva con me: “ Uè, pinella (ragazzino, ndr), che vino hai dato al signor notaio? E all'avvocato?”. Le proteste aumentavano e io andavo in confusione e mi scusavo: “Mi sarò sbagliato, mi sarò sbagliato...” e correvo fra i tavoli a scambiare i vini, continuando a sbagliare e finendo per accresce la confusione e le proteste. Quando era il momento del ritiro delle vinacce e funzionava il lambic, in cantina c'erano diverse persone, anche amici e ospiti, e il padrone dava a ciascuno di loro una bottiglia di vino da tre quarti di litro. In cantina c'era la botticella del vino per gli operai che, a dire il vero, non era buono.
Succedeva allora che gli operai si lamentassero con me e io talvolta, per accontentarli, riempivo le loro bottiglie con quello buono. È andata avanti così per parecchio tempo. Finché il signor Benedetto se n'è accorto quando misurando il contenuto della botticella, ha notato che non diminuiva secondo il consumo previsto. Perciò aveva preso ad assaggiare le bottiglie che preparavo e quando si accorgeva che baravo erano rimproveri molto severi. Ma neanche questo bastò per farmi mandare via, come in fondo speravo, perché oramai ero stufo anche di quel lavoro. Non era certo la mia ione, avevo altre aspirazioni, venivo da una famiglia di scalpellini e volevo studiare per fare lo scultore. Ma ero troppo giovane e in quei tempi non era neppure pensabile che potessi decidere autonomamente del mio futuro.
Col are del tempo, anzi, le cose peggioravano: io cercavo di sbrigare in fretta il lavoro che dovevo fare, la pulizia generale, quella dei tavoli e delle sedie, dei bicchieri e delle misure (recipienti di vetro tarati per il vino sfuso allora in uso nei pubblici esercizi, ndr), apparecchiare e, finalmente, quando avevo fatto tutto avrei voluto andarmene a giocare con i miei amici. Ma le cose non andavano così, perché a quel punto la donna delle pulizie pretendeva che l'aiutassi a pulire i pavimenti, quella che lavava i piatti mi chiamava perché andassi ad asciugarli e alla fine ero stanco e stufo e non ero mai libero prima delle sette o le otto di sera. Non ce la facevo più e un bel venerdì decisi di dare un taglio netto a quella storia, di ribellarmi a quella vita. Mi rifiutai di aiutare la lavapiatti. Fu considerata una insubordinazione intollerabile e le donne che lavoravano in cucina mi presero per costringermi con la forza. Le conseguenze di quel gesto furono disastrose perché, non so se a causa di un mio scatto provocato dalla tensione e dalla rabbia o perché inciampai per fare tutto in fretta, fatto sta che feci cadere a terra una pigna di una ventina di piatti che si ruppero quasi tutti. Il risultato finale di quell'incidente, a parte la inevitabile dura punizione, fu però positivo, perché non mi cacciarono come mi aspettavo e stavolta apertamente speravo, ma non fui più costretto ai quei lavori aggiuntivi, conquistando così un paio d'ore di libertà per fare qualche partitina a
palline con i miei compagni. Probabilmente la ragione principale di tutti questi miei pasticci, di tutti questi incidenti da me provocati, oltre al fatto di essere maldestro e distratto come tutti i bambini, era che quei lavori che mi mandavano a fare proprio non mi piacevano. Mi sembrava che nulla avessero a che fare con me. Mi sarebbe tanto piaciuto, invece, andare a bottega con mio padre, lavorare la pietra, ma lavorarla davvero, come uno scultore, perché pensavo di essere capace di farlo. Ma non era neppure immaginabile che ne parlassi con mio padre, che gli dicessi quali erano i miei desideri e le mie aspirazioni: non potevo che fare quello che mi veniva ordinato e aspettare che su di me si prendessero le decisioni giuste al tempo giusto.
IV LA FAMIGLIA CRESCE
Probabilmente non fui licenziato, dopo l’incidente dei piatti, perché la mia famiglia era ben voluta da tutti, anche, e in modo particolare, dalla cicogna che ogni anno o al massimo diciotto mesi, ci portava un fagottino, che quasi sempre conteneva una femminuccia. Qualcuno di questi miei fratellini moriva appena arrivato: forse – pensavo - era colpa della cicogna che aveva troppo da fare, faceva tutto in fretta e durante il lungo viaggio non aveva tempo di stare bene attenta al suo fagottino. In casa, dunque, ero ancora l'unico figlio maschio e mi sarebbe molto piaciuto avere un fratellino con cui giocare e credo che anche ai miei genitori sarebbe piaciuto avere un altro maschietto. Finalmente, quando avevo oramai dieci anni, una sorella maggiore e altre tre minori, la cicogna si decise ad accontentarmi e mi portò un fratellino. Ne fui felice e subito mi affezionai al piccolo. Anche lui si affezionò a me, tanto che lo avevo sempre alle calcagna. Fu allattato dalla mamma e già l'anno dopo ne arrivò un altro che fu affidato ad una nutrice perché mia madre stava ancora allattando il precedente, giacché allora gli allattamenti al seno duravano il più possibile;
per risparmiare, credo. Dopo pochi mesi, però, la nutrice non volle più tenerlo perché, diceva, continuava a piangere. A me, francamente, non sembrava e pensai che forse piangeva quando stava con lei perché non lo trattava bene. Nel frattempo avevo finito le elementari e mi ero iscritto all'Istituto tecnico di Varese. Perciò, con mia grande gioia, non andai più al ristorante e il babbo mi prese finalmente a lavorare con sé. Però stavolta ero deciso a fare secondo le mie aspirazioni e trovai la forza di insistere con i miei perché mi mandassero a Milano in qualche laboratorio con la possibilità di fare dell'apprendistato di scultura, magari frequentando una scuola serale. Incredibilmente fui infine accontentato: quella volta a opporsi con forza ai miei desideri fu mia madre, che temeva che trovandomi da solo nella grande città mi mettessi nei pericoli, mentre invece a mostrarsi subito più disponibile fu, stranamente, mio padre. Ma forse tanto strano non era, perché aveva finalmente capito quali fossero le mie vere attitudini e credo che ne fosse anche compiaciuto. Capitai così in un laboratorio milanese del quale si servivano molti buoni scultori che portavano lì i loro lavori in argilla per la traduzione in marmo. Contemporaneamente, come avevo chiesto, frequentavo una scuola serale. Finalmente ero contento, quella era la mia ione, la mia vita, sia il laboratorio sia la scuola. A Milano il babbo aveva accompagnato anche un mio cugino che aveva trovato lavoro come garzone in una salumeria. Avevamo preso alloggio insieme nella stessa pensione, avevamo la stessa età e anche per questo andavamo abbastanza d’accordo. Quando eravamo liberi da impegni andavamo in giro insieme a visitare la città. A noi che venivamo da un paesino di provincia Milano sembrava enorme, eravamo tanto spaesati e poco avvezzi alla grande città che un giorno, dopo aver girovagato per ore, al momento di rientrare eravamo tanto disorientati che ammo per tre volte davanti alla nostra abitazione senza accorgercene. Solo dopo aver chiesto informazioni ad un vigile ci accorgemmo che eravamo sempre a pochi i da casa. La mia paga era di 50 centesimi al giorno. Appena sufficiente per comprarmi un po' di pane con del companatico, ma era già molto perche allora spesso l’apprendistato non era neppure pagato. Alla pensione al
mattino ci davano pane e caffellatte e la sera un piatto di minestra. Ce lo facevamo bastare. Ogni fine mese veniva il babbo a pagare la pensione e ad informarsi su come mi comportavo. Una cautela, anzi una diffidenza giustificata, visti i precedenti. Come ho già detto avevo molta soggezione del babbo, che era buono ma a volte eccessivamente severo. Ma forse con me andava bene così. Mi capitava spesso di pensare alla mia numerosa famiglia e ai sacrifici che i miei genitori dovevano fare anche per mantenermi a Milano. Mi sentivo perfino un po’ in colpa per questo e mi dicevo che era giusto che, nel mio piccolo, fi qualcosa per contribuire a quei sacrifici. Allora per risparmiare decisi di rinunciare al caffellatte del mattino, accontentandomi di un po' di pane. Quando il babbo lo venne a sapere anche quella volta si arrabbiò molto, mi sgridò dicendomi che se non si mangia abbastanza poi non si rende né nello studio nel sul lavoro. Ma io ormai mi ero abituato e non ne soffrivo o almeno così mi pareva, anche se, certo, troppo a lungo quella storia non poteva durare. Quando uscivo con cinque centesimi prendevo una tazza di quel caffè, anzi di quell'acqua sporca che vendevano per strada certi carrettini ambulanti. E mi bastava, anzi me la facevo bastare. arono così quasi due anni. Al terzo cambiai alloggio, quel cugino col quale avevo condiviso la pensione lo avrei ritrovato anni dopo, al distretto militare di Varese, al momento dell’arruolamento per andare in guerra. Mi trasferii a casa di un operaio che aveva lavorato con mio padre per diversi anni e che, rimasto vedovo, mi ospitava anche per avere un po' di compagnia. Dovevamo prepararci noi la cena e fare i lavori domestici. Per lavare i piatti e per le pulizie della casa facevamo a turno, una settimana a testa. A me questa volta quei lavori domestici non dispiacevano, perché mi occupavo di me, del posto dove vivevo e perché li facevo insieme ad un amico ospite, che era anche una brava persona. Durante il giorno ciascuno faceva il proprio lavoro e ci trovavano la sera per la cena. Il mio ospite era sempre un po’ triste ma andavamo abbastanza d'accordo, fatta eccezione per qualche discussione serale perché a me piaceva leggere fino a tardi e lui mi rimproverava di consumare troppo petrolio. Infatti l'illuminazione elettrica non c'era ancora e ci facevamo luce con lampade a petrolio.
Trascorse così quasi un altro anno. Avevo completato sia le scuole serali sia l'apprendistato nel laboratorio. Tornai a casa a are l'inverno dando una mano a mio padre e in primavera si decise di farmi andare per qualche tempo a Viggiù a una trentina di chilometri da Gavirate, quasi al confine con la Svizzera. Quel paese è poi diventato famoso in tutta Italia per una canzoncina molto popolare che parla dei suoi pompieri, “I pompieri di Viggiù”, un corpo volontario locale di vigili del fuoco che fu fondato verso la fine dell'Ottocento. Allora, invece, Viggiù era conosciuta per altre ragioni, soprattutto fra gli scultori: per le sue molte cave di pietre di diversi tipi e qualità, apprezzate dai artisti e artigiani soprattutto lombardi ma non solo, i quali spesso trovavano più comodo fermarsi in paese a realizzare le loro opere con i materiali che vi trovavano: in un primo tempo perché era più facile approvvigionarsi e poi perché, dato il grande numero degli artisti che avevano scelto di fermarvisi, l’ambiente era molto favorevole, il paese era come un grande laboratorio comune e i paesani erano molto accoglienti con gli artisti ospiti. Perciò la piccola Viggiù era piena di botteghe di scultori e artigiani e la maggior parte dei viggiutesi erano scalpellini - picasass, come si dice nel dialetto della zona - o lavoravano come inservienti e assistenti nei laboratori. Anche le scuole di Viggiù, fin dalle elementari, era orientate verso quel tipo di mestieri. Mio padre, perciò, aveva giustamente pensato che quello fosse il posto giusto dove mandarmi per prendere confidenza col mestiere di famiglia. Trovai una prima sistemazione in un laboratorio, ancora come apprendista e alle condizioni consentite ad uno studente che deve anche frequentare la scuola. Perciò, naturalmente, non guadagnavo un centesimo ma il babbo fu contento lo stesso, perché si trattava di imparare a lavorare sul serio. Mi iscrissi anche ad una scuola di disegno, che frequentai con impegno e entusiasmo, tanto che alla fine del corso fui anche premiato. Perché quelle erano le cose mi piaceva studiare e quello era il mestiere che volevo fare. Ero a pensione da una famiglia, dove spendevo una lira al giorno. Alla fine della stagione decisi di tornare a casa e mi licenziai dal laboratorio. Il proprietario però era molto soddisfatto del mio lavoro e dispiaciuto che io me ne andassi, tanto che mi diede un premio, assolutamente inaspettato e
che mi sembrò perfino esagerato, di 18 o 20 lire d’argento. In effetti si trattava di un regalo, perché, come ho detto, non mi doveva nulla per l'apprendistato e lo fece con l’atteggiamento di chi stava donando un capitale. Forse sperava così di convincermi a restare con lui. Comunque quel premio mi fece molto piacere, sia per era un riconoscimento sia perché non avevo mai preso tanti soldi in una sola volta. Infatti ero quasi sempre in bolletta. E a questo proposito un episodio particolare è rimasto impresso nella mia memoria proprio perché rappresenta bene la mia condizione di squattrinato in quegli anni. Ricordo, dunque, quella volta che a Milano avevo in tasca poche monetine che messe insieme non facevano una lira. ai davanti a una bancarella che vendeva borsellini e ne comprai uno, perché le monete mi ballavano in tasca, spendendo quasi tutti i miei pochi soldini. Mi erano rimasti un paio di centesimi con i quali decisi di comprare un gelato, dopodiché, consumato tutto il gelato, gettai via il borsellino che non mi serviva più, visto non avevo neppure una moneta.
V ADDIO BABBO
A quel punto avevo deciso di stare a casa a lavorare col babbo. Mi sentivo pronto per farlo e oltre ad avere una gran voglia di cominciare a fare davvero il mestiere di mio padre e di mio nonno, avevo capito da un bel po’ di tempo che bisognava dare una mano a tirare avanti la nostra numerosa famiglia. Noi figli ormai eravamo arrivati a nove e altri nove erano morti, secondo la terribile media della mortalità infantile di quegli anni. Certo la mia vera aspirazione era di continuare a studiare scultura, ma dovetti rassegnarmi e, francamente, non mi costò molto perché sentivo che ero necessario a casa e mi misi a lavorare di buona lena. Avevo compito 17 anni. Così, anche col mio contributo, finalmente si tirava avanti abbastanza bene, ma durò troppo poco, perché dopo circa un anno o poco più accadde
qualcosa di assolutamente inatteso che sconvolse il mio animo e cambiò radicalmente la mia vita: la morte del babbo dopo pochissimi giorni di una malattia improvvisa, violenta, non individuata e mal curata. Era un sabato di gennaio ed era nevicato. Io ero andato a Barasso per impostare un nuovo lavoro. Tornato a casa a sera inoltrata, trovai il babbo seduto vicino al camino, un po' mesto e senza la pipa fra i denti, compagna inseparabile nei momenti di riposo. Capii subito che non stava bene, gli chiesi come si sentisse e mi rispose che sentiva male sotto la spalla destra. Non demmo eccessivo peso a questi sintomi, poteva trattarsi di un dolore eggero, magari causato da uno sforzo o da un movimento sbagliato durante il lavoro, come talvolta capitava. Ma il male durò, più forte tutta la notte e al mattino della domenica chiamammo il medico che visitò il babbo e ordinò degli impacchi. Ma non servirono a nulla perché il dolore non solo persisteva ma era ato alla spalla sinistra e alla sera il medico dovette tornare: ammise di non capire di cosa si trattasse e consigliò di portare mio padre all'ospedale di Cittiglio per farlo visitare dal primario. Fui io ad accompagnarlo ma disgrazia volle che il professore indicato dal nostro medico curante non ci fosse e il medico di guardia si rifiutò di visitare il babbo perché era stato indirizzato ad un suo superiore, non so se per un assurdo rispetto della gerarchia o per una ancora più inaccettabile ripicca, viste le condizioni in cui si trovava il babbo. A quel punto ero molto preoccupato e non sapevo come comportarmi. Decisi allora di portarlo da un certo dottor Campiglio, un medico anziano che nella nostra zona godeva di una buona fama. Dopo averlo accuratamente visitato il vecchio medico prescrisse delle applicazioni di sanguisughe e, se del caso, di fare anche un salasso. La reazione del nostro medico, quando gli riferii la prescrizione di Campiglio, fu furiosa: si mise a urlare che non avrei dovuto portare mio padre da un vecchio dottore capace di prescrivere solo terapie d’altri tempi, invece che dal primario dell'ospedale di Cittiglio, come lui mi aveva detto di fare. Ma soprattutto perché lui “quelle cose” - sanguisughe, salassi e roba simile – lui non le faceva e se volevo farle la responsabilità era tutta mia. Ci rimasi molto male anche perché aggiunse che a questo punto se lo avessimo ancora chiamato lui non sarebbe venuto.
Io ero già angosciato e quasi in preda al panico per la situazione di mio padre e quella esagerata reazione francamente mi sembrò provocata soprattutto da rivalità personale con il vecchio medico: perciò persi le staffe e feci per saltare addosso al medico, prendendolo per il bavero della giacca. Per fortuna un mio zio, fratello della mamma, che in quel momento era con noi, mi fermò in tempo. Fatto sta che il nostro dottore gli fece fare ancora degli impacchi, mi pare con foglie di tabacco ed altre sostanze che non ricordo. Ma anche quelli non servirono a nulla, il babbo stava sempre peggio, i dolori erano sempre più forti e la cosa si faceva molto seria, tanto che, tornato il lunedì mattina, il medico ordinò il ricovero in ospedale. Noi eravamo un po' perplessi, in particolare la mamma. Ma il babbo intervenne dicendo: “Se vado in ospedale magari non muoio”, lasciandoci tutti sbigottiti. Comunque la decisione era stata presa, scese dal letto e cominciò a vestirsi. Chiamammo una vettura, un landò a due cavalli, perché a quei tempi dalle nostre parti di automobili pubbliche non ce n'erano ancora. Il viaggio fu lento e difficile a causa della neve gelata che copriva le strade. Arrivammo a Cittiglio verso le undici e mentre salivamo le scale dell'ospedale mio padre mi chiese “allora cosa avete deciso, mi portare a farmi ricoverare?”. “Babbo, sei tu che hai deciso”, gli risposi e avevo l'impressione che cominciasse a delirare, che non avesse coscienza della situazione. Con noi era venuto quel mio zio materno, che rimase accanto al babbo in ospedale e mi raccomandò di tornare al mattino presto. Tornai a casa, andai a letto e subito mi addormentai e sognai che il babbo era morto e me lo annunciava egli stesso, dicendomi “cosa vuoi farci, non è colpa mia”. Mi svegliai di soprassalto e mi alzai sotto la dolorosa impressione di quel sogno. Andai in camera della mamma, la quale vedendomi in piedi alle due e mezza di notte si spaventò e mi chiese “cosa succede?”. Ma io non ebbi il coraggio di dirle del sogno: “Non riesco a dormire” le risposi, “ora vado in cucina e mi faccio un po' di caffè e aspetto l'ora del treno per andare dal babbo”. Ma non trovavo requie e decisi di uscire subito, in piena notte e mi avviai verso la casa dei nonni. Ad un incrocio incontrai uno zio paterno che
abitava su in paese e, preso da una terribile presentimento, mi spaventai molto: “Cosa fai già in piedi in giro a quest'ora, zio?”. “Nulla, nulla” mi rispose, mi prese sottobraccio e mi accompagnò a casa dei nonni. Entrando vidi quell’altro zio che era rimasto all'ospedale col babbo e capii che mio padre era morto. Rimasi immobile, come paralizzato e ammutolito per qualche istante poi scoppiai a piangere. “A che ora è successo?” chiesi ed ebbi la conferma di quanto sentivo dentro di me: il babbo era morto all'ora in cui l'avevo sognato. Nessuno aveva il coraggio di dare la triste notizia alla mamma. Andammo la nonna ed io. Quando ci vide entrare in casa insieme, lei capì e mi abbracciò piangendo. Cercai di farle coraggio, promettendole che avrei fatto del mio meglio per portare avanti la famiglia. Ormai avevo 18 anni compiuti. Ma, ad essere sincero avrei avuto anche io un gran bisogno di qualcuno che mi fe coraggio.
VI CAPOFAMIGLIA
La morte del babbo cambiò profondamente il mio carattere perché, con le nuove responsabilità, cambiava la mia vita: rapidamente mi trasformai da quel ragazzo allegro, spensierato, amante della compagnia, dei giochi e di un po' di baldoria che ero stato fino ad allora, in un uomo taciturno e schivo di ogni divertimento. E perfino della compagnia degli amici, cose che nella mia condizione mi sembravano quasi un tradimento della famiglia, della quale avevo il dovere di occuparmi, dedicando a questo impegno tutte le mie energie. Avevo preso l'impegno, forse un po' esagerato per quel ragazzetto che ancora ero, di sostituire il babbo facendomi carico anche dei miei fratelli l'ultimo dei quali aveva appena 18 mesi. Perciò, ati i primi giorni di lutto e dolore, dovetti per forza cominciare la nuova vita. A me toccava prendere la direzione del del laboratorio mentre la mamma si sarebbe
occupata della gestione della casa e delle altre attività, se così si potevano chiamare. Inizialmente la mia nuova mansione mi risultò piuttosto difficile. Il primo contratto da me concluso riguardava la costruzione, assieme ad un cugino del babbo, di una cappella funeraria, ma fu un lavoro in perdita. Infatti ci eravamo divise le mansioni, ma lui lavorava a Besozzo e, siccome in fatto di disegno era la negazione assoluta, spesso ero costretto ad andare da lui a Besozzo per i disegni del lavoro da realizzare, con una grande perdita di tempo. Fu comunque un'esperienza utile, della quale tenni conto in futuro per organizzarmi meglio. E infatti il lavoro cominciò presto a girare abbastanza bene, tanto che, oltre a provvedere al fabbisogno della famiglia, riuscivo a procurare anche quanto serviva alla mamma per la gestione della sua osteria e la legna per l'inverno. Quando ebbi la disponibilità, ultimai la costruzione, cominciata dal babbo, di locali adiacenti alla casa che dovevano servire per stalla e cascina e, anzi, ne aggiunsi altri. I miei fratelli andavano a scuola e le ragazze più grandicelle aiutavano la mamma. E, insomma, si tirava avanti discretamente bene. Ma venne il tempo della coscrizione, della naja, il servizio militare obbligatorio. Ricordo ancora con ansia il giorno in cui dovetti andare ad estrarre il mio numero. Allora usava così, era una specie di lotteria: quelli che avevano la fortuna di estrarre un numero alto facevano 18 mesi di servizio militare, chi estraeva un numero basso faceva tre anni. Dopodiché di solito, secondo una certa tradizione, si faceva una specie di festa fra coscritti, per salutare la vita civile. Io non partecipai perché quel giorno avevo impegni di lavoro che non potevo rimandare ma, a dire il vero, la cosa non mi dispiacque perché ormai tenevo abbastanza poco a manifestazioni del genere. Perfino quando i miei amici mi invitavano a qualche eggiata mi tiravo indietro, non so neppure io bene per quale ragione: mi piaceva stare da solo, non volevo spendere soldi che servivano alla mia famiglia che mi sembrava di tradire andando a divertirmi e spendendo del denaro che poteva servire in casa. E poi avevo sempre gran paura di mal figurare. Comunque alla visita medica andai insieme agli altri miei coscritti. Fui dichiarato abile ma, come speravo, fui esonerato perché, come primo figlio maschio di madre vedova, per la legge ero considerato sostegno di famiglia
numerosa. Ed effettivamente le cose stavano così. Ero sempre molto impegnato col laboratorio e, per non sprecare tempo, certi lavori come, ad esempio, la sistemazione della cantina, li facevo la sera. Come se tutto questo non bastasse, mi fu offerto anche di andare ad insegnare disegno in una scuola di Comerio. L’offerta mi lusingò e l’idea di insegnare qualcosa per cui avevo tanta attitudine, come il disegno, mi piaceva molto. Perciò accettai più per ione che per la magra paga e così ero impegnato anche per quattro sere la settimana più la mattinata della domenica. Per fortuna quel corso, tenendo conto dei possibili impegni nei campi, durava solo da novembre a marzo. Fortunatamente io nel frattempo, crescendo, maturando e avendo superato la crisi provocata dalla morte di mio padre, avevo cambiato carattere: ero tornato ad essere socievole e affabile, in famiglia perfino affettuoso. Questo cambiamento aveva effetti positivi anche sul lavoro perché mi procurava molte simpatie e mi rendeva più comprensivo e amichevole verso gli operai che lavoravano per me, con i quali, perciò, si era creato un rapporto più positivo e producente. Quando finirono le scuole presi a lavorare con me anche i miei fratelli, come essi stessi desideravano giacché anche loro avevano sempre mostrato grande interesse per il lavoro tradizionale della famiglia e una gran voglia di dare una mano.
VII IL TEMPO DELL’AMORE
arono così altri cinque anni. Nel poco tempo libero che avevo frequentavo un'osteria, dove incontravo degli amici e avevamo fatto amicizia con tre ragazze, tre sorelle figlie del padrone. Senza accorgermene, a poco a poco finii per innamorarmi della più piccola, da lei corrisposto, come seppi quando trovai il coraggio di dichiararmi. Purtroppo, però, il destino ci fu avverso, ammesso che di destino si possa parlare. Infatti quando informai sua madre dei nostri sentimenti, come imponeva la buona
educazione di quei tempi, e poi dell’intenzione di sposarci, la donna si mostrò subito decisamente contraria, soprattutto quando le dissi che non intendevo abbandonare la mia famiglia presso la quale, quindi avremmo dovuto andare a vivere. Capivo che per una mamma potesse essere preoccupante lasciare andare la propria figlia a far parte di una famiglia numerosa come la mia, con le mie quattro sorelle e i miei tre fratelli. Evidentemente temeva che la ragazza venisse a fare la serva da noi. Ma non conosceva mia madre e non poteva sapere che avrebbe accolto la mia futura moglie come una figlia. Io invece ne ero certo e cercai di spiegarglielo ma non riuscii a convincere la madre della mia morosa. Comunque non prendemmo nessuna decisione e io, per non trascinare troppo per le lunghe questa storia, pensai che sarebbe stato meglio lasciare libera la ragazza. Col tempo mi capitò spesso di pensare che forse sbagliai, che forse sarebbe stato più giusto, anche nei suoi confronti e per dimostrarle quanto tenessi a lei, insistere, andare avanti con la nostra storia per sperando di convincere col tempo sua madre, e probabilmente ci saremmo riusciti. Ma non lo feci per non tenerla a lungo inutilmente impegnata, per un eccesso di correttezza e senso di responsabilità. Valori che, si potrebbe dire, ho succhiato col latte di madre e che mi sono stati trasmessi col sangue di mio padre: ma col tempo ho capito che a volte, tenuti in eccessiva considerazione, questi valori possono fare più danni che bene.
ò, dunque, un po' di tempo in quell'indecisione prima e in quel rimpianto dopo, finché mi capitò di mettere gli occhi su una bella ragazza che abitava poco lontano da casa nostra, Angelica Papa, per tutti Angela, di quattro anni più giovane di me, figlia di un amico del povero babbo. Fui subito molto preso da lei e temevo che potesse andare a finire come l'altra volta, perciò evitai di presentarmi troppo presto a casa sua. Non solo Angela mi piaceva molto ma avevo anche capito subito che era la donna giusta per me, quella con la quale avrei voluto are la vita e che vedevo come perfetta madre dei miei figli. Perciò mi comportai con la massima prudenza per rovinare tutto con qualche errore e quando finalmente capii che le cose potevano andare come desideravamo, mi decisi
e ne parlai con i suoi genitori e con la mia mamma. E siccome, oltre che una gran brava ragazza, Angela era anche amica delle mie sorelle, mia madre fu entusiasta della mia scelta. Fummo fidanzati per un paio d'anni e finalmente decidemmo di sposarci. Celebrammo le nozze il 21 giugno del 1913, io avevo 25 anni e Angela 21. Com'era consuetudine allora, prima che il Concordato regolasse i rapporti fra il matrimonio civile e quello religioso, la maggior parte delle coppie andava prima in municipio per il rito civile e poi in chiesa per la cerimonia religiosa. Il trasferimento avveniva a piedi, facendo una specie di processione (i signori, però, quel percorso lo facevano in landò e in carrozza). Noi fummo in chiesa al mattino piuttosto presto e poi andammo al cimitero a salutare il babbo, al quale volevo presentare la mia sposa.
A cerimonia conclusa e dopo l’immancabile pranzo nuziale, che fu molto allegro e rumoroso e anche molto abbondante e lungo, salutati amici e parenti partimmo per il viaggio di nozze. La destinazione era Venezia, meta allora quasi obbligatoria per gli sposini, ma la prima notte la ammo a Milano, dove una cugina di Angela ci aveva procurato una camera. Fu una notte felice. Al mattino presto prendemmo un treno per Venezia, dove dei conoscenti, impiegati dell'Excelsior Lido, ci avevano fatto ottenere una camera in quello splendido hotel, di un lusso al quale noi eravamo certo avvezzi. Al nostro arrivo in albergo ci aspettava una sorpresa. Allo sbarco dal vaporetto ad attenderci c'era un fattorino che, con nostra grande meraviglia e anche un certo imbarazzo, ci venne incontro salutandoci con atteggiamento molto cerimonioso: “Sono i signori Molinari? Ben arrivati e tanti auguri di felicità”. Grande fu la mia sorpresa e la mia soddisfazione per quell'accoglienza così cerimoniosa, tanto più non ero certo abituato ad essere chiamato “signore”. Per quanto ci si sforzi di non sembrare sposini novelli, è impossibile non essere riconosciuti come tali. Ma per di più, nel nostro caso come ho saputo dopo e com’era facile intuire, il mio nome era stato comunicato all'albergo dagli amici che mi avevano procurato la camera. I quali, per farmi un regalo aggiuntivo, avevano voluto prepararmi una bella figura con la mia mogliettina, facendomi accogliere in quel modo. Angela, infatti, ne fu entusiasta, quasi si commosse.
arono diverse giornate che, benché fossimo in vacanza, mi sembrarono di intenso lavoro, anche se molto piacevole, perché di giorno andavamo in giro a visitare la città e alla sera, quando i nostri amici avevano finito il loro lavoro in albergo, prendevamo tutti insieme il traghetto che dal Lido ci riportava in centro dove avamo in compagnia parte della notte. Per dormire, evidentemente, di tempo ce ne restava ben poco. Fatto sta che a casa tornammo più stanchi di quando eravamo partiti. Stanchi ma felici. Io ripresi le mie occupazioni e mia moglie cominciò una nuova vita in una nuova famiglia, nella quale credo che si sia inserita subito bene, data l'amicizia e la famigliarità che già esisteva. Per inciso, anni dopo una mia sorella Camilla, sposò un fratello di Angela, Ercole, e con questo intreccio il legame fra le nostre due famiglie si cementò. Per parte nostra, comunque, non perdemmo tempo e dopo appena dieci mesi Angela diede alla luce una bella bambina che chiamammo Virginia, come mia madre.
VIII GUERRA!
Ma la nostra serenità durò troppo poco, perché il 28 luglio 1914, con la dichiarazione di guerra dell'Austria alla Serbia scoppiò il primo conflitto mondiale e fu subito chiaro che presto anche l'Italia avrebbe potuto prenderne parte, anche se molti di noi speravano che prevalesse il buon senso e riuscissimo a restarne fuori. Inizialmente, anzi, non era neppure chiaro con chi ci saremmo schierati, giacché eravamo alleati dell’Austria contro la quale, però, erano rivolte le nostre rivendicazioni. Poi, a poco a poco, anche sotto la spinta di tante manifestazioni di piazza che si svolgevano in ogni città del Regno come nei più piccoli paesi, fu chiaro che ci saremmo trovati a fianco di Francia e Inghilterra contro l’Austria: per liberare, si diceva, Trento e Trieste dal giogo austriaco. Il 24 maggio 1915, infatti entrammo in guerra e fu dichiarata la mobilitazione generale. Io dovevo presentarmi al distretto militare il 1°
giugno. Non erano ati due anni dal giorno del nostro matrimonio, avevamo già una figlia di poco più di un anno e Angela aspettava un altro bambino. Mi preparai alla partenza sistemando nel miglior modo possibile gli impegni di lavoro e le cose di famiglia: ormai i miei fratelli erano cresciuti, avevano dai sedici ai diciassette anni, erano autonomi e in grado di lavorare. Al distretto di Varese, dopo la visita medica, mi dichiararono abile e arruolato, assegnandomi al corpo degli Alpini, come succedeva sempre per la gente delle nostre zone. Ci trattennero in caserma a Varese fino al 13 giugno, senza che ci fosse possibile comunicare con le nostre famiglie, forse per paura di diserzioni. Lì ritrovai, dopo tanti anni, quel cugino col quale avevo condiviso la pensione a Milano. Anche lui era stato arruolato e non sembrava affatto contento di rivedermi, era anzi quasi disperato all’idea di andare in guerra e vedeva il futuro nerissimo: “No tornerò più a casa” ripeteva afflitto “non rivedrò più la mia famiglia, maledetta guerra”. In effetti quel mio disgraziato cugino non sarebbe più tornato a casa ma io in quel momento non avevo proprio bisogno di quella compagnia deprimente perché ero già angosciato di mio. Mi tormentavo all'idea di quanto mia moglie incinta e la mia mamma si stessero preoccupando, non avendo mie notizie, tanto che la sera del 12, vigilia della partenza, con uno dei miei soliti colpi di testa e rischiando moltissimo, un'accusa di diserzione che, in base a codice penale militare di guerra poteva anche comportare la pena di morte, scappai dalla caserma e corsi a casa per salutare i miei cari. La partenza, dunque, era fissata per l'alba del 13, perciò, dopo aver trascorso una serata piuttosto mesta e dopo aver salutato a abbracciato uno per uno tutti i miei famigliari, pensai che avrei potuto coricarmi nel mio letto per un paio d'ore prima di tornare al distretto. Ma non mi fu possibile, infatti benché non fosse ancora il tempo, forse a causa della situazione di tensione che si era creata in casa, Angela fu presa dalle doglie e io dovetti correre a chiamare la levatrice. Ma al mio ritorno mi dissero che ormai era già successo tutto, Angela aveva dato alla luce un bambino che, essendo prematuro, settimino, era un mucchietto di pelle e ossa, che pesava sì e no un chilo. Fu il primo problema creato nella nostra casa dalla guerra, ma per fortuna il bambino, che chiamammo Giosuè come mio padre, benché settimino crebbe sano e forte,
come succede spesso ai settimini. È stato il mio unico figlio maschio, perché dopo la guerra ebbi altre due bambine: Maria, per tutti Mariuccia, nata nel 1922 e Carla, l'ultima e la più coccolata, nel 1930. Quella situazione mi mise comunque in una condizione di spirito di grande angoscia: non sapevo cosa fare, non volevo partire e lasciare mia moglie in quello stato ma sapevo che rendermi renitente mancando alla partenza avrebbe potuto avere gravissime conseguenze. Allora non immaginavo neppure quanto gravi, col rischio di una lunga carcerazione se non addirittura di essere fucilato come disertore. Decisi dunque di partire, per senso del dovere più che per intimo convincimento, col cuore stretto dall'angoscia. Per fare più in fretta presi la bicicletta, arrivai a Varese verso le due e lasciai la bicicletta ad un amico prestinaio. Quando entrai in caserma erano già pronti per la partenza. Avevo la testa invasa da tristi e angosciosi pensieri, soprattutto all'idea di mia moglie lasciata in quelle condizioni. Ero molto preoccupato per il modo in cui avrebbe potuto cavarsela con due bambini e senza disponibilità finanziarie sufficienti, giacché il nostro sostentamento era basato solo sul lavoro. Per qualunque necessità sarebbe stata costretta a rivolgersi a mia madre, e sapevo che questo, nonostante i rapporti affettuosi che si erano creati fra di loro, Angela non lo avrebbe fatto volentieri. Mi preoccupava anche il fatto che le esigenze della mia famiglia si trovassero improvvisamente a crescere in queste condizioni, mentre non potevo fare molto affidamento sui miei fratelli minori che, sebbene bravi e volenterosi, erano ancora piuttosto inesperti. Ma mi facevo coraggio pensando al buon carattere e alla forza d'animo di Angela e alla grande disponibilità di mia madre. Ed ebbi ragione a fidarmi di loro perche in quei terribili anni di guerra riuscirono sempre a cavarsela.
Arrivati alla stazione di Varese ci fecero salire su una tradotta che partì per una destinazione a noi ignota ma che non poteva essere il fronte, giacché eravamo ancora tutti privi di istruzione militare. Infatti non andavamo
verso est, dove si trovava la frontiera con l’Austria, ma nelle direzione opposta, a sud-ovest, verso il Piemonte. A sera arrivammo a Ivrea, ci sistemarono in un edificio scolastico adibito a caserma e lì cominciò davvero la nostra esperienza di soldati: per prima cosa l'appello, per controllare che ci fossimo tutti, quindi l'assegnazione di ciascuno ad una squadra, con la consegna di una coperta e una balla di paglia. Al comando di ogni squadra fu messo un sergente, che prese in consegna i suoi uomini e con modi molto bruschi, ai quali non eravamo ancora abituati, ci condusse nelle rispettive camerate indicando a ciascuno il proprio posto sul pavimento dicendo “tu dormi qui, tu dormi qui”. Noi ci guardammo l'un l'altro sbigottiti chiedendo “se non un letto almeno una branda”. La risposta fu il classico “arrangiatevi!”. E noi, che eravamo tutti compaesani perché venivamo tutti dalle campagne e dai borghi intorno a Varese, ci arrangiammo, ricordando il modo in cui i contadini preparavano il giaciglio alle mucche e ai cavalli e facemmo lo stesso, con paglia, carta e quant'altro e riuscimmo a trovare. Al mattino seguente sveglia alle cinque, appello dei rispettivi comandanti di squadra: quando sentivamo il nostro nome dovevamo fare un o avanti per farci conoscere. Quindi ci furono impartite le prime lezioni sulla vita militare e sulla disciplina e finalmente fummo condotti alla vera caserma del battaglione alpini Ivrea. Qui per prima cosa ci furono distribuiti i capi di vestiario delle nostre uniformi: un paio di pantaloni, una giacca, delle scarpe dalle misure approssimative e un cappello con le relativa piuma, probabilmente non d'aquila, come avrebbe dovuto essere, ma più verosimilmente di tacchino. Quindi ci furono consegnate le fatidiche stellette, la gavetta con un cucchiaio: “Adesso cambiate l'abito e anche le idee: ora siete dei soldati, indossate l'uniforme e spedite a casa i vestiti borghesi”. Tornammo al nostro accantonamento dove consumammo il primo rancio: un po' di brodaglia con un pezzetto di carne e una pagnotta. Cercavo di convincermi che in fondo non era male, perché sapevo che se avessi ceduto subito allo sconforto non ce l’avrei fatta a tirare avanti per molto. Ma dentro di me speravo tanto che la situazione migliorasse. Dopo il rancio adunata per un'altra distribuzione. Ci diedero lo zaino, il
fucile con la baionetta e qualche altro indumento. Eccoci armati, dunque. Dopo un certo tempo, qualche settimana, ma un tempo che a me sembrò lunghissimo, dedicato solo all’istruzione militare finalmente arrivò la prima libera uscita, ma con rivista preliminare per controllare se eravamo in ordine e presentabili: scarpe lucide, penna a posto, giacca completamente abbottonata e prova di saluto. Fuori dalla caserma ci sentimmo completamente spaesati e impacciati, perciò cercammo di restare uniti fra noi, amici e compaesani, in gruppo. Quasi nessuno aveva preso il secondo rancio e di conseguenza si pensò di andare a mangiare un boccone in qualche trattoria. Capitammo, cercando a caso, in un posticino appena fuori città e ci trovammo bene: prezzi accettabili e roba buona, perciò ci tornammo spesso. Alla ritirata rientrammo in caserma e per dormire ci sistemammo per terra, su quella poca paglia che intanto ci avevano distribuito. Al mattino eravamo tutti indolenziti. Cominciava davvero la nostra nuova vita: sveglia al suono della tromba, istruzione al comportamento, montaggio e smontaggio del fucile, modo per adoperarlo e sua manutenzione e tante altre cose inerenti il nostro nuovo mestiere di soldati. Nei giorni seguenti si cominciò con l'istruzione in piazza d'armi: attenti, riposo, avanti march, dietrofront, chi girava a destra e chi sinistra con conseguenti urlacci e correzioni da parte del signor sergente. Andò avanti così per un po' di tempo finché si imparò a marciare bene e a sfilare in parata. Quella vita forse a vent'anni per qualcuno poteva avere anche qualcosa di divertente, ma per me e per tanti altri come me con qualche anno di più, che non facevamo che pensare alla famiglia, alla moglie e ai figli lasciati a casa, non c'era proprio niente di divertente. Poi si andò avanti con lunghe marce zaino in spalla, istruzione di puntamento e tiro, lezioni al bersaglio eccetera. E chi non sapeva sparare, la sera, invece di andare in libera uscita, doveva restare in caserma per addestramenti supplementare di puntamento e tiro. Le esercitazioni proseguirono regolarmente per settimane: piazza d'armi e marce in montagna. Alla fine di agosto ci trasferimmo al campo estivo in alta montagna, sopra Aosta. E qui ancora esercitazioni e tiro a segno in mezzo alla neve.
Finito il campo e tornati a Ivrea, dopo qualche altra settimana di addestramento eravamo considerati pronti per essere inviati al fronte. Ma la mia guerra sarebbe cominciata un po’ più tardi, perché una mattina, però, prima di partire per il fronte, mi feci male. Quel giorno l’esercitazione consisteva nel lanciarci di corsa, fucile in mano, contro una finta trincea di sacchetti di sabbia, qui buttarci a terra, puntare e fingere di sparare, alzarci, un’altra corsa contro altri sacchetti di sabbia e così via. Una volta, tirandomi su, poggiai male la gamba destra e sentii un forte dolore al ginocchio. Non riuscivo a stare in piedi, a poggiare quella gamba a terra. Fui portato in infermeria e da li in ospedale: lussazione al ginocchio e ricovero. Il giorno dopo la mia compagnia intanto partì come rinforzo al battaglione Intra. In ospedale rimasi quasi per tutto il mese di novembre e poi con mia grande gioia mi diedero un altro mese di convalescenza a casa. Fino ad allora non avevo avuto neppure un giorno di licenza, come tutti, d’altronde, e avevo un gran bisogno di stare a casa dove avevo molte cose da sistemare, oltre che, naturalmente, un gran desiderio di rivedere i miei cari. Ma quel mese ò troppo in fretta e per di più il mio ginocchio non era ancora completamente guarito, perché in ospedale non era stato ben curato. Avevo l'ordine di presentarmi al Deposito del battaglione Intra, proprio a Intra, dove chiesi una visita medica al ginocchio. Fui portato da un dottore borghese che era a disposizione del reparto e che mi guardò appena il ginocchio e subito ordinò all'infermiere di darmi, chissà perché, dell'olio di ricino. Me ne fu portato mezzo bicchiere e io, che non avevo la minima intenzione di bere quella roba, facendo il finto tonto cominciai ad usarlo come unguento per massaggiarmi il ginocchio. Subito intervenne il medico gridando che dovevo berlo, cosa che mi guardai bene dal fare, mi alzai e me ne andai senza salutare e non marcai più visita. Pensai che fosse preferibile tenermi il ginocchio dolorante piuttosto che avere a che fare con certi medici. In quelle condizioni, però, durante le esercitazioni rimanevo inquadrato finché potevo e quando il dolore diventava insopportabile uscivo dai ranghi e mi mettevo a sedere. Alle marce rimanevo sempre indietro e così a volte capitava che quando la compagnia era di ritorno io ero a metà strada. Tra
gli ufficiali qualcuno minacciava di punirmi seriamente ma qualcun altro, credendo al mio malanno, vendendo il mio ginocchio gonfio, era più comprensivo e mi consigliava di marcare visita. Cosa che mi guardavo bene dal fare giacché di visite mediche ne avevo avuto abbastanza dopo quella volta dell'olio di ricino.
IX AL FRONTE
arono così un paio di mesi finché, poco a poco, finalmente mi ristabilii. Nel frattempo, però, il comandante del Deposito, un maggiore, avendomi visto fare nel mio tempo libero qualche lavoretto, per non perdere la mano, mi chiese se ero in grado di realizzare delle lapidi da collocare sulle tombe degli alpini morti per malattie e sepolti nel cimitero di Intra. L’idea di rimettermi a fare il mio mestiere, anche se da militare, mi riempì di gioia, presentai all’ufficiale diversi disegni che gli piacquero tutti e come primo lavoro ne scelse subito uno che rappresentava un alpino in marcia. Quella fu la mia fortuna perché fui esonerato dai servizi normali e fui incaricato di eseguire quel lavoro - che, in realtà, era il mio amato mestiere, perciò ne ero felice di quell’incarico, anche perché lavoravo quasi sempre fuori della caserma, in un laboratorio esterno o al cimitero, dove le lapidi andavano collocate. Non potevo certo immaginarlo ma questa esperienza avrebbe segnato in qualche modo la mia attività futura. Infatti proprio a Intra molti anni dopo trasferii la mia attività, trovai compagni di lavoro e amici. Ma un giorno, rientrato in caserma per il rancio, vidi tutta la compagnia schierata in cortile con lo zaino al piede, mentre agli uomini venivano consegnati capi di vestiario e munizioni. Mi dissero che era arrivato l'ordine di partenza per i fronte. Seppi anche che io non dovevo partire perché ero a disposizione del maggiore, evidentemente per proseguire il lavoro che mi era stato assegnato. Non avevamo molte notizie sulla guerra. Ci dicevano sempre che le cose
andavano bene e che il nostro esercito stava avanzando, ma mai notizie precise e soprattutto mai brutte notizie. Per quanto ne sapevamo, dunque, la guerra andava bene. E forse anche per questa ragione in quell’occasione feci quello che probabilmente fu il più grosso errore della mia vita. Non so proprio cosa mi prese: pensai, chissà perché, che in realtà non mi sarebbe stato possibile rimanere sempre in caserma e che magari qualche giorno dopo, finita la lapide alla quale stavo lavorando, sarei dovuto comunque partire con qualche altro reparto mentre io volevo restare con la mia compagnia dove erano tutti i miei amici e tutti delle mie parti. Perciò pregai il capitano comandante della compagnia di prendermi in forza. Fu una grave, imperdonabile sciocchezza che mi costò molti guai, fatica, freddo e fame. Dopo qualche giorno, dunque, si partì con la tradotta da Fondo Toce, una frazione di Verbania. Dovevamo raggiungere i giovani della classe 1896 per formare il nuovo battaglione Monte Rosa. Quindi ci saremmo uniti al battaglione Intra, che allora si trovava in Trentino per contrastare l'offensiva austriaca. La tradotta ci portò fino a Castel Tesino e di lì proseguimmo a piedi su per i monti. Arrivati ad un villaggio, credo che fosse Pieve di Tesino. Depositammo il telo tenda, la coperta e le munizioni in un locale adibito a magazzino. A sera arrotolammo telo e coperta e iniziammo la salita per ricongiungerci ai nostri reparti. Marciavamo di notte quasi al buio perché le nuvole oscuravano quale poco di luna, molto lentamente e molto guardinghi, per evitare brutte sorprese giacché non sapevamo neppure bene dove ci trovassimo. Ad un certo punto, evidentemente temendo incontri pericolosi, ci ordinarono persino innestare la baionetta sul fucile, cosa che a noi, che non avevamo ancora la minima confidenza con il combattimento, fece una certa impressione. All'alba, finalmente, scorgemmo le postazioni italiane in cima ad una cresta e le raggiungemmo proprio mentre era in corso un'azione: un battaglione austriaco tentava di risalire lungo il versante opposto a quello dal quale eravamo arrivati noi. Ne nacque uno scontro, la prima situazione di combattimento nella quale mi trovavo, il mio battesimo del fuoco. Ero carico di tensione, all’inizio perfino tremavo, ma non era paura, non avevo paura, era qualcosa più simile ad una forte rabbia. Di aver paura non c'era proprio la possibilità. E quella volta la peggio toccò agli austriaci che verso
la fine della giornata dovettero ritirarsi lasciando molti morti sul terreno, mentre noi gridavamo di gioia e di orgoglio per quella prima vittoria.
Fummo quindi assegnati ai reparti. A me toccò la 112 esima compagnia del battaglione Intra. Quindi la mia compagnia insieme alla 134esima e alla 135esima confluirono nel battaglione Monte Rosa. Del mio reparto, comandato dal capitano Celi, facevano parte anche tanti compaesani, con molti dei quali eravamo insieme fin dai giorni dell’arruolamento, Fra di loro ricordo il caporale Ghiringhelli, che non era proprio della mia zona ma mi considerava suo compaesano e chiese perciò al capitano che io fossi assegnato alla sua squadra e forse quella fu la mia fortuna. Le cose andarono così. Scorrendo il ruolino dei nominativi il Ghiringhelli scoprì che ero nato a Borgo Val di Taro; “Ma allora siamo paesani” mi disse con entusiasmo, giacché lui era proprio di Borgo Val di Taro. “Come mai sei nato lì?” mi chiese, vedendo che invece venivo da Gavirate. Io glielo spiegai e da allora il caporale ebbe per me un riguardo particolare, trattandomi quasi come un amico. Dopo qualche giorno di sosta ammo su nuove posizioni, perché i tedeschi – noi li chiamavamo così anche se erano quasi sempre austriaci - si ritiravano dalle loro. I nostri reparti con azioni e marce notturne restavano sempre a contatto col nemico e spesso coinvolti in scaramucce e combattimenti ma continuavamo ad andare avanti. Che in quelle zone, su quei monti ripidi da scalare, significava salire, lentamente e faticosamente. Arrivammo così oltre quota 2300, su cime delle quali ricordo confusamente i nomi, come il Gardinal o il Cauriol, dove ci trincerammo. Era ormai la fine di settembre del 1916. Tutti i giorni, a turno, si doveva uscire di pattuglia e questo, benché fosse piuttosto pericoloso, in fondo non ci dispiaceva molto perché la vita di trincea era davvero brutta e noiosa. Alla lunga restare fermi nel fango e nella neve diventava insopportabile e ci faceva sembrare preferibile perfino rischiare la pelle uscire allo scoperto. A volte arrivavamo a doverci appostare in mezzo alla neve, a lavarci con la neve. Ma in quelle condizioni ci si lavava molto poco e di conseguenza
eravamo assaliti dai pidocchi, che arrivarono ad essere tanti da averli in ogni parte del corpo. Potevano are fino 40 o 50 giorni senza avere il cambio e senza poter fare un minimo di pulizia personale. Per la conquista di quelle due montagne avemmo diversi combattimenti e per fortuna mi è sempre andata bene. Finché un giorno fui assegnato come telefonista al comando di compagnia. Questo comportava che dovessi sempre seguire il capitano il quale, purtroppo, usciva spesso di pattuglia anche con una squadra. Ma, come ho detto, era sempre meglio che stare a marcire in trincea. Rimanemmo su quelle posizioni per mesi, resistendo a molti tentativi degli austriaci di riprendersele. Un brutto giorno, però, fummo costretti a lasciarle, non perché il nemico fosse riuscito a cacciarci da lì ma in seguito alla disastrosa ritirata generale di Caporetto. Arretrammo per fare servizio di copertura da nord ai nostri reparti che ripiegavano e, per quanto possibile, contrasto all'avanzata austriaca e tedesca. Di notte ci si ritirava e di giorno ci si trincerava alla meglio per impegnare il nemico. Si arrivò così nei pressi di Bassano del Grappa, in una specie di sterminato acquitrino, verso la mezzanotte di non so quale giorno perché avevo perso la nozione del tempo. Ora sembra assurdo dirlo ma non pensavo più neanche a casa: si tirava avanti un giorno dopo l'altro pensando solo per oggi ci sono ancora ma domani può toccarmi la sorte toccata a tanti altri compagni. Nel frattempo avevo saputo che erano stati chiamati alle armi anche i miei fratelli perciò a casa erano rimaste solo le donne ma, pensavo - forse più che altro per farmi coraggio e per non lasciarmi prendere dalla disperazione -, sono in gamba e se la caveranno. Per rassicurare i miei quasi tutti giorni scrivevo una cartolina ed ero felice quando a mia volta ricevevo loro notizie. In qualche modo la posta di guerra funzionava, anche in quel clima di disfatta. In quello scorcio di notte ato a Bassano, dopo aver cercato un po' in giro con qualche compagno ci rifugiammo in una stalla, nella speranza di riuscire a fermarci lì per qualche giorno, giacché ci sembrava di aver trovato riparo in un appartamento di lusso. Ma non facemmo in tempo a
sistemarci alla bene e meglio che arrivò l'ordine di marcia verso il Grappa. La confusione era totale, non riuscivamo a capire cosa stesse succedendo perché, mentre noi salivamo in colonna verso la montagna, incontravamo reparti che scendevano disordinatamente e dicevano che era tutto finito e stavano tornando a casa. Ma le cose non stavano così, erano le disastrose conseguenze della caotica ritirata di Caporetto.
X PRIGIONIERI
Arrivati al Grappa non trovammo alcuna trincea pronta ma solo l'inizio di una specie di galleria e attrezzi sparsi dappertutto: evidentemente gli addetti ai lavori se ne erano andati abbandonando tutto. Comunque ci sistemammo in qualche modo e una compagnia, la 134esima, fu mandata sul monte Pertica, posizione di importanza decisiva per arrivare alla vetta del Grappa, di rincalzo a un battaglione di fanteria che fronteggiava i tedeschi piazzati sulla cima. Riuscimmo a trincerarci rapidamente mentre il nemico dall’alto bombardava le nostre posizioni con i micidiali pezzi da 305. Ogni giorno si combatteva per la presa del Pertica e l'offensiva tedesca si infranse contro la nostra resistenza. Grappa, Col Moschin, Monte Asolone: ogni giorno bombardamenti, scaramucce, combattimenti. Il mio reparto era schierato sull'Asolone. Ricordo che di notte piantavamo paletti per i reticolati di filo spinato e il nemico di giorno bombardava fin quando non aveva abbattuto l'ultimo paletto. Ma quella brutta mattina del 18 dicembre del 1916, con una nebbia che non si vedeva a pochi i, ci riservò un'amara sorpresa, accadde qualcosa che avrebbe cambiato il corso della nostra guerra, un’esperienza avrebbe in qualche modo segnato per sempre la nostra vita. Non abbiamo mai capito come possa essere avvenuto, fatto sta che gli austriaci erano riusciti ad infiltrarsi dietro le nostre linee. Così fummo presi fra due fuochi, completamente accerchiati e alla fine costretti alla resa, anche perché avevamo esaurito le munizioni. Fummo fatti tutti prigionieri, l’intero battaglione. Io credo che quell'accerchiamento sia stato possibile a causa della nebbia che non ci permetteva di vedere tutti i movimenti del nemico, ma forse anche perché qualche punto non era presidiato, giacché la manovra nemica è avvenuta senza che si sia sentito sparare un colpo. Ma la ragione principale, probabilmente, deve essere stato lo sbandamento generale e la situazione di confusione tra gli ufficiali dopo Caporetto. Da quel giorno, comunque, cominciò per noi un nuovo calvario, la prigionia.
Ma io ormai ero talmente sbalordito, stordito dal precipitare degli eventi e dalla stanchezza, che non capivo più né dove mi trovassi né cosa stesse accadendo. Ricordo solo che gli austriaci ci radunarono, ci fecero incolonnare e ci portarono a Feltre, dove ci fecero sistemare nel palazzo della prefettura. Dormimmo per terra e al mattino per prima cosa ci separarono dai nostri ufficiali. Ci fu chiesto chi di noi volesse fermarsi in zona a lavorare invece di essere portati in campi di prigionia. Alcuni, pochi, accettarono, molti altri, la maggior parte, no. Io ero tra questi perché non volevo lavorare per aiutare il nemico, pensando che i miei fratelli erano dall'altra parte. Ci divisero, dunque, in compagnie di circa 200 prigionieri e ci trasferirono da Feltre a Belluno. Ma senza darci nulla da mangiare, perciò durante la lunga e faticosa marcia cercammo di prendere qualcosa nelle campagne, magari qualcosa di caldo se riuscivamo a chiederlo a qualche contadino. A Belluno ancora ci fu chiesto chi volesse fermarsi a lavorare e questa volta, dopo tanta fatica e tanta fame, altri cedettero e accettarono di fermarsi pur di non finire in un campo di prigionia. Quindi di nuovo in marcia, sempre senza rancio, e nuovo trasferimento stavolta a Vittorio Veneto dove arrivammo alla vigilia di Natale. Ci sistemammo in una soffitta, dove dormimmo sul nudo e gelido pavimento. Al mattino dopo, giorno di Natale, al mio risveglio trovai una sorpresa: il Bambinello mi aveva cambiato le scarpe: prima ne avevo un paio discrete che mi calzavano bene, al loro posto ne trovai un trovai un paio tutte rotte e quasi inservibili. Ma dovetti arrangiarmi, e riuscii a calzarle tenendole insieme con lacci e pezzi di corda. In quelle ore ero veramente addolorato e afflitto: pensavo alla mia famiglia, a mia moglie, ai bambini, alla mia mamma e ai bei Natali ati nel calore della mia casa, quando mi comparve davanti un ragazzo che era stato mio allievo alla scuola di Comerio. Anche solo incontrarlo mi restituì un po' d'aria di casa, della quale non si può fare assolutamente a meno il giorno di Natale. Vedendomi così triste Mario, così si chiamava quel ragazzo, cercò di rincuorarmi. Mi disse di avere con sé un pezzo di carne che mi propose di cuocere per mangiarla insieme. Ma a questo punto il problema era la
cottura: dove, in quale recipiente e in che modo avremmo potuto cuocere quella carne? Girammo nel recinto dove eravamo rinchiusi alla ricerca di qualcosa di adatto, finché trovammo un secchio da muratore sporco di calce, lo pulimmo alla meglio e lo usammo come tegame per cuocervi dentro la carne. ammo così la giornata insieme festeggiando il Natale in un modo meno triste di come era cominciato, grazie a un pezzo di carne cotto in un secchio sporco di calce. D’altra parte al mattino per colazione gli austriaci ci avevano dato solo un po' di acqua sporca dicendo che era caffè. Ci chiesero di nuovo, per la terza volta, chi di noi intendesse fermarsi a lavorare. Alla fine, quando eravamo rimasti solo in 200 circa e ormai stremati e depressi, rispondemmo che eravamo disposti a lavorare ma non in zona di operazioni. E così, con questa nuova prospettiva, ci misero di nuovo in marcia diretti a Belluno e Feltre. Ci fermammo in un grande cascinale in una località di nome Santa Lucia. Al piano terra presero posto le guardie e il comando. Sul fienile, fatto solo di quattro pilasti che sorreggevano il tetto e senza pareti, sistemarono noi. Era l'inizio di gennaio e faceva molto freddo. Eravamo costretti a dormire sul nudo pavimento in cemento, senza coperte, tenendoci vicini uno accanto all'altro per scaldarci un po' e combattere il gelo almeno quel poco che ci evitasse di congelare, che ci permettesse di sopravvivere. Al mattino ci svegliarono prestissimo per portarci a sorbire la solita tazza d'acqua sporca bollente che loro chiamavano caffè e poi in un magazzino dove consegnarono a ciascuno di noi un attrezzo da lavoro: a chi una pala, a chi una zappa o una vanga, a chi un palo di ferro. Evidentemente si trattava di scavare e per noi fu una sgradita sorpresa, perché, come avevamo già chiarito, non intendevamo collaborare alla costruzione di trincee o fortificazioni e comunque in zona di occupazioni. Perciò ebbe inizio una gazzarra, quasi una piccola rivolta: gettammo via gli attrezzi rifiutandoci di portarli. Alla fine però, di fronte alle minacce di forti rappresaglie, e alle armi spianate, fummo costretti ad ubbidire e dovemmo portare con noi gli attrezzi che ci erano stati assegnati.
Arrivati all'accantonamento eravamo a ridosso della valle di Fiemme - ci distribuirono un paio di fette di pane nero e un pezzetto di carne di cavallo
in un po' di brodo. Per quel giorno ci lasciarono tranquilli e noi ci demmo da fare per procurarci un po' di legna per accendere un fuocherello che ci scaldasse durante la notte. Facevamo a turno per metterci intorno al fuoco che infine eravamo riusciti ad accendere in mezzo al cascinale. Al mattino sveglia alle quattro, inquadramento e distribuzione di quell’ormai famoso liquido caldo sporco spacciato per caffè, con il quale però non aveva nulla in comune. Quindi attrezzi in spalla e marcia verso il monte. Ad un certo punto ci fecero fermare ed un maggiore ci fece un discorso in tedesco, discorso che avrebbe anche potuto tralasciare perché, naturalmente, noi non capimmo assolutamente nulla. Poi però ce lo riassunse in italiano un interprete: dovevamo tracciare una strada che sarebbe servita per il trasporto di materiale bellico per i loro reparti che si trovavano in trincea in cima alla montagna. Pensai subito che nessuno di noi, che non avevamo voluto aderire alla richiesta di lavorare agli ordini del nemico in zona di operazioni, avrebbe potuto accettare, anche se a quel punto non ero del tutto sicuro che le cose sarebbero andate proprio così: temevo che qualcuno alla fine, pur di non avere grane, avrebbe mollato. Ma i miei erano timori infondati, perché proprio tutti ci rifiutammo di fare quel lavoro. Perciò alla fine i tedeschi si dovettero rassegnare e della strada per il momento non se ne fece nulla. Ci mettemmo ancora a cercare legna per accendere fuochi che ci scaldassero durante la notte e per quel giorno le guardie ci lasciarono in pace e non ci costrinsero a iniziare il lavoro. Ridiscesi in accantonamento, ci dettero da mangiare qualcosa di cui non saprei neppure fare il nome ma la fame era molta e mandammo giù quella roba. Io avevo con me ancora un po' dei soldi ma non c'era alcuna possibilità di spenderli per procurarsi qualcosa di decente da mangiare. Anche le guardie, in realtà, erano all'incirca nelle nostre stesse condizioni e avevano quasi la stessa fame. Al mattino dopo, ancora sveglia alle quattro, la solita acqua calda sporca per colazione e marcia verso il monte. Ma le cose cambiarono: arrivati sul posto dove avremmo dovuto metterci al lavoro, noi cominciammo ad accedere i fuochi, che le guardie regolarmente spegnevano perché temevano che noi ce ne stessimo fermi a scaldarci intorno ai nostri falò - cosa che effettivamente avevamo intenzione di fare – mentre loro avevano l’ordine di
farci lavorare. Ma noi non ci stavamo e cominciammo a fare una resistenza iva: chi diceva che gli mancava l'attrezzo, chi si dava per ammalato, chi inventava una scusa, chi un'altra pur di non mettersi al lavoro. Qualcuno, invece, talvolta fingeva di mettersi al lavoro, ma lo faceva con una lentezza esasperante, fingendo di sbagliare o di farsi male.
XI IL TRADUTTORE
Si tirò avanti così per tutto il mese e gli austriaci per punirci ogni tanto ci toglievano il pane. In realtà sembrava che lo fero solo per non farcela are liscia, per darci l’impressione di punirci, ma più che altro sembravano rassegnati a questo stato di cose. Io nel frattempo avevo fatto conoscenza con il prigioniero che faceva da l'interprete, un certo Gasparini di Cittiglio, un paese a pochi chilometri da casa mia. Non ho mai capito per quale ragione conoscesse così bene il tedesco: glielo chiesi un paio di volte ma mi sembrò che evitasse di rispondermi. Probabilmente aveva vissuto a lungo in Germania o in Austria, forse per lavoro, ma era chiaro che non gli faceva piacere parlarne. Comunque diventammo amici e lui, che per il suo ruolo di traduttore godeva di qualche piccolo privilegio – lo vedevo spesso parlottare confidenzialmente e disinvoltamente in tedesco con qualche ufficiale o sottufficiale austriaco – e per questo era guardato con molta diffidenza dagli altri prigionieri, alcuni dei quali evitavano di parlare con lui e lo guardavano con disprezzo come se si trattasse di un traditore o di una spia. Io, però, non condividevo quella diffidenza e non solo perché eravamo quasi compaesani e perché pensavo che, in fondo, il Gasparini non faceva altro che cercare di migliorare la sua condizione di prigioniero senza nuocere a nessuno, grazie ad una possibilità che aveva a sua disposizione, la conoscenza del tedesco, come avrebbe fatto chiunque di noi. Ma mi fidavo di lui anche, se non soprattutto, perché ogni tanto mi procurava un pezzo di pane in più - che però, naturalmente, dovevo pagare e anche piuttosto caro.
Se questa pretesa di far pagare ad un affamato un tozzo di pane spesso raffermo in condizioni normali, in tempo di pace mi avrebbe scandalizzato, se questo comportamento mi sarebbe apparso di un’avidità inaccettabile, mi sembrò invece del tutto naturale in quella situazione eccezionale, nella quale tutti soffrivamo la fame e ogni giorno rischiavamo la vita; una situazione, cioè, nella quale un pezzo di pane era talmente raro e importante per la sopravvivenza da assumere il valore di un bene prezioso. Giusto perciò remunerarlo. Intanto però i gli austriaci cominciavano a spazientirsi, almeno gli ufficiali, giacché ormai i loro soldati probabilmente erano arcistufi anche loro di quella guerra. Tuttavia non era neppure immaginabile una protesta e meno che meno un moto di ribellione: il rigoroso senso della disciplina e dell’ordine di quella gente prevaleva sulla stanchezza, sulla fame e sul disgusto per quella guerra. Noi ogni tanto per evitare il lavoro marcavamo visita in massa ma loro non ci portavano in infermeria e risolvevano il problema tenendoci a dieta, obbligandoci a un digiuno del quale non avevamo certo bisogno, già piegati come eravamo dalla fame. Fatto sta che in un mese spesi tutti i miei soldi per un po' di pane in più e alla fine per un quarto di pagnotta diedi il mio orologio con catena in argento e oro. Mi lamentai tanto per quel prezzo così esoso per un tozzo di pane che alla fine il mio fornitore, per mettermi a tacere aggiunse tre o quattro sigarette. D'altra parte anche il vizio del fumo era diventato un problema, tanto che si arrivava fumare foglie di faggio, che non ci sembravano neppure tanto male. Alla fine i nostri carcerieri si stancarono, visto che, comunque, non riuscivano a farci lavorare, e un bel giorno - non saprei dire esattamente quale giacché avevo perso la nozione del tempo – ci radunarono e il solito maggiore ci tenne un altro sermone, sempre in tedesco (sempre tempo sprecato) che poi l'interprete riassunse così: di lì saremmo andati via presto e ci avrebbero trasferiti in un campo di concentramento assieme ai prigionieri russi, dove – ci spiegò il maggiore con l’aria di annunciarci una meritata punizione - ci avrebbero tagliato i viveri e saremmo stati molto peggio. Ma come, peggio di così? - pensammo tutti.
Dunque ci mandarono a Levico, in un campo di concentramento a recinto chiuso con baracche in legno e letti a castello. La cucina era gestita da prigionieri russi con i quali proprio non ci si capiva ma al primo rancio ci meravigliammo perché ci riempirono la gavette con un miscuglio di rape e trippa e qualcos'altro. Dalla porcheria che vedevamo galleggiare in quella brodaglia si capiva che quella roba non era stata lavata ma la fame terribile che avevamo ci fece vincere il disgusto e sorvolare su certe regole igieniche. Tanto che mangiammo tutto e pensammo che se fosse andata avanti così non c'era tanto da lamentarsi. Speravamo anche che ci sarebbe stata tolta la punizione che più ci rattristava, il divieto di scrivere a casa. Volevamo finalmente rassicurare i nostri cari che eravamo in vita e a nostra volta avevamo tanto desiderio di ricevere loro notizie. Provammo perciò a chiedere il permesso al comando del campo e ci fu promesso che se ci fossimo comportati bene ci sarebbe stato consentito di scrivere. Purtroppo, però, dovette are ancora molto tempo prima di poter mandare due righe a casa, perché, come avremmo dovuto prevedere, secondo gli austriaci le cose non filavano mai bene come avrebbero voluto. Era chiaro, comunque, che si servivano di quella promessa per tenerci buoni. Ben presto, inoltre ci accorgemmo che, per ragioni che non riuscivamo a capire, i prigionieri russi ricevevano un trattamento molto migliore di quello riservato agli italiani. Noi, ad esempio, dovevamo alzarci prestissimo per essere portati fuori dal campo a raccogliere ciottoli per selciare i camminamenti interni del campo che erano dei veri acquitrini. I russi, invece, chissà perché, erano esentati, se ne potevano restare in baracca ed avevano diritto anche alla distribuzione del tabacco. Molto più tardi, tornati a casa, capimmo le ragioni di quel trattamento speciale riservato ai russi: per loro, in conseguenza della cosiddetta Rivoluzione d’ottobre, la guerra era praticamente finita, non erano più dei nemici veri e propri e presto sarebbero tornati a casa perché la Russia stava trattando la pace. Ma noi allora non sapevamo assolutamente nulla di come stessero andando le cose al fronte. Gli austriaci ci dicevano sempre che il nostro esercito si ritirava. E noi, naturalmente, non ci credevamo. Fatto sta che un giorno noi italiani, esasperati, organizzammo una protesta. Una mattina non ci alzammo e prendemmo a reclamare a gran voce il tabacco anche per noi. Accorsero le guardie e, visto di cosa si trattava,
uscirono senza dir nulla. Rientrarono poco dopo, armati di bastoni e gridando “tagliani ecco tobacco!” cominciarono a menare colpi alla cieca, a destra e manca. Oltre ad avere risolto in questo modo, secondo loro, il problema del tabacco, quel giorno non ci diedero neppure il solito miserabile pezzetto di pane: una pagnottella divisa in sei e qualche volta in otto, che forse era un bene non mangiare perché dentro aveva di tutto tranne la farina, secondo me si trattava solo di paglia e segatura. Di conseguenza non ci restava che boicottare il lavoro, ad esempio invece di portare un ciottolo grosso ne prendevamo uno che ci stava in tasca. Le guardie reagivano urlando e minacciando e ogni tanto rifilando qualche botta, mai noi non davamo retta perché ormai le loro minacce non ci impressionavano. È evidente, quindi, che in questa situazione di ostilità e tensione non ci veniva concessa l'autorizzazione di scrivere a casa.
XII FAME
Da parte mia, comunque, io stavo molto attento quando venivano a chiedere se fra di noi ci fosse qualcuno che svolgesse un certo mestiere o una certa professione. La prima volta cercavano un elettricista e io mi presentai, nella speranza che ci fosse da andare a lavorare fuori dal campo per fare qualche impianto di luce in qualche i qualche casa o comando militare. Ma purtroppo non si trattava di nulla del genere; ci eravamo presentati in due e quale fu la nostra frustrazione quando ci caricarono un rotolo di filo di ferro di almeno mezzo quintale avvolto su un palo di legno da portare al campo in spalla, uno avanti l'altro dietro. Per un tratto tirai avanti, ma poi, visto che la cosa si faceva lunga, dissi al mio socio “io non ce la faccio più, piantiamola lì, molliamo tutto a terra e torniamocene in baracca”. E così facemmo. Verso sera le guardie vennero a cercare i due italiani che erano usciti come elettricisti, ma nessuno li conosceva, non ci avevano chiesto il nome e poi per loro eravamo tutti uguali, vestiti allo stesso modo, così malconci, stracciati e sporchi.
Il secondo tentativo di lavoro esterno lo feci come muratore, su richiesta di un borghese austriaco, una specie di capocantiere che stava facendo delle modifiche ad una costruzione adibita a mensa dei soldati austriaci. Io dovevo fare il manovale, perché, di fatto, il muratore era lui e la cosa, francamente, mi sembrò anche logica. Cercai, comunque, di rendermi utile il più possibile, di fare del mio meglio per conservare quel lavoro, non solo perché così potevo stare qualche ora fuori dal campo ma anche perché speravo che, trattandosi di lavori ad una mensa, ci potesse scappare anche qualcosa per la placare la fame. Il guaio era che il muratore non parlava italiano e io non capivo il tedesco e, ad esempio, se ordinava di portargli i mattoni io gli portavo le tavole ma il poverino non si arrabbiava, era mite e paziente, capiva i miei problemi e si sforzava di farsi intendere, magari con dei gesti, e io cercavo in tutti i modi di rimediare. Il lavoro durò parecchi giorni e nei ritagli di tempo gironzolavo e mi guardavo intorno in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti, ma anche lì regnava la miseria più nera. Un giorno però mi accorsi che da quelle parti c'era un altro ospite, ed era un maiale rinchiuso in un porcile poco lontano. Andai a fargli visita e scoprii che il suo rancio non era scarso come il mio e che una volta al giorno gli portavano delle patate cotte. Presi perciò l'abitudine di arrivare all'ora giusta per portare via al porco la mia razione di patate, che trovavo eccellenti: fu l'indimenticabile dimostrazione che la fame non va troppo per il sottile, non distingue, ragiona o ragiona solo per essere placata. Finché un giorno trovai nel recipiente dove mangiava l'animale una pasta bianca che aveva l'aria di essere fatta con farina di frumento, perciò pensai di portarne via un po' per cuocermela come pane. Accesi un fuoco, deposi la pasta sopra la brace e ce la lasciai per un po'. Quando mi sembrava fosse cotta la levai e la mangiai. Francamente non ci sentivo proprio il gusto del pane e aveva anzi un sapore molto sgradevole ma la fame era più forte e ne mangiai un bel po'. Finita la giornata di lavoro me ne tornai al campo e quella sera non presi il rancio e mi coricai. Ad un certo punto della notte avvertii che la pancia si gonfiava e si gonfiava sempre di più quasi ad impedirmi di respirare e mi assalivano violenti dolori alla pancia. A stento riuscii a scendere dalla mia branda e ad uscire dalla baracca, feci appena in tempo a raggiungere una
latrina e a tirarmi giù i pantaloni che fui preso anche da violenti conati di vomito. E così per tutta la notte, davanti e dietro: mi liberai ma credevo proprio di morire. Il giorno dopo non mi presentai al lavoro e, anzi, non ci andai più. Solo are vicino a quel porcile mi faceva star male. Non sono mai riuscito a capire cosa fosse quella roba bianca che mi ha fatto stare tanto male.
Intanto però la situazione al campo si faceva sempre più difficile. Russi e italiani proprio non andavano d'accordo. I russi avevano da mangiare perfino un po' di più del necessario e quindi si potevano privare di qualcosa per venderla a noi, che avevamo tanta fame ma pochi soldi. Eravamo perciò costretti a ricorrere a qualche stratagemma. Ad esempio ci mettevamo d'accordo in tre o quattro e facevamo finta di comprare, andoci la roba dall'uno all'altro per verificare se valeva il prezzo richiesto, ma l'ultimo se la dava a gambe e scappava a nascondersi, per poi dividere il bottino con i complici, anche se talvolta qualcuno teneva tutto per sé, gesto considerato un tradimento imperdonabile, con inevitabile conseguente rissa. Per non dire delle rappresaglie messe poi in atto dai russi gabbati. Arrivarono altri prigionieri italiani per fare posto ai quali i russi furono trasferiti ma la situazione alimentare si aggravava di giorno in giorno: anche se ci sembrava impossibile che le cose potessero andare peggio, di fatto sempre peggio andavano, c’era sempre meno da mangiare e quel poco era sempre più cattivo. Tuttavia ci fu finalmente permesso di scrivere a casa e noi speravamo di ricevere, oltre a notizie dei nostri cari, anche qualche pacco di viveri. I nuovi arrivati, fra i quali c'era un mio compaesano, un certo Giuseppe Vallanzasca, erano conciati persino peggio di noi. Capitava che, dopo una giornata di fatiche, denutriti e stremati, durante la notte qualcuno morisse di stenti. La fame aumentava, la brodaglia schifosa diminuiva diventando sempre più schifosa, e così il pane, sempre più immangiabile. Meglio non parlare, poi, della pulizia, la condizione di qualunque bestia non era paragonabile alla nostra. Ad abbondare, ormai erano solo i pidocchi che ci tormentavano senza un attimo di tregua notte e giorno.
Per fortuna, se così si può dire, un giorno ci dissero che dovevamo formare una compagnia di prigionieri che andasse in montagna ad abbattere abeti per fare legname da mandare in Italia – noi eravamo in territorio allora ancora austriaco - via Svizzera. Scelsero 200 di noi, fra cui me. Anni dopo seppi che quegli alberi che dovevamo andare ad abbattere, gli abeti di quei boschi, i famosi abeti rossi della valle di Fiemme; sono sempre stati, per secoli, i preferiti dai liutai lombardi, i migliori per la fabbricazione di violini e altri strumenti ad arco. Perciò ancora di più mi dispiacque, a posteriori, averne abbattuti tanti. Il giorno prima della partenza dal campo arrivò un carro ferroviario carico di pacchi provenienti dalla Russia, che dopo la rivoluzione stava per diventare Unione Sovietica, destinati ai prigionieri russi che erano appena stati trasferiti – probabilmente, capimmo dopo, per essere liberati. I tedeschi si guardarono bene da inoltrare quei pacchi alla nuova destinazione, giacché quei viveri facevano un gran comodo a loro che ormai cominciavano a patire la fame come noi. Perciò, senza la minima reticenza, pensarono bene di scaricarli e tenerseli. Per questa operazione furono scelti alcuni di noi e dato che io ero sempre stato pronto e disponibile ogni volta che chiedevano qualche uomo per dei servizi extra, fui incluso fra i fortunati. Non vi dico la meraviglia e l'invidia che provammo alla vista di tanto ben di Dio quando aprimmo qualche pacco – perché naturalmente questo accadde, che riuscimmo sottrarne qualcuno e a tenerlo per noi. In quei pacchi tutto era buono per mettere sotto i denti e cominciammo subito a mangiare con ingordigia, senza neppure preoccuparci di nasconderci. Mandavamo tutto giù con tanta furia che eravamo sazi prima di aver finito di scaricare quel carro dell’abbondanza. Ma non potevamo lasciare lì tutta quella meraviglia a disposizione degli austriaci. Perciò cominciammo a mettere nelle tasche e sotto gli indumenti quello che potevamo, per i giorni successivi ma più di tanto non potemmo nascondere. E fu quasi un bene perché, come succede quando si mangia troppo e troppo in fretta dopo un lungo digiuno, ci prese una forte indigestione con conseguente diarrea. Il giorno dopo si partì per la nuova destinazione e per fortuna la tradotta si fermò a Trento, e io scesi dal vagone appena in tempo per non farmela nei pantaloni e nella prima latrina che trovai feci una scarica che non vi dico. Stetti veramente male per diversi giorni, tanto che mi dava la nausea anche
quella poca brodaglia che costituiva il nostro rancio regolare.
Arrivati alla stazione di Ora scendemmo e prendemmo la ferrovia a scartamento ridotto che saliva lungo la valle di Fiemme. Ci portarono ad un campo che era evidentemente stato un presidio di truppe austriache. C'erano baracche in legno che erano state uffici e depositi e dormitori con letti a castello. Lì vicino ava un torrente. Quando fummo sistemati ci divisero in squadre e ci portarono sul monte in una selva di quei magnifici abeti che noi dovevamo abbattere, ripulirne i tronchi dei rami e segarli in pezzi della lunghezza di quattro metri. Per questo lavoro saremmo anche stati pagati un tanto a metro cubo, perché evidentemente quel legname veniva venduto. Il primo giorno fu quasi una eggiata per prendere visione, il seguente, dopo essere stati muniti degli attrezzi adatti, cominciammo il lavoro vero e proprio. Ma il guaio era che molti noi non avevano la minima idea di come usare quegli attrezzi e delle tecniche giuste per abbattere quegli alberi. Perciò fu necessaria qualche lezione da parte di persone esperte, dopodiché ci mettemmo all'opera. Tuttavia, per le poche energie di cui disponevamo a causa della lunga denutrizione e dei continui disagi, il lavoro risultò molto più pensante del previsto e procedeva lentamente. Perciò per fare bella figura ma soprattutto per guadagnare un po' di più ricorremmo a qualche espediente, come, ad esempio segnare sui rapporti finali come abbattuti anche abeti che erano ancora al loro posto, pensando che nessuno avrebbe potuto controllare dopo che i tronchi fossero divisi in pezzi. Tuttavia, nonostante quei nostri ingenui trucchetti, i soldi promessi non sono mai arrivati, neppure quelli che avevamo effettivamente guadagnato: gli austriaci ci raccontarono la spudorata balla che quel denaro andava in miglioramento del rancio; miglioramento che, in realtà, per noi non c'è mai stato ma forse per loro sì. Ma i guai veri cominciarono al momento dello scarico dei tronchi che si dovevano far scendere a valle. Gli austriaci, com'era prevedibile, si accorsero che i numeri riportati sui rapporti non corrispondevano a quelli
delle piante effettivamente abbattute, anche perché avevamo proprio esagerato nel segnarne di più. Se la arono brutta anche le guardie che ci accompagnavano e che avrebbero dovuto vigilare sul nostro lavoro, mentre, in realtà, se noi facevamo finta di lavorare loro dormivano sul serio. Certo i nostri carcerieri non potevano pretendere di più da gente tenuta in vita con due mestoli di acqua bollita con una manciata di farina di polenta e un tocco di pane fatto di segatura di legno e paglia macinata. Per sfamarci durante le ore di lavoro ricorrevamo a erbe, radici e ortiche lessate con un pizzico di sale e grandi bevute d'acqua del torrente. Escogitai allora il sistema per procurarci qualcosa da magiare. Marcavamo visita in otto o dieci ogni giorno, accompagnati da un paio di guardie andavamo in un'infermeria a Cavalese ma il più delle volte neppure fingevamo di farci visitare e le guardie, rassegnate, stavano al gioco, giacché sapevano benissimo che la nostra vera malattia era la fame. Ci lasciavano perciò una certa libertà di movimento e noi giravamo per le case del paese per chiedere qualcosa per sfamarci. Diciamolo pure: chiedevamo l'elemosina. E quella buona gente qualcosa ci dava sempre: patate bollite o un piatto di minestra di orzo e latte, raramente qualche pezzo di pane perché la farina di grano era scarsa anche per loro. Insomma, ci aiutavano nel limiti delle loro possibilità in una situazione che era terribilmente difficile per tutti. E devo riconoscere che oramai anche le guardie erano diventate comprensive, non so se per umana comione o perché pure loro ne avevano le scatole piene della guerra. Al ritorno si ava da un posto dove gli austriaci macellavano le mucche che sequestravano ai contadini lasciando una specie di ricevuta per un futuro rimborso che, naturalmente, non sarebbe mai avvenuto. Noi ci fermavamo per far are nelle mani le budella delle bestie macellate in modo da ricavarne un po' di grasso che poi, fuso, utilizzavamo per condire le erbe selvatiche che raccoglievamo e che facevamo bollire. Ormai la fame non risparmiava nessuno, nemmeno le nostre guardie che, nonostante i rimproveri che ricevevano dai superiori, facevano un po' di comunella con noi, perché inevitabilmente, a poco a poco, si era creata col tempo una specie di solidarietà fra affamati.
XIII IL TENENTE POLI Ma in quei giorni ebbi anche una grande gioia, quando finalmente ricevetti da casa la prima lettera da quando ero prigioniero: conteneva anche una fotografia di gruppo della mia famiglia, con i miei bambini, Virgina e Giosuè, mia moglie, mia madre, le mie sorelle e solo l'ultimo dei miei fratelli, perché gli altri due erano militari, uno dei quali prigioniero a Mauthausen. Le giornate avano tutte uguali, aspettando la fine di questa tragedia, di questo scannarsi dei popoli e di queste terribili miserie umane ormai incomprensibili e inaccettabili per tutti, giacché era chiaro che la guerra tirava fuori il peggio da ciascuno di noi. Pur con quel generale stato d'animo di grande stanchezza e profondo disgusto per la guerra e le sue crudeltà, sul rispetto per il prossimo in quelle condizioni finiva per prevalere lo spirito di sopravvivenza, l'egoismo come forma estrema di amor proprio e di autoconservazione, anche ai danni degli altri, se necessario. Ne ho avuto personalmente alcune dimostrazioni, a mie spese, in diverse occasioni. Ricordo, ad esempio, quella volta che ebbi la fortuna di riuscire a conquistarmi un intero fegato di vitello, tutto per me, lo portai in bracca e dissi al mio vicino di dormitorio che lo avremmo condiviso e mangiato insieme: mi sembrava crudele e disumano consumare da solo quel dono di Dio in sua presenza, lasciarlo lì, tormentato dalla fame, a guardarmi mandar giù quel fegato. Ma la mia umanità non fu ripagata, l'indomani dovetti recarmi al lavoro e al mio ritorno il fegato era sparito. Il mio vicino disse di non saperne nulla, ma chi fosse il responsabile di quella sparizione fu subito chiaro quando quell'egoista disonesto si sentì male e dovette confessare di aver mangiato tutto il fegato crudo. Stava per ricevere una punizione fin eccessiva della sua ingordigia e disonestà perché per poco non ci lasciò la pelle. Un'altra volta ebbi in regalo da una famiglia della zona una pagnotta intera e qualche patata. Arrivato in baracca, vidi che un compaesano di Malgesso, vicino a Gavirate, un certo Franzetti, era conciato piuttosto male. Mi fece comione e gli diedi metà della mia pagnotta e un paio di patate, con la
promessa che appena gli fosse stato possibile avrebbe contraccambiato con qualcosa. L'occasione si presentò poco dopo, in un momento in cui io ero veramente messo male e privo tutto mentre a disporre di qualcosa da mangiare stavolta era il Franzetti, che però ebbe l'impudenza di negare tutto, sostenendo perfino di non ricordare che io gli avessi mai dato qualcosa. Avrei pianto di rabbia se ne avessi avuto la forza.
Venne la primavera e col risveglio della natura aumentò la fame, cosa che sembrava impossibile. Quando si ha tanta fame, ma quella vera, non si ragiona e si commettono azioni che non si dovrebbe mai commettere. Tanto più a danno dei buoni contadini che, a dire il vero, a turno ci hanno sfamati un po' tutti. Brutte azioni, giustificate solo dalla fame cieca, che ottenebra anche le coscienze, come quando i prigionieri andavano a dissotterrare, per mangiarsele magari crude, le patate che i contadini avevano interrato per la coltivazione. I contadini si dimostrarono ancora una volta delle buone persone perché non andarono a denunciare il fatto al comando del campo ma ci dissero di non farlo più e piuttosto di chiedere a loro che, nei limiti delle loro possibilità, ci avrebbero aiutati ancora. D'altra parte la situazione era tutt'altro che rosea anche per loro, soggetti a continue requisizioni da parte dei soldati austriaci che ogni volta portavano via tutto quello che potevano rilasciando le solite ipocrite, bugiarde e ridicole ricevute. Quando il lavoro di abbattimento degli abeti finì, si cominciò a parlare di un nuovo trasferimento, ma ormai eravamo ridotti senza scarpe e con i vestiti a brandelli e orribilmente sporchi, denutriti e magri da fare spavento. Sapevamo che poco lontano dalle nostre baracche un tempo si trovava un magazzino militare austriaco al quale, con il tacito consenso delle guardie, pensammo di fare una visita nella speranza di riuscire a sistemarci meglio. Andò bene perché trovammo scarpe e divise, se non nuove e spesso neppure in buono stato, comunque certamente in condizioni migliori delle nostre. Perciò riuscimmo ad arrangiarci in qualche modo. Il comandante delle guardie, austriache e ungheresi, era un tenente triestino, un certo Alessandro Poli. Indossava un’uniforme dell’imperialregio esercito, perché Trieste faceva parte dell’Impero asburgico, ma quel
tenente nutriva evidenti sentimenti italiani. Non so perché ma quell’ufficiale mi prese subito in simpatia, era chiaro che gli faceva piacere chiacchierare con me, quando ci era possibile. Lo vedevo spesso, nei ritagli di tempo, scrivere con una matita su un quaderno di quelli con la copertina nera che portava sempre con sé. Scriveva lentamente, facendo delle lunghe pause guardando nel vuoto, come se riflettesse. Un giorno mi feci coraggio e gli chiesi cosa scrivesse: “Poesie” mi rispose con un sorriso imbarazzato, come per scusarsi. Allora gli chiesi se era un poeta e lui mi spiegò che no, non era un poeta, ma semplicemente gli piaceva scrivere poesie, mettere in versi sentimenti e pensieri: “Mi fa stare meglio. Adesso, per esempio,” aggiunse “sto scrivendo della crudele stupidità della guerra”. Vide che ero rimasto impressionato da queste parole e mi spiegò che questo amore per la poesia gli era nato frequentando un poeta triestino, “un poeta vero, lui” precisò, amico di famiglia, che aveva il suo stesso cognome, Umberto Poli (ma a me rimase il sospetto che in realtà fossero parenti per via paterna), il quale però scriveva con lo pseudonimo di Umberto Saba, perché voleva rifiutare il padre che aveva abbandonato la famiglia quando lui era ancora piccolo e perché era molto affezionato alla sua nutrice slovena, una certa Sabaz. Allora gli chiesi se anche il suo amico poeta combatteva nell’esercito austriaco e lui mi spiegò che il Saba era da qualche tempo in Italia, cittadino italiano e che perciò combatteva nell’esercito italiano. “Vedi com’è assurda questa guerra?” commentò sottovoce il tenente Poli, e prevenendo un’altra mia domanda aggiunse: “Io sono italiano come il mio amico e mi sento italiano, ma mi sento anche suddito leale dell’imperatore, come mi ha insegnato mio padre. L’imperatore c’era quando io sono nato, e quando è morto, appena pochi mesi fa, mi è dispiaciuto come se avessi perso un nonno molto amato. Con la mia gente, con la mia famiglia e con la nostra città è sempre stato generoso e corretto. Da quando è cominciata questa guerra il mio cuore è diviso in due. Ecco, anche per questo scrivo poesie, per cercare di rimettere insieme i pezzi della mia anima. E spero di rivedere il mio amico Umberto quando questo inutile macello sarà finito”. Rimasi molto colpito dalle parole del tenente Poli, le rimuginai a lungo e mi tornarono spesso alla mente, soprattutto nei momenti più difficili. Mi
piaceva molto parlare con lui e lo facevo tutte le volte che ne avevo la possibilità. Parlava piano e quasi sottovoce, un modo molto strano per un ufficiale dell’esercito austriaco. Raccontava della sua Trieste, del suo amico poeta e degli altri suoi amici, del senso dell’onore, del dovere e della fedeltà, di quello che avrebbe voluto fare dopo la guerra che egli era sicuro che stesse per finire: voleva aprire una libreria e magari scrivere poesie; ma non per pubblicarle, aggiungeva. Non erano mai discorsi lunghi, non c’era il tempo e la possibilità, sempre brevi frasi veloci ma in quei momenti mi sembrava di respirare un’aria migliore, più serena, quasi di pace. Quasi mi sembrava di essere più vicino a casa. Comunque il tenente Poli era molto ben disposto verso di noi prigionieri italiani, naturalmente nei limiti delle sue possibilità e del suo profondo senso di lealtà e disciplina. Anche per questo, per l’influenza che i sentimenti di quell’ufficiale esercitavano sui suoi sottoposti - oltre che, come ho accennato prima, per la reciproca comprensione dovuta alla condizione comune di stanchezza e di fame - le guardie si mostravano più solidali o almeno meno rigide nei nostri confronti. Il ricordo del tenente Poli rimase a lungo impresso nella mia mente e nel mio animo. Dopo la guerra cercai di rintracciarlo, volevo avere la possibilità di esprimergli la mia gratitudine per quello che aveva fatto per noi. Scrissi al Comune di Trieste, che nel frattempo era diventata italiana, ma francamente non speravo di ricevere una risposta che invece, con mia grande meraviglia mi arrivò anche con una certa sollecitudine. Al Comune di Trieste risultava che il tenente Poli si fosse trasferito a Milano e mi diedero il suo indirizzo.
XIV ZUCCHE E PATATE
Quando venne l'ordine di trasferimento, dunque, il tenente mi incaricò insieme ad altri compagni di andare avanti per sistemare le baracche dove avremmo dovuto alloggiare. Partimmo con una guida ma senza alcun vettovagliamento. Arrivati sul posto ci trovammo in aperta campagna, dove
sorgevano delle baracche molto malconce e bisognose di riparazioni. Ma ci mancava tutto il necessario per metterci al lavoro e per di più avevamo anche esaurito i viveri ed era chiaro che avremmo dovuto restare lì dei giorni a lavorare per sistemare le baracche. Per prima cosa, dunque, bisognava procurarsi qualcosa da mangiare. Facemmo un giro esplorativo e poco lontano trovammo una fattoria dove vivevano dei contadini tirolesi che, come scoprimmo poi, sapevano parlare italiano ma si rifiutarono di farlo con noi, esprimendosi solo in tedesco. Chiedemmo loro qualcosa da mangiare e ci risposero con un no secco espresso in modo molto sgradevole, quasi ostile. Mostrarono in tutti modi di detestare gli italiani. Proseguendo il nostro giro in quella zona ammo vicino a un pezzo di terreno coltivato a zucche e decidemmo di prenderne qualcuna – con quella fame meglio che niente, buone anche le zucche. Ma non avevamo pentole per poterle cuocere, quelle zucche, perciò andammo da altri contadini e chiedemmo qualche recipiente per poter bollire della carne – così dicemmo loro – che ci era stata spedita. Ci diedero una vecchia pentola nella quale bollimmo le zucche, che naturalmente mangiammo senza sale e alcun altro condimento, ma andava bene così e per diversi giorni il nostro pasto fu costituito da quelle zucche bollite e qualche patata, rubate anche quelle. Infatti i contadini della zona, dai quali eravamo molto malvisti perché erano tutti tedeschi sudtirolesi, non ci davano nulla e quando ci rivolgevamo a loro facevano finta di non capirci e assolutamente non ci facevano entrare in casa lasciandoci sempre sulla porta. Per mettere qualcosa sotto i denti eravamo costretti a rubare. Quando arrivò il resto della compagnia con tutto il comando, la prima cosa che fecero quei crucchi bifolchi fu reclamare con gli ufficiali che i prigionieri avevano rubato le zucche e le patate. Il tenente Poli se la cavò nel migliore dei modi, non fece discussioni e comprò tutto il zuccaio: perciò continuammo a mangiare quasi sempre zucche bollite, ma adesso almeno insaporite con un po' di sale. A reclamare, però, stavolta furono le guardie ungheresi, dicendo che al loro paese le zucche le davano ai maiali. E avevano ragione, ma non c’era proprio altro e in qualche modo bisognava accontentarsi, perché
l'alternativa era morire di fame. Per noi prigionieri non c’erano dubbi e poi le zucche bollite non ci sembravano neppure tanto male. D’altra parte, cercammo di spiegare agli ungheresi, in molti posti in Italia certi tipi di zucche si usano anche per cucinare, e per cucinare cose buone. Ma ci cedettero. Tuttavia nel frattempo dall'Italia con un po' di corrispondenza cominciava finalmente ad arrivare qualche pacco contenente pane e viveri diversi come pasta e riso, rendendoci meno penosa la vita. Io ricevetti un pacco speditomi dallo zio Paolo attraverso la Svizzera, c’era del cibo in scatola e perfino dei pacchetti di sigarette. Da casa ricevetti un pacco di pane e un altro con pasta riso, qualcos'altro da mangiare e sigarette. E quella volta feci la terza stupidaggine, il terzo incredibile errore di ingenuità ed eccesso di fiducia nel prossimo, dimostrando di non aver fatto tesoro delle amare lezioni che avevo già ricevuto. Condivisi questa mia roba con un compagno, un certo Binda, quasi un compaesano perché era di Bogno, frazione di Besozzo – e forse per questo mi sono fidato tanto. Il Binda, anche lui, si era impegnato a contraccambiare quando avessero spedito qualcosa a lui. A me non arrivò più nulla e quando arrivò il suo pacco rivendicai la mia parte ma il Binda, da buon italiano e amico e quasi compaesano, mi rispose che avevo fatto male a dargliene del mio e il suo lo tenne tutto per sé e in pochi giorni se lo mangiò tutto lui. Constatando che, evidentemente, le lezioni precedenti non mi erano servite a nulla, non sapevo se prendermela più con me stesso per la mia imperdonabile e ingenuità o col Binda. Tanta sfacciata slealtà e disonestà mi sembrava impossibile in un commilitone, non avrei mai creduto che si potesse arrivare al quel punto di viltà, ma purtroppo le cose stavano proprio così. La fame prolungata fa venire fuori il peggio degli uomini. Sono quelle le situazioni in cui si vede il vero valore delle persone, le virtù o i difetti degli uomini. Purtroppo, però, accadeva anche di peggio. Presto ci accorgemmo, infatti, anche dalle lettere che arrivavano da casa annunciandoci la spedizione di pacchi, che in realtà a noi ne arrivavano ben pochi. Non ci volle molto a scoprire la ragione di queste sparizioni. Sapevamo che il servizio di smistamento e distribuzione della posta lo svolgevano le guardie, perciò chiedemmo al tenente Poli che in quel lavoro a loro si potesse affiancare uno
di noi. L'ufficiale con la sua solita correttezza acconsentì e di questo affiancamento venne incaricato un nostro sergente il quale prendeva nota di tutti i pacchi arrivati e ne informava personalmente i destinatari. Così, confrontando queste informazioni con gli invii che ci annunciavano da casa, verificammo quello che già sapevamo, che mancava sempre qualche pacco. Non ci volle molto a scoprire, anche con la tacita collaborazione del tenente Poli, il responsabile di quelle sparizioni. Dopo una rapida indagine fu chiaro che a prendersi i pacchi all'arrivo, prima ancora che arrivassero allo smistamento, era un sergente delle guardie, il quale abitava in un paesino poco distante dal nostro accampamento e perciò faceva in fretta a portarseli a casa. Ma naturalmente non la ò liscia. Noi in quel campo godevamo di una certa libertà, non avevamo recinzioni alle baracche e, come ho già detto, il tenente era dalla nostra parte e ci lasciava piuttosto liberi di muoverci, a dispetto di alcuni suoi colleghi austriaci. Perciò, grazie a questa libertà, un giorno alcuni di noi fecero una eggiata fino al paese del ladro di pacchi, chiesero dove abitasse e presero visione del suo pollaio. Una notte, dunque, rifecero la stessa gita e prelevarono tutte galline del ladro. Tirarono loro il collo sul posto appena prese, per evitare che starnazzando dessero l'allarme, e le portarono in baracca, dove le spennammo e dopo averle bollite le divorammo di gusto. Naturalmente quando il sergente ladro lo scoprì andò su tutte le furie, ma non avevamo fatto altro che riservargli il trattamento che meritava, perciò quando andò a protestare dal tenente questi non gli diede ascolto, non gli diede la minima soddisfazione perché sapeva benissimo come stavano le cose, avendo anzi collaborato alla sua identificazione. Se la cavò rispondendogli che non c’era modo di identificare con certezza chi gli avesse portato via le galline, e glielo disse quasi ridendogli in faccia.
In quella zona, benché in territorio italiano, come ho detto prima c'erano paesi e villaggi la cui popolazione era più tedesca degli abitanti di Austria e Germania. Quella gente ci detestava e non ci dava nulla neanche a
pagamento, perciò ci rassegnammo a prelevare di nascosto dai campi un po' di patate, giacché era il momento del raccolto. Si avvicinava un altro inverno di guerra e sapevamo per esperienza che ci aspettava un periodo molto difficile, perciò dovevamo prepararci, mettere fieno in cascina, come si dice dalle mie parti, cioè accumulare energie che ci permettessero di sopportare altri mesi di fatiche, neve e fango. Ogni notte, perciò, si facevano spedizioni quasi di massa e, divisi in gruppi, quale in un villaggio quale in un altro vicino, facevamo il nostro raccolto di patate. A volte venivano con noi anche delle guardie che ormai si trovavano in condizioni non molto diverse dalle nostre. Queste operazioni andarono avanti per diverse notti fino a quando i contadini, esasperati, andarono a denunciare al comando generale di zona che i prigionieri rubavano le loro patate chiedendo perciò duri provvedimenti. E infatti un giorno arrivò un maggiore che ordinò di perquisire le baracche e di costringerci a consegnare le patate. Ce le fece portare a lui personalmente e ci chiese, uno per uno, dove le avessimo prese, cioè in quale comune. Le divise quindi comune per comune e ce le fece portare nei rispettivi comuni per consegnarle direttamente ai sindaci. A noi non restò nulla e i contadini furono perfino autorizzati a spararci se fossimo stati scoperti a rubare ancora le loro patate. Ma tutto questo non servì a nulla perché la fame è più forte di qualsiasi imposizione o minaccia. E infatti di notte eravamo ancora fuori, nei campi di quei contadini a fare il nostro “raccolto”. Al tenente Poli era stato ordinato di costruire un recinto di filo spinato intorno alle baracche per impedirci di uscire se non scortati dalle guardie e solo quando il recinto veniva aperto. Ma questa soluzione era troppo semplice e quasi ingenua, giacchè, come prima, di notte erano le stesse guardie a venire con noi per raccogliere le patate. Di giorno, invece, quando si andava nei boschi per abbattere gli abeti, all'epoca dei funghi li raccoglievamo tutti e li facevamo bollire con un po' di sale, non potendoli cuocere in nessun altro modo perché mancavamo di burro, strutto o qualsiasi altro grasso. Li raccoglievamo senza badare al tipo, senza badare se fossero o meno commestibili, ammesso che fra di noi ci fosse qualcuno in grado di distinguere con certezza gli uni dagli altri. Ho visto tranquillamente mangiare qualsiasi tipo di fungo senza alcuna preoccupazione se fossero velenosi o meno. Io stavo attento, perché un po’ li conoscevo, ma solo un
poco. Comunque non è mai successo nulla, nessuno è stato male: la fortuna, che evidentemente aiuta gli affamati, ha voluto che nessuno si imbattesse in qualche fungo velenoso. A lavorare ci portava un treno che da Ora andava a Pedrazzo su una linea appena costruita e che poi diventò famoso come il trenino della val di Fiemme. La nostra meta era circa a metà del tragitto. Un giorno, al ritorno dal lavoro, su quel treno avvenne un episodio divertente. ando vicino ad una casa di contadini sulla strada che facevamo per raggiungere la ferrovia, avevamo preso una gallina che razzolava. Come al solito le tirammo subito il collo sul posto e credendo di averla uccisa la nascondemmo avvolta in una giacca. Quindi salimmo sul treno per fare ritorno alle baracche. Ma durante il viaggio improvvisamente la gallina riprese vita, uscì dall'involto dove l'avevamo nascosta prese a starnazzare correndo per tutto il vagone facendo ridere tutti eggeri. Ma la cosa più importante fu che riuscimmo a riprenderla, prima se ne impossessassero altri, non potevamo perdere quel pasto.
XV LA FUGA
Intanto eravamo arrivati ad ottobre e anche se non avevamo mai notizie sull’andamento della guerra, era ormai chiaro che le cose per tedeschi e austriaci si mettevano molto male. Qualche reparto accampato per turno di riposo dalle nostre parti, all'ordine di tornare in prima linea protestava o addirittura si ammutinava – comportamenti inconcepibili per quella gente perché erano tutti stanchi e stufi, affamati e laceri. Sapevano che al fronte la situazione era grave perché i nostri dopo la battaglia del Piave erano in piena avanzata e vedevamo are reparti austriaci che ripiegavano disordinatamente, ritirandosi dal fronte. Da questi comportamenti anche noi arrivammo a capire qual’era veramente la situazione e ce ne rallegravamo pensando che presto saremmo tornati alle nostre famiglie. Ma eravamo troppo ottimisti.
In quella situazione di sbando delle truppe tedesche e austriache, verso la fine di ottobre decidemmo una fuga di massa, di lasciare tutti l'accampamento per fare ritorno a casa. Il nostro tenente, che volemmo informare per lealtà e riconoscenza, giacché era stato sempre amichevole e generoso verso di noi prigionieri, cercò di dissuaderci, non so se per un suo ultimo dovere di ufficiale dell’imperial-regio esercito o per attenzione verso di noi. Ci disse che era pericoloso perché avremmo potuto essere intercettati e catturati dai reparti nemici in ritirata, che al momento opportuno ci avrebbe condotto lui stesso fuori dal campo sulla strada di casa. Ma non lo ascoltammo anche perché non ci sembrava possibile che dei reparti in precipitosa ritirata si occuero di prigionieri in fuga, di gente che non faceva altro che tornarsene a casa. Perciò, dopo aver salutato con riconoscenza il tenente Poli, portammo avanti il nostro progetto. L'evasione fu facilissima, più che una fuga fu un tranquillo, pacifico allontanamento dal campo, perché ormai le guardie si disinteressavano completamente a noi. Ci mettemmo dunque in marcia verso ovest attraverso i monti, alcuni già innevati, con l'intenzione di raggiungere Trento. I rapporti umani ormai sembravano rovesciati: incontravamo truppe austriache in ritirata e quella gente, senza badare alla nostra condizione di prigionieri in fuga, invece di tentare di catturarci, come temeva il tenente, stremata e affamata ci chiedeva, anzi, qualcosa da mangiare. Noi avevamo solo un po' di quelle famose patate e qualcuno, chissà come, aveva anche un po' di riso e lasciammo quasi tutto a loro, giacché non bastano anni di guerra e prigionia a far morire il senso di umanità e solidarietà. Tanto più che noi tornavamo in Italia, dove speravamo di trovare l'abbondanza e comunque, pensavamo, presto avremmo certamente incontrato dei nostri reparti che ci avrebbero riforniti. Ma fu una delusione, perché i primi soldati italiani che incontrammo erano anch'essi sprovvisti di viveri e alla fame. Scendemmo verso Borgo, dove sapevamo che c'erano reparti italiani, ando per Cavalese, il cui sindaco avrebbe voluto trattenerci nel suo paese e armarci per prevenire e contrastare eventuali azioni di saccheggio da parte delle truppe tedesche e austriache in ritirata, ma noi volevamo proseguire. Forse fu un errore, perché se ci fossimo fermati a Cavalese avremmo certamente avuto da mangiare, ma troppo forte era il desiderio di tornare a casa, più forte della fame.
Arrivati a Borgo ci presentammo ad un comando italiano che provvide a sistemarci in un edificio civile che era stato adibito a caserma. Purtroppo, contrariamente a quanto avevamo sperato, non ci diedero da mangiare e la fame aumentava. Io avevo conservato un po' di fagioli secchi e dopo averli cotti in qualche modo li mangiai. Il giorno dopo ci fecero proseguire con camion militari e alla firma dell'armistizio noi eravamo in Italia, quella dei vecchi confini prima della guerra. Ci concentrarono a Gossolengo, ma non fummo trattati come ci aspettavamo, da soldati che avevano combattuto con onore e avevano trascorso mesi di fame e freddo prigionieri del nemico. Fummo infatti sottoposti a stretta sorveglianza, sistemati alla meglio e senza nulla di più per migliorare le nostre condizioni, quasi come se per assurdo ora fossimo diventati prigionieri degli italiani. Se quella situazione per noi rappresentò una cocente delusione, fu una brutta sorpresa e un imprevisto problema di difficile gestione per i comandi, presi alla sprovvista e impreparati giacché non si aspettavano l'affluire improvviso di tanti prigionieri che ogni giorno scendevano dal nord, perché come noi ne arrivavano a migliaia, in continuazione. Evidentemente non avevano previsto che decine di migliaia di loro fossero tutti liberati quasi contemporaneamente, in pochi giorni. Se noi eravamo fuggiti, sebbene senza che nessuno ci trattenesse, altri reparti erano stati semplicemente lasciati andare quando gli austriaci avevano preso a ritirarsi. Una delle conseguenze di quel trattamento fu che la prima distribuzione di pane in realtà non fu una distribuzione ma un saccheggio, perché il camion che lo portava fu preso d'assalto da una massa di affamati senza controllo, perciò chi ne prese molto chi nulla e ovunque scoppiavano delle risse furibonde fra chi era rimasto senza pane e chi ne aveva troppo. Dopo quel brutto episodio il comando si rese conto che era necessario imporre un po' di ordine e di disciplina: da allora la distribuzione avvenne sotto sorveglianza di soldati armati e le cose andarono molto meglio. Di fatto, però, eravamo ancora trattati come prigionieri, anche ora, finalmente, si metteva qualcosa sotto mi denti.
Per di più noi volevamo tornare alle nostre case ma non ce lo permettevano,
perché dovevamo rispettare una quarantena imposta a tutti i militari provenienti da campi di prigionia. Io, per fortuna, nonostante i disagi, la fame e la fatica, in quel periodo di prigionia non avevo avuto grossi problemi di salute, con l'eccezione di due episodi. Il primo fu una forte e dolorosa infiammazione in bocca e gola forse dovuta al fumare erbe e foglie di qualsiasi tipo. Quella volta marcai visita e, dopo avermi visitato, il medico disse all'infermiere qualcosa in tedesco che io non capii e mi porse un bicchiere pieno d'acqua colorata che sembrava granatina. Io, credendo che fosse da bere, ne mandai giù un paio di sorsi. L'infermiere immediatamente mi tolse il bicchiere di mano urlando che quel liquido era velenoso perché era un forte disinfettante col quale avrei dovuto solo fare sciacqui e gargarismi. Me la cavai con un po’ di mal di pancia. Molto più grave e pericoloso fu il secondo episodio, negli ultimi mesi di prigionia, al tempo della famosa terribile epidemia di influenza spagnola che fece milioni di morti in tutta Europa, si dice che ne abbia fatti più della guerra. Una quarantina di uomini della mia compagnia, e io tra questi, fummo colpiti da una forte febbre. Ci caricarono su un carro agricolo, come covoni di paglia o come si faceva con gli appestati nei secoli scorsi, e ci portarono all'ospedale. Io fui sistemato da solo in una camera tutta per me, evidentemente per evitare che contagiassi qualcun altro. Ma quando chiesi la ragione di questo isolamento furono evasivi, mi dissero che ero nel reparto riservato ai più gravi e che avevo la febbre a 40 gradi. Alla sera arrivarono due infermieri con un secchio d'acqua e un lenzuolo, mi denudarono e mi avvolsero nel lenzuolo inzuppato nell'acqua gelida. Presi a tremare in modo convulso e durante la notte ebbi una forte reazione di calore, dal mio corpo si alzava tanto vapore acqueo che sembrava fumo, come se stessi andando a fuoco. Al mattino, incredibilmente, stavo molto meglio e avevo un grande appetito ma non vidi nessuno fino a tardi, quando vennero i due infermieri del giorno prima. Mi tirarono fuori dal lenzuolo bagnato e mi restituirono i miei indumenti, disinfettati ma sempre sporchi. Mi convinsi che con quel sistema o si muore o si guarisce e che probabilmente non avevano altri modi per curarmi. Il mattino dopo mi alzai. Ero sempre più affamato e per cercare qualcosa da mangiare pensai a come uscire dall'ospedale. Vidi che nel cortile stavano facendo le pulizie, scesi e presi una scopa unendomi a quelli che stavano spazzando, fingendo di essere uno di loro. Così arrivai al cancello,
abbandonai la scopa e uscii in strada. Era circa mezzogiorno, bussai in una casa dove, quando mi aprirono, vidi che stavano mangiando polenta. Spiegai che avevo una gran fame ma non un centesimo per pagare. Ebbero comione e mi diedero un po' della loro polenta che divorai con gioia. Quindi tornai in ospedale guarito. La polenta fa miracoli.
A Gassolengo la vita si svolgeva un po' caotica. Eravamo più di un migliaio di reduci dai campi di prigionia e piuttosto indisciplinati. Ho raccontato, ad esempio, dei tafferugli che avvenivano nei primi giorni durante la distribuzione del pane, ma purtroppo così avveniva pure per la normale distribuzione del rancio, con la conseguenza che anche in quel caso molti restavano senza. Bisognava trovare una soluzione, perciò prendemmo ad organizzarci spontaneamente, anche se inevitabilmente in forma militare, formando delle compagnie con ufficiali al comando, i quali per mantenere l’ordine ed evitare risse qualche volta furono costretti a portare la mano alla pistola e un paio di volte perfino a sparare in aria. Tornò così un po' di disciplina, le operazioni si svolsero in modo più ordinato e finalmente la distribuzione del rancio e del pane avvenne regolarmente, senza prepotenze e risse. In quei giorni il caso mi fece incontrare una signora di Bardello, il paese di mio padre, moglie di un maresciallo dei Carabinieri, che da brigadiere era stato a Gavirate e che perciò aveva conosciuto alcuni dei miei parenti. Io ormai non avevo neppure un centesimo e questo fortunato incontro mi diede la possibilità, facendomi molta forza e mettendo da parte quel poco del mio amor proprio sopravvissuto alla prigionia, di chiederle un piccolo prestito, che la signora molto generosamente mi concesse sulla fiducia. Quei pochi soldi mi furono utilissimi per proseguire il mio cammino verso casa.Naturalmente trovai il modo di restituirli alla brava signora che tanto si era fidata di me: appena tornato a casa, infatti, mi rivolsi alla più vicina stazione dei carabinieri che si incaricarono di rintracciarla per farle avere quanto le dovevo. Quell’episodio mi portò a riflettere su quanto la tragedia della guerra cambi i rapporti tra le persone: sia nel male, come avevo generalmente constato fino ad allora, sia nel bene, come in questo caso. Infatti era semplicemente inimmaginabile che qualcosa del genere potesse accadere al di fuori del quel
terribile scenario di morte, fatica e fame, di precarietà dell’esistenza nel quale tutti, militari e civili per tanto tempo siamo stati costretti a vivere.
XVI A CASA!
Io ero ormai ossessionato dal desiderio di rivedere i miei cari, non aspettavo che il giorno in cui, terminata la quarantena, ci avrebbero mandati a casa. Finalmente, dopo circa un mese di quell’assurdo prolungamento a guerra finita della vita militare, mi diedero una licenza di trenta giorni in attesa del congedo. La grande gioia che provai quando ebbi questa notizia mi fece dimenticare di colpo tutte le peripezie trascorse e le sofferenze sopportate. Arrivai a casa verso sera, accolto da una indicibile felicità e commozione. Piangevano tutti, mia madre, mia moglie le mie sorelle, solo i bambini mi guardavano perplessi e stupiti. Anche io avevo le lacrime agli occhi ma, frenando con uno sforzo indicibile il fortissimo desiderio di abbracciare i miei cari, chiesi per prima cosa di potermi lavare e di cambiare gli abiti, orribilmente sporchi, puzzolenti e abitati da stuoli di pidocchi e insetti di ogni genere. Sapevo di non potermi accostare ai miei cari in quelle condizioni. Pulito che fui, finalmente li strinsi al petto uno per uno, ma fui dolorosamente stupito dal comportamento dei miei due bambini che mi guardavano perfino un po’ spaventati giacché non mi riconoscevano come il loro papà - e come avrebbero potuto dopo quattro anni? - e chiedevano “mamma chi è quell'uomo?”. E per recuperare il mio ruolo non bastò che mia moglie glielo spiegasse, oltre al tempo ci vollero anche tante coccole e una bella spesa in cioccolata e caramelle. Comunque mi sforzai di superare quella delusione, sapevo che non potevo prendermela perché i miei poveri bambini non avevano alcuna colpa per non riconoscermi. Mi avevano visto pochissimo e io ero partito per il fronte quando erano molto piccoli. Dall'inizio della guerra ero tornato a casa in licenza una sola volta e quando avrei dovuto tornare una seconda volta fui
fatto prigioniero.
Quel mese di licenza ò in un baleno e io avevo già cominciato a fare progetti per riprendere il mio lavoro, nella speranza che ci congedassero subito, appena tornati ai nostri reparti, visto che la guerra era finita ormai da tempo. Perciò mi presentai puntuale fiducioso e pieno di entusiasmo al Deposito militare di Intra, sede della mia unità di appartenenza. Ma ebbi una bruttissima sorpresa: le cose, infatti, non stavano come speravo perché, man mano che noi ex prigionieri rientravamo, inspiegabilmente ci rivestivano con uniformi nuove e ci armavano, come se dovessimo tornare al fronte. Così si dissolse, con grande frustrazione di tutti noi, la speranza del congedo immediato, di cui neppure si parlava. E non riuscivamo nemmeno a capire la ragione e il senso di questa specie di secondo arruolamento che a questo punto, dopo tutto quello che avevamo ato, ci sembrava una violenza inaccettabile, una prepotenza insopportabile e stuida. Cominciò così, comunque, la vita della naja, perché, incredibilmente, di quello si trattava, come se non avessimo già ato quattro anni di servizio militare nelle peggiori condizioni, in guerra e da prigionieri. Eravamo arrivati ormai ai primi di gennaio e io ebbi la fortuna di essere richiesto come insegnante dalle direzioni delle scuole serali di disegno di Gavirate e di Comerio, dove avevo già insegnato prima della guerra e che avevano saputo del mio ritorno. La domanda fu fatta direttamente al comandante del Deposito di Intra, colonnello Giani, il quale mi concesse una licenza rinnovabile di dieci giorni in dieci giorni. Alla prima scadenza mi presentai al comando di compagnia per il rinnovo, ma il capitano, del quale neppure ricordo il nome, chissà perché, non ne volle sapere. Allora andai personalmente dal colonnello che mi ricevette e subito mi concesse il rinnovo. Naturalmente il capitano, sentendosi scavalcato, se ne ebbe a male e diede ordine che allo scadere della licenza fossi messo immediatamente di servizio, di modo che, se avessi ritardato sarei stato punito e comunque non volle mai rilasciarmi una licenza per la quale dovetti sempre rivolgermi al colonnello Giani. Una situazione imbarazzante e fastidiosa, inconcepibile altrove ma non in
ambiente militare. Comunque quelle mie licenze oltre che alle scuole servirono anche a me, per riorganizzare il mio lavoro, prendendo impegni e assumendo operai e si andò avanti così fino alla fine di aprile, quando si conclo i corsi di disegno. Ma intanto ero venuto a sapere di una circolare ministeriale che dava la possibilità di fare richiesta di congedo ai militari in grado di avviare un’attività e di dare lavoro a dei dipendenti. Mi affrettai perciò a fare le pratiche necessarie e le consegnai al comando di compagnia. Ma non ebbi alcuna risposta, probabilmente per interessamento del capitano che ormai non me ne ava una. Per ragioni di lavoro dovevo recarmi anche fuori dalla zona di competenza del Deposito di Intra e per questo mi avrebbe fatto comodo avere dei permessi regolari, ma non ebbi mai il piacere di ottenerne uno da parte del capitano. Quando mi presentavo con la mia richiesta mi ribatteva con atteggiamento arrogante e provocatorio: “A cosa ti serve un permesso? Tanto ti sei sempre a casa, arrangiati”. E io, in effetti, così facevo, mi arrangiavo. Ma dovevo stare attento a non farmi beccare e quando, come accadeva spesso, ero ordinato di servizio o di giornata o di guardia come capoposto era davvero una enorme seccatura e una grande perdita di tempo, ma, mi dicevo, la naja è la naja. Cercavo, insomma, di farmene una ragione. E cos’altro potevo fare? Ma sapevo benissimo che quella situazione, con la guerra ormai finita da mesi e dopo tutto quello che avevamo ato, certo non meritava tanto spirito di sopportazione Si arrivò così al mese di giugno, quando finalmente, la mia classe avrebbe dovuto essere messa in congedo, ed effettivamente ogni giorno ne partiva qualcuno. Io però fui l'ultimo: evidentemente il capitano che aveva dimostrato di volermi tanto bene, voleva tenermi con sé il più possibile. Mai vista tanta pertinacia nel voler fare del male a un sottoposto e per di più senza alcuna ragione. Ad ogni modo non si trattava ancora di un congedo vero e proprio ma una “licenza illimitata” - il congedo, anzi, non l'ho mai avuto, sono i misteri della burocrazia militare. Alla partenza mi venne consegnato un pacco contenente un taglio di tessuto per un abito, un cappello, e 25 lire in contanti: quella fu la liquidazione per 4 anni di servizio in guerra, di cui due in trincea e due in prigionia.
XVII RICORDI Lasciavo l'uniforme con tanti ricordi e un profondo senso di nausea al solo sentir pronunciare la parola guerra. Veramente tanti sono i ricordi di quegli anni che si ammassano nella mia testa, e col tempo si sovrappongono e si intrecciano, scampaiono e ricompaiono, tanto che ormai faccio fatica metterli in ordine con una certa successione, a rammentare le date, i percorsi e i nomi delle diverse località e posizioni. Sono un insieme confuso di episodi, impressioni e immagini che emergono dal ato disordinatamente e quasi arbitrariamente. L'inverno 1916-17, ad esempio, lo ai, credo, sul monte Cupula – se ricordo bene il nome. Fu un inverno molto rigido, con copiose nevicate, ricordo che una notte caddero circa due metri di neve, ostruendo qualsiasi percorso e quindi impedendo qualsiasi operazione e bloccando migliaia di uomini nelle trincee. A queste difficoltà di movimento si aggiungeva il pericolo delle valanghe e quasi ogni giorno ne cadeva una. Una compagnia di bersaglieri ne fu travolta durante una marcia di trasferimento in quella zona e trascinata giù con tutte le salmerie, con molti morti, feriti e dispersi. Anche il nostro battaglione fu investito durante un trasferimento: eravamo già arrivati in fondo alla valle quando ci piombò addosso una grossa valanga e molti rimasero sepolti, e fortunatamente il pronto intervento dei soccorsi fece sì che le perdite fossero minime. Ma a quel punto per proseguire la marcia si dovette scavare una galleria nella neve, tanta se ne era accumulata. Dovevamo portare un attacco a quota 2020. Prima dell'azione per un po' dovemmo montare di vedetta da una postazione a più di 3000 metri, su un costone che sovrastava una parete a strapiombo, un posto terribile dove soffiava sempre bufera forte e carica di ghiaccio, tanto che dovevamo darci cambio ogni ora perché non si poteva resistere di più e si rientrava gelati e rigidi come baccalà. Ma da lì si dominava quella quota 2020 occupata dal nemico che poi riuscimmo a conquistare con una azione a sorpresa. Ricordo che il capitano Celi – si chiamava così, mi pare - volle alzare la
tenda per la vedetta proprio sul ciglio del costone, mentre appena sotto c'era un angolo completamente riparato e quella tenda messa lì era ben visibile, un bersaglio perfetto per l'artiglieria nemica. Io ero con lui, col telefono, quando una palla sparata dall'esplosione di un shrapnel mi colpì ad una scarpa. Una notte, dopo la conquista della quota 2020, durante un terribile temporale con violente scariche elettriche, tanta acqua mista a neve e forti raffiche di vento, un fulmine colpì l'apparecchio telefonico e lo bruciò. Rimanemmo, quindi, senza collegamenti mentre si temeva un contrattacco del nemico e avevamo perciò bisogno di rinforzi, che senza telefono non potevamo chiamare. Il capitano decise allora di mandare un portaordini al comando di battaglione. Io mi offrii volontario, preferivo muovermi, anche rischiando la pelle, piuttosto che restare fermo in quell’inferno di ghiaccio, ma dovetti insistere perché il capitano non voleva. Alla fine si convinse e partii che ormai era buio pesto e non riconoscevo i sentieri perché ci eravamo sempre mossi di notte e la neve aveva coperto o modificato tutti i percorsi. So che ad un certo punto ebbi l'impressione di trovarmi tra due fuochi, cecchini austriaci da una parte e i nostri dall’altra. Questo servì ad orientarmi ma al prezzo di una certa paura. Mentre risalivo la costa dalla parte nostra sentivo rumore di i e le voci di soldati che parlavano un linguaggio che non comprendevo, mi sembrava tedesco e perciò temevo di essere capitato fra i cecchini nemici. Ma ai primi albori intravidi dei cappelli con una penna nera: erano nostri alpini che si avvicinavano per darci un rinforzo. Forse quelle voci che sentivo erano le loro, che parlavano qualche dialetto a me sconosciuto, probabilmente delle valli bergamasche o bresciane. Erano lombardi come me, ma mi erano sembrati tedeschi: la paura fa brutti scherzi, pensai.
Spesso mi torna alla memoria anche la marcia di ritirata che intraprendemmo un giorno di novembre, quando abbandonammo la zona del monte Cauriol. Nei giorni precedenti era nevicato molto e una notte dovemmo arrampicarci verso una cresta da scavallare lungo un ripido pendio con la neve che ci arrivava alla cintola e aveva cancellato ogni traccia di pista o camminamento. Fu una marcia assai faticosa e quando
arrivammo in cima ero vinto dalla stanchezza e dal freddo, tanto da non riuscire più a controllare le gambe, e quando iniziammo la discesa la feci, si può dire, tutta a capitomboli, rotolando verso valle. Arrivati in una località che mi pare si chiamasse Cismon, ci fermammo ad una postazione dove c'era un deposito di sussistenza ancora pieno di ogni ben di Dio. Noi avevamo l'ordine di distruggere ogni cosa per non lasciar cadere tutta quella roba in mano ai tedeschi, ma ci sembrava uno spreco inaccettabile e cercammo anche di recuperare e salvare qualcosa. Cominciammo così a far rotolare a valle decine di forme di cacio, seppellimmo grandi pezzi di lardo, scatolame e carne secca pensando, molto ingenuamente, di tornare un giorno a recuperarli. Cosa che, naturalmente non avvenne mai. Obbedendo agli ordini, molto a malincuore prendemmo a fucilate le botti di vino per svuotarle, ma qualcuno ne approfittò sdraiandosi per terra a bocca aperta sotto i getti che sgorgavano dai fori dei proiettili. Queste bevute comportarono naturalmente delle conseguenze, perché quando riprendemmo il cammino, fra la stanchezza e l'ubriachezza ci fu chi cadeva a terra e ci voleva il bello e il buono per rimetterlo in marcia. A Fiera di Primiero, già evacuata, facemmo una breve sosta. C'erano reparti del genio che dovevano far saltare il ponte sul Brenta a mezzanotte precisa. Mi fu dato l'incarico di andare alla stazione per distruggere gli apparecchi telefonici e telegrafici. Ma io e i due o tre commilitoni che erano con me eravamo un po' disorientati e non riuscivamo a trovare la strada. Per fortuna vedemmo venire verso di noi una vettura italiana, la fermammo, aveva a bordo un ufficiale superiore di fanteria al quale chiedemmo informazioni. L'ufficiale ci indicò la strada raccomandandoci di non perdere tempo perché tra poco sarebbe saltato il ponte che avremmo dovuto attraversare per tornare indietro. Come infatti avvenne, facemmo appena in tempo a ripercorrerlo per sentire, pochi minuti dopo, l’esplosione che lo distruggeva. Finalmente potemmo fermarci a riposare in un piccolo ospedale da campo e dormire in un vero letto, dopo tanto tempo. Quella sosta, però, ci fece perdere il collegamento col nostro reparto e dovemmo perciò proseguire da soli.
Il mio trasferimento come telefonista al comando di battaglione fu dovuto al comportamento che tenni in occasione di un'operazione d'avanzamento, come si diceva in gergo. Per la verità quella volta mi capitò anche qualcosa di brutto. Il giorno prima dell'avanzata erano arrivati dei rinforzi e tra questi avevo riconosciuto un mio compaesano di Gavirate. Era appena arrivato al fronte e mi sembrava confuso e disorientato, perciò, per fargli sentire un po’ d’aria di casa, andai a trovarlo: “Sei arrivato in un brutto momento” gli dissi, “domani abbiamo un'operazione pericolosa” e vedendolo spaventato mi pentii di avergli detto quelle cose e cercai di incoraggiarlo: “Ma vedrai che andrà tutto bene”. Alle prime ore del mattino la compagnia cominciò l'avanzata. Dovevamo procedere a sbalzi e sempre carponi, strisciando sul terreno perché eravamo molto esposti al fuoco nemico molto intenso. Ad un certo punto mi trovai davanti tre commilitoni stesi a terra e credendo che fossero in quella posizione per ripararsi dalle pallottole che ci fischiavano sopra le teste ne presi uno per il bavero della giubba e lo tirai su: con enorme sorpresa e dolore mi accorsi che era il compaesano arrivato il giorno prima, colpito a morte, come gli altri due. Quella volta il caporale Ghiringhelli, il mio amico e quasi compaesano di Borgo Val di Taro, era rimasto giù e nessuno se ne era accorto all'infuori del tenente Delmastro che comandava la prima sezione mitragliatrici, il quale, non so per quale ragione, ad operazione conclusa fece notare quell'assenza al capitano, minacciando di fare rapporto. Fui interpellato e io dissi che Ghiringhelli era con me ma era sceso per procurare del filo telefonico. Il capitano era nuovo arrivato, non conosceva ancora nessuno della compagnia e prese per buona la mia dichiarazione e la cosa finì lì. Avevo risparmiato dei guai al Ghiringhelli che quando lo seppe non la smise di ringraziarmi. “Sono cose che si fanno fra quasi compaesani” gli dissi scherzando. Io però quella volta ero rimasto leggermente ferito da una pallottola o da una scheggia mi aveva preso di striscio una guancia. Il tenente Delmastro, che mi stimava, fu nominato aiutante del maggiore Benedetti che comandava il battaglione e così dopo pochi giorni arrivò alla compagnia la richiesta di mio trasferimento a quel comando. Anche il capitano che
comandava la compagnia di cui facevo parte aveva una buona considerazione di me mi considerava utile e non voleva lasciarmi andare ma infine dovette cedere così fui trasferito come telefonista al comando di battaglione, dove rimasi fino al giorno in cui ci fecero prigionieri.
XVIII PERCHÈ GUERRE?
Tornati, dunque, borghesi con i ricordi e il disgusto della guerra ma felici della fortuna di essere di nuovo a casa sani e salvi, tutti e tre noi fratelli ci mettemmo al lavoro per riparare ai danni e le ferite, materiali e morali che la guerra ci aveva procurato, nella speranza di non sentire più parlare di niente del genere. Credevo infatti che gli uomini ne avessero avuto abbastanza degli orrori, della miseria, della fame e del freddo, delle morti e mutilazioni provocati da quella che in molti speravamo fosse davvero l'ultima guerra ma, come si sa, ci sbagliavamo di grosso. Come ho detto prima, volevo incontrare ancora il tenente Poli, finalmente in tempo di pace, l’uomo che era il mio ricordo migliore di quegli anni terribili. Volevo poter parlare ancora con lui per cercare di capire le ragioni per le quali gli esseri umani arrivano a tanto. Erano ati alcuni mesi dalla fine della guerra e, come ho già detto, Il Comune di Trieste mi aveva dato il suo indirizzo di Milano. Gli scrissi e lui mi rispose subito – io francamente non ci speravo tanto - e molto amichevolmente, dicendosi felice di avermi ritrovato e invitandomi ad andarlo a trovare, cosa che feci immediatamente. Abitava in un piccolo appartamento quasi in periferia dietro la vecchia stazione di Porta Nuova, che di lì a pochi anni sarebbe stata demolita per essere sostituita con la molto più grande Stazione Centrale. Mi sembrò veramente contento di vedermi e io quasi faticai a riconoscerlo: senza divisa e un po’ ingrassato e dall’aria più rilassata, sembrava ringiovanito. Mi disse che lavorava per una casa editrice, che era contento del suo lavoro e aggiunse, quando glielo chiesi, che continuava a scrivere poesie ma solo per suo piacere personale, aggiunse, e che non aveva alcuna intenzione di
pubblicarle. Parlammo a lungo. Io continuavo a chiamarlo “signor tenente” ma lui sempre mi interrompeva ridendo: “Ma quale tenente!”
Cercai di spiegargli lo stato d’animo che mi aveva lasciato la terribile tragedia della guerra, quel senso di pessimismo che spesso tuttora mi porta a pensare alla miseria della specie umana. Poli mi ascoltava con molta attenzione e mi rispondeva che invece bisogna sperare, perché l’uomo non nasce cattivo ma lo diventa nella ricerca di potere e ricchezza. Lui sperava che quella tragedia che noi e tanti altri milioni di persone avevamo vissuto non poteva che migliorare l’umanità. Mi parlava di socialismo, di amore universale e cose del genere che, per quello che io potevo capire, mi sembravano molto idealistiche, quasi dei sogni e perfino un po’ ingenue. È proprio vero, pensai anche, che le persone molto colte spesso sono distanti dalla realtà della vita. Io non ero convinto delle cose che diceva, non riuscivo a condividere le sue speranze in un futuro di pace universale e glielo dissi ma lui quasi mi rimproverò, spiegandomi che non si trattava tanto di sperare ma di impegnarsi tutti per cambiare il mondo, o qualcosa del genere. Purtroppo, con quello che è successo negli anni successivi, le altre guerre e gli altri stermini ancora più feroci e disumani, i fatti mi hanno dato ragione. Io non ero bravo a esprimermi come lui ma cercai di spiegare a Poli come la pensavo: cioè che l’uomo, creato dalla natura superiore a tutte le altre specie animali, dotato di intelligenza per capire il mondo e della parola per poter comunicare, purtroppo non sa trarre profitto e beneficio da questa sua condizione e dalle esperienze della storia. Questo si può dire almeno dei capi e dei responsabili che dirigono il destino di tutti noi, aggiunsi come per mitigare il mio giudizio sull’umanità, ma lui mi rispose che quando i capi e i responsabili saranno eletti da tutto il popolo, un popolo più istruito e non afflitto dalla fame e dalla fatica, le cose cambieranno, perché essi faranno la volontà del popolo. Poli parlava con calma ma era convinto, anzi entusiasta, sembrava diverso da quello che avevo conosciuto al fronte. Io ero affascinato, e le cose che diceva mi piacevano molto anche se, francamente, non tutte le capivo e
poche mi convincevano; era un po’ come se mi raccontasse una bella favola e tanta era la stima per il mio ex tenente che a mia volta sentivo un gran desiderio di spiegargli come la pensavo. Accadde allora una cosa strana, di quelle che succedono solo in situazioni particolari e in momenti speciali della vita: cominciai a parlare senza fermarmi, mi veniva tutto alle labbra senza sforzo e senza alcun imbarazzo. Dicevo tutto quello che avevo nella testa, facendo ragionamenti molto semplici, esempi terra terra ma che a me sembravano convincenti, perché io non avevo la sua cultura e la sua capacità di esprimermi, ma ero convinto di quello che dicevo. E lui mi stava a sentire e questo mi incoraggiava ad andare avanti. Purtroppo quello che è successo da allora ha dato ragione a me e non a lui, almeno per quanto riguarda la guerra e la pace. Perciò ancora oggi, dopo tanti anni, penso all’incirca la cose che quel giorno dissi a Poli. Ricordo che gli dissi che la pecora che vive in Canada bela come quella che vive in Italia o in Francia o in Africa. Il leone che vive nell'Africa dell'est ruggisce come quello che vive ad ovest e, insomma, questo si può dire per ogni altra creatura. Solo l'uomo, che crede di essere superiore agli altri animali, non riesce a intendersi col suo simile. ano i secoli ma poco o nulla cambia da quel lato, pur essendo molto cambiato il modo di vivere e molto aumentato il benessere di tanti uomini sebbene, purtroppo, lasciandone anche tanti altri in miseria o in condizioni primitive. È stata creata artificiosamente un'infinità di nazionalismi e di ostilità fra razze che provocano continui litigi per egoismo, abuso della forza, desiderio di potere. A queste mie parole Poli faceva sì con la testa, sembrava molto d’accordo con me. E in effetti abbiamo poi avuto terribili dimostrazioni che le cose stanno così nella seconda guerra mondiale – questo io allora non potevo saperlo, quando parlavo con Poli, ma lo temevo - e nelle tante guerre locali che si sono succedute, mentre allora pensavo, che quella alla quale avevo partecipato io potesse bastare a far are agli uomini la voglia di farne un’altra. E noi italiani, in particolare, non siamo stati da meno negli anni del fascismo. Il risultato di tanti massacri? È solo che ci possiamo aspettare altre e ancora più spaventose guerre.
Forse, però, possiamo sperare che finalmente, a poco a poco, col tempo, le cose vadano come pensava Poli: mi piacerebbe che alla fine avesse ragione lui, che finisca per prevalere il buon senso e che l'uomo, come la pecora, impari a belare in Europa come in Asia e al medesimo modo su tutto il globo. Che si arrivi a formare una comunità di esseri che si amino e si rispettino. Un momento che io, purtroppo, certamente non vedrò.
Da che mondo è mondo – dicevo a Poli - l'uomo cerca sicurezza e pace, ma non le trova e, incredibilmente, in questa ricerca è spinto a prevalere sugli altri che cercano le stesse cose e così finisce per fare la guerra. Dopo conflitti devastanti, dopo tanti massacri di milioni di esseri umani fra i più giovani e forti e la ripetuta distruzione di decenni di lavoro, dopo tutto questo l'uomo si rimette tutte le volte alla ricerca della pace e della sicurezza, ma riesce solo ad ottenere un più o meno breve periodo di calma, sempre, però, sotto la legge del più forte, creando le condizioni per una nova guerra. A volte vado con la fantasia e la mia ignoranza, ma anche riflettendo su quello che ho appreso dai libri, alle origini della nostra specie. La natura ha creato e disposto le creature, sia della fauna sia della flora, nei posti adatti ad ogni specie e le ha dotate di forza e capacità adeguate alla loro mole e alle loro esigenze. Perciò la violenza è nella natura e l'uomo è apparentemente meno forte e meno aggressivo di certe specie di carnivori ma è dotato di una intelligenza superiore perché destinato ad assoggettare ai suoi bisogni ogni cosa del creato. Perciò con l'uomo la guerra è nata come lotta per la sopravvivenza, almeno inizialmente. Poi però ha preso il sopravvento la legge del più forte, che nel caso dell'uomo va inteso anche nel senso del più munito di ingegno. Mi pare che su questo il mio tenente non fosse d’accordo, convinto com’era che l’uomo nasce buono, ma non sono neppure tanto sicuro di avergli detto davvero tutte queste cose o se, almeno alcune, sono arrivato a pensarle ora. Io invece non credo che l’uomo nasca buono. La vita si è evoluta per millenni, si sono susseguiti cambiamenti, miglioramenti, scoperte di nuove terre e invenzioni, il sapere è cresciuto e si è sviluppato continuamente. Perciò le tribù, le genti e i popoli a causa di questa espansione e di questa crescita si sono trovate a fronteggiarsi, a competere e a guardarsi con
diffidenza e paura l'uno dell'altro. Giacché nell'animo umano coesistono bontà, generosità e fiducia insieme a cattiveria, aggressività, egoismo e diffidenza. È cominciata così, sempre giustificata dallo spirito di sopravvivenza, la lotta per il possesso della terra e dei suoi prodotti. Gli uomini si combattono e il più forte vince e allarga la sua proprietà a scapito dei più deboli, che soccombono e qualche volta perfino scompaiono – e su questo Poli era d’accordo. L'espansione delle nazioni più forti e progredite ha portato alla scoperta e alla conquista di nuove terre e di nuove razze e genti, magari con la pelle di un colore diverso, genti spesso buone, ingenue non evolute perciò sorprese ma attratte dai nuovi arrivati. I quali per conquistarle hanno usato, oltre alle armi e alla forza, anche l’inganno, con l’offerta di merci, oggetti e monili di poco valore o alcuni dei nostri vizi e dei nostri veleni, come l'alcol, come è successo, ad esempio con gli indiani d’America: tutte cose fino ad allora sconosciute agli indigeni. Che, invece, spesso avevano oro, argento e altri minerali preziosi, scambiati con perline e vetri colorati. Ma da quelle terre i conquistatori portavano nella madrepatria anche prodotti della terra fino ad allora sconosciuti che, perciò, facevano molto gola. Basti pensare alla patata e al pomodoro portati in Europa dopo la scoperta dell’America. Si è creata così una forma di soggezione, di dipendenza, poi la forza, moltiplicata anche dal possesso delle armi da fuoco, ha fatto il resto e infine i “conquistatori” sono arrivati a dominare completamente i conquistati, spogliandoli di tutto. In qualche caso perfino a farli scomparire del tutto a causa del contagio con le nostre malattie più comuni, come il raffreddore e l’influenza, letali per loro che non disponevano dei necessari anticorpi. Mentre dicevo queste cose mi sembrava che Poli fosse spesso d’accordo, ogni tanto interveniva ma non per contraddirmi, semmai per aggiungere, per spiegare meglio quello che io avevo detto. Disse, ad esempio, che qualsiasi nazione evoluta si è comportata in questo modo nella fase di colonizzazione o di espansione: a questo proposito non ce ne sono di buone e di cattive ma che buoni o cattivi possono essere i governi delle nazioni. Tutti i paesi colonialisti, anzi, si sono anche combattuti tra loro per avere il sopravvento e allargare i loro imperi e accrescere le loro ricchezze. Gli stessi popoli colonizzati – mi spiegò - ai loro tempi sono stati invasori e occupanti
delle terre sulle quali li hanno trovati i conquistatori. La storia dell’umanità à un lunghissimo susseguirsi di migrazioni su territori altrui, invasioni e dominazioni. L'umanità – diceva Poli - si è trascinata così fino ai giorni nostri, guidata da una politica che in realtà si occupava solo dei grandi interessi fini a sé stessi, pur sapendo di creare così nuovi focolari di guerra, nuove occasioni di miseria, distruzione e morte. Quando i governi delle nazioni sarà in mano al popolo non ci saranno più guerre, perché i popoli, tutti i popoli le guerre non le hanno mai volute. Io non ero tanto d’accordo, ricordando le grandi manifestazioni in favore della guerra che si erano svolte nelle nostre città come in quelle degli altri paesi europei. D'altra parte anche la scienza sembra aver sempre operato con indifferenza per le finalità che altri potevano ricavare dal suo impegno. Il quale è sempre andato in due opposte direzioni: una che punta a combattere le malattie e prolungare e migliorare la vita; l'altra che porta alla costruzione di terribili aggeggi di morte, distruzione e sottomissione, indifferente ai dolori e al male che questi risultati arrecano all'umanità. Così come le grandi nazioni che, credendosi più civili ed evolute, ritengono di avere più diritti e privilegi nei confronti di stati più piccoli e più deboli e anche in guerra tra di loro, spesso in conflitti provocati proprio da quei paesi più forti e ricchi nel loro interesse. Perciò mentre ufficialmente mandano i loro diplomatici per rappacificarli, segretamente vendono loro le armi con cui si combatteranno e si distruggeranno. Constatando, dunque, questi comportamenti – chiesi infine al mio tenente cosa si può pensare dell'umanità? Cosa si può sperare del suo futuro? Come si potrà mai arrivare ad una vera pace universale se si adottano questi mezzi? I giovani protestano non a torto di fronte a questo spettacolo che dà di sé l'umanità. Anche se lo fanno credendosi diversi dai loro padri, senza prendere in considerazione il valore della responsabilità e senza fare chiarezza sul significato che essi danno alla parola libertà, senza rendersi conto, insomma, che se ciascuno potesse agire solo secondo il proprio modo di pensare ne verrebbe fuori un enorme pasticcio, un gigantesco conflitto di tutti contro tutti, una situazione che infine porterebbe a provvedimenti drastici e per nulla democratici, che segnerebbero la fine della libertà per tutti. E mi accorsi subito che questi discorsi a Poli non piacevano e mi
spiegò che in quei giorni per le strade di Milano si vedevano tante manifestazioni e proteste di studenti, operai e gente comune ridotta in miseria dalla guerra. Ma ora penso che per fortuna i signori del mondo non riescono a convincere e a portare sulla via del male e della distruzione tutti gli abitanti della terra, a qualunque razza o religione essi appartengano, senza distinzione, giacché ciascuno ha almeno una parte del proprio spirito rivolta a un simbolo, a un Essere, a un messaggio a cui dedica proprio quanto di sé lo differenzia da un animale. È quella parte dell'uomo in cui nasce e sviluppa la convinzione e la speranza in un Essere creatore e signore di tutto l'universo e che ci aiuta indicandoci la strada e il modo per essere buoni e amarci. Poli sorrideva ma credo che anche su questo fosse d’accordo.
Mettendo insieme un secolo di vita e di ricordi con i racconti dei nonni mi sono convinto - gli dissi infine - che la gente può essere considerata divisa in due categorie estreme: una composta di individui più o meno dotati di una certa istruzione e agiatezza perché proprietaria di beni, terre e case e strumenti di potere o semplicemente perché i fatti della vita hanno dato loro maggiori opportunità. L'altra categoria è composta da persone che non posseggono nulla, prive di una istruzione minima e perciò facilmente assoggettabili. Come vedi - mi disse Poli – le nostre idee non sono così diverse. Io non ne ero molto convinto ma mi fece molto piacere sentiglielo dire. E continuai. I miei nonni mi raccontavano che i loro nonni raccontavano loro e così via che nei tempi ogni tanto nelle nostre terre cambiava il padrone (o “predone”, come loro lo chiamavano fingendo di sbagliare). Una volta era spagnolo, un'altra se, un'altra tedesco. E stato così, mi dicevano, che sono nati i dialetti in modo che gli italiani non si intendevano fra di loro, finché non arrivarono Garibaldi e i Savoia. Ma la vita dei miei nonni e dei loro nonni era fatta solo di lavoro e di sottomissione ai loro padroni perché davano la terra da coltivare e la libertà di lavorare dall'alba al tramonto e di mangiare regolarmente patate e fagioli e latte, ma scremato perché la panna serviva ai padroni per fare il burro.
Non avevo mai parlato tanto e così di getto. Forse avevo tante idee e tanti sentimenti che mi premevano dentro il cuore, nati durante i lunghi terribili anni della guerra, e avevo un gran bisogno di tirarli fuori. Ma quando finii di parlare improvvisamente quasi mi vergognai, temendo di aver detto un cumulo di sciocchezze, di cose poco intelligenti a un uomo colto e sensibile come il tenente Poli (per me sarà sempre il tenente Poli). Che invece era stato a sentirmi con attenzione e – mi sembrava – anche con amicizia e affetto. Tanto che alla fine mi abbracciò senza commentare. Chiacchierammo ancora un po’ poi ci salutammo e me ne tornai a casa. Lui mi strinse forte tutte e due le mani. Da allora non l’ho più rivisto.