Vernice Fresca 256z2r

Colophon

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Copyright ©2015 Oltre edizioni

http://www.oltre.it

ISBN 9788897264620

Titolo originale dell’opera:

Vernice fresca

di Luca Rondolini

Collana * edeia / racconti * diretta da

Elisa Amadori Diego Zandel

progetto grafico: Sara Paganetto

Prima edizione ottobre 2015

L'autore

Luca Rondolini è nato a Perugia nel 1977, dove vive. È laureato in lettere e ha conseguito il dottorato in Italianistica con un lavoro sulla narrativa di Federigo Tozzi. Insegna materie letterarie nelle scuole secondarie.

Ha recitato con il CUT di Perugia, per la regia di Roberto Ruggieri, e con Filippo Timi e il Teatro Stabile dell'Umbria. Da molti anni scrive versi e racconti, finora inediti.

INDICE

Copertina

Colophon

L'autore

BELLEZZA IN BICICLETTA

IL TUNNEL

ESTATI LONTANE

IL VESTITO DA SPOSA

LABBRA ROSSE DI CARNE

VERNICE FRESCA E ALTRE IMPERFEZIONI

L'INCONTRO

NELLE ZONE PIÙ SCURE

VENERE LA PORTALETTERE

CASA SULL'ALBERO

IL RAGAZZO È CRESCIUTO

BELLEZZA IN BICICLETTA

1

Che male c’è se chiedo un bacio un bacio cosa può cambiar se veramente non ti piaccio un piccolo bacio che mal ti può far?

«Sei stanco?»

«Beh ‘n po’ sì, è da stamatina che...»

«Ti fa lavorare troppo Giovi?»

Daniel non sembrò stupito che il figlio si riferisse al padre con il soprannome di tutti. Luca non riusciva a dire «mio padre», ma soltanto all’idea di pronunciare la parola papà si sentiva catapultato in un telefilm tedesco, dove tutti si chiedono ossessivamente scusi, prego... Trovava tuttavia troppo volgare dire «l’mi babbo» (Giovi toglieva anche la doppia, diceva per esempio, rivolgendosi alla moglie: «C’ha parlato co l’elettricista l’tu babo?»). Allora aveva trovato lo stratagemma ironico del nomignolo, che dava l’impressione del disincanto e al tempo stesso brillava di un segreto affetto.

«Melio se lavoro», rispose Daniel a testa bassa.

Le sopracciglia folte gli ispessivano le ombre del volto, largo e cordiale ma rinchiuso in sé mentre il sole batteva su di loro discretamente, rispettoso. Erano seduti vicini sul muretto quasi finito del retro, con le gambe a penzoloni verso il mastodontico albero di noce da cui si sparpagliavano tremolii di luce e i versi degli uccelli, così aggrovigliati e acuti che frastornavano. C’era nel momento un invito alla calma. Luca però temeva che il tempo asse, perché a breve i loro genitori sarebbero tornati dalla ferramenta e il ragazzo se ne sarebbe andato e con lui sarebbero volati via quei secondi. Daniel non lo guardava e si ostinava a scrutarsi i piedi, o forse seguiva la fila di formiche che ordinate migravano verso la tana. Luca non si era accorto del suo imbarazzo: più che vederlo lo sognava, tenendolo nel cerchio di fantasie antiche.

«Devo lavorà senò come si fa?», aggiunse Daniel e la frase si spezzò, come scollegata dal resto del discorso. Luca ci pensò su e poi, atteggiandosi a uno che conosce bene la vita, disse: «Beh certo...»

Chissà quanti anni aveva. Ventitré, venticinque? O meno ancora? Sembrava un bambino, ma anche molto più vecchio di lui.

Inaspettatamente Daniel prese l’iniziativa e chiese: «Tu lavori?»

«Ti ho visto sempre in casa...», proseguì e un sorriso gli sfuggì imprevisto.

«Cioè, sento sempre la musica da dietro.»

Poco mancò che la vista di Luca si annebbiasse. Dunque Daniel avvertiva la sua presenza? Non gli pareva vero di essere solido, di entrare nello spazio visuale di qualcuno. Arrossì come se fosse stato scoperto.

«No, studio. Preparo l’ultimo esame. A novembre ho finito.»

Stavolta era Daniel che si era incantato e forse lo guardava con la coda dell’occhio. La sua maglietta risaliva sopra i fianchi in una leggera tensione: là sotto si nascondeva senza dubbio una deliziosa pancetta. Luca non pensò più a niente e si slanciò, mosso da un istinto irresistibile.

«Ahia, hai anche tu un po’ di pancia, come me, che è la birra?», disse facendo un cenno con il mento verso di lui e ridacchiando nervosamente.

«No che birra, io non bevo.»

«Davvero? Non bevi niente?»

«No, solo 'l babbo beve, la birra tutta lui l’ha bevuta. Anzi, grazie che gliel’hai data.»

«E di che." Luca non voleva lasciare afflosciare la smania che lo trascinava, per cui aggiunse: «Guarda quanta ce n’ho io!» e sollevò la canottiera. La brezza calda gli solleticò i peli, facendoli contrarre leggermente. Anche Daniel tirò su la maglietta e disse, con un sorriso di piena soddisfazione: «Io più.»

«Fa’ sentire», disse Luca d’impulso e gli appoggiò la mano sopra l’ombelico. Il calore di un altro corpo, vivo e pieno, gli accese nello sguardo una tale febbre che Daniel gli scansò il braccio, turbato. Luca arrossì violentemente e si alzò come se il muretto fosse coperto di carboni ardenti. Ebbe paura di aver combinato un disastro. Daniel restava immobile e non diceva una parola. Il rossore di Luca era ato al suo viso. Mordicchiandosi le pellicine, attendeva che qualcuno sbloccasse il noce e il muretto e perfino i versi degli uccelli che parevano inceppati anch’essi.

Ci pensò Luca, tirando fuori una sicurezza che ignorava di avere e che saliva dal buio dentro di sé. Aiutò con gentilezza Daniel ad alzarsi, poi lo portò in casa, sussurrandogli: «C’avemo poco tempo."

Al sicuro dietro la persiana chiusa si spogliarono in un secondo e si stesero sul letto, tenendo le gambe vicine, la coscia destra di Daniel sopra quella sinistra di Luca. Ansimando forte, si spingevano i corpi l’uno sull’altro come a sovrapporli interamente, finché non vennero insieme. Luca fece finire qualche schizzo su Daniel. Poi si abbracciarono nudi, covando nelle loro pance unite lo sperma perché non si congelasse, come avveniva nelle loro seghe solitarie. Luca nella penombra avrebbe voluto un bacio, ma non si azzardò. A breve i loro genitori sarebbero tornati.

2

Se a una bellezza che va in fretta non hai l’anima nera, per non averla stretta. Tu guardi al cielo verde nella prima

sera. ata è la Bellezza in bicicletta.

Era da qualche tempo che il caso, quando Luca andava a piedi a fare le fotocopie dei libri presi in prestito, gli consegnava un regalo piccolo piccolo ma consolante per lui, sempre troppo solo tra i desideri che raggiavano da ogni corpo. Un ragazzo che girava con la bici, scuro di capelli, con occhi marroni calmi e antichi, da lui soprannominato Bellezza in bicicletta.

Quasi tutti gli uomini erano fantasmi che gli si appiccicavano alla pelle e gli entravano dentro anche se non voleva. Dalla sua posizione adorante spiava i maschi, i solidi, gli inguainati in divise: meccanici, autisti, operai, imbianchini, astri di una costellazione dell’amore fulgida e remota, appuntata su un cielo inviolabile. In basso, nella materia fangosa del mondo sublunare, Luca annaspava.

Bellezza in bicicletta ava e si lasciava guardare per così poco che non restava tempo per la vergogna. Quando spingeva sui pedali, i muscoli delle gambe si contraevano appena e Luca immaginava di argli la mano sulle cosce.

Il suo amico ignoto compariva in punti sempre diversi dell’esiguo quadrilatero dei suoi movimenti: casa/tabaccheria, tabaccheria/casa, casa/Minimarket, Minimarket/casa, casa/corsa lungo il giro della Torre, corsa lungo il giro della Torre/casa. Non una volta che mancasse all’appuntamento. Era spuntato dal nulla, sembrava straniero, era solo come lui. Non parlava con nessuno, nessuno lo salutava. Pareva che scape e nello stesso tempo il suo sorriso timido nascondeva la speranza di essere fermato. Luca pensò che fe il muratore, perché lo vedeva sempre con la maglietta e i pantaloncini macchiati di calce.

Nel lavoro preparatorio alla sua tesi si era imbattuto nella tavola di Colantonio

San Gerolamo nello studio e da allora non faceva che guardarla, intenerito dal gesto familiare con cui il leone appoggiava la zampa destra sul ginocchio di Gerolamo, mentre il santo si dedicava a estrarre una spina conficcata nella sinistra. Prima si erano imposti i particolari (i polpastrelli della zampa ferita, l’espressione concentrata di Gerolamo, la criniera classicamente impostata), poi l’aveva affascinato la scena intera, che gli era diventata familiare come una sua allegoria privata.

Era lui Gerolamo, chiuso nel suo studio tra libri accatastati l’uno sull’altro. Una stanza simile a una prigione, fatta non solo delle pareti che la sua casa opponeva al sole di giugno, ma anche dei suoi pensieri irrigiditi e distanti. Il leone era la belva che aveva nel sangue. Davanti alla vastità del suo progetto di lavoro si riduceva a un gattone addomesticato che gli posava la zampa sul ginocchio in segno di fedeltà. Lasciava dunque che le sue letture si espandessero, libere da troppe costrizioni. In quel modo la sua mente evadeva dalla prigione e volava nell’aria sottile. Se avesse concluso la tesi, ne era sicuro, l’incantesimo si sarebbe spezzato. Finché divagava in compagnia del suo leone il senso di colpa scompariva, ma tornava intatto quando Luca riponeva i libri e si riaffacciava al mondo esterno. Gerolamo aveva visioni terribili in cui Cristo lo rimproverava di essere più ciceroniano che cristiano; Luca si faceva condannare dal suo tribunale interno per non saper esistere nella vita reale. Non sarebbe mai potuto diventare l’uomo che desiderava, il maschio perfetto. Non c’era una divisa per lui. C’erano solo le pareti del suo studio e le pareti della sua mente.

La primavera scorsa nella tabaccheria del paese aveva visto il tecnico della slot machine inginocchiato per cercare un guasto: i pantaloni della tuta erano scesi, scoprendo la spaccatura del culo peloso. Mentre lo contemplava a bocca aperta, sentì che il tecnico apparteneva a un mondo di armonie che non era il suo, un mondo compreso in una sfera perfetta. Qui sulla terra, non altrove, in ogni caso lontano dalle sue dissonanze. Per lui Eros era solo povertà, una fitta che lo faceva tendere verso la spaccatura di quel culo come a volerci entrare tutto dentro. L’inno per celebrare quel corpo, tutti i corpi che l’estate gli depositava davanti, restava impigliato nella sua bocca.

Con Bellezza però era diverso, il suo sorriso lo accoglieva senza giudicarlo. La leggerezza dei raggi della sua bicicletta scintillanti al sole lo sollevava dall’asfalto pieno di crepe. Senza accorgersene, socchiudeva la bocca e lasciava entrare il vento della giovane estate.

Bellezza aveva le gambe sottili di un adolescente, ma dalla vita in su era un uomo dal corpo pieno e reale. Luca si dilettava con l’idea che Bellezza asse per lui; e che magari anche lui lo desiderasse. Quando lo vedeva, tutto sembrava possibile.

3

Se avrò da te quel solo bacio nessuno al mondo lo saprà domani tu l’avrai scordato e il bacio che hai dato così per pietà in me resterà

Erano sdraiati con i gomiti puntati sull’erba e sperdevano lo sguardo tra le stelle aperte a ventaglio sopra di loro; accanto i bicchieri della birra vuoti facevano colare la poca schiuma rimasta. La gente, a gruppi sempre più radi e sfilacciati, stava ancora al bancone del bar a are il peso da una gamba all’altra nella sterpaglia sabbiosa. Ma loro non vedevano nessuno, rintanati nel buio dietro il campo di calcetto che per il periodo della Sagra del Crostone fungeva da pub. La musica alla fine si spense con un gracchio, dopo gli interminabili saluti e ringraziamenti di una cantante dai capelli rosso fuoco, capace di scimmiottare

una dietro l’altra Giusy Ferreri, Gianna Nannini, Emma Marrone, Alessandra Amoroso e perfino Mina («C’ha 'na bella voce però, cazzo!»). L’ultimo minuto aveva soltanto ripetuto a volume crescente: «A domani, a domani, a domani!» Per loro quella parola non aveva senso: il domani di attese, di rientri. Luca e Daniel erano lì in quel momento e occupavano la piccola fossa che il peso delle loro schiene aveva scavato nell’erba. Il tempo si era aperto a ventaglio come le stelle.

Nella quiete silenziosa lasciata dagli altri, Daniel accostò le labbra a quelle di Luca.

«Per me è la prima volta», sussurrò poi a occhi chiusi.

«Per me anche.»

La prima volta. Quelle parole, dette senza pensare, avevano dato a quel piccolo bacio un senso sconfinato, alla saliva il sapore di un maipiùcomeprima, di un maipiùritornante. Quando si mangia una primizia si esprime un desiderio, perché nel momento della prima ciliegia si è più vicini a Dio e si spera di essere ascoltati. Ma Luca non osò desiderare, temendo che Dio lo guardasse, di non poter scampare alla sua mano invidiosa e rapace: perciò si nascose sotto la spalla di Daniel, che almeno lui lo proteggesse dalla paura. «Dio vede tutto», diceva sempre il suo confessore della prima comunione.

Nel buio si muovevano solo i versi dei grilli e del frastuono di prima non restava più nulla. Qualche lucciola saltellava su e giù seguendo il tempo dell’abbaio di un cane in fondo alla strada, dove ogni luce era spenta. Luca s’era addormentato con il viso nel petto di Daniel e con le gambe agganciate alle sue.

«Devo piscià, levate», disse Daniel bruscamente e si alzò barcollando, anche se con la mano aveva già aperto la cerniera dei bermuda. Luca si svegliò di colpo e si affrettò a pulirsi, imbarazzato, il filo di bava all’angolo della bocca. Subito dopo si mise a fianco di Daniel per fargli compagnia, ma lui gli gridò, burbero: «Rompicoglioni! Me ste’ sempre addosso, levate, t’ho detto!»

Luca fu preso da una grande gioia per il suo corpo, per la vicinanza dell’amico e per la forza che li teneva stretti. Con tutta la birra che avevano bevuto si misero entrambi a pisciare all’aria: i getti si incrociavano. Daniel si girò verso Luca con due occhi da folletto e iniziò a schizzargli sulle gambe, agitando il cazzo con la mano perché gli spruzzi si diffondessero ben bene.

«Vaffanculo!» gli urlò lui tra le risate e si mise a rispondere nello stesso modo.

In breve si trovarono tutti e due con le gambe bagnate e i peli appiccicati e caldi.

«Semo du’ scemi», concluse Daniel e gli mise il braccio intorno alla spalla. Si tolsero le scarpe e le lasciarono sull’erba per farle asciugare.

«Fortuna che non bevevi!»

«Saranno i nonni zingari!», disse Daniel tirandogli per gioco i capelli.

«O sarè tu, stronzo!», insinuò poi con le sopracciglia aggrottate in modo comico e intanto lo stritolava. Luca cercò di divincolarsi, però lo eccitava sentirsi imprigionato dalle sue braccia.

«Stenditi», gli disse Daniel con ferma ma tenera voce.

«Così?»

«No, a pancia in giù.»

Luca si trovò l’erba vicino alla bocca e l’odore di polvere che gli saliva al naso era strano, quasi lo stordiva. Quando capì che Daniel cercava di tirargli giù i bermuda senza riuscirci, lo aiutò slacciandosi la cintura, ma gli tremava la mano e il cuore era sceso giù nella pancia e scalciava lì dentro come un neonato. Mica è vero che fa male, fece in tempo a pensare. Dopo fu colmato dal calore di un’intimità mai provata e le pareti della sua prigione crollavano a ogni spinta di Daniel, che rideva e gli sussurrava che era tutto bello, che era troppo bello, che gli voleva bene e gli avrebbe sempre voluto bene. Daniel non si staccò dopo essere venuto anzi gli si stese completamente sopra e lo abbracciò forte da dietro, mentre Luca gli teneva strette le mani. Il desiderio ava naturalmente da un corpo all’altro, portando con sé una grazia senza nome, come non ha nome la prima ciliegia dell’anno, che si mangia sapendo che non tornerà mai uguale.

Luca aveva accolto in sé Daniel e quell’amore restava in lui, lo sapeva, non poteva are.

4

Vorrei fermare un poco

questo punto di fuoco vorrei fermare il tempo ma il tempo a e va vedi si consuma questa sigaretta

«Al bar dicono che è mezzo matto.»

Altin, il padre di Daniel, gli parlava solo in albanese e già questo lo innervosiva. Non gli piaceva più la sua lingua, lo teneva distante dal mondo di Luca e soprattutto gli ricordava la sua non appartenenza. L’infanzia di sua nonna Agrina, mezza sdentata, che lo inseguiva con la scopa perché era andato per l’ennesima volta a infastidire i conigli non era più la sua. L’Italia si era inghiottita l’Albania e l’aveva risputata.

«A me non sembra matto.»

«Fa’ come vuoi, io ti ho avvisato. Quelli che c’hanno i soldi sono strani, dammi retta. Non c’entrano niente con noi.»

«Ma se sembravano i tuoi migliori amici! Mi ricordo sai, gli hai detto un sacco di volte che erano gentili, che erano tra i pochi che ci parlavano, allora non era vero niente?»

«Che c’entra, quello l’ho detto perché ci hanno dato il lavoro, sono stati gentili davvero.»

«Chiudiamo qui il discorso, va bene? E’ meglio.»

«Se parli un’altra volta con questo tono ti sbatto al muro, sta’ attento!»

Era inutile parlargli. Eppure non si rassegnava e continuava a provarci, perché non voleva credere che suo padre fosse veramente un automa che faceva tutto quello che gli comandavano e basta. Ad ogni modo Daniel faceva sempre più fatica a fingere un’affinità che non esisteva. Il legame di sangue che i suoi fratelli tanto mitizzavano con loro due non funzionava, li teneva uniti in una costruzione artificiale che aveva senso solo per la burocrazia. Questa verità lo spaventava ma ne aveva bisogno, era il suo baluardo contro il mondo che lo respingeva e gli sfuggiva. I suoi desideri lo conducevano altrove.

Daniel ricordava bene il giorno che avevano accettato il lavoro da Giovi, le parole di suo padre, Luca con la birra e soprattutto non poteva dimenticare quello che era cominciato dopo. O era già iniziato quando ava con la bicicletta per andare al cantiere del padre e si era accorto che quel ragazzo lo fissava imbambolato. Lui non sapeva perché ma quando i loro sguardi si incrociavano gli veniva da sorridere. Adesso pensava che già allora si stavano cercando e il caso intrecciava per loro ricami invisibili.

Dal pomeriggio in cui Luca lo aveva portato in casa si erano visti quasi tutte le sere: il tripudio di sagre dell’estate perugina dava loro una comoda scusa per uscire. Le notti erano le loro amiche e le loro complici, dispensavano senza chiedere nulla in cambio infiniti recinti per gli abbracci.

Un posto che Luca aveva scovato andando a correre era diventato speciale. L’avevano chiamato il Posto Segreto: in fondo a un sentiero che deviava da una

strada isolata c’era una roulotte scalcinata e vicino un cavallo attaccato a una corda. L’animale sbuffava e scuoteva la criniera, incuriosito da due figure umane, una in piedi e un’altra in ginocchio, che sempre più spesso lo venivano a trovare di notte. Quella in ginocchio si aggrappava con le mani ai fianchi di quella in piedi per paura che volasse via. Per lungo tempo le loro ombre si intrecciavano e si confondevano, dopo gli venivano a dare un ciuffo d’erba e gli dicevano «Bello, bello cavallone, amico nostro."

Daniel a volte chiamava i fratelli che stavano a Latina, ma non sapeva che dirgli, loro parlavano solo di lavoro e dei figli e di altre sciocchezze di cui non gli importava niente.

«Tu ce l’hai una ragazza?» gli aveva chiesto suo fratello Juljan al telefono. Daniel sapeva che intendeva, ragazza sottintendeva moglie e lavoro fisso e stipendio si spera buono e spesa al centro commerciale e Valdichiana Outlet e Warner Village e figli appunto, figli e tutto il resto o meglio tutto il non resto, perché lui vedeva solo un gelido nulla, una spaventosa catena che gli avevano messo al collo prima ancora che nascesse. Il nonno del nonno di suo nonno, ogni uomo fino a suo padre, tutti avevano lottato per arrivare a questo, per penetrare nel fondo ricco di questo deserto e cavarne l’oro luccicante che a Daniel pareva merda.

Lui e Luca avevano il loro segreto, il mistero che li teneva uniti la notte. Ha ragione Patti Smith, con il suo cappello da incantesimo e il suo naso da stregone, la notte è degli amanti. Prima di salutarsi, fumavano l’ultima sigaretta il più lentamente possibile, perché più si consumava e più significava che il tempo ava e andava e non si poteva fermare.

La prima sera fredda di fine estate, fissando il punto di fuoco nel buio, Daniel avrebbe voluto impedirgli di spegnersi. Si guardarono a lungo in silenzio, spaventati dalle nuvole tristi che annunciavano pioggia.

5

Muore un dolce sogno nato troppo in fretta io me ne vado amore e spengo questa sigaretta

Il giorno dopo Luca aprì gli occhi e provò ad alzarsi, ma il corpo era pesante e non voleva muoversi. Il silenzio in casa era più forte dei canti degli uccelli che facevano a gara per chi mandava al cielo i trilli più acuti. Presto sarebbe arrivato il freddo e sarebbero mezzi morti di fame, perciò era ridicolo che si agitassero a quel modo.

Da quando aveva conosciuto Daniel non sopportava più di stare da solo. La sua presenza lo riempiva, il suo corpo gli dava la garanzia di esistere. Separato da lui lo ripigliava la sua inconsistenza, come se la sua persona non poggiasse su niente.

Fece colazione con la sensazione che la realtà si ritirasse da lui come quando c’è bassa marea. La giornata si stagliava davanti a lui piena di possibilità tutte equivalenti. Si impose di mettere a fuoco le idee sul terzo capitolo della tesi, dedicato a Petrarca, ma erano troppo aggrovigliate.

Daniel aveva trovato lavoro in un cantiere a Magione: cercò di immaginarselo, di raffigurarsi i suoi gesti e improvvisamente gli parve così lontano che era

impossibile raggiungerlo. Aprì il Canzoniere a caso e restò a bocca aperta, come davanti a un miracolo, leggendo:

Benedetto sia ‘l giorno, e ‘l mese, et l’anno et la stagione, e ‘l tempo, et l’ora, e l’punto

Il punto del maipiùcomeprima, del maipiùritornante, il punto di fuoco dell’ultima sigaretta.

IL TUNNEL

Ogni volta che Angelo guarda dalla sua finestra, avvampata di luce tramontante, gli si incolla alla faccia la strada di tutti i giorni, con la ghiaia e i filari di pini, intorno i campi di girasoli e più lontano la collina su cui si appoggia Agello, grumo di case sospese.

Quella sera aprì la bocca e pensò che qualcosa non tornava. Gli alberi erano gli stessi eppure adesso lo guardavano di traverso, con un’espressione tra il diffidente e il minaccioso. Il vecchio ciliegio, annerito e morto da un pezzo, stava attaccato alla terra scura come un punto interrogativo.

Maggio insinuava nell’aria della camera un languore che lo invadeva al calare della luce: abbandonato a se stesso, ficcava la testa tra due cuscini e si addormentava.

Oggi si era svegliato con la mano destra del tutto insensibile, riemerso a stento da una faticosa serie di immagini: una chiave introvabile, un indirizzo scritto su un foglietto e perso, un treno schizzatogli davanti in un flash di vento e frastuono.

Provò a nascondersi, orgoglioso di avere un segreto ignoto agli altri che pensavano fosse un po’ tardo. Di lui coglievano appena gli occhi di un marrone scialbo e tra le palpebre semichiuse lo sguardo inconsistente.

Strizzò più volte il polso destro, ma sentiva soltanto una gomma vuota senza tendini.

***

Nella, la mamma di Angelo, faceva da un’eternità la bidella alla scuola media Mario Grecchi di Castel del Piano, tanto da essere considerata da tutti un’istituzione, più dei presidi e dei professori che andavano e venivano senza lasciare gran traccia di sé, tanto più in una scuola come quella, senza l’ambizione di formare la classe dirigente come le scuole della Città-Santa.

Nella aveva un affetto viscerale per gli alunni che però non manifestava. Conservava in questo la rudezza di modi della sua origine contadina. A modo suo era autoritaria, ma condiva le sue intimidazioni di tante facezie che era un piacere obbedire. I ragazzi le volevano bene e la rispettavano, compresi nell’abbraccio arruffato della sua tirannia.

Era un donnone maestoso dai movimenti marziali, benché un impaccio nel camminare la costringesse a roteare la gamba destra come l’asta mobile di un como. Anzi il difetto regalava alla sua camminata la gravità di uno smottamento.

Afferrava la scopa con la mano destra larga e incallita e spingeva con rabbia lo straccio lungo il corridoio. Quella mano dava l’idea di una forza contenuta ma potenzialmente distruttiva.

***

Quando camminava per il corso della Città-Santa, Angelo si sentiva un animale

strano precipitato in un mondo di umani, con le braccia troppo lunghe, con le mani scollegate dal resto del corpo e inerti. Chele. Gli amici le chiamavano così perché quando era distratto sfuggivano al suo controllo e si fossilizzavano in una postura irrigidita, come le mani meccaniche dei centri commerciali con cui si tenta di afferrare orologi e cellulari. Al cinema, staccando casualmente lo sguardo dallo schermo, notava subito, spuntate dai palmi abbandonati sulle cosce, le dita contratte e rivolte in alto. Spaventato si affrettava a ricollocarle in modo più naturale ma non ci riusciva subito. Temeva di essere scoperto in quei momenti, che tutti si accorgessero della sua natura artificiale, della stortura del suo stare al mondo.

***

Angelo sapeva di essere malato. Non c’era bisogno di visite mediche, diagnosi e certificazioni. Era un dato di fatto che lo accompagnava da sempre.

Sapeva anche che il male poteva diventare incandescente e se non lo aveva del tutto bruciato era soltanto merito di sua madre. Perciò ne aveva paura. Era lei che vigilava su di lui e teneva lontano il malocchio.

Da bambino (avrà avuto nove o dieci anni) prese una forte influenza, con la febbre da subito molto alta che non voleva più saperne di calare. All’inizio non era così spiacevole, la spossatezza che lo spingeva giù ad affondare nelle coperte lo faceva sentire importante, bisognoso delle cure che puntualmente arrivavano. Anche i brividi erano poco più di una risata, una corrente elettrica di riso che dilagava per la pelle perché non riusciva a fermarsi nelle labbra. Con il peso del corpo amplificato ma liquido, travedeva a occhi socchiusi l’ombra della madre che si muoveva per la stanza.

Ma un pomeriggio si era svegliato e di colpo aveva avvertito un’immobilità

nascosta nella stanza. L’orsacchiotto che gli avevano regalato per i cinque anni aveva gli occhi troppo prominenti, come se volessero saltare via. Sarebbe uscito il sangue? Sapeva che in un modo tutto suo l’orsacchiotto era vivo. Dov’era la mamma? Dalla cucina non si sentiva un rumore. Era uscita? Ma lasciandolo così, addormentato, forse morto?

Se girava gli occhi sentiva un dolore atroce, come se la testa si frantumasse in mille pezzi. In bocca masticava una saliva di cenere che lo costringeva a sforzarsi per respirare.

Poi capì che non era più lui. Quello che era stato lui, pensiero o anima, forse l’anima di cui gli avevano parlato a catechismo, se n’era andato e avevano messo al suo posto un groppo pulsante dietro la nuca. Tutto il suo essere si era ristretto in quel punto e da quella lontananza osservava con sospetto la camera. Qualcuno l’aveva portato via a se stesso. Non avrebbe mai iniziato a vivere perché era già morto e nessuno l’avrebbe mai guarito da questa malattia.

Quando sua madre tornò era di nuovo lucido, al sicuro dietro al sorriso di lei imbevuto del freddo di fuori, ma la sentiva distante. Un paio di forbici aveva reciso l’inseparabilità che li aveva stretti fino allora.

La mano con cui cercò di sollevarsi dal letto era fragilissima, il polso sembrava sciogliersi. Nella gli piombò subito accanto e gli intimò con biasimo e dolcezza:

«Ma ch’fé, se’ scemo? Se’ ancora troppo debole, voi cadé per terra? Sta’ bonino, riposa, devi riposà e basta. Riposa.»

***

Quanti giorni erano che si nascondeva?

Il malessere cresceva di notte: l’abbaio del cane dei vicini, implacabile come un metronomo, si accordava al pulsare della mano. Non proprio un dolore, piuttosto la spinta di un corpo estraneo che premeva per uscire. Di giorno quando stava al computer lo assaliva un formicolio ramificato che cercava inutilmente di ignorare. Correva dalla mano al polso e dal polso s’irradiava a tutto l’avambraccio. Scrutava con attenzione le dita gonfie e inutilizzabili senza notare alterazioni. Auscultava le intermittenze del dolore, ma l’angoscia lo confondeva.

«Ma ch’è fatto, te fa male la mano?»

«No, smettela. Solo un po’, ce devo avé dormito sopra.»

Non poteva sfuggire a Nella, che assediava i suoi silenzi con costanza e lo spiava apertamente. Ne sentiva il dovere: la Natura le aveva imposto il compito della Maternità e perciò la signoria assoluta sul figlio. Di fronte ai suoi tentativi di aggirare gli sguardi materni, lei si indignava vedendo infrante leggi sacre.

«Tu se’ trasparente Angelo, è inutile che fè finta, l’so che c’è qualcosa, ma perché n’mel voi di’? Te risenti male? Volemo andà a fa’ 'na chiacchierata col dottor Ciampi?»

«Ma no niente t’ho detto! Madonna, quando pigli ‘na cosa te ce fissi, n’ c'è 'n cazzo da fa’!»

«Vabbè fa’ come te pare, peggio per te!»

Ferito, Angelo si gettava nel vuoto della camera chiusa a covare un’antica vergogna.

***

Angelo non parlava quasi mai con la mamma, parlava poco in genere ma con lei ancora meno: tentava di mascherare la soggezione dietro il silenzio. Lei gli si accostava con inquietudine, come se avesse paura di spezzarlo. Le sembrava troppo fragile per essere un uomo. Se lo vedeva in piedi, di spalle davanti alla finestra, massiccio, alto quasi un metro e novanta, con quelle sue braccia enormi calate lungo i fianchi, non poteva credere alla sua debolezza. Ma bastava che il figlio uscisse dalla cornice di luce che lo isolava e si voltasse, rivelando gli occhi muti e acquosi, perché la realtà della sua insufficienza la addolorasse. Come aveva fatto a venir fuori da lei e dal marito, dal marito poi, che fino a una settimana prima di morire era ancora nell’orto a cavare le patate, con la forza delle sue braccia ancora intatta?

Le sue mani, quelle mani grandi di bambino grasso, non le poteva guardare perché sembravano non poter stringere niente.

***

«Bellino!», urlò Angelo, con la gioia che si rifletteva nel largo sorriso.

«Glie voi dà da magnà? To’, daglie questa!»

Nella strappò un ciuffo d’erba dal fosso nei pressi del recinto e Angelo se lo sentì in mano, con i fili umidi e ancora sporchi di terra vicino alle radici. Il cavallo si avvicinò subito, scrollando la testa e la coda in gesto amichevole: aveva il dorso lucido e forte, percorso da muscoli che fremevano continuamente. Angelo si teneva ancora a distanza, con la manina tremante a mezz’aria; Nella ridendo gli diede una bella spinta e lui si trovò senza nemmeno sapere come appiccicato al recinto.

Il cavallo abbassò l’alto e libero collo in direzione della sua mano. Muoveva con scatti frenetici la mascella e Angelo vide i suoi denti gialli ed enormi, denti mostruosi di vecchio. Tentò di avvicinare la manina ma si bloccò del tutto davanti al rumore di quei denti sbattuti, come se l’animale li arrotasse per mordere meglio. Lasciò istantaneamente cadere l’erba e scappò via.

Dalla posizione sicura in cui si era rifugiato, le spalle addossate a un covone intiepidito dal sole, vide la mamma porgere un altro ciuffo d’erba al cavallo, che teneva il muso innocuo nella sua mano e mangiava con rispettosa delicatezza. Tornando verso casa, per un pezzo Nella l’aveva guardato con disprezzo e rassegnazione, ma Angelo era certo che se non fosse scappato via il cavallo gli avrebbe staccato la mano di netto. Per molti anni dormì anche in piena estate con il lenzuolo tirato sulla faccia, per tenere al sicuro le mani da tutte le creature rintanate nel buio che le volevano divorare.

***

Angelo non doveva bere perché mischiare l’alcol con lo Zyprexa era altamente

sconsigliato. In realtà era sconsigliato fare qualsiasi cosa con il dosaggio che gli propinavano. A lui non era ben chiaro perché lo prendeva e se stava meglio o peggio prendendolo. Apriva la scatola e ingoiava, corretto in orari e quantità, sotto lo sguardo imperioso di Nella. Gli avevano detto che la mamma era stata a parlare con il dottor Ciampi e dopo aveva capito che a cadenze fisse tornava da lui, però non riusciva a immaginare con esattezza quello che si dicevano. Era chiaro che parlavano di lui, perché Nella non poteva avere dentro di sé niente di storto: la sua mente doveva essere un cilindro lucidissimo, senza crepe e con pensieri diritti alla meta. La mente di Angelo invece era una massa di fantasie informi e idee aggrovigliate. Il peso che aveva in testa lo trascinava spesso nel vuoto. Talvolta la stanchezza diventava angoscia. Ma quelle medicine lo aiutavano? Almeno se beveva era sicuro di poter lavare via le sporcizie tra le tempie.

Nicola lo aveva chiamato perché c’era una festa al lago, alla Darsena. Quando se l’era trovato sotto casa con la sua Panda bianca era sceso subito. Qualche volta gli prendeva la voglia di uscire, una specie di solletico. Quella sera Nicola gli aveva letto nel pensiero.

Angelo ci stava bene insieme, perché lui accettava le sue debolezze e le mostrava agli altri con il candore con cui si offre una caramella.

«Devo mette benzina», disse Nicola per prima cosa, mentre frugava nel cruscotto in cerca di una cassetta introvabile.

«C’è un benzinaio a Castel del Piano, appena giri lì a sinistra.»

«Ma è self-service?»

«Sì sì.»

«Tu ce l’hai cinqu’euro, dopo te le ridò, ch’ho solo ‘na carta da venti.»

«Aspetta guardo», disse Angelo; poi sorrise vedendo nel portafoglio cinque carte da cinque euro.

ando per la Pievaiola quasi buia, Isolation dei Joy Division cercava di sfondare le crepitanti casse dello stereo per penetrare tra gli alberi a lato del fosso e confondersi con loro. Raccolta la bottiglia di birra dal tappetino del suo sedile, Angelo la stappò con l’apribottiglie d’emergenza nel cruscotto e scoppiò a ridere quando gli spruzzi di schiuma gli caddero sulle gambe scoperte.

Quando arrivarono alla Darsena c’era ancora poca gente ma dei conoscenti di Nicola, tutti con barba folta, si fecero loro incontro, invitandoli a sedere su una panca di legno identica a quelle delle sagre. Mangiarono torta al testo con un prosciutto duro e salatissimo e si inzupparono di un rosso ruvido al palato e quasi solido; una buona mezz’ora dopo Angelo stava ancora ciancicando tra le labbra un’ignota materia gommosa.

Verso le una la gente arrivò in massa come se fosse stata richiamata dal Pifferaio Magico. Il prato davanti al baretto, digradante verso il lago così nero e fermo da essere invisibile, era pieno di persone in continuo movimento che reggevano birra o sigarette o canne in mano, che parlavano e sciamavano in preda a un’ansia incontenibile, a un desiderio di vita che li torceva ando da un corpo all’altro.

Nicola era scomparso dietro a qualche fantasma di donna che si immaginava di

possedere. Angelo si fermò davanti al palco. Una ragazza alta, dinoccolata, con i capelli corvini lisci fino alle spalle, ballava a occhi sbarrati. Senza seguire la musica assecondava i suoi movimenti interni, perduta in un paesaggio profondo e invisibile. I suoi occhi erano straordinari, intensi eppure remoti. Intanto Virus di Satoshi Tomiie aggrediva tutti e rendeva persino l’erba metallica. Gli occhi della ragazza mandavano un ronzio che coincideva con la musica, erano loro stessi musica. C’era così tanta luce in quella notte che Angelo lasciò cadere il bicchiere: la sua mano, ritrovatasi vuota e aperta, sentì l’aria gelida aderire come una pellicola. Poco dopo era caduto in terra e l’erba gli aveva macchiato tutti i pantaloni.

«Oh ma ch’ha fatto quello? 'N colpo, è partito propio!»

«Ma n’n’è che sta male, guarda ch’mano rigida che c’ha!»

«Ma che male, se’ matto? Sta benissimo, da’ retta, altr’che! C’ha ‘na botta che domani n’l’arconta, sta meglio de nojaltri!»

Il viaggio di ritorno, che durò due ore per un tragitto di mezz’ora o poco più, avvenne in un silenzio assoluto. Nicola era felice perché aveva parlato con una ragazza di cui non ricordava il nome e il colore dei capelli. Ma era felice.

***

Il dolore era ormai insopportabile. Se lo sarebbe voluto tagliare, il braccio.

Si vergognava di parlarne alla madre, come se il male al braccio derivasse da una sua mancanza verso il mondo. Ma ormai il dolore era troppo reale per fare finta di niente, perciò si era deciso a sostenere i rimproveri di Nella.

«Quanto se’ stupido, io era ‘n pezzo che l’avevo capito, ma tu niente! Tu niente! Ma perché se’ così ‘mbecille! Oh, c’è ventisette anni! C’n’è ventisette e se’ ‘ncora ‘n fiolo! Me l’diceva sempre ‘l tu’ por babbo, ch’eri ancora ‘n fiolo!»

Nella lo accompagnò dal dottor Calabrese, il loro medico di famiglia. Una figura letargica, con gli occhi opachi di talpa e una lentezza spasmodica nei movimenti: poteva metterci un quarto d’ora per inserire i dati delle analisi del sangue, uno per uno, in un computer dell’epoca di War games. Non si rendeva conto dell’impazienza di chi aveva di fronte, preso dal movimento cerimonioso delle sue dita. Angelo lo evitava come la peste, perché nonostante la sua professione era ipocondriaco quanto lui e dunque si divertiva a snocciolargli le ipotesi più catastrofiche e i mali più rari, tutti senza scampo.

La voce tediata del dottore intimò «Avanti» e Angelo, mentre spingeva con la mano sinistra, l’unica utilizzabile, la porta dello studio si sentiva un dead man walking diretto al patibolo. Solo che al posto dell’infinita comione di Susan Sarandon c’era la scontentezza rabbiosa di Nella.

Secondo lei era tutta colpa del figlio, se gliel’avesse detto prima anziché continuare nelle sue bugie sceme, a quest’ora il problema era già risolto. Dopo aver tentato di entrare, era restata nell’anticamera a torcersi a testa bassa le dita delle mani.

***

Di Torrette di Fano, dove andava con il padre da bambino, non ricordava quasi niente se non il giallo nitido della sabbia e il freddo che provava in tutto il corpo uscito dall’acqua, prima che sua madre si precipitasse ad avvolgerlo nell’accappatoio. Ma ricordava bene il viso del ragazzino che abitava nel palazzo di fronte al loro, un viso pallidissimo e tutto coperto da lentiggini che lo disgustava, così come lo turbavano i suoi esotici capelli rossi.

Quando era troppo caldo per stare al mare gli toccava arci i pomeriggi insieme perché la mamma si era convinta che dovessero essere amici: le famiglie si conoscevano e poi non era normale che Angelo preferisse stare da solo a baloccarsi con i suoi fumetti e con i playmobil piuttosto che giocare all’aperto.

Questa creatura rossa e bianca adorava il calcio e metteva nel gioco una terribile furia aggressiva. Angelo sopportava gli spruzzi continui di saliva dai suoi denti di conigliaccio e fingeva interesse e addirittura accanimento in un gioco di cui non gli importava nulla e che anzi detestava.

Ma un giorno sbottò, perché il conigliaccio non voleva ammettere di aver preso goal, anzi sosteneva con ferrea convinzione che la palla non era entrata in porta, benché gli fosse ata senza ombra di dubbio sotto le gambe.

Quella bocca sputacchiante continuava a urlare: «Sei un baro, sei un baro, sei un baroooo!!» Angelo buttò il ragazzino a terra per zittirlo una volta per tutte e ancora di più per protestare contro una così palese negazione della verità.

Standogli saldamente sopra, con le gambe a cavalcioni sulla pancia, lo schiaffeggiava con tutta la forza della sua mano destra. Era così bello sentire quell’odio, cavalcare l’onda di un sentimento traboccante. Poi arrivò il nonno e lo spinse via. La mano di Angelo, anche staccata dal viso del conigliaccio, non voleva più smettere di agitarsi e di colpire. Più tardi la stessa mano dovette

stringere quella sudaticcia del folletto bianco e rosso, in un’umiliante dichiarazione di resa davanti agli sguardi di Mamma Coniglia e Babbo Coniglio, soddisfatti che l’ingiustizia e l’arbitrio avessero trionfato allora e per l’eternità su tutta Conigliopoli.

***

Nella non gli aveva mai fatto carezze, perciò Angelo se desiderava una donna immaginava una mano che lo accarezzava lentissimamente. Partendo dai capelli, gli sfiorava casualmente le labbra per scendere subito sul petto e lì, muovendosi piano tra i peli, quella mano bollente, soprannaturale, arrivava all’ombelico tra brividi e scosse; giunta ai peli del pube si fermava, perché Angelo era preso dal sospetto che non fosse la mano di una donna, ma la propria o quella di un estraneo che lo voleva dirigere come una marionetta.

***

Angelo non scendeva mai nell’orto, perché era il regno del padre e lui non voleva rischiare di schiacciare qualcosa o di rovinare il lavoro. Nessuno gli aveva mai voluto insegnare, il padre non voleva intromissioni. Bastava lui, bastavano le sue braccia che avevano forza per venti, le sue mani che strappavano le erbacce, le sue unghie nere di terra e sporco. Finché c’era, nessuno avrebbe potuto curare meglio l’orto e una volta morto lui sarebbe pure potuto andare in rovina. E poi chi ci pensava alla morte? Le giornate di lavoro, una dietro l’altra, erano la garanzia che tutto funzionava e nulla andava storto. Angelo stesse pure dietro alle sue fantasie, ai suoi fumetti: niente poteva alterare il pomodoro terroso che reggeva nella mano destra e la sua pienezza tangibile, succosa. Quello che toccava era suo e quello che toccava era reale e la morte era lontana, come il fumo delle sterpaglie bruciate che si sperde via.

***

Gabriele era il suo amico e andavano insieme al campo dei suoi genitori, portandosi dietro il pastore tedesco ansimante, da maggio in avanti ma soprattutto nei giorni immortali di luglio, quando il sole celebra il suo trionfo.

Lì Angelo non aveva paura degli insetti, toglieva le scarpe e si faceva leccare il tallone dal cane. Gabriele sfilava la t-shirt, Angelo no, anche se avrebbe voluto liberarsi di tutto e diventare un selvaggio. Aveva così tanti desideri a luglio, sciami di desideri che gli ronzavano intorno e lo flagellavano di pizzichi. Disteso sulla schiena e appoggiato sui gomiti, lasciava che le formiche gli camminassero sulla mano sinistra, mentre guardava senza stancarsi mai il muso del cane che vegliava su di loro con i suoi occhi acuti e dolcissimi. Adesso il campo dei genitori di Gabriele è stato sommerso dai macchinari arrugginiti dei muratori siciliani che hanno comprato il terreno adiacente, e il prato dove Jeli correva dietro ai sassi è un groviglio di stoppie e mattoni e sporcizia. Di Jeli Angelo ricorda lo sguardo che aveva i giorni prima di morire, colmo di un dolore fraterno ma alieno al linguaggio umano. Una volta gli aveva morso la mano, ma solo perché Angelo aveva interrotto il suo riposo: voleva sentirsi vicino a lui e per questo era stato punito.

***

«Tunnel carpale», sentenziò il dottor Calabrese senza sollevare la testa, assiso sulla sua Poltrona-Trono. Dopo di che non aggiunse altro.

«Scusi che vuol dire?», domandò esitante Angelo.

«E’ uno schiacciamento del nervo mediano, che controlla gli impulsi alla mano e alla dita», continuò, scivolando sempre più nell’ottundimento dovuto al fastidio di articolare suoni umani.

Di nuovo silenzio.

«Scusi, ma qual è la causa?», provò Angelo.

Il dottore proruppe in un «Ah!» seguito da un silenzio di circa due minuti. Intanto guardava in tralice la bocca di Angelo spalancarsi dolorosamente.

«Tante, tantissime possono essere le cause!»

«Ma dunque? Che devo fare?»

«Operare. Bisogna operare.»

A quelle parole spaventose, sassi caduti nella stanza da chissà dove, la mano destra di Angelo mandò una fitta selvaggia all’altezza del polso.

***

Aveva in una zona imprecisata dentro il corpo e dietro gli occhi una corrente

caldissima, un bollente magma di sogni, dialoghi, amori e città abitabili: ma l’esterno, lungo la pelle e nello spazio che lo separava o lo collegava agli altri, era sigillato. Il dottor Ciampi era quasi cieco, lo riconosceva a stento quando veniva a guidarlo dalla stanza d’attesa al suo microscopico studio al piano di sopra, eppure con le sue antenne di mosca bordeggiava la superficie del corpo di Angelo e forse riusciva ad avvertire movimento e calore.

«Ma quanto dormi? Basta de dormì, voi morì de sonno?» Nella la mattina lo scuoteva arrabbiatissima, il pomeriggio invece lo lasciava in pace, nel suo torpore che cresceva su se stesso. Qualche volta si svegliava di soprassalto: una figura d’uomo incombeva dalla soglia della camera per toccarlo; terrorizzato, cercava di scappare ma non riusciva nemmeno a gridare. Sarebbe andato incontro a una morte orribile. Dentro la testa e nello spazio intorno a lui rimbombavano fischi e tonfi assordanti. Finalmente sveglio, restava sfinito per il resto del giorno, con l’idea di essere sopravvissuto a una prigionia di mesi.

***

Angelo non aveva mai sopportato durante la messa lo «scambiamoci un segno di pace." Lo disgustavano quelle mani sconosciute, lo irritava l’obbligo di mostrarsi benevolo e di sorridere; al massimo riusciva a tirar fuori una contrazione o un ghigno. Mani sudate, più simili a una smorfia che a una manifestazione di agape. Mani sudate, mani che stritolavano, mani che si nascondevano nelle sue in cerca di rifugio. Uno slancio per appuntamento, un affetto a comando. Non erano che finzione.

Angelo aveva dei radar per l’artificio, dei muscoli particolari che si contraevano dolorosamente ai minimi avvertimenti di frasi fatte. Perciò, sentendo a catechismo Monsignor Pietro declamare che sarebbe presto diventato Soldato di Cristo, aveva iniziato a dubitare della Santa Fede.

In quella angusta chiesetta di Strozzacapponi, uno stanzone a pianoterra di una palazzina abitata dal parroco stesso, si sforzavano di simulare l’abbraccio di una comunità. Ma Angelo intorno a sé non vedeva che piccole cattiverie, calunnie e rivalità a stento velate da gentilezze: le crudeltà erano così poco raffinate che non restavano nascoste a lungo e finivano per risplendere.

Suo padre al contrario gli aveva sempre intonato le lodi del buon tempo antico e del Borgo-In-Cui-Tutti-Si-Aiutano-Tra-Loro. Ma di Arcadia Strozzacapponi aveva ben poco: il cemento e i palazzoni si mangiavano tutto e gli sprazzi di verde diventavano sempre più ricovero per materassi, televisori del tempo delle gemelle Kessler, preservativi e fazzoletti ricolmi di umori vari. Angelo sapeva bene che quando qualcuno soffriva non c’erano braccia pronte ad accoglierlo. Di un ragazzo con cui aveva fatto le elementari morto d’overdose si era detto che era la fine scritta per lui, nato da quella famiglia di napoletani che vivevano per strada come i cani. I due o tre tossici sopravvissuti potevano essere osservati mentre aspettavano sul ciglio della Pievaiola l'arrivo degli spacciatori, ma era impossibile aiutarli. La condanna era eterna. Nel frattempo il prete che sorvegliava le congiunzioni di mani accumulava appartamenti e i soldi prestati gli ritornavano triplicati.

L’unica volta che aveva fatto il chierichetto, Angelo aveva fatto cadere tutti i pezzettini di ostia per terra. Gli ululati di Monia, a cui la fede infiammava anche le corde vocali, gli avevano fatto tremare il polso.

«Raccooogli il coooorpoo deeeel Signooooreeeeee!», aveva rabbiosamente sussurrato Monsignor Pietro con cipiglio alla Vittorio Gassman. Raspando con le dita nel pavimento intriso di sporcizia geologica, Angelo aveva a stento trattenuto un sorriso.

***

L’estate del 2003, un’estate spaventosamente torrida, avevano avuto la casa invasa dagli scarafaggi. Apparivano dal nulla rapidi e vitali, Nella li schiacciava senza pietà e loro puntualmente ricomparivano in punti sempre inattesi. Angelo ne era ossessionato al punto di percepirne la presenza nella stanza anche senza vederli, li sentiva sbattere contro gli angoli e ne intuiva lo zampettio sulle piastrelle del pavimento. Nella aveva provato con lo spray ma era uguale, morivano e poi riapparivano. Il problema non toccava il padre, perché dal suo punto di vista l’intero pavimento poteva pure trasformarsi in un tappeto uniforme di scarafaggi, sarebbe stato lo stesso: era tutto sempre lo stesso.

Poi una sera lo Spirito Santo discese lungo il tubo catodico e si materializzò in un cilindro bianco e verde. All’interno c’era una polverina soprannaturale che avrebbe protetto la casa dal flagello. Nella era restata a guardare a bocca spalancata finché aveva intimato ad Angelo di andare a comprare il prodotto all’alimentari. Non solo, doveva metterla lui la polverina, perché lei tornava tardi da scuola. L’idea gli procurava un certo turbamento ma obbedì.

Aveva quasi finito il tubo, senza lasciare un centimetro di muro libero da quella patina bianca; le mani e persino le unghie erano macchiate del niveo borotalco. Le lavò più e più volte, con calma, perché poi doveva cucinare. D’altronde Angelo aveva tutto il tempo, la malattia l’aveva sospeso dalla vita.

Mentre girava il sugo quell’odore continuava a pizzicargli il naso e gli metteva la nausea, che durò anche quando erano a tavola. Al momento di tirare giù la pasta sul piatto del padre fu attraversato dalla certezza che la polvere che aveva sulle mani, inattaccabile dall’acqua e dal sapone, era ata al sugo e dal sugo alla pasta e dalla pasta presto si sarebbe trasmessa alla loro bocca e al loro stomaco. Masticò lentamente, scrutando con angoscia Nella e il padre che ingoiavano le penne una dietro l’altra, ignari del veleno che entrava in loro e li avrebbe uccisi. Non riuscì a fermarli, attonito di fronte al cupo pasto che la morte aveva scelto per loro.

Non successe nulla e Angelo pianse disteso sul letto a intervalli l’intero pomeriggio, non avrebbe saputo dire se di gioia per lo scampato pericolo o di delusione.

***

Uscendo dietro casa (era una delle sue prime piccole risurrezioni), fu accolto dagli ondivaghi voli delle lucciole che persistevano in quel lembo di campagna a testimoniare un tempo perduto, fiabesco. Di colpo ricordò come se fosse sua l’immagine di un omone e di un bambino stretti per mano in un bosco pieno di lucciole. Il Cugino, il Grande Amico, era lì accanto a lui con la sua mano di pane. Era dentro al finale del Sentiero dei nidi di ragno. Ma quel ricordo conteneva anche in trasparenza la figura torreggiante e morbida del suo maestro elementare. La pelle del viso del maestro Maurizio, candida e ingenua, assomigliava a quella di un bambino eppure misteriosamente apparteneva a un adulto. Dei Grandi aveva l’autorità; non un’autorità puntuta come quella di suo padre, piuttosto un fascino soave che ispirava l’abbandono. La notte, quando l’angoscia con il suo grumo di aghi gli premeva sulle palpebre, la mano del maestro Maurizio discendeva sulle sue pupille, con lo struggimento di una presenza reale, densa di tutto il suo calore. Paffuta come un bombolone alla crema, si poteva addirittura succhiare.

Rientrando in casa, accolto dai muri gialli, accese lo stereo: mentre Beck cantava Let the weight of the world drift away, Angelo vide se stesso svanire in luoghi remoti, morendo le care immagini a poco a poco.

***

Angelo è di nuovo bambino; si trova in un punto imprecisato di un bosco di montagna, con il sentimento certo di inesorabile solitudine. Paura assente.

Soltanto stupore, stupore largo e avvertimento di grandezza, di intensità. Si accorge di avere davanti a sé, emergente da una radura, un albero enorme che arriva così in alto da toccare il cielo e in alto è leggermente incurvato, come appesantito dalla cupola celeste.

Sento la terra fradicia e pastosa. Ho lasciato i compagni dietro di me. Ho lasciato le ciocche di capelli cadere giù, recise dal vento affilato. E ora finalmente ho ingoiato i rumori delle auto e si è distesa la quiete. Sono nato da poco, da quella lì con cui non ho legami. Ora mi accompagno all’alba che è mia, da cui davvero sono stato emanato in una pellicola umana di sudore. E l’odore, quest’odore di animale che mi avvolge e mi solletica tutto. Chissà se sono nudo. Forse dovrei esserlo. Ma non voglio guardarmi, voglio solo gustarmi e assaporarmi. Nelle gambe non ho qualcosa che vuole unirsi a qualcos’altro, ho solo uno spasmo che mi strazia. Non le voglio le persone. Voglio stendermi e sentire i picchi dei tronchi che mi pungolano e mi rosicchiano. Perché sono fatto di corteccia. E le mie resine lacrimano.

Angelo vede strisciare sulla corteccia del grande albero una lumaca senza casa, nuda nel suo corpo viscido che lascia una lunga stria luccicante. Adesso è lui quella lumaca. Poi non è più lumaca ma è solo mano, tutto il suo universo è racchiuso in un’unica mano che striscia lentissima sul tronco verso l’alto, verso la cima dell’albero che è invisibile tanto è lontana e acceca perché è la luce. Non è più Angelo ma soltanto una mano contratta nel desiderio di toccare il vertice dell’albero; confuso con esso, il cielo è riversato sulla terra in un’immensa cascata. La mano vuole arrivare al buco, alla ferita aperta da cui cola la luce, per riuscire a tapparlo, per fermare la lenta frana del mondo.

Quando Angelo si svegliò, ebbe paura ad alzarsi dal letto perché era la mattina dell’operazione.

ESTATI LONTANE

Oggi un sogno quieto e lucido è disceso sul mio letto. Mi sono svegliato, sotto le ciglia il ricordo di altre estati.

Tu ti affretti già per il bagno, sento l’acqua che scorre e il rumore dello spazzolino che sbatte contro il bicchiere, tintinnando. Stendo il braccio destro indietro a sfiorare il legno levigato della testata del letto. Girando la testa a fatica, intravedo uno spicchio di nuvole attraverso le tapparelle un poco aperte. Non ho voglia né di dormire né di alzarmi. Non riesco ad articolare i pensieri.

Bussano. Bussano ancora. Apri la porta. Loro entrano, parlate.

Poco dopo ci siamo già vestiti e stiamo camminando per il corridoio dalla moquette spessa e in diversi punti scrostata. Il corridoio quest’anno è molto più corto, per niente misterioso e angosciante.

Ho pensato al corridoio dell’Overlook Hotel la prima volta che l’ho visto. Di notte, rientrando da solo, mentre le luci dei neon scandivano i miei i, avevo paura del silenzio. Mi voltavo indietro di scatto, sentendo il peso di un corpo alle mie spalle. Niente. Tuttavia la calma era sparita lo stesso. Dopo aver girato due volte la chiave, appoggiato finalmente al muro della mia stanza respiravo con sollievo, ma per un bel po’ tenevo ancora l’orecchio teso.

Adesso è un corridoio e basta. Con la moquette di un rosso cupo piena di buchi.

Facciamo colazione in silenzio, la tosse è in agguato nella mia gola. La stanza è troppo buia, squallida. I lampadari fasciati di crespo rosso pendono tristemente. Avrei voglia di tornare in camera, pur non sapendo assolutamente cosa fare. Niente sonno. Niente voglia di leggere. La televisione d’altronde mi inaridisce. Abbasso lo sguardo sul mio piatto perfettamente bianco, e osservo apatico, come se studiassi uno strano particolare anatomico, il cornetto per metà già mangiato, con la marmellata che cola. Sono inchiodato al momento presente, a questa inerzia delle cose stese davanti a me.

Per non perdermi, cerco di ritrovare i ricordi.

La lanterna magica lungo le pareti disegna figurine troppo vaghe nel buio. Soltanto poche hanno un senso, altre sono marionette senza fili, altre sono beffarde. Finché, girando e girando, ingrandendosi e rimpicciolendosi, si muove una figurina con il mio profilo e anche la stanza ondeggia, in miniatura, la stessa di altre estati.

Ma non funziona.

Le altre estati giravo lo sguardo ansioso tra i volti dell’albergo, in cerca di fuga: strade nuove, cieli nuovi, notti aperte. Ora non ho vergogna di posare lo sguardo su questi volti sconosciuti né arrossisco più. Scruto ogni singola bocca articolare tra le labbra parole incomprensibili, quasi minacciose. Quella donna ha un sorriso esagerato, come in una pantomima; le sue labbra si aprono a dismisura in una smorfia grottesca. Quell’uomo laggiù taglia con spasmodica precisione un uovo troppo cotto, bruciato in un angolo.

Questa stanza me la ricordo bene, la sala della prima colazione. Guardo le finestre laggiù, con le nuvole nere appese e il vento sibilante a torcere i rami.

Talvolta, anni fa, c’era un sole tenero che però bruciava le guance anche la mattina presto. Un piccolo giardino dietro i vetri puliti sollevava fiori dall’erba fresca. Al risveglio una pesantezza nervosa mi picchiettava le palpebre, come se avessi dormito troppo poco. Tu dicevi con una certa irritazione che ero sempre intrattabile di primo mattino.

Ho creduto di ritrovarmi in questi luoghi, di poter ripercorrere le tracce del me stesso di allora e anche di tutti noi come eravamo a quel tempo. Non ne sono più sicuro a questo punto, ma proverò ancora. Uno scheletro di bellezza deve essersi conservato, altrimenti non potrei ripensare i tuoi capelli, stretti dietro la schiena; parevano la coda di un animale buffo, quando alzavi e abbassavi le spalle nel salire i sentieri più ripidi. I tuoi occhi frugavano commossi monti dietro monti, chiari, violacei, azzurrini, sfumati quelli lontani, gli altri invece netti, di roccia grigia inattaccabile. Sicuramente te ne ricordi anche tu, più chiaramente di me.

Eppure nemmeno allora ero in pace, perché mi portavo dietro, dovunque andassi, la mia colpa da gustare in solitudine. Si spalancava un buco nel profondo di me e la notte, quando attraversavamo il boschetto lungo il ruscello, rabbrividivo a vedere le luci delle torce guizzare tra i tronchi. Quei giorni sono così lontani che potrebbe averli vissuti qualcun altro.

Guardo attraverso i vetri le nuvole che si aprono un attimo e fanno balenare il sole. Usciamo. Ma i finestrini non si possono aprire, perché l’aria è gelida. Lasciamo l’auto dentro un recinto di legno scuro, deformato dalle troppe piogge. Finisce che piove sempre, non è giusto. Il rumore della portiera mi dà un senso di realtà brusco. Allaccio la felpa e m’incammino. Deve essere una strada che ho già percorso, qui devo aver già poggiato i piedi, eppure non ricordo più, è inutile, non ricordo niente.

Preso il sentiero c’è subito il bosco, i tronchi pregni di resina umida. Saliamo per

la terra scura e fangosa. Piccole baite di legno chiaro, quasi artificiali perché nuovissime, scorrono una dopo l’altra. Davanti a una ci fermiamo. Fumo una sigaretta, seduto sull’orlo di una panca. Guardo in giro ma non vedo niente. Mi ano intorno delle sagome, forse umane, assolutamente indifferenti. Tu prendi un tè; loro il secondo caffè. Ripartiamo subito. Sono più stanco di quando mi sono fermato. Non sono nemmeno annoiato. Solo che non ho desideri né pensieri e devo simulare di avere entrambi, per almeno esistere.

Il bosco scompare. Al suo posto, senza preavviso, una ghiaia ruvida in cui i piedi affondano. Si fatica a ritirarli su, dopo che il pietrisco li ha ingoiati. In alto riesco a vedere soltanto curve lente, tornanti ascensionali di cui ignoro la fine. Molte, moltissime persone arrancano a i pesanti, le spalle si abbassano sotto la spinta del cielo ferroso. Non si capisce bene dove vadano. Tutto è troppo lento. Se non ci fossi tu ad aiutarmi, a darmi coraggio. Il cielo mi schiaccia ferocemente e la pioggia incombe.

Mi fermo. Intorno bambini e uomini, padri e figli, racchiusi in campane infrangibili. Figli che fanno foto, riprendono, ridono, padri che fanno foto, riprendono, ridono.

…Ah sì, lì eravamo…eh eh eh…non ti ricordi? Beh eri così piccolo…certo che non ti ricordi…io portavo ancora la barba…i capelli così ti stavano meglio papà…perché non li rifai allo stesso modo?...Com’ero giovane!...e tu, tu eri ancora un bambino…

Vi perdo, vi guardo e già vi perdo. Vi ho perduto eppure continuo a guardarvi, anche se non riesco a respirare. Tu sei già alla prossima curva e mi fai cenni impazienti con le braccia. Sento che se andassi soltanto un po’ indietro con la schiena franerei dolcemente, ma sono obbligato a salire, mentre le cosce si strofinano dolorosamente l’una contro l’altra.

Tu mi aspetti, mi gridi che manca poco, soltanto due o tre tornanti. Ma io non vedo niente lassù. Soltanto della gente che ad un certo punto, molto vago, più in alto, improvvisamente scompare, come inghiottita. Fossi più magro, fumassi di meno, forse salirei meglio. Estati fa, estati lontane, andavo di corsa, salivo e scendevo, ridevo, ridevo; ero ancora un ragazzo. Non avessi ato mesi interi immobile, ad alzarmi la mattina a fatica, sigaretta, fare colazione, sigaretta, tornare a letto, sigaretta, divano, disteso, pranzare, sigaretta, dormire, girare a vuoto, sigarette, telefonare, sigarette, pensare a vuoto, sigarette, dormire, sigarette, nella paura, nella paura.

Una cosa del tutto senza senso, a pensarci bene, ma non c’è da stupirsi, il dolore è sempre senza senso. Ma almeno può finire. Mi è successo tante volte, mi sono girato indietro e non ho sentito più la stretta alla gola: l’onda bituminosa si era ritirata. Anche se certe ombre mi accompagnano fedelmente, ora che sono più vecchio.

Adesso sì, vedo qualcosa in alto. Una bandiera stinta, tesa dal vento e carica di energia strana.

Ti sei fermata e io molto lentamente ti ho raggiunto. Dovrebbe mancare poco, ma non arriviamo mai, è angosciante. Ho paura di crollare al suolo, non respiro quasi per l’affanno, non sudo nemmeno più.

Mi dici che è l’ultima curva. Forse sei già arrivata in cima e sei tornata indietro a indicarmi la strada. Io tengo gli occhi bassi e appena li risollevo tu mi guardi sorridendo. Faccio un ultimo o, senza pensare, unicamente concentrato sullo sforzo di sollevare la gamba per raggiungere il suolo, finalmente e splendidamente piatto.

Respiro con la testa bassa e le braccia lungo le ginocchia piegate e il respiro

caldissimo mi scorre dappertutto, come un’ondata. Intorno vento e soffi di gelo che precipitano dai picchi e dalle pareti verticali. Grida lunghe di uccelli altissimi.

Mentre il vapore del tè sale denso, metto il timbro del rifugio su una cartolina che non spedirò mai e che forse non conserverò nemmeno. Come tante volte avevo fatto, estati fa, estati lontane.

Rialzo la testa e tu ancora sorridi.

IL VESTITO DA SPOSA

Mia madre quando è andata in pensione si è portata con sé dal negozio soltanto un abito da sposa. Eppure la padrona, che l’aveva presa a benvolere, le aveva concesso di portarsi con sé un guardaroba a sua scelta. L’aveva commossa la dedizione silenziosa al lavoro che «la sua collaboratrice» aveva sempre dimostrato. Di fronte a tanta grazia, da bona donna veramente, mia madre aveva reagito con una scontrosità quasi rabbiosa, a vederci a tutti i costi la malizia, ma non c’era ingratitudine. È che le attenzioni della signora le erano sempre parse immotivate, e forse ingiuste. Aveva un concetto inflessibile delle divisioni sociali, insomma quella c’aveva i soldi e non aveva niente a che vedere co ‘na pora donna come lei. Non si fidava, ci vedeva per forza qualcosa di strano, che non capiva. La padrona invece si sentiva solleticare dentro per la sua bontà verso quella poveraccia. Non ci fosse stata lei chissà che fine avrebbe fatto, senza più il padre né il marito. Ma la mamma in ogni lavoro ci avrebbe cavato del buono, perché non si stancava mai ed era dura come una pietra, quasi non avesse sentimenti. Se non quello oscuro di una lotta per vivere: considerava le giornate come una prova che il Signore le mandava, per vedere se l’avrebbe scampata. Ogni sera quando andava a letto la sentivo che bofonchiava: «Anche oggi è andata, domani chissà." Non le importava di morire di notte, ma aveva terrore della morte per malattia e di finire a letto con le piaghe. Mia zia difatti così era finita, in un letto enorme per lei rannicchiata in un angolo a rantolare tutto il giorno lamenti. Non si reggeva l’odore di carne stantia in quella stanza sempre buia.

Da bambino mia madre mi sorrideva a volte con tenerezza timida, tutta accaldata, ma non ricordo mai una carezza. Eppure aveva un attaccamento febbrile per me: appena non mi vedeva per casa mi cercava ciabattando dovunque, con voce subito allarmata. Perché dovevo stare sempre con lei, ero il bastone della sua vecchiaia, la sua consolazione. Più invecchiava più diventava possessiva e più cresceva il suo senso del peccato. Non potevo nascondere l'impaccio quando piantava le sue lagne interminabili sul paradiso e sull’inferno. Naturalmente lei mi rimproverava e, dato che non manifestavo lo stesso suo ardore nello strofinare santini spiegazzati, mi vedeva già dannato. Mi disse una

volta che ero una bestia, perché non andavo più alla messa. Ma io non riuscivo a credere alle fantasie di una vecchia.

Quel giorno che riportò il vestito da sposa, lo teneva tutto contro il petto, come a proteggerlo o nasconderlo. Se ne vergognava credo, quasi l’avesse rubato. Si precipitò in camera sua, chiuse la porta e non la vidi uscire che una mezz’ora dopo. Aveva una commozione accesa negli occhi. Qualche giorno dopo mi chiamò con fare da congiurata e, presomi per mano, mi condusse nella sua stanza. Un vento ricco di luce – era aprile – faceva svolazzare la seta bianchissima che frusciava leggermente, non più di un sussurro. Anch’io mi sentii confusamente esaltato nel vedere la luce rabbrividire tra le pieghe del tessuto. Vedevo un corpo di donna, con una pelle che faceva timore a toccarla per quanto era sottile e fragile. Mia madre mi scosse, arrabbiata perché non gli davo ascolto. Si era messa a raccontarmi la storia della donna che doveva sposarsi, lei l’aveva vista una volta sola, ma quant’era bella, quant’era bella! Mi perdevo tra una parola e l’altra perché mia madre, agitatissima per l’emozione di raccontare, divagava in mille rivoli e non arrivava mai al dunque.

La donna, di cui non capii il nome – mi vergognavo di chiederglielo di nuovo – mia madre ogni volta che entrava a negozio non la vedeva toccare i piedi: pareva arrivata da un altro mondo. I capelli li aveva lisci e nerissimi come il petrolio, uniti uniti, e le cascavano sulle spalle lentamente. Il viso così pallido e sottile che sembrava fatto d’aria. E negli occhi c’aveva sempre ‘n’acqua molla, sembrava che sveniva ogni volta, stanca morta o svampita. Quando aveva provato il vestito, se l’era baloccato a lungo, l’aveva lisciato con la mano con sorrisi esagerati da bambina, e pure lei pareva una bambola cogli occhi grandi e fissi. Mica parlava mai, magari era muta. Ma era bella da far piangere.

La madre veniva dal Nord e s’era fatta tutta quella strada perché la figlia si era innamorata di quel vestito – che era il più costoso di tutti – dopo che l’aveva visto nel catalogo della sartoria, e non c’era verso di farle piacere nient’altro. Dovevano essere ricche marce, con tutto il rispetto (mia madre aveva per «le signore» la stessa devozione che per la Madonna). Ma c’avevano qualcosa di

strano. La madre non parlava mai del promesso sposo della figlia – certo doveva essere bello e gentile – anzi sembrava sempre preoccupata, in imbarazzo. Per la figlia c’aveva gentilezze esagerate e una specie di spavento. Mia madre non ci raccapezzava nulla. Le altre spose non la smettevano di parlare dei futuri mariti, della cerimonia, di quanto erano innamorate. E le mamme, poi! A vantarsi delle figlie a più non posso! Diventavano così orgogliose di loro che gli si gonfiava il barbozzo! Invece questa qua era triste da morire, vestita con una gonna severa che cadeva giù dritta.

Mia madre non fece mai domande, devota e discreta come sempre. Ma doveva essere curiosa fino allo spasimo. La padrona, che si adattava ai clienti come l’impasto sugli stampi da forno, non osava uscire da un’elegantissima distanza. D’altronde, benché fosse figlia di contadini rozzi e scannati peggio dei porci, si dava arie da gran dama e affettava una nobiltà di seconda mano, derivata dal commercio con le signore dei palazzi antichi del Corso.

Le donnine, come cani sull’osso, si buttarono a investigare sulle straniere ricche sfonde. Con la meticolosa pazienza dei filologi ricostruirono il quadro della faccenda punto per punto. Ci riescono sempre, quando ci si mettono d’impegno.

Mia madre restò sconvolta, come fosse sceso di nuovo Gesù Cristo sulla terra.

La donna, vedova da molti anni, aveva allevato quella figlia come un merlo in gabbia, senza farla mai uscire né farle vedere nessuno che non fosse lei o la vecchia che rassettava casa di tanto in tanto. La trattava come un animaletto strano perché, a parte qualche mugugno contorto, non aveva mai parlato. Poiché il marito, architetto, le aveva lasciato alla sua morte numerose proprietà e una pensione più che consistente, madre e figlia non dovettero mai preoccuparsi di nulla. La ragazza sembrava svagarsi in un reame splendido e misterioso, tutta persa nelle sue fantasie. Più il mondo spariva, limitato soltanto a qualche rumore o grido proveniente dalla strada, più quello della figlia si dilatava a dismisura.

Qualche volta la madre non sapeva che fare, perché la figlia distesa a terra si contorceva come una lucertola, mugugnando che faceva ribrezzo, dandosi schiaffi e mordendosi le labbra. Dopo restava a terra con gli occhi aperti, occhi spaventosi che non guardavano niente. Quando si risvegliava era sfinita e stava a letto quasi un giorno intero, a piangere un pianto fitto e basso.

Poi era diventata cattiva e si era rivoltata contro la madre. La notte l’erano venuta a prendere, le avevano fatto l’iniezione e l’avevano portata in clinica. Quando l’avevano riportata indietro era calma ma istupidita. Eppure, come un fiore sbocciato in serra, era diventata una donna. Bella, però pareva fatta di vetro e a guardarla metteva malinconia.

Ma nessuno la guardava se non la madre, che tutta rincagnata e con il viso accartocciato come un pugno, aveva per la grazia della figlia un’invidia livida. A pranzo le sbatteva il piatto davanti come desse da mangiare a una cagna rognosa e poi scappava subito in salotto a strizzarsi le mani fino a farle impallidire. La giovane non mostrava mai rancore, anzi custodiva negli occhi una bontà infinita. La serva, che ci piangeva la sera a pensare a quella disgraziata – era primavera – gli portava margheritine e rose selvatiche che lei carezzava alla finestra socchiusa. Quando i petali si erano seccati, li lasciava cadere dal davanzale, e li guardava ondeggiare giù con gli occhi luccicanti.

Un giorno la ragazza ruppe una bottiglia e la madre, tornata da una eggiata, la trovò distesa presso la finestra, con del sangue quasi nero ai polsi. Le sembrò che il cuore fosse scomparso, invece le si fiondò in gola sul punto di esplodere.

Da allora in poi la donna venerò la figlia con amore e strazio.

Le parlava e le parlava, prese a cullarla con l’idea di un matrimonio che ci sarebbe stato di lì a poco. Aveva pensato a tutto lei. Le parlava del giovane che la amava, un giovane alto e bello, con il viso come quelli dei quadri dei musei, uno che andava a cavallo ed era forte e gentile, uno che, uno che, uno che…

La figlia si accarezzava tutto il giorno la pelle del viso, già innamorata. La mattina si lisciava per mezz’ora i capelli che erano tornati folti. Di nuovo il suo mondo dentro la testa prese a brillare. L’aria era di vetro e non calava mai il sole ed era sempre estate e per i prati c’era un silenzio come un abbraccio.

Poco dopo che le due erano ripartite per il Nord, con il vestito da sposa di seta purissima avvolto con tutti i crismi perché non si rovinasse, si seppe che la madre aveva aperto il gas per far morire nel sonno se stessa e la figlia. La figlia indossava il vestito da sposa, perché il giorno dopo ci sarebbe stato il matrimonio.

La madre lasciò scritto che il vestito andava restituito alla sartoria, perché una sposa veramente felice lo indossasse. Ma nessuna ne ebbe il coraggio, benché fosse bellissimo, per paura della malasorte. Soltanto mia madre, che si era apionata a quella ragazza, quando andò in pensione prese il vestito e se lo portò a casa, per venerarlo come una reliquia.

In realtà ho sempre pensato che l’avrebbe indossato mia moglie.

Oggi sono entrato in casa per frugare tra le cose di mia madre che aveva lasciato pulite e in ordine. In quella casa tutto era sempre stato uguale e lindo. Forse un po’ finto, ma non dava mai un’impressione funebre perché mia madre, fino a quando non stramazzò a terra dritta come un sacco, non faceva altro che muoversi da un canto all’altro con una rabbia convulsa di vita che mi ha sempre stupito.

Benché fuori ci sia tutto un urlio di rondini, l’appartamento mi ha ributtato addosso un silenzio ostile. Mentre toglievo le stoviglie dai cassetti, avevo il terrore che mia madre si fosse nascosta dietro al muro della cucina per farmi prendere un colpo. Da quando è morta non ho versato una lacrima, per questo sono sicuro che lei ce l’ha con me.

Percorro il corridoio, buio perché tutte le porte sono chiuse. Si sente un debole odore di polvere ma in camera sua il letto è rifatto; ci ha pensato la donna delle pulizie, evidentemente. La coperta blu scuro con vistosi fiori rosa è quella che c’è da una vita. Mia madre ha sempre detestato i mutamenti e per gli oggetti aveva una ione morbosa, non voleva che cambiassero mai. Per lei gettare qualcosa era un dolore intollerabile.

Apro l’armadio di noce scuro, spesso, che probabilmente sta lì da prima che nascesse mia madre. Faccio per cavare i suoi vestiti. Anche se non so che farmene, sono convinto che sia necessario portarli via.

Un brulichio rapido, un biancore, si distingue dal buio. Il vestito da sposa! Sembra pronto da mettere, per quanto è curato e fresco. Ma non è mai stato toccato da un uomo. Peccato, è così bello. Ora rimpiango di non avere chiesto a mia madre il nome della sposa. Non potrò più farlo, perché tre giorni fa mia madre è morta.

Non avrò mai nessuna donna da sposare.

Finalmente posso piangere.

LABBRA ROSSE DI CARNE

Quando apre gli occhi, sua moglie ancora dorme. Giace abbandonata supina, il collo è leggermente reclinato verso di lui. Un filo di capelli le è scivolato all’angolo della bocca. Le pupille premono affannosamente sulle palpebre, come dorsi di scarafaggi vivi. Sta sognando, ma il corpo affonda nel lenzuolo. I seni si intravedono da una canottiera a fiori, ampia e slargata dall’uso. Resta a guardarli incupito.

Sua moglie invecchiando si incammina in direzioni sconosciute. Eppure lui è sempre lo stesso. Sul suo corpo non appaiono segnali del tempo trascorso, glielo dicono tutti. Lei al contrario si sta allontanando dalla sua giovinezza senza poter far nulla. Si è accorto che sua moglie si guarda spesso di sfuggita allo specchio e dopo si volta verso di lui come se volesse scusarsi. Non capisce che così annerisce soltanto le sue collere, facendogli desiderare di cadere a testa in giù dentro un buco nella terra.

Gli altri uomini la trovano ancora bellissima. Da quando sono arrivati, non fanno che precipitarsi a conoscerla. Le sorridono con gentilezza, ma lui lo sa che la sognano nuda. La nuvolaglia di questi desideri la avvolge e lui l’avverte come se fiutasse un odore forte o respirasse un’aria tossica. Come fanno a non accorgersi che il volto le si è scavato e gli zigomi sembrano stecche di ferro pronte a uscire fuori. Quella non è più sua moglie, è una sconosciuta.

La notte prima, stanchi del loro appartamento perfetto ma troppo silenzioso, sono usciti sul lungo mare. L’acqua nera intrisa di luci e metallo esalava un odore inquieto. Un’insegna lampeggiava, a sprazzi di rosso e giallo vividi. Una musica latina di stinta allegria lo ha riempito di disgusto, ma lei ha sorriso tra le labbra rosse di carne e perciò sono entrati.

Da ogni parte occhi appiccicati al seno di mia moglie. Brusii, strette di gomiti e ammiccamenti. Resto incatenato: sorveglio tutto. Stringo con troppa forza il suo braccio. Ne sento il calore, il grumo di vita. L’afa mi salta al collo, perciò mollo immediatamente la presa e fuggo nello strettissimo bagno. A malapena riesco ad allargare i gomiti per gettarmi acqua fredda sulla faccia. Mi bruciano gli occhi, come se non dormissi da giorni e giorni. Il mio volto è grigio e le labbra contorte nello specchio.

Appena rientrò nella sala, vide il loro tavolo vuoto. Fu colto da una brutale e improvvisa vertigine. Non riusciva a vedere sua moglie da nessuna parte. Nell’oscurità i corpi delle donne e degli uomini formavano una massa indistinta. Anche i suoni salivano in un rimbombo doloroso.

Alla fine riuscì a vederla. La sua immagine ricadde così netta da fare male agli occhi. Era seduta su uno sgabello e sorrideva a un uomo dalle braccia indurite. L’uomo sorseggiava una birra nell’ombra densa di fumo. L’alto sgabello faceva tendere le cosce di lei quasi la carne stesse per lacerarsi. Sua moglie era nuovamente giovane e rideva più fresca che nei suoi ricordi.

Vedo l’uomo are nella mano di lei qualcosa; un bigliettino, sì. Lei gira tutta la sala con un unico rapidissimo sguardo di animale eccitato. Ce l’ho fatta a nascondermi di nuovo nel bagno prima che lei mi vedesse.

Quando il marito uscì, pochi minuti dopo, la donna era di nuovo seduta al tavolo e gustava con aria infantile un long-drink colorato. Sorridendo, l’uomo le tirò giù una sottile ciocca di capelli, chiedendole: «Per me non hai preso niente?» Restò turbata e rapidamente sussurrò tra i denti, a occhi bassi: «Non sapevo cosa volessi." Per tutta la sera lei agitò forse troppo in fretta le spalle seguendo la musica, ma non si alzò mai a ballare. Lui non disse più una parola. La donna non fece che ridere. Negli occhi aveva una calda e remota nostalgia.

Quel biglietto nascosto nella sua tasca. Me lo sento incollato sulla faccia sudata. Sembra sinceramente amorevole verso di me. Tuttavia la sua mano saggia ripetutamente la presenza del bigliettino nascosto. Vuole essere sicura di averlo ancora con sé. Fino a che punto proseguirà nella sua impeccabile recita? Fisso uno per uno i movimenti delle sue labbra inumidite, fino a che sembrano solo contrazioni insensate. Se non stesse fingendo? Il suo sguardo è rivolto all’interno, a un preciso centro segreto, eppure subito dopo il suo volto è così vicino al mio da farmi rabbrividire. Cosa devo pensare? Crederle? Ma la tensione delle cosce, l’uomo nell’ombra, il bigliettino nascosto, lo sguardo eccitato? Sicuramente ha finto già altre volte. E io non me ne sono accorto. Fa niente, me la sono voluta io.

L’uomo ascoltò, non parlò né sorrise mai, bevve non si sa quanti drink. Alla fine quando uscì barcollando, nella bocca aveva un sapore disgustoso.

I giorni splendidi della loro giovinezza, quando erano amanti incauti, lo straziavano di nostalgia. I primi tempi l’uomo non smetteva di tuffare il viso nei seni della donna, come per dissetarsi.

I tacchi della moglie che camminava dietro di lui martellavano il selciato, superando il frastuono del lungo mare affollatissimo.

Per un attimo il marito fu per gettarsi contro una delle macchine lanciate come frecce, poi aggrappato alla ringhiera provò solo una pena arida. Dietro di lui tutto stava rovinando. Il mare odorava di sonno cupo.

Quando apre gli occhi, sua moglie non c’é più. Il vento lieve dell’alba fa ondeggiare la tenda verso la veranda. Spalanca le labbra per gridare, ma ha paura che nessun suono esca fuori. Perciò richiude gli occhi.

VERNICE FRESCA E ALTRE IMPERFEZIONI

Sandra saliva le scale a fatica, mentre l’afa le trascinava a terra le gambe e il manico della busta le si attorcigliava ostile intorno al palmo della mano. Fermatasi qualche secondo per riprendere fiato, scrutò con fastidio l’alone violaceo. Già mezzogiorno, e ancora doveva mettere a bagno le vongole. Al solito era quasi in ritardo; non per colpa sua, era il tempo che a un certo punto si divertiva a compiere un beffardo balzo in avanti. Anche l’estate l’aveva sorpresa. Ci si era trovata dentro senza capire come: prima un maggio freddo e impazzito, ora trenta gradi. Franco adorava le vongole e godeva a mangiarle seduto sulle sedie di plastica bianche con l’azzurro di fronte. Gli avrebbe offerto un mare tascabile, dato che quest’anno a quello vero non sarebbero andati.

Il pranzo di oggi era la prima tappa del New Sandra Project. New Sandra, una se stessa finalmente efficiente e risolutiva. I tentativi precedenti, come le fantasie sul Modo Migliore di Coccolare Franco e Renderlo Felice, non avevano prodotto risultati degni di nota: al contrario, la Vocina continuava a darle dell’incapace. Stabilì che fino ad allora aveva sbagliato per mancanza di metodo, che si era lasciata prendere – come sempre – da un’angoscia sentimentale. Detto fatto: uscì di casa con cipiglio marziale, comprò un’agendina immacolata, scrisse sulla prima pagina il titolo in rosso e prese a riempirla giorno dopo giorno di liste di buoni propositi. Gli spaghetti con le vongole erano il primo punto del campo uno, Cucinare Con Cura e Amore. Presupposto: far piazza pulita dei piatti pronti; obiettivo: Franco stravaccato e contento dopo un pranzo gustoso.

Era già quasi arrivata – preferiva fare le scale a piedi, l’ascensore le faceva paura – quando vide la porta del terzo piano socchiusa. Un vento leggero fluiva piacevolmente per il pianerottolo insieme a una canzonetta italiana di moda. La canzone dell’estate. La voce dell’urlatrice si mescolava all’inconfondibile ronzio di una radiolina portatile. Come quella che Grillo Parlante portava a ignano per sentire le partite. Tempi lontani, quando gli uomini anche con quaranta gradi tenevano sotto la camicia la canottiera di cotone. Il lago era splendido quest’anno, con tutta l’acqua che aveva fatto. Potevano andarci insieme per un

picnic. Cuoca Regina le avrebbe insegnato le ricette per i panini sfiziosi. Già si vedeva stesa sull’erba, brilla e stordita dal sole. Da quanto non si facevano una bella risata, lei e Franco? Adesso era quasi impossibile. Ma non doveva assolutamente essere pessimista, o – il peccato più grave per la Gran Consigliera –, fasciarsi la testa prima di rompersela. Doveva essere allegra per tutti e due.

Si avvicinò di più alla soglia e piegò un poco la testa, come per guardare all’interno. Che strano, i ragazzi erano sempre fuori all’ora di pranzo. Non si arrischiò a mettere il naso dentro, chissà che avrebbero pensato. Lei per prima non sopportava le persone invadenti. Si ripromise perciò di rivolgersi alla Portiera, la vecchia tracagnotta e maligna che sorvegliava il palazzo. Lei sicuramente sapeva tutto.

***

Il pranzo fu un disastro. Sola nella penombra della cucina, non poté bloccare una lacrima di frustrazione. Una sola, quasi automatica. «Sei la solita incapace», decretò la Vocina.

Nonostante le accortezze di Cuoca Regina, le vongole erano rimaste quasi tutte chiuse e le poche disponibili erano mezze marce. L’avevano imbrogliata al supermercato, sicuro. Colpa dei suoi occhi, spaventati fino in fondo alle pupille. S’era accorta che puzzavano, mica era scema, ma aveva fatto finta di niente. Anche a casa, fissando con le mani ai fianchi i molluschi nel lavandino, continuava a sperare che l’odore di acqua ferma venisse solo dalla sabbia.

Franco comunque ha mangiato quasi tutto, diligentemente. Che belle le sue mani, eleganti nel portare il tovagliolo alla bocca, con le unghie tonde e perfette, non come le sue, rovinate dai prodotti per pulire. Sentì allargarsi un buco in sé, come un risucchio che la trascinasse dall’interno. «Se ti agiti è peggio, così non

combini niente, vedi!», le diceva Grillo Parlante quando la chiamava per aiutarlo nei lavori di casa. Ma le contro-parole, stampate sul suo corpo incombente, erano zeppe di rimproveri. Alla fine sbottava urlando: «Lascia, faccio io!», e lei se ne andava ferita. «E’ vero, non combino niente», concordò Sandra. Piantata a lato della soglia, non trovava la forza di uscire in soggiorno, dove era sicura di incontrare la muta comione di Franco. Gettò gli avanzi e le vongole ancora sigillate in una busta e attraversò a razzo il soggiorno. «Porto via la busta, sennò puzza...», farfugliò quando era già per le scale.

Restò interdetta nel rivedere la porta socchiusa.

Odori dell’amore nella mente, dolente tremante ardente, il cuore domanda, cos’è che manca, perché si sente male, molto male

Il Primo Compagno, leggera stempiatura e un pizzetto profumato; sulla panchina, davanti al prato deserto di San sco, l’erba più scura del cielo ancora violetto, soffi di vento ottobrino che fanno crepitare le foglie. Le sue labbra aggraziate, dischiuse appena, rispettose della vicinanza di lei, del suo incanto. E il suo respiro, fragilissimo. E poi ancora, la prima volta che l’aveva portata a vedere il Tevere, la luce di aprile che sussultava dall’acqua, rimbalzava sugli alberi e cadeva sulle sue ciglia, preziosa e intatta.

è certo un brivido averti qui con me

in volo libero sugli anni andati ormai

Insieme alla canzone (la sentivano fino a sfinirsi, un auricolare per uno), il Primo Compagno era arrivato fino a lei, anzi dentro di lei, pelle confusa a pelle (la prima volta che l’aveva visto nudo); e le chitarre tirate in tesissime distorsioni dicevano che non era giusto, che era impossibile sentirlo ancora qui, se era caduto tra gli scomparsi, se la corona di prime volte che avevano stretto insieme si era sfilacciata in uno sfacelo di mai-più. Ricantò dentro di sé quei giorni, quasi sperando che se fosse stata brava a ripeterne le melodie tutto sarebbe tornato come prima.

Forse lui l’aveva dimenticata subito. O magari anche lui, in quello stesso momento, nuotava nell’aria, sospinto da un vento tiepido e lieve, un vento di prima estate.

***

Dunque se n’erano andati. Non dovevano avvisarla, sia chiaro, in fondo non si erano mai nemmeno veramente parlati. Solo qualche saluto lanciato per le scale e la fretta arruffata di qualcosa da fare. Sandra detestava l’incontrollato rossore che le saliva alle gote, impaziente di chiudersi al sicuro nel suo appartamento. Se li vedeva arrivare, si soffermava a guardarli dalla finestra e a fantasticarci su. Respirava più largamente, solleticata alla schiena, mentre osservava la ragazza affrettare il o per stare dietro a quello baldanzoso di lui. Era così buffa la sua postura, quando si piantava a gambe divaricate: a metà tra la goffaggine di un adolescente e la forza consapevole di un uomo. Lei aveva il vezzo di aggiustarsi sempre i capelli, che le cadevano irregolari sulla fronte e la confondevano; ma ne doveva essere orgogliosa.

«Lei è rimasta incinta, ca-pi-to? – sillabò la Portiera alla domanda timida di Sandra, roteando gli occhioni qua e là con aria cospiratoria – quindi...»

«Ah», sospirò Sandra, quasi impercettibilmente.

«Be’, l’appartamento è troppo piccolo...», continuò l’altra, fiera della propria scaltrezza.

«E dove hanno trovato?», buttò là Sandra, fingendo di non essere interessata.

«Nella casa dei genitori di lei, a Città di Castello. Aggiustano l’appartamento della nonna, che nel frattempo è morta.»

Sandra si stava innervosendo, non capiva come mai la Portiera sapesse tutte queste cose ed era anche gelosa.

«Ma con il lavoro, come fanno?», chiese con allarme e stizza.

«Capirai, lui lavora per conto suo, un posto vale l’altro, e lei tanto non faceva niente manco qui. Fa finta di studiare per la tesi, ma secondo me ‘sta laurea non la piglierà mai. Tanto sono pieni di soldi, quelli, Sandra." La Portiera sottolineò l’ultima affermazione con una piega cattiva delle labbra.

«Va be’, sono giovani...», si lasciò scappare Sandra, facendo cadere la voce in una piccola polla di commozione. Per lei quell’aggettivo era circondato da un

tale alone di grazia da giustificare tutto. A volte sentiva ancora la sua giovinezza, con il respiro frenetico di un animaletto nato da poco. Che sciocca a non averci provato. Potevano diventare amici. Lei e Franco mica erano tanto più vecchi di loro. Adesso che lui non lavorava, tanto meglio, avevano più tempo; e più bisogno di qualcuno. Lei soprattutto, perché il dolore di Franco doveva gestirlo da sola. Era sempre stato così. Ma adesso non ce la faceva più, nonostante la sua agendina nuova. Lei stessa aveva in sé una piccola pena, come un fastidio fisico che non andava mai via. Quando intorno al cortile del palazzo la luce svaniva e si sentivano solo le ali degli uccelli, Sandra perdeva le parole, mentre violenta l’attraversava, come un’ustione, la tenerezza per suo marito.

***

Dalla finestra guardò Franco allontanarsi a ritmo costante. Si sedette sul divano davanti alla televisione spenta e provò a respirare regolarmente. Il silenzio era più duro e cattivo, quando lui usciva per correre. Ci andava tutti giorni, rigorosamente da solo. Da settembre non aveva saltato una volta, incurante delle intemperie e perfino della neve ghiacciata. Sandra non osava proporsi come compagna, e lui non gliel’aveva mai chiesto. Un sollievo, perché non appena arrivavano i primi freddi si smarriva, come se la luce povera, che calava sempre troppo presto, le togliesse via via corpo e sangue; allora desiderava solo arrotolarsi nella coperta e rileggere Dostoevskij. Sospettava ci fosse qualcosa di ascetico e per sua natura solitario in quella corsa quotidiana. Anche nel lavoro Franco era sempre stato così: implacabile, andava avanti a testa bassa per ore e ore a ricontrollare gli stessi conteggi. «Non mi sento tranquillo, se lascio le cose in sospeso», rispondeva quando lei lo rimproverava di farsi sfruttare. Ora avevano lasciato in sospeso lui. Il compagno di scrivania gli aveva detto di stare tranquillo, che la mobilità per due anni non gliela toccava nessuno; aveva tutto il tempo di mettersi a cercare un altro lavoro.

Ma era cambiata proprio la qualità del tempo, che era uscito dall’orologio e si era addormentato, come quando si è malati. Una volta erano andati a fare la spesa alle nove e mezzo, un orario prima impossibile per Franco. Qualche giorno

dopo lui le aveva confessato il dubbio che tutto il supermercato fosse un set cinematografico; se lo smontavano, non sarebbe rimasto più niente. «Mi sento preso in giro, Sandra; come se mi avessero preso per il culo apposta e da sempre, e io me ne fossi accorto solo adesso», le aveva detto al termine del racconto. Sandra gli aveva ato la mano sulla testa in un tentativo di carezza, ma nel sentire la sua nuca così fragile era stata avvolta dalla medesima paura. Da quanto avevano iniziato ad accontentarsi di felicità brevi? I ragazzi no, loro avevano il sempre negli occhi. A lei lo specchio rimandava un’espressione da fuggiasca, come davanti a una minaccia che si spera non arrivi presto, ma che certo arriverà. I suoi Momenti di Grazia erano celebrazioni di cose perdute, che le facevano male. Se soltanto fosse meno sola, se soltanto Franco non corresse sempre via da lei. Remoto e incomprensibile, con la faccia cotta dal sole. Però lei aveva le sue strategie, la sua agendina da seguire o o. Che il primo punto fosse andato di merda non voleva dire niente. Decise di uscire. Per le scale la porta era socchiusa, e nuovamente per il pianerottolo ondeggiava la voce distorta della radiolina. Quante volte avrebbe potuto suonare il camlo, quando c’erano ancora i ragazzi; ma non l’aveva fatto.

***

Ferma davanti alla fessura della porta, da cui usciva un fascio di luce polverosa, seguiva le particelle vacillanti come tracce di un’antica promessa. Con i ragazzi aveva recitato il solito copione: una strana danza di avvicinamento e ritirata, snervante e ambigua. All’università si nascondeva negli anditi meno in vista, a fingere di sfogliare, senza provarci veramente, le dispense del prossimo esame; con un rapidissimo colpo d’occhio coglieva il are feroce di una ragazza sorridente, dai capelli ricci, e subito dopo quello di un ragazzo corpulento e sudaticcio, con la camicia aperta sul petto. Tutta gente con cui non avrebbe mai scambiato una parola. Forse giovane non era mai stata. O solo in quei nove mesi insieme al suo Primo Compagno, quei mesi scomparsi, pieni di notti infinite presto contratte e precipitate via in una piccola frana. Lei e Franco più che amanti si erano trovati fratelli. Lui era l’ombra del bellissimo amore di Carla, la sua migliore amica del liceo. Da una parte il musicista biondo cenere che diffondeva per l’Europa le sue canzoni folk, dall’altra il ragioniere che temeva perfino di respirare. Partito il primo, Franco era stato preso come tirocinante

nello studio di un commercialista in pieno centro. Sandra gli si era affezionata subito, trovandovi riparo da Carla, troppo temuta e troppo amata. Cominciarono a vedersi, scoprendo con sorpresa che potevano divertirsi anche da soli. Non dovevano dimostrare niente e si avano l’un l’altro una corrente calda che non cessava mai. Come rimpiangeva adesso i pomeriggi con Franco, nel suo appartamento silenzioso e spoglio, dove stavano abbracciati ad ascoltare la radio; lei non si stancava mai di accarezzarlo, di gustare con le dita la sua pelle.

Si avvicinò allo spiraglio e distrattamente spinse la porta, scoprendo appena la visuale del soggiorno. Se l’era immaginato più grande. Si perse dietro le venature del parquet, che tracciavano percorsi aggrovigliati. Lungo i muri una pellicola spessa di plastica era stesa a terra e in un angolo stava un grande barattolo di vernice, con un pennello in equilibrio sopra. Entrò, vuota di pensieri e trattenendo il respiro, ignara della radio che adesso vomitava il jingle di un conto bancario online. Alzò la testa in direzione del corridoio, da dove echeggiò il rumore di uno sciacquone; arrossì e fece per scappare via quando un uomo spuntò fuori dal bagno e le puntò gli occhi contro. Un vecchio, che indossava una salopette irrigidita dai troppi lavaggi e fitta di macchie indelebili. Sandra scattò all’indietro, con un piccolo balzo di paura che le sembrò umiliante. Il vecchio gettò fuori una serie di consonanti intrecciate, rapidissime e incomprensibili. Dopo un momento di silenzio, i due si sorrisero, presi da un’improvvisa simpatia l’uno per l’altra.

«Ho visto la porta aperta, mi scusi, pensavo non ci fosse nessuno», disse Sandra.

«Non si preoccupi, tranquilla...», ribatté l’uomo con voce stranamente acuta, aggiungendo una fragorosa cascata di suoni. Sandra lo trovò così buffo che dimenticò tutta la tristezza di prima e si mise a fargli domande sciocche pur di sentirlo parlare ancora. Capiva appena qualche parola, tipo «rinfrescatina», «umidità», «freddolosa», dopodiché puntuale il grammelot scoppiettava alla fine di ogni frase. Fisicamente era un orco, ma parlava con l’agilità e la precipitazione di un folletto.

Dopo diversi minuti in cui dovette più volte farsi male alle gambe per non ridere, salutò il vecchio e scese le scale a precipizio. Una volta fuori, aprì la bocca in un sorriso e si confuse ai voli delle rondini, sollevata da un turbine di vento.

La Portiera scosse la testa, vedendo Sandra correre in fondo alla discesa con gli occhi rossi e per poco non andare a sbattere contro il palo della fermata dell’autobus.

***

Baciò Franco appena tornato dalla corsa, gli si parò contro e l’abbracciò stretto per non farlo scappare. Fu investita dall’odore del suo sudore, che trovò il profumo più delizioso del mondo. Lui rise con imbarazzo, nello sguardo uno stupore rubato, infantile.

«Che t’ha preso?», le chiese arricciando le labbra.

«Niente niente, sono solo contenta che sei tornato», rispose senza vergognarsi, per una volta, della propria commozione.

«Torno sempre, no?», aggiunse Franco per prenderla in giro, ma visibilmente orgoglioso di essere aspettato.

Quelle parole attraversarono la gola di Sandra e le scesero giù nella pancia, facendole quasi perdere l’equilibrio, appesa com’era alle spalle di Franco, molto più alto di lei. Lo guardò di sotto in su, pentendosi della nostalgia segreta.

Dobbiamo tornare, dobbiamo tornare sempre, pensò Sandra, spaventata all’idea del vuoto taciturno che c’era al salone del piano di sotto, ora che il vecchio se n’era andato via. Un deserto che sapeva di tempo morto e di polvere. Quando la gente se ne va, lascia questo silenzio, quest’ombra che resta addosso.

Ebbe voglia di frastuono, fosse anche quello di una musica volgare come le hit dance del liceo. Le file prima di entrare nella discoteca di Monte San Savino – l’estate della maturità –, guardando di sottecchi i maschi e sperando di essere guardata. Avrebbe rivoluto tutto, anche il dolore.

«Indovina che canzone ho in testa adesso?», quasi urlò Sandra, con l’aria di una saputella che pone un arduo quesito.

«Ma che ne so...», rispose Franco, che cominciava a farsi prendere.

«Te lo dico, via, perché non indovineresti mai...», e si mise a cantare, in una caricatura della modella brasiliana:

This is the rhythm of the night The night, oh yeah The rhythm of the night This is the rhythm of my life My life, oh yeah The rhythm of my life

Intanto si era gettata in un convulso ballo, con tanto di scuotimento di capelli e delirio pelvico. Franco, ridendo e tossendo, si mise a ballare anche lui, con la sua irresistibile goffaggine, riempiendola di baci agri di sale. Entrambi erano travolti dalla furia di quel basso che realmente scendeva dalle pareti, emerso da vent’anni di silenzio. Se davvero esisteva un ritmo delle loro vite, potevano ancora tornare indietro, azzerare il calendario e ripartire. Come nei più espliciti approcci da discoteca, Franco la cinse strettamente e iniziò l’immancabile Impuntamento, che lei fece mostra di gradire molto. Dalla finestra aperta arrivò il primo vento davvero caldo di quell’estate, che dette ad entrambi la certezza di essere vivi, e la promessa di altro tempo ancora, tutto per loro.

Di solito Franco faceva subito la doccia al ritorno, perché non voleva appesantire le gambe e per sciogliere i muscoli; ma quella sera la fecero in due, e solo parecchio tempo dopo.

***

Il giorno dopo Sandra si svegliò con l’idea di portare un regalo al vecchio, qualcosa di eclatante per ringraziarlo, ma le vennero solo idee strampalate. Tipo la granita al caffè: l’unica volta che l’aveva bevuta le aveva fatto schifo. Pur di lasciare un bel ricordo, non le importava di sembrare fuori luogo. A metà mattina, esasperata, scrisse su un foglio «Vaffanculo!» a lettere cubitali. Subito dopo lo strappò in frammenti piccolissimi e lo buttò nella busta della carta, perché nessuno potesse leggerlo.

Allora si ricordò il sogno che aveva fatto: Carla, capelli fulvi e sorriso aperto, guida a velocità folle per strade strette che si snodano sotto un’enorme catena montuosa, fatta di terra tenera, come appena rivoltata; Sandra ha paura perché è già stata lì e sa quanto sono pericolosi quei tornanti e che si può facilmente finire dentro un burrone, glielo dice ma Carla non le dà retta, anzi la prende in giro;

Sandra si fida e stende la schiena sul sedile; si fermano per mettere benzina, ma ci sono altre macchine alla pompa, perciò sono costrette ad aspettare ferme a lato della strada; soltanto venti centimetri di auto escono dal parcheggio del distributore e invadono la carreggiata; arriva una poliziotta, battendo la paletta ossessivamente, per provocarle; Sandra suda, cerca di aprire lo sportello per andare via, verso il declivio che intravede all’angolo della strada, pieno di mucche che ruminano placidamente, ma lo sportello è bloccato e lei diventa rossa e respira male; c’è qualcosa che non va nell’auto, non ha detto niente perché poi devono tornare a casa e lei da Grillo Parlante non ci torna. Carla esce dall’auto, discute con la poliziotta che continua a ripetere che farà una multa per divieto di sosta e si ostina a sbattere la paletta sul palmo della mano (per provocare lei, sicuro) e ha una ferocia nello sguardo, la ferocia dell’ordine da mantenere e del silenzio da serbare, ma tanto lei da Grillo Parlante non ci torna, costi quel che costi, piuttosto... Carla è sopra la poliziotta, che è finita a terra e rantola sotto i calci e gli sputi; adesso anche Sandra la aiuta, fiera di lei; Carla dai capelli fulvi e selvaggi, scompigliati dal vento umido di quella terra antica; insieme a loro adesso ci sono altre Amiche di altri tempi, altre Sorelle, e tutte insieme gridano lo stesso osceno e liberante Vaffanculo!

Da sveglia aveva ripetuto in tono minore il sogno. Un gesto minimo, soltanto per lei. Come se una parte di sé ridotta a un fantasma si fosse per un attimo incarnata. Delibò il gusto, da tempo non provato, di frammenti che si aggiustano.

***

Uno sciame di vesponi famelici le tolse tutto l’entusiasmo; era impossibile mangiare in terrazzo, con quelle bestiacce che si tuffavano nei piatti. Quando scese nell’appartamento, in mano reggeva una bottiglia di birra tiepida.

Il vecchio – Mario, si presentò, porgendole la mano – l’accolse con gioia. La birra nemmeno la toccò. Parlarono invece. Il vecchio le disse che era stato chiamato perché conosceva la proprietaria. Sandra se la ricordava bene, una

signora incrostata di fondotinta e sempre accompagnata da un cane sporco. Alle riunioni di condominio, distaccata e con la bocca storta, non parlava con nessuno.

«Ma non si sente stanco, a lavorare così con questo caldo?», azzardò Sandra, subito pentita della domanda e provando ad aggiungere qualcosa.

«Vuoi dire che sono troppo vecchio?», la interruppe, ma dolcemente, Mario.

«Oh, no, assolutamente, ma...»

«Sono vecchio, è vero, però ho sempre lavorato, che faccio sennò?»

«Io non ho mai lavorato, invece...», disse Sandra con profonda vergogna.

Mario fu colpito dalla sua sincerità. Ebbe la delicatezza di attendere, intuendo che il discorso non era finito.

«Mi sono fidanzata con mio marito che ancora non avevo finito l’università, poi mi sono laureata, sposata, e alla fine era lui che lavorava, io stavo a casa», concluse con la gola secca Sandra.

«E figli ne avete?», chiese mite il vecchio.

«No... cioè, li volevamo, ma non ci sono venuti», rispose Sandra molto lentamente.

Mario aprì la bocca per dire qualcosa, ma poi lasciò perdere.

Allora lei proseguì: «Non ci siamo sentiti di affrontare visite mediche, esami, terapie, tentativi, delusioni, perciò... Niente, insomma." Sandra distolse lo sguardo e mosse qualche o verso la zona della stanza già ridipinta: era perfetta, di un bianco meraviglioso, senza bolle né sbavature.

L’uomo colse la sua ammirazione, le venne di fianco e disse: «Non dico per vantarmi, ma lavoro bene, no?»

«Oh, sì, davvero», rispose Sandra, che rivide in Mario Grillo Parlante e la sua fiducia nel lavoro fatto bene: una spinta a quadrare il cerchio, che aveva anche lei. Di quello slancio non era rimasto nulla, soltanto un buco, segnale di tutte le sue imperfezioni.

«Ora Franco, mio marito, sta a casa», proseguì. Pensava al suo lavoro, tanto distante dall’atto pulito e virginale di riaprire una casa alla vita. Una sequela di conti e scadenze, avendo sempre a che fare con gente volgare, titolari di aziende mezze truffaldine e mezze traballanti che si lamentavano costantemente del governo e delle tasse. Un mondo senza vita né respiro, che per giunta l’aveva risputato via, come niente fosse. La Commercialista Suprema nemmeno si era presa la briga di licenziarlo direttamente. Sandra ricordava bene un capodanno in casa sua. Avevano ato la nottata arroccati sul divano, a guardarsi l’un altro imbarazzati. Solo una volta erano riusciti a ridere di nascosto, lei e Franco, quando avevano lasciato scivolare in un vaso la Salama da Sugo. L’idea di accostare la bocca a una vescica morta li aveva sconvolti. «Sono dei cannibali», aveva sussurrato lei.

«Ma perché non riprovate con un figlio, sei ancora giovane... il lavoro poi, adesso, lillina, non ce l’ha nessuno», riprese il vecchio, ansioso di trovare un modo per consolarla.

A sentire quell’appellativo che per lei era infanzia, fragilità, speranza (così la chiamava Grillo Parlante, quando la trovava che piangeva per qualcosa), pensò che più che fare figli erano loro che avevano bisogno di un padre, soli e orfani di non si sa bene chi. Prese la mano ruvida di quel papà-orco, affidandosi tutta a chi aveva preso il posto degli amati ragazzi; lo guardò negli occhi, liberò una lacrimona da bambina, da troppo compressa, e poi sorrise imbarazzata. Mario pensò a sua figlia, da poco lasciata dal marito, e alle vite della gente, sempre più sfilacciate, come pezzi di spago usurati e manchevoli.

«Mi aiuti a finire quell’angolo lì, Sandra? C’è ancora un po’ di muffa.»

***

Non cala mai il sole, si intravede anche dalle tapparelle abbassate, una mano che spinge per entrare nella stanza: le ombre pulsano insieme al battito costante delle onde.

Il cubo oscilla nel mare invisibile.

Sandra è sola, cerca di aprire le braccia per reggersi alle pareti mentre il rollio le dà la nausea; Franco è uscito per andare al lavoro e tornerà solo per cena, lei ha tutto il tempo per sé, tutta l’estate per sé; basta solo che aiuti il nonno a reggere

la punta dell’ombrellone sennò scivola via e sbatte per terra.

Ieri sono caduta della bicicletta, ma non ho perso l’ombrellone, sono stata brava, me l’ha detto anche il nonno

E’ entrata una lucertola, non guardarla, sta impietrita al davanzale a fissarla, muove la gola, freneticamente respira, non guardarla, sembra morta ma è pronta a saltare, e dopo resta attaccato alla pelle il suo viscidume, guarda che hai combinato, ma non ti vergogni?

Devo tener nascosta la pancia, la copro con le mani, ecco

E’ venuto il babbo ed è rimasta la calce sul letto, un’impronta che non va più via, Sandra ne ha ancora un po’ sotto le unghie e sul palmo della mano. E’ riuscita ad aiutarlo, stavolta. Dovevano costruire una cuccia per il loro cagnolino, ferito da una macchina, tremante, con il pelo bagnato, ancora vivo però, sì sì, una casa per il cagnolino, con gli occhietti allagati di paura e dopo uccideranno la lucertola, no, mica io, la deve acchiappare il babbo, a me fa schifo

Smetti di pensarci, e le parole scorrono sulla parete che sfuma via. Ancora le onde, ancora gli spruzzi ventosi, e Franco cerca di venire da lei, quasi nuota nell’aria umida. Contro le pareti il vapore si condensa e diventa colla, un odore chimico che stordisce, come quello della vernice fresca. Sandra si mette a scavare nella pancia, quasi incosciente: sotto alla pelle trova un impasto di cose ignote, a stento coperte dall’ombelico.

Che schifo, sono piena di lucertole, ho le lucertole nella pancia che mi guardano e non smettono di fissarmi

La nausea è ata ormai, la mamma ha steso i lenzuoli fuori, a bere la luce che oltrea le tapparelle, e sotto il suo corpo il materasso respira quietamente: intorno c’è l’odore di bucato appena asciutto, lavato dal sole. Sandra ancora timorosa fa per sfiorarsi la pancia: le resta tra le dita la vernice fresca, un primo strato di bianco purissimo. Via tutte le imperfezioni, anche le piccole. Il candore rassicurante la sigilla tutta.

Ma ne ha messa troppa. Il panico le ingoia il respiro, la smania di buttare tutto, di fare pulizia, anche se la pelle brucia, infiammata dagli acidi. Potesse respirare, nel bianco scavarsi un cubo e rintanarsi dentro, fresca e rigenerata.

Quand’è che ho cominciato la devo smettere la devo smettere sennò dopo è tardi fammi tornare indietro ti prego riprendimi con te

Nel cubo la lucertola dorme, ravvolta in sé, succhiandosi nel sonno la coda, mentre le pareti gocciano vernice fresca e insieme al battito delle onde tutte le altre imperfezioni scorrono via.

L'INCONTRO

Il vento gli strappa la faccia, trascinando con violenza la pioggia sporca. Le nuvole livide sigillano i palazzi nel gelo. Mentre cerca di proteggere, abbracciandolo, lo zaino già zuppo, nota una macchina arrivare con una lentezza funebre e i fari bassi. Dopo averlo superato, l’auto accosta poco più avanti e si arresta.

Luca fa pochi i, vacillanti eppure decisi. Più da vicino intravede la sagoma ignota di un uomo. Decide di superare l’auto. L’uomo è poco più di una macchia scura quando lo guarda con la coda dell’occhio.

L’uomo accende una sigaretta dal cerchio livido dell’accendisigari e carica il gesto di un significato sfuggente; poi si mette a fumarla con una calma esasperata. Luca immagina che lo sguardo dell’uomo sia fisso su di lui, incrollabile, e mandi un luccichio nel buio, ma dalla sua posizione aderente al muro non può vederlo bene. Nonostante lo spavento, finisce per voltarsi però distingue soltanto l’anello della sigaretta ondeggiare e il fumo sollevarsi appena dal nero pastoso. Il viso dell’uomo è nascosto dietro quel velo. Per Luca l’uomo è una figura fantastica, che esiste per un momento ed è pronta a svanire. Si chiede come sarà il suo volto, se gli piacerà, e se le sue mani lo accarezzeranno.

La pioggia è cessata, le rare macchine al di là del vicolo scivolano sull’asfalto ancora bagnato, lasciando scie di rumori marini. Luca ha paura di essere stretto in un meccanismo tenace. Si sente un ingranaggio fissato alla catena ma non ancora oleato. Pur essendo così giovane, avverte le cose in anticipo, come se le avesse già provate.

Luca bussa al finestrino della macchina. L’uomo fa calare il vetro. La pioggia

cessata ha lasciato un calco muto nell’aria, una traccia del precedente frastuono. Bisogna cedere, abbandonarsi alla forza del cielo, che adesso è bucato da stelle in continue ferite, lacerazioni e ulcere. Luca vuole essere schiacciato e ha deciso che sarà l’uomo il suo sicario, l’artefice della sua dissoluzione. Bisogna pulire la macchia, raschiare via dall’asfalto l’alone.

Quando l’uomo, ancora senza volto, soltanto un corpo dagli attributi essenziali, si palpa in mezzo alle gambe, Luca sa che la resa è necessaria. Entra in macchina e la paura è scomparsa, resta solo una languida spossatezza.

Abbracciami, fammi entrare nelle tue braccia, che mi perda, bambino triste faccio sogni immensi che non bastano mai a colmare le ore slabbrate, il papà è duro e puntuto, ferisce con le scapole sporgenti, salendo le scale le chiavi tintinnano e siamo schierati a tavola, al nostro posto in attesa, il gerarca erà in rassegna le truppe, il professor nero clericale controllerà le unghie sporche le laverà le annegherà nella tazza del cesso, lo sciacquone gorgoglia e finisco giù, tra i topi e la puzza di piscio, finalmente adeguato.

L’uomo non dice una parola, getta via la sigaretta che finisce in una pozzanghera e sorride soltanto, ma senza calore. Prende la mano del ragazzo e con decisione se la mette sul cazzo. Slacciando i pantaloni a fatica, Luca aspetta il momento prediletto, la sorpresa della carne che appare per la prima volta e sboccia come un fiore raro.

«Un bacio, posso?»

«E succhia!»

Datti da fare Luca, fa’ i compiti bravamente, con diligenza, se sei buono ti metto la polverina che toglie il dolore, distesi sul letto non c’è nessun altro, è il nostro segreto, fa’ il bravo, sii buono, siamo noi soltanto sul letto di carne e il dolore è scomparso.

***

Il calore si raggela, di nuovo i corpi come le anime restano soli, al vento freddo.

Poi bevvero e fumarono, senza parlare mai.

Si ritrovarono insieme nel letto, nudi e indifesi, senza che nessuno dei due sapesse il nome dell’altro, come una strana coppia di marito e moglie in un mondo rovesciato al fondo di una bottiglia. L’uomo si addormentò presto, distrutto. Ma il ragazzo, sperso nel buio straniero della stanza, non trovava nulla a cui attaccarsi e temeva di scomparire. Allora socchiuse gli occhi.

Il babbo al mare, buffo e scattante, corre verso le onde pazze. Giornata di fine agosto, piena di nuvole. Un riparo d’ombra accanto alla sua pelle fresca, gli solletico i capezzoli rosa che diventano più duri ma lui non vuole e mi dà degli schiaffetti ridendo. Il suo ombelico profondo che ci può entrare un dito e la sua camminata sciancata nelle eggiate dopo cena e la mamma che si immerge con la massima circospezione e soltanto fino ad un certo punto perché non vuole che le si bagnino i capelli e tutte quelle giornate interminabili e zeppe di luce e sui letti a castello voci di ragazze prima di cadere nel sacco del sonno. Disteso sulla tela ruvida del lettino gli stiracchio i peli morbidi del petto ma lui non vuole e poi l’estate finisce subito, il riso cade a terra e il babbo è scomparso, qualcuno l’ha rubato

L’uomo già russava, sprofondato a gambe larghe. Riposava soddisfatto e tra le labbra socchiuse si apriva un leggero sorriso. Il ragazzo poteva appoggiarsi alla soffice pancia dell’uomo senza pericolo e ora, al sicuro, sapeva che il sonno sarebbe arrivato presto. Anche il babbo si addormentava subito e russava. Quando la mamma non c’era perché era andata a fare la notte all’ospedale, Luca aveva spiato al buio della camera accanto la marea crescente di quei misteriosi suoni del corpo. Nello stesso modo la melodia del respiro dell’uomo lo riempiva di dolcezza e stupore, come fosse un linguaggio d’amore nascosto al giorno. Quel suono si fondeva ai lunghi gridi degli uccelli notturni e ai guaiti strani del cane fuori nel gelo e rendeva la stanza familiare.

Il babbo lo aveva rapito e portato nei boschi, dove lo aveva preso con violenza, contro il ruvido tronco di un albero, per renderlo uomo. Ma forse era solo più triste e pieno d’amore per le stelle. Cadde nel sacco del sonno senza accorgersi, come se una mano ignota l’avesse strappato via

nella città morta cammina sul ponte solitario, l’asfalto è morbido ai i come l’erba, si sente più in basso l’acqua del fiume che scroscia, si sporge dal parapetto invaso dal vento, sul greto deserto la gente è distesa a mucchi sotto la luce nazista implacabile, l’acqua del fiume scroscia e un’infinita nostalgia lo invade, il fiume canta le dolci parole dei morti,

siamo noi soltanto, noi due soltanto nel letto di carne

NELLE ZONE PIÙ SCURE

1. Me con me. Come sempre

Chiudo gli occhi per dormire, ma sento ancora, come se tutto accadesse di nuovo, il fruscio dei suoi capelli contro le mie gambe: uno sfrigolio monotono che si fa beffe di me. Avrei dovuto strapparglieli tutti, uno per uno, quei capelli soffici di balsamo che lava con cura maniacale. Li può lavare anche cento volte, resterà sempre la Zozza. Come me. Siamo marchiati. Non avrei dovuto permetterle di correre in lacrime da te, avrei dovuto strozzarla e basta.

Mi alzo, tanto è impossibile dormire; corro a piedi nudi al computer e torno a fissare lo schermo. La mia erezione si riflette nel riquadro della cam. Mi bruciano di nuovo gli occhi; il cazzo non lo sento più. Può darsi che a forza di sfregarmi spremerò l’ultimo orgasmo sulla scrivania. Magari dopo aprirai la porta, tornerai da me e mi avvolgerai in un sonno senza più desiderio.

Ieri ho visto in cam un ragazzo con il viso coperto da un sacco candido. Attraverso il tessuto il suo respiro si sentiva appena, regolare e infantile. Il respiro di chi ha trovato sollievo dopo averlo cercato a lungo. Doveva fidarsi ciecamente del suo master. Era giovane, aveva un corpo spigoloso e acerbo. Tra i due non c’era volgarità o imbarazzo ma un’intimità come tra padre e figlio. Eppure il buco dilatato del ragazzo mi ha messo il terrore: un nulla che continuava a gridare il suo spalancato nulla. Anch’io dopo aver gridato vedrò solo bianco. Il bianco luminoso e calmo del tuo ritorno.

Se ti ripenso intravedo una forma vuota, la cui assenza fa comunque male. Ho sempre avuto dei problemi con la realtà. Non riesco a delimitarla, mi scappa in contorni senza colore. Sono tornato alle parole, come sempre. Ho pensato di non

avere bisogno di vivere, di restare fuori dal mondo a deliziarmi con parole che non legge nessuno. Ora non so se ce la faccio, perché sono troppo pieno di odio. L’erezione che mi affligge tutto il giorno nasce da quest’odio. Il mio corpo sa che io vorrei divorare il mondo.

In ogni caso non faccio paura a nessuno. Una delle mie icone private mi ha appena detto che sono un sottomesso nato. Lo capisce dallo sguardo. Mi ha chiesto: «Mai provato il pissing?» Se anche persone che non conosco si fanno idee del genere su di me, vuol dire che è vero. Dopo aver chiuso la cam, guardo a occhi spalancati lo schermo azzurrino, che mi rimanda una schiacciata infelicità.

Se non penso a te ricordo mio cugino. Pure lui tra gli scomparsi, i miraggi del mio personale deserto. Mio cugino è perso per me da tempo. E’ entrato in un’altra vita e non ho più maschere da mettergli. Ripensare a lui dopo tanto tempo fa parte di un piano logico eppure non deciso da me. Accade, ma non so se sia stato io a cominciare e quando. Le uscite sono bloccate e mi trovo a rincorrere un me stesso che è più avanti di dove sono io e pretende che esegua i comandi.

Anche il mio ingresso nel mondo delle cam porno sembrava casuale e invece sono già nel meccanismo. Come sempre. La scena è limitata allo spazio dell’orgasmo e ogni azione tende a quel fine. Ci sono un prima e un dopo separati in modo nettissimo. Prima c’è l’apice di un ponte che coincide con l’erezione: il raggio del tuo desiderio abbraccia tutti i corpi che vedi e da cui sei guardato. La galleria di specchi si allunga fino all’invisibile e l’unisono sfiora l’onnipotenza. Posso essere chiunque e quindi non sono nessuno. Una democrazia estrema, che ti libera dal peso di un’identità da difendere.

Quando però l’onda rifluisce, le immagini si afflosciano e le vedo stese davanti a me nella loro miseria. Niente più di un grottesco cabaret. Allora bisogna far ripartire la giostra. Ho imparato l’importanza di rimandare il più possibile

l’orgasmo. Mantengo l’erezione con una masturbazione a singhiozzo e mi trattengo ogni volta che sono vicino al limite: non è facile, ma ci si può arrivare con la pratica.

Gli americani sono degli specialisti: si mettono lì, già nudi e in tiro, con le loro creme e il popper che sniffano a cadenze regolari, e vanno avanti ottusamente per ore. Confesso che sono i miei preferiti. Gli uomini che stanno in cam tutti vestiti nelle loro poltroncine, magari a fumare, sono i peggiori. Vogliono parlare, si vogliono sfogare. C’è una schiera di sposati, di fidanzati che esibiscono le loro crisi e i loro sensi di colpa. Sono di una noia mortale.

E’ quando sono nudi che mi interessano. Prima sono superfici piatte, poi si tolgono i vestiti e mi aggrediscono con la loro pienezza. Una nostalgia che non so definire mi invade e me li trovo attaccati come una seconda pelle. Ma il pieno dei corpi risuona di un vuoto incolmabile. Come sempre.

Voglio sentire il sapore di quella carne ma anche finire nella loro bocca e mischiarmi alle vene che scompaiono nell’ignoto. Se ingoiassi tutti i corpi diventerei enorme, esplodendo potrei fondare un universo. Sarei Dio. Averli così vicini e non poterne godere è un esercizio spirituale. Sono arrivato al punto che non voglio venire più. Voglio essere sempre pieno. Voglio. Voglio. Voglio.

In un ricordo mi ritrovo in piscina: sto semidisteso lungo il bordo, guardo accecato dal sole un uomo alto con le spalle solide e il mento aguzzo, la barba ruvida. Insegna a nuotare alla figlia piccola, l’aiuta, l’incoraggia. Lei sguazza agitatissima, prova a stare a galla muovendo freneticamente i braccini; ride per gli spruzzi e la luce frantumata nell’acqua; apre la bocca, colma dello stupore di ritrovarsi aggrappata al suo fulcro, al perno del mondo. Il suo corpo minuto e fragile si schiaccia a quello immenso del papà–amore. Resto sbalordito da quella mescolanza di bellezza e orrore. Il padre tiene la figlia fissata al suo desiderio, per questo ha l’ansia di proteggerla. La figlia sogna il sapore perfetto del corpo del padre. Oppure sono io che ho un mostro dentro.

Quando sei scomparsa, prima di te e dietro di te c’era già la scomparsa di mio cugino. Allora ero ancora giovane, avevo solo un sospetto. Adesso ho capito: io non ho sentimenti come gli altri (se li hanno davvero), non li ho mai avuti. Non c’è gioia in me, non c’è tristezza, non c’è amore, non c’è odio, non c’è soprattutto comione. Ho solo stati fluttuanti che a tratti si addensano e si fingono veri. Dove c’è desiderio non c’è sentimento e io sono una rete di desideri senza centro né meta. Tutto è estremo in me, rigido e inaccettabile. I desideri mi fanno a pezzi e loro stessi sognano di fare a pezzi il mondo.

Me e il mondo. Anzi, me con me. Come sempre.

2. Io e mio cugino. Una volta

Io e mio cugino avevamo una stanza segreta una volta. Potessi rifondarla dentro di me, farne un tempio. Ritroverei i nostri corpi stretti com’erano prima delle parole.

Nella nostra stanza c’erano le sigarette con il sapore della polvere. Il nonno era morto da poco, ma già da un pezzo non poteva più fumarle. Erano finiti i tempi in cui si nascondeva dietro la baracca di lamiera, per sfuggire alla nonna che gli voleva togliere quegli ultimi piaceri. Era coraggioso il nonno, non aveva paura del cancro o del dolore. Preferiva sentire il petto che si strappava a ogni boccata, piuttosto che languire nella mancanza delle sue sigarette. Gli sapevano dei tempi della Libia, quando credeva di aspirare insieme al fumo anche il vento del deserto che non aveva mai visto ma sentiva vicino.

Le ultime sigarette, le Esportazione senza filtro, giacevano abbandonate in un canterano di legno chiaro fitto di striature. Il pacchetto celestino era ormai

scolorito, le cicche avvolte in una spessa carta bianco sporco. L’odore del tabacco era forte ed entrava per corridoi del cervello sconosciuti. Quando mi ci portò per la prima volta, mio cugino aveva un’aria misteriosa: sembrava che stesse per aprire il baule del tesoro. Quattordici anni, eppure serbava i sorrisi e l’ampiezza di sguardo che io avevo già perso. Manteneva perfino le durezze di un animale nato da poco. I cassetti del canterano a ogni mossa cigolavano ma dovevamo stare attenti a non farci sentire. La zia Silvia mi ha sempre agitato, era diversa da mia madre. Non sembravano sorelle. Dietro i suoi sguardi troppo affabili intuivo una zona piena di minaccia.

A fumare ho iniziato io, benché il pacchetto l’avessimo tenuto in mano diverse volte e qualche sigaretta per ridere l’avessimo appoggiata al naso. Mi sono deciso e ne ho accesa una: meraviglioso, niente tosse, soltanto un calore che entra e scorre leggero vicino alle tempie. Finite le Esportazioni, le provammo tutte. Mio cugino faceva l’esperto, per me erano tutte uguali. A me bastava non sentire più l’aria noiosa che attraversa i denti senza peso. Il fumo era denso. Mio cugino conservava di nascosto i pacchetti vuoti che facevano l’effetto di un arcobaleno, messi l’uno accanto all’altro.

Nella nostra stanza eravamo solo noi due e non poteva succederci niente. Fuori era diverso, bisognava districarsi tra strategie e malignità. Mi sentivo odiato anche nel breve tragitto da casa al minimarket, come se un alone mi evidenziasse. Al chiuso delle pareti avevo trovato la mia tana per nascondermi, come i gatti feriti. Non mi chiesi, io che sono sempre stato un maestro di isolamento, perché anche lui si ritirasse dagli altri per stare con me. Il tempo insieme ci teneva legati senza reali affinità reciproche e la nostra familiarità non era fatta di parole. Però ci studiavamo, vergognosi e allarmati l’uno dall’altro.

L’accesso alla nostra stanza era complicato: si doveva are dalla mansarda di mio cugino, incunearsi sotto il lavabo e strisciare, puntando sui gomiti, in un cunicolo pieno di polvere e oggetti inutili. Col fiato corto si arrivava infine dall’altra parte della mansarda, che faceva parte di un appartamento vuoto al secondo piano. Da qualche anno lo zio giovane e ancora scapolo lo stava

stancamente allestendo, mentre viveva al piano terra insieme alla mamma. Lavoricchiandoci a tempo perso, teneva in vita apparente quel moncone di appartamento che durante la settimana era deserto.

Lì era la nostra stanza, imbevuta fino al soffitto di fumo che ci impregnava i vestiti e da cui ci purificavamo con lunghi giri in motorino; al solo pensiero che la zia potesse intuire che fumavamo mi prendeva il terrore. Ma là dentro Silvia non entrava mai. Valeva la pena di andarci solo per scomparire dal raggio del suo sguardo che vigilava ovunque. Per la zia c’era sempre un pericolo che aleggiava, al quale rispondeva con un gigantesco no. Quella era la stanza dei nostri timidi sì. Dicemmo sì al fumo, dicemmo sì ai nostri corpi.

Mio cugino aveva nei confronti del sesso una schiettezza rapida e naturale; io invece nelle mie fantasie ero contorto, ero una donna e insieme un uomo, non sapevo se penetrare o essere penetrato. Fu lui a propormi di vedere insieme un giornaletto porno, io accettai e lo seguii nella stanza, con la febbre nelle mani mentre sfogliavo le pagine. Fu sempre lui che con sguardo serissimo disse: «Oh, io n’n ce la fo più!» e tirò fuori un cazzo da uomo, possente e polposo, che strinse con decisa fermezza. Lo guardai con occhi spalancati smanettarsi e seguii gli schizzi svolazzare da tutte le parti, mentre arrossivo per l’imbarazzo. Il mio modo di masturbarmi in confronto al suo era vergognosamente infantile: giravo un dito dentro la pelle semichiusa e strofinavo fino all’orgasmo. Soltanto più tardi seppi che il cazzo non mi si apriva del tutto per colpa di una fimosi, in quel momento non feci nulla e mio cugino ci restò male perché non ero stato suo complice. Mi parve però che nel suo sguardo ci fosse una certa comione e perfino della tenerezza. Tornato a casa, provai a usare la sua tecnica ma faceva un male dannato. Ricorsi allora al mio antico strofinamento. Dopo sentii di aver tradito il mio genere con pratiche da donna.

La primavera ormai ci spingeva all’aperto. Compravamo la birra che costava meno di tutte e ci fiondavamo in una viuzza di campagna, poco oltre una casa mezza diroccata dai vetri sfondati. Lì ci ubriacavamo e sentivamo cantare le foglie della nostra quercia protettrice. Il vento era ancora fresco, soltanto la luce

era a tratti già calda. Mi rimbombava per tutto il pomeriggio in testa la voce di Jim Morrison, che ripeteva uno dei pochi versi che conoscevo, break on through to the other side. L’altra parte; chissà qual era per me. Io però la cercavo e la volevo diversa il più possibile da quella in cui stavo. Quando ero da solo, mi proteggevano melodie e visioni amiche; in mezzo agli altri, le cose si storpiavano. Trovavo il marciapiede sconnesso, movimenti contro tempo, vestiti fuori moda, come un loden bordeaux con zanne finte al posto dei bottoni. Anche il mio corpo era informe e ignoto perfino a me stesso. Poi arrivava mio cugino e mi diceva: «Andiamo!» Non potevo che seguirlo come un bambino che s’affida al suo papà e gli prende la mano.

Un giorno me la prese lui sul serio, la mano, per aiutarlo a venire. Non stetti a pensare, lo feci e basta. Mi piacque che una parte del mio corpo si trasformasse in bacchetta magica. Dopo che grazie a me ebbe goduto, mi disse per prendermi in giro: «Se’ bravo, Pietro, l’ se’?» Io mi sentii così fiero che non avrei voluto lavare più la mano su cui erano restate tracce di lui. Quando la cosa si ripeté sempre più spesso, non mi importava di non ricevere niente in cambio perché la tristezza la lasciavo al dopo, allo sfregamento solitario che mi aspettava al ritorno a casa. Capii di che materia fosse fatto il dolore quando sentii lo slancio di travasare in lui e insieme l’impossibilità di farlo.

Nel video di Human Behavior, il mio preferito di allora, Bjork è una donnabambina infilata in una fiaba strana. Persa in un bosco acciaccato e stretto, ha lacrime di bambola fisse alle ciglia e cade nel fiume ogni volta che prova a volare via dai rami; allora canta trasportata dalla corrente dello stesso blu, troppo elettrico per essere vero, delle acque dei presepi. Seduta al tavolo della cucina, dentro la sua casetta tutta di legno, aspetta qualcuno che le porti da mangiare; una falena enorme cade giù dal lampadario e le vortica dentro il piatto vuoto. Quella sola visitatrice, finita lì dalla luna gigantesca, arriva a sfamarla e farle compagnia. Le figure che appaiono e si trasformano l’una nell’altra sembrano emanazioni della donna-bambina, più volte ne assumono i tratti. Non esiste niente al di fuori della sua mente: il bosco e i suoi abitanti sono semplici sagome di un fumetto costruito apposta e sfuggito al suo controllo. Non a caso le lunghe maniche del maglione di Bjork si avvitavano come quelle di una camicia di forza.

Sarebbe bastato davvero poco per allontanarmi del tutto dagli altri e ritrovarmi anch’io in quel bosco insieme a tanti pupazzi travestiti da me, divertenti e patetici. Senza mio cugino il mondo si frantumava in schegge minute e avrebbe fatto presto ad accartocciarsi tutto. Soltanto nella nostra stanza, raccolto nella sua bocca chiusa - non parlava quasi mai - vivevo nella pienezza. Quei momenti erano così rotondi che negavano del tutto la linea del tempo e si avvolgevano nella pancia: lì dentro accadevano realmente le cose.

La linea riprese presto a correre dritta e mio cugino ne seguiva la scia, lasciando indietro me e le mie paludi. Io, che sembravo il più serio, il più maturo, non riuscivo a uscire dal grembo caldo delle nostre pareti; soltanto lui, che apparentemente era poco più di un bambino, ce l’avrebbe fatta.

«A te la Sabrina te piace?»

«Chi?»

«La pocciona.»

«Ah! Boh, non lo so.»

La «pocciona» abitava di fronte a una sua cugina di secondo grado che spesso andava a trovare. La domanda mi irritò molto; non capivo proprio che c’entrava lei con noi due, con la stanza.

«A me me eccita se ce penso, guarda che roba!»

«Vedo, vedo...»

Insomma la mia mano era un surrogato. Ai miei occhi invece mio cugino occupava con il suo corpo non solo la nostra stanza ma l’intero orizzonte. Mi faceva rabbia che lui non se ne rendesse conto e cercasse di fuggire. La cosa ignota che ci impastava insieme non si poteva evitare, era una pietra che ci schiacciava entrambi. Era assurdo opporsi alla pace disposta per noi. Più osservavo e analizzavo quel che succedeva, più ero preda di un dolore omicida. Facevo sogni di violenza pura, pieni di sangue e arti mozzati.

Quando prendevamo l’autobus per andare a scuola, mio cugino si metteva seduto come prima accanto a me, ma teneva gli occhi inchiodati alla pocciona. Era il suo modo di farle capire che la desiderava. Patetico anzi ripugnante. Presi anch’io a fissarla con tutta l’intensità possibile per farle scoppiare la testa.

Mio cugino diceva sempre meno: «Andiamo!» Il mio strofinamento solitario era l’immagine concreta del girare a vuoto. La mattina mi svegliavo con il sapore del sangue e le mascelle doloranti, perché digrignavo i denti nel sonno.

Una notte sognai di tagliarmi il cazzo con delle forbici da sarto. Non sentivo alcun dolore, lavoravo con grande attenzione e canticchiavo come mia nonna quando faceva i lavori di cucito. Dopo lo mettevo in un cestino di vimini e lo portavo a mio cugino; lui prendeva il regalo senza dire niente, io mi sedevo di fronte a lui nella poltrona del salone, cercando con imbarazzo di tappare il sangue che colava copiosamente dal buco. Dietro di me una donna che non vedevo, ma che sapevo essere Sabrina, rideva sguaiatamente. Mi sentii toccare la spalla e allora mi svegliai, indeciso se uccidere lei o me stesso.

Non feci nessuna delle due cose, semplicemente avo le giornate ad ascoltare piangendo la colonna sonora di Lezioni di piano e ad aspettare che mio cugino mi chiamasse. La telefonata non arrivava mai e allora provai ad andare io da lui. Lo trovai al computer che scriveva in una chat, mi salutò senza guardarmi perché teneva gli occhi incollati allo schermo. Rideva da solo e si divertiva con sciocche frasi che non avrebbe mai pronunciato; addirittura salutava con «hola». Non c’entravo più niente con lui. Mi aveva gettato in mezzo agli oggetti inutili del cunicolo che portava alla nostra stanza, ormai vuota. Tornai a casa e mi tirai la coperta sulla faccia; scoppiavo dal caldo ma almeno il nero fasciava il mio corpo. Il buio e il silenzio mi divoravano e perciò stavo meglio.

Senza la guida di mio cugino non sarei mai potuto arrivare dall’altra parte. Di lui mi era rimasto in bocca un pezzettino di carne e avo il tempo a succhiarlo, anche se lasciava un sapore amaro. Scrivevo versi altrettanto amari:

Una marionetta triste: muoveva in silenzio scatti di danza sotto lune di carta; una lacrima fissa al suo occhio. Talvolta, i fili recisi, s’accasciava a terra, ma nessuno la tirava su. Talvolta il suo cuore di legno e cenere

batteva più forte, ma nessuno lo sentiva. Perché era soltanto una marionetta triste.

Dalla finestra vedevo arrivare Sabrina. Sentivo il borbottio inconfondibile del suo motorino e allora mi mettevo dietro le persiane a spiarla. Il cane abbaiava, lei si toglieva il casco facendo uscire impetuosi i capelli neri, la luce si accendeva nelle scale e mio cugino le scendeva incontro. Speravo che dal marciapiede salisse per le pareti una colonna rovinosa di fuoco e li ingoiasse.

Se ripenso al me antico non ho ricordi precisi, perché dietro le mie azioni ritrovo sempre l’affanno di voler essere altrove. Già da piccolo mi nascondevo spesso per gioco sotto il tavolo e fantasticavo di sparire o di esistere a metà.

Tra le tante volte nella stanza ricordo però la Volta Regina: era una larga sera che negò pareti e spazio, to the other side. Mio cugino mi fece il più inatteso dei regali: prima si spogliò senza fretta, poi spogliò anche me con gesti accorti di madre; infine mi piegò delicatamente di lato e sul pavimento si allacciò nudo a me nudo, il suo cazzo adagiato nell’incavo delle mie natiche. Restai non so per quanto con i sensi all’erta, finché capii dal suo respiro sommesso e regolare che si era addormentato. Gli cantai dentro di me le più dolci ninne nanne, che fe i più bei sogni, che ogni suo desiderio si avverasse. Distesi su una spiaggia luminosa e calma, sempre nudi, liberi, non ci saremmo lavati se non con l’acqua del mare, fratelli e sorella l’uno dell’altro e padre e madre. Dormi ancora, ti sento respirare nel mio orecchio, nel silenzio che pare intoccato.

Lo zio morì prima che l’appartamento fosse finito. Al suo funerale riuscii a piangere, mentre misuravo la distanza che mi separava da mio cugino, gli strati

di calotta artica che si erano frapposti tra noi due. Piangevo per la bruciatura che non sentivo più.

Poco fa ho trovato un vecchio gioco da tavolo con una clessidra dentro. La sabbia per l’umidità si è solidificata e non scorre più. In fondo a me tutto è già depositato. Mentre scrivo penso alla nostra stanza, orfana dei nostri corpi. Forse è ancora convinta di appartenere a un ordine eterno, deciso per noi. La nostra stanza è microscopica, si allontana in un lento sfumare. Io sono lì e questo me di adesso è solo un relitto.

3. Io e Valentina. Mai più

Valentina è una donna pratica, anche nei rapporti con agli altri. Io invece ho sempre avuto difficoltà: mi imbarazzo a telefonare, perdo i numeri, parlo poco o troppo, incappo in gaffes ridicole. Era lei che mi consigliava di chiamare uno che non sentivo da un po’ e mi ricordava le scadenze e gli appuntamenti. Grazie a lei potevo mantenere il lusso di essere distratto senza mandare tutto a rotoli.

Ma Valentina non è mai stata noiosa. Quando decide di staccare la spina del suo controllo lo fa gloriosamente. Una serata come le altre. In mezzo a chiacchiere stanche e qualche sbadiglio inizia a bere come una forsennata e la sua euforia si allarga dai capelli sciolti e divampa intorno a lei. Ride a bocca aperta con la testa all’indietro e i seni in vista, rutta, scoreggia, mette in burla ognuno e se stessa e alla fine seduce tutti.

Da ubriaca l’amore cosmico la spingeva a flirtare con tutti, però non mi dispiaceva. La mia gelosia era ben poca cosa. Se lei mi avesse chiesto di coinvolgere un altro nella nostra camera da letto avrei accettato. Qualche sera ho sperato che me lo chiedesse. Lei non avrebbe mai fatto la schifezza. Poteva infilare la lingua in bocca a un tipo di fronte a me perché ne aveva voglia, ma

non si sarebbe mai nascosta dietro un angolo del muro come me.

Insieme a Valentina hanno portato via la luce. I lampi dello schermo non eliminano il buio, sono sue innervature. o tutto il mio tempo libero rintanato nello studio con le persiane chiuse e la tenda tirata. Di giorno e di notte. Escluso dal mondo sto meglio.

Nessuno si è preoccupato del fatto che non la vedo più, anche se già tutti davano per scontato che ci saremmo sposati a breve. Così come nessuno ha notato il mio disinteresse limaccioso verso quello che mi circonda. Gli amici erano e sono tornati rapidamente soltanto amici di Valentina. A mio padre la notizia della nostra separazione l’ha lasciato indifferente. Eppure Valentina gli piaceva tantissimo, suppongo perché al contrario di me non aveva tanti grilli per la testa e gestiva bene il negozio di musica che i suoi le avevano affidato. Si comportava esattamente come mi sarei dovuto comportare io da tempo, anziché arenarmi in un debordante fuori corso. Mio padre ha sempre dato a Valentina il merito di avermi spinto a lavorare nel minimarket di famiglia; però secondo lui i benefici influssi che lei ha diffuso sulla mia vita proseguiranno anche se non stiamo più insieme. Dal suo punto di vista è molto semplice, conta solo lavorare e perciò una volta che ho iniziato a farlo sono sistemato per sempre. Adesso che sono solo va anche meglio, sto in negozio a tempo pieno e senza lamentarmi. La rassegnazione è l’ultimo regalo che lei mi ha fatto.

Valentina non solo ha continuato l’attività di famiglia, l’ha fatta risvegliare dal letargo. In un tempo in cui nessuno compra cd si è gettata nei vinili d’epoca e ha rischiato con successo. Più tardi nel piccolo spazio del negozio è spuntato un palco per i gruppi locali, presi da una galassia indie poco originale ma appetibile. Ha chiamato il locale Major Tom e si capiva subito il perché: un poster occupava da solo la parete dietro al bancone, Ziggy Stardust e i suoi languori decadenti. Superando lo scalino in arenaria si aveva l’impressione di entrare in una dimensione espansa: vegliati dalle icone degli anni ottanta alle pareti, tutti si sentivano più divertenti e persino più belli. Avvolta dalla grazia di tempi perduti, la gente sorrideva ordinando spritz, mojito, negroni, contenta di pagare cara la

sua ambrosia. In realtà le tante persone che affollavano quello spazio minuscolo venivano per essere toccati dal fascino di Valentina, non tanto per la voce di Ian Curtis risuonante a tutte le ore.

Mi sono sempre sentito distante dagli uomini che hanno un ascendente su di lei, musicisti filosofi intellettuali capaci di sciorinare a comando citazioni da libri di moda o racconti di concerti epocali. Le parole o le canzoni che amo restano sepolte in me, timorose di uscire alla luce, e resto sempre perplesso di fronte a un capannello di persone che parlano, ridono, trovano parole esatte per gesti esatti, si muovono a tempo e non incespicano. Perciò mi ha riempito di stupore che Valentina si sia avvicinata a uno sgraziato orso bruno come me. Tra tanti aggiornati parlatori si è andata a scavare una tana proprio nel mio silenzio.

«Tu sei uno che ascolta. Sei uno che mi ascolta», ha detto la prima sera che ci siamo conosciuti. Eravamo dentro la sua macchina, fuori dal capannone per concerti in cui ero finito per sbaglio. In quel periodo uscivo talmente poco che è un miracolo che ci siamo incontrati.

Valentina ha sottolineato l’unicità del pronome con un’espressione spaurita, come se i suoi occhi si stessero sciogliendo e cercassero un vaso in cui riversarsi. Io le ho preso la mano, promettendo con quel gesto che il mio corpo sarebbe sempre stato lì per calmarla.

Ebbi allora quest’immagine che naturalmente non le confidai: un grattacielo in fiamme, un fumo denso e nero che macchia il cielo alle finestre più alte, Valentina urla sulla soglia di una finestra, io mi stendo e le dico di buttarsi, di non avere paura, lei con fiducia si butta sulla mia pancia grassa come se fossi un materasso dei pompieri.

Le punte dei suoi capelli mi pizzicavano le guance, mentre Thom Yorke dallo

stereo della macchina cantava: «Now that you’ve found it, it’s gone. Now that you feel it, you don’t." Chiusi gli occhi. Da Valentina emanava un odore forte di fumo e sudore. Fui scosso da un sentimento a metà tra dolore e piacere. Soltanto un filo facile a spezzarsi mi teneva unito a lei. «I am a moth who just wants to share your light», cantava adesso Thom.

Non so perché Valentina abbia scelto di affidarmi una se stessa ignota al mondo come se fosse l’unica vera. Ho spesso pensato che imitasse la malinconia dei suoi idoli. Oppure la intristiva davvero vivere in un’epoca che non era la sua. Fatto sta che non appena eravamo soli la Valentina che si fiondava addosso alle persone lasciava il posto a una Valentina umorale e bisognosa e io dovevo dimenticare le mie paure per arginare le sue. Lei mi ripagava con una vigilanza costante, permettendomi di vivere in mezzo agli altri. Ne furono tutti contenti, soprattutto mio padre. In realtà lo scambio non fu equo, perché Valentina era diventata la mia anima e io avevo rinunciato docilmente a me stesso.

Uscivamo a cena come una coppia qualsiasi. Mentre i suoi amici chiacchieravano, io mi ritiravo in silenzio e osservavo con gli occhi di Valentina, ridevo con la sua bocca, bevevo con le sue labbra: non avevo bisogno di altro. Mi bastava che mi sfiorasse con il piede sotto il tavolo. Mi sono sempre trovato brutto, con lei mi sentivo desiderabile: guardavo il mio corpo allo specchio e mi accarezzavo immaginandomi che fosse Valentina a farlo. Pensavo che l’equilibrio sarebbe durato in eterno.

Per colpa mia e della Zozza l’eternità è fuggita, portandomi via con sé. Non riesco più a tornare indietro e riacciuffare ciò che ero prima di Valentina; quasi non ricordo più quali erano i miei gusti o le mie antipatie. Ma è giusto così, non si può spezzare l’ordine delle cose e farla franca.

La Zozza ha raccontato a Valentina ogni cosa per filo e per segno. Deve aver goduto all’idea di una colpa da espiare. Mi chiamò poco dopo: «Lei doveva saperlo, è terribile quello che le abbiamo fatto, è la mia migliore amica, ti rendi

conto!» Sarà stata contentissima di aver svolto un ruolo da protagonista nelle nostre vicende.

La Zozza è un parassita dal movimento lento e inesorabile e le sue vittime sono le persone che non capisce. Non sopporta l’anomalia che si permettono di costituire. Per lei non si può non amare Raf, non andare a messa la notte di Natale, essere così snob da ignorare C’è posta per te.

La Zozza ama i buoni sentimenti e le frasi d’amore delle canzoni di Radio Italia che ascolta tutto il giorno. La Zozza piange quando nel protagonista di una fiction vede riflesso Ricky, il suo amore immaginario da quindici anni. Le donne che realizzano le fantasie sono tutte puttane, a parte Valentina che sperava di convertire; del sesso ha un’idea contorta, un misto di immagini da fotoromanzo e orge infernali.

L’incontro con il Cammino neocatecumenale è stato fatale. Il suo senso d’inferiorità si è placato nelle braccia della comunità e le è apparsa all’improvviso una mamma ubiqua e sorridente. Una volta fusa nel grembo cattolico, la sua idea di sé è presto cresciuta: non era più sola, i Fratelli e le Sorelle vegliavano su di lei. Da quel momento le donne che avano di scopata in scopata le fecero pena. Sarebbero invecchiate sole, senza più la bellezza di cui andavano tanto fiere. Per lei era diverso: il suo Sposo incedeva dietro la curva della strada e lei lo aspettava trepidante alla finestra. Si sarebbero giurati eterno amore sotto l’ammiccante volta del cielo. L’amore vero, di Laura Pausini&Renato Zero, benedetto da Gesù e dai santi. Insieme ai fratelli del Cammino avrebbe avuto la rivincita finale su tutti gli arroganti, i fanfaroni, gli snob. La morale che le propinavano a costanti dosi le dava la riposante sicurezza di stare dalla parte dei giusti. Le proiettava davanti una meta oltre i suoi tentennamenti: una Famiglia.

Quando sono arrivato io la Zozza si chiamava Federica ed era la quieta bambina di tutte le mamme. Mangiava tutto quello che le veniva offerto, rideva di gusto

alle battute dei capifamiglia e loro se la contendevano. La sua presenza li tranquillizzava perché rendeva reale il mondo del Mulino Bianco e dei Migliori Anni, della nostalgia di casa e del brodo caldo di gallina al ritorno dal mare. Ma il buio faceva già parte di lei.

Ricordo benissimo il nostro incontro. Valentina, che conoscevo da pochissimo, mi venne a prendere insieme a lei in macchina. Ero entusiasta perché avevo visto da poco al cinema 2046 ed ero ansioso di parlarne. Non appena la vidi mi fiondai in macchina. Le trovai che litigavano sul festival di San Remo.

«Quella baracconata fa schifo, mi ha sempre fatto schifo. Canzoni orribili per gente orribile. Dovrebbero morire tutti», urlava Valentina, sputacchiando contro il cruscotto.

Federica si voltò verso di me per una presentazione formale, ma aveva un’espressione sconvolta. Mi salutò con un breve sorriso, disse il suo nome e subito dopo tornò a rimproverare Valentina: «Ma come fai soltanto a pensare queste cose? Sembri matta!»

«E tu certe volte sembri una donnina scema», sghignazzò Valentina, con la vena del collo gonfia per la soddisfazione.

Poi mi guardò complice dallo specchietto e mi chiese, con tenerezza commovente: «Come va Grizzly bear? Sempre a spippettarti?»

Dopo aver riso – mi fa male ripensare ai suoi occhi guizzanti – mi lanciai in un monologo sui ricordi interrotti e sulla straziante malinconia degli androidi, ma fui presto bloccato da un gelido commento della Zozza: «Mah, a me questa roba

da intellettualoidi snob proprio... io sono più nazional-popolare.»

La volgare aggressività di quelle parole, che non avevo mai sentito pronunciare sul serio, mi sconcertò. Era la prima volta che mi vedeva e già mi dichiarava guerra. Federica con me era già morta. Nella piega compiaciuta delle sue labbra era apparsa da subito la Zozza. Chissà perché mi odiò all’istante. Forse mi vedeva come una pedina imprevedibile nella sua fragile scacchiera.

Da quel giorno non fece che intralciare la mia amicizia con Valentina. Mi sfiniva con l’imposizione costante della sua presenza, anche solo telefonica. Magari sperava che troncassi io la relazione, visto che non era riuscita a screditarmi abbastanza da spingere Valentina a lasciarmi. E invece noi due stavamo sempre meglio insieme. Mi illusi che nulla avrebbe potuto cambiare i nostri sentimenti. Mi sentivo così sicuro che davo sempre meno attenzione alle manovre della Zozza e arrivai a provare comione per lei, per la sua desolata solitudine. Fu il mio errore, perché abbassai la guardia e il colpo, assolutamente inaspettato, mi arrivò in piena faccia.

Il trionfo della Zozza avvenne in un luogo degno di lei: il magazzino del minimarket nel forte odore di cipolla e sedano fradicio. Il locale è diviso in due parti: una più grande, con una vetrata che si intravede dalla strada, e un’altra più stretta e protetta da una rientranza. Quest’ultima dà attraverso una piccola porta sul retro della casa, in direzione dell’orto da cui proviene parte delle verdure in vendita. Chiunque può entrare da lì, purché faccia il giro intorno allo stabile. Quel giorno la porta era rimasta aperta, perché bisognava scaricare le casse di carote e patate.

Sto facendo l’ultimo trasporto quando intravedo la Zozza che dalla strada mi fa cenno di volermi parlare. Senza aspettare una mia risposta fa il giro e mi raggiunge direttamente sul retro. Ha uno sguardo determinato, quasi allucinato.

«Posso entrare con te?», mi chiede con il tono di chi non ammette un no e un attimo dopo è già dentro, appoggiata alla parete tra scaffali e scatole di cartone.

«Secondo me Valentina ti tradisce», scandisce con aria tragica.

Non riesco a trattenere un sorriso.

Lei mi aggredisce con uno sguardo offeso e dice: «Non te ne importa niente?»

Balbetto qualche parola e alla fine le rispondo chiaramente: «Non credo sia vero, e anche fosse vero non sarebbe certo un dramma, almeno per me.»

La Zozza mi guarda delusa e stizzita. Mi aspetto che la cosa finisca lì, invece lei prende con gesto solenne una carota dalla cassetta che sta davanti ai miei piedi e poi, piegandosi in modo studiato, la avvicina alla bocca e vi a la lingua sopra, dalla base alla punta, con grottesco fervore.

Dopo averla leccata tutta, nonostante fosse sporca di terra, mi chiede cantilenando: «Di questo ti importa?» e mi mette la mano sul pacco.

Ogni suo gesto è preciso, carico di una intensità teatrale. Perfino il timbro della voce non è il suo. La Zozza è emersa in piena luce, antica e infallibile. Raggiante si inginocchia e senza vergogna mi slaccia la cintura. Mi ha già calato i pantaloni. Disconnesso da me, sento salire un’eccitazione mai provata prima. Non ho più coscienza di una pietra sospinta che rotola giù. Penso con nostalgia a Valentina, alla violenza dell’amore che mi lega a lei. Poi abbasso lo sguardo,

incrociando quello della Zozza rannicchiata in ginocchio sotto di me: dentro la sua pupilla non c’è niente. Trattengo la nausea e mi concentro sulla sua bocca, la sua bocca cattolica, a cuoricino, e mi viene una voglia spaventosa di riempirla. Glielo metto in bocca e nel frattempo le spingo con entrambe le mani la nuca contro il mio corpo. Voglio fare a pezzi lei e tutte quelle come lei, le Madonnine di Lourdes con i loro sogni di brave mogliettine e Focolarine domestiche. Sono a stento un uomo, ma devo annullarla. Devo distruggere questo corpo vivo e sottomesso a me.

Così credevo mentre le venni in bocca. Invece la Zozza gustò soltanto la sua vittoria.

Si alzò solennemente, si aggiustò i capelli e se ne andò senza fretta. La vidi che camminava a i cadenzati come un robot e stringeva a sé in modo rapace la borsetta. Federica stava riaffiorando nel rossore che le chiazzava il viso e negli occhi fissi a terra.

La Zozza ha rischiato tutto e ha sbancato. Perché mi conosce meglio di chiunque altro, ha sentito dentro di me una rabbia mortale che aspettava solo di venire alla luce.

Rientrato nel magazzino sono restato a lungo immobile, come se fossi caduto in un pozzo senza memoria. Avrei voluto che le pareti piombassero su di me. Avevo capito chi ero e cosa volevo. Non potevo tornare indietro e fare finta di niente, né con Valentina né con me stesso. La Zozza poteva mimetizzarsi di nuovo dietro Federica: sarebbe stata riaccolta nella sua Casa Eterna. Io, che non mi sentivo colpevole di fronte a nessun dio, percepii il mio imperdonabile nulla.

Il giorno dopo Valentina non si fece sentire né venne da me. Non sapevo se avere paura o esserne sollevato. Mi chiamò la Zozza in versione Federica: maestosa

nel suo dolore, diceva di perdonarmi per quello che le avevo fatto. L’apice del gesuitismo fu quando disse: «Forse riuscirò un giorno a perdonare me stessa." Io praticamente non parlai, attonito alla notizia che aveva già spifferato tutto a Valentina. Alla fine della telefonata, non riuscii nemmeno a odiarla.

Nei giorni successivi provai a contattare Valentina, che non mi rispose mai; non trovai però il coraggio di andare al locale ad affrontarla a viso aperto. Quando mi telefonò lei, i giochi erano fatti, aveva già stabilito di troncare. Ho provato a giustificarmi, a ributtare tutta la colpa sulla Zozza, ma il tono definitivo delle parole di Valentina rendeva i miei tentativi ridicoli.

Due settimane dopo presi la mia agenda e scrissi:

Abbiamo trovato un posto. Ci siamo messi con pazienza a far cadere la sabbia con la mano per disporre una spiaggia adatta. Poi abbiamo piazzato un sole caldo, creata una primavera, ci siamo attrezzati a respirare, abbiamo finto un corpo. Infine distesi abbiamo annullato tutto. Si può benissimo scollegare i pezzi e i minuti: trovarsi da un qui all’altro senza sapere come. Cigolano gli arti al primo tramonto,

poi tutto si secca, ogni battito.

Nell’angolo scuro in cui mi sono rintanato, posso solo dire addio.

4. Nelle zone più scure

Anche il senso del mio corpo mi ha abbandonato, ora che nessuno mi tocca più: la mia pelle è anestetizzata. Gioco col mio cadavere, mi diverto a stuzzicare la carne già fredda con gli impulsi che rimbalzano dallo schermo. I nervi scattano automaticamente.

E’ il tempo della tristezza e i ricordi tornano solo per ridere di me e delle mie colpe: repliche insensate della vita di un altro.

La felicità sciupata, Valentina, mio cugino, i loro corpi, il loro essermi stati accanto, vivi e alitanti, mi straziano come se mi strapero via la pelle minuziosamente. Nel loro corpo c’era il mio, respiravo intero nel loro liquido. Da quando se ne sono andati, portandomi via con loro, è rimasta di me una sagoma a due dimensioni. Mi guardo alla cam e sono ancora grasso, forse addirittura più di prima, ma sono vuoto, la pienezza del sangue è rimasta a loro.

Le immagini più care sono le peggiori. Le sento ancora prossime: i piedini di Valentina nascosti sotto la mia felpa, il primo sapore dei suoi capezzoli, le sue risate folli al ristorante, mentre tutti si girano imbarazzati, il russare di mio cugino che si addormenta appoggiato a me, una corsa in motorino nell’ultima luce del giorno, le bevute segrete sotto la quercia in campagna, le gambe intrecciate nella nostra silenziosa sera. Tutte le figure amate lampeggiano nell’ombra ogni volta più esili, come stelle tramontanti nelle zone più scure.

Prima sono uscito fuori in terrazza a fumare. L’aria era lucida e il vento aveva una dolcezza così profonda che mi ha sopraffatto. Un uccello ha gridato dai rami ancora secchi ma con il presentimento delle gemme; ho intravisto una macchia scura che è schizzata scomparendo dietro l’angolo. Sono restato scosso, come se l’uccello avesse gridato per me. Me ne sono dimenticato subito, per fissare lo sguardo sulla cenere della sigaretta che restava impigliata su una ragnatela. Guardando il pacchetto, la scritta «il fumo uccide» mi è apparsa più grande del solito e più allarmante. Allora ho sollevato il capo verso il cielo, ma ho sentito soltanto un peso che mi schiacciava. Il tempo si era svuotato e la luce era troppa, insanguinava lo spazio intorno.

Ho guardato giù dalla ringhiera e ho visto un ragazzo salire in macchina insieme alla moglie; la donna reggeva in braccio un bambino. Il ragazzo ha salutato con calore della gente che non riuscivo a scorgere. I suoi gesti erano così fluidi, così naturali che ho toccato con angoscia la mia lontananza da quel mondo umano. Io non sono un uomo, non una donna. Sono una creatura gemente.

Sono tornato nella mia camera. Spengo il computer e accendo lo stereo, ritrovando un’antica canzone, che saltella per me nella stanza come un uccello amico:

And I was strong, strong in the sun I thought I’d see when day is done Now I’m weaker than the palest blue Oh, so weak in this need for you.

Forse dormirò questa notte, dormirò soltanto. Tu non svegliarmi, se non ti

sentirò arrivare.

VENERE LA PORTALETTERE

Venere era una portalettere da sette anni, nell’alternanza continua di tempi determinati e buchi neri tra il delizioso e l’angosciante in cui non faceva nulla, se non ritirare qualche centinaia di euro che la nonna le lasciava sul conto corrente. Il lavoro è per quasi tutti un caso, ma per Venere lo fu anche di più. Quando si mise a cercarlo, non le importava niente di quello che avrebbe fatto. Sognatrice com’è sempre stata, fu l’Amore a muoverla.

Venere «nella sua vita precedente», come la chiamava lei, si era innamorata di un corpulento macellaio dai pettorali pieni di peli e foga, famoso per portare la carne a domicilio e dedicarsi alle signore in assenza, o anche in presenza, del marito. Girava perfino voce che talvolta se lo fe succhiare dagli uomini, nei casi non rari in cui i mariti si spingevano in territori inesplorati. Proprio questa gustosa diceria aveva attratto in modo fatale Venere, che allora era ancora anagraficamente Giovanni. Non vorremmo parlare del segaiolo Giovanni, se non ci commuovesse l’ardore eversivo della sua immaginazione.

Il macellaio aveva un tabù incrollabile, non avrebbe mai inculato un uomo. Non era mica un finocchio. La fica è sacra, diceva lui. Ma Venere ormai nutriva per lui un’adorazione religiosa. Poiché il principale credo di lei era il cazzo, fondò un interiore culto pagano per quello del macellaio e gli consacrò ogni goccia del suo sperma. Venere non rimpiangeva mai il pisello perduto, ne aveva nostalgia solo quando ripensava alle seghe furibonde di quel tempo. Riandava con la mente all’innocenza che non sarebbe tornata mai più e qualche lacrima solcava tristemente gli strati pesantissimi di trucco.

Dopo goffi tentativi di sedurre il macellaio nel suo mogio aspetto maschile, Venere iniziò a cullare il sogno di sedurlo come donna.

Che tette, cazzo, che tette! L’avrebbero guardata tutti e lui, come l’avrebbe desiderata! Per lei avrebbe dimenticato le altre, avrebbe perso la testa per lei. Suoni d’organo fino al cielo e mucchi di riso gettati da folle D&G, un wedding party mai visto, tre notti di pasticche e techno e il suo macellaio a dirle ogni momento quanto ti amo, ti amo!

Venere anche come Giovanni non era male: prese coscienza del potere che aveva su certi uomini e decise di far fruttare le sue doti. Mentre di giorno lavorava con il padre in un’officina, di notte faceva instancabili marchette per tutta la periferia. La sua specialità erano i pompini antistress per i rappresentanti della zona. La sua fama di aspirapolvere raffinato si diffuse dovunque e in soli otto mesi, tra diurni e notturni, aveva raggranellato quasi quindicimila euro. Altri trentasettemila euro e sarebbe potuta volare a Cuba per fare l’operazione.

Purtroppo accadde che il padre la scoprì nell’officina con lo zio vedovo. Sua madre pianse per una settimana, mentre suo padre parlava di portarlo dall’esorcista. Venere, coperta di lividi patriarcali, nella sua stanza meditava vendetta contro le famiglie, voleva distruggerle tutte a furia di pompini. Intanto il padre, dopo averle soffiato i quindicimila euro che lei come una schiocchina teneva nascosti sotto i libri i Busi e le videocassette gay-bear, la cacciò di casa a calci in culo e anatemi biblici. La voce delle nefandezze di Venere si diffuse rapidamente: negletta, non poté che che registrare un calo vertiginoso dei suoi profitti.

Fu costretta a trovarsi un lavoro come si deve. Era piena di debiti e non poteva certo sopravvivere solo con le sovvenzioni della nonna letargica né contare troppo su qualche regalino di vecchi clienti. Si recò vestita a lutto al centro per l’impiego. Nessuna offerta di lavoro le sembrava adatta. All’officina si era limitata a lanciare occhiate languide ai meccanici e a spolverare, sfilando per giunta qualcosa dalla cassa per pagarsi le canne. In fondo trovava qualunque lavoro fastidioso e volgare e, parliamoci chiaro, non era assolutamente in grado di fare l’elettricista, il geometra o qualsiasi altro dannato mestiere.

Finì che la presero per un trimestrale alle poste e la sua vita cambiò. Fu trasferita in un’altra città, dimenticò le crudeltà paterne, trovò una nuova clientela e finalmente raccattò i soldi necessari per volarsene a Cuba e farla finita una volta per tutte con Giovanni.

Fu così che diventò Venere.

Era il momento di tornare al suo paese natale. Pura e intatta, con la sua fica nuova di zecca, ritrovò l’indimenticato suo sogno e l’assoluto amore della sua vita, il macellaio. Non fu amore a prima vista, dato che si erano già visti, ma quasi: si sposarono nel giro di sei mesi. Il matrimonio non fu proprio quello che desiderava, a cominciare dal menu. Troppi panini con la porchetta e torta al testo con la coppa invece che finger food e cupcake, ma il grande amore supera qualunque ostacolo. ò un tempo senza orologio di cui non parleremo per pudicizia.

Tuttavia ogni cosa bella finisce, e così Venere fu lasciata per un’americana di aggio che trascinò con sé il macellaio in un imprecisato punto del Montana, tra bovari e drugstore senza speranza di riscatto. Nel 2001 Venere sperò che un attentato radesse al suolo il Montana e tutta la fottutissima America arrogante e sciocca.

Delusa, tornò a fare più o meno precariamente la portalettere, ma si era seccata come una piantina senz’acqua.

Qualche volta sentiva nostalgia per le sue seghe scintillanti e pop.

CASA SULL'ALBERO

Sara si svegliò con l’idea che fosse tardi. Saltò giù dal letto, attraversò il corridoio silenzioso, si lavò alla cieca, si spruzzò il profumo che rubava a sua madre e in cinque minuti era pronta. Davanti allo specchio, nell’atto di aggiustarsi i capelli, la sua espressione delusa le ricordò che non aveva niente da fare.

Subito i muri ributtano il vapore maligno che imbroglia la vista e ci vuole un’idea valida prima che il cervello cada per terra un altro libro no ce ne sono già troppi che impolverati la rimproverano un giacchetto per quando inizia la scuola forse ma le commesse della Standa fanno paura con la pelle d’acciaio poi si ritrova un’altra volta con qualcosa che non mette come la gonna a scacchi che è finita nel secchio la spesa no anche peggio la mamma non c’è e le nove e mezzo del mattino è troppo presto è pieno di quei vecchi acqua di colonia e crocifisso. Il corso d’inglese! La bandiera sullo sfondo avorio la scritta in quel blu cobalto così elegante. Datti una mossa non puoi are il tempo a lamentarti e basta

Lisciandosi i capelli con la mano, Sara li sentì untuosi sulle dita e le si inumidirono gli occhi; dovette sforzarsi per bere il succo di arancia, ingoiare la merendina alle gocce di cioccolato e uscire di casa. Ma ormai era una questione di orgoglio.

***

Le porte dell’autobus la risucchiarono. Si arrese all’aria satura, chiuse gli occhi e aspirò gli odori grassi che conosceva bene. Appena seduta, tirò fuori dallo zaino il libro e come sempre le scosse alle tempie si fermarono. Innocue bolle di luce,

rimbalzate dai vetri, si aprivano sulla pagina e le facevano il solletico; oltre il finestrino si alternavano palazzi e macchie d’erbaccia. Sentì il suo corpo dilatarsi, assecondando il respiro via via più tranquillo. Le pareti del bus la proteggevano, come quelle della sua vasca da bagno.

Gennaio, è sola in casa; snervata dal pomeriggio inutile entra nell’acqua bollente. A occhi chiusi trattiene il respiro, dondola a lungo nell’uovo di acqua densa, caramellata. Ma è costretta ad aprire la bocca, le manca il fiato e insieme all’ossigeno aspira la certezza che il babbo non torna più. Appoggiata al bordo fissa le piastrelle. Il bagno è il vecchio cubo, ci si rifugia quando vuole piangere in pace. Esce dalla vasca, si avvolge in fretta nell’asciugamano. E’ tutto impregnato del bagno schiuma della mamma, fruttato e stucchevole. Io e lei, soltanto io e lei, per sempre.

Il ronzio di un’ape in bilico sul vetro, per poco non risucchiata via dal vento: era già arrivata alla stazione. Una donna saliva a fatica, appesantita da un pancione troppo grande per lei. Si alzò per cederle il posto e la donna quasi cadde sul sedile, accennando un sorriso di ringraziamento che Sara non ricambiò, confusa dal verde vivido dei suoi occhi, incorniciati dal velo color ghiaccio. Non era tanto più vecchia di lei, eppure erano così diverse. Lei aveva un nucleo vuoto al centro di sé e da laggiù una voce dettava parole che non avrebbe saputo ridire. Reggendo il libro aperto con la mano libera, si affidò ai campi misurati delle parole. Quando arrivò a leggere The eyes are not here, there are no eyes here, lasciò il libro e spiò intorno a sé, attenta che nessuno la scoprisse; a ogni sguardo altrui si ritraeva come l’avessero scottata. Molti eggeri erano donne, soprattutto signore attempate con tinte di capelli troppo accese. Nelle mani callose tenevano grosse borse in similpelle e masticavano risentite i loro chewing-gum. Sara immaginò che andassero a fare le pulizie, come sua zia. La loro determinazione le sembrò assurda. Una ferocia primaria, una posizione di lotta al mondo che non le apparteneva.

ando dal testo originale a quello tradotto si sentì improvvisamente molto fiduciosa e si disse che non era affatto tardi per imparare a fondo e una volta per

tutte l’inglese. Avrebbe finalmente letto con agio Eliot o Conrad o Poe, tutti gli autori che amava, avrebbe potuto studiare in qualche università inglese, dopo il liceo. Bastava impegnarsi, come aveva fatto stamattina, mantenendo gli obiettivi anche contro voglia. Era stufa della pigrizia che le tagliava le gambe e l’aveva rovinata. Si ricordò il sorriso compiaciuto della sua insegnante di lettere delle medie, mentre le porgeva la scheda finale: «Sara, tu naturalmente puoi fare la scuola che vuoi." Le aveva creduto, fluttuante nella fulgida sfera che a partire da lei si allargava in tutte le direzioni. «Un o alla volta, tutto si fa», diceva sempre suo padre. I suoi occhi brillavano d’orgoglio quando parlava di lei con i suoi amici. «La mia letterata, la mia studiosa», la chiamava scherzosamente dandole colpetti alle orecchie, che le diventavano subito rosse.

Here we go round the prickly pear Prickly pear prickly pear Here we go round the prickly pear At five o’clock in the morning.

Chiuse il libro con dispetto; era inutile che le rimproverasse ciò che sapeva anche troppo da sola. Davanti alla furia concreta di quelle borse e di quelle mani lei era soltanto ridicola. Se guardava un film in lingua originale, non capiva una parola; oltre a Oxford, non conosceva nessun’altra università inglese e pure di quella non aveva un’idea precisa di dove si trovasse.

La domenica pomeriggio lei e suo padre, distesi sul letto, avano il tempo a fantasticare. Ogni difficoltà abbattuta da stratagemmi tra il magico e il ridicolo. Sapeva che erano sciocchezze, ma ci credeva comunque. Capitava ancora che se lo sentisse dietro le spalle. Quando si girava per sorprenderlo al suo posto c’era una forma vuota che respirava in silenzio. Ogni volta la stessa delusione. C’era stato davvero suo padre. Era lei che si era mossa in ritardo. L’aria rarefatta le saliva con violenza alla testa e temeva di svenire.

Cercò di adattarsi al suono delle auto che scorrevano attorno a lei, nel viale a tre corsie inquadrato da palazzi color crema. La gigantesca vetrata della banca alla sua destra mandò uno sfavillio aggressivo ma non spiacevole: l’interno del bus per contrasto sembrò più ombroso, intimo quasi, e il suo sguardo poté docilmente spingersi fino in fondo, dentro il largo specchio dell’autista. Ecco che toccava le care pieghe del suo gomito, la pelle luminosa sotto la nuca, la sua mano quieta, le sfumature azzurre delle vene del polso. Si rifugiò sotto le sue gambe aperte, all’ombra: era diventata un peluche portafortuna, di quelli che ricordano casa ai guidatori. Guardò il volante carnoso, i movimenti sicuri della mano, i capelli cortissimi, scontornati nel pulviscolo. «Mi porterà a casa con sé?», si chiese, «Mi terrà tra le sue ferme mani?»

Riaprì il libro, che trovò intessuto di parole logore; delusa, lo cacciò nello zaino come se non volesse vederlo mai più. Tornò con lo sguardo al grande specchio delle sue brame.

La trascina fanciulla in un ancora-da-vivere in un laggiù rosa-carne dalla Sua bocca le a una caramella granulosa con le scie rosa-carne della Sua pelle tutte da succhiare da appiccicarsi al palato come quando l’ostia le restava sigillata e doveva scollarla col dito e sotto l’unghia dell’indice rimaneva un impasto misterioso una traccia dell’Assente

La porta rantolò per aprirsi e alla fine con un ansimo più violento ci riuscì: Sara scoprì con sgomento di essere arrivata. Si precipitò fuori acciuffando lo zaino in corsa. Non appena si trovò dall’altra parte della strada si voltò indietro, giusto in tempo per vedere l’autobus allontanarsi, scosso da sussulti metallici; la testolina dell’autista sfumava nel riquadro appannato del finestrino, così delicata da far tenerezza. Sentì uno squarcio nell’aria, già quasi fredda, e un brivido pericoloso che la tagliava lentamente in due. Una nuvola di rame rugginoso ingoiò il sole. Between the desire and the spasm, agosto volgeva alla fine.

Fece pochi i, facendo attenzione a non inciampare nelle gobbe del marciapiede. L’asfalto non riusciva più a trattenere le radici dei pini che quasi spaccavano i muretti delle aiuole. Soffi di vento trascinavano cartacce di pizze e panini del bar vicino e le facevano mulinare.

Dietro alle vetrate della scuola d’inglese tante nicchie identiche covavano computer sfarfallanti nella penombra. In due celle vuote gli schermi erano battuti incessantemente dalla pioggia di pubblicità multicolori. Nella terza enormi cuffie da pilota pressavano i capelli neri di un ragazzo che rideva da solo. Nella quarta un signore dall’aria timida si sforzava di ascoltare una ragazza che muoveva le labbra in modo innaturale; il vapore che saliva da una tazza poggiata al centro del tavolo separava i loro profili, aumentandone la distanza.

Le ante della porta d’ingresso si spalancarono e un ragazzo scattò verso di lei. Predispose un sorriso perfetto e scandì: «Hello, may I help you?» Sara sorrise compita, accennò un o verso di lui per poi ruotare fulmineamente su se stessa e scappare via. Mentre il rossore le saliva in volto, pensò che tra venti minuti scarsi il suo autista sarebbe riato di lì, tornando dal capolinea, e l’avrebbe riportata a casa.

***

«Non ti ho sentito uscire, stamattina.»

«Per forza, non c’eri.»

La madre si allontanò senza aggiungere altro e Sara ci restò male. Entrò in cucina e aprì il frigorifero in cerca del tè freddo, ma le due bottiglie fino a ieri

intatte erano sparite. C’era sempre qualcun altro nei pensieri di sua madre. Qualcuno che aveva finito tutto il tè senza curarsi degli altri. La realtà era che lei non contava nulla. Per sua madre veniva in seconda o terza posizione. Per il suo autista non era nemmeno in graduatoria, anzi non esisteva proprio. Le due compagne di classe con cui a volte usciva il pomeriggio durante le vacanze scomparivano; tanto erano più attente ai casi di Dylan McKay che ai suoi. Non le restava che rientrare in camera sua. Basta poesie, era ora di iniziare un romanzo, un solido volume di almeno settecento pagine che le desse una struttura; amici di carta che la tenessero al riparo dallo scialacquamento di giornate senza fine. Moby Dick? L’idiota? Per poco non andò a sbattere contro suo fratello e Paolo che confabulavano nella penombra. Quando ò loro accanto per entrare in camera sua, smisero di ridacchiare, come se l’ingresso di Sara nel loro spazio li avesse tremendamente disgustati.

«Mbe’, che guardi? I cazzi tuoi no?», disse Marco, sollevando il mento in un gesto di sfida.

«Calmini, eh? Che me ne frega a me, di quel che combinate?», rispose lei, arricciando le labbra.

Il tono di suo fratello l’aveva offesa a morte. Chissà quale grande impresa stavano pianificando, che non potevano essere disturbati. Una terribile scocciatura, dover spostarsi per farla are. Si vide per un attimo con i loro occhi: un impiastro che parla pochissimo, un fantasma malvestito, una scacciacazzi. Con Paolo tra i piedi finiva per sentirsi una scema qualsiasi cosa fe. Un atto semplicissimo diventava innaturale in sua presenza, come quello di un pessimo attore che si sforza di essere vero. Sara invidiava la loro libertà di universitari: non avevano orari e non si curavano di averne. Le sue vacanze invece erano ancora così regolate dalla scuola da non essere vere vacanze. Troppo brevi e solitarie, la luce estiva se le mangiava in fretta. Eppure la mamma tormentava lei con le sue continue commissioni, con le sue infinite regole e regolucce. Lei, non Marco che di tempo ne aveva quanto voleva. Se ci pensava, le saliva il sangue alla testa. Devi collaborare anche tu alla casa, devi prenderti le

tue responsabilità, io da sola non ce la faccio. Lui poteva crogiolarsi nella sua mascolina indolenza, lei era una donna ormai. Paolo era fuori questione, da lui nessuno si aspettava gran che: faceva soltanto pena, un senza famiglia dai capelli sporchi che girellava per le case altrui. Il padre, devastato da ripetuti collassi nervosi, non era raggiungibile. A sentire il figlio stava meglio grazie alla pettherapy: un coniglio ben pasciuto viveva nella sua vasca da bagno e lui faceva i suoi bisogni in giardino, per non disturbarlo. Una madre ce l’aveva, ma se ne fregava di lui, indaffarata dietro i suoi compagni, hipster barbuti di vent’anni più giovani di lei. Tra un reading su Alda Merini e i suoi impegni di maestra elementare, faceva appena in tempo a lasciare al figlio foglie di cavolo marinate in olio e limone e promemoria sulla raccolta differenziata. Perciò eccolo qui, spuntato come un fungo velenoso in casa loro; sempre alle ore dei pasti e sempre senza preavviso. Per la mamma, sofferente di fobia da ospiti, le improvvisate di Paolo erano un incubo.

«E adesso, che gli diamo? Non c’è niente!», esclamava. Toccava a lei sgobbare tra cucina e salone e improvvisare ricette. Perché si sentiva in obbligo di arginare il panico della mamma, non c’era niente da fare.

Solo che oggi non ce la faceva proprio. Il viaggio a vuoto l’aveva sfibrata: i polsi le dolevano, le ginocchia le tremavano un poco. Di tutto aveva voglia meno che di stare dietro alle preoccupazioni culinarie della madre. Ma non voleva darla vinta ad Achille piè veloce che si era rintanato (insieme all’eterna appendice paolina) a giocare a uno dei suoi videogiochi idioti. Avrebbe scelto il libro con calma, poi sarebbe andata dalla madre a informarsi sul pranzo.

Chiuse senza fare rumore la porta della sua camera. Anziché avvicinarsi alla libreria, tirò la tenda in modo che nemmeno la poca luce scampata alle tozze nuvole scure potesse entrare. Poi con grande lentezza si stese sul letto, tirò un respiro profondo e si dette un pugno allo stomaco così forte che le venne da vomitare. Avrebbe voluto non mangiare più.

***

Paolo quel giorno parlò a Marco della casa sull’albero. Tra i due era lui che portava le novità dal mondo esterno, grazie alla sua capacità di entrare in contatto con le persone. Marco era troppo pigro per questo e inoltre l’amico gli bastava. Se si annoiava aveva sempre i film, ne divorava due o tre al giorno.

Paolo da qualche tempo veniva il pomeriggio e la sera andava via. Marco non gli aveva chiesto niente, ma aveva capito che vedeva altra gente dal fatto che aveva sempre l’erba, bene rarissimo dalle loro parti. Qualche giorno dopo Paolo stesso gli aveva raccontato la storia.

Al circoletto di Castel del Piano aveva conosciuto il Cicco, un ragazzino fornitissimo di ogni tipo di droga, insieme al quale la sera andava al Curvone, uno spiazzo con squarci di prato, disseminato qua e là di panchine, raduno di adolescenti tossici, ubriaconi cinquantenni e relitti di incerta origine. A far da collante tra le diverse età e i diversi destini erano gli occhi lustri, le teste ciondolanti e il continuo parlare di fica. I paesani stranamente tolleravano il posto, pur vicinissimo alla piazza della chiesa.

Marco non ci voleva andare: le canne preferiva fumarsele in pace in camera sua, ascoltando musica e leggendo. L’unica volta che l’aveva fatto era rimasto piantato a un metro dagli altri, a occhi bassi e torcendosi i capelli. Le parole gli erano svanite in bocca e il cervello gli s’era svuotato, come per un sortilegio. Molto meglio ingozzarsi di merendine sul prato del Cral della Perugina e da disteso ascoltare le funamboliche imitazioni di Paolo. Così gli sembrava di conoscerla anche lui, tutta quella gente.

Di tutti i frequentatori del Curvone il più assurdo era il Putre. Un sessantenne quasi nano e tutta pancia, con la testa piccola e la bocca larga. Eterno

disoccupato, tutti ignoravano come trovasse i soldi per le sue copiose bevute. Ciò che lo rendeva unico, il suo emblema, era il Bestio: un cazzo spropositato che si ostinava a imprigionare in pantaloncini di una taglia o due più piccoli. Quando crollava russando su una delle panchine, il Bestio sgusciava fuori dalla sua gabbia di nylon come a cercare ossigeno. Tutti morivano dalla curiosità di vedere la Creatura in libertà, ma il Putre si negava.

Al Curvone, a forza di invocarla, una fica miracolosamente era apparsa: Sonia. Labbra carnose evidenziate dal rossetto color prugna; calze bordeaux sopra la minigonna di pelle nera; una banda rosso fuoco che le scendeva ai lati del caschetto ossigenato. Sonia beveva come un camionista, perfettamente a suo agio in una compagnia di soli maschi. Nessuno aveva trovato il coraggio di provarci, anche se tutti le sbavavano dietro. Paolo fu l’unico a parlarle davvero. Le aveva fatto scoprire 10:15 Saturday night e da allora avano i loro incontri a rimandare indietro la cassetta all’infinito, sillabando come in trance drip drip drip drip drip drip drip. «Secondo me domani mi ci sta», era diventato il ritornello di Paolo.

Oggi però nei suoi occhi scalpitava una luce nuova, incontenibile. Si capiva che qualcosa lo agitava, anche se non trovava il modo di dirlo. Alla fine non si tenne più: «Indovina che mi ha proposto Sonia ieri?»

«Di scopare? Sarebbe ora», rispose sbadigliando Marco.

«Be’ quasi... Cioè, non ufficialmente, ma il senso è quello...»

Sonia aveva invitato Paolo (e il suo amico) in un posto segreto: verso la riserva, oltre la strada per Pila, una pista d’erba, seminascosta dietro una collinetta seminata a girasoli, portava a una casa sull’albero, costruita non si sapeva da chi e perché.

«Fantastico, ti rendi conto?» Dopo una piccola pausa, Paolo in un brivido sussurrò: «F-u-o-c-o cammina con me.» Marco sorrise e con gli occhi lo ringraziò: grazie a lui un soffio occulto usciva dalle pagine dei libri, fuori dalla sua testa nell’aria aperta.

***

Il problema pranzo s’era risolto da sé perché i signorini si erano eclissati poco dopo l’ingresso di Sara in camera sua e non erano più rientrati. Il vero allarme rosso scoppiò a tradimento: dopo tante ore erano ricomparsi come se niente fosse alle 19:57, circa tre minuti prima che chiudessero tutti i negozi della zona. La mamma, che stava facendo bollire il brodo vegetale per una parca cena a due, al sentire le loro voci si inchiodò allo stipite della porta della cucina e impallidì, cercando disperatamente di attirare l’attenzione di Sara. Quando la figlia fu vicina, le intimò: «Sbrigati, vai a comprare le mozzarelle in carrozza! Dai, che altrimenti chiude! Muoviti!»

Una volta fuori, le arrivò in faccia lo schiaffo dello stereo di Marco: i colpi dei rullanti e le urla straziate di Kurt Cobain rimbalzarono per tutto il piazzale come per schernirla. Proprio le mozzarelle in carrozza che erano in cima alla lista degli alimenti tabù. Se non faceva qualcosa sarebbe diventata una botte. Spiandosi allo specchio, aveva più volte notato sinistri rotoli di grasso, che faceva ballare inorridita con le dita. Tutto il suo corpo le sembrava sconnesso e senza misura. I fianchi erano già larghi, ma le gambe ancora sottili e fragili ed era diventata alta così all’improvviso che le sembrava di camminare sui trampoli.

A cena parlarono pochissimo. La mamma continuava a riempire piatti, esaltata. Sara la sogguardava tra comione e disgusto. Marco e Paolo si lanciavano occhiate complici, presi da una gran voglia di ridere, probabilmente di lei e del suo malcelato fastidio. Sara tirava giù un’esigua porzione di cibo sul piatto,

circumnavigava con la forchetta il boccone e poi ingoiava tutto in fretta come una ladra. Avevano qualcosa in mente, sicuro, qualcosa che riguardava loro soltanto e che soprattutto escludeva lei. Sentì che la collera le saliva alle guance, scottandole. Paolo mangiò per un reggimento. Appena ebbero finito, i due presero la porta e uscirono. Marco non disse una parola, Paolo almeno ringraziò, dispensando un aggraziato sorriso.

Rimaste sole, le due donne sparecchiarono in silenzio. La mamma liberava i piatti dallo sporco lentamente, con un’espressione remota, quasi infantile. Sara era felice che le sue labbra non fossero come al solito piegate all’ingiù e si pregustava il libro che avrebbe iniziato tra poco.

«Ieri ho sognato papà», si trovò a dire senza volerlo, tra sé e sé, ma la mamma sentì lo stesso e le si bloccò davanti. Il suo sguardo febbrile e ostinato le penetrava nel sangue come un virus. Ne ebbe spavento, come se sua madre, aggrappata a lei, le fe il vuoto intorno. Si voltò verso la finestra, da cui entravano le voci dei anti e qualche risata: non era tardi, nulla le impediva di uscire. Carezzevole e mite la luna si muoveva per la notte ora serena. Sarebbe stato bello fare una eggiata. Bastava prendere la borsa e uscire, non era tenuta a dire dove andava; suo fratello non lo faceva mai. Poi pensò che a uscire da sola sembrava una matta e allora entrò in camera, chiuse la porta e si infilò le cuffie del walkman. La voce di Elizabeth Frazer la sommerse in un flusso tepido: zucchero che ava per i pori aperti. Sail to me, sail to me, ripeteva. Come avrebbe voluto un’amica che le parlasse a quel modo, sussurrandole all’orecchio segreti. Un clacson esplose sotto la finestra; agosto volgeva alla fine. Chissà dove finivano le stelle, dove andavano a morire le loro luci fredde; la sua, più calda, palpitava appena, ingoiata dal nero incombente. Non aveva solo sedici anni? Al buio richiamava papà e lui le si stendeva accanto, respirandole vicino al collo; ma sempre più di rado.

***

Quella notte fu calda come in piena estate. Paolo era andato a fare spesa dal Cicco e Marco aveva deciso di aspettarlo fuori. Appoggiato all’albero solitario dell’orto si era fatto già due Tennent’s, quando l’amico arrivò correndo a grandi salti. Accese senza indugi la canna già pronta e l’erba era anche più buona del solito.

«Si scopa si scopa si scopa stasera!», canticchiava; quando si accorse del disagio di Marco, si affrettò ad aggiungere: «Guarda che mi ha detto che anche tu le piaci. Più di me, anzi. Se non fossi così musone...» Prima che potesse rispondere, gli gettò con affetto un braccio intorno al collo. Marco sentì la sua energia corrergli per la schiena e fu invaso da una grande fiducia che comprendeva la notte e l’estate risorta e la loro amicizia. Sonia era una tipa sveglia, disinibita e soprattutto non era ipocrita. Ma non era un’amica, almeno non nell’accezione sacra che lui dava alla parola.

«A che ora abbiamo l’appuntamento?», chiese Marco liberatosi dalla stretta.

«Tra mezz’ora al Curvone. Abbiamo il tempo di farci salire ben bene la botta», rispose Paolo andogli l’erba.

Marco rise e nello stesso tempo ebbe un brivido, perché il suo desiderio non smetteva di crescere, come se non gli bastassero più i vecchi sensi e ne sorgessero sempre dei nuovi. Provò a non opporsi alla forza che lo tirava. Solo così avrebbe raggiunto la grande felicità predisposta per lui.

Arrivarono al Curvone a zig zag sul Sì di Paolo, dopo avere stonato per tutto il tragitto il tema di Twin Peaks: le panchine erano deserte e il lampione mezzo offuscato dallo sporco metteva tristezza.

«Come, non c’è nessuno?», balbettò Marco con il labbro pendulo.

«Arriva, arriva», disse Paolo cercando di frenare la delusione.

Una luce fulminante lo investì in piena faccia e per un po’ restò abbagliato. Poi vide il viso di Sonia emergere dal buio.

«Ma sei matta, ci hai fatto prendere un colpo!», gridò Paolo.

Sonia scoppiò a ridere e iniziò a canzonarli con un’irritante vocina: «Cacasotto! Cacasotto! Cacasotto!» Paolo la rincorse ma lei montò sul suo Zip e in un attimo era già sulla strada principale, incitandoli con il braccio a seguirla. Era già su di giri. Secondo Paolo beveva parecchio a casa prima di uscire, per risparmiare i soldi. Il resto se lo faceva offrire.

Superate le ultime case di Castel del Piano, la strada diventava subito deserta: per gli spazi vuoti si sperdeva il canto monotono dei motorini a pieno regime. Fecero i primi tornanti verso Pila, poi Sonia svoltò a destra così bruscamente che lo Zip scodò leggermente. Guidava decisa e impavida e Marco la invidiava. La sua esaltazione di prima era scomparsa; gli mancavano la sua stanza e la tenda azzurra da cui d’estate arrivano le voci dei anti. Si aggrappò più stretto a Paolo per paura di scivolare dalla sella.

All’improvviso la casa sull’albero apparve davanti a loro: una piccola macchia scura sotto il semicerchio stellato. Marco da tanto non alzava la testa al cielo e restò sbigottito da quei buchi di luce che non stavano mai fermi e sembravano ribollire. Quando abbassò nuovamente la testa, Sonia saliva in silenzio i gradini di legno scuro, facendosi luce con la sua torcia. I due amici si guardarono a

lungo negli occhi e alla fine salirono anche loro.

Nella stanza non si vedeva niente e aleggiava un fastidioso odore di polvere.

«Damme l’accendino», ordinò calma Sonia; Paolo glielo diede senza parlare e lei, con una certa solennità, accese negli angoli della stanza candele protette da intelaiature di vetro e ferro.

«Bello, di chi è questo posto?», chiese Marco e si gettò sul divano di pelle nera.

«E’ ‘n regalo», rispose Sonia, strascicando le parole. Paolo accese una canna e gliela ò come se l’avesse fatta solo per lei. Marco si sentì fuori posto; cavò dallo zaino una birra e la stappò rabbiosamente, bevendo un lunghissimo sorso. Dopo aver buttato fuori il fumo con enfasi, Sonia si chinò e fece partire lo stereo nascosto in una nicchia scura.

La liturgia opulenta di Siamese twins si srotolò inattesa nel piccolo spazio e tutti e tre ne furono invischiati, irresistibilmente. Marco dimenticò le paure, posseduto da un languore delizioso. Si alzò dal divano e altrettanto fece Paolo: i loro due corpi, così vicini, erano l’uno l’ombra dell’altro. Sonia sorrise, reclinò il capo all’indietro e si lasciò andare; gli aloni rossastri delle candele formicolavano sul suo volto. La guardarono ondeggiare lenta i fianchi e arrendersi alla seduzione del basso. Si accarezzava morbidamente i seni con le mani, raccolta nel suo sogno: in filigrana dietro il suo corpo una strada in discesa, molle e fangosa, sfumava in un imbuto nero. Senza accorgersene, Marco si fece più vicino a Paolo, al punto da sentirne il calore addosso, su per la coscia sinistra. Sonia, senza cessare la sua danza, allargò le braccia per accoglierli. Tra le sue labbra socchiuse si raccolse un fiore scuro e senza profumo.

I due amici baciarono la ragazza nello stesso momento; quando le loro labbra si toccarono per sbaglio, Marco sentì un gusto familiare. Nel buio dei loro occhi chiusi, Marco e Paolo si arono saliva, respiro e fulgida debolezza, mentre Robert Smith ripeteva: Is it always like this?

***

Si sfilò le scarpe da ginnastica, chiuse il portone alle sue spalle e trattenendo il respiro entrò in soggiorno, dove le sagome dei mobili avanzarono incontro a lui nel buio per tagliargli la strada. Il corridoio era nel silenzio più completo, a parte un russare, appena percettibile, proveniente dalla camera di sua madre. Si sentì sollevato. Nessun altro doveva sapere di quella notte che apparteneva soltanto a lui, a Paolo e a Sonia. Dalla soglia della camera di sua sorella filtrava una luce sottile: era ancora sveglia, probabilmente stava leggendo; ma portava sempre le cuffie e di sicuro non si era accorta del suo rientro.

La ricordò piccolina, un batuffolo di ciccia che pendeva dalle sue labbra mentre le raccontava qualche storia fantasy. Adorava gli orchi, più le facevano paura più li adorava. Adesso era così magra. Provò una pena che cercò di scacciare senza riuscirci, a pensarla sola nella sua stanza, foderata dalle pagine di carta come in un nido, e si sentì così vicino. Da dietro la porta, l’ombra di lei lo attraversava e si confondeva al suo corpo per riportarlo indietro, a quando erano stretti come gemelli siamesi. Ma i loro destini non erano più gli stessi ed era stanco di sentirne il peso. Paolo e Sonia gli avevano ridato il senso del futuro, la promessa di una gioia nuova. Non poteva fare niente per sua sorella e nemmeno era giusto chiederglielo, perché non toccava a lui. Ingoiò la nostalgia che lo teneva appeso alla luce sotto la soglia e ondeggiò nel buio fino alla sua camera. Si buttò sul letto, sperando di azzerarsi rapidamente e senza dolore. Mentre contemplava le strisce azzurrine che pulsavano sul soffitto, si sentì fatto di carne e basta, come se l’anima fosse volata via: il desiderio, nauseante, lo risucchiava come una bocca spalancata nella pancia. Poi di colpo si addormentò.

E’ seduto sul divano di pelle nera nella casa sull’albero. Sonia è in piedi alla luce rossa delle candele e lo guarda. Nella penombra alle sue spalle una gatta nera si lecca elegantemente una zampa. Lei ordina di andare e lo prende per mano; mentre scendono gli scalini malsicuri lo sorregge premurosamente, perché è molto debole, come se fossero giorni e giorni che non si alza dal letto, ma non ricorda di avere avuto l’influenza. Gli solletica le dita dei piedi l’erba del prato, così umile e senza difesa che gli fa venire da piangere. Sonia grida con una voce terribile che non è la sua e scappa in mezzo ai girasoli. I suoi capelli scossi si mischiano ai fusti delle piante. Lui oscilla avanti e indietro, senza riuscire a muovere un o. Vorrebbe cadere all’indietro sull’erba che è molle e familiare, ma Sonia è scomparsa tra i girasoli e le piante l’hanno ingoiata!

I gatti nel buio si chiamano e urlano disperati e la luna scompare e non si sente più un suono. Occhi lampeggiano tra i fili d’erba (c’è sangue tra i denti) e una voce in mezzo ai girasoli lo chiama ma non è tempo di andare. La gatta ciechina ha perso i suoi occhi per amore e nessuno è arrivato e piange da sola. Lei l’ha cullata e cullata per un tempo infinito finché la luna riappare e anche Lui risale alla casa sull’albero, lo stereo si contorce ancora e danza

Is it always like this? Is it always like this? Is it always like this?

quando cade la luna e la notte è rivoltata i baci sanno di sangue e non si sente più un suono

***

Sara pensò che prima o poi sarebbe morta soffocata dalla rabbia. Paolo ormai si era definitivamente insediato in casa loro, come un terzo figlio. E si permetteva di occupare il posto di papà. Così, impunemente. E la mamma glielo lasciava fare. Troia, troia, arcitroia.

«Deve stare sempre da noi questo Paolo? Una casa non ce l’ha?», provava a insinuare ogni tanto, per riportarla in qualche modo alla ragione.

«Ma che fastidio ti dà, scusa?», le rispondeva, con gli stessi occhi da innamorata.

Aveva affascinato anche lei, a quanto pare. Oppure si era fatta impietosire dal suo aspetto di naufrago. Poteva anche lavargli i vestiti, tanto che c’era. Almeno sarebbe stato meno sporco.

«Mamma, in corridoio c’è un tanfo di fumo assurdo! Digli qualcosa!», urlò un pomeriggio, snervata.

«Allora apri la finestra, anziché stare sempre a brontolare!», fu l’unica risposta di sua madre.

Chissà che avrebbe detto papà della puzza d’erba che non andava più via dal corridoio. Certamente non avrebbe fatto finta di niente, come la mamma. Lei, dato che si rifiutava di sembrare cieca, era diventata ufficialmente la lagna, la lagnosa, la sega, la pugnetta. Per Marco&Paolo e ora anche per la mamma, la loro groupie. A Sara mancava il Marco di prima, dell’era prepaolina. Il Marco che le aveva fatto conoscere Proust. Quando appena finito un libro se lo avano e ne parlavano a lungo, davanti al tè. Dopo cena sentivano la musica in camera sua, con il gatto slungato tra le gambe. Insieme a lui, grazie a lui, era

riuscita a pensarsi di nuovo come un essere umano, dopo che papà se n’era andato. Si erano ritrovati uniti contro il dolore fanatico e assoluto della mamma.

Ma adesso queste cose non contavano più, o meglio era lei che non contava più. Non che fosse gelosa di Paolo, le facevano semplicemente pena entrambi, con le loro canne e la loro retorica beat. Possibile che Marco fosse diventato un altro così in fretta? A lei sembrava di essere restata identica, perciò era cambiato lui per forza. Fatto sta che così sola non si era sentita mai.

***

Spinto da Paolo, che mal sopportava di stare loro due e basta, bisognoso com’era di continue distrazioni, Marco cominciò ad accompagnarlo e scoprì che uscire non era poi così faticoso. I frequentatori del Curvone non pretendevano niente ed erano abbastanza afasici da non stupirsi del silenzio altrui. Soltanto di rado rimpiangeva la propria stanza. Gran parte del merito l’aveva l’erba meravigliosa del Cicco, che ammantava di aloni metafisici anche la merda dei cani. Una deliziosa apatia lo avvolgeva: la luce granulosa tra le foglie quasi rosse dell’ippocastano gli toccava le palpebre e lui godeva di quel calore elementare.

Sonia di solito arrivava verso le sei e mezzo, dopo aver finito il turno in stireria. Il vapore le lasciava sulla pelle del viso piccole gocce che sembravano d’olio e Marco immaginava di arci il dito e sentirne il sapore. La notte ata insieme era come se non fosse mai successa. Tra bevute, fumate e sedute di ascolto dei Cure, nessuno trovava il coraggio di riparlare dell’accaduto. Non significava che Marco non ci pensasse. Alcuni particolari, sempre gli stessi, lo aggredivano: le braccia di Sonia aperte, il calore della coscia di Paolo sulla sua. Quell’intimità, rivissuta troppo nitidamente, gli dava un senso di spavento, come se dalla loro pelle fosse penetrata in lui un’ignota malattia. Per tranquillizzarsi, beveva dal pomeriggio, cosa che prima non faceva mai, e la sera si sfogava a forza di seghe, come quando era adolescente. Riprovava la stessa solitudine degli anni del liceo, più aspra ancora: lui e Paolo si vedevano forse più spesso di

prima ma parlavano sempre meno. A volte si guardavano con vergogna, diffidenti l’uno dell’altro. Tutti e due avevano voglia di rifarlo, ma credevano che spettasse all’altro prendere l’iniziativa. Marco cominciava a considerare quella notte un incastro di casi favorevoli che non si sarebbe ripetuto mai più.

Dopo un inizio di settembre mite e quasi estivo, si presagiva già nell’aria il vento cattivo di ottobre. A breve sarebbero riprese le lezioni; solo a pensarci lo ripigliava l’insofferenza. A Lettere pullulavano schiere di futuri professori, sgobboni dalla nascita armati di evidenziatori, quaderni ad anelli e povertà intellettuale. La sua ritrosia congenita all’università si era acuita e ormai non si sforzava più di scacciarla. Nel frattempo, contro la processione dei giorni nel calendario respirava a pieni polmoni l’aria stagnante del Curvone, dove non succedeva mai niente e il tempo si addormentava. Là ciascuno trovava il mezzo di annullamento che preferiva e tutti, in misura diversa, ruminavano lo stesso bolo di nulla. Sonia era l’unica ad avere scatti di insoddisfazione, a manifestare ancora il bisogno di fare. «Famo qualcosa, freghi!», oppure «Che famo stasera?» erano le sue frequenti richieste. Per lo più non riceveva risposta, a parte qualche spento «Boh...» Allora si metteva a fare i capricci e per sfogarsi si divertiva a prendere di mira qualcuno. La sua vittima prediletta era il Putre, anima purissima nella sua immacolata letargia. Gli infilava mentre dormiva le dita nel naso o nelle orecchie, per vederlo saltare sulla sedia o sentirlo borbottare qualche bestemmia. Oppure prendeva Paolo in disparte e insieme si mettevano in attesa della periodica epifania del Bestio. Una volta si era intestardita, nonostante le proteste di lui, a farsi fotografare con le labbra accostate alla Creatura.

Ma il peggio fu quando, tre giorni prima che a Sara ricominciasse la scuola, disse in un orecchio a Marco: «E se portamo ‘l Putre a la casa su l’albero?» Lui pensò che scherzasse e nemmeno le rispose. Poi si accorse dalla sua espressione che faceva sul serio. Provò un disgusto profondo, che tuttavia lo avvicinava maggiormente al nucleo intorno al quale stava ruotando da tempo. Un nucleo vuoto.

***

Come se Sonia non avesse parlato, dopo qualche minuto di silenzio Marco tornò a casa. Due ore più tardi arrivò Paolo, portando il messaggio che Sonia quella sera voleva fare una festa alla casa sull’albero.

«Che ci andiamo a fare con tutta la marmaglia! Roviniamo tutto!», ribatté Marco tra l’astio e la delusione. Paolo rispose, non troppo convinto: «Che ti devo dire, magari le viene voglia di tornarci un’altra volta. Noi tre e basta, intendo.»

Marco pensò che Paolo non si rendeva conto della realtà o faceva finta di niente. Non era possibile riandare lì a ripetere l’irripetibile. Il Momento, dono precario e alato, nell’atto stesso di offrirsi era sfuggito e moriva. Marco da allora ciondolava nel recinto di quel che restava, l’enorme e insipido resto. Faceva questo, faceva l’altro, ed era sempre uguale.

Paolo era in piedi in un angolo, con le gambe tagliate in due dalla luce, mentre Marco giaceva disteso sul letto. Per la camera aleggiava un sentore sgradevole, di fumo stantio o piedi non lavati o di tutte e due le cose insieme.

«Hai sonno?», provò Paolo, senza ricevere risposta.

Inaspettatamente entrò Sara, con un impeto che parve a lei per prima eccessivo.

«Marco ce l’hai tu L’idiota?», chiese, puntando gli occhi in direzione della sagoma in penombra del fratello.

«Non mi pare», rispose lui come da una grande distanza.

«Posso cercarlo?», insisté lei, con tale gentilezza che Paolo si voltò verso di lei e le sorrise.

«Fa’ pure», rispose Marco e le sue parole caddero secche a terra.

Sara per un po’ non si mosse, sperando che il fratello la guardasse negli occhi. Poi si mise a scorrere con il dito i dorsi dei libri svogliatamente, come se del romanzo non le importasse più e non fosse entrata lì per quello. Paolo, sempre inchiodato all’angolo, la guardò abbassarsi in mezzo agli scaffali; tra la maglietta e i jeans si scoprì la sua pelle bianca. Marco, stufo di se stesso e della sua inerzia, si alzò dal letto e andò a colpo sicuro a prendere L’idiota. Lo consegnò alla sorella e ebbe voglia, anche se adesso lei lo guardava storto, di abbracciarla. Ma non poteva più farlo: il tempo di Sara bambina, delle coccole e delle merende insieme era scaduto. I fratelli si limitarono a un freddo scambio di formalità. Quando Sara stava per uscire, fu bloccata sulla soglia dalla domanda di Paolo: «Vieni con noi alla festa stasera?» Sara non si voltò e restò interdetta. Marco lanciò un’occhiataccia a Paolo e gli intimò di farsi gli affari suoi. Sarà si girò e contro ogni attesa rispose: «Ma sì, dai, che dopodomani mi ricomincia la scuola. Festeggio la fine delle vacanze.» Sembrò addirittura entusiasta. Marco pensò che avesse accettato soltanto per mettergli i bastoni tra le ruote. Guardò schifato prima lei poi Paolo. Agosto era finito, insieme ai bagliori della vita felice che in quella notte aveva sentito così vicina.

***

«Ma perché gliel’hai detto? Io non ce la voglio!»

«Quando vuoi sei proprio un testa di cazzo, lo sai?»

«Ma falla finita, che è anche piccola! E se Sonia si mette a fare la troia?»

«A parte che tua sorella ha sedici anni e non è piccola per niente, e poi la gente che viene sono gli inscopabili. Ti ricordo che è di Sonia la definizione.»

«Senti, già che non c’ho voglia, mettici pure mia sorella, così la serata è rovinata del tutto!»

«Non venire allora!»

«Se la metti così non vengo, deciso!»

«Fa’ come ti pare, io intanto esco, tanto qui è un’angoscia e basta.»

Uscì dalla camera di Marco e puntò dritto alla porta d’ingresso; poi si ricordò che aveva avuto la splendida idea di invitare Sara. Sentendosi ormai in obbligo, si affacciò alla camera di lei.

Sara aveva già messo le cuffie e appariva di un umore completamente diverso. Le fece cenno di toglierle e lei obbedì, tenendoci però a palesare tutto il suo fastidio.

«Senti, se vuoi venire ci vediamo alle nove e mezzo al Curvone. Il tuo fratellino non viene.»

«Sì come no. Ti pare che non viene. Come fa a stare senza di te?», disse lei sarcastica.

«Fate un po’ come vi pare. Io esco», concluse esasperato Paolo. Salutò in fretta la signora, avido di aria fresca, ma la donna lo placcò e gli gridò contro: «Come, non resti a cena?» Paolo si sforzò di apparire civile e declinò l’invito, ma fu molto vicino a mandarla a quel paese. Appena fuori, borbottò tra sé e sé: «Gabbia di matti...»

Rimasto in camera, Marco pensò che aveva ragione Paolo, che era uno stronzo e meritava di stare da solo. Subito dopo pensò che non aveva fatto nulla di grave e che, se avesse chiesto scusa, le cose sarebbero tornate a posto. Al telefono Paolo fu cortese ma freddo, ribadì che dipendeva solo da lui la scelta di venire o non venire e infine aggiunse che non doveva scusarsi di niente, perché tra loro queste cose non contavano. Agganciata la cornetta, gli restò l’impressione che Paolo avesse troppa fretta di troncare la conversazione. Barcollando si diresse in cucina, perché un sapore cattivo gli si era piantato in gola. Intravvide sua sorella distesa sul letto e senza pensarci entrò da lei.

«Ci andiamo allora alla festa?», le disse teneramente, aggrappandosi al suo sguardo stupito come se non gli restasse altro. Quando papà era morto, Marco per giorni e giorni non era riuscito a guardarla negli occhi, per il terrore che se avessero iniziato a piangere insieme, non avrebbero smesso più.

***

Il cuore mandava colpi rapidi e molesti che le inceppavano il respiro: si era già pentita di aver detto di sì, ma l’insistenza di suo fratello l’aveva quasi obbligata. Tanto male la festa non poteva andare se loro due erano insieme. Come quando Marco (lei faceva la quinta elementare) l’accompagnava in piscina: saperlo lì sulle gradinate, benevolo e attento, a sorvegliare che nessuno degli istruttori si mostrasse troppo arrogante, le dava sicurezza; se anche qualcuno la rimproverava a male parole o le urlava contro, loro due erano un mondo a parte, solido e intoccabile. Forse adesso non era esattamente così, o meglio non lo era più. E lei sapeva perché: era colpa di Paolo, sempre e solo colpa sua. Guardandosi allo specchio, davanti ai suoi occhi erranti e acquosi, fu presa dal dubbio che le cose non fossero così semplici. Suo padre avrebbe risolto la situazione con una sferzata della sua ironia scacciapensieri. Sparendo aveva lasciato uno sfondo bianco su cui le loro sagome si stagliavano ingigantite e drammatiche. Poche e aguzze parole erano sospese nel mezzo.

Al fratello che infastidito le urlava che si era rotto di aspettarla, rispose con il tono più affettuoso possibile che in due minuti era pronta.

***

Quando arrivarono, c’erano motorini dovunque, a destra e a sinistra sul bordo del fosso. Abbandonati sui ciuffi d’erba senza cavalletto, davano un’impressione di fretta che preoccupò Marco. Avvicinandosi videro che molte persone stavano fuori, appollaiate a terra nei pressi della scala, a crocchi di quattro o cinque. Ridevano come matti, tra le lucine delle cicche e il vocio diffuso. Nel buio non si distingueva molto. Le finestre spalancate della casa gettavano fuori bagliori rossastri che svanivano subito nella notte. L’immancabile Lithium cadeva giù da casse molto più potenti di quelle del piccolo stereo dell’altra notte, la loro.

Stettero un po’ in piedi tra un gruppetto e l’altro, andosi la birra che Marco s’era portata nello zaino. Sara si stupì dell’offerta, ma non osò rifiutare, anche se era quasi astemia e suo fratello lo sapeva. Se tutti lo facevano doveva farlo anche

lei; sperò soltanto che non la fero fumare, non le andava proprio. Marco si decise a farsi largo tra quelli che continuava a maledire come profanatori. «Pessima idea essere venuto», pensò quando un tipo lo mandò affanculo per avergli fatto cadere la birra. Sara lo seguiva come un’ombra, distribuendo sorrisi intimiditi in giro. Le apparivano tutti così inseriti nei loro corpi, così presenti; non come lei che camminava staccata da terra, scialba come il fumo che usciva dalle loro bocche. Riconobbe qualcuna delle ragazze del Tecnico Femminile che incrociava nell’autobus; non s’erano salutate mai né tantomeno lo fecero adesso. Più volte le aveva detestate per i loro commenti volgari e il loro masticare a bocca aperta. Qui le ammirava: si sapevano muovere, trovavano frasi intere da dire, mentre lei era stata in silenzio da quando erano arrivati. Marco le fece segno di salire per la scala a pioli; non esitò, ne fu anzi felice, come se stesse per imbarcarsi in qualche avventura. Da piccola aveva fantasticato una casa sull’albero simile a questa. Si immaginava di costruirla lei e di accogliervi i suoi amici più intimi. Un club scelto e spietato, che si radunava lì per decidere piani e azioni segrete. Mentre si arrampicava per i pioli parte di quell’antica eccitazione tornava alla luce. Appena dentro, dovette attaccarsi a suo fratello perché la massa di persone non la ricacciasse all’indietro.

Marco lavorò di gomitate per guadagnare il centro della stanza. A quel punto vide Sonia, sudata e urlante, che saltava dando spallate alla cieca intorno a lei, mentre la t-shirt le era salita molto sopra l’ombelico. Era meravigliosamente fuori controllo. Marco le si avvicinò e cercò di farsi notare sbracciando in modo ridicolo, ma sembrava trasparente. Provò a gridare più forte della musica, senza ottenere nulla.

Nel frattempo una corrente umana aveva spinto Sara in un punto della stanza da cui non riusciva più a vedere il fratello. Si mise a saltare anche lei, per la disperazione o l’adrenalina; ogni volta che ricadeva, le gambe la reggevano di meno. Si ritrovò contro una parete laterale, vicino a una delle lanterne. Pensò di essere in trappola. Chiuse gli occhi; quando li riaprì un nanetto dagli spessi capelli ricci e dal pizzetto caprino era davanti a lei. La investì di parole scomposte in un forte accento calabrese: Sara capì poco o niente, se non che si presentava e che studiava a Perugia; il nome le era sfuggito. Nell’incertezza rise e si lisciò i capelli. Il ragazzo le ò una canna già quasi a metà. Si sentì

scortese e paurosa a declinare l’offerta. Fece tre piccoli tiretti e gliela riconsegnò subito. Cercò di farsi piacere la musica e di rilassarsi, per scacciare la paura di aver perso suo fratello.

Marco in realtà era poco più lontano di lei, al di là di un muro di gente. Dopo altri inutili tentativi di attirare l’attenzione di Sonia, si sforzava di non perderla d’occhio, rassegnato alla sua invisibilità. Alla festa c’era poca gente del Curvone, mentre gli sembrò ci fossero molti universitari, anche se di altre facoltà. Lui ad ogni modo non conosceva nessuno. Gli venne voglia di bere, ma il suo zaino con le Tennent’s era finito chissà dove. L’onda collettiva intanto si era placata di fronte al triste rosario di Polly: due quarantenni dai capelli lunghi stringevano Sonia e le palpavano i seni e il culo con oscena determinazione. Lei li lasciava fare, come disinteressata del proprio corpo. I want some help, to please myself. La loro notte era bruciata in un lampo. Anche la cenere era volata via e non si vedeva più.

***

Intorno alle quattro quasi tutti se n’erano andati. Gli abitanti di Castel del Piano alla lunga avevano vinto sull’isteria degli universitari: pur distrutti nel corpo e nella mente, erano ancora lì a fumare e a bere. Sonia, che tutta la sera era stata palleggiata da un angolo all’altro da uomini senza nome, realizzò soltanto allora l’esistenza di Marco. Si slanciò entusiasta verso di lui, che restò rigido di fronte ai suoi tentativi di abbracciarlo. Paolo aspirava da un cilum marocchino e ostentava universale indifferenza. Sara s’era addormentata, almeno da quando avevano staccato la musica. Giaceva semidistesa sul divano di pelle nera e russava soddisfatta, sognando di riempire le pagine del suo diario con un’elegante scrittura neogotica. Marco si sedette accanto alla sorella e decise provocatoriamente di non parlare più.

Senonché avvenne un fatto assolutamente inatteso. Si sentirono dei ettini sulla scala e il Putre, nella sua tenuta primavera-estate, ossia micro-

calzoncini&maglietta, apparve in mezzo alla stanza, incongruo come un’allucinazione.

«Ma che stè a fa’, matto, adesso te svegli?!», gridò Sonia, correndo da lui a fargli le feste.

«M’evon ditto che c’eva na’ festa! Ho aspettato che dormiva la mi’ mamma, e pu’ so’ nuto.»

«Ma la tu’ mamma va a letto a le quattro?»

«Volevo esse sicuro che n’n me sentiva.»

Ragionamento non troppo assurdo per un ménage familiare nel quale nessuno lavorava e ci si limitava a vegetare tra la Ruota della fortuna, Ok il prezzo è giusto e i Giochi senza frontiere. Il Gruppo-Botta, di colpo ridesto, si buttò a fornire le sostanze residue al nuovo arrivato. Sonia li incalzava frenetica con urla e fischi. Dopo venti minuti il malcapitato era in loro totale balia. Sonia era in prima fila a tormentarlo e a fargli ogni sorta di dispetti. Ammiccando agli uomini nella sala, iniziò come altre volte a giocherellare con la Creatura, questa volta con maggiore convinzione. Il Putre si schermiva, scacciando tra le bestemmie la mano di Sonia sempre più insistente. Ad un certo punto balzò in piedi, viola in volto. Ma non poteva più controllare il Bestio che premeva per uscire.

«Dai, faccelo vedere per bene», cantilenò Paolo.

«Daje, su, n’fa’ tante manfrine!», aggiunse subito Sonia.

Il Putre, nonostante la timidezza, nonostante l’umiliazione, quella volta inspiegabilmente cedette. Il Bestio apparve in piena luce, congestionato e percorso da spesse vene carnose. Un mostro, dotato di minacciosa vita propria; estraneo alla piccola mano che lo reggeva. Marco si alzò dal divano e disse tra i denti: «Io non voglio vedere...»

«Sì, sì, vai, che è meglio!», gli gridò dietro Paolo. Quando Marco era già uscito, Sonia indicò Sara addormentata. «Guarda tu quella! Ma come cazzo farà a dormire!», esclamò Paolo. Sonia gli lanciò uno sguardo d’intesa e come un’ombra si accostò al Putre. Gli appoggiò una mano sulla spalla, per fargli capire che era sua amica e insieme la sua padrona. Un attimo dopo gli fece un discorso all’orecchio che nessuno capì; lui scosse più volte la testa. Intanto, tra le rassicurazioni e i pizzichi sul collo, guidava i suoi movimenti e lo spingeva verso Sara. Alla fine il Putre obbedì, docile come un orso ammaestrato. Accostò il Bestio al viso della ragazza addormentata, facendolo scivolare sulla sua pelle con un gesto quasi affettuoso, come se volesse con quello accarezzarla. A un cenno di Sonia puntò la Creatura dritta contro la sua bocca semiaperta e iniziò a spingere. Paolo e Sonia risero fragorosamente e dopo di loro tutti gli altri, uomini e donne.

Sara si svegliò con un disgustoso sapore in bocca e sbatté più volte gli occhi, come se non credesse a quel che vedeva. Subito dopo si alzò in piedi e si strofinò con forza le labbra con il dorso della mano, mentre il Putre arretrava in preda al panico. Un grassone seduto per terra le urlò: «Com’è, t’è piaciuto?» Una delle ragazze del Tecnico Femminile rincalzò: «L’è mai visto uno così grosso?» Tutti risero ancora più forte. Sara, incapace di parlare, scrutò affannosamente intorno per cercare suo fratello, ma non lo trovò. Sbigottita, si sforzò di bloccare il tremito del labbro inferiore. Trovò il giacchetto, se lo infilò in un baleno e si precipitò giù per gli scalini, verso un punto invisibile nel nero dove potersi azzerare una volta per tutte.

***

«Ma dove vai, che t’è preso?», le chiese Marco, vedendola allontanarsi furiosa e a testa bassa.

«Vaffanculo pure tu!», inveì Sara con voce stravolta.

Dopo pochi metri calò subito un buio pesto. Sentì al viso le prime gocce di pioggia, sottili e pungenti. Tirò fuori con mano tremante la piccola torcia che s’era portata dietro. Con l’altra mano si tastò la tasca e ritrovò con sollievo l’ingombro delle chiavi di casa; anche se era uscita insieme a Marco, per fortuna non le aveva dimenticate. Si era fatto freddo all’improvviso: tirò su il bavero del giacchetto tanto amato e lo abbottonò sul collo; ormai le stava stretto, ma non voleva buttarlo. L’amichevole contatto del jeans sulla pelle le diede un piccolo conforto che quasi la fece piangere. Ma non poteva distrarsi, altrimenti rischiava di perdersi. Agitò la torcia davanti a sé: il sentiero proseguiva in salita verso un boschetto appena visibile, fantasma più scuro nel nero in alto. Alberi accavallati l’uno sull’altro, fitti di vita pericolosa e ignota, da cui distolse a fatica lo sguardo. Si concentrò e prese a destra, per la traccia d’erba che l’avrebbe riportata a casa. Le strisce di pioggia, inquadrate dalla fredda luce della torcia, luccicavano come vetro. Che imbecille era stata ad andare alla festa; certo non si aspettava un raduno scout, ma da qui a essere umiliata in quel modo. Che poi aveva accettato solo per sfida, per non dare a Paolo la soddisfazione di sentirsi superiore. Si dava così tante arie. L’unico a conoscere la vita. Coglione, che oltre al Piccolo principe non aveva letto altro. Almeno era riuscita a spiazzarlo, questo era sicuro. Ma adesso non ne valeva più la pena. Come avevano potuto essere così stronzi, così crudeli. Nemmeno la conoscevano. Come lei non conosceva loro. A parte quella grandissima testa di cazzo di Paolo, appunto. Marco poi, tutto tranquillo fuori, a fumare. Sarà stato d’accordo anche lui, l’infame. Era stata un’idiota a pensare che fosse contento di uscire insieme a lei, che avesse bisogno di lei.

Dai fossi ai lati, o forse da ancora più lontano, dal laghetto rintanato dietro alla grande quercia, saltellavano i canti delle rane: echeggianti e cadenzati, come il rombo di un’invisibile marea. Casa sua era nascosta oltre quella barriera, in fondo a una voragine immensa. Si sforzava di mantenere lo sguardo fisso al sentiero; ai lati i fusti dei girasoli si agitavano battuti dal vento come se provassero a parlare. Il ginocchio destro, illanguidito dall’alcool, scattò all’esterno e il piede per poco non scivolò sull’erba bagnata, ma Sara riuscì a restare in piedi. Le corse per tutto il corpo il gelo della paura. Se fosse caduta, si sarebbe infangata tutta. Desiderò chiudere gli occhi e risvegliarsi bambina. Sua madre la raccoglieva in tempo se perdeva l’equilibrio e la casa era tutta morbida e senza angoli. La mamma era invecchiata di colpo, prima che lei fosse diventata grande. Tutti le ripetevano che era già una donna, ma lei sapeva solo che non era più quella di prima. Qualcosa le schizzò a fianco, lasciando una scia di vento e pelo bagnato. Sara si voltò indietro: fiondato a razzo su per la salita, un cane piombò nella macchia e scomparve. Anche lui era solo, forse abbandonato.

Se si fosse rannicchiata in un buco d’erba, le orecchie tappate con le dita, nessuno l’avrebbe cercata più. Sarebbe restata lì, un corpo vuoto. Terrorizzata, affrettò il o e si trovò sulla strada, sotto la luce offuscata del lampione comunale.

***

Marco guardò la sorella scomparire nel buio. I girasoli oscillavano ancora leggermente dopo il suo aggio. Iniziava a piovere. Lasciò che le prime gocce gli colpissero la faccia: erano fredde e pizzicavano la pelle. Dalla casa nessuno veniva a cercarlo. Può darsi che non si fossero nemmeno accorti che era sceso. Si accucciò in un angolo sperando di vomitare: nulla. Lasciò perdere perché non intendeva ricorrere alle dita in gola. Dopo un tempo indefinibile la nausea scomparve. Ripensò a Sara e non gli parve per niente normale che fosse corsa via a quell’ora senza di lui. Decise di salire a controllare. La prima persona che vide fu il Putre: barcollava in un angolo della stanza, con il Bestio mezzo fuori e mezzo dentro. Non volle perdere tempo con lui. Si fiondò dritto da Paolo e gli

chiese seccamente: «Perché Sara è scappata a quel modo?» Paolo restò in silenzio. Sonia invece ridacchiò, indicando il Putre: «Me sa che s’è spaurata quando...», ma non fece in tempo a finire la frase, sommersa dalle risate. Il Putre tentò qualche inutile o in direzione di Marco; dopo una disarticolata corsa sul posto, stremato crollò sul divano e balbettò: «Me l’hanno fatto fa’, io n’c’entro niente!» Sonia alzò la voce, strafottente: «‘Scolta, è le’ che s’è ‘ncazzata! Nojaltri ce stavam’a diverti’ e basta!» Paolo, impietosito, prese Marco in disparte e gli raccontò l’accaduto. Concluse il discorso con un dolente: «Eravamo tutti strafatti...» Marco nemmeno rispose, gli voltò le spalle e scese le scale con lo sterno spaccato in due. All’aria aperta gli tornò la nausea, più violenta di prima, e tra le schifezze che non riusciva a vomitare finirono le parole non dette e il cadavere di quell’estate.

Lui e Sara non c’entravano niente con quella gentaglia. Camminando a grandi falcate verso casa, più volte sbagliando strada nel buio, Marco giurò a se stesso che non avrebbe visto mai più né Paolo né Sonia. Più ripeteva quel giuramento nel suo intimo, più provava un senso di spazio, di consolante pulizia, come se svuotasse dei cassetti pieni di robaccia. Però temeva che sua sorella non l’avrebbe perdonato. Se lei l’avesse lasciato solo, si sarebbe afflosciato a terra. Quando finalmente tornò a casa, sperò di vedere la luce sotto la soglia della camera di Sara, ma inutilmente. Si buttò sul letto, tenendo gli occhi fissi alle onde nere che si alzavano e abbassavano. Il suo corpo si assottigliava sempre più, come fosse fatto d’aria.

***

La mattina prima che ricominciasse la scuola, Sara decise di fare una eggiata. Un sole intenso colpiva l’asfalto e faceva luccicare le pozzanghere. Prese il sentiero che ava dietro la chiesa: poco oltre sparivano le case e spuntava la campagna. Camminava svagata e tutto quello che vedeva perdeva sostanza, come se tra lei e le cose si fosse aperto un grande silenzio. Suonò la campana di mezzogiorno. Affrettò il o, impaziente di restare da sola tra gli alberi; presto i faggi avrebbero perso le foglie ma dentro, sotto la terra, il

mormorio non smetteva mai.

Dal lato opposto della piazza, il Putre dormiva su una panchina, con le braccia stese lungo lo schienale e la testa sul petto: il Bestio era uscito dai pantaloncini troppo stretti, inutile stendardo.

IL RAGAZZO È CRESCIUTO

Il ragazzo è cresciuto d’un tratto, senza avvertire nessuno.

Ora che è sceso di corsa dietro casa, a fiutare tracce di cielo e campagna, la sua magrezza spicca aspra nel tepore disciolto dell’inizio di maggio. Da poco una peluria vana gli si attacca al labbro e nel suo odore quando suda o dorme c’è qualcosa di schifoso. I suoi polsi duri cozzano contro gli spigoli e fatica a reggere gli oggetti tra le mani. Nei pensieri c’è un ingombro denso che invischia anche lo sguardo e sembra che tutto sorga dalla pelle.

Le cavallette incollate ai muri vibrano, pronte a balzare. Le bave delle lumache scintillano di bagliori fragili. L’odore di letame e pelo sudato cola dalle stalle vicine. Il ragazzo si guarda le vene viola. Cerca il ricordo di quando da bambino l’orto si apriva enorme, e lui come un gatto saltava tra i vasi dei fiori e i ciuffi d’erba, o di quando affondava i calcagni negli zuppi nerastri, toccato dal vento ricco d’estate. Studia i relitti arrugginiti di carriole, le vecchie biciclette corrose, i mattoni sfasciati. I fiori hanno una pesantezza carnale che dà la nausea e colori che spaventano.

Il ragazzo è scappato dalle ombre della sua camera, dalla noia senza mani e sorrisi, ma all’aperto sente il respiro troppo forte, così forte che gli viene voglia di risucchiare tutta l’aria intorno. Vorrebbe voltolarsi a terra come i cani, sentire la terra nella saliva, raschiare la breccia con le unghie. I sassi lisciati dal sole restano morti a terra. Loro non hanno la furia, almeno.

La porta del mattatoio è socchiusa, esce fuori il puzzo di carne. Alle pareti si intravede il sangue secco. Eppure non tutto è morto, qualcosa di vivo sobbalza e si sentono dei tonfi rapidi e insistenti. Improvvisamente un gemito schizza dal

silenzio e lo frantuma. Fa venire i brividi, acuto come il pianto di un bambino. Il ragazzo è lì per scattare, ma le gambe gli si infrolliscono. Dietro le maniglie appiccicaticce, che sfiora appena con le mani, la penombra lo calamita, come se si aprisse per lui uno spicchio d’ignoto. Tremante, prova a guardare dentro, protende il collo ossuto, ascolta.

Non ci sono più gemiti, ma di nuovo quei tonfi e quei colpi che fanno male alle orecchie. Socchiude senza pensare una delle porte del mattatoio e dentro trova un agnello vivo, ansimante; le sue zampe esilissime sono legate l’una contro l’altra da uno spago. Dalle labbra elastiche, circondate da una tenera cornice rosa, esce un gemito che entra nelle ossa del ragazzo e le scuote. Uno degli agnelli per la Pasqua. Ben presto il sangue fresco sarebbe colato dal coltello di suo zio su quel pavimento sporco.

Il ragazzo si avvicina con lo stesso smarrimento di quando è andato all’altare il giorno della prima comunione. L’agnello prende convulsamente a contorcersi e sbatte il capo contro il pavimento. Il ragazzo scioglie meticolosamente i lacci, come fe un dispetto. I lividi dello spago sulla mano gli fanno così paura all’improvviso che quasi tornerebbe indietro.

L’agnello liberato calpesta meccanicamente con le zampe il pavimento e resta sul posto, stordito, non capisce dove si trova. Il ragazzo con il sorriso tra le labbra, anche se ha dentro di sé una grande pena, gli sussurra: «Scappa dai, scappa dai!»

L’agnello muove qualche o, abbagliato dalla luce, e poi si tuffa fuori, rapidissimo. Il ragazzo fa in tempo a vederlo saltellare nella breve striscia di verde tra le vigne, allegra macchia bianca. Continua a sorridere ma sente il ventre contrarsi per uno stimolo ignoto.

A pochi metri dal ragazzo, una porta sbatte. Un uomo solido come un tronco, dalle sopracciglia folte si getta contro di lui. E’ suo zio, il macellaio. Gli tira una sberla subito, facendolo cadere all’indietro sulla ghiaia che fa male alla schiena. Da terra, il ragazzo vede i muscoli gonfi dello zio e il torace enorme. Arrossisce di vergogna ma si sente quasi in pace. Il macellaio grida parole convulse che il ragazzo coglie appena, come se fosse diventato sordo.

«Ch’è fatto, ‘mbecille? Mo’ l’ dico al tu’ babbo, che te l’dà lui!»

Rialzatosi, il ragazzo scappa in casa, salendo le scale di furia e aggrappandosi al corrimano per darsi più spinta. Dalla finestra vede il macellaio affannarsi ad acciuffare l’agnello. La bestia si difende a testate e scalpita. Sembrano gli scatti dell’impiccato nel film che ha visto il giorno prima in tv. Il ragazzo sghignazza godendosi la burla riuscita, ma subito dopo l’immagine della gola lacerata, del sangue colato dal coltello sul pavimento, gli strozza il riso in gola.

Confusamente pensa alla Pasqua, all’erba che beve il sangue e al dio che ritorna a salvare e a punire. E sente di non capire nulla.

***