Voodoo 3q25

Titolo dell’opera: Voodoo Autore: Andrea Zanotti Copyright © DarkZone Editing: Tracce d'inchiostro - Servizi editoriali

Questo libro è un’opera di fantasia. La sua pubblicazione non lede i diritti di terzi. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell'autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.

Andrea Zanotti

Voodoo

“Quando un popolo, divorato dalla sete di libertà, si trova ad avere dei mescitori che gliene versano quanta ne vuole, fino a ubriacarlo, allora accade che, se i governanti resistono alle richieste dei cittadini sempre più esigenti, sono denunciati come tiranni. E avviene che chi si dimostra disciplinato è definito un uomo senza carattere; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come un suo pari e non è più rispettato; che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui. In questo clima di libertà e in nome della medesima non vi è più riguardo né rispetto per nessuno. In mezzo a tanta licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia.”

PLATONE

1. Risveglio

Un brusio di sottofondo mi tormenta le orecchie. Un pigolare ossessivo che pungola la mia mente, cercando di ridestarla. Ho sonno e nessuna intenzione di alzarmi. La sveglia non ha ancora suonato, lasciatemi stare, dannazione! Le lagnanze però non cessano. Una nenia molesta e ripetitiva fatta di parole che non riesco a cogliere, perché solo bisbigliate. Un mantra che sa di preghiera petulante. Non mi sarò mica addormentato durante la Santa Messa? Cerco di aprire le palpebre, ma le sento pesanti come saracinesche rugginose. Paiono incollate. Combatto, le sollevo a forza e mi riscuoto, sentendo le gambe formicolare. Cazzo, luci soffuse, candele, ombre e persone dai volti cupi. Devo proprio essere in chiesa, che figura di merda! Una mano mi afferra la spalla e mi strattona, facendo traballare la sedia sulla quale intuisco di essere seduto. Chissà da quanto, a giudicare dal formicolio che mi rende le gambe due pilastri di cemento insensibili. Ancora non riesco a mettere a fuoco, ma il naso mi funziona bene, purtroppo. Un’ondata di lezzo da cloaca mi investe, un misto di alcool di pessima qualità e letame. Un volto rugoso e sporco mi si para innanzi, sbraitando parole che surclassano e azzittiscono per qualche istante il vociare molesto. La voce è roca, incrinata da una sbronza tonante, e ogni sillaba mi perfora i timpani. «Ben arrivato, ragazzo.» Sputi viscidi e maleodoranti mi bagnano il viso. La bocca dell’uomo che rumina tabacco è orrida, una parata di denti marci e spazi vuoti. La barba è un inferno di filo spinato nero, bisunto; gli occhi folli nel loro reticolo di capillari scoppiati.

La paura mi scuote, cerco di alzarmi, di allontanarmi, ma il bruto mi strattona costringendomi a sedere. È alto, forte e muscoloso, nonostante l’enorme ventre. Dalla mia postazione a sedere mi pare un titano, un demone uscito da qualche abisso fetente. «Dove credi di andare, anima candida?» dice sprezzante, infilandomi un laccio al collo. Non capisco che diavolo stia facendo, cerco di fermarlo, ma ho le braccia deboli. «Cazzo fai?» Mi rifila un ceffone che per poco non mi stacca la testa. Lo sconosciuto mi sovrasta, mi sento un Bambi appena nato in balia di un orso idrofobo. La canapa del lazo mi smeriglia le carni del collo, mentre mi guardo attorno terrorizzato, in cerca di aiuto. Ora sono sveglio, l’adrenalina mi scorre a fiumi nelle vene. Osservo speranzoso: sagome tetre sono sedute ai tavoli di quella che sembra una taverna, un locale angusto e fumoso con finestrelle minuscole dalle quali non entra alcuna luce. Sono delle lampade a olio e un candeliere in un angolo a fornire la blanda illuminazione di quest’antro. La luce, assediata com’è dal fumo di mille sigari e pipe, potrebbe essere soffocata in qualsiasi istante, lasciandoci al buio più completo. Nessuno pare interessarsi al ceffo che mi sta brutalizzando. «Lasciami, bastardo! Qualcuno mi aiuti!» urlo con voce talmente effeminata da farmi ribrezzo. Nessuno reagisce, nessuno alza neppure il capo nella mia direzione. L’uomo ride, rifilando una scarpata alla mia sedia e facendomi volare all’indietro. Il cappio si stringe segandomi il collo e attutendo la caduta. Boccheggio in cerca d’aria. La botta in testa l’ho sentita bene. Il pavimento di legno, duro come marmo, puzza di vomito e segatura. Il bruto mi è sopra e sorride compiaciuto.

Cerco di respirare, la gola sigillata in una stretta soffocante, quando una sfera brillante mi compare davanti agli occhi, dal nulla, sostituendosi al brutto muso. Tutta la mia attenzione viene catturata da quell’oggetto, facendomi dimenticare il pericolo: è magnifica. Non ho mai visto nulla del genere. Una luce calda pulsa al suo interno sotto forma di nebbia cristallina contenuta in un involucro traslucido. Danza nell’aria ed emette un brusio, parole che ora riesco a cogliere. “Madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte…” Mi sento rinfrancato, ogni parola un balsamo capace di lenire lo stordimento che mi affligge. Quasi dimentico il mio aggressore, sennonché la mano callosa di questo si stringe sulla sfera e me la porta via. Mi pare di assistere a uno stupro, mentre osservo impotente. Vedo la mano carezzare il globo lascivamente, la lingua dell’uomo, fessurata e chiazzata dal tabacco, spunta dalla barba per are sulle labbra in un gesto osceno. Poi porta la sfera all’altezza del cuore e la schiaccia con forza contro il tessuto lordo del suo pastrano marrone. L’oggetto cantilenante sparisce fra le pieghe della veste, mentre l’uomo viene scosso da brividi di piacere. «Ottima questa profferta, roba pura. Lo sapevo che saresti stato un buon investimento. Ora in piedi, però!» Mi strattona come fossi un cane al guinzaglio. A fatica mi sollevo, le gambe che stentano a reggermi. Mi gira la testa e mi manca l’aria. Vertigini e stordimento sono concetti vaghi. Non ho idea di dove diavolo mi trovo, né di come ci sono finito. Tutt’attorno gli astanti sono rimasti imibili, i volti grigi e smorti che fissano il vuoto. Il barman sta servendo un altro cliente e finge di non aver neppure visto la scena, indifferente persino alla sedia mandata in frantumi dal gorilla. Non riesco a far altro che seguire l’energumeno verso l’uscita, sollecitato dai rudi strattoni del cappio. iamo di fianco a un tavolo al quale stanno seduti tre uomini. Anzi, una è una donna, lo intuisco solo dai lunghi capelli e dalle spalle esili; per il resto hanno tutti volti scavati, occhiaie profonde e un colore della pelle malsano. Fissano il vuoto, inebetiti. Forse sono terrorizzati dall’energumeno quanto me e tentano di diventare invisibili, stando immobili.

All’improvviso innanzi alla donna compare un’altra sfera. È bella, luccica di un bagliore perlaceo e parla. “Padre nostro che sei nei cieli sia santificato il…” Il mio carceriere l’agguanta prima che la mano della donna la raggiunga. Questa emette un verso incomprensibile, di stizza, si alza, forse vuole reclamare ciò che le appartiene, ma l’uomo estrae un coltellaccio e le apre il collo da parte a parte. Un gesto rapido, preciso e brutale. Quasi svengo mentre la donna crolla al suolo. Anche l’assassino distoglie lo sguardo, ma non faccio in tempo a chiedermi se sia il rimorso a farlo muovere, che un lampo accecante mi brucia gli occhi. Fitte dolorose mi invadono la testa, quasi strali divini mi fossero ati attraverso i bulbi oculari, incenerendo tutto. Ne sarei quasi lieto. Quando la vista si decide a tornarmi, il corpo della poveretta è svanito e il troglodita si sta comprimendo la sfera nelle carni. Gode. «Giornata fortunata, ragazzo» grugnisce, strattonandomi avanti. Incespicando lo seguo, mentre con mano tremante mi rovisto nelle tasche in cerca del cellulare. Il panico fa di me ciò che vuole. Perché non ci ho pensato prima? Devo chiamare la polizia! Concentrato nella mia cerca infruttuosa non mi accorgo che il bruto si è fermato e gli sbatto contro. Si volta e mi spinge indietro fino a tendere la corda; il cappio torna a mordermi le carni. «Eh, campione, il ragazzo viene con me, liberalo.» La voce proviene da un altro ceffo. Ritto al bancone, un uomo sulla quarantina, dai capelli lunghi e neri è intento a fumare una sigaretta e a bere da una bottiglia di birra con una flemma surreale. La sua voce è calma, cristallina. Porta un cappello a tesa larga e un poncho dalle varie tonalità del marrone. È la metà del bisonte che mi impicca a ogni o, ma sembra sicuro di sé. Per un istante credo di essere finito su un set di Cinecittà, ma il dolore a testa e collo, e la poveretta sgozzata, mi ricordano che c’è ben poco di finto in questa

situazione assurda. «Parli con me, ometto?» Il gorilla ghigna, la mano che ripone il coltellaccio per calare rapida sulla fondina dove mi accorgo alloggia il calcio di una pistola. Ancor prima che arrivi a impugnarla, un tuono fa vibrare le pareti della bettola. Mi tappo le orecchie. Troppo tardi. Vedo il corpo massiccio del mio aguzzino volare all’indietro con una voragine aperta nel petto. Con fragore rovina al suolo prima che un nuovo lampo faccia sparire anche lui. Rimango accecato per qualche istante, poi porto lo sguardo sul cowboy: ha un lembo del poncho sollevato sopra la spalla e il braccio scoperto impugna un fucile a canne mozze, fumante. Rovino sulle ginocchia sentendo lacrime scorrermi sulle guance. Dove diavolo sono finito? L’uomo si avvicina, ogni o scandito dal tintinnare degli speroni. Le altre persone di questo saloon grottesco non battono ciglio, immobili e perse nei propri fottuti pensieri da mentecatti. Delicatamente il cowboy mi solleva e fa per spolverarmi le vesti. Solo ora mi accorgo di indossare quello che sembra un sacco di juta. Che mi è successo? «Ti capisco ragazzo, sei confuso, vero?» Ragazzo? Avrà sì e no qualche anno più di me. «Non temere, ora sei in buone mani.» Lo fisso negli occhi vedendo solo un misto di determinazione e follia. Per lo meno non mi ha ancora aggredito. «Vieni, prendiamo da bere, ti farà bene.» Sono talmente fuori di me, spaventato e confuso, che l’idea di ingollare un po’ d’alcool mi pare la soluzione migliore. Ci accomodiamo al bancone e il tizio mi offre una sigaretta.

«Purtroppo il bastardo» dice indicando il posto dove sarebbe dovuto giacere il cadavere dell’energumeno, dissoltosi nel nulla, «ha fatto fuori il tuo canarino, altrimenti ti avrebbe spiegato tutto.» Il mio canarino? Il mio canarino mi avrebbe spiegato tutto? «Due, mister, per cortesia» dice l’uomo al barman non distogliendo lo sguardo dal mio volto. Devo ispirare comione nello stato confusionale in cui verso, ma questo tizio pare abbia il volto intagliato nel basalto. «Io sono Sparviero» si presenta, forse cercando di farmi coraggio, di farmi capire che è un amico, non ha cattive intenzioni, ma sono sotto shock e comunque non potrei rispondergli neppure se volessi: non ho idea di come mi chiamo. Questa constatazione non fa che gettarmi ancor più nello sconforto. Sento il panico montare nell’addome risalendo i polmoni e bloccando le vie respiratorie. Boccheggio. Il tizio mi posa una mano sulla spalla, a confortarmi, poi un altro globo luminescente e cianciante mi appare innanzi. Mi ritraggo, certo che il pistolero mi faccia lo scalpo pur di impossessarsene. Il barman nel mentre ci ha portato due boccali di terracotta e fissa la sfera con cupidigia. «Mettila via» mi consiglia Sparviero, «è tua.» Trovo il coraggio per posare la mano sull’oggetto incantato. È magnifico, liscio, piacevolmente tiepido e la voce è una melodia soave. “Accoglilo e fagli trovare tante caramelle…” Sento una fitta al cuore, mentre il ricordo della mia piccola mi invade la mente. È la voce di Nicoletta, certo, la mia bimba! La stavo accompagnando a scuola… «Sai, ragazzo, i nuovi arrivati sono preziosi. Tu sei prezioso. Finché i tuoi cari saranno affranti e ti penseranno, le preghiere non mancheranno di certo. Sarai una fonte di sostentamento preziosa, finché non ti dimenticheranno. A ogni modo, forse sei il tale che attendeva El Roi.» Non ho ben afferrato quelle parole, concentrato come sono nel tentativo di ricordare i lineamenti di Nicoletta. Ha sei anni la mia bimba, quasi sette anzi…

Sparviero mi invita a un brindisi e così lo imito portandomi il boccale alle labbra. Un liquido tiepido e praticamente insapore mi invade il palato. «Piscio di bue… sakè lo chiamano. È una vera sfortuna che il culto degli antenati prosperi soprattutto nelle terre di quei dannati musi gialli» sbotta il pistolero ingollando il contenuto in un sorso. «Ora andiamo però, devo presentarti agli altri.» Non ricordo il colore dei capelli della mia bimba… biondi e ricci? Forse… cosa? Il culto degli antenati? Mi dimenticheranno? Sono una fonte di sostentamento preziosa? Ha detto proprio così… di che cazzo parla? Gli afferro il braccio riportando su di me la sua attenzione. Si volta e mi inchioda con sguardo severo, imponendomi di mollare subito la presa. Così faccio. «Senti, ragazzo, quel pazzo di El Roi è lì che arringa le folle con i suoi spettacolini da circo per tentare di attirarti a sé, invece tu mi vieni quasi a sbattere sul muso. Bella fortuna» si tocca le palle in un plateale gesto scaramantico, «speriamo solo che questa botta di culo non mi costi cara. Sai come si dice, la ruota gira e tutto ha un prezzo in questo posto di merda.» Non capisco nulla di quello che dice. «Dove diavolo siamo?» sbotto, isterico. Sparviero mi prende per le spalle e mi scuote come per svegliarmi da un incubo. Punta i suoi occhi magnetici nei miei. «Non c’è un modo più delicato per dirtelo, ragazzo: sei morto.»

2. El Roi

Morto. Cazzo, non mi sembra di essere morto. Mi guardo attorno spaesato, cercando conforto e certezze nelle persone che mi circondano. Si muovono appena, legnose e tetre come statue prive d’anima, immerse in una nebbia dall’odore acre di fumo di sigaro. Morto. Certo, ci sono andato vicino, grazie a quel bastardo che per poco non mi tranciava il collo col suo lazo maledetto, ma non mi pare di essere un cadavere. Mi tocco braccia e gambe per accertarmi di non essere in un sogno. La consistenza è del tutto normale. Ho mal di testa e il collo mi pare ancora stritolato da un boa. Respiro a fatica. Non ho idea di dove sono, né di cosa mi sia successo, ma di certo sono più vivo di quegli zombi ai tavoli. Esseri lobotomizzati, forse? Potrei essere finito in un nuovo reality show? Uno di quegli esperimenti opera di qualche scienziato pazzo o impresario senza scrupoli… Morto. Sto ancora riflettendo su questa parola dal sapore tetro, quando il mio salvatore mi sospinge gentilmente oltre le porte del saloon. La presa di Sparviero mi dà conforto, è salda come una roccia, lo sguardo intenso, determinato. Mi affido a lui. Varco la soglia attendendomi di essere baciato dalla luce del sole, abbracciato dal suo tepore, invece nulla, tutto è inondato da un lucore anomalo, la cui fonte stento a riconoscere. Un cielo plumbeo sovrasta una via deserta. Mai viste nubi del genere, capaci di spodestare ogni sprazzo di blu e di ingoiare ogni raggio di luce. A bocca spalancata osservo quel grigio sterminato, privo di confini e increspature, un

grigio cenere uniforme, una tavola perfetta e incolore, aliena. Più che nuvole sembra uno strato omogeneo di pittura, poi mi imbatto nell’assurdo. Non credo ai miei occhi e crollo sulle ginocchia, sfuggendo alla presa di Sparviero che, gentilmente, tenta di sostenermi. «Ragazzo, che combini?» Fisso una costellazione pulsare di luce rossa. Da lì proviene la blanda illuminazione che permea il creato. Linee e punti luminosi che congiungendosi formano il disegno neanche troppo stilizzato di un toro maestoso, con corna e torace all’infuori in una posa arrogante. Invade buona parte del cielo innanzi a me, perdendosi all’orizzonte. Stelle collegate da rette perfette, quasi fossi al cospetto di un’applicazione astronomica da smartphone. «Bello, vero?» cerca di riscuotermi il cowboy, senza successo. Sento lacrime ardenti colarmi lungo le guance e inizio a tremare. Non riesco a ragionare, sto impazzendo; dev’essere così, non c’è alcun aggancio razionale che mi possa far pensare ad altro. Forse non sarò morto, ma di certo non sono a casa, né nel mio mondo. Merda! Dov’è finito il sole? Dove cazzo è il sole?! Sparviero mi solleva di peso e mi rifila due ceffoni capaci di ridestarmi. Lo fisso cercando di trattenere le lacrime, le guance in fiamme e l’orgoglio che mi insulta nel petto con rabbia. Mi volto in tutte le direzioni, spaziando con lo sguardo oltre le file di casette che compongono questa sorta di cittadina da vecchio west. Sono allineate ai bordi di una strada deserta e polverosa, una ventina per lato, tutte piccole abitazioni in legno di uno, massimo due piani. Niente asfalto, né semafori o auto. Niente insegne luminose o cartelli pubblicitari. Poi lo vedo, alla mia sinistra, innalzato nell’alto dei cieli, un altro ammasso di stelle a formare un’aquila, l’apertura alare vasta chissà quanti anni luce. Il cuore mi batte all’impazzata e sudo freddo. Non mi fermo oltre, lo sguardo che spazia per altri novanta gradi: un leone, la criniera composta da ammassi di stelle o galassie. Proseguo, un uomo fatto di astri e comete, e poi chiudo il cerchio, tornando al toro. «Li riconosci?»

La voce di Sparviero pare giungere da un buco nero. Come diavolo dovrei riconoscerli? «Leone, Toro, Aquila e Uomo: i Cherubini. Qualcuno identifica in loro la santità degli Evangelisti, sai? Marco, Luca, Giovanni e Matteo, le loro immagini brillano all’orizzonte irraggiungibili, segnando il confine invalicabile con i Regni Celesti.» Sono sconvolto e non afferro il senso di quell’insieme di parole. Dev’essere il principio della pazzia, il cervello che se ne va in pappa. «Non temere, ragazzo, El Roi ti spiegherà tutto, andiamo da lui, vieni.» Mi prende sottobraccio come una chioccia col suo pulcino e mi conduce lungo la strada sterrata. Non riesco a reagire, lo seguo senza opporre resistenza ciondolando in quel mortorio, come una marionetta dai fili recisi. I piedi sollevano nuvolette di sabbia dello stesso grigio smorto del cielo, mentre covoni di polvere mi corrono al fianco in un silenzio ovattato. Fatico a respirare e gli occhi mi vanno in fiamme. Sparviero ha il buon gusto di starsene zitto finché non arriviamo a un incrocio. Sulla nostra destra si apre uno slargo che conduce a una piazzetta. «Vedi ragazzo, El Roi è laggiù. Dà spettacolo.» «Smettila di chiamarmi ragazzo, per Dio!» L’uomo mi guarda infastidito, con aria torva. La pazienza non è il suo forte. In effetti non dovrei prendermela con lui, visto che è l’unico a mostrare un briciolo di interesse per me, oltre ad avermi salvato la vita. «Scusa…» «Come dovrei chiamarti?» Non lo so, dannazione, non lo so!

Scuoto la testa, affranto. «Su andiamo, ci penserà El Roi a trovarti un nome adatto.» Ancora questo Ellroi o El Roi, non capisco bene, pronuncia quel nome in modo strano, ogni volta diverso. Sono proprio curioso di conoscerlo, questo grand’uomo. Ancor prima di vederlo ne sento la voce: un gracchiare molesto, come di lame rugginose che stridano fra loro. Potente però. Deve avere degli amplificatori perché sembra la parlata tonante di un dio. Sparviero mi indica un carro sul lato dello spiazzo. Una ventina di persone sono ai piedi del mezzo e osservano un uomo di colore scheletrico che saltella sul pianale del carretto con un pollo in una mano e un coltellaccio nell’altra. La bestia starnazza sbattendo le ali in un frullar di piume bianco sporco. È quell’uomo a emettere la voce possente. È El Roi, non ci sono dubbi. Ci avviciniamo poco prima che il nero, sulla cinquantina, con una folta coltre di capelli rasta che gli fuoriesce da una bombetta bianca, sgozzi il galletto, innaffiando il suo pubblico di sangue. Getta via la testa dell’animaletto, balla e salta, spruzzando a destra e a manca con generosità. La folla non si ritrae, nonostante fra loro ci siano persone con un colorito diverso da quelle che ho visto nel saloon. Ci sono anche quelli che mi paiono a tutti gli effetti degli zombie, immobili a ricevere quel battesimo purpureo e blasfemo. Il negro sembra uscito da un incubo delirante. È agghindato come un folle: una bombetta bianca e la giacca di uno smoking nero aperto sul davanti, e sotto nulla, solo collane d’ossa, piume e ninnoli colorati a pendere su un petto glabro e macilento. Non porta pantaloni a coprire due gambe rinsecchite da insetto, ma solo un astuccio penico che mi ricorda i documentari sulle tribù primitive amazzoniche. Guardo Sparviero. «E quello sarebbe El Roi? Quello che mi dovrebbe rassicurare e spiegare tutto?» «Esatto!» mi risponde l’uomo compiaciuto, battendomi sulla spalla con una

manata. Ci portiamo sotto al palco, dove nel frattempo un ragazzo e una donna, vestiti con sai vermigli, ano fra gli astanti a raccogliere oboli di tutti i tipi: lame, bottiglie, monete e sfere di luce. In cambio danno agli offerenti dei flaconi contenenti un liquido giallo piscio. «Un tonico per abbreviare le vostre pene. Un elisir per tornare al di là. Ogni giorno un tappino, mi raccomando!» tuona il negro con voce suadente e distorta dagli amplificatori, finché il suo sguardo si fissa nel mio e ammutolisce di colpo, per poi far segno a Sparviero di portarmi da lui. «Figli miei, è ora che io vada. Altre anime necessitano del mio aiuto» sbotta il ciarlatano non appena saliamo sul carro. Mi stringe la mano fra le sue, ossute e insozzate di sangue e merda di pollo. Sparviero è già balzato giù e lo vedo armeggiare con una coppia di cavalli neri come l’abisso legati al patio di una casetta lì dietro. Li aggioga al carretto e torna a prenderne un terzo sul quale sale agilmente. Dopo poco i due giovani che ho visto prima ci raggiungono, lasciano al nero le offerte, si tolgono il saio e, senza degnarmi di uno sguardo, balzano a cassetta. Sembrano avere una certa fretta. La donna, una bella figliuola dalla carnagione bronzea e i capelli corvini, continua a osservare il pubblico con aria preoccupata. L’altro, un ragazzotto dalla cresta platino, sotto i trenta, orientale e dalla corporatura tondeggiante, dà subito di redini. Con un sobbalzo il carretto si mette in moto, accompagnato da un concerto di scricchiolii e lamentele di legno e ruote ferrate. «Benvenuto fra noi, gringo» mi dice El Roi invitandomi a sedere sul fondo del carro, sopra una pezza logora e maleodorante. Lui fa altrettanto. Ha un volto rugoso, denti gialli come limoni e occhi da pazzo. Pare siano una caratteristica comune alle genti che abitano questo posto. I lunghi capelli sale e pepe, raccolti in trecce rasta che cadono sulle spalle esili, contribuiscono a renderlo assurdamente bizzarro, così come la bombetta bianca che li tiene raccolti. Nel complesso però, devo ammettere che emana un magnetismo profondo, da santone induista. «Ti stavo aspettando, ora siamo al completo.»

Sorride pacioso, armeggiando nel taschino dello smoking fino a estrarne un sigaro enorme. In quel mentre sento la folla ululare alle nostre spalle. Grida scomposte, cariche di una gioia sfrenata e improvvisa. «Mierda, è già qui!» sbotta El Roi voltandosi a osservare la scena, il sigaro che gli sfugge dalle labbra carnose. Si alza sulle gambette scarne e raggiunge i due giovani seduti a cassetta, rischiando di venire sbalzato oltre il parapetto del carro che sobbalza, spinto a velocità folle. Lo sento urlare a quello dai lineamenti orientali: «El hijo de puta è qui, hai piazzato l’attrezzo?» Il volto a mappamondo del cinese osserva l’uomo di colore, poi sorride di gusto. Cede le redini alla mulatta e con una goffaggine inaudita porta il suo corpo grasso e flaccido verso il fondo del carro. Solo il baricentro basso e la densità corporea gli concedono di non finire sbalzato fuori. Quando mi supera mi accorgo della cintura che indossa, composta da una serie infinita di quelle sfere salmodianti. Ne avrà almeno una dozzina attaccata lì, ognuna che continua a blaterare il proprio mantra in un coro cacofonico d’oltretomba. El Roi gli tiene dietro e guarda con occhi spiritati in lontananza, dove il grido dei suoi ex spettatori si è tramutato in una fiumana di acclamazioni e ovazioni sperticate. Cosa diavolo avranno da gioire tanto? A quattro zampe, per evitare di finire a terra a causa degli scossoni del carro, raggiungo la strana coppia. Il cinese stringe in una mano dalle dita paffute un oggetto simile al telecomando di un televisore, mentre El Roi non toglie gli occhi dalla folla festante. Ne seguo lo sguardo fino a scorgere quella che mi pare una statua d’oro: almeno quattro, cinque metri d’altezza. Quando sia comparsa è per me l’ennesimo mistero. «È proprio lui, Loi!» ghigna soddisfatto il cinese, storpiando il nome del nero. «Quel pendejo de mierda si è fatto furbo. Dovremo stare più attenti in futuro.» Mentre proferisce quelle parole con rabbia, El Roi gesticola, tracciando in aria un disegno immaginario dalle linee perfette che quasi mi pare di vedere.

Le vedo proprio, altro che! Ma come diavolo fa? Segmenti retti che si intersecano a dar vita a una croce, ai quali poi aggiunge ghirigori a formare un simbolo che non conosco, ma tutto sommato gradevole. Non riesco a godermi quella piccola meraviglia pulsante nell’aria e originata dalle dita ossute di El Roi, perché qualcosa di ancor più straordinario mi cattura. Quella che avevo scambiato per una statua è qualcosa di molto diverso, qualcosa che non riesco neppure a concepire. Uscito da un film di fantascienza, forse, o frutto di qualche marchingegno di realtà virtuale, non saprei dirlo. Pare un angelo corazzato, un robot con ali piumate, ai piedi del quale gli uomini ululanti si stanno prostrando con devozione. Cristo, sono ammattito… Mi attacco alla coda dello smoking di El Roi. Devo sapere. Devo avere la certezza che quella creatura non sia frutto della mia immaginazione delirante. «Che cazzo è quello? Lo vedi anche tu?» L’uomo smette per un istante di scrivere nell’aria e mi guarda con comione, riverso come sono ai suoi piedi, un postulante sbroccato. «Un fottuto Arcángel, un cacciatore di teste…» Una folata d’aria irruenta ci raggiunge non appena la creatura snuda le ali e inizia a sbatterle con vigore. Avrà l’apertura alare di un F18, e ora sta scaldando i motori. Ai suoi piedi gli accoliti cessano di prostrarsi e di adularla e vengono letteralmente spazzati via. «Ora, ora, cabrón!» sbotta El Roi rivolto al cinese. Il ragazzo solleva alto in cielo il telecomando con un gesto teatrale e pigia un tasto rosso. Un boato spaventoso mi fa esplodere i timpani mentre il cervello cerca di registrare le ultime immagini prima che una nube polverosa ricopra la scena. Una bomba ha mandato in frantumi Arcangelo e corazza, postulanti e mezzo villaggio.

Stordito, rivedo nella mente l’armatura d’oro dell’angelo esplodere in pezzi, in tutte le direzioni, rilasciando una sorta di nebbia brillante. Spallacci, schinieri e pettorale trasformati in proiettili mortali capaci di decapitare e amputare e segare a metà molti dei fedeli, ancor prima che fosse l’esplosione stessa a farne strage. Quando riapro gli occhi mi trovo sul fondo del carretto. È il cinese a cercare di sollevarmi. Mi ha preso una mano senza che neppure me ne sia reso conto e ride come un matto, anche se non riesco a sentire niente. Nelle orecchie ho ancora il rimbombo della deflagrazione e sarà un miracolo se non mi ritroverò con i timpani perforati. Mi aiuta a sedere, capendo che le gambe non mi reggono. Dio, ma dove sono finito? Mi fa accasciare sulla pezza puzzolente sulla quale siede anche El Roi. Anche questo sorride sguaiato mentre fuma soddisfatto il sigaro. Cristo, hanno appena trucidato un angelo… forse non sono morto, ma di certo sono piombato in un incubo.

3. La posse al completo

Il carro prosegue a lungo, cullandomi nel mio stato confusionale. Mille pensieri mi intasano la mente, pulsano contro le pareti del cranio, rischiando di mandarlo in frantumi. Una volta svanita l’euforia per il botto, sul gruppo dei miei accompagnatori è calato il silenzio. Il cinese è tornato ad affiancare la meticcia alla guida del carro ed El Roi mi ha imposto di tacere dopo la mia prima sfuriata di domande. Ha detto che deve meditare, lasciandomi lì come uno stolto sopraffatto da una ridda di domande senza risposta. Se non fossi annichilito dagli eventi lo continuerei a importunare, ma sono paralizzato. Questa realtà parallela – come diavolo dovrei chiamarla sennò – mi ha colpito con violenza inaudita. La testa mi esplode e non capisco perché, visto che la morte dovrebbe portare come corollario la cessazione di ogni sofferenza. Ho perso di vista Sparviero. Fra tutti questi matti è quello che mi ispira più fiducia… anche se non è certo la parola adatta a descrivere un sentimento che mi viene dettato unicamente dalla disperazione. A qualcuno devo pure aggrapparmi per non perdere il senno, anche se scegliere quella sorta di brutta copia di Clint Eastwood non è certo sintomo di sanità mentale. Tempo fa l’ho visto partire al galoppo sul suo stallone, i lembi del poncho che sferzavano l’aria, precedendo il carro. Deve essere andato in avanscoperta, in cerca di pericoli che neppure riesco a immaginare, ma della cui esistenza non dubito più. Non so quanto sia ato, né la direzione che stiamo percorrendo. Certo, il toro alto nel cielo è un punto di riferimento chiaro, anche se privo di significato, almeno per me che sono estraneo a questo luogo alieno. Si è alzato un forte vento che trasporta una polvere soffocante. Sembra cenere, come se da qualche parte ardesse un fuoco immane, forse le fiamme stesse dell’inferno. Si insinua sotto il misero straccio che mi ricopre il corpo, causandomi un fastidioso prurito.

A cassetta il ciccione orientale e la bella si sono messi delle bandane sulla faccia per non soffocare, ma nessuno si è degnato di darne una anche a me. Dev’essere questa polvere ad arrossare gli occhi di tutti quanti. Eppure se sono morto io, anche loro dovrebbero esserlo, e la polvere negli occhi e nei polmoni non dovrebbe costituire più un problema per nessuno di noi. Almeno credo, almeno così dovrebbe essere a rigor di logica. El Roi comunque è imibile, un asceta rinsecchito e cantilenante, perso in una trance che sospetto finalizzata al non dover rispondere alle mie domande. Dovrei farmi forza, alzarmi, sfidare il beccheggiare del carro e prenderlo per il bavero dell’assurdo smoking, ma non ci riesco. Sono spezzato, morto, così come ha detto Sparviero, e non ho motivo di dubitare delle sue parole. Il suo sguardo era sincero. Spietato, ma sincero. E poi le figure umane che sembrano ombre, quelle sfere luccicanti, quanto sono belle, e quel robot gigante che El Roi ha chiamato Arcangelo, poco prima di farlo saltare in aria… la mia razionalità fatica a invalidare quei segni chiari. Indizi che presi singolarmente forse avrei potuto accantonare, ma che giunti così in blocco non posso ignorare, per quanto ottimismo possa iniettare nei circuiti della mia testa. Morto. Per non parlare del cielo plumbeo e delle folli costellazioni che lo rischiarano di questa luce rossastra, satanica quasi, se non fosse per il pulviscolo che ne attutisce la luminosità. Il toro all’orizzonte appare minaccioso, pronto a caricarci a testa bassa, travolgendoci con la sua mole gargantuesca. Sono veramente al cospetto degli inferi? Un’anima dannata, destinata a supplizi eterni per colpe che neppure riesco a ricordare? Forse questa è la sofferenza più atroce, la pena più vigliacca. Mi rendo conto di essere al limite. Gli occhi mi si chiudono quasi fossi sveglio da settantadue ore filate. Sveglio o morto? Li chiudo sperando di destarmi nel mio mondo, di uscire di soppiatto da quest’incubo. Immagino il carro sia una barca cullata dolcemente dai flutti marini, che il salmodiare del negro sia il cantico soave di una sirena, e penso a

Nicoletta, la mia bimba, l’unico collegamento con la mia vita precedente, o forse semplicemente un modo sadico per farmi ricordare quanto di bello esista al mondo… in un altro mondo, un mondo al quale non so come tornare.

*

L’odore è inconfondibile e mi arriva alle narici ancor prima di aprire gli occhi. È un luogo che non ho frequentato molto. Ogni tanto mi capitava di vergognarmene. Ci andavo di rado, non per stupide superstizioni, ma per mancanza di tempo… o almeno questa era l’auto giustificazione che fornivo alla mia coscienza. Mio padre e i miei nonni si sarebbero meritati maggiore rispetto, eppure è inutile struggersi nei rimpianti. E dire che il posto mi è sempre piaciuto, nonostante tutto. La quiete, il suo essere sempre ben curato, e quel profumo caratteristico di vegetazione, incensi e fumi di candele. Certo le poche persone che si incontrano, escludendo il giorno dedicato ai morti, quando invece si stenta a are, hanno sempre musi lunghi e tetri. A ogni modo non ho dubbi, è il cimitero della mia città. Apro gli occhi e mi trovo al cospetto di una folla silente. Uomini, donne e bambini tutti pressati fra loro, tutti vestiti con abiti scuri. Solo gli ombrelli, dalle forme e tonalità più disparate, donano un po’ di colore alla scena, anche se a stento riparano da una pioggia fastidiosa. L’atmosfera è tetra. Mano a mano che prendo contatto con la realtà vengo colpito da sensazioni nuove, non solo dalla voce del prete che incensa il defunto con cadenza monotona, ma da una tristezza palpabile. Nonostante questo, sembra proprio che io sia tornato nel mio mondo. A stento riesco a trattenere un grido di gioia, del tutto fuori luogo. Mi spiacerebbe turbare quella veglia funebre con risa sguaiate, ma l’idea di essere scampato all’incubo alieno mi galvanizza. Certo non capisco come sono giunto qui, ma che importa? Forse ho solo ecceduto con l’alcool? Un primo accenno di Alzheimer? Chi può dirlo, l’importante è che il cielo, seppur velato, sia quello di casa. Niente costellazioni folli a pulsare di un rosso del malaugurio.

Vengo attratto dal pianto di un bimbo. Vorrebbe correre per quei vialetti deserti, saltare nelle pozzanghere, giocare insomma, invece la mamma lo strattona, bloccandolo. Il piccolo non capisce perché quegli adulti stiano tutti zitti e con i musi lunghi, né perché non possa sfrecciare in quei vialoni privi di macchine e pericoli. Sento i suoi pensieri con chiarezza sorprendente. Avrà l’età di Nicoletta. Noto tanti bambini, in effetti, troppi. Che ci fanno tutti riuniti al cimitero? Non siamo mica al parco giochi! Incuriosito, mi avvicino. La gente si scosta impercettibilmente per farmi are, anche se nessuno mi rivolge il minimo cenno di saluto. Eppure guardando bene fra ombrelli, baveri alti delle mantelle e cappelli per proteggersi dalla pioggia, scorgo volti che mi paiono familiari. Un uomo sulla quarantina, dalla barba scura stile tigre di Mompracen e gli occhi tristi, con in braccio una piccoletta tutta boccoli, mi pare proprio di conoscerlo. Franco forse… sono confuso da ondate di sensazioni che stento a riconoscere. Prevale la tristezza, ma non manca la stanchezza e il desiderio di essere altrove, il fastidio per essere sotto la pioggia, il peso di una presenza imposta più dalle convenzioni che dalla convinzione. L’intensità di queste percezioni mi stordisce, quasi provassi in prima persona i sentimenti di quella gente, ma amplificati. Alcuni sono stufi, altri sinceramente addolorati… poi la vedo e crollo sulle ginocchia. La mia piccola, Nicoletta, in braccio alla mamma, mia moglie Lucrezia. Come potevo averla dimenticata? I suoi capelli ramati sono scompigliati, gli occhi stanchi e gonfi. Strano vederla così trascurata, non è da lei. Ricordi mi affluiscono alla mente come un fiume in piena, scacciando le altre sensazioni con violenza: la fermata dell’autobus, lo stridere delle gomme sull’asfalto, il volto del bastardo al volante prima dello schianto, io che spingo lontana, al sicuro, Nicoletta, e poi il dolore, il rosso del sangue e il buio. Il vuoto assoluto. «Davide era un buon marito, un bravo padre…» La voce del prete interrompe il flusso dei ricordi.

Davide, ecco il mio nome, ora ricordo anche quello! Fisso il prelato con sgomento. Ai suoi piedi una bara scura già calata nella fossa, al fianco una lapide spoglia con impresso il mio nome e la data della dipartita. Cristo, non riesco neppure a muovermi, men che meno a parlare o ad articolare qualsivoglia pensiero. Una furia rabbiosa mi monta nel petto. Il desiderio di prendere per il bavero quel dannato ministro di Dio mi pervade integralmente, faccio per avvicinarmi, per piazzargli il muso innanzi. Sono qui, brutto coglione, proprio davanti a te! Nicoletta e Lucrezia sono a un o, la voce della mia piccola mi allieta le orecchie, calmandomi. Adoro il suo tono dolcemente incerto. «Ma papà tornerà, vero?» Mi sento svenire. In quell’istante l’uomo con la barba che mi pareva di conoscere, si avvicina a mia moglie, la sua bimba sempre in braccio. Percepisco la mole del suo dolore come un macigno sullo stomaco. La sofferenza dell’uomo è paragonabile alla mia. «Le mie più sincere condoglianze, Lucrezia. So come ti senti…» poi si interrompe, la voce rotta dai singhiozzi. L’uomo non mente. La sua non è la solita frase di circostanza. Vedo la successione delle immagini come il più cupo dei film drammatici: la malattia, le cure inutili, la donna senza capelli, smagrita, affranta, la speranza dell’uomo che vacilla, la fede della donna che nonostante tutto non crolla e poi la fine, il lutto senza ritorno e i pianti inconsolabili della piccola Elisa, rimasta senza mamma. «Anche il papà di Nicoletta è andato in cielo come la mia mamma?» chiede la piccina al padre. Sento il groppo che si forma nella gola dell’uomo. Una barriera che nessuna parola di conforto sarà in grado di scalare. Il poveretto è un guscio vuoto che si impone di non esplodere in pezzi solo per l’amore verso la piccola. Lucrezia conosce la triste storia di quell’uomo e di sua moglie, comprende la sua sincerità, gli stringe la mano e i suoi occhi gonfi di pianto sono l’ultima

immagine prima che l’incubo torni a pretendere la mia presenza. Mi sento scuotere da dita ossute. «Sveglia, amigo, siamo arrivati. Meglio non eccedere con i viaggi astrali, soprattutto se questo è il tuo primo cimento.» Riapro gli occhi su un cielo plumbeo illuminato da un ormai familiare bagliore rossastro. El Roi mi sovrasta schermandomi da quei raggi malevoli e non appena si accorge che sono di nuovo fra loro, mi sorride con una chiostra di denti gialli. «Forza, campeón, è ora di parlare. La nostra posse è finalmente al completo!»

4. Purgatorio

Parlare, certo, non vedo l’ora. Stento a mettere a fuoco il circondario, ma la foschia e il cielo plumbeo non mi lasciano dubbi, né scampo. Non le nuvole e la pioggerella del mio mondo, no, non più, ma quella dannata fuliggine che vela i bagliori rossastri delle costellazioni degli Evangelisti, così come li ha chiamati il cowboy. Non il profumo di quiete del cimitero della mia città, ma solo l’afrore polveroso di questo universo, l’arsura che penetra nelle narici e in gola, rendendoli un deserto riarso. «Allora, sei pronto, hombre?» El Roi si è fatto affiancare dal cinese e assieme mi tirano giù dal carro, di peso. Per quanto avrò dormito… o viaggiato? Il blaterare delle mille voci delle sfere parlanti che compongono la cintura del giallo mi stordisce. Quel brusio soave, che preso singolarmente dona pace, esce ora distorto e grottesco, una cacofonia di voci che assomiglia a un coro di anime straziate in cerca di perdono. Vacillo sentendo le gambe molli. «Ti è piaciuto tornate al tuo mondo, ragazzo?» La voce di Sparviero mi coglie di sorpresa. Non posso nascondere di provare un certo sollievo a rivedere quella sorta di pistolero. Lucrezia, Nicoletta e tutti gli altri raccolti in mio onore… in mia memoria. Nonostante tutto trovo la forza per rispondergli e mi svincolo dalla presa del giallo, che stizzito se ne va maledicendomi nella sua lingua incomprensibile. «Ho visto mia moglie e mia figlia. Voglio tornare da loro.» El Roi mi fissa stentando a trattenere un sorrisetto compiaciuto che mi aizzerebbe a pestarlo. Il volto di Sparviero invece si fa cupo. Sotto la corazza da

duro, percepisco che provi una certa pena per la mia condizione, o almeno un briciolo di empatia. «Sei morto, gringo» mi ripete il nero scuotendomi con delicatezza, quasi a spolverarmi gli abiti dalla sabbia che vi si è depositata. «Ma ero fra loro, li ho visti… al mio funerale…» Dar vita a quelle parole mi scuote nel profondo e finalmente riesco a piangere. Non mi frega un cazzo di apparire debole, non mi frega un cazzo vedere Sparviero distogliere lo sguardo disgustato. A sorpresa è la bella mulatta ad avvicinarsi e ad abbracciarmi, a cullarmi con dolcezza, come una madre premurosa. «È normale sentirsi spaesato. Non hai neanche potuto parlare al tuo spirito guida…» «Il suo canarino si è fatto accoppare come un pivello» interviene Sparviero sprezzante, ma la bella lo allontana con un gesto secco. Cerco di ritrovare l’orgoglio, di riprendere un minimo di controllo, anche se il calore che trasmette il corpo della donna premuto al mio è una panacea contro tutti i mali. Come posso percepirlo se sono un cadavere? Non vorrei staccarmene più. «Lasciamolo alle cure di Esmeralda» ghigna El Roi con un sorriso laido, prendendo sotto braccio Sparviero e allontanandolo da me. «Quando sarà pronto gli spiegherò della nostra posse, noi dobbiamo studiare il sentiero.» Accompagnati dal tintinnare degli stivali del cowboy, i due si allontanano e ci lasciano soli. La fragranza dei lunghi capelli neri della mulatta è un balsamo capace di farmi tornare ricordi di fasti antichi. Gli anni delle prime infatuazioni, delle prime uscite con Lucrezia, del cuore palpitante e lo stomaco chiuso e il desiderio struggente. Sentimenti e sensazioni amplificate, difficili da contenere. Mi

discosto imbarazzato dalla ragazza e l’osservo cercando di riavermi. Ha occhi verdi nei quali ogni uomo smarrirebbe il lume della ragione. Pare che in questo posto le emozioni lievitino a dismisura e in questo momento non sono certo in grado di gestirle. È lei a parlarmi. «Dimmi, credi in Dio?» Vedendomi titubare va oltre. «Hai fede? Un qualche credo religioso? Sai, sarebbe tutto più semplice.» Cosa dovrebbe essere più semplice? Accettare la morte? «No, non credo a quelle storielle.» Per un istante penso mi voglia rifilare uno schiaffo, ma l’ombra irosa che le ho visto calare sullo sguardo scompare veloce come è venuta. «D’accordo, non è un problema insormontabile, vedrai, innanzi ai fatti reali e concreti, anche quelli come te finiscono con il credere.» Mi sorride porgendomi la mano e il solo contatto mi dona un brivido quasi fossi uno studentello decisamente cresciuto e rimasto troppo a lungo vergine. «Dimenticavo, io sono Esmeralda. Sono un’antropologa delle religioni. Sì, insomma, lo ero…» La guardo smarrito. «Una sorta di ricercatrice. Studiavo il rapporto fra gli uomini e le credenze religiose e i collegamenti fra queste.» «Piacere, io sono… Davide» la interrompo, ricordando il nome proferito da quel bastardo di prete che mi credeva morto e che incensava la mia dipartita al funerale, pur senza conoscermi. «Senti, Davide, dovresti essere contento di scoprire che oltre la morte c’è altro, no?» «Devo farmene una ragione, quindi? Dovrei festeggiare?»

«Insomma, per voi miscredenti la morte significa la fine di tutto, game over, invece come vedi c’è qualcosa, bello o brutto che sia, ma c’è.» Mi ritrovo a osservare di nuovo il cielo plumbeo e le strane forme che ne denotano i confini. Sono delle opere d’arte, per quanto continuino a esercitare su di me un’inquietudine palpabile. Per il resto il paesaggio è una sterminata distesa omogenea di nulla, punteggiato qua e là da alberi scheletrici dai tronchi bianchi e poche foglie avvizzite e pallide. Una sorta di deserto lunare, nel quale spuntano il carro e questi matti, come un’isola abbandonata e un gruppo di naufraghi. «Dove siamo, Esmeralda, illuminami, ti prego.» La paura irrazionale di sentirmi rispondere «all’inferno» mi coglie di sorpresa. Di certo non è il paradiso, poco ma sicuro. L’inferno, Cristo, non posso credere esista davvero, che possa essere un posto reale e non l’invenzione delle istituzioni religiose per rabbonire le masse. Impossibile! «Per farti capire, direi che il modo più semplice di definirlo è in purgatorio. Il concetto ti è familiare, Davide?» Mi ha preso per un demente. «Un luogo nel quale le anime sono di aggio, anche se la cosa è molto più complessa in verità.» «Sì, mi pare Dante Alighieri ci abbia scritto un libro di un certo successo, se non sbaglio.» Gli occhi della donna si illuminano, diventando ancor più belli e innescando in me reazioni poco consone a un’anima. «Siamo nel luogo in cui sbarcano uomini e donne indegni di godere della vista di Dio, e tanto meno di essere ammessi al Suo cospetto, a prescindere da ciò che ognuno possa ritenere Esso sia.» «Quindi Dio esiste?» La domanda mi esce spontanea e la fanciulla sorride, i denti bianchi che risaltano

sulla pelle caffelatte del viso. «Beh, questa è una bella domanda. In realtà non saprei dirti se uno solo o molti o se si possa parlare di Nirvana, di illuminazione o quant’altro, ma di sicuro esiste un altro luogo dove i meritevoli riescono ad accedere. Di certo posso dirti che Angeli, Arcangeli e tutta la schiatta di demoni loro controparti sono reali e si aggirano per queste lande.» «Come quello che avete fatto saltare in aria?» Pazzesco come mi stia adattando velocemente a queste informazioni. Se solo mi avessero parlato fino a ieri di queste creature sarei scoppiato a ridere, invece qualcosa sta mutando inesorabilmente nella mia mente. Diamine, l’ho visto con i miei occhi, ho percepito il lezzo di bruciato quando è esploso. Esmeralda abbassa il viso con aria contrita. «Non avevamo scelta…» sussurra. «Ma voi chi siete?» chiedo indicando El Roi con un braccio. «Non credo possiate ambire a essere ammessi al paradiso a suon di trucidare emissari di Dio.» «Vedi, Davide, non tutte le anime sono in cerca di redenzione… tu ad esempio cosa desideri?» «Voglio tornare dalla mia bimba» rispondo deciso. «Nobile intento, ma cosa sei disposto a fare?» «Qualsiasi cosa.» «Bene, allora benvenuto fra noi, ora sei pronto per parlare con El Roi. Anche noi abbiamo i nostri buoni motivi per voler tornare a tutti i costi sulla Terra.» Esmeralda mi regala un nuovo abbraccio, stringendomi forte, dopodiché mi accompagna dall’uomo che è intento a confabulare fitto fitto con Sparviero, mentre scrutano l’orizzonte. I due, vedendoci arrivare, guardano Esmeralda con

aria interrogativa, e lei fa un cenno affermativo col capo, i capelli corvini che ondeggiano come sete pregiate. «È stata una cosa muy ràpida» sorride il nero con quell’aria strafottente che inizia a darmi sui nervi. «Tenemos un accuerdo?» «Sì, Davide è quello che stavamo aspettando, ora siamo al completo.» Parlano per enigmi, cazzo. «La posse è formata, sono a tua disposizione per tutti i chiarimenti del cas…» «È ora di muoversi!» tuona il giallo, riponendo il cannocchiale e rovinando goffamente giù dal carro sul quale era di vedetta. «C’è movimento, direzione Leone!» «Mierda, riesci a capire chi sono? Scagnozzi del cacciatore di teste?» «Mi spiace, Loi, ma si vede solo un gran polverone, per quello che ne so potrebbe essere anche un’intera legione demoniaca» e ride di gusto, accompagnato dall’incessante salmodiare delle sfere che porta legate alla cintola. Bastardo di un ciccione pazzo, cazzo hai da ridere? Una legione demoniaca? Gli altri comunque non ridono affatto, anzi sono tutti turbati ed El Roi mi invita a salire a bordo, mentre Esmeralda si affretta a rimettere il giogo ai cavalli che pascolano tranquilli spiluccando erba rinsecchita, malata, color della ruggine. «Mi spiace, non c’è più tempo.» «Y-aaa!» urla Sparviero dando di sprone allo stallone e indirizzandosi a tutta velocità verso il polverone. «Che diavolo gli salta in mente?» sbotta il cinese eccitato. Due ombre sbucano dal nulla verso Sparviero. Dal bordo del carro le fisso inebetito mentre si scagliano all’inseguimento del cavallo del cowboy. Una coppia di molossi neri dai muscoli possenti, i cui latrati risuonano come tuoni nel silenzio circostante, mentre fiamme e fumo escono dalle loro narici.

Sparviero fa impennare lo stallone che scalcia furioso con le zampe anteriori per tenere lontane le belve, le cui zanne fendono il vuoto. Vedo l’uomo sorridere di gusto mentre la destra gli scende veloce a estrarre l’arma: due colpi secchi squarciano l’aria e i cagnacci cadono al suolo prima di sparire in un lampo accecante. «Cabron di un guerrafondaio de mierda. Está loco» sento bisbigliare il nero. «Che razza di bestie erano?» «Non certo cani, gringo, segugi infernali… delle avanguardie. Ora però andiamo. Direzione Costellazione del Toro!» urla El Roi imperioso, ed Esmeralda dà di redini. Ci rimettiamo in movimento.

5. Il Regno del Libero Arbitrio

Abbiamo seminato l’orda, o più semplicemente non eravamo noi il suo obiettivo, almeno così ci ha detto Sparviero, prima di ripartire in avanscoperta. Va avanti e indietro come un ossesso, Dio solo sa da che incubi sia tormentato. Certo per me è impossibile discernere quello che accade tutt’attorno, sta di fatto che non ci siamo più fermati. Il carro prosegue la corsa verso una meta ignota, cigolando e sballottando me e le chincaglierie che contiene. Ho la gola riarsa e la lingua impastata come dopo una sbronza tonante, la polvere che mi ricopre da testa a piedi. Prima o poi dovranno fermarsi. Dovranno bere anche loro, perdio! Poi l’occhio mi cade sulla cassa contenente le pozioni che El Roi vendeva ai suoi adoratori. Perché non ci ho pensato prima? El Roi è di nuovo in quello stato meditativo che lo fa apparire come la mummia rinsecchita di un faraone pazzo. Doveva chiarirmi tutto, invece se ne sta lì imbambolato da non so neppure quanto tempo, salmodiando e sbavando. Il giallo ed Esmeralda, di nuovo assieme a cassetta, pilotano la carretta verso l’infinito, fra continui sbalzi e scricchiolii. «Senti, El Roi, posso prendere da bere?» mi decido a interromperlo. Allungo il braccio verso la cassa di bottiglie dal contenuto ambrato che tintinnano seguendo il moto del carro, quando gli occhi del nero si aprono di scatto e mi fulminano. Faccio un balzo all’indietro per lo spavento. L’uomo si alza sulle gambette scheletriche, prende il contenitore e lo getta oltre la balaustra del carro. Legno e vetri vanno in frantumi mentre la terra grigiastra si colora di scuro, abbeverandosi dell’elisir benedetto. «Cazzo fai?» lo guardo sbigottito.

«Ora non ci serve più quella roba.» «Ma sto crepando di sete!» Ride. «Buona questa, hombre, ma te lo ripeto, ya estás muerto. Quante altre volte pensi di poter morire?» Non lo reggo più, lo prendo per il bavero della giacca assurda e lo strapazzo come un fantoccio. «Era piscio di mulo!» ride sguaiato dal posto di guida il muso giallo, soffocandosi quasi. Urina d’asino venduta a peso d’oro! Che razza di imbonitore fallito. El Roi si libera dalla mia presa divenuta flebile. Sono scoraggiato, al cospetto di un branco di dementi. «Calma, hombre, ora ti spiego. Nel posto in cui ci troviamo, il Regno del Libero Arbitrio, non c’è bisogno né di cibo né d’acqua, capisci? Non siamo corpi fisici, o per lo meno non lo siete voi.» Lo guardo perplesso. «Non hai notato niente di strano in me, gringo?» Che sei completamente pazzo, penso, ma non gli sputo in faccia quella realtà in quanto tutti mi appaio fottutamente matti in questo posto, quindi, come spesso accade nella realtà, il folle fuori dai gangheri potrei essere io. Il nero si alza in piedi e mi indica qualcosa sul fondo del carro. Impiego qualche secondo per capire, non vedendo nulla di particolare se non lo stato pietoso delle assi di legno e una sorta di enciclopedia di dimensioni colossali, poi intuisco che le dita ossute dell’uomo si riferiscono alla sua ombra. L’ombra, cazzo! Il mio sguardo corre a Sparviero e al suo stallone che trotta beato a fianco del

carro. Non hanno alcuna ombra, così come me, il giallo e la mulatta. «… ma che significa?» «Semplice, io non sono muerto.» Porca troia! «Vedi, hombre, sei più fortunato di quanto credi. Ti do un’opportunità che poche altre anime hanno avuto dalla notte dei tempi. Se mi aiuterai a compiere la mia misiòn, ebbene ti riporterò con me dall’altra parte, in vita insomma, entiende? E anche se non sei bello come Euridice, io sono più saggio di Orfeo.» Sono esterrefatto. i l’esistenza del purgatorio e di tutte le creature bizzarre in esso contenute, ma che un vivo possa viaggiare nel mondo dei morti e prendersi il lusso di riportare in vita qualcuno, mi pare una stronzata bella e buona. «Sai, Davide, Elloi è uno tosto, uno con i controcoglioni!» Mi volto verso il muso quadrato del cinese che mi osserva con gli occhi fuori dalle orbite. È serio, ma la sua cresta ossigenata, i baffetti, il suo essere straordinariamente sovrappeso e i mille piercing che gli affondano nell’adipe, lo rendono del tutto poco credibile. «Elloi è uno stregone voodoo, il migliore. Chiama a sé i Loah, ha potere. Dovresti vedere che spettacolo! Meglio di un trip da acido.» I Loah? E che diavolo sono? Torno a guardare il grand’uomo, ma non vedo altro che un vecchio, vestito come un pagliaccio, e con un dannato cilindro di legno ricurvo che gli nasconde il pene avvizzito. Il poveretto si pavoneggia come una star. «Conosci il mito di Orfeo ed Euridice?» interviene Esmeralda. «Il baldo giovane che è disceso nell’Ade per salvare la sua amata e non doveva voltarsi…» «Basta, Esmeralda, così lo confondi. Senti, hombre, se veramente vuoi tornare da tua figlia, sono la tua miglior carta, anzi l’unica, quindi è inutile che mi guardi con quella faccia.»

Certo l’arroganza non gli manca. «Allora cosa decidi, ci aiuterai nella nostra misiòn?» Di che parla? Quali alternative ho? Istintivamente poso lo sguardo su Sparviero che si è affiancato al carro. Credo riesca a leggere nei miei occhi il dubbio che mi pervade. Annuisce in un rapido cenno affermativo. «Senti, Davide, El Roi può apparire bizzarro, nessun dubbio, però è dotato di potere, te lo garantisco.» Non saprei, ma il pistolero mi ispira fiducia, e a ben vedere non ho nessuna alternativa. Se non fosse per Sparviero sarei stato brutalizzato da quel troglodita e chissà dove sarei adesso. Dove finisce l’anima di un morto, se viene accoppata? «Di che missione stiamo parlando?» chiedo infine, voltandomi verso il nero. «Niente di particolarmente complicato in realtà, la solita storia, salvare una bella fanciulla dai cattivi di turno.» Lo guardo perplesso. «Sai, come degli impavidi cavalieri, come un prìncipe azul. La bella chica sarà il nostro biglietto per il viaggio di ritorno alla vita.» Qualcosa non mi torna e il volto dal sorriso demente del giallo non serve certo a rassicurarmi. Non faccio a tempo a rispondere che una sfera salmodiante mi compare in braccio, azzittendomi. Ne sento il tepore ancor prima che appaia in tutto il proprio splendore. «Un’altra profferta, che ragazzo fortunato, ti amavano proprio tutti!» “Padre Nostro che sei nei Cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno e sia fatta la tua volontà come in Cielo così in Terra. Dacci oggi il nostro pane…” La sfera pulsa, le parole mi cullano, il calore mi dona una calma inebriante

capace di spazzare via ogni turbamento e ogni pensiero, la osservo, ne scruto le profondità, la nebbia soffice che custodisce all’interno, che cambia colore e movenze seguendo il ritmo delle parole, poi perdo i sensi.

*

Sono in una chiesa deserta. La mia chiesa, quella del mio quartiere insomma, non che io l’abbia frequentata assiduamente, solo quando mi costringeva Lucrezia e per il bene di Nicoletta. Riesco a riconoscerla con chiarezza, nonostante mi senta la testa più pesante di un’incudine. Come ci sono finito? E quella splendida sfera che stringevo fra le mani, dove cazzo è sparita? Ho ancora nelle orecchie la voce che recitava il Padre Nostro. Mi pare riverberare fra le alte pareti spoglie della Casa del Signore, anzi, ora che i sensi mi si stanno ridestando, capisco che la voce è quanto mai reale. Maschile e rotta da una profonda sofferenza, proviene da una delle prime panche. La penombra mi ha impedito di vedere che non sono solo. Questi salti spazio-temporali mi faranno impazzire. Mi avvicino tentando di non disturbare l’uomo e mi accorgo di conoscerlo. L’ho già visto, ma dove? I ricordi mi si accavallano confusi nella mente. Non capisco neppure se sono in un incubo o nella realtà, ma mi impongo di non pensarci, per il bene della mia sanità mentale. L’ho già visto, quella barba nera da Sandokan è impossibile da scordare, ma perché prega per me? La profferta mi arriva da lui, non so il perché, ma ne sono certo. Mi ci siedo a fianco senza che lui dia segno di essersi accorto della mia presenza, però smette di pregare. Ha gli occhi umidi, si volta nella mia direzione, ma è

come se non mi vedesse, solleva lo sguardo sulla vetrata colorata del rosone. Ora, prega per la sua compagna deceduta. «Dammi la forza, amor mio, dammi la forza, almeno per Elisa!» Quel nome è la chiave per aprire la scatola dei miei ricordi: pizzate e pomeriggi al parco. Regalini e compleanni, recite, il nuoto, come diavolo posso essermene dimenticato? «Franco!» urlo, ma l’uomo rimane imibile a fissare l’orizzonte come fossi invisibile. Sono morto, non mi vede! La ragione mi dice che non avanzano altri scenari. Dev’essere così, è una logica irrefutabile, devo rassegnarmi alla mia nuova condizione, prenderne atto per preservare l’equilibrio mentale. Il negro rimane la mia ultima possibilità. Franco, il papà di Elisa, l’amichetta di Nicoletta, resta a disperarsi da solo. Pover’uomo, il suo lutto è recente, sua moglie Carla è morta di cancro meno di un mese fa, ora ricordo anche questo, vita bastarda! Perché prega per me? In quell’istante sento i battenti della chiesa cigolare, mi volto di scatto e assisto all’ingresso di un angelo, uno vero, non come quella bestia simile a un mech grottesco pitturato d’oro, fatto esplodere dal muso giallo. Ancor prima di vederla in viso la riconosco. L’incedere elegante e il portamento aggraziato sono solo di poco intaccati da quello che deve essere il suo stato d’animo: è Lucrezia. La osservo incapace di muovermi. Vorrei correrle incontro, abbracciarla, baciarla e confortarla, ma ora lo so, sono un fottuto fantasma. Una strana vergogna mi assale, quasi la mia nuova condizione fosse una colpa. La vedo procedere e andarsi a sedere a fianco di Franco. I due si guardano a lungo, condividendo uno sguardo carico di rimpianti e sofferenza per le rispettive famiglie andate in frantumi per un destino avverso. Non so come facciano a trovarsi in questo luogo e non maledire il padrone di casa, ma prima ancora di esser travolto dalla loro sofferenza percepisco il mutamento della mia condizione e svanisco, la scena che sfuma per poi scomparire del tutto.

6. Rifornimenti

Grasse risate mi strappano al sonno. Apro le palpebre a fatica. La penombra circostante mi protegge gli occhi, ma le orecchie distinguono il vociare concitato da osteria, riportandomi alla mente sgraditi ricordi. Sono seduto. Memore dell’ultimo mio spiacevole incontro, quando legato venivo brutalizzato dal gigante, d’istinto strattono con le braccia nel tentativo di strappare lacci che non ci sono. Poi vedo i miei commensali, non il ciccione accoppato da Sparviero, ma la compagnia al completo: El Roi, Esmeralda, il cinese e il cowboy. È il muso giallo a ghignare mentre ingolla da un boccale lunghe sorsate alternate a manciate di granaglia varia, come fossimo a un qualsiasi aperitivo fra amiconi. «Dove siamo?» riesco a chiedere con immensa fatica, la testa sul punto di deflagrare. «Un posto tranquillo, un villaggio di penitenti» mi risponde la mulatta regalandomi uno splendido sorriso. «Penitenti?» Osservo gli altri clienti di quella che pare l’ennesima bettola da far west. Fiaccole alle pareti, pochi candelabri e fumo a banchi non mi concedono una visuale chiara, ma scorgo le medesime sagome grigiastre che tanto mi avevano impressionato nell’altro villaggio. Penitenti, che siano questi esseri? «Anime che ambiscono alla redenzione, all’illuminazione, alla salvezza eterna, capisci?» Fisso la mulatta cercando di focalizzare l’attenzione sulle parole, senza perdermi in quegli occhi, che nella penombra brillano come smeraldi. «Non sembrano molto in salute…»

I volti cinerei, la mancanza di reazioni, diamine, sembrano zombie! El Roi ride, sputacchiando. Forse non condivide la visione della studiosa, che però non demorde. «I penitenti sono qui per sgravarsi dei loro peccati e liberarsi dal loro fardello fisico, per far sì che l’anima possa assurgere all’alto dei cieli. A mano a mano che la loro penitenza procede nei secoli dei secoli, la forma fisica che vedi, beh… sbiadisce, così come la loro percezione della fisicità stessa. Mentre l’anima avanza verso la catarsi, il fardello corporeo, l’involucro di carne corruttibile si…» «Calma» la interrompo, «ho perso il filo da un pezzo. Rallenta per cortesia.» «Vedi, Davide, chi giunge in questo luogo ha due possibilità. Cercare di elevarsi per raggiungere il Regno dei Cieli, oppure lasciarsi andare alla deriva. Non tutti sono fatti per la luce di Dio. Chi decide di inseguire l’apoteosi si sottopone a delle penitenze, che assieme alle preghiere dei vivi, le profferte, abbreviano il tempo della purificazione.» «Anche la morte delle anime e la rinascita aiuta, diglielo, bella, raccontagli la tua teoria» si intromette Sparviero con uno strano bagliore negli occhi grigi. «Esatto, anche una lunga catena di reincarnazioni dell’anima aiuta il processo di purificazione.» «Vedi, quando uccido faccio loro un favore, capisci, ragazzo? Sono il Redentore!» ghigna il cowboy, ma la donna lo blocca ben presto, continuando il monologo. «A ogni modo, quando si fanno progressi, si subisce un graduale processo di spersonalizzazione, almeno così ritengo, perché nel paradiso non può esistere l’individuo singolo. Non possono esserci distinzioni, ma i beati confluiscono in un’unica entità onnicomprensiva e onnisciente, Dio. Non tutti però sono disposti a perdere la propria individualità.» Ok, ok, ora so perché la bella studiosa non se la fila nessuno. Non posso perdermi in mille domande, devo concentrarmi su quello che conta. «Capito, torniamo a noi però. El Roi… mi dicevi che dobbiamo liberare una

donzella per poter tornare in vita, giusto?» Esmeralda pare risentita e si azzittisce, mentre i penitenti stanno lì, seduti ai propri tavoli come un branco di impiegati lobotomizzati in pausa caffè. Una cappa di silenzio cala sull’intera sala. «Io sono Torakiki» mi fa il cinese all’improvviso, porgendomi una mano paffuta e zeppa di anelli bizzarri, paccottiglia con teschi e simboli arcani. «Davide, piacere» mi ritrovo a dire in automatico. Torakiki, che razza di nome è? Il muso giallo mi porge un boccale. «Ma non siamo anime cui non serve sostentamento?» «Certo, ma bere una birra è pur sempre un piacere. Invece il sommo Elloi deve nutrirsi, come un misero mortale, altrimenti crepa!» Il ciccione scoppia a ridere sputacchiando schegge di bagigi e pistacchi, strappando una risata anche alla mulatta. L’unico che non ride è Sparviero, silenzioso e sempre guardingo. A ben pensarci non l’ho mai visto sorridere. Lui registra il mio sguardo e forse mi legge persino nel pensiero. «Torakiki, hai presente il gatto del cartone animato di Spank?» Incredibilmente sì. Non faccio a tempo a interrogarmi sull’assurdità delle scelte della mia mente, che ricorda un fottuto gatto dal muso quadrato e i baffetti da Hitler di un cartone giapponese, e non ricorda quasi null’altro della mia vita, quando le porte a spinta del locale si spalancano. Entra una strana coppia. Un uomo in blue jeans e camicia viene sorretto a braccetto da un essere alieno. Ha sembianze umane, ma è avvolto da un lucore giallastro che ne rende incerti i tratti. Non sembra camminare, ma galleggiare leggiadro a qualche centimetro dal suolo. Ripiegate sulle spalle ha un paio d’ali dal piumaggio candido che farebbe invidia a qualsiasi pubblicità di detersivo. Sparviero mi posa una mano sul braccio, imponendomi di abbassare lo sguardo.

«Abbiamo nemici, ragazzo. Diciamo che la presenza di El Roi non è gradita.» «E come potrebbe essere altrimenti?» sorride amara Esmeralda. «In nessuna dottrina religiosa è previsto che un uomo in carne e ossa possa accedere al regno dei morti. Stiamo stravolgendo la natura stessa del Creato.» El Roi si limita ad alzare le spalle e Sparviero riprende a parlarmi sottovoce, come il peggiore dei cospiratori. «Vedi, quello che brilla come un albero di natale è un canarino.» Esmeralda mi strattona dall’altra e controbatte al pistolero a muso duro. «Non chiamarli così, bestia d’uomo, sai che li indisponi. È un angelo custode, uno spirito guida, un animale di potere, insomma hai capito, Davide, no?» Come può indisporsi se ho sentito a stento io il bisbiglio di Sparviero, nonostante sia a pochi centimetri dal mio orecchio? Forse in questo posto assurdo il solo averne fatto cenno può contribuire a stuzzicare mentalmente queste creature? D’altronde un angelo deve pur avere dei poteri sovrannaturali… almeno credo. Pur non vedendo gli occhi di quella che sembra la testa liscia e glabra di un manichino, sento lo sguardo del canarino volgersi su di noi. Accompagna il suo assistito, palesemente stordito, lo fa sedere su una sedia, poi ci viene incontro. Sparviero si irrigidisce al mio fianco, mentre gli altri si azzittiscono. L’angelo custode circumnaviga il nostro tavolo per poi tornarsene da dove è venuto. Forse ha visto la mano del cowboy posarsi sul calcio della pistola, o quella di Torakiki stringere l’impugnatura di un coltellaccio. «Hombre, è ora di andare. Sparviero, accompagna Davide allo spaccio, mentre noi facciamo provviste. Appena finito ci ritroveremo al carro. Svelti perché temo quel canarino stia solo attendendo i rinforzi per venirci a prendere.» All’unisono ci alziamo, procedendo ognuno per la propria strada. «Andiamo a recuperarti dei vestiti, così sembri proprio un derelitto.» L’insinuazione di Sparviero mi costringe a far di nuovo caso al mio

abbigliamento, una sorta di sacco di juta, quella che si usa per trasportare le patate, per la precisione. «Poi ti servono delle armi. Sei uomo da lame o da sputafuoco?» Lo guardo sconcertato, mentre mi indirizza verso una casupola con l’insegna formata da una pistola e un’accetta incrociate.

*

«Sei bellissimo, ragazzo, ma ora dobbiamo filare.» È Sparviero a riportarmi alla realtà. Appostato alla finestra del bazar che dà sulla via principale del villaggio, mi fa cenno di muovermi. «Sono arrivati gli amichetti del canarino. Uno stormo al completo.» Con mani incerte finisco di allacciarmi le fibbie della mia armatura di cuoio nuova di zecca e lo raggiungo. In strada un drappello di esseri cangianti, armati di lunghe lance d’oro, procede a o di marcia, sollevando nugoli di polvere grigiastra. Una decina in tutto. Osservano in ogni direzione con le loro cavità oculari levigate e vuote. Fanno paura. «Ehi, come intendete saldare tutta la roba che avete preso? Ci vorrà almeno l’equivalente di dieci pezzi d’oro» chiede il proprietario, un ometto con una chierica grigia simile alla parodia di un’aureola, ma dagli occhi che trasudano avidità. «Vuoi pensarci tu, Davide?» mi fa il cowboy accennando di sottecchi al mio nuovo revolver, ma quando vede l’incertezza che mi attanaglia, estrae un coltello da lancio e lo scaglia in mezzo alla fronte del poveretto. «Pagheremo accelerando la tua redenzione, amico!» La carcassa del commerciante piomba al suolo per poi svanire nel nulla, mentre Sparviero mi trascina verso l’uscita sul retro, dopo aver recuperato l’arma.

«Cazzo fai? L’hai accoppato!» piagnucolo sconvolto. «È a fin di bene, ricordi? Sono il Redentore! Non sai che gli usurai sono destinati agli inferi? Hai sentito quanto voleva? Gli ho fatto un favore, credimi. Rinascerà altrove, forse più saggio. Ora muoviti però, non c’è più tempo.» Di corsa ci lanciamo nel retrobottega e ci infiliamo in una stradina incastrata fra casette di legno scuro. In lontananza riesco a sentire il rumore ritmato dei i del drappello di canarini. «Svelti, di qua!» È il giallo, sbucato dall’angolo della stradina, a indicarci la via. Quando mi vede gli si accende in viso un sorriso da iena. «Bel costume, Davide, complimenti, ottima scelta!» In effetti la corazza di cuoio mi intralcia i movimenti di busto e braccia, ma in compenso il kilt nero mi permette di correre libero come una gazzella. Se devo stare con i pazzi, meglio mescolarmi a loro. Saliamo sul carro giusto un istante prima di sentire un verso simile al pigolare di uno stormo di eri, ma molesto come il gracchiare di avvoltoi pronti al banchetto. Mi volto e scorgo la schiera di angeli far capolino dall’imbocco opposto della via. Non appena ci vedono protendono le ali e iniziano un volo radente a lance spianate. Ci saranno addosso a breve, ma non posso fare a meno di ammirare la bellezza del piumaggio candido e l’eleganza delle movenze. Solo quando El Roi fa mulinare in aria la frusta e il carro parte a tutta velocità, mi ritrovo lungo e disteso sul pianale a fissare la costellazione del Toro irriderci nel cielo plumbeo. Una deflagrazione mi costringe a rialzarmi. Mi aggrappo al bordo di legno per issarmi in ginocchio e osservare quello che accade. Le casupole del villaggio ci scorrono accanto per poi abbandonarci a un paesaggio tetro e grigio. Una distesa di polvere senza fine, un orizzonte alieno che si perde in una nebbia capace di inglobare tutto il circondario. Niente colline o montagne, né boschi o speroni rocciosi, ma un magma infinito e denso di banchi di nebbia. Vedo Sparviero dirigere lo stallone utilizzando le gambe, con il busto voltato all’indietro, mentre

con cura prende la mira, il fucile a canne mozze posato sull’avambraccio. Un altro sparo accompagnato da una fiammata, e un altro angelo svanisce in un turbinio di piume recise. Non riesco a godermi oltre la scena perché un dannato volatile fluorescente arriva in picchiata, la lancia pronta a trafiggermi al petto. Assisto alla scena come se il corpo in procinto di essere impalato non mi appartenesse. Sono paralizzato, non riesco a reagire. Tutto troppo veloce, eppure poco prima che la punta dorata del giavellotto mi trafigga a morte, una lama si frappone. Ne devia la traiettoria e la manda a sibilare sullo spallaccio della mia corazza di cuoio. Chissà se l’anima di un morto prova dolore? Mi volto e vedo il ciccione cinese sorridermi, mentre con grazia sorprendente ingaggia un duello con l’angelo. Torakiki mulina un machete grazie al quale riesce a respingere la creatura, che non sembra a proprio agio a combattere volando appresso a un carro che corre all’impazzata. I cavalli nitriscono furiosi sotto le sferze di El Roi. «Datti una mossa, Davide!» La voce di Esmeralda mi giunge ovattata, attutita dal frastuono delle ruote del carro sul suolo ferroso, dalle urla di Sparviero e dal cantico malevolo dei canarini che nulla ha di paradisiaco. Altro che voci bianche… La donna estrae una pistola monocolpo, del tipo che ho visto portare alla giarrettiera a mille bagasce da film western, e stecchisce il nostro aggressore con un colpo preciso. “Ave Maria piena di grazia…” Una sfera mi compare innanzi al volto. Il suo pulsare fa il paio con quello degli angeli che tentano di trucidarci. Riconosco nella melodia la voce di mia moglie. Devo svegliarmi se voglio tornare da lei!

Mi ricordo di avere una coppia di colt immacolate nelle fondine e le estraggo con mani tremanti. Il carro sobbalza, il giallo sbrodola frasi ingiuriose invitando altri canarini a farsi sotto, mentre tenta di prenderne uno di mira. Una lancia impatta sul bordo del carro, mentre un’altra si conficca sul pianale poco dietro di me. Faccio fuoco all’impazzata, cullato dal soave salmodiare della voce di Lucrezia. Stupito, vedo un paio di creature svanire, crivellate dai miei colpi. Torakiki mi rifila una pacca sulle spalle. «Bravo, campione, meglio di Billy the Kid!» Se ne vanno. Battono in ritirata. Incredibile! «Fuggite, pavide creature, fuggite innanzi all’Angelo della Morte!» tuona Sparviero prima di esplodere l’ennesimo colpo. Poi emette un urlo di guerra selvaggio. Tremo come una foglia mentre osservo i tre canarini superstiti venire inglobati dalla bruma che ammanta l’orizzonte. Gli altri sono svaniti, accoppati, rispediti a calci in culo al cospetto di Dio. Sono diventato un assassino di creature angeliche. Uno scossone aiuta le mie gambe già tremanti a crollare del tutto. Mi ritrovo per l’ennesima volta seduto sul pianale del carro, mentre El Roi sprona i cavalli con voce gracchiante. Dobbiamo esserci immessi in una depressione, data l’inclinazione del carro che mi sbatte giù. Rimango sdraiato, sommerso dalla portata degli eventi. Non ricordo di aver ucciso neppure una mosca in vita e ora, in combutta con questi ceffi, ho sparato a un angelo. Un angelo, perdio! Non riesco a spiegarmi come posso essermi ridotto a compiere un atto tanto vile. Non riesco a immaginare nulla di più meschino, se non far del male a un bambino. Già, un bambino, o meglio, la mia bambina. Lo sto facendo per lei. Devo convincermene al più presto se non voglio impazzire. Eppure la mia coscienza, perché a ben vedere anche se sono morto non è svanita, grida

chiaramente che deve esserci un’altra via. Un sentiero diverso da percorrere per giungere alla meta. Una pista che si allontani da questo gruppo di pazzi… sempre che non si tratti di qualcosa di ancor peggiore… emissari di Satana stesso, demoni tentatori il cui compito sto agevolando con la mia indecisione. «Questa è tua, fenomeno.» Il muso tondo del giallo mi si para innanzi sostituendosi al cielo color piombo fuso, mi aiuta a rimettermi dritto per poi porgermi la profferta. La sfera continua a riproporre la voce soave della mia Lucrezia, le parole che mutano in un mantra di speranza, carico d’amore. Nonostante le mille voci delle sfere appese alla cinta del giallo, quella della mia donna riesce a sopravanzarle tutte. Mi perdo nei meandri fluidi contenuti nel globo incantato. Mi attira a sé con promesse di sollievo e quiete. «Te la sei proprio meritata» mi rincuora Torakiki, schiaffandomi il globo nel petto. Un’ondata di quiete mi pervade da testa a piedi, spazzando via ogni mio dubbio. Uso una lancia conficcata nel legno per alzarmi e guardarmi attorno. Ci stiamo infilando fra colline ferrose, El Roi ed Esmeralda sono a cassetta a dirigere cavalli sfiniti, come nulla fosse. Sparviero non si vede più, chissà dove diamine sarà finito. Invasato com’era, starà inseguendo gli angeli sin dall’Onnipotente. Forse dovrei cercare l’anima di un prete e farmi confessare…

7. Il rito

Torakiki è ammutolito. Gioca, mesto, con un attrezzo che non riesco a decifrare, un ammasso di cavi elettrici e involucri di ferro arrugginito e rame. Per quel che ne so, qualcosa di potenzialmente letale. Dare esplosivi in mano a un personaggio così instabile non è un’idea brillante. Si vede che a El Roi va bene così, o forse non ha proprio trovato di meglio. Già, prima o poi dovrò chiedergli in base a cosa abbia scelto i componenti di questa posse. Per quanto mi riguarda non si può dire che io abbia avuto molte alternative a mia disposizione. Gli eventi mi hanno travolto al punto da lasciarmi in balia del primo arrivato. Il primo che non ha cercato di uccidermi, perlomeno. «Nuestra Señora de la Santa Muerte, finalmente ci siamo!» sento tuonare El Roi, euforico. Mi sporgo e vedo in lontananza le propaggini di un boschetto. Alberi dai tronchi bianchi come ossa e chiome nere come pece punteggiano l’orizzonte. Prima radi, poi sempre più fitti. Il colore del fogliame è lugubre, cupo e traslucido, pare petrolio, in continuo movimento, sospinto dal vento pestilenziale che affligge queste lande. Mano a mano che ci avviciniamo una sensazione di nausea mi avvolge come un drappo. L’aria puzza di merda d’uccello. «Goditi lo spettacolo, gringo» mi avvisa El Roi. Non capisco di che parli finché non vedo le fronde del primo albero prender vita e innalzarsi al cielo. Corvi, a centinaia, spiccano il volo in un concerto di versi grotteschi. Più il carro procede, più le chiome degli alberi mutano in ammassi di piume, becchi affilati e artigli. A ondate nere le bestie si raggruppano in voli sconclusionati, sbattendo le une sulle altre, in preda a un delirio incomprensibile. Penne, guano e bestie disorientate ci turbinano attorno, ci colpiscono, aprono ferite nelle nostre carni. Sento i miei compagni urlare nel tentativo di spaventarli, di tenerli alla larga.

Li vedo mulinare lame in aria per scacciare i volatili, sparare a ripetizione, ma non riesco a emularli. Quel ribollire di uccelli indemoniati mi dà il vomito, costringendomi a gettarmi sul fondo del carro e a coprirmi la testa con braccia e mani.

Forse ho perso i sensi, sta di fatto che mi rimetto a sedere solo quando non sento più gracchiare. Non sono più sul carro, ma seduto sul duro suolo del bosco. Un bosco morto. Ora gli alberi, privi di corvi-fogliame, appaiono per quello che sono: una selva di pali da forca ritorti e gibbosi, bianchi come ossa spolpate e sbiancate da un sole che in questo dannato luogo non esiste. Un posto che trasuda maledizioni, capace di riempirmi di pensieri cupi. Ricordi, non miei, di impalamenti e impiccagioni, di stermini e mattanze e sacrifici a divinità sadiche, mi affiorano alla mente. Un luogo che porta nella propria memoria bagni di sangue e sciagure, olocausti a demoni e divinità deviate, impossibili per me da immaginare, ma della cui esistenza non posso più dubitare. «Abbiamo bisogno di quiete per il rito di El Roi. Qui nessuno verrà a disturbarci.» La voce di Esmeralda ha la forza di allontanare le visioni agghiaccianti. «Ne sono convinto anch’io» le rispondo. «Quale persona sana di mente metterebbe piede in questo teatro dell’orrore?» «È un luogo consacrato. Lo senti anche tu?» «Sì, ma non voglio sapere a che cosa. Piuttosto, dimmi con chi abbiamo a che fare? Sparviero ha il grilletto facile, il giallo è palesemente bipolare e, beh, El Roi… non credo ci sia bisogno di aggiungere nulla» chiedo alla donna, indicandole il nero che armeggia con l’astuccio penico. Poi mi volto e vedo Torakiki raccogliere le sudice piume degli uccelli assassini. «Ho sempre sognato di farmi un mantello di piume di corvo» mi sorride continuando ad accumulare penne imbrattate di guano.

Riporto lo sguardo sulla mulatta con aria disgustata. «Non c’è molto da dire. Credo di aver capito che fosse una sorta di ricercatore» poi abbassa la voce e mi si avvicina, «immagino simile al classico inventore più pazzo che geniale. Lavorava in università, finché deve essere successo qualcosa di tremendo… e si è ritrovato qui.» Me lo immagino far saltare in aria mezza ala di un’università a causa di qualche miscuglio esplosivo fuori controllo. «E quell’altro?» «Il pistolero è un duro, vero? Sempre pronto a fare bang-bang con le sue sputafuoco enormi. Chiediglielo tu, non ama si parli di lui quando non è presente.» «Ma come possono essersi ridotti così?» «In realtà è come dice il macumbeiro, siamo realmente nel Regno del Libero Arbitrio. Qui gli uomini sono se stessi, perché sanno dei nessi di causa ed effetto… o perlomeno molto più che in vita.» «Quindi, diventano tutti pazzi?» «Devi cambiare prospettiva, Davide. Dimentica i concetti di spazio, tempo e morale. Prima lo fai e meglio sarà per tutti. Ci sono giorni che durano come lustri e anni che ano veloci come stagioni. Il tempo si perde in eoni e non diversamente lo spazio. Non solo i luoghi cambiano, modificando le proprie caratteristiche morfologiche, ma mutano le loro posizioni senza dare punti di riferimento. Non abbiamo mappe né orologi.» «Quindi? Che diavolo c’entra tutto questo con i matti che ci accompagnano?» In effetti anche Esmeralda si è mostrata un’assassina spietata quando ha freddato l’angelo con la sua pistola giocattolo, ma tento di non pensarci. «Quindi è il qui e ora che conta. La missione per noi della posse è tutto, perché vogliamo tornare in vita, il resto è secondario. Non ambiamo a vedere la luce di Dio, perché preferiamo tornare sulla Terra. È lì che ognuno di noi vuole rigiocarsi le proprie possibilità, almeno è quello che voglio fare io. La morale, la

coscienza, il tuo grillo parlante o come preferisci definirla, in questo luogo deve rispondere solo e unicamente al tuo obiettivo. Mai come in questo caso il detto ‘il fine giustifica i mezzi’ deve divenire il tuo unico credo. Per anticipare la tua prossima domanda: non aveva senso sapere dove si trovasse la principessa, fintantoché la posse non fosse stata al completo.» «Per quale ragione?» «La profezia dei cinque compagni. La profezia alla base dell’accordo fatto da El Roi con il dio che ci riporterà indietro.» «Di che dio parli?» «El Roi non ce lo ha voluto dire. Sostiene che l’accordo fatto presupponga il segreto. Sai, come quando si esprime un desiderio. Lo si deve fare in silenzio, senza dirlo a nessuno, altrimenti non si avvera. Di sicuro, il dio non vuole essere scoperto dai suoi pari a stipular contratti con dei mortali, men che meno visto che il suo futile obiettivo è riavere indietro una misera fanciulla umana.» Non ho la forza per ascoltare ulteriori storielle per mocciosi. Non ce la faccio proprio, non ora perlomeno. «Bene, e adesso?» Diavolo, devo strappargliele di bocca con le pinze le risposte che mi interessano, filtrarle nella fiumana delle sue parole inutili. «Ora, sarà premura di El Roi interpellare i Loah.» «Vuoi dire che abbiamo finito di girare in tondo come i mentecatti?» interviene il giallo lisciandosi i baffetti, mentre io tento di capire chi voglia interpellare El Roi, ma ho paura a domandarlo a Esmeralda. Non so se potrei sopportare altre tonnellate di informazioni. «Sì, è tempo di fare sul serio» conclude la donna. Mi posa una mano sulla spalla e mi costringe a voltarmi con delicatezza. «I Loah, Davide, sai chi sono?» «Sì, sì, Davide, lo sai?» la scimmiotta il giallo eccitato. «Non ora, vi prego, devo capire che diavolo fa il nero.»

El Roi si è appartato e lavora sodo. Torakiki ha mollato in terra la montagna di penne di corvo ed è già scattato in quella direzione. Si ferma a qualche metro di distanza e si siede al suolo. Osserva El Roi e si mette a sgranocchiare popcorn da una busta di plastica colorata estratta dal suo zaino miracoloso. Quindi non contiene solo bombe! Dove l’abbia recuperata è per me un mistero. Di certo stride con l’ambiente circostante in modo grottesco. «Che diavolo fa?» «Chi, Torakiki?» «No, lo vedo che quello si ingozza… El Roi, intendo.» «Prepara il rito.» Osservo meglio. A me pare stia cucinando delle bistecche. In effetti poco dopo lo vedo deporre due pezzi di carne grondanti sangue in un piatto di terracotta rosso e nero, e guarnirle con dei gamberetti. Impiattato il tutto ad arte, arraffa per il collo una bottiglia di whisky e si dirige a o spedito verso un palo conficcato al suolo. «Quello è il Poteau-mitan, il palo centrale del Tempio» mi fa Esmeralda, poi capisce che non ho idea di cosa sia e aggiunge, «è il collegamento fra il mondo superiore e quello inferiore, da cui i Loah salgono e scendono.» «Ah, capisco, un ascensore» dico, più che altro sperando di farla tacere. La donna, imbronciata per la mia uscita, mi prende per mano e mi fa avvicinare, poi si ferma di colpo. «Guarda, il Poteau è collocato all’incrocio di quei sentieri!» È emozionata, ma non ne capisco la ragione. Il nero sta cospargendo il suolo di una strana polvere gialla, simile a farina di

mais. Con essa disegna un simbolo a terra. «Ecco il veve, Davide, vedi? Un simbolo di geometria sacra che serve da calamita per attrarre la divinità.» Siamo al delirio, penso, osservando l’elegante glifo tracciato dal nero. A ogni modo, ora che ha finito la sua opera d’arte, El Roi piazza quelle che immagino siano le offerte all’entità, proprio a fianco del palo, poi stappa la bottiglia con gesto plateale prima di tuonare: «Laroyè Eshu, Mojubarè Eshu!» Esmeralda mi scuote, colma di ammirazione. «Sta professando un rito candomblè! Eshu non è un Loah voodoo…» Inizio a spazientirmi. Con chi crede di avere a che fare, questa? Intanto El Roi procede indefesso. «Eshu fa diventar dritto lo storto e lo storto fa diventar dritto. Con un setaccio trasporta l’olio che ha comprato al mercato e l’olio non cola via ma rimane. Ieri Egli ha ucciso un uccello con una pietra che ha lanciato soltanto oggi. Se si arrabbia, calpesta quella pietra, che comincia a sanguinare. Egli si siede sulla pelle di una formica. Così, seduto, la sua testa tocca il tetto, stando in piedi la sua testa non raggiunge neppure l’altezza del focolare.» Non ho neppure il tempo di assimilare quell’accozzaglia di frasi alla rinfusa, che vedo l’orizzonte tremolare. Un cancello si spalanca dal nulla facendo emergere una figura dai contorni vaghi. Richiusosi il portale alle spalle, l’essere, un giovane dal sorriso malizioso e beffardo, vestito di rosso e di nero, con un copricapo da giullare, percorre la strada per giungere al fulcro, al crocicchio in cui si trova El Roi. Grazie al cielo Esmeralda mi prende un braccio, sorreggendomi con forza. Non sono pronto per assistere a queste scene irrazionali. «Vedi, Davide» mi bisbiglia all’orecchio la mulatta, «gli Spiriti venerati da El Roi abitano le acque sotterranee, sono estremamente legati alla Terra e ai suoi bisogni. Sono accanto a noi, non sono arroccati in un lontano Olimpo, non ci osservano dall’alto dei cieli, ma sono ben più vicini alle questioni terrene e comprendono immancabilmente i nostri bisogni più materiali. Spesso li condividono con noi. È affascinante.»

Sono sorpreso da questa descrizione, soprattutto rapportandola al concetto che mi è sempre stato insegnato di Dio. In effetti ricordo come anche le divinità dell’antica Grecia fossero piuttosto materialiste, per lo meno il loro capo Zeus era un donnaiolo sfegatato. Anche per questo ho ritenuto i diversi miti poco più di semplici storielle. A ogni modo non posso perdermi in queste riflessioni, visto che innanzi ai miei occhi sta prendendo corpo l’irrazionale. Il giovane – il Loah? – in una mano tiene una grossa chiave. «La chiave del aggio fra i mondi» mi ragguaglia subito la donna. Nell’altra stringe un forcone con numerose punte, di luciferina memoria. Si ferma innanzi al negro senza proferir verbo. «Io, El Roi, Houngan del culto voodoo, chiedo a te, nobile Eshu, di aprire un canale permanente fra i mondi, di concedermi una guida sicura sulla via che mi porterà alla meta prefissa.» Segue un lungo silenzio. Il Loah non parla, le sue labbra cineree sono immobili, ma l’istinto e l’espressione del volto di El Roi, sul quale grosse gocce di sudore colano dalla fronte, mi dicono che gli stia parlando direttamente nella mente. Poco dopo l’imbonitore saluta il suo invitato e questo si volta, ripercorre il cammino a ritroso e sparisce nuovamente nel nulla, dopo essersi richiuso il cancello alle spalle. «Hai visto che spettacolo? Che ti dicevo? Elloi è proprio tosto, molto meglio di un trip da acidi.» Torakiki è in visibilio. Certo, non so bene ciò che ho visto, di sicuro il trucco utilizzato dal nero questa volta era di grande effetto, anche se non so a cosa abbia portato. «Quindi è anche un Pai de Santo, non solo un Houngan…» sento bisbigliare Esmeralda, senza capire neanche questa volta di che parli. Non ho neppure intenzione di chiederglielo, meglio andare dritti alla fonte. Mi avvicino quindi a El Roi, che mi dà le spalle. «Aspetta, Davide» mi esorta Esmeralda, ma la ignoro. Solo quando arrivo al cospetto del nero mi accorgo che sta pisciando in una

ciotola. Quando finisce di scrollarsi l’uccello, lo vedo rimestare nel contenitore impastando ossa di pollo, polvere grigia, legnetti e piscio. Disgustato, faccio per ritrarmi, ma l’uomo si volta verso di me con occhi spiritati. «La nostra guida, hermano, eccola sorgere!» Dalla ciotola spunta una sorta di bambolotto, un feticcio dalla pelle scura e dalla testa spropositatamente grande rispetto al corpicino fatto di paglia, sterpi e ossa di pollo. Per occhi ha due conchiglie a spirale color avorio con venature rosse, che mi mettono angoscia. Salta fuori dalla ciotola come una locusta, con rumori di legnetti spezzati, e cammina verso El Roi. «Che diavoleria è mai questa?» sbotto, allibito, facendomi indietro. «Perché, campeón, non ti fa tenerezza?» «Ho sempre avuto il terrore delle bambole assassine.» «No, hermano, non es asesina, è solo muñeca, Orchidea-muñeca.» «Cioè? Un demone?» azzardo io, osservando il ghigno sadico che si apre sul volto del bambolotto. Ha denti aguzzi, da piranha, e movenze balorde che sfidano ogni legge della fisica. «Exacto! Un demone, pequeño. Me ne fotto, io, l’importante è che sappia assolvere al suo compito.» «Che sarebbe?» «Farci da guida, da segugio instancabile, meglio di un fottuto cane da tartufo. Sarà lei a guidarci a Orchidea.» Sono esasperato. «E chi sarebbe questa Orchidea?» interviene Torakiki, già intento ad accarezzare la testa del piccolo demonio, come fosse un cagnolino da compagnia. Un fantoccio con conchiglie al posto degli occhi sarà la nostra guida cieca. Siamo messi bene. Sempre meglio!

«Orchidea, la fanciulla che dobbiamo salvare, questo è il suo nome. È prigioniera, poverina.» Ironia nella voce del nero? «E dove, Elloi?» «E dove poteva finire quella cagna impura e pigra, se non in un villaggio di Gamchicolh. Hija de puta, non sarà facile recuperarla…»

8. L’Ascensione

«I nostri strateghi hanno pianificato a lungo. Speriamo sappiano quello che fanno…» cerco di stuzzicare Torakiki, visto che neanche lui è stato ammesso alla riunione ristretta fra El Roi e Sparviero. «Sono loro a occuparsi di queste cose noiose» mi risponde tutto allegro, giocando con il pupazzo assassino che tenta di azzannargli un dito. Lo vedo prendere una delle sfere che porta attaccate alla cintura e lanciarla, attendendosi che la marionetta voodoo vada a riprenderla. La bambola assassina invece gli si scaglia su uno stinco, affondandogli i denti nello schiniere. Poi, forse delusa per non esser riuscita ad assaporare il sangue del giallo, balza fuori dal carro, muovendosi veloce fra le zampe dei cavalli fino a sopravanzarli. «Dove ci starà portando? Non crederai veramente che sia una sorta di segugio?» chiedo indicando col braccio la Orchidea-muñeca, che nel frattempo trotterella innanzi al veicolo guidato da quello che ho scoperto essere un macumbeiro. «Immagino che prima di dare l’assalto al villaggio dei Gamchicolh, gli strateghi abbiano deciso di far scorta d’armi ed esplosivi. Almeno me lo auguro. Ho in mente un nuovo ordigno e ho anche finito i popcorn.» D’accordo, inutile cercare conforto in questo matto, cosa mi è saltato in mente? Sono sfinito dagli accadimenti. Non posso far altro che aggrapparmi alla folle idea che sia possibile tornare a vivere nel mio mondo, come sostiene il nero che piscia nelle ciotole. Eppure l’ho visto con i miei occhi evocare una creatura dal nulla, quindi tutto è possibile. «Scusa, Esmeralda, tu sai chi sono questi Gamchicolh?» La mulatta solleva la testa dal tomo che sta leggendo. Appartiene a lei quell’immensa enciclopedia che ho sempre visto sul pianale del carro e reputavo servisse alla stregua di un proiettile da scagliare contro eventuali nemici. «Stavo giusto effettuando una ricerca…»

La guardo stupito, per l’ennesima volta. «Vedi, Davide, questo è il mio grimorio, il mio libro delle ombre. Racchiude tutta la conoscenza che ho potuto imparare nel regno del Libero Arbitrio e che va ben oltre i miei studi terreni. Il problema, infatti, è che quando muori, e rinasci, dimentichi quasi tutto…» Ecco, ci risiamo, ho innescato il fiume torrenziale di parole a vanvera. Quando imparerò a starmene zitto? «Muori e rinasci?» mi ritrovo a dire, pentendomene subito. Volevo solo sapere chi diavolo fossero questi Gamchicolh. «Anche le anime muoiono, come hai già avuto modo di scoprire. Muoiono e un lampo se le porta via, te ne sei accorto?» Annuisco, per non interromperla, sperando finisca al più presto. «Una volta morte, esse rinascono in qualche luogo di questo regno e non ricordano quasi nulla. Per questo porto sempre appresso il tomo, così da non perdere tutto il lavoro fatto sinora, capito?» «Sì, molto saggio da parte tua, ma questi Gamchicolh?» Esmeralda fa una smorfia scocciata: deve aver capito che la pazienza non è il mio forte. «Ho trovato qualcosa. Dovrebbero essere demoni… ma devo approfondire» chiude il discorso, posando gli occhi sui suoi interminabili appunti. «Ah, niente meno che demoni… e noi dovremo andare a stuzzicarli? Buono a sapersi.» «Spiriti dell’impurità, perturbatori d’anime, pigri e ignavi, per la precisione» ribadisce la donna, per poi tornare ai propri studi. Mi siedo in disparte sulla coperta logora di El Roi e mi lascio cullare dai sobbalzi del carro. Per fortuna il bambolotto ha le gambette corte e procediamo ad andatura moderata.

Beh, tutto sommato poteva andar peggio. Se sono così pigri, forse non sarà difficile strappare dalle loro grinfie questa Orchidea e fuggire. Sarebbe stato peggio finire in pasto a demoni della guerra, della pestilenza, della carestia o della morte…

*

Un uomo vestito di nero parla con pacatezza. Sono le sue parole ad accogliermi in quello che era il mio mondo. Non ne ricordo il nome, ma quello è senza dubbio il parroco della mia chiesa. Non che io la frequentassi molto spesso, però lo ricordo dal battesimo di Nicoletta. Don Senzanome continua con la sua omelia ma, a ben vedere, quella è tutt’altro che una predica. Un incoraggiamento sentito, un salvagente al quale aggrapparsi. La mia percezione amplificata mi concede di valutare con precisione la totale sincerità del suo intento. Me ne stupisco e quasi mi vergogno per averne dubitato. Pregiudizi duri a morire. Bene, ma io che ci faccio qui? Lascio il mio sguardo spaziare oltre il parroco, per scoprire da chi sia composto il suo uditorio, il suo gregge di pecorelle smarrite. Sono tutte sedute attorno a lui, in cerchio. Con leggero disagio capisco di trovarmi al cospetto di un gruppo di recupero, di sostegno, o almeno questa è l’impressione. Percepisco chiara la sofferenza che opprime ognuno dei partecipanti. Un lugubre velo che va dal nero assoluto, a sfumature meno tetre di grigio. Le parole di Don Senzanome si fermano, lasciando spazio a un’altra voce. Il tono è straziante e non impiego molto a riconoscere Franco e la sua barba da bucaniere. «Don Fabio, la ringrazio per avermi accolto in questo gruppo. Confesso di non essere un fedele impeccabile, quella semmai era Carla» il pronunciare quel nome gli crea fitte al cuore che, a causa della mia nuova condizione di ipersensibilità, percepisco come strali divini. «Giunto a questo punto, non so che altro fare. Solo nostro Signore può darmi la forza per andare oltre. Voglio ringraziare Lucrezia per avermi consigliato di

unirmi a voi. Sono rimasto solo, con la mia piccola Elisa, e non è facile…» la voce gli si spezza, mentre porta le mani al volto nel tentativo di nascondere le lacrime. Lucrezia? Percorro il cerchio di uomini e donne spezzati, fino a incontrare la mia Lucrezia. Anche lei siede, composta, su una seggiola, in attesa del suo turno. Don Fabio si alza. Non parla. Va verso Franco e lo invita ad alzarsi. Lo abbraccia. Un gesto semplice, spontaneo, un gesto che di rado si vede fra uomini adulti. Posso percepire chiaramente lo scambio di emozioni fra i due corpi. Non saprei come altro definirlo. La pacatezza del parroco fluisce da quel contatto nel corpo di Franco. Le lacrime gli si asciugano sul volto. «Nessuno è perfetto, caro Franco, e chi crede di esserlo pecca di superbia.» «Grazie, padre.» «Franco, sei il benvenuto. Il tuo lutto è un lutto per tutta la comunità. Carla era un angelo, un modello per tutti noi. Come lei ha sempre aiutato tutti, così faremo noi con te.» «La mia Carla non ha abbandonato la propria fede neppure durante la malattia…» «Non ne dubito, Franco, anzi si è aggrappata a essa trovandone indubbiamente conforto. È una lezione per tutti noi. Carla ambiva a una via di perfezione agli occhi di Cristo» gli risponde orgoglioso Don Fabio. Ora tutti si alzano in piedi e si uniscono in un abbraccio collettivo, condividendo pene e ricevendone in cambio sollievo. Mi sento in imbarazzo, quasi fossi un intruso indesiderato, capace di inquinare qualcosa di buono e giusto. Mi volto di scatto e faccio per fuggire…

*

«Che diavolo fai, hermano?» Ho male al naso, devo aver sbattuto il muso sul parapetto del carro, mentre dormivo. «Devo mettere qualcuno a sorvegliarti mentre dormi, come ai niños?» Il volto di El Roi incombe su di me. A pochi centimetri dalla mia faccia, vedo rughe profonde come canyon in un ovale rinsecchito simile al cuoio. Il suo fiato puzza di sigaro e rum. «Siamo arrivati, campeón, forza!» Mi aiuta ad alzarmi, porgendomi un braccio esile quanto quello di un bimbo del Biafra. «Siamo già arrivati al villaggio dei Gamchicolh?» Mi isso in piedi e scruto intorno, ma non vedo altro che l’ennesimo caseggiato stile far west. C’è una differenza però, rispetto agli altri in cui sono stato: qui c’è un sacco di movimento e un vociare concitato. Centinaia, forse migliaia di quelle figure simili a zombie corrono per le strade senza apparente meta. Sono stranamente attivi, quasi febbrili, e si urlano incitamenti che non comprendo. Ad accomunarli con quelli visti finora, rimane solo l’aspetto esteriore: ombre grigie, senza lineamenti ben distinguibili. Noto anche la presenza di molti angeli e di persone più in salute, simili a noi e armati come noi. «Forse ci sarà un’ascensione» mi avvisa Esmeralda, notando il mio sguardo interrogativo. Sparviero la interrompe con un cenno. Lega il cavallo al carro con foga e ci ordina di fare in fretta. «Proprio per questo dobbiamo sbrigarci. Il caos ci può far are inosservati, ma potrebbe anche attirare qualche cacciatore di teste.» «Adoro far saltare in aria gli Arcangeli!» ride Torakiki, sceso da cassetta per capire il da farsi.

«El Roi e Davide, rimanete sul carro e state pronti a fuggire. Io e il giallo andiamo in armeria, e la bella a far provviste. Poche cose, giusto il necessario per tenere in vita il negro. Tenetevi lontani dai casini, mi raccomando. Ci vediamo dall’altra parte del villaggio.» Detto questo, tira giù Torakiki dal carro e lo trascina via. Esmeralda li segue, per poi dirigersi al drugstore. Rimango con lo stregone e mi siedo al suo fianco. Sferza i cavalli e procediamo con lentezza attraverso la massa delle anime che si affannano in una corsa senza senso, sotto lo sguardo sbeffeggiante dei «normali». «Cosa stanno facendo?» El Roi sorride di gusto. Guarda i poveretti con un misto di commiserazione e disprezzo. Più disprezzo, probabilmente. «Vedi, queste sono almas penitentes, anime che sperano di mondare le proprie colpe col supplizio, e accelerare così la propria redenzione. Desaparecidos.» «Correndo?!» «In questo villaggio si sono riuniti gli accidiosi, i pigri e gli indifferenti. Qui funziona così, hermano. I peccatori si attraggono in base alle loro colpe. La loro punizione è una corsa eterna, senza meta.» Scuoto la testa incredulo, mentre El Roi si accende un sigaro e si mette a far versi, schernendo le anime che corrono al fianco del carro. «Màs ràpido, màs ràpido!» Mi sorprendo che non ne abbia falciata ancora nessuna. A me invece fanno pena quei poveretti. Almeno io ho l’occasione di tornarmene dai miei cari, sempre che il pazzo seduto accanto a me non stia mentendo. Dall’alto del carro vedo le ultime propaggini del villaggio degli accidiosi, quando un fragore improvviso mi fa quasi cascare di sotto. Un tremore crescente percorre le strade, mentre le casette di legno scricchiolano, quasi dovessero frantumarsi da un momento all’altro.

Le anime cessano all’unisono il loro moto perpetuo, sollevano i volti al cielo e gli angeli iniziano a cantare. «Maldito, c’è veramente un’ascensione!» si inalbera El Roi, scagliando il sigaro in faccia a uno zombie, senza che questo reagisca minimamente. Il nero si volta, scrutando in ogni direzione. Il cantico soave di mille voci bianche scuote le fila di penitenti, che iniziano a dondolare sul posto in preda all’estasi. Se ne sono riuniti a centinaia, e quella massa informe e ciondolante assume le sembianze di un mare in tempesta, tra le cui onde, qua e là, splendono le luci fluorescenti dei canarini. «Dove cazzo è finito quel pendejo di Sparviero?» Non capisco perché El Roi sia così agitato. Non ho idea di cosa sia un’ascensione, ma immagino sia una cosa positiva. A giudicare dalla soave melodia e dalle espressioni di attesa festosa degli zombi, non può essere nulla di cui preoccuparsi. Il macumbeiro, però, continua a imprecare, stringendo le redini con nervosismo crescente. L’idea che sia un emissario del demonio torna a fare capolino nella mia mente. «Mierda, mierda! Lo lascio qui quel maricòn!» Le anime sollevano le braccia al cielo, mentre il canto degli angeli sale di tono. Riesco quasi a vedere le note melodiose prendere corpo e sostanza, vorticare al centro dello spiazzo, smuovere la polvere grigia del suolo e originare un turbine maestoso che si innalza verso l’alto. Seguendolo scorgo il velo plumbeo del cielo squarciarsi letteralmente. La coda del vortice che si è generato apre una fenditura dalla quale spunta una mano corazzata. Giunture d’oro massiccio ricoprono cinque dita titaniche che invitano qualcuno a raggiungerle. Dal basso, un’anima inizia a turbinare, quasi fosse sospinta da un vento ascensionale invisibile. Vola senza muovere muscolo, dirigendosi leggiadra verso la mano. La mano di Dio? «Nuestra Señora de la Santa Muerte, eccoli lì finalmente!» mi sveglia El Roi. Mentre lo zombie prescelto raggiunge l’agognata meta, due Arcangeli escono

dallo squarcio e lo invitano ad avvicinarsi all’enorme mano. Le dita, grandi come piloni portanti, stringono l’anima fino a farla esplodere in mille coriandoli cobalto. Riporto lo sguardo sulla terra polverosa. Vedo Sparviero e Torakiki procedere a spintoni nella muraglia di anime inermi. Dietro di loro spunta il bel volto di Esmeralda, con in grembo un carico di vettovaglie. «Fate largo, peccatori!» tuona il cowboy, mentre il cinese falcia teste con il machete. Corrono manco avessero Satanasso alle calcagna. Non riesco a capirne il motivo, fin quando non vedo gli Arcangeli che avevano accolto l’anima ascesa planare placidi dal cielo. «Cacciatori di teste!» urla Torakiki, issandosi sul carretto. Esmeralda sale a sua volta, gettando i pacchetti sul pianale del carro, mentre El Roi dà di redini. Sparviero è già montato sul suo cavallo e stringe in pugno il fucile a canne mozze. Tutt’attorno, le anime guardano nella nostra direzione. Centinaia di orbite apparentemente cieche mi osservano. I canarini, i loro angeli custodi, hanno cessato di innalzare canti. Il silenzio è rotto solo dal suono dell’aria smossa dai battiti d’ali dei due robot dorati, che qui definiscono Arcangeli. Il carro sta prendendo velocità, ma non ce la faremo comunque a distanziare i nostri inseguitori. Il colpo di Sparviero deflagra, andando a colpire in testa uno dei mech. Il proiettile impatta sulla calotta cranica d’oro, creando un bozzo evidente a distanza, ma non riesce a penetrarne la corazza. Il cinese esplode diversi colpi con una 44 magnum nuova di zecca. L’attacco non ferisce gli Arcangeli, però ha l’effetto di bloccarli e farli voltare. «Yhaaa, via, via, yhaaa!» urla El Roi rivolto ai cavalli. Più che le parole sono le frustate a farli accelerare. I nostri inseguitori si sono fermati. Pare stiano raccogliendo alleati. Gli angeli custodi si assiepano intorno a loro, finché uno dei due mech non impartisce un ordine. All’unisono si innalzano in volo e l’inseguimento riprende. Vedo Sparviero accostarsi al carro. Ha il volto teso. «Dobbiamo varcare una zona sconsacrata o questa volta siamo fottuti!» urla al macumbeiro.

Quello, senza smorzare la furia delle frustate, annuisce. Stringe in pugno l’Orchidea-muñeca, la fissa per qualche istante negli occhi a conchiglia e poi la scaglia con violenza in avanti. Il bambolotto voodoo plana al suolo con grazia e inizia a sgambettare a grande velocità per mostrarci la via. Non riesco a far altro che sorreggermi al parapetto del carretto e pregare che le assi delle ruote reggano la corsa folle.

9. Testa di ponte infernale

I nostri inseguitori si tengono a distanza di sicurezza. Hanno tentato più di un assalto, ma tra le molotov scagliate da Torakiki e i colpi del cecchino Sparviero, siamo sempre riusciti a ricacciarli indietro. Anch’io ho centrato qualche bersaglio. Non so quanti angeli custodi abbiamo abbattuto, ma di certo sufficienti per esserci guadagnati la dannazione eterna. «Guardate, ci siamo» dice Esmeralda, indicando l’orizzonte. Nella sua voce però non c’è la gioia che mi sarei atteso. Eppure raggiungere la meta dovrebbe garantirci la salvezza dai nostri aggressori, da quel che ho capito. Mi volto a scrutare cosa ci attenda là davanti e allora capisco. Lungo il terreno polveroso corre una linea netta che taglia tutto l’orizzonte. Un confine marchiato a fuoco sulla pelle di questa landa. Pare una ferita slabbrata, aperta su carni vive. Rossa di sangue, o di magma, oltre la quale il suolo è nero come pece. Colonne di fumo danzano nell’aria in ogni direzione e, mano a mano che ci avviciniamo, riesco a scorgere enormi stendardi avorio con strani simboli rossi disegnati sopra. Non riesco a interpretarli, ma sono certo si tratti di un chiaro monito a tenersi alla larga, un monito capace di infettarmi direttamente l’animo con il virus del terrore. «Tornano alla carica!» ci avvisa Torakiki, tutto contento, una bottiglia incendiaria in una mano e un accendino nell’altra. In quel momento un Arcangelo vola sopra le nostre teste come un jet in caccia. Lo spostamento d’aria quasi mi fa cascare sul pianale del carro. I due colpi di Sparviero lo prendono solo di striscio, originando una cascata di scintille. Dietro di noi, l’altro angelo robot guida la carica dei canarini. Uno stormo di predatori in picchiata. Il cinese scaglia la prima bottiglia incendiaria, che impatta sull’avanguardia, rompendo le fila di quella squadriglia sovrannaturale. «Pensateci voi a quelli» ordina Sparviero a me e a Esmeralda, mentre sprona lo stallone verso l’Arcangelo che ci ha superato e che ora ci sbarra la strada verso la zona sconsacrata.

La fa facile, cazzo, mancherebbe così poco! Svuoto il caricatore delle due colt, riuscendo a far scomparire una mezza dozzina di canarini, mentre Esmeralda si concentra a bersagliare l’Arcangelo. Le pallottole della sua pistoletta da giarrettiera però fanno solo il solletico al mostro alato. Se non fosse per la bomba a mano – non che ne abbia mai vista una prima d’ora – che gli tira addosso il giallo, ci avrebbe trucidati tutti con il suo spadone fiammeggiante. Invece siamo riusciti a ricacciarlo indietro, anche questa volta. Ora una chiazza scura gli insudicia il pettorale dorato, dove è deflagrato l’ordigno. Forse è ferito e il fumo che fuoriesce è l’equivalente del nostro sangue. «Mierda!» sento imprecare El Roi. Mentre ricarico le pistole do un’occhiata e vedo una scena incredibile. Sparviero, sul suo cavallo, è impegnato in uno scontro all’arma bianca con il mech. Con il coltellaccio, il pistolero respinge gli attacchi dell’essere alato, la cui spada disegna archi fiammeggianti nell’aria. È evidente che l’uomo non reggerà a lungo. El Roi cerca di far cambiare la traiettoria al carro lanciato a tutta velocità proprio in quella direzione. Sparviero, attratto dal rumore, ci ha visto, ma quell’attimo di esitazione gli è fatale. L’Arcangelo porta un affondo che l’uomo riesce a parare all’ultimo, ma viene sbilanciato dalla potenza del fendente e finisce disarcionato. Sparo un paio di colpi verso la creatura che incombe sul mio compare. Quattro metri di entità angelica sono un bersaglio che neppure io posso mancare. «Amigos, abbandonare la nave!» tuona El Roi, prima di saltare giù dal carro. Non riesco a credere lo abbia fatto. Quel vecchio mucchio d’ossa rotola nella polvere, mentre noi filiamo a tutta velocità contro la belva d’oro. I cavalli imbizzarriti non accennano a rallentare, né a mutare direzione. Le braccia di Esmeralda mi afferrano e mi spingono con decisione contro la balaustra. Più che saltare, roviniamo al suolo. L’impatto col terreno mi toglie il fiato, ma il boato e i nitriti disperati che sento alle mie spalle, mi costringono a riprendere i sensi e a tentare di alzarmi. Il carro si è schiantato contro l’Arcangelo che ora giace al suolo in un groviglio di assi di legno, arti ritorti, ali spezzate e cavalli maciullati. Su di lui troneggia Sparviero.

Gli punta il fucile a canne mozze all’altezza della testa e fa fuoco. «Riposa in pace, mostro!» Non faccio a tempo a godermi la scena che una lancia si conficca di fianco al mio piede. «Stanno arrivando!» mi avvisa Torakiki, indicando l’altro Arcangelo e i suoi compari. Il giallo ansima come un mantice, ha il volto sofferente e si tiene il gomito destro. Il suo tuffo dal carro non deve essere andato tanto meglio del mio. «Prendi la bomba, Davide, io non ci riesco» mi indica lo zaino delle meraviglie, sulla sua destra. È un vero miracolo che il suo contenuto non sia deflagrato, strappandoci così da ogni preoccupazione. «Niente fuochi d’artificio, scappiamo, in fretta, siamo a meno di cinquanta metri dal confine!» ci redarguisce Esmeralda. El Roi, indifferente a noi, sta già correndo con le sue gambette da insetto stecco. Io le ubbidisco e mi metto in scia. Non contento, col braccio buono, il cinese svuota l’ennesimo caricatore, urlando insulti incomprensibili, per poi iniziare una goffa fuga a rotta di collo. Solo la fortuna e qualche colpo eccezionale di Sparviero ci consentono di non finire con una lancia infilzata nelle terga, prima di giungere al limite della zona sconsacrata. El Roi e Sparviero sono già oltre, i volti terrei e sudati. Supero quella ferita orrida e suppurante sangue, e poso i piedi nella zona morta, poco prima che le schiere angeliche mi agguantino. Anche Torakiki ed Esmeralda ce la fanno, perché il mech e i canarini si bloccano a una decina di metri dal confine. Sono immobili, vere e proprie statue di candore. Nessuno direbbe che un secondo prima volevano trucidarci tutti. «Hijo de puta, hai paura adesso, vero? Ti abbiamo fregato!» È El Roi, isterico, a sbeffeggiare l’Arcangelo che rimane imibile, gli occhi levigati della sua maschera d’oro che non mostrano alcun sentimento.

Adesso il nero fa il gradasso, ma pochi istanti fa ci ha praticamente dimenticati pur di mettersi in salvo. «Forza, andiamo» ordina Sparviero ponendogli una mano sulle spalle, per calmarlo. El Roi lo fissa come se neanche lo riconoscesse. «Aspetta, dobbiamo attendere Orchidea-muñeca» rinsavisce infine il macumbeiro. L’ansimare di un Torakiki sfinito dalla breve corsa è l’unico rumore in un mondo tetro come non mi era mai parso. Mali presagi affliggono questa terra e ci penetrano per osmosi nelle ossa. Di lì a breve vediamo il bambolotto caracollare fra le gambe possenti dell’Arcangelo, per poi raggiungerci. In volto ha dipinto un sorriso agghiacciante, quasi tutta quella confusione e quel massacro l’abbiano divertito un mondo.

*

Ci siamo fermati a riposare e a far mangiare El Roi in quelli che sembrano i ruderi rugginosi di una metropoli devastata da un’esplosione nucleare. Cumuli di macerie annerite, dai quali spuntano pali di ferro ritorti. Qui si è combattuta una guerra devastante, oppure si è scatenata la forza dirompente della natura. Nulla è sopravvissuto. Nell’aria aleggia lo spettro della morte, capace di riempirmi il cuore di terrore, nonostante sia già morto. Siamo allo stremo. Torakiki potrebbe avere un braccio rotto, Esmeralda ha una gamba dolorante e pure Sparviero mi pare acciaccato, anche se nasconde tutto dietro una faccia intagliata nella pietra. Ogni tanto però qualche smorfia di dolore trapela senza che neppure lui possa farci nulla. Mi sento a pezzi, ho dolori ovunque, ma tutto sommato ciò che maggiormente mi angoscia è il timore che tutta questa storia non possa realmente portare alla meta sperata. L’idea di trascorrere l’eternità in questo posto mi annichilisce. Anche solo qualche settimana, in verità, sempre che il tempo abbia ancora un significato. Il

fatto di essermi inimicato le intere schiere celesti non mi è certo di giovamento. Men che meno il dover cercare riparo in una zona sconsacrata. Non oso immaginare quali possano essere i padroni di questa landa, certo gli stendardi e i pali sormontati da enormi teschi di bestie zannute non lasciano ben sperare sull’accoglienza che potrebbero riservarci. Abbiamo perso il carro, i cavalli e gran parte di cibo e acqua. Non che a noi serva, o almeno così dicono, anche se sento la gola arida e ogni respiro mi brucia i polmoni, ma al nero servono vettovaglie per non crepare e mandare a puttane la missione. «Si può sapere dove siamo?» chiedo alla mulatta che mi siede a fianco. Esmeralda solleva uno sguardo stanco. Nonostante oramai abbia capito quanto le piaccia fare la maestrina, ora preferirebbe starsene in silenzio, a riposare. «Siamo in una zona sconsacrata. All’inferno, insomma» taglia corto. Mi guardo attorno e in effetti lo scenario è molto simile a come ci si potrebbero immaginare gli inferi. Sotto il solito cielo color piombo, illuminato dalle costellazioni degli Evangelisti, si scorgono in lontananza vulcani e monti dalle cime aguzze. Invece che dalla neve, sono coronate da manti rossi. Fontane di lava spruzzano a intervalli irregolari accompagnate da tuoni e folgori, e veri e propri fiumi di magma scendono dalle loro pendici. Ovunque ardono fuochi immani, e fumo più nero dell’abisso sale verso il cielo grigio. Un giacimento petrolifero andato in fiamme non sarebbe nulla a confronto. C’è un caldo infernale, penso, e quasi mi metto a ridere da solo. «Intendi il reame di Satana? Proprio quello?» «Satana, Belzebù, Baal, Lucifero, Pwcca, Pan, Chernobog, Seth, Loki, Mammona, Moloch… non saprei dirti di preciso. Ogni tanto qualche Demone Maggiore, o qualche Divinità Oscura, tenta di appropriarsi di un lembo di questo regno.» Mi indica qualcosa col braccio teso. Poco discosto da noi garrisce al vento pestilenziale che flagella questo luogo, uno stendardo color avorio, al centro del quale campeggia un rombo rubino trafitto da due lance di fuoco. È quello che mi sta indicando la donna.

«Purtroppo non conosco quel glifo, Davide.» «Una testa di ponte dell’inferno, quindi?» «Esatto!» «E perché un demone vorrebbe conquistare questo posto?» Esmeralda sorride, mesta. «Naturalmente per privare le anime del loro libero arbitrio e per accogliere quelle che non ambiscono a vedere la luce del Signore.» «Siamo in pericolo?» La donna pare riflettere e la cosa non mi tranquillizza di certo. «Per nulla, hombre, anzi riposa finché ne hai la possibilità. Appena Orchideamuñeca deciderà la direzione, ci rimetteremo in cammino e dovremo farlo a piedi» mi rincuora El Roi, mentre si coccola il bambolotto demoniaco fra le braccia come fosse un micetto. Esmeralda mi concede un sorriso tirato. Torakiki armeggia con il suo zaino pieno zeppo di esplosivi e mille altre diavolerie, mentre Sparviero, ritto in piedi come un suricato, fa la guardia e scruta in ogni direzione. Non mi resta che accogliere il consiglio del nero. Mi pare il migliore che mi abbia dato sinora. Mi sdraio e chiudo gli occhi, quando una sfera mi compare innanzi. L’agguanto riconoscendo la voce della mia bimba e me la porto al cuore. Le sue parole sono meglio di qualsiasi ninnananna io possa ricordare. Fai sogni d’oro papà, mi manchi…

*

Fai sogni d’oro, papà, mi manchi, per fortuna stasera ho la mia amica, la mia migliore amica Elisa, a farmi compagnia. Buona notte! Sono lì a fianco e la osservo nel suo lettino, ora stranamente ingombro. Sotto le

coperte vedo spuntare l’altra piccola birbante, Elisa. Le sento ridacchiare spensierate, inneggiando al loro primo pigiama party con i rispettivi pupazzi preferiti. Riconosco l’orso Fonzy e la Cicciotta, la bambola paffuta alla quale ho dato mille volte voce giocando con Nicoletta, mentre la papera gigante e il bambolotto vestito di blu devono essere quelli portati da Elisa. Mi ritrovo a tentare di rimboccare loro le coperte, quando non riesco ad agguantarle rammento di essere solo un essere incompleto, un fantasma, un padre ammezzato e invisibile. Non riesco neppure ad arrabbiarmi, perso come sono nei visini contenti delle due piccolette. «È ora di andare a nanna, spegnete le luci!» Sento la voce di Lucrezia giungere imperiosa dalla cucina. Saluto la mia piccola augurando a lei e a Elisa sogni d’oro, se lo meritano povere piccole, e raggiungo la mia donna. Rivedere la mia casa mi fa lo stesso effetto di tuffarmi in un lago ghiacciato. La sofferenza iniziale dell’impatto gelido, viene presto superata e sostituita da un piacevole riemergere di mille ricordi. Ricordi capaci di riscaldarmi il cuore. Poi arrivo in cucina e lo vedo. Barba lunga e nera. Franco. Che diavolo ci fa in casa mia? A quest’ora poi? Ah, certo, c’è sua figlia di là… eppure non riesco a tacitare una fastidiosa punta di gelosia. È seduto al mio posto, con una tazza di tè ancora fumante davanti. «Non so veramente come ringraziarti, Lucrezia.» Ora che ha finito di mettere i piatti nella lavastoviglie si siede anche lei a tavola. «Figurati, non dirlo neppure.» «Sai, era tanto che non vedevo Elisa così contenta.» «Posso immaginare. Nicoletta ancora non ha ben capito…» la voce le si fa un bisbiglio, costringendomi ad avvicinarmi. «Non capisce ancora che non lo vedrà mai più…» Anche Franco ha l’espressione affranta e sentire il dramma interiore che lo pervade è come ricevere un pugno nello stomaco. Non riesco ad abituarmi a

questa sensibilità amplificata e non riesco a impedirmi di provare una forte empatia per la condizione dell’uomo. «Sono così piccole…» Si porta la tazza alla bocca per coprire il volto, prossimo alle lacrime, e trae una lunga sorsata. «Sono contenta che tu sia venuto all’incontro, in parrocchia» cambia argomento Lucrezia. È brava, sa sempre cosa fare. È una donna forte. Lo so che avrà l’energia per sopperire alla mia mancanza e per questo l’amo ancor di più. «Carla era una fervida credente. Non tollerava il mio atteggiamento da ‘finto cristiano’ come era solita dire.» «Ma va, non è vero, tutti potremmo fare di più.» «Già, ma solo ora, nel momento del bisogno, mi rendo conto dell’importanza della comunità.» «Dobbiamo essere forti, per le nostre bimbe.» «Già. Grazie Lucrezia, anche Carla te ne sarebbe grata. Ora è tempo che io vada. Dormono le piccole pesti?» Mia moglie, in punta di piedi, va a controllare, lasciandomi lì a contemplare quell’uomo affranto. Sento il disagio crescermi nel petto, non potendo far nulla per stemperare il fuoco della disperazione che lo sta corrodendo. Poi ritorna Lucrezia. «Dormono come angioletti.» Franco si è alzato ed è pronto ad andare. «Allora, grazie ancora. Vengo a prendere Elisa domattina, così poi possiamo andare al parco.» «Perfetto, a domani allora, e buona notte.»

Si stringono la mano. «Buona notte anche a te.» Ora che Sandokan se ne è andato, rimango da solo con mia moglie. La seguo fino in cucina, dove torna a sedersi, portandosi le mani al volto. Piange. La sua facciata di sicurezza è crollata non appena rimasta sola. Vorrei abbracciarla, consolarla, ma sono solo un fottuto fantasma.

*

«Sveglia, pendejo, dobbiamo scappare!» la voce di El Roi è più urticante del solito. Mi sento il cervello strapazzato da questi continui viaggi e l’animo appesantito dalla disperazione che mi trascino dietro come un fardello a ogni ritorno. «Una Legione Demoniaca, cabron!» insiste, ma fatico a riemergere dal sogno. È Sparviero a prendermi di peso e a sollevarmi. Torakiki gli è al fianco, pallido come uno straccio. Il doppio mento pare tremolargli come i barbigli di un gallo cedrone, mentre mi sprona con voce flebile. «Forza Davide, dobbiamo battercela!» Non oso immaginare cosa possa averlo terrorizzato a tal punto, lui sempre pronto a fare i botti con le sue diavolerie. Forse leggendo il dubbio sul mio volto, mi porge il binocolo che stringe in pugno. Mi invita a guardare all’orizzonte. Vedo solo fumo e nuvole. Ci impiego qualche secondo prima di realizzare che quelle nubi non sono causate da uno dei mille fuochi che deturpano questa terra, ma da un esercito in marcia. Schiere e schiere di guerrieri. Squadre di ombre a cavallo di destrieri scheletrici, centurie di fanti dalle forme bizzarre, con qualche arto di troppo, accompagnati da esseri usciti da qualche libro fantasy dozzinale, e infine creature che altro non possono essere che demoni, i padroni di questa terra sconsacrata. Colossi dai mille tentacoli e dai musi irti di zanne, con ali da pipistrello.

«Vogliono noi?» chiedo, incredulo. È Sparviero a rispondermi a muso duro: «Chi credi di essere perché un’intera Legione Demoniaca, anzi forse più d’una, si metta in marcia per venire a prenderti? Siamo solo nel posto sbagliato, nel momento sbagliato. Quindi è meglio se ci togliamo dai coglioni». Ci mettiamo in marcia di gran lena, inseguiti dal suono di un motivo militare trasportato dal vento venefico. Un’accozzaglia di rumori distorti di cornamuse, cembali e urla belluine, capace di riempirmi l’animo di angoscia e di mettermi le ali ai piedi.

10. Battaglia fra divinità

Sono ore che marciamo, ma non siamo riusciti a distanziare gli eserciti demoniaci. Ci siamo fermati a rifiatare, visto che Torakiki è sfinito ed Esmeralda ha male alla gamba. La sto sostenendo, ma ora il dolore le si legge chiaro sul viso, i bei lineamenti distorti in una smorfia. La donna però è caparbia e non si arrende. Intanto Sparviero scruta l’orizzonte con il cannocchiale. «Stanno guadagnando terreno.» Come sempre, latore di pessime notizie. Siamo oramai prossimi al confine di questa landa maledetta. Lo scorgo in lontananza e già ne intuisco un pulsare obbrobrioso, quasi la terra fosse in allarme, allertata da qualche pericolo o, più probabilmente, estasiata dalla colonna di demoni in marcia, in rapido avvicinamento alle nostre spalle. Non saranno qui per noi, ma ci tallonano come segugi. Anche Sparviero si mette a fissare il confine, probabilmente per cercare una via da seguire. Poco oltre inizia un paesaggio collinare dalle dune e doline color antracite. Se riuscissimo a giungervi senza farci scorgere, forse potremmo trovare una via di fuga in uno di quegli avvallamenti. «Ecco spiegato il mistero» sbotta la brutta copia di Clint Eastwood. Non capisco di cosa parli, finché non scorgo uno strano bagliore provenire dalla sommità di una duna. Un lucore visibile a distanza, stagliato sul grigiore uniforme del cielo. «Schiere celesti» annuncia, ando il cannocchiale a El Roi e accendendosi un cigarillo. Il nero l’agguanta e osserva. Lo vedo trattenere a stento le bestemmie. «Buon Dio, dobbiamo muoverci» sbotta Esmeralda, terrorizzata.

«E per andare dove?» le chiede Sparviero. Il suo sguardo è stranamente spento e la cosa mi turba. Non l’ho mai visto così, pare sul punto di arrendersi. Il lucore si trasforma lentamente in una colonna lucente che avanza a ritmo cadenzato. Pare la coda di una cometa. Crea una striscia dorata che fende le colline scure procedendo nella nostra direzione. Ora ho capito di che si tratta: un altro esercito, un esercito capeggiato da quelli che riconosco essere degli Arcangeli, seguiti da centinaia, forse migliaia di canarini e altre figure ancor più grandi dei mech. Esmeralda si incazza, decisa a spronare il cowboy. «Da qualsiasi parte, basta che ci togliamo da questa morsa. Le creature celesti sono qui per rispedire i demoni negli inferi. È loro compito garantire lo status quo dell’intero Regno del Libero Arbitrio e vedono anche noi come un’anomalia da detronizzare, visto che El Roi è vivo.» Indica con le braccia i due eserciti che stanno convergendo proprio nella nostra direzione. «Donna, sei forse in grado di farci spuntare le ali?» la provoca Sparviero, sbuffando fumo. Mi dà l’idea di essere pronto a farsi accoppare e a ricominciare da qualche altra parte, come fosse in un videogame dalle vite infinite. Esmeralda rimane in silenzio, sconsolata. Torakiki rovista nel suo zaino, ma pare non contenga esplosivi adatti ad annientare due interi eserciti di creature soprannaturali. Dobbiamo scappare, ma tutti sembrano annichiliti. Io non riesco ancora a capacitarmi della situazione. Possibile che anche dopo la morte ci sia qualcuno a incaponirsi nella guerra? Assurdo! Credevo fosse un vizio prettamente umano e di certo mai mi sarei immaginato che anche i servi dell’Onnipotente si cimentassero in combattimenti e stragi.

«Mala suerte de mierda!» tuona El Roi. Forse lui non si è ancora arreso. «Sparviero, portami su una di quelle colline e io ti darò le ali che ti servono.» Lo guardiamo tutti sbalorditi eppure il suo sguardo è determinato come non mai. «Madre de Dios, un rito! Ho bisogno del tempo per fare un rito e dobbiamo essere in alto.» «D’accordo allora, muoviamoci.» Sparviero prende sotto braccio Esmeralda e la aiuta ad avanzare, indicandomi di fare lo stesso con il giallo. Il ciccione ha il fiato corto nonostante la sosta e il male al braccio è solo una scusa per guadagnarsi un’altra boccata d’ossigeno. Il pistolero però ha deciso la nostra meta e ha spazzato via ogni tentennamento. In silenzio, ringrazio gli Dei. Senza il cowboy saremmo spacciati.

*

Ci incanaliamo in una valle a o di marcia. Coperti dall’avvallamento, per un attimo riusciamo a nasconderci alla vista di demoni e angeli. Il latrare furioso dei segugi infernali però non ci abbandona e la paura ci dona nuove energie. Oramai il canto asincrono della Legione infernale si è mescolato alle melodie sublimi delle voci angeliche in un concerto capace di stordire per la sua disarmonicità. «Le avanguardie verranno presto a contatto» ci informa Sparviero. Mi pare si sia ripreso del tutto, anzi ora nel suo sguardo scorgo lampi d’eccitazione. «Arrampichiamoci su quell’altura, non voglio perdermi lo spettacolo.» Lo seguiamo di corsa, dando fondo alle ultime energie.

A metà della salita, il pistolero si blocca, si volta indietro ed estrae il fucile a canne mozze. Ci fa cenno di avanzare. Poco dopo vedo spuntare alle nostre spalle un molosso e un cavaliere. Non ho idea di come Sparviero possa essersene accorto, forse solo il sesto senso del guerriero, a ogni modo non riesco a non guardare la scena. L’essere monta un cavallo in putrefazione, una carcassa mezza divorata dalla quale spunta il chiarore delle ossa, eppure è rapida e ancora aggraziata nei movimenti. Il cavaliere stesso è solo un’ombra oscura, priva di contorni, con una lunga lancia nera in pugno. Il cane degli inferi si scaglia nella direzione del cowboy, ma questo è rapido a freddarlo con due colpi precisi al muso. Denti lunghi come coltelli volano in aria assieme a schegge d’ossa e carni sanguinolente. Il cavaliere parte alla carica facendo tremare il terreno sotto la galoppata possente del destriero fantasma. Sparviero cerca di ricaricare l’arma, ma non fa a tempo. Se ne rende conto e rotola di lato per evitare l’affondo della lancia, abbandona il fucile e impugna il coltellaccio da caccia grossa. Il cavaliere ombra fa voltare la cavalcatura e dà di speroni, tornando sul bersaglio, emettendo un grido stridulo che mi costringe a tapparmi le orecchie. In quel momento però i colpi del revolver del cinese gli esplodono nella schiena, facendolo svanire nell’aria. Il destriero continua la propria corsa all’impazzata, privo di guida, emettendo nitriti innaturali e rabbiosi e schiumando dalla bocca. Il pistolero lo decapita con un colpo preciso e potente di coltellaccio. «Forza, proseguiamo, malditos!» La voce di El Roi supera a stento il frastuono che giunge dalla valle. I due eserciti sono entrati in contatto e il clangore ci raggiunge come un’onda d’urto possente. Palle di fuoco scagliate da immensi trabucchi piombano nelle fila angeliche rispedendo dozzine di creature al cospetto del loro Dio, mentre nei cieli mech dalle ali piumate affrontano demoni con coda e corna. Seguendo gli ordini degli Arcangeli, schiere di canarini scoccano all’unisono, coprendo il cielo plumbeo di dardi lucenti, gocce dorate che si riversano sulle legioni nemiche portando strage e caos.

Assurdo! Assurdo, mi sembra di impazzire, si stanno massacrando! Spronati dal macumbeiro ci rimettiamo in marcia.

*

Giungiamo sulla sommità della collina ed El Roi si mette subito a trafficare con le sue bisacce. Dalle tasche dello smoking estrae sacchetti pieni di polveri colorate e puzzolenti, una ciotola di legno e una candela d’oro. «Vai a goderti lo spettacolo, hombre» mi dice indicandomi Sparviero, che con Torakiki è intento a osservare le manovre degli eserciti. «Vi chiamerò io quando sarò pronto.» Lo lascio in compagnia di Esmeralda, più interessata alle corbellerie del negro che alla battaglia che si svolge ai nostri piedi. «Meglio di essere al cinema» ghigna Torakiki, vedendomi arrivare. Ha estratto dallo zaino un pacchetto di patatine e se le sgranocchia con un sorriso ebete sul volto tondo. Però ha ragione. Lo spettacolo è maestoso, per quanto terrificante. «Vedi, ragazzo, gli schermitori delle schiere angeliche hanno ingaggiato i segugi infernali sul fianco sinistro. È solo una manovra per distrarre il nemico. Sul lato opposto, da dietro quelle alture, spunterà la cavalleria pesante.» Sparviero si crede un novello Napoleone. «Le fanterie sono al centro di entrambi gli schieramenti. È lì che si deciderà lo scontro. Guarda gli Arcangeli che arringano i canarini! Dall’altra ci sono le Furie, centurioni massicci, capaci di ispirare coraggio a suon di frustate nelle loro truppe di demoni e indemoniati.» Non è mai stato così loquace. «Sembra quasi che ti piaccia…»

Per un istante sposta lo sguardo su di me. Uno sguardo folle. È sul punto di rispondermi, quando un bolide, piovuto dal cielo, deflagra sulle pendici del colle e tutto attorno a noi comincia a tremare. Sulle nostre teste imperversa uno scontro letale fra stormi di angeli ed esseri dalle ali nere che lanciano strida agghiaccianti. Vedo sopraggiungere una sorta di dragone rosso a tre teste e non posso far altro che gettarmi a terra, sopraffatto da un terrore atavico. Tremo come un moccioso. Anche Torakiki e Sparviero, noto, mi hanno imitato. La vergogna per la mia fifa si attenua e trovo il coraggio per sollevare lo sguardo al cielo. La creatura immensa vola a una velocità incredibile. Le ali massicce sferzano l’aria cigolando come vele di un galeone in balia di un fortunale, mentre la coda guizza come una frusta assassina. La fiera addenta e dilania decine di canarini, fino ad arrivare al cospetto di un Arcangelo. L’essere alato tenta di colpirlo con un fendente della spada fiammeggiante, ma questo si limita a scansarsi, virando di lato, veloce come un dardo, per poi voltare una testa di centottanta gradi ed esplodere in una fiammata devastante. Il fuoco demoniaco investe l’Arcangelo, bruciandolo e corrodendolo come una candela di grasso di maiale. Il dragone, in preda al delirio di onnipotenza, è già tornato a perpetrare la strage di angeli custodi. Questi cercano di fuggire in ogni direzione, dividendosi e tentando di limitare le perdite. El Roi ci chiama al suo cospetto. Con uno sforzo immane mi rialzo. Le ginocchia mi tremano. Lo raggiungiamo e lo troviamo sfinito e sudato come dopo una maratona. Ai suoi piedi ha tracciato un simbolo composto da una croce con strani ghirigori lungo gli assi. Devo dire abbastanza elegante, deve trattarsi di quella che Esmeralda ha chiamato geometria sacra. Simboli capaci di destare emozioni, anche in chi non ne comprende il significato. «El Roi cercherà di invocare Papa Legba, Signore dei punti cardinali e dei punti mediali» ci avvisa Esmeralda, colma di ammirazione. «Prendetevi per mano, ràpido! Formiamo un cerchio.» Eseguo senza fiatare, ma il cerchio non si forma. È Esmeralda a non chiudere la catena. La guardo e la vedo a testa insù, lo sguardo trasognato. Cerco di

individuare la causa di tanto stupore e non fatico a capire: il dragone ha trovato un avversario degno di lui. Un colosso in armatura pesante verde, con finiture d’oro, lo sfida dall’alto della collina posta a fianco della nostra. Brandisce un’alabarda di sei, sette metri almeno, che emana un bagliore accecante, e si protegge dietro un pavese verde smeraldo con incisa una croce rossa. Il dragone non può sottrarsi a una sfida tanto plateale e volteggia sulla sua testa come un avvoltoio, in attesa di partire in picchiata. Riesco a percepire la bramosia di strage e l’appetito insaziabile della bestia, e questa percezione mi dà la nausea. La testa mi gira vorticosamente, scoprendo e sperimentando nuovi abissi di malvagità e odio, stupendomi per la mancanza di confini dell’ingordigia e del desiderio. «Non posso crederci, è una Potestà! Un angelo in continua lotta assieme agli Arcangeli contro i demoni. Una creatura di alto rango nelle cerchie angeliche, demandata a mantenere la stabilità spirituale dell’umanità. Mai avrei sperato di vederne una!» È Esmeralda a ridestarmi con la sua voce petulante, pervasa di sbalordita meraviglia. Pazzesco che la ione della donna per i suoi studi riesca a farle dimenticare come la sua vita sia appesa a un filo. El Roi le prende un braccio e la strattona in malo modo, riportandola nel cerchio. «Hija de puta, quelli vogliono le nostre teste e tu perdi tempo ad ammirarli?» Ora il cerchio è composto e il nero comincia a blaterare. «Concentrarse, hombre!» È una parola. Non posso fare a meno di guardare lo scontro titanico, attratto dai ruggiti del dragone. Lo vedo calare in picchiata, le tre teste che vomitano un fiume di fuoco e lava. La Potestà solleva lo scudo e incredibilmente non fa la fine di un pollo arrosto. Poi la cantilena di El Roi mi riporta sull’attenti. «Par pouvoir Legba Atibon, Maitre Carrefour, maitre grand Bois, granfd Chemin, Legba Barriere, Legba bois, Legba caille, Legba zanclian, Legba Missebo, Legba clairhoun’deh, Legba kataroulo, au nom de Monsieur Avadra bo-roi, viè, viè, viè, Legba.»

Pure il se sa, questo vecchio ciarlatano… E il miracolo si ripete: dal nulla, a un centinaio di metri da noi, compare la figura di un vecchio con un mantello logoro, un bastone e una stampella. Ci si avvicina con calma esasperante, mentre i versi belluini del dragone riempiono l’aria e lapilli piovono dal cielo. La belva deve essere stata ferita a giudicare dalla rabbia che riconosco in quei latrati, ma non posso guardare, ora sono totalmente assorbito dall’avanzare del vecchio invocato da El Roi. Zoppica, ma a ogni o l’incedere si fa più sicuro e spedito. Anche il suo aspetto muta di conseguenza, quasi ogni metro che lo avvicina a noi gli tolga interi lustri dal groppone. Ora procede spedito e il suo mantello si squarcia sotto la pressione di una muscolatura sempre più pronunciata. Ci è di fronte. Per un istante osserva apatico la battaglia che imperversa tutt’attorno a noi, poi torna a concentrarsi su El Roi. La pelle del volto è liscia come ceramica, perfetta, le labbra due vermi carnosi che si mordono la coda. Non si muovono, ma scorgo il suo dialogo muto con El Roi. Il nero storce la bocca in una smorfia disgustata, pare riflettere, poi fa cenno di sì col capo. Il vecchio, oramai giovane, sorride mostrando una chiostra di denti da iena. Allarga le braccia e quel semplice gesto gli concede di generare una sorta di parete liquida. Pare fatta di mercurio argentato, con delle onde che la percorrono dall’alto verso il basso e viceversa. Spunta nel bel mezzo del nulla circostante. «Forza, ràpido, ecco le nostre ali, il portale che ci condurrà lontani da qui.» Il macumbeiro spintona prima Esmeralda e poi Sparviero. Entrambi scompaiono inghiottiti dal liquido denso. Poi El Roi osserva me e il cinese. Pare riflettere. Non so cosa gli i per la testa, ma con uno scatto repentino mi afferra il braccio e mi spinge nel portale. Faccio a tempo a trattenere il fiato e mi sento avviluppare dal liquido. È freddo e per un istante non vedo né sento più nulla, solo la paura che anche la mia anima sia smarrita per sempre, morta.

11. Vecchi peccati

Una luce mi compare innanzi, danzando allegramente. È una profferta. La sfera levita nell’aria innanzi ai miei occhi, convincendomi che non tutto è perduto. È così bella e, così come è capace di rischiarare le tenebre, riesce a scacciare la paura che mi affligge l’anima. “Ave Maria piena di grazia…” La voce di Lucrezia mi dona la forza per riaprire gli occhi. Mi ritrovo catapultato in chiesa. Mia moglie è inginocchiata e prega. È bellissima. Al suo fianco Franco, sempre lui. Anche l’uomo prega e percepisco chiaro il flusso del suo accorato pensiero verso la moglie Carla. Li osservo, d’altronde non posso fare altro, oramai l’ho capito. Quando finiscono le rispettive orazioni si guardano e con un cenno si alzano. Lucrezia porge la mano a Franco e così li vedo allontanarsi da me. Sento la rabbia montare, li seguo. Senza neanche accorgermene la mano mi scivola alla fondina della colt. Quando me ne rendo conto vengo travolto da un’ondata di vergogna. Cosa diavolo ho pensato di fare? Uccidere Sandokan? Possibile che il demone della gelosia mi abbia posseduto? Frequentare quei pazzi mi ha rovinato. O forse sono sempre stato così? Certo sono sempre stato piuttosto possessivo. Cerco di riprendere il controllo, li seguo fino a giungere al cortile dell’oratorio della parrocchia. Lì, vedo Nicoletta ed Elisa che si rincorrono, ridendo come matte. Sono cambiate, ci impiego un istante a rendermene conto, ma sono cresciute. «Forza bambine, don Fabio vi attende a catechismo. Guardate che la Comunione è un evento importante e oramai manca così poco!» Comunione? Catechismo? Ma quanto cazzo di tempo è ato? Anni?

Non riesco a riflettere oltre che delle urla di donna mi ridestano.

*

«Cosa cazzo vuol dire che Torakiki non è potuto venire?» È la voce di Esmeralda, anche se non l’ho riconosciuta sinché non l’ho vista in volto. Non l’ho mai sentita utilizzare quel tono aggressivo, né mai avrei pensato ne fosse capace. Sta strattonando dal bavero dello smoking il povero El Roi, che la guarda con commiserazione. «Sei un bastardo, pezzo di merda!» continua la mulatta. È un fiume in piena. Mi scuoto tentando di ricollegarmi a quel mondo maledetto. Ora ricordo, il portale di mercurio, poi il silenzio e il vuoto assoluto. Infine Sandokan mano nella mano con Lucrezia e io pronto a piantargli una pallottola in fronte. Dovrò farmi un bell’esame di coscienza quando, e se, riuscirò ad avere un attimo di calma. Intanto però devo capire cosa stia succedendo. Mi guardo attorno e non vedo altro che una pianura grigia come il cielo che ci sovrasta. Il solito lucore rossastro delle costellazioni degli Evangelisti illumina quel regno immondo, incapace di portare la gioia che i semplici raggi di sole sanno invece donare. «Ti ho salvato la vita, oppure no, chica? I Loah sono bisbetici…» «E tu non dovevi essere un loro prescelto? Un potente stregone, benedetto pure?» «Nella magia tutto ha un prezzo, puta, e spesso si deve pagare col sangre, entiende?» Esmeralda molla la presa e scoppia a piangere. «Cosa cazzo è successo?» riesco infine a dire, rivolto a Sparviero che osserva la scena immobile e in silenzio, privo delle emozioni umane che dovrebbero

caratterizzare la razza cui anche lui appartiene. «Il negro ha sacrificato Torakiki, ecco cosa succede. La pelle del cinese per il viaggio nel tunnel del cazzo. È come dice El Roi, ragazzo, nella magia tutto ha un prezzo e spesso si deve pagare col sangre, ricordatelo!» La mulatta trattiene i singhiozzi per riuscire a prendere la parola. «Peggio della pelle, l’anima. Quel fottuto Loah voodoo si è preso l’anima di Torakiki, per l’eternità!» «Oh, insomma, basta, perra! Cosa avrei dovuto fare? Dovevamo crepare todos?» Non riesco a crederci. Sento le gambe vacillare e finisco col culo sul terreno polveroso. Il giallo mi era diventato simpatico, tutto sommato. Ora ricordo lo sguardo del macumbeiro prima di lanciarmi dentro il portale. Il dubbio che gli ho letto in faccia. Deve aver deciso in quell’istante chi gettare giù dalla torre, l’anima di chi sacrificare. Esmeralda però non è sazia. «Allora adesso cosa facciamo? La posse non è più al completo, la profezia svanita e con essa la missione è fallita!» «Storie, chica, siamo vicinissimi alla meta. Dobbiamo solo trovare del cibo per me…» «Torakiki è morto per colpa tua e tu riesci solo a pensare al cibo? E tutte le storie sul potere del numero cinque? Sul fatto che la posse dovesse essere composta assolutamente da cinque elementi come predetto dalla profezia del tuo dio mecenate?» La ragazza torna a prenderlo per il bavero, ma credo stesse mirando al collo rinsecchito del vecchio. Sparviero è lesto però ad afferrarle il braccio e a farla desistere dai suoi intenti omicidi. «E io sono a corto di munizioni. Quindi dobbiamo trovare un villaggio» chiude il discorso il pistolero. Esmeralda mi guarda impotente. Forse cerca il mio o, ma sono distrutto,

non riesco a intervenire, né dall’una né dall’altra parte. Penso solo che al posto del cinese ci sarei potuto essere io. Infine ci rimettiamo in marcia, accodati come anime penitenti dietro una bambola cieca con occhi di conchiglia. «Io mi fermo qui» annuncia Esmeralda, sedendosi al suolo. Ha male alla gamba, oltre ad avere l’animo straziato dalla perdita. El Roi sbuffa spazientito, facendo cenno a Sparviero di farla alzare, anche con le cattive. Il cowboy è sul punto di eseguire l’ordine, ma lo precedo. «Anch’io ho bisogno di riposare. Qui non c’è mai una notte, ma sono certo che abbiamo camminato per tutto il giorno, comunque abbastanza per oggi. Ora ci riposiamo.» Sento la mano formicolare, desiderosa di correre alla fondina per sottolineare la mia irremovibilità. Devo essere uscito di senno. Lo fisso negli occhi, ma non reggo a lungo il suo sguardo da consumato attore western. Un attore, però, che ho visto all’opera dal vivo, non con armi giocattolo. Sparviero non si spaventa di certo, ma alla fine si schiera dalla nostra. «D’accordo allora, riposiamo in questo posto di merda.» È più scontroso del solito dopo la scomparsa di Torakiki, ma immagino che il dispiacere maggiore sia legato all’aver perso un esperto di esplosivi e una bocca da fuoco. «Maricòn…» sento bisbigliare il nero quando mi a a fianco, per poi buttarsi al suolo come il sacco di letame che è. Esmeralda, rannicchiata con le ginocchia al petto, ha ripreso a singhiozzare. Carponi mi avvicino, le stringo una mano. Non so da dove iniziare. Non sono mai stato bravo in queste cose. «Spiace molto anche a me. Torakiki era un bravo ragazzo. Ma se siamo già morti, non dovrebbe cambiare poi molto…» le buttò lì, sperando che il suo amore per le spiegazioni prolisse possa distrarla dalla sofferenza. Tira su col naso. Le porgo un fazzoletto che ho con me. Si asciuga per poi alzare

gli occhi su di me. «Il fatto è che le anime, noi cioè, se veniamo accoppati, ricompariamo in qualche altro angolo di questo regno. Dimentichiamo gran parte del nostro ato, ma possiamo tranquillamente rimetterci in gioco.» Si ferma e fa un respiro profondo, mentre la incoraggio a proseguire. Sono certo che le farà bene. «Invece a Torakiki è capitato di peggio. Il suo libero arbitrio è svanito nel preciso istante in cui la sua anima è stata rivendicata da Papa Legba. Sarà suo schiavo per sempre. Una marionetta priva di controllo, soggetta al volere di un dio nel quale non ha mai creduto. E tutto per una scelta non sua!» «Ma come è possibile?» «Non ne ho idea, ma credo sia dovuto al fatto che El Roi ha ancora un corpo in carne e ossa, e che Legba quindi non abbia potuto rivalersi su di lui. In caso contrario sono certa che il nero non avrebbe acconsentito al patto.» «Ah, ne sono certo!» le sorrido, cercando di distrarla. Ormai ho capito quanto egoista sia El Roi. Le leggo una grande stanchezza in volto. Forse fra poco si addormenterà. «Non so di che peccati tu ti sia macchiato, Davide, ma io sono una donna di scienza, di raziocinio insomma. Non ho mai avuto fede in alcuna religione, ma ora voglio tornare sulla Terra, perché credo nella bontà delle persone. Credo sia la mancanza di un’informazione completa su come conquistarsi il paradiso a portarle fuori strada. Con l’esperienza fatta, voglio fornire loro le regole del gioco. Sono certa che così il mondo diventerebbe un posto migliore.» Non concordo sulla conclusione della giovane, ma la sincerità che leggo nei suoi splendidi occhi quasi mi riesce a convincere. Le accarezzo i capelli cercando di tranquillizzarla. «E quello? Cosa sai di lui?» le bisbiglio indicando Sparviero che dorme, o fa finta di dormire, con il cappello calato sul volto. «Quello? Quello vuole tornare per vendicarsi. È stato un pavido, un impiegato pigro e frustrato, un uomo senza spina dorsale insomma, anche se lui dice solo di

essere stato un mansueto, di essersi sempre fatto gli affari propri senza recar danno a nessuno. Ora, vorrebbe la rivincita.» Ah, non riesco proprio a vedermelo mentre a le giornate fronte monitor ad arrabattarsi fra scartoffie e a farsi mettere i piedi in testa da un mediocre capoufficio in giacca e cravatta! «Dici sul serio?» «Sì, e tu invece? Come vedi non c’è nulla di cui vergognarsi…» sbadiglia sopraffatta dalla stanchezza, ma non vuole arrendersi. È la curiosità a tenerla sveglia. «Io… non lo so di preciso» anche se dopo l’ultima capatina nel mio vecchio mondo forse qualche idea mi è venuta, «credo si tratti di egoismo.» Infine si è appisolata, lasciandomi solo con la mia auto confessione. Credo proprio che si tratti di egoismo, puro e irrazionale. Quando litigavo con Lucrezia, quelle poche volte che litigavamo sul serio, questo aspetto veniva sempre fuori. La gelosia d’altronde non è altro che un’altra faccia dell’egoismo. Ma è quello ad aver contraddistinto tutta la mia vita, senza che io me ne sia neppure mai reso conto. Con la nascita della mia piccoletta, ora che mi soffermo a rifletterci, qualche o avanti forse lo stavo facendo. D’altronde è per salvare lei che sono morto, e nonostante tutto, pur sapendo ciò che mi attende, lo farei altre mille volte.

12. La superba

Seguendo il pupazzo di sterpi giungiamo infine a una nuova cittadina. Anche questa spunta dal nulla nel bel mezzo del deserto di sabbia e polvere grigiastra. Mai avrei creduto di sentire la mancanza del salmodiare perenne delle sfere che Torakiki si portava appese alla cinta, eppure è così. Sparviero ci costringe a penetrare da una stradina laterale. Guardingo, procede a fucile spianato. Non si può certo dire che provi empatia verso il prossimo. A ogni modo le uniche persone che vedo sono i soliti mezzi zombie privi di volto. «Siamo capitati in un altro villaggio di penitenti» mi ragguaglia Esmeralda, con una nota mesta ancora presente nella voce. «E questi chi sarebbero?» le chiedo, indicando le anime dai contorni appena abbozzati. Procedono lentamente, incurvate sotto il peso di massi enormi che portano sulle spalle. «Sono i superbi.» «Perché diavolo trasportano delle pietre?» «Il peso che le anime sono costrette a portare corrisponde all’alterigia della loro condotta in vita. Ora si trovano chini nello sforzo di sostenerlo, mentre in vita stavano diritti a testa alta, altezzosi e…» Il rumore di uno sparo la ferma prima che possa finire. D’istinto ci accucciamo tutti, anche se il colpo proviene da lontano, dalla nostra sinistra, forse dalla strada principale, la parallela a quella che stiamo percorrendo. «Andate a nascondervi in quell’edificio» ci ordina Sparviero, «io li prenderò di lato.» Poi scatta in avanti, estraendo anche il coltellaccio. El Roi ci invita a procedere, così mi tocca portarmi davanti a Esmeralda e fare da apripista. Non posso lasciare che sia una donna a correre questo rischio ed El

Roi si guarda bene dal fare l’eroe. Anzi, si nasconde dietro la mulatta. Arriviamo alla casetta di legno indicataci dal cowboy. Scruto l’interno da una finestra. Ha i vetri luridi, ma non vedendo nessuno dentro do l’ok alla donna. Altri spari ci fanno sobbalzare. Esmeralda ha estratto un coltellino per sce la porta, ma prima fa un tentativo, trovandola aperta. Ci intrufoliamo ed è effettivamente deserta, così ci affrettiamo alle finestre che danno sul lato opposto, per vedere cosa stia accadendo. «Fuorilegge, bandidos de mierda! Ci faranno perdere tempo. Speriamo abbiano quasi finito» sentenzia El Roi per poi sedersi comodamente al suolo. Vedo due uomini a cavallo, agghindati da cowboy, raccogliere un gruppo di penitenti come fossero capi di bestiame. Con la frusta li dirigono davanti a una casetta dalle pareti verniciate di rosso. Sul patio di questa, seduto su una sedia a dondolo, c’è un terzo energumeno, forse il capobanda. «Bastardi!» sento bisbigliare a denti stretti Esmeralda. «Sono luridi predoni, canaglie che abusano dei penitenti per trastullo.» Ora che hanno riunito il gregge di anime stanno lì a fissarle, finché non compare una profferta. Uno dei cavalieri sprona il destriero e, fattosi largo a malo modo fra la folla, arriva innanzi al proprietario della sfera cangiante, gliela ruba di mano e se la ficca in pancia. «Non essere così avido, John» gli urla dietro il capo, alzandosi dal dondolo e facendosi avanti. Si avvicina alle ombre e le scruta una a una. «Finché Jack e Pablo non avranno finito di far provviste, possiamo goderci tutti i loro balocchi. Queste anime fottute hanno ancora chi perde tempo a pensar loro» ghigna. Proprio in quell’istante una sfera luminosa compare innanzi a una donna zombie. Il capo dei razziatori è rapido come una serpe ad agguantare profferta e anima. Se le porta sulla sedia a dondolo. Si siede e fa accovacciare la donna sopra le sue cosce. Le a la sfera sul volto, quasi volesse fargliela baciare. Mi sembra di sentire la cantilena che proviene dalla profferta, la voce di una

bimba. Il bruto va avanti e indietro con la sfera, giocando con la poveretta che tenta di far suo ciò che le appartiene di diritto. Infine il delinquente la schiaffeggia e si imprime la sfera in testa con un gesto violento. Lo sento godere di un piacere rabbioso, poi scoppia a ridere, mettendo le manacce sulla poveretta che gli si dimena sulle gambe. Sono furioso. Senza rendermi conto di quello che sto facendo, estraggo la pistola e mi alzo in piedi. Con un calcio spalanco la porta e avanzo verso i porci. Mi piazzo al centro della strada e fisso il bastardo. «Che ne dici di prendertela con chi si può difendere?» I tre si voltano all’unisono, le mani che corrono alle fondine delle pistole. «E tu chi cazzo saresti, il paladino di questi citrulli?» mi schernisce il capo banda facendo un cenno della testa rivolto ai suoi scagnozzi. I due hanno voltato i cavalli verso di me e impugnato i loro revolver. «Un vero eroe, un fan degli spaghetti western» prosegue il boss, «desideri forse un duello con tutti i crismi?» A stento sento i suoi vaniloqui, il sangue che mi pompa nei timpani e la mano che mi trema per l’ira. Non riesco a dimenticare la voce soave della piccola proveniente dalla profferta rubata da quel lurido bastardo. Due spari alla nostra destra rompono lo stallo nel quale sono impietrito. Sparviero esce dall’emporio a fucile spianato. Adios Jack e Pablo, li deve aver redenti, come è solito dire il nostro caro Clint Eastwood. Non appena lo vede, il capo dei fuorilegge scaraventa a terra la donna e si getta nella folla dei penitenti, usandoli come scudi umani. Uno dei suoi compari viene colpito e svanisce in un bagliore accecante, centrato da Esmeralda. L’altro mi spara, mancandomi di poco e colpendo la botte che ho a fianco. Mi getto a terra. Ingoio polvere e striscio dietro il barile, il coraggio che mi scorre via dalle vene come il liquido dal barile crivellato. Sento gli spari riempire l’aria, le pallottole che volano in ogni direzione. Mi

vergogno di me e mi costringo a metter fuori la testa. Il capo dei banditi ha recuperato il cavallo e sta per fuggire col suo compagno, sfruttando il tempo concessogli dai miei amici intenti a ricaricare le armi. Lo vedo procedere nella mia direzione, mi metto accucciato e quando a mi ci butto contro. In qualche modo riesco a tirarmelo addosso, giù da cavallo. La bestia prosegue in una corsa folle, nitrendo terrorizzata. Lo stronzo mi rifila un pugno al volto, mi sento l’occhio destro esplodere, ma riesco a estrarre il pugnale. Mi ha inchiodato al suolo. Ha i lineamenti della faccia distorti in una maschera di furia quando cala un altro colpo che mi coglie di striscio al mento. In quell’istante riesco però a trafiggerlo all’addome e a scalciarlo via. Rimango al suolo, ansimante e con la faccia che mi pulsa. Vedo un bagliore accecante e prima di svenire riesco solo a sperare si tratti del segnale che il mio avversario ha tirato le cuoia.

*

«Si può sapere che diavolo ti è preso, maricòn?» La voce di El Roi è più sgradevole del solito, la sua bocca schiumante. «Volevi farci ammazzare tutti, pendejo?» Mi scuote con violenza, non so se per farmi riprendere conoscenza o per punirmi. Mi fa male la testa e ci vedo solo con un occhio, ma è sufficiente per capire che il nero ha perso le staffe. È un’ombra a venirmi in aiuto, frapponendosi fra me ed El Roi. Si piazza lì a fianco, senza spiccicare parola, ma fermamente intenzionata a non farsi di lato. Il macumbeiro la spintona, ma intanto riesco a riprendermi e a mettermi in piedi. Non senza fatica.

Ora che la vedo meglio riconosco in lei la donna oggetto delle attenzioni del capo dei banditi. La sua sagoma è indistinta, i lineamenti sfumati come quelli di una statua levigata per anni dalle intemperie, ma non ho dubbi si tratti proprio di quella. Come non ho dubbi che mi stia aiutando. Non li credevo capaci di sentimento, né di discernimento. «Datti una calmata» dico al nero quando lo vedo sfogarsi sulla sagoma grigia. Quello sputa al suolo, furioso. «Ma che ti prende, estás loco, campeòn?» «Questa poveretta non ti ha fatto nulla.» «Lei e tutti quei desaparecidos non sono affari nostri, entiendes? Abbiamo cose più importanti di cui occuparci.» Prendo sotto braccio l’ombra e la sposto alle mie spalle. «Non è ri-morto nessuno, mi pare» dico, osservando Sparviero ed Esmeralda, intenti a metter via le provviste negli zaini. «Non certo per merito tuo, cobarde!» mi insulta prima di mettersi in marcia, le gambette da insetto stecco che procedono veloci lungo la via principale della cittadina. A ogni o maledice uno dei penitenti, che nel frattempo hanno ripreso i loro fardelli sulle spalle e vagano a casaccio tutt’attorno, come nulla fosse accaduto. Mi lascia lì con i miei dolori al muso e con quelli ancor peggiori annunciati dalla mia coscienza. Ho ammazzato un uomo. Anche se era solo un uomo già morto – ed era pure un gran bastardo – l’idea di essere un assassino mi avvelena l’anima. Eppure ho già ucciso. Ho seccato diversi canarini, ma in quei casi il rimorso aveva un sapore diverso. Uccidere quel bandito ha una consistenza più reale. Ricordo quando il mio coltello è affondato nel suo ventre flaccido. La resistenza opposta dalla carne di quell’anima è stata tutt’altro che impalpabile. Ricordo gli occhi sbalorditi del tizio mentre mi crollava addosso, poco prima che il dolore gli distorcesse i lineamenti e le energie lo abbandonassero defluendo dallo squarcio da me procuratogli.

Mi hanno trasformato in un killer. Sparviero, El Roi e quel matto di Torakiki, pace all’anima sua, hanno gettato benzina sul fuoco della mia ira, sulla rabbia che covava in me da sempre. Mi riscopro un mostro e questa volta sono stato io ad attaccare i banditi, sono stato io a causare le morti, non ho scuse cui appigliarmi. La donna zombie mi osserva, ma non leggo disprezzo nei suoi occhi, né gratitudine per averla salvata, se è per questo. «Che ti è preso, Davide?» Esmeralda, al mio fianco, mi pone la stessa domanda di El Roi, ma lo fa con modi ben diversi. Anche lei ha le sue colpe ai miei occhi. Anche lei si piega quotidianamente ai modi degli altri della posse. Non si è mai opposta all’uso della violenza, è colpevole, eppure in quei suoi occhi smeraldo riesco solo a vedere calma e serenità. Mi sta cospargendo il volto con un unguento dall’odore acre, ma capace di lenire il dolore non appena entra in contatto con le ferite. «Non lo so, ho perso la testa» confesso sincero. Mi vergogno, non tanto per aver cercato di difendere quei poveretti, ma per aver messo a repentaglio le vite dei miei compagni, incapace di portare a termine da solo quello che avevo iniziato. «Che intendi fare con lei?» mi chiede, indicando l’ombra della donna che non pare intenzionata ad abbandonarmi. Ci ha seguiti, o meglio, mi ha seguito, per tutto il giorno, camminando sempre in silenzio. Ho provato a parlarle, ma non risponde, né lascia intendere di capire ciò che le dico. Da quando ci siamo accampati non ha fatto altro che starsene seduta al mio fianco. «È ridotta a un vegetale» bisbiglio, sperando non mi senta. Non vorrei offenderla, ma è un dato di fatto. Esmeralda mi guarda con aria accusatoria. «Ha sviluppato altri sensi, si è evoluta oltre il misero involucro della carne.» «Allora non capisco perché abbia abbandonato il villaggio. Se era lì, doveva aver deciso di espiare le proprie colpe fino a guadagnarsi l’ascensione, giusto?» le

chiedo conferma. «Esatto, inoltre a giudicare dalla mancanza di reazioni agli stimoli esterni, non dovrebbe essere tanto lontana dall’abbandonare la sua prigione corporea.» Ci rifletto su, osservando l’ombra accovacciata al mio fianco. Non avevo mai preso in considerazione la difficoltà del sentiero intrapreso da quelle anime. Devono essere coraggiose e determinate. Sono in perenne balia degli istinti di chi non condivide il loro cammino e non si fa certo scrupoli ad abusare del loro quietismo. Di certo devono avere una gran fede per accettare di espiare le proprie presunte colpe quando potrebbero invece limitarsi a vivere una seconda vita in questa realtà. Nessuno glielo impedirebbe. Anzi, potrebbero a tutti gli effetti vivere in eterno, senza paura della morte. Certo, qui il più forte spadroneggia, ma nella peggiore delle ipotesi si sparisce in un lampo abbagliante, per ricominciare da capo altrove. Non è poi così male. Invece tutti quegli zombi hanno scelto un cammino diverso, e questa che ho al fianco, a quanto dice la mulatta, deve aver scelto quell’opzione da molto tempo, o perlomeno doveva già essere a buon punto sulla via dell’illuminazione. Allora perché diavolo mi segue? Perché ha abbandonato il suo fardello quando le mancava così poco all’apoteosi? Deve trattarsi di una donna la cui morte ha lasciato un vuoto incolmabile in molte persone, visto che da quando è con me ha già ricevuto due profferte. Sì è limitata a farle proprie, ma non ha tentennato, non è tornata sui propri i. Non capisco. Sta di fatto che la sua presenza mi inquieta, mi fa sentire… inadeguato. Forse anch’io dovrei mettermi su quella pista. Dovrei semplicemente accettare la mia nuova condizione e ambire a vedere la luce di Dio. D’altronde i miei cari, in vita, pare abbiano trovato la loro strada. Una strada capace di far ritrovare loro la felicità. Chi sono io, con il mio egoismo, per voler mutare questo destino? «Non credi possa aver fiutato la possibilità di tornare in vita con noi?» chiedo dubbioso a Esmeralda, sperando lei possa elaborare una spiegazione migliore, capace di spazzar via ogni mio dubbio.

«Non credo proprio, Davide, anche se non capisco la ragione che la spinge a seguirti.» «Magari vuole il biglietto di ritorno di Torakiki» ci irride Sparviero, mentre riattizza il fuoco gettandoci dentro un paio di rametti secchi e bianchi come ossa. «Piantatele una palla in fronte e adios, altro che!» tuona El Roi. Il nero è agitato, non meno del bambolotto di pezza che ci fa da guida. El Roi lo ha dovuto legare per farlo star buono. Sostiene faccia così perché siamo molto vicini al nostro obiettivo. «Non ci pensate nemmeno» li avviso. Non ne comprendo il motivo, ma so che non voglio che la donna soffra. Forse sarà per la voce della bambina che ho sentito provenire dalla sua profferta, che la accomuna a me. Anche lei deve aver perso la propria piccola. «E allora tacete perlomeno!» conclude lo stregone, tornando a sedersi a gambe incrociate sul suo sacco a pelo puzzolente. Poi inizia a cantilenare e a tracciare con le dita dei glifi in aria. Li vedo chiaramente comparire dal nulla, come stesse scrivendo su una lavagna. Non mi lascio ipnotizzare da quel gioco di prestigio e provo a chiudere gli occhi anch’io. Inutile scervellarsi su eventi privi di razionalità. L’ombra della donna, che in vita doveva essersi macchiata di superbia, si piazza al mio fianco, in piedi a scrutare il vuoto come una sentinella cieca e muta.

13. L’ultimo viaggio

Il sole splende alto nel cielo. Un astro meraviglioso in un mare terso di celeste. I suoi raggi solleticano la pelle e riscaldano l’anima. Mi trovo immerso in un prato fiorito. Ettari ed ettari di erba lucida, verde come solo le piante sanno essere dopo una pioggerella primaverile. Il cielo è limpido, di un azzurro mozzafiato, striato solo dal volo veloce di eri e merli. Ranuncoli, tulipani, violette e rose punteggiano il manto erboso in un caleidoscopio di colori vivaci e profumi inebrianti. Strano come queste semplici sensazioni mi colpiscano tanto da farmi girare la testa, ora che sono assuefatto al grigiore apatico del Regno del Libero Arbitrio. In vita non avevo mai prestato molta attenzione alla natura circostante, la davo per scontata. Ora mi rendo conto dell’errore. Ora che non potrò più godere delle meraviglie del mio mondo. Quanto poco l’ho esplorato, credendomi immortale, credendo di avere tempo per andare a vedere il Rio delle Amazzoni, le Cascate del Niagara, il Gran Canyon o il Monte Fuji. E le piramidi di gradoni in Messico o Giza o Machu Picchu, o Stonehenge o l’Isola di Pasqua, insomma, tutto il meglio che l’umanità sia stata in grado di partorire nel corso dei millenni. Certo, nel Regno del Libero Arbitrio potrei indulgere in un’esistenza senza il patema della morte, ma dovrei farlo vivendo una vita ben misera, condotta in un ambiente privo di meraviglia, dove il grigio domina incontrastato, sia nei colori che nei sapori della polvere che arrossa gli occhi e irrita la gola. Sento la malinconia aggredire il mio umore e trovare un facile alleato in Franco. Lo vedo spuntare nel mio campo visivo all’improvviso, con il suo solito barbone piratesco, abbracciato alla mia Lucrezia, seduti su una coperta da picnic a quadrettoni blu e rossi. «Forza pa’, vieni a giocare con noi!» «Anche tu mamma!»

Mi volto e le vedo, Elisa e Nicoletta. Si sono fatte grandi. Avranno dieci, undici anni, e un pallone da pallavolo in mano. La mia piccola fa una sorta di schiacciata tirando la sfera a Lucrezia per sottolineare l’invito. Mia moglie cerca una presa acrobatica mentre si alza, ma non le riesce. Non è mai stata una sportiva. Ride e tutti gli altri con lei. Poi si mettono in cerchio e iniziano a palleggiare come una vera squadra. Affiatati e contenti. Giocano e ogni occasione è buona per fare una battutina capace di dare il via a un coro di risate. Non riesco a impedirmi di essere geloso. L’invidia mi annebbia la vista. L’ingiustizia di esser messo ai margini, di essere un’ombra esclusa da quella scena famigliare, mi aggredisce con furia. Non riesco neppure a guardarli. Negli occhi di Franco non vedo più traccia della sofferenza pronta a mutarsi in desiderio di suicidio, ma solo serenità e spensieratezza. Bastardo! No, non ce la faccio proprio a guardarli, mi volto, ma anche la vista del cestino di vimini, delle bottiglie di bibite e la coperta a quadri mi fanno salire un groppo alla gola. Ricordi di una vita ata, felice, di un’esistenza pronta a sbocciare anno dopo anno in compagnia della mia piccola, spazzati via da quel bastardo al volante. Esperienze che mi sono state sottratte, ancor prima di poterle sperimentare, da un coglione incapace di controllare il proprio veicolo, o peggio ancora, da un malato amante della velocità. Sento le risate cristalline delle piccole, quelle di mia moglie e quelle più roche di Franco. Mi sembra di impazzire, mi gira la testa e la vista mi si annebbia.

*

Riapro gli occhi, scosso da brividi di rabbia. Al mio fianco il grigiore della donna zombie si staglia sullo sfondo grigio del cielo di piombo. Mi fissa senza proferir parola, con aria complice. La sua stolta quiete mi fa venir voglia di colpirla, di piantarle una palla in mezzo agli occhi, come suggerito da El Roi. Già, dov’è quel bastardo di uno stregone? È lui la mia unica possibilità per tornare a casa e ora ho proprio fretta. Non ho idea di come stia procedendo il

tempo nel mio mondo. Non so se quello che vedo quando chiudo gli occhi sia il presente, o solo uno dei possibili scenari che deve ancora avverarsi, sta di fatto che non intendo perdere altro tempo. La resa dei conti con Franco non può attendere oltre e anche Lucrezia mi dovrà delle spiegazioni. «Dormito bene, Davide?» La voce di Sparviero mi coglie di sorpresa, la mente interamente concentrata su pensieri di vendetta. «Mi prendi per il culo?» lo affronto. Il cowboy non si aspettava quella risposta, anzi forse il suo era un tentativo di riavvicinamento dopo le ultime vicissitudini. Dopo la mia uscita sgarbata, mi volta le spalle e se ne va da dove è venuto, a slegare un paio di cavalli. Dio solo sa dove li abbia recuperati. Sono bardati, per cui forse erano dei bandidos che abbiamo affrontato al villaggio, o forse, mentre ero intento nel mio viaggio astrale al contrario, lui si è dato al brigantaggio, riuscendo a rubarli a qualche malcapitato. Poco importa, ciò che conta è che così saremo più veloci. El Roi raggiunge Sparviero e confabula gesticolando come al suo solito. Mi avvicino. «Se avete finito, possiamo procedere» li interrompo. «Ti sei svegliato di buon umore, campeòn?» «Lasciami stare, vecchio, e cerca di portarmi in fretta da questi Gamchicolh.» Il tempo per le buone maniere è finito. Da quando il tradimento si è portato via Torakiki qualcosa nella posse si è irrimediabilmente rotto. Per tutta risposta lui e Sparviero montano a cavallo. «Visto che hai fretta, fai tu l’andatura» mi risponde a muso duro il cowboy, lasciandomi a terra. Ci rimettiamo in marcia e il pupazzo di sterpi mi guizza fra i piedi e ci indica la direzione.

*

Tutto questo camminare in silenzio, in questa landa brulla e polverosa, dà libero sfogo ai pensieri malinconici che mi turbinano nella mente. L’ultima immagine di Lucrezia, di mia figlia e della loro nuova famiglia, mi sfreccia nel cervello lasciando ustioni permanenti. Forse erano solo a fare un picnic fra amici, eppure ho visto Franco che abbracciava Lucrezia, e le due piccole parevano sorelle da quanto erano affiatate. Per quanto mi sforzi, non riesco a condividere la felicità per la loro nuova condizione. Sono un vero mostro. Che cosa avrebbero dovuto fare? Rimanere a piangere sulla mia lapide? Razionalmente non fatico a dar loro ragione, ma l’istinto mi ruggisce nel petto senza che io possa azzittirlo. Ci vorrebbe una palla in mezzo agli occhi di Franco per farmi allentare la tensione. La verità è questa, e per questo mi odio profondamente. Non riesco neppure a immaginare cosa potrà accadere se veramente riuscissi a tornare da loro, se realmente riuscissi a mutare il corso naturale degli eventi. Come potrebbe reagire mia moglie? Forse sarebbe più semplice accettare questa sorta di resurrezione per la mia piccola. Lei crede ancora alle favole, ai sogni, a Babbo Natale e al topolino dei dentini… Ma questo accadeva anni fa… Il tempo per loro è ato, gli anni sono trascorsi. Chissà come sarà cambiata la mia piccola. Di certo non vorrebbe più che dessi voce alle sue bambole per farla divertire. Anni nei quali non ho potuto assistere alla sua crescita, anni che inevitabilmente mi hanno allontanato da lei. Anni ed esperienze mancate che hanno impedito la mia crescita, fino a farmi giungere a questo punto: assassino di angeli e di uomini. Mi sento il petto esplodere. Un misto di rabbia e paura, paura di non essere riconosciuto, di non essere accettato dai miei cari. Questo vuol dire andare contro natura, esplorare un terreno nebuloso capace di celare un nuovo mostro a ogni o. Non so più che fare, non mi riconosco più. La mia nuova maschera di pistolero spietato mi soffoca. In cuor mio non voglio accettarla, so che la mia stessa anima ne verrebbe polverizzata.

Osservo El Roi. Lui non sembra avere timori. La sua determinazione è monolitica. Nonostante la mia stima nei suoi confronti sia parecchio calata, cerco di attingere dalla sua energia. Cerco di convincermi che il mio ritorno sarà una gioia per i miei cari, almeno quanto sarà per me il riabbracciarli. E Franco, beh, in qualche modo dovrà farsi da parte, o ci penserò io ad agevolargli il compito. Proprio mentre faccio emergere dai meandri della mia mente tutti i modi truculenti possibili per far sparire la Tigre di Mompracem, nell’eventualità che non abbia il buon senso di togliersi di mezzo da solo, una profferta mi compare innanzi. È la voce di Nicoletta. “Non ti dimentico, papà, ma mi piace tanto giocare.” La sincerità della mia piccola mi riempie di vergogna per i miei pensieri omicidi. Mi fermo di colpo e la zombie che mi sta sempre appiccicata mi viene a sbattere addosso. Mi sto trasformando in un mostro, questa è la verità. D’altronde me lo sarei dovuto aspettare. Chi non intraprende la via della redenzione accettando di espiare le proprie colpe, analizzando e accettando le proprie mancanze, finisce sulla via opposta, quella che porta inevitabilmente a varcare la soglia del regno dei dannati. Dovevo capirlo sin da principio. Non ci sono vie di mezzo, mai. «Dimmi, El Roi, chi ci dice che il villaggio dei Gamchicolh non sia semplicemente un portale per gli inferi? Forse tu stesso sei un emissario di qualche demone, incaricato di fare incetta di anime per il tuo signore? Un procacciatore di creduloni da traghettare negli abissi della voracità del tuo padrone?» Tutti si voltano verso di me. Sparviero mi guarda come fossi uscito di senno. Il nero volta il cavallo e trotta con calma al mio cospetto. Il muso dell’animale mi sfiata in faccia. «Che ti inventi, campeòn?» Non intendo ritrattare. «Dico solo che la tua storia non mi convince. Soprattutto dopo la morte di Torakiki, la tua profezia non sta in piedi.»

«La profezia parlava di una posse formata da cinco personas, sai contare?» mi risponde indicando la donna zombie. «È ancora valida. E ci siamo. Presto potremo tornare alle nostre vite.» Ha sempre la risposta pronta. «E se invece non fossimo altro che dei miseri sherpa al soldo di un mortale?» cerco conforto negli altri del gruppo. El Roi volta il cavallo e trotta lontano da me, lanciando qualche imprecazione incomprensibile. Avrei voglia di piantargli una pallottola nella schiena. Così capirebbe come ci si sente a essere delle anime orfane del proprio corpo e della speranza di riaverlo. «Lascialo stare» mi consola la mulatta, «oramai ci siamo. Neanche io mi fido di lui, ma a questo punto non abbiamo alternative.» Certo, così come in vita, anche nella morte il problema è sempre lo stesso, essere pronti a giustificare tutto accettando di non avere alternative. Pare che gli uomini non siano in grado di imparare nulla, neanche quando ci vengono concesse le seconde occasioni. Allora avanziamo ancora, imperterriti e stolti, fino a quella che potrebbe essere la tomba della nostra anima.

14. Il villaggio dei Gamchicolh

Sparviero è andato in avanscoperta e ci ha chiesto di attenderlo sulle pendici di una collinetta rocciosa. Il territorio è ondulato, un continuo alternarsi di dune e doline dalle varie tonalità fuligginose. Non abbiamo incontrato anima viva dopo aver abbandonato l’ultimo villaggio. Non che me ne sorprenda, ma percorrere così tanta strada senza incontrare uomo, anima o animale, mi fa ancora un certo effetto. Credo che gli astronauti possano sentirsi così quando compiono i loro viaggi nello spazio infinito. Almeno loro, però, possono godersi lo spettacolo degli astri luminosi, mentre il nostro panorama è perennemente opprimente e tetro. Sto iniziando a comprendere il concetto dello spazio «mutevole» illustratomi tempo addietro da Esmeralda. In effetti colline e montagne compaiono quasi all’improvviso, partorite da banchi di nebbia e fumi e ceneri che ogni tanto oscurano l’intero orizzonte, sostituendosi alle pianure desertiche. La polvere mi fa bruciare occhi e gola. È un castigo continuo. L’idea di trascorrere l’eternità in queste lande mi deprime al punto che riesco a comprendere la scelta coraggiosa dei penitenti. Almeno loro hanno un obiettivo, il più nobile in realtà, sotto molti punti di vista, anche per chi come me non ha mai avuto fede: trovare l’illuminazione e Dio. E soprattutto lasciarsi alle spalle questo posto che porterebbe chiunque a tagliarsi le vene. Chissà se funzionerebbe anche con me? Potrei caricarmi una pietra sulle spalle e aspettare che arrivi l’Arcangelo Gabriele ad annunciarmi la beatitudine. O chissà cosa mi attenderebbe nel villaggio dove si riuniscono gli egocentrici? Pulire il culo agli altri, per l’eternità? Mi pare strano possa funzionare così, senza alcuna reale presa di coscienza da parte mia dei miei peccati, senza alcuna autoanalisi volta al miglioramento. Oppure è la pura e semplice buona volontà a venir premiata, senza altro requisito? Dovrei chiedere a Esmeralda, ma al solo pensiero delle tonnellate di pagine che si potrebbero riempire scrivendo le sue risposte, mi trattengo. Mi rivolgo invece alla donna zombie che si ostina a camminarmi al fianco.

«Perché mi segui?» Questa non muove neppure la testa, non pare capire le mie parole o forse non le sente proprio. Non riesco a spiegarmi cosa l’ha spinta ad abbandonare la sua cerca per unirsi a questa posse scalcinata. «Sai, Esmeralda, inizia quasi a farmi sentire in colpa» confesso alla mulatta. Forse è proprio qui per questo, realizzo. «Siamo nel Regno del Libero Arbitrio, ricordi? Non devi caricarti di colpe non tue.» «Certo, ma se non avessi cercato di sottrarla alle grinfie di quei bastardi, ora sarebbe ancora nel suo villaggio…» «Se è qui deve avere le sue buone ragioni. La tua scelta è stata a fin di bene, quindi non temere.» «Sta tornando» ci interrompe El Roi, contento di non dover sentire quelle che sicuramente reputa delle manfrine stucchevoli. Gli leggo in faccia il disgusto che prova per la donna ombra e per noi che tanto ci preoccupiamo di lei. In pochi istanti il cowboy ci raggiunge, impolverato da testa a piedi quasi fosse stato travolto da una tempesta di sabbia. «Siamo arrivati» ci avvisa togliendosi il cappello e sbattendolo sulla gamba per spolverarlo. Lo fissiamo tutti sbalorditi. Solo allora mi rendo conto di quanto anche gli altri dubitassero che il nostro obiettivo fosse reale. «Dalla cima della collina c’è un’ottima vista. Si vede una conca incassata fra quei colli e all’interno c’è un villaggio. È terra sconsacrata e purtroppo brulica di Gamchicolh, ma a questo penserai tu, vero?» L’indice di Sparviero punta sul nero con fare accusatorio. «Intanto vamos allá arriba» taglia corto El Roi, per poi spronare la sua cavalcatura.

Ultimamente il macumbeiro non è in vena di ciance, quasi il tempo a sua disposizione stia per finire.

*

Abbiamo lasciato i cavalli indietro e ci siamo appiattiti al suolo per portarci sul margine di un terrazzamento che sovrasta il villaggio. Non dovrebbero riuscire a scoprirci, da là sotto. Il suolo è scuro, grigio fumo di Londra, e il villaggio è composto da una ventina di tende sorrette da pali color osso. Sagome indistinte si muovono al suo interno andando avanti e indietro, indaffarate nelle faccende quotidiane. Sparviero mi a il cannocchiale, indicandomi il centro del villaggio. Guardo nel punto e vedo il nostro obiettivo. La giovane, la cui pelle candida e i capelli biondi spiccano nell’oscurità generale del luogo, è comodamente sdraiata su una sorta di lettiga. Due ombre la abbracciano e baciano, coinvolte in una sorta di gioco erotico a me incomprensibile. Qualcosa che va oltre la materialità dei corpi, oltre le sensazioni meramente fisiche, ma che coinvolge e fa risuonare l’animo stesso della giovane. Non ho idea di come possa percepire tutto questo, ma solo guardandola intuisco la lascivia e la mole di lussuria che la pervadono. «Hija de puta, quella cagna se la sa!» si infuria El Roi. «Non sarà facile recuperarla. Non verrà via di sua spontanea volontà.» Sparviero ed Esmeralda si guardano con aria interrogativa. Poi è la donna a parlare e le sue parole suonano minacciose. «Cosa intendi, El Roi? Il dio che ti ha assunto non ti ha avvisato?» «Il patto che ho sottoscritto non ti riguarda, donna.» Ora è il cowboy a farsi avanti, precedendo Esmeralda. Rapido come un fulmine il suo braccio saetta a prendere El Roi per il collo. Per un attimo temo che lo spezzi come un ramo secco.

«Altroché se ci riguarda, vecchio. Giunti a questo punto dobbiamo sapere tutto.» Il nero non si lascia spaventare. Si fa sbatacchiare ben benino prima di rispondere pacato. «Sapete già tutto quello che vi serve. Ora sapete, così come lo so io, che la ragazza potrebbe opporre resistenza all’essere prelevata. È corrotta più di quanto potessi attendermi. Forse siamo arrivati in ritardo…» «Voglio sapere chi è il dio con cui hai intrallazzato» insiste Esmeralda, ma Sparviero ha già mollato lo stregone e si è messo a scrutare nuovamente il campo dei Gamchicolh. El Roi si rimette in sesto lo smoking sdrucito e si riassesta l’astuccio penico. «Visto che ci tenete tanto a sapere tutto, vi avviso che intendo fare un rito per agevolarci nel rapimento della puta.» Ecco, ora da salvataggio è diventato un rapimento. Ci mancava pure questa. «Spero sia un rito potente, perché ci sono un sacco di fottuti guerrieri fra quei demoni» bisbiglia Sparviero, prima di incamminarsi verso la base della collina. Mi fermo un istante con Esmeralda e le chiedo spiegazioni. «Che diavolo intende con ‘siamo arrivati in ritardo’? In ritardo per cosa? Non mi hai detto che il tempo qui non ha senso?» La donna riflette un istante, poi il volto le si illumina. «Forse, e dico forse, El Roi si riferisce alla teoria buddista che i defunti errano per quarantanove giorni fra il mondo dei morti e quello dei vivi.» Cosa mi tocca sentire… Senza lasciarla finire mi incammino dietro Sparviero. Non posso neppure pensare che un dannato stregone voodoo si riferisca a una bislacca dottrina buddista, e il solo fatto che la mulatta ci abbia pensato mi fa ritenere sia più matta di quanto credessi.

Con che razza di gente ho a che fare?

*

El Roi è intento a preparare tutto per la sua messinscena. Ha spezzato braccia e gambe all’Orchidea-muñeca, rea di non voler star ferma. La vicinanza all’obiettivo l’ha fatta impazzire. Prima l’aveva legata, ma il bambolotto ha rosicchiato le corde per poi tentare di azzannare le dita del macumbeiro. Imprecando questo ha quindi pensato bene di immobilizzarla in altro modo. Finito il lavoretto di fino sul bambolotto ci ha comunicato che ricorrerà al Dio della Guerra per trovare la forza di sconfiggere i Gamchicolh. «Non sarà pericoloso?» gli chiede la mulatta. El Roi si limita a ridere, schernendola con gesti sconci. «Gli Dei della Guerra sono difficili da controllare, sanguinari e imprevedibili» insiste caparbia la donna. Merita tutto il mio rispetto, almeno per la sua determinazione. Il nero però non le dà retta, limitandosi ad accendere un cero rosso e a riempire una ciotola d’acqua. Anche Sparviero non mi pare per nulla tranquillo. «Avete caricato le armi?» chiede, mentre affila il coltello facendolo scivolare con forza sulla cote. Controllo le mie colt gemelle. Sono cariche, ma mi accorgo di non avere che una dozzina di proiettili. «Tutto lì quello che ti è rimasto?» mi chiede il cowboy, vedendo la scena. Annuisco. «E perché diavolo non me lo hai detto, al villaggio?» «Mi spiace, avevo la testa altrove» confesso, vergognandomi come un bambino

beccato a fare la pipì in piscina. Non riesco a essere lucido, ma chi potrebbe far di meglio in queste condizioni? Esmeralda non bada a nessuno dei due, né controlla la sua arma. È concentrata unicamente sulle movenze dello stregone che nel frattempo ha iniziato a cantilenare a denti stretti una nenia ripetitiva. Ha impugnato un bastone prelevato tempo fa dalla sacca di Torakiki. Avevo sempre pensato fosse uno strano attrezzo esplosivo del cinese, magari un petardo gigante, invece si tratta di qualcos’altro. A giudicare dalla violenza con cui il nero lo scuote, sicuramente non contiene esplosivi, altrimenti a questo punto saremmo già saltati in aria. In compenso però emette un suono bizzarro, nel quale sembra quasi di riconoscere delle parole. Anche la donna zombi è ipnotizzata e lo fissa con aria più assente del solito. «È l’Açon, lo scettro del sovrano, il simbolo più importante dell’ufficio dell’Houngan, un grande sonaglio rituale col manico in bambù, ottenuto dal calabash, un tipo di zucca con un fondo bulboso e un lungo manico» mi annuncia estasiata Esmeralda «Quando le vertebre all’interno del calabash sbattono facendo parlare l’Açon, gli spiriti discendono al fedele.» Precisa ed esauriente come sempre, quando si tratta di darmi informazioni inutili. El Roi comincia una danza sgraziata. Saltella, grida e mulina l’Açon in tutte le direzioni, mentre Sparviero si guarda attorno agitato. «Quel pazzo ci attirerà addosso i demoni» sbotta. Non posso certo dargli torto, il nero sta facendo un gran baccano. Si vede che il Dio della Guerra deve avere problemi d’udito. Imperterrito, El Roi danza in cerchio, si ferma in corrispondenza delle costellazioni degli Evangelisti e le indica con l’Açon per poi riprendere a saltare. Compie lo stesso giro, le stesse identiche movenze per un numero di volte che mi pare infinito. Ora, ha perso la bombetta e le trecce di capelli lerci sbatacchiano nell’aria come i tentacoli di un polipo impazzito. Grosse gocce di sudore gli rigano la fronte percorsa da profonde rughe.

Non mi stupirei se tirasse le cuoia, colto da un infarto. Ha una certa età, cazzo! All’improvviso si ferma e declama: «Au nom de Saint Jacques Majeur, par pouvoir Ogou Bhadagrì, negre bhaguidì nago, negre vantem, pas fiem, negre Jupiter Tonnerre, negre okou baba, negre bla-bla, negre obacossou aladeh, negre nago royor.» Non accade nulla. Aspettiamo a lungo, ma niente. Mi attendo di veder comparire da un momento all’altro qualche bizzarra entità, come la scorsa volta. Invano. Anche sul volto dei miei compagni noto la medesima delusione. El Roi però mantiene l’espressione seria e concentrata. Si avvicina alla ciotola dell’acqua, la rovescia al suolo, accende un fiammifero e ce lo getta sopra. Un fuoco vivace si sprigiona seguendo i confini scuri tracciati dall’acqua sul suolo polveroso. Un aroma pungente di rum pervade l’intera zona. Le esili fiamme si irrobustiscono ed emanano un fumo denso che il macumbeiro raccoglie fra le mani a coppa. Lo aspira e se ne lava il corpo, quasi fosse liquido. «Grains moin fret!» tuona. La voce di El Roi è distorta, rinvigorita in modo sbalorditivo. Esmeralda è esterrefatta e mi prende la mano. La sua è fredda e mi stringe in una morsa ferrea. «Il dio l’ha invasato, lo sta per cavalcare. El Roi diventerà uno zombie!» «Cazzo dici?» «Sì, uno zombie, non come le anime dei postulanti che si avvicinano alla redenzione e che tu, impropriamente, chiami zombie. Uno vero, ossia una persona viva sotto il diretto controllo di un’entità che lo cavalca dopo averlo invasato.» «Una sorta di possessione?» riesco a chiederle senza distogliere lo sguardo dal nero. Gli occhi gli si sono rivoltati, le pupille scomparse, lasciando solo

l’inquietante bianco della sclera a osservarmi. «Ogoun il guerriero, l’eroe, un dio del fuoco, del potere e della lotta si è impossessato del corpo di El Roi» sentenzia Esmeralda. La donna zombie mi si avvicina. Mi pare di vedere i suoi lineamenti tremolare e sbiadire nell’aria. Se potesse parlare sono certo che mi ammonirebbe di stare attento, di fuggire forse, ma invece rimane muta come sempre. El Roi intanto raccoglie la ciotola e beve una copiosa sorsata del liquido infiammabile, poi ne sputa una parte attraverso i denti marci e corre verso il cavallo. I suoi muscoli paiono essersi gonfiati e la sua velocità è sbalorditiva. Ogni suo o lascia profonde impronte nel terreno, quasi pesasse quanto un orso. Sparviero cerca di fermarlo, di capirne il piano. «Che dobbiamo fare, vecchio?» Ma l’invasato lo tocca appena su una spalla e lo fa volare al suolo manco fosse stato colpito dal calcio di un mulo. Il nero – o Ogoun o come diavolo si chiama – è salito a cavallo. Fa il gesto di estrarre una spada da un fodero che non esiste e nella mano destra compare un machete incandescente, appena forgiato dal nulla, da un invisibile fabbro divino. Lancia un urlo e sprona il cavallo che parte alla carica. Lo perdiamo di vista mentre imbocca la stretta valle che porta al villaggio dei Gamchicolh. «Cazzo facciamo?» urlo, isterico. Il cowboy si rialza. Leggo nei suoi occhi una furia omicida. In questo istante l’unica cosa che desidera è uccidere il negro, non ho dubbi. «Torniamo sulla collina e vediamo cosa combina quel folle.» Io ed Esmeralda ci guardiamo, indecisi e scoraggiati. Sì, pare la cosa più saggia da farsi. Forse l’unica, anche se l’idea che El Roi ci abbia abbandonati pianta i primi semi nella mia testa.

15. Il ratto della chica

Quando giungiamo sulla cima della collina, El Roi imperversa già nel villaggio. Nonostante la distanza lo vediamo galoppare a gran velocità, seminando il panico. Al suo aggio le tende vengono divelte, il tessuto scuro si mette a svolazzare dando origine a tanti fantasmi, quasi fossimo a Halloween. Usando il binocolo riesco a vedere come il nero travolga i Gamchicolh che gli si parano innanzi, e quelli che non finiscono sotto gli zoccoli dello stallone fanno la conoscenza con il suo machete. L’arma divina brilla di una luce ardente e riesce a fare a brandelli i demoni con facilità disarmante. Le lance dei perturbatori d’anime si spezzano, mentre quelle che per miracolo riescono a centrare il bersaglio non recano alcun danno. Il negro urla come un indemoniato, abbatte un totem composto da musi grotteschi, rovescia un pentolone e calpesta i malcapitati che non riescono a togliersi dal suo tragitto. Un tepee ha preso fuoco e una colonna di fumo si innalza nel cielo plumbeo mentre i demoni che lo abitavano escono avvolti dalle fiamme. Non pensavo un demone temesse il fuoco. Le grida disarticolate di quegli esseri divenuti torce fanno uscire chi era ancora rintanato nelle poche tende rimaste in piedi. El Roi punta dritto a Orchidea, ma la donna ha fiutato il pericolo e si è messa a correre verso oriente, circondata da una mezza dozzina di Gamchicolh armati di lance e scudi. Sembrano intenzionati a proteggerla a tutti i costi, sfidando persino il Dio della Guerra. «ami il binocolo» mi chiede Sparviero. Voglio vedere anch’io la scena, ma visto che lo stratega è lui, forse è meglio non discutere. «Ok, ma dicci che diavolo succede.»

Il cowboy me lo strappa quasi di mano. «La sta per raggiungere!» Vedo le ombre dei guerrieri Gamchicolh convergere da tutte le direzioni su El Roi. Non riesco a distinguerli singolarmente ma saranno almeno una ventina. Si devono essere organizzati dopo l’iniziale momento di sbandamento. «Quel pazzo ha preso la cagna, ma i demoni lo stanno bersagliando con le lance, merda… Gli hanno ammazzato il cavallo. E ci è finito sotto!» Sparviero mi lancia il binocolo ed estrae il fucile a canne mozze. Spara in direzione del villaggio al solo scopo di creare disturbo. Siamo troppo distanti, me ne rendo conto pure io. Inquadro il nero, lo vedo sollevare senza sforzo apparente la carcassa del cavallo ed estrarre la gamba che gli era rimasta intrappolata. Dovrebbe essere un ammasso di carni maciullate, invece la sua gambetta da insetto stecco è indenne. L’uomo divenuto dio si alza e falcia col machete i primi demoni che gli capitano a tiro. Poi prende in braccio Orchidea e si dà a una fuga precipitosa. La bionda dev’essere svenuta, non oppone alcuna resistenza, il corpo inerme. Altri due colpi di fucile rimbombano nell’aria. Vedo un gruppo di Gamchicolh staccarsi dagli altri e dirigersi verso di noi, mentre il grosso dei demoni si mette a rincorrere El Roi. Questo però, invasato com’è dal dio, corre al doppio della loro velocità. «È meglio se ci togliamo di mezzo» annuncia Sparviero, indicando la piccola colonna di demoni che si sta inerpicando su per la nostra altura. Urlano e brandiscono lance e forconi. Sono furiosi. Percepisco il loro odio chiaramente, quasi fosse un veleno che dalla pelle mi penetra negli organi interni, infettandoli. «E dove andiamo?» sbotta isterica Esmeralda. «Quel bastardo ci ha traditi, se ne è andato per i cazzi suoi. Non verrà certo indietro a cercarci!» «Forse hai ragione, ma in questo caso saremo noi a braccare lui» la rincuora il cowboy, posandole una mano sulla spalla. «E come diavolo faremo a trovarlo? Non hai visto quanto è veloce?» In quel momento, nonostante gran parte della mia mente sia concentrata sui

Gamchicolh in avvicinamento, mi viene un’idea. «Abbiamo ancora il pupazzo!» Sparviero mi guarda e mi regala il suo primo sorriso da quando lo conosco. «Bravo, ragazzo, hai proprio ragione!» Di corsa ci lanciamo giù dal declivio per andare a recuperare l’Orchideamuñeca. Questa volta il negro ha fatto male i suoi conti se sperava di far sparire le sue tracce!

*

Abbiamo il bambolotto, purtroppo però l’altro cavallo è fuggito, così siamo di nuovo appiedati. Ce la siamo data a gambe cercando di seguire la direzione nella quale abbiamo scorto fuggire El Roi e Orchidea. Nel mentre abbiamo dovuto uccidere una dozzina di Gamchicolh, prima che si convincessero a lasciarci perdere. «Non dovevano essere i demoni della pigrizia e dell’inerzia?» chiedo a Esmeralda, cercando di tirarla su di morale. Per lei, che crede nell’innata bontà d’animo delle persone, scoprire che El Roi ci ha mentito e usato come sherpa è un colpo durissimo. «Dai, non tutto è perduto. Forse non ci ha nemmeno traditi. Hai visto che non era in sé…» cerco di rincuorarla, senza troppa convinzione, ma la mulatta procede a testa bassa, per inerzia. Provo a cercare altrove qualcuno con cui parlare. Ho bisogno di sfogare la tensione. La donna zombie non è certo adatta, limitandosi a procedere o dopo o, come fosse la mia ombra. «Senti, Sparviero» non mi rimane che lui, «credi che riusciremo a raggiungerlo?» Il cowboy solleva per un istante lo sguardo dal suolo. È come un cane da tartufo, che segue le tracce fisiche invece che quelle odorose. Inoltre tiene in mano il

bambolotto assassino come fosse una bussola. «La domanda non è se riusciremo, ma quando.» «Ah, sei ottimista per una volta!» «Quel cazzo di negro ha delle esigenze fisiche, ricordi? Deve fermarsi a mangiare, a bere e a cacare… a meno che il Dio della Guerra non lo usi in eterno, giusto, Esmeralda?» La donna solleva lo sguardo. È spento e triste, ma almeno risponde. «Ogoun se ne sarà già andato e avrà lasciato El Roi privo di forze, ne sono certa.» «Vedi, lo dici anche tu, forse è solo questione di energie. Forse El Roi ci verrà a cercare una volta che si sarà ripreso.» I miei compari mi guardano come fossi uscito di senno. Non sono più disposti a dare un briciolo di fiducia allo stregone, e in effetti neppure io. «Il problema è che non sappiamo con che dio sia sceso a patti e le modalità che lo dovrebbero riportare in vita.» «Che dovrebbero riportare in vita tutti noi!» sottolineo. «Sì, esatto. Io avrei una mezza idea di chi possa essere, ma non voglio pensare che quel matto di El Roi abbia fatto un accordo con un’entità così imprevedibile e scostante…» «Di chi parli?» Esmeralda ogni tanto ha la capacità di snervarmi. Spreca fiumi di parole quando non serve, invece quando tutti pendono dalle sue labbra si ammutolisce. «Lo psicopompo nel pantheon voodoo.» «Chi?!» «Uno psicopompo è l’incaricato di traslare le anime dei defunti dal mondo dei vivi a quello che le attende oltre. C’è in tutte le religioni.» «E in quella di El Roi, chi sarebbe il fortunato dio scavafosse?»

«Baron Samedi, il traghettatore dei mondi, il guardiano dei cimiteri, colui che trasporta le anime nell’aldilà.» Non riesco a capire. Allora, mi pare ovvio sia questo tizio. «Allora tu lo sapevi da sempre?» «Vedi, Davide, Baron Samedi è un clown, un pagliaccio che ama gli scherzi volgari e grossolani, e le rozze oscenità. Nessuno si azzarderebbe a fare un patto con lui. Tutti sanno quanto sia imprevedibile e scostante, a meno che…» «… a meno che non fosse disperato, o folle!» concludo io per lei. «Ed El Roi mi dà proprio l’impressione di poter appartenere a entrambe le categorie. Può averlo già chiamato, secondo te?» «Non saprei, però sappiamo che dopo il rito col quale ha ottenuto l’aiuto di Ogoun, El Roi, per quanto potente, dovrà riprendere le energie prima di effettuarne un altro» conferma la donna. «In questo tempo noi dovremmo trovarlo e…» «Insegnargli a vivere!» interviene brusco Sparviero e la sua voce trabocca fiele. «A ogni modo, possiamo prendercela con calma. Riposiamoci un po’, voglio essere pronto per quando ce lo troveremo di fronte. Lui e il fottuto dio che ha avuto la brillante idea di assoldarlo.» La prudenza del pistolero mi stupisce, ma sono d’accordo con lui. Il macumbeiro ha mostrato di possedere poteri non indifferenti. Meglio essere nel pieno delle forze, tanto non può andare troppo lontano e anche lui deve recuperare le energie. Certamente più di noi. Raggiungiamo una macchia alberata, o perlomeno formata dagli alberi di questo regno, più simili a pali da forca che a piante vere e proprie. Ci sediamo in cerchio. Nessuno ha voglia di parlare. Esmeralda chiude gli occhi dopo pochi minuti, mentre Sparviero, dopo aver controllato il fucile a canne mozze, si rimette ad affilare il coltellaccio. Dev’essere più tagliente di un rasoio, ma pare che il solo rumore della lama sulla cote sia sufficiente per donargli quiete. Non sapendo che fare, mi sdraio e provo a riposare. Subito una profferta mi compare innanzi.

“Padre nostro che sei nei cieli…” La sfera è bellissima. Riesce a donarmi un calore capace di guarire l’anima. Ogni volta è come la prima, un miracolo che ti si svela innanzi. Mi perdo nella nebbia di stelline che le agitano il ventre ricurvo e liscio. Si possono vedere tutti i mondi dell’Universo al suo interno e la voce che emette è melodiosa e cristallina: è quella di Lucrezia. «Vedi, ragazzo, sono già ati a un misero Padre Nostro.» A fatica distolgo lo sguardo dalla sfera cantilenante per portarlo sulla copia malriuscita di Clint Eastwood. «Cosa?» «Ha ben poco valore, un Padre Nostro intendo, una preghiera recitata senza convincimento alcuno, a mente spenta, ripetuta come un pappagallo. Niente coinvolgimento, niente sentimento. Vale poco insomma. Meglio qualcosa di originale e sentito, anche se meno verboso e per niente poetico. Vedi, il tempo guarisce le ferite in fretta. Tutti finiranno col dimenticarti, così come accade a ogni defunto.» Una teoria bislacca la sua, anche se forse un fondo di ragione potrebbe averla, a giudicare dagli sviluppi che stanno coinvolgendo la mia famiglia nel mondo dei vivi. «Beh, a ogni modo a me non serve più. Ormai siamo prossimi al ritorno in vita» gli rispondo afferrando la sfera luminosa e offrendola alla donna zombie. Questa mi fissa senza capire. Come al solito. Niente di nuovo. Con delicatezza le spingo la profferta all’altezza del cuore. Mi pare di scorgere un sorriso nell’immutabilità dei lineamenti del suo volto. «Almeno a te servirà a qualcosa. Ti chiedo scusa per averti distolta dalla tua via di redenzione. Perché non torni al tuo villaggio?» Niente, nessuna risposta. Mi dispiace, vorrei riuscire a convincerla, ma come posso fare? Mi rimetto sdraiato e chiudo gli occhi cercando di proteggerli dal forte vento che si è alzato portando con sé quella polvere maledetta.

*

«Goool! Goool! Evvai!» La voce di una ragazza. «Oleee, ole, ole, ole, Itaaalia, olè!» Cori da stadio mi invadono le orecchie. Apro gli occhi e mi ritrovo in un salotto, innanzi a un televisore. Nell’angolo alto della TV riconosco la bandiera dell’Italia opposta a quella della Germania. Mi guardo attorno e vedo la mia piccola… Nicoletta ora non è più così piccola in realtà, ma non impiego che un secondo per riconoscerla. È seduta su una poltrona con una coca cola in mano e una sciarpa dell’Italia che mulina nell’aria. Festeggia spensierata. È diventata sempre più bella, crescendo. Sul divano a fianco della poltrona vedo in successione Franco, Elisa e Lucrezia. Il bucaniere brinda con una bottiglia di birra con mia moglie. Dopo il brindisi si scambiano un bacio affettuoso, mentre Elisa sventola un tricolore in miniatura. Bene, si festeggia e l’Italia vince, però non mi riesce di allinearmi all’euforia generale. Anzitutto perché non riconosco quel salotto e ho la spiacevole sensazione che quella possa essere la nuova abitazione sotto il tetto della quale si siano unificate le due famiglie spezzate, per formarne una nuova di zecca. Nuova e felice. Molto felice, quasi troppo, visto che una ha perso il padre e l’altra la madre. Tutta quell’euforia mi pare ingiustificata, un affronto al dramma della vicenda, al lutto che dovrebbe ammantare quell’ambiente. Dovrei vergognarmi per questi pensieri da miserabile, insensibile ed egocentrico, ma l’intensità con la quale percepisco la felicità che permea quell’appartamento mi stordisce. La sento colpirmi a ondate, infrangendosi sulla muraglia eretta dalla sofferenza della mia situazione in purgatorio.

Mi odio. Odio loro, la loro felicità, e odio tutti gli Dei e il Fato che mi ha trascinato in questa situazione. Odio i miei compagni e odio il dannato negro che mi ha garantito una speranza ora lontana. Preso come sono dalle mie maledizioni non mi rendo conto che la partita è finita, con un abbraccio liberatorio collettivo al quale io non sono stato invitato. «Ora tutti a letto che domani c’è scuola» annuncia Franco, perentorio. Un padre coscienzioso, Sandokan. Vedo le giovani dirigersi nelle loro camerette, mentre l’uomo e Lucrezia vanno in camera da letto. Mi costringo a seguirli, a osservare il loro nido d’amore, il letto che io non potrò mai più condividere con la mia sposa. Mi fermo prima di entrare, non voglio neppure immaginare come potrei reagire se li vedessi intenti a festeggiare la vittoria, sotto le lenzuola. Non potrei sopportarlo. Una fitta al petto fa sfumare l’immagine…

*

«Carla.» Quella singola parola ha il potere di ridestarmi come avessi ricevuto una secchiata d’acqua gelida in faccia. Scosso, osservo la donna ombra che mi sta ritta innanzi. Ha parlato lei? Mi guardo attorno, ma Esmeralda dorme ancora, respirando docilmente, e il cowboy è intento a scrutare l’orizzonte col binocolo. Riporto lo sguardo sulla donna zombie. Che cosa ha detto? La invito a ripetere. Rintronato come sono non ho afferrato quel tanto atteso

segno di vita. Niente, mi fissa senza parlare. Forse mi sono sognato tutto. La mia immaginazione deve aver inventato quell’escamotage pur di non farmi assistere all’unione di Lucrezia e Franco. No, ho sentito qualcosa, ma cosa? Un nome, certo, il suo nome… ora mi pare di ricordare… Carla, sì, proprio Carla, ne sono certo. Sarò oramai rintronato dagli eventi, ma adesso che ho ricordato non impiego molto a capire: Carla, la mamma di Elisa, la moglie di Sandokan! Certo, ora tutto torna. Oddio, perlomeno sembra esserci un nesso, se non altro, una ragione che mi colleghi a quest’ombra. «Che succede, Davide?» la voce assonnata di Esmeralda mi fa prendere un colpo, riportandomi alla realtà. «Mi ha parlato…» «Chi?» «Lei. Mi ha detto il suo nome… credo. Si chiama Carla.» «Ah, bene. Forse sta riprendendo le sue facoltà… molto interessante. Devo prendere appunti. Forse il processo di beatificazione è reversibile, sarebbe una scoperta incredibile!» L’idea che la studiosa stia trattando la zombie come una cavia, un caso clinico da studiare e schedare, non mi piace per nulla. Ora, però, non ho voglia di litigare. Per un istante valuto piuttosto la possibilità di raccontarle tutta la storia, di chiederle consiglio, di spiegarle i nessi causali che hanno portato quell’ombra a seguirmi. Alla fine la mulatta è una brava persona, ne sono convinto, nonostante il suo vizietto di essere logorroica e un po’ troppo credulona.

No, mi convinco sia tutto inutile. Oramai siamo arrivati alla fine della festa. O riusciremo a intercettare El Roi e a convincere il dio che l’ha ingaggiato a riportarci sulla Terra, oppure saremo destinati a rimanere in questo posto abbandonato dagli dei. Allora avrò tutto il tempo per parlare con Esmeralda, per valutare ogni particolare degli eventi, per analizzare i nostri errori e per rimpiangerli… per l’eternità. Mi alzo, prendo per mano Carla e vado verso Sparviero. «Nulla all’orizzonte?» «No, ma il pupazzo non smette di scalpitare.» La testa dell’Orchidea-muñeca spunta dal cinturone del pistolero. La bambola azzanna l’aria facendo schioccare le sue fila di dentini aguzzi, mentre Sparviero le accarezza con delicatezza i capelli fatti di sterpi. «Forza, è ora di metterci in marcia.» Anch’io scalpito. Sento che la resa dei conti si avvicina.

16. La resa dei conti

Camminiamo da un tempo indefinito, seguendo un sentiero che solo il bambolotto dagli occhi di conchiglia riesce a vedere. Almeno è quello che tutti ci auguriamo. Nessuno ci garantisce che la marionetta voodoo non sia uscita di senno e i suoi poteri non siano svaniti nel preciso istante nel quale lo stregone ci ha abbandonati alla nostra sorte. Nessuno oramai dubita che lo scenario sia questo: El Roi ci ha tradito. Se avesse voluto tornare a riprenderci, a quest’ora ci avrebbe già trovati. Le ore di riposo che ci ha concesso Sparviero immagino fossero a tutti gli effetti l’ultima chance che il pistolero voleva concedere al macumbeiro. Sfumata quella, ora lo vedo determinato come non mai. I suoi occhi non si schiodano dall’orizzonte, le sue mani fremono sul calcio del fucile. Spero solo che nel momento in cui troveremo El Roi, sia in grado di contenere la sua furia e non lo ammazzi sul colpo. Perlomeno non prima che ci abbia offerto la sua resa e con essa i nostri aggi di ritorno verso la Terra. Anche Esmeralda è tesa, ma adesso pare più interessata a sondare le reazioni della zombie, di Carla, piuttosto che a trovare il nero. Sono ore che prova a interagire con la penitente, senza ottenere in cambio nulla. Volevo interrompere quella sorta di esperimento, ma alla fine ho deciso di lasciar perdere. Tanto pare che Carla non sia minimamente infastidita, rimanendosene chiusa nella propria apatia pre-ascensione. Inoltre ho la terribile sensazione che qualcosa nell’animo di Esmeralda si sia rotto. La vedo sconfortata. La fiducia che nutriva nell’umanità, e che le illuminava il volto con un sorriso ammaliante, è scomparsa, lasciando il palco a una malinconia struggente. Forse, impegnandosi in queste sue ricerche da antropologa delle religioni, riuscirà a distrarsi un po’. Glielo auguro. In questo momento non riuscirei a esserle d’aiuto. Ho la mente colma di pensieri, non certo più allegri dei suoi. In tutto questo tempo non ho fatto altro che riflettere sul significato che può avere l’incontro con Carla. Al motivo per il quale il Fato mi ha sbattuto innanzi la moglie defunta di Franco. Perché neppure per un istante ho pensato si possa trattare di una semplice coincidenza. Non esiste. Non da quando ho scoperto

l’esistenza di questo fantomatico Regno del Libero Arbitrio. Se Carla si è presentata sul mio cammino dev’esserci una ragione e deve anche essere importante, nonostante non sia ancora riuscito a svelare il mistero. Così come non ho ancora capito la ragione per la quale abbia abbandonato la via della redenzione che stava percorrendo assieme agli altri superbi. Forse la sua venuta è un monito inviatomi per farmi comprendere quanto sia meschino il mio atteggiamento verso la nuova condizione delle nostre oramai ex famiglie. Forse è un esempio che dovrei seguire, un magister vitae al quale affidarmi per salvarmi dalla follia dei miei attuali compari. Un’estrema e ultima occasione di redenzione, di salvezza per la mia anima che invece ho gettato in pasto a uno stregone voodoo. Oppure potrebbe essere l’esatto opposto, ed è questo a farmi impazzire. Forse la presenza di Carla è il segno di quanto io sia sulla retta via. Di quanto anche lei abbia percepito la possibilità di rimettere a posto le cose, di tornare alla gioia di un tempo e tanti saluti alla redenzione! Forse è la conferma che anche lei vorrebbe avere la possibilità che ho io, e per questo mi segue. Tenterò di fare in modo che lei possa tornare dai propri cari, con me. Almeno spero che questo possa farle piacere. Non saprei, sono confuso. Se almeno mi parlasse ancora, mi desse qualche suggerimento, potrei effettuare una scelta razionale… Non posso prendermi la responsabilità di decidere anche per la sua esistenza. Giocare con la sua anima eterna va ben oltre le mie attuali capacità. Non sono neppure sicuro di quale sia la scelta giusta per me, figuriamoci se posso decidere per lei. Però, solo con il ritorno di entrambi si potrebbe ripristinare la situazione precedente alle nostre dipartite. Franco potrebbe riavere Carla e io Lucrezia. Senza gli spargimenti di sangue che potrebbero essere necessari se fossi solo io a rompere i nuovi equilibri sulla Terra. Niente, è un rompicapo irrisolvibile, un gorgo che mi avviluppa spingendomi sempre più in basso, facendomi pensare a gesti e azioni estreme che mi rivoltano lo stomaco. Devo cercare di stare calmo e mantenermi razionale, anche perché prima di tutto dobbiamo trovare El Roi, altrimenti i vaneggiamenti e i piani con i quali mi sto

lambiccando rimarranno futili castelli in aria. Sparviero si blocca all’improvviso e quasi gli vado a sbattere contro, concentrato come sono in queste elucubrazioni senza soluzione. Siamo nel Regno del Libero Arbitrio e anche in questo caso pare che spetti solo a me decidere a quale dei due scenari dare credibilità. Intanto guardo oltre la figura del cowboy e subito capisco il motivo di quella brusca sosta. Impossibile non notare la bizzarria di quanto sta avvenendo all’interno del boschetto scheletrico che ci si para innanzi. Stormi di uccellacci neri spiccano il volo all’unisono e un bagliore iridescente simile a un’esplosione atomica illumina l’orizzonte intero. Sparviero fa un balzo indietro e scaglia qualcosa a terra. La bambola voodoo gli ha tagliato il cinturone con le zanne e stava per scavargli nelle carni, quando se n’è accorto e l’ha gettata al suolo. Estrae un coltello e glielo scaglia contro, inchiodandola al terreno come una tartaruga riversa sul dorso. Orchidea-muñeca emette un verso stridulo, ma non cessa di agitarsi all’impazzata. «Ci siamo, armi in pugno» ci avvisa l’uomo, indicando il boschetto. Avanziamo con molta cautela anche se il terreno brullo ci concede ben pochi ripari, giusto qualche tronco mozzato e un paio di piante grasse simili a cactus con aculei di ferro rugginoso. Lasciamo la nostra guida surreale ad agonizzare al suolo e finalmente giungiamo alle propaggini del bosco. «In silenzio, mi raccomando» ci ammonisce il pistolero, ma siamo tutti muti, anzi mi rendo conto di non aver neppure il coraggio di respirare. Ci muoviamo in ordine sparso, a pochi metri l’uno dall’altro, sgattaiolando di albero in albero, rimanendo nascosti il più possibile dietro quei tronchi lisci come lapidi. Infine sentiamo parole portate dal vento arido che spira fra gli alberi. Sono in se e questo ci basta per capire che siamo giusto in tempo. Il nero sta effettuando un rito proprio in questo istante. «Au nom de Baron Samedi, Baron la-croix, Baron Cimitiere, au nom de Maitre Jean-Simon Brutus, gardien du cimitiere, et par puoi Guedeh Nibho mazaca, negre sept houes, sept pinces, sept picquois, negre rada Freda dahomey.» Ci avviciniamo e finalmente lo scorgo fra i rami rinsecchiti. El Roi appare

sfinito, più magro del solito, i capelli sfatti e lo smoking ridotto a una pezza logora. Ai suoi piedi giace Orchidea, nuda e splendida nelle sue forme tornite. I seni sodi dai capezzoli rosa e i capelli biondi sciolti al vento, formano un invito al quale neppure un dio potrà resistere. Una candela nera arde gettando sul luogo una luce abbagliante. Brilla come una stella caduta dal firmamento e sacrificata dal macumbeiro a qualche entità blasfema. Guardo Sparviero in attesa di ordini. Lui mi fa cenno di attendere e altrettanto comunica con rapidi gesti a Esmeralda. Per fortuna pare sia riuscito a mantenere saldi i nervi. Attendiamo così per un lungo periodo finché uno schiocco risuona nella radura innanzi a noi. Uno squarcio taglia la tela della realtà poco oltre El Roi e da esso spunta una sagoma dai lineamenti indistinti. Ci vogliono minuti affinché quell’amalgama di buio informe assuma sembianze antropomorfe. Si tratta di un uomo di colore con un alto cilindro bianco calcato sulla testa. Indossa un lungo tight nero e porta degli occhiali scuri che ne celano lo sguardo. Eppure dal sorriso sghembo della bocca immagino che i suoi occhi brillino di una luce carica di scherno verso l’umano reo di averlo disturbato. Regge una bottiglia di rum in una mano e una pala da sepoltura nell’altra. El Roi si genuflette servile. Porta più e più volte la fronte al suolo, mentre lo ringrazia per aver risposto alla sua chiamata. «Signore dell’Abisso, delle Acque profonde e scure in cui le anime dei defunti fluttuano, Signore dei Cimiteri e della Morte, Custode delle anime degli antenati, grazie, grazie per avermi raggiunto.» Baron Samedi beve una lunga sorsata e si accende un sigaro enorme. Cala gli occhiali per guardare meglio la fanciulla nuda che affianca El Roi. Orchidea si rannicchia intimorita sotto lo sguardo del dio, lo vedo chiaramente. «Piantala, imbonitore da strapazzo, e veniamo al dunque» ghigna Samedi. «Baron Cimitiere, il tuo umile servo ha assolto alla tua asignaciòn. Una muy difìcil asignaciòn, ma che ho portato a termine con successo e rispettando il tempo concessomi.»

Detto questo El Roi si alza e costringe Orchidea a fare altrettanto. «Ecco la chica, meravigliosa e pronta a servirti.» Il Loah non si scompone, fissando El Roi con calma glaciale. «Hai portato scompiglio nel Regno del Libero Arbitrio, vecchio» lo stuzzica Samedi, avvicinandosi alla giovane. Le annusa il collo come un cane farebbe fra le zampe di una cagna. «Perdòname, non era possibile mantenere un profilo più basso, dominador» risponde il nero abbassando il volto, contrito. Il Loah scoppia in una risata fragorosa che mi arresta il cuore per alcuni secondi. «Ah, ah, ah, vecchio, mi farai morire uno di questi giorni! Non devi scusarti. Mi sono divertito un mondo a vedere quelle nullità cercare di darti la caccia.» Mentre parla sono certo che mi stia fissando, anche se mi sono nascosto dietro il tronco di un albero enorme. Non può avermi visto, eppure sento il suo sguardo piantato su di me come un chiodo rovente. «Ho notato che avevi dei compañeros, o sbaglio?» A quella domanda El Roi, ancora intento a prodigarsi in scuse e richieste di perdono, ferma il dondolio ipnotico della testa. «Delle anime che ho usato per perseguire i tuoi obbiettivi, maestro.» Baron Samedi non pare neppure averlo sentito, intento com’è a carezzare la giovane. La sento mugolare con trasporto e quasi fosse il richiamo irresistibile di una sirena sono costretto a sporgermi per osservare meglio. Questa volta Samedi si solleva gli occhiali da sole, e mentre palpa con vigore un seno turgido della giovane, mi strizza l’occhio. Poi si fa una lunga sorsata di rum e scoppia in una risata che quasi lo soffoca. Appena si riprende, si volge di nuovo al suo protetto. «Pare tu abbia delle visite.» El Roi si volta nella nostra direzione e sbianca non appena vede Sparviero uscire dal suo nascondiglio. Il cowboy imbraccia il fucile a canne mozze e senza

attendere oltre fa fuoco. Il colpo finisce dritto dritto sul volto del Loah, mandandogli in frantumi una lente dell’occhiale da sole, senza però ferirlo. Baron Samedi ci guarda uno a uno. Sembra divertito. «Ottima mira, pistolero, ma non sprecare i colpi, sono immortale.» «Tu sì, ma il tuo protetto no» grida il cowboy ricaricando l’arma e puntandola su El Roi. «Pare che abbiate qualcosa da discutere, voialtri» constata Samedi prima di accomodarsi al suolo, tirandosi dietro Orchidea. La fa accovacciare fra le sue gambe e inizia a farle ingollare rum. «Avanti, avanti, mi piace godere di questi momenti al cospetto di cotanta variegata umanità. Fate come se non ci fossi» urla gioviale palpando la ragazza e facendola sciogliere in gridolini divertiti. El Roi si volta verso di lui e allunga la mano in cerca di salvezza. «Baron Cimitiere, ho eseguito la mia parte del patto, ahora es el momento che mi riportiate indietro…» Samedi lo guarda in silenzio, pensieroso, per poi aspirare dal sigaro immenso che nel frattempo si è . «Vorresti forse privarmi di questo spettacolo?» El Roi è basito. Per la prima volta da quando lo conosco lo vedo senza parole. Incapace di controbattere, così come di battere in ritirata. Rimane lì impalato, simile alla donna zombie che mi affianca. Sparviero, io ed Esmeralda ci avviciniamo. «Allora, El Roi, dove sono i nostri biglietti di ritorno?» gli chiede il pistolero piantandogli le canne mozze del fucile sulla fronte. Il nero trema come un fuscello e sbava come un demente. All’improvviso tutto il suo eloquio si è prosciugato come il letto di un fiume arido.

«Forza, grande Houngan, rispondi!» gli intima Samedi contrariato dalla pochezza dello spettacolo offerto dal suo incaricato. Detto questo si alza scrollandosi di dosso Orchidea e inizia a scavare un buco con la pala. «Avanti, avanti, non essere timido.» Scosso dalle parole del Loah, o forse dalla sua azione, El Roi pare prendere coraggio. Con una mano scosta con delicatezza il fucile dal volto. Due solchi più scuri della pelle gli si stampano sulla fronte. «Calma, amigos, che modi sono? Dopo tante prove superate assieme, non merito un minimo di lealtad?» La sua voce è carica di rammarico. È realmente un attore di prim’ordine. «Bravo, Houngan, insisti, sei sulla strada giusta!» lo sprona Samedi ghignando e continuando a scavare quella che ha assunto tutte le sembianze di una fossa da sepoltura. «Veramente credete che vi abbia mentito, che io sia un traidor? Vi ho salvati in mill…» Il ceffone di Esmeralda lo zittisce. La donna è inviperita. «Taci, serpe! Hai condannato Torakiki e ci hai abbandonati al nostro destino! Non hai nessun patto che ci riguardi con il Signore dei Cimiteri.» Baron Samedi ride di cuore, mentre inizia a scavare un’altra fossa. «Che caratterino la fanciulla! Quasi quasi mi porto via lei, invece di questa cagna infedele! Che ne dici?» sbotta, allontanando da sé Orchidea che gli è strisciata ai piedi e gli si aggrappa a una gamba come un moccioso farebbe con la madre. «Non ci pensare nemmeno. Questo bastardo mi ha fatto capire che non vale la pena tornare fra i vivi. Inutile tentare di far sbocciare la bontà nell’arido animo dell’umanità.» Esmeralda è affranta, svuotata di ogni speranza ed energia. Avevo capito da un po’ che le sue mire erano mutate drasticamente. Forse sin dalla scomparsa di Torakiki. Mi dispiace vedere che la sua fiducia nel prossimo sia svanita per

sempre. El Roi intanto si massaggia il volto dolente, sputa un dente marcio e lo getta in faccia alla donna. «Hija de puta, guarda cosa hai fatto!» Ora ne ho abbastanza. L’idea che non potrò più rivedere Nicoletta e Lucrezia irrompe nella mia testa facendo crollare ogni argine di autocontrollo. Mi scaglio sullo stregone e finiamo a terra. Lo tempesto di pugni. Sento il sangue pulsarmi nei timpani al ritmo forsennato del mio cuore. Una menzogna. Tutto falso. Vane speranze vendute da un imbonitore a un pubblico di creduloni sciocchi. Sento lo scricchiolio delle ossa del naso del nero, il suo sangue che mi schizza sulle mani. Sto per portare l’ennesimo affondo, voglio cancellargli la faccia a questo bastardo, ma una mano ferma il mio pugno a mezz’aria. Mi volto furioso, pronto a travolgere chiunque cerchi di fermare la piena della mia ira. È il Loah. La sua faccia delirante, con quegli assurdi occhiali da sole anni Cinquanta con la montatura di guscio di tartaruga mi si avvicina fino a farmi sentire l’olezzo nauseabondo del suo fiato da rum. «Basta così» mi impone e mi sorprendo di non essere in grado di contravvenire al suo ordine. Sento le forze sfumare, la rabbia scemare come neve sciolta in una fornace. Cosa sto facendo? A che mi serve massacrare questo vecchio? Comunque non potrò più rivedere la mia famiglia. Baron Samedi infila un braccio sotto le spalle di El Roi e lo solleva. Raccatta in malo modo anche Orchidea e li getta nelle due fosse che ha scavato. «Che cazzo credi di fare?» sento la voce di Sparviero come giungesse da una galassia distante. «Ho un patto con questo vecchio e non sia mai che il grande Baron Samedi non presti fede ai propri accordi. Ho una reputazione, io!» Il pistolero gli si getta contro, ma Samedi gli rifila una badilata in testa. L’arco

compiuto dall’attrezzo è talmente rapido che impiego un bel po’ per ricostruire l’azione nella mente, visto che i miei occhi non sono stati in grado di coglierla. Sta di fatto che Sparviero giace al suolo con rivoli di sangue che gli colano dalla testa. Non riesco a muovermi, è tutto finito, sto per crollare quanto sento un braccio sorreggermi. La presa è forte. Immagino sia Esmeralda, ma poi la vedo al suolo, le lacrime sul volto, mentre singhiozza dando sfogo a tutta la propria delusione. È Carla a sostenermi in questo momento drammatico, e un sorriso mi affiora sulle labbra. Ancora mi domando perché quell’ombra sia al mio fianco, indifferente ai pericoli nei quali la sto coinvolgendo, mio malgrado. Poi un colpo, un fragore di tuono che mi costringe a voltarmi. Sparviero non si è ancora arreso. Si è trascinato sul bordo della fossa nella quale il Loah ha gettato Orchidea. Il suo volto è una maschera di sangue, ma la mira non pare essergli venuta meno. Il proiettile ha centrato la giovane al viso e con un bagliore il corpo della ragazza tanto desiderata da Samedi sparisce nel nulla. Gli toccherà mandare qualcun altro a cercarla da capo, ben gli sta! Il cowboy ride ora, come un folle. Il Barone smette per un istante di spalare sabbia nella fossa di El Roi e scoppia a ridere pure lui. Non ci capisco più nulla. Il Loah si avvicina a Sparviero, ma invece di finirlo, gli porge la mano e lo aiuta ad alzarsi. Lo stringe in un abbraccio fraterno. «Dannazione se sei in gamba, uomo! Ottima mossa. Chissà dove sarà finita ora quella fottuta cagna!» Alza un braccio in direzione di El Roi e il corpo dello stregone scompare mentre la buca si ricopre per magia sigillando patto e sepolcro, rispedendo il nero sulla Terra. «Sentimi bene, Samedi, ora sono io ad avere un patto da proporti.» La voce di Sparviero è tagliente come il suo coltellaccio da caccia. Baron Cimitiere lo osserva con la solita espressione di scherno sul volto, per poi interromperlo. Gli piace parlare e avere l’ultima parola.

«Volentieri, uomo. Se mi riporterai Orchidea, io ti riporterò in vita, come ti aveva promesso quel ciarlatano di El Roi.» Il cowboy scuote la testa, azzittendo il Loah. «No, mio caro dio, io ti riporterò la tua puttanella e tu riporterai El Roi in questo di mondo, ecco il patto che sono pronto a sottoscrivere.» Un sorriso dai denti candidi si apre sul muso nero del Loah. «Con il primo patto ho fatto guarire l’Houngan dalla malattia che lo stava divorando. Nulla mi vieta col prossimo di fargliela tornare. Anzi mi sembra piuttosto equo!» Baron Samedi allunga la mano verso Sparviero, il quale contraccambia. Poi il Loah gli a la bottiglia di rum e lo invita a suggellare l’accordo con una bevuta. Il cowboy brinda e il Loah sganascia soddisfatto. Ho la nausea a vedere questo presunto dio giocare con le vite delle persone. Mi viene il vomito a pensare che un’entità del genere possa essere adorata da qualche invasato in giro per il mondo. E sono deluso anche da Sparviero e dalla sua folle ricerca di vendetta. Ma forse, a ben vedere, è solo un modo come un altro per andare avanti, per continuare a fare il duro in questa realtà. Ne ho abbastanza, comunque. Prendo Carla per mano e mi avvicino a Esmeralda. Voglio portarle via, allontanarmi dalle risa di questo essere immondo che ci tratta come marionette con le quali baloccarsi fra una bevuta e una scopata. «Ehi, tu, dove te ne vai? Non voglio are per quello che non sono. Non voglio tu mi ritenga un cattivo. Ho un regalo anche per te.» Come se finora si fosse comportato da perfetto sosia di Babbo Natale. Mi volto, pronto a mandarlo al diavolo, sempre che non sia lui una delle tante manifestazioni di Satana, ora mi sorge anche questo dubbio. «Non sono disposto a fare patti con te.»

Il Loah si toglie per un istante quel sorriso laido dal muso. Solleva gli occhiali da sole e mi fissa con due occhi nei quali bruciano le fiamme degli inferi. Mi sento scavare nell’anima. Vedo le sue mani togliersi i vezzosi guanti di pelle bianchi per sfoderare artigli che mi graffiano il cuore e mi sondano mente, pensieri e sentimenti, riuscendo a far emergere anche quelli più nascosti, quelli che non sono mai stato in grado di confessare a me stesso. Quando la sua presa allenta, lo vedo tornare a sorridere, strafottente. «Bene, bene, abbiamo un bel peperino qui. Un egocentrico di prim’ordine. Ho simpatia per quelli come te.» Mi volto e faccio per andarmene. Non posso accopparlo, ma posso perlomeno evitare di ascoltarlo. Almeno spero. «Fermo, stammi a sentire. Non ho alcun patto da sottoporti. Ti offro semplicemente questa» e mi indica la fossa da morto che ha appena ultimato. «Sono già morto» mi limito a rispondergli prima di rimettermi in marcia. «No, non hai capito. Ti offro di tornare dalla bella Lucrezia e dalla tua piccola e tenera Nicoletta. Ti stanno aspettando, sai?» Solo sentirgli nominare i miei angeli mi fa ribollire il sangue. Se potessi gli strapperei la lingua. «Hai capito bene. Un biglietto gratis per tornare da loro. Non pensare alle visioni che hai avuto, quelle sono solo possibili scenari futuri. Saranno liete di riabbracciarti. Ammetto che te lo sei meritato. Voglio premiarti» ripete, dando un lungo tiro al suo sigaro. Sparviero mi raggiunge, mi prende per un braccio. Mi volto e intravvedo sincerità nel grigiore dei suoi occhi che risalta sulla maschera di sangue. «È quello che volevi, ragazzo, approfittane. Questo fottuto pazzo non può rimangiarsi la sua parola. Vai!» bisbiglia. Anche Esmeralda si ridesta per un istante, giusto per avvalorare la tesi del pistolero con un movimento della testa.

«La mia offerta sta per scadere…» si mette a cantilenare Baron Cimitiere alle mie spalle. Mi volto e lo affronto. «Voglio che porti anche lei.» Il Loah mi guarda perplesso, senza capire a chi mi stia riferendo. «Ha già detto che non vuole tornare.» «No, non Esmeralda, ma quest’anima, Carla.» La sgradevole risata del dio torna a riempire la radura. «Ma non vedi che quella è mezza andata!» «Non hai il potere per farla tornare? È questo che intendi? Che razza di dio saresti?» Samedi cessa di scompisciarsi. Impugna la vanga e si mette a scavare come un ossesso. «Posso fare quello che voglio! Sono onnipotente, sono il Signore e Padrone della Morte! Va bene, lurido mortale, eccoti servito, una bella fossa a due piazze.» Mi avvicino fino ad affiancarlo. Osservo il sepolcro. Immagino di riabbracciare Lucrezia, di scompigliare i capelli della mia bimba, e vedo lo stesso avvenire per Carla con i propri cari. La donna zombie mi ha raggiunto. La sua espressione è il solito vuoto fatto di un grigio smorto, emblema dell’assenza più assoluta di qualsivoglia emozione. Osservarla mi aiuta a riflettere, a eliminare a mia volta ogni impulso irrazionale che mi sta governando, spingendomi in meandri che potrebbero rivelarsi oscuri e terribili, non solo per me. Mi riaffiorano alla mente le immagini delle mie fanciulle, felici, riuscite infine a ricostruirsi una vita lieta, completandosi con i cari della famiglia di Carla. Mi stupisco a ripensare a quanto ho ato, alle bassezze alle quali mi sono lasciato andare pur di ottenere quello che ora ho a portata di mano.

Patti scellerati. Mi vengono in mente le parole di El Roi: «Nella magia tutto ha un prezzo e spesso si deve pagare col sangre». Forse questo è l’unico lascito di valore del macumbeiro. Non posso e non voglio accettare. Ora lo capisco. Vedo il ghigno dipinto sul volto del Signore dei Cimiteri. Forse non è il demonio in carne e ossa, forse mi riporterà realmente dalla mia piccola, ma a che prezzo? Il senso dell’umorismo di questo giullare mi fa venire i brividi. Il solo pensiero che al mio ritorno possa contrapporsi qualche evento nefasto che coinvolga Lucrezia o Nicoletta mi annichilisce. No, non accetterò la sua offerta, non andrò contro Natura. Sono morto e tale rimarrò. Carla non me ne vorrà, ne sono certo, lei ha sempre ambito all’apoteosi, alla vista di Dio e io non la trascinerò, per puro egoismo, lontana dalla sua meta. È libera, ora potrà proseguire il cammino di redenzione, è così vicina. Mi accosto al volto ghignante del dio col cilindro bianco e gli rifilo un calcio nel culo che lo fa volare dentro la fossa. Ora non ride più, il bastardo. «Temete l’ira dei mansueti!» sento sbottare alle mie spalle Sparviero, mentre inizia ad applaudirmi. Baron Samedi è svanito, e in quell’istante sento un piacevole calore avvolgermi. Sono certo di aver fatto la cosa giusta. Una profferta mi compare innanzi, quasi a voler sottolineare la bontà di quell’intuizione. La terra inizia a tremare, ma non me ne spavento. Sono preso dalla meraviglia che si ripete ogni qualvolta uno di quei globi cangianti fa la sua comparsa. La voce che emana non mi è famigliare, ma assume ben presto il timbro di un coro di voci bianche. Vedo la sfera lievitare aumentando di dimensioni fino ad arrivare a inglobare me e Carla. Le minuscole stelle che brillano al suo interno mi scorrono sulla pelle facendomi il solletico. Anche la donna sorride. La vedo fiorire innanzi a me, il grigiore che finalmente l’abbandona sostituito dal colorito roseo dell’incarnato e dal castano dei capelli. Il suo sorriso radioso è splendido e rassicurante. Per la prima volta da quando sono giunto in questo Regno mi sento bene. «Gran bastardo, ci sei arrivato, hai azzeccato la mossa vincente. Scacco al Re… o a El Roi» la voce di Sparviero riesce a penetrare la membrana della sfera

oramai gigante e prossima a levitare nell’aria. Il cowboy ci saluta agitando nell’aria il cappellaccio. Ride, felice come mai prima l’avevo visto. Solleva di peso Esmeralda alla quale asciuga le lacrime con inaspettata delicatezza. «Salutatemi Dio o il Nirvana!» sento gridare alla mulatta, infine sorridente. Percepisco un tepore lenitivo, una quiete profonda e soave prima di ascendere e svanire. Il Lumen Gloriae e l’Amor Gloriae infine ci accolgono.

Indice

Copertina Voodoo Credits

1. Risveglio 2. El Roi 3. La posse al completo 4. Purgatorio 5. Il Regno del Libero Arbitrio 6. Rifornimenti 7. Il rito 8. L’Ascensione 9. Testa di ponte infernale 10. Battaglia fra divinità 11. Vecchi peccati 12. La superba 13. L’ultimo viaggio 14. Il villaggio dei Gamchicolh

15. Il ratto della chica 16. La resa dei conti