Gianni Miraglia
100.000 Espadrilles di ghiaccio
© 2014 Gianni Miraglia
www.giannimiraglia.com
hashtag: #mandatemiaquelpaese
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Table of contents
Preparativi
1. Solidarietà automatica 2. Più di 100 persone 3. Sul volto dei cosmonauti, c’è sempre l’entusiasmo 4. Viaggiare sicuri 5. #Mandatemiaquelpaese
17 Novembre, la partenza
01. Sangue e vestaglia 02. Si parte 03. Volare
Disperso in Russia
1. Al Bano
2. Il sommergibile russo 3. La mia prima missione
Mi sento a casa
1. C’è anche Vinnie Jones in questi giorni 2. Il cerchio perfetto 3. Mama I’m a kriminal 4. Taxi Driver 5. Happy Days 6. Il cimitero dei monumenti caduti 7. Chitarre tristi
Le missioni continuano
1. Gagarin e Stalin: missione fallita 2. Abbraccio 3. Fiori dappertutto
Superata la prima settimana
1. L’invito 2. A cena fuori 3. Piscina 4. Gita in periferia
Apoteosi
1. Parkour 2. MMA 3. Limonov
Ultimi giorni
1. 100.000 espadrilles di ghiaccio 2. Il regalo 3. Perdo l’aereo Tel Aviv L'autore Ringraziamenti
Preparativi
1. Solidarietà automatica
Pareti e niente alberi. Gino Paoli si è sparato, nonostante i soldi. Anche la generazione che gli comprava i dischi non se la ava male. Chi è venuto dopo ha iniziato il declino. Mio padre si preoccuperebbe per me. Altre notifiche, tanti Like per la foto negli studi Rai di Caterpillar Am. Controllo il numerino. Sono a quasi 100. Salmo, il rapper che piace, li racimola in un attimo. Quello manda tutti a fanculo. È bravo, arrabbiato e non chiede scusa neanche agli amici. La formula per spaccare, se hai tante decadi meno di me. Nella foto ho le cuffie, colbacco H&M e poso abbracciato alla figlia di Vecchioni, sembriamo amici. Ero tutto preso a parlare della mia missione a Mosca e lei mi ha interrotto, che dovevo sventolare la bandiera Lbgt in piazza Rossa. Probabilmente scherzava, ma ho cercato di darle una risposta articolata. Pure su Facebook vogliono che mi schieri contro Putin e l’omofobia. Se ci va lei a protestare e l’arrestano, con un padre così famoso e quasi Nobel, l’ambasciata interviene subito e anche i migliori della Farnesina, magari quelli cresciuti ascoltando la canzone del cavallo. Sono stato invitato in trasmissione perché il mio viaggio russo è nato da un crowdfunding. Lei invece promuoveva un libro contro il bullismo. Ho provato anch’io a interromperla, a raccontarle che in prima elementare non parlavo con nessuno e che allora mio padre mi ha mandato a una palestra di arti marziali. Ma lei non mi ha ascoltato. Spiegava ai conduttori il senso propositivo del suo libro: ci si vedrà tutti una domenica in piazza e si distribuiranno maglie e opuscoli. Mi fa piacere che in questi giorni si parli di me e dell’imminente viaggio, sa di rivincita. In questi anni ho bussato a tante porte, nella speranza di svolte spettacolari e mediatiche. L’arroganza ti porta a progettare. Devo superarmi, mostrare il peggio che è in me e anche i sogni che resistono, in nome di quello che siamo realmente. Qualcuno mi leggerà, avrà delle reazioni, microsecondi di emozione. La folla è anche dieci persone: mi fa sentire lo stesso meno invisibile. La solitudine è silenzio. Bisogna accettare la propria debolezza per darsi agli
altri. Cerco un riscontro pubblico. È come fare pompini, per avere dell’affetto.
2. Più di 100 persone
Ho raccolto più di 3.000 euro in meno di una settimana. Crowdfunding è la parola del momento. Una giornalista del- la tv mi ha contattato per invitarmi a un convegno sull’argomento, senza chiedere della mia iniziativa. Ce l’ho fatta, conta solo che hai vinto qualcosa. Questo viaggio finanziato da più di 100 dei miei lettori mi dà credito, intelligenza e anche un po’ del cinismo richiesto dai tempi. Provo tanta riconoscenza e rispetto per loro che in questo momento stanno resistendo agli ingranaggi che mi hanno sconfitto. In una società tribale verrei isolato. Non offro molto alla comunità. Ho scelto apposta un paese gelido e schedato, che in questo periodo non piace ai media e alla gente. Andrò laggiù per mettermi alla prova. Se non sai vincere, devi perdere alla grande. Mi sto preparando, sono abituato a viaggiare solo ad Agosto. Il mio compito è realizzare le missioni che i sostenitori mi hanno affidato, come contropartita alla mia spudorata richiesta di soldi. Loro per primi si aspettano che io sia soddisfatto di me stesso. Mi hanno dato quella fiducia che spesso non riesco a trovare in me. Si meritano tutto il bene che mi hanno donato. L’amore esiste, quando qualcuno crede ai tuoi sogni, pure attraverso un monitor. Li ringrazierò per sempre. Forse al loro posto, non avrei sganciato un euro. Amore è credere negli altri, prima che in sé stessi. Voglio dimostrare che sono bravo in qualcosa, cerco i voti belli che non ho mai preso.
3. Sul volto dei cosmonauti, c’è sempre l’entusiasmo
Dal dentista ho letto un articolo su quanto sopravviva dell’era sovietica. Pochi ricchi e molti poveri. Anche una foto delle Pussy Riot e Putin sulla neve. E poi gli attivisti italiani di Greenpeace arrestati, ragazzi abbienti e coi riccioli. Da adolescente, ho sognato di salire su quei gommoni veloci, c’erano anche le ragazze. Poi la gente mi avrebbe ammirato. Dei sostenitori m’hanno chiesto di visitare l’ex-città segreta di Skolkovo. Ne è stata tratta un’installazione alla Biennale dai tempi della Guerra Fredda: una rete di basi missilistiche inaccessibili, aree urbane in cui vivevano gli addetti e i famigliari, in qualche modo una classe di privilegiati, ma senza una vita reale in mezzo agli altri. Le regole erano rigide, scandite dalle esercitazioni. Le sirene suonavano senza preavviso e si correva ai rifugi antiatomici. Ma un giorno manca all’appello un adolescente che sparisce per dei giorni. Lo ritrovano nascosto nei boschi fuori dalla città segreta. Voleva scoprire che succede quando tutti hanno paura. Qualche anno dopo sarà uno dei due cosmonauti in lizza nella prima spedizione orbitale. Vincerà il rivale, Yuri Gagarin, anche perché figlio di umili contadini. Per mostrare al mondo il cuore di una nazione, capace di spedire tra le stelle anche i desideri che arrivano dal basso.
4. Viaggiare sicuri
Sono sempre più informato. Tanti siti su malattie e sicurezza all’estero. Non bisogna eggiare di notte, esibire oggetti vistosi, toccare le capre e baciare altri uomini. Attenti ai ricatti dalla polizia stradale. Ho visti i filmati degli Omon mentre sedano rivolte carcerarie. C’è tanto orrore. Anche i nostri agenti, in certe situazioni, scherzano poco. La Russia è un paese a rischio. Mi attengo alla rete. Posso confermare o confutare le verità che preferisco. Ho anche comprato due guide turistiche, redatte da viaggiatori professionisti inglesi e australiani. Gli anglosassoni giudicano i costumi altrui, in base ai propri. Come dire che dalle parti dell’ex-Impero si mangiano solo patatine o che si inculano i canguri. Già nell’appendice ti mettono in guardia da chi vive lì. Ma poi suggeriscono itinerari monumentali, muniti di baretti e wifi e cessi belli. Ho scelto l’ostello più economico, proprio come viene sconsigliato da quelle pagine in plastica antipioggia. Ho fatto comunque cucire delle tasche interne su un paio di pantaloni. Li ho comprati apposta al mercatino così che sembrino sovietici. Non l’ho raccontato su Facebook, per prevenire, visto che dei russi che già mi seguono. Avrei potuto trapiantarmi il portafoglio. Ci sarà sempre qualcuno che ruba, ma in certi paesi è più probabile. Secondo un giornale inglese, la polizia presidia il cimitero degli elicotteristi di Chernobyl. Una delle missioni prevede che vada lì a posare fiori sulle loro tombe. La mia reazione non mi è piaciuta: ho scritto al mio sostenitore che quel posto è presidiato e che hanno già arrestato dei giornalisti. Come per cercare scuse e rinunciare. In questi giorni c’è anche la notizia dell’automutilazione: un artista performer del dolore si è inchiodato i coglioni sul pavé della piazza Rossa, per protestare contro la violazione dei diritti. Alle sue spalle si vede un poliziotto antisommossa. Sta immobile, con le mani in tasca, come quel padre di famiglia in borghese che porta via Sid Vicious dal Chelsea Hotel. Sembra allibito e sconfortato. Le storie stanno ai margini, ci cercano e non hanno didascalie.
5. #Mandatemiaquelpaese
Ieri ho bevuto due vodka di seguito, alla goccia, all’inglese, alla cosacca. Ho pure creato un hashtag: #mandatemiaquelpaese. Sarò una traiettoria lungo la città. Avessi proposto Miami, sarebbe sembrata una vacanza. Il nome dell’operazione nasce in un momento di debolezza in cui temevo reazioni cattive e allora le ho assecondate: ma vai a lavorare, sei un disoccupato di professione. Sognare è un lusso e bisogna poterselo permettere. Più di 23 milioni di russi morti nell’ultimo conflitto mondiale. La nostra libertà accessoriata, i vestitini attillati e i voli low-cost per Mykonos devono qualcosa anche a loro. L’ho detto a chi da me pretende messaggi contro l’omofobia. Ma non vengo capito. Mi sfottono con battute smart. Sono sempre stato attratto dalla storia. Giudico tutto in base a quel percorso di sangue, alcuni popoli ne hanno versato più di altri. Non significa però che mi farò ridimensionare dai russi. C’è pure lui che mi aspetta, una sentinella al confine col Tagikistan conosciuta su Rai3, che deride quelli della Nato per il kevlar antiproiettile. Poi si toglie la maglia a righe e spacca la bottiglia di vodka. Vado lì anche per dimostragli che pure noi abbiamo ragione, che anche se maschi possiamo cospargerci di profumi e usare il cazzo come ci pare, perché i nostri avi hanno già pagato. L’Europa è un laboratorio di vita moderna e ben nutrita, seppur insoddisfatta, grazie a secoli di annientamento e massacri. Lassù potrei iscrivermi a un corso di grinta. Volendo c’è anche quello di pompini: ne parlavano su un giornale online, probabilmente un fake, per procurare click. Questi sono i trucchi concepiti per tirare su la nostra economia.
17 Novembre, la partenza
01. Sangue e vestaglia
La grande festa dedicata ai sostenitori. Venite tutti al bar Sanvittore. Indosso la vestaglia in puro cachemire e il papillon donato dal marchio Natural Born Elegance e i Moon Boot che mi sono stati spediti da Tecnica. Isaac Hayes saliva sul palco ricoperto da reti dorate. Mi piacciono i neri, anche per questo non sono omofobo. I miei sostenitori continuano ad arrivare, m’interessano gli occhi della gente. Il bar si riempie. Vengono qui per salutarmi. In Moon Boot e vestaglia sono eccessivo. Lo faccio per loro. Sto al servizio delle aspettative altrui. La mia superficialità ama la gente. È così che si genera il coraggio. Nasco timido, nei modi in cui mi hanno insegnato a crescere. Stavo nel quadrato, sempre e comunque. Mio padre era una brava persona, migliore di me: è riuscito a mantenermi, mentre io invece non gli ho pagato neanche una medicina. Nella bara sorrideva. Sembrava stesse bene nella casella finale, dopo l’inevitabile degrado. Indosso tutti i capi che mi sono stati offerti, tranne le pinne e la maschera, donate da Cressi Sub. A turno mi autografano le scarpe lunari. Puoi fare qualsiasi cosa, ma non calpestare i miei mocassini di velluto: nasce così il rock’n’roll. L’estetica, contro la forma corrente. Liberazione allo specchio, mi chiedono della vestaglia. È così dandy e pregiata, superiore a me. L’avrei voluta avere la notte in cui sono sceso in strada per un incidente sotto casa. Attorno all’auto inerme, c’erano già tanti miei vicini. Capifamiglia di una certa età, con cui avevo sempre e solo scambiato gesti sommessi in ascensore, quasi tutti in vestaglia. Mi sentivo un randagio, fuori da quel momento, anche perché indossavo delle braghe e la maglietta. C’era il calore della loro dignità, l’Italietta che in qualche modo riusciva ancora ad accogliere gli altri umani. Alcuni cercavano di soccorrere i feriti. Un idillio interrotto dal nitrito delle ambulanze.
Tutte queste marche addosso, nello zaino ho pure l’iPad da parte del rivenditore Cuordimela. Mi rifaccio di un’ambizione infranta. Volevo diventare il “Primo Disoccupato Sponsorizzato”. Mi avevano appena licenziato, quella era una
logica conseguenza: poter vivere in un poster perfetto, dopo vent’anni nelle agenzie di pubblicità ad avallare esistenze spensierate. Credevo che le marche fossero riconoscenti, che mi avrebbero salvato e fatto guadagnare, pure la stima di chi mi ha visto perdere. È fondamentale l’illusione. I disoccupati sono un dramma corale da strumentalizzare. Vengo bene per le trasmissioni di denuncia, suscito la comione e l’indignazione degli spettatori e quindi aumento l’audience. Tra me e il marketing c’è un rapporto dare-avere e ora è il mio turno, devo mangiare. Ci ho creduto davvero. Per qualche mese, mi sono rivolto all’ufficio marketing del famoso brand sportivo delle tre strisce. Ero in buona fede e non mi pento delle mail accorate alle due cape. Insistevo, la testardaggine è una dote. Te lo insegnano le favole su chi si fa da solo. Non mollavo, l’ottusità è valore, il buon senso ti fa soccombere. Obbedisco solo all’imperatore, i giapponesi non si arrendono, vivo dentro un cespuglio da 48 anni. Ho anche cercato i consigli di quelli più svegli di me, magari perché hanno dei figli. Solo un confronto, non sono mai stato un libero professionista, provengo dal tempo indeterminato. Chiedevo come si fa a cambiare, ad ottenere uno sponsor. Me lo ricordo il mio amico importante che non mi legge, perché ha da fare. Mi parlava, senza guardarmi negli occhi, lo so che mi vuole bene. Voleva salvarmi, ne sono sicuro. Ha provato a spiegarmi, a disilludermi. Mi sono sentito trattato da gatto castrato che vuole diventare selvatico. Ha sempre raccontato d’essere cresciuto in strada. Era altrove, mentre mi spiegava che se andava bene, mi avrebbero dato qualche maglietta per levarmi dai coglioni. La gente ti ferisce, senza accorgersene. È stato un buon consiglio, lo riconosco. È giusto riportarmi coi piedi per terra. Ma sono io che voglio stare sospeso, pure adesso. Ci penso spesso a mio padre, lui ce l’ha fatta, era nato nella miseria. Ha inseguito i suoi sogni, mica quello che gli hanno detto a scuola. Quelle due non mi rispondevano, scrivevo di Adolf Dassler, il fondatore del loro impero. Un tedesco che sceglie di sponsorizzare Jesse Owens alle Olimpiadi di Berlino del ’36, un nemico per Hitler e tutta la nazione, un outsider come me che sono disoccupato, ma che voglio vincere. Non avevo segnali, le spiavo, nobili cognomi milanesi, bionde e curate, progressiste per via di certi balli e vacanze tra le loro fotografie su Facebook. Vanno anche agli apericena con altri managerini. Milano non dà tregua. Non sono stato preso in considerazione,
congelato sul Don. Ho insistito per dimostrare che esistevo. Anche io ho ignorato tante mail, quando tutto mi andava bene. Ti viene chiesto aiuto, ma spesso non hai tempo per accorgertene. Ma ce la farò. Sarà una storia bellissima. La racconterò anche in ospizio. Dalla disfatta alla vittoria, gridano gli All Blacks prima delle partite. Non pensare in modo lineare e cerca di rendere positivi gli aspetti negativi. Me lo insegnò il primo datore di lavoro, titolare di uno studio incastrato in un monolocale, però zona centro. Mi pagava in nero, cercava di guadagnare sempre di più. I clienti lo temevano, era come Mussolini. Camicia attillata con le iniziali e autista. Mi aveva adottato, perché mi vedeva straccione come le Olgettine. Mi regalava le sue giacche. Salutista di ferro, Berlusconiano della prima ora. Era il ’94, ci fu l’insediamento con la libreria alle spalle. Ci offriva sempre da bere. Avevo fatto un patto col barista di aggiungere la vodka alla spremuta. Abbiamo brindato, odiava i comunisti. Stavo zitto, mi interessavano i soldi alla fine del mese. Mi ha insegnato che se un salume si spela con due dita è una schifezza. Ma se ne fai una comodità, la gente lo compra. Se mi davano lo sponsor da disoccupato, avrei creato una notizia attorno a me, attirando gli altri media, così da potermi rivendere ad altre marche e magari a certe trasmissioni tv. E così inizi a guadagnare qualcosa, senza andare in ufficio. Le aziende produttrici richiedono personaggi in grado di veicolare attenzione, comprovata dai Like, da moltitudini di share, dall’interesse suscitato dalle loro vicende. Ma quelli hanno preferito ignorarmi.
02. Si parte
i imbottiti, lungo i corridoi di Malpensa. Mi piacciono le sveglie al collo, i neri riempiono i loro video di fighe. I Nirvana sono pallidi, detestano i Guns’n’Roses, perché troppo superficiali. Raggiungo un gruppo di russi acrilici, coi sacchetti della spesa. Niente ricchi dorati e puttane. Neanche l’odore di cavolo, in questo gate Aeroflot. Solo grandi mascelle e qualche caucasico, li riconosco perché somigliano a me. Recentemente le loro bancarelle sono stare prese di mira dai nazionalisti, dopo che nelle vicinanze è stato ucciso un ragazzo russo che proteggeva la fidanzata. È stato un caucasico. Tanti di loro si allearono coi nazisti, perché Stalin, nonostante fosse georgiano, li deportava. Hanno i coltelli, ma non si può generalizzare. C’è quel video in cui dei guerriglieri daghestani sgozzano dei coscritti russi. Codici tribali contro uno stato che si fa rispettare. La diatriba è in atto da secoli. Il nuotatore olimpico Popov venne ferito da un venditore d’angurie ceceno. Anche le guide invitano a non farmi notare, anche perché ho i loro tratti somatici. Ho già sharato la foto avvolto dagli sponsor, supererò i centocinquanta Like. Jerry Lee Lewis spara oltre i cancelli di Graceland e grida di essere il re. Vengo fermato da una donna in uniforme, Ilsa la belva dell’Aeroflot, bionda come Ivana Drago. Mi deride per i Moon Boot. A Mosca ci sono 18 gradi. Mi ispiro a Totò e Peppino. Lo stemma dell’Aeroflot è un martello incrociato ad ali dorate. Sto sudando, Limonov dice che gli italiani non si lavano. Il mio trolley fa rumore. Ha perso una ruota. Apparteneva a un amico e sostenitore, Antonio, che voleva disfarsene. È una metafora che mi riguarda. Allo sportello vogliono sapere se vado in Russia per lavoro. Si, in un certo senso, sono ricoperto di marche e produco Like. Rendo un servizio alla comunità, una forma di Pil. Ieri ho ricevuto altre accuse. Sono stato paragonato a Mastrota, per i suoi monologhi sulle pentole. Una volta l’ho pure difeso. Lo criticavano perché si fece rubare la compagna dal fratello di Berlusconi. Sono sudato fradicio, non potrei entrare a casa Putin. Faceva schifo anche a me
lo sporco. Ma poi mi tuffavo nei bidoni della spazzatura per vincere a Nascondino. Spiavo dalle fessure, mi piaceva che tutto fosse sospeso per la mia scomparsa, mi cercavano. C’è bisogno di un affetto supplementare, è la spinta alla nuova famiglia. Mio figlio ipotetico avrebbe fame, mentre sto qui a vantarmi delle griffe donate dagli sponsor. Nella Russia sovietica non avrei diritto al pane; dovevi lavorare per ricambiare lo Stato che ti dava tutto. Mi sto comportando da parassita, come mi disse una ex-collega. Ma alcuni, proprio quando sembrano sconfitti, riescono a venire fuori, devo crederci. Chi realizza i propri sogni, spesso travolge la felicità altrui, ma ci sono anche i buoni che faticano di più. Bisogna essere forti e non adeguarsi. Devo solo pensare al o dopo, il presente dipende da ciò sto facendo per il domani. Sergio Endrigo mi emozionava, per quella sua casa senza pavimenti. Chissà cosa mi avrebbe consigliato. Anche Fabri Fibra, che lui è pure sponsorizzato dalle tre strisce. L’ego dei rapper viene rimarcato a gesti e parole. Chiunque si guardi allo specchio è mio amico spirituale, pure Eminem. Anche io mi ero decolorato i capelli. Ma per non confondere mia madre, che già dava segni di un peggioramento cognitivo, mi spalmavo sulla testa un pastone scuro. Lo facevo solo per lei. Credo di essere una brava persona anche io.
03. Volare
Mi piace guardare dal finestrino il paesaggio che cambia a rallentatore. Non ci accorgiamo di cosa stiamo diventando. Ci descriviamo attraverso i difetti altrui. Se un volo piombasse tra le catene appenniniche, i sopravvissuti non riuscirebbero a scomparire dalla civiltà. Per prepararmi a questo paese così diverso, sono andato al ristorante russo di Milano. In quel posto agli uomini danno il bicchiere più grande che alle donne. Russi ricchi di petrolio e gas. L’Italia è nel G8 perché esporta tanta Nutella. Loro hanno la valigia coi soldi, comprano gli Airbus più spaziosi. Forse dei posti in meno, la compagnia può permettersi di non guadagnare. Ma in Russia ci sono ancora troppi poveri: io che ne so di economia e libertà. Lo sguardo gelido del capo, Putin mi delude che si fa il botulino. Quelle tre lettere K-G-B che fanno così tanta paura. È anche colpa del cinema, i russi sono sempre i cattivi. Ridatemi il muro: scambio spie a provvigione, con prospettive di ottimi guadagni. Potrei acquistare un Tupoleev in disuso. E poi staccargli le ali e allestire un locale alternativo. Farebbe successo. Ho un grande potenziale. Ma devi avere un finanziamento. Per sezionare l’alluminio della carlinga hai bisogno di risorse, un’impresa che offra il servizio. Devo pensare in grande, dare un taglio alle perdite di tempo. Non bisogna far vincere la paura, la voglia di penitenza. Madonna mi invita a combattere, secondo lei bisogna farsi male, per arrivare al bene. Metafore che ancora devo cogliere. Il futuro è sul pannello che indica la rotta. Ho tanto bisogno di arrivare a qualcosa. Mi si inumidiscono gli occhi. Ora dipende tutto da me, 19 di fronte ad oltre 100 persone, l’ultima grande opportunità. Perché se perdi la loro fiducia, ti farà male per sempre. Devo credere a ciò che sto diventando.
Tutto lo sperma versato in questi anni così a vuoto, nella sensazione di aver capito, di essere integrati ai tempi, adeguandosi a giornate sempre più uguali. L’hanno già detto che il viaggio è solo dentro di noi. Manica in tessuto tecnico anti-lacrimale. Voglio essere ricordato come uno che puntava a un assoluto. Chi si scontra coi draghi, per forza viene amato. Questo è l’ultimo volo possibile, ho superato da tempo il punto di non ritorno. C’è gente che ha vent’anni meno di me e sa già cosa fare. Lacrime perché voglio tornare in vita, dopo tanti fallimenti. Anche se ti sforzi di non vederli come tali e cerchi di reagire, ti inseguono. La pace sgorga dagli occhi, voglio bene al mondo che mi circonda, là fuori dal finestrino. La giacca tecnica sopra le gambe. I vestiti umidi gelano sulla pelle. Succede nelle palestre, nei luoghi moderni del fitness in cui ho ambientato il mio primo romanzo, quando credevo che certe recensioni significassero poter vivere di libri. Stavo ancora in quell’ufficio. Un pomeriggio sono uscito prima del solito e c’era il sole e tante ragazze in giro e allora ho telefonato a un po’ di troie. Volevo evadere, quel sole su Milano mi portava a Las Vegas. Ho già visto la Russia a Genova. avo dal porto, quando attraccava l’Ivan Franco, la grande nave da crociera sovietica. Era prassi che s’imbarcassero eggeri italiani di fede comunista. Potevi prenotare alla Festa dell’Unità. Il biglietto si pagava in dollari, cifre economiche per unire l’ideale al dilettevole. Il Soviet era circondato, stava crollando. I marinai vestiti male vagavano nei vicoli. Animavano il baratto, offrivano gli ultimi scampoli della loro quotidianità sovietica: cappelli di pelo e distintivi con falce e martello. Ogni anno lo smercio si allargava. C’erano anche binocoli notturni e bussole col cucchiaio. Aumentava anche la presenza dei tossici nostrani. Incomprensibile per quei ragazzi smunti che i loro coetanei occidentali si fero così male: si vede che qua da noi nessuno ti aiuta. Ho volato per la prima volta a 31 anni. Al decollo ero in erezione. Vedevo le cifre crescere. Quasi i 300 all’ora, il mio massimo assoluto. All’improvviso la eggera accanto mi tende la mano e gliela stringo. L’ho assecondata. Rimaneva duro, ma non per lei. Quella aveva paura. Ho agito come un uomo dei film, per alleviare la nevrosi che vedevo come qualcosa di femminile. Quindi ero più forte di lei. Gli anni 90 offrivano migliori sovrastrutture. Il lavoro mi dava un ruolo che mi permetteva un mese di vacanza. Quella era solo un cesso. Dividevo ancora in scopabili o meno. Sei crudele, quando il tuo sole è in ascesa. Ma sono cambiato, per me le donne adesso sono solo degli esseri umani.
Anche nel mio volo per Mosca, la eggera accanto mi ha chiesto un favore: se potevo scambiare il mio posto col marito. Entrambi mi hanno aspettato all’uscita dell’aereo, per rendermi la cortesia. Mi hanno accompagnato alla navetta diretta in centro e prestato il cellulare. Questa è la Russia che inizia da subito a sorprendermi. La favola vissuta alleggerisce le notizie orrende. Prima di congedarmi dalla coppietta, ho raccontato dell’operazione. Pensavano che fossi famoso, visto che i miei lettori mi pagano. Ci vuole poco a diventare petulanti. Sembravano così contenti di questo incontro culturale.
Disperso in Russia
1. Al Bano
Arrivo dall’Italia che canta belle canzoni. Cerco di farlo capire col mio sorriso, ispirato alla faccia di Al Bano sulla mia maglietta. L’ho provato allo specchio, perché sono un’operazione di comunicazione. Al Bano l’ho sempre schernito, anche tutta quella musica italiana. Ci si allontana dalla nazione popolare, per sentirsi riferiti al moderno e intelligenti. Non sono mai riuscito ad essere ascoltato dalle ragazze più semplici. Non mi consideravano, erano all’antica. Preferivano quelli coi piedi per terra, ci potevano fare figli. Io non riesco a emanare concretezza. Anche Al Bano è stato accusato dagli alternativi, perché in un concerto a Mosca, non si è schierato con Greenpeace. Se sei un re, ti costruisci il castello dove ti pare, nella Puglia più incontaminata. Lo dice la legge, a te resta la bella petizione online. Al Bano free the Pussy Power: un altro lapsus. In aereo pensavo a come denominare il file russo, ma ai primi nomi sono stati involontariamente negativi. In Russia voglio perdere anche questa inquietudine. La strafottenza di Al Bano è con me. Sulla maglietta ho anche stampato la scritta “Felicità”, parola conosciutissima da queste parti. Piove, ragazzi in finta pelle escono dalla metropolitana. Mostra Al Bano, come Superman, sei un italiano con la chitarra in mano. Accolto dalle pareti opera d’arte, di cui ho sempre sentito parlare. Vagine in ceramica attraversano le antiche necropoli. Sono a Mosca e questo è il mio lavoro. Faccio il viaggiatore e ne scrivo per gli altri. Non posso tornare indietro, non aggiorno un curriculum da anni. Me le sto cercando. Più di 100 persone vedono cosa succede, quando molli tutto. Vita mia, morte tua, start up, creare illusioni ed emozioni. Inghiottito dai tunnel. Chiedo informazioni al vuoto. La gente sfila veloce, diretta all’ora di cena. Qualcuno mi afferra dal collo. È un addetto dell’ente sotterraneo, basso e dalla pelle olivastra. Dopobarba che sa di acquaragia. M’ha sorpreso. Mi tira giù per dirmi qualcosa. Ripeto la mia fermata più volte e mi indica la salvezza. Sicuramente un caucasico, feccia per tanti russi, ma è solo
statistica. Quell’uomo mi abbraccia, m’ha stretto istintivamente a sé per salvarmi dai flutti. Le mani segnate, tatuaggi da galera o guerra afgana. La spontaneità di chi non pensa, mentre agisce. Lo zoccolo duro della bontà proviene dai contesti più difficili. Alcuni nascono senza poter disegnare il loro mondo e neanche riportarne la verità. Chi sta sotto comprende cosa stia succedendo di aberrante, ma non viene ascoltato, se non per essere strumentalizzato. La mia giacca arancione Dolomite vuol dire vita comoda e ben remunerata. Quell’uomo tanto generoso è uscito dal gabbiotto per spiegarmi a voce alta. L’asse dell’amore ti sorprende, anche in metropolitana. Non lo rivedrò mai più, sicuramente un padre. Non immagina cosa mi abbia regalato quel suo abbraccio. Qualcuno viola le regole e ti mostra che la strada più breve, non ha bisogno delle parole. La fermata si chiama Тверская, che in lettere comprensibili è Tverskaya. Lenin voleva adottare i caratteri latini, per espandere la rivoluzione agli operai di tutto il mondo. Gli ideali nascono sulla carta, partoriti da gente non in grado di affrontare la realtà. Scorro i volti dei anti, mascelle che masticano pietre e mettono al mondo modelle, gente che scherza poco. Cerco l’ostello. Ne ho scelto uno a 15 euro a notte, camerone da 10 persone. La scomodità è necessaria, voglio superare in realismo gli eroi tv di DMax. Qui nessun spettacolo, solo il grigio che accomuna gli esseri viventi, nasciamo e poi moriamo. Scambio gesti e parole. Se dici “Stop”, ti capiscono anche nel Borneo. Da bambino ero tra gli obiettivi del sistema missilistico difensivo di questa città. Gli anziani non sanno l’inglese. Anche la toponomastica è diversa. I numeri non indicano i civici, ma piuttosto interi blocchi. Impossibile attraversare la carreggiata. Otto corsie, devi servirti dei sottoaggi. La DDR era il paese socialista più affidabile e agguerrito del Comecon. Ma l’inno nazionale ipotizzava una società di pace. In seguito Honecker ne fece bandire il testo. Uno strumentale avrebbe caratterizzato le gare di nuoto femminile. Guardavamo quelle ragazze con le spalle troppo larghe, melanconiche, nonostante la medaglia. Prussia e Russia; Cortina di Ferro e Cortina D’Ampezzo; donne ricche e mogli di dirigenti non ancora licenziati. Indossano Moon Boot e pellicce ecologiche perché hanno studiato. Nella crisi la salvezza, abbiamo intaccato la percezione del benessere. Un’altra coppia. Lei evita lo sguardo, quella timidezza che sembra un regalo. Il suo ragazzo è più deciso. Figli di quei genitori che ascoltavano Al Bano. Sono
stati sedotti dall’odore del pane. Ho la faccia da pizzaiolo, assomiglio alla star sulla mia maglietta. Altri anti si fermano per aiutarmi. Succederebbe anche in Italia, ovunque nel mondo. Le nazioni non esistono, c’è solo la gente. Mi trovano l’ostello. Vengo aiutato anche al citofono, dicono che sono un “italianski”.
2. Il sommergibile russo
La capa dell’ostello è alta e magra. Il grembiule da cucina bianco la fascia come una supposta. Mi indica un angolo in cui lasciare le scarpe. In mezzo ad altre allineate, come nel comunismo. Le mostro gli autografi dei miei sostenitori. Le spiego che vengo mandato, che qui dentro scriverò un libro sull’esperienza e quindi anche lei e il suo castello potranno essere protagonisti. Sbucano gli altri ospiti dell’ostello. È ufficiale, qui niente turisti, solo russi da altre città. Le mie scarpe limousine occupano molto spazio tra quei mocassini infangati. Dalla porta a vetro della cucina, ombre, voci e il ritmo a stoviglie e una nuvola di prugne bollite e anche vegetali. Devo firmare la ricevuta, sono in calzini. Rigore spartachista, mobili dell’era sovietica e statuette votive, delle cartoline in cirillico appiccicate alle pareti verde pisello e una chitarra. Di nuovo quell’aggettivo: italianski. Si intravvede una stanza stretta e in penombra, dormiremo tutti nella stessa cella. Lilin ha reso pop la percezione del mondo slavo. Dovrò adottare uno slang. Un lottatore di free-fight italiano si fa chiamare il Legionario. Se mi danno del mafioso vuol dire rispetto. Fai vedere chi sei, tieni alta la linea di demarcazione. Stai tra gente che ha ereditato l’abitudine alla kommunalka, più famiglie nella stessa abitazione ata dallo stato. Mica potevi litigare per l’ascensore e altre vanità dei nostri caseggiati funzionali. Il vicino che abitava nell’appartamento più piccolo dell’intero palazzo era stato schedato, come se la sua abitazione fosse minore, un’opera menomata di architettura condominiale. Avevo intuito quel neo. Ascoltavo i pettegolezzi e li interpretavo come le figurine. Le auto utilitarie intanto si accumulavano nei parcheggi riservati, per ribadire il proprio blasone. Si arrivò a possederne tre, accoppiate di 500 e qualche altra Fiat marcita, ma berlina. Qui invece si inculcava la modestia: Zaz, cartoni animati educativi, bambolotti
ordinati e cori costruttivi. L’Uomo della Sabbia, così smunto e dimesso, rispetto ai corrispettivi dell’Ovest così cromati e felici. Quegli ostelli di design che trovi a Berlino, funzionali, moderni, in reception c’è la musica elettronica. Lì tutti parlano bene inglese, nord-Europa così esemplare e che piace a chi narra di paesi avanzati. Lì ogni cosa sa di moderno e buona colazione continentale. C’è il marchietto gay-friendly, così ti senti implementato, perché l’apertura ti rende modello avanzato e annacqui la tua inettitudine. Siamo tutti frocio-friendly. Me li ricordo i primi immigrati di colore a Genova. Erano cool perché andava il rap militante degli universitari. Ragazzi africani che si travestivano da star americane, il gansta-bandana dei pronipoti degli schiavi. E così tu avevi il siparietto per dimostrare, in un’epoca senza internet, che eri amico delle minoranze e anche delle Pussy Riot. Li abbracciavano in pubblico, con slang e saluti africani, sbattuti in faccia a chi assisteva a quella scena che sapeva di cosmopoli del futuro. Un’acrobazia simbolica, ci si ribellava alla grettezza tradizionale che ci aveva cresciuti. Si utilizzava la buonafede degli africani e poi, tornati a casa, si poteva di nuovo aderire alla propria vita confortevole. La capa dell’ostello mi ha chiesto il conguaglio in Euro. Il cognome sulla mail di conferma suonava come spagnolo. È quello del suo compagno, un cubano che mi ha presentato. Nato all’Avana, ma di madre russa. Tratti latini, corrotti dai pochi cespugli biondi rimasti. Strimpella la chitarra su un nastro di Paco De Lucia. Lei mi offre una frittella coi cetrioli. Entro nel camerone più economico, l’intestino stagno di un sommergibile. Buio e luci smorzate rimbalzano sul linoleum. I prigionieri del Kursk erano incastrati nei loro letti a castello. Parole da una lettera degli agonizzanti: “Nessuno di noi può risalire, sto scrivendo al buio”. Quel rispetto per il destino così assurdo per me, che vivo in pace. Certa rassegnazione è anche superiorità, a noi manca lo spirito collettivo. Nei kolkoz si lavora 12 ore al giorno. La Russia è un banco di prova, dagli Zar alla natura, una lastra ghiacciata da cui trarre sopravvivenza. La visione del futuro fiorisce dal cuore. Ci si accampava sulle rive dei fiumi, perché lì c’è la vita e poi nascevano le città. Mi tocca uno dei letti a piano terra. Fantasmi penzolano dai giacigli a castello, recinti per ogni singola privacy. Schiere di giacche appese come divisorio. Il mio giaccone arancione si nota in mezzo ai loro. Beige, grigio, nessun colore, tagli che evocano i nostri lussi patinati. Dalle teorie antropologiche sul culto dei cargo: popoli indigeni che ricostruiscono con tronchi e rami quegli aerei degli aiuti umanitari, ormai volati via.
È calda l’aria attorno, ridigerita fra dieci persone. Il bue e l’asino scaldavano il neonato che cambierà la storia dell’uomo. Immersione, il viaggio giallo dei Beatles. Ma il lubrificante non basta, la mia valigia a tre ruote si è incastrata per i troppi zaini sul pavimento. Difficile manovrare, impreco giovialmente in inglese, per essere capito. L’equipaggio si volta. Quasi tutti coi computer accesi, appoggiati sulle gambe, dodici posti in realtà. Accanto alla mia postazione, una ragazza dalla pelle siriana. Ha una maglia della marca con le tre strisce. Prima di entrare, ho messo al sicuro gli oggetti che fanno gola. Così ti fanno ragionare i capi del mondo: devi difendere il tuo stile di vita. Arriva un ragazzo alto e appende la giacca al letto sopra di me. La discrezione è un dono. Ognuno ha dei limiti pregressi, te ne accorgi quando mancano i riferimenti della tua quotidianità. La sicurezza è ottusità. Paracadutato in un ostello, tra gente modesta che non conosco. Il classismo è istintivo, ragioniamo a tribù, se sei ricco non stai qui. Mio padre non era un oligarca, ma avevo il necessario. Mi faceva sentire fortunato e anche ingrato, ma era per stimolarmi a darmi da fare. Se ti senti in colpa, non sarai mai contento. Questo è il segreto, per coltivare ambizioni e invidiare i campioni. Mio padre non aveva avuto niente e ci teneva che studiassi. Ho anche provato l’università controvoglia per un anno. Non stavo attento e quindi, grazie a una sua raccomandazione, sono entrato in un magazzino. Lui invece era stato un navigante, orgoglioso della sua carriera. All’epoca contavano ancora le mani sporche. Ci teneva a farmi capire che si era fatto da solo. Amava così tanto le navi. Da piccolo ci giocava, le disegnava sui cassetti sotto il tavolo. Li apriva e chiudeva per dar loro movimento. L’ingegner Tupoleev è sepolto in una tomba a forma di aereo, anche lui li ricreava di carta. Era consapevole che i fornitori gli leccassero il culo. Si fanno favori, per ottenerne altri. Pure io mi concedo a chi mi può aiutare a realizzare dei progetti: sei fornitore, perché fornisci un servizio che non è indispensabile. C’era freddo in quel magazzino. Indossavo i doppi pantaloni. Ero stato imposto e quindi tolleravo le insinuazioni che il capo faceva di fronte a tutti. Era un amico di De André. Parlava di pompini coi miei colleghi e mi escludeva. Per lui esistevano le donne la davano, come fossimo negli anni 70. Un mio amico già andava coi travoni. Un altro l’aveva preso nel culo per provare, anche se era
muratore. Lui invece mi teneva fuori dai discorsi sulla fica. Ero giovane. I colleghi mi sembravano degli sfigati, per quei discorsi sulle femmine dalle bocche grandi. C’erano tanti giornali porno nei cassetti che non potevo toccare. Scaricavo fatture tutto il giorno e non dovevo pensare a nient’altro. Mi ero anche adattato a quel livello di comodità. Accusi la routine, solo se puoi permettertelo. Poi scopro che a Milano c’erano i lavori moderni. Un amico di Genova viveva lassù. Mi diceva che andava a lavorare alle 10 e che selezionava le modelle, probabilmente tante russe. La sua favola post-moderna, per lui era reale e anche per me. Sono i dettagli che creano i sogni, come quando i ragazzi dall’Albania credevano alle vite dorate della tv e si immolavano. Annegavano e ci riprovavano. La storia dell’uomo è uno spostamento perenne di masse insoddisfatte. L’inferno è dietro l’angolo e pure il paradiso. Ora all’ostello, l’aria sa di cavoli. Delle volte te li immagini gli odori. Se ti concentri sui sostantivi principali, capisci qualcosa. Qualcuno nominato di nuovo l’italianski. Per discrezione, fossi russo, avrei utilizzato una metafora geografica. Si può alludere al popolo del sud. Però il tono delle voci è ospitale. Sarà la stanchezza. Di nuovo gli occhi umidi per un invito inaspettato. Si è avvicinato un compagno d’ostello. Ha parlato in italiano. Si chiama Macs: “Vuoi mangiare, viene cucina”. Poteva succedere anche in Italia, pure a Milano. Tanti miei finanziatori arrivano da lì. Ciò che ci è familiare spesso sembra il male. Fa caldo in cucina, mi presento a tutti con riconoscenza, come nel medioevo, quando anche una ciotola ti poteva sfamare. Felicità è un invito inaspettato, per un panino e un bicchiere di vino. Al Bano è sul mio petto. Stanno già mangiando. Il leader sembra essere il capellone, quel look da boscaiolo che guarda troppa tv. Ha la maglia dei Metallica. Faccio complimenti, non deve disturbarsi. Ma lui è veloce, perché cucinava nell’esercito. Un bossolo gli penzola al collo. Stalin diceva che i suoi soldati hanno più timore a ritirarsi che ad attaccare. Per il cuoco mimetico non è un problema cuocere qualcosa pure per me. Selvaggio come quando torni dalle esplosioni. Piacerebbe a quelle che vogliono farsi del male. L’aria dello slavo pazzo, tra danza classica, droghe obsolete e alcol puro, così potente l’aspetto mitologico, quando osservi l’universo Est.
Violo il mio tabù, infilo in bocca il maiale. Fa piacere non rispettare le regole. Provengo dall’Europa che ha il mignolo alzato. W gli omosessuali, che invece hanno combattuto per la loro verità. Ingurgito vita animale, non posso transigere dal rito dell’ospitalità. Da più di 15 anni evito la carne, non ho più gli enzimi per digerirla. Questa è la terra in cui devi dimostrare di essere un valoroso. Rappresento un corpo collettivo di più di 100 persone. Gli uomini e le donne occidentali da me rappresentati hanno il Ducotone nel sangue: devi pensare così, quando vieni sfidato. Capitato per caso in questo ostello così particolare e russo. Lo potrò raccontare a tutti. Gesticolo, straparlo. Dimentico tutto, anche le accuse di mia sorella: ha bisogno che mi senta in colpa, pure dopo la scomparsa di mio padre. Quell’uomo ci raccontava il mondo e parlava anche bene dei russi, pur non avendoli mai conosciuti. Sono qui per morire e rinascere. Voglio migliorare, abbandonare gli alibi. Mai più chiedere ai potenti. Vent’anni d’ufficio a ciucciare cazzi. Lo rinfaccio al vuoto che mi ha portato fin qui. La vita è mia. Un mondo migliore è possibile, se abbandoni i margini più sicuri. Il buonsenso mi avrebbe fatto scegliere un bed and breakfast spazioso e bianco, per poi interagire con degli spagnoli. Cerco la vera Russia. I ragazzi del Kursk sono morti in silenzio. Delle loro lettere così dimesse e dignitose dovrebbero farci un libro. Quelle vite non conoscevano le nostre possibilità. Uno dei ragazzi a tavola lavora in una macelleria, fa gesti con le mani come se tagliasse. Macs prende sopravvento. Parliamo italiano e gli altri non capiscono. Studia la nostra lingua da tre mesi, con una App. Vuole imparare anche dalle mie parole. Viene da Kazan, lavora anche da qui via web, per una banca. Se la cava, lo incoraggio. Parlo veloce, nei suoi occhi la nebbia. Diventiamo lingua mista inglese, italiano e russo maccheronico, basta aggiungere “ski”. È curioso dell’Italia e del sole. Il suo volto è segnato dalle occhiaie e dall’acne. L’odore di Topexan è arrivato in Russia, tanti anni dopo. Mi sento accolto. L’affetto è un’onda che avvolge. Mikhail, il traduttore, mi sta cercando su Facebook. Non lo conosco di persona, ci siamo scritti un po’ di volte. Mi chiede se ci vediamo, è in giro proprio da queste parti.
Prendo tempo, dovrò andarmene nel bel mezzo della cena. Mando giù altri bocconi. Entra uno dei ragazzi con cui ho già parlato nello stanzone, mentre guardava un documentario. Ha cercato inutilmente di spiegarmi di cosa si trattasse. Ma ho capito lo stesso che era sui Romanov e si è sorpreso. Quando entri in carcere, devi sempre chiedere permesso. C’è tanta dolcezza qui dentro. Per riconoscenza sarebbe meglio restare a tavola e poi lavare i piatti e condividere altre chiacchiere. Ma l’Occidente alla fine vince sempre, perché archivia i sentimenti. La vita non è guardare indietro. Le lacrime mi hanno fatto comodo, per provare a me stesso che so essere introspettivo. I più bravi impongono le proprie esigenze, sanno dire no. Lasciare una persona è difficile, forse i più onesti lo fanno meglio. C’è più rispetto, quando non consideri che potresti fare male. Mentire e protrarre l’insofferenza ruba il tempo a chi non se ne accorge. Abbandono la tavola, ho spiegato che ho un bel po’ di amici russi. Si definisce meglio il mio ruolo da star della scrittura. Prima ho chiesto al cuoco di guerra se è pericoloso fare il militare, se si rischia la Cecenia. Un modo indiretto per sapere se ci è stato. Ha detto che non ti ci mandano, se non sei volontario. Ho spiegato che la mia missione è documentare la Russia, oltre gli stereotipi. Sono uscito dalla cucina, ridendo. L’imbarazzo lo mandi giù. Nessuno ha detto niente. Quando ferisci, la gente buona sta in silenzio. Quest’ostello non è un albergo. Ma l’iniziazione prevede il distacco dalla famiglia. Ci si guarda negli occhi, si tende la mano. Offro loro comunque la possibilità di colpirmi, lascio in ostello gli oggetti incustoditi. Lo devo al destino, visto che mi hanno offerto il cibo. Usare la cassaforte, sarebbe come ripararsi dietro il kevlar antiproiettile. È una mossa insensata, secondo la guida. È così che mi sento migliore. I disperati che non hanno niente potranno sfamarsi. Lo zaino col pc è accanto al letto con gli altri miei averi tecnologici. È nel rischio che costruisci il rispetto.
3. La mia prima missione
Mikhail fa il traduttore. Ha cultura, è un ragazzo internazionale. Ha sempre ascoltato il rock, ci tiene a dirmelo. Si è dimostrato gentile. Mi ha introdotto la città, a partire dalla statua di Pushkin su una piazza, tradizionale luogo d’appuntamento. Tutto perfetto, una vetrina per i liberi visitatori nel paese di Putin. Parecchi poliziotti, il colbacco tirato su. Se spacchi una bottiglia sul marciapiede rischi grosso. In un’intervista Vasco Brondi accusava i borghesi che si lamentano per i cocci. Ma io bucavo in bici e mi arrabbiavo con le minoranze. Poi mi accorgevo che erano anche gli italiani. È così semplice scatenare i pregiudizi. Mikhail mi ha anche portato dove stava l’antico laboratorio di Stanislavski. In una foto interpreta un Otello poco africano. Sono dovuto rientrare presto, perché la capa dell’ostello non aveva da parte le chiavi da lasciarmi. Ho controllato comunque lo zaino e dentro c’era tutto. Mohamed Alì diceva di non temere Foreman, perché un nero non ha paura di un altro nero. È notte, la capa dell’ostello m’ha consegnato il mio mazzo di chiavi. Ho scelto la missione più facile. Lo faccio per il morale della squadra, sarà come giocare con Malta. Così comincio bene. Devo verificare l’assenza dei cestini per immondizie nella piazza più famosa di Mosca. Rossa, per dire bella, come una ragazza dai capelli rossi. I miei vicini c’erano stati, grazie a una crociera sull’Ivan Franco. Un viaggio importante e memorabile. Anche il Cremlino, i grattacieli staliniani, gli hotel di stato, la statua del fondatore dell’Nkvd, Felix di ferro, che celebrava lo sforzo della polizia segreta, per proteggere i compagni cittadini da nemici, fannulloni e delinquenti. La retorica di Stato è una favola coi buoni e i cattivi. Mio padre temeva i comunisti. Aveva visto uccidere un ricco fascista, qualche giorno dopo la guerra. E poi negli anni 90 raccontava compiaciuto di quei ragazzi milanesi, componenti dell’orchestrina di bordo. Dettagli sul giovane principe di Arcore
che sembravano estratti dalle foto sui giornali. In un’altra crociera, aveva conosciuto Alberto Sordi che girava un film a bordo. Mio padre gli sistema le luci e lui lo ringrazia. Anche il maresciallo Tito che, pure nel suo caso, gli sarà riconoscente. Invece il pianista di quell’orchestrina risultava simpatico e gioviale, come da agiografia televisiva, ma niente di dettagliato. Il Rex naviga lungo la costiera romagnola, mentre quelli sulla barca attendono tutta la notte. La leggenda è nell’inibilità. Cammino lungo la Tverskaya. Questa strada venne allargata. Si spostavano interi palazzi. A Stalin avrei sempre detto di sì, i deboli sono i migliori delatori. Puoi comodamente soggiogarti. I nostri capi non sanno uccidere. Solo Putin e Netanyahu. Stalin ha avuto un’adolescenza pericolosa. La personalità la impari sulla tua pelle. Si ipotizza che nell’Antico Egitto vigesse una forma di socialismo perfetto, tutti lieti di sollevare macigni, per accedere all’eternità. Incrocio degli homeless, sdraiati nei sottoaggi. La mia missione è più importante. Su un cubo in marmo si staglia il generale Zhukov. Ci siamo, quello è il Cremlino, oltre il dislivello, lo scorcio che si vede in tutte le cartoline da Mosca. Cupole di marzapane, disassate e colorate. Altri poliziotti, pure in borghese. Una di queste notti dovrò appiccicare gli adesivi dei Giubbotti Straordinari. Assolutamente niente di sociale, ma la missione richiestami da un gruppo di ragazzi che raccolgono giubbotti appariscenti, come quelli di Al Bano. Chi si batte per i diritti nei paesi lontani, spesso lo fa per se stesso. Nell’associazioni umanitarie, scartano quelli che vanno lì per salvare il mondo. Hanno bisogno di gente più cinica e fredda. Cerco le tracce di sangue. Ho la foto di quello si è inchiodato i coglioni sull’iPhone. Proprio qui, in questo punto della Piazza Rossa. Oltre le transenne presidiate, i mezzi busti dei presidenti e degli eroi. Anche Stalin, Breznev e Gagarin. Per lui ho scaricato una canzone di Baglioni. Ne parla trasognato, come un bambino degli anni 60. In quella strofa, Yuri guarda il pianeta dal finestrino. Gli porterò dei fiori, come mi è stato richiesto. Sono l’unico straniero. Tutto così tranquillo. Se non c’è pericolo, il pubblico si annoia. Faccio delle foto, i poliziotti non mi considerano. Limonov sostiene che si debbano vivere esistenze capaci di riempire decine di autobiografie. Niente secchi. Ci sono anche i cartelli. La spazzatura è vietata: sigarette, cibo e bibite. Tanto spazio e silenzio attorno e anche in cielo. Si ipotizza che dei
cosmonauti in difficoltà, siano stati abbandonati oltre la stratosfera. La luna riverbera sull’immensa distesa di pietra purpurea. Selciato compresso da tonnellate di cingoli nelle sfilate per la gloria della nazione. La mitologia tiene unito il popolo. Anche stasera in Italia si parlava degli Artic 30 di Green Peace. Non ho letto l’articolo, solo i titoli colmi di sdegno sopra ai volti carini di quei ragazzi, figli di famiglie più moderne della mia, possiedono la villa al mare. Qui c’è il freddo che non viene riportato sui tg. Le due del mattino, sharo sul web per raccontare e stimolare reazione Like-inclusive, perché se no, sono solo. Chissà quanti mi giudicano puerile. Il nostro paese cerca i colpevoli. Laggiù degli agenti della famigerata polizia stradale, quelli vanno a caccia di turisti sulle auto. Lilin racconta che nelle notti sovietiche non si poteva girare liberamente, perché il giorno dopo il lavoro era obbligatorio. Ma io sto producendo, pagato in anticipo dai lettori.
Mi sento a casa
1. C’è anche Vinnie Jones in questi giorni
C’è anche Vinnie Jones in Russia in questi giorni. La parte del cattivo in tanti film. Lui sì che è un esperto in se stesso. Io invece mi ritrovo una faccia troppo buona e banale. Ho fatto progressi. Ero davvero così timido. Ma Vinnie è ghiaccio e Putin, il gelo. Non ci sono speranze, per i miei occhi così tondi. Una ragazza vedeva in me la bontà che consideravo innocua, poco riproduttiva. Cerchiamo tutti l’emancipazione. Verremo dominati da psicologi sempre più ricchi. Vinnie Jones è un modello di carattere. Così ti immagini un uomo, mentre gli altri dormono. I pensieri non hanno consapevolezza. La faccia da pugni di Vinnie Jones. Qualche colpo l’ho preso anche io. Ma non così veri. Ho frequentato tardivamente una palestra di kickboxe, solo per l’autostima. Tricky invece è un ex-pugile vero, arriva dal ghetto. Avrei voluto essere anche come lui. Tricky dà forma canzone ai bronchi, nevrosi apparente, in assenza di sole, la direzione in cui vola la mia fenice. Colgo una superiorità concettuale. Lui è lo spirito, Vinnie l’apparenza, l’ipotesi della violenza. Quando ero più gonfio di pesi, avvertivo una certa deferenza nei miei confronti. Ma per un problema alla spalla, ho dovuto smettere. Ora nuoto tutti i giorni e continuo a dimagrire, circondato da cuffie a fiori di gomma. Mi tufferò anche nella piscina all’aperto di Mosca, sperando che nevichi. Da ragazzo ero in una squadra di pallanuoto. Ci allenavamo nella vasca scoperta. I miei mi ci mandavano, anche perché in giro c’era tanta eroina. Però mancavo dell’agonismo necessario. Se sgomitavo, chiedevo scusa. L’unica volta in cui venni espulso, ho evitato gli sguardi dei genitori del mio avversario. Vinnie Jones è in qualche campagna, sicuramente circondato dai rigori del clima, vitto e alloggio spartano, figlio di un montaggio di spettacolare realismo. I russi verranno raffigurati come bestie aggressive che lui dovrà superare, se no cambi canale e la tv perde audience e pubblicità. La produzione cura ogni dettaglio. Il mio ostello non va bene, perché c’è troppa bontà. Mesi fa ho fallito un provino alla tv dei format, sarà per la prossima volta. Diventerò network di me stesso. Vinnie guarda la telecamera, si rivolge a milioni di persone che da lui si aspettano l’espansione di una parte della sua personalità.
Ci vuole intelligenza, quando reciti. Anche io mi sono ripreso più volte con la Gopro e sto raccogliendo dei Like. Amore è anche quello stupido numerino. Che soddisfazione, per almeno dei secondi. E poi scorro i nomi dei miei sostenitori. Non sono un attivista, non sventolo bandiere gay e non mi inchiodo i coglioni. Mantengo l’umiltà necessaria al prosieguo del campionato. Piove sempre gelo, solidificato da quel vento che ha mietuto tante vittime nelle ritirata. L’apoteosi sarà a febbraio. Rigoni Stern è riuscito a sopravvivere ed è tornato. Qui il ato va considerato, lo Zar schiavizzava fino ai primi del ‘900. Un antico proverbio russo dice che se il sacco è vuoto, la prigione è sempre piena.
2. Il cerchio perfetto
A pochi minuti dall’ostello c’è la fermata della metropolitana. Ho imparato a districarmi. Per gli spostamenti, preventivo almeno un errore di fermata. Ho scaricato una App che me le indica in cirillico, anche se mi fa piacere chiedere informazioni ai anti. È umanità che incamero, per sentirmi comunicativo e un po’ speciale. È un modo per esprimermi, generare dialoghi e considerazioni. Ho una missione facile, ma che richiede tempo. Devo completare il giro dell’anello della metropolitana, scendendo a ogni fermata a documentare dettagli e stati d’animo. Li chiamo monologhi, è solo timidezza estesa a comizio solitario, un modo per aprirmi e scoprire ciò che ho in mente. L’idea che le mie parole, foto e clip destino una reazione a 3500 kilometri di distanza mi fa sentire al mondo. Sono i momenti più importanti che abbia mai vissuto ultimamente. Ci sto credendo, sono qui adesso. Il dopo non esiste perché niente finirà. Bisogna puntare al sole. Scendo, anche le spallate sono scambi e cenni di scusa. Stazioni da ammirare e immortalare, affreschi, rilievi, la storia del paese socialista ad epoche progressive. Ho anche incrociato degli skinhead. Lo sembravano, ma niente Doc Martens. Solo degli anfibi generici e capelli corti. In caso di attacco nazionalista, m’è stato consigliato di gridare che sono italianski. Dovrebbero darmi solo qualche colpo, in quanto non slavo: così mi è stato detto da un italiano che vive qui e si trova bene, ha pure la fidanzata che l’ha integrato alla società locale. In Italia non respirava, non si procurava le donne nude. L’ho incontrato a un circolo culturale italo-russo, il presidente è un certo Wladislav, amico di una sostenitrice che è stata in Russia e che parla la lingua. Un’altra missione espletata, anche se lui non era interessato al senso della mia corsa itinerante; ci è rimasto male che ieri non sono ritornato. Prima che iniziasse il raduno, hanno cantato l’inno d’Italia col karaoke. Io non l’ho mai imparato che pieno di sangue e patria, ma ho cercato di non deluderli, muovevo la bocca. Uno dei soci conosceva a memoria una canzone di Celentano. Un’intensa serata in un appartamento di era brezneviana. Wladislav ci ha sempre vissuto, l’ha dovuto riscattare col crollo del
regime. Tanta angusta dignità, con interruttori obsoleti, foto e stampe dall’Italia, pure Camillo, Peppone e Mussolini. Ho anche potuto ammirare il palazzone di fronte, risalente all’epoca Eltsin. Quella era già periferia vicino a Biryulevo, il quartiere dove sono scoppiati i disordini etnici, dopo l’omicidio del russo da parte di un caucasico. Sembrava tutto inerme e inanimato come a Novate, Affori, Settimo Torinese, Afragola, qualsiasi periferia che ho visto di sera. Quasi completato il giro. Alla fermata Bielorusskaya c’è il monumento agli eroi della Grande Guerra Patriottica. Un uomo e una donna armati guardano l’orizzonte in fiamme, lineamenti in marmo perfetti. Si tocca l’intimità delle persone, questi angeli hanno combattuto il male, sancito dalla storia, distruggendo e assassinando. È per questo che ora godo di un’esistenza moderna e invidiabile: nessuno mi perseguita, sono pure scuro, Hitler mi avrebbe internato. Ci ha pensato Stalin, che in quel momento faceva comodo ai buoni, lo hanno anche aiutato e armato. La storia è pure matematica, male e bene. Io discendo da questo confronto. I fatti diventano mito. Questi volti di marmo sembrano avere ragione. Il volto della ragazza è ispirato alla celebre cecchina bionda. Ai giorni nostri potrebbe lavorare nella moda. Si chiamava Roza Shanina, una mira infallibile. Più di cinquanta nemici freddati, compresi tanti cecchini rivali, un dettaglio che relativizza il sangue. La bellezza moderna di quel volto che ha conosciuto solo l’inferno. Roza morirà negli ultimi mesi del conflitto. In altre foto si gode il tempo libero con le sue compagne armate e uomini in divisa non ancora ubriachi. Quei loro sorrisi, consapevoli che il giorno dopo potrebbero essere a brandelli. Roza è figlia di contadini. Nata nell’estremo nord, meno trenta e vita senza sole. Accanto a Murmansk, la città più settentrionale del pianeta. Io e gli amici-sostenitori Gianluca, Simone, Alberto, Carlo e tanti altri dovevamo recarci laggiù per berci un caffè. Era questa la missione descritta ai rappresentanti di un importante marca di vetture. Altro tentativo di dare una svolta spettacolare alla mia etichetta di disoccupato. Siamo rockstar senza seguito, il boato del pubblico è il Like migliore che c’è. Ma ora sono qui a Mosca, in nome di ogni giorno sospeso e di tutti i sogni dimenticati.
3. Mama I’m a kriminal
L’Italia è in cielo, il sole mi abbaglia al risveglio, come nei testi di Al Bano. Questa mattina russa atipica. La stessa suoneria hip-hop di tutte le mattine. Si ripete, non la spengono mai subito. Mama I’m a kriminal. California, neri ormai ricchi, il ato difficile mitizzato per vendere dischi ai bianchi. Ma qui è tutto bianco e si soffre più che a Los Angeles, lo vedo anche dalle loro scarpe. Il peso è nel cielo così basso, ti schiaccia e ne risenti. Una natura poco spensierata, adatta all’esistenza di chi vuole espandere il malessere e girarci attorno. Questo è il compito del vero scrittore, senza volto e vestiti sponsorizzati. Appesantito dall’idea della morte, ogni attimo in cui potrebbe credere al futuro. Dostoevskij ucciso mille volte dallo Zar. Quando spiego la natura della mia permanenza a qualche russo, vengo accolto con serio interesse: se devi scrivere un libro, vuol dire che sei uno scrittore. Colgo un rispetto che deriva dalla considerazione che qui hanno per i grandi autori. Approfitto del loro riflesso su di me, ho delle missioni da compiere. Le persone troppo modeste cercano l’onnipotenza. Ormai racconto senza remore dei miei libri, come gli autori con le toppe al gomito dalla Bignardi. La suoneria hip hop continua. Mama I’m a kriminal. Ragazzi della via Paal coi catenoni, gang acerrime nemiche, Limousine a forma di Uzi. L’importante è spaccare, dissing, fraterna rivalità, egocentrismo di fuoco. I neri non eccellono nella mira e neanche nel nuoto. È una questione fisiologica. Le loro ossa pesano troppo e non primeggiano come nell’atletica. E poi il nuoto è appannaggio dei bianchi del college, dalle villette monofamiliari col giardino e il cane. Un pensiero ai ragazzi neri, ma anche ai bianchi più negri dei neri. Nati nelle borgate, sputi guardati male, violenti, disperati, razzisti, innocenti, buoni e avidi di quegli oggetti che la vita non vuole mai offrire. Il ramo coi frutti più buoni per alcuni sarà sempre più alto. Mama I’m a criminal, forse Kanye West o 50 Cents. Rimaniamo affascinati da questi poeti dorati, dietro i grattacieli. Tatuaggi fatti a incipit: o diventi ricco o muori. Ci si eccita per l’inferno patinato, anche il realismo alla messicana è una grande rappresentazione. La vita altrui, marginale e senza scampo, ma tanto spettacolare.
Mi sono alzato. Resto seduto sul letto che il cesso è occupato. Qui la temperatura è alta, indipendentemente dal sole. Ho addosso solo una canottiera a righe H&M, fabbricata dai bambini del Terzo Mondo che non potranno sperare neanche nei marinai della rivoluzione. Una della missioni prevede che io mi vesta da Fantozzi e che vada a gridare che il film “La corazzata Potemkin” è una cagata pazzesca, proprio di fronte alla tomba di Eisenstein. Ma se lui fosse mio padre non ci riuscirei. Utilizzo il ricambio che è in un sacchetto, qualche maglia e tre paia di mutande che lavo ogni volta, come fanno i miei compagni. Se aprissi la valigia, farei sfoggio della mia ricchezza. Cattocomunismo esisti, nel mio tentativo di essere accettato, di non creare scissioni, pulsioni negative, perché i poveri non si meritano qualcuno gli sbatta in faccia la propria ricchezza. Oggi è un giorno lavorativo. Mi devo sbrigare, perché vengo pagato e le missioni sono tante. I raggi del sole esplodono sui vetri. Indico il cielo e dico: “Sun”. Un russo va sul traduttore Google. Dai piani alti dei letti a castello qualcuno mormora “Besame mucho”. Evito di ridere, che se no acconsento. Forse stanno insinuando qualcosa. Da noi non c’è l’omofobia, ma non vuol dire che io ciuccio cazzi. Il bagno libero, mi alzo. Saluto la capa dell’ostello. Anche Macs è sveglio. Finalmente dentro, piscio e apro il rubinetto. Negli anni 70, Limonov ha vissuto anche a Roma, nella zona di Ostia, l’igiene era precaria. Nella sua Russia l’acqua te la davano gratis. Sentivo scorrere le docce da tutte le abitazioni, nelle domeniche infantili. Ho con me la cartelletta dei testi da cantare, almeno quattro richieste. Anche la piazza Rossa abbaglia. Ho letto che l’inclinazione dell’asse terrestre influenza il reverbero. Turisti più che altro russi, incuriosisti da un’installazione a forma di valigia Luis Vitton, creata apposta per fare schifo. La costernazione crea share. La tv ha reagito alla crisi, divulgando edonismo sempre più povero e accessibile e con tanta melodia. C’è un aneddoto su Toto Cotugno e l’origine del suo cavallo di battaglia. Lo cercavano in studio e risponde dal cesso: lasciatemi cagare. Celentano era già famoso. Lo chiamano Адриано. Noi italiani portiamo l’armonia, i valori semplici. Qui lo Stato disponeva di te, per difenderti dal male, da desideri materiali troppo personalizzati. Si era tutti uguali nel modello di auto difettosa che potevi possedere. Ci si doveva accontentare, si imponeva l’umiltà, c'era un’etica da osservare. Avrei sofferto, sono una persona piena di difetti. Non
mi piacciono i vestiti della gente sul tram, mi sono sempre ispirato a modelli lontani. Ieri mi sono fermato alla lapide in rilievo di Yekatrina Furtseva, la prima donna nel Politiburo. Vietò Beatles e Rolling Stones. Toto Cotugno canta anche in russo. Probabilmente Andropov, prima di legalizzare il Festival, ne avrà parlato ai familiari. Ora tocca a me vincere Sanremo. Il Cremlino è alle mie spalle. Sono un italiano vero. Ladies and gentlemen: Toto Cutugno, un nome ritmico, una rullata. Ecco il presidente con la pipa. Pertini ha cercato di salvare Alfredino, il bambino stritolato dalla malasorte. Tornavo a casa dalla piscina. Alfredino è stato considerato il primo fenomeno mediatico moderno. Un record di share, le pubblicità durante quelle dirette costavano di più. Alfredino, vittima inconsapevole, un santo che ha tenuto unito il paese per l’ultima volta. Anche se non ero un adulto chiedevo della sua situazione senza scompormi. Mi immedesimavo, a letto delle volte piangevo. Alfredino andava salvato, anche i marinai del Kursk. Le parole di Toto Cutugno scorrono dal mio labiale. Ho il colbacco, per essere più iconico. La gente mi nota, anche gli operai oltre la recinzione. La Gopro ha il led che lampeggia come il cuore. Non canto, recito con la pistola puntata, il cielo abbaglia sempre di più. Il testo si incastra e sbaglio il ritornello, ma lo show deve continuare. Improvviso, l’importante è parlare, aprirsi dal vivo. Tiro su la voce. Però mi piace la timidezza e l’idillio scenografico illuminato dal sole, forse merito di Toto Cotugno che è una brava persona. Chissà che emozione, quando ha scoperto che un continente lo ama e lo canta.
4. Taxi Driver
I tassisti di Mosca mangiano i turisti, se sei sbadato e ragionevole. Al volante un armeno, mi ha fatto pure l’inchino. Gli ho detto che Aznavour è un suo connazionale; così si fa coi russi e ha sempre funzionato. Ha scelto la musica di Trainspotting apposta per me, solo il pezzo house di Ice MC. Ma il film non l’ha visto. Come in una barzelletta, io sono il coglione. Se lo ripeto, divento davvero colpevole. Sicuro che nella guida c’era scritto di stare attenti. Ho agito da occidentale che qui non sai come va a finire: questo è un ragionamento da persona col gilet. Dovevo spaccargli i vetri. L’uomo che idealizzo se ne frega delle conseguenze, finisce in questura, si fa cacciare dalla Russia di merda. In uno scomparto c’erano anche le caramelle e la bottiglietta d’acqua, sembrava tutto gratis. Mi sono lasciato abbindolare dal servizio, senza sospettare nulla. Ho cercato di scendere, appena ho visto il cartello, ma lui non si fermava: Taxi dei Vip, con prezzi da paura. Io non sono uno importante, anche se devo crederci. Abbiamo gridato, lui in armeno. L’imbroglio è ingrediente dei paesi più artistici. Mi ha puntato il dito in faccia, come se mi sparasse. S’è fermato. Se scappavo, chiamava la polizia o mi faceva linciare. Non capisco la lingua e allora ho desistito. Potevo spaccargli anche la leva del cambio, urlare cose da mafioso, che la mia famiglia l’avrebbe fatto sparire, che sono parente di Al Bano. Invece ho pagato la cifra e intanto evocavo lo sterminio degli armeni da parte dei turchi. Ma dopo mi sono pentito. Ripenso alla giornata, protetto dal silenzio notturno. Tutti dormono qui all’ostello. Il primo imprevisto qui in Russia, dove tutto supera le più rosee aspettative. Un film perfetto, perché la gente con cui mi interfaccio mi guarda negli occhi. Qui esprimo ciò che vivo e sento, un punto di vista parziale e soggettivo. Stasera su Facebook mi hanno fatto notare che sono un turista, qui di aggio, e che quindi non posso cogliere i risvolti più amari e la violenza. Probabilmente pure io da spettatore lo penserei, soprattutto fossi più giovane. Ma non credo più agli scoop. La mia velleità è scrivere e cercare storie: sento che è l’unica cosa propositiva che posso offrire alla comunità e anche me stesso. Un azzardo, sono un insicuro. Credo che il mondo del mio giudizio geopolitico
non sappia che farsene. Sto solo cercando di vedere un paese col cuore. Mi commuovo spesso, a Milano non mi succede. Ciò che sono io in questo momento è il risultato di pensieri e azioni dettati da una cultura differente. Sono qui, i clip violenti attorno a me non esistono. Quando sto a Milano, non considero parte della mia vita le scene degli omicidi nei vicoli di Napoli. L’Italia è anche il bene, non solo orrore. Io non sono un cronista. Traspongo gli attimi moscoviti, i dialoghi rubati al bar, come quelle turiste che a Firenze schizzano le statue sui loro notes. Vivo nelle aspettative per le missioni. Non riesco a fare miei ideali pseudopolitici. Ho sempre seguito il conformismo di sinistra che a 16 anni ho concretizzato con un orecchino. La mia indignazione sarebbe disonesta, anche perché otterrei tanti Like sulla pelle altrui. Quelli degli Artic 30 sono stati liberati. Mi fa piacere per loro e le famiglie. Uno di quei ragazzi ha già dichiarato che è pronto a rifare tutto. Tanta enfasi anche sul loro sito, in stile suffragette 2.0. Le loro pettinature un po’ alla Artic Monkeys. Prima però c’è stato Paul Weller. Anche Putin aveva il look da mod. Nelle foto giovanili è biondo fluente, già glaciale campione di business e flessioni. Sono sicuro che però lui difenderebbe il suo paese, come non farebbero Renzi, Berlusconi e Vendola. Obama è un altro che si batterebbe. I nostri invece sono solo miliardari nei loro ruoli egemoni. Cerco persone basiche, voglio tornare all’inizio. Adesso si ascolta solo chi accusa. L’orologio fa rumore, un ticchettio di pietra. Dalla finestra della cucina il traffico è sempre vivo. Le auto infangate dei tassisti abusivi si fermano e cercano di caricare i anti. È rientrato uno dei miei compagni d’ostello. Macs m’ha detto che è un daghestano. Spesso si sveglia e va a scatarrare. Domani è tra poche ore. Dovrò cercare un fioraio, per gli omaggi richiesti. Dovrò donarne uno anche a Stalin, con molta discrezione. So che ci sono state tante vittime nelle famiglie russe, la memoria qui esiste ancora. Anche i nonni del serial-killer di Rostov vennero deportati e uccisi. Alcuni sostenitori sono online e mi invitano a dormire e io posso compiacermi, come una macchina al loro servizio. Oggi un altro incontro sorprendente: una ragazza ha invertito la direzione per guidarmi verso un incrocio lontano e poi se n’è andata. Tanta dolcezza portata con disinvoltura. Forse sono io il retrogrado.
5. Happy Days
C’è un Fonzie cirillico sulla vetrina. Incontro Viktor in un ristobar revival anni 50. La sua ione per il rockabilly nasce durante l’era sovietica. Un’attrazione nata dai film di Elvis e altre parole veloci che non capisco. Viktor parla bene l’inglese, ma ha una pronuncia distorta. È un rockabilly atipico. In genere loro sono per la tradizione, per i bovari, il petrolio, amano la bandiera sudista ed è il maschio che comanda. Lui invece è eco-solidale, ci tiene che i suoi vestiti vintage non siano fabbricati nel terzo mondo. Viktor però ha studiato nelle scuole sovietiche, il regime ti forma. I russi difendevano Cuba dalla Coca-Cola. Conosce la storia del suo paese. Mi ha detto che durante la rivoluzione non ci fu spargimento di sangue, solo durante la guerra civile. Ci tiene tanto allo stile. A Milano, ho cercato inutilmente i Levi’s del ‘37 che mi ha chiesto. Il negozio vintage è stato chiuso, l’Italia è troppo piccola per resistere alla crisi. Anche lui è stato per un po’ senza lavoro. Vado a pisciare. Attraverso un corridoio tappezzato da pin-up spensierate prima del Vietnam. Le ragazze bevono il milkshake, i loro fidanzati andarono in Afghanistan per aiutare: me l’ha detto Viktor, mostrandomi un tipo in maglia a righe sulla copertina di un libro esposto. Sono le risposte che cerco per intrappolare e dedurre, come fanno i cacciatori di scoop. Usciamo dal ristobar. Viktor difende lo Stato, l’idea della nazione. Scopro anche che è ato dall’Italia, per andare in Francia a un festival rockabilly. Ad agosto Milano è deserta e mi viene in mente l’eroina. Non mi ha capito, si è dichiarato contro le droghe, mi scuso. Si ferma a una vetrina di capi veramente americani e che costano il triplo. Ci tiene che i vestiti non siano fabbricati nel terzo mondo, ma per una questione di qualità. Vuole il massimo. Secondo lui, lo ottieni se ogni articolo è prodotto nel luogo d’origine, i popoli poveri non sono capaci: cuciono male, lì il difetto è la regola. Se i jeans non sono americani non ha senso. Ne aveva un paio turchi, ma le cuciture non andavano bene. Faccio una battuta sulla Turchia, sui kebab, ma lui non raccoglie. Anche la Russia produce vestiti decenti. Ma non i nostri sogni firmati. Levi’s, un cognome ebraico sul culo, nella terra dei pogrom. Viktor, così orgoglioso di essere russo.
Mi porta ai magazzini Gum, tutti i turisti ano da lì. Espongono auto da corsa staliniane, jeep sovietiche e moto Dnepr. Mi spiega che sono derivazioni da modelli occidentali, come lo stesso Kalashnikov. Viktor proviene da una famiglia agiata, è stato anche in America col padre. Ha i capelli impomatati all’indietro. Un’altra delle mie missioni: sapere quanta ribellione c’è nel tuo travestimento yankee. Ma non ci sono risposte. Per Viktor è solo stile, non certo uno scontro col sistema. La nostra ribellione sono i jeans strappati e le vetrine rotte. Qui c’è stata la rivoluzione. Viktor è per l’ordine. Indica degli ubriachi, si meraviglia che siano in questa zona centrale. Gli piace Putin perché almeno fa rispettare la legge. Viktor si batte per dei vestiti migliori, certe giacche giapponesi che si è comprato sono molto care. Quando fa il dj è uno dei più eleganti del locale. Quelli che negli anni 80 tornavano da Mosca, raccontavano che la gente del luogo era infelice per la mancanza dei jeans di marca e altre cose belle. Siccome a Milano non ho trovato i Levi’s che mi ha chiesto, gli ho portato un pensiero. Un capo denim Wrangler che ho ricevuto come gadget per un lavoro. È nella valigia in ostello. Riuscirò ad aprirla, senza sensi di colpa, una cosa alla volta. Viktor ama la moda, conosce ogni vetrina coi vestiti d’altri tempi, da epoche morte come il latino. Se il vintage dilaga, è anche colpa dei moderni. Quell’amico che ha scritto di avercela con gli hipster, con uno scrittore che va di moda a Milano. Credo che si riferisse proprio a me, anche se un tempo ci si vedeva. Ma le foto ricordo svaniscono. Le rughe disegnano quello che succederà, le estremità labiali delle persone arrabbiate s’increspano verso il basso per sempre. Non ci si deve infuriare per delle allusioni. Solo pensieri buoni e prosperità. Siamo creature di pace, anche perché vili. Il vintage riporta a giorni spensierati, a una gioventù mai vissuta. Il nuovovecchio è una chance catartica, imbocchi il bivio che un tempo hai ignorato per questioni di conformità. Viktor mi porta anche nel suo locale preferito. Ci sono altri ragazzi vestiti bene, come lui hanno viaggiato e frequentano club esclusivi. In quel mio primo volo aereo avevo anche conosciuto una ragazza australiana, bella e da mettere nel curriculum. Viveva a Londra, lavorava nel giro della moda. Ridevamo e bevevamo e, quando si rovescia della birra sulla gonna, per fare il simpatico, mi verso l’intera lattina sulle braghe, all’altezza del cazzo. Mi sono sentito rude come i ragazzi del suo paese, discendenti di ergastolani. L’ho incontrata per caso, qualche giorno dopo ed era in imbarazzo. Sono le lezioni, ti
insegnano a capire. Appena ti abbassi, alcune ti affossano. Quella tipa credeva alla sua immagine. Ero giovane e giudicavo. Ma quello è solo ato e non devo essere niente, oltre ciò che posso sembrare. Siamo tutti uguali, indipendentemente dai ruoli. Il classismo è insoddisfazione. Qui Viktor è a suo agio, tutto combacia in armonia. Ragazze e ragazzi eleganti e snelli. C’è pure una studentessa col cane di marca, avvolto in una mantellina dal taglio moderno. È gente perfetta, non si ubriaca. Alcuni di loro fanno parte di una gang di scooteristi che gira il paese. La cameriera non è cinese come credevo, ma un’asiatica da posti impronunciabili, già visitati guardando Overland. In quelle puntate il mondo era bello, pure quando attraversavi l’Afghanistan. I talebani sembravano solo tipi un po’ all’antica. All’epoca non avevo pregiudizi, non pensavo che puzzassero e lapidassero. Il razzismo è impotenza, bisogna ammettere il peggio del proprio animo e modellarne un angelo. Il fuoco non lo spegni, leggendo Bertrand Russell. Siamo animali da branco e la semplificazione porta ad intuire direzioni e ad avere meno dubbi.
6. Il cimitero dei monumenti caduti
Mikhail, il traduttore, è libero dal lavoro per almeno un’oretta. La sua serietà e abnegazione mi fanno pensare alla mia situazione; i miei soldi stanno finendo, il sussidio cesserà. Abito in un paese fortunato. Non ne parlo con nessuno. La mia situazione è frutto delle mie scelte. Devo andare avanti. Gli aerei quando stallano sembra che volino. Mikhail mi parla di arte, gli ho accennato del Quadrato Nero di un certo Malevic, anche se non ne so nulla, per metterlo a suo agio, per dare un senso più compiuto al nostro incontro, perché lui crede che io sia un artista professionista, tipo Cattelan. Mi compiaccio che lui possa vedere in me una persona sveglia e cinica. Avrei tanto bisogno di comprendere le regole del gioco che sto attuando sulla mia pelle. Mikhail parla bene di me a quelli del settore: sono uno che si fa pagare dai suoi lettori per viaggiare e scrivere. Vorrebbe organizzare una mia presentazione del progetto che mi manda a quel paese. Mikhail ha tanto rispetto per la cultura. Ma io sono solo improvvisazione, una forma di espressione, istinto sempre più confuso di sopravvivenza. Non ho un obiettivo preciso, oltre la performance e il riscontro in tempo reale. Qui ho sempre da fare e sharare e non mi interessa neanche denigrare, come spesso faccio nelle mie giornate milanesi per sentirmi migliore. Purtroppo il clima non lo consente, Mikhail voleva portarmi a pattinare con la sua figlioletta che è anche ballerina. Uno di questi giorni potrei chiedergli un favore, visto che quelli del Bolshoy ancora tergiversano. Magari la maestra di danza si presta a darmi una lezione. Si ride eccome quando un adulto sgraziato si cimenta nella levità, tra l’altro in mezzo ai bambini. Jerry Lewis ne ha coniato una tecnica recitativa. La movenza infantile in un mondo che sa già tutto. Esplosioni di vento sulla Moscova, umidità e nuvole di calce dai cantieri. Mikhail mi propone di visitare il Museo dei Monumenti ai Caduti. Non si paga per queste reliquie dall’epoca di marmo. Generali, politici, poliziotti, scrittori e poeti di stato. C’è uno Stalin dal naso mozzato, contaminato da un’esplosione gialla, perché alla fine dell’impero si festeggia. Non ci sono stati massacri e
vendette come in Jugoslavia e in un certo senso anche in Italia, dopo la guerra. C’è anche un Lenin a mandorla, arrivato dalle repubbliche asiatiche. Sono sempre poco partecipe ai musei. Mi distraggo e guardo la gente. Bisognerebbe riflettere sul fatto che i paesi, considerati più civili ed esempio di moderna democrazia, vantano i migliori musei sulle colonizzazioni e guerre di conquista. Sono attratto da quelle esposizioni, le trovi ovunque, nel mondo egemone e che si pettina meglio della Russia. Fossi un turista qui a Mosca, me ne andrei al museo della Grande Guerra Patriottica. L’uomo distrugge e ogni volta rinasce. La pace è un compromesso. A un aperitivo parlavano di Cefalonia, la bella isola delle vacanze, che per me è il mare ancora sporco di sangue. Ho cambiato discorso per rispetto. Non credo di avere ragione, contemplare la distruzione non porta a niente. Voglio diffondere l’amore, qualcosa che sia bello e possa stupire. Sulla guida della Galleria Tetryakov, c’è più gioia che dal vivo. Ho trovato la stanza dove espongono il Quadrato Nero di Malevic. Sto per svolgere la mia ennesima missione e quindi sto bene, ricevo un’attenzione che mi fa sentire importante. Devo essere sempre gentile con la vita e chiunque, come i russi fanno con me. Cerco qualcuno che mi riprenda di fronte al quadro, come richiesto da Paolo. Suona la batteria in quel Veneto denigrato come la Russia, additato a terra di contadini ignoranti, dediti al lavoro e a leghe localiste. Ma tanta nostra musica alternativa nasceva accanto alle loro basi Nato, un pezzo di storia che non ho mai vissuto, la Liguria confina con la Francia, un paese amico. Da bambino ero così attratto dalla linea Maginot, tutte quelle torrette sommerse, il dedalo protettivo, la camminata dei notabili che ne attestano l’inviolabilità. E poi le fiamme e le sirene in picchiata. Se l’Italia fosse la Germania, la Francia sarebbe stata annichilita. Distruggi Parigi, il bello che piace a tante ragazze. Meglio la nebbia, il freddo, il Veneto, ma forse il mio sostenitore è friulano. Non so nulla di quelle zone, a parte i mille luoghi comuni. La missione che m’ha richiesto consiste nello stare immobile per un minuto di fronte al Quadrato Nero, concentrarmi sulla potenza emanata dall’opera. E intanto visualizzare le installazioni del salone del Mobile di Milano e i ragazzi che corrono alle feste per l’alcol gratis, le poltrone di design, le cabine con le telecamere che ti riprendono e poi diventi parte di un pezzo artistico, spesso a forma di vagina.
La Gopro ha il fisheye, un punto di vita sferico. Il vuoto è blu e si riempie. L’ho appena ricaricata. La presa era accanto a un poliziotto. Gli ho chiesto se si poteva, ma solo per gentilezza: questo museo non è suo e io sono un visitatore. Volevo solo strappare qualche parola. Gli ho detto che la scritta “милиция” sulla pettorina da noi è “Polizia”. Era perplesso, le parole non contano. Solo l’energia che trasmetti. Volevo solo dimostrargli quando siano prevenuti i detrattori della Russia che mi sta trattando così bene. La ione deve crescere, ho affidato la Gopro a delle studentesse. Ho raccontato loro che raffiguro e metto in scena. Mi riprendono, sono serio e concentrato. Il filmato viene bene se riesci ad essere sincero. E poi shari. Dona ciò che ti piace, dovrebbe essere una cura. Sono ancora di fronte all’opera di Malevic, immerso su ciò che resta fuori da quel quadrato, la pretenziosità di certa arte contemporanea, così come richiesto dal mio sostenitore.
7. Chitarre tristi
Niente California. La suoneria “Mama I’m a kriminal” arriva direttamente da un casermone russo-caucasico. Su Shazam ho trovato il video e l’autore, un certo N1NT3NDO. Si vedono riformatori, guardie e imputati bambini. Non indossano tute griffate, hanno nasi spappolati. All’ostello scambio saluti ogni mattino, coi miei compagni di sommergibile. L’umanità che sto cercando, che mi porterò dentro per sempre. Alcuni mi hanno chiesto come mai non dormo mai. Ribadisco ogni volta che io scrivo, che lavoro come loro. Siamo rimasti che una sera si va a bere: così da eseguire un’altra delle mie missioni, quella del coma da vodka e cetrioli tipici. Il sostenitore che mi ha richiesto questa azione è un cultore di Limonov. Qui all’ostello c’è sempre la musica, canzoni che si rifanno ai nostri standard. Ma i due o tre ragazzi caucasici ascoltano brani popolari, con cori e intonazioni arabeggianti. Se no, c’è sempre qualcuno che suona la chitarra. Mi fermo spesso a riprendere quella melanconia. Anche io provai un corso di chitarra, ma sono stato scartato alle selezioni. Mio padre mi aveva tolto dal catechismo, perché mi veniva la pancia e così mi ritrovavo del tempo libero. Il maestro di chitarra mi ha misurato le mani col calibro, come si faceva coi crani. Io non sono ariano e neanche slavo. Mi ha detto di riprovare l’anno dopo, nella speranza di una mano più grande. Mentre uscivo dall’aula, ho visto una chitarra e ho schiacciato lo stesso quelle corde spesse, facendole suonare. Qui all’ostello, tutti si ano la stessa chitarra. Ora tocca a quello grosso dalla Bielorussia, dita grandi più del plettro, pettina quelle corde mal accordate. Niente aria trasalita da imitatore dei Pink Floyd. Strimpella con estrema dedizione. Sorride, ti invita a farlo, ad essere la gioia condivisa dalla sua canzone. Manda baci, perché s’è avvicinata la ragazza che dorme nel letto accanto al mio. Gli altri acclamano, forse sta andando bene. Insegue un pezzo su Youtube. Niente rapper da riformatorio, ma capelli lunghi, auto e alcune tipe scosciate che corteggiano i campioni. Quando l’ho incontrato al bar tavola calda sotto l’ostello, l’ho invitato al tavolino. Mi ha risposto in imbarazzo che alla sua
ragazza non andava di stare seduta con un estraneo. La chitarra è del cubano. Sparito da qualche giorno, assieme alla capa dell’ostello. Sono andati a Parigi. Ma non c’è niente da invidiare. Ho protetto i ragazzi, perché non possono permettersi di andarci. Ho raccontato lo scialbore di quella città vetrina, per certi versi simile a Mosca. A loro il Cremlino non piace. I turisti non vedono niente, solo esteriorità che rende spiegabile ogni area abitata del pianeta. Parigi è cemento come Mosca, Milano e New York. Sono le persone che fanno la differenza in ogni luogo. Ho fatto partire il video dell’angelo di Manhattan, Harold Hunter, il nero del film Kids. Nessuna obiezione sul colore della pelle e quindi non tutti i russi sono razzisti. Harold volava proprio sullo skate. Attraversa Broadway, supera scalini e ringhiere, James Brown è così molleggiato. Harold mostra il cazzo alla biondina, Cloe Sevigny ancora minorenne. Quei due adolescenti durano per sempre, la notte in cui scavalcano le reti della piscina comunale: la luna li accende e sono bellissimi, come la gioventù. Il rimpianto è di non essere mai stato così libero, anche nell’autodistruzione. Sono cresciuto con la maionese, ho studiato che poi trovi lavoro, ti sposi e muori che hai fatto le cose. Solo alcuni stravolgono la loro storia. Harold muore di overdose, sopraffatto dal successo. Negli ultimi video è sempre più gonfio e disperato. Quel bambino grasso che ho visto una mattina, durante una vacanza esotica. Osservava i figli di una copia moderna che facevano il bagno vestiti nella piscina dell’albergo. Quel bambino sovrappeso restava al tavolo dei genitori, sopraffatto dal cibo, dalla noia dei suoi bocconi automatici. Guardava i suoi coetanei liberi e fortunati. L’efficacia degli ormoni della crescita è direttamente proporzionale all’affetto ricevuto. Anche Macs si dà a scale crescenti che registra col telefonino e poi ci risuona sopra. Solo il cuoco di guerra cerca hit familiari, qualche riff dei Metallica. Dopo il servizio militare era riuscito a fare i soldi e poi li ha persi, me l’ha raccontato Macs. Comunque è stimato perché ha raggiunto l’apice. Macs dice che nel suo paese, se non sfidi il pericolo, non c’è soddisfazione. Anche lui insegue cifre con tanti zeri. Compra titoli online, mi ha mostrato una schermata di indici colorati. Sono investimenti selezionati e frazionati, questo è un momento ad alto rischio. Ha già raggiunto i dieci mila euro di capitale. È il suo turno per credere ai soldi. La salita gli spetta. C’è tanta vitalità nel suo sogno a parole, l’avidità è un diritto e scaturisce dall’inferno.
Sul suo iPhone di terza generazione c’è la foto di una festa dietro i palazzoni. Bottiglie galleggiano nei secchi d’acqua ghiacciata, una giornata estiva in riva al lago. Ragazze squadrate e uomini giganti, maglie beige, panini, salsicce e tanta birra, l’esorcismo per un dopo migliore. Spazio anche ai due o tre caucasici. Quando arpeggiano, accennano parole nella loro lingua. In Daghestan ci sono 97 nazionalità, me l’ha raccontato la capa dell’ostello. Anche lei è caucasica cecena, ma d’origine slava. È stata funzionario del partito; non rimpiange quegli anni e neppure gioisce del presente. La Gopro è puntata verso i due ragazzi dall’Asia. Immortalo l’armonia, le giugulari gonfiate dal canto. Ci stringiamo la mano, dopo la canzone.
Le missioni continuano
1. Gagarin e Stalin: missione fallita
Laika viene attratta col cibo. La imbragano, muove la coda. Ma la verità è dopo le fasi iniziali del lancio. I cani non urlano. È disperazione avvolta dalla combustione. Laika abbaia sempre di più, era sempre stata randagia. Qualcuno alla base piange, ma è un dettaglio per rivendere l’umanità del regime. Tante sue foto in questo museo che celebra le conquiste del cosmo. Controlli minuziosi allo scanner, anche agli zaini dei bambini biondi e non caucasici. Su una stampa, un gruppo di cosmonauti fraternamente abbracciati. Una certa ambiguità fra loro, ma qui i baffi significano uomo e nient’altro. In Russia il ’68 non c’è mai stato. Viktor mi ha detto che qui non c’è omofobia e che i locali migliori sono proprietà di gay famosi. Qualche giorno fa, ho anche chiesto a una ragazza che lavora al bar sotto l’ostello, perché ho notato i suoi tatuaggi alternativi e il piercing alle sopracciglia. Invece ho colto una sua perplessità legata alla riproduzione, perché con un omosessuale non costruisci una famiglia. E poi, secondo lei, gli uomini dovrebbero baciarsi a casa. Ascoltavo in silenzio. Mi ha anche detto che gli occidentali vedono i russi come cattivi. Ho cambiato discorso, per evitare polemiche personali. Ho solo riportato le perplessità della mia tribù, tipo gli ambasciatori che non portano pena. Tra i cosmonauti invece regna la libertà. Fluttuano oltre le tensioni, non hanno mai toccato il suolo lunare. Idealismo è roteare attorno all’obiettivo. Vengo fermato da una guardiana. Sì, proprio io, problemi per le foto. Scatta la modalità arresto, mi perquisisco da solo. Appena sale un controllore sul bus, mi sento colpevole, mi viene da confessare. Ma la volta che mi hanno catturato per davvero, mi sono comportato bene. I gendarmi si mi avevano arrestato per un equivoco tra campeggiatori. È il frangente in cui soccombi che ti denota umanamente. Non ho avuto paura, sapevo anche che in un paese amico non ti succede niente. Però quando mi urlavano contro, non mi sono scomposto. Mi tenevano ammanettato e agitavano i manganelli. Non ho mai subito il fascino della Francia, forse anche la loro lingua poco maschia. Mi meraviglio che siano bravi nel rugby. Quell’arresto mi è servito a are da eroe, perché prima stavo flirtando: c’era una mezza
competizione con gli amici in campeggio. Quando sono uscito dal commissariato quella mi aspettava, rappresentavo qualcosa che mi dava forza e nitidezza, un ruolo che non avevo mai avuto. La guardiana del museo si scusa, obbedisce agli ordini, tutto a posto perché ho il braccialetto giallo che mi autorizza a fotografare. Le chiedo del cosmonauta Komarov e degli altri che si sono perduti. Ma non mi capisce. Si è addolcita quando Superman è entrato in azione, ho mostrato la maglia di Al Bano sotto la giacca. Le spiego come fotografare col mio iPhone. Poso accanto a un manichino in tuta pressurizzata. I Moon Boot si diffo dopo la eggiata degli astronauti americani sulla luna. Questa foto è un tributo ai cosmonauti russi che invece ci si sono avvicinati per primi, senza raggiungere mai la meta. La lapide di Gagarin e quella di Stalin sono accessibili, solo uscendo dal mausoleo di Lenin, dove prima di entrare devi consegnare i cellulari e le macchine fotografiche, così ho letto sul web e mi è stato detto all’ostello: il flash potrebbero danneggiare quel corpo imbalsamato. Mio padre è rimasto molti giorni a casa, perché ero in viaggio e volevo vederlo. Appena sono entrato ho sentito quell’odore, mi torna spesso in mente, anche se non ho più l’età dei traumi. Il prossimo maschio della famiglia sarò io, sai solo questo, e poi non ho figli. Di notte mi sono alzato per andare in bagno e sono tornato a guardarlo e capisci che è andato, che puoi solo sperare nel tempo che ti resta. Non riuscivo a spegnere la luce, ho dormito in salotto. Temevo gli incubi, ne faccio troppi e lui non merita di comparire nella mia giungla mentale. Ha fatto tutto per noi, è così per ogni figlio. Ti senti automaticamente ingrato, perché quando le persone invecchiano, diventi insensibile. Una sera è caduto per colpa mia, che cercavo di aiutare mia madre. Ma ho fatto in tempo a riparargli la nuca con la mano e proteggerlo. Forse il mio gesto più nitido, per salvarlo dal baratro degli anni. Ho comprato tanti fiori le prime settimane dopo la sepoltura. Ma ora fatico ad andare al cimitero. Penso alla mia vita, pure lui ne sarebbe contento. Ci sto provando. Lui lo fece, mollò tutto per salire sulle navi, la sua ione. Io non ho potuto fare di meglio che un veliero tatuato sulla schiena. Quando gliel’ho fatto vedere, era già confuso e non capiva cosa fosse e mi ha sgridato perché gli mostravo il culo, come i bulicci. I conti li fai con te stesso, rimani da solo, senza continuazione. Sei solo le azioni che fai e le conseguenze che speri di generare.
----La fila per il mausoleo è iniziata ore fa. Lenin è stanco. Verrà seppellito prima o poi, anche se è un impulso turistico rilevante. Un uomo in divisa sta lì fermo, per questo chiedo a lui: scusi, dovrei porgere dei fiori a Gagarin e Stalin e poi fotografarmi. Niet, non posso, c’è pure un cartello. Non l’avevo visto: cellulari e macchine fotografiche sono da depositare. E per raggiungere le due tombe, bisogna davvero attraversare il Mausoleo. Ho pronunciato il nome di Stalin, senza troppo entusiasmo per non destare fastidio. Devo solo appoggiare un fiore sulla sua tomba, in nome dell’amico Fabio. Lui si mise in posa proprio lì davanti, per uno scatto, quand’era in luna di miele. Ma poi quella foto è scomparsa.
2. Abbraccio
In questi giorni Macs si ferma all’ostello per sostituire la capa, ancora a Parigi. Risponde alle telefonate e apre la porta, anche di notte per chi affitta la stanza ad ore, quando stai con una prima i al bar. Macs mi viene spesso a parlare, anche mentre scrivo. Se si sente di troppo scompare e poi lo vado a trovare nella stanza comune. Lui è quello che cerco di più. L’altra sera mi ha presentato il cugino che sta a Pietroburgo. Me ne aveva già parlato, definendolo “criminal”, proprio come nella suoneria. Ma l’accezione è più sfumata e probabilmente tesa a fare colpo su di me. Suo cugino produce alcolici contraffatti. Era ubriaco, mi ha regalato una bottiglia di Johnny Walker di quelle fatte da lui in garage. L’ho aperta come s’aspettava, ma temevo che dentro ci fosse il metanolo e che diventavo cieco. Non è successo, sembrava whisky. Ha cercato di chiedermi amicizia su Facebook ma si è distratto. Vorrebbe leggersi il mio libro col traduttore Google. Mi ha lasciato un’altra bottiglia che porterò a Milano. Macs mi è venuto a cercare, ti accorgi se uno vuole parlare. Poggio il pc, gli faccio segno di sedersi accanto a me. Ma resta in piedi. Mi alzo anch’io. Dice che suo padre erà da Mosca. Sembra uno sfogo, non vanno molto d’accordo. Lo sgrida sempre. È un militare in una base di sommergibili, uno che comanda. Lo interrompo, chiedo del Kursk. Alcuni amici di famiglia sono morti nel disastro e ne avevano avuto dei presagi. Macs lo descrive come un tipo molto esigente e all’antica. Sperava che il figlio ne emulasse la carriera. Non gli va proprio che giochi in borsa. Ma a Macs non frega niente delle uniformi e di accontentare il padre, orgoglioso che Putin gli ha stretto la mano, in una visita alla base. Macs si è aperto così tanto, mi viene da abbracciarlo come si fa con gli indifesi. Mi avvicino e lo stringo. Lui però si irrigidisce, mi respinge, dice di non essere Breznev.
3. Fiori dappertutto
Finalmente al negozio dei fiori, fuori dal cimitero di Mitinskoye. In Italia un mazzo mi costa 5 euro, incluso il modo pio dei fiorai, quella solidarietà che percepisci anche da certe infermiere. Delle volte ne ho comprati per qualche ragazza, per scusarmi. Ma poi non combinavo niente e mi arrabbiavo. Col mazzo in mano, mi sentivo un cazzo che non serve, come fossi alla frutta. Le fighe, quando le vuoi conoscere, sono cattive e ti mettono alla prova. Non devi cedere ai violini dei film e delle canzoni. Quelle sono opere autodistruttive inventate dal marketing, perché è più semplice compiacersi nella bontà perdente, priva di istinto e della naturale sopraffazione. Ma senza la cattiveria, non si scopa e non si fanno figli. Io sono qui per loro, gli elicotteristi pompieri di Chernobyl che hanno rinunciato alla vita, per salvare gli altri, l’amore assoluto non può che essere donato. Sono degli eroi. In Italia sei di destra, se pronunci quel vocabolo: Vendola, Alfano e tutti quelli non farebbero niente per te, in caso di incendio o di allagamento della casa. Questa è la prima missione a rischio. Stai attento ai poliziotti, l’ha detto la BBC. Incrocio un funerale ortodosso. Tante lapidi per chi è morto in Cecenia, foto sbiadite. Quasi tutti hanno i baffi e maglie a righe. Ecco il monumento degli elicotteristi, accanto c’è la statua di un comandante dei pompieri. Gli elicotteristi sono sepolti tutti insieme, in file ordinate. C’è una parvenza di lealtà in quei volti in uniforme. La ragazza che in Italia ha baciato il poliziotto per umiliarlo vanta un cognome chic. La cultura alternativa è nelle mani dei ricchi, sempre stato così. Ci vorrebbe più onestà. La gente che ha meno soldi si prende paura, si arrabbia e poi crede agli imprenditori della politica, perché quel sorriso rassicura e non incolpa. Un fiore su ciascuna lapide e un mazzo ai piedi del monumento che rappresenta un’esplosione, ma che evoca un fungo atomico. Anche lo squarcio del sommergibile Kursk è così teatrale, sembra un presepe.
L’hanno recuperato, un cilindro d’acciaio nucleare troncato in due. Impossibile raggiungere quel relitto e poggiare altri fiori. Questi ragazzi sono stati inghiottiti da eventi assoluti e poco di moda che tutti dimenticheranno e che diventeranno la sto- ria. Questo paese pulsa di vita, azioni e procreazione. Le nostre esistenze pop parlano un’altra lingua.
Superata la prima settimana
1. L’invito
È dal giorno dell’abbraccio rifiutato che Macs mi dà meno confidenza. Nel medioevo per un sospetto ti bruciavano. Forse è omofobia, ma io non sono gay. Ci ho messo anni per riconoscere una mia parte femminile e non vergognarmi delle emozioni. Lui è russo, la nostra espansività inibisce. I blocchi saranno sempre contrapposti. La guerra fredda mi rincorre dall’Italia. Mi è arrivato un altro clip contro l’omofobia e nuove critiche, stavolta da parte di uno che non è neanche tra i miei amici su Facebook. Scene orrende che avevo già visto. Ragazzini adescati nei siti di incontri e poi umiliati, percossi, cosparsi di pittura e piscio. Le vittime non piangono, hanno più forza del branco. Non sapevo che rispondere. Ma io non sono complice di quella violenza, nemmeno delle leggi anti-gay. Mi sono sentito attaccato. Stavo per mandare un video dall’Iran in cui uccidono dei gay minorenni. Mi sono fermato. Non si strumentalizza il dolore altrui. Cerchiamo di avere ragione, questo è il torto. L’anonimo non ha provato a comunicare con me. Solo invettiva, pure scritta in maiuscolo. Violenza genera violenza. Dobbiamo essere più dolci, ognuno ha la sua storia che può essere evolutiva. Il termine “gay” dovrebbe scomparire, come etero e tutto il resto. Se pii a Macs, gli direi semplicemente di no. Ma anni fa ai Magazzini, un tipo attillato mi ha poggiato la mano sul petto. Avevo bevuto e ho cercato di esagerare la reazione, senza riuscirci. Gli ho solo detto: “Che cazzo fai”. Si è allontanato, senza chiedere scusa. Sembrava compiaciuto. Mi ha dato fastidio, mi sono sentito trattato come il solito etero che prima o poi farà outing. Ci sono teste di cazzo tra gay, etero, russi e italiani. All’epoca anch’io portavo maglie attillate. Però mi ispiravo alle rockstar, a Iggy Pop che è etero. L’argomento sesso ce lo portiamo dentro, inizia prima di noi. Conquista e sopraffazione. Quando è trapelato che l’ambasciatore americano ucciso dai fondamentalisti in Libia è stato prima violentato, non mi sono sorpreso. Era anche biondo e quelli sono scuri e hanno le barbe. I Fratelli Musulmani non possono toccarsi i genitali, pure mentre si riproducono: l’ha raccontato un pentito, autore di un best seller se. Anche lui, come Lilin, ha saputo esasperare certe trivialità che piacciono ai lettori. I media italiani hanno omesso il dettaglio della sodomia. Forse pudore o timore di apparire politicamente
scorretti. Chissà se l’ambasciatore ha cercato di reagire. Macs ha ripreso a considerarmi. Mi ha proposto la visita a una zona che definisce segreta, fuori Mosca in piena periferia, un posto che i turisti non conoscono. Perfetto, mi accompagno a gente del luogo. Ci andremo in questi giorni. Ne ho parlato alla ragazza del bar sotto l’ostello. È sospettosa per l’amicizia sionata che ricevo e mi ha messo in guardia. Pure io non mi fido degli italiani, perché ragiono come loro e capisco la lingua. Ma chi accetta lo slancio altrui, va più in alto. Mio padre mi ha insegnato a diffidare, a considerare le eventualità peggiori. Era una brava persona che navigava e temeva le tempeste. Telefonava alla polizia stradale prima di qualsiasi viaggio, anche di qualche ora. Mi diceva di non credere a nessuno e che le donne sono tutte grandi troie. Mio padre vittima dei tempi duri, tra guerra e pace e la ricostruzione, si aspettava sempre il peggio. Con Macs sarà una bellissima gita nella periferia di Mosca, farò la figura del coraggioso con gli italiani. La ragazza del bar mi ha chiesto se lui è musulmano, visto che è di Kazan. C’è tanto campanilismo fra i russi. Qui accusano quelli di Pietroburgo di darsi le arie. Io tengo per Mosca che è più imponente e di cemento. Qualsiasi citta in cui ci sono i canali va bene per le coppiette.
2. A cena fuori
Mi sono di nuovo visto con Mikhail, il traduttore. Mi ha spiegato il significato di un certo monumento al centro della piazza, ma ero distratto. È anche la stanchezza per il poco sonno e il torcicollo è devastante. La poltrona dell’ostello è scomoda per starci seduto e scrivere col pc fra le gambe. Forse si trattava di una statua di Marx, anche se credo avesse i baffi e forse anche una divisa alla Stalin. Sicuramente un condottiero. Anche in Iraq assomigliavano tutti a Saddam. Il ristorante è all’angolo della piazza. Mikhail mi ha invitato a cena. C’è anche sua moglie, giornalista famosa, autrice di un saggio sul culto di Putin, pubblicato anche in America, dove lei è cresciuta. I suoi genitori sono degli studiosi emigrati nel paese dei soldi, dopo la caduta del regime. Ho conosciuto pure la figlia ballerina, contenta di mangiare le patatine. Un ristorante affollatissimo, anche questo anni 50, in bagno delle card promozionali con l’effige di Putin multisportivo. Mi sono trovato bene. Ho chiesto scusa per Viktor. Nel pomeriggio ha scritto su Facebook che quel ristorante faceva cagare. Ma Mikhail non ha raccolto la provocazione. Spesso non ci si accorge del male che si fa ad altre persone. Voglio bene a Viktor, il borghese, e a Mikhail che si sbatte sulle sue traduzioni e porta la figlia alle lezioni di danza. Quelli del Bolshoy intanto si sono fatti vivi, chiedendomi se ho un interprete. Ho bluffato, ho detto di sì.
3. Piscina
Quelli del sito Italiani Ruspanti a Mosca m’hanno detto che la visita medica te la fanno direttamente in piscina. In una saletta c’è una donna, infermiera e milf. E se tiro fuori 100 rubli, quella ti fa un lavoretto. Li ho contattati perché vivono qui e cercavo informazioni. Hanno stipendi che, paragonati a quelli russi, sembrano alti. Ecco perché così arroganti. Sono andato comunque alla piscina e non c’era nessuna infermiera. Ho dovuto raggiungere un ospedale e mi ha ricevuto un medico che dormiva dietro la paratia, coi capelli schiacciati da un lato. Mi ha guardato i piedi. Tergiversava, prima di apporre il timbro. Ha detto qualcosa sull’italianski. La ragazza del bar sotto l’ostello mi ha chiesto se mi avevano controllato il buco del culo, che anche lì si insidiano funghi e micosi. Prima di entrare in acqua, la doccia come da cartello. Tanti minuti ad occhi chiusi, di fronte a loro, prossimi compagni di corsia. Sono abituato allo sport, di conseguenza agli spogliatoi e ai corpi nudi dello stesso sesso. Mi sono messo di schiena, così che tutti potessero guardare il mio veliero tatuato stile occidentale e la scritta in inglese, per loro così moderna. We came from chaos, you cannot change us. Ma ho avuto la sensazione che fosse una provocazione e mi sono rigirato frontalmente. Tanti i costumi anni 70, niente palme e surf disegnati. Padri di famiglia e ragazzi, anche i bambini accompagnati dalle madri fino all’entrata. Qui al centro sportivo Luzhniki, non vengono i ricchi e neanche i neo-piccolo borghesi della nuova Russia. Si paga davvero poco, un tempo l’accesso era libero. Niente tetti o palloni ad aria che la neve schiaccia tutto. Accanto c’è lo stadio della tragedia. Un crollo e centinaia di morti, nascosti ai così tanto liberi giornali occidentali. Questa piscina è Sparta. Ha avuto il suo apice alle Olimpiadi boicottate del 1980. Mennea da bambino batteva le Porsche, sui trenta metri iniziali. La Gopro nascosta dentro il borsone con le pinne. L’unico coi piedi palmati. Ma io so nuotare. Ho pensato tanto a questo momento. C’è già stato un tentativo giorni fa col buio e la neve, uno scenario più evocativo. Avevo chiesto alla bagnina se mi riprendeva la capovolta da dedicare a Salnikov, il campione delle
lunghe distanze, nervi d’acciaio, una vasca dopo l’altra, ore giorni e mesi, non smetti di pensare. Il nuoto predilige nervi buoni, perché in corsia puoi crollare psicologicamente. Uscire da quel recipiente al cloro, quando non ce la fai più, è comunque liberatorio. Il cantante del Tuffatore invece volava verso l’acqua. Ora fa dischi sporadici. L’ho visto in concerto a Roma. Così intenso, l’arte è solo anima, il resto non conta. Volevo essere un’altra cosa, ce lo diciamo tutti. Ecco la bagnina, la saluto con un cenno. Mi accorgo solo adesso che è un’istruttrice di nuoto. L’altra sera stava sotto la neve, come certi cani abituati. Quando l’ho interrotta si è dedicata con cuore al mio filmino. Certe persone sono più adatte a procreare, ad essere altruiste. Sono tornato perché ho sbagliato tasto della Gopro e ho scattato foto, invece che video. La neve mi velava la testa, il mondo stava finendo. Mi sono anche ripreso allo specchio, è tanti giorni che non mi alleno in palestra. Al bar della piscina niente vodka. Mi toccava tra le richieste, come gesto pittoresco prima del tuffo. L’alcol è vietato, ci vengono gli atleti, magari è stato un ordine di Putin. Poi ho raggiunto i bagni pubblici in mezzo al parco. Dentro c’erano degli zingari, sembravano accampati. Ho pisciato e lavato le mani, solo silenzio tra noi. Quando galleggi stai volando. Acqua e cloro, attorno gradinate di cemento fatiscente. Lungo il corridoio, le foto importanti dalla finale pallanuotistica olimpica. Questa piscina è rimasta come negli anni 80. Lo stile è libero perché puoi nuotare come vuoi, qualsiasi tecnica va bene. Il modo arcaico prevedeva le bracciate laterali: alla marinara. Ma poi arriva il crawl, con cui si stabilivano i record più spettacolari. Inventato dagli australiani che hanno perfezionato la nuotata degli hawaiani. E così nasce lo stile sotto il minuto. Johnny Weissmuller è stato il primo e poi diventerà Tarzan. Da noi c’è Carlo Pedersoli, futuro Bud Spencer, bello, trasognato e robusto in un’Italia ancora rachitica. Lo stile alla marinara è scomparso nella storia, nella nebbia e nei flash, come gli spettatori privilegiati di quella finale. Quelle medaglie sul petto, il giorno dopo sono diventate il ato. Parlare e nuotare contemporaneamente è difficile. Ma devi farlo, per salvare chi sta annegando. In caso di panico, bisogna
tranquillizzare o tramortire. Fa freddo, ho bevuto la cioccolata che mi ha versato una barista tagika, al bar della metropolitana. Marco Polo raggiunse le sue terre. Si portò i cioccolatini o forse li ha importati. Negli anni 80 avrebbe avuto con sé un carico di collant e bic. In questo paese mi ritrovo sempre a chiedere, a vivere con attesa speranzosa le risposte. Quando hai bisogno, diventi migliore.
4. Gita in periferia
Guardavo X-Files, attratto dall’Area 51. C’era quella coppia a cui volevano rapire la figlia nei pressi di Roswell. In questi giorni ho conosciuto un russo, cresciuto in una base missilistica. Gli ho chiesto di Skolkovo, l’ex-città segreta rappresentata alla Biennale. Secondo lui non lo è mai stata. Mi ha raccontato di controlli e test attitudinali a cui suo padre veniva sottoposto. Se davi in escandescenze nella sala comando, i colleghi erano tenuti a neutralizzarti. Oggi è domenica e Macs mi porterà nel posto segreto che m’ha detto. Stamattina stava rannicchiato di fronte al monitor che cambiava colore. Scorreva i suoi investimenti, sembrava preoccupato. Ma va tutto bene, i suoi risparmi sono ancora vivi. Solo qualche rischio che sa come affrontare. Abbiamo fatto colazione al bar sotto l’ostello. La solita ragazza che lavora lì non c’era. Macs ha ordinato un alcolico rosso anche per me. La periferia è iniziata su un minibus, da un capolinea lontano dalla città dei turisti. La portiera è rimasta aperta, non abbiamo pagato. Macs ha detto qualcosa all’autista, indicandomi. Già un po’ di fermate fra vecchiette avvolte dal fazzoletto e nipoti moderni con tute globalizzate. La nuova Russia vuole il meglio. Sempre più cemento, direttamente proporzionale alla densità del fango. E ora su un altro autobus fumoso. Stavolta pago e anche per Macs. Scendiamo dopo aver superato una sbarra elettrica. C’è tanto verde, in questa zona vivevano i privilegiati del governo e dell’esercito. Ci sono tanti bambini già all’entrata del parco, c’è il lago e i sentieri diramati da cartelli e tabelle ginniche. Alcuni si sollevano da una trave. Saliamo su una torretta per l’avvistamento dei volatili. Qui Macs conobbe la sua ragazza. Mi svela che è morta. È successo tre mesi fa. Non riesce a cancellare il suo numero di cellulare, come se un giorno potesse richiamarlo. Mi dispiace, non ci sono le parole. La prima lacrima nella storia dell’uomo risale al tragico tentativo del guado di un fiume. Hanno ritrovato delle tracce su un fossile. Usciamo dall’area verde, ricominciano i palazzoni e i centri commerciali. Macs mi accompagna fra le stradine che conosce, ha vissuto qui anni fa. Sembra tutto
asettico e funzionale, anche se in cirillico. Ma io sto cercando quella deriva urbana che mi regalerebbe tanti Like. Ci fermiamo sempre a guardare gli incidenti. Dico a Macs che sarei più attendibile, se mostrassi ai miei sostenitori documenti verità. Qui si vedono solo palazzoni e niente degrado. Ma questa per lui è la verità. Qui non vengono i turisti e quindi la polizia non è quella edulcorata del centro, a prova di turista. Il manifestante anti-Putin che ho visto dimostrare indisturbato in piazza Rossa, qui rischierebbe. Sì, Putin è ricco, un vero e proprio affarista. Macs lo accusa perché la Russia non produce più nulla. Vende solo gas e minerali. Provo ad affrontare la questione dei diritti. Non lo faccio mai, neanche in Italia. Mi sento un ipocrita. Macs minimizza: se non la pensi come Putin e conduci la tua vita da uomo qualunque, non ti succede niente. Gli oligarchi invece sono dei criminali. Ne conosce alcuni e se voglio me li fa incontrare. Gatti siberiani randagi, nel parchetto di una chiesetta ortodossa. La porta si apre. Incenso e cori dell’Est, tutti in ginocchio, candele e barbe lunghe. Il pope e i suoi addetti aggirano l’altare. Macs chiude gli occhi. Ha le mani giunte, si prostra sul pavimento, si tocca la fronte e poi bacia l’effige di un martire. Resto in piedi col capo chino, tipo penitenza. Mimo un atteggiamento di preghiera, ci tengo al rispetto. Macs ormai è come un amico. Lo sei, quando ti confidi. Niente abbracci, te ne accorgi quando è il momento. Oggi mi ha ripreso, quando camminavo al di là del marciapiede. I russi guidano pericolosamente. Sono cresciuti con auto più lente e meno traffico. Allungo la mano verso l’acqua consacrata, ma la vasca è vuota. Macs accende una candela. Forse la sua ragazza si è suicidata, magari è stata una malattia o l’hanno travolta in strada. Ho la telecamera tra le mani, significa che devo restare lucido e cogliere da fuori. Questo ristorante georgiano è gestito da uomini brizzolati. Neanche qui puoi essere vegetariano. L’ospitalità caucasica prevede che oggi si mangi carne di capra. C’è anche la vodka. Macs mi aveva detto che non andava più di moda, che se lo immaginano i turisti, che ora va la birra e i superalcolici americani. La Russia è moderna, ti giochi la fortuna dal web. Questo brindisi è un rito dedicato alla sua ragazza: un pezzo di pane sopra il bicchiere e poi alla goccia, si fa per quattro volte. Bevo anche l’acqua, mangio il pane. Non voglio stare male, anche se il sostenitore fan di Limonov me l’ha chiesto. Iniziamo a scherzare. Macs si fa riprendere mentre ripete parole sconce in italiano. Gli spiego che sono epiteti che non piacciono alle femministe. A lui non vanno bene le Pussy Riot, dice che sono blasfeme, hanno violato un luogo sacro.
Ha scritto nel traduttore la frase “Mandatemi a quel paese” e si è innervosito perché s’è sentito mandato all’inferno. C’è un carrarmato t34 esposto davanti ai palazzoni. Macs indica la marcia delle divisioni moscovite verso Berlino su un lastrone d’acciaio che raffigura l’Europa in rilievo. Bambini bellissimi annacquano questo sangue. Giocano appesi al cannone. La pace è ogni nuova generazione, ancora libera dalla memoria che qui è ovunque e insegue gli individui, perché lo stato è più importante. Sono un pubblico impressionabile, continuo a emozionarmi per piccoli dettagli. Qui devo interpretare e colorare, la mia missione è l’amicizia tra i popoli. Siamo uguali. Non ci si fida degli altri, quando si è in malafede. Io sono la follia che vedo negli altri, prima ho messo in dubbio il lutto di Macs. L’istinto è la nostra cattiveria. Colgo tanta sincerità in questo posto estraneo che posso permettermi di plasmare: Putin e io diventiamo amici e corriamo sulla spiaggia a rallentatore. Il sole non serve, giochiamo a freesbe, giovani per sempre. Faccio le foto al T34 costruito per battere i cattivi, nella prosopopea delle economie in guerra. Le alleanze si trasformano, si sacrifica la gente. Quel carrarmato aveva i cingoli deboli, per cambiare marcia ci voleva molta forza fisica e l’aiuto delle ginocchia. Altri bambini, accompagnati da uomini matrice, concepiti una domenica. Una grande croce ortodossa, altri casermoni attorno. Macs mi spiega che si tratta di un altare molto importante. Una ragazza s’avvicina, depone dei fiori. Quei più di 23 milioni di morti, strumento per propagandare il giusto anche se non c’è. Questo paese così serio e semplice. Conosco solo gente umile, non i ricchi che finiscono sui giornali. Faccio altre foto, dalle finestre si accende l’ora di cena.
Apoteosi
1. Parkour
È una missione rischiosa, luci su di me. All’ostello ero già un campione, dopo il tuffo nella piscina all’aperto: ora dovrò correre sui tetti. I miei compagni non sapevano cosa fosse il parkour. Madonna ama questi acrobati urbani, li ha inseriti nelle sue coreografie. I capi della Russia le hanno dato della prostituta, perché ha difeso le Pussy Riot. Oggi ho risposto alla segretaria del Bolshoy, con la solita prosopopea. Ho anche trovato una traduttrice. Lavora per Giuso, l’architetto italiano a Mosca. La capa dell’ostello è tornata da Parigi. Ha saputo delle mie missioni andate a buon fine, mi tratta come fossi importante. Voglio le ali e poter alzarmi sempre di più. Devo credere in ciò che desidero, anche quando tornerò a Milano. La perfezione è inconsapevole. Così presi da se stessi, mentre volano sui tetti. Solo chi ama le proprie ioni è bello. Ci siamo incontrati a una fermata sopraelevata della metropolitana di superficie. Un ventiduenne dalla Kamchatka, la terra del Risiko; l’altro arriva dal Caucaso. Entrambi Igor, credevano fossi un apionato in grado di saltare. Ho superato solo i primi due muri, ma non la cancellata alta e acuminata. Abbiamo allungato il percorso, per un aggio più accessibile. Ho cercato comunque di fare del mio meglio, perché è in gioco il rispetto e loro sono così giovani e mi ricorderanno tutta la vita. Mi sono sollevato con le braccia senza il loro aiuto, ho camminato sull’orlo di un muro, mentre sotto sfilavano i eggeri dell’ora di punta. Stavo rischiando per la gente che mi ha mandato qui e che si fida di me. È il senso dell’amore. Oltre c’è il vuoto. Questa non è più un’opera virtuale. Mi riferisco anche alla mia esistenza, un insieme di fatti e conseguenza scandite giorno dopo giorno. Devo sperimentare, superare la mia storia senza sbocchi: se l’accetto, è solo vittimismo. Chi mi ha messo al mondo vuole che io voli da solo, che ci provi. È andata bene quassù, in tutti i sensi. Prima stavo parlando, ero così entusiasta e allora non stai più attento. Ma loro mi hanno afferrato per un braccio e salvato da una caduta mortale - una quindicina di metri - ho minimizzato, perché fa parte del gioco, come per i reporter di guerra. Li ho ringraziati, senza abbracci. E ora di nuovo lo spettacolo dei loro voli dedicati ai miei filmini e alla mia famiglia
italiana di più di 100 figli. Posano in movimento. Una questione di tecnica, si preparano in palestra. Ogni gesto è scomposto in spinte e torsioni. Luci dalla strada, è il riflettore di un auto della polizia. Ma non è lì per noi, In caso fero irruzione, mi invitano a non scappare, perché agli occidentali non succede niente. Loro correrebbero via, questo è il parkour. Volano da un pilastro all’altro, plastici e perfetti. Non hanno riconosciuto il mio Al Bano, si sono pure scusati. Sull’orizzonte, Mosca oltre il fiume. Il cielo è rosso. È una grande serata costruita apposta per noi.
2. MMA
Mi aspettano alla palestra delle Mixed Martials Art, MMA, per un’altra missione impegnativa. A Milano la vedevo così. Ma ora sono gasato e in armonia. È come se vivessi al presente. Sono già stato sui tetti e i miei sostenitori l’hanno visto. Ho superato l’esame. Con me sempre la Gopro, usata in modo innovativo. Niente bici, surf, moto o tuffi dalla stratosfera. Devo solo superare il limite di me stesso per comunicare, anche se nella lentezza. Sono diretto a una palestra dove fanno a botte, come tante al mondo. Ma loro sono slavi, Linin e Limonov lo rimarcherebbero, per farci impressione. Gli sport di contatto ti fanno facilmente are per spaccone o nazista. Il luogo comune più spettacolare vuole che chi li pratica sia un esaltato e quindi, essendo russo, un criminale. Putin in kimono ti spacca la schiena. Da lontano tutto diventa reale, scaturisce nella tua testa. La lezione dura tre ore. In Italia spiavo i siti delle palestre russe, eccessivi, mimetici e pieni di pugnali. A Milano quei posti sono rigidi, spesso ideologici. Ho anche visto i clip degli incontri Strelka, che si svolgono a Mosca, ovvero gente comune che si massacra su un ring, con l’arbitro e il pubblico che urla. Devo guardarli negli occhi, al limite prendo delle botte. Sta nevicando. Una rampa di scale. L’entrata della palestra Dynamo sembra una scuola, lo stesso odore di calzini. Eccoli i ragazzi, dietro l’angolo. Fasce alle mani, già pronti, giovani e alti. Io sono l’italiano, il mio ritardo è strafottenza e mi dà più carattere. Anton è il loro capo e maestro. Barba e capelli incolti. Spiego la natura del mio gioco, piacere sono Gianni e porto con me tanti fan che li seguiranno. Simpatia per il demonio. Effetto fiducia, nello spogliatoio gli attaccapanni occupati. Ho il aporto, le carte di credito. Uno dei ragazzi mi assicura che da lì non scompare mai nulla. Mi fido, ma infilo il mio oro nella borsa con il ricambio che mi porto dietro. C’è da scaldarsi e poi le capriole di seguito che mi fanno girare la testa. Scatto foto, filmati. Anton insegna tecniche di strangolamento, capottamento, abbattimento. Prese complesse per controbattere ad aggressioni, risse, situazioni folli. Costretto a provare, ho anche l’interprete. Si chiama Eugene e mi spiega con pazienza, ci tiene che impari. Sono stanco e fuori allenamento, anche anziano. Mostro rispetto: è dovuto se ti vuoi unire a un gruppo che fatica, oltre
ogni retorica. Quello anonimo che mi ha mandato i clip di denuncia, mi ha accusato anche di machismo. Chiudo la guardia, giro in tondo. Cerco il colpo che mi butti a terra perché sto filmando. Sono fulminei, ti avvinghiano alle gambe e alla vita e ti ritrovi sdraiato. Mi lascio andare, il filmino verrà bene. I pugni che mi arrivano quando vengo steso, sono necessariamente finti. Questa palestra è un pezzo d’arte, ci si allenava la polizia segreta. I soffitti sono intarsiati, stile metropolitana. Lenin e stelle rosse. Colpi sottofondo, la lingua che non comprendo. Questi ragazzi ansimano, sono fradici, si stritolano e colpiscono alla ricerca di tecniche perfette. Si consigliano. Anton il maestro ha un fisico da atleta, controlla e istruisce. Questa è la sua scuola, MMA Kegi, come scritto sulla maglietta. a anche da me, vuole che impari, mi sforzo. E poi mi fa segno che va bene e sono contento. Finisco a terra continuamente, la Gopro è adrenalina, così ti viene venduta. Ma io non competo. Mi piace l’idea di riprendere la caduta, com’è quando soccombi. Non sto sfidando gli spettatori. Le ore sono volate e ora vorrei pagare, ho i soldi in contanti. Ma tutti si rifiutano. Sempre più sbalordito di questa mia Russia assoluta e umana. Eugene, il traduttore, mi offre anche un aggio. Nel Suv salgono Anton e altri due di loro. Nevica ancora, vogliono portarmi fino all’ostello. Scatta anche l’invito domenicale allo stadio per vedere lo Spartak, un’altra delle mie missioni. Alex, un ucraino che tifa Cska, mi spiega cosa è lo Strelka di quei video tra gente comune che fa a botte. Strelka è sfida, chiarimento, divertimento, le nostre parti animali. Se hai un problema con qualcuno, lo risolvi con le botte. Ma a volte, è anche solo per il proprio piacere. Alex è un tronco d’albero, dava colpi devastanti al sacco. Sono quasi arrivato all’ostello. Mi dicono che di notte devo stare attento agli stranieri, i caucasici, perché loro non vogliono adattarsi alle regole russe. Faccio un errore per socializzare: confesso i miei pregiudizi verso i musulmani in Italia. Ma il ragazzo alla guida mi fa capire che pure lui è musulmano. Sono imbarazzato. È così borghese sentirsi in colpa per aver detto qualcosa di sconveniente, irrazionale, scorretto, ingiusto e razzista. Ma mi spiace davvero. Non era mia intenzione ferire e fomentare. Lui comunque mi dà ragione, fa un distinguo tra i musulmani. Ma vorrei chiedergli scusa personalmente. Alex, l’ucraino, tira fuori un pugnale da guerra. Me lo mostra come un giocattolo. Dice che così non ha problemi quando torna a casa. Nella sua zona tanti musulmani
dal Caucaso che hanno il coltello tradizionale. È orgoglioso della sua arma così moderna. Mi mostra la lama e l’impugnatura ergonomica.
3. Limonov
Nazionalismo e sensazionalismo. Ho letto un libro di Limonov. Non la biografia di Carrerè. A lui piace celebrare le sue guerre e il paese, anche se sta sempre contro il potere. Limonov fa di tutto per restare fuori dagli schemi, pregiudicando forse una verità più profonda. Bisogna cogliere le sue confessioni, la fragilità di un uomo alle prese con la realtà e le sconfitte. Gli ho telefonato e mi ha risposto. Il numero me lo ha dato Mikhail, il traduttore, alla presentazione di Moccia, che si è dimostrato una testa di cazzo. È figlio di registi romani famosi, ma ha osato fingersi vittima del sistema editoriale, perché quando era un esordiente che non riusciva a pubblicare. Ha deriso una giornalista che si chiama Galina, faceva domande troppo impertinenti. Moccia ha un cappellino e la faccia del porco. Cerchi di scoparti le ragazzine. Tu stravendi, parte dei tuoi soldi mi servirebbero, come quelli di tutti i politici ladri. Ho ripreso la mia telefonata a Limonov con la Gopro. Così emozionato e impacciato. Lui è un campione. Ho già sharato con consensi da eroe. Un nonsostenitore m’ha fatto notare che dovevo essere meno deferente, ma l’emozione m’ha piegato. E poi sono qui per mostrare i difetti e farli diventare belli, fino ad arrendermi alla vita e alla sua dolcezza. Le logiche che ottenebrano l’uomo sono sempre il nero o il bianco: ti schieri con me o sei un nemico. Nel video della telefonata, ho la voce stentorea, un flebile eco tra i palazzoni dietro dell’ostello. Ci tengo a far capire ad Eduard che non ho mai letto la biografia di Carrère. Ogni istante di quella telefonata, ho immaginato che mi avrebbe mandato lui a quel paese. Invece l’unico problema era la linea. In cima al mondo, l’arroganza è necessaria, se no, non puoi vincere nulla. L’impeto narrante di Limonov, le sue storie galoppano, ma il senso è tra le righe. Ha dichiarato che dedicare la vita ai libri equivalga ad un’amara condanna. Se non vendi, ti brucerai appesantito dall’invidia e dall’alcol. Secondo lui, bisogna reinventarsi, intraprendere le nuove strade, al limite creare nuovi movimenti politici.Alla fine della telefonata ho urlato come allo stadio. Ho vinto la finale di fronte a più di 100 spettatori increduli. Limonov desta stupore e ammirazione. Rimaniamo d’accordo che ci rivedremo al festival letteratura No_Fiction, dovrò arrivare una mezz’ora prima
dell’apertura. Il per l’accesso al festival me lo gira Mikhail. Sono uno scrittore che deve incontrare Limonov, il campione. Sono credibile, ho rifiutato di stringere la mano a Moccia, mi era stato proposto. Sarebbe stato un gesto che mi marchiava, ci sono duemila e cinquecento lettori che hanno comprato i miei libri. Mikhail invece non stima Limonov. Anche io ho pregiudizi con ciò che è italiano. Ma arriva la delusione: quelli delle informazioni mi avvisano che Limonov è programmato tra 3 ore, proprio quando dovrò vedermi coi ragazzi della palestra che mi portano alla partita dello Spartak. Devo calcolare i tempi, l’ipotesi più probabile è che chiamo un taxi. La Gopro in mano, altri monologhi, perché quando crollo vengo meglio. Io e Limonov non ci siamo capiti, un dettaglio che lui avrà dimenticato. Capita anche quando scrivi i libri di non ricordare certe tue affermazioni. Ho nel cuore quelle sue parole sull’adolescenza, quando si aggirava tra i casermoni di Karkov e vedeva i vicini, gente che non rispettava perché ligia alle consuetudini, all’ossequio dello Stato. Ma lui sa che un giorno diventerà altro, un eroe della sua immaginazione. Dobbiamo inseguire un’ideale nostro. Io scrivo di miserie e sconfitte, le uniche cose che conosco e la voglia di riscatto, d’essere adorato almeno per un giorno, come i delfini di David Bowie. Altri monologhi che posto alla ricerca di compagnia su web. Reagisco al malessere, dei tempi. Io e Limonov forse non ci incontreremo mai più. La partita dello Spartak è un’occasione imperdibile, Limonov apprezzerebbe, i suoi nazbol fioriscono anche dalle gradinate post-sovietiche. Ma questa Russia che sto vivendo è anche un’idea moderna e che punta al domani. In questa fiera, tanta gente eterea e così simile a noi. La cultura redistribuisce linguaggi condivisibili. Mi aggiro tra le bancarelle, cerco il libro in russo del Piccolo principe. Ma echeggia una voce, toni da comizio. Dovrebbe essere una presentazione. Supero lo sbarramento. Alla cattedra c’è un uomo minuto, capelli bianchi scalati, taglio moderno e sta parlando: Limonov in persona. Allora è stato di parola. Sta presentando un suo libro. Ha nominato Putin e le Pussy Riot. Scatto foto. Mi faccio notare apposta da lui, che si ricordi della mia faccia. Raffiche di scatti, come si fa con le ragazze di Walt Disney, Miley Cyrus è la capa dai nazbol. Il pubblico è più militante. Il look che vedevi a Milano negli anni 90. Qui vanno ancora i dreadlock. Il suo bodyguard è pelato, grasso e grosso, tratti somatici da angelo che non devi
provocare. Ma io lo guardo, lo sfido perché non mi fa paura. Taxi Driver ferma l’agente al comizio del politico Palantine, We Are The People. Ora è il momento delle domande. Limonov è così minuto. Che significa scrivere se poi devi parlare e sembrare il personaggio rappresentato dalle tue parole. Limonov è consapevole di essere a capo di un movimento, dei suoi lettori. Assimilo la sua lezione riguardo alla persona che si riflette sul pubblico, che poi è la vita, per tanti insicuri. Io cerco l’attenzione, non posso farci niente. Non mi sono mai comportato da scrittore. Non lo sono, piuttosto un miracolato in questa situazione e in tutto ciò che di bello può capitarmi nella vita. C’è calca attorno a Limonov, ha finito di parlare. Non scrive le dediche, firma e basta. Un libro dopo l’altro. Scambia parole, sono uno dei prossimi. Ho il volto da nemico della Russia. Hallo Eduard, sono l’italiano che ti ha telefonato. Mi riconosce, stringe la mano. Dice di aspettare, che mi deve dare una cosa. I suoi fan si allargano, mi sono anche insaponato la mano nei cessi che sono italiano, ma invece mi lavo. La guardia del corpo ha visto, si può fidare di me. Ci sono anche delle donne sue seguaci. Una nazbol ha il tatuaggio della bomba Limonka sul seno. La fotografo, le chiedo il permesso, anche al suo ragazzo per rispetto. Mi comporto secondo i codici siberiani. Ha la pelle bianca, da tipica ragazza russa e poi se ne avvicina un’altra che da noi farebbe la modella. Faccio parte dell’esercito di Limonov che ora lo segue. La Gopro sempre accesa. Gli faccio un gesto, si posso riprenderlo, una mini-intervista. Limonov ci tiene a dirmi che per lui è un bene che Carrère lo abbia diffuso. Vuole notizie sul regista italiano che girerà il film tratto da quella biografia. Gli spiego che è il figlio di un anchorman di nome Maurizio Costanzo e che di sicuro ha gli appoggi. Limonov mi porge un suo libro in italiano, sulla metafisica. Me lo autografa. Sono in estasi per il successo. In Italia sono tutti con me. Like e commenti che testimoniano che ho preso dei bei voti. Ecco Eugene e Anton, i ragazzi della palestra, che mi guidano allo stadio. Chi mi manda alla partita, si lega alle notizie sulle violenze negli stadi russi. Varco il cancelli col libro di Limonov in tasca, copertina rigida. Gli Omon me lo scoprono. Eugene spiega che siccome sono italiano, il calcio russo mi annoia e allora leggo. Gli Omon ridono. Anche stavolta non pago. Il biglietto mi viene offerto, ringrazio Eugene e Anton che non dovevano.
Lo Spartak sfida il Volga, team di bassa classifica fondata da conciatori di pelle. Si gioca nell’impianto del Lokomotiv, una vecchia motrice come sfondo per le foto e per fare giocare i bambini. Lo Spartak è una squadra laica, niente esercito o polizia. Nasce come espressione sportiva del sindacato di una fabbrica di carne in scatole. Anche Anton, il maestro di MMA, è stato un calciatore professionista, ho controllato nel web. Giocava nel Torpedo Mosca, club ormai decaduto. La partita è un mare di goal per lo Spartak, più di cinque. I cori sono gutturali, non riesco a impararli. Sono parole innocenti su quanto sia forte lo Spartak. I tifosi avversari stanno rintanati in un angolo della curva, sembrano arrivati dal medioevo. Ruggiscono, il leader si è tolto la maglietta. Fa freddo e piove ghiaccio. I sudamericani corrono lo stesso, nonostante il gelo. Eugene dice che vengono pagati bene. All’intervallo, scendiamo al piano di sotto per un te. Ci sono due file distinte. Per l’acqua bollente e la bustina. Te si dice “chai”, parola cinese. La partita è noiosa, i tifosi cantano sempre di meno. Un’altra missione che sto portando a termine. Usciamo, percorrendo una schiera di poliziotti antisommossa. Dal vicino sembrano ragazzi, alcuni fumano sigarette o stanno sui loro smartphone. Alla fine dell’incontro Pelé, Stallone e gli altri riescono a fuggire. Ma quella era Hollywood. Chiedo chiarimenti ai ragazzi della palestra sulla cosiddetta “partita della morte”: me ne ha data notizia un sostenitore. Il match si giocò fra membri dell’esercito tedesco e calciatori russi prigionieri provenienti per la maggioranza dalla Dynamo Kiev. Dopo la guerra, ne fecero dei film patriottici. Una storia drammatica in cui i calciatori russi sconfiggono per due volte i nazisti. Verranno quasi tutti uccisi. Ma loro ne sanno poco. Il nonno di Anton però era a Stalingrado e lui conserva le lettere. Ha una giacca a vento con i colori della Russia. Li accompagno a piedi fino alla loro fermata. Fa sempre più freddo e nevica. Al supermercato aperto di notte riesco a pagare per tutti. Non metterei mai una giacca coi colori della bandiera italiana, ma colgo il profondo attaccamento che questa gente ha per la loro terra, è un fatto di silenzi e ingenuità. Ci salutiamo, rimaniamo che loro verranno a Milano, ci spero davvero. All’entrata dello stadio della Dynamo Kiev, c’è una lapide che ricorda uno dei calciatori uccisi, l’attaccante Klymenko che, invece di buttare il sesto pallone in rete, si fermò sulla linea della porta, per far esultare lo stadio. Venne subito trucidato dopo la partita, sul cippo commemorativo c’è scritto “A uno che se lo
merita”.
Ultimi giorni
1. 100.000 espadrilles di ghiaccio
La neve non solidifica. Si scioglie e diventa altro fango. Raggiungo un parco ricoperto a qualche isolato dall’ostello, di fretta perché mi bagno i piedi e congelo e mi viene la cancrena. Ho messo le espadrilles finalmente. Le indossavo da bambino, duravano un’estate. Le ho comprate sul web in Inghilterra, perché da noi fuori stagione non le trovi. Sono i dedicati a chi non è tornato dalla Russia, a quattro parenti dei miei sostenitori. Sui libri hanno sempre rimarcato quelle scarpe di cartone, ma senza approfondimenti sul dramma di chi si trova al gelo e deve percorrere migliaia di chilometri. Era l’invasione della Russia, il cinismo dei politici italiani, perché Mussolini lo era, in qualità di ennesimo capo del governo. Ci fanno credere che l’avesse voluto solo lui. Ottantamila persone sacrificate, che per la storia di questo paese sono insignificanti. Ho chiesto di loro, ma nessuno ne sapeva nulla. Ricordano solo i tedeschi. Il freddo ai piedi nel mio caso è un gioco, rientrerò all’ostello. Erano gli anni ’30, quando si brevettavano le innovative suole Vibram, dal nome del creatore Vittorio Bramani. Ma non sono servite per affrontare una realtà, ben oltre le pagine romanzate delle gavette di ghiaccio. Non erano scarpe di cartone, ma di pelle riciclata. Estive, perché le invernali non arrivavano. Il congelamento era provocato dai troppi strati di calze che ostacolavano la circolazione. Cammino lungo un’aiuola dove si è ammassata tanta neve. C’è un signore col cane. Un bastardino che si avvicina. Lo carezzo. Mi concentro sul freddo ai piedi, sulla neve alle caviglie, sulla politica, sul nazionalismo, sulla malnutrizione, la disidratazione, le cancrene e Mussolini. Solo un disonesto poteva decidere quella spedizione. Il padrone del cane ha il colbacco, dice qualcosa. Rispondo che sono un italianski. Il cane però si allontana e lui lo segue. Inizia la mia camminata. Accendo la Gopro e parlo. Penso a chi ha creduto in me, a quelli rimasti sottoterra, a chi è tornato, ai parenti dei miei sostenitori, uno è morto. La neve sembra ospitale, bianca e morbida. Fa freddo, solo un po’ di
i e poi ho finito. Devo proseguire verso la salvezza. Se cado, rimango in Russia. È sera, sono stanco. Una giornata memorabile. Oggi anche al Bolshoy con la traduttrice, si chiama Tatiana. Mi ha detto di aver controllato su Google, per scoprire chi sono. Secondo lei faccio tante cose. È una tipa simpatica, madre di tre figli. È stata anche in Italia. Siamo stati accolti da un’addetta alle pubbliche relazioni, appena sposata. Si è confidata con la traduttrice, suo marito è un ballerino tanto bello. Stavo lì incredulo, come ti capita quando entri nella Mecca della danza mondiale, con delle semplici mail, in cui mi sono improvvisato storico della danza: vengo dalla città della Scala. Ce l’ho fatta, senza che nessuno mi raccomandasse. È come vincere l’Oscar, chissà l’effetto che fa. Il coro dell’Armata Rossa non mi ha mai risposto, invece. Deluderò Valerio Millefoglie e tanti altri che non sono stati esauditi. Sarei dovuto restare qui dei mesi, non 18 giorni. Ma la giornata al Bolshoy è il miracolo di questa spedizione. Ho potuto sharare foto e video, dimostrare alla gente normale come me che qualcosa può succedere. Tutto sensazionale al Bolshoy. Ho assistito ai riscaldamenti e alle prove. Uno spaccato della quotidianità tra questi danzatori star mondiali. Hanno una base di stipendio e la pensione: si aggiudicano bonus cospicui, per tutte le volte che vengono scritturati. Come da noi, che vinca il migliore. Ballerini dappertutto, pure coi tatuaggi. Gambe gonfie, depilazioni, le ragazze sembrano in forma, poca anoressia. Il maestro assomiglia a Polanski, gli ho stretto la mano. L’obiettivo della missione era ballare in mezzo ai talenti della danza mondale. Il maestro mi guardava, muovevo le gambe, sforbiciavo le braccia. La traduttrice m’ha fatto le foto. Poi mi sono seduto, come farebbe un giornalista esperto di danza. E anche oggi, un’altra sorpresa: la visita alla base del Cska del basket, dopo un po’ di mail vengo convocato, si tengono sessioni esclusive. Si allenano nelle città segrete. Sono qui, significa che anche io vinco la coppa dei Campioni. Perché dopo il Bolshoy, pure questo exploit. E poi è uscito un articolo sul Post che parlava della missione moscovita, scritto da Carozzi che ha un nome slavo: Ivan. Per me questo è un momento così speciale. L’allenatore Messina mi viene a salutare. E adesso esplodono le urla, ad a ogni canestro o errore; nelle partite di allenamento i campioni fanno ancora di più. Messina bestemmia in italiano e grida in inglese: “Don’t be smart, be simple!”. Applaudo piano, in nome di chi vorrebbe essere qui e invece mi ci ha mandato. Io non vengo pagato da Putin. Qui sto bene. So che presto tornerò nella Milano, in cui si perde col contagocce, ma dipenderà da me far sì che la realtà non mi faccia sentire invisibile. Messina
continua a urlare, a motivare. Siamo energia, onestà e voglia di vincere qualcosa.
2. Il regalo
Viktor ci teneva a salutarmi. Abbiamo fatto una eggiata. Nevica sempre di più. Siamo ati di fronte all’ambasciata americana. Quando aveva 16 anni ha rischiato di essere tra le vittime del teatro Dubrovka. Quella sera doveva andarci con sua madre, ma poi hanno rinunciato ché lui aveva sonno. Gli chiedo di Olga Romanova, la ante eroina misteriosa che si è infiltrata tra i terroristi ceceni, per sfidarli fino a farsi ammazzare, ma non ne sa niente. Siamo anche saliti all’ostello che avevo ancora il regalo da consegnargli. Ho presentato Viktor agli altri, specificando chiaramente che è solo un amico. Un dettaglio importante, per non alimentare equivoci, io provengo da un paese tollerante, ma non sono omosessuale. Chi controlla la voce dentro, fa la differenza. È omofobia anche la risata maschia che ho rivolto alla tribù, una sfumatura che mi possa salvare dall’immagine. Qualcosa di ancestrale, che correggo con la razionalità, ho l’alibi di quei clip, del ricatto che ho subito. Sto rovinando tutto, proprio negli ultimi giorni. Agiamo per contrapposizione, arrivi in preda ai preconcetti e ti uccidi da solo. Mi ha dato fastidio che dei russi mi potessero prendere per un gay, lo ammetto. Nessun italiano mi poteva vedere, mentre mi difendevo dalle ipotetiche deduzioni. Viktor era inconsapevole della mia preoccupazione e pure i miei compagni. E poi gli ho ato il pacco. Un gesto brusco. Non era incartato con la cura di un regalo, sarebbe stato da fidanzati. Niente abbracci, ovviamente io non sono Breznev. Nessuna manifestazione di affetto. Gliel’avrei lanciato. Ho anche cercato il modo per evitare che l’aprisse, una sorta di maleducazione: ho chiesto apposta ai miei compagni se stavano per mangiare, così da farlo uscire al più presto col suo regalo ancora chiuso. Invece l’ha aperto e tutti hanno visto che gli donavo una camicia di jeans di marca, che a loro sarebbe piaciuta. Viktor ci ha notato un difetto: sì che è un capo Wrangler, ma fabbricato in Turchia.
È notte. Mi sono fermato all’ostello, voglio provare a scrivere. L’idea era di ultimare il libro in Russia, diventare fino in fondo un modello vincente. Ci provo, ma ho sonno. Sondo l’Italia sul web. Sono tutti svegli, sto per rientrare. Suonano alla porta, risponde Macs. È suo cugino, quello che produce Jack Daniels contraffatto. Escono insieme barcollando, sono già ubriachi e ridono. Macs mi grida qualcosa sulla vita, che bisogna avere le palle, “big balls” mi dice. Il giorno dopo mi accorgo che non c’è. La capa dell’ostello mi spiega che è tornato per alcuni giorni alla sua città, per una visita dentistica. A Mosca i prezzi sono alti. Credevo che lui avesse capito che ero in partenza. Volevo salutarlo.
3. Perdo l’aereo
Partenza al pelo. Grazie ad Artem, che mi accompagna alla stazione Bielorusskaya, da dove parte la navetta per l’aeroporto. Ero in ritardo, perché sono ato al suo negozio per salutarlo. L’ho conosciuto giorni fa, è un hairstylist. Fermavo la gente in strada per chiedere dove potessi tagliarmi i capelli. La missione prevedeva che andassi da un barbiere a provocare, per vedere se mi puntava la lama alla gola. Ma ho trovato solo lui, il destino ci ha incrociati. Aveva già chiuso la bottega. Non mi ha fatto pagare, pure lui un rockabilly. Molto dolce, gentile e carino. In Italia è stato apprezzato, anche dai maschi, pure da quelli che mi hanno accusato per la mia posizione troppo neutrale sull’omofobia. Mi sono piaciuti quei commenti, ironici e leggeri. Artem è speciale. Ha capito che stavo perdendo il volo e allora è uscito dalla sua bottega, anche se in orario lavorativo. In taxi non sarei mai arrivato all’aeroporto. Ho voluto rischiare. Non mi è mai capitato di perdere il volo. Ma se non avo a salutarlo come promesso, mi sarei sentito come quelle persone che inventano le scuse. Non se lo meritava. Sono contento che mi abbia accompagnato. Mi mostra la direzione. Ci salutiamo che deve tornare a lavorare. Lo abbraccio di fronte a tutti. Stringo la vita che non voglio più perdere; lui e tutte le persone che ho incontrato sono questo paese che mi ha accolto e sorpreso. Calore, umanità e gentilezza, l’amore semplice a cui pensare, quando tutto mi sembrerà difficile e senza speranza. Questa sarà la mia nuova missione. Ho bisogno della gente, di potermi scambiare energia, anche con una semplice tastiera e una telecamerina. I difetti ci possono tenere in vita e accompagnare al nostro miglioramento. Siamo la generosità che offriamo agli altri. Il treno sta per partire.
Tel Aviv
Tel Aviv è bella, l’hanno sempre detto. La gente che viaggia ti racconta in buona fede. Ci sono i baretti e la via intitolata ai Rotschild, non so se quella famiglia della finanza. Un giorno che ne ho parlato bene è scoppiata una lite con uno dei centri sociali che malediceva il sionismo. Io non sono ebreo, ma so che la storia della famiglia Rothschild inizia nel Medioevo. Durante l’ennesima persecuzione i sopravvissuti si disseminano in tutta Europa per avere più probabilità di sopravvivere. Lo fanno certi fiori quando spargono i semi. Dopo la Russia, sono scappato in Israele. Anche qui ci sono tanti slavi, la nuova migrazione giunge da Est. Non l’ho detto a nessuno su Facebook. Niente missioni stavolta, io non posso portare la pace a Gaza. Sto seduto in fondo, sul pullman sconsigliato dalle guide perché ci sono gli attentati. Ma non sono aggiornate. Da quando la primavera araba ha animato il massacro tra musulmani, Israele ne ha guadagnato in sicurezza: l’ho letto sui giornali. Per ora niente posti di blocco, solo ostacoli che costringono a rallentare. I eggeri che salgono mi guardano, con la stessa distrazione di Milano. Un po’ di delusione, mi aspettavo che ci facevano scendere con le mani in altro per un controllo del Mossad. Agenti robusti e mediorentali, imbottiti di kevlar antiproiettile. Forse raggiungerò Eilat, la Rimini israeliana. Ci sono i palazzoni, mi hanno diffidato ad andarci. Ma vorrei fare il bagno in mare a dicembre. Questa nazione è grande come due regioni italiane, forse anche solo la Puglia. Mi sono addormentato per qualche minuto. I ragazzi con le divise, sembrano boyscout con le armi automatiche. Ascolto le musiche sepolte che mi sono scaricato, pure i Talking Heads, Non perché lo dice il regista che ha vinto gli Oscar. Io li ascoltavo prima di lui. Chiunque salga mi guarda, ma non desto preoccupazione perché vestito chiaramente da straniero europeo. Fa impressione considerare che tu sei il
pronipote potenziale di chi nel secolo scorso ha perseguitato gli ebrei. La notizia delle leggi razziali venne pubblicata dai giornali. Qualcuno li avrà letti. Ciabatte e altri dettagli, tanti giovani, qui ci si sposa presto. Bambini e signore grasse, tanti uomini obesi e pure quelli armati, fuori forma. Si mangia grasso forse per lo stress dell’assedio. Ragazzine col culo basso e largo. A loro spetta l’M 16. I maschi hanno il Tavor, la mitraglietta del futuro e col cannocchiale. Spicca quello alto e biondo. Probabilmente russo, con scarpe giganti della Adidas. La sua macchina di morte a ripetizione poggiata sulle gambe. Potrei prenderla e a sparare in aria. I suoi compagni sono pronti a uccidermi. Ho fatto il militare, ma sono stato al poligono solo una volta. È salita un’altra ragazza armata che però si sofferma a guardare nella mia direzione, come si fa con quelli fasciati di bombe. Le ho notato i tatuaggi nel polso, vistosi e grevi. Ma forse lei guarda la mamma con bambina sulla poltrona di fronte alla mia che regge un cucciolo di qualcosa. Chiudo gli occhi, il sonno inizia dalle canzoni. Evito di dormire, per via degli incubi, ne ho sempre di più. Forse ho paura di non farcela. Di nuovo la ragazza armata. Si è voltata per parlare con la mamma, accarezza il bell’animale peloso. Sorrido, partecipo idealmente all’atto. Ma lei mi tiene distante, ancora occhiate allarmate. Io non sono cattivo. Richiudo gli occhi. È così bello viaggiare. La mia fermata, me lo conferma la madre col cucciolo. Lo zaino sulle spalle, attento a non urtare quelle armi automatiche. Dormono tutti. Anche lei è piegata in due, la schiena in una posizione critica. Non è carina, come Bar Rafaeli. Le o accanto. Io non sono un pericolo. Si risveglierà e non mi vedrà più. La minaccia svanisce all’improvviso. Siamo in tanti a scendere, procediamo in fila. Posso guardarla senza fare paura. Dorme come chi fa le guardie. La sorpresa è quell’adesivo sul calco del suo m-16. Hello Kitty in rilievo. La voce della ragazza che ha paura di me si fa piccola, mentre appiccica quell’adesivo.
Le porte del bus si richiudono alle mie spalle. La polvere del deserto, gli aranceti. Arteria solare, le auto portano agli appuntamenti tutta questa gente sconosciuta. Cammina lungo il marciapiede, nessuno ci può fermare.
L'autore
Gianni Miraglia Nato nel ’65. Ha pubblicato: Six Pack (Arcana Edizioni 2008); Muori Milano Muori! (Elliot Edizioni 2011); Baumgartner. Nato per volare (Add Editore 2012). Collabora con "Rolling Stone", "Riders" e "D-Repubblica".
Ringraziamenti
Proprio nel bel mezzo dei ringraziamenti mi è arrivata la notizia. Un amico scomparso. L’ha deciso lui. La malinconia non è mai un indizio e poi ti aspetti che tutti riescano anche a ridere. Mi dispiace tanto, è troppo tardi. L’ho conosciuto grazie alla Russia che frequentava per motivi professionali. Ne parlava con ione viscerale, mi ha consigliato e aiutato. Quando gli descrissi l’intento collettivo di questo viaggio si è commosso. L’ultima volta che dovevamo vederci, ho disdetto che stavo ultimando il nostro libro. Una persona sensibile e dagli occhi come il cielo.
Sono giorni che entro ed esco da questa pagina. Non ho eseguito un bel po’ di missioni, non ne ho mai parlato o, come dicono gli adulti, non ho mai affrontato la questione. Ho perso tempo nel cercare contatti in una metropoli in cui è tanto difficile comunicare ed orientarsi. Non mi sento propriamente in colpa, piuttosto in imbarazzo. Ribadisco che senza la vostra fiducia non ci sarebbe questo libro. Ho ripercorso Gofundme dove sfilano i vostri versamenti, gli incoraggiamenti e tanta gioia incondizionata. Devo a tutti voi assoluta riconoscenza e umiltà: dovrò ricordarmene le volte in cui sentirò d’aver capito tutto e di essere migliore degli altri. La gente non esiste, perché siete voi, singoli che assieme hanno alimentato un sogno improbabile e imperfetto. E’ stata una grande opportunità per chiedere aiuto alla persone. Spero anche che d’ora in poi mi accorgerò se qualcuno ha bisogno di me.
Il libro era quasi chiuso a gennaio, ma non coglievo intimità e contraddizione, quelle verità e miserie che compongono la mia personalità. Ciò che ho visto e vissuto andava raccontato, attraverso le mie pulsioni e intenzioni, oltre alle singole vicende già espresse a suo tempo via web. Ho cercato un montaggio che rappresentasse l’esperienza moscovita, senza curarmi dell’obiettività: non l’ho neanche cercata, forse non esiste. Siamo opinioni e percezione in relazione alle proprie esperienze, cultura, condizionamenti familiari e sociali.
Inizia l’ascesa dei titoli di coda. A turno compaiono i vostri volti nei momenti più intensi mai vissuti. Caro Lorenzo Castelnuovo, senza di te questo viaggio sarebbe rimasto l’abbozzo di un proposito a bocca piena. Non ricordo cosa mangiassimo. Ti ringrazio per l’attimo in cui da un barlume confuso, hai dato impulso a un’idea. Ti ringrazio per avermi incoraggiato. È bello, quando una persona crede in te. Grazie ancora. Grazie anche a Piero Lo Faro che mi hai aiutato a trovare il sito crowdfunding. Senza di te, finivo dagli strozzini. Ringraziamento assoluto a Fabio Ventola, senza di te mi sarei perso già in aereo, oltre che sul web. Grazie infinite a Simone Caltabellota per la lettura e i consigli. Grazie a sco Pedicini che ha stampato questo libro. Grazie anche a T che ha realizzato la copertina. E ora proseguiamo coi miei fallimenti, in ordine casuale. Elena Lazzarini, non ho trovato barbieri con la lama da innervosire. Neanche il marzapane, ma ho assaggiato un dolce tipico alla prugna. Claudio Duro: non ho localizzato dove abbiamo ucciso la Politkovkaja. Delusione pure per Andrea Lezoli: non ho trovato una bella ragazza russa da tenere per mano in Piazza Rossa. Marta Lucingoli: niente cinema d’essai, per assistere a un film d’autore all’ultimo spettacolo senza addormentarmi. Giovanni Garnero e Titti Vitale Ponticelli: mi è stato impossibile depositare i fiori sulla lapide di Gagarin, cantando di quell’aprile che s’incendiò. Massimiliano Pintus: nessuna ragazza mi ha portato a casa per le foto di famiglia. Ilaria e Gianluca: niente dediche dal Bolshoy per Emma, la nipote ballerina. Caro Roberto Grassi, non sono riuscito a gridare della Potemkin sulla tomba di Einseinstein per rispetto, perdonami. Michela Sartorio: non ho conosciuto un anziano che ti cantasse Kalinka. Niente cori, caro Valerio Millefoglie. Ho cercato inutilmente la sede canora dell’Armata Rossa. Ho solo ricevuto una mail surreale, mesi dopo il rientro. Paolo Platania: ho iniziato la lettura di “Guerra e pace”, ma di notte dovevo scrivere e stare in giro e crollavo. Ma ora che ho finito, continuerò. Caro Fabio Santinelli, non ho trovato il tifoso con la sciarpa della Dynamo. Cara Ila De Borin, non ho raggiunto la tomba di Bulgakov. Ilaria Ferrari: niente Gopro al supermarket, le guardie rosse non vogliono cose strane. Simone Tempia: quando ho cercato di bere a dismisura, sono stato sgridato. Caro anonimo, che hai chiesto di recarmi in un locale di donne con le tette di fuori, vietavano le riprese e costava caro. Andrea Lavagnini: non sono riuscito ad offrire da bere a Limonov, però mi ha regalato un suo libro. Irene Pepiciello: non ho trovato quei mercatini. Solo negozi tipo i nostri. Roberta Levi e Gian Paolo Uccelli: era vietato fare le foto a Lenin e alla statua di Breznev. Raffaella Oliva, non sono riuscito a scovare le Tatu, ma
stanno bene. Federico Mandirola: non ho trovato il pesista “Misha” Koklyaev. Ferruccio Bono, non ho trovato la vecchia Pravda, ma solo la nuova. Paolo Priano, ho cercato la statuetta di Lenin, ne ho trovate alcune giganti e costose. Andrea Stanich, ho scoperto che il mio oligarca in realtà produceva whisky in garage. Ugo Orsini, niente calze fatte a mano. Sebastiano Dorio: se irrompevo in piazza Rossa su un suv, non ero qui a scriverti. Ginevra Barroero, mamma di Yuri: China Town è stata rasa al suolo per questioni igieniche. La migrazione è dagli stati della federazione. Ma ho visto degli angolani vestiti da cosacchi. Caro Mauro Manieri: al mio ritorno chiesi a un russo se si stava meglio prima e ha detto di sì. Caro Fabio Scarpa, non sono riuscito ad onorare l’uomo d’acciaio, ma ho colto quella modestia che mi avevi detto, l’umanità dispersa, gli anziani seduti sulla metropolitana. Teresa Jurilli: gatti siberiani sì, ma niente gufo russo. Arianna Andreatta: nessuna notizia su Ski, ma ho visto gente giocare a dama. Massimo Canuti: non ti ho salutato la tomba di Fedor, ma l’ho evocato, ogni volta che dicevo di essere scrittore. È imbarazzante. Caro Michele Cristoforetti, nessun tentativo di corruzione. Antonio Colaci e Yoshie, la cartolina per Honda l’ho consegnata a un campione in erba futuro milanista. Paolo Parigi e Giorgio Ponticelli: mi è stato sconsigliato di andare nell’ex-città segreta: troppo lontano e non c’è molto. Alessandro Pogliani: la sera della DJ ceca Téa Wavesword ero al circolo italorusso. Luis Noise: non sono riuscito a are al teatro Dubrovka, ma Viktor ha raccontato la sua fortuna. Adele La Perchia, non ho indagato sui diritti civili. Roberto Bianchini: non ho cantato nella piazza Rossa, ma sotto la doccia a Milano. Valerio Savino: non ho trovato la maglia a righe degli Omon. Markus Sottocorona: ho avuto paura e non ho scritto fuck sull’auto della polizia. E ora iniziano i più o meno esauditi e chi non mi ha chiesto niente. Grazie ad Avy Candeli, Stefano Ciavatta, Marco Gerenzani, Wild Bob, Mr Milk, Alessandra Rebecchi, Mirko Pallera, Angelo Pannofino, Lello Gramegna, Laura Oldani, Roberto Ottolino, Alessandro Stenco, Lorenzo Rocchi, Gabriele Di Donato, Marcello Pastonesi, Elena Raffa, Chiara Rea, Thomas Viezzoli, Maurizio Zoja, Sebastiano Alicata, Helga Pellegrini, Paolo Tognoni, Andrea Valentini, Luca Paolassini, Fabio Palombo, Diego Savona, Roberto Fuso Nerini. Denise Mapelli, Loredana Settembrini, Daniela Tornelli, Michele Dalla Mura, Gb e Valentina e Fetoneto, Marina Cattaneo, Max Nasi, Giovanni Di Modica, Stefano Trucco, Roberto Sani. Michele Rizzardi, Alessandro Baiardi, Fabio Pasquarelli, Daniela Bozza, Alessandra Ciabatti. Marco D’Erasmo, Thomas Pololi, Eugenio Modesto, sco Crespi, Anna Paola Parazzini Alessandro Ferrari, Maurizio Di Trani, Marco Freccia, Matteo Bottari, Alessandro Ferrari; Massimo Malatesta, Raffaella Arpiani, Andrea Carraro, Walter Fontana, Michele Nocchi, Vincenzo
Celli, Simone Caltabellota, Niccolò Cerboncini, Pietro Putti, Stefano Morelli, Gisella Ponticelli Marcella Rossi, Stefano Campora, Diego Zucchi, Claudia Ulivieri, Alberto Ponticelli, Luca Orma, Andrea Lombardi, Alberto Guarini, Tecnica, Natural Born Elegance, Cressi Sub, Cuordimela, Cinzia Poli, Natascha Lusenti, Filippo Solibello, Marco Ardemagni di Caterpillar Am, Ivan Carozzi, Casino Royale, Julian Cerruti, Raffaele Serra, Marco Pauli, Viktor Kopytin. Tatiana Gorevaia, Mikhail Weisel, Artem Lubimov, Vladislav Sedelnikov, Anton Vorosilov, Eugene Ilyin, Macs Yoi, Igor&Igor, Ksenia Maximova. Grazie a tutti, еще раз спасибо!