April Rose La Memoria Delle Rose 4s686s

Clara Bartoletti

April Rose La memoria delle rose

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Titolo | April Rose - La memoria delle rose Autore | Clara Bartoletti Copertina a cura dell’autore ISBN | 9788867516469 Prima edizione digitale 2012

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April Rose – La memoria delle rose

A Cristiana, che si merita amore.

A Giuseppe, l’amore esiste.

“Mi dice la mia casa: - Non abbandonarmi, il tuo ato è qui-. Mi dice la mia strada: - Vieni, segui me, sono il tuo futuro. E io dico alla mia strada e alla mia casa: - Non ho ato, non ho futuro. Se resto qui, c’è un andare nel mio restare; se vado là, c’è un restare nel mio andare. Solo l’ amore e la morte cambiano ogni cosa.”

K.Gibran

Indice

Lunedì

Martedì

Mercoledì

Giovedì

Venerdì

Sabato

Domenica

Lunedì

Martedì

Mercoledì

Giovedì

Diciannove mesi dopo

Ringraziamenti

Lunedì

Suo padre era stato categorico: fatti trovare davanti alla casa e senza troppe storie. Tiziano aveva sbuffato, aveva raccattato velocemente la cartellina sulla scrivania, il cellulare, e aveva lanciato uno sguardo a Mauro, il suo collega, che sedeva di fronte a lui. Mauro aveva alzato un sopracciglio e fatto spallucce, come dire, tanto lo sai, che con lui non si discute. Mauro era l’ingegnere dell’azienda, un ragazzo biondo, con i capelli a spazzola, e il naso vertiginosamente all’insù, che ricordava, di profilo, certi personaggi manga dei cartoni animati. Indossava sempre magliette vistose, con i fumetti, e forse colpa del suo segno zodiacale, l’Acquario, aveva spesso la testa tra le nuvole. Il padre di Tiziano lo sopportava poco e non si preoccupava molto di darlo a vedere, ma lo teneva in azienda solo perché nel suo lavoro era molto bravo, e i suoi progetti, puliti e perfetti, non avevano mai dato problemi. Tiziano invece era il suo venditore, o almeno così suo padre sperava diventasse con gli anni: un perfetto serial seller dell’edilizia. Tiziano invece amava pochissimo quel lavoro, era per lui una costrizione andare a parlare con i potenziali clienti, illustrando i pro e contro dell’avere o meno un bagno o due in casa, o per meglio dire il garage interno o il terrazzo zen. Così anche quella mattina la sola idea di andare a fare un sopralluogo per visionare il possibile acquisto di una catapecchia da trasformare in un piccolo e grazioso condominio, lo stava già devastando a livello mentale. Però c’era poco da fare, o andare o andare, con suo padre, che tutti teneramente chiamavano “lo Spietato”, le scelte erano sempre a senso unico: ubbidire. Aveva preso le chiavi della macchina, e poi si era di nuovo voltato verso Mauro, come per dirgli qualcosa, ma poi aveva lasciato correre, ed era sceso di corsa dalle scale, con un cenno di saluto della mano.

Dopo aver fatto il giro del capannone, aveva imboccato la strada provinciale, infilandosi in una zona residenziale, dove suo padre, il segugio, aveva scovato una casa da rifare. Quando Tiziano arrivò sul posto, lo aveva trovato già lì, con le mani nelle tasche della giacca di camoscio, che, mento verso l’alto, osservava con interesse la casa, un edificio quadrato, tipico del dopo guerra, circondato sui quattro lati da una selva di piante rampicanti e alti pini storti, dalle finestre sgangherate e il cancello decadente, ormai arrugginito. - Che schifezza! – disse subito Tiziano disgustato. Non riusciva a veder altro che macerie e non la possibile trasformazione di quelle quattro mura disfatte; lo Spietato invece sembrava in estasi, abbagliato come di fronte ad un quadro di valore. - Andiamo dentro a dare un’occhiata. Ho le chiavi. – aveva replicato il costruttore, senza badare minimamente al commento del figlio. - Io lì dentro non ci metto piede. Ho le scarpe nuove di Prada, mi si sporcheranno tutte. – aveva protestato debolmente il ragazzo, squadrandosi i piedi e molto preoccupato per l’esito dell’incursione. Lo Spietato non lo ascoltò neppure questa volta, e certo era un bene, perché se si fosse arrabbiato sarebbe stato peggio, e andò deciso verso il cancello, per aprire i grossi lucchetti e togliere la catena e poter finalmente farsi largo nella sterpaglia. Suo padre aveva ato la settantina, ma nessuno lo avrebbe detto. Agile, svelto, la postura elegante, il modo autoritario e deciso nell’esprimersi, ma anche accattivante senza tante parole, lo strepitoso successo negli affari, avevano fatto di lui un mito, un pezzo di storia della sua città. Tiziano e i suoi fratelli avevano sempre dovuto fare i conti con quella straripante e pesante personalità, il che aveva comportato dolori e fatica, compromessi e negazioni. Vivere con lui era stato e sarebbe sempre stato difficilissimo. Lo Spietato non riconosceva altri valori, iniziative o aspirazioni diverse dalle sue, e quindi tutti i suoi figli lavoravano per lui e potevano coltivare le loro ioni solo nei piccoli ritagli del tempo libero. Tiziano cantava. Aveva messo su una rock band, fin da ragazzo, e sperava un giorno di finire nelle classifiche dei Cd più venduti. Ma si limitavano a fare delle cover, perché i testi di canzoni inedite, che Tiziano scriveva la notte, nella sua camera, non avevano mai visto la

luce. Preferiva cantarle a voce bassa mentre faceva la doccia, e ne parlava poco, anche con Simon, il chitarrista del gruppo, che lui conosceva dalle elementari, perché ancora non si sentiva pronto per esibirle in pubblico. Le scriveva suonandole al pianoforte, che aveva studiato per anni senza mai dare però alcun esame di conservatorio. Suo padre affermava che cantare era un’inutile perdita di tempo, però, contraddizione, tutti gli anni pagava il biglietto per il festival di San Remo, cui partecipava con la moglie. In quel momento il teatro dell’Ariston però era ben lontano dai suoi pensieri, andare in avanscoperta nella casa degli orrori meritava attenzione. Con una spallata decisa fece capitolare la resistenza del cancello e sbracciando a destra e sinistra si fece largo fino alla scalinata che portava al patio della casa. Infilò le chiavi nella porta di legno, ormai non più bianca ma grigia e scrostata di vernice e si voltò verso Tiziano che non si era mosso dal marciapiede. - Non ho voglia di incazzarmi. – disse perentorio. Poi entrò in casa, e Tiziano in un secondo gli fu dietro, quasi correndo. - E’ una topaia schifosa. – disse Tiziano senza neppure guardarsi attorno. Il salone era immenso, il pavimento di marmo bianco Carrara era letteralmente ricoperto di feci d’animale, l’odore era insopportabile. – Rischiamo di prenderci qualcosa. Pà, dai, se proprio t’interessa, comprala e poi butta tutto giù …- Ci tenevano dei cani. E anche dei gatti. I vicini hanno chiamato l’Usl, tempo fa. E’ successo un macello, adesso la vogliono vendere. Direi che un cinque, o sei appartamenti ci vengono tutti. Hai guardato con Mauro la piantina, ieri? – lo apostrofò il padre. - Non ce l’ho fatta. – mentì Tiziano. Non gliene poteva fregare di meno, di guardare quella stupida piantina. - Il tuo problema è la pappa fatta. Forse dovrei mandarti a lavorare sottoposto,

magari cominceresti ad apprezzare. Vedi quei fogli? Sono pratiche legali. – indicò con un dito un mobile lunghissimo, di legno, che riempiva la stanza. Era letteralmente coperto da carte sporche, l’unica presenza in quella stanza d’oggetti. – Vedi cosa succede quando non si va d’accordo in famiglia? Questa casa è stata contesa da anni, adesso ci penserò io, basterà una telefonata.- Interessante. Davvero. – disse Tiziano dissimulando male uno sbadiglio. Suo padre finalmente si girò a guardarlo, scosse la testa e poi disse, in un tono che non ammetteva repliche: - Sarai tu ad occuparti di tutto. Dovrai portare avanti la trattativa, acquistarla al miglior prezzo, andare dal notaio, occuparti delle stesure dei documenti, planimetrie, fornitori, e vendite. Sarà il tuo compitino in classe, e speriamo che tu riesca a fare le cose come si deve. – Trattenne un risolino soddisfatto, mentre Tiziano, preso alla sprovvista da tale incombenza, si sgonfiò come un canotto bucato. Respirando affannosamente provò ad esprimere i suoi dubbi e le sue paranoie al riguardo, ma non riuscì a dire una sola parola, strozzandosi quasi nello sforzo. Sarebbe stato tutto inutile, e quindi tanto valeva cominciare a farsene una ragione. Tornò in ufficio, lanciò sulla scrivania la cartellina, si sedette, mise la testa fra le mani e sconfortato chiese a Mauro se per caso avesse avuto voglia di una pizza assieme. Mauro, molto contento dell’invito disse di si. Tiziano aveva pensato che se doveva andare tutto come voleva suo padre, avrebbe dovuto trovare un po’ di coraggio per fare anche quello che desiderava: ci avrebbe dovuto lavorare sopra un po’ ma forse era arrivato il momento di fargli vedere di che pasta era fatto.

Martedì

L’avvocato Enrico Maria Carletti aveva un debole per le belle donne. Si può dire che nessuno è immune al fascino di una signora di classe, proporzionata e magari sensuale, ma l’avvocato era veramente un patito del genere. Qualcuno, scherzando, lo aveva più volte paragonato ad un personaggio di Sordi, quel tipo d’ometto perditempo e fascinoso che tra mille sussieghi e sguardi ammiccanti, è capace di corteggiare senza sosta per un’intera giornata. Lui, l’avvocato, aveva poi un chiodo fisso, che era la moglie dello Spietato, la signora De Rossi, sempre perfetta, incipriata, impomatata e sfuggente, senza traccia di rughe e dal sorriso principesco. Ecco, quando Enrico Maria si trovava di fronte la signora Lucetta, era proprio un problema tenerlo fermo. Ci provava, inesorabilmente, da quindici anni, speranzoso che, lei, alla fine, avrebbe ceduto alle sue lusinghe. Si andava ripetendo, se è andata bene al protagonista del libro “L’amore ai tempi del colera”, andrà bene anche a me. La signora, quel pomeriggio, si era presentata indossando un vestito chiaro, un cappottino di lana color crema dal collo sciallato e stivali alti. Flessuosa come un giunco, aveva chiesto di poter fumare nell’ufficio dove si era accomodata senza troppi complimenti, e aveva esordito con un mellifluo “Dobbiamo aiutare Tiziano”. Enrico Maria, quasi sdraiato sulla scrivania, tentava con disperazione di seguire il discorso della sua cliente, senza perdersi in fantasie erotico romantiche che lo avrebbero ben presto fuorviato. - Tiziano? Ha combinato qualcosa?- si era informato immediatamente. Avrebbe voluto aggiungere, quel pischello arrogante, ma si era trattenuto giusto in tempo. - No, per carità. Lui è perfetto, praticamente perfetto. Buono, lo sai, Enrico Maria. Mai un problema, in trent’anni di vita. Solo che .. – si era fermata, come incerta, tecnica infallibile per creare ulteriore suspense – solo che Arrigo gli ha detto di occuparsi di una trattativa, per una casa, e temo che Tizzi non riesca,

vista la sua inesperienza, a concludere l’affare. Sai com’è Arrigo, se non raggiunge l’obiettivo diventa insopportabile, una macina al collo. Vorrei evitare il più possibile questo stress al mio bambino, sai com’è sensibile, riservato, dolce. Non è proprio affare suo occuparsi di case e compravendite, ma ormai Arrigo ha preso quest’idea e non riesco neppure io a farlo capitolare. Volevo chiederti se… - aveva nuovamente fatto una pausa. Lo aveva va guardato dal basso verso l’alto, e gettato una debole boccata di fumo dalla bocca, e aveva aspettato la domanda dell’avvocato che non si fece attendere. - Dimmi cosa, Lucetta, sai che per te, sai la stima che ho, sai che io, tutto quello che è nelle mie possibilità.. chiedi e ti sarà dato- aveva biasciato lui continuando a guardarla in modo felino. - Volevo appunto chiederti se potevi tu informarti di chi siano questi venditori, se puoi in qualche modo, discreto, occuparti della cosa, che Arrigo non sappia niente, che poi – scrollò la testa da una parte – se la rifà con me. Io, in verità non capisco perché gli riesca difficile accettare Tizzi e la sua predisposizione musicale. – Sospirò, poi riprese con maggior foga: – L’anno scorso, ad esempio, abbiamo venduto quell’attico strepitoso a quel talent scout, quel tipo famoso che è sempre a X factor. Tizzi ci aveva già fatto la bocca, Arrigo pensavo lo presentasse al nostro bambino, magari per un’audizione, ma niente. Non ti dico quanto ho sofferto per questa mancanza di tatto di mio marito. Che gli costava dire una parola a favore della band? Convincerlo ad ascoltarlo, canta così bene, tu sai che canta benissimo, Enrico Maria. – Aveva terminato l’arringa con un gesto stizzoso, spegnendo la sigaretta nell’immenso portacenere dell’avvocato, che lui però usava come fermacarte. Enrico Maria aveva seguito il discorso facendo su e giù con la testa, le mani giunte, l’aria afflitta di chi sa comprendere i guai altrui, ma in realtà non aveva capito una sola parola, e pensava solo a come poter convincere la signora ad accettare un suo invito galante. Lei parlò ancora qualche minuto, sempre con il tono esacerbato di chi ha un brutto rospo da ingollare, ma alla fine cedette al sorriso dell’avvocato che ne approfittò immediatamente per spingersi nel terreno a cui ambiva. - Posso invitarti a prendere un caffè, Lucetta? Ti vedo molto, molto provata per quanto sta succedendo, e tu sai quanto mi stia a cuore il tuo benessere psicofisico. Non potrei mai vederti triste per certe cose. Tiziano è sempre nei

miei pensieri, come a te, del resto. – e prontamente allungò una mano sulla scrivania, per prendere quella di lei. - Enrico Maria, sei sempre stato disponibile con noi, sapevo di poter contare sul tuo aiuto. Per il caffè – sospese di nuovo la frase a mezz’aria, come se stesse recitando un copione di soap – direi che possiamo fare, ma un’altra volta, adesso sono di corsa. Ho – pausa – alcune cose da fare. - Lo sai, Lucetta, che ogni tua parola è un ordine, quando vorrai, io sono qui. Hai il mio numero.-l’avvocato sfornò un sorriso a sessantaquattro denti, di cui poteva dire con orgoglio essere stato il miglior lavoro in circolazione del suo dentista, e si alzò, cerimonioso, per accompagnarla alla porta. Lei si fece portare per il braccio, come una diva, e poi lo salutò, quasi commossa, e con un lungo sguardo pieno di lunghe ciglia ben curate. Lui rimase a guardarla, mentre si allontanava nel corridoio, per poi uscire dal portone, e alla fine esclamare un “fanculo pischello di merda!” che la segretaria davanti a lui, a testa bassa sulla tastiera, sobbalzò. -Non ci sono per nessuno, Claudia. Venga con me che abbiamo da fare. – ringhiò con veemenza. Poi rientrò nel suo tetro ufficio di mobili neri, aprì la cartelletta che le aveva portato la sua adorabile cliente e cominciò a leggere quel “fottutissimo fascicoletto del cazzo”.

Arrigo si era fatto tutto da solo. Aveva cominciato a fare il muratore da bambino, subito dopo la guerra, insieme ai fratelli. Con immensi sacrifici erano riusciti a far studiare l’unica femmina della famiglia, la loro sorella più piccola, che si era diplomata come geometra e che era riuscita a vincere il concorso nel Comune, nell’ufficio tecnico, e quindi grazie a lei e alle sue conoscenze gli anni settanta avevano visto il fiorire dell’azienda familiare nel giro di pochi anni. Erano diventati i numeri uno della zona, tutti conoscevano la famiglia De Rossi come quella dei grandi costruttori, che avevano commissionati lavori sia dal pubblico sia dal privato, dalle piccole ristrutturazioni ai grandi alberghi. Uno dei lavori più leggendari era stato il rifacimento del regio Casinò, l’albergo

Kursaal, l’edificio d’evidente gusto orientaleggiante, con le torrette laterali coperte da squame di ceramica a più colori, forse giallo e verde che qualcuno gli aveva commissionato di tirare giù e rifare. Arrigo si era valso la collaborazione di Saponetta, così chiamato perché teneva in casa vecchi cimeli della seconda guerra mondiale, in particolare bombe inesplose, saponette appunto, nitroglicerina e altri manufatti bellici degni di una Santa Barbara. Un mattino lo Spietato era partito alla volta della casa di Saponetta, avevano tirato su una quantità non precisata d’esplosivi, poi su una bicicletta nera da uomo – lo Spietato alla guida e Saponetta, più smilzo, seduto di traverso sulla canna-, erano tornati all’albergo. Avevano minato la struttura del tetto, poi si erano guardati in faccia, ma neppure troppo preoccupati, e avevano fatto brillare tutto. Viareggio era saltata per aria, letteralmente parlando, e tutti riversati in strada urlavano che era scoppiata la guerra, di nuovo, o che c’era stato un attentato. Il tetto venne giù d’uno colpo, e non ci fu bisogno di martelli pneumatici né di sudore, e ben presto l’albergo cambiò aspetto, connotandosi come nuova struttura senza personalità: una struttura solida anni sessanta, né carne né pesce. Arrigo si era compiaciuto dell’opera, e aveva continuato a murare senza sosta, arricchendosi, e facendo star bene la famiglia da un punto di vista finanziario, molto meno da quello emozionale. Arrigo non rideva mai, se non con gli amici, Arrigo non parlava mai di sentimenti, neppure con la moglie, Arrigo considerava i tre figli dei pappa molla senza spina dorsale, Arrigo era una roccia, e tanto bastava per tutti. Considerava il suo lavoro una forma d’arte e non riusciva a capire perché i suoi figli morivano di noia al solo pensiero di continuare il suo operato. Temeva che una volta ritiratosi dagli affari, tutto sarebbe andato a “puttane”, come ripeteva sempre, come una cantilena. Però forse Tiziano, il suo preferito, il piccolo, nonostante tutto, ce l’avrebbe fatta. Era solo questione di crederci. Lui ci credeva. Si era ricordato di quella ragazza, con cui Tiziano aveva convissuto qualche tempo, poco, in verità, che gli aveva chiesto un favore. Lei si era comprata una casetta piccola e rustica, con finestre piccole, e con un piccolo terrazzo pieno di fiori. Arrigo le aveva detto che era molto piccola, ma che non era poi tanto male, e

aveva detto a Tiziano cosa stesse aspettando di levarsi dai “coglioni” e andare fuori di casa, e di comprarsi una casa anche lui. Lui aveva preso la palla al balzo, e il giorno dopo aveva chiesto alla ragazza di ospitarlo. Lei, presa dal suo ruolo di crocerossina, lo aveva accolto a braccia aperte. Il problema era nato sullo spostamento delle tracce elettriche. Essendo in due, c’erano da fare delle modifiche, sia elettriche sia di muratura e Tiziano si era ritrovato a non sapere dove mettere le mani. Troppo orgoglioso perché chieda aiuto al padre tuttofare, ci aveva pensato lei, la ragazza. Aveva telefonato al neo suocero per chiedere un intervento rapido. Arrigo si era presentato vestito di tutto punto, in giacca e cravatta. Si era tolto la giacca lentamente, l’aveva messa sulla spalliera di una sedia, si era tirato su appena le maniche, ma poco, giusto per scoprire i polsi, poi aveva cambiato i fili elettrici nel muro, e rifatto nuove tracce, senza sporcarsi né sporcare in terra. Poi, era andato alla macchina, aveva tirato fuori la cazzuola, la malta, un secchio di plastica e con calma serafica, come un pittore che dipinge una tela, aveva rifatto il muro, prima l’intonaco, e poi di fino. La ragazza lo guardava estasiata, come rapita da una magia, mentre Tiziano sbuffava e faceva su e giù per la stanza, come invidioso di tale meraviglia. Arrigo rimase a cena da loro, lei aveva cucinato bene, e Arrigo si era complimentato con il figlio per la scelta della ragazza. – Una ragazza coi “controcazzi”.- aveva detto, nel suo modo brusco e rozzo, e Tiziano aveva fatto una smorfia contrita come dire “eh, ho capito che lei è meglio di me”. I due ragazzi erano stati assieme poco, i conflitti erano venuti a galla molto presto. La ragazza era molto inquadrata, seria, volenterosa. Tiziano odiava essere puntuale, si arrabbiava per ogni stupidaggine, le inveiva contro e poi le chiedeva scusa un giorno sì e l’altro no, e le loro conversazioni erano di un vuoto abissale. Così un giorno lei gli aveva fatto trovare la valigia fuori dalla porta. Lui aveva protestato, aveva schiamazzato nel piazzale urlando “puttana” e “maledetta stronza” per un po’, ma poi era tornato da mamma che lo aveva riaccolto subito, quasi in lacrime, dicendo che “lei non lo aveva mai meritato”. Arrigo invece si convinse ancora una volta che Tiziano doveva crescere, e di

corsa, e che la mamma avrebbe dovuto farsi da parte una volta per tutte. Forse la compravendita di quella casa sarebbe stato l’avvenimento che cercava da anni.

Mauro era gay. Questo lo sapevano ormai tutti, a parte lo Spietato. Non avrebbe gradito la cosa, o forse non gliene sarebbe fregato niente, fatto sta che, per motivi precauzionali, nessuno glielo aveva detto. Mauro aveva preso coscienza della sua omosessualità anni prima, in un conflitto a fuoco scherzoso a base di cuscinate a casa di un amico. Era stato un evento accidentale, non voluto, ma era capitato, e grazie a questo lui aveva capito che i suoi non erano solo dubbi adolescenziali, ma la sua natura. Il ragazzo con cui aveva giocato alla Play per quasi due ore aveva preso a canzonarlo, ma in modo dolce, quasi intimo, e lui era arrossito prima per il piacere che stava provando, poi di vergogna, temendo di trovarsi davanti ad una persona che lo stava umiliando. Ma anche l’amico era come lui, e il gioco diventò sempre più di contatto. L’amico aveva preso un cuscino dal divano e aveva cominciato a colpirlo, prima piano, poi sempre più forte, e alla fine Mauro aveva preso anche lui un cuscino e gli si era gettato addosso. L’affanno, la mancanza di forze, il respiro ormai andato, e si erano ritrovati con i visi vicini, ormai impossibile ritrarsi, si erano baciati in modo goffo. E si erano subito fermati, sconvolti entrambi per com’era andata la cosa, incerti se continuare o no. Senza guardarsi, con i cuscini ancora in mano, erano stati zitti per un po’, poi Mauro aveva detto di aver sete e l’altro era corso in cucina a prendere una Coca. Avevano giocato ancora alla Play, come se nulla fosse successo, e si erano salutati in modo neutro sulla porta, senza nessun accenno al fatto. Poi dopo qualche giorno Mauro aveva deciso di mandare un sms all’amico, chiedendogli di poterlo vedere, da solo. L’altro aveva risposto subito, in modo affermativo, - con tutta probabilità non aspettava altro e aveva vissuto giorni d’angoscia e ansia guardando il cellulare fatto sta che si erano dati l’uno l’altro, senza però mai parlare di quello che facevano, del perché di quell’attrazione, e senza alcuna dolcezza, dopo.

Poi l’amico si era trasferito a Milano, per studiare alla Bocconi, e Mauro aveva continuato la sua corsa ad ingegneria a Pisa, e si erano persi. Non si erano mai chiamati, mai scambiati una mail dopo l’ultima volta, comportandosi in modo assolutamente maschile, senza effusioni o nostalgie. Mauro aveva avuto qualche storia dopo, ma mai un fidanzato fisso, temeva sempre di compromettere la sua libertà, ed era anche crudele con i suoi amanti, che se si innamoravano si facevano del male da soli. Mauro era anche un profondo narcisista, che davanti a sé vedeva solo specchi che riflettevano la sua immagine, e non mostrava nessuno tipo d’empatia per gli uomini che seduceva e abbandonava senza troppi scrupoli. Purtroppo un tallone d’Achille ce lo aveva anche lui, si era innamorato senza corresponsione, proprio di Tiziano. O per lo meno, Tiziano non aveva ancora capito d’essere l’oggetto del suo innamoramento, quindi era solo questione di tempo. Mauro stava ore al computer, con la coda dell’occhio guardando il collega, con la speranza di essere notato da lui, ma questi bighellonava su internet, ascoltando le canzoni su You Tube, in cerca dell’ispirazione mistica per una nuova canzone, e spesso entrava in chat, per chiacchierare con delle ragazze che Mauro reputava “stupide” e “dementi”, quando era in vena di complimenti. Ultimamente Tiziano si era incuriosito per una ragazza, una modella di Roma, che però non aveva mai il becco di quattrino, e chiedeva al ragazzo dei regalini, come ricariche telefoniche, che lui si era preoccupato di mandarle, in cambio di qualche foto osé. Mauro disgustato gli aveva detto che non era proprio il caso di fare simili “porcate”, ma poi si era reso conto che non era proprio la persona adatta per dare giudizi, e si era limitato a grugnire con disprezzo ogni volta che l’amico controllando il cellulare se ne usciva con esclamazioni volgari d’ammirazione. Forse, pensava, questo lavoro ci avvicinerà. Farò di tutto per aiutarlo a comprare questa casa, e lui capirà della mia venerazione, dovrà cedermi. Forse, pensò quella mattina, non mi ha invitato a mangiare una pizza per caso. Forse questa casa è una benedizione.

“Ieri pomeriggio mi sono assentata un attimo, non ricordo dove ero, fatto sta che quando sono arrivata in salotto c’era un messaggio nella segreteria. L’ho ascoltato mentre mi toglievo le scarpe, erano piene di terra, e avevo sporcato il parquet, e mentre tentavo di raccogliermi i capelli con una coda sulla testa. La voce era nasale, antipatica, stranamente viscida, che il solo sentirla per meno di un minuto mi ha fatto venire la pelle d’oca. Era un messaggio di un avvocato che mi chiedeva un appuntamento per la vendita della mia vecchia casa. Oddio, ancora quella orribile casa, tutte le volte che me la rammentano mi montano i nervi. Vorrei che qualcuno l’abbattesse, senza dirmi niente, ma come al solito, ci sono dei problemi sotto e mi vengono a cercare. Ma io non rammento d’essere l’ultima erede, almeno credo. Già, ormai sono morti tutti, mia madre, mio padre. Non ho fratelli né nipoti. I miei si sono scannati per averla, e poi è toccata a me, a me, l’unica a cui non importa niente. Troppi ricordi forse. O forse perché sono terribilmente stanca per occuparmene. Ho male alla schiena, spesso, e vorrei sollievo, magari un massaggio come si deve, e a volte ho sonno. Il sonno mi sa che sia dovuto all’ipocondria che sento salire dal mio stomaco quando so di aver a che fare con la casa. Comunque non ho richiamato. Ho aspettato che lo fe il tipo, ed, infatti, è successo, più tardi, o forse il giorno dopo, però a quel punto ho fatto alcune domande. L’avvocato mi ha chiesto di parlare più forte al telefono che non mi sentiva bene, e io mi sono irritata. Che maleducato. Ho riattaccato, ma lui mi ha richiamato subito, scusandosi. Mi ha chiesto scusa venti volte, o forse di più, insomma io ero già stanca della situazione, e ho tentato di chiudere la conversazione, ma lui ha insistito. Ha chiesto di vedermi. Che sfrontato. Di vedere me. Gli ho risposto che non avevo alcuna intenzione di vederlo, e che si fosse avvicinato a casa mia gli avrei sparato. Dalla finestra, o forse dalla porta, non so, in qualche modo avrei poi deciso, e un buco in fronte se lo sarebbe tenuto. Quando gli ho detto così, quello è rimasto zitto e poi ha chiesto se aveva capito bene. Gli ho detto, si, hai capito bene, ti

faccio saltare il cervello, macaco! A me piace dire alla gente che mi sta sulle scatole “macaco” perché non è un’offesa gratuita, ma insomma un macaco è una scimmia dispettosa e anche puzzolente, il che non è neppure un complimento. Però c’è anche un filo di tenerezza, nella parola macaco. Un macaco è pur sempre un macaco! Insomma, l’avvocato ha sbuffato qualcosa, mi ha piagnucolato che si trattava della famiglia De Rossi, mica di sconosciuti, ma io in verità non avevo idea di chi parlasse, e poi ha detto che si trattava di soldi, mica di coriandoli. Al che gli ho detto che ovviamente si parlasse di soldi, cosa pensava, che gli regalassi la casa? Il tenore della telefonata è stato molto brutto, ad un certo punto mi è venuto in mente che avevo messo su il latte sul fuoco e gli ho detto di aspettarmi in linea. Non so quanto l’ho fatto aspettare, ma quando ho ripreso in mano la cornetta c’era una donna al suo posto, una certa Claudia che ha squittito come uno scoiattolo quando ha sentito la mia voce e mi ha riato il macaco. L’avvocato era molto preoccupato al telefono, forse pensava che gli sparassi attraverso il cavo telefonico, ad ogni modo mi ha detto che avrebbe mandato qualcuno a prendermi. A prendermi? Per portarmi dove? Lui ha cambiato tono, sembrava parlasse con una ritardata e mi ha detto “le mando un taxi”. Gli ho risposto che il taxi poteva infilarselo dove non ci batte mai il sole, e ho chiesto di quanti soldi si stava parlando. Se devo sapere, meglio subito. Intanto bevevo il latte, ma ero talmente nervosa che non riuscivo neppure a gustarmelo. L’uomo è stato un po’ zitto, poi ho sentito che controllava dei fogli, sentivo lo scricchiolio delle pagine, ed è saltato fuori che non lo sapeva. Non sapeva la cifra, perché voleva parlarmene a quattr’occhi davanti magari ad un caffè. Penso che un avvocato più cafone di questo non si possa trovare in giro e ho risposto un’altra delle mie volgarità, tipo ficcati in quel posto anche il caffè, e lui mi è sembrato stanco, molto stanco e ha detto che mi avrebbe fatto richiamare da un certo Tiziano o Rossano, che forse era meglio che ne parlassi con lui. Lui, chi? E di cosa?

Ho sospirato due o tre cose al telefono, ma quello ormai lo avevo perso e continuava a dire “pronto, mi sente?”, e io ho risposto si, tre o quattro volte, ma quel maleducato fingeva di non sentirmi e allora ho messo giù. Poi ho preso il latte e l’ho finito di bere, ma faceva veramente schifo, e sono andata a letto, credo. Insomma, dopo un po’ mi ha chiamato l’altro macaco. Questo aveva una voce decente, per fortuna, ma un tantino insolente, peggio dell’avvocato. Mi ha quasi aggredita, dicendo che voleva vedermi per la casa, sta casa è importante, una specie di questione di vita o di morte, che ne so, avrei voluto minacciarlo di morte pure lui, ma poi ci ho ripensato. Ho pensato che se tutti vogliono casa mia, che la ottengano alle migliori condizioni. Le mie, condizioni, non le loro, condizioni. Allora l’ho ascoltato, senza interromperlo. E’ partito con espressioni aggressive tipiche da marmocchio viziato, poi poiché non aprivo bocca, è sceso con il tono e sembrava più calmo. Allora gli ho chiesto se gli piacciono i cioccolatini, e si è ammutolito. Poi ha mormorato…cioccolatini? Ma dico, mica gli ho chiesto se soffre di vermi! Ho chiesto se gli piacciono i cioccolatini, la gente non ha senso della dialettica, però lui alla fine ha trattenuto una risatina e ha detto si. Di tutto quello che ci siamo detti è stata quella risatina soffocata che mi ha fatto capire che non era proprio un tipo da sparargli e gli ho detto di venire da me. Gli ho detto che sarà una cosa lunga, che non creda di comprare la mia casa in due minuti, di armarsi di santa pazienza, e poi non ricordo cosa ho detto ancora, ma lui poi ha iniziato a dire “pronto pronto, mi sente?” come il suo amico pirla e allora ho fatto uno sforzo enorme e ho detto “domani, alle cinque, qui da me”. Lui ha chiesto se l’indirizzo era giusto, io credo di aver risposto di sì, voglio dire, mi chiami, hai il mio numero e pensi che abbia la casa da una altra parte? Però io sinceramente non mi sono agitata più di tanto e gli ho detto che doveva venire con un blocco notes e una penna, meglio ancora un lapis con la punta bella fina, e anche un appunta matite che dovevo dirgli delle cose, lui non credo che abbia capito. Però se non viene con il blocco notes e il lapis lo caccio fuori da casa, e forse gli

sparo, anche.”

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E basta, che cazzo. Basta, ma posso vivere, una volta tanto? Sto bene solo quando mi infilo nel garage di Simon e canto. Lui suona, Mario alla batteria, Cristiano alla pianola e tutto è okkey. Io al piano che canto a tutto spiano. Tutto è stramaledettamente okkey senza rotture di coglioni. Adesso mi tocca cambiarmi, mettermi la camicia bianca, assumere quella faccia da venditore di mattoni che piace tanto a mio padre e raccontare il meglio di me per convincere la pazza a sganciare la catapecchia. Deve essere una vecchia rincoglionita, una stordita fatta di psicofarmaci e tranquillanti, certo, deve per forza essere così. Se ha litigato con la famiglia d’origine da anni, deve essere una depressa, una semi alcolizzata. Aah! Magari ha pure un cannone da fumare a metà. E’ così che la penso, anche se mi ha chiamato quel gran leccapiedi dell’avvocato di famiglia, che ha voluto sapere se fosse il caso di venire con me domani, dalla pazza, per la trattativa, ci vado da solo. Da solo. E’ stato invadente, si vede che vuole la sua parte, il parassita, ma ho declinato l’offerta. Ma che si fotta, anche lui, cazzo! Posso farcela da solo. Sia chiaro. Che ha Mauro da guardarmi? - Tiziano, ho rifatto le piantine con Acrobat, te le ho stampate in formato A3, sono uno spettacolo. Vuoi vederle? Diventerà un complesso d’alto livello, un attico di lusso, e quattro appartamenti, due a piano, con garage interno, e giardini pensili. Ti piace?Mauro è venuto da me in corridoio con quei fogli e mi è dispiaciuto dirgli che non avevo voglia di vederli. Devo rendere conto che lui ci capisce in queste cose, e vedo che vuole a tutti i costi la mia approvazione, e allora ci ho dato un’occhiata. Per non deluderlo. Mi è sembrato anche troppo felice, come se gli venisse in tasca chissà cosa, però, devo essere sincero, il suo lavoro mi ha colpito. C’era un’armonia, una certa carica emozionale nei suoi progetti, come se dentro ci fosse anche un’anima femminea, diversa da altri progetti, e ho detto,

aspramente, di rivedere certi particolari, che mio padre non avrebbe capito. Lui ha fatto di si con la testa, ormai lo sa anche lui di che pasta è fatto lo Spietato e ha solo detto che però era contento che a me fosse piaciuto. Mauro a volte si comporta in modo strano, o ha la testa fra le nuvole, o ammicca, o è triste, o è nervoso per i suoi cazzi. Essere checche non deve essere facile, strano però, lui non lo sembra. Quasi mai.>> Tiziano era poi uscito dall’ufficio verso le diciotto, era andato in un bar della città a prendere un aperitivo, aspettando Simon, che però non si era fatto vivo. Guardando il mare, e il tramonto, decise di farsi un giretto sulla spiaggia, prima di andare a cena a casa, dai suoi. Attraverso il aggio a mare fra due stabilimenti balneari, chiusi per l’inverno, arrivò sulla battigia. Faceva freddino, e aveva tirato già la testa dentro il cappotto grigio, tutto strappato nel colletto, - un cappottino firmato che era costato una cifra ma che gli dava un’aria da finto povero alternativo – e infilato metà faccia dentro il foulard di lana azzurro che teneva intorno al collo. Si era guardato attorno, incerto se fotografare o meno il tramonto con l’Iphone e metterlo su Facebook, quando aveva notato, poco più avanti, in ginocchio, una ragazza che con una macchina fotografica professionale, stava scattando alcune foto alle onde che si frangevano sulla sabbia. Era molto intenta nel lavoro e non lo aveva notato. Non era sola, ma con un cagnetto bianco e nero, che saltava dappertutto, prendeva delle rincorse e si metteva in bocca dei rami portati dalla corrente. Lei non lo considerava, troppo presa da quello che stava facendo. Lui si era avvicinato piano, e si era messo poi a chiamare il cagnolino, mossa che lui considerava fondamentale nell’approccio verso una donna perché se lei ha un cane, devi arruffianarti l’animale prima di tutto e lei si innamorerà di te in mezzo minuto. Alla fine lei, finalmente, si accorse di non essere più sola. Si tirò su. Era una ragazza castana, dai lunghi capelli lisci, gli occhi enormi e blu, un cappellino di lana enorme sulla testa, stivali da cavallerizza e una minigonna mozzafiato. Aveva i guanti di lana, e la bocca carnosa senza rossetto.

- Ciao, che bel cagnolino. Come si chiama? – aveva detto lui facendo un sorriso enorme, quello che lui considerava da palco, per i concerti. Quello che solitamente metteva kappa-o le fan della band. Lei invece non aveva fatto nessun cenno di emozione – lui dovette ammettere che lei era davvero bellissima e quindi non cedevole al fascino di uno qualsiasi – e aveva grugnito un “Poldo” senza alcun entusiasmo. - Polpo! Che nome per un cane! – aveva detto lui con una mezza risata, ma lei lo aveva ripreso, a muso duro. “POLDO!” aveva ribadito tirando fuori dalla borsetta il guinzaglio rosso, come a far capire che la conversazione era già bell’è che finita. Lui aveva richiamato il cane, a gran voce, e poi le aveva chiesto se le andava di fare due chiacchiere fino alla strada. Lei aveva grugnito di nuovo un “no” e poi aveva preso il suo cane e si era allontanata. Lui aveva pensato che aveva veramente un carattere del cazzo, ma poi, di nascosto, l’aveva seguita, facendo il vago, in eggiata. Lei aveva il o svelto, quasi militare, e non aveva guardato le vetrine, si era fiondata verso il parcheggio, e lui, fuori allenamento, quasi in affanno, le era stato dietro solo per sapere dove sarebbe andata. Lei aveva aperto la portiera di una Musa color crema, e ci aveva messo dentro il cane, la macchina fotografica e poi si era fermata per cercare qualcosa in tasca, aveva tirato fuori il cellulare e aveva provato a chiamare. Lui, dietro il parcometro, osservava. Lei aveva fatto nei numeri, infastidita e nervosa, e poi aveva esclamato una parolaccia e aveva fatto per entrare in macchina. Tiziano si era di nuovo fatto sotto, con il solito sorriso e le aveva chiesto se poteva sapere almeno il suo nome. Lei, come sfinita, ma anche piacevolmente divertita dal fatto che lui l’avesse seguita, disse: – Mi chiamo Greta. Tu? – lui sempre in modo persuasivo aveva detto: -Tiziano, piacere.- e allungato una mano. Lei l’aveva stretta e poi aveva finalmente fatto un sorriso. -Fai sempre in questo modo con tutte? – aveva chiesto lei. Lui si era irritato per il tipo di domanda, perché implicava una richiesta molto intima, come se volesse sapere i suoi atteggiamenti con l’altro sesso, ma preferì fingere di non essersi allarmato e disse: - Solo con quelle carine, che hanno un cane simpatico e fanno foto ai tramonti-. Oh si, si disse, con le donne ci so fare davvero. Greta fece un risolino dolce e

poi, non senza un velo di imbarazzo, gli disse se voleva il suo numero. “E’ stato più facile del previsto” pensò Tiziano, enormemente soddisfatto di come era andata, e le disse: – Certo, posso chiamarti a tutte le ore del giorno e della notte, o no? Greta – disse piano: -Quando vuoi, io sono libera da impegni-. E questa fu, per così dire, la sua condanna a morte. Tiziano tenne a stento la soddisfazione, una ragazza che dice “sono sempre disponibile” è di regola e, di fatto “sempre disponibile” e quindi prese il cellulare dalla tasca, velocemente e le disse: -Sono tutto tuo, detta pure.Lei scandì bene i numeri e lui, furbo come una faina, le fece uno squillino -tanto per non essermi sbagliato, sai, inverto i numeri, sono affetto da dislessia. Lei era stata sincera, il numero era giusto, era stato un giretto proficuo, adesso bisognava solo pensare a come farla venire a patti in brevissimo tempo.

Mercoledì

Nel primo pomeriggio l’avvocato Enrico Maria aveva telefonato a Tiziano per rammentargli dell’appuntamento delle diciassette a casa della venditrice, che alla fine, avevano scoperto chiamarsi April, un nome inglese. Non c’era molto nel fascicolo che la riguardasse, era stata da sempre una donna schiva e riluttante a far parte della famiglia, aveva vissuto all’estero per anni, e non si era neppure capito che età avesse. Nessuno aveva un suo documento, nessuno sapeva che faccia avesse. Tiziano aveva ascoltato cosa avesse scoperto l’avvocato, e poi non lo ringraziò, ma lo rassicurò che lo avrebbe tenuto informato sull’incontro. Mauro stava controllando la sua posta elettronica, quando lo sentì chiamare una donna al telefono. Sul momento pensò che stesse richiamando la venditrice, poi, con sgomento e dolore, si accorse che stava chiamando una ragazza, una ragazza che fino al giorno prima non c’era. Si alzò dalla scrivania, e si avvicinò alla porta che lo separava dall’ufficio dello Spietato, dove Tiziano si era chiuso e origliò alla meglio la conversazione. Tiziano stava dando il meglio di sé, aveva proposto alla ragazza di fare un salto da lui, una di quelle sere. Da lui, era ovviamente uno scannatoio preso in comune coi ragazzi della band, un appartamento piccolo e sudicio che i componenti usavano per i loro momenti intimi con le ragazze o per farsi delle canne. Mauro tornò alla scrivania, con un nodo alla gola. Conquistare il suo collega e amico sarebbe stato impossibile, data la sua eterosessualità esponenziale e si disse che doveva non pensarci più. Il tempo sarebbe stato perso, come le possibilità di avere un briciolo di attenzioni da lui. Greta dal canto suo fu lusingata dall’interesse del ragazzo, prese la frase “vieni una sera da me” come un approccio romantico – immaginò un tavolo apparecchiato con una cenetta da principi, rose rosse e candele profumate – e quindi si mostrò entusiasta di accettare. Tiziano se la tirò, a questo punto, dicendo che gli impegni lavorativi erano molti

ed estenuanti, e che l’avrebbe richiamata per fissare il tutto dopo qualche giorno. Ovviamente, si disse fra sé “dovrai aspettare carina, aspettare e desiderarmi” e poi tornò da Mauro, che aveva la faccia per terra dalla sofferenza. Tiziano non lo notò, prese quello che doveva – Mauro gli rammentò il blocco notes e il lapis – ma Tiziano fece spallucce e rispose che non erano poi così importanti e prese la sua macchina alla volta del paese vicino. Costatò che la casa della pazzoide era in cima ad una collina, da dove si sarebbe visto, con tutta probabilità, il mare da Livorno a La Spezia, e si accese la radio. I Modà gli avrebbero fatto da colonna sonora fino a destinazione.

“Era quasi l’ora e ancora non mi ero cambiata. Ho girato per la camera in cerca di qualcosa di decente, sono anni che non vedo nessuno, e alla fine mi sono infilata un vestito bianco, e le scarpe da tennis bianche anche se sono sporche da morire. Non ero certo bellissima, ma poco importava. Qui si trattava di qualcosa di molto più importante della vendita della mia vecchia casa, ma di parlare con qualcuno che sapesse ascoltarmi e darmi un briciolo di attenzione. Mi sono sistemata i capelli come potevo, ho messo appena un filo di trucco, anni di solitudine mi hanno sbiancato, i tempi delle corse sulle spiagge sono finiti da qualche tempo. Poi ho cercato quei cioccolatini, ci ho messo un sacco di tempo a trovarli, sotto il lavello, la scatola era polverosa. Ci ho dato due colpetti, per rimettere la scatola in sesto e l’ho appoggiata sul tavolo da fumo del salotto, poi ho preparato le tazze per il the, quelle originali inglesi con le dame blu, e le ho messe accanto alla scatola. Poi non ricordo se sono riuscita a mettere sul fuoco l’acqua, sono uscita in giardino, volevo mettere due rose selvatiche nel vaso sul tavolo, ma mi sono dimenticata, o forse persa, nei ricordi, e mi sono seduta, aspettando quel giovane. Non ho idea di quanto tempo sia ato, io mi stanco sempre facilmente, e mi annoio a morte, ma quel pomeriggio neppure tanto, ero presa dall’evento. Mi sentivo forte, cosa che non mi capita da una vita, che ho le ossa morbide e il fiato moscio. Insomma, per non camminare su e giù, ho lasciato la porta aperta.

E mi sono seduta, composta, su una sedia, verso le scale che portano di sopra, un po’ defilata per non stare troppo addosso e ho spento le luci. Che meglio che non mi guardi, che sono impresentabile. Finalmente, ho sentito la macchina, fuori. Si è fermato, è sceso, ho sentito la portiera sbattere, lui è salito su, ha suonato il camlo. Io non ho detto niente, che quel coglione non avesse visto la porta socchiusa mi è sembrato strano, ma io non ho voglia di mettermi ad urlare in casa mia, e ho aspettato fiduciosa. Alla fine si è accorto, ha chiesto permesso, e ha tirato la testa dentro. Mi sono fermata a guardargli la faccia, la testa, nella penombra. Un bellissimo giovane, moro, con gli occhi grandi, le ciglia lunghe, lo sguardo vivace, ma la testa un po’ grossa in verità, che mi ha ricordato la testa di una tartaruga, forse per il modo in cui la teneva dentro il collo. La mascella volitiva, contratta all’estremo come chi manifesta un forzato autocontrollo, le mani lunghe da pianista. Poi è entrato e ho notato la sua postura, mentre camminava al centro del salotto. Aveva le spalle grandi, rispetto al resto del corpo, le gambe erano molto esili e magre, e ho capito che avrei avuto a che fare con un ragazzo con un po’ di problemi. Sicuramente un insicuro, che tendeva a mettersi sulle spalle problemi irrisolvibili, e che avrebbe poi ceduto a questi poiché non in grado di gestirsi. Con tutta probabilità un ragazzo viziato e pieno di sé, e quindi anche un manipolatore, perché tali sono quelli che per ottenere quello che vogliono e non riescono a farlo con capacità innate, si rifugiano nella menzogna e nella frode per arrivarci. Mi sono stancata persino nel guardarlo, e nel formulare questa analisi, ho capito subito che sarebbe stato un lavoro arduo farmi capire e a quel punto ho dato un colpetto di tosse, per farmi vedere. Lui ha sobbalzato, neanche avesse visto un fantasma, e ha detto: -Oddio, sei April?- come se mi conoscesse da una vita. Ma io questa gente che ti dà del tu e manco ti conosce, non so davvero come spiegarmela. Il galateo non esiste, la maleducazione dilaga, i ragazzi di oggi sono dei deragliati mentali.

Ho detto: -Si, sono io. Si segga. Sulla poltrona nera-. Sono stata categorica, ho parlato piano perché mi capisse, e lui ha ubbidito come un automa, senza smettere di fissarmi, la bocca spalancata, gli occhi spiritati. -Lei è Tiziano, vero? Mi dia pure del lei, per favore. Mi piace tenere una certa distanza da chi non conosco. Non mi chieda di stringerle la mano o altri contatti, io non mi tocco con nessuno.Lui ha fatto di si con la testa. Era come in estasi, non sbatteva neppure le palpebre. - Ha portato il blocco notes? – ho chiesto. - No. Ecco, io…l’ho dimenticato. Anche il lapis, sa, sono oberato di impegni, ho dimenticato la sua richiesta. – Quando ha risposto ci sono rimasta male. Ha mentito, subito, in modo automatico. Ho ribadito che non se lo era dimenticato, che lo aveva fatto apposta, e che questo aveva già messo in dubbio la sua capacità di venirmi incontro, di trattare con me. Io invece dei cioccolatini me lo ero ricordata. E gli ho indicato la scatola sul tavolo. Lui l’ha guardata, l’ha soppesata, l’ha aperta. Non c’era dentro niente, forse li avevo già mangiati io, chissà quanto tempo fa e lui è scoppiato a ridere. Ha riso di gusto, con quella scatola rotta in mano, si è portato una mano alla testa e ha detto, quasi in lacrime: – Lei è una donna meravigliosa, April. Era tanto che non mi veniva da ridere in questo modo-. Cosa cazzo avesse da ridere non lo so. Non c’erano cioccolatini, erano finiti. Li avevo mangiati io, e mi stava pure prendendo in giro. Ho pensato dove avevo nascosto il fucile; in quel momento, se avessi avuto la forza di premere il grilletto, gli avrei sparato. Ma poi alla fine, non so neppure io perché, ho riso anche io. Il the. Ho pensato, il the. – Tiziano, almeno il the, lo prenda, ma non so se ho comprato il latte, se c’è un limone da qualche parte. – Stavo facendo una figura da svampita, da rincoglionita. Lui non ha risposto sgarbatamente, anzi, ha detto: -Non amo il the, April, stia

tranquilla. Faccia conto che lo abbia preso lo stesso-. In quel momento non so se gli ho creduto, ma siccome sono di un prevenuto assurdo, ho detto va bene. Poi gli ho detto, calma: – Lei mi deve ascoltare, Tiziano. Deve solo ascoltarmi, e scrivermi. Non posso pensare di finire nell’oblio dove sono stata per decenni, lei è il collegamento con il mondo. Lei mi ascolti, mi scriva, e io le venderò la casa. Ad un prezzo favoloso. Ci farà un figurone. E’ un patto che può sopportare?- Lui ha allungato il collo, ancora di più, per sentirmi, e poi ha detto che non era uno scrittore, che non si occupava di biografie. Ha detto che poteva procurarmi uno che si occupa di queste cose, e io l’ho interrotto, bruscamente. – Grazie della sua visita, signor De Rossi. Le farò risapere. – E ho fatto cenno che se ne andasse. Mi è quasi venuto da piangere, che sono secoli che non lo faccio. Allora lui ha fatto una faccia strana, come se non capisse e io ho detto forte che se ne andasse, che la sua presenza non era gradita. Si è alzato dalla poltrona nera, con ancora la scatola di cioccolatini in mano, ha fatto un mezzo inchino, si è scusato e poi ha detto che sarebbe tornato domani, con il blocco notes e il lapis e che mi avrebbe ascoltato. Ma io ho fatto un cenno triste con il braccio. Lui non mi ha visto più, mi sono spostata nel buio, lui mi ha chiamata, poi ha sospirato e se ne è andato. Io ho salito le scale, molto debolmente mi sono coricata. Era stato per me un momento di grande sconforto.”

<<Sono arrivato nel piazzale davanti alla sua casa, e mi sono sporcato tutta la macchina. C’era del fango dappertutto, la casa è fatiscente, quasi decadente come l’altra, e sembra che qui non ci venga nessuno da secoli. Odio la macchina sporca, la lavo ogni sabato, deve essere sempre immacolata, e per colpa di questa rompi palle l’ho smerdata per bene. E che cazzo! Insomma, dopo sono sceso, e ho suonato al camlo, ma non funzionava. Ho schiacciato quel fottuto camlo dieci volte, poi ho visto la porta aperta – che genio la vecchia! – e sono entrato. C’era buio pesto, non si vedeva un cazzo di qua a là, e c’era odore di muffa, di naftalina, o peggio ancora di fiori morti, come quando vai ai cimiteri. Io ai cimiteri, sono anni che non vado. A trovare i parenti sotto terra non ci tengo. Però l’atmosfera alla fine mi ha

avvolto, sulla porta, e per un momento mi sono sentito sereno, come se fossi stato a casa mia. Una piacevole sensazione che però è svanita nel momento in cui ho visto April. Sono rimasto di sasso, imbambolato, lei sembrava trasparente, o meglio dire, vacua o evanescente. Si, per un attimo mi sono cagato addosso, sembrava un fantasma, in piena regola, vestita di bianco, seduta, eterea, sulla sedia, i capelli nerissimi, lunghi alle spalle. Due occhi enormi, come caverne, splendidi, magnetici, che mi ci sono annegato dentro. Non riuscivo neppure a parlare, mi si era congelata la lingua, una presenza magnetica, fortissima, eppur di aspetto debole e malaticcio. Una presenza, si. Non aveva niente della donna, se non la sua selvaggia e primitiva sensualità. Una dea, non saprei meglio cosa dire. Mi è venuto in mente che potesse essere una aliena, senza età, meravigliosamente pura e indomabile. Lei mi ha messo subito a stare, mi ha rimproverato, mi ha detto di sedermi, mi ha comandato senza farsi problemi. Poi è successa una cosa che non so neppure io come raccontare, mi ha chiesto di mangiare dei cioccolatini. La scatola era decrepita, sformata, rotta, polverosa, e vuota. Lei mi ha guardato come se non fosse possibile. E io non ho saputo trattenere una risata. E’ bellissima quanto suonata, è chiaro che non ci sta con la testa. E’ evidentemente una donna fuori dalla realtà in tutti i sensi, ma è convinta di starci dentro, e mi ha fatto tenerezza. Strano per uno come me, provare tenerezza. Solitamente odio tutti, mi stanno tutti sulle palle, le donne in particolare, ma lei è diversa. Le ho fatto anche un mezzo complimento, non so come mi sia uscito quel “meravigliosa”, ma era l’unica cosa che rendeva appieno a cosa stavo pensando. Poi lei mi ha cacciato, perché le ho detto che non posso – né voglio – non scrivere niente di lei, che non sono un biografo. Mi sono subito pentito di averlo detto, perché in realtà vorrei sapere, non so, magari non c’è niente da sapere. Poi sono tornato in ufficio, e ho raccontato tutto a Mauro. Lui ha ascoltato, per niente divertito, poi mi ha chiesto se mi sono innamorato di April. Sono rimasto secco, come un chiodo, non ho capito la domanda.

Innamorato io? E per così poco? Lui ha detto che avevo la faccia diversa dal solito, come chi ha subito una trasformazione. Sono andato in bagno, e mi sono dato un’occhiata veloce. Non mi è successo proprio niente, mi sa che Mauro ha bisogno di un periodo di ferie.>>

Il cellulare aveva fatto un bip. Uno solo. Lei aveva fatto un balzo per prenderlo, dal tavolo della cucina al mobile della televisione e aveva letto il messaggio di Tiziano. “Come stai?”. Greta aveva subito risposto, senza perdere tempo. Fantastico che lui, appena arrivato a casa, erano le venti, le avesse mandato un messaggio, preoccupandosi di lei. Lei aveva risposto “Bene e tu? Facciamo qualcosa?” Lui non aveva risposto più. Lei si era arrovellata un po’, poi lo aveva chiamato, e aveva trovato il cellulare spento. “Che strano” si era detta. Poi si era messa a mangiare qualcosa, delle Dixie e delle merendine, e poi aveva il computer. Toh, guarda chi mi ha chiesto l’amicizia su Facebook, ma che tempismo. Era Tiziano, una foto in primo piano che lo faceva sembrare un attore di grido, e più di ottocento amici tra i contatti. Lei ci aveva pensato su, come tentata dal non accettare, ma poi si, aveva cliccato su Accetta. E lui era magicamente, immediatamente comparso nella chat. Come se fosse sempre stato lì ad aspettare lei.

- Ciao, ma sei qui? Ho provato a chiamarti, ma il tuo cellulare è spento. - Problemi con la batteria, dovrei cambiarlo. Sei sola? - Si, sola. Che hai fatto di bello oggi? - Casini vari. Che fai da sola?

- Guardavo la televisione, e chattavo. - Con chi? - Con te, mi sono appena collegata. - Brava. - Che dici, usciamo una di queste sere? Tiziano si era messo in stand by e non aveva più risposto per un’oretta buona, poi alla fine era tornato a scrivere. - Scusa tesoro ero al telefono. - Adesso abbiamo un po’ di tempo per chattare? - No, devo andare. Ci sentiamo domani. - Ok, un bacio.

Lui non aveva risposto al bacio. Come suo solito, aveva preferito troncare la conversazione senza troppi salamelecchi. In realtà aveva messo Greta in lista, delle numerose liste che si era creato, e non era affatto off line, ma in chat privata con la modella di Roma, che in quel momento voleva mostrargli con la web cam il bellissimo completino intimo appena comprato da Intimissimi. Era quindi chiaro che lui avesse preferito farsi fare uno streap tease in web che parlare del più e del meno con lei. Greta aveva solitamente buon fiuto per gli idioti, e anche questa volta aveva in qualche modo sentito che qualcosa non quadrava in Tiziano, così si era messa a spulciare la sua bacheca. Aveva visto le foto della band, e dei piccoli concerti tenuti nei locali della zona, con tanto di fan alticce praticamente sdraiate su di lui o sui suoi compagni, e alcune foto che ritraevano Tiziano in compagnia di alcune ragazze, bellissime,

che facevano il classico gesto del bacio con il dito davanti, o con la lingua fuori, con tanto di pearcing, che se lo abbracciavano apionatamente. Alcuni post poi, a cui Tiziano non aveva dato neppure risposta, era esplicitamente corrosivi, come dire “la smetti di darti tante arie, coglione” o “chi ti credi di essere” o “sei proprio un miserabile”. Allibita, Greta chiuse la chat, rispose vagamente a un paio di messaggi delle amiche di università, e poi spense il computer. Lei non aveva avuto grandi storie d’amore, impegnata sempre come era con la scuola e la fotografia, ma insomma non era mai stata a digiuno di comportamenti maschili, e cominciò nella sua testolina a farsi largo l’idea che questo Tiziano non fosse proprio lo splendido carino di turno, ma solo un ragazzo furbo che ci provava. Accarezzò Poldo, gli cambiò l’acqua, gli versò dei croccantini nella ciotola e poi rifletté sull’invito “da lui”. Forse non era per niente a base di cenetta e fiori e candele, ma forse un modo per scoparsela, o meglio – o peggio – per fare del sesso a base di niente condito di nulla. Cancellò il messaggio di Tiziano dal cellulare e disse che forse una bella dormita l’avrebbe illuminata sul da farsi. Quella notte ebbe un incubo, sognò Tiziano dentro un stanza dai soffitti altissimi, era ancora più bello del reale, e aveva un ghigno diabolico in viso. Le aveva sorriso, e i denti si erano allungati, affilati, fino a diventare la mandibola di un animale. Poi era comparsa una pantera nera, sinuosa, che si era allungata fino a lui, gli si era messa accanto, accucciata, come addomesticata e lui, sempre con quel ghigno infernale, ma con gli occhi dolci di un cerbiatto, aveva detto “ti piace la mia cucciola?”. Lei si era svegliata, erano le tre di notte, sudata. Si era stropicciata gli occhi, il cuore impazzito e aveva pensato che forse non era il caso di vederlo più. Tiziano non era chi faceva sembrare di essere.

Giovedì

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Allora, gli ho consigliato di mandarle qualche sms, scritti con intelligenza, tanto per farla calmare e non rompere, ma lui, stranamente, ha detto che non poteva farlo. Sotto c’era qualcosa di grosso, e io l’ho spinto a raccontarmi tutto. Simon è schivo, più di me. Nel senso, lui non dice niente neppure agli amici. Io invece non racconto un cazzo alle ragazze, che è diverso. Perché le ragazze non devono sapere niente di me, mentre un amico, è un amico. Invece lui non parla proprio. Fin dai tempi delle elementari ho cercato di dimostrargli che su di me può contare, ma lui non si fida. Sul fatto di fidarsi, cazzo, è peggio di me. Gli ho detto che non avrei detto niente a nessuno. Insomma, alla fine ha vuotato il sacco. Cecilia è incinta. Di quattro mesi. Io ho fatto un fischio. Che testa. Ma non ha usato il contraccettivo? Lui ha detto che si, prima si, poi lo ha sospeso per un periodo, - non so che cavolo di problemi avesse- sono stati attenti, si, ma col cavolo, e lei adesso aspetta un pargolo. Lui mi ha guardato con aria sconsolata, e ha tirato giù un bicchiere di vodka, che alla mattina non è certo il massimo, e ha detto “due”. Due cosa, ho chiesto, ma già avevo la ciccia di gallina, e ho intuito che stava parlando di due marmocchi. Addio serate musicali, fanculo tutto. La band poteva dirsi chiusa, senza Simon eravamo come una Ferrari senza la benzina, una bella band soprammobile. Ma accidenti, proprio adesso che quasi ci contavo, che mia mamma aveva detto che voleva provare a parlare con quel tizio di X factor, magari, adesso. Proprio ora! Cioè: non poteva scegliere un momento migliore. Così gli ho chiesto cosa voleva fare e lui ha detto “tenerli” e io gli ho chiesto come li avrebbe mantenuti e lui ha detto che ci avrebbe pensato la famiglia di lei che è piena di soldi che gli escono dalle orecchie. Tutto a posto. Allora, tutto stramaledettamente a posto. Lui fa il padre e io vendo case di merda. Ho lasciato la brioche a metà, e non ho neppure preso il caffè. L’ho salutato, gli ho detto, che bello, che fortuna, che culo, e altre cazzate che si dicono in queste occasioni, anche se pensavo che ormai la sua vita era segnata da un inesorabile fato avverso, e sono andato in ufficio. Ho chiamato April sei volte, dico, sei volte, e alla fine ha risposto, con quella voce fioca da malata terminale, e le ho detto: -Oggi vengo, alle cinque. Ho tutto con me-.

Lei ha detto che avrebbe cercato un’altra fottuta scatola di cioccolatini o che ne so, non ho capito un cazzo, e alle fine mi ha riattaccato di colpo. Mi manderà al manicomio, ho pensato. O forse ci andremo in due. Poi, ho mandato un sms a Greta. Mi sentivo un po’ da schifo, per la storia di Simon e la band a rotoli, ma lei non ha risposto. L’ho chiamata, il cellulare ha squillato un po’ e poi niente. Dove fosse non ho idea, e allora mica mi sono demoralizzato, ho chiamato Ilaria, lei è una ragazza “sempre disponibile”. Ha risposto subito, come da copione mi ha detto che era stata preoccupata della mia assenza, che era un mese che non la chiamavo – già un mese? – e che se volevo are da lei, anche subito, quando volevo, non c’erano problemi. Di vederla non mi importava proprio niente, che poi lei ha quel vizio maledetto di saltarti addosso e baciarti, e allora le ho detto che stavo giù, se potevo parlare con lei, e lei si si, mi ha detto, e allora le ho raccontato di Simon e dei marmocchi, e che la band sarebbe andata a puttane. Lei era molto dispiaciuta, ha detto che Simon è un’irresponsabile, e si è messa a dire della povera Cecilia, insomma, di me non ha detto un cazzo. Non è stata solidale con il mio problema, con il problema della mia band, del mio futuro musicale e allora ho tagliato corto e le ho detto che avevo una chiamata sotto importante e ho chiuso la conversazione. Che si fotta. Adesso prima che ti richiami, bambolina, erà non un mese, ma un anno.>>

Il sole stava già tramontando alle diciassette. Le nuvole, come spugne rosse, ingombravano gran parte del cielo, e a guardarlo bene, sembrava capovolto. Girando la testa alla rovescia, Mauro immaginò di camminarci sopra, come su ovatta colorata. Aveva accompagnato Tiziano, molto volentieri, fino alla casa di April. Mauro rimase affascinato dal panorama mozzafiato che si abbracciava da lassù, dal monte conosciuto per i vari ripetitori della televisione. In quel punto c’era solo quella casa, alla fine di una strada sconnessa e sterrata dove avano solo i cavalli e animali selvatici. Dal camino non usciva niente e Mauro pensò che ci doveva essere molto freddo là dentro, e immaginò April come una ex nobildonna caduta in disgrazia, con tare mentali, che si aggirava per la cucina tentando di scaldarsi con il fuoco dei fornelli.

Tiziano gli disse brusco che avrebbe fatto presto, che di stare là dentro a sentire storie ne aveva già avuto abbastanza della mattina con la storia di Simon, e di magari farsi un giro. Mauro si guardò attorno e preferì rimanere al calduccio dell’auto che avventurarsi nei boschi accanto all’imbrunire. Tirò fuori l’Ipad e cominciò a giocare a poker on line. Tiziano entrò nella casa senza bussare, la porta era di nuovo socchiusa e April era nel solito posto. Vestita di bianco, anche questa volta, ma aveva i capelli raccolti in una coda. I suoi occhi neri sembravano ancora più grandi, inquietanti, e profondi come buchi neri. Lui si sedette, senza dire una parola, sulla poltrona nera e tirò fuori la Moleskine. Lei gli sorrise. E finalmente parlò.

“Mi ha sopreso che abbia portato la Moleskine. E’ l’agenda dei grandi scrittori. Quella usata da Chatwin e Hemingway. Mi sono schiarita la voce. E ho iniziato a raccontare una storia. Mi sentivo come Sherazade e il suo re Shariyar. Nelle mille e una notte lei racconta per salvarsi la vita, io racconto per… ho dimenticato il motivo. Non lo so, ho troppe cose per la testa. Però spero funzioni, spero che serva a qualcosa. Magari non serve a niente. Ma per un po’ non sarò dimenticata. Così lui si è messo comodo, ha notato con stupore che le tazze del the erano rimaste al solito posto, ma in più c’era una rosa rossa recisa dal mio giardino, l’ha annusata e rimessa sul piattino e poi mi ha guardato come dire “sono pronto”. Ho cominciato a raccontare, non so neppure io cosa, in verità. Quel vago presentimento di dolore che mi aveva accompagnato la mattina, credo. Si credo di aver esternato alcune emozioni, paure, perplessità, avevo un’urgenza di farmi sentire da lui, e non mi sono risparmiata. Dopo un pochino, non so quanto, mi sono fermata, avevo parlato senza soste e senza guardare Tiziano. Lui non si era mosso di un millimetro, era rimasto ad ascoltarmi, assorto, e non aveva scritto nulla. Ma era a suo agio, e questo mi bastò. Forse ero stata veloce a parlare, forse era meglio se avesse portato un registratore, chissà, in quel momento non mi sono posta il problema. La mia grande soddisfazione fu vedere la sua espressione, attonita e beata e il

suo silenzio. L’ho risvegliato con un cenno della mano. Lui ha sbattuto gli occhi, più volte e poi ha detto “bello”, ha guardato se non avesse scritto nulla e ha mormorato, molto dispiaciuto – qui ho notato la sua sincerità – “non ho scritto nulla, sono mortificato”. Io ho detto che ero molto stanca, raccontare non è semplice, è come mettersi su un palcoscenico e denudarsi dell’anima, e lui ha detto se poteva tornare domani. Ho detto di si, e come la volpe a Il Piccolo Principe, ho aggiunto, alla stessa ora. Lui si è alzato, sembrava quasi ubriaco, e se n’è andato. Domani, se non riesco a scendere le scale, dovrò rimandare l’appuntamento, ho pensato.”

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mobilia di merda, e lei avrebbe già firmato per tutto, tanto ormai si vede che è più di là che di qua. Insomma, ero in uno stato di fuori controllo, mi sono messo a sparlare, a dire cose assurde, tipo che Simon aveva tradito la nostra band e che poteva anche crepare, che Cecilia mi stava rovinando la vita, e altre cose che non ricordo. Poi è successa una cosa ancora più strana, che mi ha lasciato di merda. Mauro, quando siamo arrivati a casa, si è offerto di accompagnarmi su, visto che mia madre a quell’ora era sempre dal parrucchiere o chissà dove a fare shopping, e visto che non mi reggevo in piedi. Quando siamo arrivati nel pianerottolo di casa, lui si è quasi messo a piangere. Io mi sono detto, cazzo, allora sto male davvero, l’ho spaventato sul serio, mica mi ci vorrà un’ambulanza? Ed invece lui mi ha spinto dentro e poi si è chiuso la porta alle spalle e mi ha detto fra le lacrime di essere innamorato di me. Cazzo. Cazzo e merda! Sono due giorni che mi stanno succedendo delle cose assolutamente imprevedibili, fuori controllo, cose di cui mi frega ma anche no, cose che mi fanno stare male, ma anche no, insomma, io non so come è andata, ma l’ho guardato negli occhi e gli ho detto: -Stiamo cal calmi.Non mi è venuto da dire altro. Ho pensato, e adesso? E adesso, cosa faccio? Lui ha chiesto subito scusa, ha detto che non voleva, che ormai lo aveva detto ma che fi finta di non averlo sentito. Io non ho detto più niente, avevo solo voglia di mettermi a letto al buio e non sentire né vedere più niente per una settimana, ma lui ha messo le braccia avanti e dicendo “scusa, devo essere impazzito” è tornato verso la porta e si è fermato. Mi ha chiesto se avevo bisogno di qualcosa, al che io ho detto di un fottuto orologio di merda per tornare indietro a tre giorni fa e lui ha detto “scusa scusa” e se ne è andato. Io sono arrivato fino al bagno e ho riempito la vasca di acqua calda, ci ho versato dentro quasi una bottiglia di bagno schiuma alla vaniglia e mi sono buttato dentro come un pesce. Stavo da schifo, da schifo totale. Simon, Greta, Mauro, April, mio padre, tutto il resto della mia vita mi stava addosso come un cane rognoso.

Ho messo la testa quasi sotto l’acqua e ho pensato che forse se fossi morto sarebbe stato meglio che vivere una vita così complicata e piena di problemi altrui che sfasciavano la mia vita. Io non avevo chiesto niente, sia ben chiaro al mondo intero: solo di cantare e di divertirmi ogni tanto, mica di avere tutti questi maledetti casini. In quel mentre è arrivata mia madre. Ha trillato il mio nome, storpiandolo, e poi si è messa in cucina, ad apparecchiare, perché come immaginavo aveva comprato le pizze che di cucinare non ne ha mai voglia. Mi sono asciugato, e messo un pigiama vecchio ed informe, e mentre andavo in cucina, è entrato anche mio padre, che mi ha guardato con aria preoccupata. Mi ha chiesto se avevo tirato, o se mi ero fatto delle canne, perché avevo due occhiaie da spavento, nere come la pece, ma ho detto che avevo un po’ di febbre e che non avevo voglia di mangiare. Mia madre mi ha dato subito un’aspirina, mi ha messo la mano sulla fronte e ha detto che non avevo la febbre, che ero gelato come un morto, e mi ha detto di andare a letto e farmi una dormita. Era visibilmente preoccupata, come sempre si fa mangiare dall’ansia. Prima di coricarmi ho detto a mio padre di April, che ci stavo lavorando sopra, che non si preoccue di niente. Lui non ha battuto ciglio, e poi rivolto a mia madre ha detto di lasciarmi dormire, domani, che non andassi in ufficio. A me, quando non mi parlano, ma si rivolgono ad altri per dire cosa devo fare io, mi fanno girare i coglioni. Da una parte mi trattano come un uomo, e il giorno dopo come un bambino di dieci anni, la cosa mi urta pesantemente, ma il più delle volte tendo a mugugnare e non affrontare il problema. Ho pensato che avrei dovuto farlo, ma non quella sera e sono andato a letto. Ho dormito un’ora, e mi sono svegliato di soprassalto come se avessi scordato di fare qualcosa. La Moleskine. L’ho presa dal comò e ho cominciato a leggere le frasi sconnesse che io, si io, ci avevo scritto. April mi aveva raccontato di un sogno che lei spesso fa, ricorrente. Lei è di notte sul mare, su una spiaggia deserta, e vede un’immensa nave da crociera tutta illuminata, incagliarsi in una secca, al largo. Si sta piegando, e

rischia il naufragio. Allora lei si getta tra i flutti, il mare è nero e agitato, e lei tenta a piedi di raggiungere la secca, camminando su alghe morte e morbide che le avvolgono i piedi, e che rendono la sua impresa difficoltosa. Lei è molto preoccupata, ma non ha paura per sé, quanto per la nave, e si spinge oltre, finché non ha l’acqua alla gola. L’acqua non la bagna, in verità, lei si sente asciutta, ma impedita, e alla fine arriva un’onda, alta e spumosa che la riporta a riva, in un solo colpo, senza bagnarla o ferirla. La nave è perduta, è compromesso irrimediabilmente il suo salvataggio, e si inabissa, nel silenzio. Dopo è notte. E’ molto freddo. E lei si sveglia, con un senso di incapacità e di rabbia per non aver salvato la nave. Ho riletto tutto, il racconto era breve, ma nella mia stesura ci sono aggiunte parole che non so da dove ho preso, poi ho sentito il profumo, forte, e ho annusato la carta del quadernetto, e profumava. Da esso usciva, lieve e persistente, un profumo di rosa selvatica. Mi sono rimesso a letto, ma ho dormito poco, e male. Non avevo altra voglia che di rivederla. >>

April a diciassette anni era rimasta sola. Suo padre aveva divorziato dalla madre, e si erano separati, decidendo che lei, anche se minorenne, avrebbe potuto cavarsela da sola, andando a vivere su, in collina, nella vecchia casa paterna. Lei, già di indole solitaria e romantica, si era chiusa in se stessa ancora di più, e usciva solo per lunghe eggiate nei boschi, o per fare gli esami universitari. Si era laureata in lingue straniere, e sognava - a dispetto del carattere chiuso – di viaggiare lontano e di avere una vita avventurosa. Fu proprio all’università che conobbe Wilson. Lui viveva con il padre e i tre fratelli, e la nuova compagna del padre e i suoi quattro bambini. La casa di Wilson sembrava un asilo, e ogni cosa aveva il nome segnato sopra, tipo gli spazzolini da denti, gli asciugamani, i giocattoli, e ognuno aveva un ruolo preciso nella famiglia. April trovava divertente tutto il via vai di quella casa, ragazzini e bambini di ogni età che correvano avanti e indietro, senza badare a Wilson che voleva laurearsi ad ogni costo, e ava i week end a lavorare nei bar, per pagarsi gli studi.

April lo trovava affascinante, lui aveva una voce molto bassa, da uomo, ma un sorriso enigmatico, che lei non riusciva mai a capire cosa volesse o cosa pensasse. Wilson era italiano, come lei, ma per un gioco della madre aveva un nome inglese, come lei. Quando uscivano assieme, per fare una eggiata, le poche volte che lui poteva prendersi un pomeriggio libero, andavano alla casa del The, che faceva molto English, e ci avano alcune ore, davanti a tazze di the fumante e pasticcini ricoperti di zucchero. Di cosa parlassero è presto detto: lui voleva laurearsi, sposarsi, avere tanti bambini. Lei lo ascoltava, sorridendo, ma non si esprimeva mai su questi argomenti. Un giorno lui le chiese apertamente cosa volesse fare della sua vita, e lei aveva tirato su le spalle, e fatta una faccia come dire “non ne ho idea”. Lui l’aveva trattata male, le aveva dato della bambina viziata – lei riceveva ogni mese i soldi dai genitori per vivere, e questo lui lo trovava inconcepibile – e le aveva raccomandato di trovarsi un lavoro, invece di sognare a occhi aperti. Anche andare a lavare le macchine in un distributore, piuttosto che vivere di aria fresca. April mai si sarebbe aspettata una reazione simile e per qualche giorno non si era fatta trovare. O meglio, era in casa, ma non aveva risposto al telefono. Wilson, forse accortosi di aver esagerato, l’aveva cercata a casa. Aveva preso la vecchia moto del padre a prestito, ed era salito fin sulla collina. Aveva suonato al camlo e aspettato che lei scendesse ad aprirgli. Quando l’aveva vista si era reso conto di essersene innamorato davvero, e l’abbracciò, chiedendole scusa. Poi lei lo aveva fatto entrare in casa. Nonostante fosse inverno, e lui avesse patito il freddo con la moto, senza guanti, adesso lì sentiva un calore familiare dappertutto, e si era sentito bene. Lei aveva chiesto scusa per il disordine – non c’era niente fuori posto – e poi aveva chiesto se voleva fare l’amore con lei. La richiesta era arrivata in modo inaspettato, quasi imbarazzato, e lui aveva detto di si, anche se non aveva la più pallida idea di come fare. Lei si era seduta accanto a lui, sul divano, e si erano abbracciati, dati qualche bacio, ma nessuno

dei due aveva avuto l’ardire e il coraggio di cominciare a spogliarsi, o fare altro. Dopo un po’ lei si era sciolta dal suo abbraccio e aveva detto che forse non era ancora arrivato il momento giusto. Lui, rosso in faccia, e molto accaldato, aveva fatto di si con la testa per darle ragione, ma poi, quando lei aveva provato ad alzarsi, l’aveva ripresa per un polso e tirata giù sul divano. Aveva iniziato a baciarla dietro l’orecchio, con ione, e allora lei aveva reagito, girandosi e abbracciandolo con foga. Si erano amati, sul divano, come affamati l’uno dell’altro, senza dire una parola, senza dolcezza, e poi, dopo, lei lo aveva accompagnato alla porta. -Ci vediamo in settimana- aveva detto lui, come dato per scontato, come era stato da un paio di mesi a quella parte, ma lei fece di no, con la testa. -Ho fatto qualcosa che ti ha ferito?- aveva chiesto lui, sgomento. -No, non me la sento.Lei non aveva aggiunto altro, e aveva chiuso la porta sulla sua faccia, ogni altro commento inutile. -Sei pazza! Me lo avevano detto sei pazza!- aveva ringhiato lui, poi era montato sulla moto, sgommando, impennandola e lanciando pezzi di fango dalla ruota e non la cercò più. Ma ogni tanto, quando meno se l’aspettava, la rivedeva. L’aveva incontrata molte volte, dopo. In circostanze sempre diverse, una fiera di paese, un viaggio in treno, davanti al banco della gastronomia di un supermercato, e lei, in ogni occasione, gli aveva sorriso, come complice di un fatto antico, e lui, tutte le volte, rispondeva al sorriso nello stesso modo, senza dire una parola, come se tra di loro ci fosse stato un segreto inconfessabile. Wilson l’aveva amata, e sapeva, ora che non era più un ragazzino, che anche lei lo aveva amato, a suo modo.

Amava sua moglie, anche se non la capiva molto. Il concetto di Arrigo sulle donne era presto detto, si deve avere una moglie, fedele, e farsi amare. Poi si deve avere un’amante fissa, fedele anch’essa, che sappia divertire, e tante signore e signorine disponibili a delle serate senza impegni. Lucetta sapeva, ma non si era mai ribellata all’andazzo. Perché sapeva di avere comunque il privilegio di essere la numero uno, l’intoccabile, la madre dei suoi

figli, e quindi nessuna l’avrebbe mai spodestata. Lucetta invece era l’esempio tangibile della fedeltà, non aveva mai ceduto ad una lusinga di un uomo, e non lo aveva mai tradito, se non con il pensiero, ma solo perché da giovane si era presa una cotta per un attore di grido. Ovviamente inavvicinabile. Adesso il loro matrimonio, arrivato a quota trentacinque, cominciava a dar segni di nervosismo. La causa erano loro: i figli della coppia. Lucetta ostinata, faceva da chioccia, Arrigo non sopportava e voleva dare ai figli la loro autonomia. I tre vivevano ancora in casa, Eugenio, Maria Camilla e Tiziano, tutti più che trentenni, eterni bamboccioni. Arrigo aveva allargato la casa, e creato diverse entrate, così che i figli potessero avere maggior privacy, e di conseguenza anche loro, ma Tiziano si era rifiutato di vivere nella sua dependance. Lui voleva o stare con loro, o stare da solo. Il che significava, stare da solo nella sua camera, ma con loro. Avevano tenuto duro per tutti questi anni, nonostante le diversità di carattere e l’incompatibilità evidente, Arrigo brusco, Lucetta premurosa, lui a tratti violento, lei troppo dolce, lui pratico e senza vezzi, lei snob e amante della bella vita. Tiziano aveva preso da entrambi, il narcisismo del padre, ma l’ansia e le insicurezze materne, la voglia di andarsene del padre, il fatto che non si smuoveva mai dalle sue abitudini, come la madre. Tiziano era sempre stato un ragazzo tranquillo per quello che poteva riguardare le amicizie, ma a livello emotivo, aveva avuto dei periodi di depressione, e momenti di isolamento. Poi una psicologa aveva detto di usare la musica, come terapia. Lo avevano iscritto ad un corso di canto e di pianoforte, che si era rivelato una cura per la mente, oltre a mettere in luce il suo talento. Poi da ragazzo però lui aveva visto la musica come una fonte di approvazione verso gli altri, e per certi versi le crisi erano ricominciate, anche se avevano preso altri connotati. Tiziano era sempre insoddisfatto, ava dei momenti di grande euforia, in cui si credeva un nuovo volto del panorama musicale, a momenti in cui non aveva neppure voglia di cantare.

Per poi dar fuori di matto se prendeva un po’ di mal di gola che gli impediva i virtuosismi. I suoi insegnanti erano in fondo contenti dei suoi progressi, ma temevano che il carattere, così altalenante, senza rigore e determinazione, non lo avrebbe poi portato lontano, e di questo sua madre si crucciava. Per lei, Tiziano avrebbe dovuto essere un cantante di grido, per suo padre queste erano solo “beate stronzate”. Per queste situazioni i rapporti erano sempre tesi, e per Lucetta era stato sempre molto meno doloroso superare le corna che sentire che il suo bambino non era abbastanza bravo da diventare un famoso. Arrigo spingeva Tiziano alla realtà anche per questo. Temeva da un momento all’altro di vederlo crollare, con le sue illusioni, e di doverlo raccattare con un cucchiaino. Arrigo ricordava con malinconia il suo amico Ivano, che da grande promessa del calcio giovanile, a causa del pessimo carattere si era ridotto a fare prima il mediano occasionale, poi il sostituto in caso di grave emergenza, a niente. Ricordava Ivano, splendido ragazzo di vent’anni, amato da bellissime donne, diventare nel giro di due anni uno sconosciuto qualsiasi, e poi un alcolista che non aveva altro da fare che attaccarsi ad una bottiglia per dimenticare o forse, per ricordare invece, i suoi momenti migliori. Arrigo era un uomo che niente e nessuno aveva mai buttato giù, né malattia, né nemici, e rimaneva sempre incredulo davanti alle manifestazioni emotive di Tiziano, ai suoi attimi di sconforto devastanti. Non riusciva, neppure con tutto l’impegno, a comprendere cosa potesse mai are nella testa di suo figlio per ridursi ad una larva. Quando Tiziano stava male, spariva di circolazione. Potevano essere mesi, o giorni, o settimane, ma si chiudeva nella sua camera, mangiando pochissimo, scrivendo canzoni che nessuno avrebbe mai ascoltato, e piangendo sulle sue miserie. Lucetta allora si dava da fare, cucinava. Lei che odiava stare ai fornelli, si inventava torte golose e dolcetti per smuovere suo figlio, che a malapena le rispondeva da dietro la porta chiusa. Arrigo non voleva colpevolizzarsi, come facevano certi genitori moderni, eh no. Lui non aveva fatto niente di male, anzi,

aveva prodotto, investito, creato un impero. Aveva creato benessere, e che Tiziano avesse tutte questi problemi lo infastidiva. Nulla di più. A volte, litigando con Lucetta, le aveva detto, caustico -Se quel giorno mi ero fatto una sega, non avrei avuto tutti sti cazzo di problemi-. A quel punto lei scoppiava a piangere, e a volte lui le aveva tirato anche uno schiaffo, per farla smettere e tutto finiva lì. Tiziano non era più andato da terapeuti, dicendo a se stesso di non aver niente da curare, ma che erano gli altri ad avere delle tare da manicomio, e anzi, con il tempo, era diventato sempre più cinico e insensibile, e non riusciva più a provare empatia per gli altri. Freddo, scostante, immaturo e prepotente, usava gli altri per i suoi interessi e scopi, e quando non trovava terreno fertile, si eclissava. Nella sua camera, sopra il letto, aveva scritto, con un pennello nero, a lettere cubitali “Non semino su terreni aridi”, e di questo motto si vantava, con spregio, parlando che chi aveva avuto il coraggio di contraddirlo per lui era morto. Lui non dava spiegazioni, spariva, e magari soffriva in silenzio, incapace di relazionarsi con il mondo. I suoi genitori ormai, a trent’anni, non sapevano più cosa avrebbe potuto “salvarlo”, e lui li riteneva responsabili della mancanza di serenità nella sua vita. Diceva che erano solo due presuntuosi, che le loro cure invece di aiutarlo lo avrebbero prima o poi consumato, e diceva anche che erano troppo pieni di sé, per comprendere i suoi delicati sentimenti. Così i tre tiravano avanti, immersi in sorrisi di ipocrisia, e fingendo che tutto andasse bene, quando in realtà niente funzionava, ma ormai nessuno di loro sapeva, o voleva fare in modo di dare un colpo di spugna al ato e ricominciare.

Venerdì

“Stamattina mi sono alzata con un vigore che non provavo da diversi lustri, ho aperto la finestra della camera. Non entrava aria fresca da chissà quanto tempo. Parlare a quel ragazzo mi dà una grande carica, oggi voglio raccontargli di Wilson, il mio primo amore. Wilson era dolcissimo, serio, con tutta una visione perfetta del suo futuro. Infatti, si è sposato, ha diversi bambini, è interprete parlamentare. Vive a Roma, adesso, con la sua splendida famiglia, e a volte mi capita di vederlo. Quando succede, mi sento come se avessi bevuto un drink alcolico, sembra un angelo, e so di aver fatto bene a lasciarlo, non sarei stata capace di farlo felice. Mi fanno ridere quelle persone che dicono di amare e poi non è vero. Amare non ha niente di egoistico, è la massima forma di altruismo. Ti voglio felice, perché ti amo. Ti darò le cose che so ti faranno piacere all’anima e al cuore. Io non volevo figli. Era inutile stare con lui, quando lui sapeva di volerne. Ho preferito amarlo per un pomeriggio che illuderlo una vita, e portare avanti una storia finita prima di cominciarla. Wilson, si, biondo, con i capelli a spazzola come un marine americano, e la voce suadente e carica di caldo, come il Meltemi. Ma potrei anche parlargli di Fabrizio, o sco, o Andrea, o non ricordo più, di tutti quelli che hanno cercato di chiudermi in una gabbia, di tagliare le mie ali, la mia libertà, e non ci sono riusciti, di quelli che mi dicevano che cercavo solo un principe azzurro, e che quindi ero solo un’illusa, ma che in realtà non è vero. Non ho mai voluto nessuno principe, non so perché davo questa impressione.

Cercavo solo un pretesto per stare bene per un poco. Perché la mia vita avesse un senso, almeno per qualche tempo, niente di più. Ma nessuno, nessuno di loro, ha mai afferrato il senso della mia anima cupa. Vivere è un dovere, e bisogna farlo al meglio. Ma il tempo su questa terra è breve, e bisogna prendere quello che ci capita di buono, e non prendere però quello che sembra buono e non lo è. Essere selettivi senza scartare troppo, donarsi senza svendersi, chiedere la resa quando è necessario, ma farsi coraggio sempre. In certe circostanze è meglio non chiarire le situazioni, prendersi il calcio nel culo, anche se non meritato, e andare. Più di una volta ho visto persone tentare inutili riconciliazioni, parole e pianti gettati al vento in cambio di niente. Quando è chiusa una porta, inutile cercare di riaprirla. Forse il tempo lo farà. Come Wilson, che non ha mai chiesto spiegazioni, e io non le ho mai date, eppure quando mi vede, mi legge negli occhi la sincerità e sorride anche lui, e sa che il mio era amore. Adoro Wilson, era l’uomo perfetto per me, se io fossi stata perfetta per lui. Oggi Tiziano mi dovrà raccontare di lei, la sua prima ragazza. Dovrà dirmi del suo primo bacio, del suo stato d’animo davanti a colei che per prima ha posato le sue labbra sulle sue. Ho poi chiuso la finestra, dopo che sono stata affacciata al sole. Mi è venuto freddo, colpa forse del fatto che ero in vestaglia. Mi sono seduta alla toelette, e mi sono truccata. Anni sono ati che nessun colore ha ripreso forma sul mio viso, ma oggi ho voluto strafare. Guardando la mia me nello specchio rotto, mi sono sentita presa da una forte nostalgia. Ho paura. Strano. Non ho idea di cosa dovrei aver paura. Sono sola, qui, in questa casa che è una fortezza, e non ci sono pericoli. Il sole è caldo, oggi, e non c’è vento. Il mare, lontano, è una lastra scintillante,

blu e perfetta. Ho nostalgia del mio mare. Ecco, forse temo di non poterlo più rivedere, da vicino. Isolata qui, nella collina, lo posso solo ammirare da lontano, e i miei ricordi di ragazza si perdono su spiagge bianche ormai lontane da me. Quando finii l’università, mi regalai un viaggio. Un viaggio di molti giorni intorno al mondo. Stetti via quarantacinque giorni. I miei pensavano che fossi morta, in India, forse, o in Nepal. Ma io non c’ero neppure stata. Avevo viaggiato prima a Nord, e poi dopo a Sud. Mi ero innamorata dell’oceano Indiano, e avevo sperato di trovare un marito, chissà, o un amante che mi mettesse le manette ai piedi, in modo da non tornare. Tornare voleva dire di nuovo isolarsi da chi non capiva la mia creatività, o il mio modo di essere. In viaggio nessuno notava il mio modo bislacco di vestire, o i miei cappelli assurdi, a nessuno importava del mio zaino pieno di vestiti vecchi, o delle mie sigarette brillate malamente e che puzzavano di piedi. Nel mondo ero un’entità come un’altra, e mi confondevo con altri senza dare nell’occhio. Il mio abbigliamento era brutto ma pratico, e non mi dovevo preoccupare di apparire migliore di come ero. Ero molto viva, allora, e questo era già di per sé meraviglioso. Scrivevo lettere ai miei, ed erano considerazioni dei posti che visitavo, della miseria vera che vedevo, e dello sfarzo assurdo accanto alla morte. Raccoglievo libri scritti in inglese che parlassero delle leggende e dei miti dei posti che attraversavo, e poi li leggevo la sera, cercando risposte al mistero dell’esistenza, sperando di trovare un perché alla mia fuga dalle comunicazioni. Cercando l’amore vero, che c’è, non c’è, che non esiste ma che in compenso dura per sempre, a volte. L’amore che ti fa pensare di essere arrivato ad una meta, o, mi spiego meglio, ad una tappa intermedia, quella fondamentale per proseguire il percorso per sempre. Ma non ci trovavo niente, o forse ci trovavo tutto e non sapevo dare

un’interpretazione. Poi un giorno, sono tornata a casa. Così, mi ero alzata una mattina con un senso di vuoto nella pancia, ed un groppo nello stomaco, sensazione che io definii “nostalgia”, e presi tutti i mezzi possibili per tornare in questa casa. Una volta a casa, mi accorsi di puzzare come una capra, e mi lavai per tre giorni di seguito. I capelli sembravano quelli di una strega, e li tagliai. Poi gettai nel caminetto tutte le sigarette rimaste, comprese cartine e tabacco, e mi dissi che avrei dovuto mettere a fuoco la mia vita. Ma non posso pensare adesso a tutta la mia vita, se no cosa dirò a Tiziano dopo? Mi sono terribilmente stancata di ricordare, adesso mi rimetto a letto. Magari, se chiudo gli occhi, il tempo erà più in fretta.” Nel pomeriggio aveva cominciato a piovere forte. La strada che portava da April si era trasformata in un pantano, e Tiziano era arrivato in cima alla collina bestemmiando. La sua macchina bianca, una cinquecento Abarth super accessoriata, era completamente ricoperta di fango, e sembrava uscita dal rally di Camaiore. Incazzatissimo, era uscito dall’auto correndo, era scivolato davanti a casa, cadendo pesantemente sulla schiena, e riducendosi in uno stato pietoso. Trattenne le lacrime, buttò per aria la sua valigetta, e la prese a calci nelle pozzanghere, imprecò sotto la pioggia, e poi alla fine si decise ad entrare. Si levò le scarpe, compromesse in modo irreparabile, e gettò la giacca leggera di panno per terra, sull’uscio, per non sporcare ulteriormente. April stava al solito nella penombra, e rideva, si, rideva come una ragazzina. Lui aveva protestato, aveva farfugliato di sentirsi come un cane sotto la tempesta, che aveva bisogno di un bagno. Lei gli aveva indicato le scale, e poi detto di entrare nella prima camera a destra, dove in un armadio avrebbe potuto trovare qualcosa per cambiarsi. Lui aveva ghignato che non si sarebbe mai messo addosso qualcosa appartenuto ad un morto, ma lei lo rimproverò che il proprietario degli abiti era vivo e

vegeto, e che avrebbe rivoluto gli abiti puliti e stirati come si deve. Lui era salito di sopra, bagnando le scale di marmo con le sue impronte umide, e lasciando una scia di terra e piccoli sassi, e poi era entrato nel bagno più bello che non avesse mai visto. Bianco e teak, quadri appesi ai muri bianchi trattati ad incausto, rappresentanti mari lontani; uno specchio immenso dalla cornice dorata, la vasca sui piedi, una finestra che dava sul giardino delle rose, la pioggia che batteva cattiva sui vetri, nuvole lontane e minacciose. Si sentì come a casa, meglio che a casa, si spogliò, gettò tutto in un cesto di vimini dietro la porta e aprì la doccia. L’acqua scese calda e come aromatizzata di orchidea. Si buttò sotto il getto, chiuse gli occhi e lì sotto rimase a lungo, senza pensare a niente. Poi, una volta uscito, si era avvolto in un asciugamano bianco, con a rilievo ricamate delle rose rosse, e si era affacciato sul corridoio. Non sentì alcuno né nessun rumore, e a piedi nudi, entrò nella prima camera a destra, dove si ergeva un immenso letto di legno nero a baldacchino, con i tendaggi bianchi, tipico dei mari del Sud, delle isole dei Caraibi, coperto di cuscini bianchi ricamati. L’armadio, piccolo e intarsiato, era già aperto, e su una sedia c’erano un paio di pantaloni di velluto nero, ed un maglione nero a collo alto. C’erano anche un paio di strane pantofole nere, con le cifre ricamate in oro, ed un paio di stivali verdi da cacciatore. Lui si vestì, velocemente, si mise gli stivali, e lasciò perdere le ciabatte da re, e scese di sotto, con la rinnovata energia di mettersi a scrivere. Lei era nell’angolo opposto della sala, contro la finestra, nel buio. Quando lui fece per accendere la luce, lei gli disse di non farlo. Nel buio si vedeva solo una sagoma, nera, e i bagliori del temporale la illuminavano a tratti, in modo teatrale, quasi spettrale. Tiziano si era messo al solito posto, sulla poltrona nera, e aveva visto di nuovo la rosa del giorno prima. Era sicuramente la stessa, ma era più bella e più rossa, ed emanava un profumo inebriante. La prese e si punse un dito per colpa di una spina. Il sangue cominciò ad uscire copioso dal suo dito, e lui si portò l’indice alla bocca per tamponarne la

fuoriuscita. Anche se era un buco piccolissimo, il sangue continuava ad uscire, e il dolore stava crescendo. Guardò preoccupato verso April, senza dire una parola, e lei disse che quando si comincia a guardare dentro di sé, e si vede come siamo, si soffre sempre, e si perde sangue, e si prova dolore. Era una cosa normalissima, e come avrebbe sanguinato oggi, domani forse non più o forse meno, o chissà, forse di più. Tiziano cercò un fazzoletto, nelle tasche dei pantaloni che non erano i suoi, e poi sul tavolino, e poi corse a cercare la cucina, nelle stanze attigue, finché non trovò un giornale, molto vecchio, sul tavolo della cucina. Ne strappò un lembo, e se lo avvolse sul dito, e ben presto divenne rosso dal sangue. Poi tornò indietro nel salone, ormai era buio pesto, e non si vedeva più niente, e camminando tentoni, sbatté il ginocchio contro il tavolino, e cacciò un grido di dolore. April non si vedeva ormai più, si percepiva solo la sua presenza, e disse con un riso nascosto nella voce flebile: -Oggi ha proprio deciso di soffrire, Tiziano.Lui era scoppiato a ridere, di quel modo di ridere che nasconde un dolore fisico, come quando appunto si sbatte il mignolo in una sedia, e questo gli fece smaltire il nervoso e la rabbia. Non stava concludendo un “cazzo”, e non avrebbe mai concluso niente, ma il tutto era divertente e misterioso, e il gioco lo stava affascinando. La rosa nel frattempo era caduta in terra, e lui senza accorgersene l’aveva calpestata, e rotta. April, come avvertendo l’accaduto, lo rimproverò. Una rosa recisa, una vita che ancora sanguina e che vuole parlare di sé, non va distrutta calpestandola come se fosse un marciapiede. Domani non pioverà, e saremo pronti per ascoltarci a vicenda, Tiziano. Ora vada, domani i suoi abiti saranno puliti e stirati, non si preoccupi. Lui aveva protestato, stava piovendo a dirotto, si sarebbe bagnato di nuovo, ma

lei disse, quando arriverà alla porta, avrà smesso. Lui arrivò alla porta camminando con le mani in avanti, nel buio, per non cadere, e quando fece per uscire, le chiese, senza voltarsi: -Lei ha paura del buio?Lei non parlò subito, aspettò, e poi disse: -Mi sono abituata al buio, alla terra, alla pioggia, alla solitudine. Tiziano, non faccia i miei errori, complicando ciò che è semplice, faccia in modo che gli altri la possano amare. O non avrà mai più paura del buio-. Tiziano sentì correre sulla schiena come un alito dolce, non si era voltato, ma era certo, più che certo, che lei era stata lì, dietro di lui, a prendere il suo calore, a sentire il suo odore. Uscì di corsa, non pioveva più, montò in macchina, fece fatica a partire, le ruote slittarono, ma alla fine fu a casa. E si buttò sul letto, con la Moleskine impazzita di appunti, che da dove fossero usciti, lui non ricordava.

Tiziano la sognò. Sognò Lisa. Lisa era più grande di lui di due anni, quando lui le chiese di uscire per andare al cinema. Lei era molto ammirata e piena di ragazzi, era, per dire, una ragazza sveglia, e il suo ultimo ragazzo aveva dieci anni più di lei. Uscire con Lisa era per tutti, ma non per tutti. E disdegnava i pischelli, quello lo sapevano anche i sassi. Però Tiziano ci aveva saputo fare. Si era spacciato per un gran baciatore, e un vero esperto, no-nostante i tredici anni, e forse complice il fatto che suo zio Ettore, il fratello di Lucetta, si era messo a vendere Folletti e si esercitava a casa ad usare tecniche di marketing e di convincimento, Tiziano aveva imparato due o tre cose per vendersi. Tecniche che poi aveva affinato nella crescita, fino a diventare talmente falso che neppure lui sapeva più come era fatto. Comunque, la tecnica del Folletto era riuscita e lei aveva accettato. Nella realtà erano andati a vedere un film che aveva scelto lei perché c’era un attore strafigo, e poi sul più bello lei lo aveva baciato, con la bocca aperta che sapeva di pop corn, le labbra salate.

Lui non era rimasto poi tanto colpito dal fatto, si era immaginato tutto in modo più emozionante, più coinvolgente, ma alla fine si era accorto che due file più in là Simon e Arianna non avevano ancora fatto niente, stavano mano nella mano tutti rossi in faccia, senza seguire il film e si era reso conto che l’epoca pischella era sulla via del tramonto. In modo sfacciato aveva chiesto a Lisa di toccarlo. Lei si era girata, perplessa, e gli aveva detto se era impazzito. Lui aveva insistito, ormai convinto di essere cresciuto nel giro di cinque minuti, e l’aveva abbracciata in modo brusco, toccandole i seni prosperosi, e cercando di baciarla ancora. Lei lo aveva spinto, e poi gli aveva mollato uno schiaffetto, senza fargli troppo male, ma tanto per ribadire che i suoi approcci non erano graditi. Tiziano aveva fatto una smorfia e detto che come lei ne avrebbe avute a migliaia, che non doveva arrabbiarsi, tanto non ci avrebbe mai più riprovato con lei, mai più, che se lo mettesse bene nella testolina, e poi si era alzato, senza aggiungere altro e aveva abbandonato il film a metà. Lisa aveva parlato male di lui a tutti, il giorno dopo, dicendo che era un povero sfigato con delle pretese assurde. Lui si era giustificato dicendo che lei era matta. Si, perché prima ci era stata, e poi no. Avevano litigato e non si erano mai più rivolti la parola. Quella notte lei si era avvicinata a lui, sopra il letto. Aveva uno strano colore nel viso, come argentato, e i capelli, lunghissimi, erano una ragnatela avvolgente. Lui, supino, si era sentito immobilizzato al letto. Aveva capito che era un sogno, o meglio un incubo, e aveva cercato di svegliarsi. Ma Lisa non lo mollava, lo guardava sempre più da vicino con occhi che erano cavità vuote, e gli chiedeva se voleva fare sesso con lei. Ripeteva, -quello che vuoi, quello che volevi in quel cinema, ricordi?-. Lui aveva risposto che non voleva niente, se non che se ne andasse, alla svelta, e di non toccarlo per nessuna ragione. Lei aveva mosso una mano, scura e scheletrica, come lui non ricordava, sulla sua coscia, e poi si era fermata, sopra il suo inguine, come soppesando il da farsi. Lui aveva detto “stiamo calmi”, la sua solita frase anti panico, e per un attimo sembrò ascoltarlo, poi, si era mossa su di lui, si era seduta a cavalcioni, e lui aveva sentito quanto fosse dura, come un legno, senza alcuna rotondità o

morbidezza. Lei non lo aveva toccato, si era solo messa lì in silenzio, e si era trasformata. Da orribile strega a angelo biondo, i lunghi capelli erano diventati rami dorati, e dalla sua bocca avevano cominciato ad uscire piccole rose rosse, bagnate di sangue. Da quel pezzo di legno era diventata fragrante e vellutata come un broccato di seta, ed i suoi occhi verdi, immensi come montagne, erano aperti e dentro lui vedeva scorrere immagini che non riusciva a definire. Avrebbe voluto abbracciarla, adesso, baciarla, affondare il viso nei suoi seni, e parlarle. Ma Lisa gli disse -troppo tardi, Tiziano-. Lui si era sforzato di alzarsi, di muovere anche solo un muscolo, ma era come inchiodato al letto, madido di sudore. -Non ti muoverai, è troppo tardi.Lui aveva urlato, ma dalla gola non era uscito niente, neppure un rantolo, solo un alito amaro senza valore. -Quando si ama, si può aver voglia di scappare. Ma non per sempre. Tu fuggi, e adesso io fuggirò da te. Tutte fuggiremo da te. Tu vivrai nel buio, e smetterai di averne paura, tu ne farai parte.Poi si era chinata, e lo aveva baciato, un bacio di morte, freddo e pieno di misteri, così pieno da essere vuoto, vuoto come l’infinito. Una morsa di gelo, che gli levò un minuto di vita, e che lo lasciò distrutto, non più addormentato, ma vivo quanto morto, come una morte celebrale. Lei svanì. Se ne andò come era arrivata, e lui alla fine si svegliò. Vomitò fuori dal letto, si accasciò, e dormì ancora tre ore, senza sogni e senza riposo.

Sabato

La prima cosa che fece, appena alzato, fu di ripulire la camera, non avendo voglia di dare spiegazioni alla madre. Poi accese il cellulare, che cominciò a emettere dei bip continui, segno che in molti lo avevano cercato negli ultimi giorni. Ma di Greta nessun messaggio e nessuna telefonata, in compenso ce ne erano cinque di Simon, due di suo padre, diversi messaggi di alcune ragazze che lo cercavano disperatamente, ed uno di Mauro, dove in modo laconico gli comunicava di essersi licenziato la sera prima. Subito arrivò una chiamata di Arrigo, che lo aggredì immediatamente, chiedendogli il motivo del drastico licenziamento di Mauro. Tiziano, ancora mezzo addormentato, disse che non ne sapeva niente, ma che ci avrebbe pensato lui. Si vestì alla meglio, mise in un sacchetto di nylon i vestiti prestati e li lasciò in una lavanderia sotto casa perché li lavassero quanto prima. Poi chiamò Greta, due volte senza risultato. Chiamò Mauro e dopo un solo squillo era già in linea. - Cosa è successo? Perché questo colpo di testa? – aveva esordito Tiziano, senza troppi preamboli. - Dopo quello che ti ho detto, sei sparito dall’ufficio, o se sei venuto non mi hai rivolto la parola. Ho pensato che fosse per quello che ti ho detto, non voglio che tu provi imbarazzo quando mi vedi e quindi…- Tiziano lo interruppe, rassicurandolo che non doveva pensare proprio a niente, che lui si era bell’e che dimenticata la faccenda e che facendo in questo modo aveva messo in crisi l’azienda e suo padre. Aveva usato tutta la parlantina migliore, elencato tutti i pregi – veri pregi – che Mauro possedeva – lealtà, dedizione al lavoro, professionalità – e alla fine Mauro aveva ceduto, dicendo che avrebbe provveduto a ritirare le sue

dimissioni, scusandosi per aver creato un simile disagio. Tiziano gli disse che quella sera sarebbero andati assieme a bere una cosa, per parlargli, e che non avrebbe mai dovuto pensare di essere in difetto per i sentimenti che provava. Quando riattaccò si sentì sollevato, ma anche conscio di aver detto la verità, per una volta. Non sapeva come, ma frequentare la casa di April gli stava facendo vedere le cose in modo diverso, come se a tutto ci potesse essere rimedio senza andare in depressione, o scoraggiarsi. Richiamò Greta, le mandò due sms consecutivi, e poi riprovò. Greta stava studiando, nella sua camera, e ogni volta che sentiva il cellulare si fermava, lo prendeva in mano incerta, e poi lo rimetteva sulla scrivania, senza rispondere. Ma l’ultimo sms era sembrato sincero e disperato. Così, aveva risposto. - Greta, ma dove eri finita? – lui l’aveva aggredita, subito, sapendo che anche lui era sparito, ed era nel torto, ma al solito preferiva far sentire in colpa le sue ragazze che se stesso. Ma lei non era come le altre. Forse. - Io sparita? Tu piuttosto. Non saluti neppure in chat. Cosa pensi, che stia qui ad aspettare la tua venuta?- Tu non hai la benché minima idea di cosa mi sia successo negli ultimi giorni. Descriverlo penseresti al delirio di un pazzo. Sto vivendo una vita caotica e piena di casini. – lui aveva calcato bene la voce, sui particolari, pazzo, delirio, casini, in modo che lei avesse ben chiaro nella testa che lui non stava fingendo, solo, al limite, esagerando. - Come no? Era sul giornale che ti hanno rapito gli alieni. - Questo non lo dovevi dire, Greta. Me lo dicono tutte le ragazze, non sei originale.- e aveva fatto una risatina compiaciuta. - Beh, se preferisci conversare con altre ragazze, cosa mi hai chiamato a fare? Io ho davvero da fare qualcosa, studiare. Devo preparare un esame importante, non ho tempo per persone che mi prendono in giro.Lo aveva detto in modo secco, senza paura, senza emozioni, e lui capì che Greta

non si sarebbe preoccupata di perderlo, non era una priorità per lei il suo corteggiamento. Si stava arrabbiando, lei sapeva come fargli perdere le staffe, eppure si erano parlati solo due volte al telefono, e una di persona, ma aveva bisogno di lei, quella mattina e quindi doveva fare uno sforzo per non perderla. Solitamente far arrabbiare una ragazza, in modo scherzoso, gli riusciva benissimo. La ragazza in questione si alterava un po’, si ritraeva con un mezzo broncio, poi lui l’abbracciava e le faceva un sorriso enigmatico dicendo “Quando ti arrabbi mi ecciti” e lei smetteva subito di corrugare la fronte, sorrideva e gli cadeva fra le braccia senza dire più una sola parola scortese. Quindi si armò di pazienza e le disse – Greta, dai, volevo solo farti un po’ ingelosire. Sono stato via due giorni, mica un secolo. – Lei aveva detto allora, per ribadire, che i giorni erano stati tre. Tiziano aveva fatto centro, lei aveva in questo modo specificato il numero esatto dei giorni, facendogli capire che lui le era mancato. Queste strategie, questi arrovellamenti mentali per lui erano pane quotidiano, ormai non riusciva più ad avere un rapporto normale con nessuno, basato anche sull’istinto, o sulle sensazioni primarie, le famosi questioni di “pelle”, per lui era tutto da calcolarsi, da manipolare, da indirizzare. I comportamenti umani lo affascinavano, ma alla fine ne rimaneva deluso, convinto che tutti avessero un modus standard di comunicare, bastava solo incanalare la relazione immediatamente come voleva lui. Visto che lei non aveva ancora messo giù, lui continuò a corteggiarla nel suo modo schematico e le disse: - Possiamo vederci? Ho bisogno di parlarti, devo chiederti un consiglio per una questione spinosa, a cui tengo. Possiamo prenderci una cosa a mezzogiorno? – lei aveva aspettato a rispondere. Aveva detto che non ne era sicura, e aveva detto alla fine di no. Lui, spiazzato, fece fatica a riconoscere nella voce di lei quel rifiuto, ma non si perse d’animo e ribadì la questione in modo accorato. Lei tergiversò, e poi disse “ma solo cinque minuti, non posso pranzare con te”. Lui era rimasto ancor più sollevato, non solo si era risparmiato di offrirle qualcosa da mangiare, ma l’avrebbe vista, come voleva lui. Fissò l’appuntamento per le due sotto le logge, dove c’era una gelateria biologica,

dove avrebbero mangiato un gelato seduti fuori per parlare, e poi andò al lavoro. Non chiamò Simon, temeva che gli avrebbe detto che non poteva più suonare nella band, e si disse che ormai per quella mattina aveva già risolto due problemi. Simon avrebbe aspettato il suo turno. Quando arrivò in ufficio, Arrigo era molto più sollevato per il ritorno di Mauro, e invece di complimentarsi con Tiziano per averlo convinto a tornare, disse solo che perdere Mauro sarebbe stato un vero colpo per l’azienda, e questo fece ribollire il sangue a Tiziano che si sentì, come sempre, un’inutile appendice della sua famiglia. Alle due la piazza del Mercato era quasi deserta. Erano aperti solo i banchi dei cinesi, che vendevano giocattoli, parrucche e vestiti striminziti che solo le ragazzine di taglia trentotto potevano permettersi. Sotto le logge faceva freddo, tirava ancora un vento di libeccio, ma era ormai in calita, e Tiziano indossava con una giacchetta di lana con il bavero alzato e una sciarpa gigante grigia avvolta intorno al collo, nascosto poco lontano, spiando l’arrivo di Greta. Per lui non era giusto arrivare in orario ad un appuntamento, ma in ritardo. Serviva per vedere la serietà degli altri, se gli altri erano precisi erano amici perfetti per lui. Greta arrivò alle due in punto e si sedette fuori ad aspettare, ma guardò immediatamente l’orologio, come a dire, se non arrivi entro cinque minuti, me ne vado. Greta aveva un profilo decisamente speciale, le conferiva un’aria fiera, come un animale selvaggio, e gli occhi trasparenti erano laghi di verità. Lui arrivò subito dopo, per i ritardi con lei ci sarebbe stato tempo, andava anche un po’ addomesticata, piano e con pazienza, e si lanciò su di lei, abbracciandola con foga e baciandola sul collo. Il suo naso era freddo, e lei si era scostata, non senza nascondere un risolino. Lui era affascinante, su questo non c’erano dubbi. Quello che si dice, un vero “figlio di puttana”. Lui aveva chiamato il gelataio, ma lei aveva detto di andare al banco a prenderlo, lui si era impuntato, dicendo che voleva essere servito al tavolo, lei gli disse che era una normale gelateria, mica un bar della eggiata, si scontrarono a parole, poi lei lo aveva ignorato e si era presa un cono a quattro gusti con un chilo di panna sopra. Lui, offeso per la discussione, disse che gli era ata la voglia di mangiarlo. Poi vedendo che Greta non batteva ciglio, e gustava il gelato senza parlare, si

trattenne dall’andarsene – come era solito fare in certe situazioni - e le disse che si era fatto male. Le mostrò il dito, gonfio e fasciato da un grosso cerotto e lei scoppiò a ridere. - Cosa c’è da ridere, adesso? – aveva chiesto lui, mortificato. - Sei buffissimo, Tiziano. Mi hai ricordato quando si è piccoli, che si va in giro mostrando le sbucciature ed i cerotti come ferite di guerra. Dai, si vede lontano un miglio che è una cazzata. – poi aveva dato una profonda leccata al gelato, e lui aveva voltato lo sguardo sul suo dito. Lei sembrava volesse farlo scendere dal suo mondo, un mondo che lui amava. Lui stava bene dove era, dove si era rintanato da tempo. – Mi stai dando del moccioso, per caso? – ecco, si era arrabbiato. Non ce l’aveva fatta a tenerle testa, incredibilmente, con una battuta, lo aveva fatto andare fuori dai gangheri. – Che cazzo ne sai di cosa facevo io da piccolo? – aveva detto lui, trattenendo altre parolacce. – Rilassati, Tiziano, stiamo scherzando, no? Era per dire, niente di personale. – Greta lo aveva guardato, stupita per la sua eccessiva reazione. – Certo tu la fai facile, io ho bisogno di te, e tu mi sfotti, mi dai dello snob di merda che non si alza a prendere il gelato, dici che sono un frignone perché mi sono fatto male. Tu non hai idea di cosa significhi questa ferita. – esclamò Tiziano, e poi un magone incredibile lo aveva assalito allo stomaco, si era sentito come impietrito dallo sconforto. Lei si era allungata verso di lui, e gli aveva messo una mano sul braccio, e guardato con dolcezza. – Si può sapere di cosa parli? Noi non ci conosciamo, non so niente di te, so solo il tuo nome e delle tue foto su facebook, non sono mica venuta qui per deriderti o per parlare della tua infanzia. O meglio, mi hai chiesto tu di venire, io posso anche mangiare il gelato ed andarmene. – A te cosa piace fare? – le aveva chiesto allora. – Tante cose, la fotografia, per esempio. Mi piace fissare momenti, rivedere in questo modo le mie emozioni, mi piace andare per mare. Mio padre ha un motoscafo, d’estate andiamo al Gombo a fare i coltellacci. Poi li cucino, sono anche brava. Tu?Lui non aveva fiatato, aveva guardato l’orologio e poi aveva sospirato, come se fosse infastidito da tutto quello che lei aveva detto. Poi in modo brusco le aveva chiesto se poteva andare da lei, per fare sesso. Lei, ancora con il gelato a metà, era rimasta di stucco.

Lui aveva fatto un gesto di impazienza e poi ribadito che aveva solo pochi minuti, che si decidesse di corsa. Lei si era alzata, e aveva fatto un gesto, come scacciare un pensiero terribile, aveva buttato il resto del gelato nel cestino dei rifiuti e si era allontanata a o svelto. Lui, a cose normali, non avrebbe fatto niente, invece questa volta le corse dietro, tentando di fermarla. Perché, si stava chiedendo, rovino sempre tutto, perché dico sempre le solite cose. – Scusa, Greta, scusami.- le andava ripetendo, ma lei a testa bassa e mani nelle tasche del piumino, camminava nel suo modo veloce senza fermarsi. – Sono un cretino, dimmelo che sono un cretino, il mio problema è che devo trovare una donna capace di dirmi che sono un cretino- aveva esclamato. Lei non gli rispose. Tiziano la vide scomparire fra le auto parcheggiate, e si disse che doveva farla finita, doveva smetterla di umiliare le persone, anche perché di fare sesso non ne aveva neppure tanta voglia. Aveva voglia di sentirsi amato, per non cadere nella terra, e smettere di aver paura del buio. “Oscar mi amava davvero. Quando tornai dal mio epico viaggio, mi iscrissi ad un corso di teatro. Avevo letto da qualche parte che il teatro apriva la mente, e io ne avevo bisogno. Poi, essendo sempre sola, rischiavo di annoiarmi. Oscar mi aveva amata, con tutta la ione e l’amore di questo mondo e non solo. L’avevo conosciuto a teatro, durante la pausa dell’Enrico IV di Pirandello. A quel tempo ancora fumavo, ma non tutti i giorni, solo nelle occasioni, ed ero uscita dal Politeama per consumare il mio unico vizio. Lui in disparte mi osservava con curiosità, poi si era avvicinato e mi aveva chiesto se era la prima volta, visto che lui era un habitué e non mi aveva mai vista. Io osservai che si, era la mia prima volta, perché era l’opera che mi aveva incuriosito. La follia del protagonista, fingere di essere ancora pazzi dopo la guarigione, per non capovolgere l’abitudine della vita.

Finzione per sopravvivenza. Oscar mi aveva detto di essere un professore di scuola, e si vedeva, da come parlava. Però era bellissimo, e solitamente i docenti non sono affascinanti, ma lui incarnava l’immagine di un uomo virile e dolce allo stesso tempo. Mi innamorai di lui quasi subito. Mi accompagnò in platea, e dopo lo spettacolo si offrì di accompagnarmi a casa. Io avevo allora un vecchio Pallas rosa, enorme, credo cinquemila di cilindrata, che beveva come un alcolista anonimo, ed era così sporca che dentro c’erano pure cresciute delle piante, che uscivano dalle bocchette dell’aerazione. Mi vergognai di tale mise squattrinata e vagabonda che decisi di accettare il suo aggio, proprio per evitare di fargli vedere con che auto andassi in giro. Lui aveva un Alfetta blu, che gli conferiva un’aria ancora più maschia, e mi convinsi di aver trovato un uomo interessante. Lui fu molto galante e davanti a casa si fermò solo un attimo per guardare il panorama, poi mi diede il suo numero di telefono e mi disse di chiamarlo. Lo feci dopo un paio di giorni, e lui mi disse che non aveva aspettato altro che quella chiamata. Ci vedemmo da me, da quel momento, tutti i giorni. La nostra ione era come musica sinfonica, ci buttavamo l’uno nelle braccia dell’altro, amandoci, e ricominciando una volta finito, anche per diverse volte al giorno. Parlavamo di tutto, di musica, viaggi, di scoperte, teatro, arte, politica, ogni argomento era input per entrambi. Una ione incontrollabile, ci dicevamo ti amo ogni momento, i suoi occhi si perdevano nei miei, a volte non parlavamo per ore. Solo i nostri sguardi comunicavano. Non c’erano tabù, né vergogna, ricordo quei momenti come di assoluta purezza e candore fisico e psichico. Lui ava ore in mia contemplazione, e viceversa. Ricordo ancora i suoi capelli d’oro di sole e di grano, i suoi occhi verdi ed intensi, quel modo dolce di sorridere, un po’ di sbieco. Ricordo che non volevo lasciarlo, e che lui non voleva lasciarmi, il nostro sembrava dovesse essere un amore eterno, di quelli che senti parlare nelle favole.

Ma poi, tutte le belle cose finiscono, e subentrò, in entrambi, la noia. Come tanti ci eravamo amati, adesso, non ne potevamo più neppure dell’odore dell’altro. Io avevo capito che eravamo stati così ingordi, da sfamarci in modo primitivo ed insano, ed adesso ne pagavamo le conseguenze. Lui poi un giorno, la buttò lì, una proposta per me inaccettabile: sposiamoci, almeno proviamo. Preferii lasciar perdere. Mandarlo via da me fu la cosa più devastante della mia vita. Mi mancava come l’aria, piangevo ogni giorno. Non avevo più la forza di andare avanti, mi consumai come una candela, arrivai a pesare quaranta chili, i miei pensieri erano tutti bui e negativi. Lo amavo da morire, ma stare con lui mi avrebbe fatto morire lo stesso. Oscar la pensava come me, e anche lui pur soffrendo, non si avvicinò mai più a me, accettando la triste decisione. Furono due anni di calvario per entrambi. Disillusa e inacidita, non permisi per lungo tempo a nessuno di avvicinarsi al mio cuore e alla mia persona, rispondevo male, ero crudele, cattiva nelle risposte. Una donna da odiare, una donna fredda e inavvicinabile. Mi sentivo come se un caimano mi avesse stritolato fra le mascelle il cuore, non sopportavo più niente. E mentre Oscar poi si sposava con Mariella, io rimanevo sola, con i miei fantasmi mentali e le mie paranoie. I miei segreti, le mie follie nascoste, la mia voglia di vivere e di morire.”

Greta da ragazza aveva praticato molti sport. Ginnastica artistica, e poi pattinaggio sul ghiaccio e il surf. Da onda. Da non confondersi con il windsurf, per carità.

Fisico da ragazza americana, lunghi capelli castani, era l’idolo degli amici e compagni di tavola. Con il suo laccetto rosa, la paraffina profumata alla fragola, o al cocco, e il costume rosso, microscopico, si tuffava nel mare con solo una voglia: quella di cavalcare le onde. Il surf per lei era diventato uno stile di vita, non un semplice svago. Surfare era come mettersi a tu per tu con le forze marine, mettersi in discussione, mettere a nudo le proprie fragilità, ma anche sfidare le proprie paure. Surfare era non temere, ed era temere di farsi male. Era tutto e il contrario di tutto. Il suo primo insegnante era stato Razzo, quel ragazzo di Ravenna, dalla parlata strascicata che la faceva impazzire. Come ben noto, fra Ravenna e Viareggio c’era sempre stato attrito per via della paternità dello sport, entrambe le città si ritenevano patria del surf italiano, e quindi non correva buon sangue tra le due città. Ravenna, ricca e snob, ma anche grassa e pingue, con i suoi locali alternativi, Viareggio povera e di sinistra, con il Carnevale tutto l’anno, con le onde, entrambe, ma diverse. Tutto più a portata di mano a Viareggio, tutto più alla lunga distanza a Punta Marina, le onde alte e formate del Pontile del Forte, basse e veloci quelle adriatiche: eppure lo stesso spirito goliardico e fancazzista le accomunava. La birra, gli spinelli, la cocaina pura, i complessi balordi rock, le scopate sulla spiaggia, queste erano cose che si facevano di qua e di là. Greta però non si faceva, terrorizzata di perdere il controllo, doveva sempre tenere i piedi per terra, o per lo meno su una tavola ben grippata. Razzo le aveva fatto una corte spietata, qualche anno prima. Con la scusa di annoverarla fra le migliori surfiste donne italiane, e magari anche di farla partecipare a qualche contest, le aveva dato lezioni molto accurate. Lei era goofy foot, e aveva una naturale predisposizione a tenere equilibrio nei tubi, o fare degli areal molto alti, che anche qualche maschio ne era rimasto colpito. Aveva grazia da vendere, era bellissima, e occasionalmente aveva posato per qualche rivista specializzata del settore. Razzo le chiese di mettersi con lei, ma Greta aveva pensato alla lontananza, a lei che doveva ancora laurearsi, lui che voleva andare a vivere in India - cosa che poi fece - ad insegnare surf sulle spiagge del Sud, e quindi aveva declinato l’offerta.

Lui però l’aveva baciata, come a suggellare un patto, e le aveva detto che sarebbe tornato anche dall’inferno, per stare con lei. Dopo quella discussione con Tiziano, Greta arrivò a casa molto delusa e demoralizzata. Prese dal sottoscala la tavola da surf, una Town & Country, la mise sotto il braccio, montò sulla bici e raggiunse il mare, già con la muta addosso. Faceva molto freddo, il giorno prima era stata una giornata pessima, e tirava ancora libeccio, le onde erano imprecise e si rompevano sulla secca e la battigia in modo scomposto. Il mare era di color marrone, ma lei non si era spaventata, e con veloci bracciate aveva superato il punto in cui le onde prendono corpo e si gonfiano, e si era messa in aspettativa, per cavalcare. Presto arrivarono altri surfisti della zona, non era più sola. In cinque ruzzolarono nei frangenti e si lanciarono nei marosi senza sosta per quasi due ore. Poi sfinita, tornò sui suoi i. Sfogarsi le aveva fatto bene, e aveva quasi dimenticato Tiziano e i suoi comportamenti assurdi. Tornò a casa dal suo Poldo, si fece una doccia caldissima, si preparò una cioccolata calda e si mise a studiare. Niente e nessuno - si disse- mi terrà lontana dai miei impegni per almeno due settimane. Spense il cellulare, e si mise le cuffiette dell’Ipod. Mozart. Symphony 40 in G minore. Quello che ci voleva.

<<Sono ato dalla lavanderia alle quattro e mezza, tutto a posto. Okkey, sono andato di corsa da April. Oggi più leggero ma anche devastato. Greta è un osso duro, credo che dovrò lasciarla perdere. Ci sono milioni e milioni di ragazze senza star dietro ad una cagacazzi come lei. April aveva lasciato la porta chiusa, razza di rincoglionita. Il camlo non funzionava, e allora ho fatto il giro da dietro, dove non ero mai stato, ma dove avevo visto dal bagno, c’era il giardino delle rose. Sono rimasto folgorato dalla bellezza del parco dietro la casa, immenso, verde, curatissimo, come si vedono nelle foto dei cottage inglesi. Rose su rose, tutte rosse, alcune selvatiche, altre non saprei, l’olezzo dei fiori era fortissimo, mi ha inebriato.

Mi sono seduto su una panchina di marmo, ad osservare tutto questo e non ho notato quanto sono stato, so solo che il sole scendeva sempre più, alla fine era sfociato in un tramonto di sangue, mi ha riempito la vista, per un po’ ho visto solo rosso, e a malapena i contorni delle montagne a picco sul mare. Sono rimasto al buio, senza averne paura, anche se devo ammetterlo, l’atmosfera non era rassicurante. Ho pensato dove cazzo fosse finita April e mi stavano anche girando le palle, perché mi fa perdere tempo, mi fa andare fuori di testa come lei. Sono tornato indietro e la porta era aperta. Ho mormorato un vaffanculo, e sono entrato. C’era uno strano odore di umido, come di sangue fresco, che non mi è piaciuto per niente, ho chiamato April a gran voce ma non ha risposto. Il buio dentro la casa era palpabile, come se fosse una cosa viva. Ho allungato una mano per vedere se trovavo un interruttore e qualcosa mi ha sfiorato. Una mano, forse, fredda e bagnata. Ho ritirato la mia, con un gesto, un po’ disgustato e ho chiamato ancora il suo nome ma non è successo niente. Non ho paura del buio, mi sono detto, gran cosa. Ma April ha detto che bisognerebbe averne. Perché? Mentre pensavo alle sue parole, e stavo come un coglione nel buio, ho sentito muoversi qualcosa, come un abito leggero, accanto a me. Adesso l’odore del sangue era molto forte, come quando ti trovi in certi posti dove ammazzano gli animali, e ho cominciato a temere che fosse successo qualcosa a quella donna. Magari era caduta dalle scale e si era rotta l’osso del collo. O forse aveva sparato a qualcuno. L’idea mi fece improvvisamente accapponare la pelle, lei lo aveva detto all’avvocato e anche a me, che forse ci avrebbe sparato. Sono uscito. Sono rimasto sulla veranda, ansimando, con la pelle arricciata sotto i vestiti, e i capelli ritti sulla testa.

Poi April mi ha chiamato. Mi ha detto di entrare. Ho messo solo la testa dentro, e l’odore era sparito, o forse, pensai, ci avevo fatto l’abitudine. Camminai dentro il salone, con le mani avanti per non inciampare nella poltrona nera, la trovai e mi sedetti. Poi, come guidato dall’istinto, mi sono sporto in avanti, per cercare la rosa, che come avevo immaginato era al suo posto. Solo che era bagnata, fradicia, non capii di cosa. Allora mi sono portato la mano alla bocca, e ho capito che era sangue. La rosa dal giorno prima aveva trasudato sangue. Me lo sentii addosso, nelle mani, sotto i piedi, come scorrere e allora dissi a voce alta, o forse fra me e me: -April questo gioco non mi piace, me ne vado.La mia voce era stata stridula, come di un ragazzino disperato davanti alla morte, e questo mi colse di sorpresa. Me la stavo facendo sotto, ero molto spaventato, inorridito, non sapevo come fare né cosa fare. -Non possiamo vivere nel buio, io debbo vederti, parlarti.- Avevo detto ancora, mi sembrava di stare in un incubo terribile, non riuscivo più ad alzarmi da dove ero seduto. Poi mi accorsi che stavo orinando, me l’ero fatta addosso davvero. April si mosse, vidi la sua sagoma nera uscire e rientrare nel buio, vidi i suoi occhi luminosi ma neri, non so come spiegarmi, sembravano torce, ma anche fari spenti, a volte accesi e a volte no. Si sedette di fronte a me, vicina, vicinissima, che il suo respiro si mescolò con il mio. Il mio caldo, il suo pungente, che sapeva di terra ed acqua. Desiderai di entrare in lei. Di confondermi, di perdermi, nel suo piccolo corpo nero, di trovare rifugio, o forse perdono, la morte, non saprei adesso. Solo che lei in quel momento fu beatitudine ai miei pensieri crudeli, era come una tisana, una preghiera. Le chiesi di prendermi, e di portarmi via, con lei, dovunque lei fosse. Mi misi a piangere. Cazzo. Come un bambino a cui stanno danno una severa punizione, mi lasciai andare, e le dissi che ero un essere abietto, una vergogna, un miserabile, un insetto da schiacciare. Nessuno ha mai amato la mia essenza, le dissi. Non voglio

spiegarmi, non voglio essere capito, ne cambiato, ne sopportato, voglio stare con te, in questa casa senza tempo, con le tue rose. Lei adesso mi era molto vicino, e finalmente avevo davanti il suo viso azzurro, segnato da piccole vene cerulee, i suoi occhi infiniti come labirinti atroci di mistero e pace, il suo sguardo cupo ed eterno, che mi imprimevano pace. Desiderai che lei mi toccasse le mani, gli occhi, che mi baciasse, o che mi portasse via, ma lei si allontanò, ormai avrebbe potuto prendermi e cullarmi, ma invece nel ritrarsi vidi una piccola lacrima nera, come inchiostro, scendere sul suo viso. –April…- ho detto. Mi sentivo pazzo d’amore, disposto ad essere un uomo migliore o diverso, solo per lei, e lei se ne andava. –Taci.- Disse solo, e voltandosi verso il buio scomparve. Io, scosso, privato di ogni energia, chiusi gli occhi e mi sdraiai sulla poltrona nera. Mi addormentai. La mattina fu la luce del sole dalla finestra a svegliarmi. Nel salone non c’era nessuno, e mi accorsi solo allora dello stato della stanza, delle ragnatele agli angoli della stanza, della rosa nera ed apita, sbriciolata, sul tavolino, segno che non era mai stata sporca di sangue, e che era lì da un mucchio di tempo. La mia Moleskine era fitta di appunti, di nuovo, e ancora del contratto della vendita nessuna traccia. April non c’era, forse era uscita per una eggiata. Io mi sono stirato, ho fatto il giro della stanza, e me ne sono tornato in ufficio. Mi sentivo meglio degli altri giorni, mi sentivo più pulito come se qualcuno mi avesse strigliato la coscienza. L’unica cosa che mi fece capire che qualcosa era successo davvero, fu constatare che mi ero pisciato addosso. Cazzo, davvero.>>

Domenica

Enrico Maria aveva telefonato a Lucetta, la mattina. I progressi per l’acquisto della casa andavano a rilento, ma niente poteva impedire ad entrambi di incontrarsi per parlarne. Lucetta aveva declinato l’invito, del serrato interessamento dell’avvocato non sapeva di cosa farsene, e aveva invece pensato di andare in ufficio, con una scusa per vedere Tiziano, che inspiegabilmente, non aveva dormito nel suo letto né le aveva risposto al cellulare. Quando lo vide, immaginò una notte a sbronzarsi con qualche amico, per non dire di peggio, e ne approfittò per parlargli, come non faceva da tempo. Tiziano era dietro la sua scrivania, in evidente stato di stanchezza accumulata da giorni, e non si era fatto neppure la barba. I capelli arruffati, la sonnolenza, tutto le fece pensare che forse c’era di mezzo una donna che lo stava prendendo in giro. Si sedette davanti a lui, alla scrivania, ma lui non la vide. Troppo scombussolato per gli avvenimenti, cadde con la testa sulle braccia appoggiate sulla scrivania, e si addormentò all’istante. Lucetta si rivolse allora a Mauro, che le disse che non sapeva niente delle sue scorribande notturne, anche se il mezzo sospetto che c’entrasse April lo credeva possibile dal primo giorno. Disse anche che sicuramente non era la vecchia pazza che tutti temevano, ma con tutta probabilità una donna bellissima che sapeva stregare chiunque. Lucetta, sentendo una descrizione romantica ma anche misteriosa della donna, chiamò subito l’avvocato, pregandolo si occuparsene direttamente, e di evitare in ogni modo che suo figlio si incontrasse di nuovo con quella sirena ammaliatrice. Al solo pensiero di incontrare siffatta Circe, Enrico Maria si entusiasmò immediatamente. Chiamò Claudia, e le disse che sarebbe uscito, per un paio d’ore e di non chiamarlo per nessun motivo. Scese nel garage, si mise alla guida della sua Austin Healey bianca del ’66, un vero cimelio, e si spruzzò in bocca un

rimedio per l’alitosi consigliatogli dal suo farmacista e amico Massimo. Certo la sua automobile era veramente spettacolare, ed avrebbe fatto sicuramente colpo, ma purtroppo la capote non impediva al freddo gelido di entrare nell’abitacolo. Dovette fare uno sforzo per non cambiare idea, e prendere la BMW: qualcosa nell’istinto gli diceva che doveva fare colpo su April, in un modo plateale, nel modo che lui conosceva meglio, e che quindi un po’ di freddo sarebbe stato certamente sopportabile. Però, quando arrivò all’imbocco della strada sterrata, cambiò idea. Lasciò la sua bambina adorata all’incrocio, e scese a piedi, mettendoci un buon quarto d’ora a raggiungere quella villa isolata, prendendosela con se stesso per aver sbagliato strategia. La macchina non sarebbe stata visibile ad April, e questo forse avrebbe compromesso l’esito della sua missione. Quando arrivò non c’era nessuno. La porta era chiusa a chiave, e dietro, il giardino era infestato di rovi e impenetrabile. Si chiese come diavolo fe quella donna a vivere in un simile maniero da vampiri, le finestre erano sbarrate da tavole di legno incrociate, e il tetto era sfondato. Si disse che aveva sicuramente sbagliato indirizzo, ma sulla vecchia cassetta della posta sembrava proprio che ci fosse stato scritto April. Rifece un mezzo giro attorno alla proprietà, poi risalì da dove era venuto. Casualmente incontrò un uomo, vestito con la mimetica, che forse andava per funghi o a cercare radicchi selvatici. Lo fermò, e gli chiese se conoscesse April. L’uomo indicando la vecchia casa più sotto, disse che erano anni che la proprietaria era sparita. Scomparsa. Nessuno sapeva che fine avesse fatto, e che qualcuno aveva poi chiuso tutto, in attesa del suo ritorno. In paese circolavano voci che forse si era risposata – April era conosciuta come una persona dal carattere molto particolare – e che vivesse all’estero, forse in Inghilterra dove era stata in ato. Aggiunse poi che la casa non aveva una bella fama, anzi, qualcuno diceva che

fosse infestata da fantasmi e spiriti perduti, e che nessuno si avvicinava mai al roseto, perché si sentivano voci, specialmente nelle sere d’inverno, con la pioggia, e il vento di libeccio. Enrico Maria ribatté che erano solo un mucchio di fandonie, che lui era sicuro di averci parlato al telefono, ma l’uomo indicò che la linea telefonica era stata tagliata, da un bel pezzo. L’uomo disse che forse avevano parlato tutti con un fantasma, ma l’avvocato non rise alla battuta, anzi, si chiuse in un preoccupato silenzio. Lo ringraziò solo, e tornò all’incrocio dove aveva lasciato la macchina e il cellulare, e appena fu seduto alla guida chiamò Lucetta. Il telefono di lei era irraggiungibile. Enrico Maria avviò l’auto, fece una rapida retromarcia, e tornò indietro di corsa. Aveva urgenza di parlare con i suoi clienti di quanto avesse scoperto, dei suoi dubbi e delle sue perplessità, ma mentre già si stava scordando di cosa doveva parlare ai De Rossi, vide il gatto. C’era un gatto nero, grande, sul ciglio della strada, incerto se attraversare o no davanti alla sua auto. Fu come una frazione di secondo, e il gatto si lanciò verso di lui, in una folle corsa, e l’avvocato sterzò a destra, senza riflettere, d’istinto. L’auto sbandò, e finì contro un albero, di fianco, fortunatamente, e lui prese solo un gran colpo alla testa. Non aveva mai messo le cinture, in quella macchina bellissima che poi pensava di sfigurarci, e la botta alla fronte sul volante non fu lieve. Perse conoscenza, e anche sangue, e furono necessari alcuni punti di sutura. Ricoverato all’ospedale per trauma cranico, vi rimase parecchi giorni, in stato confusionale, senza ricordarsi di cosa avesse fatto addirittura mesi prima. Il medico consigliò riposo, e Lucetta dovette rassegnarsi perché non avrebbe trovato in lui l’appoggio per i suoi tentativi di distogliere l’attenzione di Tiziano da April.

Un’ora più tardi, quando ancora nessuno sapeva che Enrico Mario si fosse rotto la testa nell’incidente, Tiziano fece la curva dove vide l’Austin bianca schiacciata contro il pino e comprese immediatamente che fosse quella del suo avvocato.

Si allarmò subito, chiedendosi cosa ci fe lì, e fece una corsa per arrivare da April, temendo che l’uomo le avesse chiesto di muoversi con la vendita o che l’avesse offesa in qualche modo. Ma quando giunse a destinazione, la casa era sempre al solito posto, con la porta socchiusa, la rosa piena di sangue sul tavolo e April vicina alle scale, seduta, che lo aspettava. Tiziano le confidò immediatamente di cosa avesse visto e le chiese se lei avesse mai parlato di persona con Enrico Maria. Lei fece in sospiro lungo, che sembrava venire dalle profondità della terra, e mormorò di aver fatto una cosa cattiva. Non aveva potuto impedire che accadesse, si scusò in qualche modo, ma l’avvocato andava fermato. Lui le avrebbe impedito di raccontarsi, e avrebbe impedito a Tiziano il cambiamento. – Che cambiamento? – aveva chiesto Tiziano. Lei non aveva detto altro per un po’, mentre il buio aveva iniziato di nuovo ad insinuarsi nella casa, come una nebbia, fra di loro, su di loro. Per loro. April aveva allungato una mano, strano, pensò lui, è laggiù, come fa ad arrivare qui, da me. Le arrivò fino davanti al viso, come l’altra volta, e gli disse che non c’era più tempo, che doveva sbrigarsi. Che in quella notte lei avrebbe raccontato la verità, ma solo fino dove lei sapeva, e che poi ci avrebbe dovuto pensare lui. Balbettò che non era una cosa importante, ma forse importantissima. I suoi occhi erano vicinissimi ai suoi adesso. Dalle cavità morbide e senza luce cominciarono ad uscire piccole lacrime scure, che le rigarono il viso di porcellana. La bocca, come disegnata su una maschera, era mossa da un leggero tremito, come di paura e sofferenza, e Tiziano si allungò verso di lei per baciarla. Quando le fu ad un solo millimetro e sentiva già il suo respiro freddo e da gusto di sale, lei si ritrasse e disse di no. Tornò a sedersi, come era venuta, era già lontana. Il buio totale calò nella stanza. E non ci fu nessun rumore, nell’ovattato silenzio lui riuscì solo a percepire la voce di April, che leggera come un battito

di ciglia, cominciava a raccontare.

“Stasera sono molto stanca. Forse perché ho dovuto occuparmi di quel ficcanaso del tuo avvocato. Ho dovuto augurargli di fare un incidente, perché quando è ato da casa non c’ero. Se no gli avrei sparato, sicuro. Dove ero rimasta con i miei ricordi? Ah, si, forse il professore. Certo lui mi ha lasciato un segno indelebile, mi ero proprio innamorata. Poi ho ato un periodo un tantino triste, non voglio esser melodrammatica, ma ecco, un certo vuoto dentro di me c’era. Anzi, voglio dirti la verità, voglio dirtela come è: stavo malissimo. In quei momenti credevo che non avrei mai più trovato un uomo come lui, affascinante, dolce. L’uomo che ti capisce al volo, con cui hai complicità, con cui puoi fare il gioco della seduzione come puoi parlare dei problemi del mondo. Eravamo innamorati e disperatamente soli, però. Annoiati, e legati alla nostra libertà personale, o forse egoisti, o troppo giovani, non lo so. Sta di fatto che io non riuscivo a dimenticarlo, non riuscivo a – uso una brutta parola – rimpiazzarlo. Poi è successa una cosa nuova. Ho cominciato ad affittare alcune camere di questa casa a delle ragazze straniere, che venivano per studio, quasi sempre da Londra, a volte dall’America. Avevo comprato una macchina che consumava molto meno, un’utilitaria, e la lasciavo a queste ragazze e io giravo in moto. Oh, si, mi ero comprata una moto da favola, sai? Non era da tutti avere una moto del genere, una Yamaha XT500, grigia. Tu hai una moto, Tiziano? No? Dovresti provare l’emozione che si prova quando apri il gas e sei su un rettilineo, e tutto sembra strapparsi da terra per volare accanto a te. Tu sei in una band e non hai una moto? Lo trovo assurdo, sai. I cantanti rock amano la velocità, il rischio, l’adrenalina. Anche io. Avevo sempre le chiappe su quella moto e giravo in lungo e in largo, senza casco. Non era mica obbligatorio, e i miei capelli neri erano lunghissimi, che fluttuavano dietro di me, come alghe nella corrente.

Il simbolo della libertà, io e la mia moto. Hai mai letto lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta? No? Tiziano, forse dovresti farlo. Devo farmi gli affari miei? Permaloso, vedo. Come fai a sopportarti? Posso smettere di parlare per un po’, è veramente dura per me arrivare al nocciolo della questione.”

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“Tiziano non mettermi furia. Tu hai sempre furia con tutti. Quando vuoi una cosa gli altri devono scattare. Adesso aspetta i miei ritmi. Ti dicevo, vedi, mi hai fatto perdere il filo.”

<<Mi dicevi che davi in affitto le camere.>>

“Si, un giorno una di queste ragazze, Caitlyn, mi informa che sarebbe venuto un ragazzo da Londra a trovarla. Io non ero molto contenta di questo, ma lei mi ha assicurato che si trattava di pochi giorni, e che comunque avrebbe dormito fuori nel mio giardino, in un sacco a pelo.

Non ho detto niente. Dopo un paio di giorni, o forse una settimana, adesso, non ricordo con precisione, è arrivato questo amico di Caitlyn. Hall, ecco il suo nome. Hall si è presentato una notte, anzi, per essere precisi al crepuscolo, e io sono rimasta folgorata dalla sua bellezza. Era altissimo, grandi spalle, occhi grigi, con i capelli neri come l’inferno, lunghi alle spalle. Non penso di aver mai visto da vicino un uomo simile, cosa che gli ormoni mi sono andati in subbuglio subito. Credo di aver fatto una faccia ridicola, mentre gli stringevo la mano sulla porta. Non mi era mai successo. Tiziano, mi ascolti?”

< > “Tiziano, per favore, stiamo parlando di quasi trent’anni fa. Non devi ingelosirti per una storia che è finita.”

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“Ma lui è il nocciolo della questione! Non senti come lo sto dicendo? Vuoi metterti nei miei panni per una volta? Non capisci che è una questione importante per me?”

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Lunedì

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Le ho dato appuntamento da Nilo’s. Si, lo so, non ho fantasia, è una gelateria pure quella, ma amo il gelato. Anche se poi alla fine non lo mangio mai. Poi ho chiamato Simon, era strafelice di sentirmi. Mi ha dato del disperso, mi ha chiesto come stava Enrico Maria visto che la notizia era sul giornale, e mi ha detto che aveva pensato a come chiamare i gemelli. Visto che erano un maschio e una femminuccia, aveva pensato a Tiziano e April. Quando ha detto il mio nome, ma soprattutto quello di April sono rimasto senza parole. Lui ha chiesto se ero contento, e io mi sono sentito una merda di prima categoria. Io lo avevo odiato, lui e Cecilia, per la storia della band e lui chiamava suo figlio Tiziano. Non sono riuscito a dire niente, ho detto grazie due volte, e poi lui, nel suo modo scanzonato e pieno di vita mi ha detto “adesso tocca a te, fratello”. E io ho sentito un groppo in gola scendermi nello stomaco, violentemente, che ho dovuto sedermi per non vomitare. Simon ha messo giù, ormai sa come sono fatto, sono fatto di merda ormai è lampante, e sono andato da Nilo’s, trovandolo però chiuso. Ho fatto un giretto nella pineta, davanti alla gelateria. Mi sono seduto sulla panchina, lei è arrivata, splendida, stretta nei jeans e con un buffo cappellino di lana, le labbra con il rossetto e l’immancabile macchina fotografica al collo. Mi ha visto, non ha sorriso e mi si è avvicinata a grandi i, con la sua falcata da amazzone. E’ stata brusca -Cosa vuoi che faccia, sentiamo?- Le ho chiesto come stava, e non mi ha risposto, è rimasta in piedi davanti a me, con le mani in tasca, sembrava una pentola a pressione pronta ad esplodere. Mi sono guardato attorno, mi sono lisciato la faccia, la barba lunga solitamente mi dà un’aria interessante, ma lei non sembrava essersene accorta e le ho fatto cenno di sedersi accanto a me, ma lei ha nicchiato ed è tornata sull’argomento. -Cosa vuoi?Mi ha preso una grande tristezza. Una sorta di magone allo stomaco, che non è ansia e sarebbe meglio chiamarla malinconia, e devo aver fatto una smorfia contrita, come di dolore, perché lei si è scostata da me, come nauseata. Si. Invece di vederla preoccupata per me, l’ho vista terribilmente arrabbiata, e

disgustata. -Greta…- ho esordito con un soffio nella voce, sapevo che dovevo chiederle scusa, per tutto, se no non mi avrebbe aiutato, ma allo stesso tempo avevo voglia di liberarmi la coscienza, e pulirmela bene, per quelle cazzate che le avevo detto giorni prima. -Non volevo, non so cosa mi abbia preso. Io sono un ragazzo -ho fatto una pausa, come fa sempre mia madre Lucetta, le pause effetto - con alcuni problemi. Non so come mai ne perché, ma a volte - spesso - mi comporto male. Dico cose offensive, ma non le penso sul serio. Mi sale addosso una smania di cattiveria gratuita, e devo insultare. Dopo sto meglio. Dopo qualche giorno poi mi pento. Non sempre. Con te è diverso. Ho esagerato e io se sbaglio so chiedere scusa. Scusa.Ho detto tutta questa roba di corsa, d’un fiato, ma lei non ha battuto ciglio. Non ha sentito, forse, o non ha voluto capire. Si è seduta accanto a me, senza guardarmi, anzi, si è messa a fissare per terra, giocando con la punta dello stivale nella terra. -Questa pineta è al degrado, visto quanto sporco?- ha detto lei, come se io non ci fossi davvero, come parlando fra sé. -Hai una ragazza fissa?- ha detto poi. Sono rimasto zitto. Che c’entrava? Cosa cazzo le fregava se avevo una o due ragazze? Ho deglutito, se mi avesse dato un calcio in uno stinco mi avrebbe fatto meno male. –Quasi.- ho risposto. Lei mi ha guardato, con quegli occhi lunghi come un’egiziana, e visti da vicino, così chiari e trasparenti, mi sono quasi preso un colpo. -Quasi? Che risposta da minchione è questa?Mi ha dato del cazzone, sui due piedi, io ho tergiversato, mi sono messo a cercare le sigarette nella tasca del cappotto, ho una paglia. Ho sbuffato del fumo, senza quasi aspirare, e poi le ho detto -Sono un minchione. Non ho nessuna. Ho delle tipe con cui esco ogni tanto per…-. Ho detto per e ho chiuso la frase, che se la interpretasse come credeva meglio. Ma lei, come un punteruolo, è andata avanti. -Per cosa? Parlare della tua band?Ha fatto un risolino di merda, e ha cominciato a salirmi il nervoso. -Anche. Se le mie ragazze mi apprezzano per la musica, non vedo dove sia il problema. Invidiosa?-

L’ho detto acido, come un limone marcio. Mi tremava anche la voce. Per per per. Non certo per scoparle. Preferivo di gran lunga i pompini, io. Ma mi sono controllato, e non l’ho detto. Costa fatica scopare e non rende quando il sesso orale. Lei mi ha guardato con pietà, si, quella era innegabilmente una faccia di commiserazione, ma io ho fatto finta di niente, mi sono controllato parecchio e le ho detto se poteva svilupparmi quel cazzo di rullino di foto. Lei ha fatto una risatina allegra, neanche l’avessi invitata a cena, e ha chiesto di cosa stavamo parlando. Non avevo voglia di raccontarle i cazzi miei, April, la casa, le case, le rose, il gelo, il buio e tutto il resto, ma lei si è messa bella sorridente una gamba sopra l’altra, come dire, finché non parli non mi muovo, e alla fine le ho raccontato un po’ di cose sparse. Lei sembrava sulle prime annoiata, poi man mano si è interessata, e ha chiesto quasi concitatamente se poteva venire con me per fare due foto ad April e alla casa. Le ho detto che April è una strega di merda che non dà confidenza a nessuno, -lei allora ha detto che sarebbe la mia compagna ideale, ma io non le ho risposto - e che mi fe sto piacere di vedere chi cazzo c’era nelle foto. Magari Hall, il bitorzoluto latin lover di sto cazzo. Greta quando ho detto così, perché mi è scappato, mi ha detto ridendo se fossi per caso geloso di lui, ma le ho detto che io non sono geloso delle persone, quanto delle mie cose personali. Come la mia automobile, le mie scarpe di Prada, il mio Rolex Gmt2 e le mie camicie bianche. Di camicie bianche ne ho settantotto tutte simili, ma anche diverse, per la verità, e tutte firmate. Metto solo camicie bianche e jeans, e adoro le sciarpe di lana, e le giacche di cashmere, quelle tutte sfrangiate che danno l’idea di non costare un cazzo e invece sono di marca. Greta ha preso il rullino, lo ha girato fra le dita, - e lì mi sono accorto che aveva delle bellissime unghie trattate con il french - e mi ha detto che le avrebbe sviluppate la sera stessa, visto che anche lei era curiosa di sapere chi ci fosse rimasto impresso. Ha fatto per alzarsi, e allora non so come, le ho messo una mano sul braccio. Da lei arrivava un delicato profumo di fiori, freschi, e mi sono avvicinato alla sua guancia, solo per darle un bacio, o almeno per sfiorarla, ma lei si è allontanata e mi ha detto no.

No. Io mi sono agitato, solitamente a me le ragazze non dicono mai di no. O almeno motivano il no con delle giustificazioni che sono facilmente attaccabili, tipo non ora, non qui, non adesso. Invece lei ha detto no, categorico, e io mi sono sentito un salame. Allora mi sono alzato con lei e le ho chiesto dove abitasse, che volevo are da lei a prendere le foto. Lei ha sorriso, poi mi ha dato l’indirizzo e mi ha detto, alle ventuno, stasera. L’ho accompagnata fino alla macchina, e lei ha detto, con una faccia da schiaffi incredibile: -E così neppure oggi mi hai offerto il caffè. Lo sai come li chiamano a Roma quelli come te?- Non avevo proprio voglia di sentirmi dare del pezzente in romanesco, e le ho chiesto come mai sapesse il dialetto della capitale. Lei ha detto -Purciaro!- E non ha risposto alla mia domanda, è salita in macchina, ha messo la prima e se ne è andata. Purciaro, che cazzo significa? Stronza! Dopo, in ufficio, sembravo un cane bastonato. Ho cominciato a guardare Mauro lavorare. Lui sembrava non essersi accorto di questo, ma dentro di me sapevo che invece lo aveva percepito. Dopo un po’ gli ho chiesto se aveva voglia di ascoltarmi. Solitamente noi maschi non ci raccontiamo un cazzo fra di noi, ognuno fa quello che crede e al limite in caso di necessità ci diamo un pacca sulle spalle senza proferire parola ed è tutto a posto. Invece quel pomeriggio mi era presa una frenesia incontrollabile. Ero sempre stato un iper critico e un cinico, e delle mie cose non avevo mai detto a nessuno, neppure in terapia. Oh si, Lucetta mi aveva spedito dallo strizzacervelli quando ero piccolo, perché facevo cose strane, piangevo per ogni sciocchezza e mi chiudevo nell’armadio al buio - non ho mai avuto paura del buio io - o mi mettevo a parlare con i miei amici immaginari. Cazzo, quella cosa proprio non le andava giù a mia madre, che avessi due amici irreali, Tom e Daniele, con cui giocavo a alieni e terrestri in conflitto globale e ad altre avventure tipo video games. No. Lei pensava che avessi degli squilibri e mi aveva portato dal dottore, al quale non avevo raccontato un cazzo. O meglio, avevo inventato due o tre

cazzate su misura che alla fine dallo psico ci era finita mia madre. Insomma, ero stato solo un bambino molto fantasioso, e sognavo di fare il regista di telenovelas - adoravo quando le donne delle fiction scoppiavano a piangere perché respinte da questo o quell’ attore di grido - e quindi non credevo di aver bisogno di aiuto. Sensibile. Si, un bambino sensibile forse troppo responsabilizzato da genitori esigenti - ma chi non ne ha? - quindi niente di trascendentale. Ma quel mattino avevo il bisogno di dire queste cazzate a qualcuno e Mauro mi sembrò la persona giusta. Mauro era gay. I gay capiscono queste cose. E poi aveva l’aria di uno che non ti prende per il culo, o va a raccontare in giro i cazzi tuoi. Lui era alla sua scrivania, ha spostato il video del computer, e mi ha detto: -Ok, spara.Sono partito da lontano, da quando ero piccolo e timido. Gli ho raccontato della mia prima volta. Lui è arrossito, e cazzo, qui dovevo pensarci che lui era innamorato di me, ma forse la mia vanità non ha avuto remore, e così gli ho detto della prima scopata che è stato un disastro, e che le donne mi fanno sempre e solo incazzare. Non sono gay, ho detto tra una frase e l’altra, tanto per ribadire il concetto, e lui ogni volta ha fatto si con la testa come dire ho capito, ma io devo averlo comunque detto un due o tre volte ancora. Cioè volevo fargli capire che ero un ragazzo sensibile ma non gay, e che poi ero diventato uno stronzo. I motivi non li sapevo, ma ecco, l’idea di essere gentile con una donna, di essere accomodante, sincero, non mi veniva. Non me la sentivo, dentro, questa necessità. In fondo le donne sono tutte troie, puttane di merda, ho detto. Lui ha fatto una faccia strana, e si è messo a ridere. Cosa avesse da ridere non so, e glielo ho chiesto. Ha detto che sono tutte frasi fatte come dire che i gay sono tutti sensibili, gli handicappati tutti da capire, e le donne tutte puttane. Lui ha detto che ci sono un sacco di gay stronzi, di handicappati stronzi che si approfittano delle loro mancanze per trattare male gli altri e un sacco di donne che sembrano troie ma che sono solo sensuali da morire. Non avevo mai visto le cose da questo punto di vista, e il fatto che lui dicesse che non tutti i gay sono bravi mi ha

lasciato secco. Solitamente ne fanno un caso nazionale, per ogni offesa vera o immaginata, mentre lui non era ipocrita: pane al pane, vino al vino. Senza reticenze o false verità. Lucido e lampante. Lui mi ha detto: -Posso dirti quello che penso di te?- Ecco si, ecco no. Mi sono spaventato a morte. Ho avuto paura di litigare anche con lui, ma la sua spontaneità mi ha fatto capire che dovevo ascoltarlo. -Tu sei un narcisistaTutto qua. Che significa, ho chiesto. Anche io lo sono, ha detto lui. Bene, ho detto, siamo in due, ne so meno di prima. -Il narcisista è un uomo che ha grande concetto di sé, si crede superiore agli altri, usa gli altri per i suoi scopi, odia le donne, o meglio, le usa solo per i suoi fini senza entrare in empatia con loro. Cose del genere. Io lo faccio con i miei amanti, ma sto rendendomi conto che è sbagliato. Sto andando da un terapista da circa un mese, voglio guarire, perché è insano, e non si è felici. Io sono sempre triste ed inappagato. Niente mi soddisfa, solo il lavoro.L’ho guardato come si può guardare una cosa mai vista sulla faccia della Terra, e poi ho abbassato lo sguardo, ho cercato ancora le sigarette e gli ho chiesto se ne voleva una. Ha detto di si, anche se lui non fuma mai, o meglio , solo nelle grandi occasioni. Ha detto che parlare con me in modo profondo, era un’occasione da festeggiare con una sigaretta. Siamo usciti dall’ ufficio, nel giardinetto antistante, e ci siamo messi a fumare con calma. Senza dire un cazzo. Ha squillato il cellulare. Era la modella di Roma, la fichissima tutta tette, ma non le ho risposto. Ho spento il cellulare e ho detto a Mauro chi era. -Ti circondi di donne insignificanti per la tua vita, solo per il tuo piacere. Ma non ti accontenti di averle come trombamiche, devi fare in modo che si innamorino di te, perché vuoi la loro costante e continua adorazione, venerazione. Poi quando ti hanno stancato, le mandi via. Le fai piangere. Le critichi, pretendi il sesso, non doni niente. Loro ti accusano di essere crudele e freddo ma tu non le

ascolti, ti senti nel giusto e le accusi di essere pazze o ossessionanti. Sbaglio?Mauro ha spento la sigaretta a metà, e si è appoggiato al muro, guardandomi in modo serio. Aveva colto ogni sfumatura, e si era limitato, pure. Non era sceso in particolari, io non gli avevo detto delle mie pretese assurde, dei miei comportamenti perversi, dei miei pensieri neri e distruttivi. Del mio egoismo e della mia rabbia atroce e latente che scoppiava spesso in litigi e offese allucinanti. Ho fatto si con la testa, e poi ho detto: -Non cambierò mai.Lui ha alzato le spallucce e ha detto: -Cambiare si può, basta volerlo. Basta volere di accettare l’ignoto del cambiamento, quello che ci potrebbe essere dopo. Solitamente dopo è meglio. Lo sai che io sto cambiando per merito tuo?Mi sono voltato verso il giardino, preoccupato. Un’altra confessione? -Tiziano, io mi sono innamorato di te. Questo non è mai capitato prima, ma il mio terapeuta ha detto che il mio non è amore. E’ ossessione, per una persona che mi assomiglia, che ha le mie stesse carenze. Che ha i miei pensieri negativi, e le mie ansie. Come se amando te, aiutassi me. Come se - si è portato le mani allo stomaco come per farmi capire che qualcosa usciva da lui - donando il mio amore a te, potessi aiutare il mio animo tormentato e riuscissi a farmi perdonare di tutti i mali che ho dato ai miei amanti. Non funziona in questo modo, però. Per questo sto lavorando su di me, per cambiare. Per essere un uomo migliore, un gay migliore.Lo ha detto quasi scherzando, e io mi sono sentito pervadere da una grande commozione. Lui sapeva di avere un cazzo di problema e lo stava affrontando, io continuavo a tener la testa sotto la sabbia, ignorandomi e ignorando le mie ragazze, i loro sentimenti, le loro paure. -Ne parlerò con April, stasera-, ho detto a Mauro. E lui con un sorriso ha detto che era la cosa più sensata che mi aveva sentito dire nelle ultime due settimane. Poi mi ha detto:-Vuoi sapere la storia della casa di April? Ho fatto due ricerche al catasto.- Mi ha fatto un cenno furbo, come se fosse stato un colpo da poliziotto esperto, e gli ho detto subito di farmi vedere cosa avesse scoperto. E siamo entrati di nuovo in ufficio.>>

Il tenente aveva ereditato la casa da un lontano parente e lui se ne era innamorato subito. Si chiamava Carmelo Baldacci, ed era un militare in forza ad una compagnia Mitraglieri di Corpo d’Armata, che poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale si era sposato con una donna tedesca forse di nobili origini, Kristen Harrack e l’aveva portata a vivere in quel posto remoto, immerso nel bosco, lontano dai piccoli paesi delle colline. I due avevano avuto due bambini, e lui era partito per il fronte. Una notte d’estate un gruppo di tedeschi che stava ritirando nel quarantacinque, entrò nella sua casa, sorprendendola a letto con i bambini. Le urlarono di alzarsi, ma quando lei rispose in tedesco, con il mento alzato e nel suo modo fiero e risoluto, i giovani soldati abbassarono le armi e rimasero ammutoliti dallo stupore. Uscirono dalla stanza, mortificati, e lei fece altrettanto. Li condusse nella grande cucina, e gli offrì da mangiare. Loro non si fermarono che pochi minuti, vergognosi, a testa bassa, la ringraziarono. La guerra finì, e Carmelo non tornò, fu dichiarato un disperso di Russia, e lei non si risposò. Nel cinquantuno vendette la casa ad un’anziana donna che aveva un figlio prete che era stato trasferito dalla Curia di Roma come sacerdote nella parrocchia vicina, e i due vissero lì fino al sessantaquattro, quando i genitori di April comprarono all’anziano sacerdote la casa per otto milioni di lire. La giovane coppia, innamoratissima, decise che la casa sarebbe stata il loro nido per sempre, ma quando si separarono decisero di lasciarla ad April e di trasferirsi nell’altra, dove erano rimasti fino alla morte. Le due case appartenevano a lei, ma Mauro aveva scoperto che una, quella che volevano comprare i DeRossi, era stata donata ad un certo Hall Hall - certo in famiglia la fantasia non era il loro forte - mentre quella dove viveva ancora la donna risultava data in usufrutto niente meno che a Hall stesso, il muscoloso inglese per cui April evidentemente aveva perso il senno. Tiziano ascoltò Mauro raccontare tutta la storia, si era documentato bene su internet e aveva anche scoperto un trafiletto di un giornale locale dove si leggeva che April era scomparsa misteriosamente nel novantadue, senza lasciare traccia. Nessuno l’aveva cercata, visto che i genitori anziani e malati avevano da lì a

poco raggiunto miglior vita, e di lei nessuno aveva sentito più parlare. Nel giornale si parlava della vita solitaria e particolare della ragazza, che con ogni probabilità era tornata in India, o in qualche posto esotico, per vagabondare e vivere di avventura. Tiziano guardò Mauro e disse, con aria preoccupata: -Ma allora chi è quella donna con cui sto parlando da giorni?Mauro non gli rispose e fu così che Tiziano, preso da una strana ansia, decise di non andare all’appuntamento delle cinque, ma di cercare ancora informazioni sulla donna, e di andare da Greta la sera a vedere di cosa parlassero le foto che avrebbe sviluppato. Mauro obiettò che forse era semplicemente April, che era tornata senza grandi clamori, magari dopo un ato burrascoso ato a fumare oppiacei e marijuana e che nessuno si era accorto di lei, in quanto schiva e solitaria. Accennò che forse il medico del paese avrebbe potuto sapere, o considerò l’idea di controllare chi fosse il suo negoziante di fiducia, e chiese a Tiziano se avesse visto un’auto nel piazzale davanti alla casa. Tiziano fece di no con la testa, e considerò l’idea di fare qualche indagine. E’ risaputo che una cosa con l’usufrutto non è una vendita appetibile, tanto meno lei non aveva più la facoltà di vendere quella che interessava a suo padre, visto che l’aveva donata. Andava cercato Hall Hall, a questo punto. E anche di corsa. Incaricò Mauro di cercare questo strano personaggio, e telefonò ad April per disdire l’appuntamento. Il telefono squillò venti volte, e lui dovette provare altre quattro volte, ma alla fine lei rispose, con la sua voce dolce e surreale e gli disse : -So che mi hai chiamato perché non puoi venire. Va bene. So quello che hai da fare, a domani. Ma domani, vieni.Lui provò ad accennare a quello che aveva scoperto ma lei riattaccò, e non rispose più ai suoi diversi tentativi successivi. Mauro si mise subito al computer, e Tiziano fece un caffè per entrambi. Quando arrivò Arrigo, due ore più tardi, con un plico di fogli da visionare, li trovò davanti allo schermo, entrambi, intenti a consultare un sito internet. Arrigo sorrise compiaciuto: non lo aveva mai visto così impegnato, peccato che

Enrico Maria non fosse lì in quel momento anche lui per apprezzare la cosa. A cena Lucetta aveva comprato di nuovo le pizze. Tiziano mangiò la sua controvoglia, spiluccando nel piatto e giocherellando con le olive. Al rimprovero della madre si alterò. Si alzò da tavola e si chiuse nel bagno, per prepararsi ad uscire. Arrigo non aveva alzato gli occhi dalla Gazzetta dello Sport, la stava sfogliando con una mano, e con l’altra teneva una fetta di pizza sospesa in aria. Lucetta aveva gli occhi pieni di lacrime, e scoppiò a piangere. Arrigo, nervoso, le disse di chiudere quella boccaccia, che con tutto il casino che era successo il giorno prima - Enrico Maria se avesse dovuto subire un’operazione alla testa sarebbe stato catastrofico per l’azienda - non era certo il caso di mettersi a piangere per una stronzata come Tiziano che giocava con le olive. Tanto che di giocare con le olive lo aveva sempre fatto da quando aveva due anni. Visto che Lucetta non smetteva di lamentarsi e di frignare, Arrigo le diede uno schiaffo, non troppo forte, ma di sostanza. Uno di quegli schiaffi intimidatori che non ammette repliche, o le cose possono solo peggiorare. Tiziano sentì la litigata dal bagno, ma non fece niente per intervenire. Solitamente usciva di casa sbattendo la porta o si chiudeva in camera senza fiatare. Finché tutto non fosse finito. Anche quella sera si cambiò velocemente, jeans e camicia bianca di Ralph Lauren, gemelli d’acciaio e smalto nero, e giacchetta stazzonata grigia, un po’ di gel nei capelli, profumo italiano. Si guardò nello specchio con soddisfazione, e meditò che Greta sarebbe caduta ai suoi piedi come una mela matura e uscì di casa, senza salutare e senza degnare nessuno di uno sguardo. Arrivò dopo pochi minuti a casa di Greta. Abitava in una palazzina, niente di trascendentale, suonò al citofono e lei disse: Lo hai portato il gelato?- Lui disse di no, che cazzo, mica era lo stronzetto della pubblicità, si stava già incazzando che lei fece una risata allegra. -Sai Tiziano, quando ti arrabbi si percepisce subito.- Lui aveva replicato: -Perché io sono sempre incazzato, il difficile è capire quando sono allegro.-Ah, allora non ci sono problemi. Mai.- Aveva detto lei senza aprire il portone. Tesorina, vuoi aprire questo cazzo di portone o tutto il condominio deve sapere che sono qui come un cretino ad aspettare che mi apri?- Lo aveva chiesto a voce bassa, quasi temesse davvero di esser osservato e lei aveva aperto gridando forte nel citofono: -De Rossi salga salga al secondo piano!- Lui borbottò due parolacce e sibilò un “stai zitta cretina”, poi fece le scale tre gradini alla volta e si lanciò come un pazzo dietro di lei che stava sulla porta aperta. -Tiziano, chi ti

insegue? Uno zombie armato di accetta? Cosa è questa furia?- Lui era rimasto nel corridoio, con le labbra contrite, controllando la rabbia e cercando di essere il più possibile tranquillo. -Vieni, togliti quella giacchetta da poveraccio, mettila pure qui. Andiamo in salotto, ho sviluppato le foto. Inquietanti.- Aveva detto lei. Tiziano si era seduto sul divano bianco dell’ Ikea, non prima di aver ficcato il naso nella sua piccola libreria in cerca di informazioni - libri di psicanalisi di ogni tipo, da Freud e Carotenuto ai trattati sul narcisismo e la manipolazione, e poi romanzi, Marquez, Salinger, King e una vasta scelta di Cd e DVD, con preferenza al rap e ai film horror - e aveva messo le mani su un vaso di vetro pieno di caramelle. Si era scelto una caramella al rabarbaro e se l’era ficcata in bocca in meno di un secondo. Lei era tornata dalla cucina con due coppette di ceramica piene di gelato. Cioccolato, creme, pescafragola e amarena. Lui si era tolto la caramella di bocca e se la era infilata nella tasca dei pantaloni, e aveva allungato le mani verso la ciotola, come un bambino goloso. Lei si era fermata, a pochi i da lui, e gli aveva detto “Per favore?”. Poi aveva riso di nuovo, in quel modo adulto che lui davanti a lei con la faccia affamata di gelato sembrava un moccioso di otto anni con le smanie. Lui aveva detto: -Per favore cosa? Io me lo sono guadagnato quel gelato, cazzo.E lei sfinita da tanta arroganza, gli aveva allungato una delle due scodelle, quella con più gelato, visto che lui stava adocchiando insistentemente quella e aveva detto: -Tu non ti sei guadagnato niente, Tiziano. Sei insopportabile.- Lui non l’aveva ascoltata, e si era gettato sul gelato, felice che lei se ne fosse ricordata, e senza il benché minimo senso di disagio per non essersene ricordato lui. Mentre mangiavano, lei si era messa a raccontare di quando stava a Roma. - Sai, ho vissuto a Roma quasi due anni. Mi ero iscritta alla Sapienza, per una laurea sul cinema, roba così, ma dopo due esami mi sono ritirata. L’ambiente non faceva proprio per me. Hai presente? Figli di produttori, figli di sceneggiatori, figli di attori. Insomma, non avrei mai avuto una chance, a scontrarmi con simili personaggi importanti. Avevano tutti una gran puzza sotto il naso, credendosi dei vip, e poi per fare una stupida recita in un piccolo teatro sono arrivati a farmi proposte oscene. Mi ha disgustato tutto e sono tornata qui e mi sono iscritta a psicologia a Pisa. A me piace psicanalizzare le persone, mi piace sapere cosa ci sia oltre le apparenze. Mi segui? Certo a Roma, con certi assurdi individui avrei potuto avere clienti facoltosi e conosciuti, magari avrei fatto fortuna. Ma mi ascolti? - Tiziano sembrava perso nei suoi pensieri e non aveva capito una sola parola.

Allora Greta si era alzata, e aveva preso una lettera da un libro e l’aveva data a Tiziano. -Ho scritto un racconto su di te.- Tiziano sgranò di occhi, visibilmente meravigliato. Finalmente però, aveva capito il discorso: lui capiva solo quando qualcuno parlava di lui. Non gli avevano mai dedicato niente del genere, e la cosa gli parve sospetta. -Di che parla?- aveva chiesto. -Vorrei lo leggessi, qui. Davanti a me. Hai una così bella voce. Leggilo subito, così saprai di che parla. Non sei curioso?- Aveva detto la ragazza, sedendosi sul divano accanto a lui. -Non sono mica un attore, sono un cantante, ma ci provo. E’ imbarazzante.- Aveva detto Tiziano con un mezzo risolino divertito. “Il podere di Don Peppino si estendeva a perdita d’occhio nelle verdi colline della brughiera inglese. Era un cavaliere di nobile discendenze italiane, di bell’aspetto, gli occhi grandi e scuri, grandi baffi e basette, e una folta chioma ricciuta. Da sempre viveva in quel maniero, con i suoi cavalli di razza nella stalla, e i suoi fucili, e la sua fama di sciupa femmine non aveva confini. Il prato antistante il suo dominio, era confinante a quello dove le signore e signorine bene venivano a giocare a bton, con i loro allegri cappellini con la veletta e l’immancabile ombrellino. Il potere seducente di Don Peppino consisteva nell’avvicinarsi alla siepe divisoria, e corteggiare con insistenza le papabili dell’alta società, senza mai poi impegnarsi in alcun modo, e raggiunto lo scopo dileguarsi. Un giorno di settembre arrivò Donna Virginia, un nobildonna su con l’età, che aveva iniziato da poco quel gioco per stare con le amiche all’aria aperta facendo pettegolezzi su tutto. Per nascondere la pancetta si strizzava il corpetto in modo indecoroso, e il suo seno prorompente aveva dato scandalo più di una volta. Ma ella era per natura giocosa e impertinente e si compiaceva del suo successo senza mai cadere nelle tentazioni. E uomini di ogni sorta le stavano dietro, promettendole mari e gioielli, ma lei si scostava sempre senza mai approfondire alcuna relazione, e lasciandosi ammirare e un poco amare. Ella avea un concetto tutto suo e particolare di come stare con un uomo. Libera si riteneva, e teneva alla sua dignità, preoccupata sempre di doversi coinvolgere in storie che alla fine avrebbero potuto finir da un momento all’altro. Così civettava e si facea rimirare, senza mai entrare nell’intimo altrui. Osservava divertita Don Peppino, come un pavone, far la ruota alla siepe, quasi ogni giorno, con fanciulle diverse. Si tirava su con il mento, per far vedere il suo profilo migliore, sfoderava gran sorrisi, e poi quando riusciva a far capitolare la donzella prescelta, la invitava a ar la siepe. La donna, con difficoltà a causa

dell’abito voluminoso, e dalle bacche che graffiavano la pelle, ava lo stesso di là, dimostrando a Don Peppino di aver un potere su di lei assoluto, e che lei era disposta al sacrificio per compiacerlo. Don Peppino allora offriva il braccio, con un enorme sorriso e accompagnava la donna di solito poco lontano, nella rimessa degli attrezzi, e qui consumava il rapporto senza mai parlar di sé, e poi successivamente allontanando la sua dolce avventura del momento. Le signore e signorine poi, quando si rendevano conto di esser state corteggiate e un po’ prese in giro, si ritiravano di buon grado senza arrabbiarsi, perché in fondo la colpa era la loro della loro sfacciataggine e della loro condizione. E poi eran quasi tutte maritate, e Don Peppino preferiva codeste alle signorine, perché le maritate per non perdere la faccia avevan poco da protestare quando lui le lasciava. Poi c’erano alcune che, nel prato, invece di giocare, confabulavano fra loro, mandando gridolini di ammirazione al cavaliere, single impenitente, che tanto le faceva sognare. Ma Donna Virginia era diversa, forse l’età, forse la mente più ambiziosa, preferiva parlare con il suo corteggiatore a debita distanza, senza mai avvicinarsi troppo, per non cadere ai suoi piedi come una pera assai matura. Un giorno il giovin signore diventò più audace e commentò, da lontano, che il davanzale della signora era oltremodo incoraggiante per far profonda conoscenza. Donna Virginia allibita ma anche un po’ gratificata, un pochino di più si avvicinò. Don Peppino pareva un monumento bolscevico, spalle larghe e sguardo fiero di chi non cede davanti a niente, una gran immagine di forza e virilità. Da vicino era anche molto bello, e Donna Virginia soppesò che forse era il momento di cedere un pochino, ma poco, per non perdere la moralità. Ingenua in fondo era, che si vantava di essere gran bella donna di facili costumi, ma come ho appena detto, in realtà era anche a suo modo timida e romantica, dotata di gran immaginazione e quindi facile all’ inganno. I giorni avano e Don Peppino da presente e stimolante, cominciò a sparire per lunghi periodi, o quando era la caccia alla volpe, o le riunioni d’affari del dominio, o le campagne coi soldati, la sua mancanza si sentiva, e tutte le donzelle erano afflitte più che mai. Tutte si affacciavano alla siepe e lasciavano fazzolettini profumati di cannella e rosa selvatica o messaggi scritti con il sangue, e Donna Virginia lunghe lettere, di ioni e di viaggi, di sogni e di baci, e di momenti d’amore. Don Peppino quando tornava si doveva dividere fra tutte; sicuramente per lei una certa

predisposizione ce l’avea, per carità, ma insomma le donne son donne e nessuna dovea esser lasciata a macerare le pene della lontananza. Donna Virginia e Don Peppino si pungolavano parecchio, lui alla siepe era nervoso, lei lontana sulle sue, ma poi un che di malizia le scendeva sugli occhi e allora eran guai. Accaldati entrambi non si cercavano per un po’, come a ristabilire la pressione, del sangue e della ione. Ma come dicevo innanzi, quel giorno Don Peppino ebbe urgenza di arrivare allo scopo stabilito. Era troppo che ci stava pensando, e ormai alla conclusione dovea arrivare e si lanciò, spudorato e senza reticenze, parlando di sesso in modo assai brutale, come se stesse parlando alla servetta della bettola di paese. Donna Virginia a quel punto fu indecisa, se rimanere alle vecchie condizioni da lui dettate “Sarò dolce Donna Virginia, e lei per me” che si erano scambiate nel ato o cedere alle nuove, quelle che dicevano appunto di volere arrivare a certi rituali non meglio salutari, e un poco screanzati. Donna Virginia ci pensò e disse che forse ar la siepe non sarebbe stato preoccupante, ma anche divertente. Immaginava però che lui fatto il suo piacere, si sarebbe comportato da fellone: addio e arrivederci, chissà, forse che si ma anche poi no. Rimuginava quei pensieri perché lei a suo modo si era affezionata, a tutto quel baillamme di baffi e sguardi seducenti, e di strani ammiccamenti e di sospiri alla distanza, e pensò che se non avesse fatto il grande o, lui sarebbe sparito lo stesso. In ogni caso lui avrebbe fatto quelle cose che facea sempre, prendere il cavallo e far la ripartita, per mete lontane o assai vicine, ma nascosto dalle mura del castello. Certo lui non era il prototipo del Bianco Cavaliere o di quello pure Azzurro (assai ricercato per la verità) ma era troppo Nero, con quel modo autoritario, cocciuto, ed indisponente, per di più prepotente, e maleducato che tanto lo facea amar dalle donne, quanto odiarlo. Donna Virginia disse di si. E lui, alzato il braccio al cielo, e con un immenso sorriso le fece cenno di avvicinarsi alla siepe, per ar di là. -Ove mi conducete Don Peppino? Alla sua dimora profumata?-Donna Virginia, non parliamo di codeste faccende, piuttosto vi dico che le sue grazie assai formose sarebbero adatte alle spagnole!-Oh Don Peppino, non so se le Spagnole o le si debbano invidiarmi, ma certo le mie grazie sono prosperose e me ne compiaccio.-Donna Virginia, intendevo altro che di nazionalità, ma forse vi sarebbe assai gradito di venir con me nella stalla del cavallo, sulla paglia odorosa per giacere del mio piacere.-

-Don Peppino, non vi perdono questa audacia! Donna di buoni costumi e ottima salute, non avvezza ad andar presso i cavalieri, figuriamoci nella stalla come una sgualdrina prezzolata.- e si era sventolata con un minuscolo ventaglio come ad allontanar il calore che le guance le avea preso. “Donna Virginia, quante storie per un gioco di una notte! Cosa mai voi credete, che mi possa innamorare? Ho ben altro a cui pensare, a me stesso e anche a me. Volete attraversare questa siepe secolare?.-Don Peppino, che ardire! Voi mi fate arrossire ed impallidire! Perché, voi che siete giovane e veloce, non balzate voi di qua, con un salto da campione?-Donna Virginia, non mi posso scomodare, sono un uomo da amare! Voi dovete oltreare che di tempo non ne ho. Fra un ‘ora devo salpare per il mare, o giù di lì.-Ma che avete sempre da fare, mio caro cavaliere? Poso non trovate? Di baciarmi non volete?-Di baciarvi non saprei, ma un programma ce l’avrei.-Oh mio caro cavaliere, ditemi senza indugio, trattasi di momento di ione, di carezze e sentimenti?-Donna Virginia, voi vivete nel vostro mondo di sciocchezze e frivolezze, la vita è dura e piena di ardimenti, di guerre e sangue, di orribili compromessi e io ho tempo solo per un momento, non di un secolo per voi!Don Peppino si agitava, per la lungaggine profferta e camminava su e giù dietro la siepe, arricciandosi il baffo con fare nervoso. -Don Peppino, vi prego. Ditemi qualcosa per rassicurare la mia paura. Voi siete giovane e bello, io son pure malvestita, non mi sono messa bella per voi, non vi aspettavo davvero. Voi mi fate assai paura, con quello sguardo lubrico e sensuale, al quale io non son avvezza da tempo ormai, essendo accasata e mai stata preda da facili entusiasmi.- Donna Virginia, la vede quella stalla? Dobbiamo far presto o tempo non ne avrò. Dovete accorrere a me, are la siepe una buona volta e infilarvi in quella porta sulla destra facendo attenzione a non svegliar il mio mezzadro che stanco, dorme.

- Ma vi siete impazzito, Don Peppino? Come potrei venire a giacere con voi sapendo ch’egli potrebbe sentire i nostri urli?-Di che urli andate farneticando?- Degli urli d’amore che si leveranno al nostro soggiacere!-Voi siete pazza, di quali urli parlate? Per far quel che dovete avrete la bocca ben occupata per un po’ e nulla si leverà dalla vostra ugola!- Screanzato, ma come vi permettete, siete solo un fellone! Vi sembra un bel modo per corteggiarmi?- e fu lei che cominciò a far su e giù dalla siepe, senza guardarlo. -Donna Virginia, voi mi fate perdere tempo prezioso. Sapete chi sono, il mio modo di essere, sapete che non cambierò, ne per voi ne per la Patria, e quindi, o ate da qui e fate quel che vi ho detto o mi riterrò offeso, come pure il mio mezzadro, il cavallo e il mio cane, le mie greggi e proprietà, della vostra reticenza e vigliaccheria! Orsù che aspettate ancora, che venga io a prendervi? Giammai!-Don Peppino avete gli occhi di brace, e la voce contrita, Voi mi spaventate e io, vi dico NO.-Come avete detto? Potrei farvi saltare quella stupida testolina dal collo con un sol colpo di spada, ma vi risparmio perché non meritate neppure la mia ira.- Ma perché ve la prendete a questo modo? Il mio non è un rifiuto alla vostra persona, ma ai vostri atteggiamenti! Mi pare che voi siate rigido e impostato, è questo che voi mi fate vedere, il vostro lato baccalà!-Donna Virginia, siete solo una brutta cretina, un vipera impertinente, una donna dispettosa e irrispettosa e io ho perso fin troppo tempo, son due anni che mi canzonate, siete falsa come la pirite, mi avete circuito dal lontano della siepe vendendovi come una donna meravigliosa, ma siete solo parole.- Don Peppino, io vi amo. Per questo vi dico no. Perché io vorrei venir da voi e amarvi come vi meritate, con trasporto ed emozioni, e altrettanto vorrei che fosse così per me, ma voi mi proponete un incontro clandestino che potrebbe assai ferirmi. Avete mai pensato a me, dopo che avremo consumato, se doveste andare

via per mesi, come mi sentirei? Come un vaso senz’acqua, come una rosa senza il sole, come il mare senza sale. Avete mai pensato a quanto io possa amarvi davvero?-Voi mentite, siete falsa e senza cuore, io vi odio e vi dimenticherò, e non verrò mai più a questa siepe ad ammirarvi, e non cercatemi mai più, allontanatevi dalla mia vista, sparite, morite!Don Peppino iniziò ad allontanarsi nel prato, era già notte ormai, non si erano accorti di aver conversato per due ore. - Don Peppino, vi scongiuro.- Se mi amaste veramente sareste venuta da me.- La voce ormai era lontana. Addio, donna immeritevole.- Donna Virginia si sentì come morire, ed invece di saltar al di là della siepe, rimase per giorni a soffrire d’amore. Come poteva farlo se lui non era mai stato suo? Perché ella era stata sincera, così sincera da parer falsa, appunto, perché gli avea detto delle sue pene, di quanto lo ammirasse e temesse. Poi si scrissero ancora una volta, insultandosi a vicenda e la storia finì lì, con un cavaliere errante e senza cuore e una dama infelice.” Tiziano guardò Greta, e disse: - Ma io sono così cattivo?- Si, a volte si. Magari non te ne rendi conto. Ma forse se qualcuno ha il coraggio di fartelo notare, magari non esageri. Come hai fatto come me l’altro giorno. - Donna Virginia dovrebbe chiedere scusa a Don Peppino, anche se dubito la perdonerà.- disse Tiziano con enfasi. -Infatti finirà così, temo, questo racconto. Senza una riappacificazione, perché non tutte le favole sono a lieto fine. - Ma se l’affetto è vero, dura per sempre, perdono o non perdono. Io so che lei lo ha perdonato, un giorno la perdonerà anche lui. Vuoi vedere le foto, adesso?disse Greta. E gli consegnò le foto del rullino che Tiziano le aveva dato quel mattino.

Tiziano non le rispose subito, ancora con in mano il racconto di Greta, distratto da quello che aveva appena letto. Le chiese ancora se lei ritenesse che lui fosse come Don Peppino, un uomo crudele senza sentimenti, e Greta invece gli

cominciò a scorrere davanti agli occhi le foto sviluppate. Erano foto leggermente sfocate, e il rullino doveva aver subito il tempo in quanto i colori erano tutti impastati di rosa antico, che davano alle immagini un aspetto retrò. -Sono April e Hall, ci scommetto.- disse Tiziano, con un tremito nella voce. April era bellissima, mora, lunghi capelli alle spalle, il sorriso felice di chi ha davanti una vita da vivere, accanto a Hall, anche lui di notevole aspetto, alto, muscoloso, un tipo mediterraneo, a dispetto delle origini inglesi. Le foto chissà da chi scattate, rivelavano poca dimestichezza con la macchina fotografica, ed erano tagliate, a livello dei piedi, o della testa, o era troppo a destra, o troppo a sinistra, concedendo a chi guardava immagini storte e di scarsa qualità. Ma il concetto era palese. April aveva una storia con Hall, che però non sorrideva per niente, anzi, aveva uno sguardo truce e pieno di mistero, quasi di sospetto e di rabbia. In qualche modo incuteva paura e timore reverenziale, come trovarsi di fronte un guerriero medievale dai pochi riguardi alla comunicazione. Tiziano disse: -Cosa ci avrà mai trovato in questo ammasso di muscoli, lo sa solo lei.- E Greta subito:-Una bella massa di muscoli, e poi sguardo tenebroso, quel che si dice un figlio di puttana.- Tiziano la guardò in tralice, quasi ingelosito dal suo commento. - Mi reputo molto meglio di questo armadio.- l’apostrofò e Greta, che intanto si era seduta accanto a lui sul divano con il suo solito sorrisino enigmatico, rispose: -Tu sei il ragazzo peggiore che io abbia mai incontrato in vita mia. Sei un convinto da paura, sei pessimo. Non credo neppure che la mia ramanzina possa servire a qualcosa, tanto tu viaggi sui tuoi binari e non ti smuove nessuno. Magari invecchiando… forse un pargoletto…Ma lui la interruppe: -Invecchiando? Tanto è ovvio che morirò giovane. Tutti i veri artisti muoiono giovani e io sono troppo sensibile per vivere. Però ho paura di morire, non è che mi attiri molto l’idea.Greta si portò una mano alla bocca e scoppiò a ridere. -Tu sei completamente fulminato. Credi di morire presto perché sei un grande cantante? Il tuo ego è così grande che nemmeno un edificio industriale a Singapore potrebbe contenerlo tutto.- Tiziano deglutì due volte, come se ingoiare la battuta di Greta fosse stato un atto al limite del possibile e un velo di rabbia gli ò sugli occhi. -Ma che fai, adesso?- chiese Greta, improvvisamente allarmata. -No, niente, dai, tanto a me nessuna mi capisce. Se siete nate sotto il segno delle Stronze io non ci posso fare niente.Greta valutò la risposta. Compiacerlo o consolarlo non sarebbe servito ad altro

che aumentare il suo potere su di lei, e così lei cambiò di nuovo discorso, volutamente evitando di continuare a parlare del suo carattere. -Tiziano, mi vuoi dire chi sia Hall? Non mi hai parlato di niente a proposito di queste foto, posso essere coinvolta in qualche modo? Sono curiosa.-La curiosità uccise il gatto.- Mormorò Tiziano, mentre si asciugava una lacrima nervosa negli occhi con la manica della camicia. -Ti prendo un fazzoletto di carta?- disse lei, e si allontanò nel bagno. Lui si ricompose un attimo, tirò su con il naso, si sistemò sul divano e riprese in mano le foto. Erano state scattate nel roseto di April, di quello lui era più che certo. Aveva riconosciuto le siepi, e il bordo del pozzo che aveva visto lontano quella notte quando era rimasto fuori ad aspettare April che le aprisse. Hall non era affatto affascinante, Tiziano considerò che doveva essere un violento. La mascella volitiva, il collo come leggermente infossato nella spalle larghissime, come una specie di tartaruga centenaria, il braccio sulle spalle di April, che finiva in una mano enorme ma stretta a pugno come a bloccare un momento per lui non felice. Di bello in quella foto c’era solo lei, che pareva uno scricciolo di donna, accanto a lui, come se cercasse protezione e riparo appoggiandosi al suo torace. Greta tornò con il rotolo della carta igienica, e Tiziano, finalmente, fece un sorriso. -Dai, ora non ho mica frignato, mi deve essere entrato qualcosa nell’occhio. Ma apprezzo l’aiuto.- Lei si mise accanto a lui, gli prese una mano nella sua e lo guardò negli occhi. Lui si sentì improvvisamente confuso, che questo non avrebbe dovuto essere nei piani, niente confidenze, niente bacini e sguardi da cuccioli, che l’amore non esiste, è risaputo, e se esiste è gravemente malato. Lui fece per ritirare la mano, con stupore di lei, ma poi, la lasciò al suo posto e anzi, la strinse un tantino, solo per trasmettere il calore alla mano di lei. Sono fatto di merda, Greta. Lo so già, ma nessuna prima ho messo in guardia. Ho fatto il bello e cattivo tempo, faccio il bastardo, non me ne fotte un cazzo di nessuna, ma con te no, vorrei fossimo - lasciò una pausa alla Lucetta - amici, se vuoi. Amici, senza altri obiettivi.- Lei abbassò lo sguardo poi si fece forza, adesso aveva lei il magone nella gola, e chiese: -Ma cosa intendi per amici? Ci sono diverse interpretazioni, sul caso.- Lui si sentì messo alle strette. Le piaceva, siamo tutti d’accordo- si disse-, si era accorto che le sue ciglia erano scure ma finivano in cima con un tratto chiaro, quasi fossero dipinte con l’oro, aveva una bocca da morsi e baci da buttarsi su di lei a capofitto e non uscirne

più, ma non voleva che lei, che lui, che loro, si amassero in alcun modo. Sesso. Un bel modo di fare sesso senza condividere alcun che. -Amica, dentro e fuori dal letto.- Lei si irrigidì come alla gelateria, mollò la sua mano e fece per alzarsi, ma lui - si stupì da solo di aver fatto un gesto simile - la prese per un polso e la tirò giù sul divano e cominciò a baciarla sul viso, nella bocca, sui capelli, il collo e gli occhi, con una foga e una smania che sapeva di fame di piacere e di intimità. Lei provò a divincolarsi, ma poi si lasciò andare, e lui le montò addosso, schiacciandola nel divano e continuando a baciarla senza farla respirare. -Mi piaci ma non posso amarti, o prendi questo o lasciami perdere.mormorava lui tra un bacio e un leggero morso, mentre lei aveva ricominciato a respingerlo, a calciarlo con le ginocchia e le mani a forza contro il suo petto. -Sei un bastardo, come puoi farmi questo?- diceva lei, evitando in tutti i modi la sua bocca. -Ti voglio bene, mi sei piaciuta da subito. Ma non posso darti altro, cazzo, lo vuoi capire come sto? Sto da schifo, Greta, ma non posso dirti che erà, non so come mai, ma sono così.Poi lei si liberò da lui, si tirò su, piangeva , e si chiuse nel bagno. Lui sul divano, ad occhi chiusi, rimaneva sdraiato, sconvolto. Dopo qualche minuto lei uscì dal bagno, si era lavata il viso, e aveva due occhiaie spaventose come se non avesse dormito da mesi. Lui si era ricomposto, e aveva messo le foto in una busta grande. Si avvicinò a lei per chiederle scusa, ma lei aveva alzato un dito, e detto solo: -No. Vattene, nessuno mi aveva mai trattato in questo modo-. Lui lasciò andare le braccia lungo il corpo e balbettò: -Scusa, ma sono fatto a questo modo, è amaro dirlo, ma è la verità.Poi prese la sua giacca, e se ne andò senza voltarsi.

In macchina alzò al massimo il volume dello stereo, per tentare di non ascoltare la voce interna che lo scalzava e che lo metteva davanti ai suoi errori, e andò dritto da April. Era tardi, molto tardi, per lei, ma forse lo avrebbe fatto entrare. Cominciò a piovere, sempre più forte, tant’è che non riusciva quasi a vedere la strada, e quando si trovò a percorrere la salita che conduceva al paese che si trovava prima della casa della donna, trovò la strada sbarrata da una camionetta della protezione civile. C’erano due militari, sotto la pioggia, che impedivano alle auto di salire. C’era

stata un’emergenza alluvione. Tiziano, si fermò sul ciglio e telefonò a April che non rispose. Bestemmiò, imprecò, poi fece retromarcia e tornò a casa. Ci avrebbe pensato l’indomani, con calma.

Martedì

Arrigo entrò in camera da Tiziano, e lo buttò giù dal letto, senza preamboli. Urlava, e lo spintonava nelle coperte. Tiziano, si alzò di controvoglia, sbadigliando, non riuscendo a capire cosa avesse suo padre da far tanto casino. Parlava di “tempo perduto alle cazzate”, e sventolava un fax. -Tu lo sai vero, che April non è più proprietaria della casa, vero?- Lui aveva fatto si, con la testa, e poi aveva provato a spiegarsi. -L’ho saputo solo ieri.-Mi dici cosa hai fatto tutta la settimana a casa di quella donna? Invece di lavorare, maledetta testa di cazzo! Se quel giorno mi ero fatto una sega avrei fatto tredici.- Disse suo padre, era veramente arrabbiato, il che non era per niente rassicurante. -Pà, te lo avrei detto oggi. Ho fatto delle indagini, il proprietario dovrebbe essere un inglese, un certo Hall. Il tempo di trovarlo.-Ma suo padre aveva già preso la decisione, ovvero che la cosa aveva perso di interesse. Di cercare un fantomatico personaggio inglese, perduto per il mondo, con April che era sparita da decenni non ne aveva proprio intenzione ne voglia. - Con quella pazza hai chiuso, dovevo immaginare che non avresti concluso un cazzo, sei un essere inutile, come tua madre.Tiziano sentì l’offesa arrivargli in faccia come un treno, e nello stomaco come un pugno. Il sangue gli ribollì nelle vene, per la prima volta nella sua vita provò il desiderio di litigare con suo padre, di mandarlo a fanculo, di mollargli un calcio, ma quello che successe fu la fotocopia di altre volte, si chiuse in silenzio e abbassò la testa. -Maledetto bastardo, se non fossi sicuro della mia paternità ti avrei già mandato a fanculo, parassita, deficiente.Uscì dalla sua camera, sbattendo la porta. Tiziano si alzò, piano, la testa fra le mani, un nodo in gola, e poi si mise a piangere, come forse non faceva dai tempi delle elementari. Pianse con tutta la forza che aveva, poi si alzò, e in un moto di rabbia, prese a calciare tutto quello che aveva in camera, la scrivania, il letto, l’armadio. Aprì i cassetti, e tirò fuori tutto quello che contenevano, maglie,

calze, camicie, ci saltò sopra, aprì la finestra e tirò fuori tutto quello che gli capitava a tiro, scarpe, la playstation, i libri, le foto, la sedia, il televisore. Lucetta fuori dalla porta lo supplicava di smettere, ma non entrava, sconvolta anche lei per quello che stava succedendo. Poi si sporse dalla finestra, si sedette sul davanzale, le gambe nude penzoloni, e gridò: - Vuoi che mi ammazzi?- a suo padre, di sotto, in giardino, che lo guardava dal basso all’alto con la faccia contrita. -Sei un idiota, Tiziano. E non ti permettere di spaventare tuo padre, o salgo di sopra, e ti tiro io di sotto. Tu e tutta la tua vita degenerata.Suo padre lo disse con un tono pacato, che non ammetteva repliche, quel tono che usava sempre con lui quando si comportava come un bambino problematico. -Pà, ti prego. Io devo concludere questa faccenda. Questa faccenda è importante, troppo importante per me.- Piangeva, disperato, con la testa fra le mani, scosso dai singhiozzi. -Fai quel che cazzo ti pare, Tiziano. Non venire da me a lamentarti se poi stai da cani.- disse Arrigo, ma con aria meno di sfida, e cominciando a preoccuparsi. Lucetta era scesa di sotto, ed era corsa dal marito con l’intenzione di supplicarlo di aiutare il figlio a venir via da quella finestra. -Non si getterà mai.- bisbigliò Arrigo alla moglie. -E’ un vigliacco della vita, lui sopravvive, ha troppa paura di morire per gettarsi. Tranquilla.- Tiziano continuava a piangere, ma molto più piano, e senza tremori. -Quando hai finito di piangere, gradirei parlare con te, a quattr’occhi. Ti aspetto in ufficio.- disse Arrigo, e scostando la moglie che lo teneva per un braccio, si infilò in macchina e se ne andò. Tiziano rimase sul davanzale ancora qualche minuto, poi tornò dentro, facendo bene attenzione di non inciampare e si fece una doccia. Andare in ufficio, si disse, okey, ma April non può essere dimenticata. Qualcosa è successo e io voglio sapere cosa.

<< Mio padre è un figlio di puttana, ha sempre quel modo di umiliarmi e di farmi sentire un idiota. Idiota deficiente, le sue parole preferite. Se non quando mi dà del bastardo. Gli faccio vedere io. Gli faccio vedere io, stavolta. Gli faccio

vedere io, a quello stronzo. Oh, si. Questa volta non la a liscia, io ho trent’anni, mica otto. Gli faccio vedere, gli faccio. Vedere io, gli faccio. Bastardo. Gli faccio, vedere, si. A questo stronzo, maledetto. Si. Gli faccio vedere io, cazzo. Vedrai. >>

Entrato in ufficio il suo sguardo incrociò quello di Mauro che stava alla scrivania. Mauro si affrettò a spiegarsi: la colpa era solo sua. Aveva lasciato i fogli nella stampante su quello che aveva scoperto di April e di Hall e Arrigo ci aveva dato un’occhiata la sera prima, evidentemente, e aveva fatto la piazzata a Tiziano quella mattina, a sorpresa. Era mortificato, ma Tiziano fece un gesto con la mano come dire, è tutto a posto. -Tuo padre ti aspetta nel suo ufficio, mi sembra molto incazzato.- aveva poi detto. -Dimmi piuttosto cosa hai scoperto, voglio arrivarci in fondo a questa storia, casa o non casa, voglio sapere ogni particolare.Mauro prese dei fogli da sotto un cartolare e li porse a Tiziano. – Sembrerebbe che questo Hall sia vivo e vegeto e viva in Scozia. E’ un bravissimo giardiniere, specializzato in rose. Ha vinto molti concorsi, nel suo paese è considerato una celebrità. Sembra che pure la Casa Reale Inglese in ato si sia servita del suo talento per dei roseti reali. Ho trovato anche dove abita e numero di telefono. Mica vorrai davvero partire e andare a trovarlo?- Mauro si era visibilmente eccitato al solo pensiero di fare un’indagine sul campo. -Penso proprio di si. Credo che lui sappia dove sia finita , visto che hanno avuto una storia.Poi aveva dato a Mauro la busta con le foto. -Queste foto mi sono costate un’amicizia, o direi, una possibile storia con una ragazza. Ieri ho fatto più schifo del solito, ma è più forte di me. Credi che dovrei andare da un analista? Stamattina ho minacciato di uccidermi. Ah, non lo avrei fatto, sono un codardo, e un bugiardo, ma era l’unico modo per farmi ascoltare da mio padre. Anche se poi non mi ha cagato minimamente, se mi fossi tirato di sotto avrebbe detto – qualcuno pulisca sto sangue di merda!Mauro lo guardò molto seriamente negli occhi e disse: - Tiziano non c’è da scherzare su questi comportamenti. Se qualcosa non va in te, o se non sei soddisfatto della tua vita, io ci andrei da uno psichiatra. Non significa che se chiedi aiuto sei pazzo, solo che hai bisogno di ridimensionare la tua vita, i tuoi

comportamenti. A me sta facendo molto bene, sono meno stronzo. Il che mi sorprende ma mi gratifica. Il mio compagno è molto felice, e io mi sento per la prima volta nella mia vita di non essere sopraffatto dal bisogno impellente e necessario di umiliarlo e di ferirlo.Tiziano fece per rispondere ma dall’ ufficio di Arrigo suo padre lo chiamò in modo autoritario. -Devo andare. Ne riparliamo dopo, tu intanto informati se c’è un volo low cost per la Scozia. Credo che il signor Hall avrà da dirmi molte cose. Ah, poi chiama questa ragazza, Greta. Tu sei capace, bla bla, dille se vuole venire anche lei. Magari ti manda a quel paese, ma tu sei persuasivo, brillante. Saprai sicuramente convincerla.Arrigo stava dietro la scrivania, con gli occhiali messi in fondo al naso, e aveva una faccia nera come un temporale. – Tiziano, siedi un attimo.- Stranamente, forse per la prima volta in molti anni, non era una voce arrabbiata, ma desolata, come se ci fosse un velo di tristezza infinita che a malapena riusciva a nascondere. -Tiziano, questa mattina hai dato veramente sfoggio della tua teatralità. Mi hai lasciato senza parole.- Tiziano fece uno sforzo per non rispondere in modo interrogativo, non avrebbe mai pensato che suo padre gli avrebbe parlato in questo modo. -Io e tua madre andiamo avanti per forza di inerzia. Non amo più tua madre da anni, lei lo sa, o almeno lo –sente- e io ho un’altra donna. Una storia fissa da quasi dieci anni.Tiziano lo interruppe, un nodo in gola lo aveva assalito, si sentiva sprofondare. Non è necessario. Non sono fatti che mi riguardano.- Ma Arrigo non aveva dato ascolto e aveva proseguito. -Lei è apprensiva, ansiosa, è convinta che a tenerti sotto la campana di vetro la tua sensibilità possa non subire traumi. Io sono un uomo diretto e queste cazzate da psicologia non le comprendo. Per me dovevi essere messo sulla strada subito, come è successo a me. Non avresti avuto tutti quei pensieri idioti che ti rincoglioniscono. La musica per te l’ha scelta tua madre. Io ti avrei mandato a fare ciclismo o calcio, a comprendere lo spirito di squadra e di dedizione alla fatica. Ma lei voleva per te un mondo fatto di arte e di successi strepitosi. Non abbiamo saputo come comportarci con te, oggi lo riconosco. Sei fragile, emotivo, insicuro, prepotente, vendicativo. Sei peggio di me. Io converto i miei difetti nel lavoro, questi difetti servono per arrivare agli obiettivi. Tu invece li

rivolgi contro di te, contro chi ti sta vicino. Sei volubile, lunatico, pigro, disfattista, menefreghista, ipocrita. Ma non è colpa tua, è colpa nostra. Delle bugie a fin di bene che ti abbiamo detto, dall’eccessivo amore di Lucetta che stravede per te, e io che invece vorrei per te un’altra vita. Stamattina ho temuto che ti fi del male, sul serio. Non ho reagito perché era l’unica cosa che potessi fare, o salire su e darti due calci nel culo. Dimmi la verità, una buona volta. Cosa vuoi fare della tua vita? Vuoi ancora farmi perdere tempo mentre hai la testa altrove, o vuoi cominciare a crescere?Arrigo tacque, quello che aveva da dire lo aveva detto, in modo pacato, tranquillo, senza melodrammi, con un tono asciutto che esigeva una risposta data nello stesso modo. Tiziano aveva iniziato a giocherellare con una penna, a testa bassa, e non sapeva cosa dire. -Ho bisogno di un po’ di tempo. Sono confuso, non c’è solo il lavoro, c’è altro. C’è tutta la mia vita, che come dici sempre tu, rischia di andare a puttane.Stettero in silenzio ancora un minuto o due, poi Arrigo disse: -Fai come credi. Hai la mia fiducia. In ogni caso sappi che io e tua madre ci saremo. Basta che tu possa essere felice, o per lo meno, sereno. I tuoi sbalzi e i tuoi comportamenti ti distruggono e ci avviliscono. Per la casa di April per me è capitolo chiuso. Agisci come vuoi, se ritieni di poter farci ancora qualcosa per acquistarla, per me va bene. Adesso levati dai coglioni.Aveva fatto un gesto deciso, e Tiziano, senza dire altro, era uscito a testa bassa. Mauro lo aspettava, aveva chiamato Greta, e contro ogni pensiero negativo, aveva accettato di andare in Scozia con lui. Mauro gli porse un caffè, appena fatto alla macchinetta e disse: - Ne hai veramente bisogno.Hall aveva compiuto 58 anni da poco. Viveva a Prestwick, e lavorava al Dawych Botanic Garden, dove si occupava in modo speciale delle rose. Sarebbe stato facile trovarlo. Da una piccola foto del web, una miniatura, si era visto che era lui, corrispondeva alle foto trovate in casa di April, ma era molto invecchiato, e della bellezza e la prestanza fisica rimaneva ben poco. Stempiato, dimagrito e grigio, aveva ormai l’aspetto di un uomo qualunque, non certo il bell’uomo da far perdere la testa. Tiziano lesse che aveva vinto anche molti premi, e che aveva creato una rosa azzurra, quasi un color glicine, chiamata appunto the April Rose che gli aveva valso la fama di cui ancora ne andava fiero. April Rose non era poi stata nuovamente prodotta, era stata fatta per quel concorso, e lui stesso si era rifiutato di riprodurla in seguito, dicendo che quella rosa era destinata a sparire,

come la donna a cui l’aveva dedicata. Tiziano lesse le informazioni con avidità, poi chiese a Mauro come avesse reagito Greta al telefono. Mauro disse che non era rimasta per niente stupita dalla richiesta, anzi, aveva detto “Tipico di Tiziano, strafare” ma poi aveva detto di si, alla condizione che avessero dormito in camere separate. Tiziano obiettò che avrebbe dovuto pagare di più per due singole, ma Mauro prenotò due camere come pattuito, fregandosene nei lamenti dell’amico che stava già parlando da solo, dicendo che convincerla a dormire con lui sarebbe stato un gioco da ragazzi. Poi chiamò April. Dovette rifare lo stesso numero cinque volte, e aspettare molti squilli, ormai ci si era abituato, ma alla fine la voce sospirata di April si fece udibile. -Vengo da te, oggi, solita ora. Ho da chiederti un po’ di cose. Ci sei, vero?Lei sospirò, quasi rauca, e disse, con un filo di voce impercettibile: - Si, anche io devo parlarti. Noi dobbiamo parlare, ho poco tempo ormai, i giorni ano veloci, tu non puoi capire, sei giovane e in salute. Ma io sto quasi male, ci sono giorni che vorrei non finissero, e altri che sparissero per sempre. Sono stanca di dover aspettare, e ho bisogno di te. Tanto bisogno di te, amico caro. Oggi tu parlerai, ma anche io. Ti prego, non trovare le tue solite scuse.-Quali scuse?- aveva chiesto lui. Ma lei aveva già riattaccato.

<< Sentiamo cosa avrà mai da dirmi. So io quello che deve dirmi: perché ha dato gli usufrutti delle case a quel fioraio inglese di nome Hall. Già, mi deve proprio spiegare cosa avesse di così speciale da essergli succube. O per lo meno, cosa l’ha spinta a sparire. Quando è tornata a vivere nella casa? Perché molti non sanno di questo, e sono ancora convinti che lei sia scomparsa? Cosa può fare ancora per la mia società? Hall è in salute e ancora giovane, prima di prendere possesso delle case eranno secoli. Diventerò vecchio pure io. Perché ha sempre quell’aria afflitta e malaticcia? Di cosa cazzo stiamo parlando? Di che malattia soffre? Perché sta da sola? Non hai un cazzo di amico vicino? Sei una disperata? Come me, April. Che non mi riconosco più, piccola April. Tutte le volte che vengo da te, mi sale una pace dell’anima che vorrei per sempre rimanere con te, ad ascoltarti, o solo guardarti, senza dirti niente, perché tu mi

comprendi. Sei l’unica, che sappia confortare i miei dolori profondi, quelli che non ti fanno dormire, o che ti fanno dormire troppo. Ecco, oggi voglio dirti questo. Che ti sento vicina, dentro il cuore, nel sangue, come una vitamina. Mi riempi di energia, ma dopo, non so, mi sento più svuotato di prima, quando me ne vado è sofferenza. Mi alimenti e mi sento meno solo, quando sono con te. Mi guardi con gli occhi spenti e accesi, vuoti e pieni, e mi dai il coraggio di guardarmi dentro. Da quando ti conosco, April, mi scruto e mi sento una merda di persona. Riconosco i miei difetti, vedo con gli occhi di altri, vorrei correggermi, ma non ci riesco, forse in realtà non voglio cambiare. Cambiare è ferirsi da soli, cambiare è affrontare le proprie responsabilità, è mettersi a nudo, è gridare, è vivere. Non voglio vivere, chissà. Vivere è peggio che morire. Ho paura di morire, ho paura di vivere, April. April, forse ti amo. Non ho mai amato nessuno, ho solo sempre avuto bisogno di altri in cui rispecchiarmi, dove infliggere sofferenza e odio, dove la sofferenza altrui mi gratificava, ma in realtà non sentivo quasi niente. Amore, dolore, emozioni? Non ne ho mai afferrato il senso né il sapore, ho creduto di farlo, ma erano vani tentativi di auto concentrazione, in realtà non sento niente. Voglio solo un mio mero piacere fisico, e non guardare nessuno, non entrare in confidenza con nessuno, vivere da solo ma abusando di altri. Sono uno stronzo, April. Ma tu, senza dire una parola, solo con la tua presenza assente e la tua assenza presente mi hai fatto aprire uno spiraglio nell’animo. Questo ti dirò, oggi. April, tesoro mio. Tu non mi abbraccerai, lo so. Sento che ti allontanerai forse, anche di più, ma oggi non avrò più timori di smascherarmi, di mettermi a nudo. Insultami poi, ma non lo farai, basta solo che mi ascolti, che ascolti ogni singola parola che mi viene di dirti, e per me sarà già abbastanza. Prendo la macchina, sto guidando, sto arrivando da te.>>

“Ho sentito arrivare la sua macchina, e mi sono guardata nello specchio, ma non mi sono neppure vista. Ho messo le mani nei miei capelli, ho cercato di dargli volume, e ho pensato che avrei dovuto almeno mettermi un poco di rossetto, che questo viso grigio non è certo il massimo della vita. Ma ci ho ripensato, tanto sapevo che a Tiziano io vado bene sempre, lui mi apprezza per come sono. Non

è come Hall. Hall aveva sempre da farmi notare che non ero perfetta. C’era sempre qualcosa che non gli andava a genio, e mi faceva presente ogni mio sbaglio, o pecca, o mancanza. All’inizio era tutto a posto. Mi faceva volare con la fantasia e con il cuore. Era dolce, generoso, sorridente, mi desiderava. Facevamo l’amore per ore, a giorni interi, senza soste, se non solo per mangiare un panino e fumare una sigaretta. Poi aveva iniziato a criticarmi, piccole cose. I tuoi capelli neri sono troppo neri, e troppo lunghi, staresti bene castana, e coi capelli più corti. Che significa mettersi tutti questi anelli d’argento indiani? Sono poco eleganti, ti danno un’aria hippy che non va più di moda. E quei vestiti a fiori? No, per carità, non ti si addicono. Sei ingrassata, ultimamente? Strano, tutto questo sesso dovrebbe mantenerti in forma, forse dovresti correre. Corri, April. Prendi un paio di scarpe da tennis e fatti il giro del bosco, di corsa, su per lo sterrato, fino in cima alla collina e corri. Io mi ero messa a correre, sono anni e anni che corro, ogni giorno, faccio il giro del bosco, e giro intorno alla casa, e o nel roseto, e corro e mi stanco, mi stanco, fino a quando sono senza fiato, e vorrei solo sdraiarmi e guardare il soffitto e piangere e ridere della mia vita. Invece da anni non posso permettermi di fermarmi, e corro. Cominciai a rinunciare al teatro, alle mie ioni. Scrivevo poesie, ma avevo smesso, lui diceva che erano tutte idiozie che mi atrofizzavano il cervello. Ho chiuso con la televisione, ho chiuso con i libri, non leggevo più. Lui aveva sempre fame di me, e di mangiare. Cucinavo in continuazione, ma alla fine ogni cosa che gli proponevo la rifiutava. Mi lanciava i piatti addosso, diceva che non ero degna di essere italiana, che cucinavano peggio di un cuoco gallese. Aveva iniziato a raccontarmi delle sue ex fidanzate. Tutte migliori di me, tutte castane, quasi bionde, con gli occhi chiari come il mare, non neri come il carbone come i miei, loro erano angeli sulla terra, premurose e dolci, io ero solo una sciocca, senza futuro, senza cervello, una pazza furibonda da tenere legata come una cane nel giardino. Come un esaltato aveva iniziato ad andare nel roseto, ogni giorno, a curare le mie rose. Il giardino aveva preso un aspetto magnifico, regale, e i cacciatori e i contadini

che avano di là si fermavano estasiati ad ammirare le mie rose rosse quasi color inferno, di un colore tramonto con nuvole. Lui ne era geloso, e diceva che io non dovevo permettermi di avvicinarmi alle sue rose, che presto sarebbe stato tutto suo, che io non valendo niente, non avevo diritto a niente. Mi premeva ogni giorno per avere la donazione o l’usufrutto delle mie case, e predicava come un santone che dopo sarebbe stato tutto diverso. Io avrei fatto una vita agiata e che lui si sarebbe occupato di me e della mia inutile e stupida esistenza. Mi feriva continuamente, e solo la notte, quando mettevo la testa sul cuscino e assaporavo gli odori della mia camera mi sentivo di nuovo in contatto con me stessa. Piangevo e riacquistavo momentaneamente le forze, ma il giorno successivo mi vampirizzava l’anima e le energie, sussurrandomi e a volte urlandomi che non ero degna di amore né degna di vivere. Tiziano, questo oggi ti racconterò, quando entrerai da quella porta. Io ho bisogno di sapere cosa mi è capitato. Perché Hall non è più con me, è scomparso da anni, ma io continuo a correre, ogni giorno, per ore, per non perdere la linea del mio corpo, che lui vuole affusolato e leggero, non pieno di grasso e di dolore. Dove è Hall, di cosa posso farmene di questa casa enorme, senza di lui? Mi manca, lo penso con struggente malinconia, e sento che lui non mi ha mai abbandonata, in realtà. Ho grandi sensi di colpa, perché temo che lui sia andato via per colpa mia. Perché sono una delusione continua, sono una donna da poco, e solo con lui posso avere un valore nel tempo e nel mondo. Tiziano, fai che lui torni da me. Riportalo a me. Questo ti chiederò oggi, amico mio. Eccolo, è lui. Sono così stanca, ho corso a perdifiato, senza tregua. Mi siedo, qui, al solito posto. Lui mi vedrà.”

<< Sono entrato nella penombra della stanza, e l’ho vista subito. Era seduta al solito posto, i suoi occhi brillavano come perle. Un senso di impotenza mi ha pervaso ogni millimetro della pelle. Lei ha alzato il viso verso di me, era rigato di lacrime nere. Il pavimento che mi separava da lei era ricoperto di sangue, e sopra galleggiavano rose nere di sangue rappreso. Lei era sulla sedia, ma come se fosse stata sollevata da dietro da invisibili fili di nylon, ha cominciato a sollevarsi nell’aria. Immobile, piangente, di una tristezza

infinita. Mi ha allungato le braccia, come a chiedere aiuto, e ha sussurrato, come una litania, una storia che parlava di Hall. Stentavo a capirla, e mi sono avvicinato a lei, senza timore, guardandola da sotto, sembrava un angelo straziato da un martirio misterioso, incombeva su di me, con quello strano vestito bianco, e con le scarpe da tennis sporche di fango, e i capelli nerissimi sparsi nel buio come un’ immensa ragnatela. Avevo tutto il sangue fino alle caviglie. L’odore dolciastro era mischiato a quello intenso delle rose, ed ero stordito ma anche affascinato dalla sua visione. Non c’era niente di spaventoso in lei, anche se in quel momento per la prima volta ho temuto di capire che forse lei non fosse viva, ma che quello fosse solo il suo spirito indomito che chiedeva spiegazioni. Mai come quella sera mi sono sentito dentro di lei, dentro le sue paure ed il suo cuore. Ho allungato le mani verso di lei, piangevo anche io, pur non sapendone i motivi e lei per la prima volta mi ha messo le mani nelle mie. La sua pelle fredda e calda, il contatto mi ha avvicinato a lei, come se fossi un tutt’ uno con lei. Ho sentito una luce, immensa, entrarmi nel cuore, non la vedevo, la percepivo, e ho sentito. Ho sentito cosa voleva dirmi. Non c’è stato bisogno di alcuna parola, o di un gesto. Immobili, entrambi, lei in alto su di me, spirito divino, e io piccolo mortale che non ha paura del buio. Poi, nel mezzo di quella pace, ho sentito un dolore improvviso, nel collo, come se qualcuno mi avesse colpito a tradimento, e poi ho sentito un colpo al polso, come se dal buio fosse arrivato un artiglio a trattenermi. Ho spalancato gli occhi, e ho sentito di aver paura del buio. C’era qualcuno o qualcosa di maligno con noi. Poi lei ha aperto i suoi occhi in modo incredibile, ne vedevo il fondo di vetro e d’acqua e ho capito. Hall l’aveva picchiata. Hall l’aveva percossa, le aveva fatto del male. Ho detto, ma la mia voce non l’ho sentita, giuro: -April, lui ti ha costretta a fare cose che non volevi? Ti ha picchiato, cosa ti ha fatto?- Lei ha allontanato le sue mani, è salita ancora di più, ormai la sua testa era piegata dal soffitto, il suo abito non penzolava più, ma stava attaccato con tutto il suo corpo al soffitto, e il suo viso, che era sempre stato levigato come marmo era una smorfia di sofferenza. -Lo chiederò a lui, mi dirà la verità, April. Stai tranquilla.- ho detto, e poi mi sono girato e sono uscito dalla casa. Avevo capito la lezione. I vivi hanno paura

del buio, i morti no. >> Si era seduto sulla veranda, giusto per riposare un attimo e si era messo a guardare il roseto, sulla destra della casa. Sotto la luna piena le rose brillavano di azzurro, come se fossero state bagnate da minuscole schegge di ghiaccio. Aveva messo la testa fra le mani, e April lo aveva raggiunto, da dietro. Lo aveva abbracciato piano, senza in realtà toccarlo, ed i capelli neri di lei gli avevano ricoperto la testa. Lui si era appisolato, e nel dormiveglia l’aveva presa in giro : Ma come facevi a stare sul soffitto, come una marionetta? Non era scomodo?- e lei aveva fatto una risata leggera -Si, Tiziano, sto meglio qui con te.Poi lui si era proprio addormentato, nonostante il freddo e l’aria umida. Poi, verso le quattro della mattina, si era svegliato. Lei non c’era, al suo fianco lei aveva messo una rosa che si era sbriciolata e annerita, come se fosse stata lì da quattro secoli. Si era stiracchiato, era salito in macchina e aveva il cellulare che teneva spento da diverse ore, forse giorni. Gli sms si erano susseguiti a raffica, due erano di Mauro, due di Lucetta, diverse chiamate di Arrigo e di Simon. Poi dodici sms della modella di Roma, che era partita con semplici richieste “Dove sei?” a dei seri “Vaffanculo stronzo, potresti anche rispondere” che lo avevano divertito molto. Non sapeva perché, ma le donne incazzate lo facevano sempre ridere parecchio. E da Greta niente. Ovviamente. Tornando a casa, ignorando che fosse l’alba, aveva chiamato Simon che dopo qualche squillo aveva risposto, assonnato ma preoccupato. Tiziano non si era scusato per l’ora ma aveva chiesto cosa ci fosse di urgente. Simon disse solo che le prove non stavano andando avanti, che erano ormai settimane che lui era sparito e la cosa non faceva bene alla band. Tiziano promise di farsi sentire. Poi mandò un sms alla modella di Roma “Non mi piace quando mi stai addosso. Sono a Los Angeles con una ragazza. Ti chiamo quando torno”. Lo scrisse con un amaro risolino e con la certezza di aver ferito la ragazza, che con tutta probabilità lo avrebbe odiato ma anche desiderato ancora di più. Era matematico, secondo lui, e fuori di ogni dubbio. Poi lesse gli sms di sua madre. Erano pieni di urgenza: era riuscita a prendere un appuntamento con il talent scout di X factor, che lo voleva vedere, quel pomeriggio, presso la sua casa- studio di registrazione, con i componenti della band, per un provino. Tiziano fermò la macchina, e si guardò nello specchio del

lunotto. Era un cesso. Occhiaie profonde, barba incolta, faccia stravolta, capelli sparati per aria. Un mostro. Richiamò Simon, visibilmente emozionato, e lo informò della lieta novella. Simon non rispose nemmeno. Imbambolato e senza parole grugnì due o tre volte, prima di esprimere un “Ma dici sul serio?”, incredulo anche lui e seriamente preoccupato per come si sarebbe svolto il provino. –Cosa portiamo? Su due piedi, senza preparazione, senza prove… - ma Tiziano lo rincuorò. -Facciamo le nostre cover classiche, Bon Jovi e Queen, poi magari porto una mia, anche se non l’ho mai provata, la faccio a cappella.-Adesso vai.- disse poi Simon. – E vedi di dormire, non possiamo permetterci di sbagliare. Un’occasione del genere non capita quasi mai. Se ce la facciamo, Lucetta la faccio fare da madrina ai miei bambini-. Tiziano fece una risata e riaccese il motore della macchina. Aspettò ancora un minuto e mandò un sms a Greta : -Buongiorno principessa.- Era un maledetto sms del cazzo, ma avrebbe fatto effetto. Così sperava, mentre a tutto gas tornava a casa per buttarsi sul letto vestito, dove si addormentò subito.

Mercoledì

Fu una giornata intensa. La mattina aveva dormito fino a tardi, poi si era fatto una doccia veloce, si era fatto la barba e vestito alla meglio per affrontare il provino. Era ato a prenderlo Simon, e gli altri ragazzi, agitatissimi. Lui sembrava di ghiaccio, come se non avesse mai fatto altro nella vita che test di ammissione. La testa era sempre ad April e alla sua casa spettrale, e del fatto di superare o meno quella prova sembrava non averlo interessato più di tanto. La casa studio del talent scout era immersa nel verde di Forte di Marmi, e contava di un’ immensa villa con piscina. Una casa intelligente, completamente domotizzata, con lunghi corridoi retroilluminati, e lo studio era una grande stanza insonorizzata accessoriata con le meglio apparecchiature audio. Un filippino li aveva fatti accomodare nell’anticamera, dove troneggiavano alle pareti dischi d’oro e di platino di starlette della canzone, alcuni nomi erano di giovanissimi talenti. Finalmente dopo un’interminabile ora, il produttore si fece vivo. I ragazzi della band di Tiziano erano completamente fusi, stravolti dall’attesa, e avevano ato l’ora a spippolare sul cellulare, con le mani sudate e gli occhi sbarrati dall’emozione; Tiziano era soprapensiero, in piedi, e guardava fuori nel giardino alcune tortore camminare sul curatissimo prato all’inglese che circondava la piscina termale e riscaldata. Era come un monolito di ghiaccio, nessuna emozione ava nel suo sguardo, vitreo e di una freddezza polare. Il produttore fece un saluto veloce con una mano senza dire una parola, mentre i ragazzi erano scattati in piedi come soldatini davanti ad un tenente. Tiziano non si era voltato, dimostrando quasi una strafottenza prepotente, ed il produttore lo chiamò. - Tiziano, immagino sia lei, vero?- Aveva chiesto e si era seduto al pianoforte. Cosa mi avete portato da sentire?- aveva poi chiesto senza preamboli. Tiziano si

era voltato, come un automa e aveva detto, con un filo di voce che aveva un inedito. I ragazzi della band non fiatarono, e lo guardarono allibiti mentre allungava uno spartito stropicciato e unto al produttore. -La posso fare a cappella, o alla chitarra con Simon, come preferisce.Nessuna emozione, nessun entusiasmo. Il talent scout prese con due dita i fogli, perplesso. Poi si era alzato, e aveva preso da un angolo una bellissima chitarra classica, l’aveva appena accordata e poi aveva iniziato a seguire lo spartito, piano e poi con maggiore sicurezza. Le note avevano preso il corso, come un ruscello di montagna, prima un leggero mormorio, poi un suono più ricco e melodico, come una brezza. Tiziano aveva cominciato a cantare, con una voce calma e armoniosa, come nessuno lo aveva mai sentito. La stanza aveva preso corpo. La struggente ballata di un amore proibito, immaturo, impossibile, la necessità di finire, di perdersi, di non vedersi più, un addio straziante. Nessuno li interruppe, dopo, il silenzio pieno scemò lentamente fino a diventare piatto e grigio. Il produttore, visibilmente emozionato, ripose la chitarra e tenne lo sguardo basso. Il silenzio era diventato pesante, come una coltre di nubi, e non si sentiva neppure il respiro dei presenti. Dopo un tempo che sembrò interminabile, con Tiziano che continuava a guardare l’ora in modo convulsivo visto che doveva partire per l’aeroporto, finalmente il produttore parlò. -L’hai scritta davvero tu?- Tiziano fece solo di si con la testa, impaziente. -Una canzone che è già in classifica, secondo il mio parere. Non capita tutti i giorni sentire canzoni del genere. Gli altri inediti sono sul genere?- Tiziano quasi non lo ascoltava più, ma fece ancora di si con la testa. I suoi compagni lo guardavano come se non lo avessero mai visto veramente, come se fosse un’apparizione aliena. -Beh, direi che possiamo lavorare assieme. C’è molto da fare.- aveva aggiunto come per aggiustare il tiro che era stato troppo positivo fino a quel momento. -Ok, va bene, adesso devo andare però. Mi scusi, ma devo partire per la Scozia, ho l’aereo tra meno di due ore a Pisa, problemi familiari.- Lo disse in modo accorato. -Non ci sono problemi. Per la tua band, li ascolterò con calma un’altra volta, per ora mi interessi tu.Fece per alzarsi, ma Tiziano lo affrontò. -Se non prende anche i miei compagni,

io non vengo. Prendere o lasciare. Non ho molto tempo. O si o no.Simon sgranò gli occhi. In trent’anni che lo conosceva, dai tempi della culla, non lo aveva mai visto così - pensò un po’ alla parola giusta - generoso ed altruista. Di solito Tiziano era un bastardo, - lui diceva di se di essere un alternativo, un pensatore - in realtà tutti pensavano che fosse uno stronzo, appunto, e questa era forse la prima occasione - e chissà, l’ultima - di vederlo preoccuparsi per qualcun altro. Addirittura della band, che lui considerava solo un’appendice della sua vanità, e niente altro. Simon fece per intervenire, ma Tiziano lo fermò con uno sguardo eloquente. Il produttore fece uno strano e largo sorriso, che lo fece assomigliare ad un barracuda, e disse flemmatico: - Sei uno tosto. Ti-zia-no. Ma mi piaci. Va bene, prendo te e la tua band. Ad una condizione: fate come dico, o arrivederci. Una condizione per te, una per me. Questo mondo è fatto di merdosi compromessi, sai. Ti ci dovrai abituare.Tiziano non parlò, gli andò incontro e gli strinse la mano. Come facevano i contadini per pattuire la vendita di un campo da arare. Come una volta. La band si sciolse in un sorriso unanime, e si sentì finalmente respirare: l’apnea da ansia era finita. Il produttore li fece accompagnare alla porta dal solito solerte filippino, e disse solo: -Ci sentiamo al tuo ritorno dalla Scozia.Fuori non si fece ringraziare dagli altri, non sorrise, non disse niente, ma si fece accompagnare subito da Mauro a Pisa per prendere l’aereo. Mauro era già ato a prendere Greta, che stava in macchina, nel sedile di dietro, con un buffo cappello, e il viso dentro un libro. Stava leggendo un tomo di psicologia, e non lo salutò. Cosa che neppure lui fece, d’altronde. Parlò senza sosta invece con Mauro, vantandosi del magnifico provino che aveva fatto e di come aveva preso il tipo per le palle, di come lo aveva stregato con un’insulsa e strappalacrime lagna da quattro soldi - roba per bimbominchia, aveva ribadito - e di come lui avesse sempre saputo che era il suo futuro, cantare. Mentre di vendere case, quella sarebbe stata la prima ed ultima. Parlò come un fiume in piena, dicendo che lo stava facendo solo per April, che le faceva una pena bestiale, e che poi una volta venduta la casa lei sarebbe finita sicuramente in un istituto psichiatrico, visto che non ci stava con la testa o in qualche ospizio. Forse non era poi tanto vecchia, ma dell’età ormai non si capiva

bene, forse aveva fatto dei lifting, certo è che era ancora una bella donna. Insomma, parlò solo lui, mischiando l’avventura del suo provino, con le sensazioni su April, gli venne persino il singhiozzo. Mauro non fece altro che annuire, mentre Greta con il sopraciglio perennemente alzato in modo contrito, ascoltava senza muovere un muscolo. Alla fine , inaspettatamente, quando furono davanti al parcheggio dell’aeroporto, Tiziano si voltò verso di lei, e con il sorriso più accattivante e bello dell’universo, le disse: - Io lo sento, bambina. Tu sei pazza di me.- Non aspettò la risposta, si voltò di nuovo e disse a Mauro: -Sono sicuro che questo viaggio sarà un successo.Scese dalla macchina e si avviò al check in, senza aspettare Greta e Mauro che gli stavano dietro con i bagagli.

<< Sono un mostro. Sono stato anni a canticchiare le mie canzoni sotto la doccia senza pensare di farle sentire, e ora sono già in classifica. Dovrò comprare altri due cellulari, mica posso lasciare il mio numero principale a chiunque. La mia vita finalmente prenderà il giusto verso. Fama e gente alla mia altezza con cui parlare, e di quello che è stata la mia vita di merda fino adesso, fanculo. Fanculofanculofanculo! Certo dovrò perfezionare il mio profilo facebook, dargli un’immagine nuova, e darò l’amicizia a modelle di grido, attori, gente dello show business, gente come me. Ma anche alle mie adoranti fan, specialmente a quelle cicciotte, brutte, che si sentono sfigate, io sarò la loro autostima. Mai stato meglio in vita mia. Grazie April. Tutto merito tuo. Ti sei guadagnata la mia stima. Farò questo per te. Convincerò quel coglione di Hall a firmare queste carte di merda, e la casa sarà venduta a mio padre. Tutto a posto, tutto come prima, ma che dico. Tutto meglio di prima. Si. Il cassetto dei miei sogni si è aperto. Finalmente. >>

Lei aveva salutato Mauro, ma a Tiziano non aveva rivolto neppure uno sguardo. Lui la ignorò a sua volta. Seduti entrambi nella saletta d’attesa del gate di uscita del volo per Edimburgo, lei si era messa a fare delle parole crociate, con le cuffiette dell’Iphone alle orecchie, mentre lui verificava la solita interminabile sequenza di sms e chiamate perse da giorni. Parlottava fra sé, dicendo a mezza

voce che erano tutte “rotture di coglioni”, e intanto sbirciava Greta, pensando che lei, gelosa, fosse indispettita da tanta corrispondenza virtuale. Alla fine lui aveva detto a voce alta, e rivolto a lei “Non ci posso fare niente, sono le donne che mi cercano”. Ma lei non aveva neppure alzato gli occhi dal giornale, volutamente evitando di dover comunicare qualsiasi emozione con lui. In realtà era molto preoccupato per il volo: lui odiava volare. E non voleva morire per un disastro aereo, ma Greta, così sicura di sé, lo mandava in paranoia. Invidiava la sua calma e il suo modo di fare deciso, senza ansie. Alla fine si era alzato nervosamente, e sempre rispondendo ai messaggi, si era avvicinato alla macchina distributrice automatica delle bibite. Sempre a voce alta aveva chiesto a Greta se voleva qualcosa, ma lei niente. Allora lui aveva guardato per bene tutti i prodotti disponibili, ed aveva scelto una Sprite. La bottiglietta di plastica era rotolata velocemente sul fondo, lui l’aveva presa al volo e senza aspettare che si depositasse la carica gassata, l’aveva stappata. Il contenuto era esploso violentemente come un’eruzione vulcanica e lui si era ritrovato completamente bagnato di bibita da capo a piedi, mentre dalla bottiglia continuava ad uscire con schiuma vorticosa più della metà del contenuto. Bestemmiando, e sommerso dalle risate di Greta e di altri eggeri che avevano visto la scena in diretta, si era diretto al bagno dei maschi, continuando a scrollarsi le maniche e i pantaloni bagnati. Greta, quasi con le convulsioni, piegata sulla seduta di plastica nera, aspettava il suo rientro, per continuare a sfotterlo come meritava. Tiziano tardò un poco, e quando fu fuori dal bagno, teneva un muso lungo, pieno di rabbia e di vergogna. Si sedette a quattro posti da Greta, voltando la testa a destra e sinistra per non dover competere con quel sorriso sfottò, e poi con voluta indifferenza, aprì di nuovo la Sprite, per berne il contenuto. Ma successe la stessa cosa di prima: la bottiglia esplose di nuovo, bagnandolo ancora, perfino sui capelli, e a quel punto si levò un applauso. Alcune persone lo stavano osservando poco lontano, ridendo e applaudendo alla scena. Tiziano, rosso come un peperone, corse di nuovo al bagno, gettando con rabbia la bottiglia ormai vuota in un cestino della spazzatura, e trattenendo a stento una serie multicolore di parolacce e di bestemmie. Greta ormai rotolante dalle risate, aveva le lacrime agli occhi, e si tratteneva dal farsi la pipì addosso.

Tiziano uscì dal bagno solo a chiamata annunciata per il volo, porse il biglietto appiccicoso alla hostess, e montò sull’aereo senza dire una parola. Appena Greta, seduta accanto a lui, fece per dire qualcosa, lui la freddò con uno sguardo furioso e, mettendosi l’indice davanti al naso, pronunciò solo un “Taci” lapidario. Il viaggio lo arono così in assoluto silenzio, Tiziano che fingeva di dormire, in realtà pregava silenziosamente che l’aereo atterrasse incolume a Edimburgo, Greta che fingeva di leggere una rivista. Quello che lei temeva adesso era che avrebbero ato più giorni in quel modo patetico, ma in fondo sperava che lui potesse cambiare, che potesse una volta tanto uscire da quell’armadio cassaforte in cui viveva senza dare a nessuno niente di sé. Lei, studentessa in psicologia, sapeva che è molto difficile per un soggetto del genere riconoscere le proprie mancanze di rispetto altrui, e che è meglio sempre darsela a gambe davanti ad un narciso perverso e reiterato, ma c’era qualcosa di lui che le faceva sperare in un grande miracolo. Forse April e la sua storia intricata avrebbero fatto quello che tante donne avevano sbagliato e fallito con lui. Chissà. Nell’albergo scelto da Mauro, a Edimburgo salirono nelle loro camere, una di fronte all’altra e si divisero, per darsi appuntamento per la cena, nella hall. Tiziano si fece attendere, scese tutto cambiato e profumato, vestito elegantemente, sembrava pronto per una sfilata, lei, tranquilla, nei suoi jeans e tshirt da metallara, raccoglieva nel suo abbigliamento e nei suoi occhi vigili, tutta la freschezza e la bellezza di una giovane intraprendente. Lui non le disse niente, ancora, continuando a maneggiare il cellulare, e mangiando con l’altra mano. Greta non gli chiese niente per parte della cena, poi quasi alla fine della seconda portata, osò. -Mi spieghi finalmente questa storia di April, per favore? Non ho ancora capito cosa io ci stia a fare qui con te, in Scozia, se non ti degni neppure di rivolgermi la parola.- Lui aveva sbuffato, e fatto una smorfia, come di malcelata sopportazione. -Greta, tesorino, potresti essermi utile, tutto qua. Non crederai mica ad un viaggio romantico, con quelle cazzate da fiction di seconda scelta, spero.- Il tono era cinico, e volutamente aspro. Greta sorrise.

-Figurati, non sono mica una che vuole avere una storia con un imbranato che si rovescia una bottiglia di Sprinte in due, dico due, riprese. - ed era scoppiata a ridere. A Tiziano era gonfiato il collo, e con tutta la calma di cui disponeva, ovvero molto poca in verità, aveva appoggiato il cellulare, e lo aveva spento. Poi con calma, aveva chiamato il cameriere. -La signora ha finito.- in inglese perfetto, ma in modo acido, e le aveva fatto levare il piatto davanti, piatto ancora mezzo pieno di carne e patate. -Ma non ho finito, cazzo!- aveva protestato lei, furiosa. -Si, oh si che hai finito, bambina. Adesso fila a letto, mocciosa dodicenne!- aveva esclamato lui, e si era alzato senza aggiungere altro, e gettando il tovagliolo sul tavolo con un gesto di stizza. -Ma sei proprio uno stronzo, sai. Uno stronzo senza precedenti. E ti odio quando mi chiami tesorino e bambina e ragazza e mocciosa! Ricordatelo.- aveva detto Greta, a denti stretti. Le veniva da piangere, ma non voleva farlo. Cosa cavolo le aveva preso da accettare di fare un viaggio con quello spocchioso ragazzetto pieno di acredine e nevrosi? Doveva immaginare che sarebbe andata in quel modo. -Domani me ne vado con il primo aereo, della tua stupida storia di April me ne fotto.Aveva aggiunto, poi si era diretta in camera a grandi i. Quei grandi i che lui aveva già visto altre volte, per colpa sua. Lui la seguì, e quando furono nel pianerottolo, la prese per un braccio, tirandola a se. -Lasciami stare, sei una pietra, non sei umano.- Aveva detto lei, distogliendo il viso che lui cercava in ogni modo di afferrare con una mano, per baciarla. -Tu mi fai impazzire, mi cazzi sempre, non mi dici mai di si. Mi umili, mi tratti come uno straccio, sei solo una stronzetta.- diceva lui quasi con un velo di disperazione nella voce. -Non mi telefoni mai, non mi scrivi, non mi mandi sms. Stai solo a criticarmi, mi studi come un ratto da laboratorio, e poi ti neghi, quando ho voglia di te. E intanto la tirava ancora, ma lei gli diede un pestotto con il tacco sulla scarpa. Lui fece un salto, un urlo di dolore e la insultò, mentre lei si chiudeva in camera,

singhiozzando. -Piangi, si, piangi. Brutta cretina! Ma con me hai chiuso, hai capito. Se non apri questa cazzo di porta di merda, con me hai chiuso! Sai quante vorrebbero essere al tuo posto? Ma no, io, ho invitato te, ho speso dei soldi per te, per averti qui. Avevo fiducia in te, io ti credevo amica, e guarda che comportamento da pazza! Greta, tu sei solo una pazza, squilibrata, ti devi cu-rare!Lei allora si era avvicinata alla porta e aveva detto: - Tu sei pazzo da curare, io sto benissimo.- Lui era stato zitto per qualche secondo, aspettandosi un nuovo intervento, una sfuriata, invece lei stava zitta, aspettando che lui continuasse lo sfogo. -Adesso stai zitta, per caso? Non hai niente da dire? Apri questa cazzo di porta.- Aveva detto di nuovo lui, appoggiando la faccia alla porta per sentire il respiro di lei, per sapere se era ancora lì. -Greta, non puoi farmi questo. Lo sai quanto ti desidero, vero?-Si, come le altre. Lo hai detto tu che sei pieno di donne.- Lui aveva sogghignato, contento, per lui fu come un complimento. -Ma tu sei una ragazza speciale, cammini come un cammello, fai delle falcate da Olimpiadi, hai gli occhi più celesti del mondo, e la bocca più desiderabile da baciare. Sei una stronza, ti incazzi sempre, ma io ho bisogno di te, senza di te mi rompo le palle. Anche con te me le rompo, ma in modo diverso. Ci sono momenti che mi sento come un cane abbandonato in autostrada, a rischio di farmi del male da solo, ma quando ci sei tu è diverso. Sono incapace di amarti, ma ti voglio bene. Ti voglio bene anche quando fai la pazza.Aveva detto tutte queste cose con la bocca appiccicata alla porta, e dentro aveva sentito insinuarsi un tremito di paura, che lei potesse andarsene davvero e per sempre. Era questa paura mista a consapevolezza che lei sarebbe rimasta che lo mandava in subbuglio, era un modo per sentirsi vivo ed amato. Lei aveva appoggiato la testa alla porta a sua volta e aveva sussurrato : -Sei un patetico bastardo. E io non esco, e non ti apro. Perché ti amo, ecco il motivo per cui non lo faccio.- Lui aveva fatto una faccia come se avesse preso un cazzotto in testa. Si era scosso, incredulo. -Dici di amarmi e non apri questa cazzo di porta? Se mi ami, tu apri e mi abbracci e mi dici che mi ami.Lei aveva detto decisa “No.” Lui aveva fatto del baccano, picchiando nella porta e inveendo ancora ma poi si

era sentito uguale a Don Peppino e alla sua siepe e gli era scappato da ridere. Greta era riuscita a creare la stessa identica situazione, paradossale e quasi divertente e fece il gioco di lei. Finse di non essersene accorto, aveva bestemmiato e gridato qualche improperio, poi era entrato nella sua camera prima che qualcuno intervenisse per calmarlo. Si era poi gettato sotto la doccia, ridendo come un matto e pensando che lei era una creatura maledetta, che il giorno che era andato sul mare e l’aveva vista con quello stupido cane di merda era un giorno da dimenticare, ma anche che, da quel giorno, aveva capito che c’era qualcuna che lo capiva. Forse.

Giovedì

La mattina, molto presto, verso le cinque, lei si era alzata, si era preparata ed era poi andata da lui, bussando alla sua porta che voleva parlargli. Lui dapprima aveva brontolato due o tre volte, in modo poco convinto, dei “Vattene, lasciami in pace” trattenendosi dall’aprire subito che voleva vederla. Voleva che il gioco non finisse subito, voleva tenerle il muso sul serio. Alla fine aveva aperto. Era stravolto, con i capelli dritti come cotonati da dinamite, e l’aria distrutta di chi ha dormito poco e male. Greta, splendida e truccata, entrò nella camera e si sedette sul letto. -Dobbiamo parlare.-aveva esordito, decisa. -Non abbiamo niente da dirci, tesorino. Prendi il culo e torna a casa, non voglio avere a che fare con te, mai più-. Aveva detto lui, in piedi, ancora con la porta aperta della camera. -Tiziano, per favore, te lo chiedo per favore.- Il faccino dolce di lei lo convinse ad accettare il confronto. Chiuse la porta e si appoggiò all’armadio, in modo da guardarla, ma lontano da lei. -Non ti siedi?- aveva chiesto lei. -Parla, ho poco tempo, devo andare a cercare Hall, lo sai.Lei, dopo un sospiro lungo, come a dimostrare che stava cercando di non perdere la pazienza, aveva cominciato a parlare. -Tiziano, scusa, ma io quel poco che so di questo viaggio me lo ha detto Mauro in macchina, ieri pomeriggio. Tu mi ha invitato qui, senza neppure sapere cosa avremmo fatto. Tu non dici mai un accidenti di te, sei una porta blindata con dieci combinazioni, sei ambiguo, strano e io non ti conosco e non ti capisco. Vuoi raccontarmi, qualcosa, qualsiasi cosa di te, e di cosa stiamo facendo?-Di cosa sto facendo, tu sei fuori dai giochi. Non ti sei fidata, pretendi l’impossibile da me, sei sempre a chiedere, e adesso non ti devi preoccupare, sei libera di andartene.- Lo aveva detto con rabbia repressa, come se da un momento all’altro avesse potuto esplodere.

-Cavolo, Tiziano, ma noi puoi essere così rigido. Possibile che se una persona agisce diversamente da come ti aspetti, o vuole interagire in qualche modo con te, tu debba rifiutarti di comunicare?- Alla parola rigido, Tiziano ebbe quasi un sussulto, e gli occhi si era aperti come due fari nella notte. -Non sono rigido, sei tu che sei una stupida e che non capisci un cazzo-. Era stato duro, più duro di tutte le altre volte, e come al solito la discussione non era uscita dagli insulti e dalle polemiche, dimostrando che di costruttivo non c’era niente. Anzi, lui continuava a negarsi ed a non affrontare l’argomento. Voleva mettersi in discussione, voleva giocare con lei, ma non ci riusciva. Greta fissò un punto sul pavimento e riprese come fiato. Non aveva idea di come continuare a parlargli, tanto ogni tentativo sembrava finire contro un muro di freddezza e distacco. -Possibile che non riesci a calarti nei miei panni?- Aveva provato a dire. -Io non so chi sei, non mi parli mai, tutte le volte che proviamo a stare assieme litighiamo, mi manchi di rispetto, mi umili, mi vomiti addosso le tue idee insane. Come dovrei affrontarti?Lui aveva fatto un ghigno storto e aveva detto, placido:-Noi non abbiamo mai provato a stare assieme, cosa te lo fa pensare? Solo perché ci ho provato? Ma cosa vuoi che me ne fotta di te? Sei uguale alle altre, come dice quello - la pagina di mille riassunti - e quindi la fotocopia di mille donne che ho incontrato e che incontrerò. Se vuoi essere mia amica le condizioni sono nessuna domanda, nessuna pretesa, nessuna indagine. Prendere o lasciare, io sono fatto a questo modo e non cambio.-Hai ragione.-aveva risposto Greta, inaspettatamente. -Ho sbagliato con te. La prima impressione è quella che conta, e sul mare, mi avevi dato l’impressione che tu fossi un ragazzetto immaturo e anche viziato e snob. Ma poi, cosa da non fare mai, ma che noi donne facciamo sempre, ti ho voluto dare una possibilità. Ho voluto conoscerti meglio, per sapere se in fondo eri diverso dall’apparenza. Invece sei anche peggio del previsto. Sei egocentrico, freddo, incapace di sentimenti, di empatia alcuna. Sei… non so nemmeno usare un termine, guarda.Si era messa la testa fra le mani, improvvisamente devastata da come aveva preso piega la conversazione. -Tesorino, mi spiace che tu la viva in questo modo assurdo, io non ci vedo niente di strano. Io sono un cantante, ho una vita davanti piena di impegni e certo non mi posso confondere con te. Oh, per carità, sei una bellissima ragazza, ma non arrivi a capire certi meccanismi, non sei all’altezza di comprendermi.- Lui si era come rilassato, adesso che l’aveva fatta soffrire e

aveva visto che la sua determinazione era sparita dal suo viso, si sentiva forte di poterla trattare come voleva. -Mio padre voleva che diventassi avvocato, ci pensi? Ma io ho scelto psicologia. La fotografia invece me l’ha trasmessa mia madre. Lei vede il profondo delle cose e riesce a comunicarle nella fotografia. Io sto cercando di fare entrambe le cose, dar luce alle foto, e poi, quando sarò psicologa, dar luce alle persone che vivono nell’ombra della propria anima.Lui non l’aveva neppure ascoltata, stava guardando un punto nel soffitto, la conversazione era già finita, per lui. -Hai finito, hai detto tutto?- aveva chiesto, con disinteresse. -Si, certo, Tiziano. Ho strafinito. Allora, vado. Se ne avrai voglia, possiamo rivederci in Italia.- Lo disse senza entusiasmo, ma lui, come caduto dalle nuvole, aveva detto, cambiando idea in modo repentino: -Non vieni con me a conoscere Hall? Dai, è vero che mi fai incazzare, ma poi mi a. Per me è come se non fosse successo niente. Da dove hai preso la ione per la fotografia, non me lo hai mai detto.Lei aveva sospirato, e poi alzandosi dal letto, e raggiungendo la porta aveva concluso: -Vado a prepararmi, ci vediamo di sotto per la colazione. Avrò modo di spiegarti le cose strada facendo.- Lui, a quel punto, aveva sorriso. -Sei uguale a tutte le donne che conosco. Cambi idea ogni cinque minuti.-Lei aveva trattenuto una parolaccia, ed era uscita. Lui, sorridente, si era fatto una doccia.

La colazione era abbondante, latte, yogurth, spremuta di arance, cioccolata, marmellate e dolci di ogni foggia. Greta si era preparata un piatto pieno di roba, e un caffè lungo, e mangiava velocemente, mentre con una mano leggeva su Ipad le notizie italiane. Tiziano era sceso dopo qualche minuto, e aveva preso un caffè nero senza zucchero, e una fettina di toast con un filo di burro salato. -Non mangi?- Lo aveva apostrofato lei, a bocca piena. -Non voglio ingrassare. Tendo a diventare una palla, ci tengo alla mia figura.Lei aveva alzato gli occhi dal tablet e fatto una smorfia.

-Tanto chi vuoi che ti fili.- Lui aveva sorriso, gli era ata la voglia di litigare, improvvisamente era di buon umore. -Non attacca, tesorino. Mi sento bene, adesso. Vuoi che ti racconti di April? La tua curiosità è sempre femminea e insanabile?- Aveva giocherellato con la forchetta, picchiettandola sul tavolo e sulla tazzina, e poi, senza aspettare la risposta aveva iniziato a parlare, con foga ed entusiasmo. <<April è una donna particolare, sai? Direi straordinaria, ma non so neppure il perché di tale mio convincimento, visto che non so niente di lei, e non la capisco. E’ una giovane vecchia, o forse il contrario, è bella ma anche non particolarmente, sa un sacco di cose, ma forse sono io che ne sono convinto. Insomma, di April poco ho da dirti, se non che si veste malissimo, e che sta sempre a frugare nella terra, visto che è sempre sporca di fango. Deve avere una fissazione per le rose, me ne fa sempre trovare in casa, ma sono quasi sempre morte e sfiorite. A dirla tutta, cara Greta, secondo me è una pazza fulminata. Sarà stata la solitudine, in quella casa immensa, con poca luce a farla uscire di senno, può darsi. Le piace vivere nel buio, non accende mai il lampadario. Io non ho paura del buio, e lei mi rimprovera di questo, ma il motivo, sinceramente, non lo so. Credo che lei associ il buio con la solitudine, credi anche tu? Non credi, no? Mah. Effettivamente se te ne parlo in questo modo, ne sai meno di prima. Insomma, lei vuole vendere questa casa. Detto tra noi, dopo dove andrà a stare? In un ospizio, per giovani vecchie? Mi intristisce questa soluzione, è simpatica, mi dispiacerebbe vederla marcire come una cosa inutile. Lei ha dato l’usufrutto al suo ex. Un certo Hall. Mauro ha fatto una serie di ricerche, ha scoperto che il tipo fa il giardiniere per Sua Maestà in questo paese, e che a suo tempo aveva pure fatto una rosa azzurra dedicata ad April. Si sono lasciati, quindi, lui deve firmarmi che della casa non gliene frega più un cazzo. Così, ognuno per la sua strada. E io mi metto l’anima in pace, faccio un favore a me stesso, accontento mio padre e potrò finalmente dedicarmi a me. Alla canzone, alla band, al successo eccetera eccetera. Mi segui? No, dico, perché se Alessandra o Barbara, se le chiamassi adesso, starebbero ore ad ascoltarmi, e anche a comprendermi. Loro sanno come sono fatto, conoscono il mio carattere, e mi apprezzano per come sono. Non fanno troppe storie.>>

Greta aveva fatto si con la testa, due volte, sempre a bocca piena di dolci, e poi, asciugandosi con un tovagliolo, aveva obiettato: -E io che c’entro allora?Tiziano aveva sospirato. Effettivamente, ripensandoci, che cazzo l’aveva fatta venire a fare? Non l’amava, la desiderava, ma mica poi tanto, e poi aveva troppo carattere, lui cercava una pecorella senza spina dorsale disposta ad adorarlo e a fare tutto quello che gli ava per la testa, senza far domande, e Greta si, ci stava come un cavolo a merenda. In più mangiava come un lupo, e rompeva le scatole. E rispondeva male. E non era disposta a far la trombamica. -Non saprei. E’ stata una richiesta impulsiva, ma questo non significa che dobbiamo sposarci, o avere figli.- Tiziano lo aveva detto a mo’ di battuta, e lei, questa volta, non si era arrabbiata. -Non ti preoccupare, tesorino. Anche io ho i miei gusti in fatto di uomini.Il tono, volutamente sarcastico, era arrivato chiaro alle orecchie del ragazzo, che aveva detto subito, in sua difesa, sentendosi minacciato: -Quello che mi stupisce di te, che sei così bella e desiderabile, è il fatto che ti sei lasciata andare a me molto presto, appena sono entrato in casa tua. Non ti sei fatta molti scrupoli, né hai pensato che io potessi approfittarne. Mi stupisce, ecco, che voi donne cadiate ai piedi di uno sconosciuto senza prima conoscerlo per bene, dimostrando la vostra superficialità e stupidità. Io prima di darmi ad una donna ci penso molto. Moltissimo. Il più delle volte poi, non mi fido, e non mi concedo. Quando l’ho fatto, ho solo sofferto. Le donne sanno essere molto stronze, e io ci tengo a me. Alla mia persona, sai, ragazzina?Greta era arrossita, e il boccone di dolce le si era incastrato quasi in gola. Stava cercando di umiliarla, dandole della ragazza facile, e il fatto che l’avesse fatto Tiziano, il vanesio, il pieno di sé, il narcisista patologico, era stato come ricevere un sasso in testa. Però, d’incanto, si ricordò una frase, letta da qualche parte : se l’offesa arriva da una persona che non vale niente, l’offesa è zero. Conscia di questo, smise di bollire, si rilassò, e con calma e un sorriso serafico, disse: - La colazione era speciale, peccato che non l’abbia fatta. Andiamo? Ho una gran voglia di conoscere l’ex di April e di tornare a casa. Ho un sacco di cose da fare, e immagino anche tu, con tutte le tipe che ti girano attorno. – Lui sorrise beffardo, e si alzò dal tavolo ancor più pieno di entusiasmo di come

si era seduto.

Arrivati sulla porta si erano resi conto che stava cominciando a piovere. L’uomo alla reception fece un grande sorriso, come a significare che i turisti non hanno mai l’occorrente per sopperire alle necessità del posto, e aveva tirato fuori da dietro il bancone un grosso ombrello nero. -Ci toccherà stare vicini vicini.- Aveva detto Greta con un ghignetto sarcastico. -Ti odio quando fai quella faccia.- aveva risposto Tiziano e, preso l’ombrello, lo aveva aperto sulla porta dell’albergo. Lei gli si era avvicinata e lo aveva preso a braccetto. Lui aveva fatto un leggero sobbalzo, come non aspettandoselo, ma poi le aveva mandato un sorriso storto ed imbarazzato in risposta. -Sai dove è questo giardino regale?- Lui aveva fatto di si con la testa. -E’ qui vicino, dietro quel lungo muro di cinta che vedi laggiù. Non c’è anima viva stamattina, ha un’aria quasi lugubre, con la pioggia, non credi?Greta si era stretta ancora di più a lui, e a voce bassa aveva detto: -Ci sei tu a proteggermi, vero? Uscisse uno zombie dal muro?- Lui aveva detto: -Non contarci.- Ma poi, inspiegabilmente, le aveva ato il braccio sopra la testa, stringendola a sé. Lei aveva fatto altrettanto, appoggiandosi a lui. I loro visi erano adesso molto vicini, e lei si era improvvisamente alzata sulle punte delle scarpe e gli aveva dato un bacio lieve sulla guancia. -Sei un mostro, Tiziano, lo sai? Lo sai che tornati a casa, non ci vedremo mai più?- La voce di lei era incrinata, era vicino alle lacrime, ma era consapevole che lui non sarebbe mai cambiato. Non era affatto uno spirito libero, o un artistoide alternativo, era solo un ragazzo pieno di problemi, fragile ed insicuro, e lei aveva capito che niente di buono sarebbe arrivato da lui. Troppa rabbia, troppi dubbi, troppi pregiudizi sulle donne, troppa paura di amare. Troppa convinzione di essere unico e perfetto. Eppure, mai come in quell’istante, aveva capito di amarlo. Con i suoi atteggiamenti volgari, le sue pretese assurde, l’arroganza e la paura di vivere che aleggiavano dai suoi occhi. -Peggio per te, ragazza.- Aveva replicato, senza nessuna emozione, e ricominciando a camminare, la testa bassa a guardare per terra. Lei aveva provato a fare resistenza, ma lui aveva fatto cadere il braccio, e lei si era ritrovata sotto una fitta pioggerella gelata. Aveva tirato su il cappuccio della felpa e gli era

corsa dietro. - Tiziano, almeno dimmi qualcosa, per favore.-Non ho niente da dirti, Greta. Io sono qui per affari, se vuoi essere mia amica sai cosa voglio da te. Se ti sei messa in testa cose romantiche, io non sono la persona giusta. L’amore dai, non esiste! Devi smettere di correre dietro al principe azzurro e alla sue varianti di colore. Sono tutte stronzate.Lei lo aveva afferrato per un braccio, proprio davanti all’entrata del giardino. Perché ti ostini con questo cinismo? L’amore esiste, se no non lo canteresti nelle tue canzoni. Che le canti a fare?- Lui aveva guardato il cancello di ferro nero, ornato da aquile dorate, in perfetto stile monarchico inglese, e aveva sospirato. Non rendere le cose peggiori di quanto non siano già. Vuoi che ti dica che sei una stupida? Sei una stupida, e con il tempo mi darai ragione. Entriamo o no?Lei aveva fatto uno sforzo immane per non mettersi a piangere e aveva fatto cenno di si. Il giardino si estendeva davanti a loro in un’esplosione di fiori e di alberi curatissimi, di siepi tagliate perfettamente. Sotto la pioggia battente, nonostante il grigiore del cielo e delle nuvole basse, era di un verde brillante e punteggiato da colori sgargianti. Greta spalancò gli occhi, era una visione straordinaria, che trasmetteva pace e serenità. Per un attimo le ò il dolore del rifiuto, e si sentì bene con se stessa. Tiziano indicò un uomo, che incurante della pioggia, veniva verso di loro. Come se si fosse aspettato la loro visita.

Era Hall.

Tiziano e Greta lo riconobbero, avendo visto le foto, ma l’aspetto dell’uomo negli anni era cambiato. Anche se alto e prestante, il suo fascino era scomparso, e sembrò loro un uomo molto sofferente e triste. Camminando piano, con lentezza quasi misurata, si portò davanti a loro. Guardò appena Greta e si concentrò su Tiziano, mettendo i suoi occhi grigi e pieni di acqua torbida dentro quelli scuri e determinati del ragazzo. -Sono Hall, ti stavo aspettando.- Per un attimo Tiziano pensò alla solerzia di

Mauro: lo aveva avvisato della visita? No, impossibile, Mauro aveva detto di non averlo fatto. Come faceva a sapere chi era? - C’è un posto dove stare? Lei si sta bagnando tutto.- aveva detto Greta, scandendo le parole per farsi capire. -Non si preoccupi, né della pioggia, né della sua lingua. Ho vissuto con Aprili due anni e mezzo, e conosco bene l’italiano.Tiziano al pensiero che Aprili avesse vissuto con quel rozzo giardiniere per tanto tempo, gli procurò una inaspettata fitta di gelosia, mista ad invidia. -Sono tanti anni che non state più assieme, vero? Lei si è rifatto una vita qui, immagino.- Tiziano aveva usato un tono comionevole, come dire, senza April penso tu abbia avuto una vita senza emozioni. Hall non rispose ma fece cenno ad entrambi di seguirlo. Cominciò a camminare piano, senza fretta, perdendosi in viottoli curati, e circondati di alloro e gelsomini in fiore, sotto una pioggia incensante e rumorosa. Dopo pochi minuti giunsero al roseto di rose color glicine. -Questo è il giardino di April.- Lo disse come se la voce gli fosse arrivata dal centro della terra, con un tono di malinconia e nostalgia che Greta, già provata per tutto quello che era successo, non riuscì a trattenere le lacrime. - L’ho amata e l’ho odiata. Sono stato il suo amante e il suo carnefice.- Disse queste parole, ancora guardando le rose. Poi si chinò su una di queste, e la recise, porgendola a Tiziano. -Intorno a casa avevo fatto un giardino simile.L’ho visto una notte.- Rispose Tiziano, anche lui sorpreso dalle emozioni contrastanti che stava provando. Non si era mai sentito frastornato come in quel momento. - April amava le rose. Così inventai per lei, April Rose, una rosa di questo colore indefinibile, che sembra azzurro, ma anche argento, lilla e nero fumo. Mettevo i petali sul letto, inebriando la casa di questo profumo intenso e poi l’amavo. Una notte intera, senza fermarmi. Mi era entrata nel sangue, era una droga per me. Lei mi contraccambiava, con una ione assoluta che non ho mai più ricevuto in vita mia.La pioggia aveva cominciato a scendere in modo violento, e Hall non riusciva neppure a tenere gli occhi aperti, ricoperto di rivoli d’acqua, inzuppato fino alle ossa. -Si ammalerà. Andiamo sotto quell’arco.- Disse Greta, preoccupata.

-Ho poco tempo. Non c’è tempo per arrivare all’arco.- Le rispose Hall girando piano la testa a destra per indicare l’arco ricoperto di bouganville a una cinquantina di metri da loro. -Come non c’è’ tempo?- Aveva esclamato Greta. Tiziano l’aveva stretta a sé, lui stava cominciando a capire che Hall aveva gli stessi problemi di April, problemi con il tempo. Con le parole. Con la vita. -Dimmi Hall, ho paura di sentire cosa mi dirai.- Tiziano aveva un groppo in gola, si sentiva quasi svenire dall’ansia. -Ero geloso di April. Avevo cominciato a bere, lei non voleva. Mi nascondeva le bottiglie, e io quando non le trovavo, mi sfogavo contro di lei. Cominciai a batterla, a picchiarla, quasi ogni giorno. Le impedivo di uscire, doveva solo andare fino al giardino. Lei si metteva sempre quelle scarpe da tennis bianche, ormai sporche di terra, e si metteva là, a contemplare il giardino, per ore. Non parlava più. Mi aveva intestato una casa e dato l’usufrutto dell’altra per dimostrarmi che non aveva alcuna intenzione di lasciarmi, e che voleva rimanere con me. Che non c’era nessun altro nella sua vita. Ma io non le credevo. Ero ossessionato da lei. Dalla sua profonda sensibilità, dal suo modo di sorridere, da quello che sapeva, da cosa diceva. La volevo in modo violento e furioso, doveva essere ancora più mia. La sottomettevo in qualsiasi modo, la umiliavo, la facevo piangere. La volevo distruggere, ma allo stesso tempo ricercavo in ogni attimo i primi tempi con lei, e li rivolevo indietro con gli interessi. Lei aveva cominciato a guardarmi come si guarda una bestia feroce, mi temeva, più mi temeva, più le facevo del male.Aveva parlato piano, gli occhi tremuli di pioggia e pianto, e Greta, le mani al viso, piangeva senza freni e senza vergogna. Tiziano ascoltava, come in trance, e si sentiva come se qualcosa gli avesse legato mani e piedi, e cancellato la lingua. Hall riguardò l’arco, poi Greta e poi Tiziano. -Una notte lei scappò. Eravamo a letto, volevo fare sesso, senza il suo consenso. Non era mai capitato. Mi disse no. Diventai furioso, cominciai a rovesciare tutto quello che c’era in quella camera, urlando. Lei era in camicia da notte, fece un balzo giù dal letto e si mise quelle consumate e sporche scarpe da tennis, e mi gridò “Tu non mi toccherai mai più. Hai chiuso con me, bastardo.”

E corse giù per le scale che portano al salone. Io le corsi dietro, scivolai, inciampai, ruzzolai per le scale, non riuscii a prenderla. Bestemmiavo, ero completamente ubriaco, volevo solo ammazzarla. Si era ribellata, aveva detto no, non sarebbe mai più stato come prima. Ci voleva una punizione esemplare. Avrebbe capito tutto, chi comanda, a chi dovesse ubbidire ciecamente. Andai in giardino e tagliai tutte le rose. Tutte. Era una notte di maggio, aveva piovuto, come adesso. Le rose erano al massimo della fioritura, tutte bagnate. Le ho portate in casa, e ho levato tutti i petali per riempire la vasca da bagno, insieme all’acqua, fredda.Hall si era come amplificato. Era così vicino a Tiziano da entrargli in faccia, ed era diventato grigio, come una grande statua di marmo rovinata dal tempo e dalle intemperie. Greta li osservava in silenzio, aveva percepito un odore inusuale, come di juta bagnata, e il profilo di Hall era mostruosamente definito, come se la pioggia avesse contenuto china, e lo avesse tratteggiato di nero. -Ho messo altre rose nel salone, per terra, sui mobili, sulle scale. L’odore era così forte da nauseare. Mi sentivo eccitato ma anche rabbioso, e desideroso solo di punirla. Mi attaccai a tutto quello che avevo in casa. Bevvi fino a scoppiare. Poi mi misi ad aspettarla. Ma lei non veniva. Finalmente alle quattro del pomeriggio dopo, entrò in casa. Aveva ato dodici ore nel bosco, era sporca, malconcia, aveva pianto, era distrutta, sfinita. Mai come in quel momento ho capito di amarla. Le sono caduto ai piedi, le ho chiesto perdono. L’ho abbracciata, bagnandomi della sua pioggia e sporcandomi del suo fango, lei dapprima imibile, si è sciolta in un pianto dirotto, e allora le ho detto: - Ti preparo un bagno caldo. Con le tue rose.L’ho colpita, ad uno zigomo, con un pugno che le ha fatto perdere l’equilibrio. E’ caduta ai piedi della scala, gemeva di dolore, non perfettamente conscia di cosa le fosse capitato. (Ero davanti a lui, avevo corso tutta la notte, volevo solo lavarmi e non pensare a niente, quando il suo pugno mi ha violentemente spaccato la mascella. Ho sentito un rumore sinistro di ossa rotte, ma nessun dolore, ho perso la vista, non ho sentito più niente, ho immaginato che mi fosse arrivato addosso un colpo d’aria, come quello che si percepisce alle stazioni al are dei treni. Poi più niente. Il nulla.)

L’ho presa di peso, era piccola e minuta, e l’ho portata di sopra, nel bagno. L’ho messa nella vasca, con le sue rose azzurre, e l’ho spinta giù. Lei si è ripresa, per un attimo e ha annaspato come un gatto, e mi ha graffiato e con le braccia ha cercato appiglio. Ha trovato la tenda e l’ha tirata con tutte le forze. Ma non l’ha tirata giù dal bastone. Ho tenuto le sue spalle sotto finché non è morta. (Ho sentito l’acqua intorno a me. Per un attimo, e non ho capito cosa mi stava succedendo. Panico o smarrimento, cosa potesse essere non lo so, e non lo ricordo. Poi ho visto, attraverso l’acqua e i petali delle rose il suo viso. Il suo viso amato, traslucido e sfocato, e ho tentato di dire che lo amavo, che non mi fe questo. Ho gridato dentro di me, ho tentato di sopravvivere, poi mi sono lasciata morire. Perché altro ormai non potevo più fare.) Piangevo, ero determinato ma soffrivo, e sapevo che era l’unica cosa da fare. E’ morta alle diciassette di quel cinque maggio. Sono rimasto dodici ore a vegliarla, accarezzandole i capelli. Era diventata blu, come le sue rose, l’ho cullata per tutto il tempo, dicendole che l’amavo e che sapevo che mi avrebbe perdonato. Le ho carezzato i capelli neri, che mesti scendevano a lato del bordo della vasca, e le ciglia, lunghe e nere, le ho baciate più volte, non riuscendo a staccarmi da lei. Le dissi che lo avevo fatto per noi. Poi l’ho tirata su, appoggiata per terra, e l’ho asciugata. Sono sceso di sotto, ho preso degli attrezzi e ho sollevato il parquet proprio in fondo alle scale. Ho scavato un buco, ci ho messo un giorno intero. Poi l’ho avvolta nella tenda della vasca e l’ho messa lì sotto. Ho chiuso tutto. Ho aspettato qualche giorno e poi sono tornato qui. Non c’era più niente da fare, per lei, e per me.Aveva abbassato la testa, ormai Hall non aveva neppure un aspetto umano. Una carcassa di abiti e di pelle, niente di vivo. La bocca di Tiziano tremava in modo incontrollato, era arrabbiato, era devastato dal racconto del giardiniere. Ma era privo di forze, tutta l’energia e il buon umore lo avevano abbandonato, e la sua mano che teneva l’ombrello era così stretta intorno all’impugnatura che formicolava. Greta aveva sussurrato: -Dovrebbe dirlo alla polizia. Dovrebbe fare qualcosa per farsi perdonare. Lei ha vissuto con questo macigno addosso, ma si deve costituire, per April e per se stesso, per quel poco che è rimasto della sua vita.-

Hall si scosse dal torpore, e osservò Greta più attentamente, come se la vedesse allora per la prima volta. -Non c’è perdono, per quello che ho fatto. Ho ucciso April, l’unica persona al mondo che mi ha amato davvero. Devo andare a casa, adesso. E’ tardi.- Aveva cominciato a camminare da dove era venuto. -Non crederai di cavartela in questo modo, figlio di puttana!- Aveva gridato Tiziano. Aveva lasciato andare l’ombrello e si era messo a corrergli dietro, ma era come camminare nelle neve; Hall con il suo o morbido era già in cima alla collina, sotto un albero secolare, che Tiziano si era bloccato nel viottolo. -Aspettami! Cazzo!- Greta osservò Hall sotto l’albero, e fu allora che lo vide penzolare, lento, con il collo reclinato da una parte. - E’ morto.- Disse con un filo di voce. - E’ morto un cazzo, dammi il tempo di raggiungerlo e vedrai.- Rispose Tiziano sempre fermo sui suoi piedi, i pugni stretti, il collo proteso in avanti. -Guarda, sotto l’albero. Lo vedi?- Aveva detto Greta. Ci fu silenzio, poi solo il rumore della pioggia, che andava piano piano scemando. Poi smise di piovere. Fu allora che Tiziano riconobbe nella sagoma appesa, il giardiniere. -Ma come ha fatto?- aveva bisbigliato con meraviglia e orrore. -Bisogna chiamare la polizia, un’ ambulanza. Chiediamo aiuto, non stare lì impalato.- Era corsa fuori dal giardino correndo, ed era tornata all’albergo, dove fece chiamare i soccorsi e le autorità. Hall si era ucciso il pomeriggio antecedente, e nessuno lo aveva visto. La morte, a detta da un primo accertamento, era da far risalire intorno alle diciassette del giorno prima. Del cinque di maggio.

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composto il numero, due volte, per due volte mi ha dato che il numero era inesistente, in due lingue, a prova di scemo, come dice mio padre. Ho cominciato ad avere paura. Paura che fosse tutto vero, ma dentro di me volevo credere che non fosse possibile. April amore, dove sei? Solo in quel momento ho percepito che tutto aveva uno stramaledetto senso, April mi aveva chiesto aiuto. Voleva essere trovata, e mai dimenticata. Aveva scelto me, per palesarsi, forse come uno spirito o forse come anima perduta, non saprei. Sapevo solo di essermene innamorato. April era sfuggente, come ogni donna di buon senso dovrebbe essere, e poi molte altre cose che non sapevo definire ma che mi avevano colpito, dalla prima volta che mi aveva offerto quei cioccolatini inesistenti. Mi sono sentito infinitamente triste, come se mi fossi perso in un uragano di dolore. Quando Greta è tornata, con la polizia, e un mucchio di curiosi, e l’ambulanza, e tutto il resto, io non mi ero ancora mosso di un centimetro. Lei si è avvicinata a me, e mi ha detto “andiamo?”, ma tutto mi è parso remoto, come uscita la sua voce da un altro mondo. Le ho detto allora di quanto l’amassi, April. Lei mi ha ascoltato, facendo si con la testa, senza dirmi niente. Le ho detto che non aspettavo altro che fossero le diciassette per andare da lei, per vederla. Perché mi mostrasse le sue rose marce, e sentire il suo odore. Le ho detto che da piccolo volevo solo affetto. Un affetto sincero, ma ogni giorno mio padre e mia madre alternavano il loro amore a seconda dell’umore, mio padre non aveva mai tempo, e ogni volta aveva sempre da ridire su ogni cosa che avevo fatto, mentre Lucetta mi soffocava di attenzioni, dicendo che ero perfetto. Li odiavo entrambi, li amavo entrambi. Lui la picchiava regolarmente, le diceva sempre che era una stupida zoccola, i miei fratelli più grandi non dicevano mai niente, io urlavo. Urlavo di smettere, ma non mi ascoltavano mai. Vedevo i lividi sulla pelle di mia madre, che spesso usciva con grossi occhiali neri per nascondere gli occhi pesti. Mio padre aveva diverse amanti, tutte troie ma anche casalinghe vogliose, e non ne faceva mistero in casa. Tutti sapevamo, tutti si taceva. Cosa vuoi che ne sappia io dell’amore, Greta? Le ho detto, mentre tutti si affannavano a tirare giù il cadavere dall’albero, e transennavano la zona. Un poliziotto mi ha chiesto cosa ne sapevo di Hall, gli ho detto che non sapevo un maledetto cazzo. Che eravamo andati a fare un giro, e lo avevamo visto penzolare. Ho detto che credevo che fosse uno stupido pupazzo di merda, ma poi mi ero ricreduto.

Poi ho detto a Greta che non fiatava che io mi ero stancato di dover accontentare tutti in famiglia, di fare il bravo ragazzo. Che per un periodo ero diventato come muto, che cantavo e basta. Cantare è per me una forma di esternazione dei miei fottuti sentimenti, che è l’unico modo di vedermi dentro, a volte anche per me. April sarebbe stata perfetta, l’amante perfetta. Le ho detto di quando avevo pensato di ammazzarmi, gettandomi sotto un treno. Quindici anni, avevo. Avevo programmato tutto nei particolari, ma poi sono pure uno stramaledetto codardo del cazzo, e non ce l’ho fatta, però sono scappato da casa tre giorni. Facendo allarmare la mia famiglia. Una volta a casa mio padre mi ha battuto con la cinghia, mi ha fracassato i glutei che non mi sono seduto per una settimana. Poi le ho detto, aspro, ma che cazzo te le dico a fare queste cose? Tanto non cambio, tanto anche se riconosco il problema sono sempre il solito bastardo. Anzi, faresti bene a starmi lontano, sono capace di farti del male. Come Hall, come mio padre. Il mondo è una merda. Adesso voglio solo andare da April. Mi accompagni? Le ho chiesto e lei mi ha detto si. E’ stato un momento di assoluta intimità che non vorrò mai più avere né con lei né con nessun’altra. Quando alla fine ci hanno finito di interrogare, e siamo potuti tornare in albergo, Greta mi ha chiesto di fare l’amore con lei. Sulla porta della mia camera. Ero sfinito, spossato, ma avevo anche voglia di dimenticare. Le ho detto di si. Sono entrato, e mi sono tirato sul letto. Ho messo una mano a coprire gli occhi, non volevo vederla mentre si spogliava, ma poi l’ho guardata. Bellissima, sei. Ho detto piano. Sei il re dei miei dolori, ha detto lei. Hai ragione, tesorino. Mi è sfuggito, ma lei non si è arrabbiata stavolta. Si è chinata su di me, mi ha spogliato piano, l’ho lasciata fare. Era dolce, finalmente ero dolce anche io. I suoi capelli lunghi e castani mi sfioravano il petto, facendomi quasi solletico. Non mi sono mosso, non l’ho aggredita, mi sono lasciato coccolare dai suoi baci soffici. Mi ha baciato sugli occhi, nei capelli, il suo profumo era lieve come il battito di un cucciolo. Lei mi ha aperto la camicia, mi ha baciato il petto. Le ho accarezzato la testa, Greta, ho detto, sei maledettamente bella. Lei mi ha dato un piccolo morso sul fianco, mi ha leccato, fino all’inguine. Era da anni, anni che non provavo una simile sensazione di benessere, tremavo

dentro al pensiero che potesse finire, e desideravo anche che finisse presto. Le ho preso la testa fra le mani. L’ho attirata a me e l’ho baciata, le ho ato le mani sulla schiena nuda, le ho stretto i glutei. Soda. Stramaledettamente soda, sei Greta, tesoro. Amore. Lei si è portata su di me, mi ha cercato, sotto, si è accomodata, ha cominciato a scoparmi. Oh, no, devo essere sincero. Ha cominciato a fare l’amore, ma mi costa dirlo. Abbiamo fatto l’amore. Ho perso il tempo, ho perso la consistenza della stanza, mi sono visto dentro la casa di April, lei era April. I capelli neri, gli occhi infinitamente lontani, scintillanti di ione e di luce come mille vetri infranti, April, il suo profumo di rose morte. Mi sono lasciato andare, April o Greta, non aveva importanza, io stavo amando per la prima volta, ed ero amato per la prima volta. Ho chiuso gli occhi, ho preferito immaginare, non vedere, e poi sono venuto. Lei, chiunque fosse, sopra di me, ha fatto altrettanto. Insieme. L’ho stretta a me, e ho detto ti amo. Lei ha tirato su il viso, e allora ho visto che era April, non era un sogno, un miraggio, un’idea, un’allucinazione. Era più bella che mai, e ha sorriso. Ha detto: -Devi sempre avere paura del buio. Chi non ne ha è morto, Tiziano.Poi si è dissolta, al suo posto c’era Greta, bellissima, e sofferente di amore dolorosamente non corrisposto. Le ho fatto una carezza, le ho spostato un ciuffo ribelle dal viso, lei ha detto solo “Grazie”, e mai come in quel momento mi sono sentito vuoto, e inutile. Mi ringraziava dell’ immenso dolore. Anche lei aveva capito. April non sarebbe mai stata mia, ma era mia. L’avrei amata per sempre. Greta si è alzata, e vestita, e mi ha detto, vado nella mia camera a farmi una doccia. Ci becchiamo dopo, di sotto. Ha indossato i jeans, attillati, sulle sue gambe perfette, ha messo la t-shirt coprendo i seni statuari. Ha preso la felpa bagnata, senza indossarla, ed è uscita senza voltarsi. Tra noi era tutto finito, tra noi non era mai cominciato niente. Mi sono voltato nel letto, ed ho pianto. Come un coglione qualsiasi.

Diciannove mesi dopo

<<Sembrano ati anni, e invece solo un anno e poco più, e io sono in vetta alle classifiche con “April Rose”, il mio EP, da sei settimane. Il mio agente dice che è probabile che io vinca il disco di platino. Vivo da solo, da un mese, mi sono trasferito a Milano, abito in una zona residenziale. La mia band non mi ha seguito, poi. Ci hanno provato, ma non sono all’altezza. Mi hanno affiancato dei professionisti, gente che ha lavorato con Vasco e la Pausini. Ho rimesso mano a Facebook, ma ci entro pochissimo. Sopratutto ho smesso di fare l’idiota con le ragazze. Adesso ho vere fan, quelle che si strappano i capelli o quasi, e mi fanno un po’ paura, hanno dentro troppo entusiasmo. o le mie giornate a scrivere testi, è un bel periodo fecondo, e ho ripreso a suonare il pianoforte, che mi accompagna nelle mie giornate solitarie. Quando siamo tornati dalla Scozia io e Greta ci siamo persi definitivamente di vista. Mauro ogni tanto la chiama, escono assieme a bere qualcosa, lui si informa di come stia, e cosa stia facendo, ma se non gli chiedo niente, lui non mi racconta. So comunque che ha dato altri tre esami, che continua a fare surf da onda e alcuni servizi fotografici. Mauro dice che è sempre più bella, ma non mi ha detto se ha un uomo. Io viaggio molto per lavoro, ho già programmato una serie di concerti estivi, da Palermo a Torino, e ho partecipato come giurista ad alcuni programmi di ricerca di giovani talenti. Io, che sono famoso da meno di un anno, incredibile. Sto valutando anche l’uscita di alcune canzoni in spagnolo, sembra che sia un o d’obbligo da fare per farmi conoscere al mercato latino. Sono stato già due volte a Madrid, ho posato per un servizio, e un’intervista. E così è capitato che la mia modella di Roma sia stata invitata a Verissimo, per dire che lei ed io abbiamo avuto un’intensa storia virtuale. Volevo quasi diffamarla, ma ho visto che per lei era un’occasione per farsi notare in questo mondo bastardo dello spettacolo, e ho lasciato perdere.

Ha sempre delle bellissime tette, e in televisione sono ancor più valorizzate che dalle foto che mi mandava col cellulare. Mio padre ha preso la mia decisione di non lavorare più per la sua azienda con sollievo. Anche questo è stato un atteggiamento che non mi sarei mai aspettato da lui. Pensavo a qualche sceneggiata, invece tutto si è concluso bene. So che ha assunto un amico di Mauro al mio posto. Anche lui, ovviamente, gay. I gay ci sanno fare con le vendite, conoscono le esigenze delle donne, e si sa che sono le donne che decidono quando e quale casa comprare. Insomma tornato dalla Scozia, le case di April sono andate all’asta. E mio padre le ha comprate con pochi euro, come aveva predetto April. Quella sulla collina è stata messa sotto sequestro per qualche tempo, perché Hall aveva lasciato scritto di averla uccisa. C’è stata una collaborazione con le autorità scozzesi e l’Interpool per verificare la storia, e una mattina di ottobre si sono presentati con la scientifica per estrarre il suo corpo dal pavimento. Sembrava non potessi assistere per ovvi motivi, ma poi mi sono raccomandato con Enrico Maria, il nostro avvocato, che nel frattempo si era rimesso alla grande, e lui era riuscito a farmi entrare, e farmela vedere. Il pavimento era aperto, e c’erano diversi uomini che prendevano misure o penso impronte o altro, e mi hanno fatto avvicinare a lei. Era avvolta dentro una tenda di plastica che un tempo doveva essere stata bianca, ed ora era molto sporca, e piena di muffa in alcuni punti. L’hanno aperta con delicatezza e ho visto il suo volto. Ma solo per pochi secondi. Bellissima, con la pelle tesa ma viva, gli occhi sbarrati nel nero dell’oscurità. Poi la sua immagine si è dissolta e ho visto solo il suo cranio pulito, i pochi capelli ormai staccati dalla testa, la camiciola da notte strappata, e aperta sul suo piccolo scheletro. Sono uscito da quella casa, deciso quasi a non tornarci mai più. Ma solo pochi giorni fa Mauro mi ha chiamato che stanno iniziando i lavori di ristrutturazione, e se volevo vedere il progetto di rifacimento. Me lo sono fatto mandare via mail e l’ho guardato, fumando una paglia e bevendo una birra. E ho deciso che doveva essere mia. Ho chiamato mio padre e gli ho detto che l’avrei comprata io. Lui ha detto che non era un affare, che dovevo lasciarla al mercato, e di non rompere i coglioni, ma io sono stato categorico.

Adesso ho anche i soldi e l’autonomia per comprare quello che cazzo mi pare e lui è stato zitto, poi ha detto “va bene”. Ho deciso di vivere in quella casa, tempo ed impegni permettendo. Voglio, tutte le volte che ho un attimo per me, tornare in quel giardino, e salire quella scala. E dormire su quella poltrona, e sentire l’anima di April aggirarsi per le stanze. Perché io sono sicuro che lei per me ci sarà sempre. Per quanto riguarda il mio carattere di merda devo dire che questa storia mi ha turbato molto. Ho scoperto che sono un essere infelice, e che nessuna potrà mai colmare i miei vuoti. Amo April perché lei non c’è in realtà, la sua assenza e non presenza è motivo di conforto per me, e ispiratrice di canzoni e ballate. Quando scrivo di lei, dopo ho momenti di tristezza e di improvvisa felicità. Sogno spesso di lei, di quegli occhi infiniti, e mi sento molto bene con me stesso. Greta, mi dice Simon, era quella giusta. No, rispondo, troppa intimità. Greta mi conosce come April, mi ha scrutato dentro, ha visto i milioni di miliardi di difetti di merda con cui sono fatto, e non avrebbe avuto pietà per me, mi mangerebbe ogni giorno, come si fa con il pane. Mi metterebbe alle strette, mi sbatterebbe in faccia ogni cazzata che faccio, io non riuscirei a far altro che farla soffrire. Questa storia mi ha fatto vedere che l’amore può essere assassino, e per un disilluso come me, questo è stato la ciliegina sulla torta. Ho solo compreso che devo limitare il mio potere distruttivo sugli altri, ma so anche che sono fatto così, e che non ci sono miracoli per la mia guarigione, per il mio cambiamento. Ci sono attimi in cui vorrei essere già morto, per essere con April, o di essere veramente vivo per essere con Greta. Greta ha un viso di altri tempi, ma moderno. Occhi blu grandi come il mare, e la bocca di pesca, e il corpo di una dea. Non avrei potuto avere di meglio, ma ci ho rinunciato. Sono sul mare, adesso, e sto con la mia fedele Moleskine guardando il mare di Viareggio. E’ una pessima giornata invernale. Il libeccio è inesorabile, e tiene tese le bandiere dietro di me come inamidate. Fa anche freddo, e io non ho altro da fare che tornarmene a Milano, stasera. Mi manca tutto, mi mancano quegli undici giorni ati a farneticare, a vomitare, a rincorrere un sogno, a cercare di innamorarmi, a cercare di non farlo, a voler essere un uomo migliore. C’è un cagnolino con un bastoncino in bocca

che viene verso di me, lo riconosco, è Poldo. Si lascia accarezzare sulla testa, muove la coda felice, mi lascia il bastoncino, vuole che glielo lanci. Lo prendo, sulla battigia so che quella figura è Greta, ma fingo di non saperlo, e lei pure, mi guarda da lontano senza muovere un muscolo. Lo lancio più lontano che posso, lontano da me. Poldo corre, sollevando la sabbia, e io me ne vado. Per adesso almeno, ho deciso che sia così. Ci vorrà tempo perché io possa convincermi che amare è possibile, che non è solo un testo da canzone popolare. I miei dubbi dovranno dissiparsi, dovrò trovare il coraggio di mettermi in discussione, di accettare che lei possa essere diversa da me, che possa pensarla diversamente da me, senza umiliarla. Lei non mi aspetterà, e questo è il motivo per cui un giorno tornerò da lei.>>

Ringraziamenti

Le molte persone che mi hanno incoraggiato a scrivere, i lettori di Kea, Donatella che si è offerta per la correzione delle bozze, Annita per avermi suggerito una storia paranormale, e soprattutto chi è entrato in contatto con la mia vita, in modo casuale o voluto regalandomi episodi ed emozioni che, lasciandomi un segno o un ricordo, si sono trasformati in parole e racconti.

Ogni riferimento a fatti o persone è dovuto puramente al caso.

10 Maggio 2012