Aspettando Enrica 31a5k

Silvia Alessia Anglani

Aspettando Enrica

A te mamma,

grazie

In collisione

Le carezze mi atterriscono. Ogni tipo di contatto fisico mi disorienta, anche attraverso lo spessore dei miei abiti, sotto, la pelle ribolle al tatto. Persino il solletico mi crea difficoltà, e non perché mi viene da ridere. Posso reggere e non affannarmi, salvo un lieve fastidio diffuso, per una stretta di mano, sperando che l’altro palmo non sia appiccicaticcio, subisco i due baci dati sulle guance soffocando il reflusso gastrico, e un solo bacio stampato sulla fronte mi provoca bruciori prolungati allo stomaco. Raggelo per l’umidità che traspira dai pori, migliaia, milioni di pori sulla pelle, dappertutto. Una mano posata sulla spalla mi pare insostenibile, e mi prende un conato di vomito se avverto le dita affondare nei vestiti, ghermire il muscolo. Detesto i massaggi e non sono incline agli abbracci. Non sarei in grado di tollerarne uno eccessivamente compresso, potrei liquefarmi, sprofondare, collasserei. Meglio non rischiare e scansare gli approcci ravvicinati, schivare gli scambi tattili, eliminare le aderenze. Sopprimere le effusioni, motivo di spiacevoli attriti, e arginare assolutamente qualsiasi manifestazione emotiva, che potrebbe attirare braccia invasive, avvolgenti. Perciò mi mantengo distante. Forse è l’intimità intrecciata ai gesti a incutermi timore, ad allontanarmi, a farmi preferire una sorta di isolamento fisico dal mondo. Avanzo a slalom calcolati, evacuo il mio percorso, preferisco non essere sfiorata. La percezione di un corpo estraneo mi intesisce, così mi sottraggo, e conservo la separazione. Non sono asociale, o scontrosa, ma a circondarmi necessito di uno spazio sgombro ben delineato, inaccessibile agli altri. Se i colleghi di lavoro gravitano in un’area sociale condivisa, con la dovuta attenzione da parte mia a non urtarsi nei corridoi, tutti gli altri sono relegati alla distanza pubblica, oltre i tre metri e mezzo. Soltanto Ilenia e Lorenzo possono avvicinarsi e penetrare la distanza personale, ma con loro mi sento al sicuro. I loro abbracci non comprimono. Le volte in cui, di notte, Marco striscia sotto le lenzuola e si sposta nella mia metà del letto, nell’oscurità della stanza, allento le difese e gli permetto di oltreare la demarcazione invisibile che mi contiene. Angela, fosse per me, finirebbe catapultata a una distanza di sicurezza di almeno dieci chilometri. Facciamo cento, facciamo pure in un universo parallelo, un divario opportunamente incolmabile. Riduco i rischi inutili, non prendo l’ascensore, sto alla larga dalla ressa ai buffet gratuiti, e interpongo un distacco che travalica il braccio teso, se qualcuno che incontro per strada si intrattiene a parlarmi. A ogni o dell’altro verso di me, indietreggio di due.

Oggi è giovedì, e alle sette esco di casa, per portare fuori Amaranta prima di andare al lavoro. Sono ancora un po’ assonnata, e cammino assorta, intirizzita, seguendo i i eleganti di Amaranta, che percorre a memoria il viale per arrivare ai giardini. I livelli di coscienza al minimo. Mi restano circa dodici ore, poi questa sera, a cena, la donna che poco fa ho guardato fugacemente allo specchio, lavandomi i denti, cesserà di esistere. Imploderà d’un tratto, sciolta, evaporata, scomparsa in un istante. Il mio prossimo futuro è già stato alterato, falsato. E il futuro a lungo termine cancellato. Ma sono le sette di mattina, ho ancora sonno, è buio, fa freddo, e lo ignoro. Sul mio cammino c’è un dirupo scosceso? Sono tutt’altro che recettiva. La mia agenda è bianca, non annoto presentimenti, rimango inconsapevole, proseguo, mi avvio a cadere nel vuoto ripido senza protezioni. Per affrontare l’atmosfera gelida mi sono infilata, appena scesa dal letto, calzini pesanti, il pantalone felpato della tuta, un maglione di lana, e il cappotto chiuso fino al collo. Ai piedi ho un paio di scarpe da ginnastica piuttosto malconce, reduci dalla pioggia, il fango, le pozzanghere, la neve, sono degne del loro utilizzo. Le mie palpebre sono pesanti, tendono a richiudersi sugli occhi, mentre ciondolo in attesa che Amaranta si sbrighi coi suoi bisogni. Ho più sonno del solito e mi ricordo che ieri sera sono rimasta al PC fino all’una, alla ricerca di una casa in montagna per capodanno. Siamo in ritardo per cercare a dicembre un’alternativa valida, ma ci è saltato l’invito a casa degli zii di Marco, e dobbiamo arrangiarci con un’altra sistemazione, se non vogliamo trascorrere le vacanze natalizie a Monza. E l’addetta alle prenotazioni, quella dei due che scova offerte vantaggiose e organizza i viaggi nei dettagli, sono io. Tra le molteplici proposte inservibili ho individuato un alloggio in Valle d’Aosta, che appare carino e accogliente. Trovarlo libero è stato un caso fortuito. È arredato con mobili in legno color miele, e c’è l’indispensabile: un angolo cottura dotato di frigo e forno a microonde, un letto matrimoniale, che nelle foto è rivestito con una coperta divertente, a pezze colorate, e un letto a castello, che a noi servirà per posizionare le valigie aperte e disporre i vestiti, per non doverli sistemare nei cassetti e averli a portata di mano. All’esterno c’è uno spiazzo recintato con una panchina in ferro battuto, su cui ci potremo sedere per infilarci i doposci e sfilarceli la sera, prima di rientrare, per non bagnare il pavimento. Ho scaricato alcune foto, mi sono segnata il costo sull’agenda e più tardi ne parlerò a Marco, a pranzo o durante una pausa caffè.

Penso vagamente alla casa in montagna, riesaminando l’offerta, senza sapere che immagino una vacanza che non faremo. Oggi è la data designata per venirlo a sapere, scoprire che non partiremo, che non trascorreremo le ferie sulla neve, sciando. Capita nella vita, che accada qualcosa, un evento che ne deforma le sembianze, corrompendola, rendendola irriconoscibile. E qualunque esito ne risulti, non si possono aggiustare le cose, non si torna indietro. È una collisione sulla nostra traiettoria, che frantuma la nostra esistenza, o l’idea che ne abbiamo. Oppure siamo noi stessi a esserne infranti. Quell’evento è già accaduto, per me, e non importa se ora ne sono all’oscuro. C’è stato un punto di rottura, è avvenuto, esiste, in cui il (mio) tempo ha intrapreso una virata, iniziando a trasformare i giorni, che stanno per diventare dolorosi, le ore buie, i secondi duri, rigidi a trascorrere, si incaglieranno l’uno sull’altro, sarà un aggio irreversibile, verrò risucchiata e risputata altrove, senza più niente di mio, né dentro né addosso né intorno. Tranne il mio prezioso vuoto. Ancora non lo so, ma sto per vivere quelli che saranno i mesi più intensi, splendidi, della mia vita. Anche se al principio, posso giurarlo, non si può affatto credere, fidarsi, che sia così. Sono ferma sul posto, distratta, e Amaranta mi avvisa di aver finito tirando il guinzaglio. In automatico mi riavvolgo su me stessa e mi incammino nella direzione inversa. Lei però si blocca e scodinzola, l’entusiasmo scalpitante sotto lo strato denso di pelo, fissa un ragazzo che si avvicina correndo. Sta facendo jogging, di recente la mattina mi capita di incrociarlo, e ad Amaranta sembra piacere. Io invece proprio non ne intuisco il senso, come si possa uscire a quest’ora, con questo freddo, un paio di pantaloncini corti, e mettersi a correre. Faticare, gelare d’inverno e sudare l’estate, correre con l’afa di città, incollarsi ai vestiti, rientrare bagnati per la pioggia o con la cute e i capelli zuppi di sudore. Solamente per girare in circolo. Non so, è una cosa che non capisco, lo sport mi è nemico da sempre, e la corsa è l’apoteosi della mia avversione all’attività sportiva. Da bambina Angela mi ha iscritta a danza classica, e sono stata obbligata a frequentare i corsi dai quattro agli undici anni, quando ho cominciato a saltare le lezioni di nascosto, e Angela ha dovuto rinunciare a costringermi. Anni e anni di supplizio con un’insegnante ossuta, spigolosa, che mi scrutava corrugata, a esaminarmi, sdegnata verso le mie cosce piene e la curva convessa della mia pancia. Esigeva di essere chiamata “madame”. “Plié, jeté é, plié”, nei momenti di difficoltà e di panico, o quando mi ritrovo in soggezione, messa

alle strette, sento la sua voce acuta nelle orecchie, scandita dai battiti secchi delle mani a farmi sentire ridicola, nelle situazioni peggiori quel “plié” dall’accento stridulo emerge in continuazione. Il ragazzo si avvicina, inarrestabile sulla mia traiettoria, e se adesso non mi sposto, lo scontro sarà inevitabile. Porta un K-way blu elettrico, i capelli lunghi tirati indietro da una fascia, ha gli auricolari nelle orecchie, le gambe nude, lo sguardo sulla strada. Penso che mi travolgerà, mi figuro l’impatto, e piombo in uno stato d’ipnosi, disagio puro. Resto immobile, paralizzata, non mi scosto di un millimetro, attendo l’urto. Poi all’ultimo, con naturalezza, lui devia e mi sora senza nemmeno sfiorarmi. andomi accanto, solleva lo sguardo dall’asfalto e per un istante lo lancia su di me, puntando le sue pupille sui miei vestiti invernali, strati pesanti di tessuto, che riescono a traare. Le sue labbra si stirano ai lati, nella frazione di un secondo mi appare il bagliore di un sorriso, e l’effetto è quello di cento carezze sulla pelle nuda. Rabbrividisco. Nel profondo. E quasi mi metto a tremare, a scuotermi. Con una spinta mi smuovo, e mi dirigo verso casa, a i svelti. Non mi volto indietro. Salva nel mio appartamento, riempio di croccantini la ciotola di Amaranta, e in un piattino a parte taglio uno spicchio di mela e alcune rondelle di banana. Accendo il gas e faccio bollire dell’acqua per il Nescafé. Da sopra il lavello afferro una tazza, rovescio colmandola i cereali integrali, ricchi di fibre e vitamine, e li sommergo con un vasetto di yogurt alla pesca, apparecchio una tovaglietta sul bancone e mi siedo a mangiare. Amaranta nel frattempo ha già finito, si è sdraiata sul suo cuscino personale, e ha chiuso gli occhi. Sospira. Quando Marco si ferma a dormire da me, la mattina, facendo colazione seduti sugli sgabelli, Amaranta si posiziona ai nostri piedi e insinua il muso tra le sue ginocchia, aspettando che lui le dia una grattatina tra le orecchie, mentre mastica energicamente la sua barretta proteica, ma se sono sola non viene mai. Ingurgitati cereali e caffè, mi vesto per il lavoro con gli abiti che sono distesi sul letto, longuette grigia con un modesto spacco anteriore centrale, camicetta con le rouches, maglioncino a cardigan nero, corto, calze nere coprenti, stivali con tacco basso, pratici. Nonostante il parere di Ilenia, che li ritiene inguardabili. Io non li trovo così male, il tacco è comodo, e devo tenerli ai piedi tutto il giorno. Compro stivali pensando al comfort e alla praticità e in primavera mi converto alle ballerine. Di statura posso considerarmi alta, con il mio metro e settantuno centimetri, e non mi serve un tacco dodici per slanciare la figura.

Tendo a non azzardare con gli abbinamenti, il mio must sono tinte neutre e accostamenti classici, vesto in blu, grigio, nero, nelle tonalità più o meno intense della stagione. Ma niente marrone, troppo casual. Mi sento appropriata al lavoro che svolgo, all’ambiente dell’ufficio, sebbene certe colleghe sfilino in abiti provocanti, che ammiccano a un appuntamento con l’amante di turno, e al proponimento di sedurlo. Io indosso gli stessi vestiti, non dovendo sedurre nessuno, uscite serali comprese, e nel weekend metto un paio di jeans. Non sono una persona severa, o austera, mi piace essere sobria. Ho la mente aperta, mi diverto, scherzo, credo di possedere una giusta dose di ironia, sostanziale per sopravvivere nella società odierna superati i trent’anni, solo non mi sento particolarmente eccentrica, e sicuramente la creatività non è la mia principale caratteristica, tant’è che ho studiato economia e lavoro in banca. Alle otto e un quarto esco nuovamente di casa, lasciando Amaranta che continua a poltrire, sprofondata in un sonno che durerà per il resto della mattinata, salgo in macchina e guido fino al mio posto di lavoro. Per il tragitto non impiego più di dieci minuti. Mentre sto parcheggiando vedo Marco, lui mi saluta alzando un braccio, la mano restia, non mi aspetta per entrare, fa riferimento con un gesto al vedersi dopo.

Al lavoro Marco mi evita per tutto il giorno. Salta le pause caffè e a pranzo afferma di dover fare una commissione per sua madre. All’uscita scappa letteralmente fiondandosi in auto, mentre io lo rincorro con in mano le foto della casa in montagna. Lo rivedo più tardi, a cena, sedendo di fronte a lui al ristorante a cui mi ha dato appuntamento. Mi ha mandato una mail durante il pomeriggio, come se si trattasse di un incontro di lavoro da inserire in agenda. Probabilmente è strano già da diverso tempo, ma io mi insospettisco solo oggi. Ho volutamente ignorato i segnali, e persino oggi fatico a comprendere che c’è qualcosa che non va, e me ne sto seduta al tavolo, con lui davanti a me che suda, gocce evidenti luccicano sulla fronte e sulle tempie, mentre spia freneticamente intorno. Poi fissa gli occhi nella mia direzione, si arena nelle domande del mio sguardo, e spianandole mi confessa ogni cosa. Lo fa ancora prima di ordinare, prima ancora di sfogliare il menù. E io scorgo tutte assieme, in un attimo, la moltitudine di crepe che avrei dovuto intravedere da un pezzo, l’intreccio scheggiato della nostra relazione, che converge nel punto esatto in cui ci troviamo in questo momento. Per pronunciare la confessione che vanifica ogni mio gesto, ogni o compiuto, gli occorre meno di un minuto, e io sono soltanto una stupida, che non sa niente finché non le viene svelato, detto esplicitamente, sbattuto in faccia. Nessun fraintendimento, ormai, è possibile, e le parole che ascolto quasi mi appaiono ovvie. Marco ultimamente è stato distante, ha dichiarato una serie di impegni imprevisti o presi da tempo, per cui escludendo il lavoro non ci siamo visti molto. Ma io non mi sono allarmata. Stiamo insieme da sette anni, da quando sono stata assunta presso la banca dove lavorava lui e abbiamo cominciato a frequentarci. La nostra non è una storia che si possa definire travolgente, intrisa di ione, struggimenti, e rivoltamenti interiori. A parte le volte che prima di dormire facciamo l’amore, Marco si confina nello spazio relazionale in cui sono compresi gli amici che non sono Lorenzo e Ilenia. Sfugge alla mia sfera intima, o forse sono io che lo lascio uscire, con cortesia. Non siamo una coppia dedita alle smancerie, evitiamo volentieri i baci scambiati in pubblico, e anche quando siamo soli non è che ci baciamo di continuo, lui non è tipo da tenermi la mano mentre camminiamo, o al cinema. Né è il tipo di uomo che prende la sua donna sul tavolo della cucina alle due di pomeriggio durante una domenica di pioggia. Ma siamo felici, stiamo bene insieme, o almeno mi sembra. Anzi ne sono convinta, non ho dubbi a riguardo, non c’è dissapore, né esitazione, che mi facciano sospettare altrimenti. Ritengo che sia tutto nella norma, non mi pongo il

problema. Perché non sussiste. Ci rispecchiamo l’uno nell’altra, abbiamo le stesse esigenze, stiamo comodi all’interno degli stessi confini. Confini privati, distinti, che si sfiorano in un punto comune. Nessuno dei due arrischia desideri che minaccino la serenità del nostro rapporto, non esistono carenze da sopperire, o bisogni che differiscano dai patti, che si discostino dalla rotta diritta che stiamo percorrendo, una strada asfaltata sul mare. Nulla si solleva nella nostra relazione, a intralciare il suo incedere consueto, metodicamente organizzato. Pianificazione anticipata, funzionamento scorrevole, senza intoppi. Dopo il primo anno di lavoro mi sono trasferita nella casa di mia nonna, che è rimasta vuota da quando lei ci ha lasciati. È un appartamento al secondo piano di una vecchia palazzina, un bilocale piuttosto spazioso, con le stanze ampie, come usavano una volta. Io l’ho ristrutturato realizzando un unico ambiente aperto, nel soggiorno ho sistemato il divano davanti alla televisione e alle spalle il tavolo da pranzo, mentre la zona cucina è delimitata da un bancone, con gli sgabelli alti per fare colazione. In bagno ho eliminato la vasca e installato una doccia, ho acquistato lampade di carta, che creano una luce soffusa, librerie e stampe da appendere alle pareti pitturate di giallo, e poi ci ho portato le mie cose. Durante il trasloco, Angela mi ha pedinato per tutti gli spostamenti, insoddisfatta all’idea che andassi a vivere da sola, per via del fatto che Marco abitava in un grande appartamento che mi avrebbe potuto ampiamente ospitare. A suo avviso avremmo dovuto fidanzarci, andare a convivere e fissare prontamente la data delle nozze. E magari fare pure un figlio. Angela non è una persona all’antica, e non è bigotta, però trova inammissibile che le donne vogliano essere autonome, barcamenandosi con il lavoro, lo stipendio, le spese, e ritiene che ognuna dovrebbe preferire la presenza di un uomo a cui appoggiarsi, un buon partito che possa provvedere alla propria compagna. D’altronde Angela ha mio padre, e Greta, mia sorella, ha il suo medico chirurgo, da cui si è fatta impalmare nel giro di un anno, sfornando due figli maschi a garanzia totale. Personalmente, come un uomo, quali che siano i suoi difetti, o i suoi peccati, ma che sia adulto, cosciente e padrone di sé, oltretutto benestante, possa decidere di vivere con Greta o con Angela, non lo concepisco, e la loro capacità di resistere alla diserzione, mi è imperscrutabile. Io non capisco gli uomini della mia famiglia, Angela non comprende me, c’est la vie. A quanto pare io avrei l’età adatta, ma non ho alcuna intenzione né di sposarmi né di mettere al mondo figli, fosse solamente per salvarli dalla nonna che loro malgrado si ritroverebbero. E poi io e Marco stiamo bene così. Lui è il genere di uomo che non potrebbe rinunciare ai propri spazi, e a me fa altrettanto comodo.

Abbiamo ognuno la propria casa, ognuno i propri vezzi, i propri rendez-vous improrogabili. Lui si ferma a dormire da me una volta alla settimana, e trascorriamo insieme il weekend. Il nostro è un rapporto equilibrato, che si fonda sul rispetto della privacy altrui, sulla condivisione pattuita delle cose, e di noi stessi, senza mai pretendere oltre. Ci sospinge una corrente costante, un flusso ordinario che riconduce a riva, dove siamo certi di poter attraccare in sicurezza. È una relazione in cui tutto viene predisposto con ordine, a far fronte all’inconveniente esiste già la risoluzione stabilita per l’evenienza. Di tanto in tanto pavide mareggiate previste in cui si resta a galla, senza allontanarsi troppo dalla sponda, e non si deve imparare a respirare sott’acqua. Nuotiamo in una piscina in cui tocchiamo coi piedi sul fondo, se stendiamo le gambe, l’acqua è tersa e piena di cloro, disinfettata da ogni impurità. Io non voglio altro che questo, e non mi pongo il problema. Dovrei? D’un tratto mi sembra che la tensione si dissolva, ogni goccia di sudore evapora, l’ansia viene riassorbita. E focalizzo Marco dal limbo in cui vengo aspirata, alle mie spalle. Via via più lontana, la realtà circostante ovattata, vedo Marco che mi parla, il suo volto è inespressivo, il tono della voce inalterato, piatto, come se mi stesse raccontando la variabilità dei tassi di cambio e di interesse. Vedo Marco che mi dice la verità, ma ho l’impressione di trovarmi all’interno di un sogno, dove il sonoro rallenta, si dilata, viene distorto da una curvatura dello spaziotempo in cui sprofondo, mentre il ristorante svanisce, le fotografie della casa in montagna che ho posato sul tavolo, la coperta colorata del letto matrimoniale su cui non ci sdraieremo, scompaiono. Marco è un bell’uomo e ha compiuto trentaquattro anni. Alto, un’onda di capelli castano scuro che sormonta la fronte spaziosa, il profilo del naso simile a quello delle antiche statue greche. La pelle del viso è abbronzata dalle lampade, nutrita dalle creme costose comprate in farmacia e rimpolpata dalle maschere elasticizzanti, contro l’insorgere delle rughe precoci. È sempre accuratamente sbarbato e per chi non lo sapesse si depila le sopracciglia, che sono ad arco perfetto. Le mie dovrei perfezionarle disegnandole con una matita, ma io non mi trucco, a parte le occasioni speciali, se non con un filo di lucidalabbra e un leggero strato di mascara che stendo sulle ciglia, quando faccio in tempo la mattina. Marco ha spalle larghe, squadrate, addominali scolpiti e muscoli forti, frutto di duri esercizi e una frequentazione assidua della palestra, a cui io mi sono inizialmente iscritta, andandoci tre volte prima di abbandonare

definitivamente, terminata da un’ora di spinning. Marco è intelligente, affascinante, curato nell’aspetto e nell’abbigliamento, ed è il mio fidanzato da sette anni. E’ l’uomo con cui ho scelto di condividere la mia vita, è l’altra ala della vita che mi sono cucita addosso, senza scosse, senza sbalzi, azzerando il rischio di mettere il piede in fallo e finire nella spirale di un gorgo, in cui annegherei di certo, perché non sono abbastanza allenata. Ma non c’è pericolo, perché nessun maremoto è mai in arrivo, nessuno tsunami dell’amore. Marco è un uomo solido, che fa affidamento su di sé, sicuro delle proprie azioni, e io avrò sempre a disposizione il mio spazio individuale vuoto, in cui starmene al riparo, senza il terrore del contatto. È l’uomo che mi ha promesso una vita in cui ci si rispetta, non si invade l’interiorità, e non si mettono al mondo figli. Figli che non voglio, che non saprei allevare. Figli che dovrei abbracciare, e so di non poterlo fare, non ne sarei capace. I miei abbracci sono spinosi, pungenti. Li renderei infelici, quindi figli non ne voglio. Anche Marco non ne vuole, non gli interessa la convivenza, la genitorialità, il nucleo familiare delle pubblicità lo inorridisce. Non aspira all’invasione del suo spazio come io non la voglio del mio, per questo è l’uomo ideale per me. Ma adesso Marco è un uomo che gronda insicurezza, trasuda rimorso, insofferenza, è un uomo inconsistente. «Non possiamo continuare a vederci, mi dispiace.» Lo guardo e non recepisco, la sua estraneità è spiazzante, prendo in mano le foto della casa in montagna per mostrargliele. «Mi dispiace Nadia, non posso, non possiamo.» Cos’è che gli dispiace? Cosa sta dicendo? Di cosa sta parlando? Lo osservo perplessa, incerta, alzo il braccio con le foto nella mano e gliele porgo, perché vi dia un’occhiata. È tardi, dobbiamo decidere questa sera e inviare una mail di conferma. «Ho una relazione con un’altra, da un mese, e non possiamo continuare a frequentarci.» Un’altra? Un’altra chi? Di chi sta parlando? Gli metto le foto sotto il naso. A chi si riferisce? Marco non mi tocca, non mi prende le mani, non si protende verso di me.

«È incinta.» Abbasso la mano, le foto mi cadono dalle dita, si sparpagliano sul tavolo.

Tempo di muta

Apro gli occhi, sono gonfi, pesano tonnellate. Cerco di orientarmi nel silenzio, nel buio, meccanicamente mi alzo, mi infilo qualche vestito che afferro a tentoni e vado a lavarmi i denti. Mi guardo nello specchio sul lavandino, ma distinguo solamente un’ombra. Amaranta mi aspetta seduta davanti alla porta del bagno, mi segue all’ingresso, si lascia mettere il guinzaglio e viene con me fuori. Facciamo il solito giro, ci mettiamo il solito tempo, e torniamo a casa a fare colazione. Le riempio la ciotola di croccantini, nel piattino metto qualche spicchio di mandarino, apro l’anta del mobile dove tengo la scatola dei cereali, mi arresto, la mano sospesa. Richiudo l’anta e torno verso il letto, mi ci butto sopra, a pancia in giù, la faccia sprofondata nel cuscino, e mi riaddormento. Dopo tre ore di sonno extra Amaranta mi sveglia toccandomi il gomito con il muso. Solitamente non invade il mio spazio, ma oggi è venerdì, dovrei essere fuori casa, invece sono nel letto e lei si allarma, forse pensa che non mi senta bene. E poi deve essere suonato il telefono. Mi alzo per la seconda volta questa mattina e mi reco diretta a riempire con yogurt e cereali la tazza che è rimasta vuota sul bancone. Però non mangio e lascio il miscuglio a macerare. Lì vicino c’è il mio cellulare, guardo lo schermo e scorgo quattordici chiamate. Due sono dell’ufficio, tre della mia collega Anna, otto chiamate sono di Angela, lei ti assilla, al limite della persecuzione. Una è di Marco. Una. Non sono andata al lavoro, e non ho avvisato nessuno. La trasgressione non è da me, non l’ho mai fatto prima, e chi mi conosce si sarà preoccupato. Vorrei ignorare le chiamate, ma non stare alle regole mi mette agitazione. Riprendo in mano il telefono e decido di scrivere ad Anna, “Oggi non vengo prendo ferie scusami con Claudio stamattina sono stata male mi sono riaddormentata ci vediamo lunedì”, mi impegno con il testo, ma dimentico le virgole e i punti. “Incinta”. Allontano il cellulare sul bancone, e mangio una cucchiaiata di cereali, sperando che Marco, per giustificarmi, non abbia raccontato a Claudio il vero motivo della mia assenza. Mastico, la bocca piena e la testa vuota. Le tre ore di sonno extra mi hanno stordita. Non mi sono ancora lavata e devo avere i capelli arruffati sulla testa. Amaranta è di fronte a me, seduta sul pavimento, e mi guarda fissa, volta a decifrare la mimica del volto, cercando di carpire un mio segnale, le

orecchie tese per cogliere un comando nella minima inflessione della voce. Mi tiene sotto controllo. L’ha voluta prendere Marco due anni fa, cercandola su Internet tra i vari annunci di allevamenti e privati che offrivano boxer. Per una settimana mi ha mostrato intere cucciolate sullo schermo del computer, musini sonnacchiosi con occhietti aperti a fatica, corpicini gracili che non si reggevano in piedi, tenuti in una mano tra le dita di qualcuno. Alla fine ha scelto una boxerina fulva di quindici giorni, con una macchia bianca sul muso, e siamo andati a vederla. La padrona ci ha fatto accomodare in salotto, per far abituare la mamma dei cuccioli a noi, prima di andare nell’altra stanza. I cuccioli erano in una cassa di legno dai bordi alti, costruita appositamente per il parto, otto topini striscianti con strette aperture nere al posto degli occhi, vermi pelosi ammassati tra loro. Se ne stavano dalla stessa parte, tutti insieme l’uno sopra l’altro. Cercavano il contatto. La padrona ne ha afferrato uno e me l’ha messo accostato al petto, e io sono rimasta rigida, con quel piccolo topo fulvo tra le mani. Abbiamo portato Amaranta a casa con noi al compimento dei tre mesi, e abbiamo deciso che sarebbe stata con me. Dato che abitavo vicino al lavoro, potevo tornare a casa durante la pausa a darle un’occhiata, mentre Marco viveva in un’altra zona, in una palazzina di pregio di nuova costruzione. E aveva pagato tremila euro per il divano bianco, che il cucciolo avrebbe insudiciato sbavando, e con le unghie il parquet si sarebbe potuto graffiare, peccato rovinarlo. Per intendersi, non che a me i cani non piero, mi piacevano, solo a distanza però. Amaranta l’ha capito subito, è un cane intelligente, si è abituata a me e io ho fatto l’abitudine ad averla in casa. La accudisco comprandole il cibo, croccantini della miglior qualità, che le servo mattina e sera, la coccolo con qualche biscotto e qualche pezzetto di frutta, faccio in modo che esca tre o quattro volte al giorno a fare i suoi bisogni. Ma niente di più. Non gioco con lei e non la accarezzo, e lei l’ha accettato con mansuetudine. È un cane docile, disciplinato, moderato nei modi e nelle richieste, il cane idoneo a convivere con me. D’altronde non poteva essere altrimenti. Forse Amaranta preferirebbe una padrona che la abbracci e la coccoli, che si sdrai sul tappeto per farsi sormontare e leccare di baci, che corra con lei al parco finendo per rotolarsi sull’erba. Tuttavia con me ha una vita sicura, è ben curata, trattata con rispetto, ha un cuscino morbido su cui sonnecchiare, sta al caldo, e non salta mai i pasti, né le uscite. Abbiamo un patto muto io e lei, per cui in nessun caso si azzarderà a saltarmi addosso, e non oserà che una toccata fugace col muso, per comunicare con me. E io avrò cura di lei. Le sorrido e le dico di andare a cuccia, e lei pare

rassicurarsi. Scodinzola timidamente, con quell’espressione mesta del muso, e va a sdraiarsi al suo posto, chiude gli occhi e si appisola all’istante. “Incinta”. È venerdì, sono quasi le undici, ho indosso i vestiti che mi sono infilata alle sette per portare fuori Amaranta, non sono andata al lavoro e mastico l’unica cucchiaiata che mi sono messa in bocca, senza riuscire a deglutirla. Nella mia testa una parola si solleva, si gonfia e si affloscia ciclicamente, non l’afferro, lascio che si adagi di nuovo, ha un suono familiare, è la voce di Marco. Stamattina mi ha chiamata, si è preoccupato per me. Forse non vuole veramente chiudere la nostra relazione, ieri sera ho travisato il suo discorso, o forse lui era sconvolto a tal punto, per quello che è successo, che non è riuscito a spiegarsi. Ha avuto una storiella, d’accordo, ci è caduto, può capitare, non è per forza grave, può essere riabilitato, posso essere indulgente (posso?), solo che è capitato anche questo bambino, e la cosa va affrontata, occorre trovare una soluzione, certo non può semplicemente abbandonarlo (non può?), girarsi dall’altra parte, disinteressato, Marco non è una persona spregevole, è un uomo responsabile, e in parte deve sentirsi coinvolto. Ma volere un bambino è una cosa diversa, e Marco non può volerlo, non può voler vivere con lei, con una donna sconosciuta comparsa dal nulla. È tanto responsabile che rinuncia ai suoi programmi, alle sue prospettive, rinuncia così, in un soffio, sacrificando le sue aspirazioni? Non sarà mai felice con una convivenza e un figlio, non l’ha mai desiderato. Oppure mi sbaglio? E perché penso che ci andrà a convivere? I figli si possono crescere anche rimanendo separati, anche senza stare insieme. “Incinta, incinta, incinta”. Fortunatamente il citofono mi impedisce di proseguire nelle mie elucubrazioni, ma dall’insistenza e la frequenza del suono capisco che si tratta di Angela. Lei ti assilla ripetutamente. È una donna cocciuta, scandalosamente caparbia. E invadente, debordante, intollerabile, va presa a piccole dosi Angela, onde prevenire un’intossicazione letale. Il citofono echeggia incalzante, Amaranta si è alzata e si è messa seduta sull’attenti, così decido di andare ad aprire e nel frattempo ingoio i cereali maciullati che ho nella bocca, e mi restano in gola. Dopo un secondo Angela entra in casa e mi travolge, lei è la bufera che mi sorprende e mi fa andare a sbattere, se non mi reggo saldamente al pilastro di sensatezza e coerenza che

innalzo al suo aggio. E benché la conosca, mi coglie sempre impreparata. La sua presenza mi obbliga ad annaspare tra i flutti, sforzandomi di mantenermi a galla. Non sopporto questa sensazione, fin da bambina, con lei, non mi sono mai sentita tranquilla, a mio agio. La sua energia mi destabilizzava, mi ha resa distante, impropria. «Luisa mi ha telefonato stamattina e mi ha detto la cosa.» Con Angela vago alla deriva. «Quasi non riusciva a parlare, era distrutta. Marco gliel’ha confessato ieri a pranzo, e le è preso un colpo. Poi lui stamattina l’ha chiamata e le ha detto di averti parlato ieri sera, che oggi non ti sei presentata al lavoro e che non gli hai risposto al telefono. Era terribilmente preoccupato. E Luisa mi ha spiegato la situazione.» Terribilmente preoccupato? Penso tra me, sono andata a bere un bicchier d’acqua per cacciare giù i cereali con cui mi sto strozzando, anche se non intendo proferire parola, nel disperato tentativo di far evaporare Angela da casa mia. Però i pensieri non posso trattenerli. E Marco non solo era talmente in ansia per me da farmi addirittura una telefonata, ma ha persino raccontato tutto a sua madre prima di parlarne con me, io mi credevo ancora la sua fidanzata e quella vipera sapeva già tutto! Intanto Angela si è levata sciarpa e cappotto, con il chiaro intento di fermarsi qui, si è sfilata i guanti, si è accomodata sul divano, e con entrambe le mani strofina il muso di Amaranta, che si è fiondata tra le sue braccia. I cani dovrebbero essere oltremodo sensibili all’interiorità delle persone, e Amaranta dovrebbe percepire di Angela cose tanto orripilanti da ringhiarle contro. Eppure ogni volta che la vede le fa le feste per farsi pastrugnare. Io aborrirei quelle carezze, essere abbracciata ad Angela, da bambina, era come stare accucciata in un cespuglio di ortiche. «Luisa dice che Marco è impazzito, che si è fatto fregare per bene da quella donnetta insulsa e che adesso vaneggia, dichiarando di volerci vivere insieme.» Angela sospira e strabuzza gli occhi verso l’alto, è scenica, tremendamente scenica. «Angela, quella donnetta è incinta. Si dà il caso che Marco diventerà padre e si prende le sue responsabilità. E si dà il caso che Luisa dovrà darsi una calmata e

accettare “la cosa”, così com’è. E se vorrà farlo o meno, sarà la nonna del bambino che arriverà.» Ho ingerito i cereali e sono lucida, eccezionalmente lucida. Sono l’avvocato nell’aula di un tribunale, schietto, irreprensibile, inclemente. Marco, a me, non ha detto apertamente che sarebbe andato a vivere con lei, eppure l’ho presagito, roteando nelle falle del suo discorso, scivolando su quelle frasi appena accennate e poi non dette. E Angela me l’ha confermato. «Lo so bene. Quella là ha fatto in un attimo quello che tu avresti dovuto fare ormai da tempo. Sette anni e nessuna gravidanza. Avrei fatto diversamente io! Eccome se avrei fatto diversamente, e te lo dicevo anche.» Certo certo, bla bla bla, che senza un figlio potevo perderlo, che un figlio lo legava a me per sempre, che non potevo rischiare di farmelo soffiare, bla bla bla, la concorrenza è elevata e sleale, sai che per ogni uomo pronto a sposarsi c’è un ventaglio di donne avvenenti e disponibili, e bla, e bla, e bla, ma in che epoca viviamo, nel medioevo forse? Vige una normativa per cui si evincono la necessità e l’urgenza di un erede? È un bisogno tanto impellente? «Devo ammettere che non ci ha messo molto, è rimasta incinta al volo. Marco sarà a pezzi, forzato ad andare a vivere con una donna che nemmeno conosce e a fare il padre di un figlio che non avrebbe mai cercato.» Lo difendo, è la reazione che mi viene spontanea, dovrei accusarlo, disprezzarlo, invece lo trasformo nella vittima e provo tristezza per lui. Se potessi l’aiuterei, proverei a confortarlo. Se decidesse di continuare a stare con me accetterei la presenza di questo bambino illecito, acconsentirei che lui vada a trovarlo, che si assuma l’incarico di crescerlo, di contribuire a mantenerlo. «E tu cosa ci fai a casa, me lo spieghi? E in che condizioni! Non vorrai startene a frignare come una ragazzina, a dichiarare il tuo fallimento! Fatti una doccia, vestiti e vai in quell’ufficio da Marco, ti ha chiamata stamattina, no? Cosa aspetti, che si tiri indietro definitivamente?» Definitivamente?? Finalmente una saettata di dolore, e sento il boccone di cereali fare massa alla bocca dello stomaco. “Plié, plié, pas chassé”, nella testa quella voce arpia, sprezzante, a perforarla. «Pronto? Il mio fidanzato mi ha mollata per un’altra, che è pure incinta, ed è successo ieri sera. Strano che stamattina mi senta depressa e voglia starmene a

casa dal lavoro, dove malauguratamente lavora anche lui..» Sono esplosa con tono sarcastico, ma Angela mi interrompe. «Precisamente, lavora con te, bene, è a tuo vantaggio. È costretto a vederti ogni giorno, a rendersi conto di quello che ha fatto, a rimpiangerti e a rivolerti con sé. Vedrai, più la pancia crescerà, più sarà vicino il momento in cui tornerà da te strisciando, supplicandoti di riprenderlo.» «E io naturalmente dovrei..» «Riprendertelo, ovvio, è quello che farai. Ma facendoti mettere un anello al dito! E se sei abbastanza furba anche un bell’ovulo fecondato nell’utero.» Angela ha i capelli tinti, mesciati, scalati all’altezza delle spalle. Ha grovigli di mascara sulle ciglia e si ostina a contornare le labbra sottili con la matita, per farle sembrare più grandi. Compra abiti pretenziosi, per farsi notare, e porta scarpe col tacco alto, che io non mi sognerei di mettere per cinque minuti, e lei le indossa dalla mattina alla sera. Angela è eccessiva, vistosa, si spaccia per sofisticata, interpretando un portamento di classe, ma è volgare, spudorata, l’antagonista della discrezione, e io sono completamente diversa da lei. «Angela sei oscena, e grazie tante per la comprensione.» Angela tracima, Angela è un oltraggio. «Al diavolo, sono realista. E pratica. Siamo noi donne che dobbiamo prendere in mano la situazione e condurre i nostri uomini verso la nostra volontà.» «Giusto, le donne dettano legge!» «Gli uomini sono deboli, e non dobbiamo permettere alla loro debolezza di spezzarci il cuore.» «Sicuramente tu ci riesci alla perfezione, visto che un cuore non l’hai mai avuto.» «Guarda ragazzina che sei tu che lo difendi, non io! Sto solo dicendo di riprendertelo, dopotutto stamattina non ti ha vista in ufficio e ti ha chiamata, anzi a pensarci meglio hai fatto bene sai, a startene a casa. I fatti sono recenti, lui è confuso, è stato avventato, sì, irresponsabile, ma vale ancora qualcosa che ti può

rendere felice ed è tuo, misericordia, riprenditelo, fatti valere, non essere insensata!» «Angela, lui mi ha chiamata unicamente per sollevarsi la coscienza, e non è stato avventato e irresponsabile, è stato un bastardo!» Angela si ammorbidisce e io allora lo insulto, e sputo con le parole che mi escono tutta la cattiveria che ritrovo negli angoli, perché nel mezzo ancora non c’è, e le mie emozioni le scorgo in lontananza, disperse tra la nebbia ai confini dei campi. Le mie emozioni sono nebbia. Non ricordo da quando ho iniziato a chiamarla Angela, non mi sembra di averla mai chiamata in altro modo. Per me non è mai stata “mamma”, è sempre stata soltanto Angela. So che in fondo mi vuole bene, ma riesce a essere estremamente dannosa, su di me, quindi cerco di starle il più lontano possibile, senza riuscirci mai abbastanza, lei mi raggiunge sempre. «Ora basta, stamattina l’hai fatto sentire in colpa, adesso vai a farti una doccia e torni in pista. Che ne sai dei trucchetti che sa usare quell’altra? Devi agire, e santo cielo lavati quest’accumulo di capelli! Avrebbero bisogno di taglio e piega lo sai?» Angela abbandona le coccole al muso di Amaranta, e mi si avvicina mettendomi una mano tra i capelli, con le dita immerse fino a premere il cuoio capelluto, il “mio” cuoio capelluto, che appartiene alla “mia” sfera intima, che neppure i conoscenti possono permettersi di toccare senza il “mio” permesso. I miei capelli e il mio cuoio capelluto sono all’interno del mio spazio privato, sono attaccati al mio corpo, vicinissimi a me.

Dopo aver cacciato Angela in malo modo da casa mia, seguo il suo suggerimento e vado a farmi la doccia. Una doccia calda, lunga, consolatoria, riparatrice. Poi mi accascio sul divano con indosso l’accappatoio. I gomiti sulle ginocchia, le mani abbandonate, la testa ciondolante. Non che io non senta le emozioni levarsi dentro di me, al contrario, provo sensazioni intense, che in profondità causano tumulti, mi scuotono alle radici, e mi fanno paura. Non sono impenetrabile, desidero esserlo, ma non lo sono. Non voglio essere travolta, da una ione, un colpo di testa, voglio restare preparata, vigile, perciò evito di ascoltarle, le lascio affievolire, posarsi sul fondo, e diventano bisbigli. Relego le mie emozioni ai bordi, e faccio finta che non ci siano, fino a smettere di percepirle, finché il loro mormorio non scompare. Anche se non so davvero dove vanno a finire. Il mio fidanzato da sette anni, l’uomo con cui credevo di condividere le idee, i sentimenti, i progetti, vivrà con un’altra donna. Non mi soffermo sul fatto che m’abbia tradita, non mi arrovello, non mi chiedo come sia iniziata, dove l’abbia conosciuta. Quali erano le sere in cui usciva con lei? Quando la chiamava? Il pensiero che se avessi controllato il suo cellulare avrei scoperto le chiamate, o i messaggi che si scambiavano, mi sfiora di striscio. Quello che mi sconvolge, che mi fa stare inebetita sul divano, è il fatto che il mio ex fidanzato, l’uomo che ero convinta di conoscere appieno, andrà a convivere con una persona, una compagna. E poi, certo, che sarà padre. Rabbrividisco, e scrollo via i brividi dalla schiena. Mi rammarico per lui, so che sarà infelice per il resto della sua vita. Lui figli non ne vuole, si è incasinato da solo l’esistenza. Mi figuro un piccolo Marco che gattona sul parquet lucido lasciando impronte, un piccolo Marco che rovista dappertutto, le manine inzaccherate di saliva, peluche e giocattoli di gomma gocciolanti, disseminati nell’ordine maniacale dell’appartamento. Immagino colori vivaci a contrasto con il bianco asettico del divano, la stoffa dei cuscini imbrattata, chiazze sul tappeto beige. Odori, discrepanti da quello di pulito che lascia la donna delle pulizie, odori nuovi, acri, che fanno storcere il naso a chi non ci è abituato. E i vestiti di un’altra persona a occupare gli spazi, abiti femminili nell’armadio tra le giacche, biancheria di pizzo nei cassettoni mischiata alle camicie, scarpe con il tacco accostate all’ingresso. Quei tacchi avranno rigato in profondità il parquet. Non so per quanto tempo me ne sto seduta sul divano, sul bancone c’è ancora la

tazza con i cereali liquefatti nello yogurt e comincio a sentire crampi lievi allo stomaco. Amaranta si sgranchisce stirando le zampe anteriori e inarcando la schiena, socchiude gli occhi e tiene il muso all’insù. Mi decido ad alzarmi e la porto fuori per la eggiata. Diluvia, il mondo è sfocato. Non ho con me l’ombrello e mi prendo l’acqua, la pioggia mi inzuppa i capelli, che tanto non si erano asciugati, e mi prenderò come minimo una polmonite. Di ritorno dal giro slego il guinzaglio ad Amaranta, che è bagnata quanto me e parte a scrollarsi, e mi ributto sul divano. Mi stendo e mi rannicchio, ho la forma dei bambini nella pancia della mamma. Io di figli non ne voglio, non ne ho mai voluti, non sono gelosa di quello che cresce nel ventre di una donna che non conosco, e che è il figlio di Marco. Non provo invidia, forse lei sarà felice, forse lei lo desiderava e l’ha cercato senza chiedere il suo consenso, altrimenti lui avrebbe rifiutato. Non sono gelosa di quel bambino, mi viene la pelle d’oca soltanto all’idea che sia mio, tremo al pensiero che qualcuno un giorno possa ficcarmene uno nella pancia, così, a tradimento. Ho sempre temuto di ascoltare un uomo, il mio uomo, che mi dice “voglio un figlio”. Mi riconosco travolta da un’onda anomala e annegata in quel momento, dalle sole parole. Non sono nemmeno affranta per l’infedeltà, non mi ferisce più di tanto, forse perché dagli uomini una se lo aspetta, o forse perché non sento niente e basta. Tutto qui, non sono triste, non sono disperata, prostrata dal dolore, sono vuota. Completamente vuota. Al centro e ai margini. Tutto quello che avrebbe potuto ribollirmi dentro, turbinare, travolgermi, trasportarmi, mandarmi a sbattere, l’ho sfiatato prima ancora di percepirlo. Rimango io, svuotata, l’involucro di me. Testa vuota, stomaco vuoto. Mente latitante e cuore, al momento non pervenuto. Mi addormento. Dormo l’intero pomeriggio e i sogni si scatenano al posto delle emozioni. Sogno il viso della donna che non conosco, è luminoso, è gioia, è gratitudine, tiene in mano un fagottino che culla tra le braccia. Marco è accanto a lei, rimira anche lui il fagottino e ha un sorriso da ebete stampato in faccia. Io sono insensibile alla scena, guardo verso il basso e scopro un ventre prominente, il mio. Quando

realizzo quello che è cresciuto al suo interno ne sono devastata, vengo sopraffatta dall’orrore e comincio a sudare. Contemporaneamente sono bloccata e non posso muovermi. D’un tratto Marco si accorge di me, si stacca dal fagottino e mi si avvicina. Non sorride più, ha occhi cupi, un ghigno torvo sulle labbra. Quando mi raggiunge stende le braccia e mi conficca le dita e tutte e due le mani nella pancia, fino al polso. Dall’ombelico estrae un neonato deforme e urlante, è violaceo e grondante di liquido denso, avviluppato in alghe viscide, melmose. Io voglio gridare, ma la mia bocca è cucita. Marco mi sbatte addosso la creatura mostruosa che ha estratto dal mio ventre, e mentre mi sto svegliando in preda al panico, nell’ultimo istante del sogno, la guardo di sfuggita, e vedo un piccolo bambino, piccolissimo, bianco, pulito, e perfetto. Non voglio neanche pensare all’incubo da cui sono scampata, ansimo, mi rinfilo sotto la doccia, faccio scorrere acqua gelata, che mi sferza la pelle e mi fa sussultare. E stavolta mi phono i capelli. Nel tardo pomeriggio riporto fuori Amaranta, non ha smesso di piovere, ma ora la pioggia è più fine. La gente esce di casa e io la incontro, però non la guardo, non riconosco nessuno, non vedo che i contorni. Riprendo in mano il cellulare a cui avevo tolto il volume della suoneria prima di addormentarmi. Ci sono sei chiamate di Angela e quattro di Ilenia. Marco non ha richiamato. Premo a rilento i tasti del telefono e lo sento suonare, è libero. Squilla due volte, poi Ilenia mi risponde: «Nadia! Volevo precipitarmi lì, ma ho ato il pomeriggio alla scuola di Emma, per i colloqui, una tale rottura. Non ti dico, una fila interminabile, vengo via ora. o da casa e vengo da te, Lorenzo ci raggiunge per cena.» «Inutile che ti spieghi vero?» Silenzio, «Angela mi ha chiamata.» Previsto. Angela è veramente indisponente, da orticaria, ma almeno a volte riesce a chiamare la persona giusta. «Ci vediamo fra poco tesoro, stai tranquilla.» Ilenia arriva da me alle otto, apro la porta e lei mi sta già abbracciando. Lei può farlo, lei mi può abbracciare. Contro il suo corpo mi sento immune dal male,

credo allo stesso modo in cui ci si sente da bambini tra le braccia della propria madre, ma io non ho un raffronto da poter fare, mi fido dell’istinto. D’altronde Ilenia per me è mamma per eccellenza. Dalla porta rimasta aperta scorgo tre testoline che si intrufolano nell’appartamento, sgusciandoci ai lati, una dopo l’altra. Una baraonda di tre piccole donne che ci urtano al loro aggio e si tuffano su Amaranta, che non appena le sente arrivare si sdraia per terra a pancia in su, arresa, le orecchie da pipistrello sul pavimento, le guance ribaltate, penzoloni. Lecca a caso nell’aria, una guancia, un naso. «Perdonami, ma Stefano stasera arriva tardi e non ho potuto lasciarle a casa. Emma me le ha tirate dietro mentre uscivo. Mi ha intimato di non azzardarmi a mollargliele, non ho osato.» «Non importa Ile, Amaranta farà scorta di coccole.» Avere per casa le figlie di Ilenia non mi dà alcun fastidio, sono frizzanti, gioiose, proprio come devono essere i bambini. Spensierati. Non ho mai sostenuto il contrario, mai detto che i bambini siano sgradevoli. È Marco quello che non li sopporta. Lo infastidiscono gli schiamazzi, le grida, i giochi, le corse, se si ritrova nella medesima stanza con i figli di sua sorella cerca di ignorarli il più possibile, e a ogni capriccio corrisponde un cerchio alla testa. Quando andiamo a cena da Ilenia, è talmente frastornato dal trambusto delle bimbe, che si irrigidisce e si tramuta in un fascio di nervi, scatta per un nonnulla. E Giulia e le gemelle se ne avvedono, e lo vanno a pungolare di continuo. Su di me i bambini hanno un effetto differente, li trovo festosi, sono ventate fresche, mi fa piacere averne qualcuno intorno ogni tanto, con il loro marasma. Solo non ne voglio di miei. Quello no, lo affermo e lo ribadisco con convinzione, non voglio essere madre, e come ci riescano le altre donne è un incognita, e pure Ilenia. Ilenia è la cugina grande di Lorenzo, mio compagno di classe e amico inseparabile dai banchi delle medie, il fratello che non ho avuto per nascita. Per noi lei era un mito, quando cinque anni in più facevano la differenza e lei frequentava l’università e noi il liceo. Allora studiava alla facoltà di filosofia, e stava con un ragazzo, buono, divertente, affettuoso, purtroppo mai cresciuto. Ilenia sostiene che lui rappresenta il suo unico figlio maschio. Ha partorito la sua primogenita in corsa, il giorno in cui ha discusso la tesi, poi però si è sposata con Stefano, il mio dentista, e in ordine sono arrivate Giulia, sei anni, e le gemelline di quattro, Maya e Sofia.

«Ho portato la pasta al forno che avevo cucinato per stasera, a Emma ho detto di preparare una pasta al volo per lei e per Stefano. E ho portato il vino, ti va? Lo apro.» Ilenia spalanca il frigo, apre cassetti, inforna la teglia, viene da me e mi dà un bacio sulla fronte, poi torna ad armeggiare con piatti e posate. Non lo so proprio come faccia, dove prenda tutta l’energia che ha, e come riesca a conservarla, tra un marito, un ex compagno con la sindrome di Peter Pan, quattro figlie, e un lavoro part-time allo studio di Stefano. E da donna bionica qual è non rinuncia alla palestra, ci va tutte le mattine dopo aver consegnato le figlie ognuna alla propria scuola e prima di recarsi al lavoro. Non salta un giorno e un minuto in programma sul tapis roulant. Ha trentasei anni, ha partorito tre volte ed è snella, con braccia e gambe muscolose e un sedere così sodo che mi fa vergognare ogni volta delle mie cosce mollicce. Quando la osservo per istinto mi tocco i fianchi e schiaccio la punta delle dita nello strato gelatinoso che li ricopre, e mi dico che devo riscrivermi in palestra. Ma tanto poi non lo faccio. Ilenia ha la pancia piatta, gli addominali tesi e la pelle tonica, e non c’è traccia delle gravidanze. Sono sicura che se io restassi incinta, la pelle attorno all’ombelico si frantumerebbe in miriadi di smagliature. Ne ho già alcune sul seno e sui glutei, rosate, sottili, ma quelle sulla pancia sarebbero enormi, lo so, squarci larghi e profondi, impossibili da ricucire, e dopo il parto si affloscerebbero al loro interno. Della mia gravidanza resterebbe uno scempio, un ventre sfregiato. I miei addominali non sono esercitati, e il mio ventre non reggerebbe a quel dilatarsi, a quell’abbraccio lungo nove mesi, mi stritolerebbe. Io e la mia pancia siamo simili, e non vogliamo nulla, dentro, di troppo pesante. Un feto, con il liquido amniotico, la placenta e il resto, sono almeno nove chilogrammi in aggiunta da sostenere. Angela mi rinfaccia a tutt’oggi i diciassette chili che ha messo su quando aspettava me, i mesi di allenamenti estenuanti per smaltirli e il capitale donato all’estetista, per i massaggi drenanti giornalieri. Le emozioni pesano immensamente oltre, e non so nemmeno cosa sia necessario fare per smaltirle, una volta che ti hanno colmato. Quindi evito direttamente che si depositino in me, anche adesso, che Marco mi ha detto quello che mi ha detto. Perché lieviterebbero e si gonfierebbero fino a saturarmi. Non potrei reggerne il carico, non credo che la mia anima sia sufficientemente elastica, si smaglierebbe fino a lacerarsi. Giulia e le gemelline si sono messe a seguire Amaranta tenendola per la coda, e

fanno il giro del tavolo in fila indiana, con Amaranta in testa. Intanto Ilenia si siede sul divano, mi a un calice di vino bianco e sprofonda vicino a me, posando i riccioli biondi sulla mia spalla, come se la bambina fosse lei. «Ma cosa ti ha detto esattamente?» «Che ha messo incinta una e che adesso sta con lei. Pare che ci andrà a vivere insieme, immagino nel suo appartamento», e la realtà è scontata, è banale. Ad Ilenia non lo dico, ma riascoltando nella mente le parole di Marco, mi rendo conto di quello che mi ha ferito realmente. Ieri sera la parola “incinta” ha sommerso tutto, e davvero non è questa la cosa che mi colpisce di più, che fa più male. Quella parola mi ha tramortita a tal punto che ho tralasciato di ascoltare le altre. Le ascolto adesso. Marco ha detto che non potremo più vederci, che non potremo continuare a frequentarci. Ha usato due verbi precisi, “vederci”, “frequentarci”, e la scelta delle parole ha un proprio peso specifico. Ma allora è questo che abbiamo fatto per sette anni? Credevo qualcosa di meglio, sinceramente lo credevo. Pensavo che tra noi ci fosse rispetto, stima reciproca, affetto profondo. Amore? Qualcosa di duraturo, di persistente. Mi sento derisa, indebitamente espropriata di un’idea, pensavo che avessimo un progetto in comune, che avesse valore per entrambi, un progetto da salvaguardare, che stavamo alimentando. Eravamo impegnati l’uno con l’altra, e l’impegno preso ha un vincolo morale intrinseco. Invece ho preso un abbaglio, e la nostra storia è stata un unico compromesso. Per sette anni ci siamo solamente frequentati, non ci siamo mai uniti, ci siamo visti, ma siamo sempre rimasti divisi. Eppure lo sapevo, sapevo che Marco scivolava via, anche quando eravamo nella stessa stanza. Le sue parole mi feriscono, ma raccontano la verità, che è inequivocabile, la spiegano senza mentire su niente, sono io che me la sono raccontata, perché mi andava bene farlo. «È uno stronzo Nadia. Fine.» Ilenia è la mia migliore amica e senza di lei non ci potrei stare.

Lorenzo è arrivato da dieci minuti, Ilenia l’ha aggiornato sull’accaduto e lui concorda con lei sul fatto che Marco sia, categoricamente, uno stronzo. Il verdetto è perentorio, non c’è possibilità di assoluzione, né condono, la colpa è totale, piena. Io non lo so se Marco sia davvero uno stronzo e mantengo il silenzio, mentre Ilenia e Lorenzo lo infamano anche per me, lascio fare a loro la mia parte. Ho sempre ritenuto che fosse un uomo affidabile, leale, un uomo su cui si potesse contare, corretto, integro. E con me ha sempre avuto il massimo del rispetto e dell’educazione. Neanche adesso penso che abbia voluto farmi del male. Me ne ha fatto, ma non voleva. Non li contraddico, ma non penso che Marco sia uno stronzo e non riesco a dirlo. Ad Angela ho gridato dandogli del bastardo, ma l’ho fatto perché lei mi dà incredibilmente sui nervi. «Mettiamo il caso che si sia trattato di uno sbandamento momentaneo..» «Non t’azzardare sai? Non voglio sentire parole di difesa a questa tavola!» Stiamo mangiando la pasta al forno, noi tre adulti in una metà del tavolo, con Ilenia a capotavola, le bimbe nell’altra metà. Lorenzo ha provato a smorzare i toni, credo per non farmi pesare troppo la situazione, per non dirmi dritto in faccia che ho sperperato sette anni della mia vita con uno che è una canaglia fino al midollo e io non me ne sono accorta. Ma Ilenia non gli permette di difenderlo, non concede a Marco neppure un’attenuante. «Io non lo difendo, certo che no! È solo che, quello che voglio dire..» Lorenzo tentenna, e Ilenia lo fissa, con le dita della mano che tamburellano sulla tovaglia: «Siii?» «Voglio dire, e non difendo nessuno per questo, che lo si può incolpare del tradimento, dargli dell’infame, ma non credo che abbia pianificato di metterla incinta, non ti pare? E forse senza la gravidanza sarebbe finita, non sarebbe mai stata una vera relazione.» «E cosa sarebbe stata se non una relazione, sentiamo.» Ilenia sa incutere timore, quando s’infervora e ti incenerisce con gli occhi, ma Lorenzo s’arrischia a dire quello che pensa.

«Una scivolata, l’ho detto, sarebbe stata una scivolata, se ne fanno tante.» «Una scivolata eh? Il poverino è stato incastrato, non sapeva come si mettono al mondo i figli e va scusato. Ops, è successo, ma sono stato io? È scivolato il povero Marco, è scivolato tra le gambe di un’altra stronza.» «Ile le bimbe!» Lorenzo ci ha provato, a metterci una pezza, ma non c’è verso, Ilenia è inflessibile. È incazzata come lo dovrei essere io, e se non fosse perché sa che io non lo vorrei, andrebbe da lui e gli assesterebbe un pugno centrato sul naso greco, un colpo secco, sferrato con la potenza dei suoi muscoli. «Non voglio ascoltare cazz.., cavolate del genere, belle le mie bimbe, e non parliamo più di lui, fa così schifo che non vale neanche di essere nominato. Piuttosto, cosa farai col lavoro, ci hai già pensato?» Cosa farò col lavoro? Lunedì si torna in ufficio, e io non lo so cosa farò, ma suppongo di doverci andare. D’altronde è il mio lavoro, perché ci dovrei rinunciare, per non vedere Marco tutti i santi giorni? L’ho sempre visto, ci sono abituata, che importa se continuerò a vederlo, è sempre Marco, oppure è un’altra persona dal momento che non stiamo più insieme? E poi io lavoro in quella banca, mi trovo bene coi colleghi, l’ambiente mi piace, perché dovrei cercarmi un altro posto? Angela avrebbe voluto che trovassi un uomo da cui farmi mantenere e che mi dedicassi all’arte dello shopping e della cura di me stessa, abbigliamento firmato, unghie finte e french manicure, acconciature posticce con extension chilometriche. Ma io non ho mai tinto i capelli, che sono comunemente castani, e non ho mai provato la stiratura permanente, anche se sono un tantino crespi. Di prassi li lego in una coda o in una treccia. E non impiego la metà delle mie giornate alla ricerca di scarpe costose. Si possono avere certe ambizioni per i figli? Essere la moglie appariscente di qualcuno. È che Angela ha il pallino della first lady, anzi è invaghita delle mogli dei calciatori, praticamente le venera. Le piacciono i fronzoli, i luccichii, le pose da diva sulle copertine patinate, le luci dei riflettori. È allettata dalle frivolezze. A me il red carpet non impressiona, e lavoro in banca, qui a Monza, vicino a casa, posso tornare a pranzo per far uscire Amaranta, quando c’è il sole vado a lavoro in bici, e il tragitto casa-lavoro, lavoro-casa con la bicicletta è l’unico sport a cui sono dedita. E non voglio un

figlio perché non ho sogni assurdi da fargli realizzare, o nevrosi compulsive da trasmettergli, sto bene come sto, nella vita che ho assemblato con cura e con il lavoro per cui mi sono laureata. Cosa farò col lavoro da lunedì? Ci andrò. «Marco non ha accennato alle sue dimissioni? Dovrebbe farlo, potresti chiederglielo. In fin dei conti il torto è suo, qualcosa deve pagare.» Quindi dovrebbe dimettersi, per una sorta di punizione, è stato scorretto e deve accettare di espiare le sue colpe. Io penso che punito lo sia già a sufficienza. Ha l’esistenza disfatta, si è autoinflitto una pena cronica. Ma non mi esprimo, non mi oppongo, e finisco il vino che ho nel bicchiere. «Me ne versi un altro po’ per favore?» «Riempiglielo Lory.» Lorenzo mi riempie il bicchiere fino all’orlo, lo riempie di vino bianco che è il vino più buono e più dolce, il migliore di tutte le annate. E Ilenia ne ha portato una provvista per depressi prossimi alcolisti. Finisco pure questo bicchiere e poi un altro e un altro ancora, e la mia porzione di pasta al forno rimane nel piatto. Dopo cena mi sento confusa, ho bisogno di prendere aria ed esco a fare due i con Amaranta, che è stata adornata con fiocchi e nastri attorno alle zampe e sulla coda. Le bambine vorrebbero venire, ma Ilenia è risoluta nel vietarlo e se le carica in macchina per portarle a casa. Giulia è stanca e si raggomitola per addormentarsi, invece le gemelline protestano per il giro mancato, instancabili. Con me viene Lorenzo, che mi sostiene per un braccio, perché ho le gambe molli e la testa che gira. E non riesco a camminare diritta. Barcollo e guardo il fiocco azzurro che oscilla di qua e di là, sulla punta bianca della coda di Amaranta, e mi fa venire in mente i fiocchi che si appendono per le nascite. Io seguito a non farci caso, a non saperlo, ma la vita è costellata di segnali rivelatori. Quando torniamo Lorenzo mi si siede vicino sul divano, mi accarezza la fronte lungo l’attaccatura dei capelli, e io affondo la testa nello schienale. Anche Lorenzo può toccarmi, anche a lui lo concedo, le sue mani sono mani leggere, mani che conosco, la pelle levigata, morbida. Se fosse un uomo come tanti potrebbero sembrare carezze lascive, per quanto è calda la dolcezza con cui scorre le dita tra i miei capelli, tanto è fondo lo sguardo che non mi toglie di dosso, ma Lorenzo è un uomo a cui piacciono gli uomini, non si innamora delle donne. E a dire la verità non si innamora nemmeno degli altri uomini, lui ama

Claudio, da sempre, sin da prima di conoscerlo. E non credo che amerà mai qualcun altro, non allo stesso modo, non come riesce ad amare lui. «Non sai quanto mi dispiace Nadia, non volevo che tu provassi un dolore tale, che capitasse a te.» Apro gli occhi a metà e lo sbircio di traverso, gli sorrido. Vedo i suoi occhi verdi, contornati di lentiggini, e i capelli in disordine tinti di rosso . Lorenzo è magrissimo, stretto, con le spalle sporgenti di una gruccia e dita affusolate, indossa jeans stretch aderentissimi e maglie attillate dai colori fluo. È estroso, originale, intessuto di grazia, e racchiude in sé l’anima stratificata dell’artista. La mia insegnante di danza l’avrebbe ripulito da cima a fondo, a partire dai capelli, ma avrebbe approvato con soddisfazione la sua eleganza naturale e la postura perfetta. Lorenzo ha la figura più fragile che abbia mai visto muoversi nel mondo. «Marco mi piaceva, non pensavo che potesse farti una cosa simile. Non lui, non a te. Sembrava uno di cui ci si potesse fidare, uno che non fa cazzate così.» Povero Lorenzo, sta soffrendo per me e per lui, e sono io adesso che gli faccio una carezza. Lui è il solo a cui mi capita di farne, è un segreto che ho con lui. Ilenia non ne ha bisogno, lei è forte per tutti quanti, e a nessun altro riuscirei a dare una carezza, le carezze mi atterriscono. Tutte, tranne quelle che mi scambio con Lorenzo, a volte, quando Claudio lo tradisce e sparisce per l’ennesima evasione, mollandolo solo a casa, quando lo ferisce e poi torna senza chiedergli scusa, e Lorenzo lo perdona e lo riaccoglie. Non so quante volte ormai l’ha già fatto. «Non parlarmi di lui, parlami di te.» I suoi occhi si illuminano, lo sguardo si apre. «Il libro è quasi finito, ma sono fermo sul finale.» Lorenzo è un grafico, ma aspira a fare lo scrittore, e sta lavorando a un romanzo da quasi due anni, l’ha riscritto dall’inizio almeno tre volte. Riesce a scrivere a tratti, quando si sente ispirato, ma in realtà dipende da Claudio, che gli infonde energia inestinguibile, e allora la creatività scorre fluida, oppure la risucchia tutta quanta in un istante, e lascia di Lorenzo il talento incompiuto, un bozzolo accasciato su se stesso. Claudio è un uomo distinto, belloccio, ha festeggiato i

quaranta e lavora nella mia banca. È il mio capo, e io lo detesto. Lo detesto per il male che fa a Lorenzo, per come lo tratta, per come lo considera, meno di lui. E poi come capo è odioso, è un despota, un prevaricatore, arrogante e supponente, ti fa sempre sentire in difetto. È un essere dotato di intemperanza deleteria, però non posso odiarlo fino in fondo, perché è l’unico che sa rendere felice Lorenzo, perché è l’unico uomo che Lorenzo vuole con sé, è l’uomo che Lorenzo ama da qui all’infinito. Ma non so quanto sia un bene che dipenda così totalmente da lui. «Forse ce la farete a trovare il modo di stare insieme, anche se c’è il bambino.. un bambino non è mai una tragedia.» Lorenzo lo dice abbassando lo sguardo, sa che per me lo è, questo bambino è una tragedia, è la mia tragedia, e io mi sento ignobile, perché lo penso, questo bambino non ha diritto a esistere, non sarebbe dovuto arrivare. Ma so perché Lorenzo lo dice, e non me la prendo. Lui sì che lo vorrebbe, un figlio, un figlio suo e di Claudio, che abbia i lineamenti di Claudio e il suo cuore, se provo a immaginarmelo vedo rilucere un bambino stupendo. Lorenzo sarebbe disposto a sacrificare la propria pancia scarna, se la natura glielo permettesse, infoltirebbe di carne tenera quell’incavo di pelle e ossa. Da ragazzi, a casa sua a studiare, si metteva davanti allo specchio con un cuscino sotto la maglietta e inarcava la schiena, protendendo quel ventre fasullo all’infuori. Lo accarezzava e fissava il proprio riflesso irrealizzabile, poi rideva e mi lanciava il cuscino, e veniva ad abbracciarmi. Già allora glielo permettevo, solamente a lui. Lorenzo afferma che non c’è niente di più bello di una donna incinta, secondo lui ogni donna col pancione diventa splendida. Quando ne incontra una per strada la ammira estasiato, mai triste, gioisce per la maternità, anche se è di un’altra, anche se non sarà mai sua. Basta quell’idea, una fantasia feconda che crea per se stesso, a farlo sorridere. A me dispiace per Lorenzo, lui lo sa, se potessi gli donerei il mio utero fertile e inutile, che non servirà né a me né alla specie, in me non esiste continuità. Non ci sarebbe madre migliore di Lorenzo, una madre con le sue mani delicate e il suo cuore generoso e gentile. «Ne vuoi?» Lorenzo ha lasciato cadere il discorso, ma sa che ho sentito, che ho ascoltato. Si è rollato una canna e adesso me la porge. Io la afferro e le do un tiro, aspiro

profondamente, e la mia testa si fa leggera e pesante insieme, scivolo su un fianco, mi sdraio. Se Marco sapesse del fumo, si arrabbierebbe di brutto. Lorenzo riprende la canna dalle mie dita, facendo attenzione a fare piano, io mi inabisso nel sonno e intanto lo sento che sospira: «Saresti una madre meravigliosa.» Ma non gli credo, mentre mi addormento e me ne sto già dimenticando.

Mi sveglio con la testa che pulsa e lo stomaco che brucia, inferocito. Apro gli occhi e mi allungo per orientarmi, girandomi in cerca di indizi che mi indichino dove mi trovo e che giorno è oggi. Scorgo Amaranta, la sua immagine un po’ annebbiata: è sdraiata ma è sveglia, il muso appoggiato sulle zampe anteriori incrociate, sospira, solleva la testa, mi guarda. È già tardi e lei aspetta paziente di uscire, però non fa storie. Solo vorrebbe avere una padrona che si riveli più efficiente, credo. Non sono in camera mia, la tavola è sparecchiata, ma è rimasta la tovaglia schizzata di sugo. Sul tavolino accanto al divano, nel posacenere nero, c’è un mozzicone spento. Lorenzo deve essere andato via mentre dormivo, ha messo i piatti nella lavastoviglie e ha chiuso la porta di casa, sia lui che Ilenia hanno le chiavi, mi fa stare tranquilla, sapere che mi possano soccorrere in qualsiasi momento. Angela no, a lei l’accesso libero in casa mia è precluso, deve are per la selezione all’ingresso, non è sulla lista. Mi tiro su seduta, non sto dritta, pendo alternativamente ai lati. Ho la sensazione pressante di essere sola. Sono sola nella stanza, a parte Amaranta, sfrattata dalla mia vita. A poco a poco torna il ricordo, anche se la mente resta intontita, e non so se dal sonno o dagli avvenimenti. È una lucidità offuscata, imprecisa, quella di cui sono in possesso, conosco i fatti, ma non ne colgo il senso, non capisco cosa debbano significare, per me. Rammento che giorno è oggi, è sabato, è il secondo giorno da quando Marco mi ha lasciata, oggi è il giorno due. Non so fino a quanto dovrò contare per essere salva, quale numero sarà il capolinea del dolore, il numero ultimo della perdita. Oggi mi sembra di percepire maggiormente la tristezza e temo che nell’apatia della mia reazione si stiano levando le prime emozioni, quelle che saranno forti, fervide, turbolenti. Non le voglio provare, devo riuscire a ricacciarle giù, creare uno sbarramento, transennare il cuore. Devo solamente contare un’unità ogni mattina, una pallina blu sull’abaco, e forse quando arriverò a mille sarò salva, e contando fino a mille non devo pensare, devo alzarmi, vestirmi, mangiare e continuare in automatico fino a sera, fino ad addormentarmi con un numero in più sulle spalle. E dentro un vuoto rassicurante, lieve, che non fa male. Però in questo momento il vuoto che ho nella testa, e nel petto, è un vuoto greve, imponente, preme sui confini per scardinarli. Provo ad alzarmi dal divano, ma la testa mi gira tantissimo e mi risiedo

scaraventata dalla stanchezza, non la sostengo, mi atterra feroce. Ieri non ho mangiato niente tutto il giorno, e basta questa piccola sconfitta per crollare, per non mantenere il patto che ho appena fatto con me stessa. Ho retto fino alla mattina del giorno due. Mi deprimo, mi viene da piangere. Piango. Ho sempre pensato che per una rivoluzione radicale, della propria persona e della propria vita, fosse necessario compiere un atto eclatante, memorabile, che so, un ritiro spirituale in India (direi almeno un mese), il trasferimento dall’oggi al domani in un’altra città (preferibilmente all’estero), il cambio di lavoro mandando platealmente a quel paese il proprio capo (e il proprio conto in banca), insomma qualcosa di drastico, la testa rasata a zero (no questo mai), o perlomeno la revisione totale del guardaroba, un nuovo colore di capelli, una partenza repentina. Invece la mia trasformazione non richiede nulla di tutto ciò, parte da qui, da questo divano su cui resto barricata da ieri sera, con lo stomaco vuoto e la nausea, gli occhi gonfi e arrossati, i capelli in condizione mai tanto indecente. Debutto con queste lacrime, acqua salata che sgorga dai miei occhi senza accennare a diminuire. Io non me ne accorgo, ma la mia pelle si sta sfaldando, e da ora in avanti pezzi interi verranno via in successione, finché lo strato di epidermide che mi ricopre non sarà mutato interamente, e io sarò un’altra Nadia all’infuori di me, più robusta, spero, meno sensibile al tatto, resistente alle escoriazioni. Più elastica, per non spaccarmi quando la vita decide di tirarmi alle estremità opposte. Dentro è complesso, ma saprò mutare anche all’interno, rifiorire, espandermi e combaciare coi lembi della mia pelle nuova. O piuttosto non ne sarò capace, e mi sgretolerò fino a essere cenere spenta, da cui non rinascerà alcunché. Nessuna fenice a spalancare le ali, maestosa. È sabato mattina, sono seduta su un divano da cui non mi scollo, e piango. Per fortuna poco dopo arriva Ilenia. Non prova nemmeno a suonare e apre direttamente la porta con le chiavi, e la sua apparizione è la sferzata di vita che mi rianima all’ultimo, quando mi stavo irrimediabilmente abbandonando. Le figlie minori la sorano zampettando, mentre Emma rimane dietro di lei. Poi Ilenia si scosta e l’immagine di Emma si staglia sulla soglia, un’ombra scura. «Come ti senti tesoro?»

«Un po’ stordita.» Ilenia si siede accanto a me e mi asciuga le lacrime con il dorso delle dita. «Adesso ci penso io.» Mi impone di andare a lavarmi, ma non c’è severità, e mi dice che devo mandare giù un boccone, perché è risaputo che non si può stare a soffrire a digiuno. Intanto è già alla cucina, apre il frigo, scova delle uova, e mi comunica che mangerò frittata, con pane e frutta fresca, che ha comprato al mercato venendo qui. Una colazione sana e sostanziosa, per rimettermi in forze. «Devo portare giù Amaranta, stamattina non è ancora uscita.» «Non ti preoccupare, può farlo Emma al posto tuo. Emma vai tu per favore, fai un giro con Amaranta fino ai giardini e torna qui.» Non obietto agli ordini di Ilenia e vado in bagno, mi chiudo dentro mentre le bimbe si lagnano perché Emma porta via Amaranta dalle loro coccole e loro non possono andare con lei. Vogliono fare un sacco di giochi con Amaranta e manifestano in coro la loro delusione. Mi spoglio, entro nella doccia, accosto i vetri e apro il getto dell’acqua calda. Silenzio. La colazione di Ilenia mi rinvigorisce, e la sua presenza mi rinfranca. Ilenia è un portento, è indistruttibile, e io l’ammiro tantissimo. Per me, che figli non ne voglio, lei, madre quattro volte, non può che essere degna di stima, anche se in certi momenti l’ho definita una pazza. Ma non lo è. Come madre è formidabile, una super mamma che affronta gli innumerevoli impegni della giornata con agilità, aderendo alla routine con entusiasmo, riuscendo nell’impresa di non farla risultare noiosa, e nelle corse senza tregua non si dimentica della donna, non smarrisce la voglia di essere sensuale e femminile. Ilenia conserva in sé una parte che non è mamma, ed è coinvolgente, energica, apionata. Io non potrei allevare un solo figlio, figuriamoci più di uno, figuriamoci quattro. Mi perderei. Per me Ilenia è sopra un piedistallo, inarrivabile, inimitabile, però trova sempre il tempo di scendere a terra e dedicarmi la sua attenzione, e in quel momento è pronta a darsi tutta solo a me, annullando il resto. Ilenia non mi dirà mai di non avere tempo, Ilenia è l’amica migliore che potessi avere. Rifocillata e sostenuta da Ilenia mi sento meglio, mi ristendo sul divano e chiudo gli occhi. Il pensiero rotola a Marco, e io cerco di impedirlo, devo riuscire a non

pensare a lui, devo abituarmi a non farlo. Meglio cominciare da ora. Ma non ci riesco. Marco è il mio fidanzato da sette anni, da sette anni c’è sempre stato, anche se un giorno non ci vedevamo, lui comunque c’era. Non so come realizzare che adesso invece non c’è, per lo meno non per me. Secondo Ilenia dovrei iniziare a odiarlo, come se i sentimenti fossero intercambiabili. Ci provo. Lo odio, lo odio perché mi ha tradita, ha tradito e calpestato la mia fiducia, ha infranto le regole, le promesse, ha infranto il nostro futuro, il mio futuro, mi ha ferita nel modo peggiore, screditando la storia che abbiamo vissuto. Però poteva tenermi all’oscuro, mentirmi, nascondere il tradimento. Poteva restare con me fingendo e abbandonare l’altra donna e il suo bambino. Invece lui ha confessato guardandomi negli occhi, si è preso l’onere di fare il padre, è un gesto ammirevole. Anche se lui non lo vuole. Allora è un vigliacco, perché non ha il coraggio di dire a quell’intrusa che non la ama, che non la ama perché non sono io, che non la ama perché lui ha bisogno dei suoi spazi, e lei lo obbliga a divederli in due. È un codardo, perché non ha il coraggio di dire a quel bambino “sono tuo padre ma non voglio crescerti, perché io figli non ne voglio e tu sei arrivato per sbaglio. Io devo vivere con Nadia, senza una casa in comune, e senza un figlio nostro”. È un vigliacco, un codardo, un codardo, un vigliacco, ma non ci credo e penso che il suo sacrificio, in qualche modo, sia pieno d’amore. E di coraggio. «Perché il tuo fidanzato ti ha lasciata?» Mi scuoto e apro gli occhi, Emma è in piedi affiancata al divano, e mi sovrasta con la postura eretta e l’espressione imperiosa. È sua la voce falsata che ha sfondato le mie riflessioni. Giulia e le gemelle si sono rimesse a giocare con Amaranta, che da loro si lascia fare qualunque cosa, Ilenia si è insediata ai fornelli e ha deciso di cucinarmi scorte di cibo, porzioni da congelare in freezer nelle vaschette per non saltare i pasti, e io sono rimasta da sola sul divano, che si è fatto ruvido, a disposizione delle fauci di Emma, e lei è pronta a divorarmi intera, e a digerirmi lentamente. Emma è un’adulta di undici anni, è un’adulta fatta e finita che frequenta la prima media. Io non amo restare sola con lei, questa adulta bambina mi inquieta. È matura, responsabile, spesso si occupa delle sue sorelline e dei bisogni di Stefano, Ilenia fa molto affidamento su di lei. Le ha chiesto fin da piccola di essere grande, e ha creato un mostro. Emma ha assimilato la maturità di una

persona adulta, tuttavia è ancora bambina, e conserva un’innocenza intatta, così candida da divenire aspra, cruda, ogni volta che ti ci confronti ti trivella lo stomaco. È ponderata nei modi, ma non con le parole, è un’osservatrice acuta, perspicace, e non si preoccupa di quello che non si deve dire, perché dice la verità. Con trent’anni in più sarebbe una donna consunta e ormai cinica, ma lei è pura, di una purezza al confine con la crudeltà. Non sorride quasi mai e le sue parole ledono l’orgoglio, perché non mentono. «Perché il tuo fidanzato ti ha lasciata?» E non si scoraggia con facilità, pretende la risposta, non una qualsiasi, lei ti estorce quella veritiera. Il caschetto liscio le adombra il volto, non molla la presa dello sguardo, mi tiene in pugno. Però io non lo so perché il mio fidanzato mi ha lasciata. Pensavo che mi amasse, pensavo che con me fosse felice. Evidentemente no, non mi amava e non era felice. Ogni aspettativa è resa inappagata. «A volte le storie finiscono, si fanno nuove esperienze, nuovi incontri.. capita.. succede..» La vita reale non è quella delle favole. Vorrei esporre una teoria che camuffi la realtà, che giri intorno alle cose del mondo sfiorandole soltanto di striscio, ma la mia risposta è un rattoppo della verità ed Emma non me la fa are. Peggio per me, me la sono cercata. L’ho trattata da bambina, l’ho sfidata a reputarla infantile, e adesso ne subirò le conseguenze. «La mamma ha detto a Stefano che il tuo fidanzato ti ha lasciata perché avrà un figlio con un’altra donna.» «Sì.. è vero.. però vedi.. è complicato.. le cose non sono così semplici..» Voglio spiegare a una adulta bambina che certe cose non può ancora comprenderle, che le relazioni sono intricate, tracciati pericolanti, con turpi meandri a ogni angolo. Ma voglio solo abbindolare me stessa. Emma sa che tolti gli strati in superficie non resta granché per raccontarsi frottole, sa che la verità è quella che è. È il nocciolo delle favole, immutabile, prezioso. «Perché non l’hai fatto tu un figlio con lui? Così non ti lasciava.»

Ora è troppo, mi sembra di sentire Angela, e una adulta bambina che parla come Angela non sono in condizioni di reggerla. Sento che sto per rimettermi a piangere. «Non era in programma.. il lavoro, tante cose, non è semplice Emma, te l’ho detto.» Insisto, dico che non è semplice, glielo voglio far credere, devo inculcare nella sua testolina questo concetto, che non è semplice, punto, niente è semplice e tutto è maledettamente contorto. Sto cercando di dirle che una spiegazione univoca non c’è, che sovente non ci sono motivi assoluti, per le nostre azioni, e a sottenderle si celano remore ingarbugliate a tentazioni. Vorrei parlarle di quel sostrato irrisolto, poroso, di quella poltiglia sotterranea di emozioni, una palta in cui abbiamo i piedi invischiati, vorrei farla stare zitta. Vorrei che te, che non mi guardasse in quel modo, con quello sguardo indicibile di pena per me. Ma Emma dice di no, lei mi garantisce che la risposta c’è, una e una sola, chiara, limpida, perfettamente visibile a una bambina di undici anni che ancora non ha imparato a mentire, a fingere di crederci. «Perché non lo vuoi un figlio?» «Emma! Piantala di tormentare Nadia, non vedi che è stanca? Falla stare tranquilla e vai a giocare con le tue sorelle!» Ilenia si è resa conto che mi trovo in difficoltà e interviene per salvarmi. Emma le ubbidisce e va dalle sorelle, lasciandomi a crogiolare sul divano con la verità spiattellata, gettatami addosso. Io un figlio non lo voglio, perché so di non saper fare la madre, non sarei in grado di crescerlo, ho troppa paura. Di sbagliare, di non fare bene, di rendere infelice una creatura innocente, senza colpe. Non voglio proiettare su un figlio le mie attese e le mie frustrazioni, non voglio che paghi per me, per i miei errori, le mie mancanze, troppe lacune da colmare. No, io un figlio non lo voglio. Perché non sono predestinata a essere madre, perché non si può essere madre con la paura. E il dubbio lancinante che Emma abbia ragione mi assale. Forse Marco un figlio lo voleva, ma non me l’ha detto per rispettare la mia volontà. Forse sarebbe stato disposto a sacrificare i suoi spazi e la sua privacy, se in me fosse nata la smania di maternità. Forse se io avessi desiderato diventare madre, lui si sarebbe lasciato trascinare, coinvolgere, mi avrebbe seguita. Forse

Marco, nel profondo, un figlio lo voleva, e io non me ne sono accorta.

Ilenia e le bambine rimangono con me a pranzo, poi nel pomeriggio mi lasciano sola. Ho voglia di starmene per conto mio, metto il guinzaglio ad Amaranta ed esco a fare una eggiata. Non sta piovendo, ma l’aria è ancora pregna di umidità. Vorrei che fosse estate, che ci fosse il sole, o forse questo è il tempo opportuno per metabolizzare la tragedia, il sole arriverà. Allora voglio la grandine, ma poi spero che presto nevichi, che tutto diventi bianco, che il mondo appaia candido e inoffensivo. Soffice, innocuo. A fine eggiata scorgo una figura a lato del portone di casa mia che si muove ritmicamente per scaldarsi, si difende saltellando dal freddo che penetra nelle ossa. Indossa un piumino verde e stivali di vernice, ed è Angela che mi attende al varco. Se mi avesse trovata in casa non le avrei aperto, purtroppo ahimè sono uscita e se voglio rientrare nel mio appartamento la devo per forza incontrare. Non posso fingere di non esserci, perché non ci sono davvero, e per fare finta di non essere in casa, restando imibile ai suoi assalti al citofono, devo prima tornarci. Arrivo anch’io al portone, tiro fuori le chiavi dalla tasca e le faccio girare nella serratura. «Ciao Angela, arrivederci Angela.» Faccio per accostare il portone con Angela all’esterno, ma non sortisco l’effetto voluto. «Ma che modi, salgo con te.» «Oggi mi sono lavata e ho mangiato, due volte, quindi non ho bisogno di niente, grazie dell’interessamento, addio.» Di nuovo cerco di chiudere il portone in faccia ad Angela, ma lei spinge con più forza di me e riesce a entrare, mi insegue al secondo piano, e con la punta dello stivale conquista il suolo dell’appartamento. «Ti ho chiamata non so quante volte, avresti potuto rispondere.» «Lo so Angela, scusa, ma almeno per questo primo lunghissimo weekend, posso avere la concessione di essere lasciata in pace?»

Ma Angela non mi ha nemmeno ascoltata, non ha fatto neanche finta, non è da lei. «Ho risentito Luisa, povera, è così addolorata, ho paura che cada in depressione. Mi avrà ripetuto cento volte quanto Marco sia angosciato, che è sicura che lui non vuole lasciarti, lui vuole stare con te, solo che c’è la storia del bambino da sistemare.» «Già, un particolare irrisorio direi.» Ho rinunciato a far desistere Angela e gironzolo per casa riordinando qua e là. «Ma io le ho detto che la cosa è risolvibilissima, non è certo il finimondo, è solamente un bambino, di grazia, e oggigiorno non ci si formalizza più. Ci sono più madri single e genitori divisi che coppie tradizionali, e le famiglie allargate sono di moda. Si può dire che Marco si sia adeguato ai tempi, tu non volevi dargli un figlio e lui se l’è preso da un’altra, ma ciò non significa che debba vivere con lei e non possa sposare te. E sottolineo sposare, intendiamoci, perché con un figlio di mezzo è meglio tutelarsi. Quella là avrà da rinfacciargli i doveri della paternità, ma tu avrai un bell’anello al dito e la condivisione dei beni. In definitiva chi partorisce è irrilevante, qui conta chi lui decide di sposare.» Ho smesso di ascoltare il suo sproloquio, mi sono fermata a io che non volevo dargli un figlio. Ma lui me l’ha mai chiesto? Non mi pare. E se lo voleva così tanto, un figlio, se veramente era quello che desiderava, avrebbe potuto chiedermelo. E non fingere che fosse d’accordo con me. E poi è stato lui il primo a dirmi di non volere figli, ha messo subito le mani avanti, si è cautelato dal principio. E adesso salta fuori che un figlio lo voleva? Ma lo sapeva almeno? O avrei dovuto intuirlo, sospettarlo, senza che ci fosse alcuna evidenza, nessuna avvisaglia, niente di niente, io avrei dovuto supporre il contrario delle sue affermazioni, avrei dovuto non credergli, quando mi diceva che non voleva diventare padre, prendersi quella responsabilità. Avrei dovuto dubitare delle sue dichiarazioni e anzi insinuargli il sospetto che si sbagliava, che non era sincero con se stesso, dirgli che lui non lo sapeva, ma un figlio lo voleva eccome! Così sarebbe scappato a gambe levate e io sarei stata lasciata comunque. Mi scoppia la testa, non riesco più a essere ragionevole, voglio starmene da sola a casa mia, voglio che Angela se ne vada, che scompaia per sempre, che rimanga per sempre lontana. «Ho detto a Luisa che è inutile piangerci su, deve solo pensare a stare vicino a

Marco, aiutarlo a riflettere, impedirgli di fare altre sciocchezze, e..» Ma sta ancora parlando? Dio, non ne posso più! «Basta! Adesso basta! Fuori! Fuori di qui! Non ci voglio parlare con te, non ti voglio vedere, vattene, vattene, vattene!» Spingo Angela verso la porta mentre le urlo contro, esasperata all’inverosimile, e avanzo con tanta veemenza che lei, a camminare all’indietro, quasi inciampa e cade a terra distesa. Però resta in piedi, in equilibrio sui tacchi, e io la spingo fino all’ingresso, la intrappolo, apro la porta dietro di lei e la slancio nel pianerottolo, al di là, e richiudo la porta senza più Angela dentro. Dal pianerottolo Angela continua a parlarmi, alza la voce fregandosene della brutta figura che mi fa fare coi vicini, tutte persone ammodo, riservate, di una certa età. Allora io accendo lo stereo ad alto volume, così aggiungo disturbo al disturbo delle sue grida, ma quantomeno non la sento più. Aspetto, immagino che si arrenda e se ne vada, e i miei nervi si distendono. Scrivo a Ilenia e Lorenzo che sto bene, non sono in preda a manie suicide, né in balìa di pericolose autocommiserazioni. Ma sono stanca e voglio dormire, stasera preferisco stare da sola. Ci sentiremo domani. Li ringrazio e mi scuso se declino la loro presenza, ma hanno già fatto tanto e in questo momento ho bisogno di silenzio. E di vuoto. Vuoto intorno per farlo entrare dentro, per sopire la rabbia contro Marco che Angela è riuscita ad aizzarmi all’interno, non la sopporto, io proprio non la sopporto. è da orticaria a livelli stratosferici. Mi corico sul divano e chiudo gli occhi, faccio il vuoto e mi addormento. Il resto del sabato a così, mi sorvola senza infierire, senza scontrarsi con me. Mi abbandono al sonno con un’insperata capacità di addormentarmi, per cui vado fiera di me. Dormo e mi sveglio per portare giù Amaranta. Pilucco una porzione di cibo cucinata da Ilenia senza assaporarne il gusto e mi riaddormento. E dormo fino a domenica mattina. Quando riapro gli occhi sono solo le sei, ma ormai ho esaurito il sonno, ne ho abusato e ora sono sveglia. Così alla fine mi alzo, con tutta calma faccio colazione, preparo il tè e mangio qualche fetta biscottata, mi vesto al rallentatore con quello che trovo fuori dall’armadio, e porto Amaranta al parco. Stamattina c’è nebbia e fa freddissimo. Al parco incontro solamente gli irriducibili in tenuta da jogging, pazzi scatenati. Di solito la domenica ci vengo

più tardi, e ci vengo con Marco. Sto eggiando lungo il percorso esterno, taglio per una stradina, la Villa Reale in lontananza. Cammino a testa alta, ma il mio sguardo è scollegato dalla realtà. A una curva Amaranta si blocca, si siede in mezzo al viale puntando una sagoma che si avvicina, la coda che scodinzola rasoterra. Cerco di recuperare una facoltà visiva nitida e metto a fuoco il ragazzo che cammina approssimandosi a noi. Riconosco il k-way blu elettrico, è il tizio che fa jogging dalle mie parti, che incontro prima di recarmi al lavoro. È il ragazzo che l’altra mattina si è accorto di me e mi ha sorriso, forse perché gli piacciono i cani e ha notato Amaranta. Al parco non mi è mai capitato di vederlo, d’altronde io e Marco non ci saremmo sognati, la domenica, di uscire di casa all’alba, ossia prima delle undici. Oggi lo incontro qui. È affannato, aspira grosse boccate d’aria ed emette versi rauchi, simili a colpetti di tosse. Deve aver concluso l’allenamento e sta recuperando il fiato. Ma a che ora esce per andare a correre? Di domenica?! Affermativo, è uno dei pazzi furiosi di cui sopra. Il tizio non si arresta, seguita a camminare e colgo una virata impercettibile (allarme!), viene da noi. Raggiunge Amaranta, che si alza energica sulle quattro zampe, sventolando la coda. Lui sta ancora ansimando, si accascia sulle ginocchia, posa una mano sulla coscia e con l’altra le accarezza il muso tra le orecchie, sfregando vivacemente il pelo. Alza la testa, i capelli lunghi tenuti indietro dalla fascia che gli cadono ai lati sul viso, mi imbatto in lui. «Ciao! Il tuo cane è davvero splendido. Ha un muso dolcissimo. Come si chiama?» Il ragazzo mi parla e la sua voce è radiosa, nel tetro di questa giornata nebbiosa arriva diretta, piena. È il raggio di sole che mi mancava. «Amaranta.» Non mi escono altre parole, ma accenno quel poco di sorriso di circostanza che mi riesce, faccio del mio meglio. Lui si rialza, si porta le mani ai fianchi e inarca la schiena per sgranchirsi, mentre Amaranta ritorna da me, si assetta ai miei piedi e io le poggio istintivamente una mano sulla testa. «E tu?» Stavo per girarmi e tornare indietro. Mi inceppo.

«Io?» Con una mano si toglie l’auricolare dall’orecchio. «Sì, come ti chiami?» Mi intimidisco, perché? «Nadia.» «E tu niente corsa Nadia?» Mi assale lo sconcerto, perché sta parlando con me, cosa vuole? Sto zitta. «Non corri mai?» Fatico a parlare, ma poi rispondo, per educazione, sperando che questo tizio dal volto raggiante si dilegui tra un secondo. Non ho voglia di parlare con nessuno, tanto meno del nulla, con uno sconosciuto. «No, io no.» Mi si secca la gola, e mi esce una voce fioca, incrinata. Faccio per andarmene. «E perché no? Non ti piace?» Cos’è, uno scherzo? Non è che uno può andare in giro la domenica a quest’ora e mettersi a chiacchierare con la prima che incontra, facendole domande su domande e obbligandola a rispondere. Che ne sai se lei ha voglia? Te lo sei chiesto? Magari ha ancora sonno, e le ci vuole mezza giornata per carburare, e magari è una di quelle persone che la domenica mattina necessitano di globale silenzio, e lo vengono a ricercare al parco. Oppure è una che non dà confidenza, che con gli estranei non ci vuole parlare, magari è una che è stata mollata in tronco dal fidanzato, perché lui ha messo incinta un’altra, una sconosciuta incontrata chissà dove. Magari se ti metti a parlare con la prima persona che incontri per caso al parco non puoi sapere che è triste, e non sai di poterla ferire anche tu, senza volerlo, disquisendo sulla corsa. Eppure questo tizio madido di sudore mi sta di fronte e mi parla, e lo fa sembrare naturale, non avverte il disagio, non c’è sconvenienza. Invece la gente normalmente si ignora, si evita di continuo, perché non mi ignora anche lui, come fanno gli altri, come faccio io con tutti? Ma so chi è l’artefice di tutto ciò, è Amaranta, cane ingrato e infedele,

traditrice! «No, direi proprio di no.» E ho chiuso il discorso, mi sono sprecata più del dovuto. Basta, ora devo andare. Ora vado. «Troppa fatica?» Che fa, insiste? Ma chi è, che si crede? Sarà anche carino, ma non è molto sveglio, visto che non coglie il tono distaccato delle mie risposte striminzite, per stroncare la conversazione. La metà delle parole che ho pronunciato erano “no”! In effetti carino lo è parecchio, ma non voglio conversare. No, no, e no. “Troppa fatica?”, e mi strizza l’occhio. «Credo, non so, non ci ho mai provato.» Biascico la frase, cercando il fiato per rispondere con piglio, dignitosa, ma interiormente ho fatto il vuoto assoluto da due giorni, e aria per risultare credibile non ce n’è. Poi d’istinto mi irrigidisco. Il tizio fa qualche o e mi viene vicino, mi si ferma davanti, allunga un braccio, punta il dito indice, lo preme sulla mia pancia, sulla stoffa spessa del cappotto, mi guarda negli occhi. «Dovresti.» Mi sorride. Spinge il dito. Lo sento. Sistematicamente la mia pelle ribolle, sotto il cappotto, sotto il maglione, in quel punto. “Signorina Nadia, in dentro la pancia, dritte le spalle, su il mento, e di nuovo, plié!” La voce della mia insegnante di danza mi turbina nella testa, la sua immagine ce l’ho impressa indissolubile, mi guarda indignata, ho la pancia molle, le spalle ricurve, il capo chino, sono un disastro, un totale insuccesso. Sì madame, ora ci provo, ora divento perfetta, come vuole lei, ed eccomi a dieci anni, impacciata e rotondetta, colpevole, totalmente rigida, pietrificata dalla testa ai piedi, e la mia faccia è in preda a una paresi. Ma il tizio se ne va, dà un’altra carezza ad Amaranta, che ha alzato il muso verso di lui (doppiogiochista!), e mi saluta con la mano, avanzando oltre me. Io rimango impiantata sul posto, pensando alla figuraccia che ho appena fatto, a

causa del mio imbarazzo, del mio essere inadeguata. Non riesco a muovermi, tiranneggiata dal panico di non poter più tornare a casa, la paura indomabile che dovrò stare al parco per la rimanenza del tempo, una nullità esposta al pubblico, con tutte le mie parti molli. Sto piangendo, non sento il pianto insorgere da dentro, non l’ho avvertito nascere, arrivare, ma mi accorgo delle lacrime che scavalcano gli occhi, percepisco la loro corsa sulle mie guance, e non so smettere, non posso arrestarle, giungono da un fondo che non so dov’è, ignoravo persino che esistesse. Di nascosto prego che ricominci a piovere, perché le lacrime si confondano con le altre gocce, e nessuno se ne accorga.

Entro in casa furiosa, sbatto le chiavi sul mobile all’ingresso e chiudo con impeto la porta. Togliendo il guinzaglio ad Amaranta le do un brusco strattone e lei si rintana appiattita nel suo angolo, intimorita dalla mia collera, le orecchie tirate all’indietro. Mi sento irritata, anzi sono furibonda, e mi muovo per la stanza cercando di fare qualcosa e non so decidere cosa. Fumo rabbia da ogni singolo poro. Ma come si è permesso? Chi gli dà il diritto di avvicinarsi e parlarmi, sputare sentenze, osare toccarmi! Ha allungato quel suo braccio, che si protende fino a coprire lo spazio che separa, quel braccio che annulla la distanza, quel dito teso che non rispetta, l’ha posato su di me, sulla mia pancia, sul mio ventre cedevole. Ha traato lo spessore invernale dei miei abiti, che in quel momento non c’erano, perché lui non ha toccato la lana del tessuto, ha toccato la mia pelle. E io detesto che gli altri mi tocchino, figuriamoci uno sconosciuto, pure insolente e villano. E poi a cosa alludeva dicendo che dovrei correre? Si riferiva al comprovato influsso positivo dell’attività fisica sull’umore e si proponeva di stimolarmi in tal senso? Voleva dire che il mio ottimismo ne trarrebbe beneficio? Certo, come no, mi faccio una corsetta e Marco e il bambino spariscono dai miei pensieri, li debello dalla mente sudando dalla fronte. Oppure avrà voluto intendere che dovrei mettermi a correre perché sono grassa. Ma io non sono grassa, sono un pizzico appesantita, appena un poco rotonda sui glutei e sui fianchi, e sulle cosce, e sulla pancia. E va bene ho un bel po’ di ciccia che dovrei smaltire, ma lui chi cavolo è per dirmelo, per asserirlo con tanta spavalderia? Screanzato! Nel frattempo ho continuato a piangere, e adesso mi scendono lacrime di rabbia. I miei occhi sono il varco per quest’acqua salata, lacrime che non sono io a piangere, escono da sole, senza permesso. Sono fredde, le sento gelide sulla pelle, e la pelle del mio viso è fradicia di pianto. Vorrei tornare a dormire, e restare addormentata tutto il pomeriggio, abolire la distinzione tra giorno e notte, non svegliarmi neppure per la fame, dormire fino a lunedì mattina. Mi sento sospesa, immersa nell’incertezza dell’attesa, e voglio che sia già l’inizio della settimana, voglio andare in ufficio e scontrarmi contro qualunque cosa mi stia aspettando, purché mi colpisca in piena faccia, voglio farmi tanto male da non pensarci più. Invece non è nemmeno ora di pranzo, e ho consumato il sonno a mia

disposizione. Vorrei averne dell’altro, vorrei che mi tornasse, abolisco caffè e tè, e mi preparo una camomilla. Bramo il letargo, ma il sonno non torna, è sparito irrevocabilmente, e la sua assenza mi condanna a rimanere sveglia, mi induce a pensare. E io non voglio pensare. Non voglio fino a domani. Fino a sfracellarmi, fino a che l’impatto distrugga le connessioni ingannevoli, fino a che lo schianto di domani tolga ogni possibilità di generare immagini incongrue alla mia mente sciocca. Perché se penso comincio a sperare, e a sperare mi illudo, mi massacro coi pensieri. Accidenti ad Angela, dice tante cavolate (non consultata), ma ha la capacità di influenzarmi, mi entra nella testa e comincio a dubitare, penso che magari, forse in fondo, può darsi che abbia ragione lei, tentenno e quasi mi convinco, immagino che Marco stia soffrendo, che non mi voglia lasciare, e la verità è che lui malgrado la situazione vuole stare con me. Solo che adesso non riesce a capire come, non vede il modo per proseguire insieme, è sconvolto quanto me. Penso a Marco, a noi, alla nostra storia, e se ci penso ci credo, so che insieme siamo felici, stiamo bene insieme, lui non può che desiderare quello che già ci appartiene, e la verità è che tornerà da me. Domani potrei parlargli, dovrei dirgli che se vuole io ci sono, che non lo odio, che sono pronta ad aiutarlo, a sostenerlo. A riaccoglierlo, non me ne sono mai andata. Sonno, sonno, sonno, lo invoco e trangugio camomilla, ma niente. Sono elettrica, animata da un’inquietudine che mi fa scattare in piedi, stare sull’attenti, e vagare sconclusionata per la casa. È colpa di quel dito indice, che ha invaso la mia sfera intima, è colpa di quel braccio scostumato, che ha oltreato il confine che mi circonda, che mi racchiude, se ne è fregato del divieto di accesso, inciso sulla mia persona a lettere cubitali. Via, lontano da me, vade retro! O forse sono io che ho ceduto, ho abbassato le difese, e quel tale avrà pensato che cercassi comprensione, si sarà impietosito al mio aspetto da cane bastonato. Decido che di domenica non tornerò al parco, cambierò percorso con Amaranta la mattina in settimana, scorgerò l’apice della sua ombra, e imboccherò l’altra direzione. Non ambisco a un incontro successivo, d’ora in avanti eludo ogni possibilità. Il sonno non viene, e in me dilaga la desolazione. Stavolta sento l’affanno arrivare, si solleva dalla base dello stomaco, percorre l’esofago e sfocia nella gola, soffoco. Mi accascio sul divano e prorompo in uno sfogo sconsolato, coi singulti che mi lasciano boccheggiante, cerco aria, mi lascio trasportare da un pianto plateale a cui Amaranta assiste perplessa. Allo sconforto si mescola il

furore e scaglio un cuscino del divano dopo l’altro, mi tiro il maglione, mi strappo i capelli, sono in preda a una crisi isterica in piena regola. La attraverso, e mi calmo. Mi siedo accovacciandomi sul divano senza cuscini, e resto così, le braccia attorno alle ginocchia. Mi alzo solamente per portare giù Amaranta nel pomeriggio, ma non vado a eggiare, scendo sotto casa e la faccio sporcare sul marciapiede. Lei non vorrebbe, è un cane educato, perbene, mi guarda con occhi che attendono che raccolga i suoi escrementi da terra. Ma io non mi faccio commuovere, stamattina mi hai tradita, mi hai gettata in pasto a quell’impertinente, lui e la sua corsa, lui e il suo “dovresti”, lui e il suo malefico dito indice, che mi ha messo dentro una scossa che adesso si agita su e giù, e non vuole scaricarsi al suolo, né liberarsi con la rabbia e le lacrime. Non a. E non ho con me sacchetti per raccogliere la cacca di Amaranta. La lascio lì. Torno in casa dopo cinque minuti e mi ristendo sul divano. Ci rimango sdraiata fino a sera, vegeto e non dormo. Il sonno non torna, e ho paura che erò la notte in bianco, che dovrò stare sveglia per tutte le ore che mi separano da domani. La paura si radica in me, ingigantendo il vuoto, mi invade e compie scorrerie, e mi rende ancora più svuotata. La paura è l’unico sentimento che mi colma, ho paura e basta, e la paura è vuota. Voglio dormire, perché se dormo non sento dolore, e non sento paura. Voglio un piccolo oblio, una pillola di oblio da ingoiare con un sorso d’acqua. Mi alzo nel tardo pomeriggio, per rispondere al telefono che suona. È quello di casa, ha squillato tre volte e poi ha suonato di nuovo, è il segnale di Ilenia che mi dice che è lei, sa che non risponderei altrimenti. Il cellulare credo di averlo dimenticato da qualche parte. Non l’ho più guardato. «Vuoi proprio farmi preoccupare? Perché non rispondi al cellulare? Hai mangiato?» Quando Ilenia fa la mammina apprensiva non reggo neanche lei, ho l’istinto di mettere giù, ma mi occorre una voce amica, la sua voce, ho bisogno che lei mi rimproveri per farmi riprendere, che poi mi coccoli e mi consoli. Non ho ancora finito di piangere. I miei occhi grondano lacrime fredde che mi ghiacciano la faccia e non smettono. Sto al telefono con Ilenia per un’ora, ascolto, è lei che parla per entrambe. Io

sono talmente debilitata, sfiancata dal pianto, che non ho parole da pronunciare. Sembra che all’interno di me ci sia soltanto acqua fredda e salata, sono una fonte inesauribile. Intanto mi sono rimessa sul divano, stesa, il cordless attaccato all’orecchio, sorretto dalla spalla. Ilenia inizialmente si arrabbia perché non ho risposto alle sue chiamate e non mi sono fatta sentire, poi se la prende con Marco e con gli uomini in generale, quindi si collega a lamentarsi del marito, per quanto sia io che lei lo sappiamo, che lo ama moltissimo. Mi racconta del pranzo dalla suocera, facendone l’imitazione perfetta, Ilenia è sosa e mi fa ridere, anche quando sono stata lasciata e piango raggomitolata sul divano senza mangiare niente. Rido e piango insieme. A un certo punto cambia tono, e mi dice che la vita toglie molto, ma allo stesso modo offre dell’altro, in cambio. A lei per esempio la vita ha tolto un padre quando era bambina, l’ha fatto scappare di casa quando aveva otto anni e non l’ha mai fatto tornare, e le ha tolto un po’ anche sua madre, che da quel giorno non è stata più la stessa. Ma in seguito le ha fatto dono di Emma, e con lei l’ha ripagata per sempre. Ilenia sa di essere fortunata, lo ammette, ha Stefano, Emma, Giulia, le gemelle, ha me. La vita le ha dato doni in abbondanza, ma lei ha saputo coglierli, ha saputo allargare le braccia, e non lo puoi sapere cosa ti verrà offerto, bisogna correre il rischio. Mi dice che la vita dà, che devo avere fiducia, che farà un dono anche a me. Un giorno la vita mi farà un dono bellissimo. Lo so che il suo intento è gentile, so che è vero, so che non è una banalità scaturita dalla circostanza, Ilenia lo pensa sul serio, ci crede. Però io riesco solamente a formulare un pensiero orribile, penso che la vita mi ha tolto il fidanzato con cui, credevo, avrei condiviso la somma dei miei giorni, invece Angela me l’ha lasciata, lei non me la porta via. Al termine della telefonata Ilenia si raccomanda che mi alzi dal divano e vada a mangiare qualcosa, e come fa a sapere che ho messo radici qui da ore e che non ho mangiato non me lo spiego, però lei lo sa. Chiudo la conversazione e mi attengo ai suoi comandi, mi reco al frigo, lo apro ed estraggo una vaschetta di alluminio, le tolgo la pellicola protettiva, mi siedo al bancone e comincio a mangiare a forchettate, non mi domando cosa sto ingerendo, non sento alcun sapore, mastico e ingoio. E piango sopra la vaschetta, senza smettere di masticare. Prima di tornare sul divano recupero il cellulare, ma non guardo chi mi ha chiamato oltre a Ilenia e ignoro di scorrere l’elenco delle chiamate senza risposta. Ho ancora un vecchio cellulare, nessuno Smartphone, l’unico optional

che ho sul telefono è una fotocamera con cui posso scattare fotografie. Che tanto vengono sfocate. Lo Smartphone ce l’ha Marco, è lui quello tecnologico, è lui che fa le foto e le conserva catalogate sul PC, dopo averle pubblicate sul suo profilo di Facebook. Io e Marco non abbiamo fotografie personali, tenute protette, solo per noi. Un flash, accendo il computer e mi collego a Facebook, clicco sulla lista degli amici, lo cerco. Non mi ha bloccato l’accesso. Entro nella sua bacheca, leggo le informazioni del profilo, “fidanzato con Nadia”. Non ha aggiornato la sua pagina, e questa pagina è un’illusione, stupida finzione, cerco l’opzione e mi cancello dalla piattaforma. Il cellulare emette un doppio bip, ed è un messaggio di Lorenzo, mi informa che dopo cena a da me. Lo aspetto accoccolata sul divano, mentre lascio i cuscini sparpagliati sul pavimento. Quando suona il citofono mi trascino ad aprire, e lo vedo comparire col viso abbacchiato, stasera Lorenzo è triste, e mi sa che è triste per me. Gli chiedo il favore di portare giù Amaranta, solo qui sotto, a farle fare la pipì. E cerco di asciugare in tempo le guance bagnate dalle lacrime, raccolgo i cuscini e li rimetto al loro posto, non voglio che Lorenzo sia triste a causa mia. Ma quant’acqua posso avere dentro di me? E dov’è contenuta? Mi immagino che sia tutta nella pancia, la mia pancia è una conca d’acqua gelida, un buco nero traboccante di pianto. Forse è lì che giacciono tutte le emozioni sopite, sono scivolate in basso, al di sotto dello stomaco, sono defluite in un foro e si sono raccolte in un pozzo. E adesso il pozzo si spalanca, le rigurgita, le risputa fuori impetuose, indifferente. La mia pancia è un pozzo di emozioni scadute, avariate. Amaranta sale le scale sciolta, arriva prima di Lorenzo, che quando ricompare sulla porta mi sorride, per lo meno ci prova. Apprezzo il tentativo, inutile. Non mi inganna, c’è qualcosa che non va, qualcos’altro. Si siede con me sul divano, e io mi appallottolo un po’ più in là. Lorenzo è serio, rannuvolato, capitola con la testa all’indietro, non muove le mani, che restano ai suoi fianchi, i palmi rovesciati. Lorenzo ha due cuori, a volte è buio, altre volte è luce, e quando è luce è follia pura, vitalità che si sprigiona con ardore, energia in movimento. Ilenia invece è sempre di buonumore, persino quando è incavolata, è briosa, propositiva, è meno folle, ma lo è costantemente. D’altro canto io non ho follia in me, sono così normale, così piatta, senza picchi, senza chine a strapiombo, così né troppo felice né troppo triste. Sono perennemente trattenuta,

frenata, anche quando mi lascio andare, mai oltre, mai un eccesso. «In ufficio lo sanno. Mi dispiace.» Lorenzo ha lo sguardo afflitto. «L’ha raccontato lui?» «No figurati, lo sai che non l’avrebbe mai fatto.» «Certo, Luisa.» Lo dico rassegnata, non me la prendo neanche. D’altronde avrei dovuto immaginarlo, Luisa sa solo spargere veleno, con Marco per farlo indispettire la chiamavo Medusa, per via della pettinatura arricciata e voluminosa, attento a guardarla o ti tramuterai in pietra! «Venerdì ha chiamato Claudio in ufficio e deve avere parlato con qualcuna delle ragazze, insomma la voce è girata. Quella donna è davvero perfida. In questo senso mi sa che Marco ti ha fatto un favore.» Lorenzo sorride, gli scappa un risolino, ma si trattiene. Però scappa da ridere anche a me, così ridiamo tutti e due, poi le mie risate si rituffano nel pianto, in un continuum, senza stacchi, senza che me ne accorga. Domattina i colleghi mi guarderanno pensando “povera Nadia”, qualcuno magari tenterà pure di consolarmi. Ma nello squallore delle scene che immagino, il mio terrore è che a qualcuno venga in mente di venirmi vicino, mettermi una mano sulla spalla, accennare un abbraccio. Che ci provino! Lorenzo sta da me fino a tardi, finché il sonno alla fine riviene, e io chiudo gli occhi e mi rilasso. Intanto ci siamo bevuti una bottiglia di Franciacorta che era rimasta in frigo da venerdì sera e ci siamo fumati una canna e mezza, che col vino ha funzionato da sonnifero. Mi addormento e dormo senza sogni, con gli occhi che piangono.

È lunedì mattina. Finalmente. Tendo all’urto che mi aspetta, mi proietto, compio un balzo temporale, sono già là. Oggi rivedo Marco, lo vedo come ex fidanzato, nemmeno, come collega e nulla più. Alla sua vista mi schianto contro la realtà e in un attimo ne faccio l’abitudine, accettarla so di averlo fatto. L’ho accettata l’altra sera al ristorante, con docilità, quando me ne sono andata con la mia auto senza fare scenate, senza pretese. Lui non è più mio, tutto qui, basta che lo sappia ogni volta che lo guardo, devo saperlo in quel preciso istante, e la verità di quell’istante deve risultare immutata, prima e dopo. Marco non è mio, e non è mai stato mio, e non sarà mai mio. Devo riavvolgere questo pensiero e ripeterlo come un mantra, finché non avrà perso di significato, e Marco semplicemente non esisterà. Marco non esiste, e non è mai esistito, e non esisterà mai. Chi è Marco? Marco chi? Adesso mi sembra un ragionamento sconnesso, ma è perché l’ho esplicitato. Inespresso, colto al volo nella mia mente, soltanto percepito, funziona benissimo. Mi sveglio presto, di proposito, anche se la canna e il vino di ieri sera mi avrebbero fatto dormire a oltranza. Altro che camomilla. Ho puntato la sveglia e ora sono fuori dal portone con Amaranta, che non capisce perché voglio svoltare a sinistra, si impunta e prova a girare dall’altra parte, ma no, non se ne parla, dobbiamo necessariamente cambiare tragitto. Non ho fame, ma per colazione caccio giù i cereali sbatacchiati nello yogurt. Mi doccio velocemente con acqua tiepida, mi mantengo imparziale, e mi vesto, mi pettino, mi trucco come al solito, che vuol dire vestiti sobri, coda, mascara e lucidalabbra. Nello specchio scandaglio le occhiaie e sentenzio la necessità di uno strato di correttore, poi va bene così. Esco almeno venti minuti in anticipo, per non arrivare al lavoro dopo gli altri, e dover percorrere i metri dall’entrata al mio computer accompagnata dagli sguardi funebri dei colleghi. Solo Claudio è già in ufficio, ma è di là, non mi vede e io non vedo lui, sta parlando al telefono con qualcuno (chi è Claudio?) e non credo che tra poco uscirà. I colleghi arrivano, e, nessuno escluso, lanciano un’occhiata indecisa alla mia scrivania, anche Anna, che con lo sguardo tenta di esprimermi la sua solidarietà. Forse si aspettano di trovare ancora la sedia vuota, invece trovano me, e vorrebbero studiare che aspetto ho. Il solito, mi spiace deludervi. Niente melodrammi, è la vita, è andata com’è andata. Il correttore ha funzionato magistralmente, lavoriamo. Lui arriva dopo gli altri. Sono le nove ate, è in ritardo, saluta e va diretto alla

macchinetta del caffè, ed è l’unico che quando entra non alza la testa verso la mia postazione, per vedere se ci sono. Oggi le colleghe sono assurde, per non fare gaffe o stanno zitte o parlano a monosillabi. Non una che racconti del proprio weekend, forse perché sarebbero tenute a domandarmi del mio, e allora dovrei confessare che ho dormito, e ho pianto, ho scacciato Angela urlandole dietro, ho bevuto vino bianco, tanto vino (quanto?), ho fumato marijuana con Lorenzo. E un tizio impudente mi ha toccato con un dito e mi ha trasmesso una scossa tanto potente che ha scoperchiato il pozzo nella mia pancia. Mi riviene in mente, penso a lui e me ne stupisco, forse sobbalzo, mi incanto e faccio una smorfia, e alcune colleghe mi stanno fissando. Questa mattina ho cambiato orario, ho cambiato percorso, non l’ho visto, e probabilmente non lo rivedrò. Riabbasso gli occhi e torno al lavoro sullo schermo. E non so se le colleghe smettono di guardarmi. Salto le pause caffè e non torno a casa per la pausa pranzo, mangio qualche cracker seduta alla scrivania, e mi rimetto al PC. Oggi non mi schiodo, non mi alzo neppure per andare in bagno, la tengo. Per superare il posto di blocco di questo lunedì non posso scollarmi dalla sedia, devo restare seduta qui, giungere indenne a fine giornata per ritenermi salva. Se supero i controlli, se oggi sopravvivo fino alle cinque, allora saprò che potrò affrontare anche domani, e tutti gli altri giorni d’ora in poi. Per Amaranta non è un problema, quando non posso tornare a casa in pausa pranzo chiedo di occuparsene alla signora Maria, che abita al primo piano e vive sola. È una donna corpulenta, garbata, sulla cinquantina, l’ho avvisata ed era disponibile. La mattina si svolge appartata, limito le conversazioni con i colleghi, nessuno si è avvicinato per mettermi una mano sulla spalla e ho rifiutato l’invito a pranzo delle ragazze palesando qualche disturbo non precisato allo stomaco. Un abbozzo di tensione d’altronde posso esternarlo e sfruttarlo a mio vantaggio, per starmene per i fatti miei e sottrarmi a manifestazioni comionevoli, tipo la collega che vuole offrirti il caffè perché oggi le va così, quella che ti consiglia il dolce al cioccolato (per la serotonina), quell’altra che in fila alla cassa vuole farti are avanti a tutti i costi. Il pomeriggio va peggio. Claudio esce pomposo dal suo ufficio e nemmeno mi saluta. In compenso cammina a braccetto con Marco, facendo mostra d’intendersela. Certo, fra traditori fedifraghi ce la si intende alla grande. Marco è obbligato a spostarsi dalla sua scrivania, accorcia le distanze, forse osa perché a

un certo punto va fatto, siamo colleghi e prima o poi dovrà rivolgermi la parola, dovrà guardarmi, prima. Dovrà parlarmi almeno per chiedermi di Amaranta, lei è anche il suo cane, anzi è più sua che mia, vive da me, ma è lui che l’ha voluta. Invece riceve i clienti, consiglia investimenti, illustra piani di sviluppo, parla al cellulare camminando a pochi metri da me, a voce alta, sicura, ma non mi guarda, tiene gli occhi continuamente volti altrove. Io non esisto, e non sono mai esistita, e non esisterò mai. Lo realizzo: sono stata scaricata. Mi rassegno a non incrociare il suo sguardo e a rimandare a un’altra volta l’inevitabile, del resto la giornata è andata bene lo stesso, ne esco incolume, e il pozzo nella mia pancia si è richiuso, o forse l’acqua sotto zero ha finito per congelarsi. Posso vivere tranquillamente senza di lui, non è necessario recriminare nessuno. Solamente Angela oggi mi ha disturbata, chiamandomi ottocento volte al mio interno dell’ufficio, ma lo fa sempre da casa o dal suo cellulare, e alla vista del suo numero chiudo la telefonata, fingendo indifferenza con le colleghe o pretendendo di essere troppo indaffarata. A dire la verità il lavoro attualmente non è molto, mentre sarebbe auspicabile, adesso più che mai, un periodo di fuoco, di quelli che non ti lasciano neanche il tempo per respirare, e non farei finta di dovermi concentrare per evitare di autocommiserarmi. Tutto oggi fila liscio, da stamattina che non incrocio il tizio della corsa a ora che mi appresto a uscire. Marco se ne è andato quindici minuti fa, ho verificato, e la sua macchina sarà già diretta verso casa, con lui dentro. Invece esco e mi paralizzo, allibita trasalisco. Lo schianto è arrivato, fatale, ed è avvenuto interiormente. Ho urtato me stessa, i miei limiti inconsci, le mie barriere intime, e ho provato dolore. Un blocco allo stomaco, uno stop totale della digestione, la fine del respiro. Marco è ancora qui, è fuori, nel parcheggio, sta parlando con una ragazza minuta e piccola di statura, che non conosco. Lei è tanto piccola e lui tanto alto che la sovrasta, quasi lei scompare sommersa da lui. Ha un viso pulito, e avrà sì e no ventidue anni, ventitré al massimo, non avevo pensato a che età potesse avere. Lei, l’altra, l’usurpatrice. Perché è lei, lo so. Ha i capelli corti, di un biondo slavato, è scialba, e non mi sembra niente di che, ma non con malignità. Provo a cercare di assegnarle qualcosa di particolare, un riverbero, un’attrattiva, ma la verità è che non mi sembra affatto un granché. Una come lei Marco non l’avrebbe nemmeno notata, a lui piacciono le ragazze alte, formose, statuarie, con i capelli naturali, lunghi. A lui piacciono i miei capelli, le mie forme. A lui piace come sono io. Ma ho perso l’equilibrio, sono caduta nel

pozzo. Resto ferma e trattengo il fiato, non so per quanto tempo, incantata a fissarla. Infine mi rianimo, mi assalta un attacco d’ansia fulmineo, abbasso lo sguardo, le guardo il ventre. Indossa una giacca nera stretta in vita da una cintura, la pancia la si immagina piatta. Nessuna protuberanza sospetta, nessuna sporgenza manifesta. La sua pancia non mi fa nessun effetto, non mi provoca alcun turbamento, anche se so quello che contiene. Ma non si vede e quindi posso ignorarlo, fingere di dimenticarmene. Ed è a questo punto che lei mi vede, quando sto per voltare lo sguardo ma ce l’ho ancora puntato su di lei, quando sto per andarmene ma sono ancora qui, impalata come una scema. Lei mi guarda, indugia su di me, forse capisce chi sono, e di riflesso si volta anche lui, e anche lui mi vede, che sono qui impalata e che li sto fissando, e sono una povera scema, una povera scema ferita. Cosa è successo dal momento in cui lui mi ha guardata ad adesso, che sono le dieci di sera, l’ho vissuto in trance. Sono tornata a casa, ho parlato con Ilenia al telefono, le ho detto che è andata bene, che sto bene. Ho cenato, ho lavato i piatti, ho portato giù Amaranta. L’ho fatto, ho fatto tutte queste cose, eppure non mi sembra, mi sembra di essere rimasta tutto il tempo ferma nel parcheggio, mi sembra che Marco mi abbia guardato per ore intere, che il suo sguardo si sia protratto fin qui. Voglio togliermelo di dosso, quel modo in cui mi ha vista. Mi ha guardata da lontano, da così lontano da credere di non essere mai stati insieme, mai amanti, mai complici, mi ha scagliata sulla riva opposta, mi ha scrutata, e non ero io. L’altra sera al ristorante è stata l’ultima volta in cui mi ha parlato in confidenza, ora lo farà se sarà strettamente necessario, sono stata degradata, relegata alla nomina di collega, un minuscolo ruolo secondario. Vedermi è una costrizione, e non mi chiederà nemmeno di Amaranta, perché ha reciso ogni rapporto, e il patto è che si dimentichi anche di lei. Perché lei lo riconduce a me, e io per lui non posso seguitare a esistere, tra noi non devono sussistere legami, nulla dev’esserci al mondo che in qualche modo ci accomuni. Forse perché gli rivelo il suo sbaglio, il suo malaugurato errore, la sua pena umana, la sua vigliaccheria, il suo schifo, e lui vuole considerarsi migliore. Forse perché quello che lo legava a me era talmente fragile, talmente fine, da poter essere eliminato con un semplice “mi dispiace”, un colpo di spugna sul gesso. Che colpa gliene si può fare se in fondo gli dispiace?

Mi svesto ed entro in doccia senza aprire l’acqua. Apro il vasetto dello scrub, lo prendo con le dita, le affondo nel gel, e me lo spalmo addosso, grattugiando brutalmente ogni parte del mio corpo nudo. Sfrego più volte, perché tutte le cellule morte vengano via, perché venga via intero lo strato superficiale della mia pelle, quello che lui ha toccato, fino a quattro giorni fa. Perché quattro giorni fa eravamo insieme, eravamo una coppia, di fidanzati, di amanti, e le sue mani toccavano la mia pelle. Mi strofino finché in superficie resta uno strato di pelle vergine, che lui non ha mai sfiorato, mai violato. Mi strofino sulle rotondità dei fianchi, sui glutei, sulla pancia, sui seni abbondanti, che lui diceva di trovare belli, dove la pelle è chiarissima, sottile, delicata. Mi sfrego dappertutto. Friziono con forza finché la mia pelle pallida si arrossa, finché si infiamma in ogni punto, graffiata, quasi scorticata. Allora apro il getto d’acqua bollente, e brucio quel che resta di lui, su di me. E la mia pelle è neve insanguinata.

Ogni sette anni nel nostro organismo avviene un rinnovamento cellulare completo, si deteriora un ciclo vitale e ne inizia un altro, con un diverso significato. Ogni giorno cellule del mio corpo muoiono, cellule legate alla mia esistenza fino a pochi giorni fa, cellule divenute amare, corrotte. Muoiono, fortunatamente, e si rigenerano in cellule nuove, che non contengono Marco nel proprio nucleo. Ogni giorno nascono in me cellule che non lo ritraggono, perché nella fase corrente lui non fa parte della mia vita e non potrà continuare a far parte di me. Fra sette anni il mio corpo risulterà rinnovato interamente, e lui non sarà contemplato. Forse tra qualche tempo, quando le nuove cellule saranno un numero consistente, comincerò a sentirmi meglio, a sentire che mi sono allontanata da un fantasma, che sono sgusciata via, che non ci sto pensando. Ma oggi non mi accorgo del mutamento silenzioso che avviene al mio interno, non avverto il ricambio cellulare, e in questa fase di transizione, a Marco seguito a pensarci. C’è ancora, dentro, siamo stati insieme sette anni, e non rimane una sola cellula in me di quella che ero prima di incontrarlo, prima di mettermi con lui. In sette anni di relazione il mio corpo si è ricreato riempiendosi di lui, ne è completamente intasato. E poi lo vedo tutti i giorni al lavoro, anche se non interagiamo quasi per niente. Qualche parola l’abbiamo scambiata, ma solo a proposito di pratiche clienti. Una volta si è smollato in un commento extra lavorativo, durante una pausa caffè, in presenza di altri, una conversazione allargata a cui partecipavo anch’io. Ma si è subito ritirato e in seguito ha cercato di evitare ogni contatto superfluo, tra noi lo scambio è non richiesto. Di Amaranta non mi ha domandato. Amaranta è il suo cane, pensavo le fosse affezionato, lei cosa c’entra con noi, con la fine della nostra relazione, pensavo gli fe piacere vederla, trascorrere del tempo con lei, portarla con sé al parco la domenica. Ma ormai Amaranta non conta, ora lui avrà un figlio, non gli serve un cane. Al parco ci porterà un bambino, quel figlio che adesso è racchiuso nella pancia piatta di una ragazza giovane e minuta, coi capelli biondi scoloriti e il vitino da vespa. In ufficio vige il silenzio, nessuno accenna al fatto che io e Marco non stiamo più insieme, sembrano essere tutti in imbarazzo. Eccetto Claudio, che pare sia diventato il migliore amico del mio ex fidanzato. Mi snobba, tronfio, e lo intuisco che su di me si è preso una rivincita. Sa di non piacermi, e sa che lo ritengo deplorevole per tutte le sofferenze che causa a Lorenzo. Sa che vorrei che Lorenzo lo lasciasse, che decidesse di non amarlo più. E so che in parte è invidioso del nostro rapporto, del mio legame di amicizia con Lorenzo, che in un

certo senso è più profondo di quello a cui lui può ambire per sé. La loro storia è possibile soltanto grazie all’amore di Lorenzo, che ne è il nutrimento, se Lorenzo chiudesse il suo cuore, la loro storia morirebbe all’istante. E di Claudio resterebbe il nulla. È Lorenzo che gli permette di esistere, che lo rende tanto ammaliante, lo è perché è Lorenzo a guardarlo. Tutto quello per cui Claudio si vanta è stato Lorenzo a offrirglielo in dono, ogni virtù di cui si adorna, è Lorenzo che la depone in lui, ogni merito che lo innalza, è un sacrificio di Lorenzo, che si è dato per l’altro. Senza Lorenzo Claudio sarebbe niente, eppure lo tratta come un ornamento di poco valore, un gingillo che lasci a casa, ad aspettarti tornare. Se un giorno tornando a casa non trovasse più Lorenzo, Claudio scomparirebbe, perché è Lorenzo che amandolo, lo crea. Dicembre scivola così, tra il limbo dell’ufficio, dove gravitano persone che gradualmente si fanno indistinte, un luogo che mi appare sempre più simile a una visione, e la sera a casa. Faccio fare ad Amaranta la sua eggiata, mangio, me ne sto sdraiata sul divano. Aspetto, orbitando intorno alla mia vita, aspetto che il tempo scorra, che ando si annulli, che si esaurisca. Vivo una realtà mitigata dall’apatia. Sfoglio le pagine di un libro che non leggo, guardo film alla TV di cui non seguo la trama, mi addormento in sala e mi risveglio che è già notte, ancora vestita. A volte mi metto il pigiama e vado a infilarmi nel letto, altre volte no, rimango sul divano come sono, e mi riaddormento. Non mi lavo i denti. Piango di continuo, ma è un pianto silenzioso, che non mi appartiene, è una consuetudine a cui non si fa più caso. A piangere sono i miei occhi, è quel maledetto pozzo aperto nel fondo della mia pancia, a cui le ghiandole lacrimali attingono l’acqua tramite speciali condutture che arrivano fin lì. Nei weekend Ilenia cerca di stare con me, vorrebbe farmi uscire, ma a me non va. Stiamo in casa, lei cucina, legge ad alta voce gli articoli delle riviste che mi porta in blocco, Elle, Grazia, settimanali zeppi di pettegolezzi, racconta qualche cavolata, mi mette lo smalto sulle unghie, mentre le bambine giocano con Amaranta, chiassose. Non mi danno fastidio, restano sullo sfondo, un cicaleccio allegro che non c’entra con me. Lorenzo a in settimana, dopo cena, e se ne sta seduto accanto a me sul divano, davanti al film che ha scaricato al computer e che guarda lui per me, carezzandomi i capelli finché non mi assopisco. Il dialogo scarseggia, non ho parole in questo periodo, si sono azzerate all’unisono. Gli ho raccontato di lei, della nuova ragazza di Marco, gliel’ho descritta, gli ho detto che ho visto la sua pancia, che è ancora piatta, non sembra ci sia dentro un bambino, potrebbe anche

essere vuota come la mia. Dopo quella volta non mi è ricapitato di incontrarla, forse Marco le ha chiesto di non venire più sul lavoro, per rispetto verso di me, per non farmi soffrire ulteriormente, perché mi vuole bene e non vuole arrecarmi altro dolore. Ore su ore a vegetare, a misurare la mia resistenza, incurante dei giorni, a spurgare dal pozzo nella pancia un dolore che non sento, mantenendo tramite Ilenia e Lorenzo un sottilissimo legame con il mondo, che altrimenti sarebbe estinto, gli occhi cadenti di Amaranta che mi scrutano, insospettiti, insofferenti, perché lo percepisce che c’è qualcosa che non va, le chiamate di Angela che cerco di chiudere dopo il primo minuto di conversazione, le sue tentate incursioni che boicotto non facendola entrare. Ma si avvicina il Natale, e allora non avrò scuse, non avrò difese, dovrò spingermi fino alla tana del nemico, entrare nel tunnel e restarne imprigionata, soccombere. Il Natale lo trascorriamo in famiglia, e lei mi sta aspettando, sa che ci andrò. Per ora può attendere, può essere paziente per un paio di settimane, e nel frattempo cova, la mia Angela, lo so, me la vedo, cova e rimugina, e si appresta all’attacco, mi avvinghierà nella rete che sta tramando per me, sarò nel suo territorio, dove contenerla è improponibile, e sfuggirle è meno agile che effettuare un triplo salto mortale. Ma non mi cruccio, e aspetto che questo incessante nulla mi accompagni da lei.

È la mattina di Natale. Mi alzo prestissimo ed esco con Amaranta, piove. Avrei preferito la neve, al posto di questo inverno piovoso, che vuole sommergermi d’acqua. Sono in ferie per due settimane e programmo soltanto di oziare, voglio permearmi di pace, voglio credere che me la sono guadagnata, e al momento non sto ad angosciarmi, pensando allo strazio che mi attende. È mattina presto, e tra qualche ora sarò seduta a tavola con Angela, il mio flagello divino, e lei starà ad asfissiarmi fino al termine del pranzo, fino al panettone che non mi andrà giù, perché avrò lo stomaco ritorto dall’antipasto. È mattina presto, piove, continua a piovere, e il mondo è pieno di pozzanghere che contengono l’oceano. È la mattina di Natale, e gente in giro non se ne vede molta, qualche puntino qua e là, persone coi cani come me. Stanno ancora tutti dormendo, oppure sono impegnati coi preparativi della festa. Stamattina si spalmano le tartine, si mettono le lasagne nel forno, si imbandisce la tavola con improbabili centrotavola spolverati d’oro e d’argento. Oggi si esce solo più tardi, per spostarsi a casa di parenti o amici, perché oggi è la giornata in cui non si resta da soli. I regali sono già stati comprati, oggi ce li si scambia, oggi si mangia, oggi si resta a casa, fuori non si va, tanto meno la mattina a quest’ora, sotto la pioggia, che non ha voluto trasformarsi in neve. E invece lui c’è. Stamattina ero sovrappensiero, non sono stata attenta, e ho ripreso automaticamente la strada che facevo prima, il giro con Amaranta fino ai giardini, il tragitto bandito per l’eternità dal mio percorso. E lui corre anche adesso, che piove ed è la mattina di Natale. Lo riconosco da lontano, dal modo di correre, dal k-way blu elettrico, inconfondibile, il cappuccio tirato sulla testa da cui spuntano ciuffi di capelli gocciolanti, le gambe nude, la testa sollevata verso di me. Avvicinandosi alza un braccio e apre la mano allargando le dita, sorride. Mi sta salutando. Ma io sento una fitta all’addome, parte dal punto su cui lui ha poggiato il dito. Lo percepisco distintamente sulla pelle, lo riconosco senza guardare, è lì, ben definito, esposto, per quanti scrub faccia sulla pancia, quel punto permane, pulsante, indelebile. E in quel punto si addensano tutte le carezze del mondo. La voce nemica comincia a vorticarmi nelle orecchie, risuona nel vuoto della mia mente labile, umida di sonno, perché ho allentato la soglia di rigetto, arresa alla penitenza di oggi. “Plié, plié, pas chassé”, ma non la voglio sentire, non oggi, grazie madame, oggi non sto bene, oggi salto la lezione. Non sorrido, non accenno ad averlo riconosciuto, fingo per giunta di non averlo visto, anche se è a pochi metri da me, e con uno strappo al guinzaglio trascino Amaranta, scomparendo dietro l’angolo di una

palazzina. Per un attimo temo che mi insegua, che cambi direzione e mi venga dietro, per dirmi di nuovo che dovrei correre, che dovrei proprio farlo, per toccarmi ancora lo stesso punto sulla pancia e scoprire il buco che ci ha scavato l’altra volta, infierire così profondamente da farmi andare da Angela denudata, vulnerabile, accessibile alle sue enormità deliranti. Invece devo essere assente da me, senza buchi sulla pelle, impermeabile, compatta. Non mi volto, ma tendo i miei sensi all’indietro, per indagare cosa avviene alle mie spalle, e lui non mi ha seguita, non ha deviato e ha proseguito la corsa. Forse la prossima volta mi lascerà in pace, con quel suo modo spavaldo di correre. Non voglio avere a che fare con questo tizio che corre la mattina di Natale soltanto per entrare nella mia giornata, per crivellarmi il ventre, aprire voragini sulla mia pelle livellata dallo scrub. Voglio stare sola a raccogliere ciò che resta sul selciato della mia fiducia personale, con la punta umida delle dita, per farla attaccare come le briciole. Mi infilo i jeans, un maglioncino a collo alto, gli stivaletti, recupero il giaccone imbottito dal fondo dell’armadio, e sono pronta ad andare a casa di Angela. Quando apre la porta e mi guarda in silenzio, esibendo una smorfia di disapprovazione, mi accorgo di non essermi per niente truccata, e forse stamattina non mi sono neanche pettinata. No, credo di no. Mentre supero la soglia dell’appartamento in cui ho vissuto da bambina frugo nella borsa, scovo un elastico di spugna, che Angela ebbe per legarsi i capelli in doccia, o per applicare una maschera al viso, e mi faccio una coda. Ma quand’è l’ultima volta che mi sono lavata la testa? Tolgo l’elastico e lo riavvolgo sui capelli a formare una specie di chignon. Avanzo di qualche o nel salotto e il frastuono del Natale mi investe. Mio padre e mio cognato rientrano dalla terrazza e mi vengono incontro. Saluto mio cognato e abbraccio mio padre, e sento l’odore del fumo mischiato a quello dell’umidità. Mia sorella sta apparecchiando la tavola, e nel contempo è occupata a scacciare i suoi figli perché non tocchino le patatine nelle ciotole, e li rincorre per recuperare la fetta di pane che hanno già rubato. Nella corsa mi a vicino e mi saluta di striscio, impossessandosi del sacchetto che ho in mano, che contiene i regali. Nel frattempo mio padre e mio cognato si sono seduti sul divano, e hanno la televisione, altro rumore rimestato nella confusione generale, un canale trasmette un menù per l’occasione odierna, la tavola allestita di rosso. I miei nipoti mi ignorano, sono impegnati nei loro tentativi di furto, e io non sono propriamente la loro zietta preferita, non sgancio mance, e non faccio regali

di Natale grandiosi, non più di uno a testa. Uno è sufficiente. A loro io non piaccio e loro non piacciono a me, sono scalmanati, produttori estemporanei di baccano, e non stanno mai fermi, anche le figlie di Ilenia sono un po’ così, però loro non hanno su di me il medesimo effetto. Le figlie di Ilenia mi trasmettono gioia, i miei nipoti mi fanno prudere le estremità, sono fastidiosi e irritanti. E inoltre sono maleducati e rispondono male ai genitori. È mia sorella che li cresce viziati, e quel presuntuoso del marito certo ci mette del suo. Mi auguro che non si azzardino a pronunciarsi sulla mia situazione, sento la bile fermentarmi dentro e mi rendo conto che il mio intento di rimanere distaccata è fallito miseramente in partenza. Ci sediamo a tavola, e io mi becco Angela da una parte e i miei nipoti di fronte. Provo a restringermi più che posso, per avere il vuoto intorno, un uovo di difesa fatto d’aria, inefficace. «Cosa ci hai regalato zia? Ci hai preso il Lego dello spazio?» «È una sorpresa, e i regali si aprono dopo pranzo.» Altro che sorpresa, regali commissionati da mia sorella, che spunta le voci su un elenco infinito con almeno un mese e mezzo di anticipo. E Babbo Natale che fine ha fatto? «Se non è quello io non lo voglio.» «Allora vorrà dire che lo regalerò a qualcun altro.» Cafone di un bambino viziato, disincantato dal consumismo. Ho un travaso di bile in corso, e mi metto al livello di un moccioso di cinque anni. Sono decisamente irascibile. «Riccardo ti proibisco di esprimerti in questo modo, chiedi immediatamente scusa alla zia.» Mia sorella sa sempre esacerbare i toni. È drammatica, teatrale tale e quale ad Angela, ha preso tutto da lei. Non riconoscendoci l’una nell’altra, manteniamo tra noi una distanza minima tacitamente accordata, che dà sollievo a entrambe. Io assomiglio a mio padre. Lui non mi ha interrogato a proposito di Marco, non perché non gli importi, ma perché sa che sarebbe superfluo parlarne, che le cose tanto non cambiano, e che a me non va di ruminarci su, né di stare al centro della discussione. Non ho voglia di ascoltare le conclusioni e le credenze altrui, e

sentirmi il bersaglio umano del lanciatore di coltelli. Mio padre non prende alla leggera i miei sentimenti, e lascia che restino nell’ombra, dove non possono ferirmi. Io e mio padre non ci parliamo molto, in queste settimane non ho ricevuto una sua telefonata, forse sono mesi che non mi chiama, ma io apprezzo mille volte in più il suo silenzio, il suo sottrarsi, che le parole illimitate di Angela verso tutti, come i minuti del cellulare, ma è un’offerta assai lussuosa, in esubero. So che se avessi bisogno del o di mio padre mi basterebbe fare un cenno, lo troverei. Lui capisce in un lampo quand’è il momento per venirmi vicino, fermandosi al punto giusto, non invasivo, cauto. Mentre Angela avanza sopra di me come un rullo compressore. Fa avanti e indietro, spedita, e io sono carta velina, una macchia piallata sul pavimento. «Te lo dico subito, tanto è inutile aspettare.» Angela esordisce e il suo protagonismo non ha confini. La testa mi cede verso il basso, la mia mano si posa sulla tovaglia, le dita si allentano, lasciano sfuggire la forchetta. «Non sono offesa per le volte che sono stata cacciata da casa tua, stammi bene a sentire, non biasimo il tuo rifiuto addirittura di aprirmi la porta, né me la prendo per le telefonate a cui non rispondi, e quelle in cui mi sbatti il telefono in faccia. Non sei in te, lo capisco. Sappi che sorvolo, ci o sopra.» Tipico atteggiamento che vuol farti venire i sensi di colpa, una madre premurosa e una figlia irrispettosa e insensibile che la maltratta. Oltretutto viene spalleggiata da mia sorella, che annuisce a tempo con le sue critiche. «Ieri sera ho sentito Luisa, è da non crederci, ma oggi Marco non è a pranzo da lei, è assente per pranzare dai genitori di quella, non mi ricordo neanche come si chiama. Ieri Marco le ha telefonato e le ha comunicato che sarebbero stati là tutto il giorno, ti pare possibile? Avvisata il giorno prima, che affronto! Non li ha nemmeno presentati, e quella là, Luisa l’ha conosciuta un pomeriggio che è ata a casa del figlio a portare i vestiti dalla tintoria.» Respiro, mentre Angela vomita le parole e non prende mai aria tra una frase e la successiva, e con i polpastrelli mi massaggio la fronte. «Angela, per quanto dovremo parlare di questa storia? È finita, basta, io-e-Marco non esistiamo più, è Natale, ti prego, almeno oggi, dammi tregua.»

Ho supplicato, ignorata, la valanga Angela sta per rovesciarsi su di me, è già in corsa. «Che poi, da quando c’è quella, Luisa nemmeno se la sente di fermarsi a casa di Marco, dice che appena entra nell’appartamento si sente subito di troppo, capisce di non essere gradita. Ah, quanto le manchi! Vorrebbe vederti sai, lei e il marito eranno più tardi a salutarti.» Lascio perdere l’incombenza di Medusa che verrà nel pomeriggio per vedermi, farò in modo di evitare questo incontro patetico. E vorrei far presente ad Angela che Luisa mi adora tanto adesso, adesso che io e Marco ci siamo lasciati. Prima non era proprio così, prima erano continue frecciate e ostilità alle spalle, perché le rubavo l’attenzione del figlio. Certamente ora le dovrò sembrare una nuora fantastica, col senno di poi, la nuora ideale che non va a convivere con il figlio adorato e che non lo vuole necessariamente sposare, né farci un marmocchio. Le è andata male, avrebbe potuto trattarmi meglio a suo tempo, ma voglio fregarmene, non voglio parlarne, non voglio immischiarmi, voglio starmene in disparte. Restare in silenzio e lasciar parlare Angela senza risponderle, fino a smettere di sentire il suo blaterare prolisso, annullare ogni percezione nella sua direzione. Le sue labbra colorate si distendono e si contraggono, con quelle rughe sottili che increspano il contorno della bocca, ma io non la sento, bla bla bla, distolgo lo sguardo, rimuovo dal mio campo visivo le mani inanellate che gesticolano nell’aria, mi inoltro nel nulla che mi ha affiancato in questo mese, e che anche oggi è venuto con me, per salvarmi all’ultimo tragico momento. Ma alla fine non ci riesco, è più forte di me. Lo domando. «Vivono già insieme?» «Sì ma ci pensi? Da non credersi! In quattro e quattr’otto si è fatta mettere incinta e si è piazzata a casa sua, pensa che si è presentata da lui al lavoro, con le valige pronte in macchina.» Angela va avanti a parlare, mia sorella commenta, inutilmente, fomentando la sua incontinenza verbale, mio padre sospira, scuote la testa, non può proteggermi, non gli è concesso. I miei nipoti si lanciano le patatine, mia sorella sbraita contro di loro, mio cognato polemizza perché lei non si rilassa mai, ma poi molla uno schiaffone dietro la nuca a un figlio e afferra l’altro per il braccio, ricacciandolo seduto, gli

occhi di mio padre incontrano i miei, mi sorride, tenta, alza le spalle. E io finalmente non sento più. Penso a lei, a quella ragazza giovane davanti all’ufficio, penso alle valige che aveva nel bagagliaio della sua auto e che io non vedevo, penso a Marco che parlava con lei, al suo sguardo scisso dal mio, quando si è girato e mi ha vista. Penso a lui che vive con lei, nell’appartamento dove anch’io ho dormito tante volte, ma dove Marco non mi ha mai chiesto di rimanere. Non mi ha mai chiesto di trasferirmi da lui, era fuori questione, per tutti e due. E invece lei ci abita, me l’ero già immaginato, ma adesso che lo so è diverso, adesso è vero.

Dopo pranzo mi defilo prima che Luisa-Medusa faccia il suo ingresso e mi pietrifichi immancabilmente. Non reggerei al trionfo delle falsità e il pomeriggio può soltanto degenerare. Ho lasciato a casa Amaranta, così ho la scusa per tornare presto. Dovevo avere un pretesto per darmi tempestivamente alla fuga, e comunque le ho risparmiato una tortura. I miei nipoti le avrebbero dato il tormento, le tirano la coda, le torcono le orecchie, le saltano in groppa, quasi fosse un animale da soma, e Amaranta se la svigna e si va a nascondere in qualche cantuccio riparato della casa. Non viene fuori nemmeno se Angela la chiama con in mano un pezzo di prosciutto. Ma quei due demoni molesti riescono a scovarla e allora non la mollano più. Povera Amaranta se ci sono nei paraggi i figli di mia sorella! Angela cerca di trattenermi, mi insegue sul pianerottolo, mi lancia un rimprovero sulle scale, sto salendo in macchina e il cellulare già squilla, ma ormai sono in salvo, non rispondo e disattivo la suoneria. L’immagine delle valige nel bagagliaio mi perseguita, o forse erano sul sedile posteriore, disposte ordinatamente una accanto all’altra, valige con una vita dentro, una vita che si muove, che va avanti, mentre la mia soccombe e avvizzisce. Nella mente sono ancora nel piazzale fuori dalla banca, mi sdraio sulla strada, mi accuccio sotto le ruote, aspetto che l’auto si metta in moto, che i sopra di me, io non esisto, non ho valige da portare con me, non vado da nessuna parte. La sera, a casa, piango. Piango con tanta irruenza che il mio pozzo si prosciuga. O perlomeno si assopisce, come un vulcano che dorme, per un periodo che non sai quant’è, per ora ha di nuovo il coperchio, è di nuovo chiuso. I giorni seguenti si succedono e io brancolo per casa, metto in ordine senza metodo, perdo tempo, mi distraggo, non sono organizzata, né produttiva. Cucino qualcosa, visto che le riserve di Ilenia sono terminate, guardo i film scaricati da Lorenzo, ma non ne ricordo nessuno. Il libro che stavo leggendo invece lo abbandono completamente. Non mi concentro, resto inconcludente, e galleggio in un torpore a tratti soporifero, a tratti allucinogeno. Di giorno dormo un’infilata di ore consecutive, la notte è più intransigente, sono sveglia nel letto, un letto a due piazze inutile per metà, il materasso duro, il corpo raccolto, immobile, immagini di valige e pneumatici che mi pulsano sulla retina, e gli occhi di Marco che mi fissano, ciechi. Mi ha depredata di tutto, persino dell’immagine che avevo di me, che non vedo più riflessa nel suo sguardo. Non smetto di vegetare, senza strumenti, senza strategie, e ogni giorno è la

replica della mia inutilità, in me si annulla ogni spinta creatrice. Aspiro definitivamente a scomparire, forse se resto ferma, se non faccio rumore, smetterò di sentirmi, cesserò di percepire i fruscii delle cellule, gli scricchiolii dei tessuti devitalizzati che si stanno rompendo. Non voglio stare con me, io non vado bene, non sono consona. Sono indegna. Oppure potrei are all’azione, decidere di intraprendere qualcosa, che so, uno stage di recitazione, un corso di cucina, o partecipare a uno di quei seminari mistici per apprendere l’arte della meditazione. Magari potrei iscrivermi in piscina. Avrei un impegno cadenzato, incontrerei gente nuova, gente che non mi conosce, che non sa niente di me, che non conosce Marco, gente che non saprebbe delle valige nel bagagliaio dell’auto, ma non mi va. Non ho voglia di nuovi interessi, né di conoscere qualcuno, voglio stare a casa mia a dormire e guardare la TV. La accendo sui canali delle televendite, mi lascio cullare dal suono delle parole che non ascolto, le immagini dei prodotti che si fondono in un insieme astratto di luci. Stasera però esco, è l’ultimo dell’anno e vado a cena a casa di Ilenia. Ha insistito e mi ha convinta, anche se c’è pure Claudio, ma solo perché mi ha assicurato che andrà via subito dopo cena con Lorenzo, per andare a una festa. Noi giocheremo a tombola con le bambine in attesa che arrivi la mezzanotte, e metteremo in palio gruzzoli di monete al cioccolato, di cui sono golose. Stefano farà i fuochi sul balcone, le bambine terranno in mano le stelline, e finiti i botti saluterò tutti e me ne tornerò a casa, per un’altra settimana da trascorrere da sola, tra il divano incrostato e la televisione. Nel vuoto totale. Penso distrattamente alla coperta sul letto matrimoniale della casa in montagna che avevo cercato per me e per Marco, mi viene in mente, è un dettaglio incagliato tra i pensieri. Immagino un presente alternativo in cui stasera io e lui ce ne stiamo abbracciati stesi sul letto, ascoltiamo lo strepito dei fuochi d’artificio senza alzarci, e facciamo l’amore a cavallo dei due anni, senza togliere la coperta. Chissà se Marco ci è andato in montagna, se ha cercato lui una casa, o se magari è stata lei a trovarla, ha letto su Internet il mio stesso annuncio, e questa sera dormiranno avvolti nella coperta colorata, che è un rifugio intimo, caldo, adatto a due giovani innamorati. Non ci voglio pensare, non ci penso più. Per andare a cena da Ilenia metto gli stessi jeans e lo stesso maglione che ho indossato a Natale. Erano fuori dall’armadio ed erano puliti, e poi stiamo in casa, non ho bisogno di vestirmi elegante. Invece Ilenia indossa un tubino ricoperto di paillettes, ha uno chignon morbido da cui sfuggono riccioli ai lati del viso, e un

accumulo di bracciali dorati al polso. Sta benissimo. Non so dove abbia messo ogni volta il pancione che aveva quando era incinta, enorme, a guardarla nessuno direbbe che ha avuto tre gravidanze e un parto gemellare. Anche le bimbe si sono vestite eleganti per la serata, con abitini, calze di pizzo, e le unghie dipinte, persino Emma, che indossa una gonna corta a balze bordeaux, e una camicetta ricamata. È bellissima e inquietante insieme, seriosa, composta, troppo adulta per quella gonnellina sfiziosa, varco l’ingresso e lei mi scruta, raccapricciante. Giulia e le gemelle hanno rubato dalla scarpiera le scarpe col tacco, e sfilano nel salotto ticchettando sul pavimento. Ho portato Amaranta con me, e appena la vedono corrono ad abbracciarla, e vorrebbero convincerla a farsi infilare le scarpe coi tacchi nelle zampe, ma Amaranta scappa via, si volta per farsi inseguire, dimena la coda. «Sei sempre senza fidanzato?» Mi sono seduta sul divano con il calice che mi ha offerto Stefano, ed Emma mi si è avvicinata, lo sguardo vigile, concentrato su di me. «Sei depressa? Pensi che andrai in analisi?» Io mi limito a bere un lungo sorso del drink. Accavallo le gambe, sarà una serata impegnativa. Lorenzo e Claudio arrivano adesso, si affacciano nella sala e li vedo, impeccabili nei completi che indossano per il party anni trenta a cui parteciperanno. Claudio ha un completo scuro, camicia bianca e papillon nero, Lorenzo è in bianco, con la giacca bordata di nero. Questa sera è luce pura. Alla vista di Lorenzo sorrido, è un istinto, è il cuore che si apre per la sua presenza. Faccio per alzarmi e andare loro incontro, per salutarli, ma poi mi freno e mi sento in imbarazzo, mi vergogno del mio stato e mi infastidisce che Claudio mi veda così. Rimango seduta. Ma perché non mi sono vestita meglio? Stasera avrei dovuto essere una strafiga. Invece Claudio vedrà l’immagine del mio decadimento, sono sciupata, la solita Nadia dell’ufficio più trascurata, dimessa, e lui si sente con Marco, gli dirà che sto male, che mi si legge tutto il dolore in faccia, ce l’ho appiccicato addosso, non l’ho ancora superato. Mentre avrei dovuto farmi rimpiangere dalla mia descrizione che Claudio non mancherà di riportargli. Però mi sembra di ragionare come farebbe Angela e allora sono semplicemente io, tutti i giorni compresa la sera di capodanno, mi alzo e vado a salutare. Abbraccio Lorenzo aggrappandomi al suo collo, quasi a prendere coraggio, non lo mollo, resto

appesa, lo tengo abbracciato ancora qualche secondo. Assorbo il suo profumo e mi volto, tendo la mano a Claudio stando eretta, il braccio teso, la stretta vigorosa e il polso sostenuto, il sorriso a trentadue denti. Mi sforzo, ci sto attenta. Forse però ho esagerato e lui se n’è accorto. Ci accomodiamo sul divano e Ilenia serve l’aperitivo, si fa aiutare da Emma e porta due vassoi di tartine con la gelatina, ha cucinato l’intero pomeriggio e ha superato se stessa. Nel suo abito di paillettes è splendente, sorride e si fa baciare da Stefano, che senza di lei non potrebbe vivere. I capelli raccolti e la scollatura lasciano in mostra il tatuaggio che ha sulla nuca, le quattro iniziali dei nomi delle sue figlie, che scivolano giù verso la schiena attorniate da una cascata di piccole stelle. Lo trovo incantevole, delicato, ma io non potrei mai farmene uno, neppure minuscolo, ho troppa fifa dell’ago che buca la pelle, e non voglio qualcosa di permanente, inciso su di me. Guardo Lorenzo, anche lui sorride, anche lui risplende, vicino a Claudio è felice, è completo. Claudio gli mette un braccio intorno al collo, lo lascia lì, stringe con l’interno del gomito, è rilassato, ilare. Io invece non sostengo la sua presenza, mi sembra che mi osservi, che mi spii, dal pulpito della sua spocchia. Decido di distrarmi con l’alcol, per sciogliermi almeno un poco e apparire naturale, meno contratta, e mi scolo un bicchiere dopo l’altro. Mischio il bianco con il rosso, con il vino riempio nuovamente il pozzo, e lo so che in seguito rigurgiterà, che abbonderanno lacrime salate e alcoliche. Forse Marco non è andato in montagna, e parteciperà al party con Claudio e Lorenzo. Sarà alla festa, ben vestito, con la sua nuova fidanzata incinta, fasciata dalle frange di un abitino corto, mentre io me ne starò qui, e poi da sola, a casa. Non ci sono feste per me, non ho un accompagnatore, un braccio che mi stringa come quello di Claudio attorno al collo di Lorenzo, e mi manca, mi manca un pezzo. Mi manca il pezzo di me che non ho più, perché Marco se l’è portato via, il suo braccio, il suo braccio forte che mi circonda. Come nell’amputazione di un arto, lo sento ancora, ma non c’è. A metà cena ho già bevuto troppo, sento un calore che si intensifica alla testa e la pressione che scende, mi alzo e mi allontano dalla tavola, dico di non sentirmi bene, che ho bisogno di andare un momento a rinfrescarmi. E vorrei starmene chiusa in bagno per il resto della serata. Ilenia mi raggiunge, bussa sommessamente alla porta, mi chiede di lasciarla entrare, e io le apro, perché ho bisogno di lei. Sento il pozzo fervere in profondità, spinge il coperchio che mi accartoccia lo stomaco, fino a causarmi l’urto del vomito. Ilenia richiude la porta

e mi viene vicino, si siede accanto a me sul bordo della vasca, si offre per abbracciarmi, e io mi rifugio contro di lei, appoggio la testa sulla sua spalla, con le paillettes dell’abito che mi pizzicano la guancia, e ricomincio a piangere. «Ma non smetterò più?» Piango lacrime a grappoli, ho il corpo informicolato, sto tremando. «Sì che smetterai, te lo prometto.»

Piango, seduta sul bordo della vasca, piango tanto che quasi la riempio. Infine il pianto si attenua, addolcito dalla vicinanza di Ilenia, che con i polpastrelli mi accarezza la nuca liscia, senza lettere. Le lacrime si placano, ma io non voglio uscire dal bagno fino a quando Claudio e Lorenzo non se ne saranno andati. Con il mascara che cola e mi brucia gli occhi, e il naso arrossato, devo essere orrenda. Stralunata, chiazzata, un mostro. Lorenzo prima di andare viene in bagno a salutarmi, e come Ilenia mi si siede accanto, visto che io non mi smuovo da qui. E così questa sera siamo in tre a esserci seduti sul bordo della vasca. Lorenzo mi abbraccia e io lo guardo con due occhi mesti simili a quelli di Amaranta, occhi con sacche profonde, ricolme di acqua fredda. Lo guardo come per dire che faccio schifo, gli chiedo perché, perché io, perché a me, con l’espressione di una bimba ferita, che ha sbagliato e si è messa in punizione da sola, e non ha la temerarietà di fronteggiare i genitori. Perché sono tanto ripugnante? Lui mi sorride, con un sorriso che per un attimo mi consola, e non mi risponde, sto solo dicendo stupidaggini. Ilenia è tenace, grintosa, ma è Lorenzo che sa vedere il bello nelle cose, veramente, e adesso che mi sta guardando lo trova in me, lo fa emergere quel poco che basta a farmi sentire meno orribile, mi dà uno sbuffetto sulla guancia e se ne va, dicendomi che Claudio mi saluta. Stasera Lorenzo è con lui, deve andare. E io penso alla figura penosa che sto facendo con Claudio, e che di conseguenza farò con Marco, perché sono certa che glielo racconterà, anche se Lorenzo gli farà promettere il contrario. Via loro, riesco perlomeno a scollarmi dalla vasca e a uscire dal bagno, con le natiche che mi dolgono per la posizione scomoda, e penso al sorriso di Lorenzo, che mi sia da guida fino al salotto. Sul viso sento il calore del suo gesto d’affetto. Io e Ilenia ci siamo sedute sul tappeto a giocare con le bambine, aspettando il countdown, e Stefano mi ha preparato un caffè doppio. A mezzanotte brindiamo con un flûte di spumante, ma io mi bagno soltanto le labbra, svegliamo le gemelle, che all’ultimo si sono addormentate sul divano, e usciamo sul terrazzino a guardare i fuochi d’artificio. E al buio dei primi minuti del primo giorno dell’anno piango. Così comincio il mio nuovo anno piangendo. Poi Ilenia mi cinge le spalle con il braccio tintinnante di bracciali, e rinvengo il pezzo mancante, che ora ho di nuovo con me, mentre Emma mi prende la mano nella sua, senza guardarmi, senza dirmi niente. La stringe, chiude le sue dita ancora bambine intorno alle mie dita più lunghe, ma ugualmente fragili, ugualmente forti. E in mezzo a loro, tra mamma e figlia, il contatto diventa amico, benevolo.

Un sorriso si mescola alle lacrime, che divengono calde. Il primo dell’anno me ne sto tutto il giorno a letto, con un mal di testa terrificante e la vergogna opprimente della figuraccia che ho fatto con Claudio la sera prima, la pelle impregnata di lacrime e i capelli appiccicati alla faccia. Ma stamattina all’alba sono sveglia, mi metto seduta, i piedi aderiscono al pavimento, la schiena si curva, ricerco dettagli del mio stato attuale. Non mi pare che i miei occhi siano umidi, le guance sono asciutte, il pianto dev’essersi arrestato durante la notte. Aspetto nel caso altra acqua erompa dalla cavità del pozzo, ma ormai si è seccato, è rimasto solo sale. C’è tanto sale depositato sul fondo che ho la nausea. Poi alzo la testa, e vedo Amaranta che si affaccia nella mia camera. Si è fermata sulla porta, mi guarda, avanza guadando la stanza. Mi si avvicina, appoggia il muso sulle mie ginocchia, come faceva con Marco, ma adesso lui non c’è, e forse Amaranta ha compreso che la sua assenza non verrà più riempita. D’ora in avanti dovrà accontentarsi delle mie gambe, delle mie ginocchia, delle mie carezze scarse. Struscia il muso su di me, lasciandomi sul pantalone del pigiama un rivolo translucido di bava, mi posa una zampa in grembo, quella zampa già grossa fin da cucciola, a indicare quanto sarebbe cresciuta. Io mi raddrizzo con la schiena, le do una carezza, scorro il suo pelo tiepido, poi faccio un respiro profondo, mi tiro su, e le dico che usciamo, andiamo al parco. E i miei piedi si sollevano. Al parco fa freddo, ma almeno non piove. Alcuni oggi torneranno al lavoro, qualcun altro è in vacanza a sciare, qualcun altro ai tropici. E ci sarà qualcuno nella casa in montagna, che in questo momento dorme al tepore della coperta colorata, o forse la casa è rimasta sfitta, ad aspettare me e Marco, che non ci siamo andati. Stamattina è davvero presto, e il parco è deserto. Cammino adagio, non ho fretta, resterò fuori per un po’, voglio far fare ad Amaranta una bella eggiata. Respiro dal naso l’aria pungente, che stamattina sa di pulito, e facendosi largo nei polmoni, pulisce anche me. Spolvera le pareti da ciò che rimane, che un tempo mi apparteneva, e le mie spoglie non si ribellano, si fanno soffiare via. Confesso a me stessa la mia fragilità, quanto fosse precaria la mia vita. Rimiro il rimasuglio della mia esistenza, e qualcosa cambia, è già cambiato, come un pensiero che evolve, me ne accorgo adesso. D’un tratto scopro l’impulso di mettermi alla ricerca di me stessa, come se quella voglia fosse stata sempre lì, sotto la polvere sulle pareti.

Ho voglia di scoprirmi, sapere cos’è confluito nel pozzo, oltre alla paura, cosa c’è adagiato sul fondo, sotto tutto quel sale. Se resta solo cenere, o se alitandoci sopra è possibile che qualcosa spunti, che nasca qualcosa di nuovo. Scaverò il sale, lo toglierò a manciate, o un granello alla volta, a mani nude se sarà necessario, senza premura, non sarò impaziente. Voglio indossare una pelle nuova, una pelle che sa farsi toccare, che non teme di trasudare emozioni, una pelle che vibra esposta all’aria. E quando sarò allo scoperto, forse la vita saprà agguantarmi. Marco ha preso la sua decisione, io adesso devo prendere la mia. E non sarà una decisione sofferta. La consapevolezza è improvvisa, ma nitida. Quando la vita verrà, io mi farò trovare pronta, se vorrà farmi un dono, non lo respingerò, a una sua carezza, non mi sottrarrò. Perché sotto il cumulo di sale, ci sono io. Sono uscita di casa con i pantaloni della tuta e un maglione di lana, con il piumino e le mie scarpe da ginnastica. Alzo lo sguardo, aumento l’andatura. Cammino veloce, sempre di più, finché i miei piedi per sostenere il ritmo debbono darsi una lieve spinta. Inclino il busto leggermente in avanti, spingo i piedi in alto, alzo le ginocchia. Comincio a correre. Amaranta al principio si lascia tirare, poi capisce, e inizia a correre con me. Io sono pesante, sono goffa, ho il fiatone in pochi i. Lei invece è leggiadra, aggraziata, sfiora il terreno con le zampe e mentre corre mi guarda, e sembra che sorrida. Non me ne sono accorta, ma le sto sorridendo anch’io. Cerco l’emozione dentro di me, scovo un tenue barlume, e decido di lasciarlo lì, come un seme che germogli. Sono io, e sto correndo, corro poco più di un chilometro, tra le rovine, e alla fine scoppio, mi devo fermare, non ce la faccio più. Ansimo, mi manca l’aria, eppure inalo una sensazione nuova, piacevole, che sa di liberazione. Il mio corpo è scosso per il movimento imprevisto, un’energia latente si è smossa, i pensieri malsani vengono centrifugati, gettati via, e con essi il pensiero di Marco. Non so quanti chilometri dovrei correre, per espellerlo interamente da me. Però la corsa ora non mi spaventa, voglio correre sciolta fino a scorgere la linea finale, riuscire a raggiungerla. Voglio varcarla, oltreare il traguardo oltre cui Marco non c’è, essere salva, libera, slegata da lui, completamente. Un traguardo che mi appare insuperabile. Penso a tutti quelli che ho sempre visto correre, ma mi inganno, penso solo al ragazzo con il k-way blu elettrico, e mi reputo una demente per come ho reagito al suo approccio, devo essergli sembrata schizzata. Mi piacerebbe conoscere il pensiero che insegue quando corre, i luoghi in cui viaggia con la mente, a quale vita sorride intimamente mentre il suo corpo si muove e mette in circolo energia. Immagino che abbia il corpo

depurato, liberato dalle tossine, che invece si sono accumulate nel mio. Ho tossine infiltrate ovunque, a otturare i pori della pelle. Voglio ripulirmi, scoprire cosa si erge nel mio centro, in mezzo a tutto il vuoto che ho creato nella mia vita, che mi sono messa dentro. Marco ha fatto le sue scelte, una dopo l’altra, non l’ha plagiato nessuno. Ha scelto di tradirmi, ha scelto di lasciarmi, ha scelto di fare il padre a un bambino che sarà il suo, ha scelto di vivere con un’altra donna, di condividere la vita con la madre di suo figlio. Lui ha scelto per sé e io faccio lo stesso, scelgo per me, accantono la sporcizia e decido per oggi di tenermi sulla faccia il sorriso, e sorridere alla giornata che viene. Voglio conservare la sensazione della corsa, riprovarla, voglio rifarlo. Per tutto questo tempo sono stata sott’acqua, tiro fuori la testa, la sollevo, prendo aria con la bocca. Respiro, sono sulle mie tracce. Mi accorgo che con Marco non sono mai stata in una piscina, per sette anni ho sguazzato in una pozzanghera, con lui che mi mentiva, mi diceva che era il mare. E quando tutto è stravolto, e tutto sta per cambiare, c’è un momento in cui le cose si riamalgamano tra loro, in un miscuglio primordiale, e in quel magma si formano nuove possibilità, le occasioni, le opportunità. Penso che ogni volta che l’ho incontrato, il ragazzo con il K-way blu elettrico sorrideva. Sono stufa delle lacrime, stufa di essere triste, di sentirmi svuotata. Voglio meravigliarmi, fruire dei giorni, riappropriarmene, voglio colmarmi di cose belle.

Anima in corsa

Da un mese corro assiduamente, quando torno dal lavoro, e la domenica mattina al parco. Il sabato mi riposo, ne approfitto per fare la spesa, qualche pulizia, e quel giorno le mie gambe tremano, perché sono ferme. Fremono, aspettano di ripartire. Sto correndo, proprio io che avrei giurato di detestare lo sport, di odiare la corsa, proprio io che consideravo pazzi tutti quelli che vedevo correre per strada, e mi sento bene. Il pozzo sta ancora spurgando, ma il collegamento con i condotti lacrimali si è interrotto, adesso l’acqua del pozzo fuoriesce dai pori della pelle, e così fa meno male, non riga le guance, non scava solchi, scorre via, fluente, si libera e dentro non c’è più. In banca regna tutt’ora il silenzio sulla mia rottura con Marco, però i colleghi hanno cominciato a confabulare nei corridoi, quando pensano che non li possa scorgere. Marco mi ha rivolto la parola tre o quattro volte, ok quattro, le ho contate, per avere informazioni utili circa alcuni documenti. Mi guardava, ma teneva al contempo gli occhi bassi, strano, eppure ci riusciva. La sua nuova fidanzata, invece, non l’ho più vista. Ho scoperto il suo nome, l’ho sentito pronunciare da Angela una volta, in un discorso in cui casualmente non era la sciacquetta, quella là o quell’altra. Si chiama Serena. Mi è sembrato un nome bello, semplice, limpido. Mi ha fatto pensare all’estate, mi è venuta in mente una giornata fulgida di luglio, una strada di campo, tranquilla. Le giornate in ufficio sono lunghe, ma adesso ho il mio piccolo segreto, torno a casa, mi cambio alla svelta, ed esco a correre sotto casa. Per ora corro sei, sette chilometri, ma punto a migliorare. Mi sono persino comprata un paio di scarpe nuove, da corsa, delle Mizuno bianche e fucsia che a Ilenia sono piaciute moltissimo. Qualche volta lei si unisce alle mie corse, ed è come avere un personal trainer, mi fa aumentare il ritmo. Oggi Ilenia si allena con me, stiamo correndo da quaranta minuti e lei è fresca come una rosa. Saltella, leggera, ha il sorriso stampato sulla faccia, i riccioli biondi raccolti in una coda a cui si ribellano. Ha messo un paio di pantaloni aderenti, da corsa, e indossa una felpa corta che scopre il fondoschiena. Io invece corro con i pantaloni larghi della tuta e una maglietta lunga, a camuffare ogni rotondità. Mi dico che tra un po’ spariranno, la corsa sono certa farà il suo effetto.

Ilenia tiene in mano l’iPhone, con cui misura i tempi e i chilometri percorsi, io tengo il guinzaglio di Amaranta, che corre con noi, e pure lei è arzilla e leggera, solo io arranco e sudo e ansimo, anche se resisto. Guardare Amaranta correre al mio fianco è uno spettacolo. Ogni tanto gira la testa verso di me, le guance che ballonzolano, e sembra realmente che stia sorridendo. È proprio così, sorride, mentre corre armoniosa sull’asfalto. Mi accorgo che finora non è stata felice, non so se fosse triste, ma era trattenuta, come me. Per colpa mia. «Non è quel tipo da cui stai scappando?» «Cosa?» «Ma sì, non è quello per cui l’altra volta mi hai fatto fare uno scatto nella direzione opposta?» Stavo guardando Amaranta e mi sono distratta. La mattina con lei ho ripreso il vecchio giro, ma non ho più incontrato il ragazzo dal k-way blu elettrico, e al parco la domenica veniamo sul tardi, lui solitamente corre prima, almeno credo. Solo una volta mi è capitato di scorgerlo, ero con Ilenia e al parco ci eravamo arrivate da qualche minuto, e lui camminava nella nostra direzione, probabilmente aveva appena finito di allenarsi. Non so cosa mi fosse preso, ma ho trascinato Ilenia e Amaranta dall’altra parte, prendendo una rincorsa finché non mi sono sentita a distanza di sicurezza. Quella volta non ho recuperato il respiro fino a fine corsa. Per tutto il tempo dello jogging ho avuto il fiatone. E adesso il ragazzo dal K-way blu elettrico ci corre incontro, stamattina deve aver tardato, e ormai è troppo vicino perché mi volti e compia una fuga alle mie spalle, farei la figura della scema, e inoltre sono a fine allenamento, sono spompata, con il ritmo a cui corre lui mi recupererebbe in una manciata di metri, e allora sprofonderei sotto terra. Per l’imbarazzo, per la vergogna. Farò finta di niente, basterà non sovrapporre gli sguardi. Sono certa che non mi vedrebbe, che non si accorgerebbe di me, ma con me c’è Amaranta, e lui la noterà di sicuro, potrebbe riconoscerla. E lei riconoscerà lui. Già una volta mi ha tradita, quindi accorcio a poco a poco il guinzaglio per avere una presa salda e la tiro verso di me, allargandomi verso l’esterno del viale, di modo da incrociarlo andogli il più lontano possibile. Guardo avanti, il collo irrigidito, e il cuore che batte all’impazzata, la corsa di oggi sta per stroncarmi, o forse ho un infarto in corso, mi accaloro e non decifro il motivo reale.

Cerco di fare un cenno a Ilenia, per farle capire di fare pure lei l’indifferente, ma non mi sta guardando, è voltata dall’altra parte e fissa lui che sta correndo verso di noi. E non ci credo quando vedo che Ilenia alza un braccio, apre la mano e sorride smagliante. «Ciao!» Sgrano gli occhi, spalanco tanto le orbite che quasi i bulbi rotolano fuori, vorrei dirle “cosa fai, sei impazzita?!?”, ma sto zitta, inghiotto le parole. Dopo averlo salutato, Ilenia (degna complice di Amaranta!) si è girata a seguirlo con lo sguardo, invece io non mi volto, ma decelero l’andatura e i miei occhi si torcono senza farsi scoprire a sbirciare dietro di me. Di scorcio vedo il ragazzo che ci ha superate girarsi anche lui all’indietro, anche lui sorride, poi scuote la testa, sempre sorridendo, e rotea su se stesso, inverte la marcia, ci raggiunge. Si allinea a noi tre. «Ciao!» Ilenia non si è ancora degnata di guardare dalla mia parte o troverebbe le mie pupille a fulminarla. Io le lancio sguardi incendiari che lei non vede, perché non si volta verso di me, e infine provo a simulare indifferenza, sperando che nascosta dietro la sua silhouette, lui non mi veda. Ilenia è una bella donna, e con la tenuta da corsa che mette in risalto il suo fisico è un vero schianto. Forse le sue chiappe da urlo lo hanno catturato, e a me nemmeno ci fa caso, non nota la mia tuta e la mia maglia oversize, non si avvede neppure di Amaranta. Io però Ilenia in questo momento la sto odiando. Sono sfinita dalla corsa, credo di essere ormai paonazza, sono prossima al collasso e lei si mette a civettare. Proprio con lui. Corre impettita e sorride, quasi scodinzola come Amaranta, e lo guarda smorfiosa, ruffiana, sicura di sé, con la sicurezza di essere bella. Mentre io voglio nascondermi, scomparire. «Come va?» Risento la sua voce, è la stessa che prima di Natale mi ha detto che avrei dovuto correre, e auspico che non mi riconosca, che non si ricordi di me. «Benissimo grazie!» Siamo a febbraio, con l’inverno che pigramente inizia a sciogliersi, oggi la

giornata è magnifica, c’è il sole e correndo non si sente il freddo. «Volete compagnia?» Ma cosa le è venuto in mente, Ilenia ti prego fallo andare via. «Certo, perché no? Ti alleni spesso?» Certo? Come certo? Gli dovevi dire NO! Abbiamo corso per sette chilometri e la mia energia si sta esaurendo, le gambe non mi reggeranno ancora per molto, e questo tizio corre sparato, non sente la fatica, noncurante ci fa accelerare il o, ma io me ne accorgo eccome, il mio cuore se ne accorge, i miei polmoni se ne accorgono, manca l’aria, dentro di me si scatena il panico, la nave sta affondando, si calano le scialuppe, sul ponte c’è baruffa, caos, il delirio. Si salvi chi può! «La mia amica Nadia corre tutti i giorni, è una fanatica della corsa.» Quei due devono aver intavolato una discussione, io me la sono persa, sono troppo impegnata a cercare di respirare, un respiro dopo l’altro, di continuo, visto che si sa com’è, se non si respira è arduo sopravvivere. Dentro l’aria, fuori l’aria, inspiro dal naso, espiro dalla bocca, inspiro, espiro. Però mi sono sentita nominare da Ilenia e vorrei ucciderla. «Allora hai cambiato idea?» Raccolgo un respiro profondo per assumere una parvenza meno trafelata, meno ansimante, anche se sto agonizzando, mi affaccio. E lui mi sta guardando. Corre, fresco come Amaranta e Ilenia, che intanto mi strizza l’occhio, e io che vorrei dirle che non la sopporto, che non le parlerò mai più, che la nostra amicizia è finita per sempre. «Direi di sì..» «Hai seguito il mio consiglio..» Sì certo, come no, uff, abbiamo un ego smodato o sbaglio? «Diciamo che adesso un pochino corricchio.»

«E Amaranta, a lei piace correre?» «Lei va sicuramente meglio di me.» Gli rispondo e realizzo che l’ha chiamata per nome, si ricorda il nome del cane di una sconosciuta che ha sentito una sola volta mesi fa. In effetti Amaranta è un nome un po’ assurdo, gli dev’essere rimasto impresso. E il mio ci ha già pensato Ilenia a rammentarglielo. «Ragazze, lieto dell’incontro, ma ora vi lascio, mi lancio nei miei venti chilometri, mi sto allenando per una mezza.» Una mezza? Una mezza cosa? Venti mi sembra un numero decisamente intero! «Comunque piacere, io sono Diego» e ci tende la mano. La tende prima a Ilenia, che contraccambia prontamente cinguettando, e un secondo dopo la porge a me. E mi guarda fisso negli occhi. Io gli do la mano e lui me la stringe, piano, forte, la avvolge, non la lascia, per un istante corriamo con le mani unite, bloccando con le nostre braccia tese la corsa di Ilenia, che è in mezzo a noi e arretra di un o. Lui non distoglie lo sguardo dai miei occhi, forse vede anche il pozzo, tanto s’addentra, io lo sento che ribolle dal fondo dello stomaco, scaturiscono fiotti roventi. «Piacere Nadia, ci vediamo», stacca il suo sguardo da me e sfreccia via, corre avanti spedito e io lo seguo finché non diventa piccolo piccolo, finché non scompare. Poi crollo, morente, mi fermo di colpo e mi accascio per terra, senza fiato, senza forze, senza dignità, mentre Amaranta vorrebbe tirarmi per partire al suo inseguimento. Ilenia si arresta al mio fianco, ma lei rimane in piedi, lei potrebbe correre ancora, lei reggerebbe venti chilometri e altri venti, lei non l’ammazza niente. Tranne me, perché quando mi riprendo è spacciata. «Quindi lo conoscevi e non mi racconti niente? Ma hai visto che gambe, e il culo, vogliamo parlarne, è in forma il ragazzo, caspita che roba!» Garantito, appena riesco a rialzarmi e a deambulare per lei è la fine. La strangolo.

Oggi è il mio compleanno, sono un acquario, segno d’aria, estroverso, socievole, ma con un bisogno intrinseco di indipendenza, di momenti solitari, di isolamento, a tratti la necessità come sete di solitudine. È il mio compleanno e non sono andata al lavoro, oggi proprio non mi andava, oggi proprio non mi va. Non ho voglia di ricevere gli auguri dei colleghi, di stare al centro dell’attenzione, di scoprire negli sguardi degli altri i compatimenti repressi. E voglio risparmiare a Marco l’onere di venirmi a fare gli auguri, oppure la maleducazione di non farmeli. Oggi è il mio compleanno, e voglio starmene a casa per conto mio, voglio una giornata intera solo per me, voglio che sia una giornata felice. Oggi è il mio compleanno e compio trentadue anni. Stamattina faccio con calma, vado a fare la spesa e compro l’occorrente per stasera. Ilenia e Lorenzo vengono a cena da me e ho deciso che stavolta cucino io, dal primo al dolce. Voglio preparare una cenetta sfiziosa, ho pensato a qualcosa di etnico, cucino couscous alla zucca con gamberetti, ho letto la ricetta su Internet e spero mi venga bene. Compro salumi e formaggi per antipasto, patatine speziate, e gli ingredienti per le torte salate da servire come secondo, gustose e veloci da preparare. Per dessert urge una torta al cioccolato, provo a fare la Sacher. Compro il vino che adoro, dallo scaffale scelgo lo Yellow Tail, un vino australiano, sia bianco che rosso. Inoltre aggiungo il ito da abbinare alla torta. Ho già l’acquolina in bocca. Mi rifornisco di arance, mele renette e annurche, più una confezione di noci e un’altra di nocciole. Le noccioline non le ho prese, ne mangiamo troppe e ci rovinano sempre l’appetito, mi sembra che nel carrello ci sia tutto e mi avvio alla cassa. Al supermercato non c’è molta gente e davanti a me ho solamente una signora con il carrello mezzo pieno, come il mio. Dispone i prodotti sul rullo della cassa con lentezza, ma oggi non sono di fretta, me ne sto tranquilla e aspetto che tocchi a me. «Che sorpresa!» Il mio cuore si è arrestato capovolto, e sto per stramazzare al suolo, inutili i soccorsi chiamati con urgenza dalla cassa centrale, insufficienza cardiaca, fatale. Mi volto, titubante, e lui è qui, dietro di me, in piedi in coda alla mia stessa fila, proprio oggi, proprio a quest’ora, in questo supermercato e a questa cassa, e mi

chiedo se sono stata pedinata per inscenare una coincidenza. E sono paranoica. Lo riconosco subito, anche se non indossa il k-way blu elettrico e non ha i pantaloncini corti e le gambe nude. È vestito con un paio di jeans sdruciti, una felpa grigia pesante e una giacca nera sbottonata, di quelle eleganti. È Diego. Con un braccio sorregge due pacchi enormi di biscotti e ha una bibita nella mano, l’altra è libera, si stropiccia i capelli lunghi, sciolti, senza la fascia della corsa. Non mi domando che spesa sia, ma vorrei suggerirgli che per così poche cose c’è la cassa per cestelli, alcuni metri più in là. «Sei di spesa?» I suoi occhi mi guardano come se si stesse per gettare in me, giù fin dentro il pozzo, per nuotarci immerso e sollevare onde. Lo fa con naturalezza, mi parla così, senza pensare a qualcosa di brillante da dire, neanche avessimo quella confidenza in cui il silenzio non mette più a disagio. «Sì, stasera ho una cena.» Dico il minimo indispensabile, ma lui scorge le candeline che all’ultimo ho ficcato nel carrello, una sciocchezza, un divertimento infantile, in cima alle altre cose. Non tanto per il desiderio, ma se stasera vengono le bambine, a loro le candeline piacciono, e le spegneranno per me. Diego le vede e sembra che niente lo intimidisca, che nulla lo freni. Parla allargando la bocca e ogni parola pare tuffarsi in un sorriso, e mi accorgo che ha un viso molto giovane, la pelle fresca, la barba chiara, quanti anni avrà? «Ma è una cena di compleanno! E chi è la festeggiata?» Chiede le cose con un’innocenza che disarma, non ti dà modo di difenderti, di mentire. Con un dito indica il contenuto del mio carrello. «Candeline rosa, lì.» E io non mento, confesso. «Sarebbe il mio compleanno.» Stiro le labbra e annuisco, e spero non si spinga fino a chiedermi l’età. Ma lui va

oltre, lui è già decollato, è già arrivato dove io non sospetto nemmeno si possa giungere nell’arco di un tempo sterminato. E a lui bastano pochi secondi. «Cucini tu?» «Stasera mi tocca.» Cerco di fare la simpatica, ma non mi riesce granché. Ho la tremarella e intanto alla cassiera si è bloccata la cassa e la signora che mi precede non può pagare e andarsene, e io non posso pagare e andarmene. Scelgo sempre la cassa sbagliata. Però comincio a mettere la spesa sul rullo, che nel mentre si è liberato. «Ti chiederei cosa cucini di buono, ma mi piacciono le sorprese» e mi fa l’occhiolino. Io continuo a non arrivarci, lui è troppo avanti per me, troppo sfacciato, troppo libero perché possa stargli dietro, ho molta zavorra con me, il vuoto a volte pesa più di tutto, a volte ti incatena, ti impedisce i movimenti. Non capisco cosa intenda e sorrido di sbieco come ad assentire, le sorprese piacciono a chiunque. Tranne quando il tuo fidanzato a cena ti confida di aver messo incinta un’altra e ti scarica prima di scorrere la carta del menù. Penso a Marco e a quella sera dopo tanto tempo, ci penso ora, e non so perché. Forse perché questo tizio quando mi parla o mi sta vicino smuove i fondali del mio pozzo e le cose che vi sono sprofondate risalgono in superficie, riaffiorano, tornano su. «E c’è anche la tua amica della corsa?» Riemergo anch’io, per un attimo ero andata giù, nel buio, «sì c’è anche lei, lei e un altro amico, solo noi.» Dico “solo noi” per dire che noi bastiamo, che noi tre insieme siamo tutto, ma sembra che intenda che siamo pochi, che la serata non è niente di che, non sembra allettante. Mentre io non vorrei alcuna festa grandiosa, magari in un locale gremito di gente, voglio soltanto Ilenia e Lorenzo, accanto a me. Le due parti del mio cuore. «Allora potrei venire anch’io, che dici, posso?» Non credo alle mie orecchie, ma questo qui non ha alcun ritegno! Non mi conosce e si autoinvita alla mia festa di compleanno, in casa mia, con i miei due

amici fraterni. Inaudito. Nel frattempo la cassiera mi chiama, «Scusi signora», ha già fatto are i prodotti che si sono ammassati dall’altra parte, si sono aggiunte altre due persone in coda, e io mi sono immobilizzata, non riesco a parlare, a muovermi, i miei circuiti saltano uno a uno, vado in tilt. “Plié signorina, su su, dritta quella schiena, mento in alto, signorina!” «Signora avrei fatto il conto e c’è altra gente dopo di lei. Dovrebbe pagare. La tessera ce l’ha?» «Sì sì mi scusi, arrivo, ecco la tessera, quant’è?» Cerco il portafogli nella borsa e non lo trovo, ne rovescio il contenuto e finalmente pago, poi metto senza ordine quello che ho comprato nei sacchetti, e il resto delle cose alla rinfusa nella borsa, e intanto lui paga i suoi biscotti e la sua bibita ed è calmo, sereno, e sembra non accorgersi del casino che sto combinando, del mio imbarazzo, della mia goffaggine, della mia nullità. «Se non disturbo, ma mi farebbe piacere.» Mi guarda ancorandosi alla mia sponda, mentre i miei muscoli si atrofizzano e la mia pelle non riesce a stare ferma. «S-sì, ma certo, perché no? Se ti accontenti di una cena modesta.» «Dimmi solo che dolce c’è.» «La sacher.» Lo dico timida, insicura, forse la torta che ho scelto non è di suo gusto, magari non gli piace. «La mia preferita!», e mi rifà l’occhiolino. Io deduco che all’occhio abbia un tic, gli do l’indirizzo e gli spiego come arrivare, e lui mi dice che non è tanto lontano da dove abita. Poi mi saluta e si allontana verso la porta scorrevole dell’uscita, si volta a guardarmi, e io sono ancora fossilizzata alla cassa con i sacchetti pieni nelle mani. Un’immagine di me sconsolante. «Ehi auguri!», lo grida da lontano, in mezzo ai clienti del supermercato che si

voltano a guardarmi. Me ne vado. Non so bene cosa sia successo, riavvolgo gli scambi di conversazione mentre mi avvio mestamente alla macchina, e mi viene in mente che lui ha chiesto di Ilenia, si è autoinvitato quando gli ho confermato che sarebbe stata presente, penso che sia per lei che voglia venire alla mia cena, sì, è per lei. Ma non so se persino in questo momento mi convinco davvero.

Parcheggio la mia auto e scendo con le borse del supermercato, e nemmeno mi accorgo che Angela è davanti al portone. Da Natale non ha smesso di telefonarmi dalle dieci alle infinite volte al giorno, ma al telefono posso gestirla, non appena accenna a voler parlare di Marco metto giù. Di persona arginarla è impensabile, e lei ancora non demorde, ancora insiste a volermi parlare di lui, mi incita a lottare per farlo tornare indietro, sostiene che posso farlo, posso farlo tornare, secondo lei. Mi aspetta imperturbabile con il suo pellicciotto corto, la gonna aderente, i tronchetti neri con il tacco a stiletto e la piega del parrucchiere. Da vicino mi accorgo che la pelle del viso è colorita, deve essersi fatta una lampada prima di venire da me. «Ciao Angela.» La saluto e apro il portone lasciandola entrare, non oppongo resistenza, non ne ho le forze, l’incontro con Diego al supermercato mi ha scombussolata. Sono in paranoia perché verrà alla mia cena, ma forse sono più disillusa che agitata, perché ci viene per Ilenia, perché è affascinato da lei, anche se ancora non è a conoscenza della sua numerosa prole. Ma forse a lui i bambini piacciono. Me lo domando, come se fosse rilevante, come se non avessi vissuto i miei primi trentadue anni disinteressandomi dell’argomento, perché che a un uomo potessero piacere i bambini non era fondamentale, non lo è mai stato. Ma adesso me lo chiedo, penso al suo viso, al suo sorriso, agli occhi che sanno guardare dritto in fondo, senza abbassarsi, senza chiudersi, e vorrei sapere se a quest’uomo che corre e che si chiama Diego e che compra biscotti, piacciono i bambini. Di lui non so niente, ma la prima cosa che vorrei chiedergli so qual è, per caso i bambini ti piacciono? «Perché sei qui Angela?» Mi metto a sistemare le borse della spesa, mentre Angela si spoglia e si siede sul divano raggiunta da Amaranta, che le poggia il muso sulle calze velate spingendolo su per le cosce. «Ho chiamato in ufficio per farti gli auguri di compleanno e mi hanno detto che non c’eri.» «Potevi chiamarmi al cellulare.»

«L’ho fatto.» Recupero il cellulare dalla borsa e trovo sette chiamate. Una è di Ilenia, una è di Lorenzo e cinque sono di Angela, non ne ho sentita nessuna. In segreteria ci sono due messaggi vocali, li ascolto, sono Ilenia e Lorenzo che mi hanno lasciato gli auguri e mi danno appuntamento a stasera. Anna ha preferito mandarmi un sms, mi dice “goditi la tua giornata, te la meriti”, e alla fine mette uno smile. «Ti sei presa un giorno di vacanza per un motivo particolare? Ti pensavo a una Spa o qualcosa del genere, invece sei andata a fare la spesa.» «Vengono Ilenia e Lorenzo a cena, oggi è il mio compleanno e non avevo voglia di rovinarmelo andando in quell’ufficio. Voglio trascorrere una bella giornata.» «Sai mi dispiace che tu non voglia sentirtelo dire, ma stai sbagliando, ti sei arresa e ti sei messa a compiangerti, quando non hai fatto niente per farti valere, quando hai tutti dalla tua parte. Il mondo non crolla per una infatuazione.» «Angela ti prego! Oggi è il mio compleanno e non voglio parlare di questa storia. Posso esprimere un desiderio no? Almeno per oggi non voglio ascoltare nulla che riguardi lui.» Ma le mie parole imploranti neppure le solleticano il canale uditivo, e non so cosa ci vorrebbe per perforarle il timpano e approdare a scalfirle il cervello. Lei va avanti, imibile, in conflitto con me, e parte a esibirsi in uno dei suoi teatrini. «Se tu m’avessi lasciata parlare qualche volta al telefono, adesso sapresti che le cose a Marco non vanno bene. Sta ando un periodo allucinante, quella là si è piazzata a casa sua e pensa di poter comandare solamente perché aspetta un figlio suo, e Luisa non fa che ripetermi che lui non ne può più. Non è felice, capisci? Sta realizzando di aver fatto un grosso errore, gli manchi tu, e vorrebbe non averti persa.» «Naturalmente, certo. Che svalvoli ad avere una per casa lo capisco, ci credo, d’altronde era inevitabile, ma il resto sono solo congetture tue e di Me.. di Luisa, sono vostre invenzioni, perché pensate di poter deliberare su ognuno, e mistificate la realtà..»

«Ti dico che invece è proprio come ti ho detto..» «No che non lo è!» «..gliel’ha detto lui, ti dico che..» «Basta, basta, basta, non voglio sentire quello che hai da dirmi, non mi interessa, o non chiuderei ogni tua telefonata dopo cinque secondi, voglio dimenticarlo, voglio far uscire Marco dalla mia vita, dalla mia testa, da me, e non voglio che poi arrivi sempre tu a rievocarlo.» «Ma se tu mi ascoltassi potresti.. pliépliépliépliépliéplié..» «Basta! È il mio compleanno, e non ti sopporto più!» Scrollo la testa, per lanciare sulle pareti tutti quei plié striduli e aggressivi, e la mia arrendevolezza svanisce. Mollo la spesa sul bancone, afferro la giacca ed esco di casa lasciando la porta aperta dietro di me, e sento Angela che mi chiama, gridando il mio nome che sorvola le scale e tenta di brandirmi, mentre io scendo di corsa e scappo via, via da pensieri insidiosi a cui non voglio dare ascolto, speranze a cui non voglio cedere, tra illusioni in cui non voglio annegare. Quando mai ci si salva dalle illusioni? Mi sento oppressa, vessata, corro, continuo a correre, infine rallento, cammino, mi fermo lontano da casa, mi siedo su una panchina in un parchetto dove non vengo mai, frano con la testa tra le mani, e piango. Piango come se a circondarmi ci fosse il buio, come se fosse notte, il silenzio, l’oscurità. Ho la mente fracassata e lo spirito a brandelli, e smetto di accorgermi che è giorno e la gente esce di casa, percorre gli itinerari abituali, svolge le proprie attività, dall’inizio alla fine. Io sono fuori, dal mondo, dalla vita, fuori dalla possibilità di essere felice, di stare al sole. Poi sento una carezza sulla testa, una mano che mi tocca i capelli, e una scintilla mi ridà la vita che si stava spegnendo, è una scarica di defibrillatore al cuore. «Stai male?» Sollevo la testa, e vedo due occhi scuri che mi guardano, occhi profondi e nebulosi, come se avessero la nebbia dentro, le ciglia lunghe e incurvate, spesse di mascara nero.

«Ti serve aiuto?» Mi siedo diritta, mi ricompongo, mi asciugo le lacrime con tutte le dita delle mani. «No grazie, sto bene.» Via le lacrime metto a fuoco il viso che ho di fronte, è il viso fine e niveo di una ragazzina, le palpebre sono due macchie grigio scuro, compatte, e una riga nera, intensa, contorna interamente gli occhi. A sorreggere il viso si allunga nudo un collo affusolato, da giraffa, e alle orecchie sono appuntati molteplici orecchini, ma non conto quanti sono. La ragazzina si è seduta accanto a me, mi guarda, io vedo le sue mani, bianche come il viso, come il collo, ha un anello di metallo a ogni dito, persino al pollice. «Scusa non volevo impicciarmi, ma ti ho vista piangere, sussultavi..» «È ato, scusami tu, ma non sei a scuola?» Non so perché glielo chiedo, perché mi intrometto, del resto io non sono al lavoro, e non tollero l’invadenza di Angela che pretende di sapere il motivo. «Oggi avevo una visita, sto tornando a casa.» «Anch’io dovrei tornarci, ma penso che farò una eggiata. Grazie, sei stata carina a preoccuparti.» «Figurati!» Mi sorride, ha le labbra inumidite dal lucidalabbra e denti piccoli e brillanti. La ragazzina si alza, e io allora mi accorgo della pancia, la noto soltanto in questo momento. Ha una pancia gonfia, a punta, che sporge dal giubbino aperto. Non so come ho fatto a non accorgermene prima, talmente ingombra lo spazio, e non riesco a staccare lo sguardo dalla figura che ho davanti. La ragazzina è un fuscello, le gambe sono magre, sottili, avvolte in un paio di leggings neri lucidi, e il corpo esile è impegnato a sorreggere una pancia gigante, che sembra attirarla in avanti, farla cadere. Ma lei non cade, sta eretta, ricambia il mio sguardo, non se ne va.

«Ho fatto la visita dalla ginecologa stamattina, per questo non sono andata a scuola. Sta qui vicino, alla Asl.» «Ma sei andata da sola?» Fisso la pancia sotto il maglione nero con la stampa di un teschio, e mi sento basita. «Sì, sai com’è, sono una ragazza madre, o lo sarò tra poco.» «E i tuoi genitori? Non potevano venire?» Seguito a farle domande e non sono certo fatti miei, ma sono turbata da questa pancia, da questa ragazzina incinta vestita di nero, che a guardare il modo in cui si concia sembra rapita dalla morte e invece, forse suo malgrado, è slanciata più che mai verso la vita, visto che a breve darà la vita a una creatura in carne e ossa. Sono scioccata che sia così giovane, che sia una persona che è ancora una bambina a metterne al mondo un altro, una bambina che partorisce un bambino. Vederla sola mi dà una stretta al cuore. È realizzarne il senso, “sola”, a triturarmi i tessuti molli. «I miei meglio di no, lasciamo perdere. Ma chissenefrega, guarda che sto benissimo, mica ho bisogno di tenere la manina a qualcuno.» «Certo, scusa, e poi non sono affari che mi riguardano.» «Senti nemmeno io voglio tornare subito a casa, ti va se vengo a eggiare un po’ con te?» eggiamo per un’ora, e scopro che Enrica ha quindici anni e frequenta il secondo anno di liceo classico. Va a scuola regolarmente, con la sua pancia, eccetto i giorni in cui deve fare delle visite. Ci andrà fino al momento del parto, a fine marzo, in seguito dovrà restare a casa e studiare per conto suo. È d’accordo coi professori che seguirà il programma e andrà a scuola a fare le verifiche e a farsi interrogare per non perdere l’anno. Gliel’anno concesso perché Enrica a scuola è brava, ha nove in tutte le materie, persino in greco e in latino, e io non riesco a capacitarmene. Sono sconvolta. Mi sconvolge la pancia gonfia di sette mesi di Enrica, mi sconvolge il fatto che dentro ci sia un bambino che galleggia, che quasi non ci

sta più, che tra neanche due mesi sbucherà dal suo nascondiglio, che Enrica sarà madre a quindici anni. Sì perché sedici li compirà solo a novembre. Quando io a trentadue morirei se mi accadesse di restare incinta. Mi sconvolge che Enrica parli con tranquillità, da donna adulta, pienamente conscia di quello a cui sta andando incontro. Affronta la situazione con maturità, come se l’avesse già presa invece di essere in seconda, e anche allora sarebbe troppo presto. Per me è stato presto per Ilenia, che si era appena laureata! Mi sconvolge che Enrica continui ad andare a scuola, che prenda voti alti, che vada dalla ginecologa da sola. Io detesto andare dalla ginecologa per il controllo annuale, raggelo per tutto il tempo della visita, contraggo i muscoli e fatico a rilassarmi, e sento sempre male. Lei farà are attraverso il suo corpo un bambino vero, tutto intero, un bambino uscirà da lei che ha un corpo così sottile, così esile, sembra uno stelo flessibile, ti aspetti che si incurvi sotto una folata di vento. Mentre io ho fianchi larghi, fianchi che sarebbero adatti a sfornare figli, ma i miei fianchi non hanno elasticità, non hanno coraggio. Enrica aspetta un figlio maschio. Lo chiamerà Giacomo.

Enrica mi accompagna fino a casa. Mi spiace che per tornare debba farsi un altro pezzo di strada, portandosi dietro quella pancia, ma lei afferma che camminare le fa bene, la ginecologa le ha consigliato espressamente di farlo, e non si sente affatto stanca. La saluto e lei mi sorride, sembra felice, affidata alla vita, e sembra non essere contaminata dalla paura, Enrica è pulita da ogni particella di paura, non ne ha. Salgo le scale ed entro in casa, e trovo Angela seduta sul divano, tiene in mano un bicchiere in cui si è versata una bibita e lo fa oscillare in circolo, annoiata. Mi guarda. «Bentornata.» Non posso credere che sia rimasta dopo il nostro screzio, che sia ancora qui, che voglia ancora parlarmi. «Devo portare giù Amaranta, Angela, forse è meglio che vai.» «Sì sì.» Si alza, appoggia il bicchiere sul tavolino, si riveste, incredibile, se ne va, pare. «Ho finito di sistemare la spesa.» «Grazie. Amaranta vieni su, scendiamo.» Agito il guinzaglio e Amaranta mi viene incontro scodinzolando, cammina un po’ storta, si era addormentata e l’ho svegliata io rientrando. Intanto Angela estrae una busta dalla tasca interna della borsa e la lascia scivolare sul tavolino, accanto al bicchiere pieno a metà. «Auguri. È il mio regalo di compleanno.» Non do peso al tono sterile e risentito con cui mi sta parlando e mi focalizzo sulla busta. È una busta sottile, anonima, penso che contenga dei soldi, o un assegno, è da Angela. Mi sforzo: «Non dovevi. Comunque grazie.» «So cosa pensi, e ti sbagli, non sono soldi, è un viaggio. Hai a tua disposizione un voucher pagato per una località marina all’estero, per una settimana rilassante da trascorrere unicamente ad abbronzarti, e la sera indosserai abiti eleganti per

cenare al ristorante. Ne possiedi qualcuno?» «Non è che ho proprio voglia di viaggiare in questo periodo.» «Non ci devi andare domani, il voucher vale fino a dicembre, e ci sono varie opzioni tra cui scegliere, ma ti farebbe bene se partissi. Devi prenderti cura di te, trattarti bene. Per i vestiti da sera posso consigliarti un negozio..» Il trattarsi bene di Angela significa intingersi nel lusso, che non è proprio il mio stile, ma forse questa volta devo darle ragione, un viaggio mi farebbe bene, mi aiuterebbe a staccare, a rigenerarmi più in fretta. E a pensarci ho voglia di mare, ho voglia di sole, di sentire caldo, calore sulla pelle. Forse potrei partire sul serio, prendermi delle ferie anticipate e lavorare ad agosto, mentre in città si forma quella dispersione quasi surreale, che a me non dispiace. «Ah, il voucher è per due.» Lo sapevo, fidarsi di lei è sempre un errore, e io che per un istante mi ero illusa che avesse avuto un pensiero premuroso, per me, per una volta! E invece eccolo il tranello di Angela, il suo complotto. Potrei partire con Ilenia, se riesce a organizzarsi con le bambine, o insieme a Lorenzo. Ma so cosa intende Angela, so a cosa mirava quando ha pagato il voucher per due. Chi ha immaginato come mio accompagnatore. «Potresti chiedere a Marco di venire con te, ve ne stareste lontani insieme, e avreste tutto il tempo per parlare e spiegarvi, il luogo e l’atmosfera sarebbero d’aiuto per la vostra riconciliazione.» Non ci credo, l’ha pure detto. «Angela, Marco diventerà padre e vive già con un’altra donna, come fai solamente a supporre che verrebbe in vacanza con me, con la sua ex?» Sillabo le parole a denti stretti, reprimendo un moto di rabbia che si insinua tra gli spazi tra un dente e l’altro, il prurito alle mani, alle braccia, dappertutto. Metto il guinzaglio ad Amaranta e smetto di darle retta, mi giro e mi volatilizzo, con la speranza che Angela stavolta non mi aspetti tornare. Sto giù parecchio, sbuffando l’allucinazione insalubre di quella donna, il suo obiettivo perverso, che non c’entra con me, con quello che voglio io. Poi mi

decido a rientrare, e per fortuna Angela se n’è andata. Sposto la busta che è rimasta sul tavolino sopra il mobile in alto, la aprirò un’altra volta. La eggiata con Amaranta mi è servita per scaricare l’accumulo di tensione, e non ho intenzione di avere pensieri negativi per il resto della giornata. Mi metto a cucinare, mi immergo nei preparativi isolandomi dal mio cervello, cucino, impasto, mescolo, e intanto non penso. Verso le sei ho finito, e prima di andare a cambiarmi apparecchio la tavola, ma portando i piatti mi sovviene di dover aggiungere un posto. Verrà davvero? Me lo chiedo e in un lampo mi rispondo che probabilmente non verrà, comunque apparecchio lo stesso per cinque. Ilenia mi ha mandato un messaggio riferendomi che per l’occasione lascerà le bambine a casa, e io ridacchio tra me immaginando quanto ne sarà contento suo marito. Invece verrà Emma, stasera deve studiare per una verifica, e si è rifiutata di rimanere a casa, perché sa che non riuscirebbe a memorizzare una pagina, con le sorelle che la disturbano e Stefano che le chiede aiuto ogni due secondi. Così siamo in cinque, io, Ilenia, Lorenzo, Emma e Diego. Quattro sicuri, uno in forse. Non gioisco al pensiero che venga anche Emma, vorrei una serata distensiva e al suo cospetto mi turbo costantemente, ma posso soprassedere. Guardo la tavola apparecchiata, con le tovagliette all’americana e i piatti in ceramica azzurri, e mi soffermo sulla destinazione dei posti. Generalmente non sarebbe un grattacapo, ma forse per stasera è meglio ragionarci attentamente. Io posso sedermi a capotavola, oppure ci metto Lorenzo e io mi siedo accanto a lui, meglio. Di fianco a me voglio Ilenia, e non voglio Emma, che può sedersi di fronte a sua madre, e non ce l’ho di fronte io. Almeno potrò eludere i suoi sguardi indagatori. Manca Diego, che in questo modo finisce seduto davanti a me (se viene). Forse rimarrà deluso, preferirebbe stare di fronte a Ilenia, guardare lei dritto negli occhi. Allora cambio. Mi metto io a capotavola, per quanto non sia la mia posizione preferita, troppo al centro, troppo in vista, e faccio sedere Ilenia e Lorenzo vicini a me. Emma si siede vicino a Ilenia, sempre più distante da me, e Diego vicino a Lorenzo. Mi sembra possa andare. O forse è un rischio lasciare Emma davanti a lui, chissà cosa potrebbe escogitare. Ok me la tengo di fianco io, anche se rabbrividisco, e metto Ilenia al suo posto di fronte a Diego, che ne sarà felice. Andata. È tutto pronto, mi doccio, mi asciugo e affronto il dilemma di cosa mettermi. Mi sarei infilata una tuta, con Ilenia e Lorenzo non mi formalizzo, ma stasera c’è

anche Diego, e mi scopro a voler essere carina. Sfoglio i vestiti nell’armadio, ma non trovo nulla che sia decente. È tutto grigio, tutto blu, tutto da lavoro. Opto per un paio di jeans con ricami sulle tasche posteriori, che mi sono comprata un anno fa coi saldi, e me li infilo. Con disinvoltura li faccio risalire sulle gambe, si allacciano perfettamente, e restano persino morbidi in vita. Mi ricordo che quando li avevo acquistati ci esplodevo dentro, ma erano al settanta per cento di sconto e ci sono ata sopra, tanto i jeans a indossarli un po’ si smollano, però non li avevo mai messi e per la prima volta mi accorgo che sono dimagrita. Ritolgo i Jeans e rimango in intimo davanti allo specchio, mi ispeziono. Noto che la vita si è assottigliata e pure i fianchi, che sono meno sporgenti. Mi rimiro da ogni lato, girandomi di qua e di là, tiro in dentro la pancia, mi impettisco, ho sempre avuto un seno generoso, terza coppa c. Mi decido, mi dirigo a pesarmi. Non mi peso da prima che iniziassi a correre, me ne sono dimenticata. Salgo sulla bilancia, rallento il respiro, guardo giù. Ho perso tre chili e mezzo, strepitoso! Torno allo specchio e mi riguardo. Il mio corpo sta cambiando, e anche la mia pelle. Gli innumerevoli scrub l’hanno levigata alla perfezione, e la corsa l’ha ossigenata, l’ha resa più lucente, purificata. Mi rimetto i jeans e finisco di vestirmi, indosso una camicetta bianca che sbottono in alto all’altezza del seno, pettino i capelli in una treccia laterale e mi metto un velo di trucco, un ombretto chiaro sugli occhi, il mascara, la matita viola nella rima inferiore, che fa risaltare la punta di verde che ho nelle iridi castane. Completo il look con un paio di orecchini pendenti e mi specchio sopra il lavandino. E mi trovo bella. Per un attimo mi spengo, perché mi torna in mente che a Diego piace Ilenia, non gli interesso io, ma perché mai dovrei crucciarmi, a me non piace certo Diego, è solo che mi sarei sentita lusingata se si fosse sentito attratto da me, di recente ho avuto l’autostima tranciata di netto, ma non fa niente, stasera mi sento bene così, sto bene con me stessa. E chi lo dice che sicuramente viene? Anzi spero che non venga, voglio are una serata favolosa con i miei due preziosi amici, le due persone senza le quali non potrei vivere, senza di loro mi sentirei orfana, sola al mondo. Torno in sala e mi intrattengo a studiare la tavola, ripercorro la disposizione dei posti e temo che in un momento di disattenzione qualcuno possa sedersi dove gli capita. Allora apro un cassetto alla ricerca di un foglio bianco. Lo ritaglio e ne ricavo cinque biglietti rettangolari che piego a metà, su ognuno scrivo un nome

con il pennarello e li ripongo in piedi vicino ai bicchieri, uno per ogni posto. E il biglietto con il nome di Diego è lontano dal mio.

Ilenia arriva per prima insieme a Emma, che mi fa gli auguri e se ne va diretta nell’altra stanza a studiare, dicendoci di chiamarla quando sarà pronta la cena. Amaranta la segue e si sdraia sul tappetino ai piedi del letto, mentre Emma si distende sulla coperta a pancia in su, con il libro di storia aperto sopra la testa. Io e Ilenia ci sediamo sul divano, lei si lascia cadere e stramazza sullo schienale, è stata una giornata pesante e ora può allentare la tensione. Per scrupolo rialza la testa e mi chiede se può aiutarmi a fare qualcosa, nel caso non si opporrebbe, ma le dico che è tutto pronto e di non preoccuparsi, e lei ributta la testa all’indietro. Poi la gira verso di me, senza sollevarla, e mi guarda con occhi che luccicano. Mi dice che stasera sono bella, più del solito, anche se lo sono sempre. Aspettiamo Lorenzo e ci versiamo lo chardonnay nei bicchieri e io colmo di patatine al pepe rosa un paio di ciotole. Chiacchieriamo, Ilenia si dà una spinta e si scolla dallo schienale del divano, Lorenzo ci annuncia di aver terminato il suo romanzo e ora vuole provare a farlo leggere a qualcuno dell’ambiente, per vedere cosa succede. Claudio è alquanto scettico, è noto, ma ha spronato Lorenzo a pubblicarlo, e io dentro di me lo ringrazio, per non aver ucciso il suo talento con la condotta spietata dell’uomo d’affari, come sa fare lui, perché i doni che abbiamo a ignorarli marciscono. Io credo nella bellezza di Lorenzo, ho letto la prima bozza del libro e l’ho trovata entusiasmante. Gli dico che voglio leggerlo di nuovo al più presto, che la prima copia voglio comprarla io, gli dico di crederci, e facciamo un brindisi al suo successo. Sono andata a recuperare i piatti su cui ho accuratamente riposto gli affettati e i formaggi tagliati a cubetti con gli stuzzicadenti infilzati, e portandoli a tavola trovo Ilenia che la osserva perplessa. «Perché c’è un posto in più? Chi viene?» «Ci sono i segnaposti, mi raccomando non vi sbagliate.» Ilenia mugugna qualcosa e legge i nomi sui biglietti, per ultimo afferra quello dalla parte opposta alla sua e ci legge il nome di Diego. «Diego? Diego chi?» Lorenzo si avvicina intrigato e vuole sapere di chi si tratta. Stasera risplende, stasera è felice, e vederlo così rende più luminosa anche me.

«Il ragazzo della corsa.» Ilenia è stanca e fatica a fare i collegamenti, storce il naso, la fronte aggrottata, e infine ci arriva. «Il ragazzo della corsa! Il K-way blu!» «Quale ragazzo? Quale K-way?» Lorenzo non sa di chi parliamo e si sente escluso, mette il broncio. «Si dà il caso che sia il ragazzo che la tua cara cugina ha abbordato l’altro giorno al parco, voleva divertirsi e deve aver fatto colpo.» Lorenzo sposta l’attenzione da me a Ilenia e aspetta di sentire la sua versione dei fatti. «Innanzitutto l’ho abbordato per te, perché si vede che ti piace e si vede quant’è carino. Lory dovresti vederlo, ha due gambe tutte muscolose, brrr, mi vengono i brividi al solo pensiero di sfiorarle», e si morde un labbro socchiudendo entrambi gli occhi, le palpebre che vibrano. «Ile non fare la scema!» «E vogliamo parlare del fondoschiena?» «Ile!!» «Che c’è, se ha un bel culo! A proposito, come mai stasera viene, cos’è successo?» «È successo che stamattina l’ho incontrato al supermercato e mi è scappato della cena di stasera, e lui si è autoinvitato.» «Però, intraprendente il ragazzo!» Lorenzo mi guarda ammiccante: «E brava Nadia! L’hai proprio folgorato, sono orgoglioso di te.» Arrossisco, forse mi piacerebbe che fosse vero.

«Ma non sono io che ho fatto colpo, è stata Ilenia. Si è autoinvitato quando ha saputo che stasera c’era lei, anzi me l’ha proprio chiesto, se sarebbe venuta alla cena.» Lorenzo torna a essere assorto, mentre Ilenia scoppia a ridere, divertita. «Nadia, credimi, sei un tesoro e ti voglio tanto, tanto bene, ma sei un’ingenua!» «E perché scusa? Giuro, mi ha chiesto se alla cena c’eri tu!» Mi offendo, non è colpa mia se lei è attraente e piace a tutti gli uomini con cui civetta. «Come vuoi, allora vedrò di flirtare tutta la sera, cosa dici, devo confessargli subito di avere altre tre figlie a casa o posso fingere di avere solo Emma, oppure senti, la nascondiamo di là e mi presento single e a caccia di bei maschioni.» Ilenia calca le ultime parole gonfiando la voce, si diverte e io mi indispettisco. Me la prendo perché è vero, Diego mi piace, però non mi interessa piacergli, non ho intenzione di imbarcarmi in una relazione, non voglio nemmeno pensarci. Mi piace Diego? Ebbene sì, mi piace, ma non lo dico, faccio l’offesa. «Piantala Ile, magari neanche viene, anzi, ormai è tardi, per cui.. dai mangiamo, chiamo Emma.» Vado in bagno a guardarmi allo specchio, a controllare se sono arrossita, indagando questa nuova immagine di me, e mi attardo qualche minuto. Torno con Emma e Amaranta che ci segue, e vedo Diego nella mia sala, sopra il mio tappeto, al centro della stanza, tra Ilenia e Lorenzo. Appena mi vede, Ilenia si dirige sollecita a prendergli da bere, e Lorenzo mi a vicino con il suo giaccone in mano per andare a metterlo sul letto, e commenta: «Wow!!». Zitto, penso, che ti sente, alzo gli occhi e incontro quelli di Diego che mi stanno guardando. È rimasto lì, sul tappeto, è sempre stato così sfrontato, così esuberante nei nostri fugaci incontri, invece adesso è lì, in mezzo alla sala, e appare quasi timido. Ha la giacca di stamattina, ma sotto ha indossato una camicia, i capelli lunghi sciolti, ancora umidi dalla doccia. Amaranta gli si avvicina prima di me, lo annusa, scodinzola, lo riconosce, e gli abbaia per salutarlo, assumendo la posizione da gioco, con le zampe anteriori stirate e il sedere all’insù. Fingo nonchalance e mi avvicino anch’io, lo saluto porgendogli

la mano, per educazione, di fatto sono la padrona di casa, e lui la afferra per tirarsi fino a me, e mi dà due baci sulle guance, che per me sono due stilettate incrociate allo stomaco. Mentre lui mi bacia Amaranta gli salta addosso, si prende questa confidenza, io la sgrido, di solito non lo fa, ma Diego non si scompone, glielo lascia fare, glielo concede, e nel frattempo mi porge un pacchetto. «Ti ho portato un regalo.» «Non ti dovevi disturbare..» Credo di arrossire come se mi fossi abbrustolita ai raggi di una lampada abbronzante, non mi sentivo tanto in imbarazzo da molto tempo, e nemmeno così felice. Davvero mi sento felice? Dovrei rifletterci, ma ora non ho il tempo di pensarci su. «È un compleanno no?» Ilenia torna e gli porge il bicchiere di vino che ha versato per lui, e Diego la ringrazia di striscio, continua a guardare me. Appoggio il suo regalo sul mobile, chiuso, e chiedo a Ilenia di darmi una mano con la cena. Ci rifugiamo ai fornelli, ho bisogno di sfiatare l’ebollizione, recuperare un colore invernale, meno rosso, meno caldo sulle guance. Intanto sento che Lorenzo sta parlando al cellulare in corridoio, credo sia Claudio. Diego rimane in sala da solo con Emma, e io non lo perdo di vista, temendo per quello che lei potrebbe dirgli. Ti prego Emma non dire niente, non dire niente, non dire niente. Io non li sento, ma Diego gironzola curiosando intorno alla tavola, sporgendosi a ogni posto, ed Emma se ne sta in piedi appoggiata alla sua sedia. Ha l’aria tenebrosa, è scocciata perché vuole tornare a studiare, vuole sbrigarsi a cenare, non è in vena di fare domande inopportune e di mettere in difficoltà gli sconosciuti. Li guardo e vedo Diego che si china di lato abbassandosi verso di lei, per parlarle sottovoce e dirle qualcosa all’orecchio. Emma fa una smorfia e alza le spalle, in segno che non le importa, anche se non so cosa. Diego si allunga sopra la tavola, prende in mano il segnaposto col suo nome e ne inverte la posizione con quello di Emma. E dai movimenti labiali leggo che le dice “grazie”. Poi alza

lo sguardo verso di me e mi sorprende a guardarlo. Mi sorride, mi aspetta. Quando io e Ilenia li raggiungiamo, Diego si siede vicino a me, con gli occhi penetranti, che mi bucano l’anima, e indica Emma. «Ci siamo scambiati il posto.» C’è un momento in ogni storia d’amore, un istante preciso, il più bello, ed è l’istante in cui ci si guarda negli occhi, e ci si innamora. Accade ora, mentre io e Diego ci guardiamo, seduti vicini a tavola, a casa mia, alla mia cena di compleanno. Anche se l’amore rimane silente, inesplicabile.

Dopo aver fatto un brindisi ai miei trentadue anni (spiattellati a tradimento), che mi imbarazza moltissimo, perché Diego mi sorride a pochi centimetri di distanza, cominciamo a mangiare. Gli antipasti finiscono velocemente, Diego appare disinvolto, non si sente un intruso, e conversa con fare rilassato, sembra gradisca la combriccola. Ma nonostante il clima amichevole, temo fortemente che Emma se ne salti fuori con una delle sue verità sputata nel piatto, o gettata in faccia a Diego, ho paura che gli riferisca di me e di Marco, ho il terrore che gli sveli tutte le mie insicurezze. Temo che lui mi guardi e veda la gola spalancata del pozzo, ho paura che lo scandagli, scoprendo ogni cosa. Temo che mi spii e si accorga del cartello lampeggiante con la scritta “pericolo”. Curo Emma con la coda dell’occhio, e la scopro a fissare Diego, e penso che ci siamo, ora ne dirà una delle sue. Lo fissa, lo studia, però rimane zitta, e finisce di masticare il prosciutto. Ilenia si alza per raccogliere i piatti vuoti, e mi chiama per seguirla a prendere il couscous. Mi allontano dalla tavola esitante, vorrei non dover abbandonare il campo, poterlo sorvegliare, ma Diego sta parlando con Lorenzo del suo romanzo, e confido che per ora la situazione sia sotto controllo. Torno con la ciotolona di couscous che metto al centro della tavola, Ilenia distribuisce a ognuno un piatto pulito, e uno alla volta ci serviamo. Il vino abbonda, nei bicchieri viene rabboccato di continuo, e la cena prende una piega diversa, comincia a muoversi con una velocità differente. Ilenia e Lorenzo, alternandosi e sovrapponendosi, fanno domande a Diego, lo incalzano e quasi non lo lasciano finire di rispondere. Vogliono sondare i suoi interessi, i suoi progetti, conoscere quello che fa nella vita. È palese che Diego deve dirci ogni cosa, senza tralasciare niente. Io provo a cambiare discorso, non voglio che Diego si senta sotto assedio, ma lui non sembra essere in difficoltà, è l’ospite d’onore della serata. E anch’io sono curiosa di sapere qualcosa di lui (tutto!), anche se non oso fargli domande, e ascolto le risposte a quelle che gli porgono i miei due privatissimi detective. Mentre vorrei origliare i suoi pensieri. Diego ha ventiquattro anni, e si sta laureando in giurisprudenza, che ha frequentato alla statale di Milano. I suoi sono separati, e ha due sorelle maggiori già laureate, che vivono a Roma e a Firenze. Sono una famiglia un po’ dispersa,

ma affiatata. Lui ha sempre vissuto a Milano con la madre, ma per preparare la tesi è venuto a stare dal padre, che abita qui a Monza. Dovrebbe farcela per la sessione di aprile, e in seguito cercherà lavoro in qualche studio milanese per il praticantato, o forse andrà a Londra per un anno o due, per perfezionare l’inglese. Vorrebbe fare l’avvocato per difendere i diritti civili, ha slanci umanitari e altruistici, ma non ha un piano definito per il suo futuro, è attirato dalla gente, ama l’avventura e il campeggio. E la corsa, ovviamente. Ama lo sport, gli animali, la montagna, ama un sacco di cose, a casa di sua madre condivide la stanza con Asia, una cocker bianca e marroncina, dolcissima, che ci mostra sul cellulare, e non è fidanzato da qualche mese. Ha avuto una storia di tre anni e mezzo con una compagna universitaria, ma è finita per scelta di lei, che gli ha preferito un amico in comune. Ne parla col sorriso, non pare soffrirne, dice che non era quella giusta, non era la donna destinata a sé, quindi meglio così. Diego si confessa onestamente, con umiltà, e io incamero ogni particella del suo racconto che ritrae un pezzetto di lui, li incastro tra loro e formo il suo ritratto, e non riesco a non pensare alla sua età. Ha ventiquattro anni! Ne compirà venticinque in estate, ma io oggi ne compio trentadue, sette più di lui, che vicino a me è un bimbo, non posso essere tentata da un ragazzo tanto giovane, mi sentirei malissimo a uscirci insieme, non potrei mai. Eppure fantastico di essere al tavolo di un ristorante elegante, seduta di fronte a Diego, con un abito scollato, e me ne vergogno. Credo persino di arrossire, stasera è un vizio, e mi defilo con la scusa di prendere un’altra bottiglia dal frigo. «E così credi che ci sia una persona destinata a ognuno di noi, una sola?» Sento Lorenzo che glielo domanda e tendo l’orecchio per ascoltare, anche se non mi volto, mentre apro la bottiglia di vino. «Assolutamente sì. Ci sono tante persone che possono combaciare con noi, farci stare bene, farci sentire felici, ma solo una è perfetta, solo una tra tutte è davvero lei.» «E pensi di poterla trovare, voglio dire, come fai a riconoscerla?» «Direi che non lo so, ma so che non l’ho ancora trovata, e quando la troverò lo saprò.» «Allora propongo un brindisi per augurarti di trovarla. Nadia raggiungici, c’è un

brindisi importante da fare!» Torno a tavola e tengo il viso nascosto, caso mai il rossore sulle mie gote non sia completamente svanito, mentre Lorenzo si alza e proclama il suo brindisi. «A Diego, che trovi la sua lei. Ti auguro di essere un tipo fortunato, perché deve accadere raramente.» «Ti sbagli, accade sempre.» Quando il mio bicchiere tintinna contro quello di Diego, lo sbircio con l’apice degli occhi, e lui mi sta fissando intensamente, non smette, beve un lungo sorso di vino e continua a guardarmi. Mi guarda e sembra che mi stia ando attraverso, sradicando ogni radice che è rimasta di me, fino a farmi vacillare. Mi gira la testa, mi siedo e abbasso lo sguardo nel piatto. «Ti piacciono i bambini?» La voce di Emma giunge nitida, sovrastante. Dirigo lo sguardo verso di lei e la vedo che sta puntando Diego con le pupille inchiodate su di lui, esige la risposta. Ilenia sussulta, sa che Emma potrebbe eccedere e che io finirei per sotterrarmi. Ma sono contenta che abbia fatto questa domanda, per la prima volta sono felice che sia così diretta, perché voglio conoscere la risposta. Mi volto timorosamente verso Diego e non mi sembra che si sia seccato per l’argomento, ha accettato di essere l’oggetto di una specie di interrogatorio, e acconsente a che Emma vi partecipi, risponde serenamente. «Sì, i bambini mi piacciono, io ne voglio almeno dieci.» Risponde con naturalezza e continua a tenere lo sguardo rivolto verso Emma, è pronto per il responso o la domanda successiva, e io mi accingo a inabissarmi, certa che Emma mi indicherà e mi accà di non andare bene per lui, perché io figli non ne voglio, e lei è sveglia, e sicuramente ha capito perché Diego è seduto a tavola con noi, e perché sua mamma e suo zio gli fanno tutte quelle domande. Sto per rialzarmi, per andare a prendere dell’altro vino, o le patatine che sono finite nelle ciotole, o cercare direttamente una frusta con cui fustigarmi, ma Emma non chiede altro, sorride stirando le labbra, si ficca un quadratino di torta salata in bocca. È soddisfatta così, e mentre mastica gonfiando una guancia, appare compiaciuta. E pure lei è più lungimirante di me.

Poi Diego si volta dalla mia parte. «E a te piacciono i bambini?» Ovvio, per una volta che Emma non si accanisce, ci pensa lui ad affondare il colpo. E lei sogghigna sotto i baffi, come se si fossero messi d’accordo, scaltra undicenne manipolatrice. “Dunque signorina Nadia, le piacciono o non le piacciono i bambini? Plié, plié, plié, i bambini signorina Nadia, sa cosa sono? E allora risponda, sì o no?!” A sorpresa sono reticente sull’argomento, spero che Ilenia faccia qualcosa per evitare il peggio, che intervenga a mio favore, invece tutti tacciono. «Sì, mi piacciono, certo, ma io non ne voglio.. di miei.» Concludo la frase rivolgendomi al vuoto e porto alla bocca il bicchiere, trangugiando tutto il vino che contiene. Deglutisco, ascolto il silenzio attorno a me. Poi spio Diego, mi sta ancora guardando, mi sta ancora sorridendo, lascia cadere il discorso, ma non il sorriso, non sembra deluso dalla mia risposta, forse non ci crede, forse ha intuito qualcosa, che a me resta inafferrabile, forse ha frainteso. Non importa, Emma non aggiunge altro, non parte alla carica sopra di me e possiamo proseguire a cenare. Diego mi piace, è spontaneo, accattivante. Ma non può essere l’uomo per me. Intanto è più giovane, troppo più giovane, un fanciullo. Inoltre lui un giorno vuole avere dei figli, e io non ne voglio nel modo più assoluto, questa mia certezza è incrollabile, è un fondamento inalterato di quella che sono. Lui è espansivo, senza filtri, non ha barriere con cui tenere il mondo a distanza, non ha difficoltà a far entrare ciò che lo circonda nella sua sfera intima, non teme il contatto, mentre io di barriere ne ho un’infinità, innalzate a cerchi concentrici intorno a me. In pratica vivo al centro di una cipolla, e non posso tagliarla, o mi verrebbe subito da piangere. La verità è che lui sembra fantastico, e sono io che non vado bene per lui, non sono adatta a essere la sua donna, non sono lei, non sono la donna destinata a lui. E questa consapevolezza mi rattrista. Non starei mai con uno come lui, non potrei, eppure sapere di non essere “lei” mi delude. Inesorabilmente. Diego parla con Ilenia e Lorenzo e io lo osservo di nascosto, il colore dei capelli, che ha raccolto in un codino dietro la nuca per stare a tavola, la freschezza del volto, il velato strato di barba che si è lasciato crescere sulle guance. Scorro sui

lineamenti piacevoli, fluidi, e mi perdo nella cavità della sua bocca. Tra il naso e il labbro superiore c’è una cicatrice sottile, che ci ha raccontato di essersi fatto da bambino, saltando da un muretto. A fine cena servo a ognuno una fetta di torta, le candeline invece le ho imboscate, per non soffiarle davanti a Diego, una scena che mi figuro oltremodo imbarazzante. Emma è già andata in camera per finire di studiare, il dolce non le va, Lorenzo versa il ito nei bicchierini e Ilenia abbassa le luci e accende la musica in sottofondo, per creare atmosfera. Però io mi irrigidisco, perché torna con in mano tre pacchetti, è il momento di aprire i regali, e io me ne ero dimenticata, non ci stavo pensando, e scartarli con Diego presente è diverso, mi fa andare in iperventilazione. Arrossisco di nuovo, ma per fortuna c’è poca luce e non credo se ne accorga. Apro il primo regalo, è di Lorenzo, mi ha comprato un assortimento di dvd da guardare in questo periodo di ritiro, saranno utilissimi. Ilenia invece mi ha regalato un buono per una giornata alle terme, più un completino intimo di pizzo per tirarmi su, che faccio immediatamente sparire. Infine tocca al regalo di Diego. È un pacchetto morbido, avvolto in carta argentata, senza fiocco. Lo tengo tra le mani. “Coraggio signorina Nadia, cosa aspetta? Di farsi venire la muffa? Eeee plié!” Scarto il pacchetto, e le mie dita tremano visibilmente mentre separano i lembi d’argento. «Ti piacciono? Ho pensato che ti potevano servire.» All’interno del pacchetto ci sono degli indumenti ripiegati. Sono un paio di pantaloni grigi da corsa in tessuto tecnico, con i profili fucsia, e una maglietta con i colori invertiti, fucsia profilata di grigio. Spiego i pantaloni e penso che siano strettissimi, non ci entrerò mai. «Sì sì, grazie, hai avuto una bella idea», e li accantono, ma solamente per sopravvivenza, iamo ad altro, via con la serata. Lorenzo e Ilenia si siedono con Diego sul divano, li sento chiacchierare di maratone e tempi di corsa, Lorenzo si rolla una canna e io spero che Diego, da sportivo, non si risenta. Nel frattempo vado a fare il caffè e a rifiatare un po’ per conto mio, un po’ distante, un po’ dissociata, per appianare lo scompenso

cardiaco. Ho messo la moka sul fuoco, sono sovrappensiero e non mi accorgo di Diego che si alza dal divano e viene vicino a me. Alzo lo sguardo, è qui. Con il dorso dell’indice mi sfiora il fianco, lo accarezza blando, ando il dito su e giù. Mi tocca con un dito e io avvampo. Credo di essere fosforescente, e i valori di adrenalina mirano alle stelle. Cerco di sorridere e mi scosto appena, ritrosa, staccandomi dal suo dito. È che non ci riesco, non ce la faccio a essere toccata, oltretutto da uno a cui basta sfiorarmi per scavare un avvallamento in cui l’acqua del pozzo si riversa, inondandomi, spurgando qualcosa che non sono ancora pronta a lasciare andare via. «La torta era deliziosa.» Formicolio crescente, «Grazie.» «Sublime.» Insofferenza respiratoria, «Addirittura?» «Però non hai spento le candeline..» Bocca arsa, salivazione a zero, panico dirompente, «no, infatti, le avevo prese per le bambine..» «..grazie per stasera, mi ha fatto piacere venire..» Pressione a mille, non respiro, mi occorre aria, «Ilenia e Lorenzo sono carini vero?» Li coinvolgo come ancore a cui aggrapparmi, per non essere trascinata altrove dalla corrente con cui Diego mi travolge, stando fermo vicino a me. «Sì sono carini. E anche tu.» Lo dice a effetto, si arroga il diritto di piacermi, aspetta la mia reazione, ma il caffè è salito e io afferro la caffettiera spostandomi verso le tazze che ho già preparato sul vassoio, mi ustiono un dito, lo metto sotto l’acqua fredda che faccio scorrere dal lavandino, mi giro di schiena, non lo vedo, “pliépliépliépliépliépliéplié”, ho mulinelli nella testa. «Ti andrebbe di venire a cena con me? Un indiano, una pizza, il giapponese ti

piace?» Adoro il giapponese. «Non saprei, io..» «Devi dire solo sì.» Non so dove, ma riesumo la spinta e mi volto verso Diego. Sono in piedi, accaldata di fronte a lui, il dito scottato stretto nell’altra mano, incredibilmente al di sotto della mia frontiera di sicurezza. Lui resta in sospeso, ma sento come se si avvicinasse, come se mi spingesse, con la sua energia, che emana verso di me, che mi investe e mi fa tremare. Per me sarebbe “troppo”, troppo invasivo, troppo esigente, non posso farcela, devo dire di no, declinare gentilmente il suo invito, o mi toccherebbe sovvertire regole che mi fanno sentire sicura, che mi lasciano protetta, regole che io stessa ho stabilito per me, valicando confini che ho tracciato personalmente. Lui mi guarda, lui mi sorride, le mie emozioni sono in sommossa. Devo assolutamente dire di no. «Sì.»

La mia cena di compleanno è stata giovedì, oggi è sabato. Ho ato un’intera giornata a tremare pensando che Diego mi chiamasse o mi mandasse un messaggio. Ci siamo scambiati il numero di telefono e siamo rimasti che ci saremmo sentiti per organizzare una cena il prossimo venerdì (ho glissato su questo weekend e preso tempo), ma non abbiamo specificato chi sarebbe stato a contattare l’altro. Ieri non ha chiamato e non mi ha mandato messaggi fino alle dieci e mezza, quando sono andata a dormire. Stamattina mi sveglio presto e la prima cosa che faccio è controllare il cellulare, ma non mi ha scritto neppure dopo quell’ora. Ci resto un po’ male, anche se spero che non si faccia sentire, che cambi idea, che non debba uscire con lui venerdì sera. E lo so che sono illogica, in me non torna niente. A Ilenia e Lorenzo Diego è piaciuto, e si sono esaltati quando se n’è andato e io ho farfugliato che avevamo un mezzo appuntamento. Mi proibiscono di tirarmi indietro, mi esortano a uscirci, a fregarmene dell’età. Non ci devo mica costruire un futuro, devo solo mangiare giapponese, giocare a flirtare, e trascorrere in sua compagnia qualche ora piacevole. Non hanno effettivamente torto, potrei concedermi una parentesi di svago, una gioia effimera, senza finalità, è che non so se ne sono capace. All’università ho avuto una storia seria con un compagno di corso, un mio coetaneo, ci siamo lasciati alla laurea di comune accordo, con grande esultanza di Angela, che per quattro anni mi ha ossessionato perché lo mollassi, lei ama interferire e tormenta in un senso o nell’altro, ed è estremista, ad essere pacata non ce la fa. Prima ancora, al liceo, ho avuto un ragazzo, serio, che abitava in Puglia, e che avevo conosciuto al mare. Ci vedevamo ogni tanto e più che altro ci sentivamo al telefono, e neanche lui piaceva ad Angela, anzi ne era inorridita, ma il fatto che fosse a quasi mille chilometri da Monza, aiutava a zittirla. Altre storie non ne ho avute, né avventure. Finora quindi ho fatto l’amore con tre uomini, a parte un paio di volte con un compagno del liceo, ma preferisco averlo rimosso. La prima volta, con il ragazzo di Lecce, è stata una delusione, e in seguito non è mai stato nulla di trascendentale, ma so che è colpa mia, non riesco a sciogliermi quanto servirebbe, a lasciarmi veramente andare. Quando faccio l’amore con un uomo la distanza è così ravvicinata e il livello del contatto così alto, che anche se mi concedo mi trattengo, trattengo un trancio di me, è un istinto di conservazione. Faccio colazione e mi metto a pensare a Diego. Ho voglia di uscire con lui, ma

ho paura di non saper reggere la sua irruenza, temo di immobilizzarmi e di restargli secca di fronte. Mi vedo, in arrampicata, spiaccicata alla parete in cerca di un appiglio, senza poter né salire né scendere. E ho paura, ho una paura sconfinata, però penso che con lui ci voglio fare l’amore, che è il tipo giusto, perché ha l’ardimento di buttarsi, di afferrarmi, di prendermi senza che sia io a dovermi sciogliere per forza. Con un altro, magari timido o impacciato, non ne caverei nulla per una lunga serie di uscite. Invece voglio che avvenga subito, la prima sera, una volta sola. Voglio togliermi il pensiero. E poi nient’altro. Voglio fare l’amore con lui, e voglio che sia empio. Voglio fare l’amore con un altro uomo, perché non voglio che Marco sia l’ultimo con cui l’ho fatto, voglio fare l’amore una sola volta con uno di cui non sono innamorata, con uno con cui non mi interessa avere una relazione fissa (che venga definita seria), con uno che non è e non sarà il mio fidanzato, e so che non mi richiamerà. Mi chiedo se Diego voglia fare l’amore con me, perché dovrebbe volerlo, per lui sono over, sono flaccida, non sono dimagrita abbastanza, non sono tonica a sufficienza. E lui è bellissimo. Squilla il telefono, ed è il segnale di Ilenia. Quando risuona rispondo, e parliamo per una mezz’ora. Mi chiede se Diego si è fatto vivo, e mi ribadisce quanto è perfetto per me in questo momento, che è proprio quello che avevo bisogno mi capitasse. E non è un caso, devo lasciarlo entrare nella mia vita, glielo devo permettere, devo permetterlo a me stessa, non farlo sarebbe imperdonabile. «Non mi hai detto cosa ti ha regalato tua madre.» «Ah sì, Angela mi ha regalato un viaggio, una settimana in un luogo esotico, e ci posso andare più o meno quando voglio.» «Cavolo, il suo viaggio umilia il mio buono per le terme.» «Niente affatto, non vedo l’ora di trascorrere una domenica io e te sole a coccolarci. Comunque se vuoi puoi accompagnarmi, il viaggio è per due, e non ti dico a cosa alludeva Angela nel regalarmelo.» «Non ci credo, non avrà pensato che saresti partita con Marco, o sì?» «Stavolta si è superata, ma non voglio darle importanza. Ce la farai a liberarti una settimana per venire con me?» «Ci provo, magari se riesco a piazzare le bambine con i nonni..»

Mentre sono al telefono con Ilenia suona il citofono. Io quasi mi spavento, e rabbrividisco pensando a chi possa essere. Mi vengono in mente Angela e Diego, e la mia reazione ai due pensieri è opposta, eppure si somiglia. Ho la pelle d’oca in entrambi i casi. «Scusa Ile, mi suonano al citofono, ci sentiamo dopo.» «A dopo, ciao tesoro.» Mi reco al citofono sulla difensiva, sollevo la cornetta poco convinta, e sento una voce allegra, risonante. «Ciao Nadia, sono Enrica.» Resto un attimo perplessa, non conosco nessuna Enrica, forse si è sbagliata, poi mi rammento della ragazzina che ho conosciuto l’altro ieri. «Ciao, hai bisogno di qualcosa?» «No, sono ata a trovarti. Ti disturbo?» «No no, ti apro, sono al secondo piano.» Dopo pochi minuti apro la porta di casa e sul pianerottolo c’è Enrica, la ragazzina giraffa, con la sua pancia che in due giorni sembra essere cresciuta un altro po’. La invito a entrare, ma la sua presenza mi disorienta, mi chiedo cosa ci faccia qui. Enrica entra in casa, si toglie il giubbino e curiosa qua e là, infine si siede sul divano e allunga le gambe sul tappeto. Nel frattempo si è svegliata Amaranta, che dormiva in camera mia, e accorre a salutare la nostra ospite. «Ciao! Che bella che sei!» «Lei è Amaranta.» «Ciao Amaranta, ma sei stupenda! Io adoro i cani, ne vorrei uno anch’io. Quanti anni ha?» «Ha due anni, ed è una boxerina beneducata.»

«Che brava!» Amaranta si è seduta sul tappeto e si fa grattare da Enrica dietro le orecchie, tiene gli occhi chiusi e si gode le coccole. «Ti offro qualcosa?» «Solo un bicchier d’acqua grazie. Per arrivare qui ho fatto una camminata lunghissima. La mattina non riesco a dormire fino a tardi e in casa non ci voglio stare.» «E se girando per conto tuo ti succedesse qualcosa?» «Sono incinta, non sono malata. E sto bene!» È vero, anche Ilenia ha sempre fatto ogni cosa normalmente fino al parto, ma Enrica è così giovane, mi sembra debba essere fragile, ma probabilmente mi sbaglio, Enrica è forte, senz’altro più forte della sottoscritta. Se fosse capitato a me quello che è successo a lei, restare incinta a quindici anni al secondo anno di liceo, mi sarei raggomitolata a piagnucolare e non avrei più smesso, né avrei mosso un dito senza il sostegno di qualcuno. E la mia vita sarebbe stata universalmente infelice. «E poi da me c’è Irene, e io meno ci sto con Irene meglio è, per tutte e due.» «Irene è.. tua sorella?» Mi siedo vicino a lei sul divano e le porgo il bicchier d’acqua. «No, mia sorella si chiama Claudia, ed è già grande, è all’università, sta studiando medicina. Irene purtroppo è mia madre, ma il nome mamma non le si addice, le starebbe meglio “signorasissignora”, vuole sempre comandare, e mi ha sempre trattata come il suo burattino, ma ora ho smesso di eseguire gli ordini. Figurati che quando sono rimasta incinta voleva costringermi ad abortire, per il disonore, ma io mi sono rifiutata e alla fine non ha potuto obbligarmi. Aveva fissato la data per l’interruzione della gravidanza, ma io quel giorno mi sono chiusa nella mia stanza e non sono uscita finché non si è arresa a lasciarmi tenere il bambino. Ci sono rimasta tre giorni, chiusa là, senza bere e senza mangiare. Ma lo so cosa pensa adesso, aspetta che il bambino nasca per portarmelo via, vuole crescerlo ed educarlo nel modo che stabilisce lei, e io dovrei starmene

buona buona zitta zitta, ma se lo può scordare, non metterà le sue grinfie sul mio bambino, può starne certa. Piuttosto dopo il parto scappo con lui dall’altra parte del pianeta.» Enrica parla senza interrompersi, senza enfasi, scevra dall’esasperazione, però è molto dura, e molto sicura di quello che dice. Io rimango sorpresa del fatto che anche lei, come me, chiami sua madre per nome. È una cosa insolita, strano incontrare per caso un’altra persona che lo fa, anche se io chiamo Angela così da quand’ero bambina, Enrica soltanto da quando è rimasta incinta, forse per staccarsi da lei, per interporre un divario tra due madri ben distinte, per assodare una distanza, per protezione. Come a dire “attenta Irene, stai in guardia da me, so chi sei!”. «E tuo papà?» «Mio padre starebbe dalla mia parte, ma se Irene dice una cosa bisogna fare tutti come vuole lei. Irene ordina e basta, e mia sorella e mio padre le vanno appresso come cagnolini, ma con me se lo scorda, per questo io la mando ai matti. Sarebbe persino capace di farmelo sparire, il mio bambino, di farlo adottare all’estero. A me viene solo da vomitare.» «E il papà del bambino?» Enrica per un attimo si acciglia, denota diffidenza, è sospettosa, forse non le va a genio che io le faccia troppe domande, però è lei che è venuta qui, che ha iniziato a raccontarmi, e infatti torna ad avere un’espressione naturale, e mi risponde. «È un uomo grande, l’ho conosciuto quando sono andata al mare, dopo la scuola, con una mia amica e i suoi nonni, ma nessuno si è accorto di noi. Abbiamo avuto un’avventura di nascosto, poi lui è ripartito, non abita in Italia, non sa niente del bambino, e io non so niente di lui, non saprei nemmeno rintracciarlo.» Resto allibita, non posso credere a quello che ascolto. Mi immagino quest’uomo adulto, schifoso e viscido, che irretisce una ragazzina innocente e poi sparisce, e lei scopre di essere rimasta incinta. È incinta e deve affrontare da sola una famiglia che le è avversa, la scuola, gli insegnanti, i suoi coetanei, dev’essere una tragedia, una tragedia di proporzioni gigantesche. Vorrei fare qualcosa per lei, aiutarla, ma è una sciagura insormontabile.

«Sì ma non stare a sconvolgerti tanto, non ero neanche vergine quando sono andata con lui.» Oggi Enrica sopra i leggings neri indossa un maglione verde acido, e alle orecchie risalta la sfilza di orecchini, stavolta li conto. Al lobo sinistro ne ha cinque, di cui tre fatti a spuntone metallico, e dall’altra parte ha un’infilata di cerchietti lungo tutto il padiglione auricolare. In totale Enrica ha tredici buchi alle orecchie. I capelli sono viola sulle punte, mentre la ricrescita è castana, e ha il piercing al naso. Da vicino mi accorgo che le sue iridi sono blu, ma come l’altro giorno appaiono nebulose, e sono ancora più profonde, il fondo per la verità sembra non esserci affatto, tanto che a guardarle mi vengono le vertigini. È un personaggio atipico, stravagante, pare una un po’ stramba, ma quando parla è cosciente, è certo che Enrica possa cavarsela da sola in ogni circostanza, è certo che Enrica non abbia bisogno di nessuno. «Tu non ne vuoi figli?» Sussulto per la domanda, ma non mi innervosisco. Da quando Marco mi ha tradita e mi ha lasciata per la ragazza che ha messo incinta, sembra che il problema di tutti sia diventato se io voglio o meno bambini, come se il mondo non ci credesse, come se volesse farmi ricredere. Ma io non cambio parere, sono ferrea nei miei convincimenti, di pietra, però poi penso che a pormi la domanda è una ragazzina di quindici anni incinta, che forse anela un briciolo di comprensione, è in cerca di sollievo, di rassicurazione. E mi spiace non potergliela dare. Rispondo con franchezza, non posso fingere, non posso mentire. «No, non li voglio.» «Però li avrai.» Mi stupisco della domanda, che poi non è una domanda, Enrica lo afferma con una ovvietà pacifica che solo io sembro non distinguere. «No, non avrò figli.» «Perché?» Di norma mi informicolerei e diverrei insofferente, ma con Enrica non avviene,

le rispondo sinceramente. «Perché non saprei fare la madre, non sarei una buona madre.» Ne sono fermamente convinta. «Io invece credo di sì, saresti una buona madre.» «Non lo puoi sapere, non mi conosci.» «Fa niente, certe cose si capiscono, si vedono. E allora le sai.» «Ti assicuro che non potrei fare la madre, credimi.» Lo dico con dolcezza, non voglio spaventarla, in fondo lei ha soltanto quindici anni e presto si troverà a doverla fare per forza, la madre. Forse dovrei incentivare la sua fiducia, infonderle un plus di coraggio, dirle che tutte le donne ne sono in grado, che i i da fare sono spontanei, ma non ci riesco, sono la persona sbagliata. «Io invece dico di sì. A volte le cose sono diverse, anche se tutto fa pensare al contrario. Per esempio io non sono così dura come posso sembrare a causa del mio aspetto.» Mi smollo in un sorriso, questa ragazzina mi riempie di tenerezza. «Lo so che non sei così dura, si vede.» «Visto? Certe cose si vedono.»

Una settimana vola e arriva anche il venerdì, non salta il suo turno, viene dopo il giovedì, prima del sabato. Ho i tremori da stamattina, ho trascorso una giornata lavorativa infruttuosa e a pranzo non sono riuscita a mangiare. Il mio stomaco gorgoglia con prepotenza e la mente ondeggia, temo persino di svenire. A casa mi sdraio dieci minuti sul divano e cerco di rinvenire la stabilità con una respirazione costante, mentre Amaranta mi guarda seduta all’altro capo della stanza, attonita, pare una sfinge. L’ho già portata giù e le ho dato la sua porzione di croccantini, per tutta la sera starà a casa tranquilla, a mordicchiare il suo osso di gomma. Diego a a prendermi alle otto, e sono già le sette e mezza. Spalanco l’armadio, e mi domando perché non ho pensato in anticipo a come vestirmi questa sera. Ho preferito credere che non sarei uscita, ero certa che Diego ci avrebbe ripensato o che un fatto esterno e inoppugnabile si sarebbe frapposto tra noi. Invece non è capitata alcuna calamità, e neppure un minuscolo contrattempo, nessun intoppo, Diego mi ha telefonato ieri sera per accordarci e stamattina ha ritelefonato per confermarmi l’orario. Mi chiama, non mi manda messaggi. Intanto mi incaponisco a voler andare al ristorante con i jeans e un semplice maglioncino, poi però vado alla ricerca dell’unico abito vagamente seducente presente nel mio armadio, un tubino blu che ho acquistato in un outlet secoli fa perché me ne ero innamorata, peccato fosse di una taglia in meno della mia. Lo scovo sormontato dalle camicie e le giacche con cui mi vesto per andare a lavorare, e lo provo pregando che la lampo sulla schiena si chiuda. Non respiro, tiro indentro la pancia. La cerniera sale fluidamente fino in cima, posso respirare. Sarei vestita, ma ho un dubbio pruriginoso, mi tolgo il tubino, sfilo le calze e mi guardo allo specchio. Indosso un paio di slip di lycra e un reggiseno completamente liscio. Forse per stasera posso fare di meglio. In fondo deve capitare una volta sola, e vorrei che andasse bene. Dal cassetto del comodino estraggo il completino che Ilenia mi ha regalato al compleanno, quello di pizzo, e sono convinta che Diego lo abbia adocchiato mentre scartavo il pacchetto, facendo finta di niente. Lo metto e mi analizzo allo specchio. Il reggiseno fascia il seno e lo alza verso il centro, e le alette delle culottes miracolosamente non creano cuscinetti. Prima di cambiare idea mi rivesto con il tubino, trattenendo di nuovo il respiro per richiudere la lampo. E penso che scegliere cosa indossare per un incontro, per me, sia stressante e straordinario. La scollatura non è profonda, ma l’abito mi stringe in vita e sottolinea le curve del seno e dei

fianchi. Per completare l’outfit penso alle decolté alte che fanno la muffa nella scarpiera, ma scelgo i miei stivali tortora di camoscio, mi trucco gli occhi con il mascara e un accenno di matita grigia, e lascio naturali le labbra, pensando che Diego vorrà baciarmi, e magari il rossetto o il gloss lo infastidiscono. E io spero che voglia baciarmi, perché sono determinata ad andare fino in fondo. Deve succedere stasera, e in seguito mai più. Sono le otto meno cinque e devo ancora pensare ai capelli. Li osservo allo specchio, sono una massa incolta e increspata dall’umidità degli ultimi giorni. In settimana ha piovuto di continuo, ha smesso solo oggi pomeriggio, e i miei capelli sono indecorosi. Se Angela mi vedesse così conciata, in pubblico mi rinnegherebbe come figlia. E, qui lo dico qui lo nego, vorrei averle dato retta ed essermi fatta una piega dal parrucchiere. Dovrei allisciarmeli con la piastra, ma Diego sta arrivando e non voglio tardare, o penserebbe che mi sto facendo desiderare, che mi sono fatta delle illusioni, pensando a un appuntamento romantico. Niente del genere, io gli piaccio, lui mi piace, lui è un ragazzo giovane che non disdegna di sarsela per una sera con una ragazza un po’ più.. agé? Bene. D’altro canto io sono una donna che ha ancora la maggior parte del proprio corpo infestata dal suo ex e voglio che per una sera sia un altro a usarlo, per dissacrarlo, torchiare la carne e spremere ogni traccia di sentimento residuo. Stasera me la voglio godere. Mi accanisco sui capelli pettinandoli con forza, estirpo i nodi, li sollevo e li tiro il più possibile per raccoglierli in una coda alta che risulti raffinata. Può andare. Diego suona puntuale alle otto, forse è un caso, o forse ci ha fatto attenzione. Agguanto al volo cappottino e borsetta e scendo le scale, prima di corsa allacciandomi i bottoni, poi rallento, e cerco di assumere un atteggiamento disteso, con una punta di indifferenza, fingendo che questa uscita sia semplicemente una delle tante. Scendendo gli ultimi scalini lo trovo nell’atrio, dove è entrato per venirmi incontro. Mi sorride, fa un inchino, e il mio cuore emette battiti amplificati, che spero non senta. Diego è vestito con un paio di pantaloni in pelle e un giubbotto nero da moto, e quasi non ci credo quando vedo che in mano ha due caschi. «Sono venuto in moto, ti dispiace?» Dissimulo, «No no, figurati.»

A me le moto non fanno paura, anche Marco aveva uno scooter (ha uno scooter), però lo usava saltuariamente, in primavera e in estate, e adesso dovrò sciogliermi la coda per poter indossare il casco, e senza pettine non riuscirò più a rifarmela precisa, si noterà una coda arruffata di capelli elettrici. E se dovesse ricominciare a piovere? Per non parlare dell’abito, che devo sollevare fin sotto il sedere e montare sulla moto scosciata, e me lo chiedo, certo, perché non sono uscita con i miei amati e comodi e rassicuranti jeans. Ma non poteva avvisarmi che veniva in moto? Mi infilo il casco e salgo dopo di lui. Mi sento instabile, non so dove tenermi con le mani e Diego mi dice di aggrapparmi a lui. La pendenza del sedile mi fa scivolare in avanti e mi ritrovo aderente alla sua schiena, con le braccia attorno alla sua vita e lui che mi prende le mani e le stringe pressandosele sull’addome. Non ho messo i guanti, e lui l’ha fatto apposta, non mi ha avvisata di proposito. Sto malissimo, mi pento di aver accettato di trascorrere questa serata e ora non so come affrontarla, mi perdo subito. Prego che il tragitto in moto sia breve, voglio scendere, voglio camminare da sola, staccata da Diego, e sedermi al ristorante dall’altra parte del tavolo, con l’ampiezza tangibile del tavolo a separarci. Diego mette in moto e schiaccia l’acceleratore, io giro la testa di lato, chiudo gli occhi, e cerco di dimenticarmi che sono appoggiata a lui, che lo sto stringendo, che i nostri corpi si stanno toccando. Il ristorante giapponese in cui mi porta lo conosco, ci sono già venuta con Ilenia e Lorenzo, meno male non con Marco, che ha sempre preferito la cucina italiana. Entrando cerco di riavermi dall’ebbrezza che mi pervade, prego di aver mantenuto un aspetto dignitoso, un cameriere ci indica il nostro tavolo, io lo ringrazio e mi affretto a sedermi, e Diego si siede accanto a me, non si mette di fronte. «Non mi piace stare troppo lontani», dice, a lui non piace la lontananza, la separazione, il distacco. Io invece ne ho bisogno per respirare, per ritrovare il controllo di me stessa, per arrivare al punto di questa sera che mi sono prefissata. Ordiniamo e Diego mi parla standomi vicino con la sedia, tiene i gomiti sul tavolo e si protende con il corpo verso di me, la testa inclinata, come per rivelarsi segreti reconditi, e io cerco invano di allontanarmi, non c’è spazio in cui ritirarsi, sono in bilico sulla sommità di un baratro, e se mi sbilancio troppo con la sedia ci cado dentro. D’un tratto mi sto librando, e osservo l’intera scena dall’alto, sospesa in volo sui tavoli del ristorante. Non riesco a cogliere le sue

parole, mi gira la testa, e mi ricordo di non aver toccato cibo tutto il giorno. Per fortuna quando ci portano da mangiare le cose migliorano, Diego torna eretto sul suo posto e gustiamo gli uramaki chiacchierando di argomenti vari, in territorio neutrale. Ingerendo calorie mi sento meglio, e ridivento lucida. Mangiamo sushi e assaggiamo piatti asiatici, ci scoliamo quasi due bottiglie di birra giapponese da sessantasei, e ordiniamo il caffè. Con il caffè ci portano due bicchierini di liquore allo zenzero, e a trangugiarlo sento finalmente i miei muscoli smollarsi. Uscendo dal ristorante mi persuado che funzionerà, sarò in grado di affrontare il momento decisivo con scioltezza. Diego ha insistito per pagare la cena, avrei preferito fare a metà, non è un incontro galante, ma non ci carico troppo significato, e miro al seguito dell’appuntamento. Ci rimettiamo i caschi e rimontiamo sulla moto, e io non ho idea dell’impiastro a cui saranno ridotti i miei capelli, ho provato a sistemarli nel bagno del ristorante, ma non ho ottenuto un gran risultato. Sorvolo, immagino dove siamo diretti, tra poco sarà lui, con le sue mani, a scarmigliarli del tutto. Durante la cena non ci siamo riferiti al suo proseguimento, Diego non è stato allusivo, e alla fine mi accorgo che mi sta riaccompagnando a casa. Mi fa scendere dalla moto, si toglie il casco, scende anche lui. «Grazie per la cena, sono stato bene.» Mi parla standomi in piedi vicinissimo e guardandomi dritto negli occhi, ma non prova a baciarmi, né a toccarmi, non mi tocca nemmeno la pancia con il dito. Gli rendo il casco, ma non riesco a parlare, dentro di me sto esitando, e infatti lui aspetta, anche se sta per rinfilarsi il casco e ripartire. Ma come, non mi baci, non ci provi? Te ne vai così? Le cose non vanno come le avevo previste, Diego è un ragazzo giovane, disinibito, è uno che non si fa problemi con la gente, è irriverente, senza pudore, ma ora mi ha riaccompagnata a casa e aspetta che io lo saluti per andarsene. Ripenso rapidamente alla serata, temporeggio, sto già facendo la figura della stupida e l’imbarazzo è calato su di noi, indiscreto. Diego è arrivato puntuale, al ristorante ha voluto offrire lui, non ci prova, può darsi che avesse in mente un primo appuntamento ufficiale, mentre io non desidero toni svenevoli, voglio solamente che mi porti a letto, che voglia farlo per una sera, e che dopo non mi chiami più. Credevo ci fossimo capiti, che il patto fosse quello. Cos’altro potrebbe volere da me? Ho soltanto la mia carne rimodellata da offrirgli, null’altro.

Però poi penso che non mi ha detto “ti chiamo domani, ci vediamo settimana prossima, una tal sera ti invito a cena da me”, e allora mi convinco di non essergli piaciuta, ho fatto qualcosa di errato, o non ho fatto qualcosa, e adesso vuole liquidarmi e tornarsene a casa, senza di me. Stasera non ha azzardato avances, forse si era già pentito di avermi invitata a cena, come io di accettare, ed è venuto solo per cortesia, per mantenere un accordo. È venuto per pietà. Ma io non ci sto, no no no e poi no, stasera dobbiamo fare sesso, devo farlo, con lui, un’altra volta non ne avrò più l’audacia. Pensa Nadia, pensa, non startene impalata, dì qualcosa, qualsiasi cosa, no, non qualsiasi cosa, “plié signorina Nadia, cos’è si è mangiata la lingua?”. Magari vuole che sia io a fare una proposta, lui mi ha invitata a uscire e ora è il mio turno di farsi avanti, magari vuole che lo inviti a salire da me. Penso a me e a Diego a casa mia, nella mia camera, sul mio letto, e so per certo di non poterlo sostenere. Ho continuato a dormire nella mia metà, non ho ancora invaso l’altra parte, e ho bisogno di una casa che non conosco, dove posso astrarmi dalla realtà e fingere di essere una Nadia difforme da me, dove non c’è nulla che mi rinfacci la mia vita, quella persa, di pochi mesi fa, e quella che ancora non ho ritrovato. Incespico, al culmine dell’imbarazzo, «..è che.. preferirei che andassimo da te.» Diego fa una faccia astrusa, non voleva che lo invitassi a salire, vuole solo salutarmi e sloggiare, non vuole are il resto della serata con me. Adesso è lui che resta in silenzio, che tentenna. «Andiamo.» Lo dice per assecondarmi, come se avesse deciso in questo momento di accontentare una mia volontà, di stare al gioco, alle mie regole, mi rende il casco. Io sto sprofondando per la vergogna, non mi sono mai sentita più umiliata di così. Ma ormai ci sono, e risalgo sulla moto dietro di lui, imponendomi di reggere nuovamente al contatto con la sua schiena, ma ho perso la concentrazione, ho smarrito il coraggio.

Andiamo a casa di suo padre, entriamo e Diego mi porta diretto nella sua camera. Non accende la luce, ma la tapparella è alzata e la stanza è al chiarore di un lampione sulla strada, in un angolo scorgo le sue scarpe da corsa. Adesso che siamo qui Diego non mi toglie gli occhi di dosso e io mi sento braccata, in trappola. Adesso che siamo qui mi guarda in modo diverso, non mi parla, non mi chiede niente, si leva il giubbotto e viene da me, chiudendo a chiave la porta alle mie spalle. Mi toglie il cappotto, mi mette le mani tra i capelli, prende il mio viso nella loro coppa, non mi bacia, mi guarda e mi respira addosso, e il suo respiro spinge così forte sulla mia pelle che non credo di poterlo reggere. Ho sbagliato, non ce la faccio, non voglio essere qui, voglio tornare a casa. E lo so che è tutto un controsenso, al solito l’incoerenza mi appartiene, è la mia dannata insicurezza, che si fa largo incondizionata. Rimango ferma, lascio fare a lui. Con il dorso della mano scivola sul mio corpo, sopra il vestito blu, scorre lento, dal seno fino alla pancia, e torna su. Lo fa di nuovo, e io sento il mio stomaco rivoltarsi, sudo, avvampo, non resisto. Non reggo i suoi occhi che continuano a fissarmi, che legano i miei, abbasso lo sguardo, ma quella mano mi costringe a rialzarlo. Diego avvolge le dita attorno al mio collo, sotto il mento, mentre l’altra mano corre dietro di me, fa scorrere la lampo. Le sue mani fanno scendere l’abito dalle spalle, e sono mani rudi, che tornano ad afferrare il mio viso, le dita che si inerpicano nei capelli, si stringono, e il suo sguardo che mi obbliga a non distogliere il mio. Tutto il suo corpo mi schiaccia contro la porta, possente, e Diego mi bacia, premendo con forza le sue labbra sulle mie, come se non ci fosse niente di delicato tra di noi che si possa rompere, come se non esistesse la possibilità di ferirsi, di farsi male. Non riesco a lasciarmi andare, lui è pressato su di me, mi opprime, e io sono pigiata, intrappolata. Pensavo che mi avrebbe fatto sedere sul letto, che si sarebbe approcciato accarezzandomi i capelli, e che mi avrebbe baciato alcune volte dolcemente, prima di farlo con ione. Invece apre le mie labbra con la lingua, invade la mia bocca, la riempie, e io sto soffocando. Diego non segue gli schemi che conosco, non assomiglia agli uomini che ho avuto, non agisce come loro. Ma è colpa mia, gli ho fatto credere di essere una donna vera, a proprio agio con il sesso, una femmina focosa, indomita, che si propone di andare a casa degli uomini, che ci sa fare, che sa quello che vuole. E io lo so, che è colpa mia, che sono andata troppo oltre. Diego mi pressa sulla porta, sento il suo corpo contro il mio, addosso a me, mi

sovrasta, e mi bacia senza dolcezza. Io mi involo e di nuovo mi osservo dall’alto, come al ristorante, e mi vedo sotto di lui, sommersa dalle mie inibizioni, in crisi perché sono un’incapace. Non riesco a muovermi e non so cosa fare, queste avventure non sono per me, non so mimare gesta dissolute. Ma le mie ali sono tarpate, e ripiombo giù. E intanto lui mi tocca la schiena, brancando la pelle per strapparmela di dosso insieme ai vestiti. Bacia il mio collo, le mie spalle nude, insaziabile mangia le mie braccia, le divora, contagia la mia pelle, aspirandola nella sua gola, mi sento graffiare dalla sua barba, che mi scortica, toglie strati di protezione, come uno scrub più profondo. Non ce la faccio, non posso, mi sento male, mi viene da vomitare, lo spingo via, grido, ho l’affanno, Diego è staccato da me e mi guarda confuso. «Scusa, avevo capito che volevi che fi questo.» «Sì.. lo volevo, ma non ci riesco, non ce la faccio..» «Non importa, avrei voluto anch’io invitarti da me, solo che oggi è stata una giornataccia, ieri notte non ho dormito ed ero un po’ stanco, saremmo potuti andare a dormire e risentirci domani.» Mi sento una cretina, la più cretina delle cretine, mi metto una mano sulla faccia e con l’altro braccio mi stringo la pancia, attaccata alla porta. Diego si riavvicina, mi prende le mani, con le mie mani mi fa alzare il mento, mi riconduce a lui. «Ma sono felice che tu sia qui, non potrei esserlo di più. Possiamo berci un bicchiere di vino, o magari guardiamo un film, vieni, ti faccio vedere i titoli che ho sul PC.» Io mi adiro con me, sono venuta da lui per un motivo e sto vaneggiando, mi credeva una donna fatale e ora sembro una da compatire, una disadattata. «No io.. io voglio.. non voglio vedere un film, è che.. preferisco stare sul letto.» Temo che a Diego i completamente la voglia, che si accorga di quanto io sia rigida e bloccata, che mi scopra, svelandomi, e che non gli piaccia. E io voglio piacergli, devo sviare ogni sospetto, non essere me solo per una sera, un’ora soltanto, forse meno. Lo guardo, preoccupata, ma lui mi sorride, lui sorride sempre. Non finge, lui è

così, lo so, è come dice Enrica, ha ragione lei, certe cose si vedono, e io vedo com’è Diego, so com’è, mi posso fidare di lui. Invece spero che lui non mi veda filtrando l’apparenza, lo imbroglio, caccio la verità sul fondo, la appiattisco, la ignoro, perché se la lasciassi venire allo scoperto, la vera me preferirebbe scappare, vorrebbe scoppiare a piangere, non può reggere al contatto pelle contro pelle, una pelle estranea, che non conosce, soccomberebbe a mani che si insinuano, che pretendono, alle mani di Diego. Diego mi accontenta e mi fa accomodare sul letto, e la scena diventa simile a quella che mi ero immaginata, a questo sono più preparata. Seduto vicino a me mi bacia di nuovo, con meno foga, con entrambe le mani mi abbassa il vestito fino alla vita, sfilandomelo dalle braccia. Io rimango comunque ferma, le braccia inanimate, le mani che non toccano, non esplorano, non sfiorano. Le mie mani sono inutili, potrebbero amputarmele, così come la mia pelle, che non vuole essere invasa, che rifugge dalle sensazioni, quelle che adesso Diego le causa, potenti. Diego mi tiene per le spalle, me le stringe, mi bacia, sento che ha voglia, ha voglia di me, ma io non partecipo, se non resistendo, e lui smette di baciarmi, si stacca, mi guarda, non dice niente. Lo guardo anch’io, inerte, sgominata da me stessa, e solo dopo alcuni istanti mi rendo conto che sto piangendo, e lui si è accorto delle lacrime, gli hanno bagnato le labbra, le ha baciate insieme alla mia pelle. «Mi dispiace.» Sono mortificata, terribilmente, non so che altro dire, e mi vergogno all’inverosimile. «Nadia non fa niente, non dobbiamo per forza farlo stasera. Per evitare equivoci, io ti desidero moltissimo, e se adesso fimo l’amore sarei “stra” felice, anzi non ti nego che a questo punto devo faticare non poco per ritornare.. alla normalità diciamo, ma non importa se accadrà un’altra volta, va bene così.» «No che non va bene, non va bene niente!» Non mi trattengo, piango a dirotto, rovescio il mio pozzo sul letto di Diego, tra di noi, sopra di lui, allago la stanza, rovino tutto. «Io lo voglio fare, è che non sono abituata, voglio dire, di solito non vado a letto con uno tanto per, insomma, non faccio sesso per are una serata, ma lo voglio fare, per favore, non voglio tornare a casa senza averlo fatto.» Mi riascolto nella mente, e faccio pena, Diego sarà disgustato da me. A

qualunque uomo si ammoscerebbe ogni istinto, ascoltando queste due parole pietose, “per favore”. «Nadia», Diego mi fissa, serio, non sorride più, e io piango composta, colpevole, «tu mi piaci, tanto, e quello che voglio è fare l’amore con te, voglio amarti, sposarti, accompagnarti a fare la spesa, voglio tenerti la mano, voglio tutto, ma non voglio fare sesso ora per are la serata, mi spiace, questo no.» Si rialza, si ricompone: «Non so cosa ti sia capitato, e non ho idea di quello che stai vivendo, ma è chiaro che hai pensato a me come un diversivo. Ed è evidente che non sei pronta, né a una relazione, né a divertirti. Magari ci potremo rivedere quando lo sarai, per una delle due cose, ora non è il caso.» «Io..» «È meglio che ti rivesti, ti riporto a casa.» Adesso Diego è freddo, taglia corto. Mi punisce con durezza per le mie colpe, per il mio essere fasulla. In moto piango sotto il casco, non smetto neanche quando me lo levo e non guardo Diego in faccia, non lo saluto, mi volto e apro il portone con le chiavi. Aspetto un attimo, spingo il portone con lentezza, ma Diego non mi dice altro, accende la moto e riparte senza aspettare che io entri nell’atrio. È arrabbiato con me, l’ho offeso, sono una miserabile. Salgo in casa e anche se è mezzanotte ata chiamo Lorenzo al telefono. Mi risponde dopo un po’, alla seconda chiamata, è in un locale con Claudio e altri amici, dice “pronto”, ma ha riconosciuto il mio numero, mi chiama per nome. Io non parlo, piango, piango e resto zitta, al telefono con Lorenzo. «Sei a casa?» «Sì.» «Arrivo.» Dopo tre quarti d’ora Lorenzo è da me, era dall’altra parte di Milano, e ha mollato Claudio nel locale. Entra in casa, io mi slancio su di lui e mi disintegro. «Non ce la faccio, non ce la faccio, Marco mi manca, mi manca tanto.»

«Lo so.» «Mi ha lasciata, mi ha tradita e mi ha lasciata, e io non ce la faccio, fa male, fa un sacco male.» «Lo so Nadia, so che fa male.» «E questo qui se ne viene fuori a dire che mi vuole amare, e mi vuole sposare, ma se neanche mi conosce! Come fa a dire una cosa simile? Lo fa per schernirmi, per oltraggiarmi, per farmi anche lui del male.» «Ma chi?» «Diego, Diego!» «Ti ha detto proprio così?» «Sì, come se non potesse essere altrimenti, come se fosse ovvio, ma l’amore non è così semplice, non può esserlo, è impossibile.» Lorenzo mi accarezza i capelli sul divano finché non mi calmo, finché non smetto di singhiozzare, e le lacrime si spengono. Lo guardo, e incontro i suoi occhi dolcissimi. «Lory?» «Sì?» «Non pensi mai a lasciarlo?» «Ci penso e non ci penso.» «Lory?» «Che c’è?» Sospiro, «no niente, lascia stare.» «Sì che può esserlo.» «Cosa?»

«L’amore Nadia, l’amore può essere semplice. Lo è, se ci credi.» È Diego la mia collisione, è lui che mi manda in frantumi.

Mi sveglio di scatto e mi ricordo di ieri sera, dell’appuntamento catastrofico con Diego. È stato un completo sfacelo, per la vergogna ficco la testa nel cuscino e serro gli occhi, sono un’inetta e non mi alzerò più dal letto. Penso a Diego, mentre Marco, oggi, nei miei pensieri, non c’è. Ma perché mi sono comportata in modo tanto assurdo? Ho dovuto compromettere tutto dal principio, convincendomi che il mio scopo era fare sesso con un altro, senza che avesse significato, se non quello di cancellare le impronte di Marco dentro di me. Perché mi sono preclusa la possibilità di conoscere una persona, una persona che mi piaceva, che mi piace? Non lo so, oggi mi do della stupida, ma forse il pozzo alla base del mio stomaco è più ingordo di quanto pensassi, di me fagocita tutto, ingurgita ogni parvenza di sincerità, voracemente, e in profondità è troppo buio perché si possa vedere cosa vi è immerso, cosa è affondato negli anni. Intanto si levano maree che portano a galla sensazioni dolorose, relitti disincagliati mi ano attraverso, mi squartano le interiora al loro aggio, come il pungiglione di un’ape che ha paura, che si difende. Penso alla figura meschina che ho fatto con Diego, alle frattaglie di autostima sul cuscino, e vorrei smettere di esistere, scomparire dalla crosta terrestre. Riluttante mi decido ad alzarmi, faccio una doccia e scendo con Amaranta, che mi aspetta da un’ora seduta accanto alla porta. Cara Amaranta, quanta pazienza hai con me. Fuori mi colpisce la luce del sole. Che strano, ha piovuto tanto, e oggi che vorrei restare nascosta all’ombra di un cielo grigio, spunta il sereno. Un raggio mi ferisce gli occhi, li chiudo e li copro con una mano. E quando li riapro vedo Enrica, che se ne sta seduta sul marciapiede di fronte. Mi sta aspettando, e si alza a fatica da così in basso, fa leva su un braccio e si spinge sulle ginocchia. «Ciao. Che ci fai qui?» Amaranta mi tira verso di lei, scodinzola festosa e mi fa attraversare la strada. «Niente, facevo un giro» Enrica mi aspetta già da un po’, ma questa volta ha preferito non suonare. Ha visto le tapparelle del mio appartamento abbassate, e non voleva disturbarmi. «Fatto tardi ieri sera?» Me lo chiede innocuamente, è allegra, ma le mie lacrime ricominciano a sgorgare. Piango per un appuntamento fallito e ne parlo con una ragazzina

incinta a quindici anni. Piango per il mio fallimento, e penso che Enrica si sia rovinata la vita. Penso che non avrebbe dovuto tenere il bambino, che avrebbe dovuto dare ascolto alla madre, avrebbe dovuto abortire. Penso che quando suo figlio nascerà dovrebbe accettare l’aiuto dei genitori, dovrebbe lasciarlo alle loro cure, permettere che siano loro a occuparsi di lui, mentre lei potrebbe tornare a scuola, pensare allo studio, essere un’adolescente come le altre, crescere candidamente, con l’ingenuità inviolata che appartiene ai suoi anni. Ma non le rivelo nulla delle mie riflessioni su di lei, invece al sole che oggi splende, in piedi sul marciapiede, le racconto tutto di me e di Diego. «Andrà meglio la prossima volta.» Enrica mi sorride, illuminante. Non ci sarà una prossima volta, ma non glielo dico, non voglio enunciare niente che possa ferirla, anche se riguarda me. Non voglio deluderla, sbriciolare le sue illusioni, non voglio essere io a dirle che la vita non è così bella, che si soffre, tanto, che gli altri ci fanno del male, anche quelli che amiamo, soprattutto quelli che amiamo. Forse perché amore e odio confinano, e ognuno comprende l’altro in sé, ma poi io non lo so, non sono un’esperta dei sentimenti. «Sì, la prossima volta andrà meglio.» Lo concedo a lei, ai suoi quindici anni, ma non a me. «Non ho ancora fatto colazione, ti va una tazza di tè?» Enrica sale da me e ci resta tutto il giorno. Facciamo colazione e lei puccia nella sua tazza di tè una decina di biscotti, nonostante abbia già mangiato due brioches prima di uscire. Poi si toglie le scarpe e si sdraia sul divano, fa zapping alla televisione e sfoglia le riviste che si sono impilate sul tappeto, e io siedo accanto a lei, un poco separata, all’altro angolo, a dipanare pensieri. Alla una pranziamo, portiamo giù Amaranta, e dopo ci rimettiamo sul divano, Enrica distesa, i suoi piedi nei calzini a righe accostati alle mie gambe. Mi racconta della settimana trascorsa, di quello che ha fatto a scuola, mi parla dei suoi compagni. Dice che alcuni, da quando la pancia ha iniziato a gonfiarsi visibilmente, sono a disagio a starle vicino. Spesso nota lo sguardo della persona con cui sta parlando posarsi in basso, la gente ora fa fatica a guardarla negli occhi. A volte si accorge anche di quelli che si sussurrano all’orecchio, mentre a nei corridoi, e quegli studenti mi ricordano i miei colleghi, lo stesso eroismo. Ma non le interessa, lei avanza sorvolando il brusio che la accompagna sullo sfondo. I professori sono gentili, l’aiutano, e non si scocciano per tutte le volte che interrompe la lezione

per andare in bagno, ci hanno fatto l’abitudine. Ultimamente il bambino le schiaccia la vescica, e lei deve uscire e rientrare dall’aula in continuazione. Enrica mi racconta, e mi sembra felice. «Vuoi toccarla?» Trasalisco. «Cosa?» «Dai toccala, dicono che porti fortuna!» Enrica si è sollevata il maglione e vedo la nudità della sua pancia. La pancia è bianca, come il suo viso, il suo collo, come le sue mani. È candida, come l’anima di Enrica, che ha solo quindici anni. La pelle è liscia, senza smagliature, e una striscia scura la percorre in verticale, si estende dal pube all’ombelico, dove Enrica ha un altro piercing. «Ma non ti fa male?» «Il piercing? No, non fa male. Dopo che sarà nato il bambino mi farò quello alla lingua.» Quando Enrica parla di suo figlio lo chiama sempre “bambino”, non lo chiama per nome, non dice Giacomo. Forse è perché ancora non lo conosce, perché ancora non può vederlo, presentarsi. «Senti.» Mi afferra il polso alla sprovvista, e mi fa poggiare la mano sulla pancia, tiene la sua mano sul dorso della mia, fa aderire il mio palmo alla pelle tesa. Io vorrei ritrarla, tirare indietro il braccio, percepisco la mia ansia da contatto crescere a dismisura, mi scorre nelle vene, mi pulsa nelle dita, nei polpastrelli sensibili. Toccare un pancione mi fa effetto, persino quando Ilenia era incinta, la accontentavo soltanto poggiandovi la punta del mignolo per meno di un secondo. «Lo senti?» Enrica guarda il punto dove tiene la mia mano. È soave, angelica, evoca un

mondo levigato da mani amorevoli, indulgenti. Io sono sballottata dall’ansia, non mi concentro sulla sensibilità del tatto, non ci sto attenta, sono impegnata a dominare il mio spasmo, a cercare il modo di riprendermi il braccio. Ma guardo Enrica e sento l’affanno defluire, e il livello dell’ansia scende sotto la soglia di tolleranza. Allora sposto lo sguardo sul punto di contatto, allento la tensione al polso, sciolgo le dita. Enrica mi libera, molla la mia mano, ma io non la ritraggo, la lascio lì, posata sulla parte alta del suo pancione, dove inizia a curvarsi. E lo sento, avverto una pressione dall’interno, qualcosa che preme sul palmo della mia mano. Con il palmo della mia mano sento Giacomo che si muove, il piedino che spinge e che si ritira, lo immagino rannicchiato lì dentro, e mi rendo conto realmente che sotto quella pelle bianca, sotto quella pelle tesa, c’è un bambino vero, vivo, un bambino che si muove al tocco della mia mano. E per la prima volta la paura del contatto smette di assoggettarmi, per la prima volta il senso del tatto mi sembra meraviglioso. Anche Amaranta si avvicina, poggia il muso sulla pancia di Enrica, risale col naso umido sul ventre rigonfio e annusa la mia mano, incuriosita. «È Giacomo», le dico, e lei si tira indietro, mugola e si dimena, indecisa, poi si riavvicina, fiuta la pancia nuda e abbaia gioiosa, come quando saluta qualcuno che conosce, o qualcuno che le piace. Come quando ha salutato Diego, la sera del mio compleanno. Enrica si abbassa il maglione, ricopre la pancia, appare serena. «Ci guardiamo un film?» Recupero i dvd che Lorenzo mi ha regalato al compleanno, ne scelgo uno, con la Diaz e Toni Collette, che un po’ mi somiglia, e lo faccio partire in TV. Mi accomodo sul divano, ed Enrica stende le gambe, mette i piedi sulle mie. Non mi fa strano, io e Enrica stiamo comode, e ci guardiamo “In her shoes”, che alla fine mi commuove, e alla sera lo riguardo daccapo.

Diego è scomparso dalla sera disastrosa del nostro primo e unico appuntamento, non mi ha più cercata e io non mi oso a chiamarlo. La mattina ho ripreso a deviare il percorso con Amaranta, recandomi in zone dove sono più sicura di non incontrarlo, anche se poi mi scopro a cercarlo, la frenesia di scorgerlo, oltre gli spigoli, in lontananza. Nel frattempo ho continuato a correre, migliorando notevolmente le mie prestazioni. Adesso non arranco, ho una riserva di fiato sufficiente per correre fino a dieci chilometri, con un buon ritmo, sui sei minuti a chilometro, al o con quello di Amaranta, che corre sempre al mio fianco. Mi peso ogni settimana e puntualmente i chili sono diminuiti, i vestiti mi stanno tutti larghi e ho perso le mie parti molli. Ora sono più soda sui fianchi e sulle cosce e la mia pancia è in trasformazione. Corro la sera dopo il lavoro, non ne salto una, e la domenica mattina al parco, ma nemmeno lì ho più rivisto Diego. E da quando ho toccato la pancia di Enrica, non ho più versato lacrime. Non so quanto il pozzo sia veramente asciutto, drenato a fondo, e io non corro rischi, non mi sbilancio. Trascorro le giornate in banca ipnotizzata sui numeri, cercando di non divagare. Finalmente i colleghi hanno rotto il silenzio, il veto a parlare della mia storia con Marco è decaduto, e ormai più nessuno si esime dal commentare la sua nuova relazione. L’altra mattina è girata una mail per programmare una colletta con cui acquistare un regalo in occasione della nascita del bambino. L’hanno mandata anche a me. Leggerla non mi ha procurato uno shock, ho percepito soltanto una vibrazione, dentro, appena accennata, quando ho realizzato di cosa si trattasse. Volevo cestinarla, ma poi ho risposto che avrei contribuito, e che non avevo preferenze tra la sdraietta e il marsupio, che scegliessero loro. Durante quel pomeriggio ho di nuovo notato un senso di disagio attorno a me, forse hanno ipotizzato di aver fatto una gaffe a includermi nella mailing list, ma almeno non dovranno portare avanti la cosa a mia insaputa, ho dato pubblicamente il mio assenso. Mi rendo conto che in ufficio non ci sto bene come prima, sono demotivata, non ho stimoli, e procedo per inerzia. Sto considerando di apportare dei cambiamenti, di cercarmi qualcos’altro, un nuovo impiego a Milano, o in un’altra città. Non so come farei a stare distante da Lorenzo e Ilenia, ma almeno sarei lontana da Angela. In quest’ultimo periodo non mi sta dando tregua, e io cerco in tutti i modi di starle alla larga, evitarla è al primo punto del mio ordine del giorno di tutti i giorni. Sto cominciando a sentirmi meglio e non voglio che

lei guasti ogni mio progresso. La sera resto in casa, non ho vita sociale, ma lo preferisco. Ilenia a volte cena con me e si porta dietro le bambine, che lanciano con euforia i loro animaletti di peluche ad Amaranta perché li rincorra, e spesso dopocena a a trovarmi Lorenzo. Ogni tanto prova a invitarmi al cinema o in un pub, ma ancora non ne ho voglia, e quando viene ci rilassiamo con un bicchiere di vino o una birra, fumiamo, e parliamo, le nuvole di fumo sul soffitto. L’altra sera abbiamo parlato di Marco, è venuto fuori per caso, con noncuranza, dalle mie parole. Angela seguita a ripetermi che sta male (malissimo!), che si è messo in una situazione di cui vuole solamente liberarsi e dice che io dovrei agevolarlo, dovrei mostrargli un’apertura da cui sgattaiolare via, offrirmi io stessa come valico umano, immolandomi in suo soccorso, ma io non so se lo voglio, non più, non davvero. «A volte le persone subiscono le scelte che fanno, invece di viverle..» È vero, Lorenzo ha ragione, succede proprio così, e io non voglio che accada anche a me. «..È perché mescolano le loro scelte alla paura, scelgono con la paura dentro.» Già, le persone macinano sensi di colpa, e ingoiano rimpianti enormi insieme a un fracco d’aria che non riescono a ruttare. E finiscono per convivere con molto dolore e molta tristezza. «E cosa dovremmo fare secondo te?» «Smettere di avere paura, soltanto questo.» «O imparare a fare scelte migliori, non credi?» «Chissà, forse sì. Ma siamo bravi a sbagliare.» Mi chiedo se per Marco sia ancora possibile compiere una scelta migliore di quella che lo tiene imbrigliato, alcune scelte sono riparabili, altre no, ma poi non me ne importa, e penso a prepararmi per la “mia” scelta migliore. Il sabato Lorenzo è con Claudio, e Ilenia è impegnata con mille cose per le bambine, e io ormai lo trascorro con Enrica, è diventato un appuntamento fisso.

Viene da me la mattina e rimane a casa mia l’intera giornata. Chiacchieriamo, Enrica mi racconta dei vestitini che ha comprato per Giacomo e di come sta allestendo la sua cameretta, con il cielo dipinto alle pareti e il lettino in legno chiaro, a cui ha appeso una giostrina musicale con farfalle colorate. Mi parla delle sue sensazioni, di quello che prova a tenerlo dentro di sé, prova a spiegarmi com’è non essere mai sola, cosa comporta, come si fa a sopportarlo. È sempre allegra e aspetta Giacomo con gioia, si gode ogni istante dell’attesa. Ogni volta che viene e si riposa con me sul divano le accarezzo il pancione, e sento Giacomo che si muove, sento il suo piedino, nell’angolo a sinistra, che spinge. Spinge sotto il seno di Enrica, che nella gravidanza è aumentato di un paio di misure. Anche la sua pancia ha continuato a crescere, è grossissima, e questa settimana Enrica ha smesso di andare a scuola. Giacomo sta arrivando, da un momento all’altro le verranno le contrazioni, è questione di giorni, forse di ore. Enrica adesso è stanca, fatica a camminare, le si sono gonfiate le caviglie, ma non si lamenta, si guarda il ventre e lo sfiora con le dita, trasognata. È tranquilla, il parto non la intimorisce, non la spaventa il dolore, né la spaventa diventare madre. Io invece ho paura per lei, perché continuo a pensare che dal momento in cui suo figlio sarà nato, la sua adolescenza finirà, e finirà tutto il senso, lo splendore. Solo quando sono seduta vicino a lei, sul mio divano, e le accarezzo la pancia, riesco a scorgere per un attimo un barlume di speranza, una piccola possibilità, piccolissima, che però c’è, che tutto vada bene, che Enrica sia felice. Non so come mai si sia tanto attaccata, perché si sia affezionata a me, proprio a me, che sono la persona meno adatta per aiutarla, per starle vicino, io che figli non ne voglio, il parto mi terrorizza e l’essere madre mi fa una gran paura. Ma ora la sua presenza in casa mia mi fa piacere, il sabato l’aspetto, il sabato è il giorno in cui lei viene a trovarmi. Ma non oggi, oggi Enrica non viene. Stamattina non è arrivata alla solita ora e non l’ho vista per tutto il giorno. Sono rimasta sempre in casa, a parte i momenti in cui sono scesa con Amaranta, ma ho fatto solamente brevi eggiate qui intorno. Mi cruccio, però poi penso che Enrica sia in travaglio in ospedale, le si sono rotte le acque e a gambe divaricate sta spingendo fuori Giacomo. E nei miei pensieri Giacomo è già nato, anzi no, sogno che stia venendo alla luce proprio ora, che io sto pensando a lui. Mi emoziono, vorrei saperlo, vorrei avere un numero di telefono da comporre, il nominativo del ginecologo, il cognome della sua famiglia, lo stesso che Enrica darà a suo figlio, ma non me l’ha mai detto. Mi rendo conto che di lei non mi ha detto tante cose, e io stupida che non le ho domandato il suo indirizzo, come

avrei potuto fare se avessi voluto contattarla. Ma se chiamassi l’ospedale potrei trovarla, basterebbe dire che cerco un’Enrica di quindici anni ricoverata al reparto maternità, un’Enrica giraffa dalla pelle bianca e il piercing all’ombelico, il collo lungo e sottile e un figlio maschio attaccato al seno, che si chiama Giacomo.

Stanotte non ho dormito, pensavo a Enrica, nei brevi momenti di sonno l’ho sognata che gridava per le fitte intense, coricata su un lettino bianco. Mi ricordo il giorno in cui Ilenia ha partorito Emma, quando le si sono rotte le acque, ai festeggiamenti per il conseguimento della laurea, l’abbiamo accompagnata all’ospedale io e sua madre, e il suo ragazzo ci ha raggiunte. La madre è stata dentro con lei, e io sono rimasta in corridoio con lui, che non aveva l’animo (le palle!) di entrare, a fianco della porta della sala parto. Era sera, e il reparto semi deserto, nessun’altra donna stava partorendo. I vetri alle finestre erano silenziosi, e sul pavimento del corridoio levitava un’atmosfera attutita. Solamente le urla di Ilenia infrangevano quell’immobilità stagnante, secondi prolungati dal dolore, poi l’immobilità si richiudeva, si ricompattava. Finché non ho sentito la voce di Emma, e il fragore del suo pianto ha dilaniato il silenzio, ha rotto i vetri, e in quell’attimo ha smosso il mondo, come se avesse ricreato tutto daccapo, tutto da lì. Quel pianto è rimasto avvinghiato alle memorie di quegli anni, un sottofondo vivido, rampicante. Anche se mi sento fiacca per non aver riposato, mi preparo per andare a correre al parco insieme ad Amaranta. Apro l’armadio in cerca di una maglietta e un paio di pantaloni, e vedo il completo che mi ha regalato Diego la sera del mio compleanno. Da quel giorno l’ho messo via senza mai indossarlo, la paura che i pantaloni non mi entrassero, la delusione di essere discorde dalla forma che lui mi ha attribuito, quando li ha scelti per me. Decido di provarmeli, infilo il primo piede, tiro su il pantalone, sale. Metto l’altra gamba, sollevo i pantaloni fino in vita, e mi vanno. Mi fasciano strettissimo, sostenendo i muscoli, mi guardo allo specchio e mi rigiro, scopro che mi fanno un bel sedere, è rialzato, rassodato, come quello di Ilenia. D’accordo non proprio come quello di Ilenia, ma all’incirca sì, pressappoco il mio fondoschiena somiglia al suo. Sono indecisa se tenerli su per andare a correre, un po’ mi vergogno, ma poi non li tolgo, e infilo la maglietta coordinata, fucsia, riconoscibile. Io sono visibile, io mi vedo. Al parco corro e mi sento un’altra, mi sembra di avere più agilità, di essere più atletica. È presto, l’aria è fresca, e correre è piacevole, sento i muscoli delle gambe che si sciolgono, si scaldano, percepisco le endorfine che vengono rilasciate nel mio corpo, mi sento bene, sorrido. Amaranta è una runner fantastica, energica, dinamica, vincerebbe una maratona. La sto guardando e le sto sorridendo, e quando mi volto sulla strada lo vedo, che mi corre incontro. Vedo Diego, non indossa il K-way blu elettrico, ha soltanto una maglia, ma appena lo scorgo è subito lui.

Non so cosa fare, il panico è immediato, istantaneo, rallento, riaccelero, penso di tornare indietro, cerco una deviazione tra me e lui, ma non ci sono altre strade in cui immettersi, c’è solo quella che ci porta a incontrarci, a arci per lo meno accanto. Non so se farà finta di non vedermi, se mi oltreerà con indifferenza, se devo salutarlo, o aspettare di vedere lui cosa fa. Ripenso alla figuraccia che ho fatto, elenco mentalmente le cose terribili che deve pensare di me (è una lista che so a memoria), e realizzo che sto correndo con il completo che mi ha regalato. E intanto Diego mi raggiunge, mi guarda, accenna un sorriso, alza una mano in segno di saluto, mi supera, non si ferma. Un tonfo, non si è fermato, e porto un macigno sulle spalle, vado avanti a correre, ma sono diventata pesante, le mie scarpe si amalgamo con l’asfalto, fatico a sollevarle come se fossero incollate col mastice. E il tonfo che ho udito era il mio cuore che è ruzzolato nell’apertura del pozzo. Anche Amaranta ci rimane male, gira il muso per guardare Diego che se ne va. Poi qualcuno mi affianca, mi saluta, «ciao», mi volto, è Diego, è tornato indietro. È venuto da me. Corriamo fianco a fianco, Amaranta è in mezzo a noi, e guarda in alternanza me e lui, la coda alta, fiera. Procediamo qualche metro, in silenzio, poi lui si ferma, e mi fermo anch’io. Mi guarda, vuole dirmi qualcosa, ma non appare convinto. «Mi dispiace Nadia, voglio dire, per come sono andate le cose, forse ho sbagliato, ho reagito male, perdonami.» Perdonami? Avverto palpiti accelerati, tamburi dal fondo del pozzo, il cuore sommerso da tutte le mie paturnie inutili, ma stranamente non sento una vocina fastidiosa e ossessiva nella mente. Nessun “plié” che rimbalza tra i neuroni. Sono nervosa, eccitata, confusa, e imbranata, e stupida, ridicola coi vestiti che indosso, che evidenziano le forme del mio corpo, tutto questo si azzuffa in me, nell’anarchia più totale, eppure non c’è dissidio, nessun “plié” in agguato, e non me ne stupisco. Stare davanti a Diego mi è familiare, scopro il mio posto, e non desidero trovarmi altrove. Lui è di fronte a me, e per quanto io mi sia comportata da scema, con lui, quella sera, in modo così insensato, e immaturo, e incomprensibile, lui è qui che mi chiede scusa. No, mi dice “perdonami”. «Non importa, è stata colpa mia, era troppo presto, era il motivo sbagliato.

Scusa.» Abbasso gli occhi, ma vorrei guardarlo, guardare il suo viso aperto e luminoso, i suoi occhi magnetici, che mi penetrano dentro, che dragano il pozzo, che disseppelliscono gli scheletri che vi sono sepolti, le ossa delle mie paure logorate e aggrovigliate alle alghe. Tutto ciò che prima era arenato, fisso, sotto il suo sguardo comincia a smuoversi, a scorrere via da me. «E adesso? È ancora troppo presto?» Vorrei dirgli di no, no che non è presto, vediamoci, incontriamoci, stiamo insieme, però mentirei. Devo ancora correre alcuni chilometri, solo un altro po’ di corsa. «Non so, forse.» Ho paura che se la prenda, ho paura di perderlo, di perdere l’opportunità di conoscerlo, di dargli la possibilità di fare tutte le cose che ha detto, persino amarmi, persino sposarmi, benché siano assurdità, specialmente per me. Ma non lo so più, cosa voglio, chi sono, e prima, prima di qualunque altra cosa, devo saperlo. Sì, è troppo presto, troppo presto per non rovinare di nuovo tutto, perché esista l’eventualità che sia vero. Che sia vero il tempo condiviso da noi due, stare bene insieme, essere felici. Felici insieme. Anche se lui ha ventiquattro anni, anche se io voglio conservare intorno a me una sfera riservata, mia soltanto. Davvero lo voglio ancora? È questo che voglio, continuare ad avere paura del contatto, delle mie emozioni, paura di desideri contrastanti, che divergono dai miei, che mi urtano, perfino violentemente, e che appartengono all’uomo che amo? Ma è ancora troppo presto, perché Diego è troppo prezioso per me. «Settimana prossima mi laureo.» «Oh, congratulazioni.» «Sai, ho un amico a Londra che mi ospita per qualche settimana, vado a sondare il terreno. Parto dopo la discussione della tesi, ma al mio ritorno potremmo vederci, se ti va, ti chiamo quando rientro a Monza, ok?» «Ok.» «Allora ciao.»

«Ciao.» «Ah, ti sta bene il completo, molto.» E mi fa uno dei suoi occhiolini. Diego riprende a correre, mi molla lì, in mezzo a un viale del parco, mi lascia senza toccarmi neppure con un dito, senza nemmeno sfiorarmi. E il desiderio del suo tocco fa più male di qualsiasi carezza indesiderata, mi colpisce più di cento, un milione di carezze fuse una sopra l’altra. Penso che potrei non rivederlo, che quando tornerà potrebbe non avere voglia di chiamarmi. Penso che sta per partire. E io voglio che resti. Ma intanto il mio cuore è risalito dal pozzo, è tornato al suo posto.

Al lavoro sono svogliata, la giornata trascorre lenta, malinconica. Aprile è arrivato col sole, un sole pieno che aspettavo, lo chiamavo, ma poi è arrivato troppo presto, stento a uniformarmi e mi butta giù, oggi mi sento grigia, spenta, stono e ritorno uggiosa, simile allo scorso inverno. Mi sconnetto dal mondo, sono incostante, mi disinteresso delle solite persone, i soliti impegni, mi annoiano. Penso a Enrica, e temo che non si farà più viva. Scomparirà dalla mia vita così come ne è entrata, è stata una breve apparizione, una casualità, adesso Enrica ha altro a cui pensare. Adesso ha Giacomo, Giacomo è piccolo, Giacomo è appena nato, e lei deve badare a lui. Lo deve curare, allattarlo, cambiarlo, e inoltre deve studiare, fare le verifiche a scuola per non perdere l’anno. È che sono preoccupata, magari sua madre le sta già creando difficoltà, Enrica è sola, contro tutti, è sola, ha solo Giacomo, e anche Giacomo ha solo lei, è senza papà, senza una vera famiglia. Ma forse mi preoccupo troppo. Anna mi saluta toccandomi la spalla perché non sono reattiva, e io mi scuoto infastidita dal suo tocco, ma almeno mi accorgo che è l’ora di chiusura. Raduno flemmatica le mie cose, ho addosso un’indolenza molle, che mi stordisce come le giornate afose di agosto. Mi infilo la giacca, prendo la borsa, ed esco nel parcheggio, sono lenta, fatico a cogliere le immagini che mi circondano, a registrare nel cervello costipato le scene che i miei occhi stanno già osservando. Poi i neuroni elaborano, e divento cosciente, li vedo. Marco sta parlando nel piazzale con alcuni colleghi, e sorride in un modo che non gli riconosco, appare orgoglioso e imbarazzato nello stesso momento. Anche i colleghi stanno sorridendo, parlano animatamente, chiusi a cerchio intorno a lui, e a lei. Tra i colleghi c’è anche Serena, è così minuta che non l’avevo nemmeno vista. I capelli biondi sono tagliati ancora più corti di qualche mese fa, e sotto lo spolverino rimasto slacciato indossa una maglia morbida turchese. Non ho voglia di soffermarmi su di lei, su di loro, e faccio per scostare lo sguardo, per andare verso la mia bici (ho inaugurato la stagione ciclistica), lasciando Marco e Serena a prendersi i complimenti degli altri, a condividere con i colleghi dell’ufficio le prossime novità. Ma involontariamente lo sguardo mi cade in basso, prima che mi volti, prima che me ne vada. E la mia bici e la mia vita restano lontane, diventano un miraggio, inglobate da un risucchio in cui svaniscono.

Stavolta Serena non ha la pancia piatta, non ha una cintura in vita legata stretta. Adesso la pancia di Serena è gonfia, tonda, la maglia turchese le si posa sopra e si allarga tutt’intorno, facendola sembrare ancora più grande. Ci penso, penso che adesso Serena è incinta di cinque mesi. La sua pancia stavolta mi impressiona, è un assalto allo stomaco, è una lacrima che dopo settimane di secca mi scende dall’occhio. Marco si gira verso di me, mi vede e il sorriso gli si spegne sul viso, è lui che lo ritira, perché d’un tratto è a disagio, e la sua felicità emargina la mia. Il cerchio dei colleghi si apre a guardarmi, mi osservano tutti, anche Serena mi sta fissando. Voglio andarmene, ma per qualche assurdo motivo mi dirigo verso di loro. D’altronde prima o poi bisogna andarci a sbattere, ho atteso troppo tempo, devo infrangere le pareti del pozzo, per poterlo drenare in profondità. Mi avvicino con i solenni, rivendicando me stessa, nella mente la visione di un campo di ortiche da attraversare, a separarmi dalla meta, saluto i colleghi, accenno un sorriso a Marco, mi oriento verso Serena, incontro i suoi occhi, sono grandi, tondi, sono occhi celesti. Allungo il braccio, la mano tesa. «Piacere, sono Nadia.» Serena è stranita, forse teme che sollevi un putiferio, alza la mano e stringe debolmente la mia. Avvolgo le sue dita, le premo, tocco la donna che mi ha scalzata, la donna che aspetta un figlio dal mio ex fidanzato, che mi ha soppiantata al suo fianco. Su di noi cala il sipario, la scena si cristallizza per alcuni istanti, le mani sono l’una nell’altra. «Piacere, Serena.» Vivo il contatto più nocivo della mia vita, il contatto che mai avrei creduto di poter sostenere. Ma lo affronto, imprimo forza, non mollo, è la sua stretta a essere languida, è lei che allarga le dita per prima, che si sottrae. «Visto che vi vedo insieme, ne approfitto per farvi le mie congratulazioni. Si fanno le congratulazioni o gli auguri in questo caso? Non saprei proprio.» Uso un tono frivolo, non cedo con lo sguardo, può essere che la stia sfidando. Lei se ne accorge e sta al gioco, ha il coltello dalla parte del manico, e ci tiene a mettere i puntini sulle i. So che sa benissimo chi sono io. «Grazie. Sono appena stata a fare un’ecografia, aspetto una bambina.»

Incasso il colpo, ma non mi lascio abbattere. Le gambe mi reggono salde, reagisco all’attacco. Mi volto verso Marco, mi rivolgo a lui, dopo mesi che non ci scambiamo mezza parola, a parte il necessario lavorativo, gli parlo. «E cosa ci facevi tu oggi al lavoro? Avresti dovuto accompagnarla, certe esperienze non ricapitano più.» È la mia rivalsa, con la coda dell’occhio colgo il sobbalzo che ha Serena, mentre fisso Marco e lo vedo sbiancare, è in panne, annaspa. «Avevo un cliente importante», si giustifica. Io non distolgo lo sguardo, in silenzio gli dico che so bene che è soltanto una scusa, che lui questo bambino non lo vuole, che non sono queste le esperienze che gli interessano, che non vuole assolutamente perdersi. E lo sa anche Serena. La sera a casa mi preparo un tè dopo cena, un tè nero all’aroma di vaniglia, e lo sorseggio sul divano. Amaranta si accuccia sul tappeto, e poggia la testa sui miei piedi. Ultimamente mi viene spesso vicina, si addossa con tutto il suo peso, non mi dà fastidio, e lei lo sente. Scanalo col telecomando, come fa sempre Enrica, ma non c’è niente di interessante. Spengo la televisione, e sfoglio una rivista, l’ultimo numero di Elle che mi ha portato Ilenia, ma non riesco a fissarmi su un articolo in particolare, sorvolo le pagine, arrivo fino alla fine senza leggere nemmeno le intestazioni. Una parola si è levata nella mia mente, volteggia, è scritta su un pezzetto di carta, sospinto qua e là dalla brezza. Lo raccolgo, lo distendo con le dita, e ci leggo quella parola, “bambina”. Serena aspetta una bambina, Marco avrà una bambina, Marco e Serena avranno una figlia. Ora che lo so, l’alone amorfo e cangiante che nei miei sogni aleggiava indistinto, ha un sesso, e me la immagino, questa figlia, la immagino che assomiglia a Marco, è alta, come lui, slanciata, ma i capelli sono biondi, come quelli della madre. La vedo e dapprima è una bambina di sei anni, va alla scuola elementare, col grembiulino bianco, poi è cresciuta, è già ragazzina. Guarda suo padre con occhi grandi, iridi celesti illuminate di venerazione, lo chiama “papi”. Non so il suo nome, ma presto ne avrà uno. Ne parlano la sera, sul divano che è divenuto casto, Serena si sdraia con la testa sulle gambe di Marco, e gli elenca i nomi femminili. Lui li scarta quasi tutti, non gli piacciono, fa le boccacce, e lei lo rimprovera, finge di offendersi. Infine Serena pronuncia un nome che invece Marco trova bello, non fa commenti, sta in silenzio, poi lo ripete, sorride, arrossisce. E il nome è quello.

Appoggio la tazza e la rivista, sollevo la maglietta e mi guardo la pancia. Non è più cedevole come qualche mese fa, adesso è più tonica, più allenata, mi piace, mi aspetterei di esultare, invece mi rattristo, nonostante mi piaccia, rimango desolata. Penso alla pancia rotonda di Serena e piango, piango le lacrime che oggi ho trattenuto, per affrontare la loro festosità, e pur non credendoci appieno, la scena che ho immaginato di loro due sul divano mi sembra vera. Ed è bella, quasi la invidio, quasi vorrei essere io al loro posto, e lo voglio anche se questo pensiero mi fa rabbrividire, anche se questo pensiero mi distrugge. Mi vedo sdraiata sul divano, è il divano bianco nell’appartamento di Marco, il suo divano immacolato da tremila euro. Tengo un libricino e la mia pancia è grossa, è una pancia gravida, immensa, eppure leggera. Sono felice, mentre scorro la lista dei nomi fino alla fine dell’alfabeto, rido leggendo i più buffi, mi diverto e mi commuovo insieme. Ma quando mi giro per guardare negli occhi la persona sulle cui gambe sto poggiando la testa, non vedo Marco, vedo un altro viso, un viso aperto e solare, che mi sorride a ogni nome che dico. Vedo il volto di Diego. Che nome daresti Diego, a un figlio?

A inizio maggio è sabato sera, sono le dieci e il citofono suona. Non aspetto nessuno, e ho in mente di trascorrere la serata guardando l’ennesimo dvd. Ilenia questa sera è a cena dai genitori di Stefano, e Lorenzo è partito per il weekend con Claudio. Hanno avuto un’altra crisi di coppia, o meglio, è Claudio che ha avuto un’altra delle sue crisi esistenziali, egoistiche e crudeli, e adesso deve farsi perdonare. A meno che non sia successo qualcosa per cui hanno litigato e Lorenzo è tornato a Monza, non so proprio chi possa essere. Non Angela, non stasera, che parteciperà a un evento per una raccolta fondi, quindi proprio non so. Però spero, e sollevando la cornetta del citofono, so pensare soltanto a un nome. Anche Amaranta si è avvicinata, accostandosi alle mie gambe, è curiosa, aspetta di vedere chi è. «Sì?» Non è lui, e per un istante resto delusa, mi volto verso Amaranta, «non è Diego», e lei sembra delusa quanto me, come se lo stesse aspettando. Ma sono contenta, perché al citofono sento la voce di Enrica, anche se è una voce cupa, non è squillante, non sembra nemmeno la sua. Inavvertitamente sono felice, spalanco la porta di getto, aspettandola sul pianerottolo. Ci mette qualche minuto, infine la porta dell’ascensore si apre ed Enrica compare, ha una borsa a tracolla e un borsone in mano, me lo a e lei rientra nell’ascensore, chinandosi per afferrare un oggetto poggiato per terra. E quando si gira e viene da me sorregge il manico ricurvo di un ovetto, in cui noto un fagotto azzurro, e dentro quel piccolo ovetto c’è Giacomo che dorme. Entriamo in casa e poso il borsone sul pavimento, Enrica adagia l’ovetto sul tavolo, espira sonoramente, si volta verso di me e mi saluta. «Non vieni a conoscerlo?» Mi avvicino, piantonata da Amaranta, avanzo piano, come se avessi timore di qualcosa. Mi accosto al tavolo, mi sporgo sull’ovetto, Enrica scosta la copertina azzurra, e spunta il musino di Giacomo, il suo corpicino dentro una tutina di ciniglia gialla, che gli va larga. Giacomo ha gli occhi chiusi, la pelle leggermente arrossata sulle guance. Tiene le manine serrate a pugnetto, nascoste dalle maniche troppo lunghe della tutina. Ha le ginocchia piegate, e i piedini uno sull’altro. Enrica sfila il cappellino di cotone e gli scopre la testolina, i capelli sono pochi, fili sottili e chiarissimi, che restano un po’ arruffati. Giacomo è

minuscolo, non credo di aver mai visto un bimbo tanto piccino. Ho visto nascere le figlie di Ilenia, ma ora non me le ricordo di queste dimensioni, e mi sembrano nate già grandi. «Ti presento Giacomo. Aveva voglia di conoscerti, ops, di conoscervi, scusa Amaranta» e le dà una carezza tra le orecchie. Enrica cerca di essere allegra, ma io lo capisco che si sforza. La osservo, mentre si sfila dalla testa la borsa a tracolla, è stanca, si vede, e senza il pancione è ancora più esile. Indossa una maglia lunga di cotone, nera, e il solito paio di leggings. Il seno non è florido, si è ritirato lasciando le spalle cadenti, e la pancia sembra franata, adesso c’è un affossamento dove prima c’era Giacomo. Si muove come se avesse il corpo ricoperto di una patina pesante, da reggere, da sostenere. Ha il volto scavato, il colorito smorto, e ha delle occhiaie profonde sotto la riga di kajal, solchi blu. I capelli sono raccolti in un codino ripiegato sopra la testa, e sembra che non se li lavi da parecchio. Enrica è sfinita, la vedo, d’altronde è naturale, è normale essere spossati il primo mese dopo aver partorito. Ricordo che anche Ilenia appariva distrutta, era sbattuta come la faccia di Enrica adesso, aveva le sue stesse occhiaie, lo stesso affaticamento bluastro, però aveva qualcos’altro, aveva un’aria di sogno aleggiante sul viso, un’espressione beata che Enrica non ha. A Enrica manca la beatitudine nelle iridi nebbiose, sebbene si imponga di apparire felice, non ha quel luccichio negli occhi. Enrica è uno spettro che si muove per casa mia. Sta armeggiando sul bancone della cucina con la borsa, tira fuori un biberon pieno di latte, si impossessa di un pentolino, lo riempie d’acqua a metà e lo mette a scaldare sul fornello con dentro il biberon. «Scaldo il latte per Giacomo, tra poco avrà fame.» «Non lo allatti tu?» Ilenia ha allattato le sue figlie al seno per un anno, comprese le gemelle. Quando finalmente le ha svezzate, per me è stato un sollievo, mi struggevo a vederla allattare pazientemente prima l’una, poi l’altra bambina. Se le metteva una alla volta al seno, faceva attaccare la prima, la lasciava succhiare finché non si addormentava, e prendeva in braccio la gemella, senza fiatare. A me l’allattamento al seno non ispira, non mi fa venire voglia di maternità, anzi guardare Ilenia allattare le sue figlie, ha contribuito ad accrescere la mia repulsione a mettere al mondo un neonato da attaccarsi al petto. È un’immagine

che mi turba, un contatto talmente massiccio che ti spolpa, ti annienta. «Non mi è venuto il latte, pazienza, dicono che il legame si crei anche con l’allattamento artificiale, basta tenerli stretti e guardarli, quando gli dai il biberon.» Nel dirlo Enrica mi sembra demoralizzata, e io non voglio certo mortificarla. «Senz’altro è così, ed è anche più comodo.» Sento un vagito, guardo Enrica, e noto un fremito, un fremito che da dentro la percorre, per quanto all’esterno non si scomponga. Non vuole tradire quel piccolo sussulto, e io faccio finta di non averlo colto. Giacomo si sveglia e comincia a piangere, forte, senza gradualità. Strilla all’improvviso in preda a una crisi profonda, a dal sonno al pianto disperato. Io non so come agire, stento persino ad avvicinarmi, e mi volgo verso Enrica impanicata, per capire cosa si debba fare, lei è sua madre, di sicuro lo sa. Amaranta intanto alle urla di Giacomo si inquieta quanto me, e fugge nell’altra stanza, scompare e non ritorna indietro, resta di là. Enrica sembra agitarsi ulteriormente, seppure non voglia darlo a vedere, ma forse è solo a causa di questo pianto assordante. Tocca il biberon togliendolo dall’acqua, ma lo rimette nel pentolino, non è ancora abbastanza caldo. «Ha solo fame, non mangia da un po’.» Sorride, ma io fatico a credere a quel sorriso, però poi penso che dev’essere molto stanca, che io sarei già a pezzi, al suo posto. Frammenti microscopici, a migliaia. «Dev’essersi svegliato con una fame incredibile.» Enrica aspetta che il latte sia pronto e sembra fremere, perché il latte non diventa subito caldo, perché vuole far cessare quel pianto, sembra che frema per qualcosa che trattiene interiormente, che non svela, che non riesco a comprendere. Stasera Enrica è strana, ma non la vedo da settimane, e nel frattempo ha partorito, ha affrontato il primo mese di maternità, il seno e la pancia le si sono sgonfiati, forse ci si sente smarriti, ci si deve riabituare al proprio corpo, al proprio sé maciullato dal parto. Dev’essere indebolita, snervata.

«È pronto, ci siamo.» Enrica prende in mano il biberon e pare che tremi, mi sorride, ma non ha luce negli occhi incavati, cerco di scorgerlo, ma nessuno scintillio trapela dalla nebbia. Si avvicina al tavolo, afferra Giacomo con entrambe le mani, lo toglie dall’ovetto, se lo mette contro il petto. Giacomo continua a piangere, e ho la sensazione che lei non se lo avvicini davvero, è come se frapponesse tra il suo corpo e quello del figlio una barriera sottile, mi sembra che Giacomo la infastidisca, che averlo in braccio le dia quasi noia, che nel tenerselo addosso lo respinga. Seduta sul divano, Enrica sistema Giacomo sulle sue gambe reggendolo con un braccio, la testolina sorretta all’altezza del gomito, una mano che lo tiene per la gambina e l’altra che tenta di fargli succhiare la tettarella del biberon, ma Giacomo la rifiuta, e continua a strillare. Io osservo Enrica, e la vedo che si irrita, che si spazientisce, pervasa dal nervoso nel tentativo caotico di far bere il latte a Giacomo, che non ne vuole sapere. Enrica la vedo, è stremata. «Forse non ha fame, magari sta male.» «Ma no ha fame, è che a volte ne ha così tanta che per contro fatica a calmarsi e a prendere il biberon. È un po’ un monello, insomma.» Enrica accenna un sorriso, insiste a voler inserire la tettarella nella bocca di Giacomo, che è allargata e strilla, ma lui si ribella deciso e arriccia le palpebre, sempre più disperato. «Vuoi provare tu?» Mi guarda con due occhi spalancati, offrendomi il biberon, e io d’istinto indietreggio, come se mi avesse puntato contro un’arma pericolosa, e mi sentissi minacciata, in pericolo. Alzo le mani davanti a me, le agito in mia difesa. «No no, io, io non credo che..» «Dai prova, magari con te si calma, a volte fa il furbetto, te l’ho detto, è un monello.» Enrica parla allegramente, facendo apparire tutto sotto controllo, ma i suoi occhi gridano aiuto, mi scongiurano, sinceri. E io mi intenerisco.

«Non l’ho mai fatto.. posso tentare, ma non credo che funzionerà.» “Plié plié plié signorina Nadia, cos’è ha paura di dare il latte a un poppante?” E va bene madame, lo faccio, basta che stia zitta! Mi siedo sul divano, impacciata anche solo ad accomodarmi, e preparo le braccia perché Enrica mi i Giacomo, che per quanto possibile si mette a strillare ancora più forte. Imito la sua postura, e Enrica mi sbatte addosso Giacomo, come se se ne volesse liberare, aggiusta lei i dettagli, avvolge il mio abbraccio artificioso intorno al suo corpicino, gli sistema la testa, e mi a nella mano il biberon. «Dai prova.» Io ho paura di farlo cadere. Giacomo è così leggero che su di me non lo sento, è una piuma, così piccino che averlo in grembo non mi pesa, il suo contatto non mi pesa, ma sono talmente tesa che nemmeno ci faccio caso. Mi concentro sul suo visino congestionato che piange e si spreme, e provo ad avvicinare il biberon alla bocca. Lo accosto delicatamente, posandolo sul labbro inferiore, e lo lascio lì. Lui prima si scosta, lo rigetta, poi per fortuna progressivamente si calma, e lentamente comincia a succhiare. Succhia, beve il latte, e io non distolgo il mio sguardo da lui, per paura che smetta, per paura che se mi distraggo e sposto il biberon di un millimetro ricominci a piangere. Resto ferma, non muovo un muscolo, nonostante la fervida agitazione che artiglia ogni fibra del mio corpo. Levo appena gli occhi, e vedo Enrica che ha il volto fisso su Giacomo, ma non lo guarda, lo oltrea, è assorta, incupita, persa dentro di sé. Poi se ne accorge e torna a essere presente, sorride, si rivolge a me sollevata. «Visto? Questo piccolino è proprio un monello, così piccolo e fa già i capricci!» Enrica sorride scherzosa, ma appare spaesata, e io mi sto preoccupando per lei. Però non posso articolare né movimenti né parole, Giacomo sta succhiando il latte e io sento di dover restare immobile e in silenzio, finché non avrà bevuto ogni goccia. Poi il latte nel biberon si esaurisce e io lo ritraggo scrupolosa. Giacomo fa una faccia buffa, strizza gli occhi, muove la bocca come a voler proseguire a succhiare, infine accentua la smorfia e ricomincia a piangere. Strilla di nuovo, e io guardo Enrica costernata. Lei si sforza di non smettere di sorridere, ma si vede lontano un miglio che è tesa e avvilita, che le forze le si stanno prosciugando. Con un moto irruente si riprende Giacomo, ma forse io non sono abituata a

maneggiare un neonato di un mese, invece lei ha già imparato. Quando le figlie di Ilenia erano neonate, mi limitavo a guardarle nella culla, e non le ho mai prese in braccio se non seduta in sicurezza, mi sembravano tanto delicate da poterle rompere con facilità. E poi non sono mai stata una dispensatrice di coccole, non provo particolare piacere a cullare un bambino in fasce, anzi il doverlo fare mi spaventa, mi estromette, sono più propensa a giocarci quando sono già grandi, e si possono fare giochi con regole prestabilite, stando a distanza. Enrica estrae dalla borsa-fasciatoio un pannolino pulito e la scatola delle salviette. Depone Giacomo sul divano e con gesti meccanici gli slaccia la tutina, la solleva sul pancino e lo cambia, appallottola il pannolino sporco, e lo porge verso di me, e io mi precipito a buttarlo nell’immondizia ermeticamente sigillato in due sacchetti. E nulla nelle movenze di Enrica somiglia alla gestualità dell’amore. Si è messa a eggiare con Giacomo per la sala, dirige il corpo aspramente, senza armonia, tanto da fargli venire il mal di mare. E penso che Giacomo vomiterà sul pavimento tutto il latte che ha ingurgitato a fatica. Lei sembra muoversi con fervore eccessivo, come a voler anticipare i tempi, come se non sapesse cullare il suo bambino. Lo sballotta su e giù impaziente, picchiettandogli una mano sulla schiena, Giacomo è chiaramente indispettito da quel sali e scendi burrascoso e non vuole placarsi, strilla. Torno a preoccuparmi, c’è qualcosa che non va, e io non so come muovermi, non so come comportarmi. «Ma non puoi dargli il ciuccio?» «È inutile, tanto non lo prende.» Giacomo si calma dopo un’ora, sessanta minuti di strilli ininterrotti, che si affievoliscono solo alla fine, e Enrica che sta in piedi tutto il tempo, e deve avere le braccia anchilosate. Mi chiede di appoggiarlo sul mio letto, e io la accompagno in camera, dove c’è Amaranta che appena ci vede schizza in sala, mentre Enrica posa Giacomo addormentato tra i cuscini e finalmente può tornare a rifiatare. «Vuoi mangiare qualcosa? Ti preparo un tè coi biscotti.» Metto l’acqua a bollire, Enrica si distende sul divano e chiude gli occhi, è così esausta. Io mi siedo accanto a lei, in un angolino, invece Amaranta resta lontana da noi, rintanata sul suo cuscino, impaurita, senza manifestare l’intenzione di scendere per la eggiata della sera.

«Enrica come stai?» Glielo domando piano, non mi va di infierire. «Bene, va tutto bene, ho soltanto sonno.» Mi risponde senza aprire gli occhi, si addormenta, e io resto qualche minuto a osservarla. Addormentata ha l’innocenza di un angelo. Forse non mi devo allarmare, è solo estremamente stanca di badare a un bambino che ha fame e piange di continuo e magari si sveglia pure in piena notte. Non la disturbo, la lascio riposare, Enrica dorme serafica, respira leggera. Mi alzo, spengo il gas, sicuramente mi sono preoccupata per niente, Enrica è solo stanca, ha solo bisogno di dormire.

Dopo dieci minuti Giacomo si sveglia e ricomincia a piangere, urla convulso, come se non avesse appena mangiato e non fosse stato pulito e cambiato e avesse bisogno di nuove cure, come se avesse bisogno di tutto. Mi giro verso Enrica, non si è scomposta e dorme beatamente. Mi duole svegliarla, voglio che riposi almeno per recuperare un minimo di forze, le servono riserve di energia. Amaranta mi scruta circospetta, all’erta, così vado di là e chiudo sia la porta del corridoio sia quella della camera, dietro di me. Poi entro nel panico. Sul mio letto c’è un neonato urlante, implacabile. Prendo un respiro profondo e mi avvicino, mi siedo accanto a lui e gli metto una mano sulla pancia, cullandolo leggermente ed emettendo dei suoni come se fosse un gatto, per tentare di calmarlo. Senza successo. Lo prego, anche se non serve, lo prego di smettere, di non svegliare la mamma, di farla dormire, di non costringermi a chiamarla, e lui continua a urlare più forte. Sto per alzarmi e andare a svegliare Enrica, ma voglio lasciarla riposare, ancora un altro po’, pochi minuti, una mezz’oretta al massimo. Puoi resistere Giacomo, solo trenta minuti? Giacomo in tutta risposta caccia un urlo violento e acuto, quasi si strozza per lo sforzo, e io scatto in piedi, diretta in sala a chiamare Enrica. Sta dormendo, non si è scossa nemmeno a quest’ultimo grido, che senza dubbio ha superato la parete, nonostante le porte chiuse. Penso che sia davvero al limite delle forze, è venuta da me per farsi aiutare, per potersi riprendere dall’ultimo mese, che dev’essere stato super faticoso, e a me riesce lontanamente di immaginarlo. Devo cercare di fare quello che posso, per lei, so che devo lasciarla dormire, mi arrendo, torno di là. Con timore prendo Giacomo in braccio, per la seconda volta. Sto in piedi e lo faccio dondolare come faceva Enrica, solo con più delicatezza. Intono una canzoncina con note a casaccio, lascio colare il suono dalle mie labbra arrotondate, senza ostruirlo, senza forzarlo, e ne esce un lamento fievole. Cammino per la stanza, sussurro, supplico, e non so fino a che punto posso resistere, con questo neonato che piange dibattendosi tra le mie braccia. È così gracile che non pesa niente, non ho idea di quanto le mie braccia possano stringere, ho paura di schiacciarlo troppo, e per la tensione contraggo i muscoli, le braccia si affaticano per la posa innaturale, e si intorpidiscono. Ho la schiena demolita, gli arti doloranti, Giacomo è qui soltanto da un paio d’ore e sono già estenuata. Mi chiedo Enrica come abbia retto durante queste settimane, ma per lei è diverso, lei è la mamma, e poi Enrica non ha paura del contatto, di sicuro non teme di romperlo, cullarlo non la atterrisce. Ma a me sì, cullarlo mi atterrisce enormemente.

ati tre quarti d’ora in cui Giacomo non si è ancora calmato, penso che Enrica abbia riposato a sufficienza, e ritengo che ora posso andare a svegliarla, ma Giacomo si placa, d’un tratto chiude semplicemente gli occhi, e nello stesso momento si assopisce, la testolina gli cade di lato, e si addormenta sul mio petto. Lo appoggio sul letto, lo poso alla moviola, per non svegliarlo, e idem mi sollevo, pianissimo. Sto per andare, ma voglio essere sicura che sia addormentato profondamente, che non si svegli un’altra volta tra cinque minuti. Lo guardo quasi senza respirare. Adesso che dorme la sua pelle ha cambiato colore, è rosea, vellutata. Dorme a pancia in su, le braccia aperte e le manine chiuse. Osservo la curva del nasino, le labbra sporgenti, le ciglia lunghe. Lo guardo e aspetto, infine decido di sdraiarmi, mi metto di lato vicino a lui, le mani sotto la guancia, e me ne sto qui, ascolto il suo respiro. Giacomo è talmente piccolo, talmente indifeso. Tanto indifeso che mi viene da piangere, e mi tuffo nel mio pozzo. Piango, ma lascio scorrere le lacrime in silenzio, per non svegliarlo. Dentro di me si innalza un’onda, sospinge il mio braccio verso Giacomo, la mia mano gli carezza la testa, la pelle tenera, alliscia i capelli fini. Poi torna sotto la mia guancia, non asciugo le lacrime, le lascio cadere sul lenzuolo, annego nella fragilità della vita, che nonostante tutta la paura mi sembra dolce, chiudo gli occhi, e scivolo sul pendio del sonno. Mi addormento e sogno, ma i sogni non li conservo, li attraverso senza portarli con me, finché resta soltanto il buio, e mi sveglio. Quando riapro gli occhi mi ci vuole un po’ per orientarmi, devo aver dormito più di quello che mi parrebbe, un solo battito di ciglia. Senza muovermi allargo gli occhi, abbraccio Giacomo con tutto il mio sguardo, è ancora addormentato, non si è svegliato. Respira pacificamente, le palpebre lisce, tonde, le ciglia chiare, quasi trasparenti. Attenta a non fare rumore rotolo su me stessa, e con una spinta mi metto a sedere sulla sponda del letto. Mi sgranchisco i lombi e adocchio la sveglia sul comodino. Sono le due, e mi sembra incredibile aver dormito, malgrado l’ansia che avevo addosso. Eppure sono planata soavemente, attraverso il respiro di Giacomo, un soffio lieve. Mi alzo, sempre facendo pianissimo, controllo ogni minimo movimento, ogni scostamento d’aria, spingo la porta con la punta delle dita e vado in sala. Amaranta è acquattata nel suo angolo, agita le zampe e abbaia nel sonno, sta sognando. Cautamente mi avvicino al divano, e lo trovo vuoto. Enrica deve essersi svegliata, sarà andata in bagno. Torno in corridoio e faccio per bussare, ma mi accorgo che la porta del bagno è accostata e che all’interno la luce è spenta. Mi affaccio, e in bagno Enrica non c’è. Ritorno in sala, e sono calma, ma

solo perché non capisco. La mia casa è tutta qua, una camera, un bagno, un corridoio, e una sala con cucina a vista, delimitata da un bancone. La porta finestra del balcone è chiusa, e le stanze sono vuote, Enrica proprio non c’è. Guardo in cerca del suo borsone, e lo vedo sul pavimento, allora mi fiondo verso la porta di casa, giro la maniglia, e la scopro aperta. Ricerco la mia lucidità, smussata dal sonno accanto a Giacomo, forse Enrica è scesa a fare due i, si è svegliata nel cuore della notte desiderosa di una boccata d’aria, e quella sul balcone non le bastava. O forse, forse è andata.. Ci provo, a stare calma e sbrogliare le supposizioni che mi si accalcano nella mente, ma non c’è niente di sensato e comincio ad angosciarmi. Però non devo, devo rimanere lucida, Giacomo è di là, e sua madre ricomparirà a momenti. Mi siedo sul divano, le gambe che tremano e io che le faccio vibrare ancora di più. Accendo la televisione, e premo il tasto mute, per non disturbare il sonno di Giacomo nell’altra stanza. Aspetto, aspetto che Enrica ricompaia, che risalga, che rientri in casa. Vorrei scendere a cercarla, ma non posso lasciare Giacomo da solo, quindi aspetto, aspetto che sia lei a tornare. Sono le due di notte, dov’è? Dove sei Enrica, dove sei andata? Guardo l’accozzaglia di immagini che scorrono sullo schermo senza sonoro, non le immagazzino, sono in trance, tento di focalizzare un senso logico, ma non comprendo quello che sta accadendo. Ho sonno, le palpebre mi crollano, ma non voglio riaddormentarmi, non prima che Enrica sia tornata. Perché deve tornare. Nel frattempo Giacomo si sveglia, e io sobbalzo sul divano. Come un’ossessa mi metto a girare per la sala, cercando qualcosa che ho perso, poi noto il borsone di Enrica, un borsone nero, tipo quelli da palestra. Mi chino e apro la cerniera, esploro il contenuto, lo rivango con le mani, incredule. Trovo una decina di tutine in cotone e in ciniglia, piccolissime, eppure troppo grandi per Giacomo, azzurre, gialle, con animaletti disegnati. Ci sono una ventina di pannolini sfusi, un barattolo di latte in polvere e un altro biberon. È pazzesco, ma comincio a dubitare che Enrica se ne sia andata, e per un istante ho la certezza che ha lasciato quella borsa per me, perché me ne occupi io. Ma no, non è possibile, si è svegliata e le è mancato l’ossigeno, soffocava, non riusciva a respirare ed è scesa in strada, all’aperto, per raccogliere l’aria, per sentirsi libera di nuovo. E allora il borsone? Oddio non lo so, e intanto Giacomo sta ancora piangendo, piange inconsolabile e sveglierà l’intero condominio. Torno da lui, lo riprendo in braccio, sono in trepidazione, e lui lo sente, e piange di più. Provo a smollare i nervi, non voglio che capisca che la sua mamma non c’è, era sdraiata sul divano e adesso è sparita, si è eclissata, volatilizzata. Il pianto di Giacomo non si

attenua, e mi viene in mente che possa aver fame, non so ogni quante ore mangi, Ilenia mi sembra che allattasse ogni tre ore, forse due, anche la notte. Lo riadagio sul letto e nel momento in cui tolgo le mani da lui impazzisce, si accorge che lo sto lasciando, urla piangendo perché non vuole essere abbandonato. Recupero il barattolo di latte in polvere, leggo le istruzioni, ricerco la quantità di polvere da mischiare con l’acqua, le dosi giuste a seconda dell’età. Devo mischiare un misurino colmo a cento millilitri di acqua, agitare bene il biberon e scaldarlo alla temperatura corretta, che non so quale sia. Faccio bollire l’acqua e ci immergo il biberon per qualche minuto, come ho visto fare a Enrica, e me ne spruzzo alcune gocce sul dorso della mano, finché mi sembra che sia caldo al punto giusto. Però non sono convinta e ho paura che Giacomo possa scottarsi, così mi sparo il latte direttamente in gola, e mi sembra che la temperatura vada bene, mentre il sapore mi pare orribile. E Giacomo piange, Giacomo strilla e si contorce sul mio letto. Corro in camera con il biberon, mi siedo e me lo metto in grembo, ho già quasi la dimestichezza di una madre, è la disperazione, è questo grido perforante che ti insegna in un attimo a fare tutto. Gli reggo la testolina e avvicino il biberon alla sua bocca. Per qualche secondo non sembra volerlo, invece accoglie tra le labbra la tettarella e comincia faticosamente a succhiare, piano, poi con più avidità, si tranquillizza, beve il suo latte. Dopo me lo tengo contro il petto per farlo digerire, e mi accorgo che si è riaddormentato. Allora lo sdraio al centro del letto, con un cuscino creo una barriera e io mi stendo di traverso di fianco a lui. Occupo tutto lo spazio, vanificando la divisione centrale. Vorrei piangere per l’eccitazione e lo spavento, mi sovviene di non aver chiuso a chiave la porta di casa, ma non mi alzo per andare a chiuderla, la lascio aperta, per quando Enrica tornerà. Ma quando alle sei Giacomo si sveglia un’altra volta, con quel pianto scrosciante che assorda e ti deturpa le viscere, e io mi accorgo di aver dormito, ed è mattina, e il cielo inizia a farsi chiaro, mi alzo e lo prendo in braccio, con lui vado in sala, Amaranta si desta e si stiracchia il dorso, sbadiglia, il divano è vuoto, e Enrica non c’è. La porta è rimasta aperta e lei non è tornata. La chiudo.

Pelle nuova

È domenica mattina e Ilenia arriva alle sette, trafelata, in tuta, e con una coda mezza disfatta sulla testa. Alle sei l’ho chiamata al cellulare e l’ho svegliata, lei tiene sempre il telefono sul comodino per le emergenze, solo che l’ho spaventata parecchio. Quando ha risposto quasi non riuscivo a parlare, la mia voce che tremava, le urla di Giacomo in sottofondo. «Non ce l’ho fatta più a prenderlo in braccio, non posso più calmarlo, piange di continuo, non riesco a prenderlo in braccio, non posso..» Addito Giacomo che geme e si dispera sul divano, mezz’ora fa l’ho adagiato lì e mi sono messa a camminare avanti e indietro per la stanza, aspettando Ilenia, mentre Amaranta ha preso a mugolare e a girare in circolo esagitata, messa in allarme da me. «Ma che ci fa qui un neonato, di chi è, si può sapere che succede?» Mi chiudo le orecchie con le mani, premo per non sentire quel pianto, sto per avere un tracollo nervoso, lo sento. «Ti prego ti prego fallo smettere di piangere!» Ilenia non perde il dominio di sé, è preparata a fronteggiare piccoli e grandi disastri, che non la sconvolgono, entra nel ruolo di madre, efficiente, infallibile, decisa a placare Giacomo a qualunque costo. Io le indico soltanto il borsone aperto sul pavimento, lei esamina ciò di cui dispone e parte all’opera. Gli cambia il pannolino, lo lava, gli mette una tutina pulita e gli scalda del latte nel biberon. In braccio a lei Giacomo trova la sagoma in cui adattarsi, la stessa in cui si sono incuneate le quattro figlie di Ilenia. Giacomo mangia, poi Ilenia lo tiene diritto e con colpetti ritmati sulla schiena gli fa fare un piccolo rutto. Quindi lo posa nuovamente sul divano, a pancia in giù, gli si siede accanto e con una mano gli massaggia la schiena minuscola. Finché Giacomo non si calma, finché non si addormenta. «Incredibile, sei proprio una mamma.» Ho gli occhi pervasi dallo stupore, e non riesco a staccarli dal corpicino di Giacomo, dalla sua schiena che si muove lievemente su e giù, sollevata da un vento tenue che la attraversa. Poi incrocio le pupille incandescenti di Ilenia, ha

sonno, ieri sera è stata fuori a cena, è tornata tardi, l’ho svegliata all’alba facendole prendere un coccolone, e ora vuole sapere ogni cosa, vuole che le spieghi, “forza, svuotare il sacco!”, ma io so solo che Enrica prima c’era, prima dormiva pacifica sul mio divano, e adesso sul divano non c’è, per quello che so è sparita dal mondo, prima Giacomo aveva una madre, giovane, inesperta, stanca, adesso non ce l’ha. Non ha più una mamma, ha solo me. «È il figlio di Enrica, è Giacomo.» Preparo il caffè e lo beviamo sedute sugli sgabelli, i gomiti puntellati al bancone, mentre Giacomo dorme sul divano, a pochi metri da noi, le sedie del tavolo a fare da barriera. Mi tranquillizzo, un poco, con Ilenia vicino a me, e le racconto quello che è successo la sera precedente. «Devi chiamare i genitori della ragazza, far venire qualcuno a riprendersi il bambino, non puoi tenerlo qui.» «Sarebbe una buona idea, certo, ma io non so chi siano i suoi genitori, non ho recapiti, dove abitano non lo so, non so niente di niente!» Mi sto di nuovo agitando e allora Ilenia diventa meno perentoria, più materna. «Ok ok, non ti agitare, andremo alla polizia, rintracceranno loro Enrica, o la sua famiglia.» Addirittura la polizia? Mi sembra un’esagerazione, e poi cosa racconto ai poliziotti? Non ho un cognome, un indirizzo, non conosco nemmeno l’ospedale in cui è nato, anche se si potrebbe facilmente rintracciare, Giacomo è nato da circa un mese, isolando i bambini che sono nati in quel periodo potremmo reperire i suoi dati e contattare la famiglia, potremmo riconsegnarlo ai nonni, alla mamma, può darsi. D’altronde non abitiamo in una metropoli. Però poi penso che Enrica è venuta da me, penso ai suoi genitori, alla madre che non la comprende, al padre che non la difende, mi figuro il trauma che deve aver vissuto, forse voleva chiedermi di tenerle Giacomo per pochi giorni, ma non ha osato, ha pensato che avrei capito, mi ha lasciato il borsone con l’occorrente, presto tornerà. È così, deve tornare, e io compio una scelta, senza che maturi. Non posso andare alla polizia, non posso cercare i nonni di Giacomo, devo stare qui ad aspettare Enrica, a breve sarà qui. Lo dico a Ilenia, le chiedo di aiutarmi per un po’, per qualche giorno, la imploro di non abbandonarmi.

«Ma che ne sai di chi è questa Enrica? La incontri un giorno per strada e lei ti si accolla neanche foste due sorelle separate alla nascita, fa un bambino e dopo un mese viene qua e te lo molla senza dirti niente. Devi andare alla polizia, ti dico, tenerlo qui con te è una pessima idea. Non avventurarti in un contesto folle, perché tutto ciò è folle, credimi.» Io le prendo le mani, «ti prego, aiutami, solo qualche giorno», e Ilenia ha già detto di sì, perché è la mia migliore amica, perché senza di lei non saprei come fare, perché sa che voglio accudire personalmente Giacomo, l’ha capito, sua madre l’ha affidato a me. E senza rendermene conto lascio entrare la follia nella mia vita, una parte di follia, ora, è in me. In poco tempo Ilenia si organizza, parla con Emma, si accorda con Stefano, recluta sua madre come baby-sitter a tempo pieno. Sistema Giulia e le gemelle con la nonna, dice a Emma che per alcuni giorni deve fermarsi da me, anche se erà da casa per le direttive giornaliere. Io invece il lunedì mattina chiamo in ufficio, trasgredisco e dico che rimango a casa, ho la febbre alta. Peraltro è quasi vero. Mi sento la testa calda, nel vortice dell’agitazione, attanagliata dall’impazienza crescente di udire il suono del citofono, ansiosa di abbracciare Enrica che torna, perché l’abbraccerei. Ilenia si occupa di tutto, e io le sto vicina in ogni momento, per imparare da lei, ma non mi servirà saper fare da sola, perché Enrica presto sarà qui, sta già tornando, forse è già sotto casa. Ma il citofono non suona. Giacomo è un bambino esigente, piange spesso, fortissimo, e ogni volta sembra che nulla riuscirà a sedarlo. Ma alla fine si strema, mangia, si addormenta. Ilenia dice che secondo lei ha delle piccole coliche, per questo lo mette a pancia in giù, e in effetti in questa posizione sembra che Giacomo trovi sollievo. Da quando c’è Ilenia non l’ho più preso in braccio, mi ha avvinto un panico tremendo, so che lo farei piangere di più, che lo terrei nel modo sbagliato e lo infastidirei maggiormente. Meglio che ci pensi Ilenia, al mio posto. Però Ilenia, dopo aver allevato quattro figlie, fatica a riabituarsi a questi ritmi, e inoltre ha la preoccupazione della famiglia, delle bimbe a casa della nonna, pur sentendole di continuo, durante la giornata. Dall’ufficio mi hanno telefonato un paio di volte, dicendo che aspettano il certificato medico, e domandandomi quando penso di rientrare. Io ho finto un colpo di tosse asserendo che sto troppo male per andare dal medico, ma che ci andrò. Non appena Enrica suonerà al citofono di casa mia e salirà a riprendere Giacomo, e ogni cosa tornerà alla

normalità. Dopo tre giorni il citofono suona davvero, ma non è Enrica, è Angela, e anche se le dico che sono presa, che proprio non posso farla salire, e non le apro il portone, lei trova lo stesso il modo di introdursi, forse si fa aprire da un altro inquilino, e in pochi secondi bussa alla porta, agguerrita. E io sono costretta ad aprirle, mentre Ilenia si rifugia in camera con Giacomo. «E no signorina, adesso mi dici che diamine succede!» «In che senso Angela, non capisco che vuoi dire.» Cerco di assumere un tono neutro, mi convinco di poter dominare la contingenza, ma sono remissiva, non la caccio di casa, e Angela si accorge che un mistero c’è. «Voglio dire che sono tre giorni che non vai al lavoro e pare tu sia molto malata. Ovviamente a me non dici niente, io non posso certo aiutarti se stai male, sono solo tua madre! Insomma che hai, si può sapere? Cosa stai combinando della tua vita, vuoi proprio buttarla via? E io che sto cercando in tutti i modi di salvartela, la tua vita!» «Appunto, si tratta della mia vita, e a te non devo nessuna spiegazione. Ho la febbre e ho preso qualche giorno di malattia, tutto qui. Che c’è di strano, non posso nemmeno più ammalarmi adesso?» «Mi spiace cara ma a me non la racconti, sono anni che non ti viene il febbrone, da quando avevi sette anni, e siamo dovuti correre al pronto soccorso in piena notte, e dal medico non ti sei fatta visitare, lo so perché ci ho parlato. Cos’è, un attacco tardivo di depressione? Sei diventata nevrotica? Non ti starai imbottendo di pillole!» Quelle pillole di oblio che non hanno inventato, che farebbero sparire perfino te? «E non raccontarmi che sei malata, perché non ci credo. Ti vedo e stai benissimo, se non fosse per quelle occhiaie, ma non dormi la notte? È questo, soffri di insonnia?» Nonostante la stanchezza, la rabbia mi sta montando dentro, Angela ti lascia stare per un po’, ti illude di poterla scampare, e infine trova il momento meno

opportuno per venirti a brancare di persona. Sto per agguantarla e spingerla via, quando un gemito infantile attraversa la parete, si gonfia esplosivo, e si trasforma in pianto. «Ma cosa?» Angela tende l’orecchio e si volta verso la parete della camera, stranita, allora io l’afferro al volo e la sospingo verso la porta all’ingresso, e lei si lascia trasportare, distolta dai suoi farneticamenti, perde per un attimo la fissazione di avercela con me. «Non è niente Angela, è la signora del terzo piano che ha qui il nipotino per qualche giorno.» Ho già aperto la porta e Angela ha un piede sul pianerottolo, ma con entrambe le mani si trattiene allo stipite riproiettandosi all’interno. «Eh no, il pianto viene dalla tua camera.» Io non so cosa dire, e Angela mi scansa e si fionda in camera, e io dietro di lei per superarla. Ilenia sta cullando Giacomo senza successo, e Angela la squadra con una smorfia di disgusto. «E lui chi sarebbe? Cos’è, hai sfornato un altro figlio in tempo record?» Angela e Ilenia hanno un rapporto conflittuale, e nessuna delle due va per il sottile, l’una con l’altra. «È il figlio di sua cugina, e Ilenia è venuta a farmelo vedere, la madre gliel’ha lasciato perché aveva da fare una commissione.» Un bambino in braccio a Ilenia nella mia camera non è compromettente, eppure Angela è dubbiosa, armata di disappunto, ha un pensiero che le frulla nella testa, e sta provando ad acciuffare un particolare svolazzante che le ronza intorno. «E allora perché mi hai detto che il pianto veniva dall’appartamento di sopra?» «Perché volevo cacciarti e se ti dicevo che c’era un bambino nell’altra stanza avresti voluto vederlo, e ti saresti fermata. Come vedi, in effetti, sei ancora qui.»

Dentro di me tiro il fiato, questa volta ho avuto la risposta pronta, ma non so per quanto la farsa potrà reggere, Angela se ne deve andare. Lei registra la mia risposta, sa che può essere vero, non si illude che io la voglia vicino, come madre, è lei che ci si piazza comunque, perché è ingombrante di natura. «Questo bambino ha qualcosa che non va, non ha un pianto normale, vi conviene chiamare subito la madre. E tu mi assicuri che non sei affetta da qualche turba psicotica? Che non ti sei messa a prendere farmaci e robe simili?» Glielo assicuro, ma soltanto perché si tolga di torno, e inaspettatamente Angela se ne va, Giacomo continua a piangere e lei non ha voglia di sentirlo, i suoi urli la assordano, persino per lei sono troppo potenti. E quando la porta di casa mia si chiude alle sue spalle, prendo Giacomo in braccio, senza pensarci, lo faccio d’istinto, gli sorrido, anche se lui continua a strillare. «Bravo» gli dico, fiera, «hai fatto scappare Angela!»

Giovedì Ilenia mi dice che non può più fermarsi, deve tornare a casa, allo studio del marito si sono accumulate le fatture, e deve andare a riprendersi le figlie da sua madre, non può lasciargliele per più di qualche giorno, tutte e tre insieme sono troppo impegnative. Le rincresce e riprova a suggerirmi di rivolgermi alla polizia, me lo dice rassegnata. Le rispondo che il ritorno di Enrica è imminente, lo so, lei ama il suo bambino, lo vuole tenere con sé, era la sua famiglia che voleva costringerla a rinunciarvi, ma lei l’ha tenuto, tornerà. Ilenia fa un cenno di assenso con la testa, però se ne va. Mi dice che erà al supermercato a fare scorta di latte in polvere e pannolini, e che me li farà recapitare da Stefano più tardi, io la ringrazio infinitamente, ma la verità è che sto già tremando al pensiero di restare di nuovo sola con Giacomo. E se Enrica ci mettesse tanto a tornare? Poco dopo squilla il telefono, ed è l’ufficio che mi chiama, di nuovo. La voce che parla esige la data del rientro, non mi domanda come sto, non ho mandato il certificato medico e non ho più avvisato circa la mia assenza. I miei muscoli facciali stanno guizzando, me ne infischio delle regole e delle buone maniere, esplodo, urlo che non lo so quando torno, che la febbre non mi è ata, che sto male e non posso rientrare a lavorare, ma la voce diventa saccente, afferma che non sono a norma, che possono contestarmi la malattia. E allora io mando quella voce saccente a quel paese, che mi togliessero pure le ferie, anzi no, che mi licenzino, e non so perché la mia rabbia insorge tutta adesso, ma è il fondo del pozzo, la parte solida che sta sotto l’acqua, il fondale che stilla le lacrime, la base di tutto il dolore. Mando a fanculo il lavoro, la banca, Claudio, Marco, tutti quanti. Mi pento un attimo dopo aver messo giù, ma ormai è troppo tardi, o forse no. Dopo cinque minuti il telefono squilla di nuovo, e intanto Giacomo si sveglia, si mette a piangere, di là in camera. Rispondo al cordless ma rimango in sala, non so chi sia e non voglio che si intuisca la presenza di Giacomo. «Pronto, Nadia?» Ammutolisco, come se al telefono non fossi io, ma lui sente il mio respiro, sa che sono in ascolto, che non metto giù. «Nadia che succede? Hai bisogno di aiuto? Qui sono tutti preoccupati.» La sua voce è amichevole, ha confidenza, come se non avesse smesso di

considerarmi ogni giorno, come se non avesse smesso di “vedermi”, al lavoro, nella sua vita. Qualcuno dell’ufficio deve averlo avvertito, forse Anna gli ha chiesto di chiamarmi, riferendogli che non sembro in me, e tutto sommato lui mi conosce bene, magari sa come prendermi, magari riesce a scoprire cosa mi è preso, cosa mi sta accadendo. Ma Marco non mi conosce più, non mi importa se mi conosceva o meno prima, adesso non sa chi sono, non lo sa. E se crede di raggirarmi con una vocina mielosa, si sbaglia di grosso. Raschia sul fondo di un pozzo inaridito, ma più in profondità c’è dell’altra acqua. È acqua diversa, non è salata, è acqua dolce, è l’acqua di un fiume che scorre sotterraneo, violento, verso la sua foce. È il fiume che trasporta la mia anima, dentro ci sono io, ne faccio la scoperta, riconosco la mia unicità, la mia essenza. E ora voglio fluire, eversiva, irrompere nella vita. «Al lavoro non ci torno, dì pure a Claudio che aspetto la lettera di licenziamento. Ciao.» «Nadia..» Marco cerca di trattenermi, con quel tono terribilmente odioso che aveva con me quando voleva illustrarmi qualcosa, istruirmi, facendomi are per stupida, perché solo lui sapeva come funzionava il mondo. Nel frattempo un urlo di Giacomo più potente degli altri mi giunge nell’orecchio, quello che non è accostato al cordless, quello che non ha dentro la voce di Marco, l’acqua del fiume si solleva, lambisce l’ignoto che la attrae. Non c’è il tempo di fabbricare una diga, di innalzare gli argini, il fiume straripa, e mi libera. Lo capisco in questo istante, e la chiarezza che ho nella mente, e nel cuore, mi sorprende. Ho sempre saputo dell’esistenza di quel fiume, ma temevo che mi inondasse, che invadesse la mia vita, che la allagasse fino ad annientarla, e ci ho costruito sopra il pozzo. Il pozzo è la mia paura di perdere il controllo, la paura di coltivare emozioni, di aprirmi alla vita, di essere me, e ho finito per credere che in quel fiume gie il mio cadavere, gettato lì a decomporsi, ho buttato e accatastato detriti, avanzi di me, per nasconderlo, ho coperto il pozzo. Ma qualcosa l’ha scoperchiato, forse è stato proprio Marco, oppure sono stata io, inconsciamente, ho cercato di liberarmi, e adesso ci riesco. «No, niente Nadia, ho deciso. Solo sai che c’è, dato che ci siamo, che siamo al telefono, io e te, c’è una cosa che vorrei dirti. Sei uno stronzo Marco, uno stronzo emerito.»

Glielo dico senza punti esclamativi, metto giù, e sto sorridendo. Probabilmente penserà che alla fine mi licenzio per lui, che in definitiva non ho retto alle congiunture attuali, di noi due, e non so se lo crederà perché ha la coda tra le gambe o un senso di narcisismo tracimante a cui in ato non ho dato abbastanza peso, e invece avrei dovuto. Non ci sto più agli ammaestramenti. Giacomo sta piangendo, e io vado da lui, lo prendo tra le braccia, lo cullo, lo calmo. E sono calma anch’io, completamente. Con Giacomo in braccio esco sul balcone, lo copro con una copertina di lana, ma fuori c’è il sole. All’orizzonte intravvedo le cime innevate delle montagne, ed è uno scenario suggestivo, immagino che una vetta sia la mia, e desidero scalarla, scoprire la discesa, la valle. Giacomo chiude gli occhi, muove la bocca in cerca di qualcosa, di una parte che gli manca, poi la apre in un buffo sbadiglio, il musino spremuto. «Ti prometto che la tua mamma tornerà, te lo prometto.» Sono contenta di quello che ho detto al telefono. Se penso di essere senza lavoro, di doverne trovare un altro, le spese, tutto quanto, mi sale il panico, ma poi non ci bado, rimando, non appena Enrica verrà a riprendersi Giacomo ci penserò, magari potrei cambiare aria per un po’, o per un po’ più a lungo, potrei decidere di partire per quel viaggio che mi ha regalato Angela per il compleanno, e schiarirmi le idee in vacanza. Ma il peggio non tarda a venire, giunge puntuale, nel pomeriggio. È Angela in persona, che ha sentito qualcuno dell’ufficio, dato che continua imperterrita a telefonare anche se io non ci sono, e carpisce mie notizie al malcapitato che le risponde. Oppure stavolta è stato Marco, ha chiesto a Medusa di avvertirla, o l’ha chiamata lui stesso, forse si è davvero preoccupato per me, questa volta. Angela mi intima di aprirle dal citofono, e dato che io non lo faccio, e le dico che non voglio parlarle, che sto male e voglio riposare, suona alla signora Maria, che ha le chiavi del mio appartamento per via di Amaranta, e prospettandole una catastrofe domestica si fa aprire da lei. Io la anticipo cercando di arrestarla, ma Angela è inviperita, si scaglia su di me, adirata mi spinge in un angolo, mi chiude sotto le sue invettive, mi urla contro che sono una sconsiderata, che sa tutto del mio atteggiamento increscioso con quelli dell’ufficio. E la mia vicina, assistendo ai preamboli delle ire di Angela, si defila alla svelta, e dallo sguardo umile mi sembra che stia tentando di scusarsi. Angela inveisce contro di me, mi scuote, e io non riesco a farla desistere, poi a un tratto lo fa Giacomo, cacciando l’urlo più potente che abbia sentito in questi

giorni. Angela si blocca, le mani in aria, si zittisce, poi scatta verso la camera, e quando la raggiungo mi guarda furente additando Giacomo sul mio letto. E ritrova l’aplomb. «Ora saresti tanto cortese, cara la mia ragazza, di spiegarmi perché questo bambino si trova ancora qui?» E va bene, confesso, le spiattello la verità, così forse mi lascerà in pace sulla faccenda del lavoro. «È il figlio di Enrica, una ragazza che conosco, aveva bisogno di alcuni giorni per fare una cosa e mi ha lasciato Giacomo perché glielo curassi.» Ok, non proprio tutta la verità, diciamo quasi. «Quindi una ragazza che conosci doveva fare una cosa e ti ha lasciato suo figlio di, di quanto perdio? Un mese?» «E allora?» «E allora lascia suo figlio di un mese a te per qualche giorno perché deve fare una cosa? Mi piacerebbe sapere cosa, e mi piacerebbe sapere se almeno tu lo sai, cosa aveva da fare di tanto importante e di così urgente da mollare qui un neonato. E lui non ce l’ha un padre, una nonna, un nonno, degli zii magari? Cos’è questa ragazza è sola al mondo per caso?» «No certo, infatti Giacomo è qui con me, non in mezzo a una strada.» «Ma fammi il piacere.» Sono pronta a tutto, a qualsiasi predica, qualsiasi ramanzina, e nel frattempo ho preso Giacomo in braccio e sto cercando di cullarlo. «Credo abbia fame, devo preparargli il latte.» «Tu? Tu gli prepari il latte?» «Sì, io, gli preparo il latte.» Guardo Angela negli occhi, mi aspetto che sbraiti un’altra volta, a proposito di

Giacomo, a proposito del lavoro, di me e del mondo, attendo di essere strapazzata, strigliata a puntino, invece mi stupisce, tende le braccia, mi dice: «Dammi qua». Prende Giacomo e comincia a cullarlo lei, mentre io vengo spedita a scaldare il biberon. E quasi non riesco a lasciare la stanza, e non so se sia perché non mi fido a consegnare Giacomo alle sue cure o perché mi spiazza vederla tanto disponibile, a dispetto del suo dissenso. Il biberon si sta scaldando e Angela riesce a tranquillizzare Giacomo, il che ha dell’incredibile. Gli parla facendo la vocina: «Dillo tu a Nadia piccolino, che cosa combini con il lavoro Nadia? Che cosa combini con la tua vita?» Secondo Angela sto mandando a catafascio tutta quanta la mia vita, ma quale vita? Di chi era veramente la vita che ho vissuto fin qui? Una vita ristretta, lontana dal suo ciglio, dai confini, una vita nel mezzo, defraudata, inesplorata. Una vita mediocre. Finora con me stessa sono stata disonesta. «Non ci torno al lavoro Angela», glielo comunico così, senza trattenere niente, «è stata una decisione impulsiva, lo ammetto, ma più ci penso più realizzo che è giusta, per me, o magari non lo è, però è la cosa che voglio fare, e non cambierò idea.» «E cosa sarebbe che vuoi fare, eh piccolo amore, cosa vuol fare la nostra Nadia secondo te?» Angela continua a fare la vocina, nonostante stia litigando con me, e mi frastorna. Strofina la punta del naso sulla guancia di Giacomo, che apre la boccuccia come un pesciolino in cerca del cibo, ormai tranquillo. E io non so se rimanere seria, e discutere perentoriamente delle mie scelte, con una che pronuncia parole come “piccolo amore” a un bambino che nemmeno conosce, ed è Angela. «Non voglio tornare a lavorare in quel posto.» «Sì ma perché? Per fare che altro? Vero amorino, che altro?» «Non lo so di preciso, al momento, e ti prego Angela smettila!» «Smettila di fare cosa?» «Di parlare in quel modo, con Giacomo, dallo a me.»

Allungo le braccia verso Giacomo, per afferrarlo, ma Angela si scosta, lo allontana dalla mia presa. «Neanche per idea. Non vedi com’è tranquillo, è vero piccolino, che con me sei tranquillo?» Non riesco quasi a crederci, non riconosco la mia Angela, non so chi sia questa donna che osservo e mi sbalordisce, può darsi che io non abbia voluto farci caso, e le cose che non si vogliono vedere scompaiono alla nostra vista, diventano invisibili a una spanna di distanza. Mi immagino Angela che tiene me tra le braccia, che mi dice “piccolina, amorina”, e che strofina il suo naso sulla mia guancia, e mi prende un senso di perdita così che subito mi distolgo da quell’immagine tremenda, di riflesso mi pulisco la guancia con il dorso della mano e decido che il biberon per Giacomo è pronto. Mi posiziono sul divano e faccio segno ad Angela di armi il bambino. Giacomo prima fa una smorfia, per un attimo sembra che voglia mettersi di nuovo a piangere, ma quando le sue labbra riconoscono la tettarella del biberon si chiudono e iniziano a succhiare, senza pausa. «Ora io vado, ma tu cerca di risolvere la questione lavoro e avvisa Claudio che tornerai in ufficio non appena ti sentirai meglio, e che oggi avevi la febbre talmente alta che deliravi. E chiama la tua amica, dille di tornare a riprendersi il suo pargoletto.» «Pronto? Cos’è che non ti è chiaro? Non ci torno al lavoro, non-ci-tor-no!» Le strillo dietro mentre se ne sta già andando, vorrei alzarmi e sbattere la porta, ma non posso spostarmi, ho Giacomo sulle gambe, sta succhiando dalle mie mani il biberon. Poi penso che sia inutile prendersela, è assolutamente normale che Angela non ascolti, che faccia muro e si metta a parlare a vanvera. Ma almeno se ne è andata. E comunque non importa, anzi che faccia pure come crede, che dica e chiami chi vuole, tanto io là non ci torno, sono irremovibile. Guardo Giacomo, il suo visino, il suo profilo perfetto, le manine chiuse, mi avvicino alla sua pelle, odoro il suo profumo, il suo profumo morbido, di latte. Mi riempio le narici del suo odore di bimbo, del suo candore, il suo odore bianco. E mi sembra che a colmarsi di bianco sia anche il mio cuore.

È trascorso un altro giorno, ed Enrica ancora non si è vista. Naturalmente Angela mi ha già telefonato per sapere se mi sono liberata del bambino e se ho parlato con il mio capo, le ho risposto “no, no”, non mi sono liberata di Giacomo e non ho contattato l’ufficio, e ho riattaccato. Non ha ritelefonato, per ora, e comincio a sospettare che non richiami per non svegliare Giacomo, per non disturbarlo, non è da lei arrendersi a una sola chiamata, per giunta chiusa così rapidamente, senza che io mi sia indispettita e lei mi abbia intimato di rinsavire. Giacomo è addormentato sul mio letto, ha mangiato, gli ho cambiato il pannolino da vera esperta e gli ho messo una tutina nuova, con il ricamo di un anatroccolo. È mattina, la luce del giorno filtra dai buchi della tapparella, e io mi sdraio accanto a lui, a contemplarlo. Non faccio altro, lo osservo, cercando di abituarmi a lui, al suono appena percettibile del suo respiro. Gran parte della notte la trascorro stando sveglia, e adesso che è giorno mi appisolo, soggiogata da una mitezza che non conoscevo, una spossatezza generale si propaga nel mio corpo, pervade le mie ossa fino al midollo. Mentre dorme potrei sbrigare qualcosa, sistemare, accendere il computer, (riflettere?), ma non faccio altro che occuparmi di lui, anche se è addormentato, lo sorveglio. Nel dormiveglia in cui galleggio vedo i colleghi di lavoro, c’è anche Marco, ma lui è lontano, minuscolo. Vedo Enrica, mi sorride, quasi a rassicurarmi, a dirmi che si fida di me, che sa che Giacomo è in buone mani. E vedo Angela, che stranamente non mi angustia, prende Giacomo tra le braccia e lo culla, perché non si svegli. Poi mi sembra che quel fagotto invece sia io, sono grande come ora, tutta rannicchiata, e Angela mi carezza e mi consola, e la scena non mi dà i brividi. Apro un occhio, e scorgo Amaranta affacciata alla porta della camera. Spunta solamente il muso, esita, non sa se avanzare o indietreggiare. Da quando Giacomo è in casa con noi è irrequieta, guardinga, forse non capisce cosa sia, questo esserino che non gioca con lei, a cui io dedico tutta la mia attenzione, e il suo pianto la mette in allerta. Però la curiosità la spinge a farsi avanti, e io la chiamo, la incoraggio ad avvicinarsi. Allora lei si sblocca e viene verso il letto, a i felpati, vigile, attenta a non palesare la sua presenza. Si ferma al bordo e si protende col muso, spinge le narici vicino a Giacomo che dorme, lo annusa, starnutisce. Arretra di qualche o, però scodinzola, mi guarda, si esalta. Le dico di non avere paura, è solo un bambino molto piccolo, è solo Giacomo, che starà con noi per un po’, e che presto se ne andrà, perché lui ha una casa dove

deve tornare. Anche se comincio a dubitare che Enrica progetti di riapparire. Non può essere scomparsa nel nulla, però non fa neanche una telefonata, non chiama, non manda un messaggio, resta nascosta, ma dove? Gli occhietti si schiudono e Giacomo si sveglia, non piange, io gli avvicino il ciuccio che Stefano mi ha portato con le altre cose, ma lui lo risputa subito, allora gli sfioro la guancia, gli o la nocca dell’indice sulla bocca aperta, e lui serra le labbra, le stringe attorno al mio dito, e comincia a succhiarlo. La sera viene a trovarmi Lorenzo, che non ha ancora conosciuto Giacomo, dopo il weekend pacificatore con Claudio si è fermato qualche giorno dai suoi, che essendo in pensione trascorrono sei mesi all’anno in Liguria. Mi trova con Giacomo in braccio, io che lo dondolo per farlo addormentare, la nocca del mio indice nella sua bocca. «Ma allora è vero, Ilenia me l’ha raccontato e non potevo crederci.» Ci sediamo sul divano, uno accanto all’altra, io con Giacomo che si è addormentato su di me. Gli tengo una mano sulla schiena, assecondo il suo respiro, e Lorenzo mi vede sul volto un’espressione che non possedevo. «Che tipo di espressione avrei?» «Di serenità profonda.» «Cavolo.» Io so solo che devo prendermi cura di questo bambino finché sua madre non torna a riprenderlo, e lo faccio con dedizione, ma è l’unica certezza che ho, tutto il resto è incoscienza. Come posso sentirmi serena in una situazione simile? «Forse non ti ci senti ma lo sei.» Ma io non so come sia possibile. Io propendo a essere prudente, razionale, ho bisogno di una causa per ogni effetto, che ci sia una spiegazione plausibile, necessito di uno spazio circoscritto in cui sapermi al riparo, e in questo momento non ho pareti a circondarmi, Giacomo le perfora tutte, le infrange e invade il mio cerchio vitale, impatta su di me e aderisce ai miei confini fisici, non posso credere a nessuna sicurezza, a nessuna serenità. «Sei così.. così.. come una mamma. Non è che ti stai già affezionando?»

«Dai Lory, non dire scemenze. Vuoi tenerlo un po’ tu?» Glielo chiedo perché mi sento aggredita, accusata di qualcosa che non posso sopportare. È vero, sto curando un neonato e non credevo che sarei mai stata in grado di farlo, ma paragonarmi a una vera e propria madre, dirmi sottilmente che un pochino mi ci immedesimo, questo no, meglio chiarire la faccenda, quindi allontano Giacomo da me, perché la verità risulti lampante a entrambi, più a Lorenzo che a me, o viceversa, e fa niente se Giacomo si sveglia, se ricomincia a urlare. Lorenzo accoglie Giacomo su di sé, lo fa gentilmente, senza destarlo. E ora è lui che se lo tiene addosso, io per un momento decomprimo la tensione, districo le fibre muscolari, e ritrovo forzatamente la libertà delle mie membra, la libertà da Giacomo. Sono solo in prestito, la vera me stessa sono sempre io, io sola, senza nessuno dentro il mio abbraccio. Sono soltanto io, vuota dentro e vuota intorno, Giacomo è un’eccezione, una presenza inattesa, un’incursione prepotente della mia intimità, presto tornerà a essere al di fuori del mio spazio personale, tra le braccia di Enrica. «Senti ho parlato con Claudio. Ti prego non ti arrabbiare, lo so che se te l’avessi detto non avresti voluto, ma l’ho pregato di aspettare con te, di non agire in alcun modo, di sospendere la situazione, stai ando un momento particolare, e tutta la pressione è venuta fuori di botto.» «Esatto, non avrei voluto, e tu non avresti dovuto.» Vorrei arrabbiarmi, ma con Lorenzo non ci riesco, mi è impossibile sgridarlo, per qualche strana ragione tendo a proteggerlo, e nemmeno mi accorgo che è lui che cerca di proteggere me, forse l’ha sempre fatto, in segreto. «Non ci voglio più tornare al lavoro, perché non ci crede nessuno? E non è nemmeno per Marco, è per me, a questo punto sento di dover imboccare una strada differente.» «Ma non è vero che non ti credo Nadia, è solo che non sei lucida, lo dici tu stessa, e dovresti valutare di prenderti del tempo per riflettere. Puoi sempre farti licenziare tra un mese o due, se ti va. E intanto potresti chiamare Claudio e metterti d’accordo con lui per stare un periodo a casa. Gli ho detto che avrei provato a convincerti. Non è necessario che salti in un buco nero per ricominciare da capo, puoi farlo anche evitando di distruggere tutto, qualcosa si

può sempre salvare, e penso che ora tu non veda più nemmeno il buono che c’è nella tua vita.» Vorrei davvero arrabbiarmi con Lorenzo, ma sono troppo esausta. Ho smollato le difese per un istante e la stanchezza accumulata si impadronisce delle mie facoltà, mi ordina di chiudere gli occhi, di dormire, pena l’ansia e cattivi pensieri, cattivissimi. «Perché non dormi un po’, sto io con Giacomo. Amaranta è già scesa?» «L’ho chiesto alla signora Maria, va lei in questi giorni, e io non lascio.. Giacomo solo.. in casa..» Biascico la frase, ormai parlo con gli occhi chiusi, sprofondo nel sonno, si addormenta ogni parte di me. Mi sveglio dopo un’ora, di soprassalto, cerco accanto a me e mi accorgo che sul divano non c’è nessun altro. Balzo in piedi allarmata, mi guardo in giro, e vedo Lorenzo, in piedi davanti ai fornelli, che mi fa segno di stare tranquilla, e con il dito sulle labbra mi rammenta di fare piano. «Sta ancora dormendo, è di là, l’ho messo sul tuo letto, io mi sto preparando un tè.» Mi riaccascio sul divano, ripiegata su me stessa, pesante. «Sono distrutta.» «Stai tranquilla, dormi, ti chiamo io quando si sveglia.» Richiudo gli occhi, ho un cumulo di ore di sonno arretrato da recuperare e penso che per la gestione di un neonato occorra un dispendio di energie superiori a quelle di cui dispongo, le mie riserve le ho esaurite in meno di una settimana. Non potrei fare la madre, gestire un figlio, non ne sarei proprio capace, ora ne ho la prova, anche se lo sapevo sicuramente da prima. «E se non dovesse tornare?» «Cosa?»

Riapro gli occhi, li rivolgo preoccupati a Lorenzo, alla fine l’ansia scava un pertugio, cavalca la stanchezza. «Enrica, la madre di Giacomo, se non dovesse tornare..» Lorenzo ha una tazza in una mano e la bustina del tè nell’altra, sollevata in aria. I suoi occhi mi guardano, rassicuranti, dolci, con la luce dentro a illuminare i miei dubbi per dissiparli, per mostrarmi che non c’è nulla di cui preoccuparsi. È stata solo un’ombra, un espediente fuorviante della mente, si è trattato solo di questo. «Tornerà, non lascerà suo figlio. E ora dormi, riposa.» Lui ne è sicuro, e allora torno a esserlo anch’io.

In ufficio manco da una settimana e non ho chiamato Claudio. Teoricamente sono in malattia, ho contattato il medico e mi sono fatta mandare il certificato, “esaurimento”, necessito di un lungo periodo di riposo. Angela si fa sentire tutti i giorni, ma senza tempestarmi di chiamate in continuazione, evita di tartassarmi con il telefono perché sa che c’è Giacomo che dorme, ormai ne sono sicura. Mi chiama la mattina e la sera, e mi domanda a malapena se mi sono decisa a tornare al lavoro, a volte sembra che lo faccia solo per compiacere se stessa, per mantenere una sorta di apparenza, di facciata. Adesso per la maggior parte della conversazione mi chiede di Giacomo. Vuole sapere se dorme, se ha mangiato, se ha fatto il ruttino, persino se ha fatto la cacca e se era liquida o se era gialla, insomma pretende una descrizione dettagliata del contenuto del pannolino. Ogni volta mi chiede se ho sentito la madre, e ha fiutato che c’è qualcosa di strano, così gradatamente le svelo come stanno realmente le cose, lei si informa se Enrica si sia fatta viva, e quando le dico di no a subito a domandarmi qualcos’altro, come se l’assenza di Enrica non fosse comunque il fatto saliente. E io sono spiazzata, non mi ci ritrovo. Angela è imprevedibile, mi sconcerta, mi sembra di non averla mai conosciuta, inspiegabilmente ribalta se stessa, sventando i miei pregiudizi, o forse sono io che l’ho sempre vista soltanto da un’angolazione storpiata. Ho messo Giacomo steso sul mio letto, e gli ho assicurato che la sua mamma sta arrivando. Gli parlo di lei, del colore dei suoi occhi, gli racconto dei mesi di Enrica trascorsi ad aspettarlo, della sua pancia enorme, la pelle liscia, tesa, perfetta. Gli descrivo la linea scura che la risaliva, una traversata del mare, il prodigio del concepimento e la celebrazione della vita, la promessa di uno spazio temporale in cui la solitudine è bandita. E quello che non conosco lo invento, per lui. Gli dico che la sua mamma è speciale, perché non ha avuto paura, gli dico che la sua mamma l’ha desiderato e difeso contro tutti, l’ha protetto, l’ha accolto, e poi l’ha portato da me. Ma solo per un po’, solo perché lei avesse il tempo di fare una cosa, o magari tante. Perché Enrica ha quindici anni, e di cose ne deve fare ancora molte, e forse è andata a farle tutte adesso, è andata lontano, da noi, da me, da Giacomo, incontro alla sua vita. Ma questo lo penso soltanto, a Giacomo dico che lei sta già per tornare. Sono le otto, e per cena non ho pronto niente. Non so nemmeno cosa sia rimasto per me nel frigo, ho raschiato tutto. Sono sfinita, la mente intorpidita e il corpo dolente, e decido di farmi una doccia rapida, calda, sperando che il getto

dell’acqua possa sciogliermi i muscoli del collo e delle spalle. Mi spoglio adagio, lego i capelli, preparo l’accappatoio e non chiudo la porta del bagno, così posso sentire Giacomo se si sveglia, accorrere solerte se si mette a piangere, mentre Amaranta resta di guardia accucciata alla base del letto. Ma un attimo prima di aprire l’acqua sento suonare il citofono. In altri casi avrei potuto ignorare quel suono, perseverare nella mia privacy, ma adesso mi precipito fuori dalla doccia, fuori dal bagno, scivolo nuda per il corridoio, mi catapulto al citofono, rispondo, ansante. Rispondo solo perché aspetto Enrica, perché penso sempre che sia lei, e ho paura che se non rispondo in fretta possa riandarsene via. Invece è una voce maschile, una voce che conoscevo bene, e solo ora mi accorgo di quanto mi sia estranea. Ci metto un po’, all’inizio resto interdetta, poi affiora un puntino luminescente, uno sprazzo di chiarore, e allora so a chi appartiene. È una reminiscenza, la voce di Marco. Claudio l’avrà deputato a are da me, è qui in delegazione. «Mi spiace, adesso non puoi salire.» «Per favore Nadia, soltanto un momento.» «Stavo per farmi una doccia, non sono neanche vestita.» Silenzio. Ma cosa mi metto a dire? Faccio per riagganciare il citofono. «Aspetto che hai finito.» Sospiro, e senza rispondergli apro, mi allontano dal citofono, alla ricerca di qualcosa da indossare, e trovo un paio di pantaloni lanciati sul divano e una maglietta caduta per terra. La indosso, in vari punti è macchiata di rigurgito e ricoperta dei peli di Amaranta. Apro la porta e sono in disordine, gli abiti luridi e i capelli scompigliati che ho lavato giorni fa. Appaio sciatta, trasandata, ma non me ne importa. Sto ad attenderlo e voglio liberarmene il prima possibile. Marco arriva sul pianerottolo, esco anch’io e socchiudo la porta dietro di me, ed è chiaramente evidente che non ho voglia di trattenermi a parlare. Mi sembra che ci resti male, però non mi chiede di entrare. Sbircia lo spiraglio tra la porta e lo stipite, poi mi guarda, o meglio guarda il pavimento nella mia direzione. Guarda i miei piedi, nudi, senza ciabatte. Mi viene in mente che lui non sopportava quando camminavo per casa a piedi scalzi, anzi penso per un attimo a come gli

devo sembrare, così conciata, mentre lui ci tiene che la sua donna non si trascuri, che sia ordinata e presentabile, in ogni circostanza. E io una volta lo ero, ordinata e presentabile, ero la sua donna, una volta. Adesso invece a casa mia c’è Giacomo, e lui occupa tutto il mio tempo. Non riesco ad avere minuti per me, per lavarmi con cura i capelli, depilarmi, applicarmi una maschera idratante sul viso, farmi una manicure. Giacomo è con me da poco più di una settimana, io sono del tutto scombinata, e la mia vita è messa in subbuglio, peggio dei miei capelli. Ma in questo momento quello che Marco possa pensare di me proprio non mi tocca, è l’ultimo dei miei problemi, e di certo la sua opinione non rientra nelle mie attuali priorità. Io non sono la sua donna. «Speravo potessi farmi entrare un momento.» Marco mi guarda in obliquo, dal basso verso l’alto. È come sbiadito, gli vedo due infossamenti profondi, bui, sotto gli occhi. «Te l’ho detto, non posso, sto andando a farmi una doccia.» «Effettivamente, sembra che tu ne abbia bisogno.» Non mi turbo, non barcollo. Voglio solo che lui se ne vada, e rimango diffidente, disgiunta da lui. «Pare di sì. In ogni caso se sei venuto per il lavoro potevi risparmiartelo. Non ho intenzione di tornare e puoi dire a Claudio di farmi causa o spedire la lettera di licenziamento che senz’altro ha già fatto scrivere, lo so che non vede l’ora di liberarsi di me. Se sei venuto per fare commenti sul mio stato, non sono richiesti, né tantomeno necessari. Grazie ciao.» Marco apre la bocca, ma non fiata. Non ostenta sicurezza, traballa, e non è da lui, non reggere fieramente lo sguardo. Qualcosa non va, e lui sta indugiando, forse si vergogna, non so, ma a me non interessa, non mi interessa sapere perché sia venuto qui se non è per il lavoro, non mi interessa ascoltarlo, non ora. Quindi lo saluto e faccio per rientrare. «Ti prego aspetta. Ho bisogno di parlarti.» «E allora parla, ma sbrigati.» Sbuffo, mi scoccio, e Marco perde definitivamente la sua convinzione. O può

darsi l’abbia già smarrita per strada, mentre veniva qui da me, mentre guidava lungo un tragitto che ormai non gli appartiene, perché non fa più parte delle sue abitudini, di quelle cose che si fanno senza pensarci, che si conoscono, perché sono sotto luce piena. «Ho paura Nadia.» Marco è davanti a me, è venuto da me, siamo io e lui, io e Marco, una di fronte all’altro, e siamo squallidi. «Tu hai paura, e di cosa?» Marco sputa una parola alla volta, è scosso, dissestato, ha perduto la padronanza di sé. E continua a sbirciare dietro di me, la porta accostata. «Ho paura della pancia di Serena, è sempre più grossa, cresce ogni giorno, e comincio a realizzare sul serio cosa contiene.» «Credo che contenga un bambino, ce l’hai messo tu, vuoi che ti ricordi come?» È inconcepibile, veramente da non credersi, che Marco sia venuto qui a parlarmi di Serena, del bambino e delle sue paure del cavolo. Si rende conto che sta parlando con me? Lo sa ancora chi sono, o devo desumere che sia andato via di testa? Vorrei rammentargli che sono la donna che ha tradito, gridarglielo in faccia, sono quella che ha mollato in un secondo con una bella cenetta al ristorante, la stessa che per i mesi successivi in ufficio non ha più degnato di un misero sguardo, quella che non si è fatto scrupoli a rimpiazzare, come una cosa dismessa. «Lo so, lo so, hai tutto il diritto di odiarmi, è che io davvero non ce la faccio, non posso, e non so come rimediare, non so rimettere a posto le cose.» «Rimettere a posto le cose? Sei piuttosto volubile ultimamente» e vorrei gridargli che è un bugiardo. Marco fa uno sguardo contrito (bugiardo!), riguarda di sfuggita la porta alle mie spalle, e rimane in silenzio, ha già finito le cose da dire. Provo a restare distaccata, a non lasciarmi coinvolgere, e lo osservo meglio. Su di lui gravano attese e responsabilità che finiranno per schiacciarlo. Ha le labbra screpolate e un solco profondo gli incide la fronte a metà, sembra che tutta la sua persona

debba spezzarsi in due, strapparsi, il suo corpo è un fazzoletto stracciato di carta. Noto le sue sopracciglia, sono rozze, non curate, e in un istante l’affabulatore delle mie proiezioni scompare, facendo dileguare il fascino che ho sempre subito di lui. Ne resta solamente un senso di umanità, per cui potrei essere crudele, oppure dolcissima, con lui, compatirlo, oppure odiarlo, e in entrambi i casi lo farei con onestà. Comunque non è tempo di pentimenti, è tardi per redimersi. «Senti Marco, non lo so perché sei qui, però non sono io la persona con cui devi parlare di queste cose. A casa hai una fidanzata che ti aspetta, una fidanzata che è incinta di tua figlia, e credo che tu sia nel posto sbagliato. Hai fatto la tua scelta, e non mi riguarda più.» Marco mi fissa stordito, non sa cosa dire, non si muove, non se ne va. Il suo sguardo si trasfigura, perso attraverso lo spiffero della porta aperta. «C’è qualcuno con te?» D’istinto sorrido, penso alla banalità delle cose, alla ricchezza della vita che ogni giorno va sprecata, le persone che si impoveriscono perdendosi tra decine, centinaia di cazzate. «No, non c’è nessuno, non chi intendi tu per lo meno. Ma questo non riguarda più te, ciao Marco.» «E Amaranta? Come sta?» Sto rientrando e gli ho voltato lo sguardo, gli ho negato il mio ascolto, il mio esserci, non lo accolgo più. Ma lui mi blocca con un ricordo, il tentativo raffazzonato di un rammendo. Mi chiede di Amaranta, il suo cane che ha lasciato a me, un affetto che ancora abbiamo in comune, se lo vogliamo. Penso che Amaranta gli farebbe le feste, si metterebbe a scodinzolare e a dimenarsi, non avrebbe memoria di questi ultimi mesi di assenza, lo riconoscerebbe e sarebbe felice di vederlo. I cani vivono nel presente, ed è una qualità preziosa, che forse dovremmo imparare anche noi. Potrei cedere, alla nostalgia, alla familiarità della sua presenza, riciclare gli anni trascorsi insieme, recuperare la quotidianità dei giorni, delle ore, dei gesti, potrei credergli, avvalermi del suo sostegno, come facevo prima. Ma ho la sensazione netta che mi ingannerei. Anch’io sto imparando a vivere nel presente, e Marco nel mio presente non lo trovo, non c’è. «Vedi Marco, Amaranta sta bene, invece io no, ma tu non me l’hai mai chiesto,

non ti sei mai preoccupato di come potessi stare io, hai pensato solo a te, hai sempre pensato solo a te stesso, anche quando eravamo insieme. E ora l’ho capito, ora so che l’amore dovrebbe dare, e invece tutto di te mi toglie.» Lui accenna a dirmi qualcos’altro, ma io lo zittisco con fermezza, e lui si arrende, capisce, sta abusando del mio tempo e toglie il disturbo, sa di avermi importunata, sa che non ha il diritto di presentarsi da me senza preavviso, sa che non può pretendere che io sia disponibile per lui, pronta a dargli retta, a farlo entrare in casa mia. Mi ha dato per scontata, ma casa mia gli è nemica, ostile. Mi ha persa, è lui che ha perso me. Se ne va, non prende l’ascensore, ma io non lo guardo andare via, non lo vedo scendere le scale. Entro in casa e chiudo la porta, vi aderisco con la schiena, chiudo gli occhi, respiro profondamente. Il cuore scalpita nel petto, mentre prima sul pianerottolo era muto. Mi assale un tremito, ho un nodo in gola che non riesco a deglutire. Penso al pozzo dentro di me, alle pareti di quel dirupo scosceso, pieno d’acqua, in cui sono precipitata, la fatica spesa per risalire, per ricostruire. E ho paura di scivolare giù di nuovo. Poi Giacomo si sveglia, piange, vagisce sommesso, ma lo sento subito. E sono di nuovo in superficie, il cuore è inconsapevole, come un bimbo che continua indisturbato il suo gioco, e nella mia mente non c’è ricordo del dialogo che ho appena sostenuto, della visita di Marco non rimane traccia, né del rancore, le sue orme sono cancellate dall’acqua, che bagna la mia riva, placida. E Amaranta non è accorsa al suono del citofono, non è accorsa alla voce di Marco, è rimasta in camera a controllare Giacomo. Nel letto, poco prima di chiudere gli occhi, mi vengono in mente le sue parole, “rimettere a posto le cose”. Cosa voleva dire? Far scomparire il bambino, rimettersi con me, che cosa? Mi importa soltanto per un secondo, chiudo gli occhi, mi addormento, tra poco Giacomo sarà di nuovo sveglio per mangiare, e io devo cercare di riposare almeno qualche ora. E al momento questa è la mia sola e unica priorità.

Le giornate trascorrono e si assomigliano, si fondono tra loro, ma io non perdo il conto, Enrica se ne è andata da tre settimane. Ilenia a a vedere come vanno le cose, e mi dà il cambio a dondolare Giacomo, anche se glielo cedo sempre con maggior riluttanza. Insieme gli facciamo il bagnetto, Ilenia ha comprato un bagnoschiuma delicato con la confezione bianca e azzurra, e una spugna gialla per neonati, e la signora Maria mi ha prestato una bacinella per il bucato. La metto sul tavolo, e la riempio di acqua tiepida, ci immergiamo Giacomo, Ilenia lo sorregge, mentre io con la spugna gli accarezzo la pelle sensibile, e con le dita spruzzo un po’ d’acqua sul muso di Amaranta, che ci assiste incuriosita. A volte con Ilenia vengono Emma e le bambine, che attorniano Giacomo perché vogliono vederlo, toccarlo, giocarci. Emma invece resta lontana, a lei un neonato interessa meno, però viene vicina a me, mi cerca, ricerca la mia presenza, la mia complicità. «Perché tu non lo fai un figlio? La mia mamma ne ha quattro ed è felice, potrebbe funzionare anche per te.» Le sorrido, non mi fa rabbrividire, non più. Giacomo è diventato bravo, piange meno, e rimane sveglio senza urlare, con gli occhietti aperti, che da vicino sono blu, come quelli della madre. Ilenia dice che probabilmente gli sono ate le coliche alla pancia, per questo adesso è più tranquillo, e ha smesso di piangere come un forsennato. Beve agevolmente il latte dal biberon, ma ancora non ha imparato a prendere il ciuccio, lo risputa sempre fuori, preferisce il mio dito. La notte dorme fino a sei ore filate, da mezzanotte alle sei del mattino, una vera conquista, e io mi adeguo ai suoi ritmi, aderisco ai suoi cicli di sonno e veglia, ai suoi bisogni, al tempo del suo respiro. Stando con Giacomo acquisto resistenza, le mie fibre si rinforzano, e sto recuperando la coscienza che l’esondazione del pozzo aveva trascinato lontano. Da quando Giacomo è con me ho dimenticato di piangere, attraverso i giorni che trascorro con lui mi sento ritemprata, possiedo nuove energie, non mi sento più totalmente prosciugata. Riesco persino ad avere pensieri positivi sul futuro, non proprio pensieri definiti, è una sensazione di fiducia diffusa che ha attecchito in me. E al lavoro non sono rientrata. Ilenia insiste perché informi la polizia, denunciando l’abbandono di Giacomo da parte di sua madre, Enrica è via ormai da troppi giorni senza farsi sentire, è possibile che non torni indietro. Ma io non le credo, se non è ancora tornata, se

non si è fatta sentire, deve esserci un motivo valido, sono certa che non abbandonerebbe Giacomo, l’ha desiderato troppo, per lasciarlo così. «Enrica ha solo quindici anni, è una minorenne, che ne sai tu di lei, seriamente, ti stai mettendo nei guai.» «Tornerà, lei ha aspettato Giacomo con.. con amore, con tanto amore, tornerà.» «Sì, ma un conto è sognare e fantasticare con il pancione, un conto è avere tra le braccia un esserino urlante che non fa altro che piangere e voler essere cullato, e dover essere allattato e cambiato. Fidati, quella là se l’è svignata, e ora chissà dov’è. E tu sei nei guai, perché hai suo figlio con te, quando non dovresti, non sei una parente, non sei nessuno verso di lei. E se ti accusassero di rapimento?» Non le rispondo, mi volto dall’altra parte, non voglio vedere quella parte di realtà, quella in cui non sono nessuno per Enrica, e non sono nessuno per Giacomo. «Fai come vuoi. Ma ci hai almeno pensato all’eventualità che non torni? E cosa vorresti fare, tenerti un figlio che non è tuo? E cosa dirai alle persone? E quando tra poco dovrà fare i vaccini, lo sai vero che i neonati devono vaccinarsi? E se si ammala, cosa fai se si ammala, da quale medico lo porti? Magari la famiglia lo sta cercando, non ti è balenata l’idea che Enrica abbia fatto tutto di nascosto? Non mi stupirebbe. O magari non è di buona famiglia, e aveva un complice che l’ha aiutata a organizzare tutto dal principio, e il bambino non è neanche registrato all’anagrafe. E se è venuta di proposito a trovarti per strada? Stai sottovalutando la gravità della situazione.» «Mi sembri un tantino eccessiva non credi?» «E poi non capisco, non hai sempre detto che figli non ne vuoi? E ora ti tieni stretto questo bambino come quelle donne che danno di matto perché non possono avere figli, e ne ruberebbero uno, purché diventasse il loro.» «Io non do di matto e non mi tengo stretto nessuno. Mi prendo solo cura di Giacomo finché Enrica non torna. E se la cosa ti disturba tanto perché non te ne vai, perché continui a venire, vattene via!» Rispondo di getto, offesa, ferita, me la prendo perché Ilenia ha eroso la verità, una verità che ancora non conosco, ma che già è in me.

«Ti sei attaccata a questo bambino in modo esagerato, che non va bene!» «D’accordo allora, tra una settimana vado alla polizia, contenta?» «Ti prego Nadia, io cerco di aiutarti, lo sai, sono io, sono Ilenia, ti voglio bene, e ti vedo uscire di senno giorno dopo giorno, cosa dovrei fare? Una squilibrata ti lascia suo figlio di un mese e tu ti metti ad allevarlo come se fosse la cosa più normale al mondo e lasci il lavoro, non esci più di casa, pensi che io non mi stia preoccupando? Non so cosa fare per te, non so come aiutarti, come starti vicina facendo la cosa giusta. Ma non posso semplicemente appoggiarti, perdonami, ma non posso, non in questo caso.» «Lo so Ilenia, scusami, perdonami tu.» Mi avvicino, mi accoccolo su di lei, mi faccio abbracciare. Alzo la testa, la guardo negli occhi. «Tu non la conosci Enrica, se la conoscessi, non parleresti così. Lasciami aspettare un’altra settimana, solamente altri sette giorni.» «È solo che mi preoccupo per te, ma voglio credere che sai quello che fai, mi voglio fidare. Ti voglio bene.» «Lo so, anch’io, tanto.» Ilenia mi sorride, abbiamo fatto pace. Per la prima volta sento che sto facendo la cosa che devo fare, che occupo il posto che mi spetta. Tutt’intorno a me è pantano, è l’acqua del pozzo che ha allagato il mio spazio vitale, l’ha reso vischioso, impraticabile, è acqua torbida che ristagna e che deve asciugarsi. Ma c’è un punto d’appoggio dove sono io ora, in cui c’è Giacomo, e ho la sensazione corposa di dover restare qui, finché l’acqua non si ritirerà e si illuminerà una via, un sentiero di sassi emersi che allora seguirò, un piede in equilibrio su ogni sasso. Lo so che questo frangente è temporaneo, e che non posso tenere Giacomo con me per sempre, ma non sono una dissennata, è come se non fosse stata Enrica a lasciarmi suo figlio, è stata la vita, Giacomo è il suo dono per me. E io devo accettarlo, voglio farlo. Sono sulla punta di uno scoglio, nella vastità del mare. Ci sorprende il suono del citofono e Ilenia prende Giacomo con sé. La guardo,

stiamo pensando la stessa cosa, forse è Enrica, lo speriamo entrambe. Vado a rispondere, e invece è Angela. Sale e io le apro la porta senza troppo ribrezzo, non tento di lasciarla fuori sul pianerottolo, la lascio entrare con un’insolita malleabilità. Angela entra e neanche mi saluta, va diretta verso Ilenia, si libera della borsa che lancia sul divano, protende le braccia, reclama Giacomo. «Su dammi il bambino», come se soltanto con lei stesse bene, e noi stessimo combinando un pasticcio. «Giacomo sta benissimo Angela.» Lo dico per farle sapere che non abbiamo bisogno di lei, ma che se proprio vuole può restare e può tenerlo, senza illudersi di essere indispensabile. «Sì certo, come dici tu.» E sembriamo mamma e nonna in competizione tra loro, una contesa che ignoravo, viene fuori da me, appartiene all’istinto di essere madre del proprio cucciolo, induce a sentirsi minacciata da qualsiasi donna pretenda di essere meglio di te a prendersi cura del tuo piccolo. È parte della natura, e io stessa ne faccio parte. Prendo una boccata d’aria, ma è aria stantia, forse ho bisogno di staccare un momento, prendere le distanze, per ragionare meglio sulle cose che mi stanno accadendo, soprattutto al di qua delle pareti, all’interno dei miei confini mobili, che stanno cedendo. E mentre elaboro questo pensiero, il citofono suona per la seconda volta. Io, Ilenia e Angela ci guardiamo simultaneamente, e il respiro ci manca all’unisono. Mi lancio verso la porta, rispondo al citofono, convinta che questa volta sia lei. E invece no. Non ancora. Ilenia e Angela mi osservano in silenzio che ammutolisco, tergiverso con lo sguardo, annuisco e farfuglio qualche parola, «sì, scendo», mi volto verso di loro e mi stanno fissando col fiato sospeso, si aspettano che dica loro che è Enrica, che vuole che scenda per parlarmi prima di rivedere Giacomo e riprenderselo, per spiegarmi la sua fuga. Aspettano che dica qualcosa. «Devo scendere, è.. è il postino. Ha una lettera per me. Devo firmare.»

Alle mie parole hanno un moto di stizza, quasi mi mandano a quel paese per averle tenute sulle spine, secondi lunghissimi che ti attorcigliano le budella, quando stai aspettando Enrica che torna, e ormai la stiamo aspettando tutte e tre, la attendiamo insieme. Faccio le scale, e mentre scendo i gradini faccio caso al mio abbigliamento. Ho un paio di jeans logori e una maglia informe, sporca, i capelli raccolti da un mollettone. Li sciolgo, e con le mani cerco di ravviarli. Mi sistemo la maglia, la infilo nei jeans, tento di darmi un contegno, apro il portone e me lo trovo davanti. «Ciao! Come stai?» «Ciao, bene. E tu?» «Scusami se sono piombato qui, magari ti disturbo.» «No no, figurati, ero in casa a far niente.» «A parte che, l’ho pensato, che magari ti disturbavo intendo, ma sono ato lo stesso.» Sorride folgorante, irresistibile. «Non mi disturbi, credevo fossi via.» «Sono tornato ieri, volevo salutarti.» Diego è tornato ieri, ed è ato da me, è tornato, è qui, mi sta davanti, bello, vestito con un paio di pantaloni sportivi e una polo bianca, ha la barba rasata e i capelli tagliati corti. «Veramente pensavo che è ato un po’ di tempo, e adesso, pensavo, speravo, che tu fossi pronta, voglio dire, per uscire ancora con me, se ancora ti va, se vuoi.» Lo dice impacciato, ma guardandomi negli occhi, non distoglie lo sguardo, mi entra dentro. «Mentre ero a Londra ti ho pensata molto, e ho pensato che ho molta voglia di uscire di nuovo con te.»

Lo guardo, resto zitta, non so cosa rispondere. Diego è così bello, e io ho così tanta voglia di dirgli di sì, di uscire con lui, parlargli, non distruggere di nuovo la possibilità che mi sta offrendo. Però poi penso a Giacomo, penso che ora non posso, non è il momento giusto, e non so come dirglielo, senza che non mi creda. «Ho scelto il momento sbagliato?» «No, è che.. mi piacerebbe.. mi fa piacere che tu sia venuto, è che non posso, è un periodo.. sto un po’ rivoluzionando la mia vita.» «Facciamo che una sera ti prendi una pausa dalla rivoluzione e ceni con me, così me la racconti. O è una rivoluzione top secret?» Scherza, mi guarda con occhi che brillano, legge nei miei, vede che c’è scritto un sì, anche se dubitano, stanno dicendo sì, lui lo sa. Non si aspetta il boato delle mie parole, non si aspetta un rifiuto. «Mi dispiace, proprio non posso. Mi piacerebbe, davvero, ma non posso.» Mi sento affranta, ma so che questa scelta non sarà un rimpianto. Comunque vada la mia vita, qualunque piega prenda, qualsiasi cosa Diego possa significare, qualunque cosa io e lui possiamo diventare, ho qualcosa che adesso conta di più, ho Giacomo a cui badare finché Enrica non torna. «Ok. Se cambi idea e ti liberi chiamami tu. Ciao.» Diego è divenuto serio, ci è rimasto male, non capisce, aveva sognato una cosa diversa. Ha lanciato un’occhiata verso l’alto, forse ha dedotto che la mia rivoluzione abbia a che fare con un altro uomo, ha immaginato che magari, in questo momento, un altro uomo sia su, da me. La stessa cosa al contrario che ha pensato Marco l’altro giorno, sul pianerottolo, fuori dal mio appartamento. Ma Diego sbaglia di più se lo pensa, perché Marco nei miei pensieri non c’è, mentre lui li abita dalla sera del mio compleanno. Resto impalata sul posto, non riesco nemmeno a salutarlo, alzo la mano in cenno di saluto quando lui si è già girato, e la mia mano non la vede. Sto per rientrare, ma poi aspetto, formulo ipotesi che non completo, in un tramestio di pensieri, e l’emozione ha il sopravvento, agisco d’impulso, mi giro, lo inseguo, «Diego!» Lui si volta verso di me, mi guarda amareggiato, ma dolce, arrendevole. Io mi

fermo davanti a lui e ansimo, per i pochi metri che ho percorso nel raggiungerlo, per lo scuotimento che sento interiormente. «Toccami.» «Cosa?» «Toccami, per favore. Toccami.» Gli porgo un braccio, lo guardo negli occhi, e lui lo afferra, stringendolo nella sua mano. Io mi sento tremare, mi sento corrodere, squamarmi, franare, ma resto lì, non mi tolgo dalla sua stretta, che è cocente, e io mi squaglio, mentre lui resta lì, le dita della sua mano che avvolgono un pezzo di me. Mi guarda, mi guarda nel fondo degli occhi, si getta nel pozzo, è disposto a farlo, è quello che vuole, non ha paura di affogare, non annegherà, me lo promette. «Io ho il terrore di essere toccata, ho una paura esagerata, degli abbracci, delle carezze, mi spaventano da sempre. Vedi, un uomo di recente mi ha ferita, ma non è questo, è che ho paura di lasciarmi andare, di provare dei veri sentimenti. Ma voglio superare la mia paura.. per te. Per te sono disposta a farlo.» Diego non mi molla, mi stringe il braccio, di più, la sua mano preme. «Solo non adesso. Davvero, non dipende da te, è che devo risolvere una cosa importante, più importante di te e di me, e poi la prima cosa che farò sarà fare una telefonata, al tuo numero.» Diego mi guarda per qualche secondo, risale dal pozzo, ma ci lascia dentro qualcosa. «Una cosa me la devi dire però, mi devi dire cosa vuoi, cos’è che vuoi Nadia? Cosa ti aspetti da me?» Ora lo capisco, che ho paura dell’amore, quello vero, in cui occorre mettersi in gioco, osare, buttarsi, rischiare. Quello vero, in cui si deve credere, avere fiducia nell’essere in due. All’amore non mi sono mai concessa. Prendo aria, ingurgito tutta la prodezza del mondo per dire quello che sto per dire, ora o mai più. «Voglio tutto, voglio tutte le cose che mi hai detto tu, e voglio che l’amore sia semplice.»

Diego si rilassa, mi lascia andare il braccio. «Ma l’amore è semplice Nadia, è amare che non lo è, è amare veramente qualcuno che non è semplice.» «E tu mi ami? Nemmeno mi conosci..» «Non serve, l’amore viene prima. Aspetterò la tua chiamata.» Rientro in casa e sono sbigottita da me stessa, stupefatta per quello che ho fatto, quello che ho detto. Chi sono io? E non mi accorgo di Angela e Ilenia che mi scrutano con apprensione. «Allora? La lettera?» «Ma quanto ci hai messo?» La lettera? Ah sì, a loro ho detto che era il postino. «Un disguido, non era per me.» «E allora che hai fatto giù tutto il tempo?» Ma Giacomo lancia un lamento, e ad Angela la mia risposta non interessa. Si mette a cullarlo, a eggiare per la stanza, con Amaranta che le sta dietro, il muso all’insù. Ilenia invece mi vede, sa che sono turbata, lo capisce che in questi minuti è successo qualcosa. Mi si avvicina, mi parla sottovoce: «Tutto a posto?» «A posto.» «Sicura?» «Sicura.» «Allora io vado, posso lasciarti sola con Angela?» «Tranquilla, da quando c’è Giacomo è diventata più tollerabile, assurdo.» «Già. Assurdo. Ciao tesoro.»

Ilenia mi sorride, e se ne va dandomi un’ultima occhiata, e io la scorgo, che se ne va preoccupata per me. E mentre Angela eggia con Giacomo parlandogli con la solita vocina, io penso a Diego, a quanto sia permaloso, a quanto sia meraviglioso, con i polpastrelli mi sfioro il braccio dove l’ha stretto lui, tutto andrà bene, ogni cosa si risolverà.

I giorni ano, e io non faccio altro che accudire Giacomo, adempio il mio compito. Lo nutro, lo lavo, lo cambio, lo cullo, lo addormento, gli parlo, lo consolo, e ogni gesto si trasforma in un rito. Ogni tanto penso a Diego, mi carezzo il braccio nel punto in cui lui l’ha toccato, ma è soltanto un istante, il tempo di un sorriso lieve, una monetina gettata nel pozzo. La signora Maria sale e rimane lei una mezz’oretta con Giacomo, lo fa con devozione, non mi chiede di spiegarle, e io porto giù Amaranta, che si sentiva trascurata da me, e faceva l’offesa. E intanto fantastico di comprare una carrozzina, e spingerla per le strade di Monza con Giacomo sdraiato dentro. eggio per le vie, sotto il sole, all’aria aperta. Me lo immagino, ma non posso farlo, non posso uscire e lasciare Giacomo a casa da solo, e non posso uscire di casa portandolo con me. Lui non è mio, e una voce interiore me lo ripete senza tregua. A parte le puntate nei paraggi con Amaranta, non esco mai dal mio appartamento, disdico ogni impegno non preso e pago le bollette via internet, aspettando che Ilenia e Lorenzo vengano a farmi compagnia. Aspetto anche Angela, che ormai viene ogni pomeriggio, mi porta la spesa, parliamo bisbigliando e ci disputiamo Giacomo. e io non rabbrividisco ad averla in giro per casa, forse perché Giacomo catalizza la sua attenzione e lei cammina per le stanze tenendolo in braccio, e non mi stressa in continuazione sul disastro che rappresenta la mia vita. È da giorni che non le sento menzionare il nome di Marco, adesso che pronuncia spesso quello di Giacomo. Io non esco, non vado al cinema, o a teatro, né al ristorante a cena, e talvolta ordino del cibo giapponese, o una pizza. Non ho piani da coronare, non ho una carriera, non ho un fidanzato, nulla da sfoggiare, e la mia vita è in disfacimento. Per la società sono non classificabile, ho l’identità confiscata. Cosa dovrei asserire di me? Non lo so, non ne ho idea, ma sto bene, mi sento bene. Non ho saggezza, ma ho Giacomo, e questi capelli lerci, e follemente vivo, vicino a Giacomo, e finora, tutto, mi appare irreale, insignificante, persino Marco, mi sembra che non abbia contato mai niente. Accade che d’un tratto ti ricordi che nel petto hai un cuore che batte. È sempre stato lì, come una cosa che sai che c’è e finisci per dimenticartene.

Adoro sdraiarmi accanto a Giacomo, e osservarlo, quando dorme nel mio letto. Sto lì, lasciando in cucina i piatti da lavare nel lavandino, e in bagno la tutina da sciacquare, lo farò dopo. Adesso resto qui, vestita, sul mio letto, sdraiata sopra le lenzuola, accanto a Giacomo che dorme. Dorme a pancia in su, le braccia larghe, la bocca socchiusa. Respira piano, le sue guance sono rosate, sta bene, ogni giorno cresce un po’, me ne accorgo, diventerà un bel bambino. Lo guardo, e mi sento al centro di me. La sua purezza mi entra dentro, e io finalmente riesco a sentirmi, percepisco le mie emozioni, le lascio scorrere, ancora tenui, velate, emergono dal pozzo e affluiscono dove devono andare, riconosciute dal cuore. Giacomo si è fissato in me, è un tassello inestimabile di pienezza pronto a espandersi, ad accogliermi tutta intera. Giacomo sconfina il mio vuoto, Giacomo è immenso. E io mi ritrovo ad amarlo. Mi è difficile crederlo, ma non ammetterlo, lo confesso a Lorenzo, lo confido a Ilenia. Ad Angela non lo dico, ma non so se riesco altrettanto a nasconderglielo. Mi sento una madre, io, che ho dichiarato fino alla nausea che figli non ne volevo in assoluto, mi sento una madre, e mi sento me stessa, combacio con il mio profilo meglio di sempre. Mi sento una madre, ma non lo sono, e so che la settimana che avevo promesso a Ilenia è già trascorsa, so che devo andare a parlare con la polizia di Giacomo, devo dar loro la possibilità di rintracciare la sua famiglia, oppure lo affideranno ai servizi sociali, che si sapranno prendere cura di lui nel modo corretto, gli faranno fare i vaccini, le visite mediche, troveranno la famiglia adatta, una coppia che vorrà adottarlo, gli assegneranno una nuova mamma, che potrà portarlo fuori al sole, a eggio, dentro una carrozzina comprata per lui. E io mi sforzo a pensare che ciò che lo attende è bello, è legittimo, è migliore di quello che potrei dargli io. Ma non ci credo. Però so che devo ascoltare Ilenia, non posso più rimandare, non posso continuare a tenere Giacomo con me. Oggi il cielo è pienamente azzurro, e c’è un sole caldo, sgombro da nubi. Esco sul balcone con Giacomo, guardo verso l’alto, respiro l’aria a occhi chiusi. Gli mostro il panorama, ogni cosa già esistente, che mostrata ai suoi occhi nuovi, diventa straordinaria, perché adesso è lì dov’è per donarsi a lui. Penso che una madre faccia questo con i propri figli, dona loro l’immensità del mondo, ogni parte, piccola e grande, tutto. Perché niente, dal momento che nasce un figlio, esiste prima di lui, o in sua assenza. Niente se non in relazione a lui ha un senso. È così anche per me, Giacomo è come se fosse stato sempre tra le mie braccia, e la mia vita preesistente, senza di lui, si annulla, perché diventa inimmaginabile,

come un futuro in cui lui non c’è, perché ho rinunciato a tenerlo. Ma cosa potrei fare? Non mi preoccupo, l’ansia non mi sfiora, con Giacomo in braccio sono in pace, esiste solo questo momento, in cui lui è con me. E in silenzio esprimo una preghiera, rivolgendomi non a un cuore buono e gentile, ma a un cuore giusto. Mi sento una madre, ma non lo sono, e la realtà viene a rinfacciarmelo, bussa alla mia porta, per porre fine al mio stravolgimento, per dirmi che Giacomo non è mio, qualora non ne fossi più convinta. Però non è Enrica, è sua madre che viene, è Irene, accompagnata da un ragazzo adolescente che deve avere suppergiù l’età di sua figlia. Apro la porta, non ho mai visto questa donna che mi sta di fronte, ma appena la vedo la riconosco. Lo sguardo che ha, triste e angosciato, mi trafigge, poi guarda il bambino che ho in braccio, e nel vedere Giacomo gli occhi le si riempiono di lacrime. Irene piange, ma resta sulla soglia, non dice niente, guarda Giacomo, ma non allunga le braccia per prenderlo, come se non fosse sicura di poterlo fare. Forse dubita che adesso Giacomo sia mio, che sia possibile regalare il proprio figlio a una sconosciuta, e venendo qui si è domandata se in questo lasso di tempo io abbia acquisito diritti irrevocabili. Ma Giacomo non è mio, lo so bene, lo so così intensamente dal momento in cui ho aperto la porta e ho visto Irene davanti a me. E allora sono io che glielo rendo, tendo le braccia, andolo a lei lo tolgo dalle mie mani, che diventano subito vuote, come se oltre a lui non avessero mai tenuto nient’altro. Irene si tiene Giacomo stretto al petto, sulla soglia del mio appartamento, e lo bacia teneramente sulle guance. Lui non piange, con la bocca cerca di succhiare, può darsi abbia fame. Intanto il ragazzo fissa il pavimento, si muove sulle gambe, è teso, imbarazzato. Chi è? Perché è qui? Lo guardo meglio, lui alza il viso sfuggente, e per un attimo mi sembra di riconoscerlo, ma è soltanto perché vedo un riflesso di Giacomo in lui, anche se non lo colgo nitidamente. «Possiamo entrare un momento?» Mi sono distratta con il ragazzo, e nel frattempo Irene ha smesso di baciare Giacomo, ha smesso di piangere, si volge a me rasserenata, e cortesemente mi chiede di entrare. «Certo, prego, venite.» Amaranta è accorsa sollecita, la coda ritta, e scruta con sospetto Irene, che tiene

in braccio il nostro Giacomo. La mando di là e la chiudo in corridoio, e la sento che si sdraia per terra, soffia l’aria attraverso la fessura sotto la porta. Raggiungo la donna e il ragazzo che mi attendono sul divano, mi siedo e mi rialzo, chiedo se vogliono qualcosa, un bicchiere d’acqua, magari preparo un caffè. «Non si disturbi la prego, si sieda, dobbiamo parlare.» Irene ha la voce pacata ma ferma, e io di scatto ubbidisco, mi risiedo sul divano, e con ordine lei mi racconta la verità su sua figlia, sulla madre di Giacomo. Scopro che Enrica, nell’ultimo mese, è rimasta a casa. Alla famiglia ha detto di avere affidato il figlio al padre, quell’uomo adulto e misterioso che l’ha sedotta e abbandonata, Enrica afferma di averlo contattato e ribadisce che a Giacomo penserà lui, con le sue finanze non gli farà mancare nulla, perché i soldi ce li ha. Loro cercano di persuaderla a rivelare l’identità dell’uomo, per potergli almeno parlare, per sapere dove crescerà Giacomo, ma Enrica non ne vuole sapere, a riguardo non pronuncia un monosillabo, e riprende a vivere la sua vita, quella di prima, quella in cui sta per compiere sedici anni, ha avuto la pancia gonfia, ha partorito un bambino, e ora che il pancione non l’ha più, non l’ha mai avuto. Ora può tornare a scuola, può tornare alle feste, può tornare a innamorarsi dei ragazzi della sua età. Irene non è la persona descritta da Enrica, mi ero immaginata una donna frustrata carica di astio e di risentimento, invece è affabile, cordiale. E si vede che ama Giacomo tantissimo. È vero, all’inizio non volevano che Enrica tenesse il bambino, e hanno provato a dissuaderla. Ma l’hanno fatto per paura, credevano che tenendo il bambino si sarebbe rovinata la vita. In fondo l’ho pensato anch’io quando l’ho conosciuta. Ora sanno che si sbagliavano, Giacomo è nato e si sono scoperti ad amarlo sopra ogni cosa, e sono stati vicini alla figlia, hanno cercato il più possibile di aiutarla. Enrica ha accolto Giacomo tra le sue braccia giovani di madre, ha provato ad allattarlo, ma non è vero che non le è venuto il latte, era un’altra bugia, ne ha avuto in abbondanza dall’inizio, ma Giacomo non si è mai attaccato e non ha voluto succhiare dal suo seno. La immagino i primi giorni dopo l’ospedale, nella sua stanza da teenager, con i poster alle pareti e i peluche, residui d’infanzia, sulle mensole della libreria. Tra le sue braccia inermi, Giacomo piange, non fa altro, piange, non dorme, la notte la tiene sveglia e strilla di continuo, senza che lei possa lenire quel pianto. I suoi genitori si offrono di fare le notti al posto suo, ma Enrica grida che la madre è lei, è solo lei che deve perdere il sonno, è solo lei

a doversi immolare. Enrica custodisce tutte le fatiche, da sola, poi un giorno, un sabato che non riesce a cancellare dalla memoria, Irene racconta che la figlia esce di casa con Giacomo, e ritorna il giorno dopo, senza il bambino, dichiarando di averlo lasciato al padre. Si sono dati appuntamento in un albergo, in una stanza dove si sono parlati, lei gli ha consegnato Giacomo, la mattina ha salutato il suo bambino ed è tornata a casa. E dice che è un uomo facoltoso, abita in un’altra città, ed è disposto a prendersi cura del figlio a patto che nessuno della famiglia di lei tenti di rintracciarlo. «Può immaginarsi il nostro sconforto, io e mio marito eravamo afflitti e scioccati.» «Ma se il padre alla nascita non l’ha riconosciuto! Non sapeva neppure dell’esistenza di Giacomo fino a un mese fa!», sbotto, ma Irene continua, dice che Enrica si è rinchiusa in un mutismo totale, con la famiglia intera, ha ripreso a uscire, a frequentare le sue amiche, ma se provavano a chiederle di Giacomo, lei si infuriava anche con loro, urlava di lasciarla stare. E infine Irene mi presenta il ragazzo che è con lei, si chiama Mattia, ha un anno in più di Enrica, frequenta il suo stesso liceo, ed è lui il padre di Giacomo. È lui?!? Mi racconta che un giorno Mattia va a casa sua, un pomeriggio che Enrica non c’è, si presenta, le dice chi è, le dice “sono il padre di Giacomo”, e lei quasi sviene per il colpo. Era stata Enrica a volere così, non doveva dire a nessuno di essere il padre, lei non gli avrebbe chiesto di aiutarla, e lui non avrebbe dovuto sacrificare il suo futuro. E Mattia aveva acconsentito, perché di futuro ne aveva tanto, ma si consuma in fretta, era rimasto all’angolo, tremante, brancato dalla paura di dover confessare ai propri genitori di avere messo incinta una ragazza, terrorizzato all’idea di dover imparare a fare il papà di un bebè. All’inizio Mattia regge estromesso da Enrica, anche quando lei gli confida di aver affidato Giacomo a un’altra persona, una donna adulta che gli avrebbe fatto da madre, e sarebbe stata perfetta, ma poi Enrica è sempre più strana, e la responsabilità di essere padre emerge in lui, anche se ha solo diciassette anni, tanta paura, e tanta voglia di vivere una vita sbalorditiva. Quando è nato ha tenuto Giacomo in braccio, è stata Enrica a portarglielo, e lui non riesce a scordarselo, ripensa a quell’esserino rosso in viso e raggrinzito, per lo sforzo di piangere. Così va da Irene, le dice che è pronto ad assumersi la propria parte di colpa, che lo dirà ai suoi genitori, ma che bisogna andare a riprendere Giacomo, e lui sa dov’è, perché Enrica ci va spesso, e lui un pomeriggio ha deciso di

seguirla. Lei va presso un’abitazione, e si nasconde dietro uno spigolo, sbircia un appartamento tra i tanti, sta in piedi per ore, prima di tornarsene a casa, lo sguardo smarrito, triste e felice insieme. Mattia capisce che Giacomo dev’essere lì, e un giorno lo vede, su quel balcone al secondo piano, lo riconosce, sa che è proprio lui, in braccio a una donna di cui non sa nemmeno il nome. Per questo oggi Irene è seduta a casa mia, sul mio divano, con Giacomo sulle ginocchia, si è fatta aprire il portone con una scusa, ha bussato alla mia porta, e ci ha trovati. «Mi dispiace, sarei dovuta andare alla polizia, avrei dovuto cercarvi, ma pensavo che Enrica sarebbe tornata, pensavo che le servisse solamente un po’ di tempo, ho sbagliato.» Il mio viso crolla in basso, sconfitto, ma Irene mi prende una mano, la stringe. «A breve ci saremmo andati noi, non l’abbiamo coinvolta subito per tutelare Enrica. Noi non.. non sapevamo cosa fare, è stato orribile.» Una lacrima sola le scende dall’occhio, una soltanto. «Ma nel cuore ero certa che Giacomo stava bene, sapevo che Enrica si sarebbe sincerata che fosse al sicuro, mia figlia ha molta fantasia, ma è una brava madre.» Irene dice che non importa, anzi mi ringrazia, e aggiunge che mi sarà riconoscente per sempre per essermi presa cura di suo nipote. E suo nipote è Giacomo, Irene è la nonna di Giacomo, e Giacomo adesso ha una famiglia, una famiglia amorevole a cui è mancato, che ha disperato per lui, che l’ha aspettato per tutto questo tempo, mentre io aspettavo Enrica, loro aspettavano me, aspettavano che qualcuno che non sapevano chi fosse riportasse Giacomo a casa. Giacomo non è mio, e non è mai stato mio, e non sarà mai mio. E non serve che lo ripeta come un mantra, questo pensiero è la spina che mi si è già conficcata nell’anima. «Non conosco il suo nome..» «Nadia, mi chiamo Nadia.» «Grazie Nadia, grazie.» Mi alzo, raccolgo le cose di Giacomo, le rimetto nel suo borsone, e lo o a Mattia, che se lo carica sulla spalla, con la borsa-fasciatoio a tracolla, e l’ovetto

in cui Giacomo è arrivato da me. In piedi mi accorgo di quanto anche lui sia ancora ragazzino, magro, il volto infantile, la pelle con i foruncoli. A Irene non chiedo di poter tenere Giacomo un’ultima volta, non le chiedo se torneranno, se potrò ancora vederlo, e Giacomo se ne va, torna a casa, torna da Enrica, che è giù, appostata dietro l’angolo, e ha visto sua madre e il padre di suo figlio salire da me. Quando loro se ne vanno esco sul balcone e la cerco, tra gli alberi, dietro le case. Non la vedo, eppure so che c’è. Ha detto a Mattia che sarei stata “perfetta”.

Giacomo è andato via ieri, è tornato nella sua casa, adesso ha una mamma, una nonna, e anche un papà. Stanotte non ho dormito, mi sono sdraiata sul letto e ho guardato il soffitto, ho pensato alla perdita, alle perdite che ho subito. Mi sono assopita soltanto stamattina presto, ma non ho riposato molto. Ho sognato una casa diroccata, senza fondamenta. Poi mi sono alzata, mi sono seduta sul divano e sono ancora qui. Nella mente ho il nulla, lo stesso vuoto di questa notte, il vuoto della perdita, che ha i contorni di Giacomo, dilatati intorno a me. La mia perdita più grande. Di colpo è ricomparsa la mia vita, la mia esistenza insipida, privata di slancio, di intensità, di calore. La mia vita ha la consistenza di una pasta scotta. Lascio che la signora Maria porti giù Amaranta, affermo di non sentirmi bene, ma non le dico che Giacomo è andato via, lei crede che stia dormendo nella mia stanza, e lo immagino anch’io, ma un attimo dopo so già che non è vero. Amaranta lo cerca, perlustra la casa annusando dappertutto, si è accorta dell’assenza di Giacomo e ne va alla ricerca. Ma non lo trova. Vorrei chiamare Ilenia, dirle che Giacomo se n’è andato, che non c’è, in nessuna stanza, non c’è sul mio letto, non c’è sul divano, non c’è nel suo ovetto, non c’è tra le mie braccia, e questo “non c’è” è devastante, ma non riesco ad alzarmi per avvicinarmi al telefono. Spero che sia lei a chiamare, o magari che i di qui per venirci a trovare, ma non arriva. E invece viene Angela. Il citofono suona e io vado a rispondere, anche se ormai non aspetto più Enrica, ora non ha più motivo di venire, ora non deve tornare a riprendersi Giacomo. Mi alzo e peso dieci volte il mio corpo, arrivo al citofono a fatica, strascicando i piedi, con un fianco mi accascio contro il muro. Nell’orecchio mi arriva la voce di Angela, le apro, non mi dà noia che sia qui, mi sembra che stessi attendendo la sua visita, per quanto risulti impossibile. Angela sale con in mano la borsa della spesa e nell’altra un orsetto colorato di peluche che suona se gli schiacci le orecchie e il pancino. Appena entra mi chiede se Giacomo è di là che dorme, me lo chiede come se lo affermasse, come se fosse la normalità, una consuetudine che non stupisce, domanda se ha mangiato, se ha pianto, io mi trascino dietro di lei, con una lentezza pesante, mi affloscio sul divano, ci cado sopra, collasso, e le dico che Giacomo non c’è più. «Come? È venuta Enrica? È tornata?»

«È venuta Irene, ieri, è venuta con Mattia.» Angela si siede sul divano accanto a me, non si raccapezza. «E chi sarebbero queste persone?» «Sono la madre di Enrica e il papà del bambino.» «Quel mostro pervertito che l’ha messa incinta ed è sparito?» «No, solo Mattia, un ragazzo di diciassette anni, timido, spaventato, e tanto coraggioso.» «Ma non avevi detto, lasciamo stare. Enrica dov’era? Perché non è venuta lei? E dov’è stata si può sapere, tutto questo tempo?» Mentre Angela straparla e io smetto di ascoltarla, o meglio la sento, ma non do peso al senso delle parole, che al solito sono superflue, futili, e insopportabili (che importa dove sia stata Enrica, che importa che la vita mi abbia dato Giacomo in dono, se poi ha mandato Irene e Mattia per riprenderselo?), guardo il peluche colorato che tiene ancora in mano, posato sulle gambe. Amaranta è venuta ad annusarlo, in cerca di Giacomo, lo cerca anche lì, sulle ginocchia di Angela. Ma lui non c’è, e lei si acquieta, al suo posto c’è un orsetto di peluche, un orsetto colorato che non odora di latte, un peluche sintetico, uno stupido gioco inutile, che non serve a nessuno. «Perché hai comprato quel cavolo di gioco?» Sono fredda, scostante, mi ascolto dall’esterno, e faccio paura. «Prego?» Non ho mai tenuto Giacomo dentro di me, ma è come se mi avessero asportato il ventre, ora c’è una voragine, uno scavo a cielo aperto, in cui rimane, visibile, il mio pozzo. «Quell’orrido peluche, perché lo hai comprato, mi domando questo.» La mia voce esce piatta, feroce, esce direttamente dal baratro del pozzo. Angela è colta alla sprovvista, non sa reagire, guarda ammutolita una figlia che ha

assunto un aspetto deforme, occhi spenti che non sa decifrare. Non ha la risposta pronta e smarrisce la sua baldanza, la sua sfrontatezza. «Cosa significa questo tono sgarbato che usi, puoi spiegarmi?» «Spiegarti? Spiegami tu perché hai comprato quel fottutissimo orso. Forse credevi di poter fare la nonna di Giacomo, certo, che potevi giocare a fare la parte, e io mi sarei magicamente trasformata in sua madre, vero?» La fisso con occhi innervati di livore, sbarrati, furiosi. Angela vacilla, per la prima volta nel nostro rapporto la intimidisco. «Non alludevo a nulla di simile, l’ho visto in un negozio e ho pensato di prenderlo.» «L’hai visto e hai pensato di prenderlo? Stronzate! Tu non hai pensato, non hai pensato affatto! Fai così, è sempre la stessa storia, fai quello che ti pare e non ti importa di quello che possono provare gli altri, non te ne frega niente degli altri, di me!» «Stai dando i numeri, è solo un regalo, che male c’è», ma persino Angela non è più convinta di quello che afferma, «Tu calpesti sempre tutto, e tutti..», e quello che le ho urlato contro l’ha scossa, e non è mai successo. Ho lasciato che Irene se ne andasse con Giacomo in braccio, senza sapere se lo rivedrò, probabilmente non accadrà, perché mai dovrei rivederlo? Perché dovrebbero farmelo rivedere? Io non sono nessuno, se non quella che ha sottratto loro Giacomo per il mese più lungo della loro vita. Lui non è mio, e non è mai stato mio, e non sarà mai mio. Cazzo se fa male! E la perdita di Marco al confronto sfuma, si è già dissolta, era una bolla di sapone, perché non lo rivorrei, non lo rivoglio, voglio Giacomo, non lo voglio perdere. «Nadia cos’hai, si può sapere che ti prende? Grazie al cielo la cosa si è risolta, e ora puoi tornare a focalizzarti sul tuo lavoro, ripuntare sulla tua vita, ed è un gran bene, perché hai già perso troppo tempo.» Angela recupera la sua verve, io invece perdo tutto. La mia vita? Cosa si chiama vita? L’unica che ritengo meritevole di chiamarsi tale è stata la vita con Giacomo, il tempo in cui mi sono presa cura di lui, l’unico tempo vero, autentico, che io abbia mai vissuto. E lei dice che l’ho perso? Non ho avuto che

questo, un mese, un unico mese. Io non vivevo, ero un fossile, e adesso vedo nel vuoto che mi circonda ovunque, è ricolmo di emozioni surrogate, e vedo anche me, sto vagando spersa, completamente sola. Nel pozzo si genera un’onda, e io lascio che erompa all’esterno, sono impotente. Scoppio a piangere, abbraccio Angela (e sono proprio io!), le getto le braccia al collo nascondendo il mio viso nel suo profumo, che mi sembra un odore dolce, commovente. «Non è vero che non voglio figli, li voglio, e li avrei voluti con Marco, avrei voluto una famiglia con lui, ma avevo troppa paura, sento una gran paura di non esserne capace, che sarei una pessima madre, e ho fallito comunque.» «Nadia dammi retta, stai dicendo un mucchio di sciocchezze, è soltanto la stanchezza che viene fuori, sono le ore di sonno perse, non dormire la notte può giocare un brutto scherzo.» Ma io non mi posso frenare, stringo forte il collo di Angela, e la sento che quasi fatica a respirare. «Vorrei che Giacomo fosse mio, se fosse mio figlio non dovrei rinunciare a lui, potrei tenerlo con me.» Angela non ribatte, annaspa nella mia stretta, però non si divincola, resta lì, a farsi stringere il collo senza poter respirare, alza un braccio, mi poggia la mano sui capelli, li accarezza piano, astenendosi dal commentare il loro stato pietoso, e il suo è un gesto d’affetto che lentamente mi calma, che a poco a poco mi fa mollare la presa. Mi stacco da lei, mi allontano per poterla vedere in viso, ha uno sguardo mansueto, accogliente. Io non mi vergogno, non vorrei essere con nessun’altra persona, sono felice che davanti a me ci sia Angela, sono grata di aver potuto stringere il suo collo, di aver trovato il suo odore. «Possiamo partire?» È la richiesta di una bambina, una figlia che prega la mamma di accontentarla, di essere comprensiva, condiscendente. «Partire per dove?» «Facciamo il viaggio che mi hai regalato per il compleanno, partiamo ti prego,

vieni con me, accompagnami.» Quello che dico non mi sembra irragionevole, non stona, non appare distorto, è quello che voglio, adesso più di ogni altra cosa, voglio andarmene per un po’, e voglio che Angela venga con me, voglio che “mia madre” mi stia vicina. Partiamo, in due giorni Angela è riuscita a organizzare tutto. Affido Amaranta a mio padre, che per una settimana è contento di avere accanto una compagnia silenziosa, una presenza discreta, che lo guarda e poi si accuccia a un suo cenno di assenso del capo. Preparo il mio bagaglio, ci metto lo stretto necessario, non programmo, non penso ai dettagli, parto senza portarmi dietro il tempo. In questi due giorni ho sperato di ricevere una visita di Enrica, ma lei non si è vista, e io vado lontana, perché a restare non ce la faccio. Ho retto all’addio di Marco, a questo distacco no. È ingiusto, è brutale. Giacomo mi manca, ma adesso è qualcos’altro che provo, la parte centrale di me è sprofondata nel pozzo, e io devo andare a cercarla, tuffarmi negli abissi, scovarla, nell’oscurità. Ho voglia di silenzio, di muovermi liberamente in uno spazio aperto, devio da ogni strada battuta, tracciata in precedenza da qualcuno dissimile da me, ricerco una pista incontaminata, ed è quella che i miei piedi stanno segnando a ogni o. Forse la vita, togliendomi Giacomo, mi ha lasciato dell’altro. Angela è la persona più sbagliata con cui vivere il silenzio, e invece mi lascia stare, non mi parla, se non per chiedermi a che ora voglio cenare o se può andare in bagno a fare la doccia, e ancora una volta è sorprendente. Alloggiamo in un albergo sfarzoso, sul mare, con la spiaggia bianca e l’acqua verde, limpida. Angela ha fatto la conoscenza dell’intero staffe, e durante il giorno si sfoga dialogando con loro. La sua voce fa da sottofondo al mio estraniarmi, e io la trovo gradevole, sono contenta di sentirla, ogni giorno mi isolo inoltrandomi in un silenzio che altrimenti non sarebbe altrettanto comodo, avvolgente, non lo avvertirei confortevole. La mattina mi sveglio con i raggi del sole setacciati dalle persiane, mi alzo, mi infilo un costume, un paio di infradito, mi avvolgo ai fianchi l’asciugamano dell’albergo, gli occhiali da sole tra i capelli incolti, e scendo in spiaggia. Mi metto su un lettino, abbasso gli occhiali sugli occhi, e me ne sto a guardare il mare, osservo quella massa d’acqua salata in perenne movimento, che somiglia a quella che in questi mesi si è agitata dentro di me. Angela mi porta qualcosa da mangiare e mi posa accanto il piatto, senza assillarmi se non mangio e deve riportarlo intatto all’albergo. La sera ceniamo nella sala ristorante, Angela non mi rivolge la parola, conversa con il cameriere e con i vicini di tavolo, e io permango rigorosamente immersa nel mio mutismo.

Dopo cena mi siedo ai margini, con uno degli abiti eleganti che Angela ha portato per me, che docilmente indosso, mentre gli altri ospiti si divertono e si godono la loro vacanza, bevo il cocktail che Angela mi offre, e sento l’alcol che scende nella gola e brucia lo stomaco. E la mia mente è leggera, fluttua sull’acqua, senza pensieri pesanti da sopportare. Sono affondati in mare. Volata una settimana Angela prepara le valige, e quando mi vede che al posto di fare lo stesso mi metto il costume e afferro l’asciugamano dell’albergo, si allarma, pensa che sia impazzita, che debba riportarmi in Italia e farmi curare da uno specialista, uno bravo. «Nadia cosa fai, stamattina abbiamo il volo, c’è la navetta che ci aspetta per portarci all’aeroporto.» Me lo dice timorosa, quasi reverenziale. «Io non parto, resto qui, ho tenuto la camera. Per favore badate ad Amaranta tu e papà, finché non torno.» «Finché non torni? E quando pensi di tornare?» Angela si inalbera, ma si trattiene, è stizzita, esterrefatta, ma mi domanda con autocontrollo cosa intendo fare, e io le dico semplicemente: «Restare.» «A fare cosa?» «Niente.» Angela vorrebbe schiaffeggiarmi per farmi riavere, dirmi che sto sciupando la mia vita, che sto buttando via tutto quello che ho costruito, che respingo con ostinazione ciò che potrei avere. Lo so quello che vorrebbe dirmi, perché lei è Angela, e io la conosco, però non lo fa, non giudica, dice solo “va bene”, di farle sapere quando deciderò di tornare, e io mi accorgo di volerle un bene smisurato, che quasi mi rifà cominciare a piangere. E vorrei dirle grazie, lo farò, nel mio cuore l’ho già fatto. Lei scende e sale sulla navetta, io invece vado in spiaggia, mi sdraio sul lettino, guardo il mare, e faccio silenzio. Trascorre un’altra settimana, altre due, giorno dopo giorno soggiorno in una stanza super costosa in un albergo di super lusso, che non so come pagherò, se non dando fondo a tutti i miei risparmi, e forse nemmeno quelli basteranno, prosciugherò la liquidazione in anticipo.

Dopo che Angela è partita ho chiamato Claudio, gli ho comunicato che ero all’estero e ho dato ufficialmente le dimissioni. Lui è andato su tutte le furie, sarebbe ricorso volentieri alle vie legali, se non fosse stato per Lorenzo, e per l’intromissione di Angela (l’aveva già avvisato), la mia Angela. Io però non percepisco quel senso di inferiorità che provavo nei suoi confronti, a relazionarmi con lui, e prima di riattaccare gli dico che dovrebbe smetterla di fare il coglione, perché Lorenzo si merita un compagno migliore. Aggiungo che anch’io mi meritavo qualcuno di meglio di quell’idiota di Marco, e lui mi dice che ho ragione, mi meritavo qualcuno di meglio. Però aggiunge che per Lorenzo non è vero, ho torto su di lui, sa di non essere il campione dei compagni, ma lo ama molto, moltissimo, dice che l’unica cosa che veramente gli preme è che Lorenzo sia felice. Riattacco, e dopotutto sorrido. I membri del personale dell’albergo hanno capito che non voglio essere disturbata, e a loro sta bene, non mi lamento, e do meno da fare di molti altri. Da quando Angela è andata via la mattina corro sulla spiaggia, scalza, selvaggia, la sabbia fine tra le dita dei piedi, mi immergo nell’acqua per rinfrescarmi e poi sosto il resto del giorno sul mio lettino di fronte al mare, cosparsa di sale, con il sole che mi scalda e mi scotta la pelle, su cui non spalmo la crema. La mia pelle si lacera, la abbandono. Trascorro la serata al bancone del bar, continuando a indossare gli abiti carichi di lustrini che mi lasciano la schiena scoperta, ma inizio a farmi permeare dall’euforia degli altri ospiti, bevendo i cocktails che il barman seguita a prepararmi e a porgermi, uno dopo l’altro, senza che lo richieda, e vivo davvero, anche se non sembra, vivo in profondità, dove compio immersioni sempre più lunghe, in fondali sempre più alti, finché un giorno riemergo. Ricevo un messaggio, lo leggo, è di Marco, c’è scritto “è nata Matilda”, nient’altro. Non credo sia un messaggio inviato a tutti i contatti del cellulare, quello l’avrà mandato, certo, con scritta l’ora della nascita e il peso della bambina, e le parole di felicità per il suo arrivo. Questo messaggio è solo per me, per dirmi che adesso c’è lei, che non è più solamente un pancione che infanga la nostra storia, adesso Matilda esiste, e lei è degna di essere considerata pura. Ed è vero. Per un momento sospetto che Marco mi tradisse da molto prima, mi ha mentito sui tempi, Serena non è rimasta subito incinta, mi tradivano insieme, coscientemente, ma poi allontano il pensiero, anzi non sono io a scacciarlo, è il pensiero che se ne va, mi scorre accanto, via da me, non ha ventose con cui far

presa. Tramite l’albergo prenoto il volo di ritorno, riempio la valigia con il mio essenziale, i costumi e le infradito, e mi reco a saldare il conto, in ansia per la cifra cospicua che esigeranno, ma scopro che Angela ha firmato un assegno in bianco, per tutto quello di cui avrei avuto bisogno, compreso il bar, per tutto il tempo che mi sarebbe occorso. E il tempo che mi serviva le costa una fortuna. Compilo l’assegno, mi incammino, sto tornando a casa.

L’aereo atterra e la prima cosa che faccio è andare a recuperare Amaranta. All’aeroporto viene a prendermi Lorenzo, e mi accompagna lui fino a casa dei miei. In macchina mi dice che mi trova in forma, certo ho un’abbronzatura fenomenale, ma non è questo. Ho una luce diversa, che mi illumina la pelle da dentro. E la mia pelle è cristallina, non mi nasconde. Lorenzo se ne va e io salgo da sola, tornerò a casa più tardi con la mia auto, che durante la mia assenza è rimasta parcheggiata nel garage dei miei. Angela mi apre la porta, e quasi mi sembra che abbia gli occhi lucidi, Amaranta sente la mia voce, scende dal divano, dov’era comodamente appollaiata, balza giù e mi corre incontro. Anch’io le corro incontro, mi lancio sul pavimento, mi sdraio, lascio che Amaranta mi salti sopra, che mi lecchi. Nascondo il viso con le mani, la lingua di Amaranta mi fa il solletico, rido, e Angela, sgomenta, urla a mio padre che sono diventata matta. Ma la verità è che sono tornata risanata, torno da un luogo lontano, tanto lontano che non è possibile rintracciarlo su nessuna mappa esistente del globo terrestre. Sono andata tanto lontana per sbaragliare me stessa, è me stessa la mia rivelazione. Sono stata via da Monza per un mese intero, ho buttato all’aria un lavoro sicuro e ben stipendiato in banca, non mi resta che cambiare colore di capelli e rinnovare il guardaroba. Lo faccio, dal parrucchiere mi taglio i capelli sopra le spalle, li sfoltisco, li scalo, li stiro e mi lascio decolorare alcune ciocche, riflessi di luce per il mio nuovo cammino. A casa svuoto l’armadio, butto gli abiti sul letto, non li catalogo, non li scelgo, li ammucchio e li ficco come macerie nei sacchi dell’immondizia, faccio nodi stretti, li carico in macchina, e li porto ai cassettoni gialli della Caritas. Mi restano un paio di jeans, qualche maglietta e il completo per la corsa che mi ha regalato Diego. Lo indosso, esco a correre, volteggiando sui confini del mondo, percorro una distanza infinita, possiedo una forza ancestrale, generatrice, ho in me tutto il fiato che occorre. Alcuni automobilisti lanciano commenti e strombazzano con il clacson, io sorrido, li saluto, mi sento in comunione con il mondo, sono in sintonia con la mia città, e corro a meno di sei minuti a chilometro, supero il mio traguardo. Di nuovo a casa mi svesto e mi doccio, e quando mi tolgo l’accappatoio mi guardo, dopo quasi due mesi che non lo faccio, perché me ne sono scordata, non ci pensavo più, di avere anche un corpo. Sono dimagrita un sacco, tutto quel silenzio e tutto quel mare, mi sono asciugata, e ora sono snella come non lo sono mai stata. Mi guardo, mi trovo bella, e decido che domani voglio andare a fare shopping.

Il giorno seguente vado a Milano con Ilenia, che mi abbraccia tenendomi forte, per assicurarsi che non decida di riandarmene via. Le sono mancata. A Milano entro a raffica nei negozi, provo abiti che prima non avrei preso in considerazione, abiti in fantasia e tinte pastello, e in giallo, corallo, acquamarina, maglie monospalla, gonne asimmetriche. Mi sbilancio, mi espongo, a provarli mi diverto, è una festa, la mia festa ritrovata. A indossarli mi sento a mio agio, li voglio comprare tutti. E in un solo giorno riesco a spendere oltre cinquecento euro per una montagna di vestiti, e scarpe con il tacco che ancora non so se davvero indosserò, però le compro, con piena soddisfazione di Ilenia. Inoltre sostituisco il cellulare, acquisto uno Smartphone, e inizio a scorrere le funzioni con la punta del pollice, imparo un nuovo movimento, mi prende l’estro, mi faccio tatuare le sopracciglia, due ali spiegate di gabbiano ad ampliarmi lo sguardo. A fine giornata eggio con i sacchetti strabordanti di vestiti, il cuore espanso, i capelli finalmente puliti, purificati dal sale e dalle tossine, pur conservando, ora e sempre, una parte di me che ho riscoperto selvatica. E mi sento sazia, appagata. Mi rattristo soltanto un momento, quando Ilenia mi chiede se ho più avuto notizie di Enrica e di Giacomo. «No, a dire il vero nessuna.» Sento i miei occhi inumidirsi, ma in un attimo torna a risplendere il sole dell’estate, fiero, aperto, mi invoglia a sorridere. Adesso so che la vita mi ha fatto dono di Giacomo, e con lui ha voluto donarmi me stessa, di nuovo. Dopo un paio di giorni che sono tornata sono pronta per andare da lei, per andare a conoscerla, per iniziare a volerle bene. Vado in ospedale, dove c’è Matilda, che è ancora lì, perché è nata più piccola e più fragile degli altri, e ha avuto bisogno di cure particolari. È nella nursery, al di là di un vetro da cui è possibile vedere i neonati, dorme nella culla a pancia in giù, in una tutina rosa, il musino è girato di lato verso di me, un pugnetto chiuso stretto, il ciuccio in bocca, più grande di lei. E c’è Marco, che mi è venuto incontro. «Come sta?» «Le hanno fatto tutti i controlli, ma sta benone, domani o dopo ci fanno andare a casa.» Noto che Marco ha parlato al plurale, solo Matilda e sua madre sono ricoverate

in ospedale, ma lui comprende se stesso, in un pronome inscindibile. Ormai è legato a loro, i confini fusi nella stessa sostanza, e Matilda appartiene al suo cuore, ci è entrata dentro con un tuffo, lo vedo dalla quiete che gli aleggia negli occhi, mista alla stanchezza che segue a una forte eccitazione. «E Serena come sta?» Mi piace chiamarla per nome, mi fa sentire bene, mi espande dentro un senso di condivisione. «Si sente ancora stanca, ma sta bene, ha fatto una grande cosa.» Marco è euforico, non può nasconderlo, Matilda l’ha travolto, è fluita in lui, e io lo posso capire, so come avviene, so che è possibile. «Sì, ha fatto una grande cosa», è la mia voce, e dirlo non mi fa stare male. «Vuoi tenerla? Posso chiederlo all’infermiera se vuoi.» Una volta non ne sarei stata capace, a una richiesta del genere mi sarei innervosita, sarei indietreggiata, avrei fatto “no-no” con le mani, e innumerevoli “plié” mi sarebbero vorticati in testa. Ma una volta non sarei nemmeno venuta in ospedale, e adesso non mi troverei qui. «Certo.» Marco bussa con delicatezza sul vetro e richiama l’attenzione dell’infermiera che sta ando tra le culle, le indica Matilda e mima con le braccia il gesto di cullare, e poi quello di preghiera, con le mani giunte. Lei capisce, con l’espressione arresa alla gioia di un neo papà acconsente, solleva Matilda dalla culla, e la porta in corridoio, dove siamo noi. Fa per darla al padre, ma lui indica me, senza dire niente. E l’infermiera dal volto paziente me la pone tra le braccia, che sono pronte per lei. Sì, perché adesso posso tenere un bambino appena nato, non ho paura di farlo cadere, né di stringerlo troppo, posso farlo perché nelle mie braccia ha dormito Giacomo, e adesso le mie braccia sono pronte per tutti i figli del mondo, anche per Matilda, anche per la figlia di Marco, il vile traditore, il carnefice, ma ora non importa. Tengo Matilda su di me, lei si sveglia, fatica ad aprire gli occhi, perde il ciuccio e io glielo rimetto in bocca. Ha le labbra a forma di cuore, e occhi gonfi, semichiusi. In testa spuntano ciuffi sparsi di capelli neri, non è bionda, come l’avevo immaginata. È bellissima, più bella di Marco, più

bella di sua madre, perché lei ha ancora in sé il futuro, tutte le opportunità, ogni porta ancora spalancata davanti a sé. Dentro di me le auguro di varcare quelle che vorrà. «Ti trovo bene.» Marco mi parla con tranquillità, è sincero, non c’è traccia del tormento che si portava addosso l’ultima volta che l’ho visto, anche se è stravolto, è in pace con se stesso. «Ho avuto il tempo di riposare.» Lo guardo appena, perché sto ammirando sua figlia, la bambina più bella che abbia mai visto, persino più bella di Emma, che in fasce era splendida. Ma forse adesso sono io che riesco a vedere nelle pieghe, a sentire diversamente. «No, insomma, voglio dire che sei bella, del resto lo sei sempre stata.» Non distolgo lo sguardo dal visino di Matilda, non arrossisco, ma gli sono grata per quello che mi ha detto. «Lei è bella, sei fortunato ad averla, abbine cura.» E lui me lo promette, stringendomi il braccio con una mano, e io non posso scostarlo, perché il mio braccio sta reggendo sua figlia. Ma la sua stretta non è urticante, non mi dà spasmi, è solo il tocco di Marco, è un tocco che conosco, e allora capisco che parte di “noi” è stata vera, e quella parte resterà sempre, non verrà mai sporcata, mai tradita. «Lo so che ti ho delusa Nadia, e mi dispiace, avrei dovuto dirtelo prima.» Non importa, non importa più. Stasera ceno da Ilenia, ma torno a casa presto, ho una telefonata da fare, è il momento. Prendo il cellulare, digito la chiamata e aspetto di sentire gli squilli, il primo, il sec.. «Pronto, Nadia?» La sua voce, meravigliosa, un fremito lungo la schiena, si annida vibrante nella

pancia, dietro l’ombelico. «Sì, sono io, ciao.» La mia voce scivola giù, sparisce inghiottita nello stomaco, mi rendo conto che rimango in silenzio, e mi sento una stupida, ma non posso farci niente. «Come stai, non ti ho più sentita.» «Sono stata via per un po’.» «…» «…» «Domattina parto, torno a Londra, il mio amico mi ha trovato un posto dove lavora lui, e così mi trasferisco, non so per quanto, sai, vedo le cose come vanno.» Un colpo basso, uno sgambetto, un muro in piena faccia. Parte domani mattina, va a Londra, e non sa quando tornerà, quindi chissà quando lo rivedrò, forse potrei invitarlo a venire da me, potrei fare l’amore con lui prima che vada via, perché non si dimentichi, di me, di noi. E il fato pare beffarci e muoverci a suo piacimento, per puro diletto. «Un perfetto tempismo direi.» «Già.» «..» «Quindi.. buon viaggio.» «Già.» «…» «Nadia?» «Sì?»

«Se vuoi o a salutarti, ci metto un secondo a uscire.» Ritrovo il silenzio del mare, della spiaggia, dei cocktails trangugiati ai bordi, e dico di no. No, non così, non in questo modo. «Ti chiamo io da Londra, se ti va.» «Sì, chiamami.» Metto giù, e aspetto che un’onda assassina si sollevi dal mio pozzo, ma non avviene, nessuna insurrezione, nessuna lacrima. Mi stupisco, ma la verità è che non mi sento triste. Diego va a Londra, d’accordo, ma non vuol dire nulla, magari non starà via molto, magari tra qualche mese tornerà, e allora accadrà quello che stasera sarebbe stata una forzatura, e tra noi il destino deve fluire con semplicità, deve essere un incontro favorevole. E poi io sono libera, non ho doveri imprescindibili, nessun lavoro, nessun fidanzato, potrei decidere di partire per Londra, e raggiungerlo. Potrei trovarmi anch’io un impiego, potrei iscrivermi a un master, potrei, potrei, certo che potrei, adesso posso, posso fare qualunque cosa, qualsiasi cosa io abbia voglia di fare, le opzioni si moltiplicano e si diramano rigogliose. Capovolgo un’idea, e ne faccio un’intuizione. Io posso tutto, ora lo so. L’amore tra me e Diego esiste, ci credo, lo faccio decantare, si realizzerà. Sto sorridendo alla mia nuova consapevolezza, al mio potere immenso, e il citofono suona. Rispondo pensando che Lorenzo sia ato a bersi una birra con me, e sento la voce di Enrica, è Enrica, e io le apro, spalanco la porta, l’aspetto sulla soglia, con Amaranta che è venuta a sedersi al mio fianco, e quando l’ascensore si ferma al mio piano ed Enrica compare, con sé ha Giacomo, addormentato nel marsupio, la bocca aperta. «Quant’è cresciuto!», e mi manca il respiro, mentre Amaranta saltella come una cavalletta. Enrica è di fronte a me, sorride placidamente. Ha i capelli pettinati dietro le orecchie, e non sono viola, sono castani. Mi guarda con i suoi occhi nebulosi, tanto profondi da contenere una galassia. Mi chiede scusa. «Scusami, io.. non ero più in me, ho sbagliato.» «Vieni entra, parliamo un po’.»

E così stasera sono a casa mia, seduta sul mio divano, che da qualche tempo spesso è affollato, a parlare con Enrica che è seduta accanto a me, e ho Giacomo in braccio, il mio piccolo Giacomo, ancora su di me. E so cos’è un miracolo. Enrica mi racconta di quando ha perso la verginità con Mattia, la curiosità di fare quella strabiliante scoperta con il proprio migliore amico, di come sia rimasta incinta a causa della loro inesperienza. Mi confessa la delusione di quando Giacomo si è rifiutato di attaccarsi al suo seno acerbo, mi parla della frustrazione che ha provato, dell’amarezza disciolta nella tenerezza. Mi descrive le fitte di dolore che ha sentito inasprirsi insieme a ogni vagito di quel neonato estraneo che si trovava nella sua stanza, in una culla divenuta d’ostacolo. Non era dolore, era colpa, era il senso di colpa per averlo messo al mondo, per aver preteso di essere madre a quindici anni, senza averne diritto, senza essere pronta. Enrica ha tentato di amare suo figlio incondizionatamente, ma ha scoperto che il suo amore era condizionato, dal desiderio di tornare a scuola la mattina, dalla voglia di andare all’università, un giorno, la voglia di condividere un appartamento con altre studentesse, di fare una vacanza studio in Inghilterra, in estate, condizionato dal desiderio, condizionato dalla paura. Enrica mi parla della paura che si è sedimentata in lei, la paura che si prova a essere legati a qualcun altro, qualcuno che dipende in tutto e per tutto da te, la cui vita fin dal principio è stata appesa alle tue scelte, la cui vita non sarà mai completamente sciolta dalla tua. E mi dice che una sera ha pensato a me. È uscita di casa portandosi dietro qualcosa di Giacomo, e aveva un’idea confusa di cos’avrebbe fatto, cosa mi avrebbe detto. A casa mia, quella sera, Giacomo piangeva, non voleva mangiare, e lei ha percepito nuovamente quella sensazione agghiacciante di paura che le si era annidata dentro, faceva male, allo stomaco, al petto. Poi io ho preso Giacomo sulle mie gambe, e lui si è calmato, ha bevuto il latte. Quella sera Enrica è entrata in camera mia, ci ha visti addormentati vicini sul letto, e si è convinta con una stretta al cuore che Giacomo sarebbe stato meglio con me. Con me, e non con lei, che era stata troppo spavalda, troppo orgogliosa, Enrica ha creduto che sarei stata una madre migliore. È andata via, se ne è andata sperduta, ha mentito ai genitori, ha ingannato se stessa. Ma una coscienza sopita l’ha spinta a confidarsi con il vero padre di suo figlio, Enrica ha parlato con Mattia, perché Mattia è suo amico, però senza rivelargli il mio nome, né il mio indirizzo, ma lui per fortuna ha agito con coraggio, l’ha seguita, è venuto a riprendere Giacomo, e gliel’ha riportato. Adesso le cose vanno meglio, e Giacomo cresce a meraviglia.

Mentre Enrica mi parla, lo guardo, non lo vedo da oltre un mese ed è già straordinariamente cambiato, non voglio perdere neanche un altro giorno in cui crescerà. «A ottobre ci sarà il battesimo, e vorrei tanto che tu gli fi da madrina. Ci tengo tanto, anche la mamma è d’accordo.» Mi commuovo, ma sono felice, basta così poco, e c’è già tutto. «Ne sarei onorata.» Penso a Londra, penso che per ora non posso partire, ora no, quello che voglio in questo momento è stare con Giacomo, voglio assistere alla sua evoluzione, esserne partecipe e vederlo diventare grande. Sono a casa mia, sul mio divano, accanto a me ho Enrica, ho suo figlio in braccio, e non vorrei essere altrove. Giacomo si sveglia, fa un versetto adorabile, cerca il ciuccio, ma io gli do il mio dito, e lui lo succhia, ed è come se si ricordasse di me, perché tra noi esiste un legame, incancellabile, ci riconosciamo. E nei miei pensieri ho Diego, che parte domani, e possiedo la certezza che lo rivedrò.

Faccio un sogno. Mi trovo in un giardino con molta gente, i palloncini colorati sono appesi alle sedie, e vesto una maglia a stampa floreale. Giacomo compie tre anni e oggi c’è la sua festa di compleanno. Sono presenti i nonni, i parenti, gli amici e i compagni di classe. Giacomo è l’unico bimbo, l’unico bimbo in mezzo a un mondo di adulti e ragazzi, ma lui ci sguazza, sa che ha tutti ai suoi piedi. Enrica ha compiuto diciotto anni, la scuola prosegue bene, è l’anno del diploma, e a settembre andrà all’università. Vive sempre a casa con i suoi, che l’aiutano e si occupano di Giacomo, quando lei deve studiare. E lei studia, studia e va a scuola, e ogni tanto si concede di uscire con le amiche, ma non così spesso, Enrica è coscienziosa, è una mamma solare, e oltre al nero indossa i colori, il verde, l’azzurro, l’arancio, a vederla ora rispecchia in pieno la vita. Accanto a Enrica c’è Mattia, li guardo prima di andare a salutarli, sono con Giacomo e gonfiano altri palloncini, e insieme assomigliano a una vera famiglia. Enrica e Mattia sono amici, e se si chiede loro dell’amore arrossiscono entrambi, dicono per ora no, abbiamo altro a cui pensare, però dicono anche chissà, magari tra un po’, vedremo. E Mattia è un padre premuroso, tenero, (e non c’è colpa Mattia, in quello che hai fatto, non c’è colpa nell’innamorarsi di una ragazza, non c’è colpa nel desiderarla, volerla toccare, stare con lei). Giacomo è un bambino fortunato, perché ha una marea di persone che lo circondano d’amore, tra cui due adolescenti speciali che farebbero qualsiasi cosa, per lui. Inoltre è la mascotte della classe di Enrica, tutti lo fanno giocare, i compagni maschi se lo portano sulle spalle, le ragazze gli fanno il solletico e gli comprano il gelato. E poi ci sono io. Giacomo mi vede, prima dei suoi genitori, e corre subito verso di me. Io sono la zia Nadia, e di lui non mi sono persa niente. La prima parola, il primo o, il primo bernoccolo, il primo capriccio, io di lui so tutto, ho tutto immagazzinato dentro di me, a colmarmi. Giacomo mi raggiunge in corsa, frenando posa la sua piccola manina sulla mia pancia, la mia pancia gonfia di otto mesi, mi guarda, si rabbuia. Da quando la mia pancia ha iniziato a crescere e io gli ho spiegato che dentro c’è un bimbo come lui e che tra poco verrà fuori per giocare insieme, Giacomo è un po’ arrabbiato con me. L’arrivo di un altro bimbo e l’interesse che coglie attorno alla mia pancia lo preoccupano, mi dice di lasciarlo ancora lì per un po’, che può aspettare a venir fuori, lui adesso non ha voglia di giocare.

Sollevo in aria il sacchetto che tengo in mano e lo faccio dondolare, e allora il broncio di Giacomo si scioglie, gli occhietti arricciati si allargano, e alza tutte e due le braccia per acchiapparlo. Gli lascio prendere i regali, il mio e quello di Angela, che non è venuta perché è in crociera con mio padre, però gli dico che per aprirli deve aspettare, prima deve soffiare le candeline, e lui corre a mettere i miei regali con gli altri, e rincorre i palloncini inseguito da Amaranta, che abbaia giocosa, perché anche lei adora Giacomo, e partecipa ai festeggiamenti. Nel frattempo mi raggiungono Enrica e Mattia, lui educatamente posato, lei che mi salta al collo affettuosa. La guardo, e noto quanto sia diventata bella, e quanto Giacomo le somigli ogni giorno di più. La osservo e vedo una mamma radiosa, pervasa di leggerezza. Ed è in questo istante che un tocco leggero mi distrae, è Diego che mi prende la mano, è qui, di fianco a me. Mi volto a guardarlo, richiamata dalla sua mano che tiene la mia, e lui mi dà un bacio sulle labbra, un bacio morbido, uno dei suoi. Ha un altro regalo per Giacomo, e io lo guardo corrucciata, il solito esagerato, un regalo è sufficiente, e gliel’avevo già preso io, ma lui gli ha comprato anche la bici. Giacomo corre a impossessarsene, e io rimiro questo bambino che ho tenuto tra le braccia a un mese d’età e che ora pedala sulle rotelle, questo bambino che ha dormito con me nel mio letto, che ha succhiato con insistenza la nocca del mio dito indice, che da allora mi sembra sempre un po’ più bianca delle altre. Guardo Giacomo, e penso che sia stato lui il primo figlio a farmi diventare madre, perché essere madre è qualcosa di più che partorire, è qualcosa che va oltre, qualcosa che a attraverso, qualcosa che denuda, che livella e scorre. Le carezze? Le carezze mi atterriscono, però sono quelle trattenute, quelle non date, negate, a farmi più paura. Ora è l’assenza di una carezza a scuotermi in profondità, perché adesso il mio vuoto l’ho colmato, è colmo dentro, ovunque io vada. Ho Giacomo, ho Enrica, ho Diego, e ci sono Ilenia e Lorenzo, sono dentro di me. E finché avrò tutti loro, con me, nemmeno se mi trovassi in un altro continente sarei sola. Marco invece non lo vedo più, so che ha avuto la seconda bambina e che ha sposato Serena, e non credo a chi ha detto che l’ha fatto per senso di responsabilità. Forse l’ha fatto per Matilda, ma è tutta un’altra cosa, perché è sempre l’amore a c’entrare con questo tipo di scelte. E ovviamente nella mia vita c’è Angela, la mia Angela irrefrenabile, incontenibile, e per quanto Diego l’abbia conquistata, non ha smesso un minuto di marcarmi stretta. Il terrore del parto mi è rimasto, ma la maternità ora mi appare diversa, posso affrontarla. I figli criticheranno, accanno, urleranno, condanneranno, e io

andrò in cerca della loro approvazione. Ma il compito delle madri non è certo quello di essere amate per forza, e non possono evitare ai figli di soffrire, preservarli dalle delusioni, i torti, le invidie, le ipocrisie, possono semmai traghettarli attraverso il dolore, quando arriverà. E forse non ci sono scelte irreparabili. Sbaglierò, e i miei sbagli saranno le pietre su cui poggerò saldamente i miei i. Penso ai genitori trasformisti, che per i figli fanno da pungiball, da cuscino, da trampolino, da ali che li sollevano in volo sul mondo, c’è tanto da sperimentare, però credo che il merito di una madre sia quello di esserci, e qualche volta, anche se un figlio (o una figlia!) compie un’azione che appare folle, fuori da ogni logica, tipo lasciare il lavoro, mollare tutto e volare all’estero per una permanenza indefinita in un albergo costosissimo, spendendo una somma di denaro esorbitante, saper dire “va bene”, come ha fatto Angela con me. Faccio un sogno, lo percorro e apro gli occhi, lo vivo. Sto lavando i piatti, i polsi immersi nella schiuma, e Diego che con una mano mi cinge il collo da dietro. Lo tiene tra le dita, i polpastrelli che sfiorano la base dei capelli. E lui, che ha mantenuto la sua promessa, mi ha chiamata da Londra, e quando io sono stata pronta, è tornato da me. Lui, che mi ha amata, lui, Diego, che mi ama. Di sposarmi non ne ha ancora avuto il tempo, ma dopo la nascita del bambino organizzeremo le nozze. Nel frattempo abbiamo scelto il nome, il nome più bello, che lo è solo perché sarà il suo. Con Diego aspetto un figlio, e tra un mese sono pronta ad accogliere l’amore che questo bambino vorrà darmi, e saprò sopportare il suo odio, perché anche quello arriverà, lo assorbirò in me, senza che possa distruggermi. Io e Diego ci amiamo, e non sempre è semplice, ma è possibile. L’un l’altra ci chiamiamo “Amore”, ma quando litighiamo (e accade!), io lo chiamo per nome, lui no, lui continua a chiamarmi “Amore”. In fondo al pozzo ho trovato un granello, un minuscolo confetto, perfetto, denso, un nucleo intonso di felicità a cui gravito intorno, che irradia calore e gioia. Ad ammantarmi uno strato di pelle nuova, una pelle che non si ritrae al tocco della vita, una pelle elastica (niente smagliature sulla pancia), che si anima e vibra, e sa tirarsi senza preoccuparsi di rompersi. Una pelle capace di emozionarsi, traspirare, che mette in contatto l’interiorità con l’esterno che incontra. E dentro di me scorre un fiume, il mio fiume, fluisce allo scoperto, non si arresta, segue una strada, me la mostra, è piena di curve, è la mia. E intanto io aspetto, aspetto di ripartire, di riprendere a correre, aspetto sco.