Attrazione Evidente (elit): Elit 3c1f6m

JULIE COHEN

ATTRAZIONE EVIDENTE

HOT SECRETS

Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: Featured Attraction Harlequin Temptation © 2006 Julie Cohen Traduzione di Alda Barbi

Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Books S.A.

Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale.

© 2007 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

eBook ISBN 978-88-5896-152-0

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Prologo

Jack Taylor stava facendo l'amore con la donna più bella del mondo. Non riusciva a vederla, ma non gli importava. Con le mani le carezzò la pelle liscia come la seta, priva di imperfezioni. Le toccò con le dita il fondoschiena, risalendo poi lungo la spina dorsale per andare a esplorare l'incavo perfetto della vita e le costole sinuose. Quando le prese tra le mani i seni, lei sobbalzò e gemette quando le stuzzicò i capezzoli irti. Il suono della sua voce venata dal piacere scaldò il sangue nelle vene di Jack. Il cuore si mise a battergli più veloce, al ritmo di quello di lei. Non era mai stato tanto eccitato prima d'ora. Mai. E Jack Taylor aveva una buona dose di esperienza in campo di eccitazione. La sua amante si girò verso di lui e gli sfiorò il volto con i capelli soffici. Assaggiò la sua bocca. Aveva labbra e lingua dolci, come se avesse appena finito un lecca lecca, ma Jack sapeva che quel sapore faceva parte di lei, come i capelli, la voce, il corpo e le sensazioni che gli dava. Il tutto era infinitamente e incredibilmente dolce. «Ti voglio ora» bisbigliò lei, provocandogli una nuova ondata di calore. «Ti desidero più di quanto abbia mai desiderato niente e nessuno.» Lo disse a voce alta, conscio che quello era quanto di più sincero avesse mai detto. Poi la mano di lei gli fu sopra, guidandolo dentro di sé, e l'oscurità si colmò di un'estasi più luminosa della luce stessa. Lei gli prese una mano e se la portò alla bocca. Jack seguì con le dita l'orma del suo sorriso e mentre lei iniziava a muoversi sotto il suo corpo, lui si fece strada dentro di lei. Lentamente, in modo tanto perfetto ed eccitante che Jack perse la cognizione del tempo. Le catturò la mano, sorridendo e mordicchiandole un dito dopo l'altro.

Non c'era nient'altro a parte loro due. I movimenti si fecero più veloci e lui la penetrò più a fondo. Dio, com'era bello. La sentì rabbrividire, capì che anche lui stava giungendo all'apice. C'era una sola cosa che voleva fare prima di perdersi del tutto in quel delirio, ed era... «Jack!» gridò lei, e la sua voce armoniosa e ricca gli entrò nelle vene. Con il corpo allacciato al suo, la mente e il cuore persi nell'estasi, Jack lasciò libero sfogo al proprio appagamento. Urlò di piacere e allora, improvvisamente, vide i suoi occhi. Verdi. Il verde della primavera e dell'estate. Il verde della vita e delle promesse eterne. Lo stavano fissando e gli provocarono un'ultima, magnifica ondata di piacere estatico. Poi fu tutto buio.

Jack si svegliò ansimando. Si ò una mano tra i capelli umidi di sudore e si mise a sedere. Anche le lenzuola, arrotolate in vita, erano umide. «Uauh...» disse. Non era buio pesto; vedeva le stelle dalla finestra aperta e il bianco del letto. Eppure allungò un braccio per verificare che non ci fosse nessuno steso accanto a lui. Si liberò delle lenzuola e si avviò verso il bagno. Si spruzzò dell'acqua fredda sul volto mentre la luce impietosa allo specchio gli rivelava le guance arrossate, gli occhi incupiti e le pupille dilatate. Sorrise soddisfatto. Aveva l'aspetto di un uomo che aveva appena fatto del sesso da Guinness dei primati. Il che, in un certo senso, era vero. Il sorriso di Jack si allargò, prima di svanire piano piano. Aveva appena sperimentato l'esperienza sessuale più intensa della sua vita, ed era stato solo un sogno? Jack si girò e scese in fretta le scale, entrando nudo nel salotto buio. A tastoni, con la memoria che gli proveniva dall'abitudine, raccolse da una scatola pezzi di carta e legna minuta e li gettò nel camino, ci posò sopra dei ciocchi più grossi e

accese il fuoco. Osservò le fiamme rafforzarsi e lambire i ceppi. Gli venne in mente il sogno e il modo in cui le braccia e le gambe della donna avevano lambito lui. Ricordò il calore sprigionato dai corpi che si toccavano. Attese finché il fuoco attecchì per bene, poi si alzò e attraversò la stanza pervasa dal bagliore arancione delle fiamme dirigendosi alla scrivania. Senza guardare, trovò il libricino nel cassetto in alto e tornò impugnandolo a inginocchiarsi davanti al caminetto. Si leccò le labbra e gli parve di sentire ancora il gusto dolce della donna. Ovviamente era impossibile. Era solo una fantasia, anche se in qualche modo pareva più reale di molte altre cose che aveva sperimentato. Una dopo l'altra, Jack Taylor strappò le pagine della sua rubrica di indirizzi e gettò i nomi e numeri telefonici delle donne che conosceva in pasto alle fiamme.

1

A volte il mondo fa davvero schifo. Kitty Giroux Clifford guardò l'uomo seduto davanti a lei diritto negli occhi e gli chiese: «Allora, quanto mi dà per la mia Mercedes?». Il commerciante di auto usate si posò un dito sul mento grasso. «Ha un sacco di chilometri per essere un modello dell'anno scorso. E non c'è una gran richiesta di decappottabili. Qui nel Maine gli inverni sono rigidi.» Kitty si raddrizzò sulla sedia. Doveva ricavare il massimo dalla vendita dell'auto per pagare i debiti e continuare con l'attività, ma non voleva dare l'idea di essere disperata. Anche se lo era. E il commerciante lo sapeva. Non ci si libera di una Mercedes chiedendo contanti, a meno che non si sia messi male. «Forse c'è più richiesta di decappottabili a Scarborough» disse. Si sistemò la giacca dell'abito firmato e fece per alzarsi. L'uomo la imitò, tendendo la mano per fermarla. «Aspetti, signorina Clifford, sono certo che troveremo un accordo.» Vittoria... Lei sorrise e in quel momento sentì la borsetta vibrare. Il cuore le balzò in petto come ogni volta che squillava il cellulare. Poteva essere quello giusto. «Mi scusi» disse, estraendo il telefono. Sorpresa. C'era il numero di sua madre sul display. Non era l'affare del secolo. Peccato. «Mi dispiace, devo rispondere» spiegò. Non era poi male se il commerciante pensasse che lei era un tipo occupato. Premette il pulsante della risposta e uscì nel parcheggio. «Katherine Clifford.» «Kitty!» La voce di sua madre era squillante e piena d'eccitazione. «Ho appena preso una chiamata di uno che ti vuole per un lavoro. Indovina dove?»

Il polso di Kitty prese a scorrere veloce. Erano sei mesi che aveva aperto il suo studio di decori da interno lì nel Maine e questo era il primo vero cliente. «Lavoro? Dove?» «Oh, ti piacerà. Ha acquistato il Delphi Theater di Congress Street e lo vuole restaurare.» «Sì!» urlò Kitty, facendo un salto e dando un pugno per aria. Il Delphi Theater era l'edificio più elegante di Portland. Non era mai stata una patita di film, ma il Delphi le era sempre piaciuto. Sembrava un palazzo trasandato, uno di quei posti in cui si può trovare un Principe Azzurro un po' malandato, ma pur sempre azzurro. Lei aveva superato quel tipo di fantasie, eppure da quando era tornata nella sua città si era fermata spesso ad ammirare il cinema. Neppure gli anni di abbandono avevano cancellato lo stile art déco. Poterlo restaurare sarebbe stato il sogno di qualunque disegnatore di interni. Forse la fortuna era tornata a sorriderle, finalmente. «Ha detto che nel pomeriggio sarà al teatro, se ci puoi andare» spiegò sua madre. «E io mi sono scritta il suo numero, se lo vuoi chiamare.» «Fantastico, mamma! Come si chiama?» «Taylor.» Si bloccò di colpo. Jack Taylor aveva sempre amato i film. «Come?» «Taylor. Si chiama così.» D'un tratto tutto le parve fragile, incerto. Kitty parlò piano nel telefono. «E di nome?» «Non l'ho capito. Era molto carino e gentile.»

Quella era la sua prima vera occasione da dopo il divorzio, il primo incarico. E il suo cliente poteva essere... «Taylor scritto come, mamma?» «Io l'ho scritto T-a-i-l-o-r.» «Sei sicura che non sia T-a-y?» Una pausa all'altro capo del telefono. «Be', a me sembrava scritto con la i da come lo diceva.» Come aveva fatto sua madre a sopravvivere facendo la receptionist di un veterinario per trent'anni? Forse i cani non si offendevano se scriveva male i loro nomi. «Tailor. Taylor. Mamma, il suono è identico!» «Kitty, che importanza ha? È esattamente il lavoro che attendevi da anni.» Sì, il lavoro dei suoi sogni. Ma Jack Taylor era il suo incubo peggiore. Ci aveva perso la testa al liceo. Era stato il ragazzo che le aveva calpestato il cuore e l'aveva umiliata davanti a tutta la scuola la sera della festa di fine anno. L'unica persona al mondo che non avrebbe mai, mai più voluto rivedere. Era tornata in città da sei mesi e non aveva mai incrociato Jack Taylor. Aveva quindi supposto che se ne fosse andato. Portland era una piccola città, non poteva certo contenere un numero di femmine sufficienti a saziare gli appetiti di Jack. Portland piccola? Il mondo intero non vantava un numero adeguato di donne per rendere felice Jack. Quell'uomo consumava le fidanzate come fossero Kleenex. Chiaro, tutto ciò se Jack era ancora come ai tempi del liceo. Ma perché sarebbe dovuto cambiare? Era ricco, bellissimo e affascinante, più che sufficiente per fare cadere le donne ai suoi piedi al primo sguardo.

Cosa che era successa a Kitty, tredici anni prima. «Tesoro? Lo vuoi il numero? Puoi chiedere direttamente a lui come si scrive il suo nome.» La realtà. Rimani con i piedi per terra, Kitty. Si rese conto di essere ferma in mezzo al parcheggio, intenta ad arrotolare un ricciolo di capelli rossi attorno a un dito, il telefono appiccicato all'orecchio destro, mentre il commerciante d'auto usate la sbirciava dalla finestra. Senza contare che poco prima l'aveva probabilmente vista danzare di gioia con il pugno in aria. Ciò che pensava quell'uomo non le importava, ora. Se aveva un lavoro, si poteva tenere la macchina. Poteva parlare con la banca e rinegoziare i pagamenti rateali, e... Dopo tutto non era finita a gambe all'aria. «Mamma, ho lasciato l'agenda sull'auto. Ti richiamo tra un minuto, così mi dai il numero di Taylor, eh? Prima devo parlare con una persona.» Kitty sbatté di nuovo il telefono nella borsetta e rientrò nell'ufficio. Il commerciante non si curò di alzarsi in segno di educazione. «Ho deciso di non vendere più l'auto, signor Dawson» annunciò prendendo le chiavi sulla scrivania. «Grazie per il tempo che mi ha dedicato.» L'espressione sorpresa sul volto dell'uomo la fece ridacchiare. Sì, le cose stavano cambiando per lei! Improvvisamente ansiosa di richiamare sua madre, Kitty si diresse in fretta verso la propria decappottabile. Quel lavoro le serviva. Non solo per il denaro, ne aveva bisogno per se stessa. Aveva avuto successo in California, anche se il suo matrimonio con Sam era fallito. Il suo ritorno nel Maine doveva essere una sorta di rinnovamento totale, per provare a se stessa che poteva farcela anche da sola, ma finora non aveva funzionato e i suoi risparmi si erano volatilizzati. Se fosse riuscita a ottenere quel lavoro, tutto si sarebbe rimesso a posto. Ne era certa. Un cinema era un incarico di alto profilo, una vera vetrina per il suo talento. Avrebbe portato molti altri lavori.

Quando raggiunse la decappottabile, stava sorridendo beata. Fece per aprire la borsa e la trovò già aperta. Il sorriso svanì mentre frugava all'interno. Vuota. «Oh, no.» Guardò nella direzione da cui era venuta. Il portafogli, le chiavi dell'auto, una cipria compatta, sei o sette matite, un rossetto, una spazzola e il suo cellulare supertecnologico e costosissimo giacevano tutti in fila sull'asfalto dietro di lei. Fece un o avanti per recuperare la sua roba, ma fu costretta a balzare indietro a causa di un clacson nervoso. Kitty osservò a bocca aperta la Lexus rossa con un'insegna sul parabrezza che diceva Portami A Fare un Giro di Collaudo are diritta sul suo cellulare. Udì il rumore di plastica rotta. «Ehi! Hai ucciso il mio cellulare, scemo!» gridò, sventolando la borsetta con fare minaccioso. L'autista non si fermò né la degnò di uno sguardo. «Spero che acquisti quell'auto e prenda una fregatura!» mormorò mentre recuperava le altre cose, per fortuna intatte. Con la punta della scarpa avorio spostò ciò che un tempo era stato il suo cellulare e ora era una piletta di frammenti argentati. Okay, il telefono era morto e non poteva permettersi di sostituirlo. Ma aveva altre cose su cui concentrarsi ora, come per esempio assicurarsi questo contratto per il Delphi e fare un lavoro assolutamente fantastico. Sua madre aveva detto che poteva andare a parlare direttamente al tipo, Tailor, Taylor, chiunque fosse. Era quello che avrebbe fatto. Portava sempre con sé il proprio curriculum, in caso qualcuno la chiamasse. Era già vestita in modo adeguato, con il suo tailleur di seta, indossato per fare buona impressione sul venditore d'auto usate. Aveva combattuto mezz'ora buona con i capelli quel mattino e aveva vinto la battaglia. Era a posto. Kitty aveva imparato che nella vita l'aspetto ha la sua importanza. Un designer d'interni doveva dare l'idea di avere buon gusto e... successo. Abiti giusti, auto giusta.

Così la pensava lei, anche se finora non aveva funzionato granché. La sua auto costosa e gli abiti firmati non avevano impedito al suo matrimonio di sfasciarsi, e non le avevano garantito un lavoro. Stavolta però avrebbe vinto, giurò Kitty a se stessa mentre accendeva il motore. Sarebbe andato tutto bene. E se il cliente era Jack Taylor, pazienza. No, non sarebbe stato Jack. C'erano centinaia di Taylor o Tailor in giro. Le possibilità che il suo cliente fosse la sua vecchia cotta erano minime. La fortuna non poteva essere così crudele.

«Jack, hai valutato la possibilità di esserti imbarcato in questa storia del restauro solo per distrarti dalle tue frustrazioni sessuali?» chiese Oz. Con un grugnito, Jack strappò l'ultimo angolo di moquette consunta dal pavimento. «Ti sbagli, Oz. Sono anni che punto a questo. Ricordi quante volte abbiamo guidato fino a qui, fantasticando su come dovesse essere questo palazzo quando era nuovo?» «Tu fantasticavi. Io pensavo, cavoli, che ammasso di detriti.» Jack ignorò l'amico. «E ricordi la mia ambizione scritta sull'annuario degli studenti? Possedere un cinema e fare della mia vita un film. Ho realizzato la prima parte e ci ho messo solo dieci anni.» Spinse contro il muro il rotolo di moquette e osservò il parquet in legno sottostante. «Se qualcuno farà un film sulla lotta con le moquette puzzolenti, avrò realizzato anche la seconda parte. Che ne dici di Rocky VI: L'arte di cadere al tappeto?» «Un successo.» Oz rimase inginocchiato a studiare il pavimento, con i ricci biondi penzolanti. «Un'altra cosa. Frustrazione sessuale implica che io non possa fare sesso. Il che non è vero. Ieri sera mi sono imbattuto in Sally McKenna; pareva molto interessata a rivangare i vecchi tempi con me.» «Sally vuole venire ancora a letto con te? E tu le hai detto di no? Le hai dato il mio numero?»

«Trovati da solo le donne, Oz. Il punto è che se voglio fare sesso, non ho problemi. Il fatto è che ho scelto di non farlo più, fino al momento giusto.» Oz spinse con forza sulle assi del parquet. «Spero che le tue parti basse reggano meglio all'incuria di quanto non abbia fatto questo parquet. Da quanto tempo hai scelto la via della castità? Da un anno?» «Undici mesi, sei giorni e otto ore. Circa.» Con uno sforzo Jack sollevò il rotolo di moquette. «E le mie parti basse sono in forma smagliante.» «Mi fa piacere sentirtelo dire, perché l'acquisto di questa immensa struttura eretta potrebbe essere interpretata dai tuoi ormoni come una sorta di compensazione all'inadeguatezza delle tue performance fisiche.» Jack rise, asciugandosi il sudore sulla fronte. «Okay, dottor Freud, puoi smetterla di usare le tue competenze in psicologia su di me. Ho comperato il Delphi Theater perché lo volevo. Nulla a che vedere con il mio pene.» Oz alzò la testa e guardò Jack, poi sorrise. «Puoi dire quel che vuoi, ma non serve una laurea in psicologia per interpretare quello.» Indicò il rotolo di tappeto alle spalle di Jack. Lui si girò appena in tempo per vedere il grosso cilindro afflosciarsi sul pavimento. Jack scoppiò a ridere. «Non se ne parla, Oz» commentò, avvicinandosi all'amico. «Non significa niente. Io non ho alcun problema a trovare... ah!» Il pavimento si aprì sotto i piedi di Jack, che precipitò nel buio. Caduto sulla schiena, senza fiato, vide apparire la testa bionda di Oz dall'alto. «Ehi, amico, tutto a posto laggiù?» «Sì, sì, sono solo sorpreso.» Jack si mise a sedere, ripulendosi dalla polvere e dalle schegge. «Credo tu sia caduto da una botola. Il tuo peso deve avere fatto cedere i cardini» spiegò Oz. «Allora è da qui che si arriva in cantina.» Jack si guardò intorno; era a circa due metri e mezzo sotto il pavimento. Era atterrato su un mucchio di stracci vecchi

che avevano attutito la caduta. La luce che filtrava dall'alto gli permetteva di vedere che lo spazio si estendeva in tutte le direzioni. Oz saggiò il pavimento con un piede e, constatato che era saldo, sedette vicino al bordo della botola. «Non è necessario che ti menzioni il simbolismo insito nel fatto che sei caduto in un buco, vero?» «Ah ah, divertente. Vuoi farmi uscire da qui?» «Non ancora. Approfitto di averti qui in trappola per dirti che sono seriamente preoccupato per te. Il re dei playboy è stato undici mesi senza sesso? Non è da te, e tutto per un sogno stupido.» «Non era un sogno qualsiasi. È stato il sogno migliore della mia vita e mi ha fatto capire che ho sprecato il mio tempo a saltare da una donna all'altra. In quel sogno ho fatto il sesso migliore che abbia mai sperimentato, quindi non intendo sprecarmi. O come quello, o niente.» «Jack, è una pura fantasia. I sogni non diventano mai realtà, è la loro stessa essenza che lo nega.» «Non questo sogno. Si avvererà, lo sento. Lo sai che mia nonna era una sensitiva? Prediceva il futuro per guadagnarsi da vivere. È una caratteristica di famiglia.» «Non crederai a quelle cavolate, vero?» disse Oz. «Non insultare mia nonna o ti spacco la faccia.» «Okay» replicò Oz con il suo tono da psicologo ragionevole. «Ammettiamo che questo sogno ti abbia fatto capire come sia fare sesso alla grande e che non sia frutto della tua mente malata, ma che abbia una radice nella realtà?! Se anche fosse vero, come riconoscerai la donna giusta, se la incontri?» «Lo capirò, credimi. Hai mai visto Fine di una Storia? I protagonisti, Julianne Moore e Ralph Fiennes, si guardano e da quel momento sanno già che finiranno a letto insieme. Ecco, sarà così.» Oz alzò le mani, frustrato. «È per questo che sono preoccupato per te, Jack. Non ti sei mai impegnato in nulla in vita tua. Hai sempre schivato le responsabilità.

Ora a un tratto ti accolli questo impegno del cinema. In più metti da parte una vita sessuale attiva e, francamente, invidiabile, per via di un sogno. Sei davvero pronto a votarti a questa donna ideale, se mai la troverai?» «Ehi, un o per volta, amico. Voglio trovarla e fare sesso con lei. Lasciamo da parte i paroloni per ora.» Oz scosse il capo. «Jack, hai mai pensato che forse vuoi rendere la tua vita simile a un film solo perché i film durano due ore e stop?» «Via col vento dura più di tre ore e mezzo, per non parlare del Signore degli anelli.» «Sai cosa voglio dire. I film non sono incasinati come la realtà. Li guardi, poi te ne vai. Nessun rischio, nessun coinvolgimento. Non è questo che cerchi anche tu?» Jack fece spallucce. «Qual è il punto?» «Quanto a lungo ti sei applicato a qualcosa? Un lavoro, un progetto, una donna? E adesso, di colpo, tutto cambia. È un impegno che ti assumi, sai. Anche quello con la donna dei sogni. Non sei pronto, credimi.» «Smettila di psicanalizzarmi, Oscar. Ce la faccio a concentrami su qualcosa per più di due ore e te lo dimostrerò.» Gli tese la mano. «Ti prometto che entro un anno il Delphi Theater sarà un cinema in piena attività. E io avrò fatto il miglior sesso della mia vita. Mi impegnerò con tutte le forze perché avvengano entrambe le cose.» Oz annuì e tese la mano per stringere quella di Jack. «Allora, mi aiuti a uscire di qui?» «Sì, un secondo.» Oz ritirò la mano e sparì. «Oz? Oz!» Jack si arrampicò su un cumulo di mattoni, ma non riuscì ad arrivare fino all'apertura. Sentì i i dell'amico in alto e una porta aprirsi. «Salve. È lei il nuovo proprietario?» Una voce femminile solleticò le sue orecchie.

Che strano! Il petto di Jack si strinse, il cuore ebbe un sobbalzo. Smise di muoversi e ascoltò, attento. «No, il proprietario è bloccato in un buco simbolico, al momento. Si accomodi.» «Sono Katherine Clifford, la disegnatrice d'interni. Cerco un certo signor Taylor.» La disegnatrice d'interni che aveva trovato sull'elenco. Aveva una voce familiare. Il modo in cui aveva pronunciato il suo nome, il tono. Jack sentì le mani sudate. Tese i muscoli per cercare di capire cosa c'era in quella voce che gli faceva venire voglia di fare un balzo di due metri per uscire. Ora era Oz a parlare. «Bene, come vede ha del lavoro da fare, qui.» Jack sentì i loro i arrestarsi. «Ehi, ma io la conosco. È di qui? Io sono Oscar Strummer.» «Oh!» C'era un che di roco in quella voce che fece sbavare Jack. «Sei Oscar Strummer? Oz?» «Esatto.» «Ah. Dunque, aspetta. Puoi spiegarmi... Cioè, ho ricevuto un messaggio dal signor Taylor, scritto T-a-i-l-o-r.» «No. T-a-y-l-o-r. Nome proprio Jack. È lui il proprietario. Io sono solo il suo amico idiota che si è offerto di dargli una mano nel tempo libero. Allora, com'è che ci conosciamo, Katherine?» «Sì, Katherine, com'è che ci conosciamo?» Jack sussurrò piano, giù nel buco. Si erano forse incontrati undici mesi prima in un sogno? «Jack Taylor ha preso il Delphi?» Ci fu una breve pausa. «Andavamo a scuola insieme. Eravate tutti e due un anno avanti. Non ti ho riconosciuto quando sono entrata, sei molto più alto di allora.» «Vuoi dire che ai tempi ero uno sfigato bassotto» rise Oz. «Sono cresciuto tardi. Ho riconosciuto i tuoi capelli appena sei entrata, ma il nome Katherine Clifford non mi diceva niente.»

Era andata a scuola con lui e Oz. Ecco perché aveva riconosciuto la voce. Si spostò, cercando di sentire meglio, e diede un calcio a un mattone, perdendosi così metà della risposta della donna. «... tornata a Portland circa sei mesi fa per aprire uno studio mio. Sì, la gente in genere ricorda i miei capelli.» Rise, e Jack iniziò a sudare copiosamente. Deglutì e cercò di calmarsi. Si erano incontrati a scuola, non nel sogno. Il suo corpo stava reagendo in quel modo perché aveva appena parlato del sogno con Oz. E anche per l'adrenalina dovuta alla caduta. Peccato che le sue fossero solo giustificazioni. Doveva uscire da quel buco. Jack si guardò intorno. I suoi occhi si erano abituati al buio e riusciva a vedere meglio. A un metro circa da lui c'erano alcuni oggetti ricoperti da lenzuola grigie. Sopra di sé udì Oz porre domande alla donna, cosa aveva fatto dopo la scuola, se aveva famiglia in zona, roba simile. Non riuscì a concentrarsi sulle risposte; ciò che sentiva era la voce di lei, dolce e roca, come fosse una piuma che gli stuzzicava le orecchie con tocchi erotici. E Oz, quel ratto, quell'affascinante ratto single, si era accaparrato tutta la sua attenzione. Jack tolse il lenzuolo dall'oggetto più vicino: una poltrona malandata di velluto. La trascinò sul mucchio di rottami, sotto la botola. Chi era quella donna? Non ricordava alcuna Katherine dai tempi della scuola. E cos'era la storia dei capelli? Lei rise ancora e stavolta l'ondata di adrenalina che lo sorprese fu dieci volte superiore a quella della caduta. Si arrampicò sulla poltrona, si aggrappò ai bordi della botola e si issò sul pavimento in alto. Scivolò di lato, si alzò in piedi e si mise a correre. Con il cuore che martellava, Jack si precipitò nel foyer dove Oz stava osservando una donna snella che gli dava le spalle. Aveva capelli magnifici, del colore delle foglie d'autunno, raccolti sul collo. Aveva un'aria familiare. Jack si fermò accanto a lei e le tese la mano. «Salve, sono Jack.» Ci volle quasi un secolo prima che si girasse. Jack la vide muoversi come al

rallentatore: collo e mento delicati, naso diritto, bocca rosea e piena, incarnato pallido. E quei fantastici capelli rossi... La conosceva eccome. Era probabilmente l'unica persona al mondo che lo avesse mai odiato.

2

«Sei Kitty Giroux?» annaspò Jack. «Ora mi chiamo Katherine Clifford» lo corresse lei. Lo fissò un attimo, poi osservò i vestiti. «Era davvero in un buco.» Jack si guardò. Era ricoperto di polvere grigia e i jeans erano strappati sul ginocchio. Si spazzolò un po' la maglia con le mani, creando una nuvoletta nell'aria. Jack tossì, deglutì, guardò un momento Kitty e cercò una frase dal suo repertorio di playboy. «Sì, adoro fare un'entrata drammatica, a effetto.» «Vedo.» La voce di lei sembrava cambiata, meno sexy di prima, forse per la vicinanza. Le sue parole risuonarono secche e tese. «Bene, signor Taylor, ho portato alcuni dei miei lavori che potrà guardare prima di parlare del Delphi.» Jack notò solo allora che indossava un tailleur di firma e che stringeva una valigetta con i suoi disegni. «Jack. Chiamami Jack, ti prego. Eravamo a scuola insieme, ricordi?» Le tese la mano per salutarla. Le dita di Kitty erano fredde. Dopo una breve stretta, ritirò la mano. «Ricordo. Hai una scrivania o un tavolo su cui io possa mostrarti i disegni?» Non sembrava più la stessa donna che aveva parlato con Oz pochi minuti prima. Invasione degli Ultracorpi, pensò Jack, poi rigettò l'idea. Nella vita reale le donne sexy e sorridenti non vengono invase da esseri distanti e freddi. Era più probabile che, undici mesi, otto ore e venti minuti dopo, Jack Taylor avesse perso l'abilità di fare cadere ai suoi piedi qualsiasi donna del pianeta. Altra alternativa, lei era ancora furiosa con lui per quanto era successo al liceo. Ma la festa di fine anno era stata una decina d'anni prima, no? Jack si ficcò la mano, raggelata dal contatto, nella tasca dei jeans. «A dire il vero, credo che prima dovrei farti fare un giro qui dentro» le disse. «Serve una buona dose di manutenzione regolare prima che iniziamo con il

restauro. Vorrei coinvolgere il più possibile il designer per vedere ciò che possiamo conservare del teatro originale. Se non scappi via urlando a gambe levate, darò per scontato che accetti il lavoro.» Un sorriso minuscolo. Eppure fu un colpo al cuore. Poteva darsi che fosse perché non toccava una donna da quasi un anno, ma quella Kitty Giroux gli pareva la donna più bella mai vista... be', almeno nella vita reale. I capelli erano setosi, di un colore caldo e fiammeggiante. Parevano godere di una vita propria. Erano sfuggiti al fermaglio che li tratteneva indietro e le si attorcigliavano intorno al volto, alle orecchie, al collo. E poi il corpo. Al liceo era stata una ragazza carina, ma ora era diventata grande. L'abito era professionale, ma le aderiva a ogni curva come volesse abbracciarla. Aveva spalle delicate e sotto il risvolto della giacca si intravedeva un collo delizioso, ricoperto di lentiggini. Seno pieno e vita stretta che si incurvava poi in due fianchi da fare sbavare. Gambe lunghe, lunghissime, da star, che terminavano in scarpe a tacchi alti. Assomiglia a Nicole Kidman, pensò Jack, solo meno eterea, più sensuale. Labbra più piene. E capelli splendidi. Provò l'impulso di metterci dentro le dita, la faccia e inalarne il profumo. Vaniglia e cannella. Se li immaginò sparsi sul suo petto nudo, mentre lui prendeva un ricciolo per volta e se lo arrotolava attorno alle dita... «La tua cartella lavori sembra pesante. La prendo io, Kitty.» La voce di Oz spezzò il suo sogno. Che gentilezza! Oz, il saggio, affascinante ed educato Oz, single, cui Jack aveva appena consigliato di cercarsi da solo le proprie fidanzate, si era offerto per primo. Lo charme di Jack era andato a farsi friggere. «Grazie.» Kitty era tutta sorrisi per Oz mentre gli porgeva la valigetta di pelle. «Ecco.» La voce di Jack tremava un po'. Si schiarì la gola e tese un braccio, come a presentare a Kitty la stanza. «Ecco. Il Delphi Theater. Costruito nel 1926, in origine come music hall. Fu convertito in cinema negli anni Trenta e come tale è stato aperto fino al 1996. Dal 1999 è stato il cinema più grande per film

vietati ai minori. Ho scandagliato l'edificio per trovare reperti del periodo, ma non ho trovato nulla.» Oz ridacchiò alla battuta. Kitty restò zitta. Jack proseguì in ogni caso, sentendosi un idiota. «Questo è l'ingresso. Si vedono i dettagli originali art déco sulle pareti e sul soffitto. Mi hanno detto che le macchie nere sono state causate da un piccolo incendio scoppiato durante una festa tra ragazzi. Avresti dovuto vedere le lattine di birra vuote che io e Oz abbiamo portato fuori di qui quando ho acquistato il posto.» Attraversò la sala spaziosa, indicando di volta in volta i dettagli a Kitty che lo seguiva. Il legno alle pareti aveva sfumature giallastre per via della luce. «Questa è la biglietteria.» ò un dito sulle piastrelle blu impolverate del banco. «Le piastrelle sono quasi intatte, solo alcune sono da sostituire. La toilette degli uomini è là in fondo, quella delle donne lì accanto. Il bagno delle donne è un vero salotto, con uno specchio enorme e lo spazio per le poltroncine. Ah, e in mezzo all'ingresso c'è la botola rotta, quella che io ho esaminato da vicino, come sai.» Jack osservò il volto di Kitty. Imibile, ed evitava il suo sguardo. Quello che pensava Oz, invece, era evidente. Il tonto stava letteralmente sbavando. Li condusse verso una serie di doppie porte in legno scuro che si aprivano su un corridoio, semi-illuminato, terminante con un'altra serie di porte. «Questo è per fermare la luce, in modo che non disturbi gli spettatori intenti a guardare un film. C'è un vestibolo simile sul davanti del cinema, ma penso che servisse a isolare l'entrata dall'aria fredda, d'inverno.» Aprì la seconda serie di porte e li introdusse nell'oscurità. «Ecco è il vero cuore del Delphi» annunciò. L'eccitazione e l'orgoglio lo fecero sorridere mentre accendeva le luci. Forse Kitty Giroux non era attratta da lui, ma da quello lo doveva essere. Lei ebbe un sobbalzo. File e file di poltrone creavano un disegno intricato simile a scaglie di un pesce

rosso di velluto. Digradavano verso il palco e un enorme schermo bianco fiancheggiato da stupefacenti pilastri dorati. Foglie d'oro, frutti d'oro, fiori d'oro, fiamme d'oro ricoprivano il muro, creando un graticcio che saliva fino al soffitto blu notte, decorato da migliaia e migliaia di stelle d'argento. Un tempio dell'illusione. Un palazzo visionario. La cosa migliore del mondo. «È strabiliante.» La voce di lei era tornata ad addolcirsi. Jack esaminò il suo volto alla ricerca dello stupore e lo trovò. Aveva le labbra socchiuse e gli occhi luminosi spalancati ad assorbire lo spettacolo. Fece un o avanti e sfiorò lo schienale in velluto di una poltrona. Poi accarezzò quella successiva. Osservandola, Jack notò la sensualità del suo tocco, vide la mano indugiare sul tessuto morbido, nel posto in cui centinaia di teste si erano posate per perdersi in fantasie incredibili. Jack immaginò quelle dita sfiorare lui, il suo volto, il corpo. Pensò al pollice che indugiava come ora. Non poté trattenersi. Le toccò il braccio all'altezza del gomito e le parlò all'orecchio. «Non ti senti come in un sogno fatto realtà?» Kitty si irrigidì. Si tirò di lato, liberando il braccio. «Certo, serve molto lavoro.» Il tono era professionale. Quelle parole spezzarono ogni illusione. Jack tornò a vedere gli strappi nel velluto, le macchie alle pareti, lo schermo squarciato. I frutti dorati pendevano dal muro, rotti. Sentì l'odore di muffa e udì i rumori dietro i pilastri che probabilmente significavano topi, se non peggio. E vide Kitty prendere nota di tutto quanto. Jack inspirò a fondo, sentendosi a un tratto stanco, molto stanco. Quel posto non era un film, era la realtà. Aveva molto lavoro da fare, ci doveva spendere un sacco di soldi, sudore e sangue per trasformarlo. E anche se Kitty Giroux era stupefacente e bella, si era sbagliato. Non era la donna che aveva sognato, era una vecchia amica dei tempi della scuola.

E come aveva detto Oz, lui era sessualmente frustrato. «Sì, un sacco di lavoro. Sei interessata allora, Kitty?» inquisì. «Preferisco essere chiamata Katherine, ora.» Aprì le porte in legno e tornò nell'ingresso, seguita a ruota da Jack e Oz. «Quindi presumo che tu voglia restaurare al meglio questo posto, scegliendo arredi e mobili adeguati a ciò che c'è già» disse. Jack annuì. Il suo evidente disinteresse per lui gli bruciava, ma non importava. Poteva essere tentato, sì, ma lei non era la donna del sogno, quindi non l'avrebbe considerata. Il restauro del Delphi, invece, lo metteva sempre di buonumore. «Voglio riportarlo alla sua gloria originale, ma con tecnologia e comfort moderni» spiegò. «Esatto. Quindi dovrò fare anche un sacco di ricerche, oltre ai disegni. Dovremo commissionare oggetti su misura, immagino. Sarà una vera sfida, ma i risultati saranno spettacolari. Cioè, se sei davvero interessato, e hai disponibilità di soldi.» «Sono più che interessato e ho i soldi.» Lei sorrise. «Bene, nel qual caso sono lieta di accettare il lavoro, signor Taylor.» «Grande!» Jack sorrise. Okay, gli dispiaceva che Kitty non fosse la donna del sogno. Inoltre non pareva interessata a lui, ma vedeva il potenziale del Delphi. Lo avrebbe aiutato e sarebbero tornati amici. Le tese la mano. «Non vedo l'ora di lavorare con te. E ti prego, chiamami Jack.» Kitty gli prese la mano e stavolta aveva la pelle più calda. Jack gliela strinse forte, assaporando il piacere della carne contro la sua. La tirò anche un po' più vicina; che male poteva fare, in fondo? Almeno il loro rapporto di lavoro sarebbe stato buono. Fu allora che Kitty, sorridendo, lo guardò direttamente negli occhi per la prima volta.

Jack si raggelò, come colpito da un fulmine. L'udito, i pensieri, il pavimento sotto i suoi piedi, tutto sparì. Il suo intero essere si concentrò su quel paio di occhi. Erano verdi. Il verde della primavera e dell'estate. Il verde della vita e delle promesse eterne. Era lei. Fu una scintilla, uno shock che gli tolse il respiro in gola e gli strinse il cuore. Gli parve di essere attraversato dalla corrente elettrica. «Jack.» La sua voce dolce cantò il suo nome, come nel sogno. L'elettricità dentro di lui si trasformò in calore. La voleva, anzi, ne aveva bisogno, con un'urgenza mai provata prima. Inspirò a fondo. Ogni atomo d'aria era profumato di lei. Ebbe un'erezione istantanea. Aveva fame, voleva divorarla, la sua pelle moriva dalla voglia di incollarsi a lei, nuda. Jack non capiva più nulla; gli parve che la mano di Kitty tremasse nella sua, ma forse era lui che la scuoteva. La guardò intensamente e vide le pupille di lei dilatarsi, gli occhi spalancati e consci di tutto. Anche lei lo desiderava. Fece un o avanti e chinò lievemente il capo. Il suo solo pensiero era baciarla, prenderla in braccio, arrotolarsela addosso. Assaggiarla, dovunque e comunque. Un altro istante, un piccolo movimento e Jack sarebbe stato in paradiso. Poi tutto svanì. Kitty ritrasse la mano e fece parecchi i indietro. «Io...» La sentì deglutire. «Devo andare.»

«Andare?» «Sì, sono... ho qualcos'altro da fare.» Si prese un labbro tra i denti e Jack sentì le ginocchia indebolirsi. «Cioè, ho un altro appuntamento di lavoro. Ma sono molto eccitata all'idea di lavorare qui, l'edificio è stupendo, e sarà... mmh...» Kitty aveva parlato in fretta, senza respirare, ma ora fece una pausa. Corrugò la fronte. «Bene. Okay, ci vediamo.» Si girò di scatto e si avviò alla porta. Jack la osservò allontanarsi, senza sapere se era la sua testa a girare o il cinema, trasformato in giostra. «Kitty? Hai scordato la cartella dei disegni.» Oz era ancora lì? L'amico di Jack rincorse la donna dei suoi sogni e le porse la valigia in cuoio. «Oh, grazie.» Lei la prese, se la strinse al seno e si girò verso Jack, che era ancora incollato al suo posto. Lui la fissò mentre lei evitò il suo sguardo. «Ti chiamo domani per iniziare, Jack. Domani. Ciao.» Si sbatté la porta alle spalle. Di nuovo padrone dei suoi movimenti, Jack corse alla porta e la spalancò. Kitty stava sparendo dietro l'angolo. «Che diavolo è successo?» chiese Oz da dietro. Jack si appoggiò allo stipite. Bella domanda. Gli sembrava di avere fatto cinquanta chilometri in bicicletta su per una collina. Con un'erezione in corso. «Due cose, Oz. La prima, ho appena incontrato la donna del sogno.» Si deterse il sudore dal volto e sistemò i jeans. «La seconda, ho provato a me stesso che posso ancora avere un'erezione.» «Kitty è la donna del sogno? Eccellente.» «Già. Eccellente.» Oz strinse gli occhi. «Non mi sembri entusiasta come dovresti essere, invece.»

«C'è un problema. Io le ho spezzato il cuore ai tempi del college. Ricordi?»

«Sono una professionista. Sono una professionista. Sono... ahi!» Kitty si storse una caviglia sulla ghiaia del parcheggio. Barcollò per qualche o fino alla Mercedes e ci si appoggiò contro. Si vide riflessa nel finestrino : era pallidissima e aveva gli occhi sbarrati. Si era convinta di poter gestire qualsiasi colpo della malasorte. Quando era entrata al Delphi e aveva visto solo quel fusto alto, biondo, con le mani grandi e un sorriso da sballo, aveva tirato un respiro di sollievo. Jack era moro e snello, non biondo e gigantesco. Poi lui le aveva detto il suo nome e lo stomaco di Kitty aveva iniziato a salirle in gola e a scenderle nelle ginocchia simultaneamente. Oscar Strummer era stato il suo miglior amico al college. Allora tutti i camli d'allarme avevano iniziato a suonare forte e chiaro. Stai calma, si era detta. Stai concentrata. Ricordati quello che ti stai giocando. Sei adulta e ciò che è successo al college non importa. Sbagliato. La voce di Jack l'aveva quasi distrutta. Il corpo si era ribellato; aveva compiuto uno sforzo gigantesco per girarsi a guardarlo. E uno sforzo anche maggiore a non sciogliersi davanti a lui, dopo. Era bello. Anche con abiti malmessi e una macchia nera sulla fronte, era incredibile. Il ragazzo che ricordava al college era diventato un uomo dal fascino devastante. Aveva gli stessi occhi neri, gli stessi capelli scuri pettinati all'indietro, la stessa pelle fresca, ma i tratti erano più forti e il mento era ombreggiato dalla barba. I suoi muscoli erano più definiti. Sembrava più alto. Non portava più l'anello del college. Ciò che invece non era cambiato per nulla era la sua energia. Si muoveva in modo rapido, fluido. Bocca e occhi erano in costante movimento di espressione. Era ipnotico come lo ricordava. Forse di più. Quando gli aveva teso la mano, aveva sollevato un sopracciglio con un'espressione irresistibile, a metà tra ingenua e sexy.

Eppure era sopravvissuta. Si era mantenuta fredda. Talmente fredda che aveva provato rispetto per se stessa. Quando lui le aveva offerto il lavoro, aveva capito di avere vinto. E poi lo aveva guardato negli occhi e aveva mandato alle ortiche tutto quanto. «Oh Dio, Dio, Dio.» Kitty diede un pugno alla capote. «In che guaio mi sono cacciata?» Quando aveva incrociato il suo sguardo, Kitty si era sentita paralizzata. Era tutto come ai tempi del college. Uno sguardo di quegli occhi neri e lei si liquefaceva, si raggelava, provava mille sensazioni senza sapere che fare. Il cuore smetteva di batterle. Non respirava più. La lingua le si incollava al palato e riusciva a dire solo una parola, la più importante per lei in quel momento. Jack. Era tornata ad avere quattordici anni, stregata da quegli occhi era successo lungo il corridoio al college, quando lui l'aveva degnata del suo primo sguardo. Ginocchia deboli, farfalle nello stomaco, mani sudate. L'aveva privata della professionalità, del controllo, del rispetto per se stessa. Kitty gemette. «Perché non è grasso? O pelato?» Calciò un sasso con le scarpe avorio, eggiando su e giù. «Perché non ha i foruncoli o roba simile?» Invece no, era bellissimo. Inoltre c'era una cosa che non poteva scordare e le faceva ancora tremare le gambe. Ciò che si erano scambiati lei e Jack Taylor meno di dieci minuti prima era più di uno sguardo da corridoio. I segnali lanciati dai loro occhi parlavano chiaro: sesso puro. Senza badare al vestito chiaro, Kitty si appoggiò a un Maggiolino giallo scassato, in preda a un'ondata di calore. Tra lei e Jack c'era più che attrazione. I loro sguardi avevano parlato di lussuria senza limiti. Le era sembrato di avere fatto sesso con Jack lì, nell'ingresso di quel cinema malandato e bellissimo. Le era parso di sentire le sue mani sul corpo, intente a darle piacere, la sua bocca calda sulle labbra. Dio, lo aveva sentito dentro di sé, pieno di vita e di ione. Lo sentiva ancora adesso. Kitty chiuse gli occhi e gettò indietro la testa. Era così

potente, gioioso, eccitante e arrapante. I vestiti le sfregavano contro la pelle come non aveva mai notato prima d'ora. Il suo corpo era un'enorme zona erogena desiderosa di essere soddisfatta. Kitty si ò una mano dietro il collo e pensò a come sarebbe stato se Jack l'avesse toccata a quel modo. A cosa avrebbe fatto se lui l'avesse baciata. Sarebbe dovuta scappare, ovvio. Era sfortunata, ma non stupida. Non si sarebbe mai sciolta in una pozza davanti a Jack Taylor, il ragazzo che aveva infranto i suoi sogni al college. L'uomo che poteva avviarle la carriera o rovinargliela con un battito di ciglia. L'uomo che rappresentava tutto, assolutamente tutto ciò che lei temeva. Kitty riaprì gli occhi. Tutta la sensualità che l'aveva pervasa si trasformò di colpo in imbarazzo totale. Aveva detto eccitata. Aveva detto mozzafiato. Aveva parlato come un'aspirante ragazza pompon. «Sono senza cervello» confessò al vento. Bene. Non c'era alternativa. Non poteva mollare quel lavoro, le serviva. E ovviamente non avrebbe potuto evitare Jack. L'unica soluzione era radunare tutte le sue riserve di professionalità e non permettere a Jack Taylor di trasformarla in un mucchio di ormoni impazziti. «Non permetterò a Taylor di trasformarmi in un mucchio di ormoni senza controllo» annunciò. «Ho ventisette anni e non permetto più a nessuno di condizionarmi.» Kitty si raddrizzò, si sistemò i capelli e inspirò a fondo. E poi si rannicchiò dietro il Maggiolino perché Jack Taylor era appena comparso da dietro l'angolo. Aveva corso dimostrando la solita agilità. Era così dannatamente bello. Perfetto in tutto, eccetto la personalità. E lei era lì, accucciata come un'oca dietro una macchina a sperare che lui non la vedesse. Kitty arrischiò una sbirciatina da dietro il Maggiolino. Jack se ne stava sul marciapiede di fronte al parcheggio e guardava intento la strada, togliendosi i

capelli dalla fronte. Kitty tornò a chinarsi. «È ridicolo» mormorò. «Devo uscire di qui.» Accucciata, trascinando le scarpe con i tacchi alti, girò intorno all'auto. Forse, restando a terra, poteva raggiungere la sua Mercedes inosservata. Raggiunse il muretto e considerò lo spazio tra questo e il paraurti. Ci si poteva infilare, ma il vestito ne avrebbe sofferto. Guardò il muro, poi il vestito. Le era costato parecchi soldi, non poteva permettersene un altro. O rovinava il vestito, o si faceva vedere da Jack. Speranzosa, sbirciò sopra il cofano del Maggiolino e fu premiata dalla vista di Jack che si allontanava. Saltò in piedi, si affrettò verso l'auto, si gettò dentro e lasciò le tracce di pneumatico sul selciato uscendo a razzo in retromarcia. Girò la macchina nella direzione opposta a quella presa da Jack. Non era la via di casa, ma decise che era meglio fare qualche chilometro in più che are accanto a lui. Kitty si concesse di rallentare solo dopo quattro isolati. Si fermò a un semaforo rosso e si guardò. Aveva fatto un buco nei collant quando si era chinata, la gonna era impolverata e una delle scarpe aveva un lungo graffio marrone davanti. Era davvero ridicolo. Un sorriso le attraversò il volto. «Sbagliato, Kitty. Non sei ancora cresciuta. E non sai ancora come gestire gli uomini.»

3

«Ambizione: possedere un cinema e fare della mia vita un film.» Kitty lesse a voce alta dall'annuario del college aperto in grembo. La foto di Jack le sorrideva dalla pagina, l'aria sicura di chi sa che conquisterà il mondo. Lui non aveva firmato il suo annuario, ovvio, ma Marie, la migliore amica di Kitty, aveva disegnato un cuore attorno alla foto di Jack e aveva aggiunto: Sposare Kitty Giroux e vivere felice per sempre. Kitty sbuffò. Almeno l'ambizione riguardante il cinema si stava realizzando. Scorse le pagine per cercare la propria foto tra i più giovani. Eccola, a braccetto con Marie, sorriso a bocca chiusa per celare l'apparecchio. I capelli le si arricciavano sulle spalle; malgrado la foto fosse in bianco e nero, un furbacchione aveva disegnato una grossa freccia che puntava verso la testa di Kitty e diceva: CAROTE! Sfiorò la foto con nostalgia. La ragazza in quella immagine non aveva l'aria sicura di chi sa che conquisterà il mondo. Anzi, pareva che il mondo avrebbe conquistato lei. E per questo aveva paura. Kitty si stese sul letto stretto con la coperta rosa e prese un altro annuario dallo scaffale. Stavolta la sua foto era tra i grandi, a colori. Si era tolta l'apparecchio ai denti, era truccata e ci aveva messo un'ora e mezzo per stirarsi i capelli. Il sorriso era perfetto e gli occhi brillavano. Aveva il mento alto che dichiarava la sua ambizione: Essere la migliore. Una persona che non avesse conosciuto Kitty nel suo ultimo anno al college avrebbe descritto la ragazza di quella foto come felice e determinata, sicura di un futuro roseo. In realtà Kitty sapeva cosa mostrava la foto: il sorriso, gli occhi, i capelli, il mento, il trucco, tutto era inteso a are un unico messaggio. Io avrò successo. Malgrado i capelli rossi, le lentiggini e gli abiti usati. Malgrado il fatto che non vedo mio padre da quando avevo tredici anni perché lui se ne è andato. Malgrado il fatto che Jack Taylor mi abbia piantata in asso per un'altra la sera della festa.

Aveva desiderato solo crescere e poter controllare la propria vita. E non aveva funzionato. Tre minuti in una stanza con Jack Taylor ed era tornata a essere la ragazzina insicura con i capelli ricci e l'apparecchio. Kitty sospirò e si stese sul letto. Quel viaggio nei ricordi non le faceva bene. Si sentiva come se non avesse mai fatto nulla dopo la scuola. Essere nella stanza in cui era cresciuta non la aiutava. Era tutto come dieci anni prima, dagli animali di pezza sul letto al poster di Madonna sul muro. Doveva andare a vivere da sola, e presto. «Kitty!» chiamò sua madre dalle scale. «Hai visite!» Bene, doveva essere sua cugina Paula con i bimbi. Proprio la pausa che le serviva. Saltò giù dal letto e scese i gradini a due a due, resa esperta da anni di pratica. Superò con un volo gli ultimi tre e atterrò sul linoleum della cucina, scivolando sui calzini. «Ehi, attenta!» Due mani le afferrarono un braccio e si trovò faccia a faccia con Jack Taylor. «Mi piacciono le donne che mi si gettano tra le braccia, ma non in termini così letterali!» «Jack!» Kitty fece un o indietro, arrossendo. «Che diavolo ci fai qui?» «Tu hai detto a Oz che tua madre viveva ancora in città, per cui ho fatto un salto per chiederle dove abitavi e lei ha detto che eri qui.» «Jack mi ha detto che è il proprietario del Delphi, Kitty. Non è una coincidenza rincontrarvi?» Kitty fulminò la madre con uno sguardo. «Ma che cosa ci fai tu qui?» chiese di nuovo a Jack. Lui parve ignorare la sua scarsa gentilezza. «Non abbiamo avuto tempo di discutere su qualche idea per il Delphi oggi, per cui pensavo che potremmo parlarne stasera a cena.» Aveva fatto la doccia, si era rasato e indossava calzoni kaki e una polo bianca che contrastava piacevolmente con la pelle abbronzata e i capelli scuri.

Era bellissimo. Rispetto alla foto del college, era mille volte meglio. Appariva sicuro di sé e la sua presenza rendeva la cucina minuscola. «Sono occupata stasera, grazie. Ho da fare.» Non gli avrebbe mai detto che viveva lì. «Perché non ci vediamo al Delphi domattina e ne parliamo là?» «Stavo per iniziare a cucinare» intervenne sua madre. «Preparare per uno in più sarà un piacere, Jack. Puoi restare a cena qui e parlare del teatro con Kitty, se vuoi.» Jack sorrise. «Grazie, signora Giroux, è molto gentile. Resto volentieri.» No. No! Kitty ebbe la visione terrificante di loro tre seduti al tavolo in cucina, sua madre catturata dal sorriso di Jack. Intenta a chiacchierare mentre lei serviva il pollo e i fagiolini. A dirgli quanto fosse bello che Kitty fosse tornata a vivere lì con lei, che aveva uno studio suo, in casa, ma che con il nuovo lavoro del Delphi si sarebbe presa di nuovo un ufficio in centro, e che si fossero ritrovati ora dopo il college. E poi, Kitty, tu non eri andata alla festa di fine anno con Jack? Il sorriso dell'uomo si sarebbe allargato e Kitty sarebbe morta di umiliazione. «No, mamma, grazie. Io e Jack abbiamo mille cose di cui discutere, ti annoieresti. È urgente?» Si girò verso Jack, che sorridendo annuì. «Sì, sono ansioso di parlarne in modo approfondito stasera.» Il modo in cui disse in modo approfondito risuonò alle orecchie sensibili di Kitty come una minaccia che riguardava direttamente lei. Katherine Giroux Clifford, datti una calmata. La tua cotta del college si è trasformata in un caso di lussuria sfrenata, ma tu stai lavorando per quest'uomo. E non ti devi fidare di lui. «Quindi usciamo a cena o restiamo a gustarci la cucina di tua madre?» Non ci dovette pensare due volte. Uscire con Jack Taylor era un'idea pessima, ma stare a casa e mettere alla prova la loquacità di sua madre era anche peggio. Per non parlare del rischio che lui vedesse il resto della casa, davvero modesta. «Mi metto le scarpe.»

Sua madre la seguì. «È molto affascinante! È un appuntamento, questo?» Kitty infilò le scarpe e prese la borsetta. «No, mamma, non lo è. Vuole parlare del teatro. Non tornerò tardi.» «Oh, torna pure quando vuoi. Non sei uscita con nessuno da quando sei a Portland, divertiti un po'.» Chiuse gli occhi per un attimo, inspirò alla ricerca di coraggio e baciò sua madre. «Ciao, mamma.» ò davanti a Jack in cucina e aprì la porta. «Andiamo.» Fuori, la sua decappottabile era parcheggiata di fianco al catorcio giapponese della madre. «Bella» commentò Jack. «È tua?» «La Mercedes sì.» Per ora. Carezzò con lo sguardo le linee sinuose dell'auto e ricordò quando era arrivata a Portland sei mesi prima, piena di ottimismo. La ragazzina povera senza padre, tornata a casa su un'auto costosa e con abiti firmati. Jack la condusse verso la sua auto, rossa e con quattro ruote motrici, ultimo modello. La sua famiglia era sempre stata ricca; suo padre era architetto e vivevano in una casa stupenda a Peak's Island. Nel mondo di Jack, un'auto nuova era la normalità. «Ti piace il pesce?» le chiese facendola salire. «Sono del Maine, tu che ne dici?» Si allacciò la cintura e guardò diritto davanti a sé. «Bene.» Jack sedette alla guida e accese il motore. «È davvero bello rivederti, Kitty.» Bugiardo. Non sapeva cosa stesse combinando, ma se ne stava facendo un'idea. Non la stava portando a una riunione di ex compagni di scuola. «Ora preferisco essere chiamata Katherine.» Lui la guardò. «Sei diventata grande in tutti i sensi, eh?» La sua voce, gli occhi su di lei scatenarono un'altra ondata di calore. Kitty

incrociò le braccia per nascondere i capezzoli, subito all'erta. Strinse forte le cosce. «Sono ati dieci anni, povera me se non fossi cresciuta.» «Sì, ma devo dire che hai fatto davvero un bel lavoro. Dimmi, che hai fatto nella vita in questi dieci anni, Katherine, a parte crescere in modo così spettacolare?» «Ho lavorato per uno studio di design a Los Angeles. Sono tornata nel Maine per aprirne uno mio.» «Davvero? Los Angeles è un bel posto, ci ho vissuto da piccolo, prima che i miei venissero qui.» Lo so, pensò Kitty, guardando avanti. Sapeva anche che uno dei motivi per cui lei si era trasferita a Los Angeles era che Jack proveniva da là, fatto tanto patetico da ricordare che lo accantonò subito. Anche se non così in fretta da impedirle di chiedersi quante delle decisioni importanti da lei prese in ato fossero state influenzate da Jack Taylor. Il suo matrimonio, per esempio. E il divorzio. Perché Sam era come Jack, solo più affidabile, no? Affascinante, ricco, bello. Aveva persino lavorato nel campo del cinema, come legale. L'unica differenza era in come si sentiva lei al suo fianco. Certo, non aveva mai dovuto stringere forte le cosce in presenza di Sam. Non si era mai sentita eccitata e sventata, quasi sul punto di cadere da un precipizio pericoloso ma delizioso. Non come si sentiva ora con Jack. Quelle sensazioni le aveva provate sempre solo con Jack. Ma l'affidabile Sam l'aveva comunque lasciata per un'altra donna. Non era stata alla sua altezza, come era successo con Jack. O con suo padre, che l'aveva abbandonata. «Allora ti dovrei anche chiamare signora Clifford?» Il suo sorriso, sebbene Kitty stesse facendo di tutto per non notarlo, era mozzafiato. Aveva visto giusto, stava flirtando con lei. Non era sorprendente. Come aveva detto Jack, lei era cresciuta. Sapeva di essere piuttosto carina, ora. Era abituata agli uomini che flirtavano con lei. Perché mai Jack Taylor, esperto in materia, avrebbe dovuto fare eccezione?

E poi c'era stato quel momento tra di loro, nel pomeriggio. Kitty era cotta di Jack dal college, l'attrazione provata non l'aveva sorpresa. L'intensità invece sì. Jack aveva senz'altro notato il modo in cui aveva reagito e l'aveva già catalogata come una conquista facile. «Dai, soddisfa la mia curiosità. Sei sposata?» «Sono divorziata.» Lo sentì espirare. «Bene. Cioè, bene niente, perché il divorzio è una faccenda triste. Ma bene per me, perché mi sarebbe dispiaciuto se ci fosse stato un marito.» Kitty quasi rise. Sembrava davvero sollevato. Ovviamente, era tutta scena, faceva parte del personaggio Jack Taylor, così affascinante. Strinse più forte le braccia al petto. È questo il pericolo, è tutto fascino e niente cuore, si ammonì. «Jack, non capisco cosa abbia a che vedere il mio stato civile con il lavoro. Sono uscita con te per parlare del Delphi, punto. Smetti di flirtare con me.» La pausa fu tanto lunga che Kitty si arrischiò a girarsi per vedere la faccia di Jack per intero. Stava fissando la strada e pareva intento a mordersi un labbro. «Mi dispiace se ti ho messa a disagio, Katherine.» Era la seconda volta in meno di cinque minuti che Jack riusciva a sembrare sincero. «So che dopo quella festa di fine anno al college non siamo stati proprio amici, ma spero che la faccenda sia superata, ora» continuò lui. «La penso allo stesso modo» replicò lei. «È stato uno shock per me rivederti.» «Dillo a me.» «Ma ne è ata di acqua sotto i ponti, Katherine. Non siamo più ragazzini, e

credo di avere sviluppato un minimo di tatto e sensibilità.» Non erano scuse, quelle. Non che lei ne avesse mai volute da Jack Taylor. Da lui aveva solo desiderato essere amata e, visto che non era possibile, meglio darsi una mossa e guardare direttamente in faccia la realtà. «Hai ragione, è ato tanto tempo e non siamo più due ragazzini.» «Se vuoi chiedimi di stare zitto, ma mi spiace per il tuo divorzio. Spero che non sia stato troppo brutto.» «No, è stato molto civile; Sam è un uomo gradevole e siamo ancora amici.» «Credo che sia meglio così, in fondo.» In effetti era stato facile. Quando Sam era tornato dalla prima moglie, a Kitty non si era spezzato il cuore, forse perché era già rotto da tempo. Ciò che l'aveva ferita era stato il fallimento. Aveva rifiutato gli alimenti, malgrado le insistenze di Sam, primo perché voleva essere indipendente e poi perché i pagamenti mensili le avrebbero ricordato che non era riuscita a fare funzionare nemmeno una relazione tranquilla e serena. «Tu ti sei sposato?» Sapeva già la risposta. «Mai avuta la tentazione, ero troppo occupato a divertirmi» rispose Jack. «Ci avrei scommesso.» Guardò di nuovo Jack. Il suo profilo era da urlo, come sempre. Naso diritto, zigomi perfetti. Sembrava intento a pensare ad altro e non aveva un'aria così felice. Per la prima volta Kitty si ritrovò a pensare che Jack Taylor forse era cresciuto da quella serata orribile, trasformandosi in una persona migliore. Lui scosse il capo e le sorrise, roba da infarto. «Sono eccitato all'idea di lavorare con te, Katherine. Il Delphi è molto importante per me, l'ho desiderato fin da piccolo. È la mia grande occasione.» «È sempre piaciuto anche a me» ammise Kitty.

«È spettacolare.» Le sorrise di nuovo. Ictus. «Non eri una patita di film al college.» «No, sono un tipo più realista. Sono attratta dal Delphi come edificio, non perché è un cinema. È un esempio perfetto di art déco.» «L'hai poi visto Casablanca?» Kitty si trovò a sorridere. «No, te l'ho detto dieci anni fa, Jack. È incredibile che te lo ricordi.» «Come potrei scordare che non hai visto Casablanca? Non è normale. E Via col vento?» «No.» «American Beauty? Apocalypse Now? Forrest Gump?» «No.» «Sei sicura di vivere nel Ventunesimo secolo?» «Sono solo film, Jack.» Jack si finse inorridito. «Un giorno si accorgerà dell'eresia di questa frase, signora Clifford.» Si fermarono davanti al ristorante. Jack prese un raccoglitore dal sedile posteriore. «Ho delle foto e alcune note con le mie idee per il Delphi. Ho fatto anche degli schizzi anche se, visto che le mie abilità sono quelle di un bimbo di due anni, ti faranno ridere.» La guardò e Kitty gli sorrise. Il cuore le vacillò in petto, ma stavolta non si spaventò. Era più rilassata. Jack le aprì la porta del ristorante raffinato: tovaglie in lino, fiori all'entrata. «Ho un abbigliamento adeguato?» chiese Kitty, guardandosi i jeans e la maglietta. Se avesse saputo dove andavano, si sarebbe messa in tiro. Aveva un'immagine da salvaguardare.

«Sei perfetta.» Kitty non capì se stava flirtando o no, ma non ebbe tempo di chiederlo. Una bella donna bionda si avvicinò e sorrise raggiante. Troppo. «Ciao, Jack!» «Ciao, Anna. Un tavolo per due?» La donna li condusse a un tavolo d'angolo. Studiarono i menu, ordinarono e sorseggiarono il vino bianco scelto da Jack. Poi lui spostò il vaso di fiori e i bicchieri e tirò fuori il faldone di fogli e schizzi. «Il Delphi è più di un edificio per me» iniziò. Kitty vide il suo volto illuminarsi e si avvicinò. «È un... tempio di visioni, un posto dove tutto può accadere. Dove ogni desiderio può diventare realtà, anche se solo per poco.» C'era emozione nella sua voce e Kitty sapeva per esperienza professionale che quando un cliente esprimeva subito le proprie emozioni, andava ascoltato. Era la chiave per andare oltre la scelta delle stoffe e dei colori e capire ciò che voleva davvero. «È questo che ti piace del cinema?» gli chiese, ignorando il fatto che il suo interesse andava oltre il professionale. E che il cuore le era schizzato in petto. «Sì, le possibilità, i sogni fatti realtà. È sempre stato magico, per me. Qualsiasi cosa ti stia succedendo nella vita, quando sei al cinema è tutto okay. Il peggio che ti possa succedere è che non ti piaccia il film. È una fuga totale dalla realtà.» «Tu vuoi che il Delphi si trasformi in un sogno che diventa realtà, un luogo oltre i confini della quotidianità, dove la gente si possa dimenticare di se stessa.» Jack annuì.«Esatto, proprio così. Guarda.» Estrasse un fascio di foto e indicò le caratteristiche che voleva tenere e quelle che voleva cambiare, seguendo gli appunti. Aveva pensato a tutto, dalla luce alle macchine per fare i popcorn. Parlò sempre con l'energia e la vitalità che lo caratterizzavano. Arrivarono i loro piatti. Kitty staccò un pezzo di pesce grigliato, ma non lo

assaggiò. Era troppo eccitata, persa a metà tra Jack e la sua descrizione. Immaginò il vasto spazio elegante del cinema. «Il soffitto dovrà essere intonacato di nuovo e messo a norma» disse lei. «Ma fotograferemo le stelle in modo da poterle riprodurre esattamente. Dobbiamo tenerle perché...» «Fanno parte dell'illusione, sì. Cosa emo, vernice argentata?» «Fogli d'argento. Vero argento. Saranno molto più belle. Mi sa che anche ora sono in argento vero.» «Eccellente, eccellente. E il...?» Jack disegnò un arco con le mani. «L'arco di proscenio?» «Esatto. Cosa ne faremo, secondo te?» Kitty mise da parte il piatto, impaziente, e si spostò con la sedia di fianco a Jack. Prese una matita dalla borsa e copiò una delle foto sul retro di un foglio. «Ora è così» disse, disegnando rapidamente. «Mi sembra che manchi un pezzo in alto.» «Mi hanno detto che è caduto negli anni Ottanta e l'hanno rimpiazzato con quel nastro. Non so come fosse l'originale.» «Okay, ma immagino che il motivo di foglie andasse oltre. Potremmo fare altre foglie stilizzate e nasconderci dentro le luci per illuminare il soffitto.» Aggiungeva le idee allo schizzo mentre parlava. «Il tutto somiglia a un tempio rivisto in art déco.» Jack sollevò gli occhi dallo schizzo e Kitty si rese conto d'un tratto quanto fossero vicini. Le loro spalle si sfioravano, le dita di lui sul disegno emanavano calore. «Sì, lo vedi. Vedi ciò che voglio» commentò lui. Kitty fissò la sua bocca, le labbra generose, il sorriso ingannatore. Guardò altrove.

Lui sollevò la mano e le prese il mento, facendole sollevare il volto per guardarlo. «Mi capisci?» Se lo capiva? Eccome, e non riusciva a guardare nient'altro. I suoi occhi erano scuri e caldi, e sembravano scrutare dentro di lei. La breve distanza tra di loro si dissolse, lasciandoli uniti come mai. Kitty inspirò a fondo. L'aria le rinfrescò il corpo ardente, ma aveva l'odore di Jack, della sua colonia al sandalo, del vino che avevano appena bevuto. Odore della sua pelle, che lei ricordava bene. Tutto si mischiò nella sua mente confusa. Gli occhi scuri di Jack, incantatori, la intrigarono, e lei socchiuse le labbra, pronta a essere baciata. Le pareva di sentire le mani di lui tracciarle un sentiero di fuoco sul corpo per infilarsi poi tra le sue gambe. Jack le sfiorò la bocca socchiusa con il pollice e Kitty, in trance, mosse la lingua per sentire il sapore della sua pelle. Salata, calda, maschile. Jack emise un suono di gola, poi le infilò il pollice in bocca. Oh, Dio, quello era Jack, dentro di lei, e la sconvolgeva anche solo con quel dito. Strinse le labbra e chiuse gli occhi, persa nel piacere, quasi stesse assaporando un frutto goloso. «Kitty» disse Jack, la voce arrochita. «Mi sento così da quando ti ho rivista. Non posso credere che sia davvero tu.» Kitty sentì l'altra mano di lui sfiorarle i capelli ai lati del volto, metterle un ricciolo dietro l'orecchio. Aprì gli occhi e lo scoprì intento a fissarla. Era una sensazione troppo intensa. Le sembrava di avere bevuto una bottiglia di vino intera. Le girava la testa, il corpo le doleva, non sapeva bene che cosa pensare. Kitty lasciò andare il dito di Jack, si ritrasse e si alzò. «Scusa un attimo, devo andare in bagno.» Non riconosceva neppure la propria voce. Con le gambe molli, annebbiata, si avviò verso i bagni. Scese la scala stretta e si appoggiò al muro prima di entrare, per riprendere fiato. Aveva senso tutto quello? Aveva appena preso in bocca il

pollice di un uomo e le sembrava di esserci andata a letto, a meno di un'ora dal loro primo appuntamento, che non era nemmeno un vero appuntamento. Non era stata lei a dirgli di smetterla di flirtare? Una spiegazione c'era, però, e semplice: lei voleva Jack Taylor con un'intensità che declassava la sua cotta da adolescente a lieve infatuazione. No, no. Era una pessima idea. Jack Taylor era un flirt. Jack Taylor era un giocatore, lo era sempre stato. Ma è cambiato, suggerì una vocina nella sua testa. Non è un flirt, c'è della ione sotto il fascino. Gli importa davvero del Delphi, quindi è capace di apionarsi a qualcosa, di amarla. «L'ultima cosa che mi serve ora è un altro uomo sbagliato.» Le sue parole misero a tacere la vocina. Non del tutto. Kitty scosse il capo, inspirò a fondo e tornò da Jack. Quando lo raggiunse, lui si alzò in piedi. Lei prese la sedia e si accomodò, ma Jack le prese una mano. La sua pelle calda quasi la bruciò. «Kitty, usciamo. Vieni a casa con me» le disse. Fece scorrere il pollice, quello che gli aveva succhiato, sul dorso della sua mano. Lei prese il bicchiere d'acqua con l'altra, ma non ci trovò dentro alcuna risposta. «Perché?» gli chiese, la bocca incredibilmente asciutta. Jack sorrise. «Penso sia ovvio, no?» Sì, il desiderio tra di loro era sottile quanto un bulldozer. Kitty deglutì di nuovo. Non aveva mai desiderato nulla quanto andare a casa con Jack Taylor. Eccetto forse dieci anni prima, quando aveva desiderato che lui la portasse al ballo di fine anno. «Ciao, Jack!» La voce femminile la fece sobbalzare e distolse lo sguardo da quello di lui. Era una brunetta con la gonna nera e la camicia bianca da cameriera.

«Ciao, Brigid» la salutò Jack. Riportò subito l'attenzione su Kitty e la ragazza se ne andò. Ma la breve interruzione era bastata a ricomporre il puzzle nella testa di Kitty. «Sei uscito con quella donna? E anche con la proprietaria? Le conosci, eh?» Lui annuì. «Sì, ma non ci esco più, ora.» «E le hai portate a casa tua entrambe, Jack?» Lui aggrottò la fronte e si morsicò il labbro. «Ha importanza?» chiese infine. Kitty staccò la mano. «Ci sei andato a letto?» Jack guardò la tovaglia, poi lei, poi ancora la tovaglia. Infine fissò Kitty. «Non insieme, però.» Kitty si alzò. «Vorrei andarmene, Jack.» Lui la seguì. «Kitty, mi dispiace.» Lei non lo aspettò, infilò la porta e uscì nella notte fredda. L'aria però non le placò i bollenti spiriti. Camminò avanti e indietro sul marciapiedi mentre lo aspettava. Senz'altro aveva ripreso i suoi fogli, era andato a pagare, aveva augurato la buonanotte alla cara Brigid e anche ad Anna, ridendo e flirtando. Forse aveva preso un appuntamento per l'indomani. Quando finalmente uscì, le sfiorò il gomito. «Mi spiace per quanto è successo» le disse. «Certo. È stato bello conoscere le tue fidanzate.» Kitty non smise di camminare, nervosa. Lui tenne il o. «Kitty. Katherine. È finita con Anna e Brigid, è finita da tempo.» «Da tempo. Giorni o ore?» Si fermò e lo fulminò con lo sguardo. «Mi hai portata in quel ristorante per qualche strano giochino, per fare effetto sulle tue donne? Non hai fatto colpo, sai, Jack? Per nulla.»

«No, giuro.» La prese per le spalle e la immobilizzò, guardandola. «Non ci ho nemmeno pensato.» «Ciao, Jack.» La voce risuonò sul marciapiedi e Kitty vide una donna rossa venire verso di loro, sottobraccio a un tipo grosso quanto un giocatore di football. La donna sorrise e Kitty vide il suo compagno guardare Jack, poi la rossa, con un evidente moto di gelosia. «Ciao, Treena» rispose Jack. «Un'altra delle tue fidanzate, Jack?» commentò Kitty a denti stretti. Jack lasciò andare le spalle di Kitty. Risposta più che sufficiente. Era così. «Portami a casa» disse lei. Jack la seguì fino all'auto. Una poteva essere una coincidenza. Due poteva essere la sfortuna. Ma incontrare tre fidanzate di Jack in una sera soltanto era un messaggio inequivocabile da parte di quello straccio di angelo custode che tentava di prendersi cura di lei.

4

Questa sì che è frustrazione sessuale, pensò Jack mentre si avvicinava al Delphi. Non era riuscito a chiudere occhio dopo la serata con Kitty. Ci aveva provato, sperando di fare di nuovo quel sogno. Niente. Ricordava di avere letto in ato un articolo sulla possibilità di controllare il contenuto dei sogni, una cosa legata al subconscio. Bisognava rilassarsi e dirigere i pensieri verso ciò che si desiderava sognare. Lui aveva fallito. Rilassarsi e pensare a Kitty si escludevano a vicenda. Ogni volta che pensava a lei, il corpo lo induceva a immaginare le cose turpi che desiderava fare con lei. Aveva trascorso la notte a rigirarsi nel letto, focalizzandosi su visioni di camicette sbottonate e jeans strappati. Ognuna di quelle visioni finiva con la doccia fredda delle parole di lei: «Non hai fatto colpo, sai Jack? Per nulla». Per cui quel pomeriggio si sentiva iperattivo, ipereccitato e ipersfigato. Più si avvicinava al Delphi, più sentiva la testa pesante e i muscoli tesi. Andò verso l'enorme porta principale e vide che era accostata. La spalancò ed entrò. Nella hall c'era Oz, con la sua cassetta degli attrezzi e l'aria soddisfatta. «Perché sembri così felice?» sbottò Jack. Oz ignorò il tono aspro. «Ho sistemato la botola, così non ci cadrai più dentro, e ti stavo aspettando per sapere com'è andata ieri sera con la tua donna dei sogni.» «La donna dei miei sogni mi odia.» «Non mi sorprende. Odio e amore, in fondo, sono la stessa emozione, di base.» «Chi ha parlato di amore? Mi serve solo che smetta di odiarmi finché me la porto a letto.» Oz si carezzò il pizzetto biondo, pensoso. «Da quanto tempo sono felicemente sposati i tuoi?»

«Trent'anni. Abbiamo festeggiato il mese scorso, c'eri anche tu, ricordi?» «Non vuoi ciò che hanno loro?» «Sì. No. Forse.» Jack scosse il capo. «Sono così arrapato che non riesco a pensare. Avresti dovuto vedere Kitty sulla mia auto mentre la riaccompagnavo a casa. Se avesse avuto un coltello, oggi camminerei in modo strano.» Diede un calcio al muro vicino. «Che cosa è successo?» «Abbiamo incontrato Anna.» «Ah...» «E Brigid. E Treena.» «Finalmente stai scoprendo il peso del peccato.» Oz si sfregò le mani. «Penso che mi divertirò.» «Non è divertente, Oz.» «Su, lo sapevi che non sarebbe stato facile. L'hai mollata per un'altra la sera del ballo. È grave.» «È stato tanto tempo fa. E non ho baciato Melissa Beauchamp, Melissa Beauchamp ha baciato me. E poi tu non eri al ballo, eri a una qualche gara per geni.» «Però ricordo che era la notizia del giorno il lunedì a scuola. Ero arrivato da meno di cinque minuti quando tre persone diverse mi riferirono che il mio miglior amico aveva portato al ballo Kitty Giroux e poi aveva baciato un'altra ragazza sulla pista davanti a lei. Ti ho dato dell'irresponsabile, ricordi?» Jack roteò gli occhi. «Come potrei scordarlo?» «Ammettilo, Jack, il ato è tornato a perseguitarti, e lei è davvero magnifica.» «Chiudi il becco, Oz.» «Me lo hai detto anche dopo la sera del ballo. Mi dici sempre di tacere quando

sai che ho ragione.» Jack adorava Oz, erano amici fin da piccoli. Ma a volte aveva l'impressione che ognuno di loro si adeguasse a dei cliché. Jack il popolare, Oz il cervellone. Jack il godurioso, Oz il responsabile. E di solito Oz aveva ragione. Di tanto in tanto, però, Jack desiderava che Oz la smettesse di fungergli da coscienza e gli permettesse di far emergere la propria. E in ogni caso che male c'era nel volere stare bene invece che male? Divertirsi un po' invece di farsi soffocare dagli obblighi? Okay, forse era stato irresponsabile in ato, aveva evitato di impegnarsi con le donne. Il che non significava che fosse un maiale. Non significava che non potesse impegnarsi, se voleva. Prima o poi. Se voleva... sapeva essere un bravo ragazzo. Kitty non pensa che tu sia un bravo ragazzo, gli disse una vocina dentro. La accantonò. «Hai torto, Oz. È stato tanto tempo fa e di certo non avrei dovuto farlo a Kitty. Non volevo che diventasse di dominio pubblico e ho cercato di scusarmi. Comunque non è stata questa gran cosa. Guarda Kitty, è una donna di successo, ha un'auto lussuosa, è bella. È chiaro che non le ho rovinato la vita con quella stupidaggine.» Oz piegò le braccia e scosse il capo. «Sono sempre stupito dalla tua capacità di negare l'evidenza, Jack.» «Buongiorno. Vi interrompo forse?» La sua voce. Jack si immobilizzò. Quanto gli era mancata quella voce la notte prima, nelle ore insonni! «Ciao Kitty.» Oz, non colpito dalla paralisi del desiderio, le si avvicinò. Era ferma sulla porta e indossava una gonna stretta marrone che evidenziava la sua vita sottile e i fianchi, e una giacca di sartoria. Era impeccabile e sensuale.

«Ciao, Oz. Ciao, Jack.» «Ciao, Katherine» riuscì a dire lui, raggiungendoli vicino alla porta. Quando le fu accanto, notò che si era messa il rossetto, un colore rosa scuro che rendeva le sue labbra follemente attraenti. Io ho toccato quelle labbra, pensò, e la pelle gli si scaldò di qualche grado. «Ci vediamo, Oz» disse poi. «Cosa? Ah, sì.» Oz raccolse la cassetta degli attrezzi. «Devo andare a fare dei lavoretti qui intorno. A dopo, Kitty.» Lei gli sorrise mentre lasciava la hall. Quando si girò verso Jack, il sorriso era svanito. «Sono venuta per stabilire un paio di cose. Sono molto interessata al Delphi e ci voglio lavorare. Non vorrei che il nostro rapporto professionale fosse sciupato dal contrattempo...» Il suo tono da lavoro vacillò, ma fu lesta a recuperare. «Di ieri sera. Per cui ti ho portato alcuni schizzi che ho buttato giù basandomi sulle idee che mi hai esposto.» Gli tese una cartella in plastica che Jack prese. «Grazie.» «Credo che lavoreremo bene insieme se evitiamo che il rapporto diventi personale. Se la pensi in altro modo, capirò. Vorrei però che dessi un'occhiata ai miei schizzi prima di chiamare un altro designer.» Chiamare un altro designer? L'unica cosa cui riusciva a pensare era fare l'amore con Kitty, a letto, contro un muro, sul tavolo in cucina, sul palco... «Mmh, bene. Li guarderò, grazie.» «Bene. Mi farò viva io, allora. Ciao.» E se ne andò, lasciandosi alle spalle una scia di profumo alla vaniglia, una cartella di plastica e un uomo affamato.

La frustrazione sessuale gli stava spappolando il cervello. Doveva essere per

quello che Jack il giorno dopo se ne stava sul marciapiedi del Delphi a chiamare Kitty al telefono. Per la quarta volta di fila. Lei per la quarta volta non rispose. Si inserì la voce della ragazza che aiutava Kitty. «Pronto? La signora Clifford non c'è, vuole lasciare un messaggio?» «Salve Linda, sono di nuovo Jack Taylor.» «Salve, Jack.» La voce di Linda si fece intima. «Mi chiedevo se hai idea di quando la signora Clifford erà da lì.» «Non so leggerle nella mente. Di solito mi chiama di pomeriggio per sapere quali messaggi ha ricevuto. Dimmi, Jack, sei sexy come promette la tua voce?» Affamato di sesso, piuttosto. Era stato peggio in quegli ultimi tre giorni che negli undici mesi di castità. «Non saprei, Linda. Mi rileggi i messaggi che ho già lasciato?» Lei ridacchiò. «Le hai chiesto di richiamarti alle undici di mattina. All'una e mezzo hai controllato che avesse ricevuto il messaggio. Alle due e un quarto hai detto che stavi andando al teatro e ti poteva trovare sul cellulare. Alle due e venticinque hai chiamato per lasciare il tuo numero in caso non lo avesse. Ora sono le tre e quarantasette. Credo che voglia fare il gioco duro.» «Okay, le lascio un altro messaggio. Puoi dirle che ho alcune cose importanti da discutere con lei sul Delphi e dovrebbe venire qui al più presto?» «Certo, Jack. Senti, se non si presenta, io esco dal lavoro alle sette e vado sempre da Gritty's a farmi una birra. Ci verresti a conoscermi?» «Sono tentato, ma credo di no, Linda.» Si fermò e guardò il telefono un istante. Perché stava flirtando con Linda? Non gli interessava. La forza dell'abitudine. Doveva smetterla. «Sai dove trovarmi» stava dicendo Linda quando riprese ad ascoltare. «Ciao, per ora.»

Jack chiuse la comunicazione e si appoggiò al muro. Kitty lo stava evitando, non c'era altra spiegazione al telefono scollegato, ai messaggi inevasi. Lui che altro poteva fare? Non poteva cambiare il ato, ma era certo di riuscire a convincere Kitty a non odiarlo, se voleva dargliene la possibilità. Il suo fascino non era arrugginito, Linda ne era la prova. L'aspetto era lo stesso, e Kitty era attratta da lui, prova ne erano i momenti magici e intensi al ristorante. Momenti che avevano dimostrato un'altra cosa, che Jack Taylor non riusciva a chiudere occhio senza la visione soave di Kitty. Che Jack Taylor era ossessionato da quella donna come da nessun'altra. E che Jack Taylor non sapeva cosa farci. Si staccò dal muro ed entrò al Delphi. La porta a soffietto del bagno degli uomini aveva bisogno di un po' d'olio, notò con aria assente mentre si lavava le mani. Si guardò nello specchio sporco di polvere e vide le ombre nere sotto gli occhi. La causa era la nuova notte insonne, malgrado il giorno prima se ne fosse andato subito in palestra a pedalare come un matto e a sollevare pesi, dopo avere salutato Kitty. Sebbene il suo corpo fosse esausto, la mente, gli ormoni o il pene, dovunque risiedesse la sua libido, non lo avevano lasciato riposare. E ora lei non voleva parlargli, e lui non sapeva che cosa fare. Qualche idea avrebbe dovuto averla, non poteva avere condiviso l'intimità con tante donne senza avere appreso nulla. Ma Kitty Giroux Clifford pareva determinata a pensare il peggio di lui. Poteva tornare a casa di sua madre e chiederle dove abitava, ma la sera prima gli era sembrato che Kitty fosse seccata dell'intromissione nella sua privacy. E se pure la signora Giroux gli avesse dato l'indirizzo di Kitty e lui si fosse presentato a casa sua, che cosa avrebbe fatto? Doveva guadagnare la sua fiducia. Aveva incontrato diverse donne sospettose in vita sua, e di solito le aveva fatte ridere, facendo abbassare loro la guardia. Ma Kitty non aveva riso una volta davanti a lui. Lo considerava un maiale. «Ah!» Strinse i pugni e si precipitò fuori dal bagno, su per le scale, nell'ufficio.

La stanza era senza finestre, telefono o computer. La scrivania traballante era coperta dai disegni di Kitty. Jack sedette e li guardò, tetro. Dopo alcuni minuti di broncio, fu attratto da uno dei fogli. Lo sollevò e lo guardò da vicino. Era un dettaglio dello stand delle concessioni, disegnato con le piastrelle mancanti sostituite, il banco restaurato in acciaio inossidabile e un'illuminazione chic e minimalista al posto della lampadina appesa ora. Kitty aveva catturato i dettagli di ciò che esisteva già e aggiunto qualcosa di moderno, pulito e fresco. Era esattamente ciò che voleva lui, ciò che avrebbe disegnato se ne fosse stato capace. Tutti quei disegni tramutavano in realtà le sue fantasie. Prese un'altra pagina, un'altra ancora, e la sua sensazione si rafforzò. Erano i suoi sogni resi possibili. Quella donna era incredibile, era stato fortunato a trovarla. O forse era stato sfortunato. Valeva la pena soffrire per l'incredibile frustrazione di non poterla toccare, pur di vedere avverati i propri sogni riguardo al Delphi? Forse, o forse no. Perché ora, seguendo con gli occhi le linee e le curve della matita di Kitty, iniziava a vedere le curve di lei. Le linee del palco, lunghe ed eleganti come le sue gambe. I frutti dorati sulle pareti del cinema, tondi come i suoi seni. Ogni particolare del Delphi, disegnato da Kitty, era diventato lei. La immaginò intenta a disegnare, gli occhi verdi stretti per la concentrazione, i capelli tirati indietro, l'estremità della matita in bocca. Come... Nel suo cervello, la matita divenne il suo pollice tra le labbra di Kitty. Sentiva ancora il tocco esplorativo della sua lingua sulla pelle, i denti lisci, le labbra morbide. Jack gemette e posò la testa sulla pila di schizzi. Doveva fare qualcosa, non era salutare per un uomo adulto girare in un perenne stato di eccitazione. Okay, aveva provato l'approccio sfoderando il suo fascino. Ora avrebbe provato a essere professionale. Era quello che lei aveva detto di volere, forse avrebbe funzionato. Dopo tutto Jack era molto abile nel procacciarsi ragazze e non aveva mai escluso alcun tipo di approccio. Da quando a quattordici anni si era reso conto che quelle noiose creature che aveva ignorato per anni erano diventate molto affascinanti, aveva parlato, riso, toccato, esplorato, ed era diventato

piuttosto bravo a farlo. Prima o poi avrebbe scoperto il trucco per portarsi a letto Kitty. Chiuse gli occhi e sospirò. Era esausto. Per la sua salute fisica, avrebbe fatto bene a scoprirlo presto.

«Ti desidero più di quanto abbia mai desiderato niente e nessuno.» Adesso riusciva a vederla bene, e stavolta sapeva che si trattava solamente di un sogno. I capelli rossi di Kitty erano sparsi sul cuscino, gli occhi verdi gli sorridevano. Jack sentiva il soffice peso dei suoi seni tra le mani mentre lei gli giaceva accanto, una gamba avvinghiata alle sue. Aveva le labbra umide per i suoi baci, il suo sapore sulla lingua. La mano di Kitty si avvolse attorno alla sua erezione. Jack sapeva di avere atteso a lungo per quello e lo desiderava all'inverosimile. La carne gli doleva per il desiderio e l'attesa. Allora lei lo guidò dentro di sé, lo circondò con il suo calore. Stretta, carezzevole, dolce. Si portò la mano alla bocca e lui seguì con il dito il suo sorriso, incapace di distogliere lo sguardo dal verde dei suoi occhi. È così che deve essere, pensò, e iniziò a muoversi dentro di lei. Gli prese la mano e si portò le dita alle labbra, prendendogliele poi in bocca come aveva fatto lei con il suo pollice. Era tutto perfetto ed eccitante. Fu allora che udì aprirsi la porta.

Jack si mise a sedere di scatto. Era alla scrivania, nell'ufficio del cinema. Lo schizzo in cima agli altri era stropicciato dove aveva posato il capo mentre dormiva. E sognava. Si ò una mano tra i capelli e scosse la testa per chiarirsi le idee. Niente, riusciva solo a vedere Kitty stesa accanto a lui, gli occhi negli occhi mentre facevano l'amore. Aveva un'erezione da manuale in corso e... aveva sentito una porta aprirsi. Per questo si era svegliato.

Jack saltò in piedi. Era Kitty, doveva essere lei. A metà corridoio, fece una pausa. Come aveva deciso di comportarsi con lei? In modo distante e professionale? Era possibile essere distanti e professionali con un'erezione del genere? Jack fece spallucce e si diresse verso le scale. Ora lo avrebbe scoperto.

La porta esterna del Delphi si richiuse alle sue spalle e Kitty entrò attraverso la porta interna, aperta, nella hall, cercando di non dare l'idea di una donna la cui carriera correva sul filo del rasoio. A voler essere onesta, le preoccupazioni riguardanti la sua carriera rappresentavano solo metà dei motivi per cui si sentiva lo stomaco di una lepre che aveva bevuto tre caffè doppi. Ma era l'unico motivo che avrebbe ammesso con se stessa. I suoi sentimenti per Jack Taylor dovevano essere messi al bando. Aveva bisogno di soldi. Aveva bisogno di una vetrina per il suo talento. Non avrebbe permesso al Dongiovanni di Portland, Maine, di stravolgerle gli ormoni. Era stata sfortunata per tutta la vita. Abbandonata dal padre, seconda miglior alunna a scuola, sempre seconda nel campo delle promozioni sul lavoro. Mollata dal marito. E ora il suo idolo dei tempi del college la stava rendendo nervosa come non mai. Bene, avrebbe interrotto la serie di sfortune. Avrebbe mantenuto il controllo, almeno questa volta. «C'è nessuno?» chiamò nella semioscurità. La sua voce riecheggiò debole. Il posto necessitava di tende, pensò, per migliorare l'acustica e interrompere il marrone dei muri ricoperti in legno. Poi si guardò intorno e notò che non c'erano finestre. Il panico indotto da Jack le aveva evidentemente impedito di notarlo durante le sue due visite precedenti. «Meglio ripensare al progetto» mormorò, poi alzò la voce. «Ehi, c'è nessuno?» «Ciao, Katherine.» La testa scattò verso sinistra e lo stomaco ebbe un altro soprassalto. Jack se ne

stava sulla porta in cima a una stretta scala di legno. La T-shirt bianca evidenziava i muscoli tesi di braccia e petto. «Sono lieto che tu sia venuta» le disse. Non sorrideva e aveva una voce distaccata. Gli occhi, però, ardevano, aveva le guance arrossate e pareva... eccitato. Kitty non poté impedirsi di abbassare lo sguardo sui suoi jeans. Il rigonfiamento sotto il tessuto blu era evidente. «Vieni su in ufficio che parliamo.» Si girò e Kitty lo seguì. La voce di Jack e il suo corpo raccontavano due storie diverse. Perché se ne stava là in piedi con un'erezione in corso e le parlava con voce fredda e distante? L'avrebbe licenziata. Non gli erano piaciuti i disegni. Il suo stomaco calciò con entrambe le gambe. Il pensiero della sua erezione non la aiutava, né la vista delle sue gambe lunghe e del sedere fasciato dai jeans. Credo di non essere mai stata tanto vicina al sedere di Jack Taylor, eppure lo conosco da tredici anni, pensò mentre saliva le scale dietro di lui. Era un fondoschiena perfetto. Come se non lo sapesse. «La porta a sinistra è la sala proiezioni» disse lui quando lo raggiunse di sopra. «Semplice ma funzionale, una volta che il proiettore verrà sistemato. Almeno spero. Il mio ufficio è laggiù.» «Ti seguo.» Percorse il corridoio senza finestre. Dal soffitto pendevano diverse ragnatele. «Mi dispiace che sia così sporco. Credo che sia dal Settanta che non puliscono.» Le aprì una porta sulla sinistra. «Prego, accomodati. Le sedie sono pulite.» Lei gli ò accanto e sentì il calore irradiare dal suo corpo. Per un attimo temette di toccarlo, ma per fortuna sulla soglia c'era abbastanza posto per lei, lui e la sua erezione, in fila. Kitty si sistemò sulla sedia in legno vicino alla porta, mentre Jack si mise dietro la scrivania, sulla quale stavano tutti i suoi disegni.

«Dunque, Katherine, grazie per avermi portato gli schizzi. Li ho guardati.» Kitty pensò che avrebbe vomitato per l'ansia. Almeno si fosse sbrigato a darle la cattiva notizia. «Vuoi che lavori per te?» gli chiese. Lui la guardò con espressione sorpresa. Colpito nel segno! Kitty sentì l'umiliazione familiare percorrerle il corpo. Fece per raccogliere i disegni e uscire dalla stanza prima che le cose peggiorassero. «Certo che voglio che lavori per me! Hai capito perfettamente le mie intenzioni, approvo tutte le tue idee.» Kitty si fermò, asciugandosi il sudore. «Bene.» Bene? Voleva dire, Grande! Voleva dire, Perfetto! Voleva dire, Grazie, Signore, per avermi salvata. Riprese il controllo mentale e si mise al lavoro. «Sono eccitata dal progetto. Lascia che ti spieghi nel dettaglio questi disegni.» Jack si chinò in avanti e lei iniziò a elaborare alcune delle sue idee. Sentiva la propria voce, seria e professionale, evidenziare le caratteristiche e spiegare i motivi dietro le sue scelte, ma aveva la mente altrove. Traditrice, si era focalizzata sulle mani di Jack e le ricordava il pollice a contatto con la sua lingua. Si chiedeva se anche tra le sue cosce la sensazione fosse di caldo e umido. Kitty smise di parlare della sua idea di esporre in uno spazio della hall alcune opere della scuola di Belle Arti vicino al Delphi. Chiuse gli occhi. Doveva piantarla di pensare al corpo di Jack Taylor o gli sarebbe saltata addosso. E se lo avesse fatto... «Dopo cosa viene?» La domanda le fece spalancare gli occhi. Si costrinse a guardare i disegni e a non pensare a cosa sarebbe venuto dopo se... «Vorrei fare alcune foto e porti qualche domanda se hai tempo. Poi realizzerò qualche altro progetto più dettagliato.» «Ho tempo.» «Bene, facciamolo.» Farlo? Si alzò, si sistemò la borsetta e si avviò lungo il

corridoio buio, giù per le scale. Lavoro, Katherine, pensò. Prese la videocamera digitale dalla borsa e la accese. Non controllò lo stato dell'erezione di Jack, non si fidava di se stessa. «Bell'aggeggio, minuscolo. Modello nuovo?» Annuì e iniziò a registrare le quattro pareti della hall. Box office, stand delle concessioni, porta dell'ufficio e sala proiezioni a sinistra. Pesanti porte aperte sul vestibolo di fronte. Porte elegantemente intagliate verso i bagni a destra, oltre lo spazio per i cartelloni pubblicitari. E porte enormi verso l'auditorium sul retro. «Anche la tua auto è un gioiellino» aggiunse Jack. «Pare che gli affari ti vadano bene.» Kitty non rispose. Pare era la parola chiave. «Quali sono i tuoi tempi per la realizzazione dei restauri?» «Mmh. Dopo essere caduto in quella botola, sono un po' paranoico sulla sicurezza del pavimento. Vorrei verificare che fosse tutto a posto, non voglio querele. Incaricherò i tecnici per questo.» Enumerò gli interventi con le dita. «Quindi controllo del pavimento, collegamento del riscaldamento, messa a norma di impianti elettrici e idraulici, linea telefonica collegata per poter accettare le prenotazioni e usare Internet. Ci servono uno schermo e un proiettore nuovi per il cinema, per non parlare delle poltrone, che sono un rischio per la salute, ora. Anche i bagni vanno rinnovati secondo i nuovi standard di igiene. Voglio accertarmi che non ci siano topi.» Si guardò le mani; aveva esaurito le dieci dita. sospirò e ricominciò da capo. «Moquette nuova, tinteggiatura, verniciatura ovunque. Non so niente del tetto, anche se dalle macchie di umidità al piano di sopra temo vada ricontrollato. Oh, sì, devo ripristinare le uscite di emergenza prima di riaprire al pubblico. Intorno al 2030. Io spero entro un anno, però.» Avrebbe voluto ridere, ma non era rilassata a sufficienza. «Buona fortuna» commentò prima di avviarsi verso la sala del teatro. Lo spazio del Delphi era davvero fantastico. Il soffitto era alto il doppio della hall e con le stupende stelle artificiali creava l'illusione di una notte senza fine. La sala sapeva di storia e di promesse e persino l'aria stantia aveva un che di magico.

Kitty sollevò la videocamera e fece il giro completo, catturando infine l'immagine di Jack, dietro l'ultima fila di poltrone, sorridente e perfetto. Kitty pensò a quando avrebbe trasposto le immagini sul suo PC. Non riuscirò a guardare nient'altro. Avrebbe probabilmente zoomato sul suo pene. Dio, era proprio fissata! «Le poltrone sono davvero un rischio per la salute?» chiese per dire qualcosa. Spense la videocamera e la posò sulla poltroncina più vicina. Il velluto era rovinato, ma i braccioli in legno erano intatti. Si chinò a esaminare il meccanismo che muoveva il sedile. «Vuoi rimpiazzarle del tutto o solo ricoprirle?» Jack non rispose. Ma Kitty sentì la mano di lui, oh no, come elettricità pura, sfiorarle le spalle, costringerla delicatamente a girarsi. «Kitty» disse, la voce roca stavolta, in tema con gli occhi ardenti. «Non posso ignorare ciò che provo per te, mi stai facendo impazzire.» E poi la prese tra le braccia e le coprì la bocca con la sua. Oh, no. Oh, sì. Le mani di Jack si infilarono tra i suoi capelli, immobilizzandole la testa. Le labbra calde e morbide rimasero incollate alle sue per un momento indimenticabile, mentre Kitty si chiedeva cosa dovesse fare. Poi quelle labbra si mossero e lei smise di pensare. Gli si aggrappò alla T-shirt, sentendo i muscoli tesi sotto il cotone, e non poté fare a meno di ricambiare il suo bacio. Jack emise un suono con la gola e la strinse più forte in un bacio affamato, a bocca aperta, come se volesse divorarla. Kitty accolse la sua lingua in bocca, il suo sapore dolce, il calore che si irradiava verso il basso. Ogni tocco sapiente di quella lingua le faceva desiderare di avere di più, di concedersi totalmente. Jack le tirò indietro la testa e le depositò una fila di baci caldi sul collo. Kitty sentì le sue labbra nell'incavo della gola, lo udì inspirare a fondo il suo profumo. Rabbrividì di piacere. Poi la bocca di lui fu di nuovo sulla sua, le mani sui fianchi, decise. Sentì la sua erezione attraverso i vestiti e si inarcò, facendolo gemere. «Ti voglio» le mormorò contro le labbra. Proseguì poi nell'orecchio. «Non riesco a smettere di pensare a te, di sognarti.» Le catturò il lobo tra i denti, mordicchiandolo. Kitty rabbrividì di nuovo.

«Voglio toccarti dappertutto.» Le mani di Jack vagarono sulla schiena, le spalle, i fianchi, fino a catturare le natiche. «Lo vuoi anche tu?» Sì, per favore. Kitty gli infilò le dita tra i capelli e gli rispose riportando la bocca sulla sua. Jack le sfiorò le labbra, la tormentò un poco e poi la baciò con ione. La esplorò a fondo e Kitty si sentì sciogliere. Perse coscienza di dove si trovava, di chi era. Riusciva a concentrarsi solo sui movimenti della bocca di Jack, sui battiti del suo cuore. «Oh, Kitty, sarà bellissimo!» Kitty gemette e si consegnò a Jack. Il suo bacio era una droga. Struggente. Esperto. Esperto. Il cervello di Kitty riprese d'un tratto a funzionare. Jack aveva baciato molte donne, e l'ultima volta che aveva baciato lei, dopo cinque minuti stava già baciando un'altra donna. Piantò le mani sul petto di Jack e lo spinse via, con durezza. Lui fece un o indietro e il corpo di Kitty lo reclamò, all'istante. Si sentiva già male. Il volto dell'uomo mostrava i segni del desiderio misti alla sorpresa. Aveva i capelli scomposti sulla fronte, gli occhi più scuri del solito. «Che cosa succede?» «Sei un baciatore davvero esperto.» «È un problema?» Kitty era confusa, incapace di riprendere fiato. Si ò il dorso della mano sulle labbra, quasi a cancellare l'impronta bruciante che ci aveva lasciato lui. «Il problema è perché tu sia così esperto.» Jack era ancora troppo vicino. Kitty si ritirò all'altro capo della sala, appoggiandosi a un bracciolo. «Non capisco» replicò lui. «Quante donne hai baciato, Jack? Cento? Duecento? Mille?» «E allora? Questo riguarda te e me, non loro.» La risposta implicava il fatto che una delle cifre che lei aveva menzionato si

avvicinava al vero. Strinse i pugni per la rabbia. «Riguarda loro, Jack, perché io sono una di loro. Una delle donne che hai baciato. Una delle donne con cui vuoi fare sesso. Una da aggiungere alla tua lista prima di are alla successiva.» Si avviò verso l'uscita. «Fermati, non è giusto.» La raggiunse e la prese per un polso. «Kitty, dammi una possibilità.» «Quante possibilità hai già avuto, Jack? E con tutte quelle possibilità, quante volte ti sei curato di vedere la vera donna che stavi baciando? Capire come si sentiva, o cosa pensava, o chi era, o cosa rappresentavi tu per lei?» Liberò il polso dalla sua stretta. «Non ti meriti un'altra possibilità.» Lui la seguì a distanza ravvicinata mentre lei attraversava la hall, il vestibolo e raggiungeva la pesante porta esterna. «Kitty...» Kitty si girò, la mano sulla maniglia, la porta già socchiusa. «La nostra è una relazione di tipo professionale. Chiamami Katherine.» Jack sbarrò gli occhi marroni. «Sei ridicola! Mi desideri almeno quanto ti desidero io, è stupido negarlo. Sono cambiato dai tempi del college, ti stai sbagliando su di me.» L'aria fredda proveniente da fuori le rinfrescò il volto, il sole la abbagliò dopo la semioscurità del cinema. Kitty represse un singhiozzo; sentiva le lacrime pungerle gli occhi mentre si rendeva conto di quanto vicina fosse andata a cedere alle lusinghe di Jack Taylor. A perdere di nuovo il cuore per lui. A subire l'ennesima, inevitabile batosta. Deglutì e tenne sotto controllo le lacrime per un istante, mentre guardava Jack negli occhi. Era arrabbiato. Certo, aveva senso. Era sicura che non fossero molte le donne che lo avevano rifiutato. «Non mi sbaglio su di te. Sei lo stesso di sempre. E io non intendo diventare un altro nome sulla tua lista.» Poi corse via, dando finalmente libero sfogo alle lacrime una volta che Jack non poté più vederla.

5

La rabbia di Kitty durò fino al mattino dopo, quando il postino le consegnò l'estratto conto bancario. Restò in piedi sulla porta, in accappatoio, a fissare il foglio che le diceva che i suoi risparmi erano svaniti. Si appoggiò alla carta da parati sbiadita in corridoio. Che cosa poteva fare al riguardo? Poteva chiedere un prestito, ma come ripagarlo senza entrate fisse? Poteva trovare un secondo lavoro, ma le avrebbe sottratto tempo. Poteva vendere l'auto, ma avrebbe implicato un'ammissione di fallimento. Di nuovo. Le restava una sola scelta. Kitty salì le scale e andò a mettersi un altro abito di marca. Il Delphi era già aperto quando ci arrivò. C'erano due grossi autocarri parcheggiati davanti al cinema e diversi operai che facevano la spola portando fuori vecchi lavabi, assi marcite e rotoli di moquette. Un'altra fila di operai trasportavano scatole, tubi e una sorta di orinale dentro l'edificio. Kitty drizzò le spalle, mise in bella vista la sua cartellina e si infilò dentro il cinema, oltre un uomo in tuta che le fece l'occhiolino. Lei notò che trasportava uno specchio rotto e sperò che non le portasse male. Dentro, l'ampia sala era piena di gente, ma il suo sguardo individuò subito Jack, intento a conversare con un uomo che indossava una cintura con attrezzi. Il volto e i gesti erano animati. Improvvisamente lui si girò e i loro sguardi si incrociarono. Kitty gli fece un cenno con il capo, cercando di ignorare il cuore che le balzava in petto. Poi si girò e si diresse, come se ne avesse tutti i motivi, verso la sala interna. Era meno affollata, a parte un paio di elettricisti che esaminavano le luci sul palco. Aprì la cartellina, estrasse blocco e matita e ricordò a se stessa la strategia da adottare. Non avrebbe permesso che ciò che era accaduto tra lei e Jack le impedisse di lavorare al Delphi. E non avrebbe consentito che succedesse ancora. Avrebbe

agito contando sulle proprie abilità. Aveva deciso di credere che Jack l'avesse contattata per le sue capacità e non perché voleva portarsela a letto. Quando lui le avrebbe parlato, sarebbe stata calma e professionale e avrebbe stabilito alcune regole di base. Poi avrebbe sperato con tutto il cuore che lui le rispettasse perché se non avesse tenuto a freno i bollenti spiriti, lei avrebbe dovuto lasciare il lavoro e non se lo poteva permettere. Le servivano i soldi e, di più ancora, il successo. Si era appuntata alcune note sui colori da usare quando sentì, prima di vedere, Jack entrare nella sala. Dio, era di nuovo come al college, quando percepiva la sua presenza. Marie lo aveva denominato il suo Senso Speciale Taylor. Kitty infilò la matita tra i riccioli raccolti dietro e lo guardò. Intendo tenermi stretto questo lavoro, pensò. Poi disse: «Credo che i rossi siano molto sbiaditi. Sceglierei un cremisi per le poltrone e le tende per controbilanciare le dorature. Se ti va, oggi mi procuro le stoffe campione». Fredda, controllata, professionale, dignitosa. Bene. «Perfetto.» Jack fece una lunga pausa, guardandola dritto negli occhi. Kitty sentì la sua dignità sciogliersi un po' e parlò di nuovo. «Hai idea di quando possiamo iniziare il restauro della tappezzeria e degli arredi, qui?» «I tecnici sono nella hall adesso, verranno a controllare da un minuto all'altro. Spero che questa parte sia sana, anche se non escludo la presenza di qualche tarlo del legno. Serviranno nuovi fili elettrici, ma possiamo ordinare le luci insieme al sistema audio. Se le pareti e il soffitto sono a posto, potremmo iniziare con l'intonaco e la tinteggiatura. Katherine, noi due dobbiamo parlare.» Il suo ultimo commento fu così repentino che la fece sobbalzare. Riprese subito il controllo. «Sì, Jack, se dobbiamo lavorare insieme, allora...» «Dobbiamo smettere di litigare, sono d'accordo.» «È un po' più complicato, Jack. Devi accettare l'idea che io non voglio una relazione sessuale.»

Lui incrociò le braccia e si appoggiò a una poltrona. «Se è per questo è ancora più complicato, Kitty, perché tu vuoi una relazione sessuale con me.» «Io non...» Jack alzò le mani. «Puoi sostenere ciò che vuoi, ma c'ero anch'io quando ci siamo baciati ieri, e la sera prima al ristorante. E quando ci siamo rivisti la prima volta. Può anche essere contrario al tuo codice professionale, può essere contrario al buonsenso, ma tu vuoi fare sesso con me. E io voglio fare sesso con te.» Kitty aprì la bocca per replicare, ma era senza fiato. «Ammettilo, per favore, per la mia salute mentale, Kitty, dimmi che ho ragione» disse lui. Che cos'era quell'espressione nei suoi occhi? Sembrava quasi... disperazione? Kitty si guardò intorno: gli elettricisti erano intenti al lavoro. «Non farò sesso con te.» «Ma vorresti farlo.» Volerlo? Lo desiderava tanto che ne aveva il terrore. E i suoi desideri non si fermavano lì. Voleva che lui la amasse. Dieci anni dopo che lui le aveva spezzato il cuore, voleva offrirglielo di nuovo. E questo la terrorizzava ancora di più. «Ciò che voglio è irrilevante per questo lavoro.» «Ma non per me. Ti prego, dimmelo Kitty, poi andremo avanti. Non ti toccherò, non ti bacerò. Ho solo bisogno di sapere.» Kitty si rifugiò nel sarcasmo. «Sono una donna, Jack, ovvio che voglio fare sesso con te, come tutte.» Lui si morse il labbro e la guardò di nuovo. «Non otterrò una risposta più diretta, vero?» «No.»

Dopo una lunga pausa, lui annuì. «Okay, per ora mi accontenterò. Che altro vuoi, dunque? Come mi devo comportare con te? Possiamo essere amici?» Amica di Jack Taylor? Quella era davvero bella. «Voglio dire, eravamo amici in ato, no?» continuò Jack. «Al college, nell'ora di arte, scherzavamo, ci divertivamo. Stavamo bene insieme. Prima che tutto andasse a rotoli, eravamo amici.» Prima che tutto andasse a rotoli? Meglio dire prima che mi tradissi. In effetti, però, Jack aveva ragione. Erano stati amici. «Okay, amici va bene» accettò. Jack sorrise. «Grande, bene. Saremo amici.» «E lavoreremo insieme al Delphi» gli ricordò. «Certo.» La porta del teatro si aprì e Jack gettò un'occhiata. «A proposito, ecco il tecnico. Vieni a parlargli, forse ci darà un'idea di cosa potremo fare.» La condusse verso la porta. «Dopo parleremo dei colori e delle stoffe. Poi andremo a bere un paio di bicchieri e finiremo la serata facendo amichevolmente del buon sesso insieme.» Kitty si immobilizzò. «Scherzo» disse Jack, alzando le mani. «Scherzo. Rispetterò le tue richieste, giuro.» Lo osservò, i muscoli tesi, chiedendosi se poteva fidarsi. Infine si costrinse a rilassarsi. L'importante era il lavoro, no? Se cominciava con il piede sbagliato, non lo avrebbe ottenuto. Doveva fidarsi di lui. Per il momento. Così gli sorrise e disse: «Attento a rispettare le mie richieste, signor Taylor, o ti dovrò chiudere in cantina». «Mmh, ho sempre amato i film con le prigioni. Fuga da Alcatraz. Nick Mano Fredda. C'erano poche donne, però. Vieni, ti presento Stuart, il tecnico. Il ragazzo con lui è Dave, il caposquadra. Stuart, Dave, questa è Katherine Clifford, che si occupa del design degli interni del Delphi.»

Kitty strinse la mano ai due uomini. «Voglio che voi due parliate direttamente con Katherine e viceversa al bisogno. È una designer fantastica, Dave, qualsiasi cosa ti chieda di fare, per me va bene. È lei il boss.» Stava parlando ai due uomini, ma Kitty capì il significato recondito di quelle parole. Aveva fiducia in lei come designer e intendeva mantenere la loro relazione professionale entro i limiti da lei imposti. Poteva fidarsi di lui. Ora non le rimaneva altro che chiedersi se poteva fidarsi di se stessa.

«Quella è l'Orsa Minore, l'altra... sembra Cassiopea.» Kitty ricontrollò la foto del soffitto originale per verificare di avere scelto il posto giusto dove collocare le stelle. Incollò uno stencil alla vernice blu notte del soffitto e iniziò ad applicare il sottile strato di adesivo. Sbirciò attraverso le impalcature il punto dove Jack stava stendendo il colore blu intorno ai dettagli decorativi del soffitto. «Sai niente di astronomia?» «Solo quello che ho imparato dai film di fantascienza» replicò lui, intento al lavoro. «Perché?» «Mi chiedevo se questo soffitto riproduca un vero cielo notturno, se le costellazioni sono al posto giusto.» «Non credo che importi, la gente non va al cinema per vedere la vita reale, ci va per vivere un sogno, migliore della realtà.» «Sembra che tu sappia bene di cosa si tratta.» «Io so tutto sui sogni, ne ho fatti di importanti.» Lei applicò altri due stencil, formando metà W. «Il Dephi è il tuo sogno, vero? Lo vuoi da sempre.» «Da quando ero bambino. Ci sono venuto un paio di volte da ragazzo.»

Kitty scoppiò a ridere. «Quando era un cinema porno? Sei rivoltante.» «Non ho visto dei film. Almeno non per intero. A quindici anni ho finto di averne diciotto per poter lavorare allo stand delle concessioni. Non ho ottenuto il lavoro, ma dopo il colloquio mi sono infilato in teatro. Era incredibilmente bello.» «Cosa, la sala o il film porno?» rise Kitty. «La sala, ovvio. Ricordo di avere visto subito le stelle sul soffitto. Non le ho più scordate.» Mentre ascoltava, Kitty prese un foglio sottile d'argento e lo posò con cautela e decisione sullo strato adesivo, poi con una spazzola morbida lo fece aderire e infine rimosse lo stencil e lucidò l'argento con uno straccio di seta. Anche da vicino, la stella brillava. «Poi, ovviamente, ho visto anche il film porno. Un'esperienza davvero formativa, non avrei mai pensato che la gente fe quelle cose.» Kitty trattenne una risata. «Inutile dire che rimasi disgustato e me ne andai immediatamente» aggiunse Jack. «Inutile dirlo.» Kitty ò a un altro stencil. «Ed è allora che hai deciso di comprare il Delphi.» «Sì. Non per il porno, ma per le stelle. E per ciò che questo posto può diventare.» Kitty trattenne il fiato e applicò un altro delicato foglio d'argento. Quando aveva iniziato a sentirsi a proprio agio con Jack Taylor? In grado di sostenere una conversazione normale, lavorare al suo fianco, scherzare senza sentirsi furiosa, nervosa o spaventata? Le era successo così, senza preavviso. Erano ate quasi otto settimane da quando Jack aveva accettato di comportarsi da amico. Avevano lavorato insieme e il cinema non era più il fantasma polveroso che avevano trovato, ma somigliava sempre più a un luogo reale e stupendo. E lei non si sentiva più un

fascio di nervi ed emozioni, ma una donna serena. Era diventato facile stare con Jack. Divertente, anzi. Lui scherzava con gli elettricisti, i tecnici, i falegnami. Era molto serio sul restauro, ma il suo entusiasmo era contagioso e a nessuno pareva di lavorare. Sembrava che stessero creando qualcosa tutti insieme. Insieme alle luci nuove, allo stucco e alle piastrelle, Kitty e Jack avevano creato un nuovo cameratismo. Era come essere tornati alle lezioni di arte al college, pensò Kitty avvicinandosi a Jack che aveva iniziato a dipingere con il colore dorato le rose in stucco. Solo a quelle, però. Ai tempi Jack era il ragazzo più popolare della scuola e lei, più giovane, non avrebbe mai osato sedere al suo tavolo a pranzo, per esempio. «Allora tu che cosa sognavi a quindici anni?» chiese Jack. Oltre a te? «Volevo fare l'artista. Volevo creare qualcosa che fosse bello e significativo insieme.» «Come queste stelle?» Lei si fermò a metà gesto. «Sì, proprio così.» Kitty lo guardò nello stesso momento in cui Jack si voltò verso di lei. I loro sguardi si incontrarono e fu uno shock, un piacere intenso e un desiderio, al contempo. Sentì le dita allentarsi fin quasi a lasciar cadere lo straccio, ma non riuscì a distogliere lo sguardo. Le sembrava che Jack la stesse toccando. Il suo desiderio andava oltre il sesso, proveniva anche dall'intimità che si era creata tra loro sul lavoro. Con uno sforzo immane, girò la testa e guardò il soffitto invece di Jack. «Credo che dovresti fare alcune di queste stelle» suggerì. Era molto abile ad applicare i fogli d'argento, ma le tremavano le mani ora. «No, grazie, lo fai benissimo tu.» «Ma è il tuo cinema, il tuo sogno. Le tue stelle.» «È il tuo sogno, adesso. Sono le tue stelle.»

Aveva parlato in modo serio e Kitty capì che aveva ragione. Il Delphi era diventato anche il suo sogno. No, no, no, tutto sbagliato, pensò. Lei non aveva sogni, viveva nel mondo reale. Sognare creava solo problemi. D'un tratto desiderò tornare al tono scherzoso di poco prima. «Devi fare qualche stella, non puoi sprecare il tuo talento artistico sul legno.» «Kitty, non ho talento artistico, ricordi? Ero un disastro in arte. Continuo a colorare, grazie.» «Non essere sciocco, non sei un disastro. Dai, alzati e vieni qui. Puoi fare Perseo.» Gli tese uno stencil. Jack sorrise, posò il colore e si alzò. «Va bene, ma mi devi aiutare.» Kitty ebbe una visione di lei che guidava la mano di Jack, vicinissima, e il polso le accelerò. «Ti dirò cosa fare e tu lo farai da solo.» «Farò un pasticcio» la avvertì, prendendo lo stencil. «Rovinerò tutto, dovrai rifarlo.» «Siamo molto in alto qui, Jack, se ti sbagli da sotto non si vedrà. Okay, metti qui la prima.» Mise il dito sullo stucco blu e osservò Jack applicare con fatica lo stencil. Non lo stava toccando, ma percepiva il suo respiro, il suo odore. Se si girava poteva finirgli in braccio. Kitty era su quell'impalcatura da ore e non aveva mai temuto l'altezza. Ora però, con Jack vicino, soffriva di vertigini, come fosse appollaiata su una scogliera a picco e provasse una fatale attrazione verso il basso. Temeva di cadere, in tutti i sensi. «Ora metti uno strato sottile di adesivo sullo stucco.» Gli ò il contenitore; lui le sfiorò le dita. «Dunque questo fine settimana è il Memorial Day» disse, sperando che un po' di mondanità la distraesse dai segnali che le mandava il corpo. «Hai qualche progetto?»

«Un bel giro in bicicletta lungo la costa, se il tempo tiene» replicò Jack, applicando l'adesivo. «erò la notte da qualche parte. Vieni con me?» La mondanità non le era di alcun aiuto. Si sentiva ancora vicina al baratro. «Non posso, grazie. I miei fanno un barbecue sabato pomeriggio. Mio fratello Nick arriva da Mount Desert Island e ci saranno circa un milione di parenti.» Jack finì con lo stencil. «Okay, e adesso?» «Puoi applicare l'argento a una di quelle che ho già incollato io. Ecco, prendi il foglio con delicatezza.» Glielo allungò. Jack scosse il capo. «Non se ne parla, ha un'aria così fragile e delicata, non vorrei romperlo.» «Dai, se lo rompi lo rappezziamo. E poi sei tu che paghi. Cerca solo di stare attento.» «Bene, ma se rovino tutto...» «Oh, dimenticavo, non respirare o lo farai volare via.» Trattenne il fiato anche lei. Jack si chinò in avanti e sollevò il prezioso foglio d'argento con le dita. «Come sto andando?» mormorò. Kitty sapeva che non si stava riferendo solo al foglio, ma a qualcosa di altrettanto delicato e prezioso. Si portò un dito alle labbra per indicargli di tacere e gli mostrò con i gesti come applicare il foglio sull'adesivo. Lui lo increspò un po' e si girò verso di lei, dispiaciuto. «Te l'ho detto che sono una frana» bisbigliò, ma lei scosse il capo e gli porse la spazzola per fare aderire il foglio allo stencil. Non sarebbe successo nulla se lo avesse aiutato, guidandogli la mano. Erano settimane che non lo toccava, e se da una parte era giusto, per poter essere solo amici, dall'altra desiderava tantissimo farlo. Gli mise la mano sul polso. Lo udì inspirare a fondo, sentì la sua pelle calda e il polso accelerato.

«Sii delicato, andrà tutto bene» mormorò. «Fammi vedere, spiegami ciò che vuoi.» «Signor Taylor?» Una voce femminile li raggiunse dal basso. Jack e Kitty sobbalzarono, e lei lasciò cadere la mano. Si spostarono entrambi di lato per guardare giù. Una bionda snella li stava osservando dalla sala. «Salve, sono io Jack Taylor» la salutò lui. «Io sono Lily Grace del Portland Times. Ho appuntamento con lei per un'intervista sul restauro del cinema.» «Oh, bene. Scendo subito.» Jack ò la spazzola a Kitty. «Dovrai finire tu Perseo, mi sa. Mi spiace che ci abbiano interrotti.» E a lei spiaceva? Kitty guardò Jack scendere per la scala e raggiungere la bionda. Era giovane e davvero molto attraente, portava una gonna che le sfiorava le cosce e una camicia molto scollata, a giudicare dall'alto. Jack giunse a terra e strinse la mano della donna. «Venga vicino al palco, signorina Grace, ci deve essere una poltrona pulita da qualche parte.» «Mi chiami Lily» fu l'ultima cosa che Kitty udì in modo distinto, prima che i due si allontanassero. Le si strinse lo stomaco. Oh, sapeva cosa sarebbe successo poi, Jack Taylor, maestro di seduzione, al lavoro. Nessun membro di genere femminile era al sicuro. Si girò e si dedicò di nuovo a Perseo. L'attività di argentatura delle stelle la assorbiva del tutto. Doveva prestare la massima attenzione, fare tutto per bene, in modo fedele rispetto alla foto del lavoro originale. Doveva creare un soffitto spettacolare, una sorta di Cappella Sistina di Portland, Maine. Le serviva la massima concentrazione. Riuscì a fare tre stelle prima di tornare a guardare giù. Jack sedeva sul palco, la donna su una sedia pieghevole di metallo davanti a lui. Parlava in modo animato, gesticolando e indicando diversi particolari della sala. Lily Grace annuiva e

prendeva appunti. Era ovvio che non stava flirtando con lei. Non si stavano toccando, non si scambiavano sguardi allusivi. Ma Jack non aveva bisogno di sguardi e mani per flirtare con una donna, gli bastava essere se stesso. O tenere in mano un foglio d'argento, accidenti a lui! Kitty tornò al lavoro. Due minuti e stava di nuovo controllando Jack. Di nuovo, non stava flirtando. Si sforzò di controllare il lieve tremito delle mani e di non respirare mentre applicava altro argento. Era una frana a tenere a freno le proprie emozioni e la libido, ma almeno quelle stelle sarebbero state perfette.

«È stato un piacere conoscerti, Jack. Questo è il mio biglietto da visita, in caso tu mi voglia contattare per qualsiasi cosa. Dietro c'è il mio numero di casa.» Jack prese il biglietto di Lily e lo mise in tasca. «Grazie, Lily, attendo con ansia l'articolo.» Chiuse la porta del Delphi dietro di lei e posò la fronte contro il metallo freddo. «Hai l'aria di un uomo cui servano buone notizie.» «Mi serve più di una buona notizia, Oz. Mi serve un Viagra alla rovescia per tenere a bada la mia libido impazzita. Oppure un miracolo.» «Capisco, la giornalista bionda era un bel bocconcino, l'ho vista arrivare.» «Ti piace? Questo è il suo numero.» Jack gli ò il biglietto da visita. «Io parlo di Kitty.» Oz incamerò il biglietto. «Mi sembrava avessi detto che le cose andavano bene con Kitty.» «Esageravo. Le cose vanno moderatamente bene. Ho accettato di fare l'amico solo perché smettesse di odiarmi, e pare che la strategia funzioni. Ma non riesco a pensare ad altro. Meno male che sono circondato da professionisti capaci, qui, perché commetto di continuo errori stupidi. Perdo le cose, vedi le chiavi. Ho

smarrito il cellulare, ieri o oggi, chissà. Sto impazzendo.» «Forse esageri. Vedo regolarmente gente con disordini mentali e, sebbene tu non sia proprio normale, non ti classificherei ancora tra i pazzi. Anche se hai perso il cellulare.» Jack sospirò. «Davvero, Oz. Ogni volta che le giro intorno, divento ipersensibile. Ogni cosa che fa mi eccita, e devo nasconderlo. Mi ricorda un film di John Cusack in cui lui faceva l'autostoppista con una tipa che gli piaceva e condivideva con lei anche il letto, senza però poterla mai toccare.» «Roba da matti» commentò Oz. «Tu però non sei un autostoppista e non assomigli neppure a John Cusack.» Jack si ò una mano tra i capelli scuri. «Non mi sei d'aiuto, sai?» Oz lo prese per una spalla. «Ehi, amico, non prendertela. Senti, ho una bella notizia. I bagni sono finiti. Vieni con me, ti devo mostrare una cosa, per farti capire quanto io sia fiducioso che la tua relazione con Kitty evolverà nel modo che vuoi tu.» Jack seguì l'amico che lo condusse nel bagno degli uomini. La sua attenzione fu subito catalizzata da un nuovo distributore automatico bianco, che risaltava contro la parete piastrellata. «Hai installato un distributore di profilattici» disse Jack. «Sì, e ben fornito. Preservativi colorati, con gusti e forme diversi per accontentare tutte. Sono certo che a casa ne hai, ma non fa mai male essere pronti a ogni evenienza.» Jack osservò il distributore, poi l'amico. Dimenticò la propria frustrazione e sorrise. «La tua fiducia mi commuove. Grazie.» «Di niente, mi aspetto un ritorno dai profitti legati al consumo di profilattici quando il Delphi aprirà. E mi aspetto che tu mi offra una birra per ogni preservativo che ai personalmente.» «Promesso.» Si strinsero la mano. «Mi sa che ti terrai la sete per un po', però.»

«Puoi svenarti e offrirmi una birra ora, magari» buttò lì Oz con un sorriso, mentre tornavano nella hall. «Certo, se Kitty non vuole che finisca di dipingere. Ehi, la tua dimostrazione di fiducia mi fa venire un'idea riguardo a Kitty.» «Che cosa?» «La storia dell'amicizia è frustrante per me, ma significa indirettamente che c'è tra noi una certa confidenza. Che cosa ne dici se sabato faccio un salto a casa sua a salutarla e a conoscere la sua famiglia? Ci sta, no?» Oz meditò un po'. «Non so, Jack, Kitty mi sembra molto riservata, potrebbe non apprezzare la tua intrusione nella sua vita privata.» «Oggi abbiamo parlato di sogni, Oz. Mi ha confessato ciò che desiderava di più al mondo. Ti sembra una che non voglia che mi intrometta nel suo privato?» «Be', no, ma...» «Esatto. Abbiamo capito di poter lavorare insieme d'amore e d'accordo, ora vorrei conoscerla meglio come persona. Se sarà certa che non la voglio solo per fare sesso, sarà più facile che faccia sesso con me, giusto?» Oz scosse il capo. «È una logica che non mi convince.» «Non preoccuparti, ho vibrazioni positive.»

6

«Ehi, Kit, mamma dice che hai un fidanzato nuovo» disse Nick girando il pollo sulla griglia. Kitty quasi mollò la salsiera che stava allungando al fratello. «Mamma si sbaglia, non ho un fidanzato.» «E chi è quel tipo in bici che parla con lei?» Oh, no. Jack Taylor, alto, abbronzato e mozzafiato, che attraversava il prato con sua madre. Sorridente. Intento a dire cose che lei non sentiva. In avvicinamento. La salsiera slittò tra le sue dita improvvisamente umide e uno schizzo le macchiò i pantaloni Capri bianchi. «Che cavolo ci fa qui?» annaspò. «Si fa invitare a cena, pare» replicò Nick. «Pensi di tenere un po' di salsa per il pollo o vuoi che metta te direttamente sulla griglia?» Kitty si sentiva cotta a puntino. Posò la salsiera e ripulì i pantaloni con una salvietta di carta, con pessimi risultati. «Che sfortuna» borbottò andando in fretta verso Jack e sua madre. Era la sua salsa preferita. Jack la vide e la salutò con la mano. Lei camminò più in fretta, cercando di coprire la macchia. «Ciao, Kitty!» «Ciao, Jack, come mai qui?» «Jack stava facendo un giro in bici nei paraggi» cinguettò Sue Giroux. «Gli stavo dicendo che c'è cibo per un plotone di soldati, per cui l'ho invitato a rimanere.» «Sono certa che Jack ha da fare, mamma.»

«No, non ho progetti. Quel pollo ha un profumo fantastico, signora Giroux.» Jack sorrise. Aveva un sorriso così bello, sicuro, da fare impazzire. «Mamma, ti posso parlare un momento?» Kitty prese sua madre per un braccio e la tirò da parte. «Non voglio che Jack rimanga» sussurrò. «Perché no? Ti serve un uomo nuovo, dopo Sam.» «Non quest'uomo, mamma.» Sue le carezzò un braccio. «Sam era bello, ma noioso. Jack sembra più divertente. Hai visto come ha sorriso non appena ti ha vista?» «Sì, probabilmente rideva perché sembro una comparsa in un film dell'orrore.» Indicò la macchia. Sue fece un gesto. «Ti puoi cambiare. Non essere così pessimista, Kitty, sarà divertente.» «Non lo sarà!» puntualizzò, isterica. Abbassò la voce. «Non voglio che Jack scopra che vivo con te. Non voglio che sappia che non ho un altro lavoro oltre al suo.» Sbirciò Jack. Aveva appoggiato la bici a un albero e stava dando la mano a suo cugino Raymond, il quale si era già fatto diverse birre e avrebbe spifferato i segreti di famiglia entro due secondi. «Perché non vuoi che sappia queste cose?» chiese Sue, corrugando la fronte. «Perché voglio che pensi che ho fatto strada.» «Ed è così, tesoro. Il Delphi va a gonfie vele, no?» «Sì, ma solo quello.» Sue sistemò i riccioli scomposti di Kitty, facendola sentire una bambina di due anni. «Devi essere sincera, tesoro, se vuoi avere una relazione vera.» «Ma io e Jack non abbiamo una relazione.» Sue fece spallucce e tornò verso Jack. Kitty la raggiunse, liberando di nuovo i

capelli. «Forse non avete ancora una relazione, ma c'è qualcosa tra voi. Quando l'hai visto, ti sei risvegliata. Non ti ho mai vista così vivace» disse sua madre. Kitty si fermò. Le batteva il cuore, stava ansimando, si sentiva tutta sottosopra. I colori le parevano più brillanti, gli odori più forti e riusciva a percepire i movimenti di Jack anche senza guardarlo. Sua madre aveva ragione, non si era mai sentita così viva. Ed era uguale ogni volta che stava con Jack. «Confesso che c'è un ulteriore motivo per cui sono ato di qui oggi» disse Jack a Sue e strizzando appena l'occhio all'indirizzo di Kitty. Ulteriore motivo. Vuole flirtare con me, vuole farmi impazzire del tutto, o entrambe le cose? Jack aprì uno zainetto sulla bicicletta e ne tolse un giornale ripiegato. «Non so se ha già letto il Times di oggi. C'è qualcosa in copertina nella sezione due che potrebbe interessarle.» Aprì il giornale e lo ò a Sue. «Il Delphi risorge dalle ceneri» lesse Kitty sopra le spalle della madre. L'articolo riempiva tutta la pagina e aveva due grandi foto a colori. In una c'era Jack, in piedi su una scala fuori dal cinema, sorridente e intento ad avvitare una lampadina alla nuova insegna Delphi stile art déco. L'altra mostrava il soffitto blu notte con tutte le stelle di Kitty. «Ci sarà presto una nuova stella nel cielo di Portland quando l'imprenditore visionario Jack Taylor aprirà le porte del teatro Delphi, restaurato in modo spettacolare» lesse Sue a voce alta. «Guardi qui.» Jack indicò un punto e Sue lesse. «Taylor è entusiasta di mostrare le innovazioni del Delphi affiancate al restauro minuzioso dei particolari d'epoca. "Ho lavorato con Katherine Clifford, una fantastica designer d'interni locale" dice Taylor indicando il sistema di illuminazione intelligentemente occultato, che dà risalto alle decorazioni art déco intorno allo schermo. Il cinema testimonia il gusto per i dettagli di Taylor e della Clifford; ogni centimetro è stato restaurato rispettando fedelmente l'edificio

originario, incorporando al contempo i comfort più moderni.» Sue si girò verso Kitty con gli occhi scintillanti di gioia. «Oh, tesoro, è fantastico!» «Sì, lo è.» La voce di Kitty era pacata. Così mentre lei si era prodigata per coglierlo in flagrante a flirtare con la giornalista bionda, lui stava tessendo le sue lodi. Lo guardò negli occhi scuri come pozze di cioccolato, caldi e dolci. «Grazie» gli disse. «Non mi devi ringraziare, è la verità.» «Ehi» si inserì il cugino Raymond. «È fantastico. Qui ci vuole un'altra birra.» Si allontanò. Kitty avrebbe dovuto provare sollievo, ma era troppo occupata a decidere se sciogliersi lì o saltare di gioia. «Abbiamo creato tutto questo insieme, Kitty» disse Jack in tono seducente. «Stiamo realizzando qualcosa di davvero incredibile.» «Sì» replicò Kitty senza sapere bene se stava parlando del Delphi o di qualcos'altro che stava nascendo tra di loro. Qualcosa di irresistibile. Abbassò lo sguardo sulla bocca di Jack e socchiuse le labbra, ricordando la morbidezza del suo bacio. «Questa pubblicità farà schizzare la tua carriera» disse Sue. «Ora le chiamate fioccheranno.» Kitty si irrigidì mentre la realtà irrompeva tra loro. La sua amorevole genitrice stava per spifferare a Jack quanto fosse disperata perché non trovava lavoro. E lei aveva giurato di non apparire mai più così agli occhi di Jack. «Be', la pubblicità non fa mai male» disse in tono lieve, fulminando sua madre con lo sguardo. «È un articolo stupendo» disse Jack. «Ho portato una cosa per festeggiare.» Tornò alla bici e dallo zaino estrasse una bottiglia di champagne d'annata. Sue li condusse al tavolo da picnic, imbandito con insalate, piatti e bicchieri. Jack stappò lo champagne e i parenti si avvicinarono mentre lui versava il vino frizzante nei bicchieri. Kitty notò che erano i bicchieri vinti da sua madre alla

stazione di servizio anni prima, con i personaggi dei cartoni animati. Pensò alle flûte di cristallo che le erano state regalate per il matrimonio con Sam. Erano perfette, come del resto era stata la sua casa. L'aveva arredata lei. Era proprio la casa che aveva sempre desiderato, elegante, sofisticata. Esattamente l'opposto di quella in cui era cresciuta, con mobili vecchi tenuti insieme dal nastro isolante. Aveva sempre ritenuto che le apparenze contassero. Era un designer d'interni e aveva sempre voluto essere la migliore. Ma la sua casa perfetta non aveva impedito al suo matrimonio di sfasciarsi. La casa di sua madre era tenuta insieme dall'amore, non dal nastro isolante. Jack le diede un bicchiere di champagne con Bit-Bit sopra. Kitty brindò con lui, sua madre e tutti i parenti. Le bollicine sapevano di successo, per lei. «Allora, intendi presentarmi o no?» La voce di suo fratello la riscosse. «Sì, certo. Jack, questo è Nick Giroux, mio fratello. Nick, Jack Taylor, il proprietario del cinema cui sto lavorando.» Nick strinse la mano a Jack e Kitty rischiò di cadere all'indietro. Era un giorno di strane rivelazioni. Primo, il rendersi conto che quel che c'era tra lei e Jack era evidente per tutti. Secondo, l'articolo e l'idea che Jack apprezzasse il suo lavoro. Poi la consapevolezza che forse non era così importante dare a tutti l'idea di essere una persona di successo. E ora il fatto che suo fratello Nick sembrava la versione più giovane di suo padre, nell'atto di stringere la mano a Jack. Lo aveva sempre considerato un bambino, invece era un uomo adulto. Aveva le stesse spalle larghe, la stessa altezza e gli stessi capelli castani che aveva suo padre quando Kitty lo aveva visto per l'ultima volta. Aveva tredici anni, Nick dieci. Non lo aveva più rivisto. Le vennero le lacrime agli occhi. «Mi ricordo di te» stava dicendo Nick, rompendo l'illusione. La voce era come lui, il suo amato, impetuoso, nobile fratellino che aveva salvato tutti i gattini malati e i gabbiani feriti di Portland per provare a modo suo di non essere come il padre, che aveva abbandonato la famiglia.

Kitty sospirò di sollievo, prima di rendersi conto di essere ancora nei guai. Nick sapeva tutto della storia del ballo, e il suo tono era quello di un fratello protettivo e non certo di un salvatore di gattini. «Temo che non ci siamo mai incontrati» disse Jack. Nick gli teneva ancora la mano e lo sfidava con lo sguardo. «L'unico motivo per cui non ci siamo incontrati è che Kitty mi ha trattenuto. Volevo darti due pugni dopo ciò che le hai fatto al ballo.» Kitty si lanciò in azione. «Nick» disse tirando il fratello per una manica. «La griglia ha bisogno di te. Jack, vieni a fare un giro intorno all'isolato.» Nick se ne andò con riluttanza e Kitty attraversò il prato come una scheggia in direzione opposta. Jack la raggiunse, di corsa. «Strana situazione, eh? Perché sei scappata?» «Non volevo vedere cosa sarebbe successo. Quando Nick era piccolo riuscivo a impedirgli di dare pugni a tutti, ma ora è cresciuto.» «Non dovevi, avrei potuto spiegargli tutto.» «Spiegare cosa? Perché non doveva darti un pugno? Credimi, l'unico motivo per cui ho fermato Nick tanti anni fa è che eri più vecchio e più grosso di lui. Non che tu non lo meritassi.» «Okay.» Jack si fermò in mezzo alla strada. «Credevo che avessimo superato la cosa, ma pare di no. Sei ancora arrabbiata con me? Per un fatto successo dieci anni fa? È per questo che non ti piace che sia venuto al barbecue? Per questo non vuoi venire a letto con me?» «Il motivo per cui non voglio venire a letto con te è che non ho voglia di essere un'altra tacchetta sul baldacchino del tuo letto» sbottò lei. «E tu pensi che io faccia le tacchette sul letto solo perché ho avuto tante ragazze al college?» «E anche dopo.»

«Okay, anche dopo. Hai ragione, mi piacciono le donne. Mi piace il sesso. Ma tu pensi ancora che io sia un bugiardo per via di quanto è successo dieci anni fa. Non è giusto, non è stato così grave, Kitty.» Lei si sentì tradita. «Non è stato così grave?» «No. Eravamo amici, siamo andati al ballo insieme. Io ho baciato un'altra e tu ti sei infuriata. È successo questo, giusto?» «Sbagliato. Jack, siediti.» Indicò una panchina su un lato della strada. «Dobbiamo chiarirci, credo che abbiamo ricordi diversi in merito.» Inoltre a un tratto Kitty desiderava che Jack conoscesse la verità. Voleva dirgli quanto lui l'avesse ferita. Jack sedette, incrociò le braccia e la guardò. «Bene, rinfrescami la memoria. Raccontami la sera del ballo dal tuo punto di vista.» «Non è iniziato la sera del ballo, ma quando io avevo tredici anni e mio padre ci ha lasciati. È andato a caccia un fine settimana e non è più tornato. Ha chiamato da un posto nel New Hampshire per dirci che stava bene, e ogni tanto ci spediva una cartolina. Non l'ho più rivisto.» «Mi dispiace, Kitty, deve essere stata dura per te e per la tua famiglia, ma non capisco che cosa c'entri con me.» «C'entra perché io ero un'adolescente triste e sola. Volevo trovare qualcuno da amare, e quello eri tu.» Kitty sedette sul bracciolo della panca a debita distanza da Jack. Aveva le guance in fiamme. Fino a oggi sarebbe morta piuttosto che confessare quelle cose a Jack. Ma doveva farlo o lui non avrebbe capito quanto avesse condizionato la sua vita anche se in modo inconsapevole. Sapeva che per Jack non sarebbe cambiato nulla, ma desiderava che capisse. E voleva ricordare a se stessa perché non poteva farsi di nuovo ferire da lui. «Ero cotta di te dal mio secondo giorno come matricola. Ti stavo dietro nella fila in mensa e ti ho sentito scherzare con le donne del bar; hai riso e io mi sono innamorata di te. Avevi preso due pezzi di pizza, dei fagiolini e tre cartoni di

latte. Portavi i jeans e una T-shirt rossa. Io e la mia migliore amica, Marie, ci siamo sedute al tavolo vicino al tuo. Avevo preso solo lo yogurt per pranzo perché mi avevano stretto l'apparecchio il giorno prima e mi faceva male la bocca, ma in ogni caso non sono riuscita a mangiare nulla perché continuavo a guardarti. Per settimane, ogni volta che ti incrociavo in corridoio o in mensa, mi doleva la bocca.» «Uauh... Mi stupisce che ricordi tante cose.» «È ovvio che non hai mai avuto una cotta vera.» Jack non replicò. Kitty lo guardò e fu sorpresa da ciò che vide. La stava fissando, mordendosi un labbro, ed era assorto nei pensieri. Infine parlò, con lentezza. «No, non credo che mi sia mai successo prima.» Il suo volto, di solito animato, era immobile e concentrato. Gli aveva visto quell'espressione solo in un altro paio di occasioni, al ristorante quando gli aveva illustrato i disegni e sull'impalcatura quando avevano parlato di sogni. Era un lato nuovo di Jack Taylor, serio e apionato. Si affrettò ad andare oltre. «La mia cotta è durata circa tre anni, anche se non ti ho mai parlato. Poi, al penultimo anno, eravamo insieme al corso di arte, eppure non riuscivo ad affrontare le mia timidezza. Finché un giorno mi sei arrivato alle spalle e hai visto che ti stavo ritraendo.» Lo ricordava come se fosse stato il giorno prima: il momento in cui Jack Taylor aveva avuto la prova in bianco e nero, su cartoncino, di quanto lei lo adorasse. «Era un bel disegno, mi sono sentito lusingato.» Kitty scosse il capo. «Credevo di morire. Ma tu sei stato carino, mi hai chiesto di aiutarti a disegnare. Mi hai fatta sentire importante.» «Eri molto importante, mi hai aiutato a are l'esame. Ero una frana in arte.» La voce di Jack era allegra, lieve. «E ci siamo divertiti, vero?» «Sì. Continuavi a prendermi in giro perché non avevo visto quasi nessun film.»

«È ancora così. Dovrebbe essere vietato per legge.» Kitty fissò un albero e si sforzò di continuare. «Un giorno stavamo parlando del ballo di fine anno. Io ero nel comitato che si occupava degli addobbi e ti ho chiesto con chi andavi. Avevi sempre ragazze tra i piedi. Mi hai risposto che non l'avevi ancora chiesto a nessuna e io ho osato suggerirti di portarci me.» Ricordava il momento in cui lui aveva detto di sì. Aveva provato una tale gioia che aveva rischiato di svenire. Si girò verso Jack. «Perché hai detto di sì? Potevi andare con qualsiasi ragazza della scuola.» «Eri carina. Mi piacevi. Pensavo che sarebbe stato divertente. Non sapevo che l'avrei pagata cara, anche dieci anni dopo.» Il fatto che Jack non prendesse troppo seriamente il racconto la infastidiva; d'altro canto, le rendeva più semplice parlare. D'altronde si aspettava che lui fosse leggero e frivolo, e sapeva come gestirlo. Si alzò e prese a camminare sul marciapiedi di fronte a Jack. «Sono certa che non vuoi sapere quanto tempo ci ho messo a trovare l'abito perfetto, usando tutti i miei risparmi per pagarlo. O quante volte l'ho provato sognando di starti accanto. Per te era un capriccio, ma per me quella sera doveva essere il momento più romantico della mia vita. Ero innamorata di te da anni ed eccomi al tuo braccio, la ragazza che portavi al ballo.» La palestra era decorata con festoni e palloncini, ma aveva odore di gomma e sudore. Kitty non ci aveva badato. Aveva domato gli odiati capelli rossi in uno chignon elegante e aveva i piedi stretti nelle scarpe con il tacco più alto che avesse mai osato mettere. Si sentiva in paradiso. Le sembrava di camminare sulle nuvole, di ballare sull'arcobaleno. L'eroina del suo romanzo personale che avrebbe avuto un lieto fine con Jack Taylor, il ragazzo più bello del college. «Abbiamo fatto un lento e tu mi hai baciata.» «Sì, ho baciato la ragazza con cui ero uscito perché mi andava.» Jack pareva seccato. «Poi tu sei andata a prendere un bicchiere di punch e quando sei tornata io ero sulla pista da ballo a pomiciare con Melissa Beauchamp.»

«Quella iena.» «Ma è stata lei a baciare me, Kitty. È venuta in pista e mi ha quasi preso con la forza.» «Sì, mi ricordo» replicò Kitty, calma. Stava tornando con il punch e aveva visto Melissa Beauchamp, la ragazza con la reputazione peggiore della scuola, avvicinarsi a Jack. Indossava un abito verde brillante troppo stretto per il suo seno. Melissa aveva approcciato Jack come una belva affamata, gli aveva gettato le braccia al collo e gli aveva sorriso. Kitty aveva gioito tra sé e sé. È qui con me, non ti vuole, Melissa, aveva pensato. Jack era parso sorpreso di vedersi Melissa appiccicata addosso. Poi però le aveva sorriso a sua volta e l'aveva abbracciata. «Non l'hai mandata via» precisò Kitty. «Mi aspettavo che le dicessi di no. Non l'hai fatto.» Jack distolse lo sguardo e studiò l'albero che aveva analizzato lei prima. «Mi hai portata al ballo e mi hai piantata in asso per la ragazza più facile della scuola. Ne valeva la pena, Jack? Baciava bene? Hai fatto sesso con lei?» Jack sbatté le palpebre. «No, io... no.» Era stupido, eppure si sentì sollevata. Dieci anni prima la sua immaginazione era schizzata chissà dove. «Allora perché l'hai baciata?» Jack chiuse gli occhi. «Lei ha baciato me. È successo, cosa vuoi che ti dica?» Kitty gettò le mani per aria. «Vedi? E ti chiedi perché ti abbia odiato per dieci anni. Non ti sei comportato esattamente da Principe Azzurro, no?» «Avevo diciotto anni, ero un ragazzo. Non sapevo come comportarmi. Ho cercato di scusarmi, dopo. Ci ho provato parecchio, in verità. Non volevi ascoltarmi.» Kitty strinse i pugni. «Perché avevo diciassette anni e tutti a scuola sapevano

quello che mi avevi fatto, e io mi sentivo una perdente sfigata.» C'era dolore e rabbia nelle sue parole. Kitty si rese conto di essere tornata indietro di dieci anni. Per un istante considerò la storia dall'esterno. Era piuttosto banale, una cotta adolescenziale finita male, un brutto anatroccolo abbandonato per un bel cigno. Fu allora che Jack pronunciò le parole che lei aveva in mente. «Kitty, dai, non ti sembra un po' esagerato odiarmi per una cosa che ho fatto dieci anni fa?» La realtà la colpì come un pugno in faccia. Non era solo un fatto avvenuto dieci anni prima, era iniziato quel giorno e da allora la aveva sempre perseguitata. Aveva pensato di avere superato la sensazione di non essere all'altezza quando si era trasferita in California, con un marito nuovo e una carriera di successo. Poi era andato tutto a rotoli ed era tornata a casa, aveva rivisto Jack Taylor in un momento di disperazione e vulnerabilità ed era come se quei dieci anni non fossero mai trascorsi. La diciassettenne Kitty, con due bicchieri di punch in mano, era rimasta impietrita sui suoi stupidi tacchi a guardare il ragazzo che amava baciare Melissa Beauchamp. Aveva sentito delle risatine al suo indirizzo e la sua vita si era stravolta del tutto. Non era all'altezza. La persona che desiderava di più al mondo l'aveva umiliata davanti a tutti. Il suo sogno si era infranto. E da lì era iniziata la fortuna di Kitty Giroux. Non intendeva ammetterlo davanti a Jack, quello no. Lui sedeva sulla panca, un sorriso affascinante sul volto, l'espressione curiosa. Sapeva come avrebbe reagito a quella confessione. Avrebbe riso. «No, non sono esagerata, perché da allora non sei cambiato per nulla.» Jack si alzò, le si avvicinò e le mise le mani sulle spalle. Kitty sentì il suo calore e la sua forza circondarla. Erano all'aria aperta, in balia totale dei anti. Mio Dio, lo voleva. Anche se era arrabbiata con lui. Anche se non si fidava di lui. Anzi, forse lo voleva di più per questo, perché sapeva che non poteva averlo.

«Guardami, Kitty.» Le sollevò il mento. «Non puoi dire che non sono cambiato, lo sono, e anche tu. Siamo due adulti, ora.» Adulti era giusto, come aggettivo significava maturi per il sesso. Come in film per adulti. L'altra mano di Jack slittò in basso e la tirò vicino a sé, così che i suoi seni gli sfiorarono il petto. Lui guardò in giù e notò i capezzoli inturgiditi. «Non siamo più bambini, possiamo abbandonarci ai sentimenti. Nessuno si farà del male, ora.» Abbassò la testa fino a sfiorarle le labbra. Prima ancora che lui la baciasse, Kitty sapeva come sarebbe stato. Gli si sarebbe abbandonata, desiderando di averlo addosso, intorno, dentro. Ora. Il suo subconscio la salvò. Le riportò alla mente la sua foto nell'annuario di fine corso. Il piglio determinato del mento, la sua ambizione: essere la migliore. Si era sbagliata, era stata sciocca, ingenua e sfortunata. Ma ora doveva realizzare la sua ambizione. Almeno per una volta, dopo tante delusioni, suo padre, il divorzio, la carriera, doveva essere la prima. La migliore. Era venuta nel Maine per quello, per iniziare da capo. E con Jack non sarebbe mai stata prima. Non poteva essere la migliore, al massimo la più recente. «Jack, fermati.» Lui si fermò, teso, e lei fece un o indietro. «Il tuo corpo sarà anche cresciuto, ma tu no. Cerchi sempre una cosa sola. E io e Melissa abbiamo una cosa in comune. Neanche io farò sesso con te.»

7

«Allora vai a Providence per il weekend, alla fine?» le chiese Sue quella sera. Kitty posò la valigia sul pavimento in cucina. «Sì. Hai ragione, mi serve un po' di svago e le feste di Marie sono sempre divertenti. Conoscendola, avrà invitato un sacco di maschi single.» «E Jack Taylor?» «Non sono interessata a lui, mamma. Ha già varie fidanzate, non gli servo. E poi stamattina al telefono ho promesso a Marie di raggiungerla per la festa.» Che bugiarda! Kitty non parlava con Marie da settimane. Se ne andava per un solo motivo, Jack. Il pensiero di incontrarlo per sbaglio o l'idea che lui si presentasse di nuovo a casa sua, non invitato, le faceva sudare le mani. Voleva fuggire a miglia di distanza da lui. Restare nella stessa città era inconcepibile, da crisi di nervi. Insomma, Portland non era abbastanza grande per tutti e due. Sue Giroux mise il bollitore sulla stufa e poi tornò da Kitty a sistemarle i capelli dietro le orecchie. Lei attese che la madre si girasse e li scompigliò di nuovo. «Bene, meno male che sei rimasta almeno per il barbecue, è stato bello avere la famiglia riunita oggi.» Sue sospirò. «Non succede quasi più, tu e Nick siete sempre occupati.» Kitty provò un senso di colpa per la bugia e il suo atto di ribellione con i capelli. Rimise i ricci dietro le orecchie, abbracciò la madre e la baciò prima di prendere la valigia e uscire di casa. Salì sulla decappottabile con la sensazione di fuggire. Accese il motore e partì. Providence era a tre ore di strada, abbastanza lontano da Jack. E Marie era proprio la persona che voleva vedere. Marie conosceva Jack Taylor almeno quanto lei, dopo tutto era stata la migliore amica di Kitty al college. Avrebbe

sdrammatizzato la situazione, avrebbe dato a Kitty una prospettiva nuova e l'avrebbe aiutata a capire che c'erano molti altri uomini in giro oltre all'affascinante Jack, senza cuore. E poi, dopo il lungo weekend, recuperata la sicurezza in se stessa, sentendosi di nuovo adulta, Kitty sarebbe stata in grado di affrontare di nuovo Jack Taylor e di tornare a lavorare al Delphi. Si sarebbe fermata a Portsmouth, decise, a comperare la bottiglia di vino più cara che potesse permettersi. Lei e Marie avrebbero potuto berla insieme, ricordando i giorni belli e brutti del ato. Non crederà che lui sia diventato così bello né che il Delphi sia tanto incredibile, pensò Kitty. Avrebbe mostrato a Marie le foto scattate in digitale e i suoi disegni. In effetti doveva farne altri per poterli mostrare a Dave, il caposquadra, il martedì successivo. Kitty frenò e mise la freccia a destra per tornare a casa di sua madre. Aveva scordato la videocamera. Strano, non l'aveva vista quel giorno, o l'avrebbe usata per fare delle foto durante il barbecue. Frenò di nuovo, stavolta in modo più deciso, per cambiare direzione. Non l'aveva vista perché l'aveva lasciata al cinema, insieme al blocco, alle matite e ai progetti del Delphi. Tutto ciò che le serviva per lavorare. «Maledizione!» Una macchina le arrivò dietro e a Kitty non restò che accelerare di nuovo. Bene, avrebbe dovuto fare a meno della videocamera per il weekend, e anche del lavoro. Dave sarebbe rimasto male, ma... No, Jack l'aveva già costretta a fare la figura della scema troppe volte, se voleva la videocamera e il blocco sarebbe andata a prenderli, comportandosi come un normale essere umano adulto. Poi sarebbe andata a Providence da Marie e avrebbe preso due bottiglie di vino per la strada. In seguito avrebbe convinto l'amica a portarla in un bar alla moda e avrebbe flirtato con tutti i maschi single che gli sarebbero capitati a tiro. Strinse forte il volante e si diresse verso il Delphi.

La grossa porta esterna si aprì cigolando senza bisogno di chiavi e a Kitty si strinse lo stomaco; Jack doveva essere dentro, da qualche parte. Non importava. Con un po' di fortuna, Jack sarebbe stato di sopra nell'ufficio e non l'avrebbe visto. Entrò praticamente in punta di piedi, richiudendosi le porte alle spalle. Popcorn. L'odore pervadeva la hall, evocando le doppie razioni del venerdì sera e del sabato pomeriggio. Per la prima volta l'ampio spazio vuoto intorno a lei le parve ciò che era in realtà: un cinema-teatro. Guardò verso lo stand delle concessioni. Una macchina d'acciaio luccicante dietro al banco, ricoperta di vetro e illuminata, produceva popcorn. La bicicletta di Jack era appoggiata al muro lì vicino, ma di lui non c'era traccia. In silenzio, senza fare rumore con i mocassini, Kitty si diresse verso le doppie porte che portavano al teatro, evitando la botola, riparata di recente. Ci mancava solo che ci cadesse dentro anche lei. L'unico rumore era rappresentato dallo scoppio del mais nella macchina. Ancora pochi i e sarebbe entrata nel cinema, avrebbe preso la videocamera e sarebbe fuggita verso un altro stato. «Katherine.» La voce di Jack la fece sobbalzare. Si girò e lo vide sporgere la testa da sotto il banco dello stand per le concessioni. Lo osservò alzarsi e ripulire i jeans. «Vuoi dei popcorn?» Sono un normale essere umano adulto e agirò come tale. «No, grazie.» Smettila di guardargli la bocca. «Sei venuta a scusarti per avermi cacciato a calci nel sedere dal barbecue di famiglia? O stai riconsiderando l'idea di fare sesso con me?» Kitty strinse i denti. «Ho lasciato qui la mia videocamera ieri.» Attraversò le porte in legno, si infilò lungo una corsia del cinema e individuò la videocamera su una poltrona, vicino alla cartellina. Recuperò entrambe, fece il percorso inverso, ò oltre Jack che la stava ancora osservando e si avviò verso le porte del vestibolo d'entrata, sentendosi addosso gli occhi marroni di lui.

Afferrò la maniglia, le mani sudate, l'abbassò e tirò. La maniglia si staccò dalla porta. Kitty guardò la maniglia in ottone ossidato che le era rimasta in mano. Poi guardò la pesante porta chiusa in legno, la sua via di fuga verso Providence e Marie. Abbassò le palpebre, valutando l'orrore. La mitica sfortuna di Kitty Giroux. Non sbagliava un colpo. No, non poteva essere. Forse la maniglia si era solo allentata e si poteva sistemare. Kitty aprì gli occhi e riposizionò la maniglia nel buco dove stava prima, facendo collimare il pezzetto di metallo. Per un istante felice le parve che fosse tornata a posto, ma quando cercò di abbassarla, la maniglia si staccò di nuovo. «Accidenti.» Si chinò e ispezionò il buco da vicino. Pareva proprio che la maniglia si fosse rotta a metà; un pezzo era rimasto nella porta. Trafficò di nuovo. Non ebbe fortuna. Come al solito. Kitty si lasciò scivolare a terra, si prese la testa tra le mani e gemette. «Che succede?» chiese Jack, raggiungendola. Kitty gli porse la maniglia. «Il tuo edificio si è rotto di nuovo.» «Cosa?» Prese la maniglia e cercò di sistemarla. «Ci ho provato, non funziona. È rotta.» Aveva provato a fare il fenomeno, quello che aggiusta tutto. Tipico dei maschi. «È rotta davvero» disse, come se avesse scoperto una nuova, incredibile legge fisica. «È quello che ti ho detto, non hai ascoltato?» «Che cosa hai fatto per ridurla così?» Kitty balzò in piedi. «Non ho fatto niente, l'ho solo abbassata.» «Devi averla abbassata con forza. Questo metallo è spesso più di tre centimetri.»

«Cos'è, ti sembro un culturista? L'ho abbassata come si fa di solito, non è colpa mia se questo posto è un mucchio di rottami.» «Devi averla forzata troppo.» Voleva forzargli il collo. «No.» «In genere questa porta non viene mai chiusa. Lavori qui da due mesi e non l'hai notato? Cosa ti è venuto in mente di chiuderla?» Ora ba sta. Kitty perse le staffe. «Perché non stavo pensando! Perché all'idea di venire qui stavo male! Perché tutti i miei sospetti sono stati confermati da quella tua battuta cretina sul sesso! L'ho chiusa e basta, non sapevo che sarei finita alla gogna per questo!» Le sue parole echeggiarono nel silenzio. Fissò Jack, che ricambiò lo sguardo con la stessa intensità. Lo scatto di rabbia si trasformò subito in qualcosa di più profondo e caldo, che la fece arrossire e ansimare. La sua lingua ricordò il sapore di lui e le labbra si socchio. Gli occhi di Jack si abbassarono per un momento a guardarla. Non si avvicinò, ma per Kitty fu come essere presa di nuovo tra le braccia. La stessa sensazione esaltante, il desiderio folle per qualcosa che sapeva essere molto pericoloso. Si sentì ardere dentro, e non voleva. Voleva andare a Providence. Inspirò e fece un o indietro prima che lui tornasse a guardarla. «Ascolta, fa niente, la aggiusteremo. Per adesso ò l'uscita di emergenza.» «È bloccata e io non ho la chiave.» L'incredulità e la disperazione fecero a botte per avere il predominio delle sensazioni di Kitty. L'incredulità ebbe la meglio. «Non hai le chiavi?» «No. Sono venuto qui subito dopo averti salutata per accendere la macchina dei popcorn. In genere porto con me solo le chiavi dell'entrata principale.» «Non è illegale avere le porte di emergenza bloccate?» Kitty era disperata, ora. «Probabile, ma il posto non è ancora aperto al pubblico.» Jack spinse la porta, che non si mosse. «Senti, non sono stato io quello che ha chiuso la porta e poi ha

staccato la maniglia, rompendola.» Kitty decise di ignorare il tono accusatore. «Okay. Quaggiù non ci sono finestre, lo so, ma che cosa mi dici dei lucernari di sopra?» «Sono sbarrati.» Jack spinse di nuovo la porta con una spalla. I muscoli si tesero, ma la porta rimase chiusa. «C'è un condotto di ventilazione attraverso il quale possiamo are?» Sapeva che non c'era, ma lo chiese comunque, sperando che si materializzasse. Jack scosse il capo. Spinse di nuovo, sbuffando. La porta era inamovibile. «Come usciremo di qui, allora?» Jack smise di spingere e si appoggiò di lato. «Magari se spingessi anche tu ce la faremmo.» «Oh, sì, okay.» Piantò i palmi delle mani vicino alla spalla di Jack, contro la maledetta porta. «Al tre. Uno, due, tre.» Kitty chiuse gli occhi e spinse con tutta la forza che aveva. Sentì lo sforzò di Jack, il suo respiro tra i denti stretti. Ti prego, muoviti, porta, pregò in silenzio. I suoi muscoli protestarono e iniziarono a tremare. Ma la porta rimase chiusa. Jack buttò fuori il fiato e lei capì che aveva smesso di spingere. Aprì gli occhi e smise anche lei. «Ti prego, dimmi che le linee telefoniche sono state collegate anzitempo» annaspò. «Lo saranno giovedì prossimo.» Jack si morse il labbro e osservò meglio la porta. «I cardini sono dall'altra parte, non posso nemmeno tentare di sfilarla. Dai, spingiamo forte stavolta. Riproviamo.» Kitty si avvicinò ancora. «Non hai un cellulare?»

«Non sono riuscito a trovarlo. Deve essere da qualche parte a casa. Bene, ora pensa alle cose che odi di più al mondo e gettati contro la porta come se volessi sfondarla. Pronta? Al tre.» Kitty pensò ai miseri resti del suo cellulare sparpagliati nel parcheggio del rivenditore d'auto due mesi prima. Strinse i pugni e al tre di Jack si lanciò in avanti. Udì il rumore del suo corpo e di quello di Jack contro il legno. La porta non tremò neppure. Si ritrassero entrambi, massaggiandosi le spalle. A Kitty doloravano braccio e spalla. Sedette per terra, appoggiata al muro. Jack la imitò, incrociando le gambe davanti a lei. «La cosa buona è che la porta esterna è ancora aperta e la maniglia all'altro lato di questa porta potrebbe funzionare ancora. Dobbiamo solo aspettare che venga qualcuno ad aprirla.» Kitty si illuminò. «Niente male. Questo fine settimana non aspetti nessun operaio o tecnico?» «No, è il Memorial Day, ricordi? Non torneranno fino a martedì. Non dovevo venire neppure io, ma hanno consegnato la macchina dei popcorn e volevo vedere se funzionava. Tra l'altro ero stato cacciato dal barbecue.» «Ma qualcuno sa che sei qui, giusto? Se non ti vedono comparire, si preoccuperanno e verranno a cercarti.» Stava quasi strillando. Deglutì. «No, non avevo progetti per il weekend. Non mi aspetta nessuno da nessuna parte. Sono venuto in bici direttamente da casa tua. A proposito, spero che tu mi abbia scusato con tua madre per essermene andato tanto in fretta dopo il suo gentile invito. Non ho potuto farlo io, mi hai cacciato.» «Sopravviverà al dolore» disse Kitty. «Bene. I tuoi lo sanno che sei venuta qui?» «No, stavo andando a Providence dalla mia amica Marie fino a lunedì sera.» «Lei ha il numero di tua madre? Se non ti vede arrivare la chiamerà!» Kitty si morse un labbro. «Marie non sa che sarei andata. Mi ha invitato tre

settimane fa e avevo rifiutato, ma stasera ho deciso di andare.» «Dopo avere litigato con me? Non potevi sopportare l'idea di restare nella stessa città?» «Esatto. E puoi immaginare perché senza sforzo.» «Bene, grazie. Invece ora sei bloccata qui con me.» Jack controllò l'orologio. «Sono le sette e mezzo di sabato sera, siamo intrappolati qui dentro e nessuno si aspetta di vederci fino a lunedì sera.» Kitty fu colta dalla disperazione. «Ci sarà pure qualcuno che potrebbe are per caso? E Oz?» «Oz è volato a Montréal per il weekend. Deve parlare a un meeting di psicologi. Non erà nessuno di qui, siamo bloccati.» Kitty balzò in piedi e si mise a tempestare la porta di pugni. «Aiuto!» urlò. «Qualcuno ci aiuti!» Continuò a dare pugni finché le nocche delle dita le dolsero e la voce si spezzò. Poi scivolò per terra. «È davvero così terribile essere chiusa qui dentro con me?» le chiese Jack. Kitty lo guardò; aveva i capelli arruffati e i jeans impolverati. Dio, era il meglio che si potesse desiderare e al contempo un incubo. «Ci sono modi migliori per trascorrere il weekend» replicò. Lui la fulminò di traverso. «Sai davvero come rendere felice un uomo, lo sai?» «Renderti felice non è tra le mie priorità.» «Buffo, io invece sono settimane che cerco di farlo con te.» «La smetti di usare doppi sensi?» Jack aprì la bocca, poi la richiuse. «A dire il vero quello non era un doppio senso. Ho cercato di renderti felice, ho cercato di essere tuo amico.»

«Oh...» L'obiezione la lasciò sorpresa. «Dio, per fortuna sei tu che accusi me di ridurre tutto al sesso.» Soppresse un sorrisetto sarcastico, mentre gli occhi tornavano a brillargli, diabolici. Come cavolo poteva evitare di pensare al sesso? «Bene, se vuoi rendermi felice, apri quella porta. Io vado a dare un'occhiata ai lucernari di sopra.» I lucernari erano sbarrati con delle spranghe di ferro quanto la porta di sotto. Almeno Kitty ebbe qualche minuto di respiro, però. Quando tornò nella hall, Jack era inginocchiato davanti alla porta e stava inserendo una carta di credito nella fessura tra la porta e lo stipite. «Non capisco, nei film funziona sempre» disse. Fece scivolare la carta e Kitty udì un rumorino secco. «Accidenti, un'altra carta di platino valida che se ne va.» Kitty si succhiò le nocche scorticate e calciò una scatola di cartone. «A proposito di film, dimmi almeno che il proiettore funziona e che possiamo guardare qualcosa in attesa di essere salvati.» «No. La lampada funziona, ma le bobine non girano. Quelle nuove arrivano ad agosto. Hai una carta di credito da prestarmi?» «Non ho carte di credito.» Andò verso la macchina dei popcorn che continuava allegramente a funzionare. «Mio Dio, cosa c'è qui?» Prese una scatola gialla dall'enorme scaffale dietro il banco. «Uvetta» lesse. «Sì, l'ho ordinata assieme ai popcorn. Hanno consegnato tutto stamattina. Almeno non moriremo di fame.» Kitty ripose la scatola e tornò da Jack. «Jack, mi stai dicendo che siamo chiusi dentro un cinema con la porta più resistente del mondo. Non ci sono finestre. Non hai un telefono. Le uscite di emergenza sono bloccate. Non c'è neppure un proiettore funzionante. Però hai una macchina per i popcorn e una fornitura per un anno di uvetta ricoperta di cioccolato?» Jack esibì un'espressione malandrina. «Sì? Quali altre cose inutili hai qui dentro?»

Jack sorrise. «Dodici dozzine di profilattici.» Kitty gettò per aria le mani. «Grande. Centoquarantaquattro preservativi? Così se ci annoiamo li riempiamo d'acqua e ce li tiriamo.» Lui sollevò un sopracciglio. «Si possono usare in altri modi, sai?» «Sì, per esempio se non la smetti di fare allusioni te ne posso infilare uno in testa, così taci.» Jack iniziò a ridere. Rideva come un pazzo, le mani sullo stomaco, rotolandosi persino sul pavimento. E Kitty non poté fare a meno di ridere a sua volta. Primo, immaginandosi Jack con un preservativo srotolato in testa. Secondo, nel vedere lui, un uomo adulto e bellissimo, incapace di trattenere le risate. Lui la guardò con una smorfia. Era rosso in volto e gli occhi gli scintillavano. «Punto tuo. Ritiro l'osservazione. Mi spiace di averti incolpata di avere rotto la porta, non è stata colpa tua.» Tutta la tensione e la frustrazione l'avevano abbandonata con la risata. «Okay. A me dispiace di avere definito il tuo teatro stupido.» «E a me di averti spezzato il cuore a scuola.» A quella frase, Kitty rimase senza fiato. Si mise a sedere di colpo sul parquet, di fronte a lui. Aveva creduto di non desiderare scuse da parte di Jack, ma ora che le aveva ottenute, capì quanto le avesse aspettate. «Come mai questa frase?» «Perché mi dispiace. Mi sono comportato male e non avrei dovuto mettermi sulle difensive oggi. Ma è dura essere attaccati per fatti successi così tanti anni fa. Per me è il presente che conta. Eppure il ato continua a precluderci la possibilità di avere una relazione.» «Non è il ato che ce lo preclude, ma il fatto che per te la parola relazione è sinonimo di sesso ricreativo.» «Dici così perché sono andato a letto con qualche donna.»

«Diverse, direi.» «Okay, diverse. Non capisco il problema, però. Ti ho già detto che le altre donne non mi interessano. È te che voglio.» Il fatto che lo dichiarasse in modo tanto spavaldo la fece rabbrividire. «Non capisci, Jack. È proprio per quello che non mi fido di te.» «Perché ti desidero?» Come faceva a rendere quella sala enorme così piccola tutto a un tratto? «No, perché non ti importa delle donne del tuo ato. Sei stato intimo con loro, hai condiviso momenti importanti. Ma loro non sono nulla per te. Sono corpi, non persone con dei sentimenti.» Jack si alzò e si spazzò i jeans. «Kitty, posso capire perché tu sia giunta a questa conclusione, ma non è vero. Io sono amico di ogni singola donna con cui sono andato a letto.» «Amico? Mai nulla di più?» «Che c'è di male a essere amici?» Venne a sedersi accanto a lei, le prese una mano e lei rabbrividì, sentendosi circondata dal suo calore. «Senti, credo di capire dove tu voglia arrivare. Tu pensi che io abbia lasciato una scia di cuori infranti alle mie spalle. Non è vero, io non ferisco le donne. Se si lasciano coinvolgere, sanno anche cosa c'è in gioco. Io non cerco relazioni serie, voglio solo divertirmi, e lo stesso vale per loro.» «Quindi conoscono le regole del gioco.» Cercò di liberare la mano, ma lui non glielo permise. «Non sono regole, è la realtà.» «E non hai mai ferito una donna che si aspettava di più, magari.» Lui esalò un sospiro. «A parte te, no.» «Come lo sai?»

Jack si alzò in piedi e fece alzare anche lei. «Ci servono dei popcorn per continuare la conversazione.» Alla parola popcorn, lo stomaco di Kitty ruggì. Non aveva mangiato molto al barbecue dopo che Jack se ne era andato, ed era ora di cena. «C'è il burro?» Jack si staccò da lei, si precipitò dietro il banco e prese due contenitori di cartone. «Due porzioni grandi di popcorn con burro in arrivo!» Li riempì di popcorn, ci mise sopra il burro liquido e glieli ò. «Vieni, andiamo a sederci nel cinema. Le poltrone sono più comode del pavimento, qui.» «Perché ho la sensazione che ciò che stai per dirmi non mi piacerà?» ribadì Kitty, seguendolo. «Probabilmente perché non ti piacerà. Parlando con te oggi mi hai fatto ripensare a ciò che è successo davvero la sera del ballo. Ti devo la verità. Siediti.» Erano entrati nell'auditorium. Le poltrone non erano ancora state rifoderate, ma alcune di quelle davanti erano coperte da un lenzuolo abbastanza pulito. Kitty sedette su una di queste e Jack si accomodò accanto a lei, che inghiottì subito un popcorn senza nemmeno assaggiarlo. «Non volevo baciare Melissa Beauchamp al ballo, ho agito d'impulso perché lei era lì. E l'ho fatto perché volevo che tu mi vedessi baciarla.» «Perché?» chiese lei in un sussurro. Lo sapeva il perché. Non era abbastanza bella. Non portava i vestiti giusti. Non era abbastanza divertente o dotata di talento. Non era la migliore. «Ti importava troppo di me» disse Jack con un sospiro. «Non me ne ero accorto prima del ballo. Hai sempre fatto l'amica, non mi hai mai detto che avevi una cotta per me. Ma quando ti ho baciata l'ho capito. Per te tutto ha importanza. Ti importava, provavi una fortissima emozione.» Jack si grattò la fronte. «Mi piacevi, Kitty, io piacevo a te. Eri carina e stavamo bene insieme. Ma quando ti ho baciata mi sono sentito responsabile della tua felicità. Era troppo, per questo mi sono spaventato. Non ero abbastanza grande per dirti che non riuscivo a gestire i tuoi sentimenti, per cui, come il classico teenager, ho agito crudelmente, senza un minimo di classe.»

Kitty posò il contenitore dei popcorn per terra. Non voleva strozzarsi e non riusciva a deglutire. «Ero un ragazzino, ma ho sbagliato comunque. Non era il modo giusto per comunicarti che non sapevo gestire una relazione. Ti devo delle scuse.» Quindi si era reso conto subito di quanto fosse disperata, e di quanto lo desiderasse. Kitty lo aveva sempre sospettato. Ora lo sapeva. Non disse nulla. Jack si alzò. «Non avevo niente contro di te, Kitty. Ho capito di averti ferita, sono stato male. Per questo dopo di te ho sempre cercato di evitare che si ripetesse una situazione del genere. Ho imparato. La sera del ballo mi ha cambiato. Ho iniziato a dire subito alle donne con cui uscivo che non volevo legami impegnativi. Io non ferisco le donne, Kitty. Sono onesto fin dall'inizio, sempre. E non succede spesso, ma se mi accorgo che una donna si sta attaccando troppo a me, taglio. Le parlo e rimaniamo amici.» «Allora è a causa mia che sei diventato un comunicatore così bravo e ti riesci a procacciare tutto il sesso che vuoi.» Kitty era calma, amara. «No, non è a causa tua. È a causa mia. A causa di chi sono e di ciò che voglio. Mi posso scusare per averti trattata male al college, ma non mi scò per come sono.» Ora stava eggiando nervoso davanti a lei. «Per come la penso io, sono più onesto di chi si invischia in una relazione che non vuole per non deludere nessuno. Non voglio fingere di essere innamorato. Meglio essere chiari che finire per divorziare dopo pochi anni.» Anche Kitty si alzò. «Com'è successo a me e al mio ex marito, vuoi dire? Sì, la tua è una scelta più facile, grazie per avermela spiegata.» Si girò e imboccò una corsia del cinema, senza sapere bene dove stava andando. Avrebbe persino sfondato la porta chiusa pur di allontanarsi da Jack Taylor. «Kitty!» Jack la superò di corsa e si mise davanti all'ingresso, bloccandola. Lei si fermò, i pugni stretti, il fiato in gola. Era arrabbiata, ma anche eccitata da lui, e questo la faceva infuriare ancor di più. «Che ne sai di divorzi, Jack? Cosa ti rende così esperto di relazioni? Non ne hai mai avuta una! Non sei mai stato innamorato, non te ne è mai fregato di nessuno

a parte te. Nessuno ti ha mai abbandonato, non hai mai perso nessuno. Per cui scusami se non ho voglia di ascoltare le tue grandi teorie sulle gioie della comunicazione.» Lui alzò le mani. «Okay, va bene. Mi sono fregato da solo, è stata una frase infelice, scusa se l'ho detta.» Fece un o verso di lei. «E hai ragione quando dici che nessuno mi ha mai lasciato. Ma non è tutta colpa mia. A diciotto anni ero un cretino, ma tutto il resto che ti è successo non è imputabile a me.» Ci fu una pausa durante la quale si fissarono. Jack, calmo e serio. Kitty, tesa e furiosa. Poi lei inspirò a fondo ed espirò lentamente. «No, non è colpa tua. Niente è colpa tua, anzi. Eccetto il fatto che non puoi essere la persona che vorrei che tu fossi. E neanche questo è colpa tua.» «Che persona vorresti che fossi?» Kitty scosse il capo, d'un tratto stanchissima. «Nessuno, non preoccuparti, Jack. Possiamo smetterla di litigare per un po'?» «Lo vorrei tanto.» Le posò una mano sulla spalla e con l'altra le spostò i capelli dalla faccia. Un gesto tenero. Poi le carezzò una guancia, piano. Kitty avrebbe dovuto fermarlo. Ma era così bello. «Dimmi, Kitty, che tipo di persona vuoi che sia? Me lo sono chiesto spesso.» Le prese la faccia tra le mani, fissandola con gli occhi marroni, dolci e fondi. «Voglio che tu...» Sia la persona che ho sempre sognato. Jack Taylor, innamorato di me. Deglutì. Non lo poteva dire. «Non importa.» «Invece sì.» Le sollevò il mento, le baciò la fronte e poi la guancia. Ogni bacio lasciava una traccia calda e umida sulla pelle. «Ci siamo solo io e te qui, dimmi cosa vuoi.» «Io voglio...» Un altro bacio lieve sul naso, poi sul sopracciglio destro. «Che cosa vuoi, Kitty?»

«Io voglio te» bisbigliò. La baciò sulla bocca. Le sue labbra, calde e gentili, si posarono sulle sue, si ritirarono, premettero più forte. Lei aprì la bocca, solo un po', e si lasciò sfiorare la lingua. Una scossa di elettricità minacciò di distruggere tutte le sue difese e di ridurla a un fascio di sensazioni. Gli sfiorò la guancia con la mano e sentì la barba appena cresciuta. Dopo tre notti, sarebbe stata più lunga e morbida. Tre notti insieme a Jack, nuda, alla sua mercé. Come poteva proteggersi? Si scostò da lui. «Jack, non posso» ansimò. Lui si fermò, la guardò negli occhi. «Lo voglio, ma non posso. Ti prego, non farmi fare una cosa che rimpiangerò. Sono bloccata qui con te e se continui a toccarmi non resisterò, ma non è giusto.» «Cosa vuoi che faccia?» chiese lui. «Smettila di toccarmi, ti prego. Non toccarmi più.» Deglutì a fatica. «Devi fermarti tu, perché non so se io ce la faccio.» Come per provare la veridicità delle sue parole, gli carezzò il collo e il petto, in modo quasi involontario. Vide che anche Jack deglutiva. «Sei sicura?» Per niente, ma era l'opzione migliore. «Sì.» Lui lasciò cadere la mano e si ritrasse. Kitty batté le ciglia. Non si era aspettata che le obbedisse. Forse glielo aveva chiesto proprio per questo. «Grazie.» Si ritrasse anche lei e si appoggiò alla fila di poltrone in fondo alla sala. Jack sembrava un'anima in pena. «Prego.» Si ò una mano tra i capelli. «Non è stato facile.» «No, ma ti ringrazio.»

Rimasero a guardarsi. L'aria era pesante. «Che cosa dovremmo fare?» chiese Jack. Kitty aprì la bocca, poi la richiuse. Guardò l'orologio. «È presto, ma forse potremmo dormire e cercare di farci aprire la porta domattina presto.» «Va bene.» Lei si guardò intorno. «Qual è il posto migliore per dormire, secondo te?» Avrebbe dormito nella stessa stanza di Jack. «Be', la hall è più vicina ai bagni e all'entrata, ma ci sono dei gradini. Andiamo davanti al palco, dove il pavimento è piatto.» Lei si tenne a debita distanza mentre si spostavano. Jack saltò sul palco e aprì una delle enormi scatole di cartone sul lato. Ne tolse alcuni metri di stoffa di velluto cremisi. «Guarda, perfetto come coperta.» «Quelle sono le nuove tende per il palco. Non possiamo usarle, schiacceremo il velluto.» Lui continuò a estrarre la stoffa. «Va bene, le farò rinfrescare dopo. Una dovrebbe essere sufficiente per entrambi. Sono grandi, avremo tanto spazio.» Condividere una tenda di velluto cremisi con l'uomo più sexy dell'universo? Kitty lo guardò, dubbiosa. «Ti costerà una cifra farle rilavare.» «Se potessi scegliere, Kitty, staremmo condividendo una suite nell'hotel più esclusivo della costa. Il conto della lavanderia sarà una bazzecola al paragone. E poi non vorrai dormire su uno straccio macchiato di vernice e impolverato?» «In effetti c'è una certa logica nelle tue parole.» Lo aiutò a togliere la tenda dalla scatola; il velluto era molto morbido. Quando lo stesero per terra, ricopriva quasi tutto lo spazio davanti al palco. «Io mi metto da questa parte, tu dall'altra. Possiamo arrotolarci nel velluto, poi.» «Bene. Io vado in bagno, prima.»

Jack la accompagnò nella hall. Lei andò nel bagno delle donne, lui in quello degli uomini. Kitty si ripulì dalla polvere sul volto e sulle mani e si lavò i denti con un dito e l'acqua. Uscì in concomitanza con Jack. Tornarono nell'auditorium fianco a fianco. Stiamo andando a letto insieme, pensò Kitty. «Prendi questo.» Jack indossava un cardigan grigio con la zip; se lo tolse e lo porse a Kitty. «Hai solo una T-shirt, prenderai freddo.» «No, sto bene, tienilo tu.» «No, insisto. Il riscaldamento non è e di notte fa freddo, a maggio.» Kitty lo prese. Aveva l'odore di Jack. Non solo avrebbe dormito nella stessa stanza, arrotolata nella stessa pezza di stoffa, ma a ogni respiro lo avrebbe avuto dentro di sé. Chi voleva prendere in giro? Jack Taylor era dentro di lei da quando aveva messo piede al Delphi. Kitty si mise il cardigan, si tolse le scarpe e si coricò sulla tenda di velluto. Se ne tirò addosso un lembo, si abbandonò alla sua morbidezza e chiuse gli occhi. Sentiva Jack muoversi, togliersi le scarpe, i jeans. Avrebbe dormito in T-shirt e mutande vicino a lei. «Hai detto che avrei avuto freddo. Perché ti togli i jeans?» chiese infine. «Preferisco avere freddo che sentirmi costretto nei jeans tutta notte.» Lo sentì andare a piedi nudi verso gli interruttori della luce. Kitty tenne gli occhi stretti e si chiese se Jack portasse i boxer o gli slip. Cercò di cancellare l'immagine, in entrambe le versioni. Non funzionò. Circondata da Jack, avvolta da Jack, con i pensieri pieni di lui, Kitty si rannicchiò nel velluto cremisi e attese che spegnesse le luci.

Jack fissò la sala al buio, i muscoli tesi. Una cotta. Ecco che cos'era. A ventotto anni, era cotto di Katherine Giroux

Clifford. Ci era arrivato quel pomeriggio, seduto sulla panca. Quando lei gli aveva descritto come aveva riso e cosa aveva mangiato quel giorno alla mensa del college, ricordando ogni dettaglio, gli si era accesa una lucina. Ecco la spiegazione del perché da quando aveva risentito la sua voce era come impazzito, ricordava ogni singolo movimento del suo corpo, ogni parola che pronunciava, ogni sorriso. Ecco perché ora, malgrado il buio e lo spazio tra loro, immaginava il suo corpo dentro la tenda, dentro il suo cardigan, i capelli sparsi sul velluto, gli incredibili occhi verdi chiusi. La sentì muoversi. Doveva essere così calda e morbida. Jack si arrotolò nella stoffa e cercò di controllare la respirazione. Aveva preso una cotta, tutto lì. E una cotta non era nulla di cui preoccuparsi. Anche se non ne aveva mai presa una prima, non si sarebbe di certo fatto rovinare la vita. Ora capiva come doveva essersi sentita Kitty al college, disperata. E per quello ora si sentiva così in colpa, dieci anni dopo. Ecco la spiegazione: era attratto da lei perché stava sperimentando una situazione simile. Doveva essere per quello che tutto ciò che lei diceva gli pareva così importante, ciò che la addolorava faceva male anche a lui. Kitty si mosse ancora ed emise un piccolo sospiro. Jack pensò subito alla sua bocca, morbida, rosa e socchiusa, dolce come aveva sempre sognato. «Kitty, dormi?» chiese. «No.» «Eri innamorata davvero di tuo marito? O era più una specie di cotta?» La sentì girarsi. «Perché me lo chiedi?» «Come hai detto tu, non so niente di relazioni vere. Me lo stavo chiedendo.» Lei sospirò. «Volevo molto bene a Sam, e pensavo che lui mi adorasse. Lui diceva di sì. Sembrava affidabile e buono. Ho pensato che potesse funzionare.» «Ma non è stato così.»

«Lui aveva avuto una relazione tempestosa con la prima moglie. Alla fine ha deciso di tornare da lei, di cercare la ione invece dell'affidabilità.» «Quindi è stato un altro che ti ha lasciata.» «Sì, Jack.» Gli importava un sacco. Perché mai? Perché Sam l'aveva ferita? Perché anche lui l'aveva ferita? Sì, ma era anche perché, per la prima volta, riusciva a immaginare cosa significasse essere lasciati. Era per quello che aveva rincorso Kitty prima, anche se sapeva, razionalmente, che non poteva uscire da quel teatro, non poteva tollerare l'idea che lei lo abbandonasse. Kitty parlò di nuovo. «Avevi detto che il ato non importava, no?» «Certo che no.» Era sempre stato così, per lui. Ora gliene importava solo perché aveva preso una sbandata e le sbandate fanno agire in modo strano. Bastava pensare a Kitty. Era cotta di lui da tre anni al college, ma non aveva mai detto nulla. Era strano. Strano come il fatto che, poco prima, lui avesse smesso di toccarla dietro sua richiesta, contro la ragione e il desiderio. Se non si fosse fermato, avrebbero fatto sesso. Lei lo voleva, lui lo voleva. Eppure a un tratto i bisogni di lei gli erano sembrati più importanti di qualsiasi desiderio. Le sbandate fanno agire da stupidi. Comunque era una bella notizia che la storia con il suo ex marito non fosse stata troppo seria. Ora poteva smettere di preoccuparsi. Jack chiuse gli occhi. Ora che sapeva come mai Kitty lo ossessionava tanto, poteva anche addormentarsi, forse. «Ora dormo, Jack, buonanotte» bisbigliò lei.

«Anch'io. Buonanotte.» Ma Jack sapeva bene che non avrebbe chiuso occhio e non sarebbe stata davvero una buona notte.

8

Era steso accanto a lei e non erano al Delphi. Erano in un letto, i capelli di lei sparsi sul cuscino bianco. Sentiva il suo odore. Caldo, con una punta di vaniglia. Le sue mani erano come velluto attorno alla sua erezione. Questa volta la voleva ancora di più. Kitty lo guidò tra le sue cosce e lo circondò con le gambe. Centimetro dopo centimetro, affondò dentro di lei, lentamente, sentendola calda e pronta. In un angolo della mente Jack sapeva che stava sognando, che in realtà era bloccato al Delphi e che non aveva mai fatto l'amore con Kitty. Sapeva che sentiva il suo odore perché era stesa accanto a lui sul velluto rosso. Ma mentre le leccava le dita e la penetrava a fondo, sapeva che anche quel sogno era reale. Jack si abbandonò alle sensazioni. Sentiva il suo seno contro il petto, le cosce intorno ai fianchi, il respiro sulla faccia. La guardò negli occhi verdi, la sentì contrarre i muscoli e attese che urlasse il suo nome.

Kitty si svegliò con l'aroma del caffè e la visione di Jack in T-shirt blu aderente e boxer bianchi, seduto a gambe incrociate sulla tenda cremisi a pochi i da lei. Teneva in mano una piccola torcia e una tazza. «Che profumino. Che ore sono?» Al suono della sua voce, Jack guardò in su e sorrise. «Le sei di mattina. Come hai dormito?» «Non male.» Che bugiarda! Era stata iperconsapevole della presenza di Jack tutta notte. Lo sentiva muoversi, respirare. Era rimasta a metà tra la veglia e il sonno. Aveva sognato Jack dentro di lei, che le ansimava nelle orecchie; quando si era svegliata aveva respirato a fondo per calmarsi, ma l'aria intorno sapeva di lui.

Accaldata, si era tolta i jeans, usandoli come cuscino. A un certo punto lo aveva sentito gemere a voce alta e gli aveva sussurrato: «Jack?». Lui le aveva risposto con una sorta di grugnito, poi aveva taciuto. Allora era ricaduta in una specie di dormiveglia fatto di fantasie, di mani che la esploravano. Ora gli occhi le pungevano e aveva i muscoli indolenziti. Il suo corpo era un ammasso dolorante di desiderio represso. «E tu come hai dormito?» chiese. «Schifosamente. Mi sono addormentato una volta, ma i miei sogni...» Jack parve riscuotersi. «Vuoi del caffè? Ho un bollitore in ufficio, ma ho solo una tazza, e niente latte né zucchero.» «Sarebbe fantastico, grazie.» «Bene.» Jack si avvicinò con la torcia, che posizionò tra loro, e la tazza. Kitty si mise a sedere, le gambe coperte dal velluto. Era stato tutta notte a tre metri da lei e non era riuscita a dormire; ora che Jack si trovava a pochi centimetri, Kitty provava un bizzarro senso di tensione e al contempo di intimità. Prese la tazza e bevve il liquido caldo e forte. Forse la caffeina le avrebbe calmato i nervi. «Non riuscivo a dormire a causa tua» disse Jack. Lei quasi sputò fuori il caffè. «Davvero?!» esclamò, incapace di trovare un commento migliore. Jack le tolse la tazza di mano. «Sì. Pensavo alla tua bocca.» La torcia, appoggiata a terra, gli teneva metà volto in ombra. «Desidero così tanto baciarti che anche solo posare le labbra sulla tazza nel punto in cui hai messo le tue è meglio di niente» disse, rigirando la tazza tra le dita. Cercò la traccia umida della bocca di Kitty sull'orlo e bevve un sorso di caffè. Fu quasi un bacio. I suoi occhi non abbandonarono mai quelli di lei. Poi disse: «Non ho mai desiderato nessuno quanto desidero te, non sono mai stato sveglio di notte a ricordare un bacio e a immaginarne altri. Non sono mai stato eccitato dal respiro di una donna, né ho desiderato tanto di baciarla da alzarmi a fare il caffè per poter bere nella stessa tazza».

ò la tazza a Kitty, che la tenne tra le mani, incapace di bere, di pensare o di fare altro che guardarlo. La voce di Jack era roca per il desiderio e la mancanza di sonno. «È una sbandata, un'ossessione o non so cosa. So solo che non mi sono mai sentito così prima d'ora.» Nemmeno lei. Dal primo momento in cui aveva rivisto Jack, aveva provato un'attrazione sessuale incredibile. E ora, con la tazza bollente in mano che le sembrava fredda paragonata al fuoco che le ardeva dentro, si rese conto di cosa si trattava. Non era solo la sua antica cotta per lui a farla sentire come una teenager in crisi ormonale. Non era il fatto che Jack l'aveva ammaliata come aveva fatto con tutte le donne che vivevano nel raggio di venti chilometri. Più semplicemente, era perché lei voleva Jack Taylor più di quanto avesse mai desiderato nessuno. Era così da sempre e più stava con lui, più la smania cresceva. E lui, con tutte le sue donne e la sua esperienza, non aveva mai desiderato nessuna come lei, in quel momento. Il che la rendeva in assoluto la prima. La migliore. Come, del resto, aveva sempre desiderato essere. «Mai, Jack?» riuscì a dire a stento. «Mai, a parte nei sogni.» Niente ato, niente futuro. Poteva avere ciò che voleva, ora. Doveva solo accettare il rischio. Piano, con movimenti deliberati, posò il caffè sul pavimento, poi si girò e si piegò in avanti per baciarlo. Lui le venne incontro a metà strada. Le loro labbra si sfiorarono. Il primo tocco fu scioccante, troppo reale. Kitty si ritrasse appena per riprendere fiato e Jack rimase fermo ad aspettarla. Lentamente, lei tornò a baciarlo. Era come essere in paradiso. Era la stessa magia che aveva provato dieci anni prima, volteggiando sulla pista da ballo della palestra. La stessa eccitazione che aveva provato quando lui si era

issato fuori dalla botola ed era venuto verso di lei, un paio di mesi prima. Jack le lasciò condurre il gioco, rispondendo ma senza spingerla oltre. Kitty tenne un ritmo lento, godendosi il suo sapore: Jack e caffè. Lui sedeva immobile sulla tenda, senza toccarla. Era un tormento dolce e molto sexy. Poi Kitty gemette e Jack la imitò; il bacio si fece urgente, divorante, come lo era stato diverse settimane prima. Frenetico. Impaziente. Carnale. Kitty gli prese il capo tra le mani e lo tirò vicino a sé. Tuffò una mano tra i suoi capelli e con l'altra gli carezzò la spalla, sondando la consistenza dei muscoli e il calore della pelle sotto la T-shirt. Jack mosse solo la bocca. Le mani rimasero ferme. Kitty si staccò. «Perché non mi tocchi?» La risposta di Jack fu ansante quanto la domanda. «Mi hai chiesto di non toccarti. Aspetto il tuo permesso.» Kitty, con la testa che le girava e il corpo che chiedeva a gran voce di essere divorato, rispose: «Tu...» Hai il permesso di toccarmi. Tutta. Ora. Per favore. Ma non lo disse perché quelle parole provavano ciò che aveva sperimentato quella notte. E la facevano pensare. Le venne un'idea brillante per soddisfare il desiderio che aveva di quell'uomo e al contempo salvare il cuore e la carriera. «Lascia che ti tocchi» bisbigliò lui, tentatore. «No.» Jack si raggelò e si ritrasse un po'. «No?» Kitty gli sfiorò la ruga inquisitiva sulla fronte. «No, non puoi toccarmi. Farò l'amore con te, Jack, ma non posso pensare alle altre donne che hai avuto. Deve essere una cosa tra te e me. Questo significa che devo mantenere il controllo della situazione.» «Quindi io non posso toccarti?»

Lei annuì. «Questa è la regola numero uno. Tieni le mani a posto, per la prima volta. Mostrami che puoi fare ciò che chiedo, solo perché te lo chiedo. Lascia che sia io a condurre, a dare il ritmo. Vuoi?» Jack spalancò gli occhi, a metà tra la sorpresa, la confusione e il desiderio. «Okay.» «Ne sei sicuro?» «Kitty, farei qualsiasi cosa pur di vederti nuda. Tu piuttosto, sei sicura?» «Sì.» Sfregò di nuovo le labbra contro le sue, lo assaggiò con la lingua. «La regola numero due è questa. Qualsiasi cosa faremo al Delphi non andrà fuori di qui. Faremo sesso qui e ora. Una volta che verranno a salvarci, sarà finita. Torneremo al nostro normale rapporto di lavoro, nient'altro. Sei d'accordo?» Lui aggrottò la fronte. «Sei sicura?» «Certo, ho stabilito io le regole.» Gli carezzò una guancia e il collo, poi infilò le dita sotto la stoffa della T-shirt. Lì, al Delphi, sarebbe riuscita a controllare le proprie emozioni, sapendo che era per un tempo limitato. Jack non si mosse. «Le tue regole, però, somigliano molto a quelle che mi accusi di usare.» «Allora non dovresti avere problemi ad adattarti.» Gli carezzò la pelle dell'incavo del collo. Jack deglutì. «Okay, partiamo allora, perché io ho parecchia frustrazione sessuale da sfogare e qualcuno potrebbe entrare da quella porta, magari.» «Dio, spero proprio di no.» Kitty abbracciò forte Jack, lo strinse a sé e lo baciò con tutta la ione e il desiderio che provava da quando era matricola e lo aveva sentito ridere in fila alla mensa. Si interruppe solo quando capì che sarebbe potuta esplodere per il desiderio. «Dove sono tutti quei profilattici di cui parlavi?» «Giusto. Mmh, seguimi.» Jack si alzò e Kitty si liberò della tenda. Lo osservò per bene nella penombra e iniziò a ridere.

«Che cosa c'è?» Jack seguì la direzione del suo sguardo verso il davanti dei boxer, dove era evidente la sua erezione. Le sorrise in modo sexy. «Come ho detto, sono sessualmente frustrato negli ultimi tempi.» «Bene.» Kitty allungò un dito e seguì l'estensione dell'erezione sopra la stoffa. Jack trattenne il fiato. «Andiamo...» Deglutì e ricominciò da capo. «Andiamo a prendere i profilattici. Hai delle monete?» Ora fu lei a guardarlo sorpresa. «Monete?» «C'è il distributore nei bagni degli uomini. Servono le monete, io non ne ho.» «Non avevo mai pensato che la mia vita sessuale potesse dipendere da una moneta.» Kitty scosse il capo e sorrise. Afferrò la torcia dal pavimento e, seguita da Jack, risalì lentamente la corsia del cinema verso la hall, dove trovò la sua borsetta vicino alla bici di Jack. «Allora che cosa facciamo se non ho spiccioli?» Lui non rispose. Kitty, intenta a frugare nella borsa, alzò gli occhi e fu allora che le luci si accesero. Sbatté le palpebre per adattarsi alla luminosità e vide Jack, in piedi vicino agli interruttori. «Sei così bella» mormorò lui. «Amo i tuoi capelli e le tue gambe.» Le si avvicinò e la visionò da capo a piedi. Kitty ricordò solo allora di essersi tolta i jeans e di indossare solo la sua minuscola T-shirt e il cardigan di lui sopra la biancheria intima. Sapeva di non essere bella; si era tolta il trucco e le lentiggini risaltavano sul suo volto. I capelli dovevano essere orribili e si era lavata i denti solo con le dita. Eppure adorava il modo in cui Jack la stava guardando, come se lasciasse tracce di calore dove posava gli occhi. Il suo corpo formicolava di vita. Jack si leccò e si morse un labbro. «Oh, Kitty, desidero tanto toccarti!» E lo desidero anch'io, pensò Kitty, però scosse di nuovo il capo. Per ora, bastava il suo sguardo. Il suo apprezzamento evidente. La fame sul suo volto. E il fatto che lui, Jack Taylor, si stesse trattenendo perché glielo aveva chiesto

lei. Gli sorrise e guardò dentro la borsa. «Jack? Ho solo trenta centesimi.» «Okay, vieni.» La sua voce era decisa mentre le veniva incontro e con uguale eccitazione e disappunto Kitty pensò che alla fine, malgrado la promessa, stesse per toccarla. Sentì le ginocchia piegarsi e si appoggiò al muro, in attesa di essere reclamata. Lui non la toccò. ò oltre e recuperò il lucchetto in metallo pesante della sua bicicletta. «Seguimi.» Kitty aveva la bocca asciutta per... cosa? Paura? Eccitazione? Aspettative? Seguì Jack sul pavimento in legno, a piedi nudi. Notò le sue gambe muscolose sotto i boxer e pensò a come sarebbe stato mordergli la pelle. Lui la condusse nel bagno degli uomini e accese le luci. Le piastrelle bianche rifletterono i neon fluorescenti, raddoppiando l'illuminazione del posto. Sotto i piedi il pavimento era freddo. «Che fai?» gli chiese. «Non intendo perdere l'occasione di fare sesso con te per via della mancanza di spiccioli. Attenta.» Jack sollevò il lucchetto e lo abbatté con forza sul distributore di profilattici attaccato al muro. «Scusa, Oz» disse piano. Il metallo si deformò. Jack tese i muscoli e colpì di nuovo con il lucchetto. Il distributore esplose. I pacchettini colorati e lucidi dei profilattici si sparsero a pioggia. Uno finì proprio sul piede di Kitty, che lesse sul pacchetto, Gusto Piña Colada. Ammutolita, guardò i profilattici e poi Jack, che sorrideva. I suoi occhi maliziosi la catturarono. «Credi che li esauriremo entro lunedì sera?» Kitty rise e si chinò, prendendo una bracciata di pacchettini. «Ce ne sono centoquarantaquattro. Hai tutto quel vigore?» «Con te, potrei averlo.» Si riempì le mani di profilattici. «Andiamo in un posto più romantico.» Kitty si infilò nella hall e si diresse verso il cinema. Accese le luci e mentre scendeva lungo la corsia osservò lo spazio che la circondava: le pareti dorate, il

soffitto alto e stellato, le poltrone di velluto rosso, le tende rosse su cui avevano dormito, vicino allo schermo argentato. Sapeva che quel letto improvvisato sarebbe stato il posto in cui avrebbe finalmente fatto l'amore con Jack Taylor e la stoffa stropicciata le parve comunque invitante. Lasciò cadere i profilattici per terra. «Sei la donna più sexy del mondo» mormorò lui. «Ti dispiace se cominciamo, così poi potrò toccarti?» Kitty si girò verso Jack. «Comincio io» disse afferrandogli l'orlo della T-shirt. «Ma mi serve tempo. Prega che non entri nessuno proprio ora e solleva le braccia.» «Per favore, Dio, fa che non entri nessuno.» Sollevò le braccia, come richiesto. Kitty sollevò la maglietta con lentezza, sfiorandolo con le mani. Sentì il suo stomaco piatto, le costole, i peli sul petto, i battiti rapidi del cuore. Poi gli sfilò la T-shirt e fece un o indietro per guardarlo. Bellissimo. Non c'erano altre parole per descriverlo. Era come una scultura classica, tutto muscoli e mascolinità. Osservò i bicipiti, i pettorali, i nervi tesi, le braccia forti e le dita lunghe. Sollevò le proprie mani ed esplorò il suo petto. Aveva toccato altri uomini prima, ma Jack mai. La pelle delle spalle era tesa sui muscoli. Fece scorrere le dita tra i peli del petto e le fermò sui capezzoli induriti, poi carezzò la pelle sopra le costole, scese verso il ventre e indugiò con il dito indice nell'incavo del suo ombelico. «Sei certa che io non possa toccarti?» Jack aveva i pugni stretti ai lati del corpo. «Uh-uh.» Gli carezzò il dorso, risalì, gli prese il volto e lo abbassò verso il proprio. Il bacio di lui evidenziò il desiderio disperato di toccarla. Le esplorò la bocca con la lingua, le mordicchiò un labbro. «Kitty, mi stai facendo impazzire.» «È quella l'idea» disse lei, ritraendosi. Il davanti dei boxer di Jack evidenziava ancora la forma della sua erezione. Con

delicatezza, Kitty agganciò l'elastico con un dito e tirò. Tenendo gli occhi fissi sui boxer, li abbassò poi molto lentamente. Con le nocche gli sfiorò le cosce, le ginocchia, la tibia e le caviglie mentre si abbassava verso di lui. Il corpo di Kitty era teso al massimo e partecipava completamente a quello strip tease, capelli compresi. Quando i boxer arrivarono ai piedi, Jack se ne liberò. Solo allora Kitty lo guardò. Si alzò e prese visione di tutta la magnificenza di quel corpo mascolino. Era magnifico. Snello, forte, ogni muscolo in evidenza. I peli scuri del petto si assottigliavano verso il basso. Là, dove il pene di Jack sporgeva, grande ed eretto, per lei. Per lei. E il suo volto non appariva meno eccitato. Gli occhi di lui la bruciarono. «Mi hai appena sfiorato, e nonostante io non ti abbia nemmeno toccata, sono più eccitato che mai.» Sembrava meravigliato, almeno quanto lo era lei. «Jack» mormorò Kitty. «Sì?» «Niente. Solo... Jack.» Quello era l'uomo, per il quale si era consumata dagli anni del college. Il ragazzo che aveva sognato a occhi aperti, stringendo il cuscino. La persona sulla quale aveva scritto bigliettini osceni in classe, inviati di nascosto all'amica Marie per ricevere conferme. L'uomo che la desiderava tanto da avere accettato di non toccarla e che ora le stava di fronte. A un tratto Kitty si sentì intimidita. Aveva desiderato tanto quel momento, e così a lungo. Aveva cercato, sperato, sognato, sempre per nulla. Si morse un labbro e lasciò che i capelli le ricadessero sul volto. Per la prima volta notò che l'aria era fredda nel cinema. Incrociò le braccia sul seno e premette sui capezzoli eretti, quasi a farli rientrare.

«Cosa c'è che non va?» Jack fece un mezzo o verso di lei, le mani tese, poi parve ricordare e le riabbassò. «Kitty?» Aveva una voce bassa e dolce e pronunciava il suo nome in modo intimo. La distanza tra loro svanì, come sempre quando lui parlava. «Niente» gli rispose. Desiderosa di essere toccata, ma lieta che lui non lo fe, Kitty si levò il cardigan di Jack. Poi fece lo stesso con la T-shirt, il reggiseno e gli slip, prima di ripensarci. Era intimidita all'idea di trovarsi nuda davanti a Jack. Lui mosse le dita. Fu la prima cosa che notò. Poi vide che apparentemente aveva smesso di respirare. Infine lo guardò negli occhi e vi lesse un desiderio cupo e atavico. Fece un o avanti, gli mise le mani sulle spalle e lo baciò ancora. La sua bocca era bellissima, calda, umida e deliziosa. I suoi capezzoli sfiorarono i peli del petto di Jack mentre l'erezione di lui gli batteva contro lo stomaco, possente. Lui le baciò la faccia, le guance, l'orecchio. «Ti prego, fammi entrare nel tuo corpo. Sei così bella che non riesco più a trattenermi» le bisbigliò. Lei rimase ferma per qualche istante, assaporando quel contatto, godendo del suo respiro nell'orecchio. Poi gli sussurrò: «Sdraiati». Jack le diede un ultimo bacio, poi si staccò da lei e si stese sulla tenda, le mani lungo i fianchi. Kitty si abbassò e frugò tra i preservativi sparsi sul pavimento ai suoi piedi. Brilla al Buio. Rigato per il Piacere. Gusto Frutta Esotica. Infine ne trovò uno normale. Calibrato Speciale per Cotte Riesumate, pensò e ridacchiò tra sé mentre strappava l'involucro con i denti. «Sei pronto?» gli chiese. Jack aveva la testa girata di lato e se la stava mangiando con gli occhi. «Sono più che pronto, dal primo momento che ti ho vista.» «Conosco la sensazione» replicò lei con il profilattico in mano.

In un baleno gli fu sopra e si mise a cavalcioni. La percezione del corpo possente di lui contro le cosce era incredibile. Vedeva il suo petto sollevarsi e abbassarsi veloce. A ogni respiro, la sua erezione sembrava diventare sempre più imponente. Kitty si leccò le labbra, pregustando il piacere. Afferrò il pene di Jack con la sinistra e con la destra lo ricoprì con il lattice del profilattico. Era liscio, duro e caldissimo. Jack rabbrividì quando lei lo toccò. «Kitty, ti prego» gemette. Tenendolo sempre stretto con la mano sinistra, Kitty si sollevò sulle ginocchia e si posizionò sopra di lui, senza toccarlo. Con la mano destra gli carezzò i fianchi, il petto e poi la faccia. Lo stuzzicò un po' e infine gli ficcò il pollice in bocca. «Ora» disse, spostandosi appena per dargli modo di infilarsi dentro di lei. Oh-Mio-Dio. Guardò Jack negli occhi e capì che condividevano le stesse sensazioni. Erano così scuri, quegli occhi. E il volto così espressivo. Si vedeva quello che provava. Kitty si abbassò lentamente, sentendo ogni centimetro di lui dentro di sé. Piano, piano, finché lui la prese totalmente. A quel punto si fermò, ascoltando con una mano i battiti del cuore. «Sei fantastica» disse Jack, rivolgendole uno dei suoi meravigliosi sorrisi sexy. Kitty non poté fare a meno di ricambiarlo. Sorridendo, si chinò a baciarlo e nel frattempo si sollevò, finché solo l'estremità dell'erezione di lui rimase in contatto. Allora si gettò all'indietro, unendosi di nuovo a lui completamente. Entrambi annasparono, come a corto d'aria. Lei lo fece di nuovo, su e giù, lentamente, per intensificare le sensazioni. «Questo...» gemette lui mentre lei si staccava. «È così...» Kitty si riabbassò. «Stupefacente.» Kitty mosse i fianchi per sentirlo meglio e risalì, con lentezza esasperante.

«Non è troppo lento per te?» chiese, rituffandosi in basso. «Oh, no.» Kitty vedeva i pugni di lui stringere forte il velluto cremisi. Aveva i muscoli tesi allo spasimo e goccioline di sudore gli imperlavano il labbro. «Pensavo che volessi che mi sbrigassi, così poi avresti potuto toccarmi.» Accelerò appena il ritmo. Jack si morse un labbro. «Mi sbagliavo.» Strinse la tenda finché le nocche si sbiancarono. «Dio, che bello.» Kitty si piegò in avanti, avvicinando i seni al volto di Jack. Lui sollevò il capo e le succhiò un capezzolo, facendola gemere di piacere. Giù! Jack tenne il capezzolo in bocca, mordicchiandolo con delicatezza. Kitty gemette di nuovo e velocizzò i movimenti. Non aveva mai avuto il controllo della situazione come ora. Le pupille di Jack erano dilatate, la sua bocca umida e affamata. Il piacere cresceva a ogni suo affondo e stava diventando quasi insopportabile. Scivolò all'indietro, i capelli sfatti sulle spalle, e si lasciò ammirare da lui. «Ho sognato questo momento» commentò Jack. La sua voce vibrava di emozione. «Oh, anch'io» gemette lei. Si muoveva in fretta ora, incapace di trattenersi. Ogni nervo sensibile del suo corpo la stava conducendo al climax. «Era un po' diverso. Eravamo a letto e io ti toccavo.» Le parole di Jack uscivano a sprazzi e a Kitty parve che venissero da lontano. Aveva altro cui pensare, la frenesia si era impossessata di lei. «E tu dicevi cose diverse. Ma era così bello, come ora, Kitty. E quando sei venuta, hai gridato...» «Jack!» Kitty rovesciò indietro la testa e rabbrividì per l'estasi che la stava scuotendo. Si contrasse attorno al pene di lui e sentì poi i suoi ultimi affondi, che le diedero ancora maggior piacere. Jack sollevò i fianchi dal pavimento e le

esplose dentro, urlando il suo nome al soffitto stellato. Sopraffatta, Kitty cadde in avanti sul petto di Jack, facendosi cullare dal suo respiro affannoso. Infilò le dita tra i suoi capelli umidi e lo baciò ancora. «Jack.» Almeno in quel momento, dopo anni, era suo. Finalmente. «Kitty. Non sono mai stato così bene.» Lei sorrise. «Ora ti prego» mormorò. «Vorrei che mi tenessi stretta.» Lui sollevò le mani da terra e la abbracciò forte, premendola contro di sé, togliendole dolcemente i capelli dalla faccia. Circondata da Jack, avvolta da lui, con il suo sapore sulle labbra e il cuore che batteva all'unisono con il suo, Kitty chiuse gli occhi e si abbandonò a quel sonno che l'aveva evitata tutta notte. Era sicura che avrebbe fatto dei sogni bellissimi.

9

Da qualche parte, un telefono stava suonando. Jack aprì gli occhi. La prima cosa che vide fu la fiammata gloriosa dei capelli di Kitty, sparsi sul suo petto. Ogni ricciolo una carezza. Aveva gambe e braccia avvinghiate alle sue e la pelle pallida contrastava splendidamente con l'abbronzatura di lui. Aveva la testa posata sull'addome, gli occhi chiusi e un sorriso lieve sulle labbra. Ricordando il loro ultimo bacio, Jack fu assalito dal desiderio. Il telefono squillò di nuovo. Piano, con reverenza, prese il capo di Kitty tra le mani e lo spostò sulla tenda, poi si districò dall'abbraccio e si alzò. Un altro squillo. Era un trillo attutito e lontano. Kitty non si svegliò, si limitò a sospirare e ad arrotolarsi come una S sul velluto. Senza il corpo di lei addosso, l'aria pareva più fredda. Jack cercò di individuare da dove venisse il suono. Dalla hall. Risalì la corsia e si avviò fuori dalla sala. I trilli cessarono. Lui rimase in piedi, sulla porta, tendendo le orecchie per sentire ancora. Forse proveniva da un altro edificio? Il trillo si ripeté, facendolo quasi sobbalzare. Ora sembrava più vicino e un po' più in basso. Jack fece qualche o avanti. Ora, fermo in mezzo alla hall, capì con certezza che proveniva da sotto. Seguì il suono e raggiunse la botola; piano, senza far rumore, sollevò lo sportello. Si calò agilmente nel buco, graffiandosi un po' le cosce nude con i lati mal rifiniti dello sportello. Si appoggiò alla vecchia poltrona di velluto. Arrivato. Il suo cellulare giaceva accanto a una grossa scatola di lettere. Proprio dove lo aveva posato e dimenticato due o tre giorni prima, quando si era avventurato in una esplorazione del posto. Schiacciò il tasto della risposta. «Pronto?» «Ciao, Jack. Come va il giro in bici?» La voce allegra e profonda di Gene Taylor

lo salutò. «Ciao, papà. È... incredibile» replicò sottovoce. «Bel tempo, eh?» Jack si guardò intorno nel buco polveroso. «Sì.» «Tua madre è già fuori a fare giardinaggio. Sembra luglio. Troppo caldo in bicicletta?» «Mmh, no, si sta bene.» E, papà, potresti venire fino al Delphi e tirare fuori di qui me e Kitty? Non lo disse. «Tua madre è orgogliosissima di te, sai. Ieri sera siamo stati a giocare a bridge e ha mostrato a tutti l'articolo su te e il Delphi.» A proposito di Delphi, ci sono chiuso dentro. «Mi fa piacere che sia fiera di me» disse Jack. «Lo siamo entrambi. Ho sempre saputo che avresti realizzato qualcosa di straordinario una volta che ti fossi applicato, anima e corpo.» «Grazie. Mmh, papà?» «Sì?» «Mi serve il tuo aiuto.» «Qualsiasi cosa, Jack. Di cosa hai bisogno?» Le parole che pronunciò non erano quelle che aveva in progetto di dire. «Hai mai fatto un sogno che si è avverato? Voglio dire, un sogno vero, che hai fatto mentre dormivi?» «Vuoi dire come tua nonna Taylor, la sensitiva? No.»

«Credi davvero che nonna fosse una veggente?» Gene ridacchiò. «Be', sapeva sempre quando stavo facendo qualche marachella, però era lo stesso per tua madre con te. Perché me lo chiedi?» «Oh, nessuna ragione in particolare.» Jack si sfregò la fronte per allontanare la strana sensazione che provava. I suoi erano fieri di lui. Lui stava mentendo a suo padre. I suoi sogni si stavano avverando. «Bene, spero che il resto del tuo viaggio vada bene. Vieni a cena lunedì sera, se torni per tempo.» «Okay, grazie, e... papà? Sono bloccato...» Le parole gli morirono in gola. Kitty voleva che la loro relazione durasse solo finché restavano chiusi lì dentro. Se avesse chiesto aiuto al padre, l'avrebbe persa all'apertura delle porte. «Jack? Cosa c'è?» Lui deglutì. «Sono lieto che tu sia fiero di me.» «Te lo meriti, figlio mio.» Gene riagganciò. Jack fissò il cellulare tra le sue mani. Era stato lì parecchi giorni, ma era ancora carico. A sufficienza per chiamare chiunque: fabbro, polizia, di nuovo suo padre. Salì sulla poltrona e si issò. Poi tornò dentro il cinema e verso il palco. Kitty non si era mossa. La sua pelle bianca risaltava contro il legno scuro dei pannelli dietro. Rimase a guardarla, con il cellulare in mano. Era bella. Aveva un braccio sopra il seno, ma Jack riusciva a intravedere i capezzoli rosa. Ricordò la sensazione delle sue cosce lisce che lo stringevano, del suo corpo addosso. Era stato bellissimo fare l'amore con lei. E non l'aveva ancora toccata. Non come avrebbe voluto lui. Guardò il telefono. C'era un buon segnale in quella zona. Avrebbe chiamato qualcuno per farsi aprire la porta. Era la cosa giusta da fare, e malgrado ciò che Kitty pensava, lui era un bravo ragazzo. Le avrebbe detto del telefono e avrebbe chiamato un fabbro, sarebbero usciti di lì e lui non avrebbe mai più fatto l'amore con lei.

Avrebbe chiamato. Non appena avesse toccato Kitty. Solo una volta. Posò il telefono su una delle poltrone e si inginocchiò. Il suo corpo reagì subito alla vicinanza. Era stato così dal primo momento in cui l'aveva vista. No, essere eccitato vicino a Kitty non era una novità. Ma quella sensazione di calore da dove veniva? Jack allungò la mano e la ò sopra il suo fianco, senza toccarla. A un soffio dalla pelle. Seguì ogni curva di quel corpo e sentì il calore impossessarsi di lui. Stupefacente. Non si era mai sentito in quel modo. Stava reagendo a lei, senza toccarla. Jack si spostò verso la spalla, scese lungo il braccio. Era quasi commovente, una dolce tortura. Stava imparando a conoscere il suo corpo, mentre lei dormiva. Le sfiorò le ossa sottili del polso, le dita così abili a catturare una visione e trasporla sulla carta. Sollevò la mano verso il volto e quasi carezzò i suoi tratti, esaminandoli da vicino. Le palpebre delicate. L'arco perfetto delle sopracciglia, la linea fine del naso. Una piccola cicatrice che non aveva mai notato prima. Sapeva come dovevano essere le sue guance e le labbra, perché le aveva baciate. Ma questo attimo d'intimità gli insegnò altre cose, gli fece apprezzare le lentiggini dorate che davano luce alla sua carnagione, le pieghe sottili ai lati della bocca create dai suoi sorrisi lieti. E poi c'erano i capelli. Jack non riuscì a trattenersi oltre. Tuffò le dita in quell'abisso rosso e sinuoso. Erano caldi, profumati di vaniglia e di Kitty. Se ne riempì le mani e sentì il fuoco invaderlo. Kitty aprì gli occhi. «Ciao» sussurrò. «Ciao.» Si chinò a sfiorarle le labbra. «Non ci sono ancora venuti a salvare?» «Non ancora, grazie a Dio.» Tra un minuto. Glielo avrebbe detto tra un minuto. Non l'aveva ancora toccata abbastanza.

Le tolse una mano dai capelli e gliela posò sul collo, sentendo il battito. «Va bene se ti tocco, ora?» Kitty annuì, facendo ricadere un ricciolo di capelli sugli occhi. Lui lo spostò; lei non lo stava guardando. «Kitty? Non ti pentirai di tutto questo, vero?» Lei si morse un labbro, pensosa. Come, doveva anche pensarci? Jack fu colto dal panico. «Non pentirtene, Kitty, ti prego, non pentirtene. È stato incredibile, bellissimo, stupefacente, il miglior...» A quella parola, lei sollevò lo sguardo, quello che lo faceva andare in tilt. «Il miglior sesso che abbia mai fatto. Non sono mai stato così bene.» «Non me ne pento» replicò lei. «Ti desideravo, ti ho sempre desiderato. E poi... non è stato per niente male.» Jack provò un immenso sollievo. Era certo di non avere mai fatto un sorriso così ampio. «Non so se si possa fare di meglio, ma possiamo provare.» Kitty sollevò una mano e gli carezzò i peli sul petto. «Non ho mai fatto nulla di simile. Dare ordini, stabilire regole, ritrarmi a guardare. Sei bellissimo, lo sai?» Jack era intrigato. Era stato così preso dalle proprie sensazioni che non aveva pensato a lei. «E perché sei riuscita ad agire in modo così diverso?» «Non so. Questo posto, forse. I sogni si avverano qui. Come mi hai detto tu, quando me l'hai mostrato.» «Oh, mi hai ascoltato quel giorno? Pensavo mi avessi preso per pazzo.» «No, avevi ragione. Questo è un posto magico. Era un mio sogno, Jack, fare l'amore con te. Lo è stato per tanto tempo. Ovviamente, quando avevo sedici anni, le mie fantasie non erano tanto... esplicite.» Jack rise. «Le mie sì.»

«Chissà perché non ne sono sorpresa.» Jack dovette toccarle il sorriso con le dita. «Però questo è meglio di qualsiasi fantasia. Meglio di un sogno.» Persino meglio di quel sogno. «Perché?» chiese lei. Lui ci pensò un attimo. «Be', è diverso. È più complicato, e questo lo rende migliore. Forse perché è vero.» Kitty sorrise. «Ci scommetto che i tuoi sogni si avverano spesso. Tu sei quel tipo di persona.» «Non ci ho mai riflettuto. So di un mio sogno, però, che posso avverare ora. Ti posso toccare?» Kitty si allungò, voluttuosa, sul velluto cremisi. «Oh. Sì, ti prego.» Il movimento la lasciò esposta a lui, i seni al vento, le cosce lievemente allargate. Jack se la mangiò con gli occhi, la bocca asciutta. «Non so da dove cominciare» disse. «Comincia da dove vuoi.» Aveva un sorriso languido e le palpebre pesanti. Tutti i dubbi che aveva avuto erano svaniti e si vedeva. Aveva deciso di arrendersi al piacere e a lui. Per ora, almeno. «E se stessimo per essere salvati?» chiese Jack. Lei rise. «Allora farai meglio a sbrigarti.» Gli prese una mano e se la portò alle labbra, poi gli baciò un dito dopo l'altro, lieve come una farfalla. Si fece accarezzare il volto e disse: «Ora vai dove vuoi». Jack voleva andare dappertutto e fare tutto. Toccarla ed esplorarla centimetro dopo centimetro. Guardarla senza smettere mai, sentirla sulla pelle. Stringerla tanto da toglierle il fiato, oppure sfiorarla appena. Voleva godere al massimo e fare tutto ciò che aveva sognato nel breve tempo concessogli.

Solo una volta. E poi avrebbe chiamato aiuto. E poi non sarebbe successo mai più. Gli sarebbero rimasti i ricordi. E i sogni. «Mi sembrava di avere capito che fossi impaziente di toccarmi» lo stuzzicò Kitty. Solo allora Jack si rese conto di essere rimasto fermo, a riflettere. Aggrottò la fronte. «Lo ero. Lo sono. Credo che sia la prima volta che non so bene cosa fare con una donna.» Kitty esibì un'espressione a metà tra il comico e il seccato. «Non sono certa che sia un complimento.» «Oh, lo è.» Si chinò in avanti a baciarle il seno. «Credimi, lo è.» E poi non fu più in grado di tenere ferme le mani. Le riempì di Kitty. Le si inginocchiò di fianco, le carezzò la pelle, la baciò e inalò il suo aroma. Seguì la curva dei fianchi perfetti, assaggiò la pelle di velluto dell'ombelico e la ascoltò sospirare. «È incredibile quanto tu sia bella» le disse, osservando la propria mano che, come dotata di vita a sé, le toccava i seni, stuzzicando i capezzoli. «Morivo dalla voglia che mi toccassi. Ogni volta che mi guardavi, immaginavo le tue mani su di me» disse lei. «Capisco perfettamente.» Jack le leccò la punta del capezzolo, ci soffiò sopra e lo vide diventare ancora più turgido. Stupefacente. «Non crederesti mai a quello che immaginavo di fare con te.» «Credo di sì, invece.» «No, altrimenti mi avresti dato due schiaffi.» Lei gli sorrise. «L'ho quasi fatto, un paio di volte.» «Sì, ricordo.» Lentamente, godendosi l'esperienza, Jack leccò la pelle dei suoi seni tondi e infine succhiò a fondo un capezzolo. Lei emise un sibilo e si inarcò contro di lui, gli mise le dita tra i capelli e tirò a sé il suo capo. Lui la mordicchiò appena, facendola rabbrividire. In silenzio, Jack ringraziò Dio per avere dato due seni alle donne, e specialmente a Kitty: uno per la sua bocca, l'altro per la sua mano. Li esplorò entrambi a

fondo, sentendo il respiro di lei accelerare e i suoi gridolini aumentare d'intensità. Kitty spostava i fianchi in continuazione; senza interrompere il contatto con i suoi seni, Jack le si sdraiò di fianco e mise una gamba sulle sue, sentendo la coscia liscia premere contro la sua erezione. Lei lo stuzzicò e il desiderio di lui si fece più urgente. Ma non così urgente da non poter attendere. Voleva assaggiarla tutta. Staccò la bocca dal capezzolo e intraprese un percorso di baci giù fino allo stomaco. Si fermò a metà a guardarla. Aveva le guance arrossate e gli occhi che brillavano. «Mi hai mai immaginato fare queste cose?» le chiese, infilando la lingua nell'ombelico. «Oh, sì.» Lui baciò e toccò la sua parte più intima in maniera lenta e sensuale. «E mi hai immaginato qui?» «Ti ho immaginato specialmente lì.» Jack sollevò un sopracciglio e la vide sorridere. «Ora ti mostrerò cosa immaginavo io» le disse e affondò tra le sue gambe. Il gemito di Kitty fu basso, gutturale, colmo di desiderio. Jack divorò la sua essenza a forza di baci lenti, rapidi tocchi di lingua e morsetti. Era il sapore più delizioso che avesse mai assaggiato. L'aveva fatto con altre donne, ovvio, ma mai a quel modo. Gli pareva di avere fatto un dono a Kitty, e il piacere che sentiva crescere in lei si specchiava nel suo. I suoi movimenti, i gemiti, tutto creava un alone di delizia che li circondava. Aveva voglia di ridere. In effetti lo fece, senza mai smettere di carezzarla. Non poteva farne a meno, era felice. «Jack.» Il gemito di Kitty era disperato, non ce la faceva più a trattenersi. Immobilizzò la lingua in un punto preciso; lei iniziò a dimenarsi, impaziente. Le mise le mani sui fianchi e la immobilizzò. Doveva guardarla negli occhi mentre veniva. Doveva vedere quel verde farsi

scuro, promettergli tutto quanto. Dopo un ultimo, lunghissimo tocco della lingua, Jack tornò a baciarle il corpo, risalendo verso l'alto e indugiando qua e là, in posti strategici. Finché giunse alla bocca, dolce e umida come miele. «Jack, ti prego, non smettere» disse lei. «Non smetterò mai, tesoro.» Pronunciò quelle parole senza pensarci. La sentì tremare, ansiosa che lui le desse di più. Era quello che intendeva fare. La baciò di nuovo, facendo scivolare una mano tra le gambe. La fece sua con un dito; era calda, una sorta di paradiso in terra. Kitty si inarcò contro la sua mano e lui trovò il suo clitoride e lo sfregò con il pollice, godendosi i gemiti e gli ondeggiamenti di lei. Era quasi pronta. Jack si ritrasse e la guardò. Aveva gli occhi chiusi e sembrava concentrata sulle sensazioni che le stava dando. Si morse un labbro e si tese, poi la sfregò di nuovo. Allora Kitty spalancò gli occhi, lo strinse forte e lo tirò a sé. Il suo corpo fu percorso da spasimi violenti e il respiro le uscì come un grido. La cosa però che evidenziava di più il suo piacere erano gli occhi. Jack li vide perdere lucidità. Le pupille si dilatarono. In quell'attimo Jack era il mondo intero. Era il momento che aveva atteso per... quanto? Jack la guardò riprendere il controllo. Kitty gli sorrise, e capì che anche lui aspettava da tanto quel momento. «Mi merito uno schiaffo per questo?» chiese. «No, meriti una ricompensa.» Gli prese la testa, la avvicinò alla sua e lo baciò. Era perduto. Era pazzo. Non si trattava solo di quel suo anno di astinenza. Non era possibile che ci fosse un'altra donna sulla terra che avesse quel sapore, che fosse bella come Kitty Giroux Clifford, ora. Poi Kitty abbassò le mani e avvolse le dita intorno alla sua erezione, lo carezzò con prepotenza e lui perse la capacità di concentrarsi su qualsiasi altro pensiero.

Gli tremavano le mani mentre afferrava un profilattico e se lo infilava. In un attimo fu dove doveva essere, dentro Kitty, il respiro di lei in un orecchio, i suoi occhi verdi intenti a guardarlo, privandolo così di ogni controllo. La fece sua. In fretta, veloce, a fondo. Era fatta per lui. Lui era fatto per lei. Si completavano, si appartenevano, si muovevano e respiravano allo stesso ritmo. Si mise una delle gambe di Kitty su una spalla e la vide sgranare gli occhi mentre lui muoveva il bacino. Più uniti di così non potevano essere. Alla fine raggiunsero l'estasi insieme, aggrappandosi disperatamente l'uno all'altra. In quel momento il mondo intero sparì. C'erano solo lui e Kitty, occhi brucianti e corpi uniti. Completi. Ci volle parecchio tempo prima che Jack tornasse a vederci chiaro. La prima cosa che mise a fuoco fu la spalla di Kitty, cui aveva appoggiato il mento. C'erano cinque lentiggini sopra, che formavano una sorta di W sulla pelle chiara, come la costellazione di Cassiopea. Rotolò di fianco, rimanendo abbracciato. Sentì il sudore raffreddarsi sul corpo e il calore dei punti in cui la toccava. Le prese il volto tra le mani. «Hai Cassiopea su una spalla.» «Davvero?» La voce era roca, sazia. «Davvero.» «È la cosa più strana che un uomo mi abbia detto dopo avere fatto l'amore con me.» «Mi fa piacere essere unico.» Le baciò la fronte. «Oh, lo sei.» Kitty gli prese una mano tra le sue. Jack seppellì il volto tra i suoi capelli. Era mai stato tanto felice? Si trastullò in quella nube rossa, profumata di vaniglia.

E poi ricordò il telefono. Il telefono che lo avrebbe salvato dal paradiso. Spalancò gli occhi. Aspetta. Un momento. Non poteva finire così. Non ora, che era appena iniziata. Non quando aveva capito quanto lei lo potesse rendere felice. Lo stomaco di Kitty brontolò e gli diede un'idea. «Fame?» chiese, guardandola con finta noncuranza. «Sì, potrei farmi una scatola intera di uvetta al cioccolato.» «Invece sai cosa mi farei io? Due uova, pancetta e patatine fritte.» Lei gemette. «E pile di fette di pane tostato e imburrato. Non parlare.» Jack le sfiorò l'ombelico con un dito. «Chico del Bob's Diner in fondo alla strada fa la colazione migliore di Portland. Te la offrirò.» «Piantala di torturarmi.» «No, davvero, non appena usciremo di qui. Un piatto enorme, con tutto ciò che vuoi. E caffè. E succo di frutta. E tutto il pane imburrato che riesci a mangiare. E poi andremo a casa mia. Faremo un bella doccia calda insieme. Potremmo andare nel mio letto, dopo, e io ti mostrerò tutte le altre cose che vorrei fare con te.» Kitty chiuse gli occhi. Stava per dire di sì. Jack si chiese chi chiamare, se suo padre o un fabbro. Kitty aprì gli occhi, sorrise e scosse il capo. «Mi tenti, ma no, mi spiace. Ho fissato delle regole, ricordi? Una volta fuori di qui, noi lavoriamo insieme, punto.» Gli carezzò la fronte, il naso, le labbra e il mento. «Godiamoci tutto questo finché dura, okay?» Finché dura. Il che poteva essere mezz'ora al massimo, se chiamava. O forse trentasei ore circa, se non diceva a Kitty del telefono e aspettavano che Oz tornasse dal Canada o che i loro genitori chiamassero la polizia. «Sei sicura?» chiese.

«Jack, non si tratta di essere sicuri, è quello che succederà.» Potevano verificarsi molte cose in trentasei ore. Poteva fare di nuovo l'amore con Kitty, più volte. Poteva parlarle, imparare altre cose di lei. poteva mostrarle quanta felicità riusciva a darle. E forse poteva convincerla a non porre fine a tutto quanto. La baciò. «Vado a prendere l'uvetta.» Recuperò il cellulare, nascondendolo in mano, e tornò nella hall. Stavolta fece più attenzione a scendere nella botola e non si graffiò. Spense il cellulare, lo mise di nuovo vicino alla scatola e lo coprì di stracci. Poi risalì e chiuse la botola. Direi che questo fa di me ufficialmente un maiale, pensò prendendo due scatole di uvetta dal banco. In ogni caso, quella era la scelta migliore. Poteva gestire il senso di colpa, la perdita di Kitty no. Una volta che lei si fosse resa conto che erano fatti l'uno per l'altro, lo avrebbe ringraziato per non avere telefonato. Un giorno ne avrebbero riso insieme, ne era certo. O almeno quasi.

10

«Dimmi di te.» Jack lasciò cadere un acino d'uva coperto di cioccolato in bocca a Kitty e lei approfittò dell'occasione per mordergli un dito. «Non tralasciare nulla.» Kitty lo guardò, dubbiosa, una mano nella scatola. «Proprio tutto? È piuttosto noioso.» «Non puoi essere noiosa, scommetto che hai avuto una vita fantastica, in mezzo ai ricchi e famosi di Los Angeles, a disegnare le loro case. A stupire tutti con il tuo talento. Uomini che fanno migliaia di chilometri solo per toccare i tuoi capelli da star. Io lo farei.» «Dovresti girare diverse volte intorno al Delphi prima di fare migliaia di chilometri.» Kitty mangiò un altro chicco. Vita fantastica tra i ricchi e famosi. La gente colpita dal suo talento. Sì, già. Anche lei aveva pensato a quello, nei sogni. La realtà era stata piuttosto diversa. Un matrimonio fallito, un lavoro in una ditta come compromesso. Tornare nel Maine era stato un vero sollievo. «Ecco, prendi.» Gettò un acino a Jack e lui lo prese al volo con la bocca. «Se vuoi sapere tutto di me, dovrai darmi qualcosa in cambio.» «Tipo?» Si leccò le labbra, ammiccante. Kitty ridacchiò. «Avevo la sensazione che quello me lo avresti dato comunque. Io intendevo altro.» Il sorriso di Jack era così sexy che a Kitty venne voglia di ridere e piangere e urlare insieme. «Vuoi sapere anche tu tutto di me? Pensavo che lo sapessi già. Sono un buono a nulla, un pazzo sciupafemmine che non conosce il significato della parola "impegno". Giusto?» Giusto. Ma aveva deciso di non pensarci per ora. «In realtà ti volevo ritrarre, disegnare.» La sorpresa fu evidente. «Disegnarmi? Certo. Posso chiederti perché?»

Bella domanda. La richiesta era stata impulsiva, ma ora che ci pensava, sapeva perché gliela aveva fatta. Era un modo per conoscerlo, vedere il suo corpo, il suo volto e la sua personalità in un modo diverso. Forse fissando le linee del suo corpo sul foglio poteva catturarlo e poi studiarlo. Poteva capirlo meglio. E ovviamente il disegno sarebbe rimasto a ricordo dei momenti ati lì insieme. Qualcosa che avrebbe potuto riguardare quando tutto fosse finito. Non sapeva se sarebbe riuscita a riprenderlo in mano. Forse le avrebbe fatto troppo male, ma voleva quel disegno. Avrebbe affrontato i rischi. Non palesò nulla di quanto pensava. «Orgoglio professionale. Sono un'artista migliore di quanto non fossi al college quando ti ho ritratto.» «Buffo, non ho mai pensato che fossi vanitosa. Non fraintendermi, non sospettavo che dietro la tua apparente modestia si nascondesse un enorme ego.» Lei lo picchiò con la scatola dell'uvetta. «Se non sapessi che stai scherzando, ti spiaccicherei l'uvetta dove so io.» «Mmh, viziosa.» Kitty rise. «Non sono vanitosa, voglio solo fare un disegno migliore, tutto qui.» «Capisco, è dura essere giudicati per ciò che uno ha fatto al college. La gente cambia molto crescendo.» Kitty lo fissò. «Allora, dove mi vuoi?» Era troppo confusa per apprezzare il doppio senso. «Dove stai comodo. Vado a prendere della carta.» Raccolse il cardigan di Jack e se lo infilò, malgrado il disappunto di lui. Era difficile pensare da nudi. Lasciò Jack steso sulla tenda e andò nella hall a recuperare carta e matite. Jack Taylor: testa calda o tesoro? Sciupafemmine del college o rubacuori cresciuto? Era l'amante migliore che avesse mai avuto, non che ne avesse avuti

tanti, ma era capace d'amare? E lei? Sapeva cos'era l'amore? Prese il blocco degli schizzi e scosse il capo mentre lui non la vedeva. Stupida Kitty. Stupida, sciocca, vulnerabile, disperata Kitty. Perché pensava all'amore? Aveva deciso di limitare la durata della loro storia per non dover pensare all'amore, per non rischiare il cuore. E conosceva Jack Taylor fin troppo bene. Sapeva quanto fosse bravo a fare l'amore. No, spettacolare. Sconvolgente. Perfetto. Sapeva che era ionale, intenso, buffo e tenero. Affascinante e generoso. Fiducioso e visionario. Ma sapeva anche com'era quando si trattava di relazioni. Lo aveva detto lui stesso. Un incosciente buono a nulla che non conosceva il significato della parola impegno. Chi stava prendendo in giro? Lo conosceva già tanto bene che non aveva bisogno di ritrarlo. Il disegno lo voleva, però. Voleva tracciare i contorni del suo corpo sul foglio, catturare la scintilla nei suoi occhi castani, il suo sorriso sexy. In effetti, ultimamente si era trasformata in un mucchio infinito di desideri. Carta e matite in mano, la testa sempre più confusa, Kitty tornò da Jack. Lui si era messo a sedere, appoggiato al muro, una gamba diritta davanti a sé, l'altra piegata. Una posizione che le consentiva di vedere bene il suo petto scolpito e i suoi attributi. Improvvisamente ebbe voglia di tracciare quel corpo non solo con la matita. Ma prima faceva una cosa. Poi l'altra. Scelse di sedere nella prima fila di poltrone, posò carta e pastelli per terra e recuperò i propri jeans. «Un momento» disse Jack. «Non avrei mai accettato di farmi ritrarre se avessi saputo che ti saresti rimessa i vestiti. Perché diavolo ti vesti?» «Il lenzuolo sulle poltrone è impolverato, non mi eccita molto l'idea di sporcarmi il fondoschiena.»

«Te lo pulirò io, l'idea è piuttosto allettante.» Lo era, ma ora, con i jeans, aveva un maggior controllo sui pensieri. «E se entra qualcuno? È meglio che sia vestita.» Jack rise. «Invece è normale che io sia nudo? Grazie.» «Be', metà popolazione femminile di Portland probabilmente ti ha già visto, per cui di che ti preoccupi.» Lui scosse il capo. «Mi fa piacere che mi reputi un tale stallone, ma stai esagerando con i numeri. Non sono tanto incosciente. Che vuoi che faccia mentre mi ritrai?» Lei si sistemò sulla poltrona e aprì il blocco. «Niente di speciale, parla.» Kitty iniziò il lavoro. «Puoi parlare e disegnare insieme?» «Sì.» «Bene, iniziamo da te allora. Dimmi tutto.» «Che cosa vuoi sapere? Ho ventisette anni, sono nata a Portland e mi sono trasferita a L.A. per andare al college. Sono tornata qui otto mesi fa. Ho un fratello e una madre, e un padre che non vedo da una vita. Faccio la designer d'interni. Il mio colore preferito è il fuxia, ma non posso indossarlo perché ho i capelli rossi. Non c'è molto da sapere.» «Invece sì. Sono curioso su tutto ciò che ti riguarda, Katherine Giroux Clifford.» I contorni della spalla e del collo avevano preso forma sotto la matita. Kitty sollevò gli occhi per vedere bene il collo. «Cosa ti incuriosisce di più?» «Molte cose. Per esempio, parlando del college, mi sono chiesto perché se avevi una cotta per me, per tre anni non mi hai parlato. Potevi almeno osare un timido "Ciao", non credi?» Kitty conosceva la risposta a quella domanda, ci aveva riflettuto a lungo. «Ero una ragazzina magra con i capelli rossi crespi, l'apparecchio ai denti e vestiti

orrendi di seconda mano. Una sfigata.» «Non eri sfigata, eri carina. Amo i capelli rossi.» «Tu eri un ragazzo molto popolare e uscivi con Oscar Strummer, il più intelligente della scuola. Non c'era modo di essere notata.» «Ma sei rimasta nella stessa aula di arte per sei mesi per ritrarmi senza mai dirmi ciao. Non puoi essere tanto timida.» «Non era solo timidezza. Eri fuori portata per me, Jack. Mettiamola così: da dove vieni?» «California, perché?» «Io non ho mai lasciato il Maine prima dei diciassette anni, prendevo in prestito la macchina di mia madre e attraversavo il ponte verso il New Hampshire per vedere se di là era diverso. Dove abitavi quando sei venuto a Portland? Com'era la tua casa?» «Vivevamo su Peak's Island. Mio padre ha disegnato la casa, è sempre stato il suo sogno costruirsi una casa vicino all'oceano.» «Io e Marie siamo andate sull'isola una volta e abbiamo visto la casa. È fantastica, Jack. Tutto quel vetro, il granito e il legno di pino!» Kitty tracciò le linee della mascella solida. «Tu sei stato nella casa in cui sono cresciuta io. È fatiscente. Non abbiamo mai avuto i soldi per sostituire nulla, per cui la riparavamo come potevamo. Ogni mese tiravamo fuori il nastro isolante e rimettevamo insieme le cose: il divano, il linoleum in cucina, la finestra rotta. Mamma la chiamava la Giornata del Nastro e fingeva che fosse un'occasione speciale, una sorta di festa.» «La casa di tua madre è in ordine e carina.» «Perché hai visto solo la cucina, che ho rifatto io per il compleanno di mamma. Ora che io e mio fratello siamo grandi potrebbe fare sistemare alcune cose, ma non lo fa. I tubi idraulici sono tenuti insieme con il nastro isolante. Mia madre fa la segretaria nello studio di un veterinario. Dopo che papà ci ha piantati, ha dovuto crescere me e mio fratello con il suo stipendio. Tua madre cosa fa?»

«Non ha un lavoro, si occupa di beneficenza.» «Una volta è venuta a prenderti a scuola e l'ho vista. Era bellissima, con abiti eleganti. Mamma pensa che spendere più di venti dollari per un indumento sia uno spreco di denaro.» Jack si ò le dita tra i capelli e Kitty cancellò un segno per catturare l'immagine di un ricciolo scomposto. «Non dirmi che eri intimidita dalla casa e dai vestiti dei miei. Se fossi stata innamorata come dici, non te ne sarebbe importato nulla.» «Jack, tu lo dici perché hai avuto una casa bellissima, una bella famiglia e una vita perfetta. Quella roba importa se non ce l'hai. Credimi.» Mentre parlava, non aveva mai smesso di disegnare. Il silenzio di Jack, però, la fece interrompere. «Ha ancora importanza?» le chiese. Lei ricordò la rivelazione che gli aveva fatto durante il barbecue: la casa di sua madre era molto più preziosa di quanto non lo fosse stata la sua, tanto perfetta. «Non molto. Sono cresciuta e sono fiera di ciò che mia madre ha realizzato da sola. Tu, però, dai per scontati i soldi, il che può intimidire chi non ne ha. Come hai trovato il denaro per acquistare il Delphi, se posso chiedere?» Jack cambiò posizione e lei si concentrò su occhi e bocca. «Dopo avere finito il college, sono entrato in una società informatica con un amico. Era il momento giusto, il posto giusto, abbiamo fatto soldi a palate. Dopo qualche anno mi sono stancato, ho venduto le mie azioni, di nuovo al momento giusto. Ho realizzato tanto da non essere più costretto a lavorare, ma ho deciso di investire nel Delphi e l'ho comprato.» Kitty scosse il capo, rassegnata. «Vedi? Hai avuto tanto successo che puoi permetterti di gettare una carriera alle ortiche per rischiare tutto. Sei un vincente nato.» «E tu, Kitty? Anche a te non sembra che vada male, hai una Mercedes nuova di zecca e una videocamera ultimo tipo. I tuoi vestiti costano più di venti dollari il pezzo, ci giurerei. Hai fatto carriera. Denaro e successo non ci separano più, direi.»

Lei, accomunata al Playboy di Portland? Stessa carriera? Le venne da ridere. «Jack, io non ho fatto alcuna carriera. Il Delphi è il primo lavoro sostanzioso che mi sia stato offerto da quando sono venuta nel Maine. Macchina, videocamera, vestiti, cellulare e computer li ho presi in California, quando lavoravo per una ditta di design che mi pagava bene. Vivevo con Sam che mi lasciava tutto il mio stipendio. Quando ci siamo separati, ho insistito perché lui tenesse ciò che era già suo, la casa e ciò che conteneva. Infine ho lasciato il lavoro e sono tornata qui, per aprire il mio studio. All'inizio avevo un ufficio e un appartamento miei, e ho speso molti soldi per farmi pubblicità. Non ricevendo incarichi, però, ho visto che i miei risparmi svanivano e mi sono trasferita da mamma facendomi aiutare da una ragazza per le telefonate. Ora gestisco tutti i miei affari da casa di mia madre.» Era più facile confessarsi tenendo gli occhi sul disegno. In pochi tratti veloci tratteggiò i capelli e le iridi brune di Jack. «Se non mi fosse capitato il Delphi, avrei dovuto vendere la macchina. Lo stadio successivo sarebbe stato trovare lavoro da qualcuno, rinunciando al sogno di gestire uno studio mio. Come vedi, i soldi sono importanti eccome, Jack.» Si sentiva vulnerabile e al contempo fortissima, ora. «E questo è uno dei motivi per cui questa storia non può durare oltre il weekend. Il restauro del Delphi significa troppo per me, non posso rischiare la carriera per fare la scema con il proprietario. Capito?» In un secondo Jack si alzò e venne a inginocchiarsi davanti a lei. Dio, finché se ne stava a una certa distanza e lei lo guardava per ritrarlo, ce la faceva, ma lì vicino, nudo, con addosso il suo odore, be', era un'altra storia. «Kitty.» Le prese la mano, le tolse la matita e gliela tenne tra le sue. «Qualsiasi tipo di sciocchezze facciamo io e te, non metteranno in pericolo il tuo lavoro di restauro. Credimi, ciò che avverrà tra me e te non interferirà. Sei tu quella che voglio per il Delphi, l'ho capito non appena ho visto i tuoi disegni. E quando ti ho vista, ho voluto anche te e...» Corrugò la fronte. «Non posso dire che sono due cose separate, perché non lo sono. Ma ti prometto che tu sarai l'unica designer a lavorare al Delphi. Nessun altro.» I suoi occhi castani erano così sinceri. Il suo volto così espressivo. Sapeva che Jack Taylor riusciva sempre a mantenere le promesse, se voleva. Così annuì.

«E che tu abbia avuto successo o meno prima di ora, non mi interessa» continuò lui. «Ho totale fiducia nelle tue abilità, hai catturato la mia visione del Delphi con pochi tratti di matita.» Guardò il suo ritratto, sul pavimento. «Hai catturato me con pochi tratti di matita... Forse mi conosci meglio di quanto mi conosca io.» Lei scoppiò a ridere. «Com'è possibile?» Jack le carezzò il dorso della mano, facendola rabbrividire con quel semplice gesto. «È vero ciò che hai detto ora della mia vita. In effetti è stata facile. Ho avuto successo e tante cose senza impegnarmi troppo. Oz ha sempre detto che io scivolo attraverso gli eventi della vita, e forse ha ragione. Non mi ero mai accorto che da fuori la mia esistenza potesse sembrare perfetta. Al punto da rendermi inavvicinabile. Non ci avevo mai pensato prima.» Quello era un concetto nuovo per Kitty. «Vuoi dire che sei così fortunato da non sapere nemmeno quanto lo sei? Ora ti invidio. Io invece sono perseguitata dalla sfortuna.» Jack le sedette di fianco, tenendole la mano. «Che cosa vuoi dire?» «Se c'è una cosa che mi può andare male, sei sicuro che succederà. Accade da anni.» «Di certo non tutto ti è andato male.» «Quasi tutto. Mio padre ci ha abbandonato quando avevo tredici anni, sconvolgendomi la vita. Così, per riempire quel vuoto emotivo, mi sono innamorata del ragazzo più irraggiungibile del college, che mi ha piantata in asso la sera del ballo di fine anno, facendo di me lo zimbello della scuola. Ho sempre lavorato sodo a scuola, ma per soli due punti di media totale non ho potuto pronunciare io il discorso di fine corso. Non sono riuscita a iscrivermi alla prima università scelta perché i documenti sono andati persi nella spedizione, e non ho potuto andare nemmeno alla seconda scelta perché i sussidi economici erano insufficienti a mantenermi. Mi hanno offerto un lavoro nella seconda ditta più prestigiosa di L.A. dopo che ho mancato il colloquio con quella più prestigiosa di tutte perché quel giorno il mio appartamento ha preso fuoco. Mi sono sposata con un uomo che mi ha giurato amore eterno e dopo un anno mi ha mollata per

tornare con la prima moglie. Non ci vedi qualcosa di strano, un disegno preciso?» «Sono tutti incidenti separati, non possono essere messi in relazione.» Kitty scosse il capo. «Oh, sì, è la sfortuna che li lega. È colpa tua, sai, perché da quando ti ho visto baciare Melissa Beauchamp sono stata condannata a non ottenere mai ciò che voglio. Ci ho provato, ma non è servito.» Chinò il capo per nascondere le lacrime che le riempivano gli occhi. Non stava piangendo per quegli incidenti ati e sfortunati: li aveva superati con determinazione. Era per questo. Finalmente si era sentita abbastanza libera da poter confessare tutti i suoi fallimenti a qualcuno, ma quel qualcuno lo stava per perdere. Jack non disse nulla. Allungò le braccia e prese in grembo Kitty, carezzandola e cullandola, permettendole di posare il volto sul suo petto nudo e di sentire il battito calmo del suo cuore. Era quello che Kitty voleva. Una grossa lacrima le scivolò su una guancia e finì sul petto di Jack, che trattenne il fiato prima di prenderle il volto tra le mani per guardarla. Con le labbra fermò la seconda lacrima sull'altra guancia, in un bacio umido e salato. «Mi spiace» disse, facendola vibrare per il tono accorato. Lei sospirò. «Non dire così, Jack, avevi ragione ieri, tu non c'entri niente. Volevo solo qualcuno cui dare la colpa e tu mi avevi ferita. Era più facile incolpare te che mio padre, o me stessa.» Si asciugò l'ultima lacrima e sorrise a Jack. «A volte ho una fortuna sfacciata. Tipo quando ho rotto quella stupida maniglia, così siamo rimasti chiusi qui dentro tutto il weekend.» Lui le sorrise. Era l'uomo più bello della terra. «In realtà è la cosa più fortunata che sia accaduta a me.» Un altro bacio, tenero, mozzafiato e ionale. Kitty lo strinse forte. Fortunata, pensò. O almeno cercò di pensare. Ma una vocina nel suo cervello sussurrò, Sfortunata,

molto, molto sfortunata. Jack infilò le mani sotto il cardigan che si era messa e la carezzò, facendola annaspare di piacere. Mise a tacere tutti i pensieri stupidi e le vocine e si abbandonò al piacere di starsene tutta vestita in braccio a un magnifico, delizioso e cortese uomo nudo che si dava il caso fosse proprio quello che aveva desiderato più di tutto negli ultimi tredici anni. Vestita non per molto. Jack la spogliò e la abbracciò, pelle contro pelle. «Stai con me» mormorò. «Fa che non finisca qui. È così bello toccarti, vediamo dove ci porta questa cosa, anche fuori dal Delphi.» Oh... Kitty capì subito da dove provenisse quella vocina che aveva detto sfortunata. Lo amava. Amava Jack, non aveva mai smesso di amarlo. No, non era giusto. Non aveva mai smesso di volerlo. Il desiderio era iniziato a quella mensa scolastica, quando ancora si trattava di una cotta per una persona che non conosceva. Ma quello che provava ora era reale, così grande e vero che le faceva esplodere la testa. Era nato dallo stare insieme a lui, dal parlare con lui, dal ridere con lui, dal toccarlo. Dal condividere gli stessi scopi, gli stessi piaceri. Da come si sentiva quando lui la guardava. Questo sentimento non era paragonabile alla sua cotta adolescenziale. E Jack, che le stava chiedendo di proseguire la loro storia fuori dal reame del Delphi? Che cosa provava? Cosa diavolo aveva da perdere, paragonato a lei? Lei non avrebbe perso il lavoro, Jack lo aveva promesso e gli credeva. Ma poteva perdere il cuore. Per sempre. E Jack Taylor non era un uomo che trattasse i cuori con mani gentili. Non sapeva come fare, aveva avuto una vita facile, non aveva combattuto battaglie, provato dolore. Non era stato sopraffatto da sentimenti ineluttabili. Si sarebbe divertito un po' e poi l'avrebbe scordata di nuovo. E lei non poteva sopportare l'idea. Non stavolta, quando aveva molte più ragioni per amarlo. Così si aggrappò a lui con tutta la forza che aveva e lo baciò, riversando in quel

bacio la sua anima. Lasciò vagare le proprie mani sul suo corpo nudo e trovò di nuovo la sua erezione, pronta per lei. Sollevò i fianchi per aiutarlo a sfilarle i jeans. «Jack» disse mentre lui la sollevava e la depositava sulla tenda in velluto. «Godiamoci quello che sta succedendo ora, non sciupiamolo parlando di quello che non avverrà mai. Ora, in questo momento, mentre tutto è perfetto. Potrebbe non capitarci più. Fai l'amore con me.» Jack emise un gemito e fece ciò che gli aveva chiesto.

11

«E poi escono lungo il sentiero, nella pioggia, verso la loro nuova vita.» Jack finse di tirare su il colletto e calcarsi il cappello in testa. Camminò, fumando una sigaretta immaginaria, verso l'estremità del palco. «E la videocamera si allontana mentre loro diventano sempre più piccoli e si sente l'inno nazionale se .» Kitty si asciugò gli occhi. «Oh, Jack!» Jack si lanciò giù dal palco e atterrò davanti a Kitty. «Allora ti piace?» «Non credevo però che fosse così triste, pensavo che i film finissero sempre bene. Ma quando lui la manda in America, con il marito, anche se la ama e lei ama lui...» Jack le sedette accanto. «Deve farlo, fa parte della sua redenzione morale.» «Capisco, ma...» Sospirò. «Perché non me ne mostri uno con il lieto fine?» Jack scosse il capo e rise. «Ehi, donna, ho appena recitato tutto Casablanca per te, inclusa la scena dell'esercito tedesco che occupa Parigi e la canzone As Time Goes By. Concedimi una sosta.» «Magari me ne puoi fare vedere uno domani, se non ci salvano prima.» «Magari.» Jack spostò lo sguardo e cambiò espressione, ma prima che lei potesse notarlo, tornò al suo solito sorriso malandrino, occhi brillanti. «Forse potremmo mettere in scena noi un film porno, usando la tua videocamera.» «Prima o poi due sberle te le do, sai.» Jack sollevò le mani, in gesto di finto allarme. «Scherzavo, scherzavo, non sono un maiale.» A Kitty parve di notare un'esitazione nelle sue parole, ma di nuovo non fece in

tempo a registrarla, persa a osservarlo mentre giocava con i suoi riccioli bruni. «Non voglio essere salvato, e tu?» disse. Di certo non si rendeva conto del dardo che la traversò quando lui disse quelle parole. Sicuramente stava scherzando di nuovo, per sminuire quella storia, una delle tante da sfruttare e poi archiviare senza rimpianti. Come aveva sempre fatto lui con la carriera e le donne. Però aveva un'aria tremendamente seria. Era impossibile che lo fosse. Giusto? Kitty deglutì. «Visto che non dipende da noi, è una domanda inutile la tua, non trovi?» Jack aprì la bocca come se stesse per parlare, poi la richiuse. «Già, hai ragione, è inutile.» Kitty lo sentì a un tratto lontano, come se la loro armonia si fosse spezzata. Intrecciò le dita con le sue. «Allora, ti ho detto tante cose di me, ma ce ne sono tante su di te che non conosco ancora.» Lui le sorrise, sollevandole il morale. «Ne dubito, sai già tutto di me. Cosa vuoi sapere adesso?» «Quando ti sei accorto di amare il cinema?» In un attimo si ricreò l'atmosfera tra di loro. A Jack si illuminò il volto. «Non sono solo i film, è tutto questo.» Indicò l'edificio intorno a loro e per la centesima volta Kitty si meravigliò nel vedere le decorazioni intricate, i velluti ricchi, le bellissime stelle sul soffitto del cinema. «Mio padre è architetto e quando ero piccolo portava spesso me e mamma a vedere bellissimi edifici. A sette anni siamo andati al Bruin Theater di L.A., progettato da Charles Lee, il maestro del design teatrale. Abbiamo visto un cartone, non ricordo quale. Non mi importava nemmeno allora, ciò che mi colpì fu il posto, l'esperienza. Ero stregato.» «Mi sorprende che tu non abbia fatto l'attore.»

«Dai, mi hai visto cercare di imitare Humphrey Bogart. Non sono un attore.» «Sei stato un Humphrey Bogart stupendo, e una brava Ingrid Bergman. Avresti potuto fare l'attore.» «Non se ne parla, troppo lavoro. E avrei dovuto affrontare troppi fallimenti.» Non appena ebbe pronunciato quelle parole, Jack si illuminò. «Ecco cos'era! Non ci avevo mai pensato. Non volevo mettercela tutta e magari fallire. E non ci ho mai provato.» Era quasi comica quella presa di coscienza improvvisa da parte di Jack, ma al contempo era commovente. L'entusiasmo, la sorpresa per le proprie parole lo facevano sembrare di nuovo un ragazzino. Più profondo, però. «Ora stai lavorando sodo e rischi di fallire con il Delphi» osservò lei. «Quindi non ti definirei riluttante a provare se vuoi davvero qualcosa.» «Oz mi ha detto una cosa, mentre ero dentro alla botola il giorno in cui sei arrivata. Secondo lui mi piacciono i film perché la mia capacità di attenzione non va oltre le due ore, e poi sono pronto per qualcosa di nuovo.» «Aveva ragione?» chiese Kitty. «Forse un tempo, ma tutto cambia. I miei genitori hanno detto che sono fieri di me, stam... l'altro giorno.» Il suo volto si rabbuiò un attimo, poi si rasserenò e la guardò. «Ho avuto molto successo, ma finora non mi avevano mai detto di essere fieri di me.» «Deve essere stato bello, Jack.» «Sì, lo è stato. Lo è.» Rifletté un attimo. «Stanno cambiando i miei sentimenti verso le cose, il Delphi. E te.» Le prese il volto tra le mani e le carezzò le labbra con il pollice. «Inizio a capire ora che posso avere tempi di attenzione molto, molto più lunghi.» Il suo bacio fu più elettrizzante che mai. Si ritrasse e la guardò. «Forse possono durare per sempre.» Cos'era quella sensazione? Freddo, caldo, estasi, dolore? Smise di respirare, il cuore le balzò in petto.

Per sempre? Con Jack? «Credi che sia possibile?» sussurrò lui. «Cose come queste possono succedere?» «Non so.» Le parole si udirono appena, Kitty non aveva fiato nei polmoni. Non sapeva bene cosa dire, era confusa. Jack era davvero cambiato? Poteva sperare? «Succede nei film» commentò. Jack la baciò di nuovo, con delicatezza. Poi si alzò e le tese una mano. «Vieni, proviamo che effetto fa stare in un film.» Kitty lo seguì sul palco davanti allo schermo del cinema. Commise l'errore di guardare verso il retro e rimase abbagliata dalla luce del proiettore. «Non guardare là, guarda me» disse lui. Le sorrise. «Ho sempre pensato che le attrici fossero belle, ma tu sei la donna più bella che abbia mai visto, sullo schermo e nella vita reale. Ogni volta che sorridi è una magia.» E ogni volta che lui la guardava lei si sentiva davvero la donna più bella del mondo. Era capace di farle quello solo con lo sguardo. «Ricordi l'ultimo bel film che hai visto?» le chiese. «Ricordi com'era quando l'eroe e l'eroina alla fine si baciavano sullo schermo e la cinepresa riprendeva solo i loro volti?» «Non ho visto molti film» replicò lei. «Allora te lo mostro io. Guarda lo schermo.» La prese tra le braccia e la baciò. Kitty, gli occhi fissi sullo schermo dietro di loro, vide le loro ombre ingigantite dal proiettore. Era come essere in un film. Aiutò Jack a togliersi la maglia, levò la propria e continuò a guardarsi sullo schermo. Lo vide piegarsi e prenderle il seno in bocca e tra le mani, vide il proprio collo piegarsi all'indietro in estasi. Gli prese il capo tra le mani e lo sollevò. «È incredibile» annaspò. Lui la baciò e disse: «Continua a guardare».

L'ombra di Jack si piegò e si inginocchiò davanti a lei. Kitty vide l'ombra delle sue dita slacciarle i jeans e guidarli lentamente giù lungo le gambe. Lo guardò alzarsi, osservò se stessa togliere i jeans e gettarli da una parte. Poi rimasero entrambi a fissarsi, proiettati sullo schermo. Nudi ed esposti, così com'erano. Distolsero lo sguardo insieme. Si toccarono e Jack la carezzò, facendola tremare. «Non so come sia essere innamorati» le disse. «L'ho visto solo nei film, non l'ho mai provato. Forse non riconoscerei l'amore nemmeno se mi bussasse sulla schiena. Come si fa a sapere com'è nella vita reale?» È così, pensò Kitty. È come ciò che sta succedendo ora. Non poteva dirlo, per cui gli baciò il collo. Lui le prese il mento tra le dita e la costrinse a guardarlo. «Eri innamorata di tuo marito?» Quella era una domanda più neutra. «Mi piaceva. Eravamo vicini, eravamo buoni amici, ci volevamo bene. Pensavo che sposarlo mi avrebbe resa felice.» «Ma eri innamorata di lui?» «Non so» disse, poi capì che non era vero. Gli occhi scuri di Jack che la scrutavano la obbligarono a dire la verità, o almeno una parte, rischi connessi. «No, non ero innamorata di lui. Non era come ciò che avevo provato per te, non era tutto concentrato in una sola persona. Pensavo che quello non potesse più succedermi, e non ero certa nemmeno di volere che si ripetesse. Troppo pauroso. Sam mi sembrava okay.» «Ma non lo era.» «No.» Non era te. «E io non ero giusta per lui. Diversamente dalla prima moglie, non ha mai provato ione per me. Per quello è tornato da lei.» «È stato un idiota a lasciarti andare.» Osservò il suo corpo, poi fece risalire le mani verso l'alto e si fermò su una spalla, dove la toccò lievemente con un dito per cinque volte. «Cassiopea. Guarda.» Indicò il soffitto del cinema e vide la costellazione brillare contro il cielo blu scuro. «Sei come il Delphi, sei un sogno fatto realtà, la cosa più incredibile che mi sia mai successa.»

«Jack!» Le parole che le diceva erano così belle, e lei desiderava talmente fossero vere che fece un o avanti e lo strinse. La sua erezione le premette sullo stomaco. Non voleva che smettesse di parlare, voleva sentire altre storie, voleva credere a ciò che diceva. Ma l'unico posto dove si sentiva al sicuro, fiduciosa di poter avere anche lei quello che desiderava, era tra le braccia di Jack, persa nei suoi baci. Per cui cercò le sue labbra e lo baciò, facendolo tacere. Gli infilò la lingua in bocca fino a sentire il sapore dolce delle parole che aveva detto. Lo baciò ancora, e ancora, con una fame che nasceva in lei dalla disperazione. Gli morse il labbro inferiore e lui gemette, prendendole le natiche tra le mani e sollevandola contro di sé. Per potergli andare più vicino, Kitty intrecciò le gambe e sobbalzò sentendo la sua erezione farsi strada tra le cosce. Era pronta ad accoglierlo ancora. Jack gemette e le si sfregò addosso, facendole perdere la testa. Tese i muscoli e pensò che stava già venendo. Fece per chiudere gli occhi, in estasi, ma lui la ammonì. «Non chiudere gli occhi, guarda lo schermo.» Kitty aprì gli occhi e guardò. Le loro ombre che si contorcevano sullo schermo. Vide il contorno del magnifico corpo di Jack, e poi osservò se stessa aggrapparsi a lui mentre l'orgasmo la scuoteva. Si accasciò addosso a Jack, che la posò piano con i piedi in terra. Lei lo baciò di nuovo, non più disperata ma fiduciosa, come se avesse tutto ciò che desiderava. «Cosa vorresti vedere?» gli chiese poi. L'erezione di Jack era enorme. «Kitty, ogni volta che ti guardo vedo esattamente ciò che voglio.» Lei gli credette. Sorrise in modo sexy. «Penso di potere fare di meglio. Guarda.» Disegnò un percorso di baci lungo il suo petto e lo stomaco e gli si inginocchiò di fronte. Si impossessò del suo sesso e lo sfiorò con la lingua. Pelle di velluto, bollente. Jack emise un gemito basso e gutturale. Lei lo esplorò con la lingua e le

labbra, godendosi i suoni inarticolati e gli spasimi di lui. Voleva restituirgli il piacere che le aveva dato. La sua bocca si fece sempre più ardita e sollevò lo sguardo. Jack aveva occhi e bocca spalancati. «Kitty» gemette. Lei si ritrasse, lo tormentò, lo succhiò, guidata anche dalle sue mani sulla testa. Per tutto il tempo le loro ombre giganti sullo schermo riprodussero il film del loro amore. «Vieni con me» disse Jack infine, spostandole la testa. Sedette per terra, tirandosela in grembo. Lei lo avvolse con le gambe e di nuovo furono un corpo solo. Kitty urlò il suo nome e lo baciò. Voleva essere portata all'orgasmo un'altra volta. Ma lui rimase immobile, dentro di lei. La stuzzicò con la lingua. «Jack» lo implorò. Lui la tenne ferma. «Guardaci, Kitty. Quelli là siamo io e te. Ogni volta che guarderò quello schermo, ci vedrò noi due insieme.» Se era per quello lei non sarebbe più riuscita a guardare un film senza vederci dentro loro. «Guarda, siamo là. Tutto è possibile, vero?» Jack la sollevò per poi farla scendere di nuovo. «Tutto.» Era prossima all'orgasmo, ma lui la teneva sempre ferma, prolungando la dolce agonia. «Tutto» ripeté lui. «Anche che uno come me si innamori, ci credi?» «Sì.» Allora l'estasi la sopraffece e Kitty si sentì parte dell'immagine sullo schermo che si dimenava su e giù, rovesciava indietro la testa e tremava tutta. Jack la seguì. Annebbiata dal proprio piacere, lei lo vide sullo schermo arrendersi agli spasimi dell'orgasmo e, tremante, stringerla forte. Kitty rimase là, cullata dalle sue braccia, felice e sopraffatta. Lui le prese la testa tra le mani.

«Lascia che accada, ti prego, Kitty. Esploriamo questo sentimento, non mi sono mai sentito così.» Io sì, da quando ti conosco. E il sentimento era cresciuto, cambiato, e ora permeava ogni fibra di lei. Anche Jack era cambiato. Non era solo affascinante e senza cuore. Era... era Jack, l'uomo che aveva atteso per tutta la vita, così come voleva che fosse. Lui le baciò la fronte. «Per favore, dammi una chance. Dopo che usciamo di qui. Fidati di me.» Oh, sì, sì, ti prego, ti prego, sì. Lo voleva con tutta se stessa. Non riusciva a pensare, però, così vicina a lui. Si alzò da terra. «Kitty?» Jack era stravolto, ferito. «È tutto okay, vado a prendere dei popcorn. Ho fame, saranno le... mezzanotte, che dici?» Si infilò le mutandine e la T-shirt. Lui balzò in piedi e le prese una mano. «E la mia domanda? Sono molto serio stavolta, Kitty.» «So che lo sei. Mi servono un paio di minuti, ci devo riflettere. Quando torno con i popcorn, ti farò sapere cosa ho deciso.» Jack le esplorò il volto, senza lasciarla andare. Sembrava vulnerabile, preoccupato. Con un sospiro profondo le liberò le dita. «Okay, non restare via tanto.» «No.» Si avviò verso la hall. «Per me burro extra» le urlò dietro. «Lo so.» Si chiuse la porta alle spalle e ci si appoggiò. Jack la desiderava davvero. Non solo il suo corpo, ma lei. Si stava innamorando di lei. Voleva una relazione con lei. La prima vera relazione. Le sfuggì un urletto dalle labbra. Perché stava lì a pensare? Doveva mettersi a ballare come una pazza. Doveva cantare un Alleluia!

Si avviò verso lo stand delle concessioni. D'impulso carezzò le linee eleganti del muro piastrellato. «Grazie, Delphi» mormorò. Il suo cervello riprese a funzionare subito. Cosa sarebbe successo una volta usciti da lì? Certo, in quel momento lei era tutto per Jack, perché c'erano solo loro due. E quando fossero stati fuori e Jack avesse avuto a disposizione tutte le donne che voleva? Quel posto, la loro storia, erano un sogno straordinario. Ma i sogni si scontrano sempre con la realtà, e Kitty non poteva competere con tutte le donne che facevano parte della vita di Jack. Ma io lo amo. Fu lì che si rese conto di non avere scelta. Doveva mettere il proprio cuore nelle mani di Jack perché non poteva fare altro. Ecco perché la sirena d'allarme era squillata non appena lo aveva rivisto, perché lei sapeva bene che se si fosse lasciata irretire, avrebbe perso il controllo e sarebbe stata sua. Lui le aveva mostrato il cuore, lì in quell'edificio polveroso, illuminato da un proiettore e ingrandito su uno schermo. E a quel punto non c'era via di scampo. Kitty si specchiò nella cromatura del dispenser di popcorn. Aveva gli occhi spalancati e sembrava impaurita. Controllati, Kitty, non cambia nulla se hai paura. Non hai scelta, sei andata troppo oltre ormai. Con decisione, afferrò un secchiello di cartone e lo mise nella macchina, riempiendolo di un enorme quantitativo di popcorn. Poi ci mise sopra il burro fuso. Sarebbe tornata in quella sala stupenda e avrebbe detto a Jack Taylor che sì, voleva avere una relazione con lui. Non importava quanto sarebbe durata, o quali sarebbero state le conseguenze. Raddrizzò le spalle e tornò verso la porta del teatro. A ogni o sentiva di essere più vicina al proprio destino, qualunque esso fosse. Forse ci potrebbe essere un lieto fine, pensò.

Poi il pavimento le scivolò sotto i piedi nudi. Udì un crack esplosivo; un suono stridente come di qualcosa che si spezzava riecheggiò nell'aria. Allora il Delphi emise una sorta di ruggito e non ci fu più nulla a sorreggerla. Kitty cadde in un vuoto polveroso, tra una pioggia di popcorn.

12

Jack sedeva sul palco, facendo ondeggiare i piedi avanti e indietro. Perché Kitty doveva riflettere? Se provava quello che provava lui, non ne avrebbe avuto bisogno. L'idea di stare senza di lei era come la prospettiva di vivere senza ossigeno. A cosa doveva pensare? Forse lei non provava i suoi stessi sentimenti. Jack si rese conto che si stava mangiucchiando l'unghia del pollice. Come faceva a sapere cosa provava lei? Non glielo aveva chiesto. Sapeva che al college aveva preso una sbandata per lui, ma quello era stato tanto tempo prima. Allora lui era una persona differente. E ora sapeva che una sbandata era molto diversa da ciò che provava lui. Era pazzo di Kitty. Assuefatto a tutto ciò che faceva e diceva. Affascinato dal suo talento, stravolto dalla sua personalità, desideroso di guarire le sue ferite, ate e presenti. Se quello non era amore, allora tutti i film che aveva visto, le canzoni e i libri dicevano bugie. Si stava di nuovo mangiando l'unghia. Si nascose le mani sotto le gambe, preoccupato. Come si riusciva a fare innamorare una donna? Aveva fatto la cosa giusta? Considerando il fatto che aveva ato quasi tutta la vita a fare in modo che le donne non si innamorassero di lui, era probabile che non fosse un esperto in materia. Forse aveva commesso degli errori. Sì, senz'altro, altrimenti Kitty non ci avrebbe messo tanto a prendere i popcorn. Ripensò alle ore precedenti. Dove aveva sbagliato? A parte non averle detto nulla del cellulare. Ma quello era servito solo a guadagnare tempo, e poi lei non poteva saperlo.

Un rumore assordante assalì le sue orecchie. Un grido, subito messo a tacere. Dalla hall, dov'era Kitty. Jack saltò giù dal palco, corse verso la porta e l'aprì. Attraverso la nuvola di polvere, vide cos'era successo. Un buco si apriva nel pavimento. «Kitty!» Corse vicino al buco e si inginocchiò. «Kitty?» Oh, ti prego, fa che non sia ferita, urlarono il suo corpo e la sua anima all'unisono. Non riusciva a vedere tra la polvere e il panico lo raggelò. Poi la udì gemere ed entrò in azione. Si calò sulla poltrona sotto e la vide tra le ombre, coricata su un fianco. Aveva i capelli ricoperti di terra. «Kitty, ti prego, rispondimi!» Le schegge gli ferirono i piedi, ma le ignorò. Si chinò accanto a lei e scostò i capelli dal volto. Due occhi verdi lo guardarono e il sollievo fu tale che Jack rischiò di svenire. «Che cosa è successo?» «La botola ha ceduto. Stai bene? Ti fa male da qualche parte? Riesci a muoverti?» «Tutto. Non so.» Si sollevò su un gomito e cercò di mettersi a sedere. Urlò di dolore e impallidì vistosamente. «Che cosa c'è?» «La caviglia» gemette. Jack guardò in basso e vide che il suo piede destro nudo era piegato in modo innaturale. «Te la sei rotta. Che altro ti fa male, tesoro? Hai preso botte in testa? Respiri bene?» La ispezionò con le mani, cercando altre ferite. Braccia e gambe erano pieni di sbucciature e botte. «Sì. Cioè, respiro bene. Sono atterrata sulla caviglia, credo. Stavo camminando. Guarda, sono piena di popcorn.» Ridacchiò in modo un po' isterico. «Jack, cosa facciamo ora?» Sollevato all'idea che la caviglia rotta fosse la peggiore delle sue ferite, Jack le

baciò la fronte e notò che era tutta sudata. Shock per la paura e il dolore. «Ssh, non preoccuparti, tesoro, ora ti copro e poi chiamerò aiuto.» «Come?» Lui prese un lenzuolo impolverato da una delle poltrone coperte e glielo avvolse attorno, lasciando fuori la caviglia. Stava iniziando a gonfiarsi e su un lato c'era una protuberanza. «Stai ferma, tesoro, non muoverti, concentrati sulla respirazione. Usciremo di qui in men che non si dica.» Il cellulare era dove lo aveva lasciato, sotto degli stracci. Schiacciò il pulsante di accensione. Doveva esserci ancora un po' di carica. Una tacca. Sufficiente per una chiamata veloce. Ma non c'era segnale. Jack bestemmiò. Era riuscito a parlare con suo padre, ma ora che Kitty era ferita e aveva bisogno di aiuto, non c'era più segnale? Si mosse verso Kitty, sotto la botola, e quasi urlò di gioia quando vide riapparire il segnale di copertura. Chiamò il pronto intervento. «Un'ambulanza, al Delphi Theater di Congress Street. È caduta in una botola e si è rotta una caviglia. La porta del teatro è fuori uso, dovrete forzarla per entrare. Magari chiamate anche i Vigili del Fuoco. Credo che sia in stato di shock, per favore fate in fretta. Jack Taylor. Lei si chiama Kitty Giroux. Quanto ci vorrà?» Terminò la chiamata e si girò verso Kitty. «Resisti, tesoro, ci vorranno solo dieci...» L'espressione del suo volto lo bloccò. Lei saltò su a sedere, ancora più pallida di prima. Lo fissò con gli occhi verdi colmi di dolore e tradimento. Quegli occhi lo pugnalarono al cuore. «Hai un telefono» disse, la voce calmissima. Jack non riuscì a distogliere lo sguardo dalle lame dei suoi occhi verdi. «Io...» Aveva già visto quello sguardo. Dieci anni prima. Tradimento, dolore, sfiducia. Da quegli stessi occhi verdi. Ogni promessa eterna era svanita.

«Hai sempre avuto il telefono.» Jack aprì la bocca, incapace di parlare. Il suo cuore era agonizzante. «Non me lo hai detto. Mi hai intrappolata, mi hai usata.» Non era un'accusa, era la constatazione di un fatto. E la sua voce non era arrabbiata, ma rassegnata. Era piatta, priva di musicalità e calore. Provò a parlare. «Kitty, io non...» «Ti volevi divertire e non ti importava di come mi sentivo io. È così che tratti tutte le tue donne, io non sono diversa.» C'era un singhiozzo sullo sfondo. «Non è vero, Kitty. Ho trovato il telefono solo stamattina, avevamo già fatto l'amore, ma avevo bisogno di toccarti e poi...» La spiegazione era precipitosa; lei chiuse gli occhi e Jack si interruppe. La udì inspirare a fondo. Riaprì gli occhi. «Vai a vestirti prima che arrivi l'ambulanza.» «Non voglio lasciarti qui.» «Jack, io non ti voglio vicino. Vestiti e aspettali alla porta. Vai via.» «Tesoro!» Allungò una mano e lei lo gelò. «Non-Osare-Toccarmi.» Jack si immobilizzò e ritrasse la mano. «Mi hai già guardato in quel modo, al ballo di fine anno. Ricordo di avere sollevato lo sguardo dopo avere baciato Melissa Beauchamp e di averti vista, là in piedi sulla pista da ballo. Mi guardavi come fai ora.» Lei non disse nulla; continuò a esaminarlo, e il dolore che le lesse negli occhi lo pugnalò. «Sembrava che te lo aspettassi, speravi che non succedesse ma sapevi che sarebbe successo. Kitty, stavolta non è così, vero?» Nessuna risposta.

«E ricordo un altro particolare di quella sera. Io ti ho guardata e ho pensato, spero di non innamorarmi mai se devo stare così male. E ora...» La voce di Jack vacillò. «Ora sto malissimo. Tu ti aspettavi che io ti tradissi di nuovo.» Kitty chiuse gli occhi. «Ti prego, vai a vestirti, Jack.» Con la sensazione di lasciarsi la vita alle spalle, lui si arrampicò fuori dal buco e tornò nella sala proiezioni, dove aveva lasciato i vestiti. Mentre li stava indossando, udì un martellare distinto alla porta d'ingresso. Si infilò i mocassini sui piedi nudi e notò solo in quel momento che erano macchiati di sangue. Saltellando, Jack giunse nella hall proprio mentre la porta d'ingresso veniva spalancata da un pompiere e due paramedici. L'aria fresca lo colpì come una secchiata d'acqua. Fuori era buio e stava piovendo. «È caduta dentro la botola» disse. «C'è una poltrona sotto, potete usarla per scendere.» «Come si chiama la donna?» chiese il secondo paramedico mentre il primo già si calava nel buco con il pompiere. «Kitty.» Si chinò vicino alla botola e osservò impotente la squadra di salvataggio lavorare. Controllarono Kitty, le stabilizzarono la caviglia e la caricarono su una barella. Il pompiere risalì. «Questo posto è suo?» «Sì.» «Cosa pensava di fare con quella botola pericolante?» «Era a posto, ma io l'ho aperta, e forse non ho riposizionato la copertura in modo corretto.» «Eravate chiusi qui dentro?» chiese il pompiere. «È un locale pubblico. E le uscite di emergenza?» «Sono bloccate.» Il pompiere scosse il capo, disgustato. «Non si può stare in un posto senza uscite

di sicurezza. Potevate farvi male tutti e due.» Ogni parola dell'uomo sottolineava un concetto. Jack, sei un maiale irresponsabile. Annuì. «Ehi, dateci una mano con la barella» disse un paramedico. Jack osservò i tre uomini sollevare Kitty nella hall. Lei aveva il volto contratto e gli occhi chiusi. «Kitty» la chiamò, cercando di prenderle una mano. Lei strinse i pugni e si ritrasse. I paramedici trasportarono fuori la barella, seguiti da Jack. Dall'esterno la porta non pareva danneggiata. «Come siete entrati?» chiese al pompiere. «Abbassando la maniglia. Non era neppure chiusa a chiave.» La pioggia era gelida; la via era illuminata dalle sirene di emergenza. Jack guardò in su: niente stelle. Il cielo appariva vasto e vuoto sopra di lui. Cercò di salire sull'ambulanza con la barella, ma Kitty aprì gli occhi e glielo impedì. «No, lasciami sola.» Il paramedico fece spallucce e Jack tornò sul marciapiedi. Osservò il pompiere chiudere lo sportello e l'ambulanza allontanarsi. «Grazie» disse all'uomo. Tornò nel cinema e recuperò la bicicletta, la inforcò e pedalò a tutta velocità verso l'ospedale.

Gli infermieri portarono subito Kitty al Pronto Soccorso, ma non lo lasciarono are perché lei non voleva. Jack, fradicio per la pioggia e il sudore, rimase dunque in piedi nella sala d'aspetto. Qualche malato tra i meno gravi lo guardò con curiosità. Lui si tolse i capelli dalla fronte e iniziò a eggiare nervosamente, lasciando impronte bagnate sul linoleum.

Con la coda dell'occhio colse un flash di capelli rossi. Si girò, ma non era Kitty. La conosceva, però. «Treena!» urlò correndo verso di lei. La sua ex amante lo scrutinò per bene. «Ehi, Jack, sembri un topolino bagnato!» Ratto sarebbe andato meglio come definizione. «Senti, mi faresti un favore? Di là c'è una donna, Katherine Giroux Clifford. È appena arrivata in ambulanza e ha una caviglia rotta. Puoi vedere come sta? Devo saperlo.» Treena lo ispezionò di nuovo. «Certo» disse, e girò sui tacchi. A Jack parve di avere percorso dieci chilometri avanti e indietro prima che tornasse. «Come sta?» «Sta bene. Ha molti tagli e lividi e una brutta frattura alla caviglia, ma niente di serio. È ai raggi.» «Grazie.» Si lasciò cadere sulla poltrona più vicina e finalmente ritrovò una respirazione regolare. Quando sollevò lo sguardo, Treena lo stava ancora osservando. «Ho sentito dire che è da un anno che non fai sesso per scelta.» «È vero.» «Ti offendi se ti chiedo il perché?» «Kitty, la donna ferita. Stavo aspettando lei.» Treena annuì. «L'ho sempre saputo che prima o poi ti saresti innamorato pazzamente. Come stai affrontando la cosa, Jack? L'amore ti tratta bene?» «Non sono mai stato tanto infelice in vita mia.» Lei annuì di nuovo. «Lo immaginavo. Quando sono entrata nella stanza di là e le ho detto che volevi sapere come stava, mi ha urlato dietro che se ti rivolevo, potevo accomodarmi.» Jack sentì il cuore spezzarsi. Era stata una pessima idea mandare Treena a

controllare, Kitty l'aveva vista fuori dal ristorante e riconosciuta. Un altro errore. Sospirò. «Come va con il tuo nuovo uomo?» «Fidanzato. Ci sposeremo.» Treena guardò l'orologio. «Devo tornare al lavoro. Senti, Jack, vai a casa, è tardi, lei non ti vuole vedere e hanno chiamato sua madre. Starà bene, tu non puoi fare nulla. Vai ad asciugarti e a scaldarti.» Jack si alzò. Treena aveva ragione, se Kitty non lo voleva, non aveva nulla da fare lì. Né altrove. «Okay, grazie. Ciao.» Tornò fuori sotto la pioggia e risalì sulla bici per tornare a casa. Magari quell'acqua avrebbe lavato via il suo dolore. Sì, già. E lui era Gene Kelly.

Jack sedette e fissò il buio. Non era buio come al Delphi. Non era buio come dentro di lui, ora. Ma andava bene lo stesso. Usando il tatto più che la vista, trovò il cavatappi e prese una bottiglia dalla confezione da sei birre che aveva di fianco. La stappò e ne bevve una sorsata. Sentì un rumore fuori dalla porta chiusa, che nello stesso istante si aprì lasciando entrare una lama di luce. «Ciao, Oz.» La silhouette alta di Oz, con una valigetta e il portatile in mano, apparve sulla porta. «Jack? Che cosa ci fai nel mio salotto?» «Aspettavo che tornassi dal Canada. Tua sorella mi ha fatto entrare.» Oz posò la roba e accese la luce. «Perché mi aspettavi al buio?» «Mi piace il buio.» Jack bevve un po' di birra. Oz lo guardò con gli occhi stretti, poi sedette sulla poltrona consumata di fronte al divano dov'era stravaccato Jack. «Hai ato un buon weekend?»

«Puoi dirlo. Sono rimasto bloccato al Delphi con Kitty per trenta ore.» «Mmh.... È una cosa bella?» «Dipende da cosa consideri bello tu. Di positivo c'è che mi sono innamorato di lei, di negativo c'è che lei mi odia a morte.» «Sembra ben equilibrato.» Oz stappò una bottiglia di birra senza usare il cavatappi e bevve una lunga sorsata. «Non riesco a pensare a come chiedertelo con tatto, per cui lo faccio e basta. Queste sono le birre che hai promesso di offrirmi per ogni preservativo che avresti usato?» Jack indicò quella che teneva in mano. «Te ne devo una perché questa la sto bevendo io.» Oz fece i conti. «Niente male per meno di due giorni.» Jack si prese la testa tra le mani. «Oz, è la donna più sorprendente che ci sia sulla faccia della terra. La amo. All'inizio non lo sapevo perché non sono mai stato innamorato prima, pensavo fosse solo sesso. È molto di più. Mi fa sentire come non credevo ci si potesse sentire. Quando sono vicino a lei, non vorrei più lasciarla andare. Quando c'è lei il mondo è migliore, e io ho rovinato tutto perché sono un idiota.» «In che modo saresti un idiota?» «Mi aveva detto che avrebbe avuto una storia con me mentre eravamo bloccati al Delphi, ma una volta che ci avessero liberati, sarebbe finito tutto. Poi io ho trovato il mio cellulare in cantina.» «Indovino. Non glielo hai detto perché volevi che la storia continuasse.» «Ho cercato di convincerla a non farla finire, ce l'avevo quasi fatta, ma lei ha scoperto il telefono.» Oz annuì. «Secondo me la maggior parte degli uomini si sarebbe comportata come te. Il che non cancella il fatto che sia stata una mossa stupida, specialmente se volevi che lei si fidasse di te.» «Lo so. Poi è caduta nella botola e si è rotta una caviglia, ed è colpa mia perché

non avevo sistemato bene lo sportello.» Jack finì la birra. «Ma non è quello che mi affligge di più.» «Cos'è che ti affligge di più?» «A voi psicologi insegnano a fare i pappagalli?» «Sì, il primo giorno. Allora, cos'è che ti affligge di più?» «I suoi occhi.» Oz contò le birre. «Sei certo di averne bevuta solo una?» «È stato quando ha visto che avevo il telefono. Mi ha guardato come se l'avessi tradita, come se le avessi dato due sberle, ma al contempo pareva che se lo aspettasse. E sai cosa? Aveva ragione, perché mi sono reso conto di avere sempre evitato le relazioni serie da quando ho tradito Kitty al ballo e ho visto come ti può fare stare male l'amore. Pensavo di agire così per non ferire altre donne, ma in realtà non volevo ferire me stesso. Ho fatto la scelta più semplice. Non volevo fallire.» Oz annuì lentamente. «Da ragazzino hai visto gli effetti devastanti che può avere l'amore e hai deciso di non renderti vulnerabile. Con il are del tempo hai avuto altre esperienze che avranno rafforzato la tua convinzione. Per questo hai mantenuto le tue relazioni sul piano puramente sessuale.» Aprì altre due birre e ne porse una a Jack. «E i film?» «I film erano una scappatoia dalle emozioni reali. Due ore di divertimento puro, dove i problemi vengono sempre risolti. Lo capisco ora.» «Poi hai sognato la stessa persona che ti ha fatto decidere di evitare l'amore.» «Il mio sogno era una profezia, ho una nonna che è veggente» disse Jack. «Non credo a quelle scemenze. I sogni sono uno dei modi in cui la mente ci parla. Il tuo sogno non era altro che l'inconscio che ti diceva che era meglio riprendere in considerazione la tua decisione di non innamorarti mai. Kitty era un simbolo dell'amore per te, per via della tua storia.» «Ma lei non è un simbolo, è vera. La amo e sono un maiale.»

«Be', anche questo è vero.» Oz assunse il suo sguardo analitico. «Mi chiedo se il tuo subconscio sapesse che Kitty era la donna che potevi amare o se sia stata solo una coincidenza.» «Oz, questo è tutto troppo complicato per me. Io so solo che non volevo innamorarmi perché ho visto Kitty stare male. Forse le volevo bene anche allora, ma non lo sapevo. E ora sono cotto di lei e sto ancora peggio perché anche se non volevo le ho fatto di nuovo del male.» «È quello che ho detto io, ma più confuso.» «Non importa. Il fatto è che sto malissimo. Mai stato peggio in vita mia. Ho commesso un errore.» «Non ti seguo» disse Oz. «Non avrei dovuto ascoltare il sogno. Non avrei dovuto cercare di cambiare vita. Non ha funzionato. Dai, usciamo.» «A fare cosa?» «Farò quello che avrei dovuto fare nell'ultimo anno. Andiamo in un bar, io trovo una donna, la porto a casa, faccio sesso senza complicazioni e domattina non mi sento più in colpa.» Posò la seconda bottiglia ormai vuota sul tavolo. «Anzi, starò benissimo. Andiamo, su.» Oz studiò Jack. «Chiamo un taxi.»

Non appena entrarono nel bar, Jack individuò due donne sedute da sole a un tavolo. «Laggiù. Io prendo la brunetta, tu la bionda.» «Sei sicuro? Non vuoi prima prenderti tempo? Bere qualcosa, controllare che sia tutto a posto?» «Perché? Ho sprecato un anno per aspettare Kitty e l'ho persa. Sono stanco di aspettare. Vieni o no?» «Sei tu il capo» replicò Oz, mite e lo seguì al tavolo.

«Salve.» Jack esibì il suo sorriso migliore. «Vi dispiace se ci sediamo con voi?» «Per niente.» La brunetta ricambiò il sorriso e si leccò un labbro. Aveva molto seno, portava un top stretto e jeans attillati. Perfetta. «Io sono Jack e lui è Oz. Possiamo offrirvi da bere?» «Io sono Amelia» si presentò la brunetta. «E questa è Heidi. Altre due Tequila Sunrise, grazie.» Jack chiamò la cameriera e ordinò, poi sedette vicino ad Amelia. «Hai progetti per questa sera, Amelia?» Sarebbe stato perfetto. Amelia gli stava dando i segnali giusti: apprezzamento del suo corpo, contatto visivo. Era così vicino che sentiva il suo profumo. Sapeva di fiori, non come quello di Kitty. Jack chiuse gli occhi e cercò di trovare una nota alla vaniglia, ricca e calda come il colore dei capelli di Kitty, cremosa come la sua pelle. Aprì gli occhi. Piantala. «Cos'hai detto che fai di lavoro?» Lei scosse i capelli scuri sulle spalle prima di rispondergli ma, sebbene la sentisse parlare, non afferrò il significato delle sue parole. Sentiva ancora quel dolore dentro di sé, e sentiva solo le parole che gli rimbombavano nel cuore e nella testa. Non voglio stare qui. La cameriera gli mise davanti una birra. Jack la prese in una stretta mortale. Già, non vuoi stare qui, si disse. Duro. Lavorati questa Amelia, sfilale le mutandine e riprenditi la tua vecchia vita. Ingollò la birra come un uomo che sta per morire di sete, si pulì la bocca e sorrise ad Amelia. «Deve essere interessante» commentò senza sapere di che lavoro avesse parlato. Si sforzò di guardarla negli occhi. Erano grigi, come il suo umore attuale. «Hai un'aria familiare, Amelia.»

«Mi avrai vista in qualche pubblicità televisiva.» «Oh, fai l'attrice?» chiese lui, sorpreso. Lei lo guardò, stranita. «Sì, è quello che ti ho appena detto.» «Sì, bellissimo. Grande, adoro le attrici.» Un'attrice. Perfetto. Cercò di immaginarsi nell'atto di baciare la bocca rossa di Amelia. Tutto ciò che riuscì a vedere furono due ombre avvinghiate su uno schermo grigio. Sentì il sapore delle labbra rosa di Kitty. Bevve il resto della birra per cercare di cancellarlo e fece un gesto per averne un'altra. «Cosa ti piace di più del tuo mestiere?» Cercò di concentrarsi su Amelia. Era sexy, carina e attrice. Avrebbe scordato subito Kitty, per sempre. «Oh, non so» replicò Amelia. «Non l'orario, perché o si lavora tutto un giorno o non si lavora. E non i soldi. Credo sia il fatto che è ciò che volevo fare. È sempre stato il mio sogno.» Jack si alzò in fretta, facendo cadere la sedia. «Mi dispiace, Amelia, devo scappare.» Amelia, Oz e la bionda lo fissarono sorpresi. «Oz?» disse Jack, la voce strangolata. «Sì, amico.» Oz si alzò e mise qualche banconota sul tavolo per i drink. «È stato un piacere conoscervi, Heidi e Amelia. Buona serata.» Non appena uscirono, Jack andò al primo albero e lo calciò. «Non dirlo, Oz. Penso di non poter tollerare un'altra delle tue verità psicologiche ora.» Oz gli mise una mano sulla spalla. «Non ho nulla da dirti che tu non sappia già, Jack. Su, andiamo a casa a vedere se troviamo dei pantaloni con le pezze alle ginocchia. Mi sa che dovrai mendicare parecchio per riavere Kitty.»

13

«Bene, una cosa posso dire della famiglia Giroux: guarite in fretta. Una volta tuo padre si è sparato in un piede e la settimana dopo era già a caccia. Tu e Nick avete preso da lui. Non per la caccia, grazie a Dio.» Se guarisco tanto in fretta, perché sto così male?, pensò Kitty. Guardò sua madre che guidava la vecchia Subaru; era stata allegra e chiacchierona mentre il medico le aveva cambiato il gesso alla caviglia. La faceva impazzire come il pizzicore sotto il gesso. «Comunque non credo che tu possa guidare fino a New York» continuò Sue. «La Mercedes ha il cambio automatico.» «Dovresti tenere a riposo la caviglia. Non capisco perché tu voglia accettare quel lavoro a New York. Eri così contenta del tuo studio quando sei tornata a casa, e ora vuoi mollare tutto.» «Non mollo, solo non ho scelta. Senza l'incarico del Delphi non guadagno, non posso vivere d'aria.» Non appena era uscita dal Pronto Soccorso, aveva mandato un'e-mail a un ex collega per chiedergli di lavorare con lui a New York. Lui le aveva offerto un lavoro a tempo determinato, nulla di che, una collaborazione con altri progettisti. Aveva accettato subito. Quasi subito. Aveva esitato un istante, ascoltando il suo cuore che agonizzava all'idea di lasciare Portland e Jack. Di avere fallito un'altra volta. Ma era un'agonia senza speranza, restare avrebbe solo peggiorato le cose. Specialmente se doveva continuare a nascondersi ogni volta che Jack veniva a casa sua. Sua madre fermò la macchina a un semaforo e la guardò. «Tu hai un lavoro, il Delphi è ancora tuo. Hai dimenticato che Jack Taylor ha telefonato ed è ato a casa cento volte per pregarti di restare?»

«Non lavorerò più al Delphi.» Kitty fissò il semaforo, risoluta. Sperò che sua madre te. «È ovvio, non hai risposto alle telefonate e non hai parlato con lui. Ma io sì, e so bene che non ti sta chiedendo di restare per il teatro. Quell'uomo è pazzamente innamorato di te.» «Quell'uomo è pazzamente arrapato da me.» Sue continuò come se non l'avesse sentita. «E da come ti stai comportando, credo che anche tu provi qualcosa. Mi sto stancando di coprirti. Perché non lo affronti?» «Il semaforo è verde.» Sua madre sbuffò, esasperata. La Subaru scattò in avanti e Kitty si guardò intorno e vide dove erano. Si raddrizzò sul sedile, colta dal panico. «Gira a sinistra. Mamma, a sinistra, lì.» «Perché? È più facile andare per Congress Street.» arono oltre l'incrocio. «Non voglio vedere il Delphi.» Il cuore le martellava così forte da scuotere la macchina. Chiuse gli occhi. L'auto sterzò e si fermò. Kitty aprì gli occhi e vide che sua madre aveva accostato e la stava guardando. «Cosa vuoi davvero, Kitty?» «Voglio questo lavoro a New York.» «Non ti credo.» Kitty si appoggiò al sedile, frustrata. «Mamma, non posso avere ciò che voglio. Voglio uno studio mio, sì, ma ora non posso permettermelo, senza contatti o incarichi. Andrò a New York, guadagnerò un po' di soldi e poi ricomincerò da capo.» «E Jack? Vuoi anche lui?» Kitty non avrebbe pianto, non si sarebbe lasciata ferire. Non in modo

permanente. I Giroux guarivano in fretta. Non aveva ancora pianto da quando era andata all'ospedale una settimana prima. Non intendeva farlo ora. «Sì.» Ricacciò indietro le lacrime. «Ma non funzionerebbe. Jack non è il tipo da legarsi a una donna. Lui stesso ammette di non sapere cosa sia l'amore. Pensa di volermi, ora, ma non durerebbe.» «Non mi freghi. Senti, un uomo non compra così tanti fiori per una donna se non la ama davvero. Abbiamo i bidoni della spazzatura pieni.» «Mamma, credimi. Quell'uomo ha una carriera di rubacuori, avrà il conto sempre aperto dal fiorista.» «Ho visto la sua faccia, è disperato.» «Disperato perché l'ho scaricato. Mi ha mentito solo per potermi portare a letto. È la mia solita sfortuna che mi ha fatto innamorare di lui.» Tossì a quelle parole. Sua madre le sistemò i capelli dietro le orecchie in un gesto così tenero e così simile a quello di Jack quando gli aveva raccontato dei suoi fallimenti, che Kitty iniziò a piangere. «Oh, tesoro» disse Sue. Sganciò la cintura di sicurezza e abbracciò la figlia, che si abbandonò completamente. «Non avrebbe dovuto mentirti.» Kitty si asciugò le lacrime, ma inutilmente. Grosse e copiose, continuavano a rigarle le guance. «È stato sempre così, mamma. Sono un fallimento in amore e in tutto il resto. Mi sono innamorata di Jack al college e mi ha mollata la sera del ballo. Ho sposato Sam e mi ha lasciata per la sua ex moglie. Ora amo di nuovo Jack e non va bene perché non mi fido di lui.» Sue la abbracciò e recuperò dei fazzoletti di carta. «Non voglio deluderti, tesoro, ma la sfortuna non funziona a quel modo, né con te né con gli altri.» «Sì invece. Siamo dovute tornare dal dottore per un gesso nuovo perché l'altro si è bagnato. Sono iellata.» «No, non è stata la sfortuna. Il gesso vecchio si è bagnato perché tu, testona, hai

insistito per fare il bagno con la caviglia fuori dalla vasca, e ci sei caduta dentro. È come con Sam. Hai deciso di sposarlo perché gli volevi bene, ma non lo amavi. Non è sorprendente che non abbia funzionato. Siamo noi gli artefici della nostra fortuna, Kitty. Siamo noi che ci creiamo il successo. So che ti sono successe cose brutte, ma accade a tutti. Ciò che conta è come riusciamo ad affrontarle.» Kitty si soffiò rumorosamente il naso. Le lacrime ora erano meno copiose. «Bella l'idea, ma...» «È vera. Prendi me, per esempio. Se avessi avuto paura di fallire quando sono rimasta con due figli, senza marito e senza soldi, dove saremmo ora? Mi sono creata la mia fortuna, e ha funzionato. Benissimo.» «Però lui ti ha lasciata, mamma, e non è mai tornato. Non importa quante volte Jack cercherà di scusarsi, non posso fidarmi di lui. Mi lascerà prima o poi, come papà.» Sue scosse il capo. «Se tuo padre fosse stato il tipo d'uomo che riesce a chiedere scusa, non se ne sarebbe mai andato, credimi.» Sue si rimise in strada e Kitty la osservò guidare. Portava una giacca e jeans da venti dollari, ma era la donna più coraggiosa che lei conoscesse. A un tratto Sue sterzò e la Subaru si arrestò bruscamente, sbalzando Kitty in avanti. Dietro si udì un rumore di freni e di clacson assordanti. «Cosa succede, mamma, perché hai svoltato?» «Kitty, so che non vuoi vedere il Delphi, ma credo che questo non te lo possa perdere.» Kitty si chinò in avanti e osservò il Delphi, bello ed elegante come sempre, con le porte sbarrate. Poi guardò lo stand davanti, dove venivano pubblicizzati i titoli dei film su uno schermo illuminato. E rimase senza parole. La scritta diceva: JACK TAYLOR AMA KITTY GIROUX. Lei smise di piangere, di respirare, il traffico si arrestò intorno a loro, mentre fissava la frase a caratteri cubitali. Oh, mio Dio! Era vero? Per un breve istante, tutto le parve possibile. Poi il

camion dietro di loro suonò di nuovo il clacson e il mondo riprese a girare. E con esso il buonsenso. La vita non era un sogno. «Andiamo, mamma.» La sua voce era piatta. «Kitty, questo non sembra l'opera di un uomo che non sa cosa sia l'amore.» «È l'opera di un uomo che pensa di sapere ciò che sta facendo» replicò. «Ma non è così. Jack è il tipo d'uomo che agisce d'istinto senza pensare alle conseguenze. Ha acquistato la macchina per i popcorn e una fornitura di uvetta per un anno, prima ancora di finire il restauro. Ha tenuto nascosto il cellulare mentre eravamo intrappolati dentro il Delphi.» Inspirò a fondo. «Jack pensa di essere innamorato di me, ma non lo è. Non durerebbe. Andiamo ora? Devo finire di fare le valigie.»

Stop. Di nuovo all'inizio. Mostra da capo. Kitty sedeva sul letto e guardava le immagini in movimento. Poltrone di velluto rosso. Frutti dorati che si arrampicavano sui muri, verso una miriade di stelle. Un proscenio dorato che incorniciava lo schermo d'argento, in attesa di ombre da proiettarci sopra. E in piedi, sorridente in jeans scuri e T-shirt bianca, pronto a baciarla per la seconda volta in dieci anni, Jack. Durò solo pochi secondi. Kitty cliccò un tasto, riavvolse il nastro del videoregistratore e poi premette di nuovo su play. Avrebbe fatto meglio ad andare avanti, a guardare le immagini in cui lui la baciava, così le sarebbe rimasto anche quello per sempre nel cuore. Non che avesse bisogno del filmato per ricordare tutto quanto. E per provare dolore all'idea che non si sarebbe ripetuto mai più. Eppure non poteva fare a meno di riguardare quelle scene. La sensazione di perdita almeno la distraeva dalle parole di sua madre. Era rimasta stordita per circa un quarto d'ora dopo avere visto il messaggio plateale di Jack. Poi aveva capito che sua madre aveva ragione su due cose. Non esisteva la sfortuna.

E, in quel momento, Jack Taylor la amava. «Questo dovrebbe rendermi felice, ma non è così. Perché?» chiese all'immagine di Jack sullo schermo. L'immagine non rispose. Poteva farlo lei, però. Se la sfortuna non esisteva, allora i suoi fallimenti avevano avuto un'unica causa. Lei. Non era abbastanza in gamba. Tutte le opportunità mancate, i secondi posti. Era tutta colpa sua. Non era stata in grado di tenersi Sam e non lo aveva neppure amato. Come cavolo poteva sperare di tenersi Jack? Come poteva competere con le decine di donne che gli affollavano la vita? Erano ovunque, al ristorante, sul marciapiedi, al Pronto Soccorso. Non sarebbe mai stata abbastanza bella e sexy per lui. Non ora, fuori dal cinema, dove poteva avere chi voleva. Doveva essere onesta con se stessa, lei lo sapeva. Incolpare Jack di averle mentito era tutta una scusa. Le aveva mentito, sì, ma solo perché lei gli aveva detto che potevano fare sesso finché restavano chiusi là dentro. Lui voleva fare sesso, quindi aveva fatto in modo di rimanere isolato il più a lungo possibile. Lei lo aveva accusato di avere sbagliato solo per pararsi le spalle e non dovere incolpare se stessa se tutto fosse poi finito. Kitty udì la porta a piano terra sul retro aprirsi, e sua madre parlare. Non riuscì a stare ferma, era attratta dall'idea che fosse Jack. Corse in corridoio e si sporse sul pianerottolo, origliando. «Quei fiori sono bellissimi» stava dicendo sua madre. «È un peccato che finiscano nel bidone. Siediti, cercherò di farla scendere. Non credo che verrà, però. Ha detto che non ti vuole più vedere.» «Lo so.» La voce di Jack la fece trasalire. «Non avrei mai pensato di poterlo dire, ma credo di essere una frana con le donne.» Sue rise. «È cocciuta come suo padre» disse poi. Io non sono come mio padre, so chiedere scusa e non me ne vado, pensò. Poi ricordò le valigie.

«In ogni caso ho bisogno di parlarle. Se le scrivo una lettera, crede che la farà a pezzi?» Kitty pensò al messaggio che le aveva scritto davanti al cinema. Un'affermazione di ciò che voleva. Ne era convinta, solo che probabilmente non sarebbe durato. Potrei provare, forse stavolta non fallirei. «Come va la caviglia?» «Le hanno messo un gesso nuovo. Il dottore dice che sta bene, i Giroux guariscono sempre in fretta.» Bene. Doveva agire in fretta prima che sua madre raccontasse la storia di suo padre che si era sparato e la mettesse in imbarazzo per sempre. «Jack?» urlò. Udì dei i, poi una voce. «Kitty?» «Faccio fatica a fare le scale, puoi salire tu?» Lui corse e si fermò sul penultimo gradino, a due centimetri da lei, i due volti uno di fronte all'altro. «Salve» le disse. Kitty sentì il suo fiato sulla guancia. E il suo odore, quello che aveva imparato a conoscere al Delphi. Il cuore accelerò i battiti; si sentì un po' stordita. «Ciao.» «Come stai?» «Bene.» Le parole non potevano descrivere la centesima parte di ciò che provava. Caldo, freddo. Gioia e dolore insieme. La voce di sua madre chiamò dalla cucina. «Kitty! Jack! Esco un attimo, ci vediamo dopo. Rimarrò fuori per un bel po'!» Poi sbatté la porta. «Tua madre mi piace molto» disse Jack. «Non va tanto per il sottile.»

Per un istante rimasero a guardarsi. Jack si morse un labbro, poi si mise a parlare a raffica. «Kitty, mi scuso per non averti detto del telefono, ho sbagliato e non ti biasimo se sei arrabbiata.» Lo sapeva già, ma voleva sentirglielo dire. «Perché non me lo hai detto?» «Volevo prima convincerti a continuare la nostra relazione. Non volevo perderti.» «La disonestà è un modo perfetto per perdere qualcuno, però» «Lo so. Lo sapevo anche allora, ma ero troppo preso da te per riflettere. Che cosa posso dire? Ho sbagliato e mi dispiace, te l'ho detto, ho molto da imparare sull'amore.» Quella parola fece torcere le budella a Kitty. Stava dicendo davvero? «Anch'io» replicò. C'erano pochi centimetri tra di loro. Sembravano molti meno. Il calore del corpo di Jack la carezzò e, come sempre, i suoi occhi la fecero sciogliere. La parola amore rimase nell'aria. «Kitty, io...» Jack ruppe il silenzio e le gambe di Kitty scelsero proprio quel momento per mettersi a tremare. Lui allungò le mani. «Non devi appoggiarti alla caviglia» disse, e la prese in braccio. Kitty non era preparata alle sensazioni che la pervasero quando lui la strinse al petto. Gli mise le braccia al collo, sentendosi protetta. «Dov'è la tua camera?» Kitty la indicò con il piede sano. Faticava a respirare, figurarsi a parlare. Lui la portò nella stanzetta piena di poster di Madonna e si fermò davanti al letto, senza accennare a posarla. Le mise la faccia tra i capelli. «Avevo tanta voglia di toccarti» mormorò.

Di nuovo in paradiso, tra le braccia di Jack. Il posto dove si sentiva più al sicuro, anche se una parte di cervello le suggeriva che era troppo bello per essere vero. Kitty infilò le dita tra i capelli morbidi di Jack e immaginò il dolce oblio di cadere sul letto e fare di nuovo l'amore con lui. Bastava che si voltasse e lo baciasse. Lo sentì irrigidirsi e stringerla più forte. Seguì il suo sguardo verso l'angolo dove stava la sua valigia, quasi pronta. «Stai partendo.» Deglutì, sconvolta dal dolore che gli lesse in volto. «Ho... ho accettato un lavoro a New York.» «Ma ho bisogno di te per il Delphi. Ho bisogno di te per me, Kitty.» Allora ciò che si era imposta non succedesse avvenne; Jack la strinse forte e la baciò, e lei fu perduta. Gli era mancato tanto! Fino a quel momento non se ne era neppure resa conto bene. Con un sospiro aprì le labbra e intrecciò la lingua con la sua, affamata. Lo voleva tutto, subito, lì. A fatica, si staccò da lui. «Fermati» annaspò. «Perché? Kitty, ti prego, sto morendo per te.» Gli credeva. Ma lei voleva di più. Se doveva voltare le spalle al lavoro sicuro di New York, sfidare la fortuna e fidarsi di Jack, le serviva più del suo desiderio. Doveva sapere se era abbastanza in gamba da tenersi il suo amore. «Non posso fare sesso con te, non subito» gli disse. Tutto l'ardore e la ione di Jack svanirono. «Capisco.» La depositò sul letto. «Ho sciupato tutto, vero? Te ne vai a New York.» «No.» Allungò una mano e lo toccò; le mancava già il contatto fisico con lui. «Cioè, sì, andrò a New York, se è la mia unica scelta. Ma... preferirei stare qui a Portland con te.»

«Però non sei certa di potere. Non sai se ti puoi fidare di me. Pensi che potrei cambiare idea e tradirti di nuovo. No, Kitty, non potrei. Non c'è nessun'altra donna al mondo per me.» «Ho letto quello che hai scritto fuori dal Delphi» gli disse. «Non mi veniva in mente nessun film che fosse migliore della realtà» replicò lui, più sorridente. «Ho bisogno di sapere che è vero. Non voglio una storiella, non posso essere solo l'ultima di una serie di donne nella tua vita. Lo capisci, Jack?» Lui le sedette accanto sul letto, sfiorandola con la coscia. «Non ho mai provato nulla di simile per una donna, Kitty. Erano tutte amiche, divertenti. Tu sei tutto ciò che volevo, e anche di più. Non sapevo nemmeno cosa fosse l'amore, prima di rivederti. Ti ho amata subito, e forse anche prima.» «Prima?» «Okay, ti sembrerà una follia, non lo sa nessuno a parte Oz, e lui mi crede solo perché è uno psicologo che ha lavorato con pazzi e criminali, e conosce le follie dell'animo umano. Ma è vero, lo giuro.» «Cosa?» «Circa un anno fa, ho fatto un sogno. Su di te. Stavamo facendo l'amore.» «Ma non mi conoscevi nemmeno un anno fa! Insomma, non ci vedevamo dai tempi del college.» «Lo so, ma eri tu. All'epoca non lo sapevo, però. Sapevo solo che era quanto di più incredibile avessi mai sperimentato, così ho deciso di non fare più sesso con nessuno finché non avessi trovato la donna del sogno.» «Io?» Gli strinse forte la mano. «Tu. L'ho capito non appena ho visto i tuoi occhi quando sei venuta al Delphi. E quando abbiamo fatto l'amore. Per questo non potevo dirti del telefono, Kitty. Il mio sogno si stava avverando, non potevo lasciarmelo sfuggire.»

Kitty fissò Jack. «E per quanto non hai fatto sesso?» «Undici mesi prima di vederti. Quasi un anno prima di fare l'amore con te. Dio, ne è valsa la pena.» «Mi stai dicendo che mi sei stato fedele per undici mesi, prima ancora di sapere chi fossi?» «Sì.» «E per tutto quel tempo, che cosa facevi? Dicevi di no alle tue donnine?» «Ho dovuto cambiare numero di telefono.» Kitty restò a bocca aperta, fissando Jack. «Ovviamente all'epoca pensavo di essere in attesa del miglior sesso del mondo. In realtà stavo aspettando l'amore, ma ero ancora troppo scemo per capirlo.» «Non credo che tu sia scemo.» «Oh, sì, lo ero. Ho provato con il mio repertorio normale per conquistarti, ma non funzionava, ero disperato. Ma finché non siamo rimasti chiusi al Delphi non ti fidavi di me, e non ti fidi neppure ora.» «Voglio fidarmi» disse lei. Jack si mise una mano nella tasca della giacca e ne estrasse un foglio sciupato. «Tua madre ha detto che hai buttato via tutti i fiori che ti ho mandato, così ti ho portato un'altra cosa.» Le porse il foglio. Era il ritratto che gli aveva fatto al Delphi. Ricordava di averlo voluto fare a tutti i costi, per catturare qualcosa di Jack da tenere per sé. «Lo porto con me da quando ci sono venuti a salvare» disse lui. «Era come una parte di te che potevo ancora stringere. È un ritratto bellissimo, Kitty, come lo è stato il nostro tempo insieme. Ti sei aperta a me, mi hai reso partecipe della tua vita. Mi hai aiutato a guardare in me. Ora non sono così scemo da lasciarti andare via.»

Le prese il volto tra le mani e le sfiorò le labbra con il pollice. «Ho pensato per giorni interi a come farti capire che ti puoi fidare di me, che voglio stare seriamente con te. Che ti amerò per sempre. Non so come provartelo, se non restandoti accanto e amandoti, se me lo permetterai.» Stavolta Kitty rimase davvero senza parole. Guardò Jack, intento a osservarla. Era teso, aspettava una risposta. Era vulnerabile e ionale insieme. Era lui che desiderava, più di qualsiasi cosa al mondo. E lei era alla sua altezza, eccome. L'aveva aspettata anche quando non sapeva chi fosse. L'aveva cercata. Aveva conservato una parte di lei nella giacca, vicino al cuore, quando non poteva vederla. La desiderava anche lui. Inspirò a fondo e pronunciò le parole che moriva dalla voglia di dire a Jack Taylor da una vita. «Ti amo, Jack. Ti ho amato da quando ti ho visto in fila alla mensa tredici anni fa. Mi sono innamorata di nuovo al Delphi, e non potevo dirtelo perché avevo paura. Ma ora non ho più paura. Ti amo, non ho mai amato nessun altro.» Gli prese il volto e lo baciò con tutto il desiderio e la felicità che provava. Jack gemette e si coricarono fianco a fianco sul letto stretto. «Significa che resterai?» le chiese. «Resterò.» «E ti fiderai di me?» «Lo sto già facendo.» «Ti amo, Kitty.» Stavolta il suo bacio fu così ionale che le rubò tutto il fiato, i pensieri, tutto quanto eccetto la gioia che sentiva stando di nuovo tra le sue braccia, su quel letto in cui aveva sognato di stringerlo ancora una volta. «Come riuscire a fare l'amore con una con la caviglia rotta?» chiese, baciandole il viso e il collo. «Con cautela, penso.»

Le sfilò il maglione e slacciò il reggiseno con dita riverenti. Si fermò solo per depositarle un bacio sui seni, poi le abbassò i pantaloni della tuta. La guardò, perplesso. «Niente biancheria intima?» «Prova tu a infilarti gli slip sopra un gesso enorme.» «Magari ci provo, più tardi però.» Con estrema delicatezza le sfilò i calzoni e poi la guardò. A Kitty parve che la toccasse con lo sguardo, dappertutto. Si sentì preziosa. Bellissima. Amata. Jack si alzò e lei lo osservò togliersi i vestiti. Si godette ogni centimetro di pelle esposta. Prima le spalle e il petto muscolosi, poi i fianchi e le gambe lunghe. Infine, quando si sfilò i boxer, si beò della sua erezione, il segno più evidente di quanto lui la desiderasse. Evidente? Kitty rise a voce alta. «Che c'è? Sono così buffo?» «Non avevo mai pensato di vedere un uomo nudo così bello nella mia stanza da ragazzina. Mi sento quasi in dovere di coprire gli occhi ai miei peluche.» «Se sono solo loro gli spettatori, puoi lasciarli lì.» Andò a chiudere la porta. D'un tratto Kitty si sentì leggera come una piuma. Scoppiò a ridere, raccolse un orsacchiotto dal pavimento e glielo lanciò. Jack lo prese e, con cura esagerata, lo ripose sulla libreria. Poi frugò in tasca dei jeans che aveva gettato per terra. «Ti ho portato qualcos'altro.» Esibì un pacchetto rosa. «Non credo che abbiamo provato la versione Tutti-frutti.» Lei smise di ridere quando Jack le si coricò di fianco e iniziò a toccarla. Lo baciò, il cuore colmo di gioia. Era così bello e perfetto. Le mani di Jack le carezzarono il corpo, a partire dalla schiena. Le prese i seni tra le mani facendola gridare. Il desiderio si fece pressante, insopportabile come il sole d'agosto a mezzogiorno. «Ti voglio ora» sussurrò. Ci sarebbe stato tempo per andare con calma dopo. Tutto il tempo del mondo. Ora aveva bisogno di sentirlo vicino a sé. Voleva

essere posseduta, circondata da lui. «Ti voglio più di quanto abbia mai voluto nessun'altra» disse lui. Lei lo prese e lo guidò dentro di sé, avvolgendogli intorno la gamba sana. Oh, sì, era lì che voleva stare, per sempre. Kitty prese la mano di Jack e se la portò alla bocca. Sentì le sue dita sfiorarle il sorriso mentre lui iniziava a muoversi dentro di lei, piano, con delicatezza. Poi fu lei a sfiorargli il volto con le dita, mentre lui la mordicchiava. In breve iniziò a oscillare più in fretta. Il calore crebbe dentro Kitty, come fuoco liquido. Tutti i dolori e le frustrazioni della settimana svanirono, dissolte in una deliziosa estasi. Il suo corpo fu percorso dagli spasimi. «Jack!» gridò, stringendosi forte a lui che gridava a sua volta, raggiungendola nell'orgasmo. Lo guardò negli occhi e capì che per Jack lei era la donna più bella del mondo. «Era quello» mormorò lui. Kitty era perduta nel languore. «Cosa?» «Il mio sogno. Era esattamente così. Oh, mio Dio, si è avverato! Anzi, è stato anche meglio.» La baciò. «Hai sognato che facevi l'amore con me a casa di mia madre e io avevo una caviglia rotta?» Lui le sfiorò il volto con un dito. «Be', tua madre e la caviglia non c'erano. Ma c'era l'amore, era così incredibile. E mi sono svegliato prima di vedere cosa succedeva dopo.» «Che cosa succede dopo?» Lui le sorrise. «Che ti chiedo di sposarmi.» Kitty baciò Jack Taylor, il suo solo, unico amore.

«Tu hai appena realizzato tutti i miei sogni.»

Epilogo

«Non smetterai mai di essere ossessionato dal sesso, eh?» Jack non interruppe l'attività di introduzione monete nel dispenser di profilattici. «È la mia prima notte di nozze, Oz, mi è permesso pensare al sesso. E poi è sesso da sposato. Credo sia anche meglio di quello da fidanzato. E ti assicuro che è stato magnifico, quello!» Oz tacque così a lungo che Jack si girò infine a guardarlo. Il suo smoking nero risaltava contro le piastrelle bianche del bagno del Delphi. Lo stava fissando, pensoso. «Sei l'uomo più felice che abbia mai visto» disse. Jack annuì. «Lo so.» «Te lo meriti. Tu e Kitty avete lavorato sodo per trasformare il Delphi. E vi amate. Se tu non fossi il mio migliore amico, sarei geloso di te.» Jack non era un osservatore come Oz, però ora, guardando l'amico, si accorse che stava mentendo. Oz era geloso. Stava cercando di nasconderlo perché non voleva che Jack stesse male. E Jack era sicuro che Oz non fosse mai stato geloso di lui prima di quel momento, in anni e anni di amicizia. Gli diede una manata su una spalla. «Accadrà anche a te, Oz. Un giorno ti troverai per i fatti tuoi da qualche parte, vedrai una donna e capirai subito che è quella che vuoi per sempre, a tutti i costi.» Oz fece spallucce. «L'amore nasce dalla comprensione e conoscenza reciproche. Tu e Kitty avevate avuto una connessione formativa emozionale molto prima che tu la sognassi. Non credo all'amore a prima vista.» «Un giorno ti ricorderò queste parole. Tieni, per te. Un regalo per il mio testimone.» Jack porse a Oz una manciata di preservativi. «Portano fortuna.»

Oz rise e li infilò nella tasca dello smoking. «Grazie, ti offrirò una birra per ognuno di quelli che ò.» «Allora sei venuto qui per dirmi che sono ossessionato dal sesso o avevi qualche novità da dirmi?» «Solo che tutti gli ospiti se ne sono andati, e ora sparisco anch'io. E che tua moglie ti sta aspettando nell'ultima fila dell'auditorium.» «Mia moglie» ripeté Jack, mentre si avviavano verso la hall. «Sesso da sposati. Uauh!» Oz scosse il capo, sorrise e uscì dalla porta del vestibolo. Jack si avviò per raggiungere Kitty nell'auditorium. Le luci erano ancora basse quando entrò e gli ultimi nomi di chi aveva contribuito al film stavano ando sullo schermo su uno sfondo di stelle. Scivolò di fianco a Kitty e le prese la mano. Le stelle le si riflettevano negli occhi. «Vedi? Te l'avevo detto che era un'idea grandiosa guardare un film alla fine del ricevimento.» Lui le strinse la mano. Sentì la fascetta di metallo al dito anulare. Per la centesima volta Jack si meravigliò per quella donna che rappresentava il mondo intero per lui. Amica, amante, partner, moglie. «Kitty Giroux Taylor, credo di averti trasformata in una fanatica dei film» le disse, carezzandole un braccio e risalendo fino al corpetto di seta color avorio. Jack si chinò sul bracciolo della poltrona di velluto rosso e prese Kitty per la vita, la sollevò e se la mise in braccio. I suoi capelli profumavano di vaniglia e delle rose bianche che vi erano intrecciate. Inalò a fondo. «Sono la donna più fortunata della terra» disse lei. Lui la baciò. Si perse in quel bacio per un po', mentre i titoli di coda scorrevano sullo schermo. La musica cessò d'un tratto e loro si separarono. Alla luce fioca del proiettore, le foglie dorate e le stelle luccicavano. Le tende di velluto erano decorate con i fiori della cerimonia matrimoniale. Si erano giurati amore eterno sul palcoscenico

dove, otto mesi prima, avevano fatto l'amore scoprendo che tutto era possibile. «Dove sei sparito poco fa?» gli chiese. «Ho fatto un salto al dispenser di profilattici, e ho parlato con Oz. Penso che sia in stato di shock. È sempre stato il più responsabile dei due, quello che desiderava una relazione stabile. Credo che stia cercando di capire come il suo amico inaffidabile abbia potuto sposarsi prima di lui.» «Forse lo dovremmo chiudere a chiave al Delphi con qualcuno.» Jack scosse il capo. «No, no. Sono d'accordo per trovare una donna a Oz, ma il Delphi è nostro.» «Hai ragione, è così.» Kitty lo baciò di nuovo, andogli una mano tra i capelli e carezzandogli il collo. Jack aveva intenzione di aspettare fino a che fossero arrivati nella suite dell'hotel che aveva prenotato per la loro prima notte di nozze. Ma non poté trattenersi. Kitty era fantastica nel suo abito avorio stile anni Trenta, però senza il vestito era anche meglio. Infilò una mano sotto la gonna lunga e carezzò la gamba, velata dalle calze in seta. Risalì dolcemente e toccò il pizzo liscio delle mutandine. L'immaginazione di Jack fece il resto. Niente camera d'albergo. Dopo tutto, avevano fatto l'amore lì al Delphi la prima volta. Sembrava giusto rifarlo lì la loro prima volta da marito e moglie. «Così» disse Kitty, la voce tremante per quello che le stava facendo sotto la gonna, «che film proietteremo alla prima assoluta del cinema, il mese prossimo?» «Prima godiamoci la luna di miele. Vorrei iniziare ora, qui.» Lottò per un po' con i bottoni sul retro dell'abito di Kitty. «Quanti cavolo di bottoni ha questo coso?» «È per insegnarti che c'è sempre una ricompensa dopo un lavoro duro.» Kitty lo aiutò a toglierle la parte superiore del vestito.

«Ho imparato, credimi» mormorò Jack, baciandole le spalle. «Che film ti piacerebbe che mostrassimo per l'apertura?» «Non mi importa, basta che abbia un lieto fine.» Kitty si girò e lo guardò, sorridendo. «A patto che dimostri che i sogni possono diventare realtà.» Jack baciò sua moglie sotto un centinaio di stelle d'argento, in una sala colma di fiori e di speranze, e seppe una cosa per certo. Quella sera Jack Taylor avrebbe fatto l'amore con la donna più bella del mondo.