Farfalle (elit): Elit 1b2

Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: Fortune Mira Books © 1997 Erica Spindler Traduzione di Maria Claudia Rey

Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Books S.A.

Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale.

© 1997 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

eBook ISBN 978-88-5899-012-4

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1

Il sole illuminava la nursery proiettando sul pavimento fasci di luce variopinta. Il grande angelo dalle ali spiegate raffigurato sulla vetrata istoriata aveva finalmente una nuova bimba da vegliare: due settimane prima era nata Grace Elizabeth, e la famiglia Monarch aveva festeggiato il suo arrivo con grande gioia. Grace avrebbe cambiato la vita di tutti. Ma specialmente quella di sua madre.

Madeline Monarch entrò nella nursery e si avvicinò alla culla per contemplare la sua bambina. Era così bella, così perfetta che lei ancora stentava a credere che fosse vera. Che aveva fatto per meritarsi una simile benedizione? La presenza di Grace era un miracolo, e anche la sua nascita, avvenuta dopo un travaglio di un'ora soltanto, era stata quasi miracolosa. Madeline scosse la testa, incapace di credere a tanta improvvisa fortuna. Lei era una di quelle persone destinate a sbagliare, a fare sempre le scelte meno adatte, a soffrire... e invece ecco che adesso aveva messo al mondo quella perfetta, assoluta meraviglia! Accarezzò i soffici capelli setosi della bimba, con un nodo in gola. Amava Grace più della sua stessa vita, e sentiva che avrebbe fatto qualsiasi cosa per proteggerla e renderla felice. La porta della nursery si aprì. Madeline si volse e vide il suo figliastro seienne, Griffen, in piedi sulla soglia con lo sguardo fisso sulla culla. Trasse un respiro profondo, cercando di vincere il disagio provocato da quegli occhi azzurrissimi, a un tempo affascinati e quasi spaventati dalla novità. Griffen era solo un bambino e aveva bisogno di lei. Non doveva dimenticarlo... Ma c'era qualcosa nel figlio di suo marito che la metteva profondamente a disagio. In sua presenza Madeline sentiva un brivido gelido lungo la schiena, ed era stato così fin dall'inizio. Eppure Griffen era un bellissimo bambino, intelligente, educato, a volte perfino dolce. Ma nonostante tutto lei non riusciva a trattenere un brivido ogni volta che lo guardava.

In realtà, Madeline sapeva perché. Lei vedeva cose che gli altri non vedevano: aveva delle visioni, sapeva leggere il futuro e il ato delle persone, fin dall'infanzia. Si era sempre sforzata di non badare a quelle premonizioni, di non dar loro peso, ma dopo la nascita di Grace quella sua capacità si era acuita, e lei non riusciva più a ignorarla. E adesso, il suo sesto senso le diceva che c'era qualcosa di strano nel piccolo Griffen. Qualcosa di strano e terribile. Lo guardò di nuovo. Povero bambino, pensò. Sua madre era morta tre anni prima, per un'overdose accidentale di sonniferi misti a whisky, e lui era cresciuto con un padre debole e distante, un nonno ossessionato dal desiderio di avere un'erede femmina, e una nonna resa semipazza da una salute malferma che le aveva causato sette aborti spontanei. E come se non bastasse, adesso aveva una sorellastra che tutti veneravano. C'era da stupirsi che non ne fosse terribilmente geloso... Povero Griffen, pensò di nuovo Madeline. Doveva cercare di volergli bene... di essere una buona madre per lui. Sorrise e gli fece cenno di entrare. «Vieni, Griffen, ma non fare rumore. La bambina sta dormendo.» Lui annuì ed entrò in punta di piedi, poi si fermò accanto alla culla e guardò la sorellina, in silenzio. Non c'era da stupirsi che fosse un po' strano, considerando la bizzarra famiglia in cui era cresciuto. Madeline si era accorta troppo tardi di essere caduta in una specie di orrenda trappola, e spesso si domandava come aveva potuto non vedere i difetti di Pierce, suo marito: un uomo inflessibile, spesso addirittura spietato, e spaventosamente meschino. Il matrimonio con Pierce Monarch era stato il più grave dei suoi errori. Era stata accecata dal nome e dalla ricchezza dei Monarch, ecco la verità. Dalla fama della Gioielleria Monarch, fondata nel 1887 dai fratelli Anna e Marcus e assurta in breve a grande, e meritata, celebrità. Spesso, prima di conoscere Pierce, Madeline si era fermata davanti alle vetrine di Michigan Avenue e aveva sognato di possedere uno di quei gioielli straordinari, una collana, una spilla, un anello. Uno solo... Ebbene, il suo desiderio si era avverato. Pierce l'aveva presa dal suo piccolo mondo di povera commessa senza nobiltà e l'aveva trasportata nella grande casa di Astor Street, in un ambiente di lusso e raffinatezza che era simile a un sogno.

Solo che il sogno si era presto rivelato un incubo. Ma adesso tutto sarebbe cambiato. Adesso era arrivata Grace, una salvezza per la famiglia e per le sorti dell'azienda, e grazie a lei tutti sembravano molto più felici. «La sorellina è proprio bella, vero?» Madeline sorrise. Griffen non era affatto geloso di Grace, anzi, sembrava affascinato da lei. Sembrava addirittura che l'adorasse. Come aveva potuto pensar male di lui?, pensò intenerita. «Nonno Adam dice che Grace ha il dono.» «Il dono?» ripeté lei interdetta. «Sì, quello delle donne della famiglia. Quello che aveva la prozia Anna, e ha fatto la fortuna della famiglia» spiegò Griffen in tono saccente. «Nonno Adam dice che anche Grace è speciale, e che perciò dobbiamo tenerla sempre con noi.» Il sorriso di Madeline si spense. Griffen ripeteva soltanto quello che aveva sentito dire, ma c'era qualcosa di agghiacciante nella sua espressione intensa. «Tesoro, Grace è speciale perché le vogliamo bene... ma non è detto che abbia questo dono. E poi, il fatto che finora siano state le donne della famiglia a creare i gioielli non vuol dire che in futuro non possa farlo anche un ragazzo, magari proprio tu!» Griffen scosse la testa. Sembrava un adulto annoiato dalla stupidità di un bambino. «No. Il nonno dice che solo le ragazze lo fanno. È sempre stato così, ed è per questo che Grace è tanto importante per la famiglia. Il nonno lo sa.» «Tu pensi che il nonno sappia proprio tutto?» domandò Madeline aggrottando la fronte. «Oh, sì. Il nonno è la persona più intelligente del mondo, e da grande io voglio essere come lui.» Griffen guardò di nuovo la piccola. «Posso toccarla?» «Sì, ma con molta attenzione. Così.» E Madeline sfiorò lievemente la guancia setosa di sua figlia.

Griffen la imitò. «È così morbida e liscia...» disse stupito. «Come mai?» «Perché è nuova nuova» sorrise Madeline dondolando lievemente la culla. «Quando sarà un po' cresciuta te la farò tenere in braccio.» «Cresciuta quanto?» «Un po' più di adesso. Sai, i neonati sono delicatissimi, e con loro bisogna far molta attenzione.» Griffen non disse nulla per un po' e rimase accanto alla matrigna, osservando la piccola addormentata. «Da grande la sposerò» annunciò. «Chi, tesoro?» «Grace.» Madeline rise dolcemente e gli scompigliò i capelli. «Non puoi, caro. Grace è tua sorella.» Lui la guardò corrucciato. «Se voglio lo farò!» Madeline chiuse gli occhi per un attimo. Vide un pavimento macchiato di sangue, due piccole braccia che si agitavano contro un grande corpo scuro, sentì un grido di aiuto... Un gemito sfuggì dalle sue labbra, e quando riaprì gli occhi si ritrovò nella nursery inondata di sole, a guardare il viso iroso del figliastro. Scacciò dalla mente la visione e disse severa: «Non si può sposare la propria sorella, Griffen. Non si può!». Il bambino fece una smorfia di rabbia. «Se voglio lo farò!» urlò. E diede uno spintone violento alla culla che ondeggiò minacciando di rovesciarsi: la piccola venne proiettata contro il bordo di legno, batté la testolina e si svegliò con uno strillo disperato. Madeline si slanciò a prenderla in braccio e la strinse a sé, cercando di calmare i suoi singhiozzi. Per fortuna stava bene, pensò. Non si era fatta niente, solo un grande spavento. Sarebbe potuto essere peggio, molto peggio.

Un pavimento macchiato di sangue... un disperato grido di aiuto... Levò gli occhi. Griffen si era ritirato sulla soglia della nursery e la guardava sorridendo, malignamente soddisfatto di sé. Madeline sentì le ginocchia che cedevano e si lasciò andare su una poltroncina, stringendo la bimba al petto. Ecco qual era la verità, pensò sconvolta. Griffen odiava la sorellina e avrebbe cercato in tutti i modi di farle del male. Lei doveva stare attenta. Molto attenta.

2

Dalla finestra della camera da letto, con il cuore in gola Madeline osservava Pierce e Adam che chiacchieravano sul vialetto. Erano lì in piedi da più di dieci minuti, e non si decidevano ad andare al lavoro. Lei chiuse gli occhi e pregò che se ne andassero alla svelta. Perché avevano scelto proprio quel giorno per attardarsi, proprio quel giorno di cui ogni minuto, ogni secondo era così prezioso? Aveva pianificato tutto con attenzione. Adam doveva partire per affari, Pierce stava andando al lavoro, Griffen era a scuola. Il giovedì la cuoca faceva la spesa per la settimana, ed era il giorno libero della governante. Nonna Monarch era malata e non lasciava mai le sue stanze... era il giorno perfetto per fuggire. Madeline si premette una mano sullo stomaco che doleva per la tensione. Nessuno aveva voluto crederle, né Adam né Pierce. Nessuno capiva le vere intenzioni di Griffen nei riguardi di Grace. Nei cinque anni trascorsi da quel primo incidente nella nursery, Madeline aveva tentato innumerevoli volte di metterli in guardia, ma le sue preoccupazioni erano state minimizzate e ridicolizzate. Era esagerata, era nevrotica. Griffen voleva molto bene alla sorellina. Non c'era niente di strano! Così, Madeline aveva osservato il morboso attaccamento di Griffen aumentare sempre più. Il ragazzo era geloso degli altri bambini con cui Grace giocava, del suo gattino, perfino dei giocattoli che potevano distrarla da lui. Era incredibilmente possessivo, seguiva la bimba dappertutto, e spesso guardava con odio gli adulti che si frapponevano tra loro due. Suo padre, la governante, perfino la stessa Madeline. Ma questo era ancora niente rispetto a quello che era accaduto in seguito. I giocattoli preferiti di Grace distrutti e mutilati. Il gattino ucciso a bastonate. Griffen addosso a Grace, una mano sulla bocca per zittirla e l'altra sotto le gonne...

Ancora adesso, a distanza di mesi, l'orrore di quella scena vista per caso le attanagliava lo stomaco. Griffen aveva detto con un innocente sorriso che stavano facendo la lotta, ma lei sapeva bene che non era così, e ancora una volta ne aveva parlato con il marito e il suocero. Li aveva supplicati di far qualcosa, non solo per il bene di Grace ma per quello di Griffen che era malato e aveva bisogno di assistenza psicologica... ma ancora una volta era stata derisa, addirittura minacciata. Se avesse continuato con le sue farneticazioni le avrebbe tolto la bambina, aveva detto Adam. Qualsiasi giudice avrebbe convenuto che le sue storie di visioni e di premonizioni non erano un esempio sano per dei bambini. Poi le aveva mollato un ceffone violento, che l'aveva mandata a sbattere contro la parete. E Pierce era stato a guardare senza muovere un dito. In quel momento qualsiasi residuo di amore per il marito era definitivamente morto. Madeline l'aveva odiato con tutta l'anima, ma nei mesi successivi si era controllata, aveva finto perché doveva pensare al bene di sua figlia e sapeva che Adam poteva mettere in atto la sua minaccia. Allora, nessuno avrebbe più protetto Grace. Così aveva fatto marcia indietro. Non sapeva che le era preso, aveva detto. Si rendeva conto di aver esagerato nei suoi timori su Griffen. Adesso capiva di essersi sbagliata. Le dispiaceva moltissimo... E aveva recitato la parte della moglie sottomessa e adorante, della nuora perfetta, della matrigna premurosa. Intanto, progettava la fuga. Pierce levò gli occhi e la vide dietro i vetri. Il cuore di Madeline si fermò. Buon Dio, l'aveva sorpresa... e adesso, che avrebbe fatto? Poi cercò di calmarsi. Pierce non poteva sapere. Non poteva! Quella mattina, per buona misura, lei si era perfino sottoposta al suo amplesso, benché la cosa la disgustasse. Aveva lottato contro i conati di vomito e aveva sopportato, sapendo che lui sarebbe andato al lavoro tronfio e soddisfatto di sé e non avrebbe più pensato a lei per il resto della giornata. Forzò un sorriso e un cenno con la mano, e gli gettò addirittura un bacio. Pierce sorrise compiaciuto e tornò alla sua conversazione. Ecco. Lei e Grace erano salve, per il momento. Madeline si staccò dalla finestra pensando ai mesi trascorsi. Non era stato facile fingere che tutto andasse bene e continuare a sorvegliare Griffen senza parere.

Non osava nemmeno dormire per il terrore che lui scivolasse nella camera di Grace e la violentasse. Era stato terribile, e lo sforzo per dissimulare le sue angosce le era costato molto. Era dimagrita, aveva il viso tirato e segnato, e la gente cominciava a domandarsi se non fosse seriamente ammalata. Ma lei sapeva di non essere malata né pazza. Solo che tutti gli altri fingevano di non vedere. Andò a controllare sotto il letto. Le valigie erano nascoste là sotto, pronte. Doveva solo terminare quella di Grace, poi sarebbe partita, anche se non aveva un posto in cui andare. Non aveva parenti, e la sua migliore amica di un tempo, Susan, era stata forzatamente allontanata dalla sua vita. Non aveva denaro suo: le sue spese erano controllate da Pierce, e lei non disponeva mai di contanti. La sorella di Adam, Dorothy, era l'unica che fosse dalla sua parte, ma fino a un certo punto. Anche lei era ossessionata dalla convinzione che Grace avesse il famoso dono e che in futuro dovesse ereditare la direzione artistica dell'azienda. Madeline era stata costretta a impegnare l'anello di fidanzamento, dicendo a Pierce che lo aveva mandato a restringere, e con il ricavato si era comprata una vecchia Chevrolet che aveva parcheggiato a qualche isolato di distanza. Era tutto pronto. Perché quei due non se ne andavano? Finalmente udì il rumore delle portiere sbattute, corse alla finestra e vide che la macchina con autista si allontanava. Scese le scale con il cuore in gola, si fermò un attimo nell'ingresso per assicurarsi che non ci fosse nessuno, poi corse nello studio e chiuse a chiave la porta. Sulla parete di fronte a lei, nascosta da un paesaggio, c'era la cassaforte. Per mesi aveva usato ogni scusa per essere presente quando Pierce l'apriva. Aveva spiato, osservato, annotato. E adesso sapeva la combinazione. Ti prego, Dio, fa' che sia giusta, pregò staccando il quadro. Compose la combinazione, un numero dopo l'altro... ma la cassaforte non si aprì. Oh, Dio, no! Senza denaro non poteva andare da nessuna parte... lei e Grace erano condannate... Sta' calma, Madeline. Sta' calma e riprova. Riprovò. Lo sportello si aprì. Con mani tremanti, Madeline spostò un sacchetto di velluto nero recante il logo

della gioielleria, una farfalla imperiale la cui ala destra si trasformava in una M ricurva, e prese un fascio di banconote. Cinquemila dollari le sarebbero bastati per sistemarsi finché non avesse trovato un lavoro. Cacciò le banconote nella tasca del cardigan, poi guardò incuriosita il sacchetto di velluto. Chissà che cosa conteneva. Lo aprì d'impulso e vi affondò la mano, estraendone una manciata di gemme. Diamanti, rubini, zaffiri. Enormi, purissimi. Che ci facevano lì? Perché non erano nella cassaforte della ditta, dove sarebbero stati più al sicuro? Madeline rimise le pietre nel sacchetto e fece per chiudere la cassaforte. Adam e Pierce erano abili uomini d'affari, e se tenevano delle pietre preziose in casa dovevano avere le loro buone ragioni, che peraltro non la riguardavano. Prendile, disse una voce dentro di lei. Madeline scosse la testa. Se avesse obbedito al suo impulso, Adam e Pierce l'avrebbero inseguita con ferocia ancora maggiore. No, meglio lasciarle dov'erano. Richiuse la cassaforte e attraversò la stanza, ma a metà strada si fermò, fulminata da una delle sue visioni. Neve. Un bosco scuro e fitto. Una distesa di ghiaccio, acque gelide che inghiottivano qualcuno. Cominciò a tremare incontrollabilmente. Prendi le pietre, disse la voce dentro di lei. Prendile! Allora corse di nuovo alla cassaforte, l'aprì, afferrò il sacchetto e richiuse di furia, poi scappò via stringendo il sacchetto di velluto al petto. Ecco, l'aveva fatto. Non poteva più tornare indietro. Salì le scale lottando contro il panico ed entrò in camera di Grace. «Tesoro... svegliati, tesoro, è ora di alzarsi...» disse scuotendola dolcemente. Grace si voltò mormorando qualcosa, con il suo orsetto stretto al cuore. Poi aprì gli occhi e sorrise. «Ciao, mammina.» Il cuore di Madeline si gonfiò d'amore. Non si sarebbe mai stancata di guardare la sua bambina, di sentirsi chiamare mamma da quella vocina così dolce. «Coraggio, amore, alzati e vestiti. Dobbiamo partire. Sei capace di vestirti in

fretta?» La piccola si mise a sedere sul letto, cacciandosi il pollice in bocca. «Mammina, sei arrabbiata?» domandò. «No, tesoro, ho solo molta fretta.» «Perché, dove andiamo?» Madeline esitò. Che poteva dire a sua figlia? Che aveva intenzione di guidare finché non fosse morta per la stanchezza? Che voleva mettere la maggiore distanza possibile tra loro e quella casa maledetta? Accarezzò la testolina di Grace e disse: «Oh, in un posto bellissimo. Vedrai come ci divertiremo, solo tu e io». «Papà non viene?» Lei scosse la testa. «Papà ha tanto da lavorare.» La bimba accettò la spiegazione senza protestare. Pierce vedeva sua figlia raramente, e quelle poche volte la trovava troppo rumorosa, o sporca, o capricciosa. Non parlava mai di lei se non in termini di valore per l'azienda di famiglia. Per Grace era poco più di un estraneo. «Neanche il nonno e la nonna?» domandò la piccola scendendo dal letto. «No.» «E Grif?» «No, nemmeno lui.» Lui, meno che mai. «Vedrai come sarà bello, solo tu e io!» «Va bene.» Grace infilò le pantofoline, e Madeline si inginocchiò accanto a lei. «Ho bisogno che mi abbracci forte» sorrise. La bimba cinse il collo della madre con le sue braccine paffute, e Madeline la strinse forte. «Ti voglio tanto bene, tesoro. Tanto.» «Anch'io, tanto tanto.» «Adesso finisci di vestirti. Io torno subito.»

Madeline corse in camera, prese le valigie da sotto il letto e aprì la sua, ci mise le banconote e il sacchetto di velluto e richiuse. E raddrizzandosi ebbe come un lampo. Pierce sapeva. Sapeva, e stava per sorprenderla. Guardò verso la porta quasi aspettandosi di vederlo là, in piedi. Non c'era nessuno. La casa era vuota, anche la cuoca doveva essere già uscita. Eppure non riusciva a scrollarsi di dosso quell'orribile sensazione. Pierce sapeva, e se l'avesse scoperta l'avrebbe uccisa. Respirò a fondo un paio di volte. Doveva restare calma. Non doveva farsi prendere dal panico. Entro venti minuti lei e Grace sarebbero state fuori di lì, in macchina, pronte a cominciare una nuova vita lontano da quell'orribile famiglia. Sarebbe andato tutto bene. Tutto bene. Tornò nella nursery. Grace doveva aver perso tempo in bagno e non era ancora pronta. Madeline sospirò. Perdere la calma con la bimba non sarebbe servito a niente. Meglio aiutarla a vestirsi. «Coraggio, amore, dobbiamo sbrigarci» disse tendendole lo scamiciato. «Perché?» «Perché sì» scattò lei. Poi sorrise per temperare il tono secco della voce. Ce l'avevano quasi fatta... questione di minuti. Diede a Grace il suo orsetto e finì la sua valigia, gettandoci dentro alcuni abitini e i giocattoli preferiti. Qualcuno bussò alla porta della nursery. «Signora? Sto andando al supermercato, ha bisogno di qualcosa?» La cuoca, maledizione. Non era ancora uscita! Madeline tentò di rispondere, ma aveva la gola così arida che non ne uscì un suono. Accidenti, pensò. Se non le rispondeva subito, la donna si sarebbe preoccupata e magari sarebbe entrata, e così avrebbe visto le valigie! «Signora Monarch? Tutto bene?» «S... sì, Alice, non si preoccupi. Non mi serve niente, vada pure.» «Va bene. Ah, guardi che hanno chiamato dall'ufficio del signor Monarch.

Dicono che ha dimenticato qualcosa e sta tornando a casa a prenderlo.» Pierce stava tornando a casa? Dio, no! Lottando contro il panico, Madeline ringraziò la donna e le ricordò che lei e Grace sarebbero state fuori perché pranzavano allo zoo con un'amichetta della bimba. Poi aspettò un poco, per essere sicura che Alice se ne fosse davvero andata. Quanto tempo le restava prima che Pierce rientrasse? Si guardò intorno, eliminando mentalmente le altre cose che voleva mettere in valigia. Non c'era tempo. Ne avrebbero fatto a meno. «Guarda, mammina!» esclamò Grace felice. «Che bei sassi!» Madeline si volse e vide che la bimba aveva aperto chissà come la sua valigia e si era rovesciata in grembo il contenuto del sacchetto di velluto. Scattò verso di lei e glielo strappò di mano. «No! Non toccare!» Le pietre rotolarono sul parquet, e Grace scoppiò a piangere. Madeline non alzava mai la voce con sua figlia. In cinque anni, le era accaduto forse tre volte. Abbracciò la piccola, pentita, e cercò di consolarla. «Non piangere, tesoro. Papà vuole che ci portiamo in viaggio queste belle pietre, ma sono speciali e non bisogna giocarci. Adesso, vuoi aiutarmi a raccoglierle?» Tirando su col naso, la bimba annuì e insieme raccolsero le gemme, le rimisero nel sacchetto, e il sacchetto in valigia. Madeline chiuse a chiave entrambe le valigie. «Coraggio, amore, è ora di andare.» La porta della nursery si aprì, Madeline si volse di scatto e si sentì gelare. Non era Pierce che aveva dimenticato qualcosa a casa, ma l'altro signor Monarch. Molto, molto peggio. Adam vide la scena, capì, e il suo volto si incupì di collera. «Sei in partenza, Madeline?» Lei si umettò le labbra. «Non è così. È solo che...» «Andiamo in viaggio» cinguettò Grace, «ma papà non viene perché deve lavorare!» Adam fece un o verso di loro, livido di rabbia. «Brutta puttana, ecco che cosa stavi architettando... ecco perché eri tanto dolce e arrendevole e facevi la mogliettina perfetta. Stavi progettando di rubarmi mia nipote!»

Con il cuore in tumulto, Madeline rispose: «È mia figlia, Adam. Mia figlia!» «E papà ci ha dato dei bei sassi colorati per il viaggio» disse Grace. Adam guardò la bimba corrugando la fronte, cercando di capire, poi si rivolse nuovamente alla nuora. «Tu non vai da nessuna parte.» «Non puoi impedirmelo» replicò lei raddrizzando le spalle. «È mia figlia, e io devo proteggerla. Ho cercato di mettervi in guardia, di farvi capire che Griffen...» «Griffen è suo fratello» l'interruppe il vecchio con la faccia paonazza. «È mio nipote, ed è un Monarch!» «Ma è uno squilibrato! È malato, pericoloso. Dovresti vedere come si comporta, così ci crederesti!» gridò lei. «Dovrei credere ai deliri di una pazza che pensa di poter predire il futuro? Ma fammi il piacere!» «Ma vi ho pur detto come li ho trovati, non me lo sono immaginato! Lui la teneva inchiodata sul pavimento e aveva la mano sotto le...» «Taci!» ululò Adam. «Sei tu che sei squilibrata, sei tu che hai bisogno di cure! Guarda, non me ne frega un accidente se te ne vai, ma mia nipote non la tocchi!» «Devo pensare al suo bene, e tu non puoi fermarmi» ribatté Madeline. «Oh, sì che posso. Lei deve star qui, appartiene alla famiglia, appartiene ai Monarch.» «Ma non è un oggetto!» gridò Madeline mettendosi tra lui e la bimba. «Non appartiene a nessuno, è una persona!» Adam scosse la testa e parlò con calma, ma i suoi occhi avevano un'allarmante luce di fanatismo che le gelò il sangue. «Grace ha il dono, Madeline. Sai bene che non posso lasciarla andare. Devo tenerla qui.» «Adam, sii realistico» cercò di ragionare lei. «Come sai che ha davvero il dono? Grace ha solo cinque anni... come puoi esserne sicuro?» Quell'uomo era pazzo,

pensò. Ossessionato dalla convinzione assurda che il dono asse da una all'altra delle donne di famiglia. Ossessionato dal terrore che senza Grace l'azienda sarebbe fallita. Buon Dio, era pazzo come Griffen! Gli diede uno spintone, con l'intenzione di afferrare la piccola e scappare comunque, ma lui l'afferrò per un braccio. «Tu non vai da nessuna parte, ho detto» sibilò. «Lasciami. Avrai notizie dal mio avvoc...» Adam le assestò un pugno sulla mascella, e lei barcollò all'indietro urtando il cassettone. La lampada di Mamma Oca cadde a terra, in briciole. Adam afferrò Grace e corse verso la porta. «Mamma!» urlò la bimba, scalciando disperata. «No! Voglio la mia mamma!» Madeline si rimise in piedi a fatica e si slanciò su di lui, artigliandogli il collo. Adam allentò un poco la presa su Grace, che cadde sul pavimento con uno strillo, e colpì di nuovo Madeline facendola crollare all'indietro sul letto. E mentre lei cercava di rimettersi a sedere, lo vide avanzare con le mani incurvate come artigli. Voleva ucciderla, pensò. Prima che si risollevasse, Adam fu su di lei e l'afferrò alla gola. «Razza di cagna maledetta! Credevi davvero di fregarci? Credevi di potercela portar via così?» Madeline tentò disperatamente di liberarsi, gli graffiò le mani, si dibatté, scalciò, ma lui era troppo forte. I polmoni di lei bruciavano, privi di aria. La sua testa sembrava esplodere per il dolore, gli occhi cominciavano già ad annebbiarsi. Sopra di lei, l'angelo della vetrata guardava placido la scena. Madeline agitò le braccia e con una mano toccò il vaso di cristallo che stava sul comodino. Un bellissimo vaso con la base d'argento, regalo di un amico di famiglia per la nascita di Grace. Lo strinse, lo sollevò e con le forze che le rimanevano lo vibrò sulla testa di Adam. Lui grugnì e allentò la presa sul collo di lei. L'ossigeno le affluì di nuovo nei polmoni, facendoli bruciare più di prima. Madeline sollevò di nuovo il vaso, con entrambe le mani, e colpì Adam. Questa volta, sentì un orrendo scricchiolio di

ossa rotte e vide il sangue sprizzare dalla ferita. Grace urlò e urlò. Adam si alzò in piedi barcollando. Il sangue inondava un lato della sua faccia e gli gocciolava sulla camicia. Guardò Madeline con espressione incredula e cadde lentamente all'indietro sul pavimento. Il sangue schizzò su Grace, che continuava a gridare istericamente, uno strillo dopo l'altro, come un camlo d'allarme impazzito. Madeline si alzò a sua volta e si avvicinò al suocero. Adam giaceva immobile, con la faccia bianca come il gesso e una pozza di sangue che si allargava sotto la testa. Lo aveva ucciso. Aveva ucciso Adam Monarch! Fece per sentirgli il polso, poi si fermò di botto, agghiacciata. La sua visione. La visione che aveva avuto cinque anni addietro nella nursery, e poco prima nello studio. Macchie di sangue su un pavimento lucido... una distesa di ghiaccio, acque gelide che risucchiavano un corpo... Si portò una mano alla bocca per soffocare l'urlo che le saliva in gola. Dunque non era finita! Doveva andare, prima che qualcuno scoprisse quel che aveva fatto. Prima che la fermassero e le portassero via Grace. Madeline prese per mano la bimba urlante, afferrò le valigie e corse via.

3

Il panorama era punteggiato di fattorie, granai e mulini a vento. Per le strade avano carri trainati da cavalli. L'insieme era pittoresco e bellissimo, e ogni giorno decine di turisti arrivavano fin lì per rivivere l'atmosfera dell'ottocento. Ma Chance McCord non ne poteva più. Se fosse vissuto ancora un giorno in quell'atmosfera antica e incontaminata dal progresso, sarebbe impazzito. Voleva mettersi i jeans, ascoltare musica rock, guardare la TV. Voleva chiacchierare con gli amici, santo Dio. Sentiva perfino la mancanza della scuola! Gli Amish ritenevano che a sedici anni un ragazzo dovesse smettere di andare a scuola e lavorare nei campi o nelle fattorie, e Chance si era dovuto adeguare. Dopo un anno, era arrivato a detestare anche le mucche. Si affacciò alla finestra della sua cameretta spartana e aspirò l'aria della sera. Se un anno prima gli avessero detto che avrebbe ricordato con nostalgia il liceo di Los Angeles, l'algebra o le lezioni di letteratura del vecchio Waterson, sarebbe scoppiato a ridere. A scuola si era sempre sentito prigioniero, ma adesso sapeva davvero che cosa significasse la prigione, ed era certo che se non fosse sfuggito a quella vita ne sarebbe morto. Zia Rebecca e zio Jacob erano bravissime persone, per carità. Lo avevano accolto quando sua madre era morta e il suo ricchissimo padre, che peraltro se l'era data a gambe dopo la sua nascita e non si era mai interessato di lui, aveva rifiutato di mantenerlo. Gli avevano dato un tetto, benché avessero già quattro figli e non nuotassero certo nell'oro. Ma avevano le loro convinzioni, il loro credo, e si aspettavano che anche lui lo rispettasse. Solo che Chance non poteva, ecco. Non sentiva come loro. Non c'era nato. Quel giorno lui, zio Jacob e il cugino Samuel erano andati in città con il carro, e Chance l'aveva visto. Un Luna Park, completo di tiro a segno e chiromante, di quelli che viaggiavano da una città all'altra.

Ecco una via d'uscita, aveva pensato. Mentre zio Jacob faceva i suoi acquisti, lui era andato a guardare il Luna Park da vicino, portando il cugino decenne con sé, e quando lo zio li aveva scoperti, si era infuriato. Non aveva alzato la voce, ma aveva detto delle cose terribili che avevano ferito Chance fino in fondo all'anima. E quella sera aveva sentito gli zii litigare, probabilmente per causa sua. Sospirò, guardando verso la città. Intravedeva le luci al neon del Luna Park, ed era combattuto fra il desiderio di fuga e il rimorso di aver portato lo scompiglio e il contrasto in quella famiglia e nella comunità. Era un estraneo, lui, e lo sarebbe sempre stato. Non si era mai sentito a casa tra gli Amish, ma d'altra parte, non si era sentito a casa nemmeno prima, con sua madre. Sospirò di nuovo. Connie McCord, la sua bella madre insoddisfatta, aveva sempre desiderato cose che non poteva avere. Non era stata una donna felice, e la morte che l'aveva portata via così presto era stata come un'ultima beffa. Ma lui, Chance, non sarebbe finito così. Lui avrebbe avuto tutto quel che voleva e che sapeva di meritare. Fama, ricchezza, felicità. Le avrebbe afferrate a piene mani, non sarebbe finito come sua madre, sempre delusa, sempre insoddisfatta. Avrebbe realizzato i suoi sogni, a partire da subito. E in città c'era l'opportunità che aspettava.

Il Luna Park di Marvel era uno degli ultimi stanchi, malandati esemplari della specie. Negli Anni Cinquanta, prima dell'avvento dei videogiochi e delle altre diavolerie elettroniche, aveva conosciuto un grande successo. Anche allora viaggiava da una città all'altra durante i mesi estivi; ma ormai visitava soltanto i piccoli centri rurali, dove quel che aveva da offrire non doveva temere la concorrenza degli stadi, dei teatri o dei cinema. E quel che Abner Marvel offriva ai visitatori era ancora piuttosto valido, e c'erano divertimenti per tutti i gusti. I bambini preferivano il mangiatore di fuoco e l'incantatore di serpenti, gli adolescenti sceglievano le giostre e i giochi di abilità come il tiro a segno, mentre gli adulti amavano contorsionisti e acrobati e apprezzavano particolarmente il cibo. Quell'anno, poi, Marvel aveva trovato una veggente davvero in gamba. Claire Dearborne, in arte Madame Claire, era autentica. Non era un'abile truffatrice o un'imbrogliona, come molte colleghe.

No, lei leggeva davvero il futuro, e a ogni tappa la voce si spargeva rapidamente e la gente faceva la fila davanti alla sua tenda. La figlia dodicenne di Claire, Skye, pensava che sua madre avrebbe potuto guadagnare assai più dei cinque dollari a seduta che otteneva da Marvel. E gliel'aveva anche detto, ma Claire rispondeva sempre che a lei piaceva viaggiare, e che il denaro non faceva necessariamente la felicità. Anche Skye amava viaggiare, ma sul fatto del denaro e della felicità non era d'accordo. Da quello che aveva visto fino a quel momento, le sembrava che i ricchi se la sassero molto di più. Dalla loro roulotte, parcheggiata come le altre al bordo estremo dell'accampamento, si sentivano la musica delle giostre e le grida di gioioso terrore provenienti dalle montagne russe. Quell'ambiente bizzarro non dispiaceva a Skye, ma sapeva che non ci sarebbe rimasta a lungo. Viaggiavano con la troupe da qualche mese, ma alla fine dell'estate Claire e lei avrebbero lasciato il Luna Park e si sarebbero sistemate in qualche cittadina dove sua madre avrebbe trovato lavoro come commessa o cameriera, e lei sarebbe andata a scuola. Skye fece una smorfia. L'unica cosa che le piaceva della scuola erano le ore di disegno, ma certe scuolette di provincia erano talmente arretrate che questa materia non vi era insegnata. Comunque, lei e sua madre non si fermavano mai troppo in nessun posto. Negli ultimi tre anni Skye aveva cambiato almeno una dozzina di scuole; e a quanto ricordava, avevano vissuto sempre così. Claire diceva che erano delle avventuriere nomadi, ma Skye si era fatta l'idea che fossero una specie di criminali. Tutto quel viaggiare e muoversi di continuo era piuttosto strano. Sbuffò e diede un calcio a una lattina di Coca Cola. Se solo sua madre le avesse detto la verità! Ma quando la interrogava, Claire negava sempre di avere dei segreti o di nasconderle qualcosa, e anche se era certa che mentisse Skye non ne aveva le prove. Secondo lei, sua madre scappava da qualcosa o da qualcuno. Si guardava sempre alle spalle, era sempre spaventata, sul chi vive, e questo spaventava anche Skye. Claire era tutta la sua famiglia, e lei aveva il terrore di perderla e restare sola. Scavalcò agilmente lo steccato di paletti e corda che separava le roulotte dal Luna Park. Davanti a lei c'era un mondo di luci, risate, musica, giochi e leccornie. Una lunga fila di stand, e in fondo la tenda di sua madre.

Skye non aveva un incarico preciso. Faceva da tappabuchi, aiutando qua e là, sostituendo gli eventuali artisti malati, dando una mano a montare e smontare gli stand. Ma soprattutto fungeva da specchietto per le allodole. Era una cosa del tutto innocente, ma Skye aveva giocato a ogni gioco un milione di volte e conosceva tutti i trucchi per vincere. Perciò li faceva sembrare facilissimi, e quando la gente la vedeva allontanarsi da uno stand con le braccia cariche di premi si illudeva di poter fare altrettanto e spendeva più volentieri i propri soldi. Skye annusò l'invitante profumo di pop corn. Erano le otto di sera di un sabato, e il Luna Park era affollatissimo. C'erano lunghe file di persone davanti a tutti gli stand, tranne uno. Si avvicinò con fare disinvolto e prese dalla tasca una manciata di monetine, poi domandò istruzioni a Danny, un insopportabile ragazzo dalla faccia brufolosa che si faceva un dovere di tormentarla appena possibile. Ma lei si sforzava di tollerarlo per il bene di tutta la troupe, e recitava al meglio la sua parte. «Come si gioca?» Lui le si accostò da dietro il banco. «Vedi quelle tre piattaforme?» chiese indicando tre grandi scalini ricoperti di fondi di bottiglia lucidi e scivolosi. «Devi buttarci una moneta. Se atterra sulla piattaforma e ci rimane, vinci un premio. Un premio piccolo per la prima, medio per quella di mezzo e grosso per l'ultima in alto.» «Tutto qui?» «Tutto qui» confermò Danny con un ghigno. «Facile come bere un bicchier d'acqua.» Skye provò e sbagliò le prime due volte per dare più credibilità alla sua recita, poi gettò una moneta con una torsione esperta del polso, e quella atterrò sulla prima piattaforma. Lei batté le mani e strillò deliziata: «Ho vinto! Non ci posso credere, ho vinto!». «Ecco qua, signorina» disse Danny porgendole un orsetto di peluche. «Non ti va di provare di nuovo? Hai una buona mano, potresti vincere il premio grosso!» «Sì, magari ci riprovo.»

Dieci minuti e una manciata di monete più tardi si allontanò dallo stand ormai affollato, carica di peluche. Andò a deporli nella roulotte che fungeva da deposito, perché non teneva mai quello che vinceva, non sarebbe stato giusto, poi tornò indietro per divertirsi un altro po'. Davanti al carretto degli hot dogs c'era un certo movimento. Qualcuno gridava. Skye si avvicinò e vide un ragazzo che agitava un panino morsicato a metà, tenendosi lo stomaco. «Mi ha fatto star male!» esclamò. «Dev'essere avariato.» Marta, una donna dagli ispidi capelli grigio ferro e dal carattere altrettanto spinoso, occhieggiò sospettosamente il ragazzo. «Come sarebbe a dire?» «Mi ha fatto male, le dico!» E il ragazzo si piegò su se stesso, reggendosi lo stomaco e gemendo. «È vietato dalla legge, vendere cibo avariato!» «Noi non vendiamo cibo avariato» ribatté la donna seccamente. «Stiamo sempre molto attenti.» Il ragazzo le agitò il suo hot dog sotto il naso. «Ah, no? Lo annusi! Senta che puzza!» «Senti, se c'è qualche problema ti rendo i soldi, oppure ti do un altro hot dog» fece la donna. «Nemmeno per sogno! Voglio parlare col proprietario, io! Se muoio sarà colpa vostra!» La fila dietro di lui si agitò e si scompose, e molti se ne andarono. Skye studiò il ragazzo, che aveva qualcosa di decisamente strano. I jeans sembravano troppo corti per lui, la sua maglietta aveva il logo di un gruppo rock che nessuno ascoltava più da almeno un anno, i suoi capelli erano tagliati malamente, come se qualcuno glieli avesse accorciati con una cesoia da giardino. Ai piedi portava un paio di stivali da lavoro dall'aria antiquata. Proprio strano, pensò di nuovo Skye. E sicuramente stava cercando di imbrogliare Marta. Ma perché? Per guadagnare pochi soldi? Sbuffò disgustata. Che cosa non faceva la gente per i soldi! «Il proprietario si chiama Abner Marvel» stava dicendo Marta, evidentemente ansiosa di liberarsi di lui. «Lo trovi nella biglietteria, all'ingresso.»

Il ragazzo si allontanò, sempre tenendosi lo stomaco, e Skye gli andò dietro. Non si muoveva foglia nel Luna Park senza che lei lo sapesse. Era sempre al corrente dei movimenti di tutti, e adesso intendeva andare in fondo a quella faccenda. Nessuno poteva imbrogliare la gente con cui stava, era una questione di lealtà. Quando si ritenne a ragionevole distanza da Marta, il ragazzo gettò via il mezzo panino e si raddrizzò, riprendendo a camminare normalmente con un sorrisetto compiaciuto. Ecco, pensò Skye. Come immaginava. «Ehi, faccia di scimmia!» Skye si voltò infastidita e squadrò Rick, il ragazzo che gestiva uno dei baracconi di tiro a segno, un individuo particolarmente odioso che uno dei primi giorni aveva cercato di spaventarla imprigionandola nel tunnel dell'orrore dopo la chiusura. Ma invece di spaventarsi, Skye si era infuriata. Quando uno degli uomini di fatica l'aveva trovata e liberata, lei era andata a cercare Rick e gli aveva mollato un pugno sul naso, facendolo sanguinare a dovere. Lui non gliel'aveva mai perdonato, ma da allora le era stato alla larga. «Che diavolo vuoi?» domandò Skye secca. «Devo fare una pausa.» «Arrangiati. Io ho altro da fare.» «Devo andare in bagno, ti dico. Muovi le chiappe, ragazzina, se non vuoi che ti bastoni a sangue.» «Dio, che paura!» Skye alzò il mento e aggiunse soave: «Ce l'hai fatta, eh, ieri notte, a scappar via per trovarti con quella ragazza... Sei stato bravo, non ti ha visto nessuno. Nessuno tranne me, naturalmente. Chissà che ne direbbe Marvel?». Rick divenne scarlatto. «Sei proprio un verme. Vorrei che scomparissi dalla faccia della terra!» «Sta' attento, idiota zoticone, se non vuoi che ti faccia gettare il malocchio da mia madre!» Rick fece un risolino, ma suonò poco convincente. La gente del Luna Park era

superstiziosa da matti, credeva nelle fatture e nelle streghe, e l'abilità di Claire spaventava un po' tutti. Probabilmente credevano che se lei poteva prevedere il futuro con tanta precisione fosse anche in grado di alterarlo, in peggio, naturalmente. Skye sogghignò soddisfatta. Stupido bestione. Claire non poteva gettare il malocchio su nessuno, ma se lui e i suoi compari volevano crederlo, tanto meglio. Non era male ristabilire la propria superiorità su di loro, di tanto in tanto. Una ragazza doveva difendersi, no? Skye sapeva bene che la sua lingua tagliente e i suoi modi da maschiaccio, uniti alla paura dei poteri di Claire, non la rendevano molto popolare. Ma non le importava più di tanto. Era abituata a non essere amata, lei. Così, quando se ne fosse andata, nessuno l'avrebbe rimpianta e lei non avrebbe sofferto per il distacco. Ma anche se lo detestava, Rick faceva pur sempre parte della troupe e aveva bisogno del suo aiuto... Sospirò guardando verso la direzione in cui lo strano ragazzo era scomparso, poi si avvicinò al tiro a segno. «Va', ma sbrigati. Ho molte cose da fare.»

Dopo aver gettato i resti del commestibilissimo panino, Chance si raddrizzò e si ò le mani sulle gambe dei jeans. Doveva funzionare, pensò. Abner Marvel doveva dargli un lavoro! Anche perché ormai lui non poteva più tornare indietro. Aveva fatto i bagagli e lasciato un biglietto agli zii, poi era arrivato in città con l'autostop. Una volta nel Luna Park aveva chiesto a mezza dozzina di persone, ma aveva ottenuto sempre la stessa risposta: non c'era lavoro. Infine, Chance si era inventato la frottola del panino avariato per arrivare fino al proprietario. Ci voleva fegato, pensò. Fegato e determinazione. Lui aveva entrambi. In qualche modo ce l'avrebbe fatta. Intorno a lui, le luci sgargianti si mescolavano con le grida eccitate delle ragazze sull'otto volante e con la musica delle giostre, e il tutto creava una strana miscellanea volgare ma eccitante. Una ragazza lo guardò ando, ma non con ammirazione, Chance lo sapeva bene. Nell'ultimo anno era cresciuto, le sue spalle si erano fatte più ampie e il torace più muscoloso, ma i jeans mostravano le caviglie e la maglietta era stretta

e corta. Le vecchie Nike erano diventate troppo piccole e lui non era riuscito a infilarle, e così, con gli stivali ereditati da zio Jacob, sembrava un contadinotto da barzelletta. Ma anche questo sarebbe cambiato, pensò. Avrebbe viaggiato, avrebbe visto il mondo e sarebbe diventato qualcuno, e un giorno le ragazze come quella avrebbero pregato Dio che lui le degnasse di attenzione. La biglietteria era vuota, ma in una tenda vicina Chance trovò un uomo tarchiato che raccoglieva cartacce con una scopa. Non poteva essere il proprietario, pensò, ma forse sapeva indicargli dove trovarlo. «Mi scusi, volevo...» «Il prossimo spettacolo è tra un'ora» l'interruppe l'uomo. «Torna più tardi.» Chance fece un o avanti. «Non voglio vedere lo spettacolo. Sto cercando il capo.» «Ah, sì?» Finalmente l'uomo alzò la testa e Chance vide un faccione rosso pieno di bozzi e cicatrici, come se qualcuno ci avesse giocato a palla. Il corpo tarchiato sembrava ancora molto robusto. «Be', ragazzo, l'hai trovato.» «Lei è Abner Marvel?» «In persona. E tu chi sei?» «Mi chiamo Chance McCord» fece lui tendendo la mano, che l'altro ignorò. «E che cosa vuoi, Chance McCord?» «Un lavoro.» «Lo immaginavo. Che genere di lavoro?» «Qualsiasi genere.» «Già. Immaginavo anche questo. Hai diciotto anni?» «Compiuti il mese scorso» mentì Chance. In realtà li avrebbe compiuti in ottobre.

«Ti facevo più giovane. I tuoi genitori sanno che sei qui e vuoi tagliare la corda?» «Non ho genitori, vivevo con una zia.» «E lei lo sa?» Chance alzò il mento con aria di sfida. «Non c'è bisogno che lo sappia, visto che sono maggiorenne.» «Già. Che cosa ti fa credere di poter lavorare qui? I miei ragazzi hanno girato parecchio, sai. E sono dei duri.» «Anch'io ho girato parecchio.» «Di' un po', sei un Amish?» «Mia zia lo è, ma io no. Vengo da Los Angeles, io.» «E immagino che tu non abbia esperienza di questa vita, vero?» «Veramente no...» L'uomo scosse il testone. «Senti, ragazzo, io ho visto un bel po' di cose in vita mia. Belle e brutte. Sono in questo mestiere da quando sono nato, il mio vecchio era nel mestiere e suo padre prima di lui, e il Luna Park l'ho ereditato da loro. Ce l'ho nel sangue. Ma è una vita dura, e se non ci fossi nato me ne andrei di corsa.» Schioccò le dita. «Così.» Fissò Chance dritto in faccia e continuò: «Ci sono un mucchio di altre cose che un ragazzo come te può fare. Torna a casa, dai retta. Io non ho bisogno di te, e non ho un lavoro da darti». «Ma io non posso tornare a casa! Lavorerò duro, glielo prometto... vedrà!» «Tutti i miei uomini lavorano duro, non è questo il punto. Mi spiace, ragazzo. Torna l'anno prossimo.» E l'uomo gli voltò le spalle. «Aspetti!» gridò Chance. «Posso fare qualsiasi lavoro, anche il più umile. Mi metta alla prova!» «Non ho proprio niente, ragazzo» fece l'uomo più gentilmente. «Mi dispiace.»

«Ma... ma qualcuno dei suoi potrebbe andarsene... essere licenziato. E lei dovrebbe avere un uomo extra, per le emergenze.» «Non posso permettermi le emergenze» replicò Marvel secco. «I miei uomini li licenzio solo se bevono, fanno a pugni o finiscono in prigione, ma nessuno è tanto scemo da rischiare di ritrovarsi a so in piena stagione. Sono stato abbastanza chiaro?» Accennò col pollice all'ingresso della tenda. «Coraggio, alza i tacchi. Ho da fare.» Chance si avviò all'uscita con le spalle curve. Marvel era stato fin troppo chiaro. Non gli avrebbe dato lavoro, punto e basta. A meno che non succedesse qualcosa... un miracolo. Chance si raddrizzò. Non era come sua madre, lui. Non avrebbe ato la vita a lamentarsi per le opportunità che non aveva avuto. Se le sarebbe create. Avrebbe causato lui stesso il miracolo! Da un baraccone di tiro a segno alla sua destra venivano delle voci concitate. Chance si girò e vide che i due ragazzi dietro al banco litigavano, evidentemente per via di una ragazza che interessava entrambi. «Vedi questo, stronzetto?» chiese uno dei due mostrando all'altro un sacchettino di plastica estratto dalla tasca. «Quando Marlene lo vede, tu hai chiuso. D'ora in avanti, lei te la puoi scordare!» L'altro sbuffò. «Ma figuriamoci. Come se bastasse uno spinello per impressionarla!» Poi arrivarono dei clienti, e il ragazzo nascose il sacchetto con la sigaretta dietro la cassetta delle banconote. I due continuarono a lanciarsi frecciate e oscenità mentre porgevano i fucili ai clienti, e Chance continuò a osservarli mentre un piano prendeva forma nella sua mente. I due avevano bevuto, era evidente, quindi erano eccitabili e facili al litigio. Se lo spinello fosse sparito, il primo ragazzo avrebbe incolpato il secondo e ne sarebbe nata sicuramente una rissa. Se lo avessero scoperto, naturalmente, lo avrebbero ridotto in polpette e buttato fuori dal Luna Park... ma valeva la pena di tentare. Quella poteva essere la sua

unica possibilità. Aspettò, tenendo d'occhio i due, e finalmente comparve la famosa Marlene. Personalmente, a parte uno stupefacente paio di tette coperte a malapena da un top di due misure troppo piccolo, Chance non la trovava niente di speciale. Ma i due si fecero in quattro per attirare la sua attenzione, trascurando i clienti, e questo era ciò che Chance aspettava. Si sporse oltre il banco, afferrò il sacchetto di plastica e se lo cacciò in tasca, poi si allontanò dal baraccone, ma non troppo, per poter assistere ai fuochi d'artificio. Quando Marlene se ne fu andata, i due ricominciarono a beccarsi per stabilire chi di loro fosse il preferito. Poi si sentì un urlo, seguito da una sequela di insulti. «Brutto bastardo figlio di puttana! Dov'è?» «Dov'è cosa?» «Il sacchetto, razza di schifoso bastardo!» Il ragazzo avanzò verso l'altro stringendo i pugni. «Ridammelo!» «Non ho preso il tuo stupido spinello. Io non ne ho bisogno» ghignò l'altro voltandogli le spalle. Con un grido furioso, il primo ragazzo saltò addosso all'altro. «Ridammelo, o ti faccio ingoiare i denti!» «Toglimi le mani di dosso, lurido verme!» Il secondo ragazzo mollò all'altro un pugno sul mento. I due si avvinghiarono, colpendosi alla cieca, e andarono a urtare la fragile parete di compensato del baraccone, che crollò. Una donna si mise a gridare, un bambino scoppiò in lacrime. I due caddero a terra e continuarono a picchiarsi urlando oscenità assortite. «Fatela finita!» Chance si voltò. Il grido proveniva da Abner Marvel, che caracollava alla volta dei due stringendo una mazza da baseball. Dietro di lui venivano altri due uomini altrettanto massicci, armati allo stesso modo. Chance indietreggiò un altro po'. I due ragazzi si staccarono e si rimisero in piedi. Uno aveva un occhio pesto, che cominciava a diventare viola; l'altro perdeva sangue dal naso. Dal modo in cui guardavano il capo, era chiaro che la mazza da baseball di Marvel non era

puramente decorativa. «Mi ha derubato!» esclamò il primo ragazzo puntando il dito sul compare. «Mi ha fregato uno sp...» «Non ho preso proprio niente! È solo geloso perché Marlene preferisce me invece di...» «Zitti, tutti e due!» abbaiò Marvel. «Prendete i vostri stracci e andatevene. Fuori di qui!» I due impallidirono e cominciarono a supplicarlo, ma l'uomo non si lasciò impietosire. «Fuori, ho detto. Conoscevate le regole, niente bere e niente risse. Andatevene prima che decida di usare questa.» E si batté la mazza sul palmo della mano con fare minaccioso. I due si allontanarono con la coda tra le gambe, e Marvel li seguì. A quel punto, Chance si fece coraggio e lo chiamò. «Signor Marvel! Aspetti!» L'altro si voltò e lo fissò corrucciato. «Non ho potuto fare a meno di vedere quel che è successo» fece lui in fretta. «E mi sembra che... ehm... insomma, mi pare che si sia appena liberato un posto...» «Già, così pare. E allora?» «E allora, io sono il suo uomo» disse Chance audacemente. Marvel prese un sigaro dal taschino della camicia, ne morsicò un'estremità, la sputò, poi accese. «Nell'ambiente abbiamo un modo di dire, il primomaggio. Sai che significa?» Chance azzardò una risposta. «L'inizio della stagione dei viaggi?» «Significa novellino, pivello, principiante. Un primomaggio deve dimostrare quanto vale prima di essere accettato dagli altri. E l'iniziazione può essere molto dura.»

«Ce la farò.» «Guarda che io non potrò difenderti, anche se i ragazzi ti faranno a pezzi.» «Non mi spavento facilmente, io. Se mi prende farò il lavoro di due uomini. Lavorerò meglio dei due che ha appena buttato fuori. Vedrà.» Marvel rise. «Guarda, guarda. Il lavoro di due uomini, eh? Voglio proprio vedere!» «Mi metta alla prova.» «Ricorda che se ti becco a bere, sei fuori. Se fai a pugni con qualcuno, sei fuori. Niente trucchi, niente porcherie. Tienilo bene a mente. Ah, e dovrai arrangiarti in una roulotte con altri cinque ragazzi. Come hai detto che ti chiami?» «Chance McCord.» «Be', Chance McCord, devo dire che hai fegato.» Marvel sorrise e concluse: «Allora, che stai a fare ancora qui? C'è il baraccone da rimettere in piedi!».

4

Seduta sul letto di sua madre a gambe incrociate, con l'album sulle ginocchia, Skye disegnava tranquillamente godendosi quel momento di pace. La roulotte non offriva molta privacy; la minuscola camera da letto era chiusa da una porta a soffietto, ma il resto era spazio comune. Nell'area di soggiorno c'erano un tavolino con due panche, il cucinino e due ridottissimi armadi, più una serie di cassetti e una panca che nascondeva il letto pieghevole in cui Skye dormiva la notte. Skye sentiva la mancanza di un posto tutto per sé. Non che di solito lei e Claire abitassero in case di lusso, ma era la prima volta che erano così allo stretto e avevano uno spazio così ridotto per le loro cose. Quell'estate, anche la sua grande cassetta di pastelli era un ingombro. Abbassò la testa e studiò la farfalla che stava prendendo forma sul foglio. Continuò a disegnare come se le sue dita avessero una volontà propria, e in breve il disegno cambiò, si alterò, un'ala della farfalla si tramutò in una lettera curva, tutta volute e riccioli. Una M. Il cuore di Skye si mise a battere come un tamburo. Non era la prima volta che disegnava la M. Era uscita dalla sua matita tre anni prima quasi spontaneamente, durante una lezione di disegno in una scuola di chissà dove. La sua insegnante l'aveva lodata per l'accuratezza del tratto e la fantasia, ma Skye aveva guardato la sua opera come se ne fosse ipnotizzata, trovandola bellissima e repellente allo stesso tempo. Da allora, l'aveva disegnata altre decine, centinaia di volte. Sospirò. Quell'immagine la ossessionava, e non capiva perché. Che poteva significare? «Skye? Tutto bene?» Claire aprì la porta e si affacciò. «Sono cinque minuti che ti chiamo. È ora di pranzo!» «Scusa, mamma, non ti ho sentita. Ho quasi finito.»

Claire si avvicinò alla figlia e guardò il disegno, e Skye non ebbe bisogno di alzare gli occhi per sapere che Claire era impallidita e si era irrigidita per l'apprensione. Faceva sempre così quando lei disegnava la farfalla con la M. Sentiva l'inizio di un'emicrania premere contro le tempie. Completò rapidamente l'altra ala e finì il disegno, ma Claire non disse niente. Quel silenzio sconcertò e ferì Skye, come sempre. Aveva chiesto a sua madre migliaia di volte di parlarle di quella M, ma Claire aveva sempre risposto che non ne sapeva nulla e non capiva perché lei la disegnasse. E allora, pensava Skye, perché si comportava in maniera così strana? Si portò la mano alla tempia, e Claire le carezzò i capelli con sollecitudine. «Che succede, tesoro?» «Niente. Cerco solo di ricordare dove ho visto questo disegno e questa M. Ci deve pur essere una ragione per cui la disegno di continuo.» «Non saprei, cara» disse Claire con un sorrisetto forzato. «L'avrai vista da qualche parte.» «Già, ma dove?» Skye si prese la testa fra le mani. Quella M era collegata al mistero della sua nascita, lo sapeva. Perché non riusciva a ricordare niente? Claire sedette sul letto e l'abbracciò. «Non fare così, tesoro, ti prego. Non importa, davvero. Lascia perdere...» «Ma non posso!» esclamò lei con gli occhi umidi di lacrime. «Vorrei tanto non pensarci, ma non ci riesco!» Strofinò la fronte contro la spalla della madre, cercando di alleviare il dolore che ormai le attanagliava le tempie. «Tu sei contenta di me, mamma? Sei fiera di quello che sono?» «Come puoi dubitarne, tesoro? Tu sei la cosa più preziosa che io ho al mondo... naturale che sono fiera di te!» Ma non della sua abilità nel disegno, pensò Skye. Anzi. Sua madre avrebbe voluto che lei smettesse di disegnare e non prendesse mai più una matita in mano. Si premette di nuovo la mano sulla tempia, e Claire capì. «Hai uno dei tuoi mal

di testa, vero? Adesso ti porto la medicina.» Skye inghiottì le due pastiglie e tese il bicchiere vuoto a sua madre. L'esperienza le aveva insegnato che se lo prendeva per tempo il mal di testa spariva, altrimenti diventava insopportabile e la costringeva a stare sdraiata al buio per ore. «Mamma... mi massaggi un po' la fronte?» «Ma certo, amore. Vieni qui.» Claire sedette di nuovo sul letto e le massaggiò delicatamente le tempie e la fronte, mentre l'analgesico faceva effetto. «Va meglio?» «Un po'. Mamma... mio padre non mi voleva, vero?» Claire trasalì. «Ma che domande fai? Certo che ti voleva!» «Non c'è bisogno di mentire, mamma, so come vanno certe cose. Magari non sai neanche chi era.» «Non è vero! Lo so benissimo, chi era!» «E allora perché non hai nemmeno una sua fotografia?» gemette Skye. Il dolore alla testa era tornato e la stava accecando. «E perché non vuoi mai parlare di lui? Dimmelo, mamma. Non sono più una bambina!» Claire tacque a lungo, fissando un punto lontano. «Ti assicuro che tuo padre ti voleva bene, e molto» disse infine. «Ma ne parleremo un'altra volta. Adesso hai bisogno di riposo.» «No, voglio parlarne adesso! Se mi voleva così bene, perché non è con noi? Dov'è? Che gli è successo?» «Te l'ho già detto» replicò Claire alzandosi. «È morto in un incidente.» «Ma che tipo di incidente? Con la macchina? Dov'è successo? Tu c'eri? C'ero anch'io?» Sua madre si schiarì la voce. «No, non c'eravamo. Ma fu una cosa molto brutta, e

non mi sento di parlarne.» Le stava mentendo, Skye ne era sicura. Ma perché? Che cosa ci poteva essere di così brutto che sua madre non poteva dirle? «È stato ucciso?» esclamò sgranando gli occhi. «È stato assassinato dalla mafia? È così, vero? E adesso ci cercano! È per questo che cambiamo sempre città, perché siamo ricercate dalla mafia!» Claire emise un suono strozzato, poi si sforzò di ridere. «Non essere assurda. Fu un incidente e basta, e non voglio mai più sentirti dire una cosa così ridicola. Mai più, capito?» Skye si voltò sul fianco, lasciando che le lacrime le scorressero sulle guance. «Va bene, lasciamo perdere» mormorò. «Fammi riposare.» Claire sospirò. «Tuo padre... era un uomo cattivo, ecco. E anche la sua famiglia lo era. Posso solo dire che sono lieta di non vivere più con loro.» Con il cuore in gola, Skye si voltò a guardare sua madre. «Che vuol dire, cattivo? Ti... ti picchiava?» Claire esitò, poi fece un cenno. «Sì.» «E picchiava anche me?» «No. Ma quando vivevamo in quella casa io avevo molta paura per te.» Skye deglutì. «È per questo che non vuoi nemmeno dirmi dove sono nata?» «Sì...» Claire sospirò di nuovo. «Quando sarai più grande, forse, ti dirò di più. E adesso è meglio che vada a controllare il pranzo. Speriamo che non sia tutto bruciato.» Skye prese la mano della madre. «Mamma... non pensi mai a come sarebbe bello avere una vera famiglia, vivere in un posto e non doversi sempre spostare?» «Oh, sì» mormorò Claire. «Certe volte lo desidero con tutta me stessa. Non è questa la vita che volevo per te, non è così che speravo di crescerti. Io non ho mai avuto una famiglia, e speravo che per te potesse essere diverso...» Abbassò

la testa, ma Skye vide che aveva gli occhi lucidi. Si sentì in colpa per aver affrontato l'argomento. Non sapeva immaginare come avrebbe vissuto senza sua madre, che era tutto ciò che aveva al mondo. «Mi dispiace, mamma... non volevo tormentarti con le mie domande» esclamò abbracciandola. «Lo so, cara.» Claire accarezzò i capelli della figlia. «A volte la verità fa male... a volte è meglio non saperla.» I suoi occhi erano fissi su un punto lontano, e avevano un'espressione che allarmò Skye. «Che succede, mamma? Che cosa vedi?» «Niente, tesoro, solo un frammento del ato. Ma il ato non può farci del male se lo lasciamo dov'è. Mi aiuterai, vero?» Skye annuì, improvvisamente spaventata dalla prospettiva di ritrovarsi sola, terrorizzata dal suo ato misterioso, ma ancor più dal futuro. «Non mi lascerai mai, vero?» esclamò aggrappandosi alla madre. «Non so che farei se mi lasciassi sola!» «Shhh... non essere sciocca. Come potrei lasciarti? Sei tutta la mia vita, lo sai bene. Farei qualsiasi cosa per te!» Skye sorrise e ricordò un gioco che Claire e lei facevano quando era piccola e credeva ancora nei mostri e nelle creature oscure che popolavano gli angoli bui delle camere, la notte. Ogni sera, andando a dormire, chiedeva a sua madre di lottare contro i mostri, e ogni sera Claire l'accontentava aprendo le porte degli armadi, scrutando sotto il letto e scacciando le ombre a gran voce. Solo allora Skye si tranquillizzava e riusciva ad addormentarsi. «Lotteresti ancora contro i mostri?» domandò. «Contro i peggiori, contro i più cattivi» rispose Claire intenerita. «Come sempre. Adesso riposati cinque minuti, e io ti chiamo quando è pronto. D'accordo? Ti voglio bene, tesoro.» Skye si strinse alla madre e le affondò la testa nell'incavo del collo, anche se

ormai non era più una bimba. Il mal di testa era miracolosamente svanito. «Anch'io ti voglio bene, mamma. Tanto tanto.»

Claire richiuse la porta a soffietto e si appoggiò alla parete, con le ginocchia che tremavano. Non poteva più nascondere il ato a Skye. Poco prima, pur dando sfogo alla sua fervida immaginazione, la ragazza era andata pericolosamente vicina alla verità. Ben presto sarebbe venuto il momento in cui non si sarebbe più accontentata di vaghi accenni e fumose giustificazioni. Mostri, pensò Claire con un brivido. Lei li aveva visti, quei mostri. Aveva guardato in faccia il simbolo del male ed era fuggita... ma non abbastanza lontano. Non tanto da sfuggire alla curiosità di Skye, alla sua sete di verità. Si premette le mani sugli occhi. Spesso, la notte, aveva degli incubi in cui vedeva grossi uccelli da preda chini su sua figlia, pronti a ghermirla. Allora si svegliava in un lago di sudore, certa di vedere Pierce accanto al letto... o peggio ancora, di scoprire che lui e Adam avevano rapito Skye. Perché Adam era vivo e vegeto e continuava a cercarle, da sette anni. Tremando, Claire si avvicinò ai fornelli del cucinino e scoprì che la crema di pomodoro era traboccata macchiando di rosso la superficie smaltata. Quella macchia le ricordava il sangue di Adam sullo scamiciato di Grace, la mattina della loro fuga da Chicago, e Claire rabbrividì di nuovo. Quando aveva scoperto che Grace non ricordava nulla, non solo della terribile scena nella nursery ma dei suoi anni nella grande casa di Astor Street, aveva ringraziato il cielo. Dapprima aveva pensato a uno choc momentaneo, ma col are delle settimane aveva capito che il vuoto di memoria della piccola era irreversibile, e ne era stata sollevata. Non si fidava a consultare un medico, e allora aveva fatto alcune ricerche nella biblioteca di una delle molte città attraversate durante la fuga, e così aveva scoperto che a volte, se qualcosa è troppo penoso o traumatico da ricordare, il cervello sceglie di dimenticarlo come se non fosse mai accaduto. Un fenomeno che si chiamava rimozione. Naturalmente Madeline non era in grado di fare una diagnosi medica vera e propria, ma le era parso che quella fosse la spiegazione più plausibile. E le sue preoccupazioni per la salute mentale di sua figlia erano svanite di fronte all'evidente serenità della piccola, che sembrava felicissima e si comportava

come se non avesse un pensiero al mondo. Ma negli ultimi anni le cose erano cambiate. Dapprima era venuta la maledetta M, che Skye aveva preso a disegnare. E poi le emicranie, sempre più forti. E le domande. Claire si premette una mano sulla fronte. Che doveva fare?, pensò angosciata. Come nasconderle ancora la verità? La minestra traboccò di nuovo, e con un sobbalzo Claire tolse la pentola dal fornello e ripulì le macchie con una spugna. Non poteva dire la verità a sua figlia, pensò. Non ancora. Quando fosse stata adulta, forse... quando avesse potuto capire davvero che persone erano i membri della famiglia Monarch e quant'era malvagio Griffen, gliel'avrebbe rivelata. Ma adesso no. Claire risciacquò la spugna. Skye le aveva offerto una soluzione. Perché non ne aveva approfittato? Perché non le aveva detto che effettivamente non sapeva chi fosse suo padre, e che Skye era il risultato di un'avventura eggera? Perché odiava mentire, ecco perché. Odiava le innumerevoli bugie che aveva dovuto raccontare nel corso degli anni ai direttori delle varie scuole, ai datori di lavoro, ai padroni di casa. E a Skye. Ogni nuova bugia la faceva sentire più sporca e meschina, e poco prima non era stata capace di dirne una così grave, in un certo senso irreversibile. Solo che la sua ambiguità fra menzogne e reticenza lasciava Skye nel dubbio, e ne suscitava le fantasie più azzardate. Ma la verità era troppo orribile. Lei non era pronta a rivelarla. Chiuse gli occhi e rivide Adam con le mani strette intorno alla sua gola, deciso a ucciderla. Rivide Griffen con il suo sguardo allucinato, le sue maniere ossessive, il suo atteggiamento nei confronti della sorellina. Lo rivide sdraiato sulla piccola, mentre la violava. Mostruosi uccelli neri incombevano su sua figlia... Claire riaprì gli occhi e si rese conto che respirava a fatica. La stavano cercando, lo sapeva. E di recente zia Dorothy aveva confermato l'esattezza delle sue premonizioni.

Era stata lei a dirle che Adam era vivo. Tre mesi dopo la fuga, quando le visioni di Claire erano riprese, aveva telefonato a Dorothy e le aveva detto soltanto che stavano bene ed erano al sicuro. Dorothy l'aveva pregata di tornare a casa, le aveva descritto la furia spaventosa di Adam e Pierce e le loro ricerche, ma non aveva fatto parola delle gemme rubate. Né allora né durante le telefonate successive. Claire lo trovava tuttora molto strano. Era stata a corto di denaro parecchie volte, ma aveva sempre evitato di vendere le pietre perché era certa che da loro Pierce sarebbe riuscito a risalire fino a lei. Continuava a conservarle, ben nascoste, come una specie di assicurazione, anche se non sapeva esattamente contro che cosa. Sollevò il coperchio di una delle panche, sotto cui c'era uno scomparto colmo di scatole e barattoli, ed estrasse un cofanetto di circa quindici centimetri di lato. Lo aprì con la minuscola chiave che portava appesa al collo, e ò le dita fra le pietre, stringendole. In un lampo, rivide la distesa di ghiaccio e un corpo che veniva inghiottito dalle acque gelide. Lasciò cadere le gemme con un grido, le rimise nel sacchetto di velluto, poi richiuse il cofanetto e lo ripose nel suo nascondiglio. La visione non le aveva detto come, ma lei era certa che un giorno, in qualche modo, quelle pietre avrebbero aiutato Skye.

5

Chance si asciugò la fronte madida con il dorso della mano. Non erano nemmeno le otto del mattino e faceva già un caldo infernale. Infernale, come i suoi primi giorni nel Luna Park. Il giorno dopo il suo arrivo si erano spostati a Zachary, una cittadina situata a circa trecento chilometri da Lancaster County e se possibile ancora più piccola e miseranda. Non appena gli autisti avevano fermato i pesanti camion nell'accampamento, era venuto giù una specie di diluvio universale; ma poiché era estate e i temporali come quello finivano presto, la troupe si era messa comunque al lavoro. La pioggia aveva rapidamente trasformato il terreno in un lago di fango vischioso, così alto che penetrava oltre l'orlo degli stivali di Chance. Lui aveva dovuto sollevare e spargere a terra decine di balle di paglia, e aveva lavorato finché non aveva sentito i muscoli tremare per la stanchezza, ma aveva stretto i denti e continuato, perché voleva mantener fede alla promessa fatta a Marvel. Finalmente la pioggia era cessata ed erano arrivati i clienti, e il lavoro era andato avanti fino a mezzanotte. E poi, come Marvel aveva previsto, i ragazzi avevano dato il via all'iniziazione di Chance. Erano rozzi, brutali, e ferocemente leali uno all'altro; e lo incolpavano dell'espulsione dei loro amici, anche se non sapevano veramente qual era stata la sua parte nel loro licenziamento. Chance era stato tormentato, minacciato e picchiato ripetutamente. Aveva un occhio nero, ma in fondo gli era andata bene, perché il ragazzo che gliel'aveva fatto gli aveva anche detto di ringraziare Dio che non gli tagliasse la gola durante il sonno. Con un sorrisetto più simile a una smorfia perché aveva anche un taglio sul labbro, Chance immerse il fazzoletto in un barile pieno d'acqua, lo strizzò e se lo ò sulla fronte e sulla nuca. Doveva guadagnarsi il rispetto di quei tizi, e conosceva solo un modo. Picchiarli a sangue, restituendo il doppio di quel che aveva ricevuto. Quella era gente che capiva soltanto la violenza.

Be', se era ciò che volevano, li avrebbe serviti. In fondo, si era fatto un discreto allenamento nel cortile del liceo di Los Angeles e non si sarebbe certo fatto spaventare da quattro zoticoni. Bastava non farsi beccare da Marvel, questo sì. Non poteva rischiare di buttar via la sua sola occasione di fuga. «Ti ho visto, sai.» Chance si svoltò di scatto. A pochi i da lui c'era una ragazzina con l'aria da monello, i capelli neri raccolti in una coda disordinata e uno stupefacente paio di occhi blu zaffiro. «Come hai detto, scusa?» «Ho visto quel che hai fatto l'altra sera con l'hot dog.» «E allora?» fece lui con aria annoiata. «Hai imbrogliato Marta, vero? Per ottenere questo lavoro.» Quella dannata mocciosa era davvero troppo furba, pensò Chance. «E con ciò?» «Non hai paura che io vada a dirlo a Marvel?» «Perché dovrei aver paura di una bambinetta ficcanaso?» sbuffò Chance. «Non sono una bambinetta ficcanaso. Ho dodici anni.» «Accidenti, così tanti?» Chance ridacchiò e si chinò sul barile per lavarsi la faccia, poi riannodò al collo il fazzoletto colorato. «Va be', hai ragione, forse Marvel non se la prenderebbe per quel piccolo imbroglio. Ma se sapesse dell'altro, allora sì che si arrabbierebbe di brutto.» L'altro? Chance si girò a guardarla in faccia. «Di che stai parlando?» «Oh, va là che lo sai. Benny e Jack, al tiro a segno. Sei tu che li hai fatti buttar fuori, no? Se Marvel lo sapesse, butterebbe fuori anche te.» Chance imprecò fra i denti, poi sbuffò. «Interessante, la tua storiella. Ma io non ho tempo per le favole, ho da fare. Ci vediamo.» E ò oltre.

Ma lei corse avanti e poi si voltò, affrontandolo di nuovo. «Non è una favola, e lo sai benissimo.» «E chi lo dice?» «Lo dico io. Mi faccio un dovere di sapere tutto quel che succede qui. Quando ti ho visto fare tante storie con quel panino ti ho seguito, e ho visto tutto.» «Non so proprio che cosa credi di aver visto, e comunque è la mia parola contro la tua.» La ragazzina ridacchiò. «Non agitarti. Quei due erano dei porci, io li detestavo e sono contentissima che se ne siano andati. Stai tranquillo, sarò muta come una tomba!» Proprio quel che gli ci voleva, pensò Chance disgustato. Un segreto in comune con una ragazzina ficcanaso. Grandioso! «Senti, pulce, vedi di andartene. Ho da fare, io.» Chance si allontanò nella direzione opposta, ma lei lo seguì. «Mi chiamo Skye.» «Tanto piacere.» «Mia madre è Madame Claire, la veggente.» «E dovrebbe importarmene?» «Sì, se non vuoi che ti getti addosso il malocchio.» «Dio, che paura!» «Lo ha fatto. A un ragazzo ha fatto cadere tutti i capelli.» Lui rise. «E scommetto che ne ha trasformato un altro in rospo.» «Sì, ridi pure. Vedrai!» «Sono tutto un tremito. Aria, ragazzina. Lasciami lavorare.» Si incamminò di nuovo, ma lei gli tenne dietro. Che diavolo aveva?, pensò Chance esasperato.

Che doveva fare per liberarsi di lei? «Se le dico di gettarti il malocchio, lo farà» insisté la ragazza. «Insomma, tua madre è una strega!» «No, predice il futuro.» «Una zingara, allora.» Lei sbuffò spazientita. «Ma no. È una veggente!» «Allora, vediamo di capirci. Le streghe gettano il malocchio sulle persone, le veggenti predicono il futuro, e le zingare fanno entrambe le cose, o almeno così si dice. Ma siccome io non credo a tutte queste fandonie, puoi anche toglierti dai piedi.» Lei non si diede per vinta. «Cosa ti sei fatto all'occhio?» «Non sono affari tuoi.» «Scommetto che è stato uno dei ragazzi. Max o Len, ma direi Len perché è il più grosso e il più cattivo.» Se si poteva definire solo cattivo uno che minacciava di tagliarti la gola, pensò Chance. «Ce l'hanno tutti con te perché hai preso il posto di Benny e Jack.» «Be', si dovranno adattare.» La ragazzina sorrise maliziosa. «Meno male che non sanno quello che so io. Non fare quella faccia, ho detto che non lo dirò a nessuno.» Chance affrettò il o per seminarla, ma inutilmente. «Sai che devi fare con quei bestioni?» insisté lei. «Dargliele di santa ragione. È l'unica cosa che capiscono.» Chance sbuffò infastidito. «Che ne sai, tu? Sei solo una bambina, e femmina per di più.»

Lei si rizzò in tutta la sua statura, indignatissima. «E con questo? Le femmine ne sanno tanto quanto i maschi! E poi, guardami bene. Ho un occhio nero, io?» Lui si girò di scatto. «Senti, com'è che hai scelto proprio me da torturare?» Lei rise. «Mi piaci, Chance. Sei proprio buffo.» Buffo. Una ragazzina di dodici anni lo trovava buffo. Di bene in meglio. Continuando a seguirlo, Skye disse: «No, davvero, non puoi lasciarti mettere i piedi in testa da quei bestioni. Sai che faccio io quando incontro dei tipi così?». «Avanti, signorina so-tutto, dimmelo così poi mi lasci in pace.» «Non c'è bisogno di essere sgarbato. Sai, io cambio scuola di continuo e ogni volta i nuovi compagni mi danno il tormento. Così, quando me le danno io gliele restituisco raddoppiate. Non c'è altro da fare.» «E immagino che poi diventi molto popolare con i compagni di scuola.» Lei fece spallucce. «No, ma chi se ne frega? Almeno mi rispettano.» «E va bene, terrò a mente il tuo consiglio. Adesso, smamma!» Chance aveva intravisto due dei suoi compagni di roulotte dall'altra parte dello spiazzo, e non voleva che lo vedessero parlare con quella mocciosa. Accelerò di nuovo il o, e questo volta lei non lo seguì. Ma quando Chance si voltò per controllare che fosse effettivamente rimasta indietro e la vide là in piedi, con l'aria smarrita e solitaria di chi non è a casa sua in nessun luogo, gli fece quasi pena. Be', era colpa sua, pensò. Se quella ragazzina era come un pesce fuor d'acqua, lo doveva soltanto al suo caratterino pestifero. Che ci pensasse sua madre, la strega-zingara-veggente. Quella scocciatrice di Skye non era affar suo.

Ma la pace di Chance era destinata a durare poco. La mattina dopo Skye ricominciò a seguirlo e continuò a farlo nei giorni seguenti, dovunque lui andasse, a qualsiasi ora. Chance si voltava e lei era lì, a far domande, a offrire

consigli non richiesti o aiuto indesiderato, con il solito sorrisetto saputo sulle labbra. E quella persecuzione gli complicava ancora di più la vita. Adesso, appena lo avvistavano, gli altri ragazzi cominciavano a schernirlo e a canticchiare una stupida canzoncina: Skye e Chance, Chance e Skye, sempre insieme, come mai? Prima vengono i bacini, e poi tanti bei bambini... E giù a ridere, quegli idioti. Ma lui non si divertiva affatto ed era sempre più deciso a trovare il modo di scaricare quella peste una volta per tutte. La peste in questione si materializzò al suo fianco nella tenda adibita a mensa e sedette di fronte a lui. «Salve, Chance.» Lui non alzò nemmeno gli occhi. «Sparisci.» «Che stai facendo?» «Stavo tentando di far colazione» grugnì lui. «Fa' pure, io ho già mangiato.» «Buon per te. A me è ata la fame.» Chance gettò il tovagliolo sul tavolo e si alzò, ma lei insisté: «Dove vai? Vengo con te». «Insomma, si può sapere che diavolo vuoi?» «Devi montare il tuo baraccone, no? Sono venuta ad aiutarti.» «Va' ad aiutare qualcun altro» ringhiò lui raccogliendo il suo vassoio. «Ma non hai bisogno di una mano?» «No!» Chance mise i piatti sporchi in un grande catino e posò il vassoio su una pila lì accanto, poi uscì nel sole del mattino. Skye lo rincorse e lo tirò per una manica. «Ho sentito che quelli continuano a tormentarti. Sono proprio degli idioti!» «Già.»

«Dovresti proprio dar loro una bella battuta, così ti lascerebbero in pace. O magari, potresti parlarne a Marvel.» «Ma fammi il piacere!» «Davvero, forse dovresti.» Chance si fermò stringendo i pugni. «Senti, rompiscatole, ti diverti tanto a rovinarmi la vita? A fare di me lo zimbello di tutta la compagnia? Quante volte devo dirti di toglierti dai piedi?» «Io non volevo rovinarti la vita» replicò lei ferita. «Siamo amici, e pensavo di aiut...» «Non ho bisogno di aiuto, e non siamo amici!» «Ma potremmo diventarlo.» «NO!» Adesso Chance ne aveva proprio abbastanza. «Non abbiamo niente in comune, io sono un adulto e tu sei una mocciosa, non mi piaci neanche, come possiamo essere amici? Anzi, sai che ti dico? Sono disposto a darti cinque dollari purché tu vada a scocciare qualcun altro!» Skye fece un o indietro, i suoi occhi si colmarono di lacrime, e Chance si sentì un verme. Era solo una bambina, Dio santo. Che gli era venuto in mente? «Senti, sono sicuro che sei una ragazzina simpaticissima, ma il fatto è che...» «Guarda guarda. Che quadretto delizioso, il nostro contadino e la sua gallinella...» Oh, diavolo, pensò Chance, ci mancava anche questa. Len e i suoi accoliti. I ragazzi si avvicinarono, accerchiandoli, e Chance strinse i pugni. «Va' all'inferno, imbecille.» Gli altri ridacchiarono, poi Len disse sogghignando: «Sentilo, come si arrabbia. Ti piacciono giovani, eh, contadinotto? Così sei sicuro di essere arrivato per primo!».

Skye fece due i avanti. «Fate schifo, da quanto siete volgari. Mi viene voglia di vomitare!» Chance l'afferrò per il braccio e la tirò indietro. «Chiudi il becco, Skye. E voi toglietevi dai piedi!» Len e gli altri incrociarono le braccia e non si mossero. «Mandaci via, se sei capace.» Chance sentì un'ondata di furia che gli saliva alla gola. Al diavolo le regole di Marvel, aveva sopportato anche troppo. Era arrivato il momento di menar le mani. «Fuori dai piedi, ho detto!» Il gruppo sghignazzò all'unisono. «È questa l'unica pollastra che sei riuscito a rimediare, contadinotto?» ghignò Len. Chance fece un o avanti, rosso in faccia per la rabbia. «Ripeti quel che hai detto, se hai coraggio.» «Perché, altrimenti che farai? Dirai alla tua gallinella di farmi sputare i denti?» «No, sarò io a farti sputare i denti. Coraggio, fatti sotto. Se Marvel ci becca siamo fuori tutti e due, ma chi se ne frega. Almeno mi sarò tolto questa soddisfazione.» Chance vide che l'altro esitava, come se soppesasse i pro e i contro della situazione. Poteva essere più grosso e più cattivo, ma non era stupido. Sapeva bene che se il capo lo avesse beccato lo avrebbe mandato al diavolo seduta stante. Era quasi fatta, pensò Chance. Bastava un altro secondo, e Len avrebbe perso definitivamente la faccia. Un secondo solo... «Lascialo in pace, Len!» strillò Skye mettendosi fra i due contendenti. «Sei solo geloso perché lui ha...» «Ha te che lo proteggi?» fece uno dei ragazzi. Gli altri ulularono di scherno, e Chance si sentì morire di vergogna. «Piantala, Skye!» sibilò spingendola via.

«Siete così meschini che mi date il voltastomaco!» insisté lei. Ormai i ragazzi ridevano così forte che due di loro si piegarono addirittura su se stessi, tenendosi i fianchi. Poi cominciarono a schioccare la lingua, imitando il suono che si usa con i gatti. «Micio micio micio...» ghignò Len. «Sembrava una tigre, e invece è un micino che si nasconde dietro le gonne della sua ragazza!» «Siete proprio maleducati!» esclamò Skye indignata. Chance l'afferrò per la maglietta e le diede uno strattone all'indietro. «Chiudi il becco!» urlò. «Le mie battaglie me le combatto da solo!» «E allora combattiamo, forza. Fatti sotto» ringhiò Len alzando i pugni. In quel momento comparve Marvel con la mazza da baseball stretta in pugno. «Che diavolo succede qui?» ringhiò. «Siamo in pausa, o cosa? Ci siamo dimenticati che è sabato e apriamo fra un'ora?» E vibrò la mazza sul palmo della mano. Il gruppo si sciolse a gran velocità, e mentre Chance gli ava vicino Marvel lo afferrò per la collottola. «Ti tengo d'occhio, McCord. Ricordalo. Sarà meglio che ti adatti, se non vuoi trovarti col culo per terra.» Chance deglutì. «Sì, signore.» «Ma non è colpa sua» intervenne Skye. «Non è lui che ha cominciato, sono loro che...» «Quanto a te, signorina» continuò l'uomo, «piantala di ficcare il naso negli affari che non ti riguardano. Non vorrei lamentarmi con tua madre, ma se mi ci costringi lo farò!» E se ne andò a grandi i. Chance guardò Skye e ringhiò: «Hai sentito, no? Alza i tacchi!». «Dovresti essermi grato, invece. Se non era per me quelli...» «Grato?» ululò Chance. «Grato? Ma se non fai che peggiorare le cose! Se non ti fossi intromessa l'avrei avuta vinta. Ce l'avevo in pugno, quel bestione!» «Ti avrebbe fatto nero, altro che storie. Lo sai benissimo anche tu.»

«Io so soltanto che voglio essere lasciato in pace. Mi stai rovinando la vita, mi dai il tormento, e io voglio che tu sparisca, ti polverizzi, scompaia dalla faccia della terra. Sono stato chiaro?» Skye si piantò davanti a lui a gambe larghe, con le braccia conserte. «Non puoi obbligarmi.» «Cos'hai detto?» «Ho detto che siamo in un paese libero, e se voglio seguirti lo faccio. Non puoi impedirmelo.» «Col cavolo che non posso!» brontolò lui. Era così furioso che si sentiva sul punto di scoppiare. «Col cavolo!» Le si avvicinò e l'afferrò alla vita, poi la sollevò e se la gettò sulla spalla come un sacco di patate. Era talmente sottile che pesava meno di uno scricciolo. «Che stai facendo?» squittì lei più stupefatta che arrabbiata. «Mi libero di te una volta per tutte.» «Come ti permetti?» strillò Skye cercando di scalciare. «Mettimi giù!» Tempestò di pugni la schiena di Chance, ma lui continuò a camminare. «Te l'ho detto in tutti i modi, ma tu non mi hai dato retta. Perciò adesso ti porto a casa dalla mamma, dove devono stare le bambine come te.» Skye ululò di rabbia e lo morsicò sul collo. Era impazzita?, pensò Chance furioso. La sculacciò e lei strillò di nuovo. «Prova a morsicarmi un'altra volta e ti picchio fino a farti diventare il sedere blu» la minacciò lui. Skye continuò a dimenarsi, ma inutilmente. Infine Chance arrivò alla roulotte, bussò alla porta, e quando Claire aprì lui le scaricò ai piedi il suo fardello. «Tenga questa peste lontana da me, capito? Me la tenga lontana!» Madame Claire, una bella donna dall'aspetto normalissimo, per nulla simile alla strega dagli occhi iniettati di sangue che gli altri ragazzi gli avevano descritto, guardò sorpresa da lui alla figlia. «Ma che succede? Skye, hai infastidito questo

ragazzo?» «Ma no, mamma. Ho soltanto...» «Ma sì, mamma» l'interruppe lui, «Skye ha infastidito questo ragazzo. Sono giorni e giorni che mi sta alle calcagna, e oggi mi ha quasi fatto ammazzare. La tenga lontana da me!» «Cercavo solo di aiutarlo» protestò Skye. «Non avevo nessuna intenzione di dargli fastidio o di metterlo nei guai.» «Però lo hai fatto» commentò Claire severamente. «Entra in casa.» «Ma, mamma!» «Entra in casa, e subito!» La ragazza obbedì dopo aver gettato un'occhiataccia a Chance. «Mi dispiace. Skye ha una volontà piuttosto forte» commentò sua madre. «Io direi che è viziata ed egoista. La sorvegli un po' meglio.» Chance si voltò per andarsene, ma Claire lo fermò. «In che cosa stava cercando di aiutarti, facendoti quasi ammazzare?» «Non sono affari suoi.» «Sono gli altri ragazzi, vero? Sono loro che ti hanno fatto quell'occhio nero.» «E se anche fosse?» La donna sorrise. «Questo spiega tutto. Skye prende sempre la parte dei più deboli. Non sopporta di vedere qualcuno maltrattato, forse perché è toccato tante volte a lei.» «Be', io non ho bisogno dell'aiuto di nessuno e tanto meno del suo.» «Già, lo vedo.» Lo sguardo di Claire sembrava vedere molto al di là dei lividi e dell'occhio nero, fino alla sua anima, e Chance fece un o indietro, a disagio. «Se vuoi posso predirti il futuro. Per ricompensarti del fastidio, voglio dire.»

«No, grazie, conosco già il mio futuro. Non ho bisogno che me lo dica lei.» «Ma davvero?» fece Claire divertita. «Sei un chiaroveggente?» Lui alzò il mento, quasi a sfidare lei e tutto il mondo. «Lo conosco perché sta nelle mie mani. Io solo ne sarò l'artefice, e so che di me posso fidarmi.» «Mentre degli altri non puoi, è così?» «Sì, è così.» Chance si volse di nuovo per andarsene, poi si voltò e la fissò. «Che ha detto?» «Ho detto che devi perdonare all'uomo dalla lunga barba e dai modi semplici. Lui pensava di agire per il meglio.» Parlava di zio Jacob, pensò Chance con un brivido. Come faceva a sapere di lui? Semplice. Doveva aver saputo la storia del suo arrivo da Marvel, e aveva messo insieme due più due. Non era poi così difficile per una abituata a truffare il pubblico credulone. «Lei, cara signora, è solo un'imbrogliona da baraccone, e i suoi famosi poteri non sono altro che una trappola per i gonzi. Nella vita contano le cose concrete e basta.» E in un lampo rivide sua madre e ripensò a tutte le cose, concrete o no, che aveva sognato e mai ottenuto. Gli occhi di Claire avevano di nuovo quello sguardo penetrante che sembrava arrivargli fino all'anima, e Chance si sentì rizzare i capelli sulla testa. «Mi lasci in pace» esclamò. «E dica a sua figlia di stare alla larga da me!»

Skye scelse un pastello verde smeraldo e diede gli ultimi tocchi alla testa della rana. Lavorava a quel disegno da due giorni. Era un'offerta di pace per Chance, un modo di chiedergli scusa. Il disegno raffigurava un rospo marrone, disgustoso e pieno di bozzi, curvo e tremante di terrore davanti a un bellissimo ranocchio vestito come un principe, completo di mantello e corona d'oro. Il rospo somigliava a Len, e il ranocchio era Chance. Lei si era data le sembianze di un fastidioso tafano che gli volava intorno alla testa.

Skye arrossì ripensando alle cose che Chance le aveva detto e alla propria insistenza nel non dargli ascolto. Mi dai il tormento. Mi stai rovinando la vita. Perché non alzi i tacchi? Sparisci dalla faccia della terra! E invece lei aveva continuato a tallonarlo, imperterrita, petulante, nociva, proprio come un tafano. Come aveva potuto essere così idiota? Voleva piacergli, voleva che diventassero amici, ed era riuscita soltanto a disgustarlo! Mise via il pastello, ricacciando irosamente in gola le lacrime che le inumidivano gli occhi. Detestava essere così debole. Non voleva che le importasse così tanto di lui. Si era sempre infischiata di quello che gli altri pensavano di lei, non le era mai importato che la trovassero sgradevole o fastidiosa. Che le prendeva, così di colpo? Si abbracciò le ginocchia, sentendosi infelice come non le era mai accaduto. Aveva raccontato tutto a sua madre, e lei aveva dato ragione a Chance. Lei, che fino allora aveva sempre preso le sue difese. Dunque non piaceva più nemmeno a sua madre! D'altra parte, non piaceva più nemmeno a se stessa... mentre Chance continuava a piacerle moltissimo. Intanto era molto più carino degli altri ragazzi del Luna Park. Più educato, anche. Non diceva parolacce, non fumava, non beveva, e odorava sempre di pulito anche se lavorava e sudava il doppio degli altri. E non aveva paura di niente, nemmeno di Len e dei suoi grossolani e puzzolenti compari. Proprio come la rana del suo disegno. Con un sorrisetto, Skye disegnò accanto ai tre personaggi tre etichette con i rispettivi nomi, poi scrisse alla base del foglio: Con la promessa di non essere mai più così stupida. Arrotolò il disegno, ci mise intorno un elastico e pensò al modo di farlo avere a Chance. Poteva infilarglielo in tasca di nascosto, o lasciarlo in un posto in cui lui lo avrebbe sicuramente trovato. Così, se era ancora arrabbiato, lei non avrebbe dovuto affrontarlo di persona. Poi corrugò la fronte. No. Poteva essere una peste viziata, ma non era una vigliacca. Avrebbe aspettato il momento giusto, il momento in cui Chance fosse stato di buon umore e quindi più incline a perdonarla, poi gli avrebbe dato il disegno e avrebbe sperato nella sua buona stella. Non poteva fare diversamente.

Il momento giusto arrivò due giorni dopo, alle sette del mattino di una domenica. Nei giorni di festa il Luna Park apriva soltanto dopo mezzogiorno, e perciò dormivano ancora tutti, ma Chance era già andato a fare colazione e stava uscendo dalla tenda della mensa. Skye si fece coraggio e lo chiamò. Lui non sembrava felicissimo di vederla, ma nemmeno troppo arrabbiato. Arrossendo, Skye gli tese il foglio arrotolato e disse: «Questo è per te». «Che cos'è?» «Un disegno.» Lei abbassò gli occhi e balbettò: «Io... io mi sono comportata da vera idiota. Ti chiedo scusa». Chance srotolò il disegno, lo guardò a lungo, poi levò gli occhi su di lei. «Io sarei la rana?» Lei annuì, con il cuore in gola. «Niente male» sorrise lui. «Sei brava.» «Io... ehm, ecco, devo andare.» Skye si girò e si allontanò, sentendosi la più grande cretina sulla faccia della terra. «Ehi, Skye» chiamò Chance. «Ma trovi davvero che somiglio a una rana?» Lei lo fissò, muta e rossa come un peperone. Lo trovava il ragazzo più carino del mondo, ma non poteva certo dirglielo. Lui ridacchiò di nuovo. «Stavo scherzando. Il disegno mi piace molto, davvero. Grazie.» Lo ripiegò con cura e se lo mise in tasca. «Ci vediamo.» Skye si voltò di nuovo e corse via.

6

Skye si svegliò di soprassalto, con il cuore in gola. Aveva sentito qualcosa che l'aveva svegliata. Come un colpetto di tosse, o lo scatto di una serratura. «Mamma, sei tu?» Silenzio. Skye si appoggiò di nuovo al cuscino tirandosi il lenzuolo fin sotto il mento. Dalla finestrella sopra il suo letto si intravedeva il cielo buio. Si sentivano solo i grilli e le cicale, ma non un suono. Dormivano tutti. Skye cercò di riprendere sonno, ma nella sua mente si agitava una ridda di pensieri che glielo impediva. Chance, il nervosismo di sua madre in quegli ultimi giorni, la fine dell'estate e quello che sarebbe successo dopo. Ma soprattutto Chance. Aveva evitato di tormentarlo, non gli stava più dietro come un cagnolino, e si limitava a salutarlo quando ava. E a poco a poco lui aveva perso quell'aria annoiata, ora non le diceva più di sparire e anzi certe volte arrivava addirittura a sorriderle. Probabilmente si era abituato a lei, come gli altri ragazzi si erano abituati a lui e avevano smesso di perseguitarlo. Ma che Chance si fosse abituato a lei, come a un paio di scarpe strette, non le bastava. In segreto Skye si augurava di piacergli almeno un po'. Quella sì che sarebbe stata una meraviglia... la cosa più bella che le potesse accadere... Accese la luce e prese l'album da disegno dal pavimento, poi lo sfogliò per trovare il ritratto di Chance che le piaceva di più. Gli aveva fatto decine di ritratti, naturalmente a memoria, ma quello in cui lui guardava verso l'orizzonte con espressione intenta e colma di speranza le sembrava il meglio riuscito. A Chance piacevano i suoi disegni, e la trovava molto brava. Gliel'aveva detto, e quando lei gli aveva confidato che un giorno sarebbe diventata un'artista famosa non si era nemmeno messo a ridere. Anzi, le aveva detto di credere sempre in se stessa, perché nella vita quella era la cosa più importante.

Skye osservò di nuovo il ritratto. Chissà che cosa vedeva Chance, quando guardava verso l'orizzonte in quel modo? Inutile domandarselo. Non l'avrebbe mai saputo, perché Chance, come sua madre, aveva dei segreti che non rivelava a nessuno. D'improvviso il silenzio della roulotte le parve opprimente. Gli angoli bui sembravano ancora più bui, come se nascondessero qualcosa di sinistro. Skye si lasciò sfuggire un grido e corse in camera di sua madre, per chiederle di prenderla nel lettone con sé come faceva quando era piccola. Ma Claire non c'era. Skye fissò il suo letto vuoto e si sentì gelare. «Mamma?» chiamò. Poi, più forte: «Mamma!». Ma la sua voce echeggiò nello spazio vuoto. Sua madre se n'era andata. L'aveva lasciata. Ecco che cosa l'aveva svegliata... lo scatto della porta d'ingresso che sua madre aveva richiuso andando via. Andando via senza di lei. Skye ripensò a tutte le volte in cui erano partite d'improvviso, magari nel mezzo della notte, lasciando mobili, stoviglie, il frigorifero pieno di viveri. Forse, questa volta Claire aveva deciso di lasciare lei. Incrociò le braccia sul petto, cercando di respirare a fondo per calmare l'attacco di panico. Sua madre prendeva sempre i vestiti. Sempre. Skye corse ad aprire l'armadio e i cassetti, guardando i pochi abiti, la biancheria, la vestaglia così lisa che in certi punti era quasi trasparente. C'era tutto. Mancava soltanto la proprietaria. Skye si lasciò cadere sul letto e sentì un fruscio di carta. Frugò tra le lenzuola e trovò una pagina del Philadelphia Inquirer di due giorni prima. Ma certo, ora ricordava. Claire aveva trovato il giornale in lavanderia, lo aveva letto e ne aveva strappato una pagina, e da allora era stata nervosa e irritabile, come se qualcosa la tormentasse. Lesse attentamente i titoli. La politica estera di Reagan... Un treno deraglia all'uscita dalla stazione, quattro morti e decine di feriti... Serata benefica sponsorizzata dalla gioielleria Monarch... Boss della mafia chiamato a testimoniare.

Boss della mafia. Skye si sentì gelare e fissò sconvolta il titolo, poi lesse l'articolo relativo. Il Gran Giurì aveva cominciato a indagare sulle accuse mosse al capo di una famosa famiglia della criminalità organizzata. Aveva ragione, sua madre era ricercata da una famiglia di criminali. Forse, il rumore che aveva sentito era quello di una colluttazione... forse Claire era stata rapita. Con un grido di terrore, Skye balzò in piedi e corse a vestirsi. Doveva chiamare Chance. Lui avrebbe saputo che cosa fare e l'avrebbe aiutata. Si cacciò il ritaglio di giornale nella tasca dei jeans e andò fino alla roulotte che Chance divideva con altri cinque ragazzi. Non voleva svegliare quegli altri, così fece il giro sul retro e si fermò sotto la finestrella più vicina al suo letto. «Chance» sussurrò rizzandosi sulla punta dei piedi. «Chance, svegliati... sono io, Skye!» Sentì che si muoveva e sbuffava nel sonno, attese un poco, poi riprovò. «Chance, ti prego, svegliati. Sono Skye!» Finalmente lui si affacciò alla finestrella, insonnolito e stupito. «Che ci fai qui a quest'ora? Tua madre sa che sei fuori?» «È questo il punto... non c'è!» gemette lei. «Mi sono svegliata perché ho sentito un rumore, ed era tutto così silenzioso, e ho avuto paura... allora sono andata da lei perché mi prendesse nel suo letto e lei non c'era!» Skye scoppiò in lacrime. «E adesso non so cosa fare!» «Aspetta, non piangere. Vengo fuori.» Due minuti dopo Chance uscì dalla roulotte e Skye gli si gettò tra le braccia. «E adesso cosa faccio?» singhiozzò. «Come faccio a ritrovarla?» Chance l'abbracciò e la fece sedere sotto un albero poco lontano. «Non fare così. Magari è solo uscita a fare quattro i.» «In piena notte?» «Anche tu sei qui in piena notte, no?» Skye si morse il labbro inferiore. «Ma non lo ha mai fatto! Non è mai uscita così! L'avrei sentita!»

«Magari lo ha fatto altre volte, solo che tu non ti sei svegliata.» «No, non credo. Prima ho pensato che mi avesse lasciata, ma ho guardato nell'armadio e i suoi vestiti ci sono tutti. E ho paura che sia stata rapita!» «Rapita?» sorrise lui. «Ma andiamo. Non ti sembra di esagerare?» «Oh, no. Guarda!» E gli porse la pagina di giornale. Chance la scorse rapidamente. «Che cosa dovrei guardare?» «Qui, dove parla del boss mafioso.» «E secondo te questo ha a che fare con tua madre?» Skye annuì. «L'ho trovato sul suo letto. Forse lo stava leggendo, e poi è sparita...» Chinò la testa e ricominciò a piangere. «E adesso come faccio? Non ho nessuno, solo lei!» Chance si sporse ad abbracciarla. «Sono certo che la tua mamma non è fuggita e non è stata rapita. Secondo me è andata a fare una eggiata, o magari si è incontrata con un amico.» «No, non lo farebbe mai!» esclamò lei premendogli la testa sul petto. Sentiva l'inizio di una delle sue emicranie. «Non capisci. Io credo che lei... che siamo nei guai.» «Che tipo di guai?» «Non lo so, lei non ha mai voluto dirmelo. Ma capisci, ci spostiamo di continuo... certe volte partiamo nel mezzo della notte, piantiamo tutto e ce ne andiamo. A te non sembra strano?» Lui tacque per un poco. «Quel che sembra a me non ha importanza. Devi chiederlo a tua madre.» «L'ho fatto un milione di volte, ma lei dice sempre che siamo avventuriere romantiche e non mi spiega niente altro!» «Magari è proprio così» sorrise Chance. «Più verosimile che non questa storia

della mafia che vi insegue!» «Non c'è niente da ridere. Non mi ha mai voluto dire dove sono nata, né come si chiamava mio padre. Dice che è morto, ma io non ci credo. Se è morto, perché non vuole parlarmene?» «Non lo so, Skye. Avrà le sue ragioni.» Skye gemette premendosi le mani sulle tempie e chiuse gli occhi. «Che succede?» domandò lui preoccupato. «Soffro di emicranie molto forti» spiegò lei. «Ma non è niente, tra poco mi erà.» «Vieni, ti accompagno alla tua roulotte. Hai bisogno di un analgesico.» Skye chiuse gli occhi mentre una fitta lancinante le trapanava la testa. «Chance... anche tua madre faceva così? Evitava di parlarti di tuo padre?» Lui rise amaramente. «No, ma a volte vorrei che l'avesse fatto. Mio padre era, è, un vero bastardo, e io preferirei non sapere niente di lui.» Si alzò in piedi e la prese gentilmente per mano. «Vieni, ti accompagno. Scommetto che tua madre è già tornata, e che in questo momento si domanda dove sei finita.»

Ma Claire non c'era. Skye era fuori di sé per la preoccupazione, e il suo mal di testa si era fatto insopportabile, ma rifiutò di prendere la sua medicina perché non voleva addormentarsi. Finalmente Chance la convinse promettendole che le sarebbe rimasto accanto fino al ritorno di Claire, e lei mandò giù due compresse e si mise nel letto grande. Chance sedette sul bordo del letto, con una mano di Skye fra le sue. «Vedrai che tra poco tua madre tornerà, e allora ti sentirai una stupida per esserti spaventata così tanto.» «E se non torna?» sussurrò lei. «Tornerà.»

«Chance... dov'è tua madre?» La domanda fu come un pugno nello stomaco. «È morta» rispose lui distogliendo gli occhi. «Oh. È stato un incidente o...» «Nessun incidente» disse Chance ruvido. «Si è ammalata e poi è morta.» «Oh.» Dopo qualche minuto di silenzio, Skye azzardò: «Com'è, essere senza madre?». «Non saprei. Non ci penso più molto.» Gli occhi di lei si colmarono nuovamente di lacrime, e Chance capì che pensava a Claire e al fatto che non l'avrebbe mai più rivista. «Non fare così, piccola. Tornerà da un momento all'altro.» «E se invece... non... non torna?» farfugliò lei. L'analgesico cominciava a fare effetto. «Tu resterai... con me?» «Sicuro. Te l'ho promesso, e non ti lascio.» Di lì a poco il respiro di lei divenne lento e regolare. Chance restò a guardarla dormire, intenerito. Povera bambina. Faceva la dura, la sfrontata, ma adesso sembrava piccola e sperduta. Chance le sfiorò la guancia con la mano, e fu meravigliato dall'ondata di tenerezza che gli salì nel petto. Non aveva mai avuto un fratello o una sorella, e li aveva tanto desiderati. Qualcuno con cui parlare, qualcuno con cui sfogarsi quando sua madre non aveva tempo o voglia di dargli retta. Ma era stato tanti anni prima... secoli prima, quando credeva ancora di aver bisogno dell'affetto e della sicurezza che gli davano gli altri. Adesso sapeva bastare a se stesso. Si alzò e si avvicinò alla porta della roulotte. In effetti, quel che Skye gli aveva raccontato delle loro partenze furtive nel mezzo della notte era piuttosto strano. Ma la sua teoria sulla mafia era inverosimile. Troppo da film. Probabilmente Claire stava solo scappando dai creditori, e se non aveva mai voluto parlare a Skye di suo padre era perché non sapeva nemmeno chi fosse.

Chance sedette su una delle panche, si alzò, eggiò, tornò a sedersi, controllando di tanto in tanto l'orologio. Ma di Claire, ancora nessuna traccia. Probabilmente aveva un amico e in quel momento era a letto con lui... Ma non sembrava il tipo. Chance scosse la testa. Che ne sapeva, lui? Non la conosceva affatto. Claire poteva essere una ninfomane insaziabile... Ma la cosa gli sembrava inverosimile. Aveva visto il modo in cui guardava la figlia, sapeva quanto Skye fosse importante per lei. Certamente più di una sordida avventuretta da quattro soldi. Forse era ingenuo da parte sua, ma non credeva che Claire lasciasse sola la figlia per una ragione così volgare. E allora, perché se n'era andata? In quel momento sentì un rumore di i, e Claire entrò. Lo vide, si fermò interdetta e domandò: «E tu che ci fai qui?». «Credo che la domanda giusta sia un'altra. Perché lei non c'era?» «Sono uscita a fare una eggiata. Non riuscivo a dormire, e...» «Una eggiata di due ore in piena notte? Ma lo sa che Skye era fuori di sé dalla paura ed è venuta a cercarmi?» Claire impallidì e si portò la mano alla gola. «Mi dispiace. Te l'ho detto, non riuscivo a prender sonno e così...» Guardò verso la porta a soffietto e sussurrò: «Adesso dorme?». «Credo di sì. Ha preso la medicina per il mal di testa, e io le ho promesso che sarei rimasto qui. Era terrorizzata, credeva che lei l'avesse abbandonata.» Gli occhi di Claire si colmarono di lacrime. «Grazie, Chance. Scusami, devo andare a vederla.» Chance fece per andarsene, poi decise di restare. Qualcosa nella spiegazione di Claire non lo convinceva. Skye aveva ragione, sua madre aveva paura di qualcosa o di qualcuno. Sedette sulla panca e aspettò, e dopo qualche minuto Claire ricomparve. Sembrava scossa. «Non credevo che si svegliasse. Ha sempre avuto il sonno così pesante...» Guardò Chance e aggiunse: «Ho bisogno di bere qualcosa. Ti va una birra?».

«Sicuro.» Claire prese due bottiglie dal frigo e gliene porse una, poi sedette sulla panca di fronte a lui e bevve un lungo sorso, fissando il vuoto con gli occhi sgranati. In quel momento somigliava talmente a sua madre che Chance rabbrividì. «Senta, che diavolo sta succedendo?» le domandò bruscamente. Lei lo guardò. «Che vuoi dire?» «Voglio dire che in voi due c'è qualcosa di molto strano. Perché accidenti viaggiate con questo pulcioso Luna Park?» «E tu, perché lo fai?» «Per me è diverso. Era la mia unica scappatoia, ma non ci resterò per sempre.» «Nemmeno noi resteremo per sempre. Alla fine dell'estate ce ne andremo.» «Appunto, vede che mi dà ragione? Lei qui è fuori posto, ha troppa classe per questa gente. Loro sono rozzi e volgari, ma lei è di un'altra pasta. Potrebbe fare ben altro. Com'è che fa questa vita?» «Hai mai pensato che magari mi piace?» «Non dica idiozie!» «Ti ringrazio di aver aiutato Skye» disse lei alzandosi. «Buonanotte.» Chance non si mosse. «Skye crede che siate ricercate dalla mafia.» «Ma è ridicolo!» «Mi ha fatto leggere una pagina di giornale con un articolo in cui si dice che un boss mafioso comparirà davanti al Gran Giurì dopodomani, a Philadelphia. Skye ha trovato il giornale sul suo letto e ha fatto due più due. È così?» «No, nemmeno lontanamente!» «E allora qual è la verità?»

«Temo che non siano affari tuoi, e ti sarei grata se mi lasciassi in pace.» «Da stanotte sono anche affari miei, visto che lei non c'era.» «Lo ammetto, ho fatto un errore a lasciarla sola. Non succederà più.» Claire aprì la porta. «Grazie del tuo aiuto, Chance. Buonanotte.» Lui si avvicinò e la fissò. «Sua figlia è convinta che stiate scappando da qualcuno. Se non è la mafia, allora chi è? Il padre di Skye?» Claire aprì completamente la porta. «Buonanotte, Chance.» Poi, mentre lui le ava accanto per uscire, lo prese per un braccio. «Io voglio molto bene a mia figlia. Muoverei cielo e terra per lei, affronterei i pericoli più spaventosi. Credo che tu non abbia bisogno di sapere altro.» Dall'espressione di lei, Chance capì che aveva già affrontato una buona parte di quei pericoli, ma questo non cambiava ciò che era avvenuto quella notte. «Non dubito che voglia bene a sua figlia, ma forse proprio per questo dovrebbe rassicurarla dicendole la verità. Skye era davvero terrorizzata. Credeva addirittura che qualcuno l'avesse rapita.» Claire sospirò e lo lasciò andare, e Chance uscì. Poi si voltò verso di lei e concluse: «Sa, Claire, sua figlia non crede affatto che vi spostiate di continuo perché vi piace la vita vagabonda. E francamente, non ci credo neanch'io».

7

arono le settimane, arrivò luglio, poi agosto con le ultime ondate di caldo afoso e le prime avvisaglie di autunno. Il Luna Park si era spostato dalla Pennsylvania alla Virginia e all'Ohio, e adesso si trovava nell'Indiana. Da lì, in autunno, avrebbe poi proseguito per la Florida dove Marvel era solito svernare. Chance progettava di andarsene prima di allora, e sapeva che anche Claire e Skye avrebbero fatto altrettanto, forse addirittura prima di lui. Come sapeva che avrebbe sentito la loro mancanza. Nelle ultime settimane, dopo la notte in cui Claire era scomparsa, loro tre si erano riuniti in una specie di famiglia. Si aiutavano l'un l'altro, avano insieme la maggior parte del tempo libero e dividevano anche i pasti, in particolare la colazione. Era diventato una specie di rito: Chance arrivava fino alla loro roulotte con la scusa di dar loro il buongiorno, controllava che stessero bene, e Claire gli offriva il caffè. A Chance premeva soprattutto sincerarsi che una delle due non fosse scomparsa durante la notte. Il pericolo era diventato reale, perché Claire era sempre più nervosa, dimagriva a vista d'occhio, e aveva spesso lo sguardo fisso e inquietante di chi vede cose che agli altri sono celate. Chance continuava a domandarsi da chi o da che cosa le sue amiche stessero fuggendo, ma si ripeteva che non doveva affezionarsi troppo a nessuna delle due. Il Luna Park era solo una tappa, per ognuno di loro, e quindi era meglio mantenere una certa distanza. Quella mattina, appena fuori della roulotte, sentì nell'aria odore di temporale. Il cielo era cupo e ventoso, e le previsioni del tempo segnalavano un uragano in arrivo entro le prossime quarantott'ore. Per la prima volta in un decennio, Marvel aveva deciso di non fare lo spettacolo e di non alzare tende o baracconi, per non offrire alcun appiglio all'uragano. «Hai sentito?» esclamò Skye arrivando trafelata accanto a Chance. «A Fulton c'è stata una tromba d'aria! Sono così eccitata!»

«Hai ragione» scherzò lui. «È eccitante pensare che potremmo morire tutti da un momento all'altro.» Lei non badò al suo sarcasmo. «Credi che Marvel deciderà di partire?» Si sentì un rombo di tuono in lontananza. «Mettersi in viaggio con i camper, con questo tempo? Non credo. Mi sa che resteremo fermi qui per un paio di giorni.» Skye si avviò con lui verso la sua roulotte, e continuò a chiacchierare per tutto il tempo. Pareva che Len avesse una ragazza in Florida. Claire stava preparando per colazione dei toast alla se, i suoi preferiti. Oh, e quella notte aveva avuto un altro dei suoi incubi. «Un incubo? Claire?» «Ne ha sempre avuti, ma ultimamente sono aumentati. Sono andata a vederla perché gridava, e lei era tutta sudata e tremava.» Chance avrebbe voluto saperne di più, ma ormai erano arrivati e Claire stava giusto disponendo sul tavolo un piatto colmo di toast alla se. «Mangiateli finché sono caldi. Il caffè è nel bricco.» Skye si riempì il piatto e inondò i toast di sciroppo d'acero, Chance si versò una tazza di caffè bollente. «Allora che ne pensi, Chance, partiamo oggi?» domandò Claire venendo a sedersi a tavola. «Non credo. Mettersi in strada con questo tempo è troppo rischioso.» «Già, lo penso anch'io.» Claire tagliò un boccone di toast con la forchetta, e Chance notò che la sua mano tremava. La guardò in faccia. Era pallida come un cencio, e aveva due profonde occhiaie scure. «Che c'è, Claire? Non stai bene?» «Sto benissimo. Solo che ultimamente dormo poco, forse per via del caldo.» «Guarda che lo sa degli incubi» interloquì Skye. «Gliel'ho detto.» «Non è niente, davvero.» Claire guardò Chance di sottecchi, accennò alla figlia e fece un impercettibile cenno con la testa, segnalandogli che non voleva parlarne

di fronte a lei. Venti minuti dopo, finita la colazione, Skye venne mandata a informarsi sul tempo, e Claire si rivolse a Chance. «Ho bisogno di un favore.» «Certo. Di che si tratta?» «Dovresti tener d'occhio Skye per un poco, stasera, dopo che si sarà addormentata.» «Ah» fece lui. «Perché, che succede?» «Niente, davvero, è solo che...» Lui prese la sua mano e la osservò. Tremava, e le unghie erano rosicchiate fino alla radice. «Non me la dai a bere. Sobbalzi ogni volta che qualcuno ti rivolge la parola, ti guardi sempre alle spalle, non dormi e hai degli incubi. Non c'è bisogno di essere una veggente per capire che c'è qualcosa che non va!» Claire ritrasse la mano. «Non dire sciocchezze.» «Insomma, mi vuoi dire che succede? Forse posso aiutarti...» Claire tacque per un poco. «Magari potessi aiutarmi» sospirò guardando un punto lontano. «Ma non puoi, né tu né nessun altro. Devo andare in città a... a fare una telefonata, e non voglio lasciare Skye da sola, specialmente stasera con l'uragano.» «Perché non la porti con te? A chi devi telefonare, a suo padre?» «Santo cielo, no! No, assolutamente!» «Dunque era questo che stavi facendo quando sei scomparsa, l'altra volta? Una telefonata?» Claire abbassò gli occhi e Chance seppe di aver indovinato. «So che sei nei guai, Claire. E penso proprio che questi guai abbiano a che vedere con il padre di Skye. Ho ragione?» «No, ti sbagli. Suo padre non c'entra affatto.» Claire afferrò la mano di Chance

con le dita gelide. «Ho bisogno che tu mi faccia questo favore. Dici che vuoi aiutarmi... ebbene, aiutami restando con Skye. Lo farai? È molto importante.» Chance esitò. «Non so se sto facendo una cosa giusta, ma... va bene, sì. Lo farò. Dimmi a che ora vuoi che sia qui.»

Claire aveva chiesto a Chance di arrivare per le dieci e mezzo ed era molto ansiosa e preoccupata. Sentiva di non avere più tempo, sentiva che un disastro incombeva su lei e Skye, e doveva assolutamente telefonare a Dorothy. Guardò verso la camera da letto sul fondo della roulotte. Quella sera aveva offerto il lettone a Skye, come faceva ogni tanto, e lei si era addormentata subito. Ormai dormiva profondamente da più di mezz'ora, benché il vento ululasse e scuotesse la fragile intelaiatura della loro casa su ruote. Claire si affacciò alla porta, scrutando nella cortina di pioggia battente, e ripensò all'ultima telefonata che aveva fatto a Dorothy dopo aver letto l'articolo sulla serata di beneficenza a Philadelphia, e alle domande insistenti che l'altra le aveva fatto. Ma naturalmente lei non aveva rivelato nulla di sé o del luogo in cui si trovava, come sempre. Claire controllò l'orologio per l'ennesima volta, e vide che erano le dieci e venticinque. Finalmente. Mise l'impermeabile, prese le chiavi della macchina e aprì con cautela la porta cercando di non fare rumore. Nel pomeriggio, prima che cominciasse a piovere, era corsa in città, aveva fatto il pieno e aveva comprato un bel po' di provviste non deteriorabili che aveva messo nel portabagagli. Le due valigie, la sua e quella di Skye, erano nella roulotte, pronte per essere caricate in macchina. Nella sua valigia c'era anche il sacchetto di gemme. Se fossero dovute fuggire quella notte stessa, Claire non voleva perdere un minuto più del necessario. Adesso, la sua decisione dipendeva da quello che Dorothy le avrebbe detto al telefono. Parlando con Marvel, aveva già posto le basi per un'eventuale partenza improvvisa. Gli aveva detto di avere degli amici che vivevano nella zona, e che se non gli dispiaceva avrebbe portato Skye da loro per aspettare la fine dell'uragano in una casa un po' più solida. Chance avrebbe sorvegliato la loro roulotte fino a quando non fossero tornate. L'uomo non aveva protestato e si era limitato a commentare che anche lui avrebbe voluto aspettare altrove la fine

dell'uragano. Claire si massaggiò le braccia e rabbrividì. Non ne poteva più di quella vita incerta, miserabile, sempre tormentata dall'ansia e dai dubbi. Non ne poteva più di incubi, di insonnia, della angosciosa sensazione che qualcosa di terribile stesse per accadere. L'incubo della notte prima era stato particolarmente vivido: il mostruoso uccello nero si era chinato su Skye con gli artigli pronti a ghermirla, e lei era riuscita a strappargliela appena un istante prima che il suo sperone acuminato le traasse il cuore. Allora, svegliandosi in un lago di sudore, aveva capito senza ombra di dubbio che Pierce era sulle loro tracce e stava per raggiungerle. Finalmente arrivò Chance, e lei gli parlò brevemente facendogli le ultime raccomandazioni. Era tentata di sfogarsi con lui, di raccontargli tutto, tanto per avere un minimo di sostegno morale; ma alla fine decise di tacere. Era troppo tempo che doveva dipendere soltanto da se stessa, e ormai sapeva che sarebbe sempre stato così. Promise a Chance di tornare appena possibile e uscì nella cortina di pioggia. Il tragitto fino in città le prese assai più tempo del solito. Il bar da cui aveva pensato di fare la sua telefonata era affollato fino all'inverosimile, come se tutta la città avesse deciso di ubriacarsi proprio quella sera. Claire fendette la folla per arrivare al telefono sul fondo del locale, e una donna l'afferrò per un braccio. Puzzava di alcool ed era evidentemente ubriaca. «Ehi, ma tu sei quella veggente del Luna Park!» Molte teste si voltarono nella loro direzione e Claire cercò di farsi piccola piccola. L'ultima cosa che le ci voleva erano dei testimoni pronti a giurare di averla vista in città. «Andiamo, predicimi il futuro.» La donna ridacchiò e aggiunse: «Ho bisogno di sapere se riesco a portarmi a casa quel bel ragazzo laggiù». Claire avrebbe voluto gridarle di lasciarla in pace, ma pensò che l'unico modo per liberarsene fosse accontentarla, magari spaventandola un po'. Prese la sua mano e sussurrò: «Vattene da qui, subito. Vedo che sta per accaderti qualcosa di terribile». La donna impallidì. «Mi succederà qui?»

«Sì. Vattene subito, e non dire a nessuno che mi hai vista!» L'altra si girò e corse via, urtando la gente nella fretta di andarsene. Claire odiava servirsi così delle sue capacità, ma non poteva rischiare che la donna fe una scenata. Inserì una manciata di monetine nella feritoia del telefono e fece il numero. «Dorothy, sono io, Madeline» sussurrò. «Oh, Madeline, grazie a Dio... speravo tanto che chiamassi! Devi tornare, subito. Se lo fai spontaneamente sarà molto più facile...» «Ma che è successo?» domandò Claire, benché lo sapesse già. «Pierce ti ha trovata. Stasera abbiamo cenato tutti insieme, e lui era trionfante. Ci ha detto che un investigatore privato vi aveva localizzate e che, tempo ventiquattr'ore, Grace sarebbe tornata nel posto che le spetta, qui a casa.» Claire chiuse gli occhi, disperata. I suoi peggiori incubi si avveravano. «Ma non è tutto» riprese l'altra. La sua voce si alzò, divenne quasi isterica. «Pierce dice che non ti permetterà mai più di rivedere tua figlia. Io ho cercato di farlo ragionare, ma non è servito... Mi dispiace tanto, credevo di far bene, è tutta colpa mia!» Le parole di Dorothy a poco a poco penetrarono nel cervello terrorizzato di Claire. «Che significa, è colpa tua? Non sapevi mica dov'ero!» «Volevo solo che tu e Grace tornaste a casa, cerca di capire... volevo che tornassimo a essere una famiglia!» «Ma che stai dicendo?» «La tua ultima telefonata, dopo che avevi visto quell'articolo sul giornale... ho immaginato che fossi vicino a Philadelphia, e poi mentre telefonavi qualcuno si è messo a strillare e io ho sentito quel che ti diceva...» In un lampo, Claire ricordò. C'era un tale che voleva usare il telefono e che le aveva gridato di togliersi dai piedi e di tornare al Luna Park. Come aveva potuto essere così stupida?

«Pensavo di agire per il vostro bene» continuò Dorothy con la voce venata di pianto. «Non credevo che Pierce mettesse in atto le sue minacce, dopo tutto tu sei la madre di Grace, e lei ha bisogno di te... ti prego, torna a casa!» «Come hai potuto, Dorothy?» esclamò lei. «Ti ho pur detto di Griffen e di quel che aveva fatto a Grace. Sai che lui vuol farle del male. Come hai potuto?» «Ti sbagli a proposito di Griffen, Madeline. Ti sei sempre sbagliata. È cresciuto, è diventato un bel ragazzo serio e responsabile, ha finito il liceo e sta per andare al college... Credi che le ragazze gli ronzerebbero intorno come mosche sul miele se fosse davvero cattivo come dici? Ti prego, torna a casa. Se lo farai di tua volontà sono certa che Pierce e Adam ti perdoneranno...» Claire l'ascoltava appena, e intanto rifletteva furiosamente. «Sa che aspetto ha Grace?» domandò d'un tratto. «Chi, Pierce? No, credo di no... anche Griffen voleva sapere quant'era cresciuta e com'era, e lui ha detto che non ne aveva idea... perché me lo domandi?» «C'era anche Griffen, a cena?» domandò Claire con il cuore in gola. «Naturalmente. Ha detto che è ansioso di riavere a casa la sorella. Le vuol bene, Madeline. Non potrebbe mai farle del male!» Claire riappese senza una parola. Non avrebbe mai dovuto fidarsi di Dorothy. Era una Monarch, dopo tutto, e anche per lei la famiglia contava più di tutto il resto. Inoltre non aveva mai creduto alla pericolosità di Griffen, non gli aveva mai visto quell'espressione orribile quando guardava Grace... E adesso Pierce era vicino, spaventosamente vicino. Claire cominciò a tremare. Le avrebbe portato via la sua bambina, l'avrebbe mandata in prigione... e allora chi avrebbe protetto Skye? Rivide l'orribile scena nella nursery, Griffen su di lei, una mano a tapparle la bocca e l'altra sotto il grembiulino, a toccarla, a violarla... Si portò il pugno alla bocca per soffocare un grido di orrore. Griffen non era cambiato, lo sapeva. Aspettava con ansia la sorella, per ricominciare a perseguitarla... Bisognava portare Skye in salvo, subito. Bisognava scappare! Ma come, dove? Claire aveva cambiato il colore dei capelli e il taglio, ma evidentemente non era bastato. Gli investigatori che la cercavano l'avrebbero riconosciuta di nuovo, e

avrebbero riconosciuto anche Skye, vedendola in sua compagnia, nonostante fosse cambiata in sette anni. Avrebbero cercato una madre e una figlia adolescente, insieme. Ma... se non fossero state insieme? Claire scosse la testa, disperata. Non poteva vivere senza di lei. Non poteva stare lontana dalla sua bambina. Ma se fosse stato solo per qualche tempo, finché le acque non si fossero calmate, forse... Susan. L'immagine della sua più cara amica le si presentò d'improvviso alla mente. Erano cresciute insieme, avevano condiviso primi amori e prime delusioni, come e più di due sorelle. Poi, Pierce le aveva separate. Susan aveva intuito la vera natura di Pierce e prima del matrimonio aveva cercato di mettere in guardia l'amica, ma lei, accecata dalla ricchezza dei Monarch e da ciò che rappresentavano, non le aveva dato retta... Erano rimaste lontane per anni, e l'orgoglio aveva impedito a Claire di rivolgersi a lei anche dopo la fuga, quand'era in difficoltà. Poi, circa un anno prima, l'aveva rintracciata tramite i suoi genitori e le aveva telefonato. Susan aveva pianto di gioia nel sentirla, e fra loro era rinata l'amicizia di un tempo. Claire le aveva raccontato tutto: le minacce e i maltrattamenti di Pierce, l'orribile comportamento di Griffen, il tentativo di Adam di strangolarla per impedirle di fuggire. Tutto. A parte lei stessa, Susan era la sola persona che conoscesse la vera identità di Claire e Skye Dearborne. Da allora si erano telefonate spesso, e ogni volta Susan l'aveva supplicata di andare a vivere con lei. Insegnava letteratura inglese in un college di Notre Dame, nell'Indiana, e aveva posto per tutt'e tre. L'avrebbe aiutata a sfuggire a Pierce, e se lui le avesse trovate nonostante tutto l'avrebbe aiutata a difendersi. Ma Claire aveva sempre declinato gli inviti, perché aveva troppa paura. Susan non conosceva il potere della famiglia Monarch. Lei non voleva arrecare danno alla sua amica o metterla in pericolo. Ma adesso... «Senta, signora, quel telefono se l'è comprato o cosa? Devo fare una telefonata!» «Oh, mi scusi...» Claire guardò il donnone con la faccia rossa che le stava di fronte e si scostò. «Faccia pure.» Andò al bar, ordinò un bicchiere di vino bianco e lo sorseggiò aspettando che la

donna lasciasse libero l'apparecchio. Intanto rifletteva furiosamente, soppesando ogni eventualità, cercando di trovare una via d'uscita. Si sentiva morire all'idea di lasciare Skye, anche solo per poco tempo. Ma non aveva scelta! Se le avesse chiesto di venire a prendere Skye, Susan sarebbe saltata in macchina e sarebbe venuta. L'avrebbe nascosta per un poco, mentre lei fuorviava gli investigatori di Pierce e faceva perdere le loro tracce. Da sola ci sarebbe riuscita assai meglio. Poteva fuggire quella notte stessa, così tutti avrebbero creduto che Skye fosse con lei. E invece, Skye sarebbe stata al sicuro con Susan. Il mostruoso rapace dalle ali nere era quasi sopra di loro. Doveva strappargli la sua preda, e subito! La donna finì la sua telefonata, e Claire si avvicinò di nuovo all'apparecchio. Ti prego, Signore, fa' che Susan sia in casa, pregò. Finalmente l'altra rispose. «Susan, sono io» sussurrò Claire. «Madeline! Che succede?» «Ho bisogno del tuo aiuto» gemette lei. «Pierce ci ha trovate, sta per venire qui... E vuole portarmi via mia figlia!» Era così disperata che scoppiò in lacrime e per un poco non poté parlare. «Vuole mandarmi in prigione, e non mi farà mai più rivedere Skye!» singhiozzò. «Mio Dio, Maddie, che posso fare? Dimmi come posso aiutarti!» «Ho bisogno che tu venga qui, a prendere Skye, e la tenga con te per un po'. Da sola riuscirò meglio a sfuggire alle sue ricerche. Lo farai, Susan? Ti prego, dimmi di sì!» «Naturale che lo farò, cara. Parto immediatamente. E morirò prima di lasciare che quel bastardo torca un solo capello alla tua bambina.»

8

Chance aprì gli occhi e si trovò davanti Claire, fradicia di pioggia. Doveva essersi addormentato! Batté le palpebre e domandò: «Che ore sono?». Claire ignorò la sua domanda e si chinò su di lui, prendendogli le mani. «Ho bisogno del tuo aiuto» sussurrò. «Ti prego!» Ormai Chance era del tutto sveglio e sentiva che doveva essere accaduto qualcosa di terribile. «Claire, che c'è?» domandò alzandosi dal divanetto. «Che è successo?» «Ho bisogno che tu stia con Skye per un altro po' di tempo. Io... io devo...» Poi non resse più e affondò la testa tra le mani, singhiozzando. «Ma certo, starò con lei quanto sarà necessario. Va' pure a fare quel che devi fare. Io ti aspetterò qui.» «Oh, Chance, non capisci... lui sta per arrivare, è qui vicino... e io devo andarmene!» Chance strinse le mani gelide della donna. «Ma chi? Chi sta per arrivare?» «Ci sono delle persone che ci inseguono, che vogliono farci del male. Soprattutto a Skye. E stasera ho saputo che sono molto vicine.» «Che vuol dire, soprattutto a Skye? Claire, non starai esagerando?» Lei scosse la testa, disperata. «Oh, no. Se ci trovano, mi porteranno via Skye e io non la rivedrò mai più. E la porteranno da chi le vuol fare del male, e gliene ha già fatto in ato!» «Quanto sono vicini?» domandò Chance. «Vicinissimi, credo. Io devo andarmene... non so come altro salvare mia figlia!» Claire ricominciò a piangere disperatamente, stringendosi le braccia al petto nell'inutile tentativo di scacciare il freddo e la paura che la facevano rabbrividire.

«Potrebbero essere qui già domani sera. Spero che l'uragano li trattenga, ma io devo andarmene il più in fretta possibile!» «Gesù, Claire, ma chi è questa gente?» «Non posso dirtelo... ed è meglio per te che tu non lo sappia. Devi fidarti di me, Chance. Ti prego.» Lui annuì. «Va bene, mi fido.» «Io devo andarmene stanotte, subito. E devo andarmene senza Skye.» «Senza Skye? Ma... ma che vuoi dire?» Poi Chance capì e fece un o indietro scuotendo la testa. «Non vorrai lasciarla a me! Ah, no, niente da fare!» «Ma sarà solo per il resto della notte e qualche ora domani mattina, poi verrà a prenderla una mia amica... È una persona di cui mi fido ciecamente, è già per strada e arriverà qui verso le dieci, forse anche prima. Ti prego, Chance. Non ho nessun altro a cui rivolgermi!» «Continuo a non capire. Perché non porti Skye con te, e magari incontrate questa signora a metà strada?» «Perché quella gente ha la mia foto e sa come sono fatta, ma non ha nessuna foto di Skye. Ed è lei che vogliono.» «Ma Claire, questa non è una faccenda da poco... io non so se...» Chance sospirò, cercando di ragionare in maniera logica, cercando di trovare una soluzione a quella faccenda così complicata. «Non vorrai davvero andartene senza di lei! Non puoi lasciare Skye e sparire così!» «Chance, lei è tutto quello che ho, ed è in pericolo. Questo è l'unico modo in cui posso proteggerla, anche se significa non vederla più...» Claire tacque per un istante, soffocata dai singhiozzi, poi riprese: «Devo andarmene subito. Domani la mia amica Susan verrà a prendere Skye, e io mi metterò in contatto con loro più in là, quando non ci sarà più pericolo. Probabilmente basterà qualche settimana». «E se qualcosa va storto? Se questa Susan non si fa viva, o se quella gente arriva qui prima di lei?»

Claire lo guardò con gli occhi sbarrati, poi scosse la testa come per negare quell'eventualità. «Non succederà. Quanto a Susan, la conosco da una vita e ho piena fiducia in lei. Non mi abbandonerà, lo so. Posso contare su di te?» supplicò prendendo di nuovo le mani di lui. «Lo farai, Chance? Lo farai per Skye?» Non poteva rifiutare, pensò Chance. Quella donna non aveva nessun altro, e poi si trattava di poche ore soltanto. Fece un cenno affermativo, e lei si portò le mani alla bocca ed esclamò: «Oh, grazie, Chance, grazie!». Poi si guardò intorno, agitatissima. «Devo finire le valigie... devo fare in fretta, non c'è tempo da perdere...» Chance le mise una mano sul braccio. «Aspetta un momento. E Skye? Quando glielo dirai?» Gli occhi di Claire si colmarono di nuove lacrime, e lui capì. Non aveva intenzione di dirglielo. «Non puoi farle questo, Claire. Non puoi andartene senza dirle niente. Non te lo permetterò!» «Ma devo farlo. Se la svegliassi adesso non potrei più partire senza di lei, e invece devo andar via da sola. È per il suo bene, capisci?» singhiozzò Claire. «Lo faccio per salvarla!» Era vicina al crollo, pensò Chance. Sarebbe bastata una piccola spinta, e non sarebbe più partita senza la figlia. Ma lui non poteva darle quella spinta; anzi, doveva aiutarla come meglio poteva a partire da sola. Claire prese la sua valigia dall'armadio, poi scarabocchiò un nome e un numero di telefono su un foglietto di carta. «Questo è il numero di Susan, nel caso che tu ti debba mettere in contatto con me. Lei saprà sempre dove sono.» Portò la valigia vicino alla porta e aggiunse: «Mi raccomando, non dire a nessuno che è successo... Ho già avvisato Abner che Skye e io saremmo andate a are questi due giorni da un'amica e che ti avrei pregato di sorvegliare la nostra roulotte mentre noi eravamo assenti. Tieni Skye nascosta finché non arriva Susan, e se qualcun altro ci cerca di' loro quello che io ho detto a Marvel. Poi, quando Skye sarà al sicuro con Susan, potrai dire a Marvel che noi non siamo più tornate. È tutto chiaro? Hai capito bene?». «Sì, Claire. Sta' tranquilla.»

«Domani mattina aiuta Skye a raccogliere tutte le sue cose. Questo la distrarrà da... dal fatto che io sia dovuta andar via da sola. Dio... non so come farò a tirare avanti senza di lei... preferirei morire che essere costretta a lasciarla così!» «Allora non farlo, Claire. Troveremo una soluzione. Io vi aiuterò...» «Mi stai aiutando così, e io non posso fare diversamente. Pierce sta per...» Claire si interruppe, poi lo abbracciò stretto. «Mi mancherai molto, Chance. Non ti dimenticherò mai.» Dunque, era un addio. «Non ti vedrò mai più, vero?» disse lui con voce strozzata. «Oh, Claire... nemmeno io ti dimenticherò...» «Grazie» sussurrò lei aprendo la porta. «Di' a Skye che la vedrò presto e che l'amo più di ogni altra cosa al mondo. Diglielo, mi raccomando.» «Lo farò. Prometto.» Claire uscì nella bufera, e Chance tese la mano in un ultimo, vano tentativo di trattenerla. Ma ormai era troppo tardi.

Chance non chiuse occhio per il resto della notte e rimase seduto accanto al letto di Skye, a guardarla mentre dormiva e a domandarsi come avrebbe fatto a darle quella terribile notizia. Doveva aiutarla a superare il trauma, pensò. Avrebbe fatto del suo meglio nelle poche ore che mancavano all'arrivo di Susan, poi avrebbe detto addio a Skye come già aveva fatto con Claire e si sarebbe sforzato di andare avanti. Cercò di ignorare il vuoto che già sentiva nel petto. Sapeva che avrebbe rimpianto la loro amicizia per tutta la vita, e ripetersi che non poteva farci niente non attenuava il dolore della separazione. Finalmente Skye si svegliò e quando lo vide accanto al letto non si spaventò, anzi gli sorrise contenta. «Come mai sei qui? È già ora di colazione? Devo aver dormito troppo...» E allora, Chance glielo disse. Semplicemente, con la maggior calma possibile,

sperando in qualche modo di attutire il colpo con la sua voce bassa e priva di emozione. Ma non funzionò. «No!» urlò Skye balzando fuori dal letto. «Non ci credo, stai mentendo. La mamma non mi farebbe mai una cosa simile! Mamma!» gridò correndo nel soggiorno. «Mamma!» Poi tornò indietro e andò ad aprire il guardaroba. «Mamma!» E vide che gli abiti di Claire mancavano. Aprì i cassetti, frugò tra la biancheria che restava, poi si lasciò cadere sul letto e guardò Chance con un'aria sperduta che gli spezzò il cuore. «Mi ha lasciata!» «Ha detto che solo così tu saresti stata al sicuro. Aveva paura per te, e ha detto che era meglio che se ne andasse da sola...» «Non ci credo» urlò lei. «Non può avermi lasciata... aveva giurato che non lo avrebbe fatto mai!» E scoppiò in un pianto disperato. Chance l'abbracciò goffamente. «Non fare così, Skye. Andrà tutto bene, vedrai. Smetti di piangere, così ti racconto quel che faremo.» «Io vado a cercarla!» gridò lei respingendolo. Corse verso la porta, l'aprì e aggiunse: «E tu non puoi fermarmi!». In un balzo lui la raggiunse e la prese di nuovo tra le braccia, stringendola forte, cercando di comunicarle un po' di calore e di sicurezza. Skye lottò forsennatamente contro di lui, scalciò e si agitò, ma Chance continuò a tenerla stretta e finalmente la furia di lei si calmò. Scivolarono entrambi a sedere sul pavimento, e Chance accarezzò i capelli di lei consolandola come poteva e raccontandole tutti gli eventi della sera prima, parola per parola. Il ritorno di Claire dopo la telefonata, le sue spiegazioni frammentarie, il suo terrore e la fatica che le era costato prendere la terribile decisione di lasciare lì la cosa più preziosa che avesse al mondo, per proteggerla e salvarla. Quando Chance ebbe finito, Skye alzò gli occhi su di lui e commentò: «Dunque avevo ragione. Stavamo davvero scappando da qualcuno». Lui annuì. «Tua madre non voleva lasciarti, lo ha fatto soltanto per la tua sicurezza. Adesso starai con la sua amica per un po', e poi vi ritroverete.» «Ci ritroveremo» sussurrò Skye. «Allora non mi ha veramente lasciata... è solo per un po' di tempo. Non sarà per sempre.»

«No, non sarà per sempre» confermò lui ravviandole i capelli arruffati. «Ti ama più di qualsiasi cosa al mondo, e mi ha raccomandato di dirtelo. Coraggio, adesso finisci di fare i bagagli, così sarai pronta quando arriverà l'amica di tua madre. Lei ha detto che Susan sarebbe stata qui verso le dieci.» «Sì, però io non la conosco...» farfugliò Skye, subito impaurita. «Ma tua madre sì. Ha detto che la conosce da una vita e io non penso che ti affiderebbe mai a una persona di cui non si fida.» Skye si morse il labbro inferiore. «No, ma... ma voglio che venga anche tu con noi.» «Non è possibile, piccola. Però ti prometto che se questa Susan sembra un tipo strano o non ti piace, non ti lascerò andare con lei. Va bene?» «Ma perché non puoi venire con noi? Sei mio amico, e io non voglio lasciare anche te!» gemette Skye. Una lacrima rotolò lungo la sua guancia. Chance sentì un groppo in gola. «Non è possibile, davvero. Ma come hai detto tu, sono tuo amico e ti prometto che ci rivedremo.» Le sorrise. «Coraggio, adesso. Facciamo questi bagagli.» Con un sospiro, Skye obbedì.

Aspettarono e aspettarono, ma l'amica di Claire non arrivò quel giorno e nemmeno il giorno dopo. Chance provò a chiamare il numero che Claire gli aveva lasciato, ma rispose una segreteria telefonica e lui riappese senza dir nulla, perché lasciare un messaggio gli sembrava pericoloso. L'uragano aveva fatto parecchi danni e tutta la troupe era impegnata a rimediare come poteva, sicché nessuno ebbe il tempo di preoccuparsi se Madame Claire e sua figlia erano tornate o no. Il terzo giorno arrivò un investigatore privato, e quando Marvel lo portò alla roulotte Chance raccontò loro la storia che lui e Claire avevano concertato, augurandosi di essere convincente.

«Dunque non hai visto la donna e sua figlia dopo la sera dell'uragano?» insisté l'uomo. «No, signore.» Chance si sforzò di non gettare un'occhiata all'interno della roulotte e allo stretto guardaroba in cui Skye stava nascosta. «Come le ho detto, Claire mi ha chiesto di sorvegliare la loro roulotte mentre lei e Skye andavano da questi amici, ed è quello che ho fatto.» «Non sai dove vivono questi amici o come si chiamano?» «Non ho pensato di chiederlo. Non mi sembrava importante.» «E pensavi che sarebbero tornate?» «Be', sì, e infatti finora non è che mi sia preoccupato. Poi, visto che la pioggia era cessata, ho pensato che sarebbero dovute tornare e ho controllato nella roulotte e ho visto che le loro cose non c'erano più.» «Com'è che non hai pensato di controllare prima?» insisté l'uomo. Che tipo viscido e sfuggente, pensò Chance. Piuttosto che consegnargli Skye si sarebbe fatto tagliare a fette. «Be', come ho detto, pensavo che prima o poi sarebbero tornate.» «Strano» disse l'investigatore. «Voglio dire, eravate buoni amici e loro non ti hanno detto nemmeno dove andavano...» Si rivolse a Marvel e domandò: «Le dispiace se do un'occhiata qui dentro?». Era evidente che l'uomo non piaceva nemmeno a Marvel. «Sì, mi dispiace. Se ne sono andate, come dice il ragazzo. Perciò a che serve?» «E lei non trova un po' strana questa sparizione improvvisa?» «Nel nostro ambiente, no. Succede di continuo. Adesso, se vuole scusarci, abbiamo un mucchio di lavoro da fare e il ragazzo mi serve...» «Certo.» L'investigatore tese un biglietto da visita a Chance e disse: «Se per caso le vedessi o avessi loro notizie, chiamami. Potresti guadagnare mille dollari». Chance sgranò gli occhi fingendosi stupito. «Mille bigliettoni? Ma che hanno fatto, svaligiato una banca?»

L'uomo rise. «Niente del genere. Si tratta di un'eredità. Quelle due stanno per diventare molto ricche, e se tu mi aiuti a trovarle, poi ti ringrazieranno.» Certo, come no, pensò lui. E Claire era fuori di sé dal terrore perché qualcuno voleva darle dei soldi. Finse di studiare il biglietto, poi disse: «Se le vedo o le sento, la chiamerò di sicuro. Mille dollari mi farebbero proprio comodo». Vide che Marvel guardava da lui all'investigatore con evidente diffidenza, e pensò che forse aveva esagerato con la sua recita, ma Marvel non gli disse niente nemmeno quando l'uomo se ne fu andato. Chance ridacchiò e domandò: «Crede che dicesse la verità sulla faccenda dell'eredità di Claire?». «Può darsi. Ma sembra piuttosto strano che ci sia qualcuno così ansioso di dar via dei soldi da assumere un tizio come quello, che di sicuro non è a buon mercato.» Poi si schiarì la gola e aggiunse: «Le riparazioni al generatore sono quasi finite, perciò possiamo partire domani appena fa giorno. Se vuoi puoi dormire ancora qui, stanotte. Ma se per domani Claire e Skye non sono tornate, la roulotte mi servirà per qualcun altro». «Sì, certo» disse Chance. «La lascerò libera domattina per prima cosa.» «Coraggio, adesso torniamo al lavoro» concluse Marvel. E lui lo seguì, lasciando Skye nel suo nascondiglio. Ripensò alle sue parole per il resto del pomeriggio. Marvel si aspettava che lasciasse libera la roulotte: perciò lui doveva prendere una decisione riguardo a Skye, perché ormai era chiaro che l'amica di Claire non sarebbe più venuta. Non potevano restare al Luna Park. Skye era minorenne, e quando Marvel avesse scoperto la sua presenza sarebbe stato costretto ad avvertire i servizi sociali o, peggio ancora, la polizia o quel maledetto investigatore privato. L'uomo aveva lasciato il suo biglietto a tutti quanti. Se uno della troupe avesse visto Skye, si sarebbe fatto in quattro per avvertirlo e guadagnarsi i mille bigliettoni promessi. Chance estrasse di nuovo il biglietto da visita e lo esaminò. Era un articolo di lusso, su carta pesante, con le lettere in rilievo. Diceva che gli uffici investigativi avevano sede a Chicago, Dallas e Los Angeles. Sì, i servigi di quel tizio non dovevano essere a buon mercato. E chi poteva permettersi di pagare fior di bigliettoni uno come lui? Se non la mafia, chi altri? Forse, la teoria di Skye non era poi così campata in aria... e allora, lui non poteva consegnarla nelle mani dell'investigatore o permettere che lo fe qualcun

altro. Doveva fuggire con lei. Ma così, se mai Claire fosse tornata al Luna Park non avrebbe più ritrovato la figlia... Sempre che volesse ritrovarla, pensò Chance in un lampo. Ma se avesse voluto semplicemente mollarla e andarsene, avrebbe sofferto tanto all'idea di dover partire? Claire voleva bene alla figlia, non l'avrebbe mai abbandonata se non ci fosse stata costretta. E qualcosa o qualcuno l'aveva costretta a fuggire. Claire era spaventata, su questo non c'erano dubbi. E l'aveva supplicato di prendersi cura di Skye. Lui non poteva venire meno alla promessa che aveva fatto. Quella sera parlò a Skye, mettendo le carte in tavola con chiarezza. Potevano scegliere tra due possibilità, disse. Potevano fuggire insieme, quella notte stessa; oppure potevano aspettare l'amica di Claire per un altro paio di giorni, e poi magari chiedere aiuto a Marvel, con il rischio che lui chiamasse l'investigatore o la polizia. Skye prese subito la sua decisione. E quella notte, mentre tutti dormivano, lei e Chance se ne andarono.

9

L'autunno arrivava presto a Horizon's End. Era solo il cinque di agosto, ma i boschi intorno allo chalet erano già variegati di giallo e arancio. Questo non significava che non ci potesse essere ancora un'ondata di caldo come era successo un paio d'anni prima, quando il termometro era tornato ai trenta gradi per tutta l'ultima settimana del mese. In quell'occasione, i proprietari delle eleganti ville che popolavano la riva del lago Horizon per sfuggire all'afa delle città si erano lamentati aspramente di quel caldo inaspettato. Gli abitanti del luogo, che sapevano quanto il clima fosse mutevole, si erano limitati a sorridere. Griffen, diciotto anni appena compiuti, sedeva sul terrazzo dello chalet di famiglia e ascoltava distrattamente la conversazione tra suo padre e Adam. La famiglia Monarch ava le estati nella magnifica realizzazione di un allievo di Frank Lloyd Right, tutta pietra e vetro, inserita nel panorama selvaggio senza quasi modificarlo. L'unica differenza tra quell'ultima estate e le precedenti era che in autunno Griffen sarebbe partito per l'università Northwestern, dove avrebbe frequentato la facoltà di amministrazione aziendale. Dopo la laurea, che prevedeva di ottenere a pieni voti, avrebbe preso il suo posto nell'azienda di famiglia per sostituire un giorno suo padre alla presidenza. Griffen sorrise dietro gli occhiali da sole, pensando ai suoi progetti per la serata. Aveva appuntamento con una ragazza del posto, conosciuta quella mattina all'ufficio postale. Un'autentica meraviglia dai capelli color miele, la pelle di pesca, e un paio di tette sode come rocce che sembravano fatte apposta per essere strizzate da una mano maschile, cosa che lui aveva intenzione di fare ripetutamente, oltre a parecchie altre cosette. Sì, la vita era stata generosa con lui. Griffen non peccava di falsa modestia, una virtù adatta ai perdenti. Era bello, intelligente, ricco. Poteva avere tutte le ragazze che voleva. Aveva un cervello di prim'ordine, grazie al quale gli studi erano sempre stati ridicolmente facili. E le poche porte che non poteva aprire con la bellezza, l'intelligenza o lo charme, si spalancavano non appena lui pronunciava il nome dei Monarch. Aveva tutto quello che desiderava... eccetto una cosa, quella che desiderava di più. Sua sorella. La sua Grace.

Una farfalla venne a posarsi sul bracciolo della sua poltrona. Con estrema cautela, lui allungò la mano e chiuse le dita intorno all'insetto, intrappolandolo; ne strofinò lievemente le ali vellutate, poi le strappò a una a una, sempre pensando alla sorellastra. Non ava giorno in cui non fantasticasse sulla loro riunione e non pregustasse il momento in cui finalmente sarebbe avvenuta. Perché era destino che accadesse, lui lo sapeva. Ne era certo. Quanto detestava Madeline che gliel'aveva portata via, e quanto detestava la debolezza di suo padre che lo aveva permesso! Quel giorno, sette anni prima, quando al ritorno da scuola aveva scoperto che Madeline gli aveva rubato la sua Grace, si era infuriato; poi aveva giurato a se stesso che un giorno avrebbe fatto pagare a entrambi, suo padre e la sua matrigna, la loro stupidità e il loro egoismo. Sorridendo tra sé strofinò tra le dita il corpicino ancora vivo dell'insetto e provò un attimo di eccitazione. A volte, quando era a letto con un'altra donna, gli bastava pensare al momento in cui avrebbe rivisto Grace per esplodere in un orgasmo violentissimo. Forse sarebbe stato così anche quella sera, con la ragazza dell'ufficio postale. Ma a volte succedeva il contrario. A volte non riusciva a evocare l'immagine di Grace, e allora non trovava soddisfazione in nessun modo. In quei casi, la sua ira e il suo odio raggiungevano il parossismo, e lui finiva per vendicarsi sulla sua occasionale compagna. Sentì il nome di Grace e aprì gli occhi. Suo padre stava dicendo in tono lamentoso che non era colpa sua se Madeline e Grace gli erano di nuovo sfuggite. Aveva assunto i migliori investigatori, ma non era bastato... Griffen fece una smorfia. Suo padre piagnucolava come un bambino e gli faceva venir voglia di vomitare. Aveva ragione, Adam, di essere furibondo e di trattarlo male. Solo poche sere prima avevano celebrato tutti insieme il ritorno imminente di Grace... e poi suo padre era tornato a casa con la coda tra le gambe e con la notizia che quelle due gli erano sfuggite di nuovo. Un'inaccettabile prova di inettitudine. «Per l'amor del cielo, devi proprio continuare a fare quel giochetto disgustoso?» esclamò suo padre accennando alla farfalla spiaccicata. «Credevo che ormai

fossi cresciuto!» Tipico, pensò Griffen con disprezzo. Quando si sentiva messo sotto accusa Pierce se la prendeva con il primo che gli capitava a tiro, il figlio, un dipendente, la servitù. Davvero patetico. «E io credevo che stavolta fossi riuscito a concludere qualcosa di buono» ribatté. «Sono sette anni che cerchi Madeline, e sei ancora al punto di partenza.» Pierce arrossì di rabbia. «Non è colpa mia. Ci dev'essere qualcuno che le mette sull'avviso, e così loro riescono sempre a sfuggirci.» «Non usare il plurale, papà» sibilò Griffen. «La colpa è solo tua. Sei tu che le hai lasciate andar via anni fa.» «Vorrei proprio sapere chi è che avverte Madeline ogni volta» continuò Pierce rivolgendosi al padre. «Se è Dorothy, giuro che gliela farò pagare!» «Non dire idiozie» replicò Adam secco. «Questa volta è stata Dorothy a trovarle. Se non fosse stato per lei non avremmo avuto la minima traccia.» Griffen intervenne con un sorrisetto maligno. «Forse Madeline non ha avuto bisogno di essere avvertita da nessuno. Non hai detto che aveva dei poteri speciali? Può darsi che abbia previsto l'arrivo del tuo investigatore, no?» Pierce arrossì ancora di più. «Non sottovalutare le sue capacità. Potrebbe essere andata proprio così.» «Ma fammi il piacere!» fece Griffen sprezzante. «Non vorrai dirmi che credi sul serio a queste fesserie!» Adam sbuffò. «Piantatela, tutti e due. Non voglio mai più sentir parlare dei poteri di quella donna, e non voglio che altri sappiano di questa stupida storia. Ci mancherebbe solo che arrivasse alla stampa!» Poi si alzò e si accostò al parapetto, osservando il lago. «Dobbiamo smettere di incolparci l'un l'altro dei nostri fallimenti, e darci da fare. Io ho bisogno di mia nipote. L'azienda non può più andare avanti così.» Quando si voltò verso di loro, Griffen vide che i suoi occhi scintillavano di collera. «Quest'anno, alla Fiera del Design di Milano non abbiamo avuto nemmeno una menzione d'onore» continuò Adam. «Niente di niente. Una vergogna! Le creazioni di Dorothy sono sorate, prive di smalto e

di fantasia. Mia sorella ha perso il dono. Sentiamo, signor Presidente, che cosa proponi?» Pierce si agitò nervosamente sulla sedia. «Ho fatto qualche ricerca. Ci sono due o tre persone che sembrano promettenti e sarebbero disponibili...» «Persone?» ripeté Adam. «Che persone?» «Designer. Creatori pieni di talento. Ci sarebbe Marcel Louckes, che adesso lavora per Tiffany. O la creatrice di Van Cleef & Arpels, Vanessa St. Pierre...» «Questo mai!» ruggì Adam traversando la terrazza e fermandosi davanti al figlio. La sua figura imponente torreggiava su quella di Pierce, che sembrava ancora più debole e patetico. Griffen li osservò entrambi con una smorfia. Adam non permetteva a nessuno di intralciargli il cammino, e lui aveva intenzione di diventare esattamente come il nonno. Forte nella mente e nel corpo. Non come suo padre, che a soli quarantun anni aveva già avuto un attacco di cuore e adesso girava portandosi appresso quelle ridicole pillole di nitroglicerina. «Non suggerirmi mai più di assumere un estraneo per creare i modelli dell'azienda!» esclamò Adam. «Non lo faremo mai. Mai, capito?» «Ma che altro dobbiamo fare?» piagnucolò Pierce. «Dimmelo tu!» «Ritroviamo quella maledetta ragazza» gridò Adam, «ecco che dobbiamo fare! Gesù, è possibile che tu non lo capisca?» Pierce balzò in piedi con due chiazze rosse sulle guance. «Ma come sai che Grace ha il dono? Non la vediamo da quando aveva cinque anni! Potrebbe non averlo mai avuto, e anche se la trovassimo potrebbe non acconsentire a lavorare per noi! Come sappiamo che Madeline non le ha parlato male della famiglia e dell'azienda? Come sappiamo che non l'ha sobillata contro di noi?» «Acconsentirà» disse Adam caparbiamente. «La ditta Monarch è il suo destino, lo capirà anche lei. E se anche all'inizio non fosse d'accordo, troveremo il modo di convincerla. Sai bene che ci sono mille sistemi. Una volta che Madeline sarà in prigione, Grace non darà più alcun peso alle sue parole. Si abituerà presto a vivere nel lusso, ad avere tutto ciò che vuole. E in breve odierà sua madre per averla privata di tutto questo.» Si chinò sul figlio e lo guardò dritto negli occhi. «Quanto al dono, sono certo che ce l'ha. Lo so. E lo sai anche tu. Cerca di

collaborare, Dio santo!» «Ma ho cercato di collaborare, in tutti i modi» protestò Pierce. «Ho divorziato da Madeline, mi sono risposato, ho avuto un'altra figlia!» «Che adesso è morta» gli ricordò Adam. «Perché quella vacca alcolizzata di tua moglie non è stata capace di badare alla sua bambina e l'ha lasciata annegare nella vasca da bagno! Non che potesse sostituire Grace, comunque. Grace è unica, com'è unico il suo dono. E io l'ho constatato, anche se aveva solo cinque anni.» In effetti, pensò Griffen, anche lui ricordava le semplici prove a cui il nonno aveva sottoposto Grace, e i risultati strabilianti che aveva ottenuto. L'aveva portata in laboratorio e in negozio, le aveva fatto scegliere delle pietre o dei gioielli finiti, e lei aveva sempre indicato i pezzi migliori, con intuito infallibile. E aveva cominciato a disegnare fin dall'età di tre anni, ma non faceva i soliti scarabocchi dei bambini: i suoi erano disegni dettagliati e bellissimi, proprio come quelli di Dorothy alla stessa età. Sì, Grace aveva il dono dei Monarch, e avrebbe rinnovato la fortuna dell'azienda. Griffen ne era più che convinto. «Se tu fossi stato un vero uomo» aggiunse Adam sprezzante, «avresti saputo trovare il modo di tenerti tua figlia. E adesso Grace sarebbe qui, con noi! L'azienda ne ha bisogno, capisci? La Monarch ha bisogno di lei. Non importa se dovremo spendere tutte le nostre sostanze per riportarla qui. La rivoglio a qualsiasi costo, è chiaro? A qualsiasi costo!» «Dici sul serio, nonno?» domandò Griffen. «Perché se è così, mi impegno io a riportarla in famiglia. E quando l'avrò ritrovata, farò in modo che non ci lasci mai più.»

10

Durante le prime ore di fuga, Skye non si staccò mai da Chance. Quando lui entrò nella toilette di una stazione di servizio, a metà della mattinata, lei rimase attaccata alla maniglia della porta chiusa, piagnucolando per la paura di essere abbandonata un'altra volta. E a quel punto, la realtà colpì Chance con violenza. Nella relativa sicurezza della roulotte, non aveva pensato alle conseguenze di fuggire con una bambina; ma adesso capiva quali responsabilità si fosse assunto, ed era terrorizzato. arono la prima notte sotto un ponte della ferrovia, stringendosi uno all'altro per combattere insieme il primo freddo autunnale e la paura ancestrale del buio. In realtà non dormirono affatto. Skye stava immobile, aggrappata a lui, e Chance rifletteva febbrilmente sul futuro, che si presentava nero quanto mai. Non aveva lavoro, non aveva un posto in cui vivere, sapeva a malapena badare a se stesso... come poteva occuparsi di una bambina di soli dodici anni? L'unica scappatoia era telefonare a quell'investigatore privato. Ma subito dopo averlo pensato Chance rivide l'espressione di Claire quell'ultima sera, i suoi occhi sbarrati per il terrore, il viso pallidissimo, la voce spezzata. Non poteva aver finto tanta disperazione. E lui non poteva tradire la fiducia di Claire e consegnare Skye a chissà quale destino. Non gli restava che una cosa da fare: badare a lei per qualche tempo, in attesa che si presentasse una soluzione migliore. Fortunatamente aveva risparmiato quasi tutto ciò che aveva guadagnato al Luna Park. Per un poco non sarebbero morti di fame, e intanto potevano sistemarsi da qualche parte mentre lui si cercava un lavoro. E poi... Skye si era assopita e gemeva nel sonno. Forse sognava di sua madre. Chance si domandò per l'ennesima volta dove fosse finita e perché la sua amica non si fosse fatta viva. Forse era successo qualcosa di terribile a tutt'e due. Stirò le gambe intorpidite, e Skye si destò dal dormiveglia e si aggrappò al suo

braccio con un grido. Per un attimo lui si sentì intrappolato, soffocato dalla situazione. Aveva lasciato la casa di sua zia per farsi una vita indipendente, e si ritrovava con una bambina sulle spalle! Chance respirò profondamente per farsi coraggio. La situazione sarebbe cambiata, pensò. Skye non sarebbe rimasta eternamente bambina, e a un certo punto avrebbe potuto badare a se stessa. Fino a quel momento, lui aveva il dovere morale di occuparsi di lei. «Sta' tranquilla, Skye» sussurrò. «Non vado da nessuna parte. Cercavo solo di mettermi più comodo.» Lei tacque per un poco, poi sussurrò di rimando: «Che faremo, Chance? Dove andremo? Ho tanta paura...». «Non devi aver paura. Ce la caveremo, vedrai. Ci sono qua io, e ti prometto che non ti abbandonerò.»

Due giorni dopo aver lasciato Skye con Chance, Claire cominciò a chiamare Susan. Non ebbe risposta, ma non si preoccupò troppo perché sapeva che il viaggio fino a Ridely con il maltempo poteva aver richiesto più del previsto. Forse Susan si era addirittura fermata da qualche parte per aspettare che l'uragano asse. Ma il secondo giorno, quando non ebbe risposta alle diverse telefonate, cominciò a preoccuparsi. Provò la mattina presto, poi di nuovo a mezzogiorno, a metà pomeriggio, all'ora di cena e alle undici di sera. Allora chiamò il servizio abbonati, e una voce la informò che il numero non era più in servizio. Claire riappese, angosciata. Doveva essere successo qualcosa di terribile. Skye aveva bisogno di lei, perciò doveva tornare indietro, al più presto. Ma prima doveva scoprire che cosa era successo a Susan. Corse in macchina, frugò nel cassetto del cruscotto e finalmente trovò una carta stradale dell'Indiana. Localizzò Notre Dame, la città in cui Susan insegnava, e fece un calcolo approssimativo del tempo che le ci sarebbe voluto per arrivarci. Per depistare Pierce, aveva fatto un percorso a zig-zag verso sud, toccando St.Louis, Memphis, Nashville e arrivando infine ad Atlanta. Adesso doveva

risalire verso nord. Se avesse guidato a velocità regolare, sarebbe potuta arrivare in dieci, dodici ore. Finì per fare più in fretta del previsto e arrivò davanti al cottage di Susan verso le quattro del pomeriggio. Scese di volata, corse fino alla porta e cominciò a suonare il camlo e a picchiare sul battente con i pugni. «Susan! Susan, aprimi, sono io!» «Ehi, signora!» chiamò una voce. «Posso aiutarla?» Claire si volse, vide una donna sulla soglia della casa vicina e corse verso di lei attraversando il prato. Doveva avere un aspetto spaventoso, pensò. Erano due giorni che non si cambiava, aveva i capelli arruffati come una strega e la faccia allucinata. La donna la guardò perplessa e fece un o indietro. «Sto cercando di mettermi in contatto con la mia amica Susan Willis da due giorni» disse in fretta, «ma non risponde nessuno. Questa è casa sua, vero?» La donna la guardò con una strana espressione. «Sì, ma Susan...» Le si inumidirono gli occhi. «Mi dispiace tanto... Susan è morta.» «Morta?» gridò Claire sconvolta. «Non può essere! Morta... ma come?» «È stato un incidente, due o tre notti fa. Pioveva a dirotto, e lei era in macchina. C'è stato uno scontro frontale con un camion. Mi dispiace tanto...» Claire fissò la donna senza vederla. Non poteva essere vero. Susan non poteva essere morta, la sua unica amica, la sua confidente... E Skye? C'era Skye, con lei? Claire barcollò e si portò la mano al petto con un grido, disperata. «Aspetti, venga a sedersi» disse la donna premurosa. «Ha avuto uno choc. Adesso le porto un bicchier d'acqua.» Claire sedette su una poltroncina di vimini e si abbracciò stretta, dondolando avanti e indietro. Susan era morta. La sua migliore amica, la sua unica speranza, morta. E Skye? Oh, Dio, Skye... Purché fosse in salvo... «Mi dispiace tanto» mormorò la donna ricomparendo con un bicchiere in mano. «Susan era una persona così dolce e gentile, le volevamo tutti un gran bene...»

Claire afferrò la donna per un braccio. «Era da sola?» domandò in un sussurro concitato. «Sì. Era a sud di qui, verso Culver. Chissà perché si era messa in macchina con quel tempo orribile... Comunque era sola, ed è morta sul colpo.» Claire abbassò la testa fra le mani, vergognandosi del sollievo che provava. Povera Susan, era morta per colpa sua, per fare quello che lei le aveva chiesto, ma l'incidente era successo prima che arrivasse da Skye. Grazie a Dio, Skye era salva... No!, pensò in un lampo. Se Susan non l'aveva portata via, questo significava che forse Pierce era arrivato fino al Luna Park e adesso aveva Skye! Claire balzò in piedi, in preda alla nausea. Skye poteva essere dovunque... e chissà con chi! «Devo andare» disse alla donna. «Grazie di... di tutto. Devo proprio andare.» «Ma è sicura di sentirsi bene? Non sarebbe meglio che riposasse un po'?» «Non posso, davvero. La ringrazio, ma... mia figlia è sola, e devo correre da lei.»

Le luci e i suoni del Luna Park erano assordanti come sempre, ma Claire sentiva soltanto il battito sordo del cuore. Aveva cercato Abner Marvel nell'assurda speranza che Chance e Skye viaggiassero ancora con la troupe, e adesso non riusciva quasi a trovare la voce per fargli la domanda fatale. «Dov'è Chance?» disse finalmente. «Ho bisogno di parlare con lui, è molto importante!» Abner la guardò corrugando la fronte. «Se n'è andato tre o quattro giorni fa. Sono andato a parlargli di te e di tua figlia, e quella è stata l'ultima volta che l'ho visto.» Se n'era andato, pensò Claire. Ma allora, sua figlia dov'era? «Per caso Skye era con lui?» domandò ancora.

Marvel scrollò la testa, sempre più perplesso. «No... Chance mi ha detto che Skye era con te, che eravate andate via tutt'e due la notte dell'uragano. Perché, non è così?» «Sì, è quello che... infatti, ma... insomma, non l'hai vista?» «Mi dispiace, Claire. Non l'ho più vista.» Lei si strinse le braccia al petto, lottando contro un attacco di nausea. La sua bambina. Dov'era la sua bambina? «Oh, il giorno prima che Chance se ne andasse è venuto un tale a cercare di voi. Un investigatore privato. Ha lasciato il suo biglietto a tutti quanti.» «Un... investigatore?» ripeté Claire con la gola arida. «E che cosa voleva?» «Te l'ho detto, cercava te e tua figlia. Ho tenuto il suo biglietto, nel caso che tu fossi tornata e ti interessasse. Ha detto che doveva parlarvi di un'eredità...» Marvel tolse un cartoncino dal portafoglio e glielo porse. «Io gli ho detto che ve ne eravate andate, e Chance gli ha detto la stessa cosa.» Claire guardò il biglietto e riconobbe il nome dell'agenzia. Era molto nota a Chicago, e lei ricordava che Adam Monarch se n'era servito in altre occasioni. «Quell'uomo ha parlato di una grossa eredità» ripeté Marvel. «E ha detto che ci sarebbe stata una ricompensa per chiunque lo aiutasse a ritrovarvi.» Guardò Claire dritto in faccia e aggiunse: «Mille dollari». Lei captò l'avvertimento nel tono di lui. Marvel sapeva. Non tutti i dettagli, naturalmente, ma aveva intuito qualcosa. «Mi dispiace molto che tu sia nei guai» disse infatti l'uomo. «Eri la miglior veggente che io abbia mai avuto.» Lei gli prese le mani con un gesto supplichevole. «Non dirai a nessuno che mi hai vista, vero? E che Skye e io non siamo insieme. Ti prego, Abner. È molto importante!» «Infatti, non ti ho vista» disse lui stringendole le mani. «Adesso va', e buona fortuna.»

«Oh, grazie!» esclamò lei con le lacrime agli occhi. «Grazie di tutto!» Si volse per andarsene, ma lui la richiamò. «Claire... spero che tu ritrovi tua figlia quanto prima. È una peste, ma le eravamo tutti affezionati.» Lei gli fece un cenno e si allontanò, soffocata dalle lacrime.

Chance e Skye presero un ritmo di vita abbastanza regolare. Si spostavano spesso, fermandosi dove Chance trovava un lavoro qualsiasi e dormendo in pensioncine a buon mercato o in piccoli motel. Quei posti spaventavano Skye. Erano squallidi, cadenti, spesso sporchi, e quelli che ci abitavano erano esattamente il tipo di persone che sua madre le aveva sempre raccomandato di evitare. A volte, quando Chance era al lavoro e lei restava in camera da sola, si accoccolava sotto le coperte e cercava di dormire per non sentire i suoni che filtravano dalle pareti sottilissime: pianti di bambini, strani fruscii, grida, i di persone nei corridoi. Le sembrava un secolo da quando si era sentita coraggiosa e sicura di sé. Adesso aveva paura di tutto, ma soprattutto di perdere Chance. Si tirò la rozza coperta fino al mento. La camera del motel era buia e cupa, e lei non voleva nemmeno guardare negli angoli, dove potevano annidarsi topi o scarafaggi. Chance aveva trovato lavoro per una settimana circa, come aiuto muratore. Erano ormai due giorni che andava via all'alba e tornava la sera tardi. Ed era così esausto che aveva appena la forza di mangiare, fare una doccia e crollare a letto. Uscendo la mattina le ordinava di chiudersi dentro e di non aprire a nessuno, e soprattutto di non uscire per strada. Ormai le scuole erano ricominciate da un pezzo, e lei avrebbe dato nell'occhio andando a zonzo durante il giorno. Inoltre Chance aveva paura che potesse essere presa dalla polizia o da un assistente sociale, o magari rapita da qualche malvivente. Anche lei era spaventata da quella prospettiva, ma niente la spaventava di più che il timore di non vederlo tornare da lei ogni sera. Chance le aveva giurato che non sarebbe accaduto, ma anche sua madre le aveva sempre promesso la stessa cosa, e poi se n'era andata abbandonandola...

Skye si abbracciò le ginocchia, cercando di inghiottire le lacrime. Sentiva terribilmente la mancanza di Claire, ma soffriva soprattutto perché era convinta che sua madre avesse smesso di volerle bene. Chance le ripeteva continuamente che non era così, ma lei era sicura del contrario. Claire si era stancata di lei e aveva deciso di andarsene come aveva fatto tante volte in ato, senza voltarsi indietro. Ma questa volta se n'era andata da sola. Skye dondolò avanti e indietro, lottando disperatamente per non piangere. Era stufa di piangere, stufa di essere sola e di aver paura, stufa di quei posti orribili dove tutti gridavano, come in quel momento, in una camera vicina, da cui venivano le grida di una voce maschile, il tonfo di qualcosa che cadeva, il lamento di dolore di una donna... Si coprì le orecchie con le mani per non sentire. Voleva andar via di lì. Voleva la sua mamma, voleva che la tenesse abbracciata e la consolasse, voleva che le dicesse che era stato soltanto un brutto sogno... Scoppiò in lacrime e pianse fino a non poterne più, fino a quando non le rimase una singola lacrima in corpo e non ebbe più nemmeno la forza di lamentarsi. Poi si appoggiò al cuscino, esausta, e fissò il soffitto screpolato. Non aveva nessuno, pensò. Le restava solo Chance. Bisognava fare in modo che lui arrivasse a volerle bene, talmente bene che non avrebbe potuto lasciarla mai più.

Skye mantenne fede alla promessa che si era fatta e si impegnò con tutta se stessa per guadagnarsi l'amore di Chance. Teneva scrupolosamente pulita la loro camera. Faceva continuamente dei disegni divertenti da regalargli, lo accoglieva con grande allegria quando lui tornava a casa la sera e gli lasciava guardare quel che voleva in TV. E per non tormentarlo, non gli aveva nemmeno ricordato che quel giorno era il suo compleanno, ma lui se n'era ricordato comunque e prima di andare al lavoro le aveva fatto gli auguri, promettendole di tornare presto con una sorpresa. Skye uscì dalla vasca da bagno, si asciugò e si vestì scegliendo il paio di jeans meno consunto che aveva. Poi si osservò nello specchio macchiato, concedendosi un piccolo sorriso. Chance si era ricordato del suo compleanno... forse voleva dire che cominciava a volerle bene, forse quel giorno sarebbe stato davvero un giorno felice. Forse stava per cominciare un periodo migliore, più tranquillo, senza paure e senza incubi.

Lei non aveva parlato a Chance degli incubi che aveva spesso. Quando succedeva e lei si svegliava di soprassalto, restava immobile nel buio finché non sentiva il respiro tranquillo di Chance nel lettino accanto. Allora si sforzava di calmarsi, e a poco a poco riprendeva sonno. Ma quel giorno non voleva pensare agli incubi. Voleva essere felice, perché era un giorno speciale e lei voleva festeggiarlo a dovere. Si pettinò i capelli umidi, ormai molto lunghi, e li raccolse in una treccia che fermò con un elastico colorato. E poco dopo sentì i i di Chance che rientrava. Gli corse incontro, sorridendo: «Sei riuscito ad arrivare presto, che bello!». «Naturale che ci sono riuscito. Te l'avevo promesso, no?» Chance mise la mano nella tasca del giaccone e ne trasse un pacchetto che le mise in mano. «Buon compleanno.» «Oh, Chance, grazie!» esclamò Skye abbracciandolo. «Ehi, che entusiasmo» rise lui. «Non l'hai nemmeno aperto, e ti avverto, non è gran che.» «Oh, non importa. Basta che tu te ne sia ricordato!» Skye sedette sul letto e lacerò la carta, la pagina a fumetti di un giornale, emettendo un grido di gioia quando vide che si trattava di una scatola di pastelli. «La signora del negozio mi ha detto che erano i migliori. Da professionisti, ha detto.» «Sono magnifici» disse Skye carezzando i pastelli con gli occhi lucidi. «Li ho sempre desiderati, ma la mamma diceva che erano troppo costosi e che io non ero ancora abbastanza grande.» «Be', adesso lo sei. Hai tredici anni!» Chance sedette sul letto accanto a lei. «Coraggio, provane uno.» Lei scelse una delicata tonalità di rosa e ne provò la punta sul dorso della mano. Era morbido, vellutato e brillante allo stesso tempo. Mille volte meglio dei pastelli dozzinali che usava di solito, con le mine fragili che si spezzavano subito e con i colori duri e gessosi. «Sono magnifici...» ripeté mentre una lacrima le rotolava lungo la guancia.

«Ehi, non diventerai melensa? Ricordati che sei una tipa tosta. E poi dobbiamo andare a una festa.» «Una festa? Di chi? Dove?» «La tua, stupidona. E vedrai dove quando ci saremo arrivati.» La portò dapprima nella pizzeria vicino al motel, dove Skye scelse un'enorme pizza con su tutto il possibile, carciofini e prosciutto, peperoni e formaggio; e quando si furono rimpinzati andarono nella sala giochi che Skye aveva occhieggiato più volte, senza avere soldi da sprecare per flipper o videogiochi. Giocarono a tutti i giochi possibili, e quando infine tornarono al motel Chance aveva un'ultima sorpresa: una torta con tredici candeline. Skye espresse un desiderio prima di spegnerle, e pensando a sua madre ebbe di nuovo voglia di piangere. Voleva che tutto tornasse come prima, pensò. Voleva sua madre. Poi si sentì un verme ingrato e sussurrò: «Ti chiedo scusa...». «E di che?» «Di questo... del fatto che sto piangendo. E non capisco perché, visto che è stato il giorno più bello della mia vita!» «Sono contento che ti sia piaciuto. Volevo che fosse un giorno speciale. «Lo è stato!» disse lei appoggiandogli la testa sulla spalla. «E allora, come ci si sente a essere una vecchia ragazza di tredici anni?» «Non saprei. Sono cambiate molte cose, ma io non mi sento diversa. Mi sembra di essere la stessa vecchia Skye di sempre.» «Meno male» rise lui. «Perché è alla vecchia Skye che mi sono abituato.» Lei sorrise. «Sei il mio migliore amico» disse. «Grazie, piccola. Hai detto una cosa molto bella.» Solo più tardi, mentre cercava di dormire, Skye si rese conto che Chance non le aveva detto di considerarla la sua migliore amica, e neanche di volerle bene.

11

In piedi sul ponte di Fort Pitt, Claire guardava l'acqua scura dell'Ohio che rifletteva le luci lontane di Pittsburgh. Tredici anni prima aveva tenuto fra le braccia la sua bimba appena nata: aveva guardato quel faccino roseo, quelle manine minuscole e perfette, e si era innamorata davvero per la prima volta. Quello era stato il momento più felice della sua vita, come questo era il più terribile. Claire alzò il viso verso il cielo notturno. Soffiava un vento freddo che faceva ondeggiare il suo cappotto liso e le gelava le mani. Una notte giusta per morire, pensò. Era stanca, svuotata, senza più uno scopo per vivere. Grace era stata il suo scopo nella vita, ma ormai non aveva più nemmeno quello. Non era stata capace di proteggerla. Forse non l'aveva amata abbastanza, e così l'aveva perduta. Un singhiozzo le salì alla gola, e lei lo trattenne senza sapere perché. Nessuno poteva sentirla, non c'era ragione di non piangere... Ma quel minimo autocontrollo era l'ultima traccia di dignità che le rimanesse. Non aveva più nulla, solo la dignità... e le gemme... La sua mano si chiuse intorno al sacchetto che portava appeso al collo sotto gli abiti. Aveva tanto sperato di poterle utilizzare per ricominciare una vita con Skye, quando l'avesse ritrovata; ma aveva ato mesi e mesi alla sua ricerca, senza risultato. Aveva percorso chilometri e chilometri, ando da una cittadina all'altra, mostrando in giro la foto di Skye e chiedendo a tutti se l'avevano vista, da sola o con un ragazzo biondo sui diciotto anni. Ma nessuno aveva saputo darle indicazioni. Erano ati quasi quattro mesi, e Skye poteva essere dovunque. Claire sapeva che non era con Pierce, perché aveva telefonato a Dorothy che, ovviamente, la credeva ancora in compagnia di sua figlia. Pierce non aveva fatto più progressi di lei, e questa era una piccola consolazione. Ma ormai, Claire aveva il terrore che Skye non si trovasse perché non c'era più. Perché era morta.

Infatti, le sue visioni e gli incubi erano cessati di colpo. Claire non vedeva più i mostruosi uccelli da preda che cercavano di afferrare Skye e non sentiva più le grida di aiuto di sua figlia. Ormai, nella sua mente c'era solo il nulla. Un cupo, profondo nulla. Claire osservò lo stretto aggio al di là del guard-rail. Sarebbe bastato un salto, pensò. Ormai, che senso aveva continuare a vivere? Non avrebbe mai più ritrovato sua figlia, non aveva lavoro, non aveva denaro per continuare le ricerche. La morte le avrebbe dato la pace, e forse nell'aldilà avrebbe avuto le risposte che cercava. Scavalcò il guard-rail, tenendosi con un braccio al bordo della ringhiera. Ormai, anche le gemme non servivano più. Si era illusa di poterle usare per salvare Skye, ma la sorte aveva deciso altrimenti. Le avrebbe gettate in acqua, a una a una, e poi le avrebbe seguite. Aprì il sacchetto, strinse le gemme tra le dita, e ricordò la visione che aveva avuto tanti anni prima, nella nursery. Acqua gelida, un corpo risucchiato sotto la superficie. Che ironia... quel corpo era il suo! Chiuse gli occhi e immaginò il freddo, i polmoni che lottavano per immettere aria, i disperati tentativi di sopravvivere... e poi, finalmente, l'oblio. Buon compleanno, bambina mia. Ti voglio tanto bene. Perdonami. E allora, una visione si formò sotto le sue palpebre chiuse. Un uomo e un ragazzino, tanti alberi intorno, una radura affollata di gente. Innominabili orrori, un grido di aiuto... Doveva correre. Non c'era più tempo, il ragazzino era in pericolo! Le visioni si susseguirono, sempre più nitide, dominate dalla faccia del ragazzo. Claire lo conosceva, lo aveva visto sui giornali e sui manifesti affissi agli angoli delle strade. Era scomparso, forse era stato rapito... ma adesso lei sapeva con certezza che era ancora vivo! Aprì gli occhi e quasi si stupì di trovarsi sullo stretto marciapiede che costeggiava il ponte. Scavalcò in fretta la ringhiera. Quel ragazzo aveva bisogno di lei, e questo sarebbe bastato a dare un nuovo scopo alla sua vita.

12

In effetti, avere tredici anni portò un cambiamento nella vita di Skye. Nelle settimane e nei mesi che seguirono al suo compleanno, cominciò a provare un'irrequietezza, uno scontento che non sapeva definire e che a volte la portava fino alle lacrime. ava dalla gioia alla tristezza più nera nel giro di mezz'ora; si guardava allo specchio e si vedeva carina, per poi trovarsi orribile pochi minuti dopo. Anche l'atteggiamento di Chance nei suoi confronti era motivo di scontentezza e frustrazione. Avrebbe voluto che lui cominciasse a trattarla come un'adulta, non come una bambina pestifera che era obbligato a proteggere. Restare chiusa in casa a disegnare e a guardare la televisione non le bastava più. Voleva di più, voleva qualcosa di diverso, ma non sapeva che cosa. Skye si affacciò alla porta della roulotte che Chance aveva affittato e guardò fuori, nel limpido cielo di marzo. L'ultima neve caduta una quindicina di giorni prima si era sciolta al sole primaverile, e Skye aveva la sensazione che tutta la città festeggiasse l'arrivo della bella stagione tranne lei, prigioniera in quell'orribile scatola grigiastra che le faceva da casa. Chance aveva trovato un lavoro stabile presso un piccolo supermercato, e il padrone del negozio lo aveva mandato da un amico che affittava delle roulotte già arredate. Dallo stesso amico, Chance aveva comprato a buon prezzo una vecchia Chevrolet del 1970. Così adesso avevano un mezzo di trasporto, o almeno ce l'aveva lui, perché lei era troppo giovane per guidare e quindi continuava a restare prigioniera. Skye si mise a eggiare nervosamente nello spazio ristretto. Non era giusto, pensò. Chance poteva andare dove voleva, vedeva gente, e non solo al lavoro. La settimana prima era uscito due volte la sera, con degli amici, e lei si era sentita ancora più sola e ancora più frustrata. Ma lui non sentiva ragioni. Non capiva che lei era cresciuta? Non poteva smettere di chiamarla piccola peste, di arruffarle i capelli, di trattarla come una bambinetta noiosa? In fondo, tra loro c'erano solo cinque anni di differenza!

Lo immaginò al lavoro, con il suo ciuffo biondo che ricadeva sulla fronte, e provò uno strano dolore al petto cui non riusciva a dare un nome. Sapeva soltanto che voleva essere trattata da adulta, e non costretta a obbedirgli senza discutere. Oh, al diavolo, pensò. Chance non era suo padre e nemmeno suo fratello, anche se tutti credevano che lo fosse. E se lei voleva uscire, lo avrebbe fatto. Afferrò la giacca, la chiave della porta, e uscì. La sua prima spedizione nel mondo le piacque talmente che la ripeté nei giorni successivi, e finì per farne un rito quotidiano. Ogni mattina, appena Chance era uscito, lei prendeva album da disegno e pastelli, si preparava uno spuntino e usciva. La libertà era magnifica. Skye si sentiva viva per la prima volta da secoli, e tutto le sembrava nuovo e meraviglioso. Il più delle volte andava al parco, si sceglieva un punto panoramico e si sedeva a disegnare, poi eggiava qua e là cercando di evitare la gente che poteva farle delle domande. Un paio di volte, con una madre che spingeva una carrozzina e con il commesso di un negozio dove si era comprata una Coca Cola, aveva dovuto inventare una frottola per spiegare la sua assenza da scuola. Ma fino a quel giorno, a Chance non aveva dovuto mentire. Lui non sospettava di niente. Skye si alzò, si spolverò i jeans e decise di esplorare meglio il parco. Si spinse molto più oltre del solito, al di là delle zone più frequentate da mamme e bambini, e mentre ava sopra un ponte di pietra notò un gruppo di ragazzi seduto alla sua ombra. Sembrava che non avessero niente da fare, come lei. Uno dei ragazzi alzò lo sguardo e sorrise, e Skye arrossì ricambiando il sorriso. Era proprio carino, pensò. Il suo cuore fece una buffa capriola, e lei si affrettò a are oltre. Ma il ragazzo l'aspettava all'estremità del ponte. «Salve» disse. «Ti ho vista prima e ho pensato di venirti incontro.» «Oh» disse lei incerta. «Mi chiamo Kevin, ma i miei amici mi chiamano Kev» continuò lui. «E tu?» «Io... io sono Skye.»

«E i tuoi amici ti chiamano Skye» rise il ragazzo. Anche lei rise e cominciò a rilassarsi. «Già.» «Stai andando da qualche parte?» «Be', no. Facevo quattro i.» «Anch'io. Potremmo eggiare insieme.» «Io... be', sì. D'accordo.» «Non ti ho mai vista in giro» riprese il ragazzo. «Sei nuova della città?» Lei gli diede una timida occhiata. Dio, quant'era carino. «No, sono qui già da un po'. Vivo con mio fratello, che lavora al supermercato di Taylor.» «E i tuoi genitori?» «Loro... non ci sono più» disse Skye dopo una breve esitazione. «Anch'io sono solo, come molti del nostro gruppo.» Skye non sapeva se credergli o no, e non capiva perché fosse così gentile con lei. Di solito, i ragazzi non la vedevano neanche. «Com'è che non sei a scuola?» domandò Kevin. Lei si irrigidì. «E tu perché non ci sei?» «Ehi, calma» rise Kevin. «Secondo me la scuola è una perdita di tempo, e infatti non ci vado. Perché non ci sediamo laggiù?» Si avvicinarono a una panchina appoggiata al tronco di un acero. Il sole filtrava tra le foglie nuove che tremolavano nella brezza. Skye tolse la giacca e disse: «È una giornata fantastica». Poi sentì lo sguardo di lui su di sé e aggiunse imbarazzata: «Voglio dire, il freddo è terribile... io odio la neve». «Sì, quest'anno è stato tremendo.» Kevin prese un pacchetto di sigarette dalla

tasca del giubbotto e glielo offrì. «Ne vuoi una?» Lei scosse la testa, e lui ne accese una per sé. «Quanti anni hai, Skye?» «Quindici» mentì lei. «Li ho compiuti a novembre.» «Davvero? A novembre io ne ho compiuti diciassette. Che giorno?» «Il sei.» «Ehi, anch'io!» Lui le mise il braccio sulle spalle. «Si può dire che siamo anime gemelle!» Anime gemelle. Come suonava bene. E com'era bello essere trattata da adulta e non da bambinetta pestifera! Anche il peso del suo braccio sulla spalla era piacevole, benché la fe sentire stranamente nervosa. Kevin la prese per mano e la fece alzare. «Vieni, voglio mostrarti una cosa.» Lei si irrigidì di nuovo. «Che cos'è?» disse sospettosa. «È una sorpresa. Vedrai che ti piacerà.» «Non so se... devo tornare a casa...» «Dai, non fare la stupida. Non ci vorrà molto...» E le scoccò quel suo sorriso mozzafiato. Skye pensò fuggevolmente a Chance. Non gli sarebbe piaciuto vederla parlare con uno sconosciuto, e sicuramente non avrebbe approvato il braccio di Kevin sulla sua spalla. Be', ma non era mica suo padre! Non c'era ragione di sentirsi in colpa. Non stava facendo niente di male! Sorrise a Kevin e disse: «Va bene, però dopo devo tornare a casa». Quel che Kevin voleva mostrarle era una vecchia casa abbandonata, che era diventata il rifugio di molti ragazzi vagabondi o scappati di casa. Era in pessime condizioni, con i muri cadenti e i vetri rotti, ma Kevin disse che bisognava guardare al di là delle apparenze e che in realtà quello era un posto fantastico. Skye dovette dargli ragione, ma non tanto per la casa in sé quanto per le persone

che ci abitavano. Kevin la presentò agli altri, dicendo a tutti che aveva quindici anni, e tutti quanti furono molto carini con lei. Il gruppo era composto da una ventina tra ragazzi e ragazze, molto ospitali e simpatici. Skye non si era mai sentita meglio in vita sua, bene accolta e accettata per quello che era, e quando venne il momento di andar via le dispiacque. Kevin l'accompagnò per un tratto di strada. «Posso accompagnarti fino a casa tua, se vuoi.» Ma Skye si fermò accanto al ponte dove si erano conosciuti. «Meglio di no. Non voglio rischiare che mio fratello mi faccia delle prediche. È un po' troppo protettivo, sai com'è.» «Capisco.» Kevin le prese la mano e domandò: «Ci vediamo domani?». «Non saprei...» «Per favore!» fece lui con un'aria da cucciolo bastonato che le fece battere il cuore. «E va bene, se proprio ci tieni...» «Ci tengo eccome.» Kevin le si avvicinò, tanto che lei vide le pagliuzze dorate nei suoi occhi nocciola. «Sei molto carina, sai?» Skye arrossì e distolse lo sguardo. «Non è vero!» «Lo sei, invece. Skye... se cerco di baciarti, ti arrabbi?» Lei lo guardò, senza parole. Infine, con il cuore in gola, annuì, e lui sfiorò delicatamente le sue labbra. Skye si sentì in paradiso. «Ci vediamo domani, allora.» Lei tornò sulla terra e si rese conto di essere ancora lì, in piedi, con gli occhi chiusi. Arrossì di nuovo e fece un o indietro. «Sì, d'accordo.» Lo seguì con lo sguardo mentre si allontanava, poi si abbracciò stretta con un sorriso beato. Aveva degli amici... ma soprattutto aveva un ragazzo! E lui l'aveva tenuta per mano e baciata! Tornò a casa correndo, come se avesse le ali ai piedi.

Da quel giorno, Skye ò ogni minuto libero con i nuovi amici. Chiacchieravano, ridevano, eggiavano nel parco o nel centro commerciale, oppure se ne restavano nella vecchia casa vittoriana. Gli altri ragazzi avevano scoperto la bravura di Skye nel disegno, e a turno tutti le avevano chiesto un ritratto. Lei li aveva accontentati più che volentieri, perché il loro interesse e le loro lodi la facevano sentire speciale. Ma chi la faceva sentire specialissima era Kevin. Stava sempre con lei, tenendola per mano o cingendo le sue spalle con un braccio. Anche quando gli altri gli chiedevano di far qualcosa insieme, lui cercava di non stare lontano da lei più del necessario. A volte le altre ragazze la guardavano con una strana espressione, e Skye era sicura che si domandassero che cosa trovava Kevin in lei. Kevin era troppo carino per interessarsi a una ragazzina banale come lei, pensava. Ma a quanto pareva, non era così. Non le ci era voluto molto per scoprire di che cosa vivevano i suoi amici. Chiedevano l'elemosina e facevano piccoli furti nei negozi, e poi dividevano tutto tra loro, come una vera famiglia. Skye disapprovava il furto, come il fumo e il bere, ma si era detta che finché non rubava o fumava lei stessa in fondo non faceva nulla di male. In realtà, trovava eccitante lo stile di vita dei suoi amici. Molto più eccitante che non starsene da sola tutto il santo giorno, e molto più pratico che non rinunciare a tutto o risparmiare fino all'osso per potersi comprare qualcosa, come facevano lei e Chance. Ma quello che invidiava di più a quei ragazzi era il fatto che non dovessero obbedire a nessuno. Nessuno diceva loro che cosa dovevano o non dovevano fare. Nessuno li trattava come bambini idioti che non erano in grado di badare a se stessi. Spesso Skye non aveva voglia di tornare nella roulotte, e si domandava che cosa sarebbe successo se un bel giorno avesse deciso di fermarsi nella vecchia casa con i nuovi amici. Tanto, Chance non la guardava neanche, e non aveva notato niente di nuovo nel suo comportamento o nel suo umore. Era come se lei fosse trasparente! Probabilmente perché era troppo impegnato a pensare a quella ragazza, quella

Cindy che lavorava come cassiera nel supermercato. Chance gliene aveva parlato in termini entusiasti, dicendo che era una bellissima bionda. Un paio di volte erano anche andati a bere una birra insieme dopo il lavoro. Skye si spazzolò furiosamente i denti, poi si osservò nello specchio del bagno. Faccia ovale, naso diritto, bocca un po' troppo grande. La cosa migliore erano gli occhi, blu scuro, circondati da ciglia folte e nere come i capelli. Non era brutta, ma certo non era una bellezza travolgente. Però non era nemmeno un mostro... perché Chance non la trovava carina? Perché le preferiva quell'altra? Eppure Kevin le diceva che era carina e sexy, e cercava sempre di baciarla. E allora, perché Chance non la pensava allo stesso modo? Skye chiuse la porta del bagno, sfilò la camicia da notte e si esaminò nello specchio a figura intera applicato sul battente. I suoi seni erano piccoli in modo deprimente, poco più di due virgole dalle punte rosa. Li sfiorò con un dito e sussultò sorpresa sentendo una specie di brivido. Si guardò il torace. Era così magra che si potevano contare le costole, ma le pareva che la sua vita si fosse assottigliata e i fianchi si stessero arrotondando. Si girò su un fianco, poi sull'altro. Sì, stava mettendo su un minimo di curve. Evviva. Era sempre stata piatta e dritta come un asse da stiro! Sfilò anche le mutandine e si esaminò di nuovo, arrossendo imbarazzata. Non era la prima volta che si vedeva nuda, naturalmente, ma non si era mai domandata che cosa pensassero gli altri del suo corpo, o di come fosse a paragone delle altre ragazze. Fino allora non gliene era mai importato gran che, ma adesso voleva che gli altri la trovassero bella, come le splendide creature che si vedevano alla TV o nelle riviste. Abbassò lo sguardo e notò che le stavano crescendo dei peli proprio là. Sapeva che erano un segno di crescita, ma la facevano sentire strana, a disagio, persino un po' volgare. Sfiorò quel ciuffetto ricciuto, poi scostò la mano arrossendo. Le brave ragazze non lo facevano, sua madre gliel'aveva ripetuto decine di volte. Be', e con questo? Ormai sua madre non c'era più! Si accarezzò di nuovo, chiudendo gli occhi, rabbrividendo, pensando a Kevin e a quando lui le stava vicino, e di colpo non fu più l'immagine di Kevin quella che vedeva, ma Chance. Le mani di Chance, la bocca di Chance. Un gemito sfuggì dalla sua gola, poi qualcosa esplose in lei. Un dolore pulsante che non la faceva soffrire, ma era terribilmente piacevole... Atterrita, Skye cadde in ginocchio sul pavimento e scoppiò a

piangere. Che aveva fatto? Perché le stava succedendo questo? Lei non voleva crescere, non voleva cambiare, non voleva pensare a Chance in quel modo! Ricordò com'era stata felice prima che sua madre se ne andasse, quando tutto sembrava semplice e facile. Adesso andava tutto male, la vita era diventata di colpo complicata, e lei non si era mai sentita così sola. Chiuse gli occhi, pregando con tutta se stessa di poter tornare indietro, al tempo felice in cui Chance era il suo migliore amico e tra loro c'era un affetto fraterno. Ma sapeva che non era più possibile. Ormai i suoi sentimenti per lui erano cambiati, e niente sarebbe più stato come prima.

13

Quella sera Chance si presentò con Cindy, e Skye la detestò a prima vista. Aveva lunghi capelli biondi a boccoloni, una bocca imbronciata carica di rossetto rosa e due seni notevoli, a paragone dei quali quelli di Skye scomparivano miseramente. Lei incrociò le braccia sul petto e scrutò l'intrusa con attenzione. Sì, forse era una bella ragazza... ma rideva come una iena e si muoveva come una specie di Barbie robotizzata. Chance presentò Skye come la sua sorellina, poi le disse di prendersi una fetta di pizza e di togliersi dai piedi, e Skye si infuriò. Togliersi dai piedi? Come osava? Lo guardò truce. «Non puoi costringermi!» Chance si avvicinò e sibilò: «Posso benissimo, invece. Ma non vorrei sculacciarti davanti a Cindy. Coraggio, prenditi la pizza e va' in camera tua». Furibonda, Skye andò nel cucinino: prese la pizza e una bibita, sbattendo piatti e posate e facendo più rumore possibile, poi andò in camera sua e sbatté anche la porta con tutte le sue forze. Non era giusto, pensò. Come osava Chance portarsi a casa quella iena? Quella era anche casa sua, e lei non ce la voleva! Aprì la porta e li vide praticamente uno in grembo all'altro, che si sussurravano chissà che. E un minuto dopo Chance baciò Cindy, non come Kevin aveva baciato lei quella prima volta, ma con la bocca aperta, come se volesse inghiottirla. Skye non riusciva a distogliere lo sguardo. I due si staccarono brevemente ma ricominciarono subito, e Chance prese ad accarezzare la ragazza dappertutto. Era proprio come aveva immaginato quella mattina, pensò Skye. Solo che Chance baciava un'altra, non lei! In quella Cindy si staccò nuovamente da Chance per sfilarsi il pullover. Sotto portava un reggiseno di pizzo rosa che la strizzava come un'armatura. Skye incrociò di nuovo le braccia sul petto, sentendosi male per la frustrazione.

Chance accarezzò quei seni mugolando, poi si chinò e li baciò. Ah, no, pensò Skye. Questo poi no. Uscì dalla camera da letto a i decisi, e i due sul divano si separarono di scatto. Cindy si strinse il pullover al petto con uno strillo, e lei disse soave: «Oh, scusatemi... vi ho interrotti?». «Maledizione, Skye!» ringhiò Chance, «ti avevo detto di startene in camera!» «E io ti ho detto che non potevi obbligarmi» ribatté lei. «Sei una vera rompiscatole. Se non te ne vai da qui te le suono!» «Dio, che paura.» Cindy si rimise in fretta il pullover e si alzò. «È meglio che vada.» «Sì, vattene!» esclamò Skye. «Qui non ti ci voglio.» «Taci!» urlò lui. «Aspetta, Cindy, lascia che le parli e vedrai che...» «Lasciala andare, è solo una puttana» fece Skye a muso duro. «Questo è troppo!» Cindy afferrò la borsa e si avvicinò alla porta. «Aspetta!» la pregò Chance correndole dietro. «Non so che cosa le ha preso... Di solito non fa così!» «Be', io non ho intenzione di farmi insultare da una bambinetta ficcanaso, perciò me ne vado.» «Non sono una bambinetta ficcanaso!» strillò Skye alle sue spalle. Poi si sfregò le mani soddisfatta. Ma la sua soddisfazione durò poco. Chance tornò dentro sbattendo la porta e l'affrontò furibondo. «Grazie tante per avermi rovinato la serata!» gridò. «Per una volta che mi stavo divertendo!» «Be', io non mi stavo divertendo affatto, e sono felicissima di essermi liberata di lei.» «Non mi rivolgerà mai più la parola... e a me piaceva davvero!» esclamò lui.

«Che cos'è che ti piaceva? Le sue grosse tette? I suoi capelli ossigenati? Scommetto che sono finti tutti e due, tette e capelli!» Chance la guardò come se le fossero spuntate le corna e la coda. «Che ti prende? Dove hai imparato a parlare così?» «Ti piacerebbe saperlo!» «Vuoi che ti sculacci?» la minacciò lui. Skye non gliene diede il tempo. Si gettò su di lui, lo abbracciò e lo baciò sulla bocca. Chance fece un balzo indietro respingendola. «Ma che diavolo fai?» «So baciare anch'io» mormorò lei cercando di abbracciarlo di nuovo. «Sono cresciuta, non sono più una bambina!» Chance si liberò bruscamente, poi si ò il dorso della mano sulla bocca. «Non fare mai più una cosa così volgare. Mai più, capito?» E allora, la realtà colpì Skye come una mazzata. Chance l'aveva respinta. La considerava una bambina, e per giunta volgare e disgustosa. «Ti odio!» gridò. «Non sai quanto ti odio!» Poi corse in camera sua e chiuse la porta a chiave, si buttò sul letto e scoppiò in un pianto disperato. Sentì che Chance imprecava furiosamente, poi sentì che la porta si chiudeva sbattendo così forte da far dondolare la roulotte.

La mattina dopo Chance andò al lavoro senza salutare Skye perché non aveva il coraggio di guardarla in faccia. Non riusciva a dimenticare quel che era successo la sera prima, le parole di Skye, la sua rabbia, e il modo in cui gli si era gettata fra le braccia. Santo cielo, era solo una bambina... che le era preso? Non avrebbe dovuto nemmeno pensare quelle cose, figuriamoci metterle in pratica, e con lui! Continuò a rimuginare per tutta la mattina, lavorando. Non gli era mai venuto in mente di considerare Skye diversamente da una sorella. Era la sua sorellina, lei. Come poteva pensare di baciarla? Gesù, era una cosa inammissibile!

Certo, si rendeva conto che la sua reazione l'aveva offesa e umiliata... ma che altro avrebbe potuto fare? Forse non avrebbe dovuto mandarla via quando era arrivato a casa con Cindy. Avrebbe dovuto lasciarla restare lì con loro, a mangiare la pizza tutti insieme. Poverina, era stata sola in casa tutto il giorno... non c'era da meravigliarsi che fosse gelosa e si sentisse tagliata fuori. Chance sbatté una cassa di pelati sul carrello, imprecando fra sé. Cindy lo aveva tormentato per settimane, flirtando con lui, ritraendosi, poi ricominciando a flirtare. A quel punto lui era talmente eccitato che si sentiva scoppiare, e quando lei aveva accettato il suo invito non aveva che una cosa in mente, metterle le mani addosso. Quei pochi minuti in cui ci era riuscito erano stati una meraviglia... ma adesso Cindy lo guardava come se fosse un verme e non gli rivolgeva nemmeno la parola! Chance controllò l'ora. Mezzogiorno, finalmente. Si avvicinò all'orologio per timbrare il suo cartellino e decise di prendersi qualcosa da mangiare nel reparto gastronomia e di tornare a casa a vedere Skye. Tanto per essere sicuro che stesse bene e non fe sciocchezze. Magari, se trovava le parole adatte, le avrebbe fatto un discorso serio e le avrebbe spiegato i fatti della vita, dicendole che il loro rapporto era fraterno e così doveva rimanere. Prese due sandwich di tacchino e lattuga e un sacchetto di patatine fritte e uscì nel parcheggio. Il supermercato di Taylor era piuttosto piccolo, e il proprietario riusciva a sopravvivere offrendo alla clientela dei piatti caldi che gli altri non avevano e cercando di conoscere ogni cliente per nome. Taylor era un uomo in gamba, pensò Chance addentando il primo panino. Lui aveva imparato un sacco di trucchi stando a osservarlo giorno dopo giorno. Stava per salire in macchina quando sentì delle voci concitate dall'altro lato della strada. La proprietaria di uno dei tre negozi di abbigliamento di Boyton era sul marciapiede e agitava il pugno in direzione di un gruppo di ragazzi, gridando qualcosa. Ragazzi sbandati, pensò Chance, per lo più scappati di casa, che ogni tanto capitavano da Taylor in gruppo. In quei casi, Taylor ordinava a tutti i dipendenti di sospendere quel che stavano facendo e di seguire i ragazzi, perché era certo che entrassero in negozio per rubare. Ma fino allora avevano preso solo un

ragazzo che aveva rubato un pacchetto di biscotti, una busta di mortadella e una forma di pane in cassetta, e nella fretta di scappare aveva chiuso male il giubbotto in cui li aveva nascosti ed era stato sorpreso da una cassiera. Mentre li osservava una delle ragazze girò la testa, e Chance si gelò. La ragazza sembrava Skye. Ma com'era possibile? Skye era a casa! In quel momento un ragazzo le si avvicinò, l'abbracciò e la baciò, e Chance vide rosso. No, non era possibile, pensò di nuovo. Non poteva essere lei! Salì in macchina, mise in moto e guidò verso il gruppo di ragazzi, scrutandoli attentamente, poi frenò di botto. La ragazza era proprio Skye. Non era a casa, al sicuro. Se ne andava in giro con quel gruppo di fannulloni. E da come quel bastardo le metteva le mani addosso, doveva essere una cosa che faceva da tempo. Avrebbe ucciso il ragazzo, pensò. Poi sarebbe toccato a lei. Abbassò il finestrino e chiamò: «Skye!». Lei si fermò e si volse, e ogni colore svanì dalla sua faccia. «Sali in macchina. Subito.» Skye non si mosse, e Chance ripeté in tono ancora più secco: «Sali, ho detto!». Il ragazzo che era con lei gli fece un gestaccio, e Chance non ci vide più. Scese dalla macchina, si avvicinò al gruppo stringendo i pugni, e i ragazzi si sparpagliarono a semicerchio per non perdersi lo spettacolo. Chance afferrò Skye per un braccio e la trascinò verso la macchina. «Mi fai male!» strillò lei. «Bene. Te lo meriti.» «Chi diavolo sei tu?» gridò Kevin. Ma rimase dov'era. «Sono suo fratello, e se tu ti avvicini ancora a lei sei un uomo morto. Chiaro?» Chance spinse Skye in macchina, poi saltò su e mise in moto con una sgommata. Era così furibondo che si sentiva scoppiare la testa e prendeva le curve a tutta velocità stringendo il volante come se dovesse staccarlo dall'asta. «Da quanto tempo va avanti questa storia?» abbaiò. «Da quanto tempo scivoli fuori di casa

per andare con quei... rifiuti?» Lei lo guardò sprezzante, poi si girò verso il finestrino. «Non sono affari tuoi» sibilò. «Come immaginavo.» Il semaforo diventò rosso e Chance premette sui freni, poi si voltò a guardarla, sempre più furibondo. «Spero che tu abbia avuto modo di salutarli, perché non li vedrai più. È chiaro? A partire da oggi.» «Sono miei amici!» gridò lei. «E tu non puoi dirmi che cosa devo fare e dove posso o non posso andare!» «Col cavolo che non posso. Non li rivedrai più, punto e basta!» Rimasero in silenzio per un po', e quando furono in vista del parcheggio delle roulotte Skye si volse a guardarlo stringendo i pugni. «Ti odio» sibilò. «Sei un bastardo, e io ti odio con tutta l'anima. Vorrei non averti mai conosciuto.» «Non sei la sola, cosa credi?» Chance prese la curva a tale velocità che la macchina fece un testa-coda. «Avrei dovuto sculacciarti quando hai cominciato a fare la scema, altro che storie!» «Ti piacerebbe, eh, pervertito?» «Senti chi parla di perversione» urlò lui scendendo dalla macchina. «Hai dimenticato ieri sera?» Con gli occhi pieni di lacrime, Skye si precipitò verso la porta della roulotte, ma lui la raggiunse prima che riuscisse ad aprirla e la prese per le spalle, scrollandola. «È stato quel ragazzo a metterti queste idee in testa? Quello che ti stava addosso? Gesù, Skye, ma come hai potuto?» «Almeno Kevin mi trova carina» ribatté lei liberandosi. «E gli piace baciarmi!» «Avrei dovuto capirlo» mormorò lui, sentendosi male all'idea di quel verme che le metteva le mani addosso. «Ti sei messa a comportarti stranamente, a dire certe cose... Erano loro! Ti stanno trasformando in quello che sono, dei ladri, dei drogati, dei rifiuti umani!» «Non è vero! Kevin non è così, ed è mio amico!»

«Be', io ti proibisco di rivederlo, hai capito? Ti proibisco di rivederli, tutti!» «E che cosa mi dici della tua ragazza-iena? Com'è che tu puoi divertirti e io no? Com'è che tu puoi portarti a letto chi vuoi?» Lui la guardò stupefatto. Non poteva credere che quella fosse la stessa, timida Skye di un tempo. Rivoleva quella ragazzina, non la sfrontata adolescente che lo guardava con tanto odio. «Prima di tutto, non voglio mai più sentirti parlare in quel modo. Secondo, io posso fare certe cose perché ho diciotto anni e sono un adulto, mentre tu ne hai solo tredici...» «Ma non sono più una bambina!» strillò lei entrando in casa. Lui la seguì e richiuse con forza la porta. «E allora smetti di comportarti come se lo fossi!» «Non sei mio fratello, non puoi darmi degli ordini!» ripeté lei. «Hai ragione, non lo sono, e nessuno mi obbliga a occuparmi di te. Vorrei vivere anch'io la mia vita, cosa credi? Ma non posso, se mi porto appresso una palla al piede che non è nemmeno la mia vera sorella!» Lei impallidì. «Che vuoi dire?» «Voglio dire che se proprio vuoi andare a stare con quei mascalzoni dei tuoi amici, fa' pure. Solo, vedi di non tornare perché non mi troverai più.» Andò alla porta e la spalancò, ma lei rimase immobile, con le braccia strette al petto e gli occhi pieni di lacrime. Chance si irrigidì e si impedì di provare comione per lei, anche se in quel momento era tornata ad essere la bambina sperduta di cui sentiva tanto la mancanza. Abbassò la voce e disse: «Per quanto tu voglia fuggire, Skye, ricordati che lo voglio anch'io. E se faccio quello che faccio, se lavoro per mantenerci tutti e due, non è certo perché mi ci diverto. Ricordalo, la prossima volta che penserai che sono un rompiscatole». Poi uscì e risalì in macchina per tornare al lavoro.

Skye rimase a lungo sdraiata sul letto a fissare il soffitto e a ripensare alle terribili parole di Chance. Vorrei vivere anch'io la mia vita, cosa credi? Ma non posso, se mi porto appresso una palla al piede che non è nemmeno la mia vera

sorella! Il dolore al petto era così forte che le impediva di respirare. Chance non la voleva. Non le voleva bene, non gliene aveva mai voluto, e sperava solo che lei si togliesse dai piedi. E lei lo odiava, come odiava sua madre che se n'era andata piantandola in asso come un bagaglio troppo ingombrante. Soffocò un singhiozzo e si rizzò a sedere. Chance non la voleva? Voleva vivere la sua vita? Benissimo. Lei si sarebbe tolta di mezzo, non lo avrebbe più costretto a sopportarla. Sarebbe andata dove le pareva, anche lei. Balzò in piedi e si mise a riempire la sua sacca con vestiti, biancheria, pastelli e album da disegno. Avrebbe dimenticato Chance McCord, come aveva dimenticato sua madre. Sarebbe andata a vivere con Kevin e gli altri, e se nemmeno loro l'avessero più voluta dopo le minacce di Chance, se la sarebbe cavata da sola. Marciò decisa fino alla porta, poi si voltò a guardare la roulotte per un'ultima volta e rivide il volto di Chance, il suo sorriso, la sua gentilezza e la sua capacità di farla ridere... Gli occhi le si riempirono di nuove lacrime, e lei le asciugò rabbiosamente. Chance non la voleva, gliel'aveva detto chiaro. Si era occupato di lei solo perché si sentiva obbligato, ma non le voleva bene e non era suo amico. Bene, lei lo avrebbe liberato dalla palla al piede che diceva di avere. Se ne sarebbe andata e buonanotte. Aprì la porta e andò a sbattere contro Kevin. «Ehi ehi ehi, dove stai correndo?» chiese lui. Skye lasciò cadere la sacca e gli gettò le braccia al collo. «Oh, Kevin, sono così felice di vederti... mio fratello è un tale verme!» «Un bastardo, vuoi dire. Ma non aver paura, adesso c'è qui Kevin.» «Sei venuto perché eri preoccupato per me?» domandò lei raggiante. «Certo, piccola» annuì lui con un sorriso.

«Mi dispiace tanto che ti abbia trattato in quel modo... avevo paura che tu non volessi più rivolgermi la parola!» «Ma figurati. Non è colpa tua se è un idiota.» Kevin accennò alla roulotte e disse: «Hai qualcosa da bere, là dentro?». «Credo di sì. Entra.» Skye aprì il frigo e gli diede una birra, poi gli raccontò del loro litigio e ripeté quello che Chance le aveva detto. «Dice che per lui sono una palla al piede!» esclamò. «Che vuole vivere la sua vita. Perché, io no? Com'è che non lo capisce?» Guardò Kevin in cerca di comprensione, ma lui non le badava e stava esaminando la roulotte con interesse. «Kevin?» «Continua, piccola. Ti ascolto.» «E allora ho fatto la valigia e ho deciso di andarmene. Posso venire a stare con te e gli altri, vero? Come mi hai detto una volta?» Lui sorrise. «Certo che puoi. Ma ti avviso, dovrai mantenerti da sola. Certe volte non è facile, sai. Bisogna fare delle cose che non ci piacciono, ma è il prezzo da pagare se si vuole essere liberi.» «Non mi importa. Qualsiasi cosa pur di andarmene. Adesso possiamo andar via, per favore?» «E che fretta c'è? Tanto il fratellone non torna a casa fino a stasera, no?» «Sì, ma...» «E allora prendiamocela comoda.» Kevin aprì uno degli armadietti di cucina, frugò all'interno, poi fece altrettanto con l'altro sportello e con il cassetto delle posate. Skye aggrottò la fronte. Non le piaceva quel modo di frugare nelle loro cose, la innervosiva. Si schiarì la voce e disse: «La mia roba è già tutta nella sacca». «E allora?» «E allora, quel che resta appartiene a Chance.» Kevin la fissò. «Credevo che avessi detto che volevi mantenerti da sola.»

«È così, ma...» «Be', lo devo fare anch'io. E magari qui dentro c'è qualcosa che ci può servire.» Skye si morse il labbro inferiore. Di solito, Kevin era così gentile e comprensivo... perché adesso agiva in quel modo? Non capiva che la metteva a disagio? Intanto il ragazzo aveva aperto il frigorifero e il freezer, frugando anche lì. «Voglio andare, Kevin» disse lei. «Ehi ehi ehi, che cosa abbiamo qui?» esclamò lui prendendo un rotolo di banconote dal barattolo da caffè che Chance teneva nascosto nel freezer. «Ma allora siamo ricchi!» «No!» esclamò lei cercando di togliergli i biglietti di mano. «Quelli sono i soldi dell'affitto, Chance ne ha bisogno!» Lui ridacchiò. «Ne abbiamo più bisogno noi.» Skye aveva il cuore in gola. Sì, odiava Chance e non voleva mai più vederlo, ma non voleva derubarlo. Non era giusto. Lui aveva lavorato duramente per guadagnarsi quei soldi. «Rimettili via, Kevin. Chance ci deve pagare l'affitto.» «Credevo che lo odiassi.» «Infatti, ma...» «Niente ma. Te l'ho appena detto, se vuoi vivere con noi devi anche fare delle cose che non ti piacciono. Ricordi?» «Sì, me lo ricordo, solo che... che non voglio prendere i soldi di Chance, ecco.» «Sai che ti dico?» fece lui squadrandola da capo a piedi. «Mi sa che non hai abbastanza fegato per vivere da sola. Non sei abbastanza coraggiosa.» «Non è vero!» esclamò lei. «Ma se Chance non paga l'affitto lo butteranno fuori di casa, e...» «E a me che mi frega?» Kevin tastò il divanetto e sorrise. «Su, piccola, non

litighiamo. Vieni qui e facciamo pace.» «No, finché non rimetti a posto quei soldi.» «Se ci tieni così tanto, forse lo farò.» «Davvero?» sorrise lei sollevata. «Lo farai?» «Ho detto forse. E se tu sarai molto, molto carina con me.» Il sorriso di lei si spense. «Che vuoi dire?» «Lo sai, che voglio dire.» Kevin aprì le braccia. «Vieni qui.» Lei avrebbe voluto dire di no, ma se rifiutava di baciarlo Kevin non avrebbe rimesso a posto i soldi e non le avrebbe permesso di andare a vivere con loro... Con il cuore in gola, fece un o verso di lui, e Kevin l'afferrò per la mano e la strinse forte contro di sé. Poi calò la bocca su quella di lei, spalancandola, come se volesse inghiottirla. Skye rabbrividì, ma non di piacere. Detestava essere stretta così, non le piaceva la sensazione di quelle labbra umide, dal sapore sgradevole, e aveva voglia di vomitare. Cercò di rilassarsi, di abbandonarsi come le altre volte e di provare le sensazioni piacevoli che di solito le dava la vicinanza di Kevin. Cercò di ricordare il calore che sentiva, il battito del cuore, il lieve, inebriante capogiro. Cercò di ripetersi che amava essere baciata da Kevin... Ma non era così. Si sentiva male, si sentiva prigioniera, non riusciva a respirare. Cercò di respingerlo, ma lui abbassò le mani sulle sue natiche e cominciò a stringerle. Non lo aveva mai fatto prima, e Skye si spaventò. Gemette in segno di protesta, ma invece di lasciarla Kevin premette le anche contro quelle di lei, poi le cacciò la lingua in bocca. Skye ebbe un conato di vomito e si scostò. «Rilassati, piccola. Ti piacerà, te l'assicuro.» E le rimise la lingua in bocca. Lei si liberò di scatto. «Smettila, Kevin. Non mi piace affatto. Lasciami andare.» «Eh, no, cara mia. Hai molto da imparare, e c'è qui Kevin che non vede l'ora di insegnarti.» L'afferrò di nuovo e se la premette contro, e lei lottò, scalciò, cercò

di graffiarlo. Infine insinuò le braccia tra i loro due corpi e lo spinse via, dandogli un violento ceffone. La testa di Kevin scattò all'indietro per il colpo, e i suoi occhi si riempirono di veleno. «Puttanella» sibilò. «Nessuno può permettersi di picchiarmi, nessuno, capito?» Skye corse verso la porta, ma Kevin le afferrò una ciocca di capelli e la tirò indietro. Lei perse l'equilibrio e cadde a terra con un grido, battendo violentemente la testa. In un lampo Kevin fu su di lei, le inchiodò le braccia sopra la testa e ricominciò a baciarla sulla bocca e sulla gola, mentre lei si difendeva come poteva. Poi Kevin le spinse contro il suo sesso eretto, e lei si rese conto che stava per violentarla. «NO!» urlò dibattendosi terrorizzata. Scalciò, si contorse, lo supplicò di smettere, ma più si agitava più lui diventava aggressivo. Le strappò la camicetta e le strizzò dolorosamente i seni, grugnendo, e quando lei scoppiò in singhiozzi, invece di smettere lui infilò una mano nelle sue mutandine e poi dentro di lei. Skye gridò, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono. Un nero uccello da preda era su di lei... le impediva di respirare, di pensare e di muoversi... Skye piombò nel buio, avvolta da un terrore che le era stranamente, orribilmente familiare. Era stata violata così altre volte, in ato. Aveva lottato per liberarsi da quella cosa orribile, opprimente, che non aveva volto ma che le voleva male e voleva punirla e soggiogarla... Gridò di nuovo e questa volta la voce uscì dalla sua gola e riempì il piccolo spazio della roulotte. La morsa che la immobilizzava diminuì, e Skye graffiò e scalciò, colpendo qualcosa di cedevole. La cosa gridò di dolore e imprecò. «Se dice no è no, bastardo!» urlò una voce. La voce di Chance. Skye scoprì che poteva di nuovo respirare e che era libera. Si rannicchiò nell'angolo più lontano del pavimento, singhiozzando, e vide che la porta della roulotte era aperta e che Chance era venuto a salvarla da quell'orribile cosa nera.

Poi vide. Chi l'aveva aggredita non era un'orribile cosa malvagia senza volto, ma Kevin. Il pugno di Chance si abbatté sulla faccia dell'altro ragazzo che venne proiettato contro la parete come un bamboccio di stracci e poi crollò a terra. «Skye, tesoro, stai bene?» gridò Chance inginocchiandosi accanto a lei. Le toccò il viso, le braccia, delicatamente, come se volesse controllare se era tutta intera. «Quando sono entrato e l'ho visto su di te mi sono sentito morire!» Skye scoppiò in pianto e lo abbracciò. «Oh, Chance, ero c... così spaven...tata. Mi ha buttata per terra... ha detto che... che...» «Shhh... adesso va tutto bene. È finita. Va tutto bene.» Ma non era finita affatto. Kevin si rimise in piedi, e Skye vide il lampo di una lama. Gridò un avvertimento, Chance si volse di scatto, ma Kevin era già su di lui. Come in un film al rallentatore, Skye vide che il coltello lampeggiava mentre Kevin vibrava un fendente trasversale. Chance barcollò tenendosi lo stomaco. Il sangue filtrava dalla ferita e gli macchiava di rosso la maglietta. Skye gridò e gridò. «Nessuno mi prende a pugni, chiaro?» ringhiò Kevin avvicinandosi al rivale con il coltello in mano. «E nessuno mi minaccia!» Skye saltò in piedi e si gettò sulla schiena di Kevin, graffiandolo, picchiandolo con i pugni chiusi, tirandogli i capelli. Il coltello cadde a terra. I due ragazzi si tuffarono entrambi per prenderlo e rotolarono sul pavimento avvinghiati, poi Kevin afferrò il manico dell'arma. Chance gli mollò un pugno sulla spalla e l'altro lo mollò. Due minuti dopo Chance torreggiava sul rivale con il coltello stretto nel pugno. «Adesso hai capito che devi lasciarla in pace?» sibilò dandogli un calcio. «Hai capito? Ha solo tredici anni, razza di bastardo schifoso. È ancora una bambina!» Lo colpì di nuovo, ancora e ancora. «Potrei ucciderti per questo!» Kevin rotolò sul fianco ripiegando le ginocchia per proteggersi, e Skye si alzò in piedi barcollando e si avvicinò a Chance, cingendolo con le braccia. «Lascialo, per favore» pregò. Era terrorizzata, non lo aveva mai visto così furibondo. «Lascialo... Ti prego!» Kevin piangeva e balbettava come un bambino, supplicando Chance di risparmiarlo, di lasciarlo andare, e intanto strisciava verso la porta a quattro

zampe. Skye continuò a stringere Chance, e a poco a poco sentì che la collera di lui si placava, che la sua furia scivolava via lasciandolo tremante e sconvolto. Poi Chance si girò e l'abbracciò stretta. Lei seppellì la faccia sul suo petto, incurante del sangue che li macchiava entrambi. Era stato ferito per causa sua, pensò. Sarebbe potuto morire. Non osava nemmeno immaginare che cosa avrebbe fatto senza di lui. «Mi dispiace tanto...» mormorò. «È stata colpa mia, solo colpa mia. Ti prego, Chance, non lasciarmi... farò tutto quello che mi dirai, sempre, ma non lasciarmi mai più!»

Quella notte, Chance rimase sveglio a guardare Skye che dormiva. Gli stava aggrappata anche nel sonno, e ogni tanto gemeva piano. Chance sfiorò il livido violaceo sulla guancia di lei e rabbrividì. Aveva avuto paura di se stesso, quel pomeriggio. Paura della violenza che si era scatenata in lui, della furia omicida che lo aveva travolto quando aveva visto quel bastardo su di lei. Se non fosse stato fermato da Skye, avrebbe ucciso quel verme. Fortuna che era tornato a casa, pensò. Taylor gli aveva dato il pomeriggio libero perché aveva capito che era troppo preoccupato per badare al lavoro, e grazie a Dio lui gli aveva dato retta. Se non fosse arrivato in tempo... non osava nemmeno pensarci, era un'idea orribile! Skye era la sua famiglia, sua sorella, la sua migliore amica. E lui non era stato capace di proteggerla! Doveva trovare una soluzione, così non si poteva andare avanti. Proprio perché voleva bene a Skye, doveva trovarle una famiglia, darle una vita normale, permetterle di andare a scuola e crearsi degli amici. E anche lui doveva poter vivere una vita normale, come tutti. Chance sospirò. Era venuto il momento di affrontare la realtà: doveva trovare qualcuno a cui affidare Skye. Poi, quando l'avesse saputa al sicuro, lui sarebbe andato per la sua strada.

14

Michael e Sarah Forrest erano degli ex figli dei fiori che erano sopravvissuti alle loro idee, ma in un certo senso riuscivano ancora a metterle in pratica. Michael era un agricoltore biologico che continuava a coltivare una gentile ma ferma avversione per il governo e ogni forma di violenza. Sarah creava oggetti artistici e gioielli artigianali e insegnava educazione civica in un corso per adulti all'università dell'Illinois. Portava occhialini rotondi alla John Lennon e lunghi caftani fioriti, e vendeva le sue creazioni nelle fiere e in alcuni negozietti di Dekalb, dove vivevano. Chance li aveva trovati rispondendo a un annuncio. Michael cercava un bracciante per l'estate e offriva in cambio una piccola paga più vitto e alloggio. Probabilmente si era aspettato uno studente della vicina università, e invece si ritrovò Chance e Skye. Lui e Sarah li credettero fratello e sorella, orfani, e li presero immediatamente sotto la loro ala protettrice senza fare domande. Per la prima volta dopo aver lasciato il Luna Park, Skye si sentiva felice e protetta; e questo rassicurava Chance, che provava un'irrequietezza crescente e un crescente desiderio di uscire nel mondo e di mettersi alla prova. Sarah e Michael sarebbero stati dei buoni genitori. Non avevano figli e avevano riversato su Skye tutto il loro affetto. Chance era certo di lasciarla in buone mani. E Sarah, in particolare, andava pazza per Skye e per l'incredibile talento artistico che aveva dimostrato. Dopo la prima settimana dal loro arrivo Skye aveva cominciato a gironzolare per l'atelier che Sarah aveva sistemato in cantina e a farsi spiegare le tecniche di assemblaggio dei gioielli. La donna era stata più che felice di insegnarle tutto quello che sapeva, e anche quella sera, scendendo in laboratorio, Chance le trovò entrambe chine sul bancone, con le teste vicine, intente a saldare un fermaglio all'estremità della collana che Skye aveva creato. Questo lo convinse una volta di più che stava prendendo la decisione giusta. Skye sarebbe stata al sicuro con Sarah e Michael, avrebbe potuto imparare

molto, si sarebbe creata una vita per sé. E un giorno lo avrebbe ringraziato di averla lasciata con loro. Forse non subito, ma avrebbe capito. Doveva, perché Chance non sopportava l'idea che lei potesse serbargli rancore per sempre. Skye avvertì la sua presenza e alzò la testa con un sorriso che gli andò dritto al cuore. «Guarda» disse mostrandogli la collana, un'ardita creazione di perle di legno e argento martellato. «È quasi finita.» «È bellissima» disse lui guardando Skye invece della collana e pensando che un giorno lei sarebbe diventata una splendida donna. «Sarah dice che tra non molto sarò in grado di provare il procedimento a cera persa» continuò Skye eccitata. «Non è magnifico?» «I suoi progressi sono stupefacenti» annuì la donna guardandola con affetto. «Hai sentito, Chance?» esclamò Skye. «Ho sentito» mormorò lui. Sì, pensò. Skye era in ottime mani. Era arrivato il momento di lasciarla.

Skye si svegliò con un sorriso, stiracchiandosi beata e assaporando il tocco delle lenzuola pulite sulla pelle. Ah, che meraviglia. Finalmente Chance e lei erano al sicuro. Si girò sul fianco e ascoltò per un momento il canto di un uccellino sul melo davanti alla sua finestra. Gli ultimi due mesi erano stati così belli che le avevano quasi fatto dimenticare gli orribili eventi di Boyton. Quasi, ma non del tutto. La sua lotta con Kevin, l'arrivo di Chance, la coltellata che lo aveva ferito, e il sangue... tutto questo era inciso indelebilmente nella sua memoria. Ma adesso, grazie a Dio, era tutto lontano. E anche lo strano disagio che a volte c'era ancora tra lei e Chance sarebbe ben presto scomparso, e i loro rapporti sarebbero tornati quelli di un tempo. Skye sorrise di nuovo. Sarah era convinta che lei avesse molto talento e l'aveva persino portata a visitare il dipartimento di belle arti all'università, lo stesso dove si era diplomata. Era stata un'esperienza meravigliosa, che aveva indicato a Skye la strada che voleva prendere.

Allungò la mano e prese dal tavolino la spilla che aveva scolpito e fuso la sera precedente. Era stato il suo primo approccio alla tecnica della cera persa, e benché il risultato fosse ancora lontano dalla perfezione Skye ne andava fierissima. La spilla aveva la forma di una farfalla con le ali spiegate. Benché il procedimento fosse lungo e un po' noioso, Skye lo aveva seguito con enorme entusiasmo. Quando aveva visto la sua farfalla d'argento, era stata felice come non mai. Adesso la spilla era pronta per le rifiniture; quel giorno Skye avrebbe ritagliato le sbavature e l'avrebbe lucidata, e non vedeva l'ora di cominciare. Se lavorava ai suoi gioielli, niente poteva rattristarla o farle del male: nemmeno i ricordi tristi del ato. L'immagine di sua madre comparve d'improvviso nella sua mente, accompagnata da una fitta di pena e da un'acuta sensazione di abbandono. Skye aggrottò la fronte. Perché le veniva in mente proprio allora, in un momento finalmente sereno della sua vita? Il cuore cominciò a batterle terrorizzato, e lei si sentì di nuovo come certe notti del ato, quando si svegliava di soprassalto e temeva che Chance l'avesse abbandonata come sua madre. Che sciocchezze, pensò alzandosi di scatto. Chance non le avrebbe mai fatto un tiro del genere. Non ne aveva motivo. Adesso erano felici, tutto andava bene. Infilò la vestaglia e scese a far colazione, ando davanti alla camera di Chance che era di fronte alla sua. La porta era aperta, il letto fatto. Chance doveva già essere sceso. Dalla cucina veniva un buon odore di caffè. Skye si affacciò al pianerottolo e chiamò: «Sarah, dov'è Chance?». Qualcosa cadde sul pavimento con grande fragore di cocci. «Ehi, tutto bene? Non hai mica rotto una delle terrine di tua nonna, eh?» Skye corse giù per le scale e vide che in effetti Sarah aveva lasciato cadere una delle ciotole di porcellana di sua nonna. Il pavimento di cucina era un disastro di cocci e impasto per le frittelle. Quand'ebbero finito di ripulire, Skye domandò di nuovo: «Dove sono gli altri?». «Michael è... fuori» fece Sarah a disagio. «Adesso lo chiamo.» Andò alla porta, l'aprì e suonò la camla che era appesa accanto allo stipite. «Anche Chance è fuori?»

Sarah si volse con un sospiro e disse: «Skye, tesoro, perché non ti siedi?». Lei si sentì gelare. «Che succede? Perché mi guardi in quel modo?» Oh, no, pensò. Non può essere. Non può succedere di nuovo... Michael rientrò e scambiò un'occhiata con la moglie. «Dov'è Chance?» gridò Skye. «Tesoro, Chance è...» Ma lei non la lasciò finire e si mise le mani sulle orecchie. «No. Non voglio sentire.» «Stamattina sono andata a svegliarlo e...» Sarah gettò un'occhiata supplichevole al marito. «Se n'è andato, Skye. Mi dispiace» concluse lui. «No!» gridò lei. «Ieri sera si vedeva con degli amici, si sarà fermato a dormire da uno di loro!» «Tesoro, le sue cose non ci sono più» disse Sarah. «Ho controllato. Mi dispiace...» «Non ci credo!» gridò Skye. Salì di corsa le scale, entrò in camera di Chance, aprì di furia armadio e cassetti. Vuoti. Erano tutti vuoti. Se n'era andato. Senza un biglietto d'addio, senza una parola. Niente. Skye crollò a sedere sul letto, annientata. Almeno sua madre le aveva lasciato un messaggio consolatorio, una bugia pietosa. Chance, nemmeno quello. Be', che si aspettava? Lei non era mai stata altro che una palla al piede! Skye non riusciva a piangere, benché le lacrime premessero dietro le palpebre e in fondo alla gola. Non lo avrebbe mai perdonato, pensò. Mai. «Tornerà, vedrai» cercò di consolarla Sarah dalla soglia. «No» sussurrò lei. «Non tornerà.» L'aveva lasciata, proprio come sua madre. Proprio come lei aveva sempre temuto. Non le aveva mai voluto bene.

«Con Michael abbiamo deciso che puoi restare qui finché Chance non tornerà» disse ancora Sarah. «Non tornerà più» mormorò Skye. «Lo so. Mi abbandonano tutti.»

15

Per Chance era stato amore a prima vista al suo arrivo, circa una dozzina d'anni prima. Uno sguardo ai grattacieli di Chicago e aveva capito subito, d'istinto. Quella era la sua città, la città in cui un ragazzo ricco soltanto di grinta e voglia di arrivare poteva diventare qualcuno. Era il posto in cui la sua versione del sogno americano sarebbe diventata realtà. Chicago non era pretenziosa come Los Angeles, frenetica come New York o snob come Boston e Filadelfia. Era accogliente, al proprio interno mescolava tutto e tutti: estrema ricchezza e grande povertà, l'energia dei giovani e la saggezza dei vecchi, grattacieli scintillanti e antiche case di stucco. E razze, religioni, culture diverse. Chance aveva ato i primi giorni ad esplorare. Le rive del lago Michigan, il fiume Chicago che taglia la città in due, le strade eleganti del centro tra cui la Michigan Avenue, detta il Magnificent Mile: la strada più lussuosa di tutte, con i suoi strabilianti negozi e gli edifici sede delle maggiori ricchezze del paese. Dopo una settimana, l'infatuazione di Chance era divenuta certezza. Lì, se avesse lavorato sodo e avesse avuto fede in se stesso, avrebbe davvero realizzato i suoi sogni. Lì sarebbe diventato qualcuno. Cominciò a organizzarsi. Non perse tempo a cercare incarichi dirigenziali che per il momento non poteva occupare, ma nemmeno impieghi oscuri che lo relegassero in qualche sottoscala, dove avrebbe conosciuto solo altri come lui. No, lui voleva salire in fretta, voleva stare a contatto della bella gente ricca e famosa. Così si cercò un posto di portiere al Ritz Carlton. Da lì cominciò a osservare i clienti. Notò il modo in cui si vestivano, quello che mangiavano, quello che si dicevano l'un l'altro. Annotò i loro gesti e le loro inflessioni, le loro preferenze e le loro piccole manie. La sera, davanti allo specchio, metteva in pratica ciò che aveva osservato e memorizzato. Ripeteva le frasi udite imitando le voci, le espressioni del volto. Nel giorno di libertà andava per negozi e studiava gli oggetti che davano ai ricchi il loro aspetto peculiare. Non poteva comprare nulla, ma provava gli abiti, imparava ciò che gli si adattava meglio, studiava gli accordi di colore e di stile, e immagazzinava le

informazioni. Quando pensò di aver imparato tutto ciò che poteva, lasciò il Ritz e divenne direttore di sala del Palm Court, un ristorante alla moda nel cuore del quartiere degli affari. Da lì, studiò gli uomini che avevano in mano l'economia della città: i presidenti e gli amministratori delegati delle società, i giornalisti famosi, i proprietari di grandi industrie. Notò quello che mangiavano, bevevano o indossavano, e sviluppò la capacità di individuare immediatamente qual era l'uomo più potente seduto a un tavolo e perché. Origliava senza vergogna tra un filetto al pepe e una crêpe suzette, e immagazzinava tutti i dati che poteva. La sua ricerca divenne una specie di stimolante gara che giocava con se stesso. Avendo deciso che nella vita ogni individuo ha qualcosa da vendere, merci, servizi oppure se stesso, si iscrisse alle lezioni serali dell'università, scegliendo tutti i corsi di marketing e pubblicità che riuscì a trovare. E scoprì di possedere una comprensione naturale per l'andamento del mercato e per i gusti del pubblico. I suoi professori lo consideravano uno dei migliori venditori di fumo cui avessero mai insegnato. I compagni lo adoravano o lo detestavano per la stessa ragione. Subito dopo il diploma, Chance trovò lavoro in un'agenzia di pubblicità. Cinque anni dopo aveva salito tutti i gradini della scala gerarchica ed era il vice presidente del dipartimento relazioni pubbliche. La sua ascesa continuò, il suo nome e la sua abilità divennero ben noti nell'ambiente. E adesso, dodici anni dopo l'arrivo a Chicago, Chance festeggiava la sua nomina a presidente dell'Agenzia McCord per le Relazioni Pubbliche e gli Eventi Speciali. Si appoggiò allo schienale della poltrona di pelle, una spesa che la neonata agenzia non avrebbe potuto permettersi, ma che lui si era concessa come premio, e sospirò beato. La vita era bella. Il mondo era suo. Bevve un sorso dalla sua flûte di champagne. L'indomani avrebbe cominciato a far visita ai potenziali clienti. Avrebbe vinto la resistenza di centraliniste o segretarie, e una volta di fronte ai dirigenti li avrebbe convinti ad avvalersi dei suoi servigi. Sapeva di poterlo fare.

Guardò il cielo azzurro al di là dei vetri, e in quel momento, come spesso gli succedeva, pensò a Skye. La decisione di lasciarla con Michael e Sarah era stata giusta, ne era sempre convinto; ma ancora adesso provava una dolorosa fitta di rimorso per non averla potuta salutare. Skye era sopravvissuta, ne era certo. Era una dura, come lui. Sicuramente stava bene ed era felice. Levò di nuovo il bicchiere, questa volta per brindare a lei. Ovunque fosse.

16

«Skye! Aspettami!» Lei si voltò e aspettò che la collega la raggiungesse, anche se aveva fretta di tornare a casa. «Ho appena sentito la notizia» disse Roxy quando le fu vicina. «Dio, che cosa non darei per esserci anch'io!» Skye sorrise beata. Alcune delle sue creazioni, tra cui una spilla di cui era particolarmente fiera, erano state invitate a partecipare all'esposizione di arte decorativa del Museum of Modern Art di New York. «Quando me l'hanno detto non osavo crederci» confessò. «Mi sembrava impossibile... se penso a tutti quelli che fanno domanda di partecipazione e non vengono accettati!» «Sei stata davvero in gamba, ragazza mia» disse Roxy battendole sulla spalla. «Senti, stasera andiamo a festeggiare. Vieni con noi?» «Grazie, Roxy, mi piacerebbe, ma non posso.» «Andiamo, è venerdì... prenditi una serata libera! Non puoi startene sempre chiusa in casa a lavorare, con quel dinosauro che chiami cane!» «Non offendere il mio diletto Mr. Moo» protestò lei ridendo. «Sai che cosa rischia chi lavora troppo senza divertirsi mai? Di diventare una vecchia zitella noiosa!» «Oh, un po' di noia non ha mai fatto male a nessuno. Ci vediamo lunedì, Roxy. E grazie!» Skye si volse e si avviò verso la sua macchina. Sapeva bene che i colleghi di università la consideravano una snob fredda e poco socievole, ma naturalmente non era affatto vero. Lei era solo determinata e motivata. Era arrivata a quel punto lavorando duramente, e adesso non intendeva perdere tempo nelle feste o nell'improbabile ricerca di un principe azzurro. Anziché socializzare, preferiva dedicarsi alle sue creazioni. Se aveva imparato qualcosa dal proprio ato, era di non dare mai niente per scontato: né le persone né le

situazioni. Ci si poteva svegliare un bel mattino e scoprire che era tutto scomparso. Perciò bisognava lavorare, studiare, non perdere tempo. E comunque, lei preferiva are le poche ore libere con la sua arte e con Mr. Moo. Salì sulla sua piccola utilitaria e si diresse verso casa, fermandosi al ristorante thailandese per una porzione di pollo in agrodolce e una mezza bottiglia di vino bianco. Come aveva detto Roxy, doveva festeggiare. Ce l'aveva fatta, pensò ancora incredula. Era arrivata al MOMA. Per un artista, il Museum of Modern Art di New York era il massimo. Se anche non avesse mai più fatto nient'altro di significativo, avrebbe sempre potuto dire che le sue creazioni erano state esposte al MOMA. Ma lei aveva intenzione di fare molto, molto altro. Questo era solo l'inizio. Arrivata al suo appartamento al terzo piano, depose sul pianerottolo il pacchetto del pollo, la borsa e i libri, poi aprì la porta e si preparò. Mr. Moo, chiamato così perché era grande, goffo e a macchie bianche e nere come una mucca, arrivò al galoppo dalla cucina. Sessanta chili di pelosa gioia canina si gettarono su di lei, atterrando con le zampone sulle sue spalle e facendola barcollare. Mr. Moo la baciò freneticamente, poi ricadde sulle quattro zampe e prese a correre in tondo all'impazzata. Skye cadde in ginocchio e lo abbracciò ridendo. «Anch'io sono contenta di vederti, Moo. Che ne dici di fare una eggiata?» Moo rizzò le orecchie e lei lo esortò: «Coraggio, va' a prendere il guinzaglio!». Avevano molto in comune, pensò Skye sorridendo tra sé. Lo aveva trovato abbandonato per strada quando era ancora cucciolo, lo aveva portato a casa e ne aveva fatto il suo compagno preferito, il suo amico, la sua famiglia. Moo la ricambiava con una dedizione assoluta. Mezz'ora più tardi, dopo una eggiata assai poco rilassante, Skye si scaldò il pollo, si versò un bicchiere di vino e sedette con Mr. Moo sul tappeto davanti al divano. Mentre mangiava e gli dava ogni tanto dei bocconi dal suo piatto, lo mise al corrente degli eventi della giornata. «Dovremo chiamare Sarah e dirle del Museo» disse sorseggiando il vino ghiacciato. «Sarà elettrizzata.»

Doveva tutto a Sarah, pensò ancora. Era stata lei a introdurla nel mondo dei gioielli, lei a seguire i suoi primi tentativi e ad aiutarla negli studi. Senza l'aiuto di Sarah, Skye non avrebbe mai superato il dolore devastante per l'abbandono di Chance. Non avrebbe mai ritrovato una ragione di vivere, si sarebbe accoccolata in un angolo e si sarebbe lasciata morire. Ma nonostante tutto non era stata capace di amare Sarah come una seconda madre. Ci aveva provato, con tutta se stessa, ma invano. La vita le aveva insegnato che quando si ama qualcuno si viene invariabilmente delusi. Per quante promesse ti facciano, tutti finiscono per spezzarti il cuore. A lei era successo due volte, ed era stata sul punto di morire di dispiacere, quindi era meglio non cascarci più. Perciò, adesso non si concedeva più il lusso di cedere al sentimento. Amava Mr. Moo, e basta. Si versò un secondo bicchiere di vino e lo sorseggiò godendosi il lieve stordimento provocato dall'alcool. Forse avrebbe dovuto fermarsi prima che lo stordimento diventasse torpore vero e proprio, ma che diavolo... era venerdì sera e lei non aveva altro da fare e nessuno con cui farlo. Avrebbe pagato l'indomani con un po' di emicrania... ma pazienza. Nella vita si paga tutto. Bastava esserne coscienti. Depose il bicchiere e carezzò Moo tra le orecchie. «Pronto per il dolce?» domandò. Lui abbaiò contento. Skye spezzò uno dei due biscotti della fortuna e lesse il bigliettino. «Dice che stai per raggiungere fama e fortuna. Complimenti, ragazzo mio. Posso partecipare anch'io?» Gli diede le due metà della cialda, che lui ingurgitò in un lampo, poi aprì il secondo biscotto. Attento a quel che desideri, diceva il biglietto. Potrebbe avverarsi. Skye scosse la testa. Com'era che Moo aveva avuto una previsione favorevole, e lei un avvertimento? C'era qualcosa che non quadrava! Diede a Moo il secondo biscotto, poi esaminò mentalmente l'elenco dei suoi desideri. Il primo, e il più ovvio, era diventare ricca, famosa e conosciuta nel mondo intero, come Paloma Picasso o Dorothy Monarch. Ma non bastava. C'era anche un altro sogno, assai meno facile da realizzare. Trovare l'uomo giusto: bello, ricco, gentile, comprensivo, con una famiglia che le volesse bene e l'adottasse. Ma soprattutto, un uomo che l'amasse con tale dedizione da non lasciarla mai, mai più. Con tale forza da convincerla a ricambiarlo, a donarglisi corpo e anima. Per sempre.

Skye bevve un altro sorso di vino. Ah, come sarebbe stato bello non essere più sola... Poi il suo pensiero corse alla madre e a Chance. E ai segreti che si nascondevano nel fondo della sua coscienza. Sospirò e si arrese, confessando a se stessa che il suo desiderio più grande era ritrovare sua madre. Quando fosse successo, lei avrebbe scoperto che la loro separazione era stata soltanto un orribile malinteso, e che per tutti quegli anni Claire aveva continuato disperatamente a cercarla, senza mai smettere di amarla. Ah, come sarebbe stato bello... Inghiottì il nodo che aveva in gola. Aveva pianto fino a non poterne più, per sua madre e per Chance. Adesso non voleva più versare nemmeno una lacrima. Levò il bicchiere in un ironico brindisi. Desiderava anche rivedere Chance, ma solo per fargli rimpiangere la sua crudeltà di un tempo e per farlo pentire di averle spezzato il cuore. Allora Chance avrebbe finalmente capito che tutti gli obiettivi raggiunti non erano niente in confronto al fatto di averla persa... D'improvviso, il vino prese un sapore aspro e sgradevole. Skye lo mise da parte, chiuse gli occhi e decise di completare il suo ridicolo elenco di desideri anche se ormai il gioco era diventato amaro e sterile. L'ultimo desiderio era praticamente irrealizzabile, ma lei lo formulò egualmente. Che qualcuno, o qualcosa, aprisse finalmente la porta segreta del suo ato, in modo da rivelarle i primi anni di vita e tutto ciò che sua madre non aveva mai voluto dirle. Solo allora si sarebbe sentita completa. Skye riaprì gli occhi e contemplò il biglietto. Sentiva un inizio di emicrania premere alle tempie. Come potevano i suoi desideri essere cattivi, tanto da augurarsi di non vederli realizzati?, pensò perplessa. Ah, erano tutte sciocchezze! Appallottolò il bigliettino, lo mise nella tasca del cardigan e andò in cucina a lavare i piatti.

17

Griffen esaminò pensieroso il biglietto da visita che la segretaria gli aveva deposto sulla scrivania.

Agenzia McCord Pubbliche Relazioni ed Eventi Speciali Chance McCord, Presidente

Quel nome non gli era nuovo. Lo aveva già sentito, riguardava qualcosa di importante... Griffen aggrottò la fronte cercando di ricordare. Aveva un'ottima memoria, che gli aveva permesso di studiare senza fatica e di diventare un eccellente uomo d'affari; e infatti, di lì a poco, il ricordo tornò. L'ultima volta che suo padre aveva avuto notizie di Madeline e Grace, era stato tramite un investigatore privato che aveva parlato con un tale in un Luna Park. Un ragazzo di nome Chance McCord. Forse questo tale costituiva un legame. Una traccia per arrivare a Grace! Il cuore di Griffen prese a battere disordinatamente nel petto. La famiglia non aveva mai più rintracciato né Grace né sua madre. Era come se le due donne fossero scomparse dalla faccia della terra. Infine Adam aveva rinunciato a cercarle, ma lui, Griffen, non si era mai arreso. E aveva sempre saputo che un giorno, chissà come, lui e Grace si sarebbero riuniti. Adesso, il destino gli regalava un'altra traccia. Forse, dopo molti lunghi anni, l'avrebbe ritrovata. «Signor Monarch» disse la segretaria bussando alla sua porta, «c'è Paloma Picasso sulla linea due.» «Le dica che la richiamo più tardi.»

La ragazza lo guardò stupita. «Ma... ma sta chiamando da Parigi, e sono giorni e giorni che cerchiamo di rintracciarla!» «Non mi importa da dove telefona o da quanto la inseguiamo. Le dica che la richiamo, poi torni qui.» La ragazza fece per protestare ancora, poi ci ripensò e obbedì. Griffen sogghignò. Gli ci erano voluti dei mesi, ma finalmente quella stupida stava imparando a non discutere i suoi ordini. E se pensava che lui fosse un bastardo, pazienza. Poteva benissimo sostituirla. Poco dopo la ragazza tornò, con le guance rosse di collera. «Eccomi, signor Monarch.» Griffen le mostrò il biglietto da visita. «Mi parli dell'uomo che ha lasciato questo.» «Be', è venuto senza appuntamento e voleva vedere lei, ma io gli ho detto che era impossibile...» «Che aspetto aveva?» La ragazza arrossì di nuovo. «Attraente. Sportivo, tipo quegli apionati di surf. Capelli chiari, occhi azzurri, un bel sorriso. E sembrava intelligente e ambizioso.» «L'età?» «Direi sulla trentina.» Griffen annuì e si alzò. «Non vada a casa, avrò ancora bisogno di lei.» Poi, senza aspettare la sua risposta, aprì la porta di comunicazione con l'ufficio di Pierce. Suo padre non c'era. Ormai veniva in ufficio di rado, perché la sua salute si era ulteriormente deteriorata, e benché ufficialmente figurasse ancora come presidente dell'azienda era Griffen che ne faceva le funzioni da più di due anni. Chiuse la porta, si avvicinò all'archivio privato di Pierce e lo aprì, usando la chiave che si era fatto fare di nascosto dal padre. Sfogliò alcuni documenti, poi trovò quello che cercava.

Il nome era lì, nero su bianco. Chance McCord era stato amico di Madeline e Grace, che viaggiavano con il Luna Park sotto il nome di Claire e Skye Dearborne e ad un certo punto erano scomparse. Il ragazzo aveva detto di non sapere dove fossero finite, ma l'investigatore privato assunto da Adam aveva avuto la sensazione che mentisse. Il rapporto dell'agenzia investigativa non diceva altro. Allegata al rapporto c'era una foto sfocata del ragazzo, presa con il teleobiettivo. Griffen osservò la foto, poi la staccò dal fascicolo e se la mise in tasca. La descrizione corrispondeva e anche l'età era giusta. Rimise a posto il fascicolo, chiuse il cassetto dell'archivio, si volse, e si trovò a faccia a faccia con la segretaria di Pierce. «Cercava qualcosa, signor Monarch?» chiese la donna in tono apertamente ostile. «Grazie, Joan. Ho già trovato quel che mi serve.» Griffen mise in tasca anche la chiave dell'archivio, e uscendo aggiunse: «Considerando quanto raramente mio padre viene in ufficio, Joan, mi sembra che lei potrebbe fare qualcosa di meglio che spiarmi». La donna strinse le labbra. «Seguo soltanto le istruzioni di suo padre.» «Quanta lealtà. Lei è un vero tesoro. Quando gli riferirà di oggi, me lo saluti.» Griffen richiuse la porta sorridendo tra sé e immaginando la faccia di Pierce quando avesse saputo che lui aveva la chiave del suo archivio privato. Poteva darsi che la rabbia gli causasse un altro attacco di cuore, il che sarebbe stato fantastico. Ma quel che era veramente fantastico era aver ritrovato un segno, un'indicazione che poteva aiutarlo a rintracciare Grace. Griffen sorrise di nuovo. Aspettava da molti anni quel momento, e adesso, nessuno gli avrebbe messo i bastoni tra le ruote.

San Francisco, California

La targa sulla porta diceva INTERROGATORI. Al di là della porta, il rumore della stazione di polizia si sentiva appena, ma l'aria era stantia e sapeva di

sigaretta e di vecchi giornali. Claire ava molto del suo tempo in camere simili a quella, immersa nella lettura dei giornali, incurante dell'atmosfera soffocante. Lo faceva volentieri, con dedizione ed entusiasmo. Perché nelle stanze come quella ritrovava una ragione di vita. Molto tempo era ato dal terribile giorno in cui si era affacciata sul fiume Ohio, pronta a togliersi la vita. L'improvvisa visione che glielo aveva impedito riguardava un bambino vittima di un rapimento; Claire era andata alla polizia, e le sue rivelazioni avevano contribuito a ritrovarlo sano e salvo. Da allora si era messa al servizio della polizia e delle famiglie che potevano aver bisogno di lei. Rifuggiva da ogni forma di pubblicità, ma era diventata piuttosto famosa. Per una triste ironia della sorte, i bambini scomparsi erano la sua specialità: aiutava gli altri a ritrovare i figli, ma non era stata in grado di trovare la propria. Eppure aveva tentato di tutto. Ogni volta che arrivava in una città nuova cercava sugli elenchi telefonici, scorreva i giornali del posto, andava negli archivi del comune e all'anagrafe. Non aveva ritrovato Skye, ma non si era mai arresa. Tolse gli occhiali e si massaggiò gli occhi affaticati. Era arrivata direttamente alla stazione di polizia dall'aeroporto, e ormai consultava i giornali da quattro ore filate. Si trattava di ritrovare una bambina di sei anni, scomparsa da una settimana dopo essere stata a trovare un'amichetta che abitava nella casa accanto. Claire rimise gli occhiali e portò la mano al petto. Là, sotto gli abiti, portava appeso al collo un piccolo scrigno che conteneva le gemme. Era convinta che le pietre fossero la chiave delle sue visioni, e non se ne separava mai. «Signora Dearborne... ha bisogno di qualcosa?» Claire si volse verso la porta e verso il giovane poliziotto. «Grazie. Mi porti gli elenchi telefonici della zona... e se non è troppo disturbo, magari un succo di frutta.» L'altro annuì. «Trovato niente?» domandò. «Sa, conosco la famiglia... sono davvero brave persone, e...» Claire scosse la testa. «Non ancora, ma sto facendo del mio meglio.» Non ebbe cuore di dirgli che temeva fosse già troppo tardi.

18

La telefonata di Griffen Monarch giunse del tutto inaspettata. Chance non sperava di arrivare più in là della segretaria, e invece era stato convocato dal presidente della Monarch in persona. Poiché era in anticipo, rallentò il o e osservò l'edificio, chiamando a raccolta tutta la calma e la disinvoltura che possedeva. Non poteva farsi vedere troppo ansioso, sarebbe stato come firmare la propria condanna a morte. Doveva apparire tranquillo, rilassato, distaccato. Esaminò le sontuose vetrine e gli uffici che occupavano parte del palazzo su Michigan Avenue. Le porte del negozio, in pesante vetro incorniciato da una filigrana di ottone e ferro battuto, erano state disegnate dal capostipite della famiglia Monarch circa un secolo prima. Sul massiccio portone, come a vegliare sulle floride sorti dell'azienda, svettava la statua di una Vittoria alata. Chance sorrise tra sé. È il tuo momento d'oro, McCord. Adesso vedi di non rovinare tutto. Un portiere in livrea gli aprì le porte, e con un cenno Chance traversò il lussuoso negozio con le sue luci soffuse. Clienti e commessi parlavano nello stesso tono sommesso, quasi reverente, come se si trovassero in un tempio. Dirigendosi verso l'ascensore, Chance riò tutto ciò che aveva studiato nelle ultime quarantott'ore. Sapeva che la Monarch era partita come un piccolo negozio di gioielleria, e negli anni si era trasformata in una compagnia internazionale dai molti interessi. Sapeva che esistevano dieci boutique Monarch nel mondo, e che al di fuori di questo circuito privilegiato le creazioni Monarch venivano distribuite soltanto presso alcune delle gioiellerie più esclusive. ando, Chance osservò le bacheche di cristallo e fu colpito da alcuni pezzi squisiti adagiati sul velluto verde scuro. Non c'era da meravigliarsi che la creazione dei gioielli fosse ancora l'interesse principale della famiglia e costituisse per così dire la pupilla dei loro occhi. Chance fu accolto dalla segretaria di Griffen Monarch, rifiutò la tazza di caffè

che lei gli offriva e rimase in piedi nella sala d'aspetto, esaminando le foto appese alle pareti. Molte riproducevano le creazioni Monarch più famose, altre ritraevano i membri della famiglia a fianco di celebrità come Elizabeth Taylor, il presidente Kennedy, Grace di Monaco. «Lei è puntuale al secondo, signor McCord» disse una voce. «Questo mi piace.» Chance si voltò. Si era aspettato un uomo attempato e distinto, dai capelli brizzolati, ma quello che veniva verso di lui aveva press'a poco la sua età ed era bello come una star del cinema. Indossava un completo di Armani e un orologio Cartier, e si muoveva con la fluida disinvoltura di chi è ricco, e vincente, da generazioni. Insomma, Griffen Monarch era il simbolo di tutto ciò che Chance sperava di diventare. «Sono lieto di conoscerla, signor Monarch.» «Oh, mi chiami Griffen. Venga, parleremo nel mio ufficio.» L'ufficio era semplicissimo, quasi spartano, ma nonostante ciò trasudava opulenza. La scrivania di acciaio e cristallo, i due divani di pelle grigia, i pochi quadri alle pareti, il tavolino di cristallo fumé, tutto appariva elegante ed estremamente costoso. I due uomini sedettero su un divano e Chance esordì: «La ringrazio di avermi ricevuto». «L'ho sorpresa» disse Griffen. Non era una domanda. Chance sorrise. «Sì, in effetti è così.» «Allora, mi parli di lei» lo esortò Griffen. «Chi è Chance McCord?» Chance gli fece un breve riassunto delle proprie attività. «Come vice presidente del settore Eventi Speciali della Adams & Sloane ho curato i concerti dell'Orchestra Sinfonica di Chicago, le esposizioni del Museo di Arte Contemporanea, il Festival del jazz...» «Sì, conosco i clienti di Adams & Sloane. Quel che vorrei sapere è perché ha lasciato l'agenzia.» «Per due ragioni. Prima di tutto perché volevo una cosa mia. Ho sempre sognato di mettermi in proprio, e questo era il momento adatto. Secondo, con loro non

potevo arrivare più in alto di così. Lei saprà sicuramente che le relazioni pubbliche e gli eventi speciali sono solo un ramo di Adams & Sloane. Il loro interesse principale resta la pubblicità, e lì io non ho capacità specifiche. Perciò, restando con loro avrei continuato a fare le stesse cose per trent'anni, senza avanzare di un centimetro. Non faceva per me.» «Oggigiorno tutti sono ambiziosi» commentò Griffen. «Ma mi dica, che cosa può fare la sua agenzia per me?» Dunque, Griffen Monarch andava dritto al sodo senza tanti giri di parole. Chance si chinò in avanti per dare maggior enfasi alle sue idee. «Prima di tutto, dobbiamo dare maggiore visibilità all'azienda, per esempio facendo indossare le creazioni Monarch alle celebrità. Lo avete già fatto, ma non di recente e non abbastanza. Si avvicina la cerimonia degli Oscar. Io vorrei che le presentatrici della cerimonia e le attrici premiate indossassero un vostro gioiello. Secondo, ho dei contatti con la direzione di Vanity Fair e posso fare in modo che le celebrità fotografate in copertina portino i gioielli Monarch. Ma non dobbiamo fermarci a una sola testata. Possiamo contattare i fotografi, gli art directors e gli editori delle maggiori riviste e far pubblicare copertine e servizi su gente famosa che indossa le vostre creazioni.» Griffen non disse niente e lo lasciò continuare. «Anzi, ora che ci penso, perché non pubblicare un servizio su Adam e Dorothy Monarch nel prossimo numero di Vanity Fair? La famiglia Monarch può essere per gli americani ciò che la famiglia reale è per gli inglesi. Dobbiamo spiegare meglio al pubblico chi sono i Monarch e perché sono così importanti. Dobbiamo far sì che il loro nome sia noto in tutti gli ambienti, come e più di Tiffany.» Ormai Chance era lanciato, e il silenzio di Griffen non faceva che rinfocolare il suo entusiasmo. «Perché non è mai stato pubblicato un libro sulla famiglia Monarch? Tiffany ne ha fatti due, I 150 anni di Tiffany nel millenovecentottantasette e I miei anni con Tiffany tre anni dopo. Belle foto, carta patinata, edizioni di lusso. Tutto questo aumenta la conoscenza da parte del pubblico e di conseguenza incrementa le vendite.» Adesso l'interesse di Griffen si era risvegliato, e l'uomo lo ascoltava intento. «Perché negli ultimi anni si è scritto così poco sulla famiglia? Ho fatto delle ricerche, ma ho trovato solo qualche trafiletto nelle colonne mondane o qualche

scarno resoconto su una riunione di beneficenza. Troppo poco. Questo deve cambiare.» «Fino a quando è risalito?» domandò improvvisamente Griffen. «Fino a circa otto anni fa.» «Continui.» «Monarch è uno dei monumenti di Chicago, come la torre Sear o l'albero di Natale di Marshall Field» riprese Chance. «Monarch dev'essere nell'elenco delle cose da vedere di chiunque venga in questa città, come Tiffany a New York.» «E lei può fare tutto questo?» «Sì. Badi bene, qualcosa si potrà realizzare subito, altre cose richiederanno più tempo. L'azienda si è nascosta troppo a lungo. Pensi a un lampadario di cristallo tutto illuminato, che però si trova dietro una finestra dalle tende scure. Il mio compito è di strappar via le tende e far sì che la gente veda la luce. Adesso, posso farle una domanda?» Griffen fece un cenno affermativo. «Dica.» «Perché ha chiamato me? Lei si serve da Price & Stevenson da anni, e a quanto so è soddisfatto dei loro servigi.» «Infatti, non ho motivo di lamentarmi. Solo che mi hanno un po' annoiato.» Griffen si alzò e andò alla finestra che si affacciava su Michigan Avenue. «La mia segretaria mi ha detto che lei sembrava ambizioso e intelligente. Mi sono parse qualità utili.» «Utili» ripeté Chance. «Interessante, la sua scelta del termine.» Griffen si era voltato, e lui notò per la prima volta l'insolito blu fiordaliso dei suoi occhi. Skye era l'unica altra persona che avesse occhi di quel colore. «Sono qualità preziose» riprese Griffen. «Chi è spinto dall'ambizione di solito arriva in alto. La gente di Price & Stevenson si ritiene già arrivata, ed è un po' piatta.» «Ma non manca di qualità.»

«Certo no. Nel loro campo sono i più famosi e hanno esperienza e conoscenze.» «Le conoscenze si possono fare» replicò Chance. «Io ho poco personale, ma proprio per questo non le verrei a costare una fortuna. E lavorerei come un pazzo. Per me, un cliente come la Monarch verrebbe prima di tutti gli altri. Può dire altrettanto di Price & Stevenson?» «Ah, questa è la domanda da un milione di dollari!» Griffen si avvicinò e gli tese la mano. «Mi farò vivo. Grazie di essere venuto.» Ecco, pensò Chance delusissimo. Il colloquio era finito, e lui ne sapeva quanto prima. Strinse la mano dell'altro e disse: «Se crede, posso farle una proposta scritta di quel che la mia agenzia potrebbe fare per lei». «Vedremo» fece Griffen accompagnandolo alla porta. «Come le ho detto, mi farò vivo.» Poi lo guardò dritto in faccia e domandò: «Le piacciono le sorprese, Chance?». «Perché no?» «Giusto, perché no?» Griffen sorrise. «Può darsi che gliene faccia una.»

In effetti la sorpresa venne, e grossa. Chance non pensava di ricevere più notizie da Griffen Monarch, ma evidentemente aveva ato l'esame perché la settimana dopo Griffen lo chiamò, e poi cominciarono a incontrarsi regolarmente. Come Chance aveva pensato vedendolo la prima volta, Griffen Monarch era tutto ciò che lui desiderava diventare. Era ricco, attraente, sofisticato, istruito. Aveva successo negli affari. Possedeva abiti eleganti, scarpe italiane, una Porsche che doveva essere costata l'equivalente di un anno di stipendio di una persona normale. Ma soprattutto, aveva il potere. E nonostante tutto, non era snob o presuntuoso come Chance aveva immaginato. Non era stupido e pigro come molti ricchi, che non avevano mai dovuto faticare per ottenere quello che avevano. Non era ottuso ed egocentrico. Non pensava solo a se stesso.

Il padre di Chance, invece, era stato proprio così. Un ragazzo ricco e viziato che non si curava di niente e di nessuno, e men che meno della graziosa ragazza che aveva incontrato in un bar e che gli aveva dato un figlio non desiderato e quindi subito respinto. Griffen teneva alla famiglia e alle tradizioni, e in lui non c'era nulla di vacuo o di superficiale. Si faceva un dovere di conoscere e sorvegliare tutto dell'azienda, dalle mansioni del più umile fattorino alle decisioni prese nella stanza dei bottoni. Ed era molto intelligente, di un'intelligenza pronta e acuta che sapeva prevedere con sconcertante intuito le mosse dei rivali. Chance lo aveva visto stendere un concorrente anche solo con una frase piazzata al momento giusto, e si augurava di trovarsi sempre dalla stessa parte della barricata, perché capiva che Griffen Monarch sarebbe stato un nemico pericolosissimo. A volte, quando sorprendeva lo sguardo dell'altro su di sé, Chance aveva addirittura la sensazione che sapesse di lui molto più di quanto dava a vedere. E questa era la sola cosa del suo nuovo amico che lo mettesse un po' a disagio. In quel momento la sua segretaria lo avvertì che Griffen Monarch era al telefono, come se i pensieri di Chance lo avessero evocato. «Ehi, salve» disse Chance prendendo il ricevitore. «Che posso fare per te?» «Puoi dirmi se sei libero venerdì sera.» «Libero come l'aria. Di che si tratta?» «Il nonno dà un ricevimento. Ci saranno alcuni grossi nomi, e ho pensato che la cosa potrebbe divertirti.» «Direi di sì. A che ora, e dove?» «A casa nostra in Astor Street, alle otto. Ci vediamo venerdì, intesi? Adesso devo scappare.» Chance tenne a lungo la cornetta accostata all'orecchio, ascoltando il segnale. Un'altra sorpresa, pensò. Un invito nel sancta sanctorum di famiglia. Non sapeva più che pensare. Griffen continuava a incontrarlo, ma finora non gli aveva mai parlato di lavoro. E adesso, l'invito...

Depose il ricevitore e scosse la testa. Perché farsi tante domande?, pensò. L'invito in Astor Street poteva aprirgli molte porte, e tanto valeva approfittare dell'occasione. Sarebbe stato fruttuoso e probabilmente anche divertente.

Con un sorrisetto, Griffen osservò Chance che si muoveva tra i potenti di Chicago. Tutto stava andando secondo i suoi piani, Chance stava acquistando fiducia e questo gli avrebbe fatto abbassare la guardia. Ben presto, lui avrebbe scoperto tutto ciò che Chance sapeva su Grace. La sentiva vicina, d'istinto. Se chiudeva gli occhi, poteva immaginare il suo profumo, il suono del suo respiro, la sua pelle sotto le dita. Certo, doveva essere cambiata. Allora era solo una bimba, liscia e morbida e intatta... poi Madeline gliel'aveva portata via, e adesso sarebbe stata diversa. Forse, già guastata dal tocco di altri. Griffen cercò di tenere a bada la furia che montava dentro di lui, di soffocarla come aveva imparato a fare con tutte le emozioni, e dedicò nuovamente la sua attenzione a Chance. Non gli era sfuggita l'ammirazione quasi reverenziale che l'altro nutriva per lui. Capiva di rappresentare tutto ciò che Chance desiderava diventare, e proprio per questo sapeva che avrebbe potuto manipolarlo con estrema facilità. Poteva aprirgli molte porte, guadagnarsi la sua fiducia incondizionata e ottenere da lui tutte le informazioni che voleva. Poi, quando McCord non gli fosse più servito, poteva buttarlo a mare senza pensarci due volte. Adorava questa sensazione di potere assoluto. Fece un cenno distratto in risposta alla frase della sua interlocutrice. Louella Peterson, moglie di uno degli avvocati dell'azienda, gli aveva fatto capire più volte che sarebbe stata bel lieta di andare a letto con lui. Griffen la trovava noiosa e insulsa, ma il fatto che fosse legata ad uno dei suoi collaboratori poteva rendere l'intermezzo piuttosto divertente. Forse avrebbe accettato l'offerta, magari subito prima di una partita di golf con il marito. Chissà se il poveretto sarebbe stato in grado di avvertire l'odore di sua moglie su di lui. Notò che Chance era al secondo Martini, e che si stava presentando al sindaco con grande disinvoltura. Non si poteva dire che fosse un tipo timido. Anzi, era brillante, motivato e ambizioso, perfino troppo. Tutte qualità che lo rendevano

facile da controllare. Griffen sussurrò qualcosa di lascivo all'orecchio di Louella, poi si scusò e avanzò verso il suo ospite. «Chance. Sono lieto che tu sia potuto venire.» «E io sono ancora più lieto di essere qui.» Chance gesticolò con il bicchiere semivuoto. «Bel posticino davvero.» «Sai come si dice, casa dolce casa» fece Griffen con un'alzata di spalle. Poi accennò ad Adam, che stava accanto al bar con un gruppetto di banchieri. «Hai già conosciuto mio nonno?» «Non ancora.» «Allora vieni, te lo presento.» Griffen fendette la folla salutando qualcuno qua e là e presentando Chance, poi si fermò di fronte ad Adam. «Nonno, questo è Chance McCord.» «Signor Monarch» disse Chance tendendo la mano, «conoscerla è un vero piacere!» Adam gli diede una pacca sulla spalla. «Griffen mi ha molto parlato di lei, ragazzo mio. Si prenda qualcosa da mangiare. È una cosa che mi fa impazzire, spendo una fortuna per il cibo e nessuno mangia!» «Sono tutti troppo impegnati a bere» rise Griffen, «compreso papà.» Adam si incupì e seguì lo sguardo del nipote fino all'altro lato della sala. Pierce aveva già bevuto più che abbastanza, e si vedeva. La sua propensione all'alcool era un imbarazzo per tutta la famiglia, e Griffen non mancava mai di sottolinearlo quando parlava con suo nonno. Vide che anche Chance guardava Pierce e sorrise tra sé. Così adesso lo sapeva. Chissà, questo poteva venire utile in futuro. Poco dopo, allontanandosi dal gruppetto, Griffen osservò: «Sembravi piuttosto impressionato dal nonno». Chance ridacchiò imbarazzato. «E come potrei non esserlo? Adam Monarch è una leggenda!»

«Sì, questo è vero.» Griffen esitò e aggiunse: «Chiedo scusa per poco fa. Papà è per così dire la pecora nera della famiglia. Non dovrebbe bere perché ha già avuto due infarti, ma lui non dà retta a nessuno e continua imperterrito. E per il nonno è un imbarazzo quando si riduce così, specialmente in pubblico». Scrollò la testa e riprese: «Come avrai capito, tra me e mio padre non c'è un grande amore. Posso dire che il mio vero padre è stato il nonno. Ma adesso basta parlare di me. Vieni, voglio farti conoscere un paio di persone interessanti». E nella mezz'ora che seguì lo presentò a destra e a manca, dicendo a tutti di aver scoperto un nuovo talento. Era un esperimento divertente. Gli interpellati abbandonavano subito le loro conversazioni e gettavano occhiate scrutatrici al nuovo venuto. Il garbato disinteresse diventava aperta curiosità. Tutto perché era lui, Griffen Monarch, a presentare Chance McCord e in un certo senso a farsene garante. Dopo un po', lasciò Chance con la scusa di dover fare delle telefonate importanti e lo osservò di lontano, curioso di vedere come si sarebbe comportato. Chance non lo deluse. Si diresse verso i pezzi più grossi e riallacciò la conversazione avviata poco prima, sicuramente portando il discorso sugli affari di ognuno di loro e su ciò che la sua neonata agenzia avrebbe potuto fare per migliorarli. Era probabile che entro la fine della serata Chance avrebbe avuto una mezza dozzina di biglietti da visita in tasca e un paio di appuntamenti già fissati. E sarebbe stato al settimo cielo. E allora, Griffen avrebbe cominciato a interrogarlo su Grace. Il momento era perfetto. Alcune ore dopo, mentre la festa stava per finire, Griffen si riavvicinò a Chance. «Resta ancora un po', vecchio mio. Saluto un po' di gente poi parliamo, d'accordo? Ci troviamo in biblioteca tra dieci minuti.» «D'accordo.» Chance barcollava lievemente, ma non erano stati solamente i quattro drink a fargli quell'effetto. Griffen sorrise tra sé. Anche lui sarebbe stato un po' brillo se si fosse trovato nei panni dell'altro. Dieci minuti dopo, entrò in biblioteca silenziosamente, com'era sua abitudine. Chance era in piedi davanti al caminetto e osservava le foto allineate sulla mensola. «Allora, come ti è parsa la nostra festicciola?»

L'altro si volse di scatto. «Non ti ho sentito entrare!» Griffen rise. «La mia tata diceva sempre che mi muovo come un gatto.» Chance indicò una foto in cui Griffen, adolescente, sollevava trionfante il trofeo vinto in una gara di golf. «Esiste qualcosa che non sai fare?» domandò ridendo. «Tu giochi a golf?» «Faccio aria alla palla, più che altro.» Chance si chinò a osservare una foto di Griffen e della piccola Grace in piedi davanti a un grande albero di Natale. Griffen si era preparato a eventuali domande, perché si rendeva conto che prima o poi l'altro avrebbe saputo di Grace. Il trucco consisteva nell'impedirgli di collegare Grace a Skye. «Quella è mia sorella Grace» disse prima che Chance fe commenti. «Era la mia sorellastra, in effetti. È morta.» «Mi dispiace.» «Anche a noi è dispiaciuto tanto. Ho avuto due sorellastre, e ho perduto entrambe. In famiglia...» Griffen si schiarì la gola come se fosse sopraffatto dai ricordi dolorosi, «in famiglia abbiamo avuto un certo numero di tragedie. I soldi non ti proteggono dai colpi bassi della vita... da quelli piccoli, forse, ma dalle tragedie no. Ho bisogno di un brandy. Mi fai compagnia?» Chance sorrise. «Credo di aver già bevuto più che abbastanza.» «Oh, dai, è venerdì sera... Se non te la senti di guidare lascia qui la macchina e torna a casa in taxi!» Griffen riempì due bicchieri e gliene porse uno. Voleva che la testa di Chance fosse appesantita dall'alcool, che i suoi riflessi fossero un po' obnubilati. Ubriaco, avrebbe parlato più liberamente. Chance prese il bicchiere e lo osservò perplesso. «Sai, di solito non bevo superalcolici. Sono più un tipo da birra, io. Al massimo da vino rosso.» «Il classico ragazzo allevato ad hamburger e partite di baseball, eh?» «Più o meno.»

«Una volta o l'altra dobbiamo andare a vedere i Cubs.» Griffen sedette sul divano di fronte a lui. «Hai conosciuto gente interessante, stasera?» «Molto interessante. Ho una manciata di biglietti da visita e un paio di appuntamenti.» Dio, quanto gli piaceva aver ragione. Griffen bevve un sorso di brandy e partì all'attacco. «Di dove sei, Chance?» «Di nessun posto e di tutti.» «No, dico sul serio. Dove sei nato?» «A Los Angeles.» «E hai sempre vissuto lì?» «No. A sedici anni sono andato a vivere con mia zia in Pennsylvania, in una fattoria Amish.» Griffen rise. «Ma dai. Tu, in una fattoria?» «Proprio così.» «E come hai fatto ad atterrare a Chicago, partendo dalla California e ando da una fattoria Amish?» Chance rise. «La storia è piuttosto strana. È successo grazie a un Luna Park. Piccolo e un po' malandato, ma completo di chiaroveggente e di otto volante. Il vecchio Marvel, il proprietario, ci faceva rigar dritto con una mazza da baseball. Che strano periodo è stato quello...» Il Luna Park di Marvel. Il nome corrisponde. È quello con cui Madeline e Grace hanno viaggiato per un'estate, pensò Griffen respirando a fondo e nascondendo il proprio trionfo, poi si chinò in avanti con una risatina. «Dici sul serio? Anche la chiaroveggente?» «Già. Ma è ato tanto tempo...» Chance si alzò e andò a deporre sul mobile bar il suo bicchiere intatto. «A un certo punto ho lasciato il Luna Park, ho girato un po' e sono finito qui.»

«Be', è una bella storia. Mi piace.» «Ah, davvero? E perché?» «Intanto è diversa dal solito, e molto meno noiosa della mia, per esempio.» Griffen si guardò intorno. «Renditi conto. Sono nato qui, cresciuto qui, non mi sono allontanato nemmeno per l'università!» Chance rise. «Sì, puoi definirlo noioso.» Griffen si alzò. «Bene, vecchio mio, che ne diresti di gestire le relazioni pubbliche per la Monarch? Per ora vediamo come te la cavi con questo. In seguito, magari, potrai occuparti anche di qualcun altro dei nostri settori.» Chance scrollò la testa come se non afferrasse appieno le parole dell'altro. «Sì, hai capito bene, ti sto offrendo un contratto esclusivo. Allora, che mi rispondi? Lo vuoi?» «Diavolo, sì! Certo che lo voglio!» «Bene.» Griffen gli tese la mano. «Allora, benvenuto a bordo.» Rise e aggiunse: «Ti avevo detto che ti avrei sorpreso, no?». «Lo hai fatto, Griffen, eccome. Ma sorpresa è un termine troppo blando... mi hai letteralmente tolto il fiato.» «E non hai ancora visto niente» replicò l'altro, divertendosi un mondo. «Credi a me, il meglio deve ancora venire.»

Il pub si trovava a Lincoln Park, di fronte allo zoo, ed era affollato di giovani impiegati che prendevano un aperitivo prima di tornare a casa. Griffen sedeva da solo a un tavolo in fondo alla sala, in una posizione che gli permetteva di vedere chi entrava e chi usciva. Aveva imparato da suo nonno a non sedere mai dando le spalle alla sala, e quell'abitudine gli era stata utile in più di un'occasione. Controllò l'orologio e fece una smorfia seccata. Aspettava Chance da dieci minuti, il che era francamente irritante. Di solito nessuno si permetteva di far

aspettare Griffen Monarch, e men che meno una nullità come Chance McCord. Bevve un sorso di birra per calmare la frustrazione. Dalla sera di due mesi prima, quando aveva avuto la certezza che Chance fosse lo stesso ragazzo che aveva conosciuto e frequentato Grace e Madeline, non aveva più saputo niente di utile. Anzi, gli pareva che Chance fosse particolarmente reticente sull'argomento, e anche questo era francamente irritante. Lui aveva bisogno di indicazioni, un nome, un posto, su cui i suoi investigatori potessero lavorare. Ma non poteva fare domande precise, o si sarebbe tradito. E così continuava a vedere Chance, lasciando trapelare di quando in quando piccole informazioni personali nella speranza che Chance fe altrettanto. Si trovavano per cena, erano andati alla partita, Griffen lo aveva invitato ad altri due o tre ricevimenti, sempre nella speranza di scoprire qualcosa su Grace, o meglio su Skye Dearborne, per usare il suo nuovo nome. Ma adesso erano a un punto morto. E quel povero idiota di McCord si credeva il genio delle relazioni pubbliche. Si era procurato una mezza dozzina di nuovi clienti, e si pavoneggiava del suo successo in modo addirittura patetico. Griffen socchiuse gli occhi. Era stato lui, Griffen Monarch, a procurargli tutti quei contatti! Era stato divertente vedere le porte che si spalancavano per Chance McCord, divertente perché lui sapeva che si potevano richiudere dall'oggi al domani con la stessa facilità. Lui aveva creato la fama di Chance, lui poteva distruggerla. E lo avrebbe fatto di sicuro, quando l'altro avesse smesso di essergli utile. Si trattava soltanto di avere un po' di pazienza. «Salve, bell'uomo.» Griffen alzò lo sguardo su una bionda spettacolosa, con una mini di pelle nera e una blusa generosamente scollata. «Mi chiamo Trixie» si presentò la bionda. Griffen la squadrò da capo a piedi, lentamente. «Salve, Trixie.» «Ho visto che eri solo... e ho pensato che potevamo tenerci compagnia per un po'.» «Che peccato, sto aspettando un collega di lavoro... Non mi faresti un buono per

la prossima volta?» «Sì, un vero peccato» disse la ragazza. Si sporse su di lui, gli prese dal taschino la Mont Blanc, poi gli aprì la mano e scrisse sul palmo nome e numero di telefono. «Così non lo perdi» sorrise. «Spero che lo ai.» «Ci puoi contare.» La ragazza gli gettò un bacio, si volse e andò a sbattere contro Chance. «Accidenti» disse lui sedendosi di fronte a Griffen. «Spero di non aver interrotto qualcosa di interessante...» Griffen sollevò il palmo con un sogghigno. «Non c'è problema, posso rimediare più tardi.» «Sei incredibile» rise Chance. «Com'è che tutte ti cadono ai piedi? Non vorrei mai trovarmi a competere con te per la stessa donna. Mi faresti a pezzi.» «L'hai detto, amico. L'hai detto.» Chance ordinò la sua birra, poi spiegò: «Scusa il ritardo, ho ato mezz'ora al telefono con Vanity Fair. È confermato, in febbraio avremo Demi Moore in copertina. Con indosso dei gioielli Monarch e poco altro». «Bel colpo. Non è che è anche incinta, per caso?» Come tutti, Griffen ricordava la famosa copertina di qualche tempo prima, che ritraeva l'attrice al settimo mese, completamente nuda. «Che io sappia no. Peccato, eh? Quella è stata una vera trovata.» «Ora dobbiamo trovare i pezzi da farle indossare.» «Oh, sono certo che c'è un'ampia scelta.» «Sì, ma bisognerebbe avere qualcosa di speciale. Qualcosa di nuovo, che sia stato creato apposta. E Dorothy non è in grado di farlo.» Chance aggrottò la fronte. «È malata?» «No, ma è troppo vecchia per lavorare con il ritmo di un tempo, si stanca presto,

e la sua creatività non è più la stessa. Fa delle cose banali, superate, se ne rende conto e questo la deprime ancora di più. Siamo tutti preoccupati, specialmente il nonno.» «Ma avete cominciato a cercare qualcuno che la sostituisca, no?» Grace è l'unica che può sostituirla. E io non ho mai smesso di cercarla, pensò Griffen. «Papà ha cominciato fin da molti anni fa, ma il nonno non ha mai voluto sentirne parlare. Vedi, c'è sempre stato un Monarch alla direzione artistica dell'azienda. È più di una tradizione, è una specie di... di destino... ma ormai non abbiamo scelta, dovremo assumere qualcun altro.» «Vorrei poterti aiutare» disse Chance. «Un tempo conoscevo una disegnatrice di gioielli... ma è stato secoli fa.» «Dammi il suo nome, la chiamerò.» Chance rise. «Oh, non credo che andrebbe bene. Faceva più che altro gioielli artigianali, e insegnava educazione civica agli adulti, all'università di Dekalb in Indiana. Era una signora dolcissima, con un cuore grande così. Ma l'artista più straordinaria che ho conosciuto non era lei, era una ragazzina.» Griffen si sentì venir meno. «Come, una ragazzina?» «Sì, quasi una bambina. Da allora non ho mai più visto un talento come il suo. Guarda qua.» Chance prese il portafoglio e ne estrasse un foglio di carta ripiegato e un po' consunto. «Lo disegnò per me, e all'epoca aveva solo dodici anni.» E gli porse il frammento di un disegno, un ranocchio somigliante a Chance con una corona in testa. Dodici anni. L'età che aveva Grace quell'estate, quando erano stati sul punto di ritrovarla. Griffen cercò di nascondere la propria eccitazione, cosa piuttosto difficile perché gli tremavano addirittura le mani. «Accidenti» disse studiando il disegno. «Era davvero brava. Ma perché un ranocchio?» «È una lunga storia...» «Ho tutta la sera, se vuoi.» E così Chance cominciò a raccontare il suo arrivo al Luna Park di Marvel, la sua

conoscenza con Skye, la persecuzione cui lei l'aveva sottoposto. «Mi seguiva dappertutto, era un vero tormento, e così gli altri ragazzi cominciarono a prenderci in giro e finì che tre dei più tosti mi misero in mezzo.» Chance sorrise con nostalgia. «Dopo di che la presi su come un sacco di patate e la portai di peso da sua madre. Ragazzi, quanto si arrabbiò! Anche sua madre si arrabbiò, ma con lei. Poi mi fece questo disegno per chiedere scusa, diventammo amici e ammo insieme il resto dell'estate, tutti e tre.» Grace. Buon Dio, aveva trovato Grace. «Comunque, né lei né sua madre erano della stessa pasta di quella gente del Luna Park. E non lo ero nemmeno io... infatti appena possibile me ne andai. E qui finisce la storia.» «Ma non può finire così!» esclamò Griffen chinandosi in avanti, con il cuore in gola. «Che fine fecero la ragazza e sua madre?» Chance esitò. «Vedi, non l'ho mai raccontato a nessuno, e non so perché. Ma immagino che non abbia più importanza, dopo tanti anni...» «Adesso sì che mi incuriosisci.» Griffen rigirava una scatola di fiammiferi tra le dita, ma quello era il solo segno esteriore del suo nervosismo. «Ti trovasti coinvolto in qualche intrigo?» «Be', forse si potrebbe definirlo così. Una sera Claire, sua madre si chiamava così, mi chiese di restare con la figlia mentre lei andava in città a fare una telefonata. C'era un violento temporale...» E Chance raccontò che Claire era ritornata, bagnata fradicia e in preda al terrore, e lo aveva supplicato di restare ancora con Skye finché una sua amica non fosse venuta a prenderla la mattina dopo. Lei era fuggita quella notte stessa, da sola. Però l'amica di Claire non si era mai fatta viva, e quando un investigatore privato era comparso al Luna Park e aveva cominciato a fare un mucchio di domande, lui e la ragazza erano fuggiti. Griffen era senza parole. E pensare che in tutti quegli anni loro avevano cercato due donne, madre e figlia! Madeline si era beffata di loro, per molti lunghi anni! «E dopo qualche mese la lasciai a Dekalb, con la creatrice di gioielli e suo marito. Sarah e Michael erano due brave persone, e io dovevo darle una famiglia, capisci?»

Griffen lasciò cadere le mani in grembo, stringendole spasmodicamente. «E che fa la tua amica adesso? Ti sei mantenuto in contatto con lei?» «No. Mi sembrava meglio così, per tutti e due. Sapevo di lasciarla in buone mani.» «E hai mai saputo da che cosa fuggivano?» domandò Griffen. Doveva sapere se Chance gli aveva detto tutta la verità, visto che era stato così reticente sui nomi. «No, ma credo che il pericolo fosse effettivo. Voglio dire, Claire adorava la figlia e non l'avrebbe mai lasciata se non fosse stata convinta di agire per il suo bene. Quell'investigatore tirò fuori la scusa di un'eredità, ma mi sembrò pura invenzione.» «Non è detto. Tutti hanno qualche lontano parente, che so, una prozia o un nonno.» «Loro no, almeno, questo era ciò che Claire aveva sempre detto. Diceva che il padre di sua figlia era morto, e la ragazzina non ricordava niente di quello che le era successo prima dei cinque anni. Adesso la chiamano sindrome da memoria repressa, o qualcosa del genere. Lei ci impazziva, ed era convinta che sua madre le nascondesse qualcosa.» Oh, altroché, pensò Griffen reprimendo un sorrisetto. Ma se era così, era perfetto. Grace non sapeva chi era! «Mi prendi in giro» disse ridacchiando. «Memoria repressa, andiamo! Sembra la trama di una telenovela!» «Giuro che è la pura verità» disse Chance mettendosi la mano sul cuore. «A volte, la vita reale è molto più strana della finzione.» «Verissimo.» Griffen avrebbe voluto fargli un terzo grado, sapere com'era Grace, che aspetto aveva, quali erano i suoi gusti e le sue ioni, ma naturalmente non lo fece. Restò lì seduto a parlare del più e del meno per un'altra mezz'ora, discutendo la copertina di Vanity Fair e il campionato di baseball, ma dentro di sé urlava di giubilo. Grace stava per tornare a casa.

19

L'uovo era d'oro rosso, ricoperto da una rete di filigrana di oro bianco tempestata di diamanti, e si apriva per rivelare l'interno smaltato di blu cobalto. Nel coperchio c'era un piccolo dipinto trompe-l'oeil che raffigurava una farfalla imperiale. Era stato creato da Dorothy per la nascita della nipotina Grace. Tutti i membri della famiglia avevano un uovo, ma nessuno era bello come quello di Grace. Il che era giusto, pensò Griffen con un sorriso, visto che nessuno era bello, delicato e perfetto come la sua Grace. Ben presto sarebbe tornata a casa, pensò. L'aveva vista in fotografia, sapeva tutto di lei. Finalmente. Ripose l'uovo sul piedistallo e lo rimise nella bacheca, accanto al suo. Molto giusto anche questo, perché d'ora in poi sarebbero stati l'uno accanto all'altro per sempre. Una volta saputo da Chance il nome e l'indirizzo delle persone con cui viveva, rintracciare Grace era stato semplicissimo. E adesso Griffen sapeva tutto di lei. I suoi gusti, le sue aspirazioni, i suoi sogni. E il suo ato. Aveva preso il diploma al liceo di Dekalb, poi si era iscritta all'università dell'Illinois e si era laureata in storia dell'arte a pieni voti. E così aveva vinto una borsa di studio per l'Istituto del Design di Rhode Island. Aveva pochi amici, non aveva fidanzati ed era piuttosto riservata. E grazie all'indiscutibile talento aveva già partecipato ad un buon numero di esposizioni, compresa una al MOMA di New York. Griffen aveva visto i suoi lavori e aveva parlato con i suoi insegnanti, non sentendo altro che elogi. Grace era davvero un'artista, come Adam aveva sempre sostenuto. Aveva il dono. Il solo fatto di parlare di lei al telefono lo aveva eccitato talmente che dopo aver riappeso era corso nel suo bagno privato e aveva avuto un violentissimo

orgasmo. Sì, Grace era davvero tutto ciò che lui aveva sempre sognato. Bella, intelligente, creativa. La degna erede di Dorothy. «Posso esserle utile, signor Monarch?» domandò la governante. Lui si volse con un sorrisetto compiaciuto. «No, grazie, Beatrice. Ho già trovato quello che cercavo.» La donna si allontanò senza capire la ragione di tanto divertimento, e lui tornò alle sue riflessioni. Non era stato sorpreso di apprendere che Grace aveva dedicato il suo talento alla creazione di gioielli. Il destino non poteva essere contrastato, checché ne pensasse quella pazza di Madeline che aveva creduto di poter alterare il futuro rubandogli quel che era suo. Perché Grace era il suo destino. Era sua, gli apparteneva, ed era sempre stato così. Adesso, si trattava di decidere che cosa fare di Chance McCord. Poteva ancora essergli utile? Forse sì. In fondo conosceva Grace, anzi, Skye, meglio di chiunque altro; e poiché lei era estremamente riservata e non usciva quasi mai, forse Chance poteva servirgli per controllarla, almeno per un poco. Povero piccolo idiota, pensò Griffen sprezzante. Era stato divertente vedere come si montava la testa a ogni nuovo cliente, come se li acquisisse con i suoi meriti. Ridacchiò. Lui gli aveva dato successo e ricchezza, e lui poteva toglierglieli con uno schiocco delle dita. Bastava qualche frase qua e là, qualche calunnia ben congegnata, e il piccolo Chance sarebbe rotolato nella polvere. «Griffen, posso parlarti un momento?» Lui si volse e guardò il padre con espressione disgustata. Ormai era un vecchio, grigio, debole e curvo. Gli sembrava impossibile che fosse davvero suo padre. O che un tempo, da bambino, lui avesse potuto avere paura di lui. «In questo momento non sono dell'umore adatto, papà. Ma grazie, comunque.» Il volto di Pierce si chiazzò di rosso. «Non era un invito, ma un ordine. Voglio parlarti subito, nel mio studio.» Poi si volse e marciò via, aspettandosi di essere seguito dal figlio. Ma proprio perché sapeva quanto lo avrebbe irritato, Griffen se la prese comoda, richiuse la bacheca, cancellò le impronte dalle ante di

cristallo, e solo allora si presentò nello studio. Pierce lo aspettava, furibondo. «Piccolo verme insolente» lo aggredì. «Come osi?» «Che c'è, papà? Non ti piace che qualcuno ti faccia aspettare?» «Non si tratta di questo, e lo sai benissimo!» «Ah, davvero?» Griffen si mise le mani in tasca. «Sarà meglio che mi rinfreschi la memoria, perché proprio non so di che parli.» «Presto detto. Non so come ti sia procurato la chiave del mio archivio personale, ma la rivoglio indietro. E non voglio che tu lo apra mai più.» «Sicché il tuo cane da guardia ha parlato, eh? Quanta lealtà. Mi domando che cosa puoi aver fatto per meritartela. E dimmi, conosce anche tutti i tuoi piccoli sporchi segreti?» Pierce lo ignorò. «Sono ancora il presidente della Monarch, e sono io che prendo le decisioni e approvo i cambiamenti, non tu!» Cercò di raddrizzare le spalle e buttare il petto in fuori, con risultati risibili. «È chiaro?» «Di che cambiamenti parli, si può sapere?» Suo padre gli si accostò e lo fissò negli occhi, rosso come un peperone. «Non puoi licenziare senza consultarmi l'agenzia di pubblicità che cura i nostri affari da vent'anni. E non puoi assumere un perfetto sconosciuto senza...» «Invece è quello che ho fatto» l'interruppe Griffen. «In azienda faccio quello che voglio, e tu non puoi impedirmelo. Quanto al tuo archivio, ti agiti tanto perché ci tieni le prove delle tue molte illegalità. Sei un vero bastardo, paparino caro. Se hai tanta paura che possano rovinare la tua reputazione immacolata, non dovevi farle...» Griffen osservò suo padre, percependo la sua crescente agitazione, notando le vene che pulsavano sulle tempie e il colorito rossastro del volto. Era pronto a scommettere che il cuore di Pierce stava perdendo colpi e batteva sempre più disordinatamente. L'altro tese la mano, e Griffen vide che tremava come quella di un vecchio. «Non essere ridicolo. Non voglio che tu apra il mio archivio perché è mio, punto

e basta. Adesso dammi quella chiave, subito!» «Non capisco come hai potuto essere tanto stupido da tenere quei documenti» riprese Griffen ignorando la richiesta. «Non immaginavi che un giorno o l'altro qualcuno li avrebbe trovati? Davvero imprudente da parte tua. E poi, senti chi parla di ridicolo... ma ti sei visto? Ansimi come un cavallo che ha appena fatto una corsa a ostacoli. Be', ho una notizia per te, sei stato messo a riposo. Con le gare hai chiuso. Non servi più.» «Questo non è vero! Sono sempre il presidente dell'azienda!» «E guarda come sudi» continuò Griffen implacabile. «Fai proprio schifo!» Pierce si portò una mano alla fronte. «Non puoi parlarmi così. Sono tuo...» «Sì che posso» replicò Griffen girandogli intorno e godendosi la furia impotente dell'altro. «Sentiamo, che vorresti fare? Licenziarmi? Picchiarmi, come quando ero piccolo? Credi che te lo permetterei?» Ormai la faccia di Pierce era violacea. «Tu, brutto bastardo...» «Andiamo, papà, che modi. Dimentichi che sono il tuo unico figlio? Strano come le figlie non durino, in questa famiglia. È stato terribile che quella piccola idiota della mia seconda sorella sia annegata, ma comunque non serviva a niente, non aveva il dono. Quello ce l'aveva solo Grace. E tu te la lasciasti sfuggire!» Griffen si avvicinò alla finestra, guardò fuori, poi si volse nuovamente verso il padre. «Scommetto che tu continui a giustificarti con te stesso, a dirti che fu un incidente, un caso. Certo, è un incidente se le mogli fuggono portandosi via le figlie... e un bel sacchetto di gemme per buona misura.» Pierce divenne pallido come un morto. «Mi domando perché diavolo hai tenuto le prove di quelle transazioni truffaldine» rise Griffen. «Per orgoglio o per idiozia? Comprare pietre di contrabbando, ma andiamo! Certo, era un affare eccellente per la Monarch. Niente spese doganali, una quantità superiore a quella consentita per legge, e quindi la possibilità di sbaragliare la concorrenza. Peccato non aver pensato che Madeline poteva portarsele via. Dev'essere stata difficile da mandar giù, eh? Niente assicurazione, perché le pietre non esistevano. E niente denuncia di furto, perché non si può rubare una cosa che non esiste. Chissà quanta rabbia hai

dovuto ingoiare!» «Potrei ucciderti» disse Pierce con voce strozzata. «E tu provaci. Prometto che non mi difenderò e non ti picchierò nemmeno.» Griffen si avvicinò al padre, e Pierce tirò indietro il braccio come se intendesse davvero colpirlo. Poi si fermò, con un'espressione stupita sul volto, e si artigliò il petto. Lo stupore divenne una smorfia di dolore, e ogni traccia di colore scomparve dalla sua faccia. «Santo cielo. Non dirmi che hai un altro attacco» rise Griffen. A fatica, Pierce estrasse dalla tasca la scatola delle pillole di nitroglicerina, ma la sua mano tremava talmente che la scatola cadde sul tappeto rotolando lontano. Pierce guardò Griffen con espressione supplichevole, ma lui si rimise le mani in tasca e fece un o indietro. «Mi dispiace, caro papà. Niente da fare.» «Ma... ma sei mio figlio... buon Dio!» «Dio non c'entra niente, la faccenda è tra me e te. E per te è arrivato il momento di pagare tutto quello che mi hai fatto.» Pierce si gettò sul telefono, ma urtò il tavolino e telefono e lampada caddero a terra. Lui li seguì rovinando sul tappeto, poi cominciò a strisciare verso le pillole, con la faccia contorta dal dolore. Quando le sue dita toccarono il bordo della scatola, Griffen la spinse lontano con la punta della scarpa. «Spiacente, papà, ma adesso è molto meglio che tu ti tolga dai piedi.» Si accucciò accanto a lui, osservando con interesse le contorsioni dell'agonia. «Perché vedi, l'ho trovata. Ho trovato Grace.» Pierce smise di contorcersi e lo guardò stupefatto. «Sì, hai capito bene. È proprio come avevamo previsto, piena di talento, un'artista brava quanto Dorothy alla stessa età. Ed è bella e intelligente. Assolutamente perfetta.» Griffen rise e continuò: «Sai come l'ho trovata? Grazie alla nullità di cui parlavi prima, quell'esperto di relazioni pubbliche, Chance

McCord. C'era il suo nome nel tuo archivio privato, nel dossier su Madeline. Così adesso ho di nuovo la mia Grace...» Rise beato. «E già che ci siamo voglio confidarti un piccolo segreto. Madeline non era affatto pazza. Aveva ragione, tutto quello che diceva era vero.» Un gemito sfuggì dalle labbra di Pierce. «Solo che tu non potrai più dirlo a nessuno, perché sarai morto. Che peccato.» Poi Griffen si rialzò in piedi. «Vuoi sapere la più bella? Grace non si ricorda niente. Non ricorda noi né il suo ato, soffre di sindrome da memoria repressa. Non è uno so? Io ho sempre saputo che un giorno ci saremmo riuniti, e adesso so come fare perché non se ne vada mai più. Saremo marito e moglie. Perfetto, no? Il signore e la signora Monarch.» Pierce fissò il figlio con uno sguardo di puro orrore, poi arrovesciò gli occhi al cielo e non vide più nulla.

20

Skye non osava ancora credere alla sua fortuna. Griffen Monarch le aveva telefonato dicendo di aver visto i suoi lavori esposti al MOMA. E poiché l'azienda stava cercando una nuova stilista, avrebbe voluto esaminare il suo portfolio. Lei glielo aveva inviato il giorno stesso, e poi aveva aspettato per due eterne settimane, sobbalzando a ogni squillo di telefono ma cercando nello stesso tempo di non abbandonarsi troppo alle speranze. Dopo tutto lei era una sconosciuta, non aveva esperienza e probabilmente doveva competere con i più grossi nomi dell'ambiente. Poteva già ritenersi fortunata di esser stata interpellata. Ma desiderava quell'incarico con tutta se stessa, e sapeva che una risposta negativa l'avrebbe orribilmente delusa. E invece la risposta fu positiva. Griffen Monarch telefonò di nuovo per fissare un appuntamento, e due giorni dopo Skye era a Chicago e percorreva Michigan Avenue nell'immensa limousine che Monarch le aveva mandato in aeroporto. Anche la macchina era stata una sorpresa. Skye accarezzò il morbido sedile di pelle, pensando che si sarebbe potuta abituare facilmente a tanto lusso. Poi sorrise tra sé. Non montarti la testa, Skye. Le artiste morte di fame non diventano principesse dall'oggi al domani, e questo è quanto. «Siamo quasi arrivati, signorina» disse l'autista. «Siamo nella zona dei negozi più eleganti della città. E ci sono anche ristoranti di lusso, i migliori in assoluto.» «Grazie» sorrise lei, «ma non avrò il tempo di andare per negozi. Questo è un viaggio d'affari.» L'uomo annuì e riprese a guidare nel traffico caotico, mentre Skye respirava a fondo un paio di volte per calmarsi. Doveva mettersi in testa che quella poteva non essere la volta buona. Sarebbe diventata famosa e acclamata, ne era certa: ma forse non subito. Se non questa volta, la prossima... o un'altra ancora. Abbassò gli occhi sulla lettera di Griffen Monarch che teneva stretta in mano. Se

non altro, quell'occasione le aveva rivelato qualcosa del suo ato. Tolse il foglio dalla busta e lo lisciò, osservando il logo Monarch nell'angolo superiore. Una farfalla la cui ala si trasformava in una M. La sua M. Quando aveva aperto la lettera e visto il logo, le si era mozzato il respiro. Era tornata indietro di anni, ai suoi primi tentativi di disegno e alla dolorosa sensazione di vuoto del suo ato inesistente. Poi era andata a cercare i suoi vecchi disegni e aveva confrontato le due M. Erano praticamente identiche, il che purtroppo non significava nulla. Poteva aver visto quel logo da bambina, e averlo riprodotto decine di volte perché era attirata dalla sua forma, tutto qui. Skye aggrottò la fronte. Sentiva arrivare una delle sue emicranie, ma se non ci avesse pensato forse sarebbe scomparsa. Naturalmente non aveva detto a Griffen Monarch di aver riconosciuto la M, né lo avrebbe fatto. Non voleva are per una pazza da ricovero. E anzi, era meglio smetterla con tutte quelle sciocchezze e pensare al colloquio. «Eccoci qua, signorina» disse l'autista fermando la limousine. Con il cuore in gola, Skye osservò dal finestrino il magnifico edificio con la vittoria alata sul portone. Deglutì. Era lì per un colloquio di lavoro... alla Monarch! Nel posto in cui erano stati creati molti dei gioielli straordinari che lei aveva ammirato e studiato. L'autista le aprì la portiera e i anti si fermarono a guardare, forse sperando di vedere una celebrità. Skye sorrise tra sé. Invece gli toccava di vedere lei, una ragazza come tante, con un paio di occhiali scuri comprati in un grande magazzino e un severo tailleur adatto all'occasione, ma acquistato di seconda mano in un mercatino dell'usato. Si diresse verso l'ingresso, ma in quel momento i pesanti battenti di cristallo si aprirono e ne uscì un uomo. Il sole illuminava i suoi capelli neri accendendovi dei riflessi rossicci. Era alto, snello, elegante, e portava un completo di taglio europeo che molto probabilmente era stato fatto su misura. Skye deglutì. Era l'uomo più bello e sofisticato che avesse mai visto. E veniva verso di lei, sorridendo! Per un istante pensò che l'avesse scambiata con qualcun altra, poi capì. «Lei è la signorina Dearborne, vero?» sorrise l'uomo tendendole la mano. «Sono

Griffen Monarch.» Skye la strinse, rabbrividendo lievemente al suo tocco. «Signor Monarch, è un vero piacere.» «Oh, il piacere è mio. Sa, sono un suo grande ammiratore.» Skye arrossì. «È la prima volta che me lo dicono.» «Ci si abituerà, ne sono certo. E a proposito, zia Dorothy è ansiosa di conoscerla. È tutta la mattina che cammina avanti e indietro come una tigre in gabbia, il che non fa bene alla sua pressione.» Dorothy Monarch, una delle creatrici di gioielli più famose del mondo, ansiosa di conoscere lei? Griffen rise come se le leggesse nel pensiero. «Smetta di fare la modesta. Lei ha un incredibile talento.» Skye cominciò a rilassarsi. Quell'uomo era simpatico quanto bello. «Se lo dice Griffen Monarch, dovrò crederci» sorrise. «Vorrei che gli altri miei collaboratori dessero altrettanto peso alle mie opinioni» ammiccò Griffen. Gli altri collaboratori... questo significava che anche lei lo era? Skye cercò di contenere l'eccitazione. Nessuno le aveva ancora offerto il posto, e probabilmente Griffen Monarch trattava con la stessa disinvolta galanteria tutte le ragazze che incontrava. Attraversarono il negozio, e Griffen le indicò alcuni dei pezzi più interessanti. «Abbiamo cominciato da poco a tenere anche le creazioni di altri artisti» disse indicando una bacheca con alcuni anelli di Paloma Picasso. «Ma naturalmente devono essere pezzi straordinari, e non somigliare nemmeno lontanamente ai nostri classici.» E si fermò accanto a una parure composta di spilla e orecchini che rappresentava una spirale di brillanti e zaffiri. «Avrà riconosciuto il Tornado, una delle cose più riuscite di Dorothy.» «Naturalmente. La sua serie dedicata ai venti è una delle mie preferite.» Skye ammirò un paio di orecchini a forma di goccia, ricoperti di diamanti. «Ma le

cose classiche non ano mai di moda.» «Questo è vero, però non si può nemmeno riposare sugli allori, e noi abbiamo bisogno di idee nuove.» Griffen la scortò verso l'ascensore e riprese: «Siamo stati colpiti da alcuni dei suoi lavori meno tradizionali. Lei accosta materiali e tecniche con grande fantasia. Io ho particolarmente apprezzato i pezzi di titanio esposti al MOMA». «Grazie.» Skye ammirò le porte di ferro dell'ascensore, in puro stile Liberty, poi si buttò. «Questo significa che se venissi assunta avrei il permesso di sperimentare cose nuove?» «Più che il permesso lei avrebbe l'obbligo» rispose Griffen con un sorriso. Questa era la realizzazione di tutti i suoi sogni, pensò Skye. Lavorare per la Monarch, e in più poter lasciare libero corso alla fantasia e alla voglia di novità. Il paradiso. In ascensore, ebbe modo di osservare gli occhi di Griffen Monarch e vide che erano di uno straordinario blu zaffiro, molto simili ai suoi. «Dicevo sul serio, poco fa» riprese lui. «Stiamo effettivamente cercando qualcuno che sia in grado di riportare l'azienda ai fasti di un tempo. Abbiamo bisogno di creazioni nuove e audaci come quelle che ci hanno reso famosi. Dorothy se n'è occupata per circa cinquant'anni, e ha fatto un ottimo lavoro. Ma ormai è invecchiata, la sua salute sta declinando, ed è ora che i il testimone a una persona più giovane e più energica. La morte di mio padre è stato un brutto colpo per lei, e...» D'improvviso, Skye scoprì che faticava a respirare. Le sembrava che la cabina dell'ascensore si andasse restringendo, e che la figura di Griffen torreggiasse su di lei come un'ombra minacciosa. «Come... come ha detto?» mormorò cercando di riprendersi. «Dicevo della morte di mio padre. È stato qualche settimana fa, per un infarto. Aveva solo cinquantacinque anni. È stato un colpo per tutti noi, ma specialmente per Dorothy.» Griffen aggrottò la fronte e la scrutò. «Dica, si sente bene?» «No... non tanto.» Skye cercò di ridere per scacciare la sensazione di panico che le stringeva lo stomaco. «Mi sento un po' claustrofobica.»

«Le capita spesso?» «Mai successo prima d'ora» fece lei con un'altra risatina. Probabilmente lui non le credeva e la considerava una perfetta idiota, oltretutto bugiarda. «Si rilassi. Faccia un respiro profondo, poi espiri lentamente. Zia Dorothy è un tesoro, e sono certo che l'adorerà. Non c'è da aver paura.» Skye uscì in fretta dall'ascensore, e la sensazione ò. Ma certo, era nervosa e nient'altro. Dopo tutto stava per conoscere la mitica Dorothy Monarch, la donna che con le sue creazioni aveva segnato un'epoca: un nome famoso in tutto il mondo, come quelli di Louis Tiffany o di Jacques Cartier. Be', si sarebbe comportata con disinvoltura, pensò. Sarebbe stata professionale. In fondo erano entrambe artiste, e donne. Si sarebbero capite. Ma quando si trovò di fronte Dorothy Monarch, tutte le buone intenzioni vennero dimenticate. Skye balbettò, si confuse, si entusiasmò parlando dei gioielli straordinari che la donna aveva creato: la serie dei venti, i pezzi su misura per la famiglia Kennedy, l'uso innovativo degli smalti e delle pietre dure abbinati al platino e ad altri metalli preziosi. Quando si fermò per riprendere fiato, Dorothy l'abbracciò. «Grazie, mia cara. Con i suoi complimenti lei ha illuminato la mia giornata.» Dorothy Monarch era diversa da come Skye se la era immaginata. Era piccola e minuta, con fragili mani mobilissime che salivano spesso a ravviare il caschetto di capelli grigi. Gli enormi occhi blu e la grande bocca dal rossetto purpureo la facevano somigliare vagamente a Joan Crawford. Portava un paio di jeans neri e una blusa di seta rosso scuro, illuminata da una collana d'argento a maglie larghe e irregolari disseminate di diamanti. Era interessante vedere insieme zia e nipote, così dissimili fisicamente. Altissimo lui, lei uno scricciolo che non arrivava al metro e sessanta. Griffen, silenzioso e controllato, ma attentissimo. Il classico tipo a cui non sfuggiva niente. Lei, animata e vivace, con l'atteggiamento un po' bohémien dell'artista e rapidi gesti che ricordavano il battito d'ali di una farfalla. Ma entrambi attraenti, colti e sicuri di sé. «Venga, le faccio fare un giro panoramico» la invitò Dorothy prendendola sottobraccio. «Abbiamo due squadre: progettazione e ricerca, che comprende

anche il designer, e produzione. Vendita e marketing sono il campo di Griffen, ma noi della progettazione partecipiamo a tutte le decisioni.» Scoccò un'occhiata affettuosa al nipote. «L'unico guaio è che Griffen adora le riunioni fiume.» Svoltarono in un corridoio su cui si affacciavano sei piccoli uffici, appartenenti ai sei disegnatori collaboratori di Dorothy, che al momento si trovavano a una fiera-mercato a Dallas. «Come disegnatrice capo, ho la responsabilità di tutto ciò che viene prodotto dai nostri laboratori» spiegò Dorothy. «Ascolto le idee e le proposte di tutti, ma sono io che decido l'aspetto finale di un pezzo. Questa è la sala riunioni» disse indicando una porta, «e laggiù c'è il soggiorno comune. Ci teniamo bibite, caffè, biscotti. Qui c'è il magazzino dei materiali.» La donna che stava classificando alcuni fili di perle alzò la testa e sorrise. «Di solito abbiamo un buon assortimento di materie prime, ma se dovesse mancarle qualcosa basta chiedere a Ted, che è il responsabile.» Indicò una lavagna da parete con un elenco di materiali. «Questo le dirà dove sono le cose che le servono. Rimetta sempre a posto quello che non usa più. Io tengo molto all'ordine, ma non si tratta soltanto di una mania. L'ordine è necessario quando si lavora in tanti alle stesse cose e quando non si ha più memoria, come me. Più oltre c'è il laboratorio di incastonatura. Teniamo le pietre in cassaforte, naturalmente.» Dorothy aprì la porta di uno stanzino colmo di schedari di metallo. «Qui teniamo le istruzioni di produzione di ogni pezzo creato dall'azienda, anche dei primi lavori di Anna Monarch.» Il giro proseguì attraverso il laboratorio di oreficeria, quello di fusione, quello di smaltatura. Di tanto in tanto Dorothy si fermava a osservare il lavoro di qualcuno, faceva un commento o un apprezzamento. Mentre finalmente tornavano sui loro i, Skye notò che la donna sembrava affaticata e contrariamente a poco prima dimostrava tutti i suoi settant'anni. Tornata nel suo ufficio, Dorothy si lasciò cadere nella poltrona dietro la scrivania e afferrò subito il pacchetto di sigarette. «Sieda, mia cara» disse a Skye. «Allora, che ne dice della nostra piccola bottega?» domandò attraverso una nuvola di fumo. Lei rise. «È la cosa più eccitante che abbia mai visto.» «E mi dica, visto che è fresca di studi: secondo lei qual è la tendenza attuale nel nostro campo?»

Skye ne aveva discusso proprio pochi giorni prima con i colleghi. «Direi che non si può parlare di una sola tendenza. Gli Anni Novanta hanno portato grande libertà in tutti i campi, e quindi anche in questo. Nuovi materiali, nuove tecniche, sperimentazioni di ogni genere. Ma adesso vedo anche un certo ritorno ai canoni classici, meno astrattismo, più rigore. Personalmente, tuttavia, non sono portata a seguire le tendenze del momento. Ritengo anzi che non si possa lasciare un segno durevole se si segue troppo la corrente.» «Un atteggiamento che capisco bene» mormorò Dorothy, «ma non possiamo trascurare l'aspetto commerciale del nostro lavoro. La clientela non vuole cose troppo futuribili. Vuole oggetti che vadano bene adesso.» «Questo è l'eterno dilemma tra arte e vita quotidiana» sorrise Skye. «Mi rendo conto che raggiungere un equilibrio tra le due non è facile...» «Infatti, non lo è» disse Dorothy. «E che mi dice del nostro equilibrio tra volgare sete di guadagno e pura creatività? Secondo lei, lo abbiamo raggiunto?» Skye capì di essere stata messa alle corde. «Non conosco abbastanza il vostro lavoro più recente per esprimere un giudizio...» «Sciocchezze» fece Dorothy spegnendo con forza la sigaretta. «Lei è una ragazza in gamba, e sono sicura che ha fatto le sue brave ricerche prima di venire qui. Avanti, sentiamo.» Skye la fissò dritta in faccia. «Ultimamente trovo che siete scivolati un po' troppo sul commerciale, ma è un'opinione del tutto personale.» Dorothy ridacchiò. «Certo che lei ha del fegato. Al suo posto credo che avrei mentito... ma la sua franchezza mi piace.» Si alzò e fece il giro della scrivania, fermandosi davanti a Skye. «Come designer innovativa io ho fatto il mio tempo» esordì. «Non intendevo dir questo. Lei è una leggenda, una delle più grandi...» «Lasci perdere, ormai non è più così. Ho fatto alcune buone cose e mi ci sono divertita molto, ma ormai sono vecchia e la mia creatività si è esaurita. Ho bisogno di gente brillante e innovativa, che mi aiuti a...» Dorothy aggrottò la fronte, poi tacque per un momento.

«Zia Dorothy, stai bene?» esclamò Griffen facendo un o verso di lei. «Benissimo, ma non ricordo più che stavo dicendo...» «Dicevi che vuoi della gente brillante intorno a te» suggerì lui. «Ah, sì, ecco.» La donna sorrise a Skye. «Stavo dicendo che il suo lavoro mi piace, Skye, e mi piace anche lei. Sarò molto lieta di averla con me.» «Vuol dire che mi assume?» esclamò lei senza fiato. Guardò Griffen. «Davvero?» «Davvero.» «Dio, non so che dire. Sono stupefatta, eccitata... sono felicissima...» «Allora dica sì» fece Griffen tendendole una mano. Lei rise beata. «Sì, naturalmente. Sì!» «Benvenuta in famiglia» la accolse lui. «Siamo molto felici di averla con noi. Non è vero, zia Dot?» «Oh, sì, assolutamente.» Dorothy la baciò su entrambe le guance. «Adesso fa parte della famiglia Monarch, mia cara.» Skye non credeva alle proprie orecchie. Era come vivere in un sogno. «Io... quando volete che cominci?» «Appena possibile» sorrise Griffen. «Ormai lei ci appartiene, e non la lasceremo mai più andar via.»

Nel giro di due settimane Skye e Mr. Moo si trasferirono a Chicago con tutti i loro averi. Griffen le aveva trovato casa in un edificio a tre isolati dal lago Michigan, aveva fatto ridipingere e sistemare l'appartamento, aveva provveduto all'allacciamento della luce e del telefono. E nell'intervallo di tempo tra il loro colloquio e il trasloco di lei, le aveva telefonato quasi tutti i giorni. Era incredibile quante cose avessero in comune, pensava Skye. Stessi gusti in

fatto di cibo, musica, letture. Stesse vedute in politica. Era come se fossero uniti da un legame segreto, come se fossero due metà di un tutto unico. E quel pensiero la spaventava, come la spaventava la sua reazione in presenza di lui, quegli strani capogiri, il respiro che le mancava, il batticuore. Lei era troppo in gamba per comportarsi come un'adolescente alla prima cotta. Aveva i piedi per terra, lei. Era un tipo pratico e quadrato. E non voleva mai più affidarsi completamente a un altro essere umano, non voleva dipendere emotivamente da nessuno. Quello era un lusso che non si concedeva da tredici anni, e non aveva intenzione di concederselo mai più. Pensò a Chance, e come sempre si irrigidì. Non voleva essere di nuovo vulnerabile come allora, anche perché nel caso attuale rischiava molto di più. Griffen era il suo datore di lavoro, era ricco, colto, sofisticato. Poteva avere tutte le ragazze che voleva, e probabilmente le aveva avute. Era stupido da parte sua fantasticare su di lui. Griffen Monarch era il suo capo, e nient'altro. Doveva tenerlo bene a mente, a partire dal suo primo giorno di lavoro. Si premette una mano sullo stomaco e si avvicinò al portone di cristallo, e la guardia le aprì tutto sorrisi. «Buongiorno, signorina Dearborne. Il signor Monarch mi ha avvertito che lei cominciava oggi. Benvenuta tra noi.» «Grazie...» sorrise lei guardando la targhetta con il nome, «...Ed.» Erano tutti così gentili, pensò. Aveva sentito dire che nelle grandi città la gente è ostile e scostante, ma finora lei non aveva avuto che cortesie. Le sembrava quasi di vivere in un altro mondo. Al quinto piano, negli uffici, non c'era ancora nessuno. Bene, pensò Skye. Era venuta in anticipo proprio per potersi guardare un po' in giro prima dell'arrivo degli altri, perché la scaletta della sua prima giornata era piuttosto impegnativa. Alle nove, caffè di benvenuto con Dorothy e i suoi collaboratori; alle dieci e mezzo, riunione per discutere una nuova collezione dedicata alle vacanze; a mezzogiorno, pranzo con i direttori delle vendite e del marketing. Pomeriggio libero per il trasloco. Dopo un giro esplorativo, Skye arrivò davanti all'ufficio che le era stato destinato. Accarezzò con reverenza la targa con il suo nome affissa sulla porta, e provò una ridicola voglia di piangere. Poi entrò. Un grande mazzo di fiori l'aspettava sulla scrivania. Era una combinazione dei suoi preferiti: orchidee bianche, gardenie, rose bianche e gialle, in un accostamento inconsueto e

profumato. Skye sorrise e tolse dalla busta il bigliettino che li accompagnava, ma sapeva già chi era il donatore. Benvenuta a casa - Griffen, lesse infatti. E le sembrava davvero di essere a casa, come se fosse cresciuta in quell'ambiente. Osservò il suo ufficio. Una scrivania attrezzata di computer, un tavolo da disegno e, alla parete, un grande visore per le diapositive. La finestra si affacciava su un giardino interno. Era perfetto. «Salve.» Skye si volse di scatto, sorpresa, e vide Griffen appoggiato allo stipite della porta. «Vedo che ha ricevuto i fiori» disse lui. «Grazie. Sono bellissimi.» «L'ufficio va bene?» «Oh, sì. È magnifico.» «E l'appartamento?» «Magnifico anche quello.» Skye rise nervosamente. Come poteva mantenere le distanze se lui la guardava in quel modo, le mandava dei fiori e la trattava come una principessa? «So che i suoi mobili arrivano oggi e immagino che avrà bisogno di una mano per le scatole più pesanti. o da lei stasera.» «No, davvero, non è il caso... Ha già fatto anche troppo.» «Insisto. E poi non vedo l'ora di conoscere il suo Mr. Moo.» «E va bene» cedette lei. Griffen sorrise trionfante. «Ci vediamo stasera.»

Arrivò che i fattorini del trasloco se n'erano appena andati, con le braccia cariche di pacchetti, una bottiglia di vino e un mazzo di fiori. «Ho pensato che doveva aver fame» spiegò. «Spero che le piaccia la cucina piccante. Questa è

thailandese.» Skye lo liberò dagli involti. «Adoro il cibo piccante!» Gli fece strada fino in cucina, spingendo via col piede una scatola di libri e un osso di Mr. Moo. «Non so come ringraziarla per avermi procurato questa casa. È semplicemente divina.» «Sono contento che le piaccia. Era lì, vuota...» «Stento a credere che un appartamento così rifinito, e a questo prezzo, fosse ancora disabitato. Scommetto che c'è qualcosa che lei non mi dice.» «Prego?» «Sentirò ululati e stridore di catene durante la notte? Voglio dire, ci sono fantasmi o spiriti maligni?» Griffen rise. «Che io sappia, no. Allora, dov'è il suo famoso Mr. Moo?» «Oh, Dio... L'ho chiuso in camera da letto perché stava sempre tra i piedi dei facchini, e l'ho dimenticato... Adesso vado a liberarlo, povero Moo!» A Mr. Moo, Griffen non piacque per niente. Continuò a stringersi contro le gambe della padrona, ringhiando e mostrando i denti, e Skye non sapeva darsene pace. «Non capisco... di solito è così amichevole!» «Ha avuto dei giorni traumatici» affermò Griffen con calma. «L'ultima cosa che gli ci vuole è un estraneo che gli gira intorno.» «Ma i facchini sono stati qui finora, e lui continuava a far loro le feste...» Skye si interruppe, arrossendo. «Lo chiudo di nuovo in camera.» «Non lo faccia, o mi odierà per sempre.» «Senta, lui adora i biscotti della fortuna. Provi a dargliene uno.» «Proviamo.» Griffen prese un biscotto dal sacchetto, lo aprì, e il cane lo osservò interessatissimo. Skye lasciò il collare. «Va', Moo. Ma fa' piano, eh? Prendi solo il biscotto, non le dita! Ecco, così. Bravo cane.»

Mr. Moo strisciò fino alla mano di Griffen, prese il biscotto e tornò rapidissimo accanto alla padrona. «Davvero, è meglio che lo chiuda. Non ha mai fatto così...» disse lei. «No, gli dia un po' di tempo. Vedrà che diventeremo amici. Che ne dice di un bicchiere di vino?» Skye aprì uno degli scatoloni con la scritta CUCINA e trovò il cavatappi, poi frugò in un altro per prendere i bicchieri. «Ahi!» esclamò ritraendo la mano. Aveva un lungo taglio alla base del pollice. «Ne ho trovato uno, ma è rotto.» «Dio mio, Skye!» Griffen le afferrò la mano ferita e la mise sotto l'acqua fredda, mentre lei distoglieva gli occhi. «Non... non avrò bisogno di punti, vero?» «Non credo. Ha già tirato fuori le cose del pronto soccorso?» «Sì, dottor Monarch» rise lei. «Vado a prendere un cerotto.» «Aspetti... manca la parte più importante della cura.» Griffen portò la mano di lei alle labbra e baciò il taglio, fissandola negli occhi. Lo stomaco di Skye fece una buffa capriola. «Io... mi scusi, vado a medicarmi...» Skye si rifugiò in bagno e si guardò allo specchio. Occhi scintillanti, guance rosse, batticuore. Ma che diavolo le succedeva? Che doveva fare? Altro che mantenere le distanze! Ma stava accadendo tutto troppo in fretta, lei non lo conosceva affatto, era il suo capo, Dio santo! «Tutto bene?» Skye riaprì gli occhi. Griffen era appoggiato allo stipite, con un bicchiere in mano. «Sì, credo di sì... ho solo un lieve capogiro.» Lui le tese il bicchiere. «Tenga.» «Grazie» disse lei sorseggiando il vino. «Tra un minuto sarò pronta. Il tempo di fasciarmi la mano.» Non vedeva l'ora che uscisse dal bagno, che con lui presente sembrava improvvisamente diventato troppo piccolo. Quando riemerse qualche minuto dopo scoprì che Griffen aveva trovato piatti,

posate e candelabri e aveva apparecchiato una specie di tavola sul pavimento nudo del soggiorno. Skye provò una strana sensazione di fastidio all'idea che lui avesse frugato nelle sue cose, ma si rimproverò subito dopo. Aveva solo cercato di rendersi utile, che diamine... Griffen accese le candele. «Si sieda» disse. «Penso io a tutto.» Solo allora Skye notò Mr. Moo accucciato sulla soglia della cucina, con le orecchie basse. Seguiva con attenzione ogni mossa di Griffen, senza muoversi. «Vedo che Moo si è messo tranquillo» osservò lei. Sentendo il proprio nome il cane le si avvicinò, evitando con cura l'ospite. «Ne abbiamo parlato, e lui ha deciso di sopportarmi» rise Griffen. «Meglio così. Certo che si comporta stranamente... mi domando se non è malato.» Skye gli tastò il naso, lo sentì umido e si tranquillizzò. Mangiarono, ma Skye non riuscì a godersi la cena. Continuava a sentire uno strano nervosismo, un crescente disagio all'idea del modo in cui Griffen aveva preso le redini della situazione. «Dio, quant'è bella» disse lui. La forchetta di Skye cadde rumorosamente sul piatto. «È vero, sa. Lei... tu sei bellissima.» Griffen si chinò verso di lei e carezzò la sua mano. «Sono molto franco, lo so, e a volte questo spaventa le persone. Ma non vorrei mai spaventare te.» Skye lo guardò, senza parole, cercando di capire che cosa vedesse in lei. E in quel momento, per una frazione di secondo, le parve di averlo già conosciuto in ato. Nei recessi della sua memoria una porta si aprì, rapidissima, per richiudersi subito dopo. «Che succede?» domandò Griffen incuriosito dalla sua espressione. «Per un momento mi è parso che... Potremmo esserci già incontrati, tanto tempo fa? Non so perché, ma sembravi così... così familiare...» Griffen strinse la mano di lei. «Sono sicuro di no. Non avrei mai potuto

dimenticarti.» Skye si morse il labbro inferiore. «Devo essere più stanca di quel che pensavo.» «Io ho un'altra spiegazione. Forse è il tuo cuore che mi riconosce.» Skye ritrasse la mano. «Io non credo che dovremmo farlo, Griffen.» «Fare cosa?» «Tutto questo» disse lei allargando le braccia. «Il vino, i fiori, i complimenti. Tu sei il mio datore di lavoro. Potrebbe diventare una cosa complicata e... e goffa.» Lui si alzò, le si accostò e la trasse in piedi, fissandola negli occhi. «Sì, sono il tuo datore di lavoro. Ma voglio diventare molto, molto di più. Ti ho aspettata per un'eternità. So che non dovrei andare così in fretta, ma vedi, ho fame di te.» Skye si sentì venir meno. La testa le girava, come se fosse ubriaca, e non riusciva a staccare gli occhi da quelli di lui. Griffen portò le dita di lei alle labbra e le baciò, a una a una. «Credi nell'amore a prima vista?» sussurrò. «No... forse sì. Non saprei...» «Bene, io ci credo, perché mi sono innamorato di te fin dal primo momento.» Prese il viso di lei tra le mani e la fissò con due occhi accesi, quasi febbricitanti. «Lo trovi strano? Insopportabile?» Incapace di parlare, Skye scosse debolmente il capo. «Bene. Perché vedi, appena ti ho vista ho capito che eri fatta per me, che eri quella che volevo accanto a me per sempre.» «Per sempre...» ripeté lei in un sussurro. L'emicrania l'assalì d'improvviso, violentissima, e Skye cercò invano di non badarvi. «Ma tu non mi conosci, Griffen. E io non conosco te...» «Oh, io ti conosco benissimo. E anche tu. Guarda in fondo al tuo cuore, e mi troverai. Anche tu mi stavi aspettando, lo so.» Era vero, pensò lei. Aspettava da sempre un uomo che l'amasse con tutto se

stesso, che non la lasciasse mai... «Ti darò tutto ciò che vorrai» sussurrò Griffen. «Farò in modo che tutti i tuoi sogni diventino realtà.» E abbassò la bocca su quella di lei, dapprima con gentilezza, poi con ione crescente. Skye appoggiò le mani sul petto di lui, incerta, confusa, mentre l'emicrania le attanagliava le tempie, e quando Griffen si scostò si sentiva quasi soffocare. «Ti darò un po' di tempo, se vuoi» riprese lui. «Ma non cambierò idea. Tu sei destinata a essere mia, e lo sarai.»

Un mostruoso uccello nero la inseguiva, oscurando il sole con la sua ombra cupa. Skye correva, ma non riusciva a distanziarlo. E con la coda dell'occhio vedeva già gli artigli acuminati alle sue spalle, pronti a ghermirla... «No! Mamma, aiuto!» Skye sedette di scatto sul letto, fradicia di sudore. Un sogno, pensò. Soltanto un brutto sogno. Sentì un uggiolio provenire dal fondo del letto. Moo. «Vieni, piccolo» disse battendo sulle coperte accanto a sé. «Vieni dalla mamma.» Lui strisciò sul ventre e mise la testa nel suo grembo, e Skye affondò la faccia nel suo pelo. Solo un brutto sogno... ma era stato così reale! Accarezzò Moo sulle orecchie, perplessa. Di dove veniva quel sogno? Era in un momento così felice, aveva uno splendido lavoro, un bellissimo appartamento nuovo, e un uomo magnifico che diceva di essere pazzamente innamorato di lei... e allora, perché? Attenta a quello che desideri. Potresti ottenerlo. La frase del biscotto della fortuna le tornò in mente all'improvviso, e lei scoppiò a ridere. Stava diventando una paranoica. Non era nulla, che diamine! Moo guaì di nuovo, e lei si rese conto che lo stava quasi strangolando. Allentò la presa, lo carezzò, poi si rimise sotto le coperte. L'incubo era frutto dello stress, pensò. Di recente aveva avuto troppi cambiamenti, e tutto era successo così in fretta... Ma certo, era lo stress. Eppure, mentre giaceva con gli occhi fissi al soffitto, non riusciva a scacciare dalla mente quel mostruoso uccello nero.

21

Nelle due settimane che seguirono, gli incubi di Skye si ripeterono e le sue emicranie divennero croniche. Se non fosse stato per quegli inconvenienti, sarebbero stati giorni perfetti, quasi magici. Griffen la portava fuori tutte le sere. A teatro, ai concerti, in ristoranti così esclusivi che il più delle volte lei non riusciva nemmeno a pronunciare i piatti elencati sul menù. E parlavano, discutendo delle loro speranze e delle aspirazioni per il futuro, come se si conoscessero da sempre. Skye si andava convincendo che Griffen fosse davvero l'incarnazione dei suoi sogni più arditi. Quante volte aveva sperato di trovare un uomo che l'amasse così completamente, che non vedesse altro che lei? Quante volte aveva sognato l'amore perfetto, eterno e immutabile? Ecco, Griffen diceva di amarla proprio così... Lo diceva?, pensò stupita. Depose la matita e si massaggiò gli occhi stanchi dopo la lunga giornata. Voleva credere in lui e nel suo amore, ma qualcosa le impediva di fidarsi completamente. Forse era solo paura. Non lo conosceva abbastanza, lui stava andando troppo in fretta e magari avrebbe scoperto di essersi sbagliato, di non amarla così tanto, e allora l'avrebbe lasciata... e lei ne sarebbe morta. Skye sospirò. Onestamente, non poteva pretendere ulteriori prove di sincerità da Griffen. Lui si comportava nel modo giusto, faceva e diceva le cose che fa e dice un uomo innamorato. Perché non riusciva a credergli? Che cosa c'era in lei di sbagliato? Skye volse lo sguardo al tramonto, massaggiandosi le tempie. Era come se Griffen fosse entrato dentro la sua mente per scoprire i suoi segreti più riposti, i suoi desideri, le sue paure. Come faceva a conoscerla così bene? Erano davvero anime gemelle? Griffen riteneva di sì, glielo diceva sempre. Secondo lui, i loro destini erano stati intrecciati da una mano invisibile ancor prima della nascita. Era davvero così?

Davanti alla sua porta aperta ò Martin, uno dei designer, e le lanciò un'occhiata velenosa. Skye sospirò di nuovo. Lei e Martin non avevano legato, e anche gli altri non l'avevano accolta con eccessivo entusiasmo: probabilmente perché correva già voce che lei fosse la prediletta di Dorothy e che fosse destinata a prendere il suo posto quando l'altra si fosse ritirata. Il che era ridicolo, dato che Skye lavorava alla Monarch da sole due settimane. Ma in effetti Dorothy l'aveva presa sotto la sua protezione, e artisticamente parlando Skye sentiva di essere sulla sua stessa lunghezza d'onda. Ma questo non significava comunque che lei fosse l'erede al trono... Skye dedicò nuovamente la sua attenzione agli schizzi cui stava lavorando. Anche quelli le avevano guadagnato l'antipatia dei colleghi, perché erano per così dire il risultato della sua reazione alla prima riunione dei designer. Benché si fosse ripromessa di osservare tutto senza far commenti, al momento buono non aveva saputo trattenersi e aveva detto ciò che pensava delle proposte degli altri: e cioè che erano pedestri, noiose e prive di ispirazione. Dorothy era stata felicissima della sua audacia e le aveva proposto di elaborare lei qualcosa di nuovo. Per fortuna, un paio di colleghi si erano alleati con lei e collaboravano attivamente. E una di loro, una giovane donna di nome Terri, stava entrando da lei in quel momento. «Pensavo proprio a te» disse Skye mostrandole l'album da disegno. «Che ne dici?» L'altra esaminò gli schizzi, poco più di una serie di linee dritte e angoli acuti. «Pensavo a una serie chiamata City Lights» spiegò Skye. «Il profilo di una città, capisci? I grattacieli, il movimento.» «Mi piace molto» assentì Terri. «Che materiale hai in mente?» «Oro bianco e giallo, un po' sabbiato e un po' lucido, e poi topazi, diamanti, onice.» Terri si chinò sul tavolo da disegno. «Si potrebbe creare un pezzo per ogni città. Qualcosa che ne catturi l'essenza. Come la Tour Eiffel per Parigi, capisci?» «Oh, sì. Perfetto.»

«Ho un paio di idee in proposito... ti dispiace se le metto giù? L'esclusiva della serie rimane tua, naturalmente...» «Lavoriamo in squadra» disse Skye con un sorriso. «E io sono molto lieta di collaborare con te.» «Ah, eccoti, Terri» disse in quel momento la centralinista. «C'è una telefonata per te, è Will. E dice che è urgente.» «Skye, posso usare il tuo telefono?» domandò Terri. Skye annuì e cercò di non ascoltare la conversazione, ma era impossibile non sentire la collera nella voce dell'altra. «Perfetto» ringhiò Terri deponendo la cornetta. «Mi ci voleva anche questo.» «Posso fare qualcosa?» domandò Skye gentilmente. Terri la guardò con gli occhi scintillanti di lacrime. «Magari potessi. Will è mio marito... anzi, tra non molto sarà il mio ex marito. E si sta comportando da vero bastardo.» «Mi dispiace.» «Tanto vale che te lo dica, ormai lo sanno tutti. Ho scoperto che mi tradiva, e quella che ho scoperto non era che l'ultima di una lunga serie di avventurette. Da allora la mia vita è diventata un incubo. L'ho cacciato di casa, e lui insiste per tornare... ma il problema più terribile è quello di Raye, mia figlia. Ha solo quattro anni, e non capisce perché il suo papà non sta più con noi. Ma io non posso lasciarlo tornare, capisci? Non dopo quello che mi ha fatto.» Terri guardò Skye negli occhi, cercando la sua comprensione. «A parte il fatto di aver tradito la mia fiducia e il mio amore... ha anche messo in pericolo la mia salute! Ho dovuto fare il test dell'AIDS, ti rendi conto?» «Oh, Terri, mi dispiace tanto... che cosa tremenda!» «Era negativo, grazie a Dio, ma devo rifarlo tra sei mesi. Dopo tutto questo come può pretendere che lo lasci tornare a casa, secondo te?» «Senti, io non so darti una risposta, ma una cosa te la posso dire. Non meriti di essere trattata in questo modo, poco ma sicuro.»

L'altra le sorrise, grata. «Grazie. Vuoi vedere una foto di mia figlia?» «Oh, sì, volentieri.» Terri aprì il medaglione che portava appeso al collo e le mostrò un'adorabile bambolina bionda dagli immensi occhi azzurri. «A proposito, devo scappare... il bastardo chiamava proprio per dirmi che aveva dei problemi e non poteva andare a prendere Raye dalla babysitter. So io come si chiamano i suoi problemi. Be', ci vediamo domani.» «Terri... grazie di essere così gentile con me. Sei una delle poche, sai.» Terri sorrise. «È facile essere gentile con te, sei simpatica. E poi avevi ragione, quei disegni facevano schifo.»

Casa Monarch era nell'elenco degli edifici di interesse storico e figurava tra i monumenti che i turisti venivano portati a visitare. A Skye sembrava impossibile che ci vivesse della gente reale. «Ti piace?» domandò Griffen cingendole le spalle. «È come un castello. Un luogo abitato da re e principesse.» «Adatto a te» sussurrò lui carezzandole un braccio. Skye rabbrividì lievemente. Benché bellissima, la casa sembrava incombere su di lei. Era troppo grande, troppo fredda. Lei non avrebbe mai potuto sentirsi a proprio agio in una simile abitazione. «Vieni. In casa ho parlato così spesso di te che il nonno è impaziente di conoscerti.» Poi notò il suo pallore e domandò sollecito: «Che succede? Non stai bene?». Skye si ò la mano sulla fronte. «Mi sento strana. Mi gira la testa e ho un po' di nausea...» «Sono solo i nervi» rise lui chinandosi a baciarla. «Vedrai, il nonno non ti mangerà.»

Skye si sforzò di non badare al malessere che aumentava a ogni gradino della scala d'ingresso. In effetti, Adam Monarch l'accolse con grande calore, abbracciandola come se fosse un membro della famiglia ritrovato dopo tanto tempo. «Lei è proprio bella, sa?» disse con un gran sorriso. Skye arrossì. «Grazie...» «Te l'avevo detto, nonno» fece Griffen raggiante. Nonno e nipote si scambiarono un'occhiata. «E a quanto mi dicono è anche molto in gamba e piena di talento» riprese Adam. «È talmente perfetta che potrebbe essere una Monarch...» «Lo sarà presto» sorrise Griffen intrecciando le dita a quelle di lei. «Non ho intenzione di lasciarmela scappare.» «Era ora» rise Adam. «Deve sapere che finora mio nipote non si era mai fatto prendere all'amo, perciò le consiglio di tenerselo ben stretto...» «Non c'è pericolo, nonno. Non riuscirebbe a liberarsi di me nemmeno se volesse... e spero proprio che non voglia.» Skye arrossì di nuovo, lusingata e imbarazzata. Doveva esser bello far parte di una famiglia come quella, così unita e affettuosa. E come se leggesse nella sua mente, Adam disse: «Noi Monarch non siamo gente facile, lo capisco. Siamo esigenti, critici e pignoli. Ma siamo molto leali uno con l'altro. Chi entra a far parte della famiglia sa di poter contare su un aiuto costante, e sa che non gli volteremo mai le spalle». Qualcuno suonò il camlo e Adam aggiunse: «Questa dev'essere Dorothy. Griffen, da' qualcosa da bere alla nostra ospite. Io devo parlare un momento con mia sorella». Griffen condusse Skye in sala da pranzo. La tavola, che avrebbe potuto ospitare facilmente una quarantina di convitati, era apparecchiata a un'estremità, con cristalli e argenti e candele accese. «Un tempo questa casa era sempre piena di gente, tutte le sere» disse Griffen porgendole un bicchiere di vino. Skye ne bevve un sorso. «E poi che è successo?» «La mamma è morta, la famiglia si è ridotta... ma tornerà a crescere, ne sono certo. È solo questione di tempo.»

Skye indicò un dipinto alla parete. «Chi è? Somiglia a Dorothy...» «È Anna Monarch, la fondatrice. L'uomo con lei è suo fratello Marcus. Lei era un'artista, lui aveva il bernoccolo degli affari. Una coppia perfetta.» «Come Dorothy e Adam.» «E come i figli di Marcus prima di loro, Jonathan e Rita. Sfortunatamente il tradizionale sodalizio fratello-sorella è finito con mio padre, che è rimasto figlio unico. E anch'io.» «Non hai mai avuto fratelli?» Lui sospirò tristemente. «Ho avuto due sorelle, ma sono morte entrambe, da piccole.» «Oh, mi dispiace!» «Sì, così è la vita... Vieni, voglio mostrarti qualcosa di straordinario. Ma devi chiudere gli occhi.» Lei obbedì, sentendosi un po' stupida, e attraversò la stanza guidata dalla sua mano. «Ecco, adesso puoi aprirli» disse Griffen. Quel che Skye vide la lasciò senza fiato. In una vetrinetta illuminata c'erano alcune uova gioiello nello stile di quelle create da Carl Fabergé per la famiglia dello zar. Quegli oggetti così particolari avevano sempre attirato Skye, fin da bambina. Al college aveva fatto una ricerca sull'argomento, ed era andata fino a New Orleans per vederli esposti in una mostra. Quelle uova erano altrettanto belle, ma in più mostravano una sensibilità moderna nell'uso dei materiali e negli accostamenti di colore. Erano semplicemente magnifiche. «Chi le ha fatte?» domandò Skye ammirata. «I nostri artisti. Ne viene creato uno per festeggiare la nascita di ogni membro della famiglia Monarch» rispose Griffen aprendo la vetrina. «Questo è il mio.» «È splendido.» L'uovo era di smalto blu, decorato da alcuni anelli concentrici di oro bianco tempestati di zaffiri blu scuro.

«Si aprono tutti. Guarda.» Griffen aprì il coperchio, e dall'interno scattò un piccolo jolly montato su una molla, con le ali di farfalla ingioiellate. Skye rise di meraviglia. La creaturina aveva una faccia vagamente diabolica contorta in un ghigno furbesco, che le dava qualcosa di malefico e angelico allo stesso tempo. Skye lo fece oscillare sulla molla di platino. «Che strano, vero? Dorothy era particolarmente creativa in quel periodo. Da piccolo credevo che le uova contenessero le anime dei proprietari, e mi domandavo sempre che sarebbe successo se ne avessi rotto uno. Se l'anima sarebbe scappata via, e se la persona sarebbe morta.» «Doveva essere un pensiero spaventoso» commentò lei con un lieve brivido. «Spaventoso? Non saprei.» Griffen ripose l'uovo nella vetrinetta. «Ci sono alcune uova che sono molto più elaborate delle altre. Come mai?» chiese Skye. «Semplice. La nascita di una bambina è sempre stata celebrata con maggiore fasto, e le uova si adattano all'occasione.» «Stai scherzando!» «No, perché?» «Be', perché di solito avviene il contrario. La nascita di un maschietto è sempre considerata un evento molto più fausto, anche nella nostra civiltà occidentale. Purtroppo, aggiungo io. Trovo l'idea di privilegiare un sesso piuttosto che un altro assolutamente inaccettabile, e se poi consideri che ci sono addirittura paesi in cui le neonate femmine vengono buttate via...» «Be', noi le nostre ragazze le vogliamo eccome» disse Griffen. «Sono il nostro tesoro, perché sono quelle che hanno il dono.» Il tono di quelle parole era così bizzarro che a Skye venne la pelle d'oca. «Che dono?» sussurrò. «I geni creativi della famiglia Monarch sono sempre state le donne» spiegò lui. «Prima Anna, poi Rita e adesso Dorothy.»

«Ma può darsi che un giorno o l'altro anche un ragazzo abbia le stesse capacità, no?» fece lei. «Solo che finora non è successo.» «Ah, certo, è possibile.» Griffen l'abbracciò da dietro. «La nostra famiglia ha avuto la sua parte di tragedie, Skye. Ma siamo rimasti uniti, e questo ci ha reso più forti.» Stava parlando delle sorelline, pensò lei. E della madre che aveva perso da bambino. Lei poteva cercare di ricompensarlo, di ricompensare la famiglia per tutti i lutti e dispiaceri provati in ato. Avevano bisogno di amore, e lei ne aveva tanto da dare a qualcuno che avesse bisogno di lei e la volesse davvero... Si volse e lo abbracciò. «Sei un uomo straordinario» sussurrò. «Questo vuol dire che ho qualche speranza?» domandò Griffen sorridendo. «Direi proprio di sì.» Con un'esclamazione trionfante, lui la baciò. Le sue labbra erano fresche e morbide, la sua tecnica perfetta. Skye gli si strinse contro, augurandosi di provare un po' più di entusiasmo. Ma non sentiva le campane, non si scioglieva al suo tocco, non aveva il cuore in gola... Sciocchezze, pensò. Non sempre il fuoco divampava immediatamente. Sarebbe nato, ne era certa, ma con calma. Ed era meglio così. Dietro di loro, Adam tossicchiò. Skye si volse, rossa per l'imbarazzo, e si trovò davanti la faccia raggiante di Dorothy. «Era ora che il nostro Griffen ci portasse una ragazza» disse. «Siamo deliziati di averla qui con noi, cara. Ha visto la casa?» «Pensavo di farle fare un giro dopo cena, zia Dot.» «Ottima idea. Si faccia mostrare la nursery, mi raccomando. È una camera speciale.» «Davvero?» disse Skye. «E perché?» Nonno e nipote si scambiarono un'occhiata. «C'è una magnifica vetrata colorata che prende tutta una parete» spiegò Griffen.

«Vi è raffigurato un angelo» aggiunse Dorothy. «Un angelo che veglia sui bambini della famiglia. Purtroppo la nursery è vuota da tempo...» «Ecco, sarà soffocante e polverosa» intervenne Adam. «Forse non è il caso di portarci la nostra ospite.» «Sciocchezze» fece Dorothy. «Skye è un'artista, vuoi che si lasci impressionare da un po' di polvere?» «Be', in effetti la vedrei volentieri» disse Skye ormai incuriosita. In quel momento la governante annunciò che la cena era servita e l'argomento venne rinviato a più tardi. Mangiando fagiano arrosto con riso pilaf e insalata al formaggio Roquefort, parlarono di gioielli e di artisti, del prezzo dell'oro e delle nuove tecniche di saldatura che permettevano di abbinare ai metalli preziosi materie nuove come il sughero e la pietra lavica. Il vino era eccellente, e Skye ne bevve quanto bastava a sentirsi deliziosamente ebbra e piena di calore. Dopo cena, come promesso, Griffen le fece visitare la casa, e la piacevole sensazione di calore scomparve, sostituita dalla nausea e dal malessere di qualche ora prima. Skye sentiva che la casa incombeva su di lei, come se volesse soffocarla. Ridicolo, pensò asciugandosi il sudore che le imperlava la fronte. Doveva essere l'influenza, in giro ce n'era parecchia. Meglio concentrarsi sulle belle cose che Griffen le mostrava. Eppure non vedeva l'ora di andarsene. Voleva la sua camera, il suo letto e Mr. Moo. Non voleva mai più rimetter piede in quelle stanze così lussuose. «Eccoci arrivati» disse Griffen. Aprì una porta, accese la luce e disse: «Voilà». Adam aveva ragione, la nursery era polverosa e odorava di chiuso. Skye guardò la culla di ferro battuto laccato di bianco, gli scaffali colmi di libri e giocattoli, le seggioline e il minuscolo tavolo. Poi vide l'angelo, che la guardava dalla vetrata con espressione benigna. «La mattina il sole a attraverso la vetrata e la stanza diventa tutta colorata» disse Griffen. Skye era fradicia di sudore, e la sua gola era arida come la sabbia del deserto. Notò sul pavimento di legno bianco una macchia scura, poi, con orrore, si rese conto che era sangue. Rosso, umido. Diede un grido e fece un o indietro.

«Skye... santo cielo, che cos'hai?» «Quella macchia sul pavimento... è...» Lui la guardò come se fosse uscita di senno. «Io non vedo niente.» «Ma è lì!» Skye indicò col dito. La macchia non c'era più. Stava diventando pazza! «Tesoro, stai bene?» «No... ho bisogno del bagno...» Griffen indicò una porta in corridoio, e lei ci arrivò appena in tempo. Si chinò sul water e vomitò tutta la cena, finché i fianchi non le fecero male per lo sforzo, e poi rimase immobile, con la testa appoggiata alla fredda porcellana del vaso, piena di vergogna. Non sapeva come affrontare ancora Griffen e la sua famiglia dopo quella scena ridicola. Ma soprattutto, era terrorizzata. Perché questa volta era certa che il mostro nero dei suoi incubi, il mostro senza nome, fosse dentro di lei.

22

Mancavano pochi minuti all'arrivo dei primi ospiti. Il ricevimento offerto dalla Società Storica di Chicago e organizzato dall'agenzia di Chance prometteva di essere uno dei suoi tanti successi. Chance guardava ansiosamente verso la porta in attesa di Griffen, che non vedeva da alcune settimane se non per lavoro. Nella vita dell'amico era entrata una donna speciale, su cui Griffen era stato particolarmente misterioso. Era la donna della sua vita, gli aveva detto. Ma niente di più. Chance aveva ridacchiato, scettico. Griffen Monarch, il dongiovanni di Chicago, preso al laccio da una donna? Ma l'altro aveva insistito. Questa era la volta buona, e infatti aveva intenzione di sposarla. Quella sera l'avrebbe portata con sé al ricevimento, e naturalmente Chance non vedeva l'ora di conoscerla. «Chance!» lo chiamò Lisa, la sua assistente. Aveva le guance arrossate e correva verso di lui sui tacchi alti, affannatissima. «L'uomo dei rinfreschi vuole assolutamente parlarti!» Chance sorrise. Lisa era eccezionale, aveva esperienza ed entusiasmo, ma tendeva ad agitarsi troppo e finiva con lo stancarsi il doppio del necessario. «Rilassati» disse fermandola mentre lei già correva altrove. «Fa' un respiro profondo. Andrà tutto bene, come le altre volte.» La ragazza rise nervosamente, ma obbedì e si fermò un momento prima di ripartire al piccolo trotto. Questo era il primo evento organizzato da Chance per la Società Storica, e naturalmente anche lui voleva che fosse tutto perfetto; ma fino a quel momento non c'erano stati intoppi. Il piccolo problema del servizio rinfreschi era stato risolto, il gruppo di musicisti era arrivato in orario e stava sistemando gli strumenti, il Tribune e il Sun Times avevano promesso di mandare un fotografo, e le celebrità a cui Chance aveva chiesto di fare da camerieri avevano accettato volentieri. Chance diede gli ultimi ritocchi alla decorazione floreale, poi parlò brevemente con la direttrice della Società, Martha Wilson, pregandola di dargli

una mano a dirottare i fotografi verso gli obiettivi giusti. I benefattori della Società si aspettavano una ricompensa per i soldi spesi con tanta generosità, e bisognava assicurarsi che figurassero sui giornali, possibilmente a fianco di qualche celebrità. Tra i personaggi che avevano acconsentito a servire a tavola per quell'occasione speciale c'erano Michael Jordan, la famosa conduttrice televisiva Oprah Winfrey e Cindy Crawford, che si trovava in città per far visita alla sua famiglia. Martha Wilson era stata entusiasta dell'idea fin dall'inizio, e i biglietti per la cena erano andati via come il pane benché costassero duecento dollari a persona. Ovviamente la famiglia Monarch, in qualità di membro sostenitore della Società Storica, aveva prenotato uno dei tavoli speciali da duemila dollari. Ripensando all'amico, Chance aggrottò la fronte. Stentava a credere che fosse davvero innamorato e sul punto di sposarsi. Ma se solo poche settimane prima faceva collezione di numeri di telefono! Se era vero, se questa era davvero la volta buona, Chance era felice per lui. Griffen era stato davvero un amico, e lui gli doveva moltissimo. Anche quell'incarico, per esempio. Era stato grazie ai buoni uffici di Griffen e alle sue raccomandazioni che Chance era entrato nella Società Storica dalla porta principale. Certo, lui lavorava sodo e sapeva di meritare la fortuna che aveva, ma nel suo campo le apparenze contavano molto, e il fatto di lavorare per la Monarch gli aveva dato il giusto rilievo. Non appena si era sparsa la notizia che Griffen Monarch gli aveva affidato le relazioni pubbliche della sua azienda, abbandonando Price & Stevenson dopo vent'anni, il telefono di Chance aveva cominciato a suonare. E adesso, dopo cinque mesi, non aveva ancora smesso. Il fatto che nel frattempo lui fosse anche diventato amico di Griffen era stata una piacevole sorpresa. Dapprima Chance aveva reagito con diffidenza, ma adesso cominciava ad accettare la loro amicizia come una cosa consolidata e molto, molto piacevole. Sì, le cose gli stavano andando a meraviglia, pensò. E lui era al settimo cielo.

Un'ora più tardi, sorvegliando lo svolgersi del ricevimento, Chance pensò soddisfatto che le sue previsioni si erano avverate. La festa era un successo. La gente si divertiva, cosa che non era mai da trascurare. Chi si divertiva ne avrebbe parlato con gli amici, le voci sarebbero corse, e Chance avrebbe potuto contare su altri clienti. Martha si fermò accanto a lui, raggiante. «Lei è davvero un genio» disse. «La

gente non fa che complimentarsi con me, e naturalmente io dico agli ospiti che il merito è tutto suo.» «La ringrazio molto» sorrise lui. «Ha per caso visto Griffen Monarch? Dovrei parlargli.» «L'ho visto proprio poco fa. Sì, eccolo laggiù, con la sua bellissima fidanzata.» Chance si avviò verso Griffen, ansioso di conoscere finalmente la donna misteriosa. Gli dava le spalle, e lui vedeva solo i lucenti capelli neri che ricadevano sulla schiena in morbide onde. E che schiena, pensò Chance. Liscia, perfetta, rivelata dall'abito scollatissimo che era sorretto soltanto da due sottili spalline di strass. Be', Griffen aveva davvero buongusto... Sorridendo tra sé, Chance aggirò il gruppetto di ammiratori raccolto intorno a Oprah Winfrey. La ragazza di Griffen si voltò a mezzo verso di lui... e Chance si fermò pietrificato. Non era possibile, pensò. Era una coincidenza. La ragazza somigliava come una goccia d'acqua a Skye, ovviamente ormai adulta e bellissima. Chance scosse la testa. Solo due mesi prima aveva raccontato a Griffen la storia della loro fuga... come poteva Skye comparire a Chicago proprio allora, e con lui? Chance si avvicinò ancora, la ragazza si girò nella sua direzione. Per quanto incredibile, era proprio così. Era Skye. Chance provò una somma di emozioni. Incredulità, sorpresa, piacere. Eccola lì, la sua bella, pestifera, saccente amica. La ragazzina invadente che lo aveva perseguitato fin dal suo arrivo al Luna Park. L'adolescente smarrita che gli si era aggrappata come se lui fosse la sua unica salvezza. Nessuno lo aveva più guardato così, con adorazione e totale fiducia. Chance deglutì. Dio, quanto gli era mancata! Aveva voglia di abbracciarla, di ridere con lei, di rievocare le loro avventure ate e di sapere che cos'aveva fatto negli ultimi tredici anni. E soprattutto di scoprire com'era arrivata fin lì, al braccio del suo migliore amico... Guardò Griffen, e vide che l'altro lo osservava con una strana espressione. Trionfante. Divertita. Un po' malevola. A che gioco stava giocando? Chance scacciò quel dubbio ridicolo. Griffen non poteva sapere chi era Skye, altrimenti gliene avrebbe parlato. Si trattava davvero di una coincidenza, di uno scherzo del destino che li aveva riuniti proprio lì. Ne avrebbero sicuramente riso insieme.

Griffen sussurrò qualcosa all'orecchio di Skye puntando il dito nella sua direzione. Skye si voltò con un sorriso... e poi si irrigidì. Arrossì, divenne bianca come un cencio, infine distolse lo sguardo, e Chance capì. Non era affatto contenta di rivederlo, e non aveva alcuna intenzione di abbandonarsi alle reminiscenze come lui sperava. Chance l'aveva fatta soffrire, e probabilmente lei lo odiava con tutta l'anima. Ma poteva rimediare, pensò lui. Poteva spiegarle che lasciandola con Sarah e Michael aveva agito per il suo bene, e Skye avrebbe sicuramente capito. Si avvicinò ai due, cercando di trovare una frase adatta per rompere il ghiaccio. Ma Griffen lo tolse d'imbarazzo parlando per primo. «Chance, vecchio mio!» sorrise cingendo le spalle di lei con aria possessiva. «Voglio presentarti Skye Dearborne, la ragazza di cui ti ho tanto parlato.» Chance la guardò negli occhi. «Ci conosciamo già. Ciao, Skye.» Lei lo guardò fredda, poi distolse gli occhi. «Ciao.» «Come, vi conoscete?» esclamò Griffen stupito. «È stato tanto tempo fa» disse Chance. «Ti trovo benissimo, Skye. Non riesco a credere che sia proprio tu.» «Già, lo immagino» fece lei gelida. «Scusami, Griffen, vado a incipriarmi il naso.» Chance la seguì con gli occhi, sentendosi frustrato e infelice. Poi guardò Griffen e gli vide di nuovo quell'espressione trionfante. Sembrava un gatto che ha appena catturato un topo. «Dimmi, Griffen, come l'hai conosciuta?» domandò brusco. «Tu, piuttosto, dimmi come mai vi conoscete già» replicò l'altro. Chance lo squadrò truce. «Ti piacerebbe saperlo, eh?» «Senti un po', che cosa ti rode? Skye è la nostra nuova designer. Ho visto alcuni suoi lavori in un'esposizione a New York, l'ho rintracciata, Dorothy e io abbiamo controllato le sue credenziali e l'abbiamo assunta.»

«Tutto qui?» «Tutto qui. E poi mi sono innamorato di lei. Se questo ti crea qualche problema vorrei saperlo subito, ma ti avverto, i miei sentimenti per lei non cambieranno comunque.» Chance lo guardò in faccia, tacitando i propri dubbi. Griffen era un amico, aveva fatto per lui molto più di chiunque altro, perché avrebbe dovuto mentirgli su quell'argomento? «Diavolo, Griffen, ti chiedo scusa. Ma vedi, questa faccenda è talmente strana...» «Come, strana? Perché?» «Ti ricordi un paio di mesi fa, quando ti ho raccontato del Luna Park e della ragazzina che era stata abbandonata dalla madre?» «La ragazzina che ti disegnò la rana?» «Proprio lei. Be', quella ragazza è Skye.» «Non è possibile.» «È lei, ti dico.» «Non ci credo. Sei proprio sicuro?» Chance annuì. «Adesso capisci perché ero tanto sorpreso?» «Eh, già.» Griffen guardò nella direzione in cui Skye era scomparsa. «Ma lei non mi è sembrata troppo contenta di rivederti. Che diavolo le hai fatto?» «L'ho lasciata anch'io. Dovevo farlo, per il bene di tutti e due. Solo che non ho nemmeno...» Chance si fermò e l'altro lo sollecitò. «Va' avanti.» «Non l'ho nemmeno salutata. Sono scomparso e basta. Mi sembrava che fosse meglio così.» Griffen ridacchiò. «Bel colpo. Ma immagino che non potrò invitarti a cena quando saremo sposati.» «Mi perdonerà.»

«Tu dici? Be', se io fossi in te starei molto attento, perché Skye mi è sembrata parecchio seccata.» «Tutto questo ti diverte, vero?» chiese Chance irritato. Griffen scrollò le spalle. «E perché dovrebbe?» Chance, però, gli aveva visto di nuovo quell'aria compiaciuta, da gatto che gioca col topo. A volte Griffen Monarch era proprio un bastardo, pensò incerto. A volte, lui si domandava se lo conosceva davvero.

Nel bagno delle signore, Skye si lasciò cadere sullo sgabello davanti allo specchio e affondò il viso tra le mani. Per un breve istante, il suo cuore si era riempito di gioia. Era tornata indietro, a tredici anni, quando Chance era il suo migliore amico, suo fratello, tutta la sua famiglia. Poi aveva ricordato... e con il ricordo era venuto il dolore e la collera. Una collera cieca, divorante. Skye strinse i pugni. Non avrebbe mai perdonato a Chance di averla abbandonata in quel modo, sgusciando via nel mezzo della notte, da vigliacco. Lei lo amava, e lui le aveva spezzato il cuore. Skye si osservò allo specchio, stupita dalla ferocia del suo odio. Credeva di aver dimenticato, credeva che non le importasse più niente di lui, ma non era così. Le importava, eccome. Tanto da soffrire atrocemente. Tanto da odiare Chance. Chiuse gli occhi e contò fino a venti. Non aveva più tredici anni; era una donna adulta, indipendente, forte, sicura di sé. Non aveva più bisogno di Chance. Non era costretta a parlargli, a guardarlo. Se voleva, poteva calpestarlo e andarsene senza voltarsi. O magari, poteva farlo soffrire come aveva sofferto lei. Fargli rimpiangere la sua vigliaccheria. Aveva tanto desiderato di potergli rendere la pariglia... ed ecco che un altro dei suoi desideri si avverava. Deglutì e ripensò alle parole di lui poco prima. Come osava dire Skye e io ci conosciamo, come se la loro fosse stata una semplice conoscenza? Come osava

dirle che la trovava benissimo e guardarla negli occhi come se niente fosse? Ah, no. Non lo avrebbe tollerato! Rivide la sua figura, come le era apparsa poco prima. Era più alto, più robusto, più uomo. La sua bella faccia da ragazzo era maturata e aveva qualche ruga di espressione che la rendeva ancora più interessante. Accidenti a lui, era sempre bellissimo! Negli anni lei aveva immaginato un monte di cose: che fosse diventato grasso e calvo, che un incendio lo avesse sfigurato, che fosse stato mutilato in un incidente... invece aveva avuto successo, era un uomo arrivato e ancora più attraente. Ed era amico di Griffen, che lo chiamava vecchio mio! Cercò di ricordare che cosa Griffen le avesse detto sull'amico che voleva presentarle. Non molto, per la verità. Lei sapeva solo che si occupava di relazioni pubbliche e che aveva organizzato il ricevimento di quella sera. Sembrava addirittura che Griffen si comportasse come chi ha un succoso segreto che non vuole rivelare. Possibile che avesse scoperto in qualche modo la vera natura della sua amicizia con Chance? Lei non gli aveva raccontato molto del proprio ato e non gli aveva parlato né di Chance né del modo in cui aveva perduto sua madre, e neppure del periodo vissuto con Sarah e Michael. Ridicolo, pensò scuotendo la testa. Non era possibile che Griffen sapesse, e tanto meno da Chance, la cui sorpresa nel vederla era stata autentica. Adesso, naturalmente, lei avrebbe dovuto raccontare tutto a Griffen. Lui se lo aspettava. Skye guardò l'orologio. Si nascondeva lì dentro da un quarto d'ora, il che era ridicolo. Era un'adulta, sapeva affrontare le difficoltà a viso aperto. Poteva benissimo affrontare Chance McCord. Si esaminò allo specchio, rinfrescò il trucco, applicò uno strato di rossetto. Pronta per combattere, pensò. Erano tredici anni che aspettava di dire a Chance che bastardo schifoso era stato. Sarebbe stata un'enorme soddisfazione farlo quella sera. Chance l'aspettava fuori della porta e sussultò quando la vide. «Skye, aspetta, non andartene. Dobbiamo parlare.»

Lei lo guardò sprezzante. «Buona idea. Cominciamo da quanto sei stato vigliacco.» «Ti ascolto» fece lui con aria di sfida. Questo la fece infuriare ancora di più. «Te ne sei andato senza neanche dirmi crepa. Non ti sei degnato di lasciarmi un biglietto, e sapevi benissimo quanto dipendevo da te. Sapevi che ti amavo, sapevi quanto avevo già sofferto per l'abbandono di mia madre, e mi hai mollata comunque! Adesso, e non certo per merito tuo, me la cavo benissimo. Non ho più bisogno di te nella mia vita. E quindi non ti ci voglio!» Fece per andarsene, ma lui l'afferrò per un braccio. «Credi davvero che saresti arrivata dove sei se fossimo rimasti insieme? Credi che avresti avuto l'istruzione che hai avuto, o che avresti ottenuto questo lavoro alla Monarch?» «Non raccontarmi storie. Non te ne andasti perché eri preoccupato per il mio futuro, ma per il tuo. Io ero una palla al piede, no? Mi chiamavi così!» «Sì, è vero, sapevo che non avrei mai concluso niente se fossi rimasto a Dekalb. Ma tu avevi bisogno di una famiglia, di una vita normale...» «La famiglia l'avevamo trovata, e andava bene per tutti e due!» «Skye, cerca di capire. Tu eri ancora una bambina, ma io ero un adulto e dovevo costruirmi una mia vita...» «Be', lo hai fatto. Sei riuscito, hai successo, ti faccio le mie congratulazioni. E adesso, va' al diavolo.»

Con il are dei giorni, anziché svanire, il ricordo dell'incontro con Chance si fece più vivido nella mente di Skye. Lei cercò di immergersi nel lavoro, si dedicò all'amicizia con Terri o al suo rapporto con Griffen; ma le bastava chiudere gli occhi ed ecco che l'immagine di Chance si presentava più viva e intensa che mai. Lo aveva rivisto brevemente un paio di volte, di lontano, e aveva dovuto fare

uno sforzo per non fissarlo, per ricordare a se stessa quanto lo odiava e perché. Ma nonostante tutto, non riusciva a toglierselo dalla mente. Quella mattina, appena arrivata al quinto piano, Skye ricevette alcuni messaggi telefonici dalla centralinista. «Un invito a pranzo dal signor Monarch» disse la ragazza con un sorriso allusivo. «Per oggi?» «Già. E poi c'è una riunione indetta da Dorothy alle dieci.» Skye prese i biglietti e li mise in tasca. «Grazie. Terri è già arrivata?» «Sì, è nel suo ufficio.» «Ci vediamo dopo» disse Skye avviandosi lungo il corridoio e pensando all'invito per pranzo. Griffen la corteggiava con assiduità, coprendola di attenzioni e facendola sentire protetta e sicura. Skye cominciava a credere che l'amasse davvero, che non l'avrebbe mai lasciata. Perché Chance doveva spuntar fuori proprio adesso, a ricordarle quanto si soffriva a essere abbandonata, quanto poteva essere pericoloso fidarsi di un altro essere umano, e quant'era bello e magico essere davvero innamorata? Scosse la testa scacciando quel pensiero. All'epoca del Luna Park era solo una bambina, e quella per Chance era stata un'infatuazione da adolescente. In seguito lui era diventato la sua sola famiglia, ed era stato più che logico che lei riversasse su di lui tutto il suo affetto. Ma non si era trattato di amore vero e proprio. Lei aveva confuso la dipendenza affettiva con l'amore. Ma adesso aveva Griffen, così attento, premuroso, comprensivo. Griffen era tutto ciò che si poteva desiderare in un uomo, e l'amava profondamente. Non l'avrebbe mai abbandonata, lui. Skye aggrottò la fronte: la testa cominciava a dolerle, ma non avrebbe permesso all'emicrania di impadronirsi di lei. Non quel giorno. Si rese conto di essere arrivata davanti alla porta di Terri, e corrugò la fronte quando la vide chiusa. Terri non chiudeva mai la porta, nemmeno quando era nel pieno di un lavoro importante. Diceva che la faceva sentire claustrofobica.

Bussò lievemente sul battente, domandandosi se Terri non avesse qualche problema. Nelle ultime settimane erano diventate amiche, e avano così tanto tempo insieme che Griffen aveva commentato la cosa come se fosse un po' geloso. Certo, Skye poteva capirlo, era successo che lei rifiutasse uno dei suoi inviti perché aveva già dei progetti con Terri e sua figlia, e forse questo lo faceva sentire escluso, ma per lei avere un'amica era una esperienza nuova e molto piacevole. Era bello avere qualcuno che la pensava allo stesso modo, qualcuno con cui potersi confidare, con cui ridere e chiacchierare. Bussò di nuovo, entrò, e quando Terri alzò gli occhi lei notò che aveva pianto. «Ehi, tutto bene?» domandò con ansia. «Non lo so... comincio ad avere paura. Vedi, è da qualche tempo che ricevo delle telefonate...» «Che tipo di telefonate?» «Scherzi, pensavo. Ma adesso non ne sono più così sicura. Adesso sono diventate minacce.» Terri non era portata al melodramma. Se lo diceva, doveva essere vero. «Raccontami tutto.» «Dapprima erano solo telefonate mute o di qualcuno che respirava pesantemente e poi riagganciava. Poi sono cominciate le oscenità. E stamattina, la stessa voce mi ha chiamata puttana. Una puttana è buona solo quando è morta, ha detto. Una voce fredda, determinata... credo che dicesse sul serio.» Skye coprì con le sue la mano dell'amica. «Oh, Terri, che cosa terribile... Hai chiamato la polizia?» «Sì, subito dopo. Hanno detto che sarebbero andati a parlare con il mio ex marito, e mi hanno consigliata di cambiare numero. Per ora non possono fare altro.» «Tu credi che si tratti di Will?» domandò Skye. «L'ho pensato, ma la voce non è la sua. Lui naturalmente nega. Vedremo se le chiamate continueranno dopo che i poliziotti gli avranno messo un po' di fifa addosso.»

«Andrà tutto bene, Terri. Chi chiama è solo un maniaco che ha preso il tuo numero sull'elenco, ma quando lo avrai cambiato vedrai che smetterà.» «E se non smettesse? E se scoprisse dove abito? Io devo pensare anche a Raye, capisci?» «A Raye non succederà proprio niente» disse Skye con convinzione. «Noi non lo permetteremo. Vieni, andiamo a prenderci un caffè e poi andiamo alla riunione di Dorothy. Non vedo l'ora di scoprire che cosa bolle in pentola.»

La sala delle riunioni si stava riempiendo rapidamente. Chance e Dorothy erano a un capo del tavolo e chiacchieravano animatamente del loro progetto, ma Chance teneva d'occhio la porta, perché era ansioso di veder arrivare Skye. Forse, rivedendola si sarebbe liberato dall'incantesimo che si era impadronito di lui da quando l'aveva vista al ricevimento della Società Storica, qualche settimana prima. Da allora non faceva che pensare a lei. Ricordava la loro vita insieme, le cose che avevano fatto o detto, gli episodi cui non ripensava da anni. Skye lo ossessionava. Ma lui doveva ricordarsi che adesso era la donna di Griffen. Del suo migliore amico. Lui e Skye avevano un tratto di ato in comune, niente altro. Era trascorso un mucchio di tempo, le loro vite erano andate in due direzioni diverse. Che gli importava se lei lo riteneva un bastardo? E invece, maledizione, gli importava moltissimo. Teneva a lei, e voleva che lo perdonasse. Finalmente Skye arrivò con un'altra donna che lavorava lì come designer. Non lo aveva ancora notato, e questo gli diede modo di osservarla con calma. Dio, quant'era bella. Illuminava la stanza per il solo fatto di essere presente. Anche da bambina era stata così, ma adesso il fascino che irraggiava da lei era di altra natura e lo colpiva come un pugno in pieno stomaco. Anzi, no. Più in basso. Accidenti, pensò Chance. Era una bella complicazione. Skye si accorse di lui e si bloccò, con lo sguardo fisso nel suo. La donna che era

con lei le diede una gomitata. Dorothy tossicchiò con insistenza. Skye continuava a fissarlo, immobile. In quella entrò Griffen, andò a mettersi dietro di lei e le posò una mano sulla spalla. L'incanto si ruppe, Skye si volse e Chance abbassò gli occhi. Griffen scelse una sedia accanto a Skye anziché a capo del tavolo. Tutto il suo atteggiamento diceva chiaramente Giù le mani, lei è mia. Chance non lo aveva mai visto agire così. Fino allora, aveva sempre trattato le sue innumerevoli conquiste con una noncuranza che rasentava il disprezzo. La faccenda si faceva sempre più strana. Dorothy si alzò in piedi. «Ho indetto questa riunione per dare a tutti voi una bellissima notizia, ma sarà il nostro esperto di relazioni pubbliche, Chance McCord, a spiegarvi nei dettagli di che si tratta perché a lui va il merito dell'operazione. Prima, però, vorrei parlare brevemente della Fiera del Design di Milano, alla quale abbiamo deciso di partecipare anche quest'anno.» Chance ascoltò distrattamente Dorothy e profittò dell'occasione per osservare Skye e Griffen. Erano indubbiamente una bella coppia, la raffinatezza di lui si sposava perfettamente all'insolita bellezza un po' bohémienne di lei, e le loro caratteristiche fisiche erano addirittura simili. Ma nonostante tutto Chance non riusciva a vederli insieme. Sembrava una cosa sbagliata, perfino blasfema. Forse la sua era solo invidia. Chance sbuffò. Strano, prima non era mai stato geloso dell'amico e della sua capacità di conquistare le donne. Già, ma nessuna di quelle donne era la sua Skye. La sua Skye? Ma era impazzito? Skye non era affatto sua né lo era mai stata. Doveva cacciarselo bene in testa, e alla svelta. «E adesso, do la parola a Chance McCord» disse Dorothy. Lui la ringraziò e si alzò in piedi. «Le creazioni Monarch sono tra le più ricercate da oltre un secolo» esordì. «Per anni il pubblico le ha ammirate indosso a personaggi famosi come Elizabeth Taylor, Jacqueline Onassis, Grace di Monaco. Questi gioielli sono diventati parte del retaggio artistico dell'America. Eppure, il nome Monarch non è ancora abbastanza conosciuto.» Chance si fermò e lasciò vagare lo sguardo sui presenti, fermandosi su Skye. Per un istante, tutto il resto scomparve e lui vide solo i suoi incredibili occhi blu, il suo viso incantevole, il

suo corpo snello. Dorothy si schiarì la gola e Chance tornò al presente, con un immenso sforzo. «Per anni, l'azienda si è tenuta nascosta. Quando Griffen Monarch mi ha assunto per occuparmi delle relazioni pubbliche, io gli ho promesso di dare alla Monarch tutto il risalto che le era mancato finora, mettendola nella luce che meritava e facendola diventare famosa come e più di Tiffany.» Sorrise a Dorothy e continuò: «Quella luce comincia finalmente a splendere. La casa editrice dell'università di Chicago ha accettato di pubblicare un libro d'arte che celebri i primi centodieci anni della Monarch. Il libro uscirà a Natale dell'anno prossimo». Dopo un attimo di silenzio attonito, tutti cominciarono a parlare contemporaneamente, eccitatissimi. «Dorothy, Griffen e io risponderemo a tutte le vostre domande più tardi, ma per ora posso anticiparvi qualche informazione. Belinda Constantine, direttrice dell'Istituto d'arte di Chicago, scriverà la prefazione. La copertina e la grafica del libro saranno affidate a David Argyle, che ha curato l'ultimo libro edito da Tiffany. Non abbiamo ancora scelto il fotografo, ma stiamo trattando con alcuni dei nomi più famosi. La supervisione del progetto sarà naturalmente nelle mani di Dorothy, che sceglierà i pezzi classici da inserire nel testo, curerà la parte storica e, ovviamente, l'ultima parte del libro che sarà dedicata al futuro dell'azienda. È evidente che questo progetto richiederà un impegno extra da parte di tutti voi. Sarà un lavoro di gruppo, anche se non tutti i membri della squadra sopporteranno gli stessi oneri. Per esempio tu, Skye, essendo arrivata da poco, forse non dovrai...» «Farò la mia parte» l'interruppe lei con le guance rosse di collera. «Non preoccuparti per me, imparo alla svelta e non mi tiro mai indietro.» «Non ne dubito. Stavo per dire che essendo arrivata da poco non dovrai occuparti del lato storico delle ricerche, che spetterà invece a qualche veterano. Ma Dorothy mi dice che stai lavorando a qualcosa di nuovo, e quello indubbiamente ci servirà. Avremo bisogno di schizzi, di prototipi e di pezzi finiti. Be', ci sarà un bel da fare.» «Insomma, ci stai dicendo che dovremo darci una mossa?» fece Skye asciutta. «Esatto. Per te non è un problema, spero.» «Niente affatto. Adoro il mio lavoro.»

Chance si rivolse nuovamente agli altri. «Il testo verrà scritto da Mickey Spelling, che ha curato tra le altre cose le ultime pubblicazioni su Frank Lloyd Right. Spelling verrà qui e intervisterà ciascuno di voi, e poi Dorothy rivedrà le interviste e se necessario ne discuterà con gli interessati. Ho già mandato dei comunicati alla stampa e alle principali reti televisive, ma naturalmente avremo un'eco molto maggiore quando il libro uscirà. Adesso, ci sono domande?» Nella mezz'ora che seguì, Dorothy, Griffen e Chance risposero ai dubbi e alle curiosità di tutti. Solo Skye rimase ostinatamente silenziosa, con le braccia conserte e la fronte aggrottata. Certo non era il libro a suscitare il suo scontento, pensò Chance, ma il fatto che lui partecie al progetto. Be', peggio per lei. Quando la riunione finì, si avvicinò al gruppetto con cui lei stava parlando e le sfiorò un braccio. «Scusatemi... Skye, posso parlarti un momento?» «Naturalmente.» Lei sorrise e si allontanò dagli altri, poi lo squadrò furiosa. «Come osi prendermi di mira in quel modo? Sono un membro della squadra come tutti gli altri, e non sopporto che tu mi dica quello che devo o non devo fare!» «Sei sempre la solita saccente, a quanto vedo. Non sei cambiata affatto.» Lei sbuffò e fece per allontanarsi. «Non ho tempo per le reminiscenze.» «Senti, dovremo lavorare insieme. Non possiamo seppellire l'ascia di guerra?» «Solo se posso seppellirla nella tua schiena.» A questo punto Chance perse la pazienza. «Non darti tante arie» sibilò. «Lo sai che cosa pensano tutti? Che tu sia arrivata fin qui solo perché vai a letto col capo.» Poi si pentì delle sue parole, non perché non fossero vere, la gente lo pensava eccome, ma perché la cosa non lo riguardava. Non era suo fratello né niente altro. Skye divenne scarlatta. «Nemmeno tu sei cambiato» ringhiò. «Sei sempre un porco.» Sorrise a un designer che ava, poi concluse: «Stammi lontano, d'ora in poi, se non vuoi che ti ammazzi». «Ehi, che succede qui?» fece Griffen avvicinandosi con un sorriso. «Non starete litigando!»

«No» disse Skye. «Gli stavo solo dicendo di starmi alla larga.» Griffen rise e ammiccò. «Non è fantastica?» «Fantastica» assentì Chance. La faccia adorante dell'amico gli dava il voltastomaco. Griffen si rivolse a Skye. «Hai avuto il mio messaggio? Sei libera per pranzo?» «Sì, certo. erò nel tuo ufficio più tardi.» E Skye si allontanò senza degnare Chance nemmeno di un'occhiata. «Allora, Chance, come va?» domandò Griffen. «Sei ancora tutto intero?» «Più o meno.» «È pazza di me, hai notato? Te l'avevo detto, no, che attiro le donne come mosche sul miele!» «Ho notato. Congratulazioni.» Chance era irritato senza una ragione, e non vedeva l'ora di andarsene. «Scusami, ma ho un appuntamento tra dieci minuti. Se non c'è altro...» «Per la verità ci sono un paio di cosette che vorrei discutere con te, ma adesso sono occupato anch'io» disse Griffen. «a nel mio ufficio verso mezzogiorno, d'accordo?» «D'accordo.» Qualcosa nell'atteggiamento trionfante di Griffen, oltre che nelle sue parole, gli urtava terribilmente i nervi. «Ci vediamo più tardi.» Era già sulla porta quando Griffen lo richiamò. «Ricorda quel che ti ho detto. Mosche sul miele. Con me non puoi proprio competere!»

23

Salve, Ashley. Griffen e io dobbiamo andare a pranzo. Sai se è già pronto?» La segretaria sorrise a Skye. «È al telefono, ma mi ha detto di dirti che sarà libero tra cinque minuti. Non è una meraviglia, la faccenda del libro?» «Una vera meraviglia.» Skye si sforzò di apparire entusiasta e aggiunse: «Una magnifica opportunità per l'azienda». «Bisogna dire che il signor Monarch ha un fiuto eccezionale. Pensa che ha assunto Chance senza praticamente conoscerlo, dopo una sua visita improvvisa.» «Davvero?» «Già. E ha licenziato l'agenzia di prima, dopo vent'anni che lavorava per noi.» Schioccò le dita. «Dall'oggi al domani, così.» Proprio come si era innamorato di lei, pensò Skye. Dall'oggi al domani. Ashley continuò: «Ma Chance lo aveva interessato molto fin da quando gli avevo dato il suo biglietto da visita. Come se conoscesse il nome. Io ho pensato che era matto... il che ti dice quanto valga il mio istinto per gli affari.» Rise e si alzò. «Ho un appuntamento per pranzo, devo scappare. Ci vediamo.» Skye la salutò e sedette su una poltrona. Chance aveva interessato molto Griffen fin da quando quest'ultimo aveva visto il suo biglietto da visita. Che strano. «Un penny per i tuoi pensieri» disse la voce di Chance dalla soglia. Skye aggrottò la fronte. «Quel che penso non è affar tuo.» «Ancora più cordiale di stamattina, a quanto vedo. Dov'è Ashley?» «È andata a pranzo.» Lui guardò verso la porta chiusa. «Griffen voleva vedermi. Sai se sia occupato?»

«È al telefono, ma non credo che abbia tempo di parlarti. Sta per venire a pranzo con me.» «È stato lui a dirmi di venire a quest'ora» ribatté Chance. «Aspetterò.» «Fa' pure, ma secondo me perdi il tuo tempo.» «Se mi danno un appuntamento io lo rispetto» replicò Chance amabilmente. «È una questione di professionalità. A proposito, che cos'era quella scenata così poco professionale di stamattina?» «Va' a farti fottere!» «Una reazione da adulta, mi rallegro. E congratulazioni per il linguaggio che hai imparato a usare.» Skye aveva talmente voglia di picchiarlo che le tremavano le mani. «L'ho imparato da te, se ben ricordi.» «Senti, Skye, nei prossimi mesi dovremo lavorare insieme, anche se indirettamente. Non possiamo essere civili? Ci renderebbe la vita più facile.» «È la tua specialità, vero? Renderti la vita più facile.» Chance sospirò. «E va bene, d'accordo. È arrivato il momento di una spiegazione.» «Lascia perdere.» «No, adesso devi ascoltarmi. Per una volta cerca di non comportarti come una bambina viziata.» Lei si voltò, furiosa. «Come osi? Sei l'essere più odioso e...» «Skye, ti chiedo scusa» la interruppe lui. «Mi dispiace tanto di averti fatta soffrire, e ho sentito molto la tua mancanza. Moltissimo.» Gli occhi di Skye si colmarono di lacrime, ma lei le ingoiò rabbiosamente. «Infatti non ti sei più fatto vivo. Mi hai cancellata dalla tua vita e buonanotte!» «Come sai che non ho più pensato a te? L'ho fatto, un mucchio di volte. Mi sono

domandato come stavi, che cosa facevi, se mi avevi perdonato... Ma non potevo tornare, cerca di capirmi. Non potevo. Ho agito così solo per il tuo bene!» «Come mia madre!» esclamò lei con la voce rotta dal pianto. «Mi volevi talmente bene che mi hai mollata. Molto comodo!» «Non posso parlare a nome di tua madre, ma so che per me lasciarti non è stato affatto comodo. Mi ha fatto soffrire, e parecchio.» «Allora potevi restare. Avevamo creato una famiglia, eravamo felici. Invece, appena hai potuto hai levato le tende!» «Sai bene che non era così semplice. Pensa a quello che era successo prima di Sarah e Michael. Pensa all'ultimo giorno a Boyton, pensa a Kevin. Non ti rendi conto? Stavi crescendo, io non ero più in grado di proteggerti. Non potevamo più andare avanti così.» Prese entrambe le mani di lei e se le portò al petto. «Non ricordi più com'era difficile?» Skye ricordava tutto. La confusione, i sentimenti che Chance suscitava in lei, la sua infelicità. E ricordava anche quando aveva cercato di baciarlo, e lui l'aveva respinta; o quando a volte, nel buio, si era carezzata fingendo che fossero le mani di Chance a farla esplodere di piacere... Tutti quei ricordi la sommersero, vivi come non mai. Skye levò gli occhi su di lui, e in quel momento, mentre si fissavano, qualcosa cambiò per sempre. Il ato scomparve e ci fu solo il presente. D'improvviso, furono un uomo e una donna. Chance strinse le mani di lei contro il petto e contro il cuore che batteva sordamente. Guardò la sua bocca. «Skye...» sussurrò. Poi la lasciò. Skye lo fissò, incredula. Era successo di nuovo. Lei era stata sul punto di baciarlo, e lui l'aveva respinta. Come allora. «Non possiamo...» farfugliò lui. «Io... io non posso.» Fece un gesto di resa. «Di' a Griffen che non potevo restare, e che lo chiamerò più tardi.» E corse via.

Arrivò il venerdì sera, e poiché Will teneva con sé sua figlia, Terri e Skye andarono a cena insieme come già era successo altre volte. Scelsero un ristorantino italiano vicino a casa di Terri, e mentre aspettavano che si liberasse un tavolo sedettero al bar, chiacchierarono e risero, e respinsero le avance di un paio di uomini. Skye era felice di vedere l'amica di buonumore. Terri aveva cambiato il numero di telefono e le chiamate erano cessate. Forse l'incubo era davvero finito. Quando finalmente ebbero un tavolo si abbuffarono di deliziosi piatti italiani ultra calorici, bevendo una quantità di vino rosso e divertendosi un mondo. «Vieni su a prendere un caffè» propose Terri quando furono davanti al portone di casa. «Buona idea» ridacchiò Skye. «Sono talmente brilla che non potrei guidare comunque. Erano secoli che non mi divertivo tanto!» Per le scale, Skye disse: «Hai flirtato in maniera vergognosa col cameriere, lo sai?». «Hmm, il bell'Antonio...» mugolò Terri. «Era proprio un fusto.» «Quanti anni avrà avuto?» «Oh, più che abbastanza. Infatti, mentre uscivamo mi ha rifilato un bigliettino con su scritto il suo numero di telefono.» «No!» «Ecco qua.» Terri estrasse un foglietto dalla tasca della giacca e lo sventolò sotto il naso dell'amica. «Adesso ci credi?» «Ma aveva almeno dieci anni meno di te!» «E con questo? A trentadue anni una donna è nel pieno del suo fulgore! Cos'è, sei gelosa perché non l'ha dato a te?» «Ma figurati. Io ho Griffen.»

Terri riprese a salire le scale. «Già, Griffen.» «Perché usi quel tono?» fece Skye incuriosita. «Per nessuna ragione. Solo che... be', non è il mio tipo.» «Perché?» «Oh, lascia perdere.» «No, voglio saperlo. Prometto che non mi arrabbierò.» «Be', ecco, è troppo possessivo per i miei gusti. E soffocante... il tipo che vuole controllare anche l'aria che respiri, e io non lo sopporterei.» «Ti pare possessivo?» ripeté Skye. «Senti, tu volevi sapere che cosa ne penso, e io te l'ho detto.» «Hai ragione. Ma credo che chiunque sarebbe come lui se avesse avuto una storia familiare così sfortunata. Sua madre è morta quando lui aveva due anni. Ha avuto due matrigne. Le sue due sorelline si sono ammalate e sono morte entrambe da piccole. E recentemente ha perso il padre.» «Non dico che sia cattivo, per carità, dico solo che non è il mio tipo. Quanto alle sorelle, io ho sentito un'altra storia.» «E cioè?» «Una, la seconda, annegò nella vasca da bagno a un anno e mezzo. La madre la lasciò un momento per rispondere al telefono, e quando tornò era troppo tardi. Fu così sconvolta dalla morte della figlia che impazzì e finì per spararsi.» «Dio mio.» Skye si aggrappò al mancorrente. «E l'altra?» «L'altra venne rapita da sua madre e nessuno le rivide più. Era la prima delle sorellastre, mi sembra che si chiamasse Grace.» «Grace» ripeté Skye. Quando Griffen le aveva detto di aver perso entrambe le sorelle, lei aveva pensato che fossero morte per qualche malattia. La realtà era ancora più tragica. «Che cosa terribile... povero Griffen! Poveri Adam e

Dorothy!» Terri le batté sulla spalla. «Prima, quando ho detto che Griffen era ossessivo, mi sono espressa male. Intendevo dire che è sempre così... così intenso e controllato, capisci?» «Sì, capisco, ma non mi sembra necessariamente un difetto.» «Forse no. Ma senti, Skye, sei sicura di sapere quel che stai facendo? Voglio dire, uscire col capo e tutto quanto... Io ti sono affezionata e non vorrei vederti soffrire. E Griffen ha fama di essere un tremendo dongiovanni...» «Non è come pensi, Terri. Non è un'avventura. Non so perché, ma lui mi ama davvero.» Terri la guardò, poi scosse la testa ridendo. «Forse sono soltanto gelosa. Piacerebbe anche a me avere qualcuno che mi ama davvero, invece del numero di telefono di un fusto dal quale avrei comunque paura di farmi vedere nuda.» «Sciocchezze. Sei uno schianto!» «Ma non ho più vent'anni!» «E chi vuole averli? Essere giovani non è poi così speciale.» «Parli bene, tu, che sei ancora una bambina.» Terri si fermò davanti alla porta del suo appartamento. «Guarda, qualcuno mi ha lasciato un pacco. Sarà uno dei miei tanti giovani ammiratori.» «Ah, senza dubbio» rise Skye. «Dai, aprilo.» «Più probabile che sia mia madre che mi spedisce qualcosa che mi sono dimenticata da lei domenica scorsa. Raye e io lo facciamo sempre.» Terri prese il pacco, aprì la porta e lo posò sul tavolo dell'ingresso. «Non so tu, ma io ho bisogno di un buon caffè.» Andarono in cucina e Skye osservò l'amica, pensando a quant'era stata bene con lei quella sera. Non era mai stata così intima con nessuno, ed era una sensazione molto piacevole.

«Avevi tante amiche quando eri ragazzina?» domandò. «Certo, chi non ne ha?» «Io, per esempio. Con mia madre ci spostavamo sempre e io non facevo in tempo a farmi delle amiche. E poi ero una specie di peste.» «Ma davvero?» rise Terri. «Non posso crederci!» «Non fare la spiritosa, sai?» «Sul serio non avevi amiche?» «Nessuna. Anche perché avevo imparato a mie spese quant'era doloroso dire addio a qualcuno, e così evitavo di affezionarmi.» Terri carezzò la mano di Skye. «Povera piccola. Tieni, ecco il tuo caffè. Ne hai bisogno, perché hai bevuto come una spugna.» «Ma senti chi parla!» esclamò lei accettando la tazza. «Io mi so controllare, e poi lo reggo meglio.» «Oh, per favore!» Skye tornò in soggiorno, e ando dal corridoio accennò al pacchetto che stava ancora sul tavolo. «Non apri il regalo del tuo ammiratore?» «Ah, è vero.» Terri lo prese e lo scosse, e dall'interno venne un suono sordo, come se qualcosa urtasse contro le pareti di una scatola. «Dal suono non si capisce. Sarà un tanga di pizzo... o magari una confezione di profilattici al gusto di fragola?» Skye finse di rabbrividire. «Che volgarità!» Ridacchiando, Terri strappò la carta marrone, sollevò il coperchio della scatola e diede in un grido strozzato. «Che succede?» La scatola cadde dalle mani di Terri e rotolò sul tappeto. Il suo contenuto uscì, rosso e sanguinolento.

Era un topo morto, con il ventre squarciato da un colpo di rasoio e le interiora che si sparpagliavano sul tappeto color pastello. Skye si portò la mano alla bocca per soffocare l'urto di vomito. «Mio Dio» gemette Terri. «Mio Dio!» Sembrava sull'orlo di un attacco isterico. «È lui, il tipo delle telefonate. Sa dove abito!» «Dobbiamo chiamare subito la polizia» decise Skye. Qualcuno doveva prendere in mano la situazione, e a giudicare dall'espressione di Terri toccava a lei. «E se Raye fosse stata qui? Se le avessi lasciato aprire il pacco?» esclamò Terri con voce stridula. «Per fortuna non è successo, cara. Adesso cerca di calmarti mentre io chiamo la polizia. Dov'è il telefono?» Terri indicò con mano tremante il portatile che era caduto a terra, a pochi centimetri dal topo. «Lo prendo io.» Skye scavalcò l'orrenda cosa rossastra, e vide che nella scatola c'era anche un biglietto chiuso in una busta di plastica ermetica. Sollevò la busta con due dita, l'aprì e lesse il biglietto. C'era una sola parola, scarabocchiata con una sostanza rossa che sembrava sangue. Puttana.

24

Skye porse il menù al cameriere. «Per me niente, grazie.» L'uomo guardò Griffen. «Aspettiamo ancora un po' a ordinare» disse lui. «Per ora ci porti due calici di champagne.» Quando l'uomo si fu allontanato coprì con la propria la mano di Skye. «Non stai bene?» «Benissimo, ma non ho fame.» «Sei sicura? Hai una faccia così pallida... sono preoccupato!» «Ma non ce n'è motivo, Griffen. È solo che... che non riesco a dimenticare quella cosa orribile. Era spaventoso, credimi. Tremendo.» «Devi smettere di pensarci, tesoro. Ormai è tutto finito.» «Ma non è vero, almeno non per Terri. E nemmeno per me, perché è una mia amica e io sono in ansia per lei. Tu non puoi capire, Griffen. Io ero là, ho visto...» «Non avresti dovuto esserci. Se fossi stata a casa tua, o fuori con me, non avresti visto niente e...» «Ma Terri sarebbe stata da sola!» esclamò lei irritata dal suo atteggiamento. «L'avresti preferito?» «Naturalmente no, ma mi dispiace che tu ti sia spaventata.» La collera di lei svanì. «Non è a me che penso, ma alla povera Terri. E se quel pazzo ci riprovasse? Se fe qualcosa di peggio o arrivasse a fare del male a Raye?» «Chi è Raye, sua figlia?»

Skye annuì. «È un tesoro, dovresti vederla. Se pensasse che Raye è in pericolo Terri se ne andrebbe da Chicago, ne sono sicura.» Griffen non fece commenti e tacque per qualche secondo, poi accarezzò la mano di lei e disse: «Non sopporto di vederti così sconvolta». Skye abbassò lo sguardo sulle loro mani intrecciate, e le venne in mente Chance. Ultimamente le succedeva spesso, in particolare quando era con Griffen. Il che era pazzesco, idiota, perché Griffen era tutto quello che lei aveva sempre sognato di trovare in un uomo. «Dimmi come posso aiutare la tua amica» riprese lui. «Farei qualsiasi cosa per vederti felice, lo sai.» «Vorrei che tu potessi far smettere quel bastardo, chiunque sia» sostenne lei con forza. «Questo purtroppo non te lo posso promettere, cara. Trova qualcos'altro.» Lei si sforzò di sorridere. «Sei così buono e gentile con me... mi vizi, e io non ci sono abituata!» «Dovrai abituartici, perché ho intenzione di viziarti così per tutta la vita.» Ultimamente Griffen parlava spesso di un futuro con lei. Non le aveva ancora proposto il matrimonio, ma Skye sapeva che lo avrebbe fatto presto. Entrare a far parte della famiglia Monarch, e avere accanto un uomo che l'avrebbe amata per sempre, sembrava meraviglioso. Allora perché l'idea che Griffen la chiedesse in moglie la terrorizzava? Il cameriere portò i loro bicchieri di champagne. «Posso farti una domanda?» gli chiese Skye quando furono di nuovo soli. «Naturalmente.» «Ho sentito dire che una delle tue sorelle fu rapita dalla madre e non fu mai più ritrovata. È vero?» Griffen si irrigidì. «Chi te l'ha detto?»

«L'ho sentito, in ufficio. Tu mi avevi detto di aver perso due sorelle, e io credevo che fossero morte di qualche malattia...» «Sì, è vero. La madre di Grace era mentalmente instabile. Un giorno sparì con lei, e non le ritrovammo mai più. Anni dopo scoprimmo che erano morte in un incidente d'auto. La polizia ci rintracciò grazie ai documenti che la madre portava nella borsa.» «Oh, Griffen, quanto mi dispiace...» «Io ne soffrii molto, perché avevo solo undici anni e quella donna per me era come una madre. Quando fuggì, fu un colpo terribile.» Lei gli strinse la mano, pensando alla propria madre e al dolore devastante che aveva provato quando era scomparsa. «So che cosa significa» mormorò. «So quanto fa male. Ormai sono adulta, ma sogno ancora che un giorno mia madre e io ci ritroveremo.» «Vedi che siamo fatti l'uno per l'altro?» Skye si chinò verso di lui e lo baciò, ignorando il brivido che sentiva al tocco delle sue labbra. Le succedeva sempre più spesso, e lei non capiva perché. Griffen era gentile, delicato, ovviamente esperto. La colpa non era di Griffen, ma sua. Era lei che non sopportava i gesti intimi, che aveva difficoltà a lasciarsi andare. Gliel'avevano già detto, e lei sapeva che era a causa del suo ato difficile, delle sue paure e delle sue delusioni. Ma adesso c'era un uomo che voleva donarsi completamente a lei, e che si aspettava in cambio la stessa cosa. Questa volta lei non avrebbe permesso al suo ato di intromettersi e rovinare tutto. «Ti desidero da morire» sussurrò lui. «Certe notti non riesco a dormire perché ti immagino con me...» Il corpo di Skye si coprì di sudore freddo. Piantala, si ordinò lei con forza. «So che non sei ancora pronta, amore. Non essere così spaventata, aspetterò. Voglio che sia perfetto per tutti e due. Dammi soltanto un altro bacio e giuro che mi comporterò come si deve.» Skye chiuse gli occhi, strinse i pugni sotto il tavolo e sentì le labbra di Griffen

sulle sue. Poi aprì gli occhi e si trovò a fissare Chance. Dapprima credette che si trattasse di un'evocazione della sua mente. Non lo vedeva da quella volta nell'ufficio di Griffen, quando gli si era praticamente gettata tra le braccia, e aveva pensato costantemente a lui. «Chance...» sussurrò arrossendo. Griffen si volse. «Ehi, amico mio! Che ci fai qui?» Chance sorrise a fatica. «Scusate l'intrusione. È stata Ashley a dirmi che ti avrei trovato qui, perché sapeva che volevi vedere questi comunicati stampa prima che li mandassimo in giro.» «Hai fatto bene. Prenditi una sedia.» «Ma non voglio disturbarvi...» «Non dire idiozie.» Griffen sorrise e chiamò il cameriere con un cenno. «Siediti.» Chance ordinò un bicchiere di vino e scelse una sedia accanto a Griffen. Skye si rese conto che tratteneva il respiro da quando lo aveva visto ed espirò. Che idiota, pensò. Griffen l'adorava, e lei non sopportava che la toccasse; Chance non sapeva nemmeno che esistesse, e lei non faceva che pensare a lui! Alzò la testa e vide che Chance fissava il suo petto. «Hai detto qualcosa?» domandò arrossendo fino alla radice dei capelli. «Guardavo la tua spilla. L'hai disegnata tu? Posso vederla?» «Sì.» Skye staccò la spilla dal bavero e gliela porse. «È il primo pezzo della mia serie City Lights, ma è solo un prototipo di metallo che porto per prova. Sto ancora pensando di fare alcuni cambiamenti. Solo quando la spilla sarà esattamente come voglio eremo alla fusione in oro.» Chance rigirò la spilla tra le dita, dimenticando il suo aperitivo, poi gliela restituì. «È bellissima, e molto insolita. Hai detto che la porti per prova?» «Sì, è una fase molto importante nella produzione di un gioiello. Bisogna essere sicuri che stia bene addosso, che non sia troppo pesante, che non si impigli nei

vestiti o graffi chi lo porta. Altrimenti, per quanto bello o prezioso sia, una donna non lo porterà mai.» «È bravissima, vero?» Entrambi alzarono gli occhi e scoprirono che Griffen li osservava. «Sì, bravissima.» Chance si schiarì la gola e domandò: «Allora, i comunicati vanno bene?». «Ho fatto qualche piccola correzione» disse Griffen. «Adesso sono perfetti.» Chance rimise i documenti nella cartella di cuoio. «Ottimo. Grazie per il vino, e buona serata.» «Fermati con noi» disse Skye d'impulso. «Non abbiamo ancora ordinato la cena.» I due uomini tacquero per un momento, e Skye capì il suo errore. «Sì, fermati» disse Griffen a denti stretti. Chance scosse il capo. «Grazie, davvero. Vi ho già disturbati anche troppo.» E se ne andò senza più voltarsi.

Dandosi mentalmente dell'idiota, Chance lasciò il ristorante e si avvicinò alla sua macchina. Il vento soffiava gelido dal lago, e le previsioni parlavano di un sensibile calo della temperatura. Era stato un errore rivedere Griffen e Skye insieme. Chance pensava a loro da quando li aveva visti seduti accanto il giorno della riunione per il libro. E quel pensiero lo tormentava giorno e notte. Ma nonostante tutto, sapendo perfettamente che li avrebbe visti insieme anche in quell'occasione, era venuto al ristorante con una scusa. E aveva visto anche troppo: le loro mani intrecciate, il bacio, e Griffen che la guardava come se volesse divorarla... Salì in macchina e accese il riscaldamento, poi appoggiò la testa sul volante. Che diavolo gli succedeva? Poco prima aveva provato l'impulso irresistibile di strappare Skye dalle braccia di Griffen e trascinarla via, proprio come avrebbe fatto un uomo delle caverne.

Rise amaramente. Che diritti aveva su di lei? Non era suo fratello né nient'altro. Nessuno lo aveva delegato a proteggere il suo onore. Il suo onore... questa era proprio buona. Ma se pochi giorni prima, nell'ufficio di Griffen, le era quasi saltato addosso! Altro che sentimenti fraterni... la voleva per sé, la desiderava, ecco la verità. La desiderava talmente che si sentiva male! Scosse la testa in un gesto pieno di frustrazione. Era impazzito? Voleva mandare al diavolo la sua carriera, perdere Monarch che era il suo cliente più importante? Voleva alienarsi il suo migliore amico, l'uomo che in breve aveva rivoluzionato la sua vita e gli aveva permesso di diventare quello che era? Abituati alle docce fredde, McCord, pensò. E sta' lontano da lei, il più lontano possibile. Una coppia attraversò il parcheggio, e Chance si rese conto che erano loro due, Skye e Griffen. Griffen aprì la portiera della Porsche, la fece salire, poi si mise al volante. E allora, d'impulso, Chance li seguì. Il traffico era scarso e il tragitto non durò a lungo. Una decina di minuti dopo, Griffen fermò davanti a un elegante edificio restaurato di recente. Bella casa, pensò Chance. Un po' troppo di lusso per qualcuno che aveva appena cominciato a lavorare. Ma forse, non era Skye a pagare l'affitto. Quel pensiero lo faceva impazzire. Ed era da pazzi restarsene lì fuori al freddo, a immaginare quel che Skye e Griffen stavano facendo, anche perché c'era ben poco da immaginare. Stavano facendo l'amore. Chance gemette. Oh, al diavolo, che senso aveva restare lì a tormentarsi? Stava per mettere in moto quando sentì una portiera che sbatteva e un motore potente che partiva. Era Griffen, ed era solo. Chance guardò l'orologio con un sorrisetto. A meno che Griffen non fosse Speedy Gonzales, quella sera era andato in bianco. Un bacetto, buonanotte, e via. Guardò le finestre illuminate e vide l'ombra di lei are dietro le tendine di una

finestra al piano rialzato. D'impulso, senza pensare a quel che faceva, scese dalla macchina, attraversò la strada sotto i primi fiocchi di neve e salì gli scalini d'ingresso. Un tale stava uscendo dal portone in quel momento, e quindi fu facile per Chance entrare. Salì pochi gradini e sulla destra trovò l'appartamento di Skye e bussò. Dall'interno venne l'abbaiare di un cane che, a giudicare dalla voce, doveva essere fratello di King Kong. Chance sentì Skye che ammoniva il cane, poi la porta si aprì. «Griffen...?» Lei guardò oltre le sue spalle, come se pensasse di vederlo in compagnia. «Chance? Che ci fai qui?» «Posso entrare?» sorrise lui approfittando della sua sorpresa. «Io... certo. Dammi il cappotto.» «Grazie, non mi fermo, sono ato solo un momento per...» Poi tacque. Non sapeva che scusa trovare per essere ato solo un momento. «E questo chi è?» disse chinandosi a grattare la testona del cane. Moo gli leccò la mano con sguardo adorante. «Si chiama Mr. Moo. A quanto pare gli piaci.» «Anche lui mi piace» sorrise Chance accarezzandolo. «Bravo cane.» Skye incrociò le braccia sul petto. «Chance, che ci fai qui?» ripeté. Lui optò per la sincerità. «Non lo so.» «Non lo sai. Magnifico.» «È stato un impulso. Sono uscito dal ristorante e sono rimasto seduto in macchina per un po', e poi ho visto... insomma, vi ho visti uscire e vi ho seguiti.» Lei lo guardò stupefatta. «Lo so, è ridicolo» fece lui con una goffa risatina, «ma io... ecco, non riesco a

smettere di pensare a te. E dovevo assolutamente vederti.» «Perché mi dici questo? Che cosa dovrei rispondere, secondo te?» «Non lo so.» «E allora mi dici che cosa sai? Non puoi piombare in casa mia a dirmi delle cose così assurde. Credo che dovresti andartene.» Moo guaì, lei lo guardò per un istante, poi riportò lo sguardo su di lui. Chance fece un o avanti, poi un altro. «Non sopporto l'idea di te e Griffen insieme. E penso a te giorno e notte.» Un altro o ancora. «L'altro giorno, nell'ufficio di Griffen, morivo dalla voglia di baciarti. Lo desidero anche adesso. Ecco, questo lo so.» Lei lo guardò con gli occhi lucidi di lacrime. «Vattene, Chance. Adesso.» Skye non poteva volere Griffen, pensò. Era lui il suo uomo. Ma in effetti non aveva niente da offrirle... Si volse per andarsene, ò accanto al cane, che guaì di nuovo senza alzarsi. Chance si chinò a grattargli le orecchie, e Moo mosse le zampe come se cercasse di alzarsi senza riuscirci. Infine ricadde pesantemente sul fianco. Chance aggrottò la fronte e guardò Skye, ma lei fissava un punto nel vuoto e non si era accorta di niente. «Skye, credo che il tuo cane abbia qualcosa che non va.» «Ma figuriamoci, sta benissimo. Guarda.» Chiamò il cane e batté le mani. «Moo, prendi il guinzaglio. Andiamo a so!» Il cane ci provò, ma sembrava che non riuscisse a far funzionare le quattro zampe contemporaneamente. Infine, uggiolando, si mise in piedi e fece qualche o, barcollando come un ubriaco, poi crollò urtando una pianta e rovinando a terra. Chance guardò Skye, che era pallida come un cencio. «Chiama il veterinario» disse con calma. «Avrà un numero di emergenza, immagino.» Lei lo fissò terrorizzata e incapace di muoversi.

«Coraggio, chiamalo e fatti dire dov'è il pronto soccorso più vicino. Io porto Moo in macchina.» «Ma... se dicesse che non è necessario?» «Sono certo che ti dirà di portarglielo senza perder tempo.» Finalmente lei si riscosse e corse al telefono, e Chance sollevò tra le braccia il bestione come meglio poteva. Moo si lasciò toccare senza protestare, e anzi gli leccò la mano. Ormai la neve cadeva fitta, e arrivare fino alla macchina con quel peso fu un'impresa. Skye aprì la portiera prendendogli le chiavi dalla tasca, e insieme caricarono Mr. Moo sul sedile posteriore, poi lei gli sedette accanto carezzandolo con fare rassicurante. «Dove vado?» domandò Chance guardandola nello specchietto. «Sempre dritto per quattro isolati, poi a destra. La clinica ha un'insegna blu al neon, non possiamo sbagliare.» Poco dopo Chance fermò davanti all'ingresso della clinica, e insieme estrassero il cane dalla macchina. Il veterinario li stava aspettando. Prese in consegna l'animale, e a Skye non rimase che aspettare. Cominciò a eggiare su e giù, torcendosi le mani, sempre più agitata. «Andrà tutto bene» la consolò Chance. «Tra poco uscirà il dottore e ti dirà che è tutto a posto.» «E se invece...?» Skye non osava nemmeno dirlo, ma le parole restarono come sospese nell'aria tra loro. E se Moo fosse morto? Finalmente, dopo trenta eterni minuti, il dottore uscì in corridoio. «Sta... sta bene?» domandò Skye con voce tremante. «Se la caverà. Ma se lei avesse aspettato ancora un po' a portarmelo, sarebbe stato troppo tardi.» «Non riesco a capire. Stava benissimo, e poi, di colpo, non riusciva più a

camminare...» «Già, in questi casi succede così.» Chance fece un o avanti e cinse le spalle di Skye. «Dottore, che cos'ha esattamente il cane?» «Credevo che lo sapeste. È stato avvelenato.» «Avvelenato?» esclamò Skye sconvolta. «Ma come?» «Etilene glicolico. In parole povere, antigelo per automobile.» «Dove diavolo lo avrà trovato?» «Ah, chi lo sa. Ma i cani ne vanno pazzi perché è molto dolce. Gli abbiamo fatto una lavanda gastrica, e adesso gli ho messo una flebo di vodka. L'antigelo forma dei cristalli che distruggono i reni, e la vodka impedisce questo processo. Ripeto, se non ve ne foste accorti lo avremmo perduto. Quella è roba che agisce alla svelta.» «Quando posso riportarlo a casa?» domandò lei. «È meglio che lo teniamo in osservazione due o tre giorni. Ma stia tranquilla, è in buone mani. Riapriamo domani mattina alle otto, se vuole può darmi un colpo di telefono per sapere come ha ato la notte.» «Grazie, dottore. La chiamerò.» Skye si avviò verso la porta, ma il veterinario la richiamò. «Ancora una cosa, signorina Dearborne. Quando lo avrà riportato a casa, le converrà fare attenzione. Un cane così grosso deve aver bevuto almeno quattro litri di antigelo per avere quella reazione...» «E allora?» «E allora, non credo che sia stato un incidente. Secondo me, Mr. Moo è stato avvelenato di proposito.»

In macchina, Skye si accoccolò sul sedile torcendosi le mani. «Come si fa ad avvelenare un povero cane?» esclamò tremando. «Chi può volergli tanto male?» Chance le batté sulla mano. «Io direi che la domanda è piuttosto dove e perché è successo.» Lei aggrottò la fronte. «Non ti seguo.» «Il veterinario ha detto che l'antigelo agisce in fretta. Questo significa che Moo deve averlo bevuto poco prima che io arrivassi da te.» «Ma certo! Perché quando sei arrivato ti ha fatto le feste, e quindi stava bene!» Skye fissò il tergicristallo che spazzava via i grossi fiocchi di neve. «Griffen e io abbiamo lasciato il ristorante poco dopo di te, perché io avevo una delle mie solite emicranie e non avevo le pillole con me.» «E dov'era Moo quando sei entrata in casa?» «Vicino alla porta, ansioso di uscire come sempre. Nella mia casa, a pianterreno, c'è un cortiletto con un'aiuola, e di solito la sera lo faccio uscire in cortile appena arrivo a casa. Così lui può fare i bisogni urgenti mentre io mi cambio prima di portarlo a so. L'ho fatto anche stasera, e mentre lui era fuori ho preso una delle mie pillole e ho parlato qualche minuto con Griffen, poi l'ho fatto rientrare.» «E allora è successo in cortile. Cerchiamo lì.» Chance parcheggiò la macchina vicino a casa di lei, scese, e insieme traversarono la strada sotto la neve sempre più fitta. «Il cortile ha anche un cancelletto che dà su strada. Tutti gli inquilini hanno la chiave, naturalmente, ma non lo lasciano mai aperto» spiegò Skye. «Bene, controlliamo se è chiuso anche adesso.» Il cortile era circondato da un muretto di mattoni, alto circa tre metri e sormontato da cocci di bottiglie acuminati. Il cancello era chiuso a chiave. Chance provò a scuoterlo, ma quello non si aprì. «A meno che uno degli inquilini non l'abbia lasciato aperto e sia poi sceso a richiuderlo, dubito che un estraneo sia potuto entrare a mettere il veleno.» «Allora credi che sia stato uno degli inquilini?»

«Non lo so, ma dev'essere successo per forza in cortile. Tu non tieni barattoli di quella roba in giro per casa, no?» Skye scosse la testa e aprì il cancello con la sua chiave. E all'interno, in un angolo, trovarono quello che cercavano. Un barattolo di latta, aperto e vuoto, stranamente fuori posto nel cortile ordinatissimo. Chance ci ò dentro il dito, poi lo accostò alla punta della lingua. «Dolce» disse sputando. Skye raccolse il barattolo e lo esaminò. Era una confezione da cinque litri di marca comunissima, e sul fondo recava l'etichetta adesiva di una catena di supermercati. «Ma perché, dico io? Moo è così buono, non dà fastidio a nessuno..» «Ripulisci quel che lascia in giro? Sai, certa gente è maniaca, e...» «Sono attentissima, raccolgo sempre tutto.» «Be', entriamo. Sei livida di freddo.» In cucina, Skye si guardò intorno e rabbrividì. «Dio, che silenzio. La casa sembra vuota. Mi crederai una scema, a fare tante storie per un cane.» «Niente affatto.» «Grazie.» Skye si tolse guanti e cappotto, poi si ò le dita tra i capelli per scuoter via la neve. «Vuoi bere qualcosa di caldo?» «Veramente dovrei andare...» «Devi proprio?» La domanda le era venuta spontanea alle labbra, e Skye volse la testa arrossendo. «Voglio dire, non mi va di restare sola, non subito. Se ti potessi fermare un po', mi faresti piacere.» «Va bene.» Chance sfilò il cappotto e glielo diede, e lei andò ad appenderlo nell'ingresso. «Allora, ti va una cioccolata calda?» «Perfetto.» Pochi minuti dopo sedevano sul vecchio divano di lei con due tazze fumanti in mano. «Cioccolata...» sorrise Chance bevendo un sorso. «Mi ricordo che ne

andavi pazza.» «L'adoro anche adesso. È confortante... forse perché mi ricorda l'infanzia. La mamma me la faceva anche in pieno luglio.» Skye rabbrividì lievemente, domandandosi che sarebbe successo se Chance non fosse venuto da lei e non avesse notato il malessere di Mr. Moo. Poco importava la ragione per cui era venuto. Lei era felice che fosse lì... e non solo per il suo cane. «Non ti ho ancora ringraziato» mormorò. «Senza di te, Moo non si sarebbe salvato.» «Avresti capito anche tu che stava male. Io l'ho solo notato per primo. E si è sentito male così in fretta che ho capito che doveva essere qualcosa di grave.» «Non sapevo che avessi esperienza con gli animali.» «In effetti non ne ho, ma funziona così anche con le persone. Mia madre, a esempio... un giorno stava bene, un mese dopo era morta. Il suo tumore si era esteso molto rapidamente.» «Mi dispiace tanto.» Chance sospirò. «È storia ata.» Skye lo studiò sorseggiando la cioccolata. «In tutti i mesi che siamo stati insieme non hai mai parlato di tua madre. Raccontami qualcosa di lei.» Chance fu tentato di rifiutare, lei lo capì da come si era irrigidito, ma poi le raccontò tutta la storia della sua giovane e bella madre, della sua infelicità, della vita solitaria che lui aveva vissuto accanto a lei perché era sempre stata troppo occupata a rimpiangere le cose che non aveva avuto e che avrebbe desiderato. Poi, la malattia e la morte, rapida e crudele. «Mio padre si rifiutò di prendermi con sé, e così mi spedirono nella fattoria di zia Rebecca. Il resto lo sai.» «Le eri molto legato, vero?» chiese Skye dolcemente. «Era mia madre, non avevo altri che lei. Ma ho sempre capito di amarla assai più di quanto lei amasse me.» «Sono certa che ti voleva molto bene.»

«Già, ma questo non bastava a renderla felice. Non lo è mai stata.» Chance scosse la testa come per scacciare i ricordi penosi. «Adesso tocca a te. Come hai incontrato King Kong? Sembrate molto affezionati l'uno all'altro.» Skye sorrise. «Lo siamo, infatti. L'ho trovato per strada, sotto la pioggia. Era un cucciolo bagnato fradicio e aveva un'aria triste... non potevo lasciarlo lì, ti pare?» «Sei troppo buona, Dearborne» rise lui deponendo la tazza sul tavolino. «E così, tu gli hai dato una casa e lui ti ha dato la sua eterna devozione.» Continuarono a chiacchierare, dapprima un po' a disagio, poi riprendendo confidenza e raccontandosi gli ultimi tredici anni. A un certo punto, ricordando un episodio del ato, Skye scoppiò a ridere e abbandonò la testa sulla spalliera del divano. «Me l'ero dimenticato» esclamò chiudendo gli occhi. «Dio, com'ero giovane!» In quel momento sentì che Chance le si avvicinava. «Io mi ricordo tutto. Anche quando hai tentato di baciarmi» disse lui. Skye aprì gli occhi e vide il suo volto sorridente chinarsi su di lei. Un volto che le era familiare quasi quanto il suo. La sensazione la riempì di calore. «Questo me lo ricordo anch'io... ero pazzamente gelosa di quella ragazza, come si chiamava?» Lui ci pensò per un momento. «Non ne ho idea.» «Mi fa piacere» rise lei. «Mi credevo innamorata di te, e volevo dimostrarti che anch'io ero una donna.» Chance le accarezzò la guancia con un dito. «Eri bellissima, già allora» sussurrò. «Ero una ragazzina confusa, che stava crescendo... ma soprattutto ero una vera rompiscatole.» Chance scoppiò a ridere. «Non sei cambiata affatto.» Si guardarono negli occhi, e il cuore di lei fece una capriola. Dandosi dell'idiota, Skye levò la mano e gli carezzò la nuca. «Credo che tu abbia ragione. Non sono cambiata.»

«Sono contento. Mi sei mancata moltissimo.» Lei intrecciò le dita fra i suoi capelli. «Posso chiederti una cosa?» «Dipende. Prima posso baciarti?» «Era quello che volevo chiederti io. Non vorresti...» Il resto si perse sotto le labbra di lui. La ione divampò improvvisa, come lo scoppio di una bomba. Skye gemette, Chance la guardò stupefatto, poi la baciò di nuovo, apionatamente, come lei non era mai stata baciata, come aveva sempre sognato. Il corpo di lei si tese, tremò. La sua lingua si intrecciò a quella di lui, rispondendo a ogni carezza. Non avrebbe dovuto, pensò Skye confusamente. Stava facendo una cosa sbagliata... ma sentiva che invece era giusta, giustissima e meravigliosa. Chance si scostò quanto bastava per sfilarle il pullover e gettarlo via; lei si slacciò il reggiseno. «Non possiamo...» gemette strappandogli di dosso la camicia e carezzandogli il petto abbronzato. «Hai ragione, non possiamo.» Chance affondò il volto tra i seni di lei. «Dio, come sei morbida...» «Non fermarti» gemette Skye. «Adoro le tue mani. Non fermarti...» Poi squillò il telefono, e quel suono li gelò. Al terzo squillo scattò la segreteria telefonica, poi nella stanza echeggiò la voce di Griffen. Amore, volevo solo essere sicuro che stessi bene. Sogni d'oro. Ti amo. Si separarono. Skye recuperò il pullover e lo infilò in fretta, piena di vergogna. Come aveva potuto? Griffen l'amava... come poteva essere così sleale con lui? Chance imprecò e si riallacciò la camicia. «Mi sento un idiota. È colpa mia, non sarei dovuto venire qui.» «Sono io che mi sono buttata addosso a te... È stato uno sbaglio. Ne facciamo tutti.» Chance la guardò negli occhi. «Sei sicura che sia stato uno sbaglio?»

«Naturale che sono sicura. Ero sconvolta per via di Moo, ma non succederà più.» «Come vuoi» disse lui cacciandosi in tasca la cravatta. «Fammi sapere come sta Moo.» «Sì, lo farò.» Chance andò a prendere il cappotto e poi, sulla porta, si voltò. «Sappiamo entrambi che quel che è successo non c'entra niente con il malessere del tuo cane, Skye. Ma se questo ti tranquillizza continua pure a ripetertelo, e sforzati di dimenticare. Forse, a Dio piacendo, riuscirò a dimenticare anch'io.»

25

Ma nessuno dei due dimenticò. Non potevano. E purtroppo, come se il destino si adoperasse per metterli alla prova, si vedevano di continuo. In quei casi, evitavano di guardarsi con tanta attenzione che gli altri, Skye ne era sicura, dovevano fare chissà quali congetture. Se per caso i loro sguardi si incrociavano, lei non riusciva più a staccare gli occhi da lui e si sentiva venir meno. Le si rizzavano i capezzoli, le mancava il respiro, aveva male dappertutto. E Chance sapeva, ne era certa, perché gli vedeva negli occhi la stessa fame, la stessa frustrazione. Con un sospiro, Skye guardò i disegni sul suo tavolo senza vederli. Era piena di rimorsi, di sensi di colpa, e detestava la propria debolezza. Continuava a ripetersi che era Griffen l'uomo che voleva realmente, l'uomo giusto per lei. Griffen le avrebbe dato tutto quello che lei aveva sempre sognato. E l'amava. Chance, no. Skye si portò una mano alla tempia. Doveva pensare al lavoro, non a quelle sciocchezze. Aveva un mucchio di cose a cui pensare, mancava poco più di un mese alla Fiera del Design di Milano, e Dorothy contava di esporre alcuni pezzi della serie City Lights. I primi dovevano arrivare dalla fonderia proprio in quei giorni, pronti per le rifiniture e l'incastonatura delle pietre. Dorothy le affidava una mole sempre maggiore di lavoro, demandando a lei anche decisioni e incombenze che non si sentiva più di assolvere. Skye era molto preoccupata per lei, perché la vedeva sempre più distratta e capiva che si stancava per un nonnulla. Lo spirito sbarazzino di Dorothy, tuttavia, era rimasto intatto e a volte faceva sì che prendesse sotto gamba episodi preoccupanti, come l'ultimo che le aveva raccontato qualche giorno prima. Una sera, sola in casa, Dorothy aveva deciso di prepararsi due uova alla coque. Poi si era seduta sul divano e si era addormentata mentre le uova bollivano. Si era svegliata sentendo uno scoppio e un terribile odore di bruciato, e aveva scoperto che l'acqua si era consumata del tutto fino a carbonizzare il pentolino e a far letteralmente esplodere le uova. Raccontando del disastro, Dorothy aveva riso, ma Skye no.

Sentì un leggero bussare sullo stipite della porta e alzò gli occhi. Chance era lì, sulla soglia del suo ufficio, e la guardava fisso. Skye deglutì, aveva il cuore in gola. «Sì?» «Possiamo parlare un momento dell'intervista con Mickey Spelling?» chiese lui. «Certo.» Skye si alzò. Le girava la testa, le mancava il respiro, e aveva un insopportabile, dolcissimo dolore al ventre. «Ho sentito che è venuto da te stamattina» esordì Chance. Skye fece un o verso di lui. «Sì.» «E com'è andata?» Chance si avvicinò un poco. «Bene.» Quasi inconsciamente, Skye fece i pochi i che ancora li separavano, fermandosi a pochi centimetri da lui. Se si fosse chinata un poco, lo avrebbe toccato. E moriva dalla voglia di farlo. «Come sta Moo?» «Oh, benissimo. È tornato quello di sempre.» Sarebbe bastato pochissimo, pensava. Un gesto. E sarebbe stata fra le sue braccia. «Sono contento. Hai poi scoperto chi è stato?» «Purtroppo no. Ho parlato con gli inquilini, specialmente con gli altri proprietari di cani, ed erano sconvolti. Adesso fanno tutti doppia attenzione, controllano sempre che il cortile sia chiuso, ma finora non abbiamo scoperto niente.» «Allora non pensi che sia stato uno di loro?» «Direi di no. Erano tutti talmente scossi quando lo hanno saputo...» Chance abbassò gli occhi sulla bocca di lei. «Skye... noi due dobbiamo parlare. Accidenti, smetti di guardarmi in quel modo.» Lei si umettò le labbra. «Come ti guardo?» «Come se volessi divorarmi.»

Ma lei voleva divorarlo!, pensò. Ondeggiò verso di lui, e Chance prese il suo viso tra le mani. «Maledizione, Skye... che stiamo facendo?» «Non lo so... ma so che sto malissimo...» «Anch'io.» Chance le baciò la gola, il collo, l'orecchio. «Non riesco a dormire da quanto ti desidero. Non faccio che pensare a noi due.» «Anch'io» sussurrò lei. «Smetti di vederlo» disse Chance. «Non voglio che tu lo veda più.» Smettere di vedere Griffen, pensò lei. Rinunciare a tutti i sogni di formarsi una famiglia, di vivere una vita tranquilla e stabile. E per che cosa? «Io... io devo sapere. Che cosa provi per me, oltre al desiderio?» Lui non rispose. Ecco la verità, pensò Skye arrossendo. Non provava altro, desiderio e basta. Non fingeva nemmeno di avere altro da offrirle. Forse avrebbe dovuto apprezzare tanta sincerità, ma per il momento era solo profondamente offesa. «Tu vuoi che io smetta di vedere Griffen solo per potermi portare a letto senza sentirti in colpa. Per non sentirti un verme perché freghi la donna a un amico!» «Non è così, Skye. Io non so che cosa sta succedendo fra noi, ma so che è un sentimento molto profondo. E so che non sopporto di immaginarti con lui. Il pensiero che ti tocchi mi fa star male.» «Taci.» «So che provi lo stesso anche tu.» «Io so quel che voglio, invece.» «E cioè, Griffen?» «Sì.» Skye strinse i pugni. «Sì!» «E allora perché ti accendi non appena ti tocco?» Chance prese le mani di lei. «Mi stai di nuovo guardando in quel modo» mormorò. «Avanti, fallo. Divorami.»

Lei moriva dalla voglia di farlo, tanto da sentirsi male. Ma non poteva gettar via così tutti i suoi sogni. No, non lo avrebbe fatto. Si scostò da lui, ma Chance la trattenne e ò la punta di un dito sui capezzoli di lei, eretti sotto la seta della blusa. «Smetti di vederlo» sussurrò. «Ti voglio per me. Senti quanto ti desidero...» e guidò la mano di lei verso la sua erezione. Per un breve, trionfante momento, Skye assaporò la sensazione di averlo eccitato in quel modo solo standogli vicina. Lo accarezzò, poi distolse la mano. «Non posso, Chance. Mi dispiace.» «Non puoi o non vuoi?» Lei si rifugiò dietro la scrivania e sedette, perché le gambe non la reggevano più. «Griffen mi ama» disse piano. «E mi vuole per più di una notte. Ho aspettato tutta la vita un uomo che mi amasse per sempre, e adesso non voglio rovinare tutto per un momento di follia che non mi porterà a niente.» Chance la fissò per un momento, poi si avvicinò alla porta. «Dunque è così.» «Sì.» «Sai» disse lui con la mano sulla maniglia, «c'è una domanda che dovresti farti. Lo ami? Perché è questo che dovresti stabilire, prima di tutto.» Skye avrebbe voluto gridare che sì, certo, amava Griffen, ma le parole non volevano uscire. Fissò Chance in silenzio, con un'assurda voglia di piangere. «È come pensavo. Be', ci vediamo.» Chance aprì la porta e si trovò di fronte Griffen.

Seduto a terra, al buio, Griffen tremava di collera. Le piastrelle del bagno erano fredde contro la sua pelle nuda, e nell'oscurità scintillavano le schegge dello specchio rotto, sparse sul pavimento. Gli pareva di risentire l'odore di sesso su di loro, pensò con una smorfia contorta. Chance aveva aperto la porta dell'ufficio di Skye e lui aveva trattenuto a fatica l'impulso di ucciderlo lì, subito. Ma la morte non sarebbe stata una vendetta abbastanza soddisfacente. Così aveva fatto finta di niente, aveva scambiato due

parole con entrambi e poi se n'era andato. Griffen raccolse una scheggia acuminata dal pavimento e la strinse in mano, incurante del sangue che sgorgava dal taglio. Skye era sua, pensò. Era sempre stata sua, e nessun bastardo gliel'avrebbe portata via. Chiuse gli occhi, dandosi dell'idiota. Come aveva potuto non accorgersi di come quei due evitavano perfino di guardarsi? Ma si era sempre detto che il comportamento di Skye era dovuto al disprezzo; che Skye non poteva nemmeno considerare una nullità come Chance quando aveva lui, Griffen Monarch. Strinse nuovamente la scheggia nella mano. Era stato debole con lei. Troppo debole. Ma adesso doveva mostrarle chi era il padrone, come aveva fatto quando erano bambini. Il suo membro si gonfiò eccitato al ricordo. Entrava nella sua camera e la svegliava, toccandola o battendola o pizzicandola. E la costringeva a guardare mentre distruggeva i suoi giocattoli, uccideva il suo gattino o si toccava... Con un gemito, lasciò cadere la scheggia di specchio e si afferrò, cominciando a carezzarsi ritmicamente. E poi, naturalmente, c'erano state le volte in cui l'aveva costretta a sottomettersi a lui. Occasioni rare, purtroppo. Ma lui non le aveva mai dimenticate. Si appoggiò al muro, ansimando pesantemente. Le donne erano deboli, e anche Skye lo era. Forse si era lasciata sedurre da qualcuno, e ormai era guasta, non più intatta. Griffen rallentò a fatica il ritmo della carezza. Le aveva lasciato troppo spazio, pensò. E adesso doveva punirla. Gli dispiaceva di farle del male, dopotutto l'amava, ma non aveva scelta. Doveva darle una lezione. Questa volta si sarebbe liberato definitivamente di quel suo ridicolo cane, e anche di Terri e della sua odiosa bambina. Quando lei non avesse più avuto nessun altro, avrebbe capito quanto aveva bisogno di lui, e di lui soltanto. Chance non era nessuno. Valeva meno di zero... Accelerò di nuovo il movimento della mano, fino a un parossismo convulso che gli strappò un gemito simile all'ululato di un animale. Poi, svuotato, affondò il volto tra le mani. Erano appiccicose e odoravano di sangue. Sarebbe stato così, l'amore con Skye. Violento, crudele, estremo. Ma bellissimo. Poi si alzò in piedi e si accostò al lavabo, osservando la sua faccia lorda di sangue nei frammenti di specchio ancora attaccati alla parete. Aprì il rubinetto e si gettò manate di acqua fredda sul volto e sul ventre. Sì, Skye avrebbe capito che erano destinati l'uno all'altra. Quanto a quella schifosa nullità, ormai non gli serviva più. Era arrivato il momento di togliere a Chance McCord tutto quello

che gli aveva dato.

26

Che diavolo stava succedendo?, pensò Chance osservando le tre lettere sulla sua scrivania. Fino a una settimana prima andava tutto bene, i suoi clienti erano soddisfattissimi, e lui aveva tanto di quel lavoro che aveva pensato di assumere un'altra segretaria. Poi era arrivata la prima lettera, quella del gruppo Campbell. E poco dopo, una dell'ospedale Reese e una dell'hotel Drake. Erano molto spiacenti, ma si vedevano costretti a rinunciare ai suoi servigi. Chance si era sforzato di ricordare se non avesse detto o fatto qualcosa che poteva aver scontentato i clienti. Ma gli sembrava di essersi comportato come al solito. Non ci capiva più niente! Si alzò e si accostò alla finestra. Fuori, il cielo era cupo e pesante di neve. Sembrava che riflettesse il suo stato d'animo. «Scusami» disse Lisa dalla porta. «È appena arrivata la posta.» Lui si volse a guardarla. «Ce n'è un'altra, vero?» Lisa annuì e gli porse una busta. Bennings & Bolton erano molto spiacenti, eccetera eccetera... Ma bene, benissimo, pensò Chance accartocciando il foglio e gettandolo sulla scrivania. Se andava avanti così, entro una settimana sarebbe stato sul lastrico. «Chance... che sta succedendo?» Lui rise senza allegria. «Vorrei tanto saperlo anch'io. Forse allora potrei fare qualcosa invece di starmene qui mentre mi pugnalano alle spalle.» «Non capisco... nessuno si è mai lamentato, tutti mi hanno sempre assicurato di essere più che soddisfatti del tuo e del mio operato...» «Sono certo che questa faccenda non ha niente a che vedere con te, Lisa» disse Chance gentilmente. «Non mi sognerei mai di incolpartene. Ma resta il fatto che è una cosa molto, molto strana.»

In quel momento squillò il telefono. «Agenzia McCord» disse Lisa. «Sì, certo, è qui. Glielo o.» Mise il telefono in attesa e annunciò: «Martha Wilson, della Società Storica». Chance prese il ricevitore. «Salve, Martha. Che posso fare per lei?» La donna sembrava dispiaciuta. «Ho delle brutte notizie, Chance. La Società sta tagliando i fondi.» Ecco, pensò lui. «Be', possiamo rimediare facilmente. Eliminiamo alcuni progetti, ridimensioniamo gli altri. Capisco che i tempi siano difficili, ma lei sa bene che i costi di un evento speciale, paragonati a quello che frutta in materia di donazioni, si riducono a zero...» «Non mi sono spiegata» interruppe l'altra. «Mi dispiace molto, ma siamo costretti a concludere i nostri rapporti di lavoro con la sua agenzia.» «Capisco. Posso chiederle se abbiamo mancato in qualche cosa?» «Oh, no. Il vostro lavoro è sempre stato inappuntabile. Come ripeto, si tratta di una decisione del consiglio di amministrazione... una questione puramente finanziaria.» Mentiva, pensò lui. Ma perché? «Se è così, non mi rimane che sperare che ci richiami, se mai avrà di nuovo bisogno di noi.» «Naturalmente. Addio, Chance, e buona fortuna.» Lui riappese. Aveva sempre pensato che l'impegno e la serietà sul lavoro fossero il segreto del successo, e invece non era affatto vero. «Ha detto perché?» volle sapere Lisa. «Problemi finanziari.» «Ma se la cena delle celebrità ha fruttato quarantaduemila dollari!» esclamò lei indignata. «E Martha ha detto che era l'evento più riuscito degli ultimi dieci anni!» «Lo so» sospirò Chance staccando il cappotto dalla gruccia. «Ma ormai quella è

storia ata. Ormai non gli serviamo più, e questo è quanto. Vado a fare quattro i, ho bisogno d'aria. Ti richiamo più tardi.» «Chance, aspetta» disse Lisa. «Ho bisogno di sapere... devo cominciare a cercarmi un altro posto? Io sono sola, e non posso permettermi di restare disoccupata, capisci?» «Be', Lisa, sì, forse è meglio che tu cominci a cercare... Mi dispiace molto perderti, ma per ora non posso prometterti niente.» «Martha Wilson potrebbe anche essere l'ultima che ci molla» disse lei speranzosa. «Magari è finita qui.» «Temo che non sia così, Lisa» sospirò Chance. «Temo proprio che il disastro sia appena cominciato.»

Quella sera, pensò Skye, Griffen sembrava diverso. Era stranamente eccitato e nervoso, non aveva mangiato niente e in compenso aveva bevuto quasi un'intera bottiglia di vino. E quando lei gli aveva domandato che cosa si era fatto alla mano, era stato vago e piuttosto evasivo. «C'è qualcosa che non va?» domandò chinandosi verso di lui. «Sembri un po' sottosopra. Si tratta di me, di qualcosa che ho fatto?» «Tu, tesoro? Assolutamente no...» Griffen strinse la mano di lei al di là del tavolo, usando la sinistra. «Ma devo dirti qualcosa a proposito di Chance, e temo che ti turberà.» «Che mi turberà?» ripeté lei deglutendo. «Sì. Vedi, in ato Chance e io siamo stati in competizione per la stessa donna. Per lui è una specie di mania. Vuole tutto quello che ho io, denaro, potere, oggetti di lusso. E la mania si è estesa alle donne che frequentavo. Chance fa di tutto per conquistarle e portarmele via, e alcune volte ci è riuscito.» Skye bevve un sorso d'acqua e notò che la sua mano tremava incontrollabilmente.

«Il fatto è che quando è riuscito a sedurle non le vuole più. Le butta via come scarpe vecchie. Finora non mi importava gran che, ma con te è diverso...» Griffen si interruppe e la guardò. «Lo sapevo. Sei turbata.» Skye deglutì di nuovo, terrorizzata all'idea che Griffen capisse, sentendosi un verme e al contempo una perfetta idiota. «No, ma vedi... un tempo eravamo amici, e pensare che sia diventato così mi sembra triste e molto brutto.» «Sì, capisco» affermò Griffen accarezzando la sua mano, «ma d'altra parte vedi bene che anche allora ti mise da parte senza pensarci due volte. E non credo che sia cambiato. Un vero peccato» aggiunse scuotendo la testa. «Mi domando che cosa trasforma una persona piacevole e in gamba come lui in un bastardo egoista. L'invidia, probabilmente.» «L'invidia...» ripeté lei. «In fondo è comprensibile. Uno come lui, venuto dal nulla, è logico che sia ambizioso. Ci ho pensato, sai... credo proprio che voglia sostituirsi a me, in tutto e per tutto.» Le parole di Griffen furono come un pugno nello stomaco. Ma era vero, pensò Skye. Tutto corrispondeva. I racconti di Chance su sua madre, sui propri sogni e sulle aspirazioni per il futuro si adattavano alla perfezione al ritratto che ne faceva Griffen. Chance era terribilmente ambizioso, e l'amore non rientrava nel quadro delle sue aspirazioni per il futuro. Griffen, invece, voleva che lei fe parte della sua vita. Griffen credeva nell'amore. Come aveva potuto essere tanto stupida? Come aveva potuto mettere a repentaglio il suo futuro con tanta leggerezza? «Sono così felice di potermi fidare di te, Skye» mormorò lui. «So che tu non sei tipo da lasciarti abbindolare da uno come Chance. Perché proprio non so che cosa farei se dovessi perderti. Credo che impazzirei.» Quella sera, giacendo a letto incapace di prender sonno, Skye continuò a ripensare alle parole di Griffen e a quelle di Chance, quel pomeriggio nel suo ufficio. Smetti di vederlo. Non voglio che tu lo veda più... E lei c'era cascata, in pieno. Quando finalmente si addormentò, l'orribile uccello nero le fece di nuovo visita.

Ma questa volta Skye era una farfalla, e per quanto cercasse di volar via non riusciva a sfuggirgli... Fu il suo stesso grido di terrore a svegliarla.

Skye esaminò le boccette di profumi e cosmetici in fila sul mobile del bagno. C'era qualcosa di strano. Erano sistemate in maniera leggermente diversa da come li aveva lasciati la mattina uscendo di casa, come se qualcuno li avesse presi e poi rimessi a posto quasi nello stesso ordine. Non era la prima volta che aveva quella sensazione. La settimana precedente le era parso che le riviste sul tavolino del soggiorno fossero state spostate, e qualche giorno prima, aprendo il cassetto della biancheria, aveva notato che gli indumenti erano un po' gualciti come se una mano sconosciuta vi avesse frugato. La stessa mano aveva trafugato il suo paio di mutandine più sexy, in pizzo nero. Skye andò in camera da letto per togliersi gli abiti da lavoro. Era seriamente preoccupata per il suo stato mentale. Emicranie, attacchi di panico, incubi, e adesso questa fissazione che degli estranei entrassero in casa sua e frugassero tra le sue cose... era davvero pazzesco! Infilò un paio di pantaloni e un comodo maglione un po' sformato, poi andò in cucina a prepararsi la cena. Stava aprendo il frigorifero quando squillò il telefono. «L'ha fatto di nuovo...» disse Terri in lacrime. «Solo che questa volta ha... ha minacciato Raye! Dice che le farà del male, e... oh, è troppo orribile!» «Raye? Hai chiamato la polizia?» «Sì, l'ho appena fatto. Oh, Skye, ho tanta paura!» «Vengo da te. Sarò lì tra dieci minuti.» Poco dopo era a casa dell'amica. «Dov'è Raye?» domandò subito. «Sta dormendo. Ho chiamato mia madre perché venga a prenderla e la tenga con sé per un po'.»

«Buona idea. Dimmi che cos'è successo.» «Quell'uomo ha lasciato un messaggio sulla segreteria telefonica. Per Raye. Chiamandola per nome, capisci? Sa come si chiama. E dicendo che le avrebbe fatto... che... è orribile, non riesco nemmeno a dirlo...» «Hai registrato il messaggio?» Terri annuì e riavvolse il nastro, poi premette il pulsante. La voce maschile, chiaramente contraffatta, riempì la stanza. L'atto che descriveva era un crimine contro natura, di inimmaginabile orrore. Skye fissò la segreteria con la fronte madida di sudore e il cuore in tumulto. Le sembrava che qualcosa di pesante le premesse sullo stomaco e le impedisse di respirare, e si lasciò cadere sul divano. La camera era illuminata da una luce variopinta. C'era un peso sopra di lei, un corpo pesante la teneva premuta a terra nonostante tutti gli sforzi che lei faceva per liberarsi. Non riusciva a respirare e aveva dei conati di vomito. Aprì la bocca per urlare, ma non ne uscì alcun suono... «Skye... stai male?» Lei guardò l'amica con un sussulto. Terri le stava accanto e la fissava sconcertata. Skye si ò una mano sulla faccia e si rese conto che stava piangendo. Stava perdendo la ragione, pensò terrorizzata. Un giorno si sarebbe svegliata e si sarebbe trovata prigioniera delle sue paranoie. «Non è niente» disse con voce tremante. «È la voce di quell'uomo e quello che dice... è così orribile! Che cosa ti ha detto la polizia?» «Oh, al diavolo anche loro! Non mi hanno aiutata affatto, e io non ce la faccio più!» Skye intuì che Terri stava raccogliendo il coraggio per dire qualcosa che forse l'avrebbe addolorata. «Sputa il rospo, Terri. Che cosa mi stai nascondendo?» L'altra sospirò. «E va bene. Ho preso una decisione. Lascio Chicago. Mia sorella vive a Phoenix e ha una casa molto grande, e dice che ha tutto lo spazio necessario per ospitare me e Raye. Ho deciso di accettare la sua offerta.»

Skye chiuse gli occhi lottando per non piangere. Capiva l'amica. Nei suoi panni avrebbe fatto la stessa cosa. Ma questo non le impediva di soffrire per l'imminente separazione. Ecco, succedeva di nuovo. Di nuovo qualcuno che amava la lasciava sola. «Come farai con il lavoro?» domandò. «Ti piaceva tanto...» «Mia figlia è molto più importante. Non posso rischiare che quel pazzo metta in atto le sue minacce.» «Potreste trasferirvi a casa mia. Sarebbe magnifico, e con me e Mr. Moo sareste al sicuro.» «Già, fino a quando quel bastardo non cominciasse a lasciare topi morti davanti alla tua porta. No, Skye, ormai ho deciso. Mi mancherai moltissimo, sai? Sei la migliore amica che abbia mai avuto.» «Anche tu mi mancherai... Senti, perché non ne parliamo a Griffen? Lui conosce un mucchio di gente, forse potrebbe fare qualcosa...» «Non credo, Skye.» «Perché no? Lui lo farebbe volentieri...» «Siamo buone amiche, vero? Possiamo dirci tutto...» «Ma certo.» «Bene.» Terri strinse fra le sue le mani di Skye. «Perché devo proprio dirtelo, la tua storia con Griffen mi preoccupa. È stata così improvvisa... e in quell'uomo c'è qualcosa di strano. Non è solo possessivo, è come se non sopportasse niente e nessuno intorno a te... Certe volte, quando mi guarda, ho come l'impressione che voglia liberarsi di me.» «Ma che dici?» Terri rise nervosamente. «Sì, che mi voglia lontano da te, fuori della tua vita. Proprio come sta succedendo adesso.» Skye aggrottò la fronte. «Ma parla sempre bene di te. E sa quanto ti sono

affezionata!» «È proprio questo che intendo. Lo sa, e forse ne è geloso. Per favore, Skye, non arrabbiarti, ma io devo chiedertelo. Non ti è mai venuto in mente che forse Griffen potrebbe... insomma, che dietro a tutta questa faccenda potrebbe esserci lui?» Skye balzò in piedi. «Ma Terri, è pazzesco! Come puoi anche solo pensarlo?» «Vedi, il fatto è che... ecco, mi domando fin dove sarebbe disposto ad arrivare per averti solo per sé.» «No, quel che dici è assurdo. Piuttosto, sei certa che non sia Will? Tu stessa hai sempre detto che voleva punirti per averlo cacciato di casa, e...» «No. Will adora sua figlia, non le torcerebbe un capello.» «Be', il colpevole non è Griffen. È un pazzo, un malato...» «Che però sa dove abito, come si chiama mia figlia e quale asilo frequenta!» Terri sospirò. «Ti chiedo scusa. Sono talmente sconvolta... ti prego, non essere arrabbiata con me!» Skye l'abbracciò. «Non lo sono, ma sono più che certa che Griffen non c'entra niente. Ben presto la polizia prenderà il colpevole, e allora vedrai se ho ragione.»

Terri e Raye partirono il sabato successivo. Skye andò ad aiutare l'amica a fare gli ultimi preparativi, ma Terri aveva già imballato tutto quanto e non restava che salutarsi, la cosa più dolorosa. «Non è giusto» disse Skye asciugandosi una lacrima. «Non è giusto!» «Lo so.» Terri l'abbracciò stretta. «Abbi cura di te, capito?» «E tu bada a Raye» sorrise lei tra le lacrime. «Chiamami appena sei sistemata, mi raccomando.» «Lo farò, e ti chiamerò in ufficio tramite la posta elettronica. Voglio sapere tutto

della tua serie City Lights.» «È anche la tua serie, non dimenticarlo.» Raye la tirò per la manica. «Perché piangi, zia Skye?» Lei si chinò a baciarla. «Perché tu vai via, e mi mancherai moltissimo.» «Allora vieni con noi!» «Non posso, tesoro. Mi piacerebbe tanto, ma non è possibile.» «Almeno verrai a trovarmi in A'zona, con Moo?» «Appena possibile, te lo prometto.» «Coraggio, Raye, è ora di andare» la chiamò Terri. La fece salire in macchina, la sistemò per bene sul sedile posteriore, poi si mise al volante. Non si poteva più rimandare, era ora di partire. E dopo un ultimo abbraccio, Terri partì. Di nuovo sola, pensò Skye. Di nuovo abbandonata. E provò l'improvviso, fortissimo desiderio di parlare con Chance. Di sfogarsi, di piangere sulla sua spalla. Entrò in un negozio, chiese l'elenco telefonico e trovò numero e indirizzo di Chance. Poi, prima di ripensarci, salì in macchina e andò a casa di lui. Nessuno rispose allo squillo del camlo. Suonò di nuovo, poi cominciò a bussare forte. «Sì, sì, sto arrivando!» Doveva essersi appena alzato, pensò lei ricordando che era ancora molto presto. Indossava un paio di pantaloni di felpa grigia e una T-shirt spiegazzata, e aveva la barba lunga e i capelli arruffati. Era bellissimo. «Terri è partita dieci minuti fa» disse lei. «Per sempre.» Lui spalancò la porta per farla entrare in una tipica casa da scapolo. Mobili comodi ma senza uno stile preciso, un po' di disordine, un contenitore di pizza vuoto e una lattina di birra sul tavolo davanti al divano. «Non sono molto ordinato» si scusò. Le fece strada, raccogliendo una cravatta

dalla spalliera di una sedia e un paio di scarpe da ginnastica nell'angolo del corridoio, poi annunciò che andava a fare il caffè. Due minuti dopo tornò con un paio di tazze fumanti. «Non sapevo come lo prendi...» «Nero» disse lei. «Meno male, perché il latte è diventato yogurth.» Chance sedette nella poltrona di fronte a lei e domandò: «Allora, piccola, che ti succede?». Il nomignolo dei tempi andati le fece venire di nuovo voglia di piangere. Skye deglutì e gli raccontò di Terri, di come erano diventate amiche, e poi del topo morto, delle telefonate, dell'ultima, orribile minaccia contro la piccola Raye. «E la polizia non è stata di grande aiuto» concluse. «Terri ha una sorella che vive in Arizona e le ha offerto ospitalità, e così è partita.» «Non la biasimo» osservò Chance sorseggiando il suo caffè. «Quel maniaco poteva davvero far del male a una delle due.» «Sì, lo so, lo capisco bene, ma... Vedi, eravamo così vicine. Loro erano diventate una specie di famiglia, e...» Skye prese un fazzoletto dalla borsa e lo appallottolò con forza. «Credevo di non aver più bisogno di nessuno, di star bene da sola. Era meglio così, non soffrivo e andava tutto bene... Poi ho cominciato a frequentare Terri, e ho visto che mi piaceva avere un'amica. Mi sono affezionata a tutt'e due... e adesso se ne sono andate.» Skye si asciugò rabbiosamente una lacrima. «E io sono proprio stufa di questo schifo.» Chance corrugò la fronte. «Di che schifo parli?» «Di essere abbandonata dalle persone che amo.» «La vita è così, sai. Devi fartene una ragione.» Skye balzò in piedi: era furiosa. «Ah, grazie tante, bell'aiuto! Ma in fondo me lo merito. Come potevo aspettarmi che capissi, proprio tu che sei la slealtà fatta persona? Il campione mondiale degli abbandoni?» «Perché sei venuta da me, Skye? Perché speravi che capissi o perché volevi qualcos'altro?»

«Sei un vero bastardo. Ti odio.» Skye si avviò verso la porta, ma lui l'afferrò per un braccio e se la fece praticamente cadere in grembo. «Su, piccola, non fare così...» «Lasciami, brutto figlio di puttana! Lasciami o mi metto a urlare!» «Shhh... shhh!» Chance la tenne stretta contro di sé, appoggiando il mento sui suoi capelli e cullandola come tanti anni prima, la mattina in cui Skye si era svegliata e aveva scoperto di essere rimasta sola. «Capisco, sai. Ero con te quando tua madre se ne andò, ricordo quanto soffristi, e so quanto ti ha fatto male essere lasciata anche da me. Se vuoi piangere, sono qui. Avanti, amore, sfogati. Sono qui.» Skye si sciolse in lacrime e singhiozzò a lungo, aggrappata a lui, come una bambina. Finalmente il pianto si calmò e lei levò il viso devastato dalle lacrime. «Mi hai spezzato il cuore» gemette. «Come hai potuto farmi questo? Io ti amavo, avevo bisogno di te. Tu eri tutto quello che avevo!» «Lo so, tesoro. Mi dispiace tanto...» Chance le ravviò dolcemente i capelli. «Ti amavo anch'io e non volevo farti soffrire, ma non sapevo che altro fare...» Skye si asciugò il naso con il dorso della mano. «Invece mi hai fatta soffrire, e tanto. Sono stata sul punto di morire per la disperazione, sai?» «Ma non lo hai fatto» sussurrò lui sfiorando la sua bocca con le labbra. «Sei una donna forte, tu. Sapevo che saresti sopravvissuta.» Skye ricambiò il suo bacio, tremando lievemente. «Come potevi saperlo se non lo sapevo nemmeno io? Non ne sono sicura neanche adesso...» Chance insinuò le mani sotto il pullover di lei e le accarezzò la schiena. «Perdonami, amore. Perdonami.» E allora, sorpresa, lei capì che lo aveva già perdonato. Non provava più alcun rancore, solo una sensazione di pace meravigliosamente liberatoria. Si volse nel grembo di lui, quasi a cavalcioni, e così facendo sentì la sua erezione e vi si premette contro. «Amami, Chance» mormorò sulla bocca di lui. «Ti desidero da morire. Fa' l'amore con me.»

E lui l'accontentò. Cominciò ad accarezzarla come nessuno, mai, l'aveva accarezzata. La risvegliò pian piano, con tormentosa dolcezza, finché per lei non esistette altro all'infuori delle mani e della bocca di lui. Gli abiti erano un ingombro inutile, e furono eliminati. I loro corpi nudi si avvicinarono e si completarono come se fossero stati creati per quell'unico scopo. Skye ò le dita sul torace di lui, seguendo i contorni della lunga, sottile cicatrice che lo traversava in diagonale. «Kevin, vero?» domandò. Lui annuì, e Skye tempestò la cicatrice di piccoli baci. «Vieni qui, tesoro» sussurrò Chance. «Voglio farti felice.» E mantenne fede alla promessa, scegliendo per istinto i punti più sensibili, accarezzando, toccando, baciando, finché lei non fu sul punto di esplodere. Allora l'adagiò sopra di sé, e mentre la penetrava Skye ansimò di sorpresa e di piacere. Lo strinse, tenendolo dentro di sé, pensando che era suo e che così doveva essere. E che non lo avrebbe mai più lasciato andare. Dapprima Chance si trattenne, assaporando l'incredibile gioia di essere con lei. Poi si mosse sempre più in fretta, sempre più forte, e Skye gridò il suo nome mentre un secondo orgasmo la travolgeva. Tremando violentemente, lui la raggiunse subito dopo. E in quel momento furono davvero una cosa sola. Skye si accoccolò contro di lui, esausta, appagata, in pace. Aveva avuto altri incontri, ma non aveva mai fatto davvero l'amore, adesso lo capiva. L'amore era così, intenso e tenero, violento e dolcissimo. Niente sarebbe mai stato altrettanto bello. Lei non sarebbe mai più stata la stessa. Gli baciò la spalla nuda, emettendo piccoli sospiri di piacere. «Mi sento così bene» sussurrò. «Meravigliosamente bene.» Chance non rispose. Non aveva più detto una parola, ma lei era così presa dalla sua felicità che non lo aveva notato fino a quel momento. «Chance? Sei così silenzioso... perché?» Quando lui aprì gli occhi e la guardò, Skye si sentì gelare. «Che cosa vorresti sentirmi dire?» replicò lui con calma. «Vai a caccia di complimenti?» Lei trasalì, umiliata da tanta crudezza. «Niente affatto.» «Perché se vuoi posso dirtelo, sei una delle migliori che abbia mai avuto.»

«Bastardo!» Skye lo schiaffeggiò con violenza, poi balzò in piedi e si infilò di furia il pullover. Non si era mai sentita peggio in vita sua. Una donna da poco, un nome in una lista. Meno di niente. Chance vuol prendere il mio posto in tutto e per tutto. Quando le ha sedotte, non le vuole più e le getta via come scarpe vecchie... Skye chiuse gli occhi, sentendosi morire. Griffen l'aveva messa in guardia, ma lei non gli aveva dato retta. Non era solo sleale, era anche stupida. Erano ati gli anni, ma lei non aveva imparato niente e continuava a gettarsi fra le braccia di Chance. E lui continuava a respingerla. Osservò la guancia di lui, che recava ancora l'impronta rosea delle sue cinque dita. «Vediamo se ho capito» disse seccamente. «Mi hai presa per pietà, non è così?» «Andiamo, Skye, sai bene come stanno le cose.» Lei afferrò la biancheria che giaceva sul pavimento. «Oh, sì, quanto a questo sei stato chiarissimo.» «Oh, accidenti!» Chance balzò in piedi a sua volta e si infilò i pantaloni di felpa. «Quel che sto cercando di dirti è che non ho niente da offrirti. I miei affari stanno andando a rotoli, ho perso quasi tutti i clienti che mi ero fatto negli ultimi sei mesi, e ieri ho dovuto licenziare la mia assistente. Tu dici sempre che Griffen può darti tutto ciò che hai sempre sognato, no? E allora prendilo. Prendilo, e va' al diavolo!» Skye si infilò i pantaloni tremando di rabbia. «Vedo che quel che mi ha detto Griffen è vero.» «E cioè?» «Che sei geloso di lui. E che faresti carte false per rubargli ciò che ha, compresa la sua donna.» «Senti, carina, non sono io quello che è venuto a supplicare di essere portato a letto. E poi, perché dovrei darmi il disturbo di prenderti per pietà, come dici tu? Immagino che Griffen ti soddisfi più che abbastanza, no?»

Skye raccolse il resto dei suoi vestiti e si avviò alla porta. «Ti sbagli» disse. «Non sono mai andata a letto con Griffen. Ma adesso che ci penso, non so proprio perché ho aspettato tanto.»

27

Quella sera, Skye ne era certa, Griffen le avrebbe chiesto di sposarlo. L'aveva invitata due giorni prima, promettendo di farle una sorpresa, e infatti l'aveva portata al Ritz Carlton, le aveva fatto trovare una rosa rossa sul piatto, aveva ordinato dello champagne. I segnali erano chiari. Ma lei non sapeva che risposta dargli. Inalò il profumo della rosa, guardando Griffen. Sapeva di volere l'amore e la stabilità che lui le offriva, sapeva di volere una famiglia, e sapeva che Griffen era l'uomo giusto per lei. Ma non poteva impedirsi di pensare a Chance, a quello che aveva provato facendo l'amore con lui, a come si era sentita meravigliosamente viva. Solo che adesso, dopo averla presa, Chance non sapeva più che farsene di lei. Dio, che stupida era stata! «A noi due, tesoro.» Lei sobbalzò, poi rise confusa e sollevò il calice colmo di champagne. «A noi due.» «Sembri lontana mille miglia. A che pensavi?» «Oh, a niente di particolare.» Skye accennò alla mano fasciata di lui per cambiare argomento. «Ti fa ancora male?» «Sta guarendo.» «Non riesco ancora a crederci. Ma com'è potuto succedere?» «Ero distratto e ho urtato lo specchio per sbaglio» fece lui con un sorriso. «Avevo la testa chissà dove, proprio come te un minuto fa. Scommetto che pensavi a Terri e alla sua deliziosa bambina. Non negare, so quanto ti mancano.» Qualcosa nell'espressione di lui la sconcertò. Sembrava divertito, quasi compiaciuto. Ma fu un attimo, poi quella luce strana scomparve dai suoi occhi e Skye si domandò che cosa le era preso. «Sì, ho pensato spesso a loro» ammise.

«Hai notizie? Come stanno?» «Bene. Si stanno ambientando, e Terri ha già ricevuto un paio di offerte di lavoro.» Griffen bevve un sorso di champagne. «E il tuo Mr. Moo? Non ha più avuto guai, spero. Avete trovato il pazzo che lo ha avvelenato?» Skye scosse la testa, a disagio sotto quello sguardo intenso. «No. È ancora libero.» «Ma è terribile. Potrebbe provarci di nuovo...» Skye depose il bicchiere perché le tremavano le mani. «Faccio molta attenzione e non lo lascio più uscire da solo.» «Fai bene.» Griffen accarezzò le sue dita, usando la sinistra per via della ferita. «Che mano fredda... non ti avrò turbata? Sai, tutti questi incidenti, a Terri, al tuo cane, mi fanno pensare a ciò che è davvero importante nella vita. Da soli, le avversità sembrano insormontabili. Ma quando si è parte di una famiglia, non si è mai soli. E la famiglia non ti abbandona mai.» Skye pensò a sua madre, e i suoi occhi si colmarono di lacrime. «Tua madre non meritava il tuo amore» aggiunse lui come se avesse letto nella sua mente. «E nemmeno Chance.» Questa volta Skye non seppe trattenere il pianto e una lacrima rotolò lungo la sua guancia. «Ecco, adesso ti ho sconvolta. Mi dispiace... volevo che questa fosse una serata speciale!» Skye si asciugò le lacrime con la mano. «Non è colpa tua... ma hai ragione, non ho nessuno. Sono sola al mondo.» «Hai me» sorrise Griffen stringendo la sua mano. «Sai quel che provo per te, vero? Non ne ho fatto mistero.» Ecco, pensò lei. Adesso glielo avrebbe chiesto. E lei non sapeva che cosa dire!

«Voglio prendermi cura di te, tesoro. Voglio amarti, coccolarti e tenerti con me per sempre. Vuoi diventare mia moglie?» Skye lo guardò, muta, pensando a Chance e alle sue mani e al suo corpo e a come la faceva sentire... poi si maledisse e maledisse lui. «Non sarai mai più sola» riprese Griffen. «Ti darò tutto quello che hai sempre sognato. L'amore, una casa, una famiglia. Il nonno e zia Dorothy ti adorano. L'azienda ha bisogno di te.» Abbassò la voce. «E anch'io.» Skye sentiva l'inizio di una feroce emicrania pulsare nelle tempie. Griffen le offriva la realizzazione di tutti i suoi sogni... e lei non riusciva a dire un semplice sì! «È un o molto importante» mormorò. «Sono lusingata e... e confusa.» Lui sorrise e trasse dalla tasca una scatoletta di velluto viola. «Aprila» suggerì. Lei fece scattare il coperchio. All'interno c'era un enorme diamante dal taglio ovale circondato da diamanti più piccoli e montato su un semplice cerchio di platino. «Oh, mio Dio... ma è troppo!» esclamò portandosi la mano alla gola. «Niente è troppo bello o troppo prezioso per la donna che amo» disse Griffen. «Mettilo.» Skye tese la mano e lui le infilò il diamante all'anulare. Era perfetto. «Abbiamo tante cose in comune» riprese Griffen carezzevole. «Avremo una vita meravigliosa. Immagina, noi due insieme, fianco a fianco, alla guida dell'azienda... saremo invincibili, Skye. Nessuno ci fermerà.» E l'amore?, pensò lei. E la ione? Ma questa non era una domanda da farsi. Griffen l'amava, gliel'aveva detto centinaia di volte. E lei amava lui. Però, non nel modo in cui amava Chance! I suoi occhi si colmarono di nuove lacrime, e lei batté le palpebre sconvolta da quel pensiero e dalla verità che rifletteva. Era innamorata di Chance. Lo amava disperatamente, fin da bambina. E lui non la voleva! «Ehi... spero che siano lacrime di gioia!»

«Io... io sono sopraffatta» disse lei sentendosi un verme. «Vuol dire sì?» Skye cercò affannosamente le parole giuste. «Griffen, non credo che sia il momento di... io non so se...» «Allora è un no?» esclamò lui arrossendo di collera. «Oh, assolutamente no!» Skye prese la mano di lui e balbettò: «È solo che... che ho bisogno di tempo, capisci? No... non sono pronta a prendere una decisione così importante...». «Non mi sembra che sia una decisione tanto difficile» fece lui asciutto. «O vuoi sposarmi oppure no.» «Vorrei tanto essere sicura come te. Ma vedi, questo è un o definitivo, e mi spaventa un po'. Ho sofferto molto in ato, non voglio soffrire di nuovo...» «Io non sono come tua madre o come quel bastardo di Chance!» esclamò lui sprezzante. «Non ti lascerò mai, non smetterò mai di amarti. Tu sei fatta per me, ne sono certo. Siamo fatti per stare insieme!» Gli occhi di lui erano accesi da una strana luce febbrile. Skye non lo aveva mai visto così, ed era ancora più spaventata. «Cerca di capire, Griffen. Non posso darti una risposta adesso. Voglio dirti di sì, con tutto il cuore, ma per ora non... non posso.» «Capisco.» Griffen ritrasse bruscamente la mano, evidentemente furioso. «Ho troppe cose a cui pensare, per ora» disse lei. «Cerca di capirmi... voglio che sia tutto perfetto, ma devo pensare alla Fiera di Milano e al libro, e... Dammi un po' di tempo, per favore. Ti darò la mia risposta al ritorno da Milano.» «E va bene. Due settimane, Skye. Non aspetterò un minuto di più.»

Skye andò a cercare Chance e lo trovò nel suo ufficio, in piedi davanti alla finestra. Voltava le spalle alla porta e sembrava stanco, abbattuto, privo di

quell'aria da padrone del mondo che gli era così naturale. Non si era accorto del suo arrivo, e per un attimo lei fu tentata di andarsene senza dirgli niente, senza umiliarsi ancora. Ma sentiva di non poterlo fare. Tanto, che aveva da perdere? Le aveva già spezzato il cuore... «Chance?» Lui si volse e la fissò in silenzio. «Come stai?» domandò lei scioccamente. «Come sto? Mi sono rimasti tre clienti in tutto. Non sono precisamente al settimo cielo.» «Mi dispiace tanto» disse Skye con sincerità. Sapeva bene quanto il successo fosse importante per lui. «Sì, anche a me.» «Ma hai sempre la Monarch, no? Loro sono soddisfattissimi di te.» «Lo erano anche gli altri, e guarda che fine hanno fatto. Skye, perché sei venuta qui?» «Perché... ecco, ieri Griffen mi ha chiesto di sposarlo.» «Ah.» «Dice... dice che mi ama, che mi darà il mondo intero e non mi lascerà mai.» Chance si girò verso la finestra. «Una proposta coi fiocchi. Spero che tu abbia accettato.» Lei inspirò a fondo. Che aveva da perdere?, pensò di nuovo. Ormai era lì, tanto valeva che mettesse a nudo la propria anima. «Chance, guardami, ti prego.» Lui si voltò, ma era rigido, freddo, come se non la vedesse. «Gli ho detto che avevo bisogno di tempo.»

«Ah» ripeté lui. «Cos'è, sei venuta qui per avere la mia benedizione? O il mio permesso?» Skye deglutì. «Sono venuta perché tu mi dica di non farlo. Perché tu mi dia una ragione per dirgli di no.» Chance la fissò negli occhi, a lungo. «Non posso, Skye» disse infine. «Mi dispiace.» Lei emise un gemito angosciato. «Cambierebbe qualcosa se io... se ti dicessi che ti amo?» «Non amare me, Skye» disse lui scuotendo la testa. «Ama Griffen. Lui ti offre il mondo su un vassoio d'argento. Una ragazza in gamba come te non può rifiutare un'offerta simile.» Dunque, Chance non l'amava. Inutile umiliarsi ancora, inutile pregare o supplicare. L'avrebbe solo fatta sentire ancora peggio di come già si sentiva. «Bene. Ho la risposta che volevo.» Skye incrociò le braccia sul petto e si impose ferocemente di non piangere. «Immagino che a questo punto possiamo dirci addio.» «Già. Spero che tu sia felice.» Chance le voltò le spalle, e lei aprì la porta e la richiuse dietro di sé. Poi, dal corridoio, sentì confusamente che lui la chiamava, le diceva qualcosa, ma continuò a camminare senza fermarsi.

Griffen chiuse la porta dell'ufficio e osservò Dorothy, notando che aveva un aspetto orribile. «Volevi vedermi, zia Dot?» Lei gli fece cenno di sedersi, aspirando nervosamente dall'eterna sigaretta. «Dobbiamo parlare, Griffen. È importante.» «Ah, sì? C'è un'emergenza?» «Skye mi ha detto della tua proposta.»

«Ah. E tu che cosa le hai risposto?» «Che sarei stata felice di averla in famiglia, che cosa volevi che le dicessi? Buon Dio, Griffen, che ti sei fatto alla mano?» «Si è rotto lo specchio del bagno e mi sono tagliato, ma non è niente. Allora, per tornare a Skye, qual è il problema?» «Non possiamo andare avanti con questa farsa, Griffen. Io non me la sento!» «E perché, scusa?» «Non posso continuare a mentirle. Non posso fingere, capisci? Non è giusto. Ormai mi sono affezionata a lei!» «Anch'io, zia Dorothy. Io amo Skye.» «Ma... ma come puoi...? È una cosa orribile, Griffen, sei suo fratello... non puoi sposarla!» Griffen strinse le labbra, irritato. «Dorothy cara, credi proprio che sia il caso di discutere di questa faccenda adesso, nel tuo ufficio?» «Sì, voglio discuterne adesso e voglio farla finita con questa storia. Ormai ho deciso. Dirò a Skye la verità.» Dorothy sta diventando debole e stupida. Bisogna controllarla, pensò Griffen. Poi si avvicinò alla scrivania e si chinò verso di lei fissandola negli occhi. «Ne avevamo già parlato, ricordi? Prima ancora che Skye tornasse a casa. E avevamo deciso che questa era la sola cosa da fare. Ormai siamo in ballo, Dorothy. Non possiamo fare diversamente.» «Ma dobbiamo trovare un'altra soluzione!» insisté lei. «Noi non possiamo ingannarla così, non capisci?» «Abbiamo bisogno di lei, zia Dorothy. L'azienda non può farne a meno!» Dorothy spense la sigaretta e ne accese subito un'altra. «Ci ho pensato, sai. Possiamo spiegarle tutto. Skye è una ragazza dolce e intelligente. Capirà.»

«Sì, figuriamoci!» Griffen si avvicinò alla finestra e contemplò per un momento Michigan Avenue, cinque piani più sotto. «Ricordi il motivo per cui abbiamo fatto tutto questo? E ricordi che cos'hai detto tu quando lo abbiamo deciso?» Lei si portò una mano alla tempia, chiudendo gli occhi. Tipica mossa femminile, pensò Griffen. Adesso avrebbe detto che non ricordava, che era confusa. «Veramente no... sai che ultimamente sono molto distratta, che mi sfuggono le cose...» «Hai detto che sarebbe stato divertente» fece lui implacabile. «Sono certo che Skye capirà e perdonerà quando saprà che le hai sempre mentito perché pensavi che fosse divertente.» Lei arrossì. «Già, ma vedi, eravamo così in collera con Madeline che ce l'aveva portata via... e allora non la conoscevo, non era ancora una persona reale...» «E come pensi che la prenderà quando saprà che hai ingannato anche sua madre? Che anni fa fosti tu a dire a Pierce dov'erano, tanto che sua madre fu costretta a fuggire, abbandonandola?» «Ma questo non c'è bisogno che lo sappia...» «Lo scoprirebbe, prima o poi. E allora ci pianterebbe in asso. Hai dimenticato com'eri disperata prima che arrivasse? Come soffrivi vedendo che l'azienda scivolava pian piano nella mediocrità? Allora anche tu sei stata d'accordo. Avevamo bisogno di Skye, perché lei aveva il dono. E quando fosse stata legata a me, non ci avrebbe lasciati mai più. Lo hai già dimenticato? Abbiamo deciso tutti insieme che bisognava fare così, che non c'era altra soluzione!» «Be', adesso ho cambiato idea» insisté l'anziana signora. «Prima, quando non la conoscevo, era facile credere che avessi ragione tu. E poi, non ero nemmeno sicura che fosse davvero la nostra Grace. Ma adesso ne sono certa, è proprio lei, e io le voglio bene... non posso farle questo!» Griffen sbuffò disgustato. Possibile che ci dovesse sempre essere un anello debole nella catena? «E come avresti intenzione di dirglielo? La prendi da parte e le comunichi che le avresti lasciato sposare suo fratello senza alzare un dito perché ti stava a cuore il bene dell'azienda, ma che adesso ti sei ravveduta?»

Dorothy impallidì. «Lo so, detto così suona orribile, ma dobbiamo trovare un modo per metter fine a questa faccenda prima che sia troppo tardi. Skye capirà, vedrai. E poi, una volta che saprà di essere comproprietaria dell'azienda, non credo che rinuncerà alla sua parte. Ricchezza e prestigio interessano chiunque.» «Certo. Ma sapendo di essere una Monarch e di non aver goduto per tanti anni di ciò che le spettava, potrebbe farci causa e portarci via tutto. Ricordi che ne abbiamo parlato e che abbiamo deciso anche in funzione di questo pericolo?» Griffen si chinò nuovamente verso Dorothy. «L'uomo che amavi ti lasciò perché eri sterile. Ma tu avevi l'azienda e ne facesti la tua creatura, la tua famiglia, la tua vita. Vuoi che Skye te la porti via?» «Oh, Dio, no! Non sopporterei di perdere la Monarch. Sarebbe la mia fine. Griffen, che cosa dobbiamo fare, allora?» Lui rispose con un'altra domanda. «Tu e Skye partite per Milano domani, vero?» «Sì, con Adam.» «Bene, questo mi dà un po' di tempo. Sai, forse hai ragione...» «Oh, meno male!» Dorothy sospirò sollevata. «Avevo tanta paura che ti arrabbiassi con me, che dovessimo litigare!» «Non potrei mai litigare con te, zia Dot. Ti voglio troppo bene. Per ora non dire niente a Skye. Dobbiamo trattare la faccenda con molta cautela, capisci?» «Sono d'accordo.» «Se facciamo un errore potremmo perdere Skye... e magari anche l'azienda.» «Sì, hai ragione» ripeté lei spegnendo la sigaretta nel posacenere già stracolmo. Dio, come odio la gente debole!, pensò Griffen. «Mentre voi siete a Milano io ci penserò, e quando tornerai ti dirò che cosa dobbiamo fare. Che te ne pare? Sei più tranquilla?» «Oh, sì. Grazie, Griffen, sei un tesoro. Sapevo di poter contare su di te.»

Lui si alzò e si accostò alla porta, poi si voltò a sorriderle. «Vedrai, zia Dot. Sistemerò tutto per bene. Fidati di me.»

28

Il bar era buio e fumoso, e la clientela era un misto tra l'artista alternativo e il duro in giubbotto di pelle. Un posto insolito per Griffen, pensò Chance. Ma negli ultimi tempi, tutto quel che Griffen faceva era insolito. Si comportava stranamente, come se fosse un'immagine distorta del Griffen di un tempo. Era sfuggente, bizzarro, e qualcosa nel suo comportamento strideva come un'unghia su una lavagna. Chance guardò l'orologio. Griffen era già in ritardo di mezz'ora, e lui aveva la sensazione che lo fe aspettare di proposito. Forse era un'altra delle spiacevolezze di un periodo tutt'altro che piacevole. O forse Griffen sapeva di lui e Skye. Quel pensiero lo gelò. Se davvero sapeva, Griffen poteva diventare un nemico pericoloso. Per fortuna Skye era a Milano, così lui non aveva avuto la tentazione di chiamarla o di andare da lei. E per dirle cosa, poi? La situazione non era cambiata. Lui non poteva darle nessun motivo valido per non sposare Griffen. «Scusa il ritardo, vecchio mio» disse Griffen arrivando al tavolo. «C'era un traffico spaventoso. Posticino interessante, eh?» Griffen ordinò una birra e sedette di fronte a Chance. «Mi sembri un po' giù. Non sarà per via delle voci che ho sentito in giro?» Come mai era così cordiale?, pensò Chance perplesso. «Che voci?» «Be', si dice che sei finito. E che i clienti ti mollano alla velocità della luce.» Il tono di Griffen era compiaciuto, quasi trionfante. Chance ripensò alle parole di Skye, il sabato mattina in cui era venuta da lui e avevano fatto l'amore. Griffen era convinto che Chance fosse morbosamente geloso e volesse sostituirsi a lui. «Non si parla d'altro, in effetti» ridacchiò Griffen. «Da uomo del giorno a fallito dell'anno in poche settimane. Sei sulla bocca di tutti. Congratulazioni.»

«Va' al diavolo» ringhiò Chance. «Ehi, non prendertela. In fondo si tratta solo di lavoro, no?» «Fai presto a dire, tu. A te il lavoro è piovuto dal cielo, e non te lo toglierà mai nessuno.» Griffen aggrottò le sopracciglia. «Perché, questo ti dà fastidio?» «Mi dà fastidio il tuo atteggiamento.» «Be', vecchio mio, visto che a quanto pare sono uno dei pochi clienti che ti sono rimasti, se fossi in te mi darei una calmata ed eviterei di litigare.» Sì, era vero, aveva voglia di litigare. Aveva voglia di fare a pugni, di vedere sangue e lividi e occhi pesti. Ma farlo con uno degli ultimi clienti rimasti era da idioti. Chance sorrise a fatica. «Mi dispiace, amico. Sto attraversando un periodo difficile.» «Oh, non fa niente.» Griffen sorrise. «Immagino che Skye ti abbia dato la notizia.» Chance fece lo gnorri. «Non la vedo da un bel po'.» «Be', le ho fatto la grande domanda, e stiamo per fidanzarci.» «Ma davvero? Allora ti ha detto di sì?» Griffen si irrigidì per una frazione di secondo, e Chance capì che Skye non aveva accettato. Non ancora. «Congratulazioni» disse levando il bicchiere di birra. «Sarete un bellissima coppia.» «Lo siamo già» rettificò l'altro con un sorriso rapace. «Ma tu non mi sembri entusiasta.» «Oh, invece lo sono.» Chance bevve un sorso di birra che gli parve amarissima. «Davvero.» «Sai, c'è stato un momento in cui pensavo che volessi Skye per te.» Chance si sentì gelare. «Come ti è venuto in mente?»

«Oh, sai, così... mi pareva. Ma poi mi sono detto, perché Chance dovrebbe mettersi in competizione con me quando sa benissimo che non può vincere? Quando sa che una cosa simile mi irriterebbe molto?» A Chance non piacque la minaccia implicita in quelle parole, ma si sforzò di restare calmo. «Non ho mai pensato di portarti via Skye, se è questo che vuoi sapere. E adesso dimmi, volevi vedermi per qualche motivo in particolare?» «No. Ma non ci incontriamo da un bel po', e ho pensato che bere una cosa insieme poteva essere divertente.» Chance respinse l'impulso di accampare una scusa qualsiasi per andarsene, e lasciò che l'altro gli ordinasse una seconda birra. Chiacchierarono per un po', scambiandosi storielle e aneddoti, ma l'atmosfera era tesa e innaturale. Finalmente Chance non ne poté più e si alzò. «Scusami, Grif, ma sono stanchissimo. Bisogna che me ne vada.» Lasciò sul tavolo qualche banconota e prese il cappotto dalla rastrelliera. «Ti accompagno fino alla macchina» disse Griffen. «Dove ce l'hai?» «Qui dietro l'angolo.» Quando ebbero girato l'angolo e furono in vista della macchina, Chance imprecò. Qualcuno gli aveva tagliato le gomme, tutt'e quattro. «Oh, accidenti. Ci mancava anche questa!» «Qualche bastardo ti ha giocato un brutto tiro» fece Griffen. «Vieni, ti do un aggio fino a casa.» Chance si assicurò che le portiere fossero chiuse a chiave, poi andò con Griffen fino alla Porsche e salì a bordo. Per un po' viaggiarono in silenzio. Griffen guidava con disinvoltura, a grande velocità, sorridendo tra sé come se qualcosa lo divertisse. «Ehi... io abito dalla parte opposta!» esclamò Chance a un certo punto. «Ho preso una scorciatoia.» Griffen gli fece un sorriso che era quasi una smorfia. «Rilassati e goditi la eggiata.» Ma Chance non se la godeva affatto. Teneva d'occhio l'altro, che gli sembrava decisamente fuori di squadra, e che vedeva comportarsi in modo sempre più strano.

Quando Griffen prese una curva a velocità folle, Chance si aggrappò alla cintura di sicurezza ed esclamò: «Non potresti rallentare un po'? Non ho nessuna voglia di morire!». L'altro ridacchiò malignamente. «Il che mi stupisce, viste le condizioni dei tuoi affari.» «Senti un po', ma che ti prende? Perché fai tanto il bastardo?» Griffen rise di nuovo. «Sono proprio contento che parliamo un po'. Ci sono un paio di cosette che volevo dirti.» «Ah, sì?» «Sì.» Un'altra risata. «È stato un gioco da ragazzi, sai? Qualche telefonata, qualche lamentela... un accenno qui, un'insinuazione là. Pasticcetti con le fatture, per esempio. Comportamento scorretto. Sai come vanno queste cose...» Chance si volse a guardarlo, con il cuore in gola. «Di che diavolo stai parlando?» «Ma dei tuoi affari, ovviamente. O meglio, della loro attuale scarsità.» «Stai dicendo che hai telefonato ai miei clienti?» «Sorpresa, sorpresa!» Dunque era vero, pensò Chance. Aveva sospettato che qualcuno lo stesse sabotando, ma pensava che si trattasse dell'agenzia presso cui aveva lavorato o magari di qualcuno della Stevenson & Price, che Griffen aveva buttato a mare per dare il lavoro a lui. «Brutto figlio di puttana» ringhiò stringendo i pugni. «Potrei ammazzarti per questo!» Griffen rise di nuovo, evidentemente deliziato dalla propria astuzia. «Certi sono stati difficili da convincere. Martha Wilson, per esempio. Piccola idiota. Diceva che non le importava niente se con gli altri eri stato scorretto, con lei ti eri comportato benissimo e non se la sentiva di condannarti sulla base di una diceria, e via dicendo. La gente di questi dannati enti benefici è una massa di stupidi idealisti. Alla fine ho dovuto spiegarle che se non ti buttava a mare poteva scordarsi le cospicue donazioni della Monarch. Questo l'ha convinta. Potenza del denaro, eh?»

«Bastardo maledetto» ruggì Chance. «Ti ucciderò!» «Oh, non lo farai. Sei troppo onesto e gentile per uccidere.» Griffen arrovesciò la testa e proruppe in una risata stridula, da pazzo, poi superò una macchina più lenta sterzando con tanta violenza che la Porsche fece un testa-coda. «Sai, mi sono proprio divertito. È stato uno so vedere come ti gonfiavi a ogni cliente in più, come ti credevi il genio delle relazioni pubbliche... e sapere che potevo sfilarti la sedia di sotto il sedere in qualsiasi momento...» schioccò le dita, «... così!» «Ma perché?» chiese Chance aggrappandosi di nuovo alla cintura di sicurezza. «Che domanda. Per via di Skye, naturalmente.» Griffen gli lanciò un'occhiata colma di veleno. «Che cosa credevi di fare con la mia donna, piccolo verme schifoso? Pensavi davvero che lei volesse te quando aveva me, Griffen Monarch? La sola idea è ridicola!» «E allora perché te la prendi tanto?» gridò Chance per sovrastare il rombo del motore. «Perché fai questa scenata?» «Ti faccio vedere io perché!» Griffen premette sull'acceleratore e Chance fissò inorridito la lancetta del contachilometri che saliva e saliva. «Rallenta!» urlò. «Ci ammazzeremo tutti e due!» «Io posso darle tutto» sibilò Griffen. «Denaro, potere, successo. Posso deporre la Monarch ai suoi piedi. E tu non sei nessuno! Quando avrò finito con te non avrai nemmeno più uno sgabello per sederti, e tornerai nelle fogne da dove ti ho pescato!» «Povero idiota, lei non ti ama» disse Chance scuotendo la testa. «Non ti amerà mai!» Griffen emise un grido selvaggio, simile al richiamo di una belva. «Skye è mia, capisci? Mi appartiene, ed è sempre stato così. È mia!» «Tu sei pazzo. Skye non ti apparterrà mai.» «Ah, no?» La voce di Griffen si abbassò fino a un sussurro. «Se non posso averla io, non l'avrà nessun altro. Ricordalo bene. Nessun altro.»

In quel momento la strada faceva una curva ad angolo, e subito dietro la curva c'era una splendida tenuta protetta da un alto muro di mattoni. Con un ghigno folle, Griffen premette l'acceleratore a tavoletta e puntò il muso della Porsche direttamente contro il muro. Con un gesto istintivo Chance si coprì la faccia con le braccia. Griffen premette sul freno e sterzò con violenza, e la fiancata destra della Porsche sfregò contro il muro con un'orribile stridio di lamiera. La testa di Chance venne proiettata contro il vetro del finestrino con tanta violenza che lo ruppe. Chance slacciò la cintura di sicurezza e si gettò fuori della macchina; poi, tremando, sconvolto, si piegò su se stesso e vomitò tutto quello che aveva in corpo. Quando ebbe ripreso fiato si rialzò, girò intorno alla macchina e spalancò la portiera del guidatore. Per un attimo, vedendo l'assoluta immobilità di Griffen, pensò che fosse morto. Ma l'altro rideva in silenzio, con la bocca contorta in un ghigno orrendo. Era completamente pazzo, pensò Chance. Lo afferrò per il bavero e lo strappò fuori della macchina. «Sei uscito di senno?» urlò. «Potevamo ammazzarci, schifoso bastardo!» Griffen allontanò le mani dell'altro. «Va' a farti fottere, amico» sibilò. Poi risalì in macchina, mise in moto e ripartì.

arono quattro giorni, ma il pensiero di quello spaventoso episodio continuava a ossessionare Chance, nella cui mente risuonava ancora l'agghiacciante risata di Griffen. Non aveva mai visto così da vicino la malvagità pura. Griffen era potente, ricco, privo di scrupoli e del tutto pazzo. Una combinazione estremamente pericolosa, soprattutto per Skye. Chance era convinto che non amasse davvero Skye, perché era incapace di emozioni normali, umane come l'amore. No, la voleva, era ossessionato da lei. La riteneva una sorta di proprietà esclusiva.

Se non posso averla io, non l'avrà nessun altro. La frase di Griffen continuava a echeggiare nella mente di Chance, che si sforzava invano di trovare una spiegazione al suo comportamento pazzesco. Qualche droga? Una malattia mentale mai diagnosticata? O pura, semplice, allarmante malvagità? E lui, che come un idiota aveva creduto alla sua amicizia! In piedi davanti alla finestra del suo ufficio, Chance guardava il tramonto illuminare di luce rosata i grattacieli di Chicago. Sì, era stato un idiota e un presuntuoso. Aveva creduto di sfondare, di essersi guadagnato l'attenzione di Griffen Monarch e degli altri clienti con i suoi soli meriti. Si era illuso, perché voleva disperatamente aver successo. Skye aveva ragione. Voleva diventare come Griffen, avere tutto ciò che aveva lui. E questo desiderio era stato così forte da renderlo cieco a tutto il resto. Chance scosse il capo. Un altro pensiero era sempre presente nella sua mente. Skye. Ma adesso assumeva un aspetto nuovo, ancora più inquietante. Chance aveva sempre ritenuto che la sua comparsa a Chicago poche settimane dopo che lui ne aveva parlato con Griffen fosse solo una coincidenza, ma adesso cominciava a dubitarne. In effetti Griffen gli aveva fatto parecchie domande sul suo ato, lo aveva spinto alle confidenze e lo aveva ascoltato con molta attenzione quando gli aveva parlato del Luna Park e di Skye. Ma questo non spiegava ancora nulla. Che cosa potevano aver avuto in comune, Griffen e Skye, prima che lei arrivasse a Chicago? Chance ci aveva pensato e ripensato, ma senza trovare una risposta. E questo interrogativo, unito alla preoccupazione per i suoi affari in declino, minacciava di fargli perdere definitivamente il sonno. Ma non sarebbe rimasto immobile a subire i colpi del destino, pensò. Qualcosa poteva fare. Nessun bastardo fuori di testa gli avrebbe portato via impunemente quello che si era guadagnato con tanta fatica. Lui avrebbe lottato, a cominciare da quel momento. Prese il telefono e formò il numero della Società Storica, poi chiese di Martha Wilson. «Sono Chance McCord» disse. Lei reagì con sorpresa e con una certa riluttanza. «Come sta?» domandò cauta. «Senta, Martha, verrò subito al punto. So quel che ha fatto Griffen Monarch. Me lo ha detto lui. E mi ha anche detto che lei si è rifiutata di ascoltare le sue calunnie finché lui non ha minacciato di tagliare i contributi della Monarch.» La donna sospirò. «Sono contenta che lo abbia saputo. Mi sentivo un verme, sa?

Lei aveva lavorato in maniera eccellente, e io ero molto dispiaciuta di dover rinunciare ai suoi servigi. Ma quel bastardo mi ha praticamente costretta.» «Martha, la chiamo per chiederle se vuole aiutarmi.» «Non saprei come...» «Mi ascolti. La mia proposta potrebbe rivelarsi vantaggiosa per entrambi.» Martha doveva semplicemente fare qualche telefonata, spiegare che le voci su Chance McCord erano state messe in giro da un rivale geloso del suo successo e annunciare che lei stessa lo aveva assunto di nuovo. «Lo farei volentieri, davvero, se non ci fosse la piccola questione del contributo di Griffen Monarch...» «Io sono disposto a lavorare gratis per lei, Martha. Quello che risparmierà la compenserà abbondantemente, ne sono certo. E lei sarà di nuovo padrona di se stessa.» La donna esitò un poco, poi disse: «Sì, quell'individuo mi aveva davvero irritata. Detesto essere ricattata, non sopporto le prevaricazioni, ma non posso decidere da sola. Bisogna che ne parli con i consiglieri. Mi dia qualche giorno di tempo, poi le dirò che cos'abbiamo deciso. Personalmente, io l'appoggerò in tutto e per tutto». Chance la ringraziò e riappese, poi si volse nuovamente verso la finestra. Le prime luci si stavano accendendo nel panorama della città. Il sole era calato, e sarebbe risorto la mattina dopo. Come lui, pensò Chance con rinnovato coraggio. Anche lui, con o senza l'aiuto di Martha, sarebbe risorto. A costo di andare da ogni cliente, a spiegare che cos'era veramente accaduto. L'indomani avrebbe cominciato la sua campagna di riabilitazione, ma quella sera doveva andare da Skye. Skye era in pericolo, e lui aveva il dovere di metterla in guardia.

29

Seduto sul divano, nel soggiorno di Dorothy, Griffen aspettava. Il suo stato d'animo ava dalla calma fiduciosa a un'agitazione febbrile. Aveva la sensazione che il mondo intero cospirasse contro di lui. Una mossa sbagliata, una sola, e gli altri gli avrebbero strappato Skye. No, questo lui non poteva permetterlo. E ben presto, come sempre accadeva, avrebbe di nuovo avuto tutto sotto controllo. Griffen guardò l'orologio. Dorothy sarebbe arrivata a casa di lì a poco. L'aereo che la riportava dall'Italia era atterrato in orario, lui aveva controllato. A quell'ora, Skye era già a casa, probabilmente stava facendo una doccia prima di prepararsi per la loro serata insieme. La immaginò mentre si spogliava, immaginò la sua snella figura nuda, la curva delle sue natiche, i suoi seni eretti. La vide contro di sé, sentì la sua pelle morbida, immaginò il suo calore quando lui fosse entrato dentro di lei... Quella sera, finalmente, Skye sarebbe stata sua. E allora si sarebbe compiuto ciò che era cominciato tanti anni prima. Tremando, Griffen lasciò cadere la mano in grembo, sulla propria erezione pulsante. Si sfiorò un paio di volte, immaginando che le carezze venissero da Skye, poi smise. Aveva aspettato tanto... non si sarebbe guastato l'appetito con uno spuntino fuori programma. Sentì i i di Dorothy, la porta d'ingresso che si apriva e si richiudeva. Poi Dorothy apparve sulla soglia del salotto, strizzando gli occhi nella penombra. «Griffen, sei tu?» «Sì, zia Dot. Ti aspettavo» rispose lui accendendo la lampada sul tavolino. «Come sei bello» esclamò lei. «Adoro gli uomini in smoking.» «Grazie. Ti ricordi, vero, che stasera c'è l'inaugurazione del nuovo museo?» «Sì, Skye mi ha detto che vi sareste incontrati là.» Dorothy si lasciò cadere sul

divano. «Dio, quanto sono stanca!» «Com'è andata a Milano?» «Magnificamente. Adam ti ha detto che abbiamo vinto un premio per la serie City Lights?» «Sì, ci siamo parlati al telefono ieri.» La donna lo guardò, come se ricordasse improvvisamente qualcosa. «Ma Griffen, caro, come mai sei qui?» «Oh, zia Dot, non avrai dimenticato! Ti avevo promesso che al tuo ritorno da Milano avrei sistemato la nostra piccola questione, no?» «Vuoi dire che hai pensato al problema di Skye?» «Non ho pensato ad altro.» Dorothy appoggiò la testa alla spalliera e chiuse gli occhi. «E hai trovato una soluzione?» «Sì. Una soluzione perfetta.» Griffen mise un cuscino sotto la testa di Dorothy. «Mettiti comoda. Ti faccio una tazza di tè e parliamo con calma.» «Ah, che buona idea!» La donna si sfilò le scarpe e si distese sul divano. «Questi viaggi stanno diventando troppo faticosi per una povera vecchia come me.» Griffen le gettò un plaid sulle gambe. «Ma adesso hai Skye che può farlo per te, no?» «Sì, è stata un vero tesoro. Proprio come pensavamo che fosse. È una ragazza meravigliosa, sai. Sono così contenta che tu abbia trovato una soluzione... sei sempre così premuroso!» «Perché ti voglio bene, Dorothy cara. Adesso riposati, mentre vado a farti il tè.» Lei sospirò contenta. «Ah, Griffen... prima di partire ho spento l'accensione elettrica del fornello, perciò dovrai usare un fiammifero.» «Sì, zia. Sta' tranquilla.»

Griffen andò in cucina, riempì d'acqua il bollitore e lo mise sul fornello, poi prese una tazza, ci mise una bustina di tè al gelsomino e l'appoggiò sulla credenza. Aprì il beccuccio del gas, ascoltò per un attimo il sibilo e sorrise tra sé annusando l'odore penetrante che riempiva a poco a poco la cucina. Poi prese un tovagliolo di carta, cancellò accuratamente le sue impronte dal bollitore, dalla tazza e dal beccuccio, lo appallottolò e se lo mise in tasca. Il sibilo continuava. Griffen tornò in soggiorno e osservò Dorothy, che dormiva profondamente. «Zia Dot, il tè è quasi pronto...» Nessuna risposta. Con un sorriso, Griffen si avviò alla porta e l'aprì usando lo stesso tovagliolo di poco prima. «Dormi bene, zietta cara» sussurrò. «Dormi bene.»

Skye uscì di casa stringendosi nel mantello. Il viaggio a Milano era stato eccitante e bellissimo, ma lei non se l'era goduto appieno a causa dei pensieri confusi che anche in quel momento si agitavano nella sua mente. Griffen. La sua proposta. I sentimenti che lei nutriva per Chance, malgrado tutto. Aveva promesso a Griffen una risposta per quella sera e non sapeva ancora quale sarebbe stata. Come se i suoi pensieri l'avessero evocato, si trovò di fronte Chance che eggiava avanti e indietro con le spalle curve per difendersi dal vento. Rallentò il o. Non voleva vederlo, non quella sera, quando era già così confusa... Ma in quel momento lui si voltò, e Skye fu costretta ad avanzare. Chance aveva un aspetto orribile. Aveva la faccia arrossata dal freddo, i capelli scarmigliati, un livido sulla fronte. E sembrava disperato. Skye cercò di ignorare il battito del cuore e disse: «Potevi citofonarmi». «Perché, mi avresti fatto salire?» «Forse no.» Skye rabbrividì e si avvolse ancora di più nel leggero mantello di velluto che non la difendeva dal vento gelido di gennaio. «Ma almeno non saresti rimasto qui fuori al freddo per niente. Adesso è meglio che tu vada a casa.»

«Prima dobbiamo parlare.» «Non credo» replicò lei. «Ci siamo già detti tutto quello che c'era da dire. Scusami, ma devo andare a un ricevimento.» «Allora hai deciso? Lo sposerai?» Lei si fermò e lo fulminò con un'occhiata gelida. «Non sono affari tuoi. Buonanotte, Chance.» Lui la seguì e la prese per un braccio, costringendola a voltarsi. «Devo saperlo, Skye. È importante.» «Perché? Hai deciso che mi vuoi? È per questo che facevi la posta davanti a casa mia?» Stupida, si disse subito dopo. Possibile che con lui dovesse sempre coprirsi di ridicolo? «Ora lasciami andare, Chance. Dico sul serio.» Per tutta risposta lui le afferrò anche l'altro braccio. «Quell'uomo è pazzo, Skye. È ossessionato da te. È pericoloso...» «Ossessione, dici?» esclamò lei furente. «Ma fammi il piacere. So bene che tu non ne capisci niente, ma questo si chiama amore!» «Devi darmi retta, Skye. Griffen ha cercato di ammazzarci, me e lui.» Lei trasalì. «Ma che stai dicendo?» «È successo l'altra sera. Era fuori di sé...» E le raccontò la corsa folle con la Porsche e l'urto deliberato contro il muro. «Non ci credo. È una cosa da pazzi!» «Infatti, è quello che ti sto dicendo. Griffen è pazzo.» Strinse le mani di lei, e Skye sentì che le sue erano gelate. «È stato lui a pugnalarmi alle spalle, capisci? Lui ha mandato all'aria i miei affari, ha telefonato ai miei clienti calunniandomi e ha fatto in modo che loro mi mollassero. Devi stare attenta, Skye. Te lo ripeto, è molto pericoloso!» Lei lo fissò inorridita. «Adesso capisco finalmente quello che vuoi fare!» esclamò. «I tuoi affari stanno andando a rotoli, e tu accusi lui. Vuoi punirlo

perché sei geloso di lui!» «Sai bene che non è così, Skye. Come puoi pensarlo? Mi conosci, no?» «Credevo di conoscerti, ma mi rendo conto che non è così.» «Quell'uomo è uno squilibrato, Skye. Ha detto che se lui non poteva averti non ti avrebbe avuta nessun altro... e credo che dicesse sul serio. Devi fare attenzione!» «Sei tu lo squilibrato. Io ti ho offerto il mio cuore, e tu me l'hai gettato in faccia. Non amare me, ama Griffen, hai detto. E adesso vuoi che faccia il contrario? Non ti sembra di avere le idee un po' confuse?» «E va bene, se vuoi lo confesserò, ti amo. Purché tu non lo sposi.» In quel momento Skye decise che avrebbe detto di sì a Griffen. Chance era bugiardo ed egoista e non aveva nulla da offrirle. «Saresti addirittura disposto a confessare un sentimento che non provi, pur di salvarmi?» chiese con pesante sarcasmo. «Che nobiltà d'animo! Che spirito di sacrificio! Be', ho una notizia per te. Non ho più bisogno di un fratello maggiore che mi protegga. Sono cresciuta e so cavarmela benissimo da sola.» Si volse e si incamminò lungo il marciapiede, ma Chance tentò di fermarla un'ultima volta. «Non puoi farlo, Skye. Tu non lo ami!» Lei si fermò e si volse a guardarlo. «Allora non vuoi proprio capire. Griffen mi ama e non mi lascerà mai, ed è questo che io voglio. Stabilità, sicurezza, un affetto che duri per sempre. Lo sposerò, e tu non puoi impedirmelo!» Questa volta, quando gli volse le spalle, Chance non la richiamò.

30

Era tardi, e la strada era quasi deserta. Skye sedeva nella Porsche, accanto a Griffen, e rigirava l'anello che quella sera le sembrava più pesante ed estraneo che mai. Profittando della pausa offerta da un semaforo rosso, Griffen coprì le mani di lei con la propria. «Skye, amore mio, mi hai reso l'uomo più felice della terra.» «Sono felice anch'io» mentì lei. In realtà si sentiva in trappola. Avrebbe dovuto urlare la sua gioia dalla cima dell'edificio più alto di Chicago, e invece aveva mal di stomaco. Era colpa di Chance, pensò. Le sue parole continuavano a riecheggiarle nel cervello. Aveva detto che Griffen era squilibrato, che aveva cercato di ucciderlo urtando di proposito un muro di mattoni con la macchina... eppure stavano viaggiando su quella stessa macchina, che non aveva un graffio e funzionava alla perfezione. «A che stai pensando, tesoro?» «Notavo quanto va bene la tua macchina» mentì lei. «L'hai portata dal meccanico mentre ero fuori?» «No. Non ce n'era bisogno. Perché me lo domandi? «Così. Una semplice curiosità.» Dunque Chance ha mentito, anche su questo. I suoi occhi si colmarono di lacrime. «Sei così silenziosa... Stai bene?» «Benissimo, sono solo un po' stanca. Dev'essere il cambio di fuso orario.» Non doveva più pensare a Chance. Adesso aveva tutto ciò che aveva sempre sognato. Doveva concentrarsi sul suo futuro con Griffen. Lui le accarezzò di nuovo le mani, tremando leggermente. Quel tremito, chissà perché, le diede i brividi. «Stanotte diventerai mia per sempre, amore. Ti ho

aspettata per tutta la vita. Non puoi immaginare quanto...» Ma una volta a casa di lei, la sola cosa inimmaginabile fu l'orrore che Skye provò sentendo le mani di Griffen su di sé. Il suo tocco divenne un incubo, qualcosa di sacrilego e terrificante, benché Griffen fosse delicato e attentissimo. Incapace di sopportare la sensazione del corpo nudo di lui, Skye chiuse gli occhi. E subito strane immagini si presentarono alla sua mente, sprazzi confusi del ato che le sembrava di riconoscere ma svanivano subito, e che uniti ai gemiti felini di lui la terrorizzavano oltre ogni dire. Il peso di Griffen su di lei divenne soffocante, e l'emicrania esplose nella sua testa con la violenza di una bomba. Skye si sforzò di estraniarsi, di non pensare e non sentire niente, ma le labbra di Griffen percorrevano tutto il suo corpo, leccavano, succhiavano, e lei si sentiva affondare in un nero gorgo di orrore indicibile. Griffen cominciò ad ansimare, e lei si aggrappò alle lenzuola pregando che finisse presto. Immediatamente dopo il rumoroso, ululante orgasmo di lui, balzò fuori dal letto e corse in bagno, sbattendo la porta dietro di sé. Fece appena in tempo a inginocchiarsi accanto alla tazza del water, vomitò con violenza, poi rimase con la guancia appoggiata alla fredda porcellana, piangendo disperata. arono dieci, quindici minuti. Finalmente Skye si rialzò, si sciacquò la faccia e tornò in camera da letto. Griffen sembrava furibondo ed evitava di guardarla. Lei si accostò torcendosi le mani. «Griffen, mi dispiace tanto. Io... non sai quanto mi dispiace.» «Buon Dio, non scusarti!» scattò lui. «È solo colpa mia» continuò lei. «Tu sei stato meraviglioso. Sono fortunata ad avere un uomo così delicato e comprensivo...» «È per questo che sei corsa in bagno a vomitare dopo aver fatto l'amore?» esclamò lui, livido di rabbia. «Non mi dirai che è una reazione normale!» Sì, certo, non era normale. Ci doveva essere una spiegazione. «Forse ho mangiato qualcosa che mi ha fatto male... o forse è la stanchezza» disse sedendo con cautela sull'orlo del letto. «Mi dispiace, non volevo rovinare questa serata così speciale... ma sono davvero esausta.» Dopo una breve esitazione, lui tese le braccia. «Ma certo, capisco. Non potevo

pretendere subito la perfezione. La prossima volta andrà meglio.» Skye si lasciò abbracciare, cercando di non pensare all'orribile prospettiva di una prossima volta. Le braccia di lui la strinsero forte. Lei si sentì soffocare e si augurò che la stretta di lui si allentasse un poco... ma sapeva di essere in trappola. Griffen non l'avrebbe lasciata mai più. Dopo un poco finse di essersi addormentata, sperando che Griffen la lasciasse libera. Ma anche nel sonno, le braccia di lui la tenevano in una morsa possessiva. Doveva essersi addormentata, perché fu svegliata dallo squillo del telefono e vide che era giorno. Griffen non c'era, ma dal bagno veniva il rumore dell'acqua che scorreva. Lei sollevò il ricevitore. «Skye, sono Adam.» La voce del vecchio Monarch era venata di pianto. Skye si rizzò a sedere sul letto. «È successo qualcosa?» domandò. Griffen si affacciò sulla soglia del bagno e la guardò con aria interrogativa. «Un terribile incidente...» disse Adam sconvolto. «Dorothy è morta.»

31

Non appena l'aereo di Claire atterrò a Chicago, lei cominciò a provare l'allarmante sensazione di un disastro incombente. Skye era in pericolo. Stava per accaderle qualcosa di terribile, proprio lì. Cercò di scrollarsi di dosso quella sensazione mentre si incamminava verso il terminal. Era stata chiamata dalla polizia di Chicago per aiutare gli investigatori nella soluzione di un caso particolarmente difficile. Una ragazzina era scomparsa dopo essere andata a una festicciola in casa di un'amica, e i responsabili delle indagini brancolavano nel buio. Claire aveva esitato ad accettare l'invito, perché a Chicago c'erano troppi ricordi traumatici che rischiavano di sviarla dal suo compito. Ma il detective Baker l'aveva supplicata, e alla fine lei aveva ceduto. Baker l'aspettava al terminal. Claire lo riconobbe subito, benché non lo avesse mai visto. Aveva trascorso quasi quindici anni a contatto con i poliziotti, e ormai riusciva a individuarne uno in mezzo a una folla. «La ringrazio di essere venuta, signora Dearborne.» sorrise l'uomo stringendole la mano. Poi, nel tragitto verso il parcheggio, le spiegò il caso. «Nove ragazzine di quattordici anni vanno a un pigiama party da un'amica. Quartiere tranquillo, agiato, dove tutti si conoscono. Quando vanno a dormire, le ragazze ci sono tutte. La mattina dopo ne manca una, Becky Williams.» Il detective guidò Claire verso una macchina verde scuro. «Dapprima le altre pensano che sia andata a casa, perché la sera precedente aveva litigato con una di loro per un ragazzo. La signora che ospita le ragazzine organizza una ricerca approfondita nella villa, pensando che magari Becky si sia nascosta per far dispetto all'amica. Ma naturalmente non la trova, e allora avverte le altre madri.» «E ovviamente si scatena l'inferno» mormorò Claire. «Ovviamente. Abbiamo seguito tutte le tracce, interrogato tutti i vicini, ma niente. Abbiamo pensato che fosse andata a casa subito dopo il litigio, e che fosse stata rapita durante il tragitto fra le due case. Ma il suo cappotto era ancora nell'armadio dell'amica. E siccome siamo a gennaio, è logico pensare che l'avrebbe preso anche se era arrabbiata con le altre ragazze.»

«La porta di casa era chiusa?» domandò Claire. «No, e nemmeno le finestre del pianterreno. Come le ho detto, è un quartiere tranquillo abitato da persone che si conoscono tutte fra loro, e c'è un sistema di sorveglianza privata che fa la ronda notturna. Naturalmente adesso sono tutti sconvolti, e...» Baker si interruppe e guardò Claire, che si era fermata portandosi una mano alla tempia. Skye. Sua figlia aveva bisogno di lei. Era in grave pericolo... «Signora Dearborne?» «Mi scusi... devo essere un po' stanca.» «Oh, ma certo, mi scusi lei. Le abbiamo prenotato una suite al Knickerbocker. È un vecchio albergo molto conosciuto, nella parte storica della città.» «Lo conosco» disse Claire. «Ma non sono abituata a una sistemazione così lussuosa...» «La direzione dell'albergo ha offerto la suite gratuitamente. Come le dicevo, l'intera città si è mobilitata per questo caso.» «Quanta gente sa che sono qui? Ricorda che le ho detto che non voglio pubblicità, vero? Non sono una star del cinema, ho bisogno di quiete e di silenzio.» «Stia tranquilla, lo sanno soltanto i pochi addetti ai lavori. Mi ha detto che conosce il Knickerbocker. È già stata in città?» Claire fece un pallido sorriso. «Ho vissuto a Chicago, tanti anni fa.» «Allora per lei è una specie di ritorno a casa!» Claire chiuse brevemente gli occhi e rivide l'orribile scena dell'ultimo giorno, Adam su di lei, la macchia di sangue sul pavimento, Skye che urlava sconvolta. Rabbrividì. Sua figlia era viva, lo sentiva. Era vicinissima, e aveva bisogno di lei...

Riaprì gli occhi. «Non ci avevo pensato, ma in effetti lei ha ragione. Questa è proprio una specie di ritorno a casa.»

La chiesa era piena di gente, a testimonianza dell'affetto e del rispetto che molti avevano nutrito per Dorothy Monarch. Dopo la messa e la tumulazione nella cappella di famiglia, gli amici più intimi tornarono nella casa di Astor Street per stare vicini ad Adam e Griffen. Skye era stordita dal dolore. Negli ultimi mesi si era affezionata a Dorothy tanto da considerarla una vera zia, e la donna l'aveva ricambiata con eguale affetto. I due uomini erano devastati da quella perdita. Due morti in meno di un anno, pensò Skye. Prima Pierce, adesso Dorothy. La famiglia si stava assottigliando, e lei capiva bene come questo fosse doloroso per chi restava. «Ho bisogno di bere qualcosa di forte» disse Adam quando l'ultimo degli ospiti se ne fu andato. «Chi mi fa compagnia?» Skye e Griffen lo seguirono in biblioteca, dove Adam preparò un whisky per tutti e tre. «Avrei dovuto insistere perché assumesse una donna fissa» mormorò trangugiando il contenuto del suo bicchiere. «Questo non sarebbe accaduto.» «Ma sapevamo tutti quant'era distratta negli ultimi tempi» osservò Griffen. «Siamo tutti da biasimare.» «Non dite così!» esclamò Skye con gli occhi lucidi. «È stato un orribile incidente, anche la polizia lo ha confermato. Nessuno ne ha colpa.» Griffen si ò una mano sugli occhi. «Mi sembra di vederla che va in cucina per farsi una tazza di tè e poi si sdraia sul divano a riposare in attesa che il bollitore si metta a fischiare... E non si è più svegliata, povera zia Dot!» Adam si accasciò sfinito in una delle grandi poltrone di cuoio. «E adesso che faremo?» esclamò. «Come farà l'azienda senza di lei?» Skye andò ad abbracciarlo. «Andrà tutto bene» disse cercando di consolarlo. «Si sistemerà tutto.»

«È vero» disse Griffen. «Adesso la Monarch ha Skye. È lei il futuro dell'azienda, e prenderà il posto di Dorothy.» «Ma Griffen, non è possibile...» Skye scosse la testa, acutamente imbarazzata dal suo suggerimento. «Non ho esperienza sufficiente. Dorothy non si limitava a creare, dirigeva l'intero settore, e io non ne sono capace...» «Griffen ha ragione» intervenne Adam. «Tu possiedi il dono artistico che è la linfa vitale della Monarch. Il resto lo puoi imparare.» «Ma ci sono tanti altri più adatti, tanti che sono nell'azienda da tempo e sanno sicuramente come gestire il settore. E potreste assumere uno stilista qualificato che...» «Un estraneo?» interruppe Adam. «Mai!» Skye lo guardò sorpresa. «Ma Adam, fino a pochi mesi fa anch'io ero un'estranea!» «Però adesso fai parte della famiglia, e questo è quanto.» Skye guardò Griffen, implorante. «Ma io non sono pronta... non posso prendere il posto di Dorothy!» Griffen le si avvicinò e cinse le sue spalle con fare protettivo. «Tesoro, questo è ciò che Dorothy voleva. Ne aveva parlato più volte con Adam e con me. Quando si fosse ritirata, voleva che tu le subentrassi. E dopo il viaggio a Milano ne era ancora più convinta.» Skye guardò Adam e scoprì che fissava il nipote con espressione perplessa, quasi spaventata. Un piccolo brivido le serpeggiò lungo la schiena. «Sono d'accordo» disse Adam. «È ciò che Dorothy avrebbe voluto.» «Ormai sei parte della famiglia, tesoro» disse Griffen in tono suadente. «Sei una di noi... e noi abbiamo bisogno di te.» Parte della famiglia, pensò lei. Come aveva sempre sognato. Ma dopo l'esperienza di qualche sera prima, come poteva restare fidanzata con Griffen?

L'orrore di quella sera non era svanito con il are dei giorni, anzi, era rimasto impresso nella sua memoria come un incubo. Skye cominciava a domandarsi se davvero non fosse malata; come poteva spiegare altrimenti la sua reazione? Griffen era stato delicato e attento, ed era così affascinante... eppure lei si era sentita come se la stesse violentando. Perché? Adam si alzò, prese la mano di lei e la portò al petto. «Non ci lascerai anche tu, vero, Skye? Non credo che potrei sopportarlo.» «Naturale che non ci lascerà. Non potrebbe spezzarci il cuore né lo vorrebbe, non è vero, amore?» Il cuore di Skye batteva forte. I due uomini la guardavano, e lei si sentiva presa in trappola. Che poteva dire? Adam e Griffen stavano attraversando un periodo così difficile... come poteva deluderli? «Non vorrei mai darvi un dispiacere» disse guardando Adam perché non sopportava lo sguardo intenso di Griffen. «E se volete davvero che prenda il posto di Dorothy, ebbene, farò del mio meglio.» «Questa è la nostra ragazza!» esclamò Adam abbracciandola. «Non è vero, Griffen?» Anche lui l'abbracciò. «Sì. La nostra ragazza.»

L'emorragia di clienti era finalmente cessata, e Chance lo doveva a Martha e al suo rifiuto di subire il ricatto di Griffen Monarch. Quando la donna aveva cominciato a far circolare la sua versione dei fatti, molti clienti allontanati dalla campagna diffamatoria di Griffen erano tornati e Chance era ottimista perché ne aveva addirittura acquisiti di nuovi. Non era stato Griffen a servirglieli su un piatto d'argento, se li era guadagnati con il lavoro e la serietà. Perciò poteva essere orgoglioso di sé. Ma la soddisfazione per gli incoraggianti risultati non cancellava il cruccio più profondo, e cioè il pensiero di Skye. Chance non poteva permetterle di sposare Griffen, e non solo perché l'uomo era un pericoloso squilibrato. Aveva capito di non poter vivere senza di lei. E doveva dirglielo.

Entrò nel lussuoso edificio di Michigan Avenue, salì al quinto piano, disse alla centralinista che doveva parlare con Skye e si incamminò lungo il corridoio. Skye era nel suo ufficio, da sola. Stava china sul tavolo da lavoro e levigava un braccialetto usando una piccola smerigliatrice. Il ronzio della macchina aveva coperto i i di Chance, e fu così che lui poté richiudere la porta e arrivare accanto a lei senza essere fermato. «Non sposarlo» disse senza preavviso. Skye spense la macchina, tolse le lenti di sicurezza e solo allora levò gli occhi su di lui. «Che cos'hai detto?» «Una volta mi hai chiesto di darti una ragione valida per non sposare Griffen. Eccola. Sono io.» «Senti, Chance, sono oberata di lavoro. Sto cercando di mandare avanti un reparto, e tu vieni a tormentarmi con i tuoi giochetti competitivi? Non ho tempo per questo. Lasciami in pace!» Lui prese le mani di lei e la fece alzare dallo sgabello. «Non è un giochetto competitivo, come lo chiami tu. È una cosa seria. Non voglio che tu lo sposi perché non posso vivere senza di te.» Sentì sotto le dita l'anello di fidanzamento che Griffen le aveva dato e provò il violento impulso di strapparglielo dalla mano e gettarlo fuori della finestra. «Non posso perderti, Skye. Penso a te di continuo. Non posso garantirti una felicità perfetta, che duri per sempre, però ti amo e voglio provare a renderti felice. Dammi una possibilità.» «Dunque è così» disse lei scuotendo la testa. «Sei talmente geloso di Griffen che sei disposto a mentire, a dire che mi ami, pur di fargli un dispetto!» «Non sono geloso di lui» replicò Chance. Era la verità, non lo era più, e si sentiva meravigliosamente libero. «Ho ato la vita a desiderare di essere diverso da ciò che ero, a guardare gli uomini come Griffen Monarch e a cercare di imitarli. Ma adesso è finita. Sono contento di quello che sono e non voglio essere diverso. Quello che voglio sei tu.» Skye lo fissò per un momento, poi strappò le mani dalla stretta di lui. «Se anche fosse vero, che cosa dovrei risponderti? Che sono felice e onorata di ricevere una proposta così generosa? Ma fammi il piacere!»

«È una proposta onesta.» «Non so che farmene della tua onestà. Io voglio stabilità e sicurezza, e Griffen me le ha offerte. Tu invece esordisci dicendo che non puoi garantirmi niente!» «Quando ti deciderai a crescere?» esclamò Chance spazientito. «La felicità perfetta non esiste, l'amore eterno non esiste, lo vuoi capire?» «Questo lo dici tu, perché hai paura di assumerti degli impegni!» «Paura? Non sono io quello che accetta di sposare una persona che non ama solo per sentirsi al sicuro!» Skye afferrò il telefono. «Vattene, se non vuoi che chiami la sicurezza e ti faccia buttar fuori» sibilò. Chance glielo tolse di mano. «Tu vuoi che io ti prometta che non ti farò mai soffrire. Be', io non posso promettertelo perché sono un essere umano, e in quanto tale non sono infallibile. Nessuno lo è.» La prese tra le braccia, nonostante le sue proteste, e la strinse a sé. «Ma non voglio perderti. Non sposare Griffen. Tu non lo ami!» «Non è vero» protestò lei. «Sono pazza di lui!» Chance si chinò sulla sua bocca. «Tu ami me.» «No! Mi rifiuto di amarti, di rischiare di nuovo di...» Lui la zittì con un bacio, e anziché respingerlo Skye gli si aggrappò con un gemito. Le loro lingue si intrecciarono convulse, i loro corpi aderirono l'uno all'altro. Chance fece scivolare una mano su per la coscia di lei, sotto la gonna. «Come sei calda...» sussurrò. Lei gemette piano, arcuandosi contro la sua mano, e sussultò in un orgasmo improvviso e violentissimo. Chance soffocò il suo grido di piacere con un altro bacio. Poi la lasciò. Skye respirava a fatica, persa nel suo piacere. Aveva gli occhi socchiusi, le

labbra semiaperte, le guance arrossate. Chance era così teso dal desiderio da sentirsi male. «Vedi?» mormorò. «Se tu amassi un altro, non reagiresti così alle mie carezze. Pensaci, Skye. Non puoi rovinare così la tua vita per la paura di soffrire di nuovo.» Dopo di che aprì la porta e uscì.

32

Da quando era arrivata a Chicago, Claire dormiva pochissimo, mangiava ancora meno, ed era stanca e agitata. Non riusciva a scacciare un'angosciosa sensazione di pericolo. Sentiva che stava per accadere qualcosa di terribile a Skye, e questo pensiero le impediva di concentrarsi sul compito di aiutare la polizia, come invece avrebbe voluto. Aveva ato gli ultimi giorni chiusa nella sua camera d'albergo, circondata dai giornali delle ultime settimane, dagli elenchi telefonici, dalle cose appartenute alla ragazzina scomparsa. A eccezione di una visita alla casa di Becky Williams e a quella in cui la ragazza aveva trascorso l'ultima notte, non si era mossa. Aveva ato in rassegna tutte le informazioni raccolte dalla polizia, esaminandole con cura. Ma fino ad allora non aveva concluso niente. Non avrebbe dovuto accettare l'incarico, pensò. Venire a Chicago era stato un errore. Non era nemmeno più sicura che le sue premonizioni su Skye riguardassero davvero il futuro e non fossero invece una traccia lasciata nella sua mente dai terribili avvenimenti del ato. Chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie. Si sentiva terribilmente in colpa quando non riusciva nel suo compito, come in quel caso. Le sembrava di truffare la polizia, i genitori delle vittime e quanti contavano su di lei. Riprese i giornali della settimana precedente la scomparsa di Becky e ricominciò a sfogliarli con cura. Non sapeva mai che cosa poteva risvegliare le sue capacità di chiaroveggenza, perciò si imponeva di leggere ogni foglio di giornale da cima a fondo. Scartò il primo, che non aveva provocato nessuna reazione, e poi anche il secondo. Il tempo ava. Claire aprì il terzo, e dopo un po' arrivò alla pagina della cronaca mondana. Party di beneficenza, il vernissage di una mostra, gli annunci di fidanzamento. Una foto attirò la sua attenzione, e il sangue le si gelò nelle vene. Griffen Monarch e Skye Dearborne hanno annunciato il loro fidanzamento. La giovane designer ha...

Un grido di orrore sfuggì dalle labbra di Claire. Adesso capiva il perché dell'angosciosa sensazione che la perseguitava da giorni. Skye era lì, a Chicago, e stava per sposare suo fratello! Claire balzò in piedi rovesciando la sedia. Non poteva perdere nemmeno un minuto. Corse a prendere la guida telefonica sul tavolino da notte, trovò la D, cercò affannosamente Skye Dearborne. Non c'era. E adesso? Si guardò intorno disperata, e vide le guide della regione che il detective Baker le aveva portato quella mattina. Guardò la guida che aveva consultato. Era dell'anno prima! Trovò la guida più recente di Chicago, la sfogliò, e sotto la lettera D trovò quello che cercava. Dearborne, Skye. Singhiozzando di gioia, prese il ricevitore e fece il numero con mani tremanti. Stava per rivedere la sua bambina, pensava sconvolta. Finalmente, dopo tanti anni, l'aveva ritrovata! Il telefono squillò una, due volte, e Claire chiuse gli occhi pregando con fervore che Skye fosse in casa. Ma al terzo squillo le rispose una segreteria telefonica. Farfugliando per l'emozione, ridendo e piangendo, Claire lasciò un messaggio confuso. Stava supplicando Skye di richiamarla quando la segreteria si spense interrompendo la comunicazione. Allora Claire prese a camminare avanti e indietro, torcendosi le mani. Non poteva restarsene lì senza far niente. E se Skye si stava sposando proprio in quel momento? O se il matrimonio era previsto per l'indomani? Doveva fermarla. Doveva trovare il modo di intervenire e impedire quell'orrore. Si torse le mani, riflettendo. Che fare? Non c'era tempo da perdere, forse quella era l'ultima chance che le restava per impedire che... Chance! L'aveva lasciata con lui. Forse era sperare troppo... ma forse erano venuti a Chicago insieme! Riprese l'elenco telefonico, trovò il numero di Chance, e anche in quel caso le rispose una segreteria telefonica. Claire lasciò un messaggio pregandolo di richiamarla al più presto, poi riappese. Non le restava che aspettare, ma non sapeva se ci sarebbe riuscita senza impazzire. Tornò al tavolo, guardò di nuovo la foto in bianco e nero e una lacrima cadde sul ritratto di Skye. La sua bambina, il suo tesoro, che era diventata una bellissima donna. Ricordava ancora come l'aveva tenuta fra le

braccia, appena nata, e aveva immaginato come sarebbe diventata da adulta... Un singhiozzo salì alla sua gola. Non aveva potuto restarle accanto mentre diventava donna, non le era stata vicina, non aveva potuto darle tutto il suo amore. Ma adesso avrebbero recuperato il tempo perduto... se Skye l'avesse perdonata, naturalmente. Ora capiva che avrebbe dovuto dirle la verità fin dall'inizio. Ma forse non era troppo tardi, forse il destino le aveva dato una seconda possibilità per rimediare al suo errore di un tempo. Guardò il trafiletto accanto alla foto, e mentre lo leggeva si sentì mancare il respiro. Skye lavorava alla Monarch. Faceva la stilista di gioielli, proprio come Adam e Pierce avevano sempre desiderato. Com'era possibile? Lei l'aveva allontanata da quella casa ventidue anni prima, per metterla in salvo, e invece Skye era a contatto giornaliero con quelle stesse persone! Skye aveva bisogno di lei. Stava per accaderle qualcosa di tremendo! Claire riprese il telefono, chiamò la Monarch, e alla centralinista chiese di parlare con Skye Dearborne. «È una questione personale e molto urgente» disse. «Mi dispiace, la signorina è in riunione. Posso chiedere chi parla?» «Io ho davvero bisogno di parlare con lei... le dica che sono sua madre!» «La madre di Skye?» esclamò l'altra. «Senta, signora, mi dia il suo numero. La farò richiamare appena possibile.» «Oh, grazie! Sono all'hotel Knickerbocker, camera duecentododici.» «Stia tranquilla, signora Dearborne. Vedrò di far avere a Skye il suo mess...» «Sono Griffen Monarch» disse d'improvviso una voce maschile. «Posso esserle utile?» Claire si gelò. Quel nome la riportò indietro di colpo, a una camera piena di sole. Adam su di lei, con gli occhi fuori delle orbite e le mani strette intorno alla sua gola, e poi la macchia di sangue sul pavimento e Skye, anzi Grace, che urlava e urlava... «Pronto? C'è nessuno?» insisté Griffen.

Claire riagganciò di scatto. Era assordata da uno strano rombo, e la camera stava piombando nell'oscurità. Portò la mano al talismano che conteneva le gemme, lasciandosi cadere in ginocchio. La sua visione si confuse, poi divenne chiarissima. Aveva visto tante altre volte la foresta coperta di neve, ma questa volta c'erano due figure che correvano, una vittima e un inseguitore. Si sentivano delle grida di aiuto e una risata stridula, demente. Claire si piegò su se stessa, gemendo. Adesso vedeva un lago coperto di ghiaccio, una figura che si agitava nell'acqua gelida e poi veniva risucchiata sotto la superficie. La visione cambiò ancora. Un edificio illuminato, musica, un salotto. Una ragazzina e un ragazzo che ridevano tenendosi per mano. E poi di nuovo il buio e una figura che giaceva a terra come una bambola di stracci. Claire riaprì gli occhi, con la fronte imperlata di sudore e il respiro affannoso. Skye era in pericolo, e lei doveva assolutamente fare qualcosa per salvarla. Ma l'altra ragazzina, Becky Williams, no. Dovunque fosse, era felice e rideva. A lei poteva pensare dopo. Adesso era Skye ad avere bisogno di aiuto. Griffen sarebbe venuto a cercarla, Claire ne era certa perché aveva lasciato il nome dell'albergo e il numero della camera alla centralinista della Monarch. Forse il loro incontro avrebbe salvato Skye, pensò. Forse non avrebbe più rivisto sua figlia, ma se il destino aveva deciso così, pazienza, pensò con improvviso fatalismo. Purché Skye si salvasse. Chiamò il detective Baker e gli descrisse nei dettagli la casa in cui aveva visto Becky Williams. Poi, con la coscienza più tranquilla, prese un foglio di carta e cominciò a scrivere. Avrebbe tanto desiderato poter guardare la figlia negli occhi mentre le rivelava tutta la verità, ma ormai sapeva che forse non ne avrebbe mai avuto l'occasione. Perciò era giusto che lo fe adesso, sia pure per lettera, prima che qualcosa, o qualcuno, glielo impedisse per sempre. In quella lettera aprì completamente il suo cuore. Raccontò a Skye l'inizio della sua storia, l'ossessione di Griffen, gli abusi di cui lei era stata testimone, le minacce di Pierce di portarle via sua figlia, le sue visioni, il giorno della fuga. Le

raccontò della morte di Susan e degli anni in cui lei aveva cercato disperatamente di ritrovare Skye. Le descrisse il suo impegno con la polizia, le innumerevoli famiglie che aveva aiutato. Ma soprattutto le parlò del suo affetto, e le promise che non avrebbe mai smesso di amarla, qualsiasi cosa fosse accaduta. Finalmente piegò la lettera, la chiuse con il talismano colmo di gemme in una scatola, scrisse sul coperchio l'indirizzo di Skye, e infine scese nella hall dell'albergo per chiedere che la scatola fosse recapitata a casa della figlia. Quando fu di nuovo nella sua camera, guardò l'orologio e sedette. Adesso, doveva soltanto aspettare che il suo destino si compisse.

E infatti, mezz'ora dopo, arrivò Griffen. Claire aprì la porta, lo guardò negli occhi e capì di non essersi sbagliata. Griffen era ancora peggiorato. Era più crudele, più corrotto, più malvagio del ragazzino che lei aveva lasciato moltissimi anni prima. Era diventato un bellissimo uomo, ma un mostro. Guardandolo, Claire ricordò la frase che aveva pronunciato tanti anni prima nella nursery, poco dopo la nascita di Skye. Da grande la sposerò. «Non puoi farlo» disse a voce alta. Lui sorrise gelido. «Non sopporto che mi si dica che non posso fare qualcosa. Dovresti saperlo, Madeline.» Lei fece un o indietro e si portò la mano alla gola, cercando istintivamente il talismano, poi ricordò di averlo mandato a Skye. Grazie a Dio. Quelle gemme le sarebbero state utili. Sarebbero state la sua salvezza. «Sei l'unica che mi abbia mai visto per quello che ero» ammise lui entrando e richiudendo la porta. «Nessuno mi ha mai capito come te. Lo sapevi? E io mi sono sempre domandato cosa si prova ad avere il dono della chiaroveggenza.» Claire non rispose. «Che strana cosa, il cervello umano, che a volte sceglie di cancellare una parte del ato...» continuò Griffen. «Skye, per esempio, non riesce ancora a ricordare. Ha solo dei flash ogni tanto, ma non capisce di che cosa si tratta... e

poi ha le sue emicranie, naturalmente. Memoria repressa... è stato un colpo di genio, Madeline, devo ammetterlo. Ed è stato molto utile anche per me.» «Tu sei completamente pazzo» sussurrò lei avvicinandosi senza parere al telefono. «Che brutto termine... inesatto, poi. Ho solo una mente più lungimirante degli altri. I grandi geni vengono spesso fraintesi.» «Ma lei è tua sorella!» gridò Claire. «Lei mi è stata destinata. Tu hai cercato di portarla via da me e dalla Monarch, ma lei è tornata comunque perché così era scritto.» «Cerca di ragionare, Griffen. Tu vorrai dei figli, non è vero? Dei figli che possano ereditare la fortuna dei Monarch. Pensaci. Da un fratello e una sorella...» La sua voce si spezzò per il disgusto nell'immaginare un simile orrore. «Da due consanguinei nasceranno dei minorati. E allora che farai?» Griffen rimase imibile, e Claire tentò un altro argomento. «Skye prima o poi lo scoprirà. Riacquisterà la memoria. E allora ti odierà, e lascerà te e la Monarch per sempre. Devi ascoltarmi!» «Non essere melodrammatica, Madeline. Skye e io siamo anime gemelle, siamo destinati l'uno all'altro, e nessun ostacolo fermerà la nostra unione.» «Io non lo permetterò!» gridò Claire. Griffen rise, e quel suono le gelò il sangue nelle vene. «E come pensi di impedirlo?» Claire si gettò sul telefono. Le sue dita stavano per premere lo zero quando le strappò l'apparecchio di mano e lo divelse dalla parete. «Non è stato un gesto gentile da parte tua» disse soave, deponendo l'apparecchio sul divano. «Non ti lascerò sposare tua sorella» ripeté lei. «Ti ucciderò, se sarà necessario!» «No, Madeline. Mi dispiace, ma sarò io a dover uccidere te.» Lei corse verso la porta, ma lui l'afferrò per un braccio. Claire si divincolò,

scalciando e graffiando, e riuscì a liberarsi. Corse di nuovo alla porta, l'aprì e fece per gridare, ma Griffen l'afferrò da dietro, un braccio alla vita e l'altro alla gola, e la sollevò di peso. Richiuse la porta con un calcio e cominciò a stringere con forza. Claire scalciò di nuovo, cercò di artigliargli le mani, ma la forza di Griffen era sovrumana, e la vista di lei si stava già annebbiando. Chiuse gli occhi, concentrandosi disperatamente, cercando di raggiungere la mente di Skye con la forza del pensiero. Skye, tesoro, sono qui... ti voglio tanto bene... L'orologio sulla parete suonò le quattro. Grugnendo per il tremendo sforzo Griffen strinse ancora di più il collo di Claire e lo spezzò.

Ecco fatto, pensò Griffen osservando il corpo inerte ai suoi piedi. In fondo Madeline se l'era meritato. Aveva cercato di portargli di nuovo via quello che era suo. La sua Grace. Il suo destino. Aveva dovuto ucciderla. Solo che adesso era nei guai. Respirò a fondo, cercando di ragionare. Doveva nascondere il cadavere e cancellare le prove della sua presenza. Non poteva farsi prendere. No, non poteva. Si guardò intorno. Dunque, che aveva toccato? La maniglia della porta, il dorso di una sedia... ah, sì, il telefono. Estrasse un fazzoletto dalla tasca, andò alla porta, lo ò accuratamente sulla maniglia, poi sulla sedia e sul ricevitore. Ma quando, sorridendo, lo rimise nel taschino, quel movimento fece scivolare indietro il polsino della camicia e lui vide con orrore che aveva dei graffi sul polso. Si esaminò il braccio e vide altri graffi, poi abbassò lo sguardo e vide alcune gocce di sangue sul tappeto chiaro. Il suo sangue! La polizia avrebbe prelevato campioni di pelle dalle unghie di Madeline e sarebbe risalita a lui. Griffen si sentì gelare. Era salito in ascensore con due persone che lo avrebbero sicuramente riconosciuto e prima ancora, nell'atrio, aveva visto di lontano un conoscente che lo aveva salutato con un cenno.

Guardò il telefono. Madeline aveva telefonato in ufficio, e la telefonata era annotata sui registri dell'albergo. Per giunta lui aveva strappato il ricevitore alla centralinista, un gesto che la ragazza avrebbe ricordato. Dopo aver identificato il cadavere, la polizia avrebbe scoperto che Skye era in realtà Grace Monarch. Sarebbe finito tutto... lui sarebbe andato in prigione. No! pensò. Non poteva permettere che andasse a finire così! Si premette le mani sugli occhi, cercando affannosamente una soluzione. Ma riusciva a pensare soltanto a una cosa. Quando avesse scoperto la verità, Grace si sarebbe rivolta a Chance McCord. Quello zero, quella nullità. Questo, lui non poteva permetterlo. Grace era sua! Griffen abbassò le mani e si alzò. Sì, adesso gli era tutto chiaro, adesso sapeva che cosa doveva fare. Se non poteva avere Grace, non l'avrebbe avuta nessun altro.

33

Skye sentì uno strano brivido serpeggiarle lungo la schiena ed emise un piccolo grido di sorpresa. La donna accanto a lei nell'ascensore la guardò stupita. «Si sente bene?» «Sì... Solo che ho avuto una sensazione stranissima...» Che qualcuno avesse bisogno di lei, qualcuno che amava e che in quel momento soffriva... Sorrise debolmente alla donna e quella ricambiò il sorriso. «Sa dirmi l'ora? Il mio orologio dev'essersi fermato» disse la signora. Skye controllò. «Sono le quattro e due minuti.» «Grazie.» La donna uscì dalla cabina e Skye si massaggiò le braccia, rabbrividendo di nuovo. Da quando Chance aveva lasciato il suo ufficio non aveva fatto che pensare a sua madre e a lui, alle sue mani, alle sue carezze, al suo bacio. Non poteva sposare Griffen, pensò. Non lo amava. Amava Chance. Ormai ne era certa, anche se non osava ammetterlo nemmeno con se stessa. Lei sognava l'amore perfetto, eterno, immutabile, cioè qualcosa che non esisteva. Chance aveva ragione. L'unica certezza immutabile era quella della morte. Doveva rompere con Griffen, pensò con decisione. Quella sera stessa. Odiava l'idea di farlo soffrire, di far soffrire il vecchio Adam, ma non aveva scelta. Aveva già lasciato che le cose andassero troppo oltre. Era una decisione che la terrorizzava, ma la prospettiva di vivere lontana da Chance era ancora più spaventosa. Forse anche lui l'avrebbe fatta soffrire, questo lo sapeva: ma preferiva comunque essere infelice con lui che senza di lui. La decisione le diede un'inebriante sensazione di libertà. Adesso poteva cominciare una nuova vita, libera dai fantasmi e dalle paure del ato. Adesso poteva ricominciare da capo.

Nella sua mente tornò insistente il pensiero di Claire, non più amaro e colmo di rimpianto, ma dolcemente nostalgico. Skye sorrise tra sé. Claire l'aveva amata, adesso non aveva più dubbi, e gliel'aveva dimostrato ogni giorno con i suoi gesti affettuosi. Le pareva quasi di sentire le braccia di sua madre attorno a sé, rassicuranti e colme di calore, e provava una pace e una serenità infinite. Salutò il custode e uscì in strada. La serata era limpida e freddissima, e lei cacciò le mani in tasca rimpiangendo di aver perduto l'ultimo paio di guanti foderati e augurandosi che quelli ordinati di recente arrivassero presto. Salì in macchina, accese il riscaldamento e venti minuti dopo era a casa. Questa volta il vento gelido proveniente dal lago soffiava nella sua direzione. Skye non vedeva l'ora di essere davanti al caminetto, con una tazza di cioccolata fumante e Mr. Moo accucciato ai piedi. Raggiunse l'ingresso nello stesso momento in cui arrivava un fattorino. Skye diede un'occhiata al pacchetto che reggeva e vide il suo nome. I guanti, finalmente. «Mi scusi, sono Skye Dearborne» disse al ragazzo. «Quel pacchetto è per me.» «Bene, allora firmi qui.» Il fattorino le tese un blocchetto e commentò: «È stata fortunata, sa? Stavo per andar via perché non trovavo un buco per il mio motorino. Qualche disgraziato ha parcheggiato davanti all'idrante, che di solito è il posto dove mi metto io!». Skye guardò verso l'idrante al di là della strada e vide una Porsche nera che sembrava quella di Griffen. Che strano, pensò. Che ci faceva Griffen davanti a casa sua? Diede una mancia al ragazzo, si avvicinò alla sua porta d'ingresso, poi si fermò con il cuore in gola. La porta era semiaperta, e dall'interno venivano dei rumori. Skye si accostò in punta di piedi e aprì la porta con due dita, senza far rumore. Griffen era accucciato davanti al tavolino del soggiorno. Le dava le spalle, e stava sfogliando un mucchietto di lettere. Frugava nella sua posta! Skye lo affrontò, furente. «Che diavolo credi di fare?» esclamò. Lui balzò in piedi. «Grace!» «Come mi hai chiamata?»

«Volevo dire Skye. Mi hai spaventato.» «Io ho spaventato te?» Skye ò il pacchetto dalla mano destra alla sinistra. «Che diavolo ci fai in casa mia? Come sei entrato?» «Sono venuto a prenderti.» Griffen sembrava fuori di sé, era pallido, sudato, e contrariamente alle sue abitudini era spettinato e con gli abiti spiegazzati. Skye gli guardò le mani e pensò che doveva essersi tagliato, perché sul polsino di solito immacolato c'era una macchia di sangue. «È venerdì, e ho pensato che potevamo andarcene via per il weekend» disse lui. «A Horizon's End. Ti ho già fatto la valigia.» Allora Skye notò la valigia accanto a lui. Era entrato in casa sua e aveva frugato tra le sue cose. Questo non le piaceva per niente, pensò con un brivido. Proprio per niente. «Come sei entrato, Griffen?» Lui si asciugò il sudore dal labbro. La sua mano tremava e il suo sguardo spiritato si posava qua e là. «Dobbiamo andare» disse. «Si sta facendo tardi.» Skye fece un o indietro. «Stai bene? Hai un'aria così strana...» «Sto benissimo, sono solo ansioso di partire.» Griffen si ò una mano tra i capelli e Skye capì di dove veniva il sangue. Sul polso e sull'avambraccio aveva dei profondi solchi rossi, come se qualcuno lo avesse graffiato. «Questa faccenda di Dorothy ci ha sconvolti tutti» disse Griffen. «Abbiamo bisogno di distrarci, di riposarci e stare tranquilli.» «Io non credo che sia una buona idea, Griffen. Anzi, ultimamente ho riflettuto molto, e...» Skye si interruppe d'improvviso, rendendosi conto che Mr. Moo non c'era. «Dov'è Moo?» «Il cane?» Griffen si asciugò di nuovo il labbro. «È con il nonno.» «Con Adam?» esclamò lei sempre più impaurita. «Che significa?» «Ho dimenticato di dirtelo, Adam viene con noi, anzi è già partito. Pensavo che Moo si sarebbe divertito a correre per i boschi, ma nella Porsche per lui non c'era

posto.» Skye si massaggiò le tempie che cominciavano a martellare penosamente. C'era qualcosa di strano in tutta quella faccenda. Qualcosa di preoccupante. «Sei sicuro che Adam e Moo siano già per strada?» Griffen sorrise e per un attimo tornò quello di sempre. «Ma certo che ne sono sicuro. Fidati di me.» Forse era meglio così, pensò lei. Una volta che fossero stati tutti insieme, avrebbe detto a entrambi che voleva rompere il fidanzamento. «E va bene. Hai preso anche le mie pillole per il mal di testa?» «Ho preso anche una bottiglia di vino» sorrise lui. «Io penso sempre a tutto, lo sai. A tutto.»

Chance ascoltò per la terza volta il messaggio confuso sulla segreteria. Stentava a credere che si trattasse davvero di Claire, ma in quanto a quello il messaggio non lasciava dubbi. Claire era al Knickerbocker, e lo pregava di richiamarla al più presto perché Skye correva un grave pericolo. E poi nominava Griffen. Chance corrugò la fronte. Come poteva conoscere Griffen? Riascoltò il messaggio e si convinse che la voce era proprio quella di Claire. La parte su Griffen, però, non era affatto chiara. Chance prese il telefono per chiamare Skye, poi ci ripensò. Prima di mettere in contatto madre e figlia, voleva parlare con Claire e chiederle dove diavolo era stata negli ultimi quattordici anni. Non le avrebbe permesso di far soffrire di nuovo Skye. Afferrò il cappotto e le chiavi della macchina e uscì. Venti minuti dopo era davanti all'albergo. C'erano sei macchine della polizia, e nell'atrio si vedevano alcuni poliziotti in uniforme. Chance diede le chiavi della macchina all'inserviente e domandò scherzoso: «Che diavolo succede? Qualcuno ha fatto fuori uno dei vostri clienti?». Il ragazzo deglutì. «No, signore, non saprei...» «Ehi, stavo solo scherzando!» Chance entrò e prese l'ascensore insieme con due poliziotti dall'aria serissima, il che poteva significare una sola cosa, che

purtroppo la sua battuta scherzosa era vera. Qualcuno era stato assassinato. I due poliziotti scesero al secondo piano e Chance li seguì, sempre più preoccupato. Skye è in pericolo, Griffen ha... non è... un pericolo terribile, devi venire subito... Mentre le parole di Claire riecheggiavano nella sua mente, Chance pregava tra sé perché i due si dirigessero verso un'altra camera, perché si occuero di una rapina o di qualcos'altro... Ma le sue preghiere non vennero esaudite. I due detective si fermarono davanti al duecentododici e bussarono. La porta si aprì per farli are, e Chance vide che la camera era già affollata di uomini in uniforme e no, e che due erano accucciati sul pavimento ed esaminavano qualcosa. No, non qualcosa, qualcuno. Un corpo. Chance si fermò, sconvolto, poi si chinò in avanti e inspirò con forza, contando fino a venti. Forse si era sbagliato. Forse non aveva capito bene il nome dell'albergo o il numero della stanza. Forse la voce non era nemmeno quella di Claire. Tornò a pianterreno, uscì e chiamò il ragazzo del parcheggio. «Di' un po', ragazzo, chi hanno ammazzato?» L'altro deglutì. «Ma... nessuno, signore.» «Andiamo. Il posto brulica di poliziotti, e quello che è appena entrato dev'essere il medico legale. Io sono molto curioso e ho qui venti dollari per la persona che soddisferà la mia curiosità. Allora, che mi dici?» Il ragazzo si guardò intorno e abbassò la voce. «Non dica che l'ha saputo da me. Ho sentito due poliziotti che ne parlavano... la vittima era una specie di veggente, una che era venuta a Chicago per aiutare la polizia in un caso di rapimento.» Gesù, pensò lui. Una veggente. Non può essere una coincidenza. «Lei è un giornalista?» domandò il ragazzo. «Già.» Chance gli diede i venti dollari e salì in macchina. Per Skye sarebbe stato un colpo terribile, pensò. Doveva andare da lei, prima che sapesse la notizia dal telegiornale o dalla stampa.

Chiamò la Monarch dal telefono della macchina e seppe che era andata via più di un'ora prima, e allora si diresse a casa di Skye a gran velocità. Intanto ripensava alla chiamata di Claire. Aveva parlato di pericolo e aveva nominato Griffen. E poco dopo era morta... Quali erano i collegamenti tra lei e l'erede dei Monarch? Chance non lo capiva, ma ricordava bene il muro di mattoni contro cui Griffen aveva lanciato la macchina tentando di ammazzarlo. E la voce stridula, demente che diceva Se non posso avere Skye non l'avrà nessun altro... Chance parcheggiò in doppia fila, saltò fuori dalla macchina e andò a suonare alla porta di Skye. Nessuno rispose. Lui suonò di nuovo, poi corse in macchina e le telefonò. Rispose la sua segreteria. «Maledizione, Skye, se sei in casa rispondimi, è un'emergenza!» Ma lei non rispose. Dove poteva essere finita? Imprecando, Chance fece il giro dell'edificio e osservò il muro che cingeva il cortiletto. Impossibile scavalcarlo, con quei cocci aguzzi sulla sommità. Disperato, provò a spingere il cancello... e quello si aprì. Chance entrò in cortile, salì gli scalini che portavano alla porta di cucina di Skye e guardò attraverso i vetri. Nessuno. Nemmeno Moo. Strano, pensò. Lei poteva essere uscita per andare a cena, o da un'amica, o al cinema... ma dov'era il cane? Bussò sul vetro. Forse Moo era in un'altra camera e sarebbe arrivato al galoppo, abbaiando con il suo vocione da King Kong. Ma non successe nulla. Chance bussò più forte. Ancora niente. Ma certo, pensò travolto dal sollievo. Skye era uscita con Moo, lo portava sempre a so appena arrivava a casa! Sedette sugli scalini, disponendosi ad aspettarla, quando udì un latrato che non sembrava provenire dall'interno della casa, ma piuttosto dal cortile. Si guardò intorno. Niente. Poi sentì di nuovo il latrato, accompagnato dal suono di zampe che graffiavano qualcosa. «Moo» chiamò. «Moo, bello, sei tu?» I latrati si fecero più forti. Chance seguì il suono e nell'angolo del cortile, nascosto dietro una macchia di cespugli, vide un piccolo capanno per gli attrezzi. I guaiti venivano da lì. E se dentro c'era Moo, significava che Skye era davvero

nei guai. Chance sollevò il chiavistello, e la porta del capanno si aprì di colpo. Una valanga di pelo bianco e nero balzò fuori, gettandolo quasi a terra nel suo impeto di gratitudine. Adesso, Chance sapeva. Skye era in pericolo, e lui doveva trovarla a ogni costo.

34

Davanti alla porta di casa Monarch, in Astor Street, Chance suonò con impazienza il camlo, poi bussò ripetutamente sul battente. «Dov'è il signor Monarch?» esclamò quando la governante gli aprì. «Il signor Adam è nel suo studio, ma il signor Griffen non...» Chance entrò di furia. «Da che parte è lo studio?» «Aspetti, signor McCord, la annuncio, lei non può...» «Da che parte?» gridò lui. Spaventata, la donna gli indicò la direzione. «Dov'è Skye?» ruggì Chance entrando senza bussare. Adam alzò gli occhi dalla scrivania. «Chi l'ha fatta entrare?» «Mi scusi, signor Monarch» disse la governante dal corridoio, «non ha voluto aspettare...» «È con Griffen?» urlò Chance. Adam congedò la donna, poi si alzò. «Si dia una calmata, giovanotto. So che cos'ha in mente. Mio nipote me l'ha detto, che lei ha cercato di portargli via Skye.» «Questa non è una stupida gara tra noi due. Skye è in pericolo, non capisce?» L'altro scoppiò a ridere. «Oh, la smetta. Lei ha perso, lo ammetta e se ne vada, se non vuole che chiami la polizia.» «Sì, chiami la polizia, ottima idea. Ma prima mi dica, come mai Griffen conosce Claire Dearborne?»

Adam impallidì. «Non so di chi parla.» «Della madre di Skye. Stasera, quando sono rientrato a casa, ho trovato un suo messaggio sulla segreteria telefonica. Claire faceva il nome di Griffen e mi diceva che Skye era in grave pericolo.» «Ma mi faccia il piacere!» sbuffò Adam. «Le sue invenzioni sono ridicole!» «Claire è morta, signor Monarch. È stata assassinata oggi pomeriggio nella sua camera dell'hotel Knickerbocker.» «Questa è una menzogna!» «Vorrei che lo fosse.» Chance si avvicinò alla scrivania e sollevò il telefono. «Coraggio, chiami la polizia. Le diranno se ho mentito.» Il vecchio fissò Chance per un momento, poi crollò sulla sedia e affondò il volto tra le mani. «Dunque conosceva Claire Dearborne» disse Chance implacabile. Adam levò la testa. «Lei non sa... non può capire. Avevamo bisogno di lei, un bisogno disperato...» «Di chi parla?» «Fu un'idea di Griffen, un suo progetto. Ma tutti ci dichiarammo d'accordo. Anche Dorothy e io. Capisce, avevamo davvero bisogno di lei.» «Ma di che cosa diavolo parla?» esclamò Chance sempre più confuso. «In che cosa consisteva il progetto di Griffen?» Adam lo fissò con gli occhi spiritati, come lucidi di febbre. «Vede, Madeline ce l'aveva portata via... ma lei aveva il dono, io lo avevo capito fin da quando Grace aveva solo cinque anni. E noi dovevamo riaverla, capisce? Stava andando tutto in rovina, quello era l'unico modo...» «No, accidenti, non capisco. Chi diavolo era Claire per Griffen?» «Era la sua matrigna.»

«La matrigna?» Chance emise un suono strozzato. «Ma allora... questo significa che Skye e Griffen sono...» Non finì la frase, ma le parole non dette restarono sospese nell'aria. Skye e Griffen erano fratelli! Adesso Chance capiva perché vederli insieme gli era sempre sembrato sbagliato, brutto, stridente. Adesso capiva la loro incredibile somiglianza e la vedeva sotto una luce sinistra. «Figlio di puttana!» urlò afferrando Adam per il bavero. «Lei sapeva, e non ha fatto niente per fermare Griffen. E Skye è sua nipote, Dio santo... come ha potuto?» «McCord, lei non capisce. Griffen è tutto ciò che mi è rimasto, ho dovuto dargli retta. Sarebbe tornato tutto come prima, due fratelli alla guida dell'azienda. Solo che Dorothy...» Il vecchio si interruppe con un singhiozzo, e Chance lo scrollò. «Che c'entra Dorothy?» «Era troppo debole. Si era affezionata a Skye e si lasciava influenzare dai sentimenti personali... Ma anche se avessi saputo, non avrei più potuto fermarlo. Griffen era deciso...» Chance lo guardò inorridito. «Sta dicendo che Griffen ha ucciso Dorothy?» «Non faceva parte del progetto!» gridò Adam disperato. «Io non gli avrei mai permesso di farle del male, era mia sorella, una Monarch... ma non ho potuto far niente!» «E anche la morte di Claire faceva parte del progetto?» chiese Chance scrollandolo violentemente. Il vecchio ricadde sulla sedia con le guance rigate di lacrime. «Di questo non so niente... niente, lo giuro! Io sapevo che in Griffen c'era qualcosa che non andava, ma non pensavo che potesse arrivare a... E poi, quando lo seppi, non potei intervenire perché era troppo tardi, ed ero spaventato...» Chance lo guardò disgustato. «Dove sono, Adam? Skye è in pericolo, lo capisce? Dobbiamo trovarli!» «Griffen l'ama troppo, non le farebbe mai del male, ne sono certo.»

«Mi stia a sentire, vecchio pazzo. Griffen mi ha detto tempo fa che se lui non avesse potuto avere Skye non l'avrebbe avuta nessun altro, e io sono certo che parlasse sul serio. Ha già ucciso due persone per tacitarle, ma sa che questo volta lo prenderanno. E sa che allora, per lui Skye sarà perduta per sempre. Mi dica dove l'ha portata. Devo salvarla.» Adam si ò le mani tremanti sugli occhi. «L'ha portata nella nostra casa sul lago, a Horizon's End. È nel Wisconsin. Chieda la strada alla governante.» «Lei chiami la polizia e racconti tutto» disse Chance dalla soglia. «Io vado a riprendermi Skye.»

35

La neve caduta di recente ammantava il panorama di una coltre candida, che scintillava nella luce irreale della luna piena. Horizon's End era deserta, tutte le case ermeticamente chiuse. «Ma non vive nessuno, qui?» domandò Skye rabbrividendo. Griffen non le rispose. Era come se non sapesse nemmeno di averla al fianco. Teneva le dita strette sul volante, con lo sguardo fisso, e da almeno mezz'ora non le rivolgeva la parola. Nella prima metà del viaggio era ato da una logorrea frenetica, quasi febbrile, ad abissi di cupo silenzio simile a quello. Adesso Skye capiva che cosa aveva inteso dire Chance quando lo aveva descritto come uno squilibrato. Griffen non era normale. Ma non le avrebbe mai fatto del male... oppure sì? «Siamo quasi arrivati. Ha funzionato tutto alla perfezione, vero?» Skye lo guardò stupita. Griffen fissava la strada, con un sorrisetto sinistro sul volto. «Come hai detto?» «Ha funzionato tutto come volevamo, per noi due e per la Monarch. Certo, lungo la strada ci sono stati dei piccoli ostacoli che ho dovuto rimuovere, ma me lo aspettavo... Ciò che conta, è che adesso siamo insieme.» Griffen sospirò. «La più difficile è stata Dorothy. Povera Dorothy, era così debole, e io detesto la debolezza... ma le volevo molto bene, e mi è dispiaciuto che sia dovuta andare.» Skye rabbrividì. Che strane parole. Griffen voleva dire che gli dispiaceva che fosse morta, senza dubbio... «Per papà, invece, non mi è dispiaciuto affatto. Anzi, con lui è stato divertente, perché era un tale bastardo... Sono contento che tu non lo abbia conosciuto, non ti sarebbe piaciuto per niente.» Griffen scosse la testa in un gesto affermativo. «Sì. Meritava proprio di morire.» Ormai Skye era terrorizzata. Due morti in famiglia nel giro di pochi mesi,

pensava. E Griffen è coinvolto in entrambe. Lui si girò a sorriderle. «Devo dire che procurarti quell'appartamento è stato un vero colpo di genio» sussurrò con aria compiaciuta. «Perché?» balbettò lei. «Ma perché possiedo l'edificio, sciocchina!» Lei chiuse gli occhi. Dunque non se l'era immaginato. Qualcuno aveva davvero frugato tra le sue cose, spostato le riviste in soggiorno, guardato nei suoi cassetti. Griffen doveva avere una chiave dell'appartamento e quindi anche del cortile. Era stato lui ad avvelenare Moo, e più tardi le aveva telefonato per sapere se ci era riuscito. Che bastardo! Skye strinse i pugni, con una gran voglia di avventarsi su di lui, ma si trattenne. Adesso capiva che sarebbe stato capace di tutto. «Eccoci arrivati» disse lui soddisfatto, svoltando in un vialetto. Le gomme della Porsche scricchiolarono sulla neve intatta. Meno male, pensò Skye. Tra poco Adam l'avrebbe accolta con un abbraccio, Moo si sarebbe avventato su di lei abbaiando di gioia, e quell'incubo sarebbe finito. Solo che Adam non c'era. La casa era fredda e buia, come una bara. Avrebbe dovuto capirlo dal vialetto privo di tracce di pneumatici, pensò Skye. Ma era troppo impegnata a pensare al modo in cui chiedere aiuto ad Adam... Doveva fare molta attenzione, pensò. Se voleva cavarsela non doveva insospettire Griffen. La sua salvezza dipendeva soltanto da lei. «Credevo che Adam ci aspettasse qui» disse nel tono più indifferente che poté trovare. Griffen aprì la porta d'ingresso. «Oh, si sarà fermato da qualche amico. Conosce un mucchio di gente nella zona, sai. Ma tu stai tremando... Vieni, portiamo su le valigie e poi accendiamo un bel fuoco. Ti sentirai subito meglio. E vedrai che Adam sarà qui a momenti.»

Ma dopo un'ora, quando fu chiaro che Adam non stava arrivando, Griffen chiamò la polizia tanto per essere sicuro che non gli fosse successo niente, spiegò, e la casa di Astor Street. Skye era certa che fosse una recita, e che Adam non fosse affatto sul punto di arrivare. Come era certa che non avesse Moo con sé, il che significava che Griffen gli aveva fatto del male. Ma fece finta di credergli, sperando di rabbonirlo. «Vedi, tesoro?» sorrise lui deponendo la cornetta. «A Chicago non c'è, perciò dev'essere ato a salutare degli amici, proprio come ti avevo detto. Va tutto bene.» Skye si avvolse nella coperta e fissò il fuoco senza rispondere. Venire lì era stato un errore, adesso ne era più che sicura. Tutta la storia con Griffen era bizzarra e allarmante: il suo corteggiamento esagerato, i suoi sentimenti per lei, il fatto che sapesse tanti particolari della sua vita... Terri lo aveva capito e aveva cercato di metterla in guardia, ma lei non le aveva dato retta. E ci aveva provato anche Chance... La sua è un'ossessione, Skye. Ha detto che se lui non poteva averti non ti avrebbe avuta nessun altro, e credo che dicesse sul serio. Adesso capiva la ragione dei suoi incubi, delle emicranie, degli assurdi attacchi di panico o di claustrofobia. Anche lei, inconsciamente, sapeva. Ma non aveva voluto accettare quegli avvertimenti. Skye arrotolò l'angolo della coperta. Forse Griffen aveva capito che lei intendeva rompere il fidanzamento, e voleva mettere in atto la sua minaccia... «Tesoro, stai bene?» Lei sussultò ed emise un grido soffocato, poi si impose di comportarsi con naturalezza. «Sono solo un po' stanca... e mi sta venendo una delle mie emicranie.» «Povera piccola. Perché non vai a sdraiarti per un po'? Intanto io preparo qualcosa da mangiare, vuoi?» Lei si sforzò di sorridere. «Grazie, Griffen, credo proprio che lo farò...» Nel corridoio del piano di sopra aveva visto un telefono. Poteva chiamare la polizia, chiedere aiuto. Griffen l'aiutò ad alzarsi, stringendola con fare protettivo. Troppo protettivo. Emanava uno strano odore acre, come di morte. Skye chiuse gli occhi lottando

contro la nausea. «Non potrei vivere senza di te, sai?» sussurrò lui sfiorando le sue labbra con un bacio. Lei strinse i pugni, pregando perché quella tortura finisse presto, perché Griffen non cercasse di baciarla davvero. Quel contatto fuggevole era già più di quanto lei riuscisse a sopportare. La sua preghiera venne esaudita. Griffen la lasciò e lei salì le scale lentamente, contando ogni gradino, con la mente fissa al telefono che avrebbe trovato di sopra. Quando arrivò sul pianerottolo si voltò a guardarlo. Lui era dabbasso e la fissava con uno sguardo stranamente vacuo, come se non la vedesse. Skye si incamminò sforzandosi di non correre. Il telefono era all'estremità del corridoio, e quando lo raggiunse sospirò di sollievo. Si accertò che Griffen non l'avesse seguita, poi sollevò la cornetta con estrema cautela. Il telefono era muto. Skye picchiò sulla forcella, si assicurò che la spina fosse inserita, abbassò e rialzò la cornetta. Niente. Adesso era tutto chiaro. Griffen le aveva mentito a proposito di Adam e Moo, e poi aveva finto di telefonare per tenerla tranquilla. L'aveva portata fin lì per ucciderla. Doveva fuggire al più presto. Lasciò cadere la cornetta e corse nella camera in cui avevano portato le valigie, chiudendo la porta a chiave. Doveva riflettere, trovare una via di fuga. Andò alla finestra, l'aprì. Poco sotto c'era una tettoia su cui poteva saltare, poi avrebbe fatto un altro salto fino a terra. La neve avrebbe attutito la sua caduta. Poteva farcela. Il suo sguardo cadde sui cappotti gettati sul letto. Ma certo, le chiavi della Porsche! Se fosse potuta fuggire in macchina, Griffen non l'avrebbe ripresa tanto facilmente. Frugò nelle tasche del cappotto di lui, non trovò nulla, e allora spostò la scatola che conteneva i guanti, ancora chiusa, e ò alla valigia. Cercò tra le cose di Griffen, sperando di trovare una chiave di scorta, ma inutilmente. Sarebbe dovuta fuggire a piedi. Se ce l'avesse fatta, prima che lui notasse la sua assenza sarebbe potuta arrivare da qualche parte e chiedere aiuto. Benché Horizon's End le fosse apparsa deserta, aveva visto un bar e una stazione di servizio. Qualcuno l'avrebbe aiutata.

Aprì in fretta la sua valigia. Per fortuna Griffen ci aveva messo dei capi pesanti: pantaloni di lana, un paio di calzettoni, un maglione a collo alto e il suo vecchio cardigan a coste. Avrebbe indossato tutto quanto, a strati. Le sarebbe bastato. D'improvviso sentì scricchiolare le assi del pavimento, in corridoio. Guardò la lama di luce sotto la porta, e vide un'ombra che la traversava e si fermava. Skye si gelò. Griffen era lì, dietro la porta. Lo sentiva respirare. Si portò una mano alla bocca per non urlare. arono alcuni minuti che le parvero ore, poi lui se ne andò in silenzio com'era venuto. Skye rimase immobile per un poco, poi andò in punta di piedi alla porta e vi incollò l'orecchio. Da sotto veniva della musica e un suono di stoviglie. Rassicurata, si tolse il tailleur che aveva indossato in ufficio e mise i pantaloni, i due pullover, i calzettoni e il paio di scarpe da ginnastica che Griffen aveva messo in valigia. Non erano molto calde, ma se non altro avrebbe potuto correre. Che cos'altro le occorreva? Ah, i guanti. Meno male che erano arrivati. Skye aprì il pacco e sollevò il coperchio della scatola. All'interno non c'erano i guanti, ma una strana collana con un grosso pendente. Lo esaminò, domandandosi chi lo avesse mandato. Sembrava un cofanetto, e doveva contenere qualcosa perché era piuttosto pesante. Skye trovò la molla che lo chiudeva, la fece scattare, e una cascata di gemme rotolò sul palmo della sua mano. Diamanti, rubini, zaffiri. Stava seduta sul pavimento della nursery, mentre la mamma faceva le valigie. La mamma era preoccupata per qualcosa, anche se cercava di non farlo vedere. Stavano per partire, loro due sole. La mamma diceva che si sarebbero tanto divertite. Ma lei si annoiava... Scivolò fino alla valigia della mamma, l'aprì. Dentro c'era un bel sacchetto di velluto, con la M della Monarch stampata sopra. Lei l'aprì, e ne uscirono delle belle pietre tutte colorate come quelle che il nonno le aveva mostrato un giorno in negozio. «Guarda, mammina, che bei sassi!» La mamma si girò di scatto. «No! Non toccare!» gridò strappandole di mano il sacchetto. Le pietre rotolarono a terra...

Skye si portò le mani alla bocca. Adesso ricordava tutto, con estrema chiarezza. Le sembrava che la scena si svolgesse sotto i suoi occhi in quel momento. Il nonno fece irruzione nella nursery, e lui e la mamma cominciarono a lottare urlando. Lei era spaventata e si tappava le orecchie con le manine, ma le grida si sentivano anche così... Il nonno colpì la mamma e la mandò a terra. Lei avrebbe voluto correre ad aiutarla, ma il nonno la prese in braccio e cercò di portarla via. «Mamma!» urlò lei. «Voglio la mia mamma!» La mamma si gettò sul nonno, e lei cadde a terra. Poco dopo c'era del sangue dappertutto, anche sul suo scamiciato, e l'angelo guardava la scena continuando a sorridere... Skye si lasciò sfuggire un gemito di orrore. L'angelo. La casa di Astor Street. La farfalla che si tramutava in una M, la M simbolo della Monarch! Come aveva potuto non capire? Il suo subconscio aveva sempre cercato di metterla in guardia, con diversi mezzi. Le emicranie, gli attacchi di panico, la claustrofobia, e la sua reazione all'amplesso di Griffen. Griffen, Dio santo. Griffen! Era suo fratello! Il mostruoso rapace dei suoi incubi, l'orrore che la sua mente non sopportava di evocare chiaramente, era suo fratello! Adesso Skye ricordava. Non era mai stata al sicuro, nemmeno da bambina. Lui l'aveva seguita, tormentata, perseguitata. A volte lei si svegliava di notte e se lo trovava davanti, che la fissava. O peggio ancora, nel lettino accanto a lei. Rabbrividendo, Skye ricordò un altro episodio traumatico. Griffen la chiamò dicendo che aveva il suo gattino, e che non glielo avrebbe restituito se lei non fosse andata con lui nell'angolo buio del giardino, dove la mamma le aveva proibito di andare. Là, chiuso in una scatola di cartone, c'era il suo gattino. Lei lo sentì miagolare disperato e stava per liberarlo, ma Griffen vibrò un tremendo colpo sulla scatola con la mazza da baseball, e poi un altro e un altro, e quando lei si mise a urlare la scosse con violenza e le disse di non parlarne con nessuno se non voleva fare la stessa fine. Skye singhiozzò disperata. Non voleva ricordare. Avrebbe preferito dimenticare tutto, richiudere la porta che si era aperta nella sua memoria dopo vent'anni. Ma ormai, la stura dei ricordi era inarrestabile come le sue lacrime. Griffen giaceva sopra di lei e le tappava la bocca con una mano per impedirle di gridare. Lei si divincolò come poteva, ma lui era molto più forte e rideva, e le

disse che apparteneva a lui, a lui solo, e che perciò poteva fare di lei ciò che voleva. Poi le insinuò una mano sotto il vestito, scostò le mutandine, e quando lei si mise a piangere sbarrando gli occhi infilò un dito là, dentro di lei, facendole male, tanto male... Skye gemette ripiegandosi su se stessa, sconvolta. Come aveva potuto farle una cosa così orribile? Lei era una bambina, e lui era suo fratello! Ecco perché sua madre l'aveva portata via. Per difenderla da quel mostro! Ma lui l'aveva rintracciata, chissà come, e le aveva teso una trappola raffinatissima. Lei c'era cascata in pieno... E Adam, e Dorothy, sapevano anche loro? Skye si premette il pugno sulla bocca per non singhiozzare troppo forte. Ricordò gli sguardi che Griffen e Adam si erano scambiati in più di un'occasione, le frasi con cui l'avevano accolta, l'insolito calore del loro atteggiamento. Benvenuta a casa. Adesso fai parte della famiglia, non ti lasceremo più andar via... Tu hai il dono, è giusto che tu prenda il posto di Dorothy... La direzione dell'azienda è sempre stata in mano a una coppia di fratello e sorella. Fratello e sorella... Buon Dio, allora erano tutti e tre d'accordo... tutti e tre malati, ossessionati dal destino della Monarch! Doveva sfuggire a Griffen, pensò. E doveva farlo subito, prima che lui salisse di nuovo. Infilò il cappotto, si avvolse la sciarpa di lana intorno alla testa, poi aprì la finestra. Oltre la tettoia e il prato sottostante, si vedeva un lago ghiacciato. Da entrambi i lati c'era un bosco piuttosto fitto, ma se lei si fosse diretta verso destra sarebbe arrivata facilmente in città... e la luna le avrebbe illuminato il cammino. Scavalcò il davanzale, e proprio in quel momento sentì una chiave entrare nella serratura. La chiave all'interno, quella che lei aveva usato per chiudersi dentro, cadde a terra, e la porta si aprì. Skye saltò.

36

Skye atterrò sulla tettoia, ma non riuscì a mantenere l'equilibrio. Scivolò giù, cercando invano un appiglio, poi cacciò il piede nella grondaia e si fermò, almeno per il momento, cercando di assumere una posizione rannicchiata che l'aiutasse a saltare fino a terra senza rompersi qualche osso. Sopra di lei, Griffen si affacciò alla finestra ridendo. Una risata lugubre, demente. «Vai da qualche parte, amor mio? Non credo proprio!» Lei lottò per liberare il piede, che era infilato di traverso nella grondaia. Una fitta di dolore le salì dalla caviglia. «Non puoi sfuggirmi, Grace. Tanto vale che ti rassegni. Oops! Be', ormai l'ho detto. Tu non sei Skye Dearborne, ma Grace Elizabeth Monarch. Vedi, è proprio il destino... tu sei lì che cerchi di liberarti, ma sei incastrata e non puoi più sfuggirmi. Il destino non si può contrastare. Tua madre ci ha provato, povera idiota, ma come vedi non ci è riuscita.» «Che cosa vuoi da me?» esclamò lei cercando di nascondergli il terrore che provava. «Voglio che stiamo insieme per sempre. Lo vuoi anche tu, no?» «Va' all'inferno. Non ti vorrei nemmeno se tu fossi l'ultimo uomo sulla terra.» Griffen rise. «In un certo senso io sono l'ultimo uomo sulla terra, almeno per te. Non potrai mai più conoscerne altri. E tra l'altro, non mi è affatto piaciuto che tu ti sia abbassata a una schifosa nullità come quel McCord.» «Tu non vali nemmeno la metà di lui» sibilò Skye. Forse, se lo esasperava, si sarebbe distratto e lei avrebbe potuto approfittarne. «Sei solo un piccolo verme viscido. Chance è meglio di te in tutto, specialmente a letto!» La faccia di lui si contorse per la collera. «Lo amo» continuò Skye. «E niente cambierà il mio amore per lui.»

Griffen digrignò i denti, poi ridacchiò. «So che cosa stai cercando di fare, tesorino, ma non funzionerà. Non mi arrabbierò tanto da distrarmi. Dovresti saperlo, anche se mi arrabbio trovo sempre una soluzione. Guarda come me la sono cavata bene con Terri...» «Dunque sei tu il bastardo che le ha mandato quel topo morto!» «Naturalmente. E ho anche lasciato quel delizioso messaggio per la piccola Raye. Non potevo permettere che tu ti affezionassi a quella donna e alla sua maledetta bambina, trascurando me.» «E adesso che cosa farai per tenermi con te?» disse lei con pesante sarcasmo. «Mi ucciderai a bastonate con una mazza da baseball, come facesti con il mio gattino?» «Vedo che hai recuperato la memoria, Grace cara.» «Sì, quanto basta per rendermi conto che sei un verme schifoso.» «Bene. Così capirai ancora meglio che noi due siamo destinati ad essere uniti per sempre... anche nel riposo eterno.» Uniti nel riposo eterno... Aveva davvero intenzione di ucciderla! Con uno strattone, Skye liberò finalmente il piede. Il dolore che saettò lungo la gamba era atroce, ma lei strinse i denti e saltò. La neve attutì in parte la sua caduta, ma l'impatto con il terreno le tolse il respiro per un momento. Skye si rimise in piedi e cominciò a correre, benché la neve alta le intralciasse i movimenti. Dietro di sé udì il suono di una porta che sbatteva, poi dei i sul portico. «Grace, perché sprechi tanto tempo e tante energie? Non puoi andare da nessuna parte, la casa più vicina è a due miglia da qui ed è chiusa per l'inverno!» Lei azzardò uno sguardo indietro. Griffen era ancora lontano, ma stava guadagnando terreno, e intanto blaterava come un folle. «E pensare che se ti ho ritrovata lo devo a Chance... Quando ho visto il suo biglietto da visita ho riconosciuto subito il nome. L'avevo letto sul rapporto di un investigatore privato, uno dei tanti che avevano cercato di rintracciarti. Allora l'ho assunto, ho finto di essergli amico, e lui a poco a poco mi ha parlato del suo ato... Così

sono arrivato fino a te. Sono stato bravo, no?» Skye si tuffò nel bosco. Lì la neve non era così alta, ma il terreno era coperto di tronchi caduti e il cammino era altrettanto difficoltoso. Dietro di lei, Griffen accese una pila. «Grace... Grace, dove sei? Non fare così... Non trattarmi male, dopo tutto quello che ho fatto per te... lo sai che ti amo!» Skye si addossò a un grosso tronco e guardò dietro di sé. Nel bosco i suoni si distorcevano, e lei non capiva più di dove provenisse la voce di lui. «Vuoi un esempio dei sacrifici che ho fatto per te?» continuò lui. «Prendi Dorothy. Le volevo bene, era mia zia, ma l'ho uccisa perché non voleva che stessimo insieme... E la piccola Stephanie, quella che credevano potesse sostituirti...» Griffen si fermò, e Skye vide il fascio di luce della pila che spazzava gli alberi intorno. «Mi occupai io di lei, per amor tuo. Come potevano dire che aveva il dono, quando io sapevo che eri tu ad averlo?» Skye soffocò un gemito. La bambina annegata nel bagno... dunque non era stato un incidente! «Ma la gente non vuol capire, continua a fare pasticci» riprese lui in tono disgustato. «Tua madre, per esempio. Ha cercato di nuovo di rovinare tutto... È venuta in città, ha saputo di noi due e ti ha telefonato in ufficio...» Griffen ridacchiò. «Ma invece ha trovato me!» Sua madre a Chicago? pensò Skye piena di gioia. Ma certo, le gemme... gliele aveva mandate lei! «Purtroppo ho dovuto eliminarla. Le ho spezzato il collo. Non è stato difficile.» «No!» gridò Skye suo malgrado. «Bastardo! Ti odio!» Poi riprese a correre tra gli alberi, singhiozzando, finché le parve che i polmoni stessero per esplodere e il cuore le scoppiasse nel petto, e allora si fermò di nuovo dietro un tronco. Un rametto scricchiolò poco lontano. Griffen era molto più vicino di quanto pensasse... Skye si guardò intorno alla ricerca di un'arma qualsiasi, e vide un grosso ramo caduto. Si chinò con la maggior cautela possibile, lo prese e lo tenne sollevato sopra la testa, con le braccia che tremavano per lo sforzo. Griffen ò accanto al suo nascondiglio, e lei vibrò il ramo con tutte le sue

forze, colpendolo sul petto. «Questo è per quello che hai fatto a mia madre, bastardo!» urlò. Poi sollevò il ramo e lo colpì di nuovo, questa volta alla tempia. «E questo è per ciò che hai fatto a me!» La testa di Griffen scattò all'indietro e lui cadde, con un'espressione stupefatta sul volto. Skye gli gettò addosso il ramo e riprese a correre. Gli alberi si diradarono all'improvviso e lei vide la distesa ghiacciata del lago. Dietro di lei, Griffen si stava rialzando. Non le restava altra scelta, doveva traversare il lago. Sull'altra riva si vedevano delle luci, forse là avrebbe trovato aiuto. Fece un primo o sulla superficie ghiacciata, trattenendo il respiro. Le scarpe di gomma non fornivano molto appiglio, e sotto lo strato di neve il ghiaccio era piuttosto scivoloso, ma Skye continuò a procedere cercando di andare il più in fretta possibile. Ma Griffen era più veloce e aveva il vantaggio degli stivali da neve. Ad un certo punto Skye si rese conto che l'avrebbe raggiunta, e che era inutile sperare di mettersi in salvo sull'altra riva. Era ormai esausta, gelata e scoraggiata, e aveva una gran voglia di piangere, ma si impose di non cedere. Fece appello a tutte le forze che le restavano e cambiò direzione puntando di nuovo verso la casa e verso il molo che sporgeva sul lago come un lungo dito nero. Diede un'ultima occhiata alle luci sull'altra riva, cercando di memorizzare la loro posizione perché le sarebbe potuto servire più tardi. E in quel momento le parve di sentire una voce che gridava il suo nome. Si fermò ad ascoltare, e la voce gridò di nuovo. Chance. Era Chance, era venuto a cercarla! Subito dopo udì anche un latrato e capì che Moo era salvo. «Chance!» gridò singhiozzando di sollievo. «Sono qui!» Aguzzò la vista e lo vide in piedi sul portico, e allora agitò le braccia e gridò di nuovo: «Sono qui, sul lago!». Chance la vide e si mise a correre verso il molo, seguito da Moo. «Non ti avrà!» ruggì Griffen arrivandole alle spalle. Balzò su di lei, ma aveva calcolato male la distanza e cadde rovinosamente sul ghiaccio, riuscendo soltanto a sfiorarle la caviglia. Skye si gettò in avanti con un grido. Il ghiaccio cominciò a scricchiolare, e Skye vide con orrore che si stava

screpolando sotto i suoi piedi. «Chance, il ghiaccio si sta rompendo!» gridò terrorizzata. «Continua a venire verso di me» disse lui. «Prometto che ti prenderò.» Skye si mise a correre come poteva, scavalcando le crepe. Ormai intravvedeva l'acqua tra un lastrone e l'altro. «Coraggio, ce l'hai quasi fatta» la incitava Chance. «Ecco, manca poco... coraggio!» Il ghiaccio cedette sotto i suoi piedi e lei cadde in acqua. Il freddo la paralizzò. L'acqua gelida intrise gli abiti raddoppiando il loro peso, e lei si sentì andare a fondo. Per un attimo fu tentata di rinunciare a lottare. A che serviva? Non aveva più speranze, ed era così stanca... Poi pensò a Chance e scalciò per tornare in superficie. Si aggrappò ad un lastrone di ghiaccio per tirarsi su, ma ogni volta che le sembrava di esserci riuscita il ghiaccio si spezzava e lei ricadeva in acqua. Dietro di sé sentiva Griffen, anche lui in acqua, che scalciava e si agitava. No, non si sarebbe fatta prendere! Chance si sporgeva sul lago, tenendosi ad un piolo della scala con un braccio e tendendo l'altro verso di lei. «Coraggio, piccola. Prendi la mia mano!» Lei gli sfiorò le dita, poi scivolò di nuovo sott'acqua con un grido. Risalì con uno sforzo immane, toccò di nuovo la mano di Chance, lui l'afferrò con forza e cominciò a tirarla verso di sé. E in quel momento una mano si chiuse sulla sua caviglia. Griffen. Non stava cercando di salvarsi attaccandosi a lei... no, voleva trascinarla in acqua di nuovo. Voleva che morisse con lui! Sott'acqua, Griffen le sorrise con un ghigno diabolico. Avrebbe vinto, pensò Skye. L'avrebbe tenuta con sé per sempre... Qualcosa in lei si ribellò. Skye piegò l'altra gamba e gli diede un violento calcio sul mento. La mano di lui mollò la presa sulla caviglia, e Griffen affondò lentamente con un'espressione di stupore dipinta sul volto, mentre l'ultimo ossigeno sfuggiva dai suoi polmoni e gli usciva dalla bocca in una miriade di bollicine.

Ben sapendo che quella era la sua ultima possibilità, Skye cercò di nuovo di risalire. La sua testa affiorò, e lei aspirò grandi boccate d'aria. Chance si protese ancora di più sull'acqua, l'afferrò alla vita e la tirò su, sul molo. Poi entrambi caddero a terra abbracciati, ansimando per lo sforzo. «Quando ho capito che rischiavo di perderti mi sono sentito morire» disse lui togliendole il cappotto bagnato e avvolgendola nel proprio. «Ero così spaventata... Credevo che non ti avrei mai più rivisto!» Chance l'abbracciò di nuovo, carezzandola dappertutto come per sincerarsi che fosse tutta intera. «Non succederà mai» esclamò con un bacio. «Mai. Ti amo troppo.» Skye rabbrividì. «Tienimi stretta, Chance. Tienimi stretta e non lasciarmi...» «Non ti lascerò mai più, amore mio. Capisci? Mai più.»

37

Skye si svegliò tra le braccia di Chance. Il sole aveva disperso l'incubo della notte, ma il ricordo di quelle ore terribili non sarebbe svanito altrettanto presto. La sera prima, poco dopo il salvataggio di Skye, era arrivata la polizia messa sull'avviso da Adam. I poliziotti le avevano fatto un mucchio di domande, e Chance era rimasto al suo fianco cercando di aiutarla e decretando infine che era troppo provata per rispondere ancora. Poi le aveva preparato una minestra calda, l'aveva messa a letto e si era sdraiato al suo fianco, tenendola stretta finché il freddo non era ato e lei non si era addormentata. Skye sospirò beata accoccolandosi contro di lui. Griffen aveva parlato di anime gemelle: ebbene, se una cosa simile esisteva, Chance era la sua anima gemella. Non avrebbe più preteso l'amore perfetto e imperituro. Avrebbe preso ciò che la vita le offriva. Accanto a lui, sarebbe stata comunque felice. Lo baciò lievemente sulle labbra, poi scivolò fuori del letto e andò nell'altra camera. La strana collana con il pendente colmo di gemme era ancora lì, e nella scatola Skye trovò la lettera che la sera prima le era sfuggita. Sedette sul letto e la lesse; e Chance la trovò così, con la lettera in mano e le guance rigate di lacrime. «Mi amava davvero» sussurrò Skye tra le braccia di lui. «Non mi aveva abbandonata. Se n'era andata per salvarmi!» Pianse a lungo, per tutto ciò che aveva perduto, per la nostalgia di una madre che non aveva potuto avere vicina, per le terribili avventure che aveva corso. Ma sapeva che alla fine il dolore sarebbe svanito, addolcito dal tempo, e che le sarebbe rimasto il ricordo di un amore materno più forte della morte stessa. Adesso, avrebbe smesso di desiderare cose impossibili. Aveva Chance, e il miracolo del suo amore era più che sufficiente. Indossò la collana, poi fece la valigia. Era ansiosa di lasciarsi alle spalle quella casa e il ricordo di Griffen e degli ultimi mesi. Voleva pensare soltanto al futuro

e non voleva avere più niente a che fare con i Monarch e con tutto ciò che rappresentavano. «Sei certa di voler rinunciare a tutto?» domandò Chance quando seppe le sue intenzioni. «Sei una Monarch, e in quanto tale possiedi una fortuna. Forse è questo il tuo destino...» Skye portò la mano al talismano colmo di gemme. «Queste sono il mio destino e la mia fortuna» sorrise. «Queste... e te.» E senza più voltarsi uscì sul portico e si richiuse la porta alle spalle.