CORSO DI SPECIALIZZAZIONE IN CONSERVAZIONE DEL PATRIMONIO ARCHITETTONICO E PAESAGGISTICO
MODULO: CENNI DI TEORIA E STORIA DEL RESTAURO docente: arch. Aldo Giorgio Pezzi
Restauro: concetti base Il complesso di attività che noi oggi chiamiamo restauro ha subito nel tempo delle notevoli variazioni, che occorre tenere presente ogni volta che pensiamo ad un nostro rapporto con le epoche ate. Il termine ‘monumento’, ad esempio, deriva dal verbo latino monēre, che significa ammonire, ricordare; dunque il monumento ricorda un personaggio o un evento di qualsiasi tipo. Da questo significato di partenza si arriva, nel tempo, ad idee sul termine più varie e comprensive di altri aspetti, fino a giungere al concetto di bene culturale. Oggi, per restaurare una chiesa, nessuno penserebbe di demolirla e ricostruirne un’altra sullo stesso luogo in forme moderne. Proprio questo, invece, è successo nel Cinquecento, per opera di Giulio II e di Bramante, alla basilica di San Pietro, che era stata fondata in età costantiniana sulla tomba dell’apostolo Pietro: l’operazione di sostituzione dell’antica basilica paleocristiana con la nuova chiesa rinascimentale, all’epoca, era recepita come un restauro: in quel caso, restaurare significava conservare il significato, ma non la materia e la forma del vecchio edificio, e anzi si riteneva che quel significato fosse meglio manifestato da un nuovo edificio eretto secondo i canoni rinascimentali. Si pensi che invece, in molti cantieri di restauro attuali, si cerca di conservare non solo la forma, ma anche la materia e persino le forme di degrado, perché anche queste testimonierebbero del aggio del tempo sull’opera, veicolando quindi, anch’esse, un significato. Dunque si restaura secondo il valore che attribuiamo alle opere del ato; e quindi si opera secondo una precisa idea di storia; vedremo infatti che il restauro è fortemente condizionato dai modelli storiografici tipici di un’epoca. In sostanza, possiamo dire che così come si fa la storia, allo stesso modo si realizza il restauro. La pratica del restauro prima dell’Ottocento: momenti e interventi significativi Importante è l’idea di tempo: affinché esista il restauro deve esistere un ato che ci abbia lasciato delle tracce, che è nostro interesse trasmettere o meno al futuro. Naturalmente per operare in tal modo devono essere ben chiari e distinti i concetti di ato, presente e futuro, che invece non sono sempre stati così ovviamente condivisi come noi oggi crediamo. La nostra concezione del tempo, quella del mondo occidentale, cristiano e industrializzato, legato appunto all’idea di progresso, può essere rappresentato secondo un vettore, cioè una linea orientata, che procede da un inizio e va verso un futuro, in modo che ogni fase della nostra storia ha “superato” le fasi precedenti ed è a sua volta “superato” dalle età successive. E’ in parole povere l’idea di progresso che la nostra cultura ha sviluppato sulla base dell’insegnamento cristiano: la figura del Cristo inaugura con la sua venuta una nuova era che si concluderà con la fine del mondo e il giudizio finale. Non tutte le culture sono però legate a tale concezione. Secondo un’altra visione del tempo, che potremmo rappresentare metaforicamente secondo una spirale, il tempo scorre come un fluido indistinto in cui ato e presente non appaiono nettamente separati fra loro, ma possono addirittura sovrapporsi e confondersi. E’ una visione del tempo che si manifesta in tante religioni e filosofie orientali, e che non era estranea nemmeno al mondo antico occidentale, sia nella Grecia antica che nella civiltà romana: il Partenone, ad esempio, nella sua forma attuale, è stato ricostruito dopo l’invasione persiana (che ha portato alla distruzione dell’acropoli di Atene) con un’operazione di completa demolizione dell’antico edificio e di ricostruzione, sullo stesso luogo, di un nuovo tempio. In Giappone, esistono alcuni templi buddisti fatti in legno che, ad intervalli regolari, vengono restaurati smontandoli e ricostruendoli sullo stesso luogo, rispettando perfettamente la forma e gli incastri del tempio originario. E’ così che la materia di questi edifici appare sempre nuova ma, nella spiritualità dei giapponesi, i templi rimangono sempre gli stessi.
Un atteggiamento simile si avverte nella cultura romana arcaica, quando i concetti di antico e nuovo continuano a rimanere sfumati, come sfumato rimane il concetto di originale. La storia delle origini di Roma è legata ad un evento miracoloso che, secondo il re Numa Pompilio, era segno della protezione accordata agli dei alla città: la caduta di uno scudo di bronzo dal cielo, simbolo della benevolenza di Marte verso Roma. Per evitare che questo prezioso pegno celeste potesse essere trafugato, Numa chiese ad un artista osco di nome Mamurio Veturio, il primo artista di cui sia fatto il nome nella storia di Roma, di copiare lo scudo in altri undici esemplari e di custodirli in un tempio, da cui venivano tratti da una particolare casta di sacerdoti durante una particolare cerimonia; in tal modo, l’eventuale ladro o nemico che fosse riuscito a raggiungerli, non potendo prenderli tutti con sé, sarebbe stato vanificato nel suo intento. Questo fatto remoto, tanto più interessante per la sua sacralità e antichità, dimostra come nella produzione artistica romana il concetto di copia non è di per sé negativo, ma anzi quasi si sostituisce all’originale, fino a sovrapporsi ad essa. Il rapporto di indistinguibilità tra ato e presente, tra antico e nuovo, sembra pervadere tutto il mondo antico. Non è quindi possibile parlare di restauro in senso moderno, ma questo non significa, naturalmente, che nell’antichità non si sia riparato o ricostruito; tutto ciò avveniva aggiungendo all’edificio da restaurare materiali e forme nuove fino alla completa ricostruzione. Se si dovesse datare il Pantheon sulla base dell’iscrizione che compare nel fregio del pronao, si farebbe risalire al terzo anno del consolato di Agrippa, cioè alla fine del I secolo a.C., ma così si cadrebbe in errore poiché lo studio della costruzione e il rinvenimento dei bolli doliari, cioè i marchi apposti sui mattoni durante la loro fabbricazione, hanno dimostrato che fu ricostruito sotto Adriano, e quindi nella prima metà del II secolo d.C. L’imperatore filelleno, uomo di grande cultura e custode delle tradizioni della Roma antica, ha rispettato il significato del primo Pantheon, costruito da Agrippa, riportandone l’iscrizione sulla sua ricostruzione, quasi nascondendo la propria modernità per mantenere la sacralità del tempio. Tale concezione cambia con l'avvento del cristianesimo che appunto introduce una concezione di tipo vettoriale del tempo e degli avvenimenti. Già l’avvento di Cristo divide la storia occidentale in un prima e un dopo: le dimensioni temporali che il paganesimo poteva confondere sono ormai distinte. Con la nascita di Cristo inizia la storia della salvezza umana, volta al continuo miglioramento dell’uomo in attesa del Giudizio Finale; il cristianesimo, come altre religioni, contempla infatti la fine del mondo, mentre in altre culture tale concetto è assente. L'avvento del cristianesimo porta ad una serie di grandi mutazioni: gran parte della cultura antica, ispirata dal paganesimo, viene gradatamente abbandonata, con forti sconvolgimenti sia sul piano delle convinzioni personali, sia nella stabilità delle istituzioni pubbliche. Gli antichi dei, gli antichi templi, le filosofie che reggevano il mondo antico vengono destituiti di fondamento. La distruzione degli idoli pagani – non va dimenticata la radice anti-idolatrica, iconoclasta che il cristianesimo eredita dall’ebraismo – e l’abbandono degli antichi templi rendono esplicita la vittoria della nuova fede, ammessa pubblicamente dopo l’editto di Milano del 313 emanato da Costantino e ancor più dopo quello promulgato a Tessalonica dall’imperatore Teodosio, che riconosce il cristianesimo quale religione ufficiale dell’impero. Altro evento fondamentale, che ricordiamo ovviamente per sommi capi, è l’immigrazione di popolazioni estranee al mondo greco-romano, “altre” anche nel nomi di barbari che ad esse fu dato, popoli che portano con sé altri culture diverse, fra cui anche valori figurativi differenti rispetto a quelli della Grecia e della Roma classica, ad esempio estranei alla visione prettamente antropomorfa, né fondati sulla prospettiva così come era stata formulata dal mondo greco. La lenta gestazione di una nuova fase della cultura occidentale, quella che solo per convenzione chiamiamo Medioevo, vede quindi radicali cambiamenti che separano anche in modo doloroso il mondo del ato da quello del presente. Naturalmente non si rigetta il ato nella sua interezza, ma si avvia un lungo processo di selezione di forme e materiali con cui realizzare il mondo nuovo. Gli idoli antichi vengono distrutti, ma molti schemi iconografici vengono caricati di nuovi significati. Per rappresentare Cristo si fa ricorso all’iconografia del giovane guerriero biondo e vittorioso, con lo sguardo rivolto verso l’alto, cioè alla ritrattistica ufficiale di Alessandro Magno. Accanto a questa immagine, prende corpo quella del Cristo sapiente, con lo sguardo grave e la barba, tipica del modo di rappresentare i filosofi. Lo stesso accade in architettura: da molti templi antichi vengono cacciati gli idoli, ma la struttura del tempio viene salvata e consacrata alla nuova religione e ai nuovi santi: lo stesso vale per le colonne e per i capitelli, che vengono prelevati dalle costruzioni pagane per essere impiegati nelle nuove chiese. Ma tale sostituzione riguarda anche le tipologie adottate. Le prime chiese fondate da Costantino dopo l'editto di Milano riprendono la tipologia della basilica, già impiegato dai Romani e prima ancora dai Greci, per realizzare le aule in cui l'amministrazione pubblica esercitava le proprie funzioni. In età romana la basilica viene codificata tipologicamente, definendosi in linea di massima come un'aula sviluppata longitudinalmente a tre o cinque navate di cui la centrale principale, con due terminazioni semicircolari sui lati minori dette chiamavano tribunalia, da tribuna, luogo in cui sedevano i magistrati nelle funzioni pubbliche; l’ingresso avveniva prevalentemente sui
lati lunghi. La tipologia basilicale viene riutilizzata dai cristiani, i quali la adattano ai loro scopi: l’ambiente pagano abbastanza indifferenziato lascia il posto ad uno spazio monodirezionato con l'ingresso alla chiesa sul lato corto (ma vi sono anche chiese basilicali con ingresso sul lato lungo, a testimonianza della forte permanenza del tipo): l'altare viene posizionato in uno dei due tribunalia, che prende il nome di abside; davanti all’ingresso viene spesso posto un quadriportico, già noto nell’architettura romana, con lo scopo di accogliere i catecumeni, cioè coloro che dovevano essere battezzati. Un’altra tipologia che influenza la formazione delle chiese è il circo, la struttura a pianta allungata conclusa su uno dei lati brevi da un semicerchio, ripresa in alcuni esempi come l’importante basilica di S. Sebastiano sulla via Appia. E’ chiaro che in questi casi non possiamo parlare di restauro, operazione che continua ad essere praticata e di cui ci avanzano esempi significativi, come il restauro delle mura Aureliane di Roma compiuto da Onorio, ma sempre nell’accezione più immediata di riparazione, quindi considerando l’edificio da restaurare come un’opera ancora aperta, che può essere continuata con forme e materiali nuovi. Nelle operazioni di riutilizzo di elementi antichi si verificano invece alcuni atteggiamenti interessanti. Nel caricare le forme o i materiali di nuovi significati si inseriscono alcune modifiche nell'elemento utilizzato: come in uno scritto in cui compaiono frasi tra virgolette a significare che provengono da un altro testo, così in architettura, nello schema basilicale, l'edificio viene ruotato di novanta gradi e l'ingresso spostato dal lato lungo al lato corto. La forma permane, ma il modo in cui viene presentata e percepita dallo spettatore segnala l’abbandono delle vecchie funzioni e l’acquisizione di nuove: si cerca cioè di staccare il pezzo o la forma antica dal contesto di appartenenza e di attribuire nuovi significati. Questa modalità è molto frequente in tutto il Medioevo e oltre ed è stata individuata dallo storico dell’arte Erwin Panofsky, che ha parlato appunto di un “principio di disgiunzione” per tentare di spiegare il motivo per cui gli edifici medievali presentavano molti pezzi smontati da edifici antichi. A Roma, le colonne che si trovano all’interno delle basiliche di Santa Maria Maggiore o di Santa Sabina, ad esempio, sono tutte di spoglio e uguali fra loro (rispettivamente, ioniche le prime - l’ordine ionico diviene, per i cristiani, l’ordine della Vergine - corinzie le seconde). Di queste colonne si conserva e si rispetta comunque la funzione originaria, fatto che si spiega con l’abbondanza del materiale di spoglio in una fase iniziale (IV-V secolo) e la possibilità di avere fusti e capitelli dello stesso ordine. La prassi del reimpiego non aveva nella maggior parte dei casi degli esiti così raffinati. Gli edifici venivano demoliti principalmente per ricavarne materiale per le nuove costruzioni, secondo una tendenza che oggi può destare scandalo, perché è per questo che sono andati distrutti gli edifici delle città antiche, ma che in realtà è frequente anche dopo il Medioevo. Questo atteggiamento nei riguardi delle fabbriche antiche si spinge almeno fino al Settecento, quando ancora si incaricano gli operai di procedere alla ‘disfattura’ di un vecchio edificio - non solo di scarsa importanza, ma anche ruderi che noi oggi conserveremmo attentamente - attraverso il recupero, uno ad uno, dei mattoni che lo componevano, ripuliti dalla calce e riutilizzati. Spesso si recuperavano le pietre calcaree, come il marmo o le pietre d’Istria, poiché cotte in appositi forni producevano ottima calce da costruzione: la calcinazione dei monumenti antichi rappresentava la forma più elementare e vandalica, ma forse più frequente, di reimpiego. In qualche altro caso, invece, e soprattutto a partire dall’Alto Medioevo, le colonne vengono riutilizzate in modo diverso; ad esempio, i capitelli sono rovesciati e utilizzati come basi; in qualche caso, le colonne antiche vengono utilizzate allo stato frammentario, come nelle cripte di alcune chiese alto-medievali e romaniche (è anche il caso della nota abbazia di S. Clemente a Casauria vicino Pescara). Dunque, mentre nella prima fase del medio evo, che si definisce di continuità con il ato, i pezzi antichi vengono utilizzati secondo la loro ottica, in una fase più tarda, di distacco dal ato, sono impiegati con una logica diversa, quasi contraria all’originaria. Dopo il Mille, e soprattutto dal Trecento in poi, i frammenti antichi non saranno più manipolati ma accuratamente conservati ed esposti quasi come delle reliquie il cui valore riconosciuto nobilita la nuova costruzione. Stando quindi alle più recenti interpretazioni, ad esempio agli studi di Salvatore Settis, ad una prima fase di continuità con il ato che va sino al VI secolo, seguirebbe un periodo di distacco (VII–X secolo) che in realtà si prolunga fino al XII secolo, ed infine uno di conoscenza e di studio dell’antico (XIII-XIV secolo). In Italia, uno dei luoghi in cui è più frequente la tradizione del reimpiego è Pisa, per la sua vicinanza alla città romana di Luni, dal porto della quale partivano i marmi scavati nelle Alpi Apuane. Pisa, nelle sue costruzioni, riutilizza i marmi di Luni esibendoli come testimonianza della sua discendenza dalla antica e illustre città romana. Il paramento della cattedrale di Pisa è di marmo lunense (presenta anche delle parti fatte con marmo proveniente da Prato), spesso trattato a bassorilievo. Le lastre scolpite vengono utilizzate, quasi esibite, perché l’antichità comincia a diventare un esempio di nobiltà, un’origine dalla quale l’età contemporanea deriva. All’interno della cattedrale, ai capitelli di nuova fattura si affiancano capitelli antichi (in uno di questi compare l’emblema di una legione romana, con le ali d’aquila e i dardi che richiamano Giove). Ormai gli elementi pagani – in questo caso, i capitelli- non sono più visti come oggetti da condannare ma da esporre correttamente, nella loro
funzione originaria. Questo processo di conoscenza dell’antico arriverà al suo culmine con l’umanesimo, attraverso uno studio cosciente e critico dell’antichità. Dunque, nel XIII secolo, l’antichità diventa oggetto di studio: di lì a poco Petrarca e Boccaccio cominceranno a riutilizzare il latino e a studiare i testi antichi; inizierà una nuova fase, che avrà il suo culmine nel Rinascimento, in cui il mondo occidentale riconoscerà pienamente le proprie origini antiche. E' alquanto problematico il rapporto che si instaura tra la nuova sensibilità storica ed artistica inaugurata dal Rinascimento e la conservazione, a vario titolo, dei resti del ato. Quella continuità ambigua, fondata su una certa confusione tra ato classico e presente che abbiamo visto nel Medioevo almeno fino al XIII secolo cessa nel Rinascimento, soprattutto grazie alla nascita del metodo filologico, che rappresenta uno dei fondamenti della cultura occidentale. Attraverso lo strumento della filologia, gli intellettuali del Rinascimento iniziano ad operare una distinzione netta tra la loro epoca e quelle ate e quindi a “staccare” il presente dal ato. L’individuazione di un ato concluso e non più ripetibile permette quindi una visione storica sempre più oggettiva, almeno tendenzialmente. Naturalmente, anche nel Medioevo si scrivevano “storie”, ma sempre in un’ottica compilativa, in cui venivano collazionati dati diversi spesso con interpolazioni fantastiche, che traevano la loro credibilità solo da tradizioni inveterate, non sottoposte a verifica da parte dell’autore. L’incerta visione storiografia medievale scompare in età rinascimentale anche per quanto riguarda la produzione artistica: la prima opera storica che ci informa sugli artisti e sulle tecniche dell’epoca, i Commentarii di Lorenzo Ghiberti, uno dei massimi artefici della fase di avvio del Rinascimento, presenta una concezione dell’arte innovativa, concezione che arriverà al suo vertice con Le Vite di Giorgio Vasari. L’idea che con il Rinascimento nasca la storia è però vera in parte: sarebbe, infatti, più corretto sostenere che nasce la storiografia come ancora oggi è concepita; questa conquista permette di studiare il ato in modo scientifico e di ottenere la consapevolezza stessa del tempo trascorso. Nasce anche un nuovo modo di concepire l’arte, legato all’estetica neo-platonica che concepisce il prodotto artistico come una meta ideale, a cui si giunge non imitando la natura, ma selezionando al suo interno gli aspetti migliori, in vista di una assolutezza formale. L’artista si avvicina a tale meta soprattutto attraverso il disegno, concepito quale principio unificatore delle varie arti proprio perché più aderente all’idea. Gli artisti del Rinascimento guardano alle opere del ato sia con senso storico, cioè con la consapevolezza che si tratta di edifici di una certa epoca costruiti per determinati scopi e non frutto di una generica antichità, ma anche per coglierne principi e tecniche da adoperare, migliorandole se possibile, nella architettura del presente: è noto che Brunelleschi va a studiare le volte e le cupole a Roma per carpirne i principi compositivi e costruttivi. Ciò comporta una minore considerazione verso l’oggetto artistico in sé, poiché una volta che l’artista rinascimentale si è nutrito dell’insegnamento del ato è poi poco interessato alla sua conservazione materiale. Questo atteggiamento è testimoniato dalle molte opere dell’antichità distrutte anche nel Rinascimento: ad esempio, la pratica di usare marmi e travertini antichi di monumenti romani per farne calce per nuove costruzioni è una pratica medioevale che continua ininterrottamente anche nel Rinascimento. Lo strumento principale nello studio filologico dell’antichità classica è soprattutto il rilievo, attraverso il quale molti architetti studiano le opere del ato, non tanto per conservarle ma per progettarne nuove. In questo quadro, la conservazione è attuata nell’ambito della progettazione, come è dimostrato dai molti casi di architetti che intervengono anche su opere reali: è il caso di Leon Battista Alberti, che ha atteggiamenti diversi nei confronti della preesistenza: dal tentativo di nascondere una modesta chiesa medioevale come il S. sco a Rimini nella realizzazione del Tempio Malatestiano, alla ricerca di un dialogo con il ato nel completamento di S. Maria Novella a Firenze, in cui l’architetto fa nascere la propria creazione dai fondamenti di quella gotica. Leon Battista Alberti, di fronte all’incarico di trasformare la medievale S. sco a Rimini, disegna un involucro di marmo che riprende la buon architettura degli antichi – appunto per creare un Tempio Malatestiano - ma nasconde l’esterno della semplice chiesa mendicante. La costruzione era stata concepita per affermare la potenza della casata dei Malatesta. Doveva quindi divenire una sorta di pantheon di famiglia, accogliere cioè le tombe dei Malatesta a partire da Sigismondo e dalla sua consorte. La chiesa precedente viene così rivestita e nascosta senza che se ne seguano le cadenze: le aperture sulle pareti esterne laterali disegnate da Alberti, a ricordare una successione delle arcate degli acquedotti romani, non riprendono affatto il o delle finestre preesistenti, seguendone uno proprio. All’interno, l’intervento si concentra sulla scultura, mentre vengono conservati gli archi a sesto acuto e la copertura a capriata. Il Tempio Malatestiano, rimasto incompiuto, è un esempio emblematico di come, dovendo intervenire su una preesistenza, il progetto imponga una nuova architettura che nasconde completamente quella preesistente, negando così qualsiasi rapporto con la fabbrica medievale.
Nel caso del completamento di S. Maria Novella a Firenze, Alberti sceglie una strada diversa. La chiesa preesistente era di fondazione tardo duecentesca, con la costruzione che come da prassi era cominciata dall’abside - in maniera tale che con la chiusura della cappella maggiore, in corrispondenza dell’altare principale, si potesse celebrare subito messa - per proseguire poi verso la facciata. Accade così che in molti cantieri, protrattisi per secoli, le facciate rimangano incompiute e diventino occasione di intervento per gli architetti dei secoli successivi. In S. Maria Novella, la facciata era stata impostata nel primo ordine, mentre mancava completamente il coronamento superiore. Alberti progetta la parte superiore rispettando la partizione gotica data al prospetto. Se nel caso del Tempio Malatestiano il tentativo è di nascondere la fabbrica antica, qui si assiste alla ricerca di un compromesso tra le forme gotiche ereditate e quelle proprie dell’epoca rinascimentale. Il progetto viene commissionato dai Rucellai per completare la facciata medievale, sulla quale erano state realizzate delle tombe che riprendevano il motivo antico della sepoltura ad arcosolio, ovvero una tomba ricavata all’interno di un arco scavato nella sua parte inferiore, tipica delle prime catacombe. La costruzione del prospetto era stata iniziata nel tipico bicromatismo fiorentino dei paramenti, sul modello del Battistero e di S. Miniato al Monte della stessa città. Nel completamento, Alberti impostò un ordine di paraste concluse da archi a tutto sesto, riprendendo una soluzione che compare sia a S. Miniato sia nello stesso Battistero. Giunto alla quota che segna il portale principale, Alberti inserisce una trabeazione classicamente concepita sorretta da quattro alte colonne: si individuano così un ordine principale che sostiene il fregio ed un ordine secondario che nasce dalle tombe ad arcosolio. Nella parte superiore della facciata, corrispondente alla sola navata centrale, Alberti abbandona qualsiasi riferimento medievale e imposta un prospetto che si può leggere quasi come il fronte di un tempio tetrastilo, con quattro paraste che sorreggono un timpano classico, pur rispettando la tradizionale bicromia fiorentina. Per collegare i due ordini e per coprire gli spioventi che corrispondono alle navate laterali, Alberti inventa un motivo a voluta, una sorta di mensola capovolta, anch’essa di lontana derivazione classica che avrà molta fortuna nell’architettura rinascimentale come elemento di raccordo tra le parti di una facciata. La genesi di questa facciata rappresenta quindi un’operazione di rilettura del ato e di mediazione tra architettura preesistente e nuova. Ma in altri contesti culturali, la presenza della tradizione gotica si fa sentire con forza maggiore, generando così un approccio diverso. Un caso diverso di intervento su preesistenze, quello relativo alla realizzazione del tiburio del duomo di Milano, permette di individuare un ulteriore atteggiamento nei confronti delle architetture del ato, ossia di sostanziale continuità nel restauro tra elementi nuovi ed edificio preesistente. La chiesa, imponente fabbrica fondata nel 1386 a cui concorrono maestranze da tutta Europa, ha un disegno gotico che viene sviluppato anche nei secoli successivi e concluso solo alla fine dell’Ottocento con la realizzazione della facciata. La progettazione del tiburio tiene occupati lungamente molti architetti, fra cui Filarete, nel secondo Quattrocento. L’opera fu conclusa nel 1500 da Giovanni Antonio Amadeo, che scelse di seguire linee assolutamente gotiche, con otto archi rovesci collegati alla guglia maggiore (con la Madonnina) e quattro guglie minori adeguandosi all’impostazione gotica del progetto originario. In questo caso, l’intervento di completamento si adegua alla costruzione preesistente perché risponde ad un principio fondamentale dell’estetica, ossia al concetto di armonia (in latino concinnitas) che impedisce di introdurre elementi diversi in una fabbrica già connotata secondo un certo linguaggio. Un altro architetto attento nel dialogo con la preesistenza sia medievale, sia antica è Baldassarre Peruzzi, che ha un ruolo particolare nel Cinquecento italiano, grazie alla sua cultura e alla sua sensibilità dispiegata nei suoi progetti di nuove costruzioni su preesistenze, che ovviamente non si possono dire veri e propri restauri. I suoi interventi presentano alcune accortezze: ad esempio, nei disegni, la parte rilevata è spesso distinta dalla parte ex novo, in modo da offrire due chiavi di lettura dell’edificio. Peruzzi non rinuncia ad inserire il proprio apporto creativo all’interno della fabbrica antica, come nel progetto per la chiesa di S. Domenico a Siena. L’ultimo ordine del Teatro Marcello a Roma, monumento di età classica a tre ordini di arcate, crolla nel medio evo e viene sostituito da una costruzione, il palazzo Orsini, progettata da Peruzzi disponendo molto liberamente le finestre rispetto alla posizione originaria delle aperture. In altri casi, Peruzzi ha la sensibilità di adattarsi al contesto originario, come nei progetti per la facciata di S. Petronio a Bologna, in cui dissimula il proprio inserto utilizzando il linguaggio gotico.
Per comprendere il rapporto che il Rinascimento instaura col ato, è utile osservare anche gli sviluppi della pittura e della scultura. La gran parte delle sculture presenti nei musei italiani proviene da scavi realizzati proprio a partire dal Cinquecento, ed ha subito un lungo processo di restauro. In genere, quando una statua veniva estratta dal terreno, veniva affidata alle cure di un artigiano, generalmente uno scultore, per essere ripulita perfettamente in ogni sua parte. Gli uomini del Rinascimento non si accontentavano di vedere il marmo della statua così come giungeva dall’antichità, con tutte le sue imperfezioni, le irregolarità e la patina che il tempo deposita sulle superfici: molto spesso, infatti, la statua veniva sottoposta a trattamenti con soluzioni acide che facevano emergere il candore del marmo. Molte statue vengono ritrovate allo stato frammentario, spesso acefale o prive degli arti. Secondo la mentalità odierna, i frammenti vanno assolutamente conservati per quello che sono: per la mentalità cinquecentesca e poi barocca, invece, i frammenti devono essere assolutamente reintegrati, completati nelle parti mancanti. Tutta la vicenda del restauro delle sculture è una storia di aggiunte continue di braccia, di teste, di gambe ai moncherini ritrovati negli scavi. Quindi, anche nella scultura non si può parlare di restauro come di mantenimento dello stato autentico dell’opera, ma di riprogettazione, di completamento sulla base di ipotesi, molto spesso neppure dichiarate come tali. Un caso molto noto è quello rappresentato da una statua ritrovata a Roma nel 1506, acquistata da Giulio II per il Vaticano, e raffigurante Laocoonte, sacerdote troiano che voleva impedire che i troiani portassero all’interno della città il famoso cavallo con il quale i Greci sarebbero entrati a Troia. Durante un sacrificio, Laocoonte e i suoi figli furono aggrediti da due serpenti usciti dal mare; i Troiani interpretarono l’evento come una punizione celeste inflitta al sacerdote, e fecero entrare il cavallo nella città. Questa scena molto drammatica, descritta sia nell’Eneide sia nell’Iliade, viene puntualmente riprodotta nella statua ritrovata, che si presentava però mutila di un braccio. In sintonia con la concezione neo platonica dell’epoca, per restaurarla viene chiamato il più valente artista del momento, Michelangelo Buonarroti – che aveva in effetti restaurato alcune sculture antiche ed era in grado di riprendere il vigoroso chiaroscuro della statuaria classica – il quale però rifiuta di intervenire sul Laocoonte, consapevole del inconciliabilità fra la sua personale “maniera” moderna e la comunicativa della statua antica. Attraverso una serie di vicende diverse, il restauro viene poi affidato a Giovanni Angelo Montorsoli, scultore importante, ma sicuramente di levatura minore rispetto a Michelangelo, di cui fu un seguace. Si noti come nel pieno Cinquecento, per eseguire un restauro ci si affidi ad un artista. Questa consuetudine, presente in scultura come in architettura e pittura, si protrarrà fino al Settecento, e trova spiegazione nella convinzione che solo un artista è in grado di inserirsi nei processi creativi dell’opera antica per restaurarla. Proprio a partire dalla fine del XVIII secolo, questo indirizzo è cambiato: nessuno oggi affiderebbe il restauro di un quadro di Caravaggio ad un esponente della pop art; piuttosto, si interpellerà la Soprintendenza competente o istituzioni come l’I.C.R., l’Istituto Centrale del Restauro o l’Opificio delle Pietre Dure. Ma si noti ancora, fatto ancor più importante, che l’artista chiamato ad effettuare il restauro è un “minore”, comunque dotato di una tempra creativa più spenta; ciò significa che l’attività del restauro obbliga comunque a tener conto di un’espressività preesistente, che quindi limita e danneggia il dispiegarsi di una forte personalità, come era appunto quella di Michelangelo. La datazione del Laocoonte è incerta: le fonti parlano di un gruppo che raffigurerebbe il sacerdote troiano, opera di alcuni scultori della scuola di Rodi, e quindi attribuibile alla tarda fase ellenistica, coincidente con il I-II secolo a.C., ma in realtà la statua trovata potrebbe essere una copia più tarda di epoca romana. Il gruppo scultoreo raffigura Laocoonte con i suoi figli nell’istante in cui il serpente mandato da Atena li sta avvolgendo nelle sue spire. La drammaticità e il pathos tipici della scultura ellenistica dopo Prassitele, emergono soprattutto nel volto del sacerdote, drammaticamente contratto, che guarda disperato verso il cielo. Quando fu trovata, la statua era spezzata in corrispondenza del braccio di Laocoonte; mancavano anche un braccio di uno dei figli ed altre parti dei piedi. Dopo aver studiato un modello di cera, Montorsoli applicò al Laocoonte un braccio di marmo che riprende molto bene la muscolatura della statua. Il nuovo arto tende verso l’alto. Tutta la composizione assume un forte andamento piramidale asimmetrico che esalta la direzione diagonale, accentuata da un’analoga tensione verso l’alto di un braccio del figlio. Troviamo questa insistenza sugli assi diagonali della composizione nella contemporanea cultura figurativa del Manierismo, che esaspero i toni drammatici e la contorsione dei corpi. Quindi il restauro di Montorsoli venne pensato nell’ambito di un preciso orientamento figurativo. Successivamente, qualche critico cominciò ad avanzare delle perplessità nei confronti del nuovo braccio teso verso l’alto. Nell’Ottocento, la statua viene trafugata dai si e portata a Parigi per essere inserita nelle collezioni del museo del Louvre; in questa occasione, gli studiosi si, critici verso la posizione del braccio Montorsoli, lo tolsero. Quando la statua fu riportata ai Musei Vaticani a Roma, il braccio viene ricollocato al suo posto, ma agli inizi del Novecento uno studioso tedesco, Pollack, trovò nei depositi del museo un braccio di marmo, privo peraltro della mano, che aveva tutte le caratteristiche per potersi saldare al corpo del Laocoonte. Il braccio, rimontato con successo sulla statua e che quasi certamente è quello originario, consente una lettura del
tutto diversa della statua: viene a mancare l’andamento verso l’alto secondo la diagonale, mentre aumenta la chiusura della composizione, quasi a voler concentrare il dolore del personaggio; lo sguardo dello spettatore non è ora più guidato verso il cielo, ma verso il volto di Laocoonte, che acquista ancora più importanza. La ricollocazione del braccio ritenuto originario si lega probabilmente meglio alla cultura ellenistica – molto sensibile alla drammatizzazione dei personaggi – della interpretazione manierista data da Montorsoli alla metà del Cinquecento. Contestualmente alla ricollocazione del braccio Pollack, sono state tolte le altre aggiunte cinquecentesche, cosicché i figli di Laocoonte oggi si presentano uno senza l’avambraccio, l’altro senza l’intero braccio destro. Nei Musei Vaticani si conserva anche un calco della scultura con le parti aggiunte da Montorsoli, in modo da presentare sia l’interpretazione attuale della statua, con il braccio ritenuto originale, sia la sua versione cinquecentesca. Da questo episodio, caratteristico di molta statuaria dello stesso periodo, si deduce come il restauro dipenda fortemente dalla temperie artistica nel quale viene eseguito; è una condizione ineliminabile nel restauro che occorre conoscere per poterla controllare e contenere entro i confini della ricerca scientifica. Infatti notiamo come anche il restauro novecentesco offra non la soluzione definitiva, ma una chiave di lettura più verosimile, ma ancora una volta legata alla sensibilità estetica di un secolo che può tollerare, a differenza del Cinquecento, la visione dei moncherini, forse grazie all’abitudine con la pittura dalle Avanguardie in poi, una pittura che ha operato violente modifiche della nostra percezione del corpo umano (si pensi alla rottura operata dal Cubismo, che presenta spesso figure sconvolte nella loro anatomia). Il principio secondo il quale l’opera d’arte è restaurata dall’artista vige anche in pittura. Se si deve restaurare un affresco medievale, anche di un pittore importante come Giotto, l’artista non sempre si limita a conservare la materia pittorica preesistente, ma se è necessario ravvivare qualche tono o colmare una fessura o una lacuna utilizza del nuovo colore, anche sovrapponendolo a quello antico. E’ quanto è successo agli affreschi di Giotto nella cappella Bardi in S. Croce a Firenze, ridipinti in varie epoche fino all’Ottocento, ed oggi in alcune parti lacunosi perché sono state eliminate tutte le ridipinture successive a Giotto. Un caso celeberrimo è quello dell’Ultima Cena in S. Maria delle Grazie a Milano, dipinto con una tecnica molto particolare per la decisione di Leonardo di non voler usare l’affresco tradizionale. Egli usò una sorta di tempera grassa - cioè con colori additivati con composti oleosi di natura organica - che gli consentisse di intervenire sul dipinto continuamente, quasi traducendo sulla parete una tecnica adatta invece per la tela o per la tavola. La tecnica usata da Leonardo si rivelò di breve durata perché il pigmento non fa corpo con l’intonaco come accade nell’affresco. Già Vasari, nelle Vite del 1568, scrisse che l’opera di Leonardo, che è stata la “scuola del mondo”, si vedeva ormai pochissimo. Il Cenacolo fu quindi restaurato molte volte anche a pochi anni dall’esecuzione: nello stesso Cinquecento, una schiera di artisti aggiunsero colore all’opera di Leonardo Da Vinci. Il recente restauro, oltre ad aver climatizzato in maniera diversa la sala in cui si trova l’opera, ha anche dovuto togliere gli strati di pittura che sono stati sovrapposti a quella di Leonardo, ma in qualche caso ha lasciato alcune vecchie integrazioni per consentire la lettura di parti che avevano perso completamente colore; in questo caso, il rispetto dell’autenticità del colore di Leonardo non è andato contro, correttamente, la percezione unitaria dell’opera. Prima dell’Illuminismo, quando si deve restaurare un’opera d’arte in architettura si riprogetta l’edificio, nella scultura le statue sono sbiancate e vengono aggiunte loro delle parti, in pittura si ria il colore sull’opera antica per cercare di ravvivarne la brillantezza. L’apprezzamento delle opere del ato non tollera la loro condizione di frammentarietà, tanto che si sente l’esigenza comunque di completarle con un nuovo “progetto” – l’abbiamo visto con Montorsoli – che spesso non tiene conto dell’autenticità formale e materiale dell’opera. Quando le ragioni dell’autenticità arriveranno a contrastare il primato del progetto e della compiutezza formale comincerà la fase del restauro moderno. Agli inizi del Cinquecento, Martin Lutero affigge in Germania le 95 tesi contro l’autorità papale, scuotendo dalle basi la dottrina della religione cattolica. Uno degli argomenti principali che Lutero sostiene nelle sue affermazioni contro il papato è legato alla deviazione della chiesa di Roma rispetto ai fondamenti autentici del Cristianesimo. Molti protestanti si oppongono alla venerazione delle reliquie (come le parti del corpo di un santo), sostenendo che rappresenti un atto di idolatria e quindi contrario alla vera fede cristiana. Il problema non era nuovo: si pensi alla novella di frate Cipolla nel Decameron di Giovanni Boccaccio. L’opposizione dei protestanti poneva prepotentemente in primo piano un problema nuovo: l’autenticità delle reliquie, che spesso erano venerate solo per tradizione secolare. Su queste basi, i Protestanti pongono in dubbio lo stesso atto fondativi del potere temporale dei papi, la cosiddetta “donazione di Costantino”, già revocata in dubbio da Lorenzo Valla nel Quattrocento. In seguito alla polemica sull’autenticità dei fondamenti della Chiesa si giunge alla rottura: il mondo cristiano si spezza in due parti con l’avvio di molti conflitti in tutta Europa. La Chiesa cattolica cerca di ricucire lo strappo con i Luterani attraverso il Concilio di Trento, iniziato dal 1548 e fortemente voluto da Paolo III Farnese, uno dei più importanti papi del Rinascimento. Il Concilio viene portato
avanti negli anni successivi, segnando l’inizio di una fase di riorganizzazione e rinnovamento interno alla Chiesa conosciuta con il nome di Controriforma. L’insegnamento della religione, la riforma del culto delle immagini, la riforma del calendario romano antico, rientrano tutte nel grosso tentativo di rinnovamento interno alla Chiesa. Per sostenere la tesi dell’autenticità del culto delle reliquie e per dimostrare che le credenze cattoliche erano antiche ed autentiche, molti storici e uomini di chiesa cattolici iniziarono uno studio approfondito delle chiese antiche e delle catacombe, per capire quali fossero i riti praticati dai primissimi cristiani. E’ nota l’opera di Antonio Bosio, che per primo si cala nei cimiteri sotterranei intorno a Roma (le catacombe) per studiare usanze, simboli, riti dei primi cristiani; altri studiosi si dedicano alle indagini sulle chiese più antiche di Roma, tanto che si può parlare della nascita di una archeologia cristiana. In questo contesto, si inserisce anche la figura del cardinale di Milano Carlo Borromeo, che nella propria vita persegue un ideale di pauperismo abbandonando il lusso della sua famiglia agiata e abbracciando la vita dei poveri come fecero i primi apostoli. Egli, inoltre, è tra i primi a studiare le tipologie chiesastiche e autore di un trattato pensato per fornire modelli liturgici alla nuove chiese: le Instructiones fabricae et suppellectilis ecclesiasticae. Borromeo è fra i primi a capire il valore e la funzione del portico davanti alle chiese, il nartece o il quadriportico delle prime chiese cristiane, e ne suggerisce l’uso anche agli architetti dell’epoca, che in molte architetture del tardo Cinquecento impiegheranno dunque elementi di origine paleocristiana. Tra le figure che cercano di portare avanti le istanze di rinnovamento spirituale vi è il cardinale Cesare Baronio, autore di una grandiosa storia del cristianesimo, gli Annales, concepita come una sorta di risposta al Protestantesimo e destinata a confutare quasi punto per punto le accuse mosse dai discepoli di Lutero. Baronio è uno storico, ma è anche committente di alcuni restauri, nei quali agisce in maniera evidente il suo scrupolo filologico. E’ esemplare il restauro della chiesa di SS. Nereo e Achilleo a Roma, chiesa molto antica e in pessimo stato di conservazione, che Baronio riporta alla sua verità liturgica originaria, ricostruendo gli arredi del presbiterio, come il cero pasquale o la cattedra episcopale; per mantenersi in sintonia con le espressioni artistiche del cristianesimo antico, Baronio utilizza frammenti e pezzi di spoglio provenienti da altre chiese medievali di Roma. Al posto del mosaico absidale, andato perduto nei secoli, egli fa eseguire affreschi che riprendono temi iconografici antichi. Se quindi il primo Cinquecento aveva applicato i propri strumenti filologici, all’antichità pagana , il periodo che segue il concilio di Trento e che si protrae almeno fino al 1630 vede la rinascita dell’interesse per le antichità cristiane e il ritorno a tipologie e forme architettoniche tipiche dei primi anni del Cristianesimo. Quest’attenzione filologica convive in realtà con tendenze prevaricanti nei confronti delle testimonianze antiche. Con il pontefice Sisto V, l’intero tessuto antico di Roma viene sottoposto ad una serie di radicali riforme – non tutte in realtà eseguite – che comportavano anche interventi di demolizione di ruderi antichi, visti ancora come segni della religione pagana. E’ il caso ad esempio del Septizonio, una fontana monumentale alle falde del Palatino, disegnata da molti architetti del primo Cinquecento, demolita per consentire la rettificazione di una strada. E’ il caso del Colosseo che doveva essere trasformato in filanda, vale a dire una fabbrica di panni, secondo un progetto che valutava i resti dell’Anfiteatro Flavio come una struttura che poteva essere inserita nella vita produttiva della città, naturalmente a scapito della sua percezione di rudere: le arcate sarebbero state chiuse e al centro del Colosseo avrebbe dovuto are una strada. Durante il pontificato di Sisto V furono restaurate le due grandi colonne coclidi di età imperiale, la Traiana e la Antonina, che furono inoltre “cristianizzate” con la collocazione delle statue rispettivamente di S. Pietro e di S. Paolo, secondo il volere del pontefice. La colonna Antonina, in particolare, fu restaurata in seguito al dissesto e alla lesione dei grandi rocchi che la formavano, causati da un forte terremoto che alla fine del Cinquecento colpì l’Italia centrale. Sisto V commissiona l’incarico al proprio architetto di fiducia, Domenico Fontana, il quale, in questo caso, non interviene riprogettando il monumento, ma cercando di rispettare il più possibile i rocchi antichi: evitando di smontarli, fatto che avrebbe comportato un costo eccessivo e danni inevitabili, Fontana si limita a consolidarli con grappe di bronzo allo scopo di tenerli il più possibile collegati gli uni con gli altri. Le grappe, elementi di metallo a forma di p greco inseriti nel marmo, sono realizzate in bronzo anziché in ferro perché quest’ultimo ha un coefficiente di dilatazione più alto, rischiando quindi di spaccare la pietra; inoltre, arrugginisce facilmente a differenza del bronzo, lega che non subisce danni dal contatto con l’acqua. Bloccati i rischi di crollo, si restaurano i rilievi figurativi che corrono sul fusto. Capeggiati dal capomastro Silla Longhi, gli scultori lasciano in varie parti le loro firme, secondo un costume frequente per l’epoca, che ci consente comunque di individuare il loro intervento. Spesso le figurazioni antiche sono reintegrate non in marmo, quindi scalpellando il pezzo antico per inserire il moderno, ma con lo stucco, materiale più leggero fatto di calce, polvere di marmo, sabbia e acqua, facilmente lavorabile con le mani e capace di simulare il modellato antico come fosse marmo. Questo intervento ebbe, molto probabilmente, motivazioni di tipo economico, giacché i tasselli in stucco sono meno costosi di quelli in marmo, ma in ogni caso si operava tenendo presente il testo originale e conservando la materia antica dell’opera.
La figuratività barocca non approfondì la ricerca filologica che pure Baronio aveva iniziato, ma trovò uno sfogo naturale nella nuova progettazione che ingloba e reinventa il ato. Naturalmente nel Seicento vissero ed operarono molti eruditi ed artisti colti interessati a conservare e a tramandare le testimonianze del ato; ma tale obiettivo viene perseguito attraverso il primato della figuratività contemporanea, che in età barocca non venne mai messo in discussione. Quindi la tendenza a restaurare le statue antiche aggiungendo parti anche vistose e importanti, anche più consistenti del braccio Montorsoli del Laocoonte, non solo prosegue, ma diventa anche più forte. Come nel secolo precedente, i grandi artisti furono anche restauratori, come Bernini e Alessandro Algardi, che divenne quasi uno specialista. L’Ares o Marte Ludovisi è una statua di proprietà della famiglia Ludovisi, che agli inizi del Seicento ne commissionò il restauro a Bernini. La statua rappresentava un uomo seduto, probabilmente un guerriero o un atleta e, seppure ben conservata nella parte alta, mancava di porzioni consistenti nella parte basamentale ed era soprattutto priva di identificazione. Naturalmente, l’assenza di un riferimento diretto ad una divinità o ad un personaggio leggendario o storico rendeva meno importante la scultura, soprattutto meno comprensibile agli eruditi e ai visitatori. Bernini interpreta allora la scultura come una statua rappresentante Marte in riposo; egli inserisce nella parte bassa una figura di Eros, che allude appunto al legame tra Marte e Venere, e una spada con un’elsa molto elaborata, nella quale raffigura, con il virtuosismo tecnico per cui andava famoso, un mostro con le fauci spalancate e le orecchie appuntite. Dunque un personaggio seduto che inizialmente era solo un pezzo di marmo molto bello ma privo di identità, viene trasformato dall’artista in Marte: il restauro interviene quindi per interpretare la preesistenza, forzandone ovviamente la lettura. Non è solo Bernini a “reinventare” il ato: alcuni artisti, come Orfeo Boselli, autore di un trattato sulla scultura in cui ha una parte importante l’attività del restauratore, sostengono la legittimità degli interventi finalizzati non a conservare i moncherini del ato ma ad immaginare un ato che non è mai esistito, a ricreare un’opera antica partendo da pochi frammenti. In sostanza, l’operazione di rimontaggio e di abbellimento dei frammenti finisce per diventare più importante del frammento stesso. Ad una logica simile si ispira il restauro del Pantheon, eseguito da Bernini per Alessandro VII Chigi, che presenta degli aspetti innovativi insieme a motivi tradizionali. Dal tempio erano state asportate, durante il pontificato di Urbano VIII, le travi di bronzo del pronao, fuse per realizzare il baldacchino della basilica di S. Pietro, opera dello stesso Bernini. Adesso, il progetto prevede una sorta di abbellimento del Pantheon, con la collocazione, nei lacunari della volta, di altrettante rosette bronzee, secondo un modello archeologico non corrispondente alla realtà dell’edificio; inoltre, nel pronao vengono sostituiti alcuni capitelli sul lato est, imitando con grande perizia il corinzio originale; come elemento di distinzione, però, viene scolpito al centro dei nuovi capitelli lo stemma dei Chigi, in modo che ancor oggi è possibile individuare le copie berniniane dagli originali. Ad un momento successivo risale la costruzione di due piccoli campanili ai lati del pronao, distrutti per un malinteso senso di restauro alla fine dell’Ottocento, che avevano la funzione di assimilare il Pantheon, nato come tempio, ma donato fin dal VII secolo al papa per essere trasformato in chiesa, ai modelli tipologici contemporanei. Si ricordi che lo stesso Bernini aveva progettato e iniziato la realizzazione di due campanili laterali alla facciata di S. Pietro, non eseguiti per dissesti alle fondazioni, e il modello della facciata fra due campanili è molto diffuso dalla fine del Cinquecento in poi, fino alla chiesa dell’Assunta ad Ariccia, dello stesso Bernini, che costituisce una rilettura moderna del Pantheon. Ancora una volta, l’intervento sull’edificio antico e il progetto dell’edificio nuovo si sovrappongono fino quasi a confondersi. Nel Seicento, in piena poetica barocca, la progettazione prevarica completamente la conservazione del testo antico. L’idea di conservazione si traduce in una reinvenzione che, se da un lato non rispetta l’opera originaria, dall’altro esprime grande vitalità, come nel caso di S. Giovanni in Laterano, dove la fabbrica medievale continua a sussistere come anima all’interno della chiesa barocca che ha però acquisito una spazialità nuova e moderna rispetto alla spazialità monodimensionata dell’impianto costantiniano. Seppur l’intervento si collochi all’interno del perimetro dell’antica chiesa esso interpreta lo spazio in maniera profondamente diversa: ora la grande sala centrale rilegge completamente lo spazio antico. Identico atteggiamento è riscontrabile nell’approccio alle opere scultoree e pittoriche, dove si assiste ad una sostanziale reinvenzione dell’antico. E la situazione non muta nel Settecento. Il XVIII secolo rappresenta indubbiamente un momento di aggio importante in tutta la cultura occidentale, non soltanto nella storia delle arti. È il ‘secolo dei lumi’ e il termine ‘illuminismo’, dal significato complesso, finisce per assumere significati diversi nei diversi paesi, abbracciando tutto lo scibile, dalla scienza alla filosofia. Nell’accezione generale esso sta ad indicare l’avvento di una capacità razionale che rende più chiaro (illumini appunto) il senso di molti temi cruciali della cultura contemporanea. Sostanzialmente l’Illuminismo rappresenta un ritorno ed un potenziamento di quello spirito critico, nato nel Cinquecento, che aveva iniziato ad analizzare i dati provenienti dal ato e a sottoporli a verifica critica. Il Settecento riprende questa scia.
Il nuovo approccio ideologico comincia a manifestarsi nel campo della storiografia: l’attenzione è cioè puntata su come si fa la storia. Il movimento nasce e si sviluppa in maniera più marcata in Francia, Germania e Inghilterra, nazioni che proprio in seguito a questa svolta culturale si pongono all’avanguardia in Europa, lasciando indietro i paesi del sud, Italia compresa, dove il rinnovamento culturale procede a velocità molto ridotta. Nel XVIII secolo si rafforza e si stabilizza quel concetto di progresso che resta molto legato a quello di restauro: tanto più la freccia temporale evolutiva procede rapidamente, tanto più si rafforza la tendenza a recuperare quello che del ato si rischia di dimenticare. L’accelerazione impressa dalla cultura occidentale nel Settecento favorirà e stimolerà con crescente vigore le istanze di restauro. L’Italia viene appena lambita dalla nuova corrente culturale ed uno dei principali esponenti del nuovo corso è certamente Ludovico Antonio Muratori, storico modenese che per la prima volta pubblica una Storia d’Italia concepita non come una narrazione ma come una pubblicazione in fonti. Egli cioè non manipola le fonti originarie (le cronache medievali o i diari di viaggio dei visitatori del nostro paese) ma sostiene la necessità di pubblicare il documento originale in quanto tale. Comincia così la pubblicazione di un grande corpus di cronache tratte dal Medioevo, il celebre R.I.S (Rerum Italicarum Scriptores), ovvero una collana di scrittori di cose italiane, segnando una nuova strada: la storia fatta non più manipolando le testimonianze del ato ma attraverso un’opera di riconoscimento, catalogazione e cura di un’edizione filologica delle fonti. Con il Settecento a in primo piano l’autenticità dell’oggetto studiato e, lentamente ma inevitabilmente, il nuovo approccio si trasferirà dalla storiografia agli altri campi, compreso naturalmente il restauro. Contestualmente nasce però un problema: Muratori è a capo di una schiera di eruditi, storici, antiquari molto agguerrita che comincia a studiare l’antichità sulla base delle fonti più autentiche e, facendo leva su tale riconosciuta competenza, chiede che le opere da sottoporre a restauro rispettino in toto il principio di autenticità che essi mettevano alla base delle loro ricerche. Cominciano così ad interessarsi direttamente di ciò che fanno gli architetti che si occupano di restauro e inevitabilmente entreranno in contrasto con una classe di artisti ancora legata all’interpretazione barocca del restauro come reinvenzione del ato. Si arriva al conflitto tra chi (Muratori) chiede che l’opera sia lasciata nella sua autenticità, come fonte a disposizione dei futuri studiosi e chi invece rivendica il diritto a restaurare ricreando completamente l’opera. Da questo contrasto nascerà l’esigenza di avere un restauratore che non sia un artista ma un tecnico, ovvero dotato di capacità quasi matematiche, che non osi manipolare il testo antico ma che lasci il documento quanto più fedele all’originale. Il processo sarà molto lungo e non avrà esiti immediati in Italia nel Settecento, mentre un riflesso più concreto sarà ravvisabile in altre realtà europee, soprattutto in Francia. Le novità più rilevanti nel campo del restauro, pur sviluppandosi da questo humus culturale italico, fioriranno altrove, dove l’impulso illuminista sarà più forte. Sul piano pratico, nel Settecento si continua a seguire l’interpretazione barocca del restauro come reinvenzione e abbellimento, ma si rafforza l’intento di mantenere comunque alla luce gli elementi originari Alcuni interventi del primo Settecento a Roma mostrano uno sforzo degli architetti di restaurare una chiesa vetusta sì ridisegnandola ma permettendo anche la lettura di tutte le colonne, in omaggio alla lezione borrominiana a S. Giovanni in Laterano: lasciare comunque vedere il testo antico al di sotto dell’intervento moderno. In altri casi, ad esempio in Abruzzo, si assiste invece ad una completa reinvenzione dello spazio interno da restaurare, soprattutto negli episodi figli dei terremoti del 1703 e del 1706, che hanno menomato gran parte del patrimonio architettonico abruzzese. Caratteristica importante dell’architettura settecentesca è di operare sempre aggiungendo e decorando, ma limitando l’intervento ad alcuni punti fondamentali, come a voler creare una sorta di cornice, di stile di accompagnamento. In Abruzzo, le chiese ferite dai terremoti sono molto spesso chiese scane, molto semplici e spoglie, alle quali i sismi hanno apportato danni considerevoli. Tuttavia, in molti casi gli edifici che vengono descritti come completamente perduti avrebbero potuto essere restaurati, riparati, senza troppe complicazioni; si preferisce invece ricostruirle per realizzare interni più sontuosi, approfittando quindi del pretesto fornito dall’evento sismico per riconformare architettonicamente gli interni degli edifici. La ricostruzione tipica di queste fabbriche medievali vede l’esterno lasciato sempre nella sua autenticità: è il caso di S. Maria di Collemaggio a l’Aquila e delle chiese mendicanti della zona costiera; ed è anche il caso della chiesa scana di Teramo. L’interno di queste chiese, normalmente costituito da un ambiente unico coperto da arconi o da semplice tetto, viene adeguato ai modelli dell’architettura figlia della Controriforma: aula unica, altari laterali e un presbiterio che può avere una cupola o, soluzione più economica, una volta a vela o una semplice calotta poggiata su pennacchi. In S. sco a Teramo si ritrova una soluzione spaziale già adottata in S. Giovanni in Laterano a Roma: il perimetro della chiesa barocca presenta delle paraste concave all’ingresso del presbiterio e in controfacciata. Ritorna la pianta ‘centralizzante’, quel desiderio cioè di rileggere uno spazio in origine unitario per trasformarlo in più spazi contigui, in cellule spaziali staccate: un unico ambiente, la sala, che immette ad un ambiente successivo, il presbiterio con la cupola, che a sua volta immette all’ambiente conclusivo, l’abside. Quello che lo spazio medievale leggeva come ambiente unitario tutto puntato verso l’altare, l’architettura settecentesca lo legge per momenti diversi; e il modello di questa tendenza centralizzante è ancora una volta
l’intervento borrominiano al Laterano. Si rileva anche l’introduzione di un asse ortogonale nella pianta, come se si ricercasse un’altra assialità della chiesa. Gli elementi che non possono essere inseriti in questa ricomposizione architettonica sono lasciati come se fossero degli elementi spuri (l’abside piatta diventa un ambiente di servizio, sostituita nella primitiva funzione dalla nuova abside). Nel S. sco della Scarpa a Sulmona si legge ancora bene il perimetro della antica chiesa, caratterizzata da un portale in facciata, un portale laterale con grande scalinata d’accesso su un fianco e un sistema particolare di tre absidi di cui rimangono ancora tracce consistenti. Il convento verrà interamente ristrutturato nell’Ottocento, ma la chiesa aveva subito già un intervento di restauro, a seguito di un terremoto avvenuto nel Quattrocento, con la costruzione di un grande sperone a pianta trapezoidale, soluzione molto diffusa per contrastare la spinta delle volte interne e frequente anche nelle chiese umbre, dove si accompagnano spesso ad archi esterni (l’intento statico è sempre quello di contrastare il fenomeno di rotazione dei muri trasversali). Il terremoto del primissimo Settecento distrugge pressochè completamente la chiesa antica a tre navate, dando via libera al restauro che contempla anche qui la conservazione della scatola muraria esterna e il ridisegno di una chiesa nuova all’interno dalla pianta composta da cellule grosso modo centriche, con uno spazio sempre più o meno quadrato al centro ed altari laterali. La ricostruzione è rimasta però incompiuta ed oggi l’abside della chiesa è occupata da una costruzione a pianta ellittica che è in realtà un macello pubblico costruito nell’Ottocento. Riconoscibile purtroppo anche un intervento tipicamente ‘da sovrintendenza’ databile intorno agli anni ’60-’70, caratterizzato da capriate moderne in cemento armato con cordonature che connettono le quattro pareti della scatola muraria della chiesa. Mentre i secoli precedenti si sono sovrapposti progettando e riconformando lo spazio, il Novecento interviene in maniera piuttosto pesante e rozza, essenzialmente tecnica oltre che dannosa, come la storia del restauro ha appurato successivamente per operazioni di questo tipo (il peso di queste strutture su murature spesso a sacco ha spesso effetti dannosissimi). La chiesa scana originale è quindi rimasta come un grosso scheletro nel quale si inserisce da un lato il rifacimento settecentesco e dall’altra l’intervento ottocentesco. La forma tipologica rimane ancora leggibile ma accoglie inserti diversi. La rilettura barocca dell’interno si configura come vera e propria risignificazione barocca che a anche qui attraverso un largo utilizzo di stucchi ad opera di maestranze di origine lombarda. Altro caso prettamente settecentesco può ritenersi la chiesa di S. Croce in Gerusalemme a Roma, il cui restauro avviene intorno alla metà del XVIII secolo, sotto il pontificato di Benedetto XIV, pontefice molto sensibile ai richiami della storia e dell’arte. A lui si deve anche una prima sistemazione del Colosseo per renderlo agibile agli studiosi che volessero rilevarlo e disegnarlo (l’anfiteatro veniva da secoli di maltrattamenti: sotto Sisto V aveva rischiato di essere trasformato in una filanda, poi era stato abbandonato al suo destino e molte delle arcate erano state interrate; successivamente era stata impiantata una fabbrica di salnitro che sfruttava i sali che si formavano sulle pareti per produrre polvere pirica) ed è uno dei primi a proporre interventi di sistemazione e di restauro per l’importante monumento romano. Lo stesso pontefice si serve del monumento per impiantarvi le edicole della via crucis. Benedetto XIV si può quindi definire un pontefice illuminista e fu il primo ad impegnarsi nella conservazione dei monumenti. In occasione del Giubileo del 1750, ancora sotto il suo pontificato, alcune delle principali basiliche patriarcali della città sono sottoposte a restauro e tra quelle in condizioni peggiori era senza dubbio S. Croce. Costruita anch’essa sotto Costantino e praticamente addossata alle mura, sorge piuttosto vicina a S. Giovanni in Laterano e conserva alcune delle reliquie più importanti del Cristianesimo: il più grande frammento di legno della croce di Cristo, alcuni resti della corona di spine e la targa con l’iscrizione (I.N.R.I.). La chiesa aveva una facciata quasi del tutto nascosta da alcuni ruderi che si accostavano alla chiesa stessa; in realtà, al momento della fondazione, Costantino, come già aveva fatto al Laterano, costruisce all’interno di una grande villa suburbana sul tipo di Villa Adriana, composta da una serie di grandi costruzioni. All’interno di una di queste grandi aule edifica la chiesa, che si trova quindi attorniata da antiche costruzioni di epoca romana, variamente rimaneggiate nel corso dei secoli, che in parte la nascondevano. I ruderi costringevano poi i pellegrini che prendevano parte al percorso processionale delle sette chiese a poco agevoli zig-zag tra le rovine, che impedivano anche la visibilità della chiesa dalla vicina S. Giovanni. Nel Settecento si provvede ad una sistemazione delle basiliche di S. Giovanni in Laterano, S. Maria Maggiore e S. Croce in Gerusalemme: negli anni ’30 si ridefinisce la facciata di S. Giovanni e con Benedetto XIV viene tracciato un grande stradone alberato che conduce alla nuova chiesa di S. Croce in Gerusalemme, a sua volta restaurata e dotata di una nuova facciata che la rendesse visibile da S. Giovanni, alla quale era collegata ora da un largo cannocchiale visivo. La nuova facciata però, su espressa direttiva del pontefice, doveva lasciare intatta nella sua autenticità l’antica chiesa costantiniana. Gli artefici sono due architetti poco noti, allievi di Filippo Juvarra, Gregorini e alacqua, i quali concepiscono un atrio a pianta ovale che permetta alla chiesa di ‘sporgersi’ sulla piazza, in modo che l’osservatore che sosta nell’atrio prima di entrare possa percepire la presenza delle altre due grandi basiliche vicine. Da un disegno realizzato al momento della realizzazione del convento annesso alla chiesa, intorno alla metà del Settecento, che permette altresì di apprezzare la grande perizia grafica e la notevole consapevolezza nel disegno che informa gli architetti del tempo, si leggono, in
tonalità differenti, le parti di fabbrica antiche e le aggiunte settecentesche. All’interno della chiesa, alle murature preesistenti vengono addossate delle paraste mentre nuovi pilastri cercano di ridefinire in modo nuovo lo spazio interno; nel disegno, all’interno di questi pilastri è segnalata la presenza della colonna antica, a ribadire l’attenzione del restauro verso la conservazione dell’autenticità delle parti. La piazza esterna assume una conformazione che ricorda le braccia aperte e che concorre a realizzare il cono visivo di raccordo con le altre due basiliche. L’atrio di Gregorini e alacqua disegna in modo nuovo la facciata della chiesa e si configura quasi come un grande palcoscenico settecentesco apposto alla chiesa antica che rimane dietro. Il sistema prevede la nuova grande facciata in travertino, che copre l’atrio ovale, appoggiata solo in parte alla facciata antica percepibile posteriormente; in realtà la chiesa ha due facciate separate dall’atrio: la facciata settecentesca che risponde ai bisogni della città settecentesca e dietro di essa, conservata in gran parte nella sua forma originaria, tutta la chiesa costantiniana, il cui esterno rimane assolutamente inalterato e rappresenta la fonte muratoriana conservata nella sua autenticità. Nell’interno ritorna una soluzione già vista in altri interventi settecenteschi: quasi tutte le colonne originarie sono lasciate intatte e visibili (solo alcune sono state inglobate dai pilastri settecenteschi) e, distinte da esse, l’ordine maggiore con paraste decorate a stucco che sostiene la nuova trabeazione. È possibile rileggere quindi l’organismo antico come una sequenza di ordine gigante, che sostiene la trabeazione e ordine minore, che ne sostiene un’altra, in un incastro di ordini che evoca la soluzione michelangiolesca per il Palazzo dei Conservatori. Il soffitto è ligneo, particolarmente leggero per non gravare di pesi eccessivi le antiche capriate alle quali è appeso. L’interno è quindi anche qui ridisegnato e riconfigurato secondo i canoni settecenteschi. Il sistema della doppia facciata si ripropone in altri interventi, tra cui la facciata di S. Maria Maggiore, opera di Ferdinando Fuga. La chiesa antica aveva un fronte interamente decorato da importanti mosaici medievali e pertanto all’architetto si chiese di realizzare una seconda facciata che non intaccasse quella antica. Fuga concepisce così un fronte completamente aperto che unisce i due palazzi adiacenti (uno esistente l’altro realizzato gemello) e crea una specie di schermo al di là del quale permane l’antico prospetto. Come in S. Croce, anche qui l’architettura barocca si manifesta all’esterno mentre all’interno si conserva il testo autentico. Nel XVIII secolo, in molti episodi di restauro, cominciano ad essere coinvolti non più gli artisti in quanto tali ma gli artisti in quanto tecnici. In pittura, si fa strada l’idea che il restauro di un dipinto non debba necessariamente essere affidato ad un pittore. Inizia a delinearsi la figura di un operatore in grado di dominare i procedimenti tecnici della produzione artistica; a questo aspetto si accompagnano alcune novità concettuali nell’interpretazione del restauro: al momento di intervenire sulla cupola del Vaticano, che pativa problemi di stabilità, Benedetto XIV non si rivolge a degli architetti ma chiede una consulenza a figure inedite per l’architettura, i matematici. Uno di essi, il marchese Polemi, che insegna matematica all’Università di Padova, fornisce, insieme ad altri colleghi, indicazioni su come eseguire non tanto il restauro della cupola, quanto piuttosto il suo consolidamento, aprendo la strada a un termine e a un approccio alla materia assolutamente moderno. Nella pittura, già agli inizi del Settecento hanno luogo restauri importanti su alcuni testi piuttosto famosi. In particolare sugli affreschi che Raffaello e la sua scuola avevano realizzato per la villa della Farnesina a Roma viene chiamato a intervenire Carlo Maratta, pittore marchigiano che nel Settecento interpreta ancora quegli ideali di bellezza astratta di matrice neoplatonica celebrati nel Rinascimento ed è per questo considerato l’erede del maestro urbinate. Maratta esegue il restauro nel modo tradizionale, ovvero ridipingendo sui colori antichi. Si occupa anche della galleria del piano nobile di Palazzo Farnese, affrescata da Annibale Carracci ed in questo caso si premura di conservare tutte le parti di intonaco che stavano crollando facendo ricorso all’utilizzo di grappe bronzee a T. Malgrado questo approccio molto cauto, i restauri di Maratta sono oggetto di forti critiche. Un’altra pratica in uso prevedeva di are sulle superfici affrescate il cosiddetto ‘vino greco’ (miscela a base alcoolica ottenuta bollendo il vino insieme ad altre componenti resinose), che aveva lo scopo di ravvivare i colori e renderli più brillanti; questa, come altre misture frequentemente applicate ai dipinti, presentava un grave problema: con l’andare del tempo la componente organica si deteriorava provocando lo scurimento dei dipinti. Uno dei maggiori eruditi del primo Settecento, Giovanni Gaetano Bottari, in alcuni suoi scritti nei quali simula dialoghi tra grandi artisti del Cinquecento, dà voce alle loro lamentele sul fatto che, ad esempio, Maratta avesse sovrapposto i suoi colori a quelli del loro autore, alterando così l’autenticità del dipinto, laddove, secondo Bottari, il restauro non consiste nel ravvivare o rinnovare i colori, ma nel seguire il ‘giusto mezzo’. Né quindi abbandonare l’affresco alla propria rovina, né però ridare all’opera una vivacità di colori che ha ormai perduto. Ecco quindi una prima novità: l’idea che l’artista considerato l’erede di Raffaello possa intervenire su un’opera del maestro non è più così scontata. Si richiede un atteggiamento diverso, più neutro (il giusto mezzo) e soprattutto non è più al grande artista che spetta di diritto il restauro quanto piuttosto al tecnico capace di rispettare il carattere antico dell’opera, la sua autenticità, senza prevaricarla.
A questa posizione fa eco quella di un altro erudito, di un altro conoscitore (figura tipica del Settecento: personaggi che viaggiano per tutte le corti d’Europa ed associano ad un’alta formazione intellettuale la conoscenza diretta delle opere; sono loro che fanno ‘cultura’ nell’ambiente del tempo), Luigi Crespi, figlio di un grande pittore del Settecento bolognese, che scrive alcune epistole nelle quali analizza la situazione contemporanea del restauro pittorico. Nega lui pure l’interpretazione del restauro come rinnovamento e sostiene la necessità che il restauro rispetti sempre la patina che si è accumulata nel tempo sul dipinto: non si deve cioè alterare quella che si potrebbe quasi definire diffusa ‘oscurità’ prodotta dal tempo. Crespi è cosi il progenitore di quel concetto di patina dal significato estremamente complesso che occupa tuttora un posto di preminenza nell’elaborazione concettuale della materia. L’accezione primitiva del termine è però diversa da quella odierna e fa riferimento ad uno strato volutamente aggiunto al dipinto dopo che esso è formalmente completato: soprattutto in area veneta, dove è particolarmente diffusa la pittura ad olio (e dove quindi vi è un solvente oleoso che guida la stesura del pigmento pittorico sulla tela), quando il pittore terminava il dipinto usava apporre una velatura, cioè un ulteriore strato di solvente molto fluido, con una leggerissima carica di pigmento, per attenuare i toni troppo accesi del dipinto. È una specie di tinta che attenua i colori troppo vivi ed è una tecnica nota ai trattatisti del tempo in particolare da un’opera di Filippo Baldinucci, il Vocabolario toscano dell’arte del disegno, una sorta di dizionario delle tecniche adoperate in pittura, scultura e architettura. Egli definisce la patina come una sorta di ‘scurità’, di oscuramento, una specie di sordina che il pittore mette alla materia cromatica. Questa velatura viene replicata nel corso degli anni e i dipinti tendono nel tempo a scurirsi, ma nel Settecento si comincia ad apprezzare questo carattere un po’ cupo, questo effetto-ato dato dalla patina. Essa va però distinta da un'altra patina che non è data dal pittore ma è effetto del trascorrere del tempo, che tende a rendere progressivamente indistinguibile l’operato dell’uomo; ma per apprezzare questo tipo di patina occorrerà aspettare l’evolversi di un diverso grado di sensibilità tra gli addetti ai lavori. Si definiscono così nuove interpretazioni del restauro, che non è più sinonimo di miglioramento ma deve seguire una via che si potrebbe definire intermedia, rispettare poi la patina, intesa ancora come la velatura data dal pittore stesso. Altre novità arrivano da Venezia, dove, sempre nell’ambito del restauro pittorico, si verifica un fatto importante: la Repubblica Veneta, proprietaria di una serie di dipinti conservati nei palazzi pubblici della città e nelle chiese più rappresentative, decide intorno al 1775 di istituire un servizio che si occupi del restauro di questi dipinti. L’incarico di controllore e supervisore dei restauri non viene affidato ad un pittore ma a un tecnico che si occupa specificamente di restauro di dipinti, Pietro Edwards, di origine inglese, che istituisce un servizio di ispettori e restauratori incaricati della ricognizione delle opere sparse per la città per verificarne lo stato di conservazione e sottoporli eventualmente a restauro. Allo scopo, Edwards stende un capitolato, articolato in diversi punti, nei quali definisce il compito del restauratore e dell’ispettore e i principi da seguire per svolgere un buon lavoro. Nel suo scritto l’autore supera molte delle consuetudini seguite sino ad allora: sostiene ad esempio che non è sempre necessario ricorrere ad interventi pesanti ma spesso ci si può limitare ad una semplice spolveratura del dipinto; sottolinea l’inopportunità di smontare le cornici antiche, perché anch’essi sono elementi importanti del dipinto; afferma infine che non bisogna reintegrare il dipinto nelle parti mancanti dipingendo con colori nuovi sopra il dipinto originale ma, se l’integrazione fosse proprio necessaria, essa deve essere amovibile, lasciando così intendere che uno dei principi fondamentali del restauro deve consistere nella possibilità di rimuovere le aggiunte. Come si vede, si sta ampliando la sensibilità verso l’opera d’arte e si è giunti ad uno dei concetti ancora oggi fondamentali del restauro: l’intervento non deve mescolarsi con l’autenticità del dipinto e, se aggiunta deve esserci, deve poter essere successivamente rimossa, perché ci si potrebbe rendere conto che si è commesso un errore e quindi deve esserci la possibilità di correggerlo, oppure perché la soluzione scelta potrebbe apportare dei danni alla superficie pittorica e andrebbe quindi rimossa. Il concetto di reversibilità non sarà pienamente capito dal secolo successivo: l’Ottocento non comprenderà fino in fondo il patrimonio di idee che l’Illuminismo aveva lasciato in eredità. Esso tornerà in auge nel Novecento e diventerà uno dei principi fondamentali del restauro diventando la base operativa dell’Istituto Centrale per il Restauro italiano, uno dei più prestigiosi al mondo. Alle novità concettuali nel campo del restauro pittorico si aggiungono quelle che si sviluppano nel campo del restauro della scultura, dove la nuova linea di pensiero fa capo ad uno studioso tedesco che si muove tra Roma e le appena scoperte Pompei ed Ercolano: Johann Joachim Winckelmann. Ritenuto il fondatore di una nuova estetica, di una nuova sensibilità che viene identificata con il termine ‘Neoclassicismo’, egli rappresenta un riferimento culturale importante anche per il restauro, sia in campo operativo sia in campo storiografico. Arriva dalla Sassonia (Germania) con l’intento di studiare l’arte antica, in particolare la scultura, con un interesse specifico per la statuaria greca che studia senza mai recarsi effettivamente in Grecia ma mettendo a confronto le diverse copie romane disponibili nei Musei Vaticani, di cui diventa assiduo frequentatore. Egli diventa l’ispiratore
di un personaggio piuttosto singolare, Bartolomeo Cavaceppi, restauratore e conoscitore di statue antiche al quale lo studioso tedesco si accompagnava durante le sue peregrinazioni per l’Italia intera. Morto Winckelmann, Cavaceppi continua a restaurare una grande quantità di sculture e dirige una bottega molto attiva a Roma che si prende cura praticamente di tutte le sculture rinvenute nella città e in arrivo dagli scavi di Pompei ed Ercolano. È inoltre autore di un trattato, Osservazioni sopra le sculture antiche, che contiene alcune indicazioni nuove sull’approccio al restauro delle statue. Egli dichiara la propria avversione verso il restauro di fantasia (inserimento arbitrario delle parti nuove) sostenendo che, nel caso dell’inserimento dei cosiddetti ‘attributi’ (gli elementi simbolici che identificano il personaggio rappresentato) lo scultore deve essere guidato dallo storico dell’arte. Il suo compito è quindi quello di limitarsi a rappresentare ciò che l’erudito gli suggerisce, rinunciando così a qualsiasi velleità creativa ed assumendo un ruolo essenzialmente tecnico. Diffida anche dal lucidare le statue rinvenute, invitando invece al massimo rispetto dell’aspetto antico che le dà la patina, intesa anche come deposito materico (lo sporco, la terra). Per comprendere meglio il significato di questo aspetto, va considerato il fatto che nel Settecento è già vivo il mercato antiquario e con esso il parallelo e fiorente mercato delle ‘patacche’, rifilate in grande quantità ai meno accorti; in questo panorama la presenza dello sporco serve come garanzia di autenticità. L’equazione patina = autentico influenzerà notevolmente lo sviluppo successivo del pensiero. Cavaceppi si raccomanda poi di non amputare colli e moncherini per poterci poi montare teste o braccia nuove: il restauro potrà eventualmente integrare le parti anatomiche mancanti ma accostandosi al profilo irregolare disegnato dal tempo. Il frammento antico va quindi conservato nella sua autenticità e la eventuale parte aggiunta dovrà adattarsi al frammento originale. Comincia a svilupparsi così una nuova sensibilità verso il gusto del frammento: non si pretende più che la statua antica sia perfettamente conservata, né che l’opera rinvenuta sia riportata ad una integrità mai esistita, ma si comincia ad apprezzare l’incompleto, il mutilo. Il punto di non ritorno su questa strada, che segna probabilmente l’inizio del restauro moderno, sarà segnato dalla vicenda dei cosiddetti ‘marmi’ del Partenone. Le sculture frontonali e gran parte delle metope del tempio di Atene si trovavano ancora al loro posto alla fine del Settecento quando le autorità turche, che al tempo occupavano politicamente la Grecia, concessero ad un inglese, lord Elgin, di prelevarne una parte per poterle studiare da vicino. Vista la sostanziale indifferenza del governo turco verso il destino di tali opere, Elgin portò alcune delle sculture a Londra, dove l’arrivo dei capolavori di Fidia, vertice assoluto della scultura classica del V secolo, generò un autentico sconvolgimento del clima culturale del tempo. La scultura greca era nota infatti soltanto attraverso copie romane di età ellenistica, che ripetevano cioè stereotipi ormai logori; nessuno aveva mai visto la freschezza, la forza, per certi versi la violenza del modellato proprio della scultura fidiaca, che si esalta soprattutto nei celebri panneggi che l’autore rappresenta in modo estremamente virtuosistico nei gruppi delle dee che sono stese nelle parti angolari delle sculture frontonali. È sintomatico che, all’inizio dell’Ottocento, si riproponga così la vicenda che aveva visto protagonista il Laocoonte: al ritrovamento di un’opera di straordinario valore per la cultura del tempo corrispose l’esigenza di contattare il più grande scultore in attività per restaurarle, Antonio Canova, di origini venete ma attivo prevalentemente a Roma e prima firma del Neoclassicismo italiano. Profondo conoscitore di Winckelmann ed intriso del suo credo, Canova venne convocato a Londra dove, ricevuto con tutti gli onori, rimase folgorato da tanta bellezza e, come Michelangelo aveva fatto a suo tempo con la statua del sacerdote troiano, si rifiuta categoricamente di mettere mano su un episodio scultoreo di tale rilevanza. Di fronte al diniego del più grande nessuno osò più pensare di completare i frammenti di Fidia, che vennero esposti al British Museum dove sono tuttora conservati. L’episodio contribuì fortemente allo sviluppo del gusto per il frammento che tuttavia faticherà a farsi completamente strada nella cultura del tempo: altri artisti contemporanei di Canova intervengono sulla statuaria classica cercando di imitare lo stile degli antichi; un approccio quindi di rilettura della continuità dei frammenti per restituire loro l’unità perduta. La nascita del restauro ‘moderno’. Il restauro stilistico e la sua influenza nella cultura europea Lo stimolo verso la reintegrazione delle forme, che informerà l’Europa per tutto l’Ottocento e per buona parte del Novecento, risente fortemente del pensiero se. La rivoluzione del 1789 porta alla distruzione di buona parte del patrimonio artistico e architettonico, che è visto dai rivoluzionari come il segno del potere che si vuole combattere (il rovesciamento di un potere, spesso, a per il rovesciamento dei suoi simboli: anche durante il crollo del muro di Berlino, più che distruggere la sede del partito comunista si preferì distruggere le statue di Lenin, rovesciandole simbolicamente). La Francia di fine Settecento e inizio Ottocento vive un momento storico complesso: allo Stato segue la Repubblica se; quest’ultima è poi trasformata in Impero da Napoleone che diviene prima console e poi, con una sorta di colpo di stato, Imperatore dei si.
Lo stato se si trova ad essere proprietario di molti beni mobili ed immobili che i rivoluzionari hanno asportato dalla reggia di Versailles, dai palazzi aristocratici della nobiltà, dalle abbazie distrutte, dai molti monasteri soppressi: per la prima volta, un ente pubblico, lo Stato, diventa proprietario di un ingente patrimonio artistico. Placati i momenti di maggiore furore rivoluzionario, si comincia a porre freno all’opera distruttrice: già nel 1794, la Convenzione, cioè la commissione che tenta di gestire il momento post-rivoluzionario, emette un decreto promulgato da un suo consigliere, Henry Grégoire, che dichiara fuori legge chiunque danneggi i monumenti, equiparando i distruttori a barbari e accusandoli dunque di vandalismo. Al fianco delle prime leggi di tutela, comincia ad affermarsi un movimento di riscoperta e rivalutazione dell’antichità e in particolare del cattolicesimo, i cui valori profondi vengono esaltati, a partire dai primi dell’Ottocento, da molti letterati ed intellettuali. Poco prima, invece, il tentativo di estromettere la tradizione cattolica dalla civiltà se porta addirittura a trasformare la cattedrale di Parigi in tempio della Ragione. Chateaubriand, uno dei principali scrittori si dell’Ottocento, scrive opere che si rifanno al medioevo visto come periodo in cui la nazione se è fortemente inebriata di spirito religioso. Nel 1803 egli pubblica un’opera che all’epoca ha un grande successo: Il genio del cristianesimo. Il genio, in questo caso, è inteso come carattere ereditario e fondamentale del cristianesimo. L’opera, oltre ad esaltare la fede cristiana come fondamento dei valori sociali, tende ad identificare il gotico medievale con l’architettura del cristianesimo, a farne il simbolo della fede e della religione. L’interesse verso il medio evo cresce al fianco di un movimento di rinascita di stili di quest’epoca finora considerata buia. L’Ottocento, dunque, a differenza del Rinascimento, vede nel medioevo un’epoca di riferimento, un modello. In campo letterario, si assiste al tentativo di ricreare il mito del medioevo: i Canti di Ossian fanno riferimento ad un mitico cantore dei popoli del nord inventato, una sorta di Omero dell’Europa settentrionale che avrebbe lasciato una serie di poesie e poemi che molti scrittori riscrivono in opere moderne, proponendoli come canti mitici di un personaggio mai esistito. In Italia, Ugo Foscolo scrive I Sepolcri, una tipica poesia che fa riferimento al tema dell’oltretomba, fortemente impregnata di cultura del medioevo. Soprattutto sotto Napoleone, ci si rende conto che i resti architettonici e scultorei vanno conservati, ordinati secondo una logica. Le opere d’arte tolte alle chiese e alle abbazie venivano mandate allo stato e quindi accumulate alla rinfusa in grandi magazzini; a Parigi, Alexandre Lenoir, direttore di uno di questi magazzini, per primo ha l’idea di esporre gli oggetti d’arte didatticamente e in senso cronologico, facendo così una classificazione del patrimonio artistico conservato nei depositi. Il museo di Lenoir, fondato nel 1791 con il nome del deposito in cui è allestito, un vecchio convento degli agostiniani di Parigi chiamato Petits Augustins, si configura soprattutto come un museo di antichità medioevali, visto che la maggior parte degli oggetti proveniva da chiese gotiche. Esso esiste ancora oggi con il nome di Museo dei monumenti si e conserva le parti architettoniche scolpite staccate dai monumenti si durante alcune campagne di restauro. L’interesse verso il medio evo rappresenta una novità: fino al Settecento, il riferimento degli studiosi di architettura è sempre Vitruvio, i cui Dieci libri dell’architettura sono studiati da Alberti, Palladio, Perrault, i quali privilegiano sempre l’architettura classica. Il museo di Lenoir nasce con l’idea che conoscere il patrimonio significa anche catalogarlo cronologicamente. Su quest’idea, si innestano alcuni sforzi dello stato se, che cerca di creare degli inventari, cioè delle liste di monumenti che devono essere protetti e restaurati. Soprattutto in Normandia, si formano alcuni studiosi che cominciano ad analizzare e studiare i monumenti del medioevo classificandoli cronologicamente; il loro sforzo è notevole, in quando si deve immaginare che esso è attuato in un periodo in cui ancora non si distingueva il romanico dal gotico, e in cui tutto ciò che era successivo alla caduta dell’impero romano era poco riconoscibile e databile. L’ambiente della Normandia risente fortemente della cultura inglese, che già nel Settecento aveva iniziato il momento di riscoperta del medioevo con lo studio delle chiese inglesi secondo una certa sequenza di date e di stili. Gli antiquari della Normandia, storici e archeologi, incominciano a studiare il periodo che va dall’età bizantina fino all’XI-XII secolo. Ed è proprio intorno agli anni Venti e Trenta dell’Ottocento che si introduce il termine romanico, coniato da uno degli antiquari normanni per classificare e collocare cronologicamente una determinata produzione architettonica. In particolare, Arcisse de Caumont scrive un’opera che vuole essere una sorta di sillabario degli stili esistenti in Francia, proponendosi di ordinare secolo per secolo tutte le forme architettoniche del suo paese. L’idea che ci sia un’architettura bizantina e poi l’arte carolingia, seguita dal periodo ottoniano, dal romanico e dal gotico, che l’arco a sesto acuto sia un’evoluzione dell’arco a tutto sesto e che l’arco stesso sia un’evoluzione della colonna, pensiero oggi acquisito, comincia a formarsi proprio nell’ambiente culturale degli antiquari e in particolare per merito di de Caumont. Mentre Chateaubriand parla dell’importanza del Medioevo e del gotico e gli antiquari e de Caumont spiegano razionalmente come si evolve il medioevo, i restauri fatti in questo periodo non hanno la stessa percezione nell’affrontare i problemi architettonici degli edifici medioevali.
Il periodo dei primi trenta anni dell’Ottocento è generalmente chiamato periodo empirico. In questi anni, gli architetti che restaurano un monumento non si pongono il problema della conoscenza sistematica dell’opera, ma intervengono con molta approssimazione e poca coscienza della storia dell’architettura e delle tecniche costruttive originarie. Molti edifici sono restaurati con interventi che peggiorano addirittura la situazione di degrado, provocando sovente dei crolli. Un caso in particolare è quello dell’abbazia di S. Denis, che presenta la tradizionale facciata se a due campanili; uno di questi campanili, colpito da un fulmine, viene restaurato; ma l’intervento viene talmente male eseguito che bisognerà demolire il campanile restaurato per evitarne il crollo. Dopo il 1830, la Francia è governata da una monarchia costituzionale di tipo borghese-liberale; per provvedere alla tutela dei monumenti e alla sua organizzazione, lo stato crea la figura dell’Ispettore nazionale dei monumenti storici. La carica è molto spesso ricoperta da un letterato o da uno storico con una formazione vicina a quella degli antiquari di Normandia, incaricato di girare per tutta la Francia e segnalare a Parigi quali sono i monumenti che rischiano di essere demoliti e quindi da salvaguardare. Dai rapporti dei viaggi che gli ispettori compiono in varie regioni della Francia, emerge l’agghiacciante situazione in cui si trova il patrimonio architettonico se. Ci si rende però conto che l’ispettore non può bastare da solo a salvare un monumento: c’è bisogno anche di chi sappia eseguire i restauri. Così, nel 1837, è costituita la Commissione nazionale dei monumenti storici, dotata di un presidente, di membri e di sedute regolari, incaricata di valutare le richieste di restauro che arrivano da tutto il paese e di dare disposizioni precise su come vanno restaurati i monumenti, indicando anche i progettisti che devono eseguirne il recupero. La commissione esiste ancora oggi, e rappresenta il modello che si sovrappone a quello italiano. Negli anni Trenta dell’Ottocento, si a dalla figura dell’ispettore a quella del commissario; in seno a questo cambiamento si forma il nuovo concetto del restauro stilistico. E’ un momento fondamentale per la cultura architettonica europea dell’Ottocento: gli architetti cominciano a progettare secondo forme architettoniche desunte dallo studio del ato (eclettismo, storicismo). Già il secondo Settecento è caratterizzato dal neoclassicismo, vale a dire dalla ripresa dello stile classico; con gli inizi dell’Ottocento si consolida lo stile neogotico e successivamente il neocinquecentesco, il neobarocco, il neoegizio, il neomoresco; si forma in sostanza il concetto di stile, che ha delle fortissime ripercussioni sul campo del restauro, il cui nuovo concetto nasce con l’esigenza di studiare correttamente e in maniera sistematica il ato e di trovare degli elementi caratteristici negli stili precedenti per poter poi recuperare gli edifici che appartengono a quello stesso stile. L’idea di conoscere l’edificio originario nella sua complessità nasce proprio fra il 1830 e il 1837, prima nell’ambito degli ispettori nazionali dei monumenti storici e poi in quello della commissione. Il primo ispettore dei monumenti storici in Francia è Ludovico Vitet, il quale gira tutta la Francia scrivendo relazioni accompagnate da disegni e schizzi. Vitet non è un architetto ma uno storico; tuttavia, nelle sue note di viaggio, fornisce anche delle indicazioni sul restauro, animato dal forte desiderio di ricostruire l’edificio originario. Secondo Vitet, per fare un progetto bisogna innanzi tutto fare dei restauri grafici, in modo da riuscire a ricostruire, da alcuni frammenti, tutta la parte mancante; la ricostruzione deve avvenire non per capriccio ma per severa induzione, con un procedimento scientifico. L’obiettivo prefisso è di ricostruire l’edificio non sulla base di un’invenzione ma in conformità ad un metodo scientificamente verificabile. Il metodo induttivo sarà ripreso, poco più tardi, dal più grande restauratore se della metà del secolo, cioè Viollet-le-Duc. In sintesi, il periodo dello storicismo vede i restauratori agire ancora secondo metodi empirici. Lentamente, la conoscenza del ato diventa conoscenza operativa; si definisce in pratica un metodo per studiare e restaurare il ato di tipo induttivo, partendo dal frammento e arrivando ad una lettura generale dell’opera avvalendosi di strumentazioni che devono essere scientificamente verificate. Alexandre Lenoir allestisce il museo dei piccoli agostiniani in maniera empirica, senza una grande conoscenza del medioevo ma con la volontà di organizzare didatticamente la grande raccolta di opere d’arte che il museo conserva. Nonostante Lenoir non distingua perfettamente le varie forme artistiche, opera in buona fede, esponendo oggetti antichi insieme ed ipotizzando per loro, ad esempio nella stanza del XII secolo, l’appartenenza a quel periodo artistico. Per rendere la messa in scena più credibile, le sculture sono ospitate in una sala portata da due pilastri e conclusa da volte scure senza costoloni e decorate con il motivo del cielo stellato. L’ambiente, con le sue decorazioni, riecheggia quello che doveva essere lo stile del XII secolo, un romanico molto evoluto con qualche accenno di gotico. Lenoir inizia così a costruire un’idea di stile, anche se non mancano errori storiografici (molte sculture quasi certamente non appartengono al XII secolo). La sala del museo dedicata al XIV secolo, all’epoca considerato quello propriamente gotico, prende spunto da alcuni motivi che si trovano nella chiesa della SainteChapelle a Parigi. Le grandi volte a sesto acuto che poggiano su costoloni sono completamente inventate; nella parte bassa, il motivo degli archetti trilobi su colonnine è proprio quello tipico della Sainte-Chapelle. Lenoir utilizza le statue in modo improprio: alcune raffigurano personaggi che stanno in piedi con le mani giunte poggiando i piedi su dei piccoli cani, ma non sono fatte per stare in verticale essendo dei coperchi di tombe generalmente
posate a terra nei pavimenti delle chiese. Esse rappresentano dei vassalli dei re di Francia colti nell’atto di pregare; essendo dei vassalli, ai loro piedi è sempre raffigurato l’emblema della fedeltà, vale a dire il cane. Molte di queste tombe provengono proprio dall’abbazia di S. Denis, dove sono sepolti i re di Francia. Non avendo statue a tutto tondo per decorare il museo, Lenoir utilizza le lastre sepolcrali, togliendo loro le parti marmoree che formano la lastra propriamente detta; così facendo, con un processo di pura invenzione, viene resa tridimensionale una statua a bassorilievo. La volontà di mostrare il medioevo ad ogni costo, porta quindi ad operazioni fantasiose ed ingenue, niente affatto scientifiche. Il museo di Lenoir aveva anche un allestimento all’aperto, con alcune sculture tra cui la tomba di Abelardo ed Eloisa, che rappresenta due personaggi protagonisti di una storia romantica e terribile del medioevo se: Abelardo, monaco filosofo, ed Eloisa, monaca anch’essa. Tra i due nacque un’intesa molto profonda, duramente condannata dalla Chiesa, che ne fece pagare le conseguenze ad Abelardo. I due innamorati furono sepolti insieme. E’ una storia intrisa di romanticismo, è il mito dell’amore che porta alla morte. Ma la tomba di Abelardo ed Eloisa è un falso realizzato attraverso il rimontaggio di pezzi di monumenti gotici provenienti da varie parti della Francia. Anche se tutte le sue parti sono autentiche - un doccione enorme, dimensionato per una chiesa, appare assolutamente fuori scala nella scultura - l’opera è nel suo insieme una completa invenzione. Il museo, visitato da letterati, studiosi e antiquari si, rimane aperto fino al 1816, anno in cui Quatremère de Quincy lo fa chiudere. Generale delle armate napoleoniche e partecipe delle campagne di spoliazione che le truppe si avevano fatto in Italia, Quatremère è uno dei pochi fedeli di Napoleone che scrive lettere di protesta contro il trafugamento delle opere d’arte, che – secondo il suo pensiero - non vivono in una dimensione atemporale e senza una precisa collocazione. Ad esempio, un quadro di Piero della sca appare diverso se osservato a Parigi e non in Umbria, dove si percepiscono dei forti legami con l’ambiente circostante, con il paesaggio, con la luce; legami che rappresentano degli stimoli che il pittore, all’epoca, ha recepito e sublimato nel quadro. A Parigi, lo stesso quadro diventa solo un pezzo di una collezione fatta di opere di molti artisti: si rompono quindi quei legami storici e luminosi che sono condizione integrante dell’opera. Infatti l’opera, allontanata dal luogo originario, perde la sua aureola, quell’irraggiamento luminoso che la lega a tutto ciò che la circonda nel momento della sua creazione. La posizione assunta da Quatremère è estremamente moderna, anche se raramente osservata: nel museo degli Uffizi, ad esempio, si trova la pala Rucellai di Duccio di Boninsegna, opera della seconda metà del Duecento, in origine posta su di un altare ad una certa distanza e quota dall’osservatore, con un impianto prospettico ben preciso oggi perduto. Allo stesso modo, molti crocifissi, come quelli di Giotto e Cimabue del Duecento e del Trecento italiano, in origine non erano collocati in verticale ma leggermente inclinati verso il pubblico, con un accenno di prospettiva che esaltava il senso di pietà tipico dei crocifissi. Il motivo della chiusura del museo di Lenoir si spiega con il fatto che Quatremère, tornato in Francia, è nominato direttore dell’accademia delle belle arti di Parigi; da rigoroso classicista, egli non è per nulla interessato all’arte del medioevo. Lenoir viene imitato da altri personaggi: l’architetto chiamato a restaurare la torre centrale della cattedrale di Rouen in Normandia, caduta a causa di un fulmine, propone un progetto in cui la guglia viene concepita di ghisa, cioè di ferro fuso, materiale moderno per l’epoca ma molto pesante e quindi fortemente gravante sulle strutture sottostanti. Le guglie delle cattedrali, in genere, sono di legno dipinto o rivestito, ma l’architetto, in questo caso, preferisce la ghisa sostenendo che essa non si rovina e si può addirittura stampare, permettendo, fatto un modello, di ripeterlo tante volte quante sono le facce della guglia. L’abbazia di Saint Denis, di età romanica, si trova nei pressi di Parigi. E’ nota perché in essa l’abate Suger iniziò a progettare il coro con volte costolonate, realizzando uno dei primi esempi di architettura gotica. La parte inferiore è dunque propriamente romanica, mentre quella superiore è di ispirazione gotica. I due campanili vengono però terminati successivamente, uno nella fase tarda del gotico e l’altro tra il Quattrocento e il Cinquecento, coperto da un tetto. All’inizio dell’Ottocento viene chiamato un architetto di formazione classica, François Debret, per restaurare il campanile cinquecentesco, colpito da un fulmine. La torre si era lesionata e presentava delle crepe nella connessione dei giunti. Debret interviene sul monumento gotico come se fosse un edificio classicheggiante, ossia stuccando le crepe e ingrossando il muro lesionato con dei contromuri realizzati da una parte e dall’altra, nella convinzione che la lesione fosse avvenuta per scarsa resistenza a compressione. Ma un intervento del genere, valido per una struttura a muri portanti come quella di un palazzo rinascimentale, è completamente errato per una struttura che lavora per appoggi puntuali, come una chiesa gotica, in cui tutte le forze vengono convogliate nei pilastri che scaricano a terra. Ringrossando troppo la sezione del muro si aumenta il peso che grava sui pilastri e quindi sulla porzione di muro inferiore, che nell’architettura gotica è in ogni caso scavata. A seguito dell’intervento di Debret, iniziano a manifestarsi delle lesioni nella parte bassa della torre restaurata, che va addirittura leggermente fuori piombo; nel rischio di un suo crollo, che trascinerebbe con sé anche la facciata della chiesa, la torre viene demolita. Da questo episodio nasce una lunga polemica: Debret, al
servizio della commissione del ministero dei culti, che negli anni Trenta dell’Ottocento si occupa della manutenzione delle chiese, viene criticato moltissimo dalla commissione nazionale dei monumenti storici, la quale accusa gli architetti classicisti di non conoscere l’architettura medievale, proponendo quindi di intervenire secondo il metodo scientifico di Vitet. La teoria del restauro stilistico informa tutto il XIX secolo e si riferisce sempre al suo principale alfiere, l’architetto se Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc. Importante sotto ogni aspetto culturale, nasce nel 1814 e muore nel 1879. In giovane età Viollet-le-Duc riesce ad avvicinare l’ambiente della Commissione ai Monumenti, entrando a far parte del gruppo di architetti e studiosi che seguono da vicino il restauro se. Viollet ha una carriera irregolare: piuttosto che entrare nell’Accademia delle Belle Arti, che seguiva un corso molto rigoroso e fondato su di un linguaggio classico ufficiale e paludato, preferisce studiare direttamente i monumenti medievali viaggiando per tutta la Francia e accumulando una vasta serie di schizzi, disegni ed appunti che gli consentono di avere una conoscenza delle opere d’arte che nessuno in precedenza era riuscito a raggiungere. Si reca anche in Italia diverse volte (molti suoi disegni ritraggono fabbriche italiane), arrivando fino in Sicilia, dove può osservare edifici restaurati secondo il criterio del ritorno alla configurazione originaria. Sulla forza di questo apprendimento diretto delle opere, Viollet-le-Duc arriva ad avere una cultura vastissima dei monumenti storici, soprattutto di età medievale. Inizia anche ad avvicinarsi al gruppo di Antiquari di Normandia, soprattutto ad Arcisse de Caumont, lo storico che studia i monumenti si ordinandoli cronologicamente, dal quale assorbe molti spunti ed acquisisce la concezione della storia dell’architettura organizzata per distinte fasce cronologiche. Con Viollet nasce il concetto secondo il quale la storia dell’architettura è storia di forme che si evolvono sempre da uno stile ad un altro. La sua posizione di architetto formato sulle costruzioni gotiche lo pone subito in contrasto con l’Accademia di Belle Arti, che negli anni Trenta dell’Ottocento è diretta dall’accademico Quatremère de Quincy, difensore del linguaggio classico e della tradizione rinascimentale. Il rifiuto di aderire all’ambiente ufficiale dell’architettura se, che lo porta ad essere un personaggio assai scomodo, non gli impedisce di produrre un’enorme quantità di scritti, fra cui il Dictionnaire raisonné de l’architecture française du XI au XVI siècle, una vera e propria enciclopedia che raccoglie sotto una serie di voci dettagliate e precise le principali caratteristiche dell’architettura se del medioevo. L’opera, in una dozzina di volumi, presenta tutte le parti costruttive degli edifici: volte, pilastri, tetti, fondazioni, illustrate attraverso una serie di disegni molto specifici. Mentre il Dizionario si riferisce al ato, un’altra opera, Entretiens sur l’architecture, riguarda invece la nuova progettazione ed è impostata sotto forma di dialoghi o intrattenimenti discorsivi, di breve lunghezza ed asistematici, che trattano temi relativi alle nuove costruzioni; gli Entretiens, pubblicati fra il 1863 ed il 1872, hanno lo scopo di fornire una base conoscitiva per la nuova progettazione. L’architettura dell’Ottocento guarda al ato e ai suoi edifici per trovare forme da utilizzare nel presente (ad esempio, le stazioni ferroviarie inglesi sono esemplate sul modello del gotico veneziano; il Palazzo del Parlamento di Londra, il cosiddetto Big Ben, riprende il gotico medievale); in quest’ottica, Viollet-le-Duc occupa il posto dello studioso-restauratore dell’architettura del ato che in più traghetta al presente la sapienza costruttiva tipica delle architetture dei secoli precedenti. Molti suoi allievi, infatti, faranno le prime esperienze con i materiali costruttivi moderni: uno dei principali, Anatole de Baudot, sarà tra i primi ad utilizzare il cemento armato; un altro suo allievo utilizzerà la ghisa negli edifici che si rifanno allo schema della cattedrale gotica. Anche gli architetti si del primo Novecento, come Auguste Perret, possono alla lontana considerarsi ‘allievi’ di Viollet-le-Duc. Dunque, oltre a restaurare le cattedrali gotiche di Francia, egli fornisce le basi dei principi dell’architettura del Novecento, tra cui quello secondo in quale l’architettura deve manifestare la propria funzione, sia statica sia d’uso. Viollet è legato da amicizia alla moglie di Napoleone III, e ciò gli vale, almeno per un periodo, una grande fortuna professionale: infatti, dopo il 1952, la situazione se cambia con il colpo di stato che rovescia la Repubblica nata nel 1848 e riporta al potere Luigi Bonaparte, nipote di Napoleone I. Nel tentativo di richiamare i fasti dell’impero napoleonico, Luigi Bonaparte dà inizio alla fase tipicamente ispirata alla grandeur se che prende il nome di Secondo Impero (la Parigi dei grandi boulevars voluti dal barone Hausmann nasce proprio con Napoleone III). Viollet rimarrà così in gran luce per oltre un ventennio, fino agli anni Settanta, caratterizzati dalle rivolte dei ceti proletari e dalla deposizione di Napoleone III. Caduto in disgrazia, concluderà la carriera in Svizzera, dove, dopo aver trascorso una vita nello studio delle cattedrali, si interesserà di una costruzione naturale: il Monte Bianco, di cui fornirà uno dei primi studi naturalistici dettagliati. Per comprendere il significato del restauro stilistico è utile partire proprio dalla voce ‘restauro’ del dizionario di Viollet, che rappresenta una sorta di codificazione di questo concetto. Per Viollet, “la parola e la cosa sono moderne” (un restauro che dunque non ha nulla a che vedere con quello che si attuava in ato), e restaurare non significa riparare, conservare, né tanto meno mantenere un dato oggetto, ma “riportare un monumento in un determinato aspetto che potrebbe anche non essere mai esistito”, ma che si può leggere nel suo stile, nelle sue
forme architettoniche; in sostanza, restaurare significa riportare un edificio alla sua unità stilistica e alla sua coerenza formale, che potrebbero anche non aver mai interessato l’intero edificio. Diventa dunque fondamentale il concetto di stile, che in ato non era mai stato enunciato come ora: nel Cinquecento, ad esempio, si parlava di ‘maniera’, cioè dell’attitudine del singolo artista a realizzare, con le proprie ‘mani’ una determinata cosa. Per Viollet, lo stile è un sistema di principi formali ma anche costruttivi che costituisce un insieme coerente, è “la manifestazione di un ideale formale basata sul principio funzionale”: dunque, il vero stile si raggiunge unicamente quando l’opera risponde ad una determinata funzione. Conformemente alla definizione di stile data da Viollet, il gotico non è visto soltanto come un insieme di forme verticali a punta, ma di elementi che fanno sì che le forze che provengono dalla copertura si scarichino speditamente verso il basso lungo costoloni e pilastri. La presenza di guglie e pinnacoli si spiega con la necessità di avere carichi verticali che devino le forze provenienti dall’alto contenendone le spinte orizzontali. Anche l’arco a sesto acuto non è un capriccio formale ma il risultato di calcoli precisi. In conclusione, Viollet vede lo stile gotico come il punto di arrivo di un lungo processo che parte dall’eredità classica, a attraverso l’architettura bizantina, recepisce stimoli dell’architettura araba (l’arco a sesto acuto è un contributo arabo) e attraverso un lungo processo arriva alla maturità degli inizi del XIII secolo. Grazie allo stile si può quindi capire qual è il posto che un edificio occupa all’interno di questo continuo processo evolutivo dell’architettura. La possibilità di ripensare il ato, una volta chiarito che un determinato edificio occupa un preciso gradino della scala storica, porta a riproporre quest’ultimo nel presente, attualizzandolo. L’illusione dell’Ottocento è quella di pensare di ricostruire la storia a ‘tavolino’: il restauro, in quest’ottica, sarà tanto meglio eseguito quanto più si riuscirà a pensare con la mente del primo progettista, concludendo l’opera e riproponendole quella coerenza iniziale che i secoli successivi le hanno fatto perdere. Secondo l’interpretazione stilistica, il restauro deve tendere a riportare l’edificio al suo stile primitivo eliminandone le aggiunte, anche se questo stile non si è mai manifestato compiutamente. Lo stile, dunque, è visto quasi come un codice genetico dell’edificio, che il buon restauratore deve ricostruire partendo dalle poche tracce che il ato lascia (Vitet affermava che si doveva ricostruire “non per arbitrio ma per severa induzione”). Il restauro stilistico si basa sul principio di analogia, a sua volta legato all’evoluzione continua dello stile, che fa sì che ogni epoca ne possiede uno proprio; inoltre, ogni regione, per condizionamenti geografici, ha uno stile che si differenzia dalle altre aree. Ne discende che l’abilità dell’architetto sarà quella di ricollocare l’edificio che sta studiando all’interno del preciso momento storico ed area culturale di appartenenza che gli competono. Egli potrà operare sulla base di un principio di analogia, secondo il quale tutti gli edifici di uno stesso periodo e di una stessa regione usano il medesimo stile. Ciò comporta, ad esempio, che se un edificio della Borgogna del XII secolo presenta una facciata barocca, si potrà eseguirne il restauro eliminando quest’ultima e copiando le parti mancanti da altri edifici borgognoni dello stesso periodo e che manifestano lo stesso stile. Naturalmente, l’idea che la storia sia assimilabile ad una scala in continua evoluzione, che ogni epoca abbia il suo stile e che ogni regione abbia la sua specifica declinazione è poco più di un’illusione; inoltre, non restituisce mai la realtà di un edificio, che nel corso della sua storia subisce una lunga serie di condizionamenti spesso difficili da ricostruire. Tutta la storia del restauro ottocentesco, fondandosi su di un modello ideale che nella realtà non esiste, si dimostra così illusoria. Tra i restauri più significativi di Viollet rientra quello della fortificazione di Carcassone. La cittadella di Carcassonne si trova nel sud della Francia su di un’altura che domina una valle posta tra due catene montuose che fronteggiano l’Atlantico da un lato e il Mediterraneo dall’altro; l’antico borgo era quindi una postazione difensiva molto importante, già occupata in età preistorica e successivamente da un castrum in età romana. Conquistata dai si intorno alla seconda metà del XIII secolo, cominciò a perdere di importanza da un punto di vista strategico. Una fotografia degli anni Quaranta dell’Ottocento mostra lo stato di decadenza della cittadella (la fotografia, inventata da un se negli anni Trenta, è subito impiegata in architettura per l’assenza di movimento dei soggetti ritratti – agli inizi le pellicole necessitano di molta luce per essere impressionate -, divenendo col tempo un documento di grande importanza per documentare i restauri condotti sugli edifici); al giro di mura esterno della fortificazione seguiva una zona piana ‘neutra’ detta “lizza” (scendere in lizza significa proprio portarsi fuori dalle mura a combattere), la cinta muraria vera e propria della cittadella ed infine il castello. In seguito ai resoconti degli Ispettori sullo stato di conservazione di Carcassonne, la Commissione sceglie come restauratore Viollet, che inizia a restaurare la chiesa interna alla cittadella per poi estendere l’intervento, negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo, a tutta la cinta fortificata. Il tipo di intervento è mirato a sanare tutti i danni apportati dal tempo alla costruzione, cancellando le tracce del deterioramento: sono sostituite le pietre ammalorate, occluse le lacune (cioè le interruzioni di muratura dei paramenti); tutta la città viene ricondotta all’unità di stile che aveva al momento dell’annessione al regno di Francia. Viollet ripristina i merli, reintegra le cortine murarie, restaura le torri e crea a loro copertura dei tetti a punta molto acuta.
La porta principale di accesso a Carcassonne, detta Narbonese per il fatto che era posta in direzione della vicina città di Narbonne, faceva parte di un corpo di fabbrica rettilineo che presentava due torri sporgenti e delle bifore gotiche: Viollet ne ricostruisce il tetto con tegole colorate, ripristinando gli arredi delle sale interne e tutti gli apparati difensivi, compreso il ponte levatoio con le sue carrucole di sollevamento. Sulla cinta muraria esterna esisteva una balconata medievale chiusa con tettoia che correva tutt’intorno alle mura; realizzata in legno, essa non aveva il fondo per permettere il lancio dall’alto di proiettili d’ogni genere contro eventuali assalitori. Nonostante questa struttura fosse scomparsa da tempo, Viollet la ricostruisce scrupolosamente per mostrare a tutti come si presentava una fortificazione del XIII secolo. Emerge fortemente la componente didattica dei suoi interventi, finalizzati sempre a mostrare uno spaccato della storia trascorsa; questo aspetto emerge anche dai suoi disegni di restauro, dove compaiono sovente personaggi vestiti con costumi di epoca medievale. Viollet imita anche i particolari del XIII secolo, come nel caso della pietra che costituisce la cortina della cinta muraria, lavorata a bozza -cioè con bugna rustica molto sporgente- con gli stessi strumenti utilizzati nel medio evo. L’unica cosa che Viollet non riesce ad imitare è l’azione del tempo sui materiali, che fa sì che le pietre autentiche si presentino consumate e degradate, a differenza di quelle da lui poste, molto delineate e a spigoli vivi. Proprio il tempo che scorre diviene l’elemento discriminante tra l’autentico e il falso architettonico. Non molti anni fa, con una operazione poco legittima condotta per ovviare alle eccessive invenzioni di Carcassonne, sono stati eseguiti dei de-restauri alla cittadella, come nel caso dei tetti a punta delle torri, che conferivano un’immagine molto forte all’intera cittadella e che Viollet aveva rivestito di ardesia (materiale utilizzato nel nord della Francia e non legato al clima mediterraneo delle regioni del sud, ma che Viollet utilizza coscientemente ritenendo che gli architetti del nord, inviati dal re di Francia dopo la conquista della cittadella, avessero impiegato tecniche costruttive a loro consone); alcune coperture delle torri sono state restaurate con pendenze più lievi e con normali tegole di terracotta, secondo l’uso tipico delle regioni del sud. L’eco del restauro di Carcassonne fu tale da vantare imitazioni in tutta Europa (in Germania, i castelli di Ludovico II di Baviera); anche oggi, parchi di divertimento come Disneyland, nel riproporre un medioevo fantastico fatto di castelli con torri a punta, non si dimostrano poi così lontani dall’esempio di Viollet. Il desiderio di reinvenzione del ato è ancora più forte in un’opera commissionata a Viollet dall’imperatrice Eugenia, moglie di Napoleone III (per la coppia imperiale egli disegna anche una carrozza del treno con cui si muovevano per le regioni della Francia). Il trecentesco castello di Pierrefonds, nella regione dello Champagne (ai confini con le Fiandre), si conservava ridotto a rudere a causa di un incendio avvenuto nel Seicento che aveva interessato anche il ‘maschio’ interno, l’edificio residenziale cuore del castello che in Francia prende il nome di donjon. Attorno al castello era una grande zona boscosa che conferiva a tutto il panorama un aspetto fiabesco. Nel primo progetto di restauro, Viollet elabora una ricostruzione ‘sfumata’: propone cioè la ricostruzione del donjon interno - spicca una scala aperta in stile neogotico - lasciando però le mura allo stato di rudere, immaginando che i reali potessero, dal grande salone delle feste del donjon, osservare il bellissimo panorama dello Champagne attraverso le fenditure delle antiche mura di cinta del castello. Questa visione si lega ad un forte senso del pittoresco, ad un gusto del rudere e del decadente che in Francia si dimostra in genere meno forte rispetto al resto d’Europa. Inizialmente, il primo progetto viene accettato, ma una volta restaurato il donjon, prevale il desiderio di estendere la ricostruzione a tutto il castello. Tra le bellissime tavole di Viollet che illustrano il restauro, tutte di grandi dimensioni, eseguite a mano e colorate (nell’Ottocento nasce una vera e propria scuola di disegno che riprende il gusto per la decorazione gotica e che influenzerà le arti applicate del Novecento come l’art nouveau), alcune mostrano i conci di pietra tutti delineati ad uno ad uno a formare una nuova cinta muraria completa comprendente anche i beccatelli, che in questo caso sono realizzati in pietra anziché in legno. Non vi è alcun tentativo di distinguere le parti antiche con quelle moderne: il restauro è completamente mimetico. Tutto l’apparato decorativo del castello è completamente nuovo: nel salone principale compare una splendida decorazione in gesso di Parigi che imita motivi floreali tardogotici ma che, ovviamente, è opera di artisti dell’Ottocento. Pierrefonds rappresenta un caso limite: il restauro è diventato una completa reinvenzione del ato. Viollet fu un restauratore di grandissima caratura scientifica, ed il giudizio sui suoi interventi va dato considerando il tempo in cui operò. Il problema del restauro stilistico fu che gli allievi di Viollet, che non possedevano le sue stesse conoscenze, distruggeranno numerosissimi edifici antichi con il pretesto di ricondurli al loro stato originario. Un esempio recente è rappresentato dalla basilica di S. Maria di Collemaggio all’Aquila, che il soprintendente Moretti ripristinò in stile romanico demolendo una splendida veste barocca, dimenticando che la decorazione medievale era comunque irrimediabilmente perduta. Oggi, la chiesa non presenta né la configurazione medievale né tantomeno quella barocca, peraltro autentica. Partendo dalla Francia, il fenomeno del restauro stilistico si sviluppa a scala europea, anche sotto forma di progettazione ex-novo. In Italia, il restauro stilistico attecchisce capillarmente in tutta la penisola, ma con alcune differenze rispetto alla Francia e all’Inghilterra; infatti, la concezione italiana di ‘stile’ è meno rigorosa e strutturata rispetto a questi ultimi
paesi, per cui spesso i restauri non puntano chiaramente ad una unità stilistica ma ad una sorta di cosmesi, ad una unificazione che si manifesti non in tutta la struttura dell’edificio ma solo superficialmente. Se per Viollet-leDuc lo stile era la manifestazione di un ideale basata su di un principio costruttivo, per i restauratori italiani esso può riguardare anche semplicemente la superficie dell’edificio. Carlo Maciachini, studioso dell’architettura romanica della Lombardia, restaura le chiese di S. Simpliciano e S. Marco a Milano; in questi due casi, l’unità stilistica si raggiunge solo a livello decorativo, ‘clonando’ alcuni particolari come ad esempio la trifora. A differenza di nazioni come Francia, Germania ed Inghilterra, dove la continuità con il medio evo e dunque con l’architettura gotica è fortissima, l’Italia sente fortemente la tradizione classica; le stesse avvisaglie del neogotico giungono, soprattutto in Piemonte ad opera dei Savoia, con grande ritardo, mentre il resto del paese è invece restio a seguire la moda del ritorno al medio evo. Basti pensare che sono scenografi emiliani come Pelagio Pelagi a recuperare il linguaggio medievale: egli realizza numerosi apparati effimeri per teatri, ed è il primo a progettare ville neogotiche per i Savoia. Un aspetto molto interessante è dato dal fatto che in Italia si tenta sempre di appigliare il restauro e la ricostruzione ad una fonte scientificamente corretta: il documento. Sia esso una fonte grafica o scritta, il documento serve sempre a chiarire l’aspetto di un edificio in un certo periodo. L’esigenza del documento è talmente forte che a volte, quando non esiste, si tende sostanzialmente ad inventarlo, come nel caso del restauro di S. Croce a Firenze, dove per la ricostruzione della facciata, Matas cita dei disegni di rilievo del Cronaca, poi mai trovati e dunque presumibilmente mai esistiti. In questo panorama si inserisce una figura quadro del restauro italiano: Camillo Boito. Personaggio poliedrico, nasce a Roma nel 1836 da famiglia di origine veneziana, e proprio a Venezia segue da vicino i corsi di Pietro Selvatico, forte sostenitore dell’architettura neomedievale; a Milano diventa professore all’Accademia di Brera e vi trascorre gran parte della sua vita. L’importanza di Boito, che pubblica una quantità enorme di articoli e saggi, sta nell’aver fornito, tramite un’azione continua svolta nelle istituzioni accademiche, nei concorsi di architettura e nei contatti con il Ministero della Pubblica Istruzione, l’indirizzo principale all’architettura italiana dell’Ottocento. Grazie alla sua lunga vita –muore nel 1914-, Boito esercita un’influenza molto profonda anche nella rivalutazione dell’architettura romanica. Le prime opere di restauro di Boito seguono ancora un indirizzo stilistico: a Milano, si occupa del recupero della Porta Ticinese, compresa nel giro di mura della città antica. Seguendo la prassi ottocentesca di demolire le antiche mura cittadine per isolare la porta di accesso, Boito elimina le abitazioni che si erano sovrapposte nel tempo alla porta, e oltre al varco centrale, crea due fornici laterali forse mai esistiti. Vengono anche inventate due torri in mattoni, una conclusa e un’altra lasciata incompleta, forse per non offrire un’immagine di eccessiva simmetria (un’operazione simile a quella condotta da Viollet-le-Duc sulla chiesa della Madelaine). L’intervento in stile è evidente anche negli archi realizzati a sesto acuto, nella cortina di mattoni e nelle decorazioni medievali. In stile viene restaurato anche Palazzo Cavalli Franchetti a Venezia, un edificio di origine medievale ampliato e ristrutturato nell’Ottocento. Il progetto di Boito interessa il corpo scala, sul quale egli interviene secondo un’impostazione stilistica che si manifesta nella ripetizione di elementi esistenti, come nel caso della bifora realizzata ad apertura dello scalone posteriore. Il compito che Boito si assume verso l’architettura è di offrirle un carattere peculiare e marcato nell’Italia da poco unita. Dopo il 1860, e ancor più dopo la conquista di Roma del 1870, l’Italia assume una veste unitaria che porta a due problemi inerenti l’architettura: il primo relativo allo stile da dare alla nazione, il secondo legato alla notevole differenza di tradizione architettonica e di indirizzi della sua tutela che ava fra i vari stati pre-unitari. Il problema si estende anche ai differenti metodi di restauro adottati nelle varie aree geografiche d’Italia; Boito, sostenendo in larga parte la posizione di Selvatico, raccomanda l’adozione del linguaggio romanico, offrendo una motivazione che ai giorni nostri può sembrare ingenua ma che all’epoca è molto sentita, in quanto relativa allo stile, che per l’Ottocento rappresenta sempre il riflesso di una verità etica, spirituale. Il romanico andrebbe adottato, secondo Boito, poiché è lo stile dei comuni italiani che si sono ribellati da una parte alla chiesa e dall’altra all’impero tedesco, liberandosi dal loro giogo. In un’Italia unitaria nata rendendosi libera dall’impero austro-ungarico e dal papato, l’unico punto di riferimento del ato cui si possa guardare con sicurezza appare appunto il medio evo romanico. Il riferimento al romanico concerne anche l’indirizzo da dare alla nuova architettura, che dovrà guardare allo stile medievale come modello da seguire ma non da imitare o riprodurre. Boito tenta un compromesso tra l’ipotesi stilistica di Viollet-le-Duc e quella conservativa di Ruskin, invitando gli architetti contemporanei a completare gli edifici che necessitano di cure ma anche a conservare la loro autenticità, in maniera tale da non ingannare chi li osserva. La soluzione intermedia proposta da Boito richiama la filologia (letteralmente: studio della parola, o meglio del testo), una disciplina letteraria che tenta di risalire ad un testo di partenza attraverso le sue versioni successive. Così, ad esempio, se non si possiede più un testo originale ma solo le copie che gli amanuensi hanno fatto nei monasteri, attraverso il loro confronto si cerca di eliminare gli errori, risalendo ad una versione il più vicina possibile all’originale. Boito osserva che sarebbe giusto restaurare un elemento originario utilizzando parti nuove in modo da renderne chiara la lettura, ma che i nuovi
elementi andrebbero inseriti tra segni diacritici, ossia quei segni che in scrittura servono a distinguere, a staccare una parola dal contesto nel quale è inserita ( parentesi, virgolette, corsivo). Egli suggerisce cioè di utilizzare segni diacritici anche nel restauro, adottando per questa disciplina un metodo filologico attraverso il riferimento a due principi fondamentali: - distinguibilità dell’intervento (ossia, l’intervento di ricomposizione dell’unità stilistica deve avvenire in maniera che le parti nuove siano distinguibili da quelle antiche); - notorietà dell’intervento (ossia, quando si esegue il restauro, esso va reso noto chiaramente, in modo da non ingannare chi guarda all’oggetto del restauro); Dei due, sicuramente il principio più importante è quello della distinguibilità: il restauro è legittimo poiché i monumenti non possono essere lasciati in rovina, ma il loro completamento va eseguito evidenziando la modernità dell’intervento. Boito sostiene queste idee per la prima volta nel 1879, al Congresso Nazionale degli Ingegneri ed Architetti, per confermarle poi nel 1883, ad un successivo Congresso. In Italia, in questo periodo, non esistono le facoltà di architettura ma solo i politecnici, presso i quali si consegue la laurea in ingegneria; i corsi di architettura si seguono invece presso le Accademie di Belle Arti, che conferiscono il titolo di architetto. Agli inizi dell’Ottocento, vengono introdotte le facoltà di ingegneria, all’interno delle quali lo studio si basa prevalentemente sulla neonata scienza delle costruzioni, che fornisce un indirizzo specificamente tecnico, mentre quello degli architetti formati presso le accademie si lega prevalentemente al disegno. Spesso gli ingegneri, dopo la laurea, seguono i corsi delle accademie ottenendo così anche il titolo di architetto. Boito tenterà per tutta la vita di far convergere queste due formazioni così diverse. Nel convegno del 1883, egli presenta un ordine del giorno articolato in otto punti relativi al restauro; i principi esposti rappresentano una sorta di prima Carta del restauro italiano e forniscono un indirizzo preciso al restauro italiano di fine Ottocento e di gran parte del Novecento. Tra i principi, vi è quello legato alla possibilità di reintegrare le lacune per riconnettere le murature dell’edificio, cambiando però i materiali e lo stile delle parti aggiunte, o evidenziando la parte del monumento di restauro con date da apporre sul nuovo materiale impiegato. Un’altra modalità di intervento è quella di sopprimere gli ornati e di semplificare le sagome originarie, facendo attenzione a non creare delle forti discontinuità nell’edificio: il restauro, cioè, deve essere condotto in modo da potersi rendere conto da vicino della differenza di materiale, ma al tempo stesso che da lontano si possa ricomporre l’immagine complessiva del monumento. Un altro punto riguarda il concetto della notorietà: se nel corso del restauro si rende necessaria l’asportazione di alcune parti autentiche del monumento per evitarne il progressivo deterioramento, queste devono essere comunque conservate nei pressi della fabbrica per far capire che appartengono alla sua storia. E’ inoltre necessario rendere noto l’intervento attraverso pubblicazioni che mostrino i disegni di rilievo e di restauro del monumento. Emerge, in questa circostanza, la finalità didattica dell’intervento, accentuata anche dalla proposta di presentare delle riproduzioni fotografiche che indichino lo stato dell’edificio prima e dopo il suo restauro, così da non ingannare l’osservatore. Tutti i principi – lo sostiene lo stesso Boito - fanno riferimento al restauro dell’Arco di Tito eseguito da Valadier agli inizi dell’Ottocento, fra i più apprezzati di tutto l’Ottocento. Gli otto punti vengono presentati ad una platea di professionisti con formazioni diverse fra loro: da un lato, gli ingegneri, come quelli del Genio Civile demandati al restauro degli edifici antichi ma abituati a progettare ponti, strade o acquedotti, privi quindi di dimestichezza verso i monumenti; dall’altro, gli architetti, abili nel disegno e nella decorazione ma con scarsa conoscenza dei problemi statici degli edifici. Boito intuisce che, per proporre un valido restauro, sarebbe necessario formare una nuova figura professionale che riunisca in sé le competenze scientifiche degli ingegneri e la sensibilità artistica degli architetti delle accademie. A questa figura intermedia andrebbe affidato l’enorme patrimonio artistico dell’Italia unita. Il progetto di fondazione di una nuova facoltà di architettura non sarà portato a compimento da Boito; sarà Gustavo Giovannoni, nel 1921, a fondare a Roma la prima facoltà di architettura d’Italia. L’intera cultura italiana del restauro, fino ad oggi, si basa sui due principi fondamentali enunciati da Boito. Mentre la cultura europea in materia si allinea soprattutto al concetto se di restauro in stile, quella italiana, almeno a livello teorico, tende a differenziare il moderno dall’antico. In realtà, i fatti si dimostrano molto diversi: sia Boito che i suoi allievi seguono tutto sommato l’indirizzo mimetico, e molti restauri che si richiamano ai principi esposti nel 1883 appaiono comunque dei restauri stilistici. Il volume Questioni pratiche di Belle Arti, che Boito pubblica nel 1892, raccoglie numerosi suoi scritti sull’arte e sull’architettura, offrendo indicazioni per il concreto operare sugli edifici antichi. Sono indicati, secondo il tipo di monumento, tre diversi tipi di restauro: il primo è il restauro archeologico, rivolto ad edifici che non hanno più una funzione concreta e per i quali è indicata la sola conservazione dei ruderi. Per questi edifici sarà consentita al massimo l’anastìlosi, ossia il rimontaggio dei pezzi, come i rocchi di una colonna o la trabeazione crollata di un tempio.
Il secondo è il restauro pittorico, atto a mantenere il carattere pittoresco degli edifici (come ad esempio il loro aspetto decadente, la loro ‘patina’). Questo tipo di restauro è indicato per gli edifici medievali, per i quali sono possibili anche reintegrazioni e aggiunte, purché di essi non si alteri il valore pittoresco. Il terzo è il restauro architettonico, adatto agli edifici costruiti dal Rinascimento in poi, che Boito sente più vicini a sé. Tali edifici, che conservano quasi sempre una funzione concreta, sono privi della ‘patina’ caratteristica delle fabbriche più antiche e non presentano vegetazione che li riveste. Per loro sarà legittimo il completamento seguendo lo stile originario. L’attenzione per la limitazione dell’intervento stilistico, nel concreto operare, si riduce quindi moltissimo: Boito avalla, di fatto, operazioni di imitazione. In definitiva, gli otto punti proposti hanno una valenza soprattutto politica, e servono a Boito a formare una nuova classe professionale. Infatti, i suoi principi non vengono particolarmente seguiti né da lui né dai suoi allievi, i quali continueranno ad operare sostanzialmente nella direzione del restauro stilistico.
L’Inghilterra, nell’Ottocento, in linea con gli altri paesi del nord Europa, vede nel medio evo l’origine della propria esistenza; nazioni come Grecia ed Italia, invece, cercano ancora le loro radici nell’antichità classica. L’Inghilterra è la prima nazione europea a sostenere il forte impatto provocato dalla rivoluzione industriale: già alla fine del Seicento, gli inglesi mettono a punto dei sistemi di produzione industriale come quello della tessitura; inizia a formarsi un capitale attraverso l’investimento di denari nell’acquisto di macchinari, a scapito dell’agricoltura. Nel Settecento è già lecito parlare, per l’Inghilterra, di una vera rivoluzione industriale. La produzione di lana, di tessuti e di oggetti domestici avviene su scala industriale: i prodotti non vengono più realizzati per i propri bisogni personali (o per un singolo villaggio, come avveniva per l’economia feudale), ma per l’intera nazione. Nascono i primi problemi legati all’industria, come quello del lavoro minorile o addirittura dell’inquinamento delle città. Inoltre, aumenta il fenomeno di urbanizzazione: grosse masse di popolazioni si spostano verso le grandi città, che crescono con le loro periferie provocando fenomeni di sradicamento sociale. La conoscenza anticipata dell’economia di tipo capitalistico e della rivoluzione industriale porta anzitempo l’Inghilterra ad affrontare problemi legati al rapporto tra lavoratore e prodotto finito: infatti, mentre lo scalpellino medievale lavorava in prima persona un elemento per poi vederlo in opera magari su di una cattedrale, partecipando così al processo formativo della fabbrica, l’operaio industriale svolge ora –e per tutta la vitaesclusivamente una parte del lavoro del processo industriale. Dunque, se la produzione artigianale (e per esteso anche quella artistica) del ato era opera di un solo artista o in ogni caso controllata, ora il prodotto industriale è frutto di un lavoro parcellizzato. Ciò comporta anche la necessità di porsi presto il problema dello stacco molto forte rispetto al patrimonio artistico del ato: con l’inurbamento, molte città, chiese e monumenti antichi cominciano ad essere abbandonati perdendo sostanzialmente di senso. Il rapporto che l’Inghilterra ha con il proprio patrimonio architettonico non è lo stesso di quello che si ha in Francia, dove molti architetti ottocenteschi, di tradizione classicista, si recano spesso in Italia a studiare i monumenti eseguendone rilievi. Gli architetti inglesi, pur conoscendo il lessico classicista, mantengono sempre un forte legame con la tradizione gotica: lo stile gotico è sempre stato considerato lo stile nazionale, mai abbandonato, tanto che alcune opere realizzate nel Seicento possono essere considerate a tutti gli effetti come architetture gotiche. Anche un architetto classicista come Christopher Wren, progettista della St. Paul’s cathedral di Londra (realizzata in stile rinascimentale), proporrà comunque dei rifacimenti in perfetto stile gotico. Il principale studioso di questo particolare momento storico dell’Inghilterra è Kenneth Clark, morto nel 1983, che sosteneva che il Revival gotico si fosse fuso con il suo Survival, vale a dire con la propria sopravvivenza; la tradizione gotica non si sarebbe dunque mai interrotta (in molte città inglesi del Settecento, ad esempio, le travature lignee delle coperture sono realizzate secondo modelli gotici). Nella cultura inglese del periodo si fa strada una sensibilità estetica che permette un approccio diverso ai resti del ato, e che fa capo all’idea del sublime (anch’essa, come l’estetica neoplatonica, di origine greca). Quest’idea si diffonde soprattutto in seguito alla pubblicazione di un breve trattato, A Philosophical Enquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime and Beatiful, scritto da un filosofo inglese di nome Edmund Burke intorno alla metà del Settecento. Il concetto di sublime è diverso da quello di bellezza presente in tutta Europa nello stesso periodo: ci si allontana dal modello di bellezza ultraterrena attinta dal mondo delle idee per abbracciarne un altro legato proprio al sublime. Il sublime è tutto ciò che rappresenta un conflitto, uno scontro; all’armonia e alla compiutezza del bello tradizionale si contrappone, per i filosofi inglesi settecenteschi, l’estetica del sublime: in questo senso, più di Raffaello sarà da apprezzare Michelangelo, che mette in scena la tensione fra elementi in contrasto. Secondo questo nuovo concetto, oltre che un tempio greco si potrà apprezzare anche una scogliera sulla quale si infrangono le onde, la vista di un burrone o un tramonto. Si guarda ai segni del tempo e al decadimento, che provocano un senso particolare di piacere.
L’idea del sublime porta ad apprezzare i simboli della decadenza: si ritiene bello non solo l’edificio completato ma anche il rudere: nei giardini del Settecento inglese, come quello di Barry Lindon, compare spesso un rudere, rappresentazione dello scontro tra l’opera dell’uomo, che vuole essere sempre perfetta, compiuta, e l’opera della natura, che tende a riportare la precedente allo stato indistinto da cui ha tratto origine. La tendenza ad inserire il sublime nella vita di tutti i giorni prende il nome di pittoresco. La cultura inglese del Settecento supera la tradizionale idea di bellezza fondata su canoni classici come la proporzione e l’armonia, a loro volta collegate al corpo umano (l’ideale leonardesco è proprio quello dell’uomo misura di tutte le cose); sta diventando bello ciò che è smisurato, che supera la misura umana. Molti pittori inglesi del primo Romanticismo rappresentano scogliere con il mare in tempesta: per descrivere in un dipinto un evento del genere, William Turner si fa legare all’albero di una nave, proprio per capire lo sconvolgimento che un’esperienza simile può provocare, per sentire il senso della fine, della morte (la tela, del 1842, ha come titolo Tempesta di neve; un’altra sua opera di questo genere sarà Pioggia, vapore e velocità). La sua pittura abolisce del tutto il contorno, l’armonia delle proporzioni e il tradizionale utilizzo dei colori, facendo affidamento all’emotività del pittore. Un altro pittore in cui è presente il concetto di sublime, che travalica la natura dell’uomo, è Caspar David Friedrich, tedesco, le maggior parte delle cui opere si conservano a Berlino e Dresda. Anch’egli pone l’accento sulla bellezza della natura intesa come sublime, orrida (il termine orrido, per definire ad esempio un abisso in montagna, fa riferimento alla valutazione negativa che in tutto il classicismo cinquecentesco si dava ai paesaggi alpini); nelle sue tele l’uomo è spesso ritratto di spalle –l’uomo è del tutto secondario- in contemplazione della natura. Il Naufragio della Speranza, che descrive proprio il naufragio nei mari del nord dell’imbarcazione Speranza, è anche una metafora della visione pessimistica della natura umana; Friedrich è uno dei primi pittori a rappresentare la bellezza del rudere: nel cimitero dei monaci -o l’abbazia-, compaiono pochissimi personaggi di spalle, inseriti in un paesaggio che richiama le lande dell’Europa settentrionale, a fare da contorno ad una rovina di una chiesa medievale gotica. Il sublime si lega dunque a tutto ciò che ricorda all’uomo la sua fine, il suo essere limitato rispetto alla grandezza della Natura. Il termine pittoresco deriva dall’inglese e si attribuiva, nel Settecento, alle cose talmente belle da essere riprodotte in pittura. L’aggettivo si riservava quindi soprattutto a paesaggi naturali, giardini, rovine, queste ultime volte a ricordare lo scorrere del tempo, la breve durata della vita umana. Il concetto di pittoresco è talmente radicato e forte che nei giardini settecenteschi è di moda anche costruire un rudere finto, come un muro sbrecciato o una falsa chiesa gotica distrutta. I giardini all’inglese si differenziano molto da quelli all’italiana sviluppatisi a partire dal Rinascimento e legati al concetto di prospettiva: questi ultimi, veri e propri disegni geometrici con viali rettilinei e vegetazione ben definita (come i giardini del palazzo ducale di Urbino o quelli medicei a Firenze), ispireranno i giardini si, che riprenderanno a loro volta il tema della natura obbligata a seguire assi definiti su scala monumentale (un esempio tipico è quello dei giardini della reggia di Versailles). Il giardino all’inglese, invece, non segue alcuna regola prospettica: Regent’s Park a Londra, ad esempio, è privo di un viale rettilineo di accesso; presenta invece strade curve che portano a laghetti, colline, boschetti, dando al visitatore l’impressione di trovarsi in un autentico pezzo di natura. Dunque, anche nella progettazione dei giardini emerge il desiderio di fondersi con la natura. Nell’Inghilterra del periodo, è forte l’interesse per l’architettura medievale, che, come detto, non si era mai arrestato del tutto. Alcuni architetti, però, cominciano ad interpretare il gotico sotto un altro punto di vista; il riferimento va soprattutto ad alcune ville che nel tardo Settecento vengono costruite per alcuni intellettuali inglesi, soprattutto scrittori di volumi come le Gothic Stories, brevi romanzi ambientati in architetture gotiche con personaggi misteriosi e fantastici). The castle of Otranto, romanzo scritto nel 1764 dal ricco lord inglese Horace Walpole, rappresenta una delle prime prefigurazioni del romanzo giallo dell’Ottocento, ma anche di certa cinematografia contemporanea di genere thriller. Christopher Wren, principale protagonista della ricostruzione di Londra dopo l’incendio del 1666 e grande diffusore dello stile italiano in Inghilterra, completerà l’abbazia di Westminster -dove sono sepolti molti re d’Inghilterra- in perfetto stile gotico, con grande padronanza degli elementi che compongono questo stile. La facciata dell’abbazia, rimasta incompiuta per molto tempo, sarà proseguita da un allievo di Wrenn in pieno settecento con l’inserimento di due torri di chiara tradizione nazionale gotica. L’attenzione verso il ato medievale si manifesta anche nel collezionismo di frammenti antichi, utilizzati per creare delle atmosfere che suggeriscano l’idea del sublime; nella casa di Londra di John Soane, l’architetto neoclassico inglese per eccellenza, sono conservati frammenti architettonici e scultorei che egli riportava dai suoi innumerevoli viaggi all’estero. E’ manifesto anche in questo caso il gusto per il capriccio, il pittoresco, non molto lontano dal gusto che caratterizza in Francia il museo di Alexandre Lenoir, il quale però offre una visione molto razionale e catalogatoria del ato, interpretato invece da Soane in chiave più emotiva.
L’architetto James Wyatt costruisce una villa nello Wiltshire per Horace Walpole, dandole un’intonazione gotica, misteriosa e fantastica, in piena sintonia con i romanzi scritti dal suo committente. La villa, grandiosa, si trova sulla collina di Strawberry Hill, e viene iniziata come una consueta villa rococò; successivamente, Walpole chiama Wyatt per far introdurre in essa delle parti che ricordino l’architettura gotica. Si assiste così, lentamente, ad una trasformazione dell’edificio da forme barocche a forme neogotiche. Una stampa dell’epoca riproduce un padiglione situato nel giardino della villa: in essa, i folti alberi impediscono l’accesso della luce nel giardino, privo di alcuna geometria; il padiglione, realizzato con materiali effimeri come legno, gesso e cartapesta, offre più l’immagine di una scenografia che di una architettura vera e propria. Tutta la villa finisce per essere una cosciente rievocazione dello stile gotico: tetti a punta, merlature che alludono a castelli, archi a sesto acuto all’esterno; solai decorati con motivi a losanghe, ghimberghe d’arredo, volte a ventaglio all’interno. La differenza sostanziale fra gli elementi gotici e quelli neogotici che ai primi si ispirano sta nel materiale di cui si compongono: di pietra i primi, di gesso i secondi, ad ottenere un effetto puramente scenografico. Spesso nella villa compaiono motivi traforati ripresi dalle coperture delle navate delle chiese gotiche inglesi. Wyatt costruisce un’altra villa per il marchese Beckford, che commissiona all’architetto inglese una residenza di dimensioni enormi che si ispiri ad un’abbazia medievale ridotta a rudere. Fonthill Abbey era dunque concepita come una grande abbazia, con un vestibolo da un lato che simulava una chiesa medievale e un lungo ingresso rettilineo che riprendeva i dormitori dei monaci dall’altro; quest’ultimo era coperto a volta e aveva finestroni gotici altissimi, del tutto fuori scala. Oltre il corridoio, salendo una scala e oltreando una enorme porta d’ingresso, era una torre ottagonale che riprendeva il tema del tiburio medievale; al di là della torre si sviluppava la villa vera e propria del marchese. Fonthill Abbey, per le sue smisurate dimensioni e per la mancanza di orizzontamenti degli altissimi muri, crolla pochi anni dopo il suo completamento, quasi realizzando quell’ideale di decadenza e di sublime che il committente desiderava. Agli inizi dell’Ottocento, la cultura inglese ha ormai assorbito il gusto gotico e del pittoresco; l’Inghilterra, dopo la sconfitta di Napoleone, si scopre nazione con una religione secolarizzata, quasi abbandonata. Il governo si pone il problema del recupero della tradizione religiosa, e nel 1818 emana una legge per sovvenzionare la costruzione di nuove chiese (è la cosiddetta legge per la costruzione delle chiese); a partire da questo provvedimento, inizia il movimento propriamente neogotico: molti dei progetti di costruzione delle nuove chiese saranno chiaramente ispirati al gusto gotico. In una tavola di Soane presentata a seguito della legge del 1818 per illustrare le sue idee, sono illustrati diversi tipi di chiese che in realtà fanno capo ad un’unica pianta che appare in primo piano: un’aula a pianta rettangolare con tre navate preceduta da un piccolo portico introdotto da colonne. Soane propone di adattare a questo schema di base, in alzato, tanto gli ordini classici quanto lo stile gotico, secondo un atteggiamento molto pragmatico che sicuramente Viollet avrebbe respinto. La consacrazione del neogotico in Inghilterra avviene intorno agli anni Trenta dell’Ottocento grazie ad Augustus Pugin, architetto di origine se che si forma sul culto del medio evo inglese. Egli si lega presto ad alcune società di studiosi che si erano formate ad Oxford e a Cambridge ed il cui scopo era il recupero dei valori medievali e della tradizione cristiana. In particolare, la Cambridge Camden Society (formata dai cosiddetti camdeniani, studiosi di diritto, storia e religione) fonda una rivista dal titolo The Ecclesiologist (letteralmente: lo studioso di chiese). La rivista inizia a presentare progetti di restauro di chiese medievali ponendo l’accento sul restauro dell’architettura ma anche sul recupero della fede, che un’Inghilterra volta alla dimensione capitalistica del lavoro e alla produzione industriale aveva quasi completamente dimenticato, divenendo un paese laico e secolarizzato. La Camden Society tenta addirittura di ripristinare la liturgia del medio evo, scavalcando la tradizione anglicana inglese, nata a partire dalla fine del Quattrocento in seguito allo scisma con la chiesa di Roma. La volontà di ritorno al cattolicesimo, osteggiato nell’Inghilterra dell’Ottocento, porterà la rivista ad essere dichiarata fuori legge e alla sua conseguente chiusura. Nonostante la scomparsa dei camdeniani, l’ideale di rivivere la tradizione medievale anche dal punto di vista religioso a al loro seguace Pugin. Negli anni Quaranta dell’Ottocento, Pugin realizza molti particolari decorativi neogotici del palazzo del parlamento a Londra (il progettista è l’architetto Berry), ma la sua importanza è legata soprattutto a due testi: Trattato sui veri principi dell’architettura ogivale ossia cristiana e Contrasts. Entrambe possono essere considerate opere parzialmente utopiche. Nella prima, Pugin propone una storia del medio evo architettonico inglese enucleando alcuni caratteri essenziali (che Viollet chiamerebbe stili, ma che Pugin definisce principi) tipici del gotico inglese, in cui ritrovare valori tanto architettonici quanto religiosi; per Pugin, la scelta del gotico è motivata dal fatto che questo stile veicola una aspirazione al trascendente (l’idea della pulsione verso l’alto della cattedrale gotica, “come due mani giunte”, nasce proprio da un personaggio di Pugin). L’architettura gotica trarrebbe la sua forza e la sua verità dal fatto che è stata l’architettura del cristianesimo, religione sulla quale pone le sue fondamenta. Pugin individua nella storia del medio evo inglese tre grandi stili: il primitivo, il decorato e il perpendicolare, ma anziché dar loro una visione di tipo evolutivo, ne propone una di tipo dottrinario; il gotico è dunque visto come lo stile della fede.
Nei Contrasts, opera più nota della precedente e il cui sottotitolo è Ossia un parallelo tra la città inglese del Quattrocento e la città inglese dei nostri giorni, Pugin afferma che guardare al ato deve significare non solo guardare a delle forme e a dei ruderi, ma anche a dei valori; in quest’ottica, la città inglese, frutto del lavoro specializzato, della produzione industriale e dell’inquinamento, si mostra in tutto inferiore alla città medievale, che possiede invece una propria forma, è costantemente in armonia con chi la abita e presenta delle forme architettoniche valide proprio per il fatto di avere dei valori in cui credere. Il ‘contrasto’ è quello fra il modo di vivere contemporaneo, tutto volto allo sviluppo dell’industria e al guadagno, e lo stile di vita del ato, fatto di valori umani e religiosi profondi che permettevano anche l’esistenza della bellezza. La città moderna risulta brutta ed informe; per recuperare la sua bellezza trascorsa, è dunque necessario -sostiene sempre Pugin- recuperare i valori del ato. La tavola di apertura dei Contrasts presenta due immagini; la prima mostra la città quattrocentesca, al termine del suo sviluppo urbanistico, circondata dalle mura e con un fiume attraversato da un ponte che indica una buona armonia con la natura. Compaiono, sullo sfondo della città, moltissime guglie di chiese gotiche, simboli di fede; anche lungo il camminamento del ponte in primo piano è presente, secondo una tradizione viva anche nelle città italiane, una piccola cappella. Oltre il ponte, nel sobborgo della città, compare un’altra chiesa. La seconda immagine mostra la città moderna: le guglie sono completamente scomparse (ormai in pochi vanno in chiesa), il rapporto con il fiume è cancellato dalla presenza, lungo tutto il suo corso, di grandi allogi in affitto (i cosiddetti sluns, intensivi a basso costo che gli imprenditori costruiscono per alloggiarvi gli operai). Il ponte medievale è sostituito da uno moderno senza cappella, la piccola chiesa fuori città presenta dei comignoli che indicano come essa sia stata trasformata in abitazione. Per Pugin, il contrasto tra la perfezione del ato e la decadenza del presente può fungere da monito e da guida per il miglioramento della società attuale. Pugin si interessa della salvaguardia di chiese gotiche della campagna inglese ma non scrive specificamente di restauro; nondimeno, dai Contrasts emerge la volontà di conservare la città antica perché portatrice di valori che altrimenti andrebbero perduti. Pugin, anglicano, si converte addirittura al cattolicesimo ed è per questo allontanato dal mondo ufficiale; ma l’idea che conservare il ato porta a migliorare il presente erà comunque ad un suo seguace eccellente: John Ruskin. John Ruskin è un personaggio fondamentale per tutta la cultura inglese dell’Ottocento; non è un architetto ed ha una vita molto lunga (1819-1900), intensa soprattutto nel periodo vittoriano. Di famiglia benestante e dedita al commercio dei vini (attività tipica degli aristocratici inglesi), Ruskin si dedica fin da piccolo agli studi storicoartistici (scriverà una quantità enorme di testi di ogni tipo), viaggiando moltissimo anche in Italia, nazione che amerà profondamente. Su Venezia scrive The stones of Venice, un inno alla bellezza della città lagunare, considerato uno dei principali testi del neogotico inglese. Il suo interesse per l’arte sarà sempre costante: fin dagli anni Quaranta, Ruskin sarà il sostenitore di un gruppo di pittori (sull’attività dei quali scriverà un libro dal titolo Modern painters), definiti Preraffaelliti, che si rifanno alla pittura italiana precedente al Rinascimento maturo. I Preraffaelliti (il termine è coniato dallo stesso Ruskin) guardano a pittori come Beato Angelico, Piero della sca, Giotto, privi della perfezione formale di Raffaello ma visti come più autentici, spiritualmente veri. Mentre quello medievale è visto come un periodo profondamente religioso, il Rinascimento è considerato pagano, mancante di quella tradizione cristiana fortemente presente nell’arte precedente. Ruskin diventa così il capofila del movimento neomedievale in Inghilterra, che in pittura ha i suoi maggiori esponenti in Burne-Jones e nel suo maestro di origine abruzzese – il padre eradi Vasto- Dante Gabriel Rossetti, la cui opera più celebre è Ofelia, un dipinto carico di atmosfere languide e malinconiche. Anche nei disegni di Ruskin emerge il cosciente rifiuto del Rinascimento a favore del medio evo; attratto dall’architettura gotica italiana, spesso la raffigura, come nel caso di S.Maria della Spina a Pisa, piccola chiesa medievale tardogotica. A differenza delle tavole razionali e geometriche di Viollet, i disegni di Ruskin mostrano sempre degli scorci, degli accenni soltanto parziali alle architetture. I prospetti completi compaiono raramente, e l’attenzione è più rivolta al particolare architettonico, al materiale di cui si compone e al colore che il tempo gli ha conferito. Nel disegno del fondaco dei Turchi a Venezia, l’attenzione si sofferma sugli elementi architettonici, descritti con pochi efficaci colpi di acquerello; l’illustrazione è contenuta nel libro The stones of Venice, scritto nel 1851. Il titolo del libro rappresenta un’allegoria: le pietre di Venezia sono certamente le parti che compongono l’architettura della città, ma rappresentano anche il valore dei suoi cittadini, la capacità lavorativa dei mercanti, la bontà delle leggi che governano Venezia. Secondo Ruskin, quindi, l’architettura non può essere scissa dalla società che l’ha prodotta. Questi concetti sono ripresi nell’opera più importante per l’architettura: the seven lamps of architecture (la prima edizione dell’opera è del 1848), dove il termine ‘lamps’ sta per fiaccole, luci, e rappresenta i principi che devono guidare l’opera dell’architetto. L’opera non è destinata al restauro ma ad ispirare la progettazione secondo sette validi principi. Uno di questi, definito lampada della verità, sostiene la necessità della verità in architettura, ossia il bisogno di impiegare nella costruzione materiali sinceri, veri: così, ad esempio, devono essere usati il marmo e
la pietra e non materiali che li imitano. Il riferimento di Ruskin è all’architettura dell’Ottocento inglese, che impiega elementi prodotti sempre più serialmente: il Portland, costosa pietra naturale del sud dell’Inghilterra, viene imitata da un suo surrogato molto più economico realizzato con una miscela che sarà poi il materiale di base del cemento armato; la ghisa, colata all’interno di stampi di ceramica che imitano gli ordini classici, viene impiegata regolarmente nelle nuove architetture in elementi che possono essere acquistati su cataloghi. Ruskin si scaglia contro questa architettura falsa ed industrializzata, a favore della sua ormai rara autenticità. A conferma dell’importanza del suo pensiero, la riscoperta dei materiali autentici sarà in seguito uno dei cardini su cui si baserà tutta l’architettura moderna. Una lampada che riguarda più da vicino il restauro è la sesta, ossia la lampada della memoria, in cui l’autore sostiene la necessità che ogni architettura trasmetta la memoria del ato, facendosi carico anche dello scorrere del tempo. Nel capitolo della sesta lampada, Ruskin invita al rispetto dei segni del tempo sui monumenti, poiché essi servono a tramandare la memoria del tempo che a. Sulla base di questo capitolo, Ruskin è ritenuto il fondatore della conservazione in architettura, in contrapposizione al restauro stilistico di Viollet-le-Duc. Sviluppi del restauro nel Novecento. La teoria di Cesare Brandi e gli interventi più significativi dell’Istituto Centrale del Restauro A Roma l’A.A.C.A.R., l’Associazione Artistica fra i Cultori di Architettura di Roma, era nata, come molte altre nello stesso periodo in varie città italiane, sul modello della SPAB (Society for the Protection of Ancient Buildings); la differenza rispetto alla SPAB, sorta con l’intento di proteggere i monumenti dai restauri, sta nel fatto che l’AACAR e le altre società italiane avevano fra i loro scopi quello di promuovere restauri il più possibile in chiave stilistica. L’AACAR, fondata nel 1890, si compone di architetti e ingegneri che lavorano a stretto contatto con il comune di Roma, a cui forniscono proposte operative divenendo così una sorta di laboratorio delle nuove idee di progettazione e ridisegno della città storica. Opera-manifesto dell’associazione è il restauro stilistico di S. Maria in Cosmedin a Roma: un intervento preceduto da uno studio approfondito, ma deludente, che porta fra l’altro alla perdita dell’importante prospetto settecentesco perfettamente inserito nella storia edilizia del monumento. Il principale esponente dell’AACAR è però Gustavo Giovannoni, che nasce a Roma nel 1873 e si forma in un clima culturale ancora intriso del positivismo ottocentesco. È ingegnere e storico dell’architettura, si dedica principalmente all’architettura del Rinascimento e a quella di Roma antica, pubblicando una grande quantità di studi. Il suo volume su Antonio da Sangallo il Giovane ha costituito la base di tutti gli studi successivi sull’architettura cinquecentesca e proprio l’architettura sangallesca, con il suo carattere massiccio, deciso e fortemente chiaroscurale ha rappresentato il modello estetico di riferimento degli architetti progettisti gravitanti nell’orbita dell’AACAR. Giovannoni non ha alcuna stima verso l’architettura contemporanea, e la sua attenzione è tutta rivolta verso il ato. A lui si deve la fondazione della facoltà di Architettura, che porta a compimento l’intento perseguito già da Boito senza successo: istituita prima come Scuola Superiore di Architettura per ingegneri, viene poi trasformata, fra il 1920 e il 1921, nella prima facoltà italiana di Architettura. Il modello didattico, da allora, è rimasto invariato fino a tempi recenti, con alcuni insegnamenti che derivano da discipline umanistiche, altri mutuati dall’ingegneria e altri ancora dalle Accademie di Belle Arti. Il nucleo però attorno al quale le varie discipline si unificano è costituito dalla storia dell’architettura e dal restauro, discipline fondanti della nuova facoltà. Interessante rilevare che nello stesso periodo nasce la scuola del Bauhaus, dove Walter Gropius elimina consapevolmente la storia perché ritiene che solo cancellando il ato può nascere la nuova architettura. Ma la cultura italiana muove evidentemente da posizioni opposte: è solo dalla conoscenza profonda della storia che si possono trarre i principi per la progettazione del nuovo, un nuovo che inevitabilmente sarà fortemente ancorato al ato. Giovannoni ha avuto un’importante carriera anche dal punto di vista politico, sebbene non fosse troppo ascoltato dal regime fascista, che aveva invece maggiore considerazione di Marcello Piacentini, più abile e profondo conoscitore dell’architettura moderna. Giovannoni ebbe comunque una grande influenza su molti concorsi e restauri di opere pubbliche. Il suo contributo è quindi determinante per lo sviluppo del restauro nei primi quarant’anni del XX secolo. Partecipa alle attività dell’AACAR, conosce i testi di Sitte e Buls e giunge nei primi anni Dieci ad elaborare una personale teoria di intervento nei centri storici che espone in due articoli: Il diradamento nei vecchi centri e Vecchie città ed edilizia nuova pubblicati entrambi nel 1913 su ‘Nuova antologia’, importante rivista sulla quale avevano scritto fra gli altri anche Boito e Beltrami. Tale teoria prende il
nome di ‘teoria del diradamento’, e la sua elaborazione muove dai problemi che gravano sulla città di Roma dopo la sua elevazione a capitale a seguito dell’unità d’Italia. Giovannoni mette in guardia dai pericoli degli sventramenti indiscriminati, con i quali si rischia di cancellare brani importantissimi per la storia dell’architettura. Un esempio su tutti è offerto dall’idea di trasformare piazza Navona in un asse rettilineo che avrebbe dovuto congiungere il nuovo Palazzo di Giustizia, oltre il Tevere, con il corso Vittorio Emanuele II. La proposta era concreta - subito dopo la costruzione del palazzo si comincia a realizzare un asse rettilineo che ‘punta’ minacciosamente sulla piazza – e prevedendo anche la ricostruzione dell’intero fronte di edifici che dava sul Tevere, che avrebbe dovuto fare da accompagnamento al nuovo edificio sul fiume. La zona in questione ospitava uno dei tessuti storici più carichi di memoria della città di Roma: oltre a piazza Navona vi era anche via dei Coronari, una strada rettilinea di origine medievale che accoglieva molti episodi edilizi rinascimentali e barocchi. Di fronte al rischio di sventramenti indiscriminati del centro storico, Giovannoni propone una via alternativa, fatta, piuttosto che di abbattimenti senza criterio, di piccole demolizioni mirate in punti precisi, opportunamente individuati dallo storico di architettura, dove sorgono edifici di scarsa rilevanza, frutto magari di aggiunte e rimaneggiamenti posticci. Attraverso queste piccole incisioni del tessuto, quasi a macchia di leopardo, si possono ottenere delle aperture del tessuto edilizio che consentono agli antichi edifici di ‘respirare’, di prendere luce ponendo così rimedio al problema igienico; al tempo stesso si favorisce la circolazione dei mezzi di trasporto moderni. Ai vantaggi di tipo strettamente pratico si dovrebbero, sempre secondo Giovannoni, accompagnare miglioramenti estetici, con il recupero di visuali particolari e di piccole piazze da cui godere della città antica. L’idea, in definitiva, è quella di diradare il tessuto antico per renderlo permeabile alle esigenze della città moderna. Giovannoni, ricorrendo ad una metafora, paragona la città ad un organismo vivente: suggerisce di seguire la ‘fibra’ del tessuto antico, ovvero di comprenderne l’andamento tipologico e morfologico, la disposizione della case, il tracciato viario e quindi, successivamente, operare quasi chirurgicamente al suo interno senza danneggiarne le parti vitali. Ogni intervento non può prescindere dalla supervisione di un tecnico che conosca i problemi dell’urbanistica, ma anche le ragioni della storia dell’architettura e sia perciò in grado di prendere le giuste decisioni. Le caratteristiche richieste disegnano perfettamente quella figura professionale che Giovannoni stesso mira a creare attraverso la nuova facoltà di Architettura. La sua teoria vorrebbe favorire un’integrazione tra città antica e moderna, con la prima che si alleggerisce per poter soddisfare le esigenze della seconda conservando però la sua identità fatta di ambienti raccolti e piccole strade. Proprio questo ‘basso profilo’ disegnato da Giovannoni per la nuova città lo allontanerà dalle esigenze scenografiche del regime fascista che preferirà il modello piacentiniano, ispirato ad una città antica profondamente ridisegnata con nuovi e moderni centri propulsori e con i monumenti antichi a fare da autorevole sfondo. Lo sventramento quindi finirà per prevalere sul più morbido diradamento giovannoniano, del quale non vi sono molte applicazioni. Tuttavia alcune proposte avanzate per via dei Coronari saranno realizzate, mentre un altro piano di diradamento sarà varato per il cosiddetto quartiere del Rinascimento, anche se non interamente. Un intervento realizzato interamente secondo i principi del diradamento interessò invece Bergamo alta, dove un architetto che si ispira direttamente a Giovannoni, Luigi Angelini, interviene con estrema sensibilità, ricavando gli spazi necessari alla vita moderna in zone esterne al centro monumentale vero e proprio. Un altro piano di diradamento era inoltre stato pensato per Bari vecchia da Concezio Petrucci nel 1931. I primi trent’anni del Novecento sono molto prolifici dal punto di vista normativo: sono messi a punto una serie di principi guida, di orientamenti di natura legislativa. Il riferimento maggiore va soprattutto alla Carta di Atene a tutti i principi elaborati con le leggi del 1939, fino a pochissimo tempo fa ancora vigenti. La Carta di Atene è un documento internazionale, sottoscritto ad Atene nel 1931 da un centinaio di rappresentanti di circa venti paesi europei. La sede di Atene non è scelta casualmente: in questo periodo si stava compiendo uno dei restauri più importanti del secolo, vale a dire quello dell’acropoli e soprattutto del Partenone. L’ingegnere Balanos restaura il tempio utilizzando molto materiale ancora in loco, ma con abbondanti integrazioni di cemento. Balanos ricostruisce il colonnato sud e buona parte di quello nord utilizzando travi annegate nel cemento armato e grappe di ferro per collegare i rocchi antichi tra loro e con le parti nuove. All’epoca, il cemento armato sembra la soluzione migliore per il restauro del monumento; in realtà, il tempo ha smentito la sua efficacia, visto che è invecchiato più in fretta della pietra che voleva consolidare. Attualmente è in corso un nuovo restauro per porre rimedio ai lavori degli anni Trenta.
La Carta di Atene fa il punto sulla situazione della cultura del restauro internazionale dei primi decenni del Novecento e pone l’accento sui concetti di manutenzione e di restauro come intervento eccezionale, sul carattere etico della conservazione, sul diritto della collettività a reclamarlo, oltre che sulla promozione delle tecniche moderne (prime tra tutte quelle del cemento armato). A questa carta fanno eco una serie di documenti che i singoli paesi definiscono per le loro specifiche realtà. In Italia è Gustavo Giovannoni il principale promulgatore della Carta Italiana del restauro, approvata dalla Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti. Tale carta, dello stesso anno di quella di Atene, ne ricalca anche i contenuti. La finalità del restauro è quella di conservare i monumenti come se fossero documenti d’arte e storia tradotti in pietra, di rifiutare proposte di ripristino e di ristabilire nel monumento non l’unità di stile ma la cosiddetta unità di linea. Si pone l’accento sull’importanza della manutenzione, che può ritardare il restauro vero e proprio. Contro i rischi del restauro stilistico (art. 5), si afferma che devono essere conservati tutti gli elementi aventi carattere d’arte e storia, a qualunque periodo appartengano, senza tornare alla fase primitiva a scapito di altre. La Carta Italiana ribadisce anche le posizioni di Giovannoni, secondo il quale c’è una distinzione tra i cosiddetti monumenti morti e vivi. Secondo Giovannoni, per i monumenti morti non è possibile esigere un nuovo uso, né essi possono subire altre aggiunte; si può solo ricorrere all’anastìlosi per facilitarne la lettura. Per i monumenti vivi, invece, è possibile esigere un nuovo uso. Se i monumenti avessero bisogno di aggiunte, è possibile intervenire su di essi, purché le parti nuove siano distinte dall’originale per forma o materiale ed abbiano un carattere di ‘nuda semplicità’. Giovannoni non ha fiducia nelle possibilità dell’architettura moderna, è convinto che nel restauro sia preclusa ogni possibilità d’incontro tra antico e nuovo; quando pensa all’aggiunta, quindi, prende in considerazione una cosa neutra, distinta dall’originale per materiale e lavorazione. Altro punto importante della Carta è quello della promozione dei nuovi materiali, primo tra tutti il cemento armato. Giovannoni, però, pur non credendo nell’architettura moderna, non ne rinnega i mezzi, tanto che lui stesso, nella loggia dei papi a Viterbo, realizza un architrave in cemento armato. Al tempo stesso, ritiene che questi espedienti costruttivi di consolidamento debbano essere assolutamente nascosti alla vista.. L’uso del cemento armato sarà uno dei punti più rivisti dalle carte successive del restauro perché col tempo ci si è resi conto che è assolutamente deleterio per la vita della fabbrica il ferro si ossida e, avendo un coefficiente di dilatazione maggiore di quello della pietra, la spacca. Oggi, al cemento armato si preferiscono le cosiddette tecniche tradizionali. I contenuti della Carta Italiana del restauro sono ribaditi dalle Istruzioni per il restauro dei monumenti del 1938, un documento emesso dalla Direzione Generale alle Antichità e Belle Arti ad uso delle Sovrintendenze che ha la sola novità rispetto alla Carta di eliminare la distinzione tra monumenti vivi e morti. Il decennio si conclude con la leggi 1089 e 1497 del 1939. La legge 1089 tutela le cose di interesse storico, artistico, archeologico, mentre la legge 1497 le bellezze paesaggistiche. Il legislatore si rende conto che non può utilizzare la parola monumenti perché sarebbe riduttiva e preferisce quindi il termine cosa per indicare gli oggetti della tutela; a piccoli i, ci si avvicina all’attuale nozione di bene culturale, introdotta nel 1975 con l’istituzione del Ministero per i Beni Culturali, attivato in sostituzione del Ministero della Pubblica Istruzione. Le leggi in oggetto sono frutto di un percorso molto travagliato, che attiene anche la difficile conciliazione tra i concetti di bene pubblico e proprietà privata. La tutela si esercita attraverso il vincolo, che è una limitazione alla proprietà privata e alla libertà d’uso. Un vincolo può essere assoluto o relativo in funzione dei limiti che si danno al proprietario nell’uso dell’oggetto artistico. Esso viene comunicato al proprietario attraverso un atto amministrativo, la notifica, che rappresenta un’arma a doppio taglio: da un lato il proprietario è vincolato nell’uso di un suo bene, dall’altro può ottenere, in caso di restauro, dei sussidi statali. Per assicurare l’integrità della cosa, lo Stato può anche stabilire delle norme; ad esempio, per il rispetto di una veduta può stabilire un limite al coefficiente di edificabilità di una determinata area. Un altro principio importante è quello della prelazione, per mezzo del quale, in caso di vendita, lo stato rivendica il diritto di essere il primo acquirente. Lo stato può anche vietare la vendita del bene, se lo ritiene necessario. Le leggi non vanno però confuse con le carte del restauro: le prime hanno un carattere orientativo, le seconde coercitivo. In sintesi, gli anni Trenta rappresentano un periodo molto fecondo per il dibattito in Italia, che coinvolge uomini di grande spessore, primo tra tutti Giovannoni. Nonostante ciò, negli interventi concreti si continua a privilegiare la fase più antica dell’edificio, con la conseguente eliminazione di tutte le parti aggiunte all’edificio nel corso del tempo. A Roma, Antonio Muñoz ripristina la chiesa di S. Giorgio al Velabro e la chiesa di S. Sabina nelle presunte forme medioevali originarie, annullando tutte le loro aggiunte tardocinquecentesche e barocche. Paradossalmente, proprio Muñoz è il primo storico dell’architettura ad interessarsi del barocco e a proporne la rivalutazione. L’atteggiamento di ripristino si applica anche ai manufatti archeologici: a Roma, sul tempio della Fortuna Virile, durante il medioevo, si era impiantata la chiesa di S. Maria Egiziaca, che viene eliminata con un’operazione di ritorno alle forme originarie.
Il soprintendente Alberto Terenzio restaura il Pantheon negli anni Trenta, risarcendo le cortine in mattoni con mattoni scalpellati; Gino Chierici, nel restauro di S. Ambrogio a Milano, usa mattoni rigati in superficie per segnalare il nuovo apporto rispetto alla struttura originaria; a Roma, nella chiesa di S. Maria Antiqua, la cortina ripristinata è lasciata in sottosquadro rispetto a quella originaria. I principi esposti offrono spesso l’alibi agli operatori per intervenire, spesso spigliatamente, sulle opere del ato. Vissuti tra mille contraddizioni, tali principi sono messi in crisi dallo scoppio della seconda guerra mondiale. Di fronte a un patrimonio devastato, sia nei singoli episodi sia a scala urbana, i principi giovannoniani del minimo intervento e dell’aggiunta neutra diventano dei luoghi comuni, privi di qualsiasi efficacia operativa: non si tratta più solo di consolidare o risarcire piccole parti di un monumento ma di rifare intere parti di città. Giovannoni muore nel 1947 e in uno dei suoi ultimi scritti sostiene che la cosiddetta teoria delle forme e delle strutture semplici, messa a punto per risolvere il problema del restauro dei monumenti, non è efficace. Sostiene che dopo il conflitto il restauro è diventato più grande e impegnativo, che deve essere ripensato perché non si può condannare le città a “nuda semplicità da protestanti”. La sua preclusione nei confronti dell’architettura moderna è nuovamente riconfermata: non si può fare altro che adottare nel presente i mezzi che aveva adottato in ato Viollet Le Duc. A livello teorico (nella pratica seguirà un percorso diverso), il restauro viene ripensato in maniera completamente diversa rispetto alle indicazioni date in ato; i nuovi principi del restauro in questo momento fanno capo all’estetica crociana. A soccorrere gli uomini di cultura impegnati nel ripensamento del restauro e nella ricerca di nuovi principi, giungono le nuove formulazioni sul pensiero dell’arte che nel secondo dopoguerra fa propri gli assunti dell’estetica crociana, di tipo neo-idealista o spiritualista. L’arte, secondo Croce, è un prodotto che nella sua forma rispecchia totalmente il mondo spirituale di chi l’ha creata, e che ha interesse soprattutto in quanto tale e non tanto quanto documento di storia, come voleva la cultura positivista ottocentesca: il valore dell’arte risiede nei suoi dati figurativi, artistici, estetici. Poiché rivolto ad opere d’arte così concepite, il restauro diventa esso stesso opera d’arte, espressione autonoma e singolare. I presupposti esposti vengono fatti propri dalla scuola del restauro critico, attiva in Italia dall’immediato dopoguerra. Il termine ‘critico’ è utilizzato perché, secondo gli assunti crociani, è la critica che permette di individuare l’opera d’arte, qualificandola e riconoscendone i valori. ‘Criticare’ deriva dal greco e significa giudicare, distinguere, selezionare; rimanda quindi a quell’attività giudicatrice che sottopone ad esame l’opera, la interroga e ne stabilisce significato e valore. sco De Sanctis, filosofo contemporaneo di Croce, usa una felice metafora: il critico è come l’attore. Entrambi, non solo riproducono il mondo poetico, ma lo integrano riempiendone le lacune, poiché il dramma e la poesia danno la parola ma non permettono di apprezzare il gesto o il suono della voce. Di qui la necessità dell’attore. Stessa cosa può dirsi per il critico: tutta l’arte non sarebbe tale se non fosse stata individuata e riconosciuta da chi ha scritto le tante storie dell’arte. La critica è dunque un aspetto complementare della creatività: l’attore che recita, integra il testo con voce e gesti, producendo una sua creazione d’arte. Anche l’architetto chiamato a fare il restauro dell’opera d’arte produce una sua creazione perché lavora sul prodotto artistico. Il restauro critico, infatti, è anche noto come restauro creativo, individuando, per la prima volta in maniera esplicita, nella figura dell’architetto la persona che, oltre a dover avere la preparazione dello storico -come voleva Giovannoni- e la capacità tecnica per intervenire, deve altresì possedere la capacità creativa; deve in altre parole ricorrere al gusto, alla fantasia per aggiungere all’opera un suo apporto, per offrirle un nuovo capitolo della sua storia. I protagonisti di questa corrente di pensiero sono due: Roberto Pane, tarantino ma napoletano di adozione e Renato Bonelli, nato a Orvieto e vissuto a Roma. Pur se in contrasto tra loro, il merito dei due è quello di animare il dibattito sulla conservazione, rinnovandolo in maniera decisiva e dando al restauro critico la forza di una solida alternativa all’operare corrente. Se Giovannoni affermava che l’aggiunta deve avere il carattere di pura semplicità e che non vi deve essere assolutamente intervento creativo sull’opera, il pensiero di Pane e Bonelli giunge a conclusioni esattamente opposte: l’architetto, lavorando su di un prodotto artistico, non può non ambire a fare anch’egli un prodotto artistico. Prima di Pane e Monelli, nel 1943, Agnoldomenico Pica, in un articolo dal titolo Attualità del restauro, sostiene che per novanta casi di restauro su cento andranno saranno validi i principi del restauro filologico; per gli altri dieci è opportuno rischiarsi con un progetto creativo che realizzi un efficace incontro tra antico e nuovo attraverso un intervento decisamente moderno, capace di rendere l’opera nuovamente viva e attuale. Il pensiero di Pica è il manifesto di un concetto espresso da Nietzsche in Utilità e danno della storia per la vita, dove si legge: “liberiamoci dal fardello della storia e manteniamone solo quello che ci può essere utile per il futuro”. Sulla scia dei concetti espressi da Pica si muove Pane, il quale scrive in piena seconda guerra mondiale un articolo dal titolo Il restauro dei monumenti e il restauro di S. Chiara a Napoli in Attualità e dialettica del restauro, prendendo spunto dalla semidistruzione di S. Chiara per fissare i principi del restauro critico. Pane, discepolo di
Croce, dirige la rivista Napoli nobilissima, fondata dal suo maestro; in linea con lui sposa un concetto della storia molto selettivo: per lo stesso motivo per cui si dà al ato un giudizio di valore, non è da escludere nel restauro il criterio della scelta: quando si restaura un’opera, dunque, se si ritiene che certe aggiunte siano prive di valore, esse possono essere tolte dopo attenta valutazione. Pane sostiene che anche il brutto appartiene alla storia, ma non è detto che ad esso si debbano riservare le stesse cure di cui abbisogna il bello. I suoi concetti, oggi completamente rivisti ma di una certa efficacia per l’epoca, vanno contro il 5° articolo della Carta It aliana del restauro (“…siano conservati tutti gli elementi aventi carattere d’arte e di storico ricordo…”). Ancora secondo Pane, l’architettura è frutto non solo della preparazione dello storico e del tecnico, ma anche del gusto e della fantasia; questi doni devono essere messi al servizio del restauro. Il pensiero di Pane è ripreso da Bonelli in alcuni scritti, tra cui Architettura e Restauro del 1959 e la famosa voce ‘Restauro architettonico’ nell’Enciclopedia universale dell’arte. Bonelli è più deciso sulla necessità di dare all’istanza estetica la preferenza assoluta rispetto a quella storica: al desiderio di mantenere un atteggiamento di rispetto nei confronti delle aggiunte che l’opera può aver subito nel tempo, egli oppone la possibilità di modificare lo stato attuale dell’opera per giungere a quella che chiama ‘liberazione della sua vera forma’. Si tratta di un’operazione spiccatamente creativa, capace di realizzare la cosiddetta reintegrazione dell’immagine. La posizione di Monelli, così ferma e decisa, ha alimentato il dibattito culturale sul restauro ma anche molte polemiche, nate dal fatto che si è confusa la ‘vera forma’ con la forma primigenia di Viollet Le Duc, per cui a molti è sembrato di fare un o indietro. In realtà, la vera forma di Bonelli non è quella originaria ma molto più idealisticamente la forma compiuta, che non necessariamente coincide con quella originaria e che possiede un tale valore artistico ed estetico da legittimare la rimozione di tutte le aggiunte che l’opera ha subito nel tempo. I principi del restauro critico vengono applicati anche al tema della città: se Giovannoni parlava di architettura maggiore (ossia quella monumentale) e minore (cioè tutto il resto), Pane, facendo appello ad un binomio crociano, fa una distinzione tra architettura ed edilizia. Nell’articolo Architettura e letteratura, egli parafrasa l’accostamento che Croce aveva fatto tra poesia e letteratura, in cui il suo maestro sosteniene che la poesia è il frutto del genio (che ha poco a che fare con la ragione), mentre la letteratura, prodotto della ragione, è frutto della sollecitudine per le cose compiute, per la concretezza, per la pratica. L’architettura riesce ad essere arte molto raramente; quando non assurge al valore di arte, è semplicemente edilizia, prodotto del fare umano che trova ragione di essere nella pratica della vita, nella concretezza delle cose, e per la sua conservazione invoca non tanto ragioni di ordine estetico e storico -come avviene per l’arte e l’architettura monumentale- quanto ragioni di ordine psicologico. Il restauro, dunque, può essere motivato non solo da presupposti intellettuali e culturali ma anche di ordine psicologico: l’istanza psicologica diviene così complementare all’istanza estetica e storica. Proprio con la proposta della terza istanza, quella psicologica, la cultura del restauro del dopoguerra si apre in modo definitivo al tema della città e dei centri storici. Pane sostiene, adducendo proprio motivi di ordine psicologico, la ricostruzione, “dov’era e com’era”, del ponte di S. Trìnita a Firenze, costruzione di Firenze a cui i fiorentini non possono rinunciare, facendo essa parte della loro memoria. Allo stesso modo, Pane legittima la ricostruzione del centro storico di Varsavia, bombardato nel 1944 dai tedeschi e completamente distrutto. Il caso di Varsavia è un raro esempio dell’applicazione di questo principio a scala urbana. La ricostruzione della città, fatta nel dopoguerra sulla base delle vedute settecentesche del Canaletto e sui rilievi eseguiti negli anni Trenta dagli studenti della facoltà di architettura, permette ai cittadini di riconquistare il luogo in cui si riconoscevano maggiormente, quindi la propria identità storica. Uno dei principali sostenitori del concetto secondo il quale l’architettura moderna non possa dialogare con quella antica è Cesare Brandi, personaggio principale della teoria del restauro degli ultimi cinquant’anni. Storico dell’arte, nasce a Siena; già nel 1939 fonda a Roma l’Istituto Centrale del Restauro, organismo fondamentale per il restauro che si propone il compito, nella visione centralizzata della cultura di età fascista, di fornire le direttive per i restauri che si fanno a scala nazionale. Il primo direttore dell’I.C.R. è Giulio Carlo Argan, che lascia dopo breve tempo l’incarico a Brandi, profondo conoscitore dell’arte del Rinascimento Italiano e per questo forte sostenitore del carattere prospettico dell’architettura tradizionale. Brandi non nega che l’architettura moderna possa creare dei capolavori, ma sostiene che debba realizzarsi lontano dalla città antica. Il dibattito del dopoguerra ruota proprio sulla pertinenza del contatto fra architettura moderna e tradizionale nei centri storici, ora visti non più subordinati ai singoli monumenti ma meritevoli di grande attenzione. Un momento importante di confronto sul tema dei centri storici è offerto dal convegno di Gubbio del 1960, che precede il convegno di Venezia del 1964, dal quale sfocerà la nuova carta del restauro italiano. A Gubbio, Roberto Pane sostiene che il problema di inconciliabilità nasce dal fatto che l’architettura moderna cerca sempre il capolavoro, l’unicum, la poesia; mentre la città antica, oltre che di emergenze, è composta di un’edilizia seriale minore che pur potendosi definire prosa o letteratura, non è priva di dignità. L’architettura
moderna – ribadisce Pane- può confrontarsi con quella tradizionale solo abbassando la sua poeticità, rendendosi prosa anch’essa; la soluzione è dunque quella di confrontare prosa antica con prosa moderna, poesia antica con poesia moderna. Al tono quotidiano dell’architettura tradizionale deve così adattarsi l’architettura moderna, fatta spesso di toni arditi, esuberanti. Un’altra strada alla soluzione del problema è offerta da Saverio Muratori, professore universitario che, nello stesso tempo in cui i modernisti sostengono i cinque rivoluzionari punti di Le Corbusier, assegna ai suoi studenti come tema di composizione una chiesa a pianta centrale coperta da cupola e realizzata in mattoni; una proposta progettuale dunque chiaramente controtendenza, che addirittura stimola gli architetti del periodo ad una ripresa di contatti con l’architettura tradizionale. La scelta del mattone nel tema compositivo obbliga a seguire forme fisse, lontane da quelle libere e varie che l’uso del cemento armato consente. Muratori afferma che l’architettura moderna deve confrontarsi con i tipi architettonici tradizionali, assorbendo i quali è capace di entrare in contatto con il tessuto antico. Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, Muratori pubblica due volumi importanti: Studio per una operante storia urbana di Venezia e Studio per una operante storia urbana di Roma, il primo scritto mentre insegna a Venezia, il secondo dopo il suo trasferimento nella capitale. I due testi contengono i rilievi dei centri storici delle due città e tentano di identificare i tipi edilizi tradizionali (come la casa a schiera e la casa in linea) e la loro evoluzione. Muratori immagina il restauro di alcune lacune del tessuto storico delle città italiane con progetti che tentano di riprendere le tipologie tradizionali. Uno dei suoi progetti più noti è quello del palazzo della Democrazia Cristiana realizzato all’EUR, riproposizione del palazzo storico italiano che punta a riprendere il carattere tradizionale dell’architettura. Il modello muratoriano è ripreso solo anni dopo, mentre, nel momento della sua enunciazione, è incompreso. Un’importante conseguenza del dibattito è quella di portare gli operatori a ragionare non più sull’unicità del prodotto architettonico ma a considerare la città nel suo complesso. Il tema della città nel suo insieme è già affrontato nel tardo Ottocento, ma esso mette in luce, agli inizi, una prospettiva o un angolo della città al solo scopo di esaltare un’emergenza; negli anni Sessanta del Novecento, l’interesse si sposta verso l’architettura diffusa e a favore di una tutela estesa in senso orizzontale piuttosto che in senso verticale. L’I.C.R. si adopera per intervenire sui monumenti danneggiati dalla seconda guerra mondiale; esso raccoglie studenti italiani e stranieri con grandi capacità manuali, in grado di utilizzare le tecniche pittoriche tradizionali e con una buona conoscenza della storia dell’arte. L’istituto forma dunque dei tecnici con preparazione storicoartistica e chimica, guidati però da storici dell’arte e da ‘intellettuali’ del restauro, il cui compito è quello di fornire i principi ai quali i tecnici devono conformarsi. La scissione fra queste due figure è però tipica della pittura e della scultura, mentre in architettura i due ambiti sono racchiusi nell’unica figura dell’architetto. Secondo la visione giovannoniana, infatti, l’architetto-restauratore è dotato di capacità tecnico-scientifiche e, al tempo stesso, di conoscenze artistiche. Brandi segue piuttosto la strada settecentesca del tecnico di taglio storico (Winckelmann, Cavaceppi). Egli scrive moltissimi testi di storia dell’arte, interessandosi soprattutto di pittura del Quattrocento e Cinquecento. Scrive anche un volume dal titolo La prima architettura barocca: Borromini, Cortona, Bernini, uno dei testi principali per la riscoperta del barocco in Italia. In Struttura e architettura analizza invece molti edifici storici dal Rinascimento fino all’Ottocento. Brandi raccoglie le lezioni tenute all’I.C.R. in un volumetto dal titolo Teoria del Restauro, pubblicato nel 1963. Il testo, di difficile lettura, utilizza anche parole desuete (il rudere è chiamato rudero, al posto del termine rimozione utilizza remozione); la parte iniziale del volume rappresenta una vera e propria teoria del restauro, dove ogni capitolo affronta un aggio successivo della dottrina, mentre l’ultima parte è costituita da una raccolta di articoli scritti da Brandi negli anni Cinquanta e Sessanta e inerenti problemi del restauro. Ad esempio, egli sostiene un determinato trattamento dei dipinti antichi non seguito dalla maggior parte dei musei europei, i cui curatori, attaccati da Brandi, polemizzano apertamente con il teorico italiano. Il pensiero di Brandi non trae origine dal filone crociano ma da un indirizzo di pensiero che fa capo all’esistenzialismo, corrente di pensiero nota anche come filosofia della crisi, diffusa in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Molti filosofi come Jean-Paul Sartre, principale esponente dell’esistenzialismo in Francia, riorganizzano un pensiero che in realtà nasce in Germania alla fine dell’Ottocento. L’esistenzialismo ha un’aura un po’ negativa poiché nega la trascendenza e la metafisica, cioè la possibilità che la vita umana segua un percorso che porta ad un aldilà. Tutto ciò che l’uomo può vedere è sotto i suoi occhi, non esiste nulla al di fuori di ciò che è sperimentabile fenomenologicamente (per fenomeno s’intende una categoria filosofica che fa riferimento a ciò che appare, a ciò che si manifesta). L’esistenzialismo sostiene dunque che l’uomo possa vivere soltanto in conformità a ciò che gli si mostra. Brandi fa riferimento a questi concetti per ancorarvi una sua personale concezione dell’opera d’arte e del restauro; secondo il teorico senese, quando si conduce un’operazione di recupero, si deve giungere ad una condotta valida indipendentemente dall’idea di arte che ciascuno si fa. Le prime pagine della Teoria del restauro tentano proprio di fondare un nuovo concetto di restauro: quando si chiede ad una persona comune, non addentro ai problemi del restauro, il significato di questo termine, essa risponde che restaurare un oggetto vuol dire ridargli una funzione, privilegiando così solo un suo aspetto: l’istanza funzionale; per un addetto ai lavori,
invece, restaurare un’opera significa cercare anche di far salvi quei valori che garantiscono che l’opera d’arte sia percepita in quanto tale, cioè quei valori –che Brandi ama chiamare istanze- storici ed estetici. Il restauro di un’opera d’arte non punta tanto all’istanza funzionale, secondaria, quanto a permettere di godere delle istanze storiche ed artistiche. Chiunque fruisca di un’opera d’arte può esprimere un giudizio sull’opera; ma tutti partono da un concetto fondamentale: quello di chiedere all’opera d’arte di fornire delle emozioni particolari; allora, quando si è di fronte a questa classe di oggetti, avviene un fenomeno particolare che Brandi definisce il riconoscimento dell’opera d’arte, vale a dire l’individuazione, in questa categoria di beni, di una unicità, una specificità che non è di altri oggetti. Questa caratteristica può anche produrre un godimento, un piacere nella persona che entra a contatto con tali oggetti. Il godimento che se ne ricava non è economico né tanto meno pratico, ma attinge ai valori storici ed artistici sopra menzionati. Il riconoscimento è al contempo individuale (ognuno può viverlo a modo suo) e collettivo, in quanto anche la società ravvisa nell’oggetto una determinata unicità. Quest’aspetto porta ad un’equipollenza tra l’individuo e il pubblico. In conseguenza di ciò, il restauro, secondo Brandi, è il “momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte nella sua duplice istanza storica ed estetica ai fini della sua trasmissione al futuro”. Il momento metodologico non è altro che la conseguenza pratica ed applicativa dell’individuazione dell’opera d’arte: se ad essa si riconosce un’unicità, una capacità di produrre un piacere, automaticamente si vuole che tale godimento continui ad esistere nel tempo, ripercotendosi anche nel futuro e facendo sì che il riconoscimento seguiti a verificarsi per sé e per gli altri. Il restauro serve quindi a garantire l’esistenza del riconoscimento dell’opera d’arte. Da questa concezione di base nascono tutte le conseguenze operative del restauro secondo l’impostazione brandiana. Il rapporto con il ato, in questo periodo, comincia a are attraverso il progetto, la creazione cioè di un’altra opera d’arte affiancata a quella antica. L’ampliamento del municipio di Goteborg, nel sud della Svezia, è realizzato negli anni Trenta del Novecento ed è molto apprezzato per il fatto di distaccarsi dall’architettura razionalista; l’edificio ottocentesco segue la moda tipicamente italiana di richiamare stilisticamente i palazzi italiani rinascimentali, con l’utilizzo del bugnato nella parte inferiore, la presenza di due ordini superiori, di un pronao sporgente al centro e di una corte interna. Nel progetto di ampliamento del municipio, Astlund, uno dei principali rappresentanti dell’architettura svedese del Novecento, crea al fianco della preesistenza un edificio nuovo, privo degli elementi decorativi e di marcate simmetrie, ma che cerca comunque di riprendere le sequenze dell’edificio del ato, sul quale si opera una selezione di valori, un giudizio critico che porta ad individuarne l’importanza non tanto nell’apparato decorativo o nell’uso dell’ordine, ma nella ripetizione di un modulo seriale, nel presentare un basamento diverso dai livelli superiori. L’architetto opera una lettura semantica dell’edificio antico, astraendo le invarianti e realizzando su di esse il nuovo progetto: la ripetizione del modulo viene così interpretata con una gabbia in cemento armato, al di sotto della quale è ripetuto il basamento bugnato. Anche la trabeazione è riletta attraverso l’uso di un piccolo mezzanino che riprende la ritmica dell’edificio preesistente. L’impostazione semantica del progetto (la semiologia è la scienza dei segni), che porta alla lettura dei segni antichi per fare di essi la base del nuovo progetto, è molto presente nell’architettura degli anni Cinquanta e Sessanta. Minissi è dedito, fra gli anni Cinquanta e Settanta, alle sistemazioni museali e alla progettazione di parchi archeologici, opere nelle quali tenta sempre un’accurata lettura didattica del contesto nel quale interviene, asservendo il nuovo intervento alla comprensione dell’edificio antico. In Sicilia, in una valle isolata presso la cittadina di Piazza Armerina, sorgono i ruderi di una villa romana tardo-antica dalla pianta molto complessa, scoperta casualmente agli inizi del secolo. Le sue mura, scarse d’altezza, contengono però degli ambienti pavimentati da mosaici colorati di grandissimo valore e considerati uno dei capolavori dell’arte figurativa del III secolo d.C. Dovendo restaurare la villa, si pone soprattutto la necessità di rendere visibili i mosaici. La tecnica utilizzata fino a questo momento è quella dello ‘strappo’, che consiste nel togliere i mosaici per spostarli in un museo; lo ‘strappo’ è un meccanismo non molto complesso: nel caso degli affreschi, con l’ausilio di colle molto forti, si arrotola una tela precedentemente applicata al muro, trascinando così l’ultimo strato d’intonaco, in pratica quello che presenta il pigmento pittorico. Nel caso dei mosaici, si può procedere con lo ‘strappo a massello’, togliendo con delle lame l’ultimo strato d’intonaco dopo aver applicato una tela impregnata di forti colle. Un problema dell’esposizione dei mosaici è quello della frequente insufficienza di spazi nei musei da utilizzare per la loro presentazione; in molti musei, come quello di Tunisi dove si conservano i mosaici di Cartagine, la soluzione adottata è quella di appendere ai muri le decorazioni musive, con la logica perdita del valore originario dell’opera, alla quale viene a mancare l’aura, il contesto ambientale. Secondo la nozione brandiana di opera d’arte, il pavimento a mosaico deve essere letto come tale, senza modificarne il riconoscimento. I concetti che Brandi sostiene negli anni Cinquanta sono seguiti, operativamente, da Minissi, il quale copre i ruderi della villa a protezione dei mosaici, che esposti agli agenti atmosferici si sarebbero deteriorati, essendo formati da tessere posate su di un letto di malta a rischio di sfarinamento, e pertanto soggetto a far crescere, fra una tessera e un’altra, piante capaci con le loro radici di staccare le stesse tessere.
Minissi propone dunque di creare delle coperture di ferro e vetro o in plexiglas, in maniera da permettere la lettura dell’impianto architettonico della villa. Con un intervento moderno, privo di compiacimenti decorativi, l’architetto permette la lettura dei segni, della geometria dell’edificio antico. Intento di Minissi è di guidare sempre lo spettatore, di fargli percepire correttamente l’opera d’arte. Questa volontà si ricollega dunque al concetto brandiano di riconoscibilità dell’opera d’arte. Nel peristilio, il grande cortile porticato, le colonne sono ricollocate in piedi per anastìlosi; al lorointerno, Minissi inserisce un montante metallico a sostenimento della copertura superiore, a sua volta preceduta da una zona franca in sostituzione della trabeazione. I visitatori possono osservare i mosaici attraverso un sistema di erelle realizzate con putrelle d’acciaio e un impiantito di legno. Le erelle, contenute da ringhiere molto semplici, vengono collocate ai lati dei mosaici e sopra i muretti, a questi collegati per mezzo di montanti inseriti nella muratura antica. Un problema degli anni successivi si lega al microclima che si è creato all’interno degli ambienti e che ha poi portato alla realizzazione di sistemi di ventilazione che hanno in parte alterato l’idea originaria del progetto. Un altro intervento di Minissi è legato alla conservazione delle mura di Gela, una città della Sicilia meridionale di fondazione greca. Le antiche mura della città vengono scoperte al di sotto di un deposito sabbioso presso la spiaggia; la loro caratteristica peculiare è quella di essere realizzate per la parte inferiore in pietra in apparecchio pseudo-isodomo (vale a dire quasi perfettamente regolare), e per la parte superiore in mattoni di argilla cruda (l’architettura greca non usa quasi mai il mattone cotto, frequente solo nell’architettura romana da Augusto in poi, cioè dalla seconda metà del I secolo a.C. in avanti). Il sistema studiato da Minissi a protezione dei mattoni crudi fa ricorso ad una teca di vetro temperato tagliato in grandi lastre regolari che ripropongono la partizione della muratura inferiore; le lastre di vetro sono poste ad una certa distanza dall’argilla e tenute ferme da borchie di bronzo la cui disposizione viene pensata in maniera da ribadire la regolarità dell’apparecchio. A protezione della cresta del muro, Minissi progetta una tettoia di ferro e plastica, montata a secco e facilmente amovibile. L’impatto visivo del progetto è molto forte, ma risponde allo scopo di proteggere l’opera senza mascherarsi, ripetendo i fondamentali concetti di distinguibilità e reversibilità del restauro. Il dibattito contemporaneo tra pura conservazione e tendenze al ripristino. La tendenza della pura conservazione ritiene addirittura degni di salvaguardia anche i segni del degrado (anche Giulio Carlo Argan, che appoggiava questa tendenza, li considerava appartenenti alla storia e quindi meritevoli di conservazione). Sul piano operativo, l’esponente di spicco è Marco Dezzi Bardeschi, il quale assume anche atteggiamenti provocatori, affermando che affinché sia possibile la conservazione dell’autenticità della materia, quest’ultima non deve essere tolta ma addirittura aggiunta. Nessun grande architetto del movimento moderno si occupa di restauro; gli unici che vi si avvicinano sono, non a caso, italiani come il comasco Giuseppe Terragni. Infatti, mentre a Roma la scuola di architettura si fonda proprio sullo studio della storia e sul restauro, in Germania, il Bauhaus di Gropius nasce con l’esclusione dello studio della storia. La convinzione degli architetti di questa seconda tendenza è che l’architettura moderna sia lontana da quella del ato e che fra esse non vi sia possibilità di compromesso. Il restauro italiano, nel periodo compreso fra gli anni Cinquanta e Ottanta del Novecento (che coincide con un momento di forte predominio dell’aspetto compositivo dell’architettura), si basa sull’impossibilità di compromesso fra il movimento moderno e l’architettura antica; anzi, quanto più è forte il contrasto (evidente nei progetti di Scarpa e Minissi), tanto più l’antico e il moderno saranno autentici. L’ideologia del contrasto giunge al suo momento di svolta quando il movimento moderno entra in crisi: l’influenza dell’architettura pop americana (Bob Venturi su tutti) da un lato e l’esperienza degli architetti italiani dall’altro (Aldo Rossi, Paolo Portoghesi), contribuiscono alla nascita di quel fenomeno che va sotto il nome di post-modern. Quindi, dagli anni Ottanta in poi, la cultura internazionale abbandona i concetti di innovazione radicale portati avanti dal movimento moderno (asimmetria, composizione fatta per parti separate fra loro, utilizzo esasperato di materiali moderni, abolizione delle decorazioni) per giungere ad un processo revisionista del ato. Il revisionismo è una tendenza storiografica che cerca di rivalutare i periodi del ato considerati negativi svalutando certi miti retorici della modernità, come quello della rivoluzione se, che non sarebbe coincisa con un movimento di libertà e di innovazione, ma bensì di guerra molto cruenta nella quale è difficile stabilire da che parte fossero i giusti e da che parte gli empi. Un altro atteggiamento revisionista si è tenuto addirittura nei confronti del Nazismo: uno storico d’origine tedesca di nome Nolthe, ha negato l’olocausto e l’esistenza dei campi di concentramento. Ancora oggi, l’atteggiamento revisionista della storia è in atto. Questa fase della storiografia va sotto il nome di crisi della modernità: entrano in crisi, infatti, il progresso e l’idea vettoriale del tempo, secondo la quale ogni epoca progredisce rispetto alle precedenti. L’architettura comincia a guardare nuovamente ai periodi in cui si realizzavano i timpani o i cornicioni, e non solo per un fatto formale (il cornicione, ad esempio, impedisce all’acqua di cadere sul prospetto dell’edificio); ci si convince anche del fatto che l’architettura antica invecchia meglio di quella contemporanea, attualmente già degradata, e ciò porta anche ad essere sempre più vivace il dibattito sul restauro del moderno. I processi di revisione in atto, il
rigetto dei principi dell’architettura moderna, spingono il restauro, rispetto alla precedente tendenza a contrapporre antico e nuovo, ad indirizzarsi verso un avvicinamento tra questi ultimi che si basa sulla convinzione che l’architettura possa fondere elementi diversi fra loro, anche utilizzando forme e materiali tradizionali. Molti restauratori italiani, dagli anni Sessanta in poi, riscoprono il concetto di ripristino, di ritorno alla forma originaria. Uno dei personaggi che meglio incarna la tendenza al ripristino è Paolo Marconi, inizialmente professore di storia dell’architettura e studioso del Settecento ed Ottocento italiano (in particolare dell’architetto Giuseppe Valadier), successivamente restauratore e docente di Restauro all’Università di Roma 3. Marconi si fa alfiere dell’aspirazione ad abbandonare l’ideologia del contrasto per abbracciare la modalità della continuità e dell’analogia. La sua posizione parte da alcuni presupposti che si legano all’insegnamento di Saverio Muratori, di cui Marconi è stato allievo. Muratori, negli anni Sessanta, realizza il palazzo della Democrazia Cristiana all’EUR sul modello di Palazzo Farnese, pagando anche sulla propria pelle le proprie idee, contestato duramente dagli studenti dell’epoca e costretto a lasciare l’insegnamento. L’atteggiamento di critica di Muratori verso il moderno si basa sul fatto che l’architettura contemporanea tenderebbe sempre a voler reinventare le cose dall’origine; esisterebbero invece –secondo Muratori- delle costanti di fondo che si ritrovano sempre, come il tipo architettonico (una casa non può che essere a schiera, in linea o a corte); tutto ciò che fuoriesce dallo schema tipologico rappresenta un arbitrio, un capriccio col quale non si può costruire la città. L’architettura moderna, che offre esempi isolati di grande bellezza, non sarebbe invece capace di integrare l’edificio all’interno della maglia urbana della città. Il ritorno al concetto di tipo, che non si inventa ma che si ripete sempre uguale a se stesso, porta a proporre un’architettura fatta non solo di capolavori isolati ma anche di elementi seriali, replicabili. Ciò è valido per il tipo a schiera ma anche per le singole parti che compongono un’architettura, come i solai, gli infissi, le volte, che rispettano sostanzialmente gli stessi archètipi. Un altro concetto di base sul quale si fonda la teoria della pura conservazione fa capo ad un principio fondamentale della termodinamica: il deterioramento degli edifici si verifica perché esiste uno stato di squilibrio fra edificio e ambiente che lo circonda; tale squilibrio provoca perdita di energia e quindi di materia. L’idea di congelare la materia esistente o di aggiungerne altra nasce dal pensiero del fisico Marcello Paribeni, il quale aveva studiato presso il C.N.R. (il Centro Nazionale delle Ricerche, dove esiste un ufficio preposto allo studio della conservazione dei monumenti), alcuni edifici antichi -tra cui la colonna traiana di Roma- sotto il profilo termodinamico, vale a dire dello scambio di energia fra corpi. Paribeni, attraverso l’indagine del degrado inteso come perdita di materiale, si è reso conto che molti edifici presentavano delle patine, in altre parole degli strati aggiunti, che, secondo le sue conclusioni, non erano forme nate dal degrado della pietra, ma materiale aggiunto durante gli interventi di manutenzione successivi alla costruzione; tali patine sarebbero dunque pitture, velature destinate a sacrificarsi e a deteriorarsi per evitare che il degrado danneggi la materia vera e propria che compone il monumento. Non a caso, Paribeni chiama tali patine strati di sacrificio, posti sul mattone o sulla pietra antica e destinati ad essere rimessi in efficienza periodicamente proprio a protezione del materiale antico. Già nell’Ottocento gli studiosi si erano resi conto che i monumenti greci e romani erano in origine rivestiti da un leggerissimo strato d’intonaco o di coloritura, che prende il nome di scialbo e che consiste di una tinteggiatura poco spessa ma fortemente aderente al o. Lo scialbo è ottenuto dal latte di calce, cioè da una miscela molto fluida di acqua e calce e che rappresenta la base della verniciatura del cantiere tradizionale. Nella Colonna Traiana, in luogo dello scialbo si è scoperta la cosiddetta patina ad ossalato, vale a dire uno strato superficiale assai duro contenente ossalato di calcio, un sale che si forma dall’acido ossalico, utilizzato anche per lucidare e proteggere il marmo compattandone la superficie. L’acido ossalico si forma dal degrado chimico di alcuni prodotti organici tra cui la caseina, una sorta di colla che deriva dal latte e che in ato era utilizzata per realizzare le tinteggiature sulla pietra antica. L’interpretazione offerta da Paribeni vuole significare che, se è vero che il monumento perde materia, è altrettanto vero che esistono dei dispositivi che contribuiscono a contenerla. Dunque, se le patine esistenti erano state pensate per proteggere il monumento, la cosa migliore da fare durante un restauro sarà di replicare le patine sulle superfici dell’edificio. Ma se è pensabile ridare il colore su di una pietra di un edificio barocco o rinascimentale, nascono dubbi sulla legittimità di riproporre, ad esempio, una patina sulla Colonna Traiana, che offrirebbe in questo modo un’immagine completamente nuova di sé. Allo stesso modo, se si ritiene che i colori rosso e blu presenti anticamente sul Partendone fossero degli strati protettivi, e se si considera di preservare il marmo pentelico con i metodi tradizionali, si dovrebbe dipingere il tempio dell’Acropoli di rosso e di blu, con il risultato di un impatto visivo fortissimo. Inoltre, questo principio cozza con l’idea propria del movimento moderno del materiale da mostrare per quello che è, e quindi dell’ornamento e del rivestimento come delitto. In questo senso, la proposta di suggerire nuovamente lo strato di sacrificio suona come un’eresia. In Arte e cultura della manutenzione dei monumenti, Paolo Marconi approfondisce quest’eresia con intenti provocatori, affermando che i monumenti che oggi si osservano, deteriorati dallo smog, dalle croste nere, dalle piogge acide, in ato erano continuamente protetti da interventi di superficie che permettevano alla materia di continuare a vivere. Dunque, su queste basi va ripensato il restauro, sostituendo all’idea dell’ intervento unico
che tenta di modernizzare l’edificio una prassi di manutenzione continua realizzata riproponendo gli interventi superficiali che si attuavano anticamente. Si è scoperto che molte chiese romaniche si e della Val Padana non avevano l’apparecchio murario a faccia vista ma intonacato; l’abbazia di Fossanova, nel Lazio, presenta una muratura di pietre molto regolari all’esterno, mentre il muro interno è coperto da uno scialbo molto chiaro del colore della pietra, che presenta inoltre un disegno che replica l’apparecchio murario retrostante. Ciò significa che non ci si accontentava di costruire un’opera isodoma, ma la si rappresentava anche sullo ‘strato di sacrificio’, che dunque proteggeva la muratura ma al tempo stesso ne rappresentava la disposizione, assumendo anch’essa un ruolo linguistico nel contesto della fabbrica. Replicare le patine significa quindi anche ripristinare le immagini perdute degli edifici antichi: su questa strada, Marconi è ato bruscamente a proporre dei restauri che ripristinassero l’aspetto cromatico originale di numerose fabbriche. Un caso significativo è quello di Villa Lante sul Gianicolo a Roma, edificio iniziato probabilmente da Giulio Romano prima del sacco di Roma del 1527 e ‘pennellato’ nel 1930 con un colore rosso pompeiano, di cui si ripropone l’immagine originaria compiendo un vero e proprio ripristino del tono cromatico iniziale. Marconi ha dato inizio a quelle operazioni che hanno portato ai cosiddetti Manuali del Recupero, vale a dire raccolte di particolari architettonici (solai, infissi, volte, aperture) che studiano nel dettaglio il funzionamento degli elementi costruttivi per poi proporli coscientemente negli interventi di restauro, concepito quest’ultimo come ripristino da eseguire utilizzando materiali, forme e tipologie originarie. Da questo presupposto discende una serie di interventi anche provocatori: la riproposta dei colori settecenteschi, il recupero indistinto delle forme del ato, sono frutto delle sue idee. Tra gli allievi di Saverio Muratori vi è Emanuele Caniggia, autore del palazzo di Giustizia di Teramo, edificio che per la ricchezza di cupole rimanda al tema delle cattedrali bizantine. Egli è anche autore del progetto di una costruzione che doveva essere realizzata in un lotto libero situato presso l’ampliamento del palazzo del Parlamento italiano (Montecitorio), eseguito da Basile. Caniggia e gli altri allievi di Muratori vincono il concorso bandito agli inizi degli anni Settanta con una cosciente riproposizione di un palazzo barocco e dei suoi elementi più caratteristici: il basamento, un ordine gigante, l’attico con cornicione. In pianta, elementi formali come la corte e progettuali come l’assialità molto pronunciata rimandano all’impianto classico tipicamente simmetrico e bloccato che il movimento moderno aveva a tutti i costi rinnegato. L’atteggiamento di studio e riproposizione del ato portato avanti dagli allievi di Muratori si avverte anche nel progetto di un lotto all’interno di un piano di recupero del quartiere della Misericordia, nel centro storico di Napoli. Individuato il tipo architettonico –la casa napoletana in linea a più piani-, lo si ripropone realizzando anche gli stessi dettagli (timpani, balconcini). A Benevento, Caniggia progetta un centro commerciale in un’area dove esisteva una chiesa del Gesù poi sconsacrata; la tipologia chiesastica è ripetuta attraverso una vera e propria rivisitazione dell’antico, proponendo cioè una grande galleria centrale con i negozi distribuiti sulle navate laterali. A Pescara, per l’area dismessa della stazione centrale, progetta un tessuto di grandi blocchi edilizi, desunti dai modelli ottocenteschi ma adattati alla realtà del luogo. L’esasperata riproposta di tipologie del ato porta, talvolta, anche a dei paradossi: negli anni Novanta, l’architetto inglese Nicolas Ferry immagina per una cittadina non lontana da Londra un’architettura del Seicento e Settecento inglese, riproposta con estrema precisione su modelli desunti da architetti come Christopher Wren. Gli edifici presentano così portali bugnati, serliane e altri motivi tratti dal Rinascimento italiano. Lo stesso principe Carlo, che ha sempre avuto parole di condanna per l’architettura moderna, dimostra di apprezzare questo tipo di operazioni. Palazzo Barberini a Roma, frutto di vari interventi compiuti nel tempo, arriva al suo momento di massima compiutezza intono agli anni Trenta del Seicento; a dispetto dell’immagine di grande unità che il palazzo evoca, studi recenti eseguiti con fotografie scattate molto da vicino hanno individuato una grande varietà di trattamenti superficiali, proponendo così una lettura diversa dell’edificio. Ad esempio, nell’ultimo ordine della facciata, il capitello e la trabeazione sono di travertino; secondo le norme dell’ordine architettonico, anche altri elementi compositivi come fusto, base e cornicione dovrebbero essere di pietra. In realtà, ad una visione ravvicinata, grazie anche al dilavamento della tinteggiatura originaria, si nota che il travertino arriva solo fino ad un certo punto. Oltre, comincia una zona a diversa gradazione, più o meno grigio-viola, costituita dall’ultimo strato dell’intonaco sottostante che presenta una certa quantità di pozzolana (carica che si aggiunge all’intonaco per aumentarne l’idraulicità, vale a dire la resistenza all’acqua). Ciò significa che l’ordine architettonico originario non era pensato per far apparire staccati travertino e intonaco di pozzolana; al contrario, quest’ultimo non doveva apparire in superficie. Esisteva dunque un’altra tintura che doveva servire ad uniformare l’ordine architettonico. Guardando i documenti di cantiere, Marconi si rende conto che esistono dei pagamenti per alcuni interventi eseguiti con una “colla brodata”, vale a dire con una colla (che rappresenta l’ultimo strato di intonaco) molto diluita, data a pennello e non più con il frattazzo (strumento equivalente all’attuale squadra americana). Tale colla, di color travertino, dimostra dunque una scialbatura generale che veniva data sulle parti in travertino e sulle
parti in mattoni rivestiti di intonaco per uniformare il tutto alle parti in pietra. Ciò significa che i materiali antichi non venivano mai dichiarati nella loro nudità ma rivestiti di una tinta che ne restituiva un’immagine diversa. Attualmente, a causa di una scarsa comprensione del trattamento che il ato riservava all’ordine architettonico, molti interventi radicali di restauro, eliminando le parti superficiali, spezzano la continuità e la coerenza dell’ordine, offrendo un’immagine della fabbrica sbagliata e non corrispondente a quella del cantiere originario. La scialbatura terminale, dunque, costituiva il momento essenziale della colorazione dell’edificio antico. Per questo motivo, Marconi afferma che restaurare significa anche riproporre tale coloritura dell’organismo architettonico, anche a costo di ripristinare l’effetto di un tempo. Villa Lante al Gianicolo è un piccolo edificio su due livelli, nel quale si è fatto uso, oltre alla pietra, di materiali più poveri, come i mattoni intonacati. Un intervento di ritinteggiatura degli anni Trenta del Novecento aveva usato un colore bianco piuttosto pesante rispetto ad un fondo colorato di rosso pompeiano, molto usato in quegli anni. Alla fine degli anni Settanta Marconi, eliminando la coloritura rossa del fondo e quella bianca delle paraste, si accorge che l’intonaco sottostante è trattato in maniera particolare, con toni rosastri per il fondo e con un bianco molto tenue per le paraste. Compiendo alcune analisi degli intonaci, Marconi scopre che quelli del fondo sono ‘caricati’ di polvere di travertino, che tende verso l’avorio e il rosa, mentre quelli delle paraste con polvere di marmo di Carrara, macinato e poi mischiato all’impasto dell’intonaco. In sostanza, dunque, la coloritura della facciata tendeva ad imitare il travertino e il marmo. La prima idea di Marconi è quella di ripristinare i due colori. Ma anche per la mancanza, all’epoca del restauro, di maestranze capaci di riproporre i colori antichi con un valido risultato estetico, Marconi si rivolge ad un gruppo di imbianchini che avevano lavorato a Villa Medici (sede dell’Accademia di Francia) ritinteggiando l’interno dell’edificio sotto la guida di Baltus, un pittore morto di recente che ancora alla fine del secolo scorso continuava la tradizione della pennellata a piccoli tocchi contrapposti di derivazione tardoimpressionista (Signac, Serat). Nel restauro di Villa Medici, Baldus aveva istruito gli imbianchini all’uso di tale tecnica, che offriva l’immagine di una superficie irregolare ed animata, simile a quella venuta alla luce asportanto la tinteggiatura degli anni Trenta di Villa Lante. Le tinte utilizzate, dunque, ripropongono la coloritura originale con l’ausilio di latte di calce ‘caricato’ con poca polvere di travertino. Da questo intervento prende inizio una campagna di riscoperta dei colori antichi, delle patine e delle tecniche di trattamento delle superfici, che ha spesso portato al completo ripristino dell’immagine originaria. Per la Colonna Traiana, Marconi proponeva, quasi provocatoriamente, il ripristino delle patine color giallo che prima rivestivano, probabilmente ad imitazione del bronzo, l’intero monumento; tali patine sono ora presenti solo nelle zone sottosquadro della colonna, mentre nelle altre il marmo appare nella sua coloritura bianca (indice, quest’ultimo, del processo di degrado che sta subendo il monumento). Ma il ripristino, in questo frangente, non costituirebbe operazione di sola manutenzione e protezione da agenti degradanti come lo smog, ma di pesante ripristino dell’immagine originaria. Il Broletto di Brescia è un edificio molto articolato di età romanica, ma rimaneggiato in età gotica e con aggiunte anche Settecentesche come portali e balconi. Per il suo restauro, Marconi propone di non far leggere tutte le stratificazioni presenti - come probabilmente avrebbe fatto Dezzi Bardeschi - ma di privilegiare le strutture primitive e più caratteristiche, tamponando anche delle aperture successive ‘incongrue’ che non permettono la lettura del palinsesto medievale. Ma le aperture originarie non vengono riaperte tutte: a volte sono semplicemente rialluse al fine di riproporre la ritmica originarie. L’atteggiamento di Marconi si dimostra così non lontanissimo da quello tenuto da Viollet-le-Duc nell’Ottocento. Anche le pavimentazioni, di cui rimanevano poche tracce, sono ripristinate all’interno dell’edificio. Lo scalone medievale viene riprodotto solo tipologicamente, mentre per il materiale che lo compone si opta per il legno lamellare. Anche nel caso dei solai, Marconi replica le tipologie antiche utilizzando materiali moderni. Il limite di questa operazione è quello di astrarre un determinato tipo di solaio antico e replicarlo indistintamente in molti contesti diversi fra loro, secondo un criterio di completa serialità degli elementi impiegati. In una intervista a Manfredo Tafuri pubblicata sulla rivista Casabella nel 1991, lo storico entra nel merito del tema della conservazione e del progetto, sottolineando le difficoltà di unire questi due aspetti e aprendo delle nuove prospettive sulle quale ancora oggi si dibatte. Secondo Tafuri, il compromesso fra queste due parti, che coinvolge architetti, restauratori ed urbanisti, attualmente non regge più: l’architetto tende a lasciare il proprio segno sull’opera da restaurare, e ciò comporta necessariamente un’interpretazione sulla quale si può non concordare; si dovrebbe quindi puntare ad interventi di sola conservazione della materia degli edifici, e ciò porta forse all’esclusione degli architetti dal restauro. L’intervento dovrebbe essere condotto da operatori scientifici addetti alla conservazione, privi di capacità progettuali ma con conoscenze di fisica e chimica. Tafuri aveva previsto la nascita di una scuola appositamente indirizzata verso la conservazione, e la sua intuizione si è rivelata esatta giacché è sorta la facoltà di Conservazione dei Beni Architettonici. Alcune recenti polemiche sulle capacità degli architetti negli interventi di restauro sono sintomatici della sfiducia che il dibattito contemporaneo nutre verso le possibilità di questa categoria di dominarne il campo, nella sua
doppia valenza conservativa e interpretativa. Ma già nel numero di Casabella successivo a quello in cui compariva l’intervento di Tafuri, un altro storico di architettura faceva presente che nessun tecnico può gestire la consapevolezza dell’immagine finale di un’opera, che per quanto conservativo sia il restauro, apparirà comunque differente da quella precedente.