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Trovi il gruppo IO LEGGO IL ROMANZO STORICO su Facebook: https://www.facebook.com/groups/839021269497816/?fref=ts Progetto grafico in copertina a cura di Patrizia Ines Roggero.
Antologia – Profumi di Storia e d’Amore
Il gruppo Facebook Io leggo il romanzo storico Il gruppo nasce per sostenere e promuovere la narrativa storica. È un luogo d’incontro per i lettori e gli autori apionati del genere che insieme si confrontano, attraverso approfondimenti, discussioni e iniziative. Le amministratrici del gruppo sono quattro autrici di romanzi storici: Michela Piazza, Patrizia Ines Roggero, Linda Bertasi e Stefania Bernardo.
AGEOP – Ricerca sui tumori e leucemia del bambino È nata nel 1982 da un gruppo di genitori, incoraggiati dall’allora Direttore della Clinica Pediatrica, Prof. Guido Paolucci che aveva capito che i medici da soli non potevano sconfiggere il cancro. Insieme cercavano un modo concreto per stare accanto ai propri figli ammalati di tumore e a tutti quelli che si sarebbero trovati a vivere la stessa difficile e dolorosa situazione. Nel 1985 ad AGEOP si è affiancata l’associazione “Ricerca sui tumori e leucemie del bambino”. Insieme si sono impegnate per dare sostegno ai piccoli pazienti e alle famiglie e sostenere la ricerca scientifica. La loro attività si è consolidata nel 1989 quando dalla loro unione è nata AGEOP RICERCA. Nel 1993 AGEOP, già riconosciuta come organizzazione di volontariato, ha ottenuto la qualifica di ONLUS di Diritto.
Prefazione La Storia e l’Amore... personalmente credo che vadano strettamente a braccetto: l’una non sarebbe esistita senza l’altro, e neppure l’umanità. Difficile stabilire se nel cruciale alternarsi dei secoli abbiano avuto maggior impatto le cronache delle rivoluzioni sociali e delle battaglie che hanno cambiato le sorti del mondo, o se le apionanti Storie degli amanti leggendari che migliaia di libri ci hanno tramandato possono aver conferito una piega differente alla Storia. Un esempio ce lo fornisce Omero quando ci racconta come Elena, perdendo la testa per Paride ai danni di Menelao, scatenò la guerra di Troia. Di fatto, l’Amore eterno, dall’alba dei secoli, è il protagonista indiscusso delle vicende umane. A iniziare da Eva e Adamo gli innamorati di ogni epoca hanno ispirato poeti, romanzieri e cantastorie. Ci saremmo apionati alla Storia se le coppie famose che si sono succedute da allora non l’avessero vivacizzata con le loro contrastate vicissitudini? Molte sono soltanto frutto della fantasia dei loro autori, ma nessuno può negare che hanno arricchito la letteratura, né si può escludere che lo spunto abbia avuto origine da un fatto realmente accaduto. Esiste un filo che congiunge, ciascuna a suo modo, tutte le Storie d’Amore: persino quando sono tragiche come quella di Anna Karenina con l’affascinante Vronskij, presentano le stigmate della fiaba che ciascuno di noi vorrebbe vivere insieme a un ideale partner. I Sogni d’Amore, oltre a tracciare un profondo solco nell’immaginario collettivo, hanno attraversato trionfalmente il tempo, facendoci sospirare tutti, ammettiamolo. Storie d’Amore magari enfatizzate da cronisti contemporanei poco obiettivi, ma comunque suggestive e indiscutibilmente attuali, pur nella limitante modernità dei giorni nostri. Va ribadito, infine, come l’Amore non sia affatto qualcosa di semplicemente marginale, al punto da condizionare, spesso, la Storia e i suoi interpreti di primo piano. Come dimenticare che Edoardo VIII rinunciò al trono d’Inghilterra per Wally Simpson, la bella americana che, essendo divorziata, lui non avrebbe potuto sposare? Un altro amore che sembra oscillare tra realtà e favola è quello di Grace Kelly, che da attrice di Hollywood diventò la Principessa di Monaco. Amori celebri ce ne sono stati tanti, non tutti con il lieto fine, come ben sappiamo, ma ogni innamorato, sconosciuto o celebre,
ha indubbiamente contribuito a conferire dignità e il rilievo che merita alla sfera sovente bistrattata dell’Amore Romantico. Sono i palpiti del cuore, non scordiamolo, a dare significato al senso della vita. La premessa che ho fatto era indispensabile per parlare di Profumi di Storia e d’Amore, antologia che celebra gli amanti di ogni tempo. Un corollario di racconti che si snoda sul filo brillante e tenero dei sentimenti. Agate e Gunderic di Giovanna Barbieri ci riporta a Ravenna, anno domini 402, riponendo l’umiliante condizione della schiavitù e dei sentimenti che nascono tra Agate, ragazza Gota, e Gunderic un Vandalo. E in lontananza colpi di cannone di Alessandra Paoloni si sposta nella città sudista di Atlanta durante la Guerra Civile Americana, offrendo al lettore una pagina storica di grande spessore. Il soffio di un’illusione di Stefania Bernardo. Torniamo nella Carolina del Nord, anno 1718. Shiver, ex pirata, diventa ricco piantatore e sposa Jamila per evitarle un crudele destino. Ma un uomo con l'inferno nel cuore può ancora amare? Il sussurro di un cuore asservito di Rosa Forte ci porta nel VI secolo AC, a Efeso dove la sacerdotessa Cleide sfida il divieto di recarsi sul monte Tmolo e si fa sorprendere dal principe Loxias a spiarlo. Ma il loro amore è possibile? Imbastiture d’amore di Lorenza Bartolini ci fa conoscere il grande sarto Frederick Worth e la sua ascesa, grazie anche alla moglie, nel mondo della moda. La Magnolia di Linda Bertasi ci trattiene nell’America ottocentesca, precisamente nella sudista Alabama. Emma, abbandonati pregiudizi e pudore, si abbandona all’amore per uno schiavo, Marcus senza temerne le conseguenze. La promessa di Macrina Mirti: sullo sfondo della Perugia del 1368, Griselda spera che Giuliano, che ama dall’infanzia, e reduce da un esilio durato sei anni, voglia ancora sposarla come le aveva promesso. Nara di Patrizia Ines Roggero, ci fa andare a ritroso nel ato, fino alla fascinosa epopea piratesca del mar dei Caraibi, anno 1667. Dopotutto, anche i corsari più feroci hanno un cuore.
Daniela Perelli con Non solo suffragette ci conduce nella Londra del 1907, sullo sfondo dell’impegno civile portato avanti dalle donne per rivendicare propri diritti. Presenza nella nebbia di Teresa Barbaro e la condizione delle donne che si guadagnano da vivere nell’Italia delle signorie. L’amore, però, addolcisce la dura fatica quotidiana. Stammi vicino di Norma Follina ci racconta il coraggio di un giovane soldato che va a combattere con altri arruolati lungo le rive del Piave. Infuria la prima guerra mondiale e mentre il sangue dei caduti arrossa le trincee lui scopre l'amore per i suoi compatrioti. Stirpe pirata di Michela Piazza ci proietta nella Charleston del 1739 dove la ricca ereditiera Marianne partecipa a un ballo organizzato per trovarle marito. Nel cuore lei ha Mark, che non ha affatto intenzione di rinunciare a lei e all'amore che li unisce. Un giro di valzer di sca Prandina ci porta nel Kansas del 1862. Jonathan, giovane militare che non crede all’amore, complice una festa da ballo, dovrà ricredersi. Un nuovo secolo di Estelle Hunt prende avvio nell’anno che precede il debutto del ‘900 facendoci conoscere la forza di un uomo e una donna quando i loro cuori sono pervasi dalla magia dell’amore. Una sera di neve di Emily Pigozzi racconta le atmosfere della corte asburgica. Sissi, incinta del futuro imperatore, deve anteporre il dovere ai sentimenti personali. Veronique di Roberto Modolo ci presenta Fabien, scrivano a pagamento nella Parigi del 1900, e il suo incontro con Veronique. Tra loro sboccia un amore destinato a migliorare il destino di entrambi. Mariangela Camocardi Scrittrice
Agate e Gunderic
Giovanna Barbieri
Nei pressi di Ravenna, Giungo 402 ad
Agate già dall’alba stava faticando con il falcetto sotto il cocente sole di giugno. Smise un istante di mietere asciugandosi la fronte. Si sentiva cotta, quasi come un pezzo di quaglia pronto per essere mangiato. Il suo ventre brontolò, aveva molta fame, non mangiava nulla dai primi raggi ed ora l’astro aveva quasi compiuto il suo ciclo. Presto sarebbe dovuta rientrare nella parte di villa rustica riservata agli schiavi. Forse a sera le avrebbero preparato una plus di farro. All’improvviso si sentì girare la testa, la vista le si annebbiò e si sentì venir meno. «Bevi» la scosse un uomo allungandole la propria borraccia. Agate aprì gli occhi, si sedette e con riconoscenza afferrò la fiasca. Aveva terminato l’acqua già da alcune ore. Non era abituata a quel clima torrido. Si scostò i capelli ribelli dagli occhi. «Grazie. Mi chiamo Agate» si presentò infine. «Sei Gota?» domandò l’uomo. «Sì, le altre donne ed io siamo state catturate dai miles romani dopo la battaglia sul fiume Tanaro.» «Ne ho sentito parlare dal domine» commentò riprendendosi il contenitore. «La tua gente è stata quasi del tutto sterminata, come la mia. Sono Vandalo. Mi chiamo Gunderic.» Le porse la mano e l’aiutò ad alzarsi. Agate lo guardò meglio, in effetti non sembrava di origine latina. Era troppo alto e la pelle bruciata dal sole, come la sua, non aveva quella sfumatura ambrata tipica della gente del sud.
«Vieni, ritorniamo agli alloggi degli schiavi. Per oggi la mietitura è giunta al termine.» Agate lo seguì per i campi aridi. A quanto le era stato riferito, in quella terra non pioveva molto nella stagione estiva. «Ho una fame tremenda» gli confidò lei. «Per questo sei svenuta? Non ti hanno dato da mangiare stamattina?» indagò Gunderic fissandola con i suoi intensi occhi verdi. «Solo una plus di farro con un pezzo di formaggio di capra. Le schiave più forti riescono a ottenere il cibo migliore, ma le altre ed io dobbiamo combattere per una piccola ciotola di plus.» «Parlerò con Pullo e mi accerterò che tu abbia abbastanza da mangiare. Se ti affamano, non possono pretendere che fatichi tutto il giorno.» Le strizzò un occhio e sorrise. Agate per la prima volta lo trovò piacente e un calore sconosciuto la sommerse. Ma nonostante la risposta del suo corpo, mantenne una certa diffidenza nei suoi confronti. «Perché fai questo per me? Non mi conosci, non appartengo neppure alla tua gente.» Forse avrebbe picchiato il responsabile degli schiavi per lei e avrebbe rischiato di essere frustato. «Sei giovane, sana e molto attraente con quegli occhi color delle violette. Siamo stati venduti al domine Lucio Verino ma questo non significa che non possiamo stringere un legame con altri schiavi o schiave.» Agate sapeva che né Alarico né i guerrieri sarebbero giunti a liberarla. L’Impero Romano era molto ampio e la sua gente non sapeva dove cercare le innumerevoli donne rapite. “Ora dovrò vivere in asservimento per il resto della mia vita. Un compagno che mi difenda è indispensabile, se voglio sopravvivere.” Desiderò conoscere meglio Gunderic e gli sorrise a sua volta. «Da quanto tempo lavori qui?» «Un cambio di stagione, circa. Sono stato fatto prigioniero dopo la sconfitta che abbiamo subito in Rezia.»
Agate ne aveva sentito parlare il padre con altri guerrieri. A causa di quella ribellione, Stilicone e i legionari romani si erano intrattenuti in Gallia e avevano permesso alla sua gente d’invadere il nord italico. Entrano nell’edificio riservato agli schivi e ai liberti, che era più rustico della pars Dominica, infatti dormivano tutti insieme. Pullo li squadrò con astio quando li vide arrivare nello stesso momento. «Siete in ritardo. Non avrete nulla da mangiare» ringhiò. Gunderic lo caricò senza pensarci un attimo. Era più robusto del liberto latino, forse abituato ai combattimenti con o senza spada. Lo gettò a terra come se fosse un bambino e lo tenne inchiodato al suolo. Sussurrò qualcosa all’orecchio di Pullo, infine lo lasciò andare. Il romano lo fissò con odio ma non fece sferzare Gunderic. Le ferite spesso marcivano con quel caldo e il punito spesso moriva. Il domine così avrebbe sprecato i suoi miliarensi. «Ecco il vostro cibo» disse loro un altro liberto che Agate non conosceva. Su un piatto era adagiata mezza pernice e qualche cucchiaiata di plus di farro. Agate e Gunderic vi si gettarono sopra, famelici. Quando i morsi della fame si furono placati, Agate si girò a guardare il guerriero vandalo. «Cosa gli hai sussurrato?» gli domandò incuriosita. «Che non deve permettersi di fissarti come se fossi un cibo succulento. Non sei sua, sei mia. Inoltre che abbiamo bisogno di mangiare meglio, se desidera che la mietitura prosegua.» «Non mi pare che ti abbia promesso qualcosa» lo fronteggiò lei un po’ indignata. «No, ma potresti pensarci.» La sbirciò con occhio malizioso. Agate aveva bisogno di un uomo, ma non per forza di un vandalo. Infine lesse il desiderio in fondo agli occhi di Gunderic e ne fu tentata. In fondo non aveva nulla da perdere e tutto da guadagnare. Il guerriero avrebbe potuto violarla nel campo e lei non sarebbe stata in grado di opporsi. Era stato gentile, al contrario, e ora glielo stava domandando. Gli sorrise, un invito implicito. Quella sera, allo zenit della luna, quando gli altri schiavi già dormivano, la svegliò e si sdraiò accanto a lei. Non le parlò ma la baciò con ione e lei ricambiò. Qualche istante più tardi già le stava alzando la tunica, accarezzandole le cosce con mani
ruvide. Assecondò il suo istinto e allargò le gambe. Gunderic non attese oltre e la perse con delicatezza. Quando si accorse dei suoi movimenti resi frenetici dalla ione, spinse con più impeto. L’apice colse entrambi di sorpresa e ansimando il vandalo si fermò, rimando ancora dentro di lei. «Non credevo che sarebbe stato così» mormorò lei accarezzandogli la schiena. «Così come? Cosa ti hanno riferito le altre donne?» indagò baciandola sulle tempie e mordicchiandole un orecchio. «Mi hanno avvisata che sarebbe stato doloroso e spiacevole la prima volta. Comunque, non ho provato molte fitte e in assoluto non è stato sgradevole.» Cercò di guardare i suoi occhi nonostante la quasi totale assenza di luce. Lo sentì ridere sommessamente e infine il guerriero si mosse, uscendo dal suo corpo. «Ne sono felice, mi sarebbe dispiaciuto procurarti dolore. Ora cerchiamo di dormire. Domani sarà un’altra giornata massacrante.» Da quel giorno in avanti si unirono con gioia ogni sera; la vita era così breve. In un cambio di luna Agate scoprì aspetti piacevoli dell’uomo che aveva scelto come compagno. Per esempio era un bravo cantore. Ogni tanto accompagnava il monotono lavoro nei campi con qualche brano tradizionale. Era luglio quando da uno degli altri schiavi lei venne a sapere dello scontro che la sua gente aveva perduto a Verona. «Gunderic, hai sentito di Verona?» gli domandò quella sera. «Sì, mi spiace molto per i Goti.» «Ho sentito anche che i guerrieri sopravvissuti si sono diretti verso la Val Lagarina. Sai dove si trova?» «Certo, a nord di Verona. Da quella Valle, oltreando le montagne, si può raggiungere la Rezia. Con un po’ di fortuna anche Radagaiso.» «Voglio fuggire e cercare di raggiungere la mia gente» si lamentò Agate. «Non desidero che mio figlio nasca schiavo e sia venduto dal domine a qualcun altro.» Gunderic la fissò nella semi oscurità e le sue labbra si allargarono in un caldo sorriso. «Sei sicura?»
«Abbastanza. Ho saltato il periodo mensile» rispose un po’ depressa. «Nasconderò un po’ di cibo e partirò quando ne avrò accumulato abbastanza» dichiarò senza lasciar spazio all’interpretazione. «Agate, non sai neppure dove siamo! Non puoi scappare. Ti prenderebbero subito» considerò lui. «Tu sai dove siamo, vero?» Lo squadrò, stava cominciando a dubitare del suo coraggio. «Nei pressi di Ravenna. Dovremo dirigerci a nord-est. Costruirò un arco, così mangeremo qualcosa di decente sulla via.» «Allora verrai con me? Stavo cominciando a temere il contrario.» Gli sorrise rincuorata. «Come puoi dubitarne? Sei la mia esatta metà. Non posso immaginare una vita senza di te.» L’abbracciò e baciò nella notte illuminata dai raggi della luna. «Anch’io non potrei mai vivere senza la tua forza.» «Partiremo domani sera. Tieniti pronta. Cercherò di rubare del budello animale per le corde dell’arco.» Infine Agate si lasciò accarezzare e con desiderio si unì a lui molte volte, in quella tiepida sera di luglio. L’indomani, come convenuto, si eclissarono nella notte.
E in lontananza colpi di cannone Alessandra Paoloni
Atlanta, 1864
La guerra non sembrava contemplare una fine. Abitavo nelle campagne di Atlanta con la mia famiglia e il nostro desiderio era di restare lontani da tutta quella follia, ma il conflitto bussò anche alla nostra porta e capimmo che da esso non saremmo potuti mai fuggire. Accadde che una mattina due soldati feriti, scampati all'ultimo scontro fratricida, cercarono riparo in casa nostra. Erano sudisti, sopravvissuti a una rovinosa disfatta: uno ferito alla gamba e l’altro alla testa. I miei genitori, mossi a misericordia, decisero di accoglierli e assisterli con tutti i mezzi che avevano. Albert Greene, il soldato colpito alla testa, era ridotto in fin di vita; solo un miracolo avrebbe potuto salvarlo. L'altro, il più giovane, era stato ferito a un polpaccio da un colpo di arma da fuoco, tant'è che doveva essersi trascinato come un rettile fino al nostro porticato. Il suo nome era Edward Mills e fui io a soccorrerlo. Lo sistemammo in camera mia, gli fasciai la ferita come meglio potevo e lo lasciai riposare. I suoi abiti erano intrisi di sudore e sangue, i capelli scuri, lunghi fino alle spalle, erano sciolti e ricoprivano in maniera disordinata il cuscino. Poco prima, mio padre gli aveva sfilato la giacca e ora il soldato indossava solo una camicia logora. La peluria chiara gli velava i muscoli che s'intravedevano dalle asole prive di bottoni. Non ero mai stata così tanto vicina al corpo di un uomo; imbarazzata, senza ancora conoscerne la ragione, allungai una mano per coprirlo meglio ma lui si svegliò, spalancando gli occhi e afferrando le mie dita. Sobbalzai. «Dove mi trovo?» domandò.
«Non vi ricordate?» risposi timorosa: «Siete arrivato qui assieme al vostro compagno.» Il ragazzo lasciò la presa e cercò di mettersi seduto, ma non vi riuscì a causa del dolore. Feci per allontanarmi e chiamare mio padre, ma lui mi bloccò nuovamente il braccio. Quel contatto mi scosse come la scarica spaventosa di un fulmine. Fissai gli occhi nei suoi, così chiari e profondi, testimoni di chissà quali atrocità. «Chi siete voi? Siete molto bella...» Fui sorpresa e imbarazzata da quelle parole. Il ragazzo delirava; forse gli era salita la febbre. «Mi chiamo Grace. State meglio?» balbettai. «Vorrei dell'acqua, per favore.» Afferrai subito la caraffa e riempii un bicchiere. L'aiutai a bere ma, per farlo, fui costretta ad avvicinarmi e ciò mi procurò un altro brivido. Quello che stava accadendo all'interno del mio animo non mi apparteneva. Pensai che fosse la pietà verso quel ragazzo sofferente a sconvolgermi in quel modo. «Il mio compagno sta bene?» «Si rimetterà molto presto» mentii. In realtà, l'uomo ferito alla testa forse non avrebbe rivisto un'altra sanguinosa alba. «Sapevo che prima o poi sarei caduto anche io» mi confessò. «Dovete pensare a rimettervi in sesto. La guerra può aspettare.» «Sì, la guerra andrà avanti anche senza di me» mi rispose: «quando mi sono arruolato confidavo in alcuni ideali, pensavo che sarei stato in grado di resistere ma sbagliavo.» Non seppi come replicare. Mi chiese ancora dell'acqua e, di nuovo, lo aiutai a dissetarsi. Poi mi guardò con i suoi occhi chiari e affranti che seguivano interessati il mio profilo; questo mi fece agitare poiché non ero abituata a essere guardata in quel modo.
«Parlatemi di voi» mi disse: «non fatemi pensare alla guerra.» «Non c'è molto da dire su di me» iniziai: «adoro leggere e a volte scrivo qualche poesia, quando ho ispirazione. Vivo in questa tenuta da sempre, ma credo saremo costretti ad andarcene adesso che la guerra è vicina.» «Avete paura?» mi domandò. «Mi state chiedendo se ho paura della guerra?» Edward assentì. «Certo che sì. Chi non ne ha timore?»
Lui non replicò. Al contrario quel giovane, decidendo di arruolarsi come volontario, la guerra l'aveva abbracciata. Non sapevo se considerarlo un pazzo o un eroe. «La volete sapere la verità?» proseguì: «Ho deciso di reclutarmi per scappare da due occhi scuri come i vostri. Lei scelse un altro e questo mi costrinse a partire. L'orgoglio ferito mi ha portato qui da voi, Grace. Occhi scuri come i vostri, non la guerra, firmeranno la mia condanna a morte.» Dunque Edward era scappato da una delusione d'amore, sperando che quel conflitto gli fe dimenticare tutto. Questo cambiava ogni sua considerazione. «E lei... non l'avete ancora dimenticata?» «Oh sì. Adesso mi accorgo di quanto sono stato avventato nelle mie scelte. L'amore è davvero un sentimento complicato che ci fa agire senza razionalità. Ma voi scrivete poesie, dovreste saperlo bene.» In realtà non era così. Stavo per dirglielo quando mio padre entrò nella stanza per informarsi della salute del giovane. Edward e io smettemmo di chiacchierare. Per me fu una fortuna, visto che quel militare ferito, piombato così all'improvviso nella mia vita, mi aveva sconvolta quasi quanto il pensiero della guerra.
Il giorno seguente, il soldato si alzò dal letto per fare una breve visita al suo amico di sventura. Quando poi si congedò, tornò nella mia stanza e mi trovò ad attenderlo. Mi sorrise, ma notai che c'era qualcosa di strano nella sua espressione. «Devo parlare con vostro padre.» disse: «ho ragione di credere che la città di Atlanta non sia più sicura. Non potete restare qui.» Quella notizia mi allarmò: «Ma il vostro compagno non può muoversi» obiettai: «come faremo a portarlo via?» L'uomo ferito alla testa giaceva paralizzato nel letto, era da escludere che si rimettesse in piedi in tempo per lasciare la casa e la città, ma dall'espressione di Edward capii che né lui, né l’amico sarebbero venuti con noi. «No! Non potete restare qui. Se quello che dite è vero, anche questa dimora verrà distrutta.» Che razza di egoista mi stavo dimostrando! Chiedere a Edward di abbandonare il suo compagno moribondo era un pensiero vergognoso. Ma cosa avrebbe potuto fare lui anche se fosse rimasto? Albert sarebbe comunque morto nel giro di qualche giorno, a causa della grave ferita. In realtà non volevo che si allontanasse da noi, non volevo separarmi da quel bel viso provato dalla sofferenza. Il pensiero che non l'avrei più rivisto già mi dava il tormento.
«Vi prego Edward» lo implorai: «occhi come i miei vi hanno costretto a partire per la guerra. Ora, vi chiedono di allontanarvi dalla morte. Saremo più al sicuro con voi, non credete?» Di nuovo mi stavo comportando da perfetta egoista. Dio mi avrebbe punita? «I vostri occhi sono più sinceri di quelli che lasciai tempo fa. La vostra famiglia non vi ha tenuto lontano solo dalla guerra ma da tutte quelle emozioni che avrebbero potuto ferirvi. Siete un germoglio in mezzo a tutto questo dolore.» Arrossii e pensai che non avrei mai ringraziato abbastanza il destino avverso che lo aveva condotto da me.
«Se ci fossimo conosciuti in circostanze diverse...» Sospirò e, per un attimo, i suoi occhi sorrisero mentre fissavano i miei. Come avrei voluto che fossero tempi tranquilli e pacifici per la mia famiglia, per il nostro Paese diviso, per noi due. Albert spirò qualche ora dopo. «Non piangete, Grace» mi consolò Edward, trattenendo a sua volta la tristezza: «sapevamo a cosa andavamo incontro arruolandoci, ma arrivare qui non era previsto.» Con quelle parole mi fece intendere che non ci avrebbe abbandonato alla nostra sorte. Mio padre si convinse a partire, poiché il rumore inquietante dei cannoni si avvicinava sempre di più. «Voglio cambiarvi le bende prima» gli dissi quando mi ritrovai di nuovo da sola con lui. «Vi porterò lontano dalla guerra Grace, ve lo prometto.» Il mio cuore si augurava che le sue parole fossero vere. «E, una volta lontani da tutta questa follia, la prima cosa che farò sarà contemplare i vostri occhi per ore» aggiunse. Non ci sarebbe stata più guerra per lui, né solitudine per me. Atlanta, così contesa da uomini nelle cui vene scorreva lo stesso sangue, capitolò alcune settimane dopo. Mi piace pensare che Edward fosse giunto appena in tempo per portarci in salvo. Avevo scritto poesie e fantasticato sull'amore per una vita intera, ma di certo non potevo immaginare che mi sarebbe piombato addosso all'improvviso come le scariche assordanti dei cannoni da guerra.
Il soffio di un’illusione Spin-off da La Stella di Giada
Stefania Bernardo
Carolina del Nord, Bath, Estate 1718
La camera era appena accarezzata dalla luce argentea della luna. La tenda volteggiava nella brezza carica di profumi e Jamila seguì una nuvola di fumo azzurrognola, l’ennesima, che si levava dalla pipa. Lisciò la gonna verde e trattenne il respiro, il corpetto che le comprimeva lo sterno in una prigionia resa più pesante dall’aria gravida di paura. Aveva la spiacevole sensazione che l’uomo davanti a lei potesse annusare il suo terrore. Nascosto dall’ampio schienale, il capo rivolto a fissare il mare placido in lontananza, continuava a ignorarla. Infine si alzò, la pipa che penzolava ai lati della bocca, le mani incrociate dietro la schiena. «Dimmi, tuo padre ti vuole bene?» girò il capo e la fissò. Jamila represse un brivido quando i suoi occhi furono inghiottiti dallo sguardo azzurro e freddo dell’uomo. La domanda la lasciò sorpresa. Fissò le proprie dita annodate l’una intorno all’altra, colorate da una chiara tonalità di ebano «A modo suo, sì. Mi vuole bene.» Pensò a come suo padre, il Governatore Eden, le avesse sempre dato tutto, nonostante fosse solo una figlia illegittima avuta da una schiava. L’aveva protetta
dalle dicerie, dai soprusi dei bianchi che abitavano la colonia. Era cresciuta divisa a metà tra il disprezzo dei coltivatori e l’invidia della sua gente che si spezzava la schiena nelle piantagioni, mentre lei poteva vagare libera. Tornò ad alzare lo sguardo verso l’uomo e si lasciò sfuggire un sospiro. «Malgrado ciò, l’affetto che prova per te non gli ha impedito di sacrificarti in nome del denaro.» Alzò le labbra in un sorriso di scherno. La luna che metteva in luce la spaventosa cicatrice sullo zigomo destro. «Che cosa volete dire, con questo?» Jamila si rese conto che, stagliato contro il riverbero lunare, appariva ancora più alto, incarnazione del demone infernale di cui tutti avevano paura. Eppure il viso sbarbato pareva appartenere a un uomo affascinante e gentile, la coda di ricci rossi ordinata in un codino, gli abiti eleganti, impeccabili. «Eden vuole tenerci qui, vuole che i nostri commerci siano anche affar suo, il più a lungo possibile. Ma conosce me e conosce il mio vicino. Sa bene quanto siamo inclini alla noia.» Si avvicinò e le porse una mano. Un invito a lasciare la protezione della poltrona. «Per questo ha voluto offrirci un delizioso intrattenimento.» Le dita piccole di Jamila furono avvolte da quelle callose e rudi di suo marito. «Una moglie era l’ultima cosa che volevo» mormorò mentre la scrutava, attento. «Ma Edward è ancora meno indicato di me a ricoprire questo ruolo.» Scosse il capo. «Hai appena vent’anni.» L’ultima frase fu solo un sussurro. Jamila sentiva le dita calde del pirata solleticare il suo palmo. Era così imponente che sembrava pronto a inghiottirla in un solo boccone. «Forse avete ragione, ma a ogni modo voi in questo momento siete un ricco piantatore.» Alzò gli occhi e sorrise, nel tentativo di placare il cuore impazzito che sbatteva contro le stecche del corpetto. «Uno dei più ricchi.» Deglutì. «Un buon matrimonio, dopotutto.» «Non metterti in testa cose strane, ragazza» le lasciò la mano. «Uno di questi giorni salperò per non tornare, lo sanno tutti. Lo sai anche tu.»
«Ma avete accettato il perdono.» Johnny Shiver si strinse nelle spalle: «Un diversivo come un altro.» Rimase in silenzio, gli occhi di nuovo verso l’oceano che specchiava i raggi della luna, che lo chiamava, lo inquietava, ricordandogli il patto di sangue siglato tanti anni prima. Tornò a fissare gli occhi di Jamila. Verdi come lo smeraldo più puro. Occhi che lo inchiodavano al ato, che racchiudevano il suo intero destino. Il verde di una promessa, di una nuova speranza. Smeraldi tentatori che parevano offrigli una possibilità di riscatto. Aveva scelto la strada più assurda per strapparla dalle mani di Edward Teach. L’ultimo atto di galanteria dell’uomo che era stato un tempo oppure il richiamo di quegli occhi così limpidi, simili a quelli che rincorreva ogni notte? Jamila lo raggiunse, piccola e delicata, fasciata di crinolina, con i capelli ricci e corvini raccolti sulla testa e l’oro che le pendeva dalle orecchie. Il viso ovale, e l’ebano che non faceva altro che risaltare gli occhi esotici e seducenti. Le labbra carnose, le forme morbide. Con una mano sfiorò il fiocco candido che decorava il corpetto. Jamila sapeva di fiori e di gioventù. Giocherellò con la stoffa, mentre sentiva il respiro della ragazza aumentare, agitato, caldo. Un tocco delicato che gli solleticava lo spirito. Il soffio di un’illusione. Per un istante immaginò la sua vita come ricco latifondista. Jamila al suo fianco, minuta e dolce, che si prendeva cura della sua anima. Pensò ai loro figli, li vide correre nei campi con il sole delle Indie ad accarezzare la pelle e il profumo della salsedine tra i capelli.
Strinse di più il fiocco, quasi a fermare quell’illusione, così vera che sentì il suo cuore fermarsi. Avvicinò le labbra a quelle della moglie. La sentì tendersi e le schiuse la bocca, delicato. Un istante in cui percepì ogni goccia di paura di Jamila. In cui assaporò il gusto dell’innocenza più pura. Varcò la soglia, lieve, perso nei ricordi che non gli lasciavano tregua e sentì il corpo della ragazza trovare rifugio intorno al suo. La lingua di lei che iniziava a muoversi, impacciata. Le affondò la mano tra i capelli raccolti e lasciò andare il suo corpo, desideroso di contatto umano. E poi abbandonò la calda alcova di quelle labbra, vigile, attento. Quella ragazza era un pericolo a cui non poteva cedere. Jamila riprese fiato, il cuore impazzito, il respiro agitato. Non si allontanò da lui, rimase accoccolata contro il suo torace ampio, la mano che gli accarezzava l’avambraccio tornito. E si rese conto che non era la paura del crudele pirata a farla tremare fin da quando aveva saputo che sarebbe divenuta sua moglie. L’uomo davanti a lei era pericolo e perdizione, avventura e crudeltà. Era mare e sangue. Il tumulto di un cuore che si abbatteva contro l’attrazione, contro il brivido di un sentimento caldo come il sole, misterioso come il mare. «Ti spezzerò il cuore.» Le sussurrò. «Non sono in grado di amare, Jamila. Non più.» Le diede un tenero bacio sulla guancia. «Vivo all’inferno da troppo tempo.» Appoggiò la fronte a quella del marito: «Sapete che cosa mi disse un giorno mia madre?» Lo abbracciò, fino a sentire il battito veloce del pirata. «Che l’amore resiste anche all’inferno.» Johnny Shiver strinse a sé quella piccola ragazza color dell’ebano e, nel farlo,
sparirono il sangue e l’odio che da troppi anni impregnavano ogni istante della sua vita. All’inferno l’amore resisteva, e il suo era rimasto nel suo cuore così a lungo, e in maniera così profonda, che aveva finito per trasformarlo nel diavolo. Si chiese se fosse lecito prendersi la purezza di quella ragazza per annegare i suoi rimorsi, per concedersi un po’ di calore in un mare di freddezza. Alzò gli occhi verso le specchio di fronte a lui: il suo riflesso danzava sulla luce argentea della luna. Quella sera non era il capitano pirata che tutti temevano. Non era il reietto di cui non pronunciava più il nome. Era solo un uomo fatto di carne e sangue. Il corpo di Jamila era seducente, invitante, e decise di tenersi stretta quell’illusione ancora per un po’. Almeno fino al prossimo sole.
Il sussurro di un cuore asservito
Rosa Forte
Efeso (Lidia), VI secolo a.C.
L’oscurità della notte si arrese alla morsa perlacea dell’alba nascente che, fugace si diramò sul monte Tmolo, laddove i confini del suolo terminavano in meandri di una boscaglia dal forte odore di muschio, nel momento in cui una fanciulla cinta di purezza domandava al suo cuore se fosse tanto illecito bramare la conoscenza. La ricerca del proibito come un sussurro echeggiava in esso. Una mano si levò da sotto il mantello per posarsi in corrispondenza del cuore che minacciava di fuoriuscirgli dal petto. Audace, scandiva i sussurri bramosi di conoscenza, timoroso era il respiro al suo traboccare. Una nenia di parole funeste. Un lembo dell’ampio mantello a coprirgli il capo cinto da una coroncina di filigrana dorata, la giovane sacerdotessa sospirò mesta. Sebbene avesse condotto il o verso quel luogo assecondando la volontà del suo cuore in quel momento si ammoniva tacitamente riguardo alla natura della conoscenza di quel suo desiderio. Nel tempio insegnavano che ogni desiderio possedeva, intrecciato alla sua natura, un sacrificio. Quel sussurro non era rilevante quanto il dono della vita, ciononostante... Le parole di Ebe non riusciva a dimenticarle. L’intrepida sorella divina era giunta sulle sponde del fiume Caistro, alle pendici del monte Tmolo, bramosa di osservare i cigni che si narrava abitassero in quelle acque.
Cleide desiderava ardentemente poter ammirare quelle creature. Un cigno, un desiderio che le palpitava nel cuore, un sussurro indecente. E il sacrificio da affrontare era proprio lì sotto i suoi piedi. Il monte Tmolo era un luogo di morte per una come lei. Si nascose dietro un albero, mentre al canto delle acque del fiume si intrecciarono le parole della Gran maestra che le narrava l’infelice ventura della sacerdotessa Arippe. Le sembrò di toccarlo lo sguardo del re Mane Tmolo che funesto si posò sulla sacerdotessa. La voce austera venne soffocata ben presto da quella ammonitrice della vergine Arippe: ogni rifiuto era come una freccia infuocata al cuore di quel re che, ardente di un amore immorale, giunse a sfidare la collera degli dei. Echeggiarono come numerosi camlini i suoi i frettolosi, mentre giunse al sacro tempio della dea e fra le volute di incensi e le libagioni di essenze profumate, che scivolavano dal corpo del simulacro divino come sudore celestiale, il perfido re abusò di Arippe finché quegli occhi cerulei persero la fierezza di essere un’accolita di Artemide. Un battito le venne meno nel vedere la figura evanescente dell’afflitta sorella divina inanellare la funesta cima che le procurò la morte. Il nome della dea aleggiava ancora sulle labbra di Arippe quando Artemide scatenò la sua ira contro il perfido re privo d’onore che morì fra atroci sofferenze. A causa di quella vicenda alle sacerdotesse di Artemide era proibito giungere sul monte che portava il nome di quell’essere abietto. Era terra impura per chi era velata di purezza. Infelice Arippe! bisbigliò Cleide elevando una preghiera. Perdona questa tua sorella! Piccole lacrime le imperlarono le ciglia, in quel momento che inanellava preghiere di perdono.
Calpestare la memoria della sventurata sorella e solo per vedere un cigno! Oh, il suo cuore la esortava a correre nel tempio a sacrificare anche se stessa per chiedere perdono. Cauti i erano attutiti dall’erbetta madida di rugiada mentre pigramente Apollo trainava il suo carro lucente, annunciando l’inizio di un nuovo giorno. Il principe Loxias con parsimonia saliva le pendici del monte Tmolo, pesantemente armato. Suo padre li stava conducendo allo stremo delle forze con quel suo addestramento e, nonostante Loxias sin da tenera età considerasse il cuoio e l’acciaio il suo pane quotidiano, quel giorno aveva deciso di abbandonare il campo intanto che re Creso era diventato dispotico. I raggi tiepidi di quel sole ancora assonnato lo avevano spronato a recarsi alle sponde del Caistro. Un sorriso gli piegò le labbra quando giunse alla distesa di acqua illuminata da infiniti bagliori, all’incontro con i raggi del sole. I cigni quel mattino non erano presenti. Il divino Apollo aveva condotto i suoi ninnoli su altre sponde a quanto pareva, trascinando con sé anche le ninfe. Loxias non ne aveva mai vista una. Doveva essere tanto indegno se i suoi occhi non riuscivano a carpire le fattezze di quella carne divina. Il suo sorriso divenne insolente mentre poggiò lo scudo contro un masso, uno dei tanti che gettati come ciotolini costeggiavano le sponde del fiume. Una muraglia di alberi celavano il segreto di quel fiume, quasi a velare l’identità di chi si denudava privo di pudore. Oh, una ninfetta non si sarebbe imbarazzata alla vista della natura umana. Sorrise divertito prima di sprofondare nelle acque come se volesse toccare il cuore del mondo. Il cuore di Cleide tremò mentre contemplava la figura maschile seduta sulle sponde del fiume che si denudava della sua armatura.
È il divino Ares, le sussurrò il cuore. Di ritorno da qualche contesa bellica. Erano così cruenti le sue battaglie, così ardenti le sue vittorie. Un fremito le scosse il cuore risalendo sulle labbra. Oh, sì, erano dolorose le morti che quel dio funesto infliggeva. I raggi del sole con timore si posavano su quei filamenti di notte che gli sfioravano la schiena nuda, dorata come il sole, ombreggiata da venature più chiare: ferite di guerre ate, di punizioni ricevute nei secoli trascorsi. Beata te, Cleide, che contempli il bagno di Ares! Le guance le divennero come di brace quando le acque cristalline le mostrarono la figura nuda del dio. Quegli occhi riflessi nell’acqua parvero guardarla intensamente per un istante, ma si rese conto che fu solo una sua illusione poiché con leggiadria il dio si tuffò nelle acque. Loxias risalì in superficie con una grazia che un figlio di Poseidone gli avrebbe invidiato mentre una strana sensazione gli serpeggiò lungo la pelle e non era freddo, nonostante fosse pungente allo stesso modo. Con cautela si avvicinò al masso dove riposavano i suoi indumenti e le armi, lento portò una mano sotto la tunica vermiglia dai ricami dorati. Erano in contesa con Ciro il Grande e non si sarebbe meravigliato se nascosto in quegli alberi vi tramasse un persiano. La mano si chiuse sull’elsa della spada nel preciso istante in cui il nemico manifestò la sua presenza. Un sorriso lento gli piegò le labbra mentre il suono secco di un ramoscello spezzato si librò in aria. «Mostrati, chiunque tu sia.» Cleide si morse il labbro inferiore. Oh, sventurata Cleide, gli dei si contenderanno la tua vita per quest’affronto! Si raggomitolò ancora di più su se stessa. Il cuore traboccava lacrime, mentre sul suo volto dominava un rossore misto a imbarazzo e terrore. «Non posso.» Una tremula voce femminile.
Il guerriero sgranò gli occhi, un attimo dopo con la mano libera si avventò sulla sua tunica. «Mostrami il tuo volto, donna» disse ormai fuori dalle acque, celato dalla veste. «Mi è proibito, mio signore» bisbigliò Cleide, mentre un raggio di sole si posava sulla coroncina in fronte. L’emblema che apparteneva ad Artemide, la serva di una Signora divina. «Non esistono donne il cui viso è proibito guardare. Sei una nàiade? Una ninfa delle acque che rifugge dai mortali?» «Oh, no!» protestò Cleide e quasi fu tentata di mostrargli quanto il dio si sbagliasse. Lei era composta da carne mortale sebbene fosse velata da una condizione divina. Il divino Ares non era a conoscenza che nessun uomo poteva guardare il volto di una vergine accolita? Mosse le foglie di un cespuglio manifestando il luogo del suo nascondiglio. Le sue dita quasi giocherellavano con le foglie e, mentre cauta cercava di fuggire, scrutò il fiume domandandosi dove fosse finito il dio. Il cuore le mancò un battito, il respiro le venne meno quando fra le foglioline incontrò un paio di occhi di argento fuso, vere fiamme ardenti di natura divina. «Iéreia...» la chiamò Loxias scrutando la sua fronte cinta di castità. Sacerdotessa. Cleide sussultò nel sentire traboccare da quelle labbra il nome di una condizione che le divenne estranea. Poiché da quel momento, ovunque fosse stato il suo angolino di preghiera avrebbe rivolto ogni invocazione per quell’uomo, contemplando il ricordo di quegli occhi di luna. Loxias sentì gravargli sulle spalle il peso del mondo intero specchiandosi in quegli occhi velati fin troppo di purezza anche per una sacerdotessa.
Il suo nome. Desiderò conoscere il nome di quella vergine accolita. Era quasi doveroso esigere il nome di colei fra le cui mani, eternamente, avrebbe palpitato il suo cuore.
Imbastiture d’amore
Lorenza Bartolini
Francia, seconda metà dell’Ottocento
Non è facile per chi, come me, proviene da una famiglia di umili origini. Figlio di una casalinga e di un avvocato senza cause, ho lavorato duramente fin da ragazzo per raggiungere i miei obiettivi. Nel 1846 lasciai il Lincolshire per Parigi, inseguendo sogni di stoffa e di trine; ma è stato solo grazie a mia moglie Marie che sono diventato il re senza corona della moda parigina, e non solo. La prima volta che la vidi, in Rue de Richelieu, capii subito di avere di fronte la mia musa ispiratrice. La volevo al mio fianco, per sempre. Marie era la migliore vendeuse di Gagelin, mio titolare e proprietario di una delle più famose boutique della capitale se. Fu proprio lei, dopo aver visto di nascosto gli schizzi dei miei figurini, a mostrarli a Gagelin, convincendolo a lasciarmi coltivare questa ione durante le ore di lavoro. E fu sempre lei la prima a congratularsi con me quando vinsi il primo premio alla Grande Esposizione di Londra nel 1851. Ci innamorammo, ci fidanzammo e, poco dopo, convolammo a nozze. Così iniziai a disegnare e confezionare vestiti e cappellini pensando solo a lei. Il punto vita avrebbe messo in risalto la sua figura snella? E il colore giallo cio avrebbe reso giustizia al colore della sua carnagione? Quando finalmente riuscii ad aprire il mio atelier in Rue de la Paix, Marie fu una delle mie prime mannequin: sfoggiava le mie creazioni davanti alla clientela, con il suo sorriso radioso e il suo o leggiadro. La mia bravura e la capacità di
Marie di ammaliare anche la donna dai gusti più difficili mi resero molto famoso tra le signore parigine. Tuttavia scoprii di volere molto di più, di non essere ancora arrivato all’apice della mia carriera. Un giorno, della primavera del 1860, Marie entrò nell’atelier tutta trafelata e con le guance arrossate. «Frederick, non ci crederai mai! La principessa Pauline de Metternich farà visita alla città!» «Madame Chiffon…» mormorai, accarezzandomi i baffi pensieroso. «È così che la chiamano. Una donna colta e temuta a corte, che tende a dire tutto quello che le a per la testa. Sarà difficile avvicinarsi a lei.» Sul volto di Marie si disegnò un sorriso furbetto: «Ho già ottenuto un’udienza presso la principessa.» Smisi di dedicarmi al figurino che stavo disegnando, lasciando cadere la matita sul pavimento. Marie rise felice e io, in un impeto di gioia, le afferrai il volto, stampando un bacio sulla bocca della mia fantastica moglie. Da quel giorno, il lavoro mi assorbì completamente: l’atelier era un caos di fogli, di scampoli e tulle. Marie invece era sempre in città, cercava di scoprire più informazioni possibili sulla principessa: i suoi colori preferiti, i suoi gusti in fatto di moda, ogni dettaglio del suo aspetto fisico che potessi mettere in risalto con una mia creazione. Furono giorni di duro lavoro, in cui disegnai centinai di abiti per tutte le occasioni. Spesso mi addormentavo con la matita in mano. Al mattino mi svegliavo con una coperta sulle spalle e un bacio di mia moglie sulla guancia, sorpreso dal profumo dei croissant appena comprati. Mentre mangiavo, Marie sfogliava i figurini con aria critica. Spesso, insieme, apportavamo delle correzioni o modificavamo i colori, scartando le creazioni peggiori. Poi il giorno tanto atteso arrivò. Per l’occasione avevo cucito a Marie un nuovo abito che fosse adatto alla corte, ma non tanto vistoso da mettere in ombra la principessa.
Prima di uscire dall’atelier, notando il mio sguardo tormentato, lei mi diede un buffetto affettuoso sulla guancia: «Non temere un fallimento amore mio, sei il meglio che Madame Chiffon possa trovare a Parigi. » Il suo sorriso mi rincuorò, ma finché non fosse ritornata mi sarei tormentato come un ossesso. Era ormai sera quando Marie rientrò a casa, con aria stanca. Mi bastò un solo sguardo per capire che quella visita era stata per noi una vera fortuna. Corsi da lei e l’abbracciai così forte che mi implorò di non stritolarla, mentre rideva pazza di gioia. Nonostante la principessa Pauline avesse preteso un grosso sconto, aveva scelto due delle mie creazioni: un abito da sera e uno da pomeriggio. In cambio avrebbe indossato, durante il ballo alle Tuileries, una mia creazione in tulle e lamé d’argento, guarnito di margheritine rosse. Il successo fu immediato: l’imperatrice Eugenia, presente al ballo, volle indossare i miei abiti, diventando subito la mia miglior cliente. Per lei creai un abito in taffettà grigio, ornato da nastri in velluto nero, completato da una blusa e da una giacchetta in tinta. Dall’atelier le mie creazioni cominciarono a uscire con una rapidità vertiginosa, e riuscii a dettare nuove mode sull’uso della crinolina e degli strascichi. La mia arte più grande è sempre stata quella di prevedere ciò che avrebbe avuto successo. Marie raggiunse il settimo cielo quando donne importanti come la regina Vittoria d’Inghilterra o Elisabetta, imperatrice d’Austria, chiesero di me. Mi accompagnò nei miei viaggi presso le corti straniere, a ogni cambio di stagione, e mi consigliò di comprare una collezione di manichini con le misure delle mie illustri acquirenti. La cliente che diede maggiormente sfogo alla mia creatività, per il suo gusto eccentrico, soprattutto nei balli in maschera, fu la contessa Virginia Castiglione, la favorita di Napoleone III. Virginia era considerata una delle donne più belle ed eleganti del mondo e rimase entusiasta del travestimento da Salambò che creai per lei. Si trattava di una tunica nera cosparsa di fiori rossi, dotata di un grande mantello scarlatto che si muoveva come un’elegante onda dietro di lei, seguendo ogni suo o.
Così il nome di Frederick Worth è divenuto noto al mondo intero, ma non ho mai attribuito tutto il successo solo alla mia bravura e al mio talento. Il mio segreto è stato avere una grande donna come moglie, una musa che mi ha sempre sostenuto e incoraggiato anche quando avrei voluto gettare la spugna.
La Magnolia Spin-off de Il profumo del sud
Linda Bertasi
Montgomery ( Alabama), Giugno 1858
La Magnolia era bellissima a quell’ora del mattino; poco distante, la bruma dell’alba bagnava i campi di cotone e il silenzio regnava sovrano, in attesa di essere spezzato dalle grida degli Overseers incaricati di sorvegliare gli schiavi al lavoro. Emma sedette sotto le fronde dell’immersa magnolia che dominava l’omonima collina su cui si trovava. La ragazza ripensava alla sera precedente e al ricevimento indetto dal padre William a Villa Spencer, solitamente non amava le feste organizzate dal genitore conservatore e fiero schiavista, ma quella era stata un’eccezione perché aveva potuto contare sulla distrazione, offerta dagli ospiti, e sgattaiolare indisturbata nelle scuderie per spiare Marcus al lavoro. Ricordava come fosse ieri il loro primo incontro. Quando aveva frustato la piccola Emily, sorella dello schiavo, il giovane aveva osato guardarla con tale disprezzo e il suo coraggio le aveva sfiorato il cuore. Lì, per la prima volta, non aveva sentito la stizza assalirla e non aveva notato il colore della sua carnagione, ma solo quegli occhi scuri roventi, capaci di bruciarle pelle e cuore. Da allora, non aveva perso occasione per incontrarlo, spiarlo, controllarlo. Ogni sera lo sognava e poi si rimproverava per quelle emozioni contrastanti, emozioni che il padre avrebbe condannato seduta stante, ma non riusciva a smettere di pensare a Marcus, al suo fisico aitante, alla sua voce calda, all’affetto che gli leggeva negli occhi quando guardava Emily. Anche lì, tra gli ultimi effluvi della notte, non riusciva a scacciarlo dalla mente e ignorare il fuoco che le accendeva dentro.
Emma si sdraiò sull’erba bagnata, incurante della rugiada che certamente le avrebbe rovinato l’abito chiaro con la amaneria rossa. Osservò le fronde scure e, per poco, non trasalì nel distinguere un profilo umano tra i rami; si rizzò a sedere di scatto mentre l’intruso atterrava sul tappeto erboso con un agile balzo. Lo riconobbe: era lui, Marcus. La ragazza contemplò il suo addome scolpito, velato da una casacca allentata sul torace; subito, Emma celò le caviglie con l’orlo della gonna e fece per alzarsi, ma il giovane la trattenne: «Non andate via per colpa mia.» Lei si bloccò, stupita dalle parole inattese e alzò gli occhi sullo schiavo. «Siete davvero bella.» Il complimento le provocò un guizzo al cuore. Marcus non era uno stupido, certamente aveva notato le occhiate indiscrete della padrona e la facilità con cui la incontrava per la villa, non ava giorno senza che Emma gli rivolgesse la parola adducendo sciocchi pretesti. La ragazza si riscosse dalle sue frivole illazioni e scattò in piedi: «Sei irrispettoso» esclamò, dandogli le spalle e raggiungendo il cavallo legato al tronco d’albero. Afferrò le redini per scioglierne il nodo e fu in quel momento che la mano dello schiavo si posò su quelle della padrona: un chiaro-scuro azzardato sotto le prime luci dell’alba. Rimasero immobili, Emma percepiva il calore sprigionato dal palmo di Marcus, non riusciva a pensare ad altro e, per la prima volta, non provò disgusto nello sfiorare la pelle di un nero. Avrebbe voluto girarsi e lasciarsi avvolgere dalle sue vigorose braccia, sfiorare le sue labbra morbide e abbandonarsi a sensazioni inusitate, ma il ceto cui apparteneva glielo impedì. «Perché sei qui?» gli chiese, augurandosi che lui non percepisse il lieve tremore della voce. «Per lo stesso motivo per cui siete qui anche voi.» Continuava a sostare con il palmo sulla sua mano, aumentando la pressione. «Sarà una giornata faticosa per te, un po’ di riposo ti farebbe bene.»
«Non voglio dormire.» Accompagnò quella frase, intrecciando le dita scure con quelle lattee della ragazza. «E che cosa vorresti fare?» Le uscì di getto, voltandosi a guardarlo e, nel movimento, un boccolo le scivolò sulla fronte, velandole una palpebra. Emma fece per sciogliere l’intreccio delle loro dita ma Marcus aumentò la stretta, allungando la mano libera a scostarle la ciocca dal viso. Lei assecondò il suo gesto, inclinando lievemente il capo verso il suo palmo, quasi una deliziosa alcova. Abbassò le palpebre, gustandosi la carezza inaspettata, mentre lui si avvicinava un po’ di più. Emma ne percepiva la vicinanza: «Tu sei uno schiavo e io la tua padrona. È sbagliato, è tutto sbagliato» mormorò, spalancando improvvisamente gli occhi e ritrovandosi a pochi centimetri dal viso di Marcus. Lo schiavo portò le loro mani intrecciate all’altezza del petto palpitante della ragazza: «È il vostro cuore che deve decidere.» Lei era lì, smarrita nelle sue iridi nere, preda di sensazioni mai provate, riusciva solo a pensare al calore delle sue mani e al fiato caldo che le sfiorava le guance. «Ci metteremo nei guai.» «Voglio correre questo rischio» le rispose, azzerando la distanza tra loro. Le loro labbra quasi si lambivano, Emma sentì le dita dello schiavo insinuarsi tra i boccoli e carezzarle la nuca. Chiuse nuovamente gli occhi, incapace di fare altrimenti, e si allungò alla ricerca della sua bocca. «Vuoi rischiare per una lurida schiavista?» «Non ci sono razze e fazioni su questa collina. Solo un uomo e una donna che non possono fare a meno l’uno dell’altra.» Quelle parole le penetrarono le orecchie come un balsamo inebriante, Emma schiuse le labbra quasi rispondendo a un richiamo e incontrò la bocca dello schiavo. Il contatto la inebriò e un senso di svenimento la assalì; ubriaca di emozione si aggrappò alle spalle del giovane, mentre lui la faceva indietreggiare sino al tronco d’albero e la stringeva a sé, apionato e avvinto. Fu in quell’istante che udirono uno scalpiccio farsi sempre più vicino. Di scatto,
s’interruppero con le bocche ancora incollate e i corpi allacciati, mentre sondavano il sentiero della piantagione. E poi la videro: la carrozza di Margaret Hamilton procedeva spedita a quell’ora insolita, diretta alla piantagione confinante. I due rimasero a osservare la vettura della vicina scomparire nella debole aurora sino a che non si ridusse a un punto indistinto e il silenzio calò nuovamente sulla tenuta. Emma stava ancora fissando l’orizzonte, agitata, quando Marcus la sollevò tra le braccia come fosse una bambina spaurita e la condusse al riparo offerto da un semicerchio creato da alcuni arbusti. La depose sull’erba bagnata e la contemplò: «Siete bellissima, Emma Spencer.» Lei, colpita dalla sua gentilezza, era come ipnotizzata, non aveva mai conosciuto un uomo tanto bello e tanto galante. Non era una ragazzina, il padre aveva tentato più volte di accasarla, non che una figlia potesse permettersi il lusso di disobbedire al proprio genitore, ma sinora era sempre riuscita a dissuaderlo. Conosceva gli uomini, sapeva quanto potevano essere infidi e opportunisti, ma Marcus era diverso da tutti gli altri ed era uno schiavo. Quanta forza bisognava avere per corteggiare una padrona ed essere tanto ardito da baciarla? Stava rischiando la vita e ne era consapevole, era disposto a giocarsi l’esistenza per lei. Di quanti altri uomini avrebbe potuto asserire lo stesso? Emma lo attirò a sé e gli carezzò le guance, le labbra carnose, scese sul collo e insinuò le dita sotto la casacca allentata. Lui, inginocchiato accanto, le sistemò una ciocca dispettosa dietro l’orecchio e restò a guardarla distendersi sull’erba e allungare le braccia, in un chiaro invito a raggiungerla. Marcus si distese di fianco a lei: «Non siete un capriccio per me.» Emma lo baciò, attirandolo sopra di sé mentre sentiva la gonna arrotolarsi. Poi si costrinse a interrompersi e guardandolo negli occhi: «Sarò la tua rovina.» «E io la tua.» La zittì, spingendo la lingua nella sua bocca e i due si abbandonarono alla ione. Abbracciata al suo Adone nero, mentre i primi raggi del sole irroravano l’orizzonte, Emma scorse la luce filtrare tra i rami e si sentì al sicuro. Una sensazione che non provava da tanto, troppo tempo. Era lui l’uomo che aveva sempre sognato, agognato, cercato. Non era una riflessione dettata dall’ardore, né dall’eccitazione della carne, era una verità che sentiva pulsare sotto la pelle e
non vi avrebbe rinunciato, a costo di scandalizzare Montgomery, ingannare suo padre e rinnegare il proprio cognome. Era l’alba di un mattino d’estate quando Emma Spencer fece quel silente giuramento e vi tenne fede sino alla fine.
La promessa
Macrina Mirti
Perugia, 1376
Li aveva visti arrivare dall’alto della torre: un nugolo di polvere sollevata dai cavalli al galoppo. Corse verso la postierla che si apriva sulle strette scale che scendevano ai piani inferiori e l’aprì, poi divorò i gradini a due alla volta. «Stanno arrivando, padre!» disse con le gote in fiamme. Uguccione dei conti di Braccio sollevò gli occhi dalle sue carte e rivolse alla figlia uno sguardo carico di rimprovero: «Mantieni il contegno» le disse. «Hai sedici anni. Ormai sei una donna. Quello che sta tornando in città non è più lo stupido bambino con cui giocavi nel giardino di mastro Lippo.» Griselda abbassò il capo con aria contrita: «Perdonatemi, padre» si scusò. Poi, quando vide che il conte era tornato alle sue occupazioni, andò a cercare Aisha, la fedele schiava turca, e le ordinò di uscire. Indossarono lo scuro mantello da mercante per ripararsi dal gelo di quel dicembre inoltrato, si calarono i cappucci sul capo e corsero verso la porta Nord. La fanciulla voleva vedere Giuliano Olivi che tornava nella città dove era nato e cresciuto, dopo il lungo esilio inflitto a tutti gli uomini della sua famiglia. Ormai, doveva avere circa venti anni e si era fatto un uomo. Chissà quanto era diventato affascinante, chissà se l’avrebbe riconosciuta e, soprattutto, chissà se conservava ancora, in fondo al cuore, il sentimento che entrambi avevano nutrito da bambini, l’uno per l’altro. Quando lo vide are sotto l’arco di porta Sant’Angelo, Griselda lo riconobbe senza esitazioni. Era bello, alto e possente in groppa al suo destriero arabo, ma aveva mantenuto la dolcezza dei lineamenti che aveva quando era solo un ragazzino. Le lunghe gambe muscolose, avvolte nelle braghe aderenti, stringevano sicure i fianchi del cavallo, mentre la tunica azzurro cielo faceva
capolino dalla guarnacca a ogni sobbalzo dell’animale sull’acciottolato sconnesso. I capelli, ricci, scuri e folti, sfuggivano al cappuccio. Procedeva insieme agli uomini del drappello di testa, forte e sicuro come un guerriero. Sul viso, gli si leggeva il sorriso di chi, dopo anni di esilio, tornava finalmente nella sua città. Giuliano Olivi si era fatto un uomo e lei aveva sedici anni. Erano lontani i tempi in cui, bambini, studiavano e giocavano insieme, nel giardino di maestro Lippo. Si chiese se lui l’avrebbe riconosciuta, ora che lei, Griselda dei conti di Braccio, era diventata una fanciulla in età da marito: la giovane donna più bella, ricca e ambita di tutto il territorio del Comune. Sapeva che, ogni settimana, uomini potenti giungevano da zone diverse dell’Italia centrale al palazzo turrito che Uguccione possedeva nel quartiere di San Pietro, solo per chiederla in sposa, ma sapeva anche che suo padre non avrebbe mai concesso la mano della figlia senza il consenso della fanciulla. Un sentimento troppo forte lo legava al frutto del suo amore per l’adorata moglie Simona, morta troppo presto, senza concedergli un erede maschio. Forse, adesso, il momento di dire di sì era arrivato. Aveva atteso per sei lunghi anni il ritorno del ragazzo che le aveva giurato di amarla e le aveva promesso di sposarla. Sperò con tutto il cuore che Giuliano sarebbe venuto a fare visita a Uguccione per chiedere la sua mano. Certo, a volte il dubbio che lui non l’amasse più le rodeva l’anima. Sei anni erano lunghi e il primogenito di Matteo Olivi era diventato un uomo. Chissà quante donne lo avevano amato, desiderato, concupito. Chissà se qualcuna gli aveva rubato il cuore. Chissà se era stato promesso a qualche bella dama della sua stessa parte politica. Chissà se, rivedendola, lui l’avrebbe amata ancora. Chissà… Ogni notte, tali pensieri la tormentavano, rendendo il sonno agitato. Aisha era la sola con la quale avesse condiviso il suo segreto. Era assorta nelle proprie meditazioni, quando uno sguardo insistente la costrinse ad alzare gli occhi. Giuliano Olivi era di fronte a lei, alto e maestoso sul destriero nero, e stava sorridendo. Griselda non avrebbe saputo dire se quel sorriso fosse un sorriso di saluto o di contentezza per averla ritrovata. Era un sorriso strano, che le ispirò un sentimento di inquietudine. Si girò di scatto alla ricerca di Aisha, quando una voce maschia e profonda sussurrò il suo nome. Chiuse gli occhi e contò fino a dieci. Quando li riaprì, Giuliano Olivi era sceso da cavallo e si era inginocchiato proprio davanti a lei.
«Messere! Alla fine siete tornato!» sussurrò la fanciulla tremante. «Sono qui per mantenere la promessa che vi feci tanti anni fa, madonna. Ve la ricordate ancora?» Griselda disse di sì, poi, le lacrime che le rigavano il viso le impedirono di parlare. «Non volevo arrecarvi dolore, madonna» sussurrò il cavaliere preoccupato. «Non siete obbligata a mantenere una promessa che faceste quando eravate ancora una bambina.» «Io desidero mantenerla, più di ogni cosa al mondo» sussurrò Griselda ridendo tra le lacrime. Giuliano le baciò le mani con una sorta di dolce violenza. «Andiamo da vostro padre, allora. Ho dovuto aspettare troppo a lungo, l’onore di chiedere la vostra mano.» Così dicendo, la mise in groppa al destriero, poi salì in sella e insieme cavalcarono verso la casa di Uguccione. Aisha, ferma nella via, li guardò andare, mentre i primi fiocchi di neve imbiancavano la strada. Sarebbe stato un bianco Natale, pensò. Bianco come il vestito di una sposa.
Nara Spin-off di Sono solo un marinaio
Patrizia Ines Roggero
Mar dei Caraibi, Gennaio 1667
«Questo anello vale un bel po’ di denaro, anche più della ragazza.» Thomas rigirò il gioiello tra le dita abbronzate, non era sicuro di volersene privare, ma sarebbe stato un peccato lasciare quella rossa nelle mani della ciurma di Clay Howard. «Dove l’hai presa?» «Su una nave inglese che ci ha dato parecchio filo da torcere.» «È una nobile?» Era sempre troppo complicato aver a che fare con quel genere di donne. «No, e viaggiava sola. Da quel che ho capito è venuta nei Caraibi per fare la serva.» «E invece sarà la mia amante.» «Amante?» Clay si lasciò andare a una risata, i denti rovinati bene in mostra. «È un ruolo un po’ troppo raffinato per quello che farà nel tuo letto. Sarà solo una puttana.» «Sei tu quello che va con le puttane, Clay, io ho le mie amanti e sono solo mie.» Bevve un sorso di birra e si soffermò a studiare il viso serio della ragazza, legata a una grande palma poco distante da loro. «E lo sarà anche lei, se ti deciderai a vendermela.» «È tua.»
L’anello volò nel palmo di Clay. Un ultimo sorso di birra e Thomas si alzò dalla sedia, soddisfatto dell’acquisto. «Ti avverto, amico, ti farà dannare.» «Staremo a vedere» disse, mentre si avviava verso di lei. «Ti ho appena comprata» la informò, appoggiandosi al tronco. Avrebbe voluto allungare una mano per sfiorarne la pelle candida, ma sapeva quanto pericolose potevano essere le belve incatenate e lo sguardo di lei era ben poco conciliante. Doveva andarci cauto. «Ma posso ancora cambiare idea e lasciarti nelle mani dei pirati di Howard. Questo dipende da te.» «Nelle tue o nelle loro non fa differenza» sibilò la ragazza, il volto distorto in una smorfia di disgusto. «Oh, la fa eccome… credimi.» «Sei un maledetto, come loro.» «E tu non hai lasciato l’Europa per venire qui a fare la serva.» La vide sgranare gli occhi verdi e si compiacque con se stesso. «Sei una ladra? Un’assassina? Una puttana? O tutte e tre le cose?» «Sono solo una serva, una brava ragazza.» «Le brave ragazze non viaggiano da sole, soprattutto se la meta è un posto come questo.» Sorrise nel vederle abbassare lo sguardo. «Touché…» «Si può sapere cosa vuoi? Mi hai comprata, non ti basta?» No, non gli bastava, e qualcosa suggeriva che si sarebbero divertiti parecchio insieme. «Hai un nome?» le domandò, mentre estraeva il coltello per liberarla dalla corda. «Nara.» «Io sono il capitano Thomas Lee… quel capitano Thomas Lee.» «E questo dovrebbe terrorizzarmi, suppongo.»
Il volto di lei era a un soffio dal suo, la bocca sensuale incurvata in un sorriso aspro. Non vedeva l’ora di averla. Thomas fece spallucce: «Speravo solo di fare colpo.» «Be’, mi dispiace deluderti, pirata.» Il tono suonò sprezzante sull’ultima parola. «Ammetti almeno che poteva andarti peggio.» Esibì il migliore dei sorrisi, felice di notare quanto la sua calma riuscisse a indispettirla. Il coltello recise la corda e, prima che lei compisse qualche gesto impulsivo, ne afferrò i polsi segnati e massaggiò con cura la pelle morbida e delicata. «Verrai a bordo della mia nave, ti darai una ripulita, mangerai e poi deciderai se restare o andartene.» «Andarmene?» L’aveva spiazzata con quella frase e, subdolo, guardò il risultato nelle iridi verdi che lo fissavano. «Ti ho comprato perché ti voglio come amante, ma non ti trascinerò nel mio letto con la forza. Non violento le donne, io, e non posso dire lo stesso di tutti i signori qui presenti.» «Quindi mi staresti salvando?» C’era una nota di sarcasmo in quelle parole, ma a lui non sfuggì la paura che le agitava lo sguardo. «Vedila così, ti sto offrendo la possibilità di non finire a fare la puttana di una ciurma intera.» Si tolse la giacca e gliela gettò sulle spalle. Un gesto protettivo che gli fruttò un sorriso carico di riconoscenza. Dopotutto, Nara non sembrava essere un osso tanto duro. La cabina era piccola ma pulita. Nara si guardò attorno: uno scrittoio, un letto e niente più. Un vero letto, considerò poi nel saggiarne il pagliericcio. Non ricordava l’ultima volta in cui aveva riposato su qualcosa di tanto comodo. Non ricordava nemmeno l’ultima volta in cui aveva avuto a che fare con un uomo come il capitano. L’avevano avuta in molti, ma nessuno aveva usato la premura mostrata da Thomas Lee. Eppure, ciò che aveva sentito su di lui, riusciva a metterle i brividi. Ancora non sapeva in che modo era riuscita a non svenire quando le aveva rivelato il suo nome. Rispondergli con tanta insolenza era stata una mossa azzardata, ma qualcosa le diceva che era servito a ottenere il
suo rispetto. ò la mano sulla stoffa chiara dell’abito che lui le aveva procurato. Era un po’ abbondante per lei, smunta com’era dalla fame patita nelle ultime settimane, ma si sentiva più a suo agio con qualcosa di decoroso addosso. Non sapeva cosa aspettarsi dal futuro, pensò nell’uscire sulla terrazza. La nave veleggiava sul mare placido, nero come la notte che li avvolgeva. Sollevò lo sguardo alla volta celeste, le stelle parevano più luminose viste da lì, ma la sua attenzione venne subito catturata dalla melodia che aveva preso a risuonare nell’aria. Proveniva dalla cabina accanto? Un debole fascio di luce danzava sulla soglia della portafinestra e fu impossibile resistere alla voglia di scoprire chi fosse l’esecutore di quelle note. Cauta, si affacciò per sbirciare attraverso il vetro opaco di salsedine e rimase a fissare la figura di Thomas seduto al clavicembalo, gli occhi chiusi mentre le dita si muovevano esperte lungo le ottave. Una melodia incalzante, a tratti rabbiosa, ma che conservava una nota malinconica. Era così che si sentiva lui? Arrabbiato e malinconico? Ne fu certa solo quando lo vide aprire gli occhi e piantarli nei suoi, ed ecco tornare il sorriso maliardo del pirata crudele. «E così non sei solo bugiarda, ma anche curiosa» le disse, alzandosi dallo sgabello per raggiungerla sulla terrazza. «E cos’altro sei?» Averlo vicino, le costò un brivido e, quando lui allungò la mano per afferrarle un boccolo fulvo e portarlo alle labbra, le fu ovvio che non era un brivido di paura. Ne studiò il bel volto, gli occhi scuri, i lunghi capelli bruni; per un attimo desiderò conoscere il sapore delle sue labbra, sembravano morbide e accoglienti, impossibile placare la corsa dei pensieri che già le mostravano ciò che sarebbe accaduto tra loro. Era lì per essere la sua amante e, per assurdo, non riusciva più a provare paura per questo. «Te l’ho già detto, sono una serva» si ostinò a mentire, aggrappata all’ultimo appiglio che la teneva distante da lui, dalla bocca che si faceva sempre più vicina, dalle dita che già le slacciavano il corpetto dell’abito. «Perdonami, ma non ti credo.» «E tu chi sei?» la voce le tremò. «Sei davvero l’uomo crudele di cui tanto si parla?»
«Sì, lo sono.» «E allora perché ancora non hai preso da me ciò che vuoi, come hanno fatto gli altri?» «Perché averti così non sarebbe appagante per nessuno dei due.» «Mi hai comprata, come puoi pensare che sarà appagante per me? Dovrei odiarti…» Le dita di Thomas scivolarono, calde e ruvide, nell’incavo dei seni. «Dovresti infatti, ma forse, dopotutto, non sono così male.» No, non lo era. Nara deglutì a vuoto, il cuore in tumulto. Non riusciva a credere alla reazione del proprio corpo, a un bisogno sconosciuto che la spingeva verso di lui. Chiuse gli occhi quando Thomas si chinò a lambirle il collo con languidi baci. Il respiro le morì in gola per la folle voglia di avere di più. «Avevi ragione» riuscì a dire in un sussurro e, intanto, lasciava che lui le sollevasse le gonne in un gesto bramoso quanto sensuale. «Ho rubato e ho ucciso un uomo… l’uomo che mi vendeva ad altri. Sono una ladra, un’assassina e una puttana.» «Almeno due cose le abbiamo in comune» la voce del capitano suonò roca, quasi un sussurro. «L’ultima la possiamo anche dimenticare, non credi?» Le labbra di Thomas si chio sulle sue, calde e morbide come le aveva immaginate. Il cielo stellato, unico spettatore di quel loro amarsi. Nel cuore, la sensazione di aver finalmente trovato un porto sicuro.
Non solo suffraggette
Daniela Perelli
Londra, 1907
Sono una donna molto fortunata, me ne rendo conto. Vivo in una casa signorile, ho un marito dolce e amorevole, una figlia senza grilli per la testa, solide amicizie e partecipo a eventi mondani. Non ho nulla di cui lamentarmi, eppure sento qualcosa dentro di me che non mi permette di apprezzare appieno tutti questi doni. Ho cercato in tutti i modi di reprimere queste sensazioni, ma ogni qualvolta mi guardo intorno, ogni qualvolta mi rendo conto che senza mio marito accanto non sarei nulla più di una donna piacente, la consapevolezza di ciò che realmente desidero manda il mio mondo in frantumi. Henry è appoggiato alla porta della nostra stanza e fissa il mio riflesso allo specchio. «Evelin, io davvero non riesco a capire. Ti ho donato tutto il mio amore, farei tutto ciò che è in mio potere per renderti felice e tu .mi ripaghi così.» Il mio cuore sanguina nel vederlo soffrire, ma devo farlo, soprattutto per mia figlia. Voglio che un giorno non abbia timore di seguire i propri sogni, di mettersi alla prova e conseguire un obiettivo. Mi sistemo il cappellino e il fiocco della camicetta che mi avvolge il collo, mi giro dando le spalle allo specchio e mi avvicino a lui. Prendo il suo viso tra le mani e gli sfioro le labbra con un bacio, socchiudendo appena gli occhi. «Mi dispiace che tu non riesca a capire. Non voglio farti soffrire. Ti amo e sono sicura che un giorno mi comprenderai e sarai orgoglioso di me.» Mi giro verso la
cassettiera e indosso la fascia, sistemandola in modo che il motto inciso sulla stoffa sia ben visibile sul mio petto. Henry si sposta, arrendevole, e mi lascia are. Quando arrivo a casa della signorina Annette, vedo le mie compagne già al lavoro nella preparazione di nuove targhe. «Scusate il ritardo» esordisco. «Non importa Evelin, hai avuto ancora problemi con Henry?» «Purtroppo sì.» «Tuo marito è un uomo intelligente. È solo preoccupato che possa accaderti qualcosa. Sapere che la propria moglie fa parte del movimento delle suffragette non è cosa di poco conto.» Annuisco, perché mi rendo conto che il pericolo esiste, nonostante lo spirito pacifico delle nostre manifestazioni. Nel primo pomeriggio siamo in una cinquantina di fronte alla banca centrale. Sulle targhe e sulle nostre fasce è scritto “Voto alle donne”. Se vinceremo questa battaglia, avremo ottenuto un nuovo inizio ben più importante del semplice diritto di voto. Potremo, finalmente, dimostrare come le nostre opinioni possano rappresentare un valore aggiunto per la società e cancellare gli anni trascorsi nell’ignoranza. Cominciamo la nostra marcia e, come già è accaduto, i anti ci guardano: alcuni palesano indifferenza, altri ci incoraggiano e i più ci insultano. Devo essere sincera, non mi abituerò mai a questa fase della manifestazione, provoca in me un tale sconforto anche se so di combattere per una giusta causa. Quando ci offendono alcune compagne sembrano imibili mentre altre rispondono a dovere, tronfie di orgoglio. Io, invece, crollo pian piano ma poi penso a mia figlia e tutte le mie incertezze svaniscono. Lei è la mia forza! Oggi, però, è una giornata diversa: siamo in molte e il gruppo ci rende più sicure. Ci fermiamo per rifocillarci visto il caldo che incombe ed è proprio in questo istante che un signore si avvicina, reggendo un taccuino e una penna: «Signore, buon pomeriggio. Chi è la coordinatrice di questa elegante manifestazione?»
Ovviamente si tratta di un giornalista, ma il suo tono non mi piace; si sta prendendo gioco di noi. Decido comunque di farmi avanti per parlare con lui, visto che è la prima volta che un quotidiano si interessa alla nostra battaglia. «Può parlare con me, sono Evelin Green.» Allungo la mano per stringere la sua, evitando così un fastidioso baciamano. «Molto piacere, signora. Mi chiamo Marcus Cooper e lavoro per un giornale locale. Che cosa può raccontarmi di questa manifestazione? Lei e le sue colleghe pensate davvero di ottenere qualcosa? Sembrate un gruppo pacifista, non avete il timore di essere paragonate alle suffragette che usano metodi violenti per far sentire la loro voce?» Mi sento spiazzata e infastidita dalle sue domande, ma decido comunque di rispondere: «Questa manifestazione mira solo ed esclusivamente a ottenere quel che di diritto ci appartiene. Non mi fraintenda, siamo orgogliose di essere donne, mamme e mogli, ma una cosa non deve per forza escludere l’altra. Noi manifestiamo in pace e in pace cerchiamo di ottenere giustizia. Se ci riusciremo sarà una gran cosa, ma se non accadrà saremo fiere di averci provato.» Il giornalista prende appunti, osservando ora me, ora il suo taccuino. Decidiamo di continuare a marciare, ripercorrendo la stessa strada a ritroso. Sfortunatamente, ci imbattiamo in un gruppo di uomini apparentemente alticci che iniziano a ingiuriarci. Annette e io ci scambiamo un’occhiata e osserviamo le nostre compagne. Quel che vedo non mi piace. Marion, una delle nuove arrivate, esce dalla sua fila per avvicinarsi a questi signori; vista la sua mole, l’atteggiamento è senza subbio minaccioso. Immediatamente, tentiamo di impedirglielo e, per fortuna, bastano le nostre parole a farla desistere. Non appena raggiungiamo la banca centrale, troviamo la polizia ad attenderci. «Signore, sapete che state disturbando la quiete pubblica con i vostri schiamazzi? Dovete sciogliere questo corteo e tornarvene a casa.» «La nostra è soltanto una manifestazione pacifica!» interviene Annette.
«Pacifica o meno, non vi è concesso discutere. Se non ve ne andrete, saremo costretti a obbligarvi con la forza.» In poco tempo, ci ritroviamo sedute nella stazione di polizia come fossimo criminali. Poi, come se questa umiliazione non fosse sufficiente, riconosco Henry entrare dalla porta principale e sento i miei occhi gonfiarsi di lacrime, malgrado cerchi di trattenerle. «Il signor Leonard vi ha viste mentre venivate portate via dalla polizia e mi ha avvertito subito» mi dice, agitato. Sono seduta su una panca rigida e mi sento così piccola e fragile. Alzo la testa molto lentamente e lo guardo: «Mi dispiace Henry.» «Lo so» risponde, chinandosi sino a sfiorare il mio viso con il suo. Si sporge e mi bacia. «Perdonami Evelin, per non averti appoggiato. Stamane guardavo la fotografia di nostra figlia e notavo quanto ti somiglia, la sua forza e la sua determinazione derivano da te. È solo grazie a te se diventerà una donna in gamba.» Le sue parole mi commuovono. Ci abbracciamo ed è come se la scomoda situazione in cui mi trovo e la stazione di polizia svaniscano magicamente. Forse ci vorrà del tempo, forse non otterremo il diritto al voto, ma per me questa è stata una piccola conquista, mi ha spinto a credere ancora di più che con impegno e costanza si può raggiungere qualsiasi risultato.
Presenza nella nebbia
Teresa Barbaro
Italia, 1868
Era l’anno 1868 e le gambe ben tornite di Rosi, correvano per recarsi sul luogo di lavoro. Non abitava molto distante dai locali del filatoio, vicino alla chiesa del paese, ma arrivare puntuale era fondamentale. I suoi genitori non le avrebbero perdonato un’ammenda: equivaleva a una decurtazione del salario, già magro. Non aveva la minima voglia di sentire le mani ruvide del padre che le si scagliavano contro per ricordarle il suo sbaglio; mani che sapevano regalarle buffetti affettuosi, ma che erano anche in grado di ricordarle, quando necessario, i suoi doveri. Rosi ne aveva molti, nonostante la giovane età. Non arrivava a due decenni la sua vita, ma lei lavorava già da qualche anno. Era diventata un’operaia specializzata e ne andava fiera. Anche per questo motivo canticchiava ogni mattina con le compagne di lavoro mentre varcava il robusto portone di legno dell’ingresso. I battenti, con le assi disposte a rombi concentrici nella parte sottostante e a formare un fiore sopra, si aprivano per accogliere una moltitudine di giovani donne. A luglio il lavoro era iniziato solo da un mese, ma l’allegria che il canto e la
spensieratezza dell’età donavano, si scioglievano all’interno del filatoio. «C’è la nebbia e non è inverno!» Rosi riusciva a mantenere più delle amiche un po’ d’ironia; senza, sarebbe stata ancora più dura concludere le undici ore di lavoro che potevano arrivare a quattordici. «Eh già, hai ragione» confermavano le ragazze che nel frattempo si erano sedute accanto a lei. Le postazioni erano quelle dove controllavano le matasse del filo di seta prima di arle nell’incannatoio. Le giovani donne si conoscevano tutte e quando il vapore nauseabondo della caldaia riempiva l’aria, il loro pensiero andava alla nebbia vera, che non faceva così male come quella lì, calda, con la temperatura che sfiorava i cinquanta gradi. A quel punto, le ragazze più deboli di carattere, perdevano anche l’ombra di un sorriso e quando riuscivano a distogliere per pochi attimi lo sguardo dal lavoro, lo volgevano fuori dalle enormi finestre chiuse aspettando solo il momento dell’uscita quando, sudate, tornavano a casa a piedi, strette al braccio le une alle altre, quasi a sostenersi. La polvere che calpestavano si appoggiava sull’orlo delle lunghe gonne. Loro non se ne curavano e ricominciavano a cantare in compagnia. L’aria afosa dell’estate, a confronto di quella in cui erano immerse tutto il giorno, sembrava fresca. Dentro, però, il rischio che una folata di vento spostasse il filo negli aspi, era troppo alto per Rosi, per le compagne e per il padrone. Riavvolgere il lucente filato e ritardare i tempi di consegna, erano causa ed effetto. Tutte sapevano che il prezioso filo che lavoravano le legava al signor Gaetano, nel bene e nel male. La Filanda apparteneva ad Andrea Ponti.
Il signor Gaetano era il conduttore che l’aveva presa in affitto e come tale la gestiva. Non erano rare le sue visite al filatoio. A marzo, quando il locale riapriva per le pulizie e per rimettere in funzione i meccanismi e la caldaia, iniziava la supervisione. Vestito di tutto punto, con l’incedere fiero del suo ruolo, sembrava indifferente alla calura nascente. Nei mesi successivi, fino a settembre, la presenza di Gaetano, così lo chiamava Rosi nella sua mente e solo in quel luogo nascosto in cui nessuno poteva sentirla, era costante per accertarsi che il lavoro procedesse nel migliore dei modi. Lui controllava il lucente filo e lei controllava lui. Lui fermava il suo verde sguardo sulle matasse che arrivavano e su come le operaie le sistemavano per la fase successiva. Lei volgeva occhiate di soppiatto a quella figura severa e potente. Quando ava tra le ragazze sedute, nessuna osava fiatare e qualche candida mano tremava per la paura di sbagliare e per la punizione sicura. Rosi, invece, fremeva per un’ondata di calore che la percorreva da capo a piedi. Era molto veloce, ma lei riusciva a percepire ogni tappa del aggio: il viso, il collo, il petto, la vita e la parte di sé che ancora non aveva condiviso con nessuno. S’irrigidiva per un attimo e il respiro s’incastrava nella cavità umida dello sterno. Appena il signor Gaetano la oltreava, lasciava fuggire un sospiro trattenuto, dalle narici e dalla bocca appena socchiusa. I riccioli ribelli uscivano dal fazzoletto bianco che portava sul capo, le danzavano davanti agli occhi e le confondevano la vista e i pensieri. Pensieri che non le conveniva confidare a nessuno perché lei era un’ operaia e lui il signor padrone; lei era povera e lui stava bene; lei era giovane e lui un bel pezzo più grande.
A volte, nella sua immaginazione, alzava sfrontata il capo e lo guardava negli occhi e poi … Poi non sapeva continuare perché non sarebbe toccato a lei farlo. Sua madre non le aveva insegnato niente di tutto ciò.
Stirpe pirata Spin –off di Mary Read
Michela Piazza
Charleston, South Carolina, 1739
La festa era ancora più sfarzosa di quanto Marianne avesse temuto. Con un sospiro, si lisciò l'abito color pesca ed entrò nel salone: ogni superficie era stata tirata a lucido dalla servitù, i pavimenti e gli specchi riflettevano la luce di mille candele. Il ballo era già iniziato, casa sua era gremita di ospiti che le rivolgevano galanti complimenti. Marianne rispondeva educata, sorridendo in modo timido. Con gli occhi cercava suo padre, ma l'alta figura di Joseph Burleigh era, come al solito, assente. «Posso avere l'onore di questo ballo?» Ah, ecco Jonathan Lee. Marianne iniziava quasi a essere preoccupata: era arrivata da ben cinque minuti e lui non si era ancora fatto vivo. Gli porse una mano, lasciando che gliela baciasse, e lo seguì al centro della sala. Tra una piroetta e l'altra intrattennero il consueto gioco di sguardi: da ormai due mesi il giovane la corteggiava in modo palese, rivolgendole sorrisi e attenzioni; lei faceva la ritrosa, abbassava gli occhi e arrossiva, ma non si sottraeva. Al termine della danza, si appartarono a bere qualcosa. Jonathan incespicava nelle parole, agitato. Si allentò il nodo del foulard, in cerca di aria o di coraggio per porre la fatidica domanda, quella che aleggiava nell'aria da tempo. «Marianne... Mi consentite di chiamarvi Marianne, vero? Dovete esservi resa conto che io...»
«Miss Burleigh» una voce autoritaria li fece sobbalzare «Mi spiace interrompervi, ma vostro padre vi manda a chiamare.» Nella cornice della portafinestra si stagliava la figura alta e snella di Mark White, il figlio del sovrintendente della piantagione: non un servo, ma neppure uno degli invitati. «Mio padre?» il tono della ragazza era cortese, ma conteneva una nota strana: Jonathan vi lesse stupore, Mark riconobbe un avvertimento «Siete certo che sia così urgente?» «Assolutamente. Desidera conferire con voi al più presto.» Marianne sospirò, rivolgendo al proprio accompagnatore uno sguardo carezzevole: «Sono desolata, devo andare. Spero avremo occasione di riprendere il nostro discorso, stasera.» Jonathan le baciò la mano: «Mi si spezzerebbe il cuore se così non fosse.» «Ti ho seguito qui fuori solo perché sarebbe stato da maleducati darti del bugiardo davanti a tutti!» sibilò Marianne, quando lei e il figlio del sovrintendente si ritrovarono soli sulla terrazza scarsamente illuminata. «So benissimo che mio padre è da qualche parte a fumare con gli altri piantatori. Non gli potrebbe importare di meno di parlarmi!» «Invece qualcuno dovrebbe farlo!» «Davvero? E per quale ragione?» «Perché stavi civettando con quel tipo in maniera disgustosa!» Marianne scosse la testa, incredula, facendo ondeggiare i boccoli dorati: «Non capisci un accidente della buona società, Mark White!» «Forse no, Miss, ma so come va il mondo: riconosco un rituale d'accoppiamento, quando lo vedo.» Un'espressione dura comparve negli occhi di lei, rendendo il loro azzurro freddo e tagliente: «Sei più idiota di quanto credessi. Pensi che stia flirtando con Jonathan perché voglio appartarmi con lui dietro un cespuglio di rose? Se da
settimane non faccio che adularlo, è perché voglio che si dichiari!» Quella frase fu come uno schiaffo per Mark. Marianne lo vide abbassare gli occhi e stringere i pugni. «Non lo capisci? Questo ballo è stato organizzato allo scopo di vendermi al miglior offerente. E allora preferisco Jonathan a qualche grasso piantatore che commercia con mio padre. Se non altro, lui è Capitano di Marina... Magari, se saprò giocare bene le mie carte, mi consentirà di salpare con lui.» Mark le afferrò una mano, costringendola a incontrare i suoi occhi scuri, pieni di fuoco: «Se lo fai solo per questo, per lasciare questa casa e la Carolina, vieni con me! Partiamo insieme, adesso. Possiamo andare a New York e ricominciare.» «Mi stai proponendo di ripetere ciò che fece mia madre: salpare con uno squattrinato verso lontani orizzonti ed essere diseredata? Mi riporterebbero indietro, com'è successo a lei, e vivrei il resto della mia vita a rimpiangere i pochi mesi di libertà che ho avuto. Non ripeterò gli errori di Anne Cormac: fuggire non le ha portato nulla di buono.» «Le ha portato te.» La voce di Mark era una carezza. Marianne lo sentì avvicinare il viso al suo, avvertì il suo alito caldo sfiorarle la guancia. Lo desiderava. Dio, lo aveva desiderato sin da quando erano bambini e giocavano nei prati, sfuggendo al controllo dei genitori e fregandosene delle regole della società. Ma lui era il figlio del sovrintendente della piantagione; lei l'unica erede di quella fortuna. «Allora lo sai anche tu?» chiese piano la giovane «Che Joseph Burleigh non è il mio vero padre, dico. I servi lo bisbigliano sin da quando ne ho memoria, ma mia madre me l'ha confermato prima di morire. Ha detto di avermi avuta da un pirata!» Rise «Ma forse delirava per la febbre.» Mark le sfiorò le labbra con le sue. Nessuno dei due chiuse gli occhi: aspettavano quel contatto da troppo tempo e avevano bisogno di leggere ciò che ava sul viso dell'altro. Il ragazzo le affondò una mano fra i boccoli, attirandola più vicina, e Marianne
sentì un calore sconosciuto invaderle il ventre mentre consentiva che le loro lingue si incontrassero, si sfiorassero, si riconoscessero. Era come nei romanzi d'amore che leggeva di nascosto dalla precettrice: un contatto caldo e sensuale, tenero eppure proibito. Mark la strinse, approfondendo il bacio. Le fece scorrere le mani lungo la vita e Marianne avvertì la sua presa sui fianchi, possessiva. Fu invasa da un'intensa paura: non che lui osasse troppo, ma che lei non desiderasse fermarlo. Si sottrasse di scatto, tremando: non sarebbe rimasta incinta fuori dal matrimonio come aveva fatto sua madre. Non sarebbe morta piena di rimpianti e rimorsi come era accaduto a lei. «Quando sono con te, scordo le buone maniere: parlo in modo scortese, lascio che tu...» Marianne si interruppe. Scosse la testa: «Mi fai dimenticare chi sono.» «O forse con me, solo con me, puoi essere del tutto te stessa.» disse Mark. La guardò negli occhi: poteva leggere i suoi dubbi, vedere i suoi timori. Sapeva che, da un momento all'altro, anni di buone maniere e rispetto filiale avrebbero avuto la meglio sul lato spontaneo della ragazza che amava, sulla fiamma che ardeva dentro di lei. Così decise di parlare: «Non è stata la febbre a far dire quelle cose a tua madre. Ti ha avuta davvero da un pirata, un certo Calico Jack Rackham. Ma c'è di più: anche lei faceva parte della ciurma. Così come entrambi i miei genitori.» Marianne si portò una mano al petto. Avrebbe voluto urlare che era impossibile, che nessuna donna poteva aver navigato insieme a dei criminali. Ricordava sua madre, triste nei suoi abiti casti, e non riusciva a conciliare quell'immagine con il ritratto che di lei stava facendo Mark. Eppure... eppure certi particolari le tornavano ora alle mente, cose che all'epoca non avevano avuto senso: lo sguardo di disprezzo che suo nonno rivolgeva ad Anne ogni volta che questa rimpiangeva la propria gioventù, i mille divieti che le riservava... «Una volta, quando ero bambina, ho visto il nonno schiaffeggiarla. “Ti ho salvata dal disonore, ti ho sottratta alla forca!” le urlava. Credevo si riferisse allo scandalo della fuga dalla piantagione, al fatto che fosse tornata a casa incinta come insinuava la cuoca. Invece era davvero stata condannata al patibolo?»
Mark annuì, stringendole la mano. Lasciò che quella verità attecchisse in lei, prima di aggiungere: «Ma c'è un altro segreto.» Marianne lo guardò, sgomenta: non era certa di poter sopportare altre rivelazioni. «Hai un fratello. I tuoi lo hanno avuto durante il periodo in cui saccheggiavano le isole. Vive a Cuba e mio padre conosce chi lo ha allevato.» «Un fratello?» ripeté Marianne, emozionata. «Posso fartelo incontrare. Ma devi decidere cosa vuoi. Sei ancora in tempo: puoi rientrare e fingere che stanotte nulla sia accaduto. Scorda queste scoperte, resta la figlia del ricco Joseph Burleigh; va' a ricevere la tua proposta di matrimonio e dimentica il nostro bacio.» Marianne soffocò un singhiozzo. Un'unica lacrima brillava all'angolo dei suoi occhi. Mark le strinse le mani fra le sue: «E allora parti con me! Stanotte. Fa paura, ma non sarai sola. Lo sai che sarò al tuo fianco, sempre, qualunque cosa accada.» Marianne sollevò il viso e incontrò il suo sguardo: vi lesse una ione così intensa da mozzarle il respiro. Gli carezzò una guancia: «Lo so.» Lanciò un ultimo sguardo a casa sua, alle finestre scintillanti attraverso cui filtrava la musica. Poi strinse la mano di Mark e disse: «Sono pronta.»
Un giro di valzer Spin-off di Come vento ribelle sca Prandina
Fort Scott – Kansas, 30 agosto 1862
Era da mesi che la città attendeva un’occasione simile: in tempo di guerra le feste sembravano avere un sapore migliore e quella sera sarebbe stato tutto pronto per accogliere i soldati al ritmo di danze accompagnate da bevande e leccornie. Il Quinto Cavalleria era appena tornato da una campagna contro Quantrill, e il colonnello Clayton aveva concesso una licenza al reggimento perché potesse recarsi in città. Charlotte era raggiante nel suo abito color ciliegia, poche erano state le occasioni di celebrazione nell’ultimo anno e sperava di trovare qualche bel giovane con cui civettare un poco. Si guardava intorno e commentava con le amiche l’entrata dei soldati: fasciati nelle loro uniformi blu, con gli stivali tirati a lucido per l’occasione, sorridenti e felici di partecipare a un’uscita mondana dopo mesi di campagne militari e duro lavoro al forte. Dopo un breve discorso del colonnello Clayton, furono ufficialmente aperte le danze e Charlotte si preparò in cerchio con gli altri per il valzer spagnolo. 1-2-3 o avanti, 1-2-3 o indietro e giro, lasciando la mano del compagno alla propria sinistra per prendere quella del vicino. A ogni scambio, la ragazza mutava cavaliere in uno svolazzare di gonne sostenute dalle ampie crinoline. Era perfettamente a proprio agio, aveva provato tante volte quelle figure in compagnia delle sue amiche e ora tutto sembrava davvero perfetto; fino a quando posò gli occhi sul nuovo compagno prima dei i di valzer previsti.
Rimase impietrita: il giovane davanti a lei era davvero carino, ma la fissava con due occhi scurissimi e un’espressione quasi sprezzante. Intimorita, distolse lo sguardo e si mise a osservare la mano che teneva la sua, una mano dalle belle dita lunghe, sottile ma dalla stretta decisa. Era la prima volta che si soffermava a guardare la mano di un uomo, ma era sicura che non ve ne fossero altre di così belle. Un giro di valzer e si trovò di nuovo a volteggiare con due cavalieri, pronta a riprendere con gli scambi, e si sentì improvvisamente sola. La mano che l’aveva sorretta dietro alla schiena se n’era andata, così come il giovane. Mentre danzava con un altro soldato percepì ancora più chiaramente la sua mancanza. No, quest’altro non aveva quelle belle mani e la sua presa era decisamente più timida, più educata. Forse avrebbe dovuto sentirsi rincuorata da questo garbo, ma non era così. E poi il suo compagno di danza era così legnoso nei movimenti! Quell’altro le era sembrato flessuoso e agile, eppure così virile da metterla in soggezione. Cominciò a cercarlo con lo sguardo, tra un volteggio e l’altro. A ogni scambio cercava di capire dove fosse, non aveva chiara in mente la sua fisionomia ma solo quegli occhi nerissimi leggermente sprezzanti; temeva di rincontrarli, ma al contempo lo desiderava. Ed eccola di nuovo tra le sue braccia, faccia a faccia, mano nella mano, corpo contro il suo corpo. Tentò un debole sorriso, ma lui non parve cogliere l’invito e le sue gambe divennero così incerte che nel o all’indietro inciampò nella crinolina. Sarebbe caduta, se lui non l’avesse abilmente sostenuta e aiutata a proseguire nella danza come nulla fosse successo. Un attimo dopo era di nuovo sparito: Charlotte era stata risucchiata verso altri cavalieri, mentre lui veniva celato al suo sguardo da gonne multicolori che si gonfiavano a ogni giro e dondolavano sulle crinoline, mettendo in mostra il bordo dei mutandoni. «Conoscete quel giovane?» chiese alle sue amiche, indicando con un cenno della testa un gruppetto di soldati, con il cuore che batteva all’impazzata. «Chi, il biondino con gli occhi verdi? È cosi galante…» sospirò la sua migliore amica. «No, no, quello al suo fianco con i capelli scuri.» insistette. «Sono due fratelli!» intervenne una terza «Sono nella compagnia di mio cugino e
circolano strane voci su di loro: pare avessero nascosto una donna nell’accampamento…» sussurrò, eccitata nel raccontare quel pettegolezzo. «Una donna? Ma com’è possibile?» «Non lo so, ho sentito che lo raccontava a mio padre l’ultima volta che è venuto a casa in licenza, ma non ho colto che pochi stralci del discorso.» Charlotte ascoltava distrattamente: la sua mente aveva già preso il volo e intanto fissava le mani di quel giovane misterioso, appoggiato con indolenza alla balaustra. Sollevò lo sguardo fino al suo viso e avvampò di vergogna: lui la stava fissando. Si era accorto che lo stava guardando? Poteva essere stata così poco discreta? Distolse lo sguardo immediatamente e si diresse verso le bevande con il respiro reso ancor più affannoso dal busto legato stretto. Allungò la mano tremante verso la caraffa e sfiorò quella di un uomo. «Posso?» si limitò a chiedere, offrendosi di versarle da bere. Charlotte pensò di svenire: era lui, l’aveva seguita. Accennò un debole sorriso mentre lui la osservava con un’espressione indecifrabile. Sembrava divertito, ma anche affascinato. «Sergente Jonathan Becker, per servirla.» ammiccò con fare sicuro. «Charlotte Price.» farfugliò la giovane, confusa. La stava prendendo in giro? Quella frase così garbata cozzava con il suo sguardo insolente, quasi fosse abituato a ben altro genere di ragazze e improvvisamente le balenò l’idea che la “donna” di cui l’amica aveva sentito parlare potesse essere una prostituta. Lo sgomento le fece scivolare il bicchiere dalla mano, mandandolo in frantumi. «Oh…» fu l’unico commento che le uscì dalle labbra, l’espressione desolata e gli occhi pizzicati dalle lacrime. Si stava comportando come una sciocca: quel giovane era in grado di farle perdere il controllo, a lei che si era sempre vantata di saper di civettare con grazia. «Mi perdoni…» disse, voltandosi piena di vergogna mentre il giovane si allontanava. «Che fai qui fuori a masticare tabacco da solo, con tutte le belle ragazze là dentro?»
«Ti lasciavo un po’ di campo libero.» rispose indolente. «Cos’è, la bella con l’abito rosso non ti ha dato speranze?» Jonathan rise, ma non c’era allegria nella sua ilarità. Aveva preferito andarsene, vedendo il turbamento di quella ragazza. Qualcosa in lei l’aveva colpito, non solo il suo fascino o i suoi occhi nocciola… soprattutto la sua fragilità. Quando l’aveva sentita incespicare, l’aveva sorretta prontamente e il suo avvilimento le aveva stretto il cuore più di qualunque smanceria o abile seduzione avesse potuto usare per colpirlo. E, di nuovo, vederla così intimorita davanti a lui da farle scivolare il bicchiere gli aveva fatto desiderare di poterle stare accanto per proteggerla; e questo l’aveva spaventato. Non voleva una ragazza da proteggere, non voleva una ragazza e basta: desiderava solo are qualche ora felice e magari sarsela con una donna a fine serata, niente di più. C’era una guerra in corso e ciò che lo interessava davvero era la sua carriera militare. Non c’era posto per una fidanzata o, peggio, per una moglie. E poi l’ultima ragazza che aveva tentato di proteggere l’aveva invece cacciata nei guai: non si sarebbe mai perdonato per essersi reso complice del folle piano della sorella, per aver contribuito alla sua rovina sociale permettendole di travestirsi da uomo e di arruolarsi. No, non era proprio il tipo affidabile da cui ricevere amore e protezione… per questo se ne era andato. Eppure il pensiero di quella giovane così pura, che lo cercava con lo sguardo in mezzo alla gente, gli faceva spuntare sul viso uno stupido sorriso. «Secondo me non dovresti lasciartela sfuggire… E poi sono sicuro che le piaci!» lo rimbeccò il fratello. «Perché non ti fai gli affari tuoi? Torna dentro a far strage di cuori, mi sembra che il tuo fascino gentile stasera abbia colpito più di qualche femmina…» lo spinse via con un’espressione severa sotto cui celava un sentimento di puro affetto. Robert se ne andò ridacchiando, lasciandolo solo a riflettere. Jonathan doveva decidersi: tornare dentro e cercare di parlare ancora con quella giovane donna o trovarne un’altra con cui divertirsi senza implicazioni? Non era una scelta facile. Per uno come lui, che odiava avere noie, la seconda opzione era la più allettante; ma per la prima volta in vita sua sentiva che in fondo avrebbe preferito rischiare. Proprio lui, abituato a collezionare ammiratrici e che
non nutriva particolare stima per il genere femminile… Charlotte se ne stava in disparte, afflitta, quando sentì dei i avvicinarsi alle sue spalle. «Un altro valzer?» Si voltò e lo vide, ma non c’era traccia dello sguardo sprezzante che tanto l’aveva intimorita, solo un sorriso.
Un nuovo secolo Spin-off di Emmeline Estelle Hunt
Londra, 31 dicembre 1899
L’enorme ceppo di legno ardeva nel camino, avvolto dalle alte fiamme, ma il violento ruggito del fuoco non riusciva a contrastare il vociare concitato degli ospiti. Tutti sembravano dimentichi delle buone maniere o del fatto che la tavola intorno alla quale erano seduti appartenesse a un duca. Le donne usavano gli elaborati ventagli per farsi aria o per colpire leziosamente le mani dei loro interlocutori, mentre gli uomini parlavano con un tono di voce più alto del normale, lisciandosi al contempo i favoriti e i baffi modellati con la cera. Il loro ospite, Julian York, quinto duca di Farnborough, sedeva a capotavola ascoltando distrattamente un’anziana matrona ciarlare delle ultime scoperte volte a preservare la giovinezza; evitò di alzare un sopracciglio per non manifestare tutto il suo scetticismo e rischiare così di offendere la nobildonna. Da molti mesi, ormai, circolavano una quantità impressionante di sciocchezze, tutte incentrate su ciò che avrebbe riservato loro il nuovo secolo: il Novecento. Anche lui, come tutti gli altri, avvertiva una sorta di malinconia per l’epoca che si stava lasciando alle spalle. Se l’Ottocento era stato definito dal biologo inglese Wallace ‘Il secolo meraviglioso’, cosa doveva aspettarsi dal futuro? D’altronde, secondo le indiscrezioni, l’Esposizione Universale che si sarebbe tenuta quell’anno a Parigi sarebbe stata un’ostentazione di modernità e di progresso. Nessuno poteva immaginare i miglioramenti che l’industria, la scienza e la medicina avrebbero apportato sullo stile di vita. Il futuro restava un territorio sconosciuto ma, se esisteva un punto fermo per lui, di sicuro si trovava all’altro
capo della tavola e il suo nome era Emmeline. Julian alzò il calice di cristallo per sorseggiare il borgogna e avere così una scusa per ammirare sua moglie. Sette anni di matrimonio e una felicità intatta. Avevano combattuto per coronare un sogno d’amore che sembrava essersi infranto contro il desiderio di una donna egoista e gli oscuri deliri di un vecchio pazzo, ma poi la vita aveva regalato loro una nuova opportunità. Osservò il viso attraente e sereno di lei, il sorriso appena accennato sulle labbra invitanti, la dolcezza che traspariva dai suoi occhi da cerbiatta. Sembrava sinceramente interessata a quello che il conte di Abelmarle le stava raccontando e provò la consueta fitta di gelosia al vederla accanto a un altro uomo. Poi, però, la scorse gingillarsi con il ciondolo della collana, un cameo circondato da diamanti che le aveva regalato per il suo compleanno. Era un gesto d’insofferenza, ma il conte non poteva saperlo e Julian si calmò all’istante. In quel momento, Emmeline alzò lo sguardo e gli indirizzò il sorriso segreto che solo lui sapeva riconoscere. «Vostra Grazia, che cosa ne pensate della famigerata disputa?» esclamò il marchese di Winchester e, suo malgrado, Julian dovette distogliere gli occhi da Emmeline. Alzò l’angolo della bocca in quello che voleva essere un sorriso sardonico: «Mi sembra assurdo che il mondo intero si sia sollevato sulla questione della data d’inizio del nuovo secolo. Per me, caro marchese, oggi inizia il Novecento. D’altronde, anche il Kaiser Guglielmo è dello stesso parere.» «Negli Stati Uniti d’America il nuovo secolo inizierà il prossimo anno» s’intromise il gentiluomo seduto accanto a Emmeline, interrompendo il serrato monologo con cui l’aveva intrattenuta fino a quel momento. Lei mascherò un sospiro di sollievo con un lieve colpo di tosse e posò lo sguardo sul marito, inclinando appena la testa come per esortarlo a non raccogliere la provocazione. «Gli americani sono un popolo di rozzi incivili» pontificò una gentildonna, mentre si nettava l’angolo intonso della bocca imbellettata. Lo sguardo di Emmeline saettò verso la zia Euphronia seduta poco distante da lei. La vide stringere le labbra e afferrare il tovagliolo tra le mani deformate
dall’artrite. Stava soffrendo, visto che da poco più di un anno sua sorella Alice, la nonna di Emmeline, era morta per un’infezione ai polmoni nella sua casa di New York. Al termine della cena, Emmeline si alzò dalla tavola, facendo cenno alle altre signore di seguirla nel salotto dove le attendevano dessert e cordiali, e i valletti si avvicinarono ai signori per offrire loro sigari e liquori pregiati. Emmeline accompagnò la prozia verso la sua poltrona preferita, dove la aiutò a sedersi: «Desiderate qualcosa da bere, zia?» Lei arricciò le labbra e batté il bastone da eggio per terra, poi scosse la testa: «Nulla, mia cara. Torna pure dalle tue ospiti.» La nipote depositò un bacio sulla sua fronte rugosa e scambiò uno sguardo d’intesa con la cameriera che si era accostata in modo discreto e avrebbe vegliato sull’anziana. Poi si allontanò per assicurarsi che tutto procedesse secondo le sue disposizioni: sui tavoli erano state sistemate alzate traboccanti di golosità giunte per l’occasione dall’Hotel Savoy, mentre cherry e madera decantavano in bottiglie di cristallo. Quando Emmeline fu certa che ognuna delle sue ospiti si fosse messa a proprio agio, si allontanò furtiva. Dischiuse una porta mimetizzata nella tappezzeria, solitamente utilizzata dai domestici, e salì le scale di corsa, raccogliendo le voluminose sottane di seta increspata. Raggiunse un corridoio in penombra e si affrettò verso l’ala sud del palazzo. Più si allontanava, più l’aria diventava tiepida, fino a che non giunse di fronte a un uscio accostato e lo aprì, cauta. La stanza era silenziosa e la sola fonte di luce proveniva dal fuoco di un caminetto protetto da una grata di ferro. Il tappeto attutì i suoi i e, quando la bambinaia la vide, sussultò per la sorpresa. Emmeline si portò un dito alla punta del naso per intimarle di fare silenzio e con un cenno le ordinò di andarsene. Rimasta sola, si avvicinò alle piccole figure dormienti e sorrise con il cuore traboccante di gioia. I suoi figli riposavano, ignari dell’epocale cambiamento che stava per avvenire. Osservò rapita i loro visi rilassati, le bocche aperte che esalavano lievi respiri e le manine abbandonate ai lati del corpo. Emma Rose, la più grande di tutti, dormiva su un lato con un braccio infilato nella massa di capelli biondo grano sfuggiti alla treccia. Con i felpati si avvicinò alla culla dove dormiva
l’ultimo nato, Gideon, di un anno appena, il cui arrivo aveva colto tutti di sorpresa. Emmeline si sentì avvolgere in un abbraccio e, senza neppure voltarsi, inclinò la testa per poggiarla sul solido petto di Julian. Rimasero così allacciati, in contemplazione dei loro figli; lui si abbassò e le baciò l’incavo del collo, inspirando il suo odore, un miscuglio di essenza di rosa e femminilità. «Che cosa riserverà loro il nuovo secolo?» bisbigliò Emmeline con una punta di apprensione nella voce. Julian non rispose subito, si prese il tempo di dosare le parole, come se avesse percepito il suo bisogno di rassicurazioni. «Solo cose belle. Se questo è stato ‘il secolo meraviglioso’, cosa dovremmo aspettarci se non altre meraviglie?» Il suo alito le solleticava l’orecchio, provocandole ondate di brividi in tutto il corpo. Si voltò verso di lui, attirandolo a sé in un abbraccio che non voleva essere seduttivo, ma che lo fu, irrimediabilmente. I seni premuti contro il petto di Julian minacciarono di traboccare dalla scollatura, la bocca si schiuse in una supplica silenziosa e lui capitolò, ansioso di assaggiarla. Emmeline attese di sentire l’esigente carezza delle sue labbra e accolse con un gemito di trionfo quel bacio che aveva desiderato per tutta la sera. Intrecciarono le lingue in una danza antica, ripetendo una coreografia immutata che li sorprendeva ogni volta. Julian si staccò con riluttanza e le prese il viso tra le mani, impedendole ogni movimento e affermando il suo possesso, lì nel luogo che più di ogni altro recava le tracce del loro amore. «Ti amo» pronunciò le parole con una nota struggente. «Ti amo» rispose lei, facendo scivolare entrambe le mani sulla sua schiena per afferragli le spalle, manifestando la stessa brama del marito. Poi Emmeline fece un o indietro, intrecciando le dita con quelle di Julian. Si persero nello sguardo l’uno dell’altra, grati per ciò che possedevano: un amore sconfinato e una famiglia che era la prova della loro devozione. «Qualunque cosa ci riserverà il nuovo secolo, io ho te e non desidero nient’altro.»
Emmeline sorrise con gli occhi ridenti, mentre lasciava vagare lo sguardo per la stanza: «Hai ragione, sarà un secolo meraviglioso.»
Una sera di neve
Emily Pigozzi
Dicembre 1867
Guardò fuori dalle ampie finestre di Godollo. Nel chiarore luminescente della neve fresca, le carrozze erano quasi pronte: presto si sarebbero messe in marcia con il loro rumoroso corteo. “Non ne è caduta abbastanza, di neve” rifletté. Se fosse stata di più, una vera tormenta, non sarebbero potuti partire, e quel Natale l’avrebbero trascorso in Ungheria: il luogo del suo cuore. Era lì che si sentiva a casa. Se solo l’avessero lasciata in pace... Invece, un telegramma li aveva richiamati a Vienna, di corsa: il loro treno li attendeva a Pest. Una mano corse al ventre, istintiva: una protezione dolce e struggente per la creatura che aspettava. La mosse piano, come se la carezza avesse potuto attraversare la stoffa dell’abito da viaggio verde oliva, la biancheria e il corsetto, che per l’occasione teneva leggermente allentato: non era più il caso di ostentare il vitino da vespa, la figura della quale andava tanto orgogliosa e che l’aveva resa celeberrima; adesso, suo figlio era la cosa più importante. “Sarà tutto diverso, con te” pensò. Ora aveva il coraggio di amare: nessuno sarebbe penetrato nelle sue stanze calde di tenerezza, ancora intrise degli umori del parto e delle sue urla, nessuno le avrebbe strappato dalle braccia la sua creatura. Non si aspettava di diventare di nuovo madre, dieci anni dopo l’ultima volta, ma il destino l’aveva sorpresa, nell’esaltazione dell’incoronazione a re e regina di Ungheria: quel paese la inebriava, e poter indossare con orgoglio l’unica corona della quale le fosse realmente importato aveva esercitato su di lei un inaspettato desiderio. Pregava
ogni giorno che nel suo grembo ci fosse un maschio, al quale lasciare in eredità quel paese e il suo amore per esso. Che io possa darvi un re, chiedeva. «Sissi? Le carrozze sono pronte. Dobbiamo partire, prima che le strade diventino impraticabili.» La voce di suo marito, uno degli uomini più potenti del mondo, era sempre venata di cauta tenerezza quando parlava con lei: come se la temesse, e al contempo cercasse di richiamarla vicino a sé, in quell’universo fatto di doveri e di soffocanti incombenze alle quali lei spesso rifuggiva. Sissi. Elisabeth. Erzsébet. Era molti nomi, molti titoli. Ma si sentiva libera solo nel volo di una corsa a cavallo, nel parco di Godollo ammantato dalla neve. I suoi magnifici lipizzani l’avrebbero attesa a lungo: la gravidanza le avrebbe impedito di cavalcare, ma stavolta si sarebbe sacrificata volentieri: nel suo ventre cresceva il re d’Ungheria. Sissi rimase immobile, gli occhi fissi nel bianco. Il riflesso delle finestre le dava un alone sovrannaturale, magico: come l’aveva sempre vista sco Giuseppe, l’imperatore, che al suo cospetto sarebbe stato sempre un giovanotto innamorato in attesa del o leggero della sua fidanzata di quindici anni. Franz sapeva come fosse duro per lei il pensiero delle stanze gelide della Hofburg, che lei considerava la sua prigione. Rimase in silenzio: non amava farle fretta, ma non potevano più aspettare. Lo sguardo di Sissi, nel frattempo, si era posato su un nobiluomo intento a controllare le carrozze destinate ai sovrani: non era suo compito, ma lei sapeva bene quanto ci tenesse. “Andrássy. Gyula” pensò, e le labbra sottili che celavano il suo mistero al mondo si curvarono in un sorriso di tenerezza. Si voltò di scatto: ora aveva un motivo per uscire dalla stanza. «Il viaggio se non altro sarà piuttosto rapido: il Danubio è ghiacciato, ma in treno non dovremmo incontrare difficoltà » le disse Franz. Il cielo era grigio e carico di neve, pesante sulle loro teste come un giogo di ferro. Franz osservò con intensità la figura di Gyula Andrássy, il corpo
muscoloso nell’abito tradizionale e nel mantello, il bel volto fiero che brillava sotto i folti baffi scuri. Non poteva ignorare le voci che circolavano sullo statista e sua moglie, l’imperatrice: tuttavia, non sarebbe stato lui a dare loro credito. Guardò di sottecchi Sissi: negli occhi nocciola della sua sposa ò un lampo. Sapeva quanto lei e il conte amassero entrambi l’Ungheria, di come avessero combattuto per l’incoronazione e per il compromesso fra i loro paesi. Nulla sarebbe stato possibile, senza loro due. Ora non si sarebbero rivisti per molto tempo. «Conte Andrássy, è un piacere rivedervi» esclamò Franz con tono deciso. «Ossequi, Maestà. Le carrozze sono pronte alla partenza: tutto è in ordine.» «Perfetto. Partiremo immediatamente. Vogliate fare una cosa per me, conte: accompagnare la regina nel tragitto verso Pest. Prendete pure posto su questa carrozza: io occuperò quella di testa.» Gyula Andrássy batté i tacchi e fece un lieve inchino al suo re: «Ai vostri ordini, Maestà» rispose, cercando di tenere a bada l’emozione. La mano gli tremò in maniera impercettibile, mentre aiutava la sua regina a prendere posto sulla carrozza: se non altro sarebbero stati soli, prima di separarsi. Attesero che i lacchè chiudessero gli sportelli. Sissi lo fissava, con il suo sguardo impenetrabile da magnifica Gioconda. Andrássy sapeva di poter solo ricambiare quello sguardo, prima che lei si decidesse a parlare: era pur sempre la regina, e non gli era dato dimenticarlo neppure per un istante. Prese la pesante coperta poggiata sul sedile, e la drappeggiò sulla gonna pesante dell’abito da viaggio di Sissi, rialzata dove il ventre iniziava a farsi evidente per via della gravidanza: con quel semplice tocco era come se le comunicasse il suo amore apionato, reverenziale: quello che non avrebbe mai potuto confessare. La carrozza si era messa in moto con uno scossone: Sissi guardò fuori dal finestrino. “Addio Godollo, mia bella Ungheria” pensò.
Gyula, seduto al suo fianco, non aveva smesso di fissarla. « E così, adesso è finita. Non abbiamo più nulla per cui combattere » mormorò Sissi. Si riferiva a quel periodo lungo ed estenuante: la fine di un’epoca, l’inizio di un sogno. Ma ogni sogno che si realizza non porta forse via con sé nel treno dei ricordi un lungo percorso entusiasmante, fatto di strade impervie ma di battaglie vinte? Ora l’Austria e l’Ungheria erano in pace, e l’imperatrice ribelle e il bel rivoluzionario erano solo una regina e il presidente del suo consiglio. Elisabetta si tolse il guanto di capretto. La sua mano tiepida scivolò audace in quella fredda di Gyula. Si regalarono una stretta dapprima impercettibile, poi sempre più forte. Si aggrapparono a quell’amore inconfessabile, a tutto ciò che non avrebbero mai avuto, nel ricordo delle battaglie che avevano combattuto l’uno a fianco dell’altra. Era rimasto solo questo: un’ultima corsa nella neve, nel mare della storia. Il corteo delle carrozze reali si muoveva lento per le vie strette di Pest: il treno era vicino. Dovevano rassegnarsi a perdersi. La folla osservava il corteo, ma Gyula non li vedeva: fissava disperato il volto di colei che amava, la pelle morbida, i capelli poderosi raccolti in una corona di trecce che sbucavano da sotto il cappello di panno grigio. Era la donna più bella che avesse mai visto, ma in realtà c’era molto di più, perché lui conosceva il fuoco della ione che poteva divampare in lei. « Così pare » le rispose, la voce rotta dall’emozione. Sissi lo fissò intensamente. «Venite a Godollo, durante la mia assenza. Accarezzate per me i miei cavalli, dite loro che tornerò. E se non dovessi tornare…» La voce le si spezzò. Prese la mano del conte e la portò alle sue labbra: socchiuse gli occhi nel baciarla, nel respirare il suo odore. L’unica intimità alla quale potessero ambire. «E promettetemi, conte…promettetemi…la cosa più importante. Che ci rivedremo, in questa vita.»
Gli occhi luminosi di Gyula Andrássy erano pieni di lacrime. « Questo non posso promettervelo, mia regina: gli ungheresi credono nel destino. Ma se così non fosse… vi aspetterò nell’altra.» «Non siete un buon suddito, allora.» «Sbagliate. Nessuno è più devoto di me. Tornate quanto prima, pensate solo a questo. Io erò la mia vita a servirvi. E ad aspettarvi.» In un’altra vita avrebbero potuto amarsi, essere solo un uomo e una donna. Invece non avevano che quel breve viaggio, e ora quell’istante era finito: la loro esistenza li attendeva, fuori da quella carrozza, da quella sola isola d’amore che fosse loro concessa. Una regina, e il suo suddito più grande. La neve ormai cadeva copiosa su Pest, in quella sera di dicembre.
Veronique
Roberto Modolo
Parigi, 1900
Mi piace la mia vita, mi ritengo un uomo fortunato. Certo, per mio padre sono un buono a nulla che si guadagna da vivere con una professione che non ha futuro, ma ho l'appoggio di mia madre e con quello che guadagno riesco a mantenermi e a pagare una piccola stanza con vista sulla Senna. Ovviamente se avessi accettato di lavorare come operaio nella costruzione del gigante di ferro progettato da quel matto di Eiffel, papà sarebbe stato più contento. Ma il tempo mi ha dato ragione: chi ha partecipato alla costruzione di quella torre impressionante, che sembra sfidare le leggi di Dio, oggi è nuovamente alla ricerca di un impiego; mentre io sono ancora in piena attività. Ah! Non vi ho ancora detto qual é il mio lavoro. Sono uno scrivano, di quelli di strada. Scrivo per chi ne ha bisogno e non è capace di farlo: indirizzi, lettere che mi vengono dettate, bolle di carico per i barconi che trasportano mercanzia su e giù per la Senna... Nel mio piccolo comincio a essere conosciuto e apprezzato. Devo ringraziare mia madre per questo. Prese un abbecedario dalla casa dove lavorava come sguattera e, scoperta, venne cacciata. Ma io nel frattempo avevo imparato a leggere e scrivere. Tutte le mattine mi alzo ed esco in strada con una sedia e un tavolino pieghevole e con la piccola valigetta con tutto l'occorrente: carta bianca, inchiostro, pennino, tampone assorbente. Ogni giorno un posto nuovo, ma sempre in funzione del mio lavoro: nelle occasioni di festa vado sul piazzale antistante Notre Dame; altre volte mi sposto nei punti di attracco delle chiatte, talvolta anche vicino al
gigante che alcuni chiamano Tour Eiffel e altri, invece, "l'asparago di ferro". Ѐ proprio lì che l'ho vista per la prima volta: una ragazza bellissima, dal volto dolce e delicato. Aveva due occhi che spingevano a perdersi in voli pindarici di sentimentalismo puro. Si era avvicinata a me con titubanza. Io l'avevo notata subito: indossava un abito lungo che aveva sicuramente visto giorni migliori e un foulard le copriva i capelli ondulati, corti ma non tanto da impedire che alcuni ciuffi ribelli si poggiassero sulle gote arrossate dall'aria fresca d'inizio primavera. «Buongiorno, mademoiselle!» l'anticipai, per cercare di venire incontro al suo imbarazzo «Posso avere l'onore di servirla?» Lei mi guardò sorpresa, imbarazzata dall’espansività che per me, abituato a stare in mezzo alla gente, era assolutamente spontanea e normale. «Vorrei che mi scrivesse una lettera.» si decise a chiedere «Quanto mi costerà?» «Mademoiselle, dipende da diversi fattori: la lunghezza dello scritto, la carta che volete usare e se devo andare in posta io oppure voi. » le risposi sorridendo. «Non sono pratica di queste cose, preferirei che pensasse a tutto lei.» replicò, guardandomi fisso negli occhi. Non potei fare a meno di pensare: "Mon Dieu, che occhi!" «Cominciamo a scrivere la lettera, si accorgerà che per pochi centesimi le farò un lavoro perfetto! Chi è il fortunato?» domandai impaziente, nella speranza di sapere se fosse libera oppure già impegnata.. «Ѐ una lettera per mia madre che abita a Tours. » «Ah, Tours! Nel centro della Francia, vicino alla Loira e ai suoi maestosi castelli.» risposi io saccente, cercando d'impressionarla. Non mi dette ulteriore confidenza e io fui costretto a ritirarmi in buon ordine, iniziando la lettera che, con parole ponderate, cominciò a dettarmi. In quell'occasione fui molto professionale. L'ultima frase, che attendevo con ansia, era il commiato alla madre: "La tua devota figlia Veronique". Finalmente sapevo il suo nome!
Al termine della lettera mi chiese quanto fosse il compenso. «Due centesimi!» le dissi trionfante, convinto di averle fatto un prezzo davvero speciale. La vidi impallidire. «Così tanto?» mi chiese allarmata. Non mi aspettavo quella domanda. Normalmente per una lettera di quel tipo chiedevo cinque centesimi. Con la richiesta che le avevo fatto ci pagavo appena la carta e l'inchiostro. «Facciamo così.» le proposi «Adesso mi dia quello che può, il resto me lo porterà quando vorrà spedire a sua madre la prossima lettera.» La giovane estrasse dalla tasca un centesimo e, porgendomelo con il viso rosso per la vergogna, mi disse che avrebbe saldato quanto prima il suo debito. Stava già allontanandosi quando la richiamai indietro. «Mademoiselle!» urlai. Lei si voltò e ritornò sui suoi i. «Non mi deve più nulla. Ma questo è un prezzo speciale che faccio solo alle persone che conosco. Il mio nome è Fabien. Posso avere l'onore di esserle amico?» Lei abbozzò un timido sorriso e, porgendomi la mano. mi disse: «Lei è un gentiluomo, Monsieur Fabien.» Avvicinai le mie labbra alla sua mano, sfiorandola appena, conscio che quel giorno non sarei più riuscito a concentrarmi sul lavoro. La mattina dopo ero ancora ai piedi del gigante di ferro. In cuor mio speravo di rivederla e grande fu l'emozione quando la scorsi da lontano mentre si avvicinava al mio tavolino da lavoro. «Buon giorno, mademoiselle!» la salutai, sfoggiando il miglior sorriso di cui ero capace. La giovane aveva lo sguardo cupo. Impossibile non notare la sua
preoccupazione: «Monsieur Fabien, ieri le ho detto che lei è un gentiluomo. Ora sono qui a chiederle aiuto! Ѐ l'unica persona che conosco, non saprei a chi altro rivolgermi.» pronunciò la frase tutta d'un fiato, mentre le lacrime le rigavano il suo bel viso. La feci accomodare sulla mia sedia e mi feci raccontare le sue vicissitudini. Giunta a Parigi illusa dalla promessa di un lavoro e facili guadagni, si era ritrovata ingannata e disillusa. Non aveva potuto accettare l’impiego procuratole dalla cugina perché l'avrebbe messa in contatto con gente di malaffare, rovinandole la reputazione. Nella lettera alla madre aveva mentito, asserendo di trovarsi bene e dicendole di non preoccuparsi, ma la realtà era che non aveva un soldo e non sapeva dove are la notte. M'implorò di accettare i suoi servigi in cambio di vitto ed alloggio. «Mi permette di chiamarla Veronique?» le domandai a bruciapelo. Lei acconsentì con un timido cenno del capo. «Ѐ da un po' di tempo che un certo progetto mi frulla per la testa e lei potrebbe essere proprio la persona che fa al caso mio.» La ragazza alzò gli occhi e mi guardò con una nuova luce di speranza dipinta sul volto: «Non mi prenderà in giro anche lei, vero?» «Lo giuro sul mio onore!» risposi, ponendo una mano sul petto. «E da oggi per te sarò solo Fabien.» L'inizio non fu dei più facili. Dovetti conquistare la sua fiducia. Il fatto che io abitassi in una stanza non semplificò la cosa, ma persino la sua diffidenza nulla poté contro la mia manifesta buona fede. Lei dormiva nel mio letto e io sulla poltrona. Mai dimenticherò la prima carezza che donò al mio viso con la sua delicata mano quando, mostrandole un consunto abbecedario, le dissi che volevo insegnarle a leggere e scrivere. Lei si applicò moltissimo: durante il giorno io continuavo a fare lo scrivano e lei restava in camera a esercitarsi. Era un'ottima allieva e i risultati non si fecero attendere. «Credo tu sia pronta.» le dissi orgoglioso una sera. «Ѐ il momento di fare il grande o. Domani verrai a lavorare con me.» Veronique sgranò gli occhi e un'ombra di panico scurì il suo bel viso.
«Non preoccuparti.» la rassicurai. «Andrà tutto benissimo, vedrai!» «Perché fai tutto questo per me?» «Veronique, tu sei entrata in punta di piedi nella mia vita e io non sono più riuscito a fare a meno di te. Sei il mio ultimo pensiero la sera e il primo al mattino. Sono sereno solo quando sono con te.» Mentre parlavo a cascata, lei si avvicinò a me. Senza farmi terminare il discorso posò le sue labbra sulle mie. Lo ammetto, fu un bacio piuttosto goffo, ma il tuffo al cuore che mi regalò lo rese indimenticabile. Da quel momento la strada si fece in discesa. Scoprii che la sua presenza attirava un maggior numero di clienti, così io finii per occuparmi esclusivamente delle bolle di carico delle chiatte, mentre Veronique scriveva le lettere. Gli affari andavano a gonfie vele. In breve fummo in grado di permetterci un appartamento vero. I nostri sentimenti si fecero sempre più profondi e nel 1895 ci sposammo. Ora, all'inizio di questo nuovo secolo, abbiamo una bella bancarella lungo la Senna. Veronique vende matite, pennini, inchiostro, carta da lettere, cartoline e qualche souvenir per i turisti. La nostra vita si è arricchita grazie alla nascita di Alain e io vedo davanti a noi un prospero futuro. Si, credo proprio che il secolo che si apre davanti a noi ci porterà tante soddisfazioni.
Racconto dedicato all’Amor per la Patria
Stammi vicino Norma Follina
Il sole era là, a un palmo dal ceppo di noce: un grosso melograno pronto a esplodere come una granata. Sarebbe stata sufficiente una corsa per raggiungerlo e spingerlo dietro gli alberi con la scopa di sorgo, pensava Dido, 18 anni e tanta voglia di pallone. Doveva invece aiutare suo padre tra orto e casa, tra stalla e vigneto in attesa del buio che nascondeva i campi e radunava tutti in cucina. La cena, e via anche lui verso il sagrato. «Matteo?» chiese quella sera. «È partito militare. Presto sarà al fronte» rispose il vecchio Sisto. «Al fronte? Che dite? Matteo ha 18 anni.» «Al fronte.» Matteo in guerra. Matteo non sa fare la guerra. Un calcio. Il pallone si sollevò e si accasciò poco più in là, cercando rifugio nella notte. «E tu non ci vai?» gli chiese un ragazzino sfilandosi dal gruppetto. «No, non credo.» La testa divenne pesante. Timore per Matteo, paura per sé e speranza di essere
stato dimenticato. Succede, no? Una distrazione, un salto di riga ed ecco che il tuo nome nessuno lo scriverà. Si voltò verso casa, distinse il tetto, il camino in rilievo nel blu scuro del cielo. La guerra non era ata di là, non aveva bombardato, era lontana, su, in Italia, ma si era portata via uomini del paese e ora stava affondando i denti sui ragazzi. Dalla strada scorse un bagliore in cortile: qualcuno era ancora sveglio e lui allungò il o. La mamma lasciò la lampada tra i sassi, si pose a sedere sul ceppo, si asciugò le lacrime. Nel silenzio un gufo lanciò una voce, un lamento nella notte di inizio autunno. Entrarono: nel focolare rosseggiava ancora qualche brace. La mamma gli porse una lettera: era giunta l’ora. Dido uscì nella notte, senza fare ritorno. La leva era un obbligo. Prima o poi i carabinieri l’avrebbero scovato, sarebbe finito nella morsa del Cadorna, sì, di colui che fucilava chi aveva paura, chi rientrava in ritardo, chi non poteva avanzare perché ammalato. La famiglia e il vicinato iniziarono la caccia, e lui dopo tre giorni ati tra le erbe palustri del fiume, cedette al richiamo. Dido in viaggio verso chissà dove. Dido non sa fare la guerra. I ragazzi dell’oratorio abbandonarono il pallone. Un mese di addestramento, il primo assaggio di inferno per lui che era vissuto nella libertà dei campi: trenta giorni per imparare a maneggiare il fucile, a ripetere “viva la Patria”. La Patria non la conosceva. Una mattina fu fatto uscire di gran corsa dalla caserma ed entrare nel camion sgomitando tra i commilitoni muti. Un’accelerata e via per strade ignote con gli alberi che scappavano, con le montagne che si avvicinavano.
Su una vecchia casa lesse: ‘Nervesa’. Boh! «Arrivati!» annunciò qualcuno. Dido si lasciò prendere dal fiume e dagli arbusti tormentati dall’acqua. «Il Piave. Di là -e sono due i- c’è il nemico» spiegò la stessa voce. E io che ci posso fare, si domandò Dido. E se un nemico si fosse presentato davanti di corsa...? Le gambe tremarono e i piedi si scaldarono dentro gli scarponi. «Io non credo di riuscire...la baionetta...» confidò al ragazzo sedutogli accanto. L’altro gli piantò addosso due occhi chiari, spaventati quanto i suoi. «O tu o lui» rispose. «Non potrai fare altro che pensare a salvare la pelle» e abbassò lo sguardo. Fu così che Dido si trovò in trincea in faccia al Piave, a un tiro di schioppo dal nemico che di sera riempiva di fuoco il cielo. «Come ti chiami?» gli chiese il ragazzo dagli occhi azzurri. «Dido. Vengo da Piperno.» «Piperno? Ma dove cavolo si trova? Io sono Luigi, conosco la zona. Stammi vicino.» «Non capisco niente. Nulla di nulla» si confidò Dido. «Io capisco che devo riportare a casa la mia vita.» Fu la risposta. «Mancano due giorni a Natale...» Dentro la grotta, ormai a notte fonda, Dido si sentì prigioniero tra quelle pareti frequentate da scarafaggi e pipistrelli. Decise di muoversi verso l’esterno. La neve scendeva dritta, poi obliqua, qualche fiocco volteggiava prima di posarsi sull’albero secolare. Quello spettacolo gli fece dimenticare la guerra, il nemico, la baionetta, il freddo. Il giorno di Natale la neve se n’era già andata. Uscirono armati e camminarono dentro il bosco, lassù sulla collina, fino alla chiesa. Troppo tardi. Tre bimbi
stavano uscendo ridendo, ma si bloccarono alla vista dei soldati. Sono buoni, li rassicurò una giovane donna, sono amici. Luigi parlò in dialetto formando un crocicchio. Raccontava, rideva, dava pacche sulle spalle. Dido osservava commosso quell’amico ruvido con un cuore grande così. Un uomo li chiamò. «Io abito lassù» disse indicando una casa minuta, tre stanze su tre piani. «Quando volete, quella è casa vostra. Anche oggi a pranzo.» E loro al suono del mezzodì iniziarono a salire lungo la stradina fangosa, frastornati dall’abbaiare incessante del cane alla catena. Alla porta si presentò Nina, una ragazza della loro età che subito rientrò, lasciandoli attendere in attesa che qualcuno si rife vivo. L’uomo incontrato alla chiesa uscì con il berretto in mano per farli entrare. Dido non capiva una parola di quelle poche in dialetto che uscivano dalla bocca dei commensali. A lui parlavano gli occhi, le mani nel porgere il piatto con poca pietanza, il pezzo di pane accarezzato dagli sguardi e lasciato sulla tovaglia per gli ospiti. Giunse la primavera con i germogli del grano, con le strade polverose, con l’imbrunire di fuoco profumato dalla polenta. Gli inglesi erano accampati nell’Abbazia, adagiata sul colle da mille anni e già abitata da Monsignor della Casa che nelle quiete stanze scrisse il suo Galateo. E venne giugno: il grano della pianura e l’erba profumavano di casa. In collina gli alberi tessevano fragili ombre. Di là scorreva il Piave. Quel pomeriggio di inizio estate Dido era sul punto più alto del Montello, di vedetta alle trincee, tenuto d’occhio da Luigi che di tanto in tanto tirava fuori la testa da quel maledetto buco. “Bang” uno sparo, uno solo a spaventare i merli a far abbaiare i cani. Il capo di Dido si piegò, il corpo rotolò dal colle. L’amico sgusciò, si appiattì contro il terreno.
«Torna, ti beccano!» urlavano i commilitoni dalla trincea. No, non si arrese. Lui conosceva i luoghi, lui era meno sprovveduto di quel ragazzo. «Dido, ci sei?» «Lasciami. Vai al riparo» e nient’altro. Luigi se lo sistemò alla meglio sulle spalle e lo portò oltre la trincea. “Bang”. Una pallottola lo raggiunse alla gamba. Quel maledetto cecchino, quel nemico che Dido non avrebbe mai ferito. E Luigi si trascinò con il fardello sulle spalle attraverso il bosco, lasciando una scia di sangue. Bussò e ribussò alla casa della giovane Nina. Si aggrappò allo stipite. L’amico a terra, lui in ginocchio con le mani che scivolavano lungo quell’uscio chiuso. E si lasciò cadere accanto all’amico ormai privo di sensi. Non c’era più nessuno in paese. La povera gente era stata caricata sui treni e mandata profuga lontano dagli affetti, via dagli orrori. Quando Dido si riprese, udì parlare straniero, si spaventò e tentò di scendere dalla branda. «Noi amici. Inglesi» gli disse un tale. Inglesi, austriaci, si: non capiva granché. L’anno precedente gli uomini del paese erano partiti per combattere accanto agli austriaci. Lui invece aveva fucile e baionetta per colpirli. Cercò Luigi tra i feriti. No, grazie a Dio, non c’era. Il suo amico conosceva il luogo, si era salvato. E si lasciò andare sulla coperta. Nemmeno il tempo di un sospiro, che da lontano giunse minaccioso il rombo di un aereo. Dido si tappò le orecchie: quei velivoli nemici gli acceleravano i battiti, facevano avvampare il volto, gli promettevano morte. Vicino, sempre più basso, a un palmo dalla tenda. Stop, finita a 18 anni. Una, due... granate scoppiarono spargendo fuoco e detriti
ovunque. Dido si mise ritto urlando di terrore, cercò di fuggire, poi si accasciò in un angolo con le mani sul volto. «Basta, basta..» mormorava senza sosta. La tenda era salva, celata nel bosco, le case poco più in là ridotte a un grumo di rovine. Con il ritorno alla calma anche il fruscio di ciabatte riuscì a metterlo in agitazione. Scoprì senza fretta il volto e vide una ragazza in lacrime. «Nina!» Lei non rispose. Si avvicinò, gli toccò la spalla ferita, lo accarezzò mentre i singhiozzi le scuotevano il corpo. «Luigi...» disse. E lui capì. Il paese lontano, l’amico a terra col petto squarciato, Matteo... i commilitoni che cacciavano indietro gli austriaci, il vecchio Sisto e Nina. Ecco da dove prende forma il coraggio. E la Patria.
GLI AUTORI TERESA BARBARO insegna in una Scuola Primaria di Cornaredo, in provincia di Milano. Apionata di lettura e scrittura, nel 2004 ha pubblicato Claretta e il mistero della farfalla rosa (Montedit Editore), in seguito all’arrivo come finalista nel premio “J. Prévert”. Tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014 ha sperimentato il self-publishing con racconti per bambini in formato ebook, ma il desiderio di vederli tutti insieme in cartaceo l’ha spinta a creare la raccolta cartacea Io racconto per te. Ha partecipato al concorso sul web “Chinguetti scritture creative” aggiudicandosi la vittoria della prima edizione. Cura le FanPage: “Bonbons di lettura”, in cui offre consigli di lettura per bambini e ragazzini e “Io racconto per te”, in cui svela i retroscena dei suoi racconti. È membro dell’associazione Ewwa e con essa ha collaborato alle antologie digitali E dopo carosello tutti a nanna e Italia: terra d’amori, arte e sapori.ù
GIOVANNA BARBIERI vive a Verona, città che le ha dato i natali nel 1974. Nel 2001 consegue la laurea in Scienze Politiche, indirizzo economicointernazionale. Apionata di Medioevo, alto e basso, nel 2009, leggendo un testo sugli insediamenti abitativi del basso medioevo in Valpolicella, La Valpolicella: dall’alto medioevo all’età comunale di A Castagnetti, decide di scrivere un romanzo ambientato nella sua valle La stratega anno domini 1164. In particolare la colpisce un fatto storico non molto noto, l’assedio del castello di Rivoli del 1165 a opera della Marca Veronese che si ribella a Federico I il Barbarossa e Garzapano, castellano di Rivoli. A novembre 2015 pubblica il suo secondo romanzo Cangrande paladino dei ghibellini (XIV secolo), (Arpeggio Libero editore).
Inoltre è l'autrice di Amor e patimento: tre racconti gratuiti a tema medievalesentimentale. Suoi numerosi articoli sono pubblicati in blog e siti dedicati alla storia medievale: Talento nella storia, Italia medievale, Sguardo nel Medioevo, Il Medioevo non è stata un'epoca buia!!! e Medioevo tra luce e buio. È possibile seguirla anche tramite il suo blog: Il mondo di Giovanna.
LORENZA BARTOLINI è nata nel 1982 a Pescia, ma da tre anni vive a Torino con suo marito. Dopo gli studi, ha lavorato per anni nel settore della ristorazione e solo di recente ha deciso di scrivere il suo primo romanzo. Con i piedi per terra e la testa fra le nuvole, ha cominciato a dedicarsi alla scrittura per gioco, senza pensare che da qualche pagina sarebbe giunta a comporre un intero libro. Fa il suo esordio nel mondo della narrativa con una storia d’amore e di guerra: La Rosa e il Deserto è suo il primo volume auto pubblicato su Amazon, che sarà seguito da La Rosa e l’Oceano.
STEFANIA BERNARDO nasce a Ivrea il 17 dicembre 1985. Sin da piccola le sue più grandi ioni sono state la storia, i pirati e la scrittura. Divoratrice accanita di libri, segue un percorso di studi in campo giuridicoeconomico che la porta a lavorare come segretaria amministrativa. Da Luglio 2015 è coordinatrice della biblioteca di Banchette (To). Sul suo blog si occupa di approfondimenti storici e da spazio ad altri autori con interviste e presentazioni. Con altre tre autrici, è amministratrice del gruppo Facebook, "Io leggo il romanzo storico". Attualmente è iscritta alla facoltà di Storia dell'Università di Torino e vive con il marito a Chiaverano (To). Le sue pubblicazioni:
2013 The Rolling Sea - La Stella di Giada 2013 The Rolling Sea - La caccia 2014 The Rolling Sea - Royal Fortune
LINDA BERTASI nasce nel 1978. Apionata di storia e letteratura inglese, nel 2010 pubblica il romance contemporaneo Destino di un amore, cui fa seguito nel 2011 il paranormalromance Il rifugio – Un amore senza tempo che le vale la Medaglia d'Argento al XXIII Premio Letterario 'Valle Senio'. Nel 2013, pubblica il romanzo storico sentimentale Il profumo del sud che le vale la qualifica con merito di 'Autore commendevole' al VII Premio Letterario Europeo 'Massa città fiabesca'. Dall'ottobre 2014 è membro dell'associazione EWWA in qualità di socia ordinaria e nel 2015 pubblica il romance storico erotico Il silenzio del peccato. Collabora con case editrici, lit-blog e magazine; con altre tre autrici è amministratrice del gruppo Facebook Io leggo il romanzo storico. Proprietaria di una piccola realtà commerciale nella provincia di Ferrara, vive assieme al marito e alla figlia. Il suo blog ufficiale: http://lindabertasi.blogspot.it/
NORMA FOLLINA Trevigiana, giornalista pubblicista, ha pubblicato quattro romanzi -Il paese rubato, Un pugno di ragazzi, Si dice e Romanzo '44. Già insegnane, ha iniziato a scrivere pubblicando libri e fumetti (illustrazioni di Paolo Ongaro) per ragazzi. Lavora in Trevisopress.
ROSA FORTE Rosa Forte è nata nel 1993 e vive in un paesino situato nel
cuore della Calabria sovrastato da un delizioso feudo medievale, di cui da piccola credeva di essere la principessa. Sognatrice apionata di libri, sin da bambina non ha mai vissuto un solo attimo di realtà, confinandosi sempre in mondi e trame oniriche per assaporare le vite e le avventure di tanti personaggi. L'amore per la narrativa è sbocciato nel suo cuore leggendo, per un compito scolastico, il romanzo Piccole Donne di Louisa M. Alcott. Da quel momento non ha mai smesso di leggere e ha così iniziato a trasportare i mondi fantastici su quaderni che custodisce gelosamente. Ama la sua famiglia, le amiche ed è alla continua ricerca di libri in grado di toccarle il cuore e farla sognare, nell'attesa di dar vita a un romanzo tutto suo. Predilige i romanzi storici, le leggende, le opere di Brenda Joyce e tutti i libri che mirano a insegnare il valore del vero amore
ESTELLE HUNT nasce a Genova il 20 gennaio di trentanove anni fa. Ama leggere e i romance storici restano il suo genere preferito. Tra i libri preferiti ci sono Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez, La casa degli spiriti di Isabel Allende, La trilogia de Il Cavaliere d’Inverno di Paulina Simmons, i romanzi di Jane Austen e quelli di Anais Nin. Nel 2015 pubblica il suo primo romanzo Emmeline, un romance storico ambientato alla fine dell’Ottocento tra Londra e New York. Ha partecipato all’antologia Profumi di Storia e d’Estate con il racconto Corteggiamento a Newport curato dal Gruppo Facebook Io leggo il romanzo storico e all’antologia Un natale speziato organizzato dal blog Harem’s Book con il racconto Un regalo inaspettato.
MACRINA MIRTI Macrina Mirti è laureata in lettere, specializzata in glottodidattica, e insegna Italiano e Storia nella scuola secondaria superiore. Ama suo marito, il suo lavoro e adora i gatti. Ha pubblicato numerosi racconti lunghi per Delos Digital nelle Collane ioni Romantiche e Senza Sfumature e il romanzo I suicidi vanno all’inferno e la raccolta Piccoli
orrori come autrice self. I suoi racconti, sotto vari pseudonimi, sono presenti in numerose riviste e in varie antologie. Macrina Mirti è laureata in lettere, specializzata in glottodidattica, e insegna Italiano e Storia nella scuola secondaria superiore. Ama suo marito, il suo lavoro e adora i gatti. Ha pubblicato numerosi racconti lunghi per Delos Digital nelle Collane ioni Romantiche e Senza Sfumature e il romanzo “I suicidi vanno all’inferno” e la raccolta “Piccoli orrori” come autrice self. I suoi racconti, sotto vari pseudonimi, sono presenti in numerose riviste e in varie antologie.
ROBERTO MODOLO è nato a Milano nel 1962. Ama scrivere fin dalla più tenera età, ma solo nel 2005 decide di pubblicare il suo primo romanzo Krill, seguito da Il tesoro della Vera Cruz a fine 2012. Ha partecipato a diverse antologie e sta scrivendo il terzo libro - sempre di genere avventuroso - dal titolo provvisorio Il lago. Impiegato in un'azienda milanese, Roberto ama il pattinaggio su ghiaccio, le camminate in montagna e lo sport e e nutre una grande ione per i transatlantici.
ALESSANDRA PAOLONI vive e lavora in un piccolo paesino alle porte di Roma. Coltiva fin da bambina una ione quasi viscerale per la scrittura e la lettura, pubblicando fin da giovanissima poesie e racconti su riviste e giornali locali prima di are ai romanzi storici, paranormal ed erotici. La sua carriera è veloce e in rapida ascesa sia nel mercato digitale sia in quello cartaceo con diversi editori tra cui la Delos Digital di Franco Forte per il quale pubblica L'amante del boia.
I diritti del suo ultimo romanzo Ti regalo l'Amore, uscito in self publishing nel settembre 2014 e ai vertici della classifica Amazon per numerose settimane è uscito in digitale per la Newton Compton Editori nel dicembre 2015 e arriverà in libreria in edizione cartaceo nell’estate 2016. Blog dell'autrice: http://paolonialessandra.blogspot.it/
DANIELA PERELLI nasce a Genova nel 1980, si diploma come Tecnico dei Servizi Ristorativi e si specializza in pasticceria. Ha lavorato per due anni a contatto con i bambini come animatrice turistica, coltivando la ione per la danza, il canto e la lettura. Ha pubblicato il romance Il bello di te (Giovanelli Edizioni), la silloge La vita in poesia e il romanzo A tempo di musica. Attualmente scrive per il magazine online “Il buongiorno si vede dal mattino”. Vive a Genova con il marito Alessandro, i figli Giulia e Luca e la loro barboncina Lili.
MICHELA PIAZZA Michela Piazza è laureata in Storia. Ha lavorato come bibliotecaria, traduttrice e correttore di bozze. È stata coautrice del fumetto umoristico Fotoronmao, edito su riviste nazionali. Ha scritto racconti di vario genere - dall'horror al rosa - comparsi in antologie. Ha pubblicato i romanzi storici d'avventura Mary Read – di guerra e mare e Mary Read – nemica del genere umano. Con Pamela Boiocchi ha scritto le commedie romantiche New York-Napoli, amore al peperoncino e Sposami a Sugar Land. Insieme a Linda Bertasi, Stefania Bernardo e Patrizia Ines Roggero amministra il gruppo Facebook Io leggo il romanzo storico. Vive sul Lago Maggiore col marito, il figlio Tito, numerosi gatti viziati e una chihuahua iperattiva.
SCA PRANDINA danzatrice, coreografa e insegnante di danza è nata a Schio (VI) il 13 agosto 1979 e vive a Vanzago (MI) con il marito Vincenzo e i due figli. Diplomata al Liceo Classico, consegue la Laurea in Scienze della
Comunicazione col massimo dei voti. Lavora per alcuni anni come responsabile della comunicazione, prima di dedicarsi interamente alla sua prima ione: la danza. Nel 2009 fonda con la sua socia e amica Laura Quadrelli l’associazione "Backstage Arte in Movimento" per diffondere la cultura e l’insegnamento della danza nella provincia di Milano. Grande divoratrice di libri di ogni genere e interessata di storia, scrive fin da bambina per ione. Come vento ribelle è il suo romanzo d’esordio.
PATRIZIA INES ROGGERO nasce a Genova nel 1979. È un'autrice di romance storici. Ad oggi ha pubblicato il romanzo Sono solo un marinaio, la trilogia Paradise Valley, il racconto Asso di cuori (collana ioni romantiche - Delos Digital) e il romanzo Il brigante di Corte. Alcuni suoi racconti sono presenti nelle antologie di Puntoacapo Edizioni, Delos Books e di EWWA European Writing Women Association, associazione della quale fa parte dal 2013. Sposata e mamma di una bambina, è apionata di storia americana, soprattutto per quanto riguarda l’epopea western e la cultura dei Nativi Americani. Insieme ad altre tre autrici, amministra il gruppo Facebook Io leggo il romanzo storico.
Ti è piaciuta l’antologia? Scopri l’altro progetto benefico realizzato dal gruppo Facebook Io leggo il romanzo storico!
SINOSSI: Diciotto autori ci regalano scorci di Storia e d’estate, dall’avventura al romanticismo fino al paranormale, in un viaggio dal sapore antico. Da un’idea nata nel gruppo Facebook “Io leggo il romanzo storico”, prende vita questa antologia i cui proventi andranno unicamente in beneficenza all’Ospedale Pediatrico Gaslini di Genova.
DISPONIBILE IN VERSIONE DIGITALE.
Sommario
Prefazione Agate e Gunderic - GIovanna Barbieri E in lontananza colpi di cannone - Alessandra Paoloni Il soffio di un’illusione - Stefania Bernardo Il sussurro di un cuore asservito - Rosa Forte Imbastiture d’amore - Lorenza Bartolini La Magnolia - Linda Bertasi La promessa - Macrina Mirti Nara - Patrizia Ines Roggero Non solo suffraggette - Daniela Perelli Presenza nella nebbia - Teresa Barbaro Stirpe pirata - Michela Piazza Un giro di valzer - sca Prandina Un nuovo secolo - Estelle Hunt Una sera di neve - Emily Pigozzi Veronique - Roberto Modolo Stammi vicino - Norma Follina GLI AUTORI