Arturo C. Zappa
Delitti al profumo di basilico
EEE-book
Arturo C. Zappa, Delitti al profumo di basilico
© Arturo C. Zappa
Collana “Giallo, Thriller & Noir”
Tutti i diritti riservati
www.edizioniesordienti.com
Prima edizione:2012
ISBN: 978-88-6690-028-3
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Che ci vuole a scrivere un libro? Leggerlo è la fatica.
Gesualdo Bufalino
1
Uscì dal portone della questura e attraversò la piazza, camminando senza fretta verso la macchina parcheggiata di fronte. Prima di mettere in moto, si fermò un istante a guardare, senza particolare nostalgia, la finestra dell’ufficio in cui aveva lavorato per una vita e che tre anni prima aveva lasciato per andare in pensione. Di aggio a Genova, dove era andato a trovare la sorella, aveva deciso di approfittare dell’occasione per salutare gli ex colleghi e vedere come se la cavavano senza di lui. Lo avevano accolto calorosamente, contenti di rivederlo dopo tanto tempo. Godeva ancora della stima di tutti, superiori e colleghi, e in ufficio nessuno aveva dimenticato le sue straordinarie doti di investigatore né la sua abilità nel risolvere casi: dai più semplici ai più complessi e delicati. Quando era ancora in servizio, bastava che qualcuno arrivato da fuori chiedesse di lui o lo nominasse soltanto, per suscitare subito espressioni di apprezzamento: “Chi? Sala? Il commissario Guido Sala? Eh… quello sì che ha i coglioni!”; “Se fossero tutti come lui, di delinquenti in giro ce ne sarebbero parecchi di meno!”. Nonostante i tanti successi ottenuti, era sempre rimasto lo stesso e le persone che avevano lavorato con lui lo apprezzavano anche per il suo carattere schivo e, a tratti, burbero. I suoi superiori erano stati un po’ meno entusiasti di quell’aspetto, e il questore, in particolare, si era trovato più di una volta in imbarazzo durante le cerimonie ufficiali, per l’atteggiamento freddo e distaccato dimostrato da Sala di fronte alle onorificenze e agli encomi che gli erano appena stati attribuiti. Finché il lavoro lo aveva costretto a vivere in città, aveva approfittato dei fine settimana liberi per lasciare Genova e andare a are qualche giorno nel suo paese. Adesso che era in pensione e aveva a disposizione tutto il tempo che voleva, si era trasferito nella vecchia casa di famiglia, dalla quale non aveva più intenzione di allontanarsi. Mise in moto la macchina e si avviò verso l’autostrada. Dopo le ore ate in città, trovava quel breve viaggio particolarmente piacevole e rilassante, anche se il cielo era coperto e da due giorni continuava a piovere. “Del resto in novembre non si può pretendere di avere sempre bel tempo”, si disse, continuando a
guardare il panorama grigio che si stendeva davanti a lui. Lo trovava comunque affascinante, anche se malinconico. Gli piaceva il colore scuro del cielo che si rifletteva sul mare agitato, illuminato a tratti verso l’orizzonte da fulmini lontani. Lasciò l’autostrada e si diresse verso la costa. Ancora pochi chilometri e sarebbe arrivato a casa, a San Giustino a Mare. Il paese era un piccolo borgo, di circa duemila anime, arroccato sulla scogliera che sovrastava la Baia dei Delfini. Gli abitanti erano per la maggior parte pescatori che si tramandavano il lavoro da generazioni. Nessuno di loro era particolarmente interessato allo sviluppo turistico del posto: anzi, molti non vedevano di buon occhio l’idea di aprire le porte a orde di bagnanti, che avrebbero certamente turbato la tranquilla atmosfera del paese. Solo Cuffari, il giovane sindaco, aveva grandi ambizioni e cercava da tempo di trasformare il paese in un rinomato luogo di villeggiatura. Da anni si sforzava inutilmente, durante le campagne elettorali, di convincere i concittadini a darsi da fare per attirare giovani coppie e famigliole e ad accettare quella che era, secondo lui, “la naturale evoluzione degli uomini, del tempo e delle cose”. I paesani, pur non condividendo affatto le sue ambizioni, avevano continuato a dargli i loro voti affidandogli, contro ogni ragionevole previsione, il mandato di sindaco per la seconda volta. Così la rielezione di Cuffari era l’unico inspiegabile mistero del piccolo e sonnacchioso centro.
La casa di Sala, ata da suo nonno a suo padre e, infine, a lui, era l’ultima in alto, a nord del borgo, e per raggiungerla bisognava inerpicarsi su per carruggi e faticose scalinate. Quando abitava ancora a Genova, non gli pareva vero di lasciare la città e arrivare, sudato e col fiatone, al piccolo cortile che conduceva alla porta d’ingresso. Gli bastava aspirare lo strano odore di muffa e salsedine del casale, che si faceva già intuire nell’ultima ripidissima rampa di scale, per sentirsi rinascere. Il casale era un rifugio, una specie di zona franca, dove gli piaceva ritirarsi per dare un ordine ai troppi pensieri che si inseguivano nella sua testa e che, intrecciandosi e combattendosi l’un l’altro, gli provocavano, spesso, dolorose emicranie. Lì, poteva abbandonarsi ai ricordi, o alla lettura, oppure divertirsi a preparare piatti prelibati e a inventare nuove ricette, con risultati a volte mirabili, altre del tutto improbabili. Lì, poteva dedicarsi indisturbato alla ione per la poesia e i versi, che componeva in gran segreto, senza mai farli leggere a nessuno.
Rigorosamente scapolo e con un naturale talento per il disordine, non aveva mai pensato di poter riuscire a tenere a posto e pulita la grande casa da solo. Da anni contava sull’ormai indispensabile aiuto di Rosetta, un’energica donna di cinquantanove anni, rimasta vedova da undici. Il marito, Giuseppe, aveva perso la vita per un banale incidente domestico, restando fulminato mentre cercava di aggiustare un vecchio scaldabagno. Da allora la donna, costretta ad arrotondare la modesta pensione lasciatale dal marito, si barcamenava lavorando come domestica a ore. Andava dal commissario per tre giorni alla settimana e da altre rispettabili famiglie del posto nel tempo che le rimaneva libero. Per Rosetta era come se Sala non fosse mai andato in pensione. Quell’“ex”, che lui si ostinava ad anteporre alla sua carica, non lo sentiva neppure: l’uomo per cui lavorava da anni continuava a essere e sarebbe sempre stato “il commissario”, punto e basta. Così, lui aveva dovuto, volente o nolente, accettare il fatto che appena succedeva qualcosa di nuovo in paese, bello o brutto, la donna corresse immediatamente a informarlo.
La mattina del giorno successivo pioveva ancora a dirotto e le pesanti gocce d’acqua continuavano a martellare le tegole del tetto e i vetri delle finestre, come fossero stati tavolette acustiche di un enorme e irreale vibrafono. Il vento scuoteva le chiome degli alberi che si stagliavano contro le nuvole scure, simili a funerei danzatori con le braccia protese verso il cielo in un macabro balletto. Lo scroscio dell’acqua che usciva dalle grondaie e il sinistro brontolio dei tuoni contribuivano a rendere surreale l’atmosfera del borgo. Erano da poco ate le otto, quando Rosetta, ciabattando e ansimando per la corsa fatta, giunse al piccolo cortile che costeggiava il casale di Sala. “Commissario! Commissario!”, gridava. Completamente fradicia, arrancava velocemente, gradino dopo gradino, su per la corta e sconnessa scala che portava all’ingresso della casa. Con una mano teneva sollevata di lato la lunga gonna, mentre con l’altra arpionava il amano umido e viscido, per aiutarsi nella salita e garantirsi un minimo di equilibrio, impresa non semplice a causa della fatica e, soprattutto, dell’emozione. Quando la porta si spalancò, Guido Sala apparve in tutto il suo splendore: a petto nudo, con indosso un vecchio paio di pantaloni modello principe di Galles,
sorretti da bretelle a righe orizzontali verdi e gialle che sembravano ritagliate da una tela di Mondrian e incollate sul candido e glabro torace. Spazzolino da denti in bocca, asciugamano sulle spalle, riportino non ancora acconciato che gli scendeva, fluente, sino alla base del collo e nascondeva completamente l’orecchio sinistro, il commissario si preparava ad andare incontro alla donna. Scendendo con un piccolo balzo lo scalino della soglia, si fece incontro a Rosetta per aiutarla a percorrere gli ultimi i che la separavano dall’ingresso. Lei, ansimando, gli prese la mano e lo tirò verso di sé fino al bordo del pianerottolo, indicandogli una piccola panca in muratura, sulla quale si sedette per riprendere fiato e poter finalmente parlare. “Rosetta, che è successo?… Che c’è?…”, le chiese Sala, subito dopo essersi tolto lo spazzolino di bocca. “Una cosa terribile, commissario. Venga a vedere… Oh mio Dio! Il povero Santino, che brutta fine…”. “Come, che brutta fine?… Avanti, spiegati meglio!”, insistette lui. “Santino è morto in malo modo, ma non so dirle altro”; fece una breve pausa e aggiunse: “Presto, venga! Giù alla chiesa ci sono già i carabinieri”. “Va bene, ora vengo! Dammi solo un minuto, ma tu intanto datti una calmata. Tanto mi par di capire che ormai per Santino si possa fare ben poco”. Santino era, o meglio era stato fino ad allora, il sacrestano del paese. Quando, alcuni anni prima, la vecchia perpetua del parroco era ata a miglior vita, ne aveva preso il posto e le mansioni. Solitario, sulla cinquantina, in paese di lui si sapeva poco o niente. La gente del posto lo considerava però un buon diavolo e a San Giustino tutti gli volevano bene, perché era sempre disposto ad aiutare il prossimo.
Sala rientrò in casa per un attimo, il tempo di mettersi qualcosa addosso: una camicia, il cappotto e – dopo aver rimesso al suo posto la lunga, cadente e solitaria ciocca di capelli con un gesto abituale – il cappello nero a larghe tese in testa. Poi afferrò l’ombrello e, presa Rosetta sottobraccio, scese con lei le scale e si incamminò a o svelto verso il centro del paese.
La ripida discesa che portava dal casale alla piazza principale del borgo, quella della chiesa di San Cristoforo, era una stradina stretta, che si snodava sinuosamente fra i vecchi e ordinati muri delle case. Colorata e luminosa nella stagione estiva, assumeva durante l’inverno un aspetto un po’ spettrale. Con la pioggia, poi, gli ampi e bassi gradoni, formati da piccole pietre tondeggianti levigate dal tempo, si facevano pericolosamente scivolosi, rendendo difficile la discesa. Rosetta e il commissario camminavano tenendosi stretti sotto l’ombrello e zigzagando qua e là per evitare le buche e le sporgenze del selciato. Sembravano, a tratti, una coppia di abili ballerini di tango, soprattutto quando, per evitare i piccoli intralci, cambiavano all’unisono e repentinamente la direzione di marcia, per riprenderla un istante dopo aver evitato l’ostacolo. Quando arrivarono sulla piazza, videro un capannello di gente fermo davanti al portoncino socchiuso che, attraverso il vecchio muro di cinta, conduceva all’orto della chiesa. Due carabinieri di guardia impedivano ai curiosi di sbirciare all’interno. Sala lasciò di colpo il braccio di Rosetta, le affidò l’ombrello e, incurante della pioggia che continuava a cadere senza sosta, alzando il bavero del cappotto, si diresse velocemente verso i piantoni. I due non appena lo riconobbero lo salutarono con la mano al berretto, spostandosi per farlo are. In paese tutti avevano una grande opinione di Sala e gli stessi carabinieri non avevano mai smesso di chiamarlo “commissario” in segno di rispetto. Giunto di fronte alla porta, Sala piegò la testa in avanti per poter are sotto lo stipite e, scavalcando il gradino d’ingresso, entrò.
2
Don Luigi, il parroco del paese, era un tipo alto, magro, dalle spalle strette e spioventi. Il viso scarno, in cui spiccava il naso aquilino, era incorniciato dai radi capelli che spuntavano dalla berretta. Stava in fondo al piccolo orto, dritto, immobile, con la testa china in avanti e le mani giunte serrate al petto. Accanto a lui, il maresciallo Garofalo, che comandava il presidio dell’Arma di San Giustino. Camminando lungo il piccolo viottolo che costeggiava il muro, Sala si diresse verso di loro. Dopo aver risposto con un cenno al saluto del maresciallo, si avvicinò al prete, gli mise una mano sulla spalla e guardò in basso. La scena che aveva davanti agli occhi era orribile, tanto da turbare anche un poliziotto – anzi un ex poliziotto – come lui, che aveva ato quaranta dei suoi sessantatré anni a caccia di delinquenti e assassini. Ai suoi piedi, per terra, in una profonda buca che andava restringendosi verso il centro, come un grosso imbuto, c’era un uomo conficcato a testa in giù. Indossava un paio di pantaloni scuri che, a causa della posizione del corpo, erano scivolati verso il basso, lasciando scoperti i polpacci. Ai piedi, un paio di scarpe di cuoio nero, sporche di melma. Le gambe erano l’unica parte visibile dell’uomo: il fango sembrava aver inghiottito il resto. “Cristo santo!”, esclamò Sala mentre, bagnato dalla testa ai piedi e irrigidito dal freddo, osservava la scena che aveva davanti. Poi, con una punta di inaspettata freddezza, quasi a sdrammatizzare la situazione aggiunse: “Quel che è certo, è che non si tratta di un suicidio!”. “Già!”, rispose Garofalo. “Lei che ne pensa, maresciallo?”, continuò Sala. “Non ne ho la più pallida idea! Potrebbe essere scivolato, che ne dice? Forse è inciampato, o ha avuto un malore, oppure qualcuno lo ha spinto a forza nella
buca. È presto per tirare delle conclusioni. Sarà meglio aspettare il responso dei colleghi della scientifica e il parere del medico legale”. “Ha già informato il sostituto procuratore?”, chiese il commissario. “No, ancora no. Siamo appena arrivati e prima di chiamarlo volevo farmi un’idea di quello che è successo”. “Certo, è naturale. Ma ora sarà meglio che lo informi. Prima arriva il magistrato, prima sarà possibile togliere questo poveretto dalla buca”. Il maresciallo annuì e ordinò al brigadiere di telefonare alla Procura della Repubblica e di argli il giudice. Subito dopo aver parlato col magistrato, telefonò in città, al Comando di Compagnia, per richiedere l’intervento della Scientifica. Dopo aver parlato con i superiori, impartì alcuni ordini ai suoi uomini e si diresse verso don Luigi. “Mi scusi, padre, ma dovrei farle alcune domande. Lei capisce… in questi casi è la prassi”. Il parroco annuì in silenzio e si avviò, seguito dal maresciallo e da Sala, verso la sacrestia. I mobili della piccola stanza, due panche addossate al muro, un grosso armadio di legno scuro, nel quale erano riposti i camici, le casule e i piviali, un piccolo tavolo e alcune vecchie sedie impagliate sparse qua e là, ingombravano il poco spazio disponibile. Giunto all’interno, il maresciallo fece sedere don Luigi e, dopo essersi assicurato che stesse bene, iniziò a interrogarlo. “Don Luigi, ha scoperto lei il cadavere?”. “Sì, l’ho trovato io questa mattina, verso le sette, minuto più, minuto meno. Avevo appena finito di dir messa”. “Ed è sicuro che si tratti di Sante Querciaroli, detto Santino?… Glielo chiedo perché, al momento, tutto quello che abbiamo per l’identificazione sono i polpacci e…”. “Sì, purtroppo ne sono sicuro. Vede, maresciallo, tutte le mattine, alle cinque,
Santino veniva a svegliarmi, puntuale come un orologio svizzero… Sa, per la messa delle sei. Ma stamattina non si è fatto vedere, e io ho dovuto fare tutto di corsa per poter iniziare puntuale come sempre. Alla fine della funzione, l’ho cercato per dirgliene quattro e l’ho trovato proprio lì, dov’è ancora adesso. Signore Iddio! è stato terribile!”. Fece una piccola pausa, per l’emozione, e concluse dicendo: “Allora, sono corso a chiamarvi”. “Va bene, padre. Comunque fra poco arriveranno quelli della scientifica e, appena avranno eseguito i rilievi, potremo togliere il corpo da lì. A quel punto procederemo all’identificazione”. Il maresciallo si interruppe un momento, leggermente imbarazzato, poi continuò con le domande. “Quando l’ha visto l’ultima volta? Intendo dire da vivo, naturalmente”. “Ieri sera, verso le otto, subito dopo cena… Mi ha detto che usciva, ma che sarebbe rientrato presto”. “La porta dell’orto era aperta questa mattina, oppure l’ha aperta lei?”. “Era aperta. Santino stava facendo quella buca perché voleva piantare un ulivo. L’albero è ancora là, appoggiato al muro di cinta, e naturalmente ha dovuto farlo are da fuori, non poteva certo portarlo attraverso la chiesa!”. “Mi rendo conto di quanto siano spiacevoli le mie domande per lei, in questo momento, ma purtroppo non posso evitare di farle. Se la sente di continuare?”. “Non si preoccupi, maresciallo”, rispose il sacerdote, “io sto bene, grazie a Dio, quindi continui pure. Cercherò di darle tutte le informazioni che le servono”. “Oltre al fatto che stamattina Santino non è ato a svegliarla, ci sono altri elementi che le permettono di affermare che si tratta proprio di lui?”. “Certo. Ieri ha ato tutto il pomeriggio a darsi da fare intorno a quella buca. Là fuori, appoggiati al muro, ci sono ancora i suoi attrezzi, e Santino non permetteva a nessuno di usarli, era molto geloso delle sue cose. E poi solo lui e io avevamo le chiavi della porta dell’orto”.
“Già!”, esclamò Garofalo. “E io ho constatato che sul lato esterno della porta non ci sono segni di effrazione”. “E poi”, proseguì don Luigi, concludendo la frase del maresciallo, “attaccata al lucchetto aperto c’è ancora la chiave di Santino. L’ho riconosciuta dal ciondolo e dalle altre chiavi del mazzo”. “Negli ultimi giorni non ha notato niente di strano, magari qualche sconosciuto che girava intorno alla chiesa?”. “No, non mi sembra. C’era solo una coppia di giovani extracomunitari. Da qualche giorno si fermavano qui, al tramonto, e si sedevano sui gradini del sagrato. Ma è povera gente che tira avanti come può, vendendo cianfrusaglie. Anche a Santino facevano comione, e più di una volta ha comprato qualcosa da loro per aiutarli”. “Un’ultima cosa, padre. Santino si allontanava spesso dalla chiesa o dalla canonica per andare a trovare un amico, o un conoscente?”. “No, era difficile che Santino abbandonasse il suo posto, a meno che non ci fossi io a dargli il cambio. Aveva una specie di ossessione: non voleva che la chiesa restasse incustodita, neanche per pochi minuti. E, purtroppo per lui, con tutti i miei impegni, non era facile che riuscisse ad allontanarsi. E poi, a dire il vero, non gli ho mai chiesto dove andasse o chi vedesse. Del resto non mi ha mai dato motivo di preoccupazione e mi fidavo completamente di lui. So che ogni tanto andava da Romolo, alla serra, per comprare le piante e le sementi per l’orto, ma anche per far due chiacchiere, credo”. Sala, che fino a quel momento era stato seduto in silenzio, ad ascoltare, si alzò. “Io vado, maresciallo. Per il momento non credo di potermi rendere utile, ma per qualsiasi cosa, conti pure su di me e non esiti a chiamarmi”. “Arrivederci commissario. Non si preoccupi, la terrò informata”. Il commissario salutò don Luigi e si stava già allontanando, quando si fermò all’improvviso e gli chiese: “A proposito, di chi sono quegli stivali?”. “Sono… erano di Santino”.
Sala aveva l’impressione di aver un po’ invaso il campo di Garofalo. In fondo, lui era un poliziotto, per di più in pensione, e non aveva nessun titolo per intromettersi nelle indagini e ascoltare un interrogatorio formale. E poi, era ormai un luogo comune che fra carabinieri e polizia, a parte i buoni rapporti personali, non corresse buon sangue. Forse il maresciallo avrebbe dovuto o voluto dirgli di farsi gli affari suoi, ma aveva temuto di offenderlo. Oppure queste erano solo idee sue, e magari Garofalo era ben contento della sua partecipazione: anzi avrebbe voluto che fosse il più possibile attiva, anche se non ufficiale. E questo, doveva ammetterlo, gli avrebbe fatto piacere. In fondo il maresciallo era giovane, sui trentacinque anni, e non aveva mai prestato servizio nelle grandi città; quindi non poteva essersi fatto una grande esperienza in materia di omicidi. Già, omicidi. Perché di questo si trattava. Lui, invece, di esperienza ne aveva fin troppa. Aveva dovuto osservare e studiare cadaveri di uomini e donne, di adolescenti, a volte addirittura di bambini. Alcuni erano colpevoli uccisi per vendetta da chi non credeva nella legge; altri, invece, poveri innocenti… aveva risolto tanti di quei casi complicati. E anche questa volta, gli erano bastati due piccoli indizi, due particolari osservati subito, per rendersi conto che si trovavano di fronte a un delitto in piena regola. Aveva notato subito che le mani della vittima uscivano dal fango all’altezza delle ginocchia. Non era possibile, quindi, che Santino fosse caduto accidentalmente nella buca, perché la prima reazione di una persona che cade è quella di protendere le braccia in avanti per proteggersi. In questo caso le braccia della vittima avrebbero dovuto trovarsi vicino alla testa e non distese lungo i fianchi. Le scarpe indossate dal sacrestano gli avevano dato la certezza che non si trattasse di un incidente. Ormai pioveva da giorni, ed era perlomeno strano che Santino avesse deciso di usare le scarpe, invece degli stivali visti in sacrestia, per andare a lavorare nell’orto, con il terreno che sprofondava sotto i piedi. Anche ammesso, poi, che avesse deciso di finire la sua buca di sera, al buio o, al massimo, alla luce di una lampada. Decise di tenere per sé le sue conclusioni, certo che anche Garofalo ci sarebbe arrivato rapidamente, una volta letti i risultati dei rilievi scientifici e delle analisi. Non voleva fargli un dispetto, ma sapeva per esperienza che, in certi casi, è meglio lasciare che le cose seguano il loro corso prima di intromettersi. Ogni tanto aveva l’impressione di essere come i vecchi, bravi medici di una
volta, che erano capaci di riconoscere le malattie e di fare una diagnosi precisa dopo una visita… non come quelli moderni, che prima di esprimere un parere sottopongono il paziente a decine di analisi e visite specialistiche. Ma forse si sbagliava: forse Garofalo aveva già capito tutto e, come lui, non aveva detto niente.
Aveva smesso di piovere, e la gente continuava a radunarsi davanti alla porta dell’orto. Appena Sala uscì, parecchie persone gli andarono incontro e cominciarono a fargli una domanda dopo l’altra. Ma lui era abituato anche a questo. Mantenne quindi il riserbo di prassi in quei casi e, con voce ferma e tranquilla, rispose a tutti: “Non ho niente da dire che possa interessarvi. Se ne stanno occupando i carabinieri. Io, come sapete, sono fuori gioco e per la legge sono tornato a essere un cittadino qualsiasi. Tornate a casa vostra, che è meglio”. Poi, scuotendo la testa, si allontanò frettolosamente. Mentre si dirigeva dalla piazza alla stradina che lo avrebbe portato a casa, sentì il suono delle sirene e, voltandosi, vide arrivare una fila di automobili. C’era quella blu del sostituto procuratore, il carro della misericordia, un furgone dei carabinieri insieme a una gazzella e, per ultima, una piccola utilitaria bianca. La riconobbe subito, era quella del Gazzettino Ligure, dalla quale scesero affannati un reporter e il capo redattore, Luca Carapelli. “Commissario! Commissario!”. Era di nuovo Rosetta. “L’ombrello, commissario! L’ombrello!”. Gli si avvicinò, porgendoglielo. Mentre lo prendeva, vide che la donna lo guardava come aspettandosi qualcosa da lui. Probabilmente notizie, impressioni, dettagli: insomma tutto quello che la potesse rendere popolare con le comari del paese, pensò Sala. Certo, era naturale che Rosetta sperasse in qualche sua rivelazione, in fondo era stata lei ad andare di corsa in cima al borgo per avvertirlo. Ma il commissario non aveva intenzione di dire niente. Fece una smorfia che voleva essere un sorriso e disse: “Grazie Rosetta, ma ora vai a casa. Oggi è davvero una brutta giornata, e io ho la
testa confusa e nessun commento da fare. Scusami”.
Il cielo era pieno di gabbiani che, disegnando grandi cerchi concentrici, planavano verso il mare. Aspettavano, come impazziti, il rientro dei pescherecci per poter mangiare gli scarti del pesce buttati in acqua dai pescatori. Le loro strida lo accompagnavano mentre, aiutandosi con l’ombrello che utilizzava come un bastone, arrancava lentamente e a fatica su per il carruggio che lo portava a casa. Arrivato alla porta d’ingresso quasi senza fiato, si disse con poca convinzione: “Prima o poi dovrò mettermi a dieta. Ultimamente mi sono lasciato andare un po’ troppo ai piaceri della tavola”.
3
Dalla finestra del suo studio, rotolando con lo sguardo sulle cime degli alberi e scendendo in basso, fino al punto in cui il mare aggrediva la riva, ammirava le grosse onde abbattersi impetuose sulla scogliera. Il libeccio portava fino a lui, fischiando, l’odore di salmastro, di alghe e di pini. Di fronte a spettacoli simili, che lo commuovevano per la loro bellezza, la ione per la poesia si faceva sentire con forza, suscitandogli il bisogno irrefrenabile di scrivere, di trasformare in versi le emozioni provate. Le poesie che creava erano solo per lui, e mai, neanche una volta, ne aveva fatto cenno a qualcuno. Il suo unico vezzo era quello di riunirle tutte in un vecchio raccoglitore, che teneva nella libreria, accanto ai volumi degli autori più amati: Montale, Verlaine, Pascoli, Leopardi, Shelley e pochi altri. C’era stata, però, un’unica eccezione. Proprio durante un giorno invernale come quello che stava vivendo, seduto in poltrona davanti alla finestra con lo sguardo rapito dal mare e dal movimento delle onde, il commissario – quello che alcuni ritenevano solo un arido ex funzionario dello Stato – si trovò a scrivere una piccola cosa che lo aveva fatto sentire, per un attimo, vicino agli spiriti che erano riusciti a trasmettere agli altri, grazie alla loro arte, emozioni, pensieri e sensazioni con i loro versi. La poesia parlava di una valle e dei suoi abitanti, del posto in cui era nata la nonna materna e in cui da bambino ava le vacanze, d’estate, quando la scuola era chiusa. Lui, era molto affezionato a quei ricordi, a quei luoghi, a quei paesaggi, che lo avevano accompagnato durante la sua fanciullezza. La poesia recitava così:
VALLIGIANI Nella valle dei semplici,
la storia si è fermata. Pensieri pesanti come massi. Anime carnali brunite dal sole. Laggiù nella profonda valle, un fiore, un legno, un pozzo ed una rotaia, testimoni incolpevoli, di un tempo rapito.
Scritti i versi, aveva deciso di incorniciarli a giorno e di appenderli, con un piccolo chiodo, sopra il bianco arco in muratura che sovrastava la finestra del mare. Riscossosi all’improvviso dal suo stato di contemplazione, si accorse che era ormai ora di pranzo. Non sentiva, però, gli abituali e irriverenti stimoli che a quell’ora, di solito, lo portavano in cucina. Rimase quindi seduto in poltrona, a riflettere. Con lo sguardo perso nel vuoto, sfogliava con la mente, uno dopo l’altro, i documenti contenuti nelle cartelle del suo archivio, giù in città, nel vecchio ufficio della questura. Cercava di ricordare, di ritrovare nella memoria elementi, indizi, particolari che fossero vicini al caso del sacrestano e lo aiutassero a capire perché. Perché qualcuno aveva deciso di uccidere Santino? E perché in quel modo? Cercava un precedente che lo aiutasse a capire quale potesse essere la personalità dell’assassino e gli consentisse di individuarlo, per assicurarlo alla giustizia. Cercava, anche, l’elemento fondamentale per risalire al colpevole: un movente. Vendetta, interesse, gelosia… o forse Santino era solo un testimone scomodo? Una di quelle ipotesi nascondeva, probabilmente, il motivo che aveva scatenato la furia omicida.
Alzatosi dalla poltrona, si diresse in bagno, riempì la vasca fino all’orlo e si mise a mollo nell’acqua calda, dove rimase, immobile, per molto tempo. Fuori, intanto, aveva ripreso a piovere e il vento, sempre più forte, si
trasformava, entrando in casa dalle fessure delle finestre, in mille piccoli spifferi. Il giorno dopo, e quello successivo, restò in casa, senza uscire neppure per i funerali di Santino. Solo nel primo pomeriggio di martedì decise di fare un salto giù in paese. Probabilmente sarebbe rimasto in casa anche quel giorno, se non avesse ceduto alla impellente e quasi fisiologica necessità di sapere se vi fossero novità di rilievo nelle indagini. Da quando era andato in pensione, tre anni prima, non era mai successo niente di particolarmente interessante in paese. Forse per questo aveva pensato di essersi lasciato alle spalle il suo lavoro. Adesso si accorgeva, invece, di non riuscire a tenersi lontano dal caso e a mantenere il distacco che la sua posizione, ormai, richiedeva. Arrivato in piazza, si diresse verso il caffè. Gli avventori presenti, quando entrò, giocavano a tresette e, com’è di prassi in quel gioco, sottolineavano il busso forte e il volo, battendo energicamente il pugno chiuso sul tavolo un attimo prima di calare la carta. Il televisore , che faceva da sottofondo al parlottio dei giocatori, creava una gran confusione nel locale. Sala si avvicinò al banco e ordinò un marsala. “Giovanni, il solito” disse, rivolgendosi al barista. Ma lui non sentì: troppo rumore, e poi stava guardando la tivù, mollemente appoggiato al bancone. Sala, alzando il tono della voce, riprovò: “Giovanni… per favore, il solito”. “Subito, commissario. Mi scusi, ma non l’avevo vista entrare. La servo al tavolo?”. “No, grazie Giovanni. Lo bevo qui, al banco”. “Allora, commissario!… Cosa pensa di quello che è successo?”.
“Non so proprio cosa pensare. Sono giorni che non esco di casa e sono venuto qui, dove di solito si sa sempre tutto di tutti, proprio per sapere se ci sono novità”, rispose Sala. “Ma come, commissario? Va bene che è a riposo, ma si tratta pur sempre del suo campo!”. “Fino a qualche anno fa, sicuramente. Ma adesso non più, altrimenti perché sarei andato in pensione?”, disse con un sorriso lievemente sarcastico. “L’unica cosa che so, e guardi che la so perché l’ho letta sul giornale, è che si tratta di omicidio. Ma questo lei di sicuro lo sapeva già!”, replicò Giovanni, mentre con un canovaccio strofinava energicamente il bancone, come se solo allora si fosse accorto dei molti segni lasciati dai bicchieri. “Già, omicidio!… Sì, questo, a dir la verità, me l’aspettavo”. “Ha visto che avevo ragione? In pensione o no, lei le cose riesce sempre a saperle prima degli altri, anche standosene a casa”. “Ho detto che me l’aspettavo, non che lo sapevo. Non stai mai attento tu, quando ti parlo”, concluse Sala col solito sorriso, prima di chiedere il conto. “Offre la ditta, commissario”. “No, grazie. Facciamo un’altra volta. Magari in un’occasione migliore”, rispose Sala e, dopo aver lasciato sul bancone più del dovuto per il marsala, si avviò verso la porta. “Ah, commissario… per le notizie fresche, la prossima volta, vada da Valeria, la parrucchiera che sta accanto alla chiesa”, disse Giovanni ad alta voce, per farsi sentire anche in mezzo a quel frastuono, un po’ indispettito perché gli avevano appena dato, nemmeno tanto velatamente, del pettegolo. “Non mancherò”, rispose Sala; e uscì. Una volta sulla piazza, accese un sigaro e guardò il cielo. Sembrava che non dovesse ricominciare a piovere. Si sistemò il cappello, tirò su il bavero del cappotto e attraversò la piazza. La stazione dei carabinieri era a due i, in via del Sale, in fondo alla stradina che costeggiava il municipio.
Quando entrò, il maresciallo stava parlando con il piantone all’ingresso. Appena lo vide, però, gli andò incontro tendendogli la mano e lo invitò nel suo ufficio. “Si accomodi, commissario”. “Grazie. Spero di non disturbarla”. “Ma quando mai! Anzi, è un vero piacere vederla qui”. L’ufficio del maresciallo era molto ordinato ma, come tutti gli uffici dello Stato, arredato in modo molto spartano, con dei mobili in lamierino e formica che sembravano tenersi in piedi solo grazie alla volenterosa collaborazione dei chiodi e delle pareti. Dietro la poltrona, fissati al muro in una lunga fila, i famosi calendari dell’Arma, sovrapposti in modo ordinato, un anno dopo l’altro. “Allora, maresciallo… può dirmi qualcosa di nuovo sul delitto?”. “Posso dirle quello che so. Non è il caso di essere formali, Sala”. E intanto giocherellava con una statuina di metallo, un carabiniere in alta uniforme, utilizzato come fermacarte. Poi continuò: “In fondo siamo stati per anni sulla stessa barca, anche se avevamo gradi diversi e lei era nella polizia. Quelli come noi, secondo me, possono andare in pensione per modo di dire, perché con la testa continuano a ragionare come prima”. “Ha proprio ragione. Il nostro mestiere si può fare solo per ione, è un po’ una questione di cuore, e la ione, quella vera, in pensione non ci va!”, rispose Sala, vergognandosi come un ladro per quelle frasi fatte, che aveva pronunciato senza pensarle, solo per compiacere Garofalo. “Ha detto bene, commissario! Ma ora veniamo ai fatti”. “La ascolto”. “Purtroppo non abbiamo testimoni oculari o, se ci sono, finora non si sono fatti vivi. Le persone che abbiamo interrogato non ci hanno dato nessuna traccia, nessun indizio che possa essere utile alle indagini. Abbiamo anche filmato il funerale, ma non è venuto fuori niente”.
“E l’autopsia? Anche quella non ha dato risultati?”. Garofalo gli si fece più vicino e abbassò il tono della voce, quasi avesse paura che qualcun altro lo sentisse. “Sala, quello che le dico non deve in nessun modo uscire da questo ufficio, non una parola. Non potrei dirle niente, anche tenendo conto della sua posizione, quindi…”. “Sarò una tomba, maresciallo, stia tranquillo”. “So che capisce, ma…” “Le assicuro che può fidarsi, e adesso vada avanti, la prego”. “Mi sono raccomandato”, continuò Garofalo, “perché, in effetti, una novità c’è. L’esame autoptico ha rilevato la presenza di un consistente ematoma alla base del cranio, con una leggera fuoriuscita di sangue. Ma Santino non è morto per questo. L'anatomopatologo ha rilevato anche tracce di acqua e fango nei polmoni. Questo fa pensare che la vittima fosse solo priva di sensi, ma ancora viva, quando è stata infilata nella buca”. Mentre parlava, il maresciallo aveva aperto un cassetto della sua scrivania, nella speranza di trovare le sigarette. “Commissario, lei fuma sempre i sigari, vero?”, chiese senza convinzione, conoscendo già la risposta. “Certo, maresciallo! Ne vuole uno?”. “Per carità! Speravo che si fosse convertito alle sigarette”. “Mi spiace per lei, ma continuo a preferire i miei toscani. Davvero non vuole provarne uno?”. “No, no. Lasciamo perdere. Piuttosto, dov’ero arrivato?”. “Alla botta in testa”. “Ah, sì!… Dunque, il colpo che lo ha stordito gli è stato inferto, almeno a quanto
dice il medico legale, con un oggetto di forma tondeggiante che però non abbiamo trovato sul posto. Non abbiamo nemmeno trovato impronte che possano servire. Con la pioggia che c’era, anche quelle rilevate sul terreno sono troppe e risultano confuse, inutilizzabili. “Già, e poi chissà quante ne avete lasciate, tu e don Luigi”, stava per dire Sala, ma si fermò in tempo. Si ricordava infatti che la scena del crimine, come la chiamavano nei film americani, non era stata isolata e protetta fino all’arrivo della scientifica, come invece prevedeva la normale procedura in questi casi. “E a che ora risale la morte, secondo il medico legale?”, domandò. “Il Querciaroli dovrebbe esser morto fra le ventitré di venerdì e l’una di sabato”, rispose Garofalo. “E che ci faceva Santino nell’orto a quell’ora?”. “Ecco! È proprio quello che non sappiamo. Ma forse con un po’ di fortuna, fra non molto, avremo una risposta”. “Avete qualche sospetto?”. “A dir la verità sì. Stiamo cercando i due extracomunitari di cui ha parlato don Luigi quando è stato interrogato. E poi anche un balordo, che alcuni testimoni hanno visto aggirarsi intorno alla chiesa negli ultimi giorni”. “E sapete già chi è? È già stato individuato?”. “Per ora no. Ma al Comando di Compagnia sono ottimisti. Siamo riusciti a fare un buon identikit e pensiamo che fra non molto riusciremo a trovarlo per interrogarlo”. “Molto bene”, disse Sala. “Probabilmente siete sulla strada giusta. Vi auguro di prenderlo o prenderli presto. Sa, maresciallo, sono preoccupato per la gente di qui. Non è piacevole pensare che per le strade del paese potrebbe aggirarsi un assassino”. “Ha ragione, commissario. Ma vedrà che fra non molto riusciremo ad assicurare alla giustizia il o i responsabili della morte del Querciaroli”. Mentre parlavano, erano usciti dall’ufficio e avevano raggiunto l’ingresso
principale. Prima di stringergli nuovamente la mano, Garofalo assicurò Sala che gli avrebbe comunicato i nuovi sviluppi delle indagini.
Non avrebbe saputo spiegare per quale motivo, neppure per un istante, aveva preso in considerazione i due extracomunitari come autori del delitto, e ancor meno il balordo di cui gli aveva appena parlato il maresciallo. Forse proprio perché era troppo semplice sospettare di loro. Il suo intuito gli diceva, invece, che qualcun altro, con un movente preciso, doveva aver commesso l’omicidio, anche se non c’erano ancora elementi concreti che giustificassero la sua convinzione. Le modalità di esecuzione del delitto, infatti, lo portavano a escludere che fosse premeditato. Sapeva per esperienza che se qualcuno vuole davvero uccidere non si serve di un corpo contundente trovato per caso: si procura invece un’arma efficace, che gli faccia ottenere in fretta lo scopo, senza il pericolo di lasciare ancora in vita la vittima dopo il primo colpo.
4
Quando arrivò alla piazza, vide un gruppo di bambini che, urlando, giocavano a rincorrersi. Rimase un po’ a osservarli e a seguirne i movimenti, sorridendo. Anche lui, da piccolo, faceva gli stessi giochi nell’aia di una piccola fattoria, persa nella campagna. Lui e i suoi amici dovevano conquistarsi ogni giorno il tempo e lo spazio per giocare fra animali, carri e covoni. Sentiva ancora le voci di suo padre e di suo nonno che gridavano “Guido e tutti gli altri… toglietevi di lì. Spostatevi, che lì date fastidio”, oppure “Guido, smettila di giocare! Aiuta tua madre a caricare la ´cuffa`!”. Gli uomini e le donne della fattoria, intanto, si davano da fare a inforcare il fieno, a lavare le botti e a setacciare il grano. Gli tornava in mente anche la vecchia Adele, che tutti i giorni spezzava in due i lunghi pomeriggi, chiamandolo per offrirgli delle fette di pane spruzzate con olio e sale. Forse era la fame, ma lui le aveva sempre trovate buonissime… Be’, quella che aveva davanti non era un’aia e adesso i bambini mangiavano quelle terribili merendine confezionate, ma il gioco era lo stesso e il divertimento pure. Dopo essersi soffermato a guardare i piccoli, si avviò verso il tabaccaio, dove comprava abitualmente i suoi toscani. Quel giorno prese anche delle caramelle, che appena uscito distribuì ai bambini, accarezzandone qualcuno sulla testa. Poi si diresse verso la chiesa. Prima di riuscire a entrare, dovette togliersi e rimettersi il cappello in testa molte volte, per riverire tutte le signore che uscivano, a coppie, dalla messa. Entrando dall’ingresso principale, vide subito il quadro di Joos Van Cleve, un pittore fiammingo poco noto ai più, ma molto apprezzato da critici d’arte e collezionisti. Ogni volta che vedeva il dipinto, non poteva fare a meno di fermarsi ad ammirarlo. Anche in quel momento, nonostante fosse entrato in chiesa per parlare con don Luigi, si era bloccato di fronte alla Madonna ritratta dall’artista e si era seduto a contemplarne il volto e la posa gentile ed elegante, nei quali scopriva, ogni volta, nuovi particolari. In fondo, si disse, non c’era nessuna fretta, lui non aveva nessun incarico, quindi poteva tranquillamente concedersi quella gradevole pausa. Potersi fermare e far are il tempo
pigramente, senza doversi affrettare, era uno dei pochi privilegi della pensione. Non che prima, quando ancora lavorava, le sue azioni fossero caratterizzate dalla rapidità. Anche allora preferiva fermarsi a pensare, perché era convinto che le cose, specie quelle serie e importanti, andassero affrontate con calma e non prese di petto. Stava ancora seduto a lato dell’altare centrale, immobile a fissare la tela, quando sentì una voce alle sue spalle. Era Luca Carapelli, il capo redattore del Gazzettino Ligure, una sua vecchia conoscenza, che disse: “Allora, commissario Sala, non vorrà mica farmi credere di essere diventato un esperto d’arte o, addirittura, un devoto della Madonna!”. “Carapelli, per favore, non parli di cose di cui lei, da sempre, ignora la grandezza!”. “Andiamo, commissario! Non pretenderà davvero di convincermi che una vecchia volpe come lei riesce a tenersi fuori da un caso del genere, con un morto ammazzato a due i da casa?”. Il giornalista, nel frattempo, si era appoggiato con i gomiti allo schienale della panca, abbandonando il viso sulle palme delle mani, in attesa di una risposta. “Certo Carapelli che lei non cambia mai! Ancora una volta si aspetta che le dia lo spunto per un articolo e cerca di convincermi a parlare con la storia della vecchia volpe. Per come la vedo io, qui di vecchio c’è solo il suo modo di fare! E poi, non sono uno che sparge notizie in giro, questo ormai dovrebbe averlo imparato. Comunque, che ci creda o no, io non so niente”. “La smetta, commissario…. In fondo io ho sempre cercato di collaborare con la giustizia, e soprattutto con lei. Ci siamo sempre ati le notizie nel pieno rispetto delle regole, o lo ha dimenticato? Perché in questo caso dovrebbe essere diverso?”. Sala si girò per fissarlo cupamente negli occhi. A quel punto Carapelli, con un sorriso divertito, gli sussurrò piano all’orecchio: “Lei sa già che Santino Querciaroli aveva una sorella, non è vero?”. Il commissario rimase interdetto e Carapelli, strizzandogli l’occhio, gli batté
affettuosamente una mano sulla spalla, prima di indicargli, con un cenno del mento, una donna con una piccola valigia in mano che stava uscendo dalla porta della sacrestia. “Come, una sorella?”, esclamò Sala, senza riuscire a trattenere la sorpresa. E intanto pensava che tutti, in paese, erano convinti che Santino fosse rimasto solo al mondo, dopo aver perso entrambi i genitori alcuni anni prima. “Be’, dal momento che Santino e la donna che sta uscendo adesso dalla chiesa sono figli degli stessi genitori, lei cosa ne deduce?”, rispose il giornalista con quel suo sorriso stampato sulla faccia. “Comunque, anche se devo ammettere di essere sorpreso, la cosa mi pare del tutto ininfluente”, replicò Sala. “Può darsi, come no, commissario. Ma vede, lei sa meglio di me che, a volte, le eredità di un certo peso possono rendere problematici anche i rapporti di stretta parentela”. “Di quale eredità sta parlando?”. “Di quella avuta da Santino qualche tempo fa, dopo la morte di un suo vecchio zio. Ma sono sicuro che la cosa non le interessa, visto che ormai lei si è ritirato”. Per qualche istante, Sala rimase immobile a pensare. Si riscosse solo mentre l’altro, un attimo prima di allontanarsi, gli diceva:”Arrivederci, commissario. Stia bene, mi raccomando! E soprattutto continui a darsi da fare con le sue ricette! Anzi, quando ne avrà messe insieme un buon numero, me lo faccia sapere, così la aiuterò a pubblicare un libro di cucina. Io conosco molti editori… sa, con il lavoro che faccio”. Sala accusò il colpo e, le labbra serrate e la testa in avanti, lo seguì sino al portone con lo sguardo. Poi decise di andare dietro alla vistosa signora che, nel frattempo, stava già attraversando il sagrato. Allungò quindi il o e, dopo averla raggiunta, si tolse, per salutarla, il cappello che si era appena rimesso in testa. “Mi scusi, signora… Potrei parlarle un momento? Mi chiamo Guido Sala, e sono
un ex commissario di polizia. Conoscevo Santino e volevo, se è possibile, farle qualche domanda”. La donna, sulla quarantina, era bella, anche se un po’ troppo appariscente. Di corporatura snella, con i capelli biondi tagliati a caschetto, indossava un vestito rosso aderente e stretto in vita da una cintura nera e lucida. Anche le scarpe erano nere, con dei tacchi vertiginosi che la facevano arrivare all’altezza di lui, molto più alto di lei. “E lei come fa a sapere che io sono la sorella?”, chiese. “Potrei dirle che ho notato la somiglianza… ma temo che non ci crederebbe. Diciamo, invece, che l’ho saputo da un mio ex collega che si occupa del caso”. “Mi scusi, ma non mi ha appena detto di essere un ex commissario di polizia?”. “Infatti, è quello che ho detto”. “Strano. Ero convinta che fossero i carabinieri ad occuparsi delle indagini”. “Be’… in effetti è vero. Ma collaboriamo tutti al caso”. “Anche i poliziotti in pensione?”, chiese la donna con un sorriso ironico. “No, quelli no”, rispose Sala un po’ imbarazzato. “Ma io mi riferivo al mio ex collega”. “Ah!… Capisco. Comunque, mi dica di che si tratta, perché ho una certa fretta”. Il commissario avrebbe voluto entrare subito in argomento, per accertare quanto gli aveva raccontato Carapelli, ma sapeva di non poter pretendere niente, quindi iniziò con circospezione. “Niente di particolare… mi piacerebbe solo avere più notizie sulla vita privata di suo fratello. Sa, potrebbero essere molto utili alla soluzione del caso”. “Senta, signor…?”. “Sala, Guido Sala”. Sbuffando, la donna posò a terra la valigia e disse:
“Signor Sala, ho già detto quel poco che sapevo ai carabinieri”. “Hai capito, il buon Garofalo!”, si lasciò sfuggire lui. “Come, scusi?”. “No, niente, stavo pensando ad alta voce”. “Anche volendo, c’è poco da dire. Con i carabinieri ho fatto in un momento. Della vita privata di mio fratello sapevo poco, da quando, anni fa, si era trasferito qui in canonica, dal prete. Non ho più avuto occasione di vederlo, neanche per le feste… quelle importanti, intendo. Lui aveva deciso così, e la cosa stava bene anche a me. Se ora vuole scusarmi…”. “Ancora un momento, per favore! Non mi ha neanche detto il suo nome…”. “Ah, già. Mi scusi. Mi chiamo Maria, Maria Querciaroli”. “Bene, Signora Maria. Posso offrirle qualcosa al bar, prima che scappi?”. “Signorina, prego. E poi non è che scappo, semmai me ne vado. Comunque la ringrazio, ma devo proprio andare. Tra meno di mezz’ora ho il treno e non vorrei perderlo. Sarebbe un disastro, con tutto quello che ho da fare giù in città, stasera”. “Se accetta di bere qualcosa con me al bar, potrei accompagnarla io, in macchina, alla stazione”. “Mi par di capire che lei non è uno che molla facilmente… Non sarà che magari, con la scusa di mio fratello – pace all’anima sua – lei ci sta provando?… E magari salta fuori che non è neanche un ex poliziotto!”. Sala scoppiò a ridere. “Non so se offendermi o sentirmi lusingato, signorina. Devo ammettere che per un istante il pensiero mi ha sfiorato, ma alla fine il senso della misura e un po’ di salutare autocritica hanno bloccato l’idea sul nascere. Per il resto, può credermi: sono stato un commissario di polizia fino a tre anni fa”. “Va bene, va bene! Le credo”. Poi concluse: “Ma adesso devo davvero lasciarla
e la prego di non insistere ancora. Credo di averle già dedicato più tempo di quanto avrei dovuto, e sono sicura che capisce cosa voglio dire… Arrivederci”. “Arrivederci”, rispose Sala, sconsolato. E aggiunse, con un tono di voce un po’ più alto, per farsi sentire dalla donna mentre si allontanava: “Chissà, forse un giorno ci rincontreremo e in quell’occasione accetterà il mio invito”. Lei si voltò un momento e gli sorrise, facendogli cenno di aver capito. Poi tirò dritto e, senza più voltarsi, imboccò ancheggiando la lunga e stretta scalinata che dalla piazza portava in basso, verso la stazione di San Giustino. Il commissario aveva capito benissimo a cosa si riferiva la donna, quando aveva accennato al tempo dedicatogli. Non era facile, senza un tesserino che certificasse l’appartenenza alle forze dell’ordine, ottenere qualcosa da una persona, soprattutto se le notizie riguardavano la sua vita privata.
Stava per far buio e decise di rientrare. Doveva ancora are al piccolo negozio di alimentari della Silvana, che gli aveva promesso, qualche giorno prima, di procurargli un vasetto di acciughe di Monterosso e – se fosse riuscita a trovarla – anche una bottiglia di Sciacchetrà. Di quello buono, però, non come quello che prendevano i turisti quando compravano una bottiglia con l’etichetta che diceva “Vino liquoroso delle Cinque Terre”. Lo Sciacchetrà autentico era un vero nettare degli dei, simile al Vin Santo, ma più delicato e, purtroppo, molto più difficile da trovare. Si diceva che le poche bottiglie di quel vino, prodotto utilizzando solo particolari tipi di uve ite al sole, fossero tutte di monopolio dei preti della zona. In ogni caso, lui aveva messo già in fresco una bottiglia di Coronata, un ottimo vino da sorseggiare con le acciughe. Arrivato al negozio, la Silvana gli diede il vasetto, ma non la bottiglia. “Pazienza”, si disse, “la prossima volta avrò più fortuna”.
Uscito dalla bottega prese la strada per andare a casa. Camminando, ripensava alla “signorina Maria”. Non aveva notato nulla di strano nel suo comportamento
e men che meno in ciò che aveva detto. Se non fosse stato per la storia dell’eredità e per quella sua bellezza un po’ troppo appariscente, non ci avrebbe neppure rimuginato sopra, come invece stava facendo. Dopo aver riflettuto a lungo, ormai vicino alla scala di casa, decise che il giorno dopo avrebbe fatto quattro chiacchiere con don Luigi, come del resto voleva fare quel pomeriggio, e ne avrebbe approfittato per chiedergli, oltre a quello che già aveva in mente, anche notizie su Maria.
5
Si era alzato di buon’ora, per preparare il ripieno da mettere nei ravioli. Il soffritto rosolava nella padella e il suo profumo gradevole e appetitoso si diffondeva per tutta la casa. Era di buon umore, come sempre quando si occupava di cucina. Un bel pezzo di carne magra, pelati, ricotta, borragine e i diversi odori; una mano sapiente che tagliava, tritava e aggiungeva le spezie al momento giusto; un occhio vigile ed esperto che controllava la cottura. Ecco gli elementi che avrebbero garantito il sicuro successo del risultato finale. Quando stava in cucina, non voleva avere Rosetta fra i piedi, perché era sempre critica su quello che faceva e il suo atteggiamento lo infastidiva, soprattutto mentre era impegnato ai fornelli. Ogni volta che la situazione si riproponeva, e ciò avveniva spesso, la donna cominciava a brontolare e continuava per tutta la mattina, sapendo già che alla fine avrebbe dovuto ripulire la cucina da cima a fondo. Il commissario era bravissimo a intingolare, speziare, cucinare, ma non altrettanto a lavar piatti, tegami e padelle, e ancor meno a rimettere le cose al loro posto. Anche quel giorno Rosetta, che era andata lì per lavorare, aveva ricevuto il cortese ma fermo invito di tenersi alla larga. Quando ebbe portato a termine il suo piccolo capolavoro gastronomico, mise tutto in frigo e bevve velocemente una tazza di caffè. Subito dopo uscì e prese un piccolo viottolo, la scorciatoia che dal retro della casa lo portava giù in paese. Il piccolo sentiero scendeva costeggiando l’abitato. Sulla destra era delimitato da spiagge e vecchie mura, mentre a sinistra il terreno arrivava, ripido, fino al mare. Il rischio di inciampare e cadere nel vuoto era reale e lui stava molto attento a dove metteva i piedi. Di solito, quando arrivava in basso, provava un leggero senso di affaticamento agli occhi, perché lungo la strada era costretto a forzarli un po’, indirizzando lo sguardo ora a destra verso terra, per controllare dove poggiare i piedi per non inciampare, ora a sinistra, per guardare lo splendido panorama. Il tragitto valeva comunque la fatica, quando il tempo era buono e permetteva la discesa. Oltre allo splendido panorama, in primavera, con un po’ di
fortuna, si potevano ammirare le evoluzioni di un magnifico biancone che tutti gli anni, verso la fine di marzo, tornava a nidificare sulla parete della collina fra gli spuntoni di roccia a picco sul mare. Il nido era visibile solo da alcuni punti del viottolo, oppure dalle barche ancorate nella baia. Sala amava lo spettacolo della natura, e anche quando non c’era il falco a incantarlo, restava comunque ammaliato dal volo dei gabbiani e delle taccole. Giunto a pochi metri dalla viuzza che lo avrebbe portato nella piazza di San Cristoforo, dovette affrontare la scalinata che metteva in comunicazione le due stradine, e quella, per lui, rappresentava l’unica nota dolente del percorso.
Di fronte al caffè nel quale, di tanto in tanto, andava a bersi un marsalino, sul lato opposto della piazzetta, c’era il negozio di Teresa. Quando pensava a lei, anche solo al suo nome, veniva preso da strane sensazioni: lo stomaco gli si chiudeva, la pelle veniva scossa da piccoli brividi continui, il viso si infiammava di un calore diffuso e il cuore sembrava battesse più veloce… Provava, insomma, tutti i “sintomi” di chi è innamorato. Da quando era cominciata quella storia, aveva cercato mille volte di dichiararsi in modo esplicito, senza però mai riuscirci. Teresa sapeva benissimo quali fossero i sentimenti del commissario per lei – anche perché lui continuava ad andare al negozio, uscendone ogni volta dopo aver comprato qualsiasi cosa lei gli proponesse – ma le piaceva far finta di niente e, pur non nascondendo un certo interesse, si divertiva a prenderlo bonariamente in giro per la sua timidezza. Teresa, occhi celesti, di bell’aspetto, magra ma non troppo, era una bella donna di cinquantacinque anni, divorziata e con due figlie, Marta e sca. Marta, la maggiore, era sposata; sca invece viveva ancora con lei. Le ragazze si alternavano nel darle una mano in negozio: una merceria che, nel tempo, era diventata una specie di piccolo bazar, dove si poteva trovare un po’ di tutto, dall’abbigliamento alla pelletteria. La donna l’aveva comprata parecchi anni prima, subito dopo il divorzio. A Sala lo sguardo di Teresa ricordava un po’, vagamente, quello di Caterina, una creatura stupenda, sua inseparabile compagna di giochi, che gli aveva rubato il cuore quando lui aveva tredici anni. Aveva capelli biondi e lucenti, del colore delle pannocchie a inizio estate, raccolti in una lunga treccia, che finiva con un piccolo ciuffo stretto da un nastro di raso rosso. Aveva un sorriso dolcissimo e lo
sguardo puro e profondo come l’oceano. Sala si perdeva nei suoi grandi occhi azzurri, che gli sembravano due finestre aperte su uno splendido cielo limpido e senza fine. La fine, invece, arrivò. Non quella del sentimento che provava per lei e che gli avrebbe fatto sfidare il mondo intero, ma quella di Caterina, perché il Dio buono in cui credeva e che pregava, gliel’aveva portata via per sempre. Per quella ragazza, e solo per lei, avrebbe rinunciato volentieri al suo stato di scapolo, del quale andava fiero. Mentre puntava dritto verso la merceria, con la speranza di riuscire, almeno quel giorno, ad invitare Teresa a cena su al casale – le avrebbe proposto bruschette alle acciughe, ravioli al ragù e quagliette ai fichi – sentì la voce del sindaco che lo chiamava. “Commissario, mi scusi, posso rubarle un minuto?”. “Certo, signor sindaco. Il tempo è l’unica cosa che non mi manca, in questo momento della mia vita, quindi approfitti pure”. “La ringrazio, Sala”; e, prendendolo sottobraccio, lo invitò a fare due i con lui. Poi si fermò di colpo e disse: “Vede commissario, lei può ben immaginare che, come sindaco del paese, mi preoccupo della sicurezza dei miei concittadini. Così, conoscendo la sua esperienza di poliziotto con la P maiuscola, volevo chiederle un parere sul delitto avvenuto sabato. In televisione si sente parlare così spesso di serial killer, che non vorrei...”. “La ringrazio per questa manifestazione di stima, dottor Cuffari. Ma vorrei tranquillizzarla subito. Non credo proprio che l’omicidio di Santino sia opera di un serial killer”. “Mi toglie un gran peso di dosso. Ma mi tolga una curiosità, come fa a escludere con tanta sicurezza questa ipotesi?”. “È semplice, basta guardare gli altri casi di quel tipo. In genere i serial killer scelgono persone deboli e indifese come vittime, donne o bambini, e sono soliti ‘firmare’ in qualche modo il loro crimine, quasi per sfidare le forze dell’ordine. E poi agiscono quasi sempre nelle grandi città o in campagne estese, dove possono mimetizzarsi più facilmente” “La ringrazio ancora, commissario. Mi ha davvero tolto un grosso pensiero. E, come al solito, è stato chiaro ed esauriente nella sua spiegazione”.
“Stia tranquillo, signor sindaco. A quanto so i carabinieri sono già sulle tracce di qualcuno e probabilmente fra poco il caso sarà risolto, con buona pace di tutti noi”, disse Sala, pur non essendone affatto convinto. “Bene, mi sento molto più sollevato. Nel caso in cui avesse bisogno di me, o dei servizi dell’amministrazione, approfitti pure, saremo a sua completa disposizione”. Poi gli strinse con forza la mano e lo salutò. “Arrivederci, signor sindaco, e saluti la signora” rispose Sala, facendo solo il gesto di togliersi il cappello.
Tornò indietro per andare verso la merceria, quando vide don Luigi salire le scale del sagrato. Allora cambiò ancora una volta direzione, accelerando il o per raggiungerlo. Il prete, intanto, era già entrato in chiesa. Quando Sala arrivò, il parroco stava pregando, in ginocchio davanti all’altare. Aspettò che si alzasse e, dopo averlo salutato, gli chiese di accompagnarlo nell’orto perché – gli disse – voleva controllare alcuni particolari. Giunti all’aperto, il commissario si diresse subito verso la buca, chinandosi ad osservare il terreno. Subito dopo guardò in alto, verso la sommità del muro. “Don Luigi, mi piacerebbe sapere qualcosa della sorella di Santino, se non ha nulla in contrario. L’ho vista ieri, mentre usciva dalla sacrestia”. “Sì, è venuta a prendere le poche cose del fratello e poi è andata via subito”. “Già, me ne sono accorto. È una donna che va di fretta, a quanto pare. E immagino che lei, padre, sapesse già della sua esistenza…”. “Sì, certo. Ma, vede, Santino mi aveva chiesto di non parlarne con nessuno. Si vergognava a far sapere in paese che i suoi rapporti con lei erano tutt’altro che buoni… non voleva che qualcuno gli chiedesse come mai, cos’era successo, lei sa bene che in paese le chiacchiere fanno presto a diffondersi…”. “Certo. Ma mi dica, don Luigi, ha notato qualcosa di strano o di insolito nel comportamento della donna?”.
“Non mi sembra. Del resto si è svolto tutto così in fretta. Giusto il tempo di mettere poche cose in valigia, poi la signora se n’è andata”. “Mi scusi se insisto, ma ci pensi bene. Potrebbe essere importante”. “In effetti… l’unica cosa che ho notato, ma lo dico senza una gran convinzione, è che sembrava stesse cercando qualcosa. Ma potrebbe essere solo una mia impressione”. Mentre ascoltava, Sala aveva continuato a controllare ogni angolo e a guardarsi intorno. “Padre, che lei sappia, Santino aveva beneficiato di un’eredità ultimamente?”. “Sì, certo. Quattro o cinque anni fa era stato convocato da un notaio di Genova, che lo aveva invitato ad andare nel suo studio per importanti comunicazioni”. “Ne è sicuro?”. “Sicurissimo, perché me ne parlò subito, appena lesse la lettera. Quando poi andò dal notaio, gli dissero che aveva ereditato una discreta somma di denaro da un suo vecchio zio, che per molti anni era rimasto a lavorare all’estero, mi sembra in Uruguay”. Il commissario annuì, mentre si avvicinava alla porticina che dava all’esterno. Poi si girò e guardò ancora una volta la sommità del muro, proprio sopra la buca. Chiese al parroco di avere ancora un po’ di pazienza e uscì dall’orto. Girò il primo angolo, poi anche il secondo e, fatti pochi i nel prato, si ritrovò proprio nel punto che corrispondeva, al di là della parete, a quello della buca. Di fronte al muro, alle sue spalle, c’era una vigna che costeggiava di lato metà del paese, sul retro delle case, scendendo fino al mare. Sala si chinò e, spostando l’erba con le dita, vide delle piccole impronte rettangolari, come quelle lasciate dai piedini di una scala a pioli. Le tracce erano profonde. Aveva visto giusto, poco prima, quando si era accorto che i grossi fili d’erba e gli steli delle piante selvatiche del muro, proprio in quel punto, erano schiacciati, come se vi avessero appoggiato qualcosa di pesante. “Commissario, che sta facendo?”, gli chiese il prete che, incuriosito dal suo comportamento, lo aveva seguito. “Niente. Volevo solo verificare alcune cose che, da qualche giorno, mi
frullavano per la testa”. “E cioè? Se posso sapere, naturalmente”. “Mah, cose di poca importanza, mi creda padre. Non vale nemmeno la pena di parlarne” rispose Sala, mentendo spudoratamente. E, fingendosi deluso, lo riaccompagnò fino al portone della chiesa. “Grazie, don Luigi, e a presto. Se dovesse venirle in mente qualche altra cosa, anche se poco importante, me lo faccia sapere”. “Certo, certo, commissario, stia tranquillo. Arrivederci, allora”. Il prete si ritirò poco convinto, con l’espressione di un bambino a cui certe cose non si spiegano perché tanto non capirebbe.
Intanto si era fatto tardi e Sala, a malincuore, decise di rimandare al giorno successivo la visita a Teresa con invito a cena. “erò da lei domani pomeriggio”, pensò, “tanto i ravioli e le quagliette si insaporiscono restando un giorno in frigo. E gli uccelli, frollandosi un po’, saranno squisiti”. E poi, aveva la testa che gli scoppiava per i pensieri e le ipotesi che si inseguivano nella sua mente. Quel giorno aveva fatto un bel o avanti con la sua scoperta. Adesso non aveva più scuse, non poteva più tirarsi indietro: doveva, a modo suo, seguire il caso. Aveva solo bisogno di organizzare le idee, per trovare il bandolo della matassa, ora che era quasi sicuro che Santino non fosse stato aggredito vicino alla buca, ma vi fosse stato portato dopo, probabilmente da più di una persona.
6
Due uova all’occhio di bue insaporite da una spolverata di tartufo bianco e radicchio rosso trevigiano per contorno: la sua cena per quella sera. Mentre si preparava ad assaporare quel piatto semplice ma saporito, sentì suonare alla porta. Guardò l’ora e, dopo aver constatato che erano da poco ate le otto, si chiese chi potesse essere. Poi, un po’ seccato, ma incuriosito, si alzò e andò ad aprire. “Ah, è lei, Carapelli?! Che altro c’è ancora?”. “Buonasera anche a lei, commissario! Non l’avrò mica disturbata?”, esordì il giornalista con il solito sorriso canzonatorio sulle labbra. “A essere sincero, devo dire di sì!… Ma visto che è qui, si accomodi pure”. “Scusi se mi sono presentato a quest’ora, ma ho una proposta da farle, e sono sicuro che la troverà interessante”. “Mah… fossi in lei non ne sarei così certo. Comunque avanti, sputi il rospo”. “Grazie, commissario… Scommetto che ho interrotto la sua cena”; ed entrò. “Ha vinto la scommessa, Carapelli. Ma ormai è andata così, e ho la sensazione che dopo aver ascoltato quello che ha da dirmi, non avrò più una gran voglia di mangiare”. “Non sia così pessimista, Sala. Mi ricordo che un tempo, neanche troppo lontano, l’appetito le aumentava grazie alle mie dritte!”. “Forse. Ma adesso lei ha parlato di una proposta e non di informazioni, o dritte se preferisce, che, per la cronaca, il più delle volte non portavano a niente. Ma forse questo lo ha dimenticato”. “Va bene, come vuole. Ma adesso basta parlare del ato. Torniamo alla proposta che ho da farle”.
“La ascolto… Ma prego, si accomodi”, e gli indicò il soggiorno. Il giornalista entrò nella stanza e si lasciò cadere mollemente sul divano. “Vuole qualcosa da bere?”, domandò Sala mentre, ormai rilassato, stava per sedersi nella poltrona di fronte. “No, grazie. Casomai più tardi. Preferisco affrontare subito l’argomento”. “Già, la proposta. Sentiamo”. “Be’, per farla breve, lei sa bene che neanche per un momento ho pensato che potesse non occuparsi del caso. Così, mi son detto che, dal momento che non può contare sul personale e sui mezzi che aveva a disposizione quando non era ancora andato in pensione, il mio lavoro mi permetterebbe di aiutarla concretamente a svolgere la sua indagine. Le spiegherò poi in che modo. In cambio del mio aiuto, lei dovrebbe solo tenermi informato sui risultati che, anche grazie alla mia collaborazione, otterrà”. Sala aveva ascoltato il giornalista con attenzione, osservandolo con uno sguardo fra lo scettico e il diffidente. “Commissario”, continuò Carapelli, “da anni sono bloccato nella redazione di un piccolo giornale di provincia. E anche se sono capo redattore, so benissimo di non avere grandi prospettive dal punto di vista professionale. Adesso, però, avrei la possibilità di andare a lavorare a Roma, in un settimanale importante, a tiratura nazionale”. “Ah! Allora sono contento per lei, Carapelli!”, disse Sala, mentre si versava un bicchierino di grappa, “Ma non riesco ad afferrare il nesso”. “Ora ci arrivo, un attimo di pazienza”. Il giornalista fece una piccola pausa per accendersi una sigaretta, poi riprese: “Si dà il caso che, per ottenere il lavoro di cui le ho parlato, devo dimostrare a quelli che contano che ci so fare. E per questo, non ci sarebbe niente di meglio che seguire questo caso partecipando direttamente a un’indagine, diciamo, non ufficiale sul delitto!”.
“Vada avanti”, incalzò Sala. “Vede: se riuscissi a scrivere un articolo da prima pagina prima degli altri e con particolari di cui solo io sono a conoscenza, avrei un ottimo biglietto da visita per il mio nuovo editore, non crede?”. “A lei questa sembrerà una spiegazione, ma io continuo a non capire”, replicò Sala; e aggiunse: “Di che indagine sta parlando, e perché lei dovrebbe partecipare?”. “Santo cielo, commissario, smettiamola di prenderci in giro! Sono sicuro che lei, sotto sotto, sta già indagando, e quindi è alla sua indagine che mi riferisco. Quanto al motivo per cui dovrei partecipare, è chiaro!”. “Può darsi che lo sia per lei, ma non per me, quindi provi a spiegarmelo”. “Sono venuto a trovarla apposta. Ma lei ci metta un po’ di buona volontà e la smetta di far finta di non capire!”. “Va bene, va bene, Carapelli. Continui”. “Sa benissimo che non posso contare né sui carabinieri né tantomeno sul sostituto procuratore per avere notizie utili di prima mano. Però in molti uffici ho amici e conoscenti disposti a darmi informazioni, a volte per semplice cortesia, a volte perché non sono insensibili ai ‘regali’ che faccio loro per ricompensarli”. “E più precisamente quali sarebbero gli uffici in cui lei ha questi ‘amici’, anche se io li chiamerei informatori prezzolati?”. “Nelle banche, nei locali pubblici, negli enti, e anche in altre istituzioni. Possono farmi sapere cose a cui lei potrebbe arrivare solo dopo mesi di ricerche. Soprattutto adesso che è da solo e non ha più l’aiuto del brigadiere Bontempo, né il o logistico e tecnico di un’organizzazione come quella della questura. Immagino che da quando è andato in pensione non possa più rivolgersi ai suoi ex colleghi, o almeno non ufficialmente”. “E cosa le fa pensare che la soluzione del caso sia nascosta nelle parole di qualche amico o informatore?”. “A dire il vero, c’è un elemento che me lo fa pensare, ma, come nel poker, per
‘vedere’ deve prima dichiarare la sua disponibilità a giocare. Che ne dice?”. Il commissario si appoggiò allo schienale della poltrona, continuando a titillarsi con le dita la pelle sotto il mento. Quel gesto, quasi un tic, lo aiutava a riflettere. Gli scocciava terribilmente ammetterlo, ma Carapelli aveva ragione. Se davvero voleva provare a risolvere il caso di Santino, doveva poter contare sulla collaborazione di qualcuno che lo aiutasse nelle ricerche. Qualcuno che la sapesse lunga e che potesse entrare dove per lui sarebbe stato piuttosto difficile. E chi poteva farlo meglio di un giornalista ambizioso? Chiese a Carapelli di lasciargli ancora qualche minuto per riflettere, poi disse deciso: “Va bene, accetto la sua proposta. Ma ci sono delle condizioni”. “Quali?”. “Innanzitutto, qualsiasi iniziativa lei decida di prendere, dovrà prima parlarne con me. Naturalmente, nessuno dovrà mai sapere del nostro accordo fino alla fine. E poi, se davvero dovessi riuscire a risolvere il caso, farò immediatamente rapporto ai carabinieri. Lei potrà venire con me, in modo da ascoltare in anteprima la spiegazione di come sono riuscito, se mai ci riuscirò, ad arrivare al colpevole. Ma, l’avverto fin da adesso, io non conterei troppo su questa possibilità. Non so se stavolta riuscirò nell’impresa”. “D’accordo, non ci sono problemi, per me va bene”. “Allora adesso tocca a lei ‘parlare’ dandomi tutte le informazioni che dice di avere”. “Certo, con piacere. Dunque, ho un amico giù in città che lavora all’ufficio del catasto e che mi ha riferito, su mia richiesta e dopo essere stato generosamente ricompensato, che Sante Querciaroli era proprietario di un pezzo di terra che si affaccia sulla baia di San Giustino”. “E allora?”. “E allora mi ha detto anche che Santino aveva deciso di fare dei lavori, non meglio specificati, sul terreno in questione”.
“Non mi piace essere ripetitivo, ma lei mi costringe. E allora?”. “Be’, si dà il caso che i proprietari dei terreni confinanti non vedessero di buon occhio la cosa, tanto che avevano cercato in ogni modo di impedire che gli venisse data la concessione edilizia”. “Sì, anche se non ne sono molto convinto, potrebbe essere un punto di partenza. Ma come mai ha pensato proprio al catasto?”. “Perché prima avevo chiesto informazioni a un’altra persona, che lavora in banca, per sapere se Santino aveva aperto un conto da lui. Sa, per via dell’eredità”. “E il suo amico cosa le ha detto?”. “Mi ha detto che avevo ragione, che non solo Santino aveva un conto, ma che ci aveva versato anche una bella somma”; e aggiunse, “Ora non mi chieda perché ho pensato proprio a quella banca, visto che in paese ce n’è una sola!...”. “Infatti non l’avrei interrotta in questo caso…”. “Comunque, per riprendere il discorso, qualche mese fa il Querciaroli aveva ritirato una grossa somma, tanto che aveva quasi estinto il conto, circa centodieci milioni. Perciò, visto che i soldi servono per comprare cose, ho pensato che con quelli che aveva ritirato Santino ci si poteva togliere qualche bello sfizio. Conoscendo il tipo, ho escluso subito barche, gioielli e macchine di lusso. La cosa più probabile era una casa, o al limite un terreno. Così ho cominciato a darmi da fare, chiedendo informazioni negli uffici in cui si registrano gli acquisti dei beni immobili. E, a quanto pare, ho fatto centro!”. “E bravo Carapelli! Ha lavorato bene e i risultati sono interessanti. Almeno adesso sappiamo qualcosa di più di Santino. Ne parlano tutti bene ma, alla fine, sembra che di lui nessuno sappia niente”. Sala sorrise, poi continuò: “Vedo che ci tiene proprio ad andare a Roma!”. “Certo, commissario! Perché, aveva dei dubbi? Non vedo l’ora, e sono convinto che, se lavoreremo insieme, questo sarà il mio ultimo lavoro per la cronaca del Gazzettino”. “Allora senta: per dimostrarle che rispetto il nostro patto, ho anch’io qualcosa da dirle. Ma per ora non deve usare le notizie che sto per darle. Per adesso niente
articoli, mi raccomando!”. “Va bene”, rispose Carapelli senza molta convinzione. Sala gli raccontò della sua visita a don Luigi, del sopralluogo nell’orto e dei segni trovati al di là del muro. “Quindi la porta dell’orto era stata lasciata aperta solo per confondere le idee ai carabinieri?”, chiese il giornalista. “Quasi certamente”, rispose Sala; e spiegò: “Se la persona che trasportava il corpo fosse davvero ata da lì, avrebbe corso il grosso rischio di esser vista da qualcuno che ava per caso nella piazza, o da qualcuno che magari aveva deciso di prendere un po’ d’aria affacciandosi alla finestra di una delle case di fronte”. “In effetti è vero”, concordò Carapelli. “Invece dall’altra parte, sul prato dietro al muro, era praticamente impossibile che qualcuno vedesse quello che stava succedendo. Ci sono solo campi, fino al mare. È molto più plausibile che siano ati da lì”. Poi bevve un sorso di grappa e socchiudendo gli occhi, con una smorfia provocatagli dall’ingoiare quello scioglibudella, continuò: “Quasi certamente il poveretto è stato portato sul luogo del ritrovamento ando sopra il muro di cinta dell’orto. Per questo in quel punto l’erba era schiacciata… e poi ci sono le tracce dei piedini della scala”. “Sì, ma la scala avrebbe dovuto lasciare le stesse tracce anche dall’altra parte del muro. Altrimenti come avrebbero fatto a depositare a terra il corpo?”. “Forse il fango, con tutta la pioggia che c’è stata durante la notte, non poteva mantenere intatte le impronte, senza contare il fatto, poi, che un mucchio di gente ha camminato lì intorno. Anche se ci fossero state, quelle successive le avrebbero cancellate. Di là dal muro invece, si sono conservate perché l’erba le ha in qualche modo protette”. Sala accese un sigaro, e Carapelli commentò:
“Sì, è possibile. Ha ragione. E comunque era davvero poco verosimile che Santino a quell’ora si trovasse nell’orto, dico bene commissario?”. Poi continuò: “Sarebbe interessante capire anche il motivo di tutta quella messinscena. È incredibile che qualcuno fosse convinto di riuscire a far are per una disgrazia, in maniera così grossolana, il delitto!”. “Be’, anche questo, comunque, ci dà delle indicazioni. Adesso siamo praticamente certi di non avere a che fare con dei professionisti, quindi con un po’ di fortuna, chissà… Comunque abbiamo ancora un mucchio di lavoro da fare, dovremo spremerci le meningi ben bene”. “Sì, ma siamo già a buon punto, credo. Però non dobbiamo perdere di vista le due tracce che abbiamo: quella che porta ai confinanti di Santino e quella dell’eredità che ci porta dritti dritti alla sorella”. “Infatti queste per ora sono, come si dice in gergo, due piste calde e, come il ferro, vanno battute subito!”. “Già!… Ora che abbiamo stabilito come procedere, accetterei volentieri qualcosa da bere”, disse Carapelli. “Ho dell’ottimo whisky, una squisita grappa alla prugna fatta in casa, oppure…”. “Vada per la grappa, grazie”. Così i due, ognuno col suo bicchiere in mano, continuarono a parlare, a bere, a fare ipotesi, finché non si resero conto che si era ormai fatto tardi. Allora si salutarono con una veloce stretta di mano e con l’impegno di rivedersi al più presto. Prima di chiudere la porta alle spalle del giornalista, Sala rimase per un po’ in piedi sotto lo stipite, osservando pensoso la sagoma dell’amico dileguarsi nel buio del carruggio. Il mattino successivo, andò da Garofalo per riferirgli delle impronte trovate al di là del muro e delle sue ipotesi. Non ce l’aveva fatta a tenersi per sé l’informazione. In fin dei conti non era in competizione con nessuno, tantomeno con i carabinieri, con i quali fra l’altro aveva sempre avuto un buon rapporto. Garofalo lo ringraziò, assicurandogli che avrebbe fatto eseguire subito i calchi di gesso, cosa che lui non avrebbe potuto fare. Chissà, forse un giorno si sarebbero rivelati utili per un confronto…
Nei giorni seguenti, Sala e Carapelli si incontrarono diverse volte. Elaborarono tesi più o meno verosimili, parlarono con la gente del paese, ascoltarono testimoni più o meno attendibili, distribuendo, a volte ingenuamente, compensi a destra e a manca ma ottennero solo informazioni che non li portavano da nessuna parte. I risultati non arrivavano e tutte le piste battute finivano col non giungere a niente di concreto.
7
Il tempo ava, lento ma inesorabile, e l’indagine restava praticamente al punto di partenza. I giorni erano diventati settimane, le settimane mesi e Carapelli cominciava seriamente a dubitare di poter riuscire nel suo intento di ottenere un miglioramento della sua posizione professionale. La traccia che conduceva ai vicini del terreno di Santino non aveva dato nessun esito. Anche quella che riguardava la sorella della vittima non aveva portato a risultati degni di nota. Sala stava prendendo in considerazione l’opportunità di abbandonare le indagini e solo la straordinaria cocciutaggine del giornalista lo convinse a non rinunciare. I carabinieri, intanto, erano riusciti a rintracciare il balordo sospetto soltanto a maggio, e mentre lo sottoponevano a un terzo grado con i fiocchi, il commissario continuava, invece, a ipotizzare nuovi possibili moventi che lo portassero a chiunque non fosse quel povero disgraziato. Fin dall’inizio, infatti, aveva escluso che il colpevole potesse essere lui. Negli ultimi tempi si era concentrato a tal punto sul caso, che a volte si svegliava nel cuore della notte, con quel pensiero fisso, e con le solite tre domande che ormai da mesi non lo lasciavano mai: chi? perché? dove?
Era domenica e aveva deciso di rilassarsi per qualche ora. Del resto aveva già in programma di andare a Genova a trovare sua sorella e la nipotina, per il giorno della sua prima comunione. Presa la macchina, si avviò verso la città. All’ingresso dell’autostrada decise di fermarsi a far benzina. “Il pieno, per favore”, disse al benzinaio, mentre con lo sguardo cercava di individuare la toilette.
Poi entrò nel bar a fianco, che era pieno di gente accalcata davanti alla cassa. Aspettò pazientemente il suo turno, quindi chiese il Gazzettino e dieci toscani. Stava giusto per pagare, quando vide il dottor Lamberti, il farmacista di San Giustino, a lato della coda. “Buongiorno dottore”. “Buongiorno a lei”, rispose questi con un cordiale sorriso. “Posso offrirle qualcosa da bere, commissario?”. “La ringrazio dottore, ma non è il caso”. “La prego, mi farebbe davvero piacere”, insistette il farmacista. “Va bene, allora. Ero indeciso se prendere un caffè o no. Ma dal momento che sono in compagnia, prenderò un marsalino”. “Io, purtroppo, prenderò solo un succo di frutta alla pera… Beato lei, che può permettersi di bere quello che vuole! Io, da quando ho scoperto di avere l’ulcera, non posso bere più niente… niente di buono, voglio dire!”. “Ma come? Pensavo che i farmacisti, che ano la vita in mezzo a tutte quelle medicine, diventassero immuni alle malattie”, disse Sala in tono scherzoso. “Eh!… Magari fosse così”, rispose Lamberti un po’ sconsolato; poi continuò: “Meglio cambiare discorso, altrimenti mi intristisco. Posso chiederle dove va di bello, commissario?”. “A Genova, per la comunione di mia nipote”. “Ah! Allora auguri alla piccola e, mi raccomando, mi saluti sua sorella. Le dica di are da me la prossima volta che verrà in paese. Ho finalmente trovato la tisana che cercava”. “Certo, dottore. Le farà piacere… E invece lei dove se ne va solo soletto?”. “In nessun posto interessante. Sto andando a trovare una parente che abita a un paio di chilometri da qui, e strada facendo ho pensato di fermarmi per prenderle qualcosa, tanto per non presentarmi a mani vuote. Sa, le persone anziane diventano permalose a volte. Ha quasi novant’anni e quindi ogni tanto vado a
salutarla, per sentire come sta e se ha bisogno di qualcosa”. “Be’, anche se non la conosco, me la saluti lo stesso… Sarà meglio che mi avvii, ora, se non voglio arrivare in ritardo. Allora arrivederci, Lamberti, e grazie per il marsala”. “Arrivederci, commissario. A presto”. Si strinsero la mano e ognuno proseguì per la sua strada.
Era qualche mese, ormai, che non vedeva la sorella, il cognato ed Elisa, la sua nipotina. Era contento di incontrarla proprio quel giorno che era, per tutti i bambini cattolici, un giorno unico e straordinariamente importante, anche se quasi nessuno di loro riusciva a coglierne davvero il significato. Aveva comprato un bel regalo da dare alla piccola e non vedeva l’ora di vederglielo scartare. Arrivato all’uscita di Genova Est, ò il casello e si infilò nel gomitolo di strade e vicoli che lo avrebbe portato a casa della sorella. Giulia aveva vent’anni meno di lui. I genitori l’avevano avuta quando ormai quasi non ci pensavano più, e anche lei, sposata con un brav’uomo che lavorava nell’ufficio postale di Genova Sturla, aveva avuto tardi la piccola Elisa. Durante il viaggio, Sala non aveva rinunciato al suo buon toscano, e l’abitacolo della macchina sembrava, a quel punto, una camera a gas, pieno com’era di fumo acre. Per fortuna, nessuno della famiglia doveva salire sulla sua auto, altrimenti chissà quante storie avrebbero fatto. Guardò l’ora e si accorse di essere in leggero ritardo. Avrebbe dovuto trovarsi davanti alla chiesa alle dieci in punto, e invece era ancora in mezzo al caos delle strade cittadine. Decise di provare ad andare un po’ più veloce, ma i suoi tentativi furono del tutto inutili. La sua auto era una vecchia Lancia a quattro porte che aveva da poco compiuto sedici anni e che, a sentir lui, in quel lungo periodo era stata portata in officina soltanto una volta, per cambiare un manicotto e una cinghia. Le era affezionato e per questo la privava del sacrosanto diritto di andare in pensione, come lui. Se qualcuno, poi, gli faceva osservare che era una macchina vecchia, ridotta ormai a un catorcio, lui rispondeva che andava benissimo, e che poteva ancora dar del filo da torcere a
quelle scatolette nuove fiammanti, appena uscite dalla fabbrica, che dopo pochi anni erano già da rottamare. Così, circondato dal fumo del toscano, quella mattina cercava di districarsi in mezzo al traffico che a quell’ora, per quanto fosse domenica, era particolarmente caotico. Finalmente riuscì a prendere la strada che portava alla chiesa di San Matteo, dove avrebbe trovato ad attenderlo la nipotina vestita di bianco, che già immaginava bellissima, come una piccola sposa. “Guido!… finalmente! Pensavamo che non arrivassi più”, gli disse Giulia andandogli incontro. “Ciao, Giulia. Spero di non essere troppo in ritardo! Sai com’è, non sono più abituato al traffico della città, così mi sono un po’ incartato fra i vicoli”. “Sei arrivato giusto in tempo”, rispose Giulia mentre lo abbracciava affettuosa. “Ma dov’è Elisa? Mi sembra di non vederla da un secolo!”. “È in chiesa, insieme agli altri bambini. Su, sbrighiamoci adesso, che altrimenti ci perdiamo l’inizio della funzione”. Entrò in chiesa a braccetto con Giulia e si sistemò insieme a lei accanto al cognato, dopo averlo salutato con un cenno della testa e un sorriso. Davanti a lui, la fila dei bambini che aspettavano, a mani giunte, di ricevere l’ostia consacrata. Il ricordo più vivo che aveva di quella cerimonia, avvenuta in un tempo così lontano che pareva essere ato un secolo, era la curiosità di sapere che sapore avesse l’ostia e quali e quanti regali avrebbe ricevuto, anche se a quel tempo – c’era ancora la guerra – i regali erano soltanto piccole cose, di poco valore. Quando la cerimonia ebbe fine si allontanò dal banco, avviandosi verso l’uscita. Giunto al sagrato, dovette accettare di farsi fare una serie infinita di foto ricordo, insieme a uno stuolo di persone che gli erano in gran parte sconosciute. Riuscì tuttavia a restare un po’ solo con la nipotina e a darle, finalmente, il regalo: un bracciale d’oro al quale era appeso un piccolo cuore con al centro un rubino. La bambina, felicissima, andava mostrando a tutti il suo piccolo tesoro. Mentre, soddisfatto dell’effetto ottenuto, continuava a guardare Elisa, sentì, in mezzo alle altre, una voce che lo chiamava:
“Guido!… Guido Sala! Ehi, Guido!”. Si voltò e si trovò di fronte un uomo sulla sessantina, alto, magro e con un paio di occhiali le cui lenti sembravano dei fondi di bottiglia. Sulle prime non riuscì a riconoscerlo, ma poi, osservandolo più attentamente, non ebbe più dubbi. Era Erasmo Falcetti, un vecchio compagno di liceo. Quello che più ricordava di lui era la sua naturale predisposizione per l’arte, la sua abilità nel disegno e il suo interesse per i diversi artisti che dovevano studiare. “Erasmo!”, rispose, “Che piacere rivederti dopo tanto tempo! È ata una vita…”. “E già, puoi ben dirlo!”, rispose Erasmo. Intanto gli stringeva la mano e lo abbracciava sorridendo.
“Anche tu sei qui per la comunione di una nipotina?”. “Sì, ma a dir la verità si tratta di un nipotino, e non è l’unico sai? Ce ne sono anche altri due, ma a loro toccherà più avanti!”. “E che cosa hai fatto in tutti questi anni?”. “L’insegnante. Insegnavo storia dell’arte all’Accademia di Genova”. “Già, c’era da aspettarselo. Appena ti ho visto mi è venuto in mente quanto ti piaceva quella materia”. “E tu, invece, che cosa hai fatto?”. “Sono entrato in polizia. Nel mio caso non c’era una predisposizione già così evidente ai tempi del liceo. Così, appena finiti gli studi, sono entrato in accademia. Ho iniziato a fare il poliziotto e poi, a poco a poco, sono diventato commissario. Ho lavorato per anni alla Questura di Genova”. “Complimenti. Deve essere un lavoro interessante, anche se immagino che a volte non deve essere facile. E abiti sempre qui, a Genova?”. “No, per carità! Appena andato in pensione sono scappato. Vivo in un piccolo
paese, San Giustino, non so se lo conosci”. “Certo, come no! È un bel posto. Pensa che ogni tanto decidevo di portarci in gita a mie spese, e poi dicono che i genovesi sono tirchi!, i miei alunni perché conoscessero quella stupenda tela di Van Cleve che sta nella chiesa di San Cristoforo...”. “Davvero? Anche io, pur non essendo un intenditore, amo molto quel dipinto. A volte vado in chiesa solo per guardarlo, e quando esco mi accorgo di aver ato un bel po’ di tempo in contemplazione. Ho come l’impressione che ci sia un legame, una specie di feeling, fra me e quel quadro”. “Non è poi così strano, sai? È un’opera davvero particolare ed è di enorme valore”, disse Falcetti, mentre con il fazzoletto si dava da fare a pulire le spesse lenti dei suoi occhiali. “Adesso, purtroppo, devo salutarti. Sono contento di averti incontrato e di aver scoperto, dopo tanti anni, che abbiamo in comune la ione per quel quadro!”. “Anch’io… Ma, a proposito, mi sembra di aver letto che, non molto tempo fa, proprio nella chiesa c’è stato un omicidio. Certo che non si può più star tranquilli neanche nei paesi!”. “Che ci vuoi fare, ormai non esistono più posti dove si può star tranquilli. Comunque, se ti capita di are per San Giustino, perché non vieni a trovarmi? Mi farebbe davvero piacere poter fare due chiacchiere con te, magari proprio davanti al quadro. Che ne dici? Ecco, questo è il mio biglietto da visita, puoi chiamarmi quando vuoi”. “Senz’altro, contaci. Io non ho biglietti da lasciarti. Però se hai un pezzo di carta e una penna ti lascio il mio numero di telefono: così se vieni a Genova, mi chiami e andiamo a bere qualcosa insieme”. “D’accordo. Allora ciao, a presto”. “Ciao, e mi raccomando: fatti sentire”. Quando si voltò, si accorse che gli altri si erano già incamminati e affrettò il o per raggiungerli. Andarono tutti al ristorante, come si conviene alla fine di ogni cerimonia che si rispetti. Il locale “Da Tonino”, appoggiato sulla scogliera scura, sembrava una specie di
palafitta. Il ristorante era molto noto a Genova e Tonino era considerato uno dei custodi della ricetta originale del pesto da mettere sulle trenette. Gli invitati gozzovigliarono e chiacchierarono per quasi tutto il pomeriggio. Alla fine Sala, ormai pieno come un uovo e un po’ intontito da quello che, fra vino, spumante e grappini, aveva bevuto, decise di salutare tutti e riprendere la via di casa. Così, dopo aver salutato per bene la nipotina, si mise in viaggio verso il casello dell’autostrada, con il sole che tramontava alle sue spalle.
Arrivato all’ingresso dell’autostrada, dopo aver fatto una breve coda per ritirare il biglietto, iniziò il viaggio di ritorno. Mentre procedeva tranquillamente, gli sembrò di vedere, alla guida della sua Audi, il farmacista, che era appena entrato in autostrada dal casello di Rapallo. Quel giorno sarebbe stata la seconda volta che lo incontrava e gli avrebbe fatto piacere raggiungerlo, per vedere se era davvero lui, e salutarlo. Provò ad accelerare, ma la sua macchina non era in vena di correre, così lo vide allontanarsi senza riuscire a togliersi il dubbio.
Mentre percorreva l’autostrada non poteva fare a meno di voltarsi, di tanto in tanto, a guardare il mare che, alla fine di ogni galleria, si stendeva alla sua destra, come un enorme specchio dai riflessi bianchi e azzurri che, quando la brezza si fermava, rifletteva tutto quello che vi poggiava sopra: barche piccole e grandi, probabilmente in gara fra loro. Alcune, con enormi vele colorate, procedevano nella stessa direzione, cercando di sottrarsi a vicenda il vento che, come un lieve e silenzioso motore, le sospingeva intrappolato nei triangoli di tela. Sulla linea dell’orizzonte, intanto, dei cargo che dovevano essere enormi ma che, da lontano, sembravano solo barchette, procedevano lentamente verso la loro destinazione. Arrivato finalmente a casa, si sdraiò sul letto e, senza neppure togliersi le scarpe, piombò in un profondo sonno fino al mattino successivo. Quando suonò il telefono, si era svegliato da poco e stava facendo una doccia: pertanto, ancora grondante e avvolto nell’accappatoio, raggiunse la cornetta solo dopo molti squilli. Era Carapelli, che gli chiedeva se quella mattina potevano vedersi. Gli rispose di are a trovarlo.
Ormai il giornalista, quando andava su al casale, si comportava come se fosse a casa sua. Si versava da bere, andava in cucina a preparare il caffè o, a seconda dell’occasione, dei panini, usava il bagno o il telefono senza neanche più chiedere il permesso, tante erano state le ore trascorse in quelle stanze ad analizzare e verificare sospetti, ipotesi e intuizioni. Quel giorno voleva vedere il commissario per sottoporgli l’ennesima ipotesi riguardo all’omicidio di Santino. Carapelli sospettava che il Querciaroli avesse, da qualche parte, una fantomatica cassetta di sicurezza contenente dei documenti, dai quali si sarebbe potuti risalire al movente dell’omicidio. Sentita l’esposizione del suo amico, Sala cominciò ad annuire lentamente: “Certo, in linea di principio è possibile. Ma penso che così, senza il minimo riscontro, rischieremmo di distrarci e perdere un’infinità di tempo per un’idea campata in aria”. “È vero, ma tanto al momento non lo stiamo certo utilizzando al meglio questo benedetto tempo!”, rispose Carapelli “Mah, non sono molto convinto, dammi il tempo di riflettere e poi ti dirò cosa ne penso davvero”. I due restarono alcuni istanti in silenzio, finendo quasi contemporaneamente di bere quello che ancora rimaneva nei loro bicchieri, quindi si avvicinarono entrambi alla porta. “Allora d’accordo, mi farò sentire presto”, concluse Sala stringendo la mano al giornalista e chiudendogli poi, per l’ennesima volta, la porta alle spalle dopo averlo salutato. Più tardi, nella mattinata, decise di andare a trovare Garofalo, per sentire a che punto era con l’interrogatorio del balordo. “Lo abbiamo appena rilasciato”, lo informò, avvilito, il maresciallo. “Aveva un alibi a prova di bomba”. “Che alibi?”. “La sera dell’omicidio e quella precedente era in carcere, a Rapallo, per ubriachezza molesta!”. “Peccato!… Quindi ora siamo di nuovo al punto di partenza”.
“Purtroppo sì, e non le nascondo che al momento, specie dopo che anche i due extracomunitari sono risultati del tutto estranei al fatto, non sappiamo dove sbattere la testa!”. “Certo è un bel pasticcio! Del resto ci eravamo resi conto fin dall’inizio che il caso non sarebbe stato semplice da risolvere”. “A proposito, commissario… sappiamo che quel suo amico giornalista, Luca Carapelli, continua a girare dappertutto e a fare un mucchio di domande. Lei ne sa qualcosa, per caso?”. “Sì, so che si interessa molto alle indagini. Del resto fa parte del suo lavoro cercare di arrivare prima degli altri a scoprire, sempre ammesso che ci riesca, la verità”. “Lei avrà anche ragione, Sala , ma così il suo amico rischia di intralciare le indagini”. “Abbia ancora un po’ di pazienza, maresciallo, non credo che se lo troverà tra i piedi ancora per molto”. E così dicendo, dopo aver salutato, si allontanò.
8
Era arrivato maggio e, come tutti gli anni, a San Giustino fervevano i preparativi per la festa di san Cristoforo, patrono del paese. Gli ambulanti stavano già allestendo banchi di ogni tipo: dagli stand gastronomici alle bancarelle per i giochi e le lotterie. Non mancavano, naturalmente, quelle piene di giochi per i bambini, braccialetti, piccoli monili: insomma tutte le cose che si trovano in una festa di paese ben riuscita. Il comune aveva provveduto a montare il palco sul quale la sera si doveva esibire l’orchestrina locale e a tirare, da un lato all’altro della piazza e delle strade vicine, lunghi fili elettrici pieni di lampadine colorate che, sospese nel vuoto, avrebbero illuminato buona parte del centro del paese. Sala detestava la confusione che regnava sotto quel gran pavese e sarebbe rimasto volentieri a casa, se a smuoverlo non fosse stato il desiderio di dare un’occhiata ai banchi gastronomici. Goloso com’era, non poteva certo lasciarsi sfuggire l’occasione di assaggiare i piatti tradizionali che per l’occasione venivano esposti in bella vista su tavoli di legno addobbati in modo folcloristico. Morbide e saporite torte di verdura, enormi teglie di focaccia di Recco, farcita di stracchino, muscoli ripieni: resistere a quel ben di Dio era impossibile. I muscoli, poi, lo mandavano letteralmente in visibilio. Così quella sera decise di mangiare in piazza, all’aperto, insieme alla maggior parte degli abitanti del paese. Intrappolato in un bel vestito di lino color panna, il suo ultimo acquisto nel negozio di Teresa, e con in mano un panama tenuto per la tesa, si presentò al botteghino per prendere lo scontrino per la cena. Con il piatto, le posate e il tovagliolo di carta nell’altra mano, si diresse verso un lungo tavolo e prese posto sulla panca di legno che sostituiva le sedie. Infilò il grande tovagliolo di carta nel colletto della camicia e, afferrata la forchetta, stava cominciando ad assaporare, dimentico di tutto e di tutti e con un’espressione di beatitudine sul viso, il suo piatto preferito, quando don Luigi lo raggiunse e si sedette accanto a lui.
“Buonasera, commissario e buon appetito!”. Preso alla sprovvista, Sala cercò immediatamente di darsi un contegno e, ingoiato di corsa il boccone, sorrise e salutò il parroco. “Oh, don Luigi, che piacere!”, rispose, mentre, strappato velocemente il tovagliolo dal colletto, si puliva la bocca ancora piena. “Vuol farmi l’onore di essere mio ospite in questa sera dedicata al suo datore di lavoro?”, continuò poi sorridendo. “Ahi! Ahi! commissario!… Non sa che non si scherza con i santi?! Comunque la ringrazio, faccia conto che abbia accettato… Sa, commissario, mi dispiace disturbarla e forse questo non è il momento migliore, ma lei si è tanto raccomandato l’ultima volta che ci siamo visti, che sono venuto per parlarle di una cosa che riguarda Santino e che potrebbe interessarle”. Sala si fece subito attento. Ingoiò in fretta un sorso di vino, per togliersi la sensazione di avere il boccone ancora in gola, e rispose: “Certo che mi interessa! Però forse è meglio allontanarsi un po’ dalla folla, così potremo parlare più tranquillamente e senza dover urlare”. Prese il prete sottobraccio e, destreggiandosi fra la gente che riempiva ormai la piazza, lo condusse sotto ai portici, dove non c’era ressa e il brusio delle voci era meno intenso. “Ora sì che va meglio. Vada pure avanti, don Luigi, la ascolto”. “Proprio questo pomeriggio, commissario, mi sono accorto, anche se con molto ritardo, devo ammettere che sto cominciando a perdere colpi in questo periodo… Non sarà mica l’Alzheimer o come si chiama?”, cominciò con tutta calma il parroco, mentre Sala friggeva dalla curiosità; “Ah, sì, le stavo dicendo che mi sono accorto che è sparita una piccola chiave. Santino aveva l’abitudine di metterla dietro il quadro della Madonna, in un piccolo incavo del legno”. “E cosa apriva questa chiave?”. “La cassetta per le offerte che sta all’ingresso della chiesa. Non è buffo?”.
“Buffo? E perché?”. “Certo, lei non può saperlo. Vede, eppure mi sembra di avergliene già parlato, Santino era un po’ strambo. Aveva delle manie, delle fissazioni. Pensi che si portava sempre dietro le chiavi dell’allarme dell’urna e del quadro senza preoccuparsi minimamente, anche se io gli avevo detto mille volte che non era il caso e che rischiava di perderle. Invece era ossessionato dall’idea di perdere quella della cassetta delle elemosine. Per questo la nascondeva dietro al quadro. Eppure in quella benedetta cassetta non abbiamo mai trovato più di qualche migliaio di lire”. “Be’, in effetti è un po’ strano. Ma non ho ben capito: poco fa lei ha detto che l’allarme protegge il quadro, e poi?”. “Ma l’urna di cristallo, ovviamente!”. “Ah, certo, l’urna”, replicò Sala , aggiungendo timidamente: “Ma, scusi la mia ignoranza, di quale urna sta parlando?”. “Ma di quella blindata, commissario, quella che sta dietro l’altare maggiore!”, spiegò il sacerdote, quasi indispettito per quella domanda. Dava infatti per scontato che tutti, a San Giustino, sapessero dell’esistenza della teca. Poi aggiunse: “L’urna contiene un calice in oro e platino e poi manipoli, stole, pianete e paramenti sacri, tutti ricamati in oro zecchino, che furono donati alla chiesa, come lei sicuramente saprà”, disse, assumendo l’atteggiamento del professore che trova l’alunno impreparato, “da un nobile genovese, discendente di Brancaleone Grillo, in segno di riconoscenza per grazia ricevuta”. L’eccesso di dettagli storici e il tono saccente del parroco avevano imbarazzato non poco Sala, che fece tuttavia finta di niente continuando ad annuire con la testa. Si sentiva a disagio anche perché aveva scoperto di essere uno dei pochi nel paese, se non addirittura l’unico a sentire don Luigi, che non conoscevano la storia di quel tale, Brancaleone Grillo. Si chiese, addirittura, se non fosse per caso parente del personaggio interpretato da Gassman in un famoso film di Monicelli, ma il buon senso gli suggerì di non esprimere il suo dubbio ad alta voce. Certo sapeva già che nella chiesa c’era una teca, ma non si era mai preoccupato di sapere cosa contenesse.
Così, pronto a cogliere ogni ulteriore dettaglio e sempre più curioso, chiese: “E cosa manca, da questa specie di tesoro che mi ha appena descritto?”. “Niente”, fu la risposta. Sala restò perplesso. Poi continuò: “Sembra un piccolo mistero, don Luigi. Quello che mi ha appena detto esclude automaticamente il movente del furto o della rapina. Comunque, la ringrazio di avermene parlato… A proposito, so che la mia domanda sarà superflua, ma ha fatto cambiare le serrature degli allarmi?”. “Naturalmente. Ho provveduto la mattina stessa del… sì, insomma, del delitto”. “Be’ certo, non era il caso di aver dubbi in proposito. Sa, padre, dovrò riflettere su questo fatto e, magari, venire a dare un’occhiata, se me lo permette”. “Quando vuole, commissario. Ma le conviene farlo di mattina, quando la luce, attraverso le vetrate, illumina la zona a giorno”. “D’accordo allora. Domattina sarò da lei verso le nove”. “Per me va bene. Allora la aspetto. A domani”. “Grazie, don Luigi. A domani”.
Mentre i due erano presi dalla conversazione, la cantante del piccolo gruppo, giovane ma grassoccia e non particolarmente affascinante, cercava inutilmente di superare con la voce gli strumenti degli orchestrali, che proponevano insistentemente tanghi, valzer e mazurche, come voleva la rinnovata e sempre più consolidata moda del liscio. Sala, riavvicinatosi alla piazza, cercò di riconquistare il suo posto a tavola, ma quando riuscì a raggiungerlo si accorse che qualcuno aveva provveduto a togliere di mezzo il suo piatto, con quel che restava dei muscoli e del vino. Al suo posto erano sedute altre persone e a lui non sembrò il caso di chiedere informazioni sulla sua cena. Girò quindi i tacchi, farfugliando fra i denti parole che poco si addicevano alla festa di un santo, e si avviò verso casa. Il supplizio, però, non era ancora finito. Prima di raggiungere i
vicoli silenziosi e vuoti che portavano al casale, doveva attraversare la piazza e, soprattutto, la pista da ballo. Partì così a testa bassa, procedendo deciso fra le spinte delle coppie impegnate a dimostrare la loro abilità e gli strattoni delle ballerine che, rimaste senza cavaliere, cercavano di trattenerlo senza tanti complimenti. Dopo qualche minuto, accaldato e sempre più nervoso, riuscì finalmente a uscire da quel bailamme.
La mattina successiva, con una puntualità per lui insolita, si presentò in chiesa. Don Luigi lo stava aspettando e, dopo averlo salutato, gli fece strada verso il quadro. La chiesa, piuttosto grande, era formata da tre alte navate in fondo alle quali si trovavano tre altari. Quello centrale era il più maestoso. Sia il pavimento, con intarsi di diversi marmi colorati, che il soffitto a cassettoni nel quale spiccavano i bassorilievi intagliati nel legno, erano di pregevole fattura. Tutta la chiesa, poi, era illuminata da pennellate di colore prodotte dai raggi del sole che attraversavano le vetrate delle grandi trifore laterali. Il gioco dei colori e dei chiaroscuri era così affascinante che chiunque si fermasse ad ammirarlo restava a lungo con la testa rivolta in alto, come ipnotizzato da quello che vedeva. Sala e il parroco erano arrivati di fronte al quadro. Lo sollevarono con delicatezza, in modo che il prete potesse indicare con precisione il punto in cui Santino era solito nascondere la chiave. “Ma non c’è l’allarme di protezione?”, chiese perplesso il commissario. “Sì che c’è, ma lo inseriamo solo la notte. È un sistema ad attivazione termica che entra in funzione non appena una persona si avvicina alla tela. Si accende con il calore emanato dai corpi. Così, dopo i primi giorni in cui suonava di continuo, ogni volta che una persona si avvicinava a guardare il dipinto, Santino e io abbiamo deciso di inserirlo solo di notte. Tanto, in pieno giorno chi si azzarderebbe a rubarlo?”. “Già!”, esclamò Sala che, intanto, ispezionava attentamente il punto indicatogli da don Luigi, servendosi di una torcia elettrica portata da casa e di una piccola lente. La portava sempre nel taschino invece degli occhiali e, in quel frangente, lo faceva proprio somigliare a Sherlock Holmes.
“Don Luigi, può descrivermi esattamente com’era fatta la chiave?”. “Credo di poter fare anche meglio”, rispose il prete. Infilò la mano nella tasca dell’abito talare, estrasse un mazzo di chiavi e, dopo averne isolata una, molto piccola, continuò: “Guardi, era esattamente come questa, con l’unica differenza che quella di Santino aveva una specie di cappuccio di plastica rossa, fluorescente, infilato proprio qui, sull’impugnatura”. “Be’, visto che aveva tanta paura di perderla, col cappuccio rosso la rendeva più riconoscibile…”. Sala prese la chiave e provò a infilarla nel punto indicatogli dal parroco, fra il montante del telaio e una delle zeppe tenditela. L’esperimento riuscì perfettamente, tanto che la chiavetta sparì del tutto. “Ci balla un po’ dentro”, osservò il commissario, “ma con il cappuccio che mi ha appena descritto doveva incastrarsi alla perfezione”. Non sapeva ancora a cosa potesse servire tutto questo, ma sapeva per esperienza che era meglio verificare tutto, anche un particolare minimo e apparentemente banale. Più tardi, chissà, avrebbe potuto tornare utile! “E adesso, don Luigi, vorrei vedere l’urna”. “Venga, è proprio qui, dietro l’altare”. “Può aprirla?”. “Certo. Ecco fatto! Ma mi creda: ho controllato tutto minuziosamente e non manca nulla”. “E l’allarme è dello stesso tipo di quello del quadro?”. “No, è diverso. Per attivarlo bisogna cercare di aprire, senza chiave, il coperchio di cristallo, o sollevare un oggetto dal piano sul quale è poggiato. In quel caso inizia a suonare. L’unica cosa che ha in comune con l’altro è che anche questo è collegato alla stazione dei carabinieri”. “A proposito di carabinieri… ha già parlato della chiave con il maresciallo?”.
“No, non ancora. Ma pensavo di farlo oggi stesso, dopo averla incontrata”. “Senta, don Luigi: visto che è già ato un po’ di tempo, le dispiacerebbe aspettare ancora qualche giorno prima di riferirlo a Garofalo?”. “Come vuole, Sala. Ma siamo sicuri di fare la cosa giusta?”. “Stia tranquillo. Se non ne fossi convinto non glielo chiederei. E poi non si preoccupi, mi assumo io la responsabilità”. “Allora va bene. Aspetterò che lei mi autorizzi, prima di parlarne”. “La ringrazio per la fiducia, don Luigi. A volte una piccola omissione o una piccola bugia possono essere utili alla causa più di una grande verità!… Questo deve averlo detto qualcuno importante, ma non ricordo più chi”, disse un po’ compiaciuto Sala. “Non importa chi l’ha detto. L’importante è che sia giusto. Arrivederci commissario e, mi raccomando, mi tenga informato!”. “Non ne dubiti. Ci sentiamo, don Luigi”.
9
Appena arrivato a casa, telefonò euforico a Carapelli e lo convocò per la mattina successiva, su al casale. “Finalmente qualcosa su cui poter lavorare!”, pensò. “Adesso sì che l’indagine diventerà un po’ più concreta”. Il giorno dopo, quando Carapelli arrivò intorno alle nove, trovò Sala seduto sugli scalini della prima rampa di scale, pensieroso ma sereno, con un sigaro spento in bocca e le braccia conserte appoggiate sulle ginocchia. Tranne che per il movimento delle labbra, impegnate a trastullarsi con il toscano andolo da un lato all’altro della bocca, era immobile come una statua, preso dai suoi pensieri. Il giornalista capì subito che dovevano esserci delle novità importanti, quindi si avvicinò all’amico e, sedendogli accanto, gli chiese: “Guido, che succede?”. Sala fece are un attimo prima di rispondere, poi, riscossosi all’improvviso come se si fosse svegliato in quel momento da un lungo sonno, guardò il giornalista negli occhi e gli disse sorridendo: “È successo quello che stavamo aspettando da mesi”. “Ah sì? E cosa, esattamente?”. “Il movente, Luca! Forse ho trovato il movente! Il motivo per cui Santino è stato ucciso”. “Sul serio? Sei sicuro? Non è che mi prendi in giro?”. “Sono sicuro, anzi arcisicuro!”. “Allora? Che aspetti, raccontami tutto!”. “Ti ho chiamato apposta. Ma prima entriamo in casa: è meglio che nessuno ci veda confabulare”.
Arrivati in salotto, si accomodarono su due poltrone e Sala cominciò a raccontare quanto era avvenuto il giorno prima. Gli disse della chiave di Santino, del quadro e di tutto il resto. Alla fine però, Carapelli, guardandolo con un’espressione perplessa che lasciava trasparire la delusione, replico: “Sì, ho capito, ma il movente dov’è?”. “Vedi? questa è la differenza fra un investigatore dilettante come te e un professionista come me. Scusa l’immodestia, ma quarant’anni di servizio saranno pur serviti a qualcosa!”. “Non lo metto in dubbio, ma adesso vai avanti e cerca di far capire qualcosa anche a me!”. Sala si sistemò più comodamente sulla poltrona, accese il toscano e cominciò a spiegare. “Quando ho esaminato la parte posteriore del quadro, quella che poggia sul muro, mi sono accorto che, nonostante Santino infilasse da tempo e probabilmente a forza la chiave fra la tela e il legno che la tende, non c’era neanche un piccolissimo segno, una minima scalfittura che potesse far pensare a quell’azione. È molto strano, non trovi? Allora mi sono avvicinato ancora di più e ho sentito l’odore del legno giovane. Ho notato, poi, che il legno era troppo chiaro, e che non poteva trattarsi di un telaio che dovrebbe avere, se non sbaglio, qualcosa come cinquecento anni. Il tempo ato e la luce avrebbero dovuto renderlo molto più scuro di come invece è”. “Porca miseria! Mi stai dicendo che quel quadro è un falso?”. “Ne sono quasi sicuro. Comunque fra poco ne avrò, spero, la certezza. Domani al massimo lo farò peritare da un mio amico. Comunque, per adesso, lasciamo perdere il ‘quasi’. Se facciamo finta che sia davvero così possiamo andare avanti con il mio ragionamento”. Il fumo del toscano, insopportabile per i più, ma delizioso per Sala, stava intanto riempiendo la stanza in cui si trovavano. “Hai ragione. Vai avanti e vediamo se la tua ipotesi regge”, lo incalzò il giornalista.
“Bene! Vedo che sono riuscito finalmente a ottenere la tua attenzione. Allora, diciamo che qualcuno ha rubato il quadro, sostituendolo con una copia sicuramente ben fatta. Il tutto deve essere accaduto di giorno, altrimenti l’allarme avrebbe suonato creando troppi problemi ai ladri. Probabilmente le persone coinvolte nel furto sono due: una che distraeva Santino, facendolo allontanare dalla chiesa, e l’altra che si teneva pronta a sostituire il dipinto mentre il sacrestano non era nei paraggi”. “Non è un’ipotesi del tutto campata in aria, per ora. Ma continua...”. “I due, però, non potevano sapere che Santino utilizzava il quadro come nascondiglio per la chiave. Così, quando lui si è accorto che era sparita, deve essersi ricordato della persona che lo aveva fatto allontanare dalla chiesa e deve aver minacciato di denunciarla”. “Ma perché avrebbe dovuto farlo? Voglio dire: perché non l’ha denunciata direttamente, senza prima avvertirla che sapeva cosa era successo?”. “Chissà, magari era una persona che conosceva bene e che non voleva mettere nei guai… o forse, cosa più probabile, la chiave che nascondeva non era affatto quella delle offerte… Comunque, dopo la minaccia del sacrestano, l’assassino o gli assassini non potevano correre il rischio di essere denunciati e hanno deciso di eliminarlo”. “Sì, ma c’è qualcosa che non torna. Se il falso era stato eseguito così bene, come ha fatto Santino ad accorgersene?”. “Come ti ho detto prima, credo che inizialmente si sia accorto solo della sparizione della chiave. Poi deve aver fatto come me, deve aver guardato con più attenzione ed essersi reso conto che il telaio non era quello che aveva usato fino ad allora come nascondiglio. Così ha capito che non avevano rubato la chiave, ma il quadro”. Sala fece una breve pausa, poi concluse: “Quindi ha fatto mente locale ed è risalito alla persona che lo aveva convinto ad allontanarsi”. “Devo ammettere che come ipotesi è interessante, ma mi sembra un po’ troppo macchinosa. E poi, visti i pochi elementi concreti che abbiamo, non la trovi un po’ azzardata?”. “Può darsi”, rispose Sala, “ma per come la vedo io, alla base di ogni indagine che si rispetti ci sono sempre delle ipotesi, delle congetture. A volte coincidono
con la verità, altre no, ma sono comunque un punto di partenza”. Carapelli annuì, pensieroso, poi aggiunse: “E cosa dici di Santino? Non potrebbe, invece, essere stato d’accordo e aver fatto da basista?”. “Ci avevo pensato anch’io. Ma poi ho deciso che è un’ipotesi da scartare”. “E perché?”. “Per una questione di logica. Perché il basista, se mai, lo si fa sparire dopo aver piazzato la refurtiva, magari per una lite al momento della spartizione. Non ha senso ucciderlo subito dopo aver commesso il furto, lasciando per di più il cadavere dove è stato fatto il colpo e rischiando, così, di mandare all’aria tutto il piano”. Il giornalista continuava a essere perplesso. Gli sarebbe piaciuto mostrare più entusiasmo, ma non riusciva a credere fino in fondo a quello che avevano appena detto. Decise, in ogni caso, di prendere per buone le loro congetture e di continuare a indagare. Se non altro, al momento avevano qualcosa di concreto su cui discutere. Assunse quindi un tono più ottimista e disse: “Be’, a questo punto dobbiamo pensare che se qualcuno è davvero riuscito a distrarre Santino, doveva trattarsi di una persona che lo conosceva bene. Altrimenti si sarebbe insospettito e non avrebbe lasciato al complice il tempo necessario per sostituire il quadro”. “Giusto!”, esclamò Sala, riaccendendo il sigaro che si era spento nel frattempo. “E a questo punto, possiamo riprendere la pista della sorella. Se diamo per scontato di essere sulla strada giusta, chi meglio di lei avrebbe potuto, anche tenendo presente il loro pessimo rapporto, allontanarlo dalla chiesa con una scusa? Forse gli ha detto proprio che le dispiaceva che non si vedessero, e che era ora di chiarire le cose fra loro… un discorso di questo tipo può andar molto per le lunghe, direi”. “Sì, è plausibile. Soprattutto se teniamo conto del fatto che Santino non aveva grandi amici e faceva una vita praticamente monacale. Si allontanava dalla parrocchia solo per fare piccoli acquisti, a quanto pare”.
A poco a poco, Carapelli stava entrando nel ragionamento di Sala e cominciava a pensare che quell’ipotesi, anche se macchinosa e non ancora sostenuta dai fatti, fosse verosimile. A quel punto il problema era riuscire a dimostrarne la veridicità. “Sai che ti dico, Guido? Che mi hai convinto. Non ci resta che scoprire chi, con chi e dove e il gioco è fatto!”, disse, senza tuttavia riuscire a nascondere un pizzico di benevola ironia. “Certo, ma non necessariamente in quest’ordine”, replicò il commissario, aggiungendo: “In ogni caso, se il perito dovesse accertare la falsificazione del quadro, tenendo conto che il suo valore sul mercato clandestino è di gran lunga superiore a quello degli oggetti contenuti nell’urna della chiesa, la mia tesi diventerebbe molto più consistente… Comunque, per ora è inutile continuare a parlarne. Dobbiamo metterci al lavoro e vedrai che i risultati arriveranno!”. Per il resto del tempo che trascorsero insieme, i due non toccarono più l’argomento. Sala si diresse in cucina dove, chiacchierando del più e del meno col giornalista, cominciò a preparare il sugo per la pasta. Un suo vecchio amico pescatore gli aveva regalato, proprio quella mattina, una busta di calcinelli, dei saporiti molluschi simili ai muscoli, ma molto più piccoli e di colore chiaro che, in certe zone, si trovano sotto la sabbia, nell’acqua bassa vicino alla riva. Così, verso la fine della mattinata, i due si concentrarono sulla profumata e gustosissima pastasciutta condita col sugo preparato da Sala, in silenzio, intenti solo a trattenere sul palato il delicato sapore di mare.
La mattina successiva, il commissario, dopo aver tribolato non poco per trovare in mezzo a tutte le sue scartoffie il foglietto sul quale era scritto il numero di telefono del suo ex compagno di liceo, chiamò Falcetti. “Ciao Erasmo, sono Guido, Guido Sala”. “Guido! Come va? Che piacere sentirti!”. “Scusa se ti disturbo, ma ho bisogno di chiederti un grosso favore”. “Dimmi. Se posso, ti aiuto volentieri”.
“Vorrei sapere se saresti in grado di fare una perizia a un quadro”. “Be’, dipende dall’opera. Ognuno di noi si specializza nello studio di un periodo particolare e sugli artisti che sono vissuti in quell’epoca”. “Lo immaginavo. Comunque, prima di parlarti dell’opera in questione, vorrei chiederti di considerare tutto quello che ti dirò strettamente confidenziale. Non dovrai parlare di questa cosa con nessuno e per nessun motivo. Posso fidarmi?”. “Certo, stai tranquillo Guido. Non so ancora di cosa stiamo parlando, ma ti assicuro che puoi contare sia sulla mia professionalità che sulla mia discrezione”. “Bene, allora tieniti forte! Si tratta della tela di Van Cleve!”. “Che cosa? Stai scherzando? Ma io ho ammirato quel quadro un’infinità di volte e posso assicurarti che si tratta dell’originale! A cosa servirebbe un’expertise?”. “Servirebbe a tranquillizzarmi”, rispose Sala. “Ti chiedo solo di dargli un’occhiata e di dirmi cosa ne pensi, sempre che tu ti ritenga in grado di farlo. Spero che non ti offenda e che scai la mia franchezza, ma è davvero importante per me”. “Siamo fortunati! I pittori fiamminghi sono stati il mio pane quotidiano per anni. Sono andato anche diverse volte in Olanda e in Belgio per studiarli e li conosco molto bene”. “Meno male! Allora posso contare sul tuo aiuto?”. “Certo!”. “Bene! Adesso dimmi cosa devo fare per metterti in condizione di arrivare qui al più presto…”. “Niente di speciale, basta che tu venga a prendermi alla stazione di San Giustino all’arrivo del treno. Adesso mi informo sull’orario. Spero proprio di riuscire a prenderne uno stamattina”. “Non so come ringraziarti. Telefonami per dirmi quando arrivi e io sarò alla stazione ad aspettarti. Ciao, e ancora grazie”.
10
Il treno arrivò con dieci minuti di ritardo. Quando Falcetti scese, Sala gli andò incontro con il suo largo ombrello. Una fitta pioggerella stava cadendo da qualche ora su San Giustino. Ma a guardare il cielo, si vedeva che erano nuvole eggere, che avrebbero presto lasciato il posto al sole. I due vecchi compagni di classe si salutarono abbracciandosi e subito dopo, saliti in macchina, si diressero verso la chiesa. Sala parcheggiò e, una volta sceso insieme all’amico, lo invitò a entrare nel bar per prendere un caffè. “Allora, Guido, cosa mi dici?”, chiese Falcetti a voce bassa, quasi sussurrando. “Niente più di quello che ti ho già detto prima al telefono. Adesso si tratta solo di vedere se quello che penso è vero oppure no”. “Ma come mai te ne occupi tu? Non mi hai detto che sei in pensione?”. “È una storia lunga, poi ti racconterò. Per ora, come ti dicevo, ho bisogno del tuo parere e, soprattutto, della tua discrezione”, sottolineò ancora una volta Sala. Bevuto il caffè, uscirono dal bar in silenzio per andare in chiesa. Quando entrarono, don Luigi non c’era. Videro soltanto due anziane donne con le teste piegate in avanti e coperte da un velo nero che pregavano, sedute su una panca vicino all’altare alla sinistra di quello principale, e che non li degnarono neppure di uno sguardo. Malgrado la giornata un po’ grigia, un tenue fascio di luce penetrava attraverso la vetrata, illuminando quasi perfettamente il quadro. Era la situazione ideale per avvicinarsi alla tela, osservarla e toccarla, senza destare sospetti. Nessuno, infatti, nemmeno don Luigi, avrebbe dovuto sapere cosa stavano per fare, pensò Sala, prima che fossero stati fatti dei i avanti nelle indagini.
Quando fu sufficientemente vicino al dipinto, Falcetti si girò verso il suo ex compagno e lo guardò, come aspettando da lui il permesso di procedere. Sala gli posò una mano sulla spalla, dicendogli: “Allora, Erasmo… cosa aspetti? Non abbiamo molto tempo: dobbiamo fare in fretta, prima che arrivi il parroco”. A queste parole, Falcetti si mise immediatamente all’opera. Osservò prima con cura la tela, quindi la sollevò, fissando la sua attenzione sul timbro posto sul retro, che era impresso su tutti i quadri regolarmente catalogati e certificati. Lo guardò con attenzione per un tempo che a Sala sembrò interminabile, usando una specie di piccolo microscopio tascabile dotato di luce, prima di rivolgersi con aria sconsolata, scuotendo la testa, all’amico. “Avevi ragione!”, gli disse, “è proprio un falso! Non capisco come sia possibile. L’ultima volta che l’ho visto avrei giurato di trovarmi di fronte all’originale. Immagino che nel frattempo sia stata fatta la sostituzione. Possibile che nessuno si sia accorto di nulla, nemmeno gli esperti della Curia?… ma non è che questa storia ha a che fare con l’omicidio di cui ti ho chiesto l’altra volta?”. “Lasciamo stare, per ora. Comunque quelli della Curia non c’entrano niente. E il resto è ancora tutto da verificare”.
Quando uscirono sul sagrato non pioveva più. Le nuvole erano improvvisamente scomparse, e nell’aria si sentiva già l’odore particolare che segue, in estate, all’acquazzone, quando i raggi del sole cominciano ad asciugare le pietre e il terriccio umidi. Sala invitò l’amico a pranzo in una trattoria caratteristica, poco distante dalla chiesa. Si sedettero sotto il pergolato, a un vecchio tavolo con il piano di marmo, e ordinarono i piatti consigliati dalla proprietaria, la siura Pina. “Sono contento che tu abbia apprezzato i piatti della Pina. Era parecchio tempo che non vedevo qualcuno fare la scarpetta...”, disse Sala sorridendo. “Se tu avessi una figlia come la mia non ne saresti tanto stupito. Cara e buona, non dico di no, ma con la fissazione di tenermi a dieta. ‘È per la tua salute, papà’… e io non trovo neanche più la forza di ribellarmi ai piatti insipidi che mi
propina. Be’, lo faccio per quieto vivere, ma quando ho l’occasione di mangiare cose saporite ne approfitto”, rispose Falcetti, mentre con il tovagliolo strofinava le spesse lenti degli occhiali. Dopo il caffè e il grappino Sala pagò il conto, congratulandosi con la Pina per l’ottima cucina. Poi, mentre si avviavano verso la macchina parcheggiata, il commissario si offrì di accompagnare l’amico fino a casa, a Genova, con il suo fido mezzo e l’offerta venne subito accettata. Lungo il tragitto, Erasmo cercò di ottenere altre informazioni a proposito del quadro, ma riuscì ad avere solo una spiegazione vaga e lacunosa. A Sala non sembrava bello essere così ermetico e misterioso, ma la situazione lo obbligava a comportarsi in quel modo. Tuttavia, per non urtare la suscettibilità dell’amico, prese tempo e lo consolò con una promessa: “La prossima volta che ci vedremo, e accadrà molto presto, ti assicuro che sarò più chiaro e ti spiegherò tutto. Per adesso, scusami, ma non posso dirti di più. Sono costretto a non parlare anche con chi, come te, mi sta aiutando. Scusami di nuovo e abbi ancora un po’ di pazienza”. Falcetti capì, o almeno diede questa impressione, e per il resto del viaggio parlarono di cucina, di politica, perfino di sport, ma l’argomento del quadro non fu più nemmeno sfiorato. Seguendo le indicazioni dell’amico, Sala riuscì a non incastrarsi nel traffico e ad arrivare davanti al portone dell’anonimo edificio di cinque piani nel quale Falcetti abitava. Lo fece scendere dalla macchina, e dopo averlo nuovamente ringraziato e salutato, riprese per la seconda volta in pochi giorni l’autostrada che doveva riportarlo verso San Giustino. Sulla strada del ritorno cominciò a prepararsi le domande che avrebbe fatto a Maria Querciaroli. Quando aveva proposto a Falcetti di accompagnarlo, infatti, aveva deciso che avrebbe approfittato del viaggio di ritorno per andare a fare visita alla sorella di Santino. Percorsi pochi chilometri, vide alla sua destra la grande freccia verde che segnalava l’ingresso per Rapallo. Svoltò seguendo l’indicazione e, prima di dirigersi verso il centro, si fermò in un piccolo bar, dove consultò l’elenco telefonico per risalire all’indirizzo della donna. Appena trovato quello che cercava, ordinò un caffè, approfittando dell’attesa per chiedere al barista la
strada per raggiungere via Rosselli. “Svolti a destra al primo incrocio che incontra, poi al terzo semaforo a sinistra, poi vada dritto per trecento metri circa. La prima strada che si trova sulla destra è via Rosselli. Non può sbagliare perché proprio di fronte, all’inizio della via, c’è una grande edicola”, spiegò il barista. “Grazie, è stato molto gentile”; e si avviò di nuovo alla macchina. Arrivato nella via, iniziò a controllare i numeri civici. Doveva trovare il settantacinque. Le case ai bordi della strada erano per lo più villette monofamiliari, tranne alcune che erano piccole palazzine su due piani, e avevano tutte sul davanti un giardino ben curato. Il cancello d’ingresso del numero settantacinque era completamente spalancato. Parcheggiata l’auto vicino al muretto di cinta, Sala percorse il piccolo vialetto di ghiaia che portava all’ingresso della villetta. Sotto un piccolo porticato, vide tre sedie e un tavolino di plastica, alcuni vasi di fiori non proprio in salute e un vecchio motorino sul cavalletto, quasi davanti alla porta. Si accorse subito di una piccola applique con la lampadina accesa e notò, in basso, vicino alla soglia, quattro confezioni di latte. Si chinò, prendendone in mano due, quindi controllò anche le altre: ogni confezione recava una data successiva all'altra. Si tolse il cappello e si grattò la testa: era una scena già vista in ato, forse la Querciaroli aveva già preso il volo. Tentennò un po’ prima di suonare il camlo. Poi si decise. Non ottenendo risposta, riprovò più volte prima di andare sul retro. Anche lì non trovò traccia di anima viva. Allora provò a chiamare e a bussare alla porta posteriore che collegava il giardino con la casa, ma niente. Si avvicinò a una piccola finestra, a fianco dell’ingresso, e sbirciò dentro. Venne immediatamente aggredito da un odore nauseabondo e, d’istinto, si ritrasse; poi prese il fazzoletto dalla tasca portandoselo al naso. Respirò profondamente, trattenne il fiato e ritentò l’impresa. Fece appena in tempo a vedere, sdraiato sul pavimento del bagno, il corpo di una donna con indosso una vestaglia bordeaux riverso sul ventre, poi si allontanò per riprendere a respirare. Uscì dal cancello e andò verso la macchina senza incontrare nessuno. Se voleva rimanere nell’ambito della legalità, si disse, doveva immediatamente andare al più vicino commissariato e riferire quello che aveva visto. Solo che a
quel punto sarebbe stato convocato dal sostituto procuratore, il quale, dopo averlo ascoltato, gli avrebbe certamente chiesto cosa ci fe lui in via Rosselli e gli avrebbe poi intimato di non occuparsi più del caso. E quella era l’ultima cosa che voleva. Era incerto sul da farsi. Si rendeva conto, tuttavia, di non avere molto tempo: doveva decidere subito. Dopo poche centinaia di metri vide un bar, fermò la macchina ed entrò. Seduto al tavolo, ordinò l’ennesimo caffè, continuando a riflettere su quello che avrebbe potuto fare e alla fine, bevuta la consumazione, chiese al proprietario dove fosse il telefono. Aveva deciso di fare una telefonata anonima alla polizia, per avvertire gli agenti della presenza del cadavere. Dopo aver chiamato, uscì dal locale, deciso a tornare a casa. “Devo essere impazzito! Non voglio nemmeno pensare a quello che mi aspetta se riescono a risalire a me… Ma forse ne è valsa la pena”, si disse andando verso la macchina.
Arrivato finalmente al casale, trovò una busta fissata con del nastro adesivo alla porta di ingresso, proprio sopra alla serratura. L’aprì subito per leggere il messaggio. Era di Carapelli, che gli chiedeva di chiamarlo al più presto. Entrò in casa, si tolse la giacca, si sedette accanto al telefono e compose il numero del giornalista: “Pronto, Luca?”. “Sì, chi parla?”. “Sono Guido. Che succede?”. “Ciao, Guido. Ti ho cercato dappertutto oggi: ma che fine hai fatto?”. “Ho accompagnato un amico a Genova”. “Ah! Ecco perché non sono riuscito a trovarti. Senti, dovremmo vederci. Ci sono delle cose importanti di cui vorrei parlarti”. “Puoi già accennarmi qualcosa?”. “Veramente preferirei parlartene quando ci vediamo…”.
“Va bene, dimmi tu quando…”. “Per me andrebbe bene anche subito”. “D’accordo, allora ti aspetto. Fra quanto pensi di arrivare?”. “Sarò lì fra mezz’ora”.
Mise giù la cornetta e andò in cucina, preparò il caffè e si sedette di fianco al tavolo. Era pensieroso. Un po’ per il rischio di trovarsi di fronte al magistrato e dover spiegare i motivi di un comportamento che non si confaceva né al suo carattere né alla sua posizione, un po’ perché la scoperta di un altro cadavere dava ancora più peso alla sua ipotesi iniziale. Non aveva dubbi sul fatto che il secondo omicidio – perché era convinto che non si trattasse di una morte naturale – fosse da collegarsi a quello di Santino. Versò il caffè nella tazzina, lo corresse con un goccio di grappa e lo bevve a piccoli sorsi, lo sguardo fisso su un punto indefinito della parete di fronte a lui. Tornò quindi in salotto, si sedette sulla poltrona, abbandonando la testa all’indietro e le braccia lungo i braccioli per rilassarsi, e cadde in un leggero dormiveglia. Quando Carapelli arrivò davanti alla porta, Sala percepì il lieve rumore di i e, ormai sveglio del tutto, si alzò per andargli ad aprire. “Ciao, Luca… Ma che caspita hai fatto all’occhio?”. “Ho sbattuto contro un pugno mentre ero fermo in macchina a guardare una strana scena”. “Quale scena, e chi ti ha dato il pugno?”. “Non lo so, non l’ho visto. Ieri sera, verso le dieci, ero in macchina, al buio, con i finestrini abbassati, vicino alla pensione Paradiso. Avevo visto delle persone parlare con il dottor Lamberti, il farmacista (mi stavo giusto dicendo che era tutto piuttosto strano), quando è spuntato qualcuno da dietro gli alberi e mi ha mollato un cazzotto. Sono mezzo svenuto e quando mi sono ripreso non c’era
più nessuno!”. “Vieni, entriamo. Sei riuscito a prendere un numero di targa o a sapere chi fossero quelle persone?”. “Assolutamente no. Ti ho detto che ero mezzo rintontito. L’unico che ho riconosciuto è il farmacista. Ma cosa ci faceva lì a quell’ora?”. “Ma perché quella scena ti ha colpito tanto? In fin dei conti potevano anche essere degli amici che erano andati a cena fuori e si stavano salutando”. “No. Mi sono fermato e nascosto, perché mentre avo con la macchina ho notato che quelle persone, cinque per essere esatti, stavano discutendo piuttosto animatamente, tanto che uno di loro ha dato uno spintone a un altro. Così mi sono incuriosito, ho guardato meglio e ho riconosciuto Lamberti. Volevo capire di che cosa stessero discutendo, ma sul più bello…”. “Magari hai solo messo il naso in cose che non ti riguardavano e qualcuno te lo ha fatto cortesemente notare”. “Sì, sì… scherza tu, tanto il cazzotto l’ho preso io”. “Quante storie per un pugno! Pensa che ne è valsa la pena, e vedrai che starai meglio. Come al solito hai fatto un buon lavoro. Quello che è successo ne è la conferma e sono sicuro che ci porterà lontano”. “Speriamo. Ma la prossima volta spero di poter fare a meno di certe manifestazioni di cortesia per avere i tuoi complimenti”. “Facciamo così, la prossima volta andrò io. Contento?”. “Sì, certo. Sto già meglio se penso a te con un occhio nero”. Sala gli mise una mano sulla spalla, lo sospinse amichevolmente verso il salotto e gli disse: “Stamattina è venuto Falcetti, quel mio amico esperto d’arte cui ti avevo accennato, e ha confermato i miei sospetti riguardo al quadro”. “Bingo!”, esclamò Carapelli.
“E non è finita! Nel pomeriggio l’ho riportato a Genova e al ritorno sono ato a casa di Maria Querciaroli, perché volevo farle alcune domande e…”. “E?”. “E l’ho trovata morta stecchita, stesa sul pavimento del bagno”. “Porca puttana! ma che sta succedendo?”. “È quello che dobbiamo scoprire. Ma dovremo essere molto prudenti. Il gioco si sta facendo davvero pesante!”. “Altro che pesante! Certo che quel quadro deve valere un sacco di soldi se ha portato alla morte di due persone”. “Sì, credo che valga molto. Ma gli omicidi, secondo me, non erano in programma. Le cose devono essere sfuggite di mano ai ladri, e commesso il primo omicidio, è diventato inevitabile anche il secondo, per proteggere la loro identità, i loro interessi o segreti. Sempre se diamo per scontato il legame fra le due morti”. “Sarebbe una coincidenza davvero assurda, non trovi? Ma come hai fatto a entrare in casa? Hai trovato la porta aperta?”. “No, sono andato sul retro e ho visto il corpo da una finestra”. “Hai chiamato la polizia?”. “Non proprio”. “Come sarebbe? Ma sei ammattito anche tu?”. “È da oggi pomeriggio che me lo chiedo. Ma a caldo, ho pensato che fosse meglio comportarmi così. Non voglio che il magistrato sappia che mi sto occupando del caso, almeno per adesso”. “Quindi la polizia non sa ancora niente?”. “Certo che lo sa, ho fatto una telefonata anonima per avvisarla”. “Ma sei sicuro che si tratti proprio di Maria? L’hai vista in faccia?”.
“Veramente no. Ma non vedo chi altri potrebbe essere. Maria viveva sola e il cadavere aveva addosso una vestaglia, quindi non credo che possa essere un’altra persona. Comunque basterà aspettare i giornali per avere la conferma ufficiale”. “E adesso cosa intendi fare?”. “Non lo so ancora. Domani ne riparliamo e decidiamo come muoverci”. “Pensavo che intanto potrei andare a Rapallo e sentire cosa si dice da quelle parti. In fin dei conti sarebbe normale per un giornalista di cronaca”. “Mi sembra una buona idea. In ogni caso ci risentiamo domani, va bene?”
11
Era appena sceso in paese e stava attraversando la piazza, quando incontrò il parroco. “Buongiorno, don Luigi”. “Buon giorno, commissario”. “Ha saputo di Maria, la sorella di Santino?”. “Purtroppo sì. Sono appena stato dai carabinieri. Mi avevano convocato per riconsegnarmi le copie delle chiavi della canonica. Le hanno trovate fra le cose di Santino che avevano preso per esaminare. Quando sono arrivato, mi hanno dato la notizia”. “È una gran brutta storia”, disse Sala. “Sì…. è terribile. Se andiamo avanti così, presto l’inferno ci inghiottirà tutti”. “Ha ragione, padre. Per certe persone la vita degli altri vale meno di niente”. “Commissario, può venire con me in canonica? Ho bisogno di parlare con qualcuno che mi faccia capire, o che almeno provi a spiegarmi cosa sta succedendo, perché io non so davvero cosa pensare…”. “La seguo volentieri, don Luigi. Ma non si illuda che io sia in grado di dare una risposta alle sue domande”. Si avviarono verso la chiesa e, quando furono entrati, Sala si sedette su una panca della sacrestia. Istintivamente prese il sacchetto di plastica che don Luigi aveva posato sul tavolo e vi infilò la mano. “Sono solo chiavi, commissario!”. “Oh! Mi scusi, non le ho neanche chiesto il permesso di frugare. Il mio è stato un
gesto istintivo, ero sovrappensiero”. “Non si preoccupi, non è successo niente. Guardi pure”. Approfittando subito dell’invito, Sala svuotò il sacchetto sul tavolo. I mazzi di chiavi erano contrassegnati da una serie di targhette che indicavano con precisione le porte cui corrispondevano. Sala rimase però colpito da un portachiavi vuoto. Attaccato a una catenella, c’era un piccolo oggetto di plastica nera, al centro del quale appariva la parola “magic” scritta in rilievo sotto a un pulsantino. Quando lo schiacciò, un minuscolo fascio di luce colpì la parete vicina. Era una torcia in miniatura, di quelle che servono per illuminare le serrature e permettono di infilarvi rapidamente la chiave anche al buio. “Certo che ormai non sanno più cosa inventare!”, esclamò Sala divertito. Poi, ricordando il motivo per cui aveva seguito il parroco, gli disse: “Come le stavo dicendo poco fa, non sono in grado di dirle nulla di concreto su quello che è successo. Questo caso è molto complicato e sono convinto che ci vorrà ancora del tempo prima di arrivare a una soluzione”. “Spero che si sbagli, commissario, e che si arrivi alla svelta a capire cosa sta succedendo. Non voglio nemmeno immaginare che quello che è accaduto a Santino e poi a sua sorella possa verificarsi di nuovo”. “Lo spero anch’io, padre. Ma al momento, purtroppo, non vedo elementi che possano portare a una rapida conclusione”, disse Sala. Poi, cambiando discorso chiese: “Queste sono le chiavi della canonica?”. “Sì, certo”. “Ne è sicuro, padre? Ha controllato?”. “Be’, a dire il vero ancora no, ma guardandole mi pare di conoscerle tutte”. “In ogni caso è meglio che controlli, non si sa mai, poi mi dirà… Senta, le dispiace se prendo questo ciondolo? Sempre che non serva a lei, naturalmente”, chiese Sala, indicando il portachiavi col pulsantino. Poi proseguì, come per giustificarsi:
“Non ho una luce che illumini la porta di casa e mi farebbe comodo”. “Ma certo, commissario, lo prenda pure. Io non saprei proprio che farmene”. Sala prese il portachiavi e ringraziò. Poi si alzò dalla panca e si avviò verso la porta. “Mi avverta se nota qualcosa, e grazie ancora per il portachiavi. Arrivederci, don Luigi”. Si incamminò frettolosamente verso casa, continuando a rimuginare tra mille pensieri. Quello che più lo assillava era la possibilità che esistesse una relazione fra i due omicidi e l’episodio del cazzotto affibbiato, in circostanze ancora da chiarire, a Carapelli. Ripensava a quello che gli aveva raccontato il giornalista, e si chiedeva cosa c’entrasse il farmacista in quella vicenda. Se non fosse stato per il pugno, la situazione in sé non sarebbe stata né strana né sospetta, ma c’era l’occhio nero del suo amico che esigeva una spiegazione. Doveva cercare di capire cos’era successo e anche in fretta. Stava appunto decidendo cosa fare, quando un invadente e prepotente profumo gli arrivò alle narici e lo costrinse a fermarsi e voltarsi verso la direzione da cui proveniva. Si accorse così di essere arrivato sotto casa dell’Irene e non ebbe più dubbi. Solo lo stoccafisso in umido, con le patate, il pomodoro e le olive nere, poteva emanare quell’odorino. Una vera ghiottoneria. E poi l’Irene era nota in paese per essere una cuoca eccellente, soprattutto quando si trattava di preparare i piatti tradizionali. In quella casa le ricette si tramandavano di madre in figlia, e non c’era pericolo che gli antichi sapori fossero modificati dalle moderne regole dietetiche o da una cottura frettolosa, che non consente agli ingredienti di amalgamarsi come si deve. Mentre assaporava con la fantasia quella delizia, si ricordò che non aveva preparato niente prima di uscire di casa. Così riprese a camminare immaginando quello che avrebbe messo sui fornelli e poi in tavola per pranzo, e quello che fino a poco prima era stato solo un languore si trasformò in appetito. Arrivato a casa, tuttavia, si accorse che nonostante la fame non aveva una gran voglia di cucinare. La mente continuava a seguire il filo dei pensieri, così decise di prepararsi solo una veloce ma saporita omelette ai funghi. Concluse il pranzo con un caffè, poi si diresse verso lo studio e sprofondò nella poltrona, dove riprese a ragionare sugli ultimi avvenimenti.
Non riusciva a togliersi dalla testa la figura del farmacista. Lo aveva incontrato in autostrada, proprio all’altezza del casello di Rapallo, qualche giorno prima di ritrovare il cadavere di Maria. Poi, eccolo riapparire la sera del cazzotto a Carapelli. Due strane coincidenze. Ma che relazione poteva esserci con i delitti? E dov’era il movente? Dov’era stato ucciso Santino? Forse erano davvero solo coincidenze. In ogni caso avrebbe dovuto parlare di nuovo con il giornalista. Forse alla fine sarebbe saltato fuori un particolare dimenticato che poteva esser utile per capire come stessero le cose. Accese il toscano, si alzò e andò davanti alla finestra. Un maestrale teso giocava col mare, producendo piccole increspature bianche di schiuma a perdita d’occhio. Le onde leggere si inseguivano, si incrociavano per dividersi subito dopo secondo la direzione delle raffiche e lui non riusciva a smettere di guardarle, incantato da quello che vedeva e dal suono delle onde che si frangevano sul bagnasciuga.
Il pomeriggio del giorno dopo, visto che Carapelli non era ancora rientrato da Rapallo con nuove notizie, decise di andare alla locanda Paradiso, per cercare di capire chi fossero le persone con cui aveva parlato Lamberti poche sere prima. Doveva stare attento a non lasciar trapelare la vera ragione che lo portava a far visita all’albergatore. Se la notizia che stava indagando fosse giunta alle orecchie di Garofalo, questi lo avrebbe certamente convocato per chiedergli spiegazioni, e lui non voleva assolutamente trovarsi nella spiacevole situazione di doversi giustificare. Scese per il “viottolo del biancone” – aveva infatti deciso che quello era il nome della scorciatoia – e, arrivato in fondo, prese un sentiero che portava, attraverso la campagna, allo spiazzo di fronte alla locanda. I campi che stava attraversando appartenevano a Tomà, un vecchio contadino conosciuto da tutti perché era probabilmente il miglior produttore di basilico di tutta la Liguria. Era proprio quel basilico a foglia larga e coltivato in terra piena, tipico della zona del levante, a rendere unico al mondo il pesto alla genovese. Il profumo della pianta, al momento della raccolta, si diffondeva nell’aria per centinaia di metri. Tomà raccontava che, durante la guerra, i partigiani attraversavano i suoi campi per sfuggire ai tedeschi, perché il profumo delle sue piante copriva ogni altro odore, stordendo i cani che non riuscivano più a seguire le tracce delle persone che
stavano inseguendo. Ma forse era una balla che il contadino si era inventato per dare ancora più valore al suo basilico. Quando entrò nella locanda, ebbe l’impressione di aver appena attraversato la porta del tempo. I ricordi affioravano alla sua mente in immagini nitide che si confondevano con altre del tutto sfocate. Voci sussurrate insieme ad altre concitate, grida perentorie e cupe insieme a ordini secchi che gli ufficiali tedeschi impartivano ai loro subalterni. Frasi incomprensibili, che finivano quasi tutte allo stesso modo, con la parola “Schnell!” urlata più volte con rabbia, si confondevano con quelle delle madri e delle mogli imploranti e dei poveri disgraziati che venivano spintonati verso i bui corridoi del piano terra. Alcuni di loro erano morti per mano della Gestapo, altri erano finiti a Birkenau insieme a suo padre. Quel palazzetto, ora tanto accogliente e colorato, con le tinte pastello dell’esterno ravvivate dai vasi di geranio appesi ai balconi, era stato durante la guerra un posto tetro e terribile: il quartier generale di un avamposto nazista che, nel ’43, aveva coordinato la deportazione degli ebrei e la repressione contro i partigiani e chi li appoggiava. Lì, la mattina del 13 maggio 1944, era entrato suo padre. Lì lo aveva visto per l’ultima volta. Una medaglia al valore, con la scritta “Il coraggio di molti a garanzia della libertà di tutti” era l’unica cosa che gli era rimasta – oltre al ricordo delle lacrime versate mentre in braccio alla madre assisteva alla scena – di quel giorno lontano.
Il proprietario della locanda non era del posto e non conosceva ancora tutti in paese. Si era trasferito a San Giustino con la famiglia al seguito solo otto mesi prima, dopo aver comprato e ristrutturato l’immobile. Fino a quel giorno aveva diretto, per conto di una società, un albergo di Genova molto più grande e importante di quello che gestiva adesso, ma che aveva il grave difetto di non essere suo. Così, per coronare il sogno di una vita, aveva comprato quel palazzetto trasformandolo in una comoda e accogliente locanda. Sala era immobile, con lo sguardo perso nel vuoto. Fissava, come ipnotizzato, il grande camino spento in fondo al salone e continuava a ricordare. Gli tornavano alla mente le sere buie e fredde di quegli anni, quando lui, sua madre e sua sorella restavano accanto al camino aspettando che le patate messe ad abbrustolire fossero pronte per esser mangiate. Nonostante la guerra, non
avevano sofferto la fame. Certo, a volte mancava la farina, oppure lo zucchero, o qualche altra cosa, ma per fortuna accadeva di rado. In quel periodo, in campagna, si riusciva sempre ad avere qualcosa da mettere in pentola o da barattare con quello che mancava. Erano anni che non tornava in quel posto. Era come se lo avesse rimosso dalla memoria, elevando un muro, una barriera fra se stesso e quello che non voleva ricordare. Forse era per vigliaccheria che aveva cancellato quelle immagini dolorose del ato, o forse l’aveva fatto solo per ricordare suo padre in un contesto diverso, per poter pensare a lui senza dover affrontare l’incubo dell’ultima volta che lo aveva visto.
12
“Salve! In cosa posso servirla?”, chiese l’albergatore rivolto a Sala, mentre gli andava incontro sull’uscio del locale. Lui scrollò la testa, come chi si riaffaccia improvvisamente alla realtà dopo essere volato lontano con i pensieri, e abbozzando un sorriso rispose: “Buongiorno. Scusi se la disturbo, ma mi chiedevo se fosse così cortese da darmi un’informazione”. “Mi dica e vedrò se posso aiutarla”. “È molto gentile da parte sua. A dire il vero non è niente di particolare, solo una curiosità che mi è venuta l’altra sera. Stavo ando da queste parti e ho visto delle persone discutere qui fuori. Solo dopo essermi allontanato ho realizzato che tra di loro c’era un mio vecchio compagno di università che non vedo da parecchio tempo. Così ho pensato che forse potrebbe aiutarmi a rintracciarlo”. “Lo farei volentieri, ma non so come”. “Vorrei soltanto sapere se l’altra sera ho visto bene oppure no. Forse quelle persone, compreso il mio amico, hanno alloggiato qui alla locanda. In questo caso lei potrebbe aiutarmi dicendomi se sono ancora qui”. “Anche volendo, non saprei a quali persone si riferisce. In questo periodo ne arrivano e ne partono tante che non saprei proprio…”. “Certo, ha ragione… Ora che ci penso, c’era anche il dottor Lamberti in quel gruppo, sa il farmacista del paese…”. “Vediamo, mi faccia pensare… di che giorno parla?”. “Era mercoledì scorso, verso le dieci di sera, minuto più, minuto meno”. L’albergatore corrugò la fronte e si strinse il labbro inferiore fra l’indice e il
pollice, rendendo evidente lo sforzo fatto per ricordare; quindi disse: “Sì, ricordo di aver intravisto qualcuno del paese, ma non era il dottor Lamberti, era Pistilli. Sì, era proprio lui, il meccanico. Ha capito di chi parlo?”. Sala fece un cenno di assenso, poi voltò la testa di lato e inarcando le sopracciglia cominciò a riflettere come se fosse solo. “Ehi? Dica! È ancora qui?”, gli disse scherzosamente l’albergatore, vedendolo del tutto assente. “Come? Ah, sì. Certo. Mi scusi, stavo pensando a una cosa. Ma la prego, continui”. “Ora che mi ci fa riflettere, l’ho visto insieme a delle persone, proprio lì fuori, sul piazzale”. “Ne è sicuro?”. “Direi di sì… Ma mi scusi, lei chi è?”. “Ha ragione, non mi sono neppure presentato. Mi chiamo Sala. Abito in paese, in alto, nel borgo vecchio”. “Mi sembrava infatti di averla già vista. Comunque la sera di cui parla c’erano delle persone qui fuori che parlottavano e gesticolavano con una certa enfasi. Non so di cosa parlassero, e del resto non erano affari miei. In ogni caso, anche volendo, non avrei capito niente perché erano stranieri. Tedeschi, credo… o forse olandesi. Anzi, sì, erano proprio olandesi!”. “Come fa a esserne così sicuro? Voglio dire: riesce a distinguere il tedesco dall’olandese?”. “Eh, magari! No, purtroppo non è per quello. È solo che ricordo di aver visto, vicino alla targa della macchina su cui sono saliti per andar via, un adesivo con la sigla NL, e quella sigla sta per Nederland, cioè Olanda, se non mi sbaglio”. “Ah, ecco! E poi cosa è successo?”. “Quando?”.
“Quando sono saliti in macchina, sa dove sono andati?”. “Non ne ho idea. Comunque non hanno dormito qui da me, si erano fermati solo per la cena”. Mentre rispondeva, l’albergatore continuava a guardare Sala come chi, di fronte a una faccia nota, non riesce a stabilire un collegamento col nome o a ricordare in che circostanza ha già visto quella persona. Poi finalmente esclamò: “Ora ricordo!”. “Cosa?”, si affrettò a chiedere il commissario, accennando un sorriso e senza nascondere la sua curiosità. “Ma certo! Lei è il commissario, il commissario Sala! Come ho fatto a non riconoscerla subito!”. “Già… come ha fatto?”, chiese Sala ironicamente; poi aggiunse: “Sono cose che capitano”, senza riuscire a dissimulare la sua delusione. Si aspettava qualcosa di interessante, invece era la solita tiritera. “Ora capisco perché mi ha fatto tutte queste domande!”. Sala, sul chi vive, si informò: “Cosa intende dire?”. “Be’, lei magari non se ne rende conto, ma voi poliziotti dovete avere una deformazione professionale. Fate sempre le domande in un certo modo, anche se non riguardano il vostro lavoro. Usate la stessa procedura, lo stesso metodo. È per questo che l’ho riconosciuta”. “E come mai conosce in questo modo le nostre procedure? È venuto per caso qualcuno a interrogarla ultimamente?”. “Ma no, si figuri! Cosa dovrebbero venire a chiedermi? Queste cose le so perché sono un divoratore di libri gialli!”. “Ah! Ho capito”, rispose Sala, sforzandosi di non scrollare la testa in segno di disapprovazione.
“Ma venga, commissario, si accomodi, non resti lì in piedi. Posso offrirle qualcosa?”. “Faccia conto che abbia accettato. Ma a quest’ora e con lo stomaco vuoto non bevo mai nulla”. “Allora faccio portare degli stuzzichini, con un buon bicchiere di vino novello. È del mio podere e lo faccio con le mie mani, niente additivi, solo uva, uva Bosco e olio di gomito. Mi creda, come aperitivo è insuperabile!”. “No, la ringrazio ancora, ma non si disturbi, davvero, sto bene così. Sarà per un’altra volta”. Intanto si erano seduti sul divano dell’ingresso, di fronte al banco della reception. “Allora, dove eravamo rimasti?”, chiese l’ospite. “Al fatto che si erano fermati per cena. C’è qualcos’altro che ricorda?”. “Purtroppo no, niente di particolare”. “Va bene. Vorrà dire che per ora non avrò modo di rintracciare il mio vecchio compagno. Be’, in fondo era solo un’idea, non è poi così importante”, disse Sala mentre continuava a giocare nervosamente con il portachiavi che gli aveva dato don Luigi. “Mi scusi, commissario, ma perché non chiede al meccanico?”. “Ha ragione. È una buona idea, lo farò senz’altro. Per il momento la ringrazio: è stato davvero gentile, signor…?”. “Parodi. Luciano Parodi”. “Allora arrivederci e ancora grazie, signor Parodi. Una sera di queste verrò a cena da lei per assaggiare la sua cucina”. “Bene, allora la aspetto”. “Ci conti. A presto”; e stringendogli la mano, si accomiatò.
Si tolse la giacca e la appoggiò su una spalla, dopo averla uncinata con un dito per il bavero, poi si avviò per la statale verso il paese, rimuginando su quel che Parodi gli aveva detto. Come mai Carapelli aveva scambiato il meccanico Pistilli per Lamberti? Dopo aver riflettuto arrivò alla conclusione che, in fondo, non era poi così difficile: i due avevano pressappoco lo stesso fisico, la stessa età, lo stesso taglio di capelli, e poi era buio. Anche la nazionalità delle persone che erano con lui quella sera lo lasciava perplesso. E soprattutto il fatto che, per avere una guardia del corpo che guardava loro le spalle, dovevano essere persone importanti. Parodi aveva detto che erano olandesi, come l’autore del quadro rubato. Possibile che anche questa fosse una coincidenza? Camminava con o spedito, quando sentì una voce di donna che lo chiamava. “Commissario, commissario!”. Si voltò e vide Teresa che, in sella a una vecchia bicicletta, arrancava su per la piccola salita nella sua stessa direzione ma sul lato opposto della strada. Cercò di darsi immediatamente un contegno e, sfoggiando il miglior sorriso del suo repertorio, dopo aver controllato che non assero macchine, attraversò e si diresse trotterellando verso la donna che si era fermata sul ciglio della statale. “Buongiorno, Teresa. Che piacere incontrarla! Stavo proprio pensando di fare un salto da lei, al negozio”, disse Sala con convinzione, cercando di nascondere l’emozione dovuta alla timidezza che, come sempre in quei casi, non riusciva a controllare. “Da me?”. “Sì, da lei. Pensavo che l’avrei trovata lì”, e mentre finiva la frase nei suoi occhi balenò l’ombra del dubbio. Guardò subito l’orologio, per accertarsi di non aver detto una stupidaggine e assicurarsi che a quell’ora i negozi fossero ancora aperti. “Be’ per fortuna non ha deciso di are prima. Ho lasciato mia figlia da sola perché dovevo fare una commissione. Sto tornando indietro proprio adesso”. Erano solo le cinque e un quarto e Sala tirò un sospiro di sollievo perché aveva appena evitato la solita figura da imbranato.
“E di cosa ha bisogno, commissario?”. “Io? Di una… camicia, sì, di una camicia bianca, di quelle a maniche corte e…”. Non era affatto quello che avrebbe voluto dirle, ma era l’unica frase che era riuscito a tirar fuori in quel momento! Non gli serviva una camicia, né bianca, né blu, né di nessun altro colore. Ormai ne aveva una collezione nell’armadio, che gli sarebbe bastata per anni. Voleva solo invitarla, invitarla a cena, ma anche stavolta si era incartato come un ragazzino alle prime armi. Teresa sorrise dolcemente, come se gli avesse letto nel pensiero e avesse capito il suo piccolo dramma. “Già”, continuò Sala, prendendosi in giro da solo, quasi volesse punirsi per la sua timidezza, “di una camicia e anche di un cappello e un paio di scarpe. Magari anche di un maglione… non si sa mai, dovesse abbassarsi all’improvviso la temperatura”. Poi rimase zitto per un attimo, quindi, preso il coraggio a due mani, continuò: “Stupidaggini!… A dir la verità volevo are in negozio per invitarla a cena… Ecco, finalmente l’ho detto!”. Teresa lo guardava con un’espressione divertita e stupita allo stesso tempo. Dopo un breve silenzio, durante il quale Sala non riusciva a staccarle gli occhi di dosso, esclamò sorridendo: “Mi farebbe piacere cenare con lei. Visto che non era poi così difficile?”. Poi, stando sempre seduta sul sellino, si sistemò la lunga gonna che delle piccole raffiche di vento avevano sollevato. “Perfetto”, rispose lui, entusiasta; e continuò: “Potrebbe andar bene domani sera, diciamo alle otto?”. “Direi di sì, solo sarebbe meglio verso le otto e mezza, così avrò il tempo di salire un attimo a casa dopo la chiusura”. “Non so proprio dove ho la testa! Ha ragione, non avevo pensato che quella è l’ora in cui i negozi chiudono”.
“Allora d’accordo. Ci vediamo domani sera alle otto e mezza”; e, sistemata per l’ennesima volta la gonna, riprese a pedalare sul bordo della strada. Fatti pochi metri, si voltò per sorridergli prima di continuare la scalata, ciondolando con le spalle e zigzagando per lo sforzo. Sala restò immobile, piantato sulle gambe, a guardarla, finché non la vide sparire dietro un dosso.
13
Il cielo era limpido. In lontananza si poteva osservare la scia lasciata dalle navi che solcavano il mare, lontane dalla riva. Solo verso l’orizzonte si intravedevano delle piccole nuvole, simili a batuffoli di cotone. Un lieve venticello, scorrazzando fra i carruggi, accarezzava i piccoli arbusti e le foglie d’edera che avvolgevano i muri degli orti e dei giardini del paese. Sala stava rimettendo a posto lo studiolo che, la sera prima, aveva letteralmente messo sottosopra, nel vano tentativo di trovare la chiave della cassetta della posta. Erano giorni, ormai, che non la vedeva. Mentre risistemava gli oggetti e i fogli spostati, continuava la sua ricerca, godendosi la brezza che entrava dalla finestra aperta. Sentì suonare il camlo e, posate alcune carte che aveva in mano, si diresse verso l’ingresso. “Guido, sono sicuro che non mi crederai, ma è la pura verità”, gli disse senza preamboli Carapelli, non appena gli aprì la porta. Poi lo fece spostare di lato ed entrò, avviandosi verso il salotto. Arrivato nella stanza si sedette sulla poltrona e, mentre si allentava la cravatta e si sbottonava il colletto della camicia, stava per continuare, quando venne interrotto da Sala: “Siamo alle solite, Luca! Cos’è successo stavolta di così importante?”. “Tieniti forte, Guido, questa sì che è una notizia!”. “Insomma, vuoi andare avanti o pensi di continuare così?”. “Va bene, va bene! Vuoi sapere a chi appartiene la villetta in cui viveva Maria Querciaroli? … Be’, te lo dico subito, tanto non indovineresti mai. È della Curia!”, esclamò con soddisfazione il giornalista, gustandosi l’espressione di Sala.
“Della Curia? E cosa c’entrava Maria con la Curia?”. “È quello che mi sono chiesto anch’io”, rispose Carapelli, mentre si toglieva la cravatta e, dopo averla arrotolata ben bene in modo da farla stare in un pugno, la infilava in tasca. Sala, intanto, fattosi serio, fissava un punto a caso della stanza grattandosi la testa e distruggendo con quel gesto, senza rendersene conto, tutto il complesso lavoro di restauro che ogni mattina dedicava alla sua chioma un tempo fluente. “E dell’omicidio si sa già qualcosa?”. “È ancora troppo presto. I magistrati e la polizia non si lasciano sfuggire una parola. L’unica cosa che sono riuscito a sapere è che l’anatomopatologo attribuisce la causa della morte allo strangolamento”. “In effetti non ho notato tracce di sangue sul pavimento, quando ho scoperto il corpo. Chi è il magistrato inquirente?”. “Il dottor Salimbeni. Un tipo in gamba, ma è inutile dirlo a te che lo conosci senz’altro”. “Certo che lo conosco. Ho avuto a che fare con lui diverse volte, in ato. È un ottimo giudice”. “Ah, e poi c’è un’altra cosa. Sembra che il perito faccia risalire la data del decesso a domenica scorsa”. “Quindi proprio al giorno in cui ero a Genova… E al ritorno, come ti ho già detto, ho incontrato il farmacista, proprio vicino allo svincolo di Rapallo…”. Mentre cercava di riordinare le idee, Sala premeva ripetutamente e ossessivamente il pulsante del portachiavi che aveva tirato fuori dalla tasca. Ormai era diventato una specie di tic: ogni volta che era nervoso o quando doveva concentrarsi, ricorreva a quello strano oggetto, quasi avesse il potere di calmarlo o di fargli trovare una soluzione. Dopo qualche istante di silenzio, ricominciò a parlare:”Ora tocca a me raccontarti le novità. Oggi sono stato alla locanda e, parlando con il proprietario, ho scoperto che la persona che hai visto la sera del famoso pugno era Pistilli e
non Lamberti”. “Pistilli? e chi è?… Eppure avrei giurato che…”. “Lascia perdere. Pistilli è il meccanico che ha l’officina all’inizio della salita, giù in paese”. “Non lo conosco. Credo di non averlo mai visto”. “Non preoccuparti, può succedere a tutti di sbagliare”. “Già”, rispose il giornalista, un po’ stizzito con se stesso per il granchio che aveva preso. “Comunque, sai cosa vuol dire tutto questo? Che dobbiamo riconsiderare tutte le nostre ipotesi. Per adesso dobbiamo fare un o indietro”, sentenziò Sala sfiduciato; poi continuò: “Ci mancava anche questa! Non ci capisco più niente. Ogni volta che penso di aver trovato un indizio importante, viene fuori qualcosa che rimette tutto in discussione o che comunque non ha niente a che fare con l’ipotesi che avevo preso in considerazione”, e intanto continuava a eggiare avanti e indietro per la stanza. Carapelli lo osservava in religioso silenzio. “Non è pensabile continuare a indagare in queste condizioni, con tutte le difficoltà che incontriamo. Oltretutto devo anche stare attento a non farlo sapere né al magistrato né ai carabinieri”, disse, togliendosi la giacca e appoggiandola in malo modo sullo schienale di una poltrona, prima di concludere: “È troppo frustrante, andare avanti così non ha senso”. Dalla finestra, intanto, arrivavano le voci delle comari, che stavano litigando, giù in strada, per una secchiata d’acqua finita, per sbaglio o forse no, dove non avrebbe dovuto. Carapelli, visto che l’amico si era diretto verso il bagno senza aggiungere altro, si avvicinò alla finestra, un po’ disturbato dal vociare delle donne, un po’ incuriosito dal motivo che l’aveva scatenato, e cominciò a osservare la scena. Quando Sala riapparve, il giornalista, sempre intento a guardare, scuoteva la testa e, brontolando, manifestava la propria disapprovazione.
“Che fai, Luca? Visto che siamo a un punto morto, hai deciso di scrivere un articolo su questa baruffa?” “Non capisco come fai a vivere in questo posto…”, gli rispose Carapelli. “Lasciamo perdere, tanto se spero di fartene apprezzare il fascino perdo solo tempo”. Parlando, vagava con lo sguardo per la stanza. Scorse così il piccolo anello di un portachiavi che spuntava da sotto il tappeto. “Eccole finalmente!”, esclamò soddisfatto. “Ma di cosa parli?… Non ti vedo mica tanto bene oggi, mi sembri un po’ strano”. “Delle chiavi della mia cassetta portalettere. Sono almeno cinque giorni che le cerco. Ormai avevo deciso di scla, per vedere se è arrivato l’assegno dell’INPS che sto aspettando. Vado a controllare…”. Si diresse verso l’ingresso e scese le scale, per raggiungere la cassetta ridotta ormai a una scatola arrugginita. Aprì lo sportello e afferrò le buste contenute all’interno: un paio di lettere e fogli pubblicitari. Dell’assegno neanche l’ombra. Rientrato in casa, buttò tutto sul tavolino e, rivolto a Carapelli, disse: “Senti Luca, mi dispiace, ma ci ho pensato bene e sono arrivato alla conclusione che è meglio lasciar perdere tutto. In fondo, ci sono i carabinieri che se ne occupano… E poi io non ho, come te, un motivo valido per proseguire l’indagine. Andrò a parlare con Garofalo e gli riferirò del quadro. Quando lo troveranno, sarà facile risalire all’assassino”. Carapelli non cercò neppure di dissuaderlo, lo guardò e annuì, prima di farfugliare sconsolato: “Ti capisco. Al tuo posto farei la stessa cosa”. “Ormai mi conosci, sai che non sono il tipo che si arrende facilmente davanti alle difficoltà. Il fatto è che non mi riconosco più… mi sembra di essere un carbonaro che trama alle spalle di Garofalo e dei magistrati, invece che un ex
ispettore che indaga, in buona fede, per rendersi utile e aiutare a scoprire la verità”. “Però, che discorso! Guarda che ci sono solo io. Non siamo nell’aula di un tribunale o in piazza!”, gli rispose il giornalista scherzando. Poi aggiunse: “Non hai bisogno di giustificare la tua decisione con tanta enfasi. Ho detto che al posto tuo avrei fatto lo stesso e lo penso davvero”. Sala restò serio; non gli piaceva vestire i panni di quello che rinuncia, era a disagio e si sentiva anche un po’ vile. Quindi, per non abbandonare del tutto l’amico, gli disse: “Facciamo così, Luca: tu continua a guardare in giro e io cercherò, per quel che mi è possibile, di darti tutto l’appoggio che ti serve”. Un refolo di vento, entrato dalla finestra aperta, aveva intanto sollevato dal tavolo alcuni fogli, facendoli volare per terra. “E poi”, continuò il commissario, “non sono capace di andare in giro a far domande così, senza averne l’autorità. Mi sento sempre in difetto, e non riesco a concludere niente”. Si chinò a raccogliere le carte sparse ai piedi del tavolo e le appoggiò come erano prima, quasi nello stesso punto, guardandole senza interesse. Solo dopo un po’ osservò con più attenzione una delle buste ricevute quel giorno. Gli sembrò di vedere uno stemma gentilizio, o qualcosa di simile. Incuriosito, prese la busta e vide che quello che lo aveva colpito era lo stemma della Curia vescovile, stampigliato sopra l’indirizzo del palazzo ecclesiastico. Girò l’involucro e vide che la lettera era proprio per lui. Fece un cenno all’amico, corrugò le ciglia e, strappato rapidamente un triangolino di carta, aprì la busta e tirò fuori il foglio che conteneva.
Carapelli, che non capiva la ragione di quell’improvviso interesse per la posta, si avvicinò al tavolo e prese la busta che Sala vi aveva appoggiato. Dopo averle dato una rapida occhiata, si mise alle spalle del commissario e, inclinando il collo per riuscire a sbirciare meglio, lesse:
Egregio Dottor Sala, avverto la necessità di conferire con Lei a proposito di un fatto che mi sta particolarmente a cuore. Mi duole non poter essere più esplicito in questa mia, ma è faccenda estremamente delicata. Le sarei quindi oltremodo grato, se volesse concedermi una piccola parte del Suo prezioso tempo per incontrarmi. La pregherei di contattare quanto prima il mio segretario, per fissare i termini dell’incontro, che spero vorrà concedermi, presso questa sede. Colgo l’occasione per manifestarLe tutta la mia stima, ecc . Il Vescovo Monsignor Armando Torrisi
Letto il foglio, i due si guardarono per alcuni istanti in silenzio, troppo allibiti per dire qualcosa. Poi si sedettero uno di fronte all’altro e Sala cominciò: “Questa poi, proprio non me l’aspettavo. Non riesco a immaginare neanche lontanamente cosa potrebbe volere da me il vescovo!”. “Telefona, fissa l’appuntamento e lo scoprirai. Forse a questo punto dovrai aspettare ancora un po’ prima di decidere di abbandonare il caso”. “Non è mica detto che debba parlarmi di cose che riguardano la nostra indagine. Forse corri un po’ troppo… Per adesso, oltre il particolare della casa affittata a Maria, non ci sono altri elementi che possano riportarci alla morte di Santino”. “Può anche darsi. Ma, a dir la verità, non credo che Sua Eccellenza voglia convincerti a fargli da chierichetto durante la messa di Natale…”. “Effettivamente, a pensarci meglio sembra che tutto ruoti intorno al clero”, disse Sala, mentre versava la grappa nei bicchieri e ne porgeva uno al giornalista; quindi aggiunse: “Però continuo a non capire cosa c’entrino il farmacista e il meccanico. È assurdo. Un professionista, un artigiano e il vescovo… sono gli unici che sembrano in qualche modo collegati al caso”.
Carapelli trangugiò in un sorso solo il liquore e subito tese il braccio per farsi riempire di nuovo il bicchiere. “Vedo che la mia grappa ti piace più del solito oggi! Che c’è?”, gli chiese sorridendo. “C’è che la lettera del vescovo mi ha convinto che non è il caso di mollare tutto proprio adesso. Sono sicuro che una delle piste che abbiamo seguito finora è quella giusta”. Sala sentiva il bisogno di un sigaro, ma dovette frugare in tutte le tasche prima di riuscire a trovare l’ultimo mozzicone che gli era rimasto. Lo accese, aspirando tenacemente per far sì che prendesse bene e appestando così la stanza; poi rispose al giornalista, che con le mani cercava di diradare almeno un po’ la nebbia nella quale erano immersi. “Certo, per come stanno le cose adesso, non posso che essere d’accordo con te, anche se…”. “Se cosa?”. “Anche se non sempre le cose sono come sembrano… È vero che Lamberti era vicino a Rapallo il giorno in cui Maria è stata uccisa. E il meccanico, la sera in cui hai preso il pugno, stava parlando con persone non proprio raccomandabili e per di più olandesi, il che ci porta a pensare che se anche non è implicato in questa faccenda, almeno qualcosa deve saperne”; fece una pausa per ravvivare la brace del sigaro che stava per spegnersi. “E adesso arriviamo al clero: c’è il corpo di Santino, rinvenuto nell’orto vicino alla chiesa, c’è la sparizione del quadro di Van Cleve e adesso scopriamo che Maria viveva in una casa di proprietà della Curia”. Il giornalista seguiva senza perdere una parola il discorso di Sala, che continuò imperterrito a parlare, come se fosse da solo e stesse ragionando a voce alta. “Questi sono i fatti di cui siamo a conoscenza. Ma, anche se sono convinto che la soluzione sia in una di queste tre piste, ho paura che stiamo per infilarci in un ginepraio, e che corriamo il rischio di non arrivare a niente di concreto, se ci va bene. Forse dovremmo riesaminare quello che abbiamo con più distacco…”. “Non capisco dove vuoi andare a parare”, esclamò il giornalista, approfittando di
un momento di silenzio. “Con calma, Luca, ragioniamo con calma e forse arriveremo a delle conclusioni più certe”. “Va bene, allora… ricominciamo daccapo”. “Innanzitutto dovremmo cercare di capire qual è il nesso, se c’è, fra la persona che ti ha aggredito e gli amici del meccanico. Potrebbero anche essere due cose che non hanno nessuna relazione. Alla locanda, purtroppo, non sono riuscito a sapere niente di più di quello che ti ho detto. Sembra che quelle persone fossero solo di aggio. L’unica informazione certa, ma non so ancora quanto sia importante, è che erano olandesi. Tornando verso casa ho continuato a pensarci e devo dire che mi sono convinto che c’è una relazione con il quadro, ma la mia certezza non serve a dimostrare un bel niente, se non ci sono prove. Dovremmo avere qualcosa di più concreto…”. “È vero. Ma i poliziotti esistono proprio per questo, no? Per indagare, trovare delle prove, no?”. “Ecco, hai detto bene! I poliziotti! Loro hanno le strutture, i mezzi, l’autorità per farlo. Ma io non sono un poliziotto, o almeno non più”. “Senti, se continui così non ne veniamo più fuori. Devi cambiare atteggiamento”. Sala accusò il colpo. Da un po’ di tempo non faceva altro che tirare in ballo il fatto che, non essendo più in servizio, non sarebbe più riuscito a combinare niente di utile. Si sentiva, in quel momento, come una vecchia zitella acida, che vive solo di ricordi lontani e non fa altro che brontolare e lamentarsi. “Hai ragione, mi conviene cambiare tono. Anche perché questa, oggi, è la seconda volta che sono d’accordo con te, non vorrei che ti ci abituassi”. “Meno male! La tua reazione mi fa ben sperare. Preferisco di gran lunga discutere con te piuttosto che vederti così remissivo”. “Andrò dal vescovo e dopo averlo incontrato deciderò cosa fare. Comunque, se dovessi decidere di continuare a occuparmi di questo delitto, ti prometto che non mi lamenterò più”.
Dette queste parole, si tolse finalmente di bocca il sigaro e lo schiacciò nel posacenere per spegnerlo. “Oh, alleluja! Adesso sì che ti riconosco!”, esclamò soddisfatto il giornalista.
Dalla strada non arrivava più il vociare che aveva infastidito Carapelli. Si sentiva solo il verso acuto dei gabbiani che volteggiavano in lontananza. Il giornalista si sistemò il colletto, controllò l’ora e si avviò verso la porta. Arrivato sulla soglia, salutò Sala posandogli una mano sulla spalla e disse, a bassa voce, come per convincersi: “Domani, vedrai che domani sarà tutto più chiaro”. Poi alzò un braccio in segno di saluto e, scendendo le scale, si allontanò.
14
Albeggiava quando risalì la scala. Era stato dal panettiere che, come tutte le mattine, gli aveva messo da parte una baguette ben cotta, scegliendola con cura fra le tante che sfornava. Il tempo era bello, e lui si sentiva in gran forma. La luce tenue del sole illuminava da dietro il monte il paese ancora addormentato. La calma e il silenzio di quell’ora contribuivano a dargli una sensazione di benessere e rilassamento. Più tardi, durante la mattinata, avrebbe telefonato al segretario del vescovo per fissare un appuntamento e la sera lo aspettava, finalmente, la tanto attesa cena con Teresa. Rientrato in casa, fece colazione, con il pane ancora caldo e croccante e con una tazza di caffè. Poi si avvicinò al telefono, compose il numero trovato sulla lettera della Curia e fissò un appuntamento con Sua Eminenza per il giorno dopo alle quattro. Risolto quel problema, doveva affrontarne un altro, ben più arduo per lui: quello della serata con Teresa. Dopo tanto rimuginare, aveva deciso che non era il caso di invitarla da lui. In fin dei conti era la prima volta che uscivano insieme, meglio andare in trattoria. E poi, se le cose fossero andate per il verso giusto, ci sarebbero state altre occasioni. Trascorse il resto della giornata pigramente, gironzolando per casa e leggendo qualche pagina di un libro che sembrava non aver mai fine, tanto era noioso, ma che si era impuntato a voler finire per il solo fatto di averlo iniziato. Era fatto così, lui. Poco prima del tramonto, cominciò a prepararsi per uscire. Barba, bagno rigenerante, accurata acconciatura del riporto, scelta dell’abito accompagnata da non poche imprecazioni, perché il vestito scelto non lo soddisfaceva completamente. Infine, prima di avviarsi verso le scale che lo avrebbero portato in paese, si sistemò sulla testa l’amato panama, stando di fronte alla specchiera, con la stessa attenzione che avrebbe usato un cavaliere medievale nell’indossare
l’elmo un istante prima di dare inizio alla tenzone. Quando arrivò in piazza si accorse, guardando l’orologio, di essere un po’ troppo in anticipo; decise quindi di are in farmacia, dal dottor Lamberti, per fargli la domanda che lo assillava da giorni e della quale non aveva parlato neppure a Carapelli. Appena oltreata la soglia del negozio, venne subito avvolto dal caratteristico odore di medicinali misto a quello delle erbe, di cui il dottore si serviva per preparare tisane e altri rimedi naturali. Guardò istintivamente in alto, in cima agli scaffali, per ammirare la fila di vasi di porcellana bianca, le anfore e i mortai antichi che davano al locale un’aria importante e d’altri tempi. Quando lo vide, il farmacista gli andò incontro, salutandolo cordialmente. Sala ricambiò il saluto e approfittò del fatto che non ci fossero altre persone oltre a loro per entrare subito in argomento. “Dottore, scusi se glielo dico così, a bruciapelo, ma sono venuto a trovarla per togliermi un dubbio che mi ronza in testa da un po’ di tempo”. “Mi dica, commissario. Se posso aiutarla, lo faccio volentieri”. “Vede… è davvero una sciocchezza, ma sa come succede a volte, quando un pensiero diventa un tarlo…”. “Coraggio, vada avanti”. “Volevo chiederle se è possibile che io l’abbia intravista, pochi giorni fa, vicino al casello di Rapallo”. “Be’, se avesse detto qualche mese fa avrei risposto di sì senza esitare. Ma qualche giorno fa sicuramente no, non ero io. Sono andato in quella direzione giusto il mese scorso, ma non a Rapallo, e da allora non ho più preso l’autostrada”. “Pensi che avrei giurato di averla vista alla guida della sua macchina. Ha un’Audi, se non sbaglio”. “Sì, è vero. Ma, tanto per curiosità, di che giorno sta parlando?”. “Si ricorda la mattina in cui ci siamo incontrati alla stazione di servizio? Ecco, era proprio il pomeriggio di quello stesso giorno. Ricordo che mi disse che stava
andando a trovare una parente…”. “Ah, ma allora, oltre alla mia parola ho anche le prove, commissario!”, rispose il farmacista ridendo. “Forse non ci ha fatto caso, ma quel giorno avevo preso la macchina di mia moglie. La mia era dal meccanico, per un guasto. Ho dovuto cambiare la scatola del cambio… non mi ci faccia pensare, mi è costato un bel po’ quel lavoro! Oltretutto Pistilli ha tenuto la macchina in officina per diversi giorni prima di ridarmela. Quindi, come vede, non potevo proprio essere io”. “In effetti, ora che mi ricordo, quel giorno tornavo da un pranzo luculliano. Forse avevo bevuto un bicchiere di troppo... e poi, alla mia età, la vista comincia a calare vertiginosamente”, disse Sala, scherzando. “Non si preoccupi. Anche a me succede di confondermi a volte; quindi, come vede, l’età non c’entra. Sono cose che capitano”.
Uscito in strada, gli sembrò che, come per incanto, tutto fosse diventato più chiaro. Anche lui, dunque, si era sbagliato, come era successo a Carapelli. L’uomo visto al casello non era affatto Lamberti, ma Pistilli. Ormai non aveva quasi più dubbi: doveva concentrarsi sul meccanico per arrivare al bandolo della matassa. Assorto in questi pensieri, camminava con lo sguardo rivolto a terra. All’improvviso si ricordò dell’appuntamento e guardò l’ora, inquieto, ma si rese conto che aveva ancora un po’ di tempo prima di incontrare Teresa. Decise, allora, di are dalla siura Pina, per informarsi in anticipo sul menu e per prenotare il tavolo. Sapeva che nei giorni lavorativi non era necessario e che, oltretutto, la Pina un tavolo a lui l’avrebbe dato in ogni caso – perché era uno di quei clienti che fanno la felicità dei cuochi, mangiando di gusto e complimentandosi per la bontà dei loro piatti –, ma preferiva andare comunque in avanscoperta. Si dilungò, così, sulla scelta dei vini, chiese consiglio sulle portate da scegliere: si trattenne insomma tanto a lungo che l’anticipo stava per trasformarsi in un leggero ritardo. Lasciata la cuoca, allungò il o per arrivare velocemente davanti al negozio di Teresa. Abitava proprio sopra il negozio e il portone di casa era accanto alla saracinesca.
Sul camlo, scritto a matita, c’era il suo nome: Teresa Sarcinelli. Stava giusto allungando il braccio per premere il pulsante, quando da una stradina laterale sbucò all’improvviso Garofalo. “Commissario! Come mai qui? Che fa tutto solo, davanti al negozio della Teresa a quest’ora?”. “Niente di importante, maresciallo”. Poi, un po’ per sviare il discorso, un po’ per vedere se ci fossero novità, continuò: “Piuttosto, mi dica, c’è qualche elemento nuovo sul caso che sta seguendo?”. “Non di rilievo purtroppo… Comunque lei non me la conta giusta!”, esclamò il carabiniere con l’aria di prenderlo in giro. Sala arrossì, leggermente imbarazzato. Non aveva niente da nascondere, ma avrebbe preferito non incontrarlo proprio in quel frangente. “Che fa, maresciallo? Vuol fare il carabiniere proprio con me?”. “No, no. Non mi permetterei mai. Anzi, sarà meglio che prosegua per la mia strada. Non so perché, ho come la sensazione di averla incontrata nel momento sbagliato”. “Ma che dice, Garofalo! Non capisco…”. “Invece credo di sì”, rispose lui sorridendo; quindi guardò in alto, verso il balcone della Teresa, si portò la mano alla fronte per salutarlo, girò i tacchi e si allontanò velocemente. Il maresciallo non era ancora del tutto sparito dalla sua vista, che Teresa aprì il portone ed uscì. Aveva un vestito giallo chiaro e sulle spalle un bel foulard di seta, molto colorato. Era una bella donna e Sala restò abbagliato da quella visione, tanto da dimenticare di andarle incontro, da buon cavaliere. Poi si riscosse, ricordandosi le regole del galateo. “Buona sera, Teresa, com’è elegante! Ha un bellissimo foulard”. “Bello, vero commissario? Me lo ha regalato mia figlia Marta, al ritorno da un viaggio fatto a Parigi, poco tempo fa”.
“Si, è proprio bello. Ma la prego, smetta di chiamarmi ‘commissario’, mi chiami Guido, anzi chiamami Guido… sempre che non ti dispiaccia”. “Ma come ti viene in mente! No che non mi dispiace, anzi!”. La prese sotto braccio e si avviò lentamente verso la trattoria della Pina. Durante il tragitto, le raccontò dell’incontro con il maresciallo. “Sai, mentre ti aspettavo davanti al portone è ato Garofalo e mi ha chiesto cosa stessi facendo. Lì per lì non sapevo cosa rispondere e credo di aver fatto proprio la figura dello scemo, impacciato com’ero mentre farfugliavo a caso parole senza senso…”. “Ma che strano tipo che sei! O perché mai dovevi sentirti così impacciato? In fondo che c’è di male? Siamo adulti, liberi e non stiamo facendo male a nessuno. E poi non stiamo per entrare in un posto dove può vederci chiunque?”. “Hai ragione. Queste mie fisime sono proprio sciocche, non so neanche perché te ne ho parlato”; poi, cambiando discorso, disse: “Prima di venirti a prendere sono ato dalla Pina e le ho chiesto di tenerci un tavolo nell’angolo del pergolato, quello dove si vede un tratto di mare. Mi piace poterlo guardare mentre ceno: anche se dalla trattoria si intravede appena, è sempre meglio di niente”. “Sì, anche a me piace il mare di notte; se è illuminato dalla luna, poi, ha un fascino magnetico, irresistibile. A volte mi viene una gran voglia di tuffarmici, ma poi, considerando che come nuotatrice sono una vera frana, lascio perdere. A proposito, c’è luna piena stasera?”. Lui guardò in alto e sospirò, scrollando la testa: “Non proprio, ma quasi. Comunque è abbastanza luminosa”. Teresa, con il naso rivolto all’insù, sorrise, mostrando una bellissima fila di denti, poi si appoggiò per un momento alla spalla di Sala e mormorò: “Già, non proprio. Be’, non credo sia il caso di avere troppe pretese, almeno per questa sera”. Quando entrarono nel locale, la Pina andò loro incontro con fare cordiale, li salutò e li accompagnò al tavolo, già apparecchiato, che Sala aveva scelto poco
prima. Dopo qualche istante che erano seduti, Teresa si allontanò per andare in bagno, lasciandolo da solo per qualche minuto. Benché il ristorante non fosse molto pieno, le poche persone presenti creavano, con le loro chiacchiere, un fastidioso mormorio, interrotto a tratti da sonore risate e rumorose esclamazioni. Trovarsi al tavolo di un ristorante da soli, davanti al piatto vuoto, era piuttosto imbarazzante e Sala, come chiunque nelle sue condizioni, non sapeva bene dove indirizzare lo sguardo. Alla fine decise, per darsi un tono, di guardare in alto. Il lampione sospeso sul suo tavolo era oscurato quasi completamente dalle zanzare e dagli insetti notturni. Mentre osservava i movimenti degli insetti, tornò per un attimo con la mente al Pistilli e alle mosse che avrebbe fatto l’indomani per cercare di capire come erano andate le cose. Dalla cucina, intanto, continuavano a uscire i camerieri, che avano veloci fra i tavoli, portando in precario equilibrio sul palmo delle mani o sulle braccia i piatti pieni, dai quali si sprigionavano delicati profumi. La scia di quegli aromi lo fece tornare subito al presente, alla serata che aveva tanto atteso. Riprese così a guardarsi intorno e si accorse che non mancavano, fra i presenti, i soliti curiosi pronti a spettegolare, come se chiacchierare e malignare degli altri fosse per loro una linfa vitale, indispensabile. Lui si divertiva a fissarli negli occhi, cogliendone lo sguardo quando si giravano con falsa indifferenza e, facendo finta di cercare qualcuno, lo scrutavano rapidamente con aria indagatrice. Alcuni di loro lo salutarono, facendo col capo un gesto di cordiale deferenza. Lo scuro specchio dell’acqua, fievolmente illuminato dalla luna, distolse a un tratto la sua attenzione dalla sala. Una piccola barca con la lampara a prua procedeva beccheggiando e tagliava lentamente in due il tratto di mare che Sala stava osservando. Poi Teresa tornò al tavolo e lui, distolto dallo spettacolo che stava ammirando, si alzò per aiutarla a sedersi. “Cosa pensavi?”, gli chiese. “Niente di importante”, rispose lui accennando un sorriso. Teresa appoggiò la borsetta su un angolo del tavolo e, sistemandosi il tovagliolo
sulle ginocchia, esclamò: “Che profumino! Ho proprio appetito questa sera!”. “Allora forza! Facciamoci coraggio e ordiniamo. La siura Pina non aspetta altro”, ribatté Sala soddisfatto. Osservandola per la prima volta così a lungo e così da vicino, si accorse che aveva un portamento e una classe che non aveva mai notato prima. La Pina, intanto, aveva fatto loro l’onore di servirli personalmente. Antipasto caldo di mare, trofie al pesto per lui e spaghetti allo scoglio per lei, una spigola al sale per entrambi, innaffiata da un ottimo rossese, frutta, dessert, un caffè il cui sapore lasciava molto a desiderare e, per finire, un buon grappino artigianale, che la Pina comprava ormai da anni da un vecchio contadino, giù in campagna. “Certo che il nostro è davvero un bel paese”, osservò Teresa mentre, ruotando la testa, si guardava intorno con aria compiaciuta, “un po’ piccolo forse, ma almeno ha il vantaggio di essere tranquillo”. “Be’, proprio tranquillo ultimamente non direi”, disse Sala, “con la storia dell’omicidio del Querciaroli… Tu che idea ti sei fatta? In paese non si parla d’altro e anche io ci penso spesso. Non riesco a capire per quale ragione hanno deciso di ammazzare uno come lui, che a detta di tutti era proprio un brav’uomo”. “Già, un brav’uomo”, replicò lei, con un tono strano. “Non mi sembri persuasa. Cosa c’è che non ti convince?”. “Niente. Solo che, in genere, non mi fido troppo di quel che dice la gente”. Nel frattempo aveva aperto la borsetta e si era messa a frugare, concentrandosi più su quello che stava cercando che sulla risposta lasciata in sospeso; poi, dopo aver preso un fazzoletto, proseguì dicendo: “A volte le persone sbagliano nel dare giudizi, così i buoni diventano, d’un tratto, cattivi e i cattivi, invece, buoni. La gente parla, chiacchiera ma il più delle volte non sa niente di quello che racconta”. E si soffiò delicatamente il naso.
“Sì, questo succede un po’ dappertutto. Ma tu hai dei motivi precisi per dire queste cose?”. “No di certo. Sono solo convinta che se uno finisce ammazzato, qualcosa deve pur aver fatto. Il punto è che noi non lo sappiamo”. Sala ascoltò senza ribattere. “Comunque, a pensarci bene, potrebbe anche essere vero. Forse era un brav’uomo ed è stato ammazzato da un pazzo che era, almeno spero, solo di aggio da queste parti”, concluse lei, con il tono di chi vuol chiudere il discorso. Lui, accortosi che per lei l’argomento non era affatto stimolante, decise di non replicare e di cambiare argomento. Non trovò neppure troppo strana la sua mancanza di interesse, convinto com’era che le donne non amassero parlare di morti e di assassini. L’aria si era fatta più fresca, ma si stava ancora bene all’aperto. Decisero di fare quattro i e, dopo aver salutato e ringraziato la siura Pina, congratulandosi con lei per l’ottima cena, si avviarono lentamente verso la piazza. Chiacchierarono a lungo e di molte cose. Lui non azzardò una corte esplicita. “C’è tempo – pensava – e poi è meglio non correre, in fondo è solo la prima volta che usciamo insieme”. Infine la riaccompagnò, obbedendo alla sua richiesta, a casa.
15
Quando il segretario del vescovo gli aprì il portone, Sala aveva appena finito di tirar giù una sfilza di vaffa… e di madonne per il ritardo accumulato nel tentativo di trovare parcheggio e per la multa appena rimediata, avendo percorso contromano una stradina in cui gli sembrava di aver intravisto un posto per la macchina. Guardava quindi l’uomo che aveva di fronte, come se temesse che, dall’alto della sua posizione in seno all’Altissimo, potesse aver sentito la sua interminabile sequela di insulti e di bestemmie. Ma il luminoso sorriso del prete lo rassicurò all’istante. “Si accomodi, prego. Sua Eccellenza sarà da lei fra un momento”. E, mentre si allontanava, gli indicò un divano stile antico, con il legno verniciato d’oro e l’imbottitura arabescata di un rosso porpora. Rimase seduto per alcuni minuti guardandosi intorno. Era incantato dalle stupende volte a vela, affrescate con piccoli e gioiosi putti che avevano coloratissime anfore o variopinte ghirlande di fiori nelle manine. Una gigantesca specchiera, la cui cornice era probabilmente opera di un grande maestro dell’intaglio, e due straordinari quadri, anch’essi di grandi dimensioni e raffiguranti chissà quali papi o cardinali, erano fissati ai muri e poggiavano sopra un ricco e antico tessuto veneziano che faceva da tappezzeria. Proprio di fronte a lui due finestroni, bordati da pesanti tende di stoffa rossa simile a quella del divano, a lato delle quali pendevano cordoni color oro zecchino, incastonavano un cielo terso e azzurro. Non poté resistere alla tentazione di affacciarsi e, appoggiato al davanzale, ammirò il giardino di quell’antica corte. Un altissimo muro di cinta color ocra, vecchio come il palazzo, delimitava un ampio spazio verde, con siepi ordinatissime, alberi secolari e fiori di ogni genere. Al centro, intravide una bellissima fontana con una statua dalla quale zampillava l’acqua. Si chiese per qualche istante che personaggio raffigurasse, poi, resosi conto che era troppo distante per poterla osservare bene, rinunciò.
“Prego, si accomodi. Sua Eccellenza la sta aspettando”. Si voltò di scatto e vide il segretario che lo invitava a seguirlo attraverso l’ingresso e un lungo corridoio. Gli andò dietro, tenendosi a distanza di qualche o, finché il prete non gli indicò la porta che avrebbe dovuto oltreare per incontrare il vescovo. La aprì e subito l’alto prelato, alzandosi dal suo scranno, gli si fece incontro sorridendo. Non tanto alto, grassoccio, sulla settantina, con la classica mantellina nera bordata di viola sulle spalle, stava leggermente curvo in avanti – forse a causa della grande e pesante catena dalla quale pendeva un altrettanto grande e pesante crocifisso d’oro, che andava a poggiarsi esattamente al centro di un’infinita fila di bottoni neri. Raggiunto Sala, gli afferrò amorevolmente la mano destra racchiudendola, come in una conchiglia, fra le sue e la sollevò verso l’alto, per evitargli il rito dell’inchino e del bacio dell’anello. “Si accomodi, dottore”. E gli indicò una delle due poltrone che si trovavano di fronte a una enorme scrivania. “Grazie, Eccellenza. Mi dica: cosa posso fare per lei?”. Il vescovo si fece serio e, dopo una breve pausa, appoggiò le mani con le dita incrociate sul tavolo, come riflettendo bene sulle parole che stava per pronunciare. Poi sospirò e disse: “È una questione estremamente delicata e, prima di entrare in argomento, è necessario un piccolo preambolo”. “Dica pure, Eccellenza. Ha tutta la mia attenzione”. Il presule fece un cenno di assenso con il capo e continuò: “Deve sapere che la Curia possiede – grazie alle eredità lasciate da alcuni devoti fedeli, che Dio li abbia in gloria! – degli immobili che cerca di gestire al meglio, affittandoli per pagare le spese di manutenzione, senza che i costi ricadano direttamente sulle sue ormai esigue finanze, e per dare alloggio a coloro che non lo hanno”.
Fece una breve pausa e guardò il suo interlocutore come per osservarne la reazione, quindi concluse, manifestando un lieve imbarazzo: “Naturalmente l’utilizzo di tali immobili è legato al pagamento di un adeguato canone di affitto”. “Capisco”, rispose lapidario Sala. “Come lei saprà certamente, giorni or sono a Rapallo, in una piccola villetta, è stato trovato il cadavere di una donna assassinata”. “Sì, ne sono a conoscenza”. “Orbene, la villetta in questione è di proprietà della Curia”. Sala si comportò come se non lo sapesse, fingendosi sorpreso, e invitò il vescovo a continuare. “Il fatto è che la donna, una certa Maria, era la sorella di quel Santino che è stato trovato, anche lui morto ammazzato, nell’orto del parroco di San Giustino. Naturalmente, lei saprà anche questo…”. “Che i due erano fratelli?”, domandò Sala. “No, mi riferivo al fatto, all’omicidio di Santino”. “Ah!… Sì, certo che lo so, in paese non si parla d’altro, anche dopo tanto tempo”. “Due casi che immagino siano collegati fra loro, ma anche, ahimè, con la chiesa!”. “In effetti è una strana coincidenza”. “Si rende conto? Due morti, entrambi assassinati e trovati in case o terreni di proprietà della Chiesa!”, sentì il bisogno di ribadire il vescovo. “La vita è piena di coincidenze, Eccellenza. Solo non capisco ancora cosa c’entro io in tutto questo”.
“Per adesso ancora nulla, ma spero che presto vorrà entrarci”. “E in che modo?”. “Ora le spiego la mia idea. Prima che gli inquirenti – nei quali ho estrema fiducia benché brancolino, a mio parere, ancora nel buio – mettano tutto sottosopra rischiando di mettere in cattiva luce la Chiesa, lei potrebbe scoprire cosa è successo e consegnare alla giustizia il responsabile degli omicidi, mantenendo la discrezione e il riserbo necessari per coinvolgere il meno possibile la Curia in tutta questa vicenda”. “Capisco cosa intende, ma non vedo come potrei farlo. Io sono in pensione, non ho più nessuna autorità”. “Lei potrebbe, e lo dico con certezza perché mi sono informato, agire come investigatore privato in nome e per conto della Curia. Dietro congruo compenso, s’intende!”. Sala inarcò le sopracciglia. Era una cosa a cui non aveva pensato. In effetti non gli sarebbe stato difficile, nella sua posizione, ottenere in tempi brevi una licenza di investigatore e in quel modo avrebbe anche risolto, almeno in parte, il problema di giustificare le indagini di fronte agli inquirenti che se ne stavano occupando. “Cristo santo!”, gli sfuggì dalle labbra. Poi, appena se ne rese conto, proseguì: “Oh… mi scusi, Eccellenza, non volevo…”. “Non si preoccupi, dottore. È solo un peccato veniale che potrà farsi perdonare con un’avemaria. Ma stia tranquillo, non deve recitarla necessariamente ora”. “Va bene, lo farò domani”, rispose senza la sia pur minima convinzione. Del resto, rifletteva, al vescovo in quel momento poco importava di che fine avrebbe fatto la sua anima, aveva ben altre cose a cui pensare. Quindi, sistemandosi il nodo della cravatta con un gesto istintivo, guardò dritto negli occhi il monsignore e aggiunse: “Sono onorato della sua richiesta, Eccellenza. Tuttavia vorrei avere un paio di giorni per pensarci prima di decidere… Lei capisce, non mi aspettavo certo una proposta del genere!”.
“Certamente, capisco e sono d’accordo!”, disse, mentre si alzava dalla poltrona per andare nuovamente incontro a Sala. “Vede, commissario – lei permette, vero, che la chiami così?”. “Se le fa piacere…”. “Come dicevo, commissario, sono certo che la Curia è vittima di una inquietante coincidenza o, peggio, di qualche congiura ordita magari da chissà quale setta satanica!”. E nel parlare si infervorava, agitando le braccia e cercando di convincere il suo interlocutore della validità della sua tesi. Poi, calmatosi, appoggiò un braccio sulle spalle di Sala e lo accompagnò verso l’uscita dello studio. “Mi scusi, Eccellenza: dovrei chiederle una cosa, se permette”. “Ma certamente, dica pure, sarò lieto di risponderle”. “Come era arrivata, Maria, a ottenere la villetta in affitto?”. “Ah! Già… Certo!… È molto semplice. Me la raccomandò don Luigi, commissario, il suo parroco, al quale dovrà chiedere in prestito un breviario per imparare la preghiera che domani, si ricorda?, dovrà recitare per farsi perdonare!”, disse in tono scherzoso e agitando l’indice il vescovo. “Ma è sicuro, Eccellenza? Don Luigi?”. “Certo che sono sicuro. Cosa ci trova di tanto strano? Venne lui personalmente a caldeggiarmi la cosa. In fondo si trattava della sorella del suo sacrestano”. Ma era proprio per questo che Sala non riusciva a capire. Se i rapporti tra fratello e sorella erano pessimi come don Luigi gli aveva raccontato, Santino non gli avrebbe mai chiesto un favore del genere per Maria. Ancora una volta fece finta di niente e si dimostrò soddisfatto della risposta. Si congedò quindi, salutando ossequiosamente il vescovo e, attraversato velocemente il corridoio, uscì dal palazzo. Era molto soddisfatto dell’esito del colloquio. Il monsignore non solo gli aveva
suggerito il modo giusto per poter svolgere le indagini alla luce del sole, ma gli aveva anche insinuato nella mente il dubbio che i rapporti fra il sacrestano e la sorella non fossero realmente quelli che aveva creduto fino ad allora.
Non ebbe bisogno di meditare a lungo, come aveva detto, per accettare l’incarico e, dal momento che si trovava già in città, decise di are subito in prefettura a fare la domanda per ottenere la licenza di investigatore privato. Conosceva ancora quasi tutti i dirigenti e gli impiegati, i quali gli assicurarono che avrebbe ricevuto i documenti di lì a pochi giorni. Doveva aspettare giusto il tempo necessario per compilarli, registrarli, dopodiché, una volta avallati dalla firma del prefetto, gli sarebbero stati inviati immediatamente. Mentre tornava verso San Giustino, pensò che sarebbe stato bene sciogliere subito il dubbio che gli aveva fatto venire il vescovo e, giunto in paese, si diresse deciso verso la canonica. Fatti pochi i, andò quasi addosso al parroco che aveva appena girato l’angolo di un carruggio e che, dopo aver fatto un piccolo saltello di lato per evitarlo, gli disse: “Commissario, stavo cercando proprio lei!”. “Io pure”, replicò Sala, accompagnando la frase con un sospiro. “Bene: allora chi comincia?”, chiese il prete. “Cominci lei, don Luigi”. “Va bene. Ma spostiamoci, non mi sembra il caso di parlare in mezzo alla strada”. “Ha ragione. Se per lei va bene, potremmo andare in canonica. Che ne dice?”. “Mi sembra una buona idea. Andiamo pure”. In canonica, si sedettero uno di fronte all’altro ai lati opposti del tavolo della sacrestia. “Commissario, volevo chiederle il permesso di andare, come eravamo d’accordo, dai carabinieri a dir loro della chiave. Ricorda che mi chiese di
aspettare qualche giorno? Be’, adesso ne sono ati diversi di giorni e, a questo punto, credo sia meglio non aspettare oltre”. “Sì, sono d’accordo con lei, don Luigi, solo la pregherei di non parlare dei nostri incontri e di dire che se ne è accorto soltanto adesso. È meglio evitare complicazioni burocratiche e non far sorgere atteggiamenti ostili nei carabinieri che, oltretutto, avrebbero delle buone ragioni per avercela con noi”. “Ci avevo già pensato, sa? Anche perché non saprei come giustificare il mio comportamento e rischierei addirittura di attirare dei sospetti su di me!”. “In effetti, potrebbe anche succedere”, farfugliò Sala, mentre con una mano in tasca continuava a giocare, freneticamente, col portachiavi di Santino. “Ora mi dica, perché mi stava cercando?”, gli chiese il prete con un gran sorriso. “Veramente è un po’ imbarazzante. Non so da dove cominciare…”, rispose il commissario, leggermente in difficoltà. “Inizi da dove vuole, la ascolto”, e spostando la sedia in avanti si avvicinò al tavolo per appoggiarvi i gomiti. “Vede, don Luigi, oggi sono stato dal vescovo…”. Gli raccontò quindi per filo e per segno dell’incontro avuto nel pomeriggio. Il parroco all’inizio non ne sembrò particolarmente colpito, ma quando Sala parlò della sua raccomandazione in favore di Maria, cambiò immediatamente espressione, impallidendo addirittura. Il commissario lo guardava fisso negli occhi, ma don Luigi riuscì ad evitare lo sguardo alzandosi e andando a mettersi di fronte alla finestra, con le spalle alla stanza e le braccia incrociate sul petto. Ogni tanto ruotava lentamente la testa di lato, come se stesse osservando il via vai della gente in strada. Poi districò le braccia, affondò le mani sotto la tonaca e, dopo alcuni istanti di silenzio, si voltò e disse: “Sapevo che prima o poi questa storia sarebbe venuta fuori”. La sua espressione era cambiata. Era come se avesse indossato la maschera di un vecchio pallido e malato. “A cosa si riferisce di preciso?”.
“Abbia ancora un attimo di pazienza, la prego”. “Tutto il tempo che vuole, don Luigi, comunque prima o poi dovrà raccontarmela questa storia...”. Ci fu un interminabile silenzio che, in quella stanza spartana e cupa, rendeva ancora più pesante l’atmosfera. “Forse potrei tentare di cavarmela, ancora una volta, con una bugia”, esordì alla fine il parroco; poi andò avanti: “Oppure non risponderle affatto, tanto tutti quelli che ne sapevano qualcosa non ci sono più. Ma credo sia arrivato il momento di parlarne”. Si sedette sulla panca e continuò: “Circa tre anni fa, ho ospitato in canonica un mio nipote, figlio di mia sorella. Mentre era qui, il ragazzo si è appropriato di una considerevole somma di denaro che tenevo in casa e che avevo raccolto per permettere a un giovane, vittima di un brutto incidente con la moto, di potersi curare. Io, per non coinvolgere mio nipote, ho denunciato il furto ai carabinieri, addossando la colpa a un fantomatico vagabondo che giurai di aver visto aggirarsi, all’ora del presunto furto, davanti alla porta della canonica. Il caso ha voluto che, disgraziatamente, gli inquirenti trovassero un poveretto che corrispondeva, ahimè, esattamente alla descrizione che avevo dato. Così, dopo averlo inquisito, lo processarono e lui finì in prigione. E io non ho fatto niente per evitarlo, anzi, peggio. Non solo al processo non ho alzato un dito per salvare dal carcere quel povero disgraziato, ma ho coinvolto in questa vicenda anche Santino, che sapeva come erano andate le cose, rendendolo mio complice. Ecco… ora mi sono finalmente liberato … Che vergogna!… Che Iddio mi perdoni!”. “Sì, ma cosa c’entra questo con la raccomandazione per Maria?”. “C’entra, c’entra eccome! Perché lei, venuta a conoscenza del fatto, pensò bene di ricattarmi, minacciando di riferire tutto al vescovo. In cambio del suo silenzio, ha preteso che intercedessi presso il mio superiore per farle ottenere quella stramaledetta casa, e oltretutto senza pagare l’affitto. Io sono stato costretto ad accettare, per evitare il carcere a mio nipote”. “E come ha fatto con il vescovo?”.
“Pagavo io, naturalmente, tutti i mesi, facendo un enorme sacrificio”. “Adesso le cose sono più chiare!”. “Sì, commissario, ma per l’amor del cielo, la scongiuro, non pensi neppure lontanamente che io abbia qualcosa a che fare con l’omicidio di quella donna! E ancor meno con quello di Santino!”. “E come ha fatto Maria a venire a conoscenza dell’imbroglio, secondo lei?”. “Immagino che gliene abbia parlato il fratello. Non lo sapeva nessun altro. Ma non ho voluto mai indagare su questo”. “E allora il loro pessimo rapporto? Che fine ha fatto?”. “A dire il vero, i loro rapporti erano ottimi”. Don Luigi, nonostante fosse più rilassato dopo lo sfogo, continuava ad avere la stessa espressione sul viso. “Ma allora perché voleva far credere a tutti il contrario? A che scopo?”. “Per questo non ho una risposta. Santino voleva così, e Maria pure”. Entrambi erano chinati in avanti, coi gomiti appoggiati alle ginocchia e lo sguardo rivolto verso terra. Il silenzio regnò nella stanza per alcuni minuti, prima che Sala lo interrompesse ricominciando a parlare. “Certo, don Luigi, che questo è un gran bel peso da portare. E adesso cosa intende fare?”. “Voglio parlarne al vescovo e anche ai magistrati. Ormai non mi importa di cosa potrà succedermi. Devo cercare di rimediare come posso all’ingiustizia che ho commesso”. “Un attimo, padre… non corra… non penso sia necessario andare a raccontare proprio adesso tutto agli inquirenti, e men che meno al vescovo. Lo farà subito dopo la soluzione del caso. In questo momento aprirne un altro non mi sembra opportuno. Mi spiace per quel poveretto in carcere, ma dovrà aspettare ancora un po’, purtroppo”.
Don Luigi lo guardava con gli occhi lucidi e sbarrati. “Va bene, commissario, farò ancora una volta come dice lei”. “Ora però si rilassi. Quando si sarà ripreso vada dai carabinieri. E mi raccomando: si è accorto solo oggi della sparizione della chiave, solo oggi, se lo ricordi!”. E, alzatosi dalla sedia, fece un sorriso complice e affettuoso al prete, quindi uscì tirandosi dietro la porta. Un attimo dopo, la sua testa riapparve di sbieco, a fianco dello stipite. Chiamando il parroco per nome, gli disse: “Le do un consiglio. Non racconti agli inquirenti quello che ha raccontato a me, nel caso le fero la mia stessa domanda… Inventi una scusa plausibile. Non tutti sarebbero disposti a credere alle sue dichiarazioni di innocenza!”. E, fatto un breve cenno di saluto con la mano, si dileguò. Ancora una volta il suo intuito gli suggeriva che don Luigi non aveva niente a che fare con i delitti. Era solo una vittima, mentre a farla da padroni erano stati, chissà per quanto tempo, Santino e sua sorella. La matassa cominciava pian piano a districarsi. Forse di lì a poco, con un po’ di fortuna, sarebbe riuscito a trovare il bandolo. Teresa aveva ragione. Non sempre le persone sono come sembrano o come la gente le descrive. Non era tanto la complicità del sacrestano nell’inganno che gli fece riconsiderare la posizione di Santino, quanto piuttosto le menzogne, il fatto che avesse raccontato tutto alla sorella e soprattutto il ricatto perpetrato ai danni di una persona che lo aveva accolto amorevolmente, quando lui non era che un povero disperato. Aveva bisogno di saperne di più su Santino e di parlare con chi, forse, lo conosceva un po’ meglio degli altri. Gli venne in mente che il sacrestano, ogni volta che doveva comprare qualcosa per l’orto, andava alla serra di Romolo, un contadino che gli era probabilmente amico e che, fra le altre cose, possedeva un vivaio. Santino era stato proprio da lui, pochi giorni prima di morire, per acquistare l’ulivo che era rimasto appoggiato al muro di cinta perché non aveva fatto in tempo a trapiantarlo.
ando davanti al negozio del barbiere, vide attraverso la vetrata il sindaco con la faccia ricoperta di schiuma che, tenendo la testa immobile mentre il rasoio gli accarezzava il viso, lo salutava agitando la mano, tirata fuori per l’occasione da sotto la mantellina. Sala rispose al saluto affacciandosi all’ingresso. Poi riprese ad arrancare, come al solito, per la salita che lo portava a casa.
16
Trascorsi pochi giorni, ò a ritirare in prefettura il tesserino da investigatore. Subito dopo decise di andare da Garofalo, per informarlo ufficialmente della sua nuova posizione e dell’incarico affidatogli. Mentre si dirigeva verso la caserma, vide davanti alla chiesa un andirivieni di carabinieri e preti. “Hanno sicuramente scoperto il furto del quadro”, pensò, e proseguendo senza fermarsi, arrivò alla stazione dell’Arma, dove sperava di trovare il maresciallo. “Il maresciallo è in chiesa”, gli disse il piantone, e continuò: “Ma sarà di ritorno tra non molto, perché ha un appuntamento con il magistrato qui in stazione”. “Bene”, rispose Sala, “allora rierò più tardi”, e, ringraziato il carabiniere per la cortese risposta, si accomiatò. Adesso aveva, finalmente, le idee chiare su come procedere. Gli ultimi avvenimenti gli avevano aperto la mente a nuove ipotesi, ancora tutte da verificare, certo, ma a differenza di prima, ora sapeva almeno dove ficcare il naso. Si bevve un marsalino al bar, lesse un giornale, poi tornò di nuovo alla stazione dei carabinieri. “Sì, c’è. È rientrato e sta aspettando il giudice”, gli disse lo stesso piantone. “Bene. Allora mi annunci, per favore, e gli dica che è questione di pochi minuti”. Poco dopo, Garofalo gli andò incontro, sorridendo come al solito, e gli fece strada nel suo ufficio. “Allora, commissario, qual buon vento?”. “Sarà lei a giudicare se è buono. Volevo avvertirla che ho ricevuto l’incarico, da un cliente del quale non posso fare il nome, di indagare sul caso di Santino Querciaroli. Mi è sembrato che, per correttezza, fosse bene informarla della novità”.
“Ah! Questa sì che è una notizia! Ma, se posso saperlo, con quale qualifica pensa di effettuare le indagini?”, domandò il maresciallo. Sala gli mostrò il tesserino nuovo di zecca e rispose: “Ho preso la licenza di investigatore privato. Ma non ho intenzione di entrare in competizione con nessuno. Ho in mente, anzi, di collaborare. Per il momento, tuttavia, vorrei garantirmi quel minimo di autonomia che mi permetta di verificare se le mie ipotesi corrispondono al vero oppure no”. Garofalo annuì e dopo aver guardato attentamente il tesserino, più per curiosità che per sfiducia, glielo restituì, con un sorriso cordiale, ringraziandolo per quel gesto di correttezza. Alla fine di un veloce e cortese scambio di parole e dopo aver dato un rapido sguardo all’orologio, il maresciallo lo riaccompagnò amichevolmente all’ingresso, augurandogli buona fortuna e ricordandogli la sua promessa di collaborare.
La strada ripida, piena di buche e grossi sassi, stava mettendo a dura prova la fida carriola di Sala. Neppure il rumore del motore, su di giri per lo sforzo, riusciva a coprire la moltitudine di scricchiolii emessi, come un lamento, dalla sua vecchia auto. Tra un sobbalzo e l’altro, riuscì comunque ad arrivare in cima. Si trovò, allora, di fronte a quella che doveva essere stata un’aia, una corte, ma che si era poi trasformata in una sorta di piazzale di scarico, occupato in ogni dove da sacchi, pallets, casse e scatoloni. Era giunto di fronte alla casa, o meglio alla ditta, di Romolo, den-den per via dei denti in bella vista, tutti o quasi d’argento. La gente malignamente andava dicendo che, quando beveva, anche per via di un lieve tremore che aveva alla mano, i denti fero il tipico rumore del metallo che sbatte contro il vetro, den-den appunto. Fermò la macchina di fianco a un grande vaso di argilla vuoto e si diresse verso l’entrata. Quando Romolo lo vide, gli si fece incontro con un’aria di sfida. Sala estrasse dalla tasca il tesserino avuto dal prefetto e glielo mostrò. “Ancora! Ma che volete da quella povera donna? Ha già ammesso di aver
sbagliato e ha anche pagato per la sua colpa, mi pare! Possibile che non abbiate altro a cui pensare?”. Sala restò basito di fronte a quella reazione. Avrebbe voluto spiegarsi subito, dire che era lì per avere notizie su Santino, ma l’occasione che gli si presentava era troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. Senza dubbio Romolo aveva scambiato il suo tesserino per quello che tante volte, in ato, gli aveva mostrato la polizia. Sala pensò quindi di assecondare il contadino e, approfittando della sua svista, esordì: “Non si preoccupi, non è niente di importante. È solo una questione burocratica. Mancano ancora alcuni dati e poi le giuro che non la disturberemo più!”. A quel punto den-den, dopo aver farfugliato qualcosa di incomprensibile, che non aveva comunque l’aria di essere un complimento, all’indirizzo di Sala, si mise a chiamare ad alta voce: “Lisaaa!… Lisaaa!”. Di lì a poco la donna apparve a lato della casa. “Che c’è? Che vuoi? Non vedi che ho da fare? È possibile che non si può mai stare un minuto tranquille?”. Lisa era una donna minuta, non più giovane, con i capelli raccolti a ciuffo sulla testa. Indossava un vecchio e logoro abito da lavoro. Il viso era scarno, segnato dalla fatica e, forse, dalle pene del ato. Si diresse verso Romolo che, per tranquillizzarla, le bisbigliò qualcosa all’orecchio. Lei osservò attentamente Sala e, mentre si asciugava le mani con il grembiule, gli chiese cosa volesse di preciso. “Come stavo dicendo poco fa a Romolo, niente di importante. Vorrei solo che lei, per l’ultima volta, mi raccontasse i fatti, così che io possa chiudere definitivamente questa noiosa pratica”, rispose, con la speranza che il bluff funzionasse. “Comincio a perdere la pazienza… Questa cosa ce l’avrà prima o poi una fine?”, replicò Lisa con aria sconfortata; poi aggiunse: “Allora facciamola finita, mi dica cosa vuol sapere e poi ci lasci in pace. Non ne possiamo più!”.
Romolo, che guardava serio Sala, a un tratto sbottò: “Era Tomà che la obbligava a fare certe cose. Non girava una lira in quella casa e, comunque, non credo che avessero altra scelta”. “Lascia perdere, Romolo, tanto non serve a niente protestare. Ci siamo già ati”, gli disse lei, sperando di calmarlo. Sala, un po’ impietosamente e senza alcun tipo di inflessione nella voce, le disse: “Mi faccia solo un breve riassunto dei fatti, in modo che io possa prender nota delle cose principali e andarmene”. “Per l’ultima volta, spero!…”, e continuò: “Otto mesi fa, venne da me Santino, il sacrestano, quello che è morto, insomma…”. “Si, va bene, ho capito”, disse annuendo il commissario. “E mi chiese di far abortire una giovane del paese che aveva inguaiato. Venne da me perché sapeva che l’avevo fatto altre volte, proprio lì, in casa di Tomà. Fu Gino, pace all’anima sua, il vecchio operaio di Romolo, che venne a parlarmi e mi convinse ad aiutarlo. Gino era l’unico amico che aveva quel disgraziato e alla fine riuscì a convincermi… E poi mi pagò pure bene”. “Già, questo lo sapevamo”, disse Sala, fingendo di essere a conoscenza della cosa, e continuò: “Ma non è chiaro, o forse non è stato scritto e non risulta dai verbali, il nome della ragazza”. “Ma sì che è stato scritto, l’ho visto con questi occhi. Ma cosa scrivete a fare, se poi vi perdete i fogli e tutto il resto!”, rispose Lisa indispettita. “Ha ragione, ma non si arrabbi. Mi dica il nome e me ne andrò immediatamente”. “sca, sca Sarcinelli. E ora vada via e non torni più!”. Sala ebbe un sussulto. La figlia di Teresa era stata messa incinta da Santino? Non ci voleva credere. Ne fu così colpito che impiegò qualche istante prima di
rendersi conto, dagli sguardi dei due, che la conversazione era giunta al termine. Si accomiatò quindi rapidamente, girò i tacchi e, risalito in macchina, si avventurò nuovamente giù per la tortuosa strada. Quando giunse in fondo, dove la strada si divideva formando un bivio, si fermò per un po’, ancora stordito dalla notizia appena ricevuta. Poi decise di prendere a sinistra, in direzione della casa di Tomà, che distava solo poche centinaia di metri. Pensava che a quel punto valesse la pena parlare anche con il contadino, visto che era stato nominato da Lisa. Magari anche quel colloquio gli avrebbe riservato qualche sorpresa. Mentre procedeva lungo la strada sterrata, ammirava alla sua sinistra l’enorme campo di basilico di Tomà, cercando di carpirne il profumo e trattenerlo nelle narici. All’improvviso fermò la macchina di botto e scese. Si avvicinò al campo e si incamminò di lato, costeggiandolo per qualche metro, come se volesse osservare meglio qualcosa, proprio in fondo alla coltivazione. Pochi minuti dopo tornò sui suoi i e, risalito sull’auto, proseguì. Disteso a gambe larghe su una vecchia sdraio da mare, con la camicia sbottonata sul petto villoso e dei vecchi scarponi ai piedi, Tomà sonnecchiava sotto il pergolato, di fronte all’ingresso della casa. Sala tossì più volte e sempre più forte, prima di riuscire a farsi sentire da lui, che alla fine aprì gli occhi. “Che diavolo… cosa vuole?… Chi è lei?”, domandò con voce roca e impastata dal sonno il contadino, mentre sbatteva ripetutamente le palpebre nel tentativo di mettere a fuoco la persona che aveva di fronte. “Salve, Tomà. Sono Sala. Che c’è, non mi riconosce?”. “Certo che vi riconosco, commissario, non sono mica cieco! Il fatto è che avete la schiena in favore di sole e perciò la faccia è al buio”. “Bene, ora mi sposto. Sono venuto perché vorrei parlarle un momento”. “Di cosa? Non sarete mica tornato a fare il questurino?”. “No, stia tranquillo”, rispose sorridendo Sala. “E allora perché siete qui? Di cosa volete parlarmi?”.
“Di Lisa”. “Quella non sta più con me. Se volete sapere qualcosa, chiedetelo a lei o a denden”. “Ma io volevo sapere di Lisa quando era con lei, insomma quando vivevate insieme”. “Non c’è proprio niente da sapere. È acqua ata e non mi va di parlarne!”. “Non le va di parlare neppure degli aborti che faceva in questa casa?”, ribatté perentoriamente Sala. “Che c’entra ora questo?”, rispose un po’ imbronciato Toma’. “C’entra, come c’entra sca, la giovane figlia di Teresa, Teresa Sarcinelli… o non si ricorda?”. “Quella è una storia vecchia. Ma poi perché vi interessa tanto?” “Mi interessa e basta. Voglio sapere tutto di questa storia”. “E se io mi rifiutassi di parlarne? Non siete più un poliziotto, o sbaglio?”. “Già, potrebbe rifiutarsi, ma non potrebbe fare lo stesso con i miei ex colleghi, quelli dell’antidroga, quando le chiederanno spiegazioni per tutte quelle belle piante di canapa indiana che stanno proprio là, in fondo al campo di basilico. O forse pensa che ne abbiano legalizzato la coltivazione?”. “Chi ve l’ha detto?”, esclamò sorpreso e alzandosi di scatto Tomà. “Nessuno. Basta avere una buona vista e un ottimo spirito di osservazione, tanta esperienza e il gioco è fatto. Sapesse quanta ne ho scoperta, di quella roba, nelle campagne! Lei non può neppure immaginarlo!”. “Lo sapevo che prima o poi quel disgraziato mi avrebbe messo nei guai!”, grugnì il contadino, riferendosi al figlio. “Senta, Tomà, veniamo al punto. Non sono qui per la canapa, quindi mi dica quello che sa e io non ne farò parola con nessuno. D’accordo?”.
“D’accordo, d’accordo”, rispose svelto Tomà, impaurito da quella non tanto velata minaccia. “Allora?”, insistette Sala. “Quando quel giorno Santino si è presentato con la ragazza, io gli ho chiesto subito che ne pensava la madre, cioè Teresa. Volevo sapere se era d’accordo. Sa, la ragazza era minorenne”. “Vada avanti”. “Be’, a quel punto lui mi ha risposto che non c’era da preoccuparsi per Teresa. Lui la teneva … se fosse un maschio direi per le palle, ma trattandosi di una femmina, inventi lei un altro modo di dire”. “In che senso per le palle?”. “Nel senso che lui le aveva prestato molti quattrini e, a garanzia, aveva ottenuto la firma su una montagna di cambiali. Se lei avesse creato problemi, le avrebbe messe tutte in banca per incassarle, rovinandola completamente. E questo lei, la Teresa, lo sapeva. Fece una breve pausa, poi continuò con un filo di voce: “A quel punto ci ha convinto, e Lisa ha fatto quella cosa. Era andato tutto bene, tranne per le grane che ci avete creato voi, anzi no, i carabinieri, in seguito. Comunque Santino riuscì a restarne fuori. Nessuno di noi l’ha mai nominato. Mi piacerebbe proprio sapere, ancora adesso, chi è stato a fare la spiata”. “Questo non lo so. Ma, se non ho capito male, lei mi ha appena detto che Santino, a tempo perso, faceva anche lo strozzino e tutto il resto, oltre che il sacrestano”. “Sì. Prestava soldi a strozzo, ma lo faceva di rado e di nascosto, infatti non lo sapeva nessuno, tranne me, Lisa e la buonanima di Gino, e naturalmente i suoi clienti, che però si guardavano bene dall’andarlo a raccontare in giro. Per il resto, a parte il fatto che ha messo incinta la sca, non so a cosa vi riferite”. Sala nel frattempo si era seduto su un vecchio tino rovesciato e, guardando Tomà con aria sconsolata, disse:
“Oltre quarant’anni di esperienza e mi sento come se avessi cominciato ieri! Non finirò mai di stupirmi di quanto le persone possano essere diverse da come ci si immaginava. Quando credi di conoscere qualcuno e ti rilassi, è proprio il momento in cui prendi la stangata!”. “Ma di cosa state parlando, commissario?”. “Niente, Tomà, non ci faccia caso. Sono solo parole inutili, così inutili che se le porta via il vento, insieme al profumo del suo bel basilico”. Mentre il contadino lo guardava come si guarda un matto, cercando di capire cosa gli frullasse nella testa, preoccupato per la scoperta della piccola coltivazione di canapa, Sala lo salutò e, un attimo prima di salire in macchina, disse: “Ah! Le ho promesso che non dirò niente di quelle piante e manterrò l’impegno. Ma solo per pochi giorni. Ha giusto il tempo di farle sparire, e poi manderò qualcuno a controllare. Addio Tomà, e badi a suo figlio!”.
17
Il cavalier Gadolla stava a San Giustino come la polena sta alla nave. Era una sorta di cariatide, un mito, una leggenda, per i suoi trascorsi di comandante partigiano. Asciutto, elegante, camminava a busto eretto, anche se con o un po’ incerto. Era un vecchio militante di sinistra che, pur parlando continuamente di politica, non se ne era mai occupato attivamente. Sala, che si stava dirigendo da Teresa, se lo ritrovò appeso al braccio non appena mise piede nella piazza. Il cavaliere, ogni volta che lo incontrava, l’accalappiava e lo costringeva benevolmente ad ascoltare episodi, fatti e prodezze del periodo della sua giovinezza. A volte dava l’impressione di provare nostalgia per quel ato. Considerava gli anni della guerra, anche se erano stati evidentemente tristi e cupi per tutti, migliori di quelli attuali e lo ripeteva spesso ai suoi interlocutori. “Eh! Caro commissario… Esiste qualcuno in grado di spiegarmi per quale ragione ci siamo sacrificati allora? Me lo sa dire, lei? È valsa la pena di perdere tante giovani vite per garantire la libertà a questi qua di oggi? Dov’è la memoria storica? Dove sono finiti i comunisti? Che fine ha fatto la nostra gloriosa bandiera rossa? Dove sono i compagni che un tempo riempivano le piazze, per protestare contro questo schifo?”. Sala annuiva continuamente, senza proferire parola, per non dargli ulteriore appiglio ed evitare che il Cavaliere gli rimanesse appeso al braccio per chissà quanto tempo. Appena intravide Teresa sull’uscio del negozio, sganciò educatamente il braccio del cavaliere dal suo e, con la scusa di dover parlare urgentemente con quella signora, si allontanò da lui a o svelto. Arrivò davanti al negozio con un leggero affanno e lei, vedendolo sopraggiungere, gli si fece incontro.
“Ciao, Guido. Speravo che tu assi!”. “Perché, pensavi che non lo avrei fatto?”. “No, per nulla. L’ho detto così, forse perché speravo che tu lo fi prima”. “Mi sento lusingato… non so che dire…”. “Ci risiamo! Spero che questa volta non comprerai ancora qualcosa per toglierti d’impaccio! Non sarebbe il caso”. “No, stavolta credo proprio di no”. “Sei sempre pensieroso. Cos’è che ti frulla in quella testa?”. “Ma… tanti pensieri”, rispose lui, mentre con la mente riandava alle parole di Tomà. “Non sei mai completamente rilassato. Sei sempre immerso nei tuoi pensieri, come se le sorti del mondo dipendessero da te!”, esclamò lei con enfasi; e continuò: “Scommetto che continui a pensare a quel delitto! Rilassati, Guido, dammi retta. Non è compito tuo trovare chi ha spaccato la testa a quel disgraziato”. E mentre finiva la frase, con la mano aperta usata a mo’ di pettine, tentava di sistemarsi i capelli che, con la brezza che a quell’ora cominciava a soffiare sulla piazza, si erano un po’ scompigliati. Fu un attimo, un lampo, uno scossone. Fu come se gli avessero tirato una secchiata di acqua gelida in faccia. Non si aspettava certo quella frase. Non pensava neanche lontanamente che lei potesse pronunciarla. Invece no, l’aveva detta eccome! Teresa era implicata nel delitto! Per un secondo si illuse di aver capito male, ma poi richiamò alla mente le parole esatte:... dammi retta, non è compito tuo trovare chi ha spaccato la testa a quel disgraziato. Come poteva sapere che a Santino, quella sera, avevano dato una botta in testa? Rimase immobile e silenzioso, tanto che lei lo richiamò di nuovo alla realtà: “Ma insomma, Guido, che intenzioni hai? Vuoi stare qui tutta la sera, con quell’espressione imbronciata? Che ti succede? Parla, di’ qualcosa!”.
Lui non sapeva che pesci prendere, ma alla fine decise di far finta di niente e le diede ragione, fingendo di compiangersi per quel lato del suo carattere che tanto la faceva indispettire. Poi trovò una scusa, neanche molto convincente, e si allontanò in fretta da lei. Camminando, provava uno strano malessere, come il disagio di chi si sente solo in mezzo a tanta gente. Non sapeva ancora bene come si sarebbe comportato. Era certo, tuttavia, che avrebbe fatto quello che richiedeva la legge: sarebbe andato da Garofalo e gli avrebbe raccontato tutto. Sapeva però altrettanto bene che ci volevano le prove, prove certe, per incriminare una persona. Se l’avesse denunciata in quel momento la sua parola non sarebbe di sicuro bastata, e il più inesperto degli avvocati sarebbe riuscito a farla rimettere in libertà nel giro di un secondo. Solo per un attimo gli venne da pensare: “Ma se questo non basta al magistrato come prova, allora vuol dire che è innocente!”. Scrollò la testa più volte, comprendendo che il discorso non reggeva. Non avrebbe mai immaginato di potersi trovare in quella situazione, con quei pensieri in testa, mentre continuava a riflettere su come avrebbe potuto discolpare o incastrare definitivamente la donna che, fino al giorno prima, aveva considerato la sua bella. Ma lei quella frase l’aveva pronunciata, e il movente, a ben guardare, c’era tutto. Poteva solo sperare in un altro epilogo. Restava la possibilità molto remota che avesse parlato della botta in testa solo perché se l’era immaginata o perché il medico che aveva esaminato il cadavere, con cui lei era forse in confidenza, era magari un po’ pettegolo e con la lingua lunga. Garofalo no, era da escludere. Anche se era a conoscenza della cosa e avrebbe potuto parlare, una confidenza di quel tipo non l’avrebbe fatta, e Sala non se la sentiva di fantasticare sino a tanto. Per un momento, tuttavia, si disse che forse era una possibilità. Ma immediatamente dopo si vergognò per averlo solo pensato. E poi, continuava a dirsi, il movente c’era: la vendetta insieme all’interesse di non saldare il debito. In fondo, la si poteva quasi capire, visto quello che le aveva fatto are la vittima. Comunque, di sicuro non aveva fatto tutto da sola, soprattutto se si pensava al particolare del muro e della scala e al fatto che il corpo era stato certamente trasportato sul luogo del delitto in un secondo tempo. Lei da sola, per quanto forte, non ci sarebbe mai riuscita.
Era quasi ora di cena e lui, steso sul letto, a pancia all’aria, con il sigaro spento in bocca, le mani dietro la nuca e lo sguardo rivolto al soffitto, continuava a pensare e ripensare a tutto quanto. Finché non decise di darci un taglio. Si alzò,
quindi, e pensò di chiamare Carapelli. “Che fine avrà fatto? – si chiese – È un po’ che non lo sento”. Prese il telefono e fece il numero del giornale. Dalla redazione gli risposero che non c’era e che non sapevano dove fosse. Non fece in tempo a riattaccare la cornetta, che il telefono prese a squillare e lui, di getto, sollevò il ricevitore pensando che fosse il giornalista. Era invece Garofalo, il quale, con tono soddisfatto, gli comunicava che il quadro del Van Cleve era stato rintracciato e recuperato in Olanda. “Tombola!”, esclamò d’istinto Sala. “In che senso?”, gli chiese dall’altra parte del filo il maresciallo. “No, nulla. È un modo di dire, per esprimere la mia soddisfazione quando ricevo una buona notizia”, si affrettò a rispondere. “Bene, Sala, spero che quello che le ho detto le sia utile”, replicò Garofalo. “Lo spero anch’io, maresciallo. Ma, mi dica, come l’hanno trovato e chi lo aveva?”. “Lo hanno trovato quelli dell’Interpol insieme ai nostri uomini del gruppo Tutela Patrimonio Artistico, in uno scantinato alla periferia di Amsterdam. Lo stavano battendo ad un’asta clandestina. Per quanto riguarda la seconda domanda, almeno per ora, non so risponderle. Le persone arrestate per il momento non stanno collaborando con la polizia del posto. In ogni caso un collega e un capitano del TPA sono già partiti per l’Olanda”. “Capisco. Comunque, a parte tutto, sono contento che il quadro ritorni nella nostra chiesa. Mi ci ero affezionato troppo!”. “Ha ragione, è un’ottima cosa per tutti… Come vede, commissario, io sto collaborando. Spero che lei faccia altrettanto quando sarà il momento”, concluse il militare, dando l’impressione di confidare più su quanto avrebbe scoperto Sala che non su quello che avrebbe trovato lui. “Certo che lo farò. Ma perché me lo ricorda? Dovrebbe sapere che non ce n’è bisogno. Guido Sala ha una sola parola e quando la spende non ci ritorna più sopra”. “Mi scusi, non volevo urtare la sua suscettibilità, ma il fatto è che il procuratore
di Chiavari ha unificato le indagini su Santino e quelle su sua sorella. E visto che di queste ultime si sta occupando la polizia, è giocoforza che i due istituti lavorino insieme”. “E allora?”, chiese Sala incuriosito. “Be’, allora ho pensato che lei, dati i suoi trascorsi, volesse o dovesse collaborare con loro e non con noi. Mi spiego?”. Sala si fece una risata e tranquillizzò Garofalo, chiarendo: “Certo, ho capito, ma le garantisco che non è il caso di preoccuparsi”. Il maresciallo, soddisfatto di quella risposta, lo salutò sollevato: “Allora, arrivederci e grazie, commissario. Ora non resta che metterci al lavoro e augurarci buona fortuna a vicenda”.
La mattina seguente Sala uscì di casa senza neppure prendere il caffè. Finì di vestirsi che era già in strada. Aveva deciso di andare a fare quattro chiacchiere con il Pistilli. La strada che portava all’officina fiancheggiava il promontorio in basso; dal lato del mare si alternavano alcune piccole insenature che erano un rifugio naturale per i gozzi dei pescatori. Andando più avanti, si incontrava un vero e proprio porticciolo, pieno di piccoli pescherecci con le paranze e i tramagli – alcuni aperti a ventaglio ad asciugare, altri che pendevano come ombrelli chiusi – appesi al braccio meccanico del paranco. Quando giunse a destinazione, parcheggiò l’auto e si diresse verso il grosso e un po’ precario cancello, fatto di tubi metallici e rete, che immetteva nel piazzale di fronte all’officina. Il cancello era socchiuso. Entrò, ma non vide nessuno. Si mise a cercare dietro le auto con i cofani aperti o sospese sugli elevatori, ma invano. Si diresse allora verso un casotto di lamiera che sembrava essere un ufficio e, sbirciando all’interno da una piccola finestra, vide una scrivania con sopra dei fogli, uno straccio, alcuni piccoli oggetti di metallo (forse pezzi di ricambio di un motore) e il telefono. Allungò il collo per osservare meglio e vide, sulla destra, un armadietto, un attaccapanni di legno a treppiede, un piccolo scaffale e una sedia,
sul cui schienale era appoggiato un pezzo di stoffa. Mettendo a fuoco meglio, si accorse che era un foulard da donna. Pulì il vetro con la manica della giacca e, osservandolo più attentamente, vide che era quello indossato da Teresa la sera del loro appuntamento. Non c’era da sbagliarsi, difficilmente a San Giustino poteva essercene un altro uguale. Non ebbe neppure il tempo di riflettere che, da dietro, sentì una voce: “Dica!”. Sala si girò. “Buongiorno. La stavo cercando. Mi hanno detto che lei ha ancora, nel suo magazzino, dei pezzi di ricambio per le vecchie Lancia”, disse, inventando un pretesto che giustificasse la sua presenza lì. “Dipende”. “Da cosa?”, incalzò Sala. “Be’, dall’anno e dal modello della macchina”. “Ah!… Certo. Ha ragione. Ho una Lancia Gamma del 1982”. “E di che pezzo avrebbe bisogno, esattamente?”. “A dire il vero, al momento non ne ho bisogno, ma visto che mi hanno detto che potevo trovarli da lei, ho pensato bene di accertarmene. Sa, io sono di queste parti e l’ultima volta che me ne è servito uno ho dovuto fare più di cento chilometri per procurarmelo”. Pistilli cominciava a guardarlo con un po’ di diffidenza. Non lo conosceva di persona, ma sapeva chi era e la storia dei pezzi di ricambio non lo aveva affatto convinto. “Senta, va bene, quando ne avrà bisogno venga da me e vedrò se posso esserle utile. Ora mi scusi. Ho molto da fare”. Per Sala quello era un segnale. Sapeva di essere stato riconosciuto e tutta quella fretta nell’accomiatarsi da lui non fece che confermare i suoi sospetti. Decise allora di provocarlo. Era una vecchia tecnica, ma funzionava sempre o quasi.
“Un’ultima cosa, signor Pistilli. Lei è il signor Pistilli, vero?”. “Sì, sono io. Allora dica e si sbrighi, per favore!”. “Non si preoccupi, ora me ne vado. È solo che, guardandola, mi sto rendendo conto di quanto sia piccolo il mondo”. “Ma cosa sta dicendo?”. “Sto dicendo che per tanti anni non ci siamo mai incontrati e ora, in pochi giorni, ci siamo visti almeno in altri due o tre posti, oltre che qui oggi”. “Non credo”, rispose secco il meccanico. “Perché ne è così certo? Forse lei non mi ha visto, ma potrei averla vista io”. “Può avermi visto qui in officina o nei pressi di casa mia, o nel percorso dall’una all’altra. Ultimamente non ho fatto strade diverse da questa e non mi sono mai mosso da San Giustino”. “Ah!… Quindi non era lei che ho visto al casello di Rapallo l’altro giorno, e non era lei neppure quello che ho visto alcune sere fa davanti alla locanda Paradiso, in compagnia di alcuni … olandesi, se non sbaglio”. “Infatti, è proprio così. E ora, se vuole scusarmi…”. Sala si fece ancor più provocatorio: “Ma guarda tu, alle volte! E poi si dice: “Come ha fatto quello a finire in galera?”. Basta una testimonianza, magari in buona fede, ma comunque sbagliata, e la frittata è fatta! Stavo pensando a certi casi giudiziari: solo per fare un esempio, ovviamente!”. Il commissario si trovava perfettamente a suo agio in quella situazione. Quella commedia l’aveva fatta almeno un centinaio di volte, in ato. “Uno pensa di aver visto un tale, addirittura per due volte, e in entrambi i casi ha preso un granchio. Fischi per fiaschi, insomma”, continuò imperterrito. Pistilli si era rabbuiato in volto e con i denti continuava a tormentarsi il labbro
inferiore, mentre cercava una via d’uscita che non attirasse su di lui, però, alcun sospetto. Questo, almeno, pensava Sala. “Eh, sì! Lo dico sempre, io, che non bisogna fidarsi troppo delle testimonianze… non sono quasi mai attendibili”, insistette, esasperando ulteriormente il Pistilli. “Senta, ora basta! Mi ha proprio stufato. Le ho già detto che sono occupato e lei continua a farmi perdere tempo con tutte queste sciocchezze! Cosa devo fare perché mi capisca? Devo chiamare i carabinieri?”. Parlava con voce meno ferma di quanto non fosse all’inizio ed era teso come una corda di violino. Finalmente Sala decise di smetterla, aveva ottenuto quello che voleva e, scusandosi con un fare amichevole da figlio di buona donna, lo salutò con un sorriso. Mentre si stava avviando all’uscita, vicino al cancello, vide spuntare in basso, quasi del tutto coperte da delle lamiere, le gambe di una scala a pioli, con i piedini proprio come quelli che avevano lasciato le impronte sull’erba, vicino al muro dell’orto della chiesa. Continuò a camminare facendo finta di niente, quindi salì sull’auto, agitando il braccio per inviare un ultimo cenno più di sfida che di saluto al meccanico, e avviato il mezzo si allontanò, lasciando dietro di sé una corposa scia di scuro e denso fumo.
18
Rosetta stava finendo di are lo straccio sulle scale, quando sopraggiunse Sala. “Commissario, meno male che è arrivato. È appena andato via un signore che la cercava. Mi ha chiesto di dirle che la sta aspettando giù in paese al bar, da Giovanni. Ha anche detto di riferirle che è urgente”. “E chi era?” “Mi pare che abbia detto di chiamarsi… un attimo, che me lo sono scritto… ecco, sì, Luca Carapelli, così ha detto”. “Va bene, Rosetta. Grazie”. Sala entrò in casa solo per pochi minuti, il tempo di appuntarsi alcune considerazioni sull’incontro appena avuto col Pistilli, e poi ridiscese in strada, per avviarsi a o spedito verso la piazza. Quando entrò al bar, Carapelli stava seduto a un tavolo davanti a una tazzina di caffè. Appena Sala lo vide, gli si avvicinò e, prima ancora che l’altro potesse aprir bocca, gli chiese: “Che fine hai fatto, Luca?! È un secolo che non ti sento. Cominciavo a preoccuparmi”. “Salve, Guido. Siediti, ora ti racconto… Intanto cosa prendi?”. “Un bicchierino di marsala, grazie”. Il giornalista fece un cenno al barista e ordinò. Poi indicò all’amico la sedia a fianco al tavolo, invitandolo ad accomodarsi, e iniziò a parlare. “Appena ho saputo che avevano ritrovato il quadro, mi sono mosso”.
“Ah sì? E che hai fatto?” “Sono andato in Olanda, Guido”. “Come in Olanda? Ti avevo chiesto di avvertirmi prima di prendere qualsiasi iniziativa”, gli rispose Sala un po’ seccato. “Hai ragione, ma, visto che qui non si muoveva nulla, ho deciso di agire”. “Che c’è?, Luca. Non hai più fiducia in me?”. “No, tutt’altro. Ma pensavo, e lo penso tuttora, che la mia iniziativa avrebbe portato a dei risultati”. “E questo cosa c’entra con il non parlarmene?”. Intanto Giovanni aveva portato al tavolo il marsala. “Dai, Guido, non farla tanto lunga. In fondo non ho mica commesso un reato!”. “Forse sì, chissà!? Ci dovrei pensare, ma lasciamo perdere e veniamo ai fatti. Cos’hai scoperto di tanto importante?”. “Ora ti racconto”, e iniziò a parlare. “È come se il quadro fosse arrivato da solo in quello scantinato. In realtà deve essere ato attraverso diverse mani, tutte assolutamente sconosciute. Per il momento, infatti, la polizia olandese non è ancora riuscita a rintracciare nessuno”. Si portò la tazzina alla bocca e finì di bere il caffè. “Quelli che gestiscono il mercato delle opere d’arte rubate sono dei professionisti con la P maiuscola e riescono quasi sempre a concludere i loro affari senza farsi prendere. Non lasciano tracce insomma”. “Be’? E allora dov’è la novità, cosa sei riuscito a scoprire?”. “Ora ci arrivo, calma. Lo sai che con un personal computer, l’aiuto di un collega olandese e una discreta dose di fortuna si possono scoprire un mucchio di cose?”.
“Vuoi andare avanti o hai deciso di continuare a parlare per enigmi?”. “Mi sono messo a spulciare l’elenco delle persone arrestate durante l’irruzione dell’Interpol all’asta clandestina” – avvicinò il volto all’orecchio teso di Sala, per non essere costretto ad alzare la voce, visto il gran brusio che c’era nel locale – “e ho scoperto che la sorella di uno di loro, una certa Elena de Witt, è, guarda caso, la ex moglie di un tal Giuliano Pistilli”. “Ah!” si limitò a esclamare il commissario. “Pistilli”, continuò Carapelli, “ha vissuto tre anni in Olanda, a Hilversum, una cittadina poco lontana da Amsterdam, prima di tornare in Italia e aprire un’officina qui in paese”. Sala era radioso. Il cerchio si era chiuso ormai completamente. Doveva solo trovare le prove – ed era certo che ci sarebbe riuscito – e il gioco era fatto. “E c’è dell’altro”, aggiunse il giornalista. “Oggi hai proprio deciso di sorprendermi”. “Ho saputo che gli inquirenti hanno trovato una cassetta di sicurezza di Maria, con dentro un bel po’ di quattrini e alcune cambiali firmate da commercianti e professionisti di Genova e Rapallo”. Sala, preso dall’entusiasmo, batté forte il palmo della mano sul tavolo, tanto che il brusio nel locale si interruppe per un attimo e gli avventori si girarono a guardarlo. Lui elargì un po’ di sorrisi in giro come per scusarsi e rassicurare tutti; poi, rivolto a Carapelli, esclamò: “Ecco! Questo era il tassello che mancava. Ora è veramente tutto chiaro!”. Il giornalista lo guardò stupito e gli chiese: “Che cosa è chiaro?”. “Al tempo, Luca, al tempo. Non avere fretta”. Carapelli fece una strana smorfia con la bocca, dimostrando di non aver affatto gradito quell’ultima frase, poi commentò:
“Ma come! Tutta questa strada, fatica e soldi spesi per sentirmi rispondere: al tempo?”. “Stai tranquillo, non voglio tagliarti fuori. Quando arriverà il momento sarai in prima fila, te lo prometto. Domani, penso. Sì, credo che sarà domani”; e aggiunse: “Adesso lascia che ti faccia i complimenti per la tua costanza, sagacia e determinazione. Sei stato fondamentale in questa indagine. Vorrei ringraziarti, davvero”. Il giornalista, lusingato da quelle parole, che sapeva essere sincere per il modo in cui erano state dette, e rassicurato dalla promessa di Sala, pensò non fosse il caso di continuare la polemica. Si alzò, quindi, per sistemare la piccola pendenza con Giovanni; poi uscì insieme all’amico e, sulla piazza, lo salutò. “Ci vediamo domattina a casa mia, alle nove. Mi raccomando, cerca di essere puntuale e portati dietro carta e penna”, gli disse Sala mentre si allontanava.
Era talmente immerso nei suoi pensieri, che non si accorse neppure di aver dimenticato di fermarsi dal piantone, mentre entrava nella stazione dei carabinieri, prima di dirigersi nell’ufficio di Garofalo. “Commissario!”, gli gridò il militare. Sala si fermò di colpo e, resosi conto della sua distrazione, si scusò e subito dopo chiese di vedere il maresciallo. Quando entrò nell’ufficio, Garofalo era al telefono e, continuando a parlare, gli fece cenno di accomodarsi. “Allora, commissario, che si dice?”, esordì non appena posò il ricevitore. “Ci siamo, maresciallo. Il mosaico è completo e adesso posso raccontarle i fatti. Penso anche di avere delle prove”. Garofalo lo guardava come se fosse un marziano. Poi, ripresosi dalla notizia, gli disse: “Bene, Sala, l’ascolto”.
“Prima di iniziare, però, vorrei chiederle un piacere”. “Sentiamo”. “Vorrei dare un’occhiata ai calchi delle impronte della scala”. “Certo. Non c’è problema”; e subito, chiamato a rapporto un militare, gli diede l’ordine di andare a prenderli. Quando questi tornò, diede il calco al maresciallo che subito lo porse a Sala, il quale, dopo averlo osservato attentamente, fece notare a Garofalo dei segni che spezzavano, in alcuni punti, i cordoli a rilievo delle impronte. “Queste sono vere e proprie impronte digitali”, sottolineò Sala soddisfatto. “Sì, certo. Se lei sa dove trovare gli originali dei calchi, possiamo ritenerli sicuramente delle prove”. “Bene, allora domattina alle nove vorrei averla ospite al mio casale: da solo, per favore”. “Non capisco”, rispose Garofalo sorpreso. “Mi ha chiesto di collaborare e io lo sto facendo, però vorrei che accettasse due piccole condizioni”. “Quali?”, chiese, sempre più perplesso, il maresciallo. “La prima è che vorrei illustrarle i fatti a casa mia, e la seconda è che vorrei essere presente al momento dell’esecuzione dei mandati di cattura”. “Penso che si possa fare. Ma, mentre capisco la seconda condizione, non riesco a fare altrettanto per la prima”. “Un giorno, solo un giorno e poi sarà tutto chiaro, compresa questa mia strana richiesta”. “Come vuole, commissario. Domattina alle nove sarò da lei”; e, dopo queste parole, si salutarono. Uscendo, Sala non ò da Teresa. Si diresse verso la chiesa a cercare don
Luigi. Il prete era all’interno del confessionale, mentre di lato alcune anziane donne attendevano pazientemente il loro turno, sedute su una lunga panca. Decise di sedersi pure lui ad aspettare. Non dovevano aver commesso grandi peccati, a giudicare dal tempo piuttosto breve che ci volle perché la fila si assottigliasse. ati pochi minuti, rimaneva solo una donna davanti a lui, e aspettò che si confessasse anche lei. Il parroco uscì dalla piccola bussola, baciò la stola al centro e, alzando lo sguardo, vide il commissario. “Contavo su una sua visita, sa?”, gli disse, mentre allungava il braccio per stringergli la mano. “Venga, padre. Si sieda, ho da parlarle”. “Di che si tratta?”. “Intanto immagino che lei sappia già che hanno ritrovato il quadro”, gli disse Sala. “Sì, certo. È stata una notizia straordinaria. Non avrei mai immaginato che potessero riuscirci così in fretta”. “Già”, rispose il commissario; e aggiunse: “Sono venuto a dirle che fra un giorno, o al massimo due, i colpevoli di queste strane morti saranno assicurati alla giustizia”. “Sapevo che ci sarebbe riuscito. Sono sicuro che il merito è tutto suo e non degli inquirenti”. “Be’, non proprio tutto mio. Forse anche la fortuna e le sue preghiere sono state d’aiuto, don Luigi”. Il prete sorrise a quella frase. Anche se non era il caso di esser troppo contenti: era una storia triste, quella, con due morti e dei colpevoli destinati alla prigione. Per lui, poi, si avvicinavano tempi bui. Di lì a poco, avrebbe confessato al suo superiore e alla giustizia quello che aveva fatto per salvare suo nipote. Da un punto di vista cristiano, e anche umano, non c’era poi da rallegrarsi. L’unica cosa positiva era il fatto non ci sarebbero state altre vittime, almeno non per mano degli autori degli omicidi di Santino e Maria.
Sala approfittò del silenzio del parroco per chiedergli una cosa che aveva in testa già da alcuni giorni. Così, rivolgendosi a don Luigi, disse: “Senta, padre, volevo sapere da lei come hanno fatto i carabinieri ad accorgersi subito che il quadro era falso, dopo che lei gli ha detto della chiave”. “Non se ne sono accorti per quel particolare. Se ne sono accorti gli uomini della Squadra Tutela del Patrimonio Artistico, che sono venuti appositamente da Genova. Hanno esaminato tutti i beni di valore della chiesa e si sono resi conto della falsificazione. Credo che in questi casi sia la prassi normale. Del resto è ovvio che cercassero un movente, non si uccide una persona senza motivo”. “Infatti ha ragione, è la normale prassi”. “Ma perché mi ha fatto questa domanda?” “Solo per vanità professionale. Ero curioso di sapere se Garofalo aveva avuto la mia stessa intuizione”. “Non vorrà dirmi che lei se ne è accorto subito!”. “Sì, padre. Ma ho ritenuto opportuno non dirglielo in quel momento. Avevo le mie ragioni. E adesso, come le ho già detto, siamo alla fine della storia”. “Che Iddio la benedica!”, esclamò commosso il sacerdote. Poi si abbracciarono e si salutarono come due vecchi amici.
19
Garofalo fu il primo ad arrivare su al casale e Sala lo accolse in modo caloroso e amichevole. Il maresciallo si accomodò sul divano, dopo essersi sistemato la giacca tirandola da dietro per il colletto e i pantaloni sino a scoprire un po’ i calzini, per evitare che la divisa si sgualcisse. Si tolse il berretto, lo posò sulle ginocchia e cominciò a tamburellarci sopra con le dita, manifestando una certa impazienza. Avrebbe voluto entrare subito in argomento, ma Sala temporeggiava con frasi buttate lì a caso, aspettando che arrivasse il giornalista. Questi si presentò all’ingresso dopo pochi minuti e, come al solito, si comportò come fosse uno di casa, quindi si sistemò sul divano, accanto al maresciallo. Sala osservava i loro sguardi curiosi, sorpresi e anche un po’ insofferenti. Garofalo, in particolare, non riusciva proprio a spiegarsi la presenza dell’altro ospite. Dopo essersi preso il tempo necessario per rimettere insieme le idee e trovare le parole adatte a iniziare il discorso, Sala si rivolse al maresciallo: “Lei si starà sicuramente chiedendo cosa ci fa qui Carapelli. Ebbene, ora glielo spiego”; e, mettendosi anche lui comodo in poltrona, continuò: “La sua presenza è il motivo per il quale ho voluto fissare l’appuntamento a casa mia. Mi sarei sentito a disagio con lei, se avessi dovuto imporle un ospite nel suo ufficio. Se sono riuscito a concludere l’indagine e, come dimostrerò fra poco, con un epilogo positivo, lo devo soprattutto al signore che le è seduto accanto, perché mi è stato di grande aiuto non solo dandomi spunti e indicazioni, ma anche spingendomi a non mollare, soprattutto quando sembrava che non sarei mai venuto a capo del delitto”. Tolse dal taschino un sigaro; poi, guardandolo mentre lo faceva ruotare fra le dita,ci ripensò e lo ripose; quindi proseguì: “Ho promesso al mio amico Carapelli che, in cambio del suo prezioso aiuto, gli avrei dato la possibilità di essere presente, quando e se avessi risolto il caso, al momento della spiegazione, in modo che potesse avere un bel vantaggio – in termini di tempo e di particolari di cui scrivere – sui suoi colleghi degli altri giornali. È il minimo che possa fare per dimostrargli la mia riconoscenza. Ovviamente l’articolo uscirà immediatamente dopo l’epilogo del caso, solo dopo la cattura dei responsabili e non prima”.
“Capisco”, rispose il maresciallo, un po’ meno sorpreso ma sempre più impaziente. “E ora veniamo al dunque!”, esclamò finalmente Sala. Garofalo si girò a guardare Carapelli, che stava estraendo dalla tasca carta e penna e che, come un alunno diligente, si era sistemato nella posizione più comoda per scrivere. “Sa, maresciallo, una signora, l’altro giorno, mi ha detto che non sempre le persone sono come sembrano, o come la gente le descrive. La frase è scontata, ma francamente, alla luce di quello che è successo, non ne ho trovata un’altra che potesse introdurre meglio quello che, secondo me, è stato lo svolgersi dei fatti”. Radunò una serie di fogli manoscritti che erano sul tavolo e, senza guardarli, li raggruppò ordinatamente, per riporli di nuovo al centro del mobile. Poi continuò: “Il mite e insospettabile Santino Querciaroli, di professione sacrestano, in realtà altro non era che un presta soldi e un seduttore di minorenni”. “Il sacrestano un cravattaro?”, esclamò sorpreso Garofalo. “Sì, e molto abile anche, dal momento che è riuscito a non far sospettare nessuno della sua losca attività. Una delle sue vittime, e certamente non l’unica, era Teresa Sarcinelli. Ma non è tutto. Tempo addietro il Querciaroli le mise incinta sca, la figlia più piccola, una ragazzina di soli quindici anni, che poi costrinse ad abortire. Per la madre deve essere stato un incubo. Anche perché non poteva fare assolutamente niente contro di lui a causa delle cambiali che gli aveva firmato. Deve aver iniziato a odiarlo con tutta se stessa. Per liberarsi del potere che Santino aveva su di lei, Teresa doveva a tutti i costi riuscire a estinguere il debito. Così, insieme a un complice, ha pensato di rubare il quadro. La vendita della tela sul mercato clandestino di opere d’arte avrebbe consentito a lei di chiudere la partita con il sacrestano e al complice di mettere da parte un bel po’ di quattrini. Una volta comprata la copia, bastava solo che Teresa fe allontanare con una scusa qualsiasi Santino dalla chiesa, per dar modo al complice di sostituire il dipinto, e il gioco era fatto… Solo che le cose non sono andate come i due avevano previsto”.
“Non ci capisco niente… Teresa? Il complice? Ma che sta dicendo, commissario?”, chiese Garofalo stupito. “Mi lasci finire, maresciallo, e vedrà che alla fine sarà tutto chiaro. Stavo dicendo che tutto si è complicato, perché il Querciaroli si è accorto della sostituzione. Deve aver cominciato a pensare a quando era stato lontano dalla chiesa più del solito, e così è risalito a Teresa. Probabilmente è andato subito da lei, nel retrobottega, per dirle che sapeva tutto e che a quel punto non gli sarebbe più bastata la restituzione del prestito con tanto di interessi, ma che voleva molto di più per stare zitto. La donna si è vista perduta. Aveva fatto tutto per niente: anzi, adesso non sarebbe mai più riuscita a liberarsi dell’uomo che detestava. Poi, quando lo ha visto darle le spalle, ha fatto l’unica cosa che le sembrava di poter fare in quel momento: lo ha colpito alla testa, con la forza dell’odio e della disperazione insieme. Poi, credendolo morto, ha chiamato il suo complice, che l’ha aiutata a trasportare il corpo fino al muro dell’orto della chiesa, ando dal viottolo che costeggia le case da dietro “. “Questo spiega non solo perché non ci sono stati testimoni, ma anche le impronte della scala e i fili d’erba schiacciati sopra il muro”, s’intromise Carapelli, un po’ inorgoglito e fiero di dimostrare che qualcosa più di Garofalo sapeva. “Sì, va bene. Ma ancora non capisco. Che prove ha su Teresa?”, chiese il maresciallo sbigottito. “Qualche sera fa, mentre parlava con me, si è tradita dicendo che non toccava a me scoprire chi aveva dato una botta in testa al Querciaroli. E, visto che lei non poteva esserne a conoscenza, ne ho dedotto che fosse implicata in questa storia. Poi, una volta scoperto il rapporto che la legava alla vittima, ho capito anche quale poteva essere stato il movente”. “E chi sarebbe il complice?”, domandò Garofalo. “Il complice è Giuliano Pistilli, il meccanico, e adesso le spiego perché lo collego a Teresa”. Sala, dopo aver chiesto agli ospiti se volevano qualcosa da bere, si riempì un bicchiere d’acqua da una caraffa e, bevutone un sorso, riprese a parlare: “Sono arrivato al Pistilli per una serie di circostanze e di indizi che non potevano
essere liquidati come semplici coincidenze”. “E quali sono?”, insistette il militare. “Una sera, parecchio tempo dopo il fatto, Carapelli ha visto il meccanico davanti alla locanda Paradiso…”; a quel punto il commissario raccontò la storia dell’equivoco per la somiglianza del Pistilli con il Lamberti, disse degli olandesi, del cazzotto e tutto il resto. Poi proseguì: “Anch’io ho incontrato il meccanico, al casello di Rapallo, proprio il giorno in cui uccisero Maria e lui, quando gliel’ho detto, ha negato. A dire il vero, in un primo momento lo avevo scambiato anch’io per il Lamberti, così come era successo a Carapelli, anche perché, oltre alla somiglianza tra i due, il giorno in cui l’ho visto il Pistilli aveva anche l’auto che il dottore, ignaro di tutto, gli aveva lasciato per una riparazione. Forse adoperò anche una targa falsa, ma questa resta solo un’ipotesi”. “Molto interessante”, disse il maresciallo; e continuò: “Ma ancora non riesco a vedere un nesso, un filo logico che lo leghi al furto e al delitto”. “Certo, ora ci arrivo. Come le ho già detto, il quadro è stato rubato perché anche il Pistilli doveva avere un suo tornaconto per diventare complice di Teresa. Probabilmente per avidità, o per paura, il meccanico ha deciso di liberarsene alla svelta e ha provato a venderlo troppo presto”. A quel punto intervenne Carapelli e raccontò il particolare della ex moglie di Pistilli, sorella di uno degli uomini arrestati, in Olanda, durante il blitz della polizia nello scantinato. “Sì, ma come fa a collegare Teresa con il meccanico?”. “Be’, la mia è più di un’ipotesi. Ci sono dei fatti che la confermano, anche se riconosco che, per adesso, non posso ancora parlare di prove vere e proprie”. “E cioè?”, lo incalzò Garofalo. “Teresa si è tradita parlando del colpo alla testa; il suo complice, invece, ha disseminato ovunque indizi importanti, fra i quali il più interessante è proprio il legame che aveva con la sorella di una persona implicata nella ricettazione del quadro. Teresa, poi, non avrebbe potuto spostare da sola il cadavere di Santino. E
per finire, l’altro giorno ho fatto visita al Pistilli e ho riconosciuto, poggiato sullo schienale di una sedia del suo ufficio, il foulard della donna. Non è un foulard qualsiasi, è molto originale. Lei stessa mi aveva detto di averlo ricevuto in regalo dalla figlia Marta di ritorno da un viaggio a Parigi”. “Molto interessante. Vada avanti, la prego”. “Quando sono arrivati ai piedi del muro, hanno issato non senza fatica il corpo sulla scala e lo hanno portato nell’orto, poi lo hanno infilato nella buca a testa in giù, lasciandolo come lo abbiamo trovato”, continuò Sala. “A pensarci bene, solo Teresa e il vecchio Costa hanno l’uscita sul retro che dà sul sentiero”. “Infatti”, sottolineò Sala. “Ma Maria Querciaroli che c’entra in questa storia?”, chiese un po’ preoccupato il maresciallo. “Ora ci arrivo”. Stavolta, tirato di nuovo fuori il sigaro, lo accese e proseguì: “Maria è stata uccisa perché teneva la contabilità dei prestiti fatti con i soldi che il fratello aveva avuto in eredità. Per non lasciare tracce e, a quel punto, per estinguere il debito di Teresa, dovevano asse la donna e recuperare, oltre alle cambiali ancora in giro, anche il libro mastro con il nome dei ‘clienti’. Grazie a quei documenti, infatti, i magistrati avrebbero potuto risalire a loro facilmente”. Garofalo stette un attimo in silenzio e poi, raddrizzando il busto e sedendosi sul bordo della poltrona, domandò a Sala: “Tutto quello che ha detto è verosimile. Ma la prova che ci autorizzi a procedere a una perquisizione e all’arresto dov’è?”. “In realtà, credo che al momento possiamo contare solo sulla prova che inchioderà il Pistilli. Per quanto riguarda invece Teresa, la mia esperienza mi porta a ritenere che, testimoniando io di averle sentito pronunciare la famosa frase, facendole sapere che conosciamo i suoi rapporti con la vittima e, aggiungerei, arrestando pure il complice, crollerà e confesserà tutto. Se non fosse così, sono quasi certo che nel retro del suo negozio riusciremmo a trovare
qualche traccia, che la colleghi all’omicidio”. “Quindi per adesso concentriamo tutto su Pistilli, se non ho capito male?”. “Esatto”, rispose Sala. “E con quale prova?”, chiese il maresciallo. “Lei si presenta con i suoi uomini e il calco dei piedini della scala nell’officina del meccanico, e io vi mostrerò dove la troverete. A quel punto sarà sufficiente confrontare le impronte con l’originale, e il gioco sarà fatto!”. “E Teresa?”, domandò ancora Garofalo. “Una volta che l’avrete arrestata, la faremo venire con noi e, durante il tragitto, le spiegheremo le ragioni che ci hanno portato a lei. Poi la metterete subito a confronto con il suo compare, un istante dopo che lo avremo inchiodato con il calco della scala”. Garofalo si fece pensieroso e, alzatosi dal divano, fece alcuni i in direzione della finestra, reclinò la testa in avanti per riflettere meglio e poi, giratosi, si rivolse a Sala: “Sì, il discorso fila. Ma spero si renda conto che tutto fa perno su di lei, sia per arrestare Teresa Sarcinelli, sia per trovare quella maledetta scala”. “Sì, lo so. Per questo l’ho chiamata. Ora non resta altro da fare che procedere”. “Appena tornato in ufficio, telefonerò al sostituto procuratore e lo metterò a conoscenza dei fatti. Dopo di che attenderò istruzioni e, se non ci saranno intralci, la chiamerò per farle sapere quando dovrà venire giù in caserma”. “D’accordo”, disse Sala, “aspetterò la sua telefonata”.
Carapelli intanto aveva riempito almeno una decina di pagine con gli appunti presi e, anche dopo che il maresciallo se ne fu andato, continuò a scrivere. Quando ebbe finito, si alzò con un sospiro liberatorio, e restituì a Sala, con un sorriso e una stretta di mano, gli stessi complimenti che aveva ricevuto da lui.
20
Garofalo telefonò a Sala circa tre ore dopo il loro incontro e lo convocò per le tre del pomeriggio. Quando il commissario giunse in via del Sale, notò davanti alla caserma quel movimento di uomini e mezzi che, solitamente, precede l’inizio di qualche operazione di polizia. Era una scena a lui familiare, ma certamente insolita per San Giustino. Le strade e la piazza, comunque, erano quasi deserte a quell’ora, e quindi pochi notarono quel traffico. Il maresciallo uscì dall’ingresso, puntuale come sempre, e rivolgendosi a Sala lo invitò a entrare con lui in una delle due alfette. Fatti più o meno trecento metri, si fermarono davanti al portone di Teresa. Dalla jeep che li seguiva scesero allora tre carabinieri e il maresciallo, arrivato anche lui davanti alla porta, si fece aprire. Entrò, quindi, insieme agli altri, e dopo pochi minuti uscì con la donna in mezzo a due dei suoi uomini, che la fecero salire sulla seconda auto. Teresa teneva la testa reclinata, e Sala non poté vedere l’espressione del suo viso. Poi, rombando e sgommando, le tre macchine si allontanarono dal paese, in direzione dell’officina del Pistilli. Ci vollero solo pochi minuti per arrivare a destinazione. Quando il piccolo corteo di auto si fermò di fronte al cancello, il meccanico stava riparando sotto il muso, sdraiato a terra a pancia in su, un piccolo furgone. Appena li vide si alzò e, preso uno straccio per pulirsi le mani sporche di grasso, andò loro incontro. Era pallido in volto e l’espressione del suo viso era simile a una smorfia. Garofalo gli fece vedere il mandato e, con un gesto della mano, ordinò ai suoi uomini di entrare. In un momento, l’officina pullulava di carabinieri che guardavano in ogni angolo. Il commissario spuntò da dietro e andò a mettersi di fronte al Pistilli. I due si guardarono negli occhi. “Che volete?”, grugnì Pistilli. “Stiamo cercando una cosa che pensiamo di trovare qui”, gli rispose Sala, mentre continuava a guardarlo fisso. “Coraggio, allora. Sbrigatevi! Non so cosa cercate e non mi interessa.
L’importante è che facciate presto e ve ne andiate. Non ho tempo da perdere, io!”. “Stia tranquillo, facciamo in un momento”, gli rispose Garofalo che, nel frattempo, si era avvicinato ai due. “Qualcuno dovrà poi rendere conto al mio avvocato di questa vostra improvvisata”, disse il meccanico al limite della sopportazione. “Certo, non si preoccupi”, disse Sala. Intanto i militari avevano messo tutto sottosopra e il commissario accompagnò Garofalo di fronte alla scala che aveva individuato il giorno prima. “Ecco, è quella”, esclamò. Il maresciallo fece un cenno con la testa a uno dei suoi uomini e questi, preso dall’auto il contenitore con il calco in gesso delle impronte, si inginocchiò vicino all’utensile e iniziò, lentamente, a confrontare le tracce con i presunti originali. Intanto Sala e Garofalo si erano diretti all’interno dell’ufficio, da dove il Pistilli stava chiamando il suo legale. “Allora, Pistilli, le conviene collaborare. Si risparmierà un sacco di noie, mi creda”, gli disse il maresciallo. “Ma di cosa sta parlando?”, gli rispose il meccanico. “Lo sa benissimo. Non faccia lo gnorri”. Nel frattempo era arrivato anche il sostituto procuratore e un carabiniere lo accompagnò nel piccolo locale. “Bene, signori. Cosa abbiamo trovato?”. “Stanno confrontando le impronte, signor giudice. Tra poco avremo gli elementi per procedere all’arresto”. “Molto bene. Ho saputo che anche lei ha lavorato privatamente a questo caso”, sottolineò, rivolto a Sala, il magistrato mentre gli stringeva la mano.
“Sì, è vero. Come le avrà già detto il maresciallo, sono stato incaricato da un cliente di svolgere le indagini”. “Sì, certo, ne sono a conoscenza. Sono anche curioso di sapere chi l’ha incaricata, ma immagino che non potrà dirmelo!”. “Infatti, dottore. Mi scuso, ma non posso!”. In quel momento il carabiniere addetto al riscontro delle impronte si affacciò all’ingresso del locale, attirando immediatamente l’attenzione di tutti i presenti, compreso il Pistilli. “Allora?”, gli chiese il maresciallo. Il giovane indugiò un istante e poi, sommessamente, immaginando già la scena, scrollò la testa in segno di diniego. “Come?”, esclamò furente il giudice. “Ma avete controllato bene?”, si affrettò a chiedere Sala. “Certo che lo abbiamo fatto. E anche più di una volta, ma quelle impronte proprio non corrispondono”. Una cappa di piombo calò su tutti i presenti, tranne che su Pistilli il quale, avendo intuito il grave errore che avevano appena commesso, si illuminò in volto e, ripreso coraggio, cominciò a inveire e minacciare ritorsioni legali. Sala era distrutto. Garofalo si era seduto su una sedia e, toltosi il berretto, si grattava la testa storcendo la bocca come in una smorfia di dolore. Il giudice, ammutolito, guardava con severità sia Sala che Garofalo. “Questa, proprio da lei, non me la sarei mai aspettata!”, disse poi al maresciallo. “E neppure da lei!”, ringhiò, rivolgendosi questa volta a Sala. “Già, e nemmeno io”, disse il meccanico, abbozzando il sorriso tipico di chi sa di essere vicino a vincere la battaglia. Il commissario era diventato un monolite di ghiaccio e, fissando la parete, stringeva freneticamente il portachiavi, accanendosi sul piccolo pulsante.
A un tratto, un lieve suono ruppe il silenzio. Era una specie di sibilo che si faceva sentire a intervalli brevi e regolari. Il commissario si girò cercando di capire da dove provenisse e notò che, da un portapenne che si trovava sulla scrivania, usciva un piccolo e tenue fascio di luce che accompagnava l’intermittenza del suono. Schiacciò di nuovo il pulsantino e la luce scomparve, poi riprovò ancora e quella apparve di nuovo. Allora riprese colore in volto, mentre tutti gli altri si guardavano l’un l’altro, cercando di capire cosa stesse succedendo. Il commissario scrollò il capo e, rivolto lo sguardo a terra, si lasciò andare a una breve e quasi sussurrata risata. Gli altri lo guardarono come se si trattasse di un alieno, poi ripresero, sempre più perplessi, a guardarsi tra loro. Quando finì di ridere, Sala chiese scusa a tutti e, per spiegare la causa di quell’inaspettato buonumore, estrasse di tasca il piccolo ma sofisticato oggetto e disse: “Signori, il suono e la luce provengono da un cappuccio innestato su una piccola chiave che il Querciaroli teneva nascosta dietro al quadro. Nessuno evidentemente sapeva e, a dir la verità, neppure io, che fe il paio con questo strano portachiavi che mi ha dato don Luigi e che apparteneva al sacrestano”. Sala ruotò lentamente su se stesso per farlo osservare a tutti e continuò la spiegazione: “L’oggetto, come potete vedere, ha un pulsante che serve ad attivare un minuscolo cono di luce, per illuminare il buco della serratura e potervi infilare la chiave quando è buio. Io credevo che la sua funzione si esaurisse qui, ma evidentemente, e per fortuna, mi sbagliavo”. I presenti, nel frattempo, guardavano increduli la scena e ascoltavano con attenzione. “Dobbiamo a questa diavoleria giapponese il merito di essere riusciti a risolvere oggi, inaspettatamente, il caso, dopo il fallimento del riscontro del calco. L’oggetto che vi ho appena mostrato”, proseguì, “ è un trasmettitore di impulsi e serve anche a individuare il complementare con cui fa coppia, sempre che questo sia tarato sulle stesse frequenze d’onda del primo. Quando è così, lo fa attivare come abbiamo appena visto”. “Ho capito!”, esclamò soddisfatto Garofalo.
“Va da sé che chi possiede la parte mancante della coppia, deve aver avuto in mano il quadro, visto che quella si trovava nel telaio”, sottolineò, poi, rivolto al magistrato. Quest’ultimo tirò un sospiro di sollievo e disse: “Bene, allora possiamo procedere all’arresto di questo signore. Salvo qualche altra sorpresa”. Pistilli aveva i muscoli del viso tirati e lo sguardo perso nel vuoto. Era impossibile che riuscisse a giustificare la presenza di quel marchingegno nel suo ufficio in una maniera diversa da quella appena descritta dal commissario. Garofalo, intanto, fece ammanettare il meccanico e diede ordine che andassero a prendere Teresa in auto. Quando lei si trovò di fronte al Pistilli, scoppiò a piangere e gli si buttò al collo, togliendogli anche l’ultima velleitaria possibilità di difendersi e, dopo un attimo di esitazione, l’uomo ricambiò l’abbraccio. I carabinieri si avvicinarono alla coppia e separarono i due per farli entrare, come da procedura, nelle macchine. Teresa, sorretta più che sospinta da due uomini, lanciò allora uno sguardo implorante a Sala. Non lo fece per chiedergli aiuto: piuttosto, visto che lui sapeva, cercando comprensione per quello che aveva fatto. Sala accennò un sorriso amaro e, quasi commosso, abbassò lo sguardo, per evitarle l’ulteriore umiliazione di essere osservata da lui mentre le mettevano le manette e la facevano salire in macchina.
Non era un granché come giornata: anzi, tutt’altro. Il vento soffiava forte e delle grosse nuvole si stavano addensando sopra il paese. La jeep, l’auto del magistrato e una gazzella si erano già messe in movimento, mentre l’ultima auto, con la portiera aperta, aspettava che montasse il maresciallo. “Allora, Sala, che fa? Non viene?”.
“No grazie, preferisco fare quattro i”. “Che c’è?… La vedo triste”, continuò Garofalo, già con un piede nel veicolo, pronto a sedersi. “Non sono io a essere triste, forse è quello che sto pensando…”. “Non la capisco… Cosa intende dire?”, e intanto si calcava bene in testa il berretto, perché il vento non glielo portasse via. “Vede, Garofalo, purtroppo i pensieri non sono come i treni, che quando li prendi sai dove ti portano. I pensieri no, dove ti portano non lo puoi sapere e, a volte, ti conducono dove non avresti voluto arrivare”. “Continuo a non capire”, replicò il militare. “Non fa niente, maresciallo. Non è importante”, concluse lui, laconico, e, tirato fuori di tasca il portachiavi, glielo tirò facendogli compiere una leggera parabola. Il maresciallo, con un repentino gesto del braccio, lo afferrò al volo e, chiusa la portiera, fece un cenno all’autista che, sgommando, si allontanò lasciandosi dietro una gran nuvola di polvere. Sala, dopo aver dato un rapido sguardo verso il cielo sempre più minaccioso e cupo, si tirò su il bavero della giacca, come se avesse freddo. Poi si incamminò lungo la statale, sino all’imbocco del sentiero del falco, annusando l’aria come uno spinone, forse per sentire ancora una volta, come faceva sempre in estate, su quel viottolo, il profumo del basilico portato dal vento.
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