GIULIA RINALDI
AL PROFUMO DI CANNELLA
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Table of contents
Al profumo di cannella
Al profumo di cannella
Ogni giorno ha la sua frase
Capitolo 1 Signora Soraya lo ripeteva sempre tra sé e sé: non c’è niente di peggio, per un esser vivente, del sentirsi morto mentre è ancora in vita. Quest’autentica sentenza però non le bastava per dirsi viva. Se le avessero chiesto di definirsi con un termine, avrebbe usato quello di ‘occupata’, al pari di un cesso. Riempita, si, un cesso bello pieno. E, pur non essendo la cosa migliore, era pur sempre un modo di non sentirsi morta, morta dentro. Che poi esser morto equivale a esser vuoto per la Signora Soraya. Era a Parigi da parecchi anni, oramai. Fin da ragazza, quando i sogni fanno troppo rumore per chiuderli in un cassetto e non alzar il culo e trasformarli in realtà, aveva sempre amato la Francia, ‘quella sconosciuta’. Il suo pensiero riusciva a salvarla ogni volta che la realtà ed i suoi rumori l’assordavano. Parigi l’accoglieva a sé e lei tornava a sentirsi quieta, al sicuro, figlia dell’illusione che esista un posto che sia soltanto tuo. Era dell’idea, a vent’anni, che bastasse spostarsi d’un poco per esser di nuovo felici. S’innamorava di nuovo della vita ogni volta che le appariva insapore, in questo modo: concedendosi tutto ciò che amava e anche di più, in dose maggiore dell’ordinario e all’epoca sembrava funzionasse. E quando la vita e lei stessa le apparvero totalmente insignificanti, applicò la
regola del ‘dono’ e si regalò un biglietto di sola andata per Parigi. Portava sempre con sé un sacchetto con dentro della cannella: il suo profumo la riportava a quando era bambina e non se ne separava mai. Il giorno della partenza assomigliava a tutte quelle già vissute, quando il peso della valigia aumenta e quello dei pensieri s’alleggerisce. Quando gli occhi si liberano della nebbia che non permette loro di scorgere meraviglie in ogni dove. Ed era la meraviglia a tenerla in vita, a darle la forza di continuare ad essere felice, ogni volta che sentiva la mancanza di un abbraccio. All’inizio le sembrò che spostarsi l’avesse in qualche modo alleggerita del grigiore dei suoi pensieri e riempita di luce nuova. Quell’atmosfera del possibile, dell’accessibile che respirava all’arrivo era la stessa che provava sempre nei suoi sogni e in qualche modo si sentì sicura di non aver fantasticato invano, che le sue speranze non erano infondate e che i suoi desideri fossero stati esauditi, anche solo per un istante. Si sentiva pervasa da un senso di pace, senza colpa per la vita lasciata. Le piaceva l’essenzialità del suo appartamento contrapposta alla moltitudine là fuori. Ogni casa, a Parigi, assomigliava ad un rifugio dove rientrare alla sera in cui è racchiuso l’essenziale. L’entusiasmo iniziale, però, si spogliò dell’apparenza e la città le apparve tutto fuorché a misura delle sue fantasie. Si ha quella narcisistica convinzione che ogni luogo in cui si metta piede debba accogliere ognuno di noi come un figliol prodigo. Gli sguardi schivi della gente, la freddezza dei loro gesti, tutti diretti, di corsa, chissà dove. Tra i sedili della metro la gente deponeva la propria maschera ed il viso d’ognuno non esprimeva alcuna emozione. Ognuno così libero, senza vergogna, anche di sentirsi niente, come in pace per aver accolto il proprio vuoto e la bruttura della propria città. I suoi corridoi erano come un inferno senz’anima che
inghiottisce i suoi spiriti. Ogni traccia di vita era come un dono per Soraya: la chitarra d’un uomo che riempiva di note l’ingresso, la mano d’un padre che stringe quella di sua figlia, un cane assetato e steso tra le gambe dei viandanti, un ragazzo gravido del peso della sua ione, con una grossa chitarra sulla schiena, una donna dai capelli viola in pendant coi sedili o ancora una giovane donna col suo libro in mano da sfogliare come fosse un’arma di difesa. Ed i libri erano ovunque: sui bordi delle strade, nei bar, dentro le cabine telefoniche, nelle mani della gente che appena ha un attimo libero lo apre e ne legge un tratto. Soraya s’abbandonava ai ritmi della città, si mischiava alla gente, silenziosa, come in una voragine che non conosce anima. E poi ancora la luce ed un nuovo cielo da scoprire. Aveva sempre vissuto in città calme, a misura d’uomo. Osservare era la parola che aleggiava nell’aria. Gli anziani più di tutti: li adorava perché camminavano lenti e sui particolari sapevano fermarsi. Vivevano di rituali, azioni ripetute ma che sapevano di dignità. Come la signora che ava per la questua ogni domenica tra i banchi della chiesa: si muoveva a o stanco, quasi arrancato, gesti abituali che compiva ogni giorno, in modo sacro, immutabile, sfrontato come solo una signora d’età può. Lei era i suoi gesti, senza i quali la vita avrebbe perso ogni valore. Oppure amava immaginare le storie che la gente, come un gravoso peso, si portava sulle spalle. Come quel ragazzo che è ora cammina davanti a voi con la bicicletta nelle mani. Lo vedete? Lui è un ventenne, curioso, che insegue i suoi sogni a bordo del suo umile mezzo di trasporto. Viene da lontano, dallo Yemen che, architettonicamente, è il paese più bello del mondo. Sana'a, la capitale, è una Venezia selvaggia, dietro la cui bellezza si cela povertà e miseria.
Lasciare la propria terra a soli quindici anni è stata, per Jaafar, una maledizione ed, insieme, una benedizione. Oggi in Italia sogna.Sogna di circondarsi di persone dalle ferite compatibili alle sue, che a soffrir le stesse pene ci si guarisce l'un l'altro. Sogna un mondo in cui poter vivere per ciò per cui è nato. Sogna che indugi e rimandi alla sua vera vita cessino. E sogna di ritornare nella sua incompatibile terra natia. Oppure il barbiere dal negozio ancora stile anni sessanta e poco importa se il tempo a, se le mode mutano, se il mondo si rinnova. C'è chi mantiene con fierezza il proprio mondo in piedi e con altrettanta tenacia mostra che vivere non è piegarsi alle mode presenti, ma conservare salda la propria unicità. O persino quella di certi animali che sembra stiano assumendo sempre più le pose di noi uomini. Quel batuffolo nero dagli occhietti vivi, all’uscita dal negozio, mentre il suo padrone fa la spesa. Felice d’esser rimasto fuori, dove tutti può osservare e da tutti esser osservato. Sembrava un uomo giovane e piacente, da occhi grandi che vedono soltanto, senza saper guardare e che ora, in corpo di cane, impara a distinguere mano amica da mano nemica. La sua famiglia divennero il panettiere di Rue Levert, con la sua fila infinita, tutti in coda per la propria baguette, o il proprietario del venditore di dischi di Rue de Pyrenees, dagli occhiali tondi a coprire i suoi occhi dolci e la sigaretta sempre accesa per ingannare il tempo. O ancora il fruttivendolo con la sua merce sempre nuova. Si sentì amica persino d’una ragazza ai piedi della Torre Eiffel tra i anti con naso all’in su che lei osservava accovacciata sulle sue gambe. Le sue ciocche rosse erano così familiari: era ribelle, ma non come tutte, con rossetto sbavato e sigaretta alla mano, lo era nel modo più anticonformista di tutti: essendo se stessa. E si scoprì vicina anche ad una Torre gravida del peso d’essere il simbolo di questa città: come una giovane donna che arrossisce quando viene fotografata, umile e semplice, a dispetto della sua rara bellezza: ella urla che ne vedano l’essenza. La sola bellezza può nauseare: attira gli sguardi dei anti curiosi, quasi
irrispettosi della sua anima ma Soraya ne era certa, aveva visto piangere Torre Eiffel mentre, silenziosamente, brillava allo scoccar della mezzanotte. Nello scorgere le nudità di Parigi, inerme, sofferente, imperfetta, anche Soraya prendeva coscienza della sua umanità che in ato aveva rinnegato ma che ora sentiva più forte che mai. Parigi la teneva nascosta tra le corsie della metro, la sua umanità, o tra le vie più povere dei quartieri meno famosi. E quelle vie, Soraya, le percorse anche in se stessa: senza più voltare il suo viso dinnanzi al ragazzo senza tetto abbracciato al suo cane o davanti ad un uomo che raccoglie una sigaretta ancora accesa da terra. Guardava in faccia ogni sua mancanza e bruttura, come priva del manto che finora aveva posto sui suoi difetti. Si sentiva inspiegabilmente fiera della sua fragilità e della sua umanità, finalmente vera. Si rese conto che per tutta la vita aveva rinnegato quella che era, aveva cercato di cambiare, s’era sentita in dovere di giustificare il suo essere, sempre in lotta per farsi accettare da questa realtà e, ancor di più, da se stessa. Ora sentiva una gran voglia di manifestare il suo essere, di uscire allo scoperto, di ricongiungersi al mondo reale che finora non aveva accolto. Voleva issare ogni muro, lasciarsi corteggiare dalla vita. In quell'attimo di pace uscì di casa e ad ogni o si lasciava invadere dalla bellezza semplice, spontanea , naturale della vita: schivava ogni bruttura per accogliere la meraviglia negli sguardi di due complici innamorati, nelle mani che si giungono di madre e figlia, nei capelli delle bambine di colore gremiti di treccine. Capitolo 2 Col tempo il peso dei pensieri che alla partenza aveva lasciato fuori dalla valigia, però, come un regalo indesiderato che non puoi rispedir al mittente, trovò il modo di raggiungerla.
E comprese le parole che Dumenic le disse qualche sera prima, quando se ne andò via dalla loro casa, dopo l’ennesima incomprensione. Si conobbero qualche mese prima e lui la lasciò con queste parole ‘avresti dovuto smaltir il peso dei tuoi pensieri prima della tua partenza, per non rischiare d’appesantire anche il nuovo’. Dumenic fu quel che nel mondo della fotografia viene definito come lo ‘scatto della vita’, quell’immagine inattesa ma sperata da sempre che avviene proprio davanti ai tuoi occhi e tu hai l’obiettivo già puntato e non ti resta che scattare e ‘tac’, la fotografia t’appartiene. Ecco, Dumenic era il suo’scatto della vita’, l’amore che le mancava ma che l’era appartenuto da sempre, perché, delle volte, sembra che certe cose, certi luoghi, certe persone siano state create solo perché tu ne veda la bellezza. E lei l’apprezzava, l’apprezzava in ogni atomo. Ma il peso era tornato e far finta che non occue parte della sua vita non faceva che aumentarne la mole. L’indifferenza nei confronti del suo stato d’animo la rendeva apatica, quasi aliena alla vita. Poi la sera piangeva, piangeva forte, col cuscino sul viso per non svegliar Dumenic, che ad ogni singhiozzo moriva un poco. Lui non domandava mai cosa avesse, la mattina era raro si vedessero, lui usciva presto, diceva che gli scatti mattutini erano i migliori. Se non ne catturava almeno due o tre soddisfacenti rimaneva col broncio tutto il giorno, ma non accadeva quasi mai, aveva talento e occhi di meraviglia e Soraya lo sapeva. Nei mesi ati, la sera erano sempre felici di riunirsi sul loro lettone di legno, cigolava e rideva insieme a loro. Era un cigolio danzante, di quelli che fanno compagnia, che seguono il ritmo imposto: la loro colonna sonora preferita. E Lucky alla porta gioiva con loro. Una sera Soraya era sul lettone. Era convinta che un modo assai efficace per sognar ad occhi aperti è quello di guardar fotografie di posti mai visti e per questo magici, perché puoi immaginarli come vuoi tu. Fu il momento in cui la sua gioia toccò il culmine: le bastò alzar lo sguardo ed accorgersi d’avere tutto ciò che le serviva, s’accorse che era riuscita a trasformar il suo sogno in realtà.
La luce del sole entrava dalla finestra, come ogni sera, prima del tramonto, mentre lei ammirava l’umanità d’un cielo che sa piangere e riaccogliere poi il sole. La porta s’aprì e Dumenic rientrava. Il cane quella volta aveva trascinato lui per portarlo a so, proprio non ce la faceva più, e così, tutto infreddolito, pretendeva un bacio, di quelli caldi, sul naso, ghiacciato per il freddo. La finestra che guardava un attimo prima non le sembrava più così interessante: voleva guardare solo lui, mentre le raccontava la sua giornata anche se già sapeva che lei non avrebbe ascoltato nemmeno una parola. Poi finirono sotto le coperte e quando il mondo intero iniziava spegnersi, loro iniziavano a vivere. Era avvivato Dicembre: i mesi freddi non li amava, pur d’animo fragile, glaciale. Perché le persone più fredde sono le più fragili e lei lo sapeva, ma per fortuna se ne scordava per gran parte del tempo. Il Natale s’avvicinava ed il ‘pacco indesiderato’ l’attendeva sotto l’albero. Pensava che il Natale fosse un modo di vivere e detestava sentirsi obbligata ad esser felice: uno mica può imporsi d’esser più buono, più dolce. E ancor di più non approvava il fatto che il Natale costringesse le persone ad esser di buon umore senza dar loro una valida ragione per esserlo. ‘Devo ritrovar qualche traccia di me in ogni dove, se voglio sopravviver a questa realtà’, si ripeteva. Come se Dio avesse avuto la cortezza di lasciar qualcosa da raccogliere anche nei ‘quartieri’ più poveri della vita. Ciò che amava la ricaricava e le persone, tranne in rari casi, ne alteravano l’equilibrio, non la quiete, la quiete non l’apparteneva. Lei ava dal sentirsi viva a morta, senza mezze misure. Cominciava ad apprezzare quel senso di vuoto: alcuna merdosa maschera sul viso, connessa solo all’essenziale, percepiva persino i suoi denti affondare nella mela, dolce e succosa. Accoglieva in sé il lusso dello spegnersi e per un poco non sapeva di nulla, se non della musica che aleggiava nell'aria, giungendo ad ogni angolo della stanza e del profumo del suo corpo, dei suoi capelli promemoria di vita che assorbono ogni essenza, che alla sera annusava, giocando a indovinarne il profumo, come sotto di un incantesimo, come in preda ad un orgasmo di pace.
Poi si alzava e riponeva la maschera da viva sul suo volto: non era ancora tempo di morire. Una volta incontrata la primavera le era impossibile star quieta, provava un’ansia, mista ad attesa che la innalzava alle più elevate emozioni e ricercarne di nuove era d’obbligo: un dovere di vita. Diceva di non curarsi degli altri, e intanto moriva in assenza della loro ammirazione, della loro approvazione. Se non era attraverso il pianto e il senso di vuoto, era attraverso l’odio, la rabbia che fuoriusciva il suo sentirsi appesantita dalla vita. Quel rancore inspiegabile nei confronti d’ogni cosa, come se tutto fosse un fantasma che fa irruzione nel proprio spazio. E c’era solo una via ancor più deleteria dell’ignorar il peso, combatterlo. Tutto il giorno a far a pugni col mondo e la sera implorar il suo perdono. La sera che incontrò Dumenic, per la prima volta, nella piazza di Panthéon di Paris, fu al suo concerto amatoriale, di beneficienza, in cui riuscirono, comunque, ad attirar gran parte della folla. La musica l’aveva subito riportata indietro nel tempo, quando ascoltarla la placava dalle sue apprensioni. Ma per lei la musica non era mai stata la protagonista, solo un sottofondo, a contornar i suoi pensieri. E mai avrebbe immaginato che proprio grazie ad essa avrebbe conosciuto la sua metà. Il cantante della band, prima dell’ultima canzone, disse una frase che a Soraya rimase ben impressa nella mente. Suonava all’incirca così: ‘chacun de nous a un diable à l'intérieur’ e lei per un attimo si sentì meno colpevole dei suoi mostri o in qualche modo si arrese alla loro presenza. Pensò che se il ‘diavolo’ dovesse far parte di lei, pur non volendolo, lei avrebbe potuto almeno assegnargli i più ardui compiti, come a dire ‘se vuoi star qui, almeno devi lavorar per me’. Più che diavolo, per Soraya era un ‘genio del male’, ma pur sempre genio, da cui
potevano scaturir le più grandi opere. Questa convinzione la fece sorridere e, di buon umore, s’avvicinò alla band, dietro il tendone, per complimentarsi con loro: l’avevano pur sempre salvata dal suo male. Dumenic l’aveva osservata per tutta la durata della canzone, ma lei, sempre immersa nei suoi pensieri, raramente si curava degli altri. Dal suo se elementare comprese che avrebbe potuto offrirle un po’ d’aiuto e lei accettò volentieri. Dumenic, solo al guardarla, rimase incantato. La sua aria così sognante, così combattuta ma in pace, nelle sue lotte. A Dumenic dava l’impressione fosse una persona che sapeva lasciar andare, sapeva spogliarsi d’ogni cosa e non sentire freddo, sapeva andare altrove, seppur immobile, sapeva ritrovare il suo giardino segreto ovunque fosse, se le circostanze lo richiedevano. Era libera, incontaminata e per questo bella. Sua madre le diceva sempre ‘smettila di viver nei tuoi sogni’, ma le era proprio impossibile. ‘Se non fossi folle, impazzirei’, si ripeteva sempre. Era il suo animo combattente a tenerla sempre sveglia, ma quanto lividi in cambio. Ecco perché pensare d’allearsi con suo mostro l’era apparsa la più brillante delle idee. Nessuna paura, nessun timore, nessuna tensione, solo creazione, arte, vita: dar sfogo ai propri fantasmi in modo costruttivo. Anche a lei apparve in pace e gli chiese come riuscisse a mantenere quell’aria beata e suonare con tanta voga, come nei migliori degli ossimori. Lui rispose, con animo dimesso, che il suo sfogo lo trovava nel suonare e lei gli sorrise come se nessuno potesse capirla più di lui. Era raro che la musica lo unisse a qualcuno, in genere il bisogno di suonare lo isolava dal resto del mondo e più s’innamorava della musica e più si sentiva alieno dal circostante, come se tutto ciò che non riguardasse il suo unico amore, fosse d’ostacolo, di disturbo.
Come lei, anche lui amava il silenzio, la pace. Adorava starsene tranquillo, da solo, tra le cose che amava. Riconobbe in lui le sue battaglie, i suoi fantasmi e l’uno prese per mano l’altro affinché si riconciliassero a sé. Per Soraya, se qualcuno aveva un dono, un qualcosa in cui riusciva bene, era suo dovere mostrarlo agli altri, per farli meravigliare un poco, ma si rendeva sempre più conto di quanto fosse difficile mostrarsi ad occhi incapaci di vedere. La mattina seguente al loro incontro, fece ogni cosa come d’abitudine, uscì di casa con la sua bicicletta che mai s’oppone al suo incessabile muoversi e nell’aprir la porta, uscì trionfante una farfalla dalle ali bianche, come avesse liberato la sua anima desiderosa di volare nell’aria calda del meriggio, l’ora in cui il sole impazzisce di luce per poi far seguito il pomeriggio, una nuova mattina, strade deserte e pace in città. Presero a frequentarsi in modo naturale, come si fossero conosciuti da sempre. Due anime in lotta con se stesse, che si quietato nell’apparente nulla: una frase, una fotografia, una canzone. Era bello per lei scavar sotto quell’alone d’amarezza che si portava Dumenic e ritrovarci dentro l’infinito. Alcune sere le avano a casa, lei a scrivere e lui, nel frattempo a suonare… per lei, con lei e la musica, per la prima volta nella vita di Soraya, giocava da protagonista. L’uno sfiorava le corde dell’altro producendo soavi melodie: era il suono dell’anima quando, leggero, attraversa la realtà in cui, di rado, vive la sua naturale essenza e ritorna in quei mondi abitati di luce e poesia. I loro cuori s’erano già innamorati e loro nemmeno se ne resero conto. ò poco tempo perché lui e Lucky, il suo fedele amico, si trasferirono da lei, nel suo accogliente bilocale. Soraya era sempre stata avulsa a rapporti prevedibili, sicuri: nella spontaneità, nella naturalezza trovava tutto ciò di cui aveva bisogno. Non era fatta per
appuntamenti da rispettare, per orari da seguire, per programmi da osservare. Era una di quelle persone che, se hanno una data di scadenza, di certo faranno in modo che decada. Credeva che se si sa già cosa far, ci si perde le infinite possibilità che, invece, possono accadere. Che sapore ha un momento di gioia, se non hai nessuno con cui condividerlo? Che significato ha possedere un luogo, se non si ha alcuno con cui spartirlo? Ed ora che accanto aveva un’altra anima così fragile, si sentiva più forte, più coraggiosa, meno in colpa delle sue ‘stranezze’. Non era un sentirsi soli, sia chiaro, ma se aveva un libro con sé, poteva star certa che la forza ed il coraggio non le sarebbero mancati: una sorta di scudo alle avversità della realtà, un dolce amico con cui spartir le piacevoli imprevedibilità della vita. Non è questione di ‘momento giusto o sbagliato’, lui sapeva prenderla sempre. Era raro, per lei, trovar qualcuno che s’adattasse alla perfezione al suo essere. Di solito erano persone pure di cuore, mai invadenti, capaci di comprendere i suoi silenzi, senza appesantirli e di rider insieme, nei momenti di gioia. Quel che più le era sacro era la ‘libertà’: quel non sentirsi costretta, mai forzata. Amava la spontaneità, il sorriso agli sconosciuti, le parole scelte, sentite. Sognatrice quale era nutriva non poche aspettative sulla vita, o meglio sulla giornata e se non portava a casa momenti preziosi si sentiva sconfitta. Ma la vita non puoi prevederla, ne forzarla affinché ti regali una qualche emozione: il massimo che puoi fare è assecondare la tua anima e goder del sole. E la guerra l’aveva svuotata, annientata ed ora anestetizzata. Aveva sempre pensato che anche a soffrire servisse forza. Quella forza, in un momento di vivida debolezza, di lasciarsi trafiggere dal male. Il dolore la rinchiudeva in sé, e non si sa mai dove rifugiarsi quando la tempesta comincia a soffiare sempre più forte.
Ed anche le braccia di Dumenic, quelle che un tempo pensava sicure, assomigliavano a catene da cui sciogliersi. E così aveva preso a rifugiarsi tra le cose che amava e dalle quali si sentiva riempita, ma che ora sembravano divorarla e colorar ogni cosa del rosso della sua carne, ormai fatta a brandelli. Il termine che più amava era ‘guarigione’, così denso di speranza, di rinascita. Il dolore aveva soffiato forte, ogni traccia del ato era stata rasa al suolo: paure, mancanze e sensi di colpa lasciavano spazio da riempire. Ed ora, forte del proprio rifugio interiore, di quella luce che mai si spegne, seppur massacrata dal vento, sentiva la forza di riaprirsi a chi amava e poi, col tempo, al mondo intero, che più le faceva paura. Le sue braccia tornarono a stringerla e con la sua stretta si risentiva bambina, incapace di provar paura o vergogna delle sue fragilità e guardandosi attorno non vide più rapaci rosi d'invidia, ma cuori puri e desiderosi d’amore. Avevano imparato a danzar insieme, senza che l’uno calpestasse i piedi dell’altra. Avevano imparato a far poesia tra la folla, lei a catturar magia in uno scatto e lui a scriver testi di canzoni nel frastuono della città, senza mai, per questo, perder la salvaguardia della propria autentica libertà d’espressione. Una sera, prima d’andare a dormire, lui la spogliò con lo sguardo e le disse: promettimi che custodirai sempre la tua immane sensibilità, il tuo più grande talento e che il mondo mai la contaminerà. Avevano un equilibrio labile, quei due, sembrava si dovessero concedere molto dolore prima d’aprire il loro cuore alla felicità. Capitolo 3
Il giorno seguente alla loro definitiva separazione era una di quelle mattine trionfanti, la luce che filtra dalla finestra ti sveglia ed il sorriso con cui hai chiuso gli occhi la sera precedente si allaccia a quello di un nuovo giorno. Le sarebbe bastato solo questo: la luce soffusa ed il canto degli uccelli come promemoria di gioia. Quelli dalle piume nere e blu erano il suo regalo più bello. S’era slacciata, la sera prima, da ogni gravoso impegno. Con la sua bicicletta, che le ricordava che solo incamminandosi si rimane in equilibrio nella vita, s’era aperta al caso ed esso non l’aveva delusa. Ogni persona sul suo cammino, per quanto scelta, desiderata, bramata, le riservava sempre una qualche soave sorpresa. Le piaceva riscoprire, in sconosciuti, amici. Come il bambino accanto a lei sulla metro: l’aveva ricongiunta a quel sé del ato, aperto alla voglia di ignoto, di spensieratezza, quando la sicurezza non è più trai tuoi piani e sai goderti il presente. O il musicista ai piedi della Torre Eiffel, memorandum di poesia, uomo mischiato a dolcezza che si imprime nel tuo cuore e non lascia spazio alla bruttura terrena. Erano attimi di luce, quella a cui aspiri nei momenti più duri. Avrebbe vissuto sempre in quel modo, librando nell’aria come una sfera che si muove a seconda del vento. Sospesa in quel giardino segreto della sua anima fatto di sogni, fierezza, poesia ed ispirazione. L’ispirazione poi cos’è se non un regalo per anime sensibili come la sua, dettagli insignificanti agli occhi dei più che lei racchiudeva nel suo cuore, come germe di meraviglia. Era il dolore, ogni volta, ad anestetizzarla così dalla pesantezza della vita che nulla poteva dinnanzi a questa pace.
Quel che amava dell’ispirazione era la sua imprevedibilità, la dolcezza con cui si posava sul suo viso come una farfalla su di un fiore: in quell’attimo si sentiva scelta, prediletta e ricambiava il dono con atti di magica poesia. Ogni forma d’arte, per lei, era un tentativo di arrestare la moltitudine della vita, di dare un senso all’inquietudine. L’impulso a riaprire la porta alla vita era inevitabile, sapeva che ogni atto terreno avrebbe spezzato quella magia, eppure il pensiero di Dumenic tornava a farsi impetuoso. Aveva sempre sperato di incontrare un uomo così: dolcezza e attenzione alle cose importanti fatte uomo, racchiuse in un'unica persona, amante della musica e della sua musa che spesso gli regalava attimi di autentici versi. Eppure si sentiva ormai costretta, un tacito accordo a doversi pensare, un sottinteso dovere d’amarlo. Prima solo per alcune ore, poi anche per interi giorni rifuggiva da lui e rientrava nella sua dimensione di sogno e realtà. Ma tornava sempre, strappandosi via da quell’alone di incantesimo. Un amore che sa di dovere non diviene che fatica. Eppure, appena ci si dice determinate parole, scatta impetuoso quel senso di dovere che ti lega a qualcuno come di sua proprietà. Ciò che si vive come un dovere va avanti grazie alla volontà, quella di assolvere il proprio onere, ma essa può fin poco, poi ci vuole la ione, il desiderio affinché si prosegua. Nasciamo venendo strappati da un luogo caldo e sicuro che è stato il grembo di nostra madre e riviviamo quel desiderio di protezione e pace in ogni relazione e di abbandono e distacco in ogni separazione. Siamo nati tra dolore e sangue, lottando per venire al mondo e per tutta la vita c’hanno insegnato che ogni traguardo richiede fatica e ad ogni ricompensa corrisponde una lotta.
Anche se non vi è, cerchiamo un cattivo della storia, qualcuno da combattere, fosse anche solo per sopravvivenza, per preservare in noi la forza di farcela. E di certo ora il cattivo della storia non era altro che lei che stava rinnegando il suo più grande amore e stava rindossando lo scudo della solitudine: una corazza dura da scalfire. Il profumo lungo le scale del suo appartamento in Rue Levert le inebriava i sensi, di quelli forti, prepotenti che sanno insidiarsi anche negli animi più invalicabili. Era così lei, attenta a raccogliere ogni traccia di sé lungo la strada e farne un dono per la sua anima. La sensibilità è questo, è riuscire a raccogliere, tra il caos, regali. La sua pace proveniva da quel danzar all’unisono con la vita. Avviò le tracce del cd regalatole da Dumenic. Malinconico e spesso estraneo all’inesorabile assenza di tatto che aleggia nel mondo. Amava la vita, quanto l’amava, tanto da omaggiarla di autentiche poesia, rarità e bellezza. Puro, come non fosse terreno, dallo sguardo limpido, dal tocco delicato e dall’animo etereo, in pace. Le note riempivano la stanza e in quel momento, come mai prima d’ora, fu immersa nel presente, capace di fermare quel tempo che, inesorabile, scorre senza tregua. Quanta vita, quanta voglia di esperire, esprimere, narrare e mai reprimere sentì pulsare dentro. Si sentì unita a Dumenic come se la loro fosse un unione già scritta che uomo e donna sono chiamati ad adempiere. La sua anima era come anestetizzata e più nulla sentiva, completamente dissociata dal circostante, respirava l’essenziale: quel sapore che da di morte e che è invece spirito e purezza. In quell’istante apparve il suo nome vivido, reale.
Lui e la sua capacità di legarla ad un suo testo, quell’invalicabile anima amante della solitudine, quel render mai conto, quel freno al proprio narrare. Con lui di nuovo ‘umana’, di nuovo impaziente, di nuovo in attesa d’un segnale. Quel che mai si manifesta, rimane indelebile nella memoria, lo sapeva. E per non macchiare d’amarezza tale intensità, insegnò lei ad esser più dea che donna, solo per pensarlo senza la sofferenza terrena che avrebbe voluto si fermasse insieme a lei. Le parole che raccontava a se stessa ora niente potevano fare. Persa, s’era consegnata alle mani del suo peggior aguzzino: colui che le aveva insegnato ad essere felice. C’è persona più cara di colui ci prende per mano e ci conduce al reale ‘noi’? Capitolo 4 Niente terrorizzava di più Soraya della moltitudine. Vi è qualcosa di più terrificante, di visi che son solo visi, di uomini che sono solo numeri, masse informi senz’anima che fan rumore senza riuscire a distinguere la propria voce dai più? La sua più grande paura era questa: che l’uno, tra gli altri, perdesse la sua unicità e si confondesse ai più. E, forse, finché si sta nel proprio mondo nemmeno pesa questa marmaglia, si porta avanti la propria vita senza infamia e senza lode. Quando ci si affaccia, però, alla vita là fuori, si comprende quanti allunghino il collo in cerca d’una luce che dia di sé. Ed è questo che poi ha fatto chi s’è distinto: ha ricercato tracce di sé in quest’infinito mutamento, ha trovato inspirazione e confronto negli altri alla stregua di complici lungo il cammino, tutti diretti verso un’unica direzione, l’espressione autentica di ciò che si è. Era in istanti come questi, abbondanti di vita, che sentiva il suo cuore scoppiare di gioia.
La sua bellezza era quella libertà d’essere implacabile ed eterea che la bruttura terrena sembrava non riuscire a contaminare. Per questo la città cominciava ad andarle stretta, si sentiva irrigidita. ‘Manca di tenerezza’ diceva lei ‘devi star attento ad ogni o che compi per non finire in un dirupo chiamato sguardo’. Dumenic avrebbe considerato questo solo un cambio di veste, a mo’ di crisalide che diviene farfalla. E lui l’avrebbe seguita in questa danza al sapore di novità. Soraya si immaginava in sprazzi immersi nel verde, con un viale da percorrere in bicicletta perché la macchina non è abbastanza fina. Il negozietto che pone fine alla via alberata, luogo in cui rifocillarsi di quei pochi ingredienti che la natura non offre. Era buffo come, più avanzavano i tempi, più Soraya tentasse di ricreare l’ambiente che respirava nei suoi primi anni di vita quando si sentiva felice, senza pretesa alcuna. Di quella bambina che era aveva mantenuto gli occhi grandi e dolci, la voglia d’esplorare ed anche perdersi, la tenerezza e l’ingenuità dei suoi pensieri, l’impegno, misto all’umiltà, di portare a termine ogni impresa. Ma guardandosi ora allo specchio si rese conto che quella sensibilità di bambina, in una Parigi che vuole tu sia forte ed anche insensibile, stava dissolvendosi. Capì cosa doveva fare: prese la sua bicicletta e corse al Parc de Belleville, dove era solito andare Dumenic. Dumenic non c’era. Pensò che quel giorno, forse, era già andato via. Chiamò così il suo amico per scoprire che Dumenic aveva lasciato da settimane da band ed aveva fatto rientro a casa. Ogni ione è una benedizione che può trasformarsi in una condanna: prima di incontrare Soraya, Dumenic pensava di lasciare quel che era il suo sogno di musicista. La musica era il suo rifugio, la sua ragione di vita ma anche ciò che lo aveva allontanato dal mondo circostante rendendolo schivo e distaccato. Con Soraya era tornato ad essere più umano, più sensibile, meno duro con se stesso e la vita.
Senza Soraya si ritrovò alle prese con i suoi dubbi e con la voglia di liberarsi da quel grande vincolo che era la musica, ritornò così ad Arles, nella sua città natale in Provenza. Entrambi, inconsapevolmente, sentivano la medesima esigenza di spogliarsi del loro ruolo, da tempi immemori il più grande limite dell’anima, come un albero appesantito da gravose ghirlande che abbelliscono, forse, ma ne soffocano il respiro. Lei ormai indurita dalla città, in allerta e mai più capace d’essere se stessa, lui gravido d’un peso che per anni era stato il suo scudo alla vita. A quel punto lei pensò sarebbe stato meglio lasciare perdere, ma poi scelse di seguirlo. Dumenic aveva l’aspetto d’un bambino consapevole della sua fragilità, senza più il suo scudo, ma al sicuro, tra le braccia della sua famiglia. Anche gli occhi di Soraya tornarono ad essere quelli della bambina d’un tempo che si riempivano dei colori della natura e di emozioni semplici. Di nuovo nelle vesti d’origine fu facile per loro riprendere ad amarsi come prima. Presero ad abitare nella casa della zia di Dumenic che ormai era disabitata da tempo. Come s’arreda una casa di mobili, loro l’adornarono di sentimenti autentici, non più mossi dalla smania di dover dimostrare qualcosa a se stessi. Lui col tempo riprese a suonare perché è facile amare ciò che non causa in noi una lotta interna, ciò che non ci porta ad alcuna rinuncia, ciò che ci tiene al sicuro, nel bene e nel male. Ben più arduo è farsi vincere dall'amore che si nutre per ciò che ci rende vivo, come per lui la musica, ciò che di giorno in giorno fa scorgere nuove parti di noi stessi, ciò che ci getta a terra per poi farci rinascere, ciò che non conosce sicurezza ma solo emozioni autentiche e si comprenderà che 'amore' è sentirsi vivi a svantaggio di ciò che, tenendoci al sicuro, fa spegnere la nostra luce. E lei riprese ad essere quella bambina coraggiosa, curiosa, allegra. Era la gioia
fatta donna, era il gioco fattosi bambina, era fragilità ed anche forza. C'è chi ruba il pane per vivere e chi emozioni. Lei era una ladra d'emozioni. Riuscite a vederla? È lì che v'osserva. Quanto l’allieta la spontaneità, perché la vita è il più bel palcoscenico e il biglietto da pagare è solo un cuore aperto alla vita. Non siamo altro che cacciatori d'emozioni, tutti alla ricerca di ciò che ci fa vibrar il cuore. Ed il profumo che sapeva d’estate, dal sapore esotico che mai tramonta, che risvegliava in lei ricordi familiari e pure libertà, ignoto mischiato noto giunse nuovamente a inebriarle i sensi e ogni triste pensiero non trovò più dimora. Quel profumo era insito in lei, quella felicità era al suo interno, lei, al profumo di cannella.