© 2014 goWare, Firenze
ISBN 978-88-6797-275-3
Copertina: Lorenzo Puliti
Redazione: Marco Rosati
Sviluppo ebook: Elisa Baglioni
Impaginazione: Stefano Cipriani
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Presentazione
Protagonista di questo romanzo è la Via Francigena, il percorso che conduceva i pellegrini medievali dalle Isole Britanniche alla Terra Santa, attraverso la Terra dei Franchi e poi l’Italia sino a Roma. La Francigena fu l’insieme di tante strade che innervavano l’Europa, poiché tanti erano i viaggiatori e i motivi che li spingevano a mettersi in cammino in un’epoca di grande dinamismo che ebbe nel pellegrino in viaggio uno dei suoi più forti protagonisti. Lungo le strade dei pellegrini si mossero persone, idee, eserciti, merci, cultura. Tutto questo gli autori hanno raccontato in questo romanzo sulle avventure di tre diversi gruppi di pellegrini lungo il tratto italiano della Francigena nel 1107. Attraverso le loro vicende e i racconti che ascoltano lungo il cammino, il romanzo mostra uno spaccato del XII secolo italiano, unendo fatti storici e folklore.
* * *
Simone Covili, geometra tuttofare, divide il suo tempo tra la professione e la scrittura frapponendo a esse progetti strampalati che, nonostante tutto, riesce anche a realizzare. Ama i B-movies, il cinema trash, l’animazione, le letture cruente e adora perdersi in lunghi periodi di “ozio creativo” che spesso condivide con la sua compagna. I suoi racconti sono pubblicati in numerose antologie e sul web (www.xomegap.net). È coautore della trilogia fantasy Finisterra (Ed. Domino, www.xomegap.net/finisterra).
Elisa Guidelli nata a Modena, è laureata in storia medievale e lavora come libraia. Con lo pseudonimo Eliselle ha pubblicato i romanzi Laureande sull’orlo di una crisi di nervi (Fabrizio Filios Editore 2005), Nel paese delle ragazze suicide (Coniglio Editore 2006), Ecstasy love (Eumeswil 2007), Fidanzato in affitto (Newton Compton 2008), Le avventure di una Kitty addice
(LeggerEditore 2010), il noir La fame (Miraviglia Editore 2011), la commedia agrodolce Amori a tempo determinato (Sperling & Kupfer 2013) e, in edizione digitale, il noir Fiabe dall’inferno (Meme Publishers 2014). Il suo sito web è www.eliselle.com.
Gabriele Sorrentino (Modena 1976). Laureato in scienze politiche con una tesi in storia medievale, è autore di articoli e saggi di storia modenese tra i quali il fortunato Quando a Modena c’erano i Romani (TEI 2013). Ha partecipato come relatore al convegno Il medioevo tra noi. Un itinerario tra storia e immaginario organizzato dall’Università degli Studi di Urbino (5 luglio 2014). Col Collettivo XOmegaP è coautore della saga fantasy Finisterra (Ed. Domino) e, con I Semi Neri, del thriller L’Enigma del toro (Damster 2013). Il suo sito web è www.gabrielesorrentino.it
F Prologo – Il novizio e il suo maestro
Frate Anselmo da Paule¹ guardò con affetto il ragazzo.
«Se sei stanco ci fermiamo», disse il frate al novizio, «ormai non manca molto».
«No maestro», rispose lui ansimando, «è tale il desiderio di giungere a destinazione che potrei trascinare Candido per tutta la notte».
«Gilberto, non puoi pretendere che un mulo si comporti come un cavallo!» fece Anselmo bonario.
L’animale sbuffava e ragliava come un ossesso a ogni avvallamento della strada, ma il ragazzo non voleva rallentare il o del suo maestro, che lo precedeva appoggiandosi agilmente al bordone e assaporando ciò che lo circondava.
Nella sua ancor breve vita, il ragazzo era già stato assai sfortunato: la sua gamba sinistra era più corta della destra e lo costringeva a zoppicare vistosamente. Qualche contadino ignorante, forse mal consigliato da un curato più stolto di lui, doveva aver pensato che quel pargoletto invalido fosse un segno di sventura e così l’aveva abbandonato nella ruota del convento. I buoni frati avevano allevato il puer oblatus con amore e avevano deciso di instradarlo verso la vita monastica, senza mai mettere alla prova la sua fede.
Il ragazzo era sveglio e sopperiva alla sua menomazione fisica con grandi doti artistiche. Non solo era già un ottimo amanuense, ma anche un eccezionale intagliatore: riusciva a trasformare un ceppo di legno marcio in bellissime statuette e amava molto raffigurare la Sacra Famiglia: Anselmo pensava che l’amore di Gilberto per quell’icona fosse legato al rimpianto per essere stato privato di una propria famiglia.
Il giovane non aveva sperimentato altro che l’angusta realtà del cenobio e non conosceva il mondo. Per questo Anselmo aveva chiesto al priore di lasciare che il ragazzo lo seguisse: il frate era un uomo imponente e venerando, portava una folta barba ormai grigia e aveva enormi sopracciglia sotto le quali gli occhi sembravano scomparire. Parlava come un filosofo greco e tutti coloro che lo ascoltavano restavano rapiti dal suo carisma.
Pochi giorni dopo giunsero a Nonantola. L’abbazia, con i suoi possedimenti in tutta la pianura Padana, era enorme e ricchissima, una delle più potenti e invidiate della Cristianità. Anselmo portò Gilberto a visitare la fabbrica della nuova chiesa di San Silvestro, che custodiva le reliquie dei Santi Anselmo, Sinesio e Teopompo. L’edificio aveva portato per anni i segni di incendi, terremoti e incuria fino a quando l’abate Damiano aveva iniziato i lavori di restauro.
«Ora ti mostrerò una cosa che ti lascerà di stucco» disse il frate.
Gilberto seguì il maestro verso una loggetta dove era conservato un prezioso reliquiario a forma di croce di foggia bizantina. Era costituito da lamine d’argento sulle quali cinque piccoli smalti raffiguravano altrettanti santi greci.
«C’è la Santa Croce?» chiese Gilberto titubante.
«Esatto. È uno dei frammenti più grossi. Secondo la tradizione fu donata dal Papa a Sant’Anselmo».
«Ne avevo sentito parlare ma a vederla fa tutto un altro effetto».
«Puoi ben dirlo. Toccala».
«Posso?».
«Non aver paura».
Tremante, Gilberto posò il palmo della mano destra sul reliquiario, assaporandone col tatto la superficie fredda e leggermente ruvida. Rimase così, in preghiera, per alcuni minuti. «Pulsa» disse quando ritrasse la mano. «Parla di sofferenza ma anche di qualcos’altro…».
«… Di gioia e speranza?» chiese il maestro.
Gilberto annuì timidamente col capo e Anselmo sorrise al suo novicius, mostrando i denti che, nonostante l’età, biancheggiavano sani tra i fili della folta barba ingrigita.
F Cavaliere in Val di Susa
Arturo di Glastonbury fermò il cavallo in un punto in cui la strada procedeva a strapiombo sulla Val di Susa. Intorno a lui i pennacchi delle Alpi erano incoronati di neve e la maestosa Sacra di San Michele dominava la Chiusa, dove secoli prima Carlo Magno aveva sbaragliato i Longobardi.
Arturo inspirò profondamente assaporando la gelida aria della sera.
Aveva sperato di raggiungere l’abbazia prima di sera ma, purtroppo, si era attardato ad aiutare un gruppo di pastori le cui pecore erano precipitate in un dirupo. Per non percorrere col buio la mulattiera che saliva alla Sacra, decise di accamparsi nel bosco al lato della strada. Faceva freddo ma lui non temeva i climi rigidi: veniva dall’Inghilterra meridionale, uggiosa e spazzata tutto l’anno dai venti del mare.
Davanti al fuoco mangiò razioni di carne secca e bevve acqua mischiata all’idromele della sua terra. Di strada ne aveva fatta tanta da quando, oltre tre mesi prima, aveva lasciato il suo castello arroccato sulle scogliere. Era stato un viaggio lungo ma anche un cammino fantastico che non avrebbe mai dimenticato, nel corso del quale aveva incontrato foreste lussureggianti e arcigne montagne, ruderi maestosi e città meravigliose.
A Chartres, che gli era costata una deviazione di una settimana, si veneravano la camicia della Vergine e Nostra Signora di Sottoterra, un’immagine di Madonna nera maestosa e terribile. La cattedrale, coi suoi tre portali ornati di sculture e le sue torri, sorgeva su una fonte venerata da tempi immemorabili. Arturo aveva
visto coi propri occhi un uomo in preda alle convulsioni guarire dopo aver bevuto dell’acqua di quella sorgente.
Ritornando sulla via principale si era imbattuto in un monastero vicino a Soisson dove erano conservati i denti da latte di Gesù Bambino. Quasi ogni paese e abbazia sulla strada che portava a Roma emanavano una forza mistica irresistibile. Era ato per il Monastero di San Benigno di Digione, dove aveva ammirato la tomba del santo, le cui reliquie erano state rinvenute e venerate da Guglielmo da Volpiano. Giunto al lago di Ginevra era sceso per un percorso diverso da quello fatto secoli prima dal suo connazionale Sigerico. Voleva, infatti, vedere la Chiusa di San Michele dove un suo avo aveva combattuto nell’esercito di Carlo.
Sebbene viaggiasse da solo per scelta, aveva incontrato numerosi pellegrini e fatto con loro parte della strada. Ma non c’erano state solo reliquie importanti nel suo viaggio. Si era imbattuto in un vecchio contadino che, tutto solo, si recava a Roma per pregare in favore del figlio disperso dopo aver seguito Pietro l’Eremita nel suo tragico pellegrinaggio armato. Arturo lo aveva accompagnato sino a Grenant quando l’uomo, stremato, era stato colto da malore ed era spirato. Arturo gli aveva promesso che avrebbe pregato lui per il figlio, una volta giunto nella Città Eterna. Dalle parti di Bysiceon² aveva fatto la conoscenza di una nobildonna franca col suo seguito e l’aveva accompagnata sino al lago di Ginevra.
Si erano lasciati e lui aveva proseguito, arrivando al cospetto del duro o del Moncenisio, circondato di boschi e vette imbiancate. Si era inerpicato sulla strada angusta e sconnessa, tirando il cavallo per le briglie. Giunto in cima, Arturo si era concesso alcuni minuti per ammirare la valle e il lago glaciale sottostanti. Proprio sulle sponde lacustri sorgevano un ospizio e una tavernetta, dove il cavaliere si era riposato e rifocillato con formaggio di capra e pane inzuppato nel vino cotto.
Era così finalmente arrivato all’abbazia di Novalesa, sulla riva di un incantevole ruscello, la Cenischia, in una riservata e tranquilla vallata parallela alla Val di Susa. Si diceva che fosse stato San Pietro in persona, fuggito da Roma, a fondare i primi oratori nella zona. L’abbazia vera e propria era stata costruita da Abbone, un esponente di primo piano dell’aristocrazia galloromana. In quel luogo, dove si poteva sentire il respiro benevolo del Signore, Arturo aveva soggiornato tre giorni, pregando e ammirando sia gli affreschi nella cappella di San Eldrado sia il famoso scriptorium.
La discesa per Susa era stata abbastanza semplice. Lì aveva visitato l’antichissimo priorato agostiniano di Santa Maria Maggiore e il più recente monastero benedettino di San Giusto, divenuto la chiesa cattedrale della città. Nella possente chiesa a croce latina divisa in tre navate, venivano venerate le reliquie del santo martirizzato dai saraceni provenienti dalla Provenza.
La stupenda facciata era decorata in terracotta e abbellita dal campanile a sei livelli di finestre. La cattedrale nascondeva il ricordo di un inquietante episodio: una notte i monaci, attoniti, avevano visto figure tenebrose uscire dall’urna con i resti del santo e allontanarsi dalla chiesa. A denti stretti qualcuno diceva che le ossa riverite non fossero del santo che, adirato, aveva mandato questa calamità.
Lasciata quella città, aveva superato il precario ponte sulla Dora, impreziosito dalla statua lignea della Madonna del Ponte.
Sebbene perso nei suoi ricordi di viaggiatore, il ragazzo scattò fulmineo non appena sentì il rumore di ramoscelli che si spezzavano alle sue spalle. Il cielo era sereno e illuminato dalle stelle e dalla luna.
«Una notte da elfi» pensò, mentre impugnava la spada corta e tendeva i muscoli pronto a colpire. Nel gioco di luci e ombre creato dal fuoco e dagli alberi, la
ragazza sembrava una fata. Indossava abiti pesanti e rozzi ed era scalza. Arturo abbassò la spada.
«Chi sei?» chiese in latino, sperando che la contadinella capisse la lingua dei dotti, l’unica che lui parlasse oltre all’idioma delle sue terre.
«Mi chiamo Beatrice» replicò con prontezza. «Tu chi sei, cavaliere errante?».
«Sono Arturo di Glastonbury ma la mia terra mi ha rifiutato. Sono diretto a Gerusalemme per difendere il Tempio».
Lui osservò meglio quell’apparizione notturna, che parlava un latino perfetto e senza inflessioni. Aveva i piedi rossi, pieni di geloni ed ecchimosi, di chi era costretto a camminare con calzari laceri in un clima rigido come quello. Il viso era sporco ma perfetto con due occhi profondi come uno di quei pozzi druidici che si trovavano ancora nei dintorni di Glastonbury.
L’aveva mal giudicata: non poteva essere una popolana.
«Proprio una terra ingrata! Costringere un giovinetto a venire così lontano. Glastonbury è nel territorio dei Britanni, oltre il mare, vero?».
«La conosci?» chiese. Poi, cogliendo l’allusione alla sua giovane età, aggiunse piccato: «Sono giovane ma ho già ucciso molti nemici in battaglia!».
Dallo sguardo di ghiaccio che la ragazza gli rivolse, Arturo capì di aver detto una cosa sbagliata. Lei riprese subito il controllo e proseguì come se nulla fosse.
«Certo che conosco la tua terra. Sono una cantastorie, e le storie su Artù e i suoi cavalieri sono tra le mie preferite. Non sarai un suo parente, vero?».
Arturo si accorse che la ragazza lo stava canzonando.
«Mi prendi in giro?».
«No, Arturo di Britannia. Ti chiedo solo di accogliermi vicino al fuoco e di darmi se puoi una bevanda calda».
Il giovane le fece segno di avvicinarsi. Lei si accoccolò con i piedi vicino alla fiamma viva e gli appoggiò, nemmeno troppo timidamente, la testa in grembo. Sembrava una bambina intirizzita, ma Arturo la strinse con l’impaccio dell’amante al primo appuntamento: ne ammirò il naso affilato e leggermente all’insù, sentì sotto le vesti sformate il corpo snello di lei aderire al suo. Aveva il portamento di una nobildonna.
«Chi sei? Non mi sembri una popolana…».
«Adesso non posso dirtelo» gli rispose lei sussultando come colpita da una sferzata. «Se vuoi, però, posso raccontarti una bella storia».
«Te ne sarei grato».
«Bene, allora. Ti narrerò di quando Carlo, Re dei Franchi, figlio del Duca Pipino, dopo aver ottenuto il regno d’Italia per volontà e aiuto di Dio, alloggiò qui vicino, nel monastero di Novalesa con gli armati e la sua favorita Berta...».
F La donna e il frate
Come Berta, la favorita di Re Carlo dei Franchi, entrò a Novalesa vestita da frate.
«No!».
Berta si svegliò tremando.
«Cosa c’è, mia signora?» chiese Ermengarda, la sua fida ancella.
«Ho avuto un incubo» rispose la concubina del Re, rabbrividendo nella gelida stanza. Un forte colpo di vento aveva spalancato i battenti di legno e spento il fuoco.
Ermengarda scese dal letto, dove dormiva assieme alla sua Signora e riaccese la fiamma. In lontananza, nei boschi, i lupi ululavano alla luna. Di solito, nel letto della favorita di Carlo si coricava anche Sara, un’altra servetta; quella notte, però, la giovane, poco più che una bambina, era stata mandata di proposito a dormire con altre ancelle: Berta non si fidava della sua capacità di mantenere un segreto, soprattutto se interrogata sotto la minaccia di una frusta da un nobile di alto lignaggio.
«Cosa avete sognato, mia signora, di tanto terrificante?» chiese la ragazza rientrando in tutta fretta sotto le coperte. «Sembra che abbiate visto Satana in persona» concluse poi facendosi il segno della Croce.
«In effetti è così. Ero nel monastero ed ero inseguita da un monaco» iniziò Berta, stringendosi a Ermengarda in posizione fetale. «Fuggivo per quei cupi corridoi, gettando sguardi terrificati a colui che, ansimando come un diavolo, mi tallonava. A un tratto sono scivolata sulle pietre umide e il frate mi è arrivato sopra. Quando si è abbassato il cappuccio del saio ho visto qualcosa di orrendo: aveva il naso camuso, gli occhi gialli e le fauci spalancate di un demone».
«Secondo me è il Signore ad avervi mandato questo incubo: vuole farvi desistere da questa follia».
«Non posso farne a meno» ammise lei aprendo le braccia in un gesto di resa. «È da Aquisgrana che quel monastero mi tormenta. Prima lo sognavo solo, ora mi sembra di sentire i muri sussurrare, la notte. Mi chiamano, Ermengarda, e non riesco a non ascoltare quei bisbigli: sto forse impazzendo?».
«No, mia signora», la rincuorò l’ancella, «credo sia solo suggestione. Questo posto turba anche me: fa freddo e il vento urla tra queste montagne; anche a me sembra che parli. Però non dovete andare. È proibito e se vi scoprono metterete in imbarazzo tutta la corte. Il Re non sarà felice».
«Non mi importa» sibilò lei. «Devo farlo».
Stesa nel freddo letto in una delle stanze che l’abate aveva messo a disposizione della corte di Carlo, Berta sapeva che Ermengarda aveva ragione. Ciononostante
sarebbe entrata nel monastero a tutti i costi.
Tutto era cominciato molti mesi prima, ad Aquisgrana. Con Ermengarda e Sara aveva visitato uno dei mercati che mensilmente si tenevano nella capitale preferita di Carlo. Lì, tra saltimbanchi, venditori e buffoni, aveva incontrato il cartomante. Stava seduto in un angolo, davanti a una tenda, scrutando intorno a sé con durezza, il volto incastonato da capelli e barba bianchissimi.
«Salve, Berta» le aveva detto.
«Come fate a conoscere il mio nome?».
«Lo so e basta. Io sono Serse il Magnifico, leggo il futuro nelle carte. Vorresti conoscere il tuo?».
«Non fatelo, mia signora» era intervenuta Ermengarda. «È peccato!».
«Su, mia cara, è un gioco innocente: non preoccuparti».
Berta aveva seguito Serse, che claudicava, nella sua tenda, lasciando fuori le sue ancelle. All’interno tutto era avvolto da una pesante penombra. Il cartomante, naso camuso e bocca perennemente atteggiata nel sogghigno di chi la sa troppo lunga, l’aveva fatta accomodare davanti a un tavolino, su uno sgabello, e si era seduto di fronte a lei, accendendo una sola traballante candela.
Cinereo, nella luce della bizzosa fiammella, aveva cominciato a mescolare un logoro mazzo di carte. Erano strani tarocchi, che Berta non aveva mai visto, con immagini aliene e inquietanti. Con abile mano, il vecchio aveva calato sul tavolo, coperte, tre file da tre carte ciascuna.
Aveva iniziato a scoprirle, partendo dalla prima di sinistra, una donna senza volto, e poi lungo le diagonali di quell’improbabile quadrato formato dalle carte: monaco, monastero, cripta, sarcofago, cadavere di donna, luce e Cristo.
«Cosa significano?» aveva chiesto lei preoccupata.
«Vedo che sei turbata…».
Effettivamente, Berta era molto infelice. Seppur tra le preferite, era pur sempre solo una concubina e tremava al solo pensiero di dare al Re un figlio, che sarebbe stato solo uno dei tanti bastardi di Carlo.
L’uomo aveva colto la tristezza nel suo volto e le aveva parlato con dolcezza.
«Mia cara», le aveva detto stringendola con mani nodose ma forti, «devi sapere che la Verità e la salvezza sono solo in Cristo».
«Io prego molto», aveva ribattuto lei, «ma non riesco a essere serena».
«Perché nessuno ti ha mai mostrato il vero volto di Cristo».
«Come faccio a vederlo?».
«Devi osare. Gesù è rischio, rottura degli schemi. Questo dicono le carte».
«Non vi capisco».
«Tra qualche mese seguirai il Re in Lombardia. Lì soggiornerete in un monastero maschile. Tu sarai sistemata lontano da esso, come un’appestata. I frati credono che la tua presenza possa tentarli, non capiscono che vivere cristianamente fuggendo le tentazioni è troppo facile: la debolezza va affrontata e vinta, non bisogna fuggire da essa…».
«Cosa devo fare io?».
«Entrerai nel monastero e ti recherai nel suo cuore pulsante».
«Ma è contro le regole».
«Solo così troverai Cristo».
Nelle settimane successive aveva sognato ripetutamente il vecchio, che le diceva di entrare a Novalesa e cercare Cristo incarnato.
Spesso, mentre era sola o triste, la polverosa voce dell’indovino le parlava dolcemente, incoraggiandola a proseguire in quella folle missione.
«Vedrai il vero volto di Cristo e sarai nuovamente felice».
«Troverò il volto di Cristo stanotte, o non ci riuscirò mai più».
Berta si alzò dal letto, determinata.
Ovviamente era vietato a una donna, seppur di alto lignaggio, entrare nel cuore dell’abbazia, dove i monaci vivevano la loro vita consacrata a Cristo. Ciononostante sarebbe entrata. Nessuno, nemmeno Carlo, avrebbe potuto impedirlo.
La campana suonò il mattutino: era Quaresima e Carlo doveva ringraziare il Signore per la vittoria contro i Longobardi. Lei aveva già fatto sapere di essere un po’ indisposta. Sgattaiolò fuori dal letto, baciando sulla fronte Ermengarda, ben sapendo che la fida ancella stava solo fingendo di dormire: per lei era molto più che una sorella.
In piedi, accanto al debole fuoco, si spogliò e indossò un saio che Ermengarda aveva trafugato per lei. Uscì con circospezione dalla stanza, trasalendo ogni volta che un o echeggiava troppo rumorosamente nei corridoi ancora deserti e silenti.
Le donne che sostavano a Novalesa venivano alloggiate in una casa costruita accanto alla chiesa di Santa Maria, nei pressi del Monastero.
Berta si mosse con lentezza nella gelida notte alpina, illuminata da fulgide stelle. Tra lei e l’abbazia che l’ossessionava c’era una croce di pietra e calce: le donne, anche quelle di più alto lignaggio, non potevano oltrearla e dovevano limitarsi a rimirare il monastero da quella distanza.
Sebbene fosse sempre sconsigliato che una donna entrasse in un monastero maschile, la consuetudine di Novalesa era particolarmente rigida in materia. Era stato lo stesso fondatore, Abbone, a scrivere regole così severe: si diceva che egli stesso fosse quasi caduto in tentazione a causa di una femmina e che avesse voluto risparmiare ai suoi monaci questo rischio.
Quando Berta giunse alla croce fu colta dalla paura. Il cuore cominciò a batterle nel petto con violenza e le mani iniziarono a formicolarle. La mente le si ottenebrò e fu sul punto di rinunciare.
Alla debole luce della luna, sembrava che quel simulacro di pietra la osservasse ostile.
«È solo un idolo» le disse la musicale voce di Serse il Magnifico, con tono suadente.
«È il segno di Cristo».
«È una croce di pietra. Cristo si incarna in quel monastero e loro vogliono impedirti di incontrarlo».
«Non posso andare oltre: se sorerò quella croce morirò, me l’ha detto Ermengarda».
«Non badare a quella sempliciotta della tua ancella. Dammi retta: sora quella croce e arriverai diritta alla Verità».
Avvolta nello sgraziato saio da frate, Berta si fece forza. Mettendo un piede avanti all’altro, con studiata lentezza si avvicinò alla croce, che sembrava uno smisurato dito alzato a minacciarla. Il vento soffiava nella valle e gli alberi, frusciando, parevano salmodiare cupe litanie pagane.
Sentì bubolare un gufo nella notte. La donna posò il primo piede oltre il limite della croce, tremando. Non ci furono folgori dal cielo e non fu tramutata in scrofa. Più sollevata accelerò il o: voleva arrivare all’interno del monastero prima che il sole sorgesse.
Vide il corteo reale entrare nella chiesa del monastero recitando solenni litanie. Carlo sarebbe entrato nel cuore dell’abbazia, nella chiesa di San Pietro e Sant’Andrea. Di là il chiostro distava pochi metri.
Li avrebbe seguiti.
Si accodò a un gruppo di frati ed entrò nel luogo sacro tremando. Si tenne
leggermente in disparte, col cappuccio calato sul viso: se avesse cantato avrebbero compreso che non era un uomo e se si fossero accorti che stava zitta le avrebbero chiesto il motivo.
Per sua fortuna tutti, nella cappella, erano concentrati sulla preghiera e sul Re che, vestito con un lungo mantello blu, pregava con fervore. Berta sapeva che, sotto il manto, il Re era ancora abbigliato per la notte con una camicia dozzinale, da umile penitente.
Appena un fantasma nei coni d’ombra delle candele, Berta l’osservò per un attimo, quasi vedendolo bene per la prima volta.
Era un colosso, alto oltre sette piedi³, con folti baffi e capelli corti brizzolati. Aveva un collo taurino e il naso un po’ troppo grosso; gli occhi erano grandi e furbi: era il più potente sovrano d’Europa, Re dei Franchi e dei Longobardi e campione della Cristianità.
Era un abile politico e un valente guerriero, dotato di un carisma innegabile. Era anche molto pignolo e superbo ma sapeva ciononostante stare allo scherzo, almeno con i dignitari più fidati, gli unici che si potevano permettere di parlare liberamente con lui.
Era stato tutto sommato un buon compagno e, ora, lei stava per tradirlo. Sapeva, in cuor suo, che le conseguenze del suo gesto sarebbero state infauste.
Non poteva tirarsi indietro.
Gettò un’ultima occhiata a Carlo, che nella luce danzante delle candele sembrava uno dei cavalieri dell’Apocalisse, e seguì alcuni frati nel ventre scuro di Novalesa.
Alcuni benedettini stavano recitando le proprie preghiere eggiando per il chiostro. Era notte fonda e l’attività del cenobio era ridotta.
Berta si mosse come un felino tra le colonne ed entrò negli alloggi. Si ritrovò nel refettorio deserto e polveroso e poi seguì un frate, che zoppicava leggermente, dentro una porticina che dava accesso agli alloggi.
Non sapeva esattamente cosa cercare, la voce non lo aveva detto. Doveva arrivare al cuore del monastero, la cripta: lì avrebbe incontrato il Dio Incarnato.
Serse, se mai aveva veramente abitato la sua mente, ora era silente. Presto perse il frate nei meandri degli alloggi e fu presa dal panico.
Era stata una stupida. Come faceva la cripta a essere lì? Nella foga di entrare nel monastero non si era resa conto che l’ipogeo, se esisteva, doveva essere sotto la chiesa di San Pietro e Sant’Andrea o sotto il chiostro; non certo lì, dove i frati dormivano emettendo flatulenze e, probabilmente, venivano tentati nel sonno da quelli che suo fratello chiamava sogni bagnati.
Provò a fare la strada a ritroso ma si perse. Colui che aveva seguito, appena un’ombra claudicante davanti a lei, aveva svoltato ripetutamente e poi era scomparso, forse entrando nel proprio alloggio.
«Sei quasi giunta» tornò a farsi sentire Serse. «Hai visto giusto: è qui la tua meta. Dove i monaci perdono la loro ieraticità e tornano umani, con tutte le sozzure che questo comporta. Qui troverai ciò che cerchi».
«Dove?».
«Ora lo saprai».
La voce del cartomante, solitamente gioviale, si era ridotta a un sussurro catarroso.
Vide che la porta di una cella era socchiusa. Da lì balenava una flebile luce, forse una sola candela. Immaginò un frate inginocchiato davanti a un rudimentale altarolo a recitare i mattutini.
Si avvicinò tremante: era il frate del suo sogno. Eppure era diverso. Più bello e giovane, l’attraeva a lui, anziché respingerla e inseguirla per farle del male. Sembrava la raffigurazione di Cristo come lei lo immaginava. Un essere ieratico.
E nudo.
Berta entrò e fu l’ultima azione conscia che compì nella sua vita.
Il frate le sorrise e il suo naso camuso era reso bello da quel sorriso. Non parlò ma mostrò la sua virilità perfettamente eretta. Quando l’attirò a sé ed entrò in lei,
Berta si abbandonò senza esitare. Stava facendo l’amore con Dio.
Per sua sfortuna la realtà era diametralmente opposta. Se ne accorse nell’attimo in cui il piacere sgorgò da lei come un torrente. Nell’abbandono dell’orgasmo, il volto del frate si trasfigurò mostrandole ciò che era veramente. Il naso camuso e la bocca perennemente atteggiata nel sogghigno di chi la sa troppo lunga.
Berta sentì l’odore di zolfo dell’inferno uscire assieme al gemito di piacere di quello che non era più un frate ma un essere deforme e zoppo. Sentì che l’anima le si strappava dal corpo come una crosta da una ferita suppurata.
Pregò Dio, questa volta quello vero, di perdonarla. Non si faceva, però, molte illusioni.
Carlo Re dei Franchi era un vulcano pronto ad esplodere. Il Re aveva distrutto con lo sguardo il malcapitato novizio che aveva avuto l’ingrato compito di portargli la notizia infausta: Berta era stata trovata morta dentro a una cella, ormai vuota da tempo. La sua concubina era camuffata da monaco e si era intrufolata di nascosto nel monastero, violando tutti i divieti e le consuetudini.
Carlo ne era convinto, Iddio l’aveva punita.
Mentre seguiva i frati e i suoi servi nei meandri dell’abbazia di Novalesa, l’animo del franco era attraversato da un misto di ira, paura e tristezza.
La rabbia era per il gesto inconsulto di quella stupida donna, che lo avrebbe
messo in imbarazzo dì fronte alla Cristianità. La paura era figlia dei timori per la punizione che il Signore, giustamente, avrebbe potuto mandare sulla Casa del Re e sul Regno.
Carlo, però, era anche pieno di tristezza. Sarebbe, infatti, riduttivo attribuire al suo spirito soltanto il bieco calcolo dell’interesse politico o l’ottuso timore per il soprannaturale. Il Re dei Franchi era anche un uomo che sapeva provare sentimenti profondi per le persone che lo circondavano.
Berta, l’ennesima concubina del sovrano, era stata una donna dolce e affettuosa, e lui, a suo modo, l’aveva amata, come tutte le altre. Per questo Carlo, un colosso la cui sola presenza sul campo di battaglia spesso bastava a mettere in fuga i nemici più agguerriti, era sinceramente addolorato per la ragazza.
A tutto questo e a molte altre cose stava pensando il Re dei Franchi quando giunse al capezzale della compagna morta e si inginocchiò davanti a lei, sollevandole il capo. Il cappuccio cadde mostrando il bel viso fanciullesco distorto in una smorfia di terrore puro. L’occhio destro le era quasi schizzato fuori dall’orbita e il volto, un tempo rubizzo, era talmente paonazzo da sembrare sul punto di esplodere.
«Cosa è successo?» chiese bruscamente il Re ai frati che affollavano il corridoio. Nella pallida luce delle torce e delle candele sembravano anime dannante.
L’abate di Novalesa si inginocchiò, per guardare il sovrano negli occhi e parlò a Carlo con studiata calma, in lingua franca per stabilire un senso di vicinanza col sovrano.
Sapeva perfettamente che quella donna si era macchiata di un peccato gravissimo e che, più tardi, il Re sarebbe stato disposto a qualunque concessione perché i frati non rendessero pubblico l’accaduto. In quel momento, però, l’abate aveva di fronte un uomo accecato dall’ira per la morte della sua favorita. Un guerriero che aveva trecento armati alloggiati nei dintorni del monastero ma che, anche da solo, sarebbe stato in grado di uccidere quasi tutti i presenti, probabilmente a mani nude.
«Mio Sire», esordì con la sensazione di camminare sull’orlo di un precipizio, «questa povera pecorella smarrita è stata certamente tentata dal Demonio a compiere un gesto di tale malevola libidine».
«Com’è successo?».
Il Re sembrava parlare più alla morta che ai presenti.
«Mentre noi eravamo occupati a officiare il mattutino», continuò l’abate con un filo di voce, «alcuni confratelli hanno sentito un urlo di terrore e dolore così agghiacciante che sembrava impossibile che l’avesse proferito un essere umano. Sono convinto che questa povera figlia si sia resa conto di quello che stava facendo e il rimorso l’abbia uccisa. Sono sicuro che questo suo pentimento estremo abbia salvato la sua anima. Pregheremo per lei per tutto il tempo necessario».
Carlo guardò il volto barbuto e butterato dell’abate, dando l’impressione di attraversarlo con lo sguardo. Si comportava sempre così quando dubitava della sincerità del suo interlocutore. L’abate sopportò il suo cipiglio e il franco concluse che, se proprio non era onesto, almeno sapeva mentire con maestria.
«Sarà, quindi, sepolta con tutti gli onori, con una cerimonia cristiana…».
«Certamente».
«Si sparga la voce che la mia concubina è morta in grazia di Dio: nessuno saprà mai che cosa è successo».
«Nessuno».
«Mi ricorderò di questa abbazia».
«Avete già fatto molto per essa, Sire».
«Farò ancora di più», tagliò corto il Re, «come del resto voi e i vostri fratelli vi siete aspettati dal momento in cui avete trovato il cadavere di questa donna».
«Come il Re desidera».
«Così sia».
Carlo si rivolse nuovamente al corpo inerte di Berta, ancora abbandonato tra le sue braccia.
«Ah, mia cara!» disse con voce rotta dall’emozione, «Non potrai più tornartene con i piedi che ti hanno portata qui!».
Rimase abbracciato alla donna, circondato da frati e cortigiani che pregavano per lei. La salma fu trasportata nella stanza da letto che in vita Berta aveva diviso con Sara ed Ermengarda che le si lanciò sopra piangendo e strappandosi i capelli.
«Perché l’avete fatto?» chiese al corpo inerte della sua Signora.
«Perché non glielo hai impedito?» le chiese la malevola vocina della sua coscienza.
«Dio mi perdonerà?».
«Mi auguro di no» chiuse il discorso la vocina, impietosa.
Il terzo giorno fu sepolta con tutti gli onori nella chiesa di Santa Maria, detta della Croce.
«Si dice che nelle notti più fredde e cupe» concluse Beatrice, accoccolandosi ancora più vicino ad Arturo, «il vento che soffia nella valle e tra gli alberi porti il lamento di Berta la cui anima non ha ancora trovato pace».
«Una storia stupenda, che farebbe venire i brividi ad Attila in persona…» disse Arturo.
«Spero che questa notte non ci visiti lo spettro della povera Berta» lo canzonò lei.
«Se dovesse venire qui con cattive intenzioni dovrà fare i conti col mio gladio» rise lui.
Nonostante la sua allusione guerresca, Beatrice non si arrabbiò. Anzi, lo guardò divertita.
«Il tuo cosa?».
«Il mio gladio» spiegò lui snudandolo dal fodero. «È un’arma insolita per la mia gente. Faceva parte della dote di mia madre, originaria di Glastonbury, la cui casata vanta lontane origini romane. Questa spada è stata forgiata da un mio avo a immagine e somiglianza delle armi dei legionari di Roma, che assicurarono per secoli pace e prosperità alle mie terre. Come arma di guardia è molto più utile dello spadone, perché la si può estrarre più in fretta e dà meno nell’occhio».
«Interessante. Anche tu, stasera mi hai raccontato una storia» sorrise Beatrice, e si strinse ancora di più a lui.
F Ad Transitum Padi
«Non credi, caro Rainaldo, che sia il caso di fare una sosta?».
Rosso si deterse una goccia di sudore dalla fronte e guardò il compagno che camminava accanto a lui di buona lena. L’uomo sembrava ancora fresco come un fringuello, nonostante il loro viaggio non fosse stato così leggero. Erano partiti ore prima da Santa Cristina insieme alla loro scorta, con due muli carichi di ricche mercanzie, e non si erano riposati un solo istante. Tornavano da un lungo viaggio dalla città lagunare di Venezia, dove si recavano ogni due mesi per acquistare tessuti pregiati provenienti da Costantinopoli e rivenderli nei mercati padani.
«E perché mai? Vuoi fermarti proprio ora che si sente già l’aria di casa, fratello mio? Non sei forse contento all’idea di rivedere la tua famiglia?».
«Certo che sì, ma sto parlando di bisogni assai concreti, Rainaldo. Ora ci starebbero proprio bene una sorsata d’acqua e un tozzo di pane, il mio stomaco inizia a farsi sentire».
Rosso si accarezzò la pancia tonda per cercare di tenere a bada i brontolii che la squassavano e Rainaldo si lasciò sfuggire una grassa risata.
«Per tutti i santi, hai una caverna al posto del ventre!» esclamò facendosi beffe di lui.
Suo fratello chinò il capo e dissimulò l’imbarazzo dando un colpetto di tosse e ricomponendosi alla bell’e meglio.
«Ebbene, così sia!» disse infine Rainaldo, accendendo di gioia gli occhi di Rosso. «Faremo la sosta che mi chiedi, ma solo dopo che avremo attraversato il fiume».
Il mercante indicò col dito davanti a sé, mostrando in lontananza a Rosso e alla loro scorta il traghettatore che per qualche soldo li avrebbe portati sull’altra riva del Po.
Né vecchio né giovane, appoggiato a un lungo remo di legno scuro, se ne stava ritto sull’argine, segnando con la sua presenza il punto preciso del guado dove si poteva attraversare l’immensa distesa d’acqua che luccicava sotto i raggi del sole. Quando vide arrivare i due uomini con gli armigeri, fece un cenno con la testa per salutarli; non erano i suoi primi clienti, quel giorno: al mattino aveva già fatto traversare un folto gruppo di pellegrini, che avevano facce stanche e gambe pesanti. Era stato un sollievo, per loro, sedersi sulla sua chiatta e riposarsi lasciandosi galleggiare, guardando il fiume farsi sempre più scuro e profondo a mano a mano che si avvicinavano al letto, poi di nuovo più chiaro e trasparente mentre si approssimavano finalmente alla riva opposta. Avevano osservato i pesci guizzare tra le onde e si erano goduti la brezza fresca e gentile in tutta tranquillità. Uno solo di loro si era lasciato prendere dal panico, e si era messo a pregare Iddio di non farlo morire annegato: a quello spettacolo, il traghettatore si era limitato ad alzare le spalle e a scuotere la testa, manovrando col remo e tenendo i propri pensieri per sé.
«Felice giornata, signori, posso esservi d’aiuto?» chiese con un sorriso.
Rosso notò che era parecchio sdentato, e molto probabilmente doveva aver avuto un ato movimentato, poiché gli mancava un pezzo d’orecchio che sembrava tagliato di netto. Nonostante questo, dava l’idea di un uomo scaltro ma retto.
«Potete traghettarci?» chiese Rainaldo.
L’uomo valutò con calma, infine disse: «Non tutti insieme».
«E per questo, ci farete pagare il doppio?».
«Dovrei...» rispose lui vago, «ma possiamo accordarci».
Mentre Rainaldo era impegnano nelle trattative con il traghettatore, uno dei guerrieri della scorta richiamò l’attenzione di Rosso, che gli fece cenno di avvicinarsi. Si spostarono un poco in disparte per parlare da soli.
«Se attraversiamo, lasceremo il territorio lombardo».
«È esatto».
«Gli accordi non riguardavano la zona al di sotto del Po. Dobbiamo rinegoziare il compenso».
A quelle parole, Rosso impallidì e si chiese come mai proprio adesso, a un solo giorno di cammino dalla sua amata magione, dalla moglie e dai figli, i suoi armigeri dovevano decidere di piantargli una siffatta grana.
«Ma sapevate che dovevamo arrivare a Piacenza, e siete già stati pagati profumatamente!».
«Gli accordi prevedevano il servizio di scorta per il territorio lombardo» replicò duro il soldato. Il mercante sapeva bene che era una menzogna, ma non voleva far alterare l’uomo, che era ben armato e aveva con sé altri tre dei suoi: non era prudente mettersi contro a dei mercenari come quelli, pronti a tutto pur di guadagnare mezzo soldo in più.
Rosso si girò smarrito e vide Rainaldo stringere la mano al traghettatore e voltarsi verso di lui. Colse al volo l’occasione per fargli capire con uno sguardo che qualcosa non andava. Il fratello lo raggiunse subito, appena in tempo per cogliere il succo del discorso.
«Cercate di capire. Noi non possiamo permetterci di darvi altro denaro. Abbiamo dato fondo a quel poco che avevamo da parte».
«Spiacente, ma se le cose stanno così le nostre strade si dividono ora».
«Ma senza una scorta saremo facile preda dei briganti, sapete che zone pericolose sono queste!».
«Allora pagate, e avrete la vostra scorta. Se non pagate, che Dio sia con voi».
Rainaldo e Rosso si guardarono negli occhi e fecero un triste cenno d’assenso, dopodiché congedarono gli armigeri che girarono le cavalcature per tornare al galoppo da dov’erano venuti. Il traghettatore aveva seguito la scena da lontano, appoggiato saldamente al suo remo.
«Se l’intuito non mi inganna, non vi siete persi molto» disse l’uomo, una volta che quelli furono scomparsi. Aveva aiutato i due mercanti a far salire sulla chiatta i due muli recalcitranti, che sembravano proprio non volerne sapere di stare in equilibrio su qualche asse di legno. Per risolvere la situazione, Rosso aveva infine bendato le bestie, che si erano fatte più mansuete e si erano lasciate guidare nonostante la loro proverbiale diffidenza.
«Perché parlate così?» chiese Rainaldo.
«Perché mi sembra strano che dei baldi guerrieri come quelli facciano tante storie per attraversare il Po. Li conoscevate bene?».
«A dire il vero, no. Li abbiamo assoldati in quel di Venezia».
L’uomo alzò il mento e socchiuse gli occhi.
«Forse, chissà, hanno preferito non avere sorprese dalla parte opposta della riva».
«Pensate che abbiano una taglia sulla testa?» esclamò allarmato il mercante.
«Può essere, o forse semplicemente non sono graditi e ne sono consapevoli. Chi può dirlo?» rispose lui scrollando le spalle. Con uno sforzo, diede un colpo al remo e iniziò a guadare il fiume dirigendo la chiatta verso il punto opposto d’approdo.
«Comunque sia, noi ora siamo senza scorta».
«Dove siete diretti?».
«A Piacenza» rispose Rosso mentre accarezzava il muso dei muli a turno, per tenerli tranquilli.
«Vi conviene fare sosta a Calendasco, stanotte, e trovarne una nuova domani mattina».
«Se la troviamo...».
I due mercanti piacentini iniziarono a pensare a come organizzare il resto delle ore che mancavano al tramonto. In quella zona v’era stato, in un lontano ato, l’antico porto romano, poi erano giunti dalle terre del nord i temibili Longobardi, che l’avevano soggiogata sotto il loro dominio sfruttandola per le sue straordinarie qualità strategiche. Dopo la conquista carolingia, ci avevano pensato i vescovi conti a rendere quello di Calendasco un territorio ricco e potente, costruendo un castello massiccio e sicuro, imponendo dazi e gabelle a
mercanti e viaggiatori, proteggendo gli abitanti con guardie e cavalieri armati, richiamando pescatori e navaroli attirati dal grande fiume pieno di ogni ben di Dio. Era una zona di grande importanza, abbastanza per attirare canaglie e sbandati capaci di tutto pur di rubare un tozzo di pane.
«Potrete trovare riparo all’ospitale dei pellegrini, mentre la cercate» consigliò loro il traghettatore. «Se vorrete approfittare della sosta forzata traendone buon frutto, concedetevi una visita alla chiesa di Santa Maria, così potrete chiedere protezione alla Signora del cielo».
«Siete un fervente servitore di Dio, buon uomo?» chiese Rainaldo con malcelata sorpresa.
«Faccio quel che posso, mio signore, ma una cosa è certa: è sempre meglio avere un protettore in più, seppure in paradiso, che un amico in meno sulla terra» rispose lui ammiccando.
A quella battuta così sincera, i due fratelli risero di cuore e decisero di seguire il suo suggerimento una volta giunti a Calendasco. Scelsero poi di assaporare in silenzio l’attraversata del grande fiume, così incredibilmente calmo e accogliente, e di godere appieno di quel momento di rara tranquillità e leggerezza che non avevano ormai da mesi, sulle strade dei commerci e delle guerre che ricamavano i territori del nord. E si sentivano soltanto lo sciabordio delle onde a infrangersi contro la chiatta e il lento, regolare rumore del remo che, sapiente, tagliava le potenti acque del Po.
F Sulla strada per Bobbio
Il cavaliere britannico fermò un istante la sua puledra, per godere la vista mozzafiato sulla Val di Susa, resa spettrale dal maltempo. Mancavano ormai pochi tornanti e avrebbe vinto la montagna, giungendo all’agognato cenobio benedettino che sorgeva avvinghiato alla nuda roccia. Le nubi avvolgevano i monti come spire di denso fumo, mentre un vento glaciale spazzava il sentiero che aveva dovuto percorrere tenendo Morgen per le redini.
«Andiamo, bella, ancora un piccolo sforzo» sussurrò all’animale. La puledra si mosse con pigrizia trasportando il suo padrone attraverso alberi svettanti e rocce aguzze. Mentre salivano, Arturo pensò a Beatrice, sola nei boschi. «Starà tremando dal freddo. Speriamo trovi un riparo, se inizierà a piovere si prenderà un malanno» disse ad alta voce.
La ragazza si era rifiutata di seguirlo alla Sacra.
«Odio i preti» gli aveva detto stizzita, ma lui aveva letto la paura nei suoi occhi. Le aveva lasciato qualche razione di carne secca e una pelliccia di volpe che si era portato dietro dall’Inghilterra. Le aveva anche curato i piedi martoriati: con un fine ago d’osso aveva perforato le vesciche e aveva applicato un unguento acquistato in uno degli ultimi ospizi che aveva incontrato in territorio franco. Infine aveva adattato per lei un paio di babbucce di pelle.
La magnifica abbazia emergeva da dietro uno sperone di roccia, sulla sommità del monte Pirichiriano, che dominava la Val di Susa. Era giunto alla sua meta. Commosso, si recò dal padre guardiano dove ricevette istruzioni per l’alloggio
suo e della puledra. Una volta sistemata Morgen, si recò senza indugi alla chiesa che sembrava un prolungamento della montagna. Si diceva che il fondatore, l’eremita Giovanni Vincenzo, inizialmente, volesse costruire il cenobio sul Caprasio, il picco che, posto di fronte al Pirichiano, formava la Chiusa. L’Arcangelo guerriero, però, aveva mandato schiere di angeli a spostare pietre e tronchi nel punto in cui ora sorgeva l’eremo. La mano di Dio si era posata molte altre volte su quel luogo benedetto: nella notte che aveva preceduto la consacrazione erano stati gli stessi angeli, infatti, a preparare l’altare per il rito, rischiarando le tenebre con un immenso fuoco sul monte.
Era un luogo di grande religiosità e Arturo pregò con entusiasmo, sentendosi rinascere dopo i mesi di tristezza seguiti alla sua partenza. Il soggiorno fu indimenticabile, sebbene ogni tanto il giovane si fermasse a pensare a quella strana ragazza, sperando di ritrovarla ad aspettarlo tra i boschi di aghifoglie.
Restò tre giorni a San Michele. Quando riprese il cammino sulla strada che attraversava la valle, indugiò nei dintorni ammirando il panorama e, soprattutto, cercando la ragazza.
Ancora una volta Beatrice apparve di notte e gli raccontò la storia di un eroe che, alla ricerca di un falso drago, era incappato in una banda di briganti che lo avevano lasciato nudo e ferito nell’orgoglio a vagare tra i boschi innevati. Risero sotto le stelle.
«Vieni con me fino a Roma. Non so chi sei e perché vaghi raminga per i boschi, ma la tua compagnia è la cosa migliore che mi sia capitata da quando ho lasciato l’Inghilterra».
«Va bene» gli disse sorridendo. «Però ti prego di abbandonare queste terre il prima possibile: per me ogni luogo abitato in questa valle è pericoloso. Te lo
giuro, quando mi sentirò in grado di farlo ti spiegherò da cosa sto scappando, ora ho troppa paura…».
«Paura di me?».
«Paura del tuo biasimo, tu sei così pio!».
«Almeno tu sai qual è il tuo peccato. Io, invece, vengo punito per qualcosa che non so di aver fatto!».
«Non tutte le sventure vengono dal Signore: a volte credo che il Destino sia molto più severo di qualsiasi dio».
«Non parlare come una pagana: c’è solo un Dio, non esiste il Destino».
«Preferisci credere che il tuo Dio ti stia punendo per qualcosa che non hai fatto?» sibilò lei, improvvisamente aggressiva. «Che si diverta con noi giocandosi le nostre anime a dadi col Demonio? Credo sia meglio pensare che ci lasci liberi di agire e intervenga il meno possibile: altrimenti, a guardare la miseria di questo mondo, Egli sarebbe veramente un essere di immensa crudeltà».
«Non bestemmiare! Sei forse una di quelle maligne creature dei boschi che vogliono portarci fuori dalla retta via?» le disse improvvisamente serio.
«Sono solo una creatura cui il tuo Dio ha distrutto la vita».
Si era fatta triste e Arturo pensò che, se era brutto vederla arrabbiata, era terribile osservarla mentre si sedeva lontano da lui, con le gambe raccolte e le mani a stringere le ginocchia.
«Scusa» le disse, avvicinandosi con circospezione. «Come al solito ho parlato senza ragionare. Non so cosa ti è successo, se sei così adirata con Dio avrai i tuoi motivi; credo che lui, comunque, voglia il tuo bene, anche se adesso ti sembra impossibile crederlo».
Lei gli sorrise. Fu un sorriso più bello di ogni alba e tramonto incontrati in settimane di viaggio. Gli aprì il cuore. Si sedette accanto a lei e iniziò ad accarezzarle i capelli.
«Ti ammiro, la tua fede è incrollabile».
«A volte anche io vacillo, ma per ogni cosa c’è una ragione. È evidente che il Signore mi vuole in Terra Santa».
«Vedi perché ti ammiro?» lo canzonò lei abbracciandolo. Gli mise una mano sotto la veste e lui, per un attimo, si irrigidì tentando di ritrarsi ma quando lei iniziò ad accarezzarlo, ogni suo pudore si sciolse e la baciò. Stettero a lungo così vicini sotto le stelle.
Lasciato il cenobio di San Michele, proseguirono sul tracciato della tradizionale
via Francigena, ando per Torino e Tortona in direzione di Piacenza. La campagna era rigogliosa ma poco popolata.
Una volta abbandonata la Val di Susa, la ragazza lo seguiva anche nei centri abitati e negli ospitali. Ciononostante, quando poteva, Arturo preferiva accamparsi per la notte all’aperto, anche se la mattina si svegliavano spesso avvolti da una densa bruma che saliva dalla campagna padana.
Conosceva i rischi di una simile condotta, soprattutto in quelle lande poco abitate e dove il clima malsano doveva rendere difficile procurarsi cibo. Sapeva che due viandanti soli in mezzo alla pianura erano un bersaglio facile non solo per linci e lupi ma soprattutto per gruppi di briganti o villani sbandati e affamati. Gli avevano raccontato anche dei folletti che abitavano i boschi e di creature che emergevano dalla nebbia rubando l’anima agli imprudenti viandanti.
Arturo, però, si reputava un eccellente uomo d’arme e, dopo aver dormito da solo per mesi, non aveva paura. Aveva sviluppato la capacità di dormire mantenendosi appena sotto la soglia di coscienza: nulla gli sfuggiva nei turni di guardia notturni, anche nel buio di un fuoco spento in una notte senza stelle.
Questa consapevolezza nei suoi mezzi, dettata più dall’incoscienza della gioventù che da un calcolo razionale, serviva a rafforzare il suo proposito di godere dell’esclusiva compagnia di Beatrice per tutto il tempo che poteva.
Adorava mangiare con lei sotto le stelle. Era bello sentirla raccontare storie fantastiche che Beatrice sapeva narrare con una maestria che avrebbe fatto impallidire lo stesso Taliesin, il mitico bardo di Bretagna. Una volta gli parlò di un uomo che, all’epoca dei Romani, era stato mutato in un asino da un dio irato e delle sue peripezie per tornare umano. Un’altra volta narrò di un liberto arricchito e della sua cena lussuriosa e priva di buon gusto. Dopo ogni storia si
sedevano vicini e si addormentavano.
Spesso di notte Beatrice si agitava nel sonno, urlando come in preda a incubi terribili, gridando nello strano idioma di quelle terre. Lui l’abbracciava protettivo, ma la mattina la ragazza non voleva raccontargli i suoi sogni e tornava gaia e spensierata.
Il desiderio di stare da solo con la sua nuova compagna gli faceva dimenticare spesso ogni prudenza.
Fecero l’amore per la prima volta poco dopo Tortona, in un fienile. La notte faceva ancora freddo e la bruma saliva implacabile dalla pianura ricoprendo il paesaggio di una patina grigiastra che lo rendeva alieno. L’edificio sorgeva al centro di un casale dall’aspetto disabitato, aveva una sgangherata porta di legno mal chiusa.
«Ripariamoci lì: questa notte è fredda e triste» implorò Beatrice, rabbrividendo.
«Mi sembra una buona idea».
Il fieno era morbido: dopo notti all’addiaccio, era piacevole sdraiarsi su qualcosa di soffice e caldo. Mangiarono ancora un po’ di carne secca e bevvero l’acqua che era loro rimasta. Morgen era legata vicino a loro e il calore del suo corpo alleviava un po’ il freddo della notte.
«Domani dovremo chiedere ospitalità, non potremo stare sotto le stelle a
raccontarci storie» disse Arturo, tristemente.
«Vorrà dire che questa sera sarà memorabile».
«Potresti iniziare narrandomi qualche storia».
La ragazza gli raccontò senza farsi pregare la storia di Amore e Psiche.
«Psiche era una fanciulla tanto bella da suscitare la gelosia di Venere, che per vendicarsi aveva chiesto al dio Amore di farla innamorare dell’uomo più vile della terra. Amore però si invaghì di lei e la portò nel suo palazzo facendone la sua Regina. Psiche non conosceva l’identità del suo amante e non poteva vederne il viso per non rompere l’incantesimo, così le sorelle di lei, invidiose della sua fortuna, instillarono nel suo cuore il dubbio che l’amante con cui giaceva ogni notte fosse in realtà un serpente mostruoso. Tormentata da questo pensiero, ruppe il patto ma vedendo Amore se ne innamorò perdutamente.
Per riconquistare l’amante e la sua fiducia tradita, dovette sottoporsi a quattro prove: nell’ultima, la più difficile, fu tradita nuovamente dalla curiosità, e aprì il vaso che doveva lasciare sigillato. Fu così avvolta da un sonno mortale. Amore, che non si era dimenticato della ragazza, decise di intervenire e chiese a suo padre Giove di concederle l’immortalità: il Padre degli Dei accettò e i due finalmente si sposarono. Dalla loro unione nacque una figlia chiamata Voluttà, che significa ‘piacere’».
«Che bella storia. Dove l’hai sentita?».
«Non l’ho sentita, l’ho letta. Mio padre possedeva una copia delle Metamorfosi di Apuleio, un autore romano. È lo stesso libro dal quale ho tratto la storia di Lucio, il ragazzo tramutato in asino, che ti ho già raccontato. Questa fiaba è ascoltata da Lucio nella caverna dei briganti che l’avevano rapito: la racconta una vecchia a una fanciulla, anch’essa prigioniera».
«Sai leggere?» chiese Arturo stupito.
«So fare molte altre cose» rispose lei, avvinghiandosi a lui.
Fu Arturo a prendere l’iniziativa. In seguito, non avrebbe mai rammentato come era successo: avrebbe ricordato soltanto la fragranza della paglia umida, il corpo caldo di lei nella brumosa notte di maggio e il suo odore, così pungente eppure così piacevole.
Quando lui le si avvicinò, Beatrice si irrigidì e pianse silenziosamente. Lui allora le accarezzò i capelli e le baciò i seni, la pancia e i lombi con tenerezza, fino a quando lei non smise di piangere. Entrò con delicatezza in lei, che iniziò a rilassarsi e a gemere, infine li avvolse una calda ondata di piacere. Si sdraiarono sulla paglia e giacquero assieme, stringendosi e guardandosi negli occhi, quasi vedendosi per la prima volta.
Quando Arturo si svegliò albeggiava. Un contadino barbuto lo guardava torvo imbracciando un forcone. Disse qualcosa in un dialetto così stretto che lui non capì. Lanciò uno sguardo interrogativo a Beatrice che si stava rivestendo e scrollò le spalle dubbiosa. Il tono del villico, comunque, era tutto tranne che amichevole. Brandì l’attrezzo da lavoro come un’arma e si avventò sul giovane.
L’unica parola che Arturo capì fu «meretrice». Parò il colpo del contadino e gli mollò un calcio allo stomaco abbastanza forte per farlo rimanere senza fiato alcuni istanti.
«Scappa!».
Montarono a cavallo di Morgen; il purosangue corse via al galoppo sbuffando. Sparirono nella nebbia che ancora saliva dalla grassa campagna ridendo come matti.
Due giorni dopo incontrarono due fratelli, mercanti di tessuti, che si stavano recando da Venezia a Piacenza, distante un paio di giornate. Viaggiavano a piedi con due muli carichi di mercanzia.
«Ci accompagnereste sino alla città? Questa zona è infestata da briganti, la nostra scorta ci ha abbandonati tre giorni fa» chiese uno dei due uomini ad Arturo.
«Volevano essere pagati il doppio e noi non potevamo accettare» aggiunse l’altro.
Arturo e Beatrice viaggiavano da soli da quasi un mese e furono ben lieti di accettare compagnia. I mercanti erano piacentini e ogni due mesi si recavano a Venezia per acquistare tessuti pregiati provenienti da Costantinopoli e rivenderli nei mercati padani.
Rainaldo e Rosso, così si chiamavano, descrissero le bellezze dei mercati veneziani e Arturo notò che la cosa colpiva molto Beatrice.
Il secondo giorno, mentre percorrevano un tratto di strada nella boscaglia, si trovarono davanti tre tagliagole. Erano individui rozzi e vestiti di stracci. Avevano i denti malfermi e il fiato maleodorante di chi mangia poco e male. Non avevano nulla da perdere.
«Dateci tutto il vostro oro e i tessuti che portate» intimò il più massiccio.
«State vicino alla ragazza, a loro penso io» disse Arturo ai mercanti, estraendo il gladio dal fodero.
I due uomini si misero a protezione di Beatrice che, per nulla turbata, estrasse dalla sella di Morgen un lungo coltello da caccia. «Prima che mi prendano, un paio di loro li accoppo» sussurrò con un sogghigno a Rainaldo e Rosso.
Nessuno dei due mercanti dubitò che ci sarebbe riuscita: quella ragazza li spaventava.
Due briganti caricarono roteando i randelli, Arturo evitò i loro colpi e piantò la spada corta nel ventre di quello alla sua destra, centrando con un calcio i testicoli del secondo che si accasciò a terra dolorante. Il giovane gli fu addosso e gli tagliò la giugulare scoperta con un rapido colpo. Un fiotto di sangue inondò la mano guantata del cavaliere.
Non affondava mai la corta lama fino in fondo, né colpiva di taglio. Si accontentava di provocare un’emorragia e una ferita dolorosa, per concentrarsi senza indugio su un nuovo avversario. Sembrava che danzasse con quell’arma desueta nella mano.
«Adesso è il tuo turno» disse rivolto al brigante che aveva parlato e che, probabilmente, era il capo.
Beatrice stava osservando compiaciuta le evoluzioni di Arturo, quando sentì Rainaldo urlare. Si voltò e vide altri due banditi uscire dal bosco e sopraffare i due piacentini, più abili a far di conto che a combattere. Il terzo si avvicinò a lei minaccioso, brandendo un coltello. Commise, però, l’errore di sottovalutare le potenzialità della sua avversaria, tentando di tirarla giù di peso da cavallo. Beatrice gli conficcò il coltello nell’occhio destro, rabbrividendo al rumore che fece il bulbo mentre veniva schiacciato dalla punta dell’arma. Il bandito urlò e cadde tenendosi le mani sulla faccia, mentre sangue scuro gli macchiava le vesti.
Col viso contratto in un’espressione di disgusto, la ragazza diede di speroni alla puledra e si mosse verso Arturo che stava affrontando il capo dei fuorilegge.
Vide l’energumeno buttare terriccio in volto al ragazzo costringendolo a un’esitazione fatale: l’uomo gli fu sopra. Lo sovrastava di stazza e lo abbatté con violenza.
«Aiutaci!» si sorprese a pregare la ragazza, mentre altri tagliagole uscivano dai loro nascondigli. «Non ti ho mai chiesto nulla ma ora ti scongiuro: fai che non muoia!».
Arturo era immobilizzato da tre grossi briganti che lo tempestavano di pugni e calci. Vide Morgen caricare con Beatrice che alzava sopra la testa il coltello da caccia: quella pazza doveva scappare, non cercare di salvarlo: l’avrebbero ammazzata, se non peggio.
Il brontolio del tuono giunse repentino e ancora più velocemente arrivò la pioggia. Uno scroscio violento e impietoso si abbatté sull’improvvisato campo di battaglia trasformandolo in un acquitrino. Colti di sorpresa, i suoi assalitori mollarono la presa quel tanto che bastò a permettere ad Arturo di divincolarsi e correre verso Beatrice che ne affrontava due torreggiando su di loro come una Walkiria.
Arturo ebbe la percezione di sei briganti che gli correvano dietro arrancando sul terreno reso viscido dall’acquazzone. Poi sentì il boato alle sue spalle, le urla e l’odore di bruciato.
Beatrice vide abbattersi la folgore di Dio. Il fulmine cadde in mezzo ai sei banditi centrandoli tutti e mancando di un soffio lo stesso Arturo: quelli furono scagliati a terra, mentre un filo di fumo si alzava dal punto dove era piombata la saetta.
Arturo affrontò i due superstiti e li abbatté senza pietà, con la furia di chi difende il suo bene più prezioso.
«È stato un miracolo, Dio mi ha esaudita» disse molte ore più tardi la ragazza.
«Strano che sia tu a parlare così» sorrise Arturo.
«Lo so» rispose lei, grata.
F Roberto di Puglia
Quando giunsero a Piacenza i due fratelli, grati per l’aiuto, offrirono ospitalità ai ragazzi.
«La nostra casa non è Gogamagoga, ma è accogliente e calda» disse Rainaldo.
«Cosa vuoi dire?». Arturo aveva imparato poche parole del volgare padano da Beatrice, ma quel termine gli era sconosciuto. Guardò la ragazza che fece spallucce.
«Scusatemi! Dimentico che siete forestieri. Si tratta di un termine usato da queste parti per indicare un luogo lontanissimo e fantastico, come quei luoghi d’Oriente ricchi di mistero e ricchezza».
«Ora ho capito, intendi il Paese di Cuccagna!» comprese Arturo.
«Credo che anche se non è Gogga... gogga… ai miei piedi e al mio stomaco sembrerà il palazzo del Basileus» sentenziò Beatrice ridendo.
In realtà, la casa dei mercanti era una villa grande e lussuosa, circondata da magazzini, stalle dove Rosso mostrò ad Arturo stupendi cavalli bai, granai, fienili e tettoie per gli attrezzi. C’erano anche due grandi gualchiere, mosse da
ruote idrauliche, che i Rossi usavano per battere la stoffa e darle la consistenza del feltro.
La casa padronale era su due piani, con la sala comune al pianterreno e le stanze da letto al piano rialzato. La cucina era costruita all’esterno ma a ridosso della sala comune: mentre il cibo cuoceva sul grande focolare, il calore si trasmetteva anche alla casa; il fumo, così, riempiva solo la cucina evitando di soffocare coloro che occupavano l’abitazione. Vi erano poi stufe da riscaldamento nelle stanze da letto, una vera novità per Arturo, che ne aveva incontrata qualcuna a nord delle Alpi.
La casa dei Rossi era costruita in pietra a secco, col tetto ricoperto di tavolette di lastre d’ardesia, un vero lusso. Gli altri edifici della corte erano per lo più di legno o graticciato con tetti di paglia. Erano protetti da un fossato, un robusto recinto e un torrione circolare, da cui si dominava la campagna piacentina.
La ragazza fu sistemata con le tre figlie di Rainaldo e il giovane con i due eredi di Rosso.
Beatrice, dopo un bagno caldo, scese raggiante nella sala comune: bellissima, avvolta in una stupenda veste scarlatta con le maniche di pelliccia grigia regalatale da Agnese, la moglie di Rainaldo, e con i capelli avvolti in una cuffietta plissettata. Ai piedi portava sandali finemente lavorati. Arturo a vederla rimase senza respiro.
Fecero una cena memorabile. Beatrice tentò di non abbuffarsi, ma dall’avidità con cui il suo sguardo dardeggiava sul cibo il britannico comprese che la ragazza non faceva un pasto decente da molto più tempo di lui.
Mangiarono gru e porcellini arrosto, aromatizzati con un condimento a base di maggiorana. Poi gustarono cappone ricoperto di una salsa che il loro ospite chiamò «biancomangiare», composta di tuorlo d’uovo e di zafferano. Innaffiarono tutto con un vino corposo prodotto sulle colline vicine.
«Sei un valente uomo d’arme» disse a un certo punto Rosso. «Ti andrebbe di partecipare a una battagliola? Il campione del nostro rione si è infortunato cadendo da cavallo e senza di lui le nostre speranze sono ridotte al lumicino».
«Cos’è una battagliola?» chiese Beatrice preoccupata.
«È una battaglia simulata, un esercizio bellico».
«È una barbarie! Trent’anni fa per colpa di questa finta battaglia è scoppiata la guerra civile e i militi hanno fatto un macello» lo interruppe Agnese.
«Taci, donna, tu non puoi capire» la redarguì Rinaldo.
Come Beatrice temeva, Arturo accettò.
Lo scontro si svolse per le strette strade del centro, partendo dalla piazza della cattedrale di Santa Giustina. Gli uomini, divisi in due squadre distinte da livree di colori diversi, si affrontarono armati di sassi e bastoni, con le donne ad assistere dai balconi delle case. Beatrice seguì le sue ospiti da amici che abitavano in città. Era tesa e infuriata per la decisione di Arturo.
Le due schiere si muovevano come eserciti sul campo di battaglia. I verdi, dove militava Arturo, si trovarono presto a mal partito contro i rossi che erano molto più compatti e più abili a colpire a distanza con grossi sassi. Arturo e Baldo, il figlio maggiore di Rosso, combattevano schiena contro schiena menando randellate a destra e a manca. Avevano già abbattuto cinque rossi.
A un tratto un energumeno avversario affrontò Arturo brandendo un bastone smisurato. Il giovane parò il fendente con lo scudo ligneo che andò in pezzi e fu centrato allo sterno dalla bastonata. Cadde in ginocchio, senza fiato, e venne colpito al capo da un secondo fendente. Poi, il buio lo avvolse.
Il castello sull’Oceano era poco più di una scura torre attaccata come un mitilo a un grosso scoglio battuto dal vento. Sebbene piccolo e rozzo, però, era tutto il suo mondo.
Suo padre era un uomo gretto e col ventre sformato dalla birra. Molti, al castello, bisbigliavano che avesse ucciso sua madre in uno scatto d’ira, mentre era in preda ai fumi dell’alcool.
Oltre alla birra irlandese, più pesante di quella inglese, suo padre aveva un altro vizio: le donne. Aveva disseminato i suoi domini di bastardi di tutte le età e le razze.
C’era, soprattutto, uno di questi, figlio di una schiava irlandese, che il padre adorava più della sua numerosa prole legittima. Si chiamava Fingal ed era di due anni più grande di Arturo. Più forte ma meno valoroso, più brutto ma più affascinante, meno religioso ma decisamente più abile ad ingraziarsi il clero.
Il padre pendeva dalle sue labbra, e da quelle carnose della meretrice irlandese…
Arturo entrò felice a Wind Rock dopo una proficua battuta di caccia. Trovò la pira di Lord Edward già consumata e il suo fratellastro attorniato da nobili e preti. Una donna lo accusò di aver attentato alla sua verginità. Tutti sapevano che era una puttana che aveva cavalcato più stalloni di un cavaliere in Terra Santa…
Lo cacciarono con infamia dal suo castello: tutti avevano tramato contro di lui per mesi, avevano assassinato suo padre e lui non si era accorto di nulla…
«Sei un valoroso, Arturo», disse il padre con un tono di rimprovero, ruttando birra di ottima qualità, «ma un eroe stupido vale molto meno di un vile astuto, al giorno d’oggi».
«Non sono uno stupido, padre!».
«Se non lo fossi non saresti stato cacciato da casa tua…».
«No!»…
Sentì Beatrice che lo chiamava e si svegliò.
«Brutto stupido! Mi hai fatto spaventare a morte!».
Arturo rimase convalescente per una settimana. Aveva forti dolori al petto ed era pesto in più punti. Beatrice fu sempre accanto a lui, materna e premurosa, per somministrargli decotti e unguenti, sobbalzando a ogni suo gemito. Nella battagliola Baldo si era fratturato un braccio e i verdi avevano perso pur ricevendo dagli avversari molti complimenti.
Durante quella settimana Arturo ebbe la conferma di un dubbio che lo tormentava da giorni. Amava quella ragazza. Non sapeva nulla di lei e questo lo spaventava ma più di tutto lo terrorizzava il futuro: era solo uno spiantato, cosa mai avrebbe potuto offrirle?
Quando Arturo si rimise dalle ferite riportate nello scontro, i due ragazzi si recarono in città a pregare alla chiesa di Sant’Antonino. Aveva subito molti guasti a causa del tempo e delle guerre e da tempo si parlava di riedificarla più bella di prima.
Si diressero poi nella chiesa San Savino che era stata distrutta dagli Ungari e riconsacrata proprio quell’anno. Era a tre navate, ornata di capitelli con figure umane e mostruose e stupendi mosaici policromi. Scesero nella cripta: sul pavimento spiccava un mosaico a forma di medaglione con onde marine e segni zodiacali. Lì, pregarono sulle spoglie del santo.
Beatrice, che inizialmente aveva schivato i luoghi di culto che avevano incontrato sul loro cammino, adesso pregava sempre più intensamente. Arturo pensò che volesse ringraziare Dio per aver esaudito le sue preghiere durante lo scontro con i briganti. La grazia che lei stava chiedendo a sua insaputa, però, era molto più grande.
«Sono una peccatrice e giustamente incorrerò nella Tua ira» supplicava ogni volta che ne aveva l’occasione. «Nessuna punizione eterna, però, sarà troppo dura, se mi concederai di vivere il tempo che mi rimane con quest’uomo».
Mentre si aggiravano per le chiese di Piacenza, furono fermati da un uomo riccamente vestito che, a giudicare dalle guardie che lo accompagnavano, doveva essere di alto lignaggio.
«Sono Goffredo di Castell’Arquato e ci siamo scontrati giorni fa nella battagliola» esordì rivolgendosi al cavaliere. «Sono colui che ti ha colpito al petto. Mi fa piacere che tu ti sia rimesso. Sei stato un avversario di prim’ordine».
Sulle prime Arturo indugiò, poi mise da parte l’orgoglio e rispose al nobile.
«È stato un onore combattere con voi. Io sono Arturo di Glastonbury, sono diretto in Terra Santa».
«Onorato. La tua dama deve essere una vera nobildonna. Siete un incanto, mia Signora» disse rivolgendosi a Beatrice e baciandole la mano.
«Grazie» disse lei di rimando, facendo la riverenza. «Vengo da un piccolo centro della Borgogna e sto facendo un pellegrinaggio a Roma» mentì, parlando in latino.
«Ti potrei domandare un favore, Arturo di Glastonbury?».
«Certamente».
«Mi è stato chiesto di scortare un povero vecchio fino a Bobbio. Purtroppo urgenti affari di governo mi obbligano a rimanere a Piacenza. Potresti accompagnarlo tu?».
«Con piacere. Ho sentito parlare molto di quel luogo da pellegrini irlandesi che ho incontrato durante il viaggio».
Si recarono quindi a Santa Brigida, nel settore occidentale della città riservato soprattutto ai pellegrini irlandesi. Era stata fondata dal Vescovo di Fiesole, Donato, di origine irlandese, in onore di una delle sante più venerate in quelle terre. Poi era stata donata all’abbazia di Bobbio che ne gestiva l’ospitale.
Goffredo li presentò al frate guardiano che li salutò e spiegò che l’anziano era un nobile normanno. Un uomo provato dalla malattia e dalle fatiche che stava facendo un pellegrinaggio. Infine si congedò, ringraziandoli.
«Se mai erete da Castell’Arquato venite a trovarmi: proverete la mia ospitalità».
«Contateci».
Il frate guardiano li guidò nell’alloggio dove fecero la conoscenza di Roberto di Puglia. Era un vecchio ricurvo e incartapecorito che si mise in piedi a fatica al loro arrivo. Parlava con una voce stentorea e i suoi occhi, minuscoli lapislazzuli
che emergevano dalla desolazione di rughe del suo volto, erano quelli di un guerriero che un tempo doveva aver la paura tra i suoi nemici.
Davanti al fuoco, nella sala comune, mentre mangiavano una zuppa calda, Roberto raccontò la sua storia.
Era un normanno, signore della rocca di San Michele, in Puglia, vassallo del Duca Ruggiero. Aveva combattuto con lui in Sicilia contro i mori nel 1061 e la sua ultima guerra era stato il bellum Domini del 1096 al seguito di Boemondo d’Altavilla, dove aveva partecipato alla presa di Nicea e a quella di Antiochia.
«Non dimenticherò mai Costantinopoli, è la città più grande e opulenta del mondo, smisurata e lussuosa. I nobili hanno stuoli di schiavi ed eunuchi e vestono riccamente. E poi ci sono le chiese: Santa Sofia è un’armonia di pietra e mosaici» disse con gli occhi umidi.
«Come mai viaggiate da solo?» chiese Beatrice.
Arturo notò che la ragazza era molto premurosa verso quel vecchio ripiegato su se stesso.
«Ho fatto un voto. Ho molto peccato nella mia vita e ora voglio espiare: sono vecchio e presto dovrò rendere conto dei miei peccati, voglio andarmene con l’anima pulita».
«Mi dispiace».
«Non dispiacerti per me. Ho avuto comunque una vita bella e avventurosa. Ora voglio tornarmene nel mio castello e attendervi la morte. Prima, però, spero di giungere alla tomba di San Colombano, per chiedere il suo aiuto».
Il vecchio sorrise amaramente.
«Saremo lieti di accompagnarvi fin dove potremo».
«Vi sono grato. Posso essere indiscreto e chiedervi di raccontarmi qualcosa di voi?».
«Io sono Arturo di Glastonbury, in Britannia. Il bastardo di mio padre, alleato coi baroni vicini, mi ha cacciato dai miei domini, così ho deciso di recarmi in Terra Santa per difendere Gerusalemme dagli infedeli».
«Bravo, ragazzo, servono giovani spade piene di fede per difendere i luoghi santi. Quella è proprio una terra disgraziata! Da quando oltre un secolo fa i Fatimidi hanno conquistato Gerusalemme, le violenze contro i cristiani e gli ebrei si sono moltiplicate. La situazione è peggiorata con l’arrivo dei turchi selgiuchidi. Ora le vie dei pellegrinaggi sono state liberate e i cristiani possono nuovamente partecipare alle processioni senza timore. Il regno di Re Baldovino⁴, però, è minacciato da discordie interne e dai turchi».
«Difenderò il Sepolcro a costo della mia stessa vita!» esclamò Arturo, senza notare lo sguardo di fuoco che Beatrice gli scoccava, in tralice.
«Attento, però. Non andare in Terra Santa con l’intenzione di vendicarti, non lasciare che l’odio che nutri verso il tuo fratellastro venga convogliato verso degli innocenti. La violenza ha riportato la Terra Santa sotto la Cristianità, una violenza che ha ripagato i mori dei torti che ci avevano fatto. Adesso, però, occorre costruire la pace: a Baldovino non servono fanatici ma uomini d’onore e di mentalità aperta» lo mise in guardia Roberto.
«Non vi capisco» disse Arturo sbigottito.
«È giusto difendere la strada che permette ai pellegrini di pregare sui luoghi Santi. Ho solo voluto dire che il rispetto reciproco è alla base della convivenza e che il Regno di Baldovino potrà adempiere il suo compito di Custode della Terra Santa solo se supererà la violenza che lo ha creato...» spiegò Roberto pazientemente.
«... altrimenti verrà consumato dalla fiamma dell’odio» terminò Beatrice, che si era intromessa senza troppe cerimonie nella conversazione.
«Esatto, mia cara!» si complimentò il normanno. «Ora non mi dispiacerebbe sapere il tuo nome...».
Lei gli sorrise.
«Io sono Beatrice, da mesi ormai non ho più famiglia né patria. Sto seguendo Arturo nel suo viaggio ma ancora non so cosa farò della mia vita» rispose tradendo un po’ di emozione.
«Mia cara, trovo ingiusto che una fanciulla così bella debba soffrire una così grande pena, spero che tu possa trovare la tua strada. È chiaro da come mi hai guardato quando ho parlato delle atrocità della guerra che tu stessa ne sei stata vittima. Io sono un soldato e credo di aver sempre combattuto con onore. Purtroppo, però, spesso la battaglia ti avvolge in turbini di sfrenata violenza e anch’io ho molte vittime innocenti sulla coscienza: anche per loro sto facendo questo pellegrinaggio, perché smettano di tormentare i miei sogni. Spero che il mio ato non ti porti a odiarmi, me ne dispiacerebbe».
«Anche mio padre era un valente soldato ed è morto per difendere la sua casa, quindi non vi biasimo per ciò che siete stato. Ognuno deve fare i conti con la propria coscienza: non sarò io a giudicarvi».
La voce di Beatrice era incrinata e i suoi occhi, scuri e profondi, velati di pianto.
Partirono la mattina dopo.
Beatrice offrì a Roberto il suo posto in groppa a Morgen. Alla cintola il normanno portava una strana spada corta, di foggia diversa rispetto a quella di Arturo, ma dall’aspetto altrettanto antico.
«È un cimelio di famiglia?» chiese il britannico.
«Sì. Mi ha salvato la vita in molte battaglie. Vuoi impugnarla?».
Arturo colse un lampo negli occhi del vecchio.
«Vi ringrazio ma credo che una spada debba essere impugnata solo dal suo padrone. Non permetterei a nessuno di brandire il mio gladio e non desidero provare altre armi».
«Come vuoi».
Il tono del normanno tradì a stento una delusione che turbò il giovane.
Per giungere a Bobbio seguirono il corso del fiume Trebbia. Il secondo giorno di viaggio incontrarono il castello e il borgo di Rivalta, che si stagliavano maestosi sullo sfondo delle colline. Pregarono nella chiesa di San Martino e dormirono nel castello, come ospiti, grazie ai salvacondotti dati loro dal priore di Santa Brigida, validi sulla strada che portava a Bobbio. Ripartirono la mattina successiva, respirando la fresca aria primaverile. La compagnia aveva fatto bene a Roberto, che sembrava rinvigorito nel fisico e nel morale. Era un uomo di grande cultura e spirito e conquistò il favore di Beatrice in cambio del tacito accordo di non parlare mai di battaglie o armi in sua presenza. La giovane fingeva di non accorgersi che i due compagni si appartavano per ore, durante le soste, a discutere di mori e milites Christi, un argomento a cui Arturo si era presto apionato.
La primavera aveva agghindato i colli piacentini di colori e profumi inebrianti. Beatrice raccontava le sue storie e in ogni casa c’era per il trio ospitalità cordiale e cibo semplice ma ottimo. Di norma veniva loro offerto pane appena sfornato con salame, coppa o pancetta. Una volta ricevettero una torta fritta, preparata con farina di frumento, sale, strutto e lievito: tagliata a rombi, venne servita con affettati e lardo pestato. Arturo e Roberto apprezzarono molto quest’ultima variante: il pesto si scioglieva col calore imbrattando le mani di una sostanza
oleosa e prelibata. Beatrice, al contrario, trovò quel concentrato di grassi abbastanza disgustoso.
Roberto era molto religioso e tutti i giorni si fermavano più volte per pregare vicino alle madonne dipinte in piccole edicole sulla strada, oppure nelle pievi e parrocchie che incontravano.
Lasciatosi alle spalle il borgo di Rivergaro, che sorgeva su un torrente affluente del Trebbia, iniziarono a inoltrarsi nei colli piacentini, mantenendosi quando potevano nelle vicinanze del fiume. Due giorni dopo giunsero a un villaggio, poco più che una manciata di case sparse per le colline piacentine. C’era una grossa quercia all’inizio del villaggio, nodosa e antica.
Dal ramo più grosso penzolava un uomo impiccato.
«Chissà cos’avrà fatto?» gracchiò Roberto facendosi il segno della croce.
Quando si avvicinarono meglio all’improvvisata forca, si resero conto che l’uomo non era stato semplicemente giustiziato.
Era stato linciato.
Pendeva stancamente, paonazzo e con la lingua bluastra. Era nudo e pieno di lividi in tutto il corpo. I corvi gli avevano beccato gli occhi.
«Quale che sia la sua colpa dovremmo seppellirlo: nessuno merita un simile abominio. Se qualcuno dei miei villani si azzardasse a fare questo, anche a un assassino, non esiterei a farlo giustiziare» affermò Roberto a voce alta.
«Sono d’accordo con te» confermò Arturo.
Poi, entrambi sentirono Beatrice urlare.
Videro la ragazza correre verso l’impiccato, abbracciarlo e tentare di sostenerlo, come se potesse ancora salvarlo. Nessuno dei due, guardandole il volto deformato dal pianto, ebbe il coraggio di interromperla. Dopo alcuni minuti si lasciò cadere su un grosso masso singhiozzando disperata.
«Perché?» piagnucolò. «Perché?!».
Arturo si sedette accanto a Beatrice accarezzandole i capelli. Sopra di loro l’impiccato li guardava con orbite vuote.
«Conosci quest’uomo?».
«Sì»
«Chi è?».
«Un mercante. Vendeva di tutto, anche reliquie. Mi regalò questo».
La ragazza mostrò un ciondolo da cui pendeva un dentino.
«Il dente da latte di San Giovanni Battista».
«È veramente…».
«Ovvio che non lo è!» lo zittì lei spazientita. Poi si pentì e gli parlò più gentilmente: «È giunto il momento di raccontarti la mia storia, credo».
«Non sentirti obbligata».
«Lo voglio io».
«Bene. Prima, però, diamo sepoltura alla salma».
Arturo stava per staccare dalla forca il cadavere ormai irrigidito quando giunsero due villici che si rivolsero a lui con tono sgarbato.
«Cosa state facendo?».
«Diamo sepoltura a questo disgraziato».
«Questo bestemmiatore non merita la tua comione: ha venduto reliquie false ed è stato punito» lo redarguì uno dei due, cui mancavano tutti i denti.
«Non importa la sua colpa. Ha pagato, forse giustamente, ma solo gli animali sono lasciati ai corvi: va seppellito».
«Ha ragione, quello che avete fatto è peccato» urlò Roberto. I due contadini che stavano reggendo senza timori il confronto verbale con Arturo si zittirono quando il normanno intervenne. Quel vecchio sdentato e dolorante aveva parlato con la voce del comando, un tono perfezionato in anni di battaglie e giochi di potere. Anche se a prima vista sembrava ridicolo, con la strana spada ricurva impugnata nella destra, nessuno ebbe il coraggio di mettere alla prova un uomo che, certamente, di anime sulla coscienza ne aveva parecchie.
«Il vostro peccato» incalzò Roberto rabbioso «è stato linciare quest’individuo, pretendendo di sostituirvi alla collera di Dio e del vostro signore, se c’è n’è uno in queste terre. Non gli avete nemmeno dato la possibilità di pentirsi. Dovreste essere frustati a morte per questo. Almeno fate penitenza e aiutate il ragazzo a seppellirlo!».
Con stupore, Arturo vide che i due, a malincuore, si avvicinarono all’impiccato e lo tirarono giù senza troppi complimenti dalla forca.
Beatrice piangeva disperatamente e non volle assistere all’operazione. Roberto, rinfoderata la spada, disse una preghiera per l’anima del defunto.
Quando tutto fu compiuto, i villici se ne andarono borbottando qualcosa di simile a insulti e maledizioni, e Arturo poté avvicinarsi a lei. «Se ancora vuoi raccontare la tua storia sono qui per ascoltarla».
«Va bene».
Si accovacciò vicino a una quercia ma, stavolta, non assunse quella posa suadente, da gatta, che aveva sempre quando iniziava a narrare. Rimase rigida e parlò con voce afona.
Roberto restò in disparte, meditabondo.
F Fuga da Rocca Alta
Come Berengario di Castroastore conquistò col tradimento Rocca Alta, strappandola a suo cugino Azzo e del massacro che ne seguì.
Il piccolo castello dominava la bella valle attraversata dal torrente di montagna, un susseguirsi di campi e pascoli, boschi e cime innevate. Era composto da un recinto con al centro un’antica torre cui erano state appoggiate varie costruzioni, alcune in pietra altre in legno.
Beatrice era affacciata alla finestra della sua stanza, che offriva una vista mozzafiato sulla valle e sui bastioni. Le piaceva inspirare la gelida aria mattutina che le solleticava le narici e le apriva mente e polmoni. Fece un cenno a una delle guardie che scrutava la strada da una merlatura leggermente sbeccata. Il milite le sorrise da sotto l’elmo di cuoio e le fece un gesto di reverenza con la mano.
L’attenzione di Beatrice fu attratta da un uomo che con un carretto trainato da un asinello si inerpicava a fatica per quella che, in definitiva, era poco più di una mulattiera.
Un mercante.
Come ogni ragazza, Beatrice amava i mercanti: questi individui bizzarri e a volte poco raccomandabili portavano oggetti curiosi e, soprattutto, notizie di ciò che accadeva lontano dal suo piccolo mondo. Sforzò la vista nel tentativo di capire cosa ci fosse sul carretto che, però, era coperto con un telo. Eccitata, si vestì in fretta e scese nella grande sala comune dove già la servitù stava preparandosi ad accogliere il nuovo venuto. Con lei c’erano le due sorelle più giovani. I suoi due fratelli maggiori erano a caccia col padre; sua madre era morta l’anno prima di parto, assieme all’ultimo maschio di Rocca Alta: era lei la padrona di casa.
Visto da vicino il mercante sembrava ancora più bizzarro. Piccolo e tondeggiante, l’ometto aveva guance cadenti ed espressione astuta. Vestiva semplicemente ma con dignità.
«Ariprando da Mediolanum⁵ per servirvi, piccola signora».
«Io sono Beatrice, figlia del signore di Rocca Alta. Cosa rechi, Ariprando?».
«Commercio in molte cose, mia signora: tessuti, utensili e perfino armi, anche se la vostra casa mi sembra non necessitare di quest’ultimo articolo…».
«Di armi siamo ben forniti» confermò lei guardinga. «Tu sai che per valicare questo o devi pagare il pedaggio a mio padre. Credo, però, che se la tua merce sarà interessante, potremo metterci d’accordo».
«Come voi vorrete, mia signora».
«Vuoi fermarti per la notte, prima di proseguire?».
«Sarebbe per me un onore. Se questa sera mi sarà consentito, potrei cantarvi qualche ballata che ho imparato durante il mio peregrinare».
Beatrice fece preparare un letto negli alloggi della servitù, diede cibo al mercante e rifocillò il suo mulo. Quando ebbe esperito tutte le formalità di una perfetta ospite, chiamò le sue sorelle e le ancelle per esaminare la merce. Acquistò a titolo di pedaggio alcuni tessuti e un po’ di lana di buona qualità.
La sera suo padre e i suoi fratelli tornarono dalla battuta di caccia e furono molto soddisfatti del lavoro che Beatrice aveva svolto come padrona di casa: «Sarai una moglie perfetta».
Il mercante cantò ballate della zona meridionale della pianura padana. A metà serata Beatrice si alzò dalla tavola dove mangiava con ancelle e parenti e si recò da suo padre, seduto con i suoi uomini. Gli sussurrò alcune cose nell’orecchio e lui annuì. La ragazza si avvicinò ad Ariprando.
«Posso chiederti un favore?».
«Tutto ciò che vorrete».
«Il più piccolo dei miei fratelli giace da oltre un mese in preda a febbri alte e piaghe. Nessun medico e nessuna preghiera l’ha guarito sino a oggi. Potresti salire da lui e suonargli qualche cosa? Forse lo renderebbe meno triste».
«Certo, sarà per me un onore».
Come sempre le accadeva, quando entrò nell’alloggio di Lanfranco, Beatrice fu colta dall’angoscia. La stanza puzzava di morte e sofferenza, di escrementi e pianti solitari. Lanfranco aveva solo dieci anni e si era ammalato all’improvviso, al ritorno da una gita in campagna. Forse punto da qualche insetto, era ricoperto di pustole e croste e affetto da una febbre non alta ma persistente.
Smagrito, li guardò con due occhi enormi, tradendo il tipico miscuglio di affetto e invidia che spesso i malati gravi associano alle visite delle persone sane.
Il mercante, evidentemente, era abituato a vedere persone sofferenti, quindi non si scompose più di tanto e iniziò a cantare. Aveva una voce un po’ roca ma molto calda e, dopo qualche attimo di disinteresse, il bambino fu catturato dalla melodia e dalla storia che parlava di cavalieri, draghi e dame. Quando Ariprando finì di cantare, Lanfranco già dormiva con un’espressione serena dipinta sul volto: erano giorni che non gli capitava.
Azzo, padre di Beatrice e signore del castello, chiese al mercante cantastorie di restare qualche altro giorno: le sue canzoni davano sollievo a suo figlio dopo settimane di sofferenza.
«Ho da farvi una proposta migliore, mio signore, se acconsentite».
«Parla».
«Ho qui questo unguento miracoloso, acquistato al mercato genovese. Mi è stato detto che proviene da Gerusalemme. Lo preparano alcuni strani monaci, mischiando antiche erbe e aggiungendovi la polvere di un osso di San Lorenzo, che detengono nel loro monastero. Non so se sia vero, però l’ho provato anche su me stesso: è portentoso».
Azzo era un uomo imponente e incuteva terrore a coloro che subivano la sua collera. Molto onesto e pio, era facile all’ira e aveva una fede incrollabile nella giustizia divina.
«Non mi starai prendendo in giro?» chiese con tono inquisitorio. «Te ne pentiresti».
«Vorrei solo aiutare il ragazzo. Permettetemi di cospargere le sue piaghe con l’unguento per tre giorni. Se al terzo giorno non sarà migliorato, potrete scatenare la vostra ira su di me» rispose Ariprando, sostenendo il suo sguardo.
«E sia».
Già il secondo giorno Lanfranco iniziò a migliorare. Ariprando si intrattenne altre due settimane e, quando se ne andò, il ragazzo era completamente ristabilito.
«Vi devo salutare, giovane signora».
«Spero di incontrarti l’anno prossimo con nuove stoffe e nuove storie. Posso chiederti una cosa? L’unguento che hai dato a mio fratello viene veramente da Gerusalemme?».
«Certamente» mentì lui. «Da Gerusalemme e da qualsiasi altro posto è utile che venga…».
«Allora hai mentito!» gli rispose, fingendosi inorridita.
«Non importa da dove viene un unguento miracoloso, né con cosa è composto. Importa solo che funzioni: volevo aiutare quel ragazzino e l’ho fatto. Questo è ciò che conta».
«Grazie».
«Ho un regalo per voi».
Le porse un ciondolo dal quale pendeva un dentino da latte.
«Il dente da latte di San Giovanni».
«Anche questo è vero solo se ci credo…» sorrise lei indossandolo.
«Se ci crederete sarà vero e, forse, vi tornerà utile».
«Grazie di nuovo».
Beatrice era terrorizzata. Sembravano tutti impazziti.
Il lungo assedio era stato duro da sopportare. Era stato suo zio, Berengario a tradire la sua famiglia; si era alleato con i preti e i signori delle valli vicine per conquistare Rocca Alta. Maledetti tutti...
Quando i soldati di Berengario erano riusciti ad aprire una breccia nelle mura e ad entrare era stato l’inferno. I mercenari tedeschi e borgognoni appiccarono il fuoco al castello, demolendo e rubando tutto ciò che poterono portare via.
Mentre il padre e i fratelli più grandi erano dispersi nella battaglia, Beatrice, le due sorelle e Lanfranco, si erano nascosti nei sotterranei di Rocca Alta, protetti dal girone della roccaforte.
A un tratto sentirono rumori violenti provenire dal cortile, urla di servi terrorizzati, poi una decina di uomini, armati fino ai denti, fece irruzione nel loro rifugio. Strapparono Lanfranco dalle braccia tese di Beatrice e lo sbatterono contro il muro. Un soldato gli piantò la spada nel ventre e la rigirò più volte, come si faceva coi criminali; aveva solo dieci anni.
Beatrice non avrebbe mai dimenticato quella scena. Le sorelle urlavano, lui le guardava con uno sguardo più sorpreso che impaurito. I soldati ridevano e
ruttavano, ebbri di birra.
Uno degli assalitori afferrò senza complimenti Cristala. Le strapparono le ricche vesti ricamate, la picchiarono e la violentarono più volte. Poi la lasciarono esanime a terra con i capelli intrisi di sangue, sotto lo sguardo corrucciato del cadavere del fratello. La stessa sorte toccò ad Adelaide.
Infine, vennero da lei. Per anni non l’avrebbe lasciata l’odore di birra da osteria e di sudore di cui erano impregnati i vestiti dei suoi aggressori, il senso di rilassatezza e rassegnazione che l’aveva invasa.
Due la presero per le braccia, costringendola a mettersi carponi sul giaciglio di paglia. Uno l’abbrancò per la vita, immobilizzandola, e il secondo le strappò la veste. Colpì il primo degli assalitori sul naso col piede nudo facendoglielo sanguinare. Il solo risultato, però, fu di farlo infuriare ed eccitare ancora di più. Lui le mollò un pugno alla schiena facendola vacillare, poi le fu sopra e, sfruttando il suo peso, la immobilizzò con una mano e con l’altra continuò a colpirla al corpo e alla nuca. Quando lei smise di dimenarsi e ruppe in un pianto sommesso e disperato, lui le sollevò i fianchi e, cingendole duramente la vita con le braccia nerborute, la prese contro natura.
Lei sentì un dolore lancinante, mentre lui faticava a penetrarla. Strinse convulsamente con le mani la paglia: non avrebbe urlato.
Per grazia del Signore all’energumeno bastarono tre colpi violenti. Lei si accasciò sul pavimento ricoperto di assi di legno marcito, piangendo.
Quando il primo soldato diede il cambio a quello che l’aveva denudata, Beatrice
pregò di morire lì.
Strinse con i denti la catenina di San Giovannino che le aveva dato Ariprando.
«Ti prego, aiutami» mormorò.
Non seppe mai se era stato il Battista ad aiutarla o qualcun altro.
Il sotterraneo dove si trovavano era stato ricavato in parte da un’antica cisterna romana, scavata nella roccia. In quel punto, il pavimento era stato costruito tagliando a metà la grossa cavità: in questo modo l’acqua che penetrava lì sotto filtrava attraverso le assi di legno del pavimento e si accumulava nel serbatoio sottostante. Le sollecitazioni dei ripetuti stupri avevano indebolito le assi dove Beatrice attendeva il suo destino.
Ci fu uno schiocco.
Il pavimento cedette e lei precipitò nella gelida acqua, avvolta dall’oscurità. Una tenue sciabola di luce penetrava dallo squarcio del pavimento soprastante. Sentì le urla degli uomini che cadevano assieme a lei: due si sfracellarono sul bordo marmoreo della cisterna tra rantoli tremendi, il terzo, ubriaco e appesantito dalla corazza di cuoio, iniziò a dimenarsi e le si avvinghiò alla vita per non andare a fondo. Reagendo d’istinto, la ragazza gli mise le dita negli occhi e, non appena l’energumeno mollò la presa, gli si appoggiò sulla testa affondandolo con tutto il suo peso.
«Crepa» ringhiò, mentre il mercenario emetteva orrendi gorgoglii, dimenandosi e alzando spruzzi e bolle. L’uomo era più forte e un paio di volte riuscì a riemergere, ma Beatrice sapeva nuotare e le avevano strappato le vesti, quindi era molto più leggera.
Non seppe quanto durò l’agonia dei quel bastardo, però fu lunga. Visse quei momenti come in un brutto sogno, uno di quegli incubi che ti visitano quando hai la febbre...
... O ti hanno appena picchiata e violentata…
Alla fine, l’uomo galleggiava a pancia in giù, senza vita.
Beatrice pianse.
Sopra di lei la masnada imprecò in un dialetto incomprensibile. Qualcuno lanciò una torcia nella cisterna, per vedere cos’era successo: cadde in acqua sfrigolando a poca distanza da dove Beatrice lottava per restare a galla e si spense, e gli uomini lasciarono il sotterraneo tra gli schiamazzi.
Quando l’ultima lampada si spense sopra di lei, l’avvolse un’oscurità glaciale, resa ancora più terribile dal sinistro sciacquio dell’acqua sulle pareti della cisterna.
Per un tempo indefinito restò immersa nell’acqua fredda e scura, singhiozzando: era in trappola, sarebbe morta in quel buco come un topo, sola e al freddo. Presa
dal panico, la ragazza cominciò a nuotare nella speranza di trovare il bordo della vasca e mettersi almeno all’asciutto. Dopo alcuni tentativi, Beatrice trovò le pareti di roccia della cisterna, incrostate dal calcare. Il bordo era troppo stretto per issarsi, così la giovane si avvinghiò al primo appiglio che trovò, per prendere un po’ di fiato.
Rimase immobile per un tempo indefinito, stremata. Pregò ancora una volta San Giovanni Battista, stringendo la catenina fino a sbiancarsi le nocche. Fu allora che si accorse di essere stretta a un gradino scavato nella roccia con la precisione tipica dei manufatti romani.
Una scala.
Rinvigorita da una nuova speranza, a tentoni, la ragazza cercò il gradino superiore e lo trovò, consunto ma agibile. Strisciando, risalì la viscida scala finché nella parete si aprì una grossa fessura di scolo, chiusa solo da una grata. Era così arrugginita che cedette sotto il suo peso. Beatrice si sentì trascinare dentro a un doloroso scivolo di pietra, al termine del quale c’era ancora acqua corrente, più gelida di quella della cisterna.
Un torrente.
Avvolta in un terribile bozzolo di oscurità e paura, Beatrice lottò per rimanere a galla. La caverna rombava come se la montagna muggisse di rabbia, come se un animale gridasse dalla sua gola di pietra. Si ricordò le leggende sui draghi che avevano abitato quella zona in tempi remoti, ma non poteva più tornare indietro.
A un tratto la grotta fu invasa dalla luce: il fiume uscì allo scoperto con un tonfo
da una cascatella. Nella caduta, una roccia aguzza le ferì la coscia sinistra, facendo uscire un fiotto di sangue: non era un taglio profondo ma bruciava come le fiamme dell’inferno.
Finalmente, liberato dalla sua bara di pietra, il torrente rallentò la sua folle corsa e la ragazza poté guadagnare la riva, restando per ore esanime sull’acciottolata sponda, bagnata fradicia, tremante e completamente nuda.
Quando si svegliò, il sole stava scomparendo dietro le montagne. Rocca Alta era nascosta alla sua vista dalla cima cui era attaccata come un falco.
Si alzò a fatica, tempestata di dolori in tutto il corpo. Il freddo, se non altro, aveva dato sollievo al corpo martoriato ma il dolore della violenza le pulsava in fondo all’animo, pronto a colpirla come uno scorpione.
«Cosa farò?» si chiese. «Che ne sarà stato di Cristala e Adelaide?», piagnucolò ai boschi che la circondavano.
«Dov’è mio padre?».
Fu allora che vide la casetta. Era piccola e di legno, coi battenti aperti a mostrare le cerate alle finestre. Non poteva girare per la valle in quelle condizioni: doveva chiedere aiuto.
Si recò all’abitazione, sperando che fosse abitata da amici di suo padre.
Un pastore l’accolse e Beatrice scoprì che la casa era poco più di un rifugio di altura per chi portava le greggi al pascolo. Non c’era focolare ma si scaldò sdraiandosi in mezzo alle pecore e bevendo latte appena munto.
Il pastore era poco più di un ragazzo, forse della stessa età di Lanfranco, e non le fece domande. Era inselvatichito dai lunghi anni trascorsi con le pecore e puzzava come un animale più che come un cristiano. Parlava un volgare quasi incomprensibile, comunque la nutrì e la vestì con alcune pelli che aveva con sé.
La notte sognò.
Suo padre veniva da lei. Era senza un occhio e pieno di ferite. Non parlò ma le trasmise la sua volontà. «Le tue sorelle e i tuoi fratelli sono tutti morti. Io sono morto. Fuggi di qui e fatti una nuova vita, almeno tu. Non cercare la vendetta: non versare altro sangue».
L’indomani partì, decisa a lasciare le sue valli e ad allontanarsi il più possibile da dove potevano riconoscerla.
«È successo più di un anno fa. Ora sai perché mi aggiravo raminga per i boschi».
Sorrise, anche se le lacrime le rigavano il bel volto.
«La sorte di mio padre l’ho sognata decine di volte in questi mesi, mentre dormivo sola all’addiaccio, mentre i terribili versi dei gufi e delle civette entravano nei miei incubi assieme all’ululato dei lupi. Non so se sia veramente
andata così ma sono certa che abbia combattuto come un leone e sia morto da eroe».
«Perché avevi remore a raccontarmi la tua storia? Non hai commesso nulla di male».
«Ho ucciso un uomo e ho abbandonato le mie sorelle, come fai a guardarmi ancora negli occhi?» piagnucolò.
«Hai fatto ciò che era giusto fare. Nessuno può biasimarti…».
«Ma come…».
«Se avessi un esercito, marcerei ora sul castello di tuo zio e la sua testa sarebbe infilzata su una lancia prima del tramonto» ringhiò lui. «La vendetta sarà anche un peccato ma in certi casi è invitante come una bella donna».
Beatrice si accorse che, se avesse avuto una flotta oltre che un esercito, la testa sulla picca sarebbe stata quella del fratellastro di Arturo, non di Berengario.
«Cos’hai fatto tutta sola?».
«Sono scesa verso sud. Giunta ad Everi , mi sono accodata ad un convoglio di saltimbanchi. Ero stanca e affamata, loro mi hanno ospitata e nutrita. So leggere e quindi conosco molte fiabe che, come hai visto, mi piace raccontare: facevo la
voce narrante delle storie che la compagnia metteva in scena. Sono stati due mesi molto belli».
«Poi cos’è successo?».
«Erano brava gente ma si esibivano nelle corti della Val d’Aosta e io non me lo potevo permettere: qualcuno mi avrebbe riconosciuta. Volevo andare a sud, così li ho salutati».
«Di cosa hai vissuto da sola nelle selve, tra lupi e vipere?».
«Mi accodavo alle carovane di pellegrini, raccontavo loro qualche storia e loro mi davano da mangiare. Ero senza meta ma sapevo che dovevo allontanarmi anche dalla Val di Susa: era ancora troppo vicino a Rocca Alta. Gli ultimi mesi sono stati i più duri, l’inverno ha fatto diminuire le carovane e ha reso le strade impraticabili: per questo quando mi hai conosciuto ero in quelle condizioni».
«Cosa avresti fatto se non mi avessi incontrato?».
«Non ne ho idea. Credo che, giunta a una distanza accettabile dalla Valle d’Aosta, avrei potuto fare almeno la prostituta: sarei stata nutrita, protetta e al caldo…».
Arturo sorrise. Beatrice non gli aveva raccontato tutto, lo aveva capito perché la fanciulla parlava sfuggendo il suo sguardo. Il ragazzo non si faceva illusioni: lei aveva dovuto fare molto di più che raccontare storie per sopravvivere da sola in
mezzo a quei boschi. Quando si fosse sentita pronta glielo avrebbe raccontato. Sino a quel momento avrebbe fatto finta di crederle.
Lui la tranquillizzò baciandola sulla fronte e carezzandole la chioma castana.
«Non ti lascerò mai. Non posso offrirti molto, ma se vorrai sarò sempre con te».
Per tutta risposta lei lo baciò con tale trasporto che caddero a terra. Risero e si baciarono di nuovo.
Roberto, che si era allontanato di alcune centinaia di metri, sorrise mentre li guardava, rigirandosi la strana spada tra le mani.
F Diabolus faber
Dopo aver risalito per altri due giorni la valle del Trebbia, finalmente il terzetto giunse a Bobbio, ando per il caratteristico ponte ad arcate irregolari.
«Il Ponte del Diavolo» disse Arturo all’improvviso.
«Cos’è?» rispose Beatrice.
«Me lo ha raccontato un pellegrino irlandese di ritorno da Roma. Lo incontrai a Chartres. Secondo un’impertinente tradizione popolare, San Colombano era così ansioso di portare la parola di Dio alle popolazioni che vivevano sull’altra sponda del fiume da stipulare un patto con il diavolo. Satana si impegnò a costruire un ponte in una sola notte in cambio dell’anima del primo essere vivente che lo avrebbe attraversato».
«Ma è mostruoso!» proruppe la ragazza.
«Aspetta, adesso viene il bello. San Colombano, unto dal Signore, era più astuto del demonio. Quando, infatti, Lucifero si presentò da lui il mattino seguente mostrandogli il ponte terminato, San Colombano lo ingannò facendo transitare per primo un cane».
«In questo modo Satana contribuì a evangelizzare queste terre» rise sonoramente Roberto.
«Il ponte, infatti, avrebbe questa forma e arcate irregolari proprio a causa della diversa altezza dei diavoli che durante la notte ne avevano sostenuto la costruzione».
«Sarà, ma questa leggenda non mi piace» tagliò corto Beatrice con cocciutaggine.
«Guardate l’abbazia» esclamò il normanno con gioia.
Fondata nel 614 dal monaco irlandese San Colombano, l’abbazia benedettina sorgeva sulle sponde del fiume Trebbia. Era un enorme complesso formato da edifici di culto, magazzini, mulini e abitazioni. Lì la Regula monachorum – dettata dal fondatore e in seguito riformata dalla regola benedettina – era applicata con rigidità. Intorno al cenobio era cresciuto un borgo laborioso, dotato di una chiesa piuttosto grande terminata una quarantina di anni prima. Il sole degli ultimi giorni di maggio illuminava vigneti, boschi e campi coltivati dai livellari⁷ dell’abbazia.
Grazie alle credenziali fornite loro da Goffredo, Roberto e Arturo furono ricevuti privatamente dall’abate Petroaldus. Era un uomo venerabile anche se fiaccato nel fisico dall’età e dalle preoccupazioni del comando. Consigliò al giovane di imbarcarsi per la Terra Santa appena giunto a Roma: la situazione era difficile e ogni spada doveva giungere ai luoghi santi il prima possibile.
L’abate si scusò perché non poteva far alloggiare Beatrice nel monastero ma si
preoccupò di non farle mancare nulla. Invitò Arturo al suo tavolo nel refettorio dell’abbazia ma il ragazzo declinò, per non lasciare sola la giovane. Anche Roberto preferì alloggiare con i suoi compagni.
Dopo aver venerato le reliquie di San Colombano, cenarono insieme nel refettorio dell’ospitale dove erano molti pellegrini. Dopo il benedicte, pregarono e resero grazie, consumando poi il pasto in religioso silenzio. Arturo apprezzò la salsa di noci e i tortelli di castagne.
Dopo un paio di giorni che si trovavano nel monastero, Arturo si avvicinò a Roberto, che pregava nel chiostro, mentre Beatrice girava per i campi.
«Cosa intendi fare, ora?».
«Mi riposerò un po’ in questa quiete e proseguirò, tentando di tornare a casa».
«Io sono diretto a Roma per poi imbarcarmi per la Terra Santa. Non ho idea di cosa vorrà fare Beatrice. Comunque fino lì puoi venire con noi».
«Grazie».
Il sole calava dietro le montagne quando Beatrice si sedette sul greto sassoso del Trebbia. Il suo sguardo vagò sul fiume, che scorreva incurante di lei, sulle cime che incoronavano silenti la valle e sugli animali al pascolo. Avvolta da quella natura placida, dopo molti mesi, riuscì a riflettere.
La sua mente era un turbinio di immagini fosche: i mercenari che saccheggiavano il suo castello, il volto terrorizzato delle sue sorelle, quello di Lanfranco compito nell’abbraccio infido della morte, Ariprando che pendeva dalla forca con la lingua gonfia e il collo spezzato. Per quanto duri, non erano quei ricordi a opprimerla: ormai ci conviveva da mesi. Erano piuttosto le ombre scure che si annidavano nel profondo della sua coscienza a terrorizzarla. Esse emergevano nelle notti più buie come lupi affamati, per ricordarle che era fuggita, li aveva abbandonati, che era colpevole di non essere morta con loro.
Nei suoi sogni, però, Arturo appariva sempre a salvarla, piombando sui suoi nemici trasfigurato di luce bianca, come un angelo guerriero. Brandiva quella strana spada corta e colpiva con furia.
Arturo. Cosa avrebbe fatto, una volta giunto a Roma? Se lo conosceva bene come credeva, il ragazzo sarebbe partito per la sua crociata. Lei lo avrebbe seguito? C’era posto per lei in Terra Santa? Desiderava vivere con lui, ormai lo aveva capito. Quello che non capiva e non osava scoprire era quali fossero le reali intenzioni del ragazzo. Quanto il suo amore per lei sarebbe stato più forte del suo onore?
L’onore. Aveva ucciso suo padre, che per difendere la parola data ai suoi alleati era stato tradito da tutti, trovandosi solo. Forse l’avrebbe privata anche dell’uomo che amava.
«Dio maledica l’onore!» imprecò la ragazza a denti stretti. Poi il suo sguardo si posò sul ponte, un drago di pietra pieno di gobbe, undici arcate diseguali che, secondo la leggenda, erano state costruite da Satana e dai suoi diavoli. Arturo le aveva raccontato la leggenda che voleva che fosse stato San Colombano in persona a ingannare il demonio per ottenere la ricostruzione del ponte, distrutto da una piena. Nell’ospitale dove alloggiavano aveva sentito una seconda versione, secondo la quale Satana approfittava della cupidigia dell’oste della locanda che ancora si ergeva al di là del fiume. Il malcapitato desiderava un
ponte che unisse la sua taverna alla città per aumentare i propri guadagni e, tra una bevuta e l’altra, aveva dichiarato a un vecchio avventore di essere disposto a vendersi l’anima per quello. Neanche a dirlo, il vecchio altri non era che Belzebù, lesto a siglare il patto e costruire il ponte in una notte. Solo la scaltrezza della moglie dell’oste aveva evitato il peggio: la donna, astuta e timorata di Dio, aveva notato che la gente, ando sul ponte, si esprimeva con turpiloqui e bestemmie superandone faticosamente le gobbe. Non solo, molti anti, varcato il fiume, si abbandonavano all’alcool della trattoria dimenticando i doveri famigliari. Si era quindi rivolta al Vescovo e, con uno stratagemma, aveva fatto ubriacare il demonio affinché tutto il clero e alcuni pii parrocchiani potessero benedire il ponte e riempirlo di croci e statue per purificarlo. Al diavolo non era rimasta altra possibilità che fuggire maledicendo tutti.
Beatrice credeva poco a entrambe le versioni che, pur diverse, esprimevano lo stesso concetto: un’opera del demonio era stata utilizzata per aiutare gli uomini grazie alla potenza di Dio. Attratta da quel pensiero di speranza si accinse ad attraversare il ponte. Voleva osservarlo meglio di come aveva fatto quando era giunta con Roberto e Arturo, tre giorni prima. Quel manufatto la attirava e la inquietava, con la sua forma disarticolata come le dita nodose di un vecchio.
Dietro di lei le prime luci si accendevano nelle abitazioni di Bobbio, come fiammelle che presto la notte avrebbe vinto. Le ronde già cominciavano a pattugliare le mura, non sarebbe ato molto tempo prima della chiusura delle porte.
Doveva fare presto.
Mise il piede sul ponte e notò con un brivido che nessuno lo stava attraversando. Dalla locanda al di là del fiume, quella che forse era appartenuta all’incauto oste della tradizione, venivano canti di gozzoviglie. Le ombre della sera, proiettate dai parapetti diseguali e dalle croci, si allungavano su di lei come spettri. Sotto di
lei il Trebbia schiumava rabbia, alzando nubi di goccioline che si fondevano con la nebbia che si alzava dal fiume.
Beatrice sobbalzò quando in un gorgo le parve di scorgere il ghigno beffardo di qualcosa che assomigliava a un folletto maligno.
«Non devo farmi condizionare» si disse, «è solo un ponte».
Giunse a metà del percorso che le la nebbia ormai avvolgeva la bizzarra struttura. Erano giorni che in quelle valli non avevano incontrato foschia ed era strano che ci fosse una coltre così impenetrabile. Lì, in uno dei punti più bassi del aggio, il rumore del torrente sembrava il respiro di un animale e l’odore umido della bruma penetrava le narici con crudeltà. Beatrice sapeva di dover tornare indietro. Non poteva certo ammirare la costruzione con una visibilità così ridotta e, anzi, restando lì rischiava di mettere un piede in fallo e cadere nel Trebbia. Ciononostante era incapace di resistere al richiamo del ponte e non riusciva a contrastarlo.
Il tempo sembrava essersi fermato e anche il luogo dove si trovava pareva essere di un altro mondo. Nelle ombre della sera, tra le volute di nebbia, le sembrava di scorgere tutte le persone che lei aveva tradito.
Beatrice sobbalzò. Lanfranco la osservava da una delle gobbe del ponte, racchiuso in un involucro di foschia. Strabuzzò gli occhi alcune volte, ma la figura era sempre lì. Fece alcuni i verso lo spettro. «Lanfranco, perdonami!».
Lui non rispose ma la sua espressione si intristì.
«Beatrice...». Da oltre il parapetto alla sua destra la chiamò una voce famigliare. La ragazza si affacciò e tra i gorghi del Trebbia il volto di suo padre apparve torvo. «Sono morto senza sepoltura!».
«Mio Dio!» cantilenò lei tremante. Si voltò per correre verso Bobbio ma perse l’orientamento. La nebbia ormai copriva il ponte del diavolo come un sudario sporco. La città era celata alla sua vista e così la locanda che si trovava sull’altra sponda. Un sussurro nella notte la fece urlare di paura. «Mi hanno violentata fino ad uccidermi, per vendicarsi della tua fuga!» la rimproverò Cristala, apparendo per un istante all’ombra di una delle croci erette sul ponte per esorcizzarne la sinistra fama.
Beatrice non resse a quest’ultima apparizione e si mise a correre alla cieca, scivolò sulla pietra umidiccia del ponte e cadde rovinosamente. Restò lì, al buio, il viso rigato dalle lacrime, la gola stretta dai singhiozzi.
«Non è colpa tua» le disse una voce suadente.
«Chi sei?».
«Sono il padrone di questo ponte».
«Sei... Satana?».
«No» ridacchiò lui. «Satana non si abbassa a questi lavori di vile manovalanza.
Diciamo che sono un suo discepolo».
«Cosa vuoi da me?!». Beatrice era talmente scossa dalle apparizioni che non si rendeva nemmeno conto della bizzarria della situazione.
«È la stessa domanda che volevo fare io. Sei salita sul mio ponte in una notte buia e nebbiosa. Il tuo cuore è pieno di dolore e, quindi, credo tu voglia qualche cosa da me».
«Non voglio nulla. Dio mi proteggerà».
«Non mi sembra che ultimamente sia stato troppo presente...» insinuò la voce.
«Adesso le cose sono cambiate».
«Ah, certo, il giovane bretone. Come si chiama? Arturo, giusto? Proprio come il portatore di Excalibur. Lui però è dubbioso. Divide l’amore per te con quello per il Dio che ti ha tradita. Ti porterà via anche lui, per la sua sciocca guerra santa!».
Sotto l’apparenza suadente, Beatrice coglieva l’astio che l’entità provava mentre parlava. Era come un rumore di sottofondo, un suono catarroso a malapena celato dalla musicalità di quella voce.
«Lasciami stare!» urlò raggomitolandosi sulla pietra del ponte, resa umida dalla nebbia.
«Io ti ho solo mostrato i tuoi scheletri nell’armadio. Ora sta a te decidere. Vuoi attendere che il tuo bel cavaliere parta per Gerusalemme e ti proponga di chiuderti in un convento? Se glielo impedirai lui soffrirà e non sarete mai felici insieme. O preferisci aspettare che il vecchio tenti di abusare di te? Allora il ragazzo lo ucciderà e verrà forse condannato a morte per omicidio. Tu allora sarai la causa della loro morte, come di quella dei tuoi cari».
«Cosa dovrei fare?» Beatrice piangeva copiosamente.
«Vattene, lontano da loro! Fuggi senza voltarti. Loro non meritano la tua sozza compagnia. Il tuo destino è espiare le tue colpe. Per te non ci sarà mai redenzione. No, no...».
Quel ringhioso anatema la colpì come una coltellata. La vista le si annebbiò per le lacrime mentre la nebbia, sempre più fitta, si popolava di creature orribili e mutevoli che davano forma ai suoi incubi di bambina: streghe e orchi la circondavano mostrando fauci fameliche pronte a sbranarla.
«Arturo!» gridò.
La voce aveva cessato di tentarla e il silenzio era calato sul ponte come un sudario. Anche il rumore del Trebbia era appena un sussurro attutito. Sola nel buio, Beatrice incominciò a singhiozzare. Con le mani sudate strinse il ciondolo di San Giovannino, che già una volta l’aveva aiutata.
Come in risposta al suo gesto di supplica, un canto cominciò a riempire il ponte,
i cui contorni erano incerti schizzi nella nebbia. Sulle prime, pensò che si trattasse della corrente del fiume, poi si accorse che proveniva da un punto del ponte posto da qualche parte davanti a lei. Era una litania ancestrale che sembrava fuoriuscire dalla pietra stessa, composta da parole di una lingua antica come il mondo. Seguendo la voce argentina, Beatrice giunse a una luminescenza che dominava una delle gobbe più irregolari del ponte. Una strana figura androgina, che sembrava fatta di vento, suonava un’arpa, anch’essa dall’aspetto leggero e immateriale.
«Chi sei?» chiese la ragazza speranzosa.
«Sono la signora di questo guado. Se lo vuoi, ti indicherò la via per uscire da questo banco di nebbia».
«Ma... il diavolo?».
«Lascia stare quel vanesio. Io esisto da secoli, vivevo qui ben prima che quell’essere e il suo Signore venissero precipitati dove è pianto e stridore dei denti⁸. Se lui qui ha qualche potere, è perché glielo permetto io».
«Cosa devo fare?».
«Non ho la soluzione ai tuoi problemi. Posso però farti tornare in città, sarai poi tu a decidere cosa è meglio per te».
«Grazie».
«Non ringraziarmi. Per me è un piacere, non mi capita spesso di poter chiacchierare con la tua specie, da quando voi uomini non credete più in me. Ti basterà pronunciare tre volte il mio nome e io ti trarrò in salvo».
La creatura pronunciò una parola suadente, in una lingua morta da tempo infinito.
Beatrice esitò per un istante. Molte leggende raccontavano che, pronunciando il nome di qualche creatura demoniaca, si rischiava di diventarne vassallo. D’altra parte, non aveva altre soluzioni: la nebbia era fittissima e non sembrava intenzionata a diradarsi. Il freddo cominciava a penetrarle le membra, e il torpore la stava avvolgendo. Strinse più forte il ciondolo e disse il nome che l’essere le aveva suggerito. Poi lo ripeté una seconda volta.
«Brava. Ora pronuncialo l’ultima volta» la incalzò l’apparizione, celando a fatica una certa impazienza.
«Va bene...».
Beatrice aveva appena pronunciato la prima delle tre sillabe che componevano il nome, quando sentì un brontolio scuotere il ponte. Per un attimo l’apparizione smise di suonare l’arpa e perse coesione. Ci fu un frenetico scalpiccio di zoccoli e una figura sfavillante piombò sul gigante di pietra squarciando la bruma con la sua spada dardeggiante. La sua armatura brillava di luce lunare e il suo candido mantello schiaffeggiava gli ultimi brandelli di foschia scoprendo un meraviglioso cielo stellato. Era Arturo come le appariva nei sogni, scintillante come un cielo stellato, mentre montava Morgen, che sembrava un cavallo mitologico. Il suo sogno si era avverato.
Il canto argentino della Signora del Fiume trasfigurò nello stridulo grido di rabbia della voce che per prima l’aveva ammaliata. Con un’imprecazione volgarissima, il diavolo lasciò il ponte che aveva costruito decenni prima.
Il bianco cavaliere la osservò con occhi carichi di dolcezza, che brillavano da dietro il cimiero argentato, ornato da un pennacchio colore della luce lunare. Il bel cavaliere rinfoderò la spada corta e solo allora Beatrice si accorse che era del tutto identica alla strana lama che Roberto di Puglia custodiva così gelosamente. Con un gesto di saluto il cavaliere si accomiatò da lei e se ne andò al galoppo.
La ragazza corse verso Bobbio ed entrò al sicuro delle mura pochi istanti prima che le pesanti porte di legno rinforzato venissero chiuse. Mentre percorreva i vicoli verso l’ospitale che divideva con i suoi compagni di viaggio, Beatrice meditava sul significato di quella sua strana visione. Era convinta che la forza che l’aveva salvata a Rocca Alta era intervenuta nuovamente per aiutarla. Era sicura che lo avesse fatto assumendo le sembianze di un cavaliere del tutto simile all’Arturo dei suoi sogni. Cosa voleva dire quella visione? Come mai il cavaliere non impugnava il solito gladio, dal quale non si separava mai, ma la strana e inquietante spada di Roberto? Queste cose, Beatrice le ignorava.
Il giorno dopo ripartirono e Beatrice non raccontò la sua visione ai compagni di viaggio. Forse un giorno lo avrebbe fatto, ma per il momento preferì serbare il segreto. La strada si inerpicava a fatica sulle montagne e spesso era appena una mulattiera che dovevano percorrere in fila indiana tirando Morgen per le redini. Nella salita attraversarono verdi pascoli e boschi lussureggianti, fermandosi a pescare gamberi dai numerosi torrenti che innervavano le montagne e si riversavano nel Ceno sulla cui sponda, su un’alta rupe, sorgeva il castello di Bardi. Era una fortezza molto antica, probabilmente costruita dai Longobardi, intorno alla quale era fiorito un grosso borgo.
Alloggiarono nell’ospitale dedicato a San Giacomo. Era ormai primavera inoltrata e il fuoco veniva utilizzato solo per cucinare, tenendo tutti gli infissi aperti: l’aria nella sala comune era pulita e fragrante di pane appena sfornato, trote grigliate, funghi, salumi fatti a regola d’arte e formaggio.
«Cos’è questo?» chiese Arturo indicando un tubero contorto che emanava un profumo forte e penetrante.
«È tartufo» rispose Beatrice. «Non ne mangio da quando…».
Lasciò sospesa la frase rabbuiandosi improvvisamente.
«Cerca di non pensarci: so che non è facile». Arturo le accarezzò la nuca dolcemente.
«Non lo è, affatto».
Dormirono nella grande stanza comune e il mattino dopo si recarono alla località di Odolo, dove sorgeva la chiesa dei Santi Gervaso e Protaso, che aveva tre secoli. Non vi si trattennero molto: la strada era ancora lunga e impervia. Inerpicandosi su faticosi sentieri e vallate lussureggianti di vegetazione, attraversarono i crinali appenninici sino a Borgo Val di Taro, dove visitarono la chiesa di San Cristoforo, che si raggiungeva tramite l’ennesimo ripido sentiero. Pregarono e ammirarono la bella struttura dall’abside circolare e l’elegante campanile. All’osteria dove si fermarono ebbero una pessima notizia: il o di Bratello era impraticabile a causa di una frana. Decisero di ridiscendere il Taro sino a Berceto dove avrebbero ripreso il tradizionale tracciato della Francigena, entrando in Garfagnana dal o della Cisa. La deviazione fu faticosa ma
piacevole per la bellezza del clima che regalò loro cieli tersi e aria purissima: Roberto sembrava ringiovanito di dieci anni e montava Morgen col piglio che doveva aver avuto a Nicea.
F Un lungo viaggio
L’inverno nonantolano era stato tra i più rigidi che Gilberto ricordava. La neve aveva ricoperto la campagna e il monastero, per poi indurirsi in un gelido sudario; i lupi si erano spinti sino in pianura alla ricerca di cibo ed erano state molte le fattorie attaccate e i bambini uccisi. I granai dell’abbazia, fortunatamente, erano pieni e i sudditi di Nonantola avevano potuto contare sull’aiuto dell’abate. Non così era stato per molti abitanti delle montagne e delle campagne più lontane, disperse nella bassa più profonda. Decine di disgraziati erano morti di freddo e di stenti, ridotti a mangiare vermi e gatti rognosi. Le voci di streghe e orchi appostati nei boschi scheletriti si erano rincorse da una pieve all’altra, senza che gli arcipreti fossero in grado di convincere i fedeli a non seguire quelle credenze pagane.
Il gelo aveva messo a dura prova l’anca del novizio, già martoriata dall’andatura claudicante, penetrandogli con crudeltà nelle deboli articolazioni; con esso, perfida, era entrata anche l’umidità, trasformando quell’inverno in un martirio. Per grazia del Signore, la primavera, infine, era giunta, carica di buoni presagi. In quei sei mesi, Gilberto aveva avuto poche occasioni per incontrare Anselmo, impegnato spesso in missioni diplomatiche per l’abate.
Il ragazzo divideva le sue giornate tra le funzioni e lo stupendo scriptorium, illuminato da un sapiente uso delle finestre dove i monaci ricopiavano codici riposti su appositi leggii, usando mascherine che servivano per guidare loro la mano.
Anche la biblioteca e l’archivio erano stupefacenti e l’antichità dell’abbazia faceva sì che vi fossero conservati tra i più antichi documenti della zona, risalenti addirittura a Carlo Magno.
Una mattina di maggio, mentre stava ricopiando le Confessioni di Sant’Agostino, frate Germano lo chiamò a gran voce.
«Gilberto!».
«Ditemi, frate Germano».
«Frate Anselmo vorrebbe che lo raggiungessi sotto alla chiesa madre».
«Finisco questa maiuscola poi vado».
«Se non ti dispiace termino io, frate Anselmo ha fretta di vederti».
«Va bene» rispose il ragazzo, docile, sebbene gli spie separarsi dal suo lavoro.
Trovò il frate seduto, in meditazione, dietro le tre potenti absidi della chiesa di San Silvestro. Costruite quasi un secolo prima, erano la parte più suggestiva della chiesa, dove i lavori continuavano alacremente.
«Sono qui, maestro».
«Gilberto, che piacere rivederti. Frate Germano dice che sei diventato un copista eccezionale».
«Egli è troppo buono, ho ancora molto da imparare. Credo, però, che miniare codici sia il mio scopo nella vita».
«Proprio di questo voglio parlarti».
«Dello scriptorium?».
«No!» ridacchiò Anselmo abbracciandolo. «Dello scopo della tua vita».
«Non capisco».
«Tu sei sempre vissuto in un convento. È giusto che tu veda il mondo, in modo da poter valutare la tua fede».
«Ma io ho fede!» si difese lui.
«Lo so. La fede, però, come la mano con cui fai le miniature, va mantenuta in allenamento altrimenti si impigrisce, e questo non puoi farlo qui dentro».
«Cosa dovrei fare?» chiese il ragazzo preoccupato.
«Venire con me a Farfa. Devo portare un’ambasceria a quel cenobio per conto dell’abate. Come dono recheremo proprio le Confessioni che stai terminando e mi sembra giusto che tu sia presente. Sarà un bel viaggio e ti permetterà di vedere il mondo. Che ne dici?».
«Sarebbe un onore».
Gilberto sorrise ma, in realtà, era terrorizzato. Farfa era lontanissima e la strada lunga e insidiosa. Ciononostante non avrebbe deluso Anselmo.
«Ne sono contento. Sulla strada eremo da Roma».
Per Gilberto fu come un pugno nello stomaco. Roma era la capitale della Cristianità, la Città Eterna, un luogo che aveva sempre solo immaginato e che avrebbe visto coi propri occhi. Era felice ma pieno di inquietudine.
La notte prima della partenza Gilberto non dormì. Nella sua cella si rigirò nel giaciglio, sudando e rabbrividendo. Ogni volta che il sonno prendeva il sopravvento, sognava una lunga strada vuota dove lui camminava solo. Si svegliò più volte, tremando e ricordando del sogno solo la strada e la sensazione di paura che gli dava.
Partirono la mattina presto e si fermarono a Modena per pregare sulla tomba di San Geminiano nella cripta della Cattedrale, costruita da Lanfranco e decorata secondo i dettami di Wiligelmo. Il duomo era stato terminato l’anno prima e le reliquie del santo erano state omaggiate dai più potenti signori di quelle terre,
compresa la Comitissa Matilde.
Appoggiati al bordone, i monaci vestivano il ruvido saio dei pellegrini, calzando scomodi sandali. Su Candido, che un anno in più sul groppone aveva reso ancora più scorbutico, caricarono i pochi viveri e oggetti di uso comune: un saio di ricambio a testa, pezze di lino per pulirsi, un po’ di pane, un salamino di maiale, castagne e qualche spicciolo.
Anselmo pensava di salire sino a Fanano e da lì scendere in Garfagnana per ricongiungersi con la via Francigena dalle parti di Lucca. Decise di non fermarsi negli ospitali monastici ma di dormire nelle locande e appellarsi all’ospitalità degli abitanti del posto.
Gilberto non sopportava l’acre odore dei dormitori comuni, le grida e i lazzi degli ubriachi e delle meretrici. Una notte si svegliò di soprassalto sentendo gli ansimi di piacere di due peccatori che ardivano fornicare in mezzo a tutti gli altri ospiti della locanda.
Anselmo, al contrario, sembrava perfettamente a suo agio in quegli ambienti malfamati. Non si scandalizzava né sembrava emettere giudizi verso quelle pecorelle indubbiamente smarrite. Un giorno Gilberto si decise a chiedere al suo maestro perché lo obbligasse a quella dura prova.
«Devi vedere il mondo, figliolo, e scoprire ciò che c’è fuori dall’abbazia per poter compiere bene il tuo ministero».
«Non capisco, maestro» disse Gilberto turbato. «Cosa ci può essere di più bello di dedicare la propria vita a Dio e alla cultura in uno scriptorium?».
«Anch’io credo non esista nulla di più bello».
«Perché, allora, dovrei vedere il mondo? Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né bisaccia, né pane, né denaro, né due tuniche per ciascuno ha detto il Signore. Egli ha vagato per quaranta giorni solo nel deserto e ha rifiutato l’offerta di Satana che gli aveva promesso il potere sul mondo...»¹ .
«Questo sta scritto. Dio, però, ci ha donato la vita perché noi ci muovessimo nel Creato e lo glorificassimo con le nostre opere, non perché ci nascondessimo dietro una norma o le mura di un monastero. Ricordati che Egli si è incarnato e ha vissuto in mezzo agli uomini, spesso violando molte convenzioni sociali del tempo».
«Quindi, secondo voi non dovremmo rinunciare a tutto per lui?».
«Non ho detto questo, anzi. Lui apprezza certamente che noi rinunciamo al mondo per dedicarci solo alla contemplazione e allo studio. Un sacrificio, però, deve essere privazione. Non puoi privarti di una cosa che non hai mai avuto. Tu sei sempre vissuto in un monastero, senza sapere come si vive fuori dalla sue mura. Devi mettere alla prova la tua fede nella vita monastica. Non ti sto chiedendo di peccare, ovviamente, ma di verificare la tua vocazione: non puoi farlo stando comodamente seduto vicino a padre Germano».
«E se la mia fede vacillasse?».
«Dovrai guardarti dentro e decidere: meglio un mediocre cristiano fuori da un
monastero che un pessimo frate al suo interno».
La salita verso il Frignano fu dapprima dolce e piacevole. Erano i primi giorni di maggio e il clima, tutto sommato, si mostrava clemente.
Quando giunsero alle colline lambite dal Rio Bàgolo, nei pressi del Castello di Levizzano, si imbatterono in una scena che Gilberto non si sarebbe mai dimenticato. Una giovane madre, segnata nel fisico dal duro lavoro dei campi, si era fermata innanzi a un muro alto mezzo metro sul quale era infissa una trave di legno con un rudimentale dipinto. La donna osservava apprensiva un infante, ancora malfermo sulle gambette un po’ storte, avvinghiato al muretto che reggeva la povera icona. Cercava di rassicurarlo con una cantilena, ritmata con le esitazioni del piccolo: Stai, Stai, Stai.
Il bambino stava imparando a camminare eretto.
«Quella è la Madonna del Distacco» gli disse frate Anselmo, sorridendo sotto la barba argentea. «Da queste parti molti contadini insegnano a camminare ai loro figli utilizzando questa o altre icone del genere».
«È una bella usanza».
«Probabilmente è il riadattamento cristiano di un rito pagano, diffuso in queste zone. Gli antichi avevano un nume tutelare per ogni momento della vita del bambino, credo che l’equivalente romano della Madonna del Distacco fosse la dea Statina, che è in parte identificabile con Vesta. Il nome viene, come sai, dal verbo latino stare: quando quella donna canta Stai, Stai, Stai al suo piccolo, in un certo senso recita una preghiera che i Romani dedicavano alla loro dea secoli
fa».
«Ma è idolatria! È un peccato!».
«Vedi che la sola prospettiva del monastero ti distoglie dalla verità?» lo rimbrottò Anselmo mentre il pargolo aveva mosso il primo o staccandosi dal muretto, sotto lo sguardo orgoglioso della madre. «Guarda la bellezza di quella donna che insegna alla sua creatura a camminare! Come fai a vedere un peccato in questo?!».
«Ma maestro, quelli pagani sono falsi dèi! Questo popolo ha commesso un grande peccato: si sono fatti un dio d’oro, disse Mosè risalendo il Sinai e supplicando Dio di clemenza. Il Signore percosse il popolo perché aveva fatto il vitello fabbricato da Aronne¹¹».
«Hai ragione, conosci molto bene le scritture, quasi come un fariseo. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci! Ha detto nostro Signore e, ancora, Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all’esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d’ipocrisia e d’iniquità...¹²» sorrise il frate sornione.
«Ma io non sono un fariseo!» protestò Gilberto.
«Allora non comportarti come loro. Quella donna crede di invocare la Vergine Maria, non una dea romana. È troppo semplice per sapere che sta usando un
rituale pagano, quindi non puoi biasimarla. Lei vuole solo che il suo bambino cresca sano e robusto e anche Dio lo vuole. Perché, se no, lo avrebbe messo al mondo? Che importa qual è il rituale, se è a Dio che rivolgi le tue preghiere?» concluse Anselmo.
Gilberto rifletté a lungo sulle parole di Anselmo e si rese conto che il suo concetto di bene e male era troppo rigido: il suo maestro aveva ragione, doveva vedere il mondo per scoprire Dio.
Incontrarono altre Madonne del Distacco nella loro salita che si faceva sempre più aspra, costringendoli a soste sempre più numerose. Anselmo chiedeva ospitalità ai pastori, bussando ai casolari e alle cascine. Il frate era molto conosciuto da quelle parti e molti li accoglievano con piacere, offrendo parte del loro pasto: salame e formaggio che spesso riuscivano anche ad annaffiare con il tipico vino di quelle terre, rosso e frizzante. Gilberto assaporò con gusto la farinata di farro, scura e calda che riempiva lo stomaco del viandante.
«I Romani la chiamavano puls» spiegò Anselmo. «Da queste parti usa mangiarla assieme ai fagioli».
Gilberto trovò faticosissima l’ultima parte della salita nel cuore del Frignano. Sebbene Anselmo lo incoraggiasse a stare in groppa a Candido, il ragazzo si sforzava di camminare. Si avvinghiava al bordone con tutta la forza che aveva e stringeva i denti, nonostante la sua andatura claudicante lo stancasse tantissimo.
Fu una liberazione giungere alla pieve di Renno.
«Andremo a dormire da mio fratello Giacomo» disse Anselmo.
Gilberto, così, scoprì che il suo maestro era nato proprio in quella zona. Si recarono prima nella chiesa a tre navate e ad abside semicircolare di derivazione bizantina. All’interno c’erano pilastri ottagonali: sul primo, Anselmo gli mostrò due Crismon, i monogrammi di Cristo, a forma di ruota.
Quando Gilberto e il suo maestro giunsero in cima alla dura salita che portava alla casa di Giacomo di Paule, trovarono nell’aia una donna robusta che tentava, con dolce fermezza, di costringere un sudicio marmocchio a entrare in una tinozza d’acqua.
«Smettila di far storie, Ildeprando: devi lavarti tutto almeno una volta a stagione, come tutti i cristiani. Ormai la primavera è iniziata da un pezzo…».
«Domani ti giuro che mi lavo!» supplicò il bambino; poi, scorgendo i due viandanti da dietro la sottana della madre, urlò: «Zio Anselmo! Zio Anselmo!».
Si divincolò dalla donna e corse verso i due frati, nudo, sollevando spruzzi, inseguito dalle minacce della donna.
«Ti prendo a bastonate!».
Il moccioso corse ad abbracciare Anselmo che lo sollevò di peso e gli scompigliò i capelli resi stopposi dal sudiciume.
«Prando, sai bene che non puoi sfuggire alla santa tinozza di Venerata» rise il
frate.
«Domani! Oggi voglio stare con te!».
Nei suoi occhi si leggeva che anche domani avrebbe fatto di tutto per evitare il bagno.
«Anselmo da Paule, per colpa tua questo selvaggio mi ha fregata di nuovo!» lo apostrofò la donna quando li ebbe raggiunti. Poi rise e abbracciò il frate con tenerezza. Vestita di ruvida canapa, era sformata dai numerosi parti ma aveva ancora il volto giovanile e gioviale.
«Sarò lieto di prendere io il bagno al posto di tuo figlio» propose Anselmo, poi rivolto a Gilberto disse: «Questa è mia cognata Venerata, una delle migliori cuoche del Frignano».
«Piacere di conoscervi, sono Gilberto e non ho padre né madre salvo Iddio e la Vergine».
«Il piacere è mio: vuoi prendere il bagno anche tu?».
«Volentieri, la strada è stata lunga e polverosa».
«Comincia tu» disse Anselmo. «Vado a chiamare mio fratello che, come suppongo, è nella stalla».
Dopo giorni di faticoso cammino, fu una sensazione fantastica per il novizio immergersi nell’acqua resa tiepida dal sole. Si fregò con la pomice e fu lieto che Venerata gli prestasse una tunica del marito e si offrisse di lavargli il saio con acqua di cenere.
Quando Anselmo entrò nella stalla, si soffermò un attimo a respirarne il famigliare odore acre, vagamente agrodolce, e il calore umido che emanava dalla mucca e dalle pecore. Fuori, in un ampio recinto, stavano i maiali. Ogni volta che tornava a casa si rendeva conto che il sacrificio più difficile della sua vita monastica era stato privarsi di quegli odori e di quelle piccole cose. Tutto il resto non aveva mai avuto veramente importanza: né le battaglie né i saccheggi; né le donne né le osterie.
Trovò Giacomo intento a cambiare il fieno lurido con altro pulito o, meglio, già usato dai cristiani che tutto sommato sporcavano meno di bovini e ovini. Suo fratello aveva due anni di più ma ne dimostrava molti di meno. Aveva ancora i capelli neri e il ventre gonfio di chi raramente soffre la fame, pur campando di cose semplici e umili.
«Anselmo! Temevo che non ci saremmo rivisti così presto» urlò gioviale.
«Devo recami a Farfa e ne ho approfittato…».
«Sono felice di vederti».
«Anch’io».
Parlarono per parecchio tempo del duro inverno che aveva decimato le greggi e del freddo che aveva bruciato i raccolti.
«Ricordi quando venisti l’ultima volta?».
«Sì, macellammo il maiale…».
«La settimana successiva ci fu una violenta nevicata e tutto gelò. I lupi vennero qui una notte e mangiarono quattro pecore prima che ne accopi due e li mettessi in fuga».
Furono interrotti da Venerata che richiamava Anselmo alla sua dose di santa tinozza. Il frate si lavò volentieri e presentò Gilberto anche a Giacomo.
«È uno dei più promettenti amanuensi del nostro scriptorium, diventerà capo bibliotecario».
«Anselmo è troppo buono» si schernì lui.
«Dico solo la verità, questo ragazzo ha mani benedette, quasi come le tue…».
«Anche lei è amanuense?» chiese Gilberto.
Anselmo e Giacomo scoppiarono a ridere all’unisono e il ragazzo si accorse di aver detto una sciocchezza.
«La capacità di mio marito è un’altra: egli è il miglior beccaio, lardaiolo e salsicciaro di tutto il piviere di Renno!».
«Proprio così» confermò il frate, che era entrato nel bacile con tutto il saio. «Pensa che è in grado di ammazzare un porco con un solo colpo di coltello alla gola, senza farlo soffrire!».
«Non adularmi, fratello. Tu eri quello con la mano migliore, poi hai deciso di andare in convento. Ti ricordi che bei tempi, quando si macellava insieme il maiale?».
«Già, stupendi. November, mihi pasco sues…»
«… December mihi macto» completò Gilberto. Anche lui conosceva la filastrocca in latino sulle attività da farsi mese per mese e sapeva che il maiale andava ammazzato a dicembre, per poter far stagionare il salame, il lardo, la pancetta e gli altri insaccati.
«Bravo ragazzo!».
«Hai mai assistito all’uccisione di un maiale?» chiese ad un tratto Giacomo.
«No signore, sono un po’ impressionabile».
«Dovresti, ti ci porterò quando sarà stagione» intervenne Anselmo.
«Ha ragione, è uno dei più importanti momenti della comunità. Del maiale non si butta nulla, perfino il sangue viene bevuto ancora caldo e rifocilla gli animi intirizziti» concluse Venerata.
Anselmo accettò un’altra tunica di scorta: era più corta e sgualcita di quella offerta a Gilberto, che era l’ospite d’onore.
Restarono un paio d’ore nell’aia ad aiutare i loro ospiti nelle faccende. Quattro dei sei figli della coppia erano abbastanza grandi per dare una mano, uno camminava appena e l’ultimo aveva tre mesi.
Verso le cinque del meriggio entrarono in casa per prepararsi alla cena. Era una dimora semplice, costruita di legno e graticciato, con una grande stanza comune, senza finestre, illuminata solo dalla luce che entrava dalla porta. Il focolare ardeva, scavato nel pavimento ricoperto di segatura. Era comunque un’abitazione dignitosa e pulita, dove le ragnatele crescevano solo negli angoli più bui e meno accessibili e la paglia che copriva il pavimento era fresca.
Davanti al fuoco mangiarono puls con pagnotte di un giorno, pancetta e lardo. Annaffiarono il tutto con un vino di discreta qualità.
«Raccontaci una delle tue storie, una di quelle che fanno tanto ridere tuo fratello» disse a un tratto la donna ad Anselmo, mentre i figli si rincorrevano nella grande sala comune.
«Va bene. Vi racconterò di come, quando ancora regnavano i Longobardi, modenesi e bolognesi decisero il confine della loro diocesi».
F L’ordalia
Come molti anni fa, ai tempi di Re Rachis, gli uomini dei vescovadi di Bologna e Modena decisero di definire la lite sui confini delle rispettive diocesi.
Una bruma densa e avvolgente saliva dai campi paludosi e dai boschi riempiendo l’aria di una fastidiosa acquerugiola. Il corridore, vestito solo del saio del penitente, arrancava sull’erba a piedi nudi ai lati della via petrosa, osservando il cupo cielo settembrino nella vana speranza di rendersi conto del tempo che ava.
«Da quanto sto correndo?» si chiese per l’ennesima volta col respiro irregolare.
Era partito al canto del gallo, tra le ovazioni del popolo e le benedizioni dei chierici, dal sagrato dell’imponente basilica ad corpus fatta riedificare da Re Liutprando. La sua meta era il confine conteso tra la diocesi di Modena e quella di Bologna sulla via Bazzanese. Ad attenderlo avrebbe trovato il Vescovo di Modena Giovanni e il suo collega bolognese, con duchi, gastaldi e sacerdoti della zona, che si erano recati lì la sera prima in solenne processione; soprattutto, però, avrebbe incontrato il suo avversario, il campione bolognese che doveva essere ormai stanco come lui. «Il punto dove si incontreranno i due campioni sarà il confine»: così aveva sentenziato Re Rachis in persona, quando i vescovi delle due città avevano sottoposto il problema al suo illuminato giudizio.
Dopo essersi chiuso per giorni nel digiuno e nella preghiera, il Vescovo di
Modena aveva scelto il suo campione con una gara tra i ragazzi più veloci della diocesi, secondo il parere dei chierici che li seguivano nelle varie pievi. Era sembrato a molti un segno del destino che il vincitore fosse stato proprio lui, che si chiamava Geminiano. Suo padre, un piccolo proprietario terriero dell’area del Castrum Frinianense di origine romana, aveva gli occhi colmi di orgoglio quando l’aveva visto tagliare per primo il traguardo al quarto giro intorno alle logore mura cittadine. La madre, una longobarda, gli era invece parsa preoccupata.
«Una corsa di oltre venti chilometri nel freddo mattutino, vestito solo di un saio e dei sandali da monaco, su una strada infestata di briganti e animali selvaggi… spero che Dio ti protegga». Lui l’aveva rassicurata ma ad ogni metro che percorreva si rendeva sempre più conto della giustezza delle sue paure.
Dopo pochi chilometri aveva dovuto abbandonare i sandali che gli stavano facendo venire dolorose vesciche; senza calzari, però, era un supplizio correre sulla ghiaia che ricopriva la strada, piena di buche e smottamenti creati dai carri e cosparsa degli escrementi di cavalli e animali da tiro. Si era così messo a correre sull’erba al lato della carreggiata, che però era fredda e rugiadosa. Nonostante sotto avesse messo due tuniche di lana, il saio da penitente era scomodo e non lo proteggeva dall’umidità della campagna emiliana. Così, pur madido di sudore, Geminiano rabbrividiva ogni volta che tirava un alito di vento o che la pioggerella si faceva più fitta: se in condizioni normali non avrebbe avuto difficoltà a coprire la distanza, ora il ragazzo arrancava scivolando sull’erba bagnata e pungendosi con la ghiaia ogni volta che doveva tornare sulla strada per evitare un fosso o un filare di alberi troppo vicino al ciglio.
Mentre correva assorto in questi e altri pensieri, ava a fianco di coorti di cui ignorava il nome, dove uomini e donne, che sapevano benissimo perché corresse, lo salutavano e lo incitavano. In una di queste massae il ragazzo si fermò per abbeverarsi e liberarsi della tunica a contatto della pelle. Si concesse appena il tempo necessario per far riposare le caviglie martoriate dai crampi da freddo e poi ripartì.
Una ragazza alzò il viso dalle piante che stava curando nell’orto e gli sorrise agitando il braccio. Vestiva solo di una tunica spessa che le copriva anche il capo; Geminiano la vide per un momento, con la pelle scurita dal sole e imperlata di sudore, gli occhi chiari e penetranti; avrebbe vinto quella gara per il suo Vescovo e il suo patrono, poi sarebbe tornato da quella ragazza e le avrebbe chiesto di sposarlo; lei non avrebbe potuto negarsi al campione di Modena! Con quella convinzione ripartì di buona lena.
Perso nei suoi pensieri, quasi non notò il ponticello che attraversava un canale al lato della strada. Vi ò a fianco come aveva già fatto decine di volte quella mattina ma non si accorse che il legno era marcio in più punti. Quando calò con forza il tallone nel punto in cui le assi incontravano la strada, la struttura cedette e il ragazzo rovinò nel rigagnolo sottostante ferendosi e inzuppandosi di acque marce.
«Maledizione!» si lasciò scappare prima di ricordarsi che stava partecipando a un giudizio di Dio e che imprecare non avrebbe certo messo il Signore dalla sua parte. Restò alcuni minuti seduto nell’acqua, stordito. Poi, a fatica, si issò fuori dal fosso, liberandosi di un paio di bisce che gli si erano attaccate alle gambe. Si trascinò sulla strada, lasciandosi cadere dolorante sulla massicciata, che in quel punto era piena di terra a causa di un recente allagamento.
«Nulla di rotto. Non mi fermerà certo questo incidente, se il Signore lo vorrà» commentò osservandosi attentamente le gambe. Si tolse il saio e iniziò a liberarsi della seconda tunica, per sostituirla con l’ultima, pulita, che sua madre lo aveva obbligato a portarsi dietro in una sacca.
Abbandonò nel canale la tunica intrisa di melma e sporca d’erba; quando si rimise a correre si rese subito conto che la caviglia sinistra gli doleva e si stava gonfiando.
«Una storta noi mi fermerà» disse ad alta voce, per farsi coraggio, ma ogni volta che appoggiava il piede sentiva dolorose proteste. Strinse i denti e proseguì buttando di tanto in tanto preoccupate occhiate al martoriato piede sinistro, pieno di tumefazioni e graffi.
Giunse allo Scoltenna che il sole stava finalmente bucando le nuvole mentre la nebbia mattutina era quasi totalmente caduta sui campi. Il borgo era già in piena attività e solo i pochi chierici e rappresentanti del gastaldo di Civitas Geminiana, incaricati di vigilare sul corretto svolgimento della corsa, fecero caso a lui.
«Sei ferito» sentenziò un anziano chierico in tono neutro.
«Non è nulla, padre».
«Le ferite non vanno trascurate: se ti fa infezione potresti anche perdere il piede. Ti ordino di fermarti e farti pulire le piaghe» tagliò corto l’uomo con la spada corta alla cintola e le insegne di Re Rachis.
Gli lavarono la ferita e la cosparsero di un unguento medicamentoso. Dettero al ragazzo un infuso caldo per rifocillarlo e alleviargli il dolore. Dopo una quindicina di minuti lo lasciarono ripartire; da quegli uomini, che avevano una clessidra, seppe che stava correndo ormai da più di due ore.
«Spero che questo ritardo non sia fatale alla nostra causa».
L’anziano religioso che aveva notato per primo le ferite del ragazzo era responsabile della Pieve di San Michele nel Frignano e conosceva molto bene Geminiano.
«Capirete, padre, che Re Rachis non sarebbe contento se la sua salomonica decisione su questa faccenda si trasformasse in tragedia con la morte per strada di uno dei campioni. Il Re ha molti nemici e queste zone sono lungi dall’essere pacificate; i partigiani dei Greci sono ancora forti e il Re non può permettersi nessuna critica».
«Voi non pensate al ragazzo, ma a salvare le apparenze: quell’intruglio che gli avete dato conteneva anche oppio. Non gli farà sentire il dolore e gli darà la forza di andare avanti ma non lo salverà certamente da un’infezione al piede o dai briganti che infestano questa zona. Solo il Signore lo potrà preservare».
«Non c’è bisogno di scomodare Dio in questa faccenda: ai briganti ci penseranno i miei arimanni».
«Questa gara è un giudizio di Dio…».
«Questa gara è una follia! I Bizantini saccheggiano il bolognese quasi tutte le settimane e voi perdete tempo con la vostra stupida disputa. Non capirò mai voi preti!».
«Voi Longobardi non capirete mai questa terra: questa è la vostra debolezza».
Il chierico si allontanò dal soldato barbaro e pregò per l’incolumità dei due corridori. Poco dopo dal borgo partirono due cavalieri, l’uno diretto verso il torrente Muzza, la località contesa tra le due città, l’altro verso sud tagliando per i campi, dove si incontrò poco dopo con altri tre cavalieri armati di tutto punto.
L’effetto della tisana durò poco e il piede gonfio tornò a tormentare Geminiano: la vista gli si appannava e la testa gli girava; la meta non doveva essere lontana ormai ma, in quelle condizioni, non aveva idea di quanto tempo ci avrebbe messo. Adesso voleva solo arrivare, riabbracciare i suoi genitori e sedersi. Non gli importava più di vincere e le forze lo abbandonavano. Provò a pensare alla ragazza che curava l’orto e a come gli aveva sorriso, e si baloccò con l’idea di farla sua sposa.
Un movimento insolito lo distolse dai suoi pensieri. Verso nord, appena al di qua della linea dell’orizzonte, una nutrita fila di uomini a cavallo galoppava nella direzione opposta a quella da cui veniva lui. Da quella distanza era difficile dirlo ma gli sembrava fossero armati. Istintivamente accelerò l’andatura ignorando le proteste dei suoi piedi: quegli armati potevano essere uomini di Re Rachis o di un qualche Duca del circondario ma potevano essere pure briganti o, peggio, Greci che tentavano una scorribanda nella zona: Bologna era stata conquistata da Re Liutprando una ventina di anni prima ma la zona era ancora turbolenta e percorsa dalla guerriglia; un suo zio aveva perso la vita appena l’anno prima, quando la carovana con cui stava portando grano al Duca di Persiceta era stata intercettata da un gruppo di mercenari bizantini e depredata. Bologna veniva attaccata con regolarità e, a pensarci bene, era un’assurdità fare una gara per decidere i confini delle diocesi quando la campagna era ancora percorsa da fremiti di guerra.
«Un’assurdità che vincerò».
L’incontro a distanza con il drappello armato aveva acuito i suoi sensi. Geminiano si portò sulla strada per evitare un’edicoletta sacra a San Michele e
improvvisamente vide delle ombre. Proseguì e vide che appartenevano a due tipacci mal vestiti e con delle facce da forca che facevano rabbrividire. Intuendo il pericolo, accelerò per guadagnare terreno, ma il dolore alla caviglia, nello sforzo, si moltiplicò come i cerchi di un sasso lanciato in uno stagno. I due figuri risalirono il fosso dove si erano rintanati e lo raggiunsero gettandosi su di lui. Il ragazzo, che in condizioni normali era un tipo combattivo, non poté far altro che crollare a terra sotto il loro peso, ferendosi dappertutto con la ghiaia.
«Dove credevi di andare?» disse il più anziano dei due, facendo fischiare la lingua tra i denti malfermi.
«Lasciatemi. Sto correndo da Giovanni Vescovo di Modena».
«Certo che ti lasceremo andare, ma prima ci prenderemo qualcosa di tuo, come pedaggio» ridacchiò il secondo uomo, palesemente ubriaco, piantando un coltello alla gola del ragazzo che smise di dimenarsi e rimase impietrito.
«Non ho denari. Sto correndo come campione di Modena…».
«Sappiamo chi sei, le notizie volano e poi ieri notte abbiamo visto are la processione: com’era bella con tutte quelle fiaccole! Dacci la luce, dicevano, e altre stupidaggini del genere».
«Allora saprete anche che non ho nulla».
«Sbagli, hai i tuoi vestiti che dimostreranno al nostro signore che abbiamo
compiuto la missione…».
«Taci, idiota! Ora che gli hai detto che qualcuno ci ha pagato per farlo perdere dovremo ucciderlo…».
«Peccato» rispose l’altro con falso dispiacere. Sogghignò e l’odore di fogna della sua bocca sdentata investì Geminiano che, stanco e dolorante, si mise a piangere.
Mentre l’ubriaco, che era dotato di una forza insospettabile, lo stringeva per le spalle in una morsa d’acciaio, il sobrio gli strappò i vestiti e a un suo moto di protesta gli spaccò il naso con un pugno. Impugnò un bastone nodoso che teneva legato alla cintura e iniziò a studiare il ragazzo nudo che si contorceva tra le nerborute braccia del suo compare.
«Dovrà sembrare una rapina finita in tragedia, mi spiace».
Geminiano aveva la bocca calda di sangue e non riusciva nemmeno a gridare. L’ubriaco lo costrinse a inginocchiarsi con la schiena rivolta verso l’altro.
«Signore, aiutami» pensò il ragazzo, mentre la prima bastonata lo colpiva fra le scapole.
Emise un gemito soffocato. Un secondo colpo gli centrò le natiche, un altro le gambe, poi di nuovo la schiena. Il bandito gridava di esaltazione mentre infieriva sulla sua vittima come un animale, appoggiato dal complice, così si accorsero troppo tardi dei cavalli che andavano loro incontro al galoppo.
Quattro cavalieri vestiti di maglia di ferro e con la celata abbassata piombarono sui due tagliagole come delle furie, roteando le mazze ferrate. Geminiano era avvolto in un ovattato sudario di dolore e restò raggomitolato sulla ghiaia aspettando i prossimi colpi, quasi senza accorgersi della battaglia.
L’uomo col bastone fu centrato da un colpo di mazza al cranio e stramazzò al suolo. L’ubriaco fu preso di peso e costretto a colpi di mazza ad abbandonare la presa sul ragazzo e poi scaraventato nel fossato, spezzandosi il collo.
Sceso da cavallo, uno dei nuovi venuti sollevò Geminiano e gli diede dell’acqua.
«Dichiarati vinto», gli disse, «non ti reggi in piedi. Ti porteremo al luogo di incontro e diremo a tutti che sei stato quasi ucciso da due briganti: nessuno potrà imputarti la sconfitta, hai fatto del tuo meglio».
«Io finirò la corsa» lo interruppe il ragazzo alzandosi faticosamente. «Aiutatemi solo a rivestirmi e datemi un po’ d’acqua». Non si fidava del tutto di quei soldati e quindi tacque sull’affermazione dell’ubriaco. Infine ringraziò e si rimise a correre, dopo essersi rivestito e aver tamponato alla buona la ferita al naso. Dopo aver barcollato per un tratto, la forza della disperazione e dell’orgoglio gli permisero di riprendere un’andatura accettabile.
«Veramente cocciuto! Pensi ce la possa fare?» disse uno dei soldati.
«Hai ragione: testardo come un romano e forte come un longobardo. Ce la farà».
«E noi?».
«Lo seguiremo più da vicino: questa volta stavano per ammazzarcelo sotto il naso e poi ho visto un drappello armato a nord che mi preoccupa. Non ti sembra strano che due briganti quasi uccidano il ragazzo proprio all’inizio del territorio del Duca bolognese più ostile alla vittoria di Modena nella disputa?».
«Un Duca già bizantino che preferisce rimanere sotto Bologna… proprio strano, hai ragione. Purtroppo nessuno di loro può parlare».
«Peccato. Muoviamoci a far sparire questi due cadaveri, chi li ha mandati potrebbe offendersi: il gastaldo non vuole che si sappia che sta vegliando sulla corsa con troppo zelo. Voi due! Seppellite questi cani il più lontano possibile dall’immagine di San Michele, in modo da non profanarla con le loro immonde carcasse. Noi due seguiremo il ragazzo: se sverrà lo porteremo al traguardo, non voglio averlo sulla coscienza».
Walpreda attendeva in ansia al traguardo della corsa che si trovava nei dintorni della zona contesa, sul corso del torrente Muzza. Sotto un cielo minaccioso, la processione modenese e quella bolognese, ferme l’una davanti all’altra, pregavano ciascuna per il proprio campione. Con la donna c’erano le tre figlie, mentre l’ultimo nato era rimasto a casa con i nonni paterni: tutti erano in tensione e tra un salmo e l’altro scrutavano preoccupati la via petrosa: entrambi i campioni erano in ritardo rispetto alle previsioni e lei iniziava a temere che fosse successo qualcosa. Nelle due nutrite adunanze le voci correvano ormai incontrollabili e si parlava di agguati di briganti e di complotti dei duchi di una parte contro il corridore avversario. Un messaggero aveva comunicato che Geminiano era transitato per Spilamberto circa due ore prima e che stava bene anche se nessuno sapeva come mai ritardasse tanto. Domenico camminava nervosamente parlando tra sé e sé: ormai il suo orgoglio si era trasformato in
paura.
«Arrivano!» gridò una vedetta; la voce si sparse in entrambe le processioni e le preghiere si fecero più forti. Walpreda e Domenico, seguiti dalle figlie e dagli amici più stretti, lasciarono la folla salmodiante e corsero verso la strada. Un gruppo di persone si staccò dalla processione bolognese dirigendosi verso la striscia di ghiaia pressata e terra battuta: era la famiglia del campione Addoneis ed era di stirpe greca, da poco conquistata alla causa longobarda.
Dopo aver fatto una breve salita, la strada curvò e Geminiano vide le due processioni schierate come eserciti pronti al combattimento. La vista della zona contesa lo rincuorò: doveva accelerare per guadagnare terreno nei confronti del campione bolognese. Il fatto che anche il suo avversario non fosse ancora arrivato gli diede nuova speranza e forza. Vide Addoneis apparire da dietro una cascina diroccata, un puntino che si avvicinava sempre più; Geminiano accelerò il o, incurante del dolore alla caviglia, ormai tumefatta e gonfia, e al naso, che aveva ripreso a sanguinare. Vedeva la sua famiglia che lo incitava dal ciglio della strada; cercò lo sguardo di sua madre e ne incontrò per un attimo gli occhi, socchiusi in due fessure color turchese. Accelerò ancora.
Il suo avversario era logoro quanto lui: il saio era strappato in più punti, aveva perso i sandali e qualcosa lo aveva morso a una caviglia che era stata fasciata alla bell’e meglio con un pezzo di tunica. Si incontrarono in mezzo alla strada e si abbracciarono, cadendo in ginocchio l’uno appoggiato all’altro, sfiniti. Restarono immobili, senza più il fiato per dire o fare nulla.
Mentre i notai si affrettavano a registrare il punto esatto del loro incontro, i preti ringraziavano Dio e le famiglie correvano dai due ragazzi per abbracciarli e rifocillarli, le cateratte del cielo si aprirono e in un’apoteosi di fulmini e tuoni un fiume di pioggia si abbatté sui presenti; il torrente Muzza tracimò e la strada fu allagata.
Dopo oltre mezz’ora, l’acquazzone lasciò il posto a un sole stupendo.
«Sei sempre il miglior cantastorie di tutto il Frignano! Riesci a far are per vere le peggiori fesserie!» rise Giacomo.
«Questa volta, fratello mio, questo avvenimento è vero!» rispose Anselmo fingendosi piccato.
«Attento, ragazzo, questo individuo è un bugiardo patentato!» disse Giacomo, dando di gomito a Gilberto. La serata proseguì tra lazzi e battute. Il novicius non avrebbe mai dimenticato il senso di appagamento che aveva provato quella sera.
F San Pellegrino d’Alpe
Anselmo e Gilberto impiegarono altri tre giorni per raggiungere Fanano. Lì San Colombano aveva eretto, prima del più celebre Bobbio, un piccolo cenobio.
Poco oltre, Sant’Anselmo, fondatore di Nonantola, aveva dato vita a un monastero e un ospitale in Val Lamola. Gilberto ammirò la recente pieve di San Silvestro con i suoi splendidi capitelli e la sua cripta. Il suo maestro voleva fermarsi a Ospitale e da lì scendere in Garfagnana. Giunti a Fanano, però, seppero che una frana, seguita a forti piogge, aveva reso impraticabile la strada e Anselmo decise di deviare verso il Pelago, per are in Toscana da San Pellegrino d’Alpe.
La deviazione fu lunga e faticosa. Spesso si fermavano a dormire negli ovili, chiedendo ospitalità a pastori gentili che offrivano loro un po’ di formaggio e carne secca. La salita era disagevole e, sebbene fosse maggio inoltrato, faceva freddo durante la notte su quei crinali impervi dove risuonava lo spettrale verso dei lupi.
Il gelo penetrava tra i muscoli e le articolazioni della martoriata anca di Gilberto, ma il ragazzo stringeva i denti per non rallentare la marcia del suo maestro. Una mattina particolarmente fredda e nebbiosa, però, Anselmo fermò il suo penoso arrancare.
«Devi arrivarci a Farfa, non morire lungo il tragitto: salì sul dorso di Candido, è un mulo cocciuto, ma ti porterà».
«Il pellegrinaggio va fatto a piedi…».
«Lo so, ma se il Signore ti ha fatto nascere sciancato, non credo che pretenderà di farti camminare come uno che ha tutte e due le gambe perfettamente funzionanti».
«Andrò avanti finché riuscirò. Se starò per crollare ve lo dirò e salirò su questo sciocco mulo» concluse lui con espressione decisa, dando una pacca affettuosa al somaro che, smagrito e stanco per la dura salita, aveva perso molta dell’innata combattività.
Gilberto si concesse poche ore di cavalcata al giorno. Anselmo ammirava la sua forza d’animo ma temeva la sua cocciutaggine, venata di fanatismo.
«Imparerà» si diceva, pregando l’Onnipotente perché ciò avvenisse davvero.
Giunsero a San Pellegrino d’Alpe alla fine di maggio, ando per l’Hospitale Sancti Geminiani juxta Alpem positum, situato nella Selva Romanesca, dove si trovava una fonte fatta sgorgare da San Geminiano.
San Pellegrino era figlio del Re di Scozia, giunto in quei luoghi impervi per cercare quiete e far penitenza. Il demonio aveva tentato di traviarlo più volte ma Pellegrino aveva sempre resistito. Satana, quindi, si era irritato e lo aveva schiaffeggiato così violentemente da fargli compiere tre giri su se stesso. Proprio sul crinale che divideva il Frignano dalla Garfagnana c’è un luogo detto Giro del diavolo dove i devoti, in processione, portano pietre come segno di penitenza e
per chiedere la grazia a San Pellegrino. Il santo, all’età di 97 anni, sentendo ormai vicina la morte, si era rifugiato nel tronco vuoto di un vecchio faggio e aveva inciso sulla corteccia le vicende della sua vita.
«Pellegrino è un esempio di grande devozione» disse Gilberto.
«Certo, ragazzo mio. In questa zona, però, si racconta anche di un uomo che devoto proprio non era. Si tratta di un mugnaio, cattivo e bestemmiatore. L’Arcangelo Michele chiedeva vendetta ma il Signore, per pietoso intervento di San Pellegrino, si dichiarò disposto al perdono in cambio di una buona opera del mugnaio. Invece, proprio la notte di Natale, mentre tutti andavano alla messa di mezzanotte al santuario, questi, bestemmiando, non volle andarci e per dispetto mise in moto la sua macina. Spazientito, Michele provocò una frana che seppellì il mugnaio. Si dice che la notte di Natale, dalle parti del mulino distrutto, si sentano strani rumori come il fragore di catene e il girar di macine».
«Mi state prendendo in giro, maestro?».
«No, ragazzo mio. Si tratta di una leggenda che, come ogni favola, ha un fondo di verità».
Come al solito, Anselmo non volle dormire nell’ospizio dei pellegrini. Preferì cercare una locanda posta poco oltre il o. Era un edificio di legno e graticciato, col tetto di paglia. La sala comune, piena di avventori, era fumosa e maleodorante.
L’oste lo riconobbe e gli venne incontro sorridendo.
«Frate Anselmo, che gioia rivedervi. Cosa volete che vi porti?».
«Il solito, Orso».
«Con piacere».
Mangiarono puls con cacciagione e buon vino forte. L’oste stava evidentemente dando fondo alle sue riserve migliori. Sembrava tutto fuorché un timorato di Dio, eppure trattava Anselmo con deferenza.
«Raccontaci una storia, Orso. Una di quelle che fanno gelare il sangue nelle notti di luna piena».
Il viso dell’oste si illuminò: evidentemente non attendeva altro.
«Vi racconterò la storia di come San Pellegrino e San Bianco lottarono contro il Demonio. Se stanotte avrete gli incubi, non lamentatevi!» aggiunse ridendo.
F La grotta del Diavolo
Come San Pellegrino combatté il demonio, strappando al suo potere i boschi dove da millenni veniva adorato come un dio.
«Vivere sulle cime dell’Appennino è troppo pericoloso, straniero».
Il parroco di Vitriola non voleva cedere ai vaneggiamenti di quel pazzo.
«Ci sono foreste più vicine se vuoi fare l’eremita. Là in cima troveresti solo lupi, vipere e mostruose creature pagane: quella montagna è una delle dimore terrene del demonio» concluse facendosi il segno della croce.
«Dio lo vuole» rispose l’anziano pellegrino, serafico.
«Attento, figliuolo, a non confondere la volontà di Dio con la tua» lo redarguì il sacerdote.
Il pellegrino, allora, consegnò al prete la lettera che il Vescovo di Modena aveva scritto per lui quando aveva lasciato la città di San Geminiano.
«Il mio superiore mi dice che è sicuro che tu sia destinato a una grande opera del Signore».
Lo disse col tono del maestro che sgrida il discepolo.
«Così sia, se ti garba. Ti darò tutto l’aiuto di cui sono capace».
«Non garba a me, ma al Signore».
Nei due giorni successivi il parroco preparò il pellegrino al suo viaggio, spiegandogli tutto ciò che sapeva sulle cime dove questi voleva ritirarsi. Gli parlò dei pochi abitanti che vivevano sui due versanti del monte, delle bestie feroci e del fatto che Satana dominasse quelle zone, pagane da un tempo immemorabile e mai scalfite nel loro errore dal messaggio di Cristo.
«Di notte i boschi si illuminano dei fuochi di oscuri rituali demoniaci e il volgo crede che un drago si nasconda dentro la montagna e sputi fuoco su tutti coloro che hanno la sventura di avvicinarsi» lo ammonì.
«Se Dio vorrà, questo mostro si trasformerà in una lucertola impaurita».
Il terzo giorno, bisaccia sulle spalle e bordone tra le mani, il pellegrino partì per la sua montagna.
«Che il Signore sia con te!» gli urlò il parroco quando il vecchio fu appena un
puntino in cima alla strada.
Il pellegrino vestiva di ruvida lana e calzava un paio di sandali sdruciti. La testa era coronata da una folta capigliatura tutta bianca; la fronte spaziosa era dominata da due occhi accesi di bontà e spiritualità. Alto e segaligno, si muoveva agile senza curarsi dell’età. Nonostante questo aspetto dimesso, egli era figlio di Re. Suo padre, infatti, era il sire di Scozia.
Appena battezzato, tra lo stupore generale, aveva risposto Amen al Credo recitato dal sacerdote. Orfano a quindici anni, aveva rifiutato la corona e, distribuite le ricchezze ai poveri, era partito per la Terra Santa.
Dopo anni di predicazione nelle terre orientali in mano ai musulmani, aveva ricevuto l’ordine di recarsi in Italia per concludere la sua opera, ormai quarantennale.
La strada che portava alla cima del monte si restrinse sino a ridursi a esile sentiero, spesso nascosto da cespugli e rovi. Il paesaggio era desolato, punteggiato qua e là di povere case, nelle cui aie razzolava qualche gallina.
I villici parlavano un dialetto misto di latino e volgare, con inflessioni molto aspre, tanto che il pellegrino doveva spiegarsi a gesti. Era comunque gente ospitale, a discapito della barba incolta e dell’aspetto cencioso, e gli offrirono spesso ciotole di legno colme di miele e focacce cotte sotto la cenere del focolare.
A metà della salita s’imbatté in un gruppo di ladroni che lo circondarono, armati di bastone.
«Non ho nulla, salvo un po’ di pane raffermo» cercò di farsi capire il pellegrino.
«Non farmi ridere! O mi dai i soldi o ti ammazzo» rispose un criminale nella solita strana parlata.
«Sia fatta la volontà del Signore».
«Non ucciderlo, non vedi che è vecchio e povero?» intervenne un secondo ladrone, forse convinto dall’aspetto ieratico dell’eremita, forse dalla scarsa consistenza dei suoi poveri abiti.
Alla fine lo lasciarono andare e il pellegrino continuò per la sua strada che, ormai, era irriconoscibile, celata da sterpi e rovi che ferivano le mani e le caviglie. Il sottobosco era pieno di ragnatele che gli si posavano sulla faccia mentre le felci gli rallentavano il cammino. Fu una salita penosa.
Gli animali fuggivano al suo cospetto, perfino i serpenti si nascondevano al suo aggio. La notte, quei terribili fuochi riempivano la valle mentre il fiume, ingrossato dalle piogge, mugghiava tra le rupi. Più di una volta trovò il sentiero interrotto e dovette tornare indietro. Ogni giorno, però, il viaggiatore si avvicinava alla cima.
Una sera incontrò un vecchio che, come lui, procedeva avvolto in un saio, reggendosi a un bordone. Aveva lanosi capelli grigi.
«Dove vai?» gli chiese il nuovo venuto.
«In cima alla montagna».
«È una strada lunga e faticosa».
«Se Dio vorrà ci arriverò».
«Permettimi di accompagnarti».
Per qualche momento il pellegrino si baloccò col pensiero di fare un pezzo di strada in compagnia. Poi lo colpirono le mani del vecchio, troppo lisce e curate per non sembrare false. Fu colto dal dubbio.
«No, grazie. Pianterò la mia croce lassù da solo. Così vuole il Signore».
Stava ricominciando a salire, quando il vecchio mutò e gli si lanciò addosso. Non ci furono fuoco e fiamme, solo un freddo innaturale. Gli spuntarono piedi caprini, fauci e corna. Si avventò sul pellegrino colpendo con calci da mulo e con gli artigli delle mani. Il pellegrino tentò una reazione, ma era troppo anziano per resistere al demone che rideva follemente mentre lo colpiva al ventre e al capo. Un ultimo colpo lo mandò oltre la strada, in un burrone. Mentre cadeva, il pellegrino pensò che era triste morire così senza aver svolto il suo compito. Il demone lo irrideva dall’alto.
«Ora pianta la tua croce se ci riesci!».
Cadde sul fondo del burrone in un’esplosione di dolore agli arti e al busto e perse i sensi.
Sognò la Scozia, con montagne aguzze e castelli misteriosi. Ricordò i suoi genitori e la croce che voleva a tutti i costi piantare sulla montagna. Restò sospeso tra il sonno e la veglia per giorni.
Finalmente, si riprese. Era guarito dalle ferite e non sentiva nemmeno i morsi della fame o le angustie della sete. Trovò un sentiero e risalì sulla montagna, lodando il Signore misericordioso.
Quando il Pellegrino giunse sulla vetta dell’Alpe, il sole incendiava un paesaggio che mozzava il fiato più del Carmelo, che dominava la valle Giordano, e del Gargano che si affacciava sul mare. Gli alberi erano secolari e toccati dalla Santa mano di Dio in persona. Le montagne, aguzze e scoscese, erano guglie di pietra protese verso un cielo terso, con i picchi imbiancati e i torrenti che ne agghindavano le pendici. Nella valle scorreva un fiume solenne e maestoso.
Per prima cosa, senza preoccuparsi della fatica, tagliò due tronchi con la scure e ne fece una croce che piantò sul valico. Poi pregò cadendo in ginocchio.
«Prendo possesso di questo monte in nome di Cristo, unico Dio vero, nato da Dio vero».
Terminata la preghiera, raccolse foglie e legna e fece un fuoco che gli scaldò l’animo e lo rincuorò nella sua solitudine. «Ho il fuoco. L’acqua scorre copiosa nei torrenti. La Croce mi guida. Nulla mi manca anche se camminassi in una valle oscura».
Poco lontano c’era una grotta; era un luogo strano, una sorta di santuario pagano, ricoperto di pitture rupestri che rappresentavano sacrifici di animali e uomini, orge di satiri e ninfe.
«Questo è un luogo di Satana, Cristo vuole che io lo purifichi. Dormirò qui e, se Dio lo vorrà, vincerò le forze che vi abitano» disse a voce alta per vincere il silenzio della sera che stava scendendo.
La prima notte nella grotta del demonio, il Pellegrino fu visitato da incubi terrificanti.
Era legato a penzoloni sulla gola infuocata degl’Inferi. Intorno a lui suonavano tamburi invisibili eppure ossessionanti.
Fauni e vecchie sporche danzavano privi di vergogna, offrendo la sua anima al loro Signore Lucifero che l’osservava torvo dal suo trono di teschi, con le zanne sbavanti e la coda che batteva nervosamente a terra, sollevando nuvolette di polvere d’osso.
«Ti avremo», gli promise il demonio, «questa è la mia grotta e Lui non potrà aiutarti!».
Il Pellegrino si svegliò che albeggiava appena, tutto sudato, con l’eco della voce di Satana nelle orecchie. Pregò e fece penitenza chiedendo a Cristo la forza per vincere le sue paure da povero mortale.
I giorni e le notti si susseguirono. Le stagioni si avvicendarono. Il Pellegrino riceveva ormai la visita di centinaia di persone che volevano vederlo e parlare a colui che, da solo, aveva vinto l’Alpe. Chi veniva a visitarlo, portandogli cibo e bevande, se ne tornava pieno di speranza e rinvigorito nello spirito.
Egli, però, era soprattutto il punto di riferimento dei pastori e dei contadini che vivevano alle pendici dell’Alpe. Il suo esempio ne aveva già convertiti molti; altrettanti già stavano avvicinandosi al Dio che dava a quel venerabile vecchio la forza di vivere solo in quel luogo inospitale, ammansendo le fiere e vincendo i rigori dell’inverno.
Durante la notte, la vallata ardeva ancora di inquietanti fuochi che svelavano riti proibiti e pagani. La grotta si riempiva sempre, all’imbrunire, dei lamenti dei dannati che Satana gli mandava per spaventarlo.
Nulla, però, fiaccava la resistenza dell’eremita né il poco sonno né i rigori del clima. Si ostinava a dormire nella grotta che il diavolo gli aveva vietato.
«Tu non puoi vietare nulla al servo di Dio!» tuonò una notte.
Nel fondo del suo inferno, il diavolo era sempre più rabbuiato.
Quel vecchio!
Quell’insignificante omuncolo gli stava resistendo. Osava dormire nella grotta che gli era stata consacrata in epoche remote, quando ancora gli uomini non lo chiamavano demonio e credevano fosse uno dei tanti dèi dell’Olimpo. Osava convertire la sua valle.
Per secoli gli abitanti di quel luogo avevano respinto il messaggio di Cristo, che era inaridito come le sementi gettate sulla pietra nella parabola del seminatore. Ora i cristiani erano sempre di più, mentre i suoi fuochi notturni diminuivano a vista d’occhio.
A onor del vero il demonio provò a tentare il Pellegrino in tutti i modi possibili. Inizialmente provò a blandirlo. Andava da lui nelle notti gelide d’inverno e nei momenti in cui i dolori dell’età gli minavano la volontà. Si mostrava come un altro pellegrino, col bordone e la bisaccia e gli proponeva di smetterla.
«Hai già fatto tanto per questa valle. Permettimi di sostituirti per un po’: un periodo di riposo non ti precluderà l’accesso al paradiso».
Tutte le volte, però, il Pellegrino lo riconosceva e lo scacciava: «Lungi da me Satana!».
L’unica cosa che consolava Lucifero di fronte a quei fallimenti era la consapevolezza che quell’uomo era sempre più vecchio e più curvo: alla sua morte, quella valle e la grotta sarebbero state di nuovo proprietà assolute del Signore delle Tenebre.
Così, quando il Pellegrino cadde malato ed era chiaro che la morte stava per ricongiungerlo col Padre, Satana rise nei più profondi meandri del suo inferno.
«Ci siamo! Prepariamo i festeggiamenti, quel cane sta per tirare le cuoia!».
Un urlo di rabbia e terrore, però, ricacciò in gola al diavolo la sua cinica felicità. Fu un ruggito di tale potenza che scosse gli inferi sino alle fondamenta e incrinò il coraggio anche dei demoni più potenti e vicini al suo trono.
Solo tre dannati trassero sollievo da quello sfogo dell’Arcangelo caduto: Giuda, Bruto e Cassio. I traditori di Dio e dell’Impero, condannati per i loro peccati a essere eternamente mangiati nelle gelide fauci del demonio, vennero sputati dall’urlo di Satana e, così, furono per alcuni attimi liberati dal tormento dei suoi denti fetidi sulle carni.
Perché Satana era così infuriato e spaventato?
Aveva visto al capezzale del vecchio un ragazzo talmente bello che l’aveva scambiato, all’inizio, per un angelo.
«Questo giovane completerà la mia opera» sentì dire al vecchio prima di spirare. «Hai fallito ancora!».
Allora Satana scatenò i suoi demoni nella notte. Uscirono da decine di grotte, come quella dove il Pellegrino aveva alloggiato, e invasero la vallata portando
con loro fiere e venti. Come ombre di disperazione mossero contro quella che un tempo era stata una caverna dedicata al loro signore.
Con un filo di voce il Pellegrino chiese a Bianco, così si chiamava il giovinetto, di portarlo a un vecchio faggio che sorgeva nella spianata vicino alla grotta.
Era un albero vecchissimo che aveva visto le ninfe di Pan abitare quei boschi prima che il Verbo dell’unico Dio giungesse a scacciarle. Il ragazzo prese sulle spalle il corpo ormai senza forze del vecchio e lo adagiò nella cavità immensa che il tempo aveva scavato nel suo tronco.
Centinaia di lupi e orsi dilagarono in quel luogo. Si scatenò una tempesta di fulmini e pioggia. Venti gelidi soffiarono tra le montagne e il loro lamento conteneva bestemmie e imprecazioni.
I fuochi dei sabba si accesero nella notte plumbea per l’ultima volta. Nessuno sa quanti malcapitati pastori si persero nelle tenebre, imboccando sentieri che li portarono in luoghi d’ombra che non sono di questa terra.
Per tre giorni sembrò che la fine del mondo fosse stata anticipata sulle pendici dell’Alpe.
I tentativi delle armate demoniache di violare il rifugio di Bianco e del Pellegrino, però, fallirono.
La grotta e il faggio erano protetti da schiere di angeli e, alla fine, il demonio
dovette cedere. I fuochi si spensero per sempre e il sole tornò.
Il diavolo era fuggito da quella valle per non farvi più ritorno, e le pitture rupestri che avevano insozzato il rifugio del Pellegrino scomparvero assieme alla creatura maligna che avevano celebrato.
Gilberto era estasiato.
«Una storia bellissima, anche se temo che stanotte sognerò orde di demoni e gole infuocate».
«L’hai voluto tu, ragazzo!» rise l’oste. «Sappi comunque che un’ultima prova aspettava quel sant’uomo prima di poter abbracciare la pace eterna. Il suo corpo era strato trovato all’interno del grosso faggio, custodito da una moltitudine di animali. Bianco lo stava vegliando, quando giunsero sul posto due coniugi di Montecreto, Pietro e Adelgarda, che comunicarono al mondo la morte del Pellegrino».
«Accorsero sul posto vescovi e popolazioni dalla Toscana e dall’Emilia» intervenne Anselmo. «Come sempre accade, gli uomini riescono a rovinare anche le cose più belle che Dio mette loro a disposizione: questi sciagurati riuscirono a litigare sul luogo dove collocare il corpo del santo. Per venire a capo della questione fu deciso di affidare la scelta al volere di Dio. La salma venne posta su di un carretto trainato da due torelli, e nel luogo dove si fermarono, fu costruita la chiesa».
F Il Sacro Volto
Roberto, Beatrice e Arturo risalirono con fatica la valle del Taro e giunsero a Berceto, sul valico della strada di Monte Bardone. Qui, Liutprando, Re dei Longobardi, aveva fondato tre secoli prima per intercessione di Moderanno, Vescovo di Rennes, un’abbazia benedettina che aveva lo scopo di presidiare questo strategico o appenninico. Di quel cenobio era rimasta solo una piccola pieve di architettura longobarda, dedicata proprio a San Moderanno. Proprio in quella chiesetta il terzetto si fermò a pregare.
«Guarda che bella!» disse Beatrice. Da quando aveva aperto il suo cuore ai suoi compagni di viaggio sembrava più rilassata e felice.
«Cosa?» chiese Arturo.
«Questa formella» rispose lei, indicando un riquadro raffigurante dei pavoni ai lati di una croce.
«Hai ragione! È proprio un incanto. Qualcuno sa chi era San Moderanno?».
«Io conobbi un uomo di queste parti in Terra Santa» intervenne Roberto. «Moderanno stava facendo pressappoco la nostra stessa strada, dalla Francia lungo la via dei pellegrini per portare a Roma le reliquie di San Remigio. Si fermò per riposare qui vicino e, per non farsele rubare, legò ad un albero le preziose reliquie. Dovendo poi rimettersi in cammino, Moderanno si accinse a
recuperare il sacro scrigno, ma questo continuava a salire sui rami dell’albero. Comprese che si trattava di un segno divino, così decise di rimanere a Berceto e di fondare una chiesa proprio nel punto in cui era avvenuto il miracolo.
Il nuovo monastero viene sottoposto per volere di Moderanno alla giurisdizione del monastero di Reims in Francia portando in Italia il culto di San Remigio».
Dopo aver pregato ed essersi rifocillati a base di zuppa in una locanda, proseguirono per il o della Cisa che superarono, dopo una dura salita, a metà di maggio. Mangiarono nell’ospizio di Santa Maria con zuppa ai funghi e puls con cinghiale e cervo. arono Pontremoli, Aulla, e giunsero a Colonnata, ricca di cave. Proprio un cavatore cui avevano chiesto informazioni per un alloggio, li invitò a casa sua: aveva un fratello pellegrino a Santiago de Compostela e quindi non avrebbe fatto mancare un tetto e il cibo a dei viandanti.
«Assaggiate questo, è il più buono dell’Appennino» disse dando loro lardo affettato.
«È fantastico, si scioglie in bocca» concordò Roberto.
«Come fate a farlo così?» chiese Beatrice a Bianca, la moglie del cavatore.
«Ricopriamo l’interno di una vasca scavata in un blocco di marmo, che noi chiamiamo conca, d’aglio e aromi. Riempiamo la conca a strati alternando il lardo al sale e agli aromi e infine la copriamo con una lastra di marmo. Il lardo rimane nella conca per un periodo che va dai sei ai dieci mesi per la stagionatura durante la quale vi si aggiungono vari aromi. Complicato, ma ne vale la pena...».
«È vero, è fragrante e delicato» disse Arturo.
La notte dormirono nella stalla di Bianca e sco. Ripartirono poi verso Lucca.
Quando potevano dormivano all’addiaccio, raccontandosi storie e contando le stelle: le brume padane erano un ricordo spiacevole e se le notti appenniniche erano ancora fredde, le mattine erano inondate da un piacevole sole. A Capezzano il tracciato della via Francigena sterzava verso sud-est, prendendo la deviazione lucchese dell’antica via Aurelia lungo il torrente Lucese. Entrarono così nella valle del Serchio, fermandosi, esausti, a Camaiore.
Superata San Pellegrino, Anselmo e Gilberto scesero in Garfagnana. Era una zona di montagne, coperte di foreste di castagni e di colline coltivate a olivo e vite. Nonostante fossero alla fine di maggio faceva ancora freddo e spesso furono sorpresi da temporali e costretti a rifugiarsi in cascine e pievi, inzuppati sino al midollo.
Erano provati nello spirito e nel fisico e fu un sollievo per loro giungere a Camaiore.
Alloggiarono nella badia benedettina di San Pietro dove fervevano i lavori per l’ampliamento e il restauro. Furono accolti con generosità dai monaci. Anselmo si intrattenne a lungo con l’abate e Gilberto si preoccupò di visitare lo scriptorium.
Dopo un paio di giorni di sosta salutarono i monaci di San Pietro e ripartirono alla volta di Lucca. Prima, però, Anselmo volle mostrare a Gilberto l’antica pieve di Camaiore, citata anche dal Vescovo anglosassone Sigerico nel suo itinerario. Si trovava non lontana dal tracciato principale della Francigena ed era dedicata a San Giovanni Battista e a Santo Stefano. Gilberto ammirò l’edificio.
«Vedi il fonte battesimale? È un sarcofago romano: un altro bell’esempio di come l’oggetto di un culto dei morti pagano sia diventato uno strumento della fede cristiana» gli disse Anselmo.
«Chissà se l’uomo sepolto in questo sarcofago sarebbe stato contento di vederlo profanato?» chiese il novizio che ormai stava capendo le ragioni del suo maestro.
«Credo di no, anche se forse questo nuovo utilizzo della sua tomba ha facilitato la salvezza della sua anima. Chi può dirlo?».
Ripartiti dalla pieve in direzione di Lucca, incontrarono tre strani pellegrini, fermi al lato della strada. Una donna piuttosto attraente, con capelli castani e naso affilato, dall’aspetto decisamente selvaggio, stava amorevolmente asciugando il sudore di una bella puledra maculata.
Accanto a lei parlottavano due uomini. Il primo era un vecchio nodoso e ingobbito che, però, mostrava una dignità e una forza impressionanti. Dalla cintola gli pendeva una strana spada corta e ricurva, dall’aspetto polveroso. Il secondo era un ragazzo molto robusto: anch’egli aveva spada corta, sebbene di foggia diversa dalla prima; uno spadone gli spuntava dal fodero dietro la schiena. Era decisamente un guerriero anche se non era in armatura.
«Chi saranno?» chiese Gilberto, un po’ incuriosito e un po’ preoccupato.
«Potremmo domandarlo direttamente a loro».
«Forse non è prudente…» Gilberto non finì la frase perché il suo maestro accelerò il o, accostandosi al cavaliere e alla sua dama.
«Pax vobiscum» disse il frate, rivolgendosi a tutti e tre: non aveva ancora capito chi era il capo.
«Et cum spiritum tuum» rispose il vecchio con la consueta formula di cortesia.
«Sono frate Anselmo dell’abbazia benedettina di Nonantola. Posso aver l’ardire di fare la vostra conoscenza?».
La ragazza gli dedicò uno sguardo fugace, e si irrigidì. Il giovane, invece, recitò la presentazione di rito.
«Sono Arturo di Glastonbury, mi sto recando in pellegrinaggio a Roma e in seguito spero di imbarcarmi per prestare servizio in Terra Santa».
«Io sono Beatrice. Vi prego di non chiedermi altro, padre».
«Non preoccuparti, figlia mia, quello che non puoi dire a un servo di Dio, nostro Signore comunque lo conosce».
«Sono Roberto, nobile normanno. Un tempo fui miles Christi, ora anelo solo ritornare al mio castello. Questi ragazzi stanno offrendo compagnia a un povero vecchio».
Gilberto raggiunse il terzetto e si presentò; decisero di viaggiare insieme sino a Lucca. Anselmo fece notare al suo discepolo che la ragazza aveva evidentemente qualcosa da nascondere ma che non era compito loro scoprirlo: lei e Arturo sembravano due bravi giovani.
«Il vecchio dev’essere stato un guerriero formidabile» disse Gilberto.
«Già. Ha mani e occhi da assassino».
Superato il o di Montemagno, discesero in Val di Serchio lungo il torrente Freddana. Poco dopo il valico, sulla strada per l’ospizio di Valle Prumaria, sostarono per la notte, rifocillandosi.
Il giorno dopo, il gruppo ripartì.
Roberto stava quasi sempre in sella a Morgen, raccontando a Gilberto storie di guerra in Terra Santa e parlando con Anselmo della complessa politica dell’Italia meridionale, dove la morte di Roberto il Guiscardo nel 1085 aveva portato gravi scompensi e rinvigorito l’autonomia dei baroni. Ruggero Borsa reggeva la
Puglia con mano debole, mentre sia i nobili sia le città sgusciavano con sempre più impertinenza dalle sue mani.
Quell’uomo anziano, un tempo, doveva essere stato il terrore dei suoi nemici: glielo si leggeva in faccia, nel fondo di quegli occhi azzurri e freddi come ghiaccio, che parlavano di battaglie e lame lorde di sangue. A volte Anselmo sentiva ribollire in sé, dopo anni, il demone guerriero che cercava ancora di impossessarsi di lui. Solo Cristo lo aiutava a mantenere la retta via.
Arturo e Beatrice, invece, si attardavano spesso per potersi abbracciare e baciare lontano dagli sguardi degli altri.
«Non disturbarli. Sono giovani e innamorati» disse il frate a Gilberto.
«Come volete» rispose lui dubbioso.
Entrarono a Lucca dal ponte di San Pietro sul Serchio e si fermarono nell’ospizio costruito lì accanto. Ancora una volta Anselmo stupì tutti chiedendo che lui e Gilberto dormissero assieme agli altri pellegrini, rifiutando con gentilezza l’ospitalità negli alloggi dei monaci.
Il suo discepolo, ormai, ci aveva fatto l’abitudine. Settimane ate al contatto con uomini e donne, dormendo spesso in promiscuità e sentendo imprecazioni e bestemmie gli avevano fatto capire che la vita che desiderava era quella nel monastero, accogliente e ordinata.
Rispettava, però, le motivazioni di Anselmo; capiva che quel viaggio gli avrebbe permesso di apprezzare ancora di più il dono che Dio gli aveva dato, quando i suoi genitori naturali lo avevano abbandonato nella ruota del cenobio reggiano.
Il giorno dopo andarono, tutti insieme, a pregare nelle chiese della città. Videro anche numerose fabbriche: i lucchesi stavano costruendo nuovi templi.
La visita al duomo fu molto toccante. La cattedrale era stata fondata dall’irlandese San Frediano ed era dedicata a San Martino di Tours. Era stata ricostruita una cinquantina di anni prima da Anselmo da Baggio, poco prima che diventasse Papa col nome di Alessandro II.
«Conoscete la storia di San Frediano?» chiese Anselmo ai suoi compagni di viaggio. Nessuno ne aveva notizia.
«Ve la riassumerò come posso, allora. Fridian giunse a Lucca nel VI secolo. Era figlio del Re celtico dell’Ulster e stava facendo un pellegrinaggio a Roma. Si fermò in un dormitorio sul Monte Pisano, da tempo meta di anacoreti scoti, e lì decise di are il resto della sua vita. Il Papa di allora, Giovanni II, saputo di questa scelta, della sua vita austera e delle sue opere, lo aveva nominato Vescovo di Lucca. Erano anni difficili e Fridian dovette misurarsi con gli ariani e le alluvioni. Dovette ricostruire la sua chiesa distrutta e deviò il corso del fiume Serchio, in modo che non inondasse più Lucca e la sua campagna. San Gregorio di Tours lo prese ad esempio per l’incoraggiamento dei fedeli. Due anni fa, Papa Pasquale ha preso a modello la regola dei Canonici Regolari di San Frediano per riformare la chiesa lateranense».
Anselmo li guidò al centro della navata dove una folla numerosa adorava un crocifisso di legno raffigurato con il colubium, un vestito di foggia orientale e con un’iconografia rara in Occidente.
«Questo è il Volto Santo. Si dice che il viso del Crocifisso non sia stato scolpito da mano umana. La statua, infatti, venne intagliata nel legno di cedro del Libano da Nicodemo, discepolo di Cristo. Questi, però, non se la sentì di scolpire il volto di Nostro Signore, temendo di non riuscire a renderlo correttamente. Una mattina, però, al risveglio trovò la scultura completata col volto di Cristo» disse Anselmo.
«Come giunse qui?» chiese Arturo, rapito dalla narrazione del frate.
«Si dice che molti anni più tardi il Vescovo Gualfredo, in pellegrinaggio nella Terra Santa, grazie a un sogno rivelatore, scoprì dove era stata celata la sacra scultura e tentò di farla giungere in Italia su una barca priva di equipaggio, affidando il Santo Volto alla guida divina. La piccola imbarcazione giunse presso il porto di Luni, e soltanto il Vescovo di Lucca riuscì a salirvi, recuperando la sacra immagine. Per decidere a quale delle due città spettasse la proprietà della scultura lignea, come proposto dal Vescovo, fu affidata la decisione ancora una volta alla volontà divina. La Croce fu posta su un carro trainato da buoi lasciati liberi: se si fossero diretti verso Lucca, la scultura lignea sarebbe stata della città dalle possenti mura, in caso contrario ne sarebbero entrati in possesso i lunesi. E fu così che l’immagine venne portata, con giubilo della città, presso la chiesa di San Frediano. La mattina successiva, però, il Volto Santo era scomparso dalla chiesa e venne ritrovato nella cattedrale dove ora viene venerato».
«Pensate che sia andata veramente così, padre?» chiese Roberto farfugliando.
«È una bella leggenda ma penso siano stati i mercanti orientali a portare qui il Volto Santo. Credo, però, che sia stato davvero Nostro Signore a scolpirlo, forse di persona o forse guidando proprio la mano incerta di Nicodemo».
F Il principe normanno
La sera, dopo aver mangiato con gli altri nella sala comune dell’ospitale, Anselmo uscì all’aria fresca della primavera toscana, lasciandosi penetrare dalla sua fragranza. Poteva sentire i richiami cittadini delle ronde, in lontananza, oltre la porta di San Donato. Immaginò coloro che facevano la spola tra una taverna e l’altra, sfidando il buio.
«Posso disturbarvi, padre?».
La voce catarrosa di Roberto ruppe il silenzio della notte.
«Ditemi pure».
«Non sono stato del tutto sincero con voi: il mio viaggio non è un semplice pellegrinaggio. Ve ne parlo perché mi sembrate un uomo pieno di sapienza».
Anselmo era incuriosito.
«Di cosa si tratta?».
«Nonostante abbia combattuto per Lui, il Signore non ha ritenuto di benedirmi
con un erede. Ora sono vecchio e malato: alla mia morte la mia terra verrà straziata dalle lotte tra quegli avvoltoi dei miei vicini. Quei figli di un cane non vedono l’ora che io schiatti».
«Mi spiace».
«Non angustiatevi per me. Quattro mesi fa ho fatto un sogno: San Michele mi ha ordinato di viaggiare solo verso nord, dove avrei trovato il mio erede. Mi avrebbe dato un segno e io avrei capito. Ormai ho perso ogni speranza: forse i miei peccati sono troppo gravi e il santo ha voluto punirmi».
«Comincio a capire…».
«Quei due ragazzi mi hanno accudito, protetto e dato un po’ di gioia. Ho combattuto per tutta la mia vita, predato, ucciso e violentato. Giustamente Dio mi punisce per il massacro di al-Aqsa: vorrei essermi comportato diversamente ma la guerra è un’amante molto esigente quando vieni travolto dalla sua ione insana...».
«So cosa vuol dire combattere, sono stato uomo d’arme per la Comitissa Matilde, prima che il Signore decidesse di salvare la mia anima» tagliò corto Anselmo.
«Avevo sospettato qualcosa, non avete lo sguardo semplice del vostro novicius».
«Beati i poveri di spirito dicono le Scritture perché loro è il regno dei Cieli».
«Anch’io vorrei essere così, un’anima semplice come Gilberto...».
«O come Arturo».
«Esatto. Quel ragazzo è un puro, un cavaliere come se ne trovano solo nei canti dei menestrelli. Prego Dio che lo mantenga così, e che quella scaltra ragazza gli stia sempre a fianco. In queste poche settimane sono stato veramente felice con loro, si sono occupati di me senza chiedere nulla in cambio…».
«Vorreste fare di loro i vostri eredi».
«Esatto».
«Qualcosa, però, vi trattiene».
«San Michele ha parlato di un segno: ancora non è arrivato».
«Forse il segno che aspettavate sono proprio i giorni felici che avete ato. Le premonizioni non vanno prese alla lettera».
«Questa sì. Era molto precisa».
«Spiegatevi meglio».
Con un’agilità insospettabile il vecchio sfoderò da sotto la tunica la spada corta leggermente ricurva, che brillava di luce propria. Ora che la poteva osservare da vicino, Anselmo restò sbalordito.
«Una máchaira bizantina!».
«No. Questa non è una máchaira bizantina. È greca».
«Non vedo la differenza…».
«Questo tipo di spada era impugnata dai famosi opliti greci, nei tempi che furono. La chiamavano anche kópis. Secondo ciò che mi è stato detto, però, questa sarebbe ancora più antica…».
«Non mi state prendendo in giro, normanno?».
«Provate a impugnarla».
«Non brandisco spade. Non più almeno, ora la mia unica arma è la fede».
«Risparmiate i vostri sermoni per qualcun altro! Provate ad afferrarla».
Il tono del normanno non ammetteva repliche.
Anselmo, titubante strinse la mano intorno all’antica impugnatura. Ora che l’aveva in mano, notava perfettamente che l’arma, seppur preziosissima, aveva subito l’usura del tempo.
La posò con stizza pochi attimi dopo.
«Cosa avete provato?».
«Nulla. Non mi piaceva tenerla in mano, tutto qui».
«Non perché siete un frate».
«No, questa spada è sbagliata» ammise Anselmo.
«Se volete, vi racconterò la vera storia di questa lama. È fondamentale per ciò che voglio chiedervi. Evitiamo però che qualcuno ci ascolti».
Si appartarono in un cortile interno, lontani da occhi indiscreti. Il normanno si guardava nervosamente intorno accarezzando quella strana arma come un talismano. Poi, cominciò.
«La conquista di Nicea era stata dura ma ce l’avevamo fatta. Quei maledetti infedeli hanno una tenacia e una forza d’animo che va ammirata: non cedono finché non li hai accoppati tutti. Inoltre hanno un nuovo arco composito che può abbattere persino un cavaliere in armatura: io stesso ho visto uno dei miei accasciarsi trafitto al petto. Dopo aver riconsegnato la città all’Imperatore d’Oriente, iniziammo ad aiutare i bizantini a recuperare molte città e fortezze. Ciò che voglio raccontarvi mi è successo mentre, con una decina di compagni, pattugliavamo una zona nei pressi della costa. Faceva un caldo d’inferno, sembrava che il demonio dovesse apparire da un momento all’altro per dirti che eri bello che schiattato e che eri finito a casa sua…».
F Il guerriero fantasma
Come un Miles Christi ebbe salva la vita grazie all’aiuto di un guerriero d’altri tempi, risparmiandosi così una morte disonorevole.
Roberto cavalcava alla testa dei suoi uomini. La cotta di maglia bruciava nel sole anatolico, i cavalli sbuffavano nervosi. Era stato loro segnalato che un gruppo della guerriglia selgiuchide infestava le alture che dominavano quel braccio di mare tra Egeo e Mar di Marmara. La situazione politica in Anatolia era piuttosto complessa e, man mano che vi si inoltravano, Roberto capiva molti dei problemi e delle contraddizioni che affliggevano l’Impero d’Oriente: grandioso e frammentato, ricchissimo e costantemente a rischio di catastrofe.
A un tratto una vedetta tornò affermando di aver visto qualcosa di sospetto in un piccolo avallamento oltre una curva del sentiero. Era del posto, un uomo del governatore bizantino. Ruggiero e i suoi lo seguirono con fiducia.
Si trovarono in uno stretto aggio, circondato da montagne ricoperte da una fitta vegetazione: il luogo ideale per un’imboscata. Il cavaliere normanno scrutava intorno a sé con attenzione, imitato dai suoi compagni.
L’attacco fu lanciato con tale velocità che quasi nessuno se ne accorse. Decine di frecce piovvero sui latini, precipitando i cavalieri cristiani in una bolgia di polvere, urla e nitriti: colpiti dai dardi, i cavalli impazzirono e si misero a correre da tutte le parti.
Il purosangue spagnolo di Roberto fu centrato al collo, nell’unico punto in cui le bardature non lo coprivano, e iniziò a correre giù per una scarpata, cadendo e spezzandosi una gamba. Il normanno fu disarcionato vicino a un cespuglio: stramazzò pesantemente, rotolando sulla terra indurita dal sole, con la cotta di maglia che gli penetrava la pelle ferendolo in più punti. Il buio lo avvolse.
Quando si riprese impiegò alcuni momenti per capire dove si trovava. Lo spadone si era spezzato nella caduta e aveva perso anche l’elmo. Il silenzio avvolgeva le propaggini occidentali dell’Altopiano Anatolico. Aveva un’emicrania pazzesca e dolori a tutto il corpo.
«Quella maledetta guida! Se gli metto le mani addosso lo scortico vivo! Anche il governatore greco dovrà fare i conti con Boemondo d’Altavilla, quando gli racconterò quello che è successo».
Visto che salire per la scarpata era troppo faticoso, Roberto tentò di arrivare al mare che vedeva a valle, oltre la vegetazione. Avrebbe cercato un villaggio e poi un cavallo che lo portasse al campo latino.
Impiegò un paio d’ore e giunse sulla costa verso le due del pomeriggio. Il caldo, ormai, era insostenibile. Aveva dovuto abbandonare l’armatura nella sua discesa e ora era disarmato e senza protezione.
Finalmente intravide un villaggio in un tratto collinoso posto tra due grossi corsi d’acqua. Mentre superava l’ultima collina ormai a un o dalla meta, si trovò davanti due saraceni. Se un tempo erano stati soldati selgiuchidi ora erano sbandati, poco più che briganti. Vestiti con una tunica e il tradizionale copricapo turco, brandivano ciascuno una scimitarra e avevano un aspetto piuttosto
trasandato.
In condizioni normali il normanno non avrebbe avuto problemi con quella feccia, lui che aveva vinto i migliori cavalieri del sultano a Nicea. Purtroppo, però, era ferito e disarmato. Il villaggio era ancora troppo lontano per cercarvi rifugio e poi, ormai, diffidava degli abitanti del posto. Anni di conflitti trasformano gli uomini in fiere pronte a tutto per la sopravvivenza. La guerra uccide la misericordia e trasforma tutti in nemici. I latini non erano certo meno odiati dai contadini dei turchi o dello stesso Alessio Comneno.
Si fece il segno della croce e si preparò a vendere cara la pelle.
I due gli furono addosso con goffaggine e lui li stordì lanciando loro terra negli occhi. Corse quindi giù per la collina, cercando di raccogliere quante più pietre gli fosse possibile. Per sua fortuna la zona ne era piena. Colpì un saraceno all’occhio destro, spappolandoglielo.
A un tratto mani robuste lo presero da dietro e un terzo saraceno uscì da un cespuglio gridando qualcosa in una lingua incomprensibile. Gli furono addosso in due, quello senza un occhio e quello che lo aveva bloccato. Il terzo lo colpì al ventre con la scimitarra, dalla ferita uscì un fiotto di sangue.
Lo legarono al tronco di un olivo e iniziarono a picchiarlo. Non gli chiedevano nulla né provavano a parlare con lui. Lo colpivano con calci e pugni. Uno lo centrò in volto: Roberto sentì la bocca calda di sangue e il naso esplodere in un apoteosi di dolore.
Era finita. Lo sapeva. Si rammaricava solo di non essere morto in battaglia, sotto
le mura di Nicea. Lì ci sarebbero stati onori e pianti; su quella collina infame, invece, il suo cadavere sarebbe stato lasciato ai corvi. Un turco lo colpì ai testicoli, sentì l’inguine indurirsi e un dolore strisciante risalire il corpo.
«Allora, infedele, ora capisci che era meglio per te startene a casa tua in Francia?» disse finalmente uno dei turchi, in un greco stentato.
Roberto non capiva perfettamente il greco ma colse il senso della frase. In latino, scandendo bene le parole, disse: «Sono qui per fare la volontà di Dio. Se per questo devo morire, così sia!».
Il saraceno a cui aveva cavato l’occhio brandì la scimitarra per finirlo, mentre ormai il sangue sgorgava copioso dalle ferite.
Il normanno pregò Iddio di accogliere la sua anima. Pensò alla Puglia, al suo mare e alle sue donne stupende.
Accadde tutto in un istante. Vide il cielo oscurarsi per un momento e sentì i turchi urlare di sgomento e paura. Con la vista appannata dalle lacrime e dal sangue intravide la figura di un guerriero. Era protetto da un elmo dal cimiero dorato, da una sfolgorante armatura di bronzo e da gambali lucenti.
La cosa che più lo colpì, però, era il suo scudo di bronzo. Era tondo, con un triplice bordo e un balteo d’argento. Era diviso in cinque fasce decorate da molti disegni a rilievo, raffiguranti astri, città, dèi, uomini e battaglie.
Il guerriero piombò silenzioso e implacabile sulla masnada che l’aveva attaccato, nel pugno una spada ricurva, più simile a un coltellaccio affilato che a un’arma moderna.
Quello senza l’occhio fu decapitato, gli altri sgozzati come animali sull’altare di un tempio pagano. Roberto poteva percepire la sete di sangue del guerriero; sentiva l’odio silenzioso che provava per uomini vigliacchi e marrani.
Terminata la mattanza, l’eroe, perché era così che Roberto si immaginava un paladino da poema, lo guardò per pochi istanti attraverso la celata dell’elmo.
Lo sguardo che si scambiarono fu più chiaro di mille parole.
Qui sono morti centinaia di uomini valorosi in un’epoca che fu, prima che il tuo Dio scacciasse i miei dal loro trono. Non posso permettere che un pugno di briganti violi la sacralità di questo luogo.
«Grazie» mormorò Roberto, ma il guerriero era già scomparso mentre il sole tornava a brillare nel cielo.
Le corde con cui l’avevano legato erano state tagliate.
Restò sdraiato, sanguinante e dolorante per un tempo indefinibile. Aveva sete ma non riusciva a muoversi. Gli uccelli calavano sui cadaveri dei suoi aggressori per pasteggiare. Il normanno sapeva che presto avrebbero mangiato anche la sua carogna.
«Non so per quanto tempo restai da solo sotto il sole. Per fortuna una pattuglia di salvataggio, inviata dal governatore bizantino, mi trovò al calar della sera. Quando mi fui ripreso, nel campo latino mi dissero che mi avevano trovato con questa spada nel pugno. La stessa che avevo visto brandire al guerriero».
«Pur sforzandomi, fatico a credervi…».
«Lo so e non vi biasimo. Scoprii in seguito che la zona dove mi trovavo, secondo alcune tradizioni locali, ospitava Troia, la mitica città da cui i Romani discendevano. Credo che quei disgraziati abbiano risvegliato lo spirito di uno degli eroi che combatté sotto le sue mura e che lui, adirato per la loro codardia, mi abbia aiutato».
«Un arma del genere può solo essere da parata».
«Anch’io lo penso, ma con questa ho ucciso centinaia di saraceni e, inoltre, quando mi feriscono, le piaghe si rimarginano più velocemente se ho con me la spada. Forse è solo autosuggestione…».
«Io terrei per voi queste rivelazioni. Non so se credervi ma qualcun altro potrebbe accusarvi di paganesimo. Venerate quella spada come fosse una divinità».
«Avete ragione, padre, e invoco perdono. Resta il fatto, però, che solo io riesco a impugnarla. Gli altri la trovano strana e poco dopo la posano, come avete fatto voi».
«Probabilmente è solo suggestione per la vostra storia».
«Voi avete ascoltato la storia dopo aver provato disagio impugnando quest’arma».
«Io provo disagio con qualsiasi arma in mano».
«Questa, però, vi ha dato una sensazione peggiore».
«Il segno che vi ha promesso l’Arcangelo Michele riguarda quest’arma?» chiese Anselmo per cambiare discorso: quella discussione stava sconfinando nell’eresia.
«Sì. Egli mi ha detto che il mio erede sarà in grado di impugnare la spada e combattere senza problemi».
«Avete provato a farla brandire dal ragazzo?».
«Sì, ma è cocciuto. Dice che ha il suo gladio e che non vuole provare un’altra arma. È molto superstizioso, sembra quasi tema la gelosia della sua».
«Ovviamente non potete spiegargli i vostri motivi, altrimenti potrebbe barare».
«Esatto» rispose Roberto sconsolato.
«Forse ho un’idea».
«Quale?».
«Domattina vedrete».
F Molte rivelazioni
La voce di Beatrice, appena un sussurro, fece sobbalzare Anselmo. Da quando l’aveva incontrata, quella ragazza era stata un enigma, per lui. Elegante e selvaggia, strafottente e spaventata, gli era sfuggita ogni volta che gli pareva di averla capita.
«Dimmi pure, figliola. Anch’io avevo bisogno di te: mi hai anticipato».
«Ho deciso di confidarmi con voi perché non mi sembrate il tipico frate tutto salmi e pregiudizi… spero di non pentirmene».
«Parla con tranquillità. So tenere un segreto».
Si trovavano nello stesso punto dove poco tempo prima Anselmo aveva parlato con Roberto. Le ronde della città continuavano a chiamarsi tra loro in una sorta di irrequieta rappresentazione teatrale.
«Ho commesso un peccato gravissimo e per questo brucerò all’inferno» disse lei guardandolo con occhi enormi.
«Cosa puoi aver fatto di così grave?».
Lei gli raccontò la propria storia e spiegò come era riuscita a fuggire. Non aveva più osato chiedere notizie dei suoi cari.
«Ho ucciso un uomo, e per viltà ho pensato solo a scappare, senza preoccuparmi di nessun altro».
Anselmo mise un braccio intorno al collo di quella strana ragazza e la strinse a sé.
«Il peccatore è colui che ha trucidato donne e bambini. Tu ti sei solo difesa, non hai fatto nulla di male» le disse con dolcezza.
«Ma Cristala e Adelaide…».
«Non devi biasimarti: hai avuto paura, anche Pietro ne ha avuta durante la ione di Nostro Signore. Se fossi tornata al castello ti avrebbero uccisa».
«Mi sono messa a raccontare storie ai pellegrini in cambio di un tozzo di pane e di un po’ di compagnia, cercando di andare verso sud. Purtroppo, non tutti quelli che incontravo erano ben intenzionati e si accontentavano di una storia: per mangiare a volte ho dovuto offrire un altro tipo di intrattenimento, non solo le mie novelle» proseguì lei come se non l’avesse udito.
«Poi hai incontrato il nostro Arturo» disse Anselmo, deciso a non approfondire.
«E mi sono innamorata di lui».
«Cosa gli hai raccontato?»
«Tutto sull’assedio e la fuga. Voleva da solo riconquistare il castello e vendicarmi…».
«Sarebbe capace di farlo, è coraggioso».
«Incosciente, direi. Alle volte è ingenuo come un bambino, però è la persona più buona e pura che abbia mai incontrato».
«Potreste sposarvi: anche lui ti ama, me ne sono accorto».
«Anch’io lo so ma egli non me lo chiederà mai. È uno spiantato e finirà a fare il mercenario in Terra Santa o dove lo porterà il destino. Lui non vuole condannarmi a quella vita».
«Tu, però, lo seguiresti ovunque».
«Certo! Nemmeno io sono la figlia del basileus di Costantinopoli, eppure lui è così cocciuto e idealista. Piuttosto che farmi fare una vita di stenti mi farebbe entrare in un convento!» proruppe lei, poi, accortasi della svista, aggiunse:
«Scusatemi, padre, non ho nulla contro i conventi…».
«Non scusarti e, soprattutto, non mentire» la rimproverò lui con dolcezza. «Hai parecchie cose contro i conventi. Comunque non ti preoccupare: credo che solo chi ha veramente la vocazione per farlo debba prendere i voti. Come dico sempre, meglio un buon cristiano fuori da un monastero che un pessimo monaco dentro».
Beatrice pianse e il frate la strinse ancora più saldamente, carezzandole la chioma castana.
«Ho avuto un’idea che potrebbe risolvere i vostri problemi e quelli di Roberto di Puglia» disse Anselmo. «Ora ti spiego cosa faremo».
La mattina successiva, lasciarono Lucca, ando per il villaggio di Forcri dove Sigerico aveva riposato, forse ospite dei signori di quelle terre, mentre ava per la via che, in quella zona, era chiamata Romea.
Come al solito, Roberto montava Morgen e chiacchierava con Anselmo. Beatrice e Arturo camminavano leggermente più indietro mentre Gilberto, secondo le istruzioni del suo maestro, li precedeva di parecchio.
Beatrice si avvicinò al vecchio e al frate col volto illuminato da un sorriso mozzafiato.
Né l’età né il chiostro avevano potuto fiaccare l’innata destrezza che anni di
battaglie avevano temprato; il gesto con cui estrasse la spada di Arturo dal fodero nella sella di Morgen, comunque, stupì lo stesso frate: Dio, evidentemente, approvava il suo piano.
«Cosa fate?» gridò Roberto dalla sella, tentando di bloccare la mano di Anselmo.
Il frate, però, era più giovane e ancora veloce e si allontanò dal vecchio senza difficoltà.
«Meretrice! Ora avrai ciò che ti meriti!».
Anselmo si volse verso Beatrice brandendo il gladio, gli occhi iniettati di sangue.
La ragazza si mise a correre urlando ma inciampò terrorizzata. Il frate le fu sopra e le premette la punta consumata sul collo morbido.
«Ora verrai punita per i tuoi peccati» tuonò Anselmo, il viso distorto dalla pazzia, mentre alzava il gladio per sgozzarla.
Gilberto, richiamato dai rumori, coprì la distanza che lo separava dai suoi compagni, con tutta la velocità che la sua disgraziata gamba gli concedeva. Giunse appena in tempo per vedere Anselmo immobilizzare la ragazza e prepararsi a tagliarle la gola. Vide Roberto di Puglia spronare inutilmente Morgen che, come impazzita, si imbizzarriva e recalcitrava.
Arturo fu il più lesto. Estrasse la máchaira dal fodero che Roberto teneva molto lento alla cintura, quasi disarcionandolo nella furia del momento, e piombò su Anselmo. Questi, però, non era un monaco inerme, ma un guerriero, sebbene arrugginito dall’inattività. La máchaira e il gladio cozzarono violentemente, rompendo il silenzio della radura. Alla fine, l’ira del britannico ebbe la meglio e Anselmo finì disarmato, in ginocchio. Arturo gli piantò la punta rovinata della máchaira sul pomo di Adamo, preparandosi a finirlo.
«No!». Beatrice, che si era rialzata, fermò la mano del giovane.
«Ma voleva ucciderti!».
«Ti sbagli» lo corresse lei.
«Come sarebbe?».
«Beatrice ha ragione» lo interruppe Roberto con quella voce catarrosa ma perentoria. Poi, con un sogghigno sdentato aggiunse: «Ho inteso tutto: vi avevo sottovalutato, frate».
Il normanno proruppe in una risata.
«Non capisco…» Arturo era confuso.
«Ora ti spiegherò ogni cosa» disse lei, abbracciandolo materna.
«Lascia parlare me, mia cara» la interruppe il normanno, scendendo da cavallo.
«Come desiderate».
Roberto raccontò del suo sogno e del suo viaggio cosicché tutti potessero comprendere cos’era accaduto.
«Miei cari compagni, la mia ricerca è compiuta. Per settimane, Arturo di Britannia, tu e questa giovane mi avete aiutato senza chiedermi nulla e senza sapere cosa cercassi. Secondo la profezia era necessario che il mio erede fosse in grado di impugnare la mia spada. Tu, però, ti rifiutavi di farlo e non potevo spiegarti il motivo della mia richiesta» disse Roberto avvicinandosi a lui e abbracciandolo.
«Roberto non sapeva nulla del mio piano: voi avevate un problema e io ho provato a risolverlo» precisò Anselmo.
«Avrei potuto uccidervi, padre».
«Non credo, se non mi fossi fatto disarmare io, tu non ci saresti riuscito» sorrise lui, l’altro gli scoccò uno sguardo offeso, poi Beatrice gli strinse le mani e il giovane si rilassò.
«Allora, ragazzo, vuoi seguirmi nel mio piccolo castello in Puglia e diventare signore di una bella spiaggia, un piccolo borgo e un po’ di terra brulla?» tagliò
corto Roberto.
«Mi fate un grande onore e sono pronto a difendere la vostra casa come se fosse la mia. Come farete a convincere tutti che sono l’erede mandato a voi dalla Provvidenza?».
«Dirò la verità. La profezia si è avverata».
«Vi chiedo, allora, padre di poter portare con me questa ragazza per prenderla in moglie, una volta giunti nella vostra casa. Non ha dote ma sarà per noi un sostegno prezioso: è intelligente e saggia… credo che sarà molto più adatta lei di me a governare».
«Hai ragione: noi siamo guerrieri, la politica è per le donne. Le donne italiche, poi, sono nate per questo, e non crediate che il mio sia un complimento! Inoltre, è una gran bella figliola: se non te la sposi tu lo faccio io!» aggiunse con espressione malandrina.
Gilberto vide per la prima volta Beatrice commuoversi.
«Vi chiedo solo, figli miei, di prendere da Pisa la prima nave per Napoli. Da lì ci recheremo il più velocemente possibile in Puglia. Quando tre mesi fa sono partito la situazione era molto complessa. Non vorrei trovare i miei vicini che già banchettano nella mia dimora!».
«Io non posso partire subito, devo pregare per il figlio di un pellegrino che ho
incontrato a Grenant: gliel’ho promesso in punto di morte».
«Lo farò per te, ora devi andare» disse Anselmo.
«Un’ultima cosa...» rispose Arturo.
«Dimmi». Anselmo era esasperato dai tentennamenti del ragazzo.
«Avevo giurato che avrei consacrato il mio gladio alla difesa del Tempio. Non mi è possibile a questo punto tener fede al mio voto. Vi chiedo, quindi, padre di portare quest’arma, che per generazioni è stata della mia famiglia, sulla tomba dell’Apostolo Pietro come simbolo di mia grande devozione».
«Sono sicuro che questo gesto ti scioglierà dal voto, ragazzo. Ora vai: hai un regno da conquistare».
Anselmo e Gilberto proseguirono verso Roma mentre i loro tre compagni corsero in direzione del porto pisano più in fretta possibile. Osservando l’impugnatura del gladio sporgere dalla sella di Candido, l’anziano frate era percorso da fremiti, immagini di battaglie emergevano dalla sua memoria: «Signore, aiutami a non perdere la retta via».
E così, pregava intensamente.
F La richiesta di un vecchio amico
Il martello batteva ripetutamente sulla grezza superficie d’acciaio e scintille cremisi inondavano l’aria tutto intorno. La luce fatata della fucina danzava seguendo la musica della forgiatura. Ludovico era l’officiante di quell’antico rituale in cui il metallo, grazie al fuoco, prendeva forma dalla volontà dell’uomo: afferrò la falce che stava ribattendo con le pinze e la immerse nell’acqua. Una nube di vapore si alzò dal bacile diffondendosi nella stanza.
Appoggiata la lama nuovamente sull’incudine, il fabbro si liberò degli attrezzi. Fece due i indietro, si sedette sul piccolo panchetto che teneva accanto al fuoco e si deterse col dorso della mano le piccole gocce di sudore che gli imperlavano la fronte.
Nonostante fe quel mestiere da lungo tempo, sentiva le braccia pesanti per il lungo battere come la prima volta. Per lui era una sensazione piacevole, che gli permetteva di percepire la forza dentro di sé.
Il brontolio del proprio stomaco lo strappò ai suoi pensieri. Dalla forgia era impossibile sapere ciò che sua moglie Anna gli aveva cucinato, ogni profumo e suono del mondo esterno in quel luogo erano niente. La fucina aveva una vita propria, con aria, rumori e odori tutti talmente intensi da non poter essere sopraffatti. Ludovico si alzò e dopo una decina di scalini si ritrovò sulla soglia della cucina.
«Quante volte ti ho detto di non entrare qui con quello addosso?» disse la donna prima ancora di girarsi a guardarlo.
«Ma come fai?» domandò Ludovico alla moglie convinto di non aver fatto il minimo rumore.
«Il tuo odore» disse lei.
Anna adorava suo marito. Alto, dagli scuri capelli raccolti in una lunga treccia, i vestiti leggeri di cotone verde sempre coperti dal grembiule di cuoio, rovinato dai lapilli della fucina. Amava abbracciarlo. Emanava un calore quasi sovrannaturale e l’odore di carbone e metallo che impregnava il suo corpo lo faceva apparire simile a Vulcano.
«Cosa mi hai preparato di buono?».
«Niente, se non ti togli quel grembiulaccio» rispose.
Ludovico si tolse lo zinale e lo lasciò cadere su una sedia al lato del tavolo.
Anna era tornata alle sue faccende. Quando Ludovico le si avvicinò annusando l’aria per cogliere i profumi delle cibarie, stava mescolando un denso sugo nel quale galleggiavano grossi pezzi di carne.
Ancora una volta lo stomaco del fabbro fece sentire la sua presenza. La donna, impietosita dai quei borbottii, anticipò una cucchiaiata della cena al marito affamato, che ingurgitò il pezzo di carne con rara avidità.
«Buonissimo!» esclamò appoggiandosi alla parete.
Ludovico si stava godendo il retrogusto lasciato dalle spezie quando qualcuno, con colpi decisi, bussò alla sua porta. Il fabbro guardò la moglie con fare interrogativo e andò ad aprire l’uscio: si trovò davanti un uomo dagli occhi incavati, avvolto in uno spesso mantello di lana.
«Siete voi Mastro Ludovico, fabbro di San Miniato?».
«Sono io».
«Allora il mio viaggio non è stato inutile. Questa è per voi».
Ludovico afferrò la lettera che l’uomo gli porgeva. La grossa «G» impressa nella ceralacca nera portò subito alla sua mente vecchi ricordi.
«Accomodatevi nella mia umile dimora. Riscaldatevi presso il fuoco e se volete lasciate che vi offra un po’ di ristoro».
«Vi ringrazio».
L’uomo entrò in casa. Ludovico gli prese il mantello e lo portò in cucina dove la moglie, intenta ad apparecchiare la tavola, aggiunse un piatto per il nuovo
venuto.
Ludovico aprì la lettera rompendo lo spesso sigillo. Lesse in breve il contenuto di quella missiva mentre il suo volto si faceva triste e il cuore gli batteva forte in petto. Il giorno in cui avrebbe dovuto mantenere la sua promessa era dunque arrivato.
I tre mangiarono in silenzio lo stufato che la donna aveva preparato con tanto amore. Ludovico ne assaporò ogni boccone poiché non sapeva quando e se avrebbe potuto gustare di nuovo quei sapori.
«Veramente ottimo signora. Mi sento rinvigorito e pronto per un nuovo viaggio» disse l’uomo.
«Ne sono contenta» affermò Anna sorridendo, mentre lanciava uno sguardo al marito completamente rapito dai suoi pensieri.
«Sarà meglio che io vada, ora. Vi ringrazio per l’ospitalità che mi avete offerto. Mastro Ludovico, la sua risposta in merito alla missiva?».
Il fabbro guardò la moglie e poi la lettera.
«Dite pure al vostro Signore che manterrò fede al mio impegno e mi presenterò nel luogo da lui indicato».
Il soldato fece un cenno di assenso col capo e, dopo un ultimo saluto, lasciò la casa dileguandosi nella notte.
Ludovico si fermò sulla soglia per alcuni istanti. La fresca brezza lo avvolgeva insinuandosi attraverso le larghe trame del cotone. Sollevò lo sguardo verso il cielo limpido e stellato, uguale a quello sotto cui aveva pronunciato quella promessa. Da allora, la sua vita era cambiata. Lui era cambiato.
La sua fucina, quando ancora era conosciuto come Ludovico l’armaiolo, era la più rinomata della zona: suoi clienti erano nobili e cavalieri. Aveva appena consegnato una spada, un’arma dalla lama lunga adatta al combattimento a cavallo. L’uomo che l’aveva ordinata aveva pagato in contanti e subito. Il suo volto, solcato da una saettante cicatrice, era ben impresso nella sua mente. Come ben impresso era il suo ghigno soddisfatto e carico di disprezzo quando la lama aveva tranciato di netto il braccio al suo scudiero e l’aveva lasciato agonizzante al suolo, per puro divertimento. Il martello di Ludovico aveva sfondato il cranio di quel bastardo e se non fosse stato per l’amicizia che Guidotti provava per lui ora sarebbe morto insieme a loro. Invece il buon signore lo aveva salvato e protetto. Poi, come spesso accade, la gente dimentica. Ludovico si era trasferito nella borgata di San Miniato promettendo a se stesso di non fabbricare mai più armi e di dedicarsi solo alla forgiatura di strumenti utili all’uomo e alla vita quotidiana. Si era sposato con Anna vivendo giorni sereni nella tranquillità di quei luoghi. Eppure sapeva che la promessa fatta a Guidotti prima di partire lo legava ancora alla sua vita ata.
«Ludovico ti ho salvato e protetto da coloro che volevano la tua testa. So che hai promesso a te stesso di non fabbricare più spade ma ti chiedo ugualmente per ciò che ci lega di infrangere questo tuo giuramento per me soltanto».
«Per voi mio Signore sono pronto a infrangere il mio voto».
«Arriverà un giorno in cui ti chiederò di raggiungermi. So che quel giorno arriverà perché i sogni mandati dal Signore Dio nostro me ne hanno rivelato il segreto. Quel giorno partirai dal luogo in cui vivrai e giungerai a me come l’uomo che un tempo eri: Ludovico l’armaiolo».
«Infine quel giorno è arrivato» sospirò Ludovico, stringendo forte nel palmo della mano la missiva inviatagli da Guidotti da Chiusdino.
«Che fai lì fuori?».
Ludovico si girò verso la porta a guardare Anna. La sua casa, come tutti gli altri edifici costruiti all’interno delle mura del borgo fortificato, era sovrastata dall’alta e scura torre del castello voluto da Ottone I per ospitare i suoi vicari.
La donna gli si accostò rimanendo incantata a osservare il brillante manto notturno e lui cercò la mano della moglie stringendola nella sua con dolcezza.
«Anna, devo partire».
«Avevo capito che c’era qualcosa che non andava. Sei stato taciturno e assente per tutta la serata».
Lei si girò per abbracciare il marito.
«Ti ricordi della promessa di cui ti ho parlato? Quella che ho fatto prima di
arrivare qui, prima di incontrarti?».
«Sì» rispose Anna con tono preoccupato.
«Ebbene, è giunta l’ora che io la mantenga».
Anna stette per un attimo in silenzio, poi abbassò il capo e annuì.
«Capisco, eppure vorrei che tu rimanessi qui con me».
«Fra quattro mesi da domani tornerò. Forse non sarò più l’uomo che sono ora ma di certo il mio amore per te non sbiadirà» disse Ludovico stringendo la donna al petto.
«Ci sono casse colme di chiodi e di attrezzi già pronti solo da vendere. Dovrebbero bastarti per il tempo in cui starò via».
«Me la caverò non ti preoccupare, l’importante è che tu faccia ritorno da me sano e salvo».
«Te lo prometto Anna. Tornerò di nuovo sotto il mio tetto a lavorare e a gustarmi la tua ottima cucina. Il mio solo desiderio è di poter invecchiare al tuo fianco».
«Sapere che sei un uomo di parola mi rinfranca» ammiccò la donna prima di trascinare il marito nuovamente all’interno della casa.
Quella notte i due fecero l’amore dolcemente, godendosi quell’atto di intima unione prima della lunga separazione che li aspettava.
La luce irradiata da un sole ancora basso penetrava nella stanza. Ludovico aprì gli occhi. Anna dormiva ancora, avvinghiata al suo corpo. Il fabbro rimase a lungo immobile a fissare il soffitto, perso nei suoi pensieri. Fu richiamato alla realtà dalle delicate carezze della moglie. Ludovico l’attirò a sé baciandola.
I due si alzarono e mentre il fabbro preparava lo zaino per il viaggio Anna si mise a friggere tre grosse uova. Ludovico le mangiò accompagnandole con due grosse tazze di latte. Il momento della partenza era infine giunto. Nessuno dei due parlò per non lasciarsi sopraffare dalla tristezza che sentiva dentro. Si lasciarono come se nulla stesse accadendo.
Quando Ludovico si girò per vedere la sua fucina, San Miniato era già distante. La torre si protendeva dalla collina, avvolta da una fitta coltre di alberi dalle ampie chiome verdi che lasciavano intravedere solo il lungo lato dell’antica abbazia. Provò a immaginare quel luogo senza quelle costruzioni di pietra. Forse era quello ciò che i legionari di Augusto videro quando decisero di approntare, proprio su quelle alture, il loro avamposto militare. Nessuno di loro avrebbe mai pensato che da quelle poche costruzioni sarebbe poi nato il borgo in cui abitava. Il luogo che lui stesso chiamava casa.
F Il custode della via
Gli esseri della selva: alberi, biancospini, edere e gramigne avanzavano inesorabili, divorando, espandendosi, fermandosi solo per osservare come giganti l’opera dell’umano intelletto. Un serpente sinuoso che porta sulla schiena miriadi di menti, lavoro e fatica. Mutevole nella sua immutabilità la strada, abbandonata e invecchiata, cede alla pressione del giovane bosco che, con scheletriche radici solleva le pietre trasformandole in denti aguzzi pronti a cibarsi dei calzari dei poveri pellegrini.
«Sono giorni che camminiamo nella boscaglia al margine della strada» sentenziò Fagolio.
«Preferisco la silente compagnia delle piante al chiacchiericcio dei viandanti» rispose secco Icaro.
«Io invece mi nutro delle parole! Icaro stai uccidendo la mia anima di bardo!».
«Non sia mai che mi macchi di un tale delitto! Non stai bene nel bosco? Senti com’è soffice il terreno, ricoperto di foglie, e com’è fresca l’aria qui dove il sole arriva senza prepotenza».
«Sì ma la strada è bella, piena di gente, spaziosa e ampia; cosa che non si può dire di questo posto» fece notare Fagolio spostandosi dalla traiettoria di un ramo lasciato da Icaro.
«Sì ma la strada può essere anche scomoda, dolorosa per i piedi e stancante. Dopo la caduta dell’Impero Romano ben poche strade sono in buone condizioni: troppe guerre, troppi signori e troppe monete per mantenerle in salute».
«Eppure so di una strada perfetta, una strada così ben tenuta che par di camminar sul marmo».
«E io so bene quanto ami mentire e raccontare storie!».
«Che possa perder la voce se non è come dico, l’ho sentito dire da un mercante ad Altopascio: all’altezza del borgo di Galleno c’è un tratto della via detta Francigena che par esser stata benedetta, difatti non vi è calzar di pellegrini che li difetta!» recitò Fagolio abbassando il tono della voce.
«Essia Fagolio voglio accontentarti, visto che abbiamo viaggiato nel bosco per molte miglia faremo questa variazione, ma ricorda che sarà solo per un breve tratto».
Per tutta l’ultima ora nel bosco Fagolio si mise in testa e, nonostante le gambe corte, correva agile fra i rami e le sterpaglie.
Quando giunsero alla strada la luce piena del sole li strappò alla penombra alla quale erano abituati mentre la via che osservavano era del tutto diversa da quelle poche viste fino a quel momento: le pietre di un grigio chiaro, regolari e lisce, erano tutte ben allineate.
«Senti Icaro, senti com’è perfetta».
L’uomo si chinò e ò le dita guantate sulla superficie della strada: tra una pietra e l’atra non si sentiva alcun dislivello, poiché gli interstizi erano stati riempiti con quel tanto di malta necessaria a pareggiarle.
«Incredibile» sussurrò «non avrei mai creduto che si potesse ancora viaggiare su una vera strada romana. Guarda Fagolio, non vi sono erbacce né radici, e lì il bosco è ben allineato al filo della massicciata come un soldato fermo al aggio del suo signore».
«Dite bene buon pellegrino anche se è di un soldato malandrino che state parlando».
Fagolio e Icaro alzarono la testa: non si erano accorti dell’uomo che li guardava seduto al margine della careggiata. «Sapeste le battaglie che devo affrontare contro la selva perché non ci spodesti!» continuò l’uomo alzandosi, elargendo un ampio sorriso. «La mia scortesia non ha eguali, il mio nome è Leopoldo Cavalier dei Cadolingi e custode della via per loro comando».
Fagolio era felicissimo, aveva gli occhi lucidi dalla gioia di poter conversare con altri che non fossero il cupo Icaro, e quel Leopoldo pareva un uomo con molte storie da raccontare.
«Il mio nome è Fagolio menestrello pisano, l’uomo al mio fianco si fa chiamare Icaro».
«Siate i benvenuti nel borgo di Galleno che qui ha inizio».
«Siete forse uno di quei cavalieri di cui tanto si sente parlare? Quelli che provengono dall’ospitale di San Jacopo?» chiese Fagolio
«No mio piccolo Signore, quelli vestono abiti monastici e sulla spalla portano il simbolo bianco della croce taumata¹³. Indietro dovrete tornare per ammirare le loro vestigia e gustare il loro Calderone¹⁴ . Il nostro compito è simile anche se loro si occupano delle Cerbaie, se mi permettete vi accompagnerò fin dove il borgo finisce».
«Non vorremmo esserle di disturbo» disse subito Icaro che sentiva un crescente disagio.
Stare sulla strada alla vista della gente lo agitava, inoltre Leopoldo non aveva avuto il minimo accenno di sospetto o paura nel vederlo e questo era alquanto strano.
«Nessun disturbo, cammino lungo la via tutto il giorno, accompagnando i pellegrini e curando la strada: difendendo entrambi dalle insidie che il bosco cela».
«Un nobile compito il vostro».
«Il più nobile se posso permettermi mastro Fagolio».
«Ma non è forse più nobile e valoroso per un cavaliere cimentarsi nell’arte delle armi e conquistare e difendere il feudo piuttosto che vagare in compagnia dei pellegrini?» domandò Icaro a Leopoldo.
«Amico mio le vostre parole sono veritiere ma questo mondo è fatto di sottigliezze. Prendiamo ad esempio la mia persona. Da quello che avete detto, non seguendo la vita della battaglia, sarei solo un cavaliere di nome e non di fatto e in effetti d’arme posseggo solo questa corta spada e questo falcetto con cui estirpo le erbacce, ed entrambe non son use alla guerra.
Parliamo ora invece della strada che stiamo percorrendo: è comoda e ben tenuta. Da qui ano i mercanti che fan sosta tra Altopascio, Fucecchio e Castelfranco con il cibo necessario alla popolazione. Inoltre i pellegrini che chiedono ospitalità a Galleno sono innumerevoli e non ve n’è uno che parta col broncio, semmai con un po’ di tristezza al pensiero di ciò che va lasciando.
Tutto questo perché vi è una via che funziona; se la strada fosse dissestata e rotta i carri faticherebbero a raggiungere i paesi e il cibo diverrebbe scarso. Un popolo affamato sarebbe scontento e si rivolterebbe contro i propri signori. Pensate quanto facile sarebbe la vita dei briganti se il bosco invadesse la strada e se nessun cavaliere vi fe sosta. Quanto sangue verrebbe sparso? Quali uomini di mondo voi siete sapete che il sangue chiama sangue e allora questa non sarebbe più una terra benedetta dai pellegrini e dai mercanti ma diverrebbe maledetta dagli eserciti: ben poco serve in questi tempi di lotta perché un feudatario ne aggredisca un altro se il malcontento dilaga».
Fagolio lanciò uno sguardo a Icaro che aveva gli occhi fissi sul cavaliere.
«Vedete» continuò Leopoldo chinandosi per strappare dalla via una piccola radice «questi sono i miei saraceni e questa è la terra che devo difendere. Mantenere questo equilibrio è un compito oneroso e complesso, ma ricco di soddisfazioni».
«Abbiamo fatto proprio bene a lasciare il sottobosco e tu che non volevi! Ci saremmo persi queste belle parole!» esclamò Fagolio rivolgendosi a Icaro.
«Camminavate nel bosco?» domandò Leopoldo.
«Sì. Icaro ama la vita selvaggia oppure teme la gente. In verità al momento mi sfugge quale sia il motivo!».
Icaro aveva notato lo sguardo bieco di Fagolio e prima che dicesse altro lo interruppe.
«Sono in cerca di risposte e penso che la solitudine della selva possa portarmele».
«Capisco» assentì Leopoldo. «Ma forse il vostro approccio alla cerca è errato, datemi retta, se sono le risposte che volete non lasciate mai la strada. Oggi avete avuto la sventura di incontrare me che ben poco posso dirvi e che non ho pretesa alcuna di sbrogliare i vostri dubbi ma, forse domani, incontrerete un grand’uomo o tanti più piccoli che con le loro idee e le loro parole saranno in grado di aiutarvi. Non rintanatevi nell’ombra della selva» affermò Leopoldo appoggiando il palmo della mano sul petto di Icaro che subito fece un o indietro «ma rimanete sulla via della luce».
In compagnia di Leopoldo quelle poche miglia arono veloci e quando il cavaliere li abbandonò al confine del borgo, entrambi ebbero la sensazione che tutto si fosse fatto più scuro, meno vivo e Icaro si domandò se tutta la bellezza che aveva riempito il suo animo non fosse da attribuire alla presenza di quell’uomo.
«Fagolio?».
«Dimmi».
«Torniamo nel bosco».
Il nano, sconsolato, abbassò lo sguardo.
«Devo congedarmi dal mio mondo. Ho deciso di continuare il nostro peregrinare sulla strada».
Fagolio saltò dalla gioia e senza perder tempo improvvisò un dolce canto che parlava di una strada eterna e di un cavaliere fatato suo custode.
F Nuovi incontri in terra di Toscana
Nel silenzio di quelle terre verdeggianti Gilberto ripensava a quello che era accaduto. Si soffermò a lungo sulla figura del maestro che procedeva avanti a lui nel cammino: fino a quel momento il giovane aveva visto nell’anziano un saggio, fermo e solido nelle sue convinzioni. Sapeva che Padre Anselmo era un uomo di grandi capacità ma mai si sarebbe sognato di vederlo duellare contro un giovane cavaliere.
«Cos’hai Gilberto?» chiese Anselmo all’improvviso. «Non proferisci verbo da stamattina».
«Maestro non credevo che voi...».
«Che sapessi combattere?» lo interruppe.
Gilberto annuì.
«Molti anni fa sono stato un soldato», rispose il monaco. «Servivo sotto la Comitissa Matilde di Canossa».
«Perché avete abbandonato le armi?».
«Mentre ero ferito e convalescente, ebbi la mia illuminazione».
«Come Paolo sulla via di Damasco?».
«In un certo senso. Ho capito che il mondo non era più un posto per me: tanto mi aveva dato ma di più mi aveva tolto. Da allora ho consacrato la mia vita a Dio. C’è altro che vuoi sapere?».
Nonostante la domanda secca del maestro Gilberto non si fece intimidire.
«L’arma che Arturo vi ha chiesto di portare a Roma è molto strana, ho sempre visto spade più lunghe di un braccio ma mai armi così corte».
«Si tratta di un gladio, la spada usata dall’antico esercito dell’Impero Romano. Le sue dimensioni ridotte ne facevano un’arma letale nel combattimento ravvicinato e in luoghi angusti.
In battaglia i Romani usavano una formazione detta a testuggine. Tale assembramento creava, con l’ausilio di ampi scudi, un muro impenetrabile. I soldati avanzavano spalla contro spalla verso le file nemiche e dato che i ranghi erano serrati era necessario avere a disposizione un’arma che fosse maneggevole e non creasse pericolo per i compagni vicini».
Gilberto rimase sorpreso dalle conoscenze del maestro. Lui negli anni ati al monastero aveva imparato solo le nozioni atte a svolgere le mansioni del
monastero e la predicazione.
«Maestro, sembra che conteniate in voi il sapere di mille tomi!».
«Non dire sciocchezze!» lo redarguì Anselmo. «Anche tu alla mia età apparirai come un Matusalemme ricolmo di sapere. Quello che ti ho spiegato viene dall’esperienza. Il buon Dio» continuò il frate ammirando il cielo «mi ha indicato la via della fede. Ricordati Gilberto che brandire una spada per recidere una vita richiede un enorme coraggio ma ne occorre molto di più per vivere nella fede».
Gilberto non rispose.
«Ora basta cincischiare» tagliò corto Anselmo. «La strada per Fucecchio è ancora lunga».
«Troveremo ospitalità in quel luogo?» chiese Gilberto.
«Certo, nei pressi del fiume Arno sorge la chiesa di San Salvatore con annesso un ospitale».
I due proseguirono nel cammino seguiti da Candido (il loro mulo) con o spedito, ormai abituati alle fatiche del pellegrinaggio. Ogni tanto Anselmo si fermava ad aspettare il suo discepolo che rallentava a causa dell’andatura claudicante; alle volte indicava al giovane un luogo o una località distante dalla strada ma ben visibile sull’alto di un colle. L’anziano aveva già percorso quel
tratto di strada e ben ricordava che dopo Altopascio non avrebbero più incontrato insediamenti di grande rilievo.
«Faremo una piccola sosta all’ospitale per rifornirci di cibo e acqua».
«Come desiderate, Maestro. È quello che vedo all’orizzonte il posto di cui state parlando?» domandò il giovane, speranzoso.
Anselmo aguzzò la vista per mettere a fuoco l’edificio che si ergeva a pochi i dal margine della strada.
«No, Gilberto. Quella che vedi laggiù è la Badia di Pozzeveri, una piccola comunità di monaci della regola Camaldolese. Altopascio è appena oltre quell’avvallamento».
Camminarono per circa due miglia fino a incrociare il corso del fiume Teupascio. Attraversato il ponte di legno posto a guado del rio, i due si trovarono all’interno di Altopascio. Raggiunto l’ospitale, i monaci pellegrini riempirono le loro bisacce con carne e formaggio.
«Gilberto vieni qui!» chiamò Anselmo.
«Eccomi maestro».
«Assaggia» disse l’anziano monaco, dando al giovane un tozzo di pane appena
strappato da una grossa pagnotta dorata.
Il giovane lo mangiò con parsimonia come la sua formazione gli imponeva.
«Quello che stai mangiando è il rinomato pane di Altopascio. Secondo gli abitanti questo pane non diventa mai secco o posato. Grazie alle ottime acque che scorrono in queste terre il grano cresce forte, ed è con esse che viene impastata la farina».
«Devo dire, maestro, che è molto buono».
Anselmo sorrise compiaciuto.
«Prendi, infila la pagnotta nella bisaccia, è ora che riprendiamo il nostro cammino».
Appena fuori dal paese, i due si imbatterono in una folta vegetazione che adombrava la strada battuta, creando una volta capace di nascondere l’ospitale alla loro vista. In quei luoghi la natura era padrona del mondo e i manufatti umani altro non erano che escrescenze di pietra protese verso il cielo. I raggi di luce che penetravano le alte chiome si infrangevano sulle foglie illuminando l’aria di tenui riflessi verdi.
Il suono dei loro i era accompagnato dal canto degli uccelli e dal fruscio lontano di qualche animale che, messo in guardia dal loro odore, cambiava direzione.
Camminarono a lungo godendo della fresca umidità del sottobosco e odorando il dolce profumo dei fiori che crescevano ai lati della via. Quando Anselmo si fermò erano ate parecchie ore e Altopascio era ormai lontana. La strada si era fatta irregolare tanto che pareva di camminare nel fitto della boscaglia e anche Candido sembrava piuttosto affaticato.
«Fermiamoci un momento Gilberto. Godiamoci la pace della foresta e riempiamo i nostri stomaci vuoti» disse il venerando monaco.
Gilberto lasciò la sacca e non si trattenne da un sospiro di sollievo.
Anselmo, divertito da quell’esempio di indolenza monacale, iniziò a ridere.
«Che vi succede maestro?» domandò il giovane.
«Niente Gilberto. Osservavo come una semplice bisaccia riesca a piegare un ragazzo acuto quale sei».
«Padre Anselmo, non prendetemi in giro, ve ne prego».
«Scusami figliolo ma non ho potuto farne a meno» scherzò Anselmo che, prima di rovistare nella bisaccia, diede una leggera pacca sulla spalla del giovane togliendogli anche quel poco fiato che ancora gli rimaneva.
Fu un attimo: il tonfo sordo del corpo di Candido, accompagnato dal ragliare acuto e lamentoso della bestia, ruppe la serenità di quel momento.
Sotto gli occhi sbalorditi e terrorizzati dei monaci, una larga pozza di sangue si allargò sul terreno intorno all’animale che, colpito al collo e in preda agli spasmi dell’agonia, scalciava l’aria.
«Ragazzi guardate cosa abbiamo trovato!» esclamò una voce alle loro spalle.
I due monaci si girarono all’unisono, dal folto della boscaglia erano apparsi tre uomini, i capelli unti e le barbe lunghe, che impugnavano lunghi coltelli da caccia. Anselmo portò d’istinto le mani dietro la schiena.
«Che ci fate nel bosco? Non vi hanno avvertito in quel postaccio dal quale venite, che ci sono i briganti?» li canzonò sarcastico il malfattore.
«Siamo pellegrini diretti a Roma per pregare. Se volete possiamo dividere il nostro cibo con voi. Non è molto, ma è tutto quello che possiamo offrire».
«Stupidaggini. Due persone importanti come voi, dirette a Roma, avranno certo ben altro da condividere» sentenziò l’uomo pulendosi il naso gocciolante sull’orlo della manica. «Perciò ora ci darete tutti i vostri averi altrimenti ce li prenderemo, non prima però di avervi fatto fare la fine dell’asino».
Quando i tre fecero cenno di muoversi Anselmo snudò per la seconda volta il gladio di Arturo.
«Ragazzi avete visto? Siamo al cospetto di un valoroso!».
I tre scoppiarono a ridere, poi, torvi in volto, circondarono l’anziano monaco.
Anselmo sapeva bene che non sarebbe riuscito a sconfiggerli. Se si fosse trovato innanzi a un uomo solo non avrebbe avuto difficoltà, ma di fronte a tre banditi senza onore le cose si sarebbero complicate. Avrebbero attaccato senza la benché minima strategia e nella migliore delle ipotesi ne avrebbe atterrati due prima di cadere sotto i colpi del terzo. Lanciò di sfuggita un’occhiata a Gilberto. Il giovane era corso al fianco di Candido, con gli occhi pieni di lacrime, preda della paura: non gli sarebbe stato di nessun aiuto.
I tre stavano per caricare quando una voce li interruppe.
«Si fanno queste cose? Siete proprio dei bruti!».
Due briganti si voltarono cercando il luogo da cui essa proveniva. Il dardo acuminato di una balestra tagliò l’aria e si conficcò tra gli occhi di un brigante trascinandolo senza espiazione all’inferno. A quella vista, gli altri due si lanciarono alla carica di Anselmo e Gilberto imprecando rabbiosi.
Anselmo scartò l’affondo del lungo coltello da caccia lasciando a sua volta scendere il gladio verso il collo scoperto dell’avversario che morì ancor prima di toccare il terreno. L’ultimo rimasto fece appena due i prima che un altro dardo gli riservasse l’amaro destino del compagno.
«E fu così che in men che non si dica i tre fellon arrivaron lesti ad una prematura dipartita. Che Dio li benedica!».
Anselmo lanciò il gladio insanguinato che cadde a qualche metro da lui, poi si lasciò cadere a terra. Esterrefatto si guardava le mani mentre lacrime amare gli bagnavano il volto.
«Maestro state bene?» Gilberto gli era corso accanto. Lo tastò in cerca di ferite e quando capì che il sangue che lo imbrattava non era del suo mentore, prese da sotto il saio un quadrato di stoffa e cominciò a ripulirlo. Anselmo con un gesto d’ira strappo la pezza dalle mani dell’adepto e prese a strofinarsi con vigore mentre due uomini si fecero avanti uscendo dalla boscaglia.
«Possiamo sapere chi dobbiamo ringraziare per l’aiuto ricevuto?». Anselmo aveva la voce spezzata e quando posò lo sguardo sui due salvatori non poté nascondere il proprio stupore.
Un nano, che indossava una rossa veste da paggio, teneva stretta fra le mani una piccola lira. Il suo sorriso era ampio e sincero.
«Lasciate che mi presenti. Mi chiamo Fagolio giullare pisano. Questo al mio fianco è il mio compagno di bisboccia, si fa chiamare Icaro».
L’uomo accanto a lui, alto, di nero vestito e avvolto in un lungo mantello di lana, aveva le mani coperte da spessi guanti di pelle. Il volto celato da una maschera lasciava trapelare solo il colore smeraldino dei suoi occhi.
«Vi porgo i miei saluti, venerabile monaco».
La voce profonda risultava ovattata dalla pelle, come se provenisse da un luogo distante.
Gilberto fissava i nuovi arrivati con una certe inquietudine.
«Ci siamo permessi di intervenire» fece presente il nano nel tentativo di rompere l’imbarazzo che sapeva crearsi ogni volta che qualcuno appoggiava lo sguardo su di loro.
«Mai intromissione è stata più ben accetta. Peccato non siate giunti prima, il nostro asino ha pagato per la cattiveria di questi uomini».
«Mi spiace per la vostra bestia» affermò Icaro.
«Vi prego sedetevi con noi e dividete un po’ del nostro umile cibo. Il mio nome è Anselmo da Paule e questo è il mio apprendista Gilberto».
Il giovane fece un lieve cenno di saluto con la testa. I suoi occhi erano fissi su Icaro e solo nel momento in cui l’uomo ricambiò lo sguardo il giovane, imbarazzato, li distolse.
«Cosa vi porta da queste parti padre Anselmo?» chiese Fagolio addentando un pezzo di formaggio.
«Siamo in pellegrinaggio verso Roma e diretti poi a Farfa, e voi di grazia?».
«Anch’io sono diretto a Roma, non per motivi alti quanto i vostri ma comunque importanti. A Roma cercano sempre giullari e menestrelli e siccome del canto e della musica ho fatto la mia ragion di vita vado là in cerca di fortuna. Per quanto riguarda Icaro la cosa è certo più complessa. Dice che a Roma vedrà e capirà molte cose. Altro non so dirvi. Vedendo nei vostri occhi la limpidezza della vostra anima forse sarà lui stesso a parlarvene, se mai il nostro viaggio proseguirà insieme» concluse il nano elargendo un sorriso malconcio al monaco.
«Sarebbe bello proseguire il viaggio con voi. Gilberto avrebbe di che imparare» disse Anselmo ricambiando il sorriso del nano. «Prima però, diamo sepoltura a questi uomini».
La strada verso Fucecchio si snodava per parecchie miglia nella selva. In testa al gruppo Anselmo, affiancato da Icaro, conduceva la marcia mentre Gilberto e Fagolio li seguivano a distanza arrancando, chi a causa di un’anca sciancata e chi invece per una burla della natura che gli aveva dato gambe troppo corte. Il nano suonava l’arpa accompagnando il viaggio con melodie allegre ed orecchiabili. Spesso capitava che Fagolio si lasciasse andare raccontando storie di dolci fanciulle disonorate in situazioni grottesche da nerboruti condottieri. Anselmo non poteva far a meno di sogghignare, cosa che invece a Gilberto non accadeva. Il giovane trovava quegli argomenti sconvenienti e irritanti. Motivo che spingeva Fagolio a inventarsi dettagli sempre più irriverenti, nel limite concessogli dalla poetica e dalla prosa.
Quando il bosco prese a diradarsi lasciò spazio a una verdeggiante pianura che,
all’avvicinarsi dell’argine dell’Arno, scomparve trasformandosi in un brullo terreno con pochi ciuffi d’erba. Sembrava che il fiume avesse d’improvviso deciso di allargare il suo dominio inondando, come un sovrano dispotico, le pacifiche terre circostanti.
Anselmo aveva visto con i suoi occhi la chiesa di San Salvatore e l’abbazia benedettina voluta dal Conte Cadolo e dal figlio Lotario nei pressi del ponte di Bonfiglio. Col are degli anni intorno a quei luoghi sacri si era formato un piccolo nucleo abitativo. Ricordava l’ospitale sorto dietro la chiesa nel quale mercanti e pellegrini riposavano le loro stanche membra dopo un lungo viaggio. Tutto il centro era pieno di vita e di genti, protette dai nobili del castello di Salamarzana che sovrastava il letto del fiume. Ora di tutto quello non era rimasto nulla. La chiesa e l’ospitale erano stati distrutti dall’inondazione del fiume avvenuta alcuni mesi prima. Nel suo espandersi aveva strappato i basamenti del ponte di Bonfiglio trascinandolo verso valle. Era ancora possibile vedere i lunghi tronchi che lo costituivano affogati nella melma. L’alluvione aveva cambiato la vita quotidiana della gente di Fucecchio ma non ne aveva annientato lo spirito. L’Arno aveva ripreso il suo normale percorso e il ponte era già stato sostituito con un altro più robusto del precedente, di cui però portava ancora il nome. La famiglia dei Cadolo aveva concesso ai benedettini di costruire l’abbazia e la nuova chiesa, dedicata a San Giovanni, sul poggio Salamartano, nei pressi del castello. I lavori di edificazione erano iniziati da pochissimo tempo. I manovali lavoravano senza sosta per far tornare quelle terre alla normalità. Gli abitanti e i monaci elargivano ancora la loro ospitalità ai numerosi mercanti e pellegrini che ne facevano richiesta. Non avendo ancora a disposizione un nuovo ospitale avevano allestito un campo con numerose tende e comodi pagliericci. Anselmo fu contento di vedere che quel luogo non era andato perduto. I quattro attraversarono il ponte di Bonfiglio e salirono verso il colle.
«Salve fratello» iniziò Anselmo vedendo incamminarsi verso di loro uno dei benedettini.
«Salve a voi padre. Siamo lieti di avervi qui nelle nostre terre» li accolse il
monaco.
«Sono Anselmo da Paule. Vi chiedo ospitalità per la notte per me e i miei compagni di viaggio».
«Ospitalità vi verrà data insieme a un piatto di zuppa calda».
Il benedettino li accompagnò nella zona dove era stato allestito l’ospitale provvisorio. Il sole stava calando oltre l’orizzonte. Cinque persone si apprestarono ad accendere altrettanti enormi falò. Le fiamme di quel fuoco, alte e luminose, rischiaravano l’intero campo.
«Guardate, stasera i monaci hanno ospitato anche i folletti!» esclamò un uomo dal forte accento del sud indicando Fagolio che era intento a trangugiare la sua zuppa.
«Adesso anche loro possono pasteggiare e godere dell’ospitalità di Cristo e dei sui servitori?» chiese ironicamente un altro.
Anselmo accennò ad alzarsi per andare ad ammonire il bifolco ma Icaro lo trattenne.
«Fagolio sa come difendersi. Non è saggio accettare provocazioni da questa gente».
Il monaco si sedette, colpito da quelle parole inaspettate. Icaro aveva in lui una profonda curiosità e Anselmo pensò che quello non doveva essere un uomo comune.
Fagolio si alzò dal suo posto esprimendo il suo apprezzamento nei confronti della zuppa con un sonoro rutto poi andò al centro del campo.
«Folletto dite. Ebbene sì. Stasera fra di voi c’è un folletto, se così amate pensare. Eppure lasciatemi narrare di quanto nella vita su certe cose ci si possa sbagliare…».
F Il folletto della farina
Come la superstizione e la maldicenza siano sempre portatori di sfortuna.
Corrado amava la compagnia dei cavalli. Fin da bambino aveva ato le sue giornate nelle stalle del padre ad ammirare quei fieri animali di cui conosceva ogni segreto. Sapeva ammansirli e curarli, sapeva cosa dar loro da mangiare perché il loro manto brillasse alla luce del sole. Ora, ormai adulto, era diventato vassallo di borgata e la sua era una delle stalle più conosciute delle terre circostanti.
«Mio signore, in borgata sta succedendo qualcosa. Sembra che le genti siano in subbuglio per la perdita di alcuni dei loro beni».
«Se perdono i loro oggetti che stiano più attenti» rispose Corrado.
«Ma signore, la gente crede che sia qualcuno del borgo a rubare i loro averi. Se non interveniamo si faranno sicuramente giustizia da soli».
Corrado smise di spazzolare il manto del puledro. Non desiderava tumulti nelle sue terre e tanto meno che i suoi sudditi si arrogassero diritti che appartenevano a lui.
«Scenderò nella piazza ad ascoltare le loro lamentele. Convocate tutti quelli che hanno avuto delle perdite: una volta saputi i fatti deciderò il da farsi».
L’uomo lasciò le stalle accomiatandosi con un profondo inchino.
Vi erano già più di trenta anime quando Corrado raggiunse la piazza e altre ancora stavano arrivando.
«Dite, quali sono le vostre preoccupazioni?» chiese Corrado, rimanendo ben saldo in groppa al cavallo.
«Signore qualcuno sta rubando dalle nostre case» iniziò una donna.
«Franco il fornaio si è visto portar via quattro pagnotte in due notti e frutta e verdura sono sparite dalle mie casse».
«Sì è vero. Dalla mia cantina sono svaniti due piccoli otri di vino» proruppe il locandiere alzando un pugno al cielo.
«Altri di voi hanno subito furti?».
Molte voci risposero a quella domanda. Chi aveva perso una coperta, chi della legna, chi giare contenenti biscotti di zenzero.
«Signore, questo non è tutto» la voce proveniva da un’anziana donna seduta in fondo alla piazza. «Non sono solo i furti a turbarci ma anche i dispetti».
«Dispetti?» fece eco Corrado.
«Sì mio signore. Oggetti che dalla sera alla mattina cambiano posto. L’altra mattina ho trovato il gatto dentro a una giara. Povera bestia, avesse visto com’è scappato quando l’ho liberato».
«Folletti» qualcuno bisbigliò tra la folla.
Corrado strabuzzò gli occhi sistemandosi, se possibile, ancora più ritto sulla sella.
«Sì, ci sono i folletti nel borgo! Il borgo è maledetto, dobbiamo cacciarli!».
La follia si stava facendo largo tra la gente e Corrado non poteva permetterlo.
«Miei cari, i folletti non esistono. Questo borgo è un luogo amato da Dio, la nostra chiesa e la visita dei monaci la scorsa settimana ne sono la più alta testimonianza. Quindi vi dico che i folletti non esistono. Ora vedremo di capire chi sia il burlone che ha gettato tutto questo scompiglio. Avete detto che i fatti si sono svolti di notte vero?».
Un coro di voci assentì unanime.
«Assodato questo sarà mio compito, stanotte, far vigilare le vostre case e acciuffare il malandrino. Una volta nelle mie mani gli farò restituire il maltolto dimostrandovi che non di folletto ma di uomo si tratta».
Gli abitanti del borgo sostennero il loro signore con grida e plausi.
Non appena Corrado si ritrovò solo con il suo cavallo e il capo degli armigeri che lo avevano scortato fino alla piazza, rifletté sul da farsi.
«Andrea, questa notte istituisci una ronda di guardia anche per le vie del borgo. Ferma chiunque incontri. Metteremo fine a queste cialtronerie prima che faccia giorno».
«Come desiderate».
Voltato il cavallo Corrado raggiunse nuovamente la sua magione respirando a pieni polmoni l’aria fresca del pomeriggio inoltrato.
Nonostante l’inverno fosse ormai lontano, quella notte nel borgo spirava un vento gelido. I soldati intirizziti camminavano, lancia alla mano, per le strette vie. Tutti erano ormai nei loro letti immersi nel sonno, inconsapevoli delle ombre che si muovevano leste sopra di loro.
«Se fossi il ladro, stanotte me ne starei a letto» proruppe una delle guardie.
«Forse ha seguito il tuo ragionamento e questa notte si riposa mentre noi siamo qui a ghiacciarci il sedere così domani potranno dire che questa è stata la sua ennesima burla».
Un sibilo veloce riempì l’aria.
«Sentito niente?».
«No ero troppo intento a ridere alle tue spalle».
«Allora taci e ascolta, zuccone che non sei altro!».
Il giovane soldato si mise sull’attenti. Intorno a loro tutto taceva.
Nuovamente il sibilo raggiunse le loro orecchie.
«L’ho sentito. Sembra molto vicino».
«Lassù guarda!» indicò il soldato.
Una piccola ombra dalla forma allungata era appena ata sulle loro teste.
I due, correndo, cercarono di seguirla. L’ombra si muoveva veloce da un tetto all’altro e tutto sembrava tranne che umana.
«Eccola, è là sulla chiesa!».
Il soldato più vicino lanciò il suo giavellotto verso il tetto. L’arma ò accanto all’ombra che si fermò di colpo. Tra le mani teneva qualcosa, una specie di giara, mentre alle sue spalle qualcos’altro si muoveva come una serpe. Occhi rossi come il fuoco si posarono sui due soldati.
«Madre di Dio!» esclamò il più giovane segnandosi. «Proteggici!».
Con un rapido scatto l’ombra si rimise in movimento in direzione delle mura, oltre le quali scomparve.
«Quindi mi state dicendo che ve lo siete fatto scappare?» domandò Corrado irato.
«Signore perdonateci, ma quell’essere non è umano. Saltava da un tetto all’altro con l’agilità di un gatto. Abbiamo provato a rincorrerlo ma era velocissimo. Poi, quando si è fermato e ci ha fissato, ci siamo sentiti morire. Era sicuramente una creatura infernale. La gente ha ragione, è certamente un folletto».
«Folletti! Ecco come risolvete le cose voi sempliciotti. Date la colpa al diavolo e alla magia e tutto si aggiusta. Questo potrà avvenire in altri luoghi ma non nelle
mie terre».
«Ma signore, i suoi occhi erano quelli di Satana. Rossi come rubini. E il serpente che gli usciva dalla schiena era certamente lo stesso di cui parla sempre il buon Padre Germano. Il serpente che la Vergine schiaccia sotto il tallone».
«Stupidaggini!» gridò Corrado. «Queste non sono altro che inutili superstizioni. Ci sono persone che vivono ancora nei boschi qui attorno. Qualche monello avrà giocato sulla paura della gente per il malefico agevolandosi così la fuga dopo i furti».
I due soldati abbassarono lo sguardo.
«Questa notte tornerete di guardia e mi porterete il delinquente. Niente scuse! Inoltre, per fugare ogni vostro dubbio, cospargete i tetti di farina: quando vedrete che le impronte lasciate da questo folletto sono umane, capirete quanto stolti e sciocchi siete stati».
I tetti delle case erano completamente ricoperti da un sottile strato di farina. I soldati con l’aiuto di alcuni contadini avevano impiegato tutto il pomeriggio e vuotato una decina di sacchi. Ora, qualsiasi cosa fosse ata di lì avrebbe lasciato un segno inequivocabile della sua presenza e della sua natura.
La notte scese nuovamente indisturbata e i due soldati si trovarono nuovamente schiena contro schiena seduti nel centro della piazza.
«Credi che verrà?» domandò il giovane.
«Con la faticata che ci ha fatto fare stamane sinceramente me lo auguro» disse il secondo.
«Ti dirò che ho un po’ di timore a rimanere qua fuori. L’altra volta siamo stati fortunati a non essere stati attaccati».
«Se fosse veramente un folletto» disse il soldato, baciando il crocifisso che portava al collo, «non sarebbe così facile ucciderlo».
Rimasero entrambi in silenzio per parecchi minuti contemplando, col naso all’insù, le cime dei tetti. Poi giunse il sibilo, lo stesso che avevano udito la notte precedente. All’unisono si alzarono in piedi, schiena contro schiena.
«L’hai visto?».
«No e tu?».
«Nemmeno».
«Ecco guarda, è là!».
L’ombra era appena saltata sulla casa del fornaio.
I due iniziarono a correre stendendo le braccia armate di lance nel tentativo di colpire o almeno indirizzare l’essere verso una zona più comoda per la sua cattura. Vedendo le punte delle lance avvicinarsi, l’ombra scartò di lato e accelerò la corsa ando sul tetto della fucina annessa alla casa del fabbro. I due soldati si infilarono sotto al pergolato che riparava l’attrezzatura esterna usata per ferrare i cavalli.
«Stavolta è nostro il maledetto!» esclamò il più giovane, mentre con la lancia dava manforte al compagno a bucherellare la copertura di paglia nell’inutile tentativo di infilzare il folletto.
«È scappato!» gridò il soldato.
«Vieni l’ho visto andare verso il maniero».
Intanto gli abitanti del borgo, svegliati dal fracasso dei due, si erano riuniti in un cospicuo gruppetto e, con forconi e torce, seguivano da vicino tutta l’azione dell’inseguimento. Le loro voci arrabbiate sostenevano il lavoro messo in opera dalle due guardie.
Quando Corrado si svegliò per il rumore assordante che turbava la pace della notte si affacciò alla finestra. A pochi i dalla sua preziosa stalla si erano riuniti alcuni abitanti. Li vedeva chiaramente perché le loro torce infuocate diradavano le tenebre della notte.
«Che diavolo sta succedendo là fuori?» imprecò il giovane vassallo.
Uscito di corsa dalla magione si portò accanto ai manifestanti.
«Che fate qui nel bel mezzo della notte?».
«Signore, il folletto! È entrato nella stalla!» rispose il soldato.
In effetti all’interno della stalla qualcosa di strano stava accadendo. I cavalli nitrivano e picchiavano contro le pareti quasi fossero impazziti. Corrado si agitò, preoccupato per le sue amate bestie; colto dal panico rimase bloccato e completamente inerme.
«Andiamo a catturarlo signore?» fecero in coro i soldati, sostenuti ancora una volta dal popolo.
«Fatelo, ma scordatevi di entrare lì dentro con quelle torce in mano!» esclamò Corrado.
I due arono le torce a due donne alle loro spalle. Fu proprio in quel momento che dalla stalla uscì un enorme cavallo nero imbizzarrito. La carica fu così improvvisa e violenta che molti dei popolani vennero atterrati. I soldati e Corrado fecero appena in tempo a farsi di lato evitando di essere colpiti dagli arti anteriori dell’animale.
Il cavallo corse inarrestabile al galoppo verso la chiesa. Nessuno dei presenti si mosse per rincorrerlo. Tutti quelli che non erano caduti a terra erano rimasti impietriti nel vedere il piccolo essere, sporco di farina, che si teneva aggrappato alla criniera del purosangue. Nessuno di essi avrebbe mai scordato la risata gracchiante che l’essere aveva emesso dalla sua larga bocca.
Non appena fece giorno i soldati controllarono le impronte sui tetti lasciate dall’ombra. Riferirono poi a Corrado che l’essere doveva avere due paia di mani e una lunga serpe strisciante attaccata alla schiena. Il giovane vassallo non capiva: la sua ragione di uomo civile negava assolutamente l’esistenza di un essere soprannaturale come un folletto. Doveva esserci una spiegazione razionale a tutto ciò che era avvenuto la notte precedente. Eppure, pensò, quale animale poteva slegare le briglie di un cavallo e portarlo lontano cavalcandolo come un uomo, se non l’uomo stesso?
Rimase parecchie ore a riflettere aggirandosi per il borgo. La gente lo osservava incuriosita mentre si prodigava a riparare i danni fatti dall’essere e dai due soldati.
Tutto questo durò finché un antico ricordo salì alla sua mente. Era sbiadito e poco chiaro. Faceva parte di una delle tante storie che suo nonno era solito raccontargli. Quel frammento era bastato a illuminare il suo cammino.
«Voi due, venite qua!» ordinò ai soldati.
«Fate sellare un cavallo e invitate chi del borgo vuol partecipare. Si va a caccia di folletti».
I soldati, increduli, corsero subito a eseguire gli ordini del loro signore.
Fortunatamente un cavallo imbizzarrito in fuga non è uno degli esseri più circospetti, soprattutto se attraversa una foresta piena di fronde e rami.
Seguire le sue tracce fu semplice e rapido. L’animale si era inoltrato per circa un chilometro prima di finire azzoppato ai piedi di un grande albero. Quando Corrado lo vide gli si strinse il cuore. Magno era uno dei suoi cavalli preferiti. Il manto nero e lucido gli dava un aspetto regale. Il giovane si avvicinò alla bestia che si lasciò sfuggire un nitrito carico di suppliche. Corrado era ben consapevole del fatto che Magno non si sarebbe più ripreso e che, se anche fosse sopravvissuto, non avrebbe più potuto galoppare libero per le verdi pianure della Toscana. Lo stalliere di suo padre lo ripeteva sempre: «Se un cavallo non può godere della libertà di correre nel vento in breve tempo morirà a causa dell’infelicità di una vita innaturale».
Corrado accarezzò il muso dell’animale. Quando sfiorò la leva della sua corta balestra, timide lacrime riempirono i suoi occhi: l’uomo pianse in silenzio per un amico che ormai non era più al suo fianco.
Il gruppo continuò il cammino guidato da Corrado, che non nascondeva ai suoi sottoposti la sua tristezza, seguendo piccole orme simili a quelle viste sui tetti del borgo, fino a quando non trovò il cadavere di un uomo nascosto fra i cespugli, appoggiato con la schiena a un albero di faggio. Corrado si avvicinò alla salma.
Dal colore della pelle e dagli abiti che indossava, l’uomo doveva venire dai paesi mediorientali. Intorno a lui erano disposti con ordine le giare, la coperta e il cibo che era stato rubato al villaggio. Corrado allungò una mano verso l’uomo quando un piccolo essere peloso saltò giù improvvisamente dall’alto e lo colpì graffiandogli il dorso.
«Il diavolo!» urlarono le donne mentre i contadini abbassavano il lunghi forconi.
«Spostatevi signore, così da poterlo uccidere!» fecero le guardie, puntando le loro balestre.
Il piccolo essere si spostò velocemente soffiando agli uomini.
«No, fermatevi!» gridò Corrado.
L’urlo dell’uomo raggiunse i soldati un attimo dopo il suono sordo della corda della balestra. L’essere si accasciò al suolo morendo trafitto da un corto dardo.
Corrado strisciò a terra verso il corpo del presunto folletto, incurante della ferita alla mano. Tutti si fecero silenziosi mentre il loro signore esaminava quel corpo privo di vita.
«Che razza di stolti che siamo».
Corrado si alzò da terra ridendo in modo tale da spaventare il suo seguito.
Alcuni temettero addirittura che il diavolo avesse preso possesso del suo corpo.
«Non è un folletto. È semplicemente una scimmia. Un animale dell’est. Mio nonno me ne parlò tanto tempo fa. Mi disse di averne viste varie quando era soldato nelle terre del Nord Africa. Stava solo proteggendo il suo padrone. Il moro deve essersi sentito male e la scimmia ha cercato di procurargli il cibo che serviva a farlo tornare in salute. Lo stava proteggendo, branco di stolti. Niente demoni e folletti, maledetti voi tutti!».
L’ira si impossessò di Corrado che colpì in volto il soldato che aveva lasciato partire il dardo.
«La vostra ignoranza ha ucciso di nuovo. Spero ne siate soddisfatti. Solo perché è diverso e non lo avete riconosciuto, subito avete pensato fosse il male. Quella scimmia, quell’animale, aveva più cuore e sale in zucca di tutti quanti voi!».
Redarguiti da quelle parole, gli altri non poterono far altro che abbassare lo sguardo e, ritiratisi allibiti e tristi nelle loro case, meditarono sulle parole del loro signore.
Or che non vi è più di che parlare rimaniam ad ascoltare questa breve morale.
Folletti, scimmie o nani che sian tutti quanti han dentro a sé un po’ di poesia.
F Tra Fucecchio e San Gimignano
Gilberto non credeva ancora a quello che aveva visto la sera precedente: era bastato che Fagolio si mettesse a cantare per catturare l’attenzione di tutti i presenti. Nessuno si occupava più delle proprie mansioni e tutti erano concentrati sulle parole di quella storia. Quando il giullare aveva smesso di cantare erano arrivati plausi e incitamenti e in quel preciso istante era avvenuto un cambiamento: il piccolo Fagolio, sbeffeggiato dai più, era diventato un colosso. Le minacce e gli insulti si erano trasformati in sonore pacche fraterne e grosse bevute accompagnate da risa di giubilo e sguardi di ammirazione.
«Cosa impensierisce il tuo cammino, mio giovane frate?» chiese Fagolio.
«Ripensavo alla scorsa notte, chiedendomi come una semplice storia potesse trasformare in così poco tempo gli animi e i pensieri delle persone».
«Ti sbagli Gilberto. Le canzoni non cambiano l’animo né i pensieri. Solo le persone hanno il potere di compiere questa magia».
«Quindi sei stato tu a fare tutto questo. Sei un mago, forse?».
Il nano rise divertito.
«Se fosse in mio potere fare una cosa del genere ora sarei Re non credi? Quello che intendevo è che sono le persone che decidono se far entrare la musica in loro. Il suono di un’arpa seguita da guizzanti parole raggiunge le orecchie delle persone e da lì entra nel cuore e nello spirito, toccandoli nel profondo.
Non tutti gli uomini però sono inclini a farsi governare dalla musica. Potrei cantare ore e ore davanti a un uomo gelido, dal cuore impenetrabile, senza ottenere risultato. Per questo ti dico che sono le persone, non le canzoni, a placare gli spiriti».
«Sì, ma è pur sempre la musica la scintilla che porta all’accendersi del fuoco del cambiamento» ribatté Gilberto.
«La musica non è altro che voce di angelo. Sarebbero in grado, le voci degli angeli, di costringere l’uomo a compiere azioni in nome di Dio?».
La domanda spiazzò Gilberto.
«Penso di sì. Ci sono molteplici eventi guidati dalla voce degli angeli nella Bibbia» affermò dopo alcuni minuti di riflessione.
«Ma stiamo parlando di uomini religiosi, dalla fede incommensurabile, predisposti a ricevere le parole del Signore» affermò sorridendo Fagolio. «Scusami Gilberto ma ti ho portato proprio a dire ciò che volevo per sfatare le tue convinzioni. Se quelle persone fossero state persone diverse forse non avrebbero sentito la voce degli angeli. Forse la musica li avrebbe avvolti ma non sarebbe penetrata in loro e sai perché? Perché Dio ci ha fatto dono di un bene prezioso che ci fa padroni di ogni attimo della nostra esistenza: il libero arbitrio.
Per questo non vi sarà mai canto o musica che obbligherà qualcuno a cambiare senza che lui stesso lo voglia o ne abbia la predisposizione».
Gilberto capiva l’ineccepibilità di quel ragionamento e non era in grado di controbattere. Anselmo, davanti a loro, era compiaciuto: il nano aveva colpito nel segno e sapeva benissimo che le sue parole avrebbero portato nuove domande al suo apprendista.
«Guardate» indicò Icaro. «Quello lassù è San Miniato».
Tutti alzarono gli occhi verso la cima della collinetta.
«Faremo sosta in quel luogo maestro?» chiese Gilberto.
«No, figliolo. Il viaggio è ancora lungo e non possiamo permetterci un’altra sosta».
«Peccato, mi sarebbe piaciuto sapere qualcosa su quel paese».
«Se questo è il tuo desiderio vedremo di farlo avverare. Vedi quell’uomo?» disse Anselmo indicando una piccola figura in lontananza che stava scendendo dal borgo verso di loro.
«Ebbene, chiederemo a quell’uomo di parlarci di San Miniato».
Ludovico aveva appena imboccato la via che lo avrebbe condotto verso Siena. I suoi pensieri ancora rivolti alla sua adorata Anna gli riempivano la mente. Respirò a fondo cercando la forza necessaria a muovere quei primi i, i più faticosi e dolorosi.
D’improvviso qualcuno lo chiamò.
«Buon uomo!» gridava la voce. «Dico a voi!».
Ludovico si girò. Un gruppetto si stava dirigendo verso di lui. L’uomo che lo aveva chiamato era un monaco dall’aspetto deciso e dal sorriso bonario.
«Scusate, ma il mio apprendista voleva domandarvi alcune cose sul paese da cui venite».
Il giovane frate alle spalle dell’anziano religioso divenne rosso in volto e in tutta fretta abbassò lo sguardo verso terra. Il nano al suo fianco iniziò a ridere dicendo qualcosa su una dolce verginella che vedeva per la prima volta il suo promesso sposo. Al contrario l’uomo, avvolto nella spessa cappa e dal viso coperto dal largo cappuccio, non proferì parola. La sua presenza in quello strano quartetto aveva subito messo a disagio Ludovico, ancora incerto su come comportarsi.
«Lasciate che mi presenti. Sono Anselmo da Paule» iniziò l’anziano monaco vedendo negli occhi dell’uomo incertezza e diffidenza.
«Le persone che vedete qui sono miei amici. Siamo tutti pellegrini diretti verso Roma. Quest’uomo al mio fianco si chiama Icaro mentre l’ometto con la lira è mastro Fagolio. Il giovane che vedete alle mie spalle è Gilberto».
«Il mio nome è Ludovico. Sono mastro ferraio di San Miniato» rispose il fabbro senza mai staccare gli occhi da Icaro, che ne ricambiava lo sguardo.
«Vi unireste a noi per la strada che dovete percorrere?» chiese Anselmo senza troppi preamboli. «Ci piacerebbe godere della vostra compagnia. Sapete, questo viaggio per alcuni di noi è motivo di apprendimento e ogni voce nuova che incroci il nostro cammino ha sicuramente qualcosa di interessante da rivelare».
Ludovico pensò alcuni istanti alla proposta del monaco. Viaggiare in compagnia sarebbe stato senz’altro più sicuro e, inoltre, avere l’occasione di parlare con qualcuno lo avrebbe aiutato a non pensare a casa.
«Accetto con molto piacere, padre Anselmo».
«Allora benvenuto nel nostro gruppo» disse Anselmo, elargendo una sonora pacca al robusto giovane.
Si rimisero in cammino procedendo con o lesto. Ludovico rispose a tutte le domande dei monaci. Raccontò le vicende storiche del piccolo borgo dal quale proveniva, dalle origini romane fino alla costruzione del castello e alla sua fortificazione. Raccontò di come fosse la vita fra quelle mura parlando dei pregi e dei difetti dei cittadini e di quanto fossero orgogliosi del loro operato e di essere parte di un luogo, a detta loro, così speciale.
«Questo mi fa capire che voi non siete originario di queste terre» fece notare Anselmo.
«Avete ragione. Io sono nato a Chiusdino, un borgo a metà strada tra Siena e Grosseto. Mi sono trasferito a San Miniato in seguito».
Anselmo non chiese al fabbro il perché del suo trasferimento poiché gli sembrava poco appropriato.
«Mastro Ludovico, se posso permettermi, cosa vi ha spinto verso questo pellegrinaggio? I vostri racconti lasciano intendere che siate dispiaciuto, quasi foste stato obbligato a lasciare la vostra fucina e la moglie che tanto amate».
Ludovico subito pensò di non rispondere a quella domanda; poi, però, si convinse a farlo: in fondo non vi era nulla di riprovevole nelle motivazioni del suo peregrinare, quei frati avrebbero capito quanto fosse importante per lui raggiungere Gerusalemme.
«Una promessa mi ha costretto ad abbandonare la mia casa. Lasciate che vi narri questa storia, forse dopo sarò in grado di farvi capire meglio il perché non ho potuto sottrarmi alla richiesta che mi è stata fatta».
F Sangue di Cristo
Come la morte di Cristo sulla croce creò nuovi uomini di fede e martiri.
Erano ate tre notti dall’ultima volta che aveva dormito. Tutte le volte che si sdraiava, quel volto pervadeva la sua mente: quegli occhi dorati, profondi e antichi, la bocca sottile che mai aveva proferito maldicenza, la pelle bruciata dal sole. Tutta colpa di quel dannato Caifa.
Lui e il suo maledetto territorialismo. Sotto l’impero questo non sarebbe dovuto succedere. I Romani, lungimiranti nel loro governo, avevano concesso a tutti di poter praticare il proprio credo. Ma questo alle caste sacerdotali sembrava non bastare.
La luce del mattino illuminò la stanza. Glauco entrò trafelato: la polvere, alzata dai suoi calzari, unendosi a un raggio di sole creò nell’aria una piccola cascata.
«Pilato chiede di te Gaio. Penso che sia per il Nazareno».
Il giovane sospirò. Non riusciva a trovare la forza per alzarsi. Perché doveva andare proprio lui? Non se la sentiva di rivedere quell’uomo, il suo volto, eppure doveva: come pretoriano aveva degli obblighi verso il suo signore.
Indossò la nera e lucida corazza di cuoio, per niente rovinata dal trascorrere del tempo e dagli eventi. Tutti i giorni se ne prendeva cura lucidandola e oliandola in modo da tenerne il cuoio morbido e pulito. Il bianco mantello fissato alle spalline, il gladio che pendeva dalla cintura, l’elmo stretto nella mano destra: sapeva che avrebbe dovuto metterlo ma aveva bisogno di sentire l’aria calda del deserto accarezzargli i capelli.
Le strade erano già colme di vita. I mercanti stavano allestendo i loro banchi. I bambini giocavano, mentre le madri lavavano i panni. Alcuni ragazzini iniziarono a corrergli attorno. Gaio allungò la mano per accarezzarne i crespi capelli scuri. Anche i malviventi erano già attivi: due loschi figuri lo guardavano di sottecchi, stavano sicuramente tramando qualcosa.
A pochi i dalla casa di Pilato indossò l’elmo dal folto cimiero dorato.
Fece appena in tempo ad attraversare la soglia che un lungo bastone tentò di colpirlo allo sterno. Gaio scartò di lato afferrando il legno poi, facendo perno sulle gambe, ruotò su se stesso trascinando l’aggressore che, preso alla sprovvista, rotolò a terra. Un battito di mani si levò alle loro spalle.
«Sei sempre il migliore mio caro Longino» affermò Pilato mentre Glauco, completamente impolverato, osservava l’amico incredulo.
«Sali Longino. Ho degli affari da affidarti».
Gaio Longino si incamminò verso l’interno della casa non prima però di aver deriso il suo goffo assalitore. Pilato, seduto su un seggio e intento a sorseggiare una coppa di vino, gli fece cenno di accomodarsi. Il pretoriano rimase in piedi al
cospetto del suo superiore.
«Longino, voglio affidarti un importante compito. Voglio che tu sia l’ombra del Nazareno».
Il giovane sentì il sangue defluirgli dal volto.
«Oggi si compirà il suo destino. Dobbiamo assolutamente impedire che qualcuno lo uccida prima del tempo. Conosci Caifa: se si fe prendere dal panico potrebbe ingaggiare un sicario e porre fine alla vita del falegname. Questo non deve accadere. Abbiamo bisogno di dare un esempio; un esempio religioso, politico e diplomatico».
Quelle parole lo paralizzarono. Avrebbe voluto rifiutare urlandogli in faccia che non voleva stare vicino a quell’uomo, che non gli interessavano la religione, la politica, la diplomazia.
Eppure non ci riuscì. Annuì dando la sua completa disponibilità e Pilato lo congedò. Uscito da quella casa, l’aria non lo consolava più. I bambini ora gli stavano alla larga: lo avrebbe fatto anche lui se avesse potuto vedere il suo viso. Prima di dare inizio a quella assurda rappresentazione ò al campo per prendere la lancia. Era certo che gli sarebbe servita.
Il sole era alto e l’esecuzione solo all’inizio. Quel gran bastardo di Caio se la stava proprio godendo. Prima la frusta, poi il nerbo, e ora il flagello: ogni colpo strappava un po’ di vita al Nazareno. Il volto di Caio era segnato dall’odio e dal piacere, ma quella notte avrebbe goduto molto meno. Gaio era del tutto intenzionato a spaccarsi le mani contro il suo brutto muso. Sempre che le sue
ossa fossero state così forti da rompere i cestus con cui le avrebbe ricoperte.
Ecco la croce, l’ultimo regalo di Caifa al Nazareno. Mentre gliela caricavano sulle spalle il sangue formava già una piccola pozza ai suoi piedi: le persone intorno non si lasciarono sfuggire uno sguardo di disprezzo. Non una voce si levava, non un insulto scuoteva la pace di quel momento. Nessuno si azzardava a muoversi: sembrava che il tempo si fosse fermato. Per la strada che portava al Golgota, tutto procedeva tranquillamente. Solo un uomo e una donna si avvicinarono cercando di alleviare le sofferenze del falegname. Gaio non si oppose al loro intervento limitandosi solo a lanciare uno sguardo truce ai pochi che provarono a protestare.
Le croci erano già erette quando il sole iniziò la sua discesa: lo avevano messo fra quei due maledetti, Disma e Gesta. Gaio ricordava di averli sorpresi, durante una ronda, mentre si approfittavano di una donna dopo averle rubato fino all’ultimo denaro. Era da tempo che li stava cercando. Fissò i loro volti sentendo l’ira salirgli dentro. Sarebbe dovuto arrivare prima, migliaia di volte prima. Ora sarebbe stata la croce a togliergli il piacere di prendere le loro vite.
Quando si soffermò sul Nazareno, si trovò a domandarsi il perché di quel trattamento. Lui non era come quelle due bestie, eppure fra i tre era quello che aveva maggiormente sofferto. Seduto su una pietra poco lontana, Gaio continuava a osservare la scena, distaccato, quel tanto che bastava a permettergli comunque di rimanere vigile. Il suo unico desiderio era che tutto finisse in fretta. Non voleva rimanere troppo coinvolto in quell’esecuzione. Non voleva che quegli occhi si posassero nuovamente su di lui. Non voleva più sentire la sua voce.
La terra cominciò a tremare.
Disma gridò.
«Lui vive! Lui vive! Dio è con Lui!».
Le sue grida scombussolarono l’animo già provato di Gaio. Doveva farlo smettere di urlare. Il Nazareno era morto. Niente lo avrebbe riportato in vita, era morto e basta. Gaio corse sotto le croci. Il ladrone gridava senza sosta. Con l’asta della lancia lo colpì, all’altezza del plesso, così forte da spezzargli il fiato.
«Ti ho detto che è morto!» affermò incollerito ruotando l’arma e affondando la punta nel costato del falegname.
Acqua e sangue colarono sulla lama imbrattando il viso del giovane, toccandone le labbra. In quell’istante Gaio vide creare la vita: comprese per un attimo ciò che le stelle celavano. Divenne una cosa sola col creato percependo il tocco di Dio.
«Non piangere figlio mio. Nessuno ti condannerà per ciò che hai fatto. Va ora. Credi e vivi».
Un mondo nuovo si era aperto davanti a suoi occhi. Ora lo vedeva, il Cristo. Non era morto. Viveva. Sì, viveva.
Disma gridava. Gli esecutori gli avevano fracassato le ginocchia. Ora volevano quelle di Cristo. Gaio si frappose fra loro e la croce. Ne afferrò uno per la veste.
«Andatevene!» gridò contro di loro.
Spinse via l’uomo facendolo cadere. I suoi compagni, impauriti, se ne andarono.
Sentì un pianto di donna, un pianto di madre. Il suo pianto. Tutte le lacrime del mondo erano per lui.
Gaio lasciò l’elmo sul Golgota insieme al mantello. La sera stessa partì per la sua terra natia. Sapeva già che, ati cinque anni, Glauco sarebbe andato a prendere la sua testa. Per allora però, Gaio Longino avrebbe già creato qualcosa capace di ricordare al mondo il suo Messia.
«Si dice che Longino avesse lasciato la punta di quella mistica lancia a Giacomo d’Alfeo, il più giovane degli apostoli, che la fuse per ricavare il pastorale col quale diffuse il verbo di Cristo. Martirizzato trent’anni dopo la morte del suo maestro, Santo fra i Santi, venne seppellito a Gerusalemme ma nessuno sapeva dove. Il suo corpo era scomparso e con esso il pastorale simbolo d’immensa fede. Dopo la prima spedizione in Terra Santa molti dei nobili delle nostre terre si stabilirono a Gerusalemme per custodirla e proteggerla. Anche Guidotti di Chiusdino vi rimase. In quei giorni dediti alla cristianizzazione di quei territori trovò il pastorale posseduto da Giacomo e di cui si parla nella leggenda.
Pochi giorni fa Guidotti mi ha inviato una missiva: richiamava una vecchia promessa che gli ho fatto prima di lasciare Chiusdino. Nella lettera mi chiedeva di raggiungerlo a Gerusalemme per prendere in custodia la preziosa reliquia».
Quella rivelazione lasciò tutti sbigottiti. I monaci si segnarono levando una silenziosa preghiera al cielo.
Icaro sembrava sconvolto da quella storia: sembrava quasi perso in se stesso, e questo non ò inosservato agli occhi di Anselmo che aveva già notato nell’uomo quello strano comportamento. Il monaco rammentava la medesima reazione quando, la notte precedente, Fagolio aveva cantato la storia del folletto, in particolare quando il nano si era soffermato sulla stupidità del popolo e sul diniego del vassallo nei confronti dei suoi stessi sottoposti. Anselmo sentiva che quell’uomo tetro, che nascondeva il suo corpo sotto quei neri abiti, occultava in sé qualcosa di profondamente doloroso.
Una coltre di distaccati pensieri, speranze e timori era scesa sulla compagnia relegando ogni membro a un’intima solitudine. Superarono senza fermarsi la Pieve di Chianni, una chiesa a tre navate annoverata dall’Arcivescovo Sigerico di Canterbury fra le tappe del suo viaggio lungo la via Francigena.
Anche il pranzo a base di ventre del tavernaio¹⁵, consumato in una taverna all’incrocio tra la Francigena e la strada che portava al castello di Gambassi Terme, si era svolto nel più profondo e contemplativo dei silenzi.
«Io non resisto più!» sbottò Fagolio dopo alcune ore di taciturno cammino. «Tutti silenziosi, senza un sorriso o una parola. Amici miei ma che vi è successo? Siate allegri e non pensate ai vostri destini. Non sprecate le vostre vite a rimuginare, vivetele! Non è forse questo che dice anche Gesù, padre Anselmo?».
«Gesù dice che la vita è un bene prezioso e che sprecarla è forse il maggiore dei peccati».
«Allora perché non sorridete?» disse il nano, che da quando aveva iniziato a
parlare saltellava e correva attorno al gruppetto di viandanti per trasmettere loro energia.
Anselmo seguì il consiglio del giullare. Le parole del nano avevano diradato la nebbia che avvolgeva la sua mente. Quella distrazione era stata sufficiente a riportarlo alla realtà delle cose e, come per lui, aveva avuto un effetto positivo anche per gli altri.
«Dai Icaro, raccontaci una delle tue storie. Sapete», continuò il nano rivolgendosi ai tre, «Icaro è bravo quasi quanto me. Conosce tantissime storie che parlano della natura e degli animali. Di elfi, fate e antiche credenze. Vero Icaro? Di’ loro quante ne sai di queste storie. Ricordo quella della sirena che risale il fiume con la catena d’oro ad annunciare la fine del mondo. Se ci penso mi vengono ancora i brividi! Quella notte, accampati davanti al fuoco presso un vigoroso rio, temetti veramente di vedere quell’essere mitologico. A essere sincero ne ho introdotte alcune anche nel mio repertorio. Spero che nella Città Eterna sapranno apprezzarle».
Icaro continuò a camminare senza dar troppo peso al nano che insisteva nel maldestro tentativo di convincerlo.
«Suvvia non essere timido. Racconta ai nostri amici una storia».
«Solo se poi mi prometti di startene buono in un angolo fino a San Gimignano».
«Te lo prometto!» disse il bardo portandosi le mani dietro la schiena.
«Già una volta sono caduto vittima delle tue promesse balorde» fece notare Icaro, strattonando il nano che si vide costretto a metter le mani ben in vista. «Ora prometti e poi cuciti quella boccaccia».
Fagolio, mogio, promise.
I due monaci e il fabbro avevano seguito tutta la scena incuriositi. Nessuno dei tre avrebbe mai sospettato che quell’uomo così cupo fosse in grado di intrattenere la gente. Sembrava più che altro un essere introverso nato dalla bruma della notte. Niente di lui sapeva di umano, eppure tutti avevano percepito in Icaro qualcosa che andava ben oltre il suo aspetto esteriore: sembrava che la vita nei suoi confronti fosse stata avara di serenità e prodiga di dolore. Tuttavia non doveva averlo piegato completamente. Il suo spirito era forte e qualcosa di alto e importante guidava i suoi i.
«Visto che Fagolio ha tanto insistito, vi racconterò questa storia ormai divenuta leggenda in queste terre. Vi chiedo solo di sostare per il tempo necessario a raccontarla. Purtroppo il mio corpo non mi permette di parlare per troppo tempo mentre cammino».
«Una sosta penso che farà bene a tutti quanti» affermò Anselmo, sostenuto dallo sguardo del suo apprendista, pallido in volto come un cencio.
Tutti si sedettero ai margini della strada dove la boscaglia era rada e l’odore dell’erba fresca inebriava l’aria.
«Fagolio, un giro di accompagnamento se non ti dispiace. Che sia dolce e delicato».
«Come comanda sua grazia!» ironizzò il nano, facendo poi il gesto di sigillarsi le labbra come da promessa.
L’uomo iniziò a narrare la sua storia rapendo l’attenzione dei suoi compagni fin dalle prime battute.
F Vero figuram habet Diaboli
Come Bonifacio di Canossa decise di erigere uno splendido castello su un dolce colle nei pressi di Borgo Marturi¹ e dovette affrontare un’infausta presenza.
Le carte invadevano la superficie del massiccio tavolo d’ulivo. L’anello con il sigillo, riportante l’araldo che gli dava potere di vita e di morte sulle marche di Toscana, era appoggiato al centro. Con un gesto lento delle dita si massaggiò gli occhi nel tentativo di eliminare quella patina di stanchezza che ne ottenebrava i pensieri.
La guerra per la Borgogna al fianco di Corrado II aveva dato fondo a tutte le sue forze. Sentiva l’assoluto bisogno di ritemprare le proprie energie. Fu questo il motivo ultimo che lo aveva spinto a incaricare Mastro Alberto della costruzione di un nuovo castello nei pressi di Borgo Marturi.
La collinetta che spiccava su quella valle dai dolci pendii aveva catturato subito la sua fantasia regalandogli l’immagine di un maniero immerso nella boscaglia che, dalla sua altezza, osservava senza timore l’avvicinarsi del nemico. Un luogo di cui godere in tempo di pace, capace di rinfrancare lo spirito attraverso l’unione dell’uomo con la natura selvaggia di quelle terre.
Ancora immerso nei suoi pensieri, non si era accorto che qualcuno aveva chiesto il permesso di entrare nella stanza. Valentino entrò nello studio non appena Bonifacio glielo concesse. Il paggio portava con sé una missiva inviata da
Mastro Alberto.
Bonifacio ruppe la ceralacca che sigillava i due lembi di pergamena. Il Marchese non avrebbe mai creduto che l’impeccabile calligrafia di Alberto, sinuosa e dalle perfette linee ondulate, potesse portare così cupe notizie. L’architetto informava il suo committente che spiacevoli avvenimenti stavano accadendo nel luogo in cui erano stati fatti gli scavi ed era stata posata la prima pietra del nuovo maniero. Secondo le parole vergate dall’architetto, una bestia famelica si aggirava nella zona: l’essere, che appariva solo nelle ore notturne, aveva già ucciso parecchi manovali privando di ogni coraggio i sopravvissuti. Alberto stesso era stato aggredito da quell’essere ma fortunatamente era scampato alle sue fauci riportando solo una lieve ferita al braccio. La missiva si concludeva con la richiesta dell’invio di un piccolo contingente di soldati, utili sicuramente a rassicurare i manovali e a difenderli in caso la belva si fosse fatta nuovamente vedere.
Bonifacio soppesò la lettera con fare meditabondo. Se un uomo pragmatico come Alberto aveva fatto una richiesta simile, sapendo quanto la disponibilità di armigeri fosse importante in quel momento, significava che in quelle terre stava succedendo effettivamente qualcosa che la stessa mente analitica dell’architetto faticava a comprendere. Incuriosito più che preoccupato, Bonifacio istituì un gruppo di volontari, quattro cavalieri che inviò nei pressi di Borgo Marturi con l’ordine di indagare su quei macabri avvenimenti e difendere gli operai impegnati nell’edificazione; avrebbero dovuto obbedire a ogni ordine impartito da Alberto come se fosse stato un suo ordine diretto.
I cavalieri partirono la mattina seguente. Cavalcarono per un giorno intero prima di raggiungere le porte di Borgo Marturi e da lì impiegarono alcune ore per arrivare nella zona dei lavori.
Sul posto trovarono una decina di uomini dai volti pallidi e smunti che, non appena li videro, si illuminarono attraversati da un barlume di speranza. Fra di
essi, un uomo alto dai corti capelli ricci, avvolto in una giacca giallognola, si fece loro incontro.
«Benvenuti cari amici. Sapevo che il buon Marchese non ci avrebbe abbandonati. Sono Mastro Alberto».
«Saluti a voi. Bonifacio Marchese di Toscana ci manda per servirvi».
«Sono veramente grato al Marchese per l’onore che mi riserva. Là troverete biada e acqua per i vostri cavalli» disse Alberto, indicando una piccola costruzione di legno dalla cui porta aperta si intravedeva il giallo paglierino della granaglia. «Fate pure con comodo, mi troverete nella mia baracca. La notte è ancora lungi dal venire».
Nel pronunciare quelle parole la sua espressione cambiò come mutò quella dei manovali che quasi all’unisono si fecero il segno della croce.
Il capitano del manipolo di soldati, impastoiato il suo baio, bussò alla porta della baracca dove Alberto era intento a lavorare.
«Entrate e accomodatevi».
Il capitano entrò e si sedette su una robusta sedia di legno.
«Mastro Alberto, il Marchese Bonifacio nell’inviarci a voi ci ha fatto richiesta di
indagare sulle violenze che si sono perpetrate qui nella selva. Se foste così gentile da spiegarmi chiaramente i fatti potrei rendermi conto da chi esattamente dovrei difendervi».
«Non da chi», lo corresse Alberto, «ma da cosa. Posso assicurarvi che mai in vita mia ho visto essere più abbietto e feroce. È apparso per la prima volta la notte in cui poggiammo la prima pietra, e ha fatto subito capire le sue intenzioni. Lui non ci vuole. Questo posto è suo, per questo la prima vittima è stato l’addetto alla posa. Tutti qui dicono di aver sentito solo un pianto sommesso e l’impercettibile fruscio dell’aria che si spostava velocemente. La mattina la testa dell’operaio faceva bella mostra di sé dentro lo scavo. Gli uomini, pieni di rabbia, hanno subito dato la colpa a un animale e per catturarlo, la notte seguente, hanno istituito dei turni di guardia. Verso la metà della nottata l’intero campo è stato svegliato da forti rumori di lotta e, quando siamo usciti, abbiamo trovato morti tutti gli uomini di guardia, i loro corpi dilaniati e sbranati. Tutti ci siamo chiesti quale animale in questi boschi avrebbe potuto compiere un tale scempio. La paura ha iniziato a farsi largo in noi e ogni notte è stato sempre peggio. Abbiamo cominciato a chiuderci nelle baracche dove gli uomini avano notti insonni timorosi di addormentarsi per sempre. I lavori hanno rallentato fino a fermarsi, così sono stato costretto a prendere la decisione di chiedere aiuto al Marchese».
«Non avete mai visto questa creatura?».
«Potreste mai vedere il diavolo?».
Ammutolito, il capitano fissò il suo interlocutore nel tentativo di capire se in lui fosse germinato il seme della follia.
«Comprendo di poter sembrare folle ma, credetemi, non sto mentendo e la mia
mente è ancora perfettamente lucida».
«Vi credo Mastro Alberto. Stanotte veglieremo noi, voi riposate tranquillamente».
«Vi prego solo di stare attenti e di non abbassare mai la guardia. Quando vedrete argentee saette al chiaro di luna sarà già troppo tardi» sussurrò Alberto, sfregandosi l’avambraccio ferito, al capitano ormai fuori dalla baracca.
I quattro soldati si posizionarono nei pressi dello scavo tenendosi tutti a distanza di vista l’uno dall’altro. Protetti da usberghi di cuoio rinforzato, aggirandosi nella zona dei lavori, tenevano ben salda la presa sulla spada.
Un leggero fruscio di foglie giunse alle loro orecchie. I tre si voltarono insieme nella direzione del loro quarto compagno. Il soldato sembrò avvolto, per l’istante di un battito di ciglia, da una scura forma dai riflessi argentei che poi si era rigettata nel folto della boscaglia. I tre, preoccupati, corsero subito verso il loro compagno ancora immobile e lo trovarono con la gola squarciata.
«Dannato!» imprecò il capitano.
«Mettiamoci spalla contro spalla. La prossima volta che uscirà lo uccideremo».
I due soldati ubbidirono immediatamente ai comandi del capitano e, prendendo come punto centrale la prima pietra deposta, si posizionarono a difesa estendendo in avanti le lunghe spade con cui erano equipaggiati.
Ancora una volta il fruscio che annunciava l’arrivo dell’essere famelico si fece strada nel silenzio della notte. Vedendosi velocemente caricare da quell’oscura massa uno dei soldati, in preda al panico, indietreggiò inciampando sul compagno alle sue spalle, tirandolo a terra nella caduta. L’essere a quel punto scartò in direzione del capitano, unico dei tre ancora in piedi. L’uomo, mantenendosi ben saldo sulle gambe caricò il colpo che scese verso l’essere mancandolo. Nuovamente la bruma scura dai riflessi argentati oltreò il soldato e nuovamente, quella notte, un uomo perse la vita.
«Franco sei uno stupido! Hai fatto uccidere il capitano!».
«Non è stata colpa mia! Mi stavo solo assestando! La sorte avversa mi ha fatto inciampare».
«Lasciamo stare e rialziamoci in fretta. Quella cosa non aspetterà i nostri comodi».
Nuovamente in piedi i due iniziarono a muoversi lentamente in direzione delle baracche.
«Ti confido, Guiberto, che ho paura. Hai visto quanto è veloce. Cosa sarà?».
«Non so che cosa possa essere ma sicuramente niente di umano o di questo mondo» rispose il soldato segnandosi.
«Facciamoci aprire la porta da Mastro Alberto. Una volta dentro aspettiamo il giorno e...».
«Fa’ silenzio. Non hai sentito quel rumore?».
«Ora lo sento. Guarda... qualcosa si muove laggiù!».
Il soldato si girò per vedere con i suoi occhi ciò che il pavido compagno aveva visto.
Le foglie di un folto cespuglio tremavano vistosamente.
«Finalmente ti sei tradita bestia infernale».
Scambiandosi uno sguardo di intesa i due si scagliarono contro il cespuglio fendendolo più e più volte. La lama tagliò i rami fino a uscirne rossa di sangue e Alberto scostò le foglie per vedere cosa si celava nel cespuglio. Il soldato sorrise e di rimando sorrise anche il suo compagno.
«Era solo un porcospino. Ci siamo fatti giocare».
Nell’attimo stesso in cui l’ultima sillaba usciva dalla sua bocca, l’essere dai riflessi argentati balzò in avanti dalla direzione opposta del cespuglio.
Il soldato sentì solo lo schiocco rapido di una mascella seguito dal secco rumore delle ossa spezzate, prima di vedere il corpo esanime di Guiberto trascinato per la testa nel folto del bosco. Franco iniziò a urlare e piangere. In preda al panico corse verso la baracca lasciando cadere a terra la spada.
«Aprite! Aprite vi prego!» urlava battendo forte contro le assi della porta. «Vi prego fatemi entrare!».
Dalle baracche non giungeva alcuna risposta. L’uomo continuò a battere per parecchi minuti finché la sua attenzione non fu catturata da un basso mugolato proveniente dalle sue spalle. Occhi gialli avvolti nella più tetra oscurità erano fissi su di lui. L’essere balzò in avanti. Alberto all’interno della baracca sentì il rumore di diversi colpi che si abbattevano sulle assi di legno delle pareti. La lotta sembrò tremenda, poi rimase solo il silenzio.
I manovali alla mattina trovarono il soldato raggomitolato sul tetto della baracca di Mastro Alberto e con una scala lo aiutarono a scendere. L’uomo intirizzito per aver ato una notte all’addiaccio era ancora ricolmo di terrore. Gli portarono una scodella fumante di minestra di segale, preparata per la colazione degli operai, e lo avvolsero in una spessa coperta di lana.
Mastro Alberto gli si avvicinò.
«Cos’è accaduto la notte scorsa? Dove sono i tuoi compagni?».
Come trascinato nuovamente alla realtà, il soldato riprese consapevolezza di sé.
Il calore della zuppa lo aveva rinvigorito. La sua mente ripercorse gli attimi che lo avevano portato in quel luogo e in quel momento. Di scatto si sollevò dal panchetto su cui sedeva, lasciando che la coperta cadesse a terra, e con un pugno colpì al volto Alberto, che cadde a terra.
«Questo, brutto bastardo, è per non avermi aperto la porta la scorsa notte».
Tutti fissarono l’architetto ancora a terra che si premeva la guancia incapace di ribattere.
«I miei compagni sono morti. Tutti dilaniati dagli artigli di quell’essere!» affermò il soldato.
«Allora è un demone» disse un manovale. «Non vi sono bestie che calchino la terra in grado di sbaragliare tre soldati armati e ben protetti».
Il soldato, sentendo quelle parole, iniziò a ridere.
«Si può sapere che ci trovate di così buffo voi che avete avuta salva la vita per pura fortuna?».
«Rido perché non di demone si tratta ma proprio di bestia. L’essere che assedia questo luogo altro non è che una volpe. Ora non fraintendetemi, non è una volpe qualunque. Il suo manto è argentato, ha zanne lunghe come coltelli ed è grande come un uomo».
«Mio Dio» fecero in coro i manovali. «Un messo del demonio qui in mezzo a noi! Che Dio ce ne scampi!».
«Ora che intendete fare?» chiese Mastro Alberto rialzatosi da terra.
«Tornerò dal Marchese a spiegargli la situazione. Sono certo che faremo presto ritorno con uomini atti a catturare un così astuto animale».
La penna intinta nell’inchiostro si muoveva rapida sulla pergamena.
Imposto il sigillo, ò la lettera a Valentino.
«Corri dal tesoriere con questa» ordinò Bonifacio al paggio. «Inoltre, prima di far ritorno nelle mie stanze, convoca il Predatore».
«Sì mio signore, come comandate».
Il soldato era ancora sull’attenti.
«Ebbene figliolo. La storia che mi hai raccontato ha dell’incredibile ma nonostante questo ti credo. Giorni oscuri sono quelli in cui viviamo. Guerre e tradimenti per il potere si susseguono ininterrottamente ed è chiaro che il male richiami a sé il male. Nostro dovere è quello di debellarlo. Domani partiremo con un piccolo contingente portando con noi il Predatore».
«Verrete con noi signore?».
«Certo. Voglio vedere l’essere che ha messo in difficoltà i miei valorosi uomini. Ora va, torna a casa e riposati fino alla nostra partenza. Fa’ visita ai famigliari dei tuoi compagni. Domani, prima di lasciare il borgo, lo farò anch’io».
Senza aggiungere altro il soldato fece un breve inchino e lasciò la stanza.
Bonifacio si sentiva sempre più stanco. La vita a Firenze in quei giorni era insostenibile.
Il viaggio e l’avventura che lo attendevano lo avrebbero sicuramente sfinito nel fisico, ma al contempo avrebbero liberato la sua mente dalle noie di quella vita signorile.
Il giorno seguente un contingente formato da dieci cavalieri sfilò per le strade di Firenze: Bonifacio, accompagnato da otto soldati tra cui Franco e il Predatore, lasciò poi la città al galoppo e raggiunse Borgo Marturi nel tardo pomeriggio. Lì ad attenderli trovarono Mastro Alberto e alcuni dei suoi braccianti.
«Mio Signore vi attendevamo con ansia. Siamo dovuti fuggire dal campo, la volpe ha ucciso altri uomini dopo che il vostro soldato è partito per informarvi».
«Mastro Alberto, non disperate più. Ho portato con me il miglior cacciatore di Toscana. Catturerà la volpe e noi tutti potremo tornare alle nostre mansioni».
L’uomo che il Marchese aveva indicato come il Predatore scese da cavallo. Una profonda cicatrice avanzava lungo la parte sinistra del volto attraversandogli un occhio bianco come il latte. L’uomo, di corporatura massiccia, tese la mano all’architetto che la strinse gentilmente.
«Ora che le presentazioni sono state fatte, riposiamoci. Domani mattina andremo tutti insieme all’altura per vedere la volpe catturata durante la notte dal nostro cacciatore».
«Non siate così sicuri di riuscirvi. Quella volpe è più scaltra di qualsiasi cacciatore».
Il vecchio che aveva parlato stava seduto su un basso gradino di mattoni. La bottega alle sue spalle portava l’insegna degli erboristi.
«Voi che ne sapete delle mie doti?» chiese il Predatore.
«Delle vostre doti ben poco. Sta di fatto che in molti hanno provato a catturare quell’essere e mai ci sono riusciti. Vive in quei boschi da sempre e non vi è trappola che non abbia imparato a fuggire. Ti auguro buona fortuna Predatore, ne avrai bisogno».
«Vi prego di smettere, Pietro» proruppe Alberto.
Il vecchio non replicò alle parole dell’architetto, si alzò e rientrò nella sua
bottega tutt’altro che sconfitto.
La notte era scesa ormai da parecchie ore. La piccola radura creata per ospitare lo scavo del futuro maniero era illuminata dalla luna piena. Il Predatore era appostato sopra una piatta sporgenza rocciosa in attesa che la fiera fe la sua comparsa. Aveva impiegato le ultime ore del giorno per disseminare la zona con una ventina di trappole.
Tagliole, buche e cappi erano stati posizionati nei punti più strategici del campo e ognuna di queste trappole era stata resa invitante con la carogna di piccoli animali, quali conigli e lepri.
Com’era avvenuto per le sue altre apparizioni, l’arrivo della volpe fu preceduto da un leggero fruscio ma, a differenza delle precedenti, il suo o era lento e circospetto quasi che avesse percepito il pericolo dell’imboscata. Il Predatore eliminò subito quel pensiero dalla sua mente rimanendo immobile a osservare lo splendido e feroce animale.
La sua pelliccia dal pelo folto era color dell’argento. Il muso, steso in avanti ad annusare l’aria, era piatto e lungo e dalla bocca sottile sporgevano aguzzi canini ricurvi che le davano un aspetto ghignante e diabolico. La fiera muoveva la testa a destra e a sinistra come se fosse alla ricerca di qualcosa. Per alcuni istanti i suoi occhi gialli si appoggiarono sul Predatore sempre più appiattito alla superficie rocciosa. Quello sguardo gelido e ancestrale fece scendere una goccia di sudore dalle sue tempie. La belva distolse lo sguardo rimettendosi a fiutare. In breve tempo si mosse evitando le prime cinque trappole.
«Dannazione!» imprecò il Predatore fra sé.
La volpe era nuovamente ferma. Ancora fiutava l’aria in cerca della sua preda.
Il cacciatore chiuse istintivamente gli occhi nella speranza di eliminare il carico d’ansia che lo stava divorando. Mai in precedenza una preda lo aveva reso così nervoso. Riaperti gli occhi la volpe era sparita. Dove poteva essere andata? Il Predatore, rimanendo nell’ombra, si sollevò leggermente. Nella radura non vi era traccia della volpe e nessuna delle trappole era scattata.
Una sensazione di disperazione si fece largo nel suo animo fino a quando non venne invaso dal terrore provocato dal basso respiro della fiera. Scattando rapidamente il Predatore si girò ma la volpe con uno slanciò gli fu sopra. L’uomo sorrise sapendosi sconfitto da un animale ben più astuto di lui. Sollevando il muso, la volpe tranciò via la carne dal suo collo.
Bonifacio accolse la notizia della morte del Predatore nel peggiore dei modi. Salito sull’altura, in compagnia del suo seguito e dei curiosi, il Marchese nel vedere il corpo esanime del Predatore steso sulla roccia non poté fare a meno di imprecare sfogandosi su un sacco di segatura posato fra gli strumenti di lavoro.
«Maledizione! Questa storia mi ha stancato! Questa belva mi ha stancato! Stanotte penserò io personalmente a ucciderla quanto è vero che il mio nome è Bonifacio Marchese di Toscana!».
«Mio signore non mettete a repentaglio la vostra vita in un momento così delicato. La vostra morte avrebbe gravi conseguenze per le nostre terre».
«Chi ti dice che morirò, uccellaccio del malaugurio?» ribatté Bonifacio azzittendo il povero Alberto, che si sentì quasi morire dalla vergogna.
«Se il buon Marchese è intenzionato ad affrontare la Volpe d’argento lo faccia pure, ma segua almeno il consiglio di un povero vecchio».
«Voi! Smettetela di parlare per enigmi e spiegateci cosa sapete!» fece il Marchese, sempre più irritato dall’anziano erborista.
«Una vecchia storia che mia nonna raccontava sempre. Per catturare e uccidere un essere diabolico dei boschi è necessario usare un cappio d’oro. L’oro, elemento puro del colore del sole, ha il potere di esorcizzare questi spiriti e scacciarli dalla terra per rigettarli nell’oscurità dalla quale sono usciti».
«Visto che nessuna trappola o spada ha avuto effetto voglio fidarmi delle tue parole vecchio. Procuratemi questo laccio, così da poter affrontare la belva e questa volta ucciderla definitivamente».
Quella notte Bonifacio non si nascose come fece il Predatore e non si aggirò per il campo come i suoi soldati. Rimase fermo, eretto sull’unica pietra del suo nuovo maniero.
Strette nelle mani le uniche armi di cui aveva bisogno: un corto pugnale e uno spesso laccio d’oro.
L’attesa per il nobile fu breve: la volpe, regale e maestosa, gli si parò davanti sfidandolo apertamente. La luna ancora alta illuminava la radura. L’atmosfera eterea che si era creata pareva la stessa che i menestrelli andavano raccontando nelle loro storie di cavalieri. I due si osservavano muovendosi in cerchio.
Entrambi dimostravano timore verso il loro avversario, consapevoli del fatto che la prima mossa sarebbe stata quella decisiva.
All’unisono si gettarono l’uno verso l’altro. La volpe snudò le zanne. Il Marchese, muovendosi più rapido, scartò di lato evitandole e, al contempo, lasciò scivolare il cappio lungo il muso della belva. Imprigionata da quel guinzaglio d’oro la volpe iniziò a gemere e tirare digrignando i denti. Bonifacio non si lasciò intimorire e, rinsaldando la sua presa sul laccio, iniziò a tirare finché la belva non cadde a terra stremata. Il Marchese si avvicinò all’animale senza mai diminuire la pressione sul cappio. Non appena fu a pochi i la volpe si rialzò assalendolo velocemente. I due rotolarono l’uno sull’altro. Bonifacio evitò di nuovo le fauci della belva che si limitarono a graffiargli il volto. Continuando a stringere, Bonifacio riuscì a liberarsi bloccandola sotto le sue gambe. La stretta del cappio d’orato era sempre più intensa e infine la volpe smise di ringhiare. L’ultimo fiato che emise ricordava l’addio sul letto di morte di un padre ai propri figli.
Tutti lodarono il grande coraggio e l’immensa forza del Marchese di Toscana che, solo, aveva affrontato la morte liberando quei boschi dalla presenza malvagia della volpe.
«Noto che il cappio d’oro ha funzionato mio Signore» disse il vecchio rivolto al Marchese.
«Sì Pietro. Il vostro consiglio è stato d’aiuto».
«Allora mio buon signore lasciate che ve ne dia un altro. Anche questo è preso da antiche storie. Si dice che quando un luogo è infestato da un essere simile a questo, si mantiene in fortuna fintanto che il corpo dell’essere rimane integro e presente. Ciò vuol dire che questa collina non appena il corpo della Volpe
marcirà diventerà un luogo maledetto».
Ancora trafelato per la lotta, Bonifacio si lasciò cadere a terra immergendosi il volto fra le mani. Rimase immobile in quella posizione per parecchi minuti tanto che molti dei presenti si chiesero se non fosse morto per lo sforzo o per le ferite subite.
«Ci sono!» esclamò a un tratto alzando il volto al cielo.
«Fate portare il corpo della volpe a Borgo Marturi. Lì la impaglieremo riempiendola d’oro, così non si decomporrà e nessuno spirito potrà tornare a minacciare queste terre sotto le sembianze di una volpe. Successivamente farò seppellire l’animale nelle stesse fondamenta del maniero che battezzerò col nome di Strozzavolpe, così da renderlo impenetrabile. Infine, metterò una triade di soldati scelti a custodirne il riposo. Essi saranno armati con spade e cappi d’oro. Qui ho parlato. Qui è deciso il mio volere».
arono più di ottant’anni da allora. I tre cavalieri morirono e tutti si dimenticarono della volpe finché, qualche anno fa, il figlio adottivo di Matilde di Canossa, Guido Guerra, fece suo il castello ordinando l’inizio dello scavo di una galleria che lo potesse far uscire dal maniero in caso di pericolo. In quel periodo ho sentito da un mercante che uno dei manovali che operavano allo scavo è sparito misteriosamente. Sembra che nel posto in cui stava lavorando sia stata rinvenuta una grande buca vuota circondata da pietre e che, sul suo bordo, fosse piantata una spada sporca di sangue la cui lucente lama, completamente d’oro, ricordava una di quelle regalate da Bonifacio ai custodi della Volpe.
«Questa storia è veramente molto bella» disse Ludovico.
«Che ne dici Gilberto?» chiese Anselmo. «Magari nel tornare potremmo chiedere ospitalità ai signori di Strozzavolpe. Forse riusciremo a vedere lo spirito di questo antico essere».
Gilberto non rispose. Il discepolo si era seduto con la schiena contro il tronco nodoso di un ulivo e lì era svenuto senza mettere in allarme i compagni.
Anselmo gli si accostò per controllare che respirasse, poi lo scosse nel tentativo di farlo riavere.
Gilberto sollevò a fatica le palpebre.
«Che succede, maestro?». Il giovane aveva gli occhi gialli e il volto pallido. Alle poche parole emesse seguirono spastiche contrazioni dello stomaco che lo obbligarono a rimettere.
«Gilberto mi senti? Svegliati Gilberto!» ripeteva l’anziano monaco.
Il giovane era nuovamente svenuto.
«Dobbiamo portarlo al più presto da un cerusico» disse Ludovico. «Ho visto questi stessi sintomi durante un banchetto a casa di un ricco mercante che mi aveva commissionato una spada per il figlio. Ricordo che uno dei commensali si era sentito poco bene, anche lui aveva il volto ceruleo. Se non ricordo male qualcuno aveva parlato di avvelenamento».
Anselmo strabuzzò gli occhi.
«Non c’è tempo da perdere allora» sentenziò Icaro. «Se di avvelenamento si tratta, più rimaniamo qui più le sue condizioni peggioreranno. Se ci sbrighiamo riusciremo a essere a San Gimignano in tre ore. Fagolio portami dell’acqua e bagna queste pezze» ordinò mentre ava il necessario al giullare.
«Ludovico, ho bisogno del tuo aiuto. Taglieremo dei rami spessi e costruiremo una lettiga. Trasportandolo in due saremo più veloci».
«Mi sembra un’idea sensata, ti seguo».
Anselmo rimase al capezzale dell’apprendista. La fronte del giovane, imperlata di sudore, era bollente. Quando i tre tornarono, videro che l’anziano monaco non si era spostato e che aveva continuato a fissare il giovane con sguardo vacuo per tutto il tempo.
«Padre Anselmo ve ne prego, spostatevi».
Inebetito, l’anziano monaco guardò Icaro che lo fece spostare di lato.
«Ludovico, sollevalo per le spalle».
I due alzarono Gilberto e lo sdraiarono sulla barella costruita con robusti rami, tenuti insieme dai brandelli del mantello di Icaro che ora non era più celato dall’ampio tessuto. Non solo il volto ma anche il capo e ogni centimetro di pelle era celato in abiti di cuoio scuro. Lunghe cinghie stringevano la casacca al magro torace così come i guanti e gli stivali si allacciavano alle maniche e alle gambe.
Fagolio era tornato con un grosso otre di capra ricolmo d’acqua. Avvicinatosi a Gilberto, gli appoggiò una pezza bagnata sulla fronte.
«Ora che ci siamo tutti possiamo partire».
«Riuscirai a trasportare la barella per così tanta strada? Mi sembra di aver capito che anche le tue condizioni di salute non sono ottime» si informò Ludovico con tono preoccupato rivolgendosi a Icaro.
«Ti ringrazio per l’interesse ma sono sicuro di farcela» rispose l’uomo.
«In ogni caso, quando sentirai di non riuscire a proseguire, non farti scrupoli a dircelo».
«Me ne ricorderò».
Tutti percepirono le labbra nascoste dell’uomo contrarsi in un sorriso sincero che ne illuminò lo sguardo.
San Gimignano si ergeva su un colle che dominava l’intero territorio. Agli inizi del decimo secolo gli abitanti decisero di rinominare il loro piccolo villaggio, di origine etrusca, col nome di un Vescovo modenese vissuto ben cinque secoli prima. La leggenda narrava che questo sant’uomo avesse protetto la città di Modena dai brutali barbari che calavano dal nord. In segno di rispetto e nella speranza che la protezione del santo scendesse anche su di loro, i paesani chiamarono il loro villaggio San Gimignano.
La salita che portava verso l’ingresso del borgo era piuttosto ripida.
Ludovico si arrestò abbassando le braccia fino ad appoggiare a terra il lato della lettiga che sosteneva.
«Che ti prende?» chiese Icaro ansimando e reggendo tutto il peso di Gilberto con le braccia magre.
«D’ora in avanti lo trasporterò da solo».
Icaro provò a ribattere ma il fabbro lo fermò alzando una mano «Non ti accorgi che sei allo stremo delle forze? Il tuo corpo non sopporterà questo sforzo ancora per molto e abbiamo già una persona di cui preoccuparci».
Icaro non ribatté, limitandosi ad appoggiare con delicatezza la barella. Ludovico si chinò sul giovane, il cui respiro affannato non prometteva nulla di buono, e lo afferrò per la vita caricandoselo in spalla. Percepì ogni muscolo tendersi per lo sforzo. Quella sensazione era piacevole perché gli ricordava la tensione che provava ogni volta che batteva, per ore, l’acciaio incandescente.
Fagolio intanto corse avanti verso la posterla, superando dal fianco la fila di carri in attesa di entrare. San Gimignano grazie alla sua posizione strategica e alle sue spesse mura, che ne facevano un posto sicuro nel quale sostare, era un importante centro di commercio. Molti ricchi e illustri personaggi avevano fatto di quel luogo la loro dimora e ben si sapeva che dove regnava il fiorino regnava anche il commercio. I soldati avevano l’ordine di ispezionare ogni mercante che si apprestava ad entrare controllando le merci allo scopo di evitare che i malintenzionati si introducessero nel borgo per portare scompiglio.
Quando gli altri arrivarono, affaticati per la salita, il nano aveva già parlato con la guardia all’ingresso che aveva fatto predisporre un piccolo carretto sul quale caricare l’uomo malato.
«Mi ha detto che ai piedi di quella torre vi è la bottega di uno speziale».
«Ben fatto Fagolio! Se non ci avessi preceduto staremmo perdendo tempo prezioso in fila con gli altri».
Percorsi stretti vicoli delimitati dagli edifici in pietra, i quattro si trovarono su una larga piazza affollata da banchi carichi di mercanzie. Mele rosse e pere verdissime coloravano le bancarelle dei verdurai, mentre preziose stoffe attiravano gli sguardi sognanti delle giovani donne. Dalla piazza si vedevano svettare, dietro le case, due imponenti torri mentre una terza, in fase di costruzione, pullulava di manovali che camminavano agili sulle impalcature delle pareti incomplete.
«La guardia all’ingresso mi ha detto di dirigermi verso quella su cui svetta l’araldo giallo e rosso».
I quattro attraversarono il mercato e, superato un corto viottolo, si ritrovarono dinnanzi alla bottega dello speziale. Anselmo bussò alla porta con ansia e un uomo alto e calvo venne ad accoglierli.
«Buongiorno signori, in cosa posso esservi d’aiuto?» domandò strofinando l’indice contro il polpastrello pollice.
«Mio buon signore, il mio apprendista è malato. Durante il cammino è svenuto e non si è più ripreso. I suoi occhi sono gialli e il suo volto ceruleo, è simile a quello di un morto» spiegò Anselmo facendosi il segno della croce.
Lo speziale lanciò uno sguardo oltre la spalla dell’anziano.
«Entrate» disse spostandosi dalla soglia. «Coricate il ragazzo su quel tavolo».
Ludovico entrò con Anselmo mentre Icaro e Fagolio si sedettero su un basso gradino di fronte alla torre. Prima di richiudere la porta lo speziale lanciò uno sguardo verso l’uomo mascherato che, a causa della stanchezza accumulata, non vi fece alcun caso.
«Ha rimesso prima di svenire?» chiese l’uomo premendo con le dita sotto il costato di Gilberto.
«Sì, abbondantemente» confermò Anselmo.
«Soffre di qualche malattia che voi sappiate?».
«Ha un difetto alla gamba che lo costringe a zoppicare ma per il resto è un ragazzo in salute. Per quasi un anno è rimasto a Nonantola con me: siamo in pellegrinaggio e non l’avrei mai portato in questo viaggio se fosse stato cagionevole».
Lo speziale lanciò un sguardo interrogativo al religioso.
«In ogni caso sembra che si tratti di un’intossicazione».
«Lo avevamo supposto» disse Ludovico appoggiando una mano sulla spalla del monaco.
«Avete mangiato nelle ultime ore?».
«Sì, in una locanda di strada. Abbiamo consumato tutti lo stesso pasto».
«Cosa avete mangiato?».
«Zuppa, mi sembra che la chiamino il ventre del tavernaio».
«Capisco. Non avete di che preoccuparvi: il vostro discepolo ha mangiato della carne avariata. Per fortuna rimettendo ha eliminato l’alimento velenoso. Gli preparerò un decotto purificante e gli somministrerò delle erbe per abbassare la temperatura del corpo e farlo riposare. Rilassatevi padre, basterà una settimana e potrete riprendere il vostro viaggio».
«Non so come ringraziarvi».
«Non preoccupatevi, cercate un luogo dove riposare poiché mi sembrate parecchio affaticato. Mi prenderò cura io del giovane».
«Il suo nome è Gilberto».
«Gilberto. Ora andate e riate quando preferite».
I due stavano per uscire dalla bottega dello speziale quando l’uomo li richiamò.
«Date questa fiala all’uomo vestito di nero che vi attende qui fuori, lenirà i suoi dolori».
Anselmo non capì.
«Dolori? Di che dolori parlate?».
«Dunque non ve ne siete accorti?».
Anselmo e Ludovico si scambiarono uno sguardo carico di perplessità.
«Dalla mia esperienza di speziale so che sono due i tipi di persone che coprono il corpo a quel modo. Per primi i lebbrosi, ma questo non è il caso del vostro amico. Un lebbroso non avrebbe potuto farsi carico della sua parte di barella come mi avete raccontato. Quindi credo che il corpo di quell’uomo sia stato divorato dalle fiamme».
«Ustionato dite?» chiese Ludovico che spesso aveva temuto potesse accadergli una cosa simile.
«È molto probabile che sia così» confermò l’uomo. «Questa fiala contiene l’estratto di un’erba che lenisce il dolore assopendo in parte i sensi di chi lo ingerisce».
«La ringraziamo ancora una volta» concluse Anselmo afferrando la fiala con delicatezza.
I due uscirono dalla torre sentendosi stupidi per non aver capito o, peggio, non essersi mai posti il problema del perché Icaro si coprisse a quel modo. Entrambi erano consapevoli di essersi dati una spiegazione plausibile sulle motivazioni dell’uomo senza neppure cercare di capire o scoprire se questa idea fosse fondata.
«Come sta?» domandò Fagolio.
«Si riprenderà. È stato intossicato da un pezzo di carne avariata. Dovrà riposare per una settimana prima di potersi rimettere in viaggio».
«Tu invece come ti senti?» domandò Ludovico a Icaro. «Sembri molto spossato».
«Fare il barelliere mi ha stancato. Non sono avvezzo a questo tipo di attività».
«Prendi» disse Anselmo allungando la fialetta all’uomo. «Lo speziale mi ha detto che ti farà bene».
«Grazie» rispose Icaro cogliendo l’imbarazzo negli occhi dei due.
Bevuto il liquido denso, Icaro si lasciò scivolare con la schiena e la testa contro la parete della casa. Percepiva le membra leggere, come se tutto il suo sentire fosse stato relegato dentro un piccolo involucro morbido e caldo. Al suo interno non vi era paura o insicurezza, solo una pacifica assenza di dolore. Si sentiva quasi un estraneo prigioniero del suo stesso corpo.
«Penso che non potremo proseguire il viaggio insieme» annunciò Anselmo. «So che ognuno di voi ha urgenza di raggiungere la sua meta e perdere una settimana qui potrebbe essere troppo. Quindi vi ringrazio fin d’ora per la magnifica compagnia e l’amicizia che ci avete dimostrato. Pregherò per voi una volta che saremo giunti a Roma».
«Spero di rincontrarvi nella città dei Papi» disse Icaro. «Come sapete anche noi vi siamo diretti».
«Il mio invece sarà un saluto definitivo. Raggiunta Siena mi dirigerò verso il porto di Bari per raggiungere poi Gerusalemme. Tenete padre Anselmo, e anche voi».
Ludovico diede tre piccoli oggetti di metallo raffiguranti degli animali ai compagni pellegrini.
«Se aveste bisogno di un riparo o di un buon piatto di zuppa calda non esitate a fermarvi nella mia fucina a San Miniato. Anna è un’ottima cuoca e, anche se io non sarò tornato, mostrandogli questi saprà che siete amici fidati».
«Ti ringrazio Mastro Ludovico. Le mie preghiere sosterranno il tuo viaggio intrapreso nel nome della fede» affermò Anselmo.
«Ora basta con tutti questi convenevoli, abbiamo un’intera notte da goderci in compagnia» disse il nano asciugandosi il naso e gli occhi inumiditi dalla commozione.
«Stasera siete tutti miei ospiti. Queste terre sono rinomate per il loro ottimo vino bianco. Vi garantisco che il suo sapore è così vellutato che non vi accorgerete nemmeno di essere ubriachi!».
«Mi hai convinto, piccolo cantastorie. Ci allieterai con uno dei tuoi racconti?».
«No» si intromise Icaro. «Questa sera tocca ancora a me raccontare una storia. In questi pochi giorni trascorsi insieme ho compreso il vostro valore e so che posso confidare nella vostra discrezione. Siete riusciti con le vostre parole e le vostre storie a portare luce sul buio cammino che sto percorrendo rischiarando, seppur per poco, i miei foschi pensieri. Per questo ho deciso di raccontarvi chi sono: meritate di sapere».
La locanda dei Vaini era un ambiente piccolo e accogliente. Nel camino era un bel fuoco che allontanava l’umidità della notte. Insieme al vino i quattro ordinarono al taverniere una porzione di stufato di maiale alle erbette. Il profumo dello zenzero e della cannella si alzava dal piatto e, avvolgendosi nel vapore, inebriava i sensi dei commensali.
Mangiarono allegramente, circondati dalle voci e dalle risa degli altri ospiti, per lo più mercanti. Quando Icaro iniziò a raccontare la locanda era ormai deserta.
«Il mio nome è Fridrich. Discendo da una nobile famiglia nordica. Non parlerò delle gloriose gesta dei miei avi e tanto meno rivelerò il nome della mia dinastia. Ho sempre vissuto nel palazzo di mio nonno insieme ai miei genitori. Ho imparato l’amore per le lettere e per le arti militari, come è lecito aspettarsi da un nobile rampollo. Nonostante questo la mia infanzia non è stata delle più gioiose. In me scorre il sangue dell’est, il sangue di quei popoli che hanno invaso questi luoghi annientando la civiltà portata dal grande Impero Romano. Mia nonna proveniva dalle regioni al confine orientale della Germania. Da lei ho appreso molte cose e, se devo essere sincero, le migliori della mia esistenza. Quella donna raggrinzita dall’età, col viso indurito dalle intemperie delle steppe, mi aveva trasmesso un amore profondo per la natura.
Le storie che amo narrare vengono quasi tutte dalla tradizione orale di quelle genti. Questo il motivo che mi ha portato a are la maggior parte delle mie giornate fra i boschi. Adoravo osservare gli animali: le allodole sugli alberi e le piccole volpi che correvano spaventate nelle tane. Col are degli anni riuscii perfino a conquistare la loro fiducia.
Per me i boschi non avevano segreti: conoscevo a memoria i nomi delle erbe e delle bacche, distinguendo quelle nutrienti da quelle velenose. Non ero l’unico della mia famiglia che adorava familiarizzare con la natura, anche mio padre spesso si inoltrava nella selva. A volte lo facevamo insieme e ogni volta si rivelava un’esperienza nuova e di profonda crescita. Ci sentivamo liberi e appagati. Il creatore di tutto in quei luoghi era vicino e noi abbeveravamo il nostro spirito alla sua fonte.
Nessuno del nostro casato praticava la vostra religione: il nonno era una persona risoluta, aveva sempre creduto negli antichi dèi e mai aveva sentito la necessità di convertirsi. Per lui tutto era da ricondurre a un’unica entità superiore il cui verbo era ogni giorno al nostro fianco, nel vento, negli alberi e nella fresca rugiada portata dalla notte. Il nonno non impose a nessuno di seguire il credo degli avi, ognuno di noi era libero di convertirsi alla fede del Cristo se lo avesse voluto, ma anche noi eravamo convinti che non fosse necessario un dogma per credere: vivevamo le nostre vite nella nostra fede, immersi nella pace. Questo però attirò su di noi la diffidenza della gente: gli amici evitavano la nostra casa, i contadini ci additavano come pagani, stregoni e miscredenti. Ogni volta che ci trovavamo al loro cospetto essi si segnavano come si fa per tener lontano il demonio dalle proprie anime. Questa situazione durò per molti anni finché, alla morte del vecchio prelato, un nuovo sacerdote fu mandato ad amministrare la chiesa del paese.
Padre Geremia era un uomo rigido, la sua fede nel dogma era incrollabile e rispettava i canoni biblici nei più piccoli dettagli. In poco tempo riuscì a rendere i fedeli dei fantocci, costringendo la loro libertà dentro una prigione di parole e comandamenti. Sconfitta la fiacchezza degli animi del suo gregge dovette
cercare un nuovo nemico da combattere: erano stati i fedeli, bisognosi di esprimere il fervore religioso che li invadeva, a imporglielo. Fu per questo che spinse il popolo contro la mia famiglia, additandoci come barbari pagani, adoratori dei falsi dèi della foresta.
E il popolo lo ascoltò vedendo in noi il modo di dimostrare a Geremia quanto grande fosse la loro fede nel Cristo.
Ricordo quella sera come fosse ora.
Voci piene d’ira, sovrastate da piccoli spiriti fiammeggianti che illuminavano la notte, si avvicinarono inesorabili alla nostra dimora. La gente bloccò le porte con grossi tronchi e staffe mentre noi, dall’interno, li guardavamo spaventati. I servi iniziarono a urlare, implorando mio padre di parlare a quella gente. Lui fu il più fortunato: cadde oltre la merlatura, trascinato nell’abisso da una freccia.
I seguaci del verbo di Padre Geremia non avevano orecchie per ascoltare, ma solo occhi carichi di disprezzo: come un’unica mano lanciarono le torce sul tetto del nostro maniero che venne avviluppato dalle fiamme. Molti servi si gettarono dalle mura, chi nel tentativo di salvarsi, chi pensando che una morte rapida fosse meglio di quella straziante fra le fiamme. Il tetto crollò trascinando con sé il pavimento del primo piano. Il fuoco entrò espandendosi attraverso le stanze.
Mia madre mi aveva portato nello scantinato. Non aveva mai toccato nulla che fosse più pesante di un fiore e mai le sue mani si erano sporcate col lavoro della terra, eppure la speranza di salvare il suo unico figlio le aveva dato la forza di scavare una buca nel terreno. Mi spinse nella fossa mentre gridavo il suo nome pregandola di non abbandonarmi.
Sarò sempre con te mi sussurrò prima di ricoprirmi con una spessa coperta.
In seguito sentii l’acqua cadere su di me, insinuandosi fra le maglie del panno, e poi il leggero peso della terra. Il calore aumentò mentre l’aria si faceva sempre più rarefatta. Nel mio sepolcro buio udii le urla strazianti di mia madre e il crepitio della sua carne. Dopo avermi protetto non mi aveva abbandonato: l’odore di bruciato invase le mie narici, i miei occhi si riempirono di lacrime. Ero stanco e inerme, mi mancava il respiro. Il dolore fu l’unica cosa che mi tenne in vita. Quando la temperatura si fece insopportabile percepii il mio corpo raggrinzirsi e ritirarsi, ogni fibra del mio essere era inondata da spasmi incontrollabili. Pensai di uscire dal mio nascondiglio e porre fine a ogni mia sofferenza, poi svenni e quando ripresi i sensi il fuoco si era estinto.
Uscii dalla terra come un morto richiamato alla vita. Mi trascinai lontano verso un lago a un paio di miglia dalla mia casa. Ancora mi domando dove trovai le forze per raggiungerlo. Mi addormentai sulla riva, stremato, e il giorno seguente un frate eremita mi trovò. Rimasi in coma per una settimana. Quando ripresi i sensi del biondo ragazzo non era rimasto nulla: i capelli dorati erano spariti portandosi dietro la spensieratezza e la gioia di vivere. Il frate aveva curato il mio corpo togliendo ogni singolo lembo di veste che il calore aveva fuso con esso. Quando potei reggermi in piedi mi avvicinai allo specchio d’acqua del lago: fino a quel momento non avevo avuto occasione di vedere il mio viso, il frate era riuscito con piccoli stratagemmi a impedirmelo. Non che vedere mi avesse rivelato qualcosa di nuovo, sapevo com’ero. Il tocco delle mie mani mi aveva già rivelato tutto sulla mia nuova fisionomia».
Icaro slacciò le cinghie che fermavano il guanto: l’avambraccio, la mano e ogni singolo dito erano ricoperti da piaghe scure.
I compagni vedendo quelle ferite immaginarono il corpo dell’amico ulcerato dall’aura del fuoco e non poterono che biasimarsi per la loro superficialità.
«Prima di lasciare l’eremita che con amore si era occupato di me, coprii ogni singolo centimetro del mio corpo. Preferivo essere temuto piuttosto che compatito. In seguito, cercai Padre Geremia e lo uccisi. Quel gesto non fu dettato dall’odio, il mio cuore era in pace e nessun sentimento di vendetta mi aveva spinto a cercarlo. Volevo solo dare riposo agli spiriti inquieti dei miei genitori e dei miei nonni. Con la morte di quell’uomo giunse anche quella del giovane e spensierato Fridrich. Decisi di farmi chiamare Icaro: come colui che si era spinto troppo in alto nel tentativo di raggiungere il sole, io avrei spinto la mia vita sempre più avanti per raggiungere e comprendere la luminosa verità. Voglio capire come un credo possa spingere gli uomini a compiere tali misfatti.
Sono risposte che sto cercando in questo mio peregrinare. Sono le voci di voi tutti che raccolgo e tento di comprendere. Quando arriverò a Roma saprò tanto sulle genti e sul loro modo di vedere e vivere la fede, e solo lì capirò quanto il dogma pesi sulle loro decisioni. Questi pochi giorni in vostra compagnia mi hanno fornito nuovi punti di vista. Le parole dette da voi, che vivete e pensate in modo differente, che siete percepiti dal mondo in modo differente mi sono state di grande aiuto».
I tre rimasero ammutoliti. Fagolio teneva il bicchiere stretto fra le mani in modo assente. Ludovico fissava le fiamme cercando in esse qualcosa di ancestrale. Anselmo guardava Icaro con grande ammirazione. Il significato del viaggio intrapreso da quell’uomo era estremamente importante: non lo spingevano né perdono, né remissione. Quello era il vero cammino della fede. Il cammino che ognuno avrebbe dovuto intraprendere per essere un buon cristiano. Le scritture perdevano importanza nella strada verso la consapevolezza di Dio, ed era quella la destinazione ultima di Icaro.
Il giorno seguente Anselmo salutò i compagni abbracciandoli e benedicendoli.
Prima che Icaro si allontanasse volle trattenerlo ancora un attimo.
«Prendi questa. So che per te non ha alcun significato ma è un simbolo che rinsalda i cuori e, comprenderlo, è un’ulteriore o in avanti verso la tua ricerca».
Icaro strinse la piccola croce di legno scuro.
«Lo porterò con me quale regalo di un uomo saggio. Grazie Padre Anselmo».
L’uomo si congedò con un largo inchino. Anselmo osservò per l’ultima volta il magro gruppetto incamminarsi lungo la Francigena, sparendo poi oltre la collina.
F Verso Siena
Riposta la lira dentro un sacco di lana, Fagolio avanzava indomito attraverso la fitta boscaglia che sarebbe rimasta tale fino alla Val d’Elsa.
Il giullare adorava i boschi, ma dopo diversi giorni di cammino per attraversarli se n’era stufato.
I due compagni lo seguivano a distanza, immersi in una discussione sul fuoco. Ludovico amava quell’elemento, lo vedeva come un compagno di lavoro: la sua esistenza era legata a esso, ma al contempo lo temeva per il carattere indomabile e l’astuzia che dimostrava.
«No, Ludovico, non temo il fuoco, non vedo perché dovrei. Non è il fuoco che mi ha bruciato, ma la malvagità dell’uomo».
«Può essere come dici. Devi ammettere comunque che è stato il suo calore a deturparti e la sua volontà di espandersi e consumare il tuo mondo».
«Volontà; mi piace questo termine e il modo con cui lo usi. Come affermi, il fuoco ha una sua volontà, questo è indubbio, ma è una volontà naturale: nasce, si espande e poi collassa, senza cattiveria o premeditazione. Il fuoco non è altro che una manifestazione delle energie della terra. Come il vento ne è il respiro il fuoco ne è…».
«Il peto?!» si intromise Fagolio, fermatosi al lato della strada ad attenderli.
Icaro lo guardò storto mentre Ludovico cominciò a sghignazzare.
«Il sangue» concluse Icaro.
«Perché non il peto?» insistette il nano. «Stammi a sentire Icaro: sul vento non ho nulla da ridire. Il vento ha un ritmo così come il respiro. Ma spiegami: il sangue? Che affinità avrebbe con il fuoco?».
Fagolio non diede a Icaro il tempo di rispondere.
«Il peto invece è energia che nasce improvvisa dalle viscere. Altisonante è il suo ruggito e rovente la sua aurea. Si espande bruciando l’aria e togliendo il respiro alle creature viventi. Entrambi sono accomunati da una breve esistenza che si consuma in rapida esplosione».
Ludovico dovette aggrapparsi al tronco di un albero dalle risate.
«Fagolio ha ragione, se penso al fuoco come a un peto perché mai dovrei temerlo?» affermò il fabbro con voce spezzata.
«Perché non hai mai vissuto al suo fianco quando lo stomaco lo tormenta.
Preferirei essere circondato dal fuoco in quei momenti. Se vuoi temere qualcosa, Ludovico, allora temi l’arrivo di quel giorno!».
«Spero di scorgere le mura di Siena prima d’allora» affermò Ludovico mentre alzava le mani in segno di resa.
«Forse il tuo desiderio sarà esaudito, quella lassù è Val d’Elsa» esclamò il nano.
Abbarbicato sul crinale di un’alta collina, il borgo sovrastava imponente la paludosa vallata che il letto del fiume Elsa attraversava.
«Sembra quasi che sia costituito da due centri» fece notare Ludovico.
«In effetti è proprio così. Il borgo è molto antico e si è sviluppato per gradi. L’abitato è cresciuto intorno al castello di Piticciano poi ha acquisito importanza come centro di commercio e di scambio e il paese si è espanso dando vita alla seconda borgata detta di Santa Caterina».
«Com’è che sai così tante cose di questo paese? Hai per caso dei parenti che vi abitano?» domandò Icaro sospettoso.
«Sempre tutte queste domande, se ti dicessi che amo essere informato?».
«Non ti crederei: le cose che attirano la tua attenzione si possono contare sulle dita di una mano, e ci sarebbe anche dell’avanzo. Solitamente o ti informi su
cose riguardanti il mestiere di giullare, oppure sulle donne che smuovono il tuo interesse».
Il nano si fece paonazzo e Ludovico se ne stupì visto che fino a quel momento non aveva riscontrato nel piccolo uomo alcuna forma di pudore.
«Hai vinto! Me ne ha parlato Mirabella, era originaria della Val d’Elsa».
Poi si rivolse al fabbro abbassando la voce.
«Prima che Icaro aggiunga altro, Mirabella è l’ultima pulzella che il mio talento di cantore ha conquistato, una ragazza dolcissima. Lo odio quando fa così!» esclamò imbronciato chiudendo l’argomento.
«Conviene proseguire. Cibo ne abbiamo e di questo o saremo ad Abbadia a Isola prima dell’oscurità».
Seguendo il consiglio di Icaro ripartirono senza ulteriori indugi.
«Stavo ripensando alle storie che ci siamo raccontati fino ad ora» iniziò Ludovico condividendo i propri pensieri.
«Quella che parlava della volpe e del Marchese di Toscana è la mia preferita: ha riportato alla mia mente il ricordo di una vicenda che sentii raccontare a un nomade durante una fiera di paese. L’episodio che vi voglio narrare è accaduto a
Ranieri, Marchese di Toscana. La sua sventurata storia ha inizio nel 1016 durante la battaglia di Luni».
F Il prisma carminio
Come Ranieri Marchese di Toscana, preso dall’ambizione, volle divenire Imperatore.
I quattro uomini varcarono l’ampia porta dorata: la sala che si aprì davanti ai loro occhi era sfarzosa, adorna di marmi, legni masselli e fini stoffe purpuree. L’aria era intrisa dal profumo intenso dell’incenso.
«Miei cari signori, siate i benvenuti» li accolse Papa Bonifacio VII facendo cenno ai nuovi venuti di accomodarsi al tavolo rettangolare messo in bella mostra al centro della stanza. «Vi ho convocato per discutere della piaga che infesta le nostre coste. So che fra di voi sono in corso trattative di alleanza. Ebbene, oggi siamo qui nella speranza di rafforzare queste alleanze e stringerne delle nuove».
Il Papa osservava gli ospiti e cercava di carpirne le reazioni. Come sempre i nobili, quali Ranieri Marchese di Toscana e il Conte Gregorio di Tuscolo, sembravano a loro agio. Più a disagio erano invece i due delegati delle città costiere di Genova e Pisa.
«Come già sapete gli arabi guidati da Mugahid Ibn-Abdallah, che il popolo ha ribattezzato il Mugetto, attaccano le coste del Tirreno. Questo califfo, all’inizio dell’anno, ha attaccato dalla Sardegna la città di Luni nei pressi di Pisa, conquistandola e trasformandola in una testa di ponte per un’invasione nell’entroterra. Lasciargli questa possibilità sarebbe da parte nostra
imperdonabile. Se avesse il tempo di consolidare le proprie forze, come sta facendo mentre noi parliamo, ci troveremmo ad affrontare una minaccia molto più grande di quella che dovremmo affrontare ora. Sono convinto infatti che se Mugetto riuscisse nella sua impresa, alti califfati tenterebbero di invaderci. Per questo vi ho voluto qui, per definire una manovra atta a scacciare il Mugetto dalle nostre terre e consolidare, per quanto possibile, i nostri rapporti in modo da divenire barriera invalicabile contro il comune invasore».
«Quale rappresentante di Pisa vi comunico che la città è pronta a ricacciare il nemico oltre il mare. D’accordo con noi è il nobile Ranieri Marchese di Toscana, che affiancherà alla nostra milizia i suoi contingenti. Inoltre, grazie al suo intervento, abbiamo intavolato una trattativa con la città di Genova, anch’essa disturbata dalle continue incursioni di questi corsari arabi».
«La città di Genova, per mia voce, conferma la disponibilità di stringere un’alleanza con la città di Pisa, mettendo a disposizione le navi della sua potente flotta» confermò il portavoce genovese, sottolineando con voce altisonante le sue ultime parole.
«Ottimo!» esclamò il Papa, soddisfatto che la missiva d’invito inviata alle due città e al nobile Ranieri avesse consolidato la loro intenzione a cooperare. Questo portava un grosso vantaggio allo Stato Pontificio, che avrebbe dovuto impegnare nello scontro solo un’esigua parte delle sue forze.
«Io, Papa Benedetto VIII, mi impegno a fornire alla coalizione tra Pisa e Genova o militare nella misura di una flottiglia di navi al cui comando sarà il qui presente Gregorio di Tuscolo, e un esercito di fanteria comandato da me medesimo. Ora, se siete d’accordo, vorrei illustrarvi la strategia che andremo ad adottare in questa campagna».
Nessuno dei presenti replicò alle parole del Santo Padre, sorpresi dall’annuncio della sua presenza in battaglia.
«Il Mugetto è giunto dal mare ed è da lì che fuggirà in caso di pericolo. Con le truppe di terra comandate da me e dal nobile Ranieri, che guiderà il contingente di Toscana, sferreremo un attacco frontale a Luni. Il centro non è ben difeso da mura e, da informazioni in mio possesso, vi sono molte brecce in fase di riparazione dopo la conquista araba. Penso che per noi sarà semplice sfondare e costringere i saraceni alla ritirata. Non dimentichiamo che la gente di Luni sarà dalla nostra parte. Nel frattempo le navi di Genova e quelle comandate da Gregorio si saranno portate al largo della costa frapponendosi sulla linea di ritirata del Mugetto. Al largo e senza via di fuga sarà costretto ad arrendersi o a perire».
«Permettetemi Santo Padre, ma come faremo a esser sicuri della rotta che prenderà?».
«Ottima osservazione nobile Ranieri ma la soluzione del problema è semplice. Nel momento in cui il Mugetto lascerà la costa le navi pisane lo attaccheranno spingendolo fra le braccia della nostra flotta».
Un ampio sorriso di soddisfazione apparve sul volto dei presenti.
«Non ci resta che decidere quando. La flotta di Gregorio può essere allestita in una settimana, così come il contingente di terra».
«Noi pisani siamo pronti».
«Lo stesso vale per noi genovesi».
«Marchese Ranieri?» lo interpellò il Papa.
«Una settimana potrebbe non bastarmi. Devo convocare diversi feudatari e far muovere milizie da zone differenti. Per il quantitativo di uomini richiesto, occorreranno una decina di giorni».
«E sia, allora è deciso. Tra dieci giorni muoveremo la nostra offensiva al Mugetto».
La fanteria di Ranieri, Marchese di Toscana, aveva fatto breccia nelle difese della città riversandosi all’interno come un fiume impetuoso. Come il Papa aveva immaginato, non appena le uniformi della cristianità sotto lo stemma papale e l’araldo di Toscana avevano fatto il loro ingresso, la cittadinanza, oppressa dalla presenza araba, si era rivoltata sostenendo con forche e randelli le spade dell’esercito liberatore.
Le milizie del Mugetto vennero decimate. L’impeto dei liberatori fu tale da costringere il califfo a una rapida ritirata verso il porto dove le sue navi lo stavano aspettando per condurlo in salvo. Il caos ormai regnava e lo stesso Mugetto, con al seguito servi e cortigiani, dovette farsi largo a colpi di sciabola. Le lame degli arabi scendevano rapide e letali sul popolo e sui soldati che si frapponevano tra loro e la via di fuga. Erano arrivati al molo quando Ranieri, al galoppo, seguito da un manipolo di cavalieri, si incuneò nel gruppo in fuga dividendolo. Ingaggiato in battaglia, Ranieri non fu in grado di seguire Mugetto che riuscì a prendere il largo con la sua flotta lasciando nella città assediata il fratello e la più cara delle sue mogli, Dalia.
«Arrendetevi!» gridò Ranieri dopo aver atterrato l’ennesimo saraceno.
«Fatelo!» ingiunse una voce maschile al centro del gruppo. «Non abbiamo altra scelta».
I soldati riluttanti gettarono a terra le sciabole.
«Chi siete di grazia?» domandò Ranieri.
L’uomo lo guardò dal basso all’alto. Tra le braccia stringeva una donna dalla pelle scura con profondi occhi neri per niente atterrita dalla violenza che la circondava.
«Il mio nome è Fuad, fratello di Mugahid Ibn-Abdallah. Chiedo a voi, quale vostro prigioniero, un trattamento consono al mio rango».
«Mio caro signore, non di nobili è questa guerra ma del popolo di Pisa e Genova. Ben poco conto ha il penso dell’onore nobiliare in questa disputa».
«Quindi non saranno i nobili a decidere del mio destino?» domandò Fuad perplesso.
«No. Saranno le genti di Luni, Pisa e Genova che per molto tempo hanno subito
le vostre scorrerie e i vostri soprusi».
Fuad cadde in ginocchio preso dal panico. La sua vita era segnata ma non avrebbe permesso che Dalia subisse un simile destino.
«Signore, se per salvare la mia vita non avete alcun potere chiedo almeno che quella di questa donna venga risparmiata».
«Chi sarebbe costei?» domandò Ranieri.
«Lei è la mia compagna, amica della mia infanzia».
Ranieri scese da cavallo per osservare più da vicino la prigioniera.
Gli scuri capelli legati in una lunga coda scendevano lucidi oltre le spalle. Il corpo esile e ben proporzionato, avvolto in strati di seta dai tenui colori pastello, emanava un’aura di regalità.
Ranieri rimase affascinato da quella donna così diversa da quelle che frequentavano il suo maniero e il suo letto.
«Qual è il vostro nome?».
La donna, sebbene interpellata direttamente, non rispose.
«Il suo nome è Dalia» si intromise Fuad.
Ranieri, rapito per un attimo dai suoi pensieri, lasciò scorrere lo sguardo dall’uno all’altro dei nobili prigionieri.
«Giuseppe!» chiamò il Marchese.
«Comandate, mio signore» disse il soldato giunto di corsa mettendosi sull’attenti.
«Metti questa donna su uno dei miei carri. Legale mani e piedi e controlla che lì rimanga fino alla nostra partenza da Luni».
Con un gesto di assenso il soldato si avvicinò alla donna afferrandola per un braccio.
Dalia non oppose resistenza. Sembrava ormai sopraffatta dal suo avverso destino finché non adocchiò quel nido di fasce di seta bianca, afflosciate sul terreno ai piedi del poderoso cavallo del Marchese. La donna strattonò il soldato che perse la presa su uno dei suoi polsi. Puntando i piedi per rallentare la marcia del carceriere, Dalia tentò di raggiungere l’oggetto allungando il più possibile il braccio libero. Il soldato, irritato da quel comportamento, tirò a sé la donna che, perso l’appoggio, non riuscì più a opporre resistenza. Ranieri e tutti i presenti la osservarono allontanarsi trascinata, tra strepiti e grida, verso la nuova dimora che
l’attendeva.
«Degli altri prigionieri che ne dobbiamo fare?» chiese un altro dei soldati al Marchese.
«Consegnateli ai Pisani» ordinò Ranieri con noncuranza mentre raccoglieva da terra il copricapo perso dal Mugetto durante la fuga. Cosa aveva spinto la donna a cercare di recuperarlo con tanta veemenza? Proprio in quell’istante, come se la mano di Dio fosse giunta a compiacersi col nobile per il suo operato, un raggio di sole colpì le bianche fasce rivelando un prezioso tesoro nascosto.
La pietra carminia rilasciava sulle pezze un alone cremisi che si espandeva tutt’attorno come sangue. Di forma allungata e apparentemente palpitante di vita, presentava lunghe venature arancioni che la attraversavano per l’intera lunghezza.
Ranieri rimase incantato dalla magnificenza di quella gemma che, per tutta risposta, riempì la sua mente con miriadi di nitide immagini: vide la pelle olivastra di Dalia risaltare sotto la perfezione di quel prisma lucente mentre lui, seduto sul trono imperiale, la ammirava estasiato.
Dalia sapeva come appagare Ranieri e cosa fare per averlo in suo potere. Quell’uomo aveva un animo generoso e nobile, ma questo non ne faceva un uomo astuto. La donna aveva usato le sue malie anche su Mugetto ma il califfo non aveva mai ceduto.
Lei era a conoscenza del potere della pietra ed era per quell’oggetto che si era data al califfo.
La prima notte che Ranieri le aveva fatto visita, poco dopo la sua cattura, le aveva mostrato il prisma, ma lei era stata troppo avventata e il suo desiderio l’aveva tradita: il Marchese aveva capito quanto importante fosse la pietra per lei e così, con la promessa del prisma, lui aveva fatto di lei la sua amante.
Il Marchese, uomo timorato di Dio ma ancor più timoroso del popolo, sapeva che la sua relazione con un’infedele gli avrebbe portato solo problemi. Per questo aveva fatto trasferire in gran segreto la donna presso una delle sue residenze ufficiose. Lì Dalia veniva accudita come una Regina da servi muti e la sua sicurezza venne affidata allo stesso Giuseppe, unico a conoscenza di questo segreto.
Dalia non rimpiangeva la sua terra e tantomeno il Mugetto. In Toscana era libera di pensare, leggere, esprimere le proprie idee. In quella casa era lei la padrona e nulla le era vietato; capitava spesso che si concedesse ai servi o intrattenesse rapporti amorosi con le ancelle. L’assenza di contatto umano era una delle cose che più la tormentavano.
Il Marchese le faceva visita per un’intera settimana al mese e in quelle occasioni facevano l’amore e parlavano di politica: Ranieri era ambizioso e spesso la rendeva partecipe dei suoi pensieri su come rendere la propria posizione più solida e influente. Lei lo ascoltava nella speranza che il suo assenso e il suo appoggio lo fero cedere e, in un impeto di generosità, le affidasse la gemma. Trascorsero alcuni anni, poi un giorno Ranieri venne da lei teso e preoccupato.
«Cosa ti rabbuia mio signore?».
«La situazione che si sta creando mi preoccupa: presto perderò il controllo su Pisa. Ogni giorno che a la città acquista sempre maggior indipendenza e il mio timore è che le altre città seguano il suo esempio. Se ciò dovesse accadere cosa mi rimarrebbe da governare? Di quali terre sarei Marchese? Temo inoltre che il Papato e lo stesso Imperatore siano in procinto di accordarsi su una reciproca espansione: questo toglierebbe altre risorse alla mia persona. Devo trovare una soluzione a questo problema».
Dalia percepì nell’uomo un’ansia e un’insicurezza mai percepita fino ad allora. L’armatura del Marchese stava cadendo a pezzi, e lei doveva approfittare di quell’occasione.
«Mio Signore, lascia che ti aiuti, hai il prisma con te?».
«Ancora con questa storia? Deciderò io quando e se dartelo. Non ho mai compreso cosa ci sia di speciale in quell’oggetto da fartelo desiderare così ardentemente» sbottò.
Dalia scoccò uno sguardo d’odio all’uomo.
«Lascia dunque che ti narri una leggenda del deserto. Agli albori del tempo, prima che l’uomo calpestasse questo suolo, vi erano spiriti malvagi partoriti dalle viscere della terra. La vostra religione li chiama demoni, noi invece li conosciamo come Jinn. Nella nostra tradizione questi esseri sono diversi dalle creature nemiche della fede cristiana: i Jinn possono servire gli uomini oppure distruggerli. Gli antichi maghi di Babilonia li asservivano per sconfiggere eserciti o portare carestie. Altri ne usavano i poteri per benedire le messi e guarire le malattie. I Jinn potevano essere evocati da alchimisti e maghi potenti e per assoggettarli al proprio volere era necessario rinchiuderli in grossi rubini. La gemma che possiedi contiene al suo interno uno di questi esseri».
Ranieri guardò il volto della donna: era serio e fermo, e gli occhi limpidi privi di menzogna.
Il Marchese si mise a ridere.
«Mi stai dicendo che in tutti questi anni ho portato con me un demone e che se volessi potrebbe risolvere ogni mio problema? Devo dire, Dalia, che questa storia è affascinante ma folle!».
«Se non mi credi perché non provi?».
«Provare dici? E sia, ho intenzione di sfatare queste tue convinzioni pagane».
«Stringi il prisma fra le mani e recita queste parole di potere: Invoco il patto del re Salomone. Quando lo vedrai brillare chiedi ciò che vuoi. Se dovesse funzionare voglio che tu mi affidi la gemma, in ogni caso ne rimarrai padrone fino alla morte».
«Se però non accade nulla non mi chiederai mai più del prisma».
Dalia annuì senza indugio.
Il Marchese recitò le parole e la gemma prese a brillare. Le spesse venature
arancioni pulsavano cariche dell’essenza trasmessa dal Marchese.
«Desidera» sussurrò Dalia.
«Desidero che le mie alleanze si rinsaldino e il mio esercito si consolidi e rinforzi».
La gemma espanse la sua luce oltre le mani del Marchese e, quando si spense, Ranieri, esausto, cadde sul letto e Dalia gli fu subito sopra.
«Adesso attendiamo che il desiderio si avveri» affermò baciandolo.
Il Marchese la strinse a sé lasciando cadere il prisma sul letto.
Il mese seguente, quando si rividero, Ranieri era tranquillo e sereno. Sembrava essere rinato da una morte miserevole e ignominiosa.
«Dalia, come promesso affido il prisma alle tue amabili cure».
La donna, incredula, allargò le mani per raccogliere la gemma.
Il Marchese l’aveva fatta incastonare su una montatura argentea trasformandola in una splendida collana. Dalia se la mise al collo e la pelle scura risaltava sotto
il vivo rosso rubino del gioiello.
Il Marchese venne sopraffatto dai ricordi e si vide ancora una volta seduto sul trono imperiale.
«Perché no?» si trovò a domandarsi ad alta voce.
«Cosa mio signore?».
«Perché non usare il prisma per desiderare di diventare Imperatore? Col suo aiuto potrei annientare l’esercito di Corrado II».
«Sì mio signore, usatelo per vincere i nemici e abbattere il futuro Imperatore Corrado II. Ogni cosa sarà vostra e nulla più avrete da temere».
Dalia lo abbracciò e il Marchese sentì i seni pieni della donna contro la sua schiena.
Ranieri impiegò tre anni e due desideri per stabilizzare il proprio potere: svariati nobili gli dovevano dei favori e nulla era stato lasciato al caso. L’occasione propizia si presentò quando, informato dallo stesso Papa, venne a sapere che Corrado II detto il Salico sarebbe sceso a Roma quello stesso inverno per essere incoronato Imperatore.
La disfatta di Corrado poco prima dell’incoronazione avrebbe dato alla sua
vittoria lustro divino, e la gente avrebbe mormorato che Ranieri di Toscana aveva sconfitto il Salico perché Dio lo aveva scelto come nuova guida dell’impero.
Così il Marchese, chiamate a raccolta tutte le truppe, fortificò Lucca nella speranza di fermare l’avanzata del suo nemico e appropriarsi della sua vita.
«Marchese! L’esercito di Corrado avanza inesorabile. La nostra prima linea è stata annientata e i nostri alleati, vedendo il vessillo imperiale, si sono ritirati per timore. Occorre compensare le perdite e le defezioni con nuovi arruolamenti».
«Maledizione!» gridò Ranieri. «Fai partire la cavalleria e prepara i trabucchi».
«A vostri ordini Marchese».
«Giuseppe, conduci a me Dalia e fa in modo che nessuno la veda».
Il soldato corse a perdifiato attraverso corridoi e stanze fino a sparire all’interno di una piccola nicchia che dava in una stanza alla base della torre fortificata.
«Mia signora il Marchese ordina che gli sia portata la pietra».
Dalia si alzò dal letto su cui stava riposando: un lampo di perfida soddisfazione attraversò i suoi occhi, il giorno della vendetta era giunto.
Quando entrarono nella stanza il Marchese camminava in preda a un’ira crescente.
Altre notizie erano giunte dal fronte della battaglia. Le sue armate erano in rotta e l’esercito di Corrado si apprestava a circondare le mura di Lucca. I colpi delle armi d’assedio avevano portato morti fra le truppe imperiali ma non erano bastate a fiaccarne lo spirito, e ora erano divenute inutile.
«Dalia dammi la gemma. La realizzazione del desiderio è la sola possibilità che mi rimane per sovvertire le sorti della battaglia».
La donna senza ribattere ò il prisma carminio al Marchese. Lasciando allibiti i presenti, Ranieri recitò le parole insegnategli da Dalia ma la gemma non brillò e le venature arancioni non si gonfiarono di vitale energia.
«Che diavolo succede!» sbraitò il Marchese.
Dalia rise: una risata bassa e gracchiante.
«Stupido. Hai pensato davvero che ti potessi donare un tale potere? Tu che hai cacciato e sterminato il mio popolo e hai ucciso il fratello di mio marito? Sì Ranieri, io sono Dalia, moglie prediletta di Mugahid Ibn-Abdallah e questa è la mia vendetta. Lascia che finisca di raccontarti la storia dei Jinn perché è solo di una parte che ti ho messo a conoscenza. I Jinn esaudiscono tre desideri nell’intera vita del padrone che li evoca e spesso accade che, dopo il terzo, loro si riprendano ciò che di buono hanno dato coi primi due. La mia gente questo lo
sa e solo gli stupidi esprimono tutti e tre i desideri. Il Jinn coi primi due scruta il tuo cuore e, dopo, il terzo esaudisce il suo desiderio, un desiderio che nasce dalle più profonde paure del suo padrone. Tu temevi di rimanere signore senza terra. Ebbene, il Jinn ti ha accontentato».
Il Marchese lasciò cadere il prisma.
«Tu, strega infedele!».
Ranieri si avventò sulla donna che smise di ridere. Da altezzosa e spavalda si era fatta piccola e terrorizzata: mai aveva visto in quell’uomo tanta violenza e tanto disprezzo. Il Marchese affondò il pugnale nel ventre della donna e un fiotto di sangue caldo gli macchiò le vesti. Dalia gli si aggrappò alle spalle ma Ranieri la spinse lontana oltre il parapetto del ballatoio. Il corpo della donna cadde nel vuoto, schiantandosi sul selciato della strada.
Il Marchese non si mosse, si abbandonò su un gradino col volto esangue e lo sguardo lontano.
«Tutto è perduto!» ripeteva con tono monotono e cadenzato.
Senza gli ordini del suo signore l’esercito si arrese. Corrado II oltreò Lucca e raggiunse Roma senza ulteriori ritardi. Quando venne incoronato, Papa Giovanni XIX gli fece un dono personale: una gemma incastonata in una montatura d’argento, una pietra cremisi come il sangue. L’aveva fatta acquistare da un mercante che a sua volta l’aveva ottenuta, per un sacchetto d’argento, da un soldato dello stesso Corrado II che l’aveva spacciato per un cimelio di famiglia.
Di Ranieri Marchese di Toscana, dopo quella battaglia, non si seppe più nulla.
L’Imperatore lo aveva privato del dominio delle marche toscane e della vita. Il suo corpo fu gettato in un carro, senza onori e glorie accanto a quello di una giovane donna dalla pelle scura.
F Un dono speciale
L’abbazia cistercense di Isola era un vero capolavoro di architettura. La solidità delle murature avrebbe reso quelle strutture eterne. Il terreno paludoso circostante era stato bonificato dai monaci che con fervente attività avevano finito l’edificazione del monastero arricchendolo con un chiostro interno, al centro del quale era stato incastonato un pozzo circolare ricolmo di limpida acqua.
Posta sul confine che divideva le marche fiorentine da quelle senesi, Abbadia a Isola era divenuta l’incrocio di importanti vie e aveva visto crescere in breve tempo la sua importanza. L’ordine benedettino, sostenuto da importanti donazioni, aveva permesso di aggiungere alla già imponente costruzione due nuovi edifici: lo spedale e uno xenodochio¹⁷ nel quale i pellegrini potevano sostare anche per lungo tempo.
«Da quando sono pellegrino, non ho mai dormito su un giaciglio così morbido» sostenne Fagolio. «Questa paglia è fresca e pulita. Penso che farò sogni meravigliosi».
Icaro e Ludovico erano già immersi in un profondo sonno quando Fagolio si decise a compiere il suo rituale: asseriva che una notte senza musica non sarebbe stata seguita da un buon mattino. Così, lira alla mano, uscì dallo xenodochio e arrampicandosi su un muretto salì sul basso tetto della rimessa e cominciò a suonare: le corde vibravano riempiendo l’aria di una tenue melodia. La musica era dolce e malinconica. Era un motivo che liberava lo spirito dalle catene della carne e cullava il corpo in caldi ricordi.
Il cielo, nuvoloso e basso, lasciava supporre l’arrivo di un grosso temporale. Molti pellegrini si erano rimessi in viaggio lasciando l’ospitale alle primissime luci del mattino.
I tre compagni si accomiatarono dai benedettini ringraziandoli.
Si sentivano rinfrancati e allegri nonostante il cielo grigio.
Camminarono senza sosta fino dopo il primo pomeriggio: incontrarono mercanti e viandanti coi quali scambiarono parole di saluto, mangiarono pane raffermo e formaggio di fossa.
Mancavano ormai poche ore e Ludovico avrebbe raggiunto la prima tappa del suo viaggio, poi d’improvviso qualcosa attirò la loro attenzione: la foresta che costeggiava la strada, fissa e immutabile, si era mossa. Icaro allargò le braccia e fece arrestare i compagni.
Un lupo con occhi gialli e denti affilati, accompagnato da un ringhio basso e prolungato, tagliò loro la strada.
«Non sembra un tipo socievole» sussurrò Fagolio.
«E a me non sembra il momento migliore per fare del sarcasmo» rispose Ludovico.
Il lupo anche se macilento aveva i muscoli tesi pronti a scattare. Icaro abbassò le braccia, poi fece un o avanti e fissò i suoi occhi verdi in quelli dell’animale, finché qualcosa di impercettibile non cambiò: il lupo si rilassò, le zanne sparirono nascoste dal labbro superiore e Icaro si sedette a terra incrociando le gambe. Fagolio sapeva che quella dell’amico non era una scelta intelligente poiché una volta un cacciatore gli aveva spiegato che lo stare eretti dinnanzi a una belva avrebbe trasmesso all’animale una sensazione d’inferiorità insinuando in lui la paura. Il lupo, tuttavia, non si mosse. Rimase immobile, perplesso. Con movimenti lenti e ponderati Icaro afferrò la piccola bisaccia con la carne secca che portava legata alla vita, ne trasse un pezzo e lo gettò all’animale. La bestia fece prima un o all’indietro poi, incuriosito dall’odore, si avvicinò alla carne. Fiutò l’aria circostante senza mai distogliere lo sguardo dall’uomo. Rapido, senza incertezze, addentò il cibo e lo inghiottì dopo averlo masticato.
Icaro, da dietro la maschera, sorrise poi lanciò altri pezzi di carne all’animale.
«Ora non abbiamo più nulla da temere. Tra me e lui c’è un patto, non ci aggredirà» disse ai compagni rialzandosi da terra.
«Se lo dici tu mi fido. Non capirò mai come fai a compiere questi miracoli».
«Non sono miracoli, Fagolio. Possiamo dire che questa è la mia magia come la tua è la musica».
Superarono la belva con un po’ di timore.
Le mura di Siena si stagliavano all’orizzonte.
«Siete sicuri di non volervi fermare con me per un’ultima bevuta?» domandò Ludovico.
«Ci spiace ma dobbiamo proseguire. Abbiamo una mezza giornata di marcia da sfruttare e Buoncovento è ormai prossimo. Superato quel borgo entreremo nel cuore delle terre pontificie».
«Capisco». Ludovico era piuttosto triste, non voleva lasciare quella compagnia, ma la sua promessa lo portava altrove. «Allora arrivederci amici miei».
Si salutarono stringendosi le mani come vecchi compagni di ventura.
Ludovico entrò nella città di Siena fermandosi per un attimo oltre le grandi porte d’ingresso: sembrava che nel suo viaggio tutto riconducesse all’abbandono. Aveva lasciato la casa e la moglie e ora doveva lasciare anche i suoi nuovi amici. Sospirò prima di immergersi nella fremente vita di quel crocevia che vedeva fra le sue mura la mescolanza di genti dagli accenti più disparati.
«Siamo tornati soli, amico mio» disse Icaro.
«Proprio soli non direi» fece notare il nano lanciando uno sguardo in direzione del lupo che di tanto in tanto lasciava palesare la sua presenza. «In ogni caso sono certo che a breve faremo nuovi incontri. Nel frattempo sarà mio dovere cercare di mantenerti attivo e vigile» sorrise Fagolio. «Ho una storia che sono sicuro apprezzerai. È un racconto importante, che lascia l’amaro in bocca ma è molto bello. Questa storia non potrò raccontarla a Roma, anche se è proprio in
quelle terre che questa leggenda nasce e presto capirai perché».
F Lei il Papa
Come Papa Leone IV morì e il monaco e consigliere Johannes Anglicus fu assunto al soglio pontificio in qualità di suo successore, e prese il nome di Giovanni VIII.
La folla riempiva piazza San Pietro chiamando a gran voce il suo nome.
Johannes tremava, senza riuscire a capacitarsi che tutto quello fosse possibile.
Aveva scalato i vertici del Papato con prudenza, evitando il più possibile il contatto con gli altri monaci, questo però non l’aveva fatto are inosservato allo sguardo vigile di Papa Leone IV.
Il Pontefice, che aveva sentito parlare delle sue predicazioni fra la gente, lo volle presto come suo consigliere. Quello era stato un periodo molto duro della vita di Johannes e le sue conoscenze erano state messe a dura prova: il vivere a stretto contatto col Papa, inoltre, lo costringeva a difendere il suo segreto con maggior determinazione. La sera nelle sue stanze era l’unico momento in cui, solo, poteva abbandonarsi a se stesso in piena libertà. Diventando Papa tutto si sarebbe complicato, eppure non poteva e non voleva rifiutare quella nomina: era la voce del popolo che lo voleva Santo Padre. Il suo sarebbe stato un pontificato di rinnovamento, la sua stessa presenza avrebbe portato freschezza nelle idee e nelle convinzioni della chiesa e del popolo.
Jahannes fece un profondo respiro. Aveva indossato i paramenti pontifici e quindi non restava che farsi abbracciare dal popolo fedele.
Grida di giubilo si alzarono dalla piazza quando Johannes si fece vedere dalla balconata. Mai nella sua vita avrebbe pensato di poter vivere un momento come quello: il sorriso delle genti era tutto per lui, ne percepiva il calore e l’amore. Quei pochi attimi che seguirono la sua presentazione furono di coronamento a una vita di sacrifici e dolori.
Giovanni VIII al secolo Johannes Anglicus era il nuovo Papa.
Quale Vescovo della chiesa di Roma e Pontefice massimo gli fu affidato un consigliere. sco veniva dalla diocesi di Volterra, era un uomo colto, raffinato e di bell’aspetto. Johannes tentò di spiegare che non aveva bisogno di un assistente ma, come per altre cose, era una questione di tradizione.
Non potendosi rifiutare, il Santo Padre volle subito stabilire alcune regole che sco era obbligato a rispettare : il consigliere sarebbe dovuto entrare nelle sue stanze solo se convocato, non avrebbe avuto il compito di vestire Johannes come era uso, inoltre non si sarebbe avvicinato alle stanze papali una volta congedato per la notte.
Le urgenze sopraggiunte in quelle ore sarebbero state affrontate solo al mattino.
sco accettò le regole del Santo Padre, pur non capendone le motivazioni.
Più il giovane ava tempo accanto al Papa più si accorgeva di quanto questo si comportasse in modo strano. C’erano giorni di serena spensieratezza seguiti da una settimana di malesseri e malumori. Il Papa si sentiva male almeno una volta al mese e in quelle circostanze sbraitava, cacciando tutti dalle sue stanze. Di solito quei giorni erano preceduti da incomprensibili sbalzi d’umore che finivano sempre con interminabili lavate di capo per il buon sco.
Spesso, durante lunghe serate di lavoro, fra i due si creava un grande imbarazzo. Quella sensazione, ormai non più così rara, era data dallo sguardo che il Papa riservava a sco. Il giovane si sentiva osservato, quasi denudato, da quegli intensi occhi azzurri. Si posavano su di lui per ammirarne la figura e il portamento. Li percepiva indugiare sulla sua schiena e scendere lungo le gambe robuste coperte dall’ampia sottana del talare.
Capitava anche che i loro sguardi si incrociassero e dopo quei momenti sco sentiva il cuore palpitare irrequieto.
Non capiva perché, ma trovava Giovanni VIII affascinante e spesso pensava all’innaturalezza di questo sentire. A volte, eggiando per le strade di Roma, ricordava gli anni del seminario: mai una volta si era sentito attratto da un suo compagno o da qualsiasi altro prete o uomo che aveva incrociato la sua strada. Lui non era un santo e in quegli anni di studio aveva ceduto al peccato della carne e lo aveva trovato piacevole. Stringere a sé una donna, sentirne il corpo caldo era stato bello e appagante. Si era sentito completo e per niente in colpa. Sapeva che era contro la regola eppure non se n’era mai pentito: era stato un gesto naturale che Dio gli avrebbe perdonato, ma innamorarsi del Papa era tutt’altra cosa.
Sì perché era amore quello che sentiva, ma non quell’amore che si instaura tra un mentore e un discepolo, ma quello più profondo che avvicina i cuori e fonde gli animi. Si domandò se fosse ricambiato, ma in cuor suo non riuscì a darsi una risposta. La preghiera, insieme a quelle lunghe eggiate, era l’unica cosa che
metteva a tacere i suoi sentimenti.
arono sei mesi prima che sco potesse liberare il suo cuore da quell’immane peso.
Il Santo Padre lo aveva chiamato nelle sue stanze. Il sole, basso all’orizzonte, colorava il cielo di purpuree sfumature. Era un orario insolito per una convocazione. Giovanni VIII voleva discutere dell’organizzazione della processione che si sarebbe dovuta svolgere di lì a una settimana. sco si presentò nello studio del Pontefice stringendo al petto un tomo di pelle dalle ruvide pagine bianche: nel libro erano segnati impegni e appunti, tutte informazioni che servivano a sco per organizzare la vita quotidiana del Papa. Ancora una volta lo sguardo concupiscente del Sant’uomo si posò su di lui e sco tremò, percependo vivido il desiderio di baciarlo.
Vide se stesso lasciare cadere a terra il tomo, alzarsi dalla sedia e protendersi verso l’uomo, il santo, seduto oltre quello scrittoio.
Era certo che lo avrebbe fatto se Giovanni VIII, in quel preciso istante, non fosse svenuto. La testa dell’uomo sbatté sul rigido cuoio che ricopriva la scrivania e sco allarmato abbandonò il volume, aggirò lo scrittoio e sollevò l’uomo afferrandolo per le spalle. Iniziò a chiamarlo ma il Papa non rispose. Spostata la sedia ne auscultò il cuore: il Santo Padre era vivo.
Facendo un profondo respiro, sco decise di sollevarlo per poi coricarne il corpo sul letto. Non sapeva se ci sarebbe riuscito.
Si concentrò e, afferrato il Papa per la vita, se lo caricò sulla spalla. Il suo corpo,
al contrario di quello che avrebbe creduto, non era affatto pesante. Era la prima volta che sco toccava il suo mentore. Il percepire le sue spalle, sottili e ossute, e la vita stretta aveva riportato alla sua mente un sospetto che già in ato aveva avuto ma di cui si era liberato.
Sdraiò Johannes sul letto, il respiro del Papa era basso.
sco slacciò i primi sette bottoni del talare e nel farlo la sua mano sfiorò qualcosa di morbido. Subito il giovane si ritrasse verso il fondo del letto, mentre la sua mente fu invasa da una rapida sequenza di immagini, dubbi e turbamenti che lo lasciarono sbigottito.
Doveva sapere.
La sua stessa sanità mentale era data dallo scioglimento di quel dubbio. Slacciò gli altri tre bottoni allargando poi i due lembi dell’abito. Spesse fasce avvolgevano il torace del Papa mentre sottili imbottiture ne gonfiavano il ventre. sco vide il seno largo, premuto sotto le bende. D’istinto cadde in ginocchio facendosi il segno della croce.
Il Papa che tanto amava era una donna. Sconvolto da quella rivelazione così inaspettata, si risollevò da terra mentre la donna si stava riprendendo.
Si guardarono immobili per alcuni istanti. Il Papa si affrettò a coprirsi ma sco gli si spostò accanto afferrandole le mani che teneva strette al petto. Sorrise vedendo negli occhi di quella donna, che aveva creduto uomo, paura e incertezza, poi privo di alcun pudore la baciò.
La felicità che provò non aveva confini, in quell’istante aveva dato corpo a un anno di sospetti e dubbi e si sentì libero e in balia delle proprie pulsioni.
Il Papa strinse a sé il giovane e le lacrime sgorgarono dai suoi occhi azzurri.
Anche Giovanna infine poteva sentirsi libera di essere se stessa e di amare quel giovane prete come avrebbe voluto fare già da tempo.
Fecero l’amore nel letto papale per tutta la notte e quando si svegliarono abbracciati, il giorno stava nascendo.
«Devo spiegarti tutto» disse Giovanna.
«Se devo essere sincero vorrei non sapere. Mi basta solo averti qui e poterti stare vicino».
«Però io sento il bisogno di spiegarti. Lo devo fare per me. Sii mio confessore, te ne prego».
«Altro non sono che tuo umile servo. Sei pur sempre il Papa per volere del popolo».
Giovanna sorrise anche se i suoi occhi erano velati da un’ombra di seria
preoccupazione.
«Il mio vero nome è Giovanna Angelica. Vengo dal nord, dalle terre che i Romani chiamavano Anglia. Sono stata allevata da un missionario che sosteneva di essere mio padre. Lui però in me non vedeva una figlia ma un discepolo. Mi insegnò a leggere, a scrivere e a far di conti, imparai le sacre scritture e la predicazione. Era orgoglioso di me e della mia mente acuta e pronta, ma morì quando avevo solo dieci anni. Rimasi allo sbando per lungo tempo, sapevo che nella mia condizione di donna senza una guida, non avrei mai potuto continuare i miei studi. Per fortuna Dio sostituì la perdita di un padre con l’amore per un giovane monaco. In quegli anni di acerba fanciullezza, riuscii a entrare grazie alla mia cultura nel convento di Mosbach. Mi occupavo della trascrizione degli antichi testi e mai abbandonavo lo scriptorium. Frumenzio arrivò in un freddo giorno d’inverno. Il suo monastero lo aveva mandato a trascrivere le Epistole di Paolo e anche lui, come me, lavorava giorno e notte e come te scoprì la mia vera natura. Ci innamorammo, e non appena finimmo il lavoro di trascrizione, lasciammo il convento. Per poter proseguire indisturbati nel viaggio era necessario che io mi travestissi. Era più facile per due monaci ricevere ospitalità; al contrario, un monaco e una giovane donna avrebbero attratto su di loro la maldicenza della gente. Da maldicenza a odio, come ben sai, il o è piuttosto breve, così presi il nome di Johannes Anglicus. Quando arrivammo a Roma, Frumenzio venne colto da febbre e morì. In quegli anni al suo fianco avevo imparato molto. Avevo assaporato la libertà degli uomini, quella libertà di poter studiare e vedere il mondo che era preclusa alle donne. Fu questo che mi portò a decidere di rimanere un uomo. Avevo cultura e ingegno e il travestimento funzionava alla perfezione. Se mi fossi dedicata solo allo studio e alle mansioni affidatemi nessuno si sarebbe accorto di me e così feci. Dedicai ogni respiro alla fede e alla chiesa, lo feci così bene che la gente si innamorò del mio operato e il Papa mi volle al suo fianco. Il resto della storia ti è ben nota».
sco aveva osservato la donna per tutto il tempo senza parlare.
«Ora che di me sai tutto ti porrò questa domanda. Dirai al mondo chi sono o
terrai questo segreto per te? È importante che lo sappia. Come dicevo dalla maldicenza all’odio il o è breve».
Il prete si soffermò a riflettere. Le conseguenze della sua risposta avrebbero innescato eventi importanti sia per lui che per la chiesa. Il suo silenzio avrebbe creato un caso.
Ogni singola pietra, su cui era edificata la sacra fede della chiesa, sarebbe stata smossa nel momento in cui si fosse scoperto che per anni il pontificato era stato sorretto da una donna. Eppure in cuor suo non poteva tradirla né tantomeno perderla.
In fondo il coram populo l’aveva voluta come Pontefice: erano stati la sua fede e il bene che aveva fatto a convincere le masse del suo valore, una chiesa retta da lei forse si sarebbe evoluta in qualcosa di più grande e duraturo, o almeno era questo ciò che voleva credere, era curioso di sapere come tutta questa vicenda si sarebbe evoluta. La curiosità è un peccato, si ripeté, ma è anche data da una grande intelligenza che fa dell’uomo un uomo e non un animale.
«Tu sarai ancora Papa, Giovanna. Non tradirò il tuo segreto perché credo in te e perché ti amo».
«Anch’io ti amo sco, quante volte avrei voluto stringerti in quest’anno ato assieme! Dimenticavo di dirti una cosa».
«Ti ascolto».
«Abolisco le regole fino a ora imposte e hai libero accesso alle mie stanze: puoi fare di me ciò che vuoi».
Entrambi sorrisero, poi, perdendosi in un lungo abbraccio, si unirono consci della fiducia che li legava, consci di sapere tutto l’uno dell’altra.
arono i mesi. Il Papa lavorava senza sosta aiutato da sco. L’intero vescovado guardava ai due con grande rispetto. Tutti parlottavano del loro impegno che li vedeva occupati fino a tarda notte nella pianificazione di incontri e visite. Il Papa aveva in progetto un programma di conversioni e di evangelizzazione su larga scala, inoltre aveva intenzione di sovvenzionare la ricerca e la trascrizione di manoscritti religiosi e non. Voleva fare del Vaticano la più grande biblioteca dell’Europa. Tutto quel lavoro però aveva consumato l’uomo che per alcuni mesi era stato costretto a letto con dolori e nausea, la cui origine era alquanto inspiegabile anche da parte del fidatissimo medico contattato da sco e unico che aveva cura di sua Santità.
Il Santo Padre non si era ripreso nonostante l’appetito non gli mancasse. I cuochi vaticani avevano l’ordine di preparare porzioni doppie e, in sette mesi, il sarto fu contattato ben tre volte per aggiustare gli abiti del Papa la cui pancia rotonda non ava più inosservata.
La processione dal Vaticano verso il Laterano era una delle celebrazioni più attese.
Il Papa sfilava per le strade di Roma, percorrendo un tradizionale itinerario, seguito da miriadi di fedeli e religiosi. Giovanna si fece aiutare nell’indossare i paramenti da sco. Si sentiva bene nonostante il dolore alla schiena: la gravidanza era ormai avanti anche se mancavano ancora due mesi prima del parto.
La processione iniziò senza ritardi. Snodandosi nel lungo cammino il corteo, accolto con preghiere e suppliche, arrivò di fronte alla chiesa di San Clemente. Il Papa scese da cavallo per entrare nella chiesa a benedire le genti che vi si erano riunite, ma non appena i suoi piedi calcarono il suolo venne attraversato da un’intensa fitta, tutto intorno a lui cominciò a vorticare e, senza alcun preavviso, Giovanni VIII stramazzò al suolo.
Tutti, suore, monaci e cardinali, gli si fecero attorno. Il viso del Papa era contratto in una smorfia di dolore. La fronte era imperlata di sudore mentre un liquido torbido e denso gli usciva da sotto la veste. Le monache presenti impallidirono capendo subito cosa fosse: già altre volte, quali nutrici, avevano visto uscire quel liquido da giovani donne in procinto di partorire.
Vedendo il dolore prender forma sul volto del Papa le monache si sentirono in dovere di aiutarlo. La folla e i porporati rimasero allibiti quando la nutrice, un’anziana suora dal volto rugoso, mostrò loro il viso paonazzo di un bel maschietto.
«Un bambino è nato da Papa Giovanni» gridarono le genti.
«Il diavolo! Il diavolo è entrato fra le mura della nostra chiesa!» gridò una voce roca, additando il Papa ancora sdraiato a terra.
«Quella donna ci ha ingannati! Peccatrice! Quello è il figlio del male e della lussuria!».
Altre voci gridarono il loro diniego. I religiosi attoniti non sapevano che fare. Tutto ciò che la chiesa rappresentava stava per essere compromesso. Percependo l’ira del popolo sollevarsi, i più alti gradi della chiesa si guardarono e, come un’unica mente, fecero un o indietro. La volontà di lavarsene le mani e di lasciare a Roma la decisione sul da farsi era stata ormai palesata.
Giovanna venne abbandonata da quella chiesa che per tutta la vita aveva aiutato a crescere e gli stessi fedeli che l’amavano e che l’avevano voluta come loro guida divennero suoi carnefici.
La donna fu presa a calci e pugni. Una pietra gettata da una giovane ragazza spense la vita del neonato. Un uomo le si avvicinò e l’afferrò per il collo del talare, le sputò sul volto e poi le ruppe il naso con una testata. Le più violente furono le donne che la batterono con lunghe verghe per un’ora.
In tutto quel turbinio d’odio Giovanna non riusciva a capacitarsi di come le persone potessero trasformarsi in esseri così abbietti e sanguinari. Lei aveva fatto solo del bene, aveva salvato vite e nutrito gli ammalati, aveva portato il verbo ovunque fosse andata. Eppure nessuna di queste cose venne ricordata, nessuna di esse fece breccia negli animi della gente che riversava su di lei il fiele bollente dell’inferno.
Quando giunse l’uomo a cavallo il popolo si allontanò da lei e smisero di picchiarla.
Sorrise, convinta che il cavaliere l’avrebbe salvata. Teneva stretto a se il corpo del suo piccolo figlio quando l’uomo le legò una spessa corda attorno alle caviglie. Consapevole dell’avvicinarsi della morte, rise lasciando che le lacrime le riempissero gli occhi.
La folla rimase colpita vedendola piangere immersa nel suo stesso sangue.
Il cavallo partì al galoppo trascinando via la Papessa. Le sue sofferenze durarono poco: un sasso, che sporgeva più degli altri dal selciato, la colpì al capo e la uccise.
Quella notte e le notti a venire per più di un mese il popolo, che aveva partecipato al linciaggio, fu perseguitato da incubi di sventura. Ancora oggi a Roma non si parla di Giovanna la cui leggenda vive nitida nel cuore della gente comune.
Icaro si era fatto pensieroso. «È il popolo o la fede a creare i propri martiri?».
«Se i prelati si fossero imposti» prese a parlare Fagolio «il popolo non si sarebbe spinto così oltre. Questo non vuole dire che Giovanna si sarebbe salvata, se ci pensi anche i religiosi sono uomini e vivono delle nostre stesse pulsioni. Suppongo che la tua domanda non abbia una vera risposta. Uomini e fede sono inseparabili, capire chi spinga l’uno o l’altra a compiere atti disumani è al di fuori della nostra portata».
«Le tue sono parole sagge, ma rimango convinto che senza l’intelletto la fede non possa nulla, mentre l’intelletto senza fede può ancora molto. Ora bisogna capire quanto il dogma incide sulle menti. Che sia l’uomo senza fede il vero giusto?».
«Ognuno di noi ha qualcosa in cui credere, Icaro. Io credo nella musica e nella
gioia.
Spesso credo anche nel vizio eppure mi reputo un uomo giusto. La giustizia è soggettiva ma ha bisogno di regole perché diventi oggettiva. Se non fosse così ognuno di noi vivrebbe nella sua giustizia e il caos regnerebbe su ogni cosa. Meschino è lo spirito umano».
«Che dilemma Fagolio. Non so se la mia mente sarà capace di contenere tutta quella verità che va cercando. Potrei impazzire nella ricerca eppure non mi fermerò mai dal cercare».
Fagolio sospirò poi, volgendosi allegro verso il compagno, indicò un colle poco più avanti.
«Guarda laggiù Icaro, quello è Buonconvento. Roma è ormai vicina».
F Il piccolo Rolando
«Madre, madre, guardate! Un bambino con la barba! Perché mai a lui è dato questo privilegio e a me no? Quando potrò averla anche io, madre?».
La donna si voltò strattonata dal figlio che quasi le stava strappando la veste nel tentativo di distogliere la sua attenzione dal banco della verdura fresca. I suoi soliti capricci, pensò lei sotto lo sguardo perplesso di Varino l’ortolano.
«Se non ti zittisci subito sarò costretta a batterti, Bernardo!».
«Ma madre, guardate voi stessa! Un bambino barbuto! Avete mai visto nulla di simile?».
La donna diede un’occhiata alla strada che proveniva da Siena, seguendo la direzione che il ragazzino indicava. Sulla via polverosa e animata da andirivieni e schiamazzi scorse due strane figure che si discostavano da tutte le altre per aspetto e andatura. Una era alta e completamente avvolta da vestiti neri, con una maschera sul volto. L’altra gli arrivava su per giù ai fianchi, aveva le gambette corte e le guance rosse come l’inchiostro di cinabro. Osservò meglio e vide che suo figlio come al solito aveva peccato di stupidità: guardava senza fare attenzione ai particolari ed era sempre troppo precipitoso. Un giorno l’avrebbe pagata cara se non avesse messo un po’ di giudizio. Quell’uomo aveva sì l’altezza di un bambino, ma aveva già all’incirca venticinque primavere.
«Guarda meglio la prossima volta, Bernardo, prima di dire scempiaggini. E non indicare!».
La donna diede uno schiaffo alla mano del figlio che era rimasta alzata a mezz’aria e Bernardo la ritirò portandosela alla bocca. L’espressione dei suoi occhi non era più meravigliata, ma delusa.
«Quello non è un bambino, ma uno scherzo della natura. Non devi indicare, capito?».
Bernardo si limitò ad annuire silenzioso e non aggiunse altro, ma ritornò con lo sguardo sulle due figure che si stavano avvicinando a o lento.
«Due pellegrini, sicuramente» disse Varino, intromettendosi nella conversazione per alleggerire l’aria. Aveva notato lo sguardo del ragazzino e si era dispiaciuto a vederlo così mortificato. Sembrava avere l’argento vivo addosso un attimo prima, e un attimo dopo pareva che l’avesse scomunicato il Papa in persona.
«Speriamo che stiano al loro posto e non portino guai, ché Buonconvento non ne ha certo bisogno!» rispose la donna, abbassando leggermente il tono di voce.
«Non credo che siano due tipi pericolosi...».
«Pericolosi non so, ma strani lo sono di certo!».
«Hanno un aspetto un poco bizzarro, in effetti. Quello alto poi, tutto così coperto...».
La donna rabbrividì, attraversata da un’improvvisa e terribile sensazione.
«Che sia un lebbroso?» bisbigliò. Istintivamente, abbracciò Bernardo e lo trasse a sé. Il bambino non riusciva a staccare gli occhi di dosso agli stranieri.
«No, non ha la camla. Sarà una specie di saltimbanco».
«Ah! E che cosa c’è di peggio di quelli?».
«A mio modesto parere, i maghi sono mille volte peggio! Coi loro infusi stomachevoli e i loro veleni mortali. Mia moglie una volta si è fatta infinocchiare da una specie di stregone che le ha rifilato un maledetto intruglio maleodorante. Andava dicendo da un po’ di tempo che non riusciva a rimanere incinta e le serviva un aiuto concreto, che aveva fatto di tutto, pregato la Vergine, fatto un voto, ma niente. Così è andata da un vecchio in mezzo alla foresta, Dio solo sa come ha fatto a non perdersi, e gli ha portato pane e vino in quantità in cambio di una pozione per la fertilità. Una pozione, così l’aveva chiamata, che doveva bere in una notte di luna nuova e che per avere effetto doveva essere assunta anche dal marito. Mia moglie mi ha minacciato di lasciarmi se non l’avessi fatto, così l’ho accontentata. Ho cagato liscio per tre giorni di fila. Dei dolori! A lei non ha sortito effetti mentre io mi sono ritrovato col culo sciolto!».
Alla donna sfuggì una risata.
«E con quella cura, è rimasta incinta, almeno?».
«Macché, abbiamo aspettato altri due anni, prima che arrivasse mio figlio. Quel cialtrone! Spero che il vino gli sia andato di traverso! Era pure vino novello!».
La donna rise di nuovo e il suono argentino della sua voce attirò gli sguardi di Icaro e Fagolio, che con calma erano ormai arrivati all’altezza del banco delle verdure di Varino. Il nano si avvicinò trotterellando per chiedere informazioni.
«Scusate gentili signori se vi interrompo. Sapete indicarmi una buona taverna per rifocillarci e rinfrancare le nostre stanche membra? Veniamo da Siena, diretti a Roma, avremmo bisogno di un po’ di riposo».
Bernardo si staccò dall’abbraccio della madre che si era zittita di colpo e osservò meglio il nano. Aveva la sua stessa altezza, ma l’aspetto era effettivamente quello di un uomo fatto, le gambe e le braccia erano più corte e sgraziate rispetto alle sue, anche se sembravano maggiormente abituate alla fatica e avevano muscoli più sviluppati. Fu l’ortolano a rispondere, bonario.
«C’è la taverna dell’Orso, stranieri. Proprio su questa via. Vi troverete il meglio del meglio delle nostre prelibatezze. Salumi, bruschette, panzanelle, fettunte, pici con le briciole, uccellagione alla brace e lepre alle bacche. Tutto annaffiato dagli ottimi vini dei nostri vigneti. Fidatevi!».
Icaro fece un leggero inchino per ringraziare e Fagolio stava per imitarlo quando Bernardo prese coraggio ed esclamò rivolto al nano: «Sei davvero uno scherzo della natura?».
La madre del bambino si voltò stupita e rossa d’imbarazzo. Il nano lo notò immaginando subito da dove fosse nata quella domanda: i figli non sono nient’altro che germogli cresciuti dai genitori, tutto dipende dal concime che viene dato loro per nutrirli. Tuttavia, Fagolio non si scompose.
«Ma certo, figliolo! Tutti lo siamo. Il Signore ama la varietà, per questo gioca spesso e volentieri, divertendosi a dare a ciascuno di noi una diversa particolarità per vedere che cosa succede e come ce la caveremo nel viaggio della vita. La tua qual è?».
Il ragazzino ci pensò un po’ sopra, poi allargò la bocca in un sorriso, con entrambe le mani alzò la scodella di capelli castani che aveva sulla testa per mostrare al nano le sue orecchie a sventola, orgoglioso. Erano grandi e belle rosa, tanto staccate dalla testa che sembravano vivere di vita propria.
«Quale meraviglia vedo davanti a me! Da grande sarai un meraviglioso ascoltatore!».
«E tu? Tu che cosa sarai da grande?» chiese Bernardo, eccitato.
«Io? Non appena crescerò, tornerò e te lo farò sapere. Promesso!» annunciò solennemente Fagolio con la mano sul cuore.
A Icaro sfuggì una risata soffocata mentre Varino, che aveva seguito con attenzione tutta la conversazione, scoppiò a ridere sguaiatamente. La madre di Bernardo si limitò a sorridere e a trovare una qualche giustificazione per
andarsene via di lì in fretta.
«Scusate se vi abbiamo fatto perdere tempo con queste facezie, messeri. Noi dobbiamo finire le commissioni al mercato, vi auguro un buon viaggio. Saluta, Bernardo!».
Il bambino fece un inchino come aveva visto fare a Icaro e si lasciò prendere per mano dalla donna che lo trascinò via, scomparendo tra genti variopinte e bancarelle ricolme di ogni ben di Dio.
«Allora, caro amico, che ne dici di una tappa a questa famosa taverna dell’Orso?».
«Per me sarà un piacere. Ho bisogno davvero di un po’ di riposo».
«Ve ne prego, dite all’oste che vi manda Varino, vi tratterà bene vedrete!».
«Grazie ancora per la sua gentilezza, buon uomo» disse il nano, sorridendo.
Varino tornò ai suoi affari e i due proseguirono sulla strada principale fino a quando non arrivarono sotto l’insegna del locale, che raffigurava un grande orso bruno ritratto nel momento di massima tensione e imponenza.
Entrarono e si trovarono davanti a un caos di persone che schiamazzavano, discutevano, litigavano e ridevano e che non fecero caso all’arrivo dei due nuovi
avventori. La donna che stava dietro al bancone fece loro cenno di sedersi al primo tavolo vicino alla porta, l’ultimo disponibile. Icaro e Fagolio presero posto e dopo un po’ arrivò l’oste a sentire che cosa volessero. Stava per elencare i piatti del giorno ma il nano lo fermò subito.
«Ci manda Varino, oste, e noi ci fidiamo ciecamente di lui!».
L’uomo annuì soddisfatto.
«Gli amici di Varino sono miei amici. Doppia razione di pici solo per voi. Torno subito».
Fagolio applaudì e guardò Icaro per avere la sua approvazione, ma lo trovò, serio e assorto, a osservare qualcosa che aveva carpito la sua attenzione.
«Che succede?».
Icaro si limitò a rispondere con un cenno della testa e Fagolio seguì con lo sguardo la direzione che gli aveva indicato, fino a quando non lo vide. Era seduto al tavolo vicino a loro. Il ragazzino, che poteva avere all’incirca dodici anni o poco meno, prendeva con le dita il cibo rimasto nella ciotola e se lo portava meccanicamente alla bocca. Lo masticava con lentezza e poi ricominciava a pescare tra le briciole. Aveva occhi assenti e sbarrati, azzurri come il cielo d’estate, identici a quelli della ragazza che stava seduta al suo fianco. Questa fissava in silenzio il centro del suo piatto e sembrava non avesse il coraggio di parlare. Dovette sentirsi osservata, perché alzò la testa di scatto e si accorse dei due nuovi arrivati, notando la loro curiosità nei suoi confronti. Sembrava intimorita e molto triste. Temendo di non avere un’altra occasione,
Icaro colse l’attimo e si rivolse a lei sperando di non spaventarla.
«Siete anche voi stanchi dal viaggio?».
Lei esitò, e quando si riebbe dalla sorpresa, sorrise timidamente.
«Sì, molto stanchi, a dire il vero. Non appena avremo la possibilità, ripartiremo».
«Avete già idea di quando?» chiese Icaro. Preferiva essere inopportuno piuttosto che lasciare cadere la conversazione. Dentro di sé sentiva che doveva.
«No, veramente. Al momento ci è impossibile ripartire».
«Siete bloccati qui per una ragione precisa?».
Lei tentennò una seconda volta.
«In effetti, sì».
Icaro osservò quello che avevano sul tavolo. Un piatto con un po’ di pane intinto nell’olio d’oliva, una ciotola di legumi in umido, una brocca d’acqua. Un pranzo alquanto parco, adatto per tasche ormai vuote.
«È vostro figlio?».
«È mio fratello. Ha undici anni».
Il ragazzino sembrava distante e lontano dal mondo e da quello che lo circondava. Non aveva nemmeno sollevato il viso per vedere con chi stesse parlando la sorella. Forse non gli interessava.
«Come si chiama?» intervenne il nano.
«Si chiama Rolando. Io sono Isabella. Qual è il vostro nome?».
«Io sono Fagolio giullare pisano. Il mio compagno si chiama Icaro. Oh, non lasciatevi spaventare dal suo aspetto così nero, in realtà ha l’anima bianca come il latte! Siamo diretti a Roma, e voi?».
«Anche noi...» e la risposta di Isabella rimase come sospesa nel vuoto.
Era una bella fanciulla nel fiore degli anni coi capelli castani raccolti in una treccia e un abito dimesso, da popolana, ma era fuori di dubbio che fosse diretta alla Città Santa: il mantello col cappuccio abbandonato sulle spalle e il bordone appoggiato al muro la contraddistinguevano senza possibilità di errore come pellegrina. Anche il bambino aveva un bordone, ma più piccolo e adatto alla sua statura.
Fagolio capì che per lei era difficoltoso lasciarsi andare e discorrere con loro, forse proprio a causa dell’atteggiamento così distaccato e disinteressato del fratello, così per sciogliere il ghiaccio e creare un po’ di atmosfera si rivolse direttamente a Rolando, per capire fino a dove avrebbe potuto spingersi.
«Allora figliolo, porti un nome importante, sai? La conosci, la storia del grande Rolando?».
Il ragazzo smise di masticare e con calma alzò la testa verso la direzione del nano, ma non rispose. Icaro lo guardava incuriosito. I suoi occhi erano bellissimi, ma sembravano vuoti. Isabella rispose sottovoce.
«Sta perdendo la vista. Giorno dopo giorno. Ora vede solamente ombre».
«Ma ci sento benissimo! Non c’è bisogno che rispondi per me, sorella» esclamò Rolando.
«E allora perché non l’hai fatto tu stesso?».
«Rispondo quando e se mi piace. E tu non dare confidenza a sconosciuti».
«Veramente ci siamo presentati poco fa!» chiosò il nano. Era solo un bambino e già si permetteva arie da adulto della peggior razza, forse gli serviva una bella lezione. Icaro intuì l’intenzione del suo compagno di viaggio e intervenne subito.
«Se gradite qualcos’altro da mangiare, potete unirvi a noi. Siamo amici di Varino di Buonconvento che ci ha raccomandato all’oste e temo che le porzioni saranno molto abbondanti. Troppo anche per due come noi. Ah, eccolo che arriva».
L’oste arrivò con un vassoio pieno di bruschette, fettunte, salumi e formaggi, due piatti con doppia razione di pici e uno con cacciagione mista.
«Ho fatto io, come mi avevate chiesto, e vi assicuro che questo è il miglior pasto che farete in tutta la vostra vita, fidatevi di me! E mi raccomando, bevete alla salute di mia moglie, è di nuovo incinta!».
Fagolio lo applaudì e Icaro invitò di nuovo Isabella al loro tavolo con gentilezza. A quella vista, con lo stomaco contorto dalla fame che la scarsa porzione di legumi non era riuscita a placare, la ragazza abbandonò ogni reticenza e disse a suo fratello che lo avrebbe aiutato ad alzarsi e a prendere posto dai due nuovi ospiti. Rolando fece un po’ di resistenza, ma quando al suo naso iniziò ad arrivare la fragranza del pane e della carne alla brace, cambiò immediatamente idea e si lasciò guidare dalla ragazza.
«Grazie della vostra comprensione».
«È un dovere aiutarsi tra pellegrini» rispose Icaro.
Iniziarono a parlare del più e del meno mentre gustavano il saporito pasto della taverna e nonostante Rolando rimanesse sempre zitto e ostinato, la fanciulla cominciò a sciogliersi un po’ di più e a raccontare quello che era successo loro.
Era una storia molto toccante, che fece commuovere Icaro.
«Siamo arrivati a Buonconvento da un piccolo paese dell’est della Langobardia circa due mesi fa con nostro padre, insieme a una folta comitiva di pellegrini. Avremmo dovuto essere già a Roma, ma lui si è ammalato gravemente e siamo stati costretti a fermarci qui, trovando rifugio e assistenza nell’ospitale della zona. Gli altri hanno proseguito e nostro padre aveva insistito perché non lasciassimo il gruppo, per lui era più importante che raggiungessimo la meta, ma non potevamo abbandonarlo qui da solo.
Ci hanno aiutato i monaci, hanno fatto tutto quanto è stato possibile usando erbe, pregando notte e giorno, vegliandolo e scaldandogli le membra. Nonostante questo non sono stati in grado di salvargli la vita né di comprendere la causa della morte: ci hanno detto solamente che si è spento per malattia e perché così voleva Iddio. Così ci siamo ritrovati soli e senza denaro sufficiente per continuare il nostro viaggio o tornare indietro, e non abbiamo trovato nessuno che fosse disposto ad accompagnarci. I monaci ci hanno trovato un alloggio di fortuna, ospitandoci nella foresteria, ma da allora io fatico a mettere da parte un po’ di denaro per ripartire: la gente non si accolla né prende volentieri a lavorare una ragazza sola, accompagnata da un fratello non abile. Siamo considerati dei semplici fardelli.
Ciò che ci ha spinto a intraprendere il viaggio, come potete immaginare, è stata la salute di Rolando: sono certa che i suoi occhi potrebbero tornare a vedere se riuscissimo ad adempiere al voto e a portare a termine il pellegrinaggio. È una promessa che mio padre ha fatto a mia madre in punto di morte. Io ho fatto lo stesso con lui. Ora devo mantenere fede al voto. Devo portare a Roma Rolando per la contemplazione delle Sacre Reliquie e la benedizione del Papa. A ogni costo».
A quelle parole, Fagolio di slancio le propose a nome di entrambi di continuare il viaggio con loro. Icaro annuì.
«Non siamo certo al pari di una scorta di soldati, ma siamo armati e all’occorrenza sappiamo menare le mani. Io, poi, ho una voce che pare quella di un usignolo e un cervello svelto come quello di una volpe!».
«Se smetti di lodarti da te, per una volta, la signora può rispondere sì o no alla proposta! Dunque che cosa ci dite, Isabella?».
La fanciulla arrossì. Il sentirsi chiamare signora l’aveva messa un po’ in imbarazzo. Quei due le ispiravano serenità. Strinse la mano di Rolando e gli chiese che cosa ne pensasse.
«Non so. Mi chiedi di scegliere tra stare qui per non so quanto ancora, senza poter fare nulla e vivere della carità della gente, o ripartire insieme a due uomini conosciuti per caso in una taverna...».
«... Uno dei quali saprebbe intrattenerti raccontandoti incredibili storie di bellissime dame e indomiti cavalieri, ti pare poco?» intervenne il nano, sotto gli occhi divertiti di Icaro. A volte riusciva a mettere di buon umore anche lui, sempre così ombroso e pensieroso.
«Siete un narratore?» chiese Rolando incuriosito.
«Narratore non soltanto. Della musica e del canto ho fatto mia ragion di vita. Io ho l’arte tra le dita!».
A Rolando sfuggì un sorriso e Isabella lo prese come un sì.
«Saremo lieti di dividere il viaggio fino a Roma con voi. Non possediamo nulla, ma quel che troveremo sul cammino lo divideremo volentieri. Grazie per il vostro aiuto. Ve ne siamo molto riconoscenti».
I due fratelli aiutarono Icaro e Fagolio a finire tutto quello che era rimasto nei piatti e bevvero una sorsata a testa di vino novello, dal buon sapore delicato.
«Era da un po’ che non mangiavamo così tanto, e così bene».
«Faremo un po’ di scorta, per precauzione. Se a voi non dispiace, possiamo metterci in marcia da subito e non indugiare oltre, così da aggiungere un altro tassello nel nostro cammino verso Roma».
«Per noi va benissimo, vero Rolando?».
Il bambino annuì e mentre Icaro saldava il conto all’oste si lasciò aiutare dalla sorella: si alzò in piedi e indossò meglio il mantello, prese dalle mani di Isabella il suo bordone e la aspettò per essere guidato fuori. Vedeva ancora le ombre, ma aveva troppa paura di cadere e di essere deriso dalla gente: il suo orgoglio non lo avrebbe sopportato. Preferiva aspettare lei: senza Isabella sapeva di essere perduto, per questo era così scontroso e geloso di chi le girava attorno, aveva paura che qualcun altro potesse portargliela via.
Quando tutti furono pronti, le bisacce e i piccoli otri pieni, si incamminarono
sulla strada lasciando alle loro spalle Porta Senese e si avviarono verso Porta Romana, l’uscita a sud della mansione. ando davanti al piccolo cimitero fuori le mura, Isabella, che aveva Rolando attaccato alle vesti, rallentò lentamente fino a fermarsi. Il fratello capì e insieme si fecero il segno della croce. Mormorarono insieme una preghiera e un dolce addio all’amato padre, infine proseguirono il viaggio insieme ai loro nuovi compagni.
F Gli ideali di un giovane leone
La compagnia di Isabella si rivelò preziosa per i due uomini. La ragazza era informata su luoghi e percorsi, dimostrando di avere una stupefacente memoria e di sapersi orientare come e meglio di loro in quelle terre.
«Come sapete tutte queste cose sulla Francigena?».
«Tra la comitiva di pellegrini che ci hanno salutato a Buonconvento c’erano alcune guide che fanno spesso il tragitto da nord a sud e viceversa. Sono state loro a raccontarmi i misteri e le storie di questi posti, per ingannare il tempo durante il viaggio. Accompagnano i penitenti e i fedeli lungo la via Francigena, è il loro lavoro, la loro missione. Una sorta di assistenza. Alcuni di loro attuano anche il pellegrinaggio per conto di altri».
«Avevo sentito di questa pratica» disse Fagolio. «Mi chiedo se abbia un senso. Intendo, se quel tipo di pellegrinaggio sia comunque valido. A me sembra solo un modo per scaricare il barile!».
«Mi chiedo lo stesso anche io» intervenne perplesso Icaro.
«Non tutti hanno la possibilità fisica e materiale di intraprendere lunghi pellegrinaggi, per questo motivo c’è chi è disposto a servirsi di un pellegrino per procura. Certo, in periodi controversi come questi, in cui si fa un così gran parlare di compravendita di cariche ecclesiastiche, reliquie e indulgenze, è un
argomento assai delicato. Ma se ci pensate bene, esiste un aspetto positivo: è un sistema che permette anche a chi è impossibilitato a compiere un viaggio così arduo di far arrivare la propria devozione al santo».
«Una delega per denaro. Lo trovo ingannevole».
Isabella scrollò le spalle.
«Credo che quello che conti sia l’intenzione. Dio sa valutare se chi si avvale di un pellegrino per procura lo fa per una buona ragione o semplicemente per opportunismo o per pigrizia. Chi può giudicare meglio di Lui, che tutto conosce e tutto sa?».
Icaro scosse la testa.
«Questa è una giustificazione che ho sentito troppe volte. Dio valuterà, perché è in grado di farlo. Lo farà a posteriori, quando tutto sarà ormai compiuto. Ma chi può dare garanzia qui e ora al penitente che la sua scelta sia quella giusta e che la sua non sia un’azione fallace che peserà sul giudizio finale? Chi può assicurargli che riceverà veramente la grazia e il perdono?».
«Nessuno, presumo. Ma chi agisce in malafede lo sa, in fondo al suo cuore. Tutti abbiamo una coscienza».
«Si direbbe quasi che siate andata a scuola di retorica, signora...».
Isabella arrossì violentemente.
«Non volevo essere maleducata, non era mia intenzione, rispondevo solo a una vostra domanda».
«Infatti è così. Non dovete scusarvi. È un piacere discorrere con voi, Isabella».
Rolando, che aveva seguito la conversazione aggrappato con una mano a un lembo della veste della sorella, fece finta di inciampare nel mantello e cadde a terra per attirare la sua attenzione. Non gli piaceva Icaro, e non amava che la ragazza gli desse troppa confidenza. Fagolio, che aveva perso un po’ di terreno ed era rimasto indietro, si era accorto della mossa goffa del fanciullo e aveva compreso il suo gioco. Decise di fare finta di nulla e dopo essere accorso ad aiutarlo propose a tutti di fare una pausa.
«Ottima idea. Possiamo pianificare le prossime ore di cammino».
«Con una piccola deviazione verso Montalcino, possiamo visitare l’abbazia di Sant’Antimo. Allungheremmo il cammino di qualche ora, ma da quello che dicono sembra sia bellissima e molto accogliente. Il suo nome è legato a quello di Carlo Magno».
«Carlo Magno, quante volte ho cantato le sue gesta! Patricius Romanorum, Re dei Franchi e Imperatore del Sacro Romano Impero. Quando ancora v’era un Impero...» sospirò Fagolio.
«Hai forse nostalgia dei tempi ati?» chiese Icaro.
«Un giullare può forse non averne? D’altro canto, preferirei un Imperatore forte, che sapesse tenere a freno i suoi vassalli, piuttosto che continue e logoranti guerre intestine tra pari che minano la pace e la pancia, caro amico!».
«Il tuo è un buon punto di vista...».
I quattro si sedettero in un piccolo spiazzo verde al lato della strada che sembrava adatto per una sosta. Icaro prese dalla bisaccia quattro fette di pane toscano e le distribuì, poi fece lo stesso con l’acqua, raccolta da una fontana in due piccoli otri prima di uscire da Buonconvento.
«Isabella, che cosa sapete dirci riguardo Sant’Antimo?» chiese l’uomo.
«Non molto, a essere sinceri. La leggenda vuole che l’abbazia sia stata fondata proprio dall’Imperatore Carlo in persona, per fermare la peste che aveva colpito la sua corte e il suo esercito nei pressi del Monte Amiata. L’Imperatore pregò e implorò il Signore perché con la sua potenza sconfiggesse il terribile flagello, e una volta ottenuta la grazia edificò la chiesa. Essa divenne il nucleo centrale dell’abbazia che, in seguito, ebbe molti doni e privilegi da Ludovico il Pio, figlio prediletto di Carlo Magno».
«Davvero affascinante...».
«E se proseguissimo per la nostra strada, senza deviare?» chiese il nano,
nascondendo a stento la sua insofferenza. Non voleva essere scortese con la fanciulla, ma il suo obiettivo era arrivare a Roma il prima possibile: la voglia di vederla aumentava a ogni o.
Isabella gli rispose tranquilla, mentre sbocconcellava il suo tozzo di pane.
«Arriveremmo a San Quirico in Osenna¹⁸ in poche ore di marcia».
«Per evitare di farci cogliere dal buio, sarebbe saggio fare così».
«Se solo avessimo una scorta...» disse Rolando a bassa voce.
Icaro a quelle parole chinò la testa per riflettere. Erano stati forse un po’ precipitosi a partire senza informarsi se qualche armigero poteva accompagnarli nell’ultimo tratto che rimaneva. Dopotutto avrebbero potuto pagarlo una volta giunti a destinazione e avere la garanzia di una protezione. Alcune zone erano pericolose, e i briganti, lo sapeva bene, erano sempre in agguato. Era già successo, sarebbe potuto capitare di nuovo. Si diede dello stolto: con loro c’erano una fanciulla e un bambino quasi cieco che non avrebbero potuto difendersi in caso di necessità.
«Bene, dunque, rimettiamoci in marcia, saremo a San Quirico prima che faccia buio» disse risoluto, rialzandosi in piedi.
«Io ho le gambe stanche!» piagnucolò Rolando.
«Ti sembrano stanche perché ci siamo fermati troppo a lungo e ora pesano un po’, ma vedrai che non appena ci rimetteremo in movimento, ti erà» disse premurosa la sorella.
«Mi prendi in braccio?».
Isabella lo guardò stupita.
«È la prima volta che avanzi una tale richiesta, che ti succede?».
«Se te lo chiedo è perché le forze mi mancano!» gridò il bambino.
La fanciulla si trattenne dal mollargli un ceffone. Non si era mai comportato in modo così tedioso e insopportabile. In quel momento le mancò terribilmente il padre, non sapeva proprio che cosa fare. Da quando avevano conosciuto i loro nuovi compagni non aveva fatto altro che creare problemi, invece di essere buono e riconoscente. Non ne capiva la ragione.
Il nano, che invece aveva capito al volo la strategia del piccolo, decise di venire in aiuto alla fanciulla giocando d’astuzia.
«Strano che ti manchino le forze! Un ragazzo robusto come te. Come farai a proteggerci se ti stanchi per così poco?».
«Che ne sapete voi di come son fatto io?».
«Si vede, si vede, non serve sapere granché».
Fagolio andò vicino al ragazzetto traballante e lo sorprese prendendogli il bordone dalle mani, poi cominciò a trotterellargli intorno usando quello come fosse un regolo. Sapeva bene che Rolando vedeva le ombre, ed era sicuro che sarebbe caduto nella sua trappola.
«Che state facendo ora?».
«Non si capisce? Vi prendo le misure!».
«Le misure per che cosa?».
«Ma per l’armatura, naturalmente!».
Rolando si irrigidì un poco e si bloccò.
«Io... non posso indossarne una!».
«E chi lo dice?».
«Le regole. Come farebbero i cavalieri ad abbattere i loro nemici se non potessero vederli? Io ho gli occhi marci, invece. Non potrò mai diventarlo! Quindi smettetela di prendermi in giro!».
«Si vede che tu non sai proprio nulla dei cavalieri. Tutti loro nascono ciechi e solo dopo mille prove e un lungo percorso vedono finalmente la luce».
Il ragazzino si placò incuriosito.
«Che cosa intendete?».
«Una cosa molto semplice, a dire il vero. Intendo che nella storia di ogni cavaliere c’è un cammino: ogni cavaliere è stato bambino, ed è diventato un uomo degno solo quando ha aperto gli occhi e ha capito quale fosse la propria strada. Capisci, vero?».
Rolando annuì. Isabella intuì dal suo sguardo il sorriso che Icaro le rivolgeva da sotto la maschera.
«Messer Fagolio, voi dunque sapete tutto dei cavalieri?».
«Ma certo. Che giullare sarei, altrimenti?».
«E potete rispondere a ogni mia domanda?».
«Chiaro come la luce del mattino. Che cosa vuoi sapere?».
«Vorrei sapere come si diventa cavaliere...».
Isabella sapeva già dove voleva arrivare Rolando. La sua mente si era nutrita di storie come quella di ogni fanciullo della sua età, ma lui era diverso dagli altri. Se Dio non gli avesse concesso di vedere di nuovo, sarebbe rimasto cieco per tutto il tempo che gli rimaneva da vivere; sarebbe stato solo un reietto che viveva di carità ed elemosina, e lei avrebbe dovuto occuparsi di lui fino alla fine.
«Basta Rolando, lascia in pace il giullare, vorrà riposare un poco la sua voce...».
«Ma io voglio sapere che cosa devo fare!».
«Prima di conoscere cosa dovrai fare, devi avere ben chiaro come devi diventare. Per questo ti racconterò una storia, una storia che dovrai attentamente ascoltare...».
F L’osso del drago
Come Gheorghios, cavaliere che molto aveva viaggiato, giunse da lontano per combattere un temibile drago che infestava le pianure attorno a una città, aiutato da San Giorgio.
Il viaggio del cavaliere era stato lungo e periglioso.
Aveva attraversato pianure assolate e insalubri, invase da insetti e paludi, valicato colline e i, affrontato le notti man mano più fresche sostando solamente per far riposare il cavallo e dormire qualche ora in abitazioni abbandonate o in piccole pievi, senza sfiorare le città. Era giunto finalmente a destinazione quando la stagione autunnale macchiava già di un rosso le cime degli alberi e i contadini erano soliti recarsi laboriosi nelle vigne per la vendemmia.
Aveva seguito per un tratto il corso di un fiume, tanto largo e profondo da intimorirlo. L’acqua era un elemento in cui si era sempre sentito a disagio e di cui non sopportava neppure la vicinanza. Una volta trovato il ponte per attraversarlo, aveva intravisto all’orizzonte il profilo di una città circondata da mura e ricoperta da una cappa di nero che minacciava tempesta. Quella visione lo aveva spinto stranamente a continuare. Attorno a lui era il deserto, acque malsane, nessuno che bonificasse la zona o coltivasse campi. Si era chiesto se quello non fosse un luogo ormai abbandonato.
Aveva colmato all’incirca un altro miglio quando un improvviso e inatteso
raggio di luce, bucando le nuvole e cadendo dal cielo, aveva illuminato la città. Vi riconobbe un segno, e chiedendo al suo destriero un ultimo sforzo, aveva galoppato fino al grande portone chiuso dall’interno. La cosa gli era parsa strana, solitamente in tempo di pace le porte venivano chiuse solo di notte. Una sentinella dall’alto dei bastioni gli aveva intimato di farsi riconoscere, e Gheorghios gli aveva detto che doveva parlare col Vescovo in persona. Infilzandone un lembo sulla sua lancia, aveva mostrato un lasciaare con un marchio di ceralacca rosso scuro alla guardia, che si era lasciata infine convincere ad aprire un solo battente, con un gran cigolio di cardini, lasciando appena al cavaliere lo spazio per entrare e richiudendolo subito dopo.
Il cavaliere scese da cavallo, percorse stretti vicoli, superò casupole modeste con cautela e circospezione: gli sembrava di trovarsi in una città fantasma. Non c’era nessuno in giro. Ogni tanto incontrava qualche cane solitario, qualche pollo che beccava il terreno alla ricerca di vermi o qualche maiale grufolante, ma non si vedeva nessun’anima ad accudire le bestie.
Dopo tanto peregrinare Gheorghios giunse davanti alla chiesa. Così, legò la briglia del cavallo a un anello di ferro sul muro, entrò e si lasciò avvolgere dall’odore di incenso cercando di abituare gli occhi all’umida oscurità. Ringraziando Dio per averlo fatto giungere a destinazione fece qualche o verso l’altare, dove vide un uomo inginocchiato che sembrava non essersi accorto della sua presenza.
Si avvicinò alla figura di spalle che, sentendo i suoi i, si alzò e si voltò: il cavaliere capì di trovarsi davanti all’uomo con cui doveva parlare. Il volto invecchiato del Vescovo era tirato, ma nonostante la sofferenza che traspariva aveva un’aura di fede che sembrava illuminargli lo sguardo. Gheorghios staccò dalla lancia agganciata alla sella il lasciaare e glielo porse, inchinandosi con rispetto.
«Dio sia lodato. Solo Lui sa quanto ho pregato per questo momento. È molto
tempo che ti stiamo aspettando. Io sono Anselmo, il Vescovo di questa infelice città. E ora, dimmi pure ciò che hai da dire».
Il Vescovo lo raggiunse e lo fece alzare, Gheorghios si presentò e iniziò a raccontare cosa lo aveva portato in quelle terre: la notizia di un drago che le infestava l’aveva guidato fino a lì.
«Hai detto bene. Un flagello sta spazzando da molto tempo i campi e terrorizzando la gente, un tormento terribile che ci ha costretto a lunghi mesi di restrizioni e agonia». Fece una breve pausa, poi ricominciò a parlare a voce bassa, quasi come se avesse timore di essere sentito da altri.
«Un essere antico si è risvegliato. Una creatura ancestrale, che abita queste paludi da secoli. Che proviene dagli antri più profondi della terra e che, ora, è tornato per avere la sua vendetta e far risorgere il Male».
Il Vescovo si fece il segno della croce e si tenne stretto il petto, mentre il cavaliere lo sosteneva perché non scivolasse a terra.
«Ditemi, che cosa posso fare per cacciare da queste terre tale flagello?».
«Gheorghios, tu sei stato inviato qui per un compito ben preciso. Devi riuscire nell’impresa. Tu devi uccidere il drago».
Anselmo non aveva avuto alcun dubbio che fosse proprio lui l’inviato del santo per compiere quella delicata missione. Per mesi e mesi la città era stata
tormentata da una cappa di nuvole nere e battuta da violenti temporali, ma al suo arrivo si era fatto strada all’improvviso un miracoloso raggio di sole che, per un attimo, aveva squarciato il cielo. Era durato troppo poco perché il popolo potesse accorgersene, ma era penetrato nelle scure navate della chiesa e aveva illuminato l’altare, il calice del vino e la croce di legno. Infine era scomparso, accendendo una luce di speranza nel pio animo dell’uomo. La grazia divina aveva avuto ragione sul Male, seppure per un solo istante.
Gheorghios aveva assistito alla messa da solo, dopo essersi confessato per unirsi a Cristo nel sacramento della Comunione e purificare la sua anima. La sera aveva mangiato un po’ di pane e carne secca, il poco che la dispensa del Vescovo aveva potuto offrirgli, e aveva bevuto acqua fresca, poi si era addormentato nella sacrestia, per la prima volta profondamente dalla sua partenza.
Alle prime luci dell’alba si era alzato e rivestito per prepararsi al cerimoniale. Aveva fatto benedire la spada e la lancia, si era lasciato ungere la fronte dal Vescovo con l’olio sacro e si era incamminato fuori dalle mura, alla ricerca del nascondiglio del drago.
Non ne aveva mai visto uno.
Nella piccola chiesa del paese dove aveva trascorso l’infanzia, aveva potuto ammirare un bassorilievo su cui una mano esperta aveva scolpito un mostro dal corpo di serpente e dai denti affilati, mentre veniva trafitto dalla lancia di un coraggioso cavaliere. Quando aveva chiesto alla madre chi fosse quell’eroe, lei gli aveva raccontato per la prima volta la storia di San Giorgio e del suo grande coraggio nell’affrontare il Male. Gli aveva narrato che in una città di un paese lontano vi era un grande stagno che nascondeva un drago malvagio, che uccideva con il fiato tutti coloro che incontrava. Per placare la sua ira, gli abitanti gli offrivano cibo, ma quando le scorte avevano cominciato a scarseggiare erano stati costretti a offrirgli una pecora e un ragazzo tirato a sorte. Un giorno fu estratta la figlia del Re. Quando la fanciulla stava per essere
avviata al sacrificio, giunse il giovane cavaliere Giorgio che promise di evitarle la brutale morte. Attese il drago sulla riva insieme a lei e non appena la bestia uscì dalle acque in un turbinio di fuoco e fumo dalle narici, Giorgio non si spaventò e lo affrontò, trafiggendolo con la sua lancia. Lo aveva solamente ferito, facendolo cadere a terra, e disse alla giovinetta di avvolgere la sua cintura attorno al collo del mostro perché la seguisse in città. Gli abitanti si spaventarono nel vedere il drago avvicinarsi, ma Giorgio li tranquillizzò dicendo loro di non aver timore poiché Dio lo aveva mandato per liberarli dal Male: se avessero abbracciato la fede in Cristo e ricevuto il battesimo avrebbe eliminato il mostro. Così, il Re e la popolazione si convertirono e il prode cavaliere uccise il drago, facendolo portare fuori dalla città trascinato da quattro paia di buoi.
Lo avevano sempre affascinato quelle storie, e aveva deciso che anche lui un giorno sarebbe diventato un forte guerriero per liberare la terra dagli esseri malvagi. Così aveva fatto.
Quando le porte della città si richio alle sue spalle, un debole chiarore illuminava il cielo, mentre grosse nuvole scure si rincorrevano all’orizzonte. Le viscere gli dolevano, il petto gli tremava, gocce di sudore gli imperlavano la fronte: con gesti decisi indossò l’elmo, impugnò meglio la lancia e spronò il cavallo verso il cuore della palude.
La caccia era iniziata.
Gheorghios esplorò palmo a palmo l’immensa palude circostante, che nascondeva tratti pericolosi in cui era facile impantanarsi e rimanere bloccati, o addirittura sprofondare nelle scure acque melmose. Il cavaliere stava attento a dare ascolto al nervosismo del suo destriero, che per istinto evitava le zone dove il fango sembrava meno solido e le pozzanghere più insidiose.
Quando ormai aveva perso le speranze e stava per tornare sui suoi i, ripromettendo a se stesso di ricominciare la ricerca il giorno seguente, vide a poca distanza dal luogo in cui si trovava una bassa collinetta di terra scura alquanto anomala. Si diresse in quella direzione. Una volta raggiunta, si accorse che assomigliava più a un terrapieno, così smontò da cavallo facendo attenzione a dove metteva i piedi. Le girò attorno con cautela, con la spada sguainata stretta nel pugno.
Ciò che vide al di là lo sbalordì. Vi trovò un buco ampio, di circa otto piedi, scavato nel fango, proprio al centro di un fossato largo il doppio che tratteneva le acque tutt’attorno, impedendo loro di esondare. Per raggiungere l’entrata, controllare cosa celasse e quanto fosse profondo quell’antro, il giovane avrebbe dovuto immergersi e guadare le acque scure e infide che lo proteggevano. Gheorghios esitò, ma si ricordò della lunga corda che teneva nella sua sacca e così andò a recuperare il suo cavallo.
Legò un capo della corda alla sella, l’altro se lo avvolse attorno alla vita, poi prese la lancia e iniziò a calarsi lentamente nel fossato, controllando con quella quanto fosse profondo a mano a mano che si immergeva.
Non aveva fatto nemmeno dieci i e si era bagnato appena i fianchi, quando sentì un boato terrificante sgorgare dalle profonde oscurità della palude, seguito da un grido furioso. Un grido che non era umano. Una vibrazione fortissima si propagò lungo tutta la lunghezza della cavità, che doveva essere infinita. Il giovane, preso da un panico improvviso, si volse di scatto per recuperare una posizione più sicura e prendere lo scudo di metallo, perché nel luogo dove si trovava sarebbe diventato una facile preda per chiunque. Aveva fatto appena in tempo a guadagnare la riva e a sciogliere la corda quando l’onda d’urto che investì le acque del fossato artificiale le fece straripare violentemente in una tremenda esplosione di fango.
Il cavallo, spaventato dalla pioggia pesante e melmosa, dal rumore e dal tanfo
velenoso che si era sparso nell’aria, si impennò improvvisamente e Gheorghios riuscì a strappare la spada e lo scudo dalla sella prima che fuggisse via terrorizzato. Il cavaliere era rimasto solo ad affrontare la creatura. E finalmente, per la prima volta, la vide.
Gheorghios rimase pietrificato.
Quello che aveva davanti doveva essere sicuramente il più grande di tutti i serpenti: era provvisto di cresta, ali d’uccello e denti sporgenti. Aveva un corpo immenso, una coda frecciata nervosa e letale. La sua pelle, ricoperta interamente di scaglie nere, mandava tutto intorno bagliori blu. Con una velocità impressionante, la creatura si era arrampicata aggrappandosi con l’aiuto delle unghie alle pareti dell’antro ed era risalita in superficie. Ora si ergeva in tutta la sua altezza di fronte al giovane, mostrandogli la sua ancestrale potenza. Era al contempo orribile e meravigliosa.
Le fauci del drago si aprirono e la bestia emise un suono gutturale, quasi un avvertimento.
Gheorghios continuò a fissarla con occhi sbarrati, pieni di paura. Non si aspettava nulla del genere. Forse si era illuso di combattere e vincere come nel racconto di San Giorgio, schiacciando la creatura col peso del suo cavallo e trafiggendone il collo con la lancia.
Respirò forte riempiendo i polmoni, si concentrò e lanciò un grido per prepararsi all’attacco. E fu proprio in quell’istante che accadde qualcosa. Qualcosa che non si aspettava.
«Che cosa sei venuto a fare nelle mie terre? Vattene subito, senza voltarti indietro, e ti risparmierò la vita».
Era stato il drago a parlargli, con la sola forza della mente.
Non appena si riebbe dallo stupore, il cavaliere rispose a voce alta con decisione.
«Sono io che ti chiedo di andartene, di tornare negli abissi più profondi e di lasciare vivere in pace questa gente, da oggi e per sempre!».
«Sei uno sciocco, umano. Credi davvero che potrei acconsentire alla tua richiesta? Questa palude mi appartiene da sempre, è mia di diritto. Se questa dunque è la tua risposta, per te non rimane alcuna speranza».
Senza preavviso, la creatura attaccò. Si sporse in avanti soffiando su Gheorghios il suo fiato mortifero, ma il cavaliere riuscì a prevedere la mossa e si scansò prima che potesse investirlo. Si diresse di corsa alla sua destra per avere maggiore possibilità di manovra su un terreno più sicuro, tenendo ben stretti lo scudo e la lancia. La spada gli pendeva al fianco, assicurata al fodero.
Il drago aprì le grandi ali, che avevano un’estensione due volte la sua lunghezza, le mosse con cautela e si alzò in volo lentamente per raggiungere il giovane che stava cercando un punto in cui trovare riparo. Davanti a lui però si estendeva la pianura paludosa e la città era troppo lontana. Non aveva modo di nascondersi. Era in trappola.
«Avresti fatto meglio ad accettare la mia proposta, dopotutto».
Il cavaliere a quelle parole si voltò e, quando vide il drago lanciarsi su di lui per ghermirlo, rotolò a terra appena in tempo per salvarsi dai suoi artigli. Non si perse d’animo. Si rialzò subito e prese la mira: il drago pensava di catturarlo ma gli aveva offerto inconsapevolmente una buona occasione. Non appena la creatura tentò di riprendere quota, con fatica vista la sua stazza, Gheorghios scagliò la sua lancia puntandola dritta al ventre. Sbagliò ma riuscì comunque a colpirla nel punto in cui la grande ala sinistra si saldava al fianco.
La bestia lanciò un grido straziante e tentò di rimanere in volo con l’ala rimanente, ma da sola non era abbastanza forte da reggere il suo peso. Dopo due colpi disperati, il drago cadde a terra con uno schianto, alzando zolle di fango e impantanandosi nella melma. Gheorghios lo aggirò tenendosi lontano dalla sua coda frecciata, che era lunghissima e finiva con un grosso aculeo affilato pronto a trafiggere la preda. Portava davanti a sé lo scudo di metallo ed estrasse la spada con determinazione.
«Tu, piccolo essere insignificante, cosa credevi di fare? Non puoi uccidermi».
«Non illuderti, sei molto forte, ma non sei un essere immortale».
Gheorghios vide il drago appoggiarsi sulle zampe posteriori e rialzarsi tentando di togliere con movimenti goffi la lancia che aveva conficcata nel fianco. Doveva dolergli molto.
Fu in quel momento, mentre si chiedeva che cosa avrebbe fatto per dargli il colpo di grazia, che il cielo si aprì. Un raggio di sole potentissimo colpì in pieno
centro lo scudo del cavaliere e il suo riflesso finì negli occhi della creatura ritta di fronte a lui, accecandola. Il drago si lasciò sfuggire un gemito di fastidio.
Il Signore stava offrendo l’occasione al suo emissario e lui ne avrebbe approfittato. A ogni costo. Fece uno slancio in avanti, proprio quando il drago aveva chiuso gli occhi tanto sensibili alla luce, e affondò con rabbia la spada benedetta nel suo petto, accanto al cuore. Colto alla sprovvista da quel gesto fulmineo, il mostro gettò un grido di dolore. In un tentativo disperato di difesa, torse il busto e colpì il cavaliere con l’ala ancora sana, sbalzandolo lontano.
Quando Gheorghios riprese conoscenza, trovò il drago ancora vivo che si contorceva nelle proprie viscere, in attesa della morte.
Si alzò faticosamente, tenendosi la testa tra le mani. Tolse l’elmo e vide che era sporco di sangue: l’urto contro il metallo gli aveva tagliato la tempia. La sentì con le dita ma la ferita non sembrava profonda, così lasciò cadere l’elmo a terra e si diresse verso il corpo dell’immensa creatura.
«E così, sei riuscito a uccidermi».
«Non io. È stato Iddio ad aprire le nubi e ad accecarti».
«Ma sei stato tu ad affondare la lama. Questo basta a renderti degno di onore».
Gheorghios fece un piccolo inchino col capo per ringraziare.
«Nella mia tana sotto la palude sono custoditi grandi tesori. Considerali tuoi, ora».
Il cavaliere si fermò, chiedendosi diffidente se non fosse una trappola, un modo per metterlo alla prova o semplicemente una tentazione del demonio. Neppure durante l’agonia di una delle sue creature riusciva a dare tregua agli uomini. Decise di rispondergli comunque.
«Ti ringrazio, ma non è per quello che sono qui».
Attese qualche istante accanto al corpo della bestia e aspettò pazientemente che la vita scivolasse via dalle sue viscere. Gli enormi occhi gialli, iniettati di sangue nero, si chio lentamente, il respiro si fece sempre più flebile e affannoso, finché essa non esalò l’ultimo respiro.
Così, il cavaliere prese la spada e squartò il suo ventre. Con due colpi netti e ben assestati, staccò una delle costole e la immerse in una pozzanghera accanto al corpo. Col coltello tagliò via i brandelli di carne che pendevano ancora dall’osso e lo pulì come poté, lo legò alla corda che aveva ritrovato poco lontano, e lo trascinò a piedi fino alle porte della città. Quando arrivò, era notte inoltrata. Vide la luna e le stelle nel cielo, che la gente dei dintorni ritrovava per la prima volta dopo un tempo interminabile. Notò che un corteo lo stava aspettando.
Le torce illuminavano le mura e le sentinelle facevano la ronda.
Non appena il Vescovo Anselmo scorse il cavaliere, corse ad abbracciarlo in lacrime.
«Abbiamo visto tornare il tuo cavallo senza di te e una terribile angoscia ci ha preso, ma quando ho visto il cielo aprirsi e una luce abbagliante tagliare in due le nuvole, ho capito che eri ancora vivo e che ce l’avresti fatta. E ora, ti prego, lasciati accogliere da eroe».
Gheorghios fu fatto entrare nella città in trionfo e condotto alla chiesa dove fu nominato suo protettore con la benedizione di San Giorgio.
Quando mostrò a tutti l’osso che aveva strappato dal petto del drago, ci fu un mormorio di meraviglia tra gli astanti e Anselmo ordinò che venisse lavato e preparato per essere conservato a sempiterno ricordo e a protezione dei cristiani contro le continue tentazioni di Satana. Lo avrebbe benedetto lui in persona, e sarebbe rimasto a testimonianza dell’impresa del cavaliere. Gheorghios aveva portato a termine la sua missione e per lui era nuovamente tempo di partire.
Il giovane aveva preparato il suo cavallo e gli era salito in groppa in mezzo alla folla festante, che gli lanciava petali di fiori e gli portava regali d’ogni sorta. Appese alla sella una sacca piena di pane, salumi affumicati, acqua, vino, aceto e pesce essiccato, e salutò tutti ringraziandoli per la loro gentilezza. Uscì infine dalla città e vide che le porte non venivano chiuse alle sue spalle, ma lasciate aperte. Il pericolo era ormai svanito.
In preda a una irrefrenabile smania nata chissà come, si diresse verso il luogo in cui il giorno prima, dopo una dura lotta all’ultimo sangue, aveva ucciso l’antica creatura.
Ripensando alle sue ultime parole, si chiedeva ancora che cosa intendesse mai il drago quando gli aveva parlato degli immensi tesori nascosti nelle cavità oscure
della sua tana. Era una semplice, ingannevole tentazione, o un invito a raccogliere la sua eredità e la sua sapienza?
Quando trovò la carcassa vide che in parte si era già decomposta e si era quasi ridotta in cenere. Un prodigio che non aveva mai visto prima di allora.
Si diresse verso l’antro buio, lo osservò a lungo, poi si decise a scendere da cavallo e si avvicinò scivolando nella melma, con le ginocchia che affondavano nel fango. Si sporse sul bordo per guardare dentro tenendosi saldamente con le mani. Scosse la testa e sorrise. Non vi poteva essere nulla, laggiù, solo escrementi e feccia del demonio.
Stava per andarsene, deciso a non tornare più, quando all’improvviso scorse un riflesso. Il suo occhio allenato aveva notato un brillio percorrere le pareti scure del buco. Dentro di sé scoprì con angoscia il desiderio di prendere la corda e calarsi all’interno.
Non era ancora giunto il momento di andare...
«Come continua la storia?».
«La storia continua nel modo in cui tu desideri farla continuare, Rolando».
«Quindi potrei farlo scendere nel buco infernale che era stata la tana del drago malvagio per cercare tesori?».
«Se vuoi, sì» rispose il nano un po’ affannato, riponendo la sua lira.
Il racconto durante il cammino aveva fatto trascorrere più veloce il tempo e la stanchezza della comitiva pareva evaporata grazie alle parole trascinanti del giullare. La storia di Gheorghios e del drago aveva fatto breccia nel cuore di Rolando, che adesso era più tranquillo. Alle volte si staccava dalla veste della sorella per fare dei brevi tratti da solo, con l’aiuto del suo bastone.
«È difficile scegliere. Se lo faccio scendere dentro al buco lo costringo a vivere una nuova avventura e magari ad affrontare qualche altro essere ripugnante, ma...».
«Ma?».
«Verrebbe meno ai suoi princìpi di buon cavaliere».
«È evidente. Ma se lo lasciassi ripartire, potrebbe vivere comunque altre avventure, no?».
«Non ne ho la certezza...».
«Insomma, preferiresti l’uovo oggi, piuttosto che la gallina domani!».
Isabella rise alle parole dell’uomo. Era riuscito a conquistare suo fratello e questo le aveva tolto un peso dal cuore. Sentiva ora di avere un alleato anche se
sapeva bene che poteva essere rischioso: se Rolando si fosse montato la testa con tutte quelle storie di avventure e cavalieri, e una volta a Roma il miracolo non fosse avvenuto... scacciò dalla mente quel pensiero scuotendo la testa.
Icaro la guardò notando l’increspatura di preoccupazione sulle sue labbra. La comprendeva, sentiva che le loro anime erano simili, anche lei era in cerca di qualcosa, come lui, e anche lei, proprio come lui, non era sicura di trovarla.
«Non è facile raccontare storie, messer Fagolio» affermò Rolando.
«Lo so bene, ma se hai una predisposizione naturale e una ione innata, dopo qualche tempo diventa spontaneo. Meno semplice è riuscire a incantare il pubblico e catturare la sua attenzione, ma qui io, modestamente, sono un maestro!».
«Non c’è giullare più bravo di voi, in questo, lo posso assicurare!» esclamò gioiosa la fanciulla. «Infatti siamo arrivati a San Quirico in Osenna senza accorgercene. Guardate laggiù!».
Impreziosita da due torrette di guardia, videro un’alta cinta di mura in cui si incastonava un’imponente porta ad arco tondo. Il nano applaudì contento e Icaro fu tutto d’un tratto sollevato: aveva assoluta necessità di riposare il suo corpo stanco e di prendere un po’ di medicina contro il dolore. Le ultime ore del giorno premevano sull’orizzonte e i quattro affrettarono il o per entrare in città prima che il portone venisse sbarrato dall’interno per la notte.
F La fede e l’orgoglio
La notte era trascorsa lenta e tranquilla fino a quando le prime luci dell’alba avevano svegliato con delicatezza i quattro compagni di viaggio. Icaro si era alzato quando gli altri erano ancora immersi in un tiepido dormiveglia ed era uscito in silenzio dalla stalla in cui avevano trovato rifugio, per stare un po’ da solo. Isabella aveva notato i suoi strani comportamenti ma non capiva che cosa stesse nascondendo. Poteva vedere solo i suoi occhi, il resto del suo corpo era completamente fasciato. Di tanto in tanto l’uomo si isolava dal resto del gruppo ed estraeva da una tasca interna del suo mantello una piccola fiala, ne sorseggiava qualche goccia e la nascondeva di nuovo. Prima che Icaro tornasse, provò a chiedere al nano qualche spiegazione e, dopo qualche titubanza, Fagolio le raccontò in breve la storia del suo amico, sotto il suo sguardo inorridito e commosso.
«Non c’è modo di curare le sue piaghe?».
«Le ustioni non sono come ferite da taglio: una volta bruciata, la pelle rimane segnata».
«Ma si può dare sollievo!».
«Il sollievo glielo dona un intruglio che gli ha consegnato un medico di San Gimignano».
«Si può tentare con le acque miracolose: Bagno Vignoni è sulla strada, è un luogo magico e santo. Andate a cercare Icaro e ditegli che partiamo subito».
Fagolio fu colpito dalla risolutezza della fanciulla e non ebbe il coraggio di dire no. Prese le sue cose e uscì dalla stalla mentre Isabella scuoteva dolcemente il fratello perché si risvegliasse del tutto. Aveva sentito dire dalle guide che le acque sulfuree che scaturivano dal ventre dell’Amiata, l’imponente monte che dominava l’intera Val d’Orcia, avevano proprietà curative. Forse potevano guarire anche Icaro. Era un uomo buono e generoso, con una sensibilità che le scioglieva il cuore, sentiva che doveva fare qualcosa per aiutarlo.
Si incamminarono insieme sull’antica Cassia¹ e sfiorarono Vignoni Alto, un piccolo borgo immerso e seminascosto nel verde della collina in prossimità del fiume Orcia. Fagolio aveva spiegato a Icaro quella partenza così urgente con una scusa, alla quale il compagno aveva creduto senza reticenze: il nano si era sentito in colpa, non voleva che lo considerasse uno spione, ma non era riuscito a sottrarsi alla richiesta di Isabella.
Bagno Vignoni li accolse nel sole splendente del mattino. C’erano poche anime in giro: Rolando si sedette sul bordo di un basso muretto per riposare mentre i tre si lasciavano incantare dall’atmosfera del luogo. Sembrava irreale. Davanti a loro, circondata da abitazioni e locande, brillava una piazza che non era fatta di pietre o mattoni, ma di acqua che si lasciava accarezzare dalla brezza del sud.
«Se non chiudete la bocca, ci penserà qualche pennuto dispettoso a lasciarvi un ricordo di questi posti!» la voce roca seguita da una risata li sorprese alle spalle.
Fagolio si voltò per primo, seguito da Icaro e da Isabella. Un vecchio appoggiato a un carretto con pantaloni lisi e camicia scuri, un sorriso sdentato e il viso solcato di rughe profonde, li osservava con aria scanzonata e divertita.
«È una meraviglia, vero? Credete ai vostri occhi, questa è la piazza delle sorgenti: da questa grande vasca rettangolare scaturiscono fonti d’acqua caldissima. A vedere le vostre espressioni si direbbe che non avete mai visto niente di simile!» e rise di nuovo.
«È davvero come si sente dire? Sono davvero miracolose queste acque?» chiese prontamente Isabella.
«Miracolose non saprei, non sono ancora ringiovanito a sguazzarci dentro. Ma di certo aiutano a stare meglio. Secondo voi come farei a stare ancora in piedi alla mia età così bello dritto?». Il vecchio si scostò dal carretto: non era altissimo ma stava ritto e si muoveva senza difficoltà, diversamente da molti uomini ai quali le fatiche e il are degli anni curvavano la schiena. «Non soffro di reumatismi, e questo è già un piccolo miracolo. E quando mi viene qualche acciacco, faccio un tuffo per liberarmene prima».
Fagolio lo osservava perplesso. L’anziano sembrava di fibra buona, forse era proprio quella a garantirgli la salute alla sua età.
«Certo dite bene voi. Vedo una saccoccia lì appesa alla vostra cinta. Dobbiamo forse pagare il pedaggio per immergerci nelle fonti?» chiese il nano, che ci vedeva lungo.
«Un piccolo obolo, ma che volete che sia?».
«E qui casca l’asino!» esclamò Fagolio.
«Qui cascate voi, messere! Se non credete a me, potete chiedere al cavaliere che è ato di qui due giorni fa. Vi assicuro che quando è arrivato era tutto un bozzo. Si è immerso nelle acque e tempo un giorno è ripartito arzillo come un galletto. Rimesso a nuovo. Se vi muovete, lo raggiungete!». Il vecchio fece cenno con la mano verso sud.
«Dovrete poi tornare indietro però, non so se vi conviene. Già che siete qui, approfittate no?».
I tre si scambiarono un’occhiata complice e Fagolio saltò su col suo piglio deciso.
«Quel cavaliere, che aspetto aveva?».
«Alto alto, una montagna di carne, un po’ affaticato. Aveva un bellissimo stallone con sé. Sopra l’armatura indossava un mantello come il vostro e parlava la lingua del nord».
«Teutonica?».
«se».
Icaro, che aveva imparato a non fidarsi della gente, intervenne pacato.
«Se proseguendo, non lo troveremo, torneremo qui e vi verremo a cercare per chiedervi indietro il denaro».
«Certo, certo! Non preoccupatevi, io sono sempre qui. Ah, dimenticavo! Quel cavaliere portava un involto enorme legato alla schiena. Non so quale diavoleria vi tenesse nascosta, ma era così grande che di lontano m’era parsa quasi la mazza di un gigante. Non potete sbagliare».
A quelle parole, il nano scoppiò a sghignazzare così di gusto che dovette appoggiare le mani alle ginocchia per non ribaltarsi.
«Che c’è di tanto divertente?» chiese l’uomo, meravigliato.
«Vi assicuro, vecchio, che vi meritereste l’obolo solo per questa! E ve lo dice uno che di storie se ne intende!».
F Il cavaliere misterioso
Avvolto dai fumi d’incenso e candele nella penombra silenziosa della cripta, l’uomo pregava a capo scoperto, profondamente assorto nella contemplazione del Sacro Sacello che al suo interno custodiva una preziosa reliquia. Era una delle pietre appartenute alla colonna della flagellazione, ed era macchiata del santissimo sangue di Cristo.
I chierici della chiesa del Santo Sepolcro di Acquapendente che lo avevano accolto gli avevano assicurato che vi avrebbe trovato la perfetta riproduzione del sacello della tomba di Gesù a Gerusalemme, e che la sua potenza mistica era straordinaria: per questo motivo veniva protetto nello spazio più intimo, sottostante il transetto e l’abside della chiesa. Le colonne che sostenevano le nove piccole navate, coperte da volte a crociera, erano sormontate da capitelli di rara fattura, decorati da uccelli, teste di ariete, composizioni vegetali e una grande varietà di altre forme fantastiche.
La visita alle pietre bagnate dal sangue di Cristo durante la sua ione permetteva anche ai devoti senza mezzi economici, troppo anziani o malati, di compiere un percorso spirituale, seppure più breve e meno rischioso rispetto al pellegrinaggio verso Roma o in Terra Santa, e questa forma di devozione aveva fatto crescere di molto la fama e la ricchezza di quel luogo che un tempo aveva avuto l’onore di ospitare persino l’Imperatore Ottone I. Era stato proprio lui, si diceva, a nominare l’antico borgo durante il periodo in cui l’aveva scelto come sua dimora, e aveva abitato nel suo castello stilando diplomi e trattati di pace: le numerose cascatelle che scendevano nel torrente Paglia avevano suggerito al sovrano il nome di Acquapendente, e questo era rimasto a sempiterna memoria dell’abbondanza delle sue acque.
L’uomo era inginocchiato con le mani giunte, le dita strette l’una all’altra, i capelli sciolti sulla schiena. Le forti spalle piegate in avanti non riuscivano tuttavia a nascondere la sua altezza. Il saio che indossava sopra l’armatura non poteva celare la sua mole, somigliante in tutto a quella degli eroi dei poemi. Fu il tocco leggero di una mano a riscuoterlo dalle sue preghiere. Quando si volse, vide un uomo dal viso rubicondo e gioviale che lo guardava preoccupato.
«Cavaliere, avete sangue sul vostro abito da pellegrino».
«Sto benissimo» rispose l’uomo, bruscamente. Nella sua voce possente, una lieve nota di imbarazzo. Quell’altro la colse e ne approfittò subito.
«Venite con me».
Lo affermò con un tono che non ammetteva repliche e il cavaliere si sentì costretto dalla sacralità del luogo in cui si trovava a farsi il segno della croce e a seguirlo obbediente, pur ignorando dove lo stava portando.
«Ho saputo che prima di scendere avete affidato un involto al chierico Giustino sotto compenso, facendogli giurare di non aprirlo per nessuna ragione. Che cosa contiene?».
Il cavaliere non rispose, limitandosi a tenere gli occhi bassi.
«È qualcosa di così grave da non poter essere rivelato?».
«No. È semplicemente un bastone».
I due uscirono dalla cripta, percorsero la navata laterale e uscirono dalla chiesa sotto un violento acquazzone, rientrando subito dopo in una piccola casupola che si scoprì essere un’infermeria.
«Avete un accento particolare».
«Provengo dalle terre oltre le Alpi».
«Da dove esattamente?».
«Dalla Bretagna».
«E cosa vi porta qui?».
«Sono in pellegrinaggio».
«Qual è la vostra meta?».
«Roma».
«Siete di poche parole».
«A che serve parlare troppo? L’importante è farsi capire».
«Concordo con voi, cavaliere. Io sono Richerio, voi come vi chiamate?».
«Ruggiero».
«Non è questo un nome normanno?».
«Non so. So solo che è il mio nome».
«Tanto basta, allora».
Richerio fece sedere il cavaliere su uno sgabello di legno tarlato e gli tolse la tunica da penitente, dopodiché sfilò la cotta di maglia e sciolse il bendaggio sul braccio mostrando una ferita che si era da poco riaperta. Il cavaliere non disse nulla e strinse le labbra per non pensare al dolore.
«Non muovetevi. Quando ve la siete fatta?».
«Un incidente, qualche giorno fa».
«Sciocchezze. Questa è una ferita vecchia, non offendete le mie capacità di curatore. Com’è successo?».
«In battaglia».
La risposta lapidaria di Ruggiero rubò all’uomo la voglia di continuare a fare domande. Era evidente che egli non aveva intenzione di rivelare alcunché, quindi Richerio si limitò a gettare le bende sporche e a prenderne di linde senza dire una parola. Pulì la ferita e la disinfettò con tintura di iperico, la fasciò stringendo con cura in modo che non si sciogliesse, ma che allo stesso tempo non bloccasse la circolazione del sangue. «Fermatevi qualche giorno e vedete come va. Non è saggio partire adesso, col temporale. All’interno del monastero c’è posto per dormire».
Ruggiero sembrava titubante. Da un lato voleva continuare il viaggio per non approfittare di quell’ospitalità, dall’altro era stremato e il suo corpo aveva assoluto bisogno di riposo. Dopo la sosta a Bagno Vignoni non si aspettava che la ferita gli avrebbe dato problemi così presto.
«Non è il caso».
«Perché no? Non siete forse un pellegrino come gli altri?».
Il cavaliere lo guardò negli occhi e Richerio lesse nei suoi una grande disperazione.
«Sono un pellegrino. Ma non sono come gli altri».
L’uomo a quella risposta sorrise. Aveva visto e accolto tante persone durante la sua carriera ma mai nessuno era stato così reticente e misterioso come quel franco.
«Non preoccupatevi. Non importa sapere chi sia l’ospite. Il Signore dice di aiutare il prossimo quando è in difficoltà, non dopo essersi informato su chi esso sia».
A quelle parole, il cavaliere si limitò ad annuire e Richerio lo accompagnò al suo giaciglio.
Alla sera l’uomo comparve sulla soglia della foresteria con grande sorpresa di Ruggiero. Non si aspettava che venisse a fargli visita, visto il comportamento ben poco amichevole che aveva tenuto nei suoi confronti nel pomeriggio. Se solo avesse potuto rivelargliene il motivo...
«Sono ato a trovarti per darti qualcosa da mangiare e dirti che anche il tuo cavallo ha la pancia piena. È una bellissima bestia, lo sai?».
«La migliore».
Richerio gli allungò un vassoio con un tozzo di pane, una brocca d’acqua e un delizioso dolcetto di mele e castagne. Il cavaliere lo ringraziò e di nuovo lo colse
quella sensazione di leggero imbarazzo dovuta alla riconoscenza. Era una sensazione a cui non era abituato.
«Si è deciso a smettere di piovere, finalmente. Le castagne che ha cotto il nostro cuoco sono ottime, vengono da lontano: un nostro chierico che ha molto viaggiato le ha raccolte nei boschi dell’Appennino intorno a Canossa».
Il cavaliere dimostrò di apprezzare il sapore con un cenno della testa. Richerio continuò.
«A volte la Comitissa Matilde si fa vedere anche qui quando deve scortare il Papa a Roma, ma ormai lo fa sempre meno spesso».
«Tutti sanno della sua fama. Dicono sia terribile» disse Ruggiero.
«Terribile, ma grande nel perdono. E coraggiosa e intelligente come un uomo. Nelle sue vene circola il sangue orgoglioso degli Attonidi. Questo è il confine meridionale della sua marca, che i suoi avi hanno conquistato nel tempo con ardimento. Fu grazie a suo nonno Atto che iniziò l’ascesa della sua famiglia: quell’uomo era astuto come un serpente».
Ruggiero ascoltava Richerio con attenzione mentre masticava il pane. Richerio interpretò il suo silenzio come un incitamento a raccontare.
«Ti vedo interessato a ciò che sto dicendo, cavaliere. Ti narrerò dunque la storia che lega Atto alla Regina Adelaide, la vedova del suo benefattore Lotario, quel
ch’egli fece e in quale modo agì quando venne rapita. Fu un gesto, il suo, che gettò le basi della fortuna dei Canossa, la stessa che oggi Matilde gestisce con l’appoggio di San Pietro».
F Adelaide, la santa Regina
Come Adelaide, vedova del Re Lotario, venne rapita dal malvagio Berengario insieme a un’ancella e sfuggì alla terribile prigionia grazie all’ingegno di un prete chiamato Martino.
«Dite pure a Berengario che non accetterò, né ora né mai, e che smetta di inviare doni per convincermi, non ha alcuna speranza! E ora, sparite dalla mia vista!».
Davanti allo sguardo irato e sprezzante della Regina vedova, l’ambasciatore chinò la testa, impotente, piegò le labbra in una smorfia e abbandonò in silenzio la grande sala, scortato dalle guardie di palazzo. Lo attendeva l’arduo compito di informare il suo signore, e ben sapeva di rischiare spiacevoli conseguenze a causa del suo ennesimo insuccesso: nonostante i numerosi tentativi e la sua eccellenza nelle arti diplomatiche non aveva potuto nulla contro le convinzioni della Regina, né era stato in grado di addolcire il suo atteggiamento. Adelaide era la donna più bella e cocciuta che avesse mai incontrato, non sarebbero bastate mille parole e mille promesse per farla scendere a patti con l’aspirante Re d’Italia.
Berengario, dopo la morte del sovrano Lotario, mirava al trono e non ne faceva mistero, ma gli mancava solo un tassello per raggiungere il suo scopo: avere dalla propria parte colei che aveva pienamente ereditato i diritti sulla corona. Colei che ora si rifiutava di maritare suo figlio Adalberto, legittimandolo in tal modo come nuovo Re.
Non appena si chio le porte, Adelaide fece cenno alla sua fidata ancella di seguirla fuori dalla sala e si diresse alla sua stanza privata percorrendo uno stretto corridoio. Quando fu certa di essere al riparo da orecchie indiscrete, si sedette su uno scranno e rivelò alla fanciulla quel che le si agitava nel cuore.
«Temo per la mia vita, Ingorde».
«Che dite mai, mia Regina?».
«Berengario...».
La fanciulla scosse la testa dolcemente.
«Berengario non oserà alzare la mano contro di voi. Siete la figlia di Rodolfo I di Borgogna, avete amici potenti, il Re Ottone veglia sulla vostra preziosa persona e con lui i suoi fedeli feudatari. Non avete nulla di cui aver paura».
«Ma osa offendermi di continuo con le sue richieste vergognose».
«Siete giovane e meravigliosa, signora, per questo Berengario vi vuole nella sua famiglia».
«Quell’uomo mi ripugna, tutta la sua stirpe mi ripugna!».
«Non siete obbligata a sposare nessuno che non vi aggradi, mia Regina. Nessuno potrà danneggiarvi per questo, nemmeno lui».
«Credi forse che non tenterà di assmi come ha fatto con mio marito?».
A quelle parole la fanciulla sbiancò.
«Sì, hai capito bene. Ho forti motivi di pensare che la scomparsa di Lotario non sia affatto dovuta a cause naturali. Era giovane, vigoroso, come posso credere che sia morto così, senza un motivo?».
«A volte le malattie possono essere silenziose e fulminanti...».
«Anche il veleno lo è. Ed è altrettanto letale».
Ingorde si portò le mani sulla bocca e spalancò gli occhi, lasciandosi sfuggire un gemito.
«Ma Berengario era il vostro tutore!».
«Per questo più vicino al trono e più avido di potere. Non si è fatto attendere molto dopo la morte di Lotario. D’improvviso lo ha preso questo desiderio smodato di vedermi sposata a quello stupido di suo figlio, che ha già previdentemente associato al trono di Pavia. Non lo capisci? Ora io sono solo una pedina utile all’affermazione della sua famiglia: a lui importa solo
appropriarsi della corona, se lo ostacolerò opponendomi alla sua proposta quanto tempo credi che lascerà are prima di inviare i suoi sicari?».
La fanciulla guardò in basso mordendosi il labbro inferiore.
«Non ho prove per dimostrare il complotto. Berengario ha agito d’astuzia e nel frattempo ha trovato appoggi molto influenti per la sua scalata. C’è chi lo sostiene, silenziosamente. Continuare a rifiutare la sua offerta non potrà che irritarlo maggiormente».
«Cosa possiamo fare?».
«Non abbassare la guardia, per il momento, solo questo. Aspetteremo e vedremo quali saranno le sue prossime mosse. E ora scioglimi i capelli, voglio riposare un poco. Pensare a tutto quello che sta succedendo mi toglie energia. Sono esausta, Ingorde».
La fanciulla fece un leggero inchino, prese un pettine dal tavolo accanto al letto e cominciò a arlo con cura e dedizione tra le chiome della Regina vedova, pregando in cuor suo che non le accadesse nulla di male.
«Di nuovo un rifiuto?».
«Sono costernato, mio signore, ma la Regina vedova è apparsa ferma nel suo proposito e non ho potuto fare nulla per convincerla».
«Regina vedova... parli di lei dandole tanta importanza, come fosse consapevole di ciò che fa. Non dimenticare che è solo una fanciulla stupida e viziata!».
«Adelaide ha ormai vent’anni, è cresciuta, forse non ve ne siete accorto».
«Bada alle parole, Alberico! Un altro al posto tuo avrebbe già pagato con la vita».
Il colloquio privato tra i due uomini aveva assunto toni accesi.
«Perdonatemi, non volevo apparire arrogante».
«Sarà meglio per te. Sono settimane che questa storia va avanti così. Le ho lasciato tutto il tempo per riflettere e fare la scelta migliore, e ha di nuovo detto no!».
«Vi assicuro che non ho mai visto una tale determinazione in una donna...».
«Non mi interessano i moti del suo animo!» gridò Berengario.
L’opposizione di Adelaide era un affronto per il Marchese d’Everi, per suo figlio e per la sua intera casata. Se avesse saputo che era così testarda, si sarebbe occupato di lei quand’era il momento: proprio ora che molti dei signori che si spartivano, gelosi, il territorio italico sembravano essersi finalmente decisi a concedergli il loro sostegno, non poteva perderlo così miseramente a causa delle
paturnie di una femmina che non aveva ancora imparato la virtù dell’obbedienza. Poteva già sentire le risate soffocate quando voltava le spalle, i pettegolezzi sulla sua incapacità di gestire i capricci della Regina e piegarla al suo volere. Non poteva più sopportare una situazione del genere ancora a lungo.
«Quel che mi preme, ora, è trovare una soluzione per mettere fine a questo stillicidio».
«Che cosa avete in mente, mio signore?».
«Questo dovrei chiederlo a te».
Alberico guardò Berengario negli occhi e fece per rispondere, ma il Marchese sollevò una mano per farlo tacere. Era furioso, assalito da una febbre di vendetta così intensa che il suo consigliere la percepì e ne rimase turbato: non gli aveva mai visto quello sguardo prima d’ora ed ebbe paura di lui.
«Hai un animo troppo diplomatico per consigliarmi come agire in tali frangenti, Alberico. Ormai è finito il tempo delle ambasciate e delle parole, ora è tempo di agire. Laddove premure e gentilezze hanno fallito, vinceranno la fermezza e la forza. Adelaide si pentirà amaramente di non aver accettato le mie condizioni quando le circostanze glielo permettevano. Stai certo che la Regina vedova, come tu la chiami, avrà presto ciò che merita per la sua insolenza».
Due donne coperte di lana e pelliccia si muovevano a piccoli i sul sentiero innevato che portava alla pieve in cima alla collina. La prima era minuta e si muoveva con agilità, la seconda più impacciata, anche se il suo portamento ne tradiva la nobile origine. Aiutandosi a vicenda e aggrappandosi alle braccia l’una
dell’altra, raggiunsero la sommità dove un vecchio le aspettava davanti alla chiesa con un sorriso rassicurante sul volto.
«Siete arrivate prima del solito, stamane. Qual buon vento?».
«Vento di tempesta, Martino» rispose spiccia Ingorde.
«Ho necessità di parlarvi urgentemente, padre» disse Adelaide.
«Entrate, dunque, non indugiamo oltre qui fuori, fa molto freddo».
La porta di quercia si chiuse alle loro spalle e il prete la chiuse con un gancio di ferro.
L’interno della pieve era buio, rischiarato appena dalla luce di alcune candele. I tre si sedettero dietro all’altare, al riparo dagli spifferi d’aria, dopo essersi fatti il segno della croce.
«Che accade? Raccontatemi tutto».
Adelaide abbassò la voce fino a bisbigliare, com’era abituata a fare sempre durante la confessione. Quell’uomo sapeva tutto di lei, l’aveva consigliata saggiamente nei momenti bui dopo la morte di Lotario, e probabilmente era rimasto la sua unica via d’uscita.
«Sono in pericolo, padre».
Egli, preso alla sprovvista, sussultò.
«Che cosa dite mai?».
«È a rischio la mia stessa vita, Martino, e la causa di tutto è Berengario. So di potermi fidare di voi e sono venuta a chiedervi aiuto. Mi serve un luogo protetto e segreto dove nascondermi fino a quando non mi sentirò tranquilla».
«Un luogo segreto? Ma mia cara, non sareste più al sicuro in qualche fortezza di proprietà del Re di Germania?».
«Ottone sarà presto informato della situazione, ma nel frattempo devo agire, e in fretta. Se è vero che qui ho amici e alleati, Berengario è riuscito a raccoglierne altrettanti, per questo sono costretta a lasciare Pavia il prima possibile».
La donna era angosciata e Martino la guardò a lungo senza dire nulla, torcendosi le mani nodose e riflettendo sul da farsi. Adelaide gli rivelò i suoi sospetti sulla morte del marito e sulle insistenze del Marchese d’Everi per rimaritarla al figlio, gli confessò quale odio provava per quell’uomo e lo pregò di non giudicarla e di sostenerla.
«È una scelta pericolosa, se fuggirete Berengario potrebbe accusarvi di tradimento e ribaltare in questo modo le sorti del conflitto silenzioso in cui siete
coinvolti».
«Ma se rimango potrebbe uccidermi, e otterrebbe comunque ciò che vuole».
«Ragioniamo allora su quale valido pretesto potreste utilizzare per allontanarvi dal palazzo reale senza destare troppa diffidenza...».
Mentre i tre congetturavano sul da farsi, si udirono alcuni violenti colpi alla porta che subito cedette di schianto, scardinata con forza da due uomini armati. Le donne urlarono balzando in piedi e Martino, ripresosi dallo smarrimento, accorse incontro ai soldati con le mani giunte supplicandoli di non violare la casa del Signore.
«Questo è un luogo santo, chi è al suo interno gode del diritto d’asilo!».
Un uomo in armatura dal lungo mantello nero entrò insieme al vento gelido di gennaio e squadrò il vecchio prete con aria truce, poi diede un’occhiata dietro all’altare dove Adelaide e la sua ancella erano rimaste a guardare quello che stava accadendo, tremanti e terrorizzate. Gli sfuggì un ghigno soddisfatto.
«Voi», disse indicandole, «verrete con me senza fare storie. Adesso».
«Ma non potete!» esclamò Martino. «Non potete farlo! È un oltraggio a Dio!».
Uno dei soldati che aveva sfondato la porta lo schiaffeggiò in pieno volto e il
prete cadde a terra col labbro sanguinante.
«Basta così. Vedo che tenete molto a queste femmine devote, ma in fondo è naturale, per un bravo pastore di anime come voi».
La Regina colse con rabbia la nota di sarcasmo nella sua voce.
«Vorrà dire che le accompagnerete, condividendo con loro le dolcezze del viaggio. Avrete modo di godervi la loro compagnia a lungo, insieme allo splendido panorama».
«Quale autorità vi dà il potere di fare questo?» chiese il prete, disperato.
«Quella del Marchese Berengario d’Everi: la Regina vedova è in arresto con l’accusa di cospirazione».
«Cospirazione? Che assurdità è questa?» urlò la donna.
«Eseguo solo degli ordini» rispose ruvido l’uomo. Poi, si girò verso i soldati e gridò due comandi secchi.
«Avanti, prendeteli, non ho tempo da perdere».
I due uomini trascinarono fuori dalla piccola pieve Ingorde, Adelaide e Martino, li caricarono a forza su un carro coperto che li attendeva in mezzo a un gruppetto di altri fanti, poi attesero che il loro comandante salisse sul proprio cavallo e desse il segnale per partire. Quando egli fu pronto, alzò il braccio e si misero in marcia. Li attendeva un lungo viaggio attraverso le pianure, verso nord est.
Il manipolo di uomini procedette a tappe forzate seguendo la via che portava verso i laghi. Superarono Lauda² e attraversarono l’Adda, arono accanto a Crema, oltrearono l’Oglio e si lasciarono alle spalle Bagnolo. Martino si era accorto che preferivano seguire vie meno frequentate, e quando incrociavano o percorrevano tratti delle arterie principali tendevano ad aumentare la velocità di marcia. Confidò ad Adelaide i suoi dubbi in proposito, ed ella rispose che a suo avviso la storia dell’accusa per cospirazione era sicuramente falsa.
«Le possibilità sono due: o tutto ciò è frutto di una calunnia, e presto si risolverà, oppure questo è un rapimento in piena regola» aggiunse.
«Un rapimento?» trasalì Ingorde.
«Come si spiegherebbe altrimenti così tanta rapidità e cautela per il trasferimento di una prigioniera? E perché prendere anche la mia serva e il mio cappellano? Considerando che non posso essere un soggetto pericoloso, non sono nemmeno armata!».
«Berengario deve aver perduto il senno. Che cosa spera di ottenere? In questo modo perderà ogni consenso, sanno tutti chi siete voi e chi vi protegge, mia Regina».
«È chiaro che non ha alcuna intenzione di dirlo, Martino. Probabilmente nessuno sa che siamo qui. Nessuno sa di noi...».
Adelaide cercò di farsi forza e pensare a una soluzione. Se fosse riuscita a corrompere un paio di guardie avrebbe potuto organizzare una fuga, ma servivano almeno due cavalli a disposizione e soprattutto una guida per tornare indietro. Quelle erano terre pericolose, il Marchese d’Everi le controllava palmo a palmo, sarebbe stato un gioco per lui ritrovare tre fuggiaschi smarriti e senza meta.
In quel momento il carro si fermò e un soldato aprì la tenda di pelli che copriva il carro, ordinando loro di scendere.
«Benvenuti nella vostra nuova dimora».
La voce tagliente del comandante arrivò alle loro orecchie e istintivamente i tre si voltarono verso la direzione da cui proveniva. Videro così lo splendido lago di Garda, brillante sotto il cielo bianco, dalle rive ghiacciate; accanto, si stagliava una delle rocche di proprietà del Marchese e di sua moglie Guilla. Adelaide strinse forte la mano di Ingorde e, senza tradire alcuna emozione sul volto, si incamminò nobilmente insieme alla scorta.
Furono rinchiusi in una cella stretta e buia e per molti giorni nessuno venne a fargli visita. L’unica guardia preposta alla loro custodia portava del cibo due volte al dì e non parlava mai. La Regina vedova piangeva sommessamente, di continuo, fino a quando non le si asciugarono tutte le lacrime. Ingorde non poteva fare nulla per la sua signora, solo starle accanto per riscaldarla col calore del suo corpo e impedirle di ammalarsi gravemente. Martino pregava e alle volte, aiutato dall’ancella, si arrampicava a fatica verso l’alta finestrella, l’unica che permettesse a un po’ di luce di farsi strada dentro quell’antro, ma al di fuori
non riusciva a vedere nulla se non vuoto e acqua. Erano soli, in balia di un uomo senza scrupoli, e non c’era via d’uscita.
Era già trascorso un mese di prigionia quando finalmente Berengario si fece vivo e scese nelle prigioni della torre della sua rocca per scambiare qualche parola con Adelaide.
«Vedo che nonostante tutto, godete ancora di buona salute».
«Non certo grazie a voi. Ingorde assaggia sempre per prima il cibo a me destinato, per il timore che sia avvelenato».
L’allusione non troppo velata della donna colpì il bersaglio. Il Marchese si infuriò.
«Come osate?».
«Come osate voi! Mi avete catturata e strappata alla mia casa e ora mi tenete rinchiusa qui con la forza, senza averne titolo e autorità!».
«Attenta, Adelaide, non sfidatemi. Vi toglierò quell’insolenza, foss’anche l’ultima cosa che farò. Ma in fondo, visto come si stanno mettendo le cose, non credo che avrò tempo da perdere con voi. Sapete, devo seguire le sorti del mio regno, a Pavia. Siete diventata superflua, ormai».
La Regina vedova scattò in piedi in preda all’ira.
«Mi verranno a cercare, se mi riconsegnate ora avete buone probabilità di cavarvela».
«Se vi cercheranno qui, saremo pronti ad accoglierli come si conviene alle circostanze. Vi avevo offerto la possibilità di sposare mio figlio più e più volte e avete rifiutato, abusando della mia pazienza. Ora rimarrete qui fino a quando io lo vorrò: vi riguadagnerete il vostro matrimonio filando».
Detto questo, Berengario se ne andò e i tre sprofondarono nuovamente nel silenzio.
«Ci dev’essere pure un modo per uscire di qui» esclamò Martino. L’uomo iniziò a esplorare l’angusta cella tastando le pareti con le mani sotto gli occhi rassegnati della Regina e della sua ancella.
«Risparmiate le forze, Martino, ci serviranno» disse Ingorde.
«Ci serviranno a vivere qualche giorno in più? Se rimaniamo chiusi in questa cella, la morte sarà l’unica soluzione ai nostri patimenti. Bisogna fare qualcosa».
Il vecchio ispezionò i muri dell’intera stanza con estrema attenzione, pietra dopo pietra, fenditura dopo fenditura, trovando infine una crepa che saliva dal pavimento verso la finestrella. Quest’ultima era chiusa da inferriate verticali, e in precedenza Martino aveva notato che uno dei ferri, ormai arrugginito, oscillava
leggermente tra i due perni scavati nella pietra. Con l’aiuto di Dio, forse avrebbe potuto sfilarlo e usarlo come leva per allargare la fessura della parete e aprire un varco verso la libertà. Avrebbe tentato sfidando la sorte, poiché quella, per loro, era rimasta l’ultima strada da percorrere.
Furono mesi di sofferenze e privazioni. Di tanto in tanto la moglie di Berengario, Guilla, scendeva nella cella della torre per insultare e deridere Adelaide e per infliggerle ogni genere di angherie, con la complicità delle guardie e l’approvazione del marito. Oltre alle ingiurie e alle violenze dei loro aguzzini, i prigionieri dovevano sopportare la fame e combattere i topi che si aggiravano in quei luoghi umidi e insalubri, ma Martino non aveva mai smesso di lavorare alla breccia e per celare i suoi progressi soleva mettersi sotto alla finestra quando qualcuno veniva a controllare o a portare cibo, facendo scudo col proprio corpo fingendosi malato o incosciente.
Il clima si fece meno rigido e arrivò la primavera, le giornate erano più tiepide e le notti più sopportabili. I persecutori avevano smesso di fare visite così frequenti alle loro vittime e Martino aveva aumentato il ritmo del suo lavoro, aiutato anche dall’ancella. Così finalmente, qualche mese dopo, le ultime pietre cedettero sotto al ferro ormai consunto e la breccia nel muro fu completata, accolta dal pianto di gioia di Adelaide.
«Ce l’abbiamo fatta! Presto, Ingorde, scaviamo con le mani per aprire un aggio, non c’è tempo da perdere!».
Scavarono a lungo e quando l’apertura fu abbastanza larga per lasciar are un uomo accucciato, si infilarono uno dopo l’altro, dopo aver controllato che non vi fosse nessuno ad attenderli dall’altra parte. La notte era rischiarata da una pallida luna che permetteva ai fuggiaschi di vedere dove mettevano i piedi. Senza pensarci due volte, Martino e le due donne si diressero verso sud, seguendo le stelle: dovevano allontanarsi di lì il prima possibile, anche se le ore notturne davano loro un po’ di vantaggio sapevano che non appena Berengario e i suoi si
fossero accorti della loro scomparsa, avrebbero smosso mari e monti per ritrovarli. Si strinsero nei loro mantelli e cominciarono a camminare.
Camminarono per giorni e giorni nascondendosi dove potevano. Spesso Martino andava in avanscoperta da solo per trovare cibo e saggiare il terreno, ed era riuscito a procurarsi degli abiti maschili per Ingorde e la sua Regina. Erano riusciti a evitare le guardie che erano state allertate e perlustravano di continuo la zona, infine erano giunti ai laghi di Mantova in una calda giornata d’Agosto. Volevano raggiungere l’altra riva per aumentare la distanza tra loro e il Marchese d’Everi, e si accorsero di un pescatore che se ne stava solo e tranquillo sulla sua barca non lontano da lì. Martino attirò la sua attenzione e il pescatore li raggiunse remando.
«Puoi traghettarci sull’altra sponda?» chiese il vecchio prete.
«Certo che posso, cosa siete disposti a pagare?» rispose l’uomo.
«Se tu sapessi chi siamo, gioiresti e ci trasporteresti subito tutti e tre, senza alcun compenso».
«Dite dunque chi siete, se volete are».
«Se giuri di mantenere il segreto, ti riveleremo la nostra identità».
«Giurerò sul Vangelo, se vorrete».
Martino non lo aveva con sé, così il pescatore prese due pezzi di legno e li pose a terra a forma di croce: davanti a quella, come fosse una vera croce, fece il suo giuramento senza esitazioni.
«Ora sono certo che posso dirti ogni cosa» disse Martino. «Questa è la Regina che l’usurpatore Berengario ha tenuto per tanto tempo prigioniera: stiamo fuggendo, sii amico fedele».
Il povero villico, a quella rivelazione, lodò il Signore e li traghettò immediatamente sull’altra riva, donando loro un grosso pesce perché potessero sfamarsi.
«Se Dio un giorno vi ridarà l’onore che vi spetta di diritto, ricordatevi di me» disse alla Regina. Depose i tre fuggiaschi vicino a una selva nei pressi del lago e vi stettero sette giorni. Adelaide pregava insieme a Ingorde mentre il prete mendicava il pane, ma la Regina sapeva che non potevano continuare in quel modo.
«A che serve stare qui? Rimango sempre una prigioniera! Dobbiamo rivolgerci a un’autorità che possa intercedere per noi. Il Vescovo reggiano, Adelardo, era nostro amico fedele. Buon vecchio Martino, se tu andrai a riferirgli quale sventura mi è capitata, egli forse può fare qualcosa per aiutarci».
Il prete, benché fosse stanco a causa dei patimenti sofferti, esaudì la richiesta della sua Regina e andò dal Vescovo. Molte cose erano cambiate in quei mesi, e non poteva più fidarsi di nessuno, così decise di fingere che Adelaide fosse morta in un tetro carcere per mano di Berengario, per comprendere se il presule fosse effettivamente un alleato o fosse diventato un nemico. Quando gli raccontò la disgrazia, vide le lacrime rigare il volto di Adelardo e capì che il suo dolore era sincero.
«Che grande sventura, e un delitto, per giunta!» esclamò il Vescovo.
«Ebbene, allora sarete lieto di sapere che la Regina è viva e manda me per chiedervi protezione. Vi chiedo scusa per avervi mentito, ma era per proteggere l’incolumità della mia signora».
«Mi hai tolto un peso dal cuore, Martino! Sarò ben felice di aiutarvi. Tra i miei possessi non ho nessuna rocca sicura, ma Atto, mio vassallo, ne ha una, chiamata Canossa. S’egli vorrà, potrà ospitarvi la Regina tenendola al sicuro dalle ire del Re. Prendi uno dei nostri cavalli e corri da Atto, pregalo e forse otterrai ciò che stai cercando».
Il prete fece ciò che Adelardo gli aveva suggerito e usò con Atto lo stesso stratagemma che aveva utilizzato col Vescovo, raccontandogli della scomparsa di Adelaide. Quando lo vide piangere gli rivelò la verità e il luogo dove poteva trovarla.
Atto, senza tentennamenti, fece venire i destrieri e corse al galoppo dalla Regina. La terza ora del giorno illuminava la terra, ma il cavaliere non indugiò e non si curò del caldo opprimente, mettendosi in viaggio. All’ora sesta del giorno seguente l’alta e imponente rocca di Canossa ospitava già la Regina sfuggita alle mani del suo persecutore Berengario, insieme alla sua fedele ancella. Atto inviò la notizia al Papa e gli chiese consiglio, poiché voleva consegnare Adelaide a Ottone, Re dei Germani, e lasciarla in mani sicure. E così fu.
Il cielo premiò il suo coraggio e la sua lungimiranza. Di lì a poco Ottone e Adelaide si sarebbero sposati, Berengario sarebbe stato sconfitto e Atto avrebbe posto le basi per il nuovo grande regno della famiglia dei Canossa.
Quando Richerio finì di raccontare la storia di Adelaide, si accorse che Ruggiero si era addormentato, la testa appoggiata alla spalla, la bocca leggermente aperta. Gli sfuggì un sorriso a guardarlo così abbandonato, come un bambino, lui che era un uomo abituato alle battaglie.
«Chissà fin dove hai seguito la storia... ma non importa. Egoista io, che ho preteso mi ascoltassi nonostante tu fossi sfinito. Riposa, cavaliere», aggiunse sottovoce, «riposa e guarisci».
Prese il vassoio vuoto dalle sue mani, si alzò e lasciò la foresteria senza dire altra parola.
F Il lago maledetto
Avevano superato insieme l’aspra salita tenendosi per mano e lasciandosi la montagna di Radicofani alle spalle, senza fermarsi per la paura dei briganti che infestavano i suoi cupi anfratti. Si diceva fosse pericolosa anche per i fulmini e Isabella aveva pregato tutti i santi che non piovesse, ma pian piano il panorama sconfinato che offrivano quelle alture l’aveva rapita: lo sguardo poteva spaziare dall’Amiata fino all’Appennino, dai laghi di Bolsena e Trasimeno fino ai bagliori velati del mare Tirreno. Non aveva detto una parola perché in cuor suo si sentiva in colpa nei confronti di Rolando, che a differenza di lei non poteva godere di quello scenario meraviglioso.
Avevano fatto tappa ad Acquapendente per contemplare la pietra segnata col sangue di Cristo proveniente dal Santo Sepolcro a Gerusalemme, ma la vista del bambino non ne aveva tratto alcun giovamento. Rifocillati e riposati, avevano poi proseguito verso Bolsena.
Del cavaliere nessuna traccia, anche se pareva proprio che non fosse il frutto delle fantasie del vecchio di Bagno Vignoni: qualcuno che corrispondeva alla sua descrizione era stato visto alla locanda e l’oste aveva confermato loro persino l’aspetto e l’accento transalpino. Mentre Icaro e Isabella erano attirati dal mistero dell’inafferrabile straniero, Fagolio si era limitato ad alzare le spalle e aveva affermato che lui non sarebbe comunque tornato indietro a lamentarsi, quindi tanto valeva lasciar perdere.
Sulle condizioni di salute di Rolando, che aveva stretto una bella amicizia col giullare, Isabella iniziava ormai a disperare. Durante il tragitto, mentre il nano e suo fratello si erano staccati per parlottare tra loro di storie fantastiche e cavalieri, ne aveva approfittato per confidarsi con Icaro e condividere il peso che
aveva sul cuore.
«Se il sangue sacro non lo ha migliorato affatto, come posso pensare che esista qualche altra possibilità per lui di guarire?».
«Non c’è modo di saperlo, Isabella. Ciò che si può fare è continuare a cercare».
«A Roma non so cosa troverò. Se non trovassi nulla, che cosa dovrei fare poi? Fermarmi e desistere? Continuare il pellegrinaggio fino a Gerusalemme e sperare che nella Città Santa avvenga finalmente un miracolo? Non so, sono dell’idea che non si possa cercare per sempre».
Le parole della ragazza colpirono molto Icaro. Anche la sua era una ricerca, sebbene di altra natura, ma nemmeno lui era più tanto certo che arrivando a Roma avrebbe trovato delle risposte. Forse sarebbe stato costretto a viaggiare fino alla fine dei suoi giorni, forse avrebbe viaggiato invano. Non replicò preferendo rimanere in silenzio, per rispettare i pensieri e i dubbi della fanciulla, che in fondo erano anche i suoi.
Fu Fagolio a rompere la quiete richiamando l’attenzione del gruppo.
«Guardate laggiù!» esclamò tutto eccitato indicando verso ovest. «Quello è il lago di Bolsena! Incredibile, ne avevo tanto sentito parlare e ora eccolo lì!».
Icaro gli lanciò un’occhiata di traverso e il nano si rese conto troppo tardi della sua frase infelice. Si diede un morso alla lingua: non aveva pensato al piccolo
Rolando.
«È una distesa d’acqua trasparente che riflette il cielo e si lascia increspare dalla brezza delle colline, un tempo era un grande vulcano» aggiunse rivolgendosi al bambino.
«Che cos’è un vulcano?» chiese Rolando.
«Un vulcano è un buco enorme che sputa fuori dal ventre della terra fiamme, fuoco e lapilli incandescenti. Ma quello di Bolsena era anche una porta per l’inferno da cui entravano e uscivano indisturbati esseri demoniaci d’ogni sorta per tormentare gli uomini. Poi un giorno, finalmente, la porta del regno degl’Inferi fu chiusa grazie a una magia, le acque riempirono il cratere purificandolo e la bellissima fata Diana divenne la custode di quei luoghi. Accanto al lago v’è un bosco incantato fatto di querce centenarie: una nasconde tra le chiome un ramo dalle foglie d’oro. Se sei fortunato da trovarlo e così abile da vincere in duello il suo guardiano, puoi diventare il signore di quella terra e non solo...».
Rolando lo ascoltava a bocca aperta con lo sguardo perso nel vuoto.
«Cos’altro?» il bambino era tutto un fremito.
«Puoi anche avere accesso al regno delle ombre e farti svelare dai morti dove sono sepolti tutti i tesori del mondo»²¹.
«Davvero?».
«Ma non sarà un luogo maledetto?» chiese un po’ intimorita Isabella. A volte quelle storie la turbavano, non riusciva a capire dove finiva la realtà e iniziava la leggenda.
«Affatto. Non più, almeno, da quando ha fatto la sua comparsa Cristina».
«Chi è Cristina?».
Icaro trovava divertente ascoltare Fagolio. Quando era all’opera con le parole, riusciva a trasmettere emozioni, strappava lacrime e sorrisi e non c’era chi, alla fine, rimanesse indifferente. Aveva un dono, quel nano, molto più grande di quanto immaginasse.
«Cristina è colei che ha benedetto questi luoghi avvolti nelle tenebre con la testimonianza del suo martirio. È vissuta tanto tempo addietro, quando ancora queste terre facevano parte dell’Impero Romano. Ella era la nobile figlia di Urbano, il prefetto che governava la zona. A soli dodici anni aveva iniziato a seguire la dottrina cristiana contro la volontà del padre, che tentava in ogni modo di allontanarla dalla nuova fede e cercava di corromperla con agi e lusso. L’aveva rinchiusa nel suo palazzo insieme a dodici ancelle e circondata di preziosissime statue di idoli pagani. Cristina, però, distrusse le statue, ne prese i gioielli, si calò dalla finestra e li distribuì ai più poveri donando loro anche le sue ricche vesti.
Per questo motivo fu mandata in prigione, ma si rifiutò di rinnegare la sua fede. Venne così condotta per ordine del padre davanti al tribunale per farle giurare
fedeltà all’Imperatore: la ragazza avrebbe dovuto riconoscerlo come divinità o sarebbe stata punita. Cristina scelse la punizione, venne legata a una colonna e subì pubblicamente le frustrate di dodici uomini. Poiché la sua volontà non si piegava, fu bloccata a una ruota metallica con un fuoco sotto ai suoi piedi: la ruota, girando, avrebbe slogato gli arti della ragazza, ma al primo giro si spezzò mentre un vento improvviso arrivò dal lago a spegnere le fiamme.
Il padre era disperato: dopo averla lasciata a lungo in prigione senza ottenere risultati, ordinò a cinque uomini di farla sparire in gran segreto nelle acque del lago. Vi fu condotta in piena notte, le legarono una grossa pietra al collo e la gettarono nelle scure profondità, ma avvenne un nuovo miracolo. Cristina non affondò e galleggiò proprio sulla pietra che avrebbe dovuto trascinarla a fondo lasciandovi sopra l’impronta dei suoi piedi. Il padre era sulla spiaggia che attendeva la sua morte, e quando la vide tornare non credette ai propri occhi: fu colto da un malore e morì».
«E lei fu liberata?» chiese Rolando.
«No piccolo, quello fu soltanto l’inizio. Dione, il successore di Urbano, cercò inizialmente di far desistere Cristina proponendole un matrimonio di convenienza. I continui rifiuti della ragazza convinsero Dione a riprendere il metodo delle torture. Ordinò di immergerla in una piccola caldaia di olio e di pece bollente posizionata su un fuoco ma ella sopravvisse. La fece denudare e le fece tagliare i lunghi capelli biondi, ordinandole di adorare in pubblico gli idoli pagani nel Tempio di Apollo e quando per l’ennesima volta rifiutò, la statua del dio cadde e una grossa scheggia uccise Dione, al quale succedette Giuliano. Il nuovo prefetto, per vendicarsi, ordinò di far accendere una grande fornace di mattoni dove la ragazza venne lasciata per cinque notti. Alla fine del supplizio, Cristina fu ritrovata viva: le fiamme erano state allontanate dal suo corpo dal battito delle ali degli angeli. Credendo a un’opera di magia Giuliano la rinchiuse con vipere, aspidi e colubri che avrebbero dovuto ucciderla, ma le prime si arrotolarono ai piedi, le seconde le circondarono il petto, le terze le leccarono il collo.
Frustrato ed esasperato dagli insuccessi su quella che riteneva una donna maledetta, una mattina ordinò che un gruppo di arcieri la prelevasse dalla prigione per condurla all’anfiteatro. Qui Giuliano le fece tagliare la lingua e i seni, la fece legare a un palo e infilzare dalle frecce. Cristina morì per testimoniare la sua fede in Dio e ora è considerata una santa. La pietra del lago con le sue impronte si trova nella Cappella del Miracolo del Duomo di Bolsena».
«E possiamo vederla?».
«Certo che possiamo, naturalmente, stiamo per giungere in città. Sarà la prima cosa da visitare» disse Isabella. «Avevo sentito dire della pietra, ma non mi ero informata sulla storia di Santa Cristina. Una vicenda terribile, la sua».
«Terribile e potente. Pensate che persino Matilde di Canossa e il Papa Gregorio VII se ne sono interessati, ed è proprio grazie a loro che è stata costruita la basilica di Bolsena».
«Fagolio, non ti facevo un esperto di tali argomenti, mi stupisci ogni giorno di più» intervenne Icaro.
«Mio caro amico, dovresti sapere che sono il migliore, no?» zufolò lui di rimando.
«Che cosa aspettiamo, dunque? Entriamo in città e andiamo alla pietra di Santa Cristina. Ha avuto una vita piena di patimenti ma s’è conservata sempre buona e dolce, forse ascolterà anche le nostre preghiere».
Così dicendo, Isabella prese la mano di Rolando e la appoggiò sul proprio bordone perché il fratello la seguisse senza indugio; Fagolio e Icaro si accodarono per raggiungere insieme a loro l’antico borgo fortificato, che in ato era stato un forte presidio longobardo. Vi avrebbero trascorso la notte, ma prima di trovare un ospitale la fanciulla era risoluta a visitare il luogo in cui riposava, inciso nella pietra, lo spirito di quella santa donna. La speranza non era ancora del tutto svanita.
F I fantasmi di Ruggiero
Ruggiero era rimasto una sola notte presso la foresteria di Richerio ed era ripartito di primo mattino per recuperare le ore trascorse a riposare. Si sentiva molto meglio, rinvigorito, e la ferita aveva smesso finalmente di pulsare. Dopo aver riavuto il suo ingombrante involto dal chierico a cui l’aveva affidato, gli aveva saldato la rimanente parte del compenso promesso e gli aveva detto addio.
Prima di ripartire da Acquapendente si era lasciato controllare docile il bendaggio ancora una volta, ringraziando di cuore l’uomo che lo aveva curato: Richerio era riuscito a strappargli persino la promessa di tornare a trovarlo una volta che avesse adempiuto al suo voto.
Il cavaliere si era rimesso in marcia di buona lena raggiungendo Bolsena prima di mezzogiorno. Aveva fatto una breve sosta per mangiare e prendersi cura del suo palafreno e aveva ripreso subito il cammino, giungendo a Montefiascone in serata. Qui aveva trovato da dormire ospite in una casa privata: i proprietari, dopo la perdita del loro unico figlio, avevano deciso di utilizzare la sua camera per alloggiarvi i pellegrini e dedicare alla sua memoria quell’atto di carità e assistenza verso i bisognosi.
Montefiascone non era affatto come se l’aspettava. La città era circondata da meravigliosi vigneti. Sulla sommità del colle v’era un insediamento protetto da una fortificazione ben munita, in cui si diceva Papa Gregorio VII avesse ospitato Matilde e sua madre Beatrice, e alle pendici del declivio, poco lontano dall’arteria principale, si era sviluppato il borgo intorno alla chiesa di Santa Maria, dedicata alla Vergine.
Ruggiero prima di dormire, poiché la ferita sembrava non sanguinare più, si era lasciato convincere dal padrone di casa a provare il famoso vino moscatello prodotto dalle uve del posto e ne aveva bevuti un paio di bicchieri con piacere, accompagnandoli con qualche dolcetto di ricotta della Tuscia. Quel piacere inaspettato gli aveva conciliato il sonno, ma il mattino seguente il cavaliere si era alzato con una strana sensazione in corpo che non lo aveva abbandonato per tutto il giorno. Quando aveva attraversato Viterbo aveva spesso dovuto abbeverarsi alle sue fontane. La Francigena tagliava la città esattamente nel mezzo: Ruggiero era entrato da Porta Fiorentina ed era uscito da Porta Romana, poi, invece di percorrere la strada che puntava verso i Monti Cimini, la più frequentata e sicura, aveva scelto di seguire la Cassia dirigendosi verso la pianura.
Si era lasciato alle spalle Furcari col suo vivace castello rurale, ma la fatica lo aveva nuovamente aggredito all’altezza dell’antica Vetralla. La sua gola era sempre più riarsa e asciutta, ma Ruggiero aveva tenuto duro e non si era fermato. Infine, stremato, si era abbandonato sotto a una grande quercia a un lato della strada. Le gambe non lo reggevano più.
Si deterse il viso con la manica della tunica e strinse gli occhi. Sudava freddo, il petto ansante, il cuore in tumulto. Il cavallo nitrì ignaro e si chinò a brucare l’erba. Il cavaliere ebbe un fremito e lo attraversò un pensiero terrificante: se la morte lo avesse colto lì, in quel luogo sperduto, senza un prete che raccogliesse la sua confessione e nessuno a cui affidare le proprie volontà, non ci sarebbe stata salvezza per lui, né per la sua famiglia. Il suo animo cadde in preda alla più cupa disperazione e calde lacrime iniziarono a scendere, bagnandogli le guance.
«Hai bisogno di aiuto, pellegrino?».
Ruggiero aprì gli occhi e vide davanti a sé una donna che teneva un canestro tra le braccia pieno d’erba e fiori. Si intravedeva tra i capelli raccolti qualche filo d’argento, ma il suo viso era giovane e fresco. Riuscì a pronunciare solamente
una parola: «Acqua...» poi, svenne.
Quando si svegliò, si trovava all’interno di una modesta casupola di tufo sostenuta da travi in legno di quercia, a cui erano appesi fasci di erbe di ogni tipo. Nell’aria v’era un odore strano, come di bollito. Non appena Ruggiero fece per mettersi seduto, una fitta lancinante partì dalla spalla e gli attraversò il petto. La ferita si era aperta di nuovo. Con angoscia si accorse che il suo involto era sparito e lo avevano lasciato nudo e spogliato di tutto. Si lasciò cadere di nuovo all’indietro e fu colto da un impeto di rabbia così forte che gli sfuggì un grido.
La donna arrivò di corsa ed egli la riconobbe subito.
«Chi sei?» le chiese.
«Chi sei tu, piuttosto!» rispose lei, seccata.
Il piglio di quella femmina lo sorprese. Rimase ammutolito e la donna continuò.
«Sarebbe cortese che tu ti presentassi, visto che ti ho accolto in casa mia. E mi piacerebbe anche che mi ringraziassi, dato che come vedi ti sto curando» disse brusca.
Non si era reso conto della fasciatura pulita sul suo braccio.
«Sono diretto a Roma» disse lui.
«Sei cavaliere, o cosa?».
«Dici bene, sono cavaliere».
«E perché porti il saio da pellegrino?».
«Perché sono in pellegrinaggio. Dove l’hai messo?».
«Era sporco di sangue, fango e solo il cielo sa cos’altro. L’ho lavato, appena sarà asciutto te lo restituirò. Ma di’, che cosa porti lì dentro?».
La donna indicò, in un angolo della stanza, l’involto abbandonato su un mucchio di fascine: era ben chiuso, insieme alla sua cotta di maglia. Ruggiero ebbe un fremito.
«Porto... un bastone» rispose titubante.
«Un bastone assai affilato, a quanto pare».
L’uomo si voltò di scatto verso di lei e la fissò con un’espressione che la colpì: era furioso, ma sembrava anche alquanto impaurito. Era come se quell’oggetto fosse prezioso e maledetto al tempo stesso, come se desiderasse liberarsene ma non potesse farlo per qualche motivo.
«Oh, non preoccuparti, non sono certo una ladra».
«Ma sei curiosa, come tutte le femmine!».
«Non ti conviene fare battute di spirito. Posso lanciarti il malocchio e trasformarti in rospo quando voglio e a mio piacimento, quindi tieni la bocca chiusa e usa le parole con saggezza».
Era capitato nel tugurio di una strega. Ecco a cosa servivano tutte quelle erbe appese insieme a trecce d’aglio e mazzi di ortaggi, ecco cos’era quell’odore strano che impregnava la stanza: stava preparando chissà quali intrugli infernali per avvelenarlo.
«Che cosa vuoi farmi?» le chiese.
«Ci tieni alla tua pelle?» gli rispose lei.
La sua sicurezza lo spiazzò. Era in posizione dominante e lo trattava alla pari, senza riconoscergli il suo status sociale, e lui non era abituato a parlare con le donne in quella maniera. Osservandola si era reso conto che non aveva un aspetto affatto sgradevole, ma che non poteva essere considerata bella: aveva gli occhi distanti e il mento sfuggente, e il suo corpo stava sfiorendo più in fretta del suo volto.
«So a cosa stai pensando, cavaliere pellegrino. Hai paura che ti avveleni perché
come tutti non sai vedere al di là del tuo naso. Ma la cosa non mi stupisce. Chi mi ha insegnato a guarire con le erbe mi ha insegnato anche a diffidare degli uomini. E non a torto».
La donna staccò da un mazzetto appeso alla trave qualche fogliolina che sembrava trifoglio e si spostò nell’altra stanza dove scoppiettava una fiamma allegra: sopra al fuoco vi era una piccola pentola con l’acqua che già bolliva, pronta per il decotto. Vi gettò dentro le foglie e tornò dall’uomo che, smarrito, non sapeva cosa dire o fare.
«Vulneraria».
«Come?» le chiese il cavaliere.
«Le foglie che sto utilizzando. È vulneraria. Accelererà la guarigione della tua ferita. In due giorni sarà chiusa».
Ruggiero a quelle parole distolse lo sguardo da quello di lei.
«Cosa c’è ora?».
«Nulla. Grazie della tua gentilezza, ma... sappi che non guarirà».
«Così mi credi una strega da quattro soldi, eh?».
«No. La mia ferita non può rimarginarsi. Non fino a quando...».
«Fino a quando?».
Ruggiero si interruppe. La donna rimase in attesa ma vedendo che egli non rispondeva si spazientì e lasciò perdere, accompagnando la sua irritazione con un cenno del capo. Si girò per andare a controllare di nuovo la fiamma.
«Se mai vorrai dirmelo, chiamami» disse a voce alta.
«Come posso chiamarti, se non so il tuo nome?» chiese lui.
Ella tornò indietro e piantò le mani sui fianchi, guardandolo con un mezzo sorriso.
«Chiamami Cassilina».
«Io sono Ruggiero».
«Ti si è sciolta la lingua, Ruggiero! Non avrei mai pensato che ci saremmo presentati, men che mai per tua iniziativa. Ora pensa a riposare, piuttosto. È una brutta ferita e mi domando come diavolo te la sei fatta. Ma tanto so che non me lo dirai».
Detto questo, lo lasciò solo tornando a spentolare in cucina.
Il cavaliere rimase a guardare il soffitto, e ascoltando i rumori di quella piccola casa piano piano chiuse gli occhi e si addormentò.
Al suo risveglio trovò Cassilina al suo fianco, intenta a fare gli impacchi alla ferita. Era delicata e molto diligente, ci metteva una grande cura e non perdeva nemmeno una goccia d’acqua: il liquido che gocciolava finiva tutto in un catino che aveva messo sul pavimento.
«Sei molto capace».
«Ho avuto un’ottima maestra».
«Chi era lei?».
«Si chiamava Melusina: veniva da lontano, mi ha adottato come figlia e mi ha insegnato tutto quello che sapeva. Le volevo bene. È morta un anno fa».
Gli occhi della donna si velarono di tristezza e Ruggiero non disse altro.
Sapeva bene cosa significava perdere una persona cara: anche lui aveva perso la madre. Ella era stata capace di mantenere i giusti equilibri nella famiglia, ma
quando era venuta meno la sua guida, si era rovinato tutto. Sentiva la sua mancanza.
«Dove siamo qui?» chiese il cavaliere.
La domanda colse alla sprovvista Cassilina.
«A casa mia, naturalmente».
«Io intendevo in che luogo».
«Siamo alle Querce d’Orlando».
Ruggiero, confuso, si grattò la testa col braccio sano e socchiuse gli occhi nel tentativo di ricordare dove aveva sentito quel nome.
«Perché questo nome mi dice qualcosa?».
«Fammi sentire la fronte, avanti. Vedo se hai la febbre».
«Non sto delirando. Sto solo cercando di ricordare».
«Beh, tu fammi sentire la fronte, e dopo ti rinfresco io la memoria. Avanti!».
Ruggiero si piegò al volere della donna e la lasciò fare.
La fronte non scottava e Cassilina scrollò le spalle.
«Avevi ragione. Niente febbre, almeno la ferita non s’è infettata».
«Dunque?».
«Sei impaziente. Questo luogo si chiama Querce d’Orlando in onore del più valoroso dei paladini di Carlo Magno, che tanti anni fa vi sostò a riposare mentre si recava a Roma al seguito dell’Imperatore. La storia di Rolando la conoscono tutti, quindi che te la racconto a fare? Sicuramente la sai anche tu».
Il viso dell’uomo si illuminò.
«La conosco, certo che la conosco. Sono vicino!».
«Sei vicino a cosa?».
«Alla fine del mio viaggio!».
«Non ti agitare troppo, cavaliere, che il decotto finisce tutto per terra».
«Devo ripartire».
La donna lo guardò di sbieco, fulminandolo con gli occhi.
«Non puoi rimetterti in viaggio. Devi stare a riposo, domani vediamo come va la ferita».
«Tu non capisci, io devo andare!».
«Devi andare? Bene, puoi scegliere. Vuoi partire subito e morire durante la notte, o preferisci concludere il tuo viaggio senza rischio di rimanerci secco lungo la strada?».
Ruggiero a quelle parole si calmò. Cassilina aveva ragione. Aveva già rischiato una volta e se non l’avesse raccolto lei sarebbe sicuramente morto. Non poteva permettersi un altro errore, debole com’era. Guardò la ferita, di nuovo pulita e disinfettata, poi guardò la sua guaritrice e annuì.
«Resterò qui stanotte e ti ricompenserò per la tua generosità».
«Non serve, cavaliere. Quel che faccio lo faccio perché mi va, sono una donna
libera e tanto mi basta. E ora lasciami lavorare, devo cucire la ferita e rifare il bendaggio dopo gli impacchi, se non vuoi sentire troppo dolore stai fermo, immobile, e pensa a qualcos’altro».
Così, mentre Cassilina lavorava con ago, filo e bende, Ruggiero ripensò alla leggenda che tante volte aveva sentito narrare da sua madre: la leggenda che raccontava di un bambino e un cavaliere, e di un incontro destinato a lavare i peccati degli antenati...
F Paure e smarrimenti
Erano trascorsi già due giorni dalla loro partenza da Bolsena e il terzo giorno si stava ormai per concludere sotto una leggera pioggerellina inaspettata. Avevano fatto tappa a Viterbo e riposato nel Quartiere del Pellegrino, dove avevano trovato una piacevole assistenza per il viaggio. In parecchi si erano dati da fare per offrire loro ospitalità, un dovere particolarmente sentito in quel luogo: la gentilezza della gente li aveva colpiti molto, tanto che Fagolio la sera prima di ripartire aveva improvvisato uno spettacolo in piazza per ringraziare tutti coloro che li avevano aiutati.
Poco prima di Vetralla, si erano fermati alla chiesetta di Santa Maria in Forcassi dedicata alla Vergine, nell’antica Forum Cassii, che in epoca romana era stata una stazione di posta e un fiorente mercato: era un po’ discosta a est rispetto alla via, alla fine di una stradina in mezzo alla campagna, ma il gruppo aveva fatto una deviazione per accontentare le richieste della fanciulla.
L’incipiente tramonto era di un rosso che infuocava il cielo e tingeva le guance di Isabella, lievemente affannata dal camminare.
Fagolio si occupava di Rolando e gli risultava assai piacevole la compagnia di quel bambino che, dopo le prime incomprensioni, si era dimostrato intelligente e curioso.
«Dopo la favola della volpe e dell’uva che cosa mi racconterai?».
«Dipende da te, che cosa vuoi che ti racconti?».
«Mi racconti sempre di cavalieri e di santi, ma perché non parli mai degli uomini e delle donne? Di quello che fanno insieme?».
A quelle parole Isabella, che li precedeva ma aveva sentito tutto, si girò rossa in volto.
«Rolando! Ma che cosa stai dicendo?».
«Ho solo fatto una domanda...».
Il nano si intromise al volo nella conversazione pregustando già la scena. Quelle situazioni erano la sua specialità, ci sguazzava come i eri nelle pozzanghere dopo un temporale.
«Mia cara, non dovreste tarpare le ali così a vostro fratello, ben sappiamo che ormai è un ometto e ha bisogno di conoscere la verità su certi argomenti, no?».
«Assolutamente no!» esclamò la fanciulla. «Non è abbastanza maturo!».
«Non è maturo per distinguere l’amore dalla lussuria? Vista la vostra sicurezza, presumo voi ne siate già in grado. O volete che vi spieghi qualcosa a riguardo?».
«Io non ho bisogno che mi spieghiate proprio nulla, cantastorie!» rispose stizzita Isabella.
«Fatelo voi dunque, raccontateci la differenza».
La ragazza, furiosa, non replicò e il nano, ridendo, riprese subito in mano la situazione.
«Suvvia, non mi pare proprio il caso di arrivare a Sutri coi musi lunghi per una facezia di tal genere. Per allietare gli animi e rasserenare l’atmosfera, vi racconterò la storia di un grande Re...».
«Quale Re?» chiese Rolando.
«Devi sapere che più di cinquecento anni fa Sutri venne occupata dal fiero popolo dei Longobardi, che quasi duecento anni più tardi donarono questo territorio al Papa. Io voglio raccontarti la storia di uno dei grandi Re di quel popolo, che ha dominato la penisola italica prima di essere spazzato via da Carlo Magno. Ti racconterò di Agilulfo, della sua astuzia e del suo orgoglio di sovrano e di uomo...».
F La beffa al grande Re
Come Agilulfo, Re dei Longobardi, fu gabbato dal suo astuto palafreniere.
Dopo la morte del suo predecessore Autari, il nuovo Re dei Longobardi Agilulfo, già Duca di Torino, aveva voluto rispettare la tradizione mantenendo il trono del regno a Pavia e sposando Teodolinda, la Regina vedova. Ella era una bellissima donna di orgogliose origini bavaresi, discendente dal capostipite del popolo Longobardo per parte di madre e osservatrice fervente della fede cattolica. Coltivava ottimi rapporti col Papa ed era saggia e molto onesta, ma non era mai stata granché fortunata in amore.
Era un periodo prospero e sereno per i Longobardi grazie all’abilità del loro Re, che dimorava nel grande palazzo reale. La corte di Pavia era ricca e sfarzosa e al suo decoro pensava la Regina in persona, poiché Agilulfo era più uomo d’arme e di politica che propenso alle cortesie.
Accadde un giorno che un palafreniere al servizio della Regina, umile d’origini e di condizione, ma di qualità assai più alte per audacia e temperamento, si innamorò di lei. Nonostante il suo modesto mestiere, era un uomo capace e per di più giovane e bello d’aspetto. Il suo stato sociale gli impediva di rivelare la sua ione poiché essa era fuori da ogni convenienza, ed egli non la palesava a nessuno, tantomeno a Teodolinda stessa. Pur non avendo alcuna speranza di piacerle, ardeva d’amoroso fuoco e coltivava nel cuore sentimenti proibiti: per colpire la Regina e rendersi a lei gradito, faceva ogni cosa che le pie. Spesso Teodolinda, per cavalcare, sceglieva proprio il destriero che era affidato alle sue cure, e questo per lui era motivo di pura gioia: il palafreniere lo riteneva
un favore grandissimo e non si allontanava mai dalla staffa, ritenendosi beato se riusciva a toccarle anche solo la veste.
Ma, come succede spesso, quando giorno dopo giorno la speranza di coronare il proprio sogno svanisce, allora l’amore aumenta d’intensità. Il palafreniere doveva sopportare di nascosto il peso del desiderio che provava per quella donna, senza essere sostenuto dalla minima speranza di successo, e per questo motivo aveva pensato più volte di togliersi la vita. Dopo aver molto riflettuto, aveva deciso che sarebbe stato meglio, prima di tutto, trovare una ragione valida per morire. Non voleva che la sua morte avvenisse invano e senza aver tentato di soddisfare in tutto o in parte il suo sogno. Voleva giacere con la Regina almeno una volta e gli pareva una missione impossibile. Pensando e ripensando a come poteva fare, trovò che non v’era altra strada che fingersi il Re Agilulfo in persona.
Costui non divideva continuativamente il letto con la moglie. Il palafreniere pensò che avrebbe potuto approfittare di questa sua abitudine per intrufolarsi nella camera di lei e infilarsi nel suo talamo. Così, per vedere in che maniera e in quale abito Agilulfo si presentasse quando si recava da Teodolinda e dunque prepararsi alla giusta maniera, si appostò nottetempo più e più volte in una sala del palazzo che stava proprio tra la stanza del Re e quella della Regina, nascondendosi nel buio con pazienza e abilità.
Dopo tanto attendere, una notte, finalmente, vide il Re uscire dalla sua camera avvolto in un grande mantello, con una piccola torcia in una mano e una bacchetta nell’altra. L’uomo andò davanti alla camera della Regina e senza dire alcuna parola percosse una volta o due l’uscio con la bacchetta: a quel tocco, immediatamente la porta si aprì e la piccola torcia gli venne tolta dalla mano. Dopodiché il Re entrò chiudendosi l’uscio alle spalle. Veduta la qual cosa, e ugualmente vistolo tornare, il palafreniere si risolse a fare altrettanto.
Il giovane si procurò dunque un mantello simile a quello che aveva visto
addosso ad Agilulfo, una piccola torcia e una bacchetta, e prima di mettere in atto il suo piano si fece un bel bagno caldo per togliersi di dosso l’odore di letame: non voleva che la Regina sospettasse qualcosa né si accorgesse dell’inganno. Vestito come il Re, si nascose nella grande sala e attese.
L’intero palazzo era profondamente addormentato. Al palafreniere parve giunto il momento di agire e aprirsi la strada verso la morte tanto dolce e desiderata. Con la pietra focaia e l’acciarino che aveva portato con sé accese la sua torcia, poi, chiuso e avviluppato nel suo mantello, si avviò all’uscio della camera di Teodolinda e bussò due volte con la bacchetta. La porta venne aperta da una cameriera sonnacchiosa, il lume gli fu tolto dalla mano e occultato. Egli, senza dire una parola, entrò nella stanza buia e scostò le cortine del letto, si tolse il mantello e si sdraiò accanto alla Regina che dormiva tranquilla. La prese tra le braccia risvegliandola dolcemente. Il palafreniere si mostrò turbato, perché sapeva che il Re, quando versava in quello stato d’animo, non voleva gli si rivolgesse la parola. Quando sentì il respiro di Teodolinda farsi più affannoso, la spogliò completamente, si unì a lei e fecero l’amore più volte.
Coronato il sogno che bramava tanto, quella di morire non gli sembrò più una così brillante idea. Nonostante gli pesasse andarsene via, sapeva che se si fosse fermato troppo a lungo nella camera della Regina e il Re si fosse presentato, la sua felicità si sarebbe probabilmente trasformata in disperazione. Così si alzò, riprese il mantello e il lume e se ne andò silenzioso, tornando al proprio giaciglio il più in fretta possibile.
Mentre il palafreniere si sdraiava soddisfatto nel freddo pagliericcio ripensando al corpo sensuale della Regina, il Re, alzatosi da letto, andò alla camera della moglie ed entrò come sua abitudine. Quando lei lo rivide si meravigliò molto. Allorché Agilulfo si infilò sotto alle coperte e la salutò lieto, lei, vedendolo così allegro, prese coraggio e disse: «Mio signore, che novità è questa, stanotte? Ve ne siete appena andato da me dopo aver preso piacere come al solito e ora, così presto, ritornate da capo? State bene attento a quello che fate».
Il Re, udendo queste parole, immaginò subito che la Regina fosse stata ingannata da qualcuno che gli somigliava o che aveva fatto di tutto per camuffarsi e rendersi simile a lui. Poiché era un uomo saggio e aveva notato che Teodolinda non si era accorta di nulla, fece in modo che nessun altro lo venisse a sapere, men che meno la Regina stessa. Molti sciocchi, al posto suo, avrebbero detto: «Non ero certo io, dunque chi c’era qui con te? Com’è andata? Chi è venuto?» e da questo sarebbe nato sicuramente uno scandalo, a causa del quale egli avrebbe tormentato la donna e forse chissà, le avrebbe dato ragione di desiderare di nuovo l’esperienza provata. Se tacendolo, il fatto non gli avrebbe provocato alcuna vergogna o imbarazzo, facendolo sapere si sarebbe arrecato danno e disonore da solo.
Le rispose dunque il Re, turbato nella mente, ma imibile nel volto e fermo nelle parole: «Donna, non vi sembro io un uomo abbastanza virile da potervi fare visita due volte di seguito?».
Al ché la donna rispose: «Mio signore, sì; ma tuttavia io vi prego di guardare alla vostra salute».
Allora il Re disse: «E così sia. Stanotte mi va di seguire il vostro consiglio; per questa volta me ne torno alla mia stanza senza darvi più impiccio».
Con l’animo traboccante d’ira e di sdegno per l’affronto subìto, riprese il suo mantello e uscì dalla camera, determinato a scoprire da solo e in segreto chi gli avesse giocato quel brutto tiro. Immaginò che il colpevole dovesse trovarsi nel palazzo: chiunque egli fosse, non poteva certamente essere uscito da lì, poiché v’erano guardie in ogni dove, la reggia era ben protetta e le porte chiuse. Presa dunque una lanternetta, decise di perquisire la reggia, iniziando dal caseggiato che stava proprio sopra alle stalle dei cavalli, perché in questa lunghissima stanza dormiva quasi tutta la sua famiglia, in diversi letti. Pensava che il responsabile del misfatto, dopo essersi unito carnalmente con sua moglie, non avesse avuto il tempo di riposare e normalizzare il battito cardiaco a causa
dell’affanno prolungato. Tacitamente, cominciando da un lato della stanza, iniziò a toccare il petto degli uomini, uno dopo l’altro, per sapere quanto gli battesse il cuore. Voleva trovare quell’uomo, poi lo avrebbe punito a dovere.
Mentre tutti gli altri erano profondamente addormentati e alcuni di loro russavano facendo un gran baccano, il palafreniere non dormiva ancora e si avvide di quel che stava accadendo. Notò il Re aggirarsi nella grande stanza e capì immediatamente quale fosse il motivo e chi andasse cercando, così all’affanno per le fatiche amorose si aggiunse anche quello della paura. Si rese conto che se il Re se ne fosse accorto, l’avrebbe fatto giustiziare senza indugio. Iniziò a pensare a come risolvere la situazione in cui si era cacciato, ma poiché Agilulfo non portava armi con sé, decise di fare finta di dormire e attendere una sua mossa.
Dopo aver controllato tutti senza aver trovato quello che cercava, il Re arrivò al palafreniere e appoggiò la mano sul suo petto. Il cuore gli batteva come un martello sull’incudine, ed egli disse tra sé: «Questo è il colpevole!».
Non voleva però farsi sentire né svegliare qualcuno, così prese un paio di forbicette che aveva portato con sé e gli tagliò i capelli da una parte e dall’altra delle tempie per poterlo riconoscere il mattino dopo. Finita la delicata operazione, Agilulfo se ne tornò soddisfatto in camera sua pregustando e pensando già alla punizione da infliggere al fellone.
L’astuto palafreniere, che aveva sentito tutto e aveva capito di essere stato segnato dal Re, senza attendere oltre si alzò e cercò qualcosa che gli potesse essere utile. Trovato un paio di forbici che servivano nella stalla per accudire i cavalli, andò dagli uomini che giacevano nella stanza e tagliò a tutti loro i capelli sopra le orecchie nello stesso modo in cui il sovrano li aveva tagliati a lui. Conclusa l’opera con attenzione e premura, se ne tornò tranquillo nel suo giaciglio a dormire.
Il mattino seguente il Re si alzò e comandò ai propri soldati di portare tutta la sua famiglia davanti a lui prima che si aprissero le porte del palazzo, e così fu fatto. Tutti quanti, a capo scoperto, se ne stavano ritti in piedi, smarriti, ad aspettare un suo cenno. Agilulfo cominciò a guardarli per riconoscere colui che aveva tosato, e vedendo che la maggior parte di loro portava i capelli tagliati nel medesimo modo si meravigliò e pensò tra sé: «L’uomo che sto cercando, sebbene sia di bassa condizione, mostra di essere molto sveglio e assennato».
Si accorse che non poteva avere quel che cercava senza fare troppo rumore e scoprire le vere ragioni del suo agire, ma non era disposto a subire l’onta di una tale ingiuria per avere vendetta. Decise così di ammonire con una sola frase il colpevole e dimostrargli che si era accorto del suo ardire. Rivolto a tutti, disse: «Chi lo fece non lo faccia mai più, e andate con Dio».
Un altro al posto suo li avrebbe sottoposti al supplizio della corda, martoriati, esaminati e interrogati, e così facendo avrebbe svelato quello che non doveva essere svelato. Una volta compresa la ragione delle indagini, essa avrebbe accresciuto la vergogna del sovrano e contaminato l’onestà della sua consorte.
Coloro che udirono quella frase si meravigliarono e pensarono a lungo che cosa avesse voluto dire il Re; ma non ci fu nessuno che lo capì tranne colui al quale era rivolta. Il palafreniere riuscì a celare la propria colpevolezza al Re grazie alla sua saggezza e alla sua prontezza di ingegno, ma in vita sua non commise più un’altra azione del genere per non sfidare ancora la sorte.
«Astuto davvero, quest’Agilulfo!» chiosò Rolando.
«Astuto sì, ma cornuto!» rise Fagolio.
Grazie alla storiella raccontata dal nano, la tensione si era un po’ stemperata. L’animo della ragazza però era ancora in subbuglio: lei, così giovane, aveva un fratello a cui pensare e un voto da adempiere, ma voleva anche una vita da vivere e prima che fosse troppo tardi voleva trovare un buon marito con cui trascorrerla. Era forse pretendere troppo? Icaro era distante, quasi non le sembrava lo stesso di tre giorni prima. Le dava enorme dispiacere che non le avesse ancora raccontato la sua storia e le tenesse nascosta la boccetta di medicina per lenire il suo dolore, sembrava quasi che non si fidasse di lei.
Icaro di tanto in tanto scrutava Isabella che si era isolata nuovamente, persa nei suoi pensieri. Sutri era ormai vicina, già si intravedevano le mura e la porta che accoglieva ogni giorno i contadini che tornavano dai campi, i pellegrini che viaggiavano, soli o in comitiva, i mercanti coi loro carretti e i soldati che vigilavano sul territorio circostante. La compagnia si avviava lenta verso la fine di una nuova giornata, consapevole di aver aggiunto un’altra tappa al suo lungo viaggio.
F Un incontro scritto nel Destino
Sutri li accolse salutandoli da un alto sperone di roccia, alla confluenza di due fossi, una posizione elevata che la rendeva assai imponente e minacciosa. Fin dalle epoche più remote era sempre stata un baluardo di difesa e il suo valore strategico era stato rivalutato dalla chiesa secoli prima, durante le terrificanti invasioni dei barbari del nord che tanti lutti e distruzioni avevano portato nella penisola italica.
Man mano che si erano avvicinati, le fortificazioni che la circondavano e che inglobavano le antichissime mura etrusche avevano lasciato Icaro e Isabella senza fiato. Varcata la porta ta, Fagolio iniziò a descrivere la loro magnificenza a Rolando, che si era aggrappato al suo braccio durante la lunga camminata nel bosco. Il bambino ascoltava attento come al solito: ora aveva un altro paio di occhi a cui affidarsi per vedere il mondo e il suo senso di solitudine e abbandono si era un po’ placato.
Le vie del borgo erano tutte un andirivieni di gente e si percepiva nell’aria l’aroma di carpini e noccioli portato dalla leggera brezza dell’ovest.
«Che vivacità questo luogo, è un piccolo gioiello» disse Icaro.
«Piccolo, ma ben munito!» aggiunse Fagolio.
«Avranno molte ricchezze da proteggere».
«Soprattutto Papi, per quel che ne so io!».
«Ricordo che una delle guide mi raccontava spesso della Madonna del Parto» intervenne Isabella.
«Che cos’è?» domandò Icaro.
«È una chiesetta rupestre, una tappa obbligata per i pellegrini che si dirigono a Roma: è dedicata a loro. Alcuni dicono sia stata ricavata da una tomba, altri da un tempio dedicato a una divinità pagana ormai dimenticata. Non ne ricordo il nome...».
«Non potresti ricordarlo, se l’hanno dimenticato tutti!» scherzò il nano.
Isabella sorrise alla sua battuta. Era imbarazzata per il comportamento che aveva tenuto con lui durante il viaggio: aver discusso per futili motivi con l’unica persona che si stava prendendo cura di suo fratello la faceva sentire stupida. Il nano dal canto suo sembrava aver già messo da parte le incomprensioni e questo la tranquillizzava.
«Non vorrei rovinarvi l’atmosfera, ma a me hanno raccontato meraviglie sui fagioli che cucinano qui a Sutri, se non vi dispiace mi fermerei volentieri a una taverna per assaggiarne un piatto, stasera» rispose Fagolio.
«Pensi sempre a mangiare tu» disse Icaro scuotendo la testa.
«Non di solo pane vive l’uomo, c’è anche il companatico... meno male che all’ora di cena non manca molto!».
Mentre camminavano su una delle vie esterne cercando la chiesa, Isabella notò un viottolo che scendeva a valle, attorniato da file di alti cipressi, e si fermò incuriosita: una vecchia stava salendo verso di loro e le chiese dove portava quella strada.
«Porta a un grande campo verde attorniato da gradini di roccia, bella fanciulla. In un angolo ci coltivo la cicoria. Guarda come viene su bene» disse l’anziana donna, mostrandole il frutto della sua fatica.
Isabella la ringraziò e le augurò buona giornata; quando se ne fu andata, il giullare si avvicinò alla ragazza e scherzando le fece segno che quella probabilmente non ci stava con la testa.
«Perché non andiamo a dare un’occhiata?» lo sorprese lei.
«Basta far presto, che i fagioli mi attendono».
Il viottolo era ben tenuto, da lì potevano vedere i pendii ricchi di olivi e la discesa fu piacevole, rallegrata da Fagolio che cantava brevi e irriverenti poemetti satirici.
Giunsero infine davanti a un arco e vi arono sotto. Non appena si resero
conto di dove si trovavano, rimasero a bocca aperta: un antico anfiteatro romano scavato interamente nel tufo li teneva nel suo enorme occhio e tutto intorno a loro correvano gradinate di roccia che in ato erano state gremite da spettatori esultanti. Al giullare non parve vero. Iniziò a correre e a saltellare avanti e indietro, entusiasta ed eccitato, gridando come un matto.
«Questo è il luogo ideale dove esibirsi! Prendete posto amici! Avete l’imbarazzo della scelta, per ora, ma non tardate; presto le folle arriveranno!».
Icaro e Isabella si misero a ridere, presero Rolando sotto braccio e lo portarono a sedere sulla prima fila di gradini per assistere allo spettacolo. La ragazza notò una figura seduta più lontano, avvolta da un mantello, che se ne stava in disparte: era così assorta che sembrava non essersi accorta del baccano che aveva fatto il giullare, e teneva lo sguardo fisso su un cavallo che pasceva beato le tenere erbette del prato.
«Ebbene, amici, è giunto il momento di raccontarvi vicende accadute secoli fa, in un tempo ato, vicende da non dimenticare. Mi auguro che il nostro ragazzo apprezzerà tutto il mio impegno e la mia abilità, poiché li ò per narrare la storia di un uomo che porta il suo stesso nome».
I tre applaudirono entusiasti e Fagolio fece un teatrale inchino, prese la lira e continuò.
«Dovete sapere che Carlo Magno, Re dei Franchi, aveva una bellissima sorella. Ella, oltre che bella, era anche molto testarda ed era cresciuta libera dalle regole di corte. Un giorno si innamorò di Milone d’Anglante, un giovane di umile condizione. Nonostante il fratello non fosse d’accordo e cercasse in tutti i modi di impedire quella relazione, la donna rimase incinta.
Quando venne a conoscenza della notizia, Carlo, adiratissimo, cacciò la sorella dalla corte dei Franchi e la poverina, trovandosi all’improvviso senza sostentamento, fece l’unica scelta possibile: decise di recarsi a Roma insieme all’uomo che amava per implorare l’aiuto del Papa. Sapeva che lui e lui soltanto avrebbe potuto intercedere per lei e addolcire il cuore del grande e orgoglioso Carlo.
Si mise in viaggio attraversando montagne e fiumi, pianure e colline, ma non fece in tempo a raggiungere la destinazione: le doglie del parto la colsero sulla via e la costrinsero a fermarsi nei pressi di un piccolo borgo, dove in una grotta diede alla luce un figlio maschio. Quando il bimbo nacque, Milone era assente, ma al suo ritorno al rifugio si vide rotolare incontro il proprio figlio, e per questo motivo lo chiamò Rolando. Il luogo che gli diede i natali, cari amici, era Sutri. Lo stesso luogo dove Carlo, anni dopo, di ritorno da una visita dal Papa, incontrò e perdonò la sorella e conobbe suo nipote per la prima volta.
Il giovane decise di seguire lo zio nella battaglia di Aspromonte dove mise subito alla prova le sue doti di guerriero in erba e si trovò a combattere contro il Re africano Almonte. Grazie a un incantesimo che lo rendeva invulnerabile, Rolando vinse a duello Almonte e suo fratello Troiano, conquistando il suo equipaggiamento da cavaliere. In quell’occasione, ammirato dal valore del nipote, il Re Carlo gli donò l’invincibile Durlindana, la spada che rimase con lui fino alla sua morte».
Icaro e Isabella lo avevano applaudito di nuovo e Rolando si era alzato in piedi per ringraziare il giullare della dedica, quando udirono una voce profonda con un forte accento straniero che li sorprese alle spalle.
«La storia che hai appena raccontato, la conosco».
D’istinto, tutti e quattro si voltarono verso la figura solitaria: teneva tra le mani un involto e li guardava con una strana espressione. Mentre si alzava in piedi il suo mantello si aprì leggermente, permettendo a Isabella di vedere che cosa indossava: la cotta che portava sotto all’abito da pellegrino richiamò alla sua mente la descrizione del cavaliere misterioso di cui aveva sentito tanto parlare.
«E io conosco voi» disse la fanciulla di getto, senza nemmeno rendersene conto.
A quelle parole, l’uomo trasalì. «Come fate a dirlo?».
«Un vecchio ci ha parlato di voi per convincerci a non diffidare delle acque miracolose di Bagno Vignoni. Ha detto che stavate male e siete ripartito risanato. Ci ha descritto tutto, a partire dal vostro accento fino ad arrivare al vostro destriero. Siete voi, non c’è ombra di dubbio».
«Capisco».
Era vero, si era immerso nell’acqua, ma non ne aveva tratto un così grande giovamento. Gli aveva dato semplicemente modo di continuare il suo cammino per qualche tempo ancora e di non crollare, come gli era successo all’altezza di Querce d’Orlando. Ripensò alle raccomandazioni della strega Cassilina: le aveva promesso di proseguire il suo viaggio a cavallo, e di fare meno strada possibile a piedi per non affaticarsi troppo. La ferita non era guarita, ma lui questo lo sapeva bene.
«Che cosa portate lì?» chiese Rolando.
Isabella si volse a guardare il fratello, che puntava deciso il dito verso l’involto. Non realizzò subito cosa stava succedendo, ma dopo qualche istante si rese conto che il fanciullo sembrava vedere molto bene ciò che stava indicando. La sorpresa fu così intensa che le fece venire una fortissima vertigine: dovette aggrapparsi alla mano di Icaro per non cadere in avanti.
«Rolando, che cosa dici?».
«Nulla. Sono solo curioso di sapere che cosa c’è lì dentro».
Fagolio balzò accanto alla gradinata per osservare meglio e per un attimo non gli parve vero. Durante il loro cammino il bambino aveva progressivamente perduto la capacità di vedere, lui se n’era accorto molto bene: se nei primi tempi poteva permettersi di camminargli a fianco senza prestargli il braccio, ultimamente era diventato impossibile per Rolando staccarsi da lui. A volte non vedeva nemmeno i sassi e le buche sui sentieri più impervi.
«Cosa vedono i tuoi occhi? Descrivimi quell’involto».
Rolando iniziò a elencarne con precisione la forma e il colore, il tipo di stoffa e la cinghia di cuoio che lo teneva chiuso, sotto lo sguardo incredulo di sua sorella e dei suoi compagni.
Quando il cavaliere vide Isabella congiungere le mani e iniziare a piangere di gioia ringraziando la Vergine per aver compiuto il miracolo, capì che quello doveva essere un segno. Il segno che stava aspettando da tanto tempo.
«Il mio nome è Ruggiero. Ho affrontato un lungo cammino di perdono e il Signore mi ha portato qui, oggi, per incontrare voi. Questo è un incontro scritto nel Destino».
«Siate benedetto, Ruggiero, perché qualsiasi cosa voi portiate in quell’involto, essa ha guarito mio fratello. Era quasi cieco, i suoi occhi erano ormai ottenebrati alla malattia, ci siamo fermati in ogni santuario, in ogni chiesa per adorare immagini di santi e reliquie preziose che nulla hanno potuto. Ora invece vede di nuovo, e siete stato voi a permettere questo miracolo!».
Rolando si avvicinò al cavaliere e lo ringraziò inchinandosi al suo cospetto.
«Posso vedere che cosa contiene?».
«Certo, siediti, ti mostrerò l’oggetto che custodisco».
Ruggiero lentamente sciolse la cinghia e aprì la stoffa, stando ben attento a non toccare a mani nude ciò che nascondeva, svelando una spada lucente di grande bellezza: l’acciaio temprato brillava alla luce del tramonto, sull’elsa erano incastonate pietre dure di grande valore e al centro dell’impugnatura era stata montata un’ampolla di vetro. La meraviglia di Rolando fu grande.
«È una spada bellissima!» esclamò eccitato. Si comportava con naturalezza, come se non avesse mai smesso di vedere il mondo. «Che cosa c’è dentro quell’ampolla?».
«Sono reliquie: un dente di San Pietro, il sangue di San Basilio, i capelli di San Dionigi e un pezzo del vestito della Vergine Maria».
Icaro, Isabella e Fagolio si avvicinarono per guardarla meglio. Rolando, senza chiedere permesso a Ruggiero, allungò le mani e afferrò la spada.
«Noooo!!» gridò disperato il cavaliere, lasciando tutti stupiti.
Fu grande la sua meraviglia quando vide che il bambino lo guardava con gli occhi sgranati e la spada stretta in pugno. Era troppo pesante per il suo fisico gracile e minuto e doveva tenere la punta appoggiata al gradino di solido tufo, ma nelle sue mani sembrava un’arma qualunque.
«Scusate, non volevo dispiacervi, la rimetto subito al suo posto...».
Ruggiero lo lasciò fare, sbalordito, e non appena Rolando si liberò dal ferro, gli prese i palmi e li controllò con accuratezza, allo stesso modo fece con le dita.
«Che cosa accade?» chiese Fagolio.
«Non è possibile... vi giuro... non è possibile! Le mani di questo bambino sono intatte, il contatto con l’acciaio non gli ha provocato alcun danno! Nessuna bruciatura, la pelle è fresca e rosea, la pelle è sana!».
Il cavaliere parlava in preda all’esaltazione, con le lacrime agli occhi.
«Dunque sei tu, sei proprio tu! Dio sia lodato, poiché mi ha fatto trovare colui che ha il potere di annullare la maledizione! Sarai tu ad accompagnarmi. Ti prego, guidami a Roma e ti dimostrerò la mia gratitudine fino alla fine dei miei giorni!».
Rolando guardò Ruggiero e senza attendere il parere della sorella, annuì.
«A me sembra una spada come un’altra e di solito le spade tagliano! Dal momento che dubito sia appena uscita dalla fucina di un fabbro, come potrebbe avere la lama rovente?» chiese Fagolio.
«Te ne accorgerai tu stesso» rispose Ruggiero, invitandolo a maneggiarla.
Il nano, spavaldo, saltò sul gradino e allungò la mano per toccare l’elsa nello stesso punto in cui aveva tenuto le dita il piccolo Rolando, ma appena raggiunse il metallo lanciò un grido e dovette ritrarsi come se avesse afferrato un tizzone ardente.
«Ah! Ma com’è possibile?».
Il cavaliere annuì grave. Sentiva su di sé gli sguardi interrogativi di quel variegato gruppo di pellegrini e capì che doveva loro una spiegazione. Nella sua mente tutto era più chiaro e aveva infine trovato un senso: la promessa, l’incontro, il bambino graziato dalla spada maledetta, la sua capacità di
maneggiarla, lo spirito di Rolando legato al luogo in cui si trovavano. La via da seguire gli era stata mostrata attraverso un miracolo.
«Sembra dunque che sia giunto il momento di raccontarvi chi sono, da dove vengo e qual è la mia storia» disse il cavaliere. «Sto pagando colpe che non ho commesso e che ricadono su di me attraverso il mio sangue. Abbiate pietà e non giudicatemi, mentre mi ascolterete...».
F La spada maledetta
Come Gotifredo sottrasse la Durlindana a Rolando e per questo i suoi discendenti subirono grandi patimenti.
Il Conte Rolando sentiva sopraggiungere la morte. Le cervella gli uscivano dalle orecchie e iniziò a pregare l’arcangelo Gabriele che non si dimenticasse di lui, implorando che Iddio chiamasse a sé tutti i suoi compagni periti nel violento combattimento. Anche Oliviero, suo fedele amico, era stato trafitto da una lancia sotto i suoi occhi, traato da parte a parte senza pietà.
Un esercito di mori aveva attaccato la sua retroguardia alle spalle, un manipolo di guerrieri spazzato via dalla vile crudeltà di uomini che per dare battaglia avevano scelto quella gola dei Pirenei adatta solo alle imboscate, e non a uno scontro leale.
Il paladino prese l’Olifante e la sua spada Durlindana e avanzò lentamente, barcollando, verso la Spagna poi, stremato, svenne cadendo riverso nell’erba verde di un prato. In quel breve attimo di incoscienza rivide Alda la Bella che gli sorrideva come un angelo, sotto un albero di biancospino, avvolta da candidi petali che scivolavano sulla pelle del suo viso, portati dal vento leggero del mattino.
Nel sogno, sentì una voce che lo chiamava. Era così dura e potente che lo riscosse dalla splendida e confortante visione riportandolo alla cruda e triste realtà.
«Rolando, Rolando!».
Quando aprì gli occhi trovò un uomo coperto di sangue che cercava di rianimarlo.
«Gotifredo, ti riconosco...».
«Sono io, mio signore» rispose lui. Poi, disperato, aggiunse: «Perché non avete chiamato subito i rinforzi suonando l’Olifante? Siamo in rotta, suonatelo ora, ve ne prego!».
«È troppo tardi, Gotifredo. Non voglio che il Re rischi la sua vita tornando indietro».
«Il Re è ben protetto, ma noi avremmo almeno una possibilità di salvarci!».
Gotifredo non capiva: sembrava che a Rolando non importasse la vita dei suoi, rifiutando di chiedere soccorsi dimostrava di pensare solo al proprio onore.
«Aiutami a rialzarmi».
Il cavaliere obbedì. Aiutò Rolando a rimettersi in piedi, recuperò la sua spada, che era caduta a terra, e la porse al suo signore. Quando il paladino la vide, capì
che era troppo preziosa per rischiare di farla cadere in mano nemica. Si accorse di una pietra bruna davanti a lui e prese una decisione: con le ultime forze che gli erano rimaste, furioso e sofferente, assestò dieci colpi contro la roccia mentre Gotifredo lo pregava a gran voce di fermarsi senza azzardarsi ad avvicinarlo. L’acciaio della spada stridette, ma non si spezzò. Non appena Rolando la osservò meglio, si accorse disperato che il metallo non era stato minimamente intaccato.
«Che il cielo mi aiuti! Ora che muoio non potrò più prendermi cura della mia spada! Tante battaglie abbiamo vinto in campo, insieme abbiamo sottomesso terre che ora sono rette saggiamente dal Re Carlo, nessun altro l’avrà!».
Rolando fece un altro tentativo e la percosse su una rossa roccia d’agata. Si alzavano scintille infuocate ma la spada non risentiva dei colpi, seppur violenti e terribili.
«Oh Durlindana, come sei chiara e tersa, tu brilli e fiammeggi contro il sole! Non posso lasciarti tra i pagani, Signore non permettere che la Francia ne abbia danno!».
Gotifredo osservava impotente il paladino che, ormai allo stremo, cercava una pietra abbastanza dura per rompere definitivamente la spada: sembrava aver perduto il senno. Assestò altri colpi su una roccia grigia ma fu di nuovo tutto inutile e non riuscì a spezzarla.
«Dentro al suo pomo sono conservate reliquie troppo preziose, non è giusto che dei codardi l’abbiano in balia...».
Senza più badare a Gotifredo, sentendosi sopraffare dalla morte, Rolando corse
sotto a un pino e si distese prono, dopo aver messo sotto di sé la spada e l’Olifante, poi volse lo sguardo verso la Spagna ripetendo il mea culpa per i suoi peccati e aspettando la fine.
Gotifredo lo raggiunse tenendosi il fianco sinistro, squarciato da una profonda ferita.
«Mio signore, mio signore, chiamate il Re Carlo, c’è ancora speranza!».
Rolando aveva ormai perduto la vista, e gli rispose stancamente, senza più fiato.
«Non c’è più tempo, Gotifredo, né speranza».
«La vostra scelta è irragionevole, ci sono dei feriti che possono ancora farcela, fate in modo che almeno loro rivedano le proprie famiglie!» gridò Gotifredo con tutta la sua angoscia. Il paladino rimase in silenzio per un attimo, poi parlò.
«Se davvero ritieni che questo valga a qualcosa, farò cantare per l’ultima volta il mio Olifante, ma devi farmi una promessa...».
«Qualsiasi cosa, ordinatelo e io lo farò».
«Voglio che Durlindana venga sepolta con me. Nessun uomo è degno di impugnare tale spada ed ella gli potrà portare solo lutti e sofferenze. Prometti».
Gotifredo si mise una mano sul cuore e annuì con le lacrime agli occhi.
«Sarà fatto, mio signore!».
Così, Rolando trasse a fatica da sotto il suo corpo il prezioso corno intarsiato d’oro e gemme, vi appoggiò le labbra, prese un lungo respiro e suonò per l’ultima volta l’Olifante, fino a farsi scoppiare le vene delle tempie.
Gotifredo si risvegliò ansante e col cuore in tumulto. Aveva fatto di nuovo lo stesso sogno. Sotto alle coperte, accanto a lui, sentì il tepore familiare del corpo di Richilde: si rese conto che non c’era nulla da temere e si rilassò. Quelle immagini erano vivide nella sua mente nonostante fosse trascorso molto tempo e tante cose fossero cambiate.
A volte il fianco gli doleva ancora: la ferita ricevuta a Roncisvalle dieci anni prima era guarita a fatica ed era stato quasi un miracolo che fosse sopravvissuto. Oltre a lui, erano scampati al massacro solo altri sei uomini; tre di loro erano morti dopo qualche settimana. Il loro fisico non aveva retto alla gravità dei tagli che si erano infettati senza rimedio e avevano provocato la cancrena. L’esercito di Carlo era sopraggiunto al segnale del corno che Rolando aveva suonato con l’ultimo respiro e li aveva soccorsi, ma per il resto della retroguardia non c’era stato nulla da fare.
Dopo la sua guarigione, grazie al suo titolo e al suo coraggio, a Gotifredo era stata affidata dal Re in persona la carica di governatore della marca di Bretagna: aveva così occupato il posto che era stato di Rolando, il paladino favorito di Carlo Magno, al quale non aveva avuto timore di stare accanto fino alla fine. Gotifredo era grato al Re per quell’incarico. Se gli avesse raccontato quel che era
accaduto veramente, di certo non gli avrebbe fatto dono di quel beneficio, ma Gotifredo aveva deciso di giocarsi il suo futuro e non si era mai pentito della sua scelta: la considerava un equo risarcimento per i lutti inutili a cui Rolando aveva costretto la Francia a causa della sua superbia e della sua esaltazione. Troppi amici erano morti, e solo per l’avventatezza di quel giovane irrequieto.
Un pensiero pungente lo distolse dai suoi pensieri. Si alzò dal letto in silenzio per non svegliare Richilde e si diresse verso una cassapanca all’angolo della camera, chiusa da un grosso lucchetto di ferro. Si sfilò il laccio che portava sempre al collo e da cui non si separava mai, prese la chiave che vi era appesa, la infilò nella toppa e fece scattare piano la serratura. Il lucchetto si aprì e Gotifredo alzò l’asse del massiccio legno di quercia per guardare all’interno: l’involto era lì, adagiato sul fondo, fasciato da cinghie di cuoio. Decise di aprirlo e quando i lembi svelarono il contenuto, i suoi occhi furono illuminati da una spada d’acciaio temprato adornata di gioielli sull’elsa. La Durlindana, davanti a lui, splendeva come sempre.
Gotifredo non aveva mantenuto la parola.
Conoscendo Rolando e la sua sconsideratezza, aveva deciso di ignorare la promessa e di tenere la spada per sé: sarebbe stato un peccato seppellire quell’arma straordinaria, e se nessun uomo era degno di portarla allora nemmeno Rolando lo era stato, poiché nemmeno lui era privo di difetti. Quei sogni lo tormentavano ma non avrebbe ceduto: la spada era sua ormai, e alla sua morte sarebbe ata ai suoi figli. Così doveva essere.
«Gotifredo, che cosa fai lì?».
La voce di Richilde lo riportò al presente.
«Nulla, torna a dormire».
L’uomo afferrò i lembi per chiudere l’involto e, mentre lo faceva, sfiorò la Durlindana con una mano. A quel tocco, la sua carne sfrigolò e si riempì all’istante di grosse bolle, come se avesse toccato dei tizzoni ardenti. Gotifredo, disperato, urlò dal dolore.
La madre di Ruggiero era sempre stata una donna saggia e accorta e aveva cercato di crescere i propri figli nel rispetto delle leggi di Dio e del loro sovrano. Fino a quando era andata in sposa a un nobile se era cresciuta nella dimora del padre insieme al fratello, che era morto in battaglia. Agnese di Bretagna, questo il suo nome, era l’ultima discendente di una famiglia che da secoli combatteva per i propri privilegi in terra di Francia, una famiglia che sembrava colpita da una maledizione: ogni qualvolta i loro componenti sembravano poter finalmente consolidare il proprio potere, accadimenti fortuiti facevano crollare le loro speranze come un castello di carte. Perdite e lutti, alleanze disastrose e tradimenti avevano costellato la storia di questa casata.
Il suo avo Gotifredo, trecento anni prima, dopo aver perduto l’uso di una mano, aveva continuato a reggere la marca che Carlo Magno gli aveva affidato fino a quando il regno carolingio era stato smembrato dopo la morte dell’Imperatore. Da quel momento per i suoi eredi tutto era divenuto incerto. Dalla moglie Richilde aveva avuto cinque figli, che si erano sparsi per la Francia in cerca di fortuna e gloria. A uno di loro, il primogenito, era stato affidato un involto che il padre aveva tenuto rinchiuso per anni e anni in un luogo segreto, e quell’involto era giunto indenne al padre di Agnese, generazione dopo generazione, tra riprese e sconfitte, senza mai essere aperto e toccato da nessuno: si diceva che contenesse un oggetto così potente che non poteva essere visto e sfiorato nemmeno con un dito, né mai ceduto ad alcuno per nessuna ragione al mondo.
Quando il padre di Agnese morì, l’involto misterioso le fu consegnato insieme a una lettera che spiegava le volontà del defunto. Era la prima donna in tanti secoli di discendenza a possedere quell’oggetto, ma era anche l’unica figlia rimasta e, seppure femmina, doveva essere lei a ricevere il fardello. Agnese lesse le ultime parole del padre e rimase sconvolta, tanto che subito credette di impazzire. La missiva spiegava cosa conteneva quell’involto maledetto e com’era arrivato fino a lei, ma ciò che più la fece disperare era la consapevolezza di non potersene disfare. Lo stesso giorno si recò da una vecchia sensitiva portando con sé un lembo della stoffa del fagotto e qualche moneta d’oro: voleva trovare una soluzione, per questo doveva conoscere la voce degli spiriti. Per avere da loro un’indicazione sulla strada da percorrere.
«Cosa dite, madre?». Il giovane camminava nervoso avanti e indietro per la stanza.
«Ricordi quella leggenda che tante volte ti ho narrato per farti addormentare, la leggenda che raccontava di una spada maledetta? Ebbene, non è una semplice fantasia. Quella spada è sepolta in questa casa, ed è giunto il momento di sbarazzarsene».
«Sciocchezze. Avete forse perso il senno? Non avrete per caso raccontato questa storia a qualcun altro, spero».
«Certo che no! Ma io so cosa fare, Rinaldo. Devi prenderla e portarla a Roma, offrirla a San Pietro, rimettere il peccato che commise Gotifredo e rimediare al suo errore, o tuo fratello morirà! Troppi lutti hanno colpito la nostra casata, sii comionevole».
«Mio fratello non si salverebbe comunque».
«Non è vero! Quella ferita non si richiuderà più se non facciamo qualcosa! Fallo per me, Rinaldo».
«Siete tornata di nuovo da quella vecchia vero? È una megera, una menagrama, non voglio la rivediate mai più! Come primogenito, quando manca mio padre ho io l’autorità su questa casa, quindi decido io cosa fare e cosa non fare. Chiamate un buon medico, piuttosto. Se Ruggiero perderà altro sangue, allora chiamate un prete per l’estrema unzione, e che il Signore se lo prenda. La cosa non mi riguarda».
A quelle parole crudeli, la donna sentì il cuore spaccarsi in due dal dolore e iniziò a singhiozzare senza freni. Attese che il figlio se ne fosse andato poi, col respiro affannoso, prese un foglio di pergamena e una penna di corvo, la intinse nell’inchiostro nero e iniziò a vergare una lettera destinata a Ruggiero. Egli soltanto poteva essere la salvezza per se stesso e tutta la sua schiatta. Quando anche l’ultimo segno fu scritto, Agnese si trascinò al capezzale del figlio, piegò la pergamena e la infilò sotto la sua camicia, poi reclinò il capo e morì di crepacuore.
Ruggiero fuggì quella notte stessa, dopo aver recuperato l’involto nel luogo segreto in cui la madre l’aveva tenuto nascosto per tutto quel tempo: non ci aveva messo molto a trovarlo seguendo le indicazioni che gli aveva lasciato. Aveva chiamato il suo servo fidato, si era fatto aiutare a mettere i vestiti addosso, aveva preso con sé un calmante contro il dolore ed era partito alla volta di Roma, solo, col suo cavallo e la sua armatura. Di Rinaldo non poteva più fidarsi: lo avrebbe lasciato morire, probabilmente per la paura di dover dividere con lui il potere e l’eredità, un giorno.
Ruggiero era salito sul suo destriero a fatica e con l’involto legato sulle spalle si era lanciato al galoppo aggrappandosi con tutte le forze al cavallo, per lasciarsi
più in fretta alle spalle l’ira del fratello.
Furono mesi lunghi e difficili in cui il cavaliere dovette fare i conti con la solitudine e la sofferenza: perdere la madre aveva creato un grande vuoto dentro di lui, ancora più grande del dolore fisico che doveva sopportare. Aveva una buona esperienza sul campo di battaglia e mai era stato sfiorato da lama, ma era bastata una disattenzione e un colpo netto di taglio aveva aperto uno squarcio nella cotta di maglia e nella pelle, una ferita che non si richiudeva da mesi. Da allora il suo destino era stato segnato: era diventato un rinnegato, quasi fosse stato maledetto dal demonio stesso. Non era una sua colpa, ma se non ci fosse stata Agnese avrebbe continuato a crederlo.
Ora aveva una missione da compiere e per farlo doveva attraversare la Francia da est a sud ovest, arrivare alla Francigena e di lì giungere a Roma. Anche lui, guerriero senza più famiglia né terra né esercito, solo con la sua storia e le sue motivazioni, era diventato un pellegrino, e pur continuando a indossare la sua armatura per non dimenticare chi era e da dove veniva, si procurò un mantello e un cappuccio come qualsiasi altro credente che aveva deciso di intraprendere il proprio viaggio di fede.
Durante le notti solitarie, davanti al fuoco, aveva letto e riletto spesso la lettera della madre, per sentirla più vicina e cercare di comprendere che cosa lo aspettava sul suo cammino. Certi punti erano oscuri, altri più evidenti. Lo scritto riportava una leggenda che Agnese gli narrava sempre quand’era piccolo, una leggenda che conosceva a memoria: raccontava di un bambino e un cavaliere e del loro incontro destinato a lavare i peccati degli antenati, poiché solo quel bambino poteva farsi tramite per la salvezza.
Spesso aveva aperto l’involto per guardarla: era davvero così meravigliosa come dicevano le canzoni. La spada brillava come se fosse stata fabbricata soltanto un giorno prima e la lama sembrava tagliente come la prima volta che aveva traato le carni di un nemico, ma non l’aveva toccata. La lettera diceva di non
farlo, se si teneva alla propria vita.
Agnese non dimenticò di rivelare che cosa le aveva detto la vecchia veggente, anni prima, quando le aveva chiesto di aiutarla.
«Lo spirito del guerriero a cui è appartenuto questo oggetto si è ribellato all’ingiustizia che gli è stata perpetrata: una promessa non è stata mantenuta. L’anima di Rolando è entrata nella spada e la rende infuocata, affinché nessuno possa maneggiarla. Quella spada è foriera di lutti per chi se n’è impossessato illegittimamente e c’è solo un modo per placarla: restituirla all’antico proprietario o portarla in dono a San Pietro a Roma, in modo che si ricongiunga con una delle reliquie che contiene. Manda tuo figlio quando sarà cresciuto, ma ricorda! Lungo il cammino dovrà trovare un animo degno di impugnarla per annullare la maledizione, o il viaggio sarà del tutto vano...».
Ruggiero era dubbioso. Non aveva garanzie che avrebbe trovato la persona eletta, in grado di maneggiare la spada senza bruciarsi irrimediabilmente le mani. La sua ferita non poteva rimarginarsi fino a quando la Durlindana non fosse stata consegnata ma mancava un tassello: se non avesse incontrato l’inconsapevole al quale era legato dai fili del destino, sarebbe diventato un ramingo senza meta né possibilità di riscatto. Il cavaliere pregava il Signore ogni notte perché lo aiutasse nella sua ricerca, senza mai ricevere risposta.
Un giorno, arrivato a Nods nella Francia orientale, decise di fermarsi per trovare ristoro, un po’ di cibo e un luogo tranquillo dove cambiare le bende e disinfettare il braccio ferito. Attraversando la piazza principale, dove faceva bella mostra di sé una grande fontana attorno a cui giocavano e schiamazzavano alcuni bambini, prestò casualmente l’orecchio a una voce che raccontava la vicenda di Rolando, il grande paladino morto a Roncisvalle. Era la voce di un giovane cantastorie che, seduto a un lato della piazza proprio accanto alla via dove la gente transitava senza sosta, non narrava le gesta dell’eroe, bensì la storia della sua nascita, di come aveva incontrato Carlo e di come era divenuto cavaliere.
Ruggiero si fermò rapito ad ascoltarlo e alla fine dell’esibizione, si avvicinò a lui: voleva saperne di più.
«Queste storie che racconti... sono vere?».
«Che domanda, cavaliere, certo che sono vere!».
Il cantastorie, un ragazzo alto e smilzo dai tratti nordici, gli aveva risposto con spavalda sicurezza e Ruggiero, pur dubitando, aveva continuato.
«I luoghi di cui parli, sai dirmi dove devo dirigermi per trovarli?».
«Nulla di più semplice. Ti basterà seguire la via dei Franchi, attraversare le Alpi e dirigerti verso Roma. Lungo il tuo cammino troverai i luoghi di cui ho raccontato».
«Ci sei mai stato?».
«Vedo che continui a dubitare...».
«Sto cercando una persona, e l’unico modo per trovarla è cercarla nel posto giusto».
«La stessa cosa che diceva mia madre quando mi nascondevo nel fienile!».
Il giovane rise, ma non scorgendo sul volto del cavaliere alcun sorriso perse la voglia di scherzare e tornò serio.
«Se proprio non ti fidi di me, chiedi a quell’uomo laggiù. È un mercante e viaggia parecchio, ha girato tutte le fiere della Champagne, si è spostato in Italia e addirittura in Oriente. Meglio delle sue conoscenze non ce n’è».
Quando Ruggiero ebbe dal mercante la conferma che il cantastorie aveva detto il vero, caricò il cavallo delle sue poche cose e senza indugiare oltre si rimise in cammino.
«E così sono giunto fin qui» riprese Ruggiero. «Quando ho raggiunto Sutri ho deciso di fermarmi qui ad attendere un segno per tutto il tempo necessario, ma non ce n’è stato bisogno. Siete apparsi e la mia speranza è rinata. Questo incontro è stato predisposto dal cielo: la mia famiglia ha già pagato abbastanza per l’errore di Gotifredo e proprio io sono destinato a compiere l’ultima missione, insieme al piccolo, immenso Rolando».
«Sono lieta che il Signore abbia scelto mio fratello per aiutarvi a condividere questo fardello. Ha ritrovato la vista. Non so quale miracolo sia più grande».
«Ogni miracolo è grande, Isabella» intervenne Fagolio. «E sono sicuro che ora a tutti voi piacerebbe assisterne a un altro».
Il suo tono era così grave che Icaro, Isabella, il cavaliere e il piccolo Rolando, sorpresi dalle sue parole, rimasero in silenzio, in attesa che il nano continuasse.
«Dunque, non preoccupatevi, sono qui io! Farò il miracolo di guidarvi alla taverna ad assaggiare i famosi fagioli sutrini: se è vero che riuscirono ad alleviare i dolori della gotta dell’illustre Carlo Magno, non ci resta che vedere se avranno il potere di rallegrare anche la nostra serata!».
A quelle parole tutti scoppiarono a ridere e Fagolio prese il comando della comitiva con piglio deciso. Avrebbero trascorso la notte tra canti e balli, davanti a un piatto caldo e un bicchiere di vino, fino a quando sarebbe giunta l’ora della partenza.
F Nuovi equilibri
La serata ata a Sutri era stata piacevole per tutti: Fagolio aveva cantato una canzone dedicata al cavaliere e ispirata alla sua storia, Rolando aveva fatto mille domande a Ruggiero su come diventare un grande guerriero e Isabella si era presa cura dell’uomo pulendogli la ferita: la strega Cassilina aveva fatto un ottimo lavoro e la vulneraria aveva contribuito a disinfettarla a fondo, ma fino a quando la Durlindana non fosse stata consegnata, il taglio non si sarebbe mai richiuso definitivamente.
Rolando guidava il cammino verso Campagnano sul destriero del franco che per sicurezza teneva la sua bestia per le briglie. Il nano, di tanto in tanto, lo osservava sorridendo: gli sembrava proprio un piccolo condottiero in erba.
«Sai che ci stai proprio bene lì sopra?».
«Non incoraggiatelo, messere, o sarà peggio per voi!» scherzò Isabella.
«Sorella, non preoccupatevi. Io diventerò un grande guerriero al servizio del Re e vi donerò un grande castello in cui starete bene e vivrete da signora. Vero Ruggiero?».
L’uomo annuì.
«Ne avrai di certo il desiderio, e forse del talento, questo lo valuteremo. Ma hai anche il denaro necessario a comprare l’equipaggiamento?».
Il bambino ci pensò su un attimo, poi scosse la testa.
«Se non ce l’hai, allora devi procurartelo lavorando».
«Lo farò. Appena arriveremo a Roma, ci stabiliremo lì e io troverò un lavoro».
«Non un lavoro qualsiasi...» disse Ruggiero, spiazzando il fanciullo.
«Quale?» chiese Rolando.
«Dovrai entrare al servizio di un cavaliere come suo scudiero».
Gli occhi del bambino si illuminarono.
«Mi farete l’onore di prendermi sotto la vostra protezione, Ruggiero?».
«L’onore sarà mio».
Rolando gridò di gioia e Fagolio si voltò a guardare Isabella: sul suo viso ogni preoccupazione era scomparsa; ora che il fratello aveva ritrovato la vista poteva aspirare a diventare ciò che desiderava senza che lei dovesse preoccuparsi di convincerlo a cambiare idea. Rolando era vispo e intelligente, certo un po’ insicuro, ma crescendo avrebbe trovato l’audacia di cui lo sapeva essere capace.
«Inizierai con l’apprendistato. Ti insegnerò a cavalcare, cacciare e maneggiare le armi e quando avrai raggiunto una certa dimestichezza con queste attività diventerai mio scudiero. Ti prenderai cura del mio cavallo e della mia spada, mi seguirai sul campo di battaglia e acquisirai le conoscenze del vero uomo d’arme».
«E dopo?» chiese il bambino.
«Se sarai ritenuto abile e degno, riceverai l’investitura e potrai chiamarti cavaliere».
Rolando sorrise a Ruggiero, immaginando già nella sua mente quel glorioso momento.
«Guardate, laggiù, ecco Campagnano!» esclamò Fagolio.
«Spero tu non voglia fermarti a mangiare come al solito, se ci sbrighiamo forse riusciamo a raggiungere Roma prima che faccia sera» intervenne Icaro.
«E va bene, proseguiamo, ma mi dovete promettere che al calar del sole saremo
davanti a un piatto fumante, in qualunque posto noi ci troviamo!».
Giunsero in serata a La Storta, un’antica stazione di posta che era diventata il luogo di sosta preferito dai carrettieri delle campagne circostanti. La taverna ne era piena, e non a caso l’oste l’aveva chiamata «la Stazione». Era un uomo corpulento e sapeva fare bene i propri affari, a giudicare dall’affollamento che c’era.
La Storta era denominata in quel modo perché proprio in quel punto dalla via Cassia si staccava la via Clodia verso la Tuscia occidentale, e la strada prendeva una piega verso oriente dirigendosi verso l’interno e raggiungendo la via Giustiniana.
Nel tavolo accanto al gruppo di Icaro e Isabella v’erano dei pellegrini dallo strano accento che li osservavano con curiosità. Fagolio ne approfittò per presentarsi e per scambiare due chiacchiere con loro. Provenivano dalle terre a est della Germania e mescolavano la loro lingua con qualche parola di latino, ma si intendevano.
«Io sto andando a Roma per trovare lavoro, e immagino non faticherò dato che sono il miglior giullare vivente!».
«Se lo siete, allora saprete raccontare ogni genere di storia, non solo quelle ridanciane» intervenne uno dei pellegrini.
«Volete forse mettermi alla prova? Ebbene, io amo le prove, poiché vi dimostrerò di che pasta son fatto. Vi racconterò dunque un fatto drammatico, che viene ricordato ancora oggi come una catastrofe dell’umanità intera. Prestate le
orecchie, amici miei!».
F Il sacco di Roma
Come Alarico, Re dei Visigoti, entrò in Roma e ne fece scempio, e sottrasse alla chiesa una preziosa coppa proveniente dal tesoro del Tempio di Salomone.
L’afa implacabile soffocava la città, nonostante il sole avesse abbandonato da alcune ore il cielo di Roma. Il suolo restituiva il calore assorbito durante il giorno e v’era un’umidità stagnante che toglieva il respiro. Tutto intorno, carcasse di animali e di corpi umani in decomposizione ammorbavano l’aria col loro fetore venefico. Le strade erano deserte e la popolazione, terrorizzata e chiusa nelle abitazioni, lasciava che le pattuglie di soldati completassero il giro di ronda senza creare intoppo alcuno. La tensione era alta, gli animi disperati, l’insofferenza al limite.
L’epidemia e la fame avevano mietuto molte vittime, e ai Romani, soprattutto ai più poveri e indigenti, sembrava non esserci speranza di salvezza.
Da cinque lunghi mesi l’esercito dei Visigoti premeva sulle porte della capitale dell’Impero, assetato di sangue e vendetta, in attesa di entrare: l’assedio aveva bloccato tutte le strade e i rifornimenti di grano che arrivavano al cuore di Roma. Anche le vie d’acqua erano impraticabili: il Tevere, Porto e Ostia erano caduti nelle loro mani. Non v’era più alcuna possibilità di sopravvivenza o di fuga.
Nemmeno l’Imperatore Onorio, da molti considerato ormai al pari di un fantoccio, né Papa Innocenzo I, uomo saggio ma spesso inascoltato, avevano
potuto o saputo fare nulla contro l’orda che si era abbattuta come un flagello sulla città.
Le truppe di Onorio li avevano attaccati a tradimento nei dintorni di Ravenna senza ottenere vittoria, e per la terza volta i Visigoti erano tornati ad assediare le mura. Sapevano bene come muoversi ed erano determinati a raggiungere il loro obiettivo affamando i Romani e non concedendo loro alcuna tregua. Questi, finite le ultime scorte di cibo, erano infine stati costretti a mangiare quello che trovavano, fossero anche gatti, cani, topi. Si diceva si fossero persino macchiati di atti contro natura, cibandosi delle carni di altri uomini. E ora che non era rimasto più niente, agli assediati non rimaneva che attendere.
Tra le file degli assedianti ve n’era uno particolarmente impaziente. Sveglio e vigile, ritto in tutta la sua imponente statura e isolato nella sua tenda reale, camminava su e giù senza sosta rimuginando dentro di sé. D’un tratto, la stoffa della tenda si scostò ed entrò un uomo ruvido e massiccio, che si inchinò e chiese la parola.
«Cosa devi dirmi che io non sappia già, Ataulfo».
«Una breccia, sire. Una breccia nelle difese di Roma».
Gli occhi del Re si illuminarono. Alarico sentì che la sorte stava cambiando, e che presto sarebbe arrivata l’ora di riscuotere il prezzo di tanti anni di doppiezze e inganni.
«Non indugiare oltre. Dimmi che cosa ci aspetta».
«Un gruppo di uomini disperati hanno inviato un messaggero. Ci consegneranno la città questa notte stessa, aprendo la porta Salaria. A patto di avere salva la vita».
«Avete verificato che non sia un tranello? Che non vogliano nuovamente farci cadere in una trappola? Sono stanco delle insidie di questi Romani, sono un popolo incapace di agire con onestà».
«Abbiamo verificato, Sire. Coloro che hanno inviato il messaggio sono schiavi, appartengono ad alcune delle famiglie più abbienti. Non possono più sopportare la fame e le angherie dei loro padroni e hanno deciso di scegliere il male minore».
«Ci hanno definito così? Il male minore?».
«Sì, esatto».
Alarico chinò il capo e si sedette sul suo scranno di pelli a riflettere, i capelli biondo-rossicci sciolti sulle spalle e gli occhi azzurri persi nel vuoto. La sua fisicità e il suo carattere, tipicamente nordici, richiamavano alla memoria quelli della nobile stirpe celtica dei Balti, il popolo che lo aveva cresciuto e nutrito sulle sponde del Danubio. Lo stesso popolo che aveva scelto per lui il nome che portava. Significava «il Re di tutti» e vi era inscritto il suo destino: guidare le genti e portarle alla vittoria. Nonostante la pochezza degli uomini. Nonostante debolezze e difficoltà.
«Dimmi Ataulfo. Secondo te che cosa spinge un pugno di uomini a consegnare la città che li ha nutriti, preferendo alla propria gente un’orda di barbari? Perché così veniamo definiti noi... barbari».
«La disperazione, Sire. In fondo era quello che immaginavate. La vostra idea di affamare Roma ha ottenuto il risultato voluto».
«Io non lo credo. O almeno non del tutto. Roma stanotte cadrà, ma non sarà solo a causa nostra. Sono le sue fondamenta a essere ormai marce. Chi governa la città non è quell’idiota di Onorio, o il suo tutore, né il Papa: ciò che la governa davvero è la corruzione, la violenza, l’opportunismo; l’incapacità e la cecità di chi è stato scelto per gestirla; l’inettitudine di chi occupa il trono, la sua mancanza di spina dorsale».
«Lo ucciderete, Sire?».
«Non lo so. Ancora non lo so. Fai quel che devi, Ataulfo».
L’uomo si inchinò e uscì dalla tenda lasciando Alarico nuovamente solo. Il Re dei Visigoti pensò al momento in cui avrebbe varcato le porte di Roma: per i suoi sarebbe stato un vincitore, per gli altri un usurpatore, ma a lui interessava solamente affrontare l’Imperatore e chiedergli il conto delle sue nefandezze.
Era stato Onorio, due anni prima, a eliminare Stilicone, il generale delle truppe romane. L’unico interlocutore di Alarico. Lo aveva fatto decapitare su un cippo come traditore dell’Impero proprio quando stavano per trovare un accordo. Aveva eliminato l’unico guerriero che gli aveva dato filo da torcere, l’unico grazie al quale l’Imperatore avrebbe potuto scendere a patti coi Visigoti. E lo
aveva tolto di mezzo in modo vergognoso, alla maniera dei Romani.
Stilicone era un suo avversario, ma tra loro v’era rispetto. Onorio invece era suo nemico, e della peggior specie, perché era debole, viziato e non possedeva il senso dell’onore. Alarico aveva già due volte cinto d’assedio Roma, ma questa sarebbe stata quella decisiva. Quell’estate sarebbe stata ricordata per sempre come il momento della definitiva capitolazione di Roma e il suo nome sarebbe stato per sempre unito alla sua rovinosa caduta. ò le mani sul viso e rimase così, fermo, a pensare, mentre il suo esercito si preparava all’assalto.
All’interno di una piccola e misera abitazione entro le mura, un uomo emaciato, tutto pelle e ossa, attendeva il momento propizio. Aveva gli occhi sporgenti, fuori dalle orbite, le guance scavate, la pelle sottile e quasi gialla, portava addosso una tunica lisa e sgualcita. Non appena lo spicchio di luna scomparve dietro a una nuvola nera, si affacciò sul vicolo deserto, uscì e lo percorse fino in fondo rasente al muro, per evitare sguardi indiscreti. Quando arrivò all’incrocio con la via Salaria, controllò che fosse sgombra e guardingo fece l’ultimo pezzo per raggiungere i compagni. Li trovò che si erano già appostati a poca distanza dal presidio di soldati che piantonava la porta. Erano armati di bastoni, mazze, forche e altre armi improvvisate.
Si era chiesto tante volte se quella fosse la cosa giusta da fare, e infine si era risposto che era l’unica via d’uscita. Non voleva morire di fame, nessuno di loro lo voleva. Le famiglie nobili e ricche continuavano in qualche modo a sopravvivere, ma loro no: loro non avevano più nulla. Avevano solo il dolore delle piaghe, lo stomaco vuoto, la fatica delle membra, il terrore delle pestilenze e la sopportazione della schiavitù. Se avessero consegnato la città ai barbari, avrebbero almeno avuta salva la vita.
Con la forza della disperazione, al segnale convenuto si gettò insieme agli altri addosso alle guardie. Non si aspettavano un attacco dall’interno: fu una dura lotta, ma prevalsero l’effetto sorpresa e la volontà di quegli infelici di mettere
fine alla tortura dell’assedio, che aveva portato solo fame, malattia e morte soprattutto tra i più miserabili. Quando gli schiavi sopravvissuti all’aggressione contro i soldati sciolsero i cardini e aprirono la porta Salaria, si trovarono davanti un fiume di uomini armati e feroci, che attendevano quel momento da tempo. Il fiume si riversò dentro, lungo le strade, trascinando via tutto con sé. Così, la notte del ventiquattresimo giorno del mese di agosto il sacco di Roma ebbe inizio.
Durò tre giorni l’agonia della capitale dell’Impero. Alarico non era entrato insieme ai suoi uomini, ma si era spostato su di un’altura: non aveva voluto partecipare, solo osservare da lontano con distacco lo scempio che veniva fatto di Roma, la città che amava, che aveva più volte risparmiato e che era diventata la sua dannazione.
Ataulfo non aveva capito la decisione del cognato e aveva preso parte al saccheggio: era sceso dalla Pannonia in aiuto di Alarico forte del suo esercito, e la sua autorità valeva più di ogni altra quando il Re non era presente.
Nessuna casa era stata risparmiata, cinquantamila uomini sguinzagliati senza controllo nel dedalo delle vie di Roma avevano aggredito, violentato, spogliato la popolazione di tutto ciò che possedeva. Ai Visigoti si erano uniti un numero impressionante di schiavi, che avevano perpetrato vendette e uccisioni nei confronti di coloro che prima erano i loro padroni, e da cui ogni giorno avevano dovuto subire angherie e ingiustizie. Gli omicidi e le violenze scossero le coscienze, terrorizzarono la famiglia reale e il Papa, chiusi e prigionieri nei loro palazzi come topi senza via d’uscita.
Alla fine del terzo giorno, Alarico entrò in città e venne accolto dalla sua gente come un conquistatore. Il Re verificò che i suoi ordini fossero stati rispettati: aveva imposto di non uccidere alcuno, di mettere sotto scorta Papa Innocenzo I e di non toccare i luoghi di culto. Quando vide che il primo comando era stato ignorato si indispettì.
«Che cos’è accaduto? Perché non avete osservato la mia volontà?».
«Sire, si sono uniti all’esercito altri uomini, e tutto è andato fuori dal nostro controllo».
«Ataulfo, proprio tu che avresti dovuto fare le mie veci! Ora giustifichi tale disastro?».
«Perdonate, Sire. È stata la follia di questi uomini a prevalere, insieme alla loro frustrazione. Non ho potuto fare nulla».
«Basta così».
Alarico non tradì alcuna emozione e il suo volto rimase imibile.
«Voglio vedere Papa Innocenzo. Portami da lui».
Entrato nelle stanze del palazzo pontificio, presidiato da alcuni guerrieri visigoti, Alarico si rese conto della meraviglia e delle ricchezze che ivi erano custodite: enormi cumuli di tesori razziati nelle case e nelle ville erano stati ammucchiati nella camera dove il Papa era tenuto prigioniero. Un prigioniero eccellente, da trattare con tutti gli onori.
«Il bottino, sire».
«A questo penseremo dopo, Ataulfo. Ora ho cose più importanti da fare».
Il Re aveva notato che Innocenzo non era solo, ma in compagnia di una donna giovane ed elegante dai grandi occhi scuri che si era scostata con deferenza, scomparendo un attimo dopo l’arrivo dei due uomini nella stanza.
«Chi è quella donna?» chiese al cognato.
«La sorella dell’Imperatore Onorio, Galla Placidia. I miei uomini l’hanno catturata e presa in ostaggio, non ha avuto modo di sfuggirci».
L’aveva colpito la sua bellezza, e anche Ataulfo sembrava rapito da quella presenza così eterea e femminile: un purissimo raggio di sole in un momento tanto oscuro e incerto.
«Bene, ci servirà. Ora va’ e lasciaci soli».
Ataulfo annuì e uscì dalla camera facendo cenno alla scorta di seguirlo. Alarico attese che le porte si chiudessero, poi si voltò verso il Pontefice e lo osservò: sembrava stanco e provato, era seduto su uno scranno dorato, avvolto da una stola di velluto rosso che gli donava ancora una parvenza di autorità. Il Re gli sorrise.
«Voi sapete perché sono qui».
«Per chiedere perdono a Dio dello scempio avvenuto in questa città?».
«Ho fatto il possibile per limitare i danni».
«Non abbastanza, a quanto sembra».
«Non credo siate nella posizione di contraddirmi».
«Non credo comprendiate il disastro in cui siamo piombati. Tutti quanti noi!».
«Basta così».
Alarico alzò la mano come per scacciare un insetto, fece qualche o verso Innocenzo I e solo allora si accorse che il Papa stava tremando. Le sue mani livide, aggrappate ai braccioli, non riuscivano a stare ferme e il suo corpo era scosso da lievi sussulti, anche se la testa era ritta e gli occhi fieramente piantati in quelli del Re. Non gli rimaneva più nulla se non il suo orgoglio.
«Non dovete avere paura, non è mia intenzione uccidervi. Sono qui per farvi avere un messaggio da consegnare a Onorio. Sono stato informato della sua fuga. La cosa non mi stupisce, anche se fino all’ultimo mi ero illuso che quel traditore nato avesse il coraggio di aspettarmi nel palazzo imperiale. Invece ha lasciato la sua famiglia alla mercé mia e del mio esercito. Non è mai stato
Imperatore, e non lo sarà mai. Lo ha dimostrato di nuovo, in questa occasione, per l’ennesima volta».
Innocenzo, a quelle parole, nascose il capo tra le mani e scoppiò in un pianto sconsolato. Alarico fu colpito da quel gesto, dalla fragilità di quell’uomo che forse era l’unico ad aver compreso veramente la situazione in cui versava l’Impero, l’unico a sentirsi impotente e responsabile per ciò che era accaduto in quei giorni. Era affranto e non aveva timore di mostrarlo.
Ripensò a Stilicone e alla sua tempra, che non gli avrebbe mai permesso di abbandonare Roma. Ripensò al suo barbaro assassinio. Ripensò a Onorio e alla sua vigliaccheria e a coloro che aveva perduto in tutti quegli anni di brutali scontri e battaglie sanguinose, e infine alla conquista del cuore dell’Impero d’Occidente. Ripensò a come l’aveva ottenuta, grazie al tradimento di qualche povero disperato che non aveva più nulla da perdere. E qualcosa nel suo cuore bruciò.
«Desidero che recapitiate voi stesso le mie parole a Onorio. Esorto l’Imperatore a essere ragionevole e a non permettere che la città di Roma, che ha governato il mondo per più di mille anni, sia saccheggiata e incendiata non dai miei uomini, ma da quelli che fino a ieri erano schiavi dei Romani. Sono io ora che li guido, ma mi é impossibile placare l’odio che Roma ha fatto nascere dentro di loro. L’Imperatore deve tornare e ripristinare l’ordine al più presto. Io lascerò la città insieme alle mie truppe per non farvi ritorno e porterò con me chi vorrà seguirmi. È tutto chiaro?».
Il Pontefice sollevò il viso detergendosi le guance con le maniche e disse un flebile sì. Non sapeva se essere riconoscente a quel barbaro che col suo comportamento dimostrava di essere civile quanto e più degli stessi Romani: non era la provenienza a determinare il valore di un uomo, ma la sua condotta.
«Farò quello che mi avete chiesto. Ma che ne sarà del tesoro di San Pietro?».
«Ah, quello...» disse Alarico con noncuranza. «È bottino di guerra. È tradizione per noi dividerlo tra la nostra gente. Ho dato ai miei uomini piena libertà di saccheggio, devono pure avere una qualche gratificazione dopo le loro fatiche in battaglia».
Innocenzo ebbe un moto di sofferenza che non riuscì a nascondere.
«Tuttavia mi rendo conto che per voi sia difficile separarvene. Vorrà dire che sceglierò quello che più mi piacerà e lo porterò via con me, lasciandovi tutto il resto. Così ho deciso».
Alarico abbandonò Roma come aveva promesso per dirigersi verso sud, portandosi dietro un ricco seguito di carri traboccanti d’oro e di oggetti preziosi. Il resto del bottino lo aveva diviso tra gli uomini del suo popolo, che lasciavano soddisfatti la capitale dopo aver appagato tutti i loro appetiti. Ataulfo sembrava poco interessato ai tesori sottratti ai Romani, ma parecchio affascinato dalla Principessa Galla Placidia, che era stata presa in ostaggio e portata via insieme alle cose di maggior valore. Si era proposto di farle da carceriere e, quando non era impegnato con Alarico negli spostamenti delle truppe verso l’Apulia, dedicava tutto il suo tempo alla bella e delicata giovane appena ventenne, che spiccava come un fiore di campo per la sua grazia e la sua cultura.
Spesso parlavano tra loro, raccontandosi le loro vite. L’uomo aveva così saputo che un tempo era stata promessa in sposa a Eucherio, figlio del generale Stilicone, ma quando questo era caduto in disgrazia, il ragazzo era stato assassinato in una congiura insieme all’intera famiglia e lei era rimasta di nuovo sola. Si era impegnato a trattarla come una donna degna del suo rango e Galla veniva servita e riverita, persino invitata alla mensa del Re grazie
all’intercessione di Ataulfo, che in poco tempo si era innamorato di lei. Il primo ad accorgersene fu proprio Alarico.
«Non lasciarti incatenare in questo modo, cognato. È lei la prigioniera, non tu. Prenditi il tuo piacere, com’è naturale che sia, ma non permetterle di conquistare il tuo cuore. Non sai ancora che cosa ci attende in Africa».
«Temo che sia troppo tardi, Sire».
«Non lo è. Allontanala e tutto tornerà come prima».
«E se non volessi allontanarla?».
«Non mi sfidare, Ataulfo».
Alarico alzò la voce. Fu solo per un attimo, poi ritrovò subito la calma.
«Tu non hai idea di quello che possiamo fare, insieme. I Visigoti sono un popolo forte, temprato da mille battaglie, valoroso e superiore. Troveremo il nostro posto, conquisteremo la nostra terra lontano da questa valle di insidie che è diventata l’Impero, diviso e straziato da continui conflitti e inganni. Ci siamo spostati da oriente a occidente e ogni volta ci siamo trovati davanti a uomini senza onore, pronti a sacrificare la loro stessa dignità per uno spicchio di potere. A sud del Mediterraneo troveremo la nostra terra».
«Non capisco perché tu voglia conquistare l’Africa. Potremmo tornare a nord, in Gallia, abbiamo la sorella dell’Imperatore come ostaggio, potremmo utilizzare questo vantaggio per ritrovare un accordo con Onorio e ritagliarci il nostro spazio proprio laddove siamo nati».
«Non c’è più spazio laggiù, per noi».
«E che cosa ti dà la certezza che in Africa ne troveremo uno?».
Alarico guardò a lungo e intensamente Ataulfo, come se volesse capire quanto poteva fidarsi di lui. Infine si volse e andò verso una grande cassa di legno, la aprì ed estrasse un involto di pelle.
«Quello che sto per dirti deve rimanere un segreto e non deve uscire dalle tue labbra. Prometti e giura».
«Prometto e giuro, Sire».
Alarico si girò di nuovo e i suoi occhi brillavano di una luce che Ataulfo non gli aveva mai visto prima. Tra le sue mani una coppa d’oro scintillava alla fiamma di una candela, ed era così luminosa che l’uomo se ne meravigliò. Non riusciva a capire come fe a emanare una così grande luce.
«Sai che cos’è questa?».
«Non ne ho idea, Sire».
Alarico tornò ad avvolgere la coppa nella pelle.
«Questa è una coppa preziosa. L’ho scelta io stesso, prendendola dal tesoro di San Pietro dopo aver concluso il colloquio con Papa Innocenzo I. Non volevo offendere e attirarmi le ire del suo Dio predando tutti gli oggetti preziosi che gli appartenevano, così ho deciso di sottrarre un solo oggetto. Quando l’ho vista, non ho potuto fare a meno di desiderarla. È perfetta».
Strinse l’involto tra le braccia, come preso da una febbre bruciante, e continuò.
«Il Pontefice sembrava disperato. Si è lasciato prendere dal panico e si è persino spinto a contrattare, arrivando a propormi di scambiare l’intero tesoro pur di poterla trattenere a San Pietro. Io mi sono insospettito e quando gli ho chiesto la ragione della sua proposta ha tentato di rimanere sul vago fornendomi spiegazioni poco ragionevoli, così l’ho costretto a raccontare la verità. Mi ha detto che è una coppa che proviene dal tesoro del Tempio di Salomone portato a Roma ai tempi di Tito e Vespasiano. Ma sono certo che non sia tutto qui. Ho intenzione di scoprire quale mistero cela questo oggetto».
Ataulfo capì in quel momento che Alarico non avrebbe cambiato idea per nessuna ragione al mondo. Forse la follia si era impadronita della sua mente, forse quella che aveva tra le mani era una coppa magica o maledetta, ma ormai non importava. Sapeva solamente che anche se avesse provato con tutte le sue forze a convincerlo a desistere, non ci sarebbe riuscito nonostante il rispetto e il legame che li univa. Pensò a Galla Placidia e la ferita aperta nel suo cuore cominciò a sanguinare: non voleva perderla a causa di una questione che non comprendeva e di una missione che non sentiva sua. Doveva trovare una soluzione il prima possibile.
Arrivarono in Apulia a marce forzate poiché Alarico era impaziente di raggiungere le navi e imbarcarsi per la Libia insieme al suo esercito. La sua delusione fu grande quando seppe che non sarebbe partito: un’imprevista tempesta aveva costretto le navi destinate a trasportare l’esercito visigoto a non muoversi dal porto, e così il Re aveva deciso di dirigersi verso la vicina Calabria. Lì avrebbe certamente trovato un’altra città da cui salpare. Era determinato a lasciare quella terra prima dell’arrivo dell’autunno, nulla avrebbe potuto fermarlo. Ripresero la marcia e raggiunsero Cosenza, che sorgeva su un ripido pendio sopra la valle del Crati, fiume che confluiva nel Busento. Alarico scelse il punto in cui i due fiumi si incontravano per accamparsi: lì avrebbero avuto acqua fresca a volontà e un’ottima posizione strategica sui colli e le terre circostanti.
Ataulfo sentiva il peso dei giorni che lo dividevano da quel momento. Osservava Galla Placidia quando lei non poteva accorgersene e vedeva in lei il suo futuro. Sentiva di aver scelto. Quella sera chiese a Galla di non unirsi a cena insieme a lui e di restare chiusa nel suo carro, perché aveva necessità di discorrere col Re di faccende private, da solo.
«Sire, quando arriveremo in Calabria, non partirò insieme a voi. Ritornerò col mio esercito in Pannonia e lì vedrò il da farsi».
«Che cosa stai dicendo, Ataulfo?».
«Naturalmente, Galla Placidia verrà via con me».
«Ancora quella femmina? Chi ti dice che potrai portarla via a tuo piacimento?».
«Sono stati i miei uomini a trovarla e a catturarla. Come loro capo ne ho il diritto».
«Sono io il tuo Re, pertanto sono io che decido quali sono i tuoi diritti!».
«Immaginavo che non avreste capito, Sire. Nonostante ciò che ci lega».
«Sei tu che non capisci, Ataulfo! Stai mandando in malora il tuo avvenire, la grandezza del tuo popolo, per un trastullo eggero».
«Io la amo».
«Sciocchezze!».
Quella di Alarico era un’affermazione lapidaria che non chiedeva risposta. Non avrebbero mai trovato un accordo, tra loro non avrebbe mai più potuto essere come prima.
«Chiedo di potermi ritirare, Sire».
«Vai e rifletti bene su ciò che ti ho detto. È la tua ultima possibilità di rinsavire».
Ataulfo si alzò e guardò a lungo Alarico. V’era malinconia nel suo sguardo e il
Re non capì.
«C’è altro che vuoi dirmi?».
«No, nient’altro, Sire».
E se ne andò.
Le grida di allarme svegliarono i soldati, ai quali servirono pochi attimi per riprendersi dallo smarrimento e rimettersi in piedi. Coloro che arrivarono per ultimi alla tenda reale furono informati della disgrazia attraverso le parole di chi era già sul posto. Ataulfo arrivò di corsa accompagnato dalla Principessa Galla Placidia, che stringeva una coperta di pelli attorno alle spalle, smarrita. Gli uomini dell’esercito si scostarono al suo aggio per lasciarlo avvicinare al soldato che aveva scoperto il corpo. Ataulfo lo prese da parte, scambiarono due parole e si abbracciarono virilmente, poi entrarono insieme nella tenda di Alarico.
Quando lo vide adagiato sullo scranno, la testa leggermente reclinata sulla spalla, una morsa di dolore gli pugnalò il petto. Ordinò al soldato di uscire e di lasciarlo solo per un attimo. Vide gli occhi sbarrati e l’imperturbabilità della morte dipinta sul suo volto, l’espressione di chi riceve una visita inaspettata e se ne meraviglia, ma al contempo si rassegna ad essa. Alarico non era pronto per lasciare questo mondo, ma forse quando il veleno era entrato in circolo intorpidendogli i sensi e creandogli il vuoto nella mente, si era sentito perduto e aveva capito di aver richiesto un prezzo troppo alto. Un prezzo che aveva pagato con la vita. Non sarebbe stata l’Africa la sua ultima meta: il suo corpo avrebbe trovato degna sepoltura proprio nella terra da cui voleva fuggire.
Ad Ataulfo piacque pensare che il cognato non avesse sofferto al momento del trao. Aveva scelto un miscuglio letale che potesse renderglielo dolce, e lenire insieme alla sofferenza del suo Re anche il senso di colpa del suo assassino. Si avvicinò ad Alarico per chiudergli gli occhi e notò che in grembo, abbandonato, teneva l’involto che gli aveva mostrato la sera prima. Lo prese tra le mani, sbirciò e vide al suo interno la coppa luminosa, bellissima. Era davvero diventata la sua ossessione. La ripose nel nascondiglio, avrebbe pensato dopo a cosa farne. In quel momento lo aspettava qualcosa di più importante.
Nell’angoscia e nella confusione generale che si era creata, Ataulfo decise di agire e di dare l’annuncio: uscì dalla tenda, afferrò una cassa vuota trovata lì accanto e vi salì sopra, ergendosi sopra le teste in modo che tutti potessero sentirlo.
«Il nostro Re è stato stroncato da una febbre fulminante. Ora sta cavalcando nell’Aldilà. Rendiamo onore alle sue spoglie e troviamo loro una degna sepoltura».
I soldati chinarono il capo. Avevano perso il loro Re, non avevano più una guida, non c’era più destinazione certa. Erano allo sbando in una terra ostile che li considerava indegni e barbari. Uno degli uomini delle prime file alzò la testa e gridò: «Onore al nostro Re Ataulfo!».
A quella frase altre ne seguirono, fino a quando non divennero un’unica voce, una sola, grande acclamazione: «Onore al nostro nuovo Re!».
Nessuno si avvide della lacrima che solcava silenziosa la guancia di Ataulfo. Nessuno, tranne la Principessa Galla Placidia che gli era corsa accanto.
Si decise il luogo della sepoltura, perché fosse al sicuro e inaccessibile all’avidità degli uomini, ma al contempo ben visibile a tutti. Furono scelti gli schiavi più forti e robusti e fu fatto loro deviare il corso del Busento. Vennero utilizzati sassi e pali per formare una diga e lasciare scorrere l’acqua ai lati del letto del fiume, perché rimanesse asciutto durante tutto il tempo della preparazione. Ataulfo fece loro scavare una fossa larga e profonda, ove potesse trovare riposo Alarico insieme al suo destriero e tutti i suoi tesori: il Re dei Visigoti fu seppellito ricoperto d’oro, con la spada stretta nel pugno, proprio al centro del greto del fiume, che fu poi riportato nel suo alveo naturale. Durante l’ultimo saluto, fu acclamato per l’ultima volta dai suoi soldati che lo ricordarono come un conquistatore e un eroe.
«Dormi, o Re, nella tua gloria! Che nessuno possa violare la tua tomba e la tua memoria!».
Tutti gli schiavi che avevano lavorato per costruire il sepolcro furono uccisi affinché nessuno potesse rivelare o profanare il luogo della sepoltura. Alla fine della cerimonia e per tutta la notte, venne organizzato un banchetto per ricordare le imprese di Alarico e festeggiare Ataulfo, il suo successore, dal quale ci si attendevano grandi cose.
Quando Ataulfo si ritirò stremato nella sua tenda sentì tutto il peso della solitudine e del rimorso. Questo, rabbioso e affamato, lo azzannava come un lupo, gli strappava le interiora e ne faceva scempio. Si era macchiato di regicidio quando forse sarebbe bastato sottrarre ad Alarico quella coppa maledetta e gettarla in mare alla giusta occasione.
Non la sentì arrivare. Si muoveva leggera come una falena e quando gli toccò la guancia ebbe un sussulto. Lui non se l’aspettava e reagì istintivamente afferrandola per il collo. Galla Placidia non gridò né disse nulla, docile lo lasciò fare, aveva capito che non era in sé. Non appena Ataulfo si rese conto di quello che stava facendo cadde in ginocchio davanti a lei e le abbracciò le gambe.
Percepiva il calore del suo corpo. La desiderava. Se Alarico era ossessionato da quella coppa, la sua ossessione era per quella donna.
«Ti ho visto piangere».
Esordì così, semplicemente. A quelle parole, all’uomo sfuggì un singhiozzo.
«Non sono qui per chiedertene conto. Ti chiedo solamente che cosa farai».
«Che cosa dovrei fare, mia signora?».
«Tu sei il Re. Il tuo cuore lo sa già».
Ataulfo si rialzò e le prese il viso tra le mani.
«Non andremo oltre, torneremo indietro. Raggiungeremo la Gallia meridionale e ci insedieremo laggiù. Cercheremo appoggi, troveremo un’intesa con l’Impero. Avremo la nostra terra, Galla, una terra solo nostra. Ti prego di esserne la Regina».
La giovane non disse nulla e lo guardò. Era sua prigioniera, si era conquistata la sua fiducia e la sua devozione, ma in fondo non aveva altra scelta. Era consapevole che quella preghiera nascondeva in realtà un comando. Chinò il capo e annuì.
Fecero l’amore quella notte stessa per suggellare un’unione che avrebbe potuto dare una speranza di equilibrio e di convivenza pacifica tra Romani e Germani. Ataulfo e Galla Placidia, con la benedizione di suo fratello Onorio, avrebbero potuto unificare due popoli. Ma il Re dei Visigoti fece un errore che avrebbe pagato caro di lì a qualche anno.
Durante il viaggio di ritorno, ebbe ben più di un’occasione per sbarazzarsi della coppa misteriosa. L’aveva tenuta chiusa nella cassa che era appartenuta ad Alarico, stipata in fondo al carro reale, ma non aveva avuto il coraggio di separarsene. Ogni volta che era vicino al momento fatidico, c’era qualcosa che lo distoglieva dal farlo. Non se lo spiegava e anche se tentava di tenersene il più lontano possibile, la coppa lo teneva comunque legato a sé come se agisse di volontà propria e lui ne era completamente soggiogato.
Ataulfo mosse a nord e si insediò in Gallia. Collaborò con Onorio per eliminare quelli che venivano considerati pericolosi usurpatori del trono d’Occidente e questo migliorò i loro rapporti, tanto che l’Imperatore gli permise di sposare la sorella a Narbo con una grandiosa cerimonia di nozze. I Visigoti espansero il loro dominio in Spagna e mentre Ataulfo sognava un grande regno gotico sotto la sua egida, il figlio che Galla gli aveva dato, Teodosio, moriva in tenera età, escludendo così ogni possibilità di una dinastia romano-visigota.
I nemici che col tempo si era procurato per mantenere fede all’alleanza con Onorio erano numerosi e vendicativi. Uno di questi, che era stato al servizio di un suo antico avversario, lo uccise mentre faceva il bagno nel suo palazzo a Barcellona.
Dopo la sua morte Galla Placidia fece ritorno a Ravenna dove fu costretta da Onorio a risposarsi nel 417 con Costanzo, implacabile nemico dei Goti. Si dice che Ataulfo l’avesse supplicata, morente, di custodire la coppa e regalarla al
fratello, ma non si sa se la donna abbia rispettato la volontà del marito. Forse al momento della sua partenza Galla, ispirata dalla fede o da un cattivo presagio, la abbandonò, o forse la portò via con sé fino in Oriente, quando trovò rifugio dal nipote Teodosio II dopo essere stata privata del titolo di Augusta dal fratello. Non è dato conoscere cosa accadde realmente: di quella coppa magica e misteriosa si persero le tracce e di essa non si seppe più nulla.
Quando Fagolio finì la storia, tutti gli avventori lo guardavano a bocca aperta. Il nano fece un largo inchino e le persone presenti, compreso l’oste, scoppiarono in un applauso trionfale. Orgoglioso e felice il giullare regalò a tutti un sorriso, e con la sua lira tornò a sedersi soddisfatto vicino a Icaro e agli amici.
F Finalmente Roma
Il giorno dopo partirono insieme ai romei²² che avevano incontrato alla taverna la sera prima, per completare insieme l’ultimo tratto. Si erano messi in marcia e dalla via Giustiniana avevano imboccato la via Trionfale, ben più sicura della Cassia che si estendeva in pianura, nonostante quello non fosse per il Tevere periodo di piene. La strada che avevano scelto era ormai diventata un percorso abituale per i pellegrini e per chi visitava Roma spinto da altri affari: da lì si raggiungeva la sommità del Mons Gaudii²³ per ammirare dall’alto la Città Eterna, con le sue rovine, i suoi quartieri, le sue chiese e i suoi luoghi santi, e porgerle il primo saluto.
Per Isabella e i suoi compagni l’emozione di vedere Roma e poterla abbracciare con un solo sguardo fu davvero immensa: dopo tutte le traversie e le difficoltà del viaggio, osservare da lontano la basilica di San Pietro con la tomba dell’Apostolo restituiva la speranza e faceva dimenticare la stanchezza. La città, adagiata sulle rive del fiume collegate dai ponti in pietra dell’Isola Tiberina, si mostrava in tutta la sua grandezza.
Dal piccolo oratorio della Croce uscì un chierico che andò incontro al gruppo per portare dell’acqua e dare loro un po’ di ristoro.
«Benvenuti, e che Dio vi benedica!».
Alcuni dei pellegrini iniziarono a intonare un canto: «Nobile Roma, Signora del mondo, eccellentissima tra tutte le città, rossa del vermiglio sangue dei martiri, candida delle bianche vesti e dei gigli delle vergini. Ti salutiamo e ti
benediciamo, salve per tutti i secoli».
Icaro li ascoltava con attenzione seguendo le parole.
«Che cos’è quell’inno?» chiese a Isabella, quando ebbero finito.
«È il canto O Roma nobilis, i pellegrini lo intonano prima di entrare in città» rispose lei.
Lo aveva colpito con quale amore avessero pronunciato le invocazioni, come se da esse dipendessero il destino della loro anima e la loro salvezza. Non v’era traccia di esaltazione in loro, v’erano solo gioia sincera e umiltà. Si chiese se non fosse quella la risposta che stava cercando da tanto tempo, se non fosse proprio quella la chiave per la felicità dell’uomo.
Dopo che il chierico li aveva messi in guardia dai falsi preti che vendevano finte reliquie e dalle taverne malfamate piene di bestemmiatori e donnacce, proseguirono e superarono la chiesa di San Lazzaro, che marcava il limite e il luogo dove doveva fermarsi l’emissario del Papa quando era inviato ad attendere l’arrivo di qualche illustre pellegrino o di qualche autorità.
«Mi meraviglio che Pasquale II non abbia mandato nessuno ad accoglierci!» chiosò Fagolio, fingendosi risentito.
Rolando e Ruggiero risero e il cavaliere lo sollevò di peso e lo mise sul cavallo.
«Spero che ti accontenterai di questo ingresso, insigne giullare!».
«Perbacco, vedere il mondo da questo punto di vista mi schiude nuovi orizzonti!».
Icaro lasciò gli altri a scherzare e si mise da parte per aspettare Isabella. Dopo poco, la fanciulla lo raggiunse.
«Sembrate irrequieto. C’è forse qualcosa che non va?».
«Nulla, ormai siamo alla fine del viaggio e ammetto che sono dispiaciuto».
«Sinceramente, anche io» disse lei di rimando.
«Isabella, quando vi ho incontrato e vi ho visto in quelle condizioni, ho sentito il desiderio di aiutarvi. Sono lieto che ci abbiate dato fiducia e ci abbiate accompagnato: se non l’aveste fatto, ora probabilmente sareste ancora a Buonconvento».
«Quel che dite è vero: se non fossimo partiti con voi, Rolando non vedrebbe ancora la luce, mentre ora, guardatelo! Ogni volta che realizzo che questo non è un sogno ma è realtà, ogni volta che guardo questo miracolo correre e giocare davanti a me, non immaginate la mia felicità».
Icaro annuì, poi prese dalla tasca la fialetta e si bagnò appena le labbra del denso
liquido che conteneva. La fanciulla notò il movimento e, senza distogliere lo sguardo da Rolando che camminava più avanti accanto a Ruggiero, trovò il coraggio di fargli la domanda che teneva celata nel suo cuore da tempo.
«Perché non mi avete mai detto nulla?».
«Perché era superfluo».
Il tono tranquillo di Icaro la colpì nel profondo e volse il viso verso di lui.
«Voi sapevate?».
«Fagolio è un caro amico, ma a volte non sa tenere la bocca chiusa. Ho intuito che vi avesse accennato alla mia vicenda».
Isabella si bloccò turbata, le guance rosse e gli occhi bassi.
«Mi dispiace, spero che la cosa non vi abbia offeso in alcun modo».
«Non lo ha fatto, state tranquilla».
Icaro sorrise dentro sé.
«Tenete, Isabella» disse estraendo da una tasca la croce di legno che gli aveva regalato frate Anselmo a San Gimignano.
«Che cos’è?» chiese la fanciulla.
«È un dono di un amico, vorrei che lo conservaste voi per me, sono certo ne farete un uso migliore di quanto ho fatto io fin’ora».
Le mura, massicce e antiche, erano ormai davanti a loro. Tutti insieme entrarono nel borgo Leonino ando attraverso la Porta Peregrini, rivolta a nord, sotto gli occhi dei soldati che li lasciarono andare senza perquisirli: preferivano controllare con maggiore accuratezza chi entrava portando armi o merci, poiché di solito i primi portavano guai e i secondi dovevano pagare dazio.
Lo spettacolo che apparve ai loro occhi tolse ai pellegrini parole e respiro. La platea Sancti Petri²⁴ e il quadriportico del Paradiso li invitavano ad avvicinarsi alla scalinata per entrare in chiesa e rendere omaggio all’Apostolo e ai santi, e per ricevere dal Signore la remissione di ogni peccato. Era stato il grande Costantino, primo Imperatore cristiano, a volere la basilica sul luogo dove si venerava la tomba del Principe degli Apostoli di Cristo. Lo stesso Imperatore aveva voluto che fosse costruita anche San Giovanni in Laterano, che era diventata la residenza del Papa. Rolando e Isabella, a quella vista, si abbracciarono, mentre Fagolio scendeva da cavallo con l’aiuto di Ruggiero e raggiungeva Icaro soddisfatto.
«Sembra che ce l’abbiamo fatta, amico» disse il nano.
«Sembra di sì».
Il cavaliere, commosso, sciolse dalle spalle l’involto che conteneva la Durlindana e lo porse a Rolando, che annuì con aria decisa: una volta conclusa quella missione Ruggiero sarebbe diventato la sua guida e voleva apparire sicuro e coraggioso ai suoi occhi. Isabella, con le mani congiunte, appoggiate alle labbra, osservava fiera il fratello pensando alla madre e al padre che li stavano guardando dal cielo, e dedicò loro una preghiera.
«Credi che prima o poi rivedremo Anselmo e Gilberto? Hanno perduto parecchi giorni di cammino» disse Fagolio.
«Mi auguro di incontrarli di nuovo, prima della mia partenza».
Icaro lo disse con un tono grave e a voce bassa, quasi avesse timore di farsi sentire.
«Parti? E dove andrai?» chiese il nano.
«Ancora non lo so, ma sento che qui non troverò quello che sto cercando...».
Rolando e Ruggiero, seguiti da Isabella, si stavano incamminando verso la basilica per adempiere al voto e fecero loro cenno di accompagnarli. Icaro e Fagolio si scambiarono un’occhiata e pensarono entrambi che forse, quella, era l’ultima occasione che avevano per stare tutti assieme. Così sistemarono bene i loro fagotti e si avviarono verso il piccolo corteo: avrebbero assistito finalmente
al ricongiungimento delle reliquie contenute nella spada con la tomba di Pietro, il primo tra gli Apostoli. Un gabbiano bianco volò sopra di loro osservandoli dall’alto, attraversando il cielo azzurro e terso di Roma.
1 Pavullo, nell’Appennino Modenese.
2 Besançon.
3 Oltre un metro e novanta.
4 Si tratta di Baldovino I (1100-1118), succeduto al fratello Goffredo di Buglione che, inizialmente, aveva assunto solo il titolo di Avvocato del Santo Sepolcro.
5 Milano.
6 Ivrea.
7 Concessionario di un fondo, di cui detiene l’usufrutto per un periodo di tempo, con specifiche condizioni e una prestazione in corrispettivo al concedente, detto anche livellante.
8 Matteo 25:26-27,30.
9 Contessa.
10 Lc, 4, 1-13 e 9, 1-6.
11 Es 32, 30-35.
12 Mt 23, 1-37.
13 I Cavalieri del TAU compiono le loro prime imprese fregiandosi del simbolo del TAU alla fine dell’XI secolo. Sono Frati dell’ordine di S. Jacopo che si occupano dell’ospitale di Altopascio: diventano un vero ordine cavalleresco solo nel 1239 e, si pensa, il primo ordine religioso-cavalleresco della storia.
14 Il Calderone era la mensa comune dell’ospitale alla quale sia ricchi che poveri, in egual modo, ricevevano un pasto caldo e sostanzioso.
15 Piatto della cucina toscana di quel periodo: era una zuppa di trippa con il cavolo insaporita da spezie. Molto simile alla «trippa marinata» che ancora oggi si può degustare a Firenze.
16 Vecchio toponimo dell’attuale Poggibonsi.
17 Luogo che serviva a ospitare persone non abili al lavoro o viandanti.
18 Oggi San Quirico d’Orcia.
19 Viene chiamata Francigena dai tempi di Carlo Magno.
20 Lodi.
21 Da leggere: Franco Cardini, L’avventura di un povero crociato (Mondadori).
22 Sinonimo di pellegrini.
23 Oggi Monte Mario.
24 Piazza di San Pietro.
Dissolvenza
F Anno Domini 1123
Il Castello di San Michele Arcangelo sorgeva affacciato sull’Adriatico. Era una piccola piazzaforte che controllava quel braccio di mare spesso infestato da pirati saraceni.
Il signore di San Michele guardò il tramonto incendiare i flutti e respirò l’aria della risacca serale. Era stato un anno molto prolifico, quello: i borghi erano sicuri e i campi avevano dato buoni frutti. Un mese prima avevano stanato un covo di pirati, massacrandone un centinaio senza pietà. Il Duca Guglielmo era soddisfatto del suo operato, mentre i sudditi erano tranquilli e ben nutriti.
Guardò il cortile interno del castello e gli sfuggì una risata. Nonostante il trascorrere degli anni, Beatrice era ancora molto bella. Qualche filo bianco iniziava a vedersi tra i capelli castani e alcune timide rughe cominciavano ad avanzarle sul viso, ma lei era frizzante e strafottente come la prima volta che l’aveva incontrata. Era talmente brava a raccontare storie che i signori del circondario facevano a gara per invitarla a farsi narrare qualcosa.
Quando l’aveva vista salire le scale dal cortile interno, Beatrice stava redarguendo una ragazzina bionda con gli occhi verdissimi.
«Cristala, non far arrabbiare tua madre! Ormai hai tredici anni, non sei più una ragazzina» urlò fingendosi irato.
«Voglio anch’io imparare a tirare di scherma come Roberto!» si indispettì la fanciulla. «Lui ha solo dieci anni ma non lo sgridi se lo vedi con una spada in mano!».
«Io sarò un guerriero: tu no!» ribatté un bambino castano, sbucando da sotto la scalinata.
«Zitto, rospo!» lo redarguì la sorella sibilando.
«Lui forse dovrà fare la guerra per difendere questo castello» disse Arturo pazientemente.
«Tu invece dovrai sposare la persona giusta per scongiurarla: fidati è molto più importante. Lascia agli uomini le loro stupidaggini…» intervenne Beatrice.
«Vedi perché tua figlia è una selvaggia? È uguale a te!».
Beatrice, che nel frattempo lo aveva raggiunto, si avvicinò e lo abbracciò.
«Pensi che questa notte potremmo dormire all’aperto raccontandoci una storia? È un po’ che non lo facciamo» le chiese.
«Sei il signore di questo posto, non sei più un ragazzino. Cosa accadrebbe se un villano ci vedesse, che figura faremmo…» lo rimproverò lei.
«Devi sempre impedirmi di fare le cose che preferisco?».
«Ti prometto che questa notte sarà comunque memorabile» gli rispose con un sorriso malizioso. «Prima, però, dobbiamo fare una cosa importante. Venite, ragazzi».
Nel cortile i due ragazzini smisero di litigare. Arturo e Beatrice scesero le scale a braccetto e si diressero a una scala che dal cortile penetrava nella nuda roccia, con Cristala e Roberto che trotterellavano dietro di loro.
La cripta di San Michele era ottantotto scalini più sotto. Vi erano seppelliti i signori che da oltre un secolo avevano retto la fortezza e il suo borgo.
La tomba di Roberto di Puglia era una delle più profonde. Un sarcofago di pietra raffigurava il normanno sdraiato con la spada in mano, la stessa máchaira che pendeva dalla cintola di Arturo e che ora campeggiava nello stemma di famiglia, nella ieratica espressione dei signori cristiani.
Tutti si inginocchiarono in preghiera. Nonostante fossero ati dieci anni dalla sua morte, Arturo e Beatrice piansero per lui. Li aveva sollevati dalla polvere ed era stato come un secondo padre per entrambi.
Il nuovo signore di San Michele ricordava vividamente il lungo conflitto coi baroni che non volevano riconoscere la volontà di Roberto. Erano gli stessi signori con cui ora andava a caccia e che invitavano sua moglie a feste e banchetti. Allora avevano fatto di tutto per impedire che lui succedesse al
normanno come signore di quelle terre. Poi, però, tutto si era sistemato e Dio aveva dato a Roberto anni di pace. Aveva visto crescere Cristala e aveva chiuso gli occhi il giorno dopo il primo vagito di Roberto.
Inginocchiata davanti al sepolcro, Beatrice pensava al padre, alle sorelle e ai fratelli, i cui resti erano abbandonati tra le valli intorno a Rocca Alta. Sapeva che, se glielo avesse chiesto, Arturo avrebbe mosso tutta la Puglia contro suo zio, ammesso che fosse ancora vivo. Non poteva, però, chiedere a suo marito e ai suoi figli di fare una guerra per vendicare la sua famiglia, e del resto anche suo padre le era apparso in sogno più volte per dissuaderla. Ci avrebbe pensato l’Onnipotente, ne era sicura.
* * *
«Maestro, maestro!».
Il novizio entrò trafelato nello scriptorium dell’abbazia di Nonantola. L’amanuense sollevò la testa dal suo lavoro, una Bibbia riccamente decorata con ampie iniziali e figure con le vesti colorate a più tinte.
«Dimmi, figliolo».
«L’abate vuole vederti, è urgente!».
«Fammi terminare questa D. Vedi? Sto inserendovi dentro alcune scene della Genesi» disse il monaco.
Con un raschino corresse una leggera sbavatura, poi approfondì due forellini che gli davano la distanza tra le righe e perfezionò la mela che Eva stava strappando dall’albero del Bene e del Male.
Osservò il suo lavoro avvicinando la candela alla pergamena ma tenendovi sotto una mano, già sporca di cera, per evitare che qualche goccia bruciasse il frutto del suo lavoro.
«Ora vai avanti tu, come ti ho insegnato» comandò all’allievo sorridendo.
Zoppicando vistosamente il frate uscì dallo scriptorium dirigendosi verso il chiostro dove lo aspettava l’abate.
«Mi avete fatto chiamare, padre?».
«Siediti, Gilberto» rispose l’abate indicando una panca. Fuori il vento belava tra le colonne del chiostro, dominato da un cielo plumbeo.
Gilberto si accomodò a fatica: l’umidità degli inverni padani era sempre meno sopportabile per la sua anca martoriata.
«Reco brutte notizie».
Gilberto sobbalzò immaginando cosa fosse accaduto.
«Fratello Anselmo si è ricongiunto al Signore» confermò Giovanni con tono grave.
Gilberto, bibliotecario di Nonantola, ricacciò indietro a fatica le lacrime che gli avevano già velato gli occhi. Quando parlò, aveva la gola chiusa e la sua voce uscì strozzata.
«Come è successo?».
«Poco lontano da San Vincenzo al Volturno. Da quello che mi è stato riferito un gruppo di briganti hanno attaccato lui e gli altri viaggiatori per derubarli».
«Ha reagito, vero?».
«Non poteva lasciargli prendere la preziosa reliquia che stava trasportando...».
«Già» rispose Gilberto parlando soprattutto a se stesso.
«Ora ti lascio al tuo dolore, figliolo. Ti posso solo consigliare di trasformare l’amarezza in preghiera e la rabbia in perdono».
«Dove è stato seppellito?».
«A San Vincenzo».
«Vorrei andare a pregare sulla sua tomba, se mi è concesso».
«Quando verrà la bella stagione non avrò nulla in contrario, ora con la tua gamba non andresti lontano».
«Avete ragione, padre. Posso farvi un’ultima richiesta?».
«Dimmi, figlio mio».
«Quando partirò, potrò portare con me Domenico?».
«Mi sembra un’ottima idea. È ancora così acerbo: con te avrà molto da imparare».
«Gli trasmetterò tutto quello che frate Anselmo ha insegnato a me».
* * *
Erano ati sedici anni da quando Ludovico, assieme a Guidotti, era rientrato da Gerusalemme col Pastorale di Giacomo d’Alfeo. Ludovico li aveva trascorsi a casa accanto alla moglie, vedendo crescere il piccolo Nicolò. Il suo unico pensiero quando si alzava era rivolto a quella reliquia. Come avrebbe fuso il metallo del pastorale? Che forma avrebbe dato alla spada? Ma soprattutto su quale uomo avrebbe dovuto bilanciarla?
Poi una notte, forse in risposta al suo tormento, gli apparve l’Arcangelo Michele.
«Ludovico, non puoi più indugiare, il tempo che ti è stato dato per compiere la tua opera è ormai concluso. Lasciati guidare dal tuo spirito e credi in Dio, il Supremo ti indicherà il cammino da seguire nel compimento della tua opera più grande. Credi, Ludovico e ricorda, il tempo è ormai giunto alla fine».
Il giorno seguente Ludovico entrò nella fucina e vi rimase in solitudine per tre giorni. Quando ne uscì, cullava fra le braccia una spada lunga due braccia dalla linea semplice: lo sguscio centrale era appena accennato, tanto da sembrare un riflesso provocato dalla lucentezza della lama; il pomo circolare sovrastava il manico ricoperto da un fine strato di cuoio scuro; l’elsa a croce si allargava di quasi una spanna per lato, per non dare fuga alle lame nemiche.
«Questa è la spada della fede, forgiata per un solo e unico uomo. Un uomo che dovrà ancora nascere».
Quando Guidotti vide la spada i suoi occhi si riempirono di lacrime. Immobile nel suo letto, costretto a quella prigionia da una malattia che lo stava divorando, il cavaliere si rivolse a Ludovico.
«Mio buon amico, ora che ho ricevuto il tuo dono posso spegnermi in pace. Prima di andarmene però ti rivelerò l’ultimo dei miei segreti: Dio mi ha rivelato che l’uomo che impugnerà questa spada sarà mio nipote e su di essa verrà fondata la sua santità.
Egli combatterà per la parola del Signore e un nuovo santuario verrà eretto in suo nome per ricordare il Cristo morto sulla croce. Da ogni parte verranno per venerarlo e per tutto il tempo questa spada ne proteggerà il ricordo, tenendolo in vita».
Guidotti spirò, con la spada ancora stretta fra le mani, felice di aver potuto vedere il risultato della cerca di una vita. Ludovico, inginocchiatosi al suo capezzale, diede l’ultimo commiato a quell’uomo che aveva portato la luce nella sua esistenza.
* * *
Il soldato dal bianco mantello, trafelato e impolverato, tentava di dar voce alle sue ragioni.
«Ti ho già detto che non puoi entrare!» disse l’uomo a guardia della maestosa villa frapponendo fra sé e il soldato l’asta della picca.
«Vengo da Gerusalemme apposta per consegnare questo piccolo scrigno!» si lamentò l’uomo.
«Non mi importa, il Duca è stato chiaro: non lasciate entrare nessuno qualunque sia il motivo, si è raccomandato. E così faccio! Ora vattene».
Il nano osservava la scena incuriosito e mentre si avvicinava al portone le voci si fecero sempre più alte.
«Non me ne andrò finché non avrò parlato col giullare del Duca, il famoso Fagolio da Pisa».
«Se mi permettete, con quello non ne caverete un ragno da un buco» affermò il nano tirando il mantello del soldato. «Vedete, il buon Signore che sta nei cieli si è ben prodigato di dargli stazza e forza bruta, ma è stato alquanto avaro di intelletto. Se il Duca gli ordinasse di importunare una puledra lui lo farebbe senza pensarci due volte».
La guardia non capì il senso di quelle parole e si limitò a grugnire.
«Devo parlare con Fagolio» sospirò il soldato abbattuto.
«Lo state facendo buon uomo. Io sono Fagolio da Pisa, giullare di corte della nobiltà romana».
«Grazie mio Dio! Il mio viaggio è giunto a compimento» affermò il soldato lanciando uno sguardo al cielo. «Sono qui per mantener fede alla richiesta di un buon amico. Prendete, da parte di Icaro».
Fagolio afferrò lo scrigno.
«Come sta il vecchio Icaro? Avrei proprio piacere di vederlo».
«Mi spiace darvi questa notizia ma è morto cinque anni fa a Gerusalemme. Era ospite del mio ordine da diverso tempo».
Il volto di Fagolio si incupì e senza troppi discorsi si accomiatò dal soldato per rifugiarsi nella sua stanza all’interno del palazzo.
Lo scrigno conteneva alcuni oggetti: il falco d’acciaio donatogli da Ludovico, un rotolo di fogli scritti fitti e una lettera sigillata.
Il nano ruppe il sigillo e lesse.
«Caro Fagolio, amico lontano, questa lettera sarà l’ultima cosa che lascerò in questo mondo e voglio che l’abbia tu. La mia salute va via via peggiorando e ormai sento che la fine è prossima. Qui ho ricevuto ospitalità presso un convento di Templari, l’ordine di monaci guerrieri che dedica la propria esistenza alla salvaguardia dei pellegrini. Dopo averti lasciato a Roma ho proseguito il mio cammino fino alla città di Gerusalemme. Non ti nego che il viaggio è stato faticoso e che per ben due volte ho rischiato di non raggiungere la città santa, e in una di quelle occasione fu proprio un Templare a salvarmi da un manipolo di saraceni che tentò di catturarmi. Dopo quell’evento il cavaliere si offrì di scortarmi, divenimmo amici e, una volta visitata Gerusalemme, su suo invito mi fermai nell’ospitale del suo ordine. È stato proprio in questo luogo che ho
trovato ciò che stavo cercando.
Questi guerrieri vivono una piena vita monastica, improntata alla preghiera e al lavoro. Sono uomini dal grande intelletto e da una spiritualità incrollabile. Spiritualità che, a loro dire, posseggo anch’io. Grazie a questa mia dote essi mi hanno reso partecipe dei loro segreti e delle loro storie. Ed è così, mio caro Fagolio, che ho raggiunto quell’illuminazione che tanto ho cercato. Ora so, e come me anche gli altri devono sapere, è per questo che ho deciso di scriverti. Nel rotolo di pergamena che troverai insieme alla lettera ho vergato tutte le storie che conosco, tutti i racconti che ho appreso in questo luogo. Voglio che tu li faccia tuoi. Voglio investirti del compito di divulgarli a coloro che sono in cerca della luce. So che hai sempre amato le mie storie, per questo ho pensato a te: mio caro Fagolio, confido nella tua sincerità e nella nostra amicizia che so per certo non tradirai.
Ti auguro una vita lunga e serena. Una vita di consapevolezza e di predicazione.
Addio amico mio».
Fagolio lesse la lettera e i racconti di Icaro più volte per intere settimane, finché ogni parola non si incise vivida nella sua mente. Quelle storie che narravano di arche divine e coppe sante, e che erano state l’ultimo lascito di Icaro, fecero di Fagolio il più rinomato giullare e cantastorie che la città di Roma conobbe.
* * *
Ruggiero, armato di tutto punto e con la spada che pendeva al suo fianco, entrò
nella stalla a o svelto gridando due comandi secchi, poi si volse verso Rolando e gli fece un cenno amichevole.
«Andiamo, ci attendono».
Il cavaliere si alzò dallo sgabello di paglia e seguì Ruggiero senza esitare.
Erano trascorsi sedici anni da quando, grazie a lui, aveva maneggiato per la prima volta una spada. Da allora non aveva mai smesso di imparare da quell’uomo, che ormai aveva raggiunto la mezza età ma era ancora forte come un toro.
Per tutto quel tempo era stato la sua guida, gli aveva insegnato come combattere e agire rettamente, come discernere il bene dal male, e insieme a lui aveva partecipato a tante battaglie, assaggiando l’ambiguo sapore della vittoria.
Solamente un anno prima avevano aiutato il cardinale Giovanni da Crema ad assediare e riconquistare Sutri, strappandola all’antipapa Gregorio VIII. Era stata una lotta lunga ed estenuante: Sutri era munita di fortissime opere di difesa e probabilmente, se gli abitanti non avessero catturato e consegnato loro stessi l’antipapa nelle mani del Pontefice, l’assedio sarebbe durato molto più a lungo. Ma i sutrini erano stanchi di lottare e la crisi si era risolta con la sconfitta dell’illegittimo e la vittoria di Callisto II.
«Dobbiamo scortare il Pontefice. Rapido, Rolando».
Il guerriero montò a cavallo e insieme agli altri attese l’ordine di marcia da Ruggiero. Erano missioni all’apparenza semplici, quelle, che potevano rivelarsi pericolosissime per il rischio continuo e improvviso di attentati e imboscate. I tempi erano incerti e l’animo umano assai volubile, lo sapeva bene, e colui che in precedenza era tuo amico, poteva d’un tratto trasformarsi in un nemico. Ma Rolando non aveva paura: aveva smesso di averla da quando il Signore gli aveva restituito il dono della vista.
Ruggiero era sempre spiccio e taciturno. Coi suoi modi bruschi sembrava voler celare un antico dolore, legato alla ferita che miracolosamente si era richiusa tanti anni prima, ma non ne aveva mai parlato a nessuno, nemmeno a Rolando, che nonostante l’amicizia che li legava era ancora all’oscuro di gran parte della sua vita.
Di tanto in tanto sentiva il bisogno di richiamare alla memoria il giorno in cui per la prima volta era giunto a Roma. Ogni volta che chiudeva gli occhi, sentiva ancora l’emozione che aveva provato a tenere tra le mani la Durlindana, al senso di abbandono quando l’aveva appoggiata sull’altare costruito sul sepolcro di Pietro, alla tristezza del distacco. Quasi come fosse stata parte di lui.
A volte ripensava anche a Isabella. La dolce sorella che per tanto tempo era stata i suoi occhi, dopo il prodigio gli aveva permesso di percorrere la sua strada e non si era opposta alla sua scelta di diventare un uomo d’arme. Come Ruggiero gli aveva promesso, era entrato sotto la sua protezione ed era diventato suo scudiero percorrendo l’intero iter della cavalleria, ed era infine stato proclamato cavaliere proprio dal suo maestro.
Isabella aveva abitato a Roma per un po’ trovando lavoro come lavandaia, poi, un giorno, aveva incontrato un ragazzo giunto fin lì dall’Umbria per studiare. Si erano innamorati e lei era tornata insieme a lui a Bevagna, il suo borgo d’origine, per cominciare una nuova vita insieme. Ogni tanto gli arrivavano ancora le sue lettere, dove chiedeva notizie e raccontava le novità; ormai era madre di tre figli
e i loro contatti si erano man mano diradati, anche se aveva sempre cercato di mantenere un filo, un legame famigliare, e di questo Rolando era felice.
«In marcia!» gridò Ruggiero.
Gli uomini lo seguirono dirigendosi al Laterano, dove li attendeva il Pontefice. Callisto II aveva convocato un concilio ecumenico, al quale era intervenuto un elevato numero di dignitari ecclesiastici da tutto il mondo cattolico. Il Papa aveva voluto ribadire fortemente le sue convinzioni e rinnovare le pene contro la simonia e il matrimonio dei sacerdoti.
«Sembri preoccupato, Rolando» la voce di Ruggiero lo riscosse dai suoi pensieri.
«Non ripensate mai al ato?».
«Mi capita di farlo».
«Ebbene, ripensavo a Isabella, a Icaro e a Fagolio. A volte mi chiedo come sarebbero andate le cose, se avessimo continuato il nostro viaggio insieme».
«Non riceverai risposta a quel che chiedi, Rolando, lo sai bene».
«Lo so. Ma non posso fare a meno di pensarci».
«Ricordi cosa diceva Agostino di Ippona?».
«Riguardo a cosa?».
«Riguardo al tempo».
Rolando ci pensò un po’ sopra, infine rispose.
«Il ato non è più e il futuro non è ancora. Il presente è solo un intervallo, e per cogliere la vera realtà del tempo occorre guardare dentro di sé».
«Esatto».
Senza aggiungere altro, Ruggiero diede di sprone al cavallo raggiungendo di nuovo il posto che gli spettava, all’inizio dello schieramento, lasciandolo solo a riflettere. E mentre Rolando lo osservava, ripensava all’oscuro e misterioso Icaro, all’allegro giullare Fagolio e al bel viso della sorella Isabella, augurando loro ogni bene. E fu grande il desiderio di poterli riabbracciare.
Nota degli autori
Come ha giustamente sottolineato Le Goff, la storiografia più recente ha sostituito l’immagine stereotipata di un Medioevo immobile con quella di un’umanità medievale in cammino secondo proporzioni di massa che esulano dai soli monaci viaggiatori e dai crociati. L’homo viator, il pellegrino, ha il più delle volte preceduto il commercio anche se poco a poco i medesimi uomini hanno avuto la stessa funzione o comunque pellegrini e mercanti si sono mossi sulle stesse strade (J. Le Goff, Il Cielo sceso in terra, Milano 2004).
Scopo di questo romanzo era rendere omaggio a coloro che hanno viaggiato per la tratta italiana di quello che, forse, è il più famoso e mitico percorso stradale della storia europea: la via Francigena, che vide transitare per secoli uomini, idee, interessi ed eserciti. Per onorare questi uomini e queste donne, cittadini d’Europa, molto prima di noi, abbiamo voluto rivolgere l’attenzione alle tradizioni dei luoghi che attraversavano nel tentativo, non certo facile, di raccontare l’anima del Medioevo. Esso non fu l’oscuro e bigotto periodo in rassegnata attesa del salvatore rinascimentale o illuminista. Al contrario fu un’epoca attraversata da quel grande fervore culturale e spirituale che Le Goff ha riassunto con la felice espressione della discesa del cielo in terra (cfr. J. Le Goff, Alla ricerca del Medioevo, Milano 2003).
Da un lato, questo spiega la tensione dei dotti medievali nel capire il divino, sforzo che portò a costruzioni inarrivabili del pensiero umano come la Tomistica. Dall’altro, però, rende giustizia anche della gioia di vivere che, contro certi stereotipi, è diffusissima nel Medioevo, nonostante la durezza di un mondo certamente violento e circondato da una natura ostile. Proprio in questa ossimorica convivenza di divino e terreno, di magico e razionale, di spirituale e materiale, sta la bellezza di un’epoca che qui, con grande umiltà abbiamo tentato di far rivivere nella sua plasticità. Speriamo di esserci riusciti.
Come tutte le opere di fantasia, ovviamente, anche questa è una semplice rappresentazione della realtà. Sebbene, quindi, la ricostruzione dello scenario sia stata fatta con tutto lo scrupolo possibile, il risultato è stato inevitabilmente influenzato da interpretazioni personali e da lacune nelle fonti. Ci scusiamo di eventuali inesattezze ma ci sembra giusto mettervi in guardia sulle principali licenze interpretative che, per le difficoltà cui abbiamo accennato, abbiamo disseminato nel testo. Ve lo dovevamo, siamo amici.
Il bellum Domini
Quando Roberto di Puglia parla della crociata non utilizza mai questo termine. Crozada, infatti, è un termine che appare nel XIII secolo e si afferma nel XIV. Deriva dall’espressione cruce signatus, cioè «segnato con la croce», come venivano chiamati i primi partecipanti segnati con la croce.
La donna e il frate
Il racconto è tratto molto liberamente da un episodio narrato nella Cronaca di Novalesa (II, 4), e da una serie di tradizioni popolari che richiamano, più o meno direttamente questo avvenimento. In realtà, come si sa, Carlo Magno non ebbe una moglie di nome Berta. Sua madre si chiamava così e anche una sua figlia. Nel racconto è stato mantenuto acriticamente il nome Berta, senza porsi il problema dell’origine della Regina ma trasformando quella che nella cronaca era la moglie di Carlo, in una delle sue numerose concubine.
Ordalia
Questo racconto prende spunto da un fatto narrato in svariate cronache modenesi
e bolognesi: l’avvenimento è documentato anche da un presunto placito di Re Rachis, conservato a Bologna. Il documento, certamente un falso, forse non è privo di verità storica anche se, in realtà, parla di una processione e non di una gara.
La grotta del diavolo
Questo racconto muove dalla Vita di San Pellegrino di Umberto Monti (Castelnuovo in Garfagnana 1941). Si tratta di un libello molto gustoso; agiografico quanto volete, esso ci mostra come un tempo la sensibilità umana fosse meno abbruttita di oggi, più disposta a credere e commuoversi di fronte a storie come queste. Non si tratta del San Pellegrino noto ai più; questo personaggio, leggendario e sulla cui esistenza ci sono molti dubbi, era un Santo Pellegrino. La descrizione di Lucifero è ripresa dall’arte medievale e dalla Commedia di Dante Alighieri.
Il guerriero fantasma
Questo racconto è di pura fantasia, anche se al lettore più attento non sfuggirà il riferimento alle armi di Achille (Iliade, XVIII, vv. 461-617).
Lo scontro tra Roberto e i banditi selgiuchidi avviene sulla collina dove, in seguito, sarebbero stati trovati i resti della città di Troia, che in età moderna ha assunto il nome di Hissarlik («la fortezza») a causa delle numerose rovine affioranti; i due corsi d’acqua sono gli antichi Scamandro (oggi Küçük Menderes, «piccolo meandro») e Simoenta, a breve distanza dall’estremità meridionale dello stretto dei Dardanelli.
Badia di Pozzeveri
Il nome Pozzeveri sembra derivi dalle numerose pozzanghere presenti su quel terreno palustre. Nel 1058 il Vescovo di Lucca Anselmo concesse la Badia di Pozzeveri ad alcuni monaci, convertitisi poi successivamente all’ordine Camaldolese, cui assegnò in dote i terreni posti fra la palude e la via Francigena in direzione di Altopascio. La badia venne mantenuta attiva fino al 1408 quando, ormai priva di religiosi, fu soppressa con bolla pontificia da Papa Gregorio XII.
Poggio Salamartano
Nel 1106 una rovinosa inondazione dell’Arno distrusse il primo insediamento di Fucecchio. Nello stesso anno l’ultimo dei Cadolingi il Conte Ugolino, donò all’abate di San Salvatore (il primo monastero era a lui dedicato) il Poggio Salamartano. Contemporaneamente alla nuova edificazione del monastero fu ricostruita anche la chiesa di San Giovanni. Più tardi il poggio fu circondato da mura e utilizzato a lungo come cimitero.
Il folletto della farina
Il Medioevo era colmo di esseri fantastici e mitologici. Sono vari i bestiari che riportano le descrizioni di queste creature. Animale strano dalle umane sembianze e terribilmente dispettosa, la scimmia è poco conosciuta nelle nostre terre durante i secoli bui e temuta come incarnazione di spiriti fatati o dello stesso diavolo di cui ricorda le caratteristiche salienti: forma umanoide, coda viperina e grande astuzia.
Sangue di Cristo
Questa della lancia di Longino è solo un’ipotesi. In fondo chi ci dice che la lancia arrivata sino ai nostri giorni, posseduta dai grandi uomini della storia, e tutt’ora custodita al museo Wel-tliche Schatzkammer dell’Hofburg di Vienna sia effettivamente la vera lancia di Longino?
Vero figuram habet Diaboli
Sembra effettivamente che sotto il castello di Strozzavolpe ci sia una rete di gallerie che porti ad altri manieri. Inoltre, altre sono le leggende riguardanti questo antico maniero, leggende di spiriti che tutt’oggi aleggiano ancora attorno a quelle spesse mura.
San Gimignano
La Vernaccia di San Gimignano è un vino bianco tipico di questa zona. La sua denominazione attuale risale al 1200. Nonostante questo ci siamo comunque presi la libertà di supporre che la produzione di questo particolare vino avvenisse ugualmente anche prima della data certa della sua denominazione.
Il prisma carminio
Questo racconto nasce principalmente dall’intreccio di due eventi storici ai quali mi sono liberamente ispirato. Primo, la battaglia di Luni: Pisani e Genovesi, ati da Papa Benedetto VIII, uniti nella comune lotta contro l’invasione mussulmana, sconfissero nel 1016 Mugetto, califfo Saraceno, che fu costretto a ritirarsi sulle coste della Sardegna da cui portava i suoi attacchi. La battaglia
durò tre giorni e fra le spoglie dei nemici della chiesa fu rinvenuto un diadema che si dice avesse un altissimo valore. Quel diadema fu regalato poi da Bonifacio VII, nel 1020, all’Imperatore Enrico II durante una visita del Pontefice presso la corte germanica, visita che aveva principalmente lo scopo di domandare sostegno militare al sovrano.
Secondo evento è invece l’insurrezione di Ranieri Marchese di Toscana nei confronti dell’Imperatore che succedette a Enrico II: Corrado II detto il Salico. Tra il 1026 e il 1027 Corrado II scese verso Roma per essere incoronato Imperatore da Papa Giovanni XIX. Durante la sua discesa dovette muover battaglia nei pressi di Lucca al contingente costituito da Ranieri intenzionato a bloccargli la strada verso Roma. Il neo-imperatore sconfisse il Marchese del quale poi le cronache non fecero più parola lasciandoci supporre che, in quello scontro, oltre le terre perse anche la vita.
Il Marchese Ranieri di Toscana partecipò veramente, secondo fonti storiche, alla battaglia di Luni.
Lei il Papa
Secondo la leggenda la Papessa Giovanna governò sullo stato pontificio dall’853 all’855. Gli storici considerano questa figura un mero mito nato dalla satira antipapale. Sempre secondo la leggenda a questa papessa succedette Papa Benedetto III. Nelle registrazioni storiche presenti in Vaticano non vi sono riferimenti alla papessa Giovanna il cui nome sembrerebbe stato omesso dai registri su ordine di Benedetto III. Sembra anche che proprio in quel periodo sia stato introdotto nel rito di investitura papale l’uso delle «stercorarie», sedie aventi sulla seduta un taglio a forma di mezza luna. Durante la cerimonia un cardinale veniva incaricato di inserire una mano nel foro e appurare il sesso del neo-aspirante Papa, quindi la sua idoneità a divenire successore di Pietro.
Ludovico e i Guidotti di Chiusdino
Questo è un riferimento alla leggenda di San Galgano. Galgano, nato nel 1148, era figlio di Guidotto e Dionigia della famiglia Guidotti originaria di Chiusdino. Prima uomo d’arme dissoluto, poi eremita e santo, convertitosi dopo aver incontrato sulla sua strada l’Arcangelo Michele, Galgano deporrà le armi per dedicarsi alla predicazione. In un atto di estrema fede conficcherà la sua spada in una roccia. Dopo la sua morte, sulla spada, venne edificata dai fedeli la «Rotonda» per ricordare il luogo in cui il santo visse e morì. Successivamente, data la diffusione del culto di San Galgano, venne edificata anche un’abbazia. Ancora oggi è possibile ammirare all’interno della «Rotonda» la santa reliquia della spada.
Sant’Antimo
La costruzione del nucleo primitivo sarebbe da ricondurre al culto delle reliquie di Sant’Antimo di Arezzo, risalente al 352. Carlo Magno, di ritorno da Roma nel 781, seguendo la grande arteria di comunicazione creata dai Longobardi, giunse fino a Sant’Antimo e in quella occasione pose il suo sigillo sulla fondazione di questo primo monastero ancora in costruzione.
L’osso del drago
Rielaborato da un pezzo uscito per l’antologia L’ombra del Duomo (Larcher Editore, 2006). Questo è ovviamente un racconto di fantasia, ma alcuni elementi sono ispirati alle tradizioni agiografiche e alle leggende medievali: è rispettata la storia di San Giorgio secondo la Leggenda Aurea, che ne fissa i tratti di cavaliere eroico e cacciatore di draghi. Nella Bibbia, Satana viene identificato come «drago rosso» e «antico serpente».
Adelaide, santa Regina
Il racconto si ispira alla storia di Adelaide e riporta alcuni dei fatti relativi al suo rapimento e alla sua fuga narrati nella Cronaca di Novalesa (V, 10) e da Donizone, biografo di Matilde di Canossa, nella Vita Mathildis (I, 140-226).
San Quirico San Quirico d’Orcia è di origini etrusche. Il nome «Osenna», conservato fino al XVII secolo, si riferiva con ogni probabilità a un corso d’acqua oggi scomparso che doveva trovarsi nelle immediate vicinanze del paese. «Osenna» è toponimo etrusco e forse preromano.
Bolsena e Santa Cristina
La ricostruzione della storia del martirio di Cristina si basa sulla versione greca, che indica il luogo della ione in Tiro, probabilmente per indicare Tyr, la terra degli Etruschi chiamati Tirreni dai Greci, e su una versione latina, più verosimile, in quanto in seguito agli scavi archeologici eseguiti fra il 1880 e il 1881 nella grotta situata sotto la Basilica di Santa Cristina, si è accertato che il culto per la martire era già esistente nel IV secolo.
La beffa al grande Re
Per leggere la versione originale di questo racconto basta dare un’occhiata al Decameron di Giovanni Boccaccio: la seconda novella della terza giornata
racconta dell’astuzia del palafreniere e dell’avvedutezza del Re Agilulfo. Ha numerosi antecedenti. Ne abbiamo dato semplicemente un’interpretazione e una riscrittura personale, aggiungendo o togliendo piccoli particolari.
La spada maledetta
Questo racconto è una personale interpretazione della morte di Rolando, modificata ai fini della narrazione. La Chanson de Roland, scritta intorno alla seconda metà dell’XI secolo, è una chanson de geste appartenente al ciclo carolingio. La Chanson fu scritta da un autore ignoto (il presunto autore Turoldo, nominato negli ultimi versi, fu probabilmente solo il compilatore) e canta la battaglia di Roncisvalle, avvenuta il 15 agosto 778, quando la retroguardia di Carlo Magno, comandata dal paladino Rolando, prefetto della Marca di Bretagna, e dei suoi paladini, di ritorno da una spedizione in Spagna fu attaccata e distrutta dai Baschi. Gotifredo non esiste e Rolando morì da solo, custodendo la spada e l’Olifante sotto di sé. Sul destino della Durlindana ci sono ipotesi e leggende molto differenti tra loro, e qualcuno pensa che sia tutt’ora conservata a Rocamadour, nel sud della Francia.
Il sacco di Roma
La vicenda si ispira a fatti reali, il sacco di Roma operato dai Visigoti di Alarico nel 410 d.C. e la loro successiva partenza verso il sud. Reali le condizioni della città nei cinque lunghi mesi d’assedio, di pura fantasia la presenza di Onorio a Roma e la vicenda dell’avvelenamento di Alarico da parte del cognato Ataulfo: Alarico morì probabilmente per la malaria contratta durante il viaggio. La sua sepoltura è raccontata così come viene tramandata dalla leggenda. Due curiosità: le parole che Alarico riferisce al Papa, indirizzate all’Imperatore Onorio, sono originali e conservate tutt’oggi in un codice in Vaticano; le parole con cui l’esercito visigoto saluta Alarico sono tratte e rielaborate dalla traduzione che Giosuè Carducci fece della poesia Das Grab im Busento di August Graf von Platen, ispirata alla leggenda del Re e della sua sepoltura.
goWare <e-book> team
goWare è una startup costituita da autori, editor, redattori e sviluppatori che condividono la visione sul futuro delle nuove tecnologie e la ione per l’editoria. Raccogliere, selezionare e organizzare i contenuti allo scopo di renderli a portata di touch è la sfida quotidiana di goWare come casa editrice digitale. Operativamente goWare è costituita da due team: goWare
team, che si occupa di concepire e sviluppare applicazioni per iPhone e iPad e goWare <e-book> team, specializzato in editoria digitale, creazione di ebook, consulenza e formazione in campo editoriale. Il goWare team è composto da Roberto Avanzi, Elisa Baglioni, Mariarosa Brizzi, Stefano Cipriani, Valeria Filippi, Giacomo Fontani, Mirella Francalanci, Patrizia Ghilardi, sco Guerri, Mario Mancini, Alice Mazzoni, Alessio Orlando, Lorenzo Puliti, Maria Concetta Ranieri.
Manifesto di goWare
Il contenuto in digitale è un’altra cosa
Pensiamo che i contenuti digitali siano differenti da quelli distribuiti attraverso i media tradizionali, diversi nel formato, nel design, nel pubblico che li fruisce. Lavoriamo per valorizzare questa diversità, curando nel dettaglio la realizzazione di ebook ed enhanced book pensati per un’esperienza di lettura autenticamente digitale.
“Sur the print experience”
Non c’è bisogno di tradurlo, le parole del team iBooks della Apple suonano come l’11° comandamento. La chiave è la generosità. Ci sono tanti piccoligrandi accorgimenti per migliorare la lettura dell’ebook. Per esempio non c’è più il vincolo della foliazione, si può essere generosi con l’interlinea, gli spazi, le paragrafature, i colori: la costipazione è finita, coloriamo le parole e arieggiamo la pagina! È il vero trionfo della volontà sulla necessità.
Abbasso il piombo!
Gli ebook di goWare sono progettati e realizzati per vivere in un ecosistema digitale. Ci ispiriamo a Wikipedia: la lettura digitale ha bisogno di link per farci spaziare da un contesto a un altro. È inoltre sincopata: la
cementificazione del testo è finita! Abbasso il piombo, viva il link. La partecipazione distratta non ci spaventa.
Il valore di un ebook non sta solo nel contenuto ma nella relazione
All’interno di un ecosistema digitale, il valore economico di un libro non sta più soltanto nella quantità di copie che il suo editore/produttore riesce a vendere a un prezzo massimizzato, quanto nelle idee e nella relazione che riesce a creare con il proprio pubblico e i media sociali; lavoriamo su questa relazione in modo che diventi il veicolo per costruire il rapporto economico.
Siamo nomadi
Sia i nativi che gli immigrati digitali non sono per niente stanziali, sono nomadi, si spostano continuamente da un dispositivo all’altro e da una piattaforma all’altra. I nostri contenuti sono pensati per spostarsi con loro.
Dillo subito, e con una narrazione possibilmente visuale
Curati, interessanti e veloci da leggere, gli ebook di goWare vanno al sodo e non contemplano solo il testo: la narrazione visuale e quella musicale sono parte integrante della progettazione.
Dove stiamo andando?
«Where we going man? I don’t know, but we gotta go» scrive Jack Kerouac in On the road. Il team di goWare ha sempre in mente queste parole da cui ha tratto anche parte del suo nome. Innumerevoli sono le incognite che gravano sul presente e sul futuro dell’editoria digitale: nessuno sa bene dove approderemo, per ora occorre andare e occorre sperimentare.
Salve, lettore globale
I nostri ebook sono rivolti ai lettori italiani esigenti che pensano globalmente, convinti che siamo tutti parte di un medesimo insieme economico, culturale se non ancora linguistico: il mondo. La rivoluzione digitale significa prima di tutto questo. Tutte le opinioni sono un patrimonio, meglio se differenti, ancor meglio se fuori dal coro.
Detto altrimenti...
... cioè con le parole della poetessa inglese Ruth Padel Di’ addio al potrebbe-esser-stato [...] vai perché sei vivo, perché stai morendo o sei, forse, già morto Vai perché devi.
goWare narrativa – Pesci Rossi
Dindalé. Conti di poco conto di Armando Vertorano
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Enigma #merkel. In europa il potere è donna: Angela Merkel di Ubaldo VillaniLubelli
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Mario Bava il rosso segno dell’illusione a cura di Davide Di Giorgio
Dario Argento: l’amore e l’orrore a cura di Giacomo Calzoni
Cool Pop | In parole povere
Meglio un uovo oggi... I proverbi di Sardegna e Sicilia a cura di goWare <ebook> team
Meglio un uovo oggi... I proverbi di Umbria, Marche, Molise, Abruzzo e Lazio a cura di goWare <e-book> team
Meglio un uovo oggi... I proverbi della Campania a cura di goWare <e-book> team
Meglio un uovo oggi... I proverbi di Piemonte, Valle d'Aosta, Lombardia e Liguria a cura di goWare <e-book> team
Meglio un uovo oggi... I proverbi dell’Emilia Romagna a cura di goWare <e-
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Meglio un uovo oggi... I proverbi di Veneto, Friuli Venezia Giulia e TrentinoAlto Adige a cura di goWare <e-book> team
Meglio un uovo oggi... I proverbi di Puglia, Calabria e Basilicata a cura di goWare <e-book> team
Pamphlet | Per farla breve
Jack Ma. L’uomo che ha messo Alì Babà in rete di Giuseppe Spezzaferro e Marco Macchiavelli
Scenari scozzesi. Voci pro e contro l’indipendenza della Scozia dal Regno Unito di sco Cancellato
La Repubblica di Machiavelli – Da Monti a Renzi. L’ultimo scorcio della Seconda Repubblica di Andrea Apollonio
Confessioni di un venditore di povertà. Solidarietà e aiuti umanitari ai tempi della crisi di sco Petrone
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Aria Nova | Blowin’ in the wind
Maschio Alfa. Excursus semiserio sulla dominazione maschile di Manuele Testai
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Pills | Piccoli libri per stare meglio
Obesità. Conoscere, prevenire e combattere il sovrappeso e le sue malattie di Enrico Roccato, Roberta Carli, Maria Giannotti e Stefano Lucarelli
Curare con i numeri. La statistica in medicina, saper prescrivere sulla base dei dati di David Coletta
Si fa presto a dire insetto. La nuova era del cibo. Sulle nostre tavole qualcosa di nuovo seppur antico di Marco Ceriani
Tweet106 | Cum grano salis
106 tweet sull’ottimismo. Vivere meglio e migliorarsi a cura di Davide Da Dalt
106 tweet sull’ottimismo. L’umorismo come dieta dello spirito a cura di Davide Da Dalt
106 tweet sull’ottimismo. Il tempo che a a cura di Davide Da Dalt
106 tweet sull’ottimismo. Superare le preoccupazioni a cura di Davide Da Dalt
106 tweet sull’ottimismo. La saggezza di vivere a cura di Davide Da Dalt
L’ha detto un italiano di Guido Di Santo
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106 tweet da Mad Men ... La parola ai persuasori occulti di goWare <ebook> team
106 tweet sui cani ... Dalle celebrità di goWare <ebook> team
106 tweet sui gatti ... Dalle celebrità di goWare <ebook> team
106 tweet sul caffè ... Dalle celebrità di goWare <ebook> team
Noi animali | Un pianeta di uguali
L’avvento della filosofia antispecista. Ribaltamento del capitalismo e storie affini di Andrea Romeo
Schizofrenie mediatiche. Mucche felici e pazze nell’era del capitale di Andrea Romeo
La rete e la diffusione della cultura antispecista di Andrea Romeo e Ivonne Citarella
Lupus in fabula, vacca in mensa. La teriosfera di Andrea Romeo
Animal ludens. I giochi, gli uomini, gli animali di Andrea Romeo
Il terrore di Arthur Machen
Io & Asia. Storia di un cane che non voleva vivere di Luigi Polverini
Un’arte per l’altro. L’animale nella filosofia e nell’arte di Leonardo Caffo e Valentina Sonzogni
Compagni di viaggio. Dai diritti dell’uomo ai diritti dell’animale di Stefano Cagno
Guide d’autore | In viaggio con Cicerone
i notturni e inquieti sguardi. Viaggio per le vie e l’arte di Bologna di Maurizio Catassi
A casa di Salvador Dalí. Una visita guidata nella Casa Museo di Port Lligat di Monya Peruzzi
World zapping. Racconti di viaggio di Roberta Melchiorre e Fabio Bertino
Pisa raccontata da Diego Casali. Con uno scritto di Marco Malvaldi di Diego Casali
Stravaganze romane. Guida alla Roma da visitare senza orario né biglietto di Rinaldo Gennari
goWare ti regala
Disagi contemporanei. 67 tesi per ripensare il comunismo di sco Barbadorno
Magnets and miracles. Solitudine e nostalgia nei testi dei Pink Floyd di Jacopo Caneva
Stai parlando con me? 100 battute da film indimenticabili a cura di Stefano Cipriani
Discorsi sull’Europa. Dal manifesto di Ventotene al Trattato di Lisbona e alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo di Ubaldo Villani-Lubelli
106 master tweet dai grandi pensatori sulla cultura, l’esistenza, la politica, il pensiero e la società... debitamente commentati di Francisco Barros
Amori gratta e vinci di Eliselle
106 tweet da Nelson Mandela. Sulla libertà, l’uguaglianza, la leadership... liberamente rielaborati a cura di goWare <e-book> team
106 tweet da Steve Jobs sulla visione, il metodo, l’ambizione ... Liberamente rielaborati di goWare <e-book> team
I 10 brani da ascoltare almeno una volta nella vita di Jacopo Caneva
Meglio un uovo oggi... I proverbi della Toscana a cura di goWare <e-book> team
W l’Italia - le Costituzioni italiane di goWare <e-book> team
Mezzogiorno di fuoco. Duello all’ultimo spot di Oscar Bartoli