Indice
DEDICA COPYRIGHT RINGRAZIAMENTI INTRODUZIONE CAPITOLO 1 LA VIA FRANCIGENA E LE FONTI 1.1 DATI PER RICOSTRUIRE IL PERCORSO 1.2 RICOGNIZIONI SUL TERRENO 1.3 ANALISI CARTOGRAFICHE 1.4 ATTESTAZIONI TOPONOMASTICHE 1.5 TELERILEVAMENTO 1.6 TESTIMONIANZE ARCHEOLOGICHE 1.7 FONTI LETTERARIE E ITINERARIE 1.8 ATTESTAZIONI PITTORICHE-ARTISTICHE: AFFRESCHI, DIPINTI E ILLUSTRAZIONI CAPITOLO 2 LA VIA FRANCIGENA E LO SPECIFICO TRATTO DI PERCORSO ANALIZZATO 2.1 RICOSTRUZIONE DEL PERCORSO CAPITOLO 3 CONFRONTO FRA LA VARIANTE ANTE PER SAN GIMIGNANO E QUELLA ANTE PER POGGIBONSI
3.1 INQUADRAMENTO DELLA PROBLEMATICA E DESCRIZIONE DI POGGIBONSI CON RELATIVO PERCORSO 3.2 IPOTESI A CONFRONTO CAPITOLO 4 RICOSTRUZIONE PAESAGGISTICA 4.1 PROCESSI STORICI CHE HANNO INVESTITO LE CAMPAGNE CON CONSEGUENTE MODIFICAZIONE DEL PAESAGGIO 4.2 PAESAGGIO STORICO E SUA RICOSTRUZIONE 4.3 BOSCO 4.4 PALUDE 4.5 TERRENO COLTIVATO (GENERALE) 4.5.1 VITE 4.5.2 CEREALI 4.5.3 OLIVO 4.6 CONFRONTO FRA LA SITUAZIONE ATTUALE E CATASTO ‘800 4.7 CONFRONTO FRA CATASTO ‘800 E BASSO MEDIOEVO CAPITOLO 5 PARTE TECNICA 5.1 NOTE SULLA DIGITALIZZAZIONE 5.2 PROBLEMI RIGUARDANTI LA DIGITALIZZAZIONE – CRITICITA’ 5.3 PROBLEMA PER IL AGGIO TRA ARCGIS E SKETCHUP 8 5.4 COSTRUZIONE TRIDIMENSIONALE 5.5 USO IN SIMBIOSI DI SKETCHUP 8, GOOGLE EARTH ED ARCGIS: ESEMPI E PROSPETTIVE
BIBLIOGRAFIA TAVOLE FINALI ESPLICATIVE DEL LAVORO DI DIGITALIZZAZIONE / RICOSTRUZIONE IMMAGINI DELL'ATTUALE PERCORSO DELLA ANTICA VIA FRANCIGENA TRA MONTERIGGIONI E SAN GIMIGNANO AUTORE
Ad Anna Maria Peli e Giorgio Massi
TITOLO:
Paesaggio Virtuale. La Via Francigena tra Monteriggioni e San Gimignano.
AUTORE:
Leonardo Massi - email:
[email protected]
ISBN: 9788891162427
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RINGRAZIAMENTI
Questo scritto è la riproposizione della mia tesi svolta per una seconda laurea conseguita all’interno del corso di laurea in “Studi geografici ed antropologici” nel 2011. Ovviamente la parte tecnica è sempre soggetta ad ulteriori aggiornamenti ma il grosso del lavoro poggia su una solida intelaiatura di ricerca storica finalizzata alla ricostruzione del paesaggio.
Non posso non iniziare altrimenti che con dei ringraziamenti. Un approccio multi disciplinare all’argomento mi ha portato a chiedere consiglio a molte persone provenienti da differenti ambiti accademici: dallo storico prof. Salvestrini all’architetto P. Pazzaglia, dall’ing. M. Palombo al tecnico S. Magi, dal dott. M. Michelacci alla prof. M. Azzari, e, per ultimo ma non l’ultimo, a Pc Pfui Pfnet (quest’ultimo contattato in internet e mai conosciuto personalmente, è stato una fonte di puntuali informazioni tecniche e di disponibilità). Inoltre vorrei esprimere la mia gratitudine ai prof. Desideri e Nocentini per avermi dato un brillante esempio di ricerca accademica durante corsi universitari relativi alla mia prima laurea magistrale ed al dottorato di ricerca. Un grazie particolare a Georgiana Gherghina, Veronica Massi, sca Massi ed Andrea Tanci per l’immancabile appoggio. A tutti loro, a parziale contropartita dell’aiuto prestatomi, voglio esprimere la mia gratitudine. Ad ogni modo, ogni possibile errore presente in questo scritto è esclusivamente imputabile al sottoscritto.
INTRODUZIONE
Parliamo di una via e del suo paesaggio, un connubio che in certe epoche è impossibile da scindere. Ci si immergerà qua in una di queste epoche. Siamo nel Medioevo tra le colline Toscane comprese tra due dei borghi più belli che fatica umana abbia mai eretto. E con non meno fatica è stato eretto il loro paesaggio circostante. La via è la Francigena, la strada maestra che collegava tutta l’Europa cristiana d’occidente a Roma. La ricostruiremo e la assaporeremo in ogni suo più piccolo elemento. Ben sapendo però che ogni ricostruzione storica parte da uno specifico momento presente.
Nell’ambito della storia umana, solo raramente si può intendere per “via” quel ben delimitato e uniforme spazio che si srotola come un filo di gomitolo di lana da un punto ad un altro di uno spazio antropizzato, là dove si incanala un flusso umano che si muove in una relativamente ordinata maniera. In Europa e nelle zone dell’attuale Maghreb sotto la potenza dell’impero Romano queste “vie” diventavano “strade”[1]. Lo stupore dell’ Adriano di Yourcenar di fronte alle strade che l’impero andava donando al mondo non doveva essere maggiore dello stupore di ingegneri, schiavi e condannati, che con le loro stesse mani le realizzavano. Lo stupore di un Gallo, di un Sarmata, di un barbaro germanico o di un Bretone, uomini che vivevano immersi nella natura dei loro luoghi, non doveva essere minore al cospetto di strade ed acquedotti che portavano uomini ed acqua dove erano richiesti, senza il permesso degli dei. Solo così forse si spiega come mai l’impero Romano sopravvisse per altri duecento anni dopo i Severi basandosi quasi esclusivamente sul timore reverenziale che le sue opere suscitavano. La particolarità dell’impero Romano non è minore della particolarità della strada. Oggi le vie sono identificabili con le strade, ma prima e dopo l’Impero romano, le vie erano degli spazzi che solo saltuariamente si prestavano all’uso umano.
Facciamo un esempio pertinente all’oggetto dello studio qua proposto e riguardante la dissimulazione della via all’interno di un territorio. Nella
primavera del 1575, inoccasione del giubileo, la confraternita fiorentina della ss. Trinità iniziò il suo viaggio verso Roma. Da Firenze arrivarono a Castellina in Chianti e da qua i nostri pellegrini ebbero la necessità di essere accompagnati da una guida per raggiungere Siena e quindi ricongiungersi alla via maestra per Roma, ovvero l’antica via Francigena. Guida che tra l’altro non fu nemmeno a buon mercato considerando i 20 soldi che costò[2]. Il lavoro che qua noi presentiamo è una ricostruzione di uno specifico tratto della via Francigena, tratto immediatamente precedente a quello dove i nostri pellegrini post-tridentini si immisero nel loro pellegrinaggio per Roma. Se questo tratto risulta essere immediatamente contiguo nello spazio a quello sopra menzionato, è anche, all’opposto, da collocare ben più lontano nel tempo. I nostri pellegrini affrontarono il viaggio verso la fine del XVI sec., noi ci proponiamo di indagarlo nel pieno del basso Medioevo, all’ incirca tre secoli indietro. Ciò nonostante il fatto presentato in apertura ci fa comprendere quali fossero all’epoca le caratteristiche delle strade, anche delle più transitate come quelle “romee”. “Tranne poche eccezioni, non si distinguevano particolarmente dalla viabilità secondaria, né per le dimensioni né per la qualità del percorso stradale.” (Stopani)[3] E si consideri non solo che la nostra ricostruzione avviene per un periodo del basso Medioevo e quindi presumibilmente meno soggetto a manutenzione e meno dotato di infrastrutture e mezzi rispetto al 1575, ma anche e soprattutto l’enfasi posta dalle istituzioni ecclesiastiche sul giubileo del 1575, il primo dopo la controriforma. Enfasi che investiva tutte le altre istituzioni politico-laiche dei vari territori su cui si muoveva il flusso umano del pellegrinaggio, chiamate a vegliare e a sovrintendere negli ambiti di viabilità loro competenti.
È bene quindi fin da subito puntualizzare una questione che ritornerà spesso lungo questo percorso di ricostruzione. La felice espressione ormai di uso comune che riferendosi ai percorsi e alle strade del Medioevo, le appella con la denominazione di “percorsi-territori”. Definizione idonea a descrivere “le vie” medioevali consistenti non tanto in vere e proprie vie selciate, a parte rare eccezioni basate per la maggior parte sul riutilizzo delle antiche vie romane, ma piuttosto in ampie fasce di terra dove per “carreggiata”, se così la vogliamo chiamare, è da intendersi l’intero territorio compreso tra due punti focali di aggio, che potevano essere centri abitati, ponti, sorgenti, valichi. La strada è un’ampia fascia di territorio che attraversa alcune strozzature, alcuni “colli di bottiglia”. Non si tratta di quel tipo di strada che come si diceva all’inizio si
srotola come un filo di lana all’interno di un territorio, è il territorio stesso che funge da vera e propria strada. Territorio che come vedremo ha in questi ambiti tutto il diritto di potersi fregiare del titolo di “paesaggio” (vedere in proposito il sotto-capitolo 4.2). L’unità tra strada e paesaggio è quindi in questo caso un’unità tangibile, effettiva.
Qua noi ci proponiamo la ricostruzione del tratto della via Francigena compreso tra San Gimignano e la zona di Monteriggioni. Diciamo la zona di Monteriggioni in quanto Monteriggioni stessa compare piuttosto tardi nel panorama del contado senese e della “vita” della via Francigena: nel 1213. Ma sia per la funzione che da lì in poi andrà svolgendo, fino alla fine del periodo medioevale, sia per il suo inconfondibile profilo che caratterizza ormai l’intera zona ad esso circostante, non possiamo non inglobare Monteriggioni nella nostra ricostruzione. Ricostruzione d’altronde finalizzata ad una resa 3D del panorama storico del tratto della via Francigena ante per quei luoghi, panorama in cui la bellezza di Monteriggioni non poteva essere ignorata. Anzi, proprio per questo, se da un lato la ricostruzione storica e la ricostruzione puntuale frutto di ricerche di archivio elaborate tramite il software Arcgis, investe tutto il tracciato tra San Gimignano e Monteriggioni, dall’altro lato la ricostruzione propriamente 3D coinvolge solo ed esclusivamente Monteriggioni e la zona limitrofa.
Nella zona subito a nord di Siena, la via Francigena si dirama in numerose varianti alternative tra loro. La scelta di ricostruire il tratto tra San Gimignano e Monteriggioni, anzichè tratti opzionali ad esso, è motivata da diversi fattori. La descrizione più antica del percorso di via Francigena ante per la val d’Elsa, ed in questi ambiti di ricostruzione territoriale “più antica” fa rima con “più suggestiva”, è quella data dall’arcivescovo di Canterbury Sigeric al suo ritorno dal pellegrinaggio romano (990-994)[4]. Attestazione che colloca tale percorso proprio nella variante collinare di San Gimignano. È da dire che si tratta di un percorso relativamente più facile da individuare rispetto alla via ante per Poggibonsi che ne è la principale antagonista, o almeno cosi viene considerata. Entreremo nello specifico di tale “rivalità” più oltre. Vanno però qua anticipati alcuni motivi che ci hanno indirizzato verso la “via-territorio” ante per San Gimignano rispetto al “percorso-territorio” rivale ante per Poggibonsi. Il primo nonostante le congenite difficoltà è assai più lineare e di più facile
ricostruzione rispetto al secondo. Quest’ultimo è soggetto ad una situazione idrogeologica più complessa, le sue zone di fondovalle erano infatti sempre a rischio inondazione a causa del “bizzoso” fiume Staggia, il quale andandosi a srotolare in zone allora di fitte boscaglie mutava assai spesso il proprio percorso. Questa confusa situazione idrogeologica dello Staggia rende del tutto aleatoria una ricostruzione su basi vettoriali del percorso. Certo che di pari o alle difficoltà naturali influivano anche le instabili condizioni politiche della zona, maggiormente soggetta all’espansionismo fiorentino in ambiti che fino ad allora si trovavano in orbita senese.
Inoltre, motivo meno scientifico ma decisamente non meno importante per la salvaguardia della vita di coppia di due ragazzi, è che il tracciato collinare per San Gimignano si presta assai meglio rispetto a quello per Poggibonsi, a più piacevoli eggiate di perlustrazione. Questo nonostante la bellezza della cittadina di Staggia. Il secondo attualmente è infatti all’atto pratico un percorso che per la maggior parte si sovrappone all’attuale strada statale Cassia. Motivo non secondario visto e considerato che sono stato accompagnato dall’allora mia ragazza in tali eggiate di perlustrazione proprio durante il suo periodo di ferie. Io dovevo fare un rilevamento sul territorio, lei era in ferie. Ed ecco il compromesso. Te vieni da me in Italia (lei lavorava in Qatar) ed io faccio il rilevamento di un territorio così bello che varrà le ferie di una persona che per lavoro gira il mondo, di professione fa la capo-cabina/hostess, e che quindi di posti belli e vari ne vede in continuazione. In verità quindi si è approdati alla ricostruzione 3D del percorso-territorio di Monteriggioni, ma si era partiti da un sano compromesso tipico della vita di coppia. La via Francigena ante per le colline di San Gimignano si vende di gran lunga meglio della più prosaica, ma non meno funzionale, strada statale! È questo d’altronde un motivo di cui ne è stato ben consapevole lo stesso ministero dei beni culturali e l’associazione del pellegrino da esso finanziata, che nel tracciare il percorso della via Francigena per l’ “Itinerario della Regione Toscana” ha scelto di far are il suddetto percorso proprio per San Gimignano (non senza motivo elevata dall’UNESCO a patrimonio dell’umanità) piuttosto che per Poggibonsi. Ci tengo a sottolineare un qualcosa che sembra scisso dalla scientificità del testo e della ricostruzione tridimensionale, almeno stando alla concezione popolare di “scientifico”. Ricordo con piacere ogni capitolo, ogni sottocapitolo e paragrafo di questo studio[5]. Composti o nei momenti di buco del mio lavoro di allora (tutor all’Università) o nelle sale di attesa dei consolati romeni o delle prefetture
italiane per ottenere la documentazione atta a sposarmi; svolti nelle sale di attesa degli aeroporti e delle stazioni dei treni dove sostavo per raggiungere o per ripartire dalla mia ragazza. Così come i dieci giorni ati a Monteriggioni da dove partivo per le mie perlustrazioni sul territorio o per le mie ricerche all’archivio di Siena. Vi erano due protagonisti: Georgiana Gherghina e Monteriggioni. Ogni attimo che la mente umana ricordi è incentrato in uno spazio, gli spazi di Monteriggioni sono tra i più belli della mia memoria. Il camminare tra quelle colline, l’andare ed il ritornare per poi ripartire. Non avevo nessun “santuario” da vedere eppure mi sono incamminato come un pellegrino. Non avevo una divinità al mio fianco, ma avevo una persona che potevo odorare, che potevo sentire, che potevo toccare. I viaggi più belli che abbia fatto, li ho fatti da solo. Tutti tranne uno, e oggi riguardo sempre con immenso piacere a Monteriggioni.
Ma non trattandosi questo studio di un’opera atta a far concorrenza ai suggerimenti ed alle imprese di Casanova, sarà bene rifocalizzare l’attenzione sulla nostra ricostruzione tridimensionale, che può essere letta come una guideline per una qualsiasi altra analisi territoriale, sia tecnica che speculativa. Questo scritto può essere letto a seconda delle intenzioni del lettore. È un testo che si plasma sul lettore e sulle sue esigenze. È creta nelle vostre mani. È una guida per coloro che vogliono ripercorrere a piedi ed immergersi completamente nel percorso-territorio qua ricostruito. È una accurata ricostruzione storica, che investe il paesaggio, l’economia, la società, gli uomini. È un manuale, più che altro una guide-line, per chiunque voglia ricostruire un territorio specifico a cui è particolarmente legato per motivi personali attraverso software gratuiti facilmente reperibili in internet. Si parlerà quindi anche di software e di tecniche di ricostruzioni tridimensionali. Ma un’avvertenza. Tali ricostruzioni 3D si basano ovviamente su software il cui aggiornamento è continuo, ma è continua anche la necessità di un approccio che non sia puramente tecnico ma multidisciplinare così come qua si proporrà. Solo così si potrà accedere all’uso dello strumento di ricostruzione tridimensionale più potente che attualmente si conosca: la fantasia. È uno studio di evasione, una descrizione quasi pittorica di un mondo scomparso che si incamminava per una via tra boschi cedui e campi di grano, tra chiese e castelli, tra uomini.
Lo studio può essere letto anche senza seguire l’ordine dei capitoli qua proposto, ma semplicemente consultando e prendendo a modello e spunto i capitoli che interessano a secondo della contingenza. Di sicuro comunque il capitolo che funge da spina dorsale di tutta la ricostruzione qua proposta è il capitolo 4 con i suoi sotto capitoli. Si tratta di uno studio che a partire dalla descrizione delle terre tra Monteriggioni e San Gimignano funge da “modello”-esempio per studi su altri ameni spazi. Nel pianeta terra ci sono più posti belli che momenti a disposizione per poterli guardare. La Toscana e l’Umbria non abbassano di certo la media mondiale. Il senese non abbassa di certo la media Tosco-Umbra.
Come vedremo per la ricostruzione dell’ambientazione Medioevale su cui tale percorso-territorio si sviluppava, ci si è avvalsi di più fonti. Dagli affreschi collocati in edifici laici o religiosi, a rappresentazioni pittografiche su i cartacei; da fonti letterarie come i resoconti di viaggio impregnati di religiosità, a documentazioni prettamente fiscali come la raccolta delle decime; da indagini archeologiche a quelle più prettamente storiografiche, ecc. ecc. È chiaro che la discrezionalità del ricercatore è piuttosto alta in questi tipi di indagine, ma questo avviene per le ricostruzioni tridimensionali al pari di quelle prettamente “letterarie” finora comunemente accettate e condotte. Certo queste ricostruzioni 3D sono più facilmente criticabili in quanto pongono davanti allo “spettatore” (allo stato attuale della tecnologia non si può essere più di questo) una immagine che per forza di cose deve essere chiara ed univoca. Uno studio che si presta a speculazioni e rileva gli andamenti e le modificazioni territoriali-spaziali al solo livello di elencazioni dati e di rilevazioni delle varie possibilità alternative che si presentano innanzi al ricercatore, nonostante dica la stessa cosa della nostra ricostruzione 3D, ha però il gran vantaggio di presentare le varie possibilità a fronte di una ricostruzione interattiva condensata in una serie di immagini su cui si è dovuto scegliere (soppesando i pro e i contro) una possibilità tra le tante. È evidente che le prime forme di indagine sono meno criticabili. In questo studio l’indagine speculativa-storica funge solo da premessa atta a prendere una decisione operativa. Se infatti attraverso l’indagine storica-speculativa rileviamo che in una determinata zona ci sarebbero potute essere certe tipologie di colture, poi all’atto della ricostruzione il ricercatore deve procedere ad una scelta. Olivi, vitigni o coltivazione promiscua? Bosco o pascolo? È qua che il rischio si condensa, ma il rischio vale la candela. In genere la critica, a patto che lo studio sia fatto bene e nella maniera più accurata possibile, è proporzionale alla grandezza del rischio che il ricercatore intende assumersi. A noi il rischio piace.
Attraverso il catasto Leopoldino si risale in maniera puntuale al paesaggio del primo ‘800, dopo di che la “puntualità” dei dati cala in maniera inversamente proporzionale al crescere della discrezionalità dell’operatore, il quale è chiamato ad assegnare valori (texture) ai vari “campi-particelle” precedentemente digitalizzate.
Una volta individuato e ricostruito il percorso attraverso le fonti storiche, mi sono avvalso di software GIS, soprattutto della suite di programmi della ESRI, Arcgis, ma si potrebbero utilizzare anche altri software GIS completamente gratuiti come Quantum Gis, non solo per la digitalizzazione ma anche al fine di individuare sul terreno il “percorso-territorio” più plausibile. Successivamente ho poi utilizzato alcuni applicativi di Google, Google Earth e Sketchup (utilizzata nella sua versione free-ware, tipologia di licenza che non dispiace mai), al fine di estrudere gli edifici incontrati e di rendere nel miglior modo possibile la ricostruzione tridimensionale del paesaggio. Le questioni tecniche saranno affrontate in apposito capitolo, con le problematiche, le soluzioni e gli “escamotages” più utili.
Come si avrà modo di dire in seguito, il percorso ricostruito attraversa un territorio nel quale le profonde radici cultuali si sono come sedimentate nel territorio stesso. Le numerose necropoli incastonate tra boschi e campi di grano, fanno da sfondo ad una via Francigena che sebbene fosse nata per motivi politici-laici si è poi affermata nel corso del Medioevo grazie alla sua funzione di via atta al pellegrinaggio. Per un contemporaneo, questo senso di religiosità è rilevabile ed inestricabilmente collegato alle colline di quel percorso-territorio che si sono andate ricostruendo in corso d’opera. Si tratta di una caratterizzante sensazione che non poteva essere tralasciata e non sottolineata. Il grano dei campi si mescola con il grano dell’ostia, i vigneti con il rito di bere il vino durante la funzione religiosa, gli uliveti con l’unzione sacra e con il ramoscello di ulivo che tanto valore simbolico ha nel rito cristiano. Si rileva una relazione, una corrispondenza amorosa-religiosa così specifica tra territorio e religione cristiana, che sembra quasi contrastare con quella sensazione di armonica “ariosità” che si innalza da quelle terre di collina e che sembra essere frutto di nessuna contingenza storica. Solo la profondità diacronica di quei territori, solo la lunga relazione tra uomo e “territorio”, può dare una qualche motivazione a
queste sensazioni. Un senso religioso che a prescindere dallo specifico rito e dalla specifica religione, si emana attraverso luoghi dove la stretta e forte compenetrazione tra rito e paesaggio, tra necropoli, colline e chiese, riempie i polmoni del ante. E lo sta dicendo un laico ateo. È quel tranquillo alito religioso, questa specie di nebbia invisibile ma tangibile, che si è cercato di trasportare nella resa tridimensionale di questo spazio. D’altronde, che lo si voglia o meno, come si diceva in apertura di sipario, ogni ricostruzione storica parte ed approda nel presente. Rilevarlo non ha una funzione programmatica, ma solo un atto di onestà intellettuale.
Lo studio è stato particolarmente gradevole, come le colline di San Gimignano, ma a differenze di quelle stesse colline è anche meno tangibile e concreto. Ha lasciato infatti ampi spazi alla discrezionalità di chi ha preso in esame dati che mal si associano alla fotografia di uno specifico momento del percorso. I dati collezionati coprono alcuni secoli, la nostra ricostruzione concretizzatasi in un’immagine tridimensionale del percorso ricopre “teoricamente” uno specifico attimo di una definita giornata.
Si è cercato di convogliare/dirigere la nostra fantasia, non solo imprescindibile in questo genere di ricostruzioni ma anche di primaria importanza e valida soccorritrice delle carenze delle fonti considerate, attraverso dati di varia natura, che come vedremo ci hanno portato ad attribuire dei valori di texture alle varie particelle su cui si è digitalizzato il territorio esaminato. Ciò nella più razionale possibile maniera.
Lo studio è un barlume indicativo di come dovrebbe essere stato il percorso intrapreso da un pellegrino del basso Medioevo, ma pur sempre un barlume plausibile.
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[1] Nel Vicino Oriente sottomesso all’Impero romano già si aveva una maggiore familiarità con le strade, soprattutto per merito dei Persiani.
[2] Cfr. R. Stopani, 1999, Il ruolo delle confraternite nel giubileo del 1575, Le Lettere, Firenze, p. 39
[3] Cfr. R. Stopani, Ibid.
[4] In verità probabilmente nell’ Itinerarium Sancti Willibaldi (723-726) ci si riferiva allo stesso tracciato quando si afferma che il Santo arrivò a Roma ando per “Lucam, Tuscie urbem”. Ma il riferimento è troppo generico per essere inattaccabile. Cfr. T. Tobler (a cura di), Itinera et descriptiones Terrae Sanctae Itinera Latina bellis sacris anteriora, I, Genevae 1877, pp.286-287. Per il riferimento invece all’arcivescovo di Canterbury: cfr. W. Stubbs, Rerum Britannicarum Medii Aevii Scriptores; vol.63, cap. VII, pag. 391-399.
[5] Questo studio è nato come tesi di laurea. Si trattava di una seconda laurea in “Sistemi Informativi Territoriali”, ed è venuta dopo un Dottorato di Ricerca ed una precedente laurea in “Ittitologia”. Forse per questo che in esso è forte la componente di ricerca storica.
CAPITOLO 1 LA VIA FRANCIGENA E LE FONTI
1.1 DATI PER RICOSTRUIRE IL PERCORSO
Ricostruire storicamente un percorso-territorio significa basarsi sugli indizi che il ato ha tramandato. A volte gli indizi si celano tra le dimenticanze degli uomini, a volte sugli indizi lasciati consapevolmente dagli uomini, a volte su quelli inconsapevoli, a volte sulle modalità che la natura attua nel riprendersi ciò che era suo, a volte si hanno indizi diretti, a volte indiretti. A volte ci si sbaglia. Per cercare di seguire una linea coerente e scientifica nell’approccio a tale ricostruzione forse è bene proporre nella maniera più analitica possibile gli ambiti da cui derivare informazioni in merito, con relativi riferimenti alla nostra contingente ricerca.
L’elenco delle fonti è sempre la parte più noiosa di uno studio, ma è anche la parte più utile. L’esistenza di una via può essere testimoniata da fonti letterarie, itinerarie, giuridiche, epigrafiche, artistiche, archeologiche, toponomastiche, evidenze cartografiche, notizie archivistiche, anomalie riconosciute nelle fotografie aeree o visualizzate sul terreno.
1.2 RICOGNIZIONI SUL TERRENO
“Una ricerca topografica finalizzata alla ricostruzione di un territorio antico ed in particolare all’individuazione di un tracciato di comunicazione stradale non può prescindere da una conoscenza diretta dei luoghi.” (Basso)[1]
E noi l’abbiamo fatta. Si è proceduto a farci noi stessi pellegrini e a percorrere il tracciato a piedi sia per avere una presa diretta con lo spazio della ricerca, sia per calarsi nelle problematicità del territorio. La perlustrazione “fisica” del territorio è base preliminare alla individuazione e ricostruzione sul campo di un percorso viario. Essa pone il ricercatore nelle condizioni di dover risalire alle tracce che auspicalmente conducono ad una quanto più esatta possibile ricostruzione del tracciato stesso.
L’individuazione sul campo di un tracciato viario si scontra con notevoli difficoltà, prima fra tutte sono le mutazioni avvenute nella morfologia di un territorio. È fondamentale ricostruire la morfologia di una regione antica per poter parlare in maniera propria di viabilità. La morfologia infatti vincola fortemente le scelte insediative e con esse anche i percorsi dei collegamenti viari. Inoltre ancora oggi per il tracciato di una strada, e quindi a maggior ragione ieri, si devono scegliere direttrici preferenziali determinate dai peculiari aspetti orografici, idrografici, litologici e pedologici di un territorio. Molti tratti del percorso da noi preso in considerazione attraversano zone paludose, chiaramente si tratta principalmente di zone di fondovalle. La stessa Badia a Isola, una delle tappe principali nel percorso da noi analizzato, trae il suo nome proprio dal fatto di ergersi come un’isola su un mare paludoso. Specialmente in queste zone dove la presenza della palude è una caratteristica e non un’eccezione, si possono verificare importanti cambiamenti nel paesaggio con conseguente modifica del percorso viario. In queste zone ricche di acqua e solcate da fiumi, molto spesso le ricorrenti esondazioni fluviali producono un nuovo assestamento del letto fluviale. Ciò coinvolge quei tratti distintivi della presenza antropica, in primis la viabilità. Ovviamente. Va inoltre considerato
che le lagune e gli acquitrini possono aver oscillato nella loro estensione sia per fenomeni naturali che per interventi antropici correlati alle bonifiche. “Possono” e nella realtà storica lo hanno fatto.
D’altronde nella ricostruzione di un percorso non selciato va parimenti tenuto in debita considerazione il fatto che all’epoca in pianura si cercava di evitare, per quanto possibile, proprio le zone umide ed instabili. E la loro ingombrante presenza non era di certo vista come il segno del favore di Dio. Per questo le fasce pedemontane diventarono la norma del tracciato della via Francigena nella zona tra San Gimignano e Monteriggioni. Si tratta infatti di un ambiente collinare che veniva attraversato (con il massimo grado di probabilità) prediligendo, là dove possibile, le vallate libere da paludi, i crinali spartiacque, i valichi più facili e, in presenza di corsi d’acqua, nel caso specifico l’Elsa e i suoi numerosi piccoli affluenti, i guadi più sicuri o comunque le strozzature fluviali più abbordabili.
A livello generale si può dire che nelle scelte del tracciato da percorrere influivano le condizioni climatiche di un territorio: l’esposizione al sole e la protezione dai venti in primis. Non veniva di certo trascurato poi né le caratteristiche vegetazionali né quelle faunistiche delle zone da attraversare. Inoltre non era disdegnato, anzi anche in epoca romana era privilegiato, il rapporto con la viabilità d’acqua e quindi la vicinanza a fiumi navigabili. Ma questo non è il caso della zona da noi qua considerata.
La medesima presenza umana, motivo di vita per i tracciati di percorrenza da noi indagati, risulta necessariamente dannosa alle antiche vie di comunicazione. Ciò per le varie attività antropiche: urbanizzazione, attività agricole, canalizzazioni ecc. La lunga continuità di uso di alcuni tratti di percorso, se da un lato ne ha assicurato la sopravvivenza, dall’altro ha richiesto molteplici interventi di restauro e manutenzione che ne hanno alterato la struttura e la fisionomia originaria. È vero che quest’ultima criticità è maggiormente pertinente alle vie romane, e che nel Medioevo i tracciati in laterizio sono relativamente rari, ma non va dimenticato né la loro presenza, per quanto minima in periodo pre-
comunale, né soprattutto che parte delle vie medioevali si installarono su quelle romane. Non ultima la stessa via Francigena, infatti, coincideva in alcuni tratti con l’antica via Cassia.
Comunque tutto sommato la zona compresa tra Monteriggioni e San Gimignano non è una zona dove l’urbanizzazione abbia avuto un impatto così marcatamente invasivo da nascondere e cancellare la “naturale” componente vegetativa e la morfologia della zona. La morfologia della zona è rimasta grossomodo la stessa con il trascorrere dei secoli, e l’impronta antropica si nota paradossalmente nell’elemento naturale. La zona collinare di San Gimignano è famosa in tutto il mondo per le sue dolci colline, per i suoi campi vitati e olivati ben curati, per l’ordine che emana la campagna. Tutte cose prodotte dall’uomo e “genuinamente” artificiali. La morfologia della zona non ha avuto grosse trasformazioni nel corso dei secoli, si è umanizzato sempre più il territorio ma la conformazione fisica è grosso modo rimasta la stessa. I tempi geologici sono diversi dai tempi umani. Come si diceva, il grosso cambiamento si è avuto in quelle zone vallive dove la fatica quotidiana di contadini ed ingegneri ha proceduto a rendere più adatte all’uomo zone prima ostili.
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[1] Cfr. P. Basso, 2007, Strade romane: storia e archeologia, Carocci Editore, Roma, p.80.
1.3 ANALISI CARTOGRAFICHE
“Talora l’analisi della cartografia può mostrare tracce e indizi di strade che il sopralluogo sul terreno non enfatizza con altrettanta immediatezza” (Basso)[1].
Iniziamo a parlarne rilevando ciò che è ovvio ma che è bene non lasciare sottinteso, ovvero che l’analisi della cartografia attuale ci permette di conoscere complessivamente l’aspetto fisico di un determinato comprensorio territoriale e di rilevare, ad esempio, eventuali punti obbligatori di aggio (quali valichi e vallate) rimasti invariati nel tempo, per lo meno nei tempi “umani”. Va da sé che il confronto tra cartografia moderna e antica, là dove è possibile, offre spunti di ulteriore analisi offrendoci infatti indizi e tracce di antica viabilità, che possono essere scomparse nel paesaggio odierno a causa degli interventi naturali e antropici, come quelli a cui accennavamo nel precedente paragrafo. Indizi che infatti potrebbero persistere ancora nei rilievi prodotti anteriormente a tali trasformazioni.
“La lettura storico-strutturale degli abitati, con l’individuazione dei nuclei medievali, la distribuzione spaziale degli insediamenti più antichi e la loro tipologia (villaggi, castelli, chiese plebane, monasteri) ha permesso di ricostruire certe direttrici stradali e di proporre alternative ai percorsi principali.” (Stopani) [2]
Va da sé anche l’importanza delle carte archeologiche, anche se non utilizzate in questo lavoro.
All’opposto la cartografia antica è stata da noi qua utilizzata non solo in sede di ricostruzione del percorso, ma anche e soprattutto in sede di ricostruzione visiva del tracciato. La cartografia antica è infatti assai utile per le sue stesse modalità
di composizione. Sono carte molto figurative che rendono anche visivamente le zone attraversate, e ciò per un uso più funzionale dei possibili analfabeti che ne avrebbero potuto far uso. Nello specifico le carte a noi molto utili sono state le seguenti: le cinquecentesche “mappe di popoli e strade” dei Capitani di Parte Guelfa, le mappe dei quattro conservatori (Siena) della fine del ‘700[3], le mappe dell’ospedale di santa Maria della Scala (Le Grance), le carte Morozzi (mappe attinenti a Colle val d’Elsa)[4], il registro patrimonio Resti, piante vicariato stato senese[5]. Esse sono state utilizzate come indicatori privilegiati, approssimativi ma reali, della resa visiva della ricostruzione tridimensionale.
È però doveroso quanto opportuno spendere qua due parole sulle mappe del catasto Leopoldino, per l’importanza fondamentale che rivestono nell’ambito della nostra ricostruzione. Le Tavole Indicative di queste mappe sono state consultate presso l’ Archivio di Stato di Siena, ma le stesse mappe sono consultabili anche in internet attraverso il sito della regione Toscana ca.sto.re[6]. Di fronte alla grande quantità di dati ed alla loro facilità di accesso messeci a disposizione da internet, non si può non amare “la rete”. A volte però sarebbe più necessario che opportuno sviluppare un forte senso critico verso questi dati prima di mettersi seduti di fronte ad un computer come se si fosse davanti ad un oracolo.
I primi impulsi alla promulgazione del catasto leopoldino provengono dalle riforme di Pietro Leopoldo che nelle intenzioni del suo entourage dovevano sfociare in un dettagliato catasto del Granducato. Come tutte le grandi riforme, anche questa aveva l’obiettivo di un riordino del sistema tributario, il quale legava l’entità dell’accertato patrimonio alla possibilità di ricoprire le cariche più prestigiose nella gestione politica e finanziaria delle varie comunità. Chiaro che l’accertamento del patrimonio e delle entrate dei grandi proprietari terrieri faceva, giustamente, anche la felicità delle casse dello Stato. Il catasto vero e proprio però non andò molto al di là delle intenzioni e fu sperimentato solo su alcune comunità del pistoiese e del senese. Il vero e proprio Catasto Geometrico Particellare Toscano fu attuato tra il 1820 ed il 1826 a seguito del decreto granducale di Ferdinando III (1817). E non è un caso che quindi ciò avveniva sotto il Granduca Leopoldo II, che al pari di suo padre Pietro Leopoldo ripose tanto interesse ed impegno nello sviluppo delle campagne Toscane, dove era
simpaticamente meglio conosciuto come “Canapone” (per la capigliatura) o “Broncio” (per il pronunciato labbro inferiore segno di sicura provenienza dalla nobile dinastia degli Asburgo). Epiteti forse ben poco adatti ad un Granduca figlio dell’imperatore d’Austria, ma che rendono bene l’idea di come questo Granduca fosse famigliare, e quindi spesso presente, alle popolazioni rurali Toscane. Ad ogni modo la terminazione del catasto va collocata nel 1834, anno in cui si completò la compilazione delle Tavole Indicative, utili ai nostri propositi di ricostruzione tridimensionali non meno che al fisco lorenense.
Non vanno sottovalutate, ma d’altronde come lo si potrebbe, le operazioni catastali volute da Napoleone, le quali iniziate nel 1808 si protrassero fino alla caduta dell’impero. Esse furono valide antecedenti per le riforme catastali non solo del Granducato ma anche degli altri più piccoli stati Toscani. Infatti nel ducato di Massa e Carrara si procedette ad avviare le operazioni catastali nel 1820, mentre nel ducato di Lucca, Carlo Lodovico di Borbone le emanò nel 1829. Certo però che tali rilevamenti catastali non furono affatto delle priorità in quei Ducati, a Lucca per esempio furono terminati solo dopo l’unità di Italia ovvero nel 1869. E di certo ciò non avvenne perché gli addetti ai lavori erano impegnati giorno e notte nelle guerre di indipendenza.
Il prodotto di queste accurate rilevazioni catastali sono una serie di mappe dettagliate (in scala da 1:2500 a 1:5000) che coprono tutti i territori delle varie comunità del Granducato. Dal numero particellare che caratterizza le singole entità di queste mappe si può risalire attraverso le Tavole Indicative al proprietario della particella, all’uso che se ne faceva e alla sua estensione espressa in braccia quadre (equivalente grosso modo a 0,34 metri quadri). Per ognuna di queste comunità si hanno anche mappe dette Quadro d’Unione in scale che vanno dall’ 1:20000 all’ 1:40000, esse ripropongono l’intero territorio comunale. Per tutto questo, il mio sentito grazie agli ormai morti e sepolti funzionari addetti.
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[1] P. Basso, 2007, Strade romane: storia e archeologia, Carocci Editore, Roma, p.73.
[2] R. Stopani, 1985, “Gli itinerari della via Francigena nel senese: fonti scritte e testimonianze storico-territoriali”, in: R. Stopani (a cura di), 1985, La via Francigena nel senese. Storia e territorio, Salimbeni Editore, Siena.
[3] Questa è stata la categoria a noi più utile, e tra esse quelle più indicative sono state: 3053 N.210°, 1758 N.106, 1996 inserto A, 1998 inserto 62, 2004, inserto 03, 2010 inserto83 N.06.
[4] Indicativa soprattutto la N.78 (07).
[5] Tra esse: Casole N.2 (3), Radicofani N.10 (3).
[6] http://web.rete.toscana.it/castoreapp/ Se ne riparlerà in nota introduttiva del cap. 5.
1.4 ATTESTAZIONI TOPONOMASTICHE
L’analisi cartografica può inoltre evidenziare indizi toponomastici di grande importanza per l’individuazione del percorso di una strada antica (Pellegrini 1990; Uggeri 1991; Basso 2007)[1]. La storicizzazione dei nomi dei luoghi, lo studio della loro genesi ed esegesi, nonché l’analisi delle mutazioni fonetiche occorse nel corso del tempo, sono miniere di informazioni utili non solo per le attestazioni di un determinato aggio viario ma anche per la comprensione della via stessa. Lo stesso nome che la via assume è segno di estrema importanza sulla sua funzione e creazione. D’altronde la stessa denominazione di via Francigena ci attesta non solo da dove arriva, ma anche da dove proviene il maggior flusso di pellegrini, e con esso ci attesta quindi dove vi era la maggior prosperità economica. A conferma di ciò si vedano anche le costruzioni religiose che si incontrano lungo questa via e che subiscono una forte influenza d’oltre alpe. Come vedremo il nome di via Francigena non nasce con la via stessa ma si va affermando sulla strada denominata precedentemente del “bordone”, e che non aveva inizialmente né una connotazione così spiccatamente “se”, né tanto meno un legame così privilegiato con il pellegrinaggio. Si tenga anche in debita considerazione l’annotazione di Stopani (1985) sull’uso nelle fonti medioevali, e direi anche e soprattutto di età moderna, della denominazione di via/strata-romera/romea. Tale denominazione spesso sta ad indicare la rivitalizzazione di tracciati precedenti in funzione di pellegrinaggi diretti a Roma o in terra santa.
Segnali e indicatori della via sono anche l’individuazione di quelle località denominate come Spedaletto, Camminata, Taverna ecc. Grande attenzione va perciò riservata alla toponomastica. Spesso ha rappresentato l’unica traccia superstite che una zona ha conservato del aggio di una via medioevale. Il riferimento alla strada è a volte evidente, come per esempio per i toponimi quali “Camminata”, “Crocetta”, “Voltole”, “Strada” (da “via strata”), “Pulica” (da “via pubblica”); in altri casi invece il richiamo è indiretto, come per i nomi di località che denotano, o più usualmente “denotavano”, l’esistenza di una qualche infrastruttura legata alla via, ad esempio “Spedale”, “Magione” , “Taverna”, “Bettola”, “Baccano”, “Buonriposo”, ecc. Va detto però che questi stessi
indicatori possono risultare fuorvianti. La via Francigena non era la sola via del territorio da noi considerato, e molte altre si incastravano con essa o vi si sovrapponevano per taluni tratti. Gigli ha ben messo in evidenza come certe zone, e specificatamente quelle qua considerate come San Gimignano, fossero pervase da una serie di innumerevoli vie integrantisi vicendevolmente[2]. Quindi un toponimo che alluda ad una via, in prossimità della via Francigena, non necessariamente è indicativo dello svilupparsi di tale via per quel tratto di territorio. L’attenzione in questi casi non è mai troppa.
Sempre nell’ambito della toponomastica si possono qua citare tutta quella serie di dedicazioni delle chiese a temi o a personaggi religiosi legati alle vie di pellegrinaggio. Lo facciamo attraverso le parole di Stopani:
“Non potevano che essere in stretto rapporto con la via chiese dedicate al Santo Sepolcro (come la Badia a Elmi), al Corpo Santo (vedi la chiesa dell’omonima località presso Siena), a Santa Maria in Bellèm (corruzione di Betlemme), a San Jacopo, frequente richiamo a Compostela, l’altra grande meta di pellegrinaggio medioevale” (Stopani)[3].
“Hanno poi rappresentato un indizio di un collegamento con la Francigena anche tutte quelle chiese intitolate a Santi tipici esponenti della Cristianità gallica, come San Quintino, Sant’Ilario, San Remigio, San Marziale, San Nazario, San Genesio(Sanit Denis), nonché i protettori dei viandanti(San Martino) e dei pellegrini (San Pellegrino e San Giuliano)” (Stopani)[4])
La frequenza di queste dedicazioni di chiese degli insediamenti lungo la via Francigena costituisce la migliore testimonianza di come la via abbia costituito un veicolo di scambi culturali (nella fattispecie religiosi) col mondo d’oltralpe. È poi da tenere presente il legame che univa tra loro tutte le vie di pellegrinaggio, e che determinava i continui riferimenti fra l’una e l’altra via proprio attraverso le dedicazioni. I collegamenti tra le vie di pellegrinaggio erano anche reali, per esempio chi percorreva la Francigena come percorso atto a
portarlo in terra santa, sovente considerava la Sede Apostolica come una tappa intermedia. O per citare un altro esempio sempre attinente alla via Francigena, il porto di Luni permetteva di imbarcarsi per la Spagna e di intraprendere così il pellegrinaggio più popolare del Medioevo, ovvero quello per Santiago di Compostela.
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[1] Cfr. P. Basso, 2007, op. cit.; G.B. Pellegrini, 1990, Toponomastica italiana, Hoepli, Milano; G. Uggeri, 1991, Questioni di metodo. La toponomastica nella ricerca topografica; il contributo alla ricostruzione della viabilità.”, in: Journal of Ancient Topography / Rivista di Topografia Antica I, pp.21-36.
[2] Cfr. F.S. Gigli, 1985, “La via Francigena nel territorio di San Gimignano”, in: R. Stopani (a cura di), AA. VV. 1985, pp. 45-50.
[3] Cfr. R. Stopani, 1985, op. cit., p.18.
[4] Cfr. R. Stopani, 1985, ibid.
1.5 TELERILEVAMENTO
Segnaliamo qua anche l’apporto del telerilevamento, di fotografie aeree o da satellite, che in taluni casi sono determinanti per l’individuazione dei tratti viari sepolti o abbandonati. Non ne abbiamo fatto uso in questo studio, ma le citiamo al solo fine di rendere più completo possibile il panorama dei mezzi principali attraverso cui ricostruire le antiche strade, vie e percorsi.
Le immagini aerofotografiche infatti, sotto determinate incidenze di luce, permettono di rilevare le variazioni tonali del terreno (legate a variazioni di permeabilità e/o vegetazione non avvertibili con l’osservazione diretta), le quali possono attestare la presenza di strutture nel sottosuolo.
Il telerilevamento si basa su tecniche di analisi del terreno nate per precisi scopi militari, ma ormai sempre più sistematicamente applicate in campo archeologico; sono però limitate dalle caratteristiche litologiche del terreno (oltre che dalla profondità e consistenza di quanto è sepolto). Ebbi la fortuna di assistere sul campo all’utilizzo di tali tecniche e mezzi, e dei brillanti risultati prodotti, nel sito archeologico di Kuşakli-Sarissa, in Turchia, dove il direttore dello scavo, l’archeologo tedesco Müller Karpe, ci illustrò tali tecniche di telerilevamento (a raggi infrarossi) e la loro applicazione pratica. Siamo in un ambito storico-cronologico ben diverso, un sito ittita databile alla seconda metà del II mill. a.c., ma l’uso di quei applicativi è chiaramente trasportabile anche in altri contesti. Questi applicativi oltre che a guidare “al buio” l’archeologo, risultano anche meno invasivi dei normali saggi di scavo. Basso parla della loro utilità nello “scovare” strade selciate sepolte, lo fa funzionalmente ai suoi propositi di indagine delle antiche strade romane, rilevando che “al foto interprete le strade sepolte si presentano come anomalie dritte e allungate di colorazione più chiara rispetto al territorio circostante, dato che la presenza nel sottosuolo dei materiali sabbiosi o ghiaiosi che ne costituiscono la carreggiata trattengono l’umidità e rendono più rada la vegetazione sul piano campagna soprastante. Due linee più scure si osservano invece ai lati della striscia chiara
in corrispondenza dei canali di drenaggio, ove l’umidità si raccoglie, permettendo una crescita più folta del manto erboso.” (Basso)[1]
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[1] Cfe. P. Basso, 2007, op. cit., p.78.
1.6 TESTIMONIANZE ARCHEOLOGICHE
Numerose evidenze archeologiche possono guidarci alla ricostruzione di un percorso. Parlando di strade è chiaro che al fine dell’individuazione sul terreno di un tracciato non più in uso, il rinvenimento di un ponte attribuibile allo stesso periodo, di tratti di carreggiata, o almeno di parte dei suoi livelli preparatori, costituiscono prove di assoluta inconfutabilità. Nel nostro caso specifico per esempio si possono citare alcuni tratti selciati come quelli poco prima e poco dopo il centro abitato di Quartaia (il secondo si colloca nel tratto successivo all’avvistamento di Badia a Coneo) o come quello lungo il percorso riemergente dal guado dell’Elsa. Se però da un lato essi sono da considerare segni “inconfutabili” di strade, dall’altro sorge il problema di capire se appartengono o meno al tracciato da noi cercato, e ciò a volte, come si diceva, non è affatto scontato. Certi tratti stradali potrebbero essere stati usati dai pellegrini solo per brevi segmenti, o da essi appositamente evitati nei periodi di maggiore insicurezza e instabilità sociale. Strutture che forse costituiscono prove ancora più utili ad indicarci sommariamente la via, sono sicuramente quegli edifici atti all’alloggio dei pellegrini medesimi.
Nell’ambito della ricostruzione della via Francigena riveste una primaria importanza la distribuzione spaziale di determinate fondazioni religiose. Non poteva essere altrimenti per una via affermatasi per il aggio dei pellegrini. Ci si riferisce in particolar modo alle chiese canonicali ma anche alle cosiddette “abbazie regie”. È stata dimostrata la stretta relazione tra le abbazie regie e la via Francigena, una relazione risalente all’epoca della fondazione di quei monasteri. Questi erano funzionali alla “politica delle comunicazioni” dei longobardi e quindi alla creazione di un sistema di strutture funzionali alla strada. Di qui la proporzionale maggior presenza delle abbazie lungo l’itinerario della Francigena o nei suoi immediati dintorni[1].
Bisogna aprire una breve parentesi storica al fine di introdurre l’impatto dei longobardi sul territorio. La via Francigena è una loro creazione. Essa nacque
come canale viario longobardo atto a collegare i loro possedimenti del nord con quelli del sud Italia, evitando le zone sotto il dominio o la sfera di influenza bizantina. Inizialmente si chiamava via del o del Bordone in quanto transitava proprio attraverso tale varco, che corrisponde all’attuale o della Cisa. Solo successivamente assunse il nome di via Francigena, nome proprio che già di per sé stesso indicava ed indica la grande importanza che le regioni Franche d’oltre alpe ebbero su tale via o sul suo sviluppo.
Le canoniche invece “furono espressione di un movimento riformatore, cominciato nell’XI secolo, che conobbe la massima intensità tra il 1070 e il 1125, incoincidenza cioè con la decisiva apertura dell’economia rurale e con l’inizio della crescita urbana e dell’accelerazione dell’economia monetaria.” (Stopani)[2]. Questo movimento riformatore che si proponeva un rinnovamento della Chiesa in funzione soprattutto di anti-concubinato e anti-simonia, ebbe anche però il meno spirituale intento di arginare l’ingerenza dei grandi monasteri nell’ambito delle diocesi vescovili. È per questo che le canoniche ebbero molte analogie con i cenobi monastici. Gli stessi edifici assunsero nella loro struttura architettonica “un’impronta claustrale” dotandosi di una sala capitolare, un chiostro e di un comune dormitorio e refettorio. Una delle attività che i collegi canonicali privilegiarono fu l’assistenza ospedaliera, motivo fondante della frequenza delle canoniche lungo gli itinerari della via Francigena. Elemento questo che li elevò a “interpreti consapevoli delle esigenze connesse al grande sviluppo delle comunicazioni”. (Stopani)[3].
Gli stili architettonici delle chiese ci danno indizio del loro periodo di fondazione. Ciò è rilevante soprattutto quando si ha a che fare con chiese che nascono nel “percorso-territorio” della via Francigena, in quanto se riferibile allo stile romanico, e per lo più al XII sec, possono essere considerate indizio del tracciato.
La zona considerata è prolifica di evidenze archeologiche che si riferiscono ad ambiti romanici e pre-romanici. Tra esse balzano subito all’occhio le numerose evidenze di necropoli. Le zone dove si innescano motivi religiosi e soprattutto
cultuali sono zone con una forte tradizione e che denotano un persistente ed antico uso antropico, nonché zone che mantengono una forte carica spirituale al mutare delle religioni. Facciamo un paio di esempi non distanti dagli ambiti spaziali che stiamo analizzando: l’attuale monte Cristo dell’isola d’Elba era precedentemente denominato monte Giove; l’umbra val Nerina è la zona dove secondo la leggenda si andò a rifugiare Ponzio Pilato, da cui trasse il nome il lago colà situato dove secondo la leggenda morì annegato, ma nel periodo precedente al Cristianesimo era terra di veggenti e streghe e ciò lo rendeva uno dei luoghi più mistici del mondo italico. Le numerose necropoli che si incontrano lungo la via dimostrano a mio giudizio due cose. La prima è che la zona era stata oggetto di un’antica e persistente presenza umana. La seconda la sua immensa importanza. L’importanza di questo territorio da un punto di vista cultuale non poteva fare altro che attirare a sé la viabilità in un periodo in cui la religione era l’unica consapevole chiave di lettura del mondo. Non sorprende quindi come in terre così impregnate di spiritualità e di rispetto sacrale si andarono successivamente addensando canoniche e abbazie atte a seguire il “percorso-territorio” di una via di pellegrinaggio. A volte si sottolinea l’aspetto determinante dell’esistenza di una via per la fondazione di un’abbazia o di una canonica in un dato luogo, altre volte all’opposto si sottolinea come la via si sia modificata in maniera tale da are per certe badie o borghi che per un motivo o per un altro andavano assumendo sempre più importanza. Ma d’altronde causa-effetto sono sempre procedimenti invertibili e che vengono determinati dall’ottica con cui si osservano i fenomeni. Fatto sta che la nostra via Francigena, via di pellegrinaggio per Roma, si instaura proprio nella zona sede di antiche necropoli. È da dire che pur facendo una premessa: la via nasce per le esigenze politico-amministrative del regno Longobardo, impegnato a trovare una via che collegasse le sue entità territoriali allorquando l’invasione bizantina prima li ricacciò nella zona tirrenica della penisola italiana e poi con la creazione del “canale” che collegava l’esarcato (la zona di Ravenna) a Roma tagliò in due parti distinte lo stesso regno. Nonostante tale considerazione, non si può non considerare come la viabilità si prestasse già allora ad essere piegata da motivi “sacri” ancor prima della nascita della via del pellegrinaggio per Roma. D’altronde la via Francigena è base di partenza per diversi altri mini pellegrinaggi in cui la forza di gravità di alcuni “pii” centri, per fare qualche esempio si veda Badia a Coneo o Scarna, era determinante per la creazione di nuovi percorsi. Ciò non è prerogativa della sola via Francigena, anzi si può dire che è elemento usuale di tutte le maggiori vie medioevali. Il prof. Salvestrini in una personale conversazione mi accennava all’importanza che assunse Pistoia da un punto di vista della viabilità allorquando nel Medioevo vi furono portate delle
reliquie, è grazie a loro che essa diventò un centro focale della viabilità Toscana. Ciò avvenne per intenzionale atto dell’allora vescovo di Pistoia, il quale volendo riaffermare il prestigio della chiesa sulla laica istituzione comunale in forte ascesa, si fece portare delle piccole reliquie provenienti niente di meno che dalla salma del santo apostolo custodito a Compostela. Non si poteva ambire a qualcosa di meglio. Al meno per quanto riguarda i santi reperibili sul “mercato”. Con tale atto il vescovo fece in modo che chi si fosse recato a Pistoia avrebbe così preso un po’ di indulgenza. Certo il pellegrinaggio a Compostela o a Roma valeva incomparabilmente di più, ma un piccolo sconto sulla pena da espiare nell’ aldilà lo si poteva ormai ottenere anche a Pistoia. D’altronde siamo in un periodo in cui l’accavallarsi degli sconti sulla pena da saldare nell’aldilà dava a quest’ultimi un andamento decisamente inflazionistico. Ed è così che la cattedrale di Pistoia venne rinominata di “San Zeno e San Jacopo”, dove al precedente protettore di Pistoia, San Zeno, si andò a sommare il nuovo ed illustre San Jacopo. Era a costui che dovevano la parziale redenzione moltissimi Pistoiesi, tanti Toscani devoti, ed alcuni mercanti che conti alla mano reputarono più conveniente espiare parte dei loro peccati di fronte ad un vicino pezzettino del corpo di san Jacopo di Pistoia, piuttosto che espiarne molti di più di fronte all’intera figura del più lontano san Jacopo a Compostela. Uomini pii o profani faceva lo stesso per la chiesa romana, a patto che se ne andassero a vedere la sacra reliquia di Pistoia con qualche soldo nella “mana”. Non è poi da profani rilevare che questa fu un’abile forma di pubblicità per l’intera città di Pistoia, sebbene il chiamarla così sembra un pochino anacronistico, di cui, purtroppo per il vescovo, ne trasse beneficio più il comune che la diocesi. Ma quest’ultima pur perdendo alla lunga lo scontro con la laica nuova istituzione Comunale, di certo non si dispiacque delle nuove cospicue entrate.
Tutto ciò ci porta a considerare il tratto di via Francigena da noi analizzato, come indissolubilmente legato, direi intrinsecamente, ad una religiosità che quasi traspirava dalle necropoli da essa attraversate e che veniva per il viandante ben incarnata dalle chiese che dall’alto di qualche altura o collina vegliavano il pellegrino nel suo sottostante percorso.
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[1] Cfr. F. Schneider, 1975, L’ordinamento pubblico della Toscana medioevale. I fondamenti dell’amministrazione regia in Toscana dalla fondazione del regno longobardo alla estinzione degli Svevi (568-1268), Firenze, pp. 303 ss.
[2] Cfr. R. Stopani, 1985, op. cit.. p.19.
[3] Cfr. R. Stopani, 1985, ibid.
1.7 FONTI LETTERARIE E ITINERARIE
Per una “strada-territorio” non costruita in laterizio, almeno nella sua stragrande maggioranza, e più che altro nemmeno costituita da una vera e propria via in terra battuta, le fonti letterarie e itinerarie sono di fondamentale importanza.
I più antichi riferimenti di quella via che assumerà il nome di via Francigena si ritrovano già nell’VIII secolo nella Historia Longobardorum di Paolo Diacono (VII, 58). Successivamente si hanno riferimenti in episodiche indicazioni presenti in documenti notarili e diplomatici, nonché in ben più espliciti riferimenti in tutta quella serie di guide per pellegrini e di memorie di viaggio, entrambi generi letterari di cui il Medioevo ne possiede un’ampia casistica. Queste fonti sono però assai scarne, consistono in elencazioni di mansioni, località o strutture incontrate lungo la via. L’elenco viene raramente inframmezzato da poche osservazioni, atte di solito a segnalare le difficoltà incontrate lungo il percorso o a rimarcare qualche particolare caratteristica dello stesso. Avvertimenti sul pericolo di incontrare “maleintenzionati” e briganti sono non meno presenti delle segnalazioni delle difficoltà naturali. Si veda ad esempio gli avvertimenti presenti “tra le rare annotazioni che interrompono la successione delle mansioni” negli Annali di Alberto di Stade.
Non si può non citare la madre di tutte le fonti itinerarie concernenti la via Francigena, sia per la sua antichità sia per l’accurata elencazione delle mansioni toccate, ovvero l’itinerario che Sigeric, arcivescovo di Canterbury, scrisse nel994 inoccasione del suo ritorno dal pellegrinaggio a Roma, raggiunta proprio ando per l’asse vallivo dell’Elsa. Egli tocca l’intero percorso da noi qua considerato, consistente nelle tappe sigericiane numero: XV Seocine (Siena), XVI Burgenove (Borgonuovo di Badia a Isola), XVII Aelse (Pieve a Elsa), XVIII Sce Martin in Fosse (San Martino ai Foci), XIX Sce Gemiane (San Gimignano).
Ci sono accenni sporadici e del tutto generici alla via Francigena anche nella Vita Mathildis di Donizone[1] (cfr. Donizone, Vita Mathildis, Bologna 1940, lib.II vv.224-226), come pure nella Cronica di Salimbene de Adam[2] [cfr. Salimbene de Adam, Cronica (a cura di G.Scalia), I, Bari 1966, pag.517]. Ma per avere un altro itinerario che faccia menzione delle varie località succedenti la strada, bisogna giungere al 1154, probabile data di stesura del diario di Nicola di Munkthvera. Si tratta di un abate del monastero islandese di Thingor, redatto durante o successivamente il pellegrinaggio a Roma. Anche lui si immette nella via Francigena e compie un percorso che sostanzialmente coincide con quello di Sigeric, ma con un’importante variante, come vedremo prolifica di conseguenze e dispute, ovvero il aggio per “Martinus Borg” (ovvero Borgo Marturi, attualmente denominato Poggibonsi). Tra le sue annotazioni che quasi definirei spontanee e semplici come quelle dei bambini, considerazione che non vuole assolutamente sminuirle, resta ben incastonata nella mente di chi legge il simpatico, e inatteso, riferimento alla bellezza delle donne senesi. Questa variante della via Francigena ante per Poggibonsi viene poi riportata anche in altri documenti della metà del XII sec. Tra tutti segnaliamo la descrizione del viaggio di ritorno dalla terza Crociata del re di Francia, Filippo Augusto, avvenuto nel 1191. In virtù di ciò c’è chi pensa che già in quel periodo la variante di fondovalle per Poggibonsi fosse preferita a quella collinare per San Gimignano.
Tra i successivi itinerari del XIII sec. possiamo citare quello dell’arcivescovo di Rouen, Eudes Rigaud, recatosi a Roma nel 1254 (il “Regestum Visitationis”). Nello stesso periodo la più completa guida medioevale per i pellegrini che dal nord Europa affluivano a Roma è costituita dagli Annales Stadenses. Dal nord Europa abbiamo anche un altro importante documento risalente ai primi del XIV sec, sebbene ci è arrivato attraverso una copia del ‘600, ovvero il manoscritto norvegese conosciuto come Hauskbok. Sebbene la via Fracigena non subisca variazioni nel suo tratto meridionale, diciamo grossomodo da Acquapendente in poi ma probabilmente potremmo dire anche da Siena in poi, i tratti più a nord dovettero fare i conti con l’affermazione sempre più marcata della potenza di Firenze. Essa parallelamente all’affermarsi come potenza economico-politica, andava assumendo anche un ruolo fondamentale nella viabilità, soprattutto nel collegamento con Bologna e con le regioni padane in genere. Firenze divenuta così il nuovo punto nodale delle comunicazioni, assurse al ruolo di baricentro dei collegamenti tra nord e centro Italia. Così nelle fonti la via inizia sempre più
spesso ad essere chiamata “strada regia romana” in luogo di via Francigena, quest’ultima denominazione rimarcava maggiormente il suo collegamento con la Francia, la prima pone indiscutibilmente al centro la meta italiana del pellegrinaggio.
Nella ricostruzione del percorso altre fonti letterarie oltre gli itinerari e i diari di viaggio assumono notevole rilevanza. Si accennava precedentemente a documenti notarili e diplomatici, ma su tutti hanno grande rilievo gli elenchi delle “Rationes Decimarum Italiae”[3], di cui le più antiche a noi utili sono della fine del XIII sec. Si tratta di documenti che attestano il pagamento, o meno, delle decime, una sorta di tassa indetta e dovuta alla Chiesa. Queste non sono di certo le sole decime documentate. Nel secolo XIV furono infatti indette altre decime delle quali però non si conserva né alcuna lista né alcuna “ratio”, sia generale che particolare, né un qualsivoglia frammento. Di esse abbiamo soltanto il ricordo contenuto nelle lettere papali (per es. nota 1 pag. XXII TUSCIA 2) e in qualche “residuo”. Vediamole disposte in ordine cronologico.
La decima sessennale degli anni 1312-1318 venne indetta da Clemente V durante il concilio di Vienna per finanziare la liberazione della terra santa. La successiva decima triennale (anni 1319-1322) fu indetta da Giovanni XXII al fine di sovvenire alle molte necessità della sede apostolica. Clemente VI impose la decima triennale degli anni 1343-1346 e quella biennale del 1346-1348, successivamente si hanno anche “residui” delle decime triennali di Innocenzo VI e di Urbano V. Ma le decime più ricche di dati restano quelle che hanno portato alla pubblicazione dei due volumi curati da Pietro Guidi in data 1942, e che inglobano la decima sessennale del 1274-1280 e le tre decime triennali consecutive, degli anni 1295-1298, 1298-1301, 1301-1304. Queste ultime sono decime indette da Bonifacio VIII “pro negozio regni Sicilie”, al fine di aiutare gli Angioini nella lotta contro gli Aragonesi per il possesso della Sicilia. In verità nella prima si mantiene un equilibrio di facciata, e la decima viene riscossa per pacificare la Sicilia agitata dalle lotte tra le due case regnanti, equilibrio che scompare nella terza, indetta senza mistificazione ideologica appositamente per aiutare Carlo II d’Angiò nella riconquista di quella terra. La seconda decima triennale, quella degli anni 1298-1301, inaggiunta al noto motivo siciliano, pose tra le motivazioni anche le spese sostenute dalla Santa
Sede durante la lotta contro la famiglia dei Colonna. Resta difficile oggigiorno comprendere in pieno questo intrecciarsi di vicende politiche e spirituali durante il Medioevo, ma d’altronde questo scritto non è chiamato a siffatta indagine. Più funzionale e più prosaico è il confronto tra i dati di queste tre consecutive decime triennali con quelli della precedente decima sessennale del 1274-1280, di cui parleremo più in dettaglio fra poco. Dal confronto emerge un forte aumento del numero degli enti ecclesiastici registrati, nello specifico 4332 contro 3167. E proprio la diocesi di Volterra, le cui propaggini si estendono nel tratto di percorso da noi analizzato, spicca tra tutte le diocesi per l’aumento degli enti. È chiaro comunque che anche in queste liste frutto delle raccolte delle tre consecutive decime triennali, non siamo di fronte a liste complete di chiese, monasteri, ospedali ecc. Sono infatti anche qua esentate varie strutture dai pagamenti, sul modello di quanto già avveniva, ma in maggior tono, per la decima sessennale 1274-1280. Un fatto rilevante è inoltre la constatazione che nelle liste che vanno dal 1295-1304 aumentano considerevolmente le attestazioni di nuovi istituti di beneficenza, tra cui addirittura 20 nella diocesi di Volterra. È chiaramente un fenomeno non specifico della Toscana e non causato da un singolo fattore. È però evidente che si tratta di istituti che emergono generalmente in questo periodo e che andando ad assumere una funzione di primaria importanza, tendono a svilupparsi e ad affermare sempre più lo sviluppo viario. Ma va altresì notato che quello stesso sviluppo viario, e quindi anche della nostra via Francigena, non fu motivo secondario per l’innesco di tale processo di affermazione. Lo si nota infatti in quelle zone dove lo sviluppo viario si fa più pressante. Come sempre i fatti non si intrecciano, ma nascono già compenetrati. Siamo noi che tendiamo a razionalizzarli dandogli una natura individuale soggetta ad influenze esterne, sari curioso di vedere questi “fatti” dal di fuori della mia mente umana.
Ritornando alle decime prendiamo ora a titolo di esempio la decima del 12741280, la più vicina nel tempo alla nostra ricostruzione. La sorte volle che la “Tuscia” rientrasse nel fortunato numero delle regioni d’Italia meglio provviste in fatto di documenti per le “Rationes Decimarum”, di essa si è conservata nell’Archivio Vaticano non solo la versione integrale della “Ratio” del collettore generale resa alla Camera Apostolica, ma anche in gran parte le “Rationes” dei singoli sottocollettori rese allo stesso collettore generale. Per “Ratio” si può intendere una specie di resoconto ufficiale. Questa decima è di particolare importanza perché fu la prima che coinvolse l’intero “orbe” cristiano, il quale
venne ripartito in 26 “Collectoriae”, 8 delle quali nella sola Italia. Tranne che a Roma e a Gerusalemme, per ogni “Collectoriae” fu eletto un collettore generale, ma solo di 12 (su 24 quindi) rimangono le “Rationes”. Ancor meno numerose sono arrivate a noi le “Rationes” dei sottocollettori, appena 6.
Il 20 settembre del 1274 fu nominato collettore per tutta la Tuscia e la Maremma, il fiorentino Alcampo, canonico di Firenze[4], allora cappellano del cardinale Ottobono e più tardi cappellano del Papa. Egli a sua volta procedette alla nomina dei suoi sotto collettori, eleggendone di regola 4 per ogni diocesi, due per gli esenti e due per i non esenti, ad eccezione di alcune diocesi di minore importanza quali Chiusi, Sovana e Grosseto, dove ne furono eletti soltanto due. Al collettore generale, oltre all’esenzione dalla imposta decimale, si concedeva uno stipendio, che per Alcampo fu stabilito in 10 soldi provisini al giorno, pari a 20 soldi pisani. Ciò per tutta la durata del suo ufficio. I sottocollettori, scelti generalmente tra le persone più distinte del clero regolare e secolare dovevano accontentarsi di molto meno: era loro concessa solamente l’esenzione dalla tassa. La decima doveva raccogliersi per 6 anni continui, che cominciavano a decorrere dal 24 giugno del 1274, e collezionata in due rate (termini) semestrali, ossia il 25 dicembre e il 24 giugno d’ogni anno, con scadenza per la prima rata fissata al 25 dicembre dell’anno anzidetto, la data ovviamente non era priva di religiosa suggestione per i ritardatari. Nonostante l’impegno profuso da Alcampo le scadenze furono raramente rispettate.
Per ogni diocesi i sottocollettori avrebbero dovuto redigere 12 liste (una per semestre), ma le loro liste, teoricamente 144 (ci sono 12 diocesi nella Tuscia del XIII secolo), andarono tutte perdute. “In luogo di queste noi possediamo le liste formate dai notari -naturalmente sulle note dei sottocollettori- ridotte però ad elenchi annuali, essendosi fuse in un’unica lista le due semestrali di ciascun anno. Neppure queste liste ridotte a 6 per diocesi, a72 inluogo di 144, ci sono giunte tutte. Però almeno nella loro massima parte si.”(Pietro Guidi) Per le diocesi che includevano i territori compresi nella nostra ricostruzione della via Francigena, se ne sono salvati 5 per Siena e 5 (di cui una non completa) per Volterra. In queste liste di regola sono riportate le seguenti informazioni (nell’ordine in cui noi le riportiamo qua di seguito):
a)la qualità dell’ente ecclesiastico (“Ecclesia”, “Monasterium”, “Hospitale” ecc.)
b)il Santo titolare
c)il luogo dove si trova l’ente o un suo appellativo specifico
d)la quantità della tassa annuale
I tassabili dovevano presentare ad Alcampo un’esatta nota giurata con tutti i loro redditi e proventi, in base a ciò il Collettore, computando il 10%, determinava la tassa annuale da dividersi a metà per i due termini. Rileviamo qua sinteticamente, e senza entrare nello specifico, che la tassazione andò in genere aggravandosi nel terzo anno, e ciò diede motivo a numerosi ricorsi alla sede apostolica, da parte di quei fortunati che si videro lievitare l’imposta. Citiamo di sfuggita un dato che ci riguarda. Pietro Guidi facendo dei rapidi conti per vedere indicativamente quanto da ogni diocesi si sarebbe dovuto incassare, dedusse che “il minimo del mancato pagamento si ebbe a Volterra”. Citazione che eravamo tenuti a fare considerato che sotto la diocesi di Volterra rientra anche San Gimignano, approdo finale del nostro tracciato. Dalle informazioni che abbiamo in merito non si può non riscontrare che la diligenza e la puntualità dei pagatori andava poi generalmente in proporzione inversa con lo zelo e il rigore di Alcampo.
Va fatta una precisazione. In queste liste non è contenuto l’esatto elenco delle chiese, dei monasteri, delle canoniche, degli ospedali, degli eremi, delle opere ecc., appartenenti alle varie diocesi del finire del XIII sec. Il ritenerlo sarebbe un manifesto errore. E avrebbe anche la grave conseguenza di fuorviarci in sede di ricostruzione del tracciato della via Francigena nonché del suo paesaggio. Infatti
le liste delle decime del primo e del secondo anno contengono tutti quegli enti assoggettati alla decima e che effettivamente pagarono, vi mancano quindi tutti quelli, ben numerosi, che erano stati dichiarati non soggetti alla decima, oltre a quelli che seppur sottoposti a tassa, non la pagarono. Le liste dal terzo anno in poi registrano anche i non solventi, ma restano tuttavia deficitarie in quanto non vi trovano luogo le chiese, i monasteri, gli ospedali ecc., che per vari motivi furono esentati dalla tassa. In genere erano esonerati dal pagamento della decima sia quegli enti il cui reddito era troppo basso per arrivare alla soglia della quota tassabile, sia quelli che impiegavano ogni loro risorsa per opere caritatevoli. Anche l’ospedale di Altopascio, sebbene ricchissimo, dimostrando il nobile uso che faceva delle sue grandi rendite a favore dei poveri e degli infermi, riuscì ad evadere la tassa. Erano esonerati gli enti appartenenti ad alcuni particolari ordini religiosi quali i Cistercensi, i Certosini, le Case “Militiate Templi”, le Agostiniane, i Premostratensi, le monache di Santa Chiara. Inoltre erano tenuti in considerazione anche motivi contingenti, per esempio venne esonerato dal pagamento della tassa il monastero delle monache di S. Stefano di Pisa per gli infortuni subiti. La deficienza delle lista va d’altronde scusata con il non avere come obiettivo il preciso scopo di formare un elenco dei pii luoghi di ciascuna diocesi, ma di avere solo lo speciale intento di registrare i tassati, o i tassabili, rispetto alla decima.
Spendiamo anche due parole per dipingere brevemente la figura di Alcampo che così come emerge dai documenti non può che risultare simpatica, degna di una qualche umoristica novella del Bocaccio. Il suo zelo instancabile dovette lottare con il cumulo delle difficoltà incontrate. “Vigilante di continuo e in fervida attività di perlustrazione” lo troviamo accompagnato dal fido e accorto Turchio “Iacobi”, che va galoppando dall’una all’altra città, da un capo all’altro dell’estesa provincia, a seguire da vicino lo svolgersi dell’importante “negozio”. L’eccessivo sforzo richiesto da questo instancabile e perpetuo galoppare per vie lunghe e aspre, costò la vita a ben quattro cavalli, che lo scrupoloso Alcampo mise nel conto delle spese sostenute e da riscuotere. Dal prezzo messo in conto da Alcampo si ricava che dovevano essere di certo cavalli “non scadenti”! Ma ciò non lo fermò di certo, e lo troviamo qua a benedire i diligenti, là a spronare i restii e i riluttanti. Diligente e rigoroso con gli insolventi fino a ricorrere contro di essi, prevalendosi dell’autorità concessagli, ai rigori estremi della scomunica. Da un lato quindi la sua devozione e il suo zelo lo inducono a spedire messi per le varie parti delle diocesi, e a scrivere instancabilmente lettere di esortazione
agli insolventi prima di ricorrere suo malgrado a funeste conseguenze, dall’altra parte lo si vede distratto e approssimativo nel presentare i rendiconti richiesti e sollecitati dal Papa. In certe situazioni il nostro Alcampo fu anche decisamente sfortunato. In un suo viaggio da Pisa a Lucca fu derubato, a suo dire, di alcune sue “sostanze” insieme ai proventi delle decime che aveva caricato “super solarium suum”. Non si sa di certo a quanto ammontò il danno personale subito da Alcampo, ma il suo zelo lo portò a conteggiare in 851 lire 14 soldi e 6 denari il valore della decima a lui sottratte in quello sciagurato viaggio. D’altronde sono i rischi del mestiere. O le fortune dello stesso, per i più maliziosi. È bello sapere che in certi aspetti la natura umana muta assai lentamente, è una confortevole sicurezza.
Il pontefice Martino IV, poco dopo la sua coronazione, in una lettera datata 10 marzo 1281, ordinava ad Alcampo di comparire al suo cospetto entro 15 giorni per rendere conto della Collettoria, visto e considerato che sebbene il termine ultimo fosse già scaduto da nove mesi, di Alcampo a Roma si avevano solo delle poco lusinghiere dicerie. Alcampo con minor solerzia e zelo di quella che lo contraddistinse nella riscossione della decima, si presentò alla corte del papa esattamente un anno dopo. Questo indugiare fu sicuramente dovuto (a voler essere buoni con lui) ai ritardi nei pagamenti dei morosi, ma altrettanto di sicuro Alcampo non fece arrabbiare il pontefice solo per le lungaggini. Se da un lato la bolla papale del 24 maggio 1282, pubblicata in “Les Registres de Martin IV ecc. (1901) n. 141”, ci informa che vi erano dopo più di un anno dal rendiconto molti morosi, e che soprattutto non mancavano depositari restii a rendere il denaro ricevuto, dall’altro lo stesso buon Alcampo non fu esente da sospetti.
Anzi, possiamo dire che se si deve prestar fede ad alcuni oppositori[5]“Alcampo non si sarebbe regolato in modo del tutto irreprensibile”, tanto da indurre il papa Martino IV a scrivergli un’altra lettera in data 6 luglio 1283 dove manifestava tutto il suo turbamento per le voci che correvano sul suo conto. I molti ritardi e le scuse di Alcampo danno alito a quelle voci che lo designavano come un approfittatore del denaro raccolto, e che lo accusavano di averlo prestato ad amici che lo avrebbero commerciato a proprio vantaggio. Malelingue. Comunque il buon Alcampo riuscì a parare il colpo o almeno ad affievolirlo in qualche modo, rimase infatti in carica nel suo ufficio da collettore almeno fino al
1287. Ciò non vuol dire né che fosse lindo né che fosse scagionato dalle accuse mossegli, infatti “tre imbreviature notarili del 1295 sembrano confermare l’accusa circa la sua poco correttezza.” (P. Guidi) Poco male per il por Alcampo che lasciò le umane spoglie nel 1296. Speriamo per il por Alcampo che nell’aldilà non siano stati così “pignoli” come il papa nell’aldiquà.
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[1] Cfr. Marradi, T. (a cura di), 2007, Vita Matilde di Canossa, Sometti Editore, Mantova.
[2] Cfr. G. Scalia (a cura di), 1966, Salimbene de Adam, Cronica, I, Laterza, Bari, p.517
[3] Cfr. P. Guidi, 1932, Rationes Decimarum Italiae. Tuscia. Le decime degli anni 1274-1280, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano; P. Guidi – M. Giusti, 1942, Rationes Decimarum Italiae. Tuscia. Le decime degli anni 1295-1304, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano.
[4] Cfr. R. Davidsohn (traduz. Eugenio Dupre-Theseider), 1929, Firenze ai tempi di Dante, Bemporad, Firenze, p.12.
[5] P. Guidi, op. cit., nota 2 a p. LI.
1.8 ATTESTAZIONI PITTORICHE-ARTISTICHE: AFFRESCHI, DIPINTI E ILLUSTRAZIONI
Per la realizzazione del paesaggio medioevale ci si è avvalsi delle “fotografie” del tempo. Accenniamo qua all’importanza delle fonti artistiche non solo per il loro valore estetico e culturale, ma per l’uso funzionale che se ne è fatto in questo studio di ricostruzione paesaggistica. Con il Catasto Leopoldino si ha una puntuale parcellizzazione del territorio del 1800, da qui andando a ritroso ci aiutano le attestazioni pittoriche-artistiche.
È infatti qui che tali informazioni derivate dall’arte entrano in gioco e ci vengono in soccorso. Se non ci si vuole affidare interamente alla propria fantasia, come si diceva in sede di introduzione, l’unica alternativa consiste nel guidarla attraverso le vero-simili rappresentazioni visive tramandateci attraverso l’arte: affreschi, dipinti, riproduzioni ecc. Esse sono valide compagne delle analisi storiche ed archeologiche a cui abbiamo precedentemente accennato. All’atto pratico bisogna decidere gli attributi dei vari “campi” e “particelle” individuate, bisogna decidere come rendere visivamente una zona e come differenziarla da un’altra. Illustrare la problematicità e parlare in termini probabilistici non soddisfa le esigenze degli applicativi ESRI e GOOGLE da noi utilizzati. Ecco che gli affreschi, i dipinti e le raffigurazioni del paesaggio presenti su vari tipi di o acquistano una nuova (funzionale) bellezza agli occhi del ricercatore. Gli elementi messi in risalto nei dipinti, l’accento a taluni di loro a scapito di altri da parte dell’uomo che ha dipinto quel quadro o affresco, o da parte di quell’uomo che lo ha commissionato, non solo inteso come privato ma anche come uomo espresso da un’istituzione che può essere politica o religiosa o di quant’altra natura, è esso stesso prolifico di elementi utili sia per la realizzazione del paesaggio sia di informazioni sul mondo che quegli stessi uomini vedevano. D’altronde il mondo è in gran parte come noi lo vediamo.
Nello specifico non si poteva prescindere dal ciclo allegorico del Buono e Cattivo governo di Ambrogio Lorenzetti (1285-1348), dipinto tra il 1337 ed il
1339 nel palazzo pubblico di Siena. Soprattutto gli effetti del Buon governo nella campagna è la rappresentazione più propria e più utile al nostro lavoro di ricostruzione. Questo è il più famoso, il più esaustivo, omni comprensivo e dettagliato affresco del panorama senese durante il Medioevo. Altri affreschi assai utili a riguardo sono alcuni sfondi e vedute del Beato Angelico (13951455). Si veda in particolare “La Tebaide” dove tra l’altro in un angolo in alto a sinistra ci sono rappresentati quattro frati che portano in una barella un infermo, rappresentazione propria di una via di pellegrinaggio come quella Francigena dove gli enti ecclesiastici eccellevano nell’assistenza ai deboli ed agli infermi. Si tratta chiaramente di un riferimento casuale. Altri sfondi del Beato Angelico utili ai nostri scopi, possono essere considerati quelli del “Il martirio di Santo Stefano”, “La visitazione” e “Le stimmate di San sco”. Anche se in quest’ultimo il territorio rappresentato è più montano, essendo stata rappresentata la zona de La Verna, attualmente in provincia di Arezzo.
Non meno importanti di questi affreschi sono state le rappresentazioni trovate a illustrazione iniziale di alcune biccherne, che costituirebbero un valido aiuto non solo per la resa del paesaggio ma anche per la resa degli individui. Le biccherne sono semplici “tavole” di legno decorate, usate per proteggere i registri relativi della Biccherna, l’ufficio delle finanze del Comune di Siena. Le biccherne a noi più utili, seguendo la classificazione del libro “Le Biccherne”, sono state[1]:
65: (AS n.34): (1467) La tavoletta rappresenta il panorama intorno a Siena, e la città stessa, immediatamente dopo il tragico terremoto del 1466-1467;
70: (AS SIENA n.39): (1479) La tavoletta rappresenta il paesaggio intorno a Colle Val d’Elsa nel momento in cui si arrese alle forze della Repubblica di Siena, del Papato e del Regno di Napoli;
90: (AS SIENA n.101): (XV sec.) Vi è rappresentata una casetta a carattere sicuramente rurale, tratteggiata con sobrio realismo ed attenzione per i particolari;
104: (AS SIENA n.59): (1553) Rappresenta Montalcino ed il territorio ad eso circostante durante un momento della guerra di Siena contro Firenze allorquando Montalcino con una strenua resistenza respinse le truppe napoletane di Carlo V);
105: (GABELLA, AS SIENA n.60): (1555) Ricorda l’assedio nell’ultima fase della guerra di Siena con relativa rappresentazione dei territori circostanti la città. Guerra che vide contrapposte Siena e la Francia a Firenze e i suoi potenti alleati: Spagna e Regno di Napoli;
109: (AS SIENA n. 64): (1560) Conclusione della guerra tra Siena e Firenza con vittoria Medicea ed entrata in Siena di Cosimo I.
Interessanti sono però anche tutte quelle biccherne risalenti al’200 ed ai primi del ‘300 dove il soggetto della pittura è la consueta immagine del camarlingo al tavolo del lavoro. Qua il camarlingo raffigurato all’interno del suo ufficio era un monaco appartenente all’ordine degli umiliati. In questa prima fase si affidava la carica di “camarlingo di biccherna e di gabella” ad un religioso, forse perché ritenuto meno soggetto di un laico a commettere peculato. D’altronde nell’XI sec. lo spirito riformatore che pervase tutta la società prima e la chiesa poi, si era imposta l’illibatezza e la possibilità di aver mogli ai preti, e di conseguenza non avendo essi figli si ritenevano meno “preoccupati” ad accumulare bene e vantaggi per gli eredi. Questa almeno era la teoria, probabilmente almeno nei primi tempi successivi alla riforma fu rispettata da molti, ovviamente non da tutti. Inoltre non ci si appoggiava solo sulla presunta affidabilità dello specifico individuo appartenente all’ordine religioso, ma anche sull’affidabilità di tali enti ecclesiastici destinati per loro natura ad non incorrere nel fallimento finanziario. Questa era una valida garanzia visto e considerato che in caso di eventuali ammanchi, ci si sarebbe potuti rivalere/rifare sui beni del convento. Norma affermata nello statuto del 1272-82, e riaffermata a scanso di equivoci nel 13091310. Tra queste biccherne segnaliamo qua anche la 59 (Amsterdam, Rijksmuseum inv. 329D2): siamo qua all’interno dell’ufficio della biccherna dove dietro il banco viene rappresentato il camarlingo ed un altro ufficiale
entrambi intenti nel loro lavoro, ed al di là del banco sono rappresentate ben sei altri personaggi. Il loro abbigliamento assai vario sembra rispecchiare una diversa condizione sociale.
Parlando di biccherne non possiamo esimerci dallo spendere due parole riguardo lo sviluppo economico della zona, ed ancor più sullo sviluppo della finanza. In un’ottica di causa-effetto[2] la via Francigena può essere considerata come uno dei fattori che ha innescato il miracoloso sviluppo della finanza a Siena; di certo non è il solo visto e considerato che se così fosse allora ogni zona da essa attraversata si sarebbe dovuta tramutare in una piccola svizzera medievale. O in tal senso si sarebbe dovuta tramutare anche la strada-territorio che attraversava il nord della Spagna e che formava la più importante via di pellegrinaggio medievale, ovvero quella per Santiago di Compostela. Di sicuro però nell’ambito dello sviluppo della finanza nel Senese, la via non è un motivo tra i tanti, ma è un motivo che brilla tra i tanti. Una ricerca riguardante l’impatto economico della via sui centri che via via incontrava non è argomento di questo studio, ma visto che ormai abbiamo toccato l’argomento “biccherne”, documento specificatamente appartenente al mondo della finanza, e visto e considerato che in un’ottica olistica tale fattore è allo stesso tempo causa ed effetto dello stesso paesaggio Senese che noi ci proponiamo di ricostruire, non possiamo che spendere due parole sul grandissimo sviluppo della finanza in Siena, centro gravitazionale di questo nostro ricostruito paesaggio. L’argomento è assai interessante, tanto che si parla di “alba dell’economia mondiale”.
Siena fu tra le prime città Toscane ad avere una zecca, sembra che l’attività di conio si possa far risalire agli inizi del XII sec. Tale attività fu riconosciuta dall’imperatore Enrico VI con il diploma del 1186[3]. Inizialmente furono coniati i denari, successivamente nel corso del duecento si diffo nuove monete dette grossi e doppi grossi. Una riforma del sistema monetario fu attuata dall’oligarchia dei Nove (1287-1355). L’oligarchia infatti seguendo motivazioni di prestigio non meno di quelle per rendere disponibile una moneta di maggior tenuta e quindi di più agevole e diffuso uso, introdusse per la prima volta in Siena il fiorino d’oro largo. La grossa mole di persone[4], molte delle quali relativamente agiate, che ingrossava le file dei pellegrini e che per mezzo della via Francigena veniva incanalata per Siena furono motivo, se non causa
principale, dello sviluppo di enti creditizi, nati dalla necessità dei pellegrini di depositare parte dei loro denari prima di affrontare l’ultima loro tappa per Roma. Questa esigenza dei pellegrini stimolò la formazione di quegli che potrebbero essere considerati i primi prototipi delle banche moderne, sorte per l’appunto da questa esigenza di deposito. Se ne ha una valida descrizione, per quel che riguarda Santa Maria della Scala, nel volume di Piccinni e Travaini, incentrato sulle “operazioni bancarie” condotte da tali enti ecclesiastici. In questo caso sembrerebbe opportuno legare in termini deterministici l’instaurazione di una via di comunicazione e lo sviluppo economico della zona, questo andando contro le ipotesi di senso contrario proposte da J.M Offner[5]. Tesi che io trovo estremamente affascinanti. Ma si sa, gli eventi sono così numerosi e variegati che si possono trovare sempre validi esempi per ogni tesi. Il motivo per cui tali enti ecclesiastici si svilupparono anche nel senso della finanza è presto detto riportando le motivazioni sopracitate relativi all’ufficio della biccherna, ovvero che veniva inizialmente affidato agli enti ecclesiastici, in modo particolare all’ordine degli Umiliati. Ovvero, ripetiamolo, si riteneva che un religioso fosse meno soggetto al “peccato” di peculato, oltre ad avere la certezza di rifarsi sui beni di tali enti religiosi in caso di eventuali ammanchi. Tutto ciò suscitava una maggiore fiducia negli enti ecclesiastici da parte di chi depositava denaro o da parte dei creditori, e si sa che l’economia e la fiducia vanno di pari o. Da sempre chi riscuote “i soldi” deve riscuotere anche la fiducia di chi ha “i soldi”. Non si dimentichi che agli albori della città, nel III mill. a.c. in Mesopotamia, gli enti depositari del grano e delle semine, quindi della ricchezza dell’epoca, erano i templi, ovvero la residenza reale di divinità tangibili più degne della fiducia di qualsiasi uomo. Il potere deve avere una legittimazione “intellettuale” per manifestarsi nei suoi effetti benefici di organizzazione della società. Gli enti ecclesiastici che quindi custodivano per conto dei pellegrini tali somme di denaro avevano poi dei sicuri vantaggi economici. Il conto era cinico, e come tutti i punti di vista cinici assai funzionali.
Innanzitutto perché i pellegrini dovevano depositare le loro somme di denaro a Siena? Il pellegrinaggio era assai costoso, molti pellegrini venivano da distanze considerevoli anche per gli standard di oggi: Svezia, Norvegia, Germania, Bretagna, Gran Bretagna ecc. Servivano molti soldi, e molti soldi si portavano dietro. In genere i pellegrini sono dei benestanti dell’epoca. I soldi servivano per il viaggio di andata come per quello di ritorno. Siena era abbastanza vicino a
Roma, e Roma ben si sapeva era una città assai pericolosa e instabile. L’elezioni papali ne erano sempre una conferma con le varie famiglie nobili che creavano disordini per far prevalere il loro volere sull’elezione pontificia. L’elezione di un pontefice o di un altro, non era lo stesso né per il bene della Chiesa né per il bene delle singole famiglie nobiliari. Ed i disordini non erano baruffe da taverna, tanto che gli stessi imperatori del Sacro Romano Impero, o i sovrani del regno dei Franchi spesso intervenivano in prima persona nelle elezioni papali. In rari casi essi agivano mossi solo da forti principi etico-religiosi (per es. l’imperatore Enrico III), in tantissimi altri da reali prospettive di guadagno legate all’elezione di uno specifico papa. Inoltre il gran numero di pellegrini che affluiva a Roma aveva attirato nelle campagne laziali un corrispettivo gran numero, gran numero anche per l’epoca, di briganti e ladri. Così era facile imbattersi in malintenzionati e perdere tutte le ricchezze atte alla permanenza a Roma e al viaggio di ritorno, nonché al pagamento di qualche indulgenza. Così si iniziò a lasciare a Siena cospicue somme di denaro utili per il viaggio di ritorno, città non lontana da Roma e che proprio per mezzo della via Francigena iniziava ad assumere dimensioni notevoli per il periodo, con tutte le garanzie che ciò poteva portare in dono. E per i motivi sopra esposti gli enti preposti alla salvaguardia del denaro dei pii pellegrini furono quindi proprio gli stessi enti religiosi, d’altronde ovviamente coinvolti fin dall’inizio nel soccorrere non solo spiritualmente ma anche e soprattutto nella pratica i pellegrini.
Ma più che ladroni e briganti, i vari alleati dei guadagni di tali enti furono le malattie e le epidemie tanto diffuse nel Medioevo. Se dai briganti e dai ladroni i pellegrini si potevano salvare usando accortezza e buon senso, questa doveva essere immensamente maggiore, e spesso poteva non bastare, per evitare le pesti e le epidemie tanto tipiche del loro tempo. Peste ed epidemie che a maggior ragione incidevano nei grandi centri urbani, dove la mancanza delle ben che minime norme igieniche e il maggior numero di contatti quotidiani tra la popolazione ne stimolava la diffusione. Così il conto cinico è presto fatto. Tanti depositavano i soldi a Siena, alcuni li ritiravano. Non si vuol assolutamente dire che ritornare da Roma fosse una rarità, ma di certo ciò non era per nulla scontato. Cosicché molte ricchezze rimasero nelle mani degli enti ecclesiastici senesi. Queste dinamiche dettero il via al formarsi di una nuova classe di banchieri laici, per un motivo connaturato alla società medievale. Si riteneva che fosse peccato e cosa indegna maturare soldi da soldi, cioè prestare soldi in cambio di altri soldi con l’aggiunta di tassi di interesse. Il punto di vista è assai
mutato al giorno d’oggi anche se sopra un certo tasso di interesse anche oggigiorno parliamo di “usura”, con una chiara condanna insita in questo termine. Naturalmente ciò non ha nulla a che vedere con il nostro sistema creditizio, sebbene il prestito di un usuraio al pari del mutuo di una banca ti leghino entrambi ad un loro sistema per un bel pezzo della tua vita, uno è legale e l’altro no. Un minimo di garanzie delimita il confine, e le garanzie le dà un sistema dove sei immerso. Ad ogni modo ogni individuo legato alla chiesa era interdetto da tale uso del denaro. Coloro che invece si erano specializzati in ciò erano i non cristiani che non dovevano seguire questo precetto: ovvero gli ebrei, credenti nell’unica altra religione monoteista presente in Europa fin dal primo Medioevo. Questo fu uno degli elementi che più concorsero all’antisemitismo. A maggior ragione quando i movimenti economici suddetti mostrarono la via al formarsi di repentine e vaste ricchezze ben sfruttato da intraprendenti ed acuti laici che divennero presto, quindi, banchieri di professione. La nascita dei banchieri non avvenne solo per questa via, ma ciò funse da stimolo in una zona dove precocemente si sviluppò un’attenzione particolare per la finanza che poi bene o male, direttamente o indirettamente funse da stimolo per lo sviluppo della finanza in tutta Europa.
Due cose che invece ad un primo sguardo non vanno di pari o sembrerebbero l’ “arte” e l’ “economia”. Quindi mi risulta un po’ paradossale aver parlato dello sviluppo finanziario di Siena proprio nel paragrafo descrivente le opere d’arte utilizzate in maniera funzionale allo studio di ricostruzione qua presentato. Ma ad un sguardo più approfondito si noterà che in ogni contesto storico l’arte e l’economia più che essere degli ossimori sono in realtà entità strettamente legate. Non ci dilungheremo anche in ciò. Fatto sta che per concludere questa brevissima parentesi economica, la zecca di Siena fu soppressa con l’annessione di Siena al Ducato Mediceo. Non è un caso che anche i Medici di Firenze nacquero come banchieri.
Per completare il paragrafo vanno qua rimenzionate quelle stesse rappresentazioni grafiche di alcune mappe e schizzi di campi e ponti, di cui si parlava alla voce “cartografia”, e che rivestono infatti la stessa importanza delle opere d’arte precedentemente citate.
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[1] Le biccherne menzionate possono essere consultate in: Tavole dipinte delle magistratura senesi (sec. XIII-XVIII) a cura di: L. Borgia, E. Carli, M.A. Ceppari, U. Morandi, P. Sinibaldi, C. Zarrilli; Ministero per i beni culturali e ambientali ufficio centrale per i beni archivistici, Roma 1984. Le bicchernbe possono anche essere consultabili al sito: www.arteantica.eu .
[2] Evitiamo qua di analizzare e di apporre una critica a tale prospettiva di analisi dei fatti, ovvero quella di causa-effetto. Basterà dire che tale prospettiva a primo acchito è la più idonea a dare una descrizione ed una spiegazione dei fatti storici. Ce li rende metabolizzabili. Però senza una critica preliminare si rischia di rendere tale prospettiva superficiale e spesso fuorviante.
[3] Cfr. ASS, Diplomatico Riformagioni 1186, ottobre 25.
[4] La quantificazione numerica di questa “mole di persone” è soggetta a dispute accademiche. Ritengo che le argomentazioni di Cherubini, che limitano di molto il numero reale dei pellegrini, siano del tutto legittime, ma è da presumere altresì che “l’impatto” (da ogni punto di vista) di quei pellegrini sul territorio attraversato fosse notevole. Si veda in proposito: G. Cherubini, 2005, Pellegrini, pellegrinaggi, giubileo nel Medioevo, Liguori Editore, Napoli.
[5] J.M. Offner, 1995, “Gli effetti strutturanti dei trasporti: mito politico, mistificazione scientifica”,in: C. Capineri M. Tinacci Mossello (a cura di), 1996, Geografia delle Comunicazioni. Reti e Strutture Territoriali, Stampatre, Torino, pp. 53-67.
CAPITOLO 2 LA VIA FRANCIGENA E LO SPECIFICO TRATTO DI PERCORSO ANALIZZATO
2.1 RICOSTRUZIONE DEL PERCORSO
Stabilito il tratto di percorso da trattare, da Monteriggioni a San Gimignano, e visionate le diverse tipologie di fonti, è ormai opportuno descriverne il tracciato e le relative principali tappe. La storia della via Francigena è stata accennata precedentemente (in riferimento vedere il sotto capitolo 1.6). Inoltre è stata narrata così innumerevoli volte che non crediamo sia opportuno qua ripeterla ancora. Ci basterà rimandare alle introduzioni di certe monografie a riguardo[1], ed accennare al fatto che pur basandosi su precedenti tracciati romani (via Cassia in primis, la quale a sua volta si basava su vie non-selciate pre-romane) fu una via che assunse una sua specifica connotazione a partire dai Longobardi.
Il nostro punto di partenza è Monteriggioni. Come si è già precedentemente accennato è tale centro abitato relativamente recente, almeno se prendiamo come ambito di riferimento la “vita” della via Francigena. Il castello di Monteriggioni fu costruito dai senesi per ordinanza del podestà Guelfo di Ermanno di Paganello da Porcari sul monte Ala, in posizione di dominio e di controllo del sottostante Pian del Casone e della via Francigena che là correva. Il terreno in cui sorse, acquistato dai nobili di Staggia, era la sede di un’antica fattoria longobarda, e molto probabilmente la sua antica denominazione di “montis regis” (da cui Monteriggioni) era atta a designare un fondo di proprietà regale. L’anno di fondazione è riportato sull’iscrizione posta sulla porta Romea, 1213, mentre quello di “inaugurazione” è il 1219. Lungo le robuste mura ed intorno alla piazza correvano orti e giardini, importanti risorse in caso di assedio; la stessa piazza era “a sterro”, ovvero senza pavimentazione. Sulla piazza si affaccia la chiesa di Santa Maria Assunta, inaugurata il 10 giugno del 1235, la quale inizialmente dipendeva dalla pieve di Marmoraia. Il successivo sviluppo di Monteriggioni ne aumentò l’importanza tanto che fu promossa essa stessa a Pieve verso la fine del XIII sec. Vi fu quindi trasferito idealmente il titolo di canonica Sanctae Marie Stemennano, e materialmente vi fu posta la fonte battesimale[2].
Monteriggioni fu un valido baluardo contro l’espansionismo fiorentino in val d’Elsa, e dimostrò tutta la sua possanza difensiva allorquando nel 1269, dopo la battaglia di Colle (ricordata da Dante nel XIII canto del purgatorio), i senesi sconfitti vi si rifugiarono e sopportarono il vano assedio dei fiorentini. In quel frangente il Castello era ancora circondato dalle cosiddette carbonaie, ovvero fossati pieni di carbone funzionali agli scopi difensivi[3]. Successivamente tra il 1400 ed il 1500 le mura furono interrate per meglio resistere ai colpi di artiglieria, e le carbonaie divennero inutili. Nel 1526 i fiorentini assediarono ancora una volta Monteriggioni con ben 2000 fanti e 500 cavalieri. Il castello resistette ed il 25 luglio dello stesso anno i senesi sconfissero l’esercito pontificio alleato di Firenze nella famosa battaglia di Camollia, al cui ricordo ancora oggi Siena dedica una porta della città. Ai fiorentini non restò che interrompere immediatamente l’assedio e ritirarsi. Monteriggioni rimase inespugnata, ma il 27 aprile del 1554 finì di ricoprire il suo ruolo di baluardo difensivo contro Firenze. Certi dicono che il Marchese di Marignano, ovvero quel Gian Giacomo Medici generalmente conosciuto con il nome di Medeghino[4] e che nonostante l’altisonante cognome nulla aveva a che fare con la casata signore di Firenze, ingannò il Capitano di Monteriggioni Giovanni Zeti. Tra l’altro Zeti era un fuoriuscito fiorentino, il che alimenta il sospetto di alcuni che ritengono, più plausibilmente, che Medeghino semplicemente comprò il tradimento dello stesso capitano. Di certo comunque i fiorentini in quel giorno entrarono finalmente a Monteriggioni senza combattere. La frustrazione fiorentina nel prendere tale castrum si espresse nel trattamento che Cosimo I riservò ai suoi abitanti, furono tutti importati a Firenze come schiavi. La caduta di Monteriggioni precedette di poco la caduta della stessa Siena, che capitolò il 17 aprile del 1555.
Oggi Monteriggioni si staglia imponente sulla piana sottostante, tutta ben coltivata, ma quasi certamente nell’epoca da noi considerata l’impaludamento della zona caratterizzava prepotentemente l’ambiente circostante. Laddove infatti oggi si estendono delle pianure, fino al ‘700 inoltrato hanno vissuto, e quotidianamente lottato contro le acque, contadini ed ingegneri, nel tentativo di rendere fertili i territori adiacenti. Era su questo ambiente paludoso che Monteriggioni si ergeva non solo a difesa del potere politico-militare di Siena nella zona, ma anche a baluardo di civiltà contrapposta ad una primitiva natura. La sua figura doveva essere ancor più imponente all’origine, considerando che le 14 torri che si intervallano nel rompere la monotonia della cinta muraria, erano
ancor più imponenti in ato, e che furono volontariamente abbassate dai senesi per non renderle facile obiettivo dell’artiglieria fiorentina allorquando le armi da fuoco furono di gran lunga migliorate verso il finire dell’età medioevale.
Immerso nella palude e ben visibile da Monteriggioni si trovava il centro abitato chiamato da Sigeric: Burgenuove, ovvero l’odierna Badia a Isola. Poco prima in ato si sarebbero dovute incontrare anche alcune tombe della necropoli del Casone, di epoca etrusco-romana. Oggi rivivono tramite le poche rimanenze archeologiche sopravvissute presso il museo archeologico di Colle Val d’Elsa. Come detto Badia a Isola era chiamata in precedenza Burgenuove, borgo nuovo, toponimo che ci attesta la nascita di un nuovo centro abitato molto probabilmente da mettere in relazione con lo sviluppo che la variante collinare di San Gimignano andava assumendo. Proprio qua nel 1001 la potente famiglia dei Lombardi, a riprova della generale rinascita dopo il giro di millennio, decise di aprire quest’ultimo con la fondazione del monastero di Badia a Isola. [Il nome di questa nobile famiglia molto probabilmente riecheggia le antiche discendenze longobarde, che ironia della sorte sono anche i “creatori” della via Francigena. Spesso la storia si manifesta conservativa-tradizionalista.] In questo territorio i nobili di Staggia erano andati ammassando un consistente dominio patrimoniale già a metà del X sec. “L’abbazia dotata di numerosi possessi, fu concepita come strumento di consolidamento patrimoniale dalla famiglia fondatrice, realizzando quel connubio, frequente nella società altomedioevale, tra monachesimo e nobiltà, tra atto religioso e obiettivi politici.” (cartello davanti alla chiesa) Infatti la fondazione di tale monastero è da intendersi, in un’ottica funzionale, con il doppio incarico di controllo sul territorio e sulla via Francigena; con la doppia valenza di baluardo di controllo sulla via e di riparo per i pellegrini. Le due questioni sono d’altronde relate. In un’ottica pragmatica tale fondazione può essere vista come la naturale conseguenza dei pii Lombardi preoccupati per la sorte dei “timorati di Dio”, i quali nel recarsi a Roma dovevano temere anche i briganti e i ladroni che infestavano soprattutto le zone impervie. La guida del pellegrino di Santiago ci informa molto laconicamente che gli spedali sono collocati “là dove sono necessari”[5]. E al servizio dei pellegrini che avano per Badia a Isola si costruì per l’appunto uno spedale documentato dal 1050, ed uno xenodocchio (specie di piccoli ospizi medioevali per pellegrini eretti lungo le vie di pellegrinaggio) attestato dal 1102. Il XII secolo vide il complesso monastico consolidarsi in una maniera ben strutturata, a cui non mancavano imponenti mura difensive, e vide nel 1173 la consacrazione a San Cirino della
chiesa abaziale appena restaurata. Le forme romaniche di quest’ultima riflettono quindi le ristrutturazioni apportate all’edificio verso la metà del dodicesimo secolo. In questa struttura ad impronta basilicale a tre navate con alternanza di pilastri a fascio e a colonne, non manca , come di norma su queste costruzioni lungo la via Francigena, l’influenza franca d’oltrealpe che si manifesta in special modo nei portali gemini (ora in parte occlusi). In questo monastero confluisce anche una influenza “artistica” di sostrato. Come rileva infatti Stopani vi sono “decorazioni a ornato “stiacciato” di ricordo pre-romanico, di derivazione volterrana” (Stopani)[6]. Le correnti artistiche che si mescolano in questa struttura ne fanno il miglior prodotto della “strada”. Naturale conseguenza non tanto di un punto di aggio ma di un punto di incontro tra persone e culture diverse che non ano o si sostituiscono l’uno all’altro, ma che si sovrappongono come strati della placca terrestre in cui gli “affioramenti” sono lontani dall’essere rari. Alla stessa maniera in cui gli affioramenti dei diversi strati geologici si fanno visibili proprio in quelle colline senesi su cui a leggera la via.
Tra il XIII ed il XIV sec. l’autorità abbaziale cominciò a cedere sotto la spinta espansionistica dei comuni cittadini ed in particolare di Siena, che nel 1375 fortificò il monastero inserendolo nel sistema dei Castelli posti alla frontiera del suo contado. La fortificazione del monastero provveduta da Siena, avvenne soprattutto per proteggerlo dalle compagnie di ventura che saccheggiavano le campagne e che consideravano il monastero un ricco bottino. Nel 1446 l’Abbazia di Isola fu annessa al monastero di Sant’Eugenio presso Siena. Successivamente con la caduta della Repubblica di Siena per mano del Gran Ducato dei Medici (1555), vennero meno le esigenze militari e le mura vennero per lo più inglobate, come consueto, nelle case del borgo.
Come sottolineavamo in apertura, la zona circondante Borgonuovo era caratterizzata da un’ampia depressione impaludata. A tal specifica connotazione fisica dell’ambiente si deve il nome dell’abbazia, detta appunto “a Isola” in quanto posta su di un’altura ai margini della palude. La luce di cui andavano alla ricerca i pellegrini era a volte anche una luce “fisica”, che illuminava strutture in zone aperte e atte all’accoglienza e al riposo.
Da Badia a Isola il percorso “canonico” prosegue lungo le pendici di monte Maggio in direzione di Castel Pietraia, incrociando la via che risalendo il monte porta a Montauto, principale centro castellano nella zona durante il Medioevo. Per questa via si va anche ad un antico podere incentrato su casa Giubileo, nome che sebbene richiami i percorsi di pellegrinaggio non sembrerebbe essere sul percorso della via Francigena. È però anche da rilevare che questa via poteva essere fatta da chi percorrendo la Francigena avesse avuto intenzione di muovere direttamente verso Montauto. Casa Giubileo è edificio oggigiorno ancor noto nella zona. Colà una targa ricorda infatti una rappresaglia nazifascista contro un gruppo di partigiani che aveva scelto proprio casa Giubileo come base operativa per azioni di guerriglia e sabotaggio della viabilità. Oggi per casa Giubileo a “la grande traversata-anello natura”, un percorso che consente di risalire la parte centrale della “montagnola” e di collegare idealmente i due territori, quello di pian del casone e quello di pian del lago, “accomunati dalla stessa origine idrogeologica.”
Da Badia a Isola si proseguiva verso Castel Petraia costeggiando le pendici di Montemaggio, in una zona oggi ricoperta di uliveti ma che in ato, come vedremo, dovrebbe essere stata diversamente coltivata. Di Castel Petraia abbiamo notizie fin dal XII sec., e fu trasformato in una bella villa signorile tra il XVI ed il XVII sec. Oggi è un elegante, e costoso, albergo, che offre un’ottima posizione di partenza per escursioni nella val d’Elsa.
Da Castel Petraia ci si muoveva avendo come punto di riferimnto visivo il non distante centro abitato dall’andamento curvilineo di Strove. Strove è un antico borgo, forse di poco posteriore al VI sec., che nel XIII sec. cadde sotto il dominio della Repubblica di Siena. È caratterizzato da un’antica chiesa romanica di cui si ha testimonianza già in una donazione del 1137. Si tratta della chiesa di San Martino, dedica che ci richiama alla mente quanto si era precedentemente detto sulle dediche di chiese a santi d’oltre alpe e a santi attinenti al mondo del pellegrinaggio. Ovvero che questi sono una caratteristica delle chiese lungo la via Francigena. Diffatti San Martino oltre ad essere stato vescovo di Tours fu anche investito della “carica” di protettore dei pellegrini. La
chiesa è composta da una navata centrale terminante con un abside coronato, ed è caratterizzata da un paramento murario, della parete finale interna, decorato con un alternarsi di bande orizzontali di travertino e di laterizi, cagione di un piacevole effetto bicromico.
A conferma di quanto si diceva nell’introduzione, ovvero che generalmente le vie non avevano un percorso ben determinato, ma che vi erano solo punti nodali in mezzo ai quali i percorsi alternativi si moltiplicavano ed in mezzo ai quali vi trovavano posto tanti mini pellegrinaggi, se ne ha conferma anche nei dintorni di Strove. Lasciato infatti questo piccolo centro abitato, il pellegrino poteva scegliere tra una diversione verso destra che avrebbe condotto alla canonica di Scarna (ci sono resti della costruzione romanica), oppure, come si è detto poco prima, si sarebbe potuto continuare il percorso risalendo le pendici di monte Maggio di modo da raggiungere per questa via Montauto.
Al di là di queste divaricazioni il tracciato vero e proprio dovrebbe essere ato per Strove, e da qua dirigersi direttamente verso l’Elsa. È indicativo il fatto che proseguendo per questa via diritta, invece che girare per Scarna, si sarebbe incontrata , prima di un piccolo bosco di pini, un’altra necropoli etrusca, detta di Scarna-Poggio alla Fame. Una necropoli che presenta ancora oggi resti di tombe a camera ipogea databili tra il IV e il I sec. a.c. Si sa che i luoghi di culto sono luoghi conservativi per natura e a lunga tradizione. La presenza di queste necropoli in zona ci attesta che il territorio era già relativamente molto popolato in periodo pre-romanico. E che la via Francigena si andava ad installare in un contesto socio-ambientale già affermato da lungo tempo.
Detto ciò il percorso taglia attualmente campi coltivati, nel basso Medioevo non dovrebbe aver avuto un andamento tanto differente nella direzione. Con la differenza che allora le zone paludose dovevano prevalere di gran lunga su quelle coltivate. La “lotta” contro la palude non solo non era stata ancora vinta, ma sembrava anche essere una lotta impari. Parleremo in seguito della palude e di come l’abbiamo cercata di rappresentare, basterà qua accennare però che la palude era anche una fonte di sostentamento e che non era terreno lasciato a sé
stesso. Come insegna Breda, la palude va anche curata[7].
Ad ogni modo se oggigiorno dalla piccola necropoli di Scarna-Poggio alla Fame ci si dirige dritti e senza difficoltà a Gracciano d’Elsa, invece nel basso Medioevo ci si dirigeva colà come meglio si poteva. Poco prima di arrivare a questo centro abitato si tocca ora come allora un bagno termale che tradizionalmente si fa risalire all’epoca romana e che oggi assume la denominazione di Le Caldane. Successivamente si punta dritti verso il fiume. Forse però i pellegrini del basso Medioevo avrebbero prima fatto una breve diramazione sulla sinistra, dove si colloca un edificio con impianto basilicale caratterizzato da una terminazione a tre absidi, il quale conserva ancor oggi ad un suo lato i resti di un battistero a pianta ottagonale.
Così siamo arrivati al fiume Elsa in prossimità dell’attuale Gracciano, qua doveva situarsi la mansione ricordata da Sigeric e da lui chiamata “Aelsa” oltre che il guado che permetteva di are il fiume localizzabile a Pieve d’Elsa. “Non a caso (presso Gracciano) nei dintorni sono rilevabili due toponimi, legati entrambi alla strada: Spedaletto e Buonriposo.” (Stopani). Questi toponimi ci indicano la giusta via. A Gracciano si a il ponte sull’Elsa. Da qui si entra in un tratto di via decisamente più “ombroso”, grosso modo costeggiando il Botro degli Strulli, affluente dell’Elsa. Oggi tutta l’area è soggetta a parco. Si sale e si scende attraverso dei bei poderi fino ad arrivare a Quartaia. Si scende per tortuosi sentieri tra fitte boscaglie, si sale in spiazzi assolati dove imponenti case coloniche dall’aria burbera fanno da sentinelle ad un paesaggio di estrema bellezza. In questo tratto si incontrano a volte brevi pezzi di strada selciata, che saranno ben più rimarcabili successivamente dopo l’Abbazia a Coneo. Da Quartaia prima si riscende ancora attraversando quello che sembra attualmente un bosco ceduo ben curato, o un’area di recente rimboschimento, e poi si prosegue all’interno di un vetusto bosco. Il percorso potrebbe deviare poi verso l’Abbazia a Coneo, in un altro mini pellegrinaggio ben incastonato nella direttiva viaria principale. Si tratta di un interessante monumento romanico, uno dei più antichi monasteri dei Vallombrosani, all’interno della Badia di Coneo. L’abbazzia dedicata a Santa Maria Assunta a Coneo presenta una pianta a croce latina, ad un’unica navata concludentesi con un transetto e con una cupola a tiburio esterno ottagonale. L’interno non è visitabile ma nel presbiterio si
trovano tre absidi di cui solo quello centrale è visibile dall’esterno. Rimanendo al di fuori notiamo che la facciata presenta una partizione in arcate di stile Volterrano. L’edificio è da ricollegare alla via in quanto presenta influenze artistiche d’oltrealpe mescolate a quelle lombarde e volterrane, connubi tipici della via Francigena della Toscana. In particolare si rileva il collegamento all’arte monastico-borgognona per le semicolonne pensili, all’arte volterrana per le decorazioni di eco preromanico, e l’influenza dell’architettura “del mondo lombardo” per il triburio. Sul retro della Badia si trova un tratto di strada selciato medioevale che la collega con il centro abitato di Coneo. Si segnala inoltre la presenza di un’altra necropoli etrusca nella zona, specificatamente della necropoli etrusca di Dometaia presente nella zona di Buliciano.
Si attraversa poi Molino d’Aiano collocato in prossimità del torrente Foci. Si è soliti collocare in quest’ultima località il villaggio ricordato da Sigeric come mansione successiva a Aelsa: S.ce Martine in Fosse. A conferma di tale identificazione, sono anche rilevabili tracce di strada selciata. Si arriva poi ad un guado sul torrente di Foci dopo aver attraversato un altro tratto boscoso. Soprattutto di inverno il superamento del torrente presenta qualche difficoltà. Lo diciamo con cognizione di causa.
Dal fondovalle del torrente Foci la strada risale, e presumibilmente risaliva, la collina, sul cui crinale si distende San Gimignano, la S.ce Gemiane di Sigeric. Sicuramente in quest’ultimo tratto vi erano più possibili percorsi. Oltre a quello citato , “un altro percorso toccava, con un largo semicerchio Monti e Molino dei Foci, transitando poi per Santa Lucia e monte Oliveto”. Percorso dove si incontrano toponimi come Spedaletto e Lazzaretto, chiari indizi del aggio di pellegrini e non solo, visto che qua si incrociava anche un’importante arteria mercantile. Quest’ultimo percorso si avvicina sensibilmente al villaggio di Bibbiano, località ove Sigeric “iam fuit ospitalem” e presso la quale un documento del 1081 dice che vi transitava una via Romea: “strata romea quidecurit subto Bibiano”. Affermazione confortata dall’esistenza nei dintorni, di altri due interessanti toponimi: Taverna e Sant’Ulivieri. Riferimento quest’ultimo ad uno dei maggiori personaggi dell’epopea carolingia e quindi che ripropone ancora una volta un elemento d’oltralpe.
Ed eccoci a San Gimignano, principale centro della variante collinare. San Gimignano sorge su un colle abitato dagli Etruschi fin da almeno il III sec. a.c., come testimoniato da numerose testimonianze archeologiche. Colle che dall’alto dei suoi 334 metri sul livello del mare domina la sottostante val d’Elsa. La città deve il suo nome al santo vescovo di Modena che avrebbe secondo la tradizione difeso il villaggio colà collocato dalle orde unne di Attila. San Gimignano è una di quelle prove e testimonianze, non l’unica, in favore dell’interpretazione delle vie di comunicazione come fonti di sviluppo per i centri abitati da loro attraversati. Abbiamo già brevemente toccato questo argomento in precedente altro sotto capitolo, qua è pertinente osservare che se nel X sec. San Gimignano veniva attestata come semplice villaggio rurale, successivamente l’insediamento si sviluppò attorno al suo asse portante costituito proprio dalla via, ed è da esso che partono le ramificazioni che oggi formano il centro di San Gimignano medesimo.
Viene naturale, seguendo una logica di causa ed effetto, vedere seguire all’istaurazione della strada (causa) tutta una serie di fioriture di attività commerciali, ospedaliere, finanziarie ecc. (effetto). Va detto che la via Francigena non era la sola via che ava per San Gimignano, e forse in certi periodi nemmeno fu la più importante. Infatti proprio a San Gimignano la via Francigena si incrociava con la via percorsa dai mercanti senesi e valdelsani per arrivare a Pisa e al mare. Entrambe le vie hanno agito da poli gravitazionali, ognuna rispetto all’altra, producendo l’implementazione delle infrastrutture legate alla viabilità. Da qui il fiorire di attività alberghiere e assistenziali che hanno ancor più attirato un cospicuo flusso umano, sia che esso fosse costituito da pellegrini che da mercanti. D’altronde il sacro e il profano più che da considerare come due ossimori, sono due termini che vanno piuttosto a braccetto. Senza che ciò voglia sminuire l’uno in funzione del legame dell’altro. Stopani riporta che nel XIII sec. nella cittadina si contavano ben nove “hospitatores qui tenent hospitia” e una decina di istituzioni ospitaliere, tra le quali una in mano ai templari (San Jacopo al Tempio), e due in mano ai cavalieri di Gerusalemme (San Giovanni e San Bartolo)[8]. Questi tre citati spedali hanno conservato gli originali caratteri “romanici e mostrano, in facciata, negli architravi dei portali, la croce gerosolimitana.” Tutto ciò è segno tangibile di una città florida che vide nel XIII secolo il suo apogeo.
La costruzione della prima cinta muraria risale al 998, essa comprendeva il poggio di Montestaffoli, dove era presente una rocca sede di mercato e di proprietà del vescovo di Volterra, ed il poggio della Torre dove si collocava il castello vescovile. Ma è nel 1199, ovvero nel pieno del suo splendore economico, che la città guadagnò la propria indipendenza dai vescovi di Volterra. A questo fortunato periodo contribuì anche il commercio dei pregiati prodotti locali, tra i quali spiccava lo zafferano venduto sia in Italia (Pisa, Genova, Lucca) che all’estero (Francia e Paesi Bassi in primis, ma anche e addirittura Siria ed Egitto). Ovviamente a ciò s’aggiungevano tutti quei vantaggi di stimolo all’economia derivanti dalla Via. La solida economia permise la creazione di un ceto aristocratico urbano che espresse la propria supremazia politica e sociale nella costruzione delle torri; nel ‘300 se ne contarono addirittura 72, oggi ne rimangono circa 14. Ricordiamo che le torri non erano solo funzionali ad una crescita cittadina verso l’alto, crescita funzionale agli angusti spazi cittadini, non erano solamente funzionali ad esprimere un tangibile prestigio sociale, ma erano anche funzionali a sostenere assedi interni dovuti ai frequenti scontri tra famiglie rivali. Era una situazione tipica delle città medievali, dove lo scontro politico interno tra le varie famiglie non era né meno forte né meno cruento di quello tra comuni rivali. A San Gimignano infatti non mancarono le note lotte intestine tra Guelfi e Ghibellini. È da rilevare che i periodi di maggior splendore cittadino furono sotto i Ghibellini, di questo non ce ne abbiano a male i Guelfi. D’altronde all’epoca molto spesso le scelte di schieramento non erano generalmente dovute ad una particolare vocazione universale verso il papato o verso l’impero, quanto piuttosto alle contingenti e pratiche situazioni politiche interne.
Le mura cittadine seguirono l’ascesa della città espandendosi sempre più. Fino a quando nel 1255 la città venne presa dai guelfi di Firenze che ordinarono la distruzione delle mura. Riacquistata l’indipendenza nel 1261 e tornata la supremazia ghibellina dopo la battaglia di Monteaperti, San Gimignano ricostruì le proprie mura dando una strutturazione e suddivisione alla città che rimase intatta fino ai giorni d’oggi. La città fu divisa in quattro contrade, ognuna delle quali corrispondente ad una porta principale: quella di Piazza, di Castello, di San Matteo, e di San Giovanni. Ma fu una rifioritura effimera. Sebbene ad inizio del ‘300 San Gimignano, pur avendo un orientamento filo guelfo, riuscì a superare
indenne la discesa in Italia dell’imperatore Arrigo VII (1313), il XIV secolo fu un secolo di forte crisi che non la risparmiò. Il ‘300 si apre con una carestia che il comune cercò di fronteggiare “contraendo prestiti ad usura per l’acquisto di grano, ospitando allo scopo la prima comunità di ebrei (1328), ma soprattutto indebitandosi, l’anno successivo, per 10900 fiorini d’oro con i fiorentini Acciaioli.” (Stopani)[9]. Va da sé che in questa situazione Firenze accentuò non solo la pressione economica ma anche quella politica. L’indebitamento divenne cronico, e quando ad esso si aggiunsero la peste nera e la carestia del 1348, che decimarono la popolazione, San Gimignano fu messa definitivamente in ginocchio e si consegnò spontaneamente ai fiorentini. La sottomissione a Firenze fu sancita dai patti dell’11 agosto 1353. Con essi la perdita dell’indipendenza politica fu messa nero su bianco, ciò ebbe ovviamente forti ripercussioni anche in economia. Oramai San Gimignano faceva parte del contado di Firenze, e gli venne imposta la costruzione di una rocca il cui castellano, sebbene pagato dalla stessa San Gimignano, doveva essere eletto da Firenze. Certo, non che con l’asservimento a Firenze si risolsero le ricorrenti crisi economiche, le quali d’altronde ben travalicavano il locale ed il regionale, ma si può dire che le risposte a tali crisi furono più energiche, soprattutto verso gli enti ecclesiastici. Se la tassazione degli ecclesiastici del 1363 trasformò i solitamente “pacifici” Agostiniani e Olivetani, in veri e propri sovversivi che si opponevano al pagamento delle imposte; la vendita forzata ai cittadini dei beni della Pieve (1377) portò al comune niente che popò di meno che l’interdetto[10]. Nonostante ciò furono provvedimenti che fecero aiutarono l’intera popolazione della città in un periodo assai critico. Nonostante il declino economico e politico, il XIV ed il XV sec. furono importanti dal punto di vista artistico. Durante quel periodo infatti lavorarono a San Gimignano artisti del calibro di: Taddeo di Bartolo, Benozzo Gozzoli, Domenico Ghirlandaio, Sebastiano Mainardi (nativo di San Gimignano), Piero del Pollaio ecc. ecc.
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[1] Cfr. R. Stopani, Guida ai Percorsi della Via Francigena in Toscana, Le Lettere, Firenze 1995, pp. 6-17; R. Stopani, Guida ai Percorsi della Via Francigena nell’Italia Meridionale, Le Lettere, Firenze 2005, pp.9-30. Il tratto da noi analizzato si discosta dalla precedente strada Roma “via Cassia”, ma in
genere in Toscana molti dei suoi tratti vengono ripresi dalla via Francigena quindi una presa di visione della via Cassia è a nostro parere funzionale a riguardo: A. Mosca, 2002, Via Cassia Un Sistema Stradale Romano tra Roma e Firenze, Olschki, Città di Castello.
[2] Cfr. AA. VV., 1996, Chiese medioevali della val d’Elsa. I territori della via Francigena tra Siena e San Gimignano, Editori dell’Acero, Empoli.
[3] Con tali carbonaie l’abbiamo rappresentato nella ricostruzione tridimensionale.
[4] Nonostante il cognome, Medeghino non aveva nulla a che vedere con i notti, e ricchi, Medici di Firenze. Era anzi di modesta provenienza sociale ed economica ed originario di Milano. Vedere in proposito: M.E. Mallet, 1983, Signori e Mercenari. La guerra nell’Italia del Rinascimento. Il Mulino,Bologna; C. Rendina, 1999, I Capitani di Ventura, Newton & Compton, Roma.
[5] Cfr. R. Oursel, 1978, Pellegrini del Medioevo. Gli uomini, le strade, i santuari.,Editoriale Jaca Book Spa, Milano, p. 67.
[6] R. Stopani 1995, op. cit. p.65
[7] Cfr. N. Breda, 2000, I respiri della palude,CISU, Roma.
[8] Cfr. R. Stopani 1995, op. cit., p.69
[9] E. Guidoni-P. Maccarì, 1997, Atlante Storico delle Città Italiane. Toscana 5. San Gimignano., Bonsignori Editore, Roma, p.18
[10] E. Guidoni-P. Maccarì, 1997, ibid.
CAPITOLO 3 CONFRONTO FRA LA VARIANTE ANTE PER SAN GIMIGNANO E QUELLA ANTE PER POGGIBONSI
3.1 INQUADRAMENTO DELLA PROBLEMATICA E DESCRIZIONE DI POGGIBONSI CON RELATIVO PERCORSO
Vi erano due principali percorsi che si ponevano come alternative ai pellegrini che discendevano la via Francigena in direzione Roma. Si tratta del percorso ante per San Gimignano e di quello ante per Poggibonsi, tale coesistenza dà motivo agli studiosi di procedere ad un confronto. Quello che a noi qua interessa, richiamandoci ad una annosa controversa, è analizzare in quale periodo predomina l’uno ed in quale l’altro, ed eventualmente in quale periodo è collocabile il aggio dall’uno all’altro.
Le premesse che valevano per il percorso di San Gimignano a maggior ragione valgono per quello di Poggibonsi. Ciò è dovuto principalmente ad una maggiore accentuazione di una delle problematiche precedentemente toccate: le confuse condizioni idrogeologiche delle zone paludose. Condizioni chiaramente proprie dei percorsi di fondovalle, le quali se toccavano marginalmente il percorso collinare di San Gimignano, grosso modo limitata alla zona compresa tra Monteriggioni e Gracciano, hanno una ben più marcata incidenza nel percorso ante per Poggibonsi, costituito interamente da zone di fondovalle. Qua la confusa situazione idrogeologica dello Staggia rendeva tutta la zona idonea ad imboscate, tanto è vero che era zona considerata dai viaggiatori assai pericolosa per l’imperversare di banditi. Nel 1319 ne fece le spese persino Benedetto da Orvieto, aggredito in questo tratto proprio mentre si stava recando a Firenze per assumervi l’ufficio di vicario. Al fine di meglio inquadrare la problematica suddetta descriviamo brevemente la storia di Poggibonsi.
In verità più che di Poggibonsi sarebbe maggiormente corretto parlare di Marturi, ovvero del borgo di fondovalle che presenta una profondità cronologica ben maggiore del castello eretto sul “poggio” soprastante (denominato per l’appunto Poggibonsi).
Marturi è nome che denoterebbe una certa derivazione Etrusca. Tali etrusche matrici onomastiche sono difficili da confermare e da appurare non essendo quella lingua univocamente decifrata, non per inestricabili problematiche fonologiche ma per il semplice motivo che ne scarseggiano i testi di una certa consistenza. Checché ne dica lo studioso M. Pittau[1], nonostante la grande mole di documentazione etrusca arrivata fino a noi, gli indizi concernenti la struttura della lingua sono pochi. Infatti la stragrande maggioranza della documentazione redatta in lingua etrusca e sopravvissuta fino ai giorni nostri è costituita da scritti funebri. Epitaffi che in virtù della loro laconicità, e per gli schemi sempre uguali con cui vengono composti e riproposti, non sono particolarmente prolifici di ulteriori sviluppi riguardanti la comprensione della lingua, anche se si possono precisare alcuni aspetti grammaticali. Tanto è vero che è ancora incerta l’afferenza o meno di questa lingua al grande ceppo linguistico dell’indoeuropeo. Generalmente si propende per il no, ma già il fatto che si discuta ancora sulla famiglia linguistica di appartenenza è di per se stesso indizio di enigmaticità. Tale lingua è segnalata anche dalla rivista New Scientist come lingua ancora soggetta a decifrazione.
Ciò nonostante in Marturi molti studiosi hanno intravisto il nome etrusco di Marte. La questione è a mio parere un po’ controversa, nel senso che Marturi è chiaramente derivabile dal dio latino-italico Mars, ma ciò potrebbe nascondere la latinizzazione del precedente nome di dio etrusco, ovvero Laran. L’equivalenza tra Mars e Laran è ricavata dai noti procedimenti sincretistici del mondo romano in cui alla diade etrusca Laran-Turan si faceva corrispondere la coppia di divinità latine Marte-Venere. A cui, per completare il cerchio, si associavano le divinità greche Ares ed Afrodite. Comunque le numerose piccole necropoli etrusche che cospargono i colli intorno a tale centro abitato confermerebbero la sua presunta origine etrusca. Vi è poi la possibilità di una fondazione romana di Borgo Marturi. La presunta fondazione sarebbe avvenuta da parte di soldati sfuggiti alla disfatta di Catilina del62 a.c. Sebbene il nome Marturi sia di per sé stesso un buon indizio in tal senso, ciò in genere non convince gli studiosi. È però da rilevare che l’intera zona è caratterizzata da nomi di chiara origine latina: Luco, Megognano, Gavignano, Cinciano, Gaggiano ecc. ecc. Quindi l’ipotesi di una fondazione romana non è poi così improbabile.
Certo è che il nome Poggibonsi (originariamente “Poggio di Bonizzo” e poi “Poggiobonizzo”) fu usato a partire dalla metà dell’XII sec. per ”battezzare” il nascente castrum posto sul colle sovrastante Borgo Marturi, e nato dalla compartecipazione dei senesi con il conte Guido Guerra, proprietario di numerosi feudi in zona, al fine di contrastare l’espansionismo fiorentino. Il nome Poggiobonizzo derivava da Bonizzo Segni, signore del luogo, da cui appunto Poggiobonizzo, ovvero “il colle (poggio) di Bonizzo”. Il centro godette certamente dello stimolo che la strada costituiva di per sé, ma in aggiunta a ciò rilevante fu il pedaggio che vi si riscosse a partire dal 1185 e che “sembra divenisse di totale appannaggio del Castrum[2]”. Tale duplice fattore sottolinea l’importante ruolo economico svolto dalla via che è per il “cronista” Villani alla base del rapido sviluppo del centro abitato.
Il Castrum di Poggibonsi attrasse il tracciato della via Francigena, una chiara diversione imposta e finalizzata ad un maggiore e migliore controllo del transito. La strada fu quindi costretta a risalire la collina dove era stato eretto il Castello. Poggibonsi fu dichiarata “città imperiale” da Federico II di Svevia nel 1220, e fu quindi uno dei baluardi ghibellini del centro Italia. Se da un lato il favore imperiale e il controllo sulla via Francigena furono alla base dell’espansione e della prosperità di Poggibonsi, sempre dal Villani definita una delle più belle città di Italia, dall’altro lato costituirono anche le cagioni che portarono alla sua distruzione. Furono le armate guelfe di Firenze, insieme a contingenti napoletani ed ad un forte appoggio se, che posero fine già nel 1270 alla breve esistenza di Poggibonsi nelle vesti di baluardo atto ad arginare l’espansionismo fiorentino in Valdelsa. Con la distruzione del castrum, sia la popolazione là residente che il suo stesso nome proprio, si spostarono interamente nel sottostante borgo che mutò così per sempre denominazione da Borgo Marturi a Poggiobonizzo/Poggibonsi.
La diatriba a livello storiografico è quindi quella se assegnare al tracciato ante per San Gimignano o a quello ante per Poggibonsi la palma di quello più antico e più importante, quindi di prevalente sull’altro. Ma vediamo in rapido elenco come le precedentemente citate principali attestazioni letterarie
si distribuiscono sull’uno o sull’altro tracciato.
La fonte più antica, come già si è detto, è il resoconto che l’arcivescovo di Canterbury Sigeric ci ha lasciato del suo pellegrinaggio a Roma compiuto tra il 990 ed il 994. Questo ci attesta l’uso della variante per San Gimignano. Nel periodo immediatamente successivo al diario di Sigeric non vi sono altre fonti che ci diano un elenco così sistematico delle mansioni incontrate. Per esempio nella VITA MATHILDIS di Donizone e nella cronaca di Salimbene De Adam si parla solo genericamente della via Francigena. Questo fino a quando l’abate islandese Nicola Munkthvera nel suo diario di viaggio non menziona specificatamente borgo Marturi, chiamata Martinus Borg. Non è però irrilevante sottolineare che tra l’uno (il diario di Sigeric) e l’altro documento (il diaro di Munkthvera) decorra un lungo lasso di tempo, più di un secolo e mezzo. Le successive fonti letterarie ci attestano il aggio per borgo Marturi, differentemente denominato a seconda del contesto linguistico di provenienza del viaggiatore/pellegrino. Richards di Anesty (1158) attesta il aggio per Le Martre; Wolfger, vescovo di au e patriarca di Aquileia, segnala Marthirburg. Le denominazioni delle fonti letterarie ci indicano come ancora in quei periodi la sosta non era Poggibonsi vera e propria, ma il sottostante borgo nato intorno all’abbazia regia di San Michele. La prima attestazione di Poggibonsi vero e proprio ci deriva niente che popò di meno che da Filippo Augusto re di Francia, il quale ci indica come tappa del suo tragitto “Seint Michel Castellum”. Nominandoci quindi, sì, il Castrum stabilitosi sulla sovrastante collina, ma denominandolo ancora con il nome della sottostante abbazia invece che con il nome con cui da lì in avanti si appellerà quel poggio fortificato: Poggiobonizzo. La “regale” attestazione del re di Francia è da datare al 1191, anno in cui tornò dalla sua crociata. Per il medesimo percorso di fondovalle poco più di mezzo secolo dopo erà anche il vescovo di Rouen (1253). Nel XIII sec. si hanno anche gli Annales Stadenses “che menzionano un Marcelburg, chiaramente derivato da un originario Michelburg.” (Stopani)[3] Per segnalare poi l’importanza che la via ante per Poggiobonizzo andrà assumendo per i pellegrini del XIV secolo, basterà qua segnalare i numerosi alberghi menzionati dalle fonti trecentesche, gli “almeno quattro tavernarii”, e le addirittura sette chiese canonicati, tra i cui compiti rientrava l’assistenza ospitaliera ed in cui sono molti i riferimenti al pellegrinaggio[4].
A complicare il quadro va detto che il percorso collinare di San Gimignano non ha solo affrontato la concorrenza del percorso posto alla destra dell’Elsa, percorso relativamente recente, tutto di fondo valle, nato successivamente alla bonifica dei tratti impaludati dello Staggia tra Poggibonsi e Castelfiorentino, quanto anche quella di un terzo percorso-territorio posto sulla sinistra dell’Elsa, percorso anch’esso ricostruibile a grosse linee. Per semplicità chiameremo questo percorso “terza variante”.
Tirando le somme la variante di fondovalle ante per Poggibonsi ci è segnalata quasi unanimemente da tutte le attestazioni letterarie, eccetto, per l’appunto la prima e più antica, ovvero il resoconto di Sigeric. A volte Poggibonsi viene segnata non solo come mansione principale della Valdelsa, ma spesso addirittura come unica.
Le basi di partenza per ogni considerazione riguardo il aggio da una variante all’altra, su cui peraltro concordano tutti gli studiosi, sono:
-) la variante collinare per San Gimignano è la variante più antica della via Francigena attraversante la Valdelsa
-) a partire dal XIII sec. il collegamento diretto tra Firenze e Bologna divenne sempre più la principale via di comunicazione tra l’Italia centrale e la val Padana, assumendo di conseguenza il ruolo di punto gravitazionale della viabilità. Accogliendo ormai la maggior parte del traffico continentale, metteva in ombra il o della Cisa (del Bordone) e quindi relegava la via Francigena sempre più a via prettamente di pellegrinaggio. Il processo avrà però una piena maturità solo agli inizi del ‘400[5], e sarà solo allora che Firenze poté completamente accentrare su di sé le principali direttrici di traffico commerciale, accentuando e portando a compimento quelle linee già indicate dalla “rivoluzione stradale del duegento”[6].
Sembra quindi che il aggio dalla variante collinare a quella totalmente di fondovalle sia da inserire nel contesto di un progressivo impossessamento umano delle parti pianeggianti-paludose della Valdelsa. Tra l’altro è da rilevare che questo territorio può essere percorribile solo quando le istituzioni si fanno abbastanza importanti e potenti da poter mantenere un certo dominio sul territorio medesimo. Il fondovalle è chiaramente più soggetto ad inondazioni, deve essere bonificato, l’opera di ripulitura dei fossi deve essere costante ecc. ecc. Tutte attività possibili in periodi in cui la popolazione aumenta e si diffonde nei fondovalle garantendo un continuo e quotidiano lavoro sul territorio. Si tratta di un progressivo spostamento ad est, antecedente all’espansione fiorentina. Sotto questa luce l’attrazione che Firenze esercita sulla via Francigena non è solo causa del suo spostamento ad est, ma sembra esserne anche effetto.
Nel quadro di questo ampliamento di “disponibilità” della forza lavoro umana si inquadra l’instaurarsi della terza variante, intermedia nello spazio ma anche nel tempo. Essa si sarebbe affermata tra l’XI ed il XII secolo, grazie alla crescita delle forze produttive che allargarono lo spazio coltivato anche in zone di fondovalle. Successivamente si ò poi per Poggibonsi, che godette oltre che dell’aumento delle forze produttive anche della maggior vicinanza al nascente asse principale di comunicazione, e quindi anche commerciale, ante per Firenze. Di conseguenza la via Francigena tese a trasferire il suo itinerario valdelsano in direzione dei nuovi centri emergenti. Il fenomeno dovette realizzarsi per gradi, anche per la resistenza presumibilmente opposta dalle località che si trovavano sul vecchio tracciato. Così inizialmente la strada dovette rimanere sulla sinistra del fiume, trasferendosi però su quel terzo percorso-territorio di cui parlavamo, con il quale peraltro non mancavano i collegamenti tuttora individuabili nelle strade trasversali che dal fondo valle risalgono l’area collinare della destra dell’Elsa, fino alle spartiacque con la contermine Val d’Evola.
Il problema che ha dato alito a discussioni è capire quando si ò all’uso più intensivo della seconda variante di fondovalle ante per Poggibonsi.
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[1] Cfr. M. Pittau, 2005, Dizionario della Lingua Etrusca, M. Pittau, libreria Koiné, Sassari, libreria Koiné.
[2] Cfr. R. Stopani, 1995, op. cit., p.57.
[3] R. Stopani 1995, op. cit., p.56.
[4] Vi sono infatti croci di tipo gerosolimitano sia a Cedda che a Casaglia. La croce gerosolimitana trae il suo nome da Gerusalemme ed è graficamente composta da una croce greca, con i bracci di uguale lunghezza, o da una croce maltese (croce patente) circondata da quattro piccole croci, una tra ciascuno dei quattro bracci. Da secoli si ritrova come emblema della custodia scana di Terra Santa, fu anche lo stemma dei cavalieri del Santo Sepolcro di Gerusalemme, e compare pure nello stemma del patriarcato latino di Gerusalemme. A Talciona invece sono rappresentate le figure dei re Magi, i primi pellegrini cristiani della storia secondo i vangeli. Mentre i primi pellegrini storici del cristianesimo di cui se ne abbia traccia scritta attraverso i vari “itinerari” sono del IV sec., cfr. G. Cherubini, 2005, op.cit., p.21.
[5] Si consideri infatti che solo agli inizi del ‘400 Firenze, sicuramente aiutata in ciò anche dalla crisi demografica trecentesca, conquistò la preminenza regionale con la sottomissione di Arezzo, Pisa, Prato, San Gimignano, Colle, Montepulciano , dell’intero Casentino; e quindi soltanto allora la città potè controllare totalemente le direttrici di traffico più importanti dell’economia regionale. In questo ambito Siena volente o nolente fu ormai definitivamente relegata in secondo piano sebbene conservò la sua indipendenza fino al 1555.
[6] Cfr. J. Plesner, 1979, Una rivoluzione stradale del Dugento, Papafava, Monte Oriolo.
3.2 IPOTESI A CONFRONTO
Per Stopani il percorso di fondovalle prevale “almeno a partire dal XII sec. ad affermarsi sul più antico tracciato collinare.” Nell’affermare ciò Stopani si appoggia agli itinerari della metà del XII sec., che come visto ano quasi esclusivamente per borgo Marturi. Via che serviva anche da collegamento con Firenze, e a conferma di ciò “non a caso le canoniche si addensano nella zona di Poggibonsi dove secondo i decimari pontifici degli ultimi decenni del ‘200 se ne contavano almeno quattro (Sant’Andrea a Papaiano, Santa Maria a Talciona, San Pietro a Cedda, San Leonardo a Casaglia), cui erano da aggiungere le due magioni dell’ordine gerosolimitano (Santa Croce a Torri, San Giovanni Battisti al Ponte), e l’abbazia di fondazione regia di San Michele.” A queste vanno poi aggiunte altre quattro canoniche situate a breve distanza da Poggibonsi[1].
Gigli non concorda, e propone una differente lettura dei dati a disposizione. D’altronde le decime là collezionate (nei decimari) sono di molto successive al XII sec., ovvero risalgono alla fine del XIII. Si tratta quindi di circa ben due secoli di differenza[2]. Per lui parlare dei percorsi di Sigeric (990-994) e di Filippo Augusto (1191) non equivale a parlare di un percorso nuovo che si oppone ad uno vecchio. Rileva anzi “che i due percorsi, e forse anche altri che potrebbero essere proposti, coesistettero e si integrarono a vicenda e che almeno sino al basso Medioevo non si ebbe una netta prevalenza dell’uno sull’altro”. (Gigli)[3]
A o di ciò, ovvero di un percorso collinare ancora attivo e apportatore di ricchezza, Gigli porta come prova il fatto che la seconda cerchia muraria di San Gimignano, “quella che circondò a protezione i borghi di San Giovanni e San Matteo sorti sul percorso stradale summenzionato, terminò solo nel 1253, quindi mezzo secolo dopo il aggio di Filippo Augusto e addirittura un secolo dopo il presunto spostamento di interesse verso il tronco stradale transitando per Poggibonsi”. (Gigli)[4]
È da rilevare inoltre che le magioni dei Templari presenti nel tratto di via collinare sono coeve, se non addirittura più tarde, di quelle di fondovalle, ed hanno altresì strutture ben più ricche delle prime, a testimonianza di una persistente importanza del percorso di collina. Gigli fa notare anche che la stessa San Gimignano ebbe nel XIII secolo il suo periodo di maggior floridezza, dovuto a suo parere “all’attraversamento del suo territorio da parte di una strada di importanza eccezionale” (Gigli, nota 16)[5]
È certo comunque che il secolo XII è proprio il periodo in cui inizia la potenza economica della città di Folgore, nonché il periodo in cui si moltiplicano i terrazzamenti e i centri abitati del piccolo contado di San Gimignano; di conseguenza si moltiplicano anche le vie di comunicazione, gli spedali, i posti di sosta, e spesso le strade non saranno più in terra battuta ma lastricate. Ora, come avrebbe potuto essere tutto ciò senza la presenza di una corrente di traffici quale solo la Francigena poteva portare? Sarà soltanto nel trecento inoltrato che avrà inizio la decadenza e allora, a San Gimignano, non a caso non si parlerà più di “via Francigena”, ormai definitivamente spostatasi in area valdelsana di fondo valle, ma soltanto di strada dirigentesi verso le vicine, potenti città.” (Gigli)
Quindi il contrasto con Stopani è sui tempi riguardanti il subentrare ed il are da una direttrice principale all’altra. Per Stopani fin dagli inizi del XII sec. la via per Poggibonsi (indipendntemente che si considera quella sinistra o destra dell’Elsa) aveva preso il dominio, per Gigli tale predominio è sensibilmente da posticipare.
A proposito della diatriba e di quanto afferma Gigli, riteniamo opportuno rilevare che il XIII sec. è secolo di floridezza per ogni comune Toscano e non è quindi peculiarità legata solo a San Gimignano. Fatto che d’altronde non si limita alla sola Toscana e nemmeno alla sola Italia. Bisognerebbe quindi considerare non tanto la crescita in sé stessa di un centro, ma la crescita relativa di un centro rispetto ad un altro, nel caso specifico di San Gimignano e Poggibonsi. Ricerca specifica da delegare ad altre sedi. Accenniamo qua che
Muzzi afferma che San Gimignano si sviluppò più di Poggibonsi[6]. Ma è solo un accenno che non pretende di placare né di dare soluzione ultima al dibattito in corso.
Forse la seconda cinta muraria di San Gimignano sarebbe più da collegare alla questione di Semifonte, piuttosto che ad una crescita economica-cittadina. Semifonte fu una piccola città al confine con lo stato di Firenze e spalleggiata da San Gimignano proprio in ottica anti-fiorentina. In seguito però alla sua capitolazione, San Gimignano accolse entro le sue mura i superstiti di quella città per i forti legami che con essa si erano contratti[7]. E’ in questo periodo che si colloca l’erezione della seconda cinta muraria di San Gimignano. Probabilmente il motivo di questo “sforzo economico” fu dovuto proprio all’ampliamento della popolazione cittadina dovuta proprio ai nuovi immigrati più che ad una crescita interna. E’ vero che comunque la costruzione di una nuova cinta muraria è chiaro indice di buona salute della città. Certo però che uno sforzo forse eccessivo potrebbe aver minato le basi economiche del comune. È comunque evidente una relazione con Semifonte visto, e considerato il convergere delle date. Purtroppo oltre a mere speculazioni non si può andare.
Forse la questione del predominio di una variante sull’altra è un non problema, o meglio una questione oziosa, su cui assai difficilmente si arriverà ad una risposta definitiva proprio perché il problema potrebbe essere insussistente. Va rilevato che i due percorsi sono soggetti ad una miglior percorribilità in stagioni differenti, quello collinare è più adatto all’autunno-inverno mentre quello di fondovalle è più idoneo alla primavera-estate. È a mio parere evidente che i due percorsi non sono due tracciati da distinguere in maniera netta, si inseriscono all’opposto in un’intelaiatura in cui possono essere considerati come complementari più che come autoescludentisi. La complementarietà è data principalmente sia da motivi stagionali, come precedentemente detto, sia da motivi più contingenti come possono essere le specifiche contingenze politiche. Per esempio, non si può non concordare con il prof. Salvestrini quando dice, in personale conversazione, che in caso di guerra il aggio di compagnie di ventura in una zona, rendendo ancora più pericoloso il percorso, portava allo spostamento dei pellegrini, ma anche (e soprattutto) dei mercanti, sull’altra variante. Non si dimentichi che le guerre tra comuni erano in questo periodo
assai frequenti e che le divisioni nette tra guelfi e ghibellini non aiutavano di certo al miglioramento delle relazioni. Inoltre Salvestrini insiste sul fatto che la viabilità medievale è soggetta anche ad altri fattori contingenti. Cita per esempio il fatto che Pistoia inizi a rientrare nel numero delle principali tappe di comunicazioni da quando furono portate in città delle reliquie che attirarono pellegrini ma non solo. Gli stessi mercanti erano poi portati ad una deviazione del loro percorso, per motivi devozionali, verso le reliquie di Pistoia, spostando così anche gli equilibri che la via, ora maggiormente percorsa, portava con sé.
In questo quadro di fatti e considerazioni si inserisce poi quel progressivo spostamento verso est della via Francigena a cui facevamo riferimento poco sopra.
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[1] Cfr. R. Stopani, 1985, op. cit., nota 27 pag.20
[2] L’argomentazione è esposta in maniera dettagliata in: F.S. Gigli, 1985, op. cit., p.44
[3] Cfr. F.S. Gigli, 1985, op. cit., p.48.
[4] Cfr. F.S. Gigli, 1985, op. cit., p.49.
[5] Cfr. F.S. Gigli, 1985, op. cit., nota 16.
[6] Cfr. O. Muzzi, 1991, “Le Colline Toscane nel Tardo Medioevo”, in: Greppi, C. (a cura di), 1991, Quadri Ambientali della Toscana-Le Colline, Marsilio, Venezia.
[7] Per una presa visione più propria della situazione proposta, si veda: Guidoni, E.-Maccarì, P., 1997, ibid.
CAPITOLO 4 RICOSTRUZIONE PAESAGGISTICA
4.1 PROCESSI STORICI CHE HANNO INVESTITO LE CAMPAGNE CON CONSEGUENTE MODIFICAZIONE DEL PAESAGGIO
Ricostruire un paesaggio storico senza conoscere o almeno avere una parvenza dei fenomeni (movimenti) economici sottostanti che lo muovono (e mutano), è come arredare e collocare i vari cocci sanitari di un bagno senza avere la minima idea di dove siano le tubature. Quindi si illustrano qua a grandi linee l’origine della mezzadria e delle evoluzioni socio-economiche che influenzarono il paesaggio.
Il range cronologico da noi considerato è proprio il periodo in cui si formano quelle unità spaziali e quei rapporti sociali, prima intorno ad alcune città e poi gradualmente nelle colline, che rivestiranno il territorio in questione fino alla seconda guerra mondiale. È un processo lento, e in quanto tale inesorabile. Si sta parlando di quel processo che culminò con la diffusione nel mondo della tipica cartolina della toscana collinare, raffigurante una isolata casa colonica immersa in morbide colline umanizzate. Si sta parlando del processo di appoderamento e della diffusione del contratto di mezzadria che tanto profondamente inciderà nel paesaggio toscano così famoso in tutto il mondo.
Il quadro delle condizioni ambientali e delle strutture economiche e sociali delle campagne toscane del tardo Medioevo è tutt’altro che statico (Pinto)[1]
L’ambito cronologico in cui noi collochiamo la nostra ricostruzione è come detto quello grosso modo corrispondente alla seconda metà del ‘200, momento in cui il feudalesimo andava sgretolandosi di pari o all’affermarsi di nuovi tipi di contratti agrari sintomo del sorgere di differenti rapporti sociali. Il primo Medioevo era stato periodo di scarso popolamento, motivo per cui i grandi signori proprietari terrieri, laici o ecclesiastici che fossero, avevano cercato di
legare alla terra i lavoratori disponibili. Vi era necessità di braccia per coltivare la terra. Lo stesso motivo che indebolì l’impero romano dalle cui spoglie nacque il Medioevo europeo. È quindi una situazione di lungo termine e non peculiare del solo primo Medioevo. Si ricorse ai ripari stipulando degli accordi atti a legare i contadini indissolubilmente alla terra, facendoli diventare veri e propri servi. Anche se ciò forse avvenne più sulla carta che nelle condizioni di vita reale.
A questo fenomeno si aggiunse la frantumazione politica della Toscana, tenuta insieme nell’alto Medioevo dal ducato longobardo prima e dalla marca della Tuscia poi (con capitale Lucca), la quale portò all’evoluzione in senso signorile del potere. Così fuori dai centri abitati, per mancanza di “istituzioni forti”, emersero varie famiglie nobili, o che si proclamarono tali, le quali si insinuarono in questi vuoti di potere arrivando a controllare parti di territorio toscano. È un fenomeno non peculiare della sola Toscana, ma anzi tipico dell’Italia centrosettentrionale. Ciò avvenne attraverso uno dei modi meglio sperimentati: la formazione di monasteri familiari e l’incastellamento. D’altro canto la frammentazione del potere così ben sfruttata “dai signori” fuori dai centri abitati, dava motivo a quegli stessi centri abitati, sedi di diocesi e che quindi già godevano di un certo e riconosciuto prestigio, di svilupparsi in quell’ordinamento comunale così tipico appunto delle città dell’Italia centrosettentrionale. A questi centri si affiancarono ben presto nuovi piccoli nuclei abitati che ben presto si svilupparono e affermarono grazie al forte incremento demografico che investì la penisola tra XI e XII sec. Il successivo consolidamento dell’organizzazione comunale delle città creò una nuova idea di stato-istituzione che si esplicò anche nel controllo delle campagne circostanti, nonché delle principali vie di comunicazione utili all’approvvigionamento dei bisogni annonari e commerciali. Attività quest’ultima a cui sempre più cittadini si iniziava a dedicare. Entrambi i bisogni divenivano sempre più pressanti a mano a mano che la popolazione aumentava. Crescita che fu costante e per certi versi, come ricordava Pinto, quasi miracolosa[2].
La crescita delle città portò all’inevitabile scontro con i signori feudali, fino ad allora padroni delle campagne. Non fu solo uno scontro tra centri di poteri intesi come modelli istituzionali differenti, ma anche, come d’altronde ogni istituzione
è, tra organizzazioni sociali differenti. Il maggior dinamismo che dominava le città non poteva essere bloccato dalla staticità imperante nelle campagne soggette al Feudalesimo, “istituto” adatto a sopravvivere in tempi di stasi produttiva-sociale, ma incapace di accogliere e digerire/metabolizzare un periodo di grande sviluppo quale quello che i nuovi secoli (XI-XII) avevano portato in dono. La dinamicità delle città risultava all’opposto incarnarlo alla perfezione. La città, intesa come istituto comunale, condusse la lotta contro il feudalesimo con la sicurezza e consapevolezza del suo ruolo storico. Lo stesso affresco del Buon Governo del Lorenzetti che abbelliva il palazzo pubblico di Siena, denota attraverso l’arte tutta la consapevolezza che la città aveva del ruolo che essa andava assumendo[3]. Reso graficamente nell’affresco con l’assegnare alla città il ruolo principale di fonte di ricchezza e benessere. Gli ideali emanati dalla città, che avevano come fondamento le trasformazioni in atto, sapevano muovere le ioni degli uomini. Dall’altra parte gli ideali del feudalesimo erano ormai scissi dai nuovi contesti socio-economici. Lo scontro tra questi due mondi fu inevitabile, come inevitabile fu la sconfitta senza appello del feudalesimo.
Alcune antiche famiglie di prestigiosa origine feudale riuscirono a sopravvivere solo da emarginate, in zone ritenute dalle città come marginali da un punto di vista produttivo. Un esempio pertinente al nostro ambito geografico: la nobile famiglia dei Guidi, una delle più importanti del Medioevo Italiano, fu costretta a ritirarsi nel Casentino, zona montana di certo meno allettante e produttiva delle pianure intorno a Pistoia. D’altronde ci muoviamo in un momento storico dove la contrapposizione tra città, intesa come istituzione comunale, e campagna, intesa qua come dominio signorile delle varie casate nobiliari, era nella sua fase finale. E come si diceva prevalse senza appello la città. Lo svuotamento umano dei territori soggetti al signore di un qualche castello andava di pari o con l’abbattimento delle sue mura. Se noi analizziamo il numero dei castelli indipendenti dal comune ma che sorgevano nei suoi dintorni, troviamo inappellabili dati di una loro drastica riduzione[4]. La stessa Monteriggioni che sorse proprio in questo periodo non aveva nulla a che fare con i signori che poco prima possedevano il poggio su cui sorse, ma era di proprietà comunale.
Questa vittoria si riversò anche fisicamente nel paesaggio, attraverso i mutati
rapporti tra città e contado, attraverso nuovi modelli di proprietà, attraverso le modificazioni delle condizioni dei contadini, attraverso il nuovo status dei centri rurali. Il paesaggio mutò di conseguenza sotto questi nuovi impulsi. Certo i cambiamenti non avvennero da un giorno all’altro, ma nemmeno attraverso tempi biblici. I contratti agricoli dei terreni del contado e di collina descrivono questi cambiamenti in maniera molto più pertinente degli scontri armati che si svolsero in quegli stessi terreni sia tra città e signori sia tra città e città. Quando si mette in moto un meccanismo di espansione, esso non si può arrestare alle prime vittorie o alle prime sconfitte, anzi esse paiono proprio incrementarlo.
Ripercorriamo questi mutamenti nei rapporti sociali così come espressi dai testimoni più attendibili: i contratti agricoli e le fonti di ricchezza. Nelle signorie fondiarie in cui laici o ecclesiastici erano a capo, si intersecavano terre di proprietà dei signori o di liberi coltivatori, e nei redditi signorili confluivano sia la rendita fondiaria sia i redditi per l’esercizio del potere di comando, di difesa, di giustizia. Tali signori avevano come centro uno o più castra. (Muzzi)[5] Questi signori comandavano da un castra (castello), ma ne potevano avere anche più di uno chiaramente, il quale inglobava quindi anche gli abitanti delle curtes (le circoscrizioni territoriali facenti capo al castello). Ciò avveniva proprio in funzione dell’esercizio del potere che questi signori esercitavano sia nel campo della giustizia, sia nella difesa, sia come centro economico proprietario. Essendo questi abitanti inglobati nelle curtes, in virtù dell’ordinamento là vigente, essi diventavano a pieno titolo, ed automaticamente, dipendenti del signore. D’altronde nell’alto Medioevo ciò era anche nei loro interessi. Avere un signore che li difendesse in periodi di guerra, di certo non rari, o che comunque incarnasse un forte centro capace di detenere ed esercitare l’esercizio della giustizia e quindi il controllo del territorio, dava agli stessi abitanti delle curtes maggiori garanzie dell’essere abbandonati a sé stessi. La libertà è importante, ma la si apprezza di più quando tutti si sta bene. Inoltre il signore garantiva a questi abitanti delle curtes una certa sicurezza anche sotto il profilo economico, in quanto la mancanza di braccia tipica dell’alto Medioevo portava alla stipula di contratti di usufrutto dei terreni a lunga scadenza. Molto spesso erano vere e proprie concessioni perpetue, con cui il contadino si accaparrava il potere di disporre dei terreni a suo piacimento. Questo andava a vantaggio di entrambi, di chi dava il terreno in concessione e di chi lo prendeva in concessione. Chi lo dava si garantiva una fonte di guadagno che per quanto minima era sempre meglio di nulla, chi lo riceveva aveva all’opposto un terreno da poter coltivare e
da disporre a proprio piacimento per un lungo periodo, cosa che dava una certa, anch’essa per quanto minima, stabilità alimentare. Non si dimentichi poi che in questi contratti colui che prendeva il campo aveva dei canoni che molto spesso erano fissi. Ciò consentiva al contadino di poter usufruire degli aumenti della produttività e dei miglioramenti di quei campi, di cui, in simili casi, ne sarebbe stato l’unico beneficiario a scapito del signore. Si può quindi quasi parlare di una semi-proprietà, tanto che si giunse a volte fino all’alienazione. Aggiungiamo inoltre che in un ambito sociale come quello del feudalesimo, molto spesso la terra veniva concessa a canoni assai tenui, poiché per prestigio sociale e per necessità belliche, il signore richiedeva agli abitanti delle curtes obblighi di tipo personale più che prodotti. Per questi motivi “la terra non era tanto una fonte di rendita e di intenso sfruttamento economico quanto uno strumento di potenza politica, utilizzato per stringere vincoli di subordinazione e alleanza” (Cammarosano)[6]
L’espansione demografica investì in pieno questo ambiente socio-economico. Con essa aumentarono i prezzi delle derrate agricole, che quindi diventarono economicamente assai più rilevanti che in ato; ma non solo, direi che anche e soprattutto essa fece venir meno quella scarsità di braccia che nell’alto Medioevo fungeva da premessa a quei patti “durevoli e miti” poco sopra illustrati. Visto quindi l’aumento dei guadagni derivanti dalla terra, e la ricchezza di braccia a disposizione che ne diminuiva quindi il suo stesso valore e di conseguenza il costo, il ruolo delle terre mutarono. Esse si stavano lentamente trasformando da motivi prevalentemente di prestigio, a motivi prevalentemente di guadagno e rendita. Il sistema feudale assorbì questo fatto in maniera più difficoltosa, per la sua stessa essenza-staticità basata su rapporti sociali cristallizzati. Ben diversamente malleabile fu il nuovo sistema politico-comunale delle città. È qua che si colloca lo sviluppo della mezzadria, vero istituto sociale ancor prima di vero contratto tra contadini e proprietari. Fu proprio la mezzadria la vera regina del paesaggio toscano con i suoi segni ancora oggi visibili tra le colline a nord di Siena.
Il termine mezzadria nasce inizialmente per specificare un tipo di contratto agrario in cui il proprietario terriero concede un determinato terreno di sua proprietà (che andrà assumendo il nome di “podere”) ad un colono-coltivatore, e
con esso viene anche sancita la divisione tipicamente a metà dei prodotti tra le due controparti. Ora venivano stipulati contratti d’affitto decisamente più brevi rispetto al ato, ciò permetteva ai contratti di mezzadria di seguire gli impulsi del momento che il mercato mandava, risultando così all’atto pratico assai più vantaggioso per i proprietari. Solitamente duravano da uno a cinque anni e consentivano di adeguare non solo i canoni d’affitto alle situazioni contingenti di mercato, ma si adeguavano anche all’aumento della produttività.
Nella documentazione scritta si rileva una specificità lessicale che denuncia la consapevolezza dei cambiamenti socio-economici in atto nelle campagne. O. Muzzi sottolinea che fino alla fine del XII sec. le terre in concessione erano definite “tenimentum”, “patrimonia”, termini che ponevano l’accento sul diritto di possesso del tenens (utilista), ma lentamente furono sostituiti dal nuovo vocabolo podere.
All’inizio podere ebbe un significato ambiguo, indicando sia il patrimonium sia le terre in cui era avvenuta la ricomposizione tra dominio utile e dominio eminente, ma dalla metà del ‘200 fu avvertita la necessità di definire i poderi, ancora gravati da censi e prestazioni consuetudinarie, come poderi antiqua. (O. Muzzi)[7]
L’appoderamento è il fenomeno che ha lasciato un segno tangibile nel panorama da noi studiato. È un fenomeno di lunga durata, parallelo alla diffusione della mezzadria ma non totalmente coincidente con esso, infatti la mezzadria non fu mai l’unica forma di conduzione di queste terre. Il podere nasce soprattutto dall’accorpamento di terre spezzate che da luogo ad un complesso omogeneo di terre sulle quali si rendono possibili coltivazioni differenziate e su cui è collocata un’abitazione per la famiglia lavoratrice con i vari annessi per gli animali. Mezzadria ed appoderamento sono sintomi della progressiva scomparsa di quel sistema sociale espresso dal feudalesimo, il quale non si era retto sul completo sfruttamento del lavoro contadino. Al contrario aveva lasciato ai lavoratori della terra ampi margini di discrezionalità e di disponibilità della propria forza lavoro. Da questo punto di vista si può affermare che mezzadria ed appoderamento
furono i fattori eversivi alla base della sostituzione di questo sistema feudale con un altro, basato pressoché esclusivamente sulla produttività del lavoro.
Fattori che verso la fine del Medioevo si esplicano principalmente proprio nell’area delle colline centrali della Toscana, “con larghe diramazioni verso il pratese, il valdarno medio e superiore, la piana fiorentina, le colline più vicine a Siena, le colline e la piana circostante ad Arezzo”. (Cherubini)[8]
Certo il proseguire verso questo sistema mezzadrile-poderale fu lento in quanto rallentato sia da fattori di ordine ambientale-naturale sia da fattori sociali. Riguardo ai primi va annoverata la prevalenza in determinate zone di attività pastorali (pastorali-agrarie) piuttosto che di attività agrarie per le quali la poderizzazione e la mezzadria sarebbero state più confacenti ad un aumento della produttività. Riguardo invece ai fattori sociali che ostacolarono la diffusione della mezzadria-poderale va annoverato la sopravvivenza di un numeroso ceto di contadini proprietari e di coltivatori diretti. Ma va detto che nonostante questi fattori deterrenti la mezzadria poderale era già solidamente impiantata nella Toscana del tardo ‘300 e dei primi del ‘400. A tale proposito Cherubini citando una massa imponente di studi afferma “che il suo rilievo economico nell’agricoltura toscana era proporzionalmente più importante della sua estensione territoriale” (Cherubini)[9]
Quindi anche in questo caso, e come poteva non essere, il nuovo fenomeno investì gli ambiti feudali. Lo si vede principalmente in quegli ambiti feudaliecclesiastici nei quali gli istituti ecclesiastici si manifestarono per loro stessa natura più recettivi agli impulsi cittadini. Per fare un esempio, a titolo indicativo cito uno specifico caso riportato da Muzzi, quello del monastero di ignano in Val di Pesa[10]. Questo a partire dai primi del ‘200 procedette alla stipula dei nuovi contratti agrari con il chiaro intento di riappropriarsi dei propri campi. Da qui i nuovi contratti che venivano via via stipulati furono a breve termine, mentre quelli a lungo termine che avevano imperato fino al periodo immediatamente precedente iniziarono a ridursi sempre più. Questo cambio di rotta portò il monastero a riaffermare il pieno possesso sulla metà dei suoi campi
a diritto consuetudinario nel giro di circa un secolo e mezzo a partire dall’avvio di tale processo, conclusosi ovvero alla metà del ‘300. Ciò riafferma quello che si diceva poc’anzi: il fenomeno fu lento, ma inesorabile.
Il riorganizzarsi dei signori feudali fu comunque fenomeno marginale, la crisi del feudalesimo era evidente un po’ ovunque nelle colline Toscane. Tanto è vero che alla fine del ‘200 troviamo lo sfaldamento delle grandi proprietà, la quale dà modo a quelle persone che riuscirono ad arricchirsi nel precedente regime sociale, o che furono in grado di accaparrarsi una qualche proprietà allodiale, di potersi emancipare dallo stato di servilismo tipico dei rapporti tra signore della “curtes” e gli abitanti della stessa. Tale emancipazione avveniva andando a rifugiarsi proprio nel polo di sviluppo opposto: ovvero le città. Sono proprio quelli che potremmo definire i piccoli e medi nuovi proprietari che sfruttando la debolezza attuale del sistema feudale ed inserendosi al contempo negli spiragli legislativi aprentisi dal contrasto tra tali signorie feudali e le città, che cercarono di evadere da quei vincoli feudali a cui erano tenuti per i precedenti rapporti sociali-feudali vigenti. Essi andarono ad incrementare quel flusso migratorio in città. Da allora poterono risiedere in città senza timore di essere reclamati dal loro signore e potendo affittare con i nuovi contratti le loro terre (Muzzi)[11]. Contratti che ormai erano il frutto del dato di fatto ormai metabolizzato dalla società del tempo, ovvero che la terra era ormai diventata una vera e propria fonte di rendita di cui, più o meno direttamente, poteva godere anche la stessa città. Ormai incentivata quindi ad accogliere ed a proteggere questi nuovi migranti. L’inurbamento di “villani” fu notevole a partire dalla metà del XII sec., lo si vede non solo dall’ingrandirsi dei confini cittadini e delle mura, ma anche dalla legislazione del periodo.
Molte furono le leggi e i documenti che ci attestano l’affrancamento dei servi. Si cita qua un esempio assai interessante per il nostro caso in quanto si riferisce proprio alla zona da noi soggetta ad indagine. È infatti del 1199 un lungo testimoniale sulla condizione di dipendenza di un villanus dell’Abbadia a Isola, il quale avendo stretto legami personali di feudale “amicizia” e di subordinazione con laici della zona, mosse un’azione per sottrarsi a quella signoria abbaziale[12]. Un altro esempio sempre dalla medesima zona è quello di Ghinibaldo di Saracino da Strove, il quale al contrario di quanto andava
vantandosi, ovvero di essere discendente della nobile famiglia dei Saracini, aveva per antenati più semplici affituari e “fidales” di Abbadia a Isola[13]. Ciò non vietò a lui e a suo fratllo di ottenere la cittadinanza senese nei primi anni trenta del duecento. Anzi una volta ottenuta la cittadinanza sfruttando le difficoltà finanziarie dell’abbazia e la recente colonizzazione senese del castello e del territorio di Monteriggioni, lui e suo fratello riuscirono a rilevare i diritti signorili che i monaci avevano nella circoscrizione di Castiglioni, un antico castello appartenuto ai nobili fondatori dell’abbazia, ovvero i Lambardi di Staggia.
Per citare un altro esempio possiamo prendere Siena, il maggior centro della zona da noi considerata e attraversata dalla stessa via Francigena. Qua verso la fine del XII sec. venne inserito nello statuto dei consoli del placito il capitolo che attribuiva al signore tutti i beni dei villani i quali si fossero sottratti al suo dominio (in particolare con la fuga) o che fossero morti senza lasciare successori: la norma doveva valere anche qualora i villani avessero acquisito la cittadinanza senese[14]. E’ questo un chiaro indizio di come stavano andando le cose. D’altronde provvedimenti legislativi si prendono per risolvere questioni in atto. Ma la fuga dalla campagna sembrava non trovare argini sufficienti. Per il grande inurbamento che Siena subì in quel periodo, nel 1207, o poco prima, venne emanato il primo complesso organico di norme sull’acquisto della cittadinanza da parte dei villani. Si stabilì allora che in ogni nucleo familiare e fiscale (Maxaritia) soggetto al dominio signorile di un cittadino senese venisse concessa libera facoltà di inurbamento a un villanus ogni quattro villani maschi. (Cammarosano) Ma è già indicativo di per sé stesso che la quota fu poi abbassata ad uno su tre.
Lo scontro tra città-comune, e signorie feudali era già in atto, ma come si vede da questi provvedimenti, esso veniva condotto dal comune con la premura di non far precipitare (inclinare ulteriormente) i già tesi rapporti con i signori locali. La città poteva permettersi questa cautela perché conduceva lo scontro da una netta posizione di vantaggio che andava accrescendosi con lo scorrere del tempo. Come precedentemente illustrato, questi sviluppi erano inevitabili ed inarrestabili, quindi inutili da incentivare.
Anzi, è proprio per questa loro natura che paradossalmente di pari o alle norme a cui poco prima facevamo accenno sull’inurbamento dei villani (i quali così si sottraevano al dominio di un qualche signore feudale per consegnarsi alle città) le autorità comunali emanavano restrizioni sui nuovi cittadini. Venivano esclusi, almeno sulla carta, coloro i quali avessero compiuto atti di ribellione contro i propri signori o che manifestassero la volontà di muovere loro guerra. Proprio per tutelarsi contro le possibili ripercussioni all’interno della città dei contrasti fra signori e dipendenti/contadini, le autorità del comune di Siena emanarono nel 1221 una ulteriore legge restrittiva nei confronti di quei “villani che avessero tentato di ottenere con i mezzi violenti l’affrancamento dai propri vincoli signorili. Si disponeva che a tali “villani” o ad “ex villani” non potessero venire attribuita la cittadinanza se non previo espresso consenso del rispettivo signore (const. 1262).” Che questa legge andasse nella direzione di una distensione nei rapporti con i signori feudali della zona sembra fuori di discussione. Ma altrettanto indubbiamente tale legge andava nella direzione di tirare l’acqua al proprio mulino in quanto contestualmente alla parte sopra riportata si andava affermando, probabilmente per la prima volta come afferma Cammarosano, un concetto di prescrizione. Per potersi infatti appellare alla legge, il signore feudale avrebbe dovuto provare di aver esercitato signoria sul “villanus” per dieci anni. Ed il provare ben si sa che è sempre più difficile del semplice affermare.
Va però rilevato un fatto per nulla secondario che avvantaggiò sia i nuovi ricchi che investivano sulla terra sia quei signori del contado e antiche famiglie nobili che seppero aggiornarsi prontamente alle nuove contingenze socio-economiche. Se da un lato infatti le leggi che i vari comuni emanavano, in maniera più o meno diretta, andavano affermando l’affrancamento dei servi e la concomitante scomparsa dei rapporti servili, dall’altro andarono nel contempo a liberare le terre in questione da quegli stessi ex-servi. Questi ex servi da un lato ottennero di disporre più liberamente della loro vita, guadagnarono la protezione della città, ed ebbero l’opportunità di rendersi partecipi delle nuove istituzioni comunali, e ciò è sicuramente uno degli elementi che contribuì al successo di quelle stesse nuove entità comunali, ma dall’altro perdettero ogni qualsivoglia diritto feudale sulle terre a cui erano precedentemente legati. Per chi aveva accumulato ricchezze prima dell’emancipazione, poco male, ma per i tanti che si
recarono in città in cerca di miglior fortuna ciò procurò solamente il definitivo distaccarsi dai pochi diritti e dalle poche fonti di sostentamento che pur avevano. Quest’ultimi non avendo né ricchezza né terra, dovettero rinunciare a quei diritti consuetudinari su quella stessa terra che gli aveva permesso di sopravvivere. Diritti consuetudinari che così cadendo lasciarono i proprietari liberi di poter disporre a proprio volere e senza vincoli delle loro terre, tornate ora ad essere non solo elemento di sostentamento ma anche, come visto, elemento di ricchezza e di rendita. C’è una felice espressione di Jones che descrive in maniera piena e direi pregnante l’intero processo:
L’affrancazione dei contadini era l’emancipazione dei padroni (Jones)[15]
Che tutte queste trasformazioni appena descritte costituirono un unitario processo ben interpretato dalle città, come si diceva, lo si ricava anche da un altro fattore. La terra divenne ora meno sottoposta a briglie ed impedimenti giuridici vari. Inizialmente tutto questo processo portò ad una frammentazione della grande proprietà terriera che si frantumò in numerose particelle che si diffo un po’ in ogni ceto sociale, cosa impensabile in regime feudale. Ben presto però lo stesso processo produsse un’altra e altrettanto forte concentrazione della proprietà terriera in poche mani. Nel1320 aSiena oltre la metà delle terre era in mano al 5% dei proprietari.
Si può dire che la storia delle campagne negli ultimi secoli medievali (e oltre) corre proprio lungo il filo rosso della diminuzione della proprietà contadina a vantaggio dei cittadini o degli enti. Fu questo processo che portò alla “proletarizzazione” dei contadini e favorì, con la concentrazione della proprietà delle terre, l’appoderamento e l’adozione sempre più estesa del contratto mezzadrie. (O. Muzzi)[16]
Certo è che a questa tendenza di fondo ha poi dato una determinante spinta lo spopolamento seguito alle pestilenze e alle carestie della metà del ‘300.
Nella Toscana dell’età di Dante il popolamento della regione raggiunse livelli elevatissimi (intorno ad un milione e trecento mila abitanti). Dopo la Peste Nera del 1348, e delle epidemie che si susseguirono negli anni successivi, le cose cambiarono assai radicalmente.
Nell’arco di circa un secolo (fino alla metà del XV) la popolazione della Toscana si ridusse di oltre i due terzi per effetto delle epidemie di peste, scendendo a poco più di 400.000 abitanti . Il mercato dei generi agricoli ne fu sconvolto; la richiesta di grano diminuì notevolmente; aumentò quella dei prodotti pregiati, quali il vino di buona qualità e soprattutto l’olio. L’abbandono delle terre marginali e la concentrazione delle colture sui terreni migliori consentì uno sfruttamento più razionale delle risorse agricole. (Pinto)[17]
Come si diceva, questa forte riduzione della popolazione assieme a quel movimento di sottofondo a cui ci accennavamo poco sopra, funsero da premessa alla concentrazione fondiaria, dopo che questa si era frantumata a seguito della crisi della signoria del XII e XIII sec. Concentrazione fondiaria che si andò realizzando sulla scia delle nuove basi poste nel periodo precedente, andandosi a concentrare così nelle mani degli abitanti della città a scapito della piccola proprietà contadina, ed assumendo la tangibile forma dell’appoderamento e del podere.
Citiamo qua di sfuggita i consigli che in proposito all’acquisto di un podere dava Michelangelo Tanaglia verso la fine del ‘400. Egli sconsigliava le zone troppo frequentate da viandanti e soldati, mentre benediceva quelle situate in prossimità di un castello, utile in periodi di guerra per ripararsi e riparare il raccolto[18]. Era su questi poderi che sorgeva la “tipica” casa colonica isolata[19]. Quest’ultima non fu solo sintomo delle razionali considerazioni dei proprietari, ma anche dei mutamenti socio-economici che essa stessa contribuì ad accentuare. Mutamenti forse intenzionalmente perseguiti dagli stessi proprietari ben predisposti ad indebolire i diritti comunitari sui terreni. Cosa che avvantaggiava la privatizzazione delle terre e quindi concretamente coloro che
possedevano la liquidità e la ricchezza per acquistarle.
La mezzadria va di pari o con la proprietà cittadina. Come sottolinea A.K. Isaacs per il territorio senese, dove l’organizzazione comunitaria contadina era molto salda non vi era né proprietà cittadina, né tanto meno mezzadria. All’opposto là “dove prevale il podere la vita comunitaria s’affievolisce; e dove l’unica forma di organizzazione agricola è quella mezzadrile, la comunità, ad ogni fine pratico, e spesso anche formale, cessa di esistere.”[20] Ciò spesso si traduce anche in rapporti tesi tra la comunità contadina e i “nuovi” mezzadri. I primi soldati semplici che lottarono per i vantaggi dei proprietari terrieri furono, a loro spese, proprio i mezzadri.
Gli sviluppi successivi della mezzadria, il cui periodo aureo e di piena affermazione è sicuramente l’età moderna, sono ovviamente assai interessanti ma trascendendo gli ambiti cronologici su cui abbiamo posto attenzione in questo studio, sono quindi rimandati ad altre più consone sedi. Si rilevano qua brevemente e per inciso solo due dati di fatto. Il primo è che sulla scia di quanto affermato da Greppi rileviamo che c’è una “sostanziale” continuità fra i presupposti medievali ed i successivi sviluppi dell’assetto spaziale delle campagne della Toscana della mezzadria[21]. Si assiste al consolidamento del sistema della mezzadria, sottoposto a partire dal ‘500 ad un lungo processo di intensificazione diretto dalla proprietà cittadina attraverso quella che potremmo definire la mediazione delle fattorie. Tra i testimoni privilegiati di ciò Greppi cita gli stessi edifici componenti la vasta gamma degli insediamenti rurali, dalle case poderali, agli annessi, ai complessi aziendali, alle ville, tutti progressivamente riadattati secondo i modelli dell’architettura rinascimentale.
Il secondo dato di fatto è che l’affermazione della mezzadria, come si è precedentemente sottolineato, fu quantitativamente debole ma qualitativamente forte. Spieghiamo meglio ciò che suona come un ossimoro. Gli studi di Herlihy e Klapisch sulle dichiarazioni dei redditi del 1427 riguardanti tutto il territorio dello stato fiorentino dimostrano che in uno dei contesti politico-territoriali dove più forte era la mezzadria, solo il 20% di quelle famiglie contadine avevano terre
a mezzadria. E tra loro ancora molti erano quelli che impiegavano anche la propria forza lavoro in attività fuori del proprio podere, in netto contrasto con le norme della “mezzadria” classica. Ma dimostrano al tempo stesso che quel 20% di mezzadri lavoravano le terre migliori e di gran lunga più produttive. Se ci spostiamo nella nostra area di competenza, Fiumi ha dimostrato che a San Gimignano sebbene le terre messe a mezzadria interessavano solamente il 25% delle “aziende”, esse producevano il 66% dei redditi agrari tassabili[22].
Per una esaustiva presa di conoscenza dei successivi mutamenti socio-economici che riguardarono le campagne del centro Italia, in particolare toscane, e specificatamente la mezzadria, si rimanda, oltre che agli studi precedentemente citati, agli studi condotti da M. Azzari – L. Rombai[23], A. K. Isaacs[24]ecc. ecc.
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[1] Cfr. G. Pinto, 2002, Campagne e paesaggi toscani del Medioevo, Nardini Editore, Firenze, p.52.
[2] Su tale tematica vedere quanto si dirà nei paragrafi: 4.4, 4.5, 4.5.2.
[3] L’affresco risale a circa venti anni dopo il rilevamento catastale della Tavola delle Possessioni, quando ormai l’apice dello scontro tra città e feudalesimo era fondamentalmente superato e vinto, ma lo citiamo per il grande e pertinente grado di maturità e consapevolezza politica che esprime.
[4] Per maggiori delucidazioni a riguardo si veda: G. Pinto, 2002, op. cit., pp. 133-151. Qua si portano i calzanti, e convincenti, esempi di Firenze, Pisa, Lucca
e Siena.
[5] Cfr. O. Muzzi, 1991, op. cit., p.19
[6] Cfr. Cammarosano, P., 1974, La famiglia dei Berardenghi. Contributo alla storia della società senese nei secoli XI-XIII, Fondazione CISAM, Spoleto.
[7] Cfr. O.Muzzi, 1991, ibid.
[8] Cfr. G. Cherubini, 1979, “La mezzadria toscana delle origini”,in: AA. VV.,1979, Contadini e proprietari nella Toscana moderna. Atti del Convegno di Studi in onore di Giorgio Giorgetti, vol. I, Dal Medioevo all'età moderna, Olschki, Firenze, pp. 131-152
[9] Cfr. G. Cherubini, 1979, p.135.
[10] Cfr. O. Muzzi, 1991, op. cit., p.20
[11] Cfr. O.Muzzi, 1991, ibid.
[12] Vedere in proposito P. Cammarosano, “Le campagne senesi dalla fine del secolo XII agli inizi del Trecento: dinamica interna e forme del dominio cittadino”, in: AA. VV. 1979, Contadini e proprietari nella Toscana moderna. Studi in onore di Giorgio Giorgetti, I, Olschki, Firenze, pp.153-222.
[13] Cfr. P. Cammarosano, 1979, op. cit., pp.188-189. Per una monografia su Ghinibaldo di Saracino da Strove si veda: A. Lisini, “A proposito di una recente pubblicazione su la “Sapìa Dantesca” ”, BSSP, a.XXVII, 1920, pp. 61-89.
[14] Cfr. P. Cammarosano, 1979, pp. 10-11.
[15] Cfr. Ph. Jones, 1980, Economia e società nell’Italia medievale, Einaudi, Torino.
[16] Cfr. O.Muzzi, 1991, op. cit., p.23.
[17] Cfr. G. Pinto, 2002, ibid.
[18] Cfr. Michelangelo Tanaglia, De Agricoltura, a cura di A. Roncaglia, Bologna 1953, vv. 283-285, 289-290.
[19] Citiamo in nota una citazione di Cherubini atta a ben descrivere in poche righe l’origine di questa “nuova” casa colonica:
L’incardinamento dell’abitazione contadina al podere e l’utilizzazione del lavoro e del tempo dei mezzadri sulle terre e i lavori del podere provocarono anche, alla lunga, in conseguenza delle generali espropriazioni contadine, un’atomizzazione della vita rurale e la distruzione delle comunità rurali nelle zone in cui la mezzadria poderale venne affermandosi come criterio prevalente od esclusivo di conduzione della terra e di organizzazione della proprietà, della
produzione, e del lavoro contadino. A questa distruzione portò un contributo decisivo anche la privatizzazione della terra e la scomparsa o forte riduzione dei possessi comuni, intorno al cui sfruttamento si era concentrata (e continuava a concentrarsi) nelle due aree prive di mezzadria tanta parte della vita comunitaria. (Cherubini)
G. Cherubini, 1979, op. cit., p. 141.
[20] Cfr. A.K. Isaacs, 1979, “Le campagne senesi fra quattro e cinquecento, regime fondiario e governo signorile”, in: AA. VV., op. cit., pp. 377-403.
[21] Cfr. C. Greppi, 1991, “Il mosaico collinare”, in: AA.VV, 1991, op. cit., pp.183-205.
[22] Cfr. E.Fiumi, 1961, Storia economica e sociale di San Gimignano, Olschki, Firenze.
[23] Cfr. M. Azzari - L. Rombai, 1991, “La toscana della mezzadria”, in: AA.VV., 1991, op. cit., pp.37-49; M. Azzari – L. Rombai, 1991, “Quadri paesistici delle regioni collinari”, in: AA. VV., 1991, op. cit., 71-91.
[24]Cfr. A. K. Isaacs, 1979, ibid.
4.2 PAESAGGIO STORICO E SUA RICOSTRUZIONE
Paesaggio: “Porzione di territorio considerata dal punto di vista prospettico o descrittivo, per lo più con un senso affettivo cui può più o meno associarsi anche un’esigenza di ordine artistico ed estetico” (Devoto-Oli 2008)[1]
“Paesaggio” è parola che investe i nostri sensi, quando la si usa è come se portasse con sé un qualche aggettivo. Solitamente positivo. “Il bel paesaggio” sembra essere quasi una parola sola. Abbiamo anche espressioni come “un paesaggio brullo” o un “paesaggio desolante”, ma non hanno quella carica negativa che l’attributo sarebbe propenso a portare con sé. La parola “paesaggio” sembra attenuarlo. D’altronde in simili espressioni è sempre surrettizia una certa ammirazione, forse dovuta anche a quel “gusto” dell’orrido che si annida in molti di noi. Il vero e proprio attributo dispregiativo è assai raro associato a paesaggio, ci stonerebbe. Dire “un un brutto paesaggio”, sembra quasi un ossimoro. “Paesaggio” richiama il bello, motivo per cui nei suddetti casi vengono utilizzate descrizioni più neutre come “una brutta visuale”. È altresì vero che l’occhio umano che guarda i paesaggi, muta con le sue condizioni socio-economiche. I viaggiatori del “gran tour” sette-ottocentesco apprezzavano molto poco ciò che invece oggi ci porta all’estasi. Noi oggi ammiriamo le crete senesi, quelle terre in cui l’asperità del terreno ha portato ad una minore “costruzione” del paesaggio, si badi bene minore non significa assente. Stiamo parlando in fin di conti di paesaggi umanizzati. Ammiriamo quelle terre dominate dal seminativo, dove il giallo del grano domina di luglio e la terra argillosa emerge dopo l’aratura; quelle terre ben forgiate ad imparare ed a sostenere, a fatica, dritti filari di viti dall’ verde, o rugosi alberi di un verde più smorzato ma duraturo come quello dell’olivo. Quelle terre sorvegliate dall’alto di una collina dal loro signore, il contadino, residente in una casa colonica isolata, a volte segnata da un qualche cipresso nelle vicinanze. I viaggiatori del gran tour non ammirarono questo paesaggio, che “anzi guardarono con indifferenza se non con orrore”[2]. “Al contrario l’osservatore del ‘700 apprezza le regioni più popolate, dove la stessa intensità di colonizzazione si estendeva dalla pianura bonificata, alla collina terrazzata, al bosco rigorosamente governato”[3]. Essi prediligevano e si soffermavano
maggiormente in quelle zone dove l’impatto umano era più prepotentemente visibile e tangibile sul territorio. Derivando bellezza proprio laddove l’uomo aveva faticosamente imposto alla natura il proprio volere. Nell’ ‘800 lo stesso Ridolfi trasportato dallo spirito illuminista che ancora pervadeva il suo tempo, parlava estasiato delle opere dell’uomo che forgiavano il terreno a seconda delle sue necessità, mentre Repetti esaltava il volere umano capace di piegare a sé la natura[4]. Ad una tale prospettiva si può risalire ancor più addietro nel tempo. Attestazioni in tal senso risalgono anche al periodo di ricostruzione del nostro progetto, qua si possono menzionare i giudizi ammirati dei “cronachisti” sul paesaggio profondamente umanizzato dei dintorni di città quali Firenze, Siena e tante altre. Per Siena, che ci riguarda ancor più da vicino e le cui descrizioni sono state prese in considerazione in fase di ricostruzione tridimensionale, come non prendere in considerazione le affermazioni di papa Piccolomini allorquando ci parla ammirato dei dintorni senesi.
I colli coperti da vigne e da altri alberi da frutto, o lavorati a grano, si sollevano mollemente su valli amene, dove verdeggiano i seminativi o i prati e scorrono rivi di acqua perenne. Vicini vi sono folti boschi o formantisi spontaneamente o curati dalla mano dell’uomo […] Lì si innalzano come fortezze abitazioni di privati cittadini. (Pio II Piccolomini)[5]
Sono questi umanizzatissimi paesaggi e queste ville padronali a destare già allora una forte ammirazione in ogni tipo di osservatore, forestiero e non, che ce ne abbia lasciata una traccia scritta. È notevole il cambio di mentalità intercorso tra il Medioevo e l’oggigiorno che ci porta a considerare diversamente i differenti paesaggi. Ma è ancor più impressionante constatare che quel cambio di mentalità così profondo, sia avvenuto in poco più di un secolo. Tale è il lasso di tempo intercorso tra le annotazioni dei viaggiatori ottocenteschi e quelli attuali. Prima si scorgeva bellezza nell’artificiale impronta antropica, ora nella incontaminata natura. Anche se in questa seconda casistica molto spesso basta poco per accorgersi che nei paesaggi “naturali” si cela tanto di umano. La società industriale ha cambiato il nostro modo di vivere, e con esso è chiaramente ed inevitabilmente mutata la nostra percezione dello spazio e del mondo fisico. Non si vuol qua parlare di una sterile nostalgia del paesaggio, della vita campagnola e quindi del lavoro forzato dei contadini “che non è
scindibile da una realtà di miseria e sfruttamento” (Grepi)[6]. Ma della forza “contadina” che quel paesaggio rievoca.
La brevissima premessa di stampo antropologico era inevitabile dovendo trattare di un paesaggio già umanizzato che ormai si appresta ad entrare nel pieno della mezzadria. In questo genere di ricostruzioni, per mezzo della realizzazione grafica del paesaggio ci si immerge nel mondo che si va ricostruendo. Stiamo parlando della creazione di un ambiente fisico, di un ambiente storicamente vissuto, reale, e per far ciò ci si deve immergere in esso. Nel dire questo intendiamo che quando si devono ricostruire per esempio i vitigni e si devono considerare quali viti specifiche venivano usate, dove venivano impiantate, con quali tecniche coltivate ecc. ecc., si deve tenere in debita considerazione anche l’uso che si faceva del vino e dei forti guadagni che da esso derivavano. Sono questi i fattori che modificano il territorio in maniera più consapevole. E non può non far sorridere la sfortuna dei vinattieri pisani, ai quali, al contrario di quelli degli altri comuni “toscani”, non era permesso ospitare meretrici, fonti di gran guadagno. Immergersi vuol dire quindi vedere e saper gustare quel paesaggio.
Quando si ricostruisce la via vera e propria, che è diciamo il punto focale della nostra ricostruzione, non si può non cercare di vedere quei pellegrini che la battevano quotidianamente. Se ne va alla ricerca di una descrizione fisica in quanto sono i loro volti e le loro vesti che al pari di farnie, viti, pioppi e spighe di grano, costituiscono il paesaggio. In fase realizzativa non abbiamo dato molto spazio ai pellegrini, per ovvi motivi legati alla lunghezza del testo e alla dimensione del file .skp, ma non possiamo non rilevare il mondo che traspare da quelle descrizione fisiche fatte dai frati a cui proprio i pellegrini lasciavano i loro beni e soprattutto i loro denari in custodia, da poter riprendere al ritorno dal loro pellegrinaggio a Roma (vedere “le biccherne” al sotto capito 1.8). Ad ogni deposito questi frati associavano un segno o un gesto di riconoscimento che il depositario avrebbe potuto o dovuto fare per riscuotere il medesimo deposito, associavano l’impressione che ne avevano durante la conversazione che avveniva proprio in fase di deposito, diremmo noi oggi un profilo psicologico, ma ne associavano anche una minuziosa descrizione del volto e corporatura e di tutti quei particolari segni fisici che il creditore aveva. Così vediamo una“statura
grande”, un naso “mostoso” (cioè rosso cupo), la “carnagione fresca”, una grande barba, una mano senza il dito di mezzo tagliato di netto, un dito senza unghia, ecc. ecc[7]. Questa minuziosa descrizione delle particolarità fisiche del creditore va a vantaggio sia del creditore stesso, sia dell’ente ecclesiastico che sarà chiamato in futuro a restituire il deposito al legittimo proprietario. E viene da sorridere quando a fianco di descrizioni su nasi, indumenti e fattezze in genere dei pellegrini, troviamo un’accurata descrizione di una “marginetta” (un neo) che una donna tedesca di cinquanta anni aveva “a lato della poppa manca” (ovvero a lato del seno sinistro). Lo scrupoloso frate misurò e successivamente registrò la “marginetta” nel suo libro; il suo zelo ci dice che la misurò in tre once esatte, equivalenti a circa sette centimetri[8]. Si sorride pensando al ligio frate che con gran cura descrive minuziosamente questo seno femminile. Questa descrizione, come ha notato G. Piccinni, viene ricordata da una novella del Bocaccio, il quale descrive la scena con la sua solita ironia[9]. E sia il Boccaccio a suo tempo, sia la studiosa Piccinni oggi, motivano alla stessa maniera questa attenzione: “il neo nascosto della donna venne indagato con tanta minuzia perché la sua stessa segretezza lo rendeva ottimo “segnale da potere rapportare”.” (G. Piccinni)[10] Le corrispondenze che sussistono tra il reale scritto del frate medievale e quello semi-fantasioso di Boccaccio che ce lo ripropone, tra la spiegazione della studiosa moderna Piccinni e lo stesso “scrittore” Boccaccio, indicano che siamo quindi in quel medesimo contesto, ed al pari degli uditori del Bocaccio sorridiamo della certosina puntigliosità e precisione del frate.
Ricostruiamo quel paesaggio e riviviamo quella terra, due cose imprescindibili e legate l’una all’altra. Per questo il muoversi su due ambiti, quello della ricerca storica e quello della ricostruzione grafica tridimensionale, è non solo funzionale al nostro progetto ma lo è anche in maniera indissolubile se vogliamo raggiungere l’obiettivo prefissatosi: ovvero la ricostruzione di un paesaggio quanto più plausibile possibile, ma mi piacerebbe poter dire qua, quanto più possibile “vero”. È logico che in questa sede non si può trovare né il tempo né le risorse per scendere fino alla massima accuratezza di dettaglio, ma possiamo dire che l’aver affrontato le problematicità che il progetto in via sperimentale porta con sé, ha permesso di vedere quei problemi che sorgono e che andavano risolti durante la realizzazione pratica del progetto. Sono problemi innanzitutto tecnici, l’uso di applicativi di per sé stessi ed anche in relazione alla loro interazione, che sollevano criticità per la cui soluzione ci si è dovuto “aggeggiare “ in qualche
modo, come vedremo nella parte tecnica.
Parleremo più oltre della resa dei diversi paesaggi, in quanto fondamentalmente si tratta della ricostruzione di un paesaggio agricolo e naturale che quindi necessita di spiegazioni riguardanti le modalità realizzative. Ma poiché non gli abbiamo dedicato uno specifico paragrafo, è bene qua ribadire l’importanza dell’insediamento sparso che costella il nostro ricostruito paesaggio.
L’insediamento sparso è infatti il vero marchio della presenza mezzadrile sul territorio, di esso abbiamo accennato nel paragrafo 4.1 in relazione anche della “tipica casa colonica isolata”. La rarità le fa oggi assurgere al bello, ed ogni contemporaneo che guarda quelle case coloniche isolate ed imponenti, immerse nel frutto del loro quotidiano lavoro, non può che provarne una certa soddisfazione estetica. Non voglio sfociare nella visione forse un po’ troppo ottimistica di Finzi[11], ma rilevo che se il sistema mezzadrile si è imposto ed è durato per circa cinque-sei secoli, vorrà dire che un qualche vantaggio l’avrà pur portato anche a coloro che ne erano alla base. Ovvero ai contadini. E d’altronde l’indigenza afflisse il mezzadro come qualsiasi altro lavoratore della terra, e ciò anche da ben prima dell’ancien regime. D’altro canto non mi risulta che molte delle famiglie nate come mezzadrili si siano potute poi sollevare acquistando un differente ruolo sociale. Il sistema aveva una sua certa ermeticità, e come sempre avviene in questi casi, ciò è a scapito delle classi subalterne. Questo dimostra la provata e stabile subalternità, per condizioni economiche, del mezzadro e della sua famiglia. Già là dove l’agricoltura nacque, i contadini venivano cresciuti con leggende atte ad illustrare il perché della loro subalternità e della loro “sofferenza”. Dandogliene una spiegazione eziologica si faceva are surrettiziamente l’inevitabilità/ineluttabilità delle loro condizioni, una lettura atta a portare alla sua accettazione (mi riferisco in particolar modo al racconto sumero-accadico di Utnapišti).
Nell’ambito della mezzadria le terre private delle famiglie (se c’erano) erano generalmente coltivate a monocultura cerealicola. Come si diceva la diffusione della mezzadria significa anche l’espansione della coltura promiscua che
avrebbe garantito l’autosufficienza delle famiglie contadine sul podere. Coltura promiscua legata alla cosiddetta alberata, così tipica della mezzadria collinare dell’Italia centrale. Dove le piante sono più ravvicinate fra loro rispetto alla “piantata”, ovvero i filari di piante unite tra loro da festoni di tralci di vite, tipica della regione emiliana – bolognese. Queste sono tutte annotazioni da tenere in debita considerazione dovendo poi ricostruirle graficamente. A tale riguardo va anche preso in considerazione lo studio di Cherubini riguardante la Tavola delle Possessioni, un estimo dei beni terrieri e urbani redatto agli inizi del ‘300. Sappiamo infatti che i terreni erano coltivati secondo le esigenze dei proprietari, e laddove i terreni erano di proprietà cittadina non mancavano alberi da frutto atti ad impreziosire le tavole dei ricchi proprietari cittadini. All’opposto i contadini preferivano di gran lunga lavorare la terra a frumento e cereali in genere, per i motivi che vedremo nei rispettivi paragrafi. Quindi in funzione della ricostruzione grafica che ci apprestiamo a fare, le considerazioni di Cherubini su questa Tavola delle Possessioni sono per noi di primaria importanza.
Cherubini rileva che mentre nei dintorni della città i cittadini possedevano la grande maggioranza della terra, “con percentuali fino all’80%”, a mano a mano che ci si allontana dalla stessa (città) questa proprietà cittadina diminuiva sensibilmente e tendeva a persistere esclusivamente in quelle zone dove la terra era più fertile e meglio collegata alla città. È evidente quindi che la via Francigena fu “terra di conquista cittadina”, almeno laddove il suo percorso era più ben delineato. Laddove le mire cittadine si affievolivano faceva riscontro una maggiore presenza di terre di proprietà degli abitanti del contado, dando quindi più spazio a quegli usi comunitativi del terreno rispetto al più completo sfruttamento mezzadrile. Nella zona da noi esaminata ne è un esempio lampante la Montagnola che si contrapponeva così ai dintorni cittadini dove l’estensione delle terre private era ben più contenuta. “Quasi i 4/5 dei proprietari residenti a Siena avevano estensioni di terre che non superano i 2,5 ettari e molti tra loro non avevano che campi di poco più di ½ ettaro.” (O. Muzzi)[12]
Illustriamo quindi il paesaggio così come l’abbiamo ricostruito e seguendo le premesse poste nell’introduzione a questo scritto, nonché i suoi primi capitoli. Nella nostra ricostruzione la suddivisione particellare del territorio si basa su
quella del catasto Leopoldino. Ciò è dovuto al fatto che per il periodo medievale non abbiamo catasti o contratti che ci delimitano in maniera inequivocabile i vari appezzamenti di terreno. Di conseguenza, considerato che una qualche discrezionalità andava pur usata, si è creduto opportuno mantenere la più antica particellizzazione del territorio a nostra disposizione: per l’appunto il catasto Leopoldino. Chiaramente però alle varie particelle si sono assegnati “attributi” diversi da quelli presenti nelle tavole indicative ottocentesche, attributi assegnati in base alle ricerche condotte. Grosso modo possiamo distinguere le particelle così ottenute in tre grosse categorie paesaggistiche: la palude, il bosco ed il suolo coltivato o comunque lavorato. All’interno di queste tre grandi categorie verranno trattate saltuariamente ed a secondo del contesto di pertinenza, anche quelle sottocategorie non legate univocamente ad una delle tre menzionate, e quindi un po’ associabili all’una o all’altra, come per esempio l’incolto. Il paragrafo attinente ai boschi invece è stato scelto anche per introdurre i vari elementi arborei delle zone collinare, in quanto mi è sembrato il paragrafo più idoneo a tale trattazione.
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[1] Cfr. G. Devoto – G.C. Oli, 2008, Il Devoto-Oli. Vocabolario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze.
[2] Cfr. C. Grepi, 1991, “Introduzione”, in: AA. VV. 1991, p.15
[3] Cfr. C. Grepi, 1991, ibid.
[4] Cfr. M. Bossi, 1991, “Il laboratorio della misura”, in: AA. VV., 1991, op. cit., pp. 53-70. In particolare si veda l’espressione di Repetti là riportata, a pagina 61.
[5] Cfr. Pio II Piccolomini, I commentarii, Libro IV, cap. XV, trad. di G. Bernetti, Siena 1972, pp. 32-33.
[6] Cfr. C. Grepi, 1991, ibid.
[7] Cfr. G. Piccinni e L. Travaini, 2003, Il Libro del pellegrino (Siena, 13821446),Liguori Editore, Napoli, pp.67-81.
[8] G.Piccinni in base alle Tavole di Ragguaglio interpreta l’oncia senese come uguale a 2,5028.
[9] Cfr. G. Boccaccio, Decameron, II, 9. Boccaccio, G., Decameron, a cura di Branca, V., 2006, Monadori, Milano, Libro II, 9.
[10] Cfr. G. Piccinni - L. Travaini, 2003, op. cit., p.80.
[11] Riporto l’interessante commento che Apergi porta all’altrettanto interessante volume di Finzi, sebbene sia incentrato sulla mezzadria del ‘700-‘800, si è reputato idoneo riportare l’intero o nonostante la lunga citazione: “La serie di esempi storici citati da Finzi induce a formulare una ridefinizione della figura del mezzadro, che corregge quella consegnata ad un filone consolidato di studi, orientati a rappresentarla come una mera forzalavoro, schiacciata dalla propria condizione di miseria. Finzi rintraccia l’archetipo di tale paradigma interpretativo nei fisiocratici (Quesnay), che dipingono la petite culture, cioè la mezzadria,con i tratti di una culture ingrate, qui décèle la pauvreté, e nelle pagine di Beccaria, che intorno al 1770, nei suoi
Elementi di Economia Pubblica annota che i mezzadri sono “poveri massari”, che “non possono portare un capitale di ricchezza sulla terra che intraprendono a lavorare”(pag.24): troppo poveri per apportare alla societas altro che il lavoro delle proprie braccia. Strato sociale pertanto segnato da indigenza perenne. È tale immagine corrispondente alla realtà storica? […]All’interno della stessa condizione mezzadrile, peraltro, occorre differenziare tra podere e podere, a seconda dell’altimetria, delle caratteristiche del terreno, dell’assetto idraulico (…) […] In ultima istanza, tuttavia, il livello di vita del mezzadro e della sua famiglia dipendeva da “un giusto equilibrio” tra la dimensione del podere e quella della famiglia. L’autore ipotizza che nei poderi buoniil rapporto doveva essere di 1 unità di lavoro ogni 6 tornature bolognesi (1,25 ha). […] Per quanto riguarda la questione del debito colonico l’autore sviluppa alcune argomentazioni che merita segnalare. Il debito colonico costituisce una costante nei rapporti tra mezzadro e padrone: la famiglia del mezzadro, impossibilitata a tirare avanti con la prorpia quota di raccolto chiede alla proprietà delle anticipazioni di derrate (quelle che in Toscana venivano definite nei conti colonici le grasce per vitto). Queste verranno concesse e conteggiate, al momento dei saldi annuali, con detrazioni dal raccolto di parte colonica. La famiglia chiederà anticipazioni in occasione di annate sfavorevoli, che possono prolungarsi per più anni, o per uno squilibrio avvenuto tra dimensionecomposizione dell’aggregato residenziale e necessità di lavoro. Questo sembrerebbe innescare un indebitamento crescente a “spirale”, da cui il mezzadro sarebbe qausi endemicamente afflitto. Ciò succede solo “a prima vista”, osserva tuttavia Finzi, in quanto “il quadro non è statico”. Non di rado, infatti, le annate favorevoli possono ridurre o anche pareggiare il conto, portandolo in attivo. E ancora: le carte d’archivio, relativo al caso bolognese (ma questo vale anche per il caso fiorentino descritto, come si vedrà, da Contini), mostrano che il debito può durare per anni e non sempre viene esatto dalla proprietà. A Bologna come in tutte le aree mezzadrili, inoltre, il mezzadro disponeva presso la proprietà di una sorta di conto corrente con la possibilità di avere uno scoperto. In genere il mezzadro non pagava alcun interesse su di esso o un tasso molto basso. Ma solo apparentemente, suggerisce Finzi, in quanto “Di solito il prestito veniva infatti concesso in momenti in cui le sussistenze erano più rare e dunque più costose; segnato sul conto colonico in termini di valore di mercato il debito veniva poi estinto dopo i raccolti, quando i prezzi erano molto più bassi, non in denaro ma in natura”(pag.49) In tal modo la proprietà, lucrando sulle oscillazione di avlore di mercato delle derrate, si appropriava di quantità aggiuntive di raccolto e percepiva quell’interesse che apparentemente non le era dovuto. Va considerato, tuttavia, ipotizza Finzi, che anche da parte del mezzadro
potessero essere messe in atto “malitie” analoghe e speculari a quelle del proprietario: “vendere parte dei propri prodotti in momenti favorevoli del mercato, provvedendo a sé e ai propri familiari con quanto gli presta il padrone contando sulla flessibilità temporale del debito contratto” (p.49).
I riferimenti sono: R. Finzi, 2007, Mezzadria svelata? Un esempio storico e qualche riflessione fra teoria e storiografia, CLUEB, Bolologna. F. Apergi, “Mezzadria Rivisitata. Tre Studi tra Storia, Economia e Antropologia”, visionato all’indirizzo internet: www.annodeimezzadri.it
[12] Cfr. O. Muzzi, 1991, ibid.
4.3 BOSCO
In qualsiasi studio di antropologia, ma anche di filosofia e ancor più di filosofia della scienza, emerge come l’uomo guarda il suo mondo circostante a seconda del mondo che ha già in testa. Un neolitico che ha appena appreso l’incredibile segreto della natura, e che ha iniziato a padroneggiarlo, guarda ad un bosco, da dove prende per vivere i frutti, le radici e gli animali, da dove prende anche qualsiasi tipo di seme che sta iniziando a coltivare, dove riconosce miriadi varietà di piante, ben distinguendo tra ciò che è commestibile o anche utilizzabile da ciò che non lo è, dove discerne le opportunità dai pericoli, guarda in definitiva al bosco come noi guarderemmo un grandioso centro commerciale. O forse ancor più come noi guarderemmo oggi la rete internet, fonte moderna e tecnologicamente all’avanguardia del nostro sapere. Quel bosco luccica agli occhi del neolitico come l’ultimo modello di notebook sony vaio luccica ai nostri (riferimento non casuale). L’uomo del Medioevo è molto più simile al neolitico che a noi.
Innanzitutto per l’uomo medievale non esisteva nessuna netta barriera tra bosco e terreni coltivati, come noi all’opposto siamo tentati a guardare ed a riconoscere. A riguardo si rimanda a quanto si dirà in proposito della palude (sottocapitolo 4.4). Nemmeno voglio ora addentrarmi nella descrizione convincente di come un uomo che viva perennemente a contatto ed immerso nella natura consideri la natura stessa come un’estensione di sé. Né tanto meno voglio trattare l’argomento di come fosse sfumato il concetto e la distinzione delle risorse alimentari del bosco da parte di un uomo portato a sfruttarle e a raccoglierle. Sfumature che rendevano tali risorse assimilabili a quelle coltivate, assai più di quanto oggi non si pensi. Per tali considerazioni rimando a quegli studiosi che hanno realizzato brillanti e convincenti saggi a riguardo, in primis Ponting[1]. Voglio qua però sottolineare, brevemente ma anche chiaramente, che l’uomo medievale aveva di fronte a sé un paesaggio complesso ed articolato, dove il bosco coltivato occupava spazi di foresta spontanea e dove le vigne, i prati atti all’allevamento-pascolo, e i campi coltivati, creavano varchi che bene si integravano con il manto vegetale, rendendone difficile la distinzione.
Il bosco è elemento così tipico delle regioni dell’Italia centrale (Toscana e Umbria su tutte), che mi sembra alquanto strano che per designarlo si usi una parola di origine tedesca, “bosk”, attestata nella documentazione italiana a partire dal X secolo. Tra l’altro queste prime attestazioni si riscontrano in ambiti piemontesi, ciò forse indica come questa parola germanica sia stata assimilata in Italia a partire dal se. D’altronde i Franchi erano germanici di etnia così come lo era la loro lingua, ed anche il loro più illustre sovrano, ovvero Carlo Magno, parlava tedesco ignorando completamente il se di origine romanza.
Anche parlando di boschi bisogna rilevare come nel periodo di nostra competenza essi fossero assai più limitati di quanto oggi ci si figuri. Si coltivava tutto il terreno possibile. Forse ricoprivano anche un’estensione minore rispetto a oggi. L’immagine più esaustiva della campagna collinare senese, come si diceva, è certamente l’allegoria del buon governo di A. Lorenzetti, ed in particolar modo gli effetti del Buon governo sulla campagna. Ora è vero che in quest’affresco il panorama proposto rappresenta sia il contado peri-urbano sia la parte delle cosiddette crete senesi e quindi di per sé stesse zone in cui il bosco ha poco spazio. Ma già il fatto di aver scelto queste zone a rappresentanza del territorio è indice che fossero le più esemplificative dello stesso. In questo affresco è evidente quanto i boschi fossero assai limitati, e questo non è di certo l’unico affresco o resa pittorica a testimonianza della loro scarsa estensione (si veda nel paragrafo 1.8: Attestazioni pittoriche-artistiche: affreschi, dipinti e illustrazioni).
Il bosco era una fonte importantissima di legname, elemento fondamentale sia per la costruzione sia per il riscaldamento. Per la prima funzionalità si veda per esempio l’altopiano di Asiago, un tempo terreno interamente ricoperto da foresta e successivamente completamente disboscato nel corso del Medioevo per costruire Venezia. Per la seconda funzionalità si consideri la diffusione del bosco ceduo in regime di mezzadria, esso infatti forniva non solo materiale da costruzione ma soprattutto l’approvvigionamento energetico per la famiglia del podere. Era inoltre ben inserito ed integrato nell’economia del podere, essendo
utilizzato anche per il pascolo. Nel Chianti, zona adiacente a quella da noi qua studiata, i querceti erano estremamente importanti consentendo il pascolo dei suini. A riguardo e per rendere l’idea dei quantitativi numerici degli animali al pascolo per estensioni di terreno, rileviamo che secondo uno studio di Montanari riferentesi all’alto medievale, una superficie di circa un ettaro di incolto avrebbe consentito il pascolo di solo due o tre porci[2]. Ma le cose in questo caso non dovrebbero essere state molto diverse nel periodo immediatamente successivo. Ad ogni modo il bosco ceduo era una zona produttiva anche dal punto di vista agro-pastorale. Il bosco era poi terreno di caccia, e la selvaggina era un’importante fonte alimentare per l’uomo medievale. Le prede più cacciate erano sicuramente gli ungulati: cervi, daini, cinghiali, caprioli. Ma non si disdicevano affatto né le lepri né gli uccelli. Gli strumenti base per la caccia erano la balestra e soprattutto l’arco, quest’ultimo era strumento più semplice da costruire anche se non da utilizzare. Per esso si usava principalmente il legno di tasso, sambuco, frassino, nocciolo. Ma vediamo quali sono gli alberi che popolavano nello specifico i boschi, ed in generale l’ambiente collinare.
La rovere doveva essere in ato ben più presente delle sporadiche attestazioni contemporanee. Il valore del suo legname la rendeva appetibile alle esigenze dei singoli individui. Inoltre il progressivo ampliamento del terreno messo a coltura ai danni del bosco, fece ritirare quest’ultimo in zone marginali dove il terreno meno ricco, dava scarso o alle piante più esigenti. E tra esse per l’appunto troviamo la rovere, ma anche la farnia.
Il bosco tipico delle zone collinari toscane è costituito certamente da cerrete e querceti di roverella, ma più che da boschi specializzati si hanno formazioni miste di querceti. Se la cerreta in genere occupa i terreni più “freschi”, e quindi con esposizione nord e nord-est, il bosco di roverella occupa invece le pendici più degradate. In questi boschi però si assiste alla forte concorrenza tra le citate specie quercite da una parte e le relative specie gregarie dall’altra. Tra quest’ultime spiccano: il carpino nero (ostrya carpinfolia l.), l’orniello (fraxinus ornus l.) ed il ginepro. Laddove poi il bosco si apre in radura dominano la ginestra (spartium junceum l.), il ginepro ed il prugnolo. In questi ambiti di forte concorrenza tra specie vegetali, l’impatto dell’uomo sembra avvantaggiare sempre più queste specie gregarie. Diciamo che l’espansione della popolazione
umana del XII e XIII sec. non ha per nulla giocato in favore delle specie quercite. Con l’espandersi della popolazione non solo si strappavano i terreni migliori ai boschi, ma si procedeva anche alla “coltivazione” degli stessi, come precedentemente sottolineato. Nel senso che molti boschi furono trasformati in boschi cedui (ovvero da taglio) per le esigenze proprie degli uomini. Se ciò da un lato penalizzava le specie quercite dall’altro avvantaggiava le loro specie gregarie. A tale riguardo vediamo quali spiegazioni adduce Cavalli:
I motivi sono diversi (e non tutti ben definiti). Si può osservare una maggiore capacità del carpino nero e del frassino minore, in contemporanea con una “crisi” riproduttiva delle querce nei boschi trattati a ceduo. Carpino e Orniello sopportano molto bene le condizioni di elevata concorrenzialità. Infatti emettono il fogliame circa un mese prima del cerro e della roverella, e questo consente loro di assicurarsi un sufficiente vantaggio che ne permette la sopravvivenza. (S. Cavalli)[3]
Di conseguenza il bosco di farnia e rovere, associato o meno al castagno, occupava i terreni più scoscesi e meno produttivi dei versanti collinari, ed integrava perfettamente l’economia agricola del contado. Le fronde erano conservate per l'alimentazione invernale del bestiame, la corteccia di farnia veniva utilizzata per conciare le pelli, le ghiande servivano per l'allevamento brado dei maiali e le castagne erano una fonte fondamentale di apporto calorico per la sopravvivenza delle popolazioni della zona.
La tipologia dei rivestimenti boschivi e dei relativi elementi arborei colà presenti era sicuramente maggiore di quella oggi riscontrabile. Questa maggiore biodiversità si concretizzava in diversi tipi di bosco, magari poco estesi ma che variegavano l’indiscussa egemonia delle querce. Allora come ora. Vi sono ancora oggi stazioni di tasso in collina, una di esse è proprio nei dintorni di San Gimignano. In quest’ultimo caso si tratta di un versante esposto alla tramontana, e quindi idoneo a specie arboree più montane di quelle che normalmente popolano i boschi collinari. Erano proprio queste zone caratterizzate da particolari microclimi e da situazioni orografiche che si rendevano atte ad
ospitare alberi montani come il tasso o il faggio. A San Gimignano oltre a stazioni dove il tasso diveniva ben più che sporadico, si potevano riscontrare, e tutt’ora si riscontrano, i faggi nella zona di Castelvecchio. Ciò avveniva anche, allora come ora, nella Montagnola del Monte Maggio. Ma queste specie già di per sé stesse poste in zone residuali venivano danneggiate dal “taglio”, ciò a vantaggio di quella specie più aggressive, che limitavano la rovere e la farnia.
In questo panorama collinare sono protagonisti di primo piano sia il pino Marittimo che le due varietà di pino selvatico e domestico. Se il pino selvatico è autoctono, il pino domestico risulta essere di importazione. Tra essi il Pino selvatico è quello che ha avuto un rapporto più travagliato con la terra Toscana, sebbene fosse originario della zona. Fino al ‘700 veniva considerato una specie di infestante dei castagneti e dei querceti, e in quanto tale veniva anche combattuto[4]. A partire dall’età dei lumi si iniziò poi a vederlo sotto un’altra luce: era sì in competizione con querce e castagni, ma si trattava di una competizione non particolarmente aggressiva, mitigata poi dal fatto che il Pino selvatico cresceva rapidamente dando così in tempi rapidi un gran quantitativo di legna da utilizzare soprattutto in ambiti costruttivi. La sua attuale forte diffusione in Toscana è legata soprattutto ai forti rimboschimenti che a partire dall’800[5] lo videro tra i beneficiari. Il Pino marittimo è invece tipico delle zone a rischio incendio, là dove si espande la macchia mediterranea. Il fuoco è il suo migliore amico, colui che gli elimina una concorrenza che altrimenti non potrebbe riuscire a vincere: quella delle latifoglie. Esse con le loro chiome gli sottraggono la necessaria insolazione, “ma soprattutto il bosco di latifoglie modifica la natura minerale dei suoli, apportando sostanza organica e avviando il processo di umificazione, rendendoli inadatti alla germinazione dei semi di pino” (S. Cavalli)[6]
Ma veniamo all’immancabile protagonista di ogni cartolina proveniente dalle colline Toscane: il cipresso. Albero di sicura quanto antichissima importazione, la cui sorte potrebbe essere legata a quella degli Etruschi. Pianta originaria del bacino del Mediterraneo orientale. Cresce spontaneamente sulle montagne con clima arido di Iran, Turchia, Grecia continentale, Creta e Cipro, generando formazioni di bosco naturale. Per la sua verticalità assoluta, per la sua aerodinamica propensione a spingersi verso l’alto, è stato in ambito cristiano
sempre legato alla religiosità, all’ascensione dell’anima in cielo dopo la morte. In questa funzione lo si ritrova ancor oggi ad ornamento dei luoghi dei morti, i cimiteri, per i quali ambiti non sfuggì che le sue radici al pari della sua chioma si slanciava in direzione verticale, ma questa volta in direzione opposta. Il suo legame al culto dei morti risale già all’età classica. Il cipresso è infatti l’albero di Ade, dio dei morti, il cui fogliame scuro e austero veniva utilizzato dai sacerdoti nei riti legati a tale divinità degli Inferi; al tempo stesso era però anche associato ad Artemide e quasi paradossalmente ad Apollo, dio del sole. È anzi a quest’ultimo che si lega la sua leggenda eziologica[7]. È una specie che sebbene sia anche presente nei boschi, sia puri che misti, in Toscana la si ritrova, e ritrovava, soprattutto nelle zone coltivate. La sua ampia diffusione in contesti a forte impronta antropica ha diverse motivazioni. Il suo legno pregiato era molto ricercato per le costruzioni, mentre la sua forma così signorile e autorevole ne faceva un valido designatore di confini di proprietà. Delle sue radici che spingendosi verso il basso senza allargarsi nella superficie del terreno, lasciando così indisturbato il riposo dei morti, già si è detto. A partire poi dal ‘400 le ville extra urbane assunsero sempre più un particolare ruolo di status symbol, ed in questo contesto il viale alberato e delimitato da un duplice filare di cipressi divenne la norma che prevalse sui tigli, sui pini marittimi ed anche sui lecci. Quest’ultimi erano assai rari in questo contesto.
I boschi di castagno sono tipici di zone più montane, ma comunque il castagno non era sconosciuto in zona visto e considerato che da sempre è fonte di alimento. Queste piante sono però sensibili e necessitano di cure sebbene siano selvatiche. Soprattutto in funzione delle piante “infestanti” come l’edera. D’altronde le cure non si limitavano al solo castagno ma si estendevano all’intero bosco, e venivano apportate dagli uomini che in quelle zone vivevano. Certo le cure erano limitate in quanto il sottobosco preservando l’umidità è funzionale ad una crescita propria del bosco medesimo, e così l’edera non raggiungeva le fronde e non arrivava quindi a coprire le foglie, anche perché a differenza delle piante ad alto fusto essa non ama la luce piena. Il sottobosco poi fornendo bacche e foglie è anche fonte alimentare. Ciò detto una “manutenzione” del bosco è non solo opportuna ma necessaria per “indurre” il bosco, ed il castagno in speciale modo, ad una maggiore produzione funzionale all’uomo. L’edera non uccide il castagno, ma di certo ne limita la produzione di frutti. Ad ogni modo le castagne venivano raccolte ancora nel loro ricciolo ed ammassate in cantina o nella stalla, di modo che all’arrivo dell’inverno vi fosse
una buona scorta alimentare dal difficile deperimento. Nel bosco poi si trovavano anche alberi da frutto da cui si raccoglievano, per l’appunto, i frutti. Si tratta del pero, melo, nespolo, melo cotogno, mandorlo, fico, olivo, sorbo, noce, i cui frutti oltre ad essere dirette fonti alimentari venivano utilizzati anche per la produzione di un olio utilizzato non solo per condimenti ma anche come combustibile per le lampade. Vi era poi una grande varietà di erbe aromatiche utilizzate per i più svariati usi, non ultimi quelli medicinali, e in sostituzione del sale e delle spezie.
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[1] Cfr. C. Ponting, 1992, Storia verde del mondo, SEI, Torino; J. Diamond, 1998, Armi, acciaio e malattie, Einaudi, Torino.
[2] Cfr. N. Montanari, 1979, L’alimentazione contadina nell’alto medioevo, Liguori Editore, Napoli, p. 232-233.
[3] Cfr. S. Cavalli, 1991, “Il bosco e la collina”, in: AA. VV. 1991, op. cit.
[4] Cfr. Cavalli, 1991, ibid.
[5] Ad esempio quello in una zona non lontana dalla nostra anche se di differente contesto orologico e climatico: quello nel Monte Pisano. Certo però che a partire da questi rimboschimenti si irraggiò ancor di più nel panorama toscano.
[6] Cfr S. Cavalli, 1991, op. cit., p.163.
[7] L’origine mitologica del cipresso è narrata nella leggenda greca del bel giovane Ciparisso. Il dio del sole Apollo si era invaghito della bellezza di questo giovane, il quale aveva per compagno un cervo addomesticato. Mentre un giorno si esercitava con l’arco, Ciparisso (Kuparissos) colpì mortalmente il cervo. Tanta era la sua disperazione da implorare a sua volta la morte. Apollo, commosso dal dolore del suo amato, lo trasformò in un albero al quale dette il nome di cipresso, e che diventò da allora il simbolo del lutto e dell’accesso all’eternità.
4.4 PALUDE
Distinguere una zona prettamente paludosa da una zona messa a coltura è operazione facile ai giorni nostri ma ben più difficile in periodi a noi precedenti. Si rileva infatti che nelle varie “proprietà” molto spesso non vi è una vera e propria suddivisione a secondo dell’uso agricolo, anzi nella documentazione antica non vi è nemmeno una netta contrapposizione tra paesaggio colto ed incolto. Queste due casistiche sono presentate più che come contrapposte, come fortemente legate e complementari dal punto di vista dello sfruttamento. Questa appena fatta è premessa che vale per ogni “particella” del terreno da noi studiato e caratterizzato, ma a maggior ragione per le particelle inglobate in zone paludose.
igli ci dà uno spaccato di questa situazione presentandoci alcuni contratti di concessione stipulati tra l’XI ed il XIII sec. dal monastero romano dei ss. Andrea e Gregorio al Clivio di Scauro[1]. Siamo in territorio pontificio grossomodo tra Castel di Guido e la Bottaccia, collocabile presso il XII miglio della via Aurelia. Qua l’oggetto della concessione viene genericamente riferito come “fundus”, denominazione antica atta a designare un’ampia ripartizione del suolo agricolo, la quale comprendeva indistintamente una parte di terreno seminato, una parte del pantano di Lorano, una porzione della “selva cancellata” con alcune vigne al suo interno, fili di salina per l’estrazione del sale, selva, oltre che pantano per il taglio della legna ed il pascolo dei porci. Sebbene siamo in territorio paludoso, si menzionano tutte queste attività agricole, non ultima il pascolo dei porci, a dimostrazione che anche dove si parla di palude, essa non va intesa come luogo privo di risorse e del tutto inospitale come all’opposto l’ho vista rappresentata (2011) nel sito del nuovo centro della via Francigena localizzato a Badia a Isola. Là il monastero viene presentato come un qualche edificio della Venezia medievale, o meglio ancora come un faro isolato in mezzo al mare. È una visione eccessiva e del tutto fuorviante della natura del territorio circostante. La palude è una zona che gli antichi sapevano ben sfruttare e che nonostante le innumerevoli difficoltà che essa pone agli insediamenti umani, malaria in primis, era anche abitata. Se opportunamente “lavorata” essa poteva fornire non solo risorse alimentari di prima neccessità, ma anche risorse anacronisticamente
definibili come “industriali”, e ciò in quantità ben maggiori di quanto oggi ci possiamo figurare.
In questa direzione conducono anche dei recenti studi riguardanti l’ecologia della palude, i quali mettono in rilievo l’alta produttività in termini di risorse di questi ambienti. Secondo igli è proprio questa alta produttività che ha favorito il persistere a lungo delle attività di caccia e di pesca in questi ambienti[2]. A riguardo i due studiosi Ribereau e Gayon dimostrano con novizia di dati che “un kilometro quadrato di palude può nutrire più abitanti che la stessa superficie di foresta chiara di conifere e il doppio di una superficie di prateria”(Ribereau-Gayon, 1997b)[3]. Gli studi storici e archeologici oggi mettono in evidenza la ricchezza di risorse che una palude forniva agli abitanti locali[4]. A riprova di ciò igli cita anche un documento del WWF dove si legge, “Nelle lagune e nelle paludi costiere, ad esempio, la produttività espressa come biomassa e numero di specie, è eguagliata soltanto dagli ambienti di foresta tropicale” (WWF, 1996,p.2)[5]. Si parla di paludi costiere e non lacustri, ma è comunque indice della ricchezza delle paludi in genere.
La stranezza di questa terra non arabile, in cui il selvatico contiene anche un’idea primigenia di Eden, fa diventare i suoi prodotti oggetto di prelievo più che di coltivazione, chi se ne appropria ha più la mentalità del cacciatoreraccoglitore che non quella del contadino. […] i palù possiedono un principio quasi autonomamente auto fecondativo [...] e per questo estraneo e complementare alla comunità dei contadini che lo appropria. (N. Breda)[6]
Lo si vede soprattutto per quelle paludi ormai ben studiate del Veneto. Esse erano sfruttate in maniera incredibile, tanto è vero che sostenevano popolazioni numericamente rilevanti per l’epoca. D’altronde la palude nel momento in cui viene abitata, si può dire che viene anche “coltivata” e forgiata dall’uomo al fine di renderla maggiormente produttiva. Intendere la palude come creazione umana non è affatto improprio né tanto meno paradossale. In proposito si può citare una testimonianza contemporanea raccolta da Breda riguardante la bonifica di una palude. Si tratta di una testimonianza all’interno di uno studio
antropologico che però rende l’idea di come la palude veniva vissuta e produttivamente sfruttata dalla popolazione. La testimonianza è di un vecchio abitante di quella che oggigiorno sopravvive come la palude del Busatello, siamo nel Veneto.
In più cos’hanno fatto, hanno abbassato i livelli dell’acqua, abbassando i livelli dell’acqua, nella palude non c’è più acqua, e se non c’è più acqua non c’è più vegetazione, la stanno distruggendo, quello che prima era patrimonio, perché qui in questa zona, Gazzo, Roncanova, Maccacari, che lavorava era circa 1000 persone, cioè si raccoglieva le canne e si costruiva le stuoie (Nando L., citato da Breda)
Ritengo che se comunque da un lato è vero che in quelle zone oggigiorno lavorino meno persone, dall’altro la bonifica ha reso quegli appezzamenti di terreno più produttivi in termini di “calorie” e quindi più idonei a mantenere un più alto numero di individui. Detto ciò per inciso, è interessante però rilevare il cambio di punto di vista, antropologicamente parlando, a prescindere dalla produttività dei terreni.
Anche da questa affermazione si coglie quel grande sforzo quotidiano che si è prolungato nei secoli per “impadronirsi”dell’acqua, e per rendere la palude una risorsa. “E di conseguenza lo sgomento che deve esserne seguito nel vederla andare via per sempre, nel vedere rovesciato, completamente capovolto ed annullato una volte per tutte il mondo che si era volutamente creato “trattenendo le acque”. (Breda)[7].
Va detto che in ato raramente si formavano entità statali o comunque di potere così forte da poter progettare di strappare i terreni alla palude. Nel nostro ambito è da rilevare che in Toscana solo con l’affermarsi del dominio di Firenze si crea un’entità politica così forte da potersi impegnare, o tentare di impegnarsi, nello strappare alla palude terre da mettere a colture. E comunque anche in Toscana si attuano piani “seri” di bonifiche solo a partire dal ‘700 e per impulso
dei Lorena. Per il ato si citano di solito le bonifiche effettuate sotto l’impero romano, ma l’impero romano è stata costruzione politica così incredibile che non può essere presa come regola. In genere l’approccio nei confronti della palude non era quello della lotta, che si afferma più che altro in età moderna, ma quello del suo sfruttamento. Al prelievo di risorse alimentari si affiancava poi la raccolta di elementi vegetali ad uso “industriale”. Si consideri anche che documenti notarili del XIV sec. testimoniano la pratica dell’uccellagione, della pesca e di altre attività in palude, il cui diritto era tutelato da clausole dettagliate. Questo “prelievo” dalla palude veniva condotto non solo per proprio uso alimentare, ma anche in funzione della sua commercializzazione.
Citiamo un’altra testimonianza tratta da Breda ed atta ancor più a mettere in evidenza l’integrazione che in ato esisteva tra palude ed agricoltura[8]:
“Le acque, le acque, loro quando hanno fatto al bonifica hanno rovinato tutte le valli di San Pietro e anche quelle di Gazzo, tutte tutte tutte, per poi, adesso capiscono di aver sbagliato, ma lo sapevano da prima (…) sì hanno bonificato un po’ di campi di terra, ma un bacino naturale come quello lì, di acqua, che tratteneva non si sa mica quanta acqua, per poi irrigare terre che, veramente ci sarebbe voluta adesso, perché quando abbiamo delle estati calde come quest’anno, che bisogna irrigare il raccolto, e non hanno più l’acqua!” (Ido B. citato da Breda)
Da questa testimonianza si carpisce quanto fosse “tangibile” la compenetrazione fisica, e la complementarietà economica tra palude e agricoltura, per un abitante della palude o del circondario. Non che si debba prendere la testimonianza precedente come prova definitiva dell’inutilità delle bonifiche, sarebbe troppo stupido e cieco al solo pensarci. È evidente. Ma quando come inizialmente in questa introduzione ci si domandava sull’incredibile dato numerico della popolazione nella toscana nel basso Medioevo, è fuori di dubbio che parte del merito era dovuto anche alle paludi successivamente bonificate, che economicamente parlando ben si complementavano con l’agricoltura. D’altronde ritornando ad un “fundus” del monastero di Scauro menzionato in un
documento del 1236, questo veniva descritto senza precisare l’individualità dei singoli appezzamenti. Allo stesso modo “si faceva espresso riferimento al diritto di entrare sia nella terra seminata sia nella selva in essa compresa” (igli). Infatti in questi ambiti paludosi i terreni coltivati o sfruttati a pascolo ed i terreni propriamente paludosi, erano così bene integrati fisicamente, che erano l’uno compreso entro i confini dell’altro, e per gli abitanti erano entrambi degni di individuale considerazione, senza che ne emergesse uno come marginale dell’altro. D’altronde stiamo parlando di individui umani immersi totalmente nel loro territorio. In un territorio dove al pari dell’uomo moderno nascevano, crescevano e morivano; ma da dove diversamente dall’uomo moderno difficilmente sarebbero potuti evadere per vedere ed interagire con differenti contesti ambientali. Almeno per la stragrande maggioranza di loro. Era un immergersi completo nel loro contesto ecologico, che veniva metabolizzato come un’estensione di loro stessi.
Procedendo a ritroso ci rendiamo conto che l’ambiente era percepito sempre più come parte di sé stessi, un elemento familiare che non implicava la necessità di essere descritto minuziosamente. (igli)[9]
In questi terreni le suddivisioni “funzionali” si dissolvevano totalmente nell’uso integrativo che ne facevano i residenti. Per noi oggi abituati a sfruttamenti agricoli intensivi ciò è difficile da figurare. Quando guardiamo un bosco, quando guardiamo dei terreni agricoli ben suddivisi e parcellizzati, noi ne abbiamo/ricaviamo anche una suddivisione funzionale coincidente con i confini delle particelle. Non era affatto così. L’integrazione dei vari elementi era ciò che balzava agli occhi di quegli uomini, e di certo la ricchezza e le cose che un uomo che viveva in palude “vedeva” in quel territorio, erano ben diverse da quella visuale attraentemente selvaggia ma inospitale che ne trarremmo oggi.
In fase di ricostruzione in Sketch Up si sono seguite le premesse speculative di questo paragrafo e dell’introduzione, nonché le indicazioni che verranno fuori dal successivo paragrafo sulle terre coltivate e sui terreni incolti. Così si è proceduto a creare una zona in cui elementi diversi si integrassero. Sketch Up
presenta un notevole numero di elementi arborei e vegetali scaricabili dalla galleria di modelli che possono risultare utile per la ricostruzione di una palude.
Per la resa di come sarebbe dovuta essere la zona paludosa intorno a Badia a Isola, soprattutto per quanto riguarda il paesaggio vegetale, ci vengono in aiuto l’attuale stagno di Sibolla (Altopascio), che rappresenta una porzione dell’antica palude di Bientina, il “padule” di Fucecchio e il lago di Massaciucoli. Soprattutto per i primi due si potrebbe parlare di paesaggi/residui “fossili”, con le dovute precauzioni legate al differente “uso sociale” che ora si fa della palude, a testimonianza di come sarebbero dovute essere le zone umide interne della Toscana. Tramite questo tangibile ed attuale esempio e tramite le premesse e le considerazioni riportate, si è proceduto ad inserire alcuni alberi, generalmente solo a margine della palude vera e propria. La quale era occupata da praterie di “elofite” e di “pleustofite”[10].
In questo ambito quindi la specie arborea più imponente da noi inserita è il salice piangente. Lo si ritrova in genere in prossimità dell’acqua, sulle rive dei fossi di cui regge la terra con le sue capillari radici. Non produce frutti commestibili all’uomo, ma ciò non vuol dire che non venga abbondantemente utilizzato da quest’ultimo. Incontriamo i suoi lunghi e “piangenti” rami ormai recisi dall’albero madre, sia intrecciati in cesti e in contenitori vari, sia come vero e proprio “spago” di campagna nelle legature delle viti e delle cataste di legna. Non c’è miglior albero che possa rappresentare la palude, ed anche nella mitologia greca esso rappresenta l’Idra-salice. Un mostro delle paludi dalle cento teste, la cui vita terminò solo per mano dell’eroe Teseo. L’amico di Ercole sudò abbastanza per avere la meglio sull’Idra, visto che si era intestardito a recidere con la spada le teste che poi prontamente ricrescevano. Poi ebbe la bell’idea (bella per lui, meno per l’Idra) di colpire il mostro con una freccia al cuore. E lo scontro cessò. In Oriente il salice piangente ha un simbolismo positivo, rappresenta l’immortalità, l’eternità e la spiritualità. Per questo motivo il suo legno è utilizzato per le statue, le colonne e gli elementi dell’architettura sacra. In occidente, invece, ha un significato più “melanconico”, ispirato dai suoi rami che non ce la fanno ad innalzarsi al cielo e che ricadendo al suolo danno l’impressione da cui ha avuto origine il suo nome proprio: salice piangente, per l’appunto. I viali degli inferi tanto per ritornare alla mitologia
greca, sono costeggiati da salici e pioppi, alberi che rivestono un significato analogo essendo entrambi collegati al lutto.
Si sono poi rappresentate altre specie vegetali tipicamente palustri. Abbiamo inserito varie specie di canne, giunchi e fiori vari quanto più simili possibili alle specie vegetali che realmente popolarono e popolano le zone paludose della Toscana. Si sta parlando delle seguenti: typha latifolia l., iris pseudoacorus l., carex vulpina l., sparganium erectum l, nympheaea alba (ninfea bianca), falasco, hibiscus palustrise, giunco fiorito, pigamo giallo, veronica erba grassa ecc. ecc. E’ attualmente presente nei residui paludosi toscani, e presumibilmente lo dovrebbe essere stato in ato, anche la drossera rotundifolia, rara pianta carnivora che si nutre di piccoli insetti.
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[1] Cfr. S. igli, 2001, “La strada, il suo ambiente, il suo uso. La via Aurelia fra XII sec. ed XVIII sec.”, in: , AA.VV., 2001, I. Fosi- A. Pasqua Recchia (a cura di), Strade paesaggio territorio e missioni negli anni santi tra medioevo e età moderna, Ministero per i Beni e le Attività culturali, Gangemi Editore, Roma, pp. 105-154.
[2] Cfr. S. igli, 2001, ibid.
[3] Cfr. M.D. Riberau-Gayon, 1997, Le temps mythique de la tradition. Fonction symboliques de la transmission des savoirs naturalistes, Communication au Colloque du Programme Environnement, Vie et Société, CNRS, Toulouse.
[4] cfr. tra gli altri per esempio: M. Calzolari, 1986, Territorio e insediamento
nella bassa pianura del Po in età romana, (Tesi di Dottorato), Verona; G. Traina, 1988, Paludi e bonifiche del mondo antico. Saggio di archeologia geografica, L’Erma di Bretschneider, Roma.
[5] Cfr. WWF Italia,1996, Le zone umide in Italia, WWF Edizioni, Roma, p.2
[6] Cfr. N. Breda, 2000, op. cit., p.8
[7] Cfr. N. Breda, 2000, op. cit., p.132.
[8] La testimonianza si riferisce a tempi relativamente recenti ma fino all’affermazione completa dell’industrializzazione, che in Italia significa nelle fasi immediatamente successive alla seconda guerra mondiale, le condizioni delle zone paludose-agricole erano grosso modo le stesse.
[9] Cfr. S. igli, 2001, ibid.
[10] Le “elofite” sono specie vegetali che vivono semi sommerse ai margini dei corpi d’acqua. Le “pleustofite” invece sono specie che vivono flottanti o natanti in acque poco profonde.
4.5 TERRENO COLTIVATO (GENERALE)
Nella fase preliminare di raccolta dati per la ricostruzione tridimensionale, ci si è presentata una terra fortemente coltivata, soprattutto laddove il dolce declino collinare poteva essere sfruttato. L’allegoria del buon governo del Lorenzetti è di fatto emblematica in tal senso. E d’altronde la Toscana del ‘200 era incredibilmente popolata per quel tempo; sebbene tale livello di popolamento avrà avuto più motivazioni, di certo esso non poteva prescindere da un uso del suolo estensivo da un punto di vista agricolo (ma per quel tempo intensivo).
Dunque per quanto riguarda l’utilizzazione agricola, la Toscana è sostanzialmente una terra povera, se è vero che il 90% della superficie (la collina e la montagna) presenta quasi senza eccezione terreni poco profondi, spesso aridi, inadatti alle fondamentali colture erbacee anche nel caso (del resto poco frequente) di buone caratteristiche chimiche e fisiche. (…) Lo squilibrio tra l’intenso popolamento, che forse non aveva uguali nell’Europa del tempo, e l’esiguità e la povertà della terra, era, pur tenendo conto di differenziazioni locali spesso assai forti, l’elemento caratterizzante della Toscana di allora. (Pinto)[1]
Non si può non concordare con Pinto, ed il paradosso menzionato è forse frutto della grande varietà di differenti terreni che in brevi spazi si susseguono l’uno all’altro. È in questa loro integrazione e complementarietà che risiede la ricchezza della Toscana basso medievale. Le risorse del bosco di montagna e dell’Appennino, come il castagno, si integrano con il pesce e altri prodotti, alimentari e non, provenienti dalle paludi, come quelle di Fucecchio, Bientina o della Valdichiana-Chiusi, e ad essi si vanno aggiungendo in sinfonica complementazione le zone collinari regno di cereali e legumi, di cui nel Medioevo molto “si abusava”. Lo stesso territorio da noi analizzato sembra una miniatura di quello della Toscana. Dalla palude di Badia a Isola si sale subito per le pendici della Montagnola di monte Maggio, a cui segue una piana, la quale poi si incammina per le colline subito dopo l’attuale centro abitato di Gracciano.
È in questo integrarsi di zone così diversificate, in spazi così contigui, che risiede la ricchezza di una terra dove l’agricoltura di fondovalle poteva essere integrata dai castagni della montagna e dalle coltivazioni alberate delle pendici collinari. Sono in queste “interfacce” di confine che si cela una surrettizia ricchezza sul modello di come lo è stato per l’Anatolia del III-II mill a.c., così ricca di popolazione sebbene così povera all’apparenza. D’altronde secondo Erodoto i primi abitanti della Toscana di cui si ha notizia scritta, quegli Etruschi a cui tanto dovevano i Romani, erano originari della Frigia e quindi dell’Anatolia. Come se nel loro lungo peregrinare si fossero fermati proprio là dove avevano sentito “odore di casa”.
Certo, se da un lato le zone paludose respingevano le popolazioni verso le pendici di monti e colli, e se dall’altro l’inospitalità delle zone più altimetricamente rilevabili le rigettava a sua volta verso il basso, non ci si può stupire del suo raggrupparsi sulle colline. E d’altro canto non si può non considerare che l’incredibile densità di popolamento, come rilevata giustamente da Pinto per i canoni del tempo, era resa possibile proprio dallo sfruttamento di ciò che li respingeva: le paludi in basso, e le zone montagnose in alto. Fatto sta che nella Toscana dell’età di Dante il popolamento della regione raggiunse livelli elevatissimi, addirittura si calcola che s’aggirasse intorno al milione e trecento mila abitanti.
Come abbiamo rilevato nel paragrafo attinente ai processi storici che attraversarono le campagne toscane, e ovviamente quindi le sue colline, dopo la Peste Nera del 1348 e dopo le epidemie che si susseguirono frequenti negli anni successivi, le cose cambiarono assai radicalmente nelle campagne e nel paesaggio collinare. Con la forte riduzione della popolazione le terre ritornarono ad essere terribilmente vaste, di conseguenza molte di esse furono abbandonate e lasciate incolte. D’altro canto la riduzione quantitativa delle derrate agricole lasciava spazio a quelle colture “di lusso”, che così andarono ad estendersi nelle zone migliori, prima quasi esclusivamente coltivate a cereali. Tra queste colture la vite guadagnò in qualità, da allora in poi fu impiantata nei terreni migliori e là vi rimase ancorata. La vite era largamente coltivata anche prima del 1348, e fu coinvolta nel generale calo di produzione. Lo spazio a lei spettante subì una drastica riduzione, ma allo stesso tempo guadagnò i terreni migliori, ora non più
spettanti ai soli cereali vista l’abbondanza di terra che si era andata creando per lo spopolamento. In funzione di ciò si svilupparono anche quelle varietà d’uva considerate di maggior pregio. In definitiva si può dire: qualità al posto della quantità. Inoltre sebbene la quantità totale andava decisamente calando, è probabile che in genere si ricavò maggior quantità per unità di superficie coltivata.
La fortissima crisi demografica successiva alla metà del ‘300 (la popolazione si ridusse del 75-80%) cambiò profondamente i connotati del paesaggio, rendendolo desolato ed affascinante, e relegando le viti nelle “chiuse”, piccoli appezzamenti protetti da siepi o da muri, ai margini dei campi a cereali che si estendevano a perdita d’occhio. (Pinto)[2]
Anche il ruolo degli alberi coltivati mutò radicalmente in senso di una maggior produttività per unità di terreno. Si concentrarono maggiormente in quegli “appezzamenti” sopra citati, ed in questo contesto essi dovevano essere accuratamente potati per impedire che fero troppa ombra sia alle viti che al terreno sottostante dove si seminavano i cereali. Sempre nei terreni più bassi, “le viti potevano essere sistemate in filari lungo le prode, leggermente più alte, che chiudevano i campi a cereali.” (Pinto)[3]
Occorre tener presente che in nessun caso si tratta e si possa anche solo parlare di coltura specializzata; questa poteva comparire soltanto con l’oliveto della lucchesia, quindi fuori dall’ambito granducale (C. Greppi)[4]
Nella ricostruzione di questi terreni coltivati ci si è in generale abbandonati ai seguenti criteri: si è partiti chiaramente dalla più antica e dettagliata particellizzazione del terreno con annessa descrizione dell’uso del suolo, appunto il catasto Leopoldino, e poi tirando le somme di ciò che si dirà nei paragrafi successivi, si è proceduto alla ricostruzione. A Monteriggioni, per fare un esempio, il catasto ci segnala un terreno completamente messo a oliveto, sia dentro le mura che fuori dalle mura, è chiaro che così non poteva essere stato nel
basso Medioevo[5]. Infatti solo una minima parte dei contratti di mezzadria ci segnala la presenza degli olivi, circa il 10% di essi. Contratti che per giunta sono di un periodo leggermente successivo a quello da noi considerato. Così ci si è limitati a mettere l’olivo grosso modo nel 7% dei campi coltivati, ritenendo tale percentuale idonea ad una resa plausibile del paesaggio agrario. L’olivo è stato localizzato là dove il terreno era ad esso più favorevole, quindi sui declivi collinari. Se ne è messo però qualcuno anche all’interno delle mura di Monteriggioni, e ciò necessita di una qualche chiosa. È un dato di fatto che nel basso Medioevo l’olivo fosse considerato prodotto di pregio, meno atto al sostentamento e più alla buona tavola, ed è per questo che si è reputato ragionevole privilegiare infra-mura quelle coltivazioni più adatte a sostenere i suoi abitanti in periodi di assedio. Però d’altro canto essendo Monteriggioni segnalataci nel catasto Leopoldino come interamente coltivata ad olivo, e non avendo prove non controvertibili che di olivi non ce ne fossero al suo interno nel due-trecento, si è optato nel metterne qualcuno all’interno delle mura. Un colpo al cerchio ed uno alla botte.
L’aumento dell’impianto di olivi e di viti, come si vedrà nei rispettivi paragrafi, richiese un ben maggiore impegno in scavi di fosse, manutenzione ecc. Questa situazione ha dato il via ad una specie di transumanza umana tra l’Appennino e la collina, che sarà caratteristica dell’età moderna. Diciamo per inciso che nel periodo di nostra competenza, ovvero il basso Medioevo, allo scavo delle fosse erano solitamente adibiti i contadini del podere, e l’obbligo derivava dallo stesso contratto che li legittimava a risiedere su quelle terre. Tra l’altro i vari contratti a volte ci segnalano anche un altro interessante obbligo: impiantare qualche nuovo piantone all’anno. Ma è di notevole importanza che molte altre volte per tali incombenze i contadini venivano invece retribuiti con una paga giornaliera, ed addirittura (ma fenomeno successivo, ben illustrato a partire al 1460-70) in certi periodi “si fece ricorso in misura sistematica anche a salariati esterni”. Nelle campagne volterranee ed in quelle senesi, proprio al confine con la nostra zona, erano per esempio presenti in gran numero lavoratori provenienti in gran parte dalle vallate emiliane, romagnole e toscane dell’Appennino, i quali erano assunti con salari giornalieri per l’impianto di filari di piante arboree e arbustive[6].
Si tratta dei primi sintomi dell’entrata di capitali nelle campagne e di uno
sviluppo in senso capitalistico delle stesse. Fenomeno che in Toscana rimase allo stato embrionale, ma che ciò nonostante produsse anche una “proletarizzazione” di una parte dei lavoratori di campagna, termine di gran lunga anacronistico per il periodo, soprattutto se legato alle campagne toscane, ma che rende l’idea a chi legge.
Riportiamo ora un’annotazione comparativa atta ad illustrarci i valori relativi dei principali prodotti delle terre coltivate.
Se prendiamo i prezzi di vendita sul mercato fiorentino per il periodo 14131430-anni tranquilli dal punto di vista annonario-troviamo questi valori: grano s.18 lo staio, vino s.32 e mezzo il barile, olio s. 28 l’orcio; ovvero un kg d’olio vale quanto 5 litri e mezzo di vino o come 4,4 kg di grano (Pinto, Toscana medievale, pp. 140-145). In sostanza mi pare si possa concludere che l’olio, rispetto a periodi a noi più vicini, valeva allora proporzionalmente più del vino ma assai meno del grano. La cosa è del tutto normale se si considera l’importanza fondamentale dei cereali nell’alimentazione del tempo e le loro basse rese. In periodi di crisi la differenza di prezzo tra olio e grano si riduceva di molto, e così in parte anche quella tra olio e vino, in sintonia con l’importanza che ciascun prodotto aveva nell’alimentazione del tempo; anche se il rapporto tra i prezzi di vino e olio dipendeva pure dall’abbondanza dei rispettivi raccolti.(se prendiamo ad esempio il 1411, anno di carestia, troviamo che l’olio costò mediamente 140 soldi l’orcio, il grano oltre 33 soldi lo staio, il vino 60 soldi il barile (Pinto Toscana medievale, pp.141-144); ovvero un kg d’olio corrispondeva in valore ad appena due kg e mezzo di grano e a poco più di 3 litri di vino) (Pinto)[7]
Ed è da tenere presente che in quei tempi le carestie erano più frequenti delle crisi petrolifere dei giorni nostri.
Chiudiamo il paragrafo illustrando brevemente il migliore alleato del contadino nelle varie tipologie di coltivazione: i concimi per fertilizzare le terre sottoposte
a coltura. Dobbiamo rilevare che il concime era solitamente fornito dai proprietari, ma molte volte troviamo proprietari e contadini dividere a metà il suo costo. A riconferma della natura del contratto a mezzadria. Per concimare si faceva utilizzo di una vasta gamma di “rifiuti”: letame, spazzatura, paglia, colombina (i pregiati escrementi dei colombi), ma anche stracci e scarti di cuoiame (“chottole”). A volte tra i “fertilizzanti” si ritrovano anche i lupini, grazie alla loro ricchezza di azoto. Tutto ciò per la felicità dell’agricoltura biologica contemporanea. Non meno utilizzate erano le stesse deiezioni umane, il cui usò si attenuò solo nell’ 1700-1800 con guadagno per la salute pubblica. Le feci umane sono un buon veicolo di trasporto per virus e batteri, anche se si rimane sempre nel circolo dell’agricoltura biologica.
Non si può non rilevare che questa parte di via Francigena oggetto di ricostruzione, via fondamentalmente di pellegrinaggio religioso, a proprio qua per una terra che manifesta appieno la sua religiosità nello stesso paesaggio. Qua dove la terra riflette il rito ed il rito la terra, in un inesplicabile integrarsi di causa ed effetto. Durante la celebrazione del rito cristiano il momento clou è sicuramente l’eucarestia, dove il sacerdote rende disponibile ai partecipanti “il corpo di Cristo” sotto forma di ostia consacrata accompagnata dal vino. In ambito cristiano, per il rito servono, oltre che il fervore e lo zelo dei partecipanti, il grano, il vino e l’olivo. Quest’ultimo non tanto sotto forma di olio d’oliva, che comunque non è assente, ma in quanto valore simbolico di fede e pace per il mondo cristiano, e soprattutto in quanto è di immancabile presenza durante la celebrazione della pasqua cristiana, rappresentata dai suoi ramoscelli. Non è tipico di tutte le religioni essere così immerse nel proprio territorio, essere così tangibilmente rappresentate nel loro rito da quegli elementi vegetali che l’uomo procede volontariamente a coltivare e a consumare per il proprio sostentamento. In tal senso la religione è più frutto delle viscere dello stomaco che dei meandri del cervello. Questo intreccio di budella e croci, questo attraversare territori con lo spirito e con i piedi, questo sprofondare in un senso religioso che porta a rendere tangibile ciò che si mangia, non può che colpire anche chi come me non è credente. Si tratta degli stessi elementi che si ritrovano nel territorio coltivato e di cui ci apprestiamo a parlarne in singoli sotto capitoli.
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[1] Cfr. G. Pinto, 2002, op. cit., pp. 9-10
[2] Cfr. G. Pinto, 2002, op. cit., p.85.
[3] Cfr. G. Pinto, 2002, op. cit., p.89
[4] Cfr. C. Greppi, 1991, ibid.
[5] Si veda il successivo paragrafo sull’olivo: 4.5.3.
[6] G. Pinto, 1996, Città e spazi economici nell’Italia comunale, CLUEB, Bologna, p.219
[7] G. Pinto, 2002, op. cit., pp. 123-124.
4.5.1 VITE
Le aree collinari e le pianure asciutte erano le terre di elezione della viticoltura, quelle in grado di fornire il vino migliore. (Pinto)[1]
Per questo le pendici collinari e i dintorni delle città di pianura costituivano le terre che letteralmente inondavano di vino i grandi centri urbani, dove la richiesta era ora più forte che in ato ed interessava più o meno tutta la popolazione. Si sta parlando del periodo immediatamente precedente al 1348. I dati portati da Pinto sono quantomeno sbalorditivi: Firenze città di 100.000 abitanti assorbiva ai primi del’300 circa 250.000 ettolitri di vino all’anno, nella stessa città il solo (!) vino venduto al minuto, sottoposto a tassazione, dava nel 1338 un gettito vicino ai 60.000 fiorini. Si trattava della più importante entrata per l’erario dopo quella proveniente dalla gabella sulle porte (Villani, Nuova Cronica, XII 92.), “tanto per avere un’idea allora un buon podere poteva costare sui 150-200 fiorini e lo stipendio mensile di un maestro muratore era di2-3 fiorni”. “A Lucca nel 1334 si introdussero in città 168.000 barili di vino (circa 70.000 ettolitri) la stessa quantità che vi entrò cinque secoli dopo, nel 1834.” (Sardi)[2] Certo, il vino di uso medievale non è paragonabile a quello contemporaneo, né per il sapore, non credo che oggigiorno avrebbe avuto un così grande successo, né tanto meno per la gradazione alcolica. Era infatti un vino assai più leggero, si aggirava intorno ai tre o quattro gradi. Quelli esotici erano più corposi, ma erano rari e limitati al consumo dei ricchi. Per il sapore basti dire che i vari vini già allora venivano frequentemente speziati per renderli più amabili da un lato ma anche più bevibili dall’altro.
Fino all’islam ogni cultura che si è sviluppata nelle terre affaciantisi sul mediterraneo ha dato al vino un ruolo positivo e lo ha guardato con favore, a patto che non si arrivasse all’ebbrezza. Questo accadde nell’antichità così come nel Medioevo. Anzi nel Medioevo il vino acquistò anche un valore sacrale, divenne infatti decisivo per la celebrazione del rito cristiano della messa. “Da qui l’attenzione delle istituzioni ecclesiastiche alla viticoltura”. (Pinto)[3] Vi
sono anche “santi bevitori”, ma si sa che la religione è assai conservativa anche nei aggi da un credo all’altro. È quindi ragionevole ipotizzare che forse certe tendenze pagane rigenerate all’interno del nuovo credo cristiano siano le vere matrici di questi “santi bevitori”. Ad ogni modo fuori dalla speculazione rimangono i fatti: alcuni vescovi e abati furono lodati per aver impiantato nuovi vitigni; la stessa regola benedettina, generalmente così ferrea, ammetteva l’uso (moderato) del vino.
Se lo erano gli ecclesiastici, non meno interessati al vino erano ovviamente i laici. La viticoltura assunse a così gran prestigio che nell’editto di Rotari del 643 si contemplavano condanne severe per chi avesse danneggiato viti altrui. La vite era solitamente coltivata in prossimità dei centri abitati (città, villaggi, monasteri, case isolate) per svariati motivi. Era coltura specializzata che richiedeva il lavoro continuo degli uomini, ed anche la loro attenzione visto che doveva essere sorvegliata per prevenire furti o anche devastazioni. Alcuni documenti alto medievali ci presentano già allora le vigne come protette da “clausure” di siepi o steccati.
Il vino proveniente da San Gimignano già nel basso Medioevo veniva considerato come un buon vino. Certo non tra i più pregiati, ma d’altronde si sa che i gusti si modificano più per lo status symbol che essi vanno ad impersonare che per reali “valori” intrinseci. Sono gli uomini che li rendono più o meno apprezzabili, e in questo apprezzamento concorrono fattori come la rarità che li rende costosi e ricercati dalle elite, sempre attente a differenziarsi dalle masse. In questa ottica comprendiamo bene come mai nel Basso Medioevo i vini più pregiati erano quelli di importazione, più costosi sono e più buoni sono. L’importazione di vini era d’altronde una delle ricchezze principali delle città portuarie, si veda su tutte Pisa. “Il BREVE dei vinai pisani del 1303 fa riferimento più volte a vino condotto “de marinis partibus” e ai mercanti che arrivavano alla foce dell’Arno “cum aliquo ligno cum vino venali”(Breve Artis vinariorum, p.1132 e im.)”(Pinto)[4]. Questo è il fondamento sociale del gusto.
Il vino di San Gimignano per eccellenza è ora come allora la vernaccia (vedere: Melis, I vini italiani, pp.61-63; Fiumi, San Gimignano pp. 39, 185). Si tratta di un vino bianco che era allora considerato di buon pregio. Il nome poteva confonderlo con il medesimo delle Cinque Terre, un vino di maggiore gradazione alcolica che con il non secondario contributo della sua “esoticità” veniva considerato di maggior prestigio. D’altronde anche l’attualmente arcinoto vino di Montalcino era ben lontano da quella fama che acquisterà a partire dall’età moderna. La vernaccia si incontrava anche in alcuni podere più a sud, nel senese. Su questi siamo informati dai contratti di mezzadria. A San Gimignano, o più esattamente nelle sue campagne, era anche prodotto un’altro vino bianco: il “greco”. Era in genere un vino importato dal sud Italia ed è plausibile supporre che quello di san Gimignano avesse un gusto diverso dall’originario. (Fiumi)[5]
“Nella fase di espansione delle colture, che comincia timidamente a partire dal IX sec., per intensificarsi dall’XI in poi, non è raro imbattersi in contratti miglioratizzi che prevedono l’affidamento della terra a lunga scadenza con l’impegno da parte del coltivatore di impiantare vigneti”. (Pinto) Ciò nonostante gli spazi della viticoltura rimasero a lungo assai ristretti, ma aumentarono progressivamente con il giro di millennio.
L’uso del vino non era limitato alle taverne, ma spettava di diritto ai lavoratori. I contadini portavano al lavoro un fiasco di vinello utile quanto gli attrezzi da lavoro. Tra le vettovaglie di un esercito il vino costituiva l’elemento principale ed era considerato così benefico da esser concesso anche di Venerdì Santo alle partorienti (secondo lo statuto pisano, Breve Artis Vinariorum, III, pag. 1123). Il vino spettava ad ogni ricoverato in ospedale. De Crescenzi, uno dei più grandi agronomi medievali, ha scritto un trattato sul vino in cui pagina dopo pagina si sommano le sue virtù: utile alla digestione non meno che alla “sanità” del corpo, dà nutrimento ed è da consigliare ad ogni età a seconda della “forza” del bevitore (De Crescenzi)[6]. De Crescenzi conferma anche un ancestrale proverbio che mi viene ricordato ogni qualvolta a Firenze siedo a tavola con mio zio: “il vino fa sangue”. Che queste non fossero considerazioni legate solo a De Crescenzi ma che fossero il frutto di una cultura di base, ce ne dà testimonianza tangibile un predicatore domenicano di Pisa, un tale Giordano, il quale scriveva a suo tempo
(XIV sec.): “il vino è nutriente e ricco di sostanze, porta in tutto il corpo le capacità nutrienti degli altri cibi, grazie ad esso le membra crescono e raggiungono il loro pieno sviluppo” (citato da Pinto, Campagne e Paesaggi Toscani nel Medioevo, pag. 76; il quale lo riprende da De La Roncière, Il Paesaggio Viticolo, pag.18). Ritroviamo il vino anche in quella mirabile raccolta (compendio) di cultura medievale che è la Divina Commedia, descrizione di un mondo ancor prima che poema. In essa al vino vengono dedicate le terzine del Purgatorio XXV 86-88, che tanta forza danno ad un elemento già poderoso di per sé stesso: E perché meno ammiri la parola / guarda il calor del sol che si fa vino / giunto a l’omor che da la vite cola.
Nella Maremma, che conosceva già allora la malaria, il vino e il suo derivato (l’aceto) svolgevano pure funzioni terapeutiche. (Pinto)[7]
Dire che l’uso del vino fosse cagionato anche da motivi igienici può forse sembrare esagerato, perché sulla consapevolezza di tale uso possiamo ragionevolmente avere dei dubbi. Di sicuro però la mentalità contadina che ben prima di quella scientifica era così attenta al principio di causa-effetto, non poteva non rilevare che l’acqua mischiata con il vino fosse più salutare. (Chiaramente le cose non sono mai così slegate da poterle poi rappezzare seguendo il principio di “causa-effetto”, ma ora mi piace rilevarle come tali.) D’altronde in generale l’acqua “da bere” era reperita o dai fiumi o dalle falde acquifere attraverso i pozzi. Nel Medioevo non esisteva più l’acqua corrente portata in città dagli acquedotti. Gli acquedotti romani erano per lo più in sfacelo ed inutilizzabili. L’acqua si poteva prendere dai fiumi, ma nei fiumi andava a finire di tutto, scariche delle varie maestranze così come ogni rifiuto umano. Non meno sicura era l’acqua proveniente dalla falda acquifera. Per questo è da dire che entrambe le modalità di prelevamento dell’acqua potabile fossero soggette a forti rischi per la salute umana. Soprattutto nelle grandi città del tempo, i fiumi e i suoi canali-canaletti rivestivano praticamente il ruolo di fogne pubbliche. Si veda l’esempio pertinente di Firenze, l’inquinamento era anche allora un problema serio. Fondamentalmente lo è sempre stato. Di questo problema gli uomini del tempo ne erano ben consapevoli, ma la frammentazione politica a cui era soggetta la Toscana medievale non aiutava certo ad una migliore razionalizzazione del territorio funzionale al reperimento di acqua
“buona”. Così era norma comune bere acqua mischiata al vino.
Tra tante concezioni che mutano con il tempo una si è preservata intatta fino a noi: l’uso che se ne fa nelle feste. “Ricordiamo come nei grandi cantieri pubblici e privati il compimento di una costruzione o di una parete di esso (una cupola, una volta, un’architrave) veniva festeggiato con abbondanti libagioni che il committente offriva alle maestranze; del resto l’offrire da bere come mezzo per festeggiare è rimasto in uso fino ai giorni nostri.” (Pinto)[8]
Nelle feste l’uso del vino era tutt’altro che morigerato, “nel 1466 nel banchetto per le nozze di Bernardo Rucellai e Nannina di Piero de’ Medici si consumarono 50 barili di trebbiano e 70 di vermiglio, in tutto quasi 5000 litridi vino” (Pinto pag.77 traendo da: Balestracci, il consumo del vino, pag.25). Tuliani ci narra come nel Senese in certe comunità rurali, per certe festività in special modo per quelle legate al giorno del santo patrono o del mercato, “si eliminavano le gabelle sul vino per agevolarne il consumo.” (Tuliani)[9]
Sulle tecniche di coltura siamo abbastanza informati (per il periodo!), soprattutto grazie ai contratti agrari, su tutti quelli di mezzadria. Come abbiamo visto in questi tipi di contratto venivano riportati gli obblighi imposti ai contadini e le operazioni che il proprietario promuoveva sul podere. Una delle preoccupazioni maggiori era quella che il coltivatore tenesse bene le viti “a uso e costume di buono lavoratore”, quindi facendo riferimento a prassi consolidate. Ma non solo, “le viti non dovevano essere potate quando erano bagnate” ed i tralci da eliminare dovevano essere quelli più bassi, il terreno circostante doveva essere zappato o vangato nei mesi primaverili, nonché si doveva togliere l’erba intorno ai ceppi. Dalla menzione di alcuni arnesi nei contratti agrari (soprattutto, come sempre, quelli mezzadrili) si deduce che la vangatura era più tipica nel contado fiorentino rispetto all’area senese dove si prediligeva la zappatura.
Sfruttando la palude circostante le viti erano allevate con le canne, almeno per quanto riguarda la zona di Monteriggioni, Badia a Isola e Strove. Nei pressi di
San Gimignano invece si procedeva anche con altri sostegni morti che andavano ad integrare l’acquisto delle stesse canne dalla non lontana palude. Si reperivano o si acquistavano i pali necessari da sistemare alle estremità dei filari, in genere “paline” di castagno, “colonnette” e “colonne”. Tutti dati ben segnati e conservati nella documentazione contabile dei proprietari.
In collina i filari di viti prendevano il nome di “anguillari”; spesso succedeva che si univano fra loro due filari, facendo convergere i tralci verso il centro, formando la cosiddetta “pancata” che poteva arrivare a 5-6 metridi larghezza[10] (De Angelis). Nei terreni di pianura invece, per sfuggire all’eccessiva umidità del suolo la vite, sistemata il più delle volte in filari isolati, era generalmente maritata agli alberi: ciliegi, noci, fichi, quercioli, sorbi, olmi, pioppi, frassini. Questo sistema aveva anche il vantaggio di fornire le frasche con cui nutrire il bestiame in un’epoca in cui non era praticata la coltura del prato artificiale. In cambio gli alberi dovevano essere accuratamente potati per impedire che fero troppa ombra alle viti ed al terreno sottostante dove si seminavano cereali. Sempre nei terreni più bassi, le viti potevano essere sistemate in filari lungo le prode, leggermente più alte, che chiudevano i campi a cereali. (Pinto) [11]
Le viti poi andavano rinnovate affinché non invecchiassero troppo. Si interrava un tralcio tra quelli spuntati più in basso in modo che mettesse le radici; poi lo si tagliava staccandolo dalla pianta-madre. Questo è il noto sistema della “propagginazione” successivamente spazzato via durante il XIX sec. dall’arrivo in Europa della filossera[12]. Un’altra tecnica usata per il rinnovo dei vitigni era quella della telea: “si prendeva un pezzo di tralcio di un anno, unito ad un piccolo tratto di legno di due anni (magliuolo); questi veniva parzialmente interrato in un terreno appositamente preparato (‘posticcio’) in modo da radicare, formando così la barbatella, oppure inserito direttamente nelle fosse da viti (De Angelis, Tecniche, pp.214)” (Pinto)[13] Questa tecnica era anche utilizzata per strappare ai boschi nuovi terreni da mettere a coltura con viti.
Si trattava in genere di lavori impegnativi che richiedevano lo scasso del terreno
per la preparazione delle fosse-lunghe spesso fino a 60-70 metri ed oltre- ove porre la barbatella o i magliuoli. Le fosse potevano essere fognate con pietrame per favorire il deflusso delle acque piovane: in questo caso lo scasso aveva una profondità ed una larghezza di circa 80-90 cm; se lo scasso non prevedeva sul fondo la fognatura, occorrevano fosse più profonde, ampiamente superiori al metro, per impedire il ristagno delle acque. (Pinto)[14]
I tipi di vite utilizzati in Toscana tra la fine dell’alto Medioevo ed il basso Medioevo sono ben minori di quelli che ci vengono elencati dagli agronomi del tempo. Quest’ultimi molto spesso si riferiscono a testi più antichi inserendo in questi cataloghi tutto ciò che possono. Di sicuro il trebbiano era uno dei vitigni più diffuso; un’uva “bianca, con granello rotondo, piccolo, e molti grappoli avente”. Per il De’ Crescenzi questo dava un “nobile vino e ben serbatojo” (De’ Crescenzi)[15]. Sempre di uva bianca abbiamo: la nota vernaccia, l’albana, il verdolino, l’angiola.
Tra le uve da vino rosso, il De’ Crescenzi nomina il lanaiolo; il Tanaglia, oltre al lanaiolo, ricorda il raffaone e lo zeppolino (De’ Crescenzi, trattato, p.257; Tanaglia, de agricoltura, p.33), non ci risultano invece riferimenti al san giovese. Sta di fatto, però, che le fonti nominano soprattutto i vitigni del bianco, il vino più pregiato, rispetto a quelli del rosso, che tuttavia era il prodotto di gran lunga più consumato nella toscana del Medioevo. (Pinto)[16]
L’uva da tavola è raramente attestata. Se ne hanno sporadici riferimenti soprattutto al sancolombano, su vitigni allevati bassi, mentre lo “zibibbi” e le uve “lugliole” e “paradise” erano “tenuti alti su sostegni vivi o formando pergolati” (Tanaglia)[17]. Ma questa uva da consumarsi fresca era assai limitata, quasi del tutto in disuso fuori dai banchetti più prestigiosi. I contratti mezzadrili ci attestano invece che era all’opposto molto comune l’uva a. Si tratta di “uva da appiccare” fino a quando i chicchi non diventavano asciutti e “iti”. Ancora oggi d’altronde non è di certo rara nelle soffitte di vecchi ex-contadini, come posso vedere ad ogni stagione a casa di mia nonna. Veniva consumata come condimento di cibi nelle mense dei più ricchi. Ovviamente.
La vendemmia era sicuramente una di quelle date che scandiva sonoramente il calendario delle campagne e di conseguenza delle città. Era una data così importante che non si poteva lasciare al singolo giudizio del contadino o del proprietario; anzi in molte zone rurali la data era sancita dalle autorità comunali. A titolo d’esempio, e per dare spiegazione tale fatto, si può seguire Pinto citando il relativo statuto trecentesco della Lega del Chianti:
“molti sono quegli che per bisogno et chi per non havere vino in casa […] vendemmiano le loro vigne prima che l’uve sieno mature, che gran danno ne riceve la Lega perché non possono essere buoni vini et non si possono poi al tempo vendere” (Lo statuto della Lega del Chianti)[18]
Certo è che da queste parole traspare anche il circolo vizioso dell’indigenza, il quale rende sempre più poveri. È infatti qua implicito il fatto che la povertà e lo “stento” erano soliti spingere i contadini a vendemmiare il prima possibile, rovinando così l’unico prodotto da cui avrebbero potuto guadagnare in maniera consistente. Con gran danno per la stessa Lega. Ciò avveniva in funzione di un qualche guadagno immediato che avrebbe però compromesso un più consistente guadagno futuro. Ma è ovvio che parlare senza essere sospinti dalla necessità della fame, per sé stessi e per la propria famiglia, è più facile che agire in simile circostanza.
Dai vari statuti delle varie comunità toscane si evince che la data prescelta per l’inizio della vendemmia cadeva di solito tra il 14 ed il 30 settembre. Si deve però tenere in considerazione il fatto che fino alla riforma del calendario dovuta a papa Gregorio XIII, del 1582, il calendario utilizzato era quello giuliano, e ciò implicava un ritardo di 7-8 giorni rispetto all’anno solare. La vendemmia cadeva quindi tra la fine di settembre ed i primi di ottobre. Ciò è in linea con gli studi di altre discipline che propongono un clima più caldo nel Medioevo rispetto ad oggi. Differenza ancor più marcata con la successiva età moderna, in cui occorse la cosiddetta piccola glaciazione. I cambi climatici a volte sono fisiologici del “respiro” terrestre. A volte ma non sempre.
Vi era anche un tipo di vendemmia “prematura” che sicuramente era mal vista dai contadini ma incentivata dai proprietari: la raccolta di grappoli di uva acerba dalla cui spremitura (dal cui succo), con l’aggiunta di sale, si traeva l’agresto, condimento in voga nelle classi agiate. Questo pregiato prodotto creava sicuramente tensioni tra chi voleva mangiare bene, i proprietari, e chi voleva mangiare e basta, i contadini. Tensioni che sicuramente si acuivano durante un’annata poco favorevole. Cosa d’altronde non rara.
Conforta vedere il fatto che si cercasse di prendere tutte le maggiori misure igieniche in linea con le possibilità del tempo. I grappoli di uva venivano riversati nelle “bigonce” e là si procedeva alla spremitura, cosa che al tempo d’oggi forse ci farebbe are la voglia di bere vino. Seguiamo infatti le raccomandazioni date dal De’ Crescenzi. Prima di immergersi nelle bigonce e procedere a piedi nudi a mostare l’uva che si sarebbe dovuta bere, De’ Crescenzi consiglia (e per fortuna!) di lavarsi bene i piedi e di uscire il meno possibile prima del completamento del lavoro. Ciò vuol dire che uscire e poi rimettersi a premere era cosa inevitabile…. Altro utile consiglio dato da questo sagace agronomo ed atto a “non schifare” (troppo!) le damigelle e le mogli dei ricchinobili proprietari, era quello di coprirsi bene per impedire che gocce di sudore cadessero sul mosto. (De’ Crescenzi)[19]
Le bigonce (botti) sono poi un’innovazione tecnologica di estrema importanza che silenziosamente avvenne nel Medioevo. “Bigonce, tini e botti, fatti di legno di rovere o di castagno, e con cerchi in ferro per tenere le doghe e renderle impermeabili, sono una novità del Medioevo: di origine settentrionale sostituirono quasi del tutto le giare e le anfore di terracotta e gli otri di cuoio usati in Antichità dai popoli mediterranei.” (Pinto)[20]
Il solito Pinto ci quantifica la durata della fermentazione in 10-15 giorni. Questa doveva essere seguita con attenzione, mescolando regolarmente la parte superiore del tino o chiudendola ermeticamente, in modo che il mosto bollisse bene e non “prendesse fuoco”. Così infatti si esprime un contratto mezzadrile di
fine ‘200 (Il contratto di mezzadria, II, p.281). Poi si faceva “are il vino nelle botti per l’invecchiamento e la vinaccia spremuta negli strettoi per ricavare tutto il vino possibile. Con la vinaccia residua si ricavava un vinello leggero e frizzante (l’acquarello) che soprattutto i contadini usavano per il consumo familiare.”
Fino alle innovazioni enologiche ottocentesche basate sull’utilizzo della chimica, le operazioni relative alla bollitura del mosto, alla svinatura e alla collocazione del vino nelle botti, erano assai delicate. Il rischio che ne uscisse un prodotto scadente, o comunque non in grado di durare a lungo, era grande. L’attesa e la trepidazione dovevano essere notevoli, allorquando in primavera si procedeva a spillare il vino dalle botti e lo si assaggiava. Il momento era così solenne che al pari di matrimoni e celebrazioni sacre, si invitava per l’occasione parenti, amici e conoscenti. Il rischio che il vino venisse fuori con “un pocho de leno” o addirittura “guasto” era alto (termini ricavati da Pinto dalle lettere di: lettere di Margherita Datini e sco Datini)[21]. Bé non che ciò portasse a buttare via il vino, in caso di mal riuscita si cercava pur sempre di recuperarlo in ogni modo. Lo si poteva far ribollire, anche se per minor tempo, o gli si potevano aggiungere delle spezie per migliorarlo, per esempio della cannella (Le lettere di Margherita Datini, pp. 67, 110). Se poi i diversi metodi per salvare il vino fallivano miseramente tutti, non lo si buttava lo stesso, ma ci si faceva l’aceto, un prodotto di uso comune. Certo però che il vero aceto buono, veniva prodotto appositamente e non derivato dal vino “guasto”.
Un gran lusso solo per i pochi era il cosiddetto vino “cotto” derivato dal vino ito. Ovvero da uve lasciate maturare ed essiccare al sole, e successivamente spremute. Di esse veniva controllata accuratamente la loro fermentazione, durante la quale si rendeva tale vino ancor più liquoroso con successive concentrazioni di mosto.
La quasi totalità del vino veniva bevuta durante l’annata, anche se, come si diceva in precedenza, alcuni vini venivano fatti invecchiare per alcuni anni. La maggior parte dei rifermenti alle varie produzioni di vini, ed agricole in genere,
ci derivano dall’opera del De’ Crescenzi. Da questa e da altre fonti si deduce che nella toscana medioevale si prediligevano i vini bianchi. Tra essi i più in voga erano i trebbiani, ricavati dall’omonima uva, e la vernaccia toscana: erano questi, ad esempio, i vini che comparivano con maggiore frequenza sulla mensa dei priori di Firenze. Sicuramente al successo del trebbiano bianco, e dei vini bianchi in genere, contribuiva il colore: un vino chiaro, limpido, trasparente, di “color d’oro”, che quindi nulla sembrava nascondere al consumatore. Il medico pratese Lorenzo Sassoli in una lettera al Datini gli consigliava per la sua salute di bere vini “quanto più potete bianchi, non fumosi, chiari, e non dolci né bruschi (Mazzei, Lettere, II, p. 372) (..) C’è da aggiungere tuttavia che l’apprezzamento maggiore-sulle mense dei ricchi naturalmente- andava ai vini liquorosi, dolci e spesso aromatici importati dall’Oltremare.”(Pinto) Ciò in linea di quello che avevamo già esplicitato in precedenza, allorquando si sottolineava l’importanza che il vino esotico esercitava a livello psicologico e non, sulla creazione di quello status symbol che avrebbe diversificato il ricco dalla massa.
Il vino era una fonte di guadagno così notevole che “alcuni grandi proprietari terrieri fiorentini” non esitarono a mettere da parte la loro nobiltà per trasformare il piano terreno dei loro prestigiosi palazzi in quelli che oggigiorno definiremmo, senza alcuna riferimento alla nobiltà, spacci aziendali; o facendo appello all’imperante inglesismo, outlet. D’altronde molto spesso la nobiltà è un qualcosa che va letteralmente acquistata/comprata. Il vino modificava anche la natura del contratto di Mezzadria ( letteralmente “a metà”), diventando una delle pochissime eccezioni per cui ad una spartizione in parti uguali tra proprietario e affittuario si sostituiva nei contratti una spettanza (“2/3, 3/5 o ancora una metà con aggiunta un certo numero di barili[22]), oppure veniva specificato che al proprietario doveva spettare il vino più pregiato. Se ne hanno molti esempi, ma è qua pertinente citarne uno proprio da Siena. In un contratto mezzadrile da Siena, datato al 1333, “al proprietario doveva andare tutto il trebbiano e la vernaccia, al mezzadro una quantità equivalente di “vinum vaianum et album nostratum”, il resto a mezzo[23] (Pinto)
Il vino era una gran fonte di guadagno per i proprietari terrieri, ma proporzionalmente non era di minor profitto per i contadini. Questa era una rarità che ne aumentava l’importanza. Infatti molto spesso i contadini vedevano
il vino in eccedenza nei mercati locali o direttamente ai consumatori cittadini; altre volte invece, come testimonia in abbondanza la contabilità dei mezzadri e dei fittavoli, lo cedevano al proprietario in cambio di grano o a parziale contropartita dei debiti accumulati[24]. Si può dire che questi prospettati guadagni rendevano i contadini meno esigenti in fatto di qualità di vino da bere. Lasciavano il vino migliore per la vendita e tenevano per loro il peggiore. Ciò doveva essere un fatto assai risaputo se è vero che in una delle novelle del Sacchetti si legge che i contadini “beono aceto annacquato” (Sacchetti)[25]
L’uso del vino non può che darci uno spaccato di questa società toscana del basso Medioevo. Qua noi non lo esporremo esplicitamente per motivi di spazio, ma ognuno lo potrà dedurre dai dati che seguono:
Le mescite che fungevano da predecessori dei moderni pub erano più numerose delle panetterie e dei fornai; e nel 1432 a Firenze, per circa 40.000 abitanti la città offriva una vasta scelta di locali per il consumo del vino: ben 34 mescite a cui andavano aggiunti tutti gli alberghi[26], il cui unico divieto era di sorgere a meno di 30 braccia (18 m circa) dai luoghi religiosi. Fino alla metà del ‘300 vi era un forte proliferare di taverne fuori dalle mura cittadine per evitare la forte tassazione a cui era sottoposta l’importazione di vino entro le mura. Quando la città di Firenze nel 1351 proibì la vendita al minuto del vino per un raggio di circa 1600 m dalle mura, la motivazione che ricaviamo dallo statuto è la seguente: “(colà) si vende ed è usato di vendere vino a minuto, apresso le quali taverene, e per cagione della detta vendita del vino, molte genti di diverse maniere di dì e di notte si ragunano, e ivi si giuocha, e oltre a questo molte çuffe si fanno e cose non lecite si commettono, e quasi le dette taverne sono ed è cagione di molti mali e sono ricettazioni di ladroni, giucatori e huomini disonesti” (Statuti delle arti dei fornai e dei vinattieri, p. 145). Ma va anche considerato che “il vino era la merce che più di ogni altra era sottoposta a tassazione indiretta (gabella) attraverso un sistema complesso che colpiva il prodotto in tutto il suo iter, dal momento in cui veniva collocato nelle botti sino alla vendita al minuto.”(Pinto)[27] Quindi considerando i forti guadagni che dal vino derivavano, è presumibile credere che al pari della tutela della quiete pubblica alle autorità comunali interessavano i forti guadagni che dalle taverne si potevano fare. Il sistema di tassazione meglio conosciuto è il sistema messo in
atto da Firenze , ma la tassazione del vino non era molto diversa nelle altre città della Toscana potevano cambiare le aliquote sul prodotto che varcava le porte cittadine o su quello venduto al minuto (a Siena per esempio questa tassa si mantenne su livelli inferiori a quelli visti per Firenze) ma dappertutto il vino fu considerato a lungo la merce più facile da tassare e per questo più redditizia per l’erario. A Firenze “una prima tassa colpiva il vino imbottato, ossia quello uscito dai tini e dai torchi e collocato nelle botti”. Non si teneva conto della qualità del vino ma solo della quantità. Già questo è un fatto che la dice lunga. Il prelievo fiscale era abbastanza limitato: secondo i dati forniti da Pinto, nei primi anni del ‘300 ammontava a 10 soldi per cogno, ovvero 1 soldo al barile, e dal momento che il prezzo medio di un barile era di 20 soldi, il prelievo era intorno al 5% del valore. Siccome tutti i proprietari fondiari erano tenuti a pagare questa tassa, essa si configurava quindi come integrativa (a volte anche sostitutiva) della tassazione diretta sui beni fondiari. “Dopo aver pagato la tassa sull’imbottato, chi consumava in loco il proprio vino non aveva altro da pagare all’erario; chi invece lo portava in città per venderlo o consumarlo in proprio incorreva in altre imposizioni fiscali.” E qua la tassazione iniziava a farsi sentire in maniera più pesante. D’altronde erano le città, luoghi dove si concentravano un maggior numero di consumatori rispetto alle campagne, che erano le più prolifiche di guadagni per le amministrazioni pubbliche. A Firenze l’immissione del vino in città, o nei vari centri murati, era sottoposta alla gabella delle porte che negli anni ’30 e ’40 del trecento equivaleva (sempre a Firenze) a 20 soldi per cogno poi aumentati a 30 (ovvero 2-3 soldi al barile); si trattava quindi di circa il 10-15% del prezzo medio del vino. Tassa che si aggiungeva a quella precedentemente citata.
Poco distante dalla nostra zona, nel Valdarno, si ha un piccolo centro fortificato che accoglieva “appena qualche centinaia di abitanti: eppure vi sorgevano ben cinque tra alberghi e osterie”.
A Siena ad ogni casa privata era concesso il sacrosanto diritto di vendere vino, in genere tramite una stanza aperta sulla pubblica via. Oltre a ciò non mancano testimonianze, sia per la città che per i centri del contado, della vendita di vino in spazi aperti e da venditori ambulanti (si veda in proposito Tuliani)[28] Della sfortuna dei vinai pisani che erano i più tartassati della regione si è già detto: non
solo non potevano vendere cibarie e alloggiare clienti, ma non potevano né consentire agli avventori di dedicarsi ad una serie di giochi proibiti, né tanto meno, e questo era danno economico assai notevole per questo genere di locali, ospitare meretrici.
Le mescite erano aperte dall’alba al tramonto tutto l’anno con l’eccezione del Venerdì Santo. In quel giorno la vendita del vino cessava, a meno che non fossero a richiederlo soldati del comune in partenza o le partorienti. Sempre in virtù del già ricordato antico precetto “il vino fa sangue”, chi aveva bisogno di vino più dei soldati che partivano in guerra per il bene del Comune, e delle donne incinta? Fortuna per le mescite che la medicina dell’epoca era assai diversa da quella attuale.
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[1] Cfr. G. Pinto, 2002, op. cit., p. 77.
[2] Cfr. C. Sardi, 1914, Le contrattazioni agrarie, Tipografie Giusti, Lucca, pp. 138-139
[3] Cfr. G. Pinto, 2002, op. cit., p. 79.
[4] Fr. G. Pinto, 2002, op. cit., p.84.
[5] Cfr. E. Fiumi, 1961, Storia economica e sociale di San Gimignano, Olschki, Firenze, p.185.
[6] Cfr. P. De’ Crescenzi, Trattato della Agricoltura, Traslatato nella favella Fiorentina, rivisto dallo ‘Nferigno, Società tipografica dei Classici italiani, Milano, 1805, pp. 350-351.
[7] Cfr. G. Pinto, 2002, op. cit., p.86.
[8] Cfr. G. Pinto, 2002, ibid.
[9] Cfr. M. Tuliani, 1997, Mercati all’aperto e commercio ambulante a Siena e nel suo contado (sec. XIII-XV), (Dottorato di ricerca), Firenze, pp. 65-66
[10] Cfr. L. De Angelis, 1981, “Tecniche di coltura agraria e attrezzi agricoli alla fine del Medioevo”, in: AA. VV., 1981, Civiltà ed economia agricola in Toscana nei sec. XIII-XV, Centro italiano di studi di storia e d’arte, Pistoia, p. 214-215.
[11] Cfr. G.Pinto, 2002, op. cit., p.89.
[12] La Filossera è un insetto, di origine americana, arrivato in Europa alla metà del secolo scorso diffondendosi rapidamente in tutti i vigneti. Il danno, che è determinato dalle punture di questo Afide, si riscontra sia sulle radici (determinando tra l’altro anche perdita di capacità assorbente) sia sulle foglie.
[13] Cfr. G. Pinto, 2002, op. cit., p.90
[14] Cfr. G.Pinto, 2002, ibid.
[15] Cfr. De’ Crescenzi, op. cit., pp. 252-253
[16] Cfr. G.Pinto, 2002, op. cit., 91
[17] Cfr. Tanaglia, op. cit.,pp.33-34
[18] Cfr. Lo Statuto della Lega del Chianti, in: S. Raveggi- P. Parenti (a cura di), 1998, Statuto della Lega del Chianti (1384), con le aggiunte dal 1413 al 1532, Polistampa, Firenze, p.92
[19] Cfr. P. De’ Crescenzi,op. cit., p. 313.
[20] Cfr. G.Pinto, 2002, op. cit., p.98.
[21] Cfr. lettere di Margherita Datini, pp. 58, 97, 120, 213; Le lettere di sco Datini, pp. 79, 113, 249; citate da Pinto.
[22] Cfr. per qualche esempio vedere in: Pinto, Il contratto di mezzadria, II, pp.181-182
[23] Cfr. Pinto, ibid.
[24] Vedere per esempio alcune testimonianze portate da: G. Cherubini, 1974, Signori, contadini, borghesi. Ricerche sulla società italiana del Basso Medioevo, La Nuova Italia, Firenze, p.423; Neri di Bicci, Le Ricordanze (10 marzo 1453 – 24 aprile 1475), a cura di B. Santi, 1976, Marlin, Pisa, pp. 20, 62, 199
[25] Cfr. Sacchetti, Il Trecentonovelle, nov. CLXXVI, p. 510
[26] Cfr. G. Cherubini, 1997, Il lavoro, la taverna, la strada. Scorci di Medioevo, Liguori Editore, Napoli, pp.196-198
[27] Cfr. Pinto, 2002, op. cit., p.106
[28] Cfr. Tuliani, 1997, op. cit., pp. 63-65
4.5.2 CEREALI
I cereali sono sempre stati alla base di ogni società fondata sull’agricoltura, e questo viene confermato anche dalla nostra società contemporanea. Nel basso Medioevo però il loro ruolo crebbe incredibilmente di importanza. Era l’aumento demografico che lo imponeva. L’impiego diffuso di cereali produsse anche innovazioni tecniche che mutarono totalmente l’approccio a tale coltivazione da parte dei contadini. Da questo punto di vista il Medioevo pone le fondamenta della nostra società proprio per come ha saputo trasformare le tecniche usate nella coltivazione del grano. Se come abbiamo rilevato la diffusione della vite nelle campagne toscane del Medioevo fu profonda e vasta, si consideri che a metà del ‘300:
Pure nelle terre dell’ospedale di Santa Maria della Scala, di gran lunga il maggior proprietario fondiario del territorio senese, la viticoltura occupava mediamente spazi ridotti mentre l’80% circa della terra era costituito da campi nudi a cereali (Pinto)[1]
Tra i cereali coltivati in quel periodo ed in quella zona, piante appartenenti alla famiglia delle Graminacee o Poacee, appartengono il frumento (grano tenero e grano duro), l’orzo, la segala, il miglio e l’avena. Il più coltivato era, ed è, il “triticum”, detto anche “tritico”, denominato più comunemente “frumento”, e conosciuto ancor più diffusamente come grano. È un cereale che cresce dappertutto, se si escludono le fasce tropicali, la cui infiorescenza produce spighe dove maturano i suoi frutti, detti carossidi. Dalla loro macinazione si ottiene l’agognata farina, la fonte di gran lunga principale nel sostentamento della popolazione medievale. Nel basso Medioevo, periodo dove il forte tasso di crescita demografica imponeva un differente uso del suolo, molte nuove terre furono messe a grano. Solitamente si associa l’alto Medioevo a periodo di estrema e diffusa povertà, ma in realtà la scarsa popolazione lasciava ampio spazio all’allevamento, che come ben si sa richiede ampi territori incolti. Cosicché la popolazione poteva avere un relativamente buono apporto calorico e
proteico. Ciò era appunto possibile per l’abbondanza di terreno disponibile in quel periodo, ma lo stesso terreno messo a cereali invece che a pascolo produceva un maggiore quantitativo di calorie. Infatti a parità di superficie i campi messi a cereali erano, e sono, ben più produttivi, in termini di calorie utilizzabili nell’alimentazione umana, di quelli messi a pascolo. Fatto che fu tenuto in gran considerazioni durante le fasi dell’aumento demografico basso medievale.
Il grano era così importante che spesso fungeva quasi da moneta. Non solo il pagamento di un mezzadro avveniva attraverso il pagamento di metà del raccolto di grano, non solo i lavoratori stagionali potevano essere pagati attraverso il frumento, ma in frumento erano spesso anche costituiti nella Campagna Romana i canoni d’affitto di casali e terreni, così come i prezzi nelle compravendite immobiliari. Per fare un esempio attinente al nostro periodo, più per la cronologia che per lo spazio, nel 1279 il monastero romano di S. Sisto acquistò delle terre pagandole in quattro rate, ed ogni rata consisteva in dieci rubbia di grano.
L’ambizione principale era quella di produrre pane. Il pane migliore veniva considerato quello bianco, ovvero quello di puro frumento e di fine farina, quindi decisamente più costoso e rivolto in generale agli abitanti delle città, ed in particolare ai ricchi. In ambiti rurali e tra gli abitanti poveri di città il pane più comune era invece quello che se ne poteva fare in maggiori quantitativi sfruttando ogni piccola parte di diverse tipologie di carossidi: questo era il cosiddetto “pane nero”. Era prodotto con una farina mista di crusca ed altri cereali come segale, avena, farro ecc. Ancora ad inizio ‘900 il pane “bianco” rimaneva un alimento eccezionale riservato a poche persone. Ciò emerge anche da un’inchiesta parlamentare del 1909-1911[2]. Ora si è visto che non è vero che il pane bianco fosse più nutriente di quello nero, anche la crusca apporta lo stesso nutrimento e lo stesso quantitativo calorico, ma all’epoca il pane “bianco” era simbolo di status sociale e per questo si era portati ad attribuirgli maggior pregio anche dal punto di vista nutrizionale. Un po’ come oggi facciamo a parti inverse con quello integrale.
L’ampio ventaglio di varietà di graminacee coltivate nel Medioevo, era una ricchezza per il territorio. Non solo perché con la loro coltivazione combinata si potevano combattere meglio le malattie e i parassiti che colpivano principalmente determinate specie di graminacee, ma anche perché quella che noi oggi chiamiamo biodiversità e la cui salvaguardia è considerato problema globale al centro della agenda della FAO e quindi dell’ONU, produceva anche più raccolti durante lo stesso anno. Non va sottovalutato infatti che uno dei motivi per cui si coltivavano più tipi di graminacee era sicuramente il loro differente periodo di semina. Alcune graminacee venivano dette cereali “minori”, e tra loro talune erano di semina primaverile (miglio, sorgo, avena, alcune qualità dell’orzo), altre, i cosiddetti “grani vestiti”, erano di semina autunnale: spelta e farro. Questi cereali “minori” potevano rappresentare un’ottima ancora di salvezza per le popolazioni medievali in caso di annate agricole sfavorevoli. Di certo non così inusuali. Questi cereali venivano utilizzati oltre che per produrre i pani di mistura o “neri”, anche per fare zuppe e polente, piatti tipici delle tavole contadine. Resta fermo, comunque, il fatto che esse erano destinate prevalentemente all’alimentazione animale: miglio per l’allevamento degli animali di bassa corte; il sorgo per i bovini e i suini. Anche la cosiddetta “biada” era solitamente destinata ad animali, ma ciò non la esentava dal frequentare le tavole degli uomini.
Va da sé che i terreni agricoli non avevano chiaramente i tassi di produzione attuale. La mancanza di diserbanti produceva la crescita dell’erba tra le piante di grano, e grosso modo le piante graminacee in un campo coltivato erano grosso modo il 30-35% di quelle che si otterrebbero attualmente.
Queste coltivazioni graminacee erano di gran lunga preferite dai contadini a quelle degli alberi da frutto, solitamente imposti sul podere dai proprietari cittadini. Era segno distintivo per il cittadino avere frutta fresca di stagione. Ma gli alberi da frutto avevano e hanno bisogno di grandi cure, come ben sa qualsiasi persona che ne abbia qualcuna. Necessitano di innesti, potature, controllo parassiti, oltre che essere delicate alle gelate. Gli alberi dovevano essere accuratamente potati per impedire che fero troppa ombra alle viti ed al terreno sottostante dove si seminavano i cereali. Richiedevano insomma molto lavoro ai contadini del podere, e tutto ciò in cambio di cosa? Di pere e
albicocche! Per chi ama e si può permettere una buona cucina, non sono certo alimenti disprezzabili oltre che avere un vasto possibile impiego, ma per chi era impegnato nell’arte quotidiana della sopravvivenza le pere e le albicocche erano di scarso aiuto. Fondamentalmente si tratta di acqua zuccherata, con un basso rapporto di calorie prodotte per energia spesa a farle produrre dai rispettivi alberi. Ciliegi ed albicocchi erano stati portati dai Romani, poi nell’alto Medioevo se ne era anche perso un po’ l’uso. Il grano era tutta un’altra cosa.
La semina fino a non molti anni fa avveniva spargendo a mano sui solchi i chicchi di grano, i quali venivano ricoperti di terra con badili e rastrelli. Ma anche in questo caso il Medioevo fu periodo di grandi trasformazioni, soprattutto tecniche. Ancora nell’alto-medievale l'aratro comunemente in uso era il cosiddetto "aratro semplice", a vomere simmetrico di legno temperato e raramente rivestito in ferro, che in fondo andava poco più in là dello scalfire superficialmente le zolle; ma dall’ XI secolo iniziò a diffondersi, a partire dal nord della Francia, un innovativo tipo di aratro: "l'aratro pesante". Questo era a vomere asimmetrico, dotato di avantreno mobile su ruote, necessitava di essere trasportato da buoi o talvolta da cavalli. Si diffuse rapidamente e fu causaconseguenza dello sviluppo demografico -economico di quel tempo. Il solo possederlo dimostrava la differenza sociale tra un contadino povero ed uno ricco. Il suo utilizzo portò a una rapida crescita del valore delle bestie da traino che, solo in questo periodo, valevano più del podere stesso, e portò a un susseguirsi di invenzioni per facilitare il compito dell'animale. Tra esse le più importanti sono sicuramente il giogo frontale per buoi (e con tale giogo abbiamo rappresentato i buoi nella ricostruzione tridimensionale) ed il collare da spalla per i cavalli.
Come la semina anche l’opera di mietitura avveniva a mano tramite l’uso di falcetti, del cui utilizzo l’uomo si avvalse già da tempi immemorabili. Tempi antichi come l’agricoltura stessa. Poi avveniva la trebbiatura. Questa è l’attività conclusiva del raccolto, consistente nella separazione della granella del frumento e degli altri cereali dalla paglia e dalla pula. Avveniva solitamente attraverso la “battitura”, un’espressione che indica diversi modi di trebbiare il frumento, anche se in origine indicava il più antico dei modi manuali impiegati per separare i chicchi dalla spiga. Il frumento, steso sull’aia, era battuto con il
bastone (detto bacchetto, pertica, manganello, ecc.) o col correggiato (detto anche battitore, bastone da battere, serciario, duiario, ecc.). Tale metodo è stato praticato in molte località italiane ancora nella prima metà del secolo scorso. Per grandi quantità di frumento già dall’antichità l’uomo si è aiutato con sistemi di trebbiatura diversi da quelli manuali. I più comuni erano: la trebbiatura con animali, sui covoni ammucchiati nell’aia venivano fatti girare degli animali, i cui zoccoli, calpestando le spighe, ne facevano uscire i chicchi; la trebbiatura con il rullo o con la pietra, un massiccio rullo di legno od una pietra piatta di grandi dimensioni venivano trascinati da animali sopra il frumento; la trebbiatura con il carro, si girava sopra il grano con un pesante carro a quattro ruote tirato da buoi o cavalli. Una volta così ottenuti i granelli di frumento dalle spighe, essi venivano macinati per ottenere farina. In tempi neolitici ciò avveniva in ciotole di pietra dove i granelli di frumento venivano pressati da un’altra pietra maneggiata dall’uomo. Ben presto si capì che per simili lavori ripetitivi anche l’intelligenza animale poteva essere sufficiente, mentre la forza degli stessi animali era ben più appropriata di quella umana. Così sorsero i mulini dove la forza animale veniva trasformata in energia atta a muovere pesanti “macine” di pietra. In seguito poi alla forza animale si sostituì quella idrica e di altro genere. Questi mulini azionati non da esseri umani furono però sempre un elemento marginale nel panorama antico. Fu il Medioevo il periodo di ampia portata dal punto di vista dell’innovazione tecnica. Siccome le prime testimonianze e descrizioni “tecniche” di questi mulini appartengono al mondo greco, ciò sembra come un paradosso che il genio greco-romano avesse dovuto attendere i cosiddetti periodi bui medievali per arrivare a concepire simili mulini. [D’altronde il Medioevo ha molto poco di “buio”, al di là della documentazione scritta alto-medievale, ma elaborazioni intellettuali a partire dal rinascimento così ce lo hanno tramandato]. Sebbene il primo modello di cui possediamo sufficiente documentazione è, dopo quello accennato in un epigramma di Antipatro di Tessalonica, il mulino del palazzo di Cabeira nel Ponto, costruito da Mitridate nel 65 a.C., il Medioevo è stato il vero palcoscenico della comparsa della ruota idraulica “moderna”. Una spiegazione in termini di causa ed effetto soddisfa la necessità di una spiegazione, ma se vogliamo scendere più all’interno della natura di tale problematica non si può non ricollegarci a quella felice espressione di Offner:
Gli strumenti tecnici sono dei prodotti sociali. (J.M. Offner)[3]
È chiaro che è la necessità sociale a muovere l’utilizzo di uno strumento tecnico, e credo bene anche intellettuale. Visto che ci siamo citiamo la spiegazione di Marc Bloch alla problematica appena sollevata dei mulini, in particolar modo di quelli ad acqua.
Le civiltà greco-romane –scrive- contavano troppi occhi pronti e troppi cervelli vivaci perché si possa negar il dono dell’immaginazione tecnica –basti pensare alle macchine d’assedio ed ai sistemi di riscaldamento ideati dalle civiltà-” (M.Bloch)[4]
Ricollegandoci al sociologo precedentemente citato si può dire che il problema è quella mancanza di necessità-volontà sociale nell’impiego di questi mezzi. Il motivo è presto detto: “appunto questa economia di forza umana –conclude Bloch- era quello di cui il mondo antico sentiva meno il bisogno (…) Nella continua e a lungo ininterrotta espansione dell’Impero Romano la merce meno preziosa era quindi la manodopera; per un fondato principio, ribadito dallo stesso storico, un’invenzione non poteva diffondersi senza che la sua necessità sociale venisse ampliamente avvertita, la cui mancanza rese l’impiego della forza idraulica, oltre che inutile, socialmente ingiustificabile.” (http://echowebspace.altervista.org/docs/essays/mulini.html)[5]
Nella nostra ricostruzione si è dovuto ricostruire anche un mulino. Questa ricostruzione necessita di una spiegazione. I mulini erano solitamente a ruota orizzontale, i fiumi della zona da noi indagata non sono così profondi da sviluppare una grande forza atta a muovere delle pale su ruote verticali, ma le possono muovere se poste orizzontalmente. I piccoli fiumi sviluppano una minor energia di spinta, ma essendo la ruota immersa orizzontalmente questa è soggetta a tale forza per una superficie maggiore che se fosse messa in verticale, e ciò è sufficiente a muovere la macina interna al mulino. Ciò nonostante si è proceduto a rappresentare il mulino con ruota verticale in quanto nelle mappe storiche presentate in fase di introduzione, e più in generale nelle mappe e piantine provenienti dal basso Medioevo toscano, i mulini erano rappresentati a
ruota verticale. Non per una conformità alla realtà storica ma per una conformità all’idea generale che si aveva di mulino. A tale idea presente nella stessa cartografia basso medievale ci siamo ispirati.
E con i mulini rieccoci giunti al pane. Il mulino era l’unica macchina meccanica che entrava nel ciclo della produzione del pane. Il pane veniva quindi prodotto mediante la cottura al forno di una pasta lievitata, composta di farina di frumento (o di altro cereale), acqua e molto spesso sale. L’impasto era chiaramente fatto a mano, e così durò a esser fatto fino al 1810, anno della prima impastatrice meccanica nata a Parigi. Della produzione di grano e cerealicola in genere, ai contadini rimaneva assai poco da immettere sul mercato, sempre ammesso e non concesso che ne rimanesse qualcosa. In genere tutta la parte a loro spettante in virtù dei contratti di mezzadria, veniva assorbita dai bisogni alimentari della famiglia.
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[1] Cfr. G.Pinto, 2002, op. cit., p.85
[2] V. http://www.taccuinistorici.it/ita/news/contemporanea/busi--curiosita/Pane-bianco-o-nero.html
[3] Cfr. J.M. Offner, Gli effetti strutturanti dei trasporti: mito politico, mistificazione scientifica, p.57, contenuto in: a cura di: C. Capineri, M.Tinacci Mossello, Geografia della comunicazione. Reti e strutture territoriali, Torino 1996.
[4] Cfr. M. Bloch, 1935, Avvento e conquiste del mulino ad acqua, in: M. Bloch,
2009, Lavoro e tecnica nel Medioevo, Laterza, Bari.
[5] http://echowebspace.altervista.org/docs/essays/mulini.html)
4.5.3 OLIVO
L’ulivo è la pianta tipica del Mar Mediterraneo, che rientra nel novero di quelle piante definite “eliofile” in quanto necessitano dell’esposizione diretta alla luce solare. Cresce e ben si sviluppa in zone temperate, sia prossime al mare, sia collinari purché non eccessivamente fredde. La Toscana rientra perfettamente in siffatte definizioni. In relazione all’olivo, per temperature “eccessivamente fredde” sono da intendersi quelle in cui le temperature scendono al di sotto dei 10-12°C sotto lo 0 per più di 8-10 giorni consecutivamente. È a queste temperature che i danni prodotti all’olivo potrebbero risultare deleteri, anche se i danni iniziano ad essere evidenti già a -7°C. Va però tenuto in considerazione che alcune varietà se poste in ambienti secchi possono resistere anche per temperature inferiori. Altri fattori climatici che potrebbero essere assai dannosi per questa pianta sono i forti venti associati a basse temperature, l’eccessiva piovosità, e l’elevata umidità dell’aria. Tutti fattori che si manifestano solo per via eccezionale in ambito mediterraneo[1].
Oliveti che definire specializzati è un eufemismo, perché sono solo il frutto della capacità di questa pianta di resistere all’abbandono e alle gelate, senza potature e su terreni sarchiati sbrigativamente una volta all’anno. (C. Grepi)[2]
Anche riguardo all’olivo occorre tener presente che in nessun caso nel nostro territorio si è di fronte a coltura specializzata. Questa al massimo poteva comparire soltanto con l’oliveto della lucchesia, fuori dall’ambito granducale e posteriormente all’ambito cronologico da noi indagato. Anzi, spesso gli olivi venivano coltivati nei campi a lavorativo nudo, a pastura, o addirittura quasi a bosco, senza essere inseriti in genere nella coltura promiscua. Per il loro stesso stato quasi di incolto su cui si impiantavano le colture di olivo, queste zone formavano infatti veri e propri boschi detti “olivetum”. La motivazione è presto detta: l’olivo non necessitava di particolari cure e d’altronde almeno fino al XVIII secolo l’olio era un bene di lusso scarsamente diffuso se non nelle classi agiate urbane. Per questo la coltivazione dell’olivo era maggiormente diffusa
intorno alle città. Essendo il suo consumo piuttosto limitato ai benestanti urbani, si evitava così di aumentarne inutilmente il costo di produzione con l’importarlo da zone lontane. Veniva utilizzato soprattutto per il condimento crudo dei cibi, in particolare di verdure, cereali e di legumi cotti. Le classi meno agiate ed i contadini in particolare usavano grassi animali, che da queste parti significa “maiale”. Ciò nonostante “A Siena la normativa comunale stabilì che ogni lavoratore di terra dovesse piantare ciascun anno quattro piantoni di olivi e altrettanti alberi da frutto e generalmente tutti gli statuti, sia cittadini che rurali riportavano rubriche per stimolare l’impianto di colture arboree” (Muzzi)[3] Comunque già nel basso Medioevo queste zone erano dotate di un propiziatorio connubio: favorevoli caratteristiche del terreno da una parte e vicinanza di mercati cittadini dall’altra. Ciò le indirizzò sul sentiero di una sempre più intensa presenza dell’olivo. Ed infatti già allora nelle città toscane di collina il consumo di olio, sebbene assai limitato rispetto ad oggi, era eccezionale per i canoni del tempo. Ne abbiamo testimonianza dalla meraviglia con cui un viaggiatore inglese della fine del XVI secolo descrive il (relativo) grande uso che se ne faceva nel Granducato (si tratta delle osservazioni di Robert Dallington) [4].
Sebbene l’olio prodotto in Toscana veniva usato prevalentemente per l’alimentazione, il suo uso aveva altresì dei motivi prettamente spirituali e legati al culto cristiano. Innanzitutto sempre attinente all’ambito dell’alimentazione, nei giorni di quaresima i cibi dovevano essere conditi con l’olio d’oliva visto che il divieto di alimentarsi con carne animali si estendeva anche allo strutto e al lardo loro derivati.
Va però detto che in genere, in questo periodo storico, alla scarsa presenza dell’olivo fa da contraltare la forte presenza dell’allevamento suino, paradossalmente il vero concorrente dell’olivo. Questo perché il grasso animale da esso derivante faceva sentir meno la necessità degli oli naturali.
Le cerimonie sacre sebbene non ne richiedessero quantità smisurate, mantenevano pur sempre viva l’esigenza dell’olivo (sia per l’olio santo che per i
rami benedetti la domenica delle palme). Ed è per questo che soprattutto nell’alto Medioevo si deve agli enti ecclesiastici l’esser riusciti a conservare, seppur in maniera estremamente ridotta, la coltivazione dell’olivo in un periodi di così forte crisi. “All’olio d’oliva inoltre si attribuivano qualità terapeutiche; per questo veniva consigliato nei regimi alimentari dei malati e degli anziani (Cherubini, Olio,olivo,olivicoltori, pp. 173-194)” (Pinto)[5]. Sempre con ridotte quantità se ne faceva anche un uso cosmetico. L’olio era inoltre impiegato come combustibile sia per l’illuminazione domestica che per gli usi “industriali”. Soprattutto in questi ambiti si utilizzava quello di bassa qualità, o irrancidito. In genere comunque per questi usi non ci si affidava a quello prodotto in loco nelle colline e nei dintorni delle città del Granducato, ma ci si affidava a quello di importazione “proveniente per via di mare soprattutto dalla Campania, dal Lazio meridionale, dalla Provenza, ma anche dalla Puglia e dalla penisola Iberica”
L’olivo era quasi scomparso in Toscana al aggio dall’età classica all’alto Medioevo. Le poche piante di olivo superstiti non si conservavano nella zona di nostra competenza, ma leggermente più a nord, nella Lucchesia, in parte della Versilia e in poche zone a sud di Pisa. Non abbiamo fonti documentarie che illustrano questo progressivo decadimento delle colture d’olivo ma è da presumere che in un periodo di forte calo demografico, l’abbandono di molte zone coltivate lasciò l’olivo solo nella sua lotta contro l’intemperie. E se è vero che l’olivo resiste a temperature anche di 10-12 gradi sotto zero, è anche vero che in Toscana periodicamente si presentano (statisticamente parlando) due-tre forti gelate per secolo, durante le quali l’olivo necessita delle particolari cure degli agricoltori. In quanto dopo tali gelate “solo in parte poi ributtano i polloni, che devono a loro volta essere sfoltiti e curati (Marcaccini, Il limite dell’olivo, pp.42-44). (..) Forse è per questo che la coltura dell’olivo reggesse meglio nelle zone costiere dove il clima è più mite e le specie coltivate necessitano di minori cure.”(Pinto)[6] Essendo quindi diventato raro, il suo valore era di conseguenza aumentato. Una prova su tutte: “le leggi longobarde, che fissavano in tre soldi la pena per il danneggiamento di un olivo contro un soldo per il danno alla vite e al castagno”. È da credere che in questa opera di conservazione dell’olivo un ruolo fondamentale, come si diceva in precedenza, lo avevano avuto gli enti ecclesiastici, quasi sicuramente per il ruolo fondamentale che l’olivo ricopriva in determinati riti cristiani.
Soprattutto al giro di millennio l’olivo iniziò a riguadagnare sempre più spazio nelle colline e soprattutto nei terreni intorno alle città. Che io sappia la prima attestazione diretta della coltivazione dell’olivo nella nostra zona, successiva all’ingresso nel nuovo millennio, la si deve alle “imbreviature” del notaio valdelsano Palmerio da Uglione (siamo nel 1237-1238) “è presente un atto dove si evince l’esistenza di appezzamenti dove la proprietà della terra era distinta dalla proprietà delle poche piante di olivo che vi crescevano sopra, a testimonianza dell’importanza di tali alberi (Palmiero di Corbizo, Imbreviature, 1237-1238, pp.86-89)”(Pinto)[7]
Ma è con l’entrata in scena della coltura promiscua che l’olivo inizia quell’ascesa che lo porterà ad essere ai giorni nostri, una delle piante più tipiche e caratteristiche della Toscana. Questo perché nella mezzadria poderale la struttura fondiaria risultante dall’accorpamento di più terre integrava le colture cerealicole a viti, olivi (in misura però inizialmente assai minore), ed alberi da frutto; il tutto finalizzato al soddisfacimento completo, o quasi, dei bisogni alimentari della famiglia contadina. Nel corso del trecento poi, soprattutto la Valdelsa e la Valdipesa fiorentina iniziano a conoscere una buona diffusione dell’olivo, testimoniata dalle frequenti vendite d’olio a vantaggio dei consumatori cittadini.
A San Gimignano la documentazione comunale ci fornisce indirettamente prove della presenza ed importanza dell’olivo. Più desolante invece il quadro dell’olivicoltura nel contado senese, dove su 278 contratti di mezzadria risalenti tra il XIII secolo e la prima metà del XIV, solo 28 (ovvero il 10%) contengono riferimenti a tale coltura[8].
Se la crisi patita dall’olivo in Toscana nell’alto Medioevo era dovuta al calo demografico, paradossalmente fu un altro calo demografico, quello che investì la stessa regione a partire dalla metà del ‘300, a far sviluppare sempre più la coltivazione dell’olivo. Chiaramente ad ogni periodo corrispondono peculiari situazioni socio-economiche che ad impulsi di base simili sfociano poi in differenti conseguenze. D’altronde le cause non son mai identiche così come
non son mai identici gli effetti; la regina della storia è “la peculiarità” altrimenti tutto sarebbe così facilmente e banalmente deducibile. Così i tanti terreni messi precedentemente a grano risultarono superflui in virtù del tremendo calo demografico che ridusse la Toscana a soli 400.000 abitanti, con un calo quantificabile in circa 2/3 rispetto al secolo precedente. Lo spazio che quindi si liberò fu soprattutto messo a colture pregiate, di conseguenza ne guadagnarono i vitigni di buona qualità e soprattutto l’olivo. Addirittura “nel 1428 un provvedimento del Comune di Siena, lamentando la scarsità della produzione di olio e di frutta, che costringeva ad importarne una gran quantità da fuori del contado, stabiliva che ogni contadino (mezzadro, fittavolo, o piccolo proprietario) dovesse porre ogni anno quattro piantoni di ulivo e quattro di alberi da frutto.” (Pinto)[9] E’ in quest’ambito che l’olio viene definito “una delle quattro cose più necessarie a la vita dell’uomo[10]”
Per la ricostruzione pratica degli oliveti presenti nella nostra ricostruzione abbiamo a disposizioni valide fonti.
Intorno al 1390 nei quattro poderi che il mercante di guado Gioacchino Pinciardi possedeva nel popolo di San Lorenzo a Colline, piviere dell’Impruneta, la produzione di olio copriva circa il 20% della rendita dominicale lorda. (…) Sulla base dell’ampiezza dei poderi, dei raccolti medi per anno, dei rendimenti medi di olio per pianta, (di cui parleremo nel paragrafo successivo), si può ipotizzare una densità di 80-90 piante per ettaro, in coltura promiscua (Pinto, Toscana Medievale, pp. 162, 167, 174). Ma si tratta di valori, lo ripetiamo, di valori superiori alla media. (Pinto)[11] 119)
Su queste basi, parlandone anche con il prof. Salvestrini, si sono ritenuti idonei e realistici i valori approssimativamente calcolabili in 3/5 di quelli sopra riportati.
E poi è sicuramente un dato di fatto che i contratti mezzadrili successivi alla Peste Nera facciano riferimento con maggior frequenza agli olivi e all’olio. Lo vediamo principalmente dalla crescita del numero di atti prescriventi l’obbligo
per il mezzadro di mettere ogni anno un certo numero di piantoni d’olivo. In proposito Pinto ci fornisce i seguenti dati: per il periodo anteriore al 1348 tale obbligo è previsto solo in tre contratti su 278; nei 150 anni successivi la clausola è presente in 16 contratti su 235.
La coltivazione dell’olivo fu anche fonte di dissapori tra il contadino ed il proprietario. Se ne ha una prova indiretta in un provvedimento senese del 1428 (precedentemente citato), dove ci si lamenta della “neglicentia” e dell’ “inadvertentia” dei rustici riguardo all’olivo. Ma non solo, nella documentazione fanno spesso capolino anche abbondanti testimonianze di diatribe riguardo alle potature dell’olivo. Da un lato vi era il contadino che avrebbe preferito una potatura assai più consistente, sia per ottenere maggior quantitativi di legna da ardere, sia perché trovandosi in regime di coltivazioni promiscue, meno rami dell’olivo voleva dire anche meno ombra sul terreno, e sul terreno circostante crescevano i cereali anch’essi necessitanti di luce. Cereali che erano di poco valore per un ricco, ma essenziali per un’indigente quale il contadino era. Dall’altro lato invece il proprietario vedeva quei rami d’olivo in tutt’altra ottica, quella del guadagno. Se si fosse potato lo stretto necessario e si fossero mantenuti ampi rami, sarebbero stati assai più lauti i guadagni al momento della vendita di un bene pregiato come l’olio; e ciò a scapito di una qualche manciata di cereali in più, incomparabilmente meno redditizi.
Ma d’altronde gli olivi presenti nei campi sono sempre stati fonte di discordia. Mi viene alla mente il famoso archeologo Schliemann che verso al fine del XIX sec., dopo le altisonanti scoperte di Micene e Troia, aveva individuato anche la zona di Creta dove presumibilmente avrebbe dovuto giacere l’antico palazzo di Knosso. Essendo mercante avviò con maestria le trattative di vendita di quei terreni coltivati con olivi, appartenenti ad un contadino della zona. Fu più arduo trattare con questo contadino che con il governo Ottomano. Il tira e molla si risolse in un nulla di fatto per il forte dislivello di valore che i due contendenti davano alle piante di olivo impiantate su quei terreni. E Schliemann a causa di un pugno di olivi dovette lasciare ad Evans qualche decennio più tardi la scoperta di Knosso.
Nel corso degli anni la zona tra Monteriggioni e San Gimignano divenne sempre più importante per l’esportazione dell’olio d’oliva. Tanto è vero che poco più a est, la confinante Volterra esportava una gran quantità di olio verso Firenze, siamo informati di ciò dai libri di gabelle volterrane. Le esportazioni volteranee di olio erano assai più ridotte verso Colle Valdelsa e Siena, molto probabilmente perché terre che già di per sé stesse producevano una buona quantità di olio d’oliva. Altrettanto probabilmente però in tale situazione avrà giocato un ruolo importante anche il miglior trattamento fiscale che in certo qual modo Volterra doveva riservare a Firenze. D’altronde il peso politico tra questi centri era di gran lunga differente. Per fare un parallelo contemporaneo è un po’ come il prezzo del petrolio per gli Stati Uniti e per l’Italia.
L’olio era di sicuro una gran fonte di guadagno, a cui non rinunciava nemmeno il Comune cittadino. A Siena all’inizio del trecento- ma dubitiamo che tale norma si sia mantenuta anche in seguito- l’olio era monopolio pubblico insieme al sale e non poteva essere venduto da privati in città e oltre le mura per una fascia di due miglia (Pinto)[12]. Mentre a Colle Valdelsa, per esempio, l’esportazione dell’olio era consentita a patto che si pagasse una relativa gabella, a Firenze nel 1348 essa era vietata dallo Statutum bladi. Evidentemente se ne aveva già sufficientemente bisogno all’interno della città, la quale vietava così la sua esportazione per potersene appropriare a dei prezzi di favore.
Nella Toscana del basso Medioevo ed ancora all’inizio dell’età moderna, sono segnalate tre, quattro varietà di olivo. Ricordiamone alcune. Il “frantoio” ed il “moraiolo” sono specie ancor oggi coltivate che danno olio abbondante nonché di buona qualità; il “gramignolo” è invece una varietà meno pregiata; poi c’era il “leccino” che non dava una gran quantità di olive ma, lato positivo, le dava in maniera costante nel tempo. Il “leccino” era comunque maggiormente diffuso nella Lucchesia.
Michelangelo Tanaglia, l’agronomo fiorentino del ‘400, consiglia in particolare l’impianto del “frantoio” “che fa dolce olio e mai non manca del tutto”, mentre il “moraiolo” “al turculare l’uno anno assai frequenta, e l’altro stassi”, e il
“gramignolo”, che produce regolarmente ogni anno olio di buona qualità, pare avesse rese minori[13].
All’interno dei poderi i nuovi impianti di olivi si realizzarono attraverso lo scavo di singole formelle che accoglievano una sola pianta o più comunemente con la costruzione di fosse e di filari alberati. I registri contabili delle aziende e i trattati di agricoltura danno molte indicazioni in proposito. Le fosse, lunghe parecchio decine di metri e talvolta anche un centinaio, erano fognate con pietre e scope e venivano ricoperte con terra concimata; agli olivi si univano talvolta viti e alberi da frutto (De Angelis, Tecniche, pp. 211-212) (Pinto)[14]
Le pianticelle di olivo erano allevate per alcuni anni in vivai o “posticci”, da intendersi come piccoli fazzoletti di terra di buona qualità, facili da concimare e da irrigare. Gli olivi venivano impiantati nelle fosse alla fine dell’inverno, in genere tra marzo e aprile, mantenendo una distanza, tra una pianta e l’altra di circa otto o nove metri. Se De Angelis nel suo trattato sulle tecniche agricole consigliava una distanza di 5-7 metri[15], all’inizio dell’ ‘800 si consigliava una distanza di 12-14 braccia, ovvero di 7-8 metri circa[16].
La raccolta delle olive iniziava tra novembre e dicembre, ed era effettuata a mano, con la “brucatura”. Si evitava di battere i rami, ma si faceva eccezione per quelli più alti.
La lavorazione era effettuata in frantoi (“fattoi”) (..) frantoi che nelle aree della regione dove era più forte il tessuto comunicativo e minore la presenza della proprietà cittadina, erano talvolta di proprietà pubblica (Così ad esempio a Scarlino (Pinto Toscana medievale p.204) e a Radicondoli e Belforte (Cucini, Il Medioevo, p. 306). La gestione diretta dei frantoi da parte di ufficiali comunali si alternava alla cessione in appalto) Altrove, soprattutto dove era diffusa la struttura poderale, si incontrano non di rado unità fondiarie provviste di frantoio, dove si macinavano sia le olive proprie che quelle di altri produttori; doveva trattarsi in ogni caso di piccoli impianti forse ad una sola macina, che
lavorava mediamente quantitativi limitati di olive. (Pinto)[17]
I frantoi potevano sfruttare sia l’energia idraulica che la trazione animale per muovere la macina in pietra (o le macine) atte a frantumare le olive. I frantoi venivano affittati e davano dei buoni guadagni. Per esempio a Sociville, siamo nel senese, si pagava in denaro: “5 soldi per ogni staio di olio ricavato[18].” Sempre a Sociville e nel non lontano comune di Poggibonsi era vietato di portare a frangere le olive fuori del territorio comunale[19]. Evidentemente si voleva avvantaggiare i frantoi locali e forse impedire che l’olio fosse esportato clandestinamente senza pagare le rispettive gabelle.
L’usanza di aggiungere acqua calda per ottenere maggior prodotto era biasimata e sconsigliata dal Tanaglia[20], ma si rendeva necessaria per la seconda spremitura.
Essendo il valore dell’olio assai alto, si utilizzavano precise “libre” (bilance) prescritte dagli statuti comunali. A San Gimignano all’inizio del ‘300 per la vendita al minuto era prescritta una “libra” di rame con fori da due lati in modo da raccogliere l’esatta quantità d’olio (ovvero circa 340 g).
Sulla resa delle piante non abbiamo molti dati. L’immancabile Pinto per questo genere di dati, cita la resa di un podere di Gangalandi, sulle colline a occidente di Firenze, posseduto dal pittore Neri di Bicci, le cui olive alla metà del ‘400 rendevano in olio tra il 12,7% ed il 14% del loro peso[21]. Ciò equivale ad un rendimento inferiore del 30% (circa) a quello medio attuale, che oscilla tra il 18 ed il 26% del peso delle olive. Riguardo al rendimento delle piante, disponiamo di dati risalenti a non più indietro dell’età moderna, ma considerando che in questo caso le pratiche agrarie erano rimaste le stesse, si tratta pur sempre di dati che non dovrebbero differire molto da quelli dei secoli precedenti. All’inizio del ‘700 si calcolava che per ottenere un barile d’olio (circa 29kg) ci volessero in media 40 piante d’olivo; naturalmente il dato medio, circa 700 grammi d’olio per olivo, variava in rapporto alle varietà della pianta e soprattutto alle diverse
aree geografiche[22]. La resa quindi anche in ottica di parametri moderni, seppure inferiore, non era disprezzabile. Meno apprezzabile era la qualità media dell’olio. Sia De’ Crescenzi che Tanaglia consigliavano di “macinare le olive a pochi giorni dalla raccolta ed in questo lasso di tempo tenerle ben distese sulle stoie in luoghi asciutti e ventilati, per impedire che fermentassero”[23]. Ciò non era semplice considerando i tempi di raccolta, la distribuzione dei frantoi, la complessità della lavorazione, ed anche alcuni pregiudizi difficili da estirpare. Riguardo al perdurare nel tempo di certe “cattive” pratiche di frangitura si può citare un esempio su tutti: in pieno Settecento la fiorentina Accademia dei Georgofili lamentava l’uso abbastanza diffuso nel contado fiorentino di far riscaldare (fermentare) le olive prima di frangerle perché si pensava erroneamente che con ciò sarebbe stata facilitata l’estrazione dell’olio, e tale olio sarebbe risultato “sappiente”, ovvero dal sapore forte e pizzicante, capace perciò di condire di più con minore quantità[24]. Inoltre la raccolta dell’olio per affioramento faceva sì che parte del prodotto si mescolasse con la fondata. Non sorprende quindi che nei contratti agrari si specificasse di frequente che l’olio di parte padronale doveva essere “buono, dolce e chiaro”, “puro, nitido et non moccoso”; né sono rare le notizie di olio “nero e puzulente”. In una lettera di sco di Marco Datini alla moglie Margherita compare la definizione “olio de lo vergine”, che precorre indicazioni di qualità affermatesi in età contemporanea[25].
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[1] Cfr. Roberto Tripaldi: http://www.frantoionline.it/olivicoltura/ulivoprotezione-dal-gelo.html
[2] Cfr. C.Grepi, 1991, ibid.
[3] Cfr. O.Muzzi, 1991, ibid.
[4] Cfr. R. Dallington, Descrizione dello stato del Granduca di Toscana. Nell’anno di nostro Signore 1596, a cura di N. Francovich Onesti- L. Rombai, 1983, All’Insegna del Giglio, Firenze, p.55.
[5] Cfr. G. Pinto, 2002, op. cit., p.112
[6] Cfr. Pinto, 2002, op. cit., pp.113-114
[7] Cfr. G. Pinto, 2002, op. cit., 114
[8] Cfr. G. Pinto, 2002, op. cit. , 116.
[9] Cfr. G. Pinto, 2002, op. cit., 118
[10] Documento pubblicato in: I. Imberciadori, 1940, “Per la storia del contado senese. Documenti (1428-1445)”, Bullettino senese di storia patria, XI, pp. 212214
[11] Cfr. G.Pinto,2002, op. cit., 119
[12] Cfr. G.Pinto, 2002, op. cit., p.123
[13] Cfr. M. Tanaglia,op. cit.,p.37, vv. 996-1001.
[14] Cfr. G. Pinto, 2002, op. cit., p.125.
[15] Cfr. L. De Angelis, 1981, op. cit., p.211
[16] Cfr. C. Pazzagli, 1973, L’agricoltura Toscana nella prima metà dell’800. Tecniche di produzione e rapporti mezzadrili, Olschki, Firenze, p.259.
[17] Cfr. G. Pinto, 2002, op. cit., p. 126.
[18] Cfr. Statuti dei comuni di Monastero S. Eugenio (1352), Monteriggioni (1380) e Sovicille (1383), a cura di G. Prunai, 1961, Olschki, Firenze, pp. 188189
[19] Vedere nota di 76
[20] Cfr. M. Tanaglia, op. cit., p. 52, vv.1513-1518
[21] Neri di Bicci, op. cit., pp. 11, 49
[22] Cfr. I. Imberciadori, 1953, Campagna toscana nel ‘700, Accademia dei Georgofili, Firenze, pp. 198-199
[23] Cfr. P.De Crescenzi, op. cit., II, p.90; M. Tanaglia, op. cit., p.52, vv.15011503
[24] Cfr. I. Imberciadori, 1953, op. cit.,p.202
[25] Cfr. G. Pinto, 2002, op. cit., p.132.
4.6 CONFRONTO FRA LA SITUAZIONE ATTUALE E CATASTO ‘800
Procediamo al confronto tra i dati che emergono dal catasto Leopoldino e la realtà attuale desumibile dalle immagini satellitari consultabili in Google Earth. Innanzitutto alcune precisazioni.
Riguardo l’uso del suolo va segnalato che nel catasto Leopoldino con la designazione di “sodo” e “sodo a pascolo” si designa quello che oggi definiamo “incolto”. Questo tipo di uso del suolo era molto presente in Valdelsa a causa della sua stretta relazione con la coltura promiscua mezzadrile. Il “sodo” ed il “sodo a pascolo” si è oggigiorno di molto ridotto rispetto all’ ‘800, a vantaggio sia del bosco sia dei seminativi. Anche il seminativo arborato, che è l’elemento principe della zona da noi considerata, si è andato progressivamente riducendo fino alla quasi totale scomparsa per lasciare il posto alle varie colture specializzate. Ma questo rientra nel normale aggio dalla società contadina basata sulla mezzadria, alla società industriale il cui spirito (produttivamente) razionalizzante si è diffuso nelle campagne con la creazione e diffusione delle colture specializzate. Campi e terreni interamente coltivati con un’unica coltura sono tipici elementi costitutivi delle nostre attuali campagne. In questa analisi comparativa però si procederà comparando il “seminativo arborato” sia con il vigneto che con l’oliveto, entrambe colture specializzate, al fine di meglio procedere al confronto tra la realtà dei giorni nostri con quella descrittaci dal catasto leopoldino. Queste sono le accortezze generalmente seguite, sulla scia delle tabelle riepilogative fornite da Grepi[1].
Sebbene Grepi raggruppi sotto un’unica voce sia la Valdelsa che il Chianti, e sebbene si riferisca a dati del 1985, le variazioni percentuali sull’uso del suolo corrispondono grosso modo a quelle che possiamo desumere ancor oggi nel più ristretto territorio da noi considerato. I dati sono stati ricavati dalla sovrapposizione in Google Earth della nostra digitalizzazione prodotta in Arcgis 9.3 (ArcMap) con le attuali immagini satellitari[2].
In Chianti-Valdelsa Grepi rileva un aumento del seminativo nudo pari al 9,58% ed una diminuzione del sodo (l’incolto) del 9,93%. Il seminativo arborato cala leggermente nonostante lo si paragona ai vigneti ed agli oliveti specializzati, mentre aumenta la percentuale di bosco, aumento pari al 2,70%.
Le varie entità amministrative della Toscana presenti nel catasto leopoldino possono essere confrontate con gli equivalenti territori di oggi, a prescindere dall’odierna suddivisione amministrativa. Da tale confronto emerge che la zona più stabile, ovvero quella che ha subito meno variazioni nell’uso del suolo, è l’area collinare, quella compresa fra Valdelsa e Chianti. All’interno di tale territorio solo Colle Valdelsa e Monteriggioni registrano differenze superiori ai dieci punti percentuali, dovuti all’incremento dei seminativi a scapito degli arborati. È da rilevare però che i due centri abitati, con i relativi dintorni, già nell’ ‘800 erano caratterizzati da una particolarità che li distingueva dal restante territorio collinare in cui erano immersi. Sia a Colle che a Monteriggioni infatti, il seminativo nudo ed il seminativo arborato si equivalevano, mentre in genere nell’intera area il seminativo arborato prevaleva sul seminativo nudo (28,95% contro il 13,08%). Oggigiorno questa forbice si è ristretta: l’arborata (26,47%) prevale leggermente sul seminativo nudo (22,66%), e ciò come si diceva a scapito del sodo, oggi davvero marginale (6,58%). Quindi tra San Gimignano e le colline del Chianti, l’arborata si configura attualmente come la coltura più importante. La medaglia d’oro dell’uso del suolo predominante spetta al bosco. Nel catasto esso ricopre il 38,51% del territorio, nel 1985 ne ricopre addirittura il 41,21%, registrando quindi anche un aumento rispetto alla situazione ottocentesca. La nostra sovrapposizione della situazione attuale con quella del catasto Leopoldino delle zone studiate, non solo conferma ciò ma forse tende ancor più ad aumentare la percentuale spettante al bosco. Diciamo che in Valdelsa e nel Chianti il bosco la fa da padrone, anche in percentuale maggiore rispetto alle altre zone. Se altrove infatti esso ricopre percentuali comprese grosso modo tra il 25% ed il 33%, qua come visto si attesta sul 40%. Entrando ancor più in dettaglio, dalla sovrapposizione della zona da noi digitalizzata con le immagini satellitari di Google Earth si ricava che il bosco è aumentato tra Abbadia a Isola e Strove, mentre pare esser calato rispetto all’ ‘800 lungo il tratto di via Francigena che porta a San Gimignano.
Nel confronto emerge anche come certi fiumi minori abbiano mutato corso con lo scorrere del tempo, oltre che con lo scorrere delle loro acque. Si veda a titolo di esempio quella ricostruzione di mulino posto su una specie di gora proprio in prossimità del castello di Monteriggioni, segnalata sulle mappe del catasto e oggi inesistente.
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[1] Cfr. C. Grepi, 1991, ibid.
[2] In realtà le immagini satellitari fornite da Google Earth sono databili al 2003.
4.7 CONFRONTO FRA CATASTO ‘800 E BASSO MEDIOEVO
Addentriamoci ora in contesti cronologicamente più remoti, procedendo alla comparazione dei dati di uso del suolo “Leopoldini” con quelli della stessa zona ma risalenti al basso Medioevo. Dati quest’ultimi ricavabili dalle ricerche condotte e presentate nei precedenti capitoli e paragrafi.
Il dato che balza subito all’occhio è l’assai imponente presenza nell’800 dell’olivo rispetto al periodo medioevale. La relativa minore importanza dell’olivo nel basso Medioevo, come si è visto, era non solo conseguente alla predilezione per un diverso uso del terreno, ma anche conseguenza della sopravvivenza di usi alimentari, specialmente nelle classi inferiori, fortemente ancorate al consumo di grassi animali. Lo strutto ricavabile dai maiali metteva in competizione il maiale e l’olivo, anche se di certo essa suona come una competizione un po’ particolare.
Diciamo che parlando della metà del ‘200, e quindi di un periodo di forte espansione demografica, le differenze con lo stesso territorio ottocentesco non dovevano essere così marcate. Si ricordi per esempio che a Lucca nell’800 si consumava lo stesso quantitativo di vino di quattro secoli indietro.
Ben diverso se si fosse parlato della fine del ‘300 o degli inizi del ‘400 dove il forte spopolamento dovuto alle varie pestilenze che si susseguirono a partire dalla peste nera del 1348, e che secondo attendibili calcoli, (vedere precedenti riferimenti a Cherubini e a Pinto) avevano prodotto una diminuzione della popolazione dell’ordine del 70%, produssero un paesaggio assai più desolato e per certi versi “selvaggio”. Ma per quanto riguarda la metà del ‘200, il paesaggio era sia nel basso Medioevo che nell’800 fortemente antropizzato, tanto da sollevare lo stupore di Pinto in relazione alla grande popolazione del primo ambito.
I boschi erano in entrambi i periodi più delimitati rispetto a oggi. Le coltivazioni si espandevano fortemente nelle pendici collinari dopo aver già invaso le disponibili zone vallive. Molti dei territori vallivi infatti erano ancora occupati dalla palude, ciò spingeva i seminativi atti al mantenimento di una popolazione così folta (per il periodo), ad arrampicarsi forzatamente sulle pendici collinari. Quest’ultime zone che per loro stessa natura sarebbero state più idonee a sostenere un manto boschivo piuttosto che un campo di grano. La palude era quindi nel basso Medioevo ben più presente che nell’ ‘800. Nell’ ‘800 infatti la sedimentazione delle fatiche quotidiane di contadini ed ingegneri si era ormai concretizzata in un nuovo paesaggio agrario in cui erano andate scomparendo le paludi. Come non citare in proposito la zona di Badia a Isola che doveva apparire sicuramente diversa nel Medioevo allorquando la zona era profondamente immersa nella palude. A testimonianza di ciò resta il nome della Badia (detta a Isola perché per l’appunto si ergeva in mezzo alla palude) e la denominazione delle zone ad essa limitrofe, chiamate “il canneto” (ovvio riferimento ad un vegetale tipico della palude). Nel ‘200 questa zona era probabilmente idonea al pascolo e quindi nella “tabella attributi” la potremmo definire “a pastura” o con “incolto”. Si veda in riferimento il paragrafo 4.4 sulla palude. Nell’ ‘800 invece la stessa zona si presenta già interamente coltivata con forte predominio dei seminativi.
Difficile intuire il differente corso dei fiumi senza opportune campagne di scavo archeologiche. Se per quanto riguarda l’ottocento, ne possiamo desumere indicazioni dalla cartografia, non con altrettanta precisione possiamo fare per il basso Medioevo. Ciò esclude la possibilità di un confronto. Basterà qua sottolineare che il mutare del corso dei fiumi, soprattutto dei più piccoli e quindi dei meno sottoposti ed incanalati negli argini, è fenomeno così normale che ancora oggi in molti campi agricoli compaiono strutture sintomi di un precedente scorrere di fiume. A titolo di esempio si consideri l’immagine proposta nel file power point, si tratta della fotografia di un terreno agricolo in prossimità di Anghiari, città pur sempre in Toscana ma ben lontana dalla nostra zona. Qua i ruderi di un ponte sorgono isolati in mezzo ad un campo agricolo, con l’attuale unico scopo, nemmeno troppo desiderato, di far da ombra ai nuovi germogli di grano / tabacco.
I centri abitati erano grosso modo i medesimi, a testimonianza di una certa equipollenza tra la popolazione duecentesca e quella ottocentesca. D’altronde la stessa Siena, centro preminente della zona, la quale pianificò ed attuò nel corso del XIV sec. un imponente piano di ampliamento della cinta muraria al fine di inglobare una popolazione in costante crescita, conserverà “vuote” molte di queste nuove zone infra murarie, e ciò addirittura fino alla seconda guerra mondiale. Questo ampliamento delle mura era stato progettato con l’intenzione di dare spazio a nuove strutture e palazzi atti allo stipamento della popolazione. Ma i nuovi spazi ebbero una sorte ben diversa, sorte descritta dal nome con cui verranno chiamate dagli stessi abitanti di Siena: “valli verdi”. Qua infatti al posto dei prospettati edifici per la popolazione, si installarono prevalentemente degli orti. In genere comunque rimasero zone su cui la brama edilizia non prese mai piede fino alla seconda guerra mondiale. La loro storia è ben narrata dal prof. Vecchio[1], ci basterà qua sottolineare che anche tali “valli verdi” ci testimoniano la stazionarietà della popolazione della zona che se già alla fine del ‘400 riprese i numeri del ‘200, non se ne scostò poi di molto fino all’esplosione demografica della società industriale. I centri abitati nell’ ‘800 infatti sono in generale i medesimi che costellavano il paesaggio del basso Medioevo, anche grosso modo in relazione alle loro estensioni. Una nuova “colonizzazione” del territorio doveva attendere ancora qualche anno, quando nella seconda metà del XX sec. sorsero piccoli nuclei abitati come per esempio Gracciano.
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[1] Cfr. B. Vecchio, 1994, “Le “Valli Verdi” di Siena: un’identità controversa”, in: C. Caldo- V. Guarrasi (a cura di), 1994, Beni culturali e geografia,Pàtron, Bologna, pp. 243-268.
CAPITOLO 5 PARTE TECNICA
5.1 NOTE SULLA DIGITALIZZAZIONE
La prima fase del lavoro è consistita nel selezionare le mappe del catasto Leopoldino attraversate dal tratto di via Francigena da noi considerato. Tramite il sito della regione Toscana si è potuto consultare queste mappe scannerizzate e messe a disposizione della rete come immagini raster a seguito del progetto ca.sto.re[1]. Il tratto di percorso che ci siamo proposti di ricostruire è stato invece preso come vettore, così come è proposto dal ministero dei beni culturali (nello specifico la nostra tappa è TU_10). Per salvaguardare quanto si diceva in fase di introduzione, ovvero che non si sta parlando di una vera e propria via selciata come noi la possiamo intendere oggi, ma che si deve parlare più propriamente di “percorso-territorio”, si è proceduto a creare un buffer intorno al vettore percorso. Duecento metri è stata reputata la distanza ideale, atta a comprendere verosimilmente sia il “cammino” dei pellegrini, che nel nostro tracciato attraversavano zone con punti “focali” (di aggio) non molto distanti tra loro, sia per non appesantire eccessivamente il buffer stesso. Le mappe Leopoldine sono infatti mappe molto “pesanti” a causa della loro alta definizione (1200dpi X 1200 dpi), ciò però se da un lato può risultare uno svantaggio è anche dall’altro un merito, in quanto l’alta definizione permette una maggiore accuratezza in ambito di digitalizzazione.
Attraverso la suite di programmi della ESRI (Arcgis) si è proceduto alla digitalizzazione, sia attraverso l’utilizzo di Arcatalog (dove si procede a caricare i file raster), sia attraverso Arcmap (dove si procede a realizzare la digitalizzazione vera e propria). Si può utilizzare anche una serie di programmi GIS gratuiti e facilmente scaricabili dalla rete. Tra essi segnalo soprattutto Quantum Gis. Si tratta di un programma molto intuitivo e direi proprio ben fatto, ma per lunghi lavori presenta alcune inconvenienze. La più grossa è l’impossibilità di poter riscrivere dati ed informazioni nella tabella attributi nel caso ci si fosse sbagliati o semplicemente dimenticati di inserirli. Quando si catalogano migliaia di particelle, simili inconvenienze sono la norma, non l’eccezione. Va detto che comunque essendo un programma sottoposto a continui miglioramenti rilasciati gratuitamente in internet, negli ultimi sei mesi ne ho avute due successive nuove versioni, vi sono ampi margini per ben sperare
in migliorie in tal senso. Ci sono anche altri gratuiti programmi siffatti, come per esempio quello sviluppato dall’Università di Valencia. Essi mettono in evidenza che lavori simili a quello condotto da me in questo studio potrebbero essere svolti anche a costo totalmente zero, semplicemente sfruttando le potenzialità che la rete mette a disposizione gratuitamente ad un qualsiasi utente.
La successiva fase di ricostruzione 3D è stata eseguita per mezzo di un altro programma, SketchUp 8, prodotto da Google e quindi estremamente compatibile con Google Earth. Particolare non di poco conto considerando che la mappabuffer da noi realizzata è stata poi sovrapposta e confrontata con la stessa zona di territorio così come oggigiorno si presenta. Ciò al fine di poter eseguire un confronto sui cambiamenti dell’uso del suolo. Inoltre SketchUp presenta il lavoro in maniera più accattivante e accurato rispetto ad Arcscene, il programma del pacchetto Arcgis atto alle modellazioni 3D. La differenza resta notevole, sebbene minore, anche con l’ultima versione di Arcgis, la 10. Non ultima motivazione, e di certo la non meno disinteressata, è stata poi la licenza freeware con cui è stato immesso in rete il programma, che può anche vantare un gran e ben fatto numero di tutorials. E’ però da rilevare un importante impaccio. La versione free di SketchUp non permette di lavorare importando file .dwg. I file dwg sono database di disegni creati con software di tipo autocad o frutto della digitalizzazione in arcgis. Cosa che invece potrebbe essere risolta utilizzando la versioone di SketchUp pro, che seppur assai più economica di Arcgis, presenta il medesimo “inconveniente”: è a pagamento. Il prezzo si aggira sulle quattrocento euro. Come mostrerò si potrebbero sfruttare un paio di trucchetti per aggirare l’inconveniente. Del tutto legali. Ma è evidente che queste soluzioniescamotages ci fanno risparmiare soldi ma decisamente non tempo. Una volta importati questi file dwg in SketchUp si può iniziare ad estrudere i vari edifici ed ad importare i vari elementi vegetali ed animali per “popolare” la nostra ricostruzione tridimensionale. Vi sono però problemi legati alla riproduzione del terreno in forma digitale, e quindi dei vari livelli altimetrici su cui impiantare i vari elementi architettonici, animali e vegetali.
Ma andiamo con ordine e partiamo con l’illustrare la prima fase della digitalizzazione.
Una volta caricate in Arcmap le mappe Leopoldine che ci interessano, si procede a sovrapporre ad esse un nuovo layer contenente il vettore percorso (nel caso specifico TU 10) e su cui si era già creato il relativo buffer utilizzando la funzionalità arctoolbox → analysis tool → proximity → buffer di Arcmap9.3.
Il buffer crea un’area poligonale intorno all’oggetto selezionato, ogni punto posto sul perimetro risulta essere equidistante dall’oggetto. Come specifica Biallo, l’oggetto può essere sia puntuale, lineare che poligonale[2]. La trasparenza del buffer è stata impostata al 70% per meglio procedere alla digitalizzazione delle sottostanti aeree delle mappe. In seguito si è proceduto a creare un database geografico.
“Il database geografico può essere definito come un archivio di entità territoriali e delle loro relazioni, strutturato in file organizzati da un sistema che ne garantisca la gestione efficiente e l’accesso alle molte applicazioni ed utenti” (Biallo)[3]
Le singole entità inserite nel database sono il frutto della digitalizzazione, ottenute suddividendo l’iniziale poligono buffer con la funzionalità CUT POLYGON FEATURE. Si è proceduto infatti a ritagliare il buffer nelle molteplici particelle ivi contenute, sia che esse fossero campi lavorati, edifici di qualunque genere, zone boschive o altro ancora. Anche strade, fiumi e fossi sono stati digitalizzati come poligoni e non come vettori al fine di procedere ad una maggiore accuratezza di dettaglio in fase di ricostruzione tridimensionale. Ad ogni entità corrisponde una particella delle mappe, di cui viene fornito un numero legato alla sezione (ovvero alla specifica mappa)[4]. Successivamente attraverso la consultazione delle Tavole Indicative del catasto Leopoldino presso l’archivio di Stato di Siena, si è potuto associare alle entità rilevate dei valori di uso del suolo. Il numero particellare attribuibile alle varie entità ha fatto da tramite/ponte tra le mappe e le stesse tavole indicative. Le Tavole Indicative specificano di ogni particella sia la natura (casa, lavorativo, bosco ecc.) sia l’uso che se ne fa di quella particella. Per esempio se si tratta di un edificio, allora
esse ci dicono di che tipo di edificio si tratti, se è cioè adibito a casa colonica, capanna, porcile ecc.; se invece si tratta ad esempio di un terreno lavorato, allora viene specificato se si tratta di “lavorativo vitato”, “lavorativo vitato fruttato” ecc. Questi dati sono riportati nel database geografico tra gli attributi delle singole particelle, attributi che si aggiungono, e successivamente si consultano, tramite la TABELLA ATTRIBUTI raggiungibile dal layer del buffer.
I numeri delle particelle, ovviamente, iniziano sempre da “1”in ogni Tavola Indicativa, e quindi ad ogni cambio di “circoscrizione” politica-parrocchiale si ripresentano le stesse numerazioni. Per non creare confusione sia in fase di creazione di tabella attributi, sia anche in questo scritto, si è provveduto ad identificare ogni singola particella con il numero suo proprio, così come riportato nella Tavola Indicativa, in aggiunta e preceduto dal numero della propria sezione e della mappa. Si forma così una catalogazione consistente in catene abbastanza lunghe di numeri intervallati da una singola lettera (quella specifica della sezione). Catena che ha comunque il vantaggio di essere scevra di malintesi e fraintendimenti
Con “strada” si sono indicati sia i vari tronconi su cui di tanto in tanto si incanalava la via Francigena, sia ogni altro piccolo sentiero, anche se si trattava di un semplice viottolo incluso tra campi. Il motivo di ciò sta nel fatto che a parte qualche raro tratto selciato, oggigiorno (ancora) rilevabile come per esempio tra Gracciano e Quartaia o come quello poco più in là (ovvero poco prima di Molin di Foci andando in direzione San Gimignano), le vie erano grosso modo tutte uguali: in terra battuta e spoglie di vegetazione. Spoglie più per il cammino di pellegrini e per uso quotidiano, che piuttosto per le manutenzioni fornite dalle istituzioni che via via si sono succedute nei vari territori. Se ne hanno degli esempi durante i giubilei. Si consideri a riguardo il primo giubileo dopo la controriforma, quando lo stato della chiesa al fine di trasformarlo in un successo atto a sancire il buon esito della stessa controriforma, chiese alle istituzioni politiche su cui si inserivano i percorsi di pellegrinaggio verso Roma di “mettere a posto le vie”.
Lavoro lento e meticoloso quello di segnalare in fase di digitalizzazione anche le piccole vie appena percepibili nelle mappe. Ma si è creduto che ne valesse la pena al fine di rendere in maniera migliore la ricostruzione 3D di un ambiente così distante nel tempo.
Si è proceduto a digitalizzare non come vettori ma come spazio ricostruibile tridimensionalmente anche i corsi fluviali e i fossi (nelle mappe riportati come botri).
Le strade così come i fossi molto spesso non hanno un andamento lineare, ciò non è dovuto alla poca cura con cui è stata eseguita la digitalizzazione ma piuttosto al motivo opposto. Infatti essi sono stati tracciati sulla mappa originaria a mano, e molto spesso senza l’uso di “righello” o “squadra”, questo è quello che si deduce dai segni. Allo stesso tempo questo insicuro srotolarsi di vie e fiumiciattoli, probabilmente rispettava il reale andamento viario.
Il buffer costruito intorno al vettore percorso ha l’inconveniente che a volte “sega” in due, dentro e fuori buffer, alcune particelle. Tra esse alcune rappresentano edifici. Spezzare tali edifici in sede di realizzazione 3D ci è sembrato stupido, termine più idoneo della locuzione “fuori luogo”. In questi casi specifici si è quindi proceduto ad estendere il buffer all’intero edificio “segato” nel buffer originario. Ciò per ovvi motivi. Per altrettanti ovvi motivi non si è proceduto, all’opposto, ad inglobare le intere particelle che rientravano, per poco o per tanto, all’interno del buffer. Ci siamo semplicemente limitati a segnalare la porzione del territorio della particella inglobata. Il motivo è che l’area che si sarebbe dovuta aggregare avrebbe ampliato a dismisura il territorio da considerare con conseguente “appesantimento” nella fase di elaborazione dati del calcolatore. D’altronde avevamo selezionato un buffer di duecento metri intorno al vettore percorso ricostruito, proprio in funzione delle premesse fatte nelle battute iniziali dell’introduzione di questo scritto. Ritenendo tale buffer sufficiente ad inglobare il presumibile e originario percorso principale, ma non era nelle nostre intenzioni estenderlo a dismisura.
Le case per cui abbiamo proceduto ad estendere il buffer fanno eccezione rispetto agli altri elementi particellari, non solo per la loro natura di abitato umano, ma anche perché hanno un’estensione di gran lunga più limitata rispetto ai “lavorativi” di qualunque natura o ai “boschi” e “pasture” varie. Oltre a ciò, esse sono impronte antropiche che non possono non caratterizzare un territorio percorso da uomini, e che quindi potrebbero aver rappresentato veri punti di riferimento per ogni pellegrino o viandante. In definitiva gli edifici di “confine” tagliati in due dal buffer sono stati prima inglobati nel buffer digitalizzandoli con la funzionalità RESHAPE FEATURE presente nel TASK e lasciando selezionato FRANCIGENA TU 10_BUFFER nel TARGET; e poi ridigitalizzati all’interno del buffer con la consueta funzione CUT POLYGON FEATURE.
Una volta digitalizzate tutte le mappe di cui necessitavamo, abbiamo proceduto a riportare i valori di uso del suolo nella tabella attributi. Le diciture con cui i redattori del catasto specificano i vari usi del suolo sono variegate e proprie non solo di un catasto ma anche di un mondo prettamente agricolo che ben distingue differenze che oggi paiono minime. Tutte queste differenti registrazioni dell’uso del suolo si prestano a complicare inutilmente il lavoro in fase di comparazione tra la pianta digitalizzata prodotta, e le attuali immagini satellitari. Comparazioni riportate nel paragrafo 4.6. Per tali comparazioni si è proceduto quindi a creare una nuova colonna attributi (tasto destro del mouse e “crea nuova colonna”) su cui si è riportata la dicitura “uso del suolo 2”. In questa colonna si è proceduto, a partire della catalogazione ottocentesca, a riportare e a semplificare i vari usi di suoli, riducendoli quindi nel numero. Ciò ha prodotto categorie più ampie e più facilmente confrontabili.
Un’ulteriore precisazione si rende necessaria al fine di poter procedere correttamente nelle sopra menzionate comparazioni. Google Earth non riconosce alcune delle texture selezionabili in ArcMap, per la precisione quelle con elementi grafici all’interno ed in genere quelle policrome. È quindi necessario impostare nelle proprietà dello shapefile, texture compatibile con Google Earth prima dell’esportazione in .kmz. Si tratta in genere di texture monocromatiche.
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[1] Promosso dalla Regione Toscana, il progetto CASTORE è stato realizzato, in collaborazione con Archivi di Stato toscani, sulla base di un Accordo sottoscritto nel luglio 2004 con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Il progetto ha riguardato la riproduzione digitale di oltre 12000 mappe catastali ottocentesche, la loro schedatura analitica e la loro georeferenziazione. L'uso delle tecnologie di rete ha permesso la diffusione e la valorizzazione presso il grande pubblico di un patrimonio di grande interesse e valore storico, garantendo, contemporaneamente, la salvaguardia dei documenti originali. Le mappe sono liberamente consultabili in Internet, sia come singole riproduzioni degli originali d'archivio con la relativa scheda informativa, sia come mosaico di mappe georeferenziate, consultabili con continuità territoriale e confrontabili con le cartografie moderne in ambiente WEB-GIS.
< http://web.rete.toscana.it/castoreapp/>
[2] Cfr. G. Biallo, 2002, Introduzione ai sistemi informativi geografici, Mondo GIS, Roma, p.133
[3] Cfr. G. Biallo, 2002, op. cit., p.110
[4] Ciò riguarda ogni entità ad eccezione di strade, fiumi e fossi, in quanto:
1) nel catalogo quest’ultime non vengono segnate come entità-particelle per evidenti motivi, e quindi di cui non si può ricavare un uso del suolo che per loro natura è già specificato.
2) strade, fiumi e fossi non sono identificabili con un'unica entità. All’atto pratico essi sono costituiti da un insieme di “tronconi” a cui però viene assegnato lo stesso valore nella tabella attributi (come vedremo)
5.2 PROBLEMI RIGUARDANTI LA DIGITALIZZAZIONE – CRITICITA’
Nelle mappe del Catasto le aree delle varie particelle sono spesso attraversate da molte “linee”, ciò crea confusione in fase di delimitazione delle stesse nel momento in cui si vanno a digitalizzare. Spesso per capire a quale particella ci si riferisca con il numero riportato nelle mappe, si è costretti a guardare alla sua estensione, riportata in braccia quadre[1], e vedere se l’estensione si adatti meglio ad una linea di confine piuttosto che ad un’altra. Nonostante ciò a volte la questione si fa inesplicabile. Per esempio non si capisce dove finisca la particella 226 G2 328 e dove quella 226 G2 320. Il primo è di 1728 braccia quadre, il secondo di 205166. Nonostante la gran differenza di estensione, all’interno del buffer la mappa non segnala nessuna linea divisoria. La questione è stata risolta rilevando che entrambe le particelle sono messe a pastura, quindi dovrebbero aver avuto un’identica resa sia visiva che, per il nostro programma, grafica. Così si è proceduto ad inserirle in un’unica particella, segnalando però allo stesso tempo l’incongruenza nella tabella attributi per dovere di precisione.
Certe parti di mappa sono mancanti mentre altre si sovrappongono nelle zone di confine delle diverse sezioni. Un caso di sovrapposizione tra sezioni, per fare un esempio su tutti, si ha nelle zone di confine tra 226 F01 e 121 C03i. In questo caso la parte sovrapposta è stata digitalizzata utilizzando la mappa 121 C03i, sia per il fatto che si tratta di un territorio di Colle, e quindi per rispetto alla sua giurisdizione, e sia per un motivo meno ironico e più pregnante, ovvero che in 226 F01 vi è riportato “piano fiorentino comunità di Colle”, scritta che in certi punti si sovrappone alle linee di demarcazione tra particelle.
Nei brevi tratti di sovrapposizione tra due differenti sezioni confinanti, i confini particellari sono leggermente diversi. Le sovrapposizione di mappe sono assai chiare in simili casi, ed ai fini pratici all’operatore della digitalizzazione spetta il compito di “far tornare i conti”, o meglio ancora di far tornare “le linee”. Particolarmente problematiche sono in questi casi le zone prospiciente a corsi
d’acqua. Il tracciamento dei quali doveva essere relativamente legato alla discrezionalità del rilevatore catastale, non essendo tali corsi d’acqua regolati da argini cementificati o comunque da argini netti. Così nei punti di confine tra le sezioni 131 C03 e 131 E02 la digitalizzazione sembra meno accurata, in realtà si è proceduto a scegliere una delle due carte. Va detto poi che la digitalizzazione che procede in 131 E02 si fa più “ingarbugliata” a causa della complessa situazione idrogeologica della zona. La presenza di molti piccoli fiumiciattoli, canali ecc. rendono la digitalizzazione più complessa, e molti poligoni rimangono così senza un numero di particella.
Il confine del fiume è diverso in 131 E02 rispetto a 131 C03.
In 330 E02 la linea di confine della particella 199 è assai confusionaria. Sembra come che sia stata tracciata e successivamente cancellata in malo modo. Da ciò risulta un campo mal delimitato che non ha numero di particella. È sembrata giusta soluzione attribuire tale particella alla 199. La situazione è stata comunque segnalata negli attributi.
Anche nelle zone di confine che si sovrappongono tra 330 Q4 e 330 E1 il tracciamento delle linee non è equipollente.
L’edificio numerato con 330 E1i 49 si collocherebbe nella mappa lungo la via, ma per i suddetti problemi di sovrapposizione delle mappe, è risultato poi leggermente scostato dalla via stessa, lasciando tra sé e la via una sottile striscia di terra. La sottile, e fittizia, linea di terra che separa questo edificio dalla via è stata catalogata con “330 E1i strada”, in quanto in sede di attributi gli si è associato l’attributo strada (nell’uso del suolo) per “ricollocare” l’edificio 330 Ei 49 là dove realmente era collocato, ovvero adiacente alla strada. Ciò al fine al fine di salvaguardare la realtà storica almeno nella tabella “attributi”. A volte quando su un lato della particella vi sono due o più linee quasi equipollenti ma comunque distinguibili senza però che nessuna delle due abbia indizi che la facciano preferire all’altra, allora si è dovuto per forza di cose sceglierne una
rispetto ad un’altra. Ma comunque in questi casi le differenze sono minime.
Altro problema tecnico: nell’inserimento dell’inserto 226 I01_01, che rappresenta la pianta del centro abitato di Monteriggioni, si riscontra un problema di equipollenza tra questa stessa pianta e quanto già presente in 226 I01. In 226 I01 abbiamo la sola sagoma di Monteriggioni, in 226 I01_01, essendo l’inserto specifico di Monteriggioni, viene presentata la parcellizzazione anche dell’area interna del centro abitato. Problema: i due perimetri esterni di Monteriggioni (quello presentato in 226 I01 e quello in 226 I01_01) una volta georeferenziati e proiettati sulla nostra mappa, non coincidono. La mancanza di tale equipollenza pone un problema. Se seguiamo la linea di confine esterna di Monteriggioni presente in 226 I01 allora tale profilo è perfettamente inserito con la via di comunicazione che si diparte dal suddetto Castello, ma gli edifici e le particelle di terreno al suo interno (ed ad esso intorno) risulterebbero dalla digitalizzazione scostati dalle mura, quando invece tali particelle sono ad esse confinanti. All’opposto se prendiamo come base della digitalizzazione 226 I01_01, allora da un lato risulta “coerente” la mappatura particellare dentro le mura di Monteriggioni, ma ciò produce un netto sfasamento tra Monteriggioni stessa e le particelle esterne alle sue mura, in maniera particolare sarebbe notevole l’incongruenza con la via/strada di comunicazione. La soluzione adottata è stata quella di prendere in considerazione come linea vettoriale esterna il confine delle mura così come riportate in 226 I01, le quali inglobano all’interno 226 I01_01, e come linea interna delle mura quelle di 226 I01_01 in maniera tale da salvaguardare così la perfetta aderenza delle particelle interne a Monteriggioni. Tale soluzione, sebbene ci sia sembrata di gran lunga la più idonea ha l’inconveniente di rendere più possenti di quelle che già sono le mura della fortezza sul lato Nord, ed eccessivamente sottili quelle sul lato opposto. Per segnalare l’incongruenza si è digitalizzato anche il vettore, laddove era possibile e laddove non fosse foriero di incomprensioni, che salvaguarderebbe la reale consistenza della cinta muraria. Ci è sembrato un giusto compromesso anche se produce in resa 3D l’irreale potenziamento delle mura Nord e un “assottigliamento” di quelle laterali. Quindi all’atto pratico si è proceduto a creare il perimetro interno con la funzionalità CREATE NEW FEATURE e poi a scompartimentarlo/sezionarlo con CUT POLYGON LINE.
Problemi simili, e simili soluzioni, si sono incentrati anche con gli altri inserti di Badia a Isola e Strove, entrambi oggetti di specifici inserti.
Con Badia a Isola si è proceduto prima a procedere con il RESHAPE FEATURE a modificare le particelle interne a Badia a Isola in maniera che si aggiustassero sia le esigenze della pianta 226 G03 (la sezione vera e propria) sia le esigenze della pianta 226 G03_01 (Badia a Isola). Questo sul modello di quanto precedentemente fatto per Monteriggioni. In quel caso però si era proceduto a creare una nuova feature, mentre si è lavorato all’interno delle feature già esistenti perché al contrario di Monteriggioni non vi erano delle mura che ben delimitavano e separavano in maniera univoca con un'unica linea confinante il comprensorio abitato dal resto della mappa di sezione. Dopo la funzionalità RESHAPE FEATURE si è proceduto con CREATE NEW FEATURE e poi con il digitalizzare attraverso CUT POLYGON LINE. Simile sistema è stato adottato per Strove.
Le zone di confine tra sezioni sono sempre abbastanza problematiche. Anche in 330 G02 bisogna un po’ “aggeggiarsi” nel farla combaciare con le altre sezioni confinanti, cercando al tempo stesso di salvaguardare il più possibile le reali dimensioni delle particelle di confine. A riguardo non fa eccezione nemmeno la zona di confine tra 121 G01 e in 330 G2, anche qua si hanno tratti sovrapposti difformi e tutt’altro che equipollenti. Si è proceduto quindi ad adattamenti contingenti a seconda dei specifici casi.
La mappa della sezione 121 A3 risulta assai più scura rispetto alle altre. Ciò è dovuto ad un problema di partenza: essa era, all’opposto, inizialmente troppo luminosa. Così tanto che era impossibile distinguere in maniera chiara e distinta i numeri di catalogazione particellare riportati nella mappa e a volte anche le loro stesse linee di demarcazione. Siccome 121 A3 in photoshop veniva aperta in maniera assai più leggibile rispetto ad Arcgis, si è provveduto da photoshop ad aumentarne il contrasto ed a diminuirne la luminosità. Da qui la sua tinta più scura rispetto alle altre sezioni della mappa. Come di solito, si è poi proceduto con il RESHAPE FEATURE nelle zone di confine con le altre mappe,
soprattutto con 121 G1.
Si rileva che riguardo il molino di Aiano c’è un po’ di confusione.
Altra incongruenza è il pezzo di fiume tra 325 e 332 della sezione 121 F1, il quale finisce in mezzo alla particella 334 senza motivo e spiegazione. Forse invece che di fiume si potrebbe trattare di fosso, in questo caso l’incongruenza avrebbe un minor peso, ma nella mappa non viene precisato. È un’incongruenza, probabilmente un errore del “rilevatore”.
Altra notevole criticità: in fase di digitalizzazione molti numeri non erano ben interpretabili. Per molti di loro si è proceduto ad una più puntuale precisazione attraverso una verifica incrociata tra le Tavole Indicative e le mappe. Per molti non per tutti. Per altri infatti anche questa verifica incrociata non ha potuto sortire effetti delucidativi.
Se ci sono stati problemi di lettura di numeri, va da sé che non meno frequenti sono stati quelli di lettura dei termini usati sotto la casella dell’uso del suolo e sotto i nomi dei proprietari della particella. Ma quest’ultimi non vengono segnalati in questo progetto.
226 G2 320, 327 e 328 sono tutti e tre detti a “pastura”, ma 327 ed 328 sembrerebbero indicare qualcos’altro, forse “pastura” recintata per altri animali (?).
Si segnalano infine i notevoli problemi di lettura incontrati in 226 F2. In simili casi ci vogliono doti interpretative non indifferenti e gran dimestichezza. Nel mio caso mi reputo fortunato ad essere stato ottimamente coadiuvato dal
personale dell’archivio di stato di Siena, a cui vanno sinceri ringraziamenti.
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[1] Un braccio quadro equivale a 0,34 m²(circa).
5.3 PROBLEMA PER IL AGGIO TRA ARCGIS E SKETCHUP 8
Una volta digitalizzate le mappe del catasto Leopoldino, inseriti i dati sull’uso del suolo, con le precauzioni precedentemente rilevate, si può procedere con la realizzazione tridimensionale del paesaggio attraverso l’apposito software della Google: SketchUp 8[1]. Prima di descrivere a grandi linee tale programma, illustriamo un ostacolo che all’atto pratico del lavoro si riscontra nel aggio da ArcGis 9.3 ad SU. I due programmi salvano in differenti formati, al fine di farli interagire bisogna trovare un formato comune ad entrambi, di modo che si possa are da un programma all’altro durante il lavoro.
In verità anche ArcGis 9.3 ha al suo interno un applicativo di resa tridimensionale del paesaggio, ovvero ArcScene. Ma quest’ultimo è applicativo più idoneo ad analisi territoriali che a rese grafiche del paesaggio. Da un punto di vista grafico è difatti programma assai deficitario che rappresenta gli elementi compositivi del paesaggio in maniera assai schematica. Ha all’opposto i suoi pregi in fase di analisi territoriali. SU come vedremo offre invece valide e più realistiche soluzioni a rese di paesaggi storici. Un esempio su tutti: gli edifici estrusi in ArcScene sono semplici parallelepipedi di colore unitario, in SU gli edifici vengono all’opposto costruiti secondo le specifiche caratteristiche e associati a varie e differenti texture.
Ora SU è un applicativo freeware che però è stato implementato in una versione a pagamento. “Stranamente” la versione a pagamento importa e legge un maggiore numero di tipi di file. Quest’ultima infatti, detta “pro” da professional, può esportare in un maggior numero di formati rispetto alla versione free, tra cui: .3ds, .dwg, .dxf, .fxb, .obj ecc.ecc. Come si diceva in 5.1 il punto di incontro consisterebbe nei file .dwg, ma siccome ci siamo posti l’obiettivo di utilizzare la versione freeware di SU bisogna trovare una soluzione alternativa al loro utilizzo.
In teoria il punto di contatto tra ArcGis 9.3 ed SU 8 free è che il primo può esportare in formato .KMZ mentre il secondo può importare file dello stesso formato. Ho detto “in teoria” non a caso, in quanto semplicemente non è così. Il aggio tra i due applicativi si rende indispensabile nel momento in cui si procede in ArcGis alla digitalizzazione, per la quale attività è programma che permette innumerevoli funzionalità e ottimo immagazzinamento ed elaborazione di dati geografici, mentre in SU a partire dalla pianta digitalizzata in ArcGis si procede ad estrudere gli edifici, quindi “a ricrearli”in maniera del tutto realistica nella loro veste grafica e per nulla approssimativa per quanto concerne la pianta base. Come si diceva il formato che avrebbe dovuto permette il aggio dall’uno all’altro programma è il .kmz. Trasformazione che comunque dobbiamo fare per potere esportare la mappa così digitalizzata e georeferenziata da ArcGis a Google Earth[2], al fine di procedere alle analisi comparative summenzionate.
Da ArcGis 9.3 si procede ad esportare il file lavorato in .kmz seguendo i seguenti aggi: ArcToolbox → conversion tool → to KML → Layer to KML (reso possibile tramite il file compresso .kmz). SU pur avendo tra le sue funzionalità l’importazione dei formati .kmz, nel momento in cui gli si richiede tale importazione dei file provenienti da ArcGis 9.3, carica per un istante il file e poi ci avverte con un pop-up con su scritto “importazione fallita” che stiamo perdendo tempo. Dopo vari tentavi e ricerche per capire la natura del problema si è scoperto un bug nel programma.
Come abbiamo visto quando esportiamo il file da ArcGis lo esportiamo in .kml, il quale è stipato all’interno di un archivio .kmz. Kml è in verità un semplice file zip (compresso) che contiene al suo interno il .kmz. Si può verificare ciò cambiando manualmente le estensioni dei file in un verso o nell’altro. Se noi apriamo il .kmz proveniente da ArcGis scopriamo perché questi file non possono essere direttamente importati in SU.
Esperimento. Salviamo un file in ArcGis ed esportiamolo in .kmz con le
funzionalità sopra descritte. Poi andiamo in SU creiamo un nuovo progetto, salviamolo ed esportiamolo come .kmz. Se noi modifichiamo le estensioni dei due file compressi .kmz (sia quello proveniente da Arcgis che quello proveniente da SU) e verifichiamo cosa c’è all’interno, scopriamo che in quello proveniente da ArcGis manca una cartella con estensione .dae, la quale è invece presente in quello di SU. Questo è il file che conserva i dati geografici. SU può importare solo i file .kmz che hanno al loro interno la cartella .dae. E’ un bug di sistema a cui gli sviluppatori di SU stanno ponendo rimedio.
Per programmi in cui la collocazione dei dati geografici è tutto, non una parte importante ma tutto, diciamo che questa mancanza è un po’ deficitaria. Tali dati geografici non sono comunque assenti dai .kmz di provenienza ArcGis, tanto è vero che in GE vengono tranquillamente visionati e sovrapposti alle immagini da satellite. Ma questi dati sono contenuti direttamente nel file .kml e non in una apposita cartella, come appunto necessiterebbe SU.
Nel nostro caso specifico si può rimediare all’inconveniente in due possibilità. Molto probabilmente possono esistere anche altre soluzioni ma le due escogitate sono abbastanza agevoli, inoltre credo che tale inconveniente sia contingente e che quindi in breve si possa procedere a lavorare ando direttamente da ArcGis a SU senza ulteriori intermediari. La prima soluzione è procedere ad immettere manualmente i dati contenuti nella cartella .dae tramite un programma scaricabile gratuitamente dalla rete: kml builder[3]. Attraverso cambi di estensione dei file si può procedere ad inserire manualmente i dati e poi ritrasformare il tutto in .kmz.
La seconda soluzione, meno professionale ma più veloce e pratica, è quello di esportare il progetto di ArcGis in .dwg, il formato di AutoCad, il quale sebbene non è leggibile in SU 8 versione free, lo è in quella a pagamento dello stesso SU 8, così come lo è anche nelle altre precedenti versioni pro di SU. Le quali essendo versioni più vecchie sono reperibili in molti modi. Tra essi è a nostro parere da prediligere quelle meno costose (…). Si può così aprire il file precedentemente salvato nel formato .dwg, e da qui si può salvare ancora nel
formato proprio di SU, ovvero in .skp. Di modo che lo si possa riaprire nel programma da noi utilizzato per tale ricostruzione tridimensionale: SU8 free. Mi rendo conto che tutto ciò è un bel giro di valzer. È infatti pur vero che tutti questi aggi in fondo sono tutti inutili se utilizzassimo fin da subito la versione SU 8 pro, ma in mancanza di quella ed in mancanza di investimenti notevoli di denaro per acquistarla, si deve pur investire qualcos’altro: il tempo.
Apriamo una breve parentesi sugli sviluppi di ArcGis. La nuova versione (la 10) offre un ArcScene davvero più evoluto rispetto alla precedente versione, sebbene non ancora all’altezza di SU, il che potrebbe evitarci nel breve futuro di saltare da un software all’altro, da quello di marca ESRI a quello della GOOGLE. Il punto è che in questo studio si vuole porre l’accento sulla possibilità di lavorare e creare ottime e fedelissime ricostruzioni territoriali senza dover necessariamente spendere fior fiori di euro in licenze a pagamento. La nuova versione ArcGis 10, è praticamente impossibile da craccare, non che si voglia dire che ciò andrebbe fatto se fosse possibile (ma figuriamoci!). Però si sta parlando di un software estremamente costoso, alla portata di professionisti che lavorano nel settore o di dipartimenti universitari. Non certo di privati che lo usano per proprio diletto. Si potrebbe anche acquistare una licenza temporanea, ma la ritengo, sebbene utile in caso di necessità, quasi frustrante per chi la utilizza per piacere e non per lucro. È vero che abbiamo a disposizione QGis gratuitamente, ma onestamente va rilevato un particolare: quando QGis si evolve di “2”, ArcGis si evolve di “9”. I parametri sono ovviamente indicativi, ma rendono bene l’idea. Ma visti i continui aggiornamenti a cui QGis viene sottoposto c’è ben da sperare di poter raggiungere presto un programma che possa permetterci una digitalizzazione agevole con possibilità di correzione degli errori (cosa che attualmente non è). In modo da poter utilizzare in connubio solo ed esclusivamente programmi free. Ciò nonostante, ribadisco, QGis risulterebbe ottimo se abbinato in coppia con SU (anch’esso nella versione free), ma chiaramente lavorare con due software è più complesso che lavorare con uno solo. Per questo lo sviluppo di Arcgis attira i professionisti in maniera maggiore che lo sviluppo di programmi freeware.
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[1] Da qui in avanti SketchUp verrà chiamato con l’abbreviazione SU.
[2] Da qua in avanti con l’acronimo GE si indicherà Google Earth.
[3] Questo programma è stato trovato e visionato dal dot. Michelacci che ringrazio per avermene messo a conoscenza.
5.4 COSTRUZIONE TRIDIMENSIONALE
Per la costruzione tridimensionale del paesaggio e delle varie strutture architettoniche in esso presente ci si è avvalsi quindi dell’applicativo freeware della Google: SketchUp 8. Un programma la cui struttura base è plasmata sul modello dei software CAD già esistenti sul mercato da qualche anno. Il vantaggio che però si riscontra nell’uso di SU è che ad un primo approccio le modalità di “costruzione” ed i comandi base sono più semplificati ed intuitivi. L’approccio è abbastanza intuitivo e per ogni problema si possono utilizzare i tutorial gratuitamente accessibili dalla rete. È da dire comunque che se il lavoro in SU è più facile ed intuitivo rispetto per esempio ad AutoCad, questo lo è solo per le realizzazioni base e più semplici. Il divario che le prime versioni di SU avevano rispetto agli altri programmi CAD si è notevolmente ridotto. Ad un grado maggiore di “lavorazione”, di resa grafica e di complessità delle strutture, anche SU necessita di pratica e soprattutto di pazienza. Come per ogni applicativo di modellazione tridimensionale. D’altronde a fianco alla più comune versione freeware, Google propone anche una versione a pagamento che come vedremo successivamente presenta una serie di differenze importanti soprattutto sotto il profilo della compatibilità con altri programmi.
Estrudere edifici e caratterizzarli in maniera propria per determinati ambiti temporali, è compito esemplificato da modelli già presenti in rete e dall’utilizzo di appropriate texture. Per quanto riguarda le seconde ho proceduto a fotografare i particolari degli elementi architettonici al fine di riprodurre texture fedeli alla mia ricostruzione. Tra tutti segnalo le innumerevoli fotografie di varie mura in pietra, condotte al fine di lavorarle per poi utilizzarle appunto come texture. Così ogni edificio lo si è potuto caratterizzare con una differente struttura muraria: in pietra, in mattoni o in legno. Per ognuna delle tre categorie si sono poi catalogate ed immagazzinate differenti texture. Ora è opportuna una precisazione: le texture utilizzate per le mura di Monteriggioni non provengono dall’elaborazione delle fotografie delle stesse mura. Per esse sono state utilizzate fotografie su dettagli di altre robuste mura appena restaurate. Quelle di un complesso monumentale rustico al confine tra Umbria e Toscana, ovvero di Celle. Si ringrazia l’ingegnere M. Palombo per avermi permesso l’utilizzo di
tale texture da lui prodotte. Il motivo di questa scelta è presto detta: rendono estremamente di più da un punto di vista grafico e dell’impatto visivo. Le foto da me effettuate in tre diverse giornate in cui appositamente mi ero recato a Monteriggioni, a causa delle avverse condizioni metereologiche si sono dimostrate meno idonee ad essere utilizzate come texture per le imponenti mura della stessa Monteriggioni. Con la texture tratta dalle mura di Celle, l’impatto visivo delle mura di Monteriggioni è maggiormente accurata. In genere tutte le fotografie che si progetta di utilizzare come texture devono essere precedentemente lavorate in maniera tale da non dare quella brutta sensazione di ripetitività che un dettaglio ripetuto più volte normalmente dà. È chiaro che quindi questa spiacevole sensazione di monotonia di un dettaglio ripetuto è pressoché scontato quando lo si applica come texture su grandi spazi ed imponenti parete, essendo colà ripetuto per migliaia di volte. Ciò avviene appunto anche per le mura di Monteriggioni, a meno che non avvenga un accurato lavoro preliminare sulla fotografia utilizzata. Ciò è stato fatto nella maggior parte dei casi.
Per la realizzazione degli edifici, ma soprattutto di piante arboree sia selvatiche che coltivate, SU offre fondamentali e utili aiuti. Molti dei suoi utenti immettono nella “Galleria di Immagini 3D” on line, modelli di case, edifici in genere, alberi, piante, manufatti e quant’altro, da poter scaricare del tutto gratuitamente. Certi modelli incontrano le nostre esigenze, altri no. Si ringrazia per i primi, e si procede personalmente a realizzare i secondi. Così si è proceduto ad immettere nelle nostre realizzazioni 3D tutte quelle strutture e quegli alberi di cui la ricostruzione storica imponeva la presenza.
Il problema in questo tipo di ricostruzioni e rese grafiche è trovare il giusto compromesso tra la “pesantezza” del file, e quindi degli elementi che aggiungiamo e di quelli che creiamo, e la resa grafica (il grado di dettaglio grafico e realistico) che ci poniamo come obiettivo. Mi spiego meglio. Costruire case, chiese, mura fortificate, mulini, elementi rustici vari e quant’altro, occupa spazio ed “appesantisce” (rendendolo più grande) il file su cui dobbiamo lavorare. In funzione di ciò possiamo limitarci, ogni qual volta è possibile, all’utilizzo di texture ed immagini ottimizzate. Le fotografie infatti sia che vengono utilizzate come texture, se specificato in fase di importazione, o se
semplicemente utilizzate come immagini, ed in questo caso occupano più spazio in quanto atte a ricoprire porzioni maggiori di spazio dove fondamentalmente il grado richiesto di dettaglio è maggiore, dovrebbero (e sarebbe opportuno farlo) essere lavorate precedentemente con programmi che ne riducono “la pesantezza”. Il punto è che le fotografie non vengono utilizzate solo come texture ma anche come immagini. Per esempio porte, finestre, ed altri elementi architettonici, nonché a volte intere facciate, sono molto più facili ed al tempo stesso realistiche se realizzate mediante immagini. È per questo di estrema importanza che siano il più leggere possibili. Per fare ciò tra i molti programmi free o a pagamento disponibili, si consiglia di utilizzare Picasa, un’altra applicazione freeware di Google atta ad ottimizzare le fotografie proprio in funzione di questi programmi di ricostruzione tridimensionale. In particolar modo, ovviamente, di SU.
Se con le immagini quindi qualche soluzione per procedere ad una loro “riduzione di peso” la possiamo trovare tramite questa “ottimizzazione”, maggiori problemi si riscontrano riguardo alla stessa riduzione “di peso” degli elementi vegetali del paesaggio. Ciò per più motivi. Uno su tutti è per l’ampio spazio che tali elementi hanno in un progetto di ricostruzione paesaggistica medioevale. Travalicano e surclassano i manufatti umani. A maggior ragione in un progetto come il nostro fortemente incentrato non solo nella campagna ma anche in rese di boschi e paludi. D’altro canto si potrebbe dire che il dettaglio richiesto per questi ampi spazi è molto minore rispetto ai manufatti umani. Fatto sta che comunque va inserita ogni singola pianta, e quando si parla di ettari e ettari di terreno ognuno può ben comprendere il gran quantitativo numerico di piante da inserire. In teoria per un lavoro estremamente accurato le piante andrebbero inserite una ad una. Chiaramente non si può né ricopiare e riprodurre sempre la medesima pianta, né tanto meno pensare di farlo per ogni singolo albero o cespuglio se si hanno, o ci siamo dati, dei tempi di scadenza. E ogni progetto di solito li ha. Quindi si devono anche escogitare soluzioni appropriate alle nostre esigenze.
Prendiamo per esempio il bosco. Si creino o si prendano dalla “galleria dei modelli di SU” gli alberi richiesti dalla ricostruzione storica precedentemente condotta. Nel mio caso specifico si vedano le piante nominate nei paragrafi
inseriti in “Ricostruzione territoriale”. Si può prendere una porzione di terreno e procedere a popolarla con tali elementi. Le piante utilizzabili non possono essere tutte completamente realizzate tridimensionalmente. Gli elementi arborei sono elementi complessi che richiedono spazio. Ciò vale ovviamente anche per gli altri elementi vegetali ben più piccoli, come fiori cespugli e quant’altro, dipende dal grado di dettaglio che vogliamo dargli, ed è chiaro che se sono piccoli e dettagliati andranno ad occupare uno spazio troppo grande per le nostre possibilità. Si rischia infatti di intasare il sistema molto velocemente, bloccandolo o rallentandolo terribilmente. Perciò abbiamo proceduto con l’inserire pochi alberi completamente 3D, ma di quelli importanti, e all’opposto ci si è concentrati maggiormente nell’importazione di molti alberi in 2D. Questi ultimi però devono essere inseriti spuntando la funzionalità “rivolgi sempre alla telecamera”, altrimenti apparirebbero come sottilette al cambiare della prospettiva di visualizzazione.
A questo punto invece di proseguire così fino alla realizzazione dell’intero bosco, si può procedere selezionando quel terreno lavorato, con tutte le piante in esse presenti, e con il tasto destro del mouse andare su “crea gruppo” o “crea componente”. Si copia ciò che si è creato e lo si ricopia più e più volte fino a coprire lo spazio dove secondo la nostra ricostruzione doveva esserci il suddetto bosco. La differenza sta nel fatto che se procedo attraverso la funzionalità “crea gruppo” poi lo posso copiare ed incollare, invece se faccio “crea componente” non solo lo posso copiare ed incollare, ma lo posso richiamare anche per altri progetti in quanto SU procede a salvarlo in hard disk come appunto una nuova “componente”. Successivamente, tornando al nostro progetto in SU, al fine di evitare quella brutta sensazione visiva di ripetuti gruppi uguali che si susseguono in uno spazio che quindi diventa facilmente monotono (e con queste basi come potrebbe non esserlo!) si riselezionano i singoli gruppi (o componenti), questa volta sarà sufficiente un semplice click di mouse in un punto qualsiasi interno al gruppo/componente, ed attraverso la funzionalità EPLODI, attivabile dal tasto destro del mouse, si “frantuma” il gruppo nelle singole entità che lo compongono. Di modo che si possa procedere a spostare, a copiare o a cancellare alcune delle singole entità del gruppo, laddove la ripetitività si fa manifesta.
Questa modalità utilizzata per i boschi a maggior ragione l’abbiamo adoperata per la realizzazione dei campi di grano. Ed infatti è in questo secondo ambito che l’abbiamo utilizzata maggiormente. Infatti al contrario dei boschi i campi di grano sono formati da relativamente pochi elementi, e sono comunque entità assai presenti nelle campagne. L’alta popolazione evidenziata in sede introduttiva della Toscana del ‘200 si spiega con una forte presa di possesso e messa a coltura delle campagne circostanti i centri abitati. Comunque “quei” campi di grano erano anche differenti dagli attuali e di certo più variamente popolati. Si ricordi che nel nostro caso, ambito basso medievale, un campo di grano si sarebbe presentato assai diversamente rispetto ai nostri giorni. Per esempio la mancanza di diserbanti era sicuramente manifestata da vari ciuffi d’erba presenti qua e là tra le graminacee. Quest’ultime d’altronde erano ben più rade rispetto ai nostri campi. Ma fondamentalmente, oggi come ieri, un campo di grano è composto da piante di grano, e ciò semplifica il lavoro. Lo semplifica perché comunque per la maggior parte bisognerà riportare piante di grano, grossa semplificazione piuttosto che riportare un gran numero di differenti piante. Il grano sebbene sia di gran lunga più piccolo di un castagno, o pioppo, o cerro o quant’altro, è però anch’esso pianta dove i particolari sono importanti e che quindi devono essere rappresentati. Vi è presente in “galleria” un bel “ciuffo” di grano, molto ben fatto, ammirabile, ma nonostante le piccole dimensioni è incredibilmente pesante: 7M. Ciò a riprova del grado di dettaglio che si necessita per una pianta di grano. Inizialmente si voleva inserire qualcuno di questi “ciuffi”, poi vista la pesantezza e il rallentamento delle operazioni di visualizzazioni si é desistito. Ad ogni modo anche la singola pianta di grano utilizzata non è che sia l’emblema della leggerezza, soprattutto se paragonata alle sue dimensioni. Per questo si è proceduto a ritagliare una esemplificativa pianta di grano e crearne un’immagine bidimensionale da importare nel progetto e da cui procedere alla realizzazione dei specifici campi coltivati. Per semplificare il tutto si è proceduto nel seguente modo: si è copiata in un foglio SU una pianta bidimensionale con la funzionalità “rivolgi sempre alla telecamera”, poi incollata in più parti del medesimo foglio in ordine sparso. Più fitto in certi punti, meno in altri. Di tanto in tanto si è anche proceduto ad inserire alcuni ciuffi di erba e cespugli vari, al fine di risultare maggiormente realistici. Procedendo poi come per il bosco, si è creato un unico gruppo, di modo che nell’atto di ricopiare, oltre a semplificare la vita a noi stessi, l’abbiamo semplificata anche al pc. Semplificando le operazioni di calcolo del computer in fase di copia ed incolla si risparmia anche un sacco di tempo evitando i tempi morti “di attesa”. Si è quindi copiato tale gruppo varie volte nel foglio SU del nostro progetto. Tra un gruppo e l’altro sono poi state inserite manualmente
alcune piante di grano per rompere e mascherare la monotonia dei vari gruppi.
Per i vitigni si è proceduto ad inserire le viti in immagini 2D, precedentemente ritagliate, tra vari tipi di alberi. All’epoca, si ricorderà quanto precedentemente detto, la vite era “maritata”. Gli alberi inseriti sono stati tutti trasportati in 3D. Ci è sembrato un giusto compromesso atto a conciliare la pesantezza del file soggetto all’elaborazione del pc, nonché atto a salvare nello stesso tempo, e direi in ottima maniera, la resa grafica. Quindi a immagini 2D delle viti, più numerose ma più piccole e più “leggere”, si sono inframezzati alberi 3D più grandi, più pesanti ma meno numerosi. Per gli oliveti si è proceduto ad inserire le piante tutte in 3D, questo perché essendo questa pianta incomparabilmente più rara dei vitigni, era un lusso che potevamo permetterci.
A metà tra il bosco ed i campi di grano si è proceduto a realizzare la zona paludosa per ovvi motivi. Qua gli alberi sono sì presenti ma in quantità ben più rada dei boschi. Al tempo stesso sono però più fitte le entità vegetali più piccole come la canna, che all’atto pratico e nelle modalità compositive ricordano i campi di grano. Si ricordi in proposito che la zona adiacente a Badia a Isola era denominata Canneto. Facile dedurne il motivo.
5.5 USO IN SIMBIOSI DI SKETCHUP 8, GOOGLE EARTH ED ARCGIS: ESEMPI E PROSPETTIVE
Fondamentalmente il nostro lavoro è terminato qua, con la costruzione in SU. Ma si è proceduto a mò di esempio, fare alcune piccolissime costruzioni e trasposizioni in GE al fine di mostrare come potrebbe proseguire il lavoro per una ricostruzione tridimensionale plasmata sulla modellazione del terreno. In proposito prendete in considerazione un articolo scritto da Daniel Tal in cui si spiega o dopo o come poter modellare la nostra ricostruzione 3D sul terreno vero e proprio. L’articolo è di facile comprensione e all’interno del sito di SU[1]. In quell’articolo vi sono anche le indicazioni per i plugins più utili al fine che ci siamo proposti: la modellazione del terreno su cui si erge la nostra ricostruzione tridimensionale. Ovviamente sono da preferire come sempre i plugins gratuiti. Una premessa è comunque doverosa. SU ha delle limitazioni nel “grading design” cosicché l’accuratezza del terreno generato è sicuramente buona ma di certo non realistica al 100%.
A mio tempo mi ero proposto di sperimentare varie possibilità per rendere al meglio una riproduzione fedele del terreno in forma digitale, evidenziando così le varie differenze altimetriche in cui le strutture architettoniche e gli elementi vegetali e animali erano immessi. Si sarebbe voluto importare direttamente il nostro file .skp in Google Earth, che essendo entrambi i software della Google non presentano difficoltà di importazione/esportazione. La costruzione fatta in SU è però troppo grande per essere esportata interamente in GE. È quindi operazione che semplicemente non si può fare. Si può però procedere in tre diverse maniere al fine di plasmare la nostra ricostruzione sull’orografia e l’esatta resa territoriale della zona. Oltre a queste tre soluzioni ve ne possono essere anche altre, non con minori difficoltà all’atto realizzativo-pratico, ma si procede ad illustrare queste due perché nell’ambito del possibile sono fattibili a tutti e perché mantengono entrambe una buona precisione, cosa che è fondamentale in ogni qualsivoglia ricostruzione.
La prima soluzione è quella di importare porzioni di territorio da GE in SU, con la funzionalità AGGIUNGI POSIZIONE. Si possono importare al massimo terreni ampi grosso modo poco più della stessa Monteriggioni. Una volta importato il terreno lo si può sovrapporre alla zona che abbiamo ricostruito, e cliccando la funzionalità ATTIVA/DISATTIVA TERRENO si può procedere poi ad “alzare” o ad “abbassare” le varie entità che abbiamo ricostruito a seconda del reale valore altimetrico del suolo dove sono poste. È operazione che richiede grande pazienza e tempo. Un’opera adatta agli amanuensi medievali tanto per restare in quell’ambito cronologico. In questo caso non si possono creare gruppi e spostare gruppi in quanto il terreno è generalmente diverso per ogni entità. Quindi si pensi solo ad un bosco…
La seconda soluzione pensata è quella di creare un apposito TIN in SU tramite l’attivazione della barra degli strumenti di SABBIERA, TIN modellato sempre sul terreno importato da GE, e da là procedere poi ad inserire i vari elementi costitutivi della ricostruzione territoriale[2]. Anche questo è lavoro non meno gravoso del precedente, però salvaguarda bene e forse meglio la precisione della ricostruzione, evitando quegli elementi arborei che a volte non possono venire proprio attaccate alla terra. In quei casi è chiaramente più idoneo posizionare quegli elementi leggermente sotto terra che leggermente sopra, evitando quindi un irreale galleggiamento nell’aria. Però mi si creda che in lavori così lunghi e trattando con migliaia di entità è pressoché matematico che prima o poi un calo di attenzione porti ad errori. Il metterlo in conto non è segno di incuria ma all’opposto razionale presa coscienza del problema al fine di risolverlo. Pensare di poter procedere al lavoro senza incorrere in quegli errori è del tutto irreale.
La terza ed ultima possibilità coinvolge anche l’applicativo ArcScene e forse è il metodo relativamente più economico, economicità da intendersi da un punto di vista di tempo e difficoltà, non certo di denaro. ArcScene è all’interno del pacchetto ArcGis l’applicativo atto alla visualizzazione e creazione tridimensionale delle superfici, nonché atto alla loro analisi. Si può costruire il TIN di cui si ha bisogno in SU direttamente qua in ArcScene, operazione ben più facile potendoci avvalere di opportuni ritagli DEM e ortofoto della Toscana[3]. Una volta qua creato il TIN lo si può esportare in SU con le modalità precedentemente viste. È opportuno ricordare che in SU si può lavorare
solamente su piani complanari (co-planning) di conseguenza il lavoro sarà ugualmente lungo e meticoloso, ma di certo notevolmente semplificato rispetto alle altre due opzioni segnalate in precedenza. Chiaro che l’uso di ArcGis 10 e del relativo ArcScene, svolgendo l’intero lavoro all’interno della stessa suite di programmi della ESRI, semplificherebbe immensamente il lavoro, e seppur non avrebbe la definizione di dettaglio di SU (con tutte le potenzialità insite in questo programma) non sarebbe un lavoro disdicevole come lo sarebbe stato in ArcGis 9.3. Bé certo, tutto dipende da cosa noi ci proponiamo di fare, ed in certi casi, da quanti soldi si hanno in tasca (!). Ribadisco però che con l’uso di programmi freeware si otterrebbe, come si vede nella ricostruzione qua svolta, un lavoro che oltre ad essere assai gradevole da un punto di vista della realizzazione grafica, e quindi dall’ottimo impatto visivo, sarebbe anche ben accurato e decisamente preciso.
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[1] L’articolo in questione di Daniel Tal in cui si spiega accuratamente come modellare il terreno è al seguente link: http://www.sketchup-urspace.com/2012/sept/learning-to-model-terrain-in-Sketchup.html
[2] TIN ovvero Triangulated Irregular Network. Si tratta di una struttura dati digitale usata per la rappresentazione di una superficie nei GIS (Geographical Information Systems).
[3] DEM ovvero Digital Elevation Model. Sono proprio da questi dati di elevazione del terreno che si ottengono normalmente i TIN.
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TAVOLE FINALI ESPLICATIVE
DIGITALIZZAZIONE MAPPE IN ARCGIS
Esempio di una mappa del catatsto Leopoldino
Mappe caricate e Georeferenziate in ArcMap
Buffer costruito intorno al vettore-percorso
Mappa digitalizzata
ESPORTAZIONE MAPPE DA ARCGIS IN GE
Mappe digitalizzate in ArcGis con trasparenza texture dello 0% e successivamente importate in GE
Dettaglio dell’immagine precedente
Dettaglio della prima immagina
Mappe digitalizzate in ArcGis ed importate in GE con trasparenza texture impostata al 70%. Sono le mappe utilizzate per le comparazioni degli usi del suolo.
ESEMPIO DI USO IN SIMBIOSI DI GE E GU
Esempio di lavoro tridimensionale condotto tramite suolo importato da GE in SU
Lavoro poi successivamente reimportato in GE:
ALCUNI SCREEN SHOT DELLA RICOSTRUZIONE 3D DI MONTERIGGIONI E TERRITORIO LIMITROFO
IMMAGINI DELL'ATTUALE PERCORSO DELLA ANTICA VIA FRANCIGENA TRA MONTERIGGIONI E SAN GIMIGNANO
BREVE BIOGRAFIA DELL'AUTORE
Leonardo Massi (Città di Castello, 1978), storico, ittitologo, geografo, antropologo. Dopo due lauree, una in Storia Antica (Ittitologia), una in Studi Geografici ed Antropologici (Geographical Information Systems), un dottorato di ricerca in “Civiltà del Mondo Antico” e pubblicazioni accademiche sulle più prestigiose riviste attinenti alla Storia del Vicino Oriente Antico, attualmente insegna Geografia Economica e Geografia Turistica a Treviso.