Delia Altamonte
Vabbè, un modo si trova
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico: A. Mosca A. Massucci (MAT)
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Ringraziamenti
Grazie a Manuela M. per la sua preziosa collaborazione.
Indice
Ringraziamenti I. Il gibbone II. Il ladro III. Edulisse IV. Il Professor Lugli V. Trolli VI. Santo cielo! Il professor Lugli! VII. Mariuolino VIII. Porto il mantello a ruota e fo il notaio IX. Verso cosa? X. Ritorno al ato XI. Rodolfo XII. Il tempo è malandrino XIII. Il tassello mancante XIV. Il tempo del pirata XV. Ultima ad arrivar XVI. L’ora del ragù XVII. Il mistero s’infittisce
XVIII. Misteri nei misteri XIX. Quando c’è la chiamata mica si può dire di no XX. Intermezzo XXI. Nella vita ci vuole metodo XXII. E adesso? XXIII. Rispettiamo gli equilibri XXIV. Non si può mai stare tranquilli XXV. Martino o dell’accento XXVI. L’affare si sgonfia XXVII. Ordino prometto e giuro... XXVIII. Amori e tesori Personaggi: in ordine sparso Descrizione della villa
I. Il gibbone
Dove Annalaura, trentadue anni, professoressa a contratto all’università, eredita una villa a Napoli da una zia paterna. Decide di rimanere a Napoli per un po’ a chiarirsi le idee. Parla della sua famiglia.
Detesto che Edoardo trascini i piedi come un grosso orso neghittoso. È il suo modo di esprimere disappunto. Struscia le suole come un ragazzino che va a scuola quando c’è compito di matematica e l’amico che gli a la soluzione è a letto col mal di gola. Edoardo fa proprio così e s’ingobbisce nelle spalle. Tutto perché c’è il suo adorato sport (in genere rugby) alla televisione e lui non capisce proprio perché la spazzatura non può buttarla “dopo”. Il punto è che l’orrendo televisore è in camera da letto, e quando la partita è finita Edoardo è in coma profondo. Ma da qualche tempo le cose sono cambiate. Edoardo non si spoglia più, guarda la partita in poltrona, scatta alla fine verso la sua meta, che è l’ormai ambito sacchetto della spazzatura, e lo va a buttare. Con le spalle dritte, senza strusciare i piedi. Ci mette dieci minuti, qualche volta un quarto d’ora. Da un mese o due il “nostro” cassonetto davanti casa è sempre stracolmo, deve andare un po’ più in là. Qualche volta torna indietro per prendere il cellulare. Con chi vuole parlare? È impaziente circa l’arrivo del camion della raccolta-rifiuti? Teme che il prezioso sacchetto cada in mani nemiche? Quale formula segreta vi ha nascosto dentro? Mistero. Stasera ha rifiutato la seconda porzione di gelato. Ha borbottato qualcosa sui suoi addominali. Sono sgomenta: il panzone da orso Baloo (in effetti appena una pancetta) è scomparso, e io dov’ero intanto? Non è mai stato un intellettuale, ma Glutei sul suo comodino mi ha lasciata attonita. Che succede? Niente, è un volume di body building, come Addominali, che trovo nel cassetto: meno male, c’è un limite anche alle sorprese. Insomma, Edoardo è uscito dal suo stato
letargico. Il mio fidanzato è sonnacchioso, parecchio pigro, piuttosto casalingo. Anzi, “era” tutto questo. E all’improvviso lo so: Edoardo mi tradisce. Dopo tre anni di fidanzamento e uno di convivenza. Sono costernata. Il mio programma secondo il quale “La vita è un lungo fiume tranquillo” va a farsi benedire. Intravedo gorghi, vortici, rapide e cascate, e la mia povera piroga che si schianta. Scusate, mi chiamo Annalaura e ho dei problemi, come tutti. Il primo è che vengo da una famiglia di temperamenti avventurosi ed io sono un’acqua cheta, tanto da chiedermi se, come nel film di cui ho appena citato il titolo, io non sia stata per caso scambiata nella culla, e dunque ci sia qualche scalmanata al mio posto a far disperare una famiglia di flemmatici e affiatati genitori, lei pianista, lui professore di filosofia, che camminano mano nella mano per i sentieri svizzeri durante le vacanze, mentre le caprette fanno ciao, in puro stile Heidi, e intanto la figlia, anzi quella che credono la figlia, partecipa alla Dakar in moto o va in deltaplano, insomma cerca di movimentarsi la vita e di dare un po’ di thrilling a quella dei genitori. A me invece il thrilling l’hanno dato i miei. Mai visti due temperamenti più antitetici e più focosi. Facevano scintille, se ci fu un matrimonio pirotecnico fu il loro. Papà era bello e dotato di neapolitan charme, ma non bastò. Mamma era canadese, ecologista sfegatata e scultrice. Una donna piena di temperamento, disse mio padre ai nonni quando la sposò. Una pazza furibonda, spiegò quando lei lo lasciò definitivamente. Secondo lui una donna con due figli doveva starsene a casa e non a spenzolarsi appesa al pennone di una goletta di Green Peace per protestare contro l’eccidio delle foche. Questo agli occhi di mamma faceva di lui un becero maschilista. Lui ribatteva che i suoi bambini strillavano come i cuccioli di foca senza la loro madre, e lei urlava: «Ma nessuno vuole “iuccidere” loro, no? Perciò cuccioli di foca ha più bisogno!». Il suo italiano quando è fuori di sé peggiora parecchio. «Questi però sono i nostri figli!», gridava lui, e lei gli faceva il verso in canadonapoletano, se si dice così:
«I figli so’ “piezecore”!» (dalla frase di Filomena Marturano: I figli so’ piezz’e core). A questo punto eseguiva un piccolo show dove mimava un suonatore di mandolino che faceva una serenata. Lo so che è difficile da credere, ma si capiva che il tizio con il mandolino era un furbastro e la bella meglio avrebbe fatto a non farsi infinocchiare. Poi ci fu la fatale sera in cui lei mise lo zucchero d’acero nella zuppa inglese, che buona come a Napoli non la fa nessuno, un sacrilegio, e lui capì che oltre non si poteva andare. Anche lei. Partì due settimane dopo, lasciando solo un biglietto: Fai il bravo con i cucioli (parla male l’italiano, ma lo scrive peggio). Non era sola. Era venuto a prenderla un avvocato che conosceva fin da quando era ragazza. Ce ne sono stati altri, dopo. Mai stata una foca monaca. Erano ati nove anni dal suo matrimonio, e di noi cucioli si prese cura la nonna, che abitava col nonno nel palazzo. Mamma ricompariva a intervalli, e nel ‘94 decise di restare. Quattro anni dopo nasceva Costanza, ma dopo appena un anno nostra madre riprese il volo, precisamente con l’Air Canada, questa volta optando definitivamente per i cuccioli di foca. Nostra nonna, rimasta vedova, si trasferì da noi e ci è rimasta per quattordici anni, cioè fino all’anno scorso, nel 2013, quando ci ha lasciati per sempre. Papà si è risposato da tre anni, trasferendosi a Siena, e nello stesso periodo io sono andata per lavoro a Milano. Quando è morta la nonna, mio padre voleva Costanza a Siena con sé, mentre lei voleva rimanere a vivere a Napoli con sco, e alla fine l’ha avuta vinta lei. L’eco dei litigi dei miei me li ricordo ancora, e pertanto ho deciso di avere un rapporto equilibrato con un uomo tranquillo. Subito dopo la laurea sono venuta a insegnare come prof a contratto a Milano, dove ho conosciuto il mio fidanzato. Edoardo è buono, rassicurante, poco ionale. Lavora molto, in uno studio legale. È spesso stanco, si addormenta. «Durante?» mi chiedeva la mia amica Mariapia con due occhi come due 45 giri, una sera che avevo bevuto qualche limoncello di troppo e mi ero lasciata andare ad amareggiate confidenze. Ho ritrattato, vigliacca.
Lo sapevo che “durante” non era normale. E comunque ci voleva parecchia abilità a prendere sonno, visto che la cosa durava pochissimo. Benché poco ionale Edoardo è tanto caro anche se è un tipo che non perde la testa, e in verità non la fa perdere nemmeno. Ma il suo tradimento mi sconvolge: voglio il mio fiume tranquillo. «Ma almeno sai chi è la tipa?», mi chiede Mariapia, partecipe. No, non lo so. Ma lui non somiglia più all’orso Baloo, non si addormenta più “durante”, si è iscritto a una palestra, non dimentica più di mettersi il deodorante (il che va bene anche a me), si nega, semplicemente, dicendo che ha mal di testa, e si cambia i calzini prima che diventino duri come due baccalà. “Lei” l’ha trasformato in un gibbone, altro che orsacchiotto! E lui le è fedele, come un gibbone, che è d’una specie monogama, e se come sospetto in mia assenza dovesse portarsela qui, non si addormenterà di sicuro, anzi farà un urlo, l’Urlo del Gibbone Vittorioso, che sentiranno tutti i vicini, e qualcuna sospirerà al marito: «Questo è l’avvocato Raimondi, che temperamento!». E lui replicherà: «Quello scimmione!». Appunto. Dovrei odiarlo, Edoardo, ma mi fa tenerezza, il mio gibbone innamorato. La cosa mi dà parecchio da pensare. Non sono davvero gelosa, e allo shock iniziale si è sostituito un certo sollievo. Sono anormale? Negli ultimi tempi sono stata spesso insofferente, impaziente... Eppure, Edoardo mi ha aspettato durante il mio soggiorno americano in una prestigiosa università. Speravo che l’incarico temporaneo mi fosse confermato, ma questo non lo confessavo neanche a me stessa, figuriamoci al mio fidanzato. L’incontro con Arthur Williams mi aveva parecchio turbata. Era il direttore del dipartimento, e mi piaceva da morire. Molto intelligente, molto simpatico, molto sicuro di sé. Si diceva che tutte gli cadessero ai piedi, e in verità anche io facevo uno sforzo per mantenere un minimo di distacco quando mi sorrideva, non per niente somigliava a Robert Redford nel Grande Gatsby. Però ero una ragazza di
buona famiglia con delle idee magari romantiche, mentre lui invitandomi a cena pensava di andare dritto allo scopo. Per usare una metafora scoprì un po’ troppo in fretta le sue intenzioni, il che mi mise in un imbarazzo degno della regina Elisabetta se ad Ascot, scambiando un prestigiatore per un dignitosissimo Lord, avesse visto un coniglietto far capolino dal cilindro di costui. Compresi il perché del soprannome Jack in the box, che sarebbe uno di quei pupazzetti che saltano fuori da una scatola quando non te l’aspetti. Ora, mentre i prestigiatori sono felicissimi di tirar fuori il coniglietto, s’indispettiscono molto se debbono farlo sparire senza eseguire il numero previsto. La serata naufragò prima di cominciare e lui neppure mi riaccompagnò, ma chiamò un taxi. Il posto al quale ambivo lo dette a un’altra, del resto tutto il mondo è paese, anche se non sempre, per fortuna. Quando sono tornata mi sentivo davvero a terra. Mi ero messa a fare la ricercatrice all’università, guadagnavo pochissimo e mi sentivo inetta. Edoardo era molto affettuoso, però non capiva che era quello il momento di chiedermi di sposarlo. Non l’ha fatto, ed è stato saggio. A me allora parve solo eccessivamente prudente e poco innamorato. Più grande di me di quattro anni, già lavorava in uno studio legale importante e guadagnava bene, ma non si sentiva pronto al matrimonio. Ne fui segretamente umiliata. Avevo bisogno di conferme, e onestamente non so se la nostra storia sarebbe stata diversa se ci fossimo sposati. Certo la nostra convivenza non è stata un successo, anche per colpa mia probabilmente. E lui si è innamorato di un’altra. Dovrei essergli grata. Altro che fiume tranquillo! Sinceramente stavamo affogando in un mare di noia. La verità è che voglio molto bene a Edoardo, ma non so se lo amo. Credevo che il dubbio tormentasse solo me, invece siamo in due, e prima o poi uno di noi dovrà affrontare l’argomento. Intanto il tempo vola, dalla sera fatale dell’illuminazione sono quasi ati tre mesi, durante i quali la rivista per cui collaboravo ha chiuso i battenti, facendo scendere il picco delle mie entrate, piccole traduzioni comprese, a livelli scoraggianti. Edoardo per fortuna lavora tantissimo, specialmente la sera è impegnato in straordinari che lo trattengono allo studio fino a notte quasi, sicché la spazzatura ormai me la butto da sola. Per vincere la malinconia vedo qualche partita di rugby e comincio a notare con interesse che i giocatori sono dei gran pezzi di ragazzi. Anche Edoardo è molto migliorato, ha perso il suo lato marshmellow, della caramella gommosa non ha più niente. Mette uno spray deodorante nelle scarpe. Canta sotto la doccia, che si fa tutte le mattine. Prima
era un po’ trascurato su questo fronte. Ahimè, è proprio innamorato. E non di me. Intanto sono accaduti fatti nuovi e straordinari. Una cugina della mia nonna paterna, “zia” Amalia è morta; aveva ottantasette anni. Aveva dedicato gran parte della sua vita a battersi per far riconoscere un brevetto come opera del padre Enrico, ingegnere, che era fratello del mio bisnonno, brevetto di cui si era appropriato il socio alla morte prematura di lui, traendone grandi profitti. Io avo delle noiose vacanze in campagna nella casa di famiglia dei nonni paterni, e con la curiosità dei bambini avevo trovato in un baule la custodia di una katana, una spada giapponese. Attratta dai bei colori (la spada faceva bella mostra di sé sulla parete dello studio) l’avevo presa in mano, trovando nascosta nel suo interno una busta chiusa ingiallita. Sopra c’era solo scritto di farla aprire da un notaio. Si trattava dei progetti originali del brevetto che Enrico aveva inviato a se stesso per poterne all’occorrenza dimostrare la paternità. Curiosa come una scimmia, avevo resistito alla tentazione di ignorare la raccomandazione, pensando che erano le volontà di qualcuno che certo non c’era più, e l’avevo consegnata al nonno. Si era potuta così dimostrare finalmente la paternità del brevetto, che l’ingegnere non aveva fatto in tempo a registrare al suo ritorno a Napoli, in quanto se ne andò quell’estate stessa, pochi giorni dopo aver messo al sicuro la busta, per un incidente di caccia, poco più che quarantenne. La zia Amalia, che all’epoca era ancora una bambinetta, aveva sentito enormemente la sua mancanza. Sarebbero ati circa sessant’anni prima che, grazie a una bambina curiosa, fosse ristabilita la verità, e lei divenisse enormemente ricca. Sola, di carattere schivo, molto religiosa, aveva fatto molte opere di beneficenza. L’avevo vista solo una volta da bambina, e da allora mi spediva dei libri a Pasqua e a Natale. Ora, alla sua morte, un notaio mi ha informata che ha lasciato il suo patrimonio a una fondazione. A me, in segno di gratitudine e affetto, ha destinato la sua bellissima casa di Posillipo. L’estate è finita e quest’anno non ho fatto vacanze. Ho tanta voglia di prendermi, come si dice, “una pausa di riflessione”. Voglio capire se davvero, come penso, dovrei mettere fine alla mia storia con Edoardo, o se semplicemente si tratta di una crisi eggera. Da una parte credo che lui sia innamorato di questa tizia, dall’altra è come se mi rifiutassi di
prendere la faccenda sul serio. In effetti è da tanto tempo che m’interrogo sulla validità del nostro rapporto, e se Edoardo ha iniziato una storia con un’altra, è evidente anche il suo disagio. Eppure dovrebbe trovare il coraggio di dirmi che tra noi è finita: ma non lo fa. Non credo che sia pura e semplice vigliaccheria: nelle cose importanti è molto serio, riflessivo. Gli è successa questa cosa, non l’ha cercata, e forse neppure lui sa bene come comportarsi, cosa vuole davvero. Per molti una crisi è la fine, per altri un modo di ricominciare, capendo che ci si era messi su una china sbagliata. Insomma, quattro anni di vita non si liquidano alla leggera, e io odio le decisioni prese sull’onda delle emozioni. Questa eredità improvvisa mi offre su un piatto d’argento l’occasione di prendere un po’ le distanze dalla mia vita attuale. È deciso: andrò a Napoli e ci resterò per un po’ di tempo. Quanto alla casa, non mi sembra vero, e temo che salti fuori chissà che a rivelare che si è trattato di un sogno che non si realizzerà. Non vedo da mesi l’adorabile e insopportabile Costanza, che mi manca davvero molto. In compenso ci telefoniamo tantissimo, e inoltre mia sorella mi scrive, più di quanto faccia io con lei. Al contrario di me, lei ha dei ricordi della casa che ereditiamo, perché c’è stata di recente, mentre io ne ho un confuso ricordo di quando ero piccola. La definisce un museo. Vedremo. Ho anche il desiderio di stare un po’ con mio fratello sco, che nel frattempo è diventato un divo, o quasi, ma è rimasto lo stesso ragazzo di sempre. Grazie a lui ho avuto sempre frotte di aspiranti amiche: «Ma tu sei la sorella di sco?». sco è bello, bellissimo anzi, come del resto mia madre, alla quale somiglia molto. Le donne impazziscono per lui, che ci ride sopra. Ho scritto non a caso “ereditiamo”, perché se la casa arriva proprio a me da una nostra parente, pur pressoché sconosciuta, che grazie alla mia curiosità infantile è diventata ricca, ma soprattutto ha avuto giustizia, è mia intenzione, di venderla e dividerne il ricavato con Costanza e sco (che credo rifiuterà, in quanto è l’unico ad aver fatto un po’ di soldi), perché mi sembra la cosa più giusta da fare. Ieri sera ho visto una partita di rugby fino a tardi. Mi sono soffermata in particolare su un giocatore che mi è parso straordinariamente interessante. Ho pensato che certo aveva una bella muscolatura. Una potente muscolatura. Mi
sono addormentata e il sogno che ho fatto era movimentato e confuso. A correre verso la meta ero io. Provavo molta soddisfazione. Tutto lo stadio si sollevava: «Ohhhh!». Un tripudio generale. Però l’Urlo del Gibbone Vittorioso lo faceva il rugbista. O lo facevo io? Difficile capire, eravamo talmente vicini, la meta credo l’avevamo raggiunta in due, davvero una bellissima partita.
Edoardo se l’era persa, per fortuna.
II. Il ladro
Dove Costanza scopre Edoardo a letto con un’altra e decide di non dire nulla. Va con Rodolfo a prendere Annalaura alla stazione. Parla dell’eredità e descrive la sua famiglia.
Io sono Costanza. Veramente non avrei dovuto entrare affatto in questa storia. Primo perché io a casa di mia sorella a Milano la stanza sua e di Edoardo l’ho aperta per puro caso. Ma ho sentito come rantolare e mi sono spaventata. Ho sedici anni. E benché sia molto, molto, molto intelligente, mi mancano certi tasselli. Voglio dire, nei film non rantolano. Metti Ufficiale e gentiluomo, che ho visto l’altra sera su Sky. Sospirano. C’hanno la musica in sottofondo, sussurrano, ma non rantolano. E insomma magari quando sarà il turno mio, fra qualche anno, può darsi che mi metto a rantolare e che rantolare è bellissimo, ma nel frattempo se uno rantola io penso che gli sta andando una caramella di traverso. E così ho pensato che c’era un ladro in casa. E che in fondo anche i ladri sono esseri umani. E dunque, magari per calmare l’ansia o bloccare lo stomaco, non potendo mettersi a fumare una sigaretta, questo ladro particolare che era capitato a me stesse masticando una caramella, che ora gli stava appunto andando di traverso. E glielo volevo dire, io: «Guarda che se sei venuto qua a rubare a mia sorella caschi male. Sì, è vero che è prof a contratto all’università, sappi che però non c’ha una lira, e quanto a Edoardo, se qualche lira ce l’ha non la tiene qua, è molto attento, lui; non ho detto avaro, diciamo oculato, e poiché i soldi li mette in banca, hai rischiato la vita per nulla, e ora mi tocca pure girarti per i piedi per far uscire quella benedetta caramella, che se poi sei un brutto ceffo alto due metri io come faccio?». E insomma, mentre pensavo queste cose e intanto aprivo la porta della stanza, mi sono chiesta cosa sperasse di trovare un ladro sotto le coperte di mia sorella. E
che ladro grasso! Del resto con tutte quelle caramelle… Ma no, non era un ladro. Erano due. E uno diceva all’altro, sussurando a bassa voce : «Dai, coraggio!». L'altra voce rispondeva: «Eccomi, ci sono!». Alla fine forse avevano trovato qualcosa. E mi sono ricordata che anni fa mia sorella aveva perso un bracciale d’oro, che non si era più ritrovato per parecchio tempo. Poi, vai a vedere, era finito ai piedi del letto, fra il lenzuolo e il copriletto. Era un po’ distratta all’epoca mia sorella, ma si può capirla: era stata appena lasciata dal fidanzato storico che avrebbe dovuto sposarla qualche tempo dopo. «E be’, insomma», penso mentre quelli sussurrano, «magari anche adesso chissà che non ci siano altre sorprese nascoste fra le coperte». E infatti la sorpresa c’era: era Edoardo! Avrei voluto eclissarmi in silenzio, se non mi fosse sfuggito un urlo tremendo: «Edoardo?!!!!!!». Da sotto le coperte si sente la sua voce costernata: «Costanza?!!!!!!…Non sapevo che fossi in casa…». Io ho soltanto sedici anni ma per abitudine non mi lascio sopraffare dalle circostanze e dunque rispondo: «Scusate, scusami Edoardo, scusami ... “Annalaura”…». Ed esco. Ma no. Lui non vuole essere salvato. E così più tardi, quando torno dalla mia opportuna eggiata pomeridiana, che evidentemente avrei dovuto fare almeno due ore prima, viene a sedersi di fronte a me in cucina: «Mi spiace davvero… Io voglio molto bene ad Annalaura. Sono davvero confuso… Non voglio farla soffrire, ho in mente di dirle tutto, è solo che non
riesco ancora a trovare le parole, lascia che ti spieghi…». Ma non riesce a spiegare proprio un bel niente. Anche perché nel frattempo è entrata Annalaura. Io amo mia sorella. Ora non so se vi è capitato di trascorrere uno di quei bei pomeriggi estivi in compagnia delle amiche, quando non siete state rimandate a scuola e vi ponete le domande fondamentali sull’esistenza, come per esempio: «Se il fidanzato della tua migliore amica s’innamora di un’altra tu che fai? Glielo dici? Noo, davvero glielo dici?!!». E allora Carla, la più sveglia, aveva risposto: «No, se l’altra sono io!». Giulia aveva detto: «Assolutamente no!». E io avevo detto: «Assolutamente sì!». E allora? Perché non glielo dicevo a mia sorella Annalaura?
Edoardo è un caro ragazzo, ma del tutto inadatto a mia sorella. E dunque forse quello che è successo doveva succedere. Anche perché mia sorella per lo più, quando si trova da sola con lui, dopo due secondi cade in un torpore sonnolento. Io ho sedici anni, come dicevo, e poca esperienza della vita. Per maturare quella felice saggezza che verrà poi ci manca ancora una cinquantina d’anni. Si presume quindi che avrei dovuto dirgli subito: «Brutto mascalzone, adesso dico tutto a mia sorella e tu sparisci dalla nostra vita!». Invece ho pensato:
«Povero diavolo, forse siete ancora in tempo per salvarvi entrambi. Tu vai a fare la spesa con la tua, come l’ha chiamata? Puccetta, riccetta, o che so io, e vi guardate tutti i depliant con gli sconti e poi comprate la carta igienica in un market dove c’è l’offerta sconto, e il caffè in un altro dove costa 0,50 centesimi in meno. E mia sorella invece discute felice per ore e ore di Estetica del linguaggio con l’uomo della sua vita, usando poi al posto della carta igienica i fazzolettini rimasti nella borsa, perché ancora una volta il supermercato ha già chiuso mentre loro, presi dalla disquisizione, non hanno fatto in tempo a fare la spesa». E dunque decido che non sarò io a fare la parte del destino, e che se non son rose non fioriranno. Nel frattempo però, prima di tornare a Napoli, ho dato un ultimatum ad Edoardo: io non dirò nulla, ma lui prenderà una decisione e nel frattempo non imbroglierà più mia sorella. Edoardo mi ha guardata stupito. Io ho concluso prima del previsto la mia breve vacanza a Milano ospite a casa di Annalaura ed Edoardo e sono tornata al bel mare azzurro di Napoli. Dunque eravamo a questo punto qualche mese fa. Stamattina mia sorella arriva con il treno delle 11,30. Io andrò a prenderla alla stazione. Edoardo non le ha ancora detto niente. Gli uomini sono fatti così. Io ho sedici anni, ma ormai lo so. Non so se si possa chiamare strategia. È più un’azione di resistenza iva. Rimandano. Tu per esempio dici: «Mi porti a vedere: Tre metri sopra il cielo?». E loro ti dicono di sì. Ma non ti dicono quando. «Quando?». «Poi vediamo».
E così il tempo a. Poi un giorno all’improvviso scatta l’orologio biologico e tu vuoi fare dei figli e loro non vogliono e allora ti metti con uno per esempio vent’anni più giovane e fai due gemelli. Io lo so perché la zia Clara ha fatto così. E tutto sommato, come darle torto? Dunque stavo dicendo che mia sorella arriva oggi in treno. Ha ereditato una villa, ma nei fatti è come se l’avessimo ereditata in tre. Ora non so se vi è mai capitata una cosa del genere, ma quando capita è una sensazione estremamente piacevole. Io immagino che vada così: siete ricevuti da un notaio, probabilmente molto anziano, e vi dice che avete un cespite e allora voi vi imbarazzate e vi stropicciate gli occhi e vi ricordate con assoluta certezza di esservi lavati la faccia, come tutte le mattine o quasi, e anzi, anche con maggior scrupolo, ma lui insiste. Allora voi vi scusate. Lui vi guarda spazientito e vi dice che siete diventati proprietari di un immobile e allora voi sorridete e vi commuovete anche un po’ e vi si inumidiscono gli occhi e c’è caso che vi venga davvero qualche cespite sulle ciglia se non vi asciugate le lacrime. A questo proposito vorrei dire che io non guardo mai la televisione, tranne che a casa di zia Irene. E lì seguono una trasmissione dove si vincono dei soldi perché si risponde a certe domande di cultura. Tutti dicono che è immorale vincere tanti soldi con un gioco. Io penso che, almeno, in qualche modo così si incita la gente a studiare. Ma quello che ho sempre trovato fastidioso è vedere i concorrenti vittoriosi piangere di commozione per i soldi. Ora però mi viene il dubbio che fosse perché non li avevo vinti io. Saputo dell’eredità che Annalaura vuole condividere con noi, alcune timide lacrime di contentezza mi hanno solcato le guance e ho pensato a tutte le cose che potrei fare con quei soldi. Perché quella casona cupa la venderemo, no? E insomma mia sorella è tornata a Napoli ufficialmente per l’eredità, nei fatti perché non ama più Edoardo, ma non sa come dirglielo. Ma naturalmente con me non ne ha fatto parola. Se non che mia sorella ha la pessima abitudine di tenere un diario. E si sa che i diari sono fatti per essere letti. Anzi pare che chi scrive, scrive sperando che qualcuno li legga. E a Milano il tempo è stato sempre brutto mentre ero lì; così quando sono stata sua ospite ad un certo punto ho trovato il suo diario e ho iniziato, vergognandomene doverosamente, a leggerlo con gran curiosità, anche
se mia sorella è per me un libro aperto. Ma a questo punto, prima di raccontare dei fatti più personali, vorrei almeno presentare rapidamente la mia famiglia. Io sono Costanza. Quest’anno sono stata rimandata in italiano, che al liceo classico è francamente una bella seccatura. È accaduto. «Come è stato mai possibile?», ha chiesto mio padre. «E tu perché hai i capelli biondi?», avrei voluto chiedergli, ma ho pensato che fosse più prudente tacere. Intanto probabilmente perché vado spesso fuori tema. E dunque potrà capitare anche qui, per quanto a me scrivere i temi scolastici mi annoia a morte, mentre quando si tratta di fare pettegolezzi con le amiche ci vado a nozze e ho una corrispondenza epistolare con Adele, una cara amica che da poco si è trasferita a Milano, così fitta e fluida che il Manzoni mi farebbe i complimenti. Poi perché non leggo i testi da commentare. Li commento e basta. Il che comporta una notevole dose di rischio, come quando ho parlato dell’amica risanata dopo che era caduta da cavallo, facendo una felice sintesi di due poesie del Foscolo dedicate a due donne diverse. Ora non so perché, ma io il Foscolo lo confondo sempre col Leopardi. Quindi quando quella vigliacca della prof mi chiesto il nome dell’amica risanata dopo la caduta di cui sopra, ho creduto bene di dirle Silvia, tratta in inganno dal verso Tu misera cadesti, l’unico che ricordavo. Quella strega mi ha detto che pensava che Silvia fosse morta, ma io l’ho rassicurata: ma no, pareva... Così lei mi ha pure fatto raccontare i particolari prima di mettermi due, un piccolo riconoscimento alla fantasia che ha fatto salire di ben due punti le mie quotazioni di base, come mi ha spiegato sarcastica. Dunque dicevo, i nostri genitori sono separati. Mi dispiace doverlo dire, ma la faccenda sta proprio così. Mia madre è tornata in Canada, dove è nata. Evidentemente lì ogni tanto usano appendersi agli alberi come i koala, per esempio per salvare qualche foresta in pericolo. Allora vengono messi in galera per qualche giorno, poi la foresta viene disboscata mentre loro, o i loro parenti per loro, pagano una cauzione ed escono, e di nuovo trovano qualche motivo per infilarsi in qualche situazione complicata. Perché non voglio credere di aver avuto proprio io il privilegio di una mamma speciale, voglio pensare che sia proprio nel dna di tutti i canadesi, nella loro
tradizione: alberi, galera, cauzione, alberi e di nuovo daccapo. Mia madre adora moltissimo tutte queste iniziative umanitarie e le abbraccia con entusiasmo. Ma sta sempre in galera? Pare di sì, soprattutto quando vogliamo andare a trovarla. «Mamma, se non vuoi che ti veniamo a trovare, basta dirlo», ho osservato. Ah, ma lei si è così dispiaciuta quando gliel’ho detto! Nostro padre invece ha abbracciato una donna e si è risposato. Ora vive a Siena. Io sarei dovuta andare a vivere con loro e invece ho preferito rimanere qui a Napoli con mio fratello sco. sco è uno scrittore di libri di successo. È laureato in biologia molecolare. Avrebbe voluto fare il ricercatore, ma per fare il ricercatore devi assolutamente, per prima cosa, trovare almeno un posto. Oggi la scienza è altamente specialistica e dunque lui sapeva magari trovare la cura per delle malattie rare, ma non un posto, in barba alla disoccupazione. Allora si è messo a scrivere articoli scientifici per un suo professore. Quando il professore ha assunto la nuova donna delle pulizie a 4 euro l’ora in più di quelle che percepiva lui, sco ha smesso di scrivere per il professore, salvo che un piccolo, inelegante, eloquente biglietto esortativo. Ha deciso di aprire una libreria. Ma in Italia oggi si legge poco o niente. Vanno forte giusto i gialli e gli Harmony. E così mio fratello, nelle lunghe ore da solo nella libreria vuota, si è messo a scrivere degli Harmally, cioè degli Harmony gialli. Adesso i suoi Harmally vanno a ruba. Però, per fortuna, la gente li compra e li paga. Così con quei soldi lui ha finanziato un progetto di ricerca. Ma questa è un’altra storia. Dunque vivo con mio fratello. Che è molto simpatico. È anche bello. Se dovessi scegliere un fidanzato lo vorrei come lui. Non certo come Edoardo. Comunque mia sorella adesso sta arrivando. Per l’esattezza il suo treno porta un ritardo di cinquanta minuti.
Io e Rodolfo stiamo qui aspettando alla stazione già da venti. Mio fratello ha un amico, Rodolfo appunto, tipo Brad Pitt, che a me neanche mi dice tanto, ma ve lo ricordate come rideva in Sette anni in Tibet? Illuminava tutta la sala, anche quelli che facevano roba nelle ultime file. Be’, Rodolfo, che ha un’agenzia di compravendita immobiliare, viene spesso a pranzo da noi. Inutile che vi dica che Rodolfo si è laureato in ingegneria idraulica. Un ingegnere. Il padre no. E che c’entra?, direte voi. C’entra, perché Rodolfo, laureato con centodieci e lode, per non restare a so ha proseguito l’attività commerciale del padre (non sfuggendo così anche lui, ironia della sorte, alla regola del nepotismo!). Dunque Rodolfo viene spesso a pranzo da noi e poi lui e mio fratello vanno insieme al circolo nautico. Qualche volta portano anche me. E così siamo in confidenza. Allora ho pensato che in fondo sono più di quattro anni che Rodolfo non vede mia sorella e che magari poteva venire lui a prenderla alla stazione e quindi stamattina presto sono andata col motorino di fronte alla sua agenzia e ho parcheggiato. Poi sono andata a prendermi un bel cappuccino al bar di fronte al mio liceo. Verso le nove e mezzo sono tornata davanti alla sua agenzia e ho fatto finta che il motorino non mi partisse più. Allora lui, che nel frattempo aveva aperto il negozio, si è affacciato e io ho detto: «Ma non è che mi accompagneresti tu a prendere Annalaura, perché sennò io come faccio adesso?». E lui, che per Annalaura ha sempre avuto un debole, ha alzato un po’ gli occhi al cielo, giusto per non far vedere che gli andava, e alla fine ha messo in moto il suo macchinone e siamo partiti. Annalaura ha trentadue anni. L’orologio biologico si fa già sentire da un po’ e ho pensato che è meglio non perdere tempo. Anche Rodolfo ne ha trentadue. Due più due fanno quattro, non so se capite dove voglio arrivare. Comunque intanto noi siamo qui alla stazione. Chiacchieriamo del più e del meno, molto piacevolmente, mentre io con nonchalance butto lì, ad hoc, le cose più importanti da sapere su mia sorella, quando alla fine il treno arriva. E non ti
dico la sorpresa quando bellissima, con i capelli che svolazzano al sole, scende mia sorella… preceduta da Edoardo!? «Edoardo?!!!!», dico io. Rodolfo li saluta sorridente. È bellissimo anche lui. Edoardo è verde. Non gli piace. Rodolfo non gli piace. Saliamo sul macchinone e iniziamo il nostro viaggio verso casa. Annalaura è rimasta visibilmente incantata da Rodolfo. Ma, ahimè, ha un’idea romantica dell’amore e dunque Edoardo potrebbe avere la meglio. Edoardo avverte uno spiacevole disagio e insomma si mette a vomitare per tutto il tragitto. Ora, una qualsiasi altra donna non avrebbe avuto nessun dubbio, credo io, nel decidere lì, su due piedi, che l’uomo della sua vita non poteva essere uno svomitazzatore privo di midollo. Annalaura no. Lei, mossa a tenerezza, reggeva la mano di Edoardo. Per puro riguardo a Rodolfo non mi sono messa a vomitare anch’io. Comunque Edoardo stasera è ripartito. Io non riesco a dormire e sto cercando fra gli Harmally di mio fratello uno la cui trama somigli a quest’incipit e il cui seguito mi faccia ben sperare.
Nel frattempo buonanotte.
III. Edulisse
Dove Edoardo non confessa ad Annalaura il proprio tradimento, ma ci gira intorno. Annalaura inventa un proprio tradimento, con un amico del fratello sco. Dice di amare entrambi. Edoardo crede sia Rodolfo. Edoardo vomita in macchina e riparte per Milano.
Edoardo non ha voluto sentire ragioni, e con mia grande sorpresa ha voluto accompagnarmi a Napoli. Pensavo che si sentisse sollevato dalla mia partenza, invece no. È precipitato in uno stato di sconforto e di irrequietezza. Forse, ma può essere solo una mia effimera impressione, andando a buttare il sacchetto della spazzatura strusciava impercettibilmente le suole. Era così scosso che ha mangiato tutto il tiramisù, anche la mia porzione, e mi ha detto con gli occhi tristi da cagnone: «Ma che succede, Annalà?». Succede che odio sentirmi chiamare Annalà, che sul tiramisù ci avevo fatto un pensierino fin dal pomeriggio, ma “mi pareva brutto” mangiarmelo da sola, e mentre lui mi faceva l’occhio languidone da bracco, i piatti nella lavastoviglie come al solito li sistemavo io. Mentre gli avo davanti per gettare gli avanzi nel secchio, Edoardo mi ha abbrancata da dietro, posandomi la testa sulla schiena. Non che sia nano, Edoardo, anzi è più alto della media, ma lui stava seduto e io in piedi; inoltre non mi aspettavo una cosa del genere, e i piatti sono caduti per terra: «E che cavolo, Edoà», gli ho fatto io, sapendo che anche lui odia sentirsi chiamare così. Ha fatto l’offeso e se ne è andato, risparmiandosi così di raccogliere a quattro zampe con gli asciugoni la mezza porzione di tagliatelle al ragù che aveva lasciato nel piatto, per lasciare un “posticino” al tiramisù. Mi a per la mente la rapida visione di una pubblicità. Ragazzino al citofono:
«Edoardo c’è?». «No, è uscito». «E il tiramisù c’è?». «No, se lo è strafogato tutto lui!». Il ragazzino si allontana immusonito, almeno quanto me mentre pulisco il parquet. Sì, abbiamo un costoso parquet in cucina, un parquet che assorbe l’unto, un parquet odioso e pretenzioso quanto una primadonna nevrastenica. Tutto lo graffia, lo rovina, lo inguaia, se lo stramaledici ti risponde stizzito: «Ma siete stati voi a mettermici, qua, mica ci sono venuto da solo!». Il parquet mi scambia per Margherita, la ex di Edoardo. Fu lei a volerlo (il parquet, invece a un certo punto Edoardo non lo volle più). Naturalmente il parquet non parla davvero, ma il messaggio arriva, chiaro e forte. Avrei dovuto guardare il parquet e girare sui tacchi, quando sono venuta qui, ed ora non sarei a questo punto. Ma allora Edoardo non si stravaccava sul divano ronfando come un aereo in fase di decollo, non si toglieva i calzini a tavola e non faceva burp bevendo la birra. Edoardo fa dei burp terribili, lui li chiama scherzoso i gorgoglioni, sul tipo di quelli che fa il lavandino quando finalmente si stura, e io mi sconvolgo. Edoardo sostiene che fa i burp perché ha studiato in America, lì tutti fanno i gorgoglioni, li considerano una naturale manifestazione fisica e non se ne imbarazzano. Però quando sono stata in America i burp non li faceva nessuno, perciò credo che il suo master Edoardo l’abbia fatto in uno di quei locali del profondo sud dove tutti hanno il cappellone da cow-boy e lanciano le bottiglie vuote di birra su chi non suona musica country; comunque una rete protegge il palcoscenico, non si sa mai. Io questa cosa l’ho vista nei Blues Brothers e mi ha molto colpita, anche se non quanto l’orchestra dal lancio di bottiglie: che strano master ha fatto il mio fidanzato! A quel punto mi affaccio dalla cucina e dico angelica: «Edoardo, ti prego, non fare questi rumori!». La replica è scontata:
«Ma Annalaura, trattenersi fa malissimo...». Se era meteorismo era peggio, mi consolo io. Scommetto che con la tizia non gorgoglia. Tuba. Comunque quando finalmente la giornata si è conclusa, e ce ne andiamo a letto, Edoardo ci riprova. Vorrei mandarlo al diavolo, ma vince la tenerezza. È grande e goffo proprio come un orso ed io gli voglio molto bene. Gli dico di aspettarmi, farò prestissimo. Faccio una doccia rapida e metto un accenno di profumo (quello che mi ha regalato lui e che non mi piace per niente). Mi chiedo se faccio bene a partire “proprio ora”, con ‘sti segnali di riavvicinamento. Lui non ha avuto dubbi, è partito già, per il mondo dei sogni. Mormora un saluto tipo: «Ciao Picchipacchi». Qualcosa in me si ribella. Io voglio essere tradita da una maliardona tipo le donne di Tamara de Lempicka. Lei lo guarda con gli occhi torbidi e freddi e lui sale sulla sua vettura sportiva verde. Lei guida come una pazza per i tornanti della Corniche e lui guarda le sue mani bellissime che tengono con nonchalance il volante e il suo destino, con la stessa perizia, con la stessa indifferenza. Lei ha una suite, diciotto stanze al Negresco, lenzuola di raso grigio polvere che sembrano d’argento, dorme nuda con un collare di diamanti, gli fa cose turche e poi gli grida: «Sì, sì, sì, sono la tua schiava!», ma lo schiavo è lui. Posso capire il tradimento, alla luce di questi fatti, salvo il particolare che non so immaginare perché Edoardo fosse in Costa Azzurra, dove ha incontrato la dea, lui che da sempre va a Rapallo alla pensione Aida, con bagno in camera, e se gli chiedete perché si scandalizza: «Ma ci vado da sempre! Da generazioni la mia famiglia è sempre andata lì!». Una volta sola andò con la sua ex, Margherita, in Africa. Se gli chiedete cos’è l’Africa e vi scorrono sotto gli occhi le nevi del Kilimangiaro, il dottor Livingstone che incontra Stanley sulle sponde del lago Tanganica e tutto il repertorio, non fategli questa domanda, perché vi risponderà:
«Caldo e dissenteria». Per dire il tipo. Invece Margherita in Africa c’è tornata in viaggio di nozze. Con un altro, naturalmente. Ecco, io sono soddisfatta se una Mata Hari con la faccia di Sharon Stone travolge Edoardo e lo trascina in una torbida relazione di sesso e sregolatezze. Ma Picchipacchi no. Picchipacchi sa di ciambellone fatto col Pane degli Angeli nella versione di nonna: ci mette la marmellata di albicocche dentro. Picchipacchi ha il naso all’insù e gli occhi ridenti, ma è culona, giuraci che è culona e di gamba corta. Picchipacchi se al mare è indisposta, dice a tutta la spiaggia che ha le sue cosine. Racconta che ha visto un attore che tanti anni fa ha fatto il “Marchese di Montecristo”, un successo tale che poi ne hanno fatto un libro, e questo Andrea Giordana è ancora fico. Alla cassa del supermarket le ha sorriso e ha pagato gli Scottex come uno qualunque (dacché se ne deduce che gli attori rubano gli Scottex, o se li fanno regalare, chi lo sa). Chiama Edoardo Amo’, abbreviativo di Amore. E Amo’ la trova adorabile, urla come un gibbone e la mette fatalmente incinta. Le Picchipacchi non prendono la pillola. A lei viene il pancione. Anche a lui. Finita l’era degli addominali. Il bimbo farà i suoi ruttini, il papà i suoi gorgoglioni, senza che nessuno gli dica: «Ma che fai?», tanto Picchipacchi ci ride. D’estate vanno a Rapallo, grassi e felici. Edoardo, ti salverò! O mi salverò? Alle tre di notte Edoardo si lamenta per il mal di stomaco. Mi accusa, l’ingenuo, di aver messo la cipolla nel ragù. erò la lamentela alla Barilla, o alla Cirio, manco mi ricordo. Se non temessi di essere meschina, gli rinfaccerei la mezza vaschetta di tiramisù che si è fatto fuori, invece nobilmente gli faccio un canarino. Si addormenta come un angelo quasi subito. Io no. La mattina dopo ho una faccia da cencio in lavatrice, centrifuga lunga. Però mi trucco con cura, mi vesto con eleganza, con un completo firmato comprato in un outlet, che comunque non mi sarei potuta permettere, ed Edoardo commenta soddisfatto: «Certo ti sai vestire, qualsiasi straccetto sembra un vestito di Armani!». Ma guarda un po’.
Siamo soli nello scompartimento, e il mio fidanzato comincia col prenderla alla lontana, dalle medie, mi pare. Non è lì che incontriamo Ulisse? Perché è di Ulisse che parla, ovverosia dell’uomo sempre alla ricerca dell’avventura. «È certo», penso io, «Picchipacchi invece di Circe». «Ma tu, Annalaura, mi puoi capire? Voi donne siete diverse, vi basta un uomo, se vi rende felici e vi appaga...». «Parli di te?», gli chiedo con perfida soavità, così ironica che anche lui, perfino lui direi, se ne accorge. «Ma l’uomo, l’uomo innamorato, per quanto legato alla sua donna, è sempre preda del canto delle Sirene», prosegue lui, fingendo di non raccogliere la provocazione. «Questo lo ha detto anche un bello di Hollywood beccato in macchina con una professionista, che però non cantava». Ha il buon gusto di non chiedermi perché, e tace confuso. Poi sbotta: «La donna è tendenzialmente monogama, l’uomo no». Sto prudentemente zitta, voglio vedere dove arriva. «L’uomo deve esplorare, capisci? E non sa. É il suo destino in quelle isole accoglienti? É nella patria lontana? Ma se la patria gli imponesse di scegliere la nazionalità, il luogo dove stare, ti rendi conto della pressione che questo eserciterebbe su di lui? La sua libertà di scelta sarebbe inficiata (ve l’ho detto, Edoardo è avvocato, ogni tanto usa parole così). Eccolo costretto a nascondersi, a mentire... E dov’è quella solidarietà che dal suolo natale si aspetterebbe? Dove trovare il coraggio di chiedere la pazienza dell’attesa, il silenzioso conforto della comprensione muta di chi sa attendere sapendo che se egli tornerà, non sarà per costrizione ma per amore?». Ora io ho sempre pensato che Edoardo fosse un’eccezione, una bella eccezione. Un po’ rozzo magari, senza tante sfumature, il tipo pane al pane vino al vino, ma limpido come un bicchier d’acqua. E lo è, in qualche modo, limpido nel suo egoismo di maschio eternamente figlio, che chiede alla mamma se si può allontanare, purché lei non faccia come la perfida madre di quel giovane collega,
Peter Pan, che si affrettò a sostituirlo... Eh sì, Edoardo è un uomo, e come tale un po’ figlio di buonadonna su certi argomenti. Ma per fortuna ho tempi di reazione veloci. Gli poso la mano su un ginocchio, con aria grata: «Sì, Edoardo, sì... Grazie per avere trovato il coraggio di parlare di questo argomento. Anche io penso di essere tendenzialmente monogama, come tutte le donne, ma l’uomo della mia vita è davvero quello che ho scelto?». Edoardo diventa di una tenera sfumatura di lilla e spalanca gli occhi. «Ti sarai accorto che negli ultimi tempi sono cambiata. Pensavo che fosse solo stanchezza; i rapporti, anche i più felici, si logorano... O forse di essere io, poco propensa in questa fase della vita alle cose d’amore. E invece... un’esplosione, Edoardo. Da un incontro casuale, un terremoto. E tu così buono, così tranquillo, che amo...». Lui strabuzza gli occhi. L’ho visto fare solo al cinema, ma lui lo fa. Scuote la testa, come un pugile dopo un uppercut particolarmente stordente. «Ci sei andata a letto?», mormora con voce strozzata. Ha le lacrime agli occhi. Pudica taccio, gli occhi bassi. Lui si dà una manata sulla fronte e urla come il gibbone, ma in un’altra tonalità, dalle parti di dolore e raccapriccio. «Con uno sconosciuto?», chiede inorridito. «Ora meno sconosciuto», osservo giudiziosa. «Comunque è un amico di mio fratello, che non vedevo da anni». «Bell’amico», fa lui ironico. «Sì, bello», confermo senza ironia. Ecco fatto, Ulisse si dispera perché Penelope tra una tessitina e l’altra ha trovato un pretendente di suo gusto, tanto per ingannare l’attesa. Le Sirene, sconcertate, stanno a sentire a bocca aperta, tanto Edulisse si è sintonizzato su un altro canale e il loro canto in questo momento non è tanto importante.
«Ma se eri sempre a casa!», fa lui. «Infatti, il mio amico è napoletano. A Milano c’è venuto per lavoro». «Speedy Gonzales! Arriva, fa quel che deve, incontra la sorella dell’amico, anche lì fa quel che deve e se ne riparte. Brutto stronzo!». «Edoardo, non scadere, ti prego! È stata una cosa che ci è capitata, siamo stati travolti, credimi!». «E ora?», mi chiede smarrito, dimenticando che a questo discorso mi ci ha portato lui, chiedendomi comprensione. La voglio pure io, ‘sta comprensione! «E ora non lo so. L’attrazione fisica c’è, selvaggia...». «Selvaggia?». «Animalesca. Urla come un gibbone». «E tu?», chiede costernato. Faccio un gesto eloquente, che significa: “E che te lo dico a ffà?” Spiego: «Lui è intelligente, innamorato, mi vuole... Ma io non so che fare. Come potrei vivere senza di te? E senza di lui, potrei poi vivere, ora che ho scoperto il sesso?». Qui, lo ammetto, ci sono andata un po’ pesante. Edoardo ha una specie di singulto e si precipita nella toilette. A vomitare, credo. Torna piuttosto scosso. Te la do io Picchipacchi! Comunque il mio Ulisse, fedifrago e in malafede, tenta di rovesciare la frittata. Se la patria è ostile, nemica, o semplicemente lontana, la tentazione d’altri lidi si fa sentire più forte, ed anche il più incorruttibile uomo, spinto dalla solitudine e dal desiderio di trovare conforto, finisce per imbarcarsi per terre lontane. A questo punto ci siamo raccontati le nostre balle tutt’e due: lui che ha detto e non detto, accusandomi d’essere stata il movente che lo ha spinto, “forse”, a tradirmi, e io che mi sono inventata là per là una relazione apionata con un
uomo focoso e innamorato che vive... a Napoli! Ma la cosa assolutamente pazzesca è stata che all’arrivo ho trovato ad aspettarmi alla stazione, insieme alla mia impagabile sorella Costanza, uno schianto di giovane uomo, bello che più non si può, tanto che perfino il rapinoso professore americano, quello del coniglietto indiscreto per capirci, diventa al confronto appena abile. Ho ravvisato in questo prodigio le belle sembianze del rugbista che si intrufolò nel mio sogno, con eccellenti risultati, ma certo vedermelo in carne e ossa mi ha scombussolata più del previsto. Solo in seconda battuta mi sono ricordata del bel ragazzo, amico di mio fratello, pallanuotista. Ma allora era più giovane, più magro, coi capelli rasati a zero, e non mi fece l’effetto che mi ha fatto oggi. Anche io gli ho fatto un certo effetto, perché mi ha stretto la mano e ha detto: «Finalmente!». Intanto la mano non la mollava. Io non so se il Finalmente! fosse un commento all’ora e a di ritardo del nostro treno, o fosse dettato dal piacere di rivedermi dopo tanto tempo. Edoardo però l’ha interpretato come l’impazienza dell’amante che mira a ricongiungersi all’amata e che solo un senso elementare della decenza trattiene dal farlo lì, subito, in piena stazione. Il mio povero fidanzato sembrava essere sceso da una nave in tempesta invece che da un comodissimo treno, e sul punto di vomitare di nuovo. Guardava il presunto rivale con un misto di disgusto e raccapriccio, come se non potesse sopportarne la vista, mentre il divino Rodolfo ci scortava alla macchina, una stupenda macchina con l’interno di un delicatissimo color azzurro, più o meno come il colorito di Edoardo. Abbiamo sistemato i bagagli e siamo partiti. È stato a quel punto che il mio fidanzato si è prodotto in un gorgoglione pazzesco, e ha inondato il sedile posteriore. «Santo cielo, dovrò sedermi davanti!», ha detto. «Non ci pensare nemmeno!», ha replicato Costanza, tutta disgustata.
Edoardo si è girato verso di me, purtroppo. Il mio completo Armani non sarà mai più lo stesso. Gli ho tenuto la mano sentendomi vagamente colpevole. Avessi
fatto la patria che attende, tutto questo non sarebbe successo. Ma ormai è tardi per recriminare. Incontro gli occhi di Rodolfo nello specchietto, occhi buoni, preoccupati per Edoardo e, mascalzona, gli sorrido.
IV. Il Professor Lugli
Dove Mariuolino, tenta di rubare il portafogli di Costanza e Manuele lo impedisce. Costanza e Manuele, amici, fanno una perlustrazione nella villa in segreto, trovano un biglietto in un cassetto, sentono dei rumori, fuggono, e poi Costanza si ricorda del prof. Lugli.
Come ho detto, più o meno da quando ho iniziato il liceo, l’anno scorso, tutte le mattine prima di andare a scuola entro al bar di fronte e mi ordino un bel cappuccino caldo. Mi piace, mi fa sentire adulta e non puzza come le sigarette. La prima volta è successo per via di un ragazzo. Lui è entrato, bellissimo nel suo completo blu, e io pure. Erano un po’ di giorni che facevamo la stessa strada. All’inizio avevo addirittura creduto che mi seguisse, che magari gli piacevo. Al semaforo mi si avvicinava sempre e una volta che ando mi aveva sfiorato avevo addirittura avuto l’impressione che l’avesse fatto apposta. Allora mi ero girata più volte. Ma lui aveva fatto il vago e aveva proseguito dritto per la sua strada. Quella mattina invece mi precede, si gira a guardarmi ed entra nel bar. Una giornata meravigliosa. Un sole tiepido, il cielo azzurrissimo, neanche una nuvola. E un profumo di gelsomini per tutta la strada. Bello. Bello con gli occhi verdi pieni di ciglia e tanti capelli neri. Bello bellissimo. Ho superato una fila di persone e sgomitando gli sono arrivata accanto. «Sai l’ora?». E lui, proprio come i veri soggetti, ruota il polso con la tazza in mano e voilà, ustione fra il terzo e quarto grado al mio piede e le mie magnifiche scarpe di
camoscio azzurro (€ 139,99 in saldissimi, estorte ai sensi di colpa di mio padre in una raffinatissima boutique senese) perdute per sempre. Tutt’al più se decido di vestirmi da pantera il prossimo carnevale posso incollarci delle unghie finte smaltate di nero e usarle come zampe maculate. «Scusami», dice lui, «lascia che ti aiuti». E inizia a pulirmi una rotula con il fazzolettino della brioche, pieno di zucchero a velo. «Non preoccuparti», dico io al settimo cielo. Wow, mi sta già toccando le gambe! Faccio un rapido conto mentale, € 139,99 + cinque di lavanderia + 1 di colazione, e ciononostante dico: «Posso offrirti un altro caffelatte?». Intanto una specie di Provolino occhialuto coi capelli rossi e le lentiggini che fa capolino dietro di lui mi guarda con insistenza. Io ho sistemato la messa a fuoco sull’Adone, tutto il resto scompare. Ma Provolino mi sta facendo delle smorfie. Che ridicolo mostro maleducato! Lo guardo meglio. Ma no, forse ha solo un penoso tic che gli deforma la faccia. Comunque lo ignoro e faccio per prendere il portafogli dalla tasca dei jeans. Ma non posso proprio… Non c’è più, il portafogli!... Il ragazzo divino è stupito quanto me. «Che seccatura!», dice finendo il nuovo caffellatte. «Scusa, ma sono in ritardo. Devo andare. A presto». E se ne va senza pagare. Ho le lacrime agli occhi per la rabbia, la vergogna e la delusione. Vado alla cassa a chiedere che mi facciano credito. Intanto Provolino è alle mie spalle e mi tocca un fianco. Mi giro come una jena e lui spalanca un sorrisone su un apparecchio dei denti di quelli che ti ci puoi sintonizzare su Sky. «E-e-ecco il tuo portafogli», dice, e intanto paga anche la mia parte. «E-e-estavo cercando di dirtelo in tutti i modi, di stare attenta. Quello è Mario
Talarei, lo chiamano Mariuolino. Sai che mariuolo a Napoli vuole dire ladro. Studia legge, è di buona famiglia, ma gli piace giocare a carte. Io mi chiamo E-ee-eManuele». «Emanuele?». «No. E-e-e-eManuele. E-e-e... esenza la “e” e-e-e... ebalbetto un po’. E-e-e... ema solo sulla E ». «E allora perché la usi anche quando non serve? ». «E-e-e... eperché senza la “e”… e-e-e... enon riesco a partire». Insomma io e Manuele siamo diventati amici. Lui è apionato di archeologia e ogni tanto mi porta a visitare dei posti bellissimi. Ho pensato che la villa, disabitata ormai da tanti mesi, potevamo andare a vederla insieme. Più che una villa, è un palazzetto a più piani, c’è perfino una piccola torre e delle cantine. C’è pure una cappella di famiglia che risale al settecento. Ci si entra da un ambiente interno. Insomma è un posto molto interessante. Io vorrei andare a vedere nelle cantine, perché so che la zia aveva dei diari. Lei diceva che aveva tenuto i suoi diari scrivendo tutti i santi giorni. E poiché è morta a ottantasette anni, o era molto sintetica o molto bugiarda. Diceva pure che quando li avessimo letti… il diluvio dopo di lei, perché ce n’era per tutti. Solo che essendosene andata appunto a ottantasette anni nessuno degli interessati si è attardato ad aspettarla.
Eccolo che arriva, Manuele. Sono le sei. Ci siamo dati appuntamento davanti al cancello della villa. È ancora giorno. La casa è molto bella. Il giardino è pieno di alberi secolari. Manuele si attarda a guardare delle piante mentre io sto aprendo il portone. Lo sento inciampare: «Tutto a posto?». Lui è già alla mia destra. «Sì, perché?».
«Ti ho sentito inciampare». «Guarda che ti sbagli...». «Sarà stato qualche rumore dal palazzo vicino». «Vieni, entriamo». Un pensiero mi coglie all’improvviso: «Com’è che non balbetti più?». «Non serve, ormai ti ho conosciuta. È per l’approccio, alle donne fa tenerezza, non si mettono sulla difensiva». Hai capito l’imbranato.... «Vieni, entriamo».
Com’è la casa? Bella, bella... No, no... Magari non tutto di mio gusto, ma bella. Molti quadri d’autore. Per lo più zingarelle che spingono improbabili carretti pieni di frutta con grappoli di figli appesi alle gonne. Qualche Madonna. Alcuni busti femminili pettoruti in marmo. Per il resto nulla da dire. Una gran quantità di argenteria ovunque. Divani damascati, tappeti, cristalli. Ai due lati dell’entrata gli ambienti della biblioteca. Mobili antichi di legno scuro e quadri e stampe antiche alle pareti. Moltissimi libri. Quelli, davvero meravigliosi. Manuele intanto ha aperto un cassetto. C’è un biglietto con l’indirizzo di un notaio e appuntato il nome di una missione in Cina. È lo stesso nome della fondazione a cui la zia di mio padre ha lasciato l’eredità. Mentre stiamo parlando sentiamo sbattere una porta. Io volo nelle braccia di Manuele. Però, che occhi grandi che ha! Ci ammutoliamo e, senza dire una parola, due secondi dopo siamo fuori dalla villa. Che peraltro ormai è una villa che appartiene a mia sorella e nella quale non si vede proprio perché ci sentiamo come degli intrusi. «Sarà forse perché non hai avvertito tua sorella di questa sortita?», mi chiede Manuele rispondendo alla mia domanda non formulata, il che mi fa veramente impressione. Forse siamo due anime gemelle. Rimaniamo a lungo in silenzio.
«Che bagnoschiuma usi?», mi chiede poi. «Non è bagnoschiuma, è un costosissimo profumo se». «Ah…». «Buono, vero?». «Sa un po’ di nocciolina...». «Non ti piace? ». «Scherzi? Io adoro le noccioline!». Nel frattempo abbiamo raggiunto la Riviera. E ci andiamo a sedere davanti al mare. «Ti sei spaventata?». «No, no. È solo che si era fatto tardi». «Ah». «Ti va di tornarci?». «Lasciami organizzare. Magari avverto mia sorella, così non dobbiamo entrare di nascosto, con la paura di incontrarla e doverle spiegare, o che i vicini ci vedano». «Ma guarda che il palazzo accanto è disabitato. È in vendita». «E quei rumori?». «Boh! Magari qualcuno che ci stava seguendo». «Magari un monaciello che abita lì». «Non dire sciocchezze». «Cosa speri di trovare?».
«Non lo so. Probabilmente niente. Diari. Io adoro i diari». «E il professore Lugli?». «Santo cielo, il professor Lugli!».
Lo prendo per un braccio e inizio a correre in direzione della villa.
V. Trolli
Dove Costanza telefona a Mariapia per un consiglio sul malore di Edoardo e riflette sui trolli. Annalaura e Rodolfo accompagnano Edoardo alla stazione.
Grazie al Cielo sono riuscita a rimettere Edoardo sul treno. Dio mio, che verbo che ho usato! Il fatto è che lui ha continuato a star male tutta la giornata, cioè a “rimettere”, con lo stomaco in subbuglio, tanto che dubitavo che potesse ripartire. Gentilmente il povero Rodolfo (un principe, considerando quello che gli costerà far risistemare la macchina dopo lo scempio) si è messo a disposizione, non volendo lasciarci sole in quel frangente. sco infatti era ospite di una trasmissione televisiva, ed Edoardo non dava segni di miglioramento. Ho chiesto consiglio a Mariapia per telefono, che mi ha detto di non preoccuparmi, anche lei quando aspettava Giulia vomitava così. Questo là per là mi ha tranquillizzata, ma poi ho ripreso il telefono per richiamarla. Strano che Mariapia, medico, non avesse considerato che Edoardo ha scarse probabilità di essere incinto: «Ma no», ha detto Mariapia, «è che io Giulia non la volevo, capirai era la terza; a me bastavano quelle pesti di Matteo e Luca, e vomitavo per il disappunto: per i gemelli (di cui sopra) neppure una nausea!». E qui ha attaccato una disquisizione su quanto è strana la vita, gli attesissimi gemelli essendosi rivelati pestiferi a oltranza, e l’indesiderata Giulia “angel dal Ciel disceso”, e sul prediletto tema delle infinite virtù di Giulia ho tagliato corto, che potevamo fare notte. Sospetto che Giulia non sia una bambina, ma una specie di trollo sapiente, ma questo lo tengo per me. In verità la settimana scorsa l’ho detto ad Edoardo, che mi ha replicato che non è possibile, essendo i trolli dispettosi e insopportabili. «E Giulia è un trollo buono, va bene?».
Lo so che sono ingiusta, ma che fastidio avere a che fare con uno che puntualizza sempre! «Scusa, Annalà, ma tu parli a vanvera. Trolli buoni non ce ne sono, ergo Giulia non è un trollo». «Tu lo sai per esperienza, con tua madre e le tue sorelle...». «Porca miseria, Giulia, i trolli sono bruttissimi, e mamma e le mie sorelle proprio no!». «Ahhh...», gongolo io, «giustamente parli della loro bellezza, perché sul fatto che sono insopportabili e dispettose non ci piove! Ora, se ci sono trolli femmine di bell’aspetto, non vedo perché non ce ne dovrebbero essere di buon carattere!». Lui ha avuto un attimo d’incertezza, poi mi ha detto serio serio: «Annalà, tu vuoi litigare! E io proprio non capisco perché...». Tu, brutto traditore vile, che all’ultima ora sussurri come un cospiratore la tua buonanotte al cellulare a una squinzia pallocchetta davanti al cassonetto dove hai buttato la mia fiducia in te insieme al sacchetto della spazzatura, tu ti chiedi “perché” voglio litigare? O vogliamo parlare di quello che ho trovato nella tasca dei tuoi jeans, genere bustina di fiammiferi, ma tu Edoà non fumi, fumavano a me a quel punto, pensando che mi imbottisco di estrogeni, perché a te certe cose “fanno impressione”, e ora che succede, hai cambiato idea? Hai raddoppiato le precauzioni? Nossignore, Edoardo, la mia idea era giusta: le Picchipacchi non prendono la pillola, e tu perderai un po’ di tempo a chiederti che fine ha fatto quello che avevi in tasca, e intanto stiamo qui a parlare di trolli... e magari, avendo io sequestrato l’habeas corpus, che di sicuro non si chiama così, anche se col corpus, o una parte di esso, ha parecchio a che fare, in un attacco di gibbonite ti sei messo a smandrillare senza rete, cadendo così in quella della Picchipacchi, che è proprio il tipo da scodellarti due gemelli se solo la guardi un po’ più intensamente. Accidenti e ancora accidenti! Invece gli dico amara: «Scusa, Edoardo. Giulia è bella e buona, ed io ci scherzo su. Ma la verità è che Mariapia di trolli, o di bambini, ne ha tre, e io nemmeno uno. Almeno fossi in carriera! Macché... E allora mi attacco a tutto, pure a quei poveracci dei trolli».
Questo ha messo fine alla discussione. Il vigliacco mi ha pure dato un bacetto sui capelli, prima di andare a sviolinare la sua buonanotte nel cellulare. Quando è tornato ero a letto, muta. Su Sky davano un vecchio film degli anni 50, Harvey, il coniglio bianco, con un tenero e svampito James Stewart che ha un amico invisibile, un coniglio bianco di dimensioni extra large che vede solo lui. Ho visto il film fino alla fine, mentre Edoardo si è addormentato subito. Quando ho spento il televisore l’ho vista, una Picchipacchi grassottella vestita da coniglietta di Play Boy, che come Harvey ronfava tra di noi. Dietro le palpebre chiuse la vedeva anche lui, che ha sorriso. Stavolta muto, ma sul fumetto sopra la sua testa c’era scritto: “Buonanotte Picchipacchi, amore mio.” Anzi, “Amo’ mio.”
Mi rendo conto di essere rimasta con gli occhi sbarrati dopo aver parlato di nuovo con Mariapia, e che tutti mi guardano ansiosi: Qual è il verdetto? Epatite? Colera? Indigestione? Sindrome di Stendhal? (Non c’entra, ma fa sempre effetto nominarla). Allora scuoto la testa con aria affranta, e dico la magica parolina: «Stress!». Questo lo capiscono tutti, e fanno un’aria un po’ costernata, un po’ sollevata. Mica posso dire che è il mio presunto tradimento che l’ha ridotto così. E comunque anche se per assurdo fosse incinto non potrei essere stata io, visto che da tre mesi almeno è fedele alla squinzia. Adesso però non la vedevo come tale, ma come la tenera, cicciottella Picchipacchi che se lo andava a riprendere alla stazione, coccolandolo oltremodo, povero amo’, capace di chiedergli: «Il pancino ti ha fatto bua bua?» mentre lo riporta a casa in taxi (le Picchipacchi non guidano) tra un bacetto e l’altro. Speriamo che il tassista, che ne vede di cotte e di crude, non sia debole di stomaco, lui. Torno a casa accompagnata da Rodolfo, che si è fatto prestare un’altra macchina, e ha resistito alla tentazione di foderarla tutta col cellophane prima di farci risalire Edoardo. Mi dice che davvero il mio povero fidanzato dev’essere esaurito, perché salutandolo gli ha detto: «Non arrivo a odiarti. Sono molto confuso... Tu hai solo approfittato della situazione. È confusa anche lei, vedi la storia dei trolli».
Qui Rodolfo ha chiesto, perplesso, di quali trolli parlasse: «Ma di tutti! Giulia, innanzitutto, poi mia madre, le mie sorelle...». «Tutti trolli?», domandava lo sgomento Rodolfo. «Scusa Rodolfo, che domande mi fai? I trolli sono cattivi, cattivissimi, e brutti...». Per fortuna il treno è partito, prima che Rodolfo chiamasse la Croce verde. Io arrivo in tempo per vedere Edoardo salutarmi mesto dal finestrino, mentre agito in segno di saluto l’inutile rivista che ero andata a prendergli all’ultimo istante, mossa astuta per evitare penosi addii, visto che la rivista lui l’aveva chiesta a Rodolfo per sbolognarlo. Costanza invece è rimasta a casa. Aspettava una telefonata, ha detto. È innamorata la mia sorellina? sco torna a casa stasera, guarderemo tutt’e tre la trasmissione che lo vede ospite, e che andrà in onda in seconda serata. Domani andremo dal notaio. Edoardo va verso i suoi nuovi lidi pieno di nostalgia per la patria lontana, che poi sarei io, un bel ragazzo si è affacciato nella mia vita e io sto bene come da tempo non succedeva più. In attesa della cena, che gentilmente prepara mia sorella, dopo avere apparecchiato mi siedo in terrazza, di fronte al più bel mare del mondo. Indosso un golfino, comincia a fare fresco. Il cielo è blu pieno di stelle, le luci del lungomare scintillano, e anche lo specchio blu del golfo è pieno di luci. Mi coglie una felicità fuori luogo, assolutamente irragionevole. Ne sono improvvisamente sicura, tutto andrà al suo posto. A questo punto arriva Costanza, con un piatto di salatini e patatine e un bicchiere di vino bianco gelato per me. Lei beve aranciata. Si siede sul dondolo e mi chiede con aria complice: «Posso farti una domanda molto personale?». Quanto personale? La faccenda m’imbarazza un po’. «Forza», le dico. «Confido nel tuo buonsenso».
«Ma tu che diavolo ci trovi in Edoardo?».
VI. Santo cielo! Il professor Lugli!
Dove Costanza racconta al professor Lugli dell’eredità e gli dà un appuntamento con Manuele alla villa. Il professor Lugli non incontra i due ragazzi ma un vaso di gerani.
Santo cielo! Il professor Lugli! Il professor Lugli è un inquilino del palazzo dove abito. È un professore di liceo in pensione. Apionato di letteratura, di filosofia ed esperto di mitologia greca. Inoltre conosce Napoli come le proprie tasche e durante i suoi studi sulla parte antica della città si è imbattuto più volte nella zona dove si trova la villa, che affaccia sul mare. Quando gli ho detto dell’eredità mi ha chiesto, se non recava troppo disturbo, una volta nella vita, anche fra cent’anni, di poter venire a dare un’occhiata. Il professore tra cent’anni ne avrà circa centosettanta, ma ha una natura ottimista. «Domani, professore. Io vado domani e se volete potete venire con me. Viene anche Manuele. Ma mi raccomando, non dite nulla a mia sorella. Sapete lei com’è… Inizia a sollevare mille questioni». Il professor Lugli si è un po’ rannuvolato perché a lui le cose di nascosto non piace farle e avrebbe voluto tirarsi indietro. D’altra parte sapermi lì da sola con un giovanotto pure lo faceva stare in pensiero. Non lo avesse saputo, ma visto che gliel’ ho detto… Il professor Lugli è così, si sente un po’ come un secondo padre per me. E quindi, benché un po’ perplesso, ha accettato. Io però mi sono completamente dimenticata che sarebbe venuto e quando ho sentito quei rumori nel giardino non ho pensato a lui. Mi è tornato in mente adesso. E meno male, se no avrebbe ato tutta la notte
prigioniero nella villa. Il professore infatti è l’unico esemplare umano che io conosca sprovvisto di cellulare. Io e Manuele torniamo indietro di corsa, iniziamo a chiamare dal cancello: nessuna risposta. Apriamo e ancora niente. Entriamo e troviamo il professor Lugli in un angolo del giardino, come fosse un po’ ubriaco, seduto scomposto sul bordo di un’aiuola, con i capelli estremamente in disordine e pieni di zolle erbose, mentre alcuni gerani gli pendono sulle orecchie. Esistono due scuole di pensiero sulla coltivazione delle piante in vaso. Io ho preso le mie informazioni al riguardo, anche se il vivaista da cui andiamo non è tanto attendibile. Per esempio voi gli dite: «Gennaro, le ortensie si stanno ammosciando. Perché?». «Poca acqua!». «Ma se le innaffio tutti i giorni!». «Allora troppa acqua!». Oppure: «Gennaro, il pothos è bianco!». «Poca luce!». «Ma se sta in pieno sole!». «Allora troppa luce! ». Insomma è un aristotelico puro: la via mediana è sempre la migliore. Ora, le due scuole di pensiero sono quella dei sostenitori dei vasi di coccio (e la zia di mio padre era un apionato membro di quella fazione), e quella dei sostenitori dei vasi di plastica. I sostenitori dei vasi di plastica sostengono che i vasi di coccio sono fragili, più pesanti, più difficili da spostare (anche se più stabili) e da pulire. Inoltre essendo porosi, la terra bagnata si asciuga più rapidamente, perché l'umidità evapora anche dalle pareti del vaso e che d’estate le piante hanno sete prima, mentre voi
ve ne state nell’acqua turchese delle Maldive su un canotto con una bibita in mano e non avete trovato nessun vero amico disposto ad andare ad innaffiare il vostro piccolo angolo verde, magari in cambio della possibilità di disporre della vostra casa per qualche eventuale appuntamento romantico. I sostenitori dei vasi di coccio sostengono che la terracotta grezza mantiene la terra più fresca e drenata, limitando i ristagni d'acqua mentre nei vasi di plastica, impermeabili, la terra si asciuga meno rapidamente e si possono creare degli eccessi di umidità. Quando la zia di mio padre mi mandò a ordinare un bel numero di vasi io fui neutrale, considerati i pro e i contro, visto che non c'erano problemi di carico. Ma poniamo che avessi detto: «Gennaro, vorrei trenta vasi di coccio». Lui avrebbe grugnito e mi avrebbe fatto recapitare trenta vasi di plastica, perché gli altri li aveva finiti. Gennaro non ha mai quello che vi serve, nel momento in cui vi serve. Le vostre richieste si infrangono sempre sugli scogli del suo ato prossimo o futuro prossimo: «Li avevo fino a un’ora fa». «Stanno per arrivare». In ogni caso nel suo presente indicativo regna la coincidenza degli opposti: «Prendete questo, è assolutamente la stessa cosa». Così dove la zia avrebbe voluto delle aristocratiche calle ci sono, come diceva lei, degli allegri girasoli plebei. Ma è capace che voi gli ordinate un bonsai e lui vi recapita un baobab: «Donna Amalia, portate pazienza, iniziano tutti e due con la b, sei lettere, mi sono confuso. E poi le piante sono tutte creature di Dio». Insomma la zia di mio padre, al vedere tutta quella plastica, si era assai immusonita con me. Io di rimando mi ero offesa perché non mi riconoscevo
responsabile. Poi l’episodio era stato superato davanti ad una bella tazza di cioccolata, ma ogni volta che una pianta si ammalava, aveva qualche fungo o della cocciniglia, la zia mi diceva sospirando: «Ah, questa plastica, sta soffocando il pianeta!». Ma nella vita non è mai detta l’ultima parola. E alle volte ciò che sembrava un male si rivela un bene. Adesso ero davvero contenta di non essermi opposta all’uso indiscriminato della plastica. Perché un bel vaso, per fortuna di ridotte dimensioni, era misteriosamente caduto sulla testa del professore. Vuoi mettere il piacere di ricevere in testa un vaso di plastica, per fortuna abbastanza piccolo, se comunque un vaso in testa ti deve arrivare? Il professore, un apionato di mitologia, da molti anni ormai privo della sua criniera giovanile, era particolarmente bello e nobile con questi tralci decorativi. Un Bacco ubriaco. «Costanza, sembri molto contenta della mia disavventura. E io che pensavo ci fosse un genuino rapporto d’amicizia fra noi…». «Ma no professore, che dite! Sono contenta che ve la siete cavata con una ghirlanda di fiori fra i capelli. Che non solo è molto adatta a voi, ma vi rende anche talmente grazioso…». «Costanza, tu hai sempre voglia di scherzare. Comunque questa giornata mi pare sia durata abbastanza. Che ne dite di tornare?». E così ce ne siamo tornati di buon umore a casa.
Dopo cena ho telefonato a Carla, la più sveglia delle mie amiche, quella che se vado alle Maldive le piante me le innaffia e, visto che si trova, approfitta della possibilità di godersi un po’ la casa, e le ho raccontato l’episodio. «Gesù, Costanza, ma come ragioni?», mi fa lei. «?».
«Perché uno dovrebbe comunque avere un vaso in testa? Allora non è stato un incidente fortuito». Razionalmente non ci avevo pensato, ma inconsciamente sì: forse non era stato casuale. «Carla, ma che dici?». «Per esempio che qualcun altro era nella villa». «E perché». «Magari per godersi la casa. Oppure per cercare qualcosa…». «Carla, tu guardi troppi film…». «Cara mia, io al cinema ci vado a baciarmi. Libri non ne leggo e il mondo sto imparando a conoscerlo. E anche tu dovresti deciderti ad aprire un po’ gli occhi!». «Beh, adesso buonanotte». «Buona notte, Sherlock Holmes!».
Dovevo parlarne con Manuele. Con tutte le amiche che ho, chi l’avrebbe detto che alla fine la confidenza maggiore ce l’ho con un uomo! Infatti non è a Carla o a Giulia che ho chiesto di venire. E non c’entra che lui ha una marcia in più. Ecco, mi pento di questo pensiero. Non è vero che lui ha qualcosa in più. A questo punto Carla e Giulia mi direbbero che qualcosa in più lui però ce l’ha. Solo che non è nella testa. E dunque non si offenderebbero, anzi potrebbero capire. Ma no. Che sciocchezze! Eppure mica lo mollavo quando gli sono volata in braccio in seguito al rumore. Che poi era il professor Lugli che si accasciava fra i fiori. È incredibile come a volte si combinino i fatti: io e Manuele senza saperlo eravamo nel giardino insieme al professore, al quale, immemori dell'appuntamento, non pensavamo affatto. E mentre poi ce ne andavamo ignari
a mangiare un bel gelato, lui rimaneva lì, solo e intontito dal vaso. Altre volte accade il contrario: pensate tanto a qualcuno che non è lì con voi in quel momento, magari il vostro lui. Allora sempre pensando a lui, uscite un’ora prima dal lavoro, andate da vostra suocera a riprendere i bambini e il ragù al pomodoro che gli piace tanto, per fargli una bella sorpresa. E lui intanto è già a casa. Non da solo. E non sta pensando a voi. Ed è lui che vi fa una sorpresa, quando aprite la porta di casa e vi sentite dire: «Non è come può sembrare». Io per ora ho solo sedici anni e questi problemi per il momento non ce li ho. Però a Manuele glielo voglio dire, tanto per mettere le cose in chiaro: «Sappi che io il ragù non ci vado da tua madre a prenderlo senza di te, mentre tu chissà cosa fai. E le sorprese non mi piacciono proprio. E in generale non voglio fare le cose senza di te. Ci si sposa per condividere la vita».
Comunque adesso mi è venuto parecchio sonno. Magari gli faccio uno squillo domani.
VII. Mariuolino
Dove Mariuolino viene malmenato e sedotto da una poliziotta, su commissione di un giudice, che gioca a bridge con suo padre e che mentendo dice alla figlia che il ragazzo lo ha derubato.
Che figura! Andare a rubare i soldi ad una poliziotta in divisa! Che diavolo mi è venuto in mente! Devo essere impazzito! Forse ho bisogno di uno psicologo. Ma uno bravo, però… Io glielo avevo detto ai miei: «Guardate che a me Giurisprudenza non mi piace. Non mi sento portato». Ma loro niente. Giù a insistere che non mi avrebbero dato una lira. E poi questa storia che rubo per il vizio del gioco! Che paradosso! Io a carte vinco sempre. Conosco tutti i trucchi e non ho mai dovuto sborsare un centesimo. Rubo pochi spiccioli. La benzina per la moto, le spese correnti. Sono avaro. È vero. Sono molto avaro. E anche un tantino amorale, più che immorale. Ma i miei sono molto più avari di me. La verità è che la storia degli studi è una scusa. Semplicemente non vogliono darmi soldi. È proprio così, uno più ne ha e più ne vuole. E i ricchi sono ricchi perché non spendono. Comunque ho deciso che non rubo più». Mariuolino si guarda allo specchio. Occhiali scuri, capelli fluenti con l’onda, vestito elegante, orologio d’oro. Si toglie gli occhiali. Un bell’occhio nero si riflette nello specchio. Mariuolino ripiega con cura il sacchetto di plastica che aveva riempito di ghiaccio da mettere sull’occhio. Ormai si è asciugato e si può sempre riutilizzare per il pane. Il destino è molto più grande di lui e Mariuolino non sa ancora quale tornado stia per abbatterglisi addosso.
Perché Mariuolino, che certamente diventerà prima un giovane avvocato rampante e poi un affermato notaio, è stato notato da un vecchio giudice. E che c’entra, direte voi? C’entra, c’entra. Perché questo giudice è vecchio. Il suo l’ha fatto. E anche bene. Adesso vorrebbe andarsene in pensione e godersi finalmente i nipoti. Fin qui tutto regolare. Solo che i nipoti non ci sono. Poco male, direte voi. E chiederete: «Intanto: ha dei figli, questo vecchio giudice?». «Sì, certo». «Gente a modo?». «Sì, la femmina per esempio fa il poliziotto». Ecco che voi iniziate ad incuriosirvi. Dicevamo, alla sua età, dopo averne viste tante, il vecchio giudice, ormai fine conoscitore dell’animo umano, è comunque bendisposto verso il suo prossimo, tanto da aspettare con ansia l’arrivo di un manipolo di nuovi nati, imparentati con se medesimo in linea retta. Dunque se i figli ce li ha e sono giovani, problemi non dovrebbero essercene. Benché con questa storia della plastica e dell’inquinamento anche riuscire ad avere dei nipoti può richiedere molto impegno. Ma, vi chiederete voi, tutti questi personaggi chiuderanno il cerchio alla fine del romanzo? Voglio dire, non è che dopo aver seguito il racconto per pagine e pagine, trascinati, come e più di Europa, in tutto l’universo mondo, poi magari alla fine il romanzo non era un gran che. Anzi, diciamolo, era proprio una gran bufalata? In fede mi sento di rispondere che sì, il rischio c’è. E anche abbastanza grande.
Per esempio il professor Lugli. Arrivati alla conclusione del capitolo che fine aveva fatto? Alla fine, per il rotto della cuffia la cosa si è risolta e il professore annunciato è entrato, seppure con le zolle in testa, e i tralci sulle orecchie, nella villa e nella storia. E comunque si poteva anche semplicemente cambiare il titolo del capitolo. Quindi anche per il seguito, in caso di difficoltà un modo alla fine si trova. Perché un modo alla fine si trova sempre. Be’ speriamo che sia così… Dunque, stavamo dicendo di questo benedetto Mariuolino di cui non sentivamo proprio il bisogno... Ma il giudice sì. Per lui Mariuolino è la soluzione. “Mariuolino”, il ladro che ruberà il cuore di sua figlia e gli darà tre magnifici nipotini. Stefania, la poliziotta, è un tipo un po’ duro. Poco incline alla commozione. Il giudice qualche giorno fa all’esame di procedura penale ha ascoltato questo svogliato ragazzo con fama di ladruncolo e ha visto qualcosa. Come una scintilla. Qualcosa, sembra incredibile, in comune con sua figlia. Il destino vuole che il giudice giochi a bridge con il padre del rampollo. Sua figlia, un po’ ribelle, si sta innamorando, più che altro in opposizione alla famiglia, di un certo numero di piccoli guappi che ammanetta per lavoro. Poi li butta via come fazzoletti da naso. Ora, al giudice non gliene importa un fico secco del blasone del fortunato di turno, o della sua mancanza. Ormai le stranezze della figlia non lo sconvolgono più. Ma vorrebbe almeno che con uno di questi, non importa quale, debitamente rieducato, s’intende, (ma sua figlia sa essere un‘educatrice di prim’ordine e il giudice non ha dubbi sul buon esito del suo eventuale regime terroristico), finalmente lei mettesse su famiglia. Questo Mariuolino è mariuolo a sufficienza, ma ha qualcosa, un’arroganza, una strafottenza sottile, per cui il giudice è certo che sua figlia non avrebbe la meglio, non riuscirebbe a liquidarlo come un fazzoletto usa e getta.
E poi sembra pigro e anche avaro. C’è caso che lui giri per il mondo senza precauzioni (vedi l’importanza della plastica, nel bene e nel male) e che lei, la poliziotta, se non un marito abbia almeno un figlio. E dunque che ti fa, il vecchio giudice? Litiga pretestuosamente col suo compagno di una vita al bridge. Si fa cambiare posto e si fa organizzare un tavolo con il padre del Mariuolo. Dopo di che, con la dovuta cautela, inizia a dire che lui ha avuto modo di notare a lezione (dove il Mariuolo non si è mai presentato) le doti brillanti del ragazzo, che tuttavia a parer suo si trova in un punto della propria strada un po’ delicato. Che lui, il giudice, durante l’esame ha potuto verificare le sue doti di ragazzo estremamente brillante. Che lui, il giudice, ha una figlia poliziotta. E che, con il dovuto riserbo, potrebbe farlo tenere d’occhio prima che commetta qualche reato serio. Il padre del Mariuolo valuta in meno di dieci secondi la posizione del giudice, la barca, gli immobili, le macchine, tutto. Valuta pure il caratterino della poliziotta e quale punizione meritata potrebbe seguirne per suo figlio. E accetta. Dunque il giudice chiede alla figlia di dare una lezione al Mariuolo che durante l’esame di procedura penale gli ha indebitamente sottratto il portafoglio (ma sarà vero?) e lei senza por tempo in mezzo pedina il ragazzo, lo segue in autobus, mette il portafogli in bella vista, si fa scippare, lo coglie in flagrante, lo fa scendere, ha uno scambio di vedute, giunge ad un diverbio, perde la pazienza e gli sferra un pugno, che nelle intenzioni avrebbe voluto essere sul naso e non troppo vigoroso. Ma lui non è d’accordo e non collabora. Si prende il pugno nell’occhio e sviene.. Lei è perplessa. In genere glieli restituiscono, o almeno ci provano. Che fare? Lui non dà cenni di riprendersi. Lei, come il principe di Biancaneve, gli fa la respirazione bocca a bocca. È fatta! Lui apre l’unico occhio momentaneamente apribile, la guarda, le sorride e le
dice: «Mi offri un caffè?». Lei non sa che fare. La faccenda le sta sfuggendo di mano. Lo tira su e lo trascina per un braccio nel bar. Aprendo la porta, gliela sbatte pure in faccia. Lui è tramortito da un simile tornado. Sembra riprendersi, ma all’uscita mentre attraversano la strada ha un capogiro e si appoggia al cancello del giardino di una villa, che è aperto. Non aggiungo altro. Quello diventerà il luogo dove segretamente inizierà la loro focosa relazione e che per motivi romantici continuerà ad esserlo. Che poi è violazione di domicilio privato. Ma non verranno denunciati. Perché la proprietaria, trovandosi lì con un ragazzo, che visto di spalle potrebbe essere Rodolfo, ma anche un Edoardo in piena forma, deciderà di far finta di niente e scivolerà via silenziosamente col suo compagno segreto, preferendo l’aria fresca e la notte stellata del giardino di girasoli e baobab al chiuso di quelle stanze severe.
Ma molte cose ancora devono accadere prima di tutto questo.
VIII. Porto il mantello a ruota e fo il notaio
Dove la famiglia va dal notaio e Annalaura va da sola alla villa. Annalaura affida a Rodolfo la vendita della villa. Costanza conosce il pirata. Costanza e Manuele ricevono dal professore un invito per il tè. Il notaio da cui sono andata insieme a sco e Costanza erano in effetti due. Padre (in pensione) e figlio in carica, cioè il ventriloquo e il suo pupazzetto. Ma volendo avremmo potuto averne fino a sei. Così recita la targa sul portone. Sei notai Trudelli (Sarebbero stati otto, ma due cugini si sono ritirati). A noi sono capitati il più viscido e il più antipatico. Ma mi sa che più o meno, buon sangue non mente. Comunque alla fine sono ufficialmente proprietaria della villa. Ieri, tanto per strafare, siamo andati anche dall’avvocato Rubicone. Il fatto è che i notai, assolutamente odiosi, non ci avevano quasi lasciato il tempo di aprire bocca, mentre l’avvocato Rubicone era stato amico del nonno, e ci avrebbe dato degli ottimi consigli. Gratis, il che non guasta. Stanislao Rubicone rassomiglia molto a una vecchissima tartaruga, completa di guscio, visto che è curvo per l’età, ma anche al vecchio jedi di Guerre Stellari, quello che sembrava un po’ Enzo Biagi con le orecchie orizzontali puntute e che mi piaceva da morire. Ci guardava attonito come se gli Jedi, anzi i Jedi, come pare si dica, fossimo noi. Ci ha spiegato poi che in genere approdano da lui dei congiunti con un pugnale tra i denti, pronti a disputarsi all’ultimo sangue anche un vecchio stuoino, e che era la prima volta che assisteva allo spettacolo incredibile di qualcuno che volesse condividere un’eredità. Tutto lieto e sorridente ci ha annunciato che ora poteva anche morire contento, cosa che abbiamo tutt’e tre sperato che non fe su due piedi, vista la venerandissima età. Comunque il disinteressato consiglio che mi ha dato è stato di accettare per
ora l’eredità, senza volerla subito condividere con i miei fratelli. Questo avrebbe dato a sco, che intendeva rifiutare la mia offerta, il tempo di riflettere e inoltre, se l’intenzione era di vendere, un solo proprietario avrebbe semplificato molto le cose, soprattutto perché la minore età di Costanza avrebbe creato inutili complicazioni. Meglio dunque a vendita avvenuta destinare un terzo, o quanto avessi deciso della somma ricavata, a ciascuno dei miei fratelli: «Ma tutte queste cose ve le avrebbero potute benissimo dire i Trudelli!», dice sorridendo. Sì, ma i Trudelli erano troppo, troppo antipatici! Alla domanda circa il valore approssimativo della villa, la risposta è stata così sbalorditiva che mi è andata la saliva di traverso e per poco non mi strozzavo io, altro che l’avvocato! Comunque, il Tortugo Stellare, come l’ho ribattezzato io, ha sorriso bonario: «Non si emozioni troppo, signorina Annalaura. Lei praticamente ha scoperto un Rubens in salotto: il problema sarà trovare un acquirente, e vedere quanto sarà disposto costui a pagare». Dopo una pausa maliziosa, conclude: «Vorrei aggiungere che comunque questa eredità farebbe di lei un ottimo partito se...». Ecco, arriva il temuto “se”, la clausola maledetta, l’intoppo insuperabile per cui mi alzerò delusa da qui, lo sapevo che non poteva toccarmi davvero una fortuna simile! Perché gli orribili Trudelli non mi hanno messa in guardia? Ma è solo un guizzo di galanteria vecchio stile, perché l’avvocato conclude: «...se le sue preclare virtù e la sua generosità, e poiché mi potrebbe essere figlia (anche nipote, penso io) mi permetto di aggiungere: la sua bellezza, non fero comunque di lei un partito splendido!». E qui il Tortugo supera se stesso, perché cogliendo lo sguardo sbalordito di Costanza, aggiunge: «Se la rosa sbocciata attira gli sguardi col suo profumo, il bocciolo sullo stesso
ramo ha tutte le promesse di un futuro splendore!». «Hai capito, il vecchione?», sghignazza sco per le scale. Ride anche Costanza, mentre io penso che sono due incoscienti. Io no, e sono davvero in trance. Solo ora realizzo che non si tratta di un sogno: me lo dice il tintinnio del gran mazzo di chiavi che custodisco nella borsa. Le giornate si sono accorciate notevolmente, e quando usciamo dallo studio dell’avvocato la luce comincia a declinare. sco ci propone di andare alla villa, lo studio del Tortugo è in Via Manzoni, da lì in macchina saremo in un attimo a Posillipo. Acconsentiamo subito, ma solo per guardarla dall’alto, dico io. Probabilmente la luce è staccata e la grande casa sul mare è invasa dalle ombre. Non è così che voglio conoscerla, voglio vederla con le antiche stanze inondate di luce che mi danno, anzi che ci danno il benvenuto. La vediamo dunque dall’alto della strada, la grande costruzione di tufo affacciata sul mare, che sembra sorgere dall’acqua che si va inargentando mentre scende il crepuscolo. Dal punto in cui siamo una macchia di pini quasi ce ne nasconde la vista, come se, solitaria e bellissima, volesse difendere qualche oscuro segreto. Alle undici di sera mi arriva la telefonata di Edoardo. Di sicuro Picchipacchi abita con mamma e papà, e magari pure nonna e qualche fratello piccolo, perciò giuraci che con la complicità di un’amica che le fornisce l’alibi sta guardando Sky nel mio letto, cioè nel letto di Edoardo, se vogliamo essere precisi, e dunque Edoardo mi chiama dalla solita postazione, che sarebbe il cassonetto. È così confuso che mi chiama Amo’: «Che novità, amo’? Siete stati dal notaio?». Gli fornisco un rapido resoconto dei fatti, e m’informo sul suo stato di salute. Come sta il suo stomaco ballerino? Benissimo, visto che mi risponde che ha mangiato una bella frittata di cipolle e patate. Ma non gli facevano schifo le cipolle? E comunque, da quando in qua si è messo a cucinare? Preso in contropiede, mi dice d’essere stato a pranzo dalla sorella, che poi gli ha dato qualcosa di pronto da portare a casa anche per la sera. Il grandissimo ballista! Io invece gli dico di essere stata a mangiare la zuppa di pesce in un posto poco lontano da casa. «Sola?», ha la faccia tosta di chiedermi.
«Ma ti pare? Con Costanza e sco». «E il tuo Rolando?». «Rolando non so, non lo conosco. C’era anche Rodolfo, se è di lui che parli». «Salutalo da parte mia quando lo vedi». So che non avrei dovuto, assolutamente. Ma non ho resistito: «E tu salutami Picchipacchi», gli ho replicato, prima di chiudere la comunicazione. Anzi, ho spento il cellulare e ho alzato la cornetta del fisso. Credo che sia rimasto carico di meraviglia. Magari per lo stupore si è riportato la spazzatura a casa.
A vedere la casa di Posillipo ci sono venuta oggi, mercoledì. E ieri? Ieri no, magari è una cosa ridicola, ma né di Venere né di Marte... sco oggi era impegnato, Costanza ha fatto la vaga: «Vacci sola, tanto io la casa la conosco. Poi domani ci andiamo di nuovo, magari con sco, che ne dici?». Costanza in certe cose è straordinaria. In effetti, non so perché, quello che desideravo davvero era proprio di venirci da sola, e lei in qualche modo l’ha capito. Fu lei a ricevere circa un anno e mezzo fa la telefonata di una flebile voce femminile, che chiedeva di me. «Annalaura è a Milano, dove vive da qualche anno. Io sono sua sorella, Costanza. Con chi parlo, prego?», aveva risposto mia sorella, e la donna aveva detto: «Vostra zia Amalia». Amalia Riccobono era nata nel 1927. Suo padre Enrico, l’ingegnere del brevetto, aveva un fratello minore, Riccardo, padre di mia nonna Giulia, che sposò l’avvocato Federici, nostro nonno. Amalia quindi in realtà era una cugina della nonna, che secondo l’uso comune chiamavamo zia, e così le si rivolse con
grande naturalezza Costanza, che una sola volta da bambina era stata con nostra madre a trovarla, proprio come più o meno alla stessa età, anni prima, c’ero stata anch’ io. Cosa in quella voce di ragazzina colpì quella vegliarda scontrosa, che nell’ultimo periodo della sua vitaera vissuta in una specie di volontaria clausura, non so. So solo che Costanza ne conquistò rapidamente l’affetto, mentre, con la scusa d’essere sofferente, Amalia non volle incontrarmi nelle due occasioni in cui andai a Napoli prima della sua morte. Seppe da mia sorella, che ignorava il perché di tante domande, quello che voleva sapere su di me, e per un senso di giustizia, assicuratasi che ne fossi degna, mi lasciò la villa che tanto più volentieri avrebbe destinato a mia sorella, cosa che mi fu chiarissima da subito.
La casa è splendida, vi si accede attraverso un viale fitto di pini che scende verso il mare e più che una villa sembra una fortezza. È stata costruita su un basamento di roccia e un tempo c’era un accesso anche dal mare, da una grotta dove si ormeggiavano le barche, come mi aveva raccontato Costanza. Quello che non mi aveva detto, era che a Posillipo era conosciuta come la Villa degli Spiriti. Comunque nessuno spirito si è manifestato durante la mia visita in un pomeriggio di sole. Mi è parso uno scrigno, questo sì, uno scrigno di pietra che custodisse molte memorie. Io guardo al futuro. Non so di quali spiriti parli la voce popolare, ma ho sentito i suoi fantasmi malinconici aggirarsi per i grandi saloni, e non ho avuto nessun dubbio. Vendere, e in fretta. Adesso mi sono rivolta a Rodolfo e nella sua agenzia in vetrina c’è un bel cartello “Vendesi”. Sono stati anche fissati i primi appuntamenti per far vedere la casa.
Stamattina Annalaura si è svegliata di buon umore e mi ha detto: «Costanza, vuoi accompagnarmi alla villa?».
Noto che man mano che si allontana dal noiosissimo Edoardo ringiovanisce a vista d’occhio, e diventa più allegra. C’è tutto un circo di gente che vuole comprarsi la Villa degli Spiriti (ormai anche Annalaura ha scoperto che la chiamano così): benché ne abbiamo chiesto una cifra stratosferica, una folla di improbabili personaggi, in barba alle previsioni dell’avvocato, ci assedia per comprarsela. Una specie di pirata con l’orecchino e la bandana, in zoccoli e bermuda è stato il primo. Secondo me aveva anche il kajal sugli occhi. Ha tirato fuori una valigia dicendo che dentro c’era una bella quantità di soldi e voleva convincerla a comprare su due piedi. Ma scherzava, naturalmente. Comunque mia sorella l’ha trovato troppo strano. Ha detto che vuole pensarci. Lui ha tirato fuori un biglietto da visita con su scritto (sic!) Heaster Seamanager Ranieri di Bandalunga e glielo ha dato facendole l’occhiolino. Poi è svanito. Adesso la casa è inondata di rose rosse. Ce ne saranno un centinaio. Abbiamo anche avuto, ieri sera, dei misteriosi mandolinisti sotto la finestra che hanno suonato delle serenate, per la verità molto apionate e romantiche. Mamma diffidava dei mandolinisti, per via che secondo lei sono furbastri. Mah. Poi sono venuti due tipi stile Blues Brothers. Anche loro personaggi stravaganti. Poi una associazione di pescatori che vorrebbe farne la propria sede. Poi un club di sub. La cosa che mi ha davvero colpito è che in una casa tanto grande tutti cercassero il ripostiglio. In realtà i notai a turno ci hanno spiegato che:
«Veda bene egregia signorina…». «C’è una porta diretta dalla cucina…». «Che sembra condurre ad un ambiente». «E che invece non porta proprio a niente». «Solo a un mare di seccature...».
«Toponi, ragni e brutte creature». «L’apertura è stata al tempo murata». «Dall’ingegnere, persona assennata. «Per evitare che qualche serata». «Dall’acquedotto regio Borbone». «Entrasse in casa ‘nu scarrafone». «O forse pure un reo criminale». «Uscito appena da Poggioreale». «Le consigliamo di non far commenti». «Con eventuali futuri acquirenti». «Dica: La porta è stata murata». «Per tamponare una roccia franata». «Che non c’è spazio per andar dentro». «Solo la roccia oltre il cemento».
Dicevo, manco a farlo apposta con tanto spazio tutti chiedono dov’è il ripostiglio e tutti puntualmente arrivati in cucina provano a forzare la porta sul nulla. Datemi una porta e vi aprirò il mondo. Che poi gli uomini in genere non si preoccupano tanto dell’organizzazione domestica. Mia sorella spiega con pazienza a tutti che lo spazio per un ripostiglio comunque lo si può ricavare. Rodolfo poi si appoggia a un architetto che potrebbe occuparsi della pratica per eventuali modifiche.
Poi gli aspiranti acquirenti si accertano dell’esposizione corretta della villa, della sua posizione: lì il mare… lì palazzo Caravite… lì Coroglio… alle spalle la collina… Insomma la gente è proprio strana. Comunque fino ad oggi tutti quelli che sono venuti vogliono comprare. Tutti hanno una fretta del diavolo. Non vogliono farlo vedere, perché forse temono che Annalaura ne approfitti. Invece lei non è convinta di nessuno di loro. Io fuori orario ho deciso di venire a vedere questa benedetta porta sul nulla. E qui è accaduto un fatto inaspettato. Ranieri di Bandalunga stava gironzolando da queste parti e mentre aprivo il cancello mi ha raggiunto, chiedendomi di poter rivedere il giardino. Io, colta di sorpresa, istintivamente ho provato a richiudere il cancello, ma lui ha infilato un piede dentro ed mi ha preceduta reggendone la porta con galanteria. Sulle prime mi sono preoccupata, ma lui si è messo a parlare dei fiori. Conosce tutte le essenze. Li carezzava con leggerezza. Faceva delle mezze giravolte, dei balzi da una pianta all’altra come un pirata all’arrembaggio. Poi mi ha chiesto se volevo un cigarillo. Se l’è , mi ha preso la mano, mi ha sfiorato le dita con le labbra ed è sparito oltre il cancello cantandomi:
«E dentro i suoi occhi mi perdo in un mare nell’acqua più limpida che possa trovare Te Quererei a Morir». Sono rimasta molto turbata. E perplessa: Quiererei a Morir ? Ma non era te quiero a morir ? E quel quererei starrebbe per querria o quisiero, un condizionale maccheronico? Ci deve essere qualche compagnia teatrale che ci sta prendendo per i fondelli. Ma il baciamano mi è piaciuto. E comunque pure se è un impostore questo presunto Ranieri di Bandalunga somiglia a Johnny Depp e qualche bacio di aggio me lo prenderei pure. Ma poi, chi lo sente sco? Inoltre questo secondo me è uno svitato che, saputo che la casa si vende, sta cercando informazioni per un vero acquirente che vuole restare in incognito.
Qui a Napoli ci si arrangia come capita. E dunque questo agente di vendita creativo si dev’essere inventato una agenzia unipersonale stile tecnocasa. Un dandy mediatore. Perché di mediatori semplici ce n’è centinaia e invece questo qui è senza dubbio unico.
Il professor Lugli mi ha detto se ci vediamo a casa sua con Manuele oggi pomeriggio. Sento afrore di novità. (Sto implementando il mio italiano per il secondo quadrimestre, ma non sono certa che qui afrore si possa usare...).
IX. Verso cosa?
Dove la mamma di Costanza le invia una chiave d’oro e una lettera. Il prof parla del suo best-seller e di come la vita alle volte somigli ad un romanzo.
Mamma non scrive mai. Quando scrive è sempre per qualche problema. In genere pensiamo si tratti di uno scherzo, ma solo per qualche secondo. Poi, conoscendola, sappiamo che l’impossibile non esiste. Papà ha impostato sul telefonino la suoneria di Mission impossible che funziona apposta per quando chiama lei. Dicevo, mamma non scrive mai se non per un problema. Ma questa volta nella busta non c’era nessun problema, solo un biglietto affettuoso e una chiave. D’oro.
Cara Costanza, io sono davero dispiaciuta che papà’s zia andata. Io pensa anche con tutta mia honestà che papà’s zia non può lamentare perché sua vita sviluppata tanto come lei fosse elefante. Lei voleva me bene assai. Lei dicceva che me simpatica e che lei mai mangiato robe come i miei cucinarini. Mi dato questa bella chiave oro massoccio da conservare per te. Lei detto quello su chiave è motto per studio, e chiave molto cara a lei e deciso darela te quando lei andava, perché tu aveva chiave di suo cuore e poteva capire importanza di dono.
Meglio diceva lei se io dava chiave di persona. Ma io proprio adesso accado di avere problema con balene che hanno smarrito strada e ano proprio qui sotto di casa mia e si incagliano. Allora io che posso fare? Posso solo aiutare persone di Greenpeace che sta salvando balene e dunque io invio chiave attraverso di posta. Speriamo bene. Papà’s zia diceva sempre che io sciroccata, come vuol dire avere il vento nei capelli, cioè amare la natura, penso io (mi sembrava brutto chiedere spiegazione, e ora troppo tardi). Ma lei fidava di me. Lei manca tanto me. Disse pure quando ha dato chiave: Non permettete che con piccoli colpi cade grande quercia, ma piantate in giardino nuovi alberi con grande fondazione. Ora questa chiave è proprio in vero oro. Voi magari, se effettivamente posta arriva e chiave ancora in busta, potete fondere e fare magnifici orecchini a forma di albero, ma anche le balene sono belissime per orecchini, e in realtà quale animale non sarebbe bello?Forse uomo. Io non so. Vedi tu. Voi manca tanto me. Io quando balene finalmente si scagliano da loro incaglio parto per Artico, ma quando riscendo io telefona o magari fa sorpresa. Chi può dire? Un montarozzo di baci La vostra mamma
La chiave sembra antica. È pesante e ci sono delle iniziali sopra: S O e sotto, la parola Methodous. Metodo nello studio? Che mistero! Anche la storia della villa è un mistero: forse è stata ricavata dalla trasformazione di una costruzione precedente, che era stata tante cose, fra cui un convento. Dunque la chiave potrebbe essere appartenuta, per esempio, ad una certa Suor Orsola e magari la ammoniva ad avere metodo. Anche la mia
insegnante di italiano mi ammonisce sempre: «Costanza, tu non hai metodo! Nella vita senza organizzazione non si va da nessuna parte, tantomeno in seconda liceo!». Più che un ammonimento suona come una minaccia. Comunque sono andata da Annalaura e le ho mostrato la chiave. Lei l’ha guardata, ha detto che è meravigliosa e che posso tenerla io. Mi farà da stella polare in caso di momenti un po’ arruffati. Proprio così ha detto. Comunque adesso sono arrivata all’appuntamento dal professore. Manuele è già davanti al portone.
Il professore ha una casa molto disordinata e molto bella. Ci sono tantissimi libri ovunque, piante, stampe e quadri alle pareti. Sembra la casa di Mago Merlino nella Spada nella roccia. Ci sono un sacco di poltrone, cuscini, oggetti curiosi. Il professore, come un prestigiatore esperto, trasferisce sui quattro punti cardinali l’intera biblioteca alessandrina, ufficialmente scomparsa tanti secoli fa, nei fatti ricomposta qui, su un enorme tavolo in mogano scuro, coi volumi accatastati in pile altissime, assolutamente eccentriche, che svettano dalla tavola come i faraglioni di Capri. Una quantità di libri aperti sono sistemati negli spazi lasciati liberi. Qui le leggi della fisica, dello spazio e del tempo si sono dovute rassegnare. Anche la quarta dimensione è piena di atlanti, vocabolari, manuali, testi antichi. «Volete un tè?», chiede il professore, e mentre lo dice inciampa in un pattino e precipita su una poltrona, con le tazze miracolosamente ancora in mano, mentre non una sola goccia di tè si è versata. Probabilmente perché il tè è completamente nel suo stato di vapore, per il momento. Ci sediamo. Due enormi cuscini grigi si alzano pigramente e vengono ad annusare i biscotti. Certosini. Rimarranno immobili per tutta la storia. Più di un anno fa, Romeo, il gatto dei vicini, ufficialmente omosessuale, è venuto a curiosare. Tempo dopo, a conferma della legge universale, per cui ad ogni causa corrisponde un effetto, la certosina ha prodotto sei cuccioli. Che seguono il professore ovunque, infilandosi clandestinamente nella sua macchina. Il certosino non ha mai saputo della fugace e indimenticabile presenza di Romeo. Perché nel frattempo era uscito una
mezz’oretta a prendere aria, in seguito alla quale il professore ò quindici giorni con una tremenda orticaria, prima di arrivare alla conclusione più logica e chiamare la disinfestazione: su ogni molecola d’aria che il certosino aveva preso in quella mezz’ora d’ossigeno era infatti sospesa una pulce e come dice il mio professore di chimica: «Signorina Costanza, ma lei ha idea di quante molecole di gas possono entrare in un palloncino?». E poiché se A=B e B=C allora A=C, figuratevi la quantità di pulci che può contenere un divano a tre posti. Dunque ci sediamo a sorseggiare il tè e il professore ci spiega che sulla villa circolano un sacco di storie, ognuna diversa dall’altra. Per esempio si dice che fosse collegata attraverso un tunnel sotto il mare con i ruderi, ora sprofondati sott’acqua, di un’antica villa romana, che fosse stata un carcere o, secondo altri, la dimora di un principe impazzito per amore. O forse l’uno e l’altra. Che sotto ci sono delle grotte che ancora portano al mare. Che vi fecero il proprio nascondiglio dei pirati, che c’è un forziere d’oro. Forse degli smeraldi. Che durante la guerra è stata un nascondiglio segreto. Che da qualche parte c’è la mappa di un tesoro. Che alcune scolaresche si erano perse nei meandri delle grotte quando si pensava fosse una catacomba, per rispuntare dall’altra parte». «Beh, però!», ridiamo io e Manuele. «Beh,», ride a sua volta il professore, «ma lasciatemi finire…». «Potrei avere altri biscotti?…». «Insomma è vero che sono tutte sciocchezze, ma… ma… ma… Io una cartografia antica con un piccolo spunto l’ho trovata, nel corso dei miei studi». «Ooh!», diciamo noi. E intanto il professore, come un ambulante, ha tirato fuori una mappa e una lente d’ingrandimento. «Vedete», dice, «anch’io avevo pensato che fossero tutte sciocchezze. Senonché accadde un fatto strano. Sapendo che m’interessavo alle ville della zona e della loro storia, la zia di vostro padre pochi giorni prima di morire mi contattò per
parlarmi di antichi diari rinvenuti nella sua biblioteca, che appunto parlavano dell’antica Posillipo, e che volendo avrei potuto consultare. Mi parlò anche di una Bibbia antica a cui era molto affezionata, e che fossi andato a trovarla mi avrebbe mostrato. Mi fece un discorso molto involuto sull’importanza nelle ricerche del metodo…».
Il biscotto mi va di traverso. Che morte infelice! Strangolata da un Ghiottone al cioccolato. Il professore e Manuele già sono balzati in piedi per capovolgermi quando io indico la gola. «Troppo buoni! Si mangiano con troppa avidità! Non devo comprarli più!», dice il professore. «La chiave», dico tossendo. «Che chiave?». «La mia chiave…». Manuele e il professore si guardano. Io mi sfilo la collanina d’oro e mostro la chiave, con la scritta Methodus. «Ma sei matta ad andare in giro con una sleppa di questo genere? Oh, perdonate professore il termine poco ortodosso!» Il professore guarda la chiave con curiosità. «Molto interessante. Permetti che la esamini?». Prende la chiave e la guarda attentamente. «Come l’hai avuta?». «Mia madre. Me l’ha spedita qualche giorno fa dal Canada. L’ho ricevuta oggi. Gliel’aveva data la zia facendole promettere che alla sua dipartita mamma ce l’avrebbe data. Mamma mi ha mandato anche una lettera in cui mi spiega che la zia avrebbe
voluto che noi piantassimo degli alberi. Ma mamma capisce tutto secondo i suoi canali. Tu dici che ti piacciono i gatti e lei ti manda gli addetti del gattile comunale con la modulistica per farti aprire una colonia felina in giardino. Dunque chissà cosa le avrà detto la zia, magari: “Ricordatevi di potare la kenzia”, che aveva portato da un viaggio in Africa. Il professore rimane in silenzio a meditare. È molto buffo, così solenne, con una melanzana viola che gli spunta sul cucuzzolo. «Vi fa ancora tanto male?». «No, no, distrae dalla calvizie. È molto decorativo. Tutti mi guardano affascinati. Erano secoli che le donne non si giravano più a guardarmi. Ora capisco quella misteriosa abitudine di Carmen Miranda, la soubrette anni 50 di cui forse non avrete sentito parlare ma al tempo celebre, di addobbarsi con quegli enormi cesti di frutta che le troneggiavano sulla testa. Eppure lei era una gran donna, e non ne avrebbe avuto bisogno». «Certo ci vuole un’arte per farsi cadere un vaso in testa in una giornata senza un alito di vento…», osserva inopportunamente Manuele. «Farsi cadere?», chiedo. «Be’, se non c’era nessuno…». «Che vuol dire? Mica il professore ha fatto qualcosa perché il vaso gli cadesse in testa…», replico io. «Vorrei fare due osservazioni, se me lo concedete. Visto poi che si tratta della mia, di testa», interviene il professore. «Dunque, primo: forse c’era qualcuno. Secondo: forse io qualcosa ho fatto». «Lo vedi che era colpa sua?», dice Manuele «Con la mia presenza ho inavvertitamente disturbato qualcuno», spiega il professore.
«Lo vedi che non era colpevole?», ribatto. Di colpo io e Manuele rimaniamo senza parole. Poi diciamo come un sol uomo: «Porca miseria, professore!». «Eh, sì, porca miseria. Vedo grossi nuvoloni in arrivo. Speriamo di orizzontarci attraverso il percorso! Conviene navigare a vista prima di raggiungere il sudovest». «Perché proprio il sud ovest?». «Perché lì Posillipo degrada verso Coroglio, e l’ultimo tratto della strada di questa incantevole collina fu fatto costruire da Gioacchino Murat, re di Napoli e cognato di Napoleone, che qui si fece costruire una residenza sontuosa. A questo re, che alcuni idolatravano, altri odiavano, si ricollega in parte la storia della villa di vostra zia e i suoi misteri. Ricorderete, cari ragazzi, la celebre frase del film Il Gladiatore: “A un mio segnale, scatenate l’inferno!” È quello che involontariamente ho fatto. Voi sapete che ho scritto con lo pseudonimo di Luciano De Credenzo alcuni documentatissimi libri sulla storia della nostra bella città, che sono finiti a un tanto al chilo sulle bancarelle. Il mio editore mi fa: «Prufessò, scusate, ma le prossime pubblicazioni ve le dovete finanziare da solo, qua i vostri libri non si vedono manco per farci colle pagine i cuoppetelli delle allesse! (Cioè quei cartoccetti dove si mettono le castagne lesse che si comprano per strada)». Siccome taccio avvilito, l’editore si fa paterno (come faccia non si sa, visto che ha la metà dei miei anni). «Prufessò, non vi addolorate, la cultura non si vende, la gente “si scoccia”! Ma voi avete spirito, sapete scrivere: prendete esempio da Dumas, scrivete una storia di Posillipo, ma metteteci dentro una monaca ‘nu poco vivace (questo lo fece pure Don Alessandro), e infatti la monaca scostumata rialza tutto il tono del libro, che diciamolo, altrimenti sarebbe scucciantello pure lui... invece vende, vende ancora bene, perfino nelle scuole! E poi c’è l’amore contrastato, un rapimento, ‘nu mascalzone che si voleva “fare” la povera contadina, insomma voi pure potreste fare una cosa così ...».
«Don Adeli, ma ‘na cosa così è riuscita solo al Manzoni, e se ne parla ancora...». «Prufesso’ provateci almeno... se non finite nelle scuole mi contento che vendiamo duemila copie, che se restano invendute ve le dovete comprare voi!». «Ma voi pazziate...». Ma sapevo che Arnoldo Adeli non scherzava affatto, e io duemila copie, sia pure a metà prezzo, non avrei saputo dove metterle. Perciò mi toccava di scrivere un best-seller.
E best-seller fu. Cinquemila copie, firmate con uno pseudonimo, di cui oltre la metà vendute a Napoli! Figli miei, rapportato alla nostra città, sono stato il Maradona del romanzo storico. Ma a quel punto è scoppiato il finimondo... Scatenate l’inferno!». Manuele e io restiamo a bocca aperta. E noi che non ne sapevamo niente! «Li avete fatti separare! Geniale!», sbotto io, ammirata. «Ma chi?», chiede quello che ormai è anche per noi Don Luciano, perplesso. «Ma i promessi sposi!». «Picceré ma tu vuoi scherzare? Qua la cosa è seria...». E qui viene fuori la trama. Il professore situa il suo romanzo nel 1815, quando Gioacchino Murat, perso il Regno di Napoli, tradito da coloro nei quali aveva riposto la sua fiducia, tenta di raggiungere Parigi approdando ad Havre de Gràce, in cerca di finanziamenti e aiuti per riconquistare il regno perduto. Ma per le avverse condizioni del mare o del destino, la navicella manca il porto e si dirige quindi verso la Corsica, mentre Murat muta i suoi piani: da lì tenterà comunque la riconquista del regno, anche se è incerto sul punto ove sbarcare, forse Salerno, dove una gran parte dell’esercito gli è ancora fedele. Anche a Napoli l’ex re ha lasciato molti sostenitori, che tra grandi pericoli e in gran fretta riescono a raccogliere una somma enorme in oro e gioielli per finanziare il suo ritorno. Incaricato di
raggiungere Gioacchino e consegnargli il tesoro è un nobile napoletano, che cercherà di imbarcarsi di notte su un legno pirata per raggiungere l’ex re e portare a termine la sua missione. Ma il giovane sarà tradito e scomparirà in circostanze misteriose, e insieme a lui scomparirà il tesoro. «Scusate, professore, ma questo che c’azzecca con la villa che abbiamo ereditato noi?». «C’azzecca, dice il professore con un sospiro. Primo, perché per pura incoscienza ho scelto la villa come scenario della sparizione, e il posto è riconoscibilissimo: secondo, per un articolo sul Mattino di Napoli di uno storico illustre, il professor Lucio Cuottolo, col titolo: Un mistero napoletano. L’articolo comincia più o meno così: In quali carte segrete si è imbattuto Luciano De Credenzo nel documentarsi per il suo romanzo, che finalmente getta luce su uno dei più inquietanti misteri degli inizi dell’ottocento, la sparizione di Don Fabrizio Casacara, ultimo erede di una stirpe...». «Ma voi, professore, che ne sapevate di Don Fabrizio?», chiede Manuele, che poi è la domanda che avrei voluto fare io. «Niente! Solo che la mia lepre si è messa a correre a ritroso!» Lo sapevo. Uno non può prendersi un vaso, sia pure di plastica, in testa e non dare prima o poi segni di squilibrio. Invece lui spiega: «La lepre corre più veloce del fato, dicevano gli antichi, per leggere il futuro. La mia lepre è corsa indietro nel tempo, e ha letto il ato. La realtà supera a tal punto la fantasia, che mi chiedo se non sia stato Raimondo stesso, o meglio Fabrizio, a volermi suggerire la verità». «Professore, non tirate fuori altre lepri dal cilindro: mò chi è ‘sto Raimondo?», gli chiedo. «Raimondo è il nome del protagonista del mio romanzo, che nella realtà si chiamava Fabrizio, ed è scomparso misteriosamente proprio a Posillipo, più o meno dove sorge la villa, con il tesoro destinato a Murat». «Non è possibile!», esclamiamo insieme io e Manuele.
«Infatti è questo che stavo scrivendo in un articolo destinato al giornale: tutto era nato dalla mia fantasia. Ma la lettera fu interrotta da una telefonata: era vostra zia Amalia, sconvolta, che dopo aver letto l’articolo aveva contattato il mio editore, riuscendo a farsi dare il mio numero di telefono, e che mi chiedeva di andare subito da lei. Prima non vi ho detto tutta la verità, ma fu in quell’ occasione che la conobbi». «Dunque conoscevate la villa, professore. Perché non dirmelo quando mi avete proposto di accompagnarmi?», chiedo dispiaciuta.
«Una curiosità morbosa si è sviluppata intorno a questa vecchia storia: non sono pochi quelli che vorrebbero mettere le mani su un tesoro che certo varrebbe almeno il triplo della casa. Poi c’è il solito contorno di avventurieri, pazzi, maniaci, presunti aventi diritto, e chi più ne ha più ne metta... Non conoscevo Manuele, non sapevo in chi ti saresti imbattuta. Insomma per ora volevo accompagnarti, e scegliere il momento per raccontarti di avere conosciuto tua zia prima che morisse, e anche questi fatti straordinari. E non siamo che all’inizio del mistero, che ancora è insoluto, anche se, con l’aiuto di Donna Amalia...».
X. Ritorno al ato
Dove la contessa Riccobono fa leggere al professore dei diari. Don Fabrizio, si innamora di Rachele. Un tesoro viene nascosto in una galleria segreta sotto i sotterranei della villa. Rachele riceve una Bibbia con una strana dedica e una chiave d’oro. I lettori e donna Amalia vogliono saperne di più.
«La prima sorpresa», spiegò il professore, «me la dette la villa, che più che villa è un palazzetto sul mare: per quanto mi fossi documentato, mai avrei immaginato una tale corrispondenza tra realtà e fantasia, giacché entrando in quella casa sembrava che il tempo si fosse fermato ad almeno duecento anni prima. Ci arrivai al tramonto, e quella specie di fortezza sul mare violaceo, che si infrangeva sulla scogliera a pochi metri sotto di noi, circondata dal volo dei gabbiani di cui sentivo i richiami aspri e selvaggi, mi fece una grandissima impressione. La luce declinava, e la figura seduta contro il riquadro della finestra che incorniciava il golfo sembrava anch’essa fare parte di un ato altrove dimenticato, ma tra quelle mura vivo e presente, come se il tempo fosse sospeso. Fu lei la seconda sorpresa: non la donna fragile che mi ero aspettato, considerando la sua età e il poco che ne sapevo, ma un’anima vibrante e una mente prodigiosamente lucida. «Vi prego», disse senza preamboli, «ditemi tutto quello che avete scoperto su Fabrizio e Rachele, che nel vostro romanzo chiamate Raimondo e Rebecca. Ho trovato delle carte di Rachele D’Arcos, una mia antenata, la cui madre Tullia aveva sposato un capitano poi fucilato dai si, che era proprietario di questa
villa. Secondo Rachele i suoi parenti non avevano mosso un dito per salvare il padre, e perciò lei aveva interrotto i rapporti con la famiglia materna; ma estinta la famiglia D’Arcos e morta nubile e senza eredi Rachele, la villa andò a suo cugino Gesualdo, nonno di mio padre Enrico». Invano le spiegai che quanto avevo scritto nel romanzo era solo frutto della mia fantasia. «Voi non vi fidate di me», disse amara. «Io invece mi fiderò di voi. Non ho tanto tempo, e come Rachele vorrei sapere finalmente la verità. Non posso permettere che quanto è in mio possesso lasci queste mura, ma se domani tornerete vi consegnerò un tassello della storia che di certo non potrete conoscere: i diari di Rachele, che purtroppo s’interrompono nel 1815». La fiamma che sembrava averla animata parve affievolirsi. Si abbandonò sulla poltrona, esausta. «Venite nel pomeriggio», aggiunse, «e restate fino a sera. Starete in biblioteca, indisturbato, e non credo che vi pentirete di quelle ore ate a conoscere Rachele. La conoscerete intimamente, giacché vi svelerà il suo cuore». La sera era calata rapidamente e le ombre avevano invaso il salone. La mia strana ospite agitò un camlo e un cameriere in livrea venne ad accompagnarmi. Mi faceva luce con un candeliere. Ero sempre più turbato. Chiesi esitante se ci fosse la luce elettrica. Il cameriere rispose di sì, ma donna Amalia soffriva la luce intensa, preferiva il tremulo chiarore delle candele. Quando uscii all’aperto, nel viale costeggiato dai pini si accesero i lampioni. Ero sorpreso, scosso, e già innamorato della misteriosa Rachele». Il professore toglie dalle tasche alcuni fogli ripiegati: alcuni brani salienti del diario di quella giovane donna vissuta duecento anni fa, che ha accuratamente ricopiato, e dei quali alternerà la lettura al suo racconto.
Napoli, 23 settembre 1815
Vivo appartata in questa villa che si affaccia sul mare, nella preghiera e nel timore di Dio. Gli avvenimenti tumultuosi che travagliano la mia amata Napoli restano al di fuori del muraglione che protegge la mia solitudine, servita dai quei pochi rimasti fedeli alla mia casa dopo l’ingiusta condanna a morte, da parte d’una commissione militare, di mio padre, generale, che aveva parteggiato per i Borboni nei fatti degli Abruzzi, col pretesto d’aver sommosso i popoli alle spalle dell’esercito se. In questi caroselli che si susseguono nel nostro povero regno un eroe di oggi è il traditore di domani, ma tuttavia il ritorno di Ferdinando ridà lustro alla nostra casata, di cui non resto che io, alla quale almeno sono stati restituiti i beni ingiustamente confiscati. Schiva di natura, delusa dal mondo, vivo come una volontaria reclusa, e da anni neppure esco più. So che alcuni dicono che io per il dolore abbia smarrito il senno, altri che mi sia monacata, e non ho ancora trent’anni. Quelli che dopo avermi voltato le spalle al tempo della mia disgrazia si son rifatti vivi hanno trovato un muro: di pietre, e di silenzio. Ma voci concitate iersera nell’atrio mi persuasero ad affacciarmi e ricevere la giovane che con tanta veemenza chiedeva di me. La introdussi io stessa nelle mie stanze e rimasi stupefatta nel riconoscere nella mia agitata ospite, modestamente vestita, la mia splendida e superba vicina Anna di Caravite-Belfiore, famosa per le sue feste e per la sua frivolezza. Ma la donna che mi parlava non somigliava affatto alla sua fama. Ecco quel che mi ha detto: «Poche parole, contessa. Ho approfittato della confusione che regna a casa mia per venire da voi travestita da serva. Vi metto la mia vita tra le mani, e quella d’un giovane nobile e di alti ideali. Vostro padre ha pagata cara la sua fedeltà, ma voi non avete pronunciato nessun giuramento. Potete giudicare voi stessa il comportamento del Borbone, che tanto ha indignato gran parte di noi napoletani, che nutriamo il sogno di un’Italia unita». Le risposi che non m’interessavo più delle cose del mondo, ed ella disse: «Dovete, perché del mondo fate parte. Voi non potete amare i si, ma Gioacchino è stato un gran re, e molto speriamo ancora da lui, nonostante tanti lo dipingano come un ambizioso, se non un traditore. Egli, se, dai si s’è distaccato per amore della nostra bella patria, da cui odio ed intrighi l’hanno scacciato. Ma noi contiamo sul suo ritorno mentre egli esule, ramingo e privo di mezzi, non cerca che la strada che lo riporti qui. Si è raccolto un vero tesoro per finanziarlo, e a consegnaglielo sfuggendo alla vigilanza de’ Borboni s’era designato Don Fabrizio Casacara, per la fede che i suoi professavano da sempre a Ferdinando, laddove nascostamente Fabrizio nutriva
altri ideali, come li nutro anche io, e mio padre prima di me. Dunque dal mio palazzo, sul mare come il vostro, nottetempo Fabrizio sarebbe stato imbarcato su un peschereccio, per essere trasbordato poi su una veloce goletta che lo portasse a destinazione. Il tesoro fu trasportato giorni addietro nella cappella del nostro palazzo, ed ivi tumulato dietro una lapide non ancora murata, fingendo si trattasse delle spoglie d’un fanciullo della mia famiglia morto di difterite: e chi avrebbe voluto aprire una tal cassa? Quanto a Fabrizio, per sfortuna riconosciuto per la via di Posillipo da un nostro famiglio, l’ho nascosto io stessa nelle mie stanze. Ora, per una circostanza grottesca, mio marito, tornato stasera anzitempo dalla caccia, l’ha sorpreso nel mio appartamento intravedendolo appena, senza riconoscerlo, e l’ha ferito con un colpo d’archibugio, scambiandolo per un mio amante. Fabrizio si è gettato in mare, dove è stato soccorso da un pescatore. È febbricitante, in delirio. È in corso una caccia all’uomo, e il pescatore e la sua barca, protetti dall’ombra stessa del palazzo, hanno trovato rifugio proprio a pochi metri da qui, nell’accesso dal mare alla vostra villa.» Ascoltavo sbigottita il racconto, replicando poi con durezza: «Nulla posso fare per voi. E anche se volessi, cosa potrei? Questo è il primo luogo dove verrebbero a cercarlo, a due i da casa vostra, e mi sorprende che abbiate l’ardire di chiedermi una simile cosa!». Questa donna ama Fabrizio? Mi si è gettata ai piedi: «Tutti vi sanno lontana dalle beghe politiche, e nemica acerrima dei si. Ma questo neppure servirà, giacché è solo l’amante d’una donna sventata che cercano. Nessuno ha visto la barca, né sa chi sia l’ombra che si è gettata nel mare. Potrebbe essersi sfracellato sugli scogli, e il corpo portato via dalla corrente. Vi basterà dire con sdegno che nulla sapete, e pretendere un ordine preciso per una perquisizione. Mio marito teme uno scandalo, che lo renderebbe ridicolo; inoltre il patrimonio di famiglia mi appartiene, lui non fa che amministrarlo. Con che pretesto rivolgersi alle autorità? Vi prego, salvate Fabrizio». E aggiunge, sottovoce: «Salvate il regno». Sotto i miei occhi affascinati, il diario di Rachele mi narrava la storia che io avevo solo immaginato, ma che acquistava in quelle righe eleganti lo spessore
della realtà. La grande biblioteca intorno a me non esisteva più, mentre l’impavida autrice del diario decideva di salvare una vita umana, «come avrei voluto che qualcuno, al di là degli odii e delle fazioni, salvasse quella di mio padre». La villa aveva un accesso segreto dal mare ad una grotta all’interno della montagna, e da lì si dipartiva un complicato labirinto di cunicoli, che portava fino all’altro versante della collina. In che modo questo fosse possibile non lo si era mai potuto scoprire, né in qual modo fosse ventilata la principale delle gallerie: eppure quelle strade nascoste erano state percorse da truppe di antichi nemici, che da lì erano penetrati nella città che resisteva all’assedio, e nel tempo erano state covo di congiurati, pirati e contrabbandieri, di chiunque insomma avesse buoni motivi per nascondersi. Una frana ne precludeva l’accesso dalla villa, ma non dal mare, che lì inoltrandosi nelle caverne marine produceva un lamento agghiacciante, da cui la leggenda d’un mostro marino che fe la guardia a un tesoro sepolto. Ma così orrido era l’accesso a quelle caverne che chi vi s’inoltrava doveva davvero avere un ottimo motivo. Fabrizio aveva cinque giorni a disposizione per raggiungere Murat, che nulla sapeva di quell’audace impresa, e che contava di ripartire al più tardi il 28 dalla Corsica, diretto verso le coste italiane. Tutto era stato predisposto a compartimenti stagni perché ciascuno degli organizzatori potesse risalire solo al suo referente, in modo che in caso di cattura non mettesse in pericolo gli altri. Ma la zona era presidiata dagli uomini del marchese di Caravite-Belfiore, e troppo strano sarebbe stato che la contessa Rachele si recasse a visitare qualcuno senza destare sospetti, vista la sua reclusione volontaria, se non per un motivo eccezionale. E Fabrizio, ricordiamolo, era stato visto a Posillipo, laddove aveva detto che si sarebbe recato da parenti in Sicilia. È chiaro che Fabrizio, ferito, non è in grado né di partire né di far avere notizie di sé: ma soprattutto non può avvertire che il tesoro è momentaneamente al sicuro. Cercherà, appena potrà, di raggiungere comunque Murat, prima che costui, disperato e senza uomini o quasi, finisca per andare incontro a morte certa. Rachele si rifiuta di far portare nei cunicoli sotterranei il giovane Fabrizio, al buio, alla mercé di animali disgustosi, in condizioni igieniche e di umidità tali che avrebbero stroncato rapidamente la sua pur forte fibra. Lo nasconde in una stanza segreta, che usava da bambina nei suoi giochi solitari, e che si trova celata da una parete in una torretta. Lo assiste personalmente, e se ne innamora.
Napoli, 25 settembre1815.
Poco incline al sentimentale, ho sempre riso delle lusinghiere parole dei miei pretendenti: “Dal primo momento che vi ho vista...”. Ed ora sono qui, a vegliare questo giovane che fino a due giorni fa neppure conoscevo, e tutta la mia vita, tutta, è legata al ritmo di quel respiro. Dal primo momento che l’ho visto, ferito, semi-incosciente, ho amato quest’uomo. L’ho amato in un modo che me ne duole il cuore, il seno, il ventre. Darei la mia vita per lui, e il resto gli appartiene già. Non conosco né giorno né notte per essergli accanto, per custodire il suo sonno, per sfiorarne con le labbra la fronte imperlata di sudore. Nulla di lui mi sorprende, né mi ripugna: io, io sola lo curo, lo assisto, lo soccorro anche nelle miserie del corpo, come farei con un bimbo. Mi sorprendo a stupirmi di come possa essere bello un corpo maschile, che un tempo mi ispirava disgusto, e che ora non mi sazio d’ammirare. E mentre contemplo quel viso che adoro, apre gli occhi, che sono azzurri come il mare di Posillipo. Sorride, e so che sono perduta per sempre.
Caspiterina, alla faccia di quella che si doveva monacare! Va detto che, a giudicare dai ritratti, Rachele era bellissima, e credo che chiunque non ne avrebbe disdegnato le cure, materne o meno. Beninteso, faccio il cinico per non commuovermi, quale uomo non si commuoverebbe? Fabrizio però mica è tanto originale: infatti che dice, aprendo gli occhi? «Dunque son morto, giacché mi soccorre un angelo». E lei? Che dice lei? Anzi, che scrive? «Lui mi ha preso la mano nella sua, e mi venne spontaneo confessargli che non credevo che bastasse il mondo a contenere la mia infelicità e che ora tutta la felicità del mondo era nella stretta della sua mano». Però. Eccoli, pazzi l’uno dell’altra, soli nell’azzurro d’una torre fra cielo e mare. Fabrizio è ferito al torace, una ferita di striscio, ma tuttavia dolorosa, che gli ha procurato per tre giorni la febbre e che lo rende debole. Ma, miracoli dell’amore,
il 30 settembre Rachele scrive: «Sono sua». E che altro doveva dire? Più chiaro di così... Un po’ precipitosi, perché di nuovo Fabrizio peggiora, Rachele paventa «di morire con lui» ma tranquilli, alla infine «la sua forte fibra trionfa». Intanto non c’è pace tra gli ulivi, anzi fra i pini di Posillipo. Vengono arrestati e processati dei pescatori per contrabbando d’armi, e non finisce bene: non solo, ma a questo punto la costa è pattugliata più che mai dalla polizia borbonica. Si cercano armi nascoste ovunque, e uno degli stallieri dei Caravite-Belfiore, che non si sa come ha dato una mano quando la cassa con le verghe d’oro è stata tirata giù dal carro, ha ventilato a un servitore, che l’ha riportato alla contessa Anna, l’ipotesi che qualche malintenzionato avesse sostituito al corpo del povero bambino (mai esistito, come sappiamo), un carico d’armi, all’insaputa del conte, in attesa di trasferirlo altrove, visto il gran peso della stessa. La contessa a quel punto fa sapere a Rachele che urge che la cassa venga tolta dalla cappella: manderà per precauzione lo stalliere in campagna, ma le chiede di fare in fretta, perché lei è sorvegliata a vista. Manda una copia delle chiavi della cappella, perché provveda nottetempo a far spostare da gente di sua assoluta fiducia, e i suoi servitori lo sono, il tesoro da lì. E così siamo arrivati al ventotto settembre, ed è già tardi: Gioacchino lascia la Corsica con poche navi, s’imbatte in una serie di tempeste che lo terranno per ben sei giorni in mare, al termine dei quali giungerà nel golfo di Santa Eufemia, con un’altra sua nave; due invece sono in vista di Policastro, la quinta in Sicilia e la sesta smarrita. Rachele intanto non si fida neppure dei suoi servitori. Le occorre un uomo coraggioso, audace, all’occorrenza senza scrupoli. Le occorre un uomo come Bastìa, che suo padre aveva tratto dalla condizione infamante di pirata, e che alla morte del generale era tornato a una vita di rapine sul mare. Ella nel suo diario lo chiama Il Maltese, e si capisce che lo teme, come una belva addomesticata, ma pur sempre infida e feroce. Il tramite tra i due è un personaggio insospettabile, Don Fedele, il parroco di un rione di pescatori, che ne raccoglie gli orfani e li educa in un modesto ricovero, che Rachele largamente sovvenziona. Siamo ormai al tre ottobre, e solo tre giorni dopo Bastìa raggiunge di nascosto Rachele. Nessuno sospetta che vi sia alcun rapporto tra la timorata nobildonna e
il feroce pirata. Ma, per colmo di sventura, uno dei contrabbandieri d’armi ha parlato. Non si sa come, non si sa perché, salta fuori il nome di Don Fabrizio, che con la storia delle armi antiborboniche non c’entrava quasi per nulla, anche se era indubbiamente legato a un ambiente di cospiratori. Ed ecco che il famiglio, interrogato, ricorda: non diretto in Sicilia, ma a Posillipo si trovava Don Fabrizio... Arriviamo al fatale otto ottobre: Gioacchino sbarca a Pizzo Calabro con un manipolo di fedeli. La popolazione non si solleva a suo favore, come aveva sperato. Mentre marcia verso Monteleone viene arrestato, per essere giudicato da un tribunale militare. La sentenza è di morte. Viene fucilato quattro giorni dopo, il dodici, morendo da eroe ed entrando nella leggenda. Don Fabrizio non è riuscito a cambiare il cammino della storia. Occorre che sparisca, e per il momento con lui anche il tesoro. Ecco quello che scrive Rachele:
«Bastìa Taveroque somiglia ad una belva. Credo che si possa definire un uomo molto bello, ma la sua natura selvaggia brilla negli occhi felini, nella risata crudele, in tutta la sua persona agile e scattante, che sembra contenere una forza inquietante, a stento tenuta a freno dai suoi modi, che sono quelli di un principe, il che lo rende ancora più temibile, e più sorprendenti certi suoi scatti brutali, che mai ha osato con me. Mi ascolta in silenzio, accetta di recuperare il tesoro, e di condurre in salvo Fabrizio, attraverso il aggio segreto. Lì seppelliranno nuovamente la cassa, e stavolta Fabrizio s’imbarcherà davvero, su una nave pirata di Bastìa. Diretto dove? Meglio per me non saperlo per ora. Più tardi potrò fare i miei piani, e raggiungerlo. «Sarete una donna ricchissima», mi ha detto Bastìa. Lo guardo sdegnata: «E voi, Bastìa? Cosa mi rende così temeraria se non la disperazione da affidare alla volpe la mia uva? Anche voi, potreste uccidere Fabrizio, prendere il tesoro e sparire».
Ride come un tartaro pazzo: «Io costo caro, ma ho un mio codice d’onore. Se non lo capite, se non vi fidate, sbrigatevela da voi». Gli ho detto di sapere quanto doveva a mio padre. Ha riso di nuovo: «A lui, signora, ma nulla a voi». «La vita di Don Fabrizio non ha prezzo. Ricordate che il tesoro non ci appartiene. Chiedetemi dunque la somma che vorrete, ma lasciatemi di che vivere». Per tutta risposta egli mi afferra, baciandomi ferocemente, giacché tale è la sua foga che mi ferisce le labbra. Mi dibatto, respingendolo, ed egli si blocca all’improvviso, gelido: «Chiedetemi perdono, e baciatemi. Baciatemi come baciate Don Fabrizio». «Ma io non vi amo!», gli grido sdegnata. «Il problema è vostro. Mi pareva che voleste salvare il vostro amico». Ho baciato Bastìa, ed egli mi ha messo una mano sul seno. Stavolta non mi ha fatto male, anzi mi pareva che ci fosse in quel bacio una calcolata dolcezza, come mirasse a rassicurarmi, o peggio a turbarmi. «Mi volete adesso?», gli chiedo gelida. «No, devo provvedere a faccende più importanti, ora. E voi non mi volete abbastanza.»
Il diario prosegue col racconto dell’addio straziante a Don Fabrizio, dopo che Bastìa coi suoi uomini ha recuperato la cassa dalla cappella. L’entrata del cunicolo è raggiungibile in barca, di notte, e dunque Rachele lo accompagnerà fino alla scala di pietra che conduce alla grotta, poi tornerà nella sua stanza a
pregare. Fabrizio le dà un ultimo, disperato bacio e scende le scale che lo condurranno alla barca senza voltarsi. A sorpresa Bastìa, che lo segue, risale due o tre gradini, raggiunge Rachele che gli volta le spalle, la fa girare stringendola contro di sé e le dà un bacio diverso, disperato anch’esso, apionato quanto quello di Don Fabrizio. Rachele per molto tempo non vedrà più nessuno dei due, né riuscirà a saperne più nulla; impazzita dal dolore, si ridurrà l’ombra di se stessa, finché dopo quasi un anno riceve da don Fedele una Bibbia, con una strana dedica, contenuta in un plico a suo nome. Lo consegna al prete un uomo che don Fedele sa che è uno dei pirati di Bastìa. Don Fedele lo interroga, ma il pirata non parla. A gesti, gli fa capire che è muto.
Qui si conclude la parte di mistero che il diario svela. Nel mio romanzo Fabrizio, che io chiamo Raimondo, scompare fuggendo nei cunicoli, dopo aver sepolto il tesoro. La mia immaginazione si è fermata lì, un po’ perché avevo scritto 350 pagine e non sapevo più cosa inventarmi, ma anche perché se avessi avuto qualche idea potevo scrivere il seguito in un secondo libro, chiamandolo magari Il ritorno di Don Raimondo. La chiusura del romanzo senza uno scioglimento del mistero non ha appagato la curiosità dei lettori, e soprattutto non quella di Donna Amalia, così simile a Rachele, che sembra collegare al destino della sua antenata il senso della propria vita.
Il professore tace, e noi altrettanto, troppo sbalorditi e affascinati per dire alcunché. Eccoci trascinati, senza sapere come, nel vortice di un mistero, che in qualche modo coinvolge anche noi!
XI. Rodolfo
Dove la signora Giuditta mamma di Mariuolino e dirimpettaia della villa, vede col binocolo Annalaura e Rodolfo. La cuoca, senza binocolo, vede dalla cucina la stessa scena. La signora Giuditta si alza: «Scusate, continuate voi. Io vado a vedere che fine ha fatto Rita. Non vorrei che si fosse addormentata sulla teiera». Lascia il suo ventaglio di carte coperte sul tavolo e porta con sé quello di pizzo bianco, che le ha regalato sua figlia di ritorno dall’ultimo viaggio a Madrid. L’elegante appartamento della signora Giuditta Amandoli in Talarei (mamma di Mariuolino) e del consorte Giovanni è in un bel palazzo antico che si trova non troppo distante dalla villa, precisamente, guardando dal mare, sul lato sinistro, mentre dall’altro lato, appena più lontano, c’è l’ex palazzo Caravite-Belfiore, ormai ridotto quasi a un rudere, e del quale le beghe trentennali degli eredi hanno reso finora impossibile la vendita. Le vicende della villa vicina, quasi un palazzetto anch’essa, che Donna Amalia Riccobono pare abbia lasciato a una nipote, sono state lungamente sviscerate nelle prime due ore della seduta di burraco. Ora, ando per la veranda che porta alla cucina, la signora Giuditta lancia un’occhiata frettolosa alla finestra. Sono le sei e mezzo del pomeriggio. Le finestre della villa sono spalancate e benché sia ancora abbastanza chiaro, le luci sono accese. La signora Giuditta si ferma un attimo. Qualcuno sta nella biblioteca: due persone, di cui una sembrerebbe l’erede, la nipote più grande della povera Donna Amalia. Le nipoti sono due, gliele ha indicate Rita stamattina mentre tornavano dal fare la spesa: Rita è la ragazza che l’aiuta in casa, a lei l’ha detto il salumiere, che le fa la corte, e che sa i fatti
proprio di tutti. Ma chi è il giovane uomo che sta in biblioteca con la ragazza? La signora Giuditta si infila gli occhiali di tartaruga a forma di farfalla, tempestati di strass, un genere che era andato tanto di moda quando era ragazza e che lei ha continuato a comprare con una puntualità quinquennale per tutto il decorso della sua presbiopia fino ad oggi. «Signora Talarei», le dice da venticinque anni l’ottico di via Martucci, «che piacere vedervi! Siete sempre uguale! Per voi il tempo non a! In che cosa posso servirvi?», e tira fuori un’intera collezione di farfalle con le ali trasparenti bordate di tartaruga, suggerendo tentatore: «E questi, così frou frou?». Effettivamente per la signora Giuditta il tempo non a mai. Suo marito è buono e paziente. Un uomo buono e paziente di un tedio assoluto. Lei si organizza come può con le partite di burraco, le visite del giovedì, l’appuntamento della messa la domenica mattina, e da qualche anno, le cene dalla cugina rappacificata. Coi nipoti si vede meno. La signora Giuditta non è molto incline a ricevere la figliolanza altrui: ha accumulato negli anni una preziosa collezione di contadinelle di ceramica di Capodimonte, piccoli cigni di cristallo, merletti antichi. Rita, che l’aiuta a spolverare il giovedì mattina, sposta ogni volta circa quattrocento piccoli pezzi, sistemati in vetrinette, tavolini bassi, console. Ora la signora Giuditta inforca gli occhiali e sposta leggermente le pesanti tende di broccato verde salvia: «Che bella coppia! Ma lui! Cos’è di prestante! Un divo del cinema!». Stanno guardando i libri. «Santo Cielo», pensa la signora, «questi giovani d’oggi. Con tutto quel ben di Dio guardano i libri… Ah, ai miei tempi…». E ora che fanno? Spostano una lampada.
Poi si siedono alla scrivania, l’uno da una parte e l’altro dall’altra. Elegantissimi. Composti. «Ma lui! Che tocco di figliolo!». Suo marito in gioventù è stato un tipo del genere. Lei lo aveva soffiato ad una cugina tanto a modo. La signora Giuditta scansa con la mano i ricordi e in punta di piedi va a prendere, nel suo piccolo scrittoio in camera, il binocolo che usa a teatro. Fa più in fretta che può. Vuole cercare di capire se stanno leggendo per esempio un testamento olografo ritrovato per caso che cambierà le carte in tavola, o magari una lettera scritta di suo pugno dalla povera signora Riccobono. Inforca il binocolo sugli occhiali a farfalla e vede un gluteo sodo e virile che si muove con grazia e ritmo. Non ha fatto abbastanza in fretta e ora si è persa un aggio. La signora Giuditta ha un tuffo al cuore, ricordando all’improvviso di quando è stata ragazza. Suo marito, non ancora insignito di tale onorificenza, era allora sotto il servizio militare. Era tornato a Napoli per un breve congedo. Veniva a trovare la cugina di Giuditta, alla quale sembrava molto interessato. Un sabato aveva portato anche un amico e così l’invito per un gelato sulla Riviera era stato esteso anche a lei. C’era la festa di Piedigrotta e i genitori di Giuditta avevano organizzato un buffet nel giardino di casa per riunirsi con gli amici. Giovanni, cioè il signor Talarei, la cugina e l’amico erano stati invitati alla festa. Quando la festa finì, l’allor giovane Giovanni riaccompagnò la sua quasi fidanzata a casa scortato dalla di lei sorella, mise l’amico sul treno e tornò a tirare dei sassolini alla finestra della camera da letto di Giuditta. Ah, la gioventù! La signora Giuditta dice sempre: «Chi ha tempo non aspetti tempo».
E quando fa le cose le fa sul serio: Clarissa e Matilde. Al primo colpo. La cugina, invitata, non senza un certo comprensibile e colpevole imbarazzo, alla cerimonia non venne. «Che strano!», osservavano gli invitati sorpresi, «erano tanto affiatate… Due anime gemelle. Condividevano tutto. Si vestivano perfino nello stesso modo. Possibile che Livia sia gelosa che la cugina si sposa per prima? Aveva sempre detto che le avrebbe fatto da testimone!». Ma c’era stato pure qualche mormorio malevolo, da parte di qualche invidiosa insinuatrice: «Quella sfacciata! Pure l’abito bianco!». Al ricordo di quella giornata la signora Giuditta ancora sorride. Perché il consorte è tanto noioso ma lei, inspiegabilmente, lo ama ancora come allora. I glutei del ragazzo di fronte non hanno nulla di meno di quelli del signor Talarei da ragazzo. Adesso i due hanno ruotato su se stessi, come in un valzer. Però! Anche la ragazza è molto graziosa. E decisamente portata. Sembra condurre lei la danza. Lo fa sedere sulla scrivania. Più esattamente lo travolge sbattendolo con vigore sulla scrivania e lo circonda con le gambe e le braccia. Giuditta vorrebbe vedere i loro volti, vorrebbe saperne di più. Ma la lampada cadendo si spegne, la sera è calata e solo due sagome rimangono a ondeggiare nell’oscurità. La signora Giuditta fa sparire il binocolo nella tasca dell’ampio abito fiorito, si toglie gli occhiali a farfalla e va in cucina. Trova Rita in finestra, mentre l’acqua per il tè è ormai evaporata. Nell’aria vespertina che sembra di cristallo si sente una specie di grido melodioso, come se qualcuno dalla costa stesse chiamando, un canto da sirena. Una sirena molto molto felice. Rita si gira di colpo, benché Giuditta sia entrata
in punta di piedi. «Ma chi chiamano? Rainulfo?», chiede Rita, grande lettrice di libri d’amore. «Rodolfo. Sembrerebbe Rodolfo. E del Resto Rainulfo è ormai un nome un po’ desueto», risponde Giuditta, gran lettrice di libri storici. Beati loro, dicono Rita e Giuditta in coro, due mondi incompatibili che l’afflato d’amore per un breve attimo ha unito al di là delle rivendicazioni salariali e dell’eterna diatriba sull’uso del mocho vileda o dello straccio grigio dei buoni tempi andati. Eppure, le generazioni si avvicendano, occhiali a farfalla vengono sostituiti senza rimorsi da enormi occhiali a formica, (e poi parliamo di progresso!), ma in fondo l’essere umano non è troppo cambiato dall’età della pietra.
Rodolfo tossisce, si sistema i capelli. Annalaura, nuda, in maniera assolutamente incongrua tenta di chiudere la collana di perle che le ha regalato sua madre tanto tempo fa. (Quando sarai grande farai uno vero figurone con questa su tuo bel collo di cigno, non ti servirà altro per essere davvero elegante). Per interrompere l’imbarazzo decide di dargli le spalle e, alzati i capelli dice: «Potresti chiuderla per favore?». È una mossa sbagliata. O forse la mossa giusta. Annalaura lì per lì non sa dirlo. Comunque questa volta almeno l’iniziativa l’ha presa lui. Annalaura non sa che cosa le sia successo. Le prime avvisaglie le ha avute quando lui l’ha preceduta per le scale. Lo ha raggiunto e gli ha sfiorato i capelli. «Ho qualcosa in testa?». «Niente, solo un ragnetto!».
«Allora sono soldi!». Per fortuna la precedeva e dunque non ha visto né lo sguardo di Annalaura, né il rossore imbarazzante che dalle guance si è sparso in direzione delle orecchie e del collo, fin sotto la scollatura del bel vestito chiaro. Poi sono entrati nella biblioteca. E di nuovo lui le ha dato le spalle. Lei all’improvviso gli ha abbracciato la vita. «Scusa, non avevo visto il tappeto». Lui si è girato a guardarla. C’è stato un attimo di silenzio. Perché Rodolfo si trova molto vicino, i loro occhi sono a circa cinque centimetri di distanza, ma lui non si è allontanato. È rimasto a frugare nell’anima di Annalaura. Effettivamente Rodolfo sta pensando se lasciare a lei la prima mossa, tanto ormai è chiaro che Annalaura sta capitolando, o cavallerescamente fingere di prendere lui l’iniziativa. Ma non ne ha avuto il tempo. Meglio così, pensa Rodolfo. Un giorno, chissà dove situato nel tempo, quando lei avesse recriminato sulla posizione della loro nuova casa, o sull’educazione impartita ai figli o sulla loro vita sociale, avrebbe sempre potuto dire che lui è solo un soldato che esegue gli ordini. E che le vere scelte le ha sempre fatte lei.
Annalaura finalmente si veste. «Scusa. Naturalmente siamo stati travolti da questa cosa magnifica… di cui non mi pento affatto… e come potrei?… Ma lo capisci che non si può fare… Tu baci magnificamente e anche tutto il resto…». «Naturalmente non si può fare». «No». «E infatti noi non l’abbiamo fatto».
«Come sarebbe scusa?». «Be’, non è successo niente». «Ma cosa fai? Rinneghi tutto?» «Annalaura… dammi la mano che ti porto a cena di fronte al mare». E così, senza una parola sul misfatto benfatto, Annalura e Rodolfo davanti al mare aprono i tovaglioli di seta bianca sulle ginocchia mentre il maître porta la carta dei vini.
Questo ristorantino diventerà il loro appuntamento segreto di tutti i giovedì per tutto lo svolgimento del romanzo, e oltre. Una trentina e a d’anni dopo il maître, e qualche volta il figlio, e d’estate anche il nipote, lì a dare una mano per guadagnare qualcosa, diranno: «Signora Annalaura, per voi il tempo non a mai. Eh, ingegnere, siete stato fortunato!».
Ma prima di poter arrivare a questa calma placida dell’età della saggezza, molte cose ancora devono accadere.
XII. Il tempo è malandrino
Dove Costanza senza volerlo spia Rodolfo ed Annalaura. Il pirata entra dal giardino e rianimata la ragazza afflosciatasi per lo spavento e la sorpresa, inizia a corteggiarla.
Costanza torna a casa con la chiave d’oro ancora al collo e un Rolex la cui vera proprietaria è la signora Giuditta.
Lo so, avrei dovuto andar via. Oppure tossicchiare e uscire con disinvoltura dall’armadio. Ma poi avrei dovuto spiegare perché mai mi trovassi lì senza averne fatto cenno ad Annalaura, alla ricerca di altri ipotetici diari. Ma lei è sempre così pragmatica, così concreta: San Tommaso. Se non vedo non credo. La negazione dell’ipotesi alternativa. Ma poiché la vita è un sistema di contromisure e alternative, mia sorella, così pragmatica, alla fine casca dalle nuvole, è puntualmente impreparata. Impreparata alla mancanza di lavoro, al fatto che Edoardo possa averla tradita, al fatto che suo malgrado potrebbe accaderle di innamorasi di un altro, anche contro la propria migliore buona volontà. Allora rimango nell’armadio, dietro l’anta lunga con eleganti decorazioni a traforo del mobile di fronte alla libreria in legno. E mia sorella mi coglie assolutamente alla sprovvista. Però, l’animo umano è veramente insondabile. E io che non sapevo se dirle o non dirle di Edoardo! Certo, è la seconda volta che mi trovo al posto sbagliato nel momento sbagliato. E, pragmaticamente parlando, quanto ci vorrà?
Pensavo meno. Nei film tutta la scena è molto sunteggiata. Sarà che ero in una posizione scomoda in tutti i sensi. E poi quando finalmente sono arrivati alla collana di perle e pensavo di essermela cavata c’è stato quel dietro-front. Comunque ora sono proprio andati via. Ho sempre temuto che mia sorella fosse troppo ligia, ora ho fiducia che sia in grado di riconoscere la sua strada e veleggiare sicura e felice verso la sua vera vita. Esco dall’armadio nella biblioteca finalmente vuota, credo io... E qui quasi rimango secca: un fantasma entra dal giardino. Mi accascio sul pavimento e il fantasma prontamente mi soccorre. È il pirata dell’altro giorno. Resto ammutolita. «Acqua?», chiede lui premuroso. Non riesco ad aprire bocca. «Torno subito!…», mi rassicura. Faccio un cenno di diniego. Chiedo a gesti cosa ci fa lui qui. «avo di qui, ho visto dei ladri, e sono saltato nel giardino. Solo che non erano dei ladri…», mi spiega. «No!», esclamo perentoria, ritrovando di colpo la voce. Brutto ficcanaso! «No!», conferma lui. Pausa. Aspetta che io chiarisca la mia posizione, lo sfacciato! «Ero venuta ad innaffiare le piante», mi giustifico. «Nell’armadio?», fa lui incredulo.
«Cercavo un innaffiatoio». «Ah!», ma si capisce che è scettico. Pausa «Be’ che si fa?», gli chiedo a questo punto. «Baciamoci». «Va bene», dico io. «Ma come, sono uno sconosciuto… non sai nulla di me…». «Meglio…». «Come sarebbe?». «Baciami…». Mi bacia. Wow! Che bacio! «E adesso?». «Baciami di nuovo…». «Mettiamoci comodi, dice lui». «No, no, qui si sta bene». «Ma ci osservano, così al centro della sala». «Ma chi?». «Tutti questi antenati. Vieni sul divano…». «No, no. Stiamo qui». Il pirata si rassegna. Inizia a leccarmi un orecchio. Clara aveva detto che è una sensazione bellissima. A me non piace tanto. Forse non sono abituata.
Scanso l’orecchio. Lui mi soffia sul collo. Intanto mi sbottona la camicetta. Solo che non ci riesce: ho una t-shirt. Qui Clara aveva detto che si può iniziare a contrattare. Allora mi giro e gli mordicchio un po’ il collo. Poi gli metto una mano sotto la camicia. Lui mi solleva e mi porta sul divano. «Che bella pelle che hai!», mi dice in estasi. «È naturale». «?». «Ho quattordici anni…(me ne tolgo due per frenarlo un po’)». Il pirata schizza in piedi. «Stai scherzando, vero?». «Neanche un po’». «Ma sei minorenne!». «Completamente». «Non si direbbe…». «Eh, no! Sono molto intelligente, per la mia età!». «E ora che si fa?». «Si aspetta». «Ma sii ragionevole, io ne ho ventidue». «Dammene almeno due».
«Non posso». «Perché?». «Sono i migliori». «Ah! Non ci avevo pensato… E allora?». «Una dispensa…». «Che dispensa?». «Non so, papale…». «No, basta una firma del giudice». «Dio mio, non menzionarmi la legge che sparisco!». «Scusa, ma allora come facciamo?». «Ti sposo». «Un po’ prematuro, non ti conosco affatto». «Meglio! Ehm, cioè meglio pensarci bene, effettivamente. Dio mio, che mi sta succedendo. Io volevo solo rubarti...». «?». «Il cuore!». «Ah, ecco. Baciamoci ancora, mi piaceva». «Ma così, senza un secondo fine… non so...». «Baciami…».
Due ore dopo usciamo dalla villa. Ho una quantità infinita di succhiotti sul collo. Il pirata mi ha regalato la sua bandana per coprirlo.
Nel furore della ione si è anche tolto gli stivali e una nuvola di borotalco per poco non mi soffocava: sono un soggetto allergico. Adesso mi ha perfino accompagnata a casa. Povero diavolo! E dire che era venuto a sottrarmi la chiave. E c’era quasi riuscito. Però, che baciatore!
«Ma guarda, sono già le nove e mezza». Costanza guarda con soddisfazione il nuovo Rolex che ha al braccio. Chissà come si arrabbierà il pirata quando si accorgerà che oltre la chiave, che ormai considerava sua, gli è sparito anche l’orologio, ufficialmente della signora Talarei, ma che ormai da qualche tempo considerava suo!
Peccato che la signora Giuditta non abbia aspettato un po’ in finestra. Perché col binocolo da teatro magari avrebbe riconosciuto il suo compianto orologio.
XIII. Il tassello mancante
Dove Costanza riceve dei fiori e un biglietto per un appuntamento, fa colazione con le amiche e Manuele, va con lui dal professore, racconta dell’incontro col Pirata (ma non di quello di sua sorella e Rodolfo), va all’appuntamento col Pirata alla villa e fa ingelosire Manuele. Stamattina a colazione avevo una sciarpa leggera color lilla che mi nascondeva il collo e il trucco in tinta. Ho tossito parecchio, a simulare un attacco di allergia. «Dio mio, come sei ridotta!», ha detto sco… «Eh, sì!», ho detto vaga. «Ora fammi andare, che sono in ritardo». In quella hanno bussato alla porta. «Fiori!». «Eccomi!», ha detto Annalaura. «È per me». Domani è la sua festa. «La signorina Costanza?». «No, sì. Insomma, va bene uguale». Ma non è andata bene uguale. Annalaura ha messo il muso. «Vedrai», ha detto sco, «che Edoardo si ricorda». Ma secondo me Annalaura avrebbe voluto i fiori di Rodolfo. Apro il biglietto. È del Pirata. Cioè di Ranieri.
A che ora ci vediamo? Hai le chiavi del mio cuore. Per te ho completamente perso la testa, e non solo. Bella malandrina incantatrice ti prego, non dire nulla, ma restituiscimi almeno la cognizione del tempo. Abbi pietà di un ex predone, trasformato per amore in facile preda.
P.S. Le sei e mezzo andrebbero bene? Potrei essere in ritardo per via della suddetta perdita della cognizione del tempo. Perdonami in anticipo. Il tuo devoto Pirata.
Annalaura è lì che aspetta che io legga ad alta voce. «Ah, è Carla. Che carina, si è ricordata che oggi festeggio il primo anno di judo!». «?». «Puoi metterli tu nell’acqua? Sono in ritardo…». «E quello chi te l’ha dato?».
«No, è di Carla. Glielo ha regalato il vecchio fidanzato e quello nuovo è geloso. Così mi ha chiesto se lo posso tenere qualche giorno, finché lo restituisce». «Ah!». «Ciao, vado!».
Siamo sedute, io, Carla e Giulia, davanti a tre cappuccini con brioche. «Allora? chiede Giulia». «Allora cosa?» rispondo io. «Come va quell’orticaria sul collo?», fa Carla. «Bene». «E chi te l’ha fatta venire?». «Manuele». «Ah…». «Però, con quelle lentiggini, chi l’avrebbe detto», fa Giulia ironica. «Perché, se uno ha lentiggini ci sono controindicazioni?». «No, no. Ma insomma, l’hai visto, no?». «Cosa vorresti dire…», chiede Carla. «No, niente. È solo che non è proprio Brad Pitt!». «Per ora». «Per ora». «E quello? ». Giulia indica l’orologio.
«Me l’ha regalato lui». «Nooo!». «E già! Vedi che qualche volta l’apparenza inganna. E poi scusate, come vi permettete di dire che il mio fidanzato è brutto?». «Ah no, naturalmente. Scusa». «Eccolo che arriva. Ciao Manuele. Congratulazioni!», gli dice Giulia. «Per cosa?». «Lasciale perdere, sono sempre le solite», replico io. «Scusa, non vi siete fidanzati?». «Certo», dice lui e si siede accanto a me prendendomi la mano. Però, che gentleman. Ha capito e regge il gioco! La conversazione cambia direzione e ci mettiamo a parlare della versione di greco. La prima ora, quella di matematica, intanto è finita. Ci separiamo all’altezza della piazza ed entriamo a scuola alla seconda ora, alla spicciolata. Ognuna con una giustificazione diversa. Salutandomi Manuele mi dà un bacio vero. «Qualunque cosa, ma le bugie, ti prego, non dirmele». «Ma non l’ho ancora fatto». «Appunto, non ancora».
Nel pomeriggio gli citofono e andiamo insieme dal professore. Del bacio non facciamo menzione. «Che diavolo ti è successo?», mi chiede il professore.
«Ecco, in circostanze che preferirei non specificare, mi sono trovata con uno dei possibili acquirenti della villa. In realtà credo che sia un venditore che si sta muovendo per qualcun altro. Ma questo non è importante ai fini della storia. Comunque ha tentato di scipparmi la chiave e io mi sono ribellata». «Ma non puoi essere così vaga. Dacci i particolari». «Professore, Costanza era sul motorino. Al semaforo il losco figuro l’ha fermata e le ha detto: “O mi dai la chiave o ti strozzo”. Lei è ripartita, ma lui l’ha fermata tirandole la sciarpa. La sciarpa, dopo secoli di lavaggio senza ammorbidente, si è strappata e il malfattore è rimasto a bocca asciutta e ha tentato di fuggire. A questo punto Costanza furibonda l’ha inseguito a piedi, ringhiando. Lui, per dissuaderla, le ha lanciato la prima cosa che si trovava a portata di mano. Un Rolex». «Uhm!» «Professore, accontentatevi di questa versione». «D’accordo». «In ogni caso», dico io, «il malfattore rivuole il Rolex e abbiamo appuntamento alle sei e mezzo oggi. «Ah! (di sorpresa)», fa il professore. «Ah! (di dispiacere)», fa Manuele. «Che si fa? », chiedo. «Cerchiamo di saperne di più…», dice il professore. «Perché il mediatore vuole la chiave?». «Forse perché è d’oro massiccio», dico io. «Forse perché ci sono delle indicazioni sopra?», suggerisce il professore. «E dov’è l’appuntamento?», chiede poi. «Alla villa», dico io.
«Eh, no! Troppo comodo!», dice Manuele. «Come sarebbe?», replico indispettita. «Professore, non possiamo abbandonare una sedicenne nelle grinfie di un maniaco!». «?». «Professore, il venditore ha solo apprezzato la mia simpatia e a Manuele non pare possibile». «Non essere stupida», replica Manuele. «Non essere geloso». «Non sono geloso». «Non siamo neanche fidanzati». «Perché non siamo fidanzati?». «Non me lo hai mai chiesto». «Te lo impongo adesso». «Tu non mi imponi proprio niente». «Te lo chiedo per favore». «Va meglio». «Allora?». «Fammici pensare...». «Ti detesto!». «Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior».
«Guarda che se continui ti faccio excruciare davvero».
Insomma sono le sei e mezzo. Ho giurato che col Pirata rimarrò nel giardino. Intanto che aspetto faccio un rapido bilancio: sedici anni di zitellaggio e due proposte di fidanzamento nelle ultime quarantotto ore. E tutto grazie a questa eredità. Eh, i soldi mettono in moto l’universo. È proprio vero che non bastano, ma quanto aiutano! Che poi, a onor del vero, Manuele non è interessato ai soldi, ma è grazie a questa caccia al tesoro che si è dichiarato. Eccolo il mio Pirata!
Ha una nuova bandana ed è abbronzatissimo. Da lontano il segno bianco del Rolex mancante brilla sfolgorante sul braccio nero di sole. Mi raggiunge festante. (Devo ricordarmi di ricordare ad Edoardo che domani è la festa di Annalaura)
XIV. Il tempo del pirata
Dove il pirata si riprende l’orologio, la signora Giuditta invita Costanza e il Pirata per un tè e ruba il proprio orologio. Ranieri mi sorride e con un balzo mi è al fianco, mi porge il braccio e iniziamo a eggiare fra i fiori. Poi mi prende la mano e, aperto con destrezza il cinturino, fa scivolare come un prestigiatore il Rolex dalla mia mano alla sua. Fingo di non essermene accorta. Quindi, con la scusa di cambiare direzione, mi offre l’altro braccio e voilà, il Rolex è al suo posto. Con disinvoltura gli chiudo il cinturino: in fondo se lo merita e l’arte va premiata. Seconda fase: ciondolo. Fa per baciarmi il collo. Lo tocca con delicatezza. Lo tocca di nuovo. Niente. Fa su e giù con la mano. «Mi fai il solletico?», gli chiedo. «Già, già. Aspetta che ti sistemo il foularino… Ah! Ieri avevi una bellissima collanina! Devi averla persa… te ne sei accorta?». «Si, me ne ero accorta. Ma non l’ho persa oggi. La stavo perdendo ieri, mentre ci baciavamo». Pausa. Il Pirata si acciglia. «Era finita fra il bracciolo e il divano», spiego. «Per fortuna me ne sono resa conto, la chiusura dev’essere difettosa. Eccola! Mi si è aperta di nuovo mentre venivo e allora l’ho messa qui nella borsa. Ho preferito toglierla per non perderla di nuovo». «Hai fatto benissimo! Mio cugino è gioielliere, se vuoi puoi darmela, te la faccio sistemare». «Ah! È gioielliere. Allora forse potresti portargli l’orologio. Ho avuto l’impressione che il cinturino sia un po’ difettoso».
«Già, già. Lasciamo perdere…». Si adombra di nuovo. Intanto dal palazzo di fronte qualcuno ci sta spiando col binocolo. «Non potremmo trovare un posticino tranquillo?», mi chiede il Pirata. «Qui è perfetto», gli dico. «Estremamente romantico, con tutte queste piante e fiori». «Ma ci stanno spiando, guarda». La signora Giuditta si ritira dalla finestra, non prima di aver notato un bell’orologio al polso del ragazzo. Un modello particolare, edizione limitata, con brillanti al posto delle ore. «Rita, chi è quel ragazzo?». «Non saprei», dice Rita, che conosce il ragazzo come le proprie tasche. Trattasi di suo fratello minore, poco incline ad un’occupazione fissa e molto amante dell’arte di mettersi nei pasticci.
Qualche giorno fa si è arrampicato in casa della signora Giuditta e Rita quasi ci rimaneva per lo spavento. «Che ci fai qui?». «Cosa c’è per merenda?». «Sparisci!». «Non prima di aver gradito qualcosa!». «Sparisci o mi metto a gridare al ladro, al ladro!». Lui sfiora i mobili, fruga sul frigorifero. «Se ti azzardi a rubare qualcosa ti porto al commissariato per le orecchie. Non
ho nessuna intenzione di perdere l’ennesimo posto per la tua “capa fresca”!». «D’accordo. Del resto sono le sei, ormai. Va bene quest’orologio, vero?». «Quale orologio?». Ma lui è già sparito. Giusto in tempo. Quando la signora Giuditta torna in cucina, fruga con la mano sopra il frigorifero. L’orologio che aveva lasciato lì stamattina non c’è più. La signora Giuditta ha sospirato e non ha fatto una piega. «Rita, hai visto il mio orologio?», chiede pro-forma. Ma sa già che la risposta è no. Sa pure che Rita non c’entra niente. Pensa fra sé e sé: «Santo Cielo! Che figlio degenere che ho tirato su! Quel Mariuolino, mi farà impazzire! Ora mi toccherà ricattarlo di nuovo! Ah, questi figli! Non ti danno mai pace».
Adesso, affacciata alla finestra col suo elegante binocolo, la signora Giuditta è quasi certa di aver riconosciuto il suo compianto orologio e si chiede attraverso quali tortuosi percorsi sia avvenuto il travaso da suo figlio a quello sconosciuto vestito da forsennato. Guarda come vanno vestiti, i suoi amici, che vuoi sperare? Ma dove si saranno conosciuti, i due masnadieri? E, soprattutto, come riavere il Rolex? Improvviso un lampo di genio: la signora Giuditta apre la finestra e chiama festosa: «Ehilà, ragazzi! Posso offrirvi una fetta di torta?». Costanza inizia a ridere. «Certo che la gente è pazza», dice il Pirata. «Su, venite», dice la signora Giuditta sempre più festosa. «Dai vieni!», lo incoraggia Costanza divertita.
«Fosse stato rhum e Coca...», dice il Pirata neghittoso. «Su andiamo!». Costanza si avvia trascinandosi dietro il pirata, che a sua volta trascina i piedi in segno di protesta. La signora Giuditta è scoppiettante. «Allora, Costanza, finalmente ti conosco… La signora Amalia era entusiasta di te». «La conoscevate?». «Senz’altro!», mente Giuditta. «Davvero?», chiede Costanza stupita. «Certamente! Ma prego, sedetevi!» E galoppa in cucina. Costanza e il Pirata si guardano perplessi. La signora Giuditta torna con il carrello pieno di torte, frutta, caffè, tè, e chi più ne ha più ne metta. Offre una tazza di tè al Pirata e mentre lui allunga il braccio esclama: «Ma che magnifico orologio, me lo fai vedere?». E prima che lui possa dire qualcosa glielo ha già sfilato. «Oh, ma squilla il telefono?». La signora Giuditta allunga il collo in direzione dello studio. «No, no. Non sento nulla», dice il Pirata perplesso. «Ma sì, ma sì!», dice lei e sparisce per tornare un attimo dopo. «E il mio orologio?».
«Ah, naturalmente. Scusa, eccolo! È bellissimo!». Ma non è quello del Pirata. Che del resto non è mai stato suo. Questo non ha i brillanti. È un magnifico falso di bancarella. «Pensa, alle volte, le coincidenze! - trilla la signora Giuditta Stavo guardando il numero di serie sul retro…. Il mio Rolex ha quello successivo! Ci sarebbe da giocarseli al lotto!». A buon intenditor… Il Pirata non fa una piega e si chiude al polso l’orologio falso. «Be’ grazie per il tè, ma si è fatto tardi», e guarda Costanza interrogativo. «Vai pure, non preoccuparti. Io rimango a finire questa splendida torta… A presto».
«A presto», dice il Pirata sconsolato, momentaneamente sconfitto.
XV. Ultima ad arrivar
Dove Annalaura cerca i diari, decide di affrontare la realtà con Edoardo, riflette sul Pirata e vede nel suo giardino fiorire cuoche e masnadieri, poliziotte e avventurieri.
Porca miseria, ma sono sempre l’ultima a sapere le cose! Non solo con Edoardo, ma perfino con le storie che riguardano la villa di Posillipo che ho, anzi che nelle mie intenzioni “abbiamo” ereditato. Ma per quanto abbia perso più di un giorno a cercare fra i volumi dell’immensa biblioteca, non è lì che si trovano i diari di Rachele che il professore ha letto e restituito a zia Amalia, che li custodiva: dove? E poi, esistono davvero i diari scritti da lei, nei quali ne avrebbe raccontate di belle, a suo dire, su tutta la famiglia, o non era piuttosto quello un modo per incuriosirci e metterci sulla pista dei diari segreti di Rachele? I brani che mi ha fatto leggere Costanza, quelli copiati dal professore, mi hanno messo i brividi. La mia vita si è spaccata in due come un’albicocca: da una parte l’era ante-Rodolfo, dall’altra quella post-Rodolfo. Tra le due, anni luce. La parte di me, Annalaura-ante, avrebbe reagito alla lettura dei diari di Rachele pensando: “Ma guarda ‘sta pazza! Una fanatica, un’esaltata! Amore, amore! Anzi Ammore, come si dice a Napoli! E poi che amore, per uno visto e preso? Infatuazione, ecco, curiosità morbosa per quel brividino che corona, se la corona, la più sopravvalutata ginnastica del mondo, che se vogliamo verrebbe spontaneo chiedersi: “Tutto qui?”. La parte Annalaura-post si è esaltata: “Sì, sì - gridava - è così che ci si sente, una mano che ti stringe la pancia e il cuore, e tutto in te che grida: Voglio quest’uomo, Dio mio fa’ che lui mi voglia con la stessa forza, con la stessa perentorietà, con la stessa ineluttabilità con cui io voglio lui!”. E il brividino? Una forza tellurica, un maremoto, un tifone e di più...
Per amore di giustizia, se il sonnacchioso Edoardo è stato risvegliato dal suo torpore dal suono di un tal corno da caccia... Vabbè, lasciamo stare l’argomento corno, magari! Comunque Edoardo ce l’ha duro, il sonno. (Ma che mi prende? Oggi ne infilo una dopo l’altra!). Cioè voglio dire che non si sveglia facilmente. Se “ufficialmente” si sveglia, è perché non dorme, né potrebbe andare a buttare la spazzatura dormendo, mica è sonnambulo. Sente dalle scale il telefono squillare e comincia a correre per rispondere. Non ditemi che sono andata in fissa con la storia della spazzatura; Edoardo mi risponde con un affanno da infarto dicendomi di aver fatto le scale di corsa per venire a rispondermi. Ma, mi chiedo, come mai lo chiamo sul cellulare e gli squilla il fisso? O si immedesima talmente nella propria bugia che si comporta come se davvero io lo stessi chiamando al fisso, anche se mi risponde al cellulare? Allora in fissa col fisso c’è andato anche lui, che disastro. Perché io ho un’opzione You and me, e sul fisso non lo chiamo mai. Manco me lo ricordo su due piedi, il numero del fisso. Ma l'orribile verità è che Edoardo è nel nostro letto con Picchipacchi: è lei che gli fa venire l’affanno, mentre io ho un bel dire, lo facevo russare. Anche ai tempi del liceo verificavamo che certi elementi a contatto di altri rimanevano inerti, e con altri ancora erano esplosivi. Edoardo con me era inerte, o quasi. Qualche volta, a pensarci, faceva un sospirino, come uno che si toglie le scarpe che gli fanno male. Non sono la scarpa per il suo piede. Né lui è il mio Cenerentolo, del resto è poco portato per i servizi di casa. E io che lo credevo poco portato e basta! Invece con Picchipacchi, fuochi a mare! Come diceva una vecchia pubblicità? Il caffè è un piacere, se non è buono, che piacere è? Diciamolo, il nostro era il caffè della Peppina, quello che non si beve la mattina, né col latte né col tè: e grazie, tra rosmarino, cipolle e ali di farfalle, quello non era un caffè, era una ciofeca! Ora non voglio dire una cosa così brutta sul nostro fare l’amore, forse l’esempio del caffè è sbagliato, diciamo che era una buona camomilla, e infatti Edoardo dormiva, “durante”.
Ma ora che abbiamo trovato ciascuno la sua miscela di caffè ideale, perché non dirlo? Sì, parlerò con Edoardo, anche al telefono, e non dopo cena. Con tutte quelle scale di corsa, magari gli viene un infarto. Do uno sguardo alla lista degli aspiranti acquirenti: Associazione Nostalgici Due Sicilie. Associazione Nostalgici Gioacchino Associazione Pescatori ‘e sto mare ‘e Pusilleco. Eredi Caravite-Belfiore Famiglia Casacara Collegio Maltese ex Orfani della Filibusta Fondazione Eredi ex Collegio Orfani di Posillipo Signor o dottor Innominato, rappresentato dal principe di Bandalunga Associazione no profit Longa Manus Circolo della Caccia al Tesoro Banda Bassotti… Banda Bassotti? Finalmente capisco che si tratta di uno scherzo di Costanza, ma come per il romanzo del professore, l’immaginazione non è andata troppo lontana dalla realtà, anche perché troppi si aggirano intorno alla villa, e naturalmente con le peggiori intenzioni. Per esempio quel sedicente Ranieri di Bandalunga, che sembra Jack Sparrow, ronza un po’ troppo intorno a mia sorella Costanza, e inoltre sbuca dappertutto, sta nello stesso tempo in molti posti diversi, e mi sembra di poter perentoriamente escludere che si tratti di ubiquità, dono divino dei santi. Ho anche notato sbucare da un cespuglio una valchiria discinta dal piglio
autorevole, vestita o travestita da poliziotta. La seguiva un giovanotto piuttosto bello, che abita nel palazzo accanto, ma non ho capito se in veste di cliente o di detective della buoncostume. Purché non sia uno spacciatore! Poco dopo ho visto arrivare la ragazza che aiuta sua madre, raggiunta dal sedicente Ranieri di Bandalunga, sì, proprio lo Sparrow, e ne è seguito un vivacissimo alterco. Purtroppo erano troppo lontani per sentirne le voci, e il vento era contrario. Ma hanno litigato di brutto. Debbo provvedere a far cambiare la serratura del cancello, o mettere un cartello: Attenzione: cani sciolti.
Quali cani? Boh, erano sciolti, e se la sono squagliata.
XVI. L’ora del ragù
Dove Costanza apprende che suo fratello è stato alla villa. sco conosce Rita e alcuni segreti della villa. Carla vede sco e Rita insieme al mercato. Costanza, vede Rita e sco, nascosta in un mobile. Il pirata vede Rita e sco, nascosto in un mobile. «Davvero conoscevate la zia Amalia?». «Onestamente no, non di persona», dice la signora Giuditta. «Ma allora…?». «Conoscevo il mio orologio, però. È il tuo fidanzato quello?». «Non proprio. È un possibile acquirente della villa. Sapete, no? che mia sorella, Annalaura, l’ha ereditata e la vuole vendere». «Sì, sì, so tutto. Quando ci abitava la signora Amalia non ci andava mai nessuno… Adesso invece è sempre una festa. Voglio dire, con tutti i sopralluoghi che state facendo per la vendita». «Veramente di sopralluogo c’è n’è stato uno solo». «Ah, sì? Eppure vedo entrare e uscire gente a tutte le ore… L’altro ieri, per esempio, c’era un bel ragazzo. Saranno state le nove». «Un ragazzo? Fatto come?». «Bruno, elegante. Molto alto. Un tipo alla Banderas».
«Ma sì! Naturalmente. È mio fratello… Buona, questa torta. Adesso si è fatto tardi. Grazie infinitamente per l’invito». «Figurati. Torna presto, anzi, tornate presto. Vi farò assaggiare una torta ai fiori d’arancio, la prossima volta».
E così ieri ho saputo che sco è stato alla villa. Si è scelto un orario meno affollato, però. Chissà cosa è venuto a farci… E poi perché non dirlo? Oggi, verso le sei, ci sono tornata. Adesso saranno le otto, ora di cena. Annalaura non è ancora tornata. sco invece è in cucina, che sta preparando il ragù. È arrivato già da un po’. Del resto lui ha la macchina. Gialla. Il ragù, dicevo. E come è possibile, infatti, qui a Napoli, non imbattersi ad un certo punto in un buon ragù? sco poi lo fa buonissimo. A lui è sempre piaciuto cucinare. La mattina va al mercato e compra solo cose fresche. La verdura gliela vende un ortolano che ha un piccolo orto. La frutta gliela vende un vecchio contadino. Stamattina, come tutte le mattine, sceglieva la frutta e la verdura fresche.
«Come vi sembra questa?», chiede sco rivolgendosi a Rita che ha incontrato davanti al banco della frutta. «Bella», dice Rita, esaminando l’uva. «Anche voi siete bella». «Grazie», ride Rita. «Vi vedo tutte le mattine», dice sco. «Anch’io vi vedo. Venite ogni giorno a fare la spesa. Non siete sposato, allora». «No, abito con mia sorella. Adesso poi è arrivata anche l’altra. Ma a nessuna
delle due piace cucinare e a me invece piace moltissimo. Stasera è la festa della più grande, Annalaura, e così voglio preparare una cena speciale. E voi?». «Sono la cuoca della signora Amalia, la conoscete?». «Solo di vista». «Mmm!». «Il basilico mi serve per il ragù. Gli altri non ce lo mettono, io sì. È la mia variante». «Come nel film della Wertmüller». «Vi piacciono i film?». «Sì, ma più ancora i libri». «I libri?». E così se ne sono tornati per un lungo tratto di strada. Lei gli ha dato la sua personale ricetta per un buon ragù. Rigorosamente senza basilico. Come lo so? Me l’ha detto Carla. Come mai? Era al mercato. Perché? Ma è logico! Stava marinando la prima ora di lezione: matematica. E al mercato vendono anche i vestiti, le borse, le scarpe. E Carla come fa a sapere che lei gli ha dato la ricetta? Ma è evidente… li ha seguiti. «Perché li hai seguiti, Carla?», le chiedo mentre mangiamo un enorme trancio di pizza con la mozzarella, sedute ad un baretto di fronte al mare a ora di pranzo. «Perché sono impicciona. È più forte di me, Costanza. Da grande devo fare il detective…». Carla è diventata impicciona da quando il padre ha intrecciato una relazione con la segretaria. Lei ha sgamato tutto e ora lo tiene in pugno. E finalmente può prendere tutti i tre in matematica che le pare. Tanto poi sposerà un riccone e farà cinque figli. (E invece no, magari prenderà un diploma e si occuperà della
riabilitazione di bambini con handicap, ma questa è un’altra storia). «Insomma, Costanza, occhio a tuo fratello!».
Dunque l’altro ieri sco, verso le nove di sera, ha fatto un salto alla villa, e questo me l’ha detto ieri la signora Giuditta. C’è tornato anche oggi. E questo l’ho visto di persona. C’è arrivato di sicuro verso le otto, dopo aver chiuso la libreria. Come lo so? C’era una luce accesa. E c’era anche la sua macchina, gialla, parcheggiata di fronte. Di sco nessuna traccia. Sono entrata dal retro e, sentendo dei i, con un balzo mi sono lestamente messa nel mio angoletto traforato. Lo so, è stata una reazione stupida, ma non ero sicura che fosse sco e mi sono nascosta. Era lui invece, che si è avvicinato alla libreria per rimettere a posto un volume e prendere quello accanto. Non vi dico la sorpresa di sco, ma anche la mia, quando nel prendere l’altro volume una parte della libreria si è spostata in avanti come per magia e ha fatto una rotazione di 90° su se stessa. Dietro c’era una porta, che dava su una scala. sco ha esitato, ha fatto un movimento come se volesse scendere, ma è tornato sui suoi i. Forse per cercare una torcia, ho pensato io: probabilmente solo i primi gradini erano illuminati dalla luce della biblioteca, e poi le scale sprofondavano nel buio. A quel punto qualcuno l’ha chiamato dall’esterno: «sco! sco!». Lui si è affacciato: «Rita! Buonasera! Che sorpresa!». «Il cancello era aperto e vi ho visto arrivare dalla finestra della nostra cucina. «È aperta anche la porta sotto, basta spingere. Entrate, vi vengo incontro...» Entrano insieme dopo poco. Rita è davvero una bella ragazza. A quel punto mi guardo bene dall’uscire dall’armadio, non si sa mai… Lei spiega:
«...stamattina ho trovato questa chiave nel salone e l’ho mostrata alla signora Giuditta. Mi ha detto che dev’essere di una ragazza che è venuta ieri a prendere il tè, la signorina Costanza, e che bisognava restituirgliela. Sono già venuta stamattina ma non c’era nessuno. La signora Giuditta adesso è andata ad una partita di burraco, e io stavo cucinando la cena. Dalla finestra della cucina ho visto arrivare una macchina gialla. Uno pensa che la guida Paperino, invece scendete voi. Ma scusate, stavate facendo qualche cosa, magari vi ho disturbato...». «Sentite un po’ Rita, perché non ci diamo del tu? Ho trovato per caso una specie di aggio segreto, ma la scala è buia e forse devo andare nella macchina di Paperino a cercare una torcia. Non ho idea di dove porti la scala...». «Forse posso rispondervi, anzi risponderti. Porta a una galleria che sbuca in una grande caverna nella parete della roccia. Durante la guerra si usava come rifugio quando c’erano i bombardamenti. Qua sotto è un labirinto, tutto grotte e gallerie, figurati che dall’arsenale si arrivava fino alle cantine del nostro palazzo ando per il rifugio Ora il aggio è stato chiuso, ma in tempo di guerra il padre della signora Giuditta è lì che si veniva a rifugiare con la famiglia». sco si avvicina alla scala. «Andrò a vedere domani, ormai è tardi », dice. La luce illumina una scritta sulla parete: «SO», dice sco pensoso. «Che significherà? Sembra un’indicazione». «Chissà... sud-ovest?», dice Rita. «Comunque, arrivati all’altezza del rifugio, la galleria ne incrocia un’altra che porta dritto dritto nella cappella di Palazzo Caravite-Belfiore. Dicono che un tempo un tunnel la intersecasse, partendo proprio dal centro di questa villa e attraversando tutta la collina, ma che il padre della signora Amalia ne abbia chiuso l’accesso per sempre. Si dice pure che un’altra grotta si trovi dall’altro lato della villa. Ci si entrerebbe dal mare, e sarebbe collegata da un lato al tunnel nella collina, dall’altro all’arsenale sotto di noi. Però pare che il padre della signora Amalia abbia murato anche questo aggio. «Ma tu queste cose come le sai?», chiede sco.
«Spolverare quattrocento “pazzielle” è cosa lunga. Sai come mi dice la signora Giuditta mentre spolvero tutti quei soprammobili? “Quando mi sono sposata volevo la cella di S.sco, mò vivo al Vittoriale...”, e intanto mi racconta vita, morte e miracoli di tutti». «Ma perché tu che dovresti spolverare di pepe e pangrattato le pietanze, se sei la cuoca, spolveri invece i ninnoli?». Rita si rannuvola, tornando bruscamente al voi: «E perché voi fate tante domande? Siete indiscreto e ‘nu poco “scucciante”». Rita, che ha un diploma di chef, si adatta anche a dare una mano in casa, ma ci tiene al suo ruolo ufficiale di cuoca.
Si allontanano. Per un po’ non sento più nulla. Poi sco torna, spegne la luce, chiude tutto ed esce. Mentre sto qui che aspetto via libera mi rammarico del buio, se no potrei sbirciare i libri. A me piace leggere. In questi giorni per esempio sto leggendo “Le sette invarianti dell’architettura”, di Bruno Zevi. Che mente! Sto alla parte in cui spiega la fine di un’era: quella della simmetria. Esco dall’armadio, accendo la lucina del cellulare e vado verso la porta. L’armadio è antico, fa parte anche lui di un’era ormai finita. Ha una parte centrale aperta e due belle ante laterali traforate. Per amore della simmetria sulla stessa parete dopo una cassapanca c’è il suo gemello. Ci dev’essere un tarlo che produce degli scricchiolii, un tarlo enorme... Un metro e ottanta circa di tarlo in stivali di pitone. Proprio come sospettavo, penso aprendo l’anta sinistra dell’altro armadio. «Hai visto?», gli dico facendo finta di nulla, «la chiave dev’essermi scivolata ieri dalla borsa. Meno male che è successo mentre eravamo a casa della signora Giuditta, così l’hanno ritrovata! Allora, mi accompagni a casa o dovevi fare qualcosa, qui?».
Il mascalzone si dà un’aria disinvolta: «Ma no, non dovevo fare niente... ti stavo aspettando». Porca miseria, ma che razza di profumo si mette? Barcollo. Glielo chiedo. «Abordage», risponde. «Ah, sì, infatti ! Abbordaggio... Ti sta benissimo». «Sei un po’ ignorantella... Non vuol dire abbordaggio!». «E che vuol dire?». «Arrembaggio», fa lui. «Stai fermo», dico io. «Ricordati che ho quattordici anni!». Questo lo calma un po’, ma il braccio intorno alla vita non lo toglie.
Cerco di mantenere la situazione in precario equilibrio. Mi sembra di stare dentro una trottola impazzita. Tutto va troppo in fretta, la situazione s’ingarbuglia, questo profumo è un attentato. E comunque urge un’altra riunione con il professore e Manuele. Mi chiedo se anche Carla potrebbe esserci di aiuto. Ne parlerò con loro. Ma a me chi mi aiuta co’ ‘sto Ranieri?
XVII. Il mistero s’infittisce
Dove Don Vito, presunto erede del Conte Caravite-Belfiore, non fa in tempo a dimostrarlo ma suo figlio prosegue la battaglia. Il professore ha l’incarico di cercare i diari segreti e scoprire se c’è un tesoro nascosto.
Eccoci, Manuele, io e il professore, nello studio di quest’ultimo, con vista sul mare. Una bella comodità, perché come ho detto il professore abita nel mio palazzo, a Mergellina. A Carla ho finito per non dire niente, almeno per il momento. Siamo nel primo pomeriggio di una bellissima giornata di ottobre, e dunque prima di parlare di cose serie, c’è il rito del caffè, che il professore fa buonissimo, meglio ancora del protagonista di Questi fantasmi di De Filippo. Il primo scoop ce l’ho io: «Sapete che il mio futuro cognato propone di rialzare il prezzo della villa? Ieri sera, mentre eravamo nel giardino... «Gesù», fa il professore, «ma il fidanzato di tua sorella, ‘o milanese, sta ‘nata vota accà?». Ehi, che grenza che ho fatto! «No, no», mi correggo subito, «volevo dire Rodolfo, che si occupa della vendita. Perché conto è vendere una villa, per quanto grande, per quanto bella, e conto è vendere un posto che grazie a voi, professore, è diventato celebre quasi quanto il pino di Posillipo, quello che stava sopra le cartoline...». «E più celebre diventerà», m’interrompe lui, «perché lo scoop lo tengo pure io: vogliono comprare i diritti del romanzo, per farne una cosa tipo Elisa di Vallombrosa... Insomma, lo chiamerebbero Rachele di Rivafiorita ».
«Mammamia professore! Questa sì che è una bella notizia!». «Qua il vero tesoro l’avete trovato voi!», diciamo tutti contenti io e Manuele. «Spero di sì», fa lui ridendo. «L’editore è tiratello, per ora coi proventi del mio libro sta risistemando le sorti della casa editrice, ogni tanto mi dice: “Dopotutto professo’ vi ho dato fiducia co’ ‘sto romanzo, dopo tutte quelle scuccianterie storiche che finivano sulle bancarelle a nu tant’o chilo, mò portate pazienza!”. Mò io porto pazienza, però penso: “Mi avete dato fiducia e sta bene, ma datemi pure qualche cosa ‘e denari, che finora nunn’aggio visto ‘na lira, o quasi...”. Ma che diceva don Rodolfo?». «Che ‘nu conto è vendere ‘na villa qualunque, ‘nu conto è vendere il pino di Posillipo... », rispondo. «Ma non l’hanno abbattuto? », chiede il professore. «Professo’, era una metafora per dire che la villa è famosa...», mi spazientisco io. «E poi, dobbiamo verificare che il tesoro ci sia veramente... possibilmente in fretta. Perché se poi lo trova chi se la compra, qua “schiattiamo” per la rabbia... Infatti gli aspiranti acquirenti, che sono tanti, mirano a quello. Se no come si spiega che da decenni gli eredi dei Caravite-Belfiore tentano di sbolognare il palazzo, che a parte le cattive condizioni è pur sempre una meraviglia, e non ci riescono?». Il professore, che sa tutto di Posillipo, alza una mano a fermarmi. «Ah, ma per i Caravite-Belfiore la faccenda è diversa. Non vendono perché c’è una causa fra gli eredi, e chi vorrebbe che un domani spunta uno e dice: “Scusate, posate l’osso, il palazzo è mio e dobbiamo rivedere tutta la questione...”?». «Veramente, professore? E com’è possibile?», domando meravigliata. « È possibilissimo. Vedete, dobbiamo risalire ai fatti, e proprio alla contessa
Caravite-Belfiore, quella che accolse Fabrizio (Raimondo nel mio libro) per prima, e che morì senza eredi. Quindi il palazzo, alla morte del marito, ò ai nipoti, i cui discendenti ora vorrebbero venderlo... Ma non ci riescono! Infatti un po’ di anni fa spunta un certo Don Vito, personaggio molto conosciuto a Napoli, di origini oscure, ma che ha ben investito il patrimonio del padre, che era un camorrista alla vecchia maniera: solo illeciti e contrabbando, ma non droga né prostituzione, e si è messo a fare l’imprenditore, tutto alla luce del sole. Questo Don Vito parecchi anni fa segue sul giornale le vicende di un noto calciatore, un ragazzo d’oro, un idolo a Napoli, capitemi, che è stato costretto a riconoscere un figlio tra gran clamore dei giornalisti, che su quello scandalo ci andavano a nozze. Don Vito, che a stento ha fatto le scuole serali, scopre che DNA non vuol dire Dipartimento Napoli Amatori-calcio, ma che è un sistema sicuro per dire: “Questo è piume delle mie piume, questo no”». «Scusate», fa Manuele, quali piume? «È ‘na cosa che diceva Paperino, quando ero piccolo io, a Qui Quo Qua». «Professore, ma vi sembra serio, all’età vostra? E poi voi dovete citare Platone, al massimo Benedetto Croce... ma Paperino! », lo rimprovero io, ma poi lo incito: «Andate avanti!». «Dunque si fa avanti anche Don Vito, tramite avvocato, e irrompe nella vita, e nella vendita, degli eredi Caravite-Belfiore: “Fermi tutti, l’erede songh’io.” “Come siete voi? Ma chi vi conosce?”, avranno detto quei poveracci. “Io sono l’erede diretto del conte Caravite-Belfiore, del marito di Donna Anna, per capirsi.” “Ma quello di figli non ne teneva!”, avranno protestato i Caravite-Belfiore indignati. “Ve lo credete voi, e il Dipartimento Napoli Amatori-calcio vi dimostrerà la verità! Voglio dire, l’esame del DNA!”.
Povero Don Vito, se n’è andato prima che la sua richiesta fosse accolta, ma ai fini della vendita il suo intervento fu un disastro. Don Vito ha lasciato un figlio, che ha rilanciato il problema, ed ora pare che i Caravite-Belfiore siano d’accordo nell’accogliere la richiesta dell’esame: infatti anche se rifiutano il giudice potrebbe riconoscere come effettivo erede colui che ha avanzato la richiesta...». «Insomma, professore», dico io, riportando la conversazione sui fatti nostri, «urge che ci diate una mano. Voi sapete come muovervi meglio di noi: cercate dove volete. Anche Annalaura, sco e Rodolfo sono d’accordo nel darvi ufficialmente l’incarico di scoprire, attraverso documenti, nella villa o fuori, se il tesoro c’è e se ne esiste una mappa. Se ci riuscite, ve ne riconosciamo la quarta parte, perché noi siamo tre. Se non ci riuscite, vi diamo un onorario per il disturbo, che calcolerete voi». Il professore diventa fucsia: «Picceré ma tu si’ pazza? Io mi faccio pagare da voi? Ma io stavo invecchiando come ‘nu pover’uomo, e la vostra villa mi ha fornito l’ispirazione per un libro che mi ha dato un mare di soddisfazioni! Poi tra un anno, come da contratto, l’editore mi deve pagare, e diventerò pure ricco, senza contare la riduzione televisiva... No, vi aiuto, vi aiuto, ma gratis! E vi debbo ancora dire grazie! Io sono tornato a vivere!». A quel punto tira fuori dal cassetto della scrivania un giornale: «Voglio farvi vedere l’articolo che ha scatenato il putiferio... ». Ci mette sotto il naso “Il Mattino”, dove nella pagina della cultura campeggia un titolo: Un mistero napoletano. Chi l’ha scritto, un illustre studioso, come sappiamo, si chiede da dove l’autore del libro abbia tratto i fatti che ha raccontato, e soprattutto se ci sarà un seguito. Tratteggia brevemente la trama, e pubblica la foto di un ritratto di Fabrizio. La foto è piccola, un po’ sbiadita, non è che si capisca bene che aspetto avesse l’uomo di cui Rachele si innamorò follemente.
Sulla scrivania in un portapenne troneggia una grossa lente d’ingrandimento. La prendo e metto a fuoco il ritratto. Per poco non svengo per la sorpresa, perché in abito d’epoca, bello e mascalzone, mi sorride Ranieri di Bandalunga: sì,
insomma, il mio Pirata!
XVIII. Misteri nei misteri
Dove Costanza e il Pirata vedono nel giardino della villa la poliziotta e Mariuolino. Il Pirata racconta a Costanza di Benvenuto, figlio di Donn’Anna e Don Fabrizio. Don Vito rivendica le proprie origini (sbagliate) e suo figlio da un ritratto sul giornale capisce la verità.
Il Pirata rivela di essere fratello di Rita, afferma di voler mettere la testa a posto e di voler sposare Costanza.
Convocato da una mia perentoria telefonata, due ore dopo incontro il sedicente Heaster Seamanager Ranier di Bandalunga nel giardino della villa. Il cancello è aperto, strano: mi pareva che lo avessimo chiuso ieri sera. Sono scappata qui senza dire a nessuno quello che avevo scoperto vedendo il ritratto, né ho detto a Manuele che volavo a Posillipo, e per vedere chi; figuriamoci, si sarebbe preoccupato, ingelosito e chissà che altro. Intanto il Pirata non c’è, e mentre aspetto sento dei lamenti provenire da un cespuglio: mi precipito in quella direzione, forse sono ancora in tempo per aiutare la vittima di chissà che, quando un braccio mi afferra: «Ma non ti sai proprio fare gli affari tuoi? Ma lascia in pace quei poveretti!», mi dice il Pirata sbucando dalla penombra come Fantomas. Le vittime dunque sono due! Ma intanto i lamenti acquistano un certo ritmo, e mi rendo conto che non hanno affatto bisogno di aiuto, stanno bene, tra poco anzi benissimo... infatti.
Il Pirata mi trascina dietro una siepe: che può il cattivo esempio! Mi bacia con grande zelo, e dopo un secondo mi trovo a ricambiare con altrettanto entusiasmo... ma per fortuna mi fa tornare alla realtà il tramestio dei due presunti moribondi, che dopo un intervallo di silenzio sbucano uno per volta dal cespuglio, ed esterrefatta riconosco Mariuolino in compagnia di una ragazzona anche più alta di lui, una valchiria che si tira su i pantaloni con aria soddisfatta, prima di portarselo via tenendolo saldamente per un polso, manco fosse una poliziotta e lui un ladro ammanettato. Ma il ladro sembra soddisfattissimo, e non solo non cerca di scappare, ma si ferma a baciarla. Appena sono usciti dal cancello, che richiudono, mi giro come una belva verso il mio interlocutore: «Ma tu chi c... sei? gli chiedo aggressiva. Ho visto il ritratto sul Mattino...». Mammamia, però, quant’è bello ‘sto mascalzone, e che baciatore! Con mio grande stupore, apre le braccia costernato. Mi ci tufferei dentro, ma l’ora è grave. Fatto epocale, sembra sincero: «Non lo so», dice afflitto. «È quello che sto cercando di capire... Quel dannato ritratto è stato un colpo anche per me! Sono io “sputato”!». «Cominciamo dall’inizio», dico io, «sennò come faccio a capire?» «L’inizio è più o meno all’epoca dei fatti raccontati nel libro», fa lui. «Anna di Caravite-Belfiore ospita di nascosto nel suo palazzo Don Fabrizio, che da lì dovrebbe essere prelevato da una barca per essere trasbordato col tesoro su un finto peschereccio, in realtà un veloce legno corsaro, ma viene scoperto dal marito di Anna, che lo scambia per un amante di lei e gli spara, ferendolo. Il resto lo sai; ma torniamo ai Caravite-Belfiore. Anna e il conte hanno fatto un matrimonio di convenienza, convenienza del conte, perché la ricca è lei, che gli porta in dote il palazzo. Sarà questo il motivo per cui lui, ata l’ira, non darà seguito alla scoperta del tradimento. A Napoli ci sta sempre meno, occupato in varie cacce, durante una delle quali gli sparano per errore, uccidendolo...». «E l’avranno scambiato per un cervo», dico io con una battutaccia.
«Può essere», replica il Pirata senza ridere. «La moglie si chiude nel palazzo, e nessuno la vede più per un bel pezzo, tranne la sua balia d’un tempo, che è rimasta come sua cameriera personale, e la figlia di questa, una bellissima ragazza coetanea di Anna. Dopo un anno la contessa manda a chiamare il parroco don Fedele, per affidargli un bambino, figlio illegittimo di una cameriera. Don Fedele ha un collegio per gli orfani dei pescatori, e spesso riceve donazioni dalla nobiltà di Posillipo. Anna non dice chi è la madre, ma il prete pensa che sia il figlio della sorella di latte, e che il padre sia il conte, il quale se non ha piantato alberi nel suo orto, però l’ha fatto, per ironia della sorte, spesso e volentieri nei poderi altrui; anche in casa propria, tra le poverette a servizio al palazzo, che se ne tornavano a casa con una bella dote e nessuno ne sapeva niente più. In questo caso il conte avrebbe provveduto al mantenimento del bambino fino ai quattordici anni, quando avesse imparato un mestiere, e si capisce perché: non poteva rispedire con una dote la madre in paese, visto che fin dalle fasce era vissuta lì a palazzo. La contessa aggiunse qualche commento ambiguo, circa il nessun timor di Dio di certuni, che abusano dell’innocenza delle anime semplici, e il prete ebbe la certezza di aver indovinato chi fosse la madre del piccolo, che la contessa compativa, e naturalmente il padre, che invece non poteva perdonare per avere abusato d’una sua quasi sorella. Questo Don Fedele aveva una perpetua con la quale si confidava, una brava donna, ma pettegola un accidente, che raccontò a mezzo mondo che la contessa generosamente aveva provveduto a sistemare il bambino del marito... Il conte muore un anno dopo questi fatti, e in seguito anche Anna, durante un’epidemia. Lascia al bambino, Benvenuto, una casa in campagna, poiché il palazzo è stato portato in dote ed è ato ai Caravite-Belfiore. Quando Benvenuto è cresciuto Don Fedele è morto, ma la perpetua, pur molto anziana, è ancora viva. “Sì”, dice all’ex trovatello che vuol sapere se quello che sente in giro è vero, “tu sei figlio del conte, a me lo disse il povero parroco al quale l’aveva detto la contessa”. Il ragazzo, anima semplice, pur onorato dall’aver appreso le sue nobili origini, si
considera fortunato per come sono andate le cose, e fa dire delle messe per il padre conte e la povera contessa, di animo così nobile. Neppure osa pensare a rivendicazioni, ma la storia dell’origine aristocratica si tramanda fino a Vito, mio padre. Che soddisfazione per il figlio dell’ex camorrista poter chiudere la bocca a chi storce il naso in società, rivelandosi come l’erede “vero” di una grande famiglia! Più che a sé, è a me che pensa, sicché sono io che porto avanti la rivendicazione quando se ne va, più in suo ricordo che per me, perché mio padre era ricco, e mi ha lasciato una bella posizione. L’articolo con la foto sul Mattino mi ha sconvolto: è evidente che io sono la copia esatta di Don Fabrizio, e con i Caravite-Belfiore non “ci azzecco” niente. Quindi Don Fabrizio era davvero l’amante di Donna Anna, come pensava il conte, prima di diventarlo di Donna Rachele, e il bambino affidato a don Fedele, da cui io discendo, era suo. Quando ha scoperto che la moglie era incinta di un altro, e doveva averne le prove, il conte le avrà imposto di rinunciare al bambino, una volta che fosse nato, e lei si è dovuta rassegnare. In seguito, quando il conte è morto, non le è rimasto che cercare di tutelare il figlio con un’eredità. Poi l’epidemia si è portata via anche lei. Palazzo Caravite-Belfiore è vuoto e disabitato da molti anni, le uniche eventuali certezze sulla mia origine le avrei potute forse trovare qui, sempre che Don Fabrizio avesse rivelato a Rachele la sua relazione con Anna; solo quello, perché della paternità non sapeva di certo ancora niente. Però già questo sarebbe stato un fatto che dava credibilità a una ipotesi basata su una somiglianza, anche se impressionante. Mi sono arrivate delle voci sui diari segreti di Donna Rachele, che Donna Amalia pare avesse ritrovati, ed è di quelli che speravo di venire in possesso, anche a costo di comprare la villa, che del resto mi è piaciuta moltissimo, e che magari è davvero un affare, se realmente nasconde un tesoro». «I diari ci sono», gli dico a quel punto, ma non fanno cenno a nessuna precedente relazione di Fabrizio con Anna Caravite-Belfiore. Inoltre Donna Amalia, che li aveva mostrati al professore, se li era ripresi, e non li abbiamo ancora ritrovati. Del resto anche lei sperava che ce ne fossero altri, per sapere che fine avessero fatto Fabrizio e il tesoro, e se i due innamorati si fossero ritrovati, magari in segreto. I diari in suo possesso si chiudevano con l’addio a
Fabrizio, e il proposito di registrare nei prossimi quaderni tutti gli avvenimenti delle sue giornate, in attesa di mostrarli al suo amato, col quale sperava di ricongiungersi. Amalia pensava come molti che il professore, che per una prodigiosa intuizione ha ricalcato nella fantasia degli eventi reali, fosse a conoscenza del contenuto di tutti i diari, e che si riservasse di pubblicarne la seconda parte, romanzata, in un altro libro. Ma lei era vecchia, non poteva aspettare, e così l’ha convocato. Capisci dunque che siamo certi che c’è una cronaca del seguito della storia, ma nessuno di noi la conosce, non avendo ritrovato gli altri quaderni. Ora dimmi se hai qualche altra sorpresa in serbo...». «Mi pare di no», dice lui, «o meglio sì. Rita è mia sorella». Questa poi! Sono stupefatta.: «Scusa, ma tuo padre non ti ha lasciato ricco? E così tua sorella; perché allora Rita è a servizio?». «Rita ha fatto la scuola alberghiera per ione. È molto brava, ma trovare lavoro come chef per una donna non è facile. La signora Giuditta, che la conosceva fin da ragazzina, aveva bisogno sì di qualcuno che sapesse cucinare, ma che all’occorrenza desse anche una mano in casa, benché abbia una donna a ore. Doveva essere una soluzione temporanea, invece Rita è rimasta lì. Mia sorella se n’è andata presto di casa; per dirla tutta, ha sbattuto la porta e via. Litigava con i miei, era troppo “moderna”. É da quando aveva sedici anni che si mantiene da sé. In verità, sto cercando di convincerla a tornare a casa, visto che ormai sono solo. Ma lei non vuole saperne di me, non si fida». Gli pianto uno sguardo fermo in faccia: «E ha ragione?». «No», dice lui, «ho fatto un sacco di fesserie, non per bisogno ma per fare il furbo e dimostrare che ci sapevo fare. Sono tornato a frequentare quegli ambienti da cui mio padre voleva tenermi lontano, e ho fatto un po’ di casini. Ma ora mi sono messo tranquillo, ho capito che a ventidue anni per fare lo stronzo stavo rovinando la mia vita, e ho smesso. La faccenda del Rolex è nata come uno scherzo, l’avrei restituito proprio per dimostrarle che i tempi delle bravate sono finiti. Mi piacerebbe occuparmi di case, comprarle, venderle... Costanza, mi
piacerebbe occuparmi seriamente di te». «Pure se ho quattordici anni? », chiedo maliziosa «E c’aggia fà? Ti aspetterò», fa lui rassegnato. «Meno di quello che credi, gli anni che ho sono sedici». «Te ne sei tenuti nascosti due...». «Tanto non erano un granché, come gli altri quattordici: non ti conoscevo!».
Porca miseria, che baciatore! Riprendo fiato per dirgli: «Però mi devi promettere una cosa...». «Che cosa?», mi chiede lui sempre più rassegnato. Ormai capitola su tutto. «Ti perdono qualsiasi cosa, ma gli stivali di pitone, con la nuvola di talco quando te li levi, no: li devi abbandonare per sempre!». «Non è talco, è polvere di timo deodorante», dice lui, e riprende a baciarmi. «Come si chiama il tuo profumo?», mi chiede.
«Il suono della capitolazione: Chamade».
XIX. Quando c’è la chiamata mica si può dire di no
Dove Costanza e il Pirata trovano in una piccola chiesa notizie su Benvenuto di Bandalunga, e su Don Fabrizio, prete in Cina. La faccio breve: il giorno dopo io e il Pirata ci dirigiamo verso la parrocchia. Troppe cose ci riportano a Don Fedele, magari spunta qualcosa di nuovo. Benché sia ottobre, la giornata è assolata, calda. La chiesa è fresca, silenziosa, e ci inoltriamo nei locali della sagrestia, facendoci precedere da un sonoro: «C’è nessuno?», ripetuto più volte. C’è: un prete giovane, simpatico. Non fosse che per il collettino bianco, manco sembrerebbe un prete. Indossa i jeans e sta trafficando con una persiana. «Avanti! Avanti!», dice tutto festoso. «Però l’ufficio matrimoni è chiuso, vi tocca tornare domani». «Veramente non siamo venuti qui per sposarci», dico io, però a pensarci bene che peccato! «Ah, mi era parso. Avevate un’aria...». «Un’aria? », chiede il Pirata. «L’aria di chi si sposa. Ma date tempo al tempo, ho l’occhio clinico, io. Che cosa volevate?» «É per una tesi di laurea... Volevamo consultare l’archivio della parrocchia negli anni che vanno dal ‘15 al ‘20». «Ah, capisco. Anni di guerra... La ‘15-‘18, l’inizio...». «No, mi scusi, (non riesco a chiamare ‘sto ragazzo “padre”; “fratello” forse?)». «No, mi scusi, 1815-1818», dico. «Ahhhhhhh, roba antica davvero! Non è qui che dovete venire, ma dovete andare
alla Curia Arcivescovile, dove Don Giussani, il mio predecessore, mandò tutti i documenti antichi, dopo qualche furto sacrilego...». Ci legge in faccia la delusione, perché chiede: «Ma che cercavate?». «Volevamo avere notizie di un sacerdote, Don Fedele, che raccoglieva gli orfani dei pescatori in un collegio». «Don Fedele Caposella!» dice con un gran sorriso il prete, sempre dandosi da fare con la persiana. «Un mito di Posillipo, un santo, davvero. Il collegio non esiste più, cioè oggi accoglie bambini diversamente abili, ma conserva di sicuro un archivio, e potreste trovare qualcosa nella chiesetta annessa...». «Anche documenti della chiesa stessa?» «Forse, non lo so con certezza. San Pietro alle Mortelle non è parrocchia, quindi sì, se non cercate documenti ufficiali, ché quelli prima o poi vanno alla Curia, potreste provare a chiedere a Don Fausto Calopresti... ecco qua. Vi scrivo due righe, il numero del cellulare non ce l’ho e credo che lui non ce l’abbia nemmeno, il cellulare. È innamorato delle scartoffie e custodisce con zelo pure i santini, se solo sono vecchi abbastanza. Chissà che non vi possa aiutare lui». Beh, se mi dovessi sposare sceglierei S.Pietro alle Mortelle, una piccola chiesa deliziosa, in un angolo appartato di Posillipo, non toccato dal tempo. Annessa, la costruzione bianca dell’ex collegio. Due o tre ragazzini down giocano nello spiazzo antistante. Ci corrono incontro sorridenti, bellissimi. Dietro di loro quello che da lontano sembra un ragazzo magrissimo, in tuta da ginnastica e con un pallone in mano. Da vicino dimostra tutti i suoi settant’anni. Fa’ un cenno ai ragazzini che tornano a giocare e ci dice che Don Lucio ci ha preceduti; gli ha telefonato in sacrestia parlandogli di noi. Ci accompagna nell’Archivio, che contrariamente al solito è uno stanzone pieno di luce, con tutti i faldoni ordinati sulle scaffalature. L’ordine e la mancanza o quasi di polvere testimoniano lo zelo di Don Fausto, ma dopo due ore ci dichiariamo sconfitti. iamo a salutarlo, e lui vedendoci così delusi ci dice che esiste anche un archivio dell’ex collegio, in verità non aperto al pubblico, però...
La sala profuma di cera per mobili, e qui ci sono delle vere e proprie librerie, con le ante chiuse, e dei cartellini ad indicare l’epoca dei vari documenti, per lo più fasci di lettere chiusi da nastri neri, vari registri e cartelle. Con emozione scopriamo che i registri contengono la storia di ciascuno dei convittori a partire da oltre duecento anni fa, fino al 1946, le circostanze dell’affido o del ritrovamento, le malattie, gli esiti scolastici... Siamo in preda ad una grande emozione quando troviamo, in data 10 Luglio 1816 una nota che riguarda un bambino di tre chili e mezzo, sano e robusto, bruno di capelli e di carnagione chiara, cui è stato dato il nome di Benvenuto Bandalunga, essendo io contrario a cognomi discriminanti che ricordino in futuro la loro condizione di trovatelli. Infatti le fasce di ottimo tessuto in cui era avvolto il piccolo erano straordinariamente lunghe. Il bambino, figlio di genitori ignoti, è sotto la protezione dei Conti CaraviteBelfiore, che me l’hanno affidato, e proviene da persone della loro casa. Sarà loro cura provvedere al suo mantenimento, a cominciare dall’affido per i primi anni due a una nutrice che sotto responsabilità del collegio se ne prenderà cura, fino all’età di anni quattordici e oltre, se il ragazzo mostrasse propensione allo studio, alle armi o alla vita ecclesiastica. Provvederanno a fornirlo di un buon guardaroba e di quanto potrà servire al suo decoro, nonché delle cure mediche se si ammalasse e di funerali religiosi nel caso sfortunato di morte prematura. Inoltre i conti di Caravite-Belfiore provvederanno per un anno alla mensa di tutto il collegio, alla fornitura di mesi tre invernali di carbone e anche al rifornimento dell’olio della cappella e di un nuovo messale, nonché di dodici messe in suffragio delle anime del Purgatorio, una al mese ogni primo venerdì, per dimostrare la loro gratitudine a questa Pia Istituzione che ho senza merito il bene di dirigere. Seguivano la data del battesimo, della comunione e della cresima, alcune note scolastiche che riguardavano il profitto assai oltre la media del ragazzo, ma anche il suo carattere serio, fattivo, riservato nel portamento tanto da parere talvolta altero, ma di buona indole. Il giovane Benvenuto rimane come istitutore al collegio, fino a quando entra in possesso della tenuta denominata “Il Castagneto” con relativa abitazione padronale, eredità della contessa Anna, di cui si occuperà amministrandola e vivendo una vita agiata, senza dimenticare mai il collegio, al quale invierà annualmente derrate alimentari del suo podere e
una discreta somma in denaro per le necessità più urgenti. C’è anche una specie di diario di bordo del collegio, le note dell’economato, i provvedimenti disciplinari, un enorme faldone contenente varie carte, una decrepita cartella con la scritta: Don Fedele. Apriamo la cartella, e iamo in rassegna una quantità di lettere e biglietti ricevuti dal prete: suppliche, richieste d’aiuto, lettere di confratelli, e questo misterioso biglietto, vergato da una mano incerta, che immediatamente suscita la nostra curiosità: Miete la mietitrice in abbondanza perché il morbo infuria. Vorrei essere tra le messi del Cielo, e lasciare ogni cosa al suo posto riparando il mal fatto. Il leone e il liocorno proteggono un segreto che la spada celeste vi indica, al cospetto divino. Non mi fido di nessuno, i miei fedeli sono morti e l’avido amministratore che i parenti di mio marito mi hanno imposto spia ogni mia mossa. Con la mia dipartita torno come la pecorella smarrita al Buon Pastore e voi ricondurrete l’agnello al gregge suo. La vostra disperata A. di S.
Sotto, un commento di Don Fedele: La povera contessa, pur nello stato confusionale del morbo, ha trovato la forza di vergare queste righe che ne testimoniano l’altissima fede. Ha ricevuto i SS Sacramenti e poco dopo ha reso la sua bella anima a Dio. Sono onorato d’avere accompagnato l’agnello al padre suo celeste. Restano le sue opere di bene a ricordarla, prima fra tutte la materna sollecitudine con cui lei, che non aveva avuto la sorte d’esser madre, aveva provveduto al piccolo Benvenuto, che oggi disperato piange più che una benefattrice, una santa. Certo che il povero Don Fedele, pur santo anche lui, non si cibava certo di pane e volpe! Quella lettera criptica, scambiata per il delirio di una moribonda, era il messaggio disperato di Anna di Sansoveno, vedova Caravite-Belfiore, che chiedeva a Don Fedele di rimettere ogni cosa al suo posto, riportando l’agnello, cioè il bambino, alla sua famiglia d’origine. Quella di Don Fabrizio? E attraverso quali prove? Ranieri ed io ricopiamo rapidamente il biglietto, in preda ad un’agitazione incredibile. Ma le sorprese non sono finite! Continuando a cercare, tra fasci di carte troviamo un foglio su cui sono vergate poche frasi, uno stralcio, probabilmente il secondo foglio di una lettera, anch’essa chiaramente indirizzata
a Don Fedele:
Ricevete per mezzo mio anche la notizia della morte nella lontana Cina di un confratello. Padre Fabrizio si è spento all’età di quarantatré anni, dopo aver dato altissimi esempi di fede e carità. Prodigioso nel suo zelo missionario, non aveva mai dimenticato la patria lontana. Proveniva da nobile e agiata famiglia, e la chiamata di Dio lo distolse da un destino certamente glorioso. Per sé non ha voluto mai nulla, ma morendo ha espresso il desiderio che si dicesse per lui una messa in suffragio in una chiesa di Posillipo. Ho pensato alla vostra, che dall’alto domina il mare, certo che esaudirete un tale pio desiderio con fraterna carità. Il vostro fratello in Cristo P. Luigi Caferati.
Usciamo frastornati nella bella mattina di sole. Salutiamo cordialmente Don Fausto e iniziamo la discesa che ci riporta sulla strada di Posillipo. Siamo stranamente commossi, come se Don Fabrizio e la contessa se ne fossero andati qualche giorno fa e non da circa duecento anni. Altri tasselli vanno al loro posto. La contessa muore e lascia disposizioni, non si sa quali, che riguardano il figlio, mentre Don Fabrizio, in seguito a qualche avvenimento che non sappiamo immaginare, ha avuto una crisi religiosa e si è fatto missionario, morendo in una terra lontana, ma sempre, e forse suo malgrado, col pensiero rivolto a Napoli. Certamente fu lui a spedire il plico misterioso consegnato dal marinaio muto a Don Fedele per Rachele. Un po’ alla volta il disegno si ricompone. Io taccio, e all’improvviso sento che il mio ragazzo mi abbraccia. Per la prima volta mi dice: «Costanza, ti voglio bene».
La sua somiglianza in questo momento con Don Fabrizio non è impressionante: è commovente.
XX. Intermezzo
Dove Costanza sogna davanti ad un gelato con Carla. Il professore trova qualcosa ma qualcuno gliela sottrae. In una riunione affollata a casa sua, la signora Giuditta capisce chi ha aggredito e derubato il professore.
Ci sono dei periodi nella vita che apparentemente sono interlocutori, e che poi si riveleranno importantissimi. Certi sonnolenti pomeriggi ottobrini, dove nulla sembra accadere, e invece dietro l’angolo c’è il futuro. Perché magari avete accettato l’invito di un’amica per un teatro, dove proprio non vi andava di andare, oppure perché vi siete fermate a guardare la paletta degli autobus e l’uomo della vostra vita vi chiede se il C27 a qui. Ecco, sono in uno di questi periodi felici, in cui ancora non mi hanno bocciato, ancora non ho preso una direzione precisa e la strada può cambiare ad ogni svolta. Allora, mentre pigramente guardo il mare leccando un gelato insieme a Carla, provo a fare dei pronostici: «Allora, Carla: Annalaura sposa Rodolfo e va a vivere con lui. La villa alla fine non si vende più e diventa la sede di una importantissima casa editrice, la Fratelli Federici editori (che poi saremmo io, sco e Annalaura). Con una importante collana dedicata ai bignami, ai manabili, a tracce di temi pronte, ecc. che curerei io personalmente. Prima però ritroviamo un tesoro nascosto nei cunicoli che si dipartono dalla
villa, ma senza troppo doverci inoltrare fra i toponi di Napoli. E anche dei diari. Ne facciamo un romanzo che diventa un best seller, se ne fa un film, il protagonista è Johnny Deep. E poi diventa un musical. Io rimango per un lungo periodo in dubbio fra Manuele e il Pirata, che mi riempiono di attenzioni e si contendono il mio amore. Poi però alla fine decido per il Pirata e Manuele capisce di volermi molto bene, ma di provare per me un amore solo fraterno. Mamma torna dal Canada o dall’Australia, o da vattelappesca e il professore si innamora di lei. Papà rimane a Siena, smette di borbottare sulla mia ignoranza e sul mio futuro ed è il più assiduo compratore dei compendi di giurisprudenza per istituti tecnici (rivelando così la sua scarsa propensione ad una vera applicazione allo studio, e d’altra parte da qualcuno dovevo prendere). E tu cosa vuoi fare?». «Be’ se Manuele rimane libero magari lo prenderei io, se non ti scoccia». «E tutte quelle lentiggini?». «Farei l’appello ogni mattina, per verificare che siano tutte al loro posto». «Guarda che il Rolex non me l’ha mica regalato lui». «Ma va’? Mica l’avevo capito!». «Allora è proprio amore!». «Una specie…». «Perché non me l’hai detto subito?». «Non sapevo se ti interessava…». «Dio mio, che impressione! Ma allora non sei una “vera” amica!? Voglio dire, il fidanzato di solito te lo soffia lei di nascosto, no?». «Non scherzare».
Comunque l’idea della casa editrice non mi dispiacerebbe. O in alternativa un ristorante alla moda con circolo culturale. Sempre di nutrimento si tratta. Ormai la situazione è questa: sco, che è sempre stato un po’ pigro, non andrà più a girovagare per i labirinti, a meno che non glielo chieda Rita… Il professore infatti ha avuto l’incarico ufficiale di perlustrare gli anfratti segreti dei sotterranei. Speriamo bene che non si incastri in qualche cunicolo, lui così cicciottello. Ma credo che più che altro prediligerà un lavoro d’archivio e di inciuci. Il Pirata è entrato a far parte del gruppo. Ma ho dovuto prima parlarne con Manuele, che si è oscurato moltissimo. Eravamo seduti in un baretto davanti al mare, con Carla. Lui ha iniziato una filippica e lei prontamente gli ha preso la mano sotto il tavolo. Lui è diventato paonazzo e lei ha detto festante: «Costanza, se me lo permetti io Manuele me lo riempio di baci… Mi fa impazzire quando si arrabbia… Ti ho mai detto quanto sono infinitamente belle le sue lentiggini?». Possiamo proseguire felicemente tutti come un sol uomo.
Stamattina presto il professore, attraverso la scala che dalla biblioteca della villa conduce ai percorsi sotterranei, ha iniziato una perlustrazione delle gallerie nella roccia. Infatti quando gli abbiamo mostrato la trascrizione della lettera destinata a Don Fedele dalla povera contessa moribonda, in cui gli fa intendere che nascosti da qualche parte ci sono i documenti con la dichiarazione che il piccolo Benvenuto è figlio suo (e evidentemente di Don Fabrizio), ma di cui il prete non capisce il senso, il professore ha fulmineamente riconosciuto nel leone e nel liocorno lo stemma dei Sansoveno, proprietari del palazzo poi divenuto Caravite-Belfiore con le nozze della contessa. La sua ipotesi è che proprio lì, sotto uno stemma, ci siano nascosti dei documenti, e in particolare nella cappella, che si propone di raggiungere dai
sotterranei, fra i quali c’è il cunicolo che attraversa la collina, la lunghissima galleria alla quale ormai si accede solo dalla caverna marina semisommersa, dove probabilmente è stato nascosto il tesoro. Dopo la morte del marito, Anna fece restaurare la cappella, che aveva risentito molto dei problemi dell’umidità e delle infiltrazioni. Probabile dunque che abbia approfittato dei lavori per mettere al sicuro quanto le stava a cuore. Inoltre la cappella era dedicata a S.Michele, che la tradizione indicava come protettore della famiglia. Poiché l’iconografia lo ritrae spesso con la spada sguainata, solo un sant’uomo semplice semplice come Don Fedele poteva non aver capito il messaggio. Con la solita fortuna del principiante il professore è arrivato subito alla cappella del palazzo Caravite-Belfiore, dove sarebbe potuto arrivare comodamente dal percorso fuori terra, attraverso il palazzo stesso, commettendo una piccolissima violazione di domicilio. L’angelo c’era, una statua di S.Michele che con la spada indicava il centro dell’altare, dove campeggiava lo stemma dei Sansoveno tra vari simboli cristiani. Il professore ha sfilato un tamburo in legno dal centro dell’altare e dentro c’erano effettivamente dei documenti. Facile, no? Almeno così crede lui. Risistema tutto, rifà il percorso, sempre dal sotterraneo, e sbuca nella biblioteca, da cui esce nel giardino per raggiungerci dalla signora Giuditta. Non crede di essere stato seguito, però all’improvviso: Zac! O meglio: Crash! Un bel vaso di fiori, per fortuna appena un vasetto della filosofia della plastica, contenente per amore di cronaca una violetta africana. Il professore rimaneva comprensibilmente stordito e barcollava. Rita ha visto dalla finestra della cucina un tizio che usciva correndo dalla villa con qualcosa che teneva sotto il braccio: si trattava di una specie di Arsenio Lupin, uno strambo individuo con un mantello a ruota, seguito da un tizio molto più anziano che gli urlava di sbrigarsi e che galoppava con una foga che non ci si sarebbe aspettati da un vecchione simile. Evidentemente i due cercavano qualcosa nella villa e, se il povero professore non li ha visti, loro lo hanno certo sentito avvertirci col cellulare che era riuscito a impossessarsi delle carte segrete, prima di uscire e raggiungerci. Mentre uno
dei misteriosi malfattori si è precipitato all’inseguimento del professore, l’altro lo ha bloccato affacciandosi dall’alto e lanciandogli un vaso in testa. (Colpa mia, mi dice il professore, che l’ho fornito di un cellulare). Abbiamo soccorso il povero professore e poi siamo tornati nella cucina della signora Giuditta per un consulto. Perché, direte voi, nella cucina della signora Giuditta? Perché la villa è accoglientissima, ma priva dei generi alimentari di prima necessità, mentre dalla signora Giuditta ci sono sempre scorte alimentari, in caso di eventuale attacco bellico oppure di ospiti inattesi ma sempre benvenuti. Inoltre perché la signora Giuditta, che si annoia tanto, è un’ottima sentinella e abbiamo deciso di ingaggiarla. E dunque la consulta è così formata: la signora Giuditta che è andata a prendere delle pezze e del ghiaccio, Rita che intanto versa il caffè, io e il Pirata che facciamo sedere il professore, Manuele e Carla che si baciano nell’angolo. «Come vi sentite, professore?». «Come l’antagonista sciabolatore di Indiana Jones quando Harrison Ford gli spara con la pistola». «Avete potuto vedere qualcosa?». «Stelle, una gran quantità di stelle». «Sì, ma prima?». «Uccellini, stormi di uccellini che mi ruotavano intorno fischiettando». «Professore, voi dite bene! », interviene la signora Giuditta che intanto è tornata con il ghiaccio e le pezze. «E avete notato di che specie fossero?». Non ce ne siamo accorti, ma la signora Giuditta deve essere andata a sbattere contro qualche stipite mentre correva a prendere le misure di primo soccorso, e ora sragiona anche lei.
«Signora Giuditta, vi pare il caso di mettervi a pazziare?», le chiede il professore. «Ma io sono serissima». «?». «Perché la specie la conosco io: pavoni, trattavasi di pavoni», spiega lei. «?». «Il mantello apparteneva ad una colonia di pavoni con studio notarile alla Riviera». «E voi come lo sapete, signora Giuditta?» «Eh, una madre sa sempre tutto…». «?». «Mio figlio…». «È stato vostro figlio?». «Ma che vi salta in mente! Lasciatemi finire… Mio figlio sta facendo apprendistato in uno studio notarile importante: i Trudelli». «E questo cosa c’entra?». «Eh, c’entra. Perché voi non andate a teatro». «?». «Voi no, ma io sì... I notai Trudelli sono abbonati al teatro. Non che gli piaccia. Si annoiano da morire. Ma lì ci va tutta la Napoli bene. E dunque anche loro ci vanno. Soprattutto il figlio mediano è il più assiduo. E in inverno con cosa ci va?». «Con la macchina?». «Macché macchina, col mantello!».
«Ah!!!», diciamo tutti in coro, come a teatro.
XXI. Nella vita ci vuole metodo
Dove ragionando con metodo si arriva ad un risultato ragionevole. «Il punto», dice la signora Giuditta, donna piena di giudizio, «è capire perché i Trudelli, che evidentemente posseggono le chiavi della villa, si sono spinti ad un fatto gravissimo come la violazione di domicilio, tanto più grave nella loro posizione. La posta in gioco dev’essere altissima per rischiare tanto...». Ranieri aggiunge: «I Trudelli hanno tutte le chiavi, ma non quella di una eventuale cassaforte che potrebbe contenere la mappa con il percorso del labirinto che conduce al tesoro. L’ipotesi più probabile è che il tesoro sia nascosto nei sotterranei, ma che Amalia, già ricca, venuta a conoscenza della sua esistenza attraverso i diari di donna Rachele, abbia voluto lasciare dormire nelle viscere della terra quel forziere, che già aveva procurato tanta infelicità, senza cercarlo; magari quella chiave d’oro, che con tanto metodo cercavo di sottrarre temporaneamente a Costanza, è proprio quella che apre la cassaforte con la mappa, e che Amalia ha lasciato alla nipote prediletta. Sei d’accordo, Costà?». «Macché, dico io, per me la chiave è un ciondolo col motto di famiglia e non apre proprio niente! Secondo me la soluzione è nei diari, che più probabilmente saranno nascosti tra i libri, e che stiamo cercando...». «Lo so, tuo fratello sco, dopo il lavoro, tutte le sere è qui a perlustrare lo studio...», dice Rita. «Sì, infatti ce l’ha detto che sta facendo una ricerca metodica, lui che ha una libreria...». M’ interrompo di colpo: «Studio? Hai usato la parola studio per dire biblioteca, vero? E io ho usato la parola metodo a proposito di cercare... Oddio, ma è quello che aveva detto mia
zia consegnando la chiave a mia madre: “Questa chiave motto per studio...” «E io che avevo creduto che mi esortasse ad avere metodo nello studio! Ranieri, andiamo subito nell’angolo studio della biblioteca, e cerchiamo se c’è un settore SO: forse lì troveremo qualcosa sul “metodo” che ci chiarirà le idee...». «Ah no», dice tutta la brigata, «si va tutti... scherziamo? Ci perdiamo il momento più bello? Non se ne parla...». Nemmeno dieci minuti dopo siamo tutti in biblioteca, compreso Emanuele Filiberto di Savoia, detto Testa di ferro, cioè il professore, che sta benissimo, ‘sti colpi in testa lo galvanizzano, pare.
La biblioteca è divisa per argomenti: SO significa Scientiarum Omnia, cioè le opere scientifiche... con un sospiro d’incredulità troviamo Methodus fluxionum et serierum infinitorum... un libro nientemeno che di Newton, della fine del 700... Dietro, nella parete, il riquadro di una cassaforte a muro che apro con mano tremante usando la chiave che porto di nuovo appesa al collo. Lo sportello si apre e compare un piccolo vano all’interno del quale si trovano alcuni quaderni rilegati in pelle e un libriccino nero con una croce dorata: in apparenza una Bibbia.
XXII. E adesso?
Dove i notai appongono un codicillo, frugano nella villa, ascoltano un telefonata, rubano dei documenti, sperano di aver trovato una mappa, si accontentano di una lettera, credono di aver trovato l’albero genealogico del pirata, lo convocano. Perché? È proprio questa la parola magica che ha trasformato un antichissimo gibbone in un meraviglioso homo digital, col pc e tutti gli altri optional di serie. I gibboni primitivi non avrebbero mai potuto, che dico andare sulla luna, ma neanche prendere un treno da Milano a Napoli, se non si fossero posti una serie infinita di domande, come fece anche Aristotele: Perché l’uomo suda? Perché lo stesso percorso sembra più corto al ritorno che all’andata? Perché i notai Trudelli hanno seguito il professore, lo hanno messo ko, e sono fuggiti con il misterioso tesoro, qualunque cosa fosse? E perché il loro percorso al ritorno è stato molto più rapido che all’andata? Sarà forse a riprova che l’eccezione conferma la regola? Sanno, i Trudelli, qualcosa che noi non sappiamo? Cosa diavolo vanno cercando? E perché? E però, nel chiedervi perché, ricordate pure che molti misteri, fra i quali, ahimè, proprio i più affascinanti, l’uomo ancora non li ha risolti…
La signora Amalia, quando l’ultima volta li aveva convocati nella sua elegante dimora per un codicillo al testamento, aveva parlato di questioni politiche, di ideali patriottici, di diari commoventi… Nel dialogo che segue i due Trudelli, l’anziano e il giovane, saranno nominati per brevità come T1 e T2. «E quindi, signora Amalia?», l’aveva esortata educatamente T1.
Questo non aveva frenato il flusso della narrazione. «D’accordo, signora Amalia, ma i fatti salienti?», l’aveva esortata ancora T1. «Ora ci arrivo. Donna Rachele era una donna molto colta e raffinata...». «Donna Amalia, facimm nu’ pochettin più ampress, con rispetto parlando!», aveva detto senza troppi giri T2. Ma la signora Amalia, che aveva poche visite, quelle poche se le faceva durare. T1 e T2, tale padre, tale figlio, rassegnati ad un tale fiume in piena, smisero semplicemente di darle retta. A turno, se una pausa appena un po’ meno rapida lo consentiva, inserivano un “E certamente! E si capisce!” E intanto pensavano agli appuntamenti successivi. Ad un tratto T1 pensò pure a Giacomina, ma non è il caso di parlarne qui adesso. In ogni caso alla parola “tesoro” si concentrarono entrambi, ma fu un attimo, poiché si parlava solo della nipote Costanza, per risprofondare poi nelle comode poltrone della signora Amalia e nei propri pensieri. Peccato, perché la signora Amalia qualcosa di importante lo aveva detto. Ma T1 e T2 se ne resero conto solo in seguito. Quando lessero sul giornale del best seller del professor De Credenzo, dove si parlava di mappe, di un tesoro nascosto, di nascondigli segreti. Allora si ricordarono perfettamente che la signora Amalia li aveva salutati dicendo: «Lascio la villa a mia nipote Annalaura, ma quanto è eventualmente custodito nei sotterranei della villa desidero appartenga a Costanza, sempre che non salti fuori qualcuno a dimostrare di averne legittimamente diritto. Questa è una busta dove esprimo questa volontà, nel caso che quanto sia colà custodito veda la luce. Lascio fare al destino». Leggendo l’articolo i Trudelli si convinsero che quelli che erano parsi i vaneggiamenti di una vecchia eccentrica nascondevano la verità e che il destino aveva sorriso, a loro. Nessuno sapeva con certezza dell’esistenza del tesoro, e loro decisero che sarebbe stato quello un involontario extra della contessa, quale premio ai notai che aveva tanto seccato con mille quesiti, ripensamenti e dubbi circa l’eredità e la fondazione. Loro avrebbero senz’altro fatto miglior uso di quel denaro di quanto avrebbero fatto i cinesini della missione, che già
avrebbero potuto comperarsi riso per i prossimi cinquant’anni, con grande invidia dei notai, e non si sa perché, visto che il riso lo detestavano. Alla morte della contessa i notai cominciano ad andare di nascosto alla villa, alla ricerca di una cassaforte dove pensano ci sia la mappa del tesoro. Durante quelle visite cominciano ad esercitarsi nel lancio del vasetto di plastica, una variante del tiro al bersaglio che aveva avuto, per uno scherzo del caso, come vittima sempre lo stesso destinatario, il povero professore. L’altro giorno, tornati dalla pausa pranzo, avevano ascoltano un brano della telefonata di un loro tirocinante, tal Mariuolino, e lo avevano sentito dire: «Ma chi? Il professore Lugli? ». «...». «Domani mattina? ». «...». «Crede di sapere dov’è?». «...». « Giusto! E come potrei essere utile? Aprire senza chiavi, ho capito bene? Sce, allora…». «...». «Una Bibbia? Fu spedita? ...Ah! Aspetta, stanno rientrando…». ... «Una neMAPcePA? D’accordo. Ti richiamo più tardi…».
«Ah», ride T1, «l’ingenuo! Mezzucci!». T1 infatti nei suoi verdi anni ha avuto un flirt con una bella commessa dei grandi magazzini di fronte alla Riviera e quindi conosce bene, per averlo usato spesso,
il loro linguaggio in codice. Anche Rita ha fatto la commessa prima di diventare cuoca e spesso con Mariuolino si diverte a parlare così quando ci sono le amiche della signora Giuditta mentre lui gironzola in cucina rubando i pezzi migliori del buffet. E così quel volpone di T1, che crede di aver capito bene il senso della telefonata, dice a T2 che qualcuno sta cercando una mappa spedita in una busta e che l’indomani mattina bisogna tenere d’occhio la villa! Ma quando, dopo aver aggredito e derubato il professore, tornano a studio e aprono la busta, anziché la mappa trovano una lettera molto commovente, in cui la contessa Caravite-Belfiore dichiara che un bambino da lei affidato a Don Fedele come figlio illegittimo di una cameriera è invece figlio suo e del nobile Don Fabrizio Casacara. Dopo un attimo di delusione i notai, che della vendita di quel palazzo si occupano da tempo e sanno che qualcuno ne reclama il possesso quale erede di un tale Benvenuto Bandalunga, figlio del conte Caravite-Belfiore e d’una domestica, fanno presto a capire che questi documenti cambieranno le carte in tavola: Ranieri di Bandalunga non è affatto un Caravite-Belfiore. Però è un giovane molto ricco che potrebbe desiderare di far are questo ritrovamento sotto silenzio e potrebbe offrir loro più di quello che i due guadagnerebbero dai veri proprietari. Il giorno stesso, alle sedici precise, i due notai convocano il Pirata nel loro prestigioso studio. T1 inizia a parlare, con la busta davanti a sé sul tavolo: «Dunque lei non sa che cosa abbiamo qui…», intanto fruga nella busta senza abbassare per un solo attimo lo sguardo dalla faccia del Pirata e tira fuori con aria solenne un depliant piegato in due: «Quanto darebbe lei per questo?». «Vediamo…», e intanto il Pirata tira fuori dalla tasca dei pantaloni un depliant identico, con le offerte di un supermercato a Chiaia. «Così su due piedi, non saprei, dipende… A lei gli shampoo a quanto glieli
mettono?». Il notaio fa una smorfia. Qualcuno ha spostato le carte sulla sua scrivania. Prende una seconda busta identica e questa volta tira fuori il prezioso documento… «Ecco, qui c’è la prova: lei non è un Caravite-Belfiore!». «Ah, che sollievo! Io la amo, uomo meraviglioso!». Il Pirata fa un balzo in piedi e lo bacia sulle guance, grato di aver fatto chiarezza sulle proprie origini. Prima che T1 abbia il tempo di dire qualunque cosa, bacia anche l’altro ed è già alla porta:
«Scusatemi, ma ora devo proprio andare!».
XXIII. Rispettiamo gli equilibri
Dove Annalaura tenta di recuperare biancheria e normalità, Rodolfo la biancheria la butta nella spazzatura e porta a lavare le bucce d’arancia. Tutto finisce come nei film anni ’60.
«Non si può fare». Rodolfo mi guarda sorpreso. «Annalaura, ma che ti prende?», mi chiede perplesso, senza capire. «Mi prende che non si può fare. Arrivo qua per occuparmi dell’eredità, perdo la testa, finisco in quattro e quattr’otto a letto con te, tradisco un fidanzato…». «… il fiume tranquillo», ride lui, «che però hai il sospetto che abbia cambiato percorso, trasformandosi nelle cascate del Niagara… con Pacchipicchi, o come diavolo si chiama». Per quanto mi stia prendendo in giro è sempre un principe: l’ho detto fin dal primo istante! Notate la finezza di quel percorso al posto di letto, come avrebbe detto un altro. «…col quale sto da quattro anni…». «Troppi!», mi dice Rodolfo, «Troppi per stare con uno così….». Nel frattempo cerco il reggiseno, ma dove è finito? Guardo sotto i cuscini, niente… sotto il divano, niente... dietro la spalliera, neppure. Se l’è preso Rodolfo, che me lo fa dondolare sotto il naso scherzosamente. Me lo riprendo di malagrazia. Lo vuol capire che non voglio scherzare?
«Annalaura, bella sei bella, ma quando ti girano mi fai impazzire…», mi dice lui ridendo. Cerco un altro pezzo fondamentale per acquistare un minimo di autorevolezza: «Ma dove sono finite le mie…». «Cerchi queste?», fa lui, facendo sventolare quel che cercavo fuori dalla mia portata. «Insomma», dico, «non so più chi sono, che giorno è, che cosa faccio. Si vende la villa, tutti farneticano di tesori, di contesse fedigrafe, di pirati maltesi, di mappe e nascondigli, e io, che sono la principale interessata e dovrei essere al centro degli avvenimenti, dove sto?». «A letto con me», dice lui abbracciandomi. «Posa ‘sta roba, a che ti serve?». Va a finire che tra una cosa e l’altra a un’altra ora, però alla fine, anche se mi sento come una primadonna richiamata dagli applausi al bis, riattacco al punto di prima: «Non so più che combino, Rodolfo, tutti i miei riferimenti sono saltati, sto più incasinata di prima… L’amore, Rodolfo, dev’essere progettuale, se no cos’è? Capriccio, sfizio, perdita di tempo…». «Però che bella perdita di tempo…». «Tu non mi vuoi capire!». «Annalaura, che ti devo di’? A me ‘sta cosa della progettualità mi sembra una cavolata. Edoardo e tu bene o male state progettando da quattro anni, e vedi come sta andando… Con quell’altra, quella con cui è andato in Africa col caldo e la dissenteria, aveva pure fatto mettere il parquet, e anche là com’è andata? Però anche secondo me dobbiamo rinsavire, perché nel mio caso l’ufficio immobiliare va a carte quarantotto, quelli che devono avere soldi mi cercano senza trovarmi, e sono molti, e pure quei pochi che me li devono dare non mi trovano. Ma soprattutto non mi trovano i clienti, che è anche più grave. Devo rifare la tappezzeria di una Jaguar che se continuo così non mi potrò permettere più. Invece di buttare la spazzatura…».
«Pure tu con la spazzatura? », chiedo esasperata. «No, non era la spazzatura, ho buttato il sacco della lavanderia e ho portato a lavare almeno tre chili di schifezze varie; la lavandaia mi ha inseguito per chiedermi se le bucce d’arancia me le doveva stirare… Insomma io voglio campa’ tranquillo, hai ragione tu, questa cosa non può andare avanti, bisogna rientrare nella realtà…». «Lo vedi? », dico con voce tremula e un groppo in gola: «Non si può fare». «C’hai ragione, Annalaura: non si può. Sposiamoci, e rientriamo nella normalità! »
Ecco, si può immaginare il mio stato confusionale a quella che era la più grande dichiarazione d’amore che Rodolfo mi potesse fare, in più nella modalità “fritto e mangiato”, come si vede solo nei film anni ‘60.
XXIV. Non si può mai stare tranquilli
Per la Squadra A: Costanza e Manuele, Annalaura e Rodolfo, Rita e sco, il professore e Giuditta, Mariuolino e la poliziotta. Per la squadra B: i notai T1 e T2, i “commercianti” Catello e Raffaele. aggi: dalla squadra B alla A: il Pirata. Nuove entrate: per la squadra A: Carla Risultato parziale al 24° capitolo: 12 a 4
«Ma tu che ne pensi, come si mette questa faccenda?». «E che ti devo dire… prima o poi finirà!». «Meno male che era un posto sicuro e tranquillo...». «Adesso non esagerare, fin qui lo è stato. Ci hai mantenuto tre figli con quest’attività!». «Io voglio solo sapere che facciamo adesso…». «Aspettiamo». «Ma noi non possiamo aspettare». «Di nuovo? Non ci pensare. A 10… Su dai, tocca a te!». «Affondata…».
Catello e Raffaele hanno un’attività per così dire commerciale. La loro sede, con relativo deposito, è nella proprietà della signora Amalia. É un posto un po’ nascosto e ci si può accedere da un grotta nella roccia a fianco della villa. La grotta è accessibile solo con la bassa marea. La signora Amalia non hanno mai avuto occasione di conoscerla. Dall’alto della proprietà l’ingresso della grotta è visibile, e dunque il fatto che la povera signora conducesse una vita estremamente solitaria era a tutto giovamento della riservatezza che la loro attività di contrabbandieri richiede. I due sono cognati, nonché portiere e vice-portiere, per così dire, del palazzo a fianco.
«Via libera?». «Sì, sì… sì, nì, no. No, no, aspetta un attimo. No! Decisamente no». «Catello… io non ho mai visto tanta gente appartarsi così spesso in un giardino. Le aiuole sono d’erba, secondo te?». «Ma che ne so… non saprei neanche riconoscerla, mai fatta una canna in vita mia…». «Mi stai prendendo in giro, vero?». «Te lo giuro! Pensa che quando mio figlio grande fumava di nascosto i bidis sono dovuto andare in un laboratorio di analisi a farmi dire cos’era… Solo che la ragazza allo sportello era amica sua. Lui ancora mi prende in giro: “Papà, se me lo chiedevi te lo dicevo io”…». «E come mai non hai mai provato? ». «Mica è obbligatorio…». «Lo so, che c’entra… Però fa un po’ parte del nostro personaggio, se vogliamo…». «Scusa ma noi mica ci occupiamo di canne…». «Che c’entra. Una canna ci sta tutta, col nostro lavoro…».
«Senti, a me se mi inseguono in due, già mi viene il mal di pancia. Perché li devo vedere pure raddoppiati? Per farmi venire cacca brutta, con rispetto parlando…». «Ma se questo lavoro non ti piace, perché in trent’anni non hai mai cambiato attività? ». «E che ti devo dire. É il mestiere di famiglia da generazioni. A me sarebbe piaciuto fare il ragioniere. Lasciamo stare, va’. Piuttosto, ami il binocolo…». «A che punto siamo?». «Bandiera bianca». «Loro o nostra?». «Nostra. Senti, inventiamoci qualcosa. Mica possiamo continuare così…». «E cosa ci inventiamo? ». «I fantasmi». «Che idea originale…». «Facciamo le voci, almeno…». «Che voci?». «Della signora Amalia, per esempio». «Fatti venire in mente qualcos’altro». «Facciamo valere l’usucapione». «Non fa una piega: poiché l’alunno entra un’ora dopo, pertanto può uscire un’ora prima». «Stai bene? Secondo me non fumi perché non ne hai bisogno…». «Sto parlando di una giustificazione di mio figlio, quello dei bidis, scritta con la
tua stessa logica. Siccome abbiamo usato casa vostra di nascosto fino ad oggi, abbiamo diritto a continuare. Apprezzeranno, come ha fatto la preside». «Lo vedi!». «Stavo ironizzando! La preside non ha gradito. Mi ci ha pure mandato a chiamare per sapere se l’avessi davvero scritta io». «E chi era stato?» «Cate’, ma mi vuoi sfottere? Secondo te, io le so scrivere le giustificazioni? La verità è che sono depresso». «E perché?». «Perché ho fatto tutti questi sacrifici per i miei figli, per tutti questi anni… Chi lo avrebbe mai immaginato che dovevo avere questa ricompensa…». «Ma di che parli?». «Eh, mio figlio mi sta dando un dolore troppo grande…». «Di quale figlio parli?». «Di Martino». «È una cosa seria? ». «Lascia stare, mi vergogno pure a dirlo…». «E che sarà mai? Si è innamorato di una in divisa?» «Cate’, non scherzare. Sto dicendo sul serio. Mio figlio si becca latino, greco e storia. Così, in un colpo solo».
«Rafè’, ma vaffanculo!».
XXV. Martino o dell’accento
Dove Martino per un accento si trova nella cacca, ma il professor Lugli lo aiuta a uscirne. I diari segreti si trovano custoditi in un nascondiglio, ma il professo Lugli li aiuta ad uscirne.
Martino è il figlio del portiere del palazzo della signora Giuditta. Nessuno si ricorda mai se il padre è Raffaele o Catello. Per carità, senza fraintendimenti. Nessun dubbio sul padre. Solo sul nome. Perché in portineria da trent’anni il padre ci lavora con il cognato, disoccupato e vice-portiere alle dipendenze del portiere in carica, che sollecita spesso mance per “il giovane” che lo aiuta, e anzi alcuni dei nuovi inquilini non sanno chi sia il vero portiere. Più che altro i due giocano a carte. Qualche volta a battaglia navale. Poi vanno a sedersi ai tavolini esterni di un bar da cui si vede il portone e parlano con gli altri avventori. Sempre voltati verso il portone, però. Martino quindi, genericamente figlio dei portieri, ieri, interrogato in storia, ha parlato con gran fervore di Giovanni Patrioti. Una bella arringa. “Ha la stoffa del mèntore questo ragazzo”, ha pensato l’insegnante. Peccato che per una doppia svista (accentazione e doppia enne) mentre dava un’occhiata rapida alla lezione, due secondi prima di essere chiamato alla cattedra, ha parlato tutto il tempo di un solo Giovanni, il Patrioti, senza minimamente parlare di tutti gli altri Giovani Patrioti che rischiavano la vita per la nazione. In fondo poco male rischiare semplicemente storia a settembre, in confronto.
Loro, tutti quei Giovanni, la storia l’hanno cambiata. Lui, Martino, la deve solo rimandare. Comunque adesso è sulla soglia di casa del professor Lugli. «Accomodati, prego!». «Buon giorno, professore! So che date ripetizioni, me l’ha detto la signora Talarei». Attimo di silenzio. «Professore, però vi devo anticipare una cosa: io di soldi non ne tengo». «Ecco una bella notizia!». «Mio padre non sa che vengo qua…». «Allora mi pare di capire che pure io devo anticipare qualcosa per te… Va bene, non ho fretta, vuol dire che quando guadagnerai mi pagherai…». Il professore, che non vuole davvero farsi pagare, si fa serio. «Martino, ma tu perché le vuoi queste ripetizioni? ». «Professore, voglio togliermi da questa “nunnossacciaggine”. A troppe cose mi debbo dire: questo nunn ‘o saccio: questo non lo so... Ieri ho fatto una figura… Invece dei giovani patrioti, ho parlato di Giovanni Patrioti. Il professore, che mi voleva prendere in giro, mi ha chiesto se sapevo che di Giovanni Patrioti ce n’erano tanti… Sì, ho detto io, i Patrioti erano una grande famiglia, e tutti i nipoti si chiamavano come ‘ o nonno, Giovanni». Il professor Lugli si mette a ridere. «Ma il peggio è stato quando mi ha chiesto se c’erano pure eroine femminili. “Certo”, ho detto, “la Spinolatrice di Capri”. Il professore tomo tomo mi fa: “E che faceva ‘sta spinolatrice?”. “Spinava il pesce in una pescheria, prima di fare l’eroina e morire per la patria”.
Ora purtroppo il professor Lugli sghignazza proprio. Si asciuga gli occhi che lacrimano per le risate e chiede: «Ma perché hai scelto proprio il liceo classico?». «Perché sono democratico. Secondo me la cultura deve andare da tutti». Il professore si gratta il mento. «Secondo voi non me lo posso permettere il liceo classico, vero? «Nihil difficile volenti…». «Professore, volete dire picche? ». «No, Martino. Volevo dire che, volente o nolente, qualche difficoltà c’è». Martino abbassa gli occhi e diventa fucsia. «Ma per settembre tutti i giovani Giovanni torneranno al posto loro, perdendo una enne di troppo, che magari perde pure la spinolatrice, a cui regaleremo una g, per farla diventare una spigolatrice, e da Capri la trasferiremo a Sapri. Che ne dici?», chiede il professore. «Grazie, professore… Basta che col vostro aiuto mi trasferisco pure io in quinta ginnasio, per il resto mi sta bene tutto…». «Martino, ma a te ti piace leggere? ». «Abbastanza». «Che tipo di libri? ». «Un po’ di tutto. Più assai il Corriere dello Sport». «E adesso stai leggendo qualcosa? ». «Quello di De Credenzo». «Ah, e come mai proprio un romanzo storico?».
«Veramente c’è l’ha assegnato il professore a scuola». «E com’è?». «Bello assai… C’è uno che si chiama come le sigarette, Winston, no scusate, Muratti, che sta andando in Francia…». «Murat, Martino, Gioacchino Murat». «Sissignori… Ma se lo sapevo non stavo qua… È tutta una storia ingarbugliata. C’è un pirata che porta un patriota, che diventa un prete». «E poi? ». «Nascondono il tesoro. Se ne parla assai… si dicono tante cose. Un tesoro ventilato». «Perché dici ventilato? Non esiste davvero?». «C’è… Poi magari prende il volo, magari per finanziare qualcuno dei Giovanni, che lo usa per i suoi nobili fini». «Martino, ma tu sei sicuro? Il libro l’ho sc… sfogliato anch’io, ma questa parte non me la ricordo proprio…». «Professore, portate pazienza, forse faccio confusione con qualche altro libro…». «Lasciamo perdere, Martino… me lo racconti un altro giorno».
«Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino. Il lardo giovedì scorso era una pentola piena di spezzatino, due chili di spezzatino da far resuscitare i morti. Il segreto è scegliere un pezzo con un pochettino di grasso... E il vino... guai a mettercelo prima che sia rosolato, se no si lessa, diventa stoppaccioso... Qua ci sono due scuole, quella del vino bianco e quella...». «Raffaele, arriviamo al punto?», dice il cognato, mettendosi un’alice “indorata” e fritta in bocca.
Siamo nella cucina della portineria. «Beh, giovedì sera lo spezzatino era la metà. “Martì”, dico a mio figlio, “alla faccia dell’appetito!”», continua Raffaele tornando all’argomento principale. «“Ma quando mai, “quello” se lo sarà mangiato Cacciatore...”, fa mio figlio. Vabbè che il gatto è furbo, però arrivare a pulire tutto dopo essersi preso i pezzi migliori, pure il coperchio alla pentola ha rimesso, mi pare un’esagerazione! “Lasciamo perdere”, penso, “ci metto due patate lesse vicino e chiudiamola qui”. Ma poi so’ sparite tre bottiglie di Gragnano, una bontà, quelle che mi manda Ciccio Forzano, che lo va a prendere da certi amici suoi che stanno...». Al ricordo di quel vino rosso schiumoso, dal colore intenso, che va giù che è una bellezza, Raffaele diventa lirico. «Rafè, abbrevia», fa il cognato che vuole vedere il telegiornale. «Insomma, ‘na vota sparisce ‘nu salame piccante, una volta un caciocavallo di Massalubrense che mi ero messo a stagionare da quando...». «Arriviamo al punto», invita il cognato a bocca piena. «Il punto è che mi trovavo un ladro in casa nella persona di mio figlio! “Ma quando mai ti ho negato il mangiare? Ma che succede?” gli chiedo. Insomma roba da quella trasmissione,Ai confini della realtà. Perché mio figlio, messo alle strette, non ha negato: si è messo a prendere lezioni di nascosto, figlio mio bello, luce degli occhi miei, e non avendo soldi, ha cominciato a portare da casa qualche omaggio al professore, che è scapolo e vive solo. Il professore la sera si apre la scatoletta di carne e beve una birra, e già questo fa pena. Ma vederlo aprire una busta di Cuoci e leccati i baffi di spaghetti surgelati alle vongole è stato troppo per quell’anima sensibile... da qui i furti. “Ma perché non me l’hai detta questa cosa delle lezioni?”, faccio io. “E tu stai già così amareggiato per tutti i soldi che devi cacciare per il matrimonio di mia sorella...”, mi risponde lui». «E mò?», chiede il cognato.
«Mò gli pago le lezioni, e mando io stesso qualche omaggio a ‘stu prufessore, una soppressata, dieci uova freschissime fatte proprio dalla gallina...». «E chi le doveva fare, il gallo?», ironizza l’altro infilandosi un’altra alice in bocca. «No, per dire che erano uova fatte da gente che tiene le galline nel cortile, mica quelle schifezze dei supermercati...
Ma Catè, che fai, zitto zitto ti stai mangiando tutte le alici fritte? E io a tavola che porto?».
XXVI. L’affare si sgonfia
Dove prosegue il racconto iniziato al capitolo 20, sul ritrovamento nella biblioteca della villa di una piccola Bibbia. La squadra A trova le indicazioni di un nascondiglio segreto. Delle telecamere filmano l’arrivo e la partenza del gruppo da un covo di contrabbandieri.
Io, Costanza, ci sono rimasta secca per la sorpresa. Cioè il professor Lugli, a cui ho ato la piccola Bibbia, la prende in mano e si mette a tradurre, senza batter ciglio, dal greco antico senza l’ombra di un Rocci in vista. Si scusa pure per il senso approssimativo della traduzione e legge, pur con qualche incertezza, le poche righe scritte sulla prima pagina:
Rachele cara, non dubitare del mio sentimento, e perdonami se un amore più grande mi chiamò a sé. Nel viaggio periglioso mi macchiai d’un delitto, per quanto involontario. Dio m’indicò la strada della salvezza, ed è una via senza ritorno. Temo che la mia guida abbia perso la vita e dunque che mai più veda la luce quel che destinammo alle tenebre. Tu segui la via del cuore, che è breve, e ricorda quello che comparve a Costantino, perché lì è la verità. Se necessario destina al bene e alla libertà quello che ormai ti appartiene. Caspiterina professore, roba da applauso a scena aperta! «Tutto qui?», dicono gli altri, un po’ delusi e sgomenti, tipo coro greco, che come sapete commenta. Do anch’io la mia versione: «L’amore più grande è quello per Dio, è la vocazione, scoppiata in seguito a un
delitto che Fabrizio involontariamente ha commesso in quel viaggio. Morto Bastìa, resta il fatto che Rachele sa solo che il tesoro è sepolto nella galleria sotterranea. I due uomini avevano pensato che fosse meglio per lei saperne il meno possibile, almeno finché non si fossero placate le acque. È ormai ato un anno, e Fabrizio vuol far conoscere a Rachele il punto esatto dove è nascosto il tesoro; scrive poche righe in greco, che la sua innamorata conosce, sul frontespizio della Bibbia che le fa recapitare. Il tesoro è qua sotto, sepolto sul lato sinistro della galleria sotterranea, non troppo lontano dall’ingresso. Ce la perlustriamo o o e quando troviamo una croce scaviamo. Tutto qui». Il coro greco protesta: «Come la fai facile! ». «Carta canta!», esclamo battendo la mano sul libretto. «È sempre semplice lo scioglimento dell’enigma: come diceva Sherlock Holmes? Elementare, Watson». «Ma», obietta il professore, «tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare».
Abbiamo dovuto aspettare la bassa marea per entrare nella grotta con due barche, attrezzate come per la pesca con le lampare. Su una ci sono Ranieri, Rodolfo, sco, Manuele e il professore, sull’altra ci siamo io, Annalaura, Rita e Carla. La signora Giuditta è rimasta a casa, non stava nella pelle per la curiosità, ma anche per la preoccupazione. Rodolfo, sco e Ranieri si sono portati muta e bombole, se fosse possibile solo un accesso subacqueo, poi torce, corde e così via, senza contare gli attrezzi per lo scavo, un carrello per il trasporto della cassa, la cassetta di pronto soccorso e non so che altro. Il primo gruppo, per intenderci gli uomini, andranno dentro e noi rimarremo fuori in contatto radio, perché col cellulare che vuoi “prendere” sotto terra? È una sera calma e chiara, quasi estiva malgrado sia ottobre, con la luna e Marechiaro a un o, roba da mandolini e serenate. Splash splash facevano poco fa i remi mentre filavamo nelle acque tranquille, e tutto sembrava solo una gita emozionante; ma ora all’ombra della villa l’acqua è nera come l’inchiostro, e le onde fanno uno strano rumore tra gli scogli, come il respiro di un enorme
mostro marino addormentato. L’odore del tufo da secoli sprofondato nell’acqua sembra quello che si sente nelle cantine o nei cimiteri, e per un attimo la luce della mia torcia illumina un viso di donna che affiora dall’acqua; è solo la copertina di un giornale volato fra gli scogli, ma provo una paura così folle che mi manca il fiato. Nessuno parla, e la villa degli spiriti ci sovrasta con la sua ombra e con i suoi segreti. Vediamo l’altra barca sparire all’interno della grotta, una spaventosa caverna che sembra un antro infernale, e così penoso è vederli inghiottiti dall’ombra, e così impressionante il riverbero di luce fioca che a quel punto viene fuori dalla caverna, che mi metto a pregare “Signore benedici questo cibo”, che è la prima cosa che mi viene in mente, e meno male che il cibo non c’è, perché a questo punto farei come Edoardo l’ultima volta che è venuto a Napoli. Grida lamentose provengono dalla caverna, e ne escono sbattendo le ali degli uccelli marini disturbati nel sonno, mentre l’acqua intorno alla nostra barca è percorsa da tonfi. In lontananza è addirittura fosforescente. E se il mostro marino ci fosse davvero, tipo Loch Ness, e un gigantesco collo con una piccola testa sbucasse all’improvviso dal fondo della grotta...? La barca sparita all’interno riappare, e il professore, solo, ci fa cenno d’entrare. La luce che proviene dalla grotta è leggermente più intensa. Scivoliamo silenziosamente all’interno e davanti a noi appare l’incredibile: il fondo della caverna si è alzato come una saracinesca, e rivela un ambiente immenso, un ex arsenale cui si accede attraverso un molo dove sono attraccate delle grosse barche da pesca a motore e un motoscafo. C’è un discreto numero di casse contenenti merci, un carrello elevatore, altri adibiti al trasporto merci. Ci sono degli armadietti di ferro, una scrivania da ufficio sempre di ferro, un televisore antiquato, un ventilatore. Su una porta di ferro campeggia la scritta in vernice rossa: WC. Accanto una vecchia scopa, una mazza, un secchio di plastica blu. La brigata della barca numero uno è sparpagliata in perlustrazione. L’ambiente è illuminato dalla luce fredda del neon. La perlustrazione rivela che esiste una branda, due sacchi a pelo, due coperte, un berretto di lana, un fornellino a spirito e lampade e torce varie, nonché un piccolo frigo contenente birra, aranciata e una busta di grandi würstel, incominciata. Anche qui c’è un’attrezzatura per comunicare all’esterno via radio. Nel cassetto della scrivania, una rivoltella, due o tre pacchetti di sigarette, una
confezione cominciata di Ringo, penne, registri, un calendario genere tette-alvento, un mazzo di carte. In uno stanzino il pannello del quadro elettrico, due stufe a cherosene. Una telecamera a circuito chiuso è in funzione. A turno, sorridiamo e facciamo ciao. Le casse di merce provengono da Taiwan e sembrerebbero contenere capi di abbigliamento, falsi. Ma anche gioielli, borse, orologi, tutto falso, rigorosamente più vero del vero. «Gesù», dice il professore, «una preghiera: non mi dite che siamo su Scherzi a parte!». Su una seconda porta di ferro, dipinta di grigio come l’altra, c’è la scritta “Uscita di sicurezza”, ed è chiusa a chiave. La chiave è nella toppa. Giriamo la chiave e in questo modo poco trionfale entriamo nel cunicolo, perché non c’è dubbio: altre porte non ce ne sono. Seconda sorpresa: il tunnel, più o meno della larghezza di un corridoio d’albergo, è illuminato, nella prima parte almeno, dalla luce spettrale dei tubi al neon. Percorriamo così 200 metri, in preda alla delusione. C’è perfino attaccato al muro un estintore (ce n’erano anche nell’arsenale adibito a magazzino-merci). Una freccia indica, ad una biforcazione, il lato sinistro. Arriviamo così ad una nicchia scavata nel muro, dove ancora si vedono le tracce di una grande croce dipinta. Nella nicchia c’è un S.Gennaro, alto quanto un bambino di tre o quattro anni, tutto vestito di broccato d’oro. Legato alla cintura, che è una pesante catena d’oro da orologio, porta un corno rosso di plastica. Alla base della nicchia sono montate delle lampade a torcia rosse a basso consumo. Vari santini ai suoi piedi, tra cui Diego Armando Maradona. Misteri della devozione! «Chiste so’ cos’e pazz!», sbotta il professore. «È chiaro che il patrono di Napoli è stato messo lì per grazia ricevuta. Che grazia? Ma il ritrovamento del tesoro, e che cosa, se no? C’è un ultimo tubo al neon, difettoso, a illuminare un tratto della galleria che sprofonda nel buio». A questo punto c’è un conciliabolo: far sloggiare S.Gennaro e scavare dietro la nicchia? La maggioranza vota per il no. Giriamo sui tacchi, col cigolio del carrello per trasportare il tesoro che fa un rumorino, cling cling, quanto mai sfottitorio.
Risaliamo sulle barche, dove Ranieri sta ad armeggiare mezz’ora per capire come far riscendere la saracinesca mascherata da parete della grotta. Infatti l’ha aperta per puro caso, urtandoci contro con la prua della barca. A Manuele, che gli fa notare che tanto le telecamere ci hanno ripresi, quindi è inutile risistemare tutto, sorprendentemente risponde: «Vabbè, ma poi se gli fregano la merce è colpa nostra...».
Certo che strano è strano, della legalità per ora ha ancora un’idea tutta sua. Ce ne torniamo a casa a mani vuote... come si dice? Con le pive nel sacco. Anzi, nemmeno quelle.
XXVII. Ordino prometto e giuro...
Dove al professore arriva una strana telefonata... Martino offre al professore un tesoro in cambio del silenzio sui traffici dei contrabbandieri. I contrabbandieri, in cambio del silenzio, giurano di sloggiare.
Ordino prometto e giuro vogliono l’infinito futuro. Il professore è a letto con un cappello di lana sulle orecchie e una tazza di latte in mano. La giornata è stata piena e ora sta leggendo Topolino. Ma come, Topolino?! Lo so, non è l’Anabasi, ma intanto dopo una giornata come quella, niente come Topolino rasserena l’animo del professore. Che peraltro molti classici della letteratura di tutti i tempi li ha conosciuti per la prima volta da piccolo proprio su Topolino, quando ancora guardava solo le figure. Adesso Gambadilegno sta tentando di gabbare il topo, quando squilla il telefono: «Professore? ». «Eh?». «Siete lì? ». «Sì, e voi dove siete? ». «Professore, siamo qui…». «Meno male ». «Che volete dire?». « Io niente. Siete voi che avete telefonato…».
Silenzio. Poiché il misterioso interlocutore parla in falsetto, il professore lo scambia dapprima per una vecchia con la raucedine, ma nel corso della conversazione riconosce il portiere della signora Giuditta, che per motivi suoi fa la vecchia con la raucedine. La conversazione ha preso una piega strana e il misterioso personaggio non sa come uscirne senza suonare ridicolo. Il professore gentilmente fa da sponda: «Mmm... Ma chi siete?». «Professore, siamo amici». «Mmm... Di chi?». «Come di chi, professore. Volete scherzare? Siamo amici vostri, se voi siete amico nostro». «E si capisce…». A questo punto capisce il perché della voce contraffatta, vedi vecchia con la raucedine. Santo cielo, pensa il professore, non è sua intenzione indispettirli, ma pure loro, però… Ma che, non l’hanno mai sentita, al cinema, una telefonata minatoria?… Aspetta, aspetta, forse sì… Sembrano riprendersi: «Professore, voi non avete capito…». «Allora parlate piano…». Catello abbassa un poco la voce: «Professore, diteglielo pure agli amici vostri: se vi azzardate a fare una denuncia… noi…». «Voi? ». «Avete capito! Prufesso’, voi siete napoletano, e perciò capite a noi: vivi e lascia vivere. Ma per lasciare vivere, voi dovete essere vivo e in buona salute! Come vogliamo che restate, visto pure che avete certe responsabilità...».
«Quali responsabilità?». «Voi dovete portare i giovani alla promozione...». «Io tengo un solo giovane da portare alla promozione...». «Insomma, uno o cento fa lo stesso! Ora non si sa perché un onest’uomo che si è trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato, s’adda mettere appaura di un attimo di distrazione, e subito una macchina lo mette sotto!». «Mi state minacciando?». A questo punto Raffaele, nella foga del discorso, si dimentica di fare la vecchia con la raucedine, e dice con la sua voce normale: «Per carità, noi vi vogliamo vivo e che lascia vivere... ma i colleghi nostri, che si appoggiano a noi, quelli si toccano subito la nervatura, e si sfogano alla guida... E magari voi in quel momento attraversate distratto... Prufessò, ma perché volete fare il sasso nell’ingranaggio, che si deve togliere da mezzo?». Il professore non può più sentirsi confuso: non ha più dubbi sul suo interlocutore e ha capito benissimo il resto… Dopo un attimo di silenzio risponde: «Mi potete are Catello?». Silenzio imbarazzato. «Raffaele?… Avete sentito?… Mi potete are Catello?». «Qua non ci stanno né Raffaeli né Catelli. Qua ci stanno solo amici, che se non dite ai vostri amici di lasciar perdere, non sono più i vostri amici». «Chi? ». «Come chi? ». «Quali amici? ». «Non capisco…». «Se dite “I vostri amici”, vi riferite agli amici che devono lasciar perdere. Se
invece dite solo “vostri amici”, senza l’articolo, vi riferite agli amici che non sono più amici. Avete capito?». «Professo’ qua l’importante è che avete capito voi…». «Abbiate!». «Qua non ci sta neppure nessun Abbiate!». «Purtroppo non si trova più da nessuna parte. Nemmeno sui giornali…». «Prufessò, voi dovete capire che vi vogliamo bene. Fate un discorso ragionevole pure a ‘sto Don Abbiate, che state sicuro, non lo abbiamo preso noi. Ma se rispunta, gli dite: “Don Abbiate bello, vivi e lascia vivere! Glielo dite pure agli amici vostri, che la vita è bellissima e le strisce pedonali nun so’ sicure pe’ nisciuno, ma specialissimamente per chi si fa i fattarielli degli altri...”». «Abbiate...». Click! La comunicazione s’interrompe.
«Cate’, ma che stava dicendo?». «Non l’ho capito… parlava di un certo Abbiate che stanno cercando. Hanno messo pure gli annunci sul giornale». «Ma perché hai riattaccato?». «Non ho riattaccato. Mi è finito il credito… comunque non ti preoccupare, il messaggio gli è arrivato forte e chiaro, che noi siamo amici suoi, ma se non dice agli amici suoi di non parlare di noi, noi amici suoi non lo siamo più…». «Più chiaro di così!…», lo sfotte Raffaele. «Rafè’… fammi il piacere! La prossima volta ci parli tu!».
Insomma il professore ha riconosciuto Raffaele e Catello. E non è chiaro se si sia messo paura. I due portieri decidono di cambiare strategia. Il pomeriggio successivo Martino si presenta alla ripetizione con una cassetta. La cassetta è di legno, vecchiotta, con la scritta Chinamartini. «E quella che cos’è?». «Il tesoro». «Guagliò, fammi ridere... Vabbè che un tempo c’era un carosello, dove cantavano Fino dai tempi dei garibaldini, Chinamartini, Chinamartini, come ai tempi d’oggidì, ma non posso credere... E poi, chi vi ha detto che cercavamo un tesoro?». «Ma che avete capito? Naturale che non è la cassa del tesoro, ma quello è un forziere che bisogna affittare almeno un’Ape per portarvelo, se non si ha la macchina... È proprio uno scrigno, professo’, come quello dei tesori dei pirati, che pesa un accidente... Quello ve lo diamo a parte, vi ho portato solo il contenuto, i’ vengo con la bicicletta, voi neppure tenete l’ascensore, mica so’ Rambo... Comunque, sono venuto a farvi una proposta da parte di mio padre e di Catello…». «Bene, abbiamo fatto un o avanti. Ieri mi ricattavano, oggi mi propongono. La notte porta consiglio». «La proposta è che vi prendete la cassetta che cercavate, in cambio del vostro silenzio. Come lo sappiamo? Ormai la storia del tesoro la sa tutta Napoli... e poi la telecamera a circuito chiuso nel deposito registra pure le voci...». «Come mai mollate un tesoro così a buon mercato?». «Ma qua’ tesoro prufesso’, vi siete fissato cu’ ‘sto tesoro: scartoffie sulamente. Diari e calcoli». «I calcoli fin’a mò mi stanno venendo a me. Al fegato. E l’oro che stava nascosto?»
«Viva l’Italia, prufessò!». «Guagliò ma tu mi vuoi sfottere...». «No, prufessò, il tesoro ha fatto il dovere suo, per l’unità d’Italia, a opera di Don Bastìa e della Contessa Rachele, come sta scritto in questi diari...». «E i calcoli?». «Sono quelli per fare la ventilazione della galleria... Ma leggetevelo da voi, carta canta, sta tutto scritto, nisciuno ve fa’ fesso, prufessò...». «La notte porta consiglio, ma non troppo…». «Professore, che volete dire? ». «Stanno, o meglio state tentando di corrompermi…». «Stanno, o meglio stiamo proponendo uno scambio. Un pagamento anticipato per il diritto d’uso a vita». «Ma si tratta di contrabbando». «Professore, pare che parliamo di una multinazionale con chissà quali guadagni illeciti... Guardate a valle, prufessò, mica a monte! Nel nostro caso, è una onesta micro-attività di famiglia per campare, noi siamo proprio un anello piccolo piccolo della catena... Quale contrabbando? Comprare alla fonte per risparmiare e rivendere all’utente definitivo, senza gabelle... Saltando un po’ di aggi si possono tenere i prezzi bassi». «Sono a livello i aggi che si saltano, però…». «Professore, parliamo di pezze, di qualche monile». «Orologi falsi…» «Non sono falsi. Funzionano benissimo. Sono orologi veri». «Martino, lasciamo stare…». «Professore. Prendetevi questi diari… ci fidiamo di voi».
«Facciamo una cosa: io ne parlo prima con gli interessati. Se loro sono d’accordo, ci prendiamo i diari, che poi sono nostri, non sporgiamo denuncia ma entro due settimane o poco più là dentro non ci deve stare più niente». «I diari veramente sono di chi li trova». «Sì, a meno che non si vadano a cercare a casa d’altri…». «Prufessò, sulla fiducia, pigliatevi tutto, e intanto atevi una mano sulla coscienza...». «Io me la devo are?» «Sì, una mano di bianco, che cancella tutto, e ditelo pure gli amici vostri. «Tutto qui? Altri suggerimenti?». «Sì prufessò. Sopra ci scrivete: Vivi e lascia vivere».
E così Catello e Raffaele ora stanno nell’ex arsenale, a organizzare il trasloco. Per il momento, cominciano a sloggiare innanzitutto il santo protettore, e mentre svita le torce di San Gennaro Raffaele ha un attacco di nostalgia. «Catè, te lo ricordi il giorno che siamo arrivati qui?». «Come no… Dicemmo di appoggiarci un attimo, prima di trovare una collocazione migliore». «Ma migliore di questa non ci poteva essere... Specialmente dopo tutte le migliorie e le spese che ci abbiamo fatto d’estate, quando la povera Donna Amalia se ne andava in campagna...». «Trent’anni e mai un problema: veramente casa e bottega...». «Un lavoro tranquillo, sicuro, meglio che stare in banca...». «...dove magari ti imbrogliano, ti rapinano...». «Catè, il tempo vola. Avevamo detto due settimane e siamo rimasti
trent’anni…». «Quindici a settimana…». «Un attimo rispetto all’eternità!... Del resto il tempo è una convenzione: si restringe, si dilata...». «Catè, sai che c’è? Pure l’altra volta avevamo detto due settimane... Ora ci siamo impegnati ad andarcene nello stesso periodo, o poco più». «Quanto più?». «Più. Bisogna avere una visione cosmica del tempo». «Comica?» «Nossignore: cosmica, più grande... Due settimane, in quest’ottica, possono durare pure trent’anni. O anche di più. Facciamo un fermo immagine. Come fosse un goal di Maradona. L’hai appena detto, o no?… Trent’anni. E tu ti vuoi preoccupare da mò? Metti un po’ a posto quella roba…». «A posto?». «A posto suo. Che poi tra trent’anni io ne tengo ottanta e tu settantotto... Se le cose vanno bene, ci ritiriamo molto prima. I ragazzi hanno altre idee, magari Martino diventa professore... E siccome ogni settimana vale quindici anni, possiamo pure dire al professore che liberiamo tutto tra dieci giorni...». «O poco più», dice il cognato tutto allegro. Riavvita le torce. «Neh, ma non ti pare brutto che a S.Gennaro gli abbiamo messo le lampade a basso consumo?». «Ma no, scusa, mica si è comprato le azioni della società elettrica...».
E infatti dopo due settimane nessuno è venuto a controllare che l’ex arsenale sia stato svuotato. E nemmeno due mesi dopo. Figuriamoci se qualcuno andrà fra due anni! Fra venti neanche se ne parla. Catello e Raffaele hanno pure
subaffittato una parte, con rispetto parlando. E di giorno in giorno, di settimana in settimana, di anno in anno, potrebbero are altri trent’anni. Pure troppi, per due che dopo tanti anni di onesto lavoro se ne vogliono solo andare in pensione. Diciamo che ne basteranno quindici.
XXVIII. Amori e tesori
Dove prima accade un parapiglia, e dopo la situazione torna tranquilla nella villa si leggono i diari, e taluni divengon miliardari una villa con magnifica cornice si trasforma in casa editrice, e quando l’amore coroneranno, come nel detto, un tesoro avranno.
Per leggere i diari abbiamo deciso di riunirci nel salone della villa. C’eravamo tutti: il professor Lugli, arrivato con due ore d’anticipo per dare una prima scorsa ai diari, io e il Pirata in perfetto orario, Annalaura e Rodolfo in ritardo mano nella mano, Rita e sco in prima fila, la signora Giuditta e Martino pieni di curiosità Il professore aveva appena iniziato a leggere quando abbiamo sentito un piccolo tafferuglio in giardino: qui la poliziotta, che stava origliando insieme a Mariuolino, ha intercettato i due notai che a loro volta origliavano dietro il muro di cinta, e ha iniziato a scavalcare. I gatti del professor Lugli, presenti anche loro, l’hanno preceduta e sono planati con gioia sui due tapini. I due portieri, alias commercianti, comparsi all’improvviso dal nulla, abbastanza incongruamente sono intervenuti a difendere i gatti, mentre noi tutti siamo usciti di corsa dal salone per vedere i notai, che erano inseguiti dai gatti, che erano seguiti dai due portieri, che erano inseguiti dalla poliziotta, che era seguita da
Mariuolino… e insomma non si finiva più. Infine, invitati gli ospiti non invitati a lasciare la villa, sono iniziate le letture dei diari che l'ingegner Enrico, padre di Amalia, aveva nascosto per eseguire le volontà di Rachele. Ce lo dice proprio lui, in una lettera trovata tra le carte seppellite nel cunicolo:
Fui io, entrato in possesso della casa a trentacinque anni, a scoprire i diari di Rachele. Nelle ultime pagine era scritto che, ormai anziana, era felice di raggiungere coloro che l’avevano preceduta e di lasciare la testimonianza di una vita straordinaria. Se ne avesse avuto la forza, avrebbe lei stessa nascosto questi diari come aveva a suo tempo fatto con gli altri, ma essendo ormai costretta a letto, pregava mio padre (che prima di me aveva ereditato la villa) di porli alla sua morte in un luogo sicuro, perché vedessero la luce dopo almeno cinquant’anni. I fatti che narrava erano tali da poter ancora suscitare inimicizie e rancori, uscendo la nostra patria da travagliate vicende che talvolta avevano visto membri delle stesse famiglie abbracciare fazioni diverse. Raccontava dettagliatamente l’uso fatto del tesoro, speso ai fini della causa dell’Unità, secondo i desideri di coloro che anni addietro l’avevano destinato a tale scopo, e le sue personali vicende, veramente apionanti. Rachele avrebbe desiderato che io riunissi i diari, la cui prima parte aveva nascosto nella torre dove aveva curato Fabrizio, ma io non riuscii a trovarne traccia, e pensai che se non ero riuscito a trovarli io, probabilmente non ci sarebbe riuscito nessun altro. (Ci sarebbe invece riuscita la figlia Amalia molti anni dopo, fortuitamente, nel restauro della torre ormai pericolante). Dalla cucina, situata al piano terreno, si accedeva al cunicolo dove era stato nascosto il tesoro, e dove ora erano rimaste le piante del reticolo di gallerie sotto il palazzo. Decisi che proprio quello fosse il luogo adatto perché le memorie di Rachele dormissero, in attesa di rivedere la luce, ripromettendomi di parlare a mia figlia Amalia di quel segreto, appena fosse stata in età da comprenderne il valore. Mio padre Gesualdo non aveva mai voluto prendere possesso della casa: Rachele aveva accusato la sua famiglia di non aver mosso un dito per evitare la drammatica fine di suo padre, fucilato dai si.
I Riccobono si erano sempre mantenuti sul filo di una posizione ambigua, nonostante rivestissero cariche importanti, mantenendo un atteggiamento prudente, ben attenti a non lasciarsi coinvolgere troppo dagli avvenimenti; con il ritorno di Re Ferdinando giocarono la parte di quelli che avevano scelto di assecondare i si per far meno danno possibile, e conservarono cariche e beni. Insomma questa casa a mio padre causava qualche problema di coscienza, e fu felice di lasciarmela. Dei diari non seppe mai nulla, ma non sarà lo stesso per Amalia. Invece, come abbiamo visto, Enrico morì ancora giovane, poco più che quarantenne, mentre Amalia era ancora troppo piccola. Sapeva la sua vedova dei diari? Li aveva giudicati importanti? Comunque, l’avrebbe seguito di lì a pochi anni, lasciando Amalia orfana di entrambi i genitori, e del tutto ignara dei diari. Non trovai nessun tesoro nel forziere, ma quello che per me si rivelò un tesoro altrettanto grande. Negli scavi per nascondere la cassa, Fabrizio e Bastìa rinvennero le antiche mappe dei cunicoli e delle gallerie sotterranee: ma anche i calcoli e gli studi che erano stati fatti per rendere possibile la realizzazione di alcuni tratti dove si poneva il problema della ventilazione. Non tedierò chi mi leggerà con spiegazioni inutili, ma spero da questo originale sistema di trivellazioni e tiraggi, con spiegazioni scritte addirittura in arabo, come arabo doveva essere chi le ideò, e che mi sono fatto tradurre, di realizzare un progetto. Mi è venuta un’idea che vorrei sviluppare, perfezionando con le attuali conoscenze quest’arte che riguarda l’ingegneria idraulica, che studia non solo le acque ma anche i fluidi, come è l’aria appunto, magari brevettando questa felice intuizione sulla quale conto di lavorare durante quest’anno, soprattutto nel corso dell’estate, e che potrebbe darmi molte soddisfazioni. Ho ritenuto prudente chiudere l’accesso della galleria per impedire a qualsiasi malintenzionato di accedere alla casa, ritenendo viceversa sicuro il secondo accesso, da una grotta ormai semi-sommersa, e di cui comunque ho murato la porta. (Ma a riaprirla avevano pensato i nostri contrabbandieri...). Eravamo tutti turbati da questa lettera, e ancora più lo fummo dalla lettura di alcune pagine del diario di Rachele, che ci dettero un’idea della sua disperazione nel non avere notizie di Fabrizio, della sua solitudine, dello smarrimento nell’apprendere che era vivo, ma non sarebbe tornato da lei... e infine dello sdegno nel vedere ricomparire Bastìa, solo, venuto secondo lei a esigere comunque il suo credito, e la sorpresa di trovare un altro uomo, cambiato
profondamente, che le dice che pur sapendo dov’è il tesoro, non lo toccherà, così come non avrebbe toccato lei. In questa cronaca vivace stonerebbero le pagine che vedono nascere un sentimento forte tra i due: una donna che ha molto sofferto, un uomo che vuole riscattarsi. Finché c’è vita, scrive Rachele, anche quando si pensa che tutto sia finito per sempre, non è detta l’ultima parola. Dal ramo secco compare una gemma, il cielo è ancora per fortuna azzurro, e ci scopriamo capaci di amare, indignarci, combattere, soffrire anche... e are la fiaccola meravigliosa in altre mani, destinate a raccoglierla.
Il professore preferisce non leggerci le drammatiche pagine dello scontro con la Real Marina del legno pirata su cui viaggiavano, dove Fabrizio credette di aver ucciso un giovanissimo mozzo, che prima di chiudere gli occhi gli aveva detto: “Nun ve preoccupate, poteva capitare a voi, è capitato a me...” Anche Fabrizio fu ferito, perse i sensi, si salvò in circostanze in cui vide la mano del Signore su di lui... Ma, dice il professore, per spezzare un po’ il pathos di quel racconto, il Signore usò tutt’e due le mani in quell’occasione, perché con l’altra salvò dal naufragio della sua nave anche Bastìa e il ragazzino ferito da Fabrizio. Le strade del nobile napoletano e del pirata maltese non si incontrarono mai più, anzi Bastìa credette morto l’uomo che gli era stato affidato, e seppe che era vivo e ormai sacerdote da Rachele. La nostra eroina lottò molto prima di arrendersi all’evidenza: non era un ramo secco, e si innamorò di quello che fino a pochi anni prima per lei era stato solo uno spietato avventuriero. Decisero insieme di battersi di nascosto per la causa dell’Unità, finanziando moti e ribellioni, salvando molti patrioti, soccorrendo i feriti, le vedove, gli orfani. Il loro legame rimase segreto, protetto dalla clandestinità, e forse per questo fu anche più avventuroso e romantico.
Bastìa adottò il ragazzino salvato, che a sua volta salvò molte vite da grande, diventando un medico che si dedicò soprattutto ai bambini, facendosi “la voce di chi non sa parlare”. Rachele lo allevò come il nipote di un caro amico, poiché Bastìa Taveroque non era il vero nome del pirata, che, tornando al mondo, per la prima volta riprese quello della sua casata, che era molto illustre, e ufficialmente figurò nella loro vita come un facoltoso mercante che viaggiava in tutto il mondo. Rachele morì poco dopo Bastìa, dopo una vita abbastanza lunga, ricca di eventi; dell’uomo che le era rimasto accanto per tutti quegli anni dice:
Quel suo andarsene prima di me fu il solo dolore che mi dette da quando ci scambiammo la nostra promessa, ma anche allora mi è rimasto accanto, come sento vicino a me Fabrizio, l’amore della gioventù che tanto mi fece soffrire, e come porterò nel mio cuore Giuseppe, il ragazzino che Bastìa ha adottato, oggi un uomo meraviglioso, che se non ho portato nel seno, certo ho portato e porterò nel cuore per sempre. Non ho vissuto invano.
È stato così apionante apprendere queste cose che del tesoro quasi ci eravamo dimenticati. Ed effettivamente ce lo possiamo scordare. Non c’è più. Usato. Per nobili motivi. S’è fernù, come si dice in franco napoletano. È finito. In fondo non ci avevamo mai creduto. Inoltre, come abbiamo appreso dalle ricerche del professor Cuottolo, il ramo Casacara si è estinto con Fabrizio, i beni di famiglia a suo tempo andarono a dei parenti nobili in Sicilia, e non se ne sa più nulla. Del resto Ranieri è orgoglioso di chiamarsi Bandalunga. Stretta la foglia, larga la via... La bella favola è finita, ma noi siamo qua, felici anche senza tesoro, un po’ frastornati e commossi, finché dopo pochi minuti Rita e sco tornano con una bottiglia di champagne gelato, e tutti insieme brindiamo... al futuro, all’amore, a poter tutti dire, tra cent’anni s’intende: Non ho vissuto invano.
Sono ati pochi mesi dalla quella riunione. Tiriamo le fila: I notai sono rimasti scornati: i Caravite-Belfiore infatti, venuti a conoscenza dell’ambiguo colloquio dei Trudelli col Pirata, li hanno giustamente sollevati dall’incarico, e dunque T1 e T2 hanno visto sfumare il cospicuo onorario pattuito in caso di vendita. Annalaura e Rodolfo si sono sposati. Edoardo e Picchipacchi presto faranno altrettanto. sco e Rita si sono fidanzati. Carla e Manuele stanno insieme. Io e Ranieri, il mio Pirata, pure (ci sposeremo appena possibile). Mariuolino ha sposato la poliziotta incinta ed è diventato assistente universitario del suocero (che è alle stelle per la contentezza). La signora Giuditta avrà di che chiacchierare per tutti i burraco della sua lunghissima vita. Il professor Lugli sta scrivendo il secondo best seller, mentre il primo è diventato una fiction. Insomma successo e soldi a palate. Io sono stata notata dal regista per caso, e... incredibile! Farò la protagonista... E siccome il Pirata era a portata di mano, bellissimo, Ranieri sarà Bastìa. E la villa? La villa è meravigliosa. Abbiamo deciso di non venderla e di farne la sede della nostra casa editrice. Infatti siamo diventati comproprietari della Adeli e il signor Adeli, con la sua esperienza e con i soldi fatti coi libri del professor Lugli, è davvero impagabile. Ma avere una casa editrice non è semplice. In questa bella nazione si legge pochino. Le spese sono parecchie e la manutenzione della villa è molto
impegnativa. E così scherziamo sul tesoro che c’è e su quello che non c’era. Ma soprattutto ci divertiamo tanto. Non sempre però. Adesso per esempio si è di nuovo otturato il water e pare che si debba rompere la colonna. Comunque per fortuna è una faccenda assolutamente maschia! Sento Annalaura che chiama: «Rodolfo???!!!!!». «Che c’è?». «Sorpresa… Lo scarico di nuovo non funziona. Mi sa che stavolta servono bei soldi per risistemarlo!». Due ore dopo Rodolfo, umiliato come uomo e come ingegnere idraulico, dice: «Sai che c’è, io rompo il muro, pazienza!... Poi risistemiamo». E…voilà…
Dopo un po’ di picconate il muro cede e... Piovono calcinacci e... monete d’oro. Una pioggia di monete d’oro... un flusso che non si ferma, e in breve si ammonticchia sul pavimento, mentre gridiamo in coro:
IL TESORO!!!!!!!!!!!
Conclusione:
E qui si finisce davvero. Non temano i lettori, Bastìa e Rachele davvero dedicarono il tesoro di Murat alla causa dell’Unità. Nulla sapevano del tesoro murato nella villa, tesoro lì sepolto dal padre del generale D’Arcos... Siete curiosi, vero?
Ma questa è un’altra storia.
Personaggi: in ordine sparso
Annalaura Federici, 32 anni, bella ragazza, ponderata con guizzi inaspettati. Fidanzata con Edoardo, 36 anni, avvocato.
Costanza Federici, sorella di Annalaura. Ha 16 anni, è vivacissima, scanzonata, molto affezionata alla sorella.
sco Federici, fratello di Annalaura e Costanza. Trentaquattro anni, laureato in biologia molecolare, è uno scrittore di successo.
Ellen Estwood, “mamma pazza” dei ragazzi Federici,canadese, ecologista e scultrice. Simpatica, non foca monaca.
Renato Federici, papà dei tre ragazzi. Separato dalla moglie, si è risposato e vive a Siena.
Rodolfo, trentaquattro anni, laureato in ingegneria idraulica, ha un’agenzia immobiliare.
Edoardo Raimondi, avvocato, trentasei anni. Vive con Annalaura a Milano. Ha una mamma e due sorelle.
Picchipacchi, l’altra di Edoardo. Si sospetta sia buona. Si sospetta anche che piaccia molto a Edoardo, che fa l’asino di Buridano, e non si decide.
Manuele, amico di Costanza, diciotto anni. Balbetta per intenerire le ragazze che vuole conoscere.
“Pirata” Ranieri di Bandalunga, figlio di Don Vito. Somiglia Johnny Deep. Ha ventidue anni.
Rita Bandalunga, 24 anni, sorella di Ranieri. Sveglia e indipendente, diplomata chef, vive e lavora dai Talarei.
Mario Talarei detto Mariuolino (da mariuolo, cioè ladro in dialetto), figlio della signora Giuditta. Studia pigramente legge. Ha ventiquattro anni.Gioca a carte.É avaro.
Stefania Leschi, poliziotta, con un debole per i trasgressori più carini.
Giudice Leschi, papà di Stefania. Aspirante nonno a oltranza. Anticonformista. Molto moderno.
Professor Lugli, professore di liceo in pensione. Dopo tanti libri di storia finiti sulle bancarelle ha scritto un romanzo che è diventato un best seller a Napoli, con lo pseudonimo di Luciano De Credenzo.
Catello e Raffaele, commercianti sui generis. Hanno la loro “sede (il)legale” quasi sotto la villa.
Giuditta Amandoli in Talarei, ha tre figli: Clarissa, Matilde e Mario (Mariuolino). Giovanile, positiva, saggia, dà prova di solido buonsenso e anche di guizzi inaspettati. Simpatica.
Giovanni Talarei, marito di Giuditta e padre di Clarissa, Matilde e Mariuolino. Gioca a bridge col padre di Stefania. Bella presenza, ottima persona, segni particolari: noioso.
Notai Trudelli: T1 e T2, fanno parte di uno studio di sei notai Trudelli.Antipatici.
Avvocato Stanislao Rubicone, somiglia a una vecchissima tartaruga, al vecchio jedi di Guerre Stellari, a Enzo Biagi. È curvo per l’età veneranda. In disarmo ma ancora galante.
Arnolfo Adeli, editore del professor Lugli. La sua filosofia: Business is business.
Professor Lucio Cuottolo, storico illustre.
Don Vito Bandalunga, papà di Rita e Ranieri. Convinto di esser l’erede diretto del Conte Caravite. Proveniente da un pessimo ambiente, è un onesto imprenditore col pallino della rispettabilità.. Vorrebbe far parte della
Napoli bene. Invano ha tentato di iscriversi a circoli prestigiosi. Snob.
Mariapia, medico, è amica del cuore e confidente di Annalaura. Ha tre figli: Matteo, Luca e Giulia. Due sono umani e una è un trollo. Femmina.
Carla, Giulia e Adele, amiche di Costanza. Giardiniere Gennaro, è il giardiniere che si occupa del giardino della villa. Fatalista.
Ottico di via Martucci e di Giuditta, venditore galante.
Amalia Riccobono, contessa, figlia dell’ingegner Enrico, proprietaria della villa. Non sposata, religiosissima, anima vibrante e mente lucida. Enrico Riccobono, (padre di Amalia), ingegnere ingegnoso.
Contessa Anna Caravite-Belfiore (Anna di Sansoveno in Caravite), anima apionata,sposata dalla famiglia al conte Edmondo Caravite che non ama.
Conte Edmondo Caravite, marito di Donn’Anna, che ha sposato per interesse. Grande cacciatore, dopo aver fatto strage di pelli e penne, ci rimette le sue.
Benvenuto Bandalunga, affidato da crescere a Don Fedele.
Don Fabrizio Casacara, (nel best seller si chiama Raimondo), doveva raggiungere Murat in Corsica portando oro.
Contessa Rachele D’Arcos, figlia di un generale fucilato dai si per comportamenti filo-borbonici.
Bastìa Taveroque, corsaro, chiamato anche il Maltese, uomo molto bello e, sembrerebbe, privo di scrupoli.
Don Fedele Caposella, brav’uomo, d’animo buono e semplice, ha fondato un orfanotrofio, sollecitando spesso i finanziamenti alle famiglie nobili di Posillipo.
Don Fausto Calopresti, uomo fattivo e di fede, è l’attuale direttore dell’ex orfanotrofio, oggi istituto per i ragazzi con handicap.
Descrizione della villa
La villa, di notevoli dimensioni, si sviluppa su quattro livelli. È stata costruita sulla collina di Posillipo e i due fronti principali si trovano a quote diverse. Un viale fiancheggiato da pini porta al giardino antistante la casa, che su questo fronte ha due piani fuoriterra, sovrastati da una terrazza belvedere su cui si trova una piccola torre. Oltre l’ingresso che divide le due sale della biblioteca, si trova un ampio salone sul mare, alla cui sinistra c’è una sala da pranzo mentre sulla destra si trovano la stanza di Amalia e quella della sua domestica. Il piano superiore ospita alcune camere da letto e una zona giorno. Al piano sottostante incastrato in parte nella roccia, ci sono la cucina, collegata attraverso un montacarichi alla sala da pranzo, le camere della servitù e altri ambienti di servizio. Il piano inferiore, al livello del mare, è costituito da un basamento, al cui interno si trovano l’ex ricovero delle barche, un’ ulteriore cucina e alcuni ambienti destinati a magazzini. La villa è piena di aggi segreti. La biblioteca è collegata ad un aggio sotterraneo che porta ad una grotta nella collina, usata in tempo di guerra come rifugio. Una biforcazione collega il palazzo accanto, dove vivono i Talarei, allo stesso rifugio. Una ulteriore deviazione conduce invece alla cappella del palazzo Caravite, sul lato opposto. Alla villa si può accedere anche dal mare, attraverso un’entrata centrale nel basamento. Sul fronte opposto un aggio, oggi murato, collegava l’accesso dal mare con una galleria che sbuca dall’altro versante della collina, una via segreta nelle viscere della terra, via dei contrabbandieri, pirati e soldataglie varie. Un tempo si poteva entrare nella villa anche attraverso una grotta laterale nella roccia. La grotta nasconde una grande caverna naturale, da cui parte un cunicolo che si collega alla galleria.
Palazzo Riccobono