Comune di Loiano
Patrizia Carpani – Katia Brentani Il profumo dei ricordi. Loiano. Racconti, storie, curiosità e ricette di casa nostra Prima Edizione Ebook 2013 © Damster Edizioni, Modena ISBN: 9788868100391
Damster Edizioni Via Galeno, 90 - 41126 Modena http://www.damster.it e-mail:
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Il profumo dei ricordi LOIANO racconti, storie, curiosità e ricette di casa nostra
a cura di Patrizia Carpani e Katia Brentani in collaborazione con il Comune di Loiano con il contributo di Calcestruzzi Italcementi Group
Indice Presentazione Gastronomia loianese tra storia e attualità Attrezzi utilizzati in cucina L’albero del pane SPEZZATINO DI MAIALE CON MARRONI E FUNGHI PORCINI SECCHI I mulini PANE COTTO La pasta madre PASTA MADRE DI ENRICA Tradizioni locali Cioci e l’educazione a tavola Il formaggio “Loiano” Fare il formaggio e la ricotta Del formaggio La poetica del maiale (Ode al porco) Salsiccia Prosciutto Salame
Cotechino La coppa RISO IN BRODO DI COPPA SANGUINACCIO A son da óva e da lat Delle erbe dei campi DOLCE DI PANE E MELE della nonna Ada Le ricette del cuore I TORTELLINI E LE CIAMBELLE DI MAMMA ROBERTA CIAMBELLA SEMPLICE TORTA DI CIOCCOLATO CON LE NOCI SALSA PER IL LESSO SALSA PER LESSO 2 TORTELLONI DI NOCI La variante della Beppa TAGLIATELLE CON RIGAGLIE DI POLLO La versione della Beppa TORTA DI RICOTTA POMERIGGIO PREFESTIVO DOLCE DI FRUTTA DELL’ANCONELLA CERTOSINO
AL FIÒLI AD IÒFFA EI MURADOR LE RICETTE DAL FIOLI AD IOFFA EI MURADOR RICETTA DEL NOCINO NEGLI ANNI ’60 PESCHINE DI ADA CRESCENTINE MARMELLATA DI PIZINCULE MARMELLATA DI PIZINCULE ZUCCHERINI DOLZ E BROSC DLA NONA CLARA AL MIAZOLI LE MIAZZOLE L’ OSTERIA DI AMELIA CONSOLINI FILETTO ALLA GIULIO CESARE RICETTA DELLA PASTA ALLA NORMA ATELLI VERDI ZIA ELISA FIOCCHI DI NEVE NONNA MERCEDES CREMA DI NONNA MERCEDES
NONNA DORINA “FRIGGIONE” DELLA NONNA DORINA I MIEI RICORDI SUGHETTO CON SALSICCIA INSALATA DI STRECAPOGN ZUCCHINE RIPIENE CILIEGIE SOTTO SPIRITO CILIEGIE SOTTO SPIRITO L’ASPIC DI ROSINA DI CA’ DI GUIDINI ASPIC DI ROSINA PASTA E FAGIOLI CON POLENTA POLPETTE DI PATATE DELLE SORELLE VOLTA POLPETTE DI PATATE RISO IN BRODO CON L’UOVO SALSA DEI GIORNI DI FESTA SALSA DEI GIORNI DI FESTA SALSA DELLA NONNA STRICHETTI CON NOCE MOSCATA E PARMIGIANO IN BRODO VOV FATTO IN CASA IL VOV DI NONNA ELENA LO ZABAIONE DEL MAESTRO
ZABAIONE MINESTRA DI FAGIOLI DELLA FAMIGLIA BENVENUTI I MONDI POLENTA CONDITA FRIGGIONE Ringraziamenti Catalogo Damster
“Gli Appennini mi appaiono come un interessante pezzo di mondo. Alla grande pianura padana fa seguito una catena di monti che si eleva dal basso verso sud a chiudere fra due mari la terraferma. Se queste montagne non si ergessero tanto alte e scoscese sopra il livello del mare, e non fossero tanto stranamente articolate da avere impedito nei tempi andati una maggiore e più costante azione delle maree, capace di formare pianure più ampie e più soggette ad alluvioni questa sarebbe una terra stupenda, col più mite dei climi, un po’ più elevata del resto del paese. Così, invece, è un singolare groviglio di dossi montuosi contrapposti gli uni agli altri; sovente non si riesce a distinguere in che direzione corrono le acque. Non si deve però immaginare un deserto di monti, ma una regione ben coltivata, anche se montagnosa. Qui cresce molto bene il castagno, il frumento è bellissimo e i seminati già verdeggianti. Lungo le strade si vedono querce sempreverdi dalle foglie piccole, mentre intorno alle chiese e alle cappelle sorgono snelli cipressi”.
(J. W. Goethe 22 ottobre 1786)
(Loiano anni ’30)
(Panorama del paese in una cartolina spedita il 25/10/1905)
Presentazione
È una caratteristica tipica dei bambini quella di pensare che le situazioni che amano e che li fanno sentire bene non cambieranno mai, che le nonne e le mamme saranno sempre presenti a soddisfare il loro corpo e la loro anima con cibi e storie che li rendono felici. Poi gli anni ano e un giorno ci coglie la nostalgia di un sapore, di un odore, ci viene in mente un cibo che ci aveva resi felici nella nostra infanzia, ma non riusciamo più a ricordarci come si preparava e nessuno è più in grado di insegnarcelo. Queste riflessioni sono state la spinta che ha guidato l’Amministrazione Comunale, di cui faccio parte, alla scelta di realizzare un manuale per raccogliere storie, usi e ricette, legati al nostro ato e al nostro territorio. Protagoniste sono le mamme e le nonne, vere “eroine” dell’economia domestica, in un tempo in cui la fantasia era un elemento fondamentale di ogni ricetta di cucina. La raccolta del materiale che ha formato questo libro è stata un’incursione nel ato recente e non, della comunità loianese, che a volte mi ha divertito e a volte mi ha commosso. Molte persone hanno messo a disposizione con grande generosità i loro ricordi che Katia Brentani, la curatrice dell’opera, ha saputo sapientemente miscelare. Mi auguro che questo libro rimanga nelle cucine dei loianesi, a memoria di quelle coccole per l’anima che sono i ricordi dell’infanzia, non coperto di polvere ma di farina, sintomo del fatto che queste ricette sono ancora vive nelle nostre case.
Patrizia Carpani
Assessore alla Cultura
La famiglia Volta quasi al completo: nel ‘50 l’ultima figlia non era ancora nata.
Gastronomia loianese tra storia e attualità
di Eugenio Nascetti
In mancanza di ritrovamenti che ne attestino le origini ad un’epoca anteriore, si può far risalire il primo insediamento loianese al popolamento romano delle vallate del Savena, dello Zena e dell’Idice, avvenuto in varie fasi a partire dal secondo secolo avanti Cristo. Il piccolo nucleo rurale è rimasto per molti secoli nulla più che un agglomerato di capanne poste in una posizione favorevole, protette dal Monte Bastia dai venti freddi del nord, soleggiate fino tarda ora, servite da alcune piccole fonti che sgorgavano dal terreno sabbioso. Durante il medioevo la strada che attraversava il paese acquistò una importanza sempre maggiore fino a diventare la principale arteria di transito tra l’Italia settentrionale e quella centrale e a farne un importante centro feudale. Con l’assoggettamento delle famiglie Ubaldini e Loiani (la seconda era il ramo locale della prima) al potere bolognese, la vocazione di Loiano mutò e il villaggio divenne centro di un distretto amministrativo le cui ultime prerogative si svilupparono nei secoli con diverse modalità e si spensero definitivamente negli anni ’50 del novecento. Per secoli la strada della Futa è stata percorsa da mercanti, pellegrini, religiosi e uomini d’arte, diretti a Firenze e a Roma e il paese è cresciuto al suo servizio, sviluppando una particolare attitudine all’accoglienza. Scorrendo i dati del censimento del 1847, l’ultimo realizzato dalla Stato Pontificio, si ha la chiara percezione dell’importanza dell’asse viario per l’economia locale: numerosissimi sono i loianesi censiti come vetturini, stallieri, postiglioni, osti e locandieri. In epoca alto-medievale lungo la strada romea si svilupparono gli ospedali per i pellegrini: quello di Sant’Antonio di cui conserviamo una pianta, quello posto
all’ingresso settentrionale del paese di cui rimane la traccia toponomastica, quello dell’Ospitalazzo e quello assai importante di Roncastaldo. Nacquero nel trecento il convento degli Agostiniani, nel seicento quello di San Giacomo dei padri scani e quello femminile di Sant’Antonio delle madri Terziarie, con lo scopo principale di accogliere i religiosi, per i quali, anche durante il viaggio, non era dignitoso pernottare promiscuamente. Contemporaneamente sorsero numerose locande ed osterie con alloggio, i cui nomi più antichi e famosi sono quelli della Corona, della Luna, e del Leone. Alcune di esse sono ricordate nei diari di viaggio di numerosi intellettuali europei che, adeguandosi alla moda di scendere lungo la penisola alla ricerca dei resti dell’architettura classica tornata in gran voga e delle opere dei maestri del Rinascimento, effettuavano il Grand Tour, il viaggio di istruzione in Italia. All’osteria dell’Orbo, del Cavalletto, della Sterlina, alla locanda dell’Angelo o della Stella, nei più recenti esercizi di Mauretto, di Antenisca, di Augusto ed Biaca e di Maria d’Tajadela si mischiavano avventori locali intenti al gioco delle carte ad occasionali viaggiatori stranieri, affascinati dall’Italia ma diffidenti degli italiani, allettati dai cibi nostrani ma sempre pronti a criticarne la qualità. La gran parte dei giudizi dei viaggiatori famosi è negativa: il cibo descritto come greve e dozzinale, il servizio ritenuto mediocre e sbrigativo, freddi ed inospitali i locali. Questi giudizi, che hanno pesato negativamente sulla reputazione dei ristoratori locali e incidono tuttora sulla loro autostima, vanno ridimensionati e ricondotti al contesto in cui venivano espressi. Solitamente i cronachisti erano clienti facoltosi, abituati ad esercizi di alto livello, a vivande elaborate, ad arredi ricercati. Spesso erano stranieri col pregiudizio dell’italiano rozzo e superstizioso, membri dell’alta società che consideravano elemento di distinzione lamentarsi sempre ed ovunque, soprattutto di ciò che, appartenendo all’attualità, non avesse legami “coi grandi del ato”. Non si conoscono con precisione i menù proposti dalla ristorazione loianese nelle varie epoche, se non attraverso qualche lamentela circostanziata che tuttavia non può essere attribuita a prassi diffuse.
Possediamo invece alcuni elenchi di forniture alimentari del convento dei scani, risalenti alla metà del XVIII secolo, ma le severe prescrizioni delle regola monastica e la scarsità di mezzi economici del convento, in cui si viveva di elemosine, impediscono di ricavarne un esempio di alimentazione in uso nella ristorazione pubblica. Carne di maiale, pollo e coniglio, più frequentemente che bovina, uova e latticini, polenta e pane, frutta e ortaggi, noci e castagne, a volte cacciagione, erano alla base dell’alimentazione degli indigeni e certamente facevano la parte del leone sulla tavola delle osterie e delle locande. Certamente i ristoratori, per quanto avidi e poco interessati a farsi un nome, cercavano di servire qualcosa di più elaborato. La Guida Michelin del 1926 fotografa la ricettività alberghiera e la ristorazione loianese negli anni in cui il trasporto a trazione animale cede il o a quello a motore. Sono censiti tre alberghi: il Due bandiere di Vittorina Canapi, il Corona di Norma Gamberini e il Tre stelle di Virginia Consolini. I ristoranti sono registrati come “osterie e generi diversi” perché la licenza di somministrazione di cibi e bevande corrisponde a quella per la vendita al dettaglio degli stessi. Fino agli anni settanta del ‘900, quando i movimenti demografici e le nuove normative sul commercio li hanno trasformati in semplici trattorie e poi portati al declino, gli esercizi situati nelle frazioni svolgevano una triplice funzione: negozio di generi di prima necessità (a volte anche di sale e tabacchi), osteria e trattoria e luogo sociale di aggregazione, mentre i locali del capoluogo si erano già tutti “specializzati”. Quegli esercizi rappresentavano un’appendice all’abitazione del titolare. Si entrava bussando alla porta nel corridoio che solitamente divideva lo spazio pubblico dalla cucina del titolare ed era uso dire: “fev ancora da ustaria?” per assicurarsi che il gestore fosse disponibile al servizio. Osterie di tal genere, a volte con cucina, erano gestite in paese da Giuseppina Bruzzi, da Amelia Consolini, da Olga Marzi, da Norma Gamberini, da Maria Sammarchi, da Artemisia Salomoni e da Maria Serenari. Come si può vedere, a Loiano negli anni venti, alberghi e ristoranti erano completamente in mano
all’imprenditoria femminile e poco importa se i mariti, titolari di altre attività, intervenissero nella gestione dell’esercizio e se la cucina fosse considerata roba da donne: le mogli avevano a che fare con i viaggiatori e quindi col mondo. Sempre nel 1926 si registrano nelle frazioni gli esercizi di Vito Mazzoni a Bibulano, Aldo Gamberini e Assunta Paganelli a Scascoli, Elvira Stanzani all’Anconella, Valente Gamberini, Antonio Menetti, Virginia Monti, Vito Monti e Aldo Stanzani a Barbarolo, Alfonso Giovannini ed Emilio Monti a Scanello, sco Giovannini, Argia Menichetti e Attilio Monti al Querceto (borgo a quel tempo compreso nel territorio comunale loianese), Romano Bacci, Giulia Maurizi, Adele Nascetti ed Alberto Nascetti a Roncastaldo. Le abitudini alimentari sono ripetutamente mutate nel tempo e delle ultime modifiche abbiamo esperienza diretta, vale ad esempio l’utilizzo del burro, ora quasi completamente espulso dalla cucina a favore dell’olio che un tempo veniva utilizzato solamente come condimento, visto che per friggere si adoperava lo strutto. Sulle nostre mense ed in quelle dell’attuale ristorazione i condimenti a carattere vegetale hanno soppiantato il ragù e la carne fresca viene preferita agli insaccati, divenuti meno carichi di sale per le diminuite difficoltà di conservazione. Dopo la corsa alla globalizzazione delle forniture si sta lentamente tornando alla ricerca di prodotti locali ma senza avere conservato le tradizionali capacità di scelta e trasformazione delle vivande, soprattutto quando si tratta di predisporre per la cottura un alimento allo stato grezzo: pochi sanno spennare ed eviscerare il pollame o scuoiare un coniglio. Tuttavia l’attitudine conservativa della locale cultura alimentare offre sponde alla genuinità e, quando il turismo è divenuto di massa grazie alla diffusione degli automezzi, la locale ristorazione ha goduto di un periodo felice. A partire dalla metà degli anni cinquanta del novecento i bolognesi vengono a Loiano a mangiare le crescentine di Mario in Piazza Dall’Olio o a bersi un aperitivo con i tramezzini di Italo Benvenuti e a cercare funghi e tartufi nelle locande delle frazioni, dove a volte si possono trovare raffinati piatti con carne di lepre e di fagiano, Poi, nel tempo, molti locali storici come il Pellegrino, il Santiago ed il Corona, per restare a quelli del capoluogo, hanno chiuso i battenti per lasciare il posto a
nuovi esercizi e sono cambiati clienti e menù. Tuttavia la tradizione culinaria loianese rimane salda ed il contatto con tante realtà gastronomiche d’importazione non ha impoverito più di tanto l’offerta di piatti e ricette locali. Molti giovani frequentano la scuola alberghiera e divengono cuochi provetti ma è nelle famiglie che si mantiene viva la tradizione: le massaie sono lo zoccolo duro della gastronomia, alcuni artigiani e soprattutto contadini conservano il sapere tradizionale della trasformazione dei prodotti ed è ancora viva l’usanza di “tirare” la sfoglia, base di tanti primi piatti della locale gastronomia. Da un ambiente così ricco sono nate alcune interessanti esperienze relative alla filiera del latte, a quella dei cereali ed alla produzione e lavorazione della carne suina, importanti presidi gastronomici che pongono la realtà loianese al centro di un rinnovato interesse per i prodotti e la cucina della tradizione.
Attrezzi utilizzati in cucina
di Paolo Gamberini
Da sempre moltissimi strumenti per la cucina sono stati prodotti con l’utilizzo del legno degli alberi. Naturalmente l’esperienza e la conoscenza della caratteristica del legno ha portato a scegliere le specie più adatte a seconda del tipo di utilizzo dello strumento che si andava a costruire.
TAGLIERE PER IL TRITO (Batla) Il legno più adatto è sicuramente di sorbo domestico (Sorbus Domestica L.) molto compatto e di colore rossiccio. Altro legno usato per questo strumento è quello di quercia (Quercus Pubescens, Roverella).
CUCCHIAI, MESTOLI (Cucer, Ramiol) Il legno più usato è di faggio (Fagus Sylvatica), molto compatto e privo di venature. Per questo tipo di utensili veniva usato anche il legno di altri tipi di alberi, come la quercia, il sorbo ed il carpino.
MATTARELLO DA SFOGLIA (Matarel da spòjja) Questo strumento non doveva e non deve piegarsi, neppure minimamente al fine di ottenere una sfoglia perfetta. I legni più adatti sono di faggio e di quercia.
MATTARELLO DA POLENTA (Matarel da pulenda) Questo strumento deve essere molto leggero e flessibile. A questo scopo si usavano il legno di salice della varietà Salix Alba o Salix Caprea.
SALIERA (Salaról) Questo utensile veniva utilizzato per conservare il sale preservandolo dall’umidità. Il legno usato era fra quelli più comuni, cioè di castagno (Castanea Sativa), quercia o pioppo (Populus Alba).
SECCHIO PER L’ACQUA (Secc) Costruito con legno di castagno dai mastri bottai.
TAGLIERE PER LA SFOGLIA (Tulér) Fare un buon tagliere non era da tutti, serviva un ottimo falegname e il legno doveva essere ben stagionato. Il più adatto a rimanere in condizioni perfette era il pioppo, nella varietà Alba o Nigra.
PALA PER LA FARINA (Palet) Altro strumento molto utile in casa, che veniva realizzato con legni molto duri, come quelli di faggio e di quercia.
SEGGIOLA (Scrana) I piedi erano in legno di noce o di ciliegio, usato appena tagliato e non stagionato. I traversi in quercia o acacia ben stagionati. La sedia si saldava insieme senza l’utilizzo della colla, ma per le differenti stagionature del legno.
CESTO O PANIERE (Panier) Il materiale per eccellenza è il salice (Salix Viminalis), ricavato lungo i fiumi. Dopo aver potato le piante in autunno, si tagliavano i nuovi germogli lunghi, flessibili e senza nodi. Da questi, dopo averli sbucciati, si ricavavano i brell cioè i vimini, che poi andavano intrecciati per formare il paniere.
COLTELLINA PER TAGLIATELLE Molto spesso veniva fatta con la falce per tagliare l’erba. Quando la lama, ei fer, si rompeva, era rimodellata per questo uso, con l’aggiunta di un manico in legno fissato con rivetti in ferro ribattuti.
L’albero del pane
di Renzo Panzacchi
Possiamo ben dire che per molto tempo gli abitanti dell’Appennino hanno basato sul castagno la propria esistenza: dove c’era il castagno c’era l’uomo e viceversa, si è creata così una vera e propria simbiosi tra l’uomo ed il castagno, definito “l’albero del pane”. A partire dall’anno mille, grazie alla lungimiranza della Contessa Matilde di Canossa che aveva compreso l’importanza del castagno nella poverissima economia contadina dell’Appennino, e ne aveva incentivato la coltivazione, e fino agli anni ’50 del secolo scorso, il castagno è stato utilizzato per sfamare, riscaldare, costruire, medicare, conciare le pelli. Del castagno, così come del maiale, si usava dire che “non si butta via nulla”.
Il Marrone Biondo: prodotto delle nostre terre I marroni, antichi frutti dell’Appennino, sono ben diversi dalle più comuni castagne. Il marrone si distingue per il gusto più dolce e profumato, ha una pezzatura maggiore della castagna, ed il frutto è protetto da una buccia di colore avana (da cui il nome “biondo”) e da una sottile pellicina che può essere asportata con facilità, operazione invece difficilissima con le castagne. Nella coltivazione del Marrone Biondo non si utilizzano sostanze chimiche: nessun concime né trattamenti antiparassitari. È quindi un alimento sano, digeribile, di alto valore nutritivo e calorico. Ricco di amidi e zuccheri complessi, il Marrone Biondo, è particolarmente indicato nella dieta di giovani sportivi e persone anziane. L’alto contenuto di sali minerali, come fosforo e magnesio, soddisfa le esigenze di oligoelementi essenziali al nostro benessere, e fa del Marrone Biondo un vero e proprio integratore alimentare: per gli apparati cardiovascolari e neuromuscolari è quindi in grado di aumentare la resistenza alla fatica. Forse pochi sanno che, data la totale assenza di glutine, il marrone e la castagna sono
un alimento perfetto per chi soffre di celiachia.
In cucina In cucina si presta per le più svariate preparazioni: antipasti, primi, secondi, dolci, creme e marmellate. Tanti i piccoli segreti e gli accorgimenti per rendere più semplici e gustose le preparazioni. Ciò che per secoli ha fatto la fortuna di castagne e marroni come base dell’alimentazione è stata la facilità di conservazione di questi deliziosi frutti, che per questo diventarono preziose merci di scambio. Tutta la bontà dei marroni si assapora pienamente in autunno, ma la sapienza delle popolazioni montanare ha elaborato un procedimento tutto naturale per conservarne fino a primavera la qualità ed il gusto. Per alcuni giorni si immergono i marroni in acqua in modo da provocare una leggera fermentazione. I frutti sono poi fatti asciugare in locali ben aerati e riposti in sacchetti di rete.
SPEZZATINO DI MAIALE CON MARRONI
E FUNGHI PORCINI SECCHI
Ingredienti (per 4 persone) 800 gr. di spezzatino di carne di maiale 1 carota, 1 gambo di sedano, 1 cipolla bianca 1 bicchiere di vino rosso 25 marroni Una bella manciata di funghi porcini secchi Un cucchiaio di concentrato di pomodoro Olio extravergine di oliva q.b. Sale q.b., pepe nero in grani q.b., 1 foglia di alloro
Procedimento: in un tegame di coccio, fate rosolare nell’olio, la cipolla, il sedano e la carota tritati, quindi aggiungete la carne e fate rosolare lentamente. Nel frattempo avrete messo i funghi porcini in ammollo in acqua calda per circa 2 ore. Filtrate e conservate l’acqua d’ammollo (6 cucchiai dovrebbero bastare). In pentola a pressione mettete i marroni a bollire in acqua e con una foglia d’alloro, per 25 minuti circa dal fischio (con pentola normale 1 ora). Quando la carne è ben rosolata, aggiungete il vino e fate sfumare, quindi aggiungete il concentrato di pomodoro, l’acqua dei funghi, rigirate spesso con un mestolo di legno, aggiungete i marroni che avrete spellato e sbriciolato grossolanamente, infine il pepe, i funghi, e per ultimo il sale. Se occorre, aggiungete ancora un po’ d’olio. Servite ben caldo con polenta gialla.
N.B. Se i marroni non sono freschi di stagione ma secchi, prima di cuocerli è
necessario metterli a bagno in acqua fredda per una notte. Buon appetito.
I mulini
tratto da una ricerca dell’Istituto di Agraria di Loiano “Luigi Noè”
I mulini, incassati nei rii o nei torrenti, sfuggono oggi alla vista dei anti, ma un tempo erano ben conosciuti dalla popolazione locale in quanto erano strutture fondamentali per l’approvvigionamento alimentare. La loro dislocazione era in relazione alla reperibilità delle risorse per il loro funzionamento (l’acqua e le colture agrarie) ed alla centralità rispetto alla comunità. Nelle aree montane esistevano diverse varietà di grano, ben differenti da quelle che si utilizzano oggi. I mulini, però, potevano lavorare diversi prodotti agricoli, non solo il grano o l’orzo, ma anche il mais, le castagne…. I mugnai detenevano un grande sapere tecnico. Essi dominavano l’acqua, sapevano compiere la sua trasformazione in energia, e avevano conoscenze di meccanica sufficienti a far compiere agli alberi motore il numero di giri più opportuno. Non solo, sapevano anche valutare la giusta temperatura delle macine, stimare il giusto grado di essiccazione dei cereali e sfruttare la potenzialità energetica dei corsi d’acqua. Dal mugnaio come compenso del lavoro veniva trattenuta una quantità di prodotto chiamata “molenda”. I mugnai, vista l’estrema varietà di prodotti che giungevano al mulino, dovevano disporre di diverse tipologie di macine, a grana più o meno fine e con scanalature differenti. Queste strutture erano vere e proprie opere di ingegneria idraulica. L’acqua del torrente veniva immagazzinata in un bacino (botte) antistante il mulino. Da qui l’acqua attraversava delle arcate (trombe) per entrare nella parte sotterranea del mulino (catinaia). Qui erano posizionate le pale (catini) che venivano azionate dalla sola forza dell’acqua, ed a loro volta, facevano ruotare un’asse (fuso) a cui era collegata la macina superiore. Con le sole vibrazioni di questo moto, i grani potevano uscire dalla “tramoggia” con un flusso regolato dal mugnaio, per poi uscire sottoforma di farina. Con la farina macinata, racconta Paolo Gamberini, si potevano preparare il pane e i dolci che venivano cotti nel forno (ei foren). Il forno a legna era presente in tutte le case coloniche, nei borghi e nei paesi. In molti borghi vi erano forni comuni che venivano usati a turno dalle varie famiglie. Nelle case più importanti il forno era all’interno dell’abitazione stessa, dove c’era il camino, per poter utilizzare la medesima canna fumaria.
Nella nostra zona la forma del forno era quasi sempre circolare a cupola e solo in alcuni casi poteva essere a uovo d’oca, cioè leggermente più allungato. Le dimensioni variavano a seconda dell’importanza della famiglia (i più grandi potevano contenere anche venti pagnotte di un chilo). In campagna l’uso del forno era quasi sempre affidato alle donne e avveniva di regola una volta alla settimana. Con l’esperienza, a chi lo usava bastava un’occhiata per capire la temperatura. Si accendeva con i “bacchetti” di quercia e di biancospino. La temperatura per cuocere il pane deve essere intorno ai 200/220 °C e rimanere costante per circa un’ora. Per i primi 10 minuti non bisogna aprire il forno per non compromettere la lievitazione del pane e la sua buona cottura. Un tempo, dal momento che si scaldava il forno, lo si sfruttava per cuocere altri cibi che venivano posti al suo interno in conformità alla temperatura decrescente. Sfornato il pane si cuoceva la ciambella (brazadela) e per ultimi gli spumini (i spumin): bastava poco calore per effettuare questa cottura. Il pane, fino a quando non si era raffreddato non si toccava, e per i bambini non era facile resistere al profumo di buono che invadeva l’aria e la casa. Il pane fatto dalle mamme o nonne non era tutto uguale, anche se venivano utilizzati gli stessi ingredienti.
Alcuni proverbi sul pane Pen d’un dé e vin d’un an (pane di un giorno e vino di un anno). Di questo proverbio esiste anche un’altra versione che dice: Pen d’un dé, vin d’un an e don ad vint en (pane di un giorno, vino di un anno e donne di vent’anni). Ei pen sott ei fa ben a tott (Il pane asciutto fa bene a tutti). Maz urtlen tenta paja e poc gren (Maggio ortolano, cioè piovoso, tanta paglia e poco grano).
PANE COTTO
ricordo della famiglia Benvenuti Ingredienti Pane raffermo, acqua o brodo Parmigiano Sale, pepe, olio extravergine di oliva Procedimento: questa minestra detta anche minestra degli anziani, poiché assai gradita alle persone senza denti per la sua consistenza, era da considerarsi forse la più tipica delle ricette povere. Generalmente la si faceva per finire il pane avanzato ma soprattutto con quel poco che si aveva a disposizione. Se si aveva il pomodoro: lo si aggiungeva... stessa cosa con le uova o con i più svariati ingredienti. La cosa certa era che più cuoceva e più era buona!
La pasta madre
Era un pezzo di impasto tenuto dal precedente, e nutrito durante la settimana perché rimanesse vivo. Questo impasto permetteva attraverso la sua fermentazione la lievitazione del pane. Per fare però un buon pane servono molti altri elementi. Temperature adatte. Acqua ottima Dosi giuste. Luogo ottimale dove i lieviti sono presenti nell’aria stessa. E infine un buon forno.
PASTA MADRE DI ENRICA
ricordo della figlia Morena Panzacchi Ingredienti 100 gr. di farina, 1 cucchiaio di olio un pizzico di sale, yogurt, 1 cucchiaino di miele Procedimento: una volta fatto il primo impasto veniva lasciato lievitare una notte. Il giorno dopo si faceva il pane. Enrica era solita aggiungere durante la lavorazione un po’ di birra. Sento già il profumo!!! Intanto che si preparava l’impasto si accendeva il forno. Durante la lievitazione dopo aver fatto le pagnotte si chiudeva bene il forno che l’occhio esperto spegneva quando era caldo. Il pane ha garantito la sopravvivenza di intere generazioni. In montagna dove la materia prima era quella che era (segale, veccia e infine il grano) si erano sviluppate tecniche di panificazione molto pregiate. Col tempo, attraverso una crescita delle specie di grano più adatte alla panificazione, l’arte molitoria è cresciuta fornendo farine migliori e la disponibilità di forni a legna eccellenti: nelle famiglie contadine si otteneva così un pane buonissimo. Il pane veniva sempre fatto dalle donne, l’uomo in alcuni casi aiutava a scaldare il forno. Per ottenere un ottimo pane l’ingrediente principale era “la fame”, scherzo ma non troppo, anche perché quella non mancava.
Negozio di pane e pasta nel 1953: al centro la Beppa con la figlia Romana col grembuile e Adriana col cappotto
Tradizioni locali
(svezzamento – pranzo – merenda)
Uno dei compiti delle nonne era quello di svezzare i bambini più piccoli. Anche se adesso può sembrare un po’ raccapricciante, in mancanza di omogeneizzati, il metodo per rendere digeribili i cibi ai bimbi in età di svezzamento, era fer i biaso, cioè offrire loro bocconi preventivamente masticati dalla nonna. È noto che la digestione inizia in bocca! Uno dei divertimenti dei bambini era il mazapecc. Si può considerare antenato della cicles ed era formato da chicchi di grano masticati a lungo, in modo da estrarne il glutine che diventava una sostanza elastica, come appunto la gomma da masticare. Una merenda per i pomeriggi piovosi erano i manfei, frittelline fatte con una pastella di farina bianca e acqua, cotte direttamente sul piano della stufa economica.
Manuela Massa nel 1954
Cioci e l’educazione a tavola
Un bel giorno Cioci andò a trovare un suo cugino di Bologna. Andarono a mangiare in una trattoria ed ordinarono due bistecche. Vennero servite le due bistecche, ma una era grande ed una piccola. Cioci, che aveva sempre una gran fame e non era certo abituato alle buone maniere, prese subito quella più grande, cosicché l’altro gli disse, rimproverandolo: “Guardi signor Giuseppe che non è educazione prendere subito la più grande”. E Cioci: “Beh, tu quale avresti preso?” E l’altro: “Quella piccola.” Cioci: “Tienitela mò, che è lì!”
Cioci e l’educazion a tevla Un bel dé Cioci l’andé a Buloggna a truver só cusin e insemm i’andétter a magner int’una traturia. Ei camarer ui purté do bistecch ma onna l’era dimondi pió granda che cl’etra. Cioci, c’l’aveva semper na gren fam e poca abituden a fer di fig, ei tols subett la pió granda. Sicchè cl’eter, bravendel, ui gét: “C’hei bèda, ei me Jusfon, cl’a né brisa educazion tor la pió granda”. E Cioci: “e té qual’aresset tolta?!” E cl’eter: “c’la pió cina” E Cioci: “e alora, tinla mò cl’e lè!”
Mario che mangiava i tortellini con gli occhi (piangendo)
“Com’e’ Marino che piangi? cosa è successo?” “Eee com’erano buoni i tortellini dei Magrini…” “Beh gli hai mangiati?” (tutto meravigliato perché sapeva che non poteva permetterseli) “Noo, ho visto uno che li ha mangiati!” Mariin che i magneva i turtlin coi occ’ (e po’ ei crideva) “Cum’ela Mariin c’at crid? Cus’el suzest?” “Eee, cum’ieren bun i turlin di Magrini ……” “Beh, i’et magne?” (tot maravie perché ei saveva c’un pseva brisa) “Noo, ma ai’ò vest un cui magneva!”
Cioci
Il formaggio “Loiano”
di Eugenio Nascetti
Due fattori sono da sempre alla base di una produzione di latte abbondante e pregiata: buoni pascoli e ione per il bestiame. Recentemente se ne è aggiunto un terzo: la scelta di produrre latte biologico, condivisa da quasi tutti gli allevatori della montagna bolognese. Si può dire che una nota marca sia debitrice dell’alta qualità all’impegno dei produttori loianesi e dei comuni limitrofi. Alle pareti delle loro stalle è facile vedere appesi premi e diplomi per l’elevato contenuto lipidico e proteico, per la bassa carica batterica e, soprattutto, per le ottime caratteristiche organolettiche del loro latte. Dal lavoro degli allevatori e dall’intraprendenza dei fratelli Cacciarini nacque molti anni fa il formaggio “Loiano” che, seppur non compaia più sui banchi dei negozi, rimane l’unico esempio di prodotto che porta il nome del paese. Il formaggio venne infatti registrato con quel marchio presso la Camera di Commercio di Bologna, quando i capitolati per ottenere il controllo della denominazione di origine erano poco sviluppati e la normativa diversa da quella attuale. La svolta nella tradizionale produzione casearia loianese, fino ad allora limitata all’uso familiare o alla vendita minuta, si concretizza a partire dal 1948, quando Enzo e Filiberto avviano in paese una latteria con la madre Italina. Per procurasi il latte da vendere in bottega e a domicilio, si servono in principio di mezzi assai semplici, una bicicletta ed un contenitore di latta con l’interno smaltato, recuperato tra l’abbondante materiale lasciato sul posto dalle truppe alleate. Ben presto acquistano una motocicletta e poi un furgoncino; organizzano e potenziano la raccolta ed il conferimento del latte eccedente le loro necessità alla centrale di Barberino del Mugello.
Nel dopoguerra le stalle e gli automezzi non possiedono impianti di refrigerazione: per ridurre la carica batterica, si aggiunge al latte acqua ossigenata. Nel 1963 un decreto proibisce tale pratica e le conseguenti maggiori difficoltà di conservazione spingono i due fratelli a tentare la strada della trasformazione, impiantando un caseificio. Presto si procurano diversi clienti, ma la diffusione dei loro formaggi si fa più vasta ed importante quando vengono posti in vendita da alcune cooperative di consumo alla ricerca di un prodotto genuino, di buona qualità e di giusta pezzatura. Nasce così, dalla locale tradizione casearia e dalla richiesta del mercato, un formaggio semitenero, interamente di latte vaccino, a breve stagionatura, fresco e saporito, chiamato “Loiano”. La potenzialità del caseificio consente la confezione giornaliera di 400/500 di questi formaggi da mezzo chilo, ma la produzione non si limita ad una sola tipologia. Lo squacquerone diventa un altro pezzo forte del Caseificio Cacciarini: un formaggio molle, da consumare freschissimo, privo di crosta e dalla consistenza acquosa, tipico delle colline romagnole e di una piccola porzione dell’appennino bolognese, ottimo con le crescentine fritte. Altri prodotti che “tirano” sono il burro e, grazie all’intervento di un casaro salernitano, un tipo di mozzarella prodotta appositamente per guarnire le pizze confezionate nelle numerose pizzerie da asporto che il famoso Altero apre a Bologna e nelle Romagne. Pur avendo uno stretto rapporto con il metodo di lavorazione tipico della tradizione loianese, il “Loiano” di Enzo e Filiberto non è perfettamente riproducibile in casa e, per questo motivo, non se ne riporta il procedimento. La produzione casalinga infatti si basa esclusivamente sull’uso di latte crudo appena munto, utilizzato senza alcun trattamento, così come si trova presso il produttore, mentre i caseifici impiegano per lo più latte pastorizzato, soprattutto per i formaggi freschi, per evitare patologie derivate dalla presenza di microorganismi. Al latte pastorizzato vanno aggiunti, oltre al caglio che ne determina la
coagulazione, i “fermenti”, colture microbiche analoghe a quelle contenute nella pasta madre che si utilizza per i prodotti da forno: la preparazione ed il dosaggio di queste sono segreto dei casari. La lavorazione di circa settanta quintali di latte al giorno pone ai Cacciarini il problema dello smaltimento del siero, la parte liquida del latte che si separa dalla cagliata durante la caseificazione. Piccole quantità possono essere utilizzate per produrre la ricotta o, al posto dell’acqua, per impastare il pane. Non a caso un tempo molte famiglie facevano di giovedì il formaggio e di venerdì il pane da utilizzare per tutta la settimana: si sa che il pane casalingo rimane buono a lungo ma raggiunge il massimo della bontà dopo due giorni dalla fattura. Ma non è un uso idoneo al residuo di lavorazione di un caseificio in piena produzione. Il siero è un ottimo integratore nell’alimentazione dei suini e la sua larga disponibilità ha incentivato l’idea di impiantare l’allevamento del Canè dove, per diversi anni, è stato utilizzato come mangime assieme agli ottimi prodotti dalla stessa azienda agricola. Purtroppo il caseificio è chiuso ormai da molto tempo, mentre tuttora al Canè di Roncastaldo la famiglia Naldi alleva e macella suini con metodi tradizionali e fornisce carni fresche e insaccati di prima qualità a privati, ristoranti e agriturismi, ma questa è un’altra bella storia. Nonostante in singole aziende agricole di Loiano e dintorni, siano presenti piccole strutture per la caseificazione che mettono sul mercato ottimi prodotti, si avverte la mancanza di una struttura consortile di grandi dimensioni. In questo modo la quantità e la qualità del latte locale potrebbe essere valorizzata attraverso la produzione di formaggi a denominazione di origine protetta, che occupino una posizione di rilievo nelle vetrine e sulle tavole, portando un nome ed una qualità riconosciuta.
Coppia di romagnole si abbeverano all’aibon
Fare il formaggio e la ricotta
Per fare il formaggio con il metodo tradizionale è necessario il latte appena munto, con altri tipi di latte il procedimento cambia e tutto si complica. Occorre procurarsi il caglio (l’inpresa) che è un liquido estratto dallo stomaco dei vitelli o degli agnelli e il “sale inglese” (ei cumpost dl’a ricota) che è solfato di magnesio; un tempo si trovavano in ogni negozio di alimentari, ora solo in farmacia; sulle confezioni sono indicate le dosi. Il procedimento illustrato è quello di massima in uso nella nostra zona, a cui ogni famiglia apporta piccola variazioni che contribuiscono a dare risultati molto vari. È noto infatti che il formaggio risente di numerose variabili: tipo di latte (dovuto all’alimentazione del bestiame e al periodo dell’anno), temperatura del latte e dell’ambiente, tempi di attesa, stagionatura… Si dice che per fare un buon formaggio occorra avere le mani fredde e che l’abbassamento della temperatura favorisca il formarsi di crepe nella buccia da cui la pasta cola per la gioia degli apionati. L’unico modo per far bene il formaggio è vedere e poi provare e riprovare. Con dieci litri di latte si ottengono due formaggi da mezzo chilo e una bella ricotta; prima di iniziare occorre tenere da parte un litro di latte per la ricotta. La temperatura giusta del latte è quella della mungitura, se si è raffreddato riportarlo a 30/35°; un tempo, in mancanza di termometri, ci si regolava paragonando la temperatura con quella corporea. Si aggiungono al latte due cucchiai di caglio e si lascia riposare per un’ora. Si rompe la cagliata con le mani o con la ramina e si raccoglie la parte densa (la tòmba) mettendola un po’ alla volta negli appositi cestini (casinèl), che un tempo erano di giunchi intrecciati ed ora sono di plastica, e strizzandola per eliminare la parte liquida. Si salano a piacere nella parte superiore e si lasciano fermi i formaggi per 4/5 ore, poi si girano e si sala l’altra parte. Dopo un giorno si tolgono dalle formelle e si mettono su un’assicella di legno in un luogo fresco e non troppo secco. Si girano i formaggi dopo un giorno e poi ogni 2/3 giorni per un mese. Si possono mangiare già dopo due settimane ma sono migliori dopo due mesi o più, secondo i gusti.
Il liquido rimasto, chiamato siero (sariól), con l’aggiunta del latte tenuto da parte, va posto al fuoco e mescolato aspettando fino a quando non raggiunge la temperatura di 90°. Si aggiunge un cucchiaio di “sale inglese” sciolto in un mezzo bicchier d’acqua. Da quando i fiocchi di ricotta cominciano ad affiorare, si attendono 3/4 minuti (attenzione a non far prendere il bollore) e si raccolgono con la ramina in un colino. La ricotta non va salata. La pulizia degli attrezzi e dell’ambiente di produzione e di conservazione è importante per evitare il formarsi di muffe o l’aggressione di parassiti. Un rimedio tradizionale contro questi ultimi consiste nello spennellare la crosta dei formaggi con un impasto di olio e conserva di pomodoro, che dona loro un allegro colore rosso-aranciato, senza comprometterne le qualità organolettiche.
Del formaggio
ricordi di Manuela
Oltre alla ricetta tradizionale del formaggio, utilizzata da ogni famiglia proprietaria di mucche, ricordo che la mia mamma, donna dotata di grande fantasia, quando non aveva il caglio lo sostituiva con alcuni cucchiai di aceto di vino bianco. Devo dire che il risultato non era perfetto ma molto dignitoso. Il formaggio era un elemento fondamentale nell’economia della famiglia e nell’alimentazione. Stagionato, si usava grattugiarlo al posto del parmigiano che non era presente sulle nostre tavole, oppure, sciolto nel brodo caldo, rendeva più gustosa un zuppa fatta con il pane. Ma l’uso più sfizioso era quello che si faceva del “ formaggio che scappa”: ad alcune fette di fette di formaggio tenero sciolte in una padella, si aggiungevano alcune uova sbattute con sale e pepe e poi si rimescolava (strapazzava) il tutto molto velocemente per non cuocere troppo le uova. Una vera delizia, alla faccia del colesterolo che allora non ci assillava come ora!
La poetica del maiale (Ode al porco)
ricordi davanti a un bicchiere di vino di Beppe Buganè
Uccidere il maiale era una cerimonia che coinvolgeva tutta la famiglia e i parenti. Quando si ammazzava il maiale si guardava la luna. Se il mercoledì c’era luna nuova, fino al martedì dopo non si ammazzava il maiale. La luna influisce sulla buona riuscita dei prodotti (si può deteriorare la carne). Molto importante era anche l’alimentazione del maiale. Allevato allo stato brado, nutrito con ghiande, spagna, marroni… forniva un’ottima carne. Disfare il maiale era un’arte e servivano macellai (mazler) esperti. Lavoro faticoso quello del macellaio. Ci si stancava, era freddo, si lavorava all’aperto, i macellai avevano una certa età e iniziavano a tossire a novembre e finivano a maggio. I macellai famosi della nostra zona erano: Domenico Buganè Luiget dei Cason Ginon Pajetta Iacmin dla Cà Nova Carlon Calzuleri Tiglio (Io Pistol)
Le carni le lavorano solo loro, con vino bianco o rosso, nessuno poteva metterci le mani. I macellai venivano pagati in denaro. Ai tempi si pagava una tassa sul maiale al comune (dazio). C’era sempre qualcuno che non dichiarava tutti i maiali e ammazzava un maiale di nascosto. Se lo scoprivano veniva denunciato. I maiali prima di essere macellati venivano controllati per accertarsi che non avessero malattie, soprattutto il “mal bianco” (afta). Da Giannino era un piacere ammazzare il maiale perché, pur essendo un “omarino”, riusciva a macinare la carne a mano tutto il giorno senza stancarsi. La carne macinata a mano garantiva una migliore qualità dei prodotti. Il maiale veniva “pelato” (tolte le setole) con l’acqua bollente usando coltelli affilati. Il maiale dopo essere stato ammazzato veniva “divaricato” con lo “zamberel”, un pezzo di legno con 2 o 4 fori o ganci. Dopo aver tolto le setole, il maiale veniva lavato e si appendeva al soffitto, diviso in due parti. Prima di appenderlo veniva pesato sulla stadera. Trasportare il maiale per appenderlo al soffitto non era facile. Non era sufficiente avere “della forza”, era importante il metodo: ci si metteva di traverso con il maiale che veniva appoggiato anche sul collo. Si poteva trasportare un pezzo alla volta. Un pezzo di maiale poteva raggiungere anche i 130 kg. Il maiale veniva “vuotato”. Le budelle del maiale venivano lavate anche con l’acqua del fosso. Naturalmente le budelle erano sporche, anche di escrementi e i macellai burloni, girandole vorticosamente per far uscire l’acqua, si divertivano a schizzare i presenti. I maiali si disfacevano nella cucina di casa. Nel paiolo si facevano i ciccioli e la coppa. Ognuno aveva una mansione: chi si occupava dei ciccioli girava i ciccioli e doveva mantenere il fuoco mai troppo alto e mai troppo basso. I ciccioli, una volta, si facevano al 90% morbidi (calavano meno). I ciccioli secchi dovevano cuocere di più.
Nel preparare i ciccioli c’era chi metteva la sonza (sugna, cioè grasso bianco) subito e chi dopo.
Salsiccia
La salsiccia si faceva con la spalla, tutti i muscoli, ripulendo la carne dalle parti più sanguinolenti, e un po’ di grasso (lardo). La carne si macinava, poi si ava alla cunza (concia). Si pesava la carne per calcolare la quantità degli ingredienti da usare (vino rosso o bianco, sale, pepe e aglio). Si lavorava l’impasto, poi si insaccava nella budella. La salsiccia insaccata nella budella veniva asciugata in un luogo sufficientemente arieggiato, ma la temperatura non doveva andare sotto lo zero né essere troppa elevata, altrimenti la salsiccia diventava “catalana” (catlen). Una volta pronta e asciutta, la salsiccia veniva conservata in solaio 20 giorni, poi trasferita in una cantina “buona”, con il giusto grado di umidità e di temperatura (5°-6°). Non doveva essere portata direttamente in cantina altrimenti faceva la muffa. La salsiccia si conservava prima sotto strutto, poi sott’olio. Appena la budella era asciutta, la salsiccia non veniva fatta essiccare, ma messa sotto strutto in una damigiana dal collo largo (quella che veniva usata anche per le uova), arrotolata in un pezzo unico o a pezzi. Lo strutto lo lasciavano raffreddare, ma non indurire. Serviva tiepido e bianco bianco. Veniva versato sulla salsiccia, facendo attenzione che non rimanessero delle bolle d’aria. Si doveva evitare che lo strutto diventasse rancido, altrimenti diventava rancida anche la salsiccia. La salsiccia matta si faceva con la carne macchiata di sangue, i reni, il cuore, (alcuni anche i polmoni). Con lo stomaco del maiale (budella) si faceva la “berta”, una salsiccia tipo soppressata. Veniva legata, ma era difficile da fare perché la budella non era liscia e se entrava dell’aria andava a male.
Prosciutto
Importantissima era la stagionatura. I prosciutti venivano adagiati sul “bancon” (mezzi tronchi di castagno scavati e leggermente inclinati). Si procedeva alla salatura con il sale grosso e il pepe. Il tempo di salatura dipendeva dal peso del prosciutto e dalla temperatura. Si toglieva il prosciutto dal sale, si controllava l’osso, l’attaccatura dello zampetto, che il prosciutto non si fosse gonfiato. Una volta asciugato bene si metteva il prosciutto in un sacco di juta per difenderlo dai mosconi. Serviva, come sempre, una cantina “buona” dove il prosciutto veniva conservato fino all’anno successivo. In alternativa i prosciutti (e i salami) venivano conservati dentro il “lanternone” o “ ei lanternon”.
Il lanternone
Questa gabbia particolare per la stagionatura e conservazione in cantina dei prosciutti e salami era stata ideata per proteggere i salumi da eventuali roditori o animaletti indesiderati. Era costituita da un telaio di legno mentre le pareti erano di retina di ferro in modo tale da far are l’aria, indispensabile per la stagionatura, ma non gli animali. Era detto “ei lanternon” (il lanternone) poiché come una grande lanterna era appeso al soffitto della cantina onde renderlo maggiormente inaccessibile. Per la conservazione del prosciutto ricordatevi questa massima: Prosciutto 2 anni Bottiglia 1 anno Donna 20 anni Ma in dialetto rende meglio: Parsòtt ad du èn, vin d’un an e don ad vint an
Salame
Si usava la parte più pregiata del maiale: il lombo e la carne più bianca. Salami e salsicce venivano conservati nei cassoni di grano. L’umidità e la temperatura del grano conservavano i salami morbidi e si consumavano fino ad agosto. Con la lingua del maiale si preparava un insaccato “la lingua dell’Ascensione”, che veniva fatto a gennaio/febbraio, ma che veniva consumato, appunto, per l’ascensione. Poteva essere consumato in due modi: crudo (ovvero semplicemente stagionato come un salume) o previa bollitura, per ammorbidirlo.
Lingue dell’Ascensione
Cotechino
Non si fa solo a Modena. Dove c’era il maiale il cotechino veniva fatto e quindi anche nelle nostre montagne. Una volta nei cotechini si trovava il 70-80% di cotiche, ora nei cotechini c’è il 30% di cotiche. Il resto è carne derivante dalla scarnificazione della testa, la lingua, alcuni pezzi con evidenti residui ematici. Le cotiche venivano fatte bollire prima di macinarle (cotenne). Si facevano anche i “zampetti”, ora poco amati, ma ai tempi graditi.
La coppa
La coppa si ricavava dalla bollitura della testa e di tutte le ossa ripulite dalla carne per fare gli insaccati. Una volta cotta, la carne veniva stesa su un tagliere, leggermente in pendenza, ripulendola dalle ossa. Durante questa operazione, attesa con l’acquolina in bocca, si metteva un pizzico di sale a ogni angolo del tagliere dove si “tocciava” la carne. I più audaci si rubavano gli occhi del maiale, altri le orecchie o il muso. Con la coppa si terminavano tutte le operazioni di lavorazione del maiale.
La vecchia macelleria Tattini negli anni ‘30
Quando veniva ucciso il maiale c’erano due pietanze che venivano consumate subito perché del maiale non si butta via niente!
RISO IN BRODO DI COPPA
ricordo di Barbara Tattini Ingredienti Riso Brodo della coppa
Procedimento: cuocere il riso nel brodo della coppa
SANGUINACCIO
ricordo di Eugenio Nascetti Ingredienti Sangue di maiale Sale, foglia d’alloro Parmigiano
Procedimento: Quando il sangue si coagula viene rotto con le mani, poi si aggiungono il sale e l’alloro e si cuoce in padella tipo frittata. Una volta cotto si aggiunge il parmigiano e viene tagliato a rombi per essere servito.
Con i macellai sopra nominati, al termine della serata, si mangiava il fegato con la rete e l’alloro e la “topa” (impasto della salsiccia schiacciata a polpetta allungata avvolta in una carta straccia bagnata e cotta sotto le braci nel camino), ma soprattutto esausti dalla stanchezza si beveva vino. Del maiale, come avrete capito, non si buttava via niente. L’unica sua colpa era di essere troppo buono.
A son da óva e da lat
di Margherita Benvenuti
Nella gastronomia tradizionale loianese sono presenti pochi piatti a base di pesce, per le evidenti difficoltà di reperire la materia prima fresca. Tuttavia, in ato, si faceva largo uso di baccalà e soprattutto di aringhe che, salate ed essiccate, univano alla facilità di conservazione il prezzo contenuto. Un altro motivo che ne sosteneva il consumo era la grande sapidità, che favoriva l’uso di poco companatico e molto pane o polenta ed era caratteristica apprezzata dagli osti. Un proverbio loianese dice “pulenda e saraca e al men in bisaca” che significa: l’ozio porta pasti miseri come l’aringa con la polenta ma anche, al contrario, che dopo aver consumato polenta “aromatizzata” con l’aringa non si può che starsene con le mani in tasca, e forse è meglio così. Una vecchia storia tramandata oralmente dimostra quanto risparmio forzato vi fosse nell’alimentazione. In una famiglia povera, come ce n’erano tante, si insaporiva la polenta quotidiana sfregando le fette su una aringa appesa al soffitto con uno spago. Quando uno dei giovani eccedette nelle sfregature, il nonno, tutore della frugalità famigliare, lo apostrofò dicendo “vot scupier”? vuoi scoppiare? Tuttavia la saraca non era un alimento da disprezzare e i palati più fini sapevano distinguere il sapore dei maschi e delle femmine. I negozianti infatti chiedevano se l’acquirente desiderasse un’acciuga da uova (cioè una femmina) o da latte (cioè un maschio, il cui liquido seminale sembra latte addensato). Così, nella parlata loianese, “a son da óva e da lat” significa che mi va bene tutto, cioè che prendo l’aringa come viene. E proprio dal prendere la vita alla giornata, con la sua aringa quotidiana, deriva il detto “l’e’ dura l’arenga!”, che significa: è dura la vita!
Via Roma nei primi anni del ’900
Delle erbe dei campi
di Patrizia Carpani
Uno dei momenti più attesi delle giornate trascorse a casa della mia nonna era quando uscivamo a fare “spesa” nei campi e nei boschi. Le erbe dei campi venivano sapientemente raccolte e la nonna mi spiegava come riconoscerle e utilizzarle. La fantasia di bambina infarciva questi insegnamenti con sogni ad occhi aperti contenenti Fate, Gnomi e Spiriti della Natura e a volte, quando la nonna era più ispirata o semplicemente quando aveva tempo, ci sedevamo nel bosco e mi raccontava storie di fatti accaduti quando era piccola. Al solo ricordarlo mi ritrovo ancora lì ad ascoltare a bocca aperta, con gli odori del bosco e i rumori degli insetti in uno spazio fuori dal tempo. Piccolo consigli per utilizzare le erbe selvatiche come me le ha insegnate la mia nonna Ada.
Strecapóggn, radicchio selvatico che si trova nei campi a primavera e deve il suo nome al fatto che una volta raccolto si chiude su se stesso come un pugno. È buono crudo in insalata con l’uovo sodo o la pancetta all’aceto, oppure lessato e poi tirato in padella con l’aglio.
Ortica, si raccoglie in primavera tagliando, con i guanti mi raccomando, le cimette più tenere che una volta scottate nell’acqua bollente, possono esse utilizzate per fare la sfoglia per le lasagne o le tagliatelle (ottime con un ragù a base di salsiccia) o per squisite frittate, o comunque per l’uso che la nostra fantasia ci suggerisce.
Striguel, Silene vulgaris, per capirci è la pianta che fa quei fiori verdi ad imbuto che i bimbi si divertono a schiacciare per il suono che fanno. Gli striguel si raccolgono in primavera, lessati si possono utilizzare per preparare gustose frittate.
Fiori di acacia, acag, in realtà si tratta di fiori di Robinia, comune nei nostri boschi, infiorescenze a grappolo bianche e molto profumate. Si raccolgono al mattino presto quando sono ancora chiuse per evitare che ci siano insetti all’interno. Si tolgono i fiori ando le mani in mezzo al grappolo, si prepara una pastella con farina e acqua gassata o birra fredda, vi si immergono i fiori e si friggono delle frittelle di questo composto. Spolverizzate con lo zucchero sono una delizia.
Sambuco, zambug (Sambucus nigra), albero comune nei campi e negli incolti delle nostre zone è una fonte notevole di materia prima. Con i fiori si possono fare, seguendo la ricetta dei fiori di acacia, gustose frittelle oppure uno sciroppo dissetante e remineralizzante per l’estate.
Ingredienti 8 fiori per un litro di acqua 1 bicchiere di aceto di mele o di vino bianco 3 limoni grossi
Preparazione: macerare gli ingredienti per otto giorni in un vaso di vetro chiuso. Filtrare molto accuratamente spremendo i limoni, aggiungere uno sciroppo composto da 600 gr di zucchero lasciato bollire in un poco d’acqua fino a scioglierlo. Aggiungere al composto filtrato, imbottigliare e conservare al buio al fresco. Si
usa diluito in acqua fresca.
Altra preparazione che la nonna faceva utilizzando il Sambuco era la marmellata preparata con i frutti. Una ricetta sicuramente molto brigosa, ma i risultati ripagano della fatica. Si raccolgono le bacche mature del sambuco e si staccano dal graspo, si ano al setaccio fine per evitare che i semi si uniscano al succo, si aggiunge la buccia di una mela (contiene pectina per addensare) che a fine cottura si toglierà, si pesa il succo ottenuto e si aggiunge pari quantità di zucchero. Si lascia bollire fino a che non si addensa, anche se rimane sempre un poco fluida. È veramente ottima anche con la ricotta o i formaggi stagionati.
Bacche di Ginepro, zanevver, frutti della pianta omonima che la nonna utilizzava per la preparazione della carne rossa o della selvaggina.
Menta, la più raccolta era la mentuccia romana presente in tutti i prati, utile per insaporire varie pietanze o verdure come i zucchettini o i carciofi, la menta piperita con la quale faceva un gustosissimo te, o la menta di Santa Maria della quale raccoglievo le foglie che, una volta strizzate, facevano un meraviglioso odore di “cicles”. Sono sicura che erano molte di più le piante che la nonna mi aveva insegnato a raccogliere, ma nella memoria sono rimaste solo queste, avrei dovuto scrivere molto prima questi ricordi, quando la nonna era ancora viva.
Vorrei condividere un’altra ricetta, povera ma gustosa, che la nonna ci faceva con gli avanzi del pane.
DOLCE DI PANE E MELE della nonna Ada
Ingredienti 3 panini raffermi (circa 250 gr di pane non salato) 2 mele - la scorza grattugiata di 1 limone Cannella 2 uova 2 bicchieri di latte 50 gr di zucchero 1 bustina di lievito in polvere 50 gr di burro Sale
Procedimento: lasciate ammorbidire per alcune ore il pane spezzettato nel latte tiepido. Nel frattempo sbucciate le mele ed affettatele lasciandole macerare con un pizzico di cannella, due cucchiai di zucchero e la scorza del limone. Sbattete i tuorli d’uovo con lo zucchero e una presa di sale. Unite a questo il pane strizzato, il burro sciolto a bagnomaria e le mele. Per ultimo aggiungete il lievito sciolto in un poco di latte e gli albumi montati a neve soda, mescolando dal basso verso l’alto. Versate il composto in una tortiera leggermente unta e cosparsa di pangrattato e fate cuocere il forno caldo, a 220 gradi, per circa 40 minuti.
Ristorante Albergo Corona negli anni ‘40
Piazza Dall’Olio negli anni ‘60
Loiano, 1926: Virgina Consolini prepara le tagliatelle nella cucina dell’Albergo Tre Stelle
Le ricette del cuore
* Una buona dose di ricordi 2 mani in pasta * curiosità montata 4 tuorli di fantasia 1 cucchiaio di ione 1 spolverata di sorpresa * sale e pepe q.b. Amalgamare con cura tutti gli ingredienti e lasciare riposare nel caldo del cuore affinchè si sprigioni il profumo dei ricordi
I TORTELLINI E LE CIAMBELLE DI MAMMA ROBERTA
Ricordo di Gianni Maestrami Quanti ricordi legati alla mia mamma Roberta e ai miei fratelli: cosa darei per tornare a quei tempi quando la spensieratezza era l’ingrediente principale della felicità! Ricordo quando la mamma faceva i tortellini e io e i miei fratelli li prendevamo di nascosto per cuocerli sul piano caldo della cucina; facevano un profumo meraviglioso, erano buonissimi e a noi piacevano moltissimo. Ancora oggi, quando mi capita l’occasione mi lascio prendere dalla tentazione di riprovarci. O ancora quando la mamma impastava la crescente e fingeva di non vederci quando aspettavamo che si girasse per rubarne un pochettino e mangiarla cruda. Naturalmente lei lo sapeva e ne impastava sempre un poco di più. O ancora quando in casa faceva il pane e dato che l’unico forno di casa era quello della cucina economica, sicuramente molto piccolo per la famiglia, la mia mamma, un paio di volte alla settimana, si recava al forno nel centro del paese con il suo tagliere carico di pane e di ciambelle. Ricordo ancora le discussioni con il fornaio sul fatto che a volte il pane era troppo cotto e a volte poco, oppure che il forno era già pieno. Brevi ricordi che sembrano lontani di secoli ma che in realtà risalgono a 50/60 anni fa e fanno parte del vivere di allora, quando bastava poco per essere felici.
CIAMBELLA SEMPLICE
Ingredienti 250 gr. di farina, 200 gr. di zucchero 60 gr. di burro, 2 uova Un decilitro di latte Un decilitro di marsala 5 gr. bicarbonato di soda 10 gr. di cremor tartaro
Procedimento: mescolare tutto e lavorare bene per circa ¼ d’ora. Ungere e infarinare una teglia, versarci dentro l’impasto e fare cuocere a fuoco moderato.
TORTA DI CIOCCOLATO CON LE NOCI
Ingredienti 300 gr. di burro, 5 uova, 200 gr. di zucchero 100 gr. di noci, 200 gr. d farina 100 gr. di cioccolato
Procedimento: mescolare il burro con i tuorli d’uovo, aggiunti uno per volta. Lavorare il composto per ¼ d’ora, aggiungere 200 gr. di zucchero fino, gr. 100 di noci tritate molto finemente, la cioccolata, la farina e per ultime le chiare (albumi) montate a neve . Mettere il composto in un tegame unto di burro e infarinato e cuocere in forno tenuto a calore moderato.
SALSA PER IL LESSO
ricetta di Armida raccolta dalla figlia Marina Ingredienti 2 cipolle bianche di media grandezza 3 spicchi d’aglio, 2 zucchine 1 peperone piccolo, 3 cucchiai di prezzemolo funghi freschi o funghi secchi tenuti a bagno nell’acqua calda e asciugati
Procedimento: tritare tutti gli ingredienti molto finemente. Fare soffriggere in un tegame di coccio in abbondante olio d’oliva; lasciare asciugare e aggiungere 2 bicchieri d’acqua (per un gusto più deciso si possono aggiungere 2 cucchiai d’acqua filtrata dell’ammollo dei funghi). Lasciare ritirare il sugo per due ore.
SALSA PER LESSO 2
di Giuliana della Ghinda Ingredienti 2 spicchi d’aglio, 1 pugnetto di prezzemolo 1 sedano piccolo, 1 carota piccola, 1 o 2 pomodori 1 cipolla, 2 zucchetti, 1 peperone verde 1 peperoncino verde sott’aceto, pangrattato
Procedimento: tritare tutti gli ingredienti finemente e poi mettere a bollire per un’oretta fino a creare un composto denso. Quasi a fine cottura aggiungere un po’ di pan grattato stando bene attenti a non farlo attaccare. Lasciare raffreddare e coprire il tutto con abbondante olio d’oliva. Una volta fatta però ricordarsi di non scaldarla più perché altrimenti cambia sapore. Se ben conservata questa salsa poteva durare due settimane.
TORTELLONI DI NOCI
(Ricetta dla fameia ad Bartoz, chiamato Fredo da tutti ma all’anagrafe Vittore) Quando ero piccola la porta di casa mia era sempre aperta a tutti, nel vero senso della parola. Infatti lasciavamo le chiavi nella serratura (toppa). Sulla tavola c’era sempre un pezzo di pane, formaggio stagionato e alcune fette di salame da offrire ai visitatori. Mio padre ripeteva con orgoglio questa frase: “i me fio in sen brisa cus l’è la fam” (i miei figli non sanno cos’è la fame), anche perché la spesa la facevamo nei nostri campi, quindi a costo e km zero! Tutto serviva a sfamare la famiglia, anche le noci; infatti era tradizione, la vigilia di Natale, fare i tortelloni di noci. Si cominciava la sera prima sgusciando le noci, poi al mattino di buon ora sul tagliere io e mia sorella le riducevamo in poltiglia, pigiandole con una bottiglia di vetro. Dopo, la mamma, con il composto ottenuto, preparava il ripieno per i tortelloni. Verso mezzogiorno, quando arrivavano i parenti da Bologna, la mamma li cuoceva, li condiva con olio di oliva comprato per l’occasione e pepe macinato al momento. Tutti insieme, in allegria, si trascorreva il pomeriggio aspettando la messa di mezzanotte.
TORTELLONI DI NOCI Ingredienti 4 etti di noci, 1 etto di zucca cotta al forno 2 etti di farina, sale e pepe
Procedimento: tritare le noci e mescolare tutti gli ingredienti. Fare una sfoglia, riempire i tortelloni, cuocere in acqua bollente e condire con olio e pepe. La grammatura degli ingredienti è approssimativa, perché una volta si faceva tutto ad occhio.
La variante della Beppa
Giuseppina Nanni era nata nel 1917 a Cà de Ricci di Scanello, ultima di cinque fratelli. Il padre Alfredo, nativo di Roncastaldo, era soprannominato Brandac’ dal nome del cavallo del padre Giuseppe e così la nipote Giuseppina, che in famiglia era chiamata Beppina, acquisì il soprannome di Brandacia, ma col tempo quel nome si perse e per i paesani divenne la Beppa. Alfredo svolse varie attività prima di impiantare nel centro di Loiano il forno con vendita al dettaglio di generi alimentari che la figlia, alla sua morte, portò avanti per cinquant’anni. Naturalmente la Beppa divenne maestra nei prodotti da forno ed in particolare nei dolci secchi e, una volta dismesso il forno vero e proprio e conservato solo il negozio, continuò nella cucina di casa a produrre squisite ciambelle e un superbo impasto per la zuppa imperiale, per la vendita e per la famiglia. Particolare è l’uso che faceva dei fornetti da campagna, aggeggi in alluminio dotati di un coperchio e di un oblò, con una piccola feritoia regolabile. Il vantaggio è dato dalla capienza: ognuno contiene due ruole e con due fornetti posti sui piccoli fornelli in uso nel dopoguerra, si cuocevano quattro ciambelle in meno di un’ora. L’uso sagace di questa modesta attrezzatura offriva inaspettatamente un ottimo risultato e la possibilità di ottenere una discreta produzione, caratteristica che induce a consigliarne l’uso a chi non è fornito di un forno spazioso. Ceduto il negozio, la Beppa si ritirò in campagna e riprese con ione le attività svolte da bambina: la cura dell’orto, l’allevamento di galline e conigli, la raccolta dei funghi. La provenienza da una famiglia in cui la cucina era ricca e varia, la agevolava nella realizzazione delle ricette tradizionali, anche di quelle più elaborate che l’impegno commerciale aveva impedito di sviluppare con tutte le cure necessarie. Lo spirito innovatore la spingeva ad introdurre alcune varianti alle ricette classiche, la curiosità ad allargare la tipologia delle specie di funghi raccolti
tanto che, dalla decina di varietà che conosceva fin dall’infanzia e che localmente vengono considerate degne di nota, ò alla raccolta di oltre trenta tipi da utilizzare per quasi tutto l’anno in ricette specifiche e ben collaudate. E appunto per le prime prove, utili ad accertarne la commestibilità, utilizzava l’ignaro marito che, vuoi per le proprie qualità mitridatiche vuoi per l’oculatezza della consorte, le sopravvisse di vent’anni. Fanno parte del suo ricettario le tracce fornite per realizzare in modo tradizionale il certosino, la ciambella con la ricotta e l’impasto per la zuppa imperiale. Una delle ricette che eseguiva in una forma diversa dalla tradizionale è quella delle tagliatelle con le rigaglie di pollo di cui si offre la versione canonica e la “variante della Beppa”.
TAGLIATELLE CON RIGAGLIE DI POLLO
(versione tradizionale) Ingredienti (per quattro persone) 2 etti di rigaglie di pollo brodo di pollo 2 foglie d’alloro una noce di burro 2 tuorli d’uovo mezzo bicchiere di latte 2 cucchiai di parmigiano 4 “nidi” di tagliatelle noce moscata, sale e pepe
Procedimento: rosolare 2 etti scarsi di rigaglie pulite e tagliate fini con due foglie d’alloro in una noce di burro per circa mezz’ora, allungando il composto con qualche cucchiaio di brodo. Togliere le foglie d’alloro, aggiungere un pizzico di noce moscata e regolare con sale e pepe. Sbattere due tuorli d’uovo con mezzo bicchiere di latte e due cucchiai di parmigiano. Lessare le tagliatelle, scolarle, amalgamarle bene con i tuorli d’uovo e condirle col sugo.
La versione della Beppa
Ingredienti (per quattro persone) Gli stessi della ricetta tradizionale
Procedimento: tenere 2 etti di rigaglie di pollo (fegati, magoni, creste, cuori e testicoli) a bagno per 4/5 ore, lavarle bene, asciugarle, pulirle togliendo le parti grasse e fibrose e tagliarle a fettine sottili. Mettere al fuoco prima i pezzi più duri (magoni e cuori) e poi quelli più molli con burro e due foglie d’alloro. Quando le rigaglie sono rosolate (non si vede più il rosso), salare, pepare e far cuocere aggiungendo il brodo a cucchiaiate per circa un’ora. Lessare le tagliatelle e due uova. Scolare le tagliatelle e porle nel tegame del condimento. Amalgamare ben sulla fiamma e servire mettendo su ogni porzione un cucchiaio di tuorlo d’uovo ridotto in briciole.
TORTA DI RICOTTA
Ingredienti 3 etti di ricotta di latte vaccino 3 etti di farina “00” Tre etti di zucchero semolato 3 uova Una bustina e mezzo di lievito vanigliato La scorza di un limone
Procedimento: are la ricotta al setaccio e montarla con lo zucchero. Aggiungere al composto le uova, la farina e infine il limone e il lievito. Ungere con burro una tortiera di 26 cm di diametro e polverizzarla con pane grattugiato finemente. Mettere al forno per 15 minuti a 200°, poi per 30 minuti a 180°. Per controllare che la cottura sia completata, conficcare nella torta uno stuzzicadenti che deve uscire asciutto.
POMERIGGIO PREFESTIVO
Ricordo di Cristina La preparazione del pranzo festivo coinvolgeva tutti. La gallina che serviva per preparare il brodo veniva uccisa da Melia (Amelia), la nostra vicina di casa, e noi bambini assistevamo alla spennatura fatta accuratamente in cantina da nonna Maria. Una volta spennata la gallina, si bruciacchiavano sulla fiamma i residui delle piume e delle penne. L’ odore era terribile. La gallina però era pronta per preparare un ottimo brodo. Di solito il brodo si faceva, sulla stufa economica, il giorno stesso della festa. Gli ingredienti, oltre alla gallina, erano carne di manzo, cipolla, sedano e carota. Il brodo doveva cuocere lentamente. La mamma poi preparava il ripieno per i tortellini, faceva una sfoglia con uova e farina, la tirava molto sottile e noi eravamo tutti pronti, attorno al tagliere, per preparare quei piccoli gioielli che sono i tortellini. Oltre a mamma c’erano nonna Maria e nonna Cesira e le zie “a stringerli”. Noi bambini ci divertivamo a rubare pezzi di sfoglia per abbrustolirla sulla piastra della stufa. Calda e un po’ croccante era buonissima. Il tagliere con i tortellini veniva portato sopra l’armadio della camera di mamma e babbo per farli “seccare”. Il giorno dopo ce ne erano molti di meno, perché noi bambini li mangiavamo di nascosto. Un dolce che si faceva spesso per le giornate di festa era quello al caffè; ce l’aveva insegnato zia Silvia. Dopo aver fatto ammorbidire il burro freschissimo vicino al calore della stufa, si univa allo zucchero e ci si alternava per mescolarle il composto con un cucchiaio di legno, fino a farlo diventare una crema omogenea. Mamma rompeva le uova e incorporava i tuorli al burro, uno ad uno, delicatamente. Per ultimo, piano piano, si aggiungeva del caffè concentratissimo. In uno stampo
per budino si alternavano strati di pan di spagna imbevuti di caffè poco zuccherato, con strati di crema al caffè fino a quando lo stampo non era completamente pieno. Si ricopriva lo stampo con un piattino di misura con sopra un peso (quasi sempre un ferro da stiro di quelli che si usavano una volta). A questo punto si metteva in frigo. Il giorno dopo il dolce al caffè era talmente compatto che si faceva fatica a tagliarlo. Il pomeriggio terminava così, pieno di sensazioni incancellabili.
DOLCE DI FRUTTA DELL’ANCONELLA
di Gina Baricelli Dolce di frutta che si realizzava principalmente a Natale o comunque per le feste. Ingredienti 1 scorza di limone, ½ limone 2 pere, 2 mele, 2 mandarini, 2 arance 5 fichi secchi, 50 gr. di uva sultanina 200 gr. si arachidi, 20 noci, 50 gr. mandorle 50 gr. nocciole, 1 confezione di pinoli 1 bicchiere di zucchero 1 bicchiere di farina gialla, 1 bicchiere di farina bianca 1 bicchiere di latte, 2 cucchiaini di bicarbonato
Procedimento: tagliare le mele e le pere dopo averle sbucciate in quadretti di 1 cm circa. Tagliare le due estremità delle arance e poi farle a pezzetti dopo averle affettate (lasciare la buccia). Il mandarino come l’arancia. I fichi spezzettati. Frutta secca un po’ tritata grossa. Mescolare il tutto fino ad ottenere un impasto come quello del certosino. Riporre il composto in una teglia con sotto la carta forno. Infornare a 180° per 1 ora. Il dolce deve assumere un colore scuro.
CERTOSINO
ricetta di Giuseppina Nanni per la vendita in negozio Ingredienti 500 gr. di farina 250 gr. di miele d’acacia 50 gr. di miele per la guarnitura 250 gr. di mandorle dolci 150 gr. di mandorle dolci per la guarnitura 250 gr. di mostarda bolognese 400 gr. di frutta candita mista (arancio, pera, ciliegie rosse e verdi ecc. per la guarnitura) 100 gr. di cioccolato fondente grattugiato 100 gr. di polvere di cacao amaro 100 gr. di zucchero 50 gr di zucchero per la guarnitura 100 gr. di pinoli 100 gr. di cedro candito ridotto a pezzettini 5 gr. di ammoniaca in polvere, un po’ di burro 8 gr. di “droga” (spezie miste per cotechini) mezzo bicchiere di vino bianco secco
pangrattato fine per spolverizzare le teglie Procedimento: si mettono le spezie a bagno nel vino e si scioglie il miele a bagnomaria. Si mescolano tutti gli ingredienti in una terrina (tranne quelli specifici per la guarnitura), lavorandoli bene fino a rendere il composto omogeneo. Si pone il composto in “ruole” (stampi da forno) della dimensione preferita, unte di burro e spolverizzate con pangrattato fine, fino a raggiungere lo spessore di circa 3 centimetri. Si tostano leggermente le mandorle nello zucchero e si utilizzano assieme alla frutta candita a pezzi grossi per decorare i certosini che vanno poi spennellati col miele liquido. Si lasciano riposare per una notte (almeno 12 ore) e si pongono in forno preriscaldato a 180° fino a cottura, resa evidente dal colore bruno. I certosini sono migliori se consumati dopo una settimana e si conservano per 2/3 mesi.
AL FIÒLI AD IÒFFA EI MURADOR
Nei primi anni ’50 mio padre, che faceva il muratore, assieme ad altri costruiva il campanile e la chiesa di Roncastaldo. Le mie amiche Lucia e Paola (le figlie di Minghin ei murador) ed io, che avevamo circa 6 o 7 anni, andavamo tutti i giorni a piedi da Loiano a Roncastaldo per portare da mangiare ai nostri padri. Si partiva alle ore 11 e 30, non andavamo per la strada ma attraverso i campi, sempre correndo con la sporta di paglia che conteneva il vino, il pane e la minestra in un tegamino fasciato con un telo di stoffa così rimaneva caldo. Mia madre spesso faceva la minestra con l’aglio e le noci (l’aieda) che anche se si raffreddava era appetitosa lo stesso. Questa è la ricetta: Ingredienti 5 noci Maltagliati (pasta fresca) 3 spicchi di aglio Una patata Sale e pepe Procedimento: pestare finemente le noci con l’aglio, aggiungere una patata lessata ancora calda, mescolare bene e diluire con acqua di cottura della pasta. Condire i maltagliati “stiancon”. Nel tornare a casa ci fermavamo alla “Villa Borsari”, che era sulla strada, a comprare le prugne o le albicocche e per fare meno fatica ne mangiavamo una buona parte… Quando tornavo a casa mia mamma mi diceva “sta volta it n’en dè mènch che c’letra volta” (stavolta te ne hanno dato meno dell’altra volta) e io la lasciavo dire. Un’altra cosa che mi ricordo è quando aiutavo le mie sorelle più grandi a fare il
bucato settimanale (10 figli più i genitori e la nonna). Nei mesi estivi non lo facevamo in casa ma in una “pila” comune, “la pella in fond” (la pila in fondo), che si trovava sotto il monte del Pellegrino. Io le aiutavo a portare giù la roba sporca e su quella pulita, ed era una bella fatica. La mamma quando si arrivava a casa ci faceva trovare le crescentine fritte. Le faceva impastando farina, acqua o latte e bicarbonato, e le friggeva con appena un po’ d’olio in modo che diventassero gialle e tenere. Erano buonissime! Il giorno dopo le mettevamo nel latte per la colazione.
LE RICETTE DAL FIOLI AD IOFFA
EI MURADOR
Con i più piccoli tra i miei novi fratelli, negli anni ’50, andavamo a trovare la nonna e gli zii che lavoravano un podere in località “Santa Margherita”, a poche centinaia di metri dal paese. Per noi era un posto incantato, la nonna ci faceva fare dei lavoretti, come raccogliere la verdura dell’orto oppure le more del gelso con le quali faceva una marmellata buonissima. In giugno, per San Giovanni, ci faceva raccogliere le noci per il nocino, poi le tagliava a metà, le metteva in una damigianina di vetro con cannella, fiori di garofano, la buccia di limoni e alcol o grappa; poi la lasciava al sole scuotendo ogni tanto, fino a settembre. Dalla nonna non tornavamo mai a casa a mani vuote. Ci dava le uova o un barattolo di miele, un po’ di goletta e un formaggino, tutto dentro ad una borsina di paglia fatta da lei. Arrivati a casa la mamma faceva “ei mazapec”, tagliava a dadini la goletta e la metteva a cuocere in una padella. Quando era ben rosolata aggiungeva le uova sbattute e le cuoceva, aggiungendo un po’ di latte se risultavano troppo asciutte. Una minestra particolare che a noi piaceva molto mangiare, ma meno preparare, era i “pistadein”. Si preparava un impasto con un uovo, mezzo chilo di farina e acqua fino ad ottenere un composto molto sodo, gli si dava la forma di un filone di pane, poi si tagliava a fettine che si lasciavano asciugare e poi si cominciava a “pestarli” con il coltello finché non si ottenevano dei pezzettini minuscoli. L’incubo per noi che dovevamo “pestarli” era che per nostra madre non erano mai abbastanza fini e questa operazione richiedeva molto tempo… I “pistadein” venivano cotti nel brodo di fagioli, e più cuocevano più la minestra diventava fitta e in questo modo bastava per tutti. Mentre scrivo mi ritornano in mente i bei profumi e i sapori di mia nonna e mia mamma e di come ci chiamava la gente di Loiano, “al fioli ad Iuffa ei murador”.
RICETTA DEL NOCINO
Ingredienti 25 noci, 750 gr. di zucchero 1 litro e mezzo di alcool, 10 chiodi di garofano un pezzo di cannella, la buccia di un limone Procedimento: mettere in un vaso di vetro le noci con i chiodi di garofano, la cannella, la buccia del limone e l’alcool. Lasciare al sole fino a settembre, scuotendo ogni tanto il vaso. Filtrare le noci servendosi di un imbuto coperto con una garza. Bollire mezzo litro di acqua con lo zucchero. Quando è sciolto e raffreddato aggiungerlo al nocino filtrato, imbottigliare e lasciare in cantina al buio per almeno tre mesi prima di consumarlo.
NEGLI ANNI ’60
ricordi di Manuela Massa Ero una ragazzina e abitavo a Loiano in una piccola borgata a un chilometro da Loiano che si chiama tuttora Vezzano di Sotto. C‘era una piccola chiesetta dove il 24 agosto veniva celebrata la Santa Messa in onore di San Bartolomeo. In quell’occasione facevamo una grande festa con un rinfresco per tutti gli intervenuti. Un ricordo particolare di quella giornata era la preparazione delle Peschine, dei dolcetti rossi, molto appariscenti, grandi come una noce.
PESCHINE DI ADA
Ingredienti 500 gr. di farina, 200 gr. di zucchero 100 gr. di burro, una bustina di lievito per dolci 3 uova, ½ bicchiere di latte buccia di limone grattugiata Per la farcitura crema pasticciera o al cioccolato alchermes, zucchero semolato
Procedimento: sul tagliere fare una fontana con la farina, aggiungere tutti gli ingredienti ed impastare. Risulterà un composto elastico e comodo da lavorare. Lasciare riposare la pasta per mezz’ora, fare dei filoncini (come per fare gli gnocchi) e formare delle palline abbastanza uguali, poco più grandi di una nocciolina. Metterle sulla placca del forno distanziandole perché nel cuocersi crescono. Cuocerle nel forno per 10 minuti a 180°. Quando sono fredde fare un buchino nella parte piatta, riempirle di crema pasticcera o al cioccolato e accoppiarle così risulteranno rotonde come delle pesche. In una tazza mettere un bicchiere di alchermes e in una scodella 7/8 cucchiai di zucchero. Bagnare velocemente le palline nel liquido e poi farle rotolare nello zucchero. Mettere in un vassoio ad asciugare. Sembra un procedimento un po’ lungo ma vi assicuro un grande risultato.
CRESCENTINE
Ricordo di Giliola Bertuzzi Sono nata nel 1953 in una famiglia povera ma ricca di ideali. I miei genitori erano contadini a mezzadria, lavoravano la terra cercando di ricavarne il massimo possibile con tanto sudore e fatica. Venivano ripagati con prodotti sani e genuini. Le uniche entrate erano la vendita del grano da seme e il latte prodotto dalle nostre sette mucche. Ricordo che una volta alla settimana la mamma preparava le crescentine. Iniziava la sera facendo il “rinfresco” con il lievito madre. Al mattino di buon ora mio padre si alzava, mungeva le mucche, e portava il latte alla mamma per fare l’impasto. Verso le nove, quando la pasta era già lievitata, metteva a scaldare sulla stufa economica a legna, una padella di rame con all’interno lo strutto. In casa mia la stufa a legna era sempre accesa, inverno ed estate, anche con 40 gradi di temperatura perché mio padre diceva, forse a ragione, che ciò che si cucinava lì dentro veniva migliore! Non appena arrivava il camion del lattaio, il signor Cacciarini, la mamma tirava con il mattarello l’impasto per fare le crescentine. Le tagliava a losanghe e le friggeva nello strutto. Il lattaio entrava in casa e tutti insieme facevamo colazione con le nostre fragranti crescentine e il suo delizioso formaggio.
CRESCENTINE Ingredienti 1 kg di farina, 2 bicchieri di latte 1 bicchiere di acqua , ½ cucchiaio di strutto 100 gr. di lievito madre o 10 gr. di lievito di birra, strutto per friggere, 15 gr. di
sale
Procedimento: si scioglie il lievito in un poco di latte, si impastano tutti gli ingredienti in maniera da ottenere un composto liscio ed omogeneo. Si copre con un canovaccio umido e si lascia lievitare. Si tira una sfoglia con il mattarello (non troppo sottile), si taglia la pasta a losanghe e si frigge nello strutto molto caldo.
MARMELLATA DI PIZINCULE
(BACCHE DI ROSA CANINA) di Giliola e i suoi fratelli Un bellissimo ricordo della mia infanzia è legato al profumo della marmellata preparata con le bacche di rosa canina da noi chiamate “pizincule” (provate a mangiarne una e scoprirete il perché!). Il lavoro per preparare la marmellata era lungo e laborioso; si cominciava con la raccolta che avveniva in inverno, dopo le prime gelate. Gli addetti a tale operazione eravamo io e i miei fratelli. La spedizione avveniva nel pomeriggio dopo la scuola; armati di calzettoni di lana, pantaloncini, gonne e cesti di vimini ci infilavamo nei rovi. Tornavamo poi a casa con i cesti colmi di bacche e il corpo pieno di graffi e spine! Con il bottino fatto, la mamma, dopo aver lavato le bacche, le metteva a cuocere sulla stufa a legna in una pentola. Poi la polpa veniva ata al setaccio (sdaz), quello per la farina molto fine. Ciò che si otteneva, a dispetto della raccolta, era veramente scarso! A composto ottenuto veniva aggiunto lo zucchero e si finiva di cuocere. In seguito si invasava. Questa marmellata era la nostra “Nutella” e veniva spalmata sul pane per le merende invernali di noi bambini, che tanto avevamo contribuito alla realizzazione di tanta bontà. Essendo la bacca di rosa canina molto ricca di vitamina C, ci proteggeva anche dai malanni dell’inverno.
MARMELLATA DI PIZINCULE
Fare una precottura alle bacche di rosa canina, are al setaccio fine, aggiungere 3 etti di zucchero per ogni kg di polpa ricavata. Fare bollire finché
non si addensa.
ZUCCHERINI
di Luciana dla Piev cina (della Pieve piccola) Sono nata a Barbarolo, una piccola frazione di Loiano, una chiesa e un pugno di case circondate da campi di grano e erba medica. Eravamo tutti molto affiatati, ed ogni occasione era motivo di festa. In particolare ricordo il matrimonio di Berto, il figlio dei nostri vicini. A quei tempi non si andava al ristorante per il pranzo di nozze, ma a casa dello sposo, e all’organizzazione della festa partecipava tutto il vicinato. C’era chi portava le sedie, chi il servizio buono con i piatti finemente decorati, la tovaglia di fiandra lavata con l’arsia (lisciva), e ogni famiglia aveva il compito di cucinare le pietanze per il banchetto. Quella volta noi preparammo gli zuccherini. Io e mia sorella scaldammo il forno a legna, mentre la mamma preparava l’impasto. Una volta cotti gli zuccherini si ava all’”inconditura” (la glassatura). Ricordo ancora il rumore che facevano gli zuccherini mentre la mamma, con abili movimenti, li faceva saltare nella terrina bianca smaltata per ricoprirli di glassa. Il profumo dell’anice che invadeva tutta la casa. Una volta insalsati (glassati), io e mia sorella li mettevamo ad asciugare sul tagliere. C’era concesso di mangiare quelli rotti… La festa del matrimonio si prolungava per una giornata, tra balli montanari, canti, e le grida di noi bambini e tanta allegria. Quell’atmosfera magica faceva dimenticare la fatica dei lunghi preparativi.
ZUCCHERINI Ingredienti 1 kg di farina, 300 gr. di zucchero 150 gr. di margarina
una bustina di lievito in polvere la buccia grattugiata di un limone 6 uova, semi di anice Per la glassa 2 bicchieri di zucchero, 1 bicchiere di anice, 1 dito di acqua una terrina smaltata con i manici Procedimento: si impastano tutti gli ingredienti formando un panetto, si tira la sfoglia un poco spessa (circa un centimetro e mezzo), si taglia la pasta a listarelle rettangolari dando la forma classica delle ciambelline con il buco. Cuocere nel forno a legna. Per la glassa: fare cuocere il composto nella terrina, sarà pronto quando, facendo una croce con un cucchiaio di legno, si vedrà il fondo della terrina stessa. In questa glassa si faranno saltare gli zuccherini, avendo cura di farli asciugare sul tagliere.
Gruppo di ragazzini delle famiglie Massa e Gamberini nei primi anni ‘60
DOLZ E BROSC DLA NONA CLARA
Ricordo di Manuela Massa Ai tempi della mia mamma (90 anni compiuti) non c’era molta abbondanza, si cucinava con pochi e semplici ingredienti. Ancora oggi, quando arriva la festa, prepara questa salsa che si accompagna bene con il lesso ed è molto gustosa.
Ingredienti 4 uova sode, di cui una benedetta 250 grammi di uvetta ½ bicchiere di aceto, un cucchiaio di zucchero sale quanto basta, un cucchiaio di strutto (l’olio a quei tempi non era presente in quasi nessuna dispensa)
Procedimento: mettere a bagno in acqua l’uvetta per mezz’ora. In un tegame spezzettare le uova sode, aggiungere aceto, zucchero, sale quanto basta. Far bollire per 10 minuti, poi aggiungere l’uvetta strizzata. Cuocere ancora per 10/15 minuti e alla fine condire con olio crudo.
AL MIAZOLI
Mi ricordo che da bambina si andava nei campi con tutta la famiglia. Si arrivava alla casa alla sera tardi, stanchi e c’era anche poco da mangiare. La mia mamma faceva spesso le miazzole, una ricetta veloce e povera, che però poteva sostituire il pane. Si mangiavano così oppure dolci, ricoprendole con un po’ di zucchero.
LE MIAZZOLE
Ingredienti 7/8 bicchieri di farina 8 bicchieri di acqua sale quanto basta strutto per friggere Procedimento: fare una pastella abbastanza liquida, friggere a cucchiaiate nello strutto o nell’olio bollente.
Italo e i suoi “sandwichini” dietro al banco del bar Benvenuti
L’ OSTERIA DI AMELIA CONSOLINI
ricordo di Margherita Benvenuti Era il 1903 quando mia nonna Amelia e mio nonno Beppino diedero vita a quella che poi sarebbe diventata un’attività familiare ultrasecolare. Nei locali che anticamente ospitavano una stazione di posta, nacque una piccola rivendita di generi alimentari, sali e tabacchi con osteria e pensione. Poche ed umili camere con un bagno in comune ospitavano clienti provenienti dalle più svariate parti d’Italia, dato che la strada della Futa era il principale asse viario di collegamento tra Bologna e Firenze e quindi anche tra il Nord ed il Centro del Paese. Numerose sono infatti le citazioni di avventori anche illustri che in ato sostarono nel nostro piccolo paese. Loiano, oltre al ruolo di cruciale importanza dovuto al fatto di essere dislocato su una strada di notevole importanza, ospitava un tempo importanti istituzioni come la Pretura, la Centrale Telefonica, l’Osservatorio Astronomico, l’Ospedale ed era anche capoluogo di un Mandamento che comprendeva quattro comuni. Tutte queste realtà contribuirono a far sì che Loiano fosse ben frequentato e non mancassero occasioni di interessanti soggiorni nelle sue locande. Mia nonna raccontava di quegli anni fantastici in cui era tutt’altro che infrequente ospitare personaggi illustri, onorevoli, attori, musicisti… e casa nostra era il luogo in cui poter incontrare realtà sempre nuove e stimolanti. La sala da pranzo della pensione, un po’ per la capienza ed un po’ per l’eleganza degli arredi, fu per molti anni “la sala del paese”: teatro di numerosi incontri a carattere politico, sala per pranzi e cenoni ma anche per cerimonie e matrimoni. La mia famiglia, quindi, si abituò a questo continuo confrontarsi con realtà esterne al ristretto ambito familiare e paesano e fu proprio grazie al contatto con ambienti così differenti che si formò in famiglia una cultura gastronomica assolutamente all’avanguardia e creativa per il tempo. La zia Elda, cuoca sopraffina, cominciò a rivoluzionare poco alla volta il suo modo di fare cucina aprendosi a tutte le contaminazioni con cui veniva in contatto. Ecco quindi che fecero capolino sulle nostre tavole piatti come “la finanziera” tipica del Piemonte oppure la “amatriciana” o “la carbonara” tipiche del Centro Italia. Forse una delle più celebri ed originali adozioni rimane tuttora il “filetto alla
Tonino”, invenzione di un oste bolognese, ribattezzato poi da noi con il più noto nome di “filetto alla Giulio Cesare” per la corona d’alloro che ricorda l’antica Roma.
FILETTO ALLA GIULIO CESARE
Selezionare tanti filetti quanti sono i commensali. Ogni singolo filetto deve essere avvolto lateralmente da strisce di pancetta stesa su tutto il perimetro e attorno a queste deve essere creata una corona di alloro, puntata al filetto con degli stuzzicadenti per non rischiare di perderla durante la cottura (rigorosamente alla brace). Servire il filetto su un piatto dove in precedenza erano stati miscelati olio, sale e pepe. Volendo guarnire con una fetta di limone o di arancia.
Nella memoria di alcuni loianesi è ancora impresso il ricordo di una torta fantasmagorica a forma di campo sportivo, confezionata dalla zia, forse negli anni 50. Zia Elda, confezionò questa torta particolarissima in occasione, pare, di una partita di calcio tra il Bologna e la Fiorentina. Per rendere omaggio alle due squadre, diede alla torta la forma ed il colore di un campo da calcio e per rappresentare le due parti pose in una metà del campo delle violette, dedicate alla Fiorentina, e nell’altra metà fiordalisi e papaveri, dedicati al Bologna. Erano gli anni della grande ione per lo sport di mio nonno Italo che, succeduto alla mia bisnonna nella gestione del bar, ribattezzò addirittura il locale “Bar Sport” e fece decorare le lunette delle porte dell’antico palazzo che davano accesso al locale a righe rosse e blu in onore del Bologna. Gli anni in cui mio nonno gestì il bar-ristorante arono alla storia per i “sandwichini” ed i panini fatti con gran ione, a regola d’arte. Mio nonno, sempre avanti con le idee, seppe proporre menù semplici ma sfiziosi: insalatone, crostoni e crescentine divennero così una buona scusa per un gita fuori porta… Al bar si affiancò pian piano anche il ristorante, e zia Stefania ne divenne l’anima, ereditando creatività e curiosità dalla madre Elda, dimostrandosi cuoca abilissima che non si fermava alla tradizione. Sedotta dalla cucina mediterranea, iniziò a proporre un tipo di cucina nuovo per
le nostre zone, in cui prevaleva l’utilizzo dell’olio anziché dello strutto o del burro, dove la varietà delle materie prima era molto più vasta che nella cucina tradizionale. L’abilità gastronomica di zia Stefania e la ione di nonno Italo per la musica classica si fo in modo sublime nei primi anni ’80, con la nascita del “Lirica Club Corelli”, per il quale vennero ideati i Menù Musicali. Nel corso di memorabili serate vennero allestiti banchetti i cui piatti avevano nomi di artisti o di opere liriche ma soprattutto vennero proposte tipicità regionali ancora sconosciute ai più. È in una di queste occasioni che venne introdotta per la prima volta la pasta “alla Norma”, un piatto inventato in onore di Bellini quando esordì a Catania con la celebre omonima opera.
RICETTA DELLA PASTA ALLA NORMA
Ingredienti (per 4 persone) 1 melanzana di medie dimensioni 1 spicchio d’aglio, mezza cipolla 1 scatola di pelati, basilico Pecorino o ricotta salata, Pennette
Procedimento: tagliare la melanzana a cubetti e friggere in olio d’oliva. A parte sminuzzare aglio e cipolla e soffriggere il tutto in una padella capiente. Aggiungere poi la ata e lasciare insaporire per un quarto d’ora. A parte far bollire la pasta, preferibilmente pennette, e poi scolare. Versare la pasta nella padella e tirare per qualche secondo la pasta con il sugo. Una volta impiattate le porzioni aggiungere un pugnetto di melanzane fritte ed un pugnetto di pecorino, guarnire con basilico a piacere.
Menù musicale
ATELLI VERDI
della fam. Benvenuti Ingredienti (per due) 2 uova, 2 pugnetti di pangrattato 1 cucchiaio di farina , 2 pugni di parmigiano Una noce di midollo, 1 pugnetto di spinaci Noce moscata a piacere
Procedimento: amalgamare le uova, pangrattato, parmigiano, midollo e noce moscata fino ad ottenere un impasto compatto ed asciutto, aggiungere poi gli spinaci, precedentemente sbollentati e ben strizzati. Impastare bene il tutto e lasciar riposare almeno un’ora. Se possibile sarebbe meglio preparare l’impasto addirittura il giorno prima.
ZIA ELISA
Ricordo di Marzia A volte i ricordi si riaffacciano dopo anni, per un momento ci si ritrova bambini. A volte basta un profumo o un sapore per ritrovare i giorni della fanciullezza. Questo mi è capitato qualche giorno fa, quando a pranzo dalla zia Elisa ho assaggiato dopo tanti anni il dolce “fiocchi di neve”, fatto con ingredienti semplici ma amalgamati con armonia, e per un attimo il tempo è ritornato indietro e ho ritrovato il profumo dell’infanzia.
FIOCCHI DI NEVE
Ingredienti 8 uova, 220 grammi di zucchero 50 grammi di farina, 1 litro di latte
Procedimento: montare a neve 4 albumi con 120 grammi di zucchero, portare ad ebollizione un litro di latte, abbassare il fuoco e buttarvi a cucchiaiate gli albumi, cuocerli per pochi secondi e porli a scolare in un colino recuperando il latte per la crema. Fare la crema con i 4 tuorli, 100 grammi zucchero, 50 grammi di farina e il latte. Mettere i fiocchi di neve in coppette separate, versarci sopra la crema ed il caramello fatto con circa 100 grammi di zucchero. Servire freddo.
NONNA MERCEDES
Ricordo di Marzia Quando da bambina avo qualche giorno dalla nonna a Fradusto, mi preparava tutti i pomeriggi per merenda una crema. La serviva in una piccola tazzina verde chiaro con piattino uguale. Una delizia per il palato e per l’occhio!
CREMA DI NONNA MERCEDES
Ingredienti ½ litro di latte, i tuorli di 2 uova 50 grammi di farina, 50 grammi di zucchero 50 grammi di cacao dolce Procedimento: montare i tuorli con lo zucchero fino a quando diventano chiari, aggiungere la farina e poi il latte bollente, rimescolando con una frusta per non formare grumi. Rimettere il composto sul fuoco e cuocere fino ad addensarlo, lasciare leggermente raffreddare, dividere in due il composto ed aggiungere ad una delle due metà il cacao dolce. Servire in coppette mettendo un po’ di crema gialla e un po’ al cioccolato.
NONNA DORINA
Ricordo di Patrizia Credo che niente ci possa riportare alla memoria il nostro ato come gli odori. Dagli effluvi che arrivavano nella mia camera da letto dalla cucina, avrei potuto anche senza calendario sapere che giorno della settimana era. L’odore del brodo che cuoceva lentissimo sul fuoco fin dalle prime ore per preparare il lesso e l’odore della cipolla che soffriggeva per preparare il ”friggione” non lasciavano dubbi sul fatto che fosse domenica. La bontà di quello che preparava era tale che ci faceva dimenticare la sua fantasia in cucina molto conservatrice.
“FRIGGIONE” DELLA NONNA DORINA
Ingredienti 3 cipolle dorate pomodori San Marzano pelati un poco di concentrato di pomodoro sale, pepe olio, zucchero Procedimento: tagliare finemente le cipolle a rondelle, mettere abbondante olio in una casseruola, lasciare apire le cipolle cuocendole a fuoco molto lento, aggiungere i pomodori pelati e un cucchiaino di concentrato per rendere il sugo più colorito. Aggiungere inoltre un cucchiaino di zucchero per abbassare l’acidità del pomodoro. Lasciare cuocere a fuoco molto basso fino a che la salsa si sarà addensata. Servire come contorno per il lesso. Questa salsa è molto buona anche per condire la pasta.
I MIEI RICORDI
di Paolo Gamberini Quando ero piccolo, uno dei divertimenti di noi bambini era prendere un po’ di grano e masticarlo a lungo. In questo modo si separavano la crusca e il glutine dalle proteine, formando così una polpa molto elastica (cicles). Si può fare anche oggi! Una merenda per i pomeriggi piovosi erano i manfei, frittelline fatte con una pastella di farina bianca e acqua, cotte direttamente sul piano della stufa economica. In estate, nel momento della raccolta del grano, il giorno della trebbiatura quando arrivava la macchina da bater le famiglie si davano una mano l’une con le altre in quanto servivano molte braccia. Era questa un’occasione per fermarsi poi a pranzo presso i poderi in cui si aveva lavorato e in questa occasione la zdora dava il meglio di sé nella preparazione del pasto. Il menù più popolare comprendeva il brodo con le tagliatelline e di conseguenza con il lesso, il friggione e la salsa verde e tante verdure, dolci e buon (quasi sempre) vino. Bisogna dire che i menù erano molto conservatori, di anno in anno, erano sempre gli stessi, ma cucinati così bene che gli operai non vedevano l’ora che arrivasse il momento per goderseli. Alcuni ricordi di queste estati di lavoro nei campi, riportati da Paolo Gamberini, ci portano alle vivande che alcune famiglie della Valle del Savena preparavano per l’occasione. Da Gina di Runchei (dei Roncagli dal nome della casa) si mangiavano fagiolini lessi del loro orto, conditi con olio e aglio, che avevano però la caratteristica di essere tutti uguali ed erano il contorno di uno stupendo sughetto con salsiccia (segue ricetta). La famiglia Santi di Bibulano era famosa per la salsiccia fresca che veniva conservata sotto olio, pane eccellente e radicchi di campo conditi con pancetta e aceto (segue ricetta). In questa famiglia si mangiava molto bene anche se era
composta da soli maschi. Presso la famiglia Neri si gustava la zuppa imperiale, zucchine ripiene (segue ricetta). Nelle nostre zone, per i matrimoni, non si usavano i confetti, ma si facevano dei sacchettini contenenti dei biscottini di pastafrolla a forma di anello, ed era tradizione dare gli zuccherotti montanari alla fine del pranzo.
SUGHETTO CON SALSICCIA
Ingredienti cipolla, olio, aglio salsiccia fresca, ata di pomodoro un bicchiere di vino
Procedimento: tritare finemente un po’ di cipolla, soffriggere in un poco d’olio con uno spicchio d’aglio che poi dovrà essere tolto. Quando la cipolla è apita si aggiungono pezzettini di salsiccia fresca e si fanno rosolare. Sfumare con un poco di vino bianco, quando è evaporato aggiungere ata di pomodoro e un poco di acqua e lasciare bollire lentamente fino a che il sugo non si è ben ristretto.
INSALATA DI STRECAPOGN
Ingredienti radicchi di campo (strecapogn) pancetta goletta, aceto
Procedimento: pulire i radicchi, spezzarli con le mani non con un coltello se no si ossidano in quanto molto ricchi di ferro. Soffriggere listarelle di goletta, quando sono ben croccanti aggiungere un po’ di aceto fino a farlo evaporare. Versare la pancetta con il grasso che si è formato e l’aceto sui radicchi di campo.
ZUCCHINE RIPIENE
Ingredienti zucchine del tipo “bolognese” piccole macinato per polpette (lombo, mortadella e vitello) un uovo, forma (parmigiano) pangrattato cipolla, ata di pomodoro
Procedimento: svuotare le zucchine il più possibile fino a lasciare quasi un velo. Preparare un composto con la carne, un uovo, un cucchiaio di pan grattato e due di forma, sale e pepe. Riempire le zucchine, soffriggere la cipolla in un po’ di olio, aggiungere la ata di pomodoro e le zucchine, lasciare cuocere lentamente.
CILIEGIE SOTTO SPIRITO
Ricordo di Romano dei Trebb Nel mese di giugno i nostri alberi di ciliegie producevano moltissimi frutti chiamati duroni. La mamma cuoceva le ciliegie con un poco di zucchero e in questo sugo noi bambini inzuppavamo il pane. Il raccolto era molto abbondante e per non sprecare nulla, si facevano marmellate oppure si conservavano sotto spirito. Ricordo con nostalgia che l’ultimo giorno dell’anno, a mezzanotte, mio padre con i suoi amici campanari suonavano le campane a festa, ed essendo molto freddo, si riscaldavano mangiando le ciliegie sotto spirito. Il primo dell’anno anche a noi bambini era concesso di mangiare questi frutti. Mio padre, dopo aver governato le mucche ci svegliava, e come augurio di buon anno offriva due ciliegine sotto spirito a ciascun membro della famiglia.
CILIEGIE SOTTO SPIRITO
Ad ogni ciliegia viene tagliato il gambo circa a metà, si sistemano nei vasi di vetro, si coprono con alcool per dolci. Dopo circa 5 mesi sono pronte.
L’ASPIC DI ROSINA DI CA’ DI GUIDINI
ricordo di Eugenio Nascetti Zia Rosa abitava a Cà di Guidini e aveva due grandi ioni: l’orto e la cucina. Il suo orto era chiuso da una fitta siepe, vi si accedeva attraverso un cancello in ferro e si sviluppava lungo un vialetto centrale di ghiaia delimitato da rose ad alberello, che terminava in un largo bersò, ricavato da alcuni olmi che fungevano da colonne e da una gran varietà di rose rampicanti, fiorite da maggio a Natale. Nel tavolo rotondo installato al centro della struttura si stava d’estate a prendere il fresco. A destra e a sinistra del vialetto si alternavano rettangoli più larghi con le verdure e più stretti con i fiori, come ho visto in alcuni orti-giardini nella Loira, e tra i filari si trovavano i piccoli alberi da frutto: peri, meli, susini, albicocchi, mandorli, che quelli più grandi: ciliegi e noci, erano fuori, sui bordi dei campi. Un pittore bresciano se ne innamorò e lo riprodusse più volte, una tela è ancora in casa del maestro Giannino, le altre sperse chissà dove. Zia Rosa sapeva procurarsi ottimi ingredienti che, nella maggior parte dei casi, erano autoprodotti o raccolti nelle macchie e nei prati attorno a casa. Ricordo quando, in occasione di una nevicata precoce, si intestardì a preparare una pietanza che richiedeva l’uso dei funghi, le imprecazioni di zio Emilio alla sua idea di andare comunque alla ricerca nonostante i trenta centimetri di neve e l’espressione soddisfatta della zia al ritorno, con il cestino pieno. La cucina di Rosina era semplice e popolare ma in alcune occasioni diventava raffinatissima: memorabile l’anatra all’arancia che preparava ogni primo giorno dell’anno (ma la faceva bene anche con i marroni), utilizzando una delle anatre mute che allevava e che, non so perché, chiamava “le anatre di Barberia”. Addirittura diabolica era la pratica di prelevare una lepre dal covo all’inizio dell’estate per allevarla tutto l’inverno in cattività e cucinarla a carnevale ben grassa, disossata e farcita. Zia Rosa non disdegnava preparare vari tipi di conserve o di distillati. Tra i miei
ricordi di bambino c’è l’alambicco posto al fuoco della cucina economica e le bottiglie trasparenti piene di grappa, numerate progressivamente per definire quali fossero le destinate alla conservazione delle ciliegie e dell’uva, quali da impiegare per correggere cibi e bevande, quali le riservate alla mescita e una sola, che doveva durare un anno intero, per gli ospiti di riguardo. Le sue ricette sono andate perdute, né sarebbe possibile ripeterle, ma una si è salvata grazie a mamma Romana che la trovava semplice da eseguire e gradita ai bambini ed a mia moglie Marina che continua a servirla come piatto d’entrata del giorno di festa. Non appartiene alla tradizione culinaria loianese e credo che Rosina l’abbia appresa a Montecatini, dove gli zii si recavano tutti gli anni per una settimana a “are le acque”. Immagino che il cuoco del Tettuccio se la sia trovata spesso tra i piedi, curiosa di veder preparare e di poter commentare con un esperto le ricette che aveva letto sui libri di cucina (non solo l’Artusi).
ASPIC DI ROSINA
Ingredienti 500 grammi di petto di pollo 8 o 9 fette di prosciutto cotto 3 patate grosse, 2 carote, 1 tazza di pisellini fini 2 uova sode qualche pezzetto di verdura sott’olio carota, cipolla, sedano sale, pepe, olio 3 cubetti di gelatina Ideal (se non si conosce il procedimento tradizionale della gelatina di carne, che è abbastanza laborioso e lascia residui di difficile consumo come i piedi e la testina, meglio utilizzare quella pronta).
Procedimento: tagliare le patate e le carote a pezzetti. Lessare separatamente per 10 minuti le verdure (patate, carote e piselli), scolarle, lasciarle raffreddare e condirle con sale, pepe, olio e maionese (come si fa per l’insalata russa). Lessare il pollo in un tegame di acqua salata con sedano, carota e cipolla. Una volta ben cotto, sfilacciarlo e condirlo con olio, pepe e poco sale. Stendere le fette di prosciutto e arrotolarle attorno ai pezzi della carne di pollo ottenendo dei cilindri della dimensione di un grosso sigaro. Preparare la gelatina col metodo tradizionale o come indicato sulla confezione e lasciarla raffreddare. Disporre i rotoli di prosciutto in una pirofila abbastanza alta, distanziandoli circa 2 centimetri l’uno dall’altro e ricoprirli con il composto delle verdure cotte, aggiungendo qualche pezzetto di verdure sott’olio. Tagliare le uova a fettine e decorare a piacere, componendo figure geometriche, con le verdure sott’olio. Versare la gelatina
fredda, ma non rappresa, nella pirofila molto delicatamente per non creare dei vuoti, facendo attenzione a non sollevare la maionese che potrebbe rendere opaca la gelatina. Coprire con la pellicola e mettere in frigorifero per qualche ora. Al momento di servire, decorare a losanghe o a piacere con maionese in tubo e, se piacciono, con qualche cappero. Il brodo ottenuto dalla cottura del pollo è ottimo per un risotto o una minestrina leggera.
PASTA E FAGIOLI CON POLENTA
ricordo di Barbara Tattini Ingredienti 500 gr. di fagioli borlotti secchi , 4 patate 2 litri d’acqua, olio d’oliva q.b., prezzemolo, aglio 1 cucchiaio di ata di pomodoro
Procedimento: lessare i fagioli con le patate. Fare il soffritto di prezzemolo e aglio e aggiungere la ata. are i fagioli e le patate e aggiungere al soffritto. Se nei giorni prima si faceva la polenta, con quella rimasta si facevano dei quadrettini piccoli e si aggiungevano al brodo. La pasta e fagioli in casa Tattini veniva fatta tutti i venerdì per fare “Vigilia”
POLPETTE DI PATATE DELLE SORELLE VOLTA
Una famiglia numerosa: 10 figli, i genitori e la nonna. Nei primi anni ’50 trasferirsi dal paese alla periferia della città è stata un’avventura e mettere a tavola, pranzo e cena, 13 persone, quando a lavorare era solo il babbo, non è stata un’impresa semplice. La mamma aveva poche risorse ma tanta fantasia per cui non abbiamo mai sentito la fame. Una pietanza che ricordo con tanta nostalgia è l’umidino di polpette di patate con… patate. Gli ingredienti erano molto poveri ma il risultato ottimo. Abbiamo provato tante volte noi sorelle a rifare quel piatto, ma il risultato non è mai stato lo stesso di allora. Forse l’ingrediente mancante è proprio l’atmosfera di quei momenti, l’allegria che ci univa anche in tempi così difficili.
POLPETTE DI PATATE
Ingredienti per 4 persone 1 kg di patate lesse 1 cucchiaio di parmigiano (a quei tempi il parmigiano non era presente sulle nostre tavole, si faceva seccare il formaggio che si produceva) 2 etti di farina, 1 uovo 3 cucchiai di concentrato di pomodoro aglio, prezzemolo, sale, pepe, noce moscata, olio
Procedimento: are le patate lesse nello schiaccia patate, unire la farina, l’uovo, il parmigiano, sale, pepe e noce moscata. Fare un impasto consistente, più sodo di quello per gli gnocchi. Ricavare delle polpettine di circa 2 centimetri di spessore. Farle dorare in una padellina con un po’ di olio, finché non diventano belle colorate. A parte fare soffriggere, olio, prezzemolo e aglio, aggiungere il concentrato e l’acqua. Salare, e quando bolle unire le polpettine fritte. Volendo si possono aggiungere anche delle patate a pezzi. Lasciare cuocere finché le patate non sono cotte.
RISO IN BRODO CON L’UOVO
ricordo famiglia Benvenuti Ingredienti (per persona) Una tazza di riso, un rosso d’uovo 1 cucchiaio di parmigiano Un pizzico di sale, noce moscata q.b.
Procedimento: cuocere il riso in abbondante brodo. Nel frattempo sbattere in una terrina il rosso delle uova e mescolarlo con il parmigiano, il sale e la noce moscata. Quando il riso è cotto, unire un po’ di brodo al preparato facendo bene attenzione a far sì che l’uovo non si “stracci”. Amalgamare lentamente il tutto e servire.
SALSA DEI GIORNI DI FESTA
ricordo di Luisa Francia In occasione dei giorni di festa, ma non tutte le domeniche, mia mamma Rina era solita preparare con cura una salsa per accompagnare le carni, soprattutto quelle lessate. Non è una ricetta estremamente particolare, tuttavia la mamma la preparava solo certe volte e veniva servita in tavola in una ciotola col cucchiaino, come se fosse un qualcosa da assaporare e gustare a piccole dosi. Noi di tanto in tanto abbiamo provato ad imitarla, anche sotto la sua supervisione, ma solo il suo non so ché, dava a quella salsa un gusto davvero inimitabile. Ora che lei è in cielo, non l’abbiamo più ripetuta, come se volessimo custodire intatto quel ricordo di un sapore da non tradire.
SALSA DEI GIORNI DI FESTA
Ingredienti un bel mazzo di prezzemolo aglio, olio, dado, sugo di pomodoro, acqua
Procedimento: pulire il prezzemolo utilizzando solo le foglioline, tritarlo finemente insieme ad uno spicchio di aglio. Mettere tutto in un tegame con olio e soffriggerlo poco poco a fuoco basso. Aggiungere acqua e dado e continuare la cottura lentamente per almeno 20 muniti. Quando è stato assorbito almeno la metà del liquido, aggiungere poco sugo di pomodoro (non deve diventare rosso, deve essere sempre predominate il prezzemolo). Continuare la cottura fino a che non si è addensato.
SALSA DELLA NONNA
ricetta di Natalina Dari Questa salsa veniva fatta la domenica da mangiare con il lesso. PER POCO CHE COSTAVA, PER QUANTO ERA GUSTOSA! Ingredienti 1 mazzetto di prezzemolo abbondante 1 o 2 cucchiaini da caffè di farina ata di pomodoro a piacere (non molta) olio extra vergine di oliva, aceto di vino rosso Procedimento: fare soffriggere, non troppo, il prezzemolo tritato finemente, aggiungere la farina e farla sciogliere, aggiungere quindi la ata di pomodoro e dopo qualche minuto versare l’aceto di vino rosso abbondantemente e la salsa è pronta!
Le ricette che seguono sono ricordi di Barbara Tattini
STRICHETTI CON NOCE MOSCATA E PARMIGIANO IN BRODO
Ingredienti per la sfoglia 4 uova, 400 gr. di farina 1-2 cucchiai di parmigiano, noce moscata q.b.
Procedimento: tirare la sfoglia e tagliarla a quadretti piccoli e formare delle farfalline. Cuocere in brodo di carne. Tutte le domeniche in casa Tattini veniva fatto il brodo. I tortellini si mangiavano solo per le feste comandate (Natale, Pasqua, Festa Grossa) quindi spesso le altre domeniche si facevano queste gustose farfalline. Non in tutte le famiglie c’era la possibilità del brodo domenicale ma Luigi D’Ragi, così veniva chiamato il capo famiglia, aveva una macelleria.
VOV FATTO IN CASA
Da bambini, nelle mattine d’inverno, abbandonare il tepore della cucina economica era un atto di coraggio, oltre che l’assolvimento dell’obbligo scolastico. Dopo aver fatto colazione con pane e latte caldo si usciva di casa, rigorosamente soli, perché anche per i più piccoli l’essere accompagnati sarebbe stato motivo di scherno. Prima di uscire, nelle giornate più fredde, mi davano, in un bicchierino piccolo come un ditale, un dito di una bevanda forte, dal sapore graditissimo. Affrontavo la giornata con coraggio ed allegria: era merito del VOV casalingo, di cui riporto la ricetta utilizzata da nonna Elena.
IL VOV DI NONNA ELENA
Ingredienti 1 bottiglia da 750 ml di Marsala secco 750 g di zucchero, 8 uova, 10 limoni grandi 1 stecca di vaniglia 1 litro di alcool etilico (tipo “Buongusto”)
Procedimento: lavare bene le uova con uno spazzolino, sciacquarle ed asciugarle. Metterle in un vaso di vetro largo a chiusura ermetica (di quelli con la guarnizione di gomma). Spremere i limoni e versare il succo filtrato sulle uova finché non sono completamente coperte. Sigillare il vaso e tenerlo fermo per una decina di giorni (nonna lo metteva tra i doppi vetri ma non credo che l’azione della luce sia necessaria). I gusci delle uova (composti principalmente da carbonato di calcio) si scioglieranno al contatto con l’acido citrico, ma le uova rimarranno integre grazie alla loro pellicola interna. Sbattere il vaso, filtrare il contenuto con un colino versandolo in un altro vaso di vetro più capiente. Unire lo zucchero, il marsala, la vaniglia e l’alcool. Conservare il vaso per una settimana agitandolo ogni giorno per far sciogliere bene lo zucchero. Filtrare il contenuto, mescolarlo ed imbottigliarlo. Il liquore è pronto dopo un mese e si mantiene a lungo. Prima di versarlo occorre agitare la bottiglia.
LO ZABAIONE DEL MAESTRO
Emanuele Marchetti per moltissimi anni, fino al 1935, fu il Maestro della Banda di Loiano che, sotto la sua direzione, raggiunse splendidi risultati ed ottenne grandi successi in tutt’Italia. Diplomato al Liceo Musicale di Bologna, aveva frequentato alcuni tra i maggiori musicisti dell’epoca, tra i quali Pietro Mascagni. Era un uomo amante del bel vivere e della buona tavola. Alto quasi due metri e robusto in proporzione, sovrastava tutti gli altri bandisti e il suo appetito era proverbiale. Si narrano di lui alcuni aneddoti che, nel tempo, hanno assunto la dimensione dell’incredibile. Gli anziani raccontano che al mattino fe colazione con uno zabaione di 12 uova, arricchito da un mezzo litro di marsala.
Il Maestro Emanuele Marchetti
ZABAIONE
In una casseruola lavorate 12 tuorli con 4 etti di zucchero fino a ottenere un composto bianco e spumoso. Sempre mescolando, aggiungete poco alla volta, mezzo litro di marsala secco. Ponete sul fuoco e cuocete a bagnomaria, a fiamma molto bassa, continuando a mescolare senza far raggiungere l’ebollizione finché il composto comincia a montare. Ritirate subito e servite caldo o freddo con biscotti secchi o ciambella.
MINESTRA DI FAGIOLI DELLA FAMIGLIA BENVENUTI
ricordo di Margherita Benvenuti In casa Benvenuti la vigilia durava tutto l’anno. I parametri del digiuno dalla carne previsti per i venerdì di quaresima in casa Benvenuti, come del resto in altre famiglie, venivano estesi all’intero anno. Il venerdì per tradizione si mettevano in tavola pietanze “povere” ma soprattutto si evitava di preparare pietanze con la carne, anche se questo genere di indicazione non valeva per i comuni venerdì dell’anno. La vigilia diventava un’abitudine alimentare. È opportuno ricordare che un tempo la carne non era così frequente sulle tavole dei nostri nonni e quindi il venerdì non era poi tanto differente dagli altri giorni anche nel periodo quaresimale. Si racconta che in alcune case si preparava la polenta con l’aringa o meglio con il profumo dell’aringa. Infatti nei periodi di miseria estrema con una sola aringa si potevano insaporire decine di piatti fregandola appena sul piatto. Tuttavia quaresima non significava necessariamente mangiare poco e male anzi alcune pietanze più che una penitenza erano piatti molto attesi e graditi. Per esempio la minestra di fagioli. In casa Benvenuti la si preparava così: Ingredienti 400 gr di fagioli secchi 1 o 2 spicchi di aglio, un mazzetto di prezzemolo Olio di oliva, 1 cucchiaio di ata di pomodoro
Procedimento: si mettevano in ammollo i fagioli la sera precedente. Una volta rinvenuti i fagioli venivano fatti bollire per un’oretta in abbondante acqua salata. A parte si soffriggeva il trito di aglio e prezzemolo quasi fino a farlo seccare, si aggiungeva poi il cucchiaio di ata e poco alla volta un poco del brodo di
cottura e buona parte dei fagioli ati con il a verdure. Da parte si teneva una ciotolina con qualche fagiolo intero da aggiungere quasi alla fine. Il tutto veniva poi fatto bollire per una decina di minuti. La minestra di fagioli poteva essere servita con i maltagliati, quando rimanevano i ritagli della sfoglia, con i ditalini o anche con gli spaghetti spezzati.
Una variante assai apprezzata della minestra di fagioli era la versione asciutta proposta da Giuliana alla Ghinda. Una volta preparato il brodo di fagioli, considerando 3 etti di fagioli per 4 persone, si mettevano a cuocere le tagliatelle direttamente nella pentola del brodo ed una volta cotte le si tiravano in padella con lo stesso soffritto preparato in precedenza per il brodo: aglio, prezzemolo e qualche borlotto intero.
I MONDI
ricordi della famiglia Benvenuti Quando mia nonna Imelde preparava i mondi la casa si riempiva di un aroma particolarissimo che invogliava chiunque ad assaggiare quelle piccole prelibatezze. La pentolina in cucina non rimaneva piena molto a lungo. Chi ne assaggiava uno non poteva fare a meno di assaggiarne un altro e poi un altro ancora… E i mondi non bastavano mai. Ingredienti Marroni, alloro, sale
Procedimento: mondare i marroni (da cui “i mondi”) e sbucciarli. Metterli a bollire in abbondante acqua salata a cui si aggiungeranno alcune foglie di alloro. Fare bollire per un’ora circa. Scolare e servire.
POLENTA CONDITA
Una variante molto gustosa per condire la polenta era il sugo rosso con la pancetta. Ingredienti Bottiglia di ata (meglio se fatta in casa o rustica) 2 etti di pancetta, 1 cipolla Pecorino poco stagionato, olio d’oliva
Procedimento: tritare le cipolla e soffriggerla in padella poi aggiungere la pancetta tritata finemente e soffriggere un altro po’. Successivamente aggiungere la ata e fare sobbollire per una mezz’oretta. Servire il sugo bollente sulla polenta calda e poi spolverare con il pecorino grattugiato.
FRIGGIONE
Ingredienti 500 gr. cipolle,500 gr. pomodori freschi maturi 1 peperone giallo, 1 peperone verde Olio extra vergine d’oliva
Procedimento: tagliare la cipolla a fettina sottili e metterla a soffriggere a fuoco lento in una casseruola con abbondante olio. Tagliare i pomodori a spicchi, privarli dei semi e della parte acquosa. Aggiungerli alle cipolle insieme ai peperoni precedentemente tagliati a striscioline. Salare e pepare. Coprire e fare cuocere abbondantemente a fuoco moderato fino a quando tutte le verdure non siano ben stufate ed amalgamate tra di loro. Quando il friggione è pronto, a piacere e se disponibile, si può incorporare il lesso a straccetti.
Ringraziamenti
I ringraziamenti sono sempre una cosa pericolosa, se fai i nomi ne dimentichi sicuramente qualcuno, se non li fai non dai risalto a chi ha collaborato, ma io correrò questo rischio. Grazie ai miei “compagni di viaggio” Amministratori che hanno creduto in questo progetto, grazie ad Eugenio Nascetti a Margherita Benvenuti e a Paolo Gamberini per la loro collaborazione e per il luogo di incontro per le nostre interviste. Grazie a Manuela, Gigliola, Giovanna, Laura, Barbara, Luisa, Cristina, e a... chiunque ha condiviso con noi i suoi ricordi. Grazie a Beppe e Marzia Buganè che oltre ai loro ricordi hanno condiviso anche il loro vino e il loro salame. Grazie a Paolo che ha diligentemente trascritto al computer i miei appunti. Grazie a Katia e a Massimo per averci proposto questo progetto. Patrizia Carpani
Catalogo Damster
*Tutti i titoli indicati con asterisco è possibile scaricarli come eBooks da tutti gli Store nazionali e internazionali. È sufficiente inserire nella ricerca “Damster” o il titolo del libro.
Collana Il Diavolo probabilmente… *Il procuratore del diiavolo di Enrico Solmi romanzo, 2013 - 208 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-6810-009-4 *L’ombra della stella di Lorena Lusetti romanzo, 2012 - 228 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-76-4 *L’ultimo tatuaggio di Marco Lugli, romanzo, 2012 - 306 pagine - 15,00 euro ISBN: 978-88-95412-84-9 *CipriaVaniglia di Maria Silvia Avanzato e Gaia Conventi, romanzo, 2011 - 220 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-48-1 *L’uomo tatuato di Marco Lugli, romanzo, 2011 - 309 pagine - 16,00 euro ISBN: 978-88-95412-30-6 *Il sacrificio della lepre di sca Ferreri Luna, romanzo, 2010 - 221 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-12-2 *Avrei voluto parlare d’amore di sca Tombari, romanzo, 2010 - 186 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-10-8
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Collana Degustibus *Racconti in Forma di AAVV, racconti, 2010 - 188 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-21-4 *Racconti della notte di San Giovanni di AAVV, racconti, 2010 - 194 pagine - 14,00 euro ISBN 978-88-95412-31-3 *Racconti Frizzanti di AAVV, racconti, 2009 - 212 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-04-7 *Racconti Balsamici di AAVV, racconti, 2008 - 181 pagine - 14,00 euro ISBN: 978-88-95412-05-4
Collana I Quaderni del Loggione (la collana di chi, a tavola, ci si mette d’impegno) *Pasta madre (ignoto il padre) di Barbara Rangoni 2013 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-6810-007-0 *Sessanta sfumature di gola di Michele Cogni
2013 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-6810-006-3 *Ricette Fatali di Katia Brentani 2012 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-95412-97-9 *Facciamoci una pera! di Manuela Fiorini 2012 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-95412-77-1 *Inzuppiamoci! di Katia Brentani 2012 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-95412-83-2 *Finferli, Galletti e Gallinacci di Lei & Vandelli 2012 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-95412-74-0 *Ti do una noce! di Manuela Fiorini 2012 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-95412-73-3 *Le ricette di... (Quaderno) di Katia Brentani 2012 - Pag 96 - 5,00 euro - ISBN 978-88-95412-69-6 *Cuor di Castagna di Katia Brentani 2011 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-95412- 71-9 *Ricette Balsamiche di AED Associazione Esperti Degustatori Modena 2011 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-95412- 33-7 *Cucinare con erbe, fiori e bacche dell’Appennino di Katia Brentani 2011 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-95412- 24-5 *Bologna la dolce. Curiosando sotto i portici fra antichi sapori di Katia Brentani
2011 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-95412- 26-9
Collana Il profumo dei ricordi *Zibello (PR) 2012 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-95412-54-2 *Loiano (BO) 2013 - Pag 128 - 9,00 euro - ISBN 978-88-6810-005-6
Comune di Loiano
Patrizia Carpani – Katia Brentani Il profumo dei ricordi. Loiano. Racconti, storie, curiosità e ricette di casa nostra Prima Edizione Ebook 2013 © Damster Edizioni, Modena ISBN: 9788868100391
Damster Edizioni Via Galeno, 90 - 41126 Modena http://www.damster.it e-mail:
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